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AZIENDALE
(SCANDICCI, 22-24 GENNAIO 2018)
La disciplina del lavoro del socio di cooperativa è frutto del bilanciamento tra
interessi costituzionalmente protetti, quali la tutela del lavoro, da un lato, e la
promozione e il sostegno della cooperazione, dall'altro.
A lungo, nel pensiero della dottrina e nella giurisprudenza prevalente, l’interesse collettivo ha
prevalso su quello individuale del socio lavoratore e ciò è avvenuto attribuendo al rapporto
mutualistico un ruolo dominante, se non esclusivo.
Nessuno spazio vi sarebbe stato per un rapporto di scambio ulteriore rispetto al rapporto sociale.
Se il socio lavoratore è partecipe dello scopo dell'impresa collettiva, se è titolare di poteri e diritti
che gli consentono di concorrere alla formazione della volontà della società e di controllare la
sua gestione e se, infine, è titolare del diritto a una quota degli utili (cfr. Corte cost., sentenza n. 30
del 1996); se, in estrema sintesi, il socio è imprenditore, egli non può cumulare
contemporaneamente la qualità di datore di lavoro e quella di lavoratore (in particolare,
subordinato).
Si riteneva, così, che:
- le prestazioni lavorative del socio, in quanto funzionali all’attuazione del fine mutualistico,
costituissero oggetto del contratto di società;
- non fosse ipotizzabile nemmeno una forma di tutela del lavoro del socio all’interno dei confini
della parasubordinazione (art. 409, n. 3, c.p.c.), posto che sarebbero comunque pur sempre
mancati distinti centri di interesse tra i quali ascrivere lo scambio delle prestazioni;
- un rapporto di scambio, in particolare nelle forme della subordinazione, sarebbe stato
ammissibile solo e nei limiti in cui il socio avesse svolto in favore della cooperativa un’attività
differente e non collegabile a quella da conferirsi secondo lo statuto (salvi i casi in cui fosse
stata dimostrata la simulazione del rapporto sociale e la dissimulazione dell'altro rapporto).
L’impostazione tradizionale (che trova in Cass. Civ., S.U., 28 dicembre
1989 n. 5813, uno dei più noti punti di riferimento) ha cominciato a
vacillare nel corso degli anni Novanta, decennio che registra
numerosi interventi normativi diretti ad un ampliamento delle tutele in
favore del lavoro dei soci di cooperativa, in un quadro generale
caratterizzato da una più sentita esigenza di riconoscere al lavoro in
cooperativa garanzie e diritti comuni al mondo della subordinazione.
Già da tempo taluni istituti propri del lavoro subordinato erano stati estesi ai
soci delle cooperative di lavoro:
- in materia di assicurazione contro l'invalidità e la vecchiaia (art. 2 RD 28
agosto 1924 n. 1422 : v. in proposito Cass. civ., Sez L, 8 febbraio 1992 n.
1409) e contro gli infortuni (artt. 4, n. 7, e 9 DPR 30 giugno 1965 n.1124);
- in materia di orario di lavoro (art. 2 RD 10 settembre 1923 n. 1955),
- di riposo domenicale e settimanale (art.2 legge 22 febbraio 1934 n. 370),
- di assegni familiari (art. 1 DPR 30 maggio 1955 n. 797)
- e di tutela della lavoratrici madri (art. 1 legge 30 dicembre 1971 n. 1204).
Dopo la lunga pausa degli anni Ottanta, il legislatore aveva ripreso l’opera di
ampliamento delle tutele:
- con l'art. 8 DL 20 maggio 1993 n. 148, convertito in L 19 luglio 1993 n. 236, aveva
disposto l'equiparazione ai lavoratori dipendenti dei soci lavoratori in relazione alla
procedura dell'intervento straordinario di integrazione salariale e a quella di
mobilità, estendendo, quindi, ai soci delle cooperative di lavoro la disciplina degli
artt. 1, 4 e 24 dettata dalla L 23 luglio 1991 n. 223 sui licenziamenti collettivi. La
stessa norma, inoltre, aveva disposto l'estensione ai soci lavoratori di cooperative
di produzione e lavoro dei principi di non discriminazione, diretta ed indiretta, di
cui alla L 10 aprile 1991 n. 125;
- l’intervento del Fondo di garanzia costituito presso l'INPS ai fini del trattamento di
fine rapporto in caso di insolvenza della società datrice di lavoro, era stato esteso
ai soci delle cooperative ad opera dell'art. 24 L 24 giugno 1997 n. 196, ed agli
stessi soci erano state estese anche le norme di cui agli artt. 1 e 2 del DLGS 27
gennaio 1992 n. 80, in ordine all'intervento del Fondo di garanzia presso l'INPS per il
pagamento dei crediti di lavoro (relativi agli ultimi tre mesi del rapporto) non
soddisfatti a causa dell'insolvenza del datore di lavoro.
Questo trend normativo aveva aperto le porte ad una nuova stagione interpretativa, sfociata in
Cass. Civ., S.U, 30 ottobre 1998, n. 10906, ove si afferma che il rapporto tra socio lavoratore e
cooperativa va sì qualificato come associativo, ma appartiene ad una «"categoria contigua e
interdipendente a quella del lavoro subordinato" o parasubordinato, con riferimento alla quale,
di conseguenza, appare più chiaro e certo l'indice per pervenire all'individuazione della
competenza per materia del giudice chiamato a decidere la controversia da tale socio
introdotta. D'altra parte, come si è rilevato nella sentenza n. 4662 del 1997 più volte citata, le più
rappresentative confederazioni sindacali dei lavoratori, nell'anno 1990, hanno sottoscritto un
protocollo di intesa con le maggiori associazioni cooperativistiche, nel quale è stata
riconosciuta la necessità di estendere le disposizioni aventi per oggetto il trattamento
economico, contenute nei contratti nazionali collettivi di lavoro riferiti a settori caratterizzati dalla
presenza di cooperative di lavoro, ai soci di tali cooperative, sicché sarebbe incongruo negare
che i soci lavoratori della cooperative di produzione e lavoro abbiano diritto di ottenere la
corrispondente tutela giurisdizionale».
Da ciò la Cassazione aveva tratto allora il principio in forza del quale «la controversia fra il socio
e la cooperativa di produzione e lavoro, attinente a prestazioni lavorative comprese fra quelle
che il patto sociale pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, rientra nella
competenza del giudice del lavoro, in quanto il rapporto da cui trae origine, pur da qualificare
come associativo invece che di lavoro subordinato, è comunque equiparabile - al pari di quelli
relativi all'impresa familiare - ai vari rapporti previsti dall'art. 409 cod. proc. civ. in considerazione
della progressiva estensione operata dal legislatore di istituti e discipline propri dei lavoratori
subordinati».
Il cambio di prospettiva della giurisprudenza non ha peraltro portato
a riconoscere che la prestazione di lavoro del socio di cooperativa,
pur funzionalmente dotata delle caratteristiche della
subordinazione, potesse essere giustificata alla luce di un rapporto
di scambio distinto dal rapporto associativo.
Ciò fino all’entrata in vigore della L. n. 142/2001.
LA LEGGE 3 APRILE 2001, N. 142
(REVISIONE DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA
COOPERATIVISTICA, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA
POSIZIONE DEL SOCIO LAVORATORE)
La l. n. 142/2001 ammette la possibilità di una dualità di interessi e posizioni tra
socio e cooperativa e, dunque, di una duplicità di rapporti (sociale e di
scambio): da un lato, il rapporto di società, avente ad oggetto l'esercizio in
comune di un'attività economica, dall'altro una molteplicità di rapporti di
scambio per il conseguimento di singoli beni o servizi.
Lett. f
- al fine di promuovere nuova imprenditorialità, nelle cooperative di nuova costituzione
(start up), la facoltà per l'assemblea della cooperativa di deliberare un piano
d'avviamento alle condizioni e secondo le modalità stabilite in accordi collettivi tra le
associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative (lett. f).
I caso pratico
Tizio è socio lavoratore della Cooperativa Alfa e agisce nei confronti di
questa al fine di ottenere il pagamento di talune voci retributive (es. 14a
mensilità) previste dalla contrattazione collettiva nazionale di settore,
ulteriori rispetto a quelle costituenti il c.d. minimo costituzionale.
La cooperativa Alfa resiste, sostenendo che al lavoratore devono essere
riconosciuti i soli minimi retributivi costituzionali (paga base, contingenza e
tredicesima mensilità) e non anche le voci retributive tipiche contrattuali
rivendicate.
quesito
Art. 7, comma 4, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito in L. 28 febbraio 2008, n. 31, ha
specificato il contenuto della l. n. 142 del 2001, stabilendo che "in presenza di una
pluralità di contratti collettivi della medesima categoria", le società cooperative debbono
applicare ai propri dipendenti " i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli
dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali
comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria".
La norma, dunque, impone di individuare nel caso concreto il c.d. contratto leader, per
poter formulare le valutazioni sulla congruenza del contratto concorrente agli standard
retributivi di quello.
IL CASO DA ESAMINARE
Tizio agisce nei confronti della cooperativa Alfa, di cui è socio
lavoratore subordinato, al fine di ottenere la condanna al
pagamento di somme a titolo retributivo, pari alla differenza tra il
trattamento economico applicato in azienda (CCNL per i soci
coimprenditori e i dipendenti delle cooperative esercenti servizi di
pulizia, facchinaggio, igiene ambientale ed ausiliari nonché servizi
integrativi e multi servizi ai vari settori merceologici siglato da
UNCI/CONFSAL) e il trattamento economico minimo spettante sulla
base del CCNL applicato ai dipendenti del medesimo settore siglato
dalle associazioni di categoria a suo dire più rappresentative (CCNL
Unico della Logistica, Trasporto Merci e Spedizioni per il settore della
movimentazione, confezionamento e preparazione alla spedizione di
prodotti ortofrutticoli).
La cooperativa Alfa si costituisce in giudizio, negando la maggiore
rappresentatività dei sindacati stipulanti il CCNL richiamato dal socio
lavoratore e, comunque, eccependo la contrarietà a Costituzione
(art. 39) dell’art. 7, comma 4, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248.
Sulla compatibilità della disciplina in
esame con la Costituzione: Corte cost.
26 marzo 2015, n. 51
«Il censurato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, congiuntamente all’art. 3 della legge
n. 142 del 2001, lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in
contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli
stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi
minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel
definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al
socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost.».
Quindi il Ccnl sottoscritto dalle associazioni comparativamente più rappresentative integra
l’art. 36 Cost. quale parametro di retribuzione costituzionalmente garantita e, dal canto
suo, l’art. 36 Cost. offre una copertura costituzionale alla norma di legge che la pone al
riparo dalla contrapposizione, invero altrimenti inevitabile, con i principi ex art. 39 Cost.
Quanto alla selezione del CCNL leader
Problemi che potrebbero presentarsi:
«E d’altro canto che il CCNL cui deve farsi riferimento ex art 7 c. 4 DL 248/2007 sia
proprio il CCNL invocato dall’ odierna opposta quale contratto collettivo stipulato dalle
organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello
nazionale rispetto a UNCI (per la parte datoriale) e CONFSAL (per la parte sindacale), è
accertato dallo stesso Ministero del Lavoro con la lettera circolare n. 37 dell’01.06.2012
sugli Osservatori Provinciali sulla Cooperazione (doc. 5 opposta). Il Ministero stesso in
effetti, in linea con la precedente Circolare del 09.11.2010 in tema di verifica della
maggiore rappresentatività delle organizzazioni di categoria, elencati i vari indici cui far
riferimento (numero complessivo delle imprese associate, numero complessivo dei
lavoratori occupati, diffusione territoriale, numero dei ccnl stipulati e vigenti, numero dei
verbali di revisione), stabilisce che “l’unico contratto da prendere come riferimento ai fini
dell’individuazione della base imponibile contributiva … è il contratto collettivo nazionale
sottoscritto da CGIL, CISL, e UIL/AGCI, LEGACOOP, CONFCOOPERATIVE”. Tale
valutazione è stata avallata da Tar Lazio con la pronuncia 8865/2014».
IV caso pratico
Tizia è assunta dalla società cooperativa Alfa in data 8 gennaio 2010 con
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con patto di prova e
con rinvio al trattamento di cui al CCNL trasporto, spedizione merci e
logistica per quanto concerneva l'orario di lavoro, la qualifica professionale,
la retribuzione, le ferie ed i termini di preavviso, oltre alle altre condizioni non
previste dalla lettera di assunzione, mentre, per quanto riguardava il patto di
prova, era contenuto un rinvio al Regolamento interno della cooperativa,
che ne prevedeva la durata in centoventi giorni di lavoro effettivo. Con
lettera del 18 giugno 2010 Tizia è licenziato per mancato superamento della
prova. La lavoratrice impugna il recesso, sostenendo che al 18 giugno 2010
era stato ormai superato il periodo di prova previsto dal CCNL.
La cooperativa Alfa resiste in giudizio, sostenendo che il licenziamento era
stato intimato tenendo conto del più lungo periodo di prova previsto dal
proprio regolamento interno.
Prevale nel caso di specie il regolamento interno o il contratto collettivo?
Corte d’Appello di Torino, n. 300 del 19 marzo
2012
Ribalta la sentenza del Tribunale di Novara, che aveva rigettato
il ricorso ritenendo applicabile la previsione del Regolamento
interno (che fissava in centoventi giorni di lavoro effettivo la
durata della prova, con esclusione dei giorni non lavorati,
risultando così non superato il periodo dell'esperimento alla
data del recesso).
Accoglie il gravame, ritenendo applicabile la disciplina del
contratto collettivo, quale norma più favorevole. Annulla
pertanto il licenziamento e dispone la reintegra della
lavoratrice nel suo posto di lavoro.
Cass. Civ., Sez. L., 3 luglio 2015, n. 13699