Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
La scienza ha ormai dimostrato che il DNA non determina il nostro destino biologico: i geni con
cui siamo nati sono dinamici, rispondono a tutto ciò che facciamo, mangiamo, pensiamo. Sono i
nostri più potenti alleati per un rinnovamento personale. È da questo presupposto che partono
Deepak Chopra e Rudolph Tanzi, i due celebri medici già autori del bestseller internazionale
Super Brain, secondo i quali noi siamo gli artefici della nostra storia biologica e possiamo
imparare a influenzare l’attività dei nostri geni per raggiungere un benessere totale. Con tono
semplice, diretto e divulgativo, gli autori ci spiegano come alcuni cambiamenti nel nostro stile di
vita, dalla dieta al sonno, possono influenzare in maniera importante il nostro DNA, arrivando ad
avere un forte impatto sulla prevenzione delle malattie, sul buon funzionamento del sistema
immunitario, sulla lotta all’invecchiamento e alle malattie croniche. «Lo scopo di questo libro»,
scrivono Chopra e Tanzi, «è elevare il benessere quotidiano al livello di benessere profondo
attraverso un cammino di trasformazione. Il DNA umano ha ancora molti segreti da rivelare, ma
un punto di svolta è già stato raggiunto: è emerso con assoluta evidenza che il corpo umano è
ben più capace di rinnovamento e di guarigione di quanto si credesse finora.» Coraggioso,
pratico, documentato e con centinaia di suggerimenti concreti per iniziare a cambiare da subito la
nostra vita, Super geni compie un salto quantico oltre le consuete frontiere del self-help. Un libro
che rivoluzionerà il modo in cui concepiamo noi stessi, la nostra salute e quella dei nostri cari.
Gli autori
DEEPAK CHOPRA, medico e membro dell’American College of Physicians, ha fondato la Chopra
Foundation e il Chopra Center for Well-Being. È riconosciuto a livello mondiale come pioniere
della medicina integrativa e della trasformazione personale, ed è specializzato in medicina
interna, endocrinologia e metabolismo. È autore di oltre 80 libri tradotti in più di 43 lingue, tra
cui numerosi bestseller del New York Times. La rivista Time lo annovera fra i cento personaggi
di spicco e icone del secolo. A seguito di un sondaggio su Internet, il World Post e l’Huffington
Post hanno classificato Chopra tra i quaranta pensatori più influenti al mondo e il numero uno
nell’ambito della medicina.
SE volessimo una vita migliore, che cosa dovremmo cambiare prima di tutto?
Quasi nessuno risponderebbe: «I miei geni». Infatti, ci hanno insegnato che i
geni sono fissi e immutabili. Quelli con cui siamo nati ce li terremo per tutta
la vita. Se avete un gemello monozigote, tutti e due dovrete accontentarvi di
geni identici, a prescindere da quanto buoni o cattivi siano.
Il noto concetto di geni fissi fa parte del nostro linguaggio quotidiano.
Perché alcuni sono più belli o intelligenti della media? Perché hanno buoni
geni. E perché, viceversa, una celebre diva di Hollywood si sottopone a una
doppia mastectomia senza un motivo concreto? Per la minaccia dei geni
cattivi, ovvero l’eredità di una forte predisposizione al cancro che spesso ha
colpito i membri della sua famiglia. Il pubblico si spaventa, ma i media non
chiariscono quanto sia rara, in realtà, quella minaccia.
È tempo di smantellare idee così rigide. I geni sono fluidi, dinamici e
reattivi a tutto ciò che facciamo e pensiamo. La buona notizia che tutti
dovrebbero conoscere è che l’attività genica è in gran parte sotto il nostro
controllo: è questa l’idea rivoluzionaria che emerge dalla nuova genetica,
nonché il punto di partenza di questo libro.
Il jukebox di un bar può starsene in un angolo senza mai muoversi, ma
suona ugualmente centinaia di canzoni. La musica dei vostri geni è simile:
produce costantemente una vasta gamma di sostanze chimiche, e ciascuna è
un messaggio in codice. Stiamo scoprendo solo ora quanto siano potenti
questi messaggi. Concentrandovi sulla vostra attività genica attraverso scelte
consapevoli potete:
1. I circa ventitremila geni ereditati dai nostri genitori, insieme al 97% del
DNA localizzato tra quei geni sui filamenti della doppia elica.
2. Il meccanismo di commutazione presente in ogni filamento di DNA, che
gli permette di essere acceso o spento, aumentato o diminuito, proprio
come un variatore aumenta e diminuisce l’intensità luminosa. Questo
meccanismo è controllato perlopiù dall’epigenoma, inclusa la guaina di
proteine che racchiude il DNA. L’epigenoma è dinamico e vivo, e
reagisce all’ambiente e alle esperienze che vivete in modi complessi e
affascinanti.
3. I geni contenuti nei microbi (organismi viventi microscopici simili ai
batteri) che abitano nella bocca, nella pelle e soprattutto nell’intestino.
La stima più attendibile è centomila miliardi, e comprende dalle
cinquecento alle duemila specie di batteri. Non si tratta di invasori
estranei. Ci siamo evoluti con questi microbi per milioni di anni, e se
oggi non li avessimo non saremmo in grado di digerire il cibo, resistere
alle malattie o contrastare una serie di patologie croniche, dal diabete al
cancro.
Queste tre componenti del super genoma sono ciò di cui siamo fatti. Sono i
nostri costituenti basilari, e in questo preciso istante stanno inviando
istruzioni in tutto il nostro corpo. Infatti, non possiamo capire chi siamo
senza comprendere il nostro super genoma. Il modo in cui i super geni si sono
riuniti per formare il sistema mente-corpo è l’ambito di ricerca più
appassionante della genetica odierna. Nuove scoperte stanno emergendo da
una marea di studi che ci riguardano tutti da vicino, perché sta cambiando il
modo in cui viviamo, amiamo e interpretiamo il nostro posto nell’universo.
La nuova genetica si potrebbe sintetizzare in una frase: stiamo imparando
come farci aiutare dai nostri geni. Anziché permettere ai geni cattivi di
danneggiarci e a quelli buoni di aiutarci, secondo quella che finora era
l’opinione prevalente, dovremmo pensare al super genoma come a un
servitore volenteroso che può aiutarci a vivere la vita che vogliamo vivere.
Siamo nati per «usare» i nostri geni, non viceversa. E non stiamo indulgendo
in semplici desideri, non è certo il nostro proposito. La nuova genetica
riguarda soprattutto il modo in cui modificare l’attività dei geni in senso
positivo.
Questo libro riunisce e racconta in maniera chiara le più importanti
scoperte in materia degli ultimi anni. Chi l’ha scritto ha decenni di esperienza
nel proprio ambito: Rudy è uno dei massimi genetisti al mondo e Deepak è
tra i più acclamati esperti mondiali nel campo della medicina e della
spiritualità nella sfera mente-corpo. Proveniamo da mondi diversi e
trascorriamo le nostre giornate di lavoro in modo diverso – Rudy a fare
ricerche sulle cause e sulle potenziali cure del morbo di Alzheimer, Deepak a
insegnare a centinaia di persone ogni anno come armonizzare mente, corpo e
spirito – ma ci unisce la passione per la trasformazione, sia che abbia origine
nel cervello sia che affondi le sue radici nei geni. Il nostro libro precedente,
Super Brain, partiva dal meglio delle ricerche in ambito neuroscientifico per
mostrare come il cervello può essere guarito e rinnovato, ottimizzandone il
funzionamento quotidiano per migliorare la vita delle persone. Questo nuovo
libro approfondisce quell’argomento – si potrebbe definirlo un prequel di
Super Brain – perché il cervello, per fare le cose stupefacenti che fa ogni
giorno, dipende dal DNA presente in ogni cellula nervosa. Prendiamo dunque
lo stesso messaggio di quel libro – siamo noi gli «utenti» del nostro cervello,
non viceversa – e lo estendiamo al genoma. E l’ambito in cui avviene la
trasformazione è lo stile di vita: è possibile, attraverso semplici cambiamenti,
attivare una quantità enorme di potenziale inutilizzato.
La notizia più esaltante, tuttavia, è che la «conversazione» tra corpo, mente
e geni può essere trasformata. Questa trasformazione va ben oltre la
prevenzione, e al di là persino del benessere; raggiunge uno stato che
definiremo di benessere profondo. Ne illustreremo ogni aspetto, mostrando
che cosa le più recenti ricerche sostengono o raccomandano vivamente di fare
se vogliamo dai nostri geni la risposta più vitale possibile.
Le espressioni «geni buoni» o «geni cattivi» sono ingannevoli perché
alimentano un grosso equivoco, quello della biologia come destino. Vedremo
che non ci sono geni buoni o cattivi, ma solo buoni. Sono le mutazioni, cioè
variazioni nella sequenza o nella struttura del DNA, che possono trasformarli
in un senso o nell’altro. Le mutazioni patogenetiche che porteranno con
certezza una persona a contrarre una determinata malattia nel corso della vita
ammontano solo al 5% di tutte le mutazioni associate a malattia. Si tratta di
una minuscola porzione, considerati i tre milioni circa di variazioni del DNA
presenti nel super genoma di ciascuno di noi.
Continuando a pensare in termini di geni buoni e cattivi si resta
imprigionati in convinzioni fallaci e ormai obsolete. Si permette alla biologia
di definire chi siamo. È ironico che nella società moderna, in cui gli individui
hanno più libertà di scelta di quanta ne abbiano mai avuta prima, proprio la
genetica sia diventata così deterministica. «È genetico» è diventata la risposta
comune al perché uno mangia troppo, cade in depressione, infrange la legge,
ha una crisi psicotica o, persino, crede in Dio.
Se la nuova genetica ci insegna qualcosa, è che la natura coopera con la
cultura. I nostri geni possono anche predisporci all’obesità, alla depressione o
al diabete di tipo 2, ma è come dire che suoniamo note stonate per colpa del
pianoforte. Certo, la possibilità esiste, ma è ben più importante tutta la buona
musica che questo strumento – e un gene – è in grado di produrre.
Vi offriamo questo libro con l’intenzione di aumentare il vostro benessere.
Non perché ci sono tante note stonate da evitare, ma perché c’è tanta bella
musica ancora da comporre! I super geni custodiscono la chiave della
trasformazione personale, che improvvisamente è diventata realizzabile – e
desiderabile – come mai prima d’ora.
Perché super geni?
Una risposta urgente
L’elenco è vario, e solo uno o due punti potrebbero figurare tra gli attuali
trattamenti standard contro il cancro. Ma c’è un filo comune che li connette
tutti. Nuovi messaggi sono stati scambiati tra il cervello e i geni di Saskia, e
se la medicina fosse in grado di decodificarli saremmo molto più vicini alla
soluzione del mistero della guarigione.
Non è facile per un medico che si sforza di curare i propri pazienti
ammettere che l’unico vero guaritore del corpo è il corpo stesso. E come il
corpo mobiliti atomi e molecole per ottenere la guarigione rimane un
profondo mistero.
Che cosa accadrà a Saskia nei prossimi mesi e anni non è prevedibile. Qui
non intendiamo affatto promuovere cure miracolose: sappiamo bene che
«miracolo» non è un termine utile per comprendere il funzionamento del
corpo.
Se potessimo ascoltare il flusso di messaggi che inviamo al nostro corpo a
livello genetico durante una giornata, con ogni probabilità sentiremmo cose
simili:
«Continua a fare quello che fai».
«Rifiuta o ignora il cambiamento».
«Tieni questi problemi alla larga da me. Non voglio saperne».
«Rendi piacevole la mia vita».
«Risparmiami difficoltà e sofferenze».
«Occupatene tu, io non ne ho voglia».
CIÒ che permette ai geni di essere l’esatto opposto di fissi, cioè fluidi,
malleabili e interconnessi, rientra nell’ambito di ricerca di una nuova
disciplina: l’epigenetica. Il greco epi significa «sopra», quindi l’epigenetica è
lo studio di ciò che sta in cima alla genetica. In termini fisici, ci si riferisce
alla guaina di proteine e sostanze chimiche che avvolge e modifica ogni
filamento di DNA. L’intero insieme di modificazioni epigenetiche del DNA
presente nel nostro corpo è noto come epigenoma. In questo momento le
ricerche sull’epigenoma costituiscono forse l’ambito più interessante della
genetica, perché è lì che i geni vengono accesi e spenti come se fossero
interruttori della luce. Ma che cosa accadrebbe se fossimo in grado di
controllare questi interruttori volontariamente? Una simile prospettiva offre al
genetista avventuroso possibilità vertiginose.
Negli anni Cinquanta, prima ancora che sospettassimo l’esistenza
dell’epigenoma, il biologo inglese Conrad Waddington fu il primo a
ipotizzare che lo sviluppo umano dall’embrione al soggetto anziano non fosse
geneticamente determinato nel DNA. Ci vollero decenni perché la nozione di
genetica «a programmazione soft» prendesse piede, per la solita ragione che i
geni venivano ritenuti fissi. Alla fine, però, non fu più possibile ignorare
alcune anomalie. I gemelli monozigoti, cioè identici, sono l’esempio più
classico, poiché nascono con geni identici. Dunque, se il DNA li
determinasse, sarebbero biologicamente predestinati a essere esattamente
identici per tutta la vita.
E invece non lo sono. I gemelli monozigoti, dotati di un DNA genomico
praticamente identico, possono essere molto diversi l’uno dall’altro a seconda
delle loro esperienze ambientali ed esistenziali, e delle relative ripercussioni
sull’attività genica. Se conoscete dei gemelli li avrete senz’altro sentiti dire
quanto si sentano diversi l’uno dall’altro.
Ci vuole ben altro che un medesimo genoma per creare un individuo. Due
edifici identici costruiti a partire dal medesimo progetto possono essere
luoghi molto diversi a seconda delle attività che vi si svolgono. Per esempio,
sappiamo che la schizofrenia ha una componente genetica, ma se un gemello
è schizofrenico c’è solo il 50% di probabilità che anche l’altro lo sia. Questo
mistero richiede ulteriori approfondimenti, ma già capiamo quanto la biologia
come destino sia un grande forse. L’epigenetica nacque quando i genetisti si
concentrarono sui controlli sottesi all’espressione genica e scoprirono che la
loro flessibilità è uno dei doni più preziosi della vita.
Se tutte le cellule del nostro corpo hanno sequenze di DNA e schemi
genetici in gran parte identici, ognuno dei circa duecento tipi di cellule
possiede strutture e ruoli diversi. Al microscopio un neurone appare così
differente da una cellula cardiaca che si fatica a credere che possano essere
gestiti dallo stesso DNA. I geni sono programmati per creare una varietà di
cellule diverse a partire dalle cellule staminali, che sono i precursori delle
cellule mature. Le cellule staminali immagazzinate nel nostro midollo osseo,
per esempio, rimpiazzano le cellule del sangue a mano a mano che muoiono,
cioè ogni pochi mesi. Anche il cervello ha una fornitura a vita di cellule
staminali, il che consente la generazione di nuovi neuroni in qualunque fase
della vita: un’ottima notizia per una popolazione senescente che desidera
rimanere il più a lungo possibile vitale e mentalmente lucida.
Una piena comprensione dell’ereditarietà soft è in atto solo ora, e a ogni
passo ci sono nuove sorprese. In uno studio del 2005 il dottor Michael
Skinner ha dimostrato che esponendo una ratta gravida a sostanze chimiche
che ne compromettono la funzione sessuale si provocano problemi di
infertilità nella sua prole fino ai trisnipoti. Sorprendentemente, i problemi di
infertilità venivano trasmessi alla generazione successiva come eredità soft
dai ratti maschi – per mezzo di marcatori chimici detti gruppi metilici sul
DNA – insieme alla sequenza di DNA dei genitori. Sappiamo che la
trasmissione non era un’ereditarietà «hard» perché la sequenza effettiva del
DNA dei geni trasmessi rimaneva la stessa.
Se il DNA è il deposito di miliardi di anni di evoluzione, l’epigenoma è il
deposito delle attività genetiche a breve termine, molto recenti o risalenti a
una, due o più generazioni. Che una memoria possa essere ereditata non è un
fatto nuovo in biologia. Le ossa delle pinne dei pesci ancestrali sono le stesse,
in termini di struttura, di quelle delle zampe dei mammiferi e delle nostre
mani. Questo genere di memoria è decisamente innato, perché l’evoluzione
da specie di pesci, orsi, procioni e Homo sapiens ha impiegato milioni di anni
per diventare fissa. La novità nell’epigenetica è che la memoria di esperienze
personali – nostre, di nostra madre o di nostra bisnonna – potrebbe essere
trasmessa direttamente.
Questo ci porta al concetto forse più importante della nuova rivoluzione
genetica: l’epigenoma permette ai geni di reagire all’esperienza. Questi non
sono più fissi, ma aperti al mondo quanto noi, il che offre la possibilità che il
modo in cui reagiamo alla vita quotidiana, sia fisicamente sia
psicologicamente, venga trasmesso ai nostri discendenti per via ereditaria
soft. In breve, sottoponendo i nostri geni a uno stile di vita sano, creiamo dei
super geni.
Una simile possibilità era fantascienza fino a pochi anni fa, quando era
scolpito nella pietra che solo il DNA viene trasmesso dai genitori ai figli. Ma
in uno studio del 2003, presto divenuto una pietra miliare, dei ricercatori
hanno preso due gruppi di topi sviluppati con un gene mutante che li aveva
fatti nascere con una pelliccia rossiccia e un appetito vorace – erano stati
geneticamente programmati per mangiare compulsivamente fino a diventare
obesi – e hanno alimentato uno dei due con una dieta standard da topo,
mentre all’altro veniva somministrato lo stesso cibo ma con aggiunta di
integratori alimentari (acido folico, vitamina B12, colina e una sostanza
naturale estratta dalla barbabietola da zucchero, la betaina). Risultato: la prole
dei topi a cui erano stati somministrati gli integratori alimentari cresceva con
una pelliccia marrone e un peso normale, a dispetto del gene mutante.
Sorprendentemente, il gene mutante per la pelliccia rossiccia e l’appetito
vorace era soppresso dalla dieta materna.
A sostegno di questa scoperta, da un altro studio è emerso che i topi le cui
madri avevano ricevuto meno vitamine erano più predisposti all’obesità e ad
altre malattie. Quindi lo stato nutrizionale materno può avere un influsso sulla
prole ben più profondo di quanto si credesse un tempo.
Le implicazioni di questi studi sono state rivoluzionarie su più fronti. In
primo luogo, l’epigenoma interagisce sempre con la vita quotidiana: ciò che
vi accade oggi viene registrato a livello epigenetico e, se gli esseri umani
reagiscono come i topi, potenzialmente trasmesso alle generazioni future. Le
vostre predisposizioni, quindi, potrebbero non appartenere solo a voi, ma
situarsi su una specie di nastro trasportatore genetico su cui ogni generazione
aggiunge il proprio contributo.
Da un altro studio pubblicato nel 2005 si è osservato che le donne incinte
che avevano assistito agli attentati dell’11 settembre avevano trasmesso ai
loro bambini livelli più alti di cortisolo, l’ormone dello stress. L’eventuale
infanzia traumatica di nostra madre o di nostra nonna potrebbe dunque avere
influenzato la nostra personalità, predisponendola all’ansia e alla depressione.
Se il genoma è il progetto architettonico della vita, l’epigenoma ne è
contemporaneamente il capomastro, la squadra di operai e il loro supervisore.
Un mistero olandese
Abbiamo visto come l’epigenetica studi i cambiamenti nell’attività genica
indotti da esperienze esistenziali. Tali cambiamenti non richiedono mutazioni
nella sequenza del DNA. Si tratta piuttosto di una sorta di meccanismo di
commutazione, ma non di un semplice acceso-spento. Il meccanismo di
commutazione del DNA è tanto complesso quanto il comportamento umano.
Pensate a una reazione comune come perdere le staffe. La rabbia può
divampare all’improvviso e poi spegnersi come si accende o si spegne una
luce, o covare per un certo tempo. Può essere repressa, mascherata
dall’autocontrollo delle proprie emozioni, e quando divampa può variare da
lieve a incontenibile. Tutti accettiamo queste distinzioni perché conosciamo
sia teste calde sia individui freddi e compassati. Sappiamo come dissimulare
la nostra rabbia, ma al tempo stesso lottiamo contro di lei.
Ora trasferite questo scenario all’attività genica, poiché valgono le stesse
variabili. Qualunque attività genica può essere dissimulata o spenta, espressa
totalmente o parzialmente, aumentata o diminuita come se fosse regolata da
un termostato. E proprio come la rabbia interagisce con qualunque altra
emozione, così ogni gene interagisce con gli altri geni. È sempre più evidente
che qualunque esperienza soggettiva deve la sua complessità a una
complessità parallela a livello microscopico.
Quante cose ancora ignoriamo! Se le emozioni gestiscono i geni e i geni le
emozioni, la circolarità parrebbe senza fine. Pur avendoci introdotti nella sala
di controllo in cui avviene tutta la commutazione, l’epigenetica non ci ha
ancora permesso di mettere mano agli interruttori. Padroneggiare i comandi è
responsabilità individuale di ciascuno di noi. In caso contrario, i cambiamenti
genetici possono essere drastici. Analizziamo un caso molto noto e piuttosto
curioso.
Il grafico sotto riportato, realizzato da un ricercatore informatico di nome
Randy Olson, riguarda i dati sull’altezza degli uomini europei negli anni
1820-2013 (esistono anche calcoli diversi da quello qui riportato, ma il
modello generale è lo stesso). Prestate particolare attenzione al tracciato
relativo all’Olanda.
Sorprendentemente, gli olandesi sono gli uomini più alti al mondo, con
un’altezza media di 1,85 metri. Ad Amsterdam esiste addirittura un club per
uomini oltre il metro e novanta. Del resto, passeggiando per Amsterdam si
incontrano uomini e donne altissimi.
Questo aumento dell’altezza media è una tendenza recente, come si può
constatare anche dal grafico. Aumenti costanti si sono registrati in molti Paesi
dal 1820, ma gli olandesi si distinguono in modo particolare, poiché in
passato erano gli europei più bassi. L’esame di scheletri rinvenuti in tombe
risalenti al 1850 indicano che gli uomini olandesi erano alti in media circa
1,67 e le donne 1,55 (gli uomini al secondo posto per altezza nel 2013, cioè i
danesi, nel 1829 erano alti circa 6 centimetri in più degli olandesi, ma ora
sono lievemente retrocessi). Che cosa ha causato un picco di crescita così
evidente in un arco di tempo così breve?
Queste sono conclusioni molto importanti. Una nuvola muta forma quando
il vento cambia, la temperatura sale o scende, fronti atmosferici avanzano o
retrocedono e l’umidità aumenta o diminuisce. Però le nuvole non reagiscono
a una sola di queste influenze, bensì ad alcune o a tutte. Tentare di
analizzarne una alla volta non è un metodo valido e talora neppure
praticabile. Sarebbe come cercare di prevedere la temperatura di casa nostra
in presenza di cinque termostati, ciascuno regolato in modo indipendente in
base alla zona della casa in cui si trova.
Anche nelle peggiori condizioni, come il terribile stress causato da una
guerra, il genoma umano riesce comunque a trovare qualche vantaggio.
Durante la carestia olandese della Seconda guerra mondiale i medici notarono
nei bambini ricoverati un miglioramento di quella rara patologia intestinale
che è la celiachia. All’epoca la causa del disturbo era ancora ignota, anche se
era già stato ipotizzato che fosse coinvolta l’alimentazione, e in particolare il
consumo di frumento. Un pediatra olandese, il dottor Willem Dicke, indagò
questa connessione: quando non avevano più avuto pane a disposizione, i
bambini ricoverati si erano rimessi, ma quando negli ospedali tornò il pane i
piccoli pazienti celiaci ripresero a stare male. Questo provò per la prima volta
il collegamento tra celiachia e frumento. Oggi è ormai noto che la celiachia è
una patologia autoimmune con una predisposizione genetica che provoca una
reazione allergica a una proteina del glutine (la gliadina) presente nel
frumento. Anche proteine del glutine simili presenti in altri cereali creano la
stessa reazione.
Allo stesso modo, in Paesi come Olanda e Belgio, dove l’alimentazione era
ricca di burro e formaggio, la guerra e l’occupazione dei nazisti causò un
vistoso decremento delle patologie cardiache che fu attribuito a
un’improvvisa diminuzione delle calorie giornaliere e a una drastica carenza
di burro, latte e formaggi. Decenni più tardi, perdere peso e ridurre
nettamente il consumo quotidiano di grassi sono diventati principi base per
invertire l’incidenza delle patologie cardiache.
Una nuvola è un modello insoddisfacente dal punto di vista scientifico, e
del tutto inadeguato per raggiungere risultati in campo medico. I medici di
solito sposano il modello lineare di causa-effetto: la causa A porta al disturbo
B, quindi bisogna prescrive il farmaco C. Ma se in realtà il modello della
nuvola fosse corretto e anzi imprescindibile? Nessuno ha in soggiorno cinque
termostati che operano in modo indipendente, ma tutti abbiamo corpi con più
orologi, bioritmi e tabelle di marcia genetiche. Per questo non esistono due
persone esattamente sincronizzate in termini di fenomeni naturali come la
perdita del primo dentino da latte, l’ingresso nella pubertà, le prime
avvisaglie dell’artrite o una miriade di altri cambiamenti che hanno cadenza
del tutto individuale. Ogni cosa in noi si muove lungo una scala mobile.
Sorge allora la domanda: come riesce il corpo umano a regolarsi in modo
così preciso da sincronizzare tutti i suoi orologi fino alle minime molecole di
ormoni, peptidi, enzimi, proteine eccetera? Come una nuvola, siamo sospinti
in ogni direzione, ma a differenza di una nuvola i nostri corpi sono miracoli
di complessità che mantengono una straordinaria quantità di controllo.
Ora che abbiamo la sequenza completa del DNA del genoma umano è
molto più facile trovare i geni e le mutazioni associate al rischio di
insorgenza di una malattia. Migliaia di geni e mutazioni patogene sono già
stati scoperti per patologie che vanno dal cancro al diabete, dalle cardiopatie
alle malattie degenerative cerebrali senili. Rudy ha scoperto diversi geni (tra
cui il primo in assoluto) e mutazioni che causano o influenzano il rischio di
Alzheimer e di altre insidiose patologie neurologiche come il morbo di
Wilson, una rara malattia in cui il rame si accumula nelle cellule portando a
gravi disturbi neurologici, psichiatrici e di altro genere.
Con la scoperta di sempre più geni di patogenicità abbiamo osservato che
circa il 5% delle mutazioni patogene garantisce l’insorgenza della malattia,
mentre la stragrande maggioranza non fa che aumentare la «sensibilità»
dell’individuo, insieme all’ambiente in cui vive e a certi aspetti del suo stile
di vita. In altre parole, gli esseri umani sono un miscuglio di tratti complessi
per cui non sono ancora state scoperte, né forse lo saranno mai, cause
genetiche dirette. Un punto di vista più realistico su come vengano ereditate
malattie comuni dovrebbe probabilmente vedere il DNA come il progetto
iniziale di un edificio che verrà poi ristrutturato e riadattato più volte a
seconda delle necessità.
C’è ancora chi crede che sapere cosa fa ciascun gene basti a comprendere
ogni malattia, e che riconoscendo la validità di tale collegamento si possano
automaticamente sviluppare terapie mediche per le patologie geneticamente
collegate. Ma c’è un motivo per cui questo passo non si è verificato, se non
per un esiguo numero di patologie: non possiamo capire cosa fa un gene se
non sappiamo come viene acceso o spento (come un interruttore della luce),
aumentato o diminuito (come un termostato) e ottimizzato per produrre
determinate varietà di proteine.
Per quanto perfetti siano i circuiti di un computer, questo è «morto» finché
non viene acceso. Lo stesso vale per il DNA. Il meccanismo di attivazione
dei geni era un mistero che ha aperto la strada all’attuale rivoluzione
genetica.
Costruire ricordi migliori
IL più grande trionfo nei 2,8 miliardi di anni di evoluzione della Terra non è il
DNA umano, e neppure la nascita della vita da molecole che vita non ne
avevano e che turbinavano in fumanti pozze d’acqua satura di sostanze
chimiche intorno alle fenditure dei geyser primordiali. Il più grande trionfo
dell’evoluzione è la memoria. È questa ad avere reso possibile la vita.
Gli anticorpi del nostro sistema immunitario hanno memoria di tutte le
malattie affrontate dalla razza umana. Un neonato combatte le proprie
sfruttando il sistema immunitario preso in prestito dalla madre, poi ne
svilupperà uno personale, a mano a mano che la ghiandola del timo,
depositaria di lotte passate contro batteri e virus invasori, inizierà a produrre
anticorpi. Il timo si espande fino a raggiungere il suo pieno funzionamento
nel corso dell’adolescenza, e si contrae quando il suo compito è completato,
cioè intorno ai ventun anni.
Concentrandoci soltanto su quest’unico processo, il ruolo della memoria
emerge in tutta la sua centralità. I geni del nostro lignaggio famigliare
determinano quali anticorpi svilupperemo. Questo non è che un ramoscello
del ramo dell’evoluzione umana, ma il ramo riconduce al tronco dell’albero,
che contiene la memoria di come produrre anticorpi in generale. Le radici
dell’albero sono la capacità del DNA di ricordare esperienze e codificarle per
le generazioni future. La prossima volta che non prenderete il raffreddore che
imperversa in città, sappiate che dovete la vostra immunità alla prima
molecola del DNA.
L’epigenetica suggerisce che le nostre cellule possono in un certo senso
«ricordare» tutto ciò che abbiamo vissuto e sperimentato. Ma un
suggerimento non è una prova. C’è una bella differenza tra ricordare la festa
del nostro decimo compleanno e un genetista che esamina le modificazioni
genetiche che codificano tale ricordo. Immaginiamo di tornare indietro nel
tempo e di essere telegrafisti che ricevono, attraverso il filo del telegrafo, una
marea di punti e di linee. Possiamo tenere in mano il codice e contare tutte le
perforazioni nel nastro di carta, ma se non conosciamo la lingua in cui sono
scritti i messaggi, questi ci risultano ugualmente illeggibili. Nell’odierna
genetica possediamo il codice, ma i messaggi sono scritti in una lingua
infinitamente più difficile della nostra: è la lingua di tutte le esperienze
umane.
Vivere in balia dei propri ricordi può essere terribile, ma è la situazione in
cui ci troviamo quasi tutti. Vecchie paure, ferite, eventi traumatici e
innumerevoli altri episodi affollano la nostra mente, facendosi strada in noi e
distorcendo il nostro modo di vedere il presente. Se siamo agorafobici, cioè
se abbiamo paura di spazi aperti o luoghi pubblici, non possiamo uscire di
casa senza soffrire di ansia. La nostra paura ci ha reso schiavi della memoria.
In misura maggiore o minore, piccoli e grandi siamo tutti schiavi di eventi
morti e sepolti. Per essere pienamente vivi dobbiamo imparare a usare i nostri
ricordi, non viceversa.
La paura e le mucche elettrizzate
Questo è un esercizio che mette un po’ a disagio, ma provate a interrompere
per un attimo la lettura e a rievocare un brutto ricordo. Può essere qualunque
cosa, basta che non sia recente. Tornate a qualcosa di brutto accaduto quando
eravate piccoli. Potrebbe essere quella volta che siete caduti dall’altalena o
che al supermercato vi siete persi e non ritrovavate più la mamma. Che cosa
notate? Primo, che tale ricordo esiste; secondo, che è possibile recuperarlo. E
a seconda di quanto è intenso, vi sembra persino di rivivere quel momento.
L’area della corteccia visiva che entra in gioco è la stessa sia quando
assistete, per esempio, a un disastro ferroviario o a uno scontro violento, sia
quando rievocate quelle scene attraverso il ricordo.
Tutto ciò che notate è riflesso nel vostro epigenoma. Facciamo però un
passo ulteriore. I ricordi dei nati durante la carestia olandese a proposito della
loro vulnerabilità infantile a obesità, diabete e cardiopatie potrebbero essere
riconducibili all’esperienza fatta dalle loro madri quando, ancora gravide,
rischiarono di morire di fame. Quei bambini, una volta cresciuti, non
potevano rievocare tale esperienza nella propria mente, eppure ne avevano
ereditato il ricordo a livello molecolare.
Un interessante studio pubblicato nel 2014 su Nature Neuroscience ha
fornito nuove prove scientifiche sugli effetti della memoria sul DNA, solo
che in questo caso non si trattava di alimentazione ma di paura. Un team di
ricercatori ha addestrato dei topi a temere il profumo dell’acetofenone (che in
verità è piacevole, simile a quello dei fiori d’arancio e delle ciliegie)
sottoponendoli a una leggera scossa elettrica ogni volta che il profumo veniva
introdotto. Le scosse producevano nei topi una reazione di stress, dato che
apparivano nervosi e tremavano, ma dopo un po’ di volte non era più
necessaria alcuna scossa elettrica: il semplice odore di acetofenone era
sufficiente a suscitare in loro il medesimo stress.
Un regista di film horror può ottenere più o meno lo stesso effetto con una
stanza buia, il rumore di una porta che cigola e gli occhi della protagonista
che guizzano terrorizzati. Le immagini e i suoni producono negli spettatori
l’anticipazione di qualcosa di orribile che sta per accadere. E nella maggior
parte di loro compariranno segni tangibili della risposta allo stress.
Lo studio sui topi è andato persino oltre. La paura acquisita da quegli
esemplari in età adulta veniva trasmessa alla loro prole, e persino alla
generazione successiva. Figli e nipoti dei topi condizionati a temere il
profumo dell’acetofenone non avevano mai sentito quel profumo prima, ma
appena lo percepivano iniziavano a tremare, semplicemente perché i loro
genitori l’avevano associato al dolore. I ricercatori hanno poi esaminato il
gene dei topi che produce il recettore proteico necessario per avvertire
l’odore dell’acetofenone, e hanno scoperto che era stato modificato
epigeneticamente tramite metilazione.
La saggezza popolare conosce da sempre questo fenomeno, così
sintetizzato da Mark Twain: «Il gatto che si siede su una stufa accesa, di certo
non lo rifarà mai più – e questo è un bene – ma non si siederà mai più
neppure su una stufa spenta». Allo stesso modo, il saggio consiglio di tornare
presto in sella dopo essere caduti da cavallo si basa sulla conoscenza empirica
che la paura può produrre un’impressione negativa permanente, se non le si
oppone resistenza. Certo, questo tipo di condizionamento è mediato dai
ricordi mantenuti dalle reti neurali del cervello. Le stesse esperienze possono
modificare chimicamente il nostro genoma per creare una memoria
molecolare parallela.
Abbiamo già detto più volte che il DNA è responsabile sia della stabilità
sia del cambiamento. Ora siamo giunti a un nuovo, inaspettato sviluppo.
Come riescono il nostro cervello e i nostri geni a determinare la differenza tra
un pericolo reale (una stufa accesa) e un pericolo immaginario (una stufa
spenta)? Gli animali, a quanto pare, non sono in grado di farlo, come
dimostrano alcuni studi su bovini condizionati da recinzioni elettrificate. Il
filo sottile della recinzione oltre la quale sono stati raggruppati gli animali, se
toccato, emetteva una scossa innocua ma fastidiosa. Dopo un solo giorno,
talvolta un’ora soltanto, le mucche che avevano preso la scossa imparavano a
tenersi alla larga dalla recinzione.
Il bestiame, quindi, può essere lasciato libero in una zona di pascolo
delimitata da un semplice filo elettrificato. Gli animali potrebbero facilmente
rompere quella barriera, ma il condizionamento tramite scossa elettrica li
mantiene dentro al recinto. Così, il vecchio metodo di circondare le mucche
di palizzate alte e solide è stato rimpiazzato da una semplice barriera
psicologica. Gli allevatori faticano ad accettare l’idea che una simile
recinzione sia più efficace di una fisica, ma anche in esperimenti in cui al di
là del filo elettrico è stata posata una balla di fieno, le mucche affamate non
lo travolgevano per raggiungere il cibo.
Questo tipo di condizionamento psicologico è ereditario? Così sembra,
come dimostrano ancora una volta i bovini. Affinché il bestiame non si
disperda lungo una strada, di solito gli allevatori installano delle reti
d’acciaio. Ma a quanto pare non sono necessarie. Questi animali si possono
ingannare con false recinzioni, come descritto da Rupert Sheldrake, un
biologo britannico noto per il suo anticonformismo e le sue ricerche
avventurose (questo fa di lui, a seconda di come lo si interpreta, un pensatore
innovativo, un ribelle audace, un outsider della biologia ufficiale o un
ricercatore incauto sempre pronto a credere in fenomeni misteriosi; per
quanto ci riguarda, apprezziamo molto la sua voglia di osare). In un articolo
apparso nel 1988 su New Scientist, Sheldrake ha scritto:
Gli allevatori del West americano hanno scoperto che possono risparmiare sulle recinzioni per
contenere il bestiame utilizzando reti finte dipinte lungo la strada. […] Le reti vere rendono
fisicamente impossibile ai bovini attraversarle, ma di solito i bovini non ci provano neppure; le
evitano e basta. Le reti finte funzionano esattamente allo stesso modo. Quando un bovino vi si
avvicina «inchioda e ingrana la retromarcia», per dirla con le parole di un allevatore.
Questo vale anche per gli esseri umani? La possibilità di ereditare un tratto
comportamentale potrebbe spiegare perché squadre di indiani mohawk
abbiano lavorato per generazioni alla costruzione dei grattacieli di New York
camminando su travi a centinaia di metri dal suolo senza mai dare segni di
paura di cadere. Avevano ereditano questo tratto? E un tipo analogo di
ereditarietà spiega forse perché i giocatori di scacchi russi hanno vinto più
volte il campionato del mondo?
A ogni modo, l’effetto della memoria ereditata da una generazione all’altra
è sufficientemente soft da poter essere invertito, perlomeno negli animali. A
proposito dei capi di bestiame che retrocedono davanti alle reti finte,
Sheldrake precisa:
Tuttavia, l’incantesimo di una rete finta può essere infranto. Se capi di bestiame vengono
sospinti violentemente verso una rete disegnata, e se al di là della finta rete viene collocato del
cibo, alcuni capi salteranno la recinzione; altri, semplicemente, la esamineranno da vicino e poi
la attraverseranno. Se un esemplare della mandria fa una di queste cose, presto gli altri lo
seguiranno e la rete finta non sarà più una barriera efficace.
LA genetica sta vivendo una rivoluzione, ma come influisce sulla nostra vita
quotidiana? Semplicemente, attraverso l’adattamento.
I dinosauri si adattarono così bene al loro ambiente che dominarono la vita
sulla Terra come principali predatori. Seppero violare anche la barriera
climatica, spostandosi in zone più fredde dell’odierno Artico (a causa del
movimento delle placche tettoniche). Per quanto riguarda l’alimentazione,
invece, alcuni erano vegetariani e altri carnivori. Tuttavia, nonostante la loro
buona capacità di adattamento, un cataclisma li annientò.
La collisione di un meteorite gigante con la Terra, probabilmente
nell’odierna regione dello Yucatán, in Messico, creò un repentino
cambiamento climatico. La caligine sollevata dall’impatto offuscò il Sole su
tutto il Pianeta, la temperatura precipitò e il DNA dei dinosauri non ebbe il
tempo di modificarsi.
O invece sì? Alcuni rettili odierni possono sopravvivere a climi gelidi
andando in letargo per tutto l’inverno, il che consente ai serpenti di vivere nel
New England, per esempio.
L’adattamento richiede tempi lunghissimi, addirittura eoni, solo se una
specie deve attendere delle mutazioni casuali. Può invece verificarsi molto
più rapidamente attraverso l’espressione genica.
La capra che voleva essere umana
Nel 1942 un veterinario e anatomista olandese, E.J. Slijper, riferì di una capra
nata negli anni Venti senza zampe anteriori. Tuttavia, la bestiola si era presto
adattata alla sua infelice condizione, imparando a saltellare come un canguro
sugli arti posteriori, ed era sopravvissuta un anno prima di morire
accidentalmente.
Quando ne eseguì l’autopsia, Slijper si trovò di fronte a numerose sorprese.
Le ossa delle zampe posteriori dell’animale si erano allungate, la colonna
vertebrale aveva assunto una curva a S analoga a quella umana, e i muscoli
erano connessi alle ossa in un modo che ricordava più l’anatomia di un essere
umano che di una capra. Anche altre due caratteristiche umane avevano
iniziato a svilupparsi: una placca ossea più ampia e spessa a protezione del
ginocchio e una cavità interna arrotondata nell’addome.
È sorprendente pensare che in un solo anno un nuovo comportamento – la
camminata eretta – avesse potuto trasformare una capra sino a farla apparire,
se non umana, almeno bipede, dato che tutti i cambiamenti riferiti da Slijper
sono associati all’evoluzione dei bipedi. Le attività geniche si erano
modificate per rimodellare l’anatomia dell’animale.
Per molto tempo la capra di Slijper non attirò alcuna attenzione nella
comunità scientifica. Secondo la tesi darwiniana classica, noi esseri umani
abbiamo imparato a camminare su due gambe in seguito a mutazioni casuali
che avevano modificato la nostra postura rispetto a quella china degli altri
primati, e tali mutazioni si verificano quasi sempre una alla volta. Anche
senza le osservazioni di Slijper, per gli evoluzionisti è piuttosto impegnativo
spiegare come tutti gli adattamenti anatomici che sono stati necessari agli
esseri umani per camminare in posizione eretta abbiano potuto verificarsi uno
alla volta. A ogni modo, tutti cooperano a quel fine, e la capra dimostrava che
potevano manifestarsi insieme, non come mutazioni ma come adattamenti.
L’epigenoma può dunque trasmettere un insieme completo e interconnesso di
cambiamenti?
La questione è controversa, ma sulla velocità di adattamento degli esseri
umani non si discute. Quanto il nostro stile di vita influenzerà quello dei
nostri figli e nipoti non è ancora una domanda a cui sappiamo rispondere, ma
i cambiamenti che si verificano in noi sono indiscutibili.
Ecco perché i gemelli identici non sono in realtà identici. A partire dalla
nascita iniziano a vivere vite diverse, quindi a diventare persone diverse,
sebbene siano virtualmente portatori di genomi duplicati. I gemelli identici
possono differire molto nella loro sensibilità alle malattie e nel loro
comportamento. Studi genetici su gemelli identici sono stati tradizionalmente
condotti per determinare quella che viene definita ereditarietà delle malattie.
Se un gemello contrae una malattia, quali sono le probabilità che insorgerà
anche nell’altro nei successivi quindici anni? Si tratta di un calcolo semplice,
in realtà. Dopo avere studiato centinaia di coppie di gemelli identici, i
ricercatori hanno stabilito che per quanto riguarda il morbo di Alzheimer la
probabilità è del 79%. Questo significa che lo stile di vita conta per il 21%,
anche con genomi identici.
Per quanto riguarda il Parkinson, invece, l’ereditarietà è solo del 5%; lo
stile di vita parrebbe quindi svolgere una funzione molto più importante. Per
le fratture dell’anca al di sotto dei settant’anni, l’ereditarietà è del 68%, ma
dopo quell’età scende al 47%. Per la malattia coronarica, l’ereditarietà è del
50% circa: non più della casualità, dunque. Per vari tipi di cancro – del colon,
della prostata, della mammella, del polmone – l’ereditarietà nei gemelli
identici varia dal 25 al 40%, motivo per cui è opinione diffusa che la maggior
parte dei tumori, forse la stragrande maggioranza, si possa prevenire.
Cambiamenti epigenetici associati al cancro possono essere indotti da fattori
come l’esposizione cronica all’amianto, a solventi e al fumo di sigaretta.
Tuttavia, questi cambiamenti epigenetici che causano il cancro potrebbero
essere compensati da un’alimentazione sana e dall’esercizio fisico: una
possibilità decisamente incoraggiante.
Il cambiamento è nell’aria
Non sempre i cambiamenti fisici richiedono cause fisiche. A volte lo stimolo
può essere semplicemente una parola. Se incontriamo una persona e ce ne
innamoriamo, è stato accuratamente documentato che nella nostra attività
cerebrale avviene un cambiamento enorme. E se la persona di cui ci siamo
innamorati ci dice: «Ti amo» anziché: «Sto già con qualcuno», l’espressione
genica nel centro emotivo del nostro cervello verrà alterata in modo evidente.
Allo stesso tempo, messaggi chimici inviati tramite il sistema endocrino
creeranno adattamenti nel nostro cuore e in numerosi altri organi. Essere
accettati dalla persona amata può rendere malati d’amore, ma esserne respinti
può farci ammalare di depressione. Ed esiste un’espressione genica unica per
entrambi gli stati.
Dietro a queste esperienze antiche quanto il mondo c’è solida scienza. In
uno studio condotto nel 1991 da un team di microbiologi dell’Università
dell’Alabama è stata iniettata a dei topi una sostanza chimica che ne
potenziava il sistema immunitario. Questa sostanza chimica, il poly I:C
(acido polinosinico-policitidilico), provoca una maggiore attività in una parte
del sistema immunitario nota con il nome di cellule NK (natural killer).
Mentre ai topi veniva iniettato il poly I:C, nell’aria veniva rilasciato odore di
canfora. I topi sono stati rapidamente addestrati ad associare le due cose,
dopodiché una quantità minima di poly I:C era sufficiente a stimolare le
cellule NK, se nell’aria c’era l’odore di canfora. Il corpo dei topi produceva
da sé le sostanze chimiche necessarie a stimolare il sistema immunitario. Gli
bastava un piccolo innesco.
Questa è una scoperta notevole, perché dimostra che i geni possono
adattarsi in una direzione specifica con un minimo stimolo. Le semplici
molecole di canfora che passavano dal naso al cervello dei topi non avevano
alcun effetto sul loro sistema immunitario. Era l’associazione alla canfora a
creare l’effetto. In questo caso siamo un passo oltre ai bovini nel recinto
elettrificato, il cui comportamento era modificato dal ricordo del dolore di
una scossa elettrica: i topi, infatti, non avevano appreso nulla in maniera
cosciente; i loro corpi si erano adattati senza che la loro mente, se tale si può
considerare, dovesse imparare qualcosa o anche solo pensare.
Noi esseri umani siamo in grado di pensare, ma i nostri corpi sono
continuamente influenzati a nostra insaputa. Per quanto riguarda l’olfatto, nei
mammiferi i feromoni emessi dalla pelle sono strettamente connessi
all’attrazione sessuale, e sembrano avere una parte anche nell’attrazione tra
esseri umani. In un esperimento di aromaterapia, alcuni ricercatori hanno
scoperto che le persone sottoposte al test riferivano in modo costante un
miglioramento dell’umore dopo avere annusato essenza di limone, e nessun
cambiamento dopo avere annusato lavanda o acqua, che ovviamente è
inodore. Tale miglioramento si verificava indipendentemente dal fatto che i
soggetti avessero mai sperimentato l’aromaterapia prima. Anzi, a un
campione di persone non era stato detto nulla degli aromi o di che cosa
dovessero aspettarsi, e anche il loro umore era migliorato dopo avere
annusato essenza di limone.
Il potere dell’aspettativa è innegabile. Nel cosiddetto effetto placebo, a un
soggetto viene somministrata una pillola di zucchero del tutto inerte e gli
viene detto che si tratta di un farmaco per alleviare sintomi come dolori o
nausea, e nel 30-50% dei casi il corpo interviene e produce le sostanze
chimiche necessarie per ottenere l’esito desiderato. Sebbene l’effetto placebo
sia ormai ampiamente noto, stupisce ancora che semplici parole come:
«Questo ti farà passare la nausea» possano innescare una reazione tanto
specifica nella connessione cervello-stomaco. È stato addirittura provato che
somministrando un farmaco che provoca la nausea e dicendo al campione di
persone che si tratta di una pillola contro la nausea, alcune riferiscono che la
nausea è sparita.
Per completare il quadro, esiste anche l’effetto nocebo, secondo cui
somministrare a qualcuno un’innocua pillola di zucchero dicendogli che non
gli arrecherà alcun beneficio può persino produrre effetti negativi.
Apparentemente ci siamo allontanati parecchio dal mancato adattamento
dei dinosauri, ma tutte queste scoperte sono molto importanti. Se un semplice
odore o dire a una persona: «Questo ti farà sentire meglio» è in grado di
alterare l’espressione genica, e se una sostanza totalmente inerte è in grado di
suscitare la nausea o di farla passare, tutto un nuovo mondo si apre davanti a
noi, il mondo dell’adattamento. Anziché essere come i cani di Pavlov, che
salivavano ogni volta che udivano un campanello associato all’orario dei
pasti, gli esseri umani aggiungono un altro tassello: l’interpretazione.
In un topo addestrato ad associare la canfora a una più intensa risposta
immunitaria non c’è alcuna interpretazione: lo stimolo conduce alla risposta.
Ma tutti i tentativi di addestrare il comportamento umano hanno almeno il
50% di possibilità di fallire. Certo, incentivi positivi come il denaro, il potere
e il piacere allettano la maggior parte di noi, ma c’è sempre quello che dice di
no e fa dietrofront. Quanto a incentivi negativi come punizioni corporali,
violenze e ricatti, è molto probabile che portino al risultato desiderato, ma
anche in questo caso c’è sempre chi resiste e non si piega. Tra lo stimolo e la
risposta si interpone la mente cosciente, nonché la sua capacità di interpretare
la situazione e di reagire di conseguenza.
Qualunque esperienza facciamo, è attivo dentro di noi un ciclo di feedback:
un evento scatenante A porta a un’interpretazione mentale B, con
conseguente risposta C. Questa risposta è ricordata dalla mente, e la prossima
volta che lo stesso evento A si verificherà, la risposta non sarà esattamente la
stessa. Questo ciclo è come una conversazione continua tra mente, corpo e
mondo esterno, per questo ci adattiamo con rapidità e continuità.
Gli esiti sono diventati ancora più interessanti quando in altri esperimenti i
ricercatori hanno preso lo stesso odore di canfora e lo hanno sottoposto ai
topi mentre veniva loro iniettato un farmaco che abbassava la risposta
immunitaria. Ancora una volta, dopo un certo periodo di tempo bastava
soltanto l’odore di canfora a compromettere la risposta immunitaria dei topi.
In altre parole, lo stesso stimolo (la canfora) era in grado di indurre una
risposta specifica e anche il suo esatto opposto.
«Prima adattarsi, poi mutare»
Nonostante le prove crescenti a sostegno dell’epigenetica, alcuni biologi
evoluzionisti insistono nel sostenere che l’evoluzione della nostra specie sia
del tutto casuale e basata unicamente sulla selezione naturale. Anche solo
prendere in considerazione l’idea che possa esistere un programma
epigenetico altamente interattivo che guida l’evoluzione della nostra specie è
sufficiente a farli schiumare di rabbia e a indurli a etichettarvi come
«creazionisti» promulgatori del concetto di «disegno intelligente». Da parte
nostra, non intendiamo assolutamente suggerire che vi sia un simile disegno.
Tuttavia, osservando la mole di prove circa gli effetti dell’epigenetica sulla
salute in generale, è tempo di prendere seriamente in esame ciò che la nuova
genetica ci insegna sulla nostra stessa evoluzione.
Le recenti scoperte potrebbero essere di vitale importanza. Forte di una
carriera ormai quasi trentennale all’Ohio State University, la professoressa
Janice Kiecolt-Glaser ha analizzato, insieme al suo team, gli effetti dello
stress cronico sul sistema immunitario. Il quadro generale era già noto: se
veniamo sottoposti a stress ripetuti, la nostra resistenza alle malattie
diminuisce notevolmente; inoltre, corriamo il rischio di sviluppare patologie
serie come ipertensione e cardiopatia. Tuttavia, la gente comune ha molta
meno familiarità con i pericoli legati allo stress quotidiano, che ci infastidisce
ma che sentiamo di dover tollerare.
Il team di Kiecolt-Glaser ha preso in esame un tipo di stress che di recente
è diventato molto più comune, ovvero quello derivante dal doversi prendere
cura di una persona cara affetta da Alzheimer. La generazione del baby boom
è sempre più gravata dal peso della responsabilità nei confronti di genitori
anziani malati di Alzheimer, e poiché l’assistenza professionale è limitata e
molto costosa, milioni di figli adulti sono l’ultima risorsa di assistenza. Per
quanto amiamo i nostri genitori, alla lunga l’assistenza ventiquattr’ore su
ventiquattro sviluppa un grave stress cronico. E se ne paga un prezzo
genetico.
Come riferisce un sito web della Ohio State University: «Studi precedenti
condotti da altri ricercatori avevano già dimostrato che le madri costrette a
prendersi cura di bambini malati cronici sviluppavano cambiamenti nei loro
cromosomi equivalenti, di fatto, a parecchi anni di invecchiamento». Non
stupisce, quindi, che quando il team di Kiecolt-Glaser ha puntato il dito
sull’assistenza agli anziani malati di Alzheimer abbia scoperto indici più
elevati di depressione e altri tipi di conseguenze psicologiche.
Il suo gruppo di lavoro si è anche concentrato sulle specifiche cellule che
mostravano segni di mutazioni genetiche, e li hanno effettivamente trovati nei
telomeri delle cellule immunitarie. Come abbiamo detto, i telomeri sono le
regioni terminali di una sequenza di DNA, un po’ come il punto alla fine di
una frase. A mano a mano che le cellule si dividono, i telomeri si logorano, il
che fornisce un marcatore per l’invecchiamento. «Riteniamo che i
cambiamenti in queste cellule immunitarie rappresentino l’intera popolazione
di cellule del corpo, e suggeriscano che tutte le cellule del corpo sono
invecchiate allo stesso modo», sostiene Kiecolt-Glaser, la quale stima che
questo invecchiamento accelerato tolga a chi assiste i malati di Alzheimer dai
quattro agli otto anni di vita. In altre parole, l’adattabilità del nostro corpo ha
seri limiti.
La scienziata sottolinea che ampi dati mostrano come i figli o famigliari
del malato stressati a causa di questo compito muoiano prima dei loro
coetanei non costretti a svolgere tale ruolo. «Ora abbiamo una buona
spiegazione biologica del perché questo accade», ha detto Kiecolt-Glaser.
Come Rudy ha presto notato sequenziando interi genomi di oltre
millecinquecento malati di Alzheimer e dei loro fratelli e sorelle sani, il
genoma è pieno zeppo di sequenze ripetitive di A, C, T e G. Alcune di queste
sequenze ripetute del DNA possono legarsi a determinate proteine che
risiedono profondamente all’interno del nucleo della cellula al fine di
controllare le attività dei geni nelle loro vicinanze. Altre sequenze ripetute si
trovano alle estremità dei cromosomi, e la loro lunghezza è controllata da
proteine come la telomerasi. Più a lungo le estremità dei cromosomi
rimangono stabili (ricostruite dalla telomerasi), più a lungo la cellula
sopravvive.
Il fatto è che nel corso della vita noi ci adattiamo al nostro ambiente ogni
giorno, modificando i nostri corpi anche a livello di attività genica. Il nostro
prossimo pasto, il prossimo stato d’animo, la prossima ora di esercizio fisico
modificano il nostro corpo, in un flusso infinito di cambiamento. Darwin ha
spiegato che una specie si adatta all’ambiente in eoni di tempo, come le
decine di milioni di anni che i dinosauri hanno impiegato a tramutarsi in
uccelli da quando comparvero sulla Terra. Le piume, per un darwinista puro,
sono un adattamento fisico alla pressione ambientale e niente di più. In realtà
i nostri genomi si stanno adattando in tempo reale in ogni istante della nostra
vita grazie all’attività genica. È possibile che tali adattamenti siano di per sé
una forza trainante?
Attualmente, questo è un tema scottante. Per la stragrande maggioranza dei
biologi evoluzionisti, mettere l’adattamento prima della mutazione è
inaccettabile. Ci sono però delle eccezioni. In un articolo intitolato «Adapt
First, Mutate Later» («Prima adattarsi, poi mutare»), apparso su New Scientist
nel gennaio 2015, il giornalista scientifico Colin Barras torna a parlare della
capra di Slijper in un nuovo contesto. Un pesce primitivo africano, il
Polypterus bichir, ha la capacità di sopravvivere fuori dall’acqua. In termini
di adattamento, saper camminare sul terreno favorisce la sopravvivenza nella
stagione arida, consentendo al bichir di lasciare gli stagni ormai prosciugati
per trovare acqua fresca e nuove fonti di cibo, nonché un più ampio territorio
da colonizzare. Anche altre specie manifestano lo stesso adattamento. In
Florida, per esempio, il Clarias batrachus, un pesce gatto originario del
Sudest asiatico in grado di muoversi anche fuor d’acqua, dopo essere fuggito
ed essersi rinselvatichito è diventato altamente invasivo spostandosi su terra.
Non fa uso di zampe o simili, ma si dimena appoggiandosi sulle pinne
anteriori o pettorali, che gli tengono sollevata la testa. Pur che rimanga
umida, questa varietà di pesce gatto può restare fuori dall’acqua per un tempo
indefinito.
Tale adattamento agli spostamenti via terra ha ricordato a Emily Standen,
un’evoluzionista dell’Università di Ottawa, come pesci ancestrali emersero
dagli oceani centinaia di milioni di anni fa. Più di recente, un fossile di
trecentosessanta milioni di anni ha suscitato meraviglia fornendo prove
fisiche di questo cambiamento epocale della vita sulla Terra. Un pesce fossile
scoperto da poco, il Tiktaalik roseae, aveva uno scheletro simile a quello dei
pesci ma con nuove caratteristiche, affini a quelle dei tetrapodi, ovvero le
creature terrestri a quattro zampe. Standen, specializzatasi nella meccanica
delle specie in evoluzione, si è domandata se tali adattamenti avrebbero
potuto essere accelerati, e la risposta è stata sì, eccome!
Con il suo team la scienziata ha allevato dei bichir sulla terraferma, ed
essendo costretti a dimenarsi sulle pinne più di quanto facciano normalmente
in natura, questi pesci hanno modificato il proprio comportamento
diventando «camminatori» più efficienti. Tenevano le pinne più vicine al
corpo e alzavano maggiormente la testa, e i loro scheletri mostravano anche
cambiamenti nello sviluppo: le ossa di sostegno delle pinne avevano
cambiato forma in risposta alla maggiore gravità (in acqua i pesci pesano
meno). Come nel caso della capra di Slijper, si è verificato un insieme di
adattamenti utili. Ci vorrà del tempo per vedere dove questa linea di ricerca ci
porterà, ma già suggerisce ciò che afferma il titolo dell’articolo di Barras.
Il problema della matrioska
Questo pensiero revisionista non è facile da assimilare, ma vi assicuriamo che
conduce a qualcosa di grande. Rimpiazzare il semplice modello causa-effetto
dell’evoluzione con una nebulosa di vaghi influssi è destabilizzante. Vale
anche per il nostro corpo in questo preciso istante. Ogni giorno, infatti, è
bombardato da influssi tramite ciò che mangiamo, i comportamenti, l’attività
mentale, i cinque sensi e tutto ciò che accade nell’ambiente in cui viviamo.
Ma quale di questi fattori sarà decisivo? I geni possono predisporre alla
depressione, al diabete di tipo 2 o ad alcuni tipi di cancro, ma solo una certa
percentuale di individui in possesso di tali predisposizioni avrà il relativo
gene attivato. Individuare i fattori specifici che attiveranno un gene specifico
è come lanciare per aria un mazzo di carte e cercare di prendere al volo l’asso
di picche mentre ricadono a terra.
Agli scienziati non piace affatto abbandonare il modello lineare di causa-
effetto. Così ci ritroviamo con un modello che assomiglia a una matrioska, la
tradizionale bambola russa che ne contiene un’altra più piccola, poi una più
piccola ancora e così via, fino a un’ultima bambola minuscola. Le matrioske
sono deliziose, ma che cosa succederebbe se sostenessimo che la bambola più
grande è stata costruita da quella al suo interno, e quest’ultima da quella più
piccola ancora e così via?
In sostanza, è qui che la genetica ci ha portato. A volte il quadro genetico è
abbastanza semplice da non lasciare alcuna ambiguità. Immaginiamo un
fenicottero bianco tra migliaia di fenicotteri rosa. Che cosa lo ha reso così
bianco? Una sequenza lineare di ragionamenti fornisce la risposta: prima
viene il genere Phoenicopterus, che contiene sei specie di fenicotteri
suddivise tra le Americhe e l’Africa; ciascuna ha un gene dominante che
produce piume rosa generazione dopo generazione, ma tutti i geni possono
mutare o non apparire, portando casualmente all’albinismo in un singolo
pulcino; il numero di pulcini nati con le piume bianche può essere
statisticamente previsto, e la storia finisce qui.
Adottiamo il ragionamento della bambola russa per scendere a livelli
sempre più piccoli della Natura in cerca di cause. È il metodo riduzionista,
che ha un valore ormai classico nella scienza. Indagare la natura fino alle sue
componenti più piccole, infatti, è l’oggetto stesso della scienza, che si tratti di
un fisico a caccia di particelle subatomiche o di un genetista che cerca segnali
metilici su un gene. Vi è però un problema, ed è cruciale.
Considerate una persona che è diventata obesa, andando a ingrossare le file
dell’attuale epidemia di obesità nei Paesi sviluppati. Ci sono molte teorie sul
perché un individuo diventi obeso, eccone alcune: lo stress, squilibri
ormonali, cattive abitudini alimentari sviluppate fin dall’infanzia e
l’eccessiva assunzione di amidi e zuccheri raffinati. Adottando il
ragionamento della bambola russa, la spiegazione porterebbe al livello
genetico. Sebbene in passato sia stata varata una ricerca del «gene
dell’obesità», corroborata da prove statistiche che mostravano come il
sovrappeso avesse in effetti una componente ereditaria, quel progetto ha
avuto solo un successo limitato, identificando alcuni geni portatori di varianti
del DNA lievemente predisponenti all’obesità, per esempio il gene FTO, che
è associato alla massa grassa e all’obesità. Come accade per disturbi quali la
schizofrenia, che ha una componente genetica, nella migliore delle ipotesi
l’influenza genetica fornisce una predisposizione.
Oggi si è trovata una bambola ancora più piccola: l’epigenetica e gli
interruttori che controlla. Quasi ogni fattore che potrebbe contribuire
all’obesità, sia questo il troppo stress, l’eccesso di zucchero, le cattive
abitudini alimentari o uno squilibrio ormonale, teoricamente è regolato
dall’epigenoma, la stazione di commutazione che trasforma le esperienze in
alterazioni genetiche. Qui però la linea di ragionamento riduzionista si
blocca. È estremamente difficile, infatti, dire quale particolare esperienza crei
quale segnale su quale gene, alterando così l’attività genica. Alcune persone
diventano obese con o senza stress, con o senza zucchero e così via. Di
conseguenza, è impossibile prevedere con precisione quali esperienze passate
o future alterino in modo affidabile l’attività genica. La nebulosa di cause che
avvolge il motivo per cui gli uomini olandesi hanno improvvisamente iniziato
a crescere tanto circonda anche una grande quantità di epigenetica. Qualcosa
sta creando segnali metilici, ma il segnale è per sua natura materiale, mentre
spesso quel qualcosa che lo ha causato non lo è. Una tossina ambientale può
causare cambiamenti epigenetici, ma per quanto ne sappiamo anche una forte
emozione come la paura può farlo, perlomeno nei topi.
Se guardiamo più in profondità, l’ipotesi di una causa materiale dei segnali
epigenetici si rivela debole. È l’intera gamma delle esperienze esistenziali,
dalle interazioni fisiche alle reazioni emotive, a governare la modificazione
chimica di alcuni geni mediante segnali metilici. Un segnale metilico, che
come abbiamo detto è il fattore più studiato per la modifica di un gene da
parte dell’epigenoma, è estremamente piccolo. Chimicamente, un gruppo
metilico è minuscolo, non più di un atomo di carbonio legato a tre atomi di
idrogeno. La metilazione contraddistingue solo la coppia con base C
(citosina), attaccandosi a questa come un pesce ventosa alla pancia di uno
squalo; la molecola della citosina è quaranta volte più grande. È stato
dimostrato che quando il DNA viene modificato con più segnali metilici,
qualche sua parte si spegne. Quindi pare che siamo alla bambolina più
piccola, quella che altera tutte le più grandi. Il 90% delle modificazioni del
DNA associate a malattia è infatti situato in aree di commutazione del gene.
Inoltre, l’epigenetica ha un notevole effetto sullo sviluppo prenatale, la
personalità e i tic comportamentali, nonché sulla sensibilità alle malattie, che
va ben oltre i geni e le mutazioni ereditate dai nostri genitori.
Il modo in cui una madre vive mentre ha in grembo un bambino potrebbe
potenzialmente influire sulle attività geniche e sul rischio di malattia del
figlio decenni dopo. Un team di ricercatori canadesi dell’Università di
Lethbridge ha sottoposto dei ratti adulti a condizioni di stress, poi ne ha
studiato la prole. I ratti femmina figlie di madri stressate avevano gravidanze
più brevi, e così persino le nipoti, le cui madri non erano state stressate. I
ricercatori hanno suggerito che questo fosse dovuto all’epigenetica. Più nello
specifico, hanno dichiarato che i cambiamenti epigenetici causati dallo stress
coinvolgono i cosiddetti micro-RNA, minuscoli segmenti di RNA fatti di
genoma che regolano l’attività genica (prima il DNA tra i geni veniva
definito «DNA spazzatura», ora invece sappiamo che questo DNA
intergenico può essere usato per produrre minuscole molecole, il micro-RNA
appunto, che controlla le attività geniche in tutto il genoma).
Lasciando da parte potenziali anomalie su cui la ricerca medica potrebbe
concentrarsi, la commutazione è il modo in cui tutti siamo giunti qui. Questa
è fondamentale per il viaggio che una singola cellula fecondata nel grembo
materno compie per diventare un bambino sano e perfettamente formato.
Quando questa prima cellula si divide, ogni cellula futura contiene lo stesso
DNA. Ma perché possa formarsi un bambino, devono esserci cellule epatiche,
cardiache, cerebrali eccetera, tutte diverse l’una dall’altra. L’epigenoma e i
suoi segnali regolano la differenza. Si è dunque capito che una mappa
dell’epigenoma era urgentemente necessaria per individuare come ciascun
tipo di cellula venga determinata nello sviluppo di un embrione in utero.
Quattro nazioni – Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito – hanno
finanziato il Progetto epigenoma umano, la cui missione è mostrare dove si
trovino tutti i segnali rilevanti o, per dirla con il lessico ufficiale,
«identificare, catalogare e interpretare i profili di metilazione di tutti i geni
nei principali tessuti umani».
Grazie alla partecipazione di oltre duecento scienziati, una pietra miliare è
stata raggiunta nel febbraio 2015 con la pubblicazione di ventiquattro articoli
che descrivono, fra tre milioni di interruttori coinvolti, quelli che determinano
lo sviluppo di oltre cento tipi di cellule del nostro corpo. Questo sforzo
congiunto ha comportato migliaia di esperimenti con tessuti sia adulti sia
fetali e con cellule staminali (in teoria, contare tutte le macchie di tutti i
leopardi del mondo sarebbe stato più facile). Le sostanze chimiche che
regolano i diversi tipi di cellule erano già note, e talvolta i relativi interruttori
non sono vicini al gene interessato: anzi, l’interruttore A può essere collocato
a considerevole distanza dal gene B. In casi simili i ricercatori hanno dovuto
individuare il ruolo dell’interruttore osservando il regolatore chimico: se era
presente in una cellula, ne deducevano che l’interruttore era acceso.
Genitori, bambini e geni
Giungere a questa porzione della mappa dell’epigenoma è stata una conquista
entusiasmante. Attivare o disattivare geni chiave potrebbe essere la strada
migliore per prevenire e curare una miriade di malattie. Come i ricercatori
sanno, l’individuazione di tutti questi interruttori fornisce una quantità
incredibile di nuovi dati, ma questo è solo un inizio. Nell’attività del DNA gli
interruttori interagiscono, formano circuiti (detti reti) e possono persino agire
sui geni a distanza. Dipanare tutti i circuiti non ci dice perché vi sia attività,
non più di quanto mappare la posizione di ogni telefono in una città ci riveli
che cosa si dicono le persone quando si chiamano. Regioni diverse del
genoma possono essere attivate in parallelo per via epigenetica in seguito a
una riorganizzazione tridimensionale del genoma (come se piegassimo il
filamento di DNA ad anello), che le porta in stretta prossimità.
Inoltre, bisogna considerare l’effetto che l’epigenetica ha sul primo periodo
di vita di un neonato dopo avere lasciato il grembo materno. Questo periodo
fa da perno tra l’influenza epigenetica della madre e l’esperienza propria del
neonato. Quanto è importante la sovrapposizione tra le due? Questa domanda
è centrale per molti problemi medici dei bimbi piccoli, per esempio l’allergia
alle arachidi. Come riferiva il New York Times nel febbraio 2015, negli Stati
Uniti circa il 2% dei bambini è allergico alle arachidi, numero che dal 1997 è
quadruplicato. Nessuno è in grado di spiegare perché, ma negli ultimi decenni
c’è stato un forte aumento di tutte le allergie, cosa che rimane un mistero. E
questo aumento si registra in tutti i Paesi occidentali.
Un bambino con una forte allergia alle arachidi può potenzialmente morire
per l’esposizione anche solo a una minima traccia di arachidi negli alimenti.
La spiegazione standard è che dare alimenti a base di arachidi ai bambini
piccoli aumenta il rischio di sviluppare l’allergia, ma un interessante studio
pubblicato nel 2014 sul New England Journal of Medicine ha sovvertito
questa tesi. Dare ai bambini alimenti come il burro d’arachidi «riduce
drasticamente il rischio di sviluppare un’allergia», hanno concluso gli autori
dello studio. Una notizia rincuorante: un semplice accorgimento nello
svezzamento dei bambini poteva ridurre, se non addirittura invertire, una
tendenza al rialzo.
In questo nuovo studio, che si è svolto a Londra, cinquecentotrenta
bambini considerati a rischio di sviluppare allergia alle arachidi (per esempio,
perché già allergici alle uova o al latte) sono stati suddivisi in due gruppi. A
partire da quando i bambini avevano tra i quattro e gli undici mesi, a un
gruppo sono stati somministrati alimenti contenenti arachidi e all’altro no.
Raggiunti i cinque anni, il gruppo esposto alle arachidi aveva un’incidenza di
allergie dell’1,9%, rispetto al 13,7% dei bambini a cui i genitori avevano
vietato alimenti contenenti arachidi. È stato addirittura ipotizzato che tale
divieto da parte di genitori apprensivi possa avere causato il drastico aumento
dell’allergia nei loro bimbi.
È da un po’ che i genitori sono confusi in materia di neonati e allergie, e
non solo quella alle arachidi. Prima di questa nuova scoperta i dati non erano
chiari. Come abbiamo detto, il neonato eredita il sistema immunitario della
madre, che funge da ponte mentre inizia a sviluppare i propri anticorpi. Il
timo, che si trova nel torace, più o meno tra i polmoni e davanti al cuore, è
una ghiandola in cui maturano i linfociti T del sistema immunitario. Quando
il corpo è invaso da virus, batteri esterni o sostanze presenti nell’ambiente
come il polline, i linfociti T hanno il compito di riconoscere quali invasori
respingere. L’allergia è come un caso di scambio d’identità in cui una
sostanza innocua viene identificata come nemica, cosa che porta a una
reazione allergica creata dal corpo stesso, non dall’invasore.
Il timo è al massimo della sua attività subito dopo la nascita e per tutta la
durata dell’infanzia. Una volta che il soggetto ha sviluppato una serie
completa di linfociti T, l’organo si atrofizza dopo la pubertà. Il punto della
questione allergie sta in quanta della nostra immunità è ereditata
geneticamente e quanta è invece influenzata dall’ambiente dopo la nascita.
Riguardo all’aumento allarmante delle allergie nei Paesi sviluppati, pare che
più l’ambiente è inquinato, più grave è il problema. Ma dopo la caduta
dell’Unione Sovietica nel 1991 e l’apertura delle frontiere dei suoi Paesi
satelliti, che in genere avevano tassi di inquinamento molto più elevati
rispetto agli Stati Uniti o all’Europa occidentale, i ricercatori sono rimasti
perplessi quando hanno scoperto che aree altamente inquinate dell’Europa
orientale presentavano tassi di allergia inferiori a quelli di alcuni Paesi
europei più sviluppati.
Si è dunque iniziato a pensare che forse era vero il contrario: i Paesi
occidentali sono troppo puliti e disinfettati, e questo priva il sistema
immunitario di quell’esposizione alle sostanze che gli permette adattarsi. Di
conseguenza, la scoperta dell’allergia alle arachidi potrebbe essere molto
significativa. Le linee guida dell’American Academy of Pediatrics, pubblicate
nel 2000, raccomandavano che i bambini fino a tre anni non mangiassero cibi
contenenti arachidi, se erano a rischio di sviluppare l’allergia a questo
alimento. Poi, nel 2008, la stessa organizzazione ha riconosciuto che non
c’erano prove conclusive per cui evitare le arachidi non facesse sviluppare
l’allergia dopo i quattro-sei mesi di vita. A ogni modo, non esisteva ancora
uno studio che dimostrasse che smettere di evitarle fosse la soluzione
corretta. Il primo indizio reale è emerso da un sondaggio del 2008 pubblicato
sul Journal of Allergy and Clinical Immunology, il quale ha scoperto che il
numero di bambini affetti da allergia alle arachidi in Israele era un decimo di
quello dei bambini ebrei nel Regno Unito. La differenza significativa
sembrava essere che i bambini israeliani consumano alimenti a base di
arachidi fin dal primo anno di vita, in particolare il Bamba, uno snack molto
amato dai piccoli che mescola pop-corn e burro d’arachidi. I bambini ebrei
britannici, viceversa, non consumano alimenti a base di arachidi, se i loro
genitori sono attenti alle problematiche allergiche.
Questo nuovo studio, tuttavia, non si applica ad altri alimenti verso i quali i
bambini sviluppano allergie. E due importanti questioni restano irrisolte:
primo, se i bambini alimentati con cibi contenenti arachidi smettono di
consumarli, sono soggetti a sviluppare l’allergia? Questo interrogativo è al
momento esplorato in uno studio di follow-up sui soggetti originari. Secondo,
i risultati sono applicabili ai bambini a basso rischio di allergie alimentari?
Questo non si sa, ma i ricercatori tendono a pensare che consumare alimenti a
base di arachidi non farà loro alcun male. Chiedere però a genitori ansiosi di
cambiare le loro abitudini può risultare difficile, dal momento che per
parecchio tempo le raccomandazioni degli organi preposti alla tutela della
salute hanno tanto ripetuto di evitare i cibi «sbagliati».
Siamo entrati un po’ nel dettaglio non perché abbiamo la risposta alle
allergie, ma per chiarire come possono essere incerti gli influssi ambientali,
benché sia noto che in generale i segnali epigenetici ne risentono. Il
miracoloso sviluppo di un essere umano da embrione a neonato, e poi
bambino, adolescente e adulto comporta un’intricata danza tra geni e
ambiente. Nei mammiferi le interazioni tra neonato e genitori possono avere
profonde ripercussioni sulla salute del bambino nei decenni successivi.
Sebbene molti risultati in questo campo siano emersi solo da studi su topi e
ratti, ci sono sempre più prove che tali risultati possano applicarsi anche gli
esseri umani. Per esempio, pare che abusi, abbandono, incuria e
maltrattamenti subiti nelle prime fasi della vita producano effetti epigenetici
sull’attività genica che influiscono negativamente sulla salute fisica e mentale
più avanti negli anni.
Nel bene e nel male, i primi eventi che plasmano i legami tra genitori e
figli hanno profondi effetti sullo sviluppo cerebrale del bambino e sulla sua
personalità. Ma come si stabiliscono questi legami? Sempre più spesso gli
studi mostrano che sono in gran parte dovuti alle modificazioni epigenetiche
dei geni del bambino, guidate da esperienze infantili che iniziano fin dai
primissimi giorni di vita. Se una madre si comporta in modo distaccato verso
il suo bambino, possono verificarsi una risposta ipotalamo-ipofisi-surrene
(HPA) disfunzionale associata a stress, una compromissione dello sviluppo
cognitivo e un aumento di cortisolo tossico, che si misura nella saliva del
bambino.
Alcuni bambini vittime di abusi muoiono giovani, e in questi tragici casi il
loro cervello può essere studiato in corso di autopsia. Questo tipo di ricerca
ha mostrato chiari segni di modificazione epigenetica (metilazione
aumentata) del gene NR3C1, che provoca la morte delle cellule nervose di
quella regione del cervello nota come ippocampo, predisposta alla memoria a
breve termine. Nei bambini vivi la stessa modificazione genetica è rinvenibile
nella saliva di soggetti emotivamente, fisicamente e sessualmente abusati. In
seguito, simili danni possono sviluppare comportamenti di tipo psicopatico.
Scoperte del genere ampliano e circostanziano in maniera scientifica la
convinzione già diffusa a livello popolare che abusi e abbandono in giovane
età abbiano profondi effetti psicologici, perché ora siamo in grado di
rintracciare il danno a livello cellulare. Nella ricerca dei cambiamenti
biologici alla base di questi eventi, sempre più spesso vengono coinvolti i
percorsi epigenetici che controllano l’espressione genica nel cervello. Con gli
stessi strumenti, in futuro sarà forse possibile testare l’efficacia di terapie
psicologiche o farmacologiche osservando se gli effetti negativi
nell’epigenoma sono stati invertiti o meno.
Alcuni progressi sono già stati compiuti negli studi sugli animali. Nel 2004
una ricerca della McGill University, condotta dal neuroscienziato Michael
Meany, ha mostrato come i ratti neonati che venivano leccati spesso dalle
loro madri avessero maggiori livelli di recettori di glucocorticoidi nel
cervello, il che comportava una riduzione di ansia e comportamenti
aggressivi. Come spiegare questi cambiamenti comportamentali? Di nuovo,
con l’epigenetica. I ratti che avevano ricevuto cure più amorevoli dalle loro
madri avevano subìto meno modificazioni per metilazione dei geni recettori
di glucocorticoidi, il che aveva portato a una diminuzione della quantità di
cortisolo, e quindi a minore ansia, aggressività e risposta allo stress.
L’ambito più controverso dell’epigenetica riguarda il modo in cui le
generazioni future saranno influenzate dallo stress e dagli abusi subiti oggi da
chi le precede. Se dopo la nascita i ratti maschi vengono separati dalle loro
madri, possono soffrire di ansia e di aspetti depressivi come apatia che
verranno trasmessi alle generazioni successive. Modificazioni epigenetiche
negative sono state effettivamente rinvenute nello sperma di ratti in seguito
alla loro separazione dalla madre, e dallo stesso sono poi state trasmesse alla
progenie. Studi correlati hanno mostrato che una lunga serie di effetti, dalla
scarsa alimentazione allo stress e all’esposizione a tossine (per esempio,
pesticidi che portano a modificazioni epigenetiche nel cervello e nello sperma
dei ratti), possono essere trasmessi alla generazione successiva.
Un esempio eloquente di quanto siamo in grado di influenzare la nostra
attività genica viene da uno studio che sembra fantascienza: un team
francoelvetico di Zurigo è stato ispirato da un gioco innovativo chiamato
Mindflex, che viene fornito con una cuffia che intercetta le onde cerebrali
dalla fronte e dai lobi delle orecchie del giocatore. Concentrandosi su una
leggera palla di polistirolo, il giocatore può farla alzare o abbassare in una
colonna d’aria, e il gioco consiste nel riuscire a spostare la palla attraverso un
percorso a ostacoli utilizzando esclusivamente il pensiero.
I ricercatori si sono domandati se lo stesso metodo poteva alterare l’attività
genica, così hanno messo a punto un casco per elettroencefalogramma (EEG)
che analizzasse le onde cerebrali e potesse trasmetterle via bluetooth. Come
riportava Engineering & Technology Magazine nel novembre 2014, le onde
cerebrali venivano trasformate in campo elettromagnetico all’interno di
un’unità che alimentava un impianto all’interno di una coltura cellulare.
L’impianto era dotato di una lampada a LED che emetteva luce infrarossa e
innescava la produzione di una specifica proteina nelle cellule. Uno dei
ricercatori alla guida del progetto ha commentato: «Controllare i geni in
questo modo è qualcosa di completamente nuovo e unico nella sua
semplicità».
I ricercatori hanno usato la luce infrarossa perché non danneggia le cellule,
pur penetrando in profondità nel tessuto. Dopo che la trasmissione remota del
pensiero aveva funzionato su campioni di tessuto, il team è passato ai ratti, e
anche in questo caso ha avuto successo. A diversi soggetti umani è stato
chiesto di indossare il casco per EEG e di controllare la produzione di
proteine nei ratti usando semplicemente il pensiero. Al primo dei tre gruppi è
stato detto di concentrarsi giocando al videogioco Minecraft sul computer.
Come riportato nell’articolo pubblicato su Engineering & Technology
Magazine, «questo gruppo ha ottenuto solo risultati limitati in termini di
concentrazione della proteina nel sangue dei ratti. Il secondo gruppo, in stato
di meditazione o di totale rilassamento, ha indotto un tasso molto più elevato
di espressione della proteina. Il terzo gruppo, usando il metodo della
retroazione biologica (biofeedback), è stato in grado di accendere e spegnere
intenzionalmente la luce a LED impiantata nel corpo di un ratto da
laboratorio».
Al di là delle straordinarie implicazioni per quanto riguarda l’influenza
diretta del pensiero sulle attività geniche, un giorno questo metodo potrebbe
essere adottato per aiutare i pazienti affetti da epilessia, fornendo loro
medicinali in maniera istantanea o accendendo/spegnendo alcuni loro geni
attraverso un impianto cerebrale appena si verifica un attacco. Un attimo
prima di una crisi, infatti, il cervello di un epilettico genera un particolare tipo
di attività elettrica che potrebbe essere sfruttato per avviare un impianto
genetico che funziona con la luce per produrre rapidamente un farmaco
antiattacco. Una strategia simile potrebbe essere impiegata per trattare il
dolore cronico, producendo farmaci antidolorifici nel cervello appena si
manifestano i primi segni di dolore.
Insomma, il nostro genoma è un insieme straordinariamente vivace di
DNA e proteine continuamente rimodellato in termini di struttura e di attività
genica, e molto di questo rimodellamento sembra essere condizionato dal
modo in cui viviamo la nostra vita. Ma il problema della bambola russa non
può essere accantonato. È ormai evidente che modificazioni chimicamente
indotte sono alla base dell’attività genica. Questo è un dato incontrovertibile.
Una modificazione dell’attività genica in risposta allo stile di vita del
soggetto può essere provocata da un piccolo gruppo metilico attaccato a un
gene che lascia un segnale rivelatore. Senza questa modificazione chimica del
gene, una cellula staminale non potrebbe svilupparsi in una particolare cellula
cerebrale piuttosto che epatica o cardiaca. Anzi, potrebbe addirittura non
trasformarsi ma continuare soltanto a dividersi ancora e ancora, allo stesso
modo in cui si forma un tumore.
I segnali metilici non sono solo modificazioni chimiche che disattivano
l’attività genica, ma anche note musicali della sinfonia di interazioni geniche
più complesse. Leggendo i segnali complessivamente, possiamo farci un’idea
delle reti di attività che corrispondono al modo in cui noi, e magari anche i
nostri genitori e nonni, siamo vissuti. In futuro sarà forse possibile leggere
direttamente dall’epigenoma le esperienze specifiche, per esempio quella di
una carestia a cui siamo sopravvissuti. Equiparare i segnali metilici alla
partitura di una sinfonia ha un senso perché è necessaria una moltitudine di
note affinché una melodia possa davvero essere percepita. Una singola
battuta di una sinfonia fornisce solo un’istantanea. Allo stesso modo, la
ricerca della bambola più piccola della matrioska non racconta l’intera
questione della genetica.
Nella genetica i segnali vengono decifrati chimicamente, ma connetterli a
ciò che significano in termini di esperienza è un passo arduo. In primo luogo,
non possiamo realmente osservare i cambiamenti genetici in tempo reale. In
secondo luogo, non possiamo connettere l’esperienza A alla mutazione
genetica B con qualche specificità, tranne che in pochi casi. Dovrebbe essere
possibile, per esempio, trovare alterazioni epigenetiche causate dal fumo di
sigaretta ma anche in quel caso non tutti subiscono gli stessi danni. Pur
sapendo come possono verificarsi determinati segnali chimici su certi geni,
non siamo in grado di dire come un certo tipo di esperienza esistenziale, per
esempio una carestia prolungata, causi la comparsa di segnali specifici su
geni specifici in precisi settori del genoma.
Attualmente, la sfida più grande rimane la mancata connessione tra segnali
e significato. Quando un violinista vede i «segni» che aprono la Quinta di
Beethoven – il celebre da-da-da-DAN – entra in azione muovendo il braccio
su e giù sulle corde del violino. Noi possiamo vedere il suo braccio muoversi,
ma dietro a quel movimento vi sono tanti elementi invisibili. Il violinista, che
sa leggere la musica, sa che cosa rappresentano le note, le quali non sono solo
segni casuali vergati nero su bianco su una pagina. La sua mente trasforma
quelle note in azioni altamente coordinate tra cervello, occhi, braccia e dita. E
a monte di tutto, cosa talmente ovvia da non essere detta quasi mai, vi è un
essere umano, Ludwig van Beethoven, che fu ispirato a scrivere quella
sinfonia e inventò quel motivo di quattro note celeberrimo in tutto il mondo.
Anche ammettendo tutto questo, come fa la coreografia chimica di milioni
di geni e dei loro interruttori chimicamente controllati a dare vita alla
sorprendente capacità che un cervello ha di pensare? Nessuno lo sa. Come ha
fatto questo organo a evolvere nel corso di eoni in risposta alla
programmazione di nuove mutazioni che a mano a mano si verificavano? La
rigorosa genetica darwiniana direbbe che tutte queste mutazioni si sono
verificate casualmente. Ma questa non può essere tutta la storia, visto che
modificazioni epigenetiche in risposta a determinati stili di vita possono
dettare dove, nel genoma, nascono nuove mutazioni. In questi casi anche
Darwin avrebbe dovuto ammettere che non tutte le mutazioni avvengono in
modo casuale.
Naturalmente, ai suoi tempi Darwin non poteva avere idea
dell’epigenetica. Ma che cosa sarebbe successo se ne fosse stato al corrente?
Forse ci avrebbe detto che la nostra evoluzione implica l’interazione sia di
segnali epigenetici sia di nuove mutazioni geniche. Darwin sconvolse i suoi
contemporanei escludendo Dio, o qualunque altro creatore consapevole, dalla
sua spiegazione di come era nato l’uomo. Certo, nello studio della genetica
presumere l’esistenza di un’intelligenza superiore dietro le quinte non aiuta a
capire come ci siamo evoluti, ma ora siamo in grado di postulare un principio
organizzatore intrinseco al processo evolutivo che trascende il concetto
limitato di mutazioni casuali e di sopravvivenza del più adatto. Nel costruire
un nuovo modello di evoluzione, i segnali metilici su migliaia di geni e gli
istoni loro partner, operando di concerto con il genoma, contribuirebbero a
determinare dove sorgeranno nuove mutazioni (anche influenzando la
struttura tridimensionale del DNA). Poi potrebbe subentrare la selezione
naturale darwiniana, per decidere quali nuove mutazioni persisteranno. In
questo scenario avvincente, sebbene solo speculativo, non ci limitiamo ad
attendere passivamente che si verifichino mutazioni casuali, ma influenziamo
direttamente l’evoluzione del nostro genoma in base alle scelte che facciamo.
Un nuovo protagonista: il microbioma
Mangiano troppo.
Provengono da una famiglia di mangiatori compulsivi, quindi con una
possibile connessione genetica.
Frequentano persone che mangiano troppo.
La loro alimentazione contiene troppi zuccheri raffinati, carboidrati
semplici e grassi.
Consumano poca frutta e verdura fresche o altre fonti di fibra solubile.
Mangiano alimenti preconfezionati, industriali, cibi spazzatura e da fast-
food che contengono additivi e ingredienti artificiali, nonché un eccesso
di sale e di zucchero.
Hanno sviluppato diverse cattive abitudini alimentari: mangiano
guardando la televisione, ingurgitano in fretta, spiluccano in
continuazione tra i pasti eccetera.
Hanno una vita stressante.
Attraversano una crisi personale, per esempio un licenziamento o un
divorzio.
Soffrono di uno squilibrio tra i due ormoni (leptina e grelina)
responsabili del senso di fame e di sazietà.
Il loro cervello mostra segni di infiammazione o danni all’ipotalamo, il
centro di regolazione dell’appetito.
Il loro corpo mostra segni di infiammazione cronica.
Dopo anni di dieta yo-yo hanno rinunciato a perdere peso.
Hanno recentemente smesso di fumare, e per compensare si abbuffano.
Con così tanti fattori in gioco, e spesso concomitanti, il motivo per cui
l’obesità resta difficile da curare è evidente. È un disturbo che interessa
campi disciplinari separati come quello della scienza della nutrizione,
dell’endocrinologia, della genetica, della gastroenterologia, della psichiatria e
della sociologia, ciascuno con un proprio punto di vista.
La nebulosa di cause confonde le idee. Eppure, fra tutti questi complicati
influssi c’è un filo conduttore: il microbioma, che innanzitutto digerisce il
cibo, ma esercita anche un considerevole effetto sugli ormoni, il sistema
immunitario, la risposta allo stress e l’infiammazione cronica. Nessun altro
fattore condiziona così tante funzioni dell’organismo.
La scia di indizi conduce dal cibo all’intestino e a tutto il corpo. Uno
scienziato che ha seguito questa scia è il dottor Paresh Dandona, un
diabetologo della State University di New York che, quando la curiosità l’ha
spinto a esaminare il cibo di McDonald’s, ha avuto la fortuna di scoprire un
indizio di capitale importanza. Dandona ha fatto consumare a nove volontari
normopeso una tipica prima colazione del noto fast-food: un panino con
uovo, prosciutto e formaggio, uno con salsiccia e due frittelle di patate, pari a
novecentodieci calorie. Esistono chiari motivi, oltre alle calorie, per cui una
prima colazione del genere, ad alto contenuto di grassi e di sale e quasi
totalmente priva di fibre, è decisamente malsana. Ma a questi dati Dandona
ha aggiunto qualcosa di inatteso. Lo leggiamo nel numero di aprile 2013 della
rivista Mother Jones:
I livelli di proteina C-reattiva, un indicatore dell’infiammazione sistemica, sono schizzati alle
stelle «letteralmente in una manciata di minuti. […] È stato scioccante scoprire», ricorda
Dandona, «che un semplice pasto da McDonald’s, apparentemente innocuo» – il genere di pasto
ad alto contenuto di grassi e carboidrati che un americano su quattro consuma regolarmente –
«potesse avere un effetto così evidente. Ed è durato [cinque] ore».
Sia chiaro: queste sono tutte possibilità, più che certezze. Il microbioma ha
effetti che vanno ben oltre l’assimilazione, e interessano ogni parte del corpo.
Pertanto, sono estremamente complessi e richiedono ulteriori ricerche.
Quanto si è scoperto finora, tuttavia, sembra molto promettente.
Molte malattie, per esempio, sembrano essere il risultato di una valanga di
processi nel corpo, cioè di una serie di eventi che si susseguono l’uno
all’altro creando sempre più problemi. Topi allevati senza il loro normale
bagaglio di microbi possono abbuffarsi di cibo senza prendere peso a causa di
un’assimilazione inadeguata. Ma se rimescolati ad altri topi, in modo che
acquisiscano una normale colonia microbica, per loro iniziano i guai. Le
calorie in eccesso vengono ora assimilate e immagazzinate sotto forma di
grasso. Il fegato dei topi diventa insulino-resistente, e loro diventano obesi
anche con un minore numero di calorie.
La stessa valanga di processi può essere prodotta anche attraverso le
endotossine. Un team di ricercatori belgi guidato dal professor Patrice Cani
ha somministrato ad alcuni roditori piccole dosi di endotossine, cosa che ha
reso il loro fegato insulino-resistente. Ne è seguita l’obesità, e quindi il
diabete.
Questa sequenza ha evidenziato che una permeabilità del microbioma
potrebbe essere un fattore importante nell’obesità umana, esacerbata da
un’alimentazione eccessiva e dal consumo di cibi sbagliati. «Poi è arrivata la
notizia bomba», scrive Velasquez-Manoff. «La semplice aggiunta di fibre
vegetali solubili, i cosiddetti oligosaccaridi, presenti in alimenti come le
banane, l’aglio e gli asparagi, preveniva l’intera valanga: niente endotossine,
niente infiammazione, niente diabete.»
Cani aveva trovato un mezzo di prevenzione dei danni analogo al succo
d’arancia di Dandona: le fibre. Se determinate fibre solubili raggiungono
intatte il colon, dove vive la maggior parte dei microbi digestivi, i batteri le
scompongono per nutrirsene.
Così un prebiotico, il necessario precursore di un microbioma sano, blocca
sul nascere la valanga di effetti patogeni. La fibra è non calorica, ma quando i
microbi la scompongono vengono rilasciate sostanze benefiche, tra cui
l’acido acetico, l’acido butirrico, la vitamina K e le vitamine del gruppo B.
(Vale la pena di ricordare gli esperimenti sui topi della Washington
University, in cui il trapianto di microbi da topi obesi in topi normali aveva
fatto diventare obesi anche questi ultimi, e senza che mangiassero di più.)
Ecco una sintesi delle implicazioni di questa ricerca sulla connessione
intestino-infiammazione.
La connessione intestino-infiammazione
a. «In gut we trust», gioco di parole con «In God we trust» («Confidiamo in Dio»), il motto nazionale
degli Stati Uniti. (N.d.T.)
PARTE SECONDA
Scelte di stile di vita per un benessere profondo
LA cosa sorprendente della nuova genetica è che ci ha fatto prendere
coscienza di qualcosa che diamo facilmente per scontato. Nulla è più
straordinario del corpo umano. Cambia in maniera dinamica a ogni
esperienza e reagisce con la massima precisione alle sfide della vita, se solo
glielo consentiamo. Al di là della normale salute e vitalità, il vostro corpo è la
piattaforma per un benessere profondo. Ogni cellula è pronta a questa
trasformazione alimentata dal super genoma, ma non la nostra mente.
Oggi abbiamo le conoscenze giuste e un panorama molto più ampio di
possibilità, ma dobbiamo risvegliarle. Quando ancora si ignorava che lo stile
di vita avesse ripercussioni genetiche, l’unico metodo comprovato per
garantirsi un maggiore benessere era la semplice prevenzione. Ora, dopo due
scoperte rivoluzionarie – l’epigenetica e l’importanza del microbioma – i
nostri geni possono accogliere una vasta gamma di cambiamenti positivi.
Ogni gene ha in sé il potenziale per diventare un super gene quando coopera
con le nostre intenzioni e i nostri desideri. E l’evoluzione personale richiede
necessariamente questa cooperazione, altrimenti non potremo progredire.
Ogni benessere, profondo o meno, comporta due semplici passi: primo,
scoprire ciò che è bene e ciò che è male per noi; secondo, fare ciò che è bene
ed evitare ciò che è male.
Quanto al primo passo, la mancanza di conoscenza, insieme a una serie di
convinzioni sbagliate mascherate da sapere, è stata superata con la nuova
genetica. Se sappiamo (e lo sappiamo) che solo il 5% circa, se non meno,
delle mutazioni genetiche patogene è totalmente penetrante, cioè
deterministico, disponiamo del 95% di margine di modificazione dell’attività
genica.
Il secondo passo riguarda l’applicazione pratica delle conoscenze acquisite,
ed è qui che si incontrano le maggiori sfide. La prevenzione standard, con i
suoi noti fattori di rischio e i saggi consigli, per oltre quarant’anni ha
trasmesso il medesimo messaggio a favore di una vita più salutare. Allora
perché la gente non gode di maggiore salute? I tassi di mortalità per cancro
sono diminuiti solo marginalmente dagli anni Trenta, malgrado gli eclatanti
successi dovuti alla diagnosi precoce. Il fumo resta un problema per il 25%
della popolazione, e i tassi di obesità continuano a crescere. Il diavolo, a
quanto pare, non sta nei dettagli: sta nella negazione.
Di recente Deepak ha partecipato alla conferenza di un genetista sui
benefici della meditazione in cui le novità esposte erano molto promettenti.
Lo scienziato di fama internazionale aveva imperniato tutto il suo intervento
sul fatto che la meditazione produce un’attività genica benefica attraverso
l’epigenoma (più avanti torneremo sulla relazione meditazione-genoma). Al
termine della conferenza, al momento delle domande, qualcuno tra il
pubblico ha chiesto: «Visti tutti gli straordinari vantaggi della meditazione,
lei medita?»
«No», ha risposto lo scienziato.
«E come mai?» ha domandato sconcertato l’interlocutore.
«Perché sto cercando di mettere a punto una pillola che darà gli stessi
risultati.»
Risate generali. A ogni modo, fare dello humour sulla propria inosservanza
porta agli stessi esiti di altri tipi di negazione. Motivare le persone a fare ciò
che è bene per loro e a rifuggire da ciò che invece è male dev’essere
l’obiettivo principale del medico. Tutti lottiamo contro quella voce interiore
che ci dice: «Ah, comincio domani», «È troppo faticoso!» «Massì, che male
vuoi che mi faccia?» «Non fa poi tutta questa differenza…» E al centro di
queste considerazioni può esserci qualunque cosa sapete che andrebbe
cambiata: una migliore alimentazione, regolare esercizio fisico,
provvedimenti per ridurre lo stress e altro ancora. A volte la negazione non
ha neppure bisogno di voci che inventino scuse. Una sorta di comoda
amnesia ci coglie quando siamo tentati, per pura golosità e senza neppure
avere fame, da una fetta di torta al cioccolato, o quando scegliamo di
guardare la televisione anziché fare una salutare passeggiata dopo cena.
Ora però che ne dite di fare un rapido controllo della vostra condizione
attuale? Di seguito trovate un quiz diviso in due parti: la prima verte sul fare
ciò che è bene per il genoma, la seconda sull’evitare ciò che è male. Cercate
di compilarlo nel modo più onesto possibile annotando su un quaderno a
parte le risposte: saranno un’utile preparazione alle scelte di stile di vita
esposte in questa parte del libro.
Iniziamo con le abitudini quotidiane che inviano al vostro genoma
messaggi positivi.
QUIZ (PARTE 1): LA VITA CHE I VOSTRI GENI VORREBBERO
Annotate a parte ogni voce che è quasi sempre vera per voi, cioè il 90% delle volte.
Lascio che la mia vita scorra naturalmente, senza una tabella di marcia frenetica e continui
doveri.
Di notte riposo a sufficienza (almeno otte ore) e mi sveglio riposato.
Seguo una routine quotidiana regolare ma non rigida.
Faccio attenzione a mantenere equilibrata la mia alimentazione, consumando cibi di tutti i
principali gruppi di alimenti sani.
Evito cibi, aria e acqua tossici, compresi gli alimenti pieni di ingredienti artificiali.
Non salto i pasti.
Non mangio fuori pasto.
Prendo provvedimenti per ridurre al minimo lo stress e gestire al meglio quello inevitabile.
Mi concedo un po’ di tempo ogni giorno per lasciare che il mio corpo si resetti.
Medito.
Faccio yoga.
Mangio moderatamente e mantengo un peso salutare.
Evito lunghi periodi di sedentarietà, muovendo il mio corpo almeno una volta all’ora.
Non fumo.
Bevo alcolici con moderazione, o non li bevo affatto.
Evito la carne rossa, e se la mangio lo faccio raramente e con moderazione.
Faccio del mio meglio per mangiare solo cibi biologici.
Sono fisicamente attivo.
Conosco i pericoli dell’infiammazione cronica e adotto misure per evitarli.
Attribuisco un alto valore al mio benessere e mi prendo cura quotidianamente di me stesso.
Ha smesso di bere del tutto. Non è stata una scelta difficile perché si
sentiva talmente meglio che non aveva bisogno dell’alcol (e dei suoi
effetti infiammatori) come «automedicazione». Allo stesso tempo ha
abbandonato il sigaro che occasionalmente fumava con i colleghi: la
tossicità del tabacco era fin troppo evidente al suo naso e al suo palato,
ora che questi avevano riacquistato la loro sensibilità. Smettere di
fumare è stata una naturale conseguenza della migliore alimentazione.
È passato interamente a cibi integrali biologici. Non provava più alcuna
attrazione per gli alimenti con additivi e conservanti, potenzialmente
infiammatori.
Ha ridotto il consumo di sale, una delle voglie che spuntini e cibo
spazzatura rafforzano pesantemente. È stata una scelta facile perché la
sua nuova dieta saziante a base di alimenti integrali lo aveva liberato dal
bisogno di spuntini.
Dopo essersi documentato sui possibili vantaggi dell’assunzione di un
integratore probiotico, se n’è autoprescritto uno con l’intento di
migliorare il tipo di batteri che popolavano il suo microbioma.
1. Alimentazione
2. Stress
3. Esercizio fisico
4. Meditazione
5. Sonno
6. Emozioni
La digestione è migliorata.
L’imbarazzo e/o il bruciore di stomaco sono diminuiti.
Stitichezza o diarrea non sono più un problema.
Mi sento più leggero.
Avverto un crescente senso di pace e tranquillità interiore.
Ho le idee più chiare, sono più concentrato.
Perdo peso senza essere a dieta.
I segni dell’invecchiamento rallentano.
I segni del tempo addirittura si invertono, mi sento più giovane.
La vita è meno stressante, e sono grado di gestire meglio lo stress.
Il mio umore è stabile, non più altalenante.
Provo un senso di piacevole benessere.
Piccoli dolori e disturbi si attenuano o svaniscono.
Gli attacchi di fame diminuiscono o cessano del tutto.
Si rinstaura un naturale ciclo di fame e sazietà.
Il mal di testa diminuisce o scompare.
L’alito cattivo diminuisce o scompare.
Il sonno diventa regolare e ininterrotto.
Le allergie migliorano.
Gli spuntini non sono più una tentazione.
La voglia di zuccheri diminuisce.
La voglia smodata di sapori che danno dipendenza (dolce, acido, salato) diminuisce.
Il consumo di alcol diminuisce.
Il consumo di tabacco diminuisce.
ORMAI non è più una novità: il più grande nemico della dieta è
l’infiammazione. I ricercatori ne hanno rintracciato segnali ovunque, dalle
malattie croniche all’obesità, dalla sindrome della permeabilità intestinale
alla malattia mentale. Un’alimentazione squilibrata e ricca di cibi grassi o
lavorati (come quella tipica americana) tende a far aumentare
l’infiammazione, quindi un cambiamento s’impone. E questo cambiamento
sarà drastico per chi vive di cibo spazzatura e fast-food. Ma anche l’eccesso
di zuccheri, che rientra in quasi tutte le abitudini alimentari moderne, è tra i
primi sospettati.
L’evoluzione non ci ha preparati a consumare più di 45 chili di zucchero
raffinato all’anno: anzi, non è chiaro se ci ha preparati a consumarlo in
assoluto; e lo stesso vale per altri dolcificanti industriali più economici come
lo sciroppo di mais, sempre più spesso presente negli alimenti lavorati.
L’infiammazione è indispensabile al processo di guarigione, e il sistema
immunitario fa affluire sostanze chimiche note come radicali liberi per
inondare l’area del corpo ferita o malata. Quasi tutti i sintomi dell’influenza,
per esempio, come la febbre e i dolori articolari, non vengono dal virus
influenzale ma dagli sforzi che il corpo compie per guarire, e
dall’infiammazione che ne consegue. Da questo punto di vista,
l’infiammazione è nostra amica. Tuttavia può tradirci senza che ce ne
accorgiamo.
Potremmo avere un’infiammazione cronica senza saperlo, perché a
differenza delle zone tumefatte e arrossate che compaiono sulla pelle quando
è infiammata, i segni di un’infiammazione interna passano spesso inosservati.
Di solito quando il sistema immunitario è lievemente compromesso non si
avverte nessuna sensazione, e alcuni segni di infiammazione, come i dolori
articolari, vengono spesso attribuiti ad altre cause. Quello che suggeriamo è
adottare scelte facili che abbiano un effetto benefico in questo senso, come
un’alimentazione antinfiammatoria, che permette alla maggior parte delle
persone di constatare subito dei risultati.
LEGGERE IL MENU
Il menu delle scelte è suddiviso in tre parti, a seconda del livello di
difficoltà e di provata efficacia.
Parte 1: scelte facili
Per prime vengono le scelte che chiunque può mettere in pratica. Iniziando
con queste, getteremo le fondamenta della nostra piramide. Per quanto
allettante possa sembrare fare più di una scelta facile alla volta, è bene
resistere alla tentazione. Nel corso di un anno faremo cinquantadue
cambiamenti nel nostro stile di vita, quindi non c’è nessun bisogno di partire
in quarta.
Parte 2: scelte più difficili
Sono scelte, queste, che possono opporre una certa resistenza, o che
sappiamo essere troppo difficili da mantenere senza ricadute. Non c’è
problema: potranno aspettare finché avremo adottato tutte quelle facili
possibili. Per alcuni, invece, risulteranno facili, perché ciascuno di noi parte
da un punto diverso. A ogni modo, per la maggior parte delle persone le
scelte più difficili stanno più in alto sulla piramide. Prima di affrontarle è
necessario sentirsi a proprio agio, altrimenti si rischia di introdurre un
cambiamento che poi non si riesce a mantenere nel lungo termine.
Parte 3: scelte sperimentali
Si tratta di cambiamenti che esercitano un forte fascino e che hanno dietro
ricerche interessanti, ma che per ora costituiscono indubbiamente una
posizione di minoranza. Le mode alimentari vanno e vengono. La ricerca
odierna domani verrà modificata, se non addirittura confutata. Prima di
adottare una scelta sperimentale, è bene leggere con attenzione le nostre
avvertenze e fare ricerche in proposito, in modo che un’eventuale scelta sia la
più informata possibile. In ogni caso, nessuna di queste scelte sperimentali
dovrebbe mai sostituire quelle delle parti 1 e 2.
Gli acidi grassi omega-3 presenti nei pesci grassi e nell’olio di pesce.
Per quelli allarmati dai metalli pesanti potenzialmente presenti nell’olio
di pesce, una fonte alternativa di omega-3 è l’olio di semi di lino
biologico, accompagnato da una manciata di noci al giorno; per evitare
la contaminazione da metalli pesanti, tuttavia, basta acquistare l’olio di
pesce purificato.
I micronutrienti antiossidanti contenuti in mirtilli, cioccolato fondente e
tè verde, per combattere i danni prodotti dai radicali liberi al cervello.
Le vitamine del gruppo B, senza mai superare la dose giornaliera
consigliata.
Una dieta mediterranea (vedi).
Alimenti antinfiammatori
Aglio
Amarene
Barbabietole
Cereali integrali
Frutta con il guscio
Frutti di bosco
Latticini a basso contenuto di grassi
Micoproteine (o proteine fungine, cioè derivate dai funghi)
Olio d’oliva
Peperoni (inclusi i peperoncini: il piccante non è indice di
infiammazione nel corpo)
Pesce grasso e olio di pesce
Pomodori
Semi oleosi
Soia (compreso il tofu e il latte di soia)
Tempeh
Verdure a foglia verde scuro
Zenzero e curcuma
Avocado
Carote
Cetrioli
Crocifere (cavoli, cavolfiori, broccoli, cavolo cinese)
Curry in polvere
Petto di tacchino biologico (in alternativa alle carni rosse)
Rape
Salsa chili
Zucchini
Inutile dire che questi sono tutti cibi sani, e farne un pilastro della propria
alimentazione non può che essere benefico. Tuttavia la scienza non si è
ancora pronunciata in modo definitivo sull’effetto antinfiammatorio di questi
alimenti sull’organismo, e in particolare sul genoma, l’epigenoma e il
microbioma. Ma il fatto che il nostro super genoma risponda a ogni
esperienza induce a ipotizzare che ciò che mangiamo abbia conseguenze a
livello genetico. Se così tante malattie sono collegate a una cattiva
alimentazione, allora un legame genetico deve esistere, quindi il nostro parere
ultimo è che una buona alimentazione sia un modo efficace per promuovere
una migliore attività genica.
Viceversa, esistono anche alimenti che aumentano l’infiammazione, come
riportato nello stesso bollettino della Harvard Medical School.
Non seguire subito una dieta ipocalorica. Lasciare il taglio delle calorie
per la fine del programma di perdita di peso.
Concentrarsi prima sui semplici passi per ridurre l’infiammazione.
Fare uso di alimenti pre e probiotici.
Allo stesso tempo, adottare scelte facili per aumentare l’attività fisica.
La mossa più importante è smettere di essere sedentari e muoversi un
po’ durante tutto l’arco della giornata.
Concedersi un buon sonno, dal momento che dormire male scombussola
gli ormoni che presiedono al senso di fame e di sazietà.
Fare scelte facili relative alle emozioni, perché la fame nervosa dovuta a
fattori emotivi è spesso una componente dell’aumento di peso.
Dopo avere seguito i passi di cui sopra per almeno tre-quattro mesi,
valutare se si sta perdendo peso: due etti circa alla settimana è da
considerarsi un traguardo molto soddisfacente; un chilo al mese è un
successo. Se si è perso tanto, continuare a fare quello che si sta facendo
senza tagliare le calorie.
Se non vi è alcuna perdita di peso, e se non costa fatica, prendere in
considerazione l’eventualità di tagliare duecento calorie dalla propria
alimentazione quotidiana. Questa scelta, come le altre facili del
programma, dovrà essere una permanente.
Se risulta faticoso tagliare le calorie, continuare con gli altri
cambiamenti e riverificare il proprio peso due mesi dopo. Solo allora
riconsiderare un possibile taglio delle calorie.
Cuscus
Farina
Farina di Graham
Farro
Fu (comune nei cibi asiatici)
Gliadina
Grano spezzato (bulgur)
Kamut
Mazzot (il pane non lievitato ebraico)
Pane, pasta e prodotti da forno a base di frumento (o crusca di frumento,
germe di grano, amido di frumento)
Semola di grano duro
Semolino
Il glutine può anche comparire come ingrediente nel malto d’orzo, nel
brodo di pollo, nell’aceto di malto, in alcuni condimenti per l’insalata, nella
salsa di soia e in molti altri condimenti e miscele di spezie. Una dieta senza
glutine richiede un’attenzione e una dedizione quasi maniacali. Per ragioni di
completezza, elenchiamo di seguito i cereali e altri alimenti a questi
accomunati consentiti in un regime gluten free.
Amaranto
Arrowroot
Grano saraceno
Manioca
Miglio
Quinoa
Riso
Sorgo
Soia
Tapioca
Naturalmente, potete anche soltanto limitare il consumo di cibi contenenti
glutine anziché eliminarli del tutto. Noi, per esempio, ci siamo così incuriositi
da decidere di provare a eliminare il glutine dalle nostre alimentazioni, e
siamo entusiasti dei risultati, poiché abbiamo constatato un aumento di
energia, un riequilibrio dell’appetito e anche una certa perdita di peso. Va
detto, tuttavia, che a oggi manca una conferma scientifica della sensibilità al
glutine come problema che affligge milioni di persone.
Se anche voi siete incuriositi, provate a fare un esperimento di una
settimana: sostituite il frumento e i suoi tanti derivati con il riso e avrete la
base alimentare di miliardi di asiatici. Evitate la pasta e la stragrande
maggioranza dei prodotti da forno: non è un grosso sacrificio, soprattutto ora
che sul mercato si trovano facilmente gli stessi prodotti senza glutine.
Probabilmente i risultati del vostro esperimento saranno abbastanza buoni,
dal momento che un’alimentazione priva di pasta, pane, torte, dolci e biscotti
è già sana di per sé, anche a prescindere dalla controversa questione della
sensibilità al glutine.
La dieta vegetariana è da tempo considerata una sana alternativa, e noi
l’abbiamo adottata (Rudy è vegetariano fin dai tempi dell’università, ed è
pienamente soddisfatto della sua scelta di vita). In India la casta dei bramini,
o sacerdoti, non mangia carne per tradizione, e oggi per molti occidentali
quella del vegetarianismo è una scelta etica: porre fine alle sofferenze degli
animali.
Per molti altri, tuttavia, passare a questo regime alimentare è piuttosto
difficile. Essendo naturalmente ricca di fibre, la dieta vegetariana è
verosimilmente antinfiammatoria e benefica per il microbioma. Allora
perché, viene da chiedersi, i vegetariani a vita non sono esenti da malattie
croniche? In realtà molti lo sono. I dati più recenti mostrano che i vegetariani
sono a minor rischio di:
Cardiopatie
Cancro al colon, alle ovaie e alla mammella
Diabete
Ipertensione
Obesità
Come possiamo notare, gli oli polinsaturi, che sono una parte importante
dell’ormai classica prevenzione di numerose malattie, presentano gravi
inconvenienti sotto il profilo infiammatorio. L’unico olio vegetale a basso
contenuto di omega-6 e alto contenuto di omega-3 è l’olio di semi di lino. Gli
oli di cartamo, colza e oliva non sono particolarmente ricchi di omega-3, ma
sono i più bassi in omega-6 tra quelli vegetali più venduti (olio d’oliva al
primo posto).
A complicare ulteriormente le cose, i grassi saturi «cattivi» come strutto,
burro, olio di palma e di cocco sono a basso contenuto di omega-6. Questo è
uno dei motivi per cui i consigli nutrizionali standard hanno iniziato a
comprendere un equilibrio tra grassi saturi e polinsaturi. Ma i veri colpevoli
non sono tanto gli alimenti che consumiamo al loro stato naturale, bensì
quelli trasformati dall’industria alimentare. L’olio di soia è a buon mercato e
facilmente disponibile, di conseguenza si presta a essere impiegato in molti
alimenti confezionati. Il manzo cresciuto a cereali in allevamenti intensivi per
ottenere la massa ottimale nel più breve tempo possibile ha tassi di omega-6
molto più alti del manzo nutrito a erba (per non parlare del largo uso di
antibiotici e ormoni nel settore delle carni bovine e dei prodotti lattiero-
caseari). Ad alto tasso di omega-6 sono anche la carne di maiale e di pollo
allevati a cereali in allevamenti industriali, nonché le uova sempre da
allevamenti industriali.
Per questo una delle scelte più difficili che proponiamo è quella di passare
al manzo alimentato a erba e a polli e uova da allevamenti biologici in cui gli
animali siano allevati a terra con possibilità di uscire all’aperto (ma allevati a
terra non basta come garanzia, dal momento che potrebbero ancora essere
alimentati con mangimi tradizionali). Ciò che rende questa scelta difficile è il
fatto che costa di più e che i generi alimentari di questi tipo non sempre si
trovano nei supermercati.
A ogni modo, non abbiamo sollevato la questione dello squilibrio di
omega-6 per allarmarvi, ma solo per illustrare la complessità dell’interazione
tra gli alimenti e l’organismo. Riequilibrare gli acidi grassi nella propria dieta
vuol dire, in fin dei conti, adottare alcuni semplici accorgimenti. A questo si
aggiunge la raccomandazione generale di orientarsi, come già detto, verso
una dieta a grandi linee vegetariana, anche se non strettamente tale.
Sono questi i tre fattori che di solito stanno alla base dello stress cronico.
Ovviamente, colpiscono in modo molto più drammatico un soldato in prima
linea che noi sul divano di casa. Essere bombardati letteralmente e
ripetutamente, in momenti imprevedibili e senza la possibilità di fermare
l’artiglieria nemica, moltiplica infinite volte il senso di pericolo rispetto a
quanto possa fare un cane fastidioso. Ma la risposta allo stress esiste per
proteggerci proprio dal pericolo, e se il cervello «superiore» ha la capacità di
comprendere la differenza tra un cane che abbaia e la guerra di trincea, il
cervello «inferiore» è bloccato al livello in cui si trovava milioni di anni fa e
segnala al sistema endocrino di secernere gli ormoni dello stress, non a
pioggia ma come sotto il controllo, per così dire, di un reostato. In altre
parole, lo sgocciolio della risposta a uno stress di basso livello è distruttivo
come una tortura dell’acqua cinese, e per la stessa ragione. Una serie di
piccoli stress apparentemente innocui può portare, con il tempo, a un collasso
totale.
L’obiettivo di tutti dovrebbe essere quello di prevenire i fattori aggravanti
dello stress. È questa, a nostro avviso, la vera gestione dello stress. Nel menu
di scelte riportato di seguito, molti fattori nocivi non possono essere eliminati
del tutto, perché la vita moderna non lo consente. Tuttavia è possibile favorire
le reazioni del corpo inserendo messaggi migliori nel ciclo di feedback. Dopo
avere discusso delle varie scelte e del loro significato, passeremo in rassegna
gli esiti delle più recenti ricerche scientifiche sulla gestione dello stress.
LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):
Chiedere agli altri come stanno e stare a sentire davvero ciò che
rispondono.
Non pretendere che si faccia sempre a modo mio.
Mostrare sempre rispetto per tutti. Mai sminuire il prossimo o farne un
capro espiatorio.
Mai criticare qualcuno in pubblico.
Accettare suggerimenti da più persone possibile.
Lodare e apprezzare il lavoro altrui.
Essere leale per ottenere lealtà.
Non spettegolare né parlare male alle spalle altrui.
Attendere di essere calmo prima di affrontare una situazione critica.
Concedere a collaboratori e dipendenti spazio sufficiente per prendere le
loro decisioni.
Essere aperto a nuove idee, a prescindere da chi le propone.
Non creare cricche che escludano gli altri.
Affrontare le tensioni a mano a mano che si presentano, anziché negarle
o sperare che si risolvano da sé.
Non essere un perfezionista sempre insoddisfatto.
Trattare alla pari entrambi i sessi.
Se avete già adottato in tutto o in parte i comportamenti qui elencati,
complimenti: siete già dei guaritori dello stress. Ma la maggior parte di noi
deve fare uno sforzo cosciente per cambiare, poco o tanto, il proprio modo di
agire. Nessuno di noi viene sottoposto a esperimenti di laboratorio sullo
stress, ma la nostra vita è di fatto il laboratorio in cui affrontiamo una miriade
di stress diversi. Sta a noi diventarne consapevoli, e quindi comprendere il
ruolo che svolgiamo in un mondo oberato di doveri, pressioni e crisi.
L’individuo è la vera fonte di guarigione, e questa verità è sempre attuale.
Esercizio fisico
Trasformare i buoni propositi in azioni concrete
Queste sono tutte scelte moderne, e la tendenza non pare volersi invertire.
Finché questo stato di cose perdurerà, gli inconvenienti di una vita sedentaria,
come l’aumento dell’obesità e del diabete di tipo 2, continueranno ad
affliggere la società, mentre i benefici dell’attività fisica – salute
cardiovascolare, prevenzione di alcuni tipi di tumori e miglioramento dello
stato mentale – continueranno a essere opportunità mancate. Nel 2013 solo il
20% degli americani adulti praticava la quantità raccomandata di esercizio
regolare, che è di due ore e mezzo di attività aerobica moderata alla
settimana, o la metà della stessa attività ma vigorosa. Nella popolazione tra i
diciotto e i ventiquattro anni praticava esercizio fisico il doppio delle persone
rispetto agli over sessantacinque (31% contro 16%), benché sia evidente che i
due gruppi che più ne beneficiano sono i giovanissimi e gli anziani.
Per i nostri antenati il riposo era un lusso, invece per la maggior parte di
noi è un lusso trovare il tempo per andare in palestra. Ai primi del Novecento
l’80% circa delle calorie necessarie per gestire una fattoria venivano ancora
dall’agricoltore e dai suoi muscoli, malgrado l’avvento delle prime macchine
agricole e l’ampio uso del bestiame per trainare aratri, mietitrici e carri
agricoli.
È su questo modello di vita, basato su un’attività fisica dura e costante, che
ci siamo evoluti. I nostri corpi sono predisposti a un’attività fisica ben più
elevata di quella che facciamo oggi. Ci sono prove che i cacciatori-
raccoglitori primitivi arrivavano ai settant’anni di vita. Ad accorciargliela,
quando succedeva, erano le condizioni esterne – malattie, mortalità infantile,
esposizione agli elementi – non un’intrinseca fragilità del corpo.
La maggior parte di noi non è costretta a cacciare, raccogliere o coltivare i
frutti della terra, issare il fieno con il forcone nel fienile o fare il pane
impastandolo con le mani, e l’elenco delle attività essenziali che non
facciamo più potrebbe continuare. E per quanto martellati dalle
raccomandazioni sull’alimentazione e l’esercizio fisico, raramente
traduciamo i buoni propositi in azioni concrete, anche perché nel nostro
elenco delle priorità abbiamo messo la gestione dello stress prima
dell’esercizio fisico.
A ogni modo siamo realisti, e sappiamo che non sarà mai un rimprovero a
far cambiare a una persona le sue abitudini. Il senso di colpa porta solo a
inutili iscrizioni in palestra, né sarà l’equilibrio tra dolore e piacere a
motivare. Chi ama fare attività fisica corre o pratica qualche sport fin
dall’infanzia. Il suo corpo è abituato, e il ciclo di feedback che produce in lui
il cosiddetto sballo del corridore, o la piacevole stanchezza che segue un
allenamento, gli procura solo piacere. Ma per chi non è abituato a fare
esercizio fisico è vero esattamente il contrario: l’esercizio ha sul suo corpo lo
stesso effetto del lavoro fisico, (inizialmente) affatica e rende dolenti i
muscoli. Il corpo di chi non fa esercizio fisico è abituato alla sedentarietà, che
ha effetti negativi per lo più sul lungo periodo, perché possono volerci anni
prima che cardiopatie, diabete di tipo 2 e sovrappeso inizino a manifestarsi.
Il nostro obiettivo è dunque offrire scelte facili capaci di modificare il ciclo
di feedback, ovvero fare in modo che un minimo di attività porti a
desiderarne di più. I cambiamenti, però, vanno mantenuti a vita. Essere attivi
sporadicamente, con in mezzo lunghi periodi di inattività, non è salutare.
L’adattamento subentra naturalmente, se il lavoro su di sé è regolare e
costante. Meglio fare una rampa di scale ogni giorno che spalare la neve dal
vialetto di casa solo qualche volta d’inverno.
LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):
LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):
Parte 1: scelte facili
Parte 2: scelte più difficili
Parte 3: scelte sperimentali
Affaticamento eccessivo
Alimentazione cattiva o irregolare
Ambiente circostante ostile
Ansia e depressione
Dolori e fastidi fisici
Eccitazione e agitazione
Freddo
Preoccupazioni
Restare alzati fino a tardi
Rumore eccessivo
Sofferenza psichica
Stress
Turbamenti emotivi
LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):
Essere regolari nella routine di sonno: coricarsi e alzarsi ogni giorno alla
stessa ora.
Togliere il televisore dalla camera da letto e fare di questa stanza un
luogo consacrato esclusivamente al sonno.
Risolvere con l’aiuto di uno specialista problemi di ansia, apprensione,
depressione.
Non portare a casa il lavoro dall’ufficio (nemmeno col pensiero).
Farsi fare un massaggio dal partner prima di coricarsi.
Non bere alcolici la sera.
Acquistare un materasso più confortevole.
Temo il sopraggiungere della notte, certo che anche questa volta non
riuscirò ad addormentarmi.
Provo avversione per le lenzuola e la camera da letto in generale.
Mi preoccupo di non riuscire a dormire nemmeno un minimo.
Mi rigiro frustrato nel letto.
Sono ossessionato dall’idea di non prendere sonno.
Mi sento una vittima.
Attribuisco la mia insonnia a qualunque contrarietà o seccatura.
Faccio le ore piccole perché tanto so che non riuscirei a dormire.
Mi alzo nel cuore della notte per leggere o guardare la televisione.
Meditazione
Amore e affetto
Un lavoro soddisfacente
Sbocchi creativi
Uno o più hobby
Successo
Essere apprezzati
Essere altruisti
Cibo, acqua, aria sani
Obiettivi a lungo termine
Forma fisica
Routine regolare senza stress
Una vita ricca di questi elementi non può che essere felice. Viceversa,
vanno evitati quelli che il super genoma interpreta come negativi.
Stress
Relazioni «tossiche»
Un lavoro noioso e insoddisfacente
Essere ignorati o sottovalutati
Distrazioni continue durante la giornata
Abitudini sedentarie
Convinzioni negative e pessimismo
Alcol, tabacco e droghe
Mangiare quando si è sazi
Alimenti lavorati e cibo spazzatura
Malattie fisiche, specie se dolorose
Ansia e preoccupazione
Depressione
Amici infelici
LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):
Sto già perseguendo questo obiettivo, anche se per ora occupa solo una
parte del mio tempo?
Questa attività mi gratifica?
Mi viene facile e naturale?
Mi dà nuove energie, anziché esaurirmi?
Mi fa sentire di più la persona che vorrei essere?
Sono nelle condizioni giuste per perseguirlo?
Sento che mi permetterà di crescere?
Queste sette domande sono fondamentali per trovare la via della felicità,
cioè il vostro dharma. Se avete risposto di sì a tutte, siete esattamente sul
cammino che vi porterà al successo. Avrete ancora tante cose da imparare e
competenze da perfezionare, ma avete compiuto un passo di grande valore,
perché avete fatto del successo una realtà viva, qualcosa che vi permetterà di
essere felici oggi e domani, non in un futuro remoto.
Le ragioni scientifiche per cambiare
La nuova genetica arriva giusto in tempo, perché oggi da un punto di vista
psicologico la felicità è a un bivio. Storicamente, psicologia e psichiatria
hanno tentato di guarire i disturbi mentali, cioè si sono occupate di trovare
rimedio all’infelicità. Ma oggi si sente spesso parlare di psicologia positiva,
un termine che suona decisamente ottimista. In realtà gli esiti più
pubblicizzati della psicologia positiva sono alquanto pessimistici. Eccone
alcuni:
Le persone non sono molto brave a prevedere che cosa potrà renderle
davvero felici. Dopo avere conquistato una maggiore ricchezza, una casa
più bella, un nuovo partner, un lavoro migliore, non sono quasi mai
felici come avevano sperato.
La felicità tende a essere fortuita e di breve durata. Magari ci capita
un’esperienza che per un po’ ci rende felici, ma di lì a poco finisce con
l’apparirci noiosa e superata.
La felicità permanente è una chimera. Se uno è proprio fortunato e nella
vita gli va tutto liscio, potrà al massimo raggiungere una sorta di
appagamento permanente, che però è ben diverso da una felicità
permanente.
Dentro ognuno di noi c’è un livello stabile e predeterminato di felicità
che possiamo modificare solo temporaneamente. Dopo ogni esperienza
intensa, positiva o negativa, nel giro di sei mesi circa torniamo a quel
livello, e di solito è inutile tentare di cambiarlo.
Come per il controllo degli impulsi, le persone con un alto QE non cercano
la gratificazione immediata. E non per motivazioni esclusivamente razionali,
o almeno non del tutto. Sentono che è meglio per loro rimandare il piacere al
momento opportuno, e lo rimandano. Sono abbastanza flessibili da non
sentire il bisogno di stabilire regole ferree. La flessibilità è un’altra
caratteristica di chi ha un QE elevato. Di fronte a una tentazione passeggera,
queste persone non dicono: «Cederò solo stavolta. Che c’è di male?» che è
una pura e semplice razionalizzazione. Dicono piuttosto: «È davvero questa
la cosa giusta da fare? Aspetta un attimo, vediamo…»
Che cosa fare, dunque? Analizzate la vostra vita in maniera obiettiva e
chiedetevi se vi create problemi cercando gratificazioni immediate. Buttate i
vostri soldi in acquisti inutili? Il vostro armadio è pieno di vestiti mai
indossati? Gli acquisti impulsivi stanno erodendo il vostro conto in banca?
Avete la dispensa piena di prodotti che non consumate?
Se constatate di avere un problema, affrontatelo gratificandovi in un altro
modo. Quando per esempio siete tentati dall’ennesimo paio di scarpe, o da un
attrezzo ginnico all’ultima moda che finirà soltanto per prendere polvere,
prendete carta e penna e annotate qualcosa di meno immediato ma che potrà
darvi ancora più piacere. Anziché acquistare le scarpe potreste risparmiare
per una vacanza. Invece di comprare quel costoso attrezzo potreste iscrivervi
a un corso di tennis. Prefigurando una gratificazione differita, quella
immediata perde attrattiva.
3. Capacità empatiche
Percepire lo stato d’animo altrui viene spontaneo. È una capacità che
abbiamo tutti fin dall’infanzia, quando il nostro stato d’animo dipendeva
fortemente, se non esclusivamente, da quello di nostra madre. La famiglia è il
contesto in cui tutti apprendiamo i capisaldi dell’educazione emotiva, e alcuni
bambini sono più fortunati di altri, perché non imparano quelle cattive
abitudini che vanno poi disimparate.
Se non riuscite facilmente a capire ciò che provano gli altri, probabilmente
da qualche parte lungo il vostro percorso esistenziale questa capacità innata si
è come bloccata. O magari avete avuto un modello che non ha saputo
motivarvi nella direzione giusta, per esempio un padre assente e distaccato.
Oppure avete maturato la convinzione che le emozioni non sono un aspetto
positivo della vita. In ogni caso, non sapete più immedesimarvi nel prossimo.
Le persone con un elevato QE capiscono subito cosa provano gli altri. Un
buon medico, per esempio, è capace di mettere i pazienti a proprio agio, e un
venditore di attrarre clienti perché tiene in considerazione le loro esigenze.
Nessuno di noi si fa granché ingannare dalla falsità e dall’ipocrisia, perché
abbiamo antenne emotive sensibilissime. E chi ha un alto QE trova
particolarmente facile leggere nell’intimo del prossimo e capire, al di là delle
parole, ciò che prova realmente.
Che cosa fare, dunque? Entrare in empatia con il prossimo è qualcosa che
si deve volere. Con le persone che amiamo è facile; quando i nostri figli
soffrono, anche noi soffriamo. Anche con chi ci piace è abbastanza semplice.
Dunque, sapendo di custodire in noi il seme dell’empatia, possiamo scegliere
di farlo sbocciare.
Provate ad ascoltare un estraneo o un collega come se fossero amici.
Notate la loro reazione, e calibrate la vostra di conseguenza. Se entrare in
empatia con il prossimo vi mette a disagio, da qualche parte dentro di voi c’è
resistenza. Forse temete che i problemi degli altri vi carichino di
responsabilità. Potreste sentirvi in dovere di aiutarli o di preoccuparvi per
loro.
L’intelligenza emotiva sta proprio nell’accettare questi ostacoli e saperli
gestire. Aiutare gli altri è bello, ma non è detto che si debba aiutare tutti. È
empatico stare ad ascoltare la storia di un’altra persona, ma non troppe volte.
Appena inizierete a fare queste distinzioni, vi accorgerete che l’empatia è un
dono meraviglioso, non qualcosa da cui rifuggire o di cui preoccuparsi. C’è
una giusta via di mezzo tra un cuore troppo tenero e uno troppo duro. Dovete
solo trovare l’equilibrio che funziona per voi.
4. Accettazione emotiva di sé
Essere totalmente aperti alle proprie emozioni è raro. Ognuno di noi desidera
essere visto nella sua luce migliore, quindi nascondiamo le nostre emozioni
negative persino a noi stessi. Ma c’è un’altra forza dentro di noi che si
oppone a questo desiderio, una voce che ci ricorda colpe, vergogne e cattive
azioni. Ripetersi continuamente quanto si è bravi è tanto lontano dalla realtà
quanto dirsi ogni momento che si è cattivi. Le persone con un elevato QE non
temono di confrontarsi con il meglio e con il peggio di se stesse, e di
conseguenza si accettano molto più degli altri.
Considerato quanto ci mettiamo sulla difensiva nei confronti degli aspetti
di noi stessi che ci suscitano colpa e vergogna, accettarci non è facile né
immediato. Amare noi stessi è l’obiettivo da raggiungere. Anche riuscire a
dire: «Merito di essere amato» può risultare molto difficile. Non abbiamo
ricevuto abbastanza amore da bambini, ed è proprio da questo che
acquisiamo il nostro senso del sé.
Bisogna prendere coscienza di due verità. Primo, provare un’emozione che
turba non equivale a metterla in atto. Invece, vergogna e senso di colpa non
vedono alcuna differenza. Vorrebbero punirvi anche solo per avere formulato
un certo pensiero. In realtà i pensieri vanno e vengono, sono fenomeni
transitori, non aspetti del vostro sé profondo.
Secondo, non siete la stessa persona che eravate in passato. Ma vergogna e
senso di colpa lo ignorano: ribadiscono costantemente il messaggio che non
siete cambiati e non cambierete mai. In realtà siete in costante cambiamento.
Sta a voi rafforzare la persona che siete oggi o quella che eravate un tempo.
Le persone con un alto QE acquistano vitalità nell’essere se stesse qui e ora.
Non si trascinano dietro dei sé morti e sepolti nel passato.
Che cosa fare, dunque? Ogni volta che vi coglie una sensazione di colpa o
di vergogna relativa a un accadimento del passato, fermatevi e ditevi: Io non
sono più quella persona. A volte questi pensieri sono ricorrenti e molto
intrusivi. In tal caso cercate un angolo tranquillo e sedetevi. Chiudete gli
occhi, fate un paio di respiri profondi e concentratevi. Non intendiamo
minimizzare il fatto che le ferite del passato possano avere un forte influsso
sul presente. Il punto è rendersi conto di quanto sia sbagliato farsi
condizionare da vecchie ferite per affrontare nuove situazioni. Tenendo a
mente questo, potrete progredire giorno dopo giorno verso l’accettazione di
voi stessi.
Vivere pienamente nel momento presente è il modo migliore per riuscire
ad accettarsi. E viceversa, più ci si accetta, più intenso diverrà il qui e ora.
Fate il possibile affinché la verità intervenga a vostro vantaggio.
5. Consapevolezza delle emozioni
Tutte le azioni hanno delle conseguenze, comprese le emozioni. Per il nostro
cervello, infatti, produrre le sostanze neurochimiche che provocano rabbia,
gioia, paura, fiducia eccetera è un’azione. Tutto il corpo reagisce a questi
messaggi chimici. Le emozioni, quindi, non vanno viste come qualcosa di
passivo. Persino uno stoico che reprime ogni emozione sgradita fa qualcosa
di attivo. In questo libro ci siamo concentrati su scelte olistiche che arrechino
benefici sia alla mente sia al corpo usando come veicolo il super genoma.
Quando ci rendiamo conto che le emozioni negative ci danneggiano, il
nostro punto di vista cambia. Non è più scontato attaccare gli altri, provare
invidia, agire per ripicca o tramare vendetta. Ciascuna di queste reazioni ha
ripercussioni su di noi, anche a livello genetico. Un vero benessere non è
possibile, se è minacciato dalla negatività. Le persone con un elevato QE
intuiscono questa verità anche se non sanno nulla di modificazioni
epigenetiche. Per capire come le emozioni abbiano sempre delle conseguenze
basta osservare gli effetti della collera o delle preoccupazioni di un genitore
sui figli, che ne soffrono.
Che cosa fare, dunque? Non potete impedire alle vostre emozioni negative
di avere ripercussioni tanto su di voi quanto su chi vi sta intorno. Assumervi
la responsabilità delle vostre emozioni è quindi fondamentale. Non c’è più
ragione di sfogare sugli altri la propria rabbia o di fare di tutto perché vi
temano, né di cercare di prevaricare su di loro o di dominarli per motivi
egoistici.
Nessuno vi chiede di diventare santi. Sapere che le emozioni hanno delle
conseguenze serve in primo luogo a voi stessi. Aprite gli occhi e osservate
come la rabbia o l’ansia inquinano l’atmosfera. Provatelo su di voi, poi
chiedetevi se è questo l’effetto che volete avere sugli altri.
Le emozioni sono vive. Dovete imparare a negoziare con loro, e se
un’emozione vede un vantaggio nel cambiare, lo farà. Sarete voi a farglielo
fare.
6. Vivere d’istinto
Poiché sono in tanti a diffidare delle proprie emozioni e a cercare di
nasconderle – soprattutto i maschi – fa un certo effetto sentir dire che un
approccio istintivo alla vita funziona meglio di uno troppo razionale. In
effetti, questo concetto è talmente estraneo alla maggior parte delle persone
che sentiamo il bisogno di citare alcune ricerche psicologiche che lo
confermino.
Innanzitutto, i ricercatori hanno scoperto che le emozioni intervengono in
ogni decisione che prendiamo. Non esistono scelte puramente razionali. Se
tentiamo di eliminare dall’equazione i sentimenti, reprimiamo un aspetto
naturale di noi stessi. Spendete di più quando siete di buon umore? Forse
pensate di no, ma numerosi studi dimostrano che il buon umore induce a
mettere mano al portafoglio. Pagate qualcosa più di quanto valga, per vanità
o per non sfigurare agli occhi di un commerciante? Molti lo fanno.
In uno degli esperimenti più interessanti a questo proposito è stata
inscenata un’asta a cui i partecipanti venivano invitati a fare un’offerta per
mettersi in tasca una banconota da venti dollari. All’inizio c’era un po’ di
confusione e di derisione intorno a quello che pareva un gioco. Sembrava
logico, infatti, che nessuno avrebbe offerto più di venti dollari per un biglietto
da venti dollari, ma a un certo punto le offerte hanno cominciato a fioccare.
Soprattutto tra i maschi, spuntarla sui concorrenti era più importante della
razionalità, quindi le offerte salivano sempre di più finché qualcuno a mano a
mano rinunciava. Ovviamente, il «vincitore» ha fatto un affare ridicolo,
perché l’emozione è riuscita ad avere la meglio sulla ragione.
Le persone con un alto QE non si sottraggono alla componente emotiva del
processo decisionale. Sanno relazionarsi con i propri sentimenti, e così
attingono agli aspetti più profondi dell’intuito e del discernimento. Lasciar
emergere le proprie emozioni non significa farsene dominare (questa è la
paura principale delle persone represse, incapaci di sopportare l’idea di
manifestare ciò che provano). Il passo successivo è rendersi conto che le
emozioni hanno una loro peculiare intelligenza, e quindi nutrire più fiducia
nell’intuizione. Le emozioni sbloccano interi scompartimenti di
consapevolezza di cui la maggior parte di noi non sospetta neppure
l’esistenza. Per ogni intuizione che si rivela giusta ci sono innumerevoli altri
segnali che riceviamo ogni giorno e che vanno «sentiti», non analizzati.
Che cosa fare, dunque? Se siete già abituati a farvi guidare dall’istinto,
tutto ciò che abbiamo appena detto vi sembrerà ovvio. Non sarà così, invece,
per chi diffida delle proprie emozioni. Imparare a farsi guidare dall’istinto
significa fare un passo alla volta. Per iniziare, pensate a tutte quelle volte che
avete accantonato l’istinto per ragionare solo con la testa e vi siete poi
ritrovati a pensare: Sapevo che sarebbe successo. Perché non mi sono fidato
delle mie sensazioni?
Non è una domanda retorica. Non l’avete fatto perché non siete allenati a
farlo.
La prossima volta che mille ragioni razionali per fare una cosa si
oppongono al vostro semplice istinto, il quale vi dice di non farla, prendete
un foglio e annotate ciò che entrambe queste due parti di voi vi stanno
dicendo. Poi agite seguendo l’una o l’altra. A cose fatte, riprendete quel
foglio e guardate che cosa avevate scritto. Questo funziona al meglio con i
rapporti umani, perché tutti abbiamo delle interazioni – un appuntamento al
buio, il periodo iniziale con un nuovo capo, una trattativa commerciale – in
cui i sentimenti non possono essere ignorati e potrebbero fare la differenza tra
successo e fallimento. Se annotate per iscritto che cosa provate, la prossima
volta sarà molto più facile fidarvi del vostro intuito. Il segreto è la ripetizione,
nonché la constatazione diretta e obiettiva di quanto spesso le vostre
sensazioni si rivelano giuste.
7. Appagamento dei propri bisogni emotivi
Quando avete un bisogno emotivo, a chi ricorrete? Per esempio: avete trovato
il coraggio di dire a qualcuno una cosa non facile, e la persona a cui l’avete
detta vi ha risposto per le rime. Siete feriti e scoraggiati. Le sue parole
sferzanti vi risuonano nelle orecchie.
In un momento simile vi servono conforto ed empatia. Se l’amico a cui vi
rivolgete vi ascolta educatamente, butta lì un paio di luoghi comuni e poi si
affretta a cambiare discorso, vi siete rivolti alla persona sbagliata. Perché
l’avete fatto? La risposta è complessa, e riguarda l’intelligenza emotiva.
Quando sta male, la maggior parte delle persone ha talmente bisogno di
sfogarsi che si rivolge al primo che trova. Ma chi ha un alto QE sa chi potrà
essere un ascoltatore empatico e chi no.
Ora pensate a un bisogno più profondo, come l’amore. Se nell’infanzia è
stato appagato – un aspetto critico, questo, dell’intelligenza emotiva – la
certezza di essere amati è venuta dalla fonte giusta, cioè dai propri genitori. A
volte però capita di avere genitori distanti e anaffettivi, e questo crea
confusione emotiva. Si cresce senza sapere chi possa darci l’amore che ci
serve, e alla fine questo sentimento si sperimenta così, a casaccio, passando
da una persona all’altra, senza capire chi sia in grado di amarci davvero e chi
no. E se anche si trova una persona che non ne è capace, spesso si finisce per
sceglierla comunque. Insicurezza, bisogno e fragilità emotiva portano a
relazioni che si rivelano frustranti, deludenti e, nel peggiore dei casi, nocive.
Per le persone con un alto QE trovare la persona giusta che soddisfi le loro
esigenze emotive è essenziale, e non accettano l’idea che ci si possa
accontentare di qualcosa di meno. Ma la triste verità è che le persone ferite
cercano perlopiù altre persone ferite, se non addirittura qualcuno che farà loro
di nuovo del male. Spesso il comportamento di chi è emotivamente sano li
mette in ansia, perché minaccia di abbattere le loro barriere difensive. Invece
è necessario sforzarsi, altrimenti ci si accontenta di tirare avanti in un mare
d’insoddisfazione.
Che cosa fare, dunque? La maggior parte di noi si trova da qualche parte
tra il primo appuntamento, il corteggiamento, il matrimonio e il divorzio, e sa
bene quanto sia ampio lo scarto tra l’avere un bisogno e l’appagarlo. In ogni
relazione è inutile chiedere qualcosa che l’altro non può darci, ma spesso ci
troviamo a farlo lo stesso. Chiediamo empatia a chi non ne ha, comprensione
a un egocentrico, amore a un anaffettivo e così via.
Risolvere questa impasse non è così difficile come sembra. Quando avete
un bisogno emotivo, rivolgetevi a chi è in grado di soddisfarlo. E chi è quella
persona? Potete scoprirlo solo vedendola comportarsi in una situazione
analoga. Non tirate a indovinare, o rischierete di farvi del male. Le persone
umane, empatiche, emotivamente generose e comprensive manifestano in
concreto questi tratti.
Presto scoprirete che c’è molta più gente disponibile di quanta pensiate.
Chi di voi non ha trovato, in una sala d’aspetto o su un treno, una persona
gentile disposta ad ascoltarvi parlare di una vostra situazione famigliare, di un
problema sentimentale o lavorativo, o persino di un segreto? Ovviamente,
l’impulso è quello di trattenersi, per timore di un rifiuto. Tuttavia non è
difficile discernere un primo segno di disponibilità e poi fare un passo alla
volta. Aprirsi un po’ aiuta a farlo sempre di più, e se uno vede che l’altra
persona non ha più tempo, consigli, simpatia o interesse, ci si regola di
conseguenza.
Un’unica avvertenza: anche chi ha affetto, simpatia, compassione e
comprensione da dare, ha il diritto di negarsi. Certo, è difficile da accettare. Il
rifiuto è la ragione principale per cui molti evitano incontri che chiamino in
causa le emozioni. È più facile condividere le proprie pene con un famigliare
o un amico indifferenti. L’indifferenza sembra meglio di un rifiuto. Ma le
esigenze emotive vanno appagate, e bisogna trovare il coraggio di cercare le
persone giuste, anche a costo di essere respinti.
Di solito, però, questo non succede. Non sempre il nostro bisogno emotivo
è di amore eterno. Quello più comune è essere ascoltati, seguito da simpatia e
comprensione. L’accettazione è il filo conduttore. Una volta che avrete
scoperto di essere accettati, e che meritate di esserlo, sarete più forti dentro. A
quel punto chiedere affetto e amore vi sarà molto più facile.
Le emozioni suscitano reazioni intense, e tutti i bisogni che abbiamo citato
inducono cambiamenti nell’organismo. In questo campo la scienza è in
ritardo rispetto alla saggezza. Come specie abbiamo avuto migliaia di anni
per diventare più saggi; una conquista non da poco, visto che tutti a volte ci
comportiamo da sciocchi. Forse un giorno la genetica troverà una magica
combinazione di modificazioni genetiche che porterà alla saggezza. Intanto,
però, la migliore guida sono ancora le nostre emozioni, sempre un passo
avanti rispetto alla scienza, per quanto la genetica si sforzi di recuperare
terreno.
PARTE TERZA
Guidare la propria evoluzione
La saggezza del corpo
IL super genoma ha liberato la nostra concezione del corpo. Può fare lo stesso
per la mente? Assolutamente sì. Il cervello non è più una torre d’avorio in cui
la mente dimora in splendida solitudine. Tutto ciò che pensiamo e proviamo è
condiviso dal resto del corpo. Il cervello non dice cose come «Mi annoio» o
«Sono depresso». Tutto è questione di chimica e di genetica. Lo stesso
linguaggio è compreso da ogni cellula. Qualunque cosa accada nel cervello si
riflette nelle attività squisitamente integrate di ogni cellula.
Siamo abituati a credere che solo il cervello abbia consapevolezza di noi e
dell’ambiente che ci circonda, ma è ormai innegabile che tutte le parti del
corpo sono intimamente interconnesse. La consapevolezza non solo delle
cellule cerebrali, ma di ogni cellula del corpo, è affinata da centinaia di
milioni di anni. Naturalmente, se uno prova a dire che una cellula dei reni è
consapevole, i biologi tradizionali, convinti come sono che le interazioni
biologiche possano solo essere casuali, gridano allo scandalo. E se poi ci si
azzarda ad affermare che un gene o un microbo sono consapevoli quanto noi,
una falange di altri scienziati insorge indignata.
A ogni modo, indignarsi per cose simili non fa bene alla scienza. Uno dei
più brillanti pionieri della fisica quantistica, Erwin Schrödinger, ha detto: «La
consapevolezza è un singolare che non ha plurale. […] Dividerla o
moltiplicarla è cosa insensata». Siamo così abituati a separare mente e corpo
che fonderli in un unico campo di consapevolezza non è accettabile, ma da
oltre un secolo la fisica sa che tutto nell’universo fisico ha origine da campi:
il campo elettromagnetico da cui emerge la luce, quello gravitazionale che ci
tiene attaccati alla terra o quello quantico, la fonte ultima di materia ed
energia.
Immaginiamo per un attimo che ogni cellula sia consapevole come una
persona. Questo declasserebbe il cervello dalla sua posizione privilegiata.
Dovremmo abbandonare la convinzione che il pensiero sia rigorosamente
mentale, fatto di un flusso di pensieri, immagini e sensazioni interne al
cervello. Ma è evidente che esiste un diverso tipo di pensiero – non-verbale,
privo di immagini, senza voce – che sostiene silenziosamente ogni cellula.
Questa intelligenza cellulare è stata definita saggezza del corpo. Per
elevare il nostro benessere quotidiano al livello di benessere profondo è
sufficiente fare tre cose:
Quando uno qualunque di questi nove fondamentali della vita entra in crisi,
la vita stessa è a rischio. Non c’è esempio più eclatante, e terribile, del
cancro. Una cellula tumorale è una cellula che ha tradito i fondamentali della
vita. Il suo comportamento la rende praticamente immortale, grazie al suo
infinito dividersi. Toglie spazio alle cellule vicine e le uccide. Non tiene più
conto dei segnali chimici regolatori delle cellule circostanti. Nulla le importa
più, se non il suo tornaconto personale, e il naturale equilibrio della comunità
cellulare viene tragicamente sbilanciato.
Oggi l’oncologia è impegnata a decifrare gli stimoli genetici del cancro,
che sono però incredibilmente complessi. La terribile verità è che una cellula
maligna è in grado di attingere alla stessa «intelligenza» di ogni altra cellula,
ma la sua mutazione genetica fa praticamente impazzire la sua attività. Come
un consumato delinquente, cambia freneticamente travestimento per sfuggire
alla «polizia», che in questo caso è il sistema immunitario. Il cancro è una
terribile minaccia, ma una simile abilità prova, sebbene su un altro fronte, che
ogni possibilità concepibile dalla mente umana è stata anticipata dalle nostre
cellule.
Dall’incredibile complessità del super genoma emerge qualcosa di
semplice e utile: i nove fondamentali che le cellule osservano a ogni costo
sono gli stessi che fanno di noi degli esseri umani. La connessione mente-
corpo è talmente flessibile che può adattarsi non solo alle avversità, ma anche
alla perversità: quella di volgere le spalle a ciò per cui la Natura ci ha creati,
ovvero restare in equilibrio. Quando avveleniamo il nostro corpo con le
tossine, lo sfruttiamo fino all’esaurimento, ne ignoriamo i segnali di disagio,
violiamo la saggezza insita in ogni cellula.
Viceversa, possiamo scegliere di allinearci a quella saggezza, e in questo
caso la connessione mente-corpo realizza tutto il suo potenziale.
Esperienze simili sono alla portata di tutti; non c’è bisogno di essere dei
mistici o di andare chissà dove. Non occorre andare alla ricerca del campo
mentale, perché ne siamo circondati fin nei nostri geni. C’è semmai bisogno
di una visione delle cose particolare per far sì che il campo si mostri. Nella
tradizione vedica, un testo miscellaneo detto Shiva sutra fornisce centootto
tecniche per vedere oltre la maschera della materia. Una di queste permette di
scrutare ciò che sta al di là del cielo. Un’impresa impossibile, almeno in
termini fisici, ma provandoci accade qualcos’altro: la mente si ferma. Per lo
sconcerto causato dall’impossibilità dell’esercizio, il normale flusso dei
pensieri si arresta. In quell’istante la mente percepisce solo se stessa. Nessun
oggetto ostacola la pura consapevolezza! Ecco che cosa c’è al di là del cielo!
Un pesce, costantemente circondato dall’acqua, non può sapere che cosa
questa sia realmente. Ma se vi salta fuori si crea un contrasto, ed ecco che il
bagnato può essere percepito come opposto dell’asciutto. Non si può uscire
dal campo mentale, ma si può rallentare la mente, e allora si verifica un
contrasto del genere: si possono così sperimentare la quiete, il silenzio e la
cessazione dell’attività.
Anche se non praticate la meditazione, che ha permesso ai grandi saggi,
mistici e santi di trovare un profondo contatto con il campo, potete
ugualmente averne un assaggio. Sedetevi tranquilli, a occhi chiusi, senza fare
nulla. Notate il flusso di pensieri che vi passa per la mente. Ogni evento
mentale è temporaneo. Viene, permane un attimo e se ne va. Tra l’uno e
l’altro evento mentale c’è come un breve iato, un piccolo spazio vuoto.
Tuffandovi in questo gap potete raggiungere il campo mentale nella sua
infinita estensione.
Dopo avere intravisto lo spazio vuoto tra due pensieri, riaprite gli occhi.
Considerate ciò che avete appena sperimentato. Eventi mentali nascono, ma
da dove? E si dissolvono, ma per andare dove? Nel campo mentale.
Prestiamo così tanta attenzione ai nostri pensieri che non ci accorgiamo di
questo semplice fatto. Ogni pensiero è un evento transitorio, mentre la mente
è durevole e immutabile. Avete visto com’è facile notarlo? Per un istante
siete diventati gyan yogi, cioè qualcuno che è entrato in comunione con il
campo mentale. O per essere più precisi, qualcuno che sa di essere in
comunione con il campo mentale, perché in verità non è possibile non
esserlo. È solo che ci dimentichiamo del campo, ossessionati come siamo dal
costante avvicendarsi di pensieri, sensazioni, emozioni, fantasie nella nostra
mente.
Non intendiamo criticare l’attività della mente. Sperimentare il campo
mentale non fa che approfondire il nostro apprezzamento della vita. Suscita
quella meraviglia che fece esclamare al grande poeta persiano Rumi: «Siamo
venuti dal vorticoso nulla, spargendo stelle come polvere». E in un’altra
occasione: «Guarda questi mondi che escono roteando dal nulla / Questo è in
tuo potere».
La vita evolve secondo schemi che suscitano meraviglia in chiunque.
L’evoluzione ha dato origine al genoma umano e al cervello, la struttura più
complessa dell’universo conosciuto. Può questo mistero essere risolto
guardando oltre la maschera della materia? Il corpo manifesta
un’«intelligenza» pressoché infinita in ogni cellula. Quella che definiamo
intelligenza cellulare è la naturale capacità della cellula di adattarsi, reagire e
fare le scelte giuste in ogni istante, non solo per se stessa ma per tutte le altre
cellule, tessuti e organi del corpo. Qualcosa deve avere fatto sì che questo
accadesse. In cerca di quel qualcosa, dobbiamo volgere la nostra attenzione
all’evoluzione stessa, la forza che ha reso possibile a tutti noi di esistere.
Rendere consapevole l’evoluzione
Questi quattro punti sono il fulcro del capitolo, e spianano la strada alla
trasformazione favorita dal super genoma. Non solo: facilitano anche la
trasformazione dell’intero nostro concetto di funzionamento dell’evoluzione.
Non chiediamoci in quale direzione evolverà la genetica tra una generazione.
Attualmente disponiamo di sufficienti conoscenze per fare qualcosa di
incredibilmente importante, cioè cooperare con l’infinita creatività della
Natura.
«Evoluzione», in fondo, non è che un termine scientifico per riferirsi alla
creatività e ai fattori organizzanti che guidano l’intero universo, ma in
particolare la vita sulla Terra. Il super genoma registra ogni salto creativo
intrapreso dalla vita. Fino alla comparsa degli esseri umani, agli esseri viventi
mancava l’autoconsapevolezza necessaria per analizzare il proprio stato
evolutivo. Un platelminta che, tagliato a metà, forma un nuovo cervello che
contiene i suoi vecchi ricordi non ha alcuna consapevolezza di un evento
tanto enigmatico. Noi però possiamo sfruttare la nostra consapevolezza per
scegliere quale direzione dare alla nostra vita. Il super genoma risponderà
sempre, quindi anche in assenza di dati scientificamente accertati abbiamo
delle possibilità:
TRA i progressi della tecnologia genetica indotti dal Progetto genoma umano
vi è il cosiddetto sequenziamento di nuova generazione, che consente di
decifrare vaste aree di genoma in tempi brevi. Oggi possiamo dunque
scansionare l’intero genoma di un paziente in cerca di mutazioni causative
connesse alla sua particolare patologia. Inoltre si è scoperto, come abbiamo
già detto, che per quanto riguarda le malattie più comuni con una componente
genetica, solo il 5% circa delle mutazioni geniche associate alla malattia sono
sufficienti a causarla. Se ereditate, queste mutazioni completamente
penetranti garantiscono che il soggetto svilupperà la malattia (sono dette
anche mutazioni genetiche mendeliane, dal nome del famoso monaco che con
i suoi studi sui piselli fu il padre della genetica, cioè Gregor Mendel).
I primi geni del morbo di Alzheimer che Rudy e altri scienziati hanno
scoperto negli anni Ottanta-Novanta contenevano in effetti tali mutazioni.
Tuttavia, nel 95% delle malattie ereditarie, variazioni nel DNA di numerosi
geni (dette varianti) concorrono in ultima analisi a determinare il vero e
proprio rischio di malattia, insieme allo stile di vita e alle esperienze
esistenziali. Queste varianti del DNA sono classificate come fattori di rischio
genetico. Se alcune aumentano il rischio di contrarre una data malattia, altre
possono avere un effetto protettivo nei confronti della stessa. A ogni modo,
nella maggior parte dei casi l’esito ultimo dipende dall’esposizione
ambientale e dallo stile di vita.
Per uno specifico individuo, scoprire quale sia esattamente il contributo
genetico comporta una quantità enorme di ricerche, l’analisi simultanea di
varianti genetiche multiple e la comparazione dei relativi risultati con la sua
storia famigliare, le sue esperienze esistenziali e le sue esposizioni
ambientali. Così, malgrado i considerevoli successi riportati dai «cacciatori di
geni» come Rudy e il suo team, per molte malattie come la schizofrenia,
l’obesità, il disturbo bipolare e il cancro al seno, le varianti genetiche a queste
associate spiegano, a oggi, meno del 20% del rischio connesso alla varianza.
Ormai ci si è resi conto che per la maggior parte delle malattie complesse
entra in gioco un’interazione tra natura e cultura. In questa interazione
l’influsso dei fattori epigenetici assume un ruolo di primo piano. Meccanismi
epigenetici sono già stati connessi a molte malattie, tra cui tre gravi patologie
infantili: la sindrome di Rett, la sindrome di Prader-Willi e la sindrome di
Angelman. In alcuni casi l’attività genica è disattivata direttamente dalla
metilazione delle basi del DNA nel gene stesso. In altri, modificazioni
chimiche (metilazione e acetilazione) vengono apportate alle proteine
istoniche che avvolgono il DNA al fine di silenziare il gene.
Tuttavia il quadro si è fatto ancora più complesso. Ora che siamo in grado
di sequenziare interi genomi, stiamo scoprendo che ciascuno di noi è
portatore di massimo trecento mutazioni che conducono alla perdita di
funzione di specifici geni, e di massimo cento varianti che sono state
associate al rischio di contrarre determinate malattie. Inoltre, alcune
mutazioni e varianti del DNA che influenzano il rischio non erano presenti
nei genomi dei nostri genitori, si sono ripresentate nello sperma o nell’ovulo
che si sono uniti per dare vita al nostro embrione. Queste mutazioni sono
dette de novo, e avvengono una o due volte ogni cento miliardi di basi nelle
due serie di tre miliardi di basi di DNA ereditate dai nostri genitori.
Ciò significa che nel nostro genoma ospitiamo circa settantadue mutazioni
de novo di cui i nostri genitori non erano portatori nei loro genomi. (Il tasso
effettivo di mutazioni de novo dipende fortemente dall’età del padre al
momento del concepimento del bambino. Dopo i trent’anni, ogni sedici anni
il numero di mutazioni negli spermatozoi paterni raddoppia, il che, è stato
dimostrato, contribuisce al rischio di malattie come l’autismo.)
Oltre alle varianti a livello di singolo nucleotide nel nostro DNA siamo
portatori anche di duplicazioni, delezioni, inversioni e riarrangiamenti di
diversi milioni di basi del DNA. Queste sono dette varianti strutturali (SV).
Come le varianti di singolo nucleotide (SNV), le varianti strutturali del DNA
possono essere ereditate dai genitori o verificarsi ex novo. Nel morbo di
Alzheimer, una duplicazione del gene APP (amyloid precursor protein,
proteina precursore della betaamiloide), che è il primo gene dell’Alzheimer a
essere stato scoperto, porta inevitabilmente all’insorgenza della demenza
precoce (al di sotto dei sessant’anni).
Le SV e le SNV possono entrambe essere rinvenute grazie al
sequenziamento di nuova generazione del DNA. Ma in un altro tipo di analisi
genetica, l’espressione genica (o attività genica) può essere valutata
nell’ambito dell’intero genoma. Questa è detta analisi del trascrittoma.
Quando un gene produce una proteina, prima fa una trascrizione dell’RNA
che sarà usata per guidare la sintesi della proteina. L’analisi del trascrittoma
può essere utilizzata come parte di una verifica della regolazione epigenetica
di geni, in quanto fornisce informazioni sull’attività genica, non sulla
sequenza del DNA.
Il fatto è che ora abbiamo a disposizione strumenti potenti per dipanare
l’intricata matassa della maggior parte delle malattie che hanno una
componente genetica. Un problema è che una malattia complessa progredisce
attraverso una serie di stadi interconnessi. Nella vita di ogni giorno, quando
prendiamo un raffreddore all’inizio notiamo un sintomo lieve, magari un po’
di irritazione in gola, e se non lo fermiamo a questo stadio molto precoce (per
esempio assumendo delle compresse di zinco), sappiamo per esperienza che
il raffreddore si scatenerà con tutta una serie di sintomi.
Qualcosa di simile accade anche nella genetica. Studi genetici che
utilizzano insieme l’analisi del trascrittoma e il sequenziamento dell’intero
genoma effettuano la cosiddetta analisi di pathway, che prende
contemporaneamente in esame molti geni coinvolti in una determinata
malattia.
Con queste informazioni, l’obiettivo è comprendere i meccanismi
patologici dai quali la malattia è causata e progredisce. Pathway biologici
specifici, per esempio l’infiammazione o la guarigione di una ferita,
influenzano il rischio di malattia. L’analisi di pathway individua anche altri
nuovi geni specifici che potrebbero essere coinvolti nella malattia, in base ai
pathway biologici implicati. Per esempio, negli studi condotti da Rudy
sull’Alzheimer le analisi di pathway dei geni di rischio implicavano un ruolo
di primo piano del sistema immunitario e dell’infiammazione. Nelle patologie
umane – cancro, diabete, cardiopatie o Alzheimer, per citarne solo alcune – il
fattore letale è quasi sempre l’infiammazione. Se dovessimo dare un nome
alla modificazione epigenetica che svolge il ruolo più importante nella
modulazione di un processo biologico, quello migliore sarebbe probabilmente
infiammazione.
DIABETE DI TIPO 2
Circa quattrocento milioni di persone in tutto il mondo soffrono di diabete di
tipo 2 (DT2), una cifra destinata a crescere fino a oltre cinquecento milioni
nei prossimi vent’anni. Nei pazienti di DT2 i livelli di glucosio plasmatico (o
zucchero nel sangue) sono elevati, e di solito questo avviene in età avanzata a
causa sia della genetica sia delle cattive abitudini di vita, in particolare
alimentari. Un serio fattore di rischio è l’obesità. Spesso si osservano
concentrazioni di diabete in determinate famiglie, e se questo sembrerebbe
implicare mutazioni genetiche presenti in più membri della stessa famiglia, è
anche vero che questi tendono a mangiare insieme, condividendo quindi
identiche o simili abitudini alimentari.
Il rischio è diventato più preciso, ma non necessariamente più semplice.
Per quanto riguarda il DT2, sappiamo che decine di geni sono associate al
rischio di insorgenza in età adulta. (Non stupisce che molti di questi geni
siano anche stati associati all’obesità e ad alterati livelli di glucosio.)
Tuttavia, la maggior parte delle varianti del DNA nei geni implicati ha solo
modesti effetti sul rischio permanente di contrarre la malattia. Molto più
importante è probabilmente lo stile di vita, il che, come ormai sapete,
significa che è in gioco l’epigenetica.
Alcune delle prove più convincenti in questo senso vengono dalla scoperta
che l’alimentazione di un individuo durante l’infanzia determina il rischio di
diabete e cardiopatie in età anziana. La tribù degli indiani pima dell’Arizona
è gravemente affetta da DT2 e obesità. Se una madre pima soffriva di DT2
durante la gravidanza, i suoi figli risultano molto predisposti sia al DT2 sia
all’obesità.
Gli studi scientifici che connettono epigenetica e malattie complesse
procedono a ritmo frenetico. Oggi disponiamo di tecnologie in grado di
vagliare mezzo milione di siti del genoma per trovare dove una metilazione
può disattivare l’attività di uno qualunque dei nostri ventitremila geni. Tali
siti possono essere scandagliati per vedere esattamente quali geni vengano
attivati in malattie specifiche come il diabete. Questi studi di associazione
epigenome-wide, cioè sull’intero epigenoma, vengono attualmente condotti in
tutto il mondo per le più comuni patologie. Nel caso del DT2, alcune delle
maggiori modificazioni epigenetiche sono state trovate intorno al gene FTO,
che come abbiamo visto è stato associato all’obesità e all’indice di massa
corporea, il quale misura il rapporto tra massa grassa e peso complessivo.
Un altro fattore che contribuisce al rischio di sviluppare il diabete è il peso
alla nascita. Si è scoperto che il futuro rischio di diabete è più alto nei neonati
con peso alla nascita troppo basso o troppo alto. Gli effetti epigenetici sul
genoma dei neonati a basso peso possono iniziare già in utero. Per quelli ad
alto peso il problema sembra essere l’esposizione al diabete materno durante
la gravidanza. Tutto considerato, il rischio di sviluppare DT2 nasce quasi
certamente da una combinazione e interazione di predisposizione genetica,
stile di vita ed epigenetica. Lo stesso modello vale probabilmente per la
maggior parte delle malattie complesse, dai disordini metabolici alle
dipendenze, alle psicosi.
IL MORBO DI ALZHEIMER
Una patologia che è stata a lungo oggetto degli studi di Rudy è il morbo di
Alzheimer. Nel 2015 Nature ha pubblicato un’approfondita analisi del ruolo
dell’epigenetica nel morbo di Alzheimer, e gli esiti sono stati sorprendenti.
Ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno utilizzato
topi modificati con un gene umano che causava loro una perdita di cellule
nervose, anche detta neurodegenerazione. Questo tipo di morte delle cellule
nervose è simile a quanto avviene nel cervello umano nelle fasi terminali del
morbo di Alzheimer, che priva fondamentalmente il paziente della coscienza
di sé.
A mano a mano che nel cervello dei topi le cellule nervose iniziavano a
morire, gli scienziati andavano in cerca dei relativi cambiamenti
nell’epigenoma. Quando il cervello era ormai in preda a una
neurodegenerazione dilagante sono stati individuate due grandi categorie di
geni portatori di segnali epigenetici, tra cui quelli coinvolti nella
neuroplasticità e nella riconnessione delle reti neurali – cruciali per la
capacità del cervello di rinnovarsi –, insieme ad altri geni coinvolti nel
sistema immunitario cerebrale. Quest’ultimo utilizza l’infiammazione per
proteggere il cervello, spesso a scapito delle cellule nervose, che muoiono a
seguito di un’infiammazione incontrollata.
In quest’ultimo caso, speciali cellule note come «cellule della microglia»,
che normalmente sostentano e ripuliscono le cellule nervose, percepiscono il
massacro circostante e credono erroneamente che il cervello sia sotto attacco
di batteri o virus. Di conseguenza, le sovraeccitate cellule microgliali iniziano
a sparare radicali liberi (proiettili a base di ossigeno) per uccidere gli invasori
estranei. Facendo questo, però, uccidono ancora più cellule nervose, un po’
come nei cosiddetti danni collaterali di un conflitto.
Il team del MIT ha quindi confrontato la firma epigenomica dei cervelli dei
topi modificati con cervelli di malati di Alzheimer deceduti in seguito alla
malattia e sottoposti ad autopsia. Sono state osservate coincidenze
sbalorditive. (Questi risultati sono stati successivamente estesi a segnali
epigenetici in pazienti attualmente affetti dalla malattia.) Fin dal 2008 il team
di Rudy e altri colleghi avevano trovato sempre più geni nuovi associati
all’Alzheimer che agivano come parte del sistema immunitario cerebrale ed
erano portatori di mutazioni che predisponevano all’infiammazione.
Quando i risultati del Progetto genoma per l’Alzheimer di Rudy sono stati
combinati con i dati del team del MIT, un messaggio è risuonato forte e
chiaro: il morbo di Alzheimer è essenzialmente una malattia immunitaria
sorta dall’interazione tra mutazioni di geni immunitari e stile di vita, la quale
infine culmina in alterazioni epigenetiche degli stessi geni immunitari.
Nasceva così un paradigma interamente nuovo per la causa e la
progressione del morbo di Alzheimer. Il team di Rudy e altri stanno ancora
cercando di capire come «calmare» il sistema immunitario del cervello in
modo da prevenire e curare la malattia. Le risposte si troveranno
indubbiamente nel modo in cui i geni immunitari sono orchestrati per
affrontare l’assalto della neurodegenerazione cerebrale.
SONNO E ALZHEIMER
Vediamo ora l’avvincente serie di indizi che ha risolto uno dei principali
misteri del morbo di Alzheimer. Apparentemente, il sonno ha un ruolo
considerevole. Disturbi del ciclo sonno-veglia sono stati associati a numerose
malattie neurologiche e psichiatriche, tra cui l’Alzheimer. La scienza sta
iniziando a capire in che modo il sonno è legato a questa malattia. Ora
sappiamo che la patologia viene innescata da un eccessivo accumulo nel
cervello di una piccola proteina detta beta-amiloide (Aβ), il che non è stato
sempre ovvio.
Quando Rudy era ancora studente, a metà degli anni Ottanta, lui e altri
colleghi sostenevano che il morbo di Alzheimer fosse innescato da depositi di
amiloide nel cervello. Nel 1986 Rudy e altri hanno scoperto il gene APP che
produce la Aβ (e che si è rivelato anche il primo gene responsabile
dell’Alzheimer), e ventotto anni più tardi lui e i suoi colleghi hanno
sviluppato il primo modello di morbo di Alzheimer in una capsula di Petri,
coltivando cellule nervose in un ambiente artificiale simile al cervello. In
quello studio, Rudy e i suoi colleghi Doo Yeon Kim, Se Hoon Choi e Dora
Kovacs sono stati in grado per la prima volta di ricapitolare per intero le
placche e i grovigli senili (amiloidi) all’interno delle cellule nervose che
ostruiscono il cervello dei malati d’Alzheimer. Lo studio è valso al team il
prestigioso Smithsonian American Ingenuity Award nel 2015.
La creazione dell’«Alzheimer in capsula», come ha scritto il New York
Times riassumendo l’articolo di Nature che annunciava l’impresa, dirimeva
un dibattito trentennale, il più acceso nel campo dell’Alzheimer (lo studio
pubblicato su Nature è stato possibile grazie al finanziamento di una
fondazione lungimirante, il Cure Alzheimer’s Fund). Il dibattito verteva sulla
possibilità che quantità eccessive di amiloide che circondano l’esterno delle
cellule cerebrali colpite fosse la vera causa della formazione di grovigli
all’interno delle cellule, che ne induce la morte (i grovigli sono aggregati
abnormi di proteine all’interno di una cellula cerebrale che fungono da
marcatore decisivo dell’Alzheimer). Il nuovo studio ha fornito la prima prova
convincente che la beta-amiloide può scatenare tutta la successiva patologia
che porta alla morte delle cellule nervose e alla patologia in questione.
L’Alzheimer è la causa più comune di demenza negli anziani, e chi ne
soffre ha spesso gravi problemi a dormire. Mentre un tempo questi disturbi
del sonno venivano liquidati come una semplice conseguenza della malattia,
ora sappiamo che si verificano fin dalla fase iniziale e forse contribuiscono a
causare la malattia. Notevoli prove scientifiche indicano che il ciclo sonno-
veglia è strettamente collegato alla produzione di beta-amiloide nel cervello
di modelli umani e murini del morbo di Alzheimer. Come ha dimostrato un
collega di Rudy, il dottor David Holtzman della Washington University a St.
Louis, una maggiore quantità di amiloide viene prodotta a livelli più elevati
nel cervello quando siamo svegli e le cellule nervose sono più attive. Di
notte, soprattutto durante il sonno profondo (a onde lente), la produzione di
amiloide è assai ridotta. In questa fase del sonno avvengono nel cervello
anche altri fenomeni di grande utilità. Innanzitutto, secondo alcuni scienziati
la memoria a breve termine si consolida in memoria a lungo termine. Poi, per
quanto riguarda il morbo di Alzheimer, durante il sonno profondo non solo si
riduce la produzione di betaamiloide, ma il cervello si ripulisce,
letteralmente. Produce più fluido intorno alle cellule cerebrali, il quale serve a
smaltire la maggior parte dei metaboliti e dei detriti di proteine come la beta-
amiloide. Questo sistema di ripulitura dalle scorie del metabolismo cerebrale
è detto sistema glinfatico cerebrale. È simile al sistema linfatico del corpo,
ma si avvale delle cellule gliali del cervello anziché di quelle linfatiche.
Quindi durante il sonno profondo, quando l’attività delle cellule nervose
rallenta, non solo si ha una pausa dalla formazione di proteina beta-amiloide,
ma se ne smaltisce anche una quantità significativamente maggiore di quanto
avvenga da svegli. D’altro canto, gli esseri umani o i topi che vengono privati
del sonno, che come abbiamo visto è uno tra i principali fattori di stress,
producono molta più beta-amiloide e mostrano segni di notevoli lesioni delle
cellule nervose e addirittura di grovigli neurofibrillari. Considerato che la
proteina beta-amiloide e i grovigli neurofibrillari determinano la morte delle
cellule nervose nell’Alzheimer, abbiamo una ragione in più per concederci
otto ore di sonno per notte ed evitare lo stress che subisce il nostro organismo
se ce ne priviamo.
Dormire bene sembra essere uno dei modi migliori per ridurre il rischio di
Alzheimer. E forse migliorare qualità e quantità del sonno potrebbe anche
aiutare i pazienti già colpiti. Benché non abbiamo ancora capito esattamente
come il sonno ripulisca il cervello a livello genico, curarsi di dormire
contribuisce a ridurre l’ansia provocata da questa terribile malattia.
CANCRO AL SENO
Un’altra patologia dai modelli di rischio molto complessi è il cancro al seno.
Ricercatori dello University College di Londra hanno rivelato gran parte della
firma epigenetica del cancro al seno studiando donne sane successivamente
colpite da cancro al seno, con o senza la presenza di una mutazione del gene
BRCA1. Le mutazioni di BRCA1 sono responsabili del 10% circa dei tumori
al seno, il che lascia in gran parte nel mistero il restante 90% dei casi.
L’interrogativo era: quanta «ereditabilità mancante» è epigenetica? È emerso
che le alterazioni epigenetiche coinvolte erano molto simili in entrambi i
gruppi di donne. In altre parole, le alterazioni erano indipendenti
dall’ereditare o meno la mutazione del gene BRCA1. Se la firma epigenetica
della malattia è nota, può essere utilizzata per predire chi ha probabilità di
ammalarsi di cancro al seno: un grande passo avanti, dato che ogni anno
duecentocinquantamila donne contraggono la malattia e quarantamila ne
muoiono.
Il fatto che l’epigenetica abbia un effetto apparentemente così forte sul
rischio significa che dobbiamo prendere seriamente in considerazione tutta
una serie di cambiamenti del nostro stile di vita, a iniziare dall’alimentazione.
Tra le sostanze nutritive e gli integratori di cui è stato dimostrato un effetto di
riduzione del rischio di cancro al seno vi sono l’aspirina, il caffè, il tè verde e
la vitamina D.
Nel caso dell’aspirina, i dati più significativi vengono da uno studio
trentennale che ha seguito centotrentamila soggetti. Di questi, quelli che
avevano assunto regolarmente aspirina (almeno due alla settimana) hanno
avuto una diminuzione del cancro gastrointestinale del 20% e del cancro del
colon-retto del 25%. I risultati per questi tumori specifici non si applicano a
tutti i tipi di cancro in generale, e sono stati necessari sedici anni di
assunzione di aspirina perché il vantaggio si manifestasse. In quelli che
avevano smesso di prendere l’aspirina per tre o quattro anni, il vantaggio si è
annullato. La ragione per cui l’aspirina funziona contro il cancro, per quanto
ne sappiamo, ha a che fare con il suo effetto antinfiammatorio (cosa che non
sorprende) e con la sua apparente capacità di ridurre la formazione di nuove
cellule tumorali.
CARDIOPATIE
Anche nelle cardiopatie sappiamo che mutazioni genetiche e stile di vita
concorrono a determinare il rischio, ma come nel diabete e nel cancro al seno,
sono coinvolte anche le modificazioni epigenetiche (metilazioni) che
disattivano certi geni. Da uno studio è emerso che i livelli di due grassi nel
sangue, trigliceridi e lipoproteine a densità molto bassa (VLDL), erano legati
alla metilazione di un gene detto carnitina palmitoiltrasferasi 1A (CPT1A).
Questo gene produce un enzima necessario per scomporre i grassi e, quando è
disattivato da meccanismi epigenetici, gli acidi grassi del corpo anziché
trasformarsi in energia restano in circolazione nel sangue, aumentando il
rischio di malattie cardiache. La metilazione del gene CPT1A è influenzata
dal cibo, dal consumo di alcol e dal fumo.
ALCOL E GENI
Anche la dipendenza da alcol è influenzata da eventi epigenetici. L’alcolismo
ha effetti devastanti sia sulle vittime sia sulle loro famiglie, contribuendo a
uno su trenta morti in tutto il mondo. I geni più noti associati alla dipendenza
da alcol sono l’alcol deidrogenasi (ADH) e l’aldeide deidrogenasi (ALDH).
Entrambi producono enzimi che aiutano a scomporre l’alcol nell’organismo,
ma variazioni di questi geni spiegano solo in minima parte l’ereditarietà
dell’alcolismo. L’ereditabilità mancante risiede probabilmente in
cambiamenti epigenetici legati ai centri di ricompensa del cervello, la fonte
del «sentirsi bene» quando si beve un bicchiere.
Ora sappiamo che i centri di ricompensa subiscono effettivamente
cambiamenti nell’attività genica in seguito all’assunzione di alcol. Ciò
significa che persone diverse reagiscono al consumo di alcol in modo diverso
a seconda delle loro attività geniche. Nei forti bevitori un aminoacido detto
omocisteina può aumentare, portando infine a cambiamenti metilici che
silenziano specifici geni. Queste attività geniche possono innescare un circolo
vizioso in cui la risposta al piacere e al dolore risulta alterata, e questo porta a
un aumento del desiderio di alcol che offre peraltro sempre meno piacere.
MALATTIE MENTALI
Modificazioni epigenetiche possono anche essere associate a disturbi
psichiatrici come la schizofrenia e il disturbo bipolare (psicosi maniaco-
depressiva). La ricerca delle mutazioni genetiche ereditarie che portano a
queste malattie ha finora avuto ben poco successo. Questa impasse riserva
ancora una volta un ruolo potenzialmente significativo all’epigenetica nel
contribuire a colmare l’ereditabilità mancante e il ruolo dello stile di vita.
Sempre più numerose prove scientifiche mostrano che la schizofrenia e il
disturbo bipolare potrebbero non essere garantiti, o soltanto dipendere, da
mutazioni genetiche trasmesse dai genitori ai figli.
Tra i sospetti nello stile di vita di chi ne soffre figurano la dieta, le tossine
chimiche e le condizioni in cui si è cresciuti, che influiscono sulle
modificazioni epigenetiche. Lo stile di vita di un paziente può determinare
segnali epigenetici acquisiti fin dalla nascita, ma studi sui topi sembrano
suggerire che altri segnali epigenetici possano essere ereditati. Questi segnali
si produrrebbero, presumibilmente, a causa degli stili di vita dei genitori, se
non addirittura dei nonni. (Attenzione: non intendiamo suggerire che vadano
pertanto attribuite delle responsabilità. L’epigenetica delle malattie mentali è
ancora assai provvisoria e incompleta. Nessuno finora è riuscito a connettere
causa ed effetti per una qualsiasi scelta di stile di vita che possa essere
implicata nei disturbi mentali.)
Studi a livello di intero epigenoma sulla schizofrenia e sul disturbo
bipolare hanno rivelato segnali epigenetici su alcuni geni prevedibili, come
quelli implicati nella produzione di certe sostanze neurochimiche
precedentemente associate alle psicosi. Altri hanno però prodotto risultati
meno prevedibili. Per esempio, geni chiave per il sistema immunitario si sono
attivati sia nella schizofrenia sia nel disturbo bipolare, e questo suggerisce
che il sistema immunitario possa essere in qualche modo correlato a una
predisposizione a questi disturbi. Naturalmente, qui e in altre firme
epigenetiche associate al rischio, causa ed effetto costituiscono un problema.
Come si fa a sapere se i segnali epigenetici si sono verificati prima
dell’insorgenza (causa) o in seguito alla malattia (effetto)? Per ora possiamo
affermare con certezza che i test epigenomici per malattie specifiche
diventeranno irrinunciabili in ogni aspetto della prevenzione e del trattamento
delle malattie complesse, fino alla cura definitiva.
A dire il vero, siamo molto ottimisti riguardo agli sviluppi della genetica,
ma anche molto realisti. Resta una netta divisione tra due domini, il visibile e
l’invisibile. Tutti viviamo in entrambi, cosa che non può essere ignorata.
Scrutando in un microscopio, un biologo cellulare può vedere miriadi di
cambiamenti nel modo in cui una cellula funziona, ma la componente
cruciale, l’esperienza che guida tali cambiamenti, non può essere osservata.
L’ambito non fisico svolge un suo ruolo in ogni secondo della vita di
ciascuno di noi, e crediamo che questo sia il motivo principale per cui la
genetica deve saper guardare oltre il materialismo e la casualità.
I dati dovranno certo sostenere un simile, radicale cambiamento di
prospettiva, ma è di gran lunga più importante formulare le idee che questi
dovranno confermare: ecco qual è il nostro obiettivo in questo libro, e
riteniamo di avere compiuto alcuni passi da gigante in questa direzione.
Ora sapete sulla natura dinamica del vostro genoma persino più di quanto
ne sapessero i genetisti venti o trent’anni fa. A questo punto, dunque,
l’importante è mettere in pratica queste nuove conoscenze e questa rinnovata
consapevolezza per ottimizzare la vostra attività genica. Prima però è
necessario esporre un altro importante blocco di informazioni tecniche,
questa volta proveniente da una fonte del tutto inattesa.
Il grande paradosso del DNA
dello 0,2% per gli uomini che non hanno mai fumato (0,4% per le
donne);
del 5,5% per gli ex fumatori (2,6% per le ex fumatrici);
del 15,9% per i fumatori attuali (9,5% per le fumatrici attuali);
del 24,4% per i «fumatori forti», cioè chi fuma più di cinque sigarette al
giorno (18,5% per le donne)
Hi-Performance ®
Formazione di qualità
via Federico Cesi, 72
00193 Roma
tel.: 06 36005152
http://www.hiperformance.it
info@hiperformance.it
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito,
distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di
quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o
da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di
questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una
violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto
previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto
rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non
potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente
dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.
Le indicazioni contenute in questo libro hanno l’intento di informare e non intendono sostituirsi al parere
professionale del vostro medico curante. L’editore declina qualunque responsabilità diretta o indiretta derivante
dall’uso o dall’applicazione di qualsivoglia indicazione riportata in queste pagine.
Illustrazioni di Mapping Specialists, Ltd.
Le citazioni nel testo di Shakespeare e Blake sono tratte rispettivamente dalle seguenti opere: William
Shakespeare, Macbeth, in Tragedie, Rizzoli, Milano 2006; William Blake, Gli auguri dell’innocenza, in
Visioni, Mondadori, Milano 2007.
www.sperling.it
www.facebook.com/sperling.kupfer
Super geni
di Deepak Chopra, Rudolph E. Tanzi
Titolo originale Super Genes
Copyright © 2015 by Deepak Chopra, M.D., and Rudolph E. Tanzi, Ph.D.
All rights reserved.
This translation published by arrangement with Harmony Books, an imprint of the Crown Publishing Group, a
division of Penguin Random House LLC.
© 2016 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Realizzazione editoriale a cura di Giuseppe Doldo.
Ebook ISBN 9788820094591