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Il libro

La scienza ha ormai dimostrato che il DNA non determina il nostro destino biologico: i geni con
cui siamo nati sono dinamici, rispondono a tutto ciò che facciamo, mangiamo, pensiamo. Sono i
nostri più potenti alleati per un rinnovamento personale. È da questo presupposto che partono
Deepak Chopra e Rudolph Tanzi, i due celebri medici già autori del bestseller internazionale
Super Brain, secondo i quali noi siamo gli artefici della nostra storia biologica e possiamo
imparare a influenzare l’attività dei nostri geni per raggiungere un benessere totale. Con tono
semplice, diretto e divulgativo, gli autori ci spiegano come alcuni cambiamenti nel nostro stile di
vita, dalla dieta al sonno, possono influenzare in maniera importante il nostro DNA, arrivando ad
avere un forte impatto sulla prevenzione delle malattie, sul buon funzionamento del sistema
immunitario, sulla lotta all’invecchiamento e alle malattie croniche. «Lo scopo di questo libro»,
scrivono Chopra e Tanzi, «è elevare il benessere quotidiano al livello di benessere profondo
attraverso un cammino di trasformazione. Il DNA umano ha ancora molti segreti da rivelare, ma
un punto di svolta è già stato raggiunto: è emerso con assoluta evidenza che il corpo umano è
ben più capace di rinnovamento e di guarigione di quanto si credesse finora.» Coraggioso,
pratico, documentato e con centinaia di suggerimenti concreti per iniziare a cambiare da subito la
nostra vita, Super geni compie un salto quantico oltre le consuete frontiere del self-help. Un libro
che rivoluzionerà il modo in cui concepiamo noi stessi, la nostra salute e quella dei nostri cari.
Gli autori
DEEPAK CHOPRA, medico e membro dell’American College of Physicians, ha fondato la Chopra
Foundation e il Chopra Center for Well-Being. È riconosciuto a livello mondiale come pioniere
della medicina integrativa e della trasformazione personale, ed è specializzato in medicina
interna, endocrinologia e metabolismo. È autore di oltre 80 libri tradotti in più di 43 lingue, tra
cui numerosi bestseller del New York Times. La rivista Time lo annovera fra i cento personaggi
di spicco e icone del secolo. A seguito di un sondaggio su Internet, il World Post e l’Huffington
Post hanno classificato Chopra tra i quaranta pensatori più influenti al mondo e il numero uno
nell’ambito della medicina.

RUDOLPH E. TANZI è professore di Neurologia e detiene la cattedra Joseph P. e Rose F. Kennedy


all’università di Harvard. Dirige la Genetics and Aging Research Unit ed è vicepresidente di
neurologia al Massachusetts General Hospital. Secondo il Time, il dottor Tanzi è una delle cento
persone più influenti al mondo. Ha ricevuto il prestigioso Smithsonian American Ingenuity
Award per i suoi studi pionieristici sull’Alzheimer.
Deepak Chopra
Rudolph E. Tanzi
SUPER GENI
Traduzione di Teresa Franzosi
Alle nostre famiglie, nel vincolo di quell’amore
che rende i nostri geni dei super geni
Geni buoni, geni cattivi e super geni

SE volessimo una vita migliore, che cosa dovremmo cambiare prima di tutto?
Quasi nessuno risponderebbe: «I miei geni». Infatti, ci hanno insegnato che i
geni sono fissi e immutabili. Quelli con cui siamo nati ce li terremo per tutta
la vita. Se avete un gemello monozigote, tutti e due dovrete accontentarvi di
geni identici, a prescindere da quanto buoni o cattivi siano.
Il noto concetto di geni fissi fa parte del nostro linguaggio quotidiano.
Perché alcuni sono più belli o intelligenti della media? Perché hanno buoni
geni. E perché, viceversa, una celebre diva di Hollywood si sottopone a una
doppia mastectomia senza un motivo concreto? Per la minaccia dei geni
cattivi, ovvero l’eredità di una forte predisposizione al cancro che spesso ha
colpito i membri della sua famiglia. Il pubblico si spaventa, ma i media non
chiariscono quanto sia rara, in realtà, quella minaccia.
È tempo di smantellare idee così rigide. I geni sono fluidi, dinamici e
reattivi a tutto ciò che facciamo e pensiamo. La buona notizia che tutti
dovrebbero conoscere è che l’attività genica è in gran parte sotto il nostro
controllo: è questa l’idea rivoluzionaria che emerge dalla nuova genetica,
nonché il punto di partenza di questo libro.
Il jukebox di un bar può starsene in un angolo senza mai muoversi, ma
suona ugualmente centinaia di canzoni. La musica dei vostri geni è simile:
produce costantemente una vasta gamma di sostanze chimiche, e ciascuna è
un messaggio in codice. Stiamo scoprendo solo ora quanto siano potenti
questi messaggi. Concentrandovi sulla vostra attività genica attraverso scelte
consapevoli potete:

Migliorare il vostro umore, prevenendo ansia e depressione.


Combattere raffreddori e influenze.
Ritrovare un sonno normale, profondo e ristoratore.
Recuperare l’energia perduta e combattere lo stress cronico.
Liberarvi di dolori e disturbi cronici.
Liberare il vostro corpo da una vasta gamma di disagi.
Rallentare e potenzialmente invertire il processo di invecchiamento.
Far tornare il vostro metabolismo alla normalità, che è il modo migliore
per perdere peso e non riacquistarlo più.
Diminuire il rischio di contrarre il cancro.

Per molto tempo si è sospettato che i geni fossero coinvolti nel


malfunzionamento dei processi fisici. Ora sappiamo che lo sono sicuramente
nel loro funzionamento corretto. L’intero sistema mente-corpo è regolato
dall’attività dei geni, spesso in modo sorprendente. I geni dell’intestino, per
esempio, inviano costantemente messaggi su una quantità di cose che
all’apparenza non hanno nulla a che fare con una funzione ordinaria come
quella intestinale. Questi messaggi riguardano l’umore, l’efficienza del
sistema immunitario, la sensibilità a patologie strettamente correlate
all’assimilazione come il diabete e la sindrome dell’intestino irritabile, ma
anche ad altre in cui tale correlazione è molto remota, come l’ipertensione,
l’Alzheimer e patologie autoimmuni, dalle allergie all’infiammazione
cronica.
Ogni cellula del vostro corpo «parla» incessantemente a molte altre cellule
tramite messaggi genetici, e voi dovete assolutamente far parte di questa
«conversazione». Lo stile di vita può sviluppare un’attività genica proficua o
dannosa. Infatti, il comportamento dei geni può essere alterato da qualunque
esperienza incisiva. Così i gemelli monozigoti, pur nati con gli stessi geni, da
adulti presentano un’espressione genica molto diversa: uno dei due può
essere obeso e l’altro snello; uno può essere schizofrenico e l’altro no; uno
può ammalarsi molto prima dell’altro. Tutte queste differenze sono regolate
dall’attività dei geni.
Uno dei motivi per cui in questo libro parliamo di super geni è che
vogliamo aumentare le vostre aspettative nei confronti dei geni. La
connessione mente-corpo non è come una passerella tra due sponde di un
fiume, ma è molto più simile a una linea telefonica; o meglio, a molte linee
telefoniche che brulicano di messaggi. E ogni messaggio, anche minimo –
bere una spremuta d’arancia la mattina, mangiare una mela con la buccia,
ridurre il livello di rumore al lavoro, fare una passeggiata prima di andare a
dormire – viene recepito dall’intero sistema. Ogni cellula recepisce tutto ciò
che fate, dite e pensate.
Ottimizzare l’attività dei propri geni è una ragione sufficiente per liberarci
del concetto controproducente e autolesionista di geni «buoni» e «cattivi».
Infatti, la nostra comprensione del genoma umano, ovvero la somma di tutti i
nostri geni, si è notevolmente ampliata negli ultimi due decenni. Dopo quasi
vent’anni di ricerca e sviluppo, il Progetto genoma umano si è concluso nel
2003 con una mappa completa dei tre miliardi di coppie di basi chimiche –
l’alfabeto del codice della vita – disseminate lungo la doppia elica del DNA.
D’un tratto l’esistenza umana è diretta verso mete totalmente nuove. È come
se qualcuno ci avesse consegnato la mappa di un continente vergine, tutto da
esplorare. In un mondo in cui credevamo fosse rimasto poco da scoprire, il
genoma umano è la nuova frontiera.
Oggi il campo della genetica si è molto ampliato. Tutti possediamo un
super genoma che va infinitamente oltre le vecchie idee dei libri di testo su
geni buoni e cattivi. Questo super genoma è costituito da tre componenti:

1. I circa ventitremila geni ereditati dai nostri genitori, insieme al 97% del
DNA localizzato tra quei geni sui filamenti della doppia elica.
2. Il meccanismo di commutazione presente in ogni filamento di DNA, che
gli permette di essere acceso o spento, aumentato o diminuito, proprio
come un variatore aumenta e diminuisce l’intensità luminosa. Questo
meccanismo è controllato perlopiù dall’epigenoma, inclusa la guaina di
proteine che racchiude il DNA. L’epigenoma è dinamico e vivo, e
reagisce all’ambiente e alle esperienze che vivete in modi complessi e
affascinanti.
3. I geni contenuti nei microbi (organismi viventi microscopici simili ai
batteri) che abitano nella bocca, nella pelle e soprattutto nell’intestino.
La stima più attendibile è centomila miliardi, e comprende dalle
cinquecento alle duemila specie di batteri. Non si tratta di invasori
estranei. Ci siamo evoluti con questi microbi per milioni di anni, e se
oggi non li avessimo non saremmo in grado di digerire il cibo, resistere
alle malattie o contrastare una serie di patologie croniche, dal diabete al
cancro.

Queste tre componenti del super genoma sono ciò di cui siamo fatti. Sono i
nostri costituenti basilari, e in questo preciso istante stanno inviando
istruzioni in tutto il nostro corpo. Infatti, non possiamo capire chi siamo
senza comprendere il nostro super genoma. Il modo in cui i super geni si sono
riuniti per formare il sistema mente-corpo è l’ambito di ricerca più
appassionante della genetica odierna. Nuove scoperte stanno emergendo da
una marea di studi che ci riguardano tutti da vicino, perché sta cambiando il
modo in cui viviamo, amiamo e interpretiamo il nostro posto nell’universo.
La nuova genetica si potrebbe sintetizzare in una frase: stiamo imparando
come farci aiutare dai nostri geni. Anziché permettere ai geni cattivi di
danneggiarci e a quelli buoni di aiutarci, secondo quella che finora era
l’opinione prevalente, dovremmo pensare al super genoma come a un
servitore volenteroso che può aiutarci a vivere la vita che vogliamo vivere.
Siamo nati per «usare» i nostri geni, non viceversa. E non stiamo indulgendo
in semplici desideri, non è certo il nostro proposito. La nuova genetica
riguarda soprattutto il modo in cui modificare l’attività dei geni in senso
positivo.
Questo libro riunisce e racconta in maniera chiara le più importanti
scoperte in materia degli ultimi anni. Chi l’ha scritto ha decenni di esperienza
nel proprio ambito: Rudy è uno dei massimi genetisti al mondo e Deepak è
tra i più acclamati esperti mondiali nel campo della medicina e della
spiritualità nella sfera mente-corpo. Proveniamo da mondi diversi e
trascorriamo le nostre giornate di lavoro in modo diverso – Rudy a fare
ricerche sulle cause e sulle potenziali cure del morbo di Alzheimer, Deepak a
insegnare a centinaia di persone ogni anno come armonizzare mente, corpo e
spirito – ma ci unisce la passione per la trasformazione, sia che abbia origine
nel cervello sia che affondi le sue radici nei geni. Il nostro libro precedente,
Super Brain, partiva dal meglio delle ricerche in ambito neuroscientifico per
mostrare come il cervello può essere guarito e rinnovato, ottimizzandone il
funzionamento quotidiano per migliorare la vita delle persone. Questo nuovo
libro approfondisce quell’argomento – si potrebbe definirlo un prequel di
Super Brain – perché il cervello, per fare le cose stupefacenti che fa ogni
giorno, dipende dal DNA presente in ogni cellula nervosa. Prendiamo dunque
lo stesso messaggio di quel libro – siamo noi gli «utenti» del nostro cervello,
non viceversa – e lo estendiamo al genoma. E l’ambito in cui avviene la
trasformazione è lo stile di vita: è possibile, attraverso semplici cambiamenti,
attivare una quantità enorme di potenziale inutilizzato.
La notizia più esaltante, tuttavia, è che la «conversazione» tra corpo, mente
e geni può essere trasformata. Questa trasformazione va ben oltre la
prevenzione, e al di là persino del benessere; raggiunge uno stato che
definiremo di benessere profondo. Ne illustreremo ogni aspetto, mostrando
che cosa le più recenti ricerche sostengono o raccomandano vivamente di fare
se vogliamo dai nostri geni la risposta più vitale possibile.
Le espressioni «geni buoni» o «geni cattivi» sono ingannevoli perché
alimentano un grosso equivoco, quello della biologia come destino. Vedremo
che non ci sono geni buoni o cattivi, ma solo buoni. Sono le mutazioni, cioè
variazioni nella sequenza o nella struttura del DNA, che possono trasformarli
in un senso o nell’altro. Le mutazioni patogenetiche che porteranno con
certezza una persona a contrarre una determinata malattia nel corso della vita
ammontano solo al 5% di tutte le mutazioni associate a malattia. Si tratta di
una minuscola porzione, considerati i tre milioni circa di variazioni del DNA
presenti nel super genoma di ciascuno di noi.
Continuando a pensare in termini di geni buoni e cattivi si resta
imprigionati in convinzioni fallaci e ormai obsolete. Si permette alla biologia
di definire chi siamo. È ironico che nella società moderna, in cui gli individui
hanno più libertà di scelta di quanta ne abbiano mai avuta prima, proprio la
genetica sia diventata così deterministica. «È genetico» è diventata la risposta
comune al perché uno mangia troppo, cade in depressione, infrange la legge,
ha una crisi psicotica o, persino, crede in Dio.
Se la nuova genetica ci insegna qualcosa, è che la natura coopera con la
cultura. I nostri geni possono anche predisporci all’obesità, alla depressione o
al diabete di tipo 2, ma è come dire che suoniamo note stonate per colpa del
pianoforte. Certo, la possibilità esiste, ma è ben più importante tutta la buona
musica che questo strumento – e un gene – è in grado di produrre.
Vi offriamo questo libro con l’intenzione di aumentare il vostro benessere.
Non perché ci sono tante note stonate da evitare, ma perché c’è tanta bella
musica ancora da comporre! I super geni custodiscono la chiave della
trasformazione personale, che improvvisamente è diventata realizzabile – e
desiderabile – come mai prima d’ora.
Perché super geni?
Una risposta urgente

LO scopo di questo libro è elevare il benessere quotidiano al livello di


benessere profondo. Per raggiungere tale obiettivo occorre intraprendere un
cammino di trasformazione attraverso la comprensione della nostra genetica.
Questo affascinante campo d’indagine ha prodotto una marea di scoperte
entusiasmanti, e se ne aggiungono ogni giorno di più. Il DNA umano ha
ancora molti segreti da svelare, ma un punto di svolta è stato raggiunto: è
infatti emerso con assoluta certezza che il corpo umano non è ciò che sembra.
Immaginate di essere di fronte a uno specchio: che cosa vedete? L’ovvia
risposta è un oggetto vivente, una macchina in movimento fatta di carne e
sangue. Questo oggetto è la vostra casa e il vostro rifugio. Vi porta
fedelmente dove volete e fa ciò che gli chiedete di fare. Senza un corpo
fisico, infatti, la vita non avrebbe fondamento. Ma se tutto ciò che date per
scontato sul vostro corpo fosse un’illusione? Se quella «cosa» che vedete
nello specchio non fosse affatto una cosa?
In realtà il vostro corpo è come un fiume che scorre e cambia in
continuazione. È come una nuvola, un vortice di energia che è spazio vuoto al
99%. Come un’idea brillante della mente cosmica che ha impiegato miliardi
di anni di evoluzione per concretizzarsi.
Queste similitudini non sono solo immagini evocative, ma realtà che
rimandano alla trasformazione. In questo preciso istante il corpo come cosa
fisica si adatta all’esperienza quotidiana. Parafrasando Shylock ne Il
mercante di Venezia di Shakespeare, se vi tagliate, non sanguinate? Sì, certo,
perché il lato fisico della vita è assolutamente necessario. Ma viene al
secondo posto. Senza le altre possibilità appena evocate – il corpo come idea,
nube di energia e in costante cambiamento – questo volerebbe via,
dissolvendosi in un vortice casuale di atomi.
Appena guardate oltre la facciata di quell’immagine nello specchio, inizia
la grande avventura. Dietro lo specchio, per così dire, la genetica ha
dispiegato la storia della vita a tappe, compresa la rivoluzionaria scoperta del
1953 che ha rivelato la doppia elica del DNA, una scala elicoidale con
miliardi di pioli chimici. Nell’ultimo decennio, tuttavia, questa storia è
esplosa grazie alla scoperta di quanto i nostri geni sono davvero attivi.
Ovunque, nel corpo, una cellula mette in pratica il segreto della vita:

Sa che cos’è bene per lei e lo persegue.


Sa che cos’è male per lei e lo evita.
Sostiene la propria sopravvivenza attimo dopo attimo, con totale
concentrazione.
Monitora il benessere di ogni altra cellula.
Si adatta alla realtà senza resistenze né giudizi.
Attinge alle risorse più profonde dell’intelligenza della Natura.

In quanto somma di tutte quelle cellule, possiamo dire lo stesso di noi?


Eccediamo nel mangiare e nel bere, tolleriamo stress micidiali, ci priviamo
delle giuste ore di sonno. Nessuna cellula sana farebbe scelte simili!
Allora, perché questa disconnessione? La Natura ci ha progettati per essere
sani come le nostre cellule. Non c’è ragione per non esserlo. Le cellule
adottano naturalmente le scelte giuste in ogni istante della loro vita. Come
potremmo fare altrettanto anche noi?
La scoperta più esaltante delle ricerche recenti è che l’attività genica può
essere considerevolmente migliorata, e che quando questo accade è possibile
raggiungere una condizione di benessere profondo. Profondo nel senso che va
ben oltre la prevenzione comune. Il fondamento stesso delle malattie croniche
è stato svelato dalla nuova genetica. Stiamo osservando come scelte di stile di
vita fatte molti anni prima incidano profondamente su come il corpo funziona
oggi, nel bene e nel male. I geni, infatti, recepiscono ogni nostra scelta.
Secondo noi, il benessere profondo è un bisogno urgente, e vi
convinceremo di questo. La maggior parte delle persone non sa che nel
benessere convenzionale c’è una falla così grande che l’invecchiamento
precoce, le malattie croniche, l’obesità, la depressione e le dipendenze sono
riusciti a insinuarvisi. Tutti gli sforzi compiuti per contrastare queste minacce
hanno avuto, nel migliore dei casi, un misero 50% di successo. È dunque
necessario un nuovo modello. Vediamo come una donna in particolare ha
sperimentato questa esigenza.
La storia di Ruth Ann
Quando Ruth Ann iniziò ad avvertire dolore a entrambe le anche non vi diede
molta importanza. A cinquantanove anni era orgogliosa di come gestiva il
proprio corpo. Aveva uno straordinario controllo degli impulsi, mangiava
solo gli alimenti giusti, senza spuntini fuori pasto e visite notturne al
frigorifero, che a poco a poco fanno mettere su chili. Non fumava e beveva
raramente. Non si faceva mai mancare una bella scorta di vitamine e
integratori alimentari. La sua routine di esercizio fisico andava ben oltre il
minimo raccomandato di quattro-cinque sessioni di vigorosa attività a
settimana, poiché faceva due ore di palestra al giorno. Risultato: alla vigilia
del suo sessantesimo compleanno Ruth Ann sfoggiava una figura perfetta,
cosa che era sempre stata il suo obiettivo principale.
La comparsa di quei doloretti alle anche, due anni prima, era stata una
scocciatura, ma non aveva lasciato che pregiudicasse la sua routine di
esercizio fisico. A poco a poco il dolore era diventato cronico, e raggiungeva
il picco quando correva sul tapis roulant. Era arrivata al punto che nel
pomeriggio doveva stendersi almeno un’ora perché il dolore si placasse.
Infine andò dal medico. Fece le radiografie che le vennero prescritte e
ricevette la brutta notizia: aveva un’osteoartrite degenerativa. Prima o poi
avrebbe dovuto affrontare un intervento per mettere una protesi all’anca.
La causa dell’artrite – ce ne sono molti tipi – è ignota, ma Ruth Ann aveva
una sua spiegazione: «Ero fissata con l’esercizio fisico. Ho preteso troppo da
me stessa e ora ne pago il prezzo». Si sentiva sconfitta. Da parte sua, aveva
adottato tutte le migliori strategie per rimandare la sua «trasformazione in
donna anziana». Perché era questa la sua più grande paura. E adesso, come
minuscoli folletti maligni usciti allo scoperto, ecco i sintomi
dell’invecchiamento accelerato comparire su di lei. La sua figura era quella di
una trentina d’anni prima, ma solo in apparenza. Infatti si sentiva stanca
senza motivo, appetito e sonno erano irregolari, con episodi di insonnia grave
che si protraevano per settimane. Stress anche modesti le causavano un’ansia
diffusa. Non si era mai sentita così impotente, e ora, ogni volta che si sentiva
una «donna anziana», voleva correre in palestra e rimettersi sul tapis roulant.
Insomma, Ruth Ann sentiva che il suo corpo l’aveva tradita. Ma
considerate la sua situazione dal punto di vista di una cellula, la quale non si
spinge mai oltre i propri limiti. Presta attenzione a ogni minimo segno di
danneggiamento, e subito si precipita a ripararlo. Obbedisce al ciclo naturale
di attività-riposo. Rispetta la profonda comprensione della vita incorporata
nel suo DNA. Secondo gli standard convenzionali, Ruth Ann faceva tutto
correttamente, ma a un livello più profondo era disconnessa dall’intelligenza
del suo corpo.
Abbiamo così tante cose positive da dirvi che parleremo del lato negativo
una sola volta: le due principali minacce al benessere, cioè malattia e
invecchiamento, sono costantemente presenti. Lontano dal vostro sguardo, in
segreto, la vostra attuale buona salute viene silenziosamente minata. Processi
anomali avvengono a livello microscopico nel corpo di ciascuno di noi.
Anomalie all’interno di una cellula che interessano solo un gruppo di
molecole o la forma di un enzima sono praticamente impercettibili. Non
potete avvertirle sotto forma di fitta dolorosa, e neppure di un vago disagio.
Possono volerci anni perché si tramutino anche solo in lievi sintomi. Tuttavia
verrà il giorno che il vostro corpo inizierà a raccontarvi una storia che non
volete ascoltare, proprio come ha fatto il corpo di Ruth Ann.
Questo libro spiega come posticipare quel giorno di anni, se non addirittura
di decenni. Il benessere profondo è possibile, e gli sviluppi più entusiasmanti
in corso sono solo il preludio di una vera e propria rivoluzione nella cura di
sé. Diventare pionieri di questa rivoluzione è il passo più significativo che
potete compiere per plasmare il futuro che desiderate per il vostro corpo, la
vostra mente e il vostro spirito. I geni svolgono un ruolo in tutti questi ambiti,
e ve lo mostreremo nelle prossime pagine.
Dai geni al super gene
Le minacce che insidiano il nostro benessere sono persistenti. Anche se in
questo momento ci consideriamo al sicuro, quanto è protetto il nostro
domani? I geni possono aiutarci a rispondere a questa domanda. Possono
portarci verso scelte a favore della vita, correggendo al tempo stesso quelle
sbagliate fatte in passato.
La prima cosa da fare è concentrarsi sulla cellula. Il nostro corpo ha dai
cinquantamila ai centomila miliardi circa di cellule (le stime variano di
parecchio). Non vi è un solo processo – dall’elaborazione di un semplice
pensiero all’avere un bambino, dal respingere batteri invasori al digerire un
panino al prosciutto – che non sia legato a un’attività specifica delle nostre
cellule. Una cellula deve badare al suo DNA e mantenerlo perfettamente
funzionante, perché il DNA, in quanto «cervello» della cellula, è in ultima
analisi responsabile di ogni processo. In un individuo sano questa attività si
verifica perfettamente più del 99,9% delle volte. Sono le piccole eccezioni,
pari a una minima frazione dello 0,1%, che possono causare problemi.
Il DNA, ben nascosto all’interno di ogni cellula, è qualcosa di
meraviglioso, una complessa combinazione di sostanze chimiche e proteine
che contiene il passato, il presente e il futuro di tutta la vita sul nostro pianeta.
Anche i batteri sono essenziali per il nostro corpo: a migliaia di miliardi
rivestono l’intestino e la pelle, e formano colonie dette microbioma. È noto
da molto tempo che i batteri presenti nell’intestino permettono
l’assimilazione, ma di recente il microbioma ha assunto un’importanza
maggiore.
Innanzitutto, vi è il gran numero di batteri coinvolti: qualcosa come il 90%
delle cellule del corpo. Ancora più cruciale, il DNA batterico è diventato
parte del DNA umano nel corso di miliardi di anni. Si stima che il 90% delle
informazioni genetiche dentro di noi sia batterico: i nostri antenati erano
microbi, e per molti aspetti questi sono ancora presenti nella struttura delle
nostre cellule.
Come si è detto, secondo una stima molto approssimativa il corpo può
contenere più di centomila miliardi di batteri. In isolamento, peserebbero
all’incirca tra un chilo e due chili e trecento grammi a secco. Se facciamo un
calcolo in base al numero di geni diversi che possediamo, sarebbero
all’incirca ventitremila geni all’interno delle cellule e un milione di geni per
tutti questi vari microbi. In un certo senso, siamo ospiti sofisticati dei
microrganismi che ci colonizzano.
Le implicazioni per la medicina e la salute sono potenzialmente
sbalorditive, e sono in fase di studio solo da poco. Una conclusione però è
inevitabile: il genoma umano, essendosi decuplicato, è diventato un super
genoma. A causa dei microbi ora coinvolti nella vicenda, l’eredità genetica
della Terra, vecchia 2,8 miliardi di anni, è presente dentro ognuno di noi, qui
e ora. Gran parte della materia originale, geneticamente parlando, si sta
ancora propagando nelle cellule del nostro corpo.
Il fatto che il DNA contenga l’intera storia della vita gli conferisce una
responsabilità enorme: un passo falso e l’intera specie umana può essere
spazzata via. Consapevoli di questo, per decenni i genetisti hanno guardato al
DNA come a una sostanza chimica stabile, la cui minaccia maggiore era
l’instabilità dovuta a un errore sfuggito alle difese dell’organismo. Ma ora
stiamo scoprendo che il DNA è sensibile a tutto ciò che ci accade nella vita, e
questo apre le porte a molte nuove possibilità che la scienza ha appena
iniziato a comprendere.
La storia di Saskia
Alcuni si ritrovano vittime apparenti dei propri geni, altri devono loro la
propria salvezza. La donna di cui ora vi raccontiamo può dire di avere vissuto
entrambe le situazioni. Saskia, cinquantenne, ha un carcinoma mammario
avanzato metastatizzatosi in altri organi del corpo, tra cui le ossa. Nella sua
più recente battaglia contro la malattia ha scartato la chemioterapia a favore
dell’immunoterapia, che mira ad aumentare la risposta immunitaria del corpo.
Ha anche deciso di dedicare una settimana a imparare come prendersi cura di
sé con esercizi di meditazione, yoga, massaggi e altre terapie complementari
presso il Chopra Center, che citiamo solo per completezza d’informazione,
non per attribuirci il merito di quanto è accaduto in seguito.
Saskia ha apprezzato molto la settimana al Chopra Center, e alla fine del
programma aveva la sensazione di potersi relazionare meglio al proprio
corpo. Le è piaciuto il modo in cui è stata trattata, in particolare
l’atteggiamento amabile delle massaggiatrici. Al termine della settimana ha
riferito che il suo dolore alle ossa era scomparso, e che si sentiva molto
meglio sia emotivamente sia fisicamente. Poi ci ha inviato un’e-mail per
raccontarci che cosa è successo dopo.
Il giorno dopo essere tornata a casa ho fatto un’altra PET-TAC, a quattro mesi dall’ultima, e la
settimana seguente sono stata alla visita di controllo dal mio oncologo. Anche se ero pronta al
peggio, avevo deciso che per quanto brutto potesse rivelarsi il referto io mi sentivo meglio, ed
era questo che contava. Ma anziché darmi cattive notizie, l’oncologo mi ha detto che non aveva
mai visto una risposta simile in così poco tempo, e soprattutto senza chemioterapia. Era davvero
sorpreso, e ora è molto più interessato a quello che faccio!
Gli ho raccontato quello che ho imparato al Chopra Center (soprattutto la meditazione, lo
yoga e i massaggi), i cambiamenti apportati alla mia alimentazione e quanto mi era stato di
sostegno mio marito negli ultimi mesi. Personalmente, sono convinta che tutte queste cose
insieme abbiano contribuito al mio miglioramento.
In pratica, tutte le metastasi ai linfonodi e al fegato sono sparite, e anche più della metà di
quelle ossee. Le rimanenti sono tutte notevolmente diminuite di volume. C’è una nuova
metastasi a un linfonodo sul lato sinistro del collo, ma secondo il mio medico è poco
significativa, considerato il miglioramento generale. Alla fine mi ha raccomandato di continuare
così.

Ci sono due reazioni possibili dinanzi a questa testimonianza. Una è quella


medica standard, cioè lo scetticismo. La maggior parte degli oncologi, infatti,
considererebbe l’esperienza di Saskia un mero esempio di casistica
aneddotica che ha scarso peso sulle statistiche complessive relative al
trattamento del cancro e alla sopravvivenza. Nel cancro, infatti, contano i
grandi numeri. È ciò che accade a migliaia di pazienti, non a un singolo caso,
a fare storia.
L’altra reazione alla testimonianza di Saskia è quella di indagare come le
novità introdotte nel suo stile di vita abbiano potuto produrre un risultato così
evidente. Proviamo a elencare tutti i cambiamenti da lei sperimentati che
potrebbero avere influenzato la sua espressione genica:

Migliore atteggiamento verso la sua patologia.


Maggiore ottimismo.
Diminuzione del dolore osseo.
Sostegno emotivo da parte del marito.
Nuove conoscenze sulla connessione mente-corpo.
Nuove scelte di stile di vita nella sua routine quotidiana: meditazione,
yoga, massaggi.
Benefici del massaggio terapeutico e di altri trattamenti ricevuti al
Chopra Center.

L’elenco è vario, e solo uno o due punti potrebbero figurare tra gli attuali
trattamenti standard contro il cancro. Ma c’è un filo comune che li connette
tutti. Nuovi messaggi sono stati scambiati tra il cervello e i geni di Saskia, e
se la medicina fosse in grado di decodificarli saremmo molto più vicini alla
soluzione del mistero della guarigione.
Non è facile per un medico che si sforza di curare i propri pazienti
ammettere che l’unico vero guaritore del corpo è il corpo stesso. E come il
corpo mobiliti atomi e molecole per ottenere la guarigione rimane un
profondo mistero.
Che cosa accadrà a Saskia nei prossimi mesi e anni non è prevedibile. Qui
non intendiamo affatto promuovere cure miracolose: sappiamo bene che
«miracolo» non è un termine utile per comprendere il funzionamento del
corpo.
Se potessimo ascoltare il flusso di messaggi che inviamo al nostro corpo a
livello genetico durante una giornata, con ogni probabilità sentiremmo cose
simili:
«Continua a fare quello che fai».
«Rifiuta o ignora il cambiamento».
«Tieni questi problemi alla larga da me. Non voglio saperne».
«Rendi piacevole la mia vita».
«Risparmiami difficoltà e sofferenze».
«Occupatene tu, io non ne ho voglia».

Non siamo consapevoli di questi messaggi perché non li esprimiamo


verbalmente. Ma la nostra intenzione è chiara, e le cellule rispondono a ciò
che vogliamo e facciamo, non a ciò che diciamo. Siamo fortunati che il
nostro corpo sia in grado di funzionare «in automatico» per decenni e con una
perfezione quasi totale, ma se non partecipiamo direttamente al nostro
benessere, inviando messaggi consapevoli ai nostri geni, tale funzionamento
può non bastare.
Il benessere profondo esige scelte attive. Facendo quelle giuste, i nostri
geni collaboreranno con noi in tutto e per tutto. È questa la nuova storia a cui
vogliamo farvi appassionare, e che vogliamo diventi la vostra storia. Quando
li usate per la trasformazione, i vostri geni diventano super geni. Per guidarvi
alla meta, il resto del libro è suddiviso in tre parti:

1. «La scienza della trasformazione», in cui forniremo un’ampia


panoramica delle più recenti scoperte sulla nuova genetica e della
rivoluzione che sta cambiando la biologia, l’evoluzione, l’ereditarietà e
lo stesso corpo umano.
2. «Scelte di stile di vita per un benessere profondo», in cui tracceremo un
percorso di cambiamento al tempo stesso pratico e il più possibile
agevole.
3. «Guidare la propria evoluzione», in cui andremo alla fonte di ogni
crescita e cambiamento, che è la consapevolezza. Non possiamo
cambiare ciò di cui non siamo consapevoli, e quando lo siamo
totalmente la trasformazione si concretizza.

Ecco la mappa del nostro viaggio. Delinea il territorio da coprire, ma


finché non vi entrerete personalmente, questo non diventerà reale per voi. Ciò
che rende unica questa avventura è che ogni passo ha il potere di cambiare la
vostra realtà personale. Nulla potrebbe essere più affascinante o più
gratificante.
Quasi mille anni prima che il DNA rivelasse il suo primo segreto, il poeta e
mistico persiano Rumi intraprese questo stesso viaggio. Poi si guardò alle
spalle per rivelarci dove conduce la strada:

Granelli di polvere danzano nella luce:


così è anche la nostra danza.
Noi non ascoltiamo la musica interiore,
ma non importa.
La danza della vita procede comunque,
e nella gioia del sole
si cela un Dio.
PARTE PRIMA
La scienza della trasformazione
GRAZIE alla rivoluzione genetica attualmente in corso, un nuovo e potente
alleato si è fatto avanti per favorire la felicità umana. Il concetto di DNA
come scrigno del codice della vita non è nuovo, ma sapere che possiamo
usare i nostri geni è invece una grande novità. Il DNA non è chiuso sotto
chiave, bloccato come un conto bancario da cui non si può attingere. Come
già accennato, la vecchia convinzione secondo cui «la biologia è destino»
non ha più la presa ferrea di un tempo. La scienza della trasformazione
racconta una nuova storia di possibilità infinite insite nel DNA. Ma per
comprendere questa storia è necessario osservare il DNA in tutta la sua
fantastica complessità.
L’evoluzione della vita sul pianeta è condensata all’interno dell’acido
desossiribonucleico, che è il nome per esteso del DNA. Un singolo filamento
di DNA è lungo tre metri, ma sta in uno spazio di soli due o tre micron cubi
nel nucleo della cellula. Solo circa il 3% del nostro DNA è costituito da geni,
i quali forniscono i modelli per le proteine e l’acido ribonucleico (RNA), il
«facsimile» del DNA con cui vengono prodotte le proteine o viene regolata
l’attività genica. Questi, insieme a grasso, acqua e una quantità enorme di
microbi amici, costituiscono il nostro corpo fisico. Per un genetista, siamo
una colonia altamente complessa costituita da DNA, e in costante processo di
ricostruzione.
La sovrastruttura del corpo è in continua fase di revisione, che varia a
seconda di come viviamo la nostra vita. La cosiddetta espressione genica – le
migliaia di sostanze chimiche prodotte dai geni – è estremamente malleabile,
diversamente da quello che la maggior parte dei non addetti ai lavori sa o
pensa. Per esempio, quante volte abbiamo sentito frasi fatte come: «Tale
padre, tale figlio» o «La mela non cade lontano dall’albero»? E quanto sono
vere, in realtà? Siamo davvero soltanto una replica con varianti minime della
biologia e della personalità dei nostri genitori?
La nuova genetica dice di no. Come il nostro cervello, che reagisce a ogni
scelta che facciamo, anche il nostro genoma è costantemente reattivo.
Sebbene i geni che ci sono stati trasmessi dai nostri genitori non si
trasformino in nuovi geni – il nostro modello unico resta uguale per tutta la
vita – l’espressione genica cambia in modo fluido, e spesso molto
rapidamente. I geni sono suscettibili di variazioni sfavorevoli che possono
verificarsi in seguito ad alimentazione errata, malattie, stress e molti altri
fattori. Ecco perché lo stile di vita quotidiano ha ripercussioni fino a livello
genetico. È tramite l’espressione genica che l’intelligenza del corpo
acquisisce forma fisica. E ancora più sorprendente, come vedremo, è il fatto
che il modo in cui influenziamo il nostro corpo oggi potrebbe ripercuotersi
sul benessere dei nostri figli e nipoti domani.
Oltre che dal DNA, il nostro genoma è costituito da speciali proteine che
sostengono e avvolgono il DNA. Il DNA stesso è composto da quattro basi
chimiche che si accoppiano per formare i pioli della doppia elica. Queste
quattro basi sono adenina (A), timina (T), citosina (C) e guanina (G). Il fatto
che un alfabeto di sole quattro lettere sia responsabile di ogni forma di vita
sulla Terra non smette mai di stupire. Ecco come la complessità nasce dalla
semplicità: A si accoppia con T, e C con G. Il nostro genoma riceve tre
miliardi di queste basi da ciascun genitore. I tre miliardi di basi sono ripartiti
in ventitré cromosomi, classificati da uno a ventidue, più i cromosomi
sessuali X e Y. La madre dà sempre ai figli un cromosoma X. Se il padre dà
un cromosoma Y, il nascituro sarà di sesso maschile; se invece dà un altro
cromosoma X, sarà di sesso femminile. Dal momento che ciascuno dei nostri
genitori ci ha dato ventitré cromosomi e tre miliardi di basi di DNA, le nostre
cellule contengono un totale di quarantasei cromosomi e sei miliardi di basi.
Capiamo allora come la Natura si sia fornita di sufficiente materiale per
creare, da sole quattro lettere, una falena, un topo o un Mozart.
L’epocale Progetto genoma umano, completato nel 2003, ha prodotto,
insieme ad altri studi successivi, alcuni risultati sorprendenti, anzi addirittura
sconcertanti. Per esempio, il nostro genoma contiene all’incirca ventitremila
geni, che è molto meno di quanto si pensasse. Consideriamo l’Homo sapiens
la forma di vita più evoluta sulla Terra, ma questo non significa che ha più
geni: il genoma del riso, che ha solo dodici coppie di cromosomi, ne ha ben
cinquantacinquemila! Com’è possibile che la nostra specie abbia meno geni
di un chicco di riso? La risposta ha a che fare con l’efficienza sviluppata dai
nostri geni, e soprattutto con il numero di proteine diverse che ciascuno di
questi è in grado di produrre. La chiave è l’espressione genica.
Rispetto ai geni del riso, ognuno dei nostri è in grado di produrre molte
versioni differenti della stessa proteina, ciascuna con un ruolo lievemente
diverso, sia questo costruire una cellula o regolamentarla. Grazie
all’evoluzione del nostro DNA, noi esseri umani otteniamo più funzioni
biologiche da un numero minore di geni. Economia di scala, insieme a
ridondanza (che fornisce un’utile riserva di supporto, così che la
sopravvivenza non dipenda da un solo sistema genetico), è la regola
nell’evoluzione. E i nostri geni stanno ancora evolvendo per garantire un
sempre migliore rapporto costi-benefici. Inoltre, i geni più importanti per la
sopravvivenza della nostra specie hanno copie di se stessi, nel caso venissero
corrotti da mutazioni dannose. Questa sì che è efficienza e lungimiranza!
Come si diventa unici
Da questi pochi dati di base è già evidente come la nostra costituzione
genetica sia unica in due sensi: primo, siamo unici perché i geni con cui
siamo nati non li ha nessun altro, a meno che non abbiamo un gemello
monozigote; secondo, siamo unici per ciò che i nostri geni stanno facendo in
questo preciso istante, perché questa attività è la nostra storia, il libro della
vita di cui noi siamo gli autori. L’esito di semplici scelte di stile di vita
quotidiana – Vado in palestra o resto a casa? Al lavoro spettegolo o mi faccio
i fatti miei? Aiuto gli altri o penso solo a fare soldi? – dipende da un unico
interrogativo: Che cosa sto chiedendo ai miei geni di fare? L’interazione tra
noi e il nostro genoma è determinante per il nostro presente e per il nostro
futuro.
Va detto, tuttavia, che non è necessario l’intero genoma per renderci unici.
Nei tre miliardi di basi del DNA donatici da ciascuno dei nostri genitori vi è
una differenza ogni mille basi rispetto alla stragrande maggioranza del DNA
umano presente sul pianeta. Questo significa che ciascuno dei nostri genitori
ci ha passato circa tre milioni di basi note come varianti del DNA. A volte,
ma accade di rado, una variante del DNA può essere la garanzia che una certa
malattia insorga nel corso della vita, o semplicemente contribuire ad
aumentare il rischio di contrarla. Per esempio, in uno dei tre miliardi di pioli
della doppia elica è possibile avere la base A, mentre nostro fratello può
avere una T. Questa differenza può determinare la nostra predisposizione,
assente in nostro fratello, a sviluppare una patologia come il morbo di
Alzheimer o una particolare forma di cancro.
Contrariamente a quanto si crede comunemente, non esiste un gene della
malattia. Tutti i geni sono «buoni» e presiedono a una funzione normale e
necessaria al corpo. Sono le varianti di cui sono portatori che possono dare
problemi. Tuttavia, alcune mutazioni aumentano la resistenza alle malattie. Si
è scoperto, per esempio, che alcuni rari ceppi famigliari sono quasi
totalmente immuni da patologie cardiache: per quanti cibi grassi mangino, in
loro il colesterolo non viene convertito in grassi ematici che rivestono di
placca le arterie coronarie. I genetisti cercano di individuare queste
popolazioni particolari per scoprire quale variante possa averle dotate di una
così grande resistenza alle patologie cardiache. Allo stesso modo, esistono
piccole, rare popolazioni in cui l’Alzheimer presenile colpisce pressoché tutta
la discendenza famigliare. Anche queste vanno attentamente studiate, nel
tentativo di scoprire se una firma genetica sia responsabile di un destino tanto
avverso.
Rudy ha avuto la fortuna di partecipare al pionieristico esordio dell’attuale
rivoluzione genetica. Quando lui e il suo collega James Gusella, appena
ventenni, portavano avanti presso il Massachusetts General Hospital la prima
mappatura del genoma umano, furono gli unici ricercatori al mondo a
individuare un gene patogeno monitorando varianti naturali del DNA nel
genoma. Nel loro studio, un’autentica pietra miliare, Rudy e James furono in
grado di dimostrare che il gene del morbo di Huntington si trova sul
cromosoma 4. Il morbo di Huntington è una malattia devastante, e prima di
allora non si avevano indizi sulla sua causa.
Alcune varianti sono più comuni, perché presenti in oltre il 10% della
popolazione umana. Altre sono mutazioni rare, isolate. Una variante genetica
può predisporre a determinate malattie o comportamenti, per questo la ricerca
si concentra tanto sul contributo genetico all’Alzheimer o alla depressione.
Altre varianti non causano nulla, perlomeno non all’attuale stadio della nostra
evoluzione. La nostra personale «impronta digitale» del DNA si basa sul set
di varianti che abbiamo ereditato. Queste determinano sia il funzionamento
sia la struttura delle centinaia di migliaia di tipi diversi di proteine del nostro
corpo.
Le varianti genetiche che ci conferiscono una data caratteristica fissa, per
esempio gli occhi azzurri o i capelli biondi, sono note come varianti
genetiche completamente penetranti, e sono una netta minoranza, cioè appena
il 5% circa del totale. Ma nella stragrande maggioranza dei casi, per quanto
riguarda la salute e la personalità il nostro destino genetico non è immutabile.
I geni sono solo una componente dell’infinita, mutua interazione tra DNA,
comportamento e ambiente. A evidenziarlo è stato un recentissimo studio
sull’autismo apparso nel 2015 su Nature Medicine. L’autismo è un disturbo
sconcertante perché non ne esiste un unico tipo, e ciascuno presenta un ampio
spettro di comportamenti, su cui Rudy ha lavorato a lungo nel corso della sua
carriera. L’immagine di un bambino autistico veicolata dai mass media è
quella di un individuo del tutto chiuso in se stesso, che difficilmente reagisce
agli stimoli esterni. Totalmente perso nel proprio mondo, può oscillare avanti
e indietro per ore, o trastullarsi con gesti reiterati simili a quelli di un robot.
Le emozioni sono gravemente carenti, se non inesistenti, e i genitori le
provano tutte per infrangere quella spessa corazza.
In alcune famiglie sono presenti addirittura due figli autistici, e spesso i
genitori riferiscono che il loro comportamento è notevolmente diverso. Lo
studio sopra citato, che prendeva in esame i geni di fratelli autistici, ha
confermato questo dato empirico. I ricercatori hanno esaminato ottantacinque
famiglie in cui a due figli era stato diagnosticato l’autismo. È possibile,
tramite tecniche note come studi di associazione su scala genomica e
sequenziamento dell’intero genoma, esaminare milioni di varianti del DNA
nel genoma di un soggetto. Lo studio in questione ha preso di mira cento
varianti specifiche che sono state geneticamente associate a un maggiore
rischio di autismo. Con sorpresa generale, solo il 30% circa dei fratelli
autistici aveva la stessa mutazione nel proprio DNA. In questo gruppo, i due
bambini autistici si comportavano più o meno allo stesso modo. Ma nel
gruppo che non condivideva la mutazione, cioè il restante 70%, il
comportamento dei soggetti era tanto diverso quanto lo è normalmente tra
due fratelli. Questo suggerisce che l’autismo è unico perché ogni essere
umano è unico. Anche se gli scienziati esaminassero il genoma di migliaia di
bambini autistici, sarebbe estremamente difficile determinare la base
biologica della malattia.
Purtroppo, il fatto di non essere in grado di prevedere in anticipo l’autismo
ci lascia in uno stato di incertezza. La possibilità di avere due bambini
autistici in una famiglia di quattro o più figli è remota, circa una su diecimila.
Come riportato dal New York Times, una coppia canadese che aveva già un
figlio gravemente autistico e un secondo senza problemi di sviluppo, si era
rivolta a specialisti perché desiderava un terzo figlio e voleva sapere che
rischio c’era che potesse essere autistico. I medici, nell’intento di fare una
previsione, esaminarono il genoma del primo figlio autistico e rassicurarono
la coppia dicendo loro che le probabilità di avere un altro bambino autistico
erano remote, e che in ogni caso, anche se fosse stato autistico, non sarebbe
stato un caso grave. Invece il bambino che la coppia decise di mettere al
mondo sviluppò una forma acuta di autismo, e oggi la coppia riferisce che i
due figli autistici non si comportano allo stesso modo: uno è abbastanza
estroverso da avvicinarsi agli sconosciuti, l’altro non osa nemmeno farlo; uno
adora giocare con il computer, l’altro non mostra alcun interesse per i
videogiochi; uno è vivace e attivo, l’altro preferisce starsene tranquillo in un
angolo.
Ecco il risultato della diversità. Per quanti campioni genetici si prelevino
da un albero genealogico, le caratteristiche del prossimo bambino che nascerà
saranno in gran parte imprevedibili, non solo per quanto riguarda il rischio di
autismo ma in assoluto.
Se i geni determinano chiaramente certe cose, come l’insorgenza di alcune
rare forme di una patologia, il più delle volte le varianti genetiche che
ereditiamo si limitano a conferire una certa «sensibilità» verso una
determinata malattia. Lo stesso si può dire della predisposizione genetica a
certi tipi di comportamento o di personalità. In altre parole, è quello che
facciamo, quello che sperimentiamo e la nostra visione del mondo, insieme a
ciò a cui siamo esposti nell’ambiente, a determinare fortemente l’esito dei
geni che ereditiamo. Nessuno è in grado di misurare con precisione quanto
sia possibile influenzare la propria espressione genica, ma sul fatto che il
nostro apporto sia essenziale non ci sono più dubbi, perché è costante.
Oggi è possibile ricostruire il genoma dei Neanderthal dai loro resti, ma la
futura evoluzione degli esseri umani non è osservabile, per quanto minuzioso
sia l’esame dei loro geni. Non esiste un gene per la matematica o per la
scienza. E se si confrontassero i geni di Mozart con quelli di un violinista
dilettante, sarebbe impossibile dire quale dei due fosse il genio musicale.
Anche le previsioni più chiare si stanno rivelando tutt’altro che semplici.
Una donna in gravidanza, per esempio, potrebbe essere curiosa di sapere
l’altezza di suo figlio da grande, ma non esiste un singolo gene per l’altezza.
Finora pare che nella determinazione dell’altezza siano coinvolti oltre venti
geni, e anche se si potesse prevedere come questi si esprimeranno, nella
migliore delle ipotesi potremmo arrivare al massimo al 50% della risposta.
Fattori ambientali come l’alimentazione, sia della madre sia del figlio,
concorreranno all’altra metà.
A ogni modo, proviamo a essere ottimisti e ipotizziamo che la genetica,
utilizzando qualche invenzione tipo un super computer, possa un giorno
maneggiare ciascuno dei fattori fisici interconnessi. Anche con tutti quei dati
a disposizione, prevedere quanto diventerà alto un bambino resterebbe ancora
incerto, perché possono sempre insorgere eventi imprevisti. Esiste per
esempio una patologia, il cosiddetto nanismo psicologico, in cui bambini che
crescono in contesti famigliari violenti iniziano a soffrire di rachitismo e
presentano una crescita stentata. La connessione mente-corpo può cioè
trasformare in espressione fisica un fattore psicologico pesantemente gravato
di danni emotivi. In altre parole, l’alfabeto del DNA ha «parole»
incommensurabili da scrivere, e quali saranno queste parole resta ignoto.
A volte è possibile assistere in diretta all’alterazione del DNA di un
individuo causata dalle esperienze di vita. Al termine di ciascun cromosoma
vi è una parte di DNA detta telomero, che protegge il cromosoma dal rischio
di disfarsi, un po’ come la punta rinforzata delle stringhe delle scarpe. Con
l’avanzare dell’età, a ogni nuova divisione cellulare i nostri telomeri si
accorciano, e dopo decine di divisioni diventano così corti che la cellula si fa
senescente, cioè non è più in grado di dividersi. Segue così la sua morte, e la
mancanza di nuove cellule per rimpiazzarla.
Ora si è visto che le esperienze di un individuo influenzano anche i
telomeri. Alcuni scienziati della Duke University hanno analizzato campioni
di DNA di bambini, prima a cinque e poi di nuovo a dieci anni. Sapevano che
alcuni di quei bambini avevano subìto abusi fisici, episodi di bullismo o
violenti contrasti domestici. Bene: quelli che avevano sperimentato più
esperienze negative e stressanti avevano subìto una più rapida erosione dei
telomeri. Viceversa, da altre ricerche è risultato che esercizio fisico e
meditazione aumentavano la lunghezza dei telomeri.
Le implicazioni sono profonde e pervasive. La nostra longevità non è
dunque influenzata solo da varianti del DNA ereditate dai genitori. Quello
che ci accade oggi potrebbe palesarsi domani nella struttura dei nostri
cromosomi.
Uno dei percorsi più affascinanti della nuova genetica riguarda le
esperienze esistenziali e i nostri geni. L’esistenza umana è infinitamente
complessa, e questo rende la comprensione delle reazioni dei nostri geni alla
vita quotidiana un compito veramente arduo. Ma in qualche modo questi
reagiscono al modo in cui viviamo, e oggi iniziamo a capire come.
È proprio questo l’argomento del prossimo capitolo, che tratta di nuove
possibilità e di avvincenti misteri.
Come trasformare il nostro futuro
L’avvento dell’epigenetica

CIÒ che permette ai geni di essere l’esatto opposto di fissi, cioè fluidi,
malleabili e interconnessi, rientra nell’ambito di ricerca di una nuova
disciplina: l’epigenetica. Il greco epi significa «sopra», quindi l’epigenetica è
lo studio di ciò che sta in cima alla genetica. In termini fisici, ci si riferisce
alla guaina di proteine e sostanze chimiche che avvolge e modifica ogni
filamento di DNA. L’intero insieme di modificazioni epigenetiche del DNA
presente nel nostro corpo è noto come epigenoma. In questo momento le
ricerche sull’epigenoma costituiscono forse l’ambito più interessante della
genetica, perché è lì che i geni vengono accesi e spenti come se fossero
interruttori della luce. Ma che cosa accadrebbe se fossimo in grado di
controllare questi interruttori volontariamente? Una simile prospettiva offre al
genetista avventuroso possibilità vertiginose.
Negli anni Cinquanta, prima ancora che sospettassimo l’esistenza
dell’epigenoma, il biologo inglese Conrad Waddington fu il primo a
ipotizzare che lo sviluppo umano dall’embrione al soggetto anziano non fosse
geneticamente determinato nel DNA. Ci vollero decenni perché la nozione di
genetica «a programmazione soft» prendesse piede, per la solita ragione che i
geni venivano ritenuti fissi. Alla fine, però, non fu più possibile ignorare
alcune anomalie. I gemelli monozigoti, cioè identici, sono l’esempio più
classico, poiché nascono con geni identici. Dunque, se il DNA li
determinasse, sarebbero biologicamente predestinati a essere esattamente
identici per tutta la vita.
E invece non lo sono. I gemelli monozigoti, dotati di un DNA genomico
praticamente identico, possono essere molto diversi l’uno dall’altro a seconda
delle loro esperienze ambientali ed esistenziali, e delle relative ripercussioni
sull’attività genica. Se conoscete dei gemelli li avrete senz’altro sentiti dire
quanto si sentano diversi l’uno dall’altro.
Ci vuole ben altro che un medesimo genoma per creare un individuo. Due
edifici identici costruiti a partire dal medesimo progetto possono essere
luoghi molto diversi a seconda delle attività che vi si svolgono. Per esempio,
sappiamo che la schizofrenia ha una componente genetica, ma se un gemello
è schizofrenico c’è solo il 50% di probabilità che anche l’altro lo sia. Questo
mistero richiede ulteriori approfondimenti, ma già capiamo quanto la biologia
come destino sia un grande forse. L’epigenetica nacque quando i genetisti si
concentrarono sui controlli sottesi all’espressione genica e scoprirono che la
loro flessibilità è uno dei doni più preziosi della vita.
Se tutte le cellule del nostro corpo hanno sequenze di DNA e schemi
genetici in gran parte identici, ognuno dei circa duecento tipi di cellule
possiede strutture e ruoli diversi. Al microscopio un neurone appare così
differente da una cellula cardiaca che si fatica a credere che possano essere
gestiti dallo stesso DNA. I geni sono programmati per creare una varietà di
cellule diverse a partire dalle cellule staminali, che sono i precursori delle
cellule mature. Le cellule staminali immagazzinate nel nostro midollo osseo,
per esempio, rimpiazzano le cellule del sangue a mano a mano che muoiono,
cioè ogni pochi mesi. Anche il cervello ha una fornitura a vita di cellule
staminali, il che consente la generazione di nuovi neuroni in qualunque fase
della vita: un’ottima notizia per una popolazione senescente che desidera
rimanere il più a lungo possibile vitale e mentalmente lucida.
Una piena comprensione dell’ereditarietà soft è in atto solo ora, e a ogni
passo ci sono nuove sorprese. In uno studio del 2005 il dottor Michael
Skinner ha dimostrato che esponendo una ratta gravida a sostanze chimiche
che ne compromettono la funzione sessuale si provocano problemi di
infertilità nella sua prole fino ai trisnipoti. Sorprendentemente, i problemi di
infertilità venivano trasmessi alla generazione successiva come eredità soft
dai ratti maschi – per mezzo di marcatori chimici detti gruppi metilici sul
DNA – insieme alla sequenza di DNA dei genitori. Sappiamo che la
trasmissione non era un’ereditarietà «hard» perché la sequenza effettiva del
DNA dei geni trasmessi rimaneva la stessa.
Se il DNA è il deposito di miliardi di anni di evoluzione, l’epigenoma è il
deposito delle attività genetiche a breve termine, molto recenti o risalenti a
una, due o più generazioni. Che una memoria possa essere ereditata non è un
fatto nuovo in biologia. Le ossa delle pinne dei pesci ancestrali sono le stesse,
in termini di struttura, di quelle delle zampe dei mammiferi e delle nostre
mani. Questo genere di memoria è decisamente innato, perché l’evoluzione
da specie di pesci, orsi, procioni e Homo sapiens ha impiegato milioni di anni
per diventare fissa. La novità nell’epigenetica è che la memoria di esperienze
personali – nostre, di nostra madre o di nostra bisnonna – potrebbe essere
trasmessa direttamente.
Questo ci porta al concetto forse più importante della nuova rivoluzione
genetica: l’epigenoma permette ai geni di reagire all’esperienza. Questi non
sono più fissi, ma aperti al mondo quanto noi, il che offre la possibilità che il
modo in cui reagiamo alla vita quotidiana, sia fisicamente sia
psicologicamente, venga trasmesso ai nostri discendenti per via ereditaria
soft. In breve, sottoponendo i nostri geni a uno stile di vita sano, creiamo dei
super geni.
Una simile possibilità era fantascienza fino a pochi anni fa, quando era
scolpito nella pietra che solo il DNA viene trasmesso dai genitori ai figli. Ma
in uno studio del 2003, presto divenuto una pietra miliare, dei ricercatori
hanno preso due gruppi di topi sviluppati con un gene mutante che li aveva
fatti nascere con una pelliccia rossiccia e un appetito vorace – erano stati
geneticamente programmati per mangiare compulsivamente fino a diventare
obesi – e hanno alimentato uno dei due con una dieta standard da topo,
mentre all’altro veniva somministrato lo stesso cibo ma con aggiunta di
integratori alimentari (acido folico, vitamina B12, colina e una sostanza
naturale estratta dalla barbabietola da zucchero, la betaina). Risultato: la prole
dei topi a cui erano stati somministrati gli integratori alimentari cresceva con
una pelliccia marrone e un peso normale, a dispetto del gene mutante.
Sorprendentemente, il gene mutante per la pelliccia rossiccia e l’appetito
vorace era soppresso dalla dieta materna.
A sostegno di questa scoperta, da un altro studio è emerso che i topi le cui
madri avevano ricevuto meno vitamine erano più predisposti all’obesità e ad
altre malattie. Quindi lo stato nutrizionale materno può avere un influsso sulla
prole ben più profondo di quanto si credesse un tempo.
Le implicazioni di questi studi sono state rivoluzionarie su più fronti. In
primo luogo, l’epigenoma interagisce sempre con la vita quotidiana: ciò che
vi accade oggi viene registrato a livello epigenetico e, se gli esseri umani
reagiscono come i topi, potenzialmente trasmesso alle generazioni future. Le
vostre predisposizioni, quindi, potrebbero non appartenere solo a voi, ma
situarsi su una specie di nastro trasportatore genetico su cui ogni generazione
aggiunge il proprio contributo.
Da un altro studio pubblicato nel 2005 si è osservato che le donne incinte
che avevano assistito agli attentati dell’11 settembre avevano trasmesso ai
loro bambini livelli più alti di cortisolo, l’ormone dello stress. L’eventuale
infanzia traumatica di nostra madre o di nostra nonna potrebbe dunque avere
influenzato la nostra personalità, predisponendola all’ansia e alla depressione.
Se il genoma è il progetto architettonico della vita, l’epigenoma ne è
contemporaneamente il capomastro, la squadra di operai e il loro supervisore.
Un mistero olandese
Abbiamo visto come l’epigenetica studi i cambiamenti nell’attività genica
indotti da esperienze esistenziali. Tali cambiamenti non richiedono mutazioni
nella sequenza del DNA. Si tratta piuttosto di una sorta di meccanismo di
commutazione, ma non di un semplice acceso-spento. Il meccanismo di
commutazione del DNA è tanto complesso quanto il comportamento umano.
Pensate a una reazione comune come perdere le staffe. La rabbia può
divampare all’improvviso e poi spegnersi come si accende o si spegne una
luce, o covare per un certo tempo. Può essere repressa, mascherata
dall’autocontrollo delle proprie emozioni, e quando divampa può variare da
lieve a incontenibile. Tutti accettiamo queste distinzioni perché conosciamo
sia teste calde sia individui freddi e compassati. Sappiamo come dissimulare
la nostra rabbia, ma al tempo stesso lottiamo contro di lei.
Ora trasferite questo scenario all’attività genica, poiché valgono le stesse
variabili. Qualunque attività genica può essere dissimulata o spenta, espressa
totalmente o parzialmente, aumentata o diminuita come se fosse regolata da
un termostato. E proprio come la rabbia interagisce con qualunque altra
emozione, così ogni gene interagisce con gli altri geni. È sempre più evidente
che qualunque esperienza soggettiva deve la sua complessità a una
complessità parallela a livello microscopico.
Quante cose ancora ignoriamo! Se le emozioni gestiscono i geni e i geni le
emozioni, la circolarità parrebbe senza fine. Pur avendoci introdotti nella sala
di controllo in cui avviene tutta la commutazione, l’epigenetica non ci ha
ancora permesso di mettere mano agli interruttori. Padroneggiare i comandi è
responsabilità individuale di ciascuno di noi. In caso contrario, i cambiamenti
genetici possono essere drastici. Analizziamo un caso molto noto e piuttosto
curioso.
Il grafico sotto riportato, realizzato da un ricercatore informatico di nome
Randy Olson, riguarda i dati sull’altezza degli uomini europei negli anni
1820-2013 (esistono anche calcoli diversi da quello qui riportato, ma il
modello generale è lo stesso). Prestate particolare attenzione al tracciato
relativo all’Olanda.
Sorprendentemente, gli olandesi sono gli uomini più alti al mondo, con
un’altezza media di 1,85 metri. Ad Amsterdam esiste addirittura un club per
uomini oltre il metro e novanta. Del resto, passeggiando per Amsterdam si
incontrano uomini e donne altissimi.
Questo aumento dell’altezza media è una tendenza recente, come si può
constatare anche dal grafico. Aumenti costanti si sono registrati in molti Paesi
dal 1820, ma gli olandesi si distinguono in modo particolare, poiché in
passato erano gli europei più bassi. L’esame di scheletri rinvenuti in tombe
risalenti al 1850 indicano che gli uomini olandesi erano alti in media circa
1,67 e le donne 1,55 (gli uomini al secondo posto per altezza nel 2013, cioè i
danesi, nel 1829 erano alti circa 6 centimetri in più degli olandesi, ma ora
sono lievemente retrocessi). Che cosa ha causato un picco di crescita così
evidente in un arco di tempo così breve?

In cerca di una spiegazione, Olson ha consultato altre statistiche e ha


osservato che a mano a mano che il reddito degli olandesi aumentava, e
quindi diventavano più prosperi, la ricchezza era anche ripartita in maniera
più uniforme. Anziché solo pochi privilegiati, quasi tutti guadagnavano di
più. Questo portò a una migliore alimentazione, che è correlata a una
maggiore crescita fisica. Ma tale andamento economico era presente in quasi
tutta l’Europa, quindi non spiega completamente perché proprio gli olandesi
siano cresciuti così tanto.
A infittire ulteriormente il mistero, per una parte del XIX secolo gli
olandesi che abitavano in città sono in realtà diminuiti di statura rispetto alla
popolazione rurale. Vivere in un contesto urbano, con la sua alta mortalità
infantile, le malattie trasmissibili, un sottoproletariato impoverito e aria e
acqua inquinate ha portato a un deficit di altezza di 2,54 centimetri negli
individui di sesso maschile. Allo stesso tempo, le popolazioni urbane
andavano costantemente arricchendosi, quindi la prosperità non è un
indicatore ideale dell’altezza.
Una lucida intuizione ha spostato lo sguardo direttamente sui geni. La
sequenza del DNA nei geni degli olandesi è più o meno la stessa di inizio
Ottocento. Fino a poco tempo fa, infatti, non si registravano forti ondate di
immigrazione, e pare che nemmeno queste abbiano alterato i geni degli
olandesi, se non nei casi di matrimoni misti. Ma se fosse vero il contrario? È
generalmente accettato, fa notare Olson, che i nostri antenati fossero alti:
forse l’olandese medio di centinaia di generazioni fa era alto, poi la cattiva
alimentazione ha causato una decrescita; in tal caso, un’alimentazione
migliore potrebbe avere innescato geni ancestrali, causando un picco di
crescita. Questa è una tenue possibilità, ma qualunque spiegazione deve
includere i geni, in particolare l’epigenoma.
Dal momento che l’epigenoma si modifica a seconda delle esperienze
vissute dall’individuo, che cosa potrebbe avere causato un improvviso picco
di crescita? Per combinazione, una delle prove più convincenti che
l’epigenetica possa in un certo senso «registrare» i ricordi di esperienze
passate viene anche questa dall’Olanda. La carestia olandese nota come
hongerwinter, o inverno della fame, ci ha probabilmente insegnato più cose
di qualunque altro evento sugli effetti dell’epigenetica sugli esseri umani.
Alle prese con i prodromi della sconfitta della Seconda guerra mondiale,
nell’inverno estremamente rigido del 1944 i tedeschi imposero agli olandesi
un embargo di viveri e rifornimenti, e iniziarono a distruggere i trasporti e le
aziende agricole del Paese. La conseguenza fu la drastica carestia
dell’inverno del 1944-45. Nelle città dell’Olanda occidentale le scorte di
generi alimentari diminuirono rapidamente. Ad Amsterdam, entro la fine del
novembre 1944, le razioni quotidiane degli adulti scesero al di sotto delle
mille calorie, ed entro la fine del febbraio 1945 al di sotto delle seicento, cioè
appena un quarto di quelle necessarie per la salute e la sopravvivenza di un
adulto. La popolazione sopravvisse alimentandosi principalmente di pane
secco, patate e zucchero, e pochissime proteine, se non nessuna.
Milioni di anni di evoluzione ci hanno «armati» per sopravvivere a lunghi
periodi di denutrizione. Il metabolismo rallenta per risparmiare energie e
risorse. La pressione sanguigna e la frequenza cardiaca diminuiscono, e
iniziamo a vivere del nostro stesso grasso. Gran parte di tutto questo è reso
possibile da cambiamenti nell’attività dei nostri geni. In certi casi le attività
geniche vengono aumentate o diminuite dall’epigenetica. Ma l’esperienza
olandese andò ancora oltre, mostrando che i cambiamenti del DNA subiti
durante la vita adulta possono essere ereditati dalle generazioni successive: lo
studio di bambini nati da sopravvissuti alla carestia olandese, infatti, ha
rivelato proprio questo.
Un team di ricercatori di Harvard ha ottenuto i documenti sanitari e di
nascita meticolosamente redatti a quell’epoca e, come prevedibile, ha
constatato che i bambini nati durante la carestia avevano spesso avuto gravi
problemi di salute. I nascituri che si trovavano nel grembo materno dal terzo
al nono mese di gravidanza nel corso della carestia erano nati sottopeso.
Tuttavia, quelli che erano nel primo trimestre di gravidanza verso la fine
dell’hongerwinter, cioè poco prima che i rifornimenti di viveri venissero
ripristinati, erano nati più robusti della media. Le differenti alimentazioni
delle madri avevano dunque creato questo risultato.
Le sorprese maggiori, tuttavia, sono emerse dallo studio di quella prole
dopo il raggiungimento dell’età adulta. Rispetto ai nati al di fuori della
carestia, gli adulti venuti al mondo in quel difficile periodo erano molto
inclini all’obesità. Tra quelli che erano nel grembo materno durante la
carestia, in particolare nel secondo e nel terzo trimestre di gravidanza, si
registrava persino un raddoppio di individui obesi in età adulta. In questi casi
sembra essersi innescata una sorta di memoria epigenetica, e tra poco ne
vedremo l’esatto meccanismo.
Gli studi sulla carestia olandese sono importanti perché ci hanno aperto gli
occhi sugli effetti a vita delle esperienze prenatali sul genoma. L’attrice
Audrey Hepburn era stata bambina in Olanda durante la carestia, e da adulta
soffriva di anemia e di attacchi di depressione. E non era certo l’unica. I
bambini che si trovavano nel grembo materno durante la carestia erano anche
più inclini alla schizofrenia e ad altre malattie psichiatriche. Sebbene non
definitivi, alcuni dati indicano che quando i «figli della carestia» hanno avuto
figli a loro volta, questi sono nati sottopeso: come un nastro trasportatore, il
genoma continuava a trasmettere da una generazione all’altra l’esperienza
della grave carenza di cibo.
Il nastro trasportatore dell’esperienza
Queste nuove scoperte emergono da terribili sofferenze, ma fanno luce sul
perché un’attenta cura delle madri in gravidanza sia cruciale. A ogni modo,
tali conclusioni restano oggetto di controversia. Davvero il nastro
trasportatore è in grado di oltrepassare il gap generazionale? Nel 2014 i dati
ricavati da studi condotti sui topi hanno fornito la prima prova convincente
che nei mammiferi può verificarsi un’ereditarietà transgenerazionale. Anne
Ferguson-Smith, una genetista dell’Università di Cambridge, in Inghilterra,
ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Science gli esiti delle sue ricerche dopo
avere testato le implicazioni epigenetiche della carestia olandese sui topi.
«Ho deciso che anziché criticare gli altri era tempo di condurre
personalmente alcuni esperimenti in proposito», è stata la sua motivazione.
Aspre critiche venivano rivolte in particolare al principale dato emerso, e
cioè che l’alimentazione della madre incinta avesse un influsso durevole sulla
salute successiva del bambino nel corso della vita. Per un darwiniano
rigoroso, nel momento in cui lo spermatozoo paterno fertilizza l’ovulo
materno, il destino dei geni è segnato nel figlio. Smith e il suo team ne hanno
cercato la prova diretta utilizzando una razza di topi in grado di sopravvivere
a una dieta a contenuto calorico estremamente basso. Come previsto, i topi
generavano una prole sottopeso che in seguito risultava incline al diabete. I
maschi di quella cucciolata diedero successivamente vita a un’altra
generazione, e anche la seconda generazione continuava a essere predisposta
al diabete, pur consumando una dieta normale. Questi risultati sorprendenti
hanno fornito la prova che il cosiddetto nastro trasportatore genetico è
qualcosa di reale.
Il nuovo paradigma apre enormi prospettive. Dare importanza alle
statistiche sui rischi è un’ottima cosa. Per questo le donne incinte vengono
avvisate di non fumare o bere alcolici durante la gravidanza per ridurre la
probabilità che il feto presenti dei difetti alla nascita. Ma non si potrebbe
pensare di ottimizzare la salute del nascituro nel grembo materno? Forse
avete sentito raccontare di donne incinte che fanno ascoltare Mozart al figlio
che portano in grembo, o di come un feto possa subire gli effetti di situazioni
stressanti vissute dalla madre. Uno degli obiettivi di questo libro è infatti
quello di fornire ai vostri geni uno stile di vita che permetta loro di funzionare
al meglio, specie se in tal modo fosse possibile determinare il patrimonio
genetico di una, due o più generazioni nel futuro. E se il nastro trasportatore
venisse caricato di esperienze tanto ottimali da garantire anche a figli e nipoti,
grazie all’ereditarietà soft, il miglior esordio possibile nella vita? A nostro
avviso è molto più stimolante questo obiettivo che non i progetti di
manipolazione genetica degli embrioni finalizzati a ottenere bambini
geneticamente «perfetti». La scienza della trasformazione non deve
necessariamente significare impianti e siringhe!
Prima di poter dare vita a una generazione di bambini con le migliori
caratteristiche trasmissibili per ereditarietà soft dobbiamo approfondire le
teorie scientifiche in proposito. Per spiegare come un’esperienza specifica
produca cambiamenti genetici abbiamo bisogno di un nuovo termine: segnali
epigenetici. Questi segnali sono le impronte digitali del cambiamento, la
chiave per risolvere il mistero secondo cui qualunque cambiamento nello stile
di vita, e non solo uno drastico come l’inverno della fame olandese, influenza
i nostri geni. Gli eventi epigenetici possono programmare il DNA tramite
modificazioni chimiche delle proteine cuscinetto (dette istoni) che circondano
e avvolgono il DNA. Questi cuscinetti, inoltre, decidono quale tratto del
DNA di un gene viene esposto ad altre proteine che accendono o spengono
l’attività genica, e persino che tipo di proteine o di RNA il gene produrrà.
Immaginate allora che un corpo venga privato del cibo e a un certo punto
inizi a morire di fame. Come reagisce una madre incinta? Possiamo
osservarla deperire, ma invisibilmente il suo epigenoma produce alterazioni
genetiche. Le proteine cuscinetto che avvolgono il DNA iniziano a interagire
con questo in modo diverso, rilasciando segnali epigenetici di vario tipo che
coinvolgono enzimi specifici con nomi come metilasi e istone deacetilasi
(HDAC). Ma possono entrare in gioco anche minuscoli frammenti di RNA
(micro-RNA). Non è il caso di memorizzare come funziona la chimica della
programmazione epigenetica, ma sempre più prove scientifiche indicano che
alimentazione, comportamento, livelli di stress e inquinanti chimici possono
tutti influenzare l’attività genica, e quindi la sopravvivenza e il benessere
dell’individuo.
Per semplificare l’argomento estremamente complesso degli interruttori
genetici, ci siamo concentrati solo sui segnali metilici, ma la commutazione
coinvolge anche altri processi chimici come l’acetilazione, di cui però non
tratteremo. I cuscinetti di istoni sono coinvolti nell’attivazione e
disattivazione dei geni, e persino nelle modificazioni del modo in cui l’elica
del DNA è avvolta o ripiegata. Sia la metilazione sia l’acetilazione possono
modificare gli istoni e il loro modo di legarsi al DNA, influenzando così le
attività dei geni nella regione.
I segnali epigenetici forse più studiati sono quelli che coinvolgono la
metilazione del DNA. Ovunque vi siano più basi C accanto a basi G nella
sequenza del DNA di un cromosoma vi è una maggiore probabilità di
metilazione. Se queste aree vengono eccessivamente contrassegnate da
metilazione, l’attività genica può essere disattivata.
I segnali metilici offrono un’ampia gamma di indizi. Per esempio, molte
allergie emergono precocemente nello sviluppo fetale. Se una donna incinta
segue una dieta ricca di alimenti che contrassegnano il DNA con segnali
metilici è più probabile che nel bambino insorgano allergie. Questo significa
che lo stesso embrione in gestazione in due madri diverse può portare a due
bambini diversi, pur avendo DNA identici. Uno studio ha mostrato che
contando semplicemente i segnali di metilazione sul genoma del DNA
prelevato dalla saliva, i ricercatori sono in grado di predire l’età di un
individuo con uno scarto di appena cinque anni. Più numerosi sono i segnali,
più l’individuo è avanti negli anni: è un po’ come leggere l’usura del
battistrada degli pneumatici delle auto. Questo implica che un’eccessiva
metilazione può essere causa di invecchiamento precoce e di malattie
degenerative tra gli anziani.
È stato dimostrato che sovralimentare dei topi subito dopo la nascita porta
a un eccesso di segnali metilici su geni specifici, che poi li predispongono
all’obesità. Estrapolare gli effetti osservati nei topi per capire come possano
manifestarsi negli esseri umani non è cosa facile, ma la carestia olandese e gli
esperimenti a cui questa ha portato forniscono indubbiamente delle
testimonianze su cui riflettere.
Una risposta nebulosa
Quindi perché gli olandesi sono diventati gli uomini più alti d’Europa? A
volte per poter rispondere correttamente a una domanda bisogna escludere
tutte le risposte errate. In questo caso sappiamo che non è coinvolto alcun
gene dell’altezza, perché un gene simile non esiste. In altre parole, se una
donna incinta desiderasse sapere quanto sarà alto suo figlio da grande, le
nostre attuali conoscenze in ambito genetico non sono in grado di prevederlo.
Come si è detto, sono stati identificati oltre venti geni che contribuiscono
all’altezza di una persona, ma le loro interazioni sono troppo complesse e
ancora incerte per permetterci di fare previsioni attendibili. E se anche questo
aspetto potesse essere risolto, esistono fattori ambientali che secondo la
maggior parte delle stime influenzano per almeno il 50% l’esito finale.
Riguardano l’alimentazione, ma anche ambiti della sfera immateriale, come
lo stile di vita della madre e l’ambiente famigliare in cui il bambino cresce. In
Corea del Nord e in Guatemala, per esempio, dove la malnutrizione è cronica,
i bambini sono rachitici. Eppure, anche cure mediche insufficienti possono
produrre lo stesso risultato, mentre un migliore stato di salute generale fa sì
che una popolazione sia più alta.
A ogni modo, in tutti questi ambiti gli olandesi non differiscono
particolarmente dal resto degli europei. Come già detto, negli ultimi due
secoli, a dispetto di periodi di alimentazione insufficiente, come nella
Germania del primo dopoguerra, un’alimentazione migliore e più prosperità
hanno prodotto persone più alte in tutti i Paesi europei.
Quali altre risposte sbagliate si possono escludere? Non esiste un numero
sufficiente di nuovi geni entrati nel patrimonio genetico olandese tale da
fornire una risposta valida. Anche se quelli nuovi si sono effettivamente
mescolati ai vecchi, non vi sono prove che gli olandesi abbiano iniziato a
sposare persone di altri Paesi estremamente alte. Né la risposta può essere la
sopravvivenza del più adatto, dal momento che gli uomini olandesi più bassi
non sono scomparsi dopo essere stati sconfitti dai più alti nella lotta per il
cibo e l’acqua.
Le abitudini di accoppiamento potrebbero tuttavia avere una parte in
questo fenomeno. Tra i cani, per esempio, la razza pechinese nacque di
proposito quando la corte imperiale cinese iniziò a prediligere i cagnolini da
salotto, quindi a partire da cani provenienti dalla Cina occidentale più di
duemila anni fa. Antichi documenti di corte specificano come doveva
apparire il pechinese ideale: doveva assomigliare a un leone in miniatura. Gli
allevatori furono dunque incaricati di ottenere un cane di piccole dimensioni
con muso piatto, grandi occhi scintillanti e una sorta di criniera.
Nell’immaginazione di una dama di corte cinese dell’epoca erano quelle le
qualità leonine. Per avvicinarsi a quell’ideale, gli allevatori continuarono a
selezionare i cuccioli più piccoli di ogni cucciolata e ad accoppiarli tra loro
per creare la razza di cani richiesta. E allo stesso modo potevano essere
selezionati anche altri aspetti della razza.
Gli esseri umani non si accoppiano secondo il piano di un allevatore, e
guardando indietro quasi tutti si sposavano, quindi non venivano eliminati
tratti specifici, o almeno non intenzionalmente. Ma noi scegliamo
consapevolmente i nostri partner in base alle nostre inclinazioni personali. Se
l’olandese medio ha cominciato ad apprezzare l’altezza in un partner e le
persone alte sono state attratte da altre persone alte, questa sequenza può
effettivamente avere prodotto, nel corso degli anni, una prole più alta. Di
solito i tratti genetici non favoriscono gli estremi ma regrediscono alla media.
Sono esistiti uomini non più alti di sessanta centimetri o più di due metri e
mezzo, ma è molto più probabile che un bambino resti nella media e cresca
fino a raggiungere un’altezza compresa tra il metro e cinquanta e il metro e
ottanta circa.
La regressione verso la media, come la definiscono gli statistici, spiega
anche perché due genitori con un alto quoziente intellettivo non generino
necessariamente un figlio con un quoziente intellettivo altrettanto alto. La
componente genetica dell’intelligenza, che resta un argomento controverso,
favorisce l’intelligenza media, così come sono favorite l’altezza media, il
peso medio e così via. Quindi ci vorrebbero generazioni di olandesi, di cui la
maggioranza delle persone si sposasse per via dell’altezza, per produrre un
trend nella popolazione. Ancora una volta, la storia dell’ereditarietà è troppo
complessa e non si può spiegare con un solo fattore.
Una volta scartate tutte le risposte errate, inizia a emergere un nuovo tipo
di ragionamento. Gli uomini olandesi sono diventati più alti non per un
semplice rapporto causa-effetto, ma per tutta una serie nebulosa e indistinta di
cause. Geni, epigenetica, comportamento, alimentazione e varie altre
influenze esterne hanno esercitato ciascuna la propria parte. Questo vale per
tutti i bambini in generale, quindi anche per quelli olandesi nati negli ultimi
due secoli. Da questa nebulosa di cause possiamo ricavare alcune conclusioni
positive:

Molti fattori sono soggetti al nostro controllo.


Pochissime cause sono deterministiche. Raramente siamo burattini
controllati dai nostri geni.
La nebulosa di cause è altamente adattabile al cambiamento.

Queste sono conclusioni molto importanti. Una nuvola muta forma quando
il vento cambia, la temperatura sale o scende, fronti atmosferici avanzano o
retrocedono e l’umidità aumenta o diminuisce. Però le nuvole non reagiscono
a una sola di queste influenze, bensì ad alcune o a tutte. Tentare di
analizzarne una alla volta non è un metodo valido e talora neppure
praticabile. Sarebbe come cercare di prevedere la temperatura di casa nostra
in presenza di cinque termostati, ciascuno regolato in modo indipendente in
base alla zona della casa in cui si trova.
Anche nelle peggiori condizioni, come il terribile stress causato da una
guerra, il genoma umano riesce comunque a trovare qualche vantaggio.
Durante la carestia olandese della Seconda guerra mondiale i medici notarono
nei bambini ricoverati un miglioramento di quella rara patologia intestinale
che è la celiachia. All’epoca la causa del disturbo era ancora ignota, anche se
era già stato ipotizzato che fosse coinvolta l’alimentazione, e in particolare il
consumo di frumento. Un pediatra olandese, il dottor Willem Dicke, indagò
questa connessione: quando non avevano più avuto pane a disposizione, i
bambini ricoverati si erano rimessi, ma quando negli ospedali tornò il pane i
piccoli pazienti celiaci ripresero a stare male. Questo provò per la prima volta
il collegamento tra celiachia e frumento. Oggi è ormai noto che la celiachia è
una patologia autoimmune con una predisposizione genetica che provoca una
reazione allergica a una proteina del glutine (la gliadina) presente nel
frumento. Anche proteine del glutine simili presenti in altri cereali creano la
stessa reazione.
Allo stesso modo, in Paesi come Olanda e Belgio, dove l’alimentazione era
ricca di burro e formaggio, la guerra e l’occupazione dei nazisti causò un
vistoso decremento delle patologie cardiache che fu attribuito a
un’improvvisa diminuzione delle calorie giornaliere e a una drastica carenza
di burro, latte e formaggi. Decenni più tardi, perdere peso e ridurre
nettamente il consumo quotidiano di grassi sono diventati principi base per
invertire l’incidenza delle patologie cardiache.
Una nuvola è un modello insoddisfacente dal punto di vista scientifico, e
del tutto inadeguato per raggiungere risultati in campo medico. I medici di
solito sposano il modello lineare di causa-effetto: la causa A porta al disturbo
B, quindi bisogna prescrive il farmaco C. Ma se in realtà il modello della
nuvola fosse corretto e anzi imprescindibile? Nessuno ha in soggiorno cinque
termostati che operano in modo indipendente, ma tutti abbiamo corpi con più
orologi, bioritmi e tabelle di marcia genetiche. Per questo non esistono due
persone esattamente sincronizzate in termini di fenomeni naturali come la
perdita del primo dentino da latte, l’ingresso nella pubertà, le prime
avvisaglie dell’artrite o una miriade di altri cambiamenti che hanno cadenza
del tutto individuale. Ogni cosa in noi si muove lungo una scala mobile.
Sorge allora la domanda: come riesce il corpo umano a regolarsi in modo
così preciso da sincronizzare tutti i suoi orologi fino alle minime molecole di
ormoni, peptidi, enzimi, proteine eccetera? Come una nuvola, siamo sospinti
in ogni direzione, ma a differenza di una nuvola i nostri corpi sono miracoli
di complessità che mantengono una straordinaria quantità di controllo.
Ora che abbiamo la sequenza completa del DNA del genoma umano è
molto più facile trovare i geni e le mutazioni associate al rischio di
insorgenza di una malattia. Migliaia di geni e mutazioni patogene sono già
stati scoperti per patologie che vanno dal cancro al diabete, dalle cardiopatie
alle malattie degenerative cerebrali senili. Rudy ha scoperto diversi geni (tra
cui il primo in assoluto) e mutazioni che causano o influenzano il rischio di
Alzheimer e di altre insidiose patologie neurologiche come il morbo di
Wilson, una rara malattia in cui il rame si accumula nelle cellule portando a
gravi disturbi neurologici, psichiatrici e di altro genere.
Con la scoperta di sempre più geni di patogenicità abbiamo osservato che
circa il 5% delle mutazioni patogene garantisce l’insorgenza della malattia,
mentre la stragrande maggioranza non fa che aumentare la «sensibilità»
dell’individuo, insieme all’ambiente in cui vive e a certi aspetti del suo stile
di vita. In altre parole, gli esseri umani sono un miscuglio di tratti complessi
per cui non sono ancora state scoperte, né forse lo saranno mai, cause
genetiche dirette. Un punto di vista più realistico su come vengano ereditate
malattie comuni dovrebbe probabilmente vedere il DNA come il progetto
iniziale di un edificio che verrà poi ristrutturato e riadattato più volte a
seconda delle necessità.
C’è ancora chi crede che sapere cosa fa ciascun gene basti a comprendere
ogni malattia, e che riconoscendo la validità di tale collegamento si possano
automaticamente sviluppare terapie mediche per le patologie geneticamente
collegate. Ma c’è un motivo per cui questo passo non si è verificato, se non
per un esiguo numero di patologie: non possiamo capire cosa fa un gene se
non sappiamo come viene acceso o spento (come un interruttore della luce),
aumentato o diminuito (come un termostato) e ottimizzato per produrre
determinate varietà di proteine.
Per quanto perfetti siano i circuiti di un computer, questo è «morto» finché
non viene acceso. Lo stesso vale per il DNA. Il meccanismo di attivazione
dei geni era un mistero che ha aperto la strada all’attuale rivoluzione
genetica.
Costruire ricordi migliori

IL più grande trionfo nei 2,8 miliardi di anni di evoluzione della Terra non è il
DNA umano, e neppure la nascita della vita da molecole che vita non ne
avevano e che turbinavano in fumanti pozze d’acqua satura di sostanze
chimiche intorno alle fenditure dei geyser primordiali. Il più grande trionfo
dell’evoluzione è la memoria. È questa ad avere reso possibile la vita.
Gli anticorpi del nostro sistema immunitario hanno memoria di tutte le
malattie affrontate dalla razza umana. Un neonato combatte le proprie
sfruttando il sistema immunitario preso in prestito dalla madre, poi ne
svilupperà uno personale, a mano a mano che la ghiandola del timo,
depositaria di lotte passate contro batteri e virus invasori, inizierà a produrre
anticorpi. Il timo si espande fino a raggiungere il suo pieno funzionamento
nel corso dell’adolescenza, e si contrae quando il suo compito è completato,
cioè intorno ai ventun anni.
Concentrandoci soltanto su quest’unico processo, il ruolo della memoria
emerge in tutta la sua centralità. I geni del nostro lignaggio famigliare
determinano quali anticorpi svilupperemo. Questo non è che un ramoscello
del ramo dell’evoluzione umana, ma il ramo riconduce al tronco dell’albero,
che contiene la memoria di come produrre anticorpi in generale. Le radici
dell’albero sono la capacità del DNA di ricordare esperienze e codificarle per
le generazioni future. La prossima volta che non prenderete il raffreddore che
imperversa in città, sappiate che dovete la vostra immunità alla prima
molecola del DNA.
L’epigenetica suggerisce che le nostre cellule possono in un certo senso
«ricordare» tutto ciò che abbiamo vissuto e sperimentato. Ma un
suggerimento non è una prova. C’è una bella differenza tra ricordare la festa
del nostro decimo compleanno e un genetista che esamina le modificazioni
genetiche che codificano tale ricordo. Immaginiamo di tornare indietro nel
tempo e di essere telegrafisti che ricevono, attraverso il filo del telegrafo, una
marea di punti e di linee. Possiamo tenere in mano il codice e contare tutte le
perforazioni nel nastro di carta, ma se non conosciamo la lingua in cui sono
scritti i messaggi, questi ci risultano ugualmente illeggibili. Nell’odierna
genetica possediamo il codice, ma i messaggi sono scritti in una lingua
infinitamente più difficile della nostra: è la lingua di tutte le esperienze
umane.
Vivere in balia dei propri ricordi può essere terribile, ma è la situazione in
cui ci troviamo quasi tutti. Vecchie paure, ferite, eventi traumatici e
innumerevoli altri episodi affollano la nostra mente, facendosi strada in noi e
distorcendo il nostro modo di vedere il presente. Se siamo agorafobici, cioè
se abbiamo paura di spazi aperti o luoghi pubblici, non possiamo uscire di
casa senza soffrire di ansia. La nostra paura ci ha reso schiavi della memoria.
In misura maggiore o minore, piccoli e grandi siamo tutti schiavi di eventi
morti e sepolti. Per essere pienamente vivi dobbiamo imparare a usare i nostri
ricordi, non viceversa.
La paura e le mucche elettrizzate
Questo è un esercizio che mette un po’ a disagio, ma provate a interrompere
per un attimo la lettura e a rievocare un brutto ricordo. Può essere qualunque
cosa, basta che non sia recente. Tornate a qualcosa di brutto accaduto quando
eravate piccoli. Potrebbe essere quella volta che siete caduti dall’altalena o
che al supermercato vi siete persi e non ritrovavate più la mamma. Che cosa
notate? Primo, che tale ricordo esiste; secondo, che è possibile recuperarlo. E
a seconda di quanto è intenso, vi sembra persino di rivivere quel momento.
L’area della corteccia visiva che entra in gioco è la stessa sia quando
assistete, per esempio, a un disastro ferroviario o a uno scontro violento, sia
quando rievocate quelle scene attraverso il ricordo.
Tutto ciò che notate è riflesso nel vostro epigenoma. Facciamo però un
passo ulteriore. I ricordi dei nati durante la carestia olandese a proposito della
loro vulnerabilità infantile a obesità, diabete e cardiopatie potrebbero essere
riconducibili all’esperienza fatta dalle loro madri quando, ancora gravide,
rischiarono di morire di fame. Quei bambini, una volta cresciuti, non
potevano rievocare tale esperienza nella propria mente, eppure ne avevano
ereditato il ricordo a livello molecolare.
Un interessante studio pubblicato nel 2014 su Nature Neuroscience ha
fornito nuove prove scientifiche sugli effetti della memoria sul DNA, solo
che in questo caso non si trattava di alimentazione ma di paura. Un team di
ricercatori ha addestrato dei topi a temere il profumo dell’acetofenone (che in
verità è piacevole, simile a quello dei fiori d’arancio e delle ciliegie)
sottoponendoli a una leggera scossa elettrica ogni volta che il profumo veniva
introdotto. Le scosse producevano nei topi una reazione di stress, dato che
apparivano nervosi e tremavano, ma dopo un po’ di volte non era più
necessaria alcuna scossa elettrica: il semplice odore di acetofenone era
sufficiente a suscitare in loro il medesimo stress.
Un regista di film horror può ottenere più o meno lo stesso effetto con una
stanza buia, il rumore di una porta che cigola e gli occhi della protagonista
che guizzano terrorizzati. Le immagini e i suoni producono negli spettatori
l’anticipazione di qualcosa di orribile che sta per accadere. E nella maggior
parte di loro compariranno segni tangibili della risposta allo stress.
Lo studio sui topi è andato persino oltre. La paura acquisita da quegli
esemplari in età adulta veniva trasmessa alla loro prole, e persino alla
generazione successiva. Figli e nipoti dei topi condizionati a temere il
profumo dell’acetofenone non avevano mai sentito quel profumo prima, ma
appena lo percepivano iniziavano a tremare, semplicemente perché i loro
genitori l’avevano associato al dolore. I ricercatori hanno poi esaminato il
gene dei topi che produce il recettore proteico necessario per avvertire
l’odore dell’acetofenone, e hanno scoperto che era stato modificato
epigeneticamente tramite metilazione.
La saggezza popolare conosce da sempre questo fenomeno, così
sintetizzato da Mark Twain: «Il gatto che si siede su una stufa accesa, di certo
non lo rifarà mai più – e questo è un bene – ma non si siederà mai più
neppure su una stufa spenta». Allo stesso modo, il saggio consiglio di tornare
presto in sella dopo essere caduti da cavallo si basa sulla conoscenza empirica
che la paura può produrre un’impressione negativa permanente, se non le si
oppone resistenza. Certo, questo tipo di condizionamento è mediato dai
ricordi mantenuti dalle reti neurali del cervello. Le stesse esperienze possono
modificare chimicamente il nostro genoma per creare una memoria
molecolare parallela.
Abbiamo già detto più volte che il DNA è responsabile sia della stabilità
sia del cambiamento. Ora siamo giunti a un nuovo, inaspettato sviluppo.
Come riescono il nostro cervello e i nostri geni a determinare la differenza tra
un pericolo reale (una stufa accesa) e un pericolo immaginario (una stufa
spenta)? Gli animali, a quanto pare, non sono in grado di farlo, come
dimostrano alcuni studi su bovini condizionati da recinzioni elettrificate. Il
filo sottile della recinzione oltre la quale sono stati raggruppati gli animali, se
toccato, emetteva una scossa innocua ma fastidiosa. Dopo un solo giorno,
talvolta un’ora soltanto, le mucche che avevano preso la scossa imparavano a
tenersi alla larga dalla recinzione.
Il bestiame, quindi, può essere lasciato libero in una zona di pascolo
delimitata da un semplice filo elettrificato. Gli animali potrebbero facilmente
rompere quella barriera, ma il condizionamento tramite scossa elettrica li
mantiene dentro al recinto. Così, il vecchio metodo di circondare le mucche
di palizzate alte e solide è stato rimpiazzato da una semplice barriera
psicologica. Gli allevatori faticano ad accettare l’idea che una simile
recinzione sia più efficace di una fisica, ma anche in esperimenti in cui al di
là del filo elettrico è stata posata una balla di fieno, le mucche affamate non
lo travolgevano per raggiungere il cibo.
Questo tipo di condizionamento psicologico è ereditario? Così sembra,
come dimostrano ancora una volta i bovini. Affinché il bestiame non si
disperda lungo una strada, di solito gli allevatori installano delle reti
d’acciaio. Ma a quanto pare non sono necessarie. Questi animali si possono
ingannare con false recinzioni, come descritto da Rupert Sheldrake, un
biologo britannico noto per il suo anticonformismo e le sue ricerche
avventurose (questo fa di lui, a seconda di come lo si interpreta, un pensatore
innovativo, un ribelle audace, un outsider della biologia ufficiale o un
ricercatore incauto sempre pronto a credere in fenomeni misteriosi; per
quanto ci riguarda, apprezziamo molto la sua voglia di osare). In un articolo
apparso nel 1988 su New Scientist, Sheldrake ha scritto:
Gli allevatori del West americano hanno scoperto che possono risparmiare sulle recinzioni per
contenere il bestiame utilizzando reti finte dipinte lungo la strada. […] Le reti vere rendono
fisicamente impossibile ai bovini attraversarle, ma di solito i bovini non ci provano neppure; le
evitano e basta. Le reti finte funzionano esattamente allo stesso modo. Quando un bovino vi si
avvicina «inchioda e ingrana la retromarcia», per dirla con le parole di un allevatore.

Sheldrake era venuto a conoscenza di questo fenomeno per caso, attraverso


amici di cui era ospite in Nevada, ma con lui le implicazioni trovarono
terreno fertile. Per decenni Sheldrake è stato una voce pressoché isolata
nell’ipotizzare che i ricordi possano essere trasmessi da una generazione
all’altra. Per nulla turbato dalla derisione delle sue idee da parte dei genetisti
ortodossi – parliamo di molti anni prima dell’avvento dell’epigenetica –
Sheldrake ha scritto libri lungimiranti come L’ipotesi della causalità
formativa e La presenza del passato, in cui ha raccolto le prove, all’epoca
sempre più numerose, che l’ereditarietà tra generazioni era un fenomeno
reale. E oggi questi suoi libri sono ancora tra i più avvincenti e illuminanti
sull’argomento della memoria come forza principale dell’evoluzione. Spiega
Sheldrake:
Secondo la mia ipotesi […] gli organismi ereditano le abitudini degli antenati della loro specie.
Questa memoria collettiva è a mio parere inerente a campi, detti campi morfici, e si trasmette
attraverso lo spazio e il tempo. […] Secondo tale ipotesi, bovini che per la prima volta si trovano
di fronte a reti di recinzione, o ad altre cose che vi somigliano, tenderebbero a evitarle perché
hanno ereditato questo istinto da altri bovini che avevano appreso per esperienza a non tentare di
attraversarle.

Uno scettico ribatterà che devono esserci altre spiegazioni più


convenzionali: per esempio, potrebbe darsi che i bovini non ereditino
l’impulso a evitare le reti di contenimento ma lo acquisiscano
individualmente attraverso un’esposizione dolorosa alle reti vere, o che lo
assimilino in qualche modo da membri più esperti del branco. Ribatte però
Sheldrake:
Non sembra essere così. Alcuni allevatori mi hanno detto che capi di bestiame mai esposti a reti
di contenimento vere evitano quelle false. Questo fenomeno è stato rilevato anche da ricercatori
dei dipartimenti di Scienze animali della Colorado State University e della Texas Agricultural
and Mechanical University con cui sono stato in corrispondenza. Ted Friend, della Texas A&M,
ha testato le reazioni di parecchie centinaia di capi di bestiame a reti dipinte e ha scoperto che gli
esemplari che non ne avevano mai viste di vere le evitavano come altri già esposti a quelle reali.

Questo vale anche per gli esseri umani? La possibilità di ereditare un tratto
comportamentale potrebbe spiegare perché squadre di indiani mohawk
abbiano lavorato per generazioni alla costruzione dei grattacieli di New York
camminando su travi a centinaia di metri dal suolo senza mai dare segni di
paura di cadere. Avevano ereditano questo tratto? E un tipo analogo di
ereditarietà spiega forse perché i giocatori di scacchi russi hanno vinto più
volte il campionato del mondo?
A ogni modo, l’effetto della memoria ereditata da una generazione all’altra
è sufficientemente soft da poter essere invertito, perlomeno negli animali. A
proposito dei capi di bestiame che retrocedono davanti alle reti finte,
Sheldrake precisa:
Tuttavia, l’incantesimo di una rete finta può essere infranto. Se capi di bestiame vengono
sospinti violentemente verso una rete disegnata, e se al di là della finta rete viene collocato del
cibo, alcuni capi salteranno la recinzione; altri, semplicemente, la esamineranno da vicino e poi
la attraverseranno. Se un esemplare della mandria fa una di queste cose, presto gli altri lo
seguiranno e la rete finta non sarà più una barriera efficace.

Anche ovini e cavalli mostrano un’avversione innata per l’attraversamento


di griglie disegnate. Per contro, in quello che è forse l’unico esperimento di
questo genere mai condotto sui suini, gli animali hanno corso fino alla rete
dipinta, l’hanno annusata e hanno iniziato a leccarla: i ricercatori texani,
infatti, avevano usato una vernice lavabile a base d’acqua, farina e uova!
Notare questi aspetti della memoria non è difficile. Siamo tutti esperti
viaggiatori nel tempo, nella nostra mente. Ma se siamo abili a immagazzinare
e rievocare un ricordo, siamo molto meno capaci di cancellare i brutti ricordi.
I ricordi sono molesti, «appiccicosi». A volte neppure anni di terapia riescono
ad annullarne il potere. Droga e alcol li sedano solo temporaneamente, e
tentare di rimuoverli è come infilarli sotto il tappeto: non vi è alcuna garanzia
che resteranno lì.
La genetica ci dice che qualunque esperienza passata, buona o cattiva che
sia, è appiccicosa perché si è insediata mediante legami chimici in profondità
all’interno della cellula, nel nucleo, dove risiede il DNA. In una molecola di
sale gli atomi di sodio e cloro sono strettamente legati. Il fatto che restino
bloccati è essenziale, perché se uno versasse del sale e questo si separasse
nelle sue componenti, il rilascio di gas di cloro sarebbe velenoso. Allo stesso
modo, è necessario che i legami del DNA siano custoditi, altrimenti la vita si
dissolverebbe in una nebulosa di atomi.
La vita è una questione di persistenza della memoria. Fino a poco tempo fa
gli unici ricordi disponibili ai genetisti erano i pioli che connettono la doppia
elica del DNA, e questi erano fissi da tanto, tantissimo tempo, fin dai
primordi dell’evoluzione. Ora l’epigenetica usa la chimica per creare ricordi
genetici di esperienze passate, molto più recenti e intime di quelle vecchie 2,8
miliardi di anni, che originariamente costituirono la molecola di DNA.
Dall’adattamento alla trasformazione

LA genetica sta vivendo una rivoluzione, ma come influisce sulla nostra vita
quotidiana? Semplicemente, attraverso l’adattamento.
I dinosauri si adattarono così bene al loro ambiente che dominarono la vita
sulla Terra come principali predatori. Seppero violare anche la barriera
climatica, spostandosi in zone più fredde dell’odierno Artico (a causa del
movimento delle placche tettoniche). Per quanto riguarda l’alimentazione,
invece, alcuni erano vegetariani e altri carnivori. Tuttavia, nonostante la loro
buona capacità di adattamento, un cataclisma li annientò.
La collisione di un meteorite gigante con la Terra, probabilmente
nell’odierna regione dello Yucatán, in Messico, creò un repentino
cambiamento climatico. La caligine sollevata dall’impatto offuscò il Sole su
tutto il Pianeta, la temperatura precipitò e il DNA dei dinosauri non ebbe il
tempo di modificarsi.
O invece sì? Alcuni rettili odierni possono sopravvivere a climi gelidi
andando in letargo per tutto l’inverno, il che consente ai serpenti di vivere nel
New England, per esempio.
L’adattamento richiede tempi lunghissimi, addirittura eoni, solo se una
specie deve attendere delle mutazioni casuali. Può invece verificarsi molto
più rapidamente attraverso l’espressione genica.
La capra che voleva essere umana
Nel 1942 un veterinario e anatomista olandese, E.J. Slijper, riferì di una capra
nata negli anni Venti senza zampe anteriori. Tuttavia, la bestiola si era presto
adattata alla sua infelice condizione, imparando a saltellare come un canguro
sugli arti posteriori, ed era sopravvissuta un anno prima di morire
accidentalmente.
Quando ne eseguì l’autopsia, Slijper si trovò di fronte a numerose sorprese.
Le ossa delle zampe posteriori dell’animale si erano allungate, la colonna
vertebrale aveva assunto una curva a S analoga a quella umana, e i muscoli
erano connessi alle ossa in un modo che ricordava più l’anatomia di un essere
umano che di una capra. Anche altre due caratteristiche umane avevano
iniziato a svilupparsi: una placca ossea più ampia e spessa a protezione del
ginocchio e una cavità interna arrotondata nell’addome.
È sorprendente pensare che in un solo anno un nuovo comportamento – la
camminata eretta – avesse potuto trasformare una capra sino a farla apparire,
se non umana, almeno bipede, dato che tutti i cambiamenti riferiti da Slijper
sono associati all’evoluzione dei bipedi. Le attività geniche si erano
modificate per rimodellare l’anatomia dell’animale.
Per molto tempo la capra di Slijper non attirò alcuna attenzione nella
comunità scientifica. Secondo la tesi darwiniana classica, noi esseri umani
abbiamo imparato a camminare su due gambe in seguito a mutazioni casuali
che avevano modificato la nostra postura rispetto a quella china degli altri
primati, e tali mutazioni si verificano quasi sempre una alla volta. Anche
senza le osservazioni di Slijper, per gli evoluzionisti è piuttosto impegnativo
spiegare come tutti gli adattamenti anatomici che sono stati necessari agli
esseri umani per camminare in posizione eretta abbiano potuto verificarsi uno
alla volta. A ogni modo, tutti cooperano a quel fine, e la capra dimostrava che
potevano manifestarsi insieme, non come mutazioni ma come adattamenti.
L’epigenoma può dunque trasmettere un insieme completo e interconnesso di
cambiamenti?
La questione è controversa, ma sulla velocità di adattamento degli esseri
umani non si discute. Quanto il nostro stile di vita influenzerà quello dei
nostri figli e nipoti non è ancora una domanda a cui sappiamo rispondere, ma
i cambiamenti che si verificano in noi sono indiscutibili.
Ecco perché i gemelli identici non sono in realtà identici. A partire dalla
nascita iniziano a vivere vite diverse, quindi a diventare persone diverse,
sebbene siano virtualmente portatori di genomi duplicati. I gemelli identici
possono differire molto nella loro sensibilità alle malattie e nel loro
comportamento. Studi genetici su gemelli identici sono stati tradizionalmente
condotti per determinare quella che viene definita ereditarietà delle malattie.
Se un gemello contrae una malattia, quali sono le probabilità che insorgerà
anche nell’altro nei successivi quindici anni? Si tratta di un calcolo semplice,
in realtà. Dopo avere studiato centinaia di coppie di gemelli identici, i
ricercatori hanno stabilito che per quanto riguarda il morbo di Alzheimer la
probabilità è del 79%. Questo significa che lo stile di vita conta per il 21%,
anche con genomi identici.
Per quanto riguarda il Parkinson, invece, l’ereditarietà è solo del 5%; lo
stile di vita parrebbe quindi svolgere una funzione molto più importante. Per
le fratture dell’anca al di sotto dei settant’anni, l’ereditarietà è del 68%, ma
dopo quell’età scende al 47%. Per la malattia coronarica, l’ereditarietà è del
50% circa: non più della casualità, dunque. Per vari tipi di cancro – del colon,
della prostata, della mammella, del polmone – l’ereditarietà nei gemelli
identici varia dal 25 al 40%, motivo per cui è opinione diffusa che la maggior
parte dei tumori, forse la stragrande maggioranza, si possa prevenire.
Cambiamenti epigenetici associati al cancro possono essere indotti da fattori
come l’esposizione cronica all’amianto, a solventi e al fumo di sigaretta.
Tuttavia, questi cambiamenti epigenetici che causano il cancro potrebbero
essere compensati da un’alimentazione sana e dall’esercizio fisico: una
possibilità decisamente incoraggiante.
Il cambiamento è nell’aria
Non sempre i cambiamenti fisici richiedono cause fisiche. A volte lo stimolo
può essere semplicemente una parola. Se incontriamo una persona e ce ne
innamoriamo, è stato accuratamente documentato che nella nostra attività
cerebrale avviene un cambiamento enorme. E se la persona di cui ci siamo
innamorati ci dice: «Ti amo» anziché: «Sto già con qualcuno», l’espressione
genica nel centro emotivo del nostro cervello verrà alterata in modo evidente.
Allo stesso tempo, messaggi chimici inviati tramite il sistema endocrino
creeranno adattamenti nel nostro cuore e in numerosi altri organi. Essere
accettati dalla persona amata può rendere malati d’amore, ma esserne respinti
può farci ammalare di depressione. Ed esiste un’espressione genica unica per
entrambi gli stati.
Dietro a queste esperienze antiche quanto il mondo c’è solida scienza. In
uno studio condotto nel 1991 da un team di microbiologi dell’Università
dell’Alabama è stata iniettata a dei topi una sostanza chimica che ne
potenziava il sistema immunitario. Questa sostanza chimica, il poly I:C
(acido polinosinico-policitidilico), provoca una maggiore attività in una parte
del sistema immunitario nota con il nome di cellule NK (natural killer).
Mentre ai topi veniva iniettato il poly I:C, nell’aria veniva rilasciato odore di
canfora. I topi sono stati rapidamente addestrati ad associare le due cose,
dopodiché una quantità minima di poly I:C era sufficiente a stimolare le
cellule NK, se nell’aria c’era l’odore di canfora. Il corpo dei topi produceva
da sé le sostanze chimiche necessarie a stimolare il sistema immunitario. Gli
bastava un piccolo innesco.
Questa è una scoperta notevole, perché dimostra che i geni possono
adattarsi in una direzione specifica con un minimo stimolo. Le semplici
molecole di canfora che passavano dal naso al cervello dei topi non avevano
alcun effetto sul loro sistema immunitario. Era l’associazione alla canfora a
creare l’effetto. In questo caso siamo un passo oltre ai bovini nel recinto
elettrificato, il cui comportamento era modificato dal ricordo del dolore di
una scossa elettrica: i topi, infatti, non avevano appreso nulla in maniera
cosciente; i loro corpi si erano adattati senza che la loro mente, se tale si può
considerare, dovesse imparare qualcosa o anche solo pensare.
Noi esseri umani siamo in grado di pensare, ma i nostri corpi sono
continuamente influenzati a nostra insaputa. Per quanto riguarda l’olfatto, nei
mammiferi i feromoni emessi dalla pelle sono strettamente connessi
all’attrazione sessuale, e sembrano avere una parte anche nell’attrazione tra
esseri umani. In un esperimento di aromaterapia, alcuni ricercatori hanno
scoperto che le persone sottoposte al test riferivano in modo costante un
miglioramento dell’umore dopo avere annusato essenza di limone, e nessun
cambiamento dopo avere annusato lavanda o acqua, che ovviamente è
inodore. Tale miglioramento si verificava indipendentemente dal fatto che i
soggetti avessero mai sperimentato l’aromaterapia prima. Anzi, a un
campione di persone non era stato detto nulla degli aromi o di che cosa
dovessero aspettarsi, e anche il loro umore era migliorato dopo avere
annusato essenza di limone.
Il potere dell’aspettativa è innegabile. Nel cosiddetto effetto placebo, a un
soggetto viene somministrata una pillola di zucchero del tutto inerte e gli
viene detto che si tratta di un farmaco per alleviare sintomi come dolori o
nausea, e nel 30-50% dei casi il corpo interviene e produce le sostanze
chimiche necessarie per ottenere l’esito desiderato. Sebbene l’effetto placebo
sia ormai ampiamente noto, stupisce ancora che semplici parole come:
«Questo ti farà passare la nausea» possano innescare una reazione tanto
specifica nella connessione cervello-stomaco. È stato addirittura provato che
somministrando un farmaco che provoca la nausea e dicendo al campione di
persone che si tratta di una pillola contro la nausea, alcune riferiscono che la
nausea è sparita.
Per completare il quadro, esiste anche l’effetto nocebo, secondo cui
somministrare a qualcuno un’innocua pillola di zucchero dicendogli che non
gli arrecherà alcun beneficio può persino produrre effetti negativi.
Apparentemente ci siamo allontanati parecchio dal mancato adattamento
dei dinosauri, ma tutte queste scoperte sono molto importanti. Se un semplice
odore o dire a una persona: «Questo ti farà sentire meglio» è in grado di
alterare l’espressione genica, e se una sostanza totalmente inerte è in grado di
suscitare la nausea o di farla passare, tutto un nuovo mondo si apre davanti a
noi, il mondo dell’adattamento. Anziché essere come i cani di Pavlov, che
salivavano ogni volta che udivano un campanello associato all’orario dei
pasti, gli esseri umani aggiungono un altro tassello: l’interpretazione.
In un topo addestrato ad associare la canfora a una più intensa risposta
immunitaria non c’è alcuna interpretazione: lo stimolo conduce alla risposta.
Ma tutti i tentativi di addestrare il comportamento umano hanno almeno il
50% di possibilità di fallire. Certo, incentivi positivi come il denaro, il potere
e il piacere allettano la maggior parte di noi, ma c’è sempre quello che dice di
no e fa dietrofront. Quanto a incentivi negativi come punizioni corporali,
violenze e ricatti, è molto probabile che portino al risultato desiderato, ma
anche in questo caso c’è sempre chi resiste e non si piega. Tra lo stimolo e la
risposta si interpone la mente cosciente, nonché la sua capacità di interpretare
la situazione e di reagire di conseguenza.
Qualunque esperienza facciamo, è attivo dentro di noi un ciclo di feedback:
un evento scatenante A porta a un’interpretazione mentale B, con
conseguente risposta C. Questa risposta è ricordata dalla mente, e la prossima
volta che lo stesso evento A si verificherà, la risposta non sarà esattamente la
stessa. Questo ciclo è come una conversazione continua tra mente, corpo e
mondo esterno, per questo ci adattiamo con rapidità e continuità.
Gli esiti sono diventati ancora più interessanti quando in altri esperimenti i
ricercatori hanno preso lo stesso odore di canfora e lo hanno sottoposto ai
topi mentre veniva loro iniettato un farmaco che abbassava la risposta
immunitaria. Ancora una volta, dopo un certo periodo di tempo bastava
soltanto l’odore di canfora a compromettere la risposta immunitaria dei topi.
In altre parole, lo stesso stimolo (la canfora) era in grado di indurre una
risposta specifica e anche il suo esatto opposto.
«Prima adattarsi, poi mutare»
Nonostante le prove crescenti a sostegno dell’epigenetica, alcuni biologi
evoluzionisti insistono nel sostenere che l’evoluzione della nostra specie sia
del tutto casuale e basata unicamente sulla selezione naturale. Anche solo
prendere in considerazione l’idea che possa esistere un programma
epigenetico altamente interattivo che guida l’evoluzione della nostra specie è
sufficiente a farli schiumare di rabbia e a indurli a etichettarvi come
«creazionisti» promulgatori del concetto di «disegno intelligente». Da parte
nostra, non intendiamo assolutamente suggerire che vi sia un simile disegno.
Tuttavia, osservando la mole di prove circa gli effetti dell’epigenetica sulla
salute in generale, è tempo di prendere seriamente in esame ciò che la nuova
genetica ci insegna sulla nostra stessa evoluzione.
Le recenti scoperte potrebbero essere di vitale importanza. Forte di una
carriera ormai quasi trentennale all’Ohio State University, la professoressa
Janice Kiecolt-Glaser ha analizzato, insieme al suo team, gli effetti dello
stress cronico sul sistema immunitario. Il quadro generale era già noto: se
veniamo sottoposti a stress ripetuti, la nostra resistenza alle malattie
diminuisce notevolmente; inoltre, corriamo il rischio di sviluppare patologie
serie come ipertensione e cardiopatia. Tuttavia, la gente comune ha molta
meno familiarità con i pericoli legati allo stress quotidiano, che ci infastidisce
ma che sentiamo di dover tollerare.
Il team di Kiecolt-Glaser ha preso in esame un tipo di stress che di recente
è diventato molto più comune, ovvero quello derivante dal doversi prendere
cura di una persona cara affetta da Alzheimer. La generazione del baby boom
è sempre più gravata dal peso della responsabilità nei confronti di genitori
anziani malati di Alzheimer, e poiché l’assistenza professionale è limitata e
molto costosa, milioni di figli adulti sono l’ultima risorsa di assistenza. Per
quanto amiamo i nostri genitori, alla lunga l’assistenza ventiquattr’ore su
ventiquattro sviluppa un grave stress cronico. E se ne paga un prezzo
genetico.
Come riferisce un sito web della Ohio State University: «Studi precedenti
condotti da altri ricercatori avevano già dimostrato che le madri costrette a
prendersi cura di bambini malati cronici sviluppavano cambiamenti nei loro
cromosomi equivalenti, di fatto, a parecchi anni di invecchiamento». Non
stupisce, quindi, che quando il team di Kiecolt-Glaser ha puntato il dito
sull’assistenza agli anziani malati di Alzheimer abbia scoperto indici più
elevati di depressione e altri tipi di conseguenze psicologiche.
Il suo gruppo di lavoro si è anche concentrato sulle specifiche cellule che
mostravano segni di mutazioni genetiche, e li hanno effettivamente trovati nei
telomeri delle cellule immunitarie. Come abbiamo detto, i telomeri sono le
regioni terminali di una sequenza di DNA, un po’ come il punto alla fine di
una frase. A mano a mano che le cellule si dividono, i telomeri si logorano, il
che fornisce un marcatore per l’invecchiamento. «Riteniamo che i
cambiamenti in queste cellule immunitarie rappresentino l’intera popolazione
di cellule del corpo, e suggeriscano che tutte le cellule del corpo sono
invecchiate allo stesso modo», sostiene Kiecolt-Glaser, la quale stima che
questo invecchiamento accelerato tolga a chi assiste i malati di Alzheimer dai
quattro agli otto anni di vita. In altre parole, l’adattabilità del nostro corpo ha
seri limiti.
La scienziata sottolinea che ampi dati mostrano come i figli o famigliari
del malato stressati a causa di questo compito muoiano prima dei loro
coetanei non costretti a svolgere tale ruolo. «Ora abbiamo una buona
spiegazione biologica del perché questo accade», ha detto Kiecolt-Glaser.
Come Rudy ha presto notato sequenziando interi genomi di oltre
millecinquecento malati di Alzheimer e dei loro fratelli e sorelle sani, il
genoma è pieno zeppo di sequenze ripetitive di A, C, T e G. Alcune di queste
sequenze ripetute del DNA possono legarsi a determinate proteine che
risiedono profondamente all’interno del nucleo della cellula al fine di
controllare le attività dei geni nelle loro vicinanze. Altre sequenze ripetute si
trovano alle estremità dei cromosomi, e la loro lunghezza è controllata da
proteine come la telomerasi. Più a lungo le estremità dei cromosomi
rimangono stabili (ricostruite dalla telomerasi), più a lungo la cellula
sopravvive.
Il fatto è che nel corso della vita noi ci adattiamo al nostro ambiente ogni
giorno, modificando i nostri corpi anche a livello di attività genica. Il nostro
prossimo pasto, il prossimo stato d’animo, la prossima ora di esercizio fisico
modificano il nostro corpo, in un flusso infinito di cambiamento. Darwin ha
spiegato che una specie si adatta all’ambiente in eoni di tempo, come le
decine di milioni di anni che i dinosauri hanno impiegato a tramutarsi in
uccelli da quando comparvero sulla Terra. Le piume, per un darwinista puro,
sono un adattamento fisico alla pressione ambientale e niente di più. In realtà
i nostri genomi si stanno adattando in tempo reale in ogni istante della nostra
vita grazie all’attività genica. È possibile che tali adattamenti siano di per sé
una forza trainante?
Attualmente, questo è un tema scottante. Per la stragrande maggioranza dei
biologi evoluzionisti, mettere l’adattamento prima della mutazione è
inaccettabile. Ci sono però delle eccezioni. In un articolo intitolato «Adapt
First, Mutate Later» («Prima adattarsi, poi mutare»), apparso su New Scientist
nel gennaio 2015, il giornalista scientifico Colin Barras torna a parlare della
capra di Slijper in un nuovo contesto. Un pesce primitivo africano, il
Polypterus bichir, ha la capacità di sopravvivere fuori dall’acqua. In termini
di adattamento, saper camminare sul terreno favorisce la sopravvivenza nella
stagione arida, consentendo al bichir di lasciare gli stagni ormai prosciugati
per trovare acqua fresca e nuove fonti di cibo, nonché un più ampio territorio
da colonizzare. Anche altre specie manifestano lo stesso adattamento. In
Florida, per esempio, il Clarias batrachus, un pesce gatto originario del
Sudest asiatico in grado di muoversi anche fuor d’acqua, dopo essere fuggito
ed essersi rinselvatichito è diventato altamente invasivo spostandosi su terra.
Non fa uso di zampe o simili, ma si dimena appoggiandosi sulle pinne
anteriori o pettorali, che gli tengono sollevata la testa. Pur che rimanga
umida, questa varietà di pesce gatto può restare fuori dall’acqua per un tempo
indefinito.
Tale adattamento agli spostamenti via terra ha ricordato a Emily Standen,
un’evoluzionista dell’Università di Ottawa, come pesci ancestrali emersero
dagli oceani centinaia di milioni di anni fa. Più di recente, un fossile di
trecentosessanta milioni di anni ha suscitato meraviglia fornendo prove
fisiche di questo cambiamento epocale della vita sulla Terra. Un pesce fossile
scoperto da poco, il Tiktaalik roseae, aveva uno scheletro simile a quello dei
pesci ma con nuove caratteristiche, affini a quelle dei tetrapodi, ovvero le
creature terrestri a quattro zampe. Standen, specializzatasi nella meccanica
delle specie in evoluzione, si è domandata se tali adattamenti avrebbero
potuto essere accelerati, e la risposta è stata sì, eccome!
Con il suo team la scienziata ha allevato dei bichir sulla terraferma, ed
essendo costretti a dimenarsi sulle pinne più di quanto facciano normalmente
in natura, questi pesci hanno modificato il proprio comportamento
diventando «camminatori» più efficienti. Tenevano le pinne più vicine al
corpo e alzavano maggiormente la testa, e i loro scheletri mostravano anche
cambiamenti nello sviluppo: le ossa di sostegno delle pinne avevano
cambiato forma in risposta alla maggiore gravità (in acqua i pesci pesano
meno). Come nel caso della capra di Slijper, si è verificato un insieme di
adattamenti utili. Ci vorrà del tempo per vedere dove questa linea di ricerca ci
porterà, ma già suggerisce ciò che afferma il titolo dell’articolo di Barras.
Il problema della matrioska
Questo pensiero revisionista non è facile da assimilare, ma vi assicuriamo che
conduce a qualcosa di grande. Rimpiazzare il semplice modello causa-effetto
dell’evoluzione con una nebulosa di vaghi influssi è destabilizzante. Vale
anche per il nostro corpo in questo preciso istante. Ogni giorno, infatti, è
bombardato da influssi tramite ciò che mangiamo, i comportamenti, l’attività
mentale, i cinque sensi e tutto ciò che accade nell’ambiente in cui viviamo.
Ma quale di questi fattori sarà decisivo? I geni possono predisporre alla
depressione, al diabete di tipo 2 o ad alcuni tipi di cancro, ma solo una certa
percentuale di individui in possesso di tali predisposizioni avrà il relativo
gene attivato. Individuare i fattori specifici che attiveranno un gene specifico
è come lanciare per aria un mazzo di carte e cercare di prendere al volo l’asso
di picche mentre ricadono a terra.
Agli scienziati non piace affatto abbandonare il modello lineare di causa-
effetto. Così ci ritroviamo con un modello che assomiglia a una matrioska, la
tradizionale bambola russa che ne contiene un’altra più piccola, poi una più
piccola ancora e così via, fino a un’ultima bambola minuscola. Le matrioske
sono deliziose, ma che cosa succederebbe se sostenessimo che la bambola più
grande è stata costruita da quella al suo interno, e quest’ultima da quella più
piccola ancora e così via?
In sostanza, è qui che la genetica ci ha portato. A volte il quadro genetico è
abbastanza semplice da non lasciare alcuna ambiguità. Immaginiamo un
fenicottero bianco tra migliaia di fenicotteri rosa. Che cosa lo ha reso così
bianco? Una sequenza lineare di ragionamenti fornisce la risposta: prima
viene il genere Phoenicopterus, che contiene sei specie di fenicotteri
suddivise tra le Americhe e l’Africa; ciascuna ha un gene dominante che
produce piume rosa generazione dopo generazione, ma tutti i geni possono
mutare o non apparire, portando casualmente all’albinismo in un singolo
pulcino; il numero di pulcini nati con le piume bianche può essere
statisticamente previsto, e la storia finisce qui.
Adottiamo il ragionamento della bambola russa per scendere a livelli
sempre più piccoli della Natura in cerca di cause. È il metodo riduzionista,
che ha un valore ormai classico nella scienza. Indagare la natura fino alle sue
componenti più piccole, infatti, è l’oggetto stesso della scienza, che si tratti di
un fisico a caccia di particelle subatomiche o di un genetista che cerca segnali
metilici su un gene. Vi è però un problema, ed è cruciale.
Considerate una persona che è diventata obesa, andando a ingrossare le file
dell’attuale epidemia di obesità nei Paesi sviluppati. Ci sono molte teorie sul
perché un individuo diventi obeso, eccone alcune: lo stress, squilibri
ormonali, cattive abitudini alimentari sviluppate fin dall’infanzia e
l’eccessiva assunzione di amidi e zuccheri raffinati. Adottando il
ragionamento della bambola russa, la spiegazione porterebbe al livello
genetico. Sebbene in passato sia stata varata una ricerca del «gene
dell’obesità», corroborata da prove statistiche che mostravano come il
sovrappeso avesse in effetti una componente ereditaria, quel progetto ha
avuto solo un successo limitato, identificando alcuni geni portatori di varianti
del DNA lievemente predisponenti all’obesità, per esempio il gene FTO, che
è associato alla massa grassa e all’obesità. Come accade per disturbi quali la
schizofrenia, che ha una componente genetica, nella migliore delle ipotesi
l’influenza genetica fornisce una predisposizione.
Oggi si è trovata una bambola ancora più piccola: l’epigenetica e gli
interruttori che controlla. Quasi ogni fattore che potrebbe contribuire
all’obesità, sia questo il troppo stress, l’eccesso di zucchero, le cattive
abitudini alimentari o uno squilibrio ormonale, teoricamente è regolato
dall’epigenoma, la stazione di commutazione che trasforma le esperienze in
alterazioni genetiche. Qui però la linea di ragionamento riduzionista si
blocca. È estremamente difficile, infatti, dire quale particolare esperienza crei
quale segnale su quale gene, alterando così l’attività genica. Alcune persone
diventano obese con o senza stress, con o senza zucchero e così via. Di
conseguenza, è impossibile prevedere con precisione quali esperienze passate
o future alterino in modo affidabile l’attività genica. La nebulosa di cause che
avvolge il motivo per cui gli uomini olandesi hanno improvvisamente iniziato
a crescere tanto circonda anche una grande quantità di epigenetica. Qualcosa
sta creando segnali metilici, ma il segnale è per sua natura materiale, mentre
spesso quel qualcosa che lo ha causato non lo è. Una tossina ambientale può
causare cambiamenti epigenetici, ma per quanto ne sappiamo anche una forte
emozione come la paura può farlo, perlomeno nei topi.
Se guardiamo più in profondità, l’ipotesi di una causa materiale dei segnali
epigenetici si rivela debole. È l’intera gamma delle esperienze esistenziali,
dalle interazioni fisiche alle reazioni emotive, a governare la modificazione
chimica di alcuni geni mediante segnali metilici. Un segnale metilico, che
come abbiamo detto è il fattore più studiato per la modifica di un gene da
parte dell’epigenoma, è estremamente piccolo. Chimicamente, un gruppo
metilico è minuscolo, non più di un atomo di carbonio legato a tre atomi di
idrogeno. La metilazione contraddistingue solo la coppia con base C
(citosina), attaccandosi a questa come un pesce ventosa alla pancia di uno
squalo; la molecola della citosina è quaranta volte più grande. È stato
dimostrato che quando il DNA viene modificato con più segnali metilici,
qualche sua parte si spegne. Quindi pare che siamo alla bambolina più
piccola, quella che altera tutte le più grandi. Il 90% delle modificazioni del
DNA associate a malattia è infatti situato in aree di commutazione del gene.
Inoltre, l’epigenetica ha un notevole effetto sullo sviluppo prenatale, la
personalità e i tic comportamentali, nonché sulla sensibilità alle malattie, che
va ben oltre i geni e le mutazioni ereditate dai nostri genitori.
Il modo in cui una madre vive mentre ha in grembo un bambino potrebbe
potenzialmente influire sulle attività geniche e sul rischio di malattia del
figlio decenni dopo. Un team di ricercatori canadesi dell’Università di
Lethbridge ha sottoposto dei ratti adulti a condizioni di stress, poi ne ha
studiato la prole. I ratti femmina figlie di madri stressate avevano gravidanze
più brevi, e così persino le nipoti, le cui madri non erano state stressate. I
ricercatori hanno suggerito che questo fosse dovuto all’epigenetica. Più nello
specifico, hanno dichiarato che i cambiamenti epigenetici causati dallo stress
coinvolgono i cosiddetti micro-RNA, minuscoli segmenti di RNA fatti di
genoma che regolano l’attività genica (prima il DNA tra i geni veniva
definito «DNA spazzatura», ora invece sappiamo che questo DNA
intergenico può essere usato per produrre minuscole molecole, il micro-RNA
appunto, che controlla le attività geniche in tutto il genoma).
Lasciando da parte potenziali anomalie su cui la ricerca medica potrebbe
concentrarsi, la commutazione è il modo in cui tutti siamo giunti qui. Questa
è fondamentale per il viaggio che una singola cellula fecondata nel grembo
materno compie per diventare un bambino sano e perfettamente formato.
Quando questa prima cellula si divide, ogni cellula futura contiene lo stesso
DNA. Ma perché possa formarsi un bambino, devono esserci cellule epatiche,
cardiache, cerebrali eccetera, tutte diverse l’una dall’altra. L’epigenoma e i
suoi segnali regolano la differenza. Si è dunque capito che una mappa
dell’epigenoma era urgentemente necessaria per individuare come ciascun
tipo di cellula venga determinata nello sviluppo di un embrione in utero.
Quattro nazioni – Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito – hanno
finanziato il Progetto epigenoma umano, la cui missione è mostrare dove si
trovino tutti i segnali rilevanti o, per dirla con il lessico ufficiale,
«identificare, catalogare e interpretare i profili di metilazione di tutti i geni
nei principali tessuti umani».
Grazie alla partecipazione di oltre duecento scienziati, una pietra miliare è
stata raggiunta nel febbraio 2015 con la pubblicazione di ventiquattro articoli
che descrivono, fra tre milioni di interruttori coinvolti, quelli che determinano
lo sviluppo di oltre cento tipi di cellule del nostro corpo. Questo sforzo
congiunto ha comportato migliaia di esperimenti con tessuti sia adulti sia
fetali e con cellule staminali (in teoria, contare tutte le macchie di tutti i
leopardi del mondo sarebbe stato più facile). Le sostanze chimiche che
regolano i diversi tipi di cellule erano già note, e talvolta i relativi interruttori
non sono vicini al gene interessato: anzi, l’interruttore A può essere collocato
a considerevole distanza dal gene B. In casi simili i ricercatori hanno dovuto
individuare il ruolo dell’interruttore osservando il regolatore chimico: se era
presente in una cellula, ne deducevano che l’interruttore era acceso.
Genitori, bambini e geni
Giungere a questa porzione della mappa dell’epigenoma è stata una conquista
entusiasmante. Attivare o disattivare geni chiave potrebbe essere la strada
migliore per prevenire e curare una miriade di malattie. Come i ricercatori
sanno, l’individuazione di tutti questi interruttori fornisce una quantità
incredibile di nuovi dati, ma questo è solo un inizio. Nell’attività del DNA gli
interruttori interagiscono, formano circuiti (detti reti) e possono persino agire
sui geni a distanza. Dipanare tutti i circuiti non ci dice perché vi sia attività,
non più di quanto mappare la posizione di ogni telefono in una città ci riveli
che cosa si dicono le persone quando si chiamano. Regioni diverse del
genoma possono essere attivate in parallelo per via epigenetica in seguito a
una riorganizzazione tridimensionale del genoma (come se piegassimo il
filamento di DNA ad anello), che le porta in stretta prossimità.
Inoltre, bisogna considerare l’effetto che l’epigenetica ha sul primo periodo
di vita di un neonato dopo avere lasciato il grembo materno. Questo periodo
fa da perno tra l’influenza epigenetica della madre e l’esperienza propria del
neonato. Quanto è importante la sovrapposizione tra le due? Questa domanda
è centrale per molti problemi medici dei bimbi piccoli, per esempio l’allergia
alle arachidi. Come riferiva il New York Times nel febbraio 2015, negli Stati
Uniti circa il 2% dei bambini è allergico alle arachidi, numero che dal 1997 è
quadruplicato. Nessuno è in grado di spiegare perché, ma negli ultimi decenni
c’è stato un forte aumento di tutte le allergie, cosa che rimane un mistero. E
questo aumento si registra in tutti i Paesi occidentali.
Un bambino con una forte allergia alle arachidi può potenzialmente morire
per l’esposizione anche solo a una minima traccia di arachidi negli alimenti.
La spiegazione standard è che dare alimenti a base di arachidi ai bambini
piccoli aumenta il rischio di sviluppare l’allergia, ma un interessante studio
pubblicato nel 2014 sul New England Journal of Medicine ha sovvertito
questa tesi. Dare ai bambini alimenti come il burro d’arachidi «riduce
drasticamente il rischio di sviluppare un’allergia», hanno concluso gli autori
dello studio. Una notizia rincuorante: un semplice accorgimento nello
svezzamento dei bambini poteva ridurre, se non addirittura invertire, una
tendenza al rialzo.
In questo nuovo studio, che si è svolto a Londra, cinquecentotrenta
bambini considerati a rischio di sviluppare allergia alle arachidi (per esempio,
perché già allergici alle uova o al latte) sono stati suddivisi in due gruppi. A
partire da quando i bambini avevano tra i quattro e gli undici mesi, a un
gruppo sono stati somministrati alimenti contenenti arachidi e all’altro no.
Raggiunti i cinque anni, il gruppo esposto alle arachidi aveva un’incidenza di
allergie dell’1,9%, rispetto al 13,7% dei bambini a cui i genitori avevano
vietato alimenti contenenti arachidi. È stato addirittura ipotizzato che tale
divieto da parte di genitori apprensivi possa avere causato il drastico aumento
dell’allergia nei loro bimbi.
È da un po’ che i genitori sono confusi in materia di neonati e allergie, e
non solo quella alle arachidi. Prima di questa nuova scoperta i dati non erano
chiari. Come abbiamo detto, il neonato eredita il sistema immunitario della
madre, che funge da ponte mentre inizia a sviluppare i propri anticorpi. Il
timo, che si trova nel torace, più o meno tra i polmoni e davanti al cuore, è
una ghiandola in cui maturano i linfociti T del sistema immunitario. Quando
il corpo è invaso da virus, batteri esterni o sostanze presenti nell’ambiente
come il polline, i linfociti T hanno il compito di riconoscere quali invasori
respingere. L’allergia è come un caso di scambio d’identità in cui una
sostanza innocua viene identificata come nemica, cosa che porta a una
reazione allergica creata dal corpo stesso, non dall’invasore.
Il timo è al massimo della sua attività subito dopo la nascita e per tutta la
durata dell’infanzia. Una volta che il soggetto ha sviluppato una serie
completa di linfociti T, l’organo si atrofizza dopo la pubertà. Il punto della
questione allergie sta in quanta della nostra immunità è ereditata
geneticamente e quanta è invece influenzata dall’ambiente dopo la nascita.
Riguardo all’aumento allarmante delle allergie nei Paesi sviluppati, pare che
più l’ambiente è inquinato, più grave è il problema. Ma dopo la caduta
dell’Unione Sovietica nel 1991 e l’apertura delle frontiere dei suoi Paesi
satelliti, che in genere avevano tassi di inquinamento molto più elevati
rispetto agli Stati Uniti o all’Europa occidentale, i ricercatori sono rimasti
perplessi quando hanno scoperto che aree altamente inquinate dell’Europa
orientale presentavano tassi di allergia inferiori a quelli di alcuni Paesi
europei più sviluppati.
Si è dunque iniziato a pensare che forse era vero il contrario: i Paesi
occidentali sono troppo puliti e disinfettati, e questo priva il sistema
immunitario di quell’esposizione alle sostanze che gli permette adattarsi. Di
conseguenza, la scoperta dell’allergia alle arachidi potrebbe essere molto
significativa. Le linee guida dell’American Academy of Pediatrics, pubblicate
nel 2000, raccomandavano che i bambini fino a tre anni non mangiassero cibi
contenenti arachidi, se erano a rischio di sviluppare l’allergia a questo
alimento. Poi, nel 2008, la stessa organizzazione ha riconosciuto che non
c’erano prove conclusive per cui evitare le arachidi non facesse sviluppare
l’allergia dopo i quattro-sei mesi di vita. A ogni modo, non esisteva ancora
uno studio che dimostrasse che smettere di evitarle fosse la soluzione
corretta. Il primo indizio reale è emerso da un sondaggio del 2008 pubblicato
sul Journal of Allergy and Clinical Immunology, il quale ha scoperto che il
numero di bambini affetti da allergia alle arachidi in Israele era un decimo di
quello dei bambini ebrei nel Regno Unito. La differenza significativa
sembrava essere che i bambini israeliani consumano alimenti a base di
arachidi fin dal primo anno di vita, in particolare il Bamba, uno snack molto
amato dai piccoli che mescola pop-corn e burro d’arachidi. I bambini ebrei
britannici, viceversa, non consumano alimenti a base di arachidi, se i loro
genitori sono attenti alle problematiche allergiche.
Questo nuovo studio, tuttavia, non si applica ad altri alimenti verso i quali i
bambini sviluppano allergie. E due importanti questioni restano irrisolte:
primo, se i bambini alimentati con cibi contenenti arachidi smettono di
consumarli, sono soggetti a sviluppare l’allergia? Questo interrogativo è al
momento esplorato in uno studio di follow-up sui soggetti originari. Secondo,
i risultati sono applicabili ai bambini a basso rischio di allergie alimentari?
Questo non si sa, ma i ricercatori tendono a pensare che consumare alimenti a
base di arachidi non farà loro alcun male. Chiedere però a genitori ansiosi di
cambiare le loro abitudini può risultare difficile, dal momento che per
parecchio tempo le raccomandazioni degli organi preposti alla tutela della
salute hanno tanto ripetuto di evitare i cibi «sbagliati».
Siamo entrati un po’ nel dettaglio non perché abbiamo la risposta alle
allergie, ma per chiarire come possono essere incerti gli influssi ambientali,
benché sia noto che in generale i segnali epigenetici ne risentono. Il
miracoloso sviluppo di un essere umano da embrione a neonato, e poi
bambino, adolescente e adulto comporta un’intricata danza tra geni e
ambiente. Nei mammiferi le interazioni tra neonato e genitori possono avere
profonde ripercussioni sulla salute del bambino nei decenni successivi.
Sebbene molti risultati in questo campo siano emersi solo da studi su topi e
ratti, ci sono sempre più prove che tali risultati possano applicarsi anche gli
esseri umani. Per esempio, pare che abusi, abbandono, incuria e
maltrattamenti subiti nelle prime fasi della vita producano effetti epigenetici
sull’attività genica che influiscono negativamente sulla salute fisica e mentale
più avanti negli anni.
Nel bene e nel male, i primi eventi che plasmano i legami tra genitori e
figli hanno profondi effetti sullo sviluppo cerebrale del bambino e sulla sua
personalità. Ma come si stabiliscono questi legami? Sempre più spesso gli
studi mostrano che sono in gran parte dovuti alle modificazioni epigenetiche
dei geni del bambino, guidate da esperienze infantili che iniziano fin dai
primissimi giorni di vita. Se una madre si comporta in modo distaccato verso
il suo bambino, possono verificarsi una risposta ipotalamo-ipofisi-surrene
(HPA) disfunzionale associata a stress, una compromissione dello sviluppo
cognitivo e un aumento di cortisolo tossico, che si misura nella saliva del
bambino.
Alcuni bambini vittime di abusi muoiono giovani, e in questi tragici casi il
loro cervello può essere studiato in corso di autopsia. Questo tipo di ricerca
ha mostrato chiari segni di modificazione epigenetica (metilazione
aumentata) del gene NR3C1, che provoca la morte delle cellule nervose di
quella regione del cervello nota come ippocampo, predisposta alla memoria a
breve termine. Nei bambini vivi la stessa modificazione genetica è rinvenibile
nella saliva di soggetti emotivamente, fisicamente e sessualmente abusati. In
seguito, simili danni possono sviluppare comportamenti di tipo psicopatico.
Scoperte del genere ampliano e circostanziano in maniera scientifica la
convinzione già diffusa a livello popolare che abusi e abbandono in giovane
età abbiano profondi effetti psicologici, perché ora siamo in grado di
rintracciare il danno a livello cellulare. Nella ricerca dei cambiamenti
biologici alla base di questi eventi, sempre più spesso vengono coinvolti i
percorsi epigenetici che controllano l’espressione genica nel cervello. Con gli
stessi strumenti, in futuro sarà forse possibile testare l’efficacia di terapie
psicologiche o farmacologiche osservando se gli effetti negativi
nell’epigenoma sono stati invertiti o meno.
Alcuni progressi sono già stati compiuti negli studi sugli animali. Nel 2004
una ricerca della McGill University, condotta dal neuroscienziato Michael
Meany, ha mostrato come i ratti neonati che venivano leccati spesso dalle
loro madri avessero maggiori livelli di recettori di glucocorticoidi nel
cervello, il che comportava una riduzione di ansia e comportamenti
aggressivi. Come spiegare questi cambiamenti comportamentali? Di nuovo,
con l’epigenetica. I ratti che avevano ricevuto cure più amorevoli dalle loro
madri avevano subìto meno modificazioni per metilazione dei geni recettori
di glucocorticoidi, il che aveva portato a una diminuzione della quantità di
cortisolo, e quindi a minore ansia, aggressività e risposta allo stress.
L’ambito più controverso dell’epigenetica riguarda il modo in cui le
generazioni future saranno influenzate dallo stress e dagli abusi subiti oggi da
chi le precede. Se dopo la nascita i ratti maschi vengono separati dalle loro
madri, possono soffrire di ansia e di aspetti depressivi come apatia che
verranno trasmessi alle generazioni successive. Modificazioni epigenetiche
negative sono state effettivamente rinvenute nello sperma di ratti in seguito
alla loro separazione dalla madre, e dallo stesso sono poi state trasmesse alla
progenie. Studi correlati hanno mostrato che una lunga serie di effetti, dalla
scarsa alimentazione allo stress e all’esposizione a tossine (per esempio,
pesticidi che portano a modificazioni epigenetiche nel cervello e nello sperma
dei ratti), possono essere trasmessi alla generazione successiva.
Un esempio eloquente di quanto siamo in grado di influenzare la nostra
attività genica viene da uno studio che sembra fantascienza: un team
francoelvetico di Zurigo è stato ispirato da un gioco innovativo chiamato
Mindflex, che viene fornito con una cuffia che intercetta le onde cerebrali
dalla fronte e dai lobi delle orecchie del giocatore. Concentrandosi su una
leggera palla di polistirolo, il giocatore può farla alzare o abbassare in una
colonna d’aria, e il gioco consiste nel riuscire a spostare la palla attraverso un
percorso a ostacoli utilizzando esclusivamente il pensiero.
I ricercatori si sono domandati se lo stesso metodo poteva alterare l’attività
genica, così hanno messo a punto un casco per elettroencefalogramma (EEG)
che analizzasse le onde cerebrali e potesse trasmetterle via bluetooth. Come
riportava Engineering & Technology Magazine nel novembre 2014, le onde
cerebrali venivano trasformate in campo elettromagnetico all’interno di
un’unità che alimentava un impianto all’interno di una coltura cellulare.
L’impianto era dotato di una lampada a LED che emetteva luce infrarossa e
innescava la produzione di una specifica proteina nelle cellule. Uno dei
ricercatori alla guida del progetto ha commentato: «Controllare i geni in
questo modo è qualcosa di completamente nuovo e unico nella sua
semplicità».
I ricercatori hanno usato la luce infrarossa perché non danneggia le cellule,
pur penetrando in profondità nel tessuto. Dopo che la trasmissione remota del
pensiero aveva funzionato su campioni di tessuto, il team è passato ai ratti, e
anche in questo caso ha avuto successo. A diversi soggetti umani è stato
chiesto di indossare il casco per EEG e di controllare la produzione di
proteine nei ratti usando semplicemente il pensiero. Al primo dei tre gruppi è
stato detto di concentrarsi giocando al videogioco Minecraft sul computer.
Come riportato nell’articolo pubblicato su Engineering & Technology
Magazine, «questo gruppo ha ottenuto solo risultati limitati in termini di
concentrazione della proteina nel sangue dei ratti. Il secondo gruppo, in stato
di meditazione o di totale rilassamento, ha indotto un tasso molto più elevato
di espressione della proteina. Il terzo gruppo, usando il metodo della
retroazione biologica (biofeedback), è stato in grado di accendere e spegnere
intenzionalmente la luce a LED impiantata nel corpo di un ratto da
laboratorio».
Al di là delle straordinarie implicazioni per quanto riguarda l’influenza
diretta del pensiero sulle attività geniche, un giorno questo metodo potrebbe
essere adottato per aiutare i pazienti affetti da epilessia, fornendo loro
medicinali in maniera istantanea o accendendo/spegnendo alcuni loro geni
attraverso un impianto cerebrale appena si verifica un attacco. Un attimo
prima di una crisi, infatti, il cervello di un epilettico genera un particolare tipo
di attività elettrica che potrebbe essere sfruttato per avviare un impianto
genetico che funziona con la luce per produrre rapidamente un farmaco
antiattacco. Una strategia simile potrebbe essere impiegata per trattare il
dolore cronico, producendo farmaci antidolorifici nel cervello appena si
manifestano i primi segni di dolore.
Insomma, il nostro genoma è un insieme straordinariamente vivace di
DNA e proteine continuamente rimodellato in termini di struttura e di attività
genica, e molto di questo rimodellamento sembra essere condizionato dal
modo in cui viviamo la nostra vita. Ma il problema della bambola russa non
può essere accantonato. È ormai evidente che modificazioni chimicamente
indotte sono alla base dell’attività genica. Questo è un dato incontrovertibile.
Una modificazione dell’attività genica in risposta allo stile di vita del
soggetto può essere provocata da un piccolo gruppo metilico attaccato a un
gene che lascia un segnale rivelatore. Senza questa modificazione chimica del
gene, una cellula staminale non potrebbe svilupparsi in una particolare cellula
cerebrale piuttosto che epatica o cardiaca. Anzi, potrebbe addirittura non
trasformarsi ma continuare soltanto a dividersi ancora e ancora, allo stesso
modo in cui si forma un tumore.
I segnali metilici non sono solo modificazioni chimiche che disattivano
l’attività genica, ma anche note musicali della sinfonia di interazioni geniche
più complesse. Leggendo i segnali complessivamente, possiamo farci un’idea
delle reti di attività che corrispondono al modo in cui noi, e magari anche i
nostri genitori e nonni, siamo vissuti. In futuro sarà forse possibile leggere
direttamente dall’epigenoma le esperienze specifiche, per esempio quella di
una carestia a cui siamo sopravvissuti. Equiparare i segnali metilici alla
partitura di una sinfonia ha un senso perché è necessaria una moltitudine di
note affinché una melodia possa davvero essere percepita. Una singola
battuta di una sinfonia fornisce solo un’istantanea. Allo stesso modo, la
ricerca della bambola più piccola della matrioska non racconta l’intera
questione della genetica.
Nella genetica i segnali vengono decifrati chimicamente, ma connetterli a
ciò che significano in termini di esperienza è un passo arduo. In primo luogo,
non possiamo realmente osservare i cambiamenti genetici in tempo reale. In
secondo luogo, non possiamo connettere l’esperienza A alla mutazione
genetica B con qualche specificità, tranne che in pochi casi. Dovrebbe essere
possibile, per esempio, trovare alterazioni epigenetiche causate dal fumo di
sigaretta ma anche in quel caso non tutti subiscono gli stessi danni. Pur
sapendo come possono verificarsi determinati segnali chimici su certi geni,
non siamo in grado di dire come un certo tipo di esperienza esistenziale, per
esempio una carestia prolungata, causi la comparsa di segnali specifici su
geni specifici in precisi settori del genoma.
Attualmente, la sfida più grande rimane la mancata connessione tra segnali
e significato. Quando un violinista vede i «segni» che aprono la Quinta di
Beethoven – il celebre da-da-da-DAN – entra in azione muovendo il braccio
su e giù sulle corde del violino. Noi possiamo vedere il suo braccio muoversi,
ma dietro a quel movimento vi sono tanti elementi invisibili. Il violinista, che
sa leggere la musica, sa che cosa rappresentano le note, le quali non sono solo
segni casuali vergati nero su bianco su una pagina. La sua mente trasforma
quelle note in azioni altamente coordinate tra cervello, occhi, braccia e dita. E
a monte di tutto, cosa talmente ovvia da non essere detta quasi mai, vi è un
essere umano, Ludwig van Beethoven, che fu ispirato a scrivere quella
sinfonia e inventò quel motivo di quattro note celeberrimo in tutto il mondo.
Anche ammettendo tutto questo, come fa la coreografia chimica di milioni
di geni e dei loro interruttori chimicamente controllati a dare vita alla
sorprendente capacità che un cervello ha di pensare? Nessuno lo sa. Come ha
fatto questo organo a evolvere nel corso di eoni in risposta alla
programmazione di nuove mutazioni che a mano a mano si verificavano? La
rigorosa genetica darwiniana direbbe che tutte queste mutazioni si sono
verificate casualmente. Ma questa non può essere tutta la storia, visto che
modificazioni epigenetiche in risposta a determinati stili di vita possono
dettare dove, nel genoma, nascono nuove mutazioni. In questi casi anche
Darwin avrebbe dovuto ammettere che non tutte le mutazioni avvengono in
modo casuale.
Naturalmente, ai suoi tempi Darwin non poteva avere idea
dell’epigenetica. Ma che cosa sarebbe successo se ne fosse stato al corrente?
Forse ci avrebbe detto che la nostra evoluzione implica l’interazione sia di
segnali epigenetici sia di nuove mutazioni geniche. Darwin sconvolse i suoi
contemporanei escludendo Dio, o qualunque altro creatore consapevole, dalla
sua spiegazione di come era nato l’uomo. Certo, nello studio della genetica
presumere l’esistenza di un’intelligenza superiore dietro le quinte non aiuta a
capire come ci siamo evoluti, ma ora siamo in grado di postulare un principio
organizzatore intrinseco al processo evolutivo che trascende il concetto
limitato di mutazioni casuali e di sopravvivenza del più adatto. Nel costruire
un nuovo modello di evoluzione, i segnali metilici su migliaia di geni e gli
istoni loro partner, operando di concerto con il genoma, contribuirebbero a
determinare dove sorgeranno nuove mutazioni (anche influenzando la
struttura tridimensionale del DNA). Poi potrebbe subentrare la selezione
naturale darwiniana, per decidere quali nuove mutazioni persisteranno. In
questo scenario avvincente, sebbene solo speculativo, non ci limitiamo ad
attendere passivamente che si verifichino mutazioni casuali, ma influenziamo
direttamente l’evoluzione del nostro genoma in base alle scelte che facciamo.
Un nuovo protagonista: il microbioma

IN questo momento la genetica è al centro di un’esplosione di conoscenza. I


nuovi dati su genoma ed epigenoma si accumulano giorno dopo giorno in
quantità non di gigabyte ma di terabyte, cioè mille miliardi di byte di
informazioni digitali. Questa marea di dati è difficile anche solo da
immaginare, figuriamoci da analizzare. Ma non finisce qui, perché di recente
si è aggiunta anche un’altra enorme mole di dati da una fonte assolutamente
imprevista: i microbi. Quando studiavamo medicina i microbi venivano
considerati perlopiù come invasori, cioè batteri e virus che quando riuscivano
a superare le difese immunitarie dell’organismo causavano malattie. Solo
collateralmente si faceva cenno anche ai microbi «buoni», ovvero quelli che
vivono nel nostro tratto intestinale e ci aiutano a digerire il cibo.
Un gastroenterologo conosce queste cose a memoria e sa bene che cosa
può andare storto nell’intestino, ma la maggior parte delle persone ha
pochissima consapevolezza dei microbi che vivono a fianco a fianco con le
nostre cellule. Quando prendiamo degli antibiotici, il cui scopo è uccidere i
germi «cattivi», viene attaccata anche la flora intestinale «buona».
Normalmente questa flora intestinale si ripristina in breve tempo, appena
l’antibiotico non viene più assunto, e il massimo che può accaderci è avere
una scarica di diarrea. Quando i viaggiatori sono colpiti da disturbi intestinali,
tipo il cosiddetto Delhi belly (mal di pancia di Delhi) in India o la vendetta di
Montezuma in Messico, la causa è un cambiamento nell’ecologia
dell’intestino. I microbi digestivi sono diversi nelle diverse parti del mondo.
Ma a meno che avvertiamo dolore, disagio, gonfiore, diarrea o stitichezza, di
solito non prestiamo molta attenzione ai nostri processi digestivi, o almeno
non a livello microbico.
Negli ultimi anni, tuttavia, quasi d’improvviso l’intera popolazione di
microbi che abita dentro di noi ha assunto un’enorme importanza. Il motivo
l’abbiamo accennato quando abbiamo detto che il corpo contiene centomila
miliardi di cellule estranee o microbiche. Come già detto, questo significa che
il 90% delle cellule del corpo è costituito da microbi, compresa una vasta
preponderanza del suo materiale genetico. Il nostro corpo contiene circa
ventitremila geni umani contro più di un milione di geni batterici. In altre
parole, siamo un insieme di colonie batteriche con poche cellule umane che
gli stanno attaccate! Ci siamo resi conto di questo quando è stato possibile
mappare interi genomi, compresi quelli delle centinaia e migliaia di possibili
microrganismi che abitano il nostro corpo, soprattutto l’intestino ma anche la
pelle, la bocca e altri organi.
Prima di poter capire i nostri geni è necessario individuare le implicazioni
genetiche del microbioma (a volte si utilizza anche il sinonimo microbiota),
ovvero la totale ecologia di microrganismi, che supera per numero le nostre
cellule nella misura di dieci a uno. Quando apparvero forme di vita superiori,
questi microbi non si limitarono a fare una capatina per una visita. Il rapporto
simbiotico tra le cellule del nostro corpo e migliaia di miliardi di microbi
abbraccia fasce di tempo vertiginose, a iniziare dalla prima apparizione dei
microbi 3,5 miliardi di anni fa. La comparsa dei nostri antenati ominidi,
avvenuta circa 2,5 milioni di anni fa, rappresenta un batter di ciglia nel
cammino evolutivo dei batteri, capaci di creare geni e persino di scambiarli.
Lungo tale cammino, la nostra interazione con questi batteri ha influenzato
l’evoluzione di ogni nostro organo, cervello compreso.
Non è stato ancora stabilito quante specie di microbi siano presenti nel
nostro corpo. Le stime generali parlano di più di un migliaio, ma in ogni caso
è una moltitudine che lascia a bocca aperta. L’importanza dell’effetto del
microbioma è suggerita dai modi in cui viene descritto: «Il secondo genoma
umano»; «Un nuovo organo che solo ora viene scoperto»; «Una foresta
pluviale batterica che ci portiamo dentro». Nell’intestino, le cellule vengono
perse in gran numero: dai cento ai trecento milioni dal colon ogni ora, una
piccola frazione dei miliardi, da uno a tre, persi dall’intestino tenue. I microbi
si stabiliscono nel biofilm che riveste la parete intestinale, ma vengono anche
persi in grande quantità: un campione di feci, infatti, contiene circa il 40% del
suo peso di microbi.
Il termine microbioma è stato coniato da Joshua Lederberg, un biologo
molecolare premio Nobel ed ex collega di Rudy, ma l’idea di un microbioma
era già stata descritta nell’Ottocento da un chirurgo dell’esercito statunitense,
William Beaumont (1785-1853). Pioniere della fisiologia della digestione,
Beaumont sosteneva che questa viene ostacolata dall’ira. Da allora abbiamo
capito che la vasta gamma di batteri presenti nel nostro intestino influenza
direttamente lo sviluppo del cervello e del sistema nervoso centrale dalla
culla alla tomba. Inoltre, il microbioma adegua quotidianamente il nostro
sistema immunitario.
Quando l’equilibrio naturale del microbioma viene turbato si parla di
disbiosi, ma solo adesso stiamo scoprendo che, lungi dall’essere solo un
problema digestivo, la disbiosi provoca danni sistemici. La gamma di disturbi
a questa collegati è in costante crescita, ma già così ha numeri sconcertanti:
infatti, sono stati individuati collegamenti con l’asma, l’eczema, il morbo di
Crohn, la sclerosi multipla, l’autismo, l’Alzheimer, l’artrite reumatoide, il
lupus, l’obesità, i disturbi cardiovascolari, l’aterosclerosi, il cancro e la
malnutrizione. E la ricerca di nuove cure indica una direzione unica: il
microbioma.
L’interesse per il microbioma è così cresciuto che anche voi ne avrete
sentito parlare dai media e nelle pubblicità dei prodotti cosiddetti probiotici
(il più pubblicizzato è lo yogurt attivo), cioè proficui nel promuovere la
crescita dei microbi sani del tratto intestinale. Da un punto di vista genetico,
il microbioma contribuisce a educare il sistema immunitario e a prevenire le
malattie. Nel corso dell’evoluzione il DNA microbico non ha semplicemente
convissuto al fianco del DNA delle creature viventi, ma vi si è infiltrato
dentro, diventando parte integrante del DNA umano di oggi. Un mondo di
possibili conseguenze deriva da questa interdipendenza, che nella nostra
specie si protrae da milioni di anni.
L’altro dato rilevante, la connessione tra microbioma e patologie croniche,
può avere un forte effetto sulla vita di tutti noi. Vi è un’ovvia connessione
con disturbi del tratto intestinale come la sindrome dell’intestino irritabile,
ma anche con l’obesità, per il modo in cui il cibo viene digerito e
metabolizzato. Ben più inattesa, però, è la potenziale connessione tra
microbioma e disturbi apparentemente lontani da questo come le cardiopatie,
il diabete di tipo 1, il cancro e persino patologie mentali come la schizofrenia.
È ormai noto che i batteri intestinali producono composti neuroattivi che
interagiscono con le cellule cerebrali e possono persino controllare
l’espressione dei nostri geni attraverso l’epigenetica. Quando ci siamo resi
conto della forte connessione intestino-cervello, le barriere tra cellule nostre e
cellule estranee hanno iniziato a sgretolarsi. Se un batterio dell’intestino può
davvero influenzare il nostro stato d’animo o contribuire all’insorgenza di
una malattia mentale, all’orizzonte si profila una concezione del corpo
totalmente nuova, come vedremo (tratteremo i probiotici e altre
raccomandazioni alimentari nella seconda parte di questo libro).
Da mistero a moda del momento
Il motivo per cui centinaia di microbi abitino il nostro corpo, i suoi genomi e
i terabyte di dati da questi derivati è un mistero sconfinato. Per orientarci in
questo enigma abbiamo bisogno di alcune categorie generali a cui
aggrapparci. Il professor Rob Knight, esperto di microbi umani
dell’Università del Colorado, spiega così l’importanza del microbioma: «Il
chilo e mezzo circa di microbi che ci portiamo appresso potrebbe essere più
importante di ogni singolo gene del nostro genoma». In termini di peso, il
microbioma equivale grosso modo al cervello. Per semplificare le cose,
Knight suddivide la brulicante popolazione di microrganismi in base alle aree
che occupano nel corpo, soprattutto intestino, pelle, bocca e vagina. Si tratta
di paesaggi microbici (e genetici) separati, diversi per ecologia quanto
l’Artico è diverso dai Tropici.
Dietro a questa mappa semplificata vi è l’analisi condotta da Knight del
microbioma di duecentocinquanta volontari adulti sani, e dietro a
quest’ultima l’imponente database del sequenziamento del genoma del
Progetto microbioma umano, finanziato con centosettantatré milioni di dollari
dal governo federale statunitense.
Uno dei principali misteri del microbioma è il fatto che vari così tanto da
persona a persona. In un TED talk del febbraio 2014 che su Internet ha
superato le trecentomila visualizzazioni, Knight stuzzica l’interesse del
pubblico con alcuni dati davvero affascinanti. Per esempio, alcuni giurano di
venire punti dalle zanzare molto più della media della popolazione, mentre
altri sostengono di venire punti solo raramente. La ragione di questa disparità
ha in parte a che fare con i diversi microbi presenti sulla loro pelle, e con
quanto le zanzare ne sono attratti. I microbi presenti nell’intestino sembrano
invece determinare se un antidolorifico da banco a base di paracetamolo
possa causare o meno danni al fegato.
Questa diversità rende difficile descrivere la popolazione di un microbioma
perfettamente sano. Inoltre, l’intestino delle persone di oggi potrebbe essere
gravemente compromesso. Nel saggio Amico intestino (Sperling & Kupfer
2016), i microbiologi della Stanford University Erica e Justin Sonnenburg
hanno lanciato un allarme sulla possibile perdita di microbi intestinali dovuta
a vari fattori. Uno di questi, per esempio, è la scarsità di fibre vegetali
presenti nella tipica alimentazione americana. Le fibre sono un prebiotico,
cioè un alimento di cui i microbi devono nutrirsi per prosperare (da non
confondere con un probiotico, che introduce nuovi microbi nel tratto
intestinale). Un altro fattore dannoso è l’uso indiscriminato di antibiotici, con
il loro effetto distruttivo su un ampio spettro di batteri e virus. Meno
percepibile ma sospetto è il nostro stile di vita stressante, perché gli ormoni
dello stress e le emozioni in generale possono causare squilibri nel nostro
microbioma. Come l’attività genica, anche il microbioma è così dinamico che
andrebbe pensato come un verbo, non come un sostantivo.
L’ipotesi più inquietante dei Sonnenburg è che l’alimentazione americana
sia cruciale per l’aumento delle malattie croniche, e soprattutto dei disturbi
autoimmuni come le allergie. Il microbioma contribuisce a regolare il sistema
immunitario, e durante il processo digestivo produce sottoprodotti chimici
che riducono gli stati infiammatori. Sempre più prove collegano
l’infiammazione a una quantità di patologie, tra cui le cardiopatie,
l’ipertensione e vari tipi di cancro. Ridurre la biodiversità intestinale potrebbe
compromettere seriamente la nostra salute, e i Sonnenburg non fanno mistero
dei rischi: «È possibile che il microbiota occidentale sia in effetti disbiotico
[dannoso per i microbi] e ci predisponga a una varietà di malattie».
Come accade per molte questioni riguardanti il microbioma, questi rischi
sono difficili da provare con assoluta certezza. In tutto il mondo esistono solo
poche popolazioni isolate il cui microbioma è esente da influssi dannosi. In
un articolo pubblicato su The New Yorker nel dicembre 2014, Emily Eakin
cita la tribù degli hadza in Tanzania studiata da Jeff Leach, un antropologo
che collabora con i Sonnenburg. Trecento membri di questa tribù, che vive
ancora come i nostri progenitori cacciatori-raccoglitori, sono stati oggetto di
studio di Leach per un anno. «Dobbiamo andare in luoghi in cui la gente non
abbia ancora accesso agli antibiotici, beva acqua dalle stesse fonti da cui
bevono zebre, giraffe ed elefanti e viva ancora all’aperto», ha spiegato Leach
a Eakin. È in queste condizioni che i geni dell’Homo sapiens si sono
sviluppati.
Studiando campioni di feci, Leach è giunto alla conclusione che «gli hadza
pare abbiano uno degli ecosistemi intestinali più vari al mondo, in confronto
a qualunque altra popolazione finora studiata». Ma uno studio precedente
condotto sulla stessa tribù da ricercatori del Max-Planck-Institut für
evolutionäre Anthropologie in Germania ha rivelato che, se da un lato gli
hadza ospitavano batteri intestinali mai visti prima, dall’altro mancavano di
batteri associati alla buona salute del microbioma occidentale. A ogni modo,
Leach era talmente convinto della superiorità genetica dell’intestino degli
hadza da trapiantarsi un campione del loro microbioma nel proprio intestino.
È nata così un’autentica moda presto divenuta virale, sebbene buona parte
del microbioma circoli nell’aria. Per trapiantarsi i microbi degli hadza, Leach
ha utilizzato una pipetta per inseminazione e si è iniettato nel colon le loro
feci. Per quanto sgradevole o repellente, in Rete ci sono video che spiegano
come farlo. La base per questa procedura «fai da te» è la semplice logica: se
un microbioma adulto occidentale è compromesso, quello di un neonato o di
un bambino in buona salute non lo è, quindi perché non iniettarselo?
La Food and Drug Administration (FDA) è intervenuta per impedire che i
medici effettuassero trapianti di microbiota fecale finché non fosse stata
condotta una sperimentazione ufficiale analoga a quelle per l’introduzione di
nuovi farmaci. Nel frattempo, tuttavia, l’entusiasmo per questo trapianto era
così cresciuto che si è continuato a praticarlo clandestinamente, e in altri
Paesi i medici non hanno restrizioni. Il divieto della FDA ha posto
immediatamente fine alla ricerca su piccola scala, che manca dei
finanziamenti necessari per condurre sperimentazioni che hanno costi
esorbitanti e si protraggono mediamente per sette-dieci anni. Ma la FDA,
spiega Eakin, era ancora scottata dalle migliaia di persone che avevano
sviluppato la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) tramite
trasfusioni di sangue prima che ci si rendesse conto che il sangue era un
veicolo di trasmissione del virus dell’immunodeficienza umana (HIV).
Organismi patogeni come il virus che causa l’epatite A si annidano
nell’intestino (nel caso di questo tipo di epatite, la materia fecale infetta deve
entrare nella bocca di qualcuno che non sia immune alla malattia, il che
accade di solito quando il commercio di alimenti avviene in condizioni
antigieniche). Questo e altri rischi ancora ignoti fanno apparire la decisione
della FDA improntata alla giusta prudenza.
Farsi un trapianto di microbiota fecale equivale ad assumere l’intero
microbioma del donatore senza sapere che cosa contenga. Nessuno dovrebbe
correre un simile rischio. A ogni modo, la mania recente e illegale del
trapianto di microbiota fecale, per quanto poco scientifica e repellente sia la
procedura, si basa sull’enorme potenziale del microbioma di invertire
moltissime malattie croniche. Un esempio lampante è il morbo di Crohn, una
patologia infiammatoria intestinale che può risultare gravemente debilitante.
Tra i sintomi si annoverano diarrea cronica, che può portare a una grave
perdita di peso, dolori addominali e febbri ricorrenti. I malati di morbo di
Crohn tendono a condurre una vita sacrificata e infelice, prigionieri come
sono della loro malattia. Poiché la causa principale è un’infiammazione di
origine ignota, possono presentare problemi infiammatori anche al di fuori
del tratto intestinale, come rash cutanei, gonfiore, arrossamento degli occhi e
persino diabete.
Le terapie farmacologiche sono spesso inefficaci contro il morbo di Crohn,
e nei casi più gravi le parti più colpite dell’intestino devono essere rimosse
chirurgicamente. Ma già nei lontani anni Cinquanta una manciata di medici,
circondati dall’ostracismo dei più, erano convinti che il trattamento dei malati
di morbo di Crohn con materia fecale proveniente da donatori sani, e assunta
in condizioni igienicamente controllate tramite una pillola o attraverso il
retto, producesse miglioramenti reali, spesso in un arco di tempo assai breve,
come settimane o mesi. Ora il trattamento del morbo di Crohn con trapianto
di microbiota fecale potrebbe diventare una pratica ortodossa, e persino la
FDA ha fatto un’eccezione nella sua sentenza contro la procedura.
Ancora più sorprendente è il fatto che un trapianto di microbiota fecale
sembra curare nel giro di poche ore, anche quando il paziente è ormai in
pericolo di vita, una patologia in particolare, ovvero un’infezione batterica di
Clostridium difficile, che insorge in concomitanza con forti dosi di antibiotici.
Fino a mezzo milione di persone soffre attualmente di questa infezione, con
oltre diecimila morti all’anno nei casi più gravi. Il Clostridium difficile resiste
agli antibiotici e insorge in genere quando un paziente ricoverato in ospedale
e sottoposto a pesanti cicli di antibiotici subisce un grave impoverimento del
proprio microbioma. Tali condizioni sono quindi favorevoli allo sviluppo del
batterio, con un’infezione che causa sintomi simili a quelli del morbo di
Crohn, inclusa una grave diarrea.
Ironia della sorte, il trattamento di routine per il Clostridium difficile
consiste nella somministrazione di un antibiotico, la vancomicina, che può
però rivelarsi del tutto inefficace se intanto è emerso un nuovo ceppo del
batterio resistente al farmaco. Ma nella letteratura medica si trovano sporadici
resoconti di casi di completa e quasi immediata guarigione grazie al trapianto
di microbiota fecale: in poche ore i nuovi microbi inseriti nell’organismo
sconfiggono ed eliminano il Clostridium difficile, con conseguente
remissione di tutti i sintomi.
Anche in questo caso la FDA ha fatto un’eccezione. Di conseguenza, se un
trapianto di microbiota fecale può guarire due patologie che condividono lo
stesso sintomo – un’infiammazione altamente distruttiva –, e se
l’infiammazione è potenzialmente colpevole di molti tipi di patologie
croniche, perché non sfruttare questa chance e farsi un trapianto utilizzando le
feci più sane che riusciamo a farci donare? È questa la logica che ha reso
virale la moda del trapianto «casalingo» di microbiota fecale.
Nessuno ha dimostrato che questa sia buona scienza o medicina efficace, e
noi non intendiamo certo legittimare questa pratica (come vedremo, ci sono
altri modi più sicuri per migliorare il proprio microbioma). I risultati della
sperimentazione sugli animali, tuttavia, indicano che forse ci sarà
un’autentica rivoluzione.
Nel 2006 un team di ricercatori della Washington University a St. Louis
pare abbia riscontrato una forte connessione tra microbioma e obesità. Gli
scienziati hanno utilizzato topi geneticamente modificati per sviluppare
obesità e hanno trasferito alcuni loro microbi in altri esemplari normali.
Questi ultimi sono diventati obesi, ed è la prima volta che un disturbo viene
trasferito tramite microbioma, perlomeno negli animali. Ma ciò che lascia
davvero stupefatti è che i topi ingrassati dopo avere ricevuto i microbi
assumevano gli stessi alimenti dei topi che non avevano subìto alcun
trapianto, eppure questi ultimi non aumentavano di peso.
Com’è possibile che lo stesso apporto calorico produca al tempo stesso
topi grassi e topi normali? Si ipotizza che i microbi somministrati ai topi non
geneticamente modificati fossero in qualche modo più efficienti nell’estrarre i
nutrienti dal cibo durante l’assimilazione. Questo va contro la vecchia
convinzione secondo cui tante calorie introdotte, tante calorie assunte.
Ovvero: se un pasto contiene mille calorie, il corpo di chiunque, dopo una
completa e sana digestione, ne ricaverà mille calorie di energia. Eppure, tutti
conosciamo persone che dicono: «Mi basta guardare una fetta di torta e
prendo mezzo chilo». Provocatoriamente, questo nuovo studio suggerisce che
hanno ragione. Alcuni microbiomi, infatti, possono estrarre meglio e più in
fretta i nutrienti del cibo, quindi abbiamo persone obese che assimilano
troppo e persone pelle e ossa che assimilano troppo poco.
Alcuni ricercatori di Amsterdam hanno voluto vedere se un trapianto di
microbiota fecale da soggetti magri a soggetti grassi era sufficiente a far
perdere peso a questi ultimi. Finora non è stato così: i soggetti mostravano
una maggiore sensibilità all’insulina (chiave di un corretto metabolismo delle
calorie, che non le fa immagazzinare come grasso) ma non perdevano peso, e
dopo un anno anche questo vantaggio era totalmente sparito. Può darsi che
siano necessari più trattamenti, o che dai microbiomi «magri» vadano isolati
microbi specifici. A ogni modo, l’intera storia della genetica deve ancora
essere raccontata, e potrebbe rivelarsi assai più complessa di quanto
pensiamo.
Inaugurare una nuova ecologia
Come vedete, aggettivi come «estranei», «alieni» o «invasivi» non sono
applicabili ai microbi, che nel corso di milioni di anni hanno imparato a
collaborare con il corpo umano. Ci sono dati che indicano come lo sviluppo
normale di un bambino possa dipendere da questi.
Tornando alla mappa semplificata del professor Knight, ci sono diverse
microecologie nella bocca, nell’intestino (feci), sulla pelle e nella vagina
delle donne. Prima che un bimbo nasca, il suo corpo non ha microbi: il suo
tratto gastrointestinale è sterile. Passando attraverso il canale vaginale, il
neonato viene rivestito con una sottile pellicola di microbioma materno di
quell’area. La nascita, poi, non è che il primo passo dell’esposizione del
bambino ai microbi, che assumerà dalle fonti più svariate: il seno materno
quando la madre lo allatta, il cibo, l’acqua, l’aria, gli animali domestici, gli
altri esseri umani.
Il tratto gastrointestinale inizia a essere colonizzato poche ore dopo la
nascita. Studi condotti su animali hanno mostrato che, se cresciuti in
ambiente sterile, privo di microbi, gli animali sviluppano, oltre ai prevedibili
problemi digestivi, tutta una serie di anomalie, da deficit immunitari a
insufficienza cardiaca e a mutazione impropria di cellule cerebrali.
A un certo punto durante l’infanzia il microbioma smette di mutare
continuamente. Si stabilizza, sebbene non per tutti allo stesso modo. Nel
grafico di Knight il progresso del microbioma passa dalla regione pelle-
vagina della nascita alla regione intestinale-fecale. Questo vale per tutti,
perché un intestino in grado di digerire il cibo è universale. Ma vi sono prove
scientifiche che una maggiore esposizione ai microbi produce una salute
migliore, il che sembra una sorta di paradosso. Bambini cresciuti nei Paesi in
via di sviluppo mostrano molta più diversità nel loro microbioma, il che
suggerisce che forse nell’Occidente sviluppato viviamo in ambienti troppo
puliti. D’altro canto, quei bambini soffrono maggiormente di malattie
infantili, così come i bambini occidentali che frequentano il nido possono, a
quanto pare, essere meno soggetti ad allergie, ma corrono comunque il
rischio di contrarre più raffreddore, otite, influenza e altre malattie
trasmissibili.
Nell’epigenetica, come abbiamo visto, il più grande problema è l’assenza
di un netto rapporto causa-effetto. A non porta a B quando una nebulosa di
cause incombe sul sistema corpo-mente. Con il microbioma, il grosso
problema è quanto rapidamente cambia. I geni, anche tenendo conto
dell’epigenoma, sono molto più fissi dei microbi che abitano in noi.
Immaginiamo la battigia su cui vanno a infrangersi le onde smuovendo
continuamente la sabbia. Maree e condizioni meteorologiche determinano
quanta sabbia verrà asportata o si depositerà. Ecco, i microbi vivi sono un po’
come i granelli di sabbia, e le maree e le condizioni meteo dell’intestino li
smuovono costantemente, eliminandone alcuni e permettendo ad altri di
entrare.
Usare la parola ecologia può sembrare una metafora, ma solo adesso la
medicina sta iniziando a capire che il tratto intestinale, lungo circa otto metri
e con una superficie paragonabile a quella di un campo da tennis, è tanto
complesso e dinamico quanto l’ecologia globale. Si stima che il microbioma
abbia dalle quaranta alle centocinquanta volte più geni del corpo stesso. Un
esempio di quali sorprese attendano gli esploratori di questa ecologia è un
disturbo che ora viene fortemente correlato ai microbi: l’obesità.
Il modello ormai datato calorie introdotte-calorie assunte attribuisce la
causa dell’obesità di una persona alle sue abitudini alimentari. Ovvero: se
uno mangia troppo, il suo corpo immagazzina le calorie in eccesso sotto
forma di grasso. Numerosi studi hanno in effetti dimostrato che i mangiatori
compulsivi tendono a sottostimare le calorie che assumono. Ma se l’eccesso
di cibo fosse l’unica causa dell’obesità, non si spiegherebbe perché solo il 2%
delle persone che si mettono a dieta perde almeno due chili e mezzo e riesce a
non riprendere peso nei due anni successivi. Che cosa ostacola chi non ce la
fa? Una possibilità è la persistenza delle cattive abitudini alimentari nella vita
di chi si mette a dieta. L’aumento di peso è stato però associato a una varietà
di fattori. L’elenco che segue non intende affatto allarmare o deprimere, ma
solo illustrare quanto sia complessa un’attività così naturale come mangiare.

Perché le persone prendono peso

Mangiano troppo.
Provengono da una famiglia di mangiatori compulsivi, quindi con una
possibile connessione genetica.
Frequentano persone che mangiano troppo.
La loro alimentazione contiene troppi zuccheri raffinati, carboidrati
semplici e grassi.
Consumano poca frutta e verdura fresche o altre fonti di fibra solubile.
Mangiano alimenti preconfezionati, industriali, cibi spazzatura e da fast-
food che contengono additivi e ingredienti artificiali, nonché un eccesso
di sale e di zucchero.
Hanno sviluppato diverse cattive abitudini alimentari: mangiano
guardando la televisione, ingurgitano in fretta, spiluccano in
continuazione tra i pasti eccetera.
Hanno una vita stressante.
Attraversano una crisi personale, per esempio un licenziamento o un
divorzio.
Soffrono di uno squilibrio tra i due ormoni (leptina e grelina)
responsabili del senso di fame e di sazietà.
Il loro cervello mostra segni di infiammazione o danni all’ipotalamo, il
centro di regolazione dell’appetito.
Il loro corpo mostra segni di infiammazione cronica.
Dopo anni di dieta yo-yo hanno rinunciato a perdere peso.
Hanno recentemente smesso di fumare, e per compensare si abbuffano.

Con così tanti fattori in gioco, e spesso concomitanti, il motivo per cui
l’obesità resta difficile da curare è evidente. È un disturbo che interessa
campi disciplinari separati come quello della scienza della nutrizione,
dell’endocrinologia, della genetica, della gastroenterologia, della psichiatria e
della sociologia, ciascuno con un proprio punto di vista.
La nebulosa di cause confonde le idee. Eppure, fra tutti questi complicati
influssi c’è un filo conduttore: il microbioma, che innanzitutto digerisce il
cibo, ma esercita anche un considerevole effetto sugli ormoni, il sistema
immunitario, la risposta allo stress e l’infiammazione cronica. Nessun altro
fattore condiziona così tante funzioni dell’organismo.
La scia di indizi conduce dal cibo all’intestino e a tutto il corpo. Uno
scienziato che ha seguito questa scia è il dottor Paresh Dandona, un
diabetologo della State University di New York che, quando la curiosità l’ha
spinto a esaminare il cibo di McDonald’s, ha avuto la fortuna di scoprire un
indizio di capitale importanza. Dandona ha fatto consumare a nove volontari
normopeso una tipica prima colazione del noto fast-food: un panino con
uovo, prosciutto e formaggio, uno con salsiccia e due frittelle di patate, pari a
novecentodieci calorie. Esistono chiari motivi, oltre alle calorie, per cui una
prima colazione del genere, ad alto contenuto di grassi e di sale e quasi
totalmente priva di fibre, è decisamente malsana. Ma a questi dati Dandona
ha aggiunto qualcosa di inatteso. Lo leggiamo nel numero di aprile 2013 della
rivista Mother Jones:
I livelli di proteina C-reattiva, un indicatore dell’infiammazione sistemica, sono schizzati alle
stelle «letteralmente in una manciata di minuti. […] È stato scioccante scoprire», ricorda
Dandona, «che un semplice pasto da McDonald’s, apparentemente innocuo» – il genere di pasto
ad alto contenuto di grassi e carboidrati che un americano su quattro consuma regolarmente –
«potesse avere un effetto così evidente. Ed è durato [cinque] ore».

L’espressione «apparentemente innocuo» rispecchia l’atteggiamento


piuttosto lassista di molti americani verso i fast-food. (Oltre a causare un
picco di infiammazione, un Big Mac inietta rapidamente grassi nel sangue,
osservabili sotto forma di opacità nel siero dopo che i globuli rossi sono stati
sottratti per centrifugazione.) La ricerca ha avuto un’importante svolta, e
Dandona ha fatto altre scoperte ancora più sorprendenti.
Nel decennio successivo ha esaminato vari alimenti per vedere come
influivano sul sistema immunitario, che è notoriamente compromesso da
un’infiammazione cronica di basso livello. Scrive il giornalista Moises
Velasquez-Manoff: «Una colazione al fast-food infiammava, ha riscontrato
Dandona; una colazione ricca di fibre e con tanta frutta no. Una scoperta
fondamentale è giunta nel 2007, quando Dandona ha notato che acqua e
zucchero, un sostituto delle bevande industriali, causava infiammazione,
mentre la spremuta d’arancia, pur contenendo un sacco di zuccheri, non la
procurava».
In qualche modo il succo d’arancia fresco, non trattato, neutralizzava e
controbilanciava persino la micidiale colazione da quasi mille calorie di
McDonald’s. Nei soggetti sottoposti al test, la colazione del fast-food causava
infiammazione ed elevati tassi di zucchero nel sangue, sia che fosse
accompagnata da acqua zuccherata o da semplice acqua. Nessuno dei due
effetti, tuttavia, si manifestava nei soggetti che bevevano una spremuta
d’arancia fresca.
«Il succo d’arancia», prosegue Velasquez-Manoff, «è ricco di antiossidanti
come la vitamina C, di flavonoidi benefici e di piccole quantità di fibra, tutti
antinfiammatori. Ma ciò che ha attirato l’attenzione di Dandona è un’altra
sostanza.» Si trattava di una molecola detta endotossina (letteralmente,
«veleno interno»), che compariva nel sangue dei soggetti che avevano
consumato la prima colazione da McDonald’s bevendoci insieme acqua e
zucchero, ma non nel sangue di quelli che avevano bevuto succo d’arancia.
L’endotossina è prodotta dalla membrana esterna dei batteri, e la sua presenza
nel sangue segnala al sistema immunitario di entrare in azione, con
conseguente infiammazione. Dandona sospettava che la fonte
dell’endotossina fosse il microbioma. L’endotossina entrava nel flusso
sanguigno perché il cibo di McDonald’s ne favoriva il passaggio attraverso la
parete intestinale. Il succo d’arancia, invece, in qualche modo manteneva
l’endotossina all’interno dell’intestino, dove si trova naturalmente. (In questi
ultimi anni ulteriori ricerche sulla sindrome da permeabilità intestinale stanno
approfondendo la connessione con l’alimentazione.)
Il succo d’arancia non è una panacea, né il suo effetto è unico. La gamma
di alimenti che combattono l’infiammazione cronica è vasta. Se l’ecologia
microbica è in continuo mutamento, alcuni influssi costanti possono essere
sufficienti a migliorare il benessere di un individuo. Quello che serve è più di
una dispensa colma di alimenti benefici, sebbene anche questa sia importante
(alle pp. 128-29 consigliamo l’alimentazione migliore per il microbioma in
base alle ricerche più recenti).
Da alcuni indizi a una valanga di effetti negativi
Le scoperte di Dandona non confermano soltanto la solita raccomandazione
che una dieta equilibrata deve contenere le fibre solubili della frutta, della
verdura e dei cereali integrali. La prospettiva di invertire uno stato di
infiammazione è allettante, e i progressi giungono da direzioni impensate. Si
è visto che la molecola infiammatoria endotossina diminuisce nel sangue di
chi ha subìto un intervento di bypass gastrico, una procedura chirurgica che
riduce lo stomaco a un sacchetto delle dimensioni di un uovo. L’intestino
tenue è direttamente collegato a questo sacchetto, e avere uno stomaco
notevolmente ridotto fa sì che i pazienti mangino meno e riescano quindi a
perdere parecchio peso.
Questa era la spiegazione accettata, ma la riduzione dell’infiammazione ha
spostato l’attenzione sul microbioma. Con una serie di test condotti su ratti e
topi, ricercatori del Massachusetts General Hospital hanno ottenuto un
risultato notevole: hanno eseguito un bypass gastrico sui roditori, dopodiché
il loro microbioma si è completamente autoresettato. Un’ondata di microbi
benefici non solo ha ridotto l’infiammazione, ma ha portato direttamente a
una perdita di peso. Questa sequenza di causa-effetto è stata dimostrata
prendendo dei microbi dagli animali operati e inserendoli negli intestini di
topi privi di germi. Questi hanno iniziato a perdere peso pur continuando con
la loro dieta precedente, altamente calorica. Anzi, perdevano peso sebbene
consumassero più calorie di un gruppo di controllo che non perdeva peso.
Questo risultato contribuisce a sfatare la radicata convinzione che aumento
e perdita di peso dipendano esclusivamente dalle calorie assunte. Non solo:
va anche nella direzione di un’altra possibilità molto interessante. Grazie al
resettaggio microbico, i topi che avevano subìto il bypass gastrico e quelli
che avevano ricevuto il loro microbioma erano in grado di metabolizzare il
glucosio in modo normale, sano, cosa che non accadeva nei topi che avevano
perso peso semplicemente mangiando meno. Considerando che gli esseri
umani a dieta recuperano quasi sempre il peso perduto, può darsi che il
problema non sia tornare a una dieta «sbagliata», perdere determinazione e
forza di volontà o consumare segretamente troppe calorie, ma che, come in
questi topi, sia necessario resettare i processi metabolici controllati dal
microbioma.
Approfondiremo questo argomento nella seconda parte del libro, che tratta
i cambiamenti di stile di vita, ma vale la pena anticipare qui, in sintesi, le
varie possibilità.

Che cosa può resettare il nostro microbioma?

Consumare meno grassi, zucchero e carboidrati raffinati.


Assumere dosi sufficienti di prebiotici di cui si nutrono i batteri, per
esempio le fibre di frutta, verdura e cereali integrali.
Evitare gli alimenti conservati e trasformati dall’industria alimentare.
Eliminare il consumo di alcol.
Assumere un integratore probiotico (vedi).
Consumare alimenti probiotici come yogurt, crauti fermentati e sottaceti.
Ridurre gli alimenti con effetti infiammatori.
Aumentare gli alimenti con effetti antinfiammatori come il succo
d’arancia appena spremuto.
Impegnarsi a gestire meglio lo stress.
Liberarsi il più possibile delle emozioni «infiammanti», come rabbia e
ostilità.

Sia chiaro: queste sono tutte possibilità, più che certezze. Il microbioma ha
effetti che vanno ben oltre l’assimilazione, e interessano ogni parte del corpo.
Pertanto, sono estremamente complessi e richiedono ulteriori ricerche.
Quanto si è scoperto finora, tuttavia, sembra molto promettente.
Molte malattie, per esempio, sembrano essere il risultato di una valanga di
processi nel corpo, cioè di una serie di eventi che si susseguono l’uno
all’altro creando sempre più problemi. Topi allevati senza il loro normale
bagaglio di microbi possono abbuffarsi di cibo senza prendere peso a causa di
un’assimilazione inadeguata. Ma se rimescolati ad altri topi, in modo che
acquisiscano una normale colonia microbica, per loro iniziano i guai. Le
calorie in eccesso vengono ora assimilate e immagazzinate sotto forma di
grasso. Il fegato dei topi diventa insulino-resistente, e loro diventano obesi
anche con un minore numero di calorie.
La stessa valanga di processi può essere prodotta anche attraverso le
endotossine. Un team di ricercatori belgi guidato dal professor Patrice Cani
ha somministrato ad alcuni roditori piccole dosi di endotossine, cosa che ha
reso il loro fegato insulino-resistente. Ne è seguita l’obesità, e quindi il
diabete.
Questa sequenza ha evidenziato che una permeabilità del microbioma
potrebbe essere un fattore importante nell’obesità umana, esacerbata da
un’alimentazione eccessiva e dal consumo di cibi sbagliati. «Poi è arrivata la
notizia bomba», scrive Velasquez-Manoff. «La semplice aggiunta di fibre
vegetali solubili, i cosiddetti oligosaccaridi, presenti in alimenti come le
banane, l’aglio e gli asparagi, preveniva l’intera valanga: niente endotossine,
niente infiammazione, niente diabete.»
Cani aveva trovato un mezzo di prevenzione dei danni analogo al succo
d’arancia di Dandona: le fibre. Se determinate fibre solubili raggiungono
intatte il colon, dove vive la maggior parte dei microbi digestivi, i batteri le
scompongono per nutrirsene.
Così un prebiotico, il necessario precursore di un microbioma sano, blocca
sul nascere la valanga di effetti patogeni. La fibra è non calorica, ma quando i
microbi la scompongono vengono rilasciate sostanze benefiche, tra cui
l’acido acetico, l’acido butirrico, la vitamina K e le vitamine del gruppo B.
(Vale la pena di ricordare gli esperimenti sui topi della Washington
University, in cui il trapianto di microbi da topi obesi in topi normali aveva
fatto diventare obesi anche questi ultimi, e senza che mangiassero di più.)
Ecco una sintesi delle implicazioni di questa ricerca sulla connessione
intestino-infiammazione.

La connessione intestino-infiammazione

Cibi grassi e ad alto contenuto di carboidrati immettono sostanze


infiammatorie nel sangue.
Endotossine e altre molecole nocive rilasciate da determinati batteri
possono fuoriuscire attraverso la parete intestinale.
Se ciò accade, viene attivata una risposta immunitaria, e insorge uno
stato infiammatorio.
L’infiammazione altera, tra le altre cose, i livelli di zucchero nel sangue
e la risposta insulinica del fegato.
Se ciò accade, può verificarsi obesità anche con un’alimentazione che
contiene una normale quantità di calorie.
Succo d’arancia e fibre solubili favoriscono un microbioma benefico e
contrastano la valanga di effetti negativi innescata dalla «permeabilità
intestinale».

Oggi molti ricercatori ipotizzano che la connessione intestino-


infiammazione abbia rivelato una delle principali fonti delle patologie
croniche, non solo dell’obesità. Vengono attualmente ricercati collegamenti a
diabete, ipertensione, cardiopatie e cancro. «Se ci prendiamo cura del nostro
microbiota intestinale, lui si prenderà cura della nostra salute», commenta
Cani. «Per questo mi piace concludere le mie conferenze con lo slogan:
confidiamo nell’intestino!» a
Nella crescente mole di studi sul microbioma, la connessione intestino-
infiammazione è sempre più importante. Il microbiologo cinese Liping Zhao
ha raccontato la sua storia personale alla rivista Science nel giugno 2012,
all’interno di un numero speciale dedicato al microbioma. Zhao si è descritto
come una cavia umana che è riuscita a sconfiggere i propri problemi di
obesità, pressione alta ed elevati livelli di colesterolo «cattivo» con una dieta
basata in larga misura su cereali integrali e con l’apporto di due alimenti
ritenuti benefici dalla medicina cinese: il melone amaro e l’igname cinese.
Perdere 20 chili in due anni non è da tutti, ma Zhao aveva sospettato una
connessione tra obesità e infiammazione già nel 2004. Sembra altamente
significativo che nel suo caso un particolare microbo, il Faecalibacterium
prausnitzii, un batterio dotato di proprietà antinfiammatorie, abbia avuto una
rapida crescita nel suo intestino, passando da una percentuale pressoché
inavvertibile al 14,5% del totale dei suoi batteri intestinali.
Questi cambiamenti hanno spinto Zhao a concentrarsi sul ruolo del
microbioma nella sua trasformazione. Sono dunque seguite sperimentazioni
prima sui topi e poi sugli esseri umani. Una paziente patologicamente obesa –
centosettantacinque chili all’età di ventisei anni –, ha riscontrato molti degli
stessi benefici registrati da Zhao, dimagrendo di oltre quarantacinque chili in
un anno. Anche in questo caso era coinvolto un batterio specifico di cui è
nota l’attività infiammatoria, l’Enterobacter cloacae, che costituiva oltre un
terzo del microbioma della paziente. Grazie alla dieta di Zhao, nella ragazza è
diminuito fino a lasciare soltanto piccole tracce, mentre i microbi
antinfiammatori aumentavano.
Prendere di mira specifici processi patologici e microbi «cattivi» potrebbe
non essere necessario per invertire l’obesità. Uno studio ha preso in esame
quattro coppie di gemelli monozigoti in cui uno dei due era magro e l’altro
grasso. In alcuni topi sono stati trapiantati microbi intestinali dell’uno o
dell’altro gemello, e quelli che avevano ricevuto i microbi dal gemello grasso
sono diventati obesi, con un notevole accumulo di grasso. Vedremo le
implicazioni di questa importante scoperta per la nostra alimentazione nella
seconda parte del libro, incentrata sullo stile di vita.
Questo libro tratta di geni, non di microbioma, ma parlare di geni senza
parlare di microbioma è ormai impossibile. Il microbioma è sostanzialmente
il nostro secondo genoma, ma a differenza del genoma è contagioso, perché
possiamo trasmettere ad altri i suoi batteri. E per quanto possa sembrare
disgustoso, lo scambio di batteri fra individui tramite contatti intimi può
beneficiarne la popolazione. Alcuni evoluzionisti sono giunti addirittura a
ipotizzare che il comportamento sociale umano sia evoluto fondamentalmente
per promuovere la condivisione di microbi. Aumentare la resistenza alle
infezioni e alle tossine alimentari poteva essere un fattore dominante. Nelle
specie di animali vegetariane il microbioma è perlopiù predisposto
all’assimilazione di alimenti vegetali, ma la carne cruda delle prede di un
leone, per esempio, è verosimilmente piena di parassiti, organismi patogeni e
tossine da cui il suo microbioma di carnivoro lo protegge. L’evoluzione
umana è partita da lì per portare la nostra resistenza alle malattie fino
all’attuale livello.
L’asse intestino-cervello
Con un patrimonio di genomi intestinali parecchio più numeroso del nostro, il
microbioma esercita un influsso che va ben al di là della digestione e del
metabolismo. Particolarmente affascinante è il cosiddetto cervello intestinale.
La dottoressa Christine Tara Peterson, che ha studiato a fondo questo
argomento (collabora anche con il Chopra Center, svolgendo ricerche
avanzate sul microbioma), fa notare che l’intestino ospita cento milioni di
neuroni (più del midollo spinale) e produce il 95% della serotonina corporea,
uno dei principali neurotrasmettitori, i cui livelli si ritiene da tempo siano
collegati alla depressione.
La principale linea di comunicazione tra il cervello e ogni regione del
corpo è fatta di dodici nervi cranici. Uno è il nervo vago, dal latino vagus,
che significa «vagabondo». E i suoi vagabondaggi sono estesi, a partire dal
midollo allungato nella parte inferiore del cervello, passando lungo il collo, il
cuore e l’apparato digerente. Circa l’80% di tutte le informazioni sensoriali
che raggiungono il cervello viene trasmesso attraverso il nervo vago nelle sue
varie diramazioni. Quello che a noi interessa è che il 90% del traffico,
sostiene Peterson, è dall’intestino al cervello. «Il microbioma», sottolinea la
dottoressa, «può avere un influsso determinante su stati mentali come l’ansia
o l’autismo.»
Questi indizi sono però difficili da mettere insieme, perché pochi laboratori
sono attrezzati per seguire le tracce di messaggi molecolari dall’intestino al
cervello. Ma è ormai accettato che l’asse intestino-cervello è una strada a
doppio senso. I batteri del tratto intestinale influenzano il funzionamento del
cervello, poiché hanno la capacità di alterare le emozioni e comportano
persino il rischio di sviluppare malattie neurologiche e psichiatriche. A loro
volta, il nostro umore e il nostro livello di stress influenzano i batteri che
vivono nel nostro microbioma. Quella che oggi è ormai un’idea nota e
confermata, inizialmente fu avanzata dall’eminente psicologo William James
in collaborazione con un fisiologo, Carl Lange, negli anni Ottanta del XIX
secolo: James e Lange ritenevano che le emozioni nascessero perché il
cervello interpretava segnali o reazioni del corpo. In versione aggiornata,
questo si è trasformato in un ciclo di feedback tra cervello e corpo che si
avvale di messaggi chimici.
Fin dal 1974, studi condotti su piccoli di scimmia hanno mostrato che la
separazione dalla madre alla nascita è più che soltanto psicologicamente
dolorosa e stressante: modifica la microflora intestinale dei piccoli. In uno
studio correlato, in cui dei topolini venivano separati dalle loro madri, si era
riscontrato che i piccoli diventavano più ansiosi di quelli che venivano
lasciati con le madri. Ma quando il tratto intestinale dei topolini separati dalle
madri veniva ricolonizzato con i batteri dei topolini rimasti insieme alle
madri, la loro ansia svaniva. Gli stessi esiti, a quanto pare, si estendono agli
esseri umani. Se i batteri intestinali di pazienti umani con sindrome
dell’intestino irritabile vengono trapiantati nell’intestino di topi, questi
diventano socialmente inetti e ansiosi. Lo stress emotivo è ormai da tempo
associato alla sindrome dell’intestino irritabile, e ora pare che tale
associazione abbia una base materiale, non solo psicologica.
Un altro studio condotto da un team di ricercatori olandesi ha mostrato che
se le neomamme sono stressate, il loro stress modifica il microbioma dei loro
bambini. Sembra quindi altamente plausibile che lo stress sociale cronico
possa modificare i nostri batteri intestinali, creando un circolo vizioso
distruttivo tra intestino e cervello che causa infiammazione in tutto
l’organismo, cervello compreso. In altre parole, se per oltre un secolo la
medicina moderna si è concentrata su come uccidere i batteri, ora stiamo
imparando a vivere una vita più sana insieme a loro.
Forse trovate disgustoso tutto questo parlare di batteri intestinali, se non
perfino umiliante per la vostra persona, ma è comprensibile. Noi esseri umani
siamo abituati a ritenerci superiori agli altri esseri viventi, e certamente
superiori ai microrganismi, che sono le più primitive forme di vita sulla
Terra. Questi microbi sono passati dallo status di parassiti a quello di partner.
Come ha giustamente osservato il biologo teorico Stuart Kauffman: «Tutta
l’evoluzione è coevoluzione». Gli fa eco il pioniere della fisica quantistica
Erwin Schrödinger, che ha detto: «Nessun sé è in sé conchiuso. […] l’‘Io’ è
incatenato ai suoi avi da molti fattori».
A ogni modo, la scoperta che la nostra evoluzione è legata ai microbi può
essere riformulata in modo da non risultare affatto umiliante. All’interno del
nostro corpo, nel nostro genoma e nei genomi dei microbi, è contenuta
l’intera storia della vita sulla Terra. Ognuno di noi è un’enciclopedia
biologica, e ogni generazione ne scrive una nuova pagina o capitolo. E dal
momento che il corpo che vedete allo specchio è la vita stessa, la necessità di
tutelare l’ecologia diventa molto più pressante, perché l’ecologia non è più
«là fuori». Ciò che mangiate oggi a pranzo si colloca sullo stesso piano del
salvare la foresta pluviale o del ridurre i gas a effetto serra: è una forma di
autoconservazione che non può essere rimandata come se fosse un problema
che non ci riguarda. In quest’ottica, la prossima parte del libro descriverà
come una ridefinizione radicale del corpo conduca a un nuovo stile di vita e
al benessere profondo.

a. «In gut we trust», gioco di parole con «In God we trust» («Confidiamo in Dio»), il motto nazionale
degli Stati Uniti. (N.d.T.)
PARTE SECONDA
Scelte di stile di vita per un benessere profondo
LA cosa sorprendente della nuova genetica è che ci ha fatto prendere
coscienza di qualcosa che diamo facilmente per scontato. Nulla è più
straordinario del corpo umano. Cambia in maniera dinamica a ogni
esperienza e reagisce con la massima precisione alle sfide della vita, se solo
glielo consentiamo. Al di là della normale salute e vitalità, il vostro corpo è la
piattaforma per un benessere profondo. Ogni cellula è pronta a questa
trasformazione alimentata dal super genoma, ma non la nostra mente.
Oggi abbiamo le conoscenze giuste e un panorama molto più ampio di
possibilità, ma dobbiamo risvegliarle. Quando ancora si ignorava che lo stile
di vita avesse ripercussioni genetiche, l’unico metodo comprovato per
garantirsi un maggiore benessere era la semplice prevenzione. Ora, dopo due
scoperte rivoluzionarie – l’epigenetica e l’importanza del microbioma – i
nostri geni possono accogliere una vasta gamma di cambiamenti positivi.
Ogni gene ha in sé il potenziale per diventare un super gene quando coopera
con le nostre intenzioni e i nostri desideri. E l’evoluzione personale richiede
necessariamente questa cooperazione, altrimenti non potremo progredire.
Ogni benessere, profondo o meno, comporta due semplici passi: primo,
scoprire ciò che è bene e ciò che è male per noi; secondo, fare ciò che è bene
ed evitare ciò che è male.
Quanto al primo passo, la mancanza di conoscenza, insieme a una serie di
convinzioni sbagliate mascherate da sapere, è stata superata con la nuova
genetica. Se sappiamo (e lo sappiamo) che solo il 5% circa, se non meno,
delle mutazioni genetiche patogene è totalmente penetrante, cioè
deterministico, disponiamo del 95% di margine di modificazione dell’attività
genica.
Il secondo passo riguarda l’applicazione pratica delle conoscenze acquisite,
ed è qui che si incontrano le maggiori sfide. La prevenzione standard, con i
suoi noti fattori di rischio e i saggi consigli, per oltre quarant’anni ha
trasmesso il medesimo messaggio a favore di una vita più salutare. Allora
perché la gente non gode di maggiore salute? I tassi di mortalità per cancro
sono diminuiti solo marginalmente dagli anni Trenta, malgrado gli eclatanti
successi dovuti alla diagnosi precoce. Il fumo resta un problema per il 25%
della popolazione, e i tassi di obesità continuano a crescere. Il diavolo, a
quanto pare, non sta nei dettagli: sta nella negazione.
Di recente Deepak ha partecipato alla conferenza di un genetista sui
benefici della meditazione in cui le novità esposte erano molto promettenti.
Lo scienziato di fama internazionale aveva imperniato tutto il suo intervento
sul fatto che la meditazione produce un’attività genica benefica attraverso
l’epigenoma (più avanti torneremo sulla relazione meditazione-genoma). Al
termine della conferenza, al momento delle domande, qualcuno tra il
pubblico ha chiesto: «Visti tutti gli straordinari vantaggi della meditazione,
lei medita?»
«No», ha risposto lo scienziato.
«E come mai?» ha domandato sconcertato l’interlocutore.
«Perché sto cercando di mettere a punto una pillola che darà gli stessi
risultati.»
Risate generali. A ogni modo, fare dello humour sulla propria inosservanza
porta agli stessi esiti di altri tipi di negazione. Motivare le persone a fare ciò
che è bene per loro e a rifuggire da ciò che invece è male dev’essere
l’obiettivo principale del medico. Tutti lottiamo contro quella voce interiore
che ci dice: «Ah, comincio domani», «È troppo faticoso!» «Massì, che male
vuoi che mi faccia?» «Non fa poi tutta questa differenza…» E al centro di
queste considerazioni può esserci qualunque cosa sapete che andrebbe
cambiata: una migliore alimentazione, regolare esercizio fisico,
provvedimenti per ridurre lo stress e altro ancora. A volte la negazione non
ha neppure bisogno di voci che inventino scuse. Una sorta di comoda
amnesia ci coglie quando siamo tentati, per pura golosità e senza neppure
avere fame, da una fetta di torta al cioccolato, o quando scegliamo di
guardare la televisione anziché fare una salutare passeggiata dopo cena.
Ora però che ne dite di fare un rapido controllo della vostra condizione
attuale? Di seguito trovate un quiz diviso in due parti: la prima verte sul fare
ciò che è bene per il genoma, la seconda sull’evitare ciò che è male. Cercate
di compilarlo nel modo più onesto possibile annotando su un quaderno a
parte le risposte: saranno un’utile preparazione alle scelte di stile di vita
esposte in questa parte del libro.
Iniziamo con le abitudini quotidiane che inviano al vostro genoma
messaggi positivi.
QUIZ (PARTE 1): LA VITA CHE I VOSTRI GENI VORREBBERO
Annotate a parte ogni voce che è quasi sempre vera per voi, cioè il 90% delle volte.

Lascio che la mia vita scorra naturalmente, senza una tabella di marcia frenetica e continui
doveri.
Di notte riposo a sufficienza (almeno otte ore) e mi sveglio riposato.
Seguo una routine quotidiana regolare ma non rigida.
Faccio attenzione a mantenere equilibrata la mia alimentazione, consumando cibi di tutti i
principali gruppi di alimenti sani.
Evito cibi, aria e acqua tossici, compresi gli alimenti pieni di ingredienti artificiali.
Non salto i pasti.
Non mangio fuori pasto.
Prendo provvedimenti per ridurre al minimo lo stress e gestire al meglio quello inevitabile.
Mi concedo un po’ di tempo ogni giorno per lasciare che il mio corpo si resetti.
Medito.
Faccio yoga.
Mangio moderatamente e mantengo un peso salutare.
Evito lunghi periodi di sedentarietà, muovendo il mio corpo almeno una volta all’ora.
Non fumo.
Bevo alcolici con moderazione, o non li bevo affatto.
Evito la carne rossa, e se la mangio lo faccio raramente e con moderazione.
Faccio del mio meglio per mangiare solo cibi biologici.
Sono fisicamente attivo.
Conosco i pericoli dell’infiammazione cronica e adotto misure per evitarli.
Attribuisco un alto valore al mio benessere e mi prendo cura quotidianamente di me stesso.

Punteggio da 0 a 20: ____

Ora considerate il versante opposto, ovvero le abitudini che inviano al


vostro genoma messaggi negativi.
QUIZ (PARTE 2): LA VITA CHE I VOSTRI GENI NON VOGLIONO
Annotate a parte ogni voce che è abbastanza spesso vera per voi, ovvero il 50% delle volte.

Affronto la giornata come un’estenuante gincana di cose da fare.


Al termine della giornata mi sento esausto.
Bevo abitualmente per rilassarmi.
Sono spinto dalle circostanze a essere una persona di successo, anche se questo ha alti costi
personali.
Riposo male, con un sonno insufficiente o irregolare. Mi sveglio ancora stanco.
Vado a letto con la mente affollata di pensieri e preoccupazioni.
Fumo.
Lascio che il mio corpo perda drasticamente il suo equilibrio prima di decidermi a prendermene
cura.
Non mi preoccupo delle etichette sugli alimenti e degli ingredienti dei cibi che consumo.
Mi lamento dello stress, ma faccio poco per gestirlo.
Sono costantemente indaffarato e di corsa, senza mai tempo per stare un po’ calmo e tranquillo.
La mia alimentazione è poco attenta alla salute.
Mangio fuori pasto, soprattutto a tarda notte.
Il mio peso non è come dovrebbe essere.
Non presto attenzione al fatto che il cibo che consumo sia biologico o meno.
Preferisco la carne rossa alle carni bianche e al pesce.
Trascorro lunghi periodi (due o più ore) senza muovermi, al lavoro, al computer o davanti alla
televisione.
Sono decisamente meno attivo di quanto non fossi dieci anni fa.
Mi preoccupo del fatto che sto invecchiando, ma non seguo alcun regime antietà.
Non penso granché a prendermi cura di me stesso.

Punteggio da 0 a 20: ____

Ecco una valutazione di massima dei vostri due punteggi.


Parte 1: sul versante positivo, se avete totalizzato 10 punti circa vivete
come la persona media. Credete nella prevenzione, ma siete incostanti. Un
punteggio inferiore a 10 significa che correte notevoli rischi di sviluppare
problemi in futuro. Un punteggio superiore a 15 è un’ottima notizia: il super
genoma sta già approvando il vostro stile di vita.
Parte 2: se avete totalizzato 10 punti, siete vicini al cittadino medio:
probabilmente godete di buona salute, ma correte il rischio di sviluppare
problemi in futuro. Anche una sola cattiva abitudine può modificare uno o
più geni in modi indesiderati. Un punteggio inferiore a 10 vi mette nelle
condizioni ideali per progredire. Un punteggio da 12 in su significa che
dovreste urgentemente pensare a migliorare il vostro benessere.
La storia di Renée
Ci piacerebbe se aveste totalizzato venti punti nel primo quiz e zero nel
secondo, ma siamo realistici: c’è sempre tempo per migliorare. Benché le
abitudini di vita elencate nel quiz siano ben note alla prevenzione standard,
l’aspetto nuovo è la puntuale e costante attenzione da parte del super genoma.
Nulla sfugge alla sua attenzione, il che è ottimo se si decide di apportare
cambiamenti positivi al proprio stile di vita, ma non se si rimane legati alla
solita routine. Proveremo a illustrare la situazione creata dalla nuova genetica
attraverso la storia di una donna.
Renée, ora all’inizio dei cinquanta, è sempre stata attenta a fare ciò che le
fa bene. Segue un’alimentazione a base di cibi integrali (frutta, verdura,
legumi, cereali). Non mangia cibo spazzatura o da fast-food e non tocca alcol
da anni. D’estate nuota tutti i giorni, e nella brutta stagione non rinuncia a
una rapida passeggiata dopo cena. Il suo matrimonio è felice, e ama il suo
lavoro di terapeuta alternativa. Allora perché pesa più di cento chili ed è in
lotta con il peso fin da quando era adolescente?
La negazione di Renée riguarda il tempismo. Quando ha del cibo davanti
non controlla i suoi impulsi e lo divora, dimenticandosi dei problemi di peso.
Poi a fine pasto, e nelle ore tra l’uno e l’altro, si rende conto che il suo
problema è reale e apparentemente incorreggibile, e ne soffre.
Hank, invece, sembrerebbe trovarsi in una situazione migliore. Ha
sessantacinque anni e non ha problemi fisici, a parte quella decina di chili di
troppo che attribuisce alla mezza età. Visto che non soffre di dolori di alcun
genere e non prende quasi mai neppure un raffreddore, si considera fortunato
rispetto a molti suoi amici che hanno già dovuto farsi operare all’anca o al
ginocchio. «Posso ancora mangiare di tutto», spiega, e si vanta di non avere
problemi di digestione, né mal di testa, di schiena o di stomaco.
La forma di negazione di Hank è più sottile di quella di Renée. Nega che il
tempo gli porterà dei problemi. Siccome oggi si sente bene, ignora quasi tutti
i consigli di prevenzione. Non fa esercizio fisico, sta seduto per ore al
computer quasi senza muoversi. Consuma senza remore cibo spazzatura, con
frequenti spuntini. Non va da un medico da decenni, quindi non ha idea di
come sia la sua pressione. Potrà essere l’eccezione alla regola, con tutti i
rischi che corre?
Nello spettro della negazione, quasi tutti si collocano da qualche parte tra
questi due estremi. Trovare la motivazione per fare ciò che è bene per loro è
una questione casuale: nella maggior parte dei giorni potrebbero essere attenti
a ciò che mangiano; un paio d’ore alla settimana potrebbero trovare il tempo
per fare attività fisica; i problemi di sonno, se esistono, sono generalmente
sporadici. Dal nostro punto di vista, tuttavia, questa situazione che a milioni
di persone sembra normale nega loro la possibilità di un benessere profondo.
Vediamo com’è possibile cambiare tutto questo.
Lezioni sulla facoltà di scegliere
Immaginiamo di essere seduti nel nostro ristorante preferito, rilassati e
soddisfatti. Abbiamo mangiato a sufficienza, ma il cameriere ci tenta: «Un
dolcino?» Noi non cediamo subito, prima chiediamo di vedere il menu.
«Tiramisù? Una fetta di torta?» insiste il cameriere.
«Vediamo…» diciamo noi, ammorbidendoci un altro po’. Mentre
scorriamo la lista dei dessert c’è una breve una pausa, anche solo di pochi
secondi, dopodiché passiamo all’azione. Nulla è più importante di questo
momento. È qui che facciamo appello alla nostra facoltà di scegliere.
Cederemo alla tentazione o no? A meno che non cadiamo all’estremo
dell’autodisciplina, o a quello opposto della totale mancanza di autocontrollo,
non è possibile prevedere che cosa sceglieremo.
Fare una scelta è difficile, anche quando si tratta di piccole questioni
quotidiane, e anziché affinare questa facoltà come qualunque altra abilità, ci
comportiamo in modo casuale. Tra sapere che cosa è bene per noi e farlo
davvero c’è un bel divario! Ed è in questo divario che si impara l’arte di
scegliere.
Mangiare un dessert ipercalorico e avere rimorsi per il resto della giornata
non serve a nulla. Se invece riuscissimo a fare anche solo un cambiamento
significativo alla settimana, la strada verso il benessere profondo sarebbe
sempre più corta. Già dopo un mese avvertiremmo benefici concreti, e dopo
un anno la trasformazione sarebbe completa. Ridotto a una rigida serie di
facili scelte, il problema dell’inosservanza svanirebbe.
Potremmo persino permetterci di infrangere le regole senza rimorsi, se
apportassimo alla nostra vita un cambiamento significativo alla settimana, sia
alla nostra alimentazione sia alla nostra routine quotidiana o di attività fisica.
Anche solo alzarsi dalla sedia e fare un po’ di movimento una volta all’ora,
che sembra una cosa di poco conto, invia al super genoma messaggi positivi
sufficienti a fare la differenza nell’attività genica.
L’obiettivo di un cambiamento positivo alla settimana non è raggiungibile
senza una strategia concreta e realmente praticabile. Se tenteremo di
cambiare con i buoni propositi, falliremo di certo. A Capodanno milioni di
persone formulano buoni propositi, spesso riguardo a un unico cambiamento
da introdurre nell’anno che verrà, eppure la stragrande maggioranza di loro,
ben oltre l’80% secondo i sondaggi, non li realizza se non per breve tempo.
Farsi promesse vane, sentirsi in colpa per la propria debolezza e
autocommiserarsi sono tutti atteggiamenti controproducenti. Alcolisti e
tossicodipendenti si svegliano ogni mattina con questi sentimenti. Il loro
passato è pieno di promesse fatte a se stessi e non mantenute.
Fra tanti consigli che ripetono all’infinito lo stesso ritornello – «Fa’ le
scelte giuste» – pochi dicono come farle. Esaminiamo tre principi
fondamentali con cui dobbiamo fare i conti quando si tratta di compiere delle
scelte.

1. Ci sono scelte facili e scelte difficili. Entrambe si presentano ogni


giorno, ma di solito non prestiamo attenzione a quali siano le une e quali
le altre. Tiriamo avanti come sempre, guidati dall’abitudine, da vecchi
condizionamenti, dalla pura e semplice incoscienza. Le scelte difficili
sono quindi quelle che tentano di spostare i meccanismi psicologici in
una direzione diversa. Apparentemente, la scelta può sembrare piccola,
ma in questo caso non è questione di grande o piccolo, bensì di quanto la
scelta è difficile. Per uno che ha una grave fobia per gli insetti,
raccogliere da terra una formica o uno scarafaggio morti costituisce una
scelta difficile, talora impossibile. Viceversa, i soldati in guerra
rischiano abitualmente la vita, sfidando il fuoco dell’artiglieria nemica
per portare in salvo un commilitone ferito. I fatti oggettivi riguardanti
una scelta – comporta tanto o poco rischio? Ad altri quella scelta risulta
facile o difficile? Arreca dolore o piacere? – sono secondari, e talvolta
del tutto fuori luogo. Ciò che conta è che la scelta sia facile o difficile
per voi.
2. A volte le scelte sbagliate fanno sentire bene. Non è un mistero: se
volete una gratificazione immediata potete ottenerla, per esempio, da un
barattolino di gelato «rubato» dal frigo a mezzanotte o da un’abbuffata
di qualcosa che adorate. I piaceri colpevoli forniscono una doppia
iniezione di benessere, offrendo gratificazione e rimuovendo per breve
tempo il senso di colpa. Il rovescio della medaglia, anche questo è noto,
è che poi quella sensazione di benessere inizia a svanire, e dopo un po’ il
senso di colpa è tale da annullarlo del tutto.
3. La gratificazione che procurano le scelte giuste è spesso differita.
Questo è diventato un classico assioma della psicologia grazie a un
famoso esperimento sui bambini degli anni Sessanta e Settanta, il
cosiddetto Stanford Marshmallow Experiment. In una delle versioni di
questo esperimento, a ciascun bambino veniva dato un marshmallow su
un piattino. «Puoi mangiarlo subito», gli spiegava un ricercatore, «ma se
saprai aspettare una decina di minuti ne riceverai un altro.» Poi il
ricercatore lasciava la stanza, e i bambini venivano osservati attraverso
un finto specchio. Alcuni mangiavano il marshmallow subito o dopo una
breve lotta interiore. Altri, pur mostrando segni di lotta interiore,
aspettavano la gratificazione differita. Da questo semplice test alcuni
psicologi ritengono si possa dire molto sul tipo di adulti che questi
bambini diventeranno da grandi. Quelli che scelgono la gratificazione
immediata saranno inclini a decisioni impulsive, prese senza tenere
conto dalle conseguenze; saranno più disposti a correre rischi o a
ignorarli, e avranno minori capacità di pianificazione del futuro. Niente
di tutto questo sorprende, se pensiamo alla favola di Esopo sulla cicala e
la formica: il vero interrogativo è se le cattive abitudini delle
sconsiderate cicale possano essere cambiate.

Tutti possiamo rispecchiarci nelle situazioni appena descritte. Se


ripensiamo alle storie di Renée e Hank, sopra riportate come esempi di
negazione, poco importa che le due persone siano molto diverse tra loro. I
principi fondamentali della facoltà di scegliere si applicano a tutti. Il
problema è come volgerli a nostro vantaggio. Di seguito trovate le soluzioni
secondo noi più efficaci.
1. Ci sono scelte facili e scelte difficili
Per volgere a proprio favore questo principio occorre iniziare la propria
trasformazione da piccole e facili scelte giuste. Accumulandosi giorno dopo
giorno, queste scelte trasmetteranno nuovi messaggi al nostro epigenoma e al
nostro microbioma, i due grandi centri di cambiamento della cellula. Al
tempo stesso, ogni cambiamento quotidiano, per quanto piccolo,
riprogrammerà il nostro cervello, che inizierà ad abituarsi a una nuova
normalità. Per contro, scelte giuste grandi e difficili si risolvono in un
fallimento, perché il cervello non è in grado di affrontare una normalità
drasticamente nuova. La forza dell’abitudine è semplicemente troppo forte.
Ecco perché smettere di fumare di punto in bianco è una strategia
inefficace in termini di risultati sul lungo periodo. Studi sul tabagismo hanno
dimostrato che chi smette per sempre di fumare, prima ci prova più volte
senza successo. Ridurre un po’, molto o smettere del tutto accumula
l’esperienza del successo. Inizialmente si tratterà di un successo di breve
durata, perché la dipendenza dal tabacco è forte. Ma con la ripetizione alla
fine il corpo si adatta.
Qualunque cambiamento significativo comporta una ripetizione.
Sviluppare nuovi percorsi neurali nel cervello è un po’ come scavare un
nuovo letto per un fiume: l’acqua continuerà a scorrere in quello vecchio,
finché sarà più profondo di quello nuovo. Ripetendo il cambiamento che si
vuole ottenere si «scaverà» un canale sempre più profondo.
A ogni modo, una metafora fisica non rende l’idea. Gli eventi mentali sono
a volte più forti di qualunque evento fisico cerebrale. Alcolisti e tabagisti
possono sbarazzarsi delle loro cattive abitudini da un giorno all’altro e per
sempre, e sebbene la percentuale di questi soggetti sia esigua (e il successo
ottenuto da un giorno all’altro non sia il nostro obiettivo in questo libro),
questi ci ricordano che nel fare una scelta la mente viene prima e il corpo
dopo.
Per molti biologi fermamente convinti che tutto sia riducibile a processi
fisici, questo è un punto discutibile. Ma ogni discussione è superflua, data
l’intima connessione tra mente e corpo. Ogni messaggio che inviamo al
nostro corpo suscita una risposta, la quale influenzerà il nostro messaggio
successivo. Questo dialogo ininterrotto, o ciclo di feedback continuo, è
fondamentale. La scelta di inviare nuovi messaggi ha ripercussioni positive
sull’intero sistema di feedback.
2. A volte le scelte sbagliate fanno sentire bene
Per volgere a proprio favore questo principio bisogna accogliere con gioia la
gratificazione anziché giudicarla negativamente. Vi turba sentirci dire
questo? Per citare una frase della celebre serie televisiva di fantascienza Star
Trek: «La resistenza è inutile».
Impulsi e voglie ci vincono perché ci colgono di sorpresa. Il cervello apre
una corsia preferenziale per la sensazione desiderabile, e il potere della mente
razionale di ignorare l’impulso o la voglia viene annullato. Tuttavia,
numerosi studi hanno mostrato che spesso basta frapporre una breve attesa
per rimediare a questo squilibrio tra ragione e sensazioni. Se un campione di
persone attende cinque minuti prima di soddisfare una voglia, la maggior
parte di loro non cederà. Troveranno ragioni per non farlo, e queste
basteranno, perché il momento della gratificazione immediata è passato.
(Esistono addirittura contenitori per golosità a serratura temporizzata.
Mettiamo che vi prenda una voglia matta di patatine: ve ne concedete una e
poi chiudete il resto del sacchetto nel contenitore a serratura temporizzata,
che vi impedisce di accedervi per un tempo prestabilito, di solito cinque-dieci
minuti, dopodiché la serratura si riapre. Sembra un’idea astuta, ma viene da
domandarsi quanti siano in grado di mangiare una sola patatina quando ne
hanno una voglia irrefrenabile, o quanti non abbiano altri snack salati a
portata di mano.)
A ogni modo, anziché tentare di manipolare le nostre voglie, arrendiamoci
con intelligenza. Cerchiamo una gratificazione immediata da fonti migliori. Il
consiglio dei nutrizionisti di sgranocchiare una carota anziché concedersi un
gelato al cioccolato non è realistico, ma forse un paio di biscotti o uno yogurt
riusciranno a gratificarvi. Ci sono alcune strategie che fermano le voglie, ma
nessuna che le blocchi in modo permanente, o almeno non in modo drastico.
Il metodo migliore è quello di ripristinare le condizioni di salute del nostro
microbioma introducendo piccoli, semplici cambiamenti nello stile di vita
quotidiano e confidare che il nostro corpo smetta di essere assalito dalle
voglie.
Nel bisogno di gratificazione immediata c’è anche una forte componente
emotiva. Gestire con successo questo aspetto coinvolge la consapevolezza in
senso esteso. Quando scopriremo di che cosa siamo veramente affamati, la
risposta sarà qualcosa di più profondo del burro d’arachidi, del cioccolato o
della pizza al salamino piccante. Come vedremo nel paragrafo sulle
emozioni, l’appagamento è uno stato interiore che si può raggiungere, se si sa
come fare. Una volta raggiunto questo stato, l’attrattiva di stimoli esterni
diminuisce notevolmente per poi svanire del tutto. La risposta migliore alle
voglie di qualcosa «là fuori» è «qui dentro».
3. La gratificazione che procurano le scelte giuste è spesso
differita
Per volgere a nostro favore questo principio occorre sapere che il nostro
microbioma può abbreviare il differimento della gratificazione che di solito
contraddistingue le scelte giuste. Il microbioma cambia in continuazione e
risponde prontamente a un’alimentazione più sana, a un po’ di esercizio
fisico, di meditazione e di riduzione dello stress.
A mano a mano che facciamo piccole e facili scelte giuste che ci fanno
sentire bene fin da subito, l’effetto positivo di tali scelte inizierà a sommarsi,
e presto anziché desiderare di sentirci sempre meglio cominceremo a
impegnarci per non perdere il benessere acquisito. Al contrario, chi è
dipendente dalla gratificazione immediata, facendo scelte sbagliate riceve
brevi iniezioni di piacere che con il tempo svaniscono, e riprova piacere solo
assecondando la sua dipendenza. Distrarsi dall’astinenza diventa il suo scopo
principale.
Mostrando come comportarsi con i tre grandi principi sottesi alla scelta,
abbiamo gettato le basi per creare il nostro personale percorso verso il
successo. Poiché è del tutto unico, non ha senso seguire un regime prefissato,
che si tratti dell’ultimo regime dimagrante miracoloso, dell’ultimo
allenamento bruciagrassi o dell’ultimo tipo di integratore alimentare. Questi
metodi si basano tutti sull’aspettativa che dopo un po’ ci daremo per vinti,
rinunceremo e passeremo alla prossima moda, più nuova e redditizia.
A funzionare non è l’incessante vagare da una soluzione a breve termine
all’altra. Dobbiamo invece edificare una piramide di scelte facili foriere di
risultati a lungo termine. Le fondamenta di tale piramide saranno costituite
dalle scelte più facili. Poi continueremo a innalzarla di livello in livello con
scelte sempre più difficili che, grazie alle fondamenta, diventeranno facili. La
chiave di volta è il benessere profondo, che quando siamo alle fondamenta
sembra qualcosa di alto e remoto, ma che si ottiene quasi senza sforzo, se
sappiamo che cosa stiamo costruendo e come.
Mettere in pratica
Ecco un esempio di questa costruzione piramidale relativo a un famigliare di
uno degli autori: diciamo il cugino di Rudy, «Vincent», anche se non è questa
la sua vera identità. Vincent, un medico, esercita dai primi anni Ottanta e si è
fatto un nome nella medicina interna. Come spesso accade ai medici, Vincent
predicava bene e razzolava male. La sua routine quotidiana comportava
lunghe ore di sedentarietà e una massiccia esposizione allo stress. Si vantava
di riuscire a gestire il tutto molto bene. Anni di ambiziosa dedizione al lavoro
lo avevano reso un uomo di successo, ma ne aveva pagato il prezzo.
Se fosse stato un suo paziente, Vincent si sarebbe preoccupato del suo stato
di salute. Era in sovrappeso di una ventina di chili. Beveva quotidianamente
alcolici, a volte esagerando. Lamentava insonnia e stanchezza. A un certo
punto non aveva più potuto ignorare la situazione perché aveva iniziato a
soffrire di forti dolori articolari, in particolare alle ginocchia. Una protesi
chirurgica aveva alleviato solo in parte il suo dolore al ginocchio destro,
quello conciato peggio.
Potremmo pensare che l’accumularsi di tutti questi effetti negativi avrebbe
dovuto far imboccare a Vincent, soprattutto considerata la sua professione, la
via del cambiamento, ma purtroppo la natura umana non funziona così.
Avendo scelto la negazione come principale tattica per affrontare i problemi,
Vincent non aveva altra scelta che rinforzare il suo atteggiamento
negazionista a mano a mano che le cose peggioravano.
Poi ha fatto una scoperta a cui si è appassionato moltissimo: il microbioma.
Incoraggiato dalla mole di dati scientifici in proposito, Vincent ha elaborato
una strategia per aggirare il suo atteggiamento negazionista, abbandonando al
tempo stesso la sua vecchia, inveterata convinzione che solo i farmaci e la
chirurgia fossero la «vera» medicina. All’inizio ha apportato alla sua routine
quotidiana soltanto cambiamenti facili:

Consumare cibi ricchi di fibre solubili, come pane e riso integrali,


banane, avena, succo d’arancia, assicurandosi così un buon apporto di
prebiotici, il cibo di cui i batteri intestinali si nutrono.
Integrare l’alimentazione con alimenti probiotici, che contengono batteri
benefici in grado di colonizzare l’intestino, in particolare il colon.
Yogurt attivo, crauti fermentati e sottaceti appartengono a questa
categoria.
Assumere un’aspirina al giorno, per il suo effetto antinfiammatorio.
Abbandonare il consumo eccessivo di alcolici, pur non rinunciando al
suo drink delle cinque.

Vincent non faticava a rispettare questi semplici regole, e presto ha notato


dei risultati: migliore qualità del sonno, riduzione della sintomatologia
dolorosa e un senso generale di maggiore leggerezza. Come accade a sempre
più medici, anche lui si è convinto che la chiave della guarigione sta nel
combattere l’infiammazione. Ora che si sentiva meglio, Vincent aveva
recuperato il suo vecchio carattere positivo e solare.
Per la prima volta da anni, liberarsi dei suoi problemi gli pareva un
obiettivo possibile, e il suo nuovo atteggiamento positivo ha favorito i
cambiamenti successivi:

Ha smesso di bere del tutto. Non è stata una scelta difficile perché si
sentiva talmente meglio che non aveva bisogno dell’alcol (e dei suoi
effetti infiammatori) come «automedicazione». Allo stesso tempo ha
abbandonato il sigaro che occasionalmente fumava con i colleghi: la
tossicità del tabacco era fin troppo evidente al suo naso e al suo palato,
ora che questi avevano riacquistato la loro sensibilità. Smettere di
fumare è stata una naturale conseguenza della migliore alimentazione.
È passato interamente a cibi integrali biologici. Non provava più alcuna
attrazione per gli alimenti con additivi e conservanti, potenzialmente
infiammatori.
Ha ridotto il consumo di sale, una delle voglie che spuntini e cibo
spazzatura rafforzano pesantemente. È stata una scelta facile perché la
sua nuova dieta saziante a base di alimenti integrali lo aveva liberato dal
bisogno di spuntini.
Dopo essersi documentato sui possibili vantaggi dell’assunzione di un
integratore probiotico, se n’è autoprescritto uno con l’intento di
migliorare il tipo di batteri che popolavano il suo microbioma.

Anziché soffrire di una valanga di sintomi, molti dei quali dovuti


all’infiammazione e alla penetrazione di tossine attraverso una parete
intestinale resa troppo permeabile, a questo punto Vincent sperimentava una
valanga di sintomi di guarigione. Ogni passo facile aveva portato ad altri
passi che avrebbe considerato difficili, se fossero stati i punti di un’unica,
lunga lista di cose giuste da fare. Invece, il suo stile di vita si è evoluto giorno
per giorno, e ogni cambiamento ha condotto naturalmente al successivo.
Attualmente Vincent si sente pronto a cimentarsi con cambiamenti che
anche solo qualche mese fa gli sarebbero sembrati inconcepibili. Lui che non
aveva mai creduto nella connessione mente-corpo, ora intende seguire corsi
di meditazione. Di studi sui benefici della meditazione si parla ormai da
decenni, ma solo oggi Vincent è arrivato a collegarli alla sua situazione,
perché ha iniziato a pensare in termini di epigenetica e di microbioma,
entrambi influenzati positivamente dalla meditazione.
Dopo anni di dipendenza da antidolorifici e antipertensivi, Vincent ha
deciso di liberarsi di entrambi. I primi a essere abbandonati sono stati i
farmaci contro l’ipertensione, perché una dieta a base di alimenti integrali ha
ripristinato un microbioma sano, ed è bastato questo a regolarizzare la sua
pressione. La tematica della lotta all’infiammazione, che era stata la sua
ispirazione originaria, ha dato i suoi frutti, e non è detto che non porti a
ulteriori benefici nel lungo periodo, attualmente non ancora riscontrabili.
La nostra storia personale, e il nostro personale percorso verso il benessere,
non sono gli stessi di Vincent, ed è giusto che sia così. Non esiste il concetto
di taglia unica quando si tratta di fare scelte che ci si sente davvero di poter
adottare. Ciò che renderà il nostro percorso simile a quello di Vincent sarà il
fatto di rispettare i tre principi fondamentali del compiere delle scelte. Perché
Vincent ha applicato le stesse soluzioni che proponiamo in queste pagine.
Per superare il problema delle scelte difficili, a ogni passo del cammino
Vincent ha fatto solo scelte facili. Alcune gli sarebbero parse troppo difficili
all’inizio, ma una volta gettate solide fondamenta non lo sono più state.
Per superare il problema della gratificazione immediata, Vincent ha smesso
di opporre resistenza ai suoi impulsi, e questo ha segnato la fine dei suoi sensi
di colpa e dei severi giudizi che dava su di sé. All’inizio cercava una
gratificazione alternativa nei cibi che amava ma che erano più sani, poi ha
confidato nel fatto che portando avanti le sue scelte avrebbe abbandonato
spontaneamente sia l’alcol sia il tabacco, cosa che è effettivamente accaduta,
dopo la remissione dei dolori cronici che lo affliggevano.
Per superare il problema dei risultati differiti, Vincent ha fatto scelte che
fornissero risultati rapidi, passando innanzitutto a un’alimentazione a base di
cibi integrali. Rispettare il programma non ha richiesto eccessiva pazienza o
impegno, tuttavia bisogna saper aspettare, perché le scelte che si fanno
potrebbero cambiare il proprio stato di salute solo a distanza di anni, come
accade per esempio a chi assume farmaci che abbassano il colesterolo: il
potenziale infarto che tentano di prevenire potrebbe verificarsi molti anni
dopo, per non parlare del fatto che quei farmaci possono sì abbassare i tassi di
infarto in un campione di soggetti piuttosto ampio, ma non garantiscono di
prevenire un infarto specifico, vale a dire il nostro.
Probabilmente avrete notato che le scelte di Vincent non comprendono
alcuni ambiti. Il più ovvio è l’esercizio fisico. Vincent ama giocare a golf nel
fine settimana, il che per ora soddisfa il suo bisogno di esercizio fisico.
Tuttavia sa bene che il golf non è un’attività cardiovascolare, cioè quel
genere di esercizio che aumenta la frequenza cardiaca e migliora il consumo
di ossigeno quanto basta per dare beneficio all’apparato cardiovascolare e alla
pressione. L’eccesso di peso e i dolori articolari gli hanno a lungo impedito
questo genere di attività, così per Vincent l’esercizio cardiovascolare rientra
nella categoria delle scelte difficili, che è sempre suscettibile di revisione, se
affrontata con il criterio della piramide di scelte facili da mettere in pratica
una alla volta.
A questo punto siamo pronti a costruire la nostra piramide personale, e
ogni pietra sarà una sola, nuova scelta alla settimana facile da mettere in
pratica. Copriremo sei categorie di cambiamento che produrranno un effetto
significativo sull’epigenoma, sul microbioma e sul cervello:

1. Alimentazione
2. Stress
3. Esercizio fisico
4. Meditazione
5. Sonno
6. Emozioni

Per ciascuna vi proporremo un menu di scelte. Ogni menu sarà abbastanza


vario, con soluzioni facili da adottare per chiunque. Una volta individuate le
vostre preferenze in tutte e sei le categorie, sarete pronti a passare alla pratica
con poco sforzo e ottime chance di risultati positivi.
Il concetto di piramide è fondamentale per un cambiamento riuscito,
durevole e cumulativo.
Apportare una modifica alla volta in sei diverse aree della propria vita
massimizza il loro effetto sull’intero sistema corpo-mente. Raccomandiamo
di monitorare gli effetti dei cambiamenti nello stile di vita usando come
riferimento la seguente lista:
RISULTATI DA VERIFICARE
Annotate a parte ogni risultato che iniziate a notare dopo l’introduzione di un nuovo
cambiamento nel vostro stile di vita.

La digestione è migliorata.
L’imbarazzo e/o il bruciore di stomaco sono diminuiti.
Stitichezza o diarrea non sono più un problema.
Mi sento più leggero.
Avverto un crescente senso di pace e tranquillità interiore.
Ho le idee più chiare, sono più concentrato.
Perdo peso senza essere a dieta.
I segni dell’invecchiamento rallentano.
I segni del tempo addirittura si invertono, mi sento più giovane.
La vita è meno stressante, e sono grado di gestire meglio lo stress.
Il mio umore è stabile, non più altalenante.
Provo un senso di piacevole benessere.
Piccoli dolori e disturbi si attenuano o svaniscono.
Gli attacchi di fame diminuiscono o cessano del tutto.
Si rinstaura un naturale ciclo di fame e sazietà.
Il mal di testa diminuisce o scompare.
L’alito cattivo diminuisce o scompare.
Il sonno diventa regolare e ininterrotto.
Le allergie migliorano.
Gli spuntini non sono più una tentazione.
La voglia di zuccheri diminuisce.
La voglia smodata di sapori che danno dipendenza (dolce, acido, salato) diminuisce.
Il consumo di alcol diminuisce.
Il consumo di tabacco diminuisce.

Da verificare con il medico:

Abbassamento della pressione sanguigna.


Normalizzazione dei livelli di zucchero nel sangue.
Normalizzazione della frequenza cardiaca.
Miglioramento di ansia o depressione, se presenti.
Aumento del colesterolo HDL (lipoproteine ad alta densità, o colesterolo «buono»).
Riduzione del colesterolo LDL (lipoproteine a bassa densità, o colesterolo «cattivo»).
Miglioramento dei trigliceridi (minore rischio di cardiopatie e ictus).
Normalizzazione della funzione renale.
Miglioramento dello stato del cavo orale (riduzione della placca, minore incidenza di carie e
infiammazioni gengivali).
Alimentazione
Liberarsi dell’infiammazione

ORMAI non è più una novità: il più grande nemico della dieta è
l’infiammazione. I ricercatori ne hanno rintracciato segnali ovunque, dalle
malattie croniche all’obesità, dalla sindrome della permeabilità intestinale
alla malattia mentale. Un’alimentazione squilibrata e ricca di cibi grassi o
lavorati (come quella tipica americana) tende a far aumentare
l’infiammazione, quindi un cambiamento s’impone. E questo cambiamento
sarà drastico per chi vive di cibo spazzatura e fast-food. Ma anche l’eccesso
di zuccheri, che rientra in quasi tutte le abitudini alimentari moderne, è tra i
primi sospettati.
L’evoluzione non ci ha preparati a consumare più di 45 chili di zucchero
raffinato all’anno: anzi, non è chiaro se ci ha preparati a consumarlo in
assoluto; e lo stesso vale per altri dolcificanti industriali più economici come
lo sciroppo di mais, sempre più spesso presente negli alimenti lavorati.
L’infiammazione è indispensabile al processo di guarigione, e il sistema
immunitario fa affluire sostanze chimiche note come radicali liberi per
inondare l’area del corpo ferita o malata. Quasi tutti i sintomi dell’influenza,
per esempio, come la febbre e i dolori articolari, non vengono dal virus
influenzale ma dagli sforzi che il corpo compie per guarire, e
dall’infiammazione che ne consegue. Da questo punto di vista,
l’infiammazione è nostra amica. Tuttavia può tradirci senza che ce ne
accorgiamo.
Potremmo avere un’infiammazione cronica senza saperlo, perché a
differenza delle zone tumefatte e arrossate che compaiono sulla pelle quando
è infiammata, i segni di un’infiammazione interna passano spesso inosservati.
Di solito quando il sistema immunitario è lievemente compromesso non si
avverte nessuna sensazione, e alcuni segni di infiammazione, come i dolori
articolari, vengono spesso attribuiti ad altre cause. Quello che suggeriamo è
adottare scelte facili che abbiano un effetto benefico in questo senso, come
un’alimentazione antinfiammatoria, che permette alla maggior parte delle
persone di constatare subito dei risultati.

LEGGERE IL MENU
Il menu delle scelte è suddiviso in tre parti, a seconda del livello di
difficoltà e di provata efficacia.
Parte 1: scelte facili
Per prime vengono le scelte che chiunque può mettere in pratica. Iniziando
con queste, getteremo le fondamenta della nostra piramide. Per quanto
allettante possa sembrare fare più di una scelta facile alla volta, è bene
resistere alla tentazione. Nel corso di un anno faremo cinquantadue
cambiamenti nel nostro stile di vita, quindi non c’è nessun bisogno di partire
in quarta.
Parte 2: scelte più difficili
Sono scelte, queste, che possono opporre una certa resistenza, o che
sappiamo essere troppo difficili da mantenere senza ricadute. Non c’è
problema: potranno aspettare finché avremo adottato tutte quelle facili
possibili. Per alcuni, invece, risulteranno facili, perché ciascuno di noi parte
da un punto diverso. A ogni modo, per la maggior parte delle persone le
scelte più difficili stanno più in alto sulla piramide. Prima di affrontarle è
necessario sentirsi a proprio agio, altrimenti si rischia di introdurre un
cambiamento che poi non si riesce a mantenere nel lungo termine.
Parte 3: scelte sperimentali
Si tratta di cambiamenti che esercitano un forte fascino e che hanno dietro
ricerche interessanti, ma che per ora costituiscono indubbiamente una
posizione di minoranza. Le mode alimentari vanno e vengono. La ricerca
odierna domani verrà modificata, se non addirittura confutata. Prima di
adottare una scelta sperimentale, è bene leggere con attenzione le nostre
avvertenze e fare ricerche in proposito, in modo che un’eventuale scelta sia la
più informata possibile. In ogni caso, nessuna di queste scelte sperimentali
dovrebbe mai sostituire quelle delle parti 1 e 2.

Qualunque scelta fatta dovrebbe essere permanente. Facendo un solo


cambiamento alla settimana, avremo sette giorni per vedere se funziona. Se
tutto andrà liscio, saremo pronti per un secondo cambiamento la settimana
successiva.
Non bisogna avere fretta, né creare ansia controproducente. Il segreto di
questa strategia è fare in modo che progredisca naturalmente, senza sforzo.
Poiché il cibo ha un effetto diretto sul microbioma, riteniamo prudente
introdurre innanzitutto cambiamenti nell’alimentazione. Questo è il nostro
consiglio, ma ognuno è libero di fare come preferisce. A ogni modo, prima di
apportare un qualsiasi cambiamento è indispensabile leggere tutte e sei le
sezioni del programma.

ALIMENTAZIONE: IL MENU DELLE SCELTE


Annotate a parte da due a cinque cambiamenti che ritenete facile apportare
alla vostra attuale alimentazione. Le scelte più difficili andrebbero introdotte
solo dopo avere adottato le più facili, e sempre una alla settimana.

PARTE 1: SCELTE FACILI

Aggiungere prebiotici con fibre solubili alla prima colazione (per


esempio fiocchi d’avena, succo d’arancia con anche gran parte della
polpa, crusca di cereali, banane, un frullato di frutta non sbucciata).
Consumare un’insalata di contorno a pranzo o a cena (preferibilmente in
entrambi i pasti).
Aggiungere alla dieta alimenti antinfiammatori (vedi).
Consumare una volta al giorno alimenti probiotici (per esempio yogurt
attivo, kefir, sottaceti, crauti o altri ortaggi fermentati).
Passare a pane e cereali integrali.
Consumare almeno due volte alla settimana pesci grassi (per esempio
salmone fresco pescato, sgombro, tonno e sardine fresche o in scatola).
Ridurre l’alcol a una birra o un bicchiere di vino al giorno, e solo
durante i pasti.
Assumere una pillola di integratore probiotico e una di un buon
multivitaminico al giorno. Magari anche mezza aspirina per adulti o una
intera per bambini (vedi).
Ridurre gli spuntini mangiandone una sola porzione misurata in una
ciotolina. Non mangiare direttamente dalle confezioni e dai sacchetti.
Al ristorante, dividere il dessert con qualcuno.

PARTE 2: SCELTE PIÙ DIFFICILI

Passare agli alimenti biologici, comprese le carni bianche di animali


allevati a terra e all’aperto.
Limitare o eliminare del tutto le carni rosse, o almeno passare ad
alternative biologiche.
Passare alle uova biologiche da galline allevate a terra e all’aperto, che
hanno un alto contenuto di acidi grassi omega-3 (vedi)
Diventare vegetariani.
Ridurre drasticamente lo zucchero bianco raffinato.
Ridurre drasticamente i cibi preconfezionati.
Eliminare l’alcol.
Smettere di mangiare cibi da fast-food.
Smettere di acquistare alimenti industriali.
Non mangiare quando non si ha fame.

PARTE 3: SCELTE SPERIMENTALI

Adottare un’alimentazione priva di glutine.


Diventare vegani.
Evitare completamente il frumento e i suoi derivati.
Consumare solo frutta e/o formaggio al posto del dessert.
Adottare consapevolmente una dieta mediterranea (vedi).
Spiegazione delle scelte
Non sarà necessario spiegare ogni singola scelta, perché ciascuna condivide
con le altre un obiettivo comune: eliminare l’infiammazione. Nella categoria
delle scelte facili, l’obiettivo è trovare delle strategie per combattere
l’infiammazione che non ci costino sforzi eccessivi. Prima fra tutte, il
ripristino del nostro microbioma, da cui può avviarsi il processo che porta
all’infiammazione. Come abbiamo già visto, le tossine prodotte dai microbi
intestinali non creano problemi, finché restano nell’apparato digerente. Ma la
sindrome da permeabilità intestinale, o da intestino eccessivamente
permeabile, che sembra essere molto più diffusa di quanto un tempo si
credesse, invia tossine nel sangue, e allora il corpo le combatte attraverso
l’infiammazione, che è una risposta sana ma pericolosa. Il ripristino del
microbioma è la migliore difesa, nonché il primo passo per mantenere le
tossine là dove devono stare.
La vita moderna ci espone a molti influssi che – a volte sicuramente, altre
si sospetta soltanto – danneggiano il microbioma, compresi l’uso massiccio di
antibiotici, un’alimentazione troppo ricca di zuccheri e grassi e carente di
fibre, l’inquinamento atmosferico, l’eccessivo stress, la cattiva qualità del
sonno e vari additivi e ormoni presenti nel cibo che acquistiamo. I microbi
che colonizzano l’intestino sono una causa diretta di infiammazione, ma
anche una valida protezione contro la stessa, se il microbioma è sano.
Attenzione: non stiamo puntando a un microbioma «perfetto», perché
nessuno è in grado di definire come sia, o almeno non ancora. Con oltre mille
specie di batteri da considerare, e il microbioma in costante cambiamento, la
perfezione non può che essere un obiettivo irraggiungibile, se non addirittura
sbagliato da perseguire. È più facile e più sensato modificare la nostra
alimentazione in senso antinfiammatorio, cosa che non nuoce e promette
molti benefici.
I prebiotici vengono al primo posto. È ciò di cui si nutre il microbioma,
costituito principalmente da fibre che il nostro organismo non è in grado di
assimilare. L’evoluzione ha dato vita a una felice collaborazione tra noi e i
batteri in cui questi ultimi consumano il carburante di cui hanno bisogno
senza togliere alcunché al nostro organismo, e viceversa. Gli alimenti
prebiotici proteggono il corpo dall’infiammazione anche riducendo le
endotossine, composti velenosi creati da determinati batteri, innocui
all’interno del tratto gastrointestinale ma altamente infiammatori se si
immettono nel flusso sanguigno e attivano il sistema immunitario. (Vedi la
ricerca che dimostra come un bicchiere di succo d’arancia appena spremuto
compensi totalmente l’effetto infiammatorio di una colazione ad alto tasso di
grassi da McDonald’s.)
Gli alimenti prebiotici non scarseggiano. Consigliamo di farne il pieno a
colazione consumando succo e polpa d’arancia, banane, fiocchi d’avena,
cereali integrali, frullati di frutta, per esempio, con mele non sbucciate e frutti
di bosco. Su Internet ci sono innumerevoli ricette. Volendo, i frullati possono
anche essere di verdura: quelle verdi, l’ingrediente principale dei frullati
vegetariani, hanno molte meno calorie della frutta. Per avere energie
sufficienti fino all’ora di pranzo senza avvertire i morsi della fame o sentirsi
deboli e deconcentrati, è bene consumare una colazione non inferiore alle
350-500 calorie. Anche un’insalata in apertura del pranzo o della cena è un
ottimo alimento prebiotico.
I probiotici sono invece quegli alimenti che contengono batteri attivi. Lo
yogurt attivo è il più facile da trovare al supermercato, ma ci sono anche i
sottaceti, i crauti e gli ortaggi fermentati e il kefir, una bevanda a base di latte
fermentato che ha un sapore simile allo yogurt. Includere uno di questi
alimenti nei pasti aiuta a ripristinare il microbioma attraverso batteri benefici
che colonizzeranno le pareti dell’intestino e ridurranno o elimineranno i
batteri nocivi. A causa della complessità del microbioma e delle differenze tra
persona e persona, è impossibile fare previsioni del tutto affidabili sugli
effetti degli alimenti probiotici. La cosa migliore è provarli – sono tutti
assolutamente innocui – e osservare i risultati.
Gli integratori probiotici sono in espansione e aumenteranno
vertiginosamente in futuro. I negozi di prodotti naturali e salutistici offrono
una straordinaria varietà di questi integratori, alcuni sotto forma di pillole da
assumere a stomaco pieno, altri come prodotto deperibile da conservare in
frigo. Non vi è alcun parere medico autorevole in merito a quali siano i
migliori integratori probiotici, proprio perché il microbioma è troppo
complesso e in costante mutamento. Va detto, inoltre, che un buon
integratore contiene mediamente un miliardo di batteri, ed entrando in
un’ecologia intestinale di centomila miliardi di microbi potrebbe avere un
effetto trascurabile.
A ogni modo, noi preferiamo essere ottimisti e riteniamo valga la pena
approfittare di qualunque occasione per ripristinare il naturale equilibrio del
microbioma. Un integratore non può in alcun modo sostituire l’assunzione di
probiotici attraverso il cibo, tuttavia è una scelta facile da mantenere. Inoltre,
per aumentarne i vantaggi si può aggiungere alla propria routine un
multivitaminico e mezza aspirina per adulti o una intera per bambini. È
provato che l’aspirina può ridurre il rischio di infarto e di alcuni tipi di
cancro, ma consultate il vostro medico prima di associare l’aspirina ad altri
farmaci, in particolare altri antinfiammatori o anticoagulanti. Il
multivitaminico non è strettamente necessario se uno segue un regime
alimentare sano e vario, ma con l’avanzare dell’età il tratto intestinale diventa
meno efficiente nell’assimilare vitamine e minerali. Da alcuni studi è emerso
che fino a un terzo dei casi di demenza è legato a carenze di minerali o a
un’alimentazione poco diversificata.
«Demenza» è un termine generico che riunisce tutta una serie di patologie,
tra cui il morbo di Alzheimer, di cui Rudy è uno dei massimi esperti al
mondo, e al momento non esiste alcun regime alimentare accertato che ne
garantisca la prevenzione. Tuttavia la ricerca su come il cibo influenzi le
cellule cerebrali ha elaborato alcune linee guida facili da seguire e perlopiù in
armonia con un’alimentazione antinfiammatoria. Per la prevenzione delle
demenze si raccomandano:

Gli acidi grassi omega-3 presenti nei pesci grassi e nell’olio di pesce.
Per quelli allarmati dai metalli pesanti potenzialmente presenti nell’olio
di pesce, una fonte alternativa di omega-3 è l’olio di semi di lino
biologico, accompagnato da una manciata di noci al giorno; per evitare
la contaminazione da metalli pesanti, tuttavia, basta acquistare l’olio di
pesce purificato.
I micronutrienti antiossidanti contenuti in mirtilli, cioccolato fondente e
tè verde, per combattere i danni prodotti dai radicali liberi al cervello.
Le vitamine del gruppo B, senza mai superare la dose giornaliera
consigliata.
Una dieta mediterranea (vedi).

Questi sono consigli provvisori. Per esempio, un’integrazione di vitamina


E, di cui per decenni sono stati magnificati gli effetti antiossidanti, è ora
sconsigliata da nuove ricerche. La neuroscienza di base ruota intorno al fatto
che il tessuto cerebrale è assai vulnerabile al danno da radicali liberi, perché il
cervello utilizza il 20% dell’ossigeno totale consumato dal corpo. I radicali
liberi sono molecole con un atomo di ossigeno in più che cerca un’altra
molecola a cui legarsi. Sebbene necessari per guarire le ferite nell’ambito
della risposta infiammatoria globale dell’organismo, i radicali liberi in
eccesso possono danneggiare le cellule sane attraverso reazioni chimiche
inopportune. E le cellule cerebrali sembrano essere un obiettivo primario nei
casi di demenza.
Ridurre i potenziali danni da eccessiva ossigenazione è il denominatore
comune della maggior parte degli alimenti preventivi sopra elencati, ma a
tutt’oggi mancano ancora prove inconfutabili. Noi riteniamo che
un’alimentazione equilibrata sia il modo migliore per proteggersi, ma
assumere un integratore può essere utile, soprattutto dopo i sessantacinque
anni. Un effetto comune dell’invecchiamento è la ridotta funzionalità renale,
spesso dovuta a un’infiammazione di basso livello dei reni, o nefrite. Questa
diminuisce la ritenzione delle vitamine idrosolubili, cioè B e C. Assumere un
integratore multivitaminico ha senso, quindi, soprattutto se si è anziani. Il
principale svantaggio sta invece nel fatto che le vitamine di solito non
producono benefici tangibili; in ogni caso, i danni riconducibili a
infiammazione, incluso l’eccesso di radicali liberi, andrebbero affrontati
direttamente attraverso un regime alimentare antinfiammatorio.
Gli alimenti antinfiammatori hanno conquistato una crescente popolarità e
sono sempre più studiati. Un elenco di specifici alimenti antinfiammatori si
può facilmente trovare su Internet, ma è molto più utile comprendere l’intera
questione dell’infiammazione attraverso un approccio olistico, che affronta il
problema da molte angolazioni. La lista di alimenti qui riportata ha prima di
tutto uno scopo informativo: non sono soltanto questi i cibi «giusti» che
vanno inclusi nella propria alimentazione.

Alimenti antinfiammatori

Aglio
Amarene
Barbabietole
Cereali integrali
Frutta con il guscio
Frutti di bosco
Latticini a basso contenuto di grassi
Micoproteine (o proteine fungine, cioè derivate dai funghi)
Olio d’oliva
Peperoni (inclusi i peperoncini: il piccante non è indice di
infiammazione nel corpo)
Pesce grasso e olio di pesce
Pomodori
Semi oleosi
Soia (compreso il tofu e il latte di soia)
Tempeh
Verdure a foglia verde scuro
Zenzero e curcuma

Nelle sue pubblicazioni sulla salute presenti in Rete, la Harvard Medical


School aggiunge a questa lista altri alimenti:

Alcol, assunto con moderazione (vedi)


Basilico e numerose altre erbe aromatiche
Cacao e cioccolato fondente
Pepe nero

In altri elenchi si trovano anche:

Avocado
Carote
Cetrioli
Crocifere (cavoli, cavolfiori, broccoli, cavolo cinese)
Curry in polvere
Petto di tacchino biologico (in alternativa alle carni rosse)
Rape
Salsa chili
Zucchini

Inutile dire che questi sono tutti cibi sani, e farne un pilastro della propria
alimentazione non può che essere benefico. Tuttavia la scienza non si è
ancora pronunciata in modo definitivo sull’effetto antinfiammatorio di questi
alimenti sull’organismo, e in particolare sul genoma, l’epigenoma e il
microbioma. Ma il fatto che il nostro super genoma risponda a ogni
esperienza induce a ipotizzare che ciò che mangiamo abbia conseguenze a
livello genetico. Se così tante malattie sono collegate a una cattiva
alimentazione, allora un legame genetico deve esistere, quindi il nostro parere
ultimo è che una buona alimentazione sia un modo efficace per promuovere
una migliore attività genica.
Viceversa, esistono anche alimenti che aumentano l’infiammazione, come
riportato nello stesso bollettino della Harvard Medical School.

Alimenti infiammatori (da limitare o evitare)

Bibite gassate zuccherate


Carni rosse
Grassi saturi e trans (come i grassi animali e i grassi vegetali idrogenati
presenti in molti cibi industriali)
Pane bianco
Patatine fritte
Riso bianco

A questi, altre fonti attendibili aggiungono:

Acidi grassi omega-6 (vedi)


Glutammato monosodico
Glutine (vedi)
Zucchero bianco e sciroppo di mais (spesso nascosti in alimenti
industriali non necessariamente dolci al palato)

Secondo noi un’alimentazione antinfiammatoria è sempre migliore di una


infiammatoria, perché i cibi ormai ritenuti ad alto rischio – il cibo spazzatura,
da fast-food, gli alimenti grassi e zuccherati – portano anche infiammazione.
Il legame tra infiammazione e malattie croniche è troppo forte per essere
ignorato, e prestarvi attenzione può dare solo benefici.
La dieta mediterranea ha l’ottima reputazione di essere un regime
alimentare sano. Uno studio condotto in Spagna nel 2014 ha fatto discutere
perché ha dimostrato con accuratezza statistica che soggetti passati a una
dieta mediterranea avevano visto diminuire notevolmente il loro rischio di
infarto. Anzi, i risultati sono stati talmente positivi che lo studio è stato
interrotto, poiché era ormai eticamente sbagliato lasciare che gli altri soggetti
continuassero a consumare una dieta non mediterranea. A oggi non esistono
studi analoghi su un’alimentazione antinfiammatoria (quello spagnolo è
infatti il primo del suo genere a essere stato condotto con un simile rigore
scientifico), ma la coincidenza è significativa. Una dieta mediterranea
sostituisce la carne rossa con il pesce e il burro con l’olio d’oliva. In
alternativa, per i vegetariani come Rudy, proteine non infiammatorie possono
essere ricavate da altre fonti come il tempeh, il tofu e le micoproteine (o
proteine fungine, come quelle usate per produrre il Quorn). a Frutta
consumata con la buccia, verdura, frutta con il guscio a basso contenuto di
grassi (come mandorle e noci) e semi oleosi (per esempio semi di chia,
canapa, girasole, zucca, lino) sono anche consigliati e già in parte presenti
nella dieta mediterranea.
Allora perché abbiamo messo la dieta mediterranea nella categoria delle
scelte sperimentali? Per varie ragioni. La prima è la continuità di un simile
cambiamento. Seguire questo regime alimentare è facile per chi è nato e
cresciuto nei Paesi in cui è diffuso, ma non per gli altri. Inoltre, a meno che
non si viva soli, c’è il problema di chiedere a partner e famigliari di cambiare
alimentazione. Altrettanto importanti sono i fondamenti scientifici.
Il tipo di studio condotto in Spagna riguarda i rischi che corrono ampi
gruppi. È questione di grandi numeri. Passare a una dieta mediterranea non
garantisce che chiunque sarà protetto, mentre il nostro obiettivo, cioè
combattere l’infiammazione, è tutto incentrato sull’individuo. Tuttavia, la
dieta mediterranea si avvicina molto a un regime alimentare
antinfiammatorio, quindi vale la pena provarla, ma solo dopo avere fatto altre
scelte più facili, per vedere se si raggiunge lo stesso obiettivo.
Il passaggio all’olio d’oliva solleva la questione dei grassi. Il nostro
consiglio è evitare tassativamente i grassi trans, principalmente oli idrogenati,
presenti negli alimenti confezionati e nei cibi di alcune catene di fast-food,
anche se non tutte. Questi grassi hanno notoriamente effetti infiammatori. È
consigliabile anche limitare i grassi saturi del burro e della panna, ed evitare
le carni rosse.
È bene avere un sano equilibrio di lipidi ematici (grassi nel sangue), tra cui
colesterolo e trigliceridi, entrambi necessari per la costruzione e la
riparazione delle cellule. I lipidi ematici vengono elaborati dal fegato dopo
che ingeriamo i grassi. Questa elaborazione è parecchio complessa e dipende
dall’alimentazione, dai geni, dal peso, dall’età, dallo stato di salute e da altri
fattori ancora. Problemi possono insorgere in chi è obeso, ha un fegato
geneticamente predisposto a produrre troppo colesterolo, soffre di uno
squilibrio ormonale o ha un sistema immunitario che è stato attivato, tra gli
altri fattori, da un’infiammazione. Non è una faccenda semplice tipo
«ingerisci più colesterolo e i tuoi livelli di colesterolo saliranno». A
complicare ulteriormente le cose, i farmaci più usati per abbassare il
colesterolo, le cosiddette statine, secondo studi condotti nel 2010 non
sembrano ridurre il rischio di infarto. Il che conferma quanto era noto da
tempo, cioè che l’infarto non dipende solo dal colesterolo.
Riteniamo che l’infiammazione, fortemente associata alle cardiopatie, sia il
primo colpevole da perseguire, in particolare l’infiammazione intestinale.
Considerati i tanti fattori di rischio a questa legati, sembra più opportuno e
più semplice agire sull’infiammazione nel suo complesso anziché isolare
grassi «buoni» e «cattivi». Con questi non intendiamo certo avallare l’uso di
grassi saturi: gli oli da cucina polinsaturi, e l’olio d’oliva in particolare,
rimangono la scelta più sana.
Un altro problema è la quantità di grassi che si dovrebbe consumare. Molti
trovano parecchio difficile tagliare il proprio consumo di grassi di punto in
bianco, anche se una drastica diminuzione ha fatto a lungo parte del
programma per diminuire i rischi cardiaci ideato dal cardiologo Dean Ornish,
dell’Università della California a San Francisco. L’approccio alle malattie
cardiovascolari incentrato sullo stile di vita di Ornish ha dato risultati
straordinari. Il suo programma a base di alimentazione controllata, esercizio
fisico, meditazione e riduzione dello stress resta l’unico modo
scientificamente dimostrato di invertire la placca che riveste le arterie
coronarie in pazienti ad alto rischio di infarto.
Ornish è stato un pioniere anche in una serie di studi che mostrano come il
suo programma inneschi cambiamenti benefici nel genoma tramite
modificazione epigenetica di migliaia di geni: un processo noto come
upregulation epigenetica, ovvero l’attivazione di geni esistenti ma inattivi.
Liberare le arterie coronarie dalla placca, risultato che Ornish è riuscito a
ottenere, richiede però una drastica riduzione del consumo di grassi, ovvero
non più di un cucchiaio di grassi aggiunti al cibo ogni giorno. La
raccomandazione ufficiale dell’American Heart Association riguardo ai
grassi è che siano il 30% circa dell’apporto calorico giornaliero: una
differenza enorme. (Persino raggiungere il 30% non è facile, considerando
che la dieta americana media, sebbene comporti il 34% circa di grassi – il che
non sembra molto lontano dalla cifra raccomandata –, si è in realtà arricchita
di 340 calorie al giorno negli ultimi vent’anni. E questo equivale a un
potenziale aumento di peso di oltre 13 chili all’anno!)
Noi siamo d’accordo con il dottor Ornish e gli siamo debitori per il suo
prezioso lavoro, ma una così drastica restrizione dei grassi porta facilmente
all’inosservanza del regime che ci si propone di seguire: limitarsi a un paio di
cucchiai soltanto al giorno di tutti i tipi di grassi e oli, o a un cucchiaio
appena, se si è rigorosi, è semplicemente troppo punitivo per la maggior parte
delle persone. Le diete dimagranti a basso contenuto di grassi falliscono il
98% delle volte, come tutte le diete d’urto. Il nostro metodo, basato sulla
costruzione di una piramide di scelte facili, non prevede severe restrizioni dei
grassi.
Oltre all’inosservanza crediamo vi sia un altro buon motivo per non
mettere troppo l’accento sui grassi o su una drastica riduzione delle calorie
come strategia per perdere peso. Recenti studi sugli animali fanno sospettare
che la chiave potrebbe essere il microbioma. Come abbiamo visto,
trasferendo microbi prelevati da topi obesi in altri topi con lo stesso genoma
si ha un aumento di peso dei topi normali. Prove aneddotiche di persone che
hanno condotto esperimenti su di sé, come il dottor Zhao in Cina, portano alla
stessa conclusione, così come il piccolo studio sui gemelli monozigoti, obeso
uno e snello l’altro.
Ripristinare il microbioma con una dieta antinfiammatoria è una soluzione
win-win, cioè presenta solo aspetti vincenti. Porterà direttamente a una
perdita di peso o a uno stato di equilibrio in cui una moderata riduzione delle
calorie sarà possibile senza effetto yo-yo. Ecco una sintesi per punti della
nostra strategia per perdere peso.

Passi fondamentali per perdere peso

Non seguire subito una dieta ipocalorica. Lasciare il taglio delle calorie
per la fine del programma di perdita di peso.
Concentrarsi prima sui semplici passi per ridurre l’infiammazione.
Fare uso di alimenti pre e probiotici.
Allo stesso tempo, adottare scelte facili per aumentare l’attività fisica.
La mossa più importante è smettere di essere sedentari e muoversi un
po’ durante tutto l’arco della giornata.
Concedersi un buon sonno, dal momento che dormire male scombussola
gli ormoni che presiedono al senso di fame e di sazietà.
Fare scelte facili relative alle emozioni, perché la fame nervosa dovuta a
fattori emotivi è spesso una componente dell’aumento di peso.
Dopo avere seguito i passi di cui sopra per almeno tre-quattro mesi,
valutare se si sta perdendo peso: due etti circa alla settimana è da
considerarsi un traguardo molto soddisfacente; un chilo al mese è un
successo. Se si è perso tanto, continuare a fare quello che si sta facendo
senza tagliare le calorie.
Se non vi è alcuna perdita di peso, e se non costa fatica, prendere in
considerazione l’eventualità di tagliare duecento calorie dalla propria
alimentazione quotidiana. Questa scelta, come le altre facili del
programma, dovrà essere una permanente.
Se risulta faticoso tagliare le calorie, continuare con gli altri
cambiamenti e riverificare il proprio peso due mesi dopo. Solo allora
riconsiderare un possibile taglio delle calorie.

L’alcol ha avuto sostenitori in campo medico per molto tempo, e


l’opinione pubblica tende ad accettare che i francesi abbiano tassi di infarto
più bassi grazie alla loro abitudine nazionale di bere vino. Nella lista degli
alimenti antinfiammatori, il sito Internet della Harvard Medical School
include «un bicchiere» al giorno – non meglio specificato, ma si intende
presumibilmente birra o vino – per via di un unico effetto benefico: l’alcol
sembra abbassare i livelli di proteina C-reattiva, un noto segnale di
infiammazione. Tuttavia, più di un bicchiere – la fonte dell’alcol
apparentemente non ha importanza – fa aumentare la proteina C-reattiva.
In generale, l’alcol è stato classificato come infiammatorio. Viene
metabolizzato molto rapidamente, come lo zucchero bianco raffinato, infatti
noi lo mettiamo nella stessa categoria in termini di potenziali danni
all’organismo. Ma siamo anche realisti, e ci rendiamo conto che bere alcolici
è un’abitudine sociale profondamente radicata in Occidente, e sta prendendo
piede sempre di più anche in Asia.
Alla gente non piace rinunciare a qualcosa che procura gioia e piacere.
Pertanto, proponiamo una scelta facile: limitarsi a un bicchiere al giorno,
preferibilmente durante un pasto completo, in modo che il rash metabolico
dell’alcol sia moderato da altri alimenti. L’auspicio è che, con l’adozione di
semplici cambiamenti che ripristinino il microbioma e inviino messaggi
positivi all’epigenoma e al cervello, presto non si senta più il desiderio di
bere. Staremo bene ugualmente, e il nostro senso di benessere sarà anzi
amplificato proprio dal non assumere alcol.
Anche ridurre o eliminare il glutine dall’alimentazione rientra nella
categoria sperimentale. Il numero di soggetti che la medicina ufficiale ritiene
allergici al glutine è molto esiguo – la diagnosi più comune è quella di
celiachia, una patologia che danneggia gravemente l’intestino –, ma una
convinzione diffusa, che sta ormai diventando una crociata, è che
innumerevoli altre persone risentano degli effetti negativi del glutine. Come
chiunque scopre quando cerca di eliminarlo dalla propria alimentazione, il
glutine si trova in moltissimi alimenti industriali, non solo quelli che vengono
subito in mente, a base di frumento e di suoi derivati.
Tra i sintomi della sensibilità al glutine ci sono gonfiore, diarrea o
stitichezza, distensione e dolore addominale. Questo breve elenco, limitato
all’apparato gastrointestinale, viene esteso da alcuni medici ad altri sintomi
sistemici come mal di testa, dolori generalizzati e stanchezza cronica.
L’autodiagnosi è il procedimento più comune, perché i medici cercano
reazioni allergiche specifiche della celiachia o della sua più tipica alternativa,
la sensibilità al glutine non celiaca. La scienza medica individua anche altri
disturbi, come la sindrome dell’intestino irritabile, che presenta più o meno la
stessa gamma di sintomi; o l’allergia al frumento, che a volte è presente senza
una sensibilità ad altre fonti di glutine.
Poiché in queste pagine proponiamo di fare anzitutto e perlopiù scelte
facili, non chiediamo certo di passare a una dieta totalmente priva di glutine,
che facile non è. La lista degli alimenti a cui bisognerebbe rinunciare è lunga:

Cuscus
Farina
Farina di Graham
Farro
Fu (comune nei cibi asiatici)
Gliadina
Grano spezzato (bulgur)
Kamut
Mazzot (il pane non lievitato ebraico)
Pane, pasta e prodotti da forno a base di frumento (o crusca di frumento,
germe di grano, amido di frumento)
Semola di grano duro
Semolino

Ma il frumento non è l’unico cereale che contiene glutine, quindi


bisognerebbe eliminare anche:

Avena (se lavorata in aziende che producono cereali contenenti glutine e


contaminata)
Hamburger vegetariani (se non specificatamente senza glutine)
Orzo
Segale
Seitan
Triticale e Mir (ibridi di frumento e segale)

Il glutine può anche comparire come ingrediente nel malto d’orzo, nel
brodo di pollo, nell’aceto di malto, in alcuni condimenti per l’insalata, nella
salsa di soia e in molti altri condimenti e miscele di spezie. Una dieta senza
glutine richiede un’attenzione e una dedizione quasi maniacali. Per ragioni di
completezza, elenchiamo di seguito i cereali e altri alimenti a questi
accomunati consentiti in un regime gluten free.

Amaranto
Arrowroot
Grano saraceno
Manioca
Miglio
Quinoa
Riso
Sorgo
Soia
Tapioca
Naturalmente, potete anche soltanto limitare il consumo di cibi contenenti
glutine anziché eliminarli del tutto. Noi, per esempio, ci siamo così incuriositi
da decidere di provare a eliminare il glutine dalle nostre alimentazioni, e
siamo entusiasti dei risultati, poiché abbiamo constatato un aumento di
energia, un riequilibrio dell’appetito e anche una certa perdita di peso. Va
detto, tuttavia, che a oggi manca una conferma scientifica della sensibilità al
glutine come problema che affligge milioni di persone.
Se anche voi siete incuriositi, provate a fare un esperimento di una
settimana: sostituite il frumento e i suoi tanti derivati con il riso e avrete la
base alimentare di miliardi di asiatici. Evitate la pasta e la stragrande
maggioranza dei prodotti da forno: non è un grosso sacrificio, soprattutto ora
che sul mercato si trovano facilmente gli stessi prodotti senza glutine.
Probabilmente i risultati del vostro esperimento saranno abbastanza buoni,
dal momento che un’alimentazione priva di pasta, pane, torte, dolci e biscotti
è già sana di per sé, anche a prescindere dalla controversa questione della
sensibilità al glutine.
La dieta vegetariana è da tempo considerata una sana alternativa, e noi
l’abbiamo adottata (Rudy è vegetariano fin dai tempi dell’università, ed è
pienamente soddisfatto della sua scelta di vita). In India la casta dei bramini,
o sacerdoti, non mangia carne per tradizione, e oggi per molti occidentali
quella del vegetarianismo è una scelta etica: porre fine alle sofferenze degli
animali.
Per molti altri, tuttavia, passare a questo regime alimentare è piuttosto
difficile. Essendo naturalmente ricca di fibre, la dieta vegetariana è
verosimilmente antinfiammatoria e benefica per il microbioma. Allora
perché, viene da chiedersi, i vegetariani a vita non sono esenti da malattie
croniche? In realtà molti lo sono. I dati più recenti mostrano che i vegetariani
sono a minor rischio di:

Cardiopatie
Cancro al colon, alle ovaie e alla mammella
Diabete
Ipertensione
Obesità

Questi dati, però, non trattano separatamente il fattore antinfiammatorio,


quindi non c’è modo di conoscere le condizioni di vegetariani che evitano
anche lo zucchero raffinato, l’alcol, lo stress elevato e la sedentarietà. Finché
non saranno disponibili studi su soggetti che hanno adottato uno stile di vita
olistico finalizzato a ridurre l’infiammazione, essere vegetariani si segnala
come un’ottima scelta se non costa troppa fatica, ma non come una panacea.
In confronto, è molto più facile seguire una dieta vegetariana che una dieta
vegana. Quest’ultima, infatti, esclude non solo carne e pesce, ma tutti i
prodotti lattiero-caseari (latte, panna, yogurt, burro, formaggio), insieme alle
uova e a tutti gli alimenti che contengono questi ingredienti. Una dieta
vegana rigorosa comporta pertanto un regime meticoloso per riuscire ad
assumere le proteine adeguate. La soia (presente anche nel tofu e nel tempeh)
è una proteina completa, ed è una delle principali fonti di proteine per molti
vegani e vegetariani
Il nostro corpo ha bisogno di nove aminoacidi, i «mattoni» di cui sono
costituite le proteine, e non è in grado di produrli da solo. Non è necessario
assumerli tutti a ogni pasto, e per i vegetariani può essere sufficiente un
ampio spettro di verdure, frutta, semi oleosi e frutta con il guscio. Tuttavia vi
sono alcuni alimenti ottimi per i vegetariani che oltre alla soia contengono
tutti e nove questi aminoacidi essenziali, tra cui la quinoa, il grano saraceno, i
semi di canapa e di chia, nonché la semplice e gustosa combinazione
alimentare costituita da riso e fagioli.
Rudy limita la soia a un pasto alla settimana, per non sovraccaricarsi di
fitoestrogeni, cioè sostanze naturalmente presenti nella soia simili agli
estrogeni umani. Benché tendenzialmente le attuali ricerche sostengano che
gli individui di sesso maschile non vanno incontro al rischio di un calo di
testosterone a causa dei fitoestrogeni, Rudy ha fatto questa scelta personale
riguardo alla sua assunzione di ormoni.
Oltre a queste fonti proteiche, per essere certo di assumere proteine a
sufficienza un vegano dovrebbe mangiare combinazioni di alimenti che
contengano vari aminoacidi, per ottenere un complemento completo, ovvero
la proteina completa (una strategia tipica è combinare in modi diversi legumi,
cereali, patate e anche micoproteine).
Abbiamo dunque inserito il regime vegetariano nella categoria delle scelte
più difficili e quello vegano nella categoria delle scelte sperimentali per le
ragioni di cui sopra.
Le ragioni scientifiche per cambiare
Sia l’epigenoma sia il microbioma svolgono ruoli cruciali nel modo in cui il
cibo influenza il nostro corpo a un livello molto più profondo di quanto si sia
mai sospettato. Quando nel 1942 il nutrizionista Victor Lindlahr intitolò il
suo libro You Are What You Eat (Sei quello che mangi), fece più che coniare
una frase famosa: anticipò di decenni la ricerca che avrebbe sostenuto la
connessione alimentazione-geni. Ora esistono numerosi studi, condotti
soprattutto sui topi, che mostrano come il cibo sia in effetti il fattore
principale che influenza la composizione del genoma microbico che
ospitiamo nel nostro intestino. Per esempio, passare improvvisamente da una
dieta vegana a una carnivora modifica nel giro di pochi giorni il microbioma.
In uno studio condotto dall’Università della California a San Francisco, dei
topi sono stati nutriti prima con alimenti vegani a basso contenuto di grassi,
poi con cibo spazzatura ad alto contenuto di grassi animali e di zuccheri.
Quando gli animali sono passati dall’alimentazione vegana a quella
«spazzatura», si è osservato che nelle loro feci i microbi intestinali si erano
modificati nel giro di tre giorni, indipendentemente dalla genetica dei topi:
l’alimentazione contava molto più dei geni. Questa scoperta contribuisce a
spiegare perché gemelli monozigoti con genomi identici possono avere le
stesse differenze di microbioma di due fratelli non gemelli, cioè con genomi
simili ma non identici.
L’alimentazione influisce in modo eclatante anche sull’epigenetica, come
abbiamo visto nell’esempio della carestia olandese durante la Seconda guerra
mondiale. Nelle zone rurali del Gambia, per esempio, c’è una stagione delle
piogge (di carestia) durante la quale l’alimentazione è a basso contenuto
proteico ed energetico, e una stagione secca (del raccolto) in cui
l’alimentazione è ricca di verdure e di alimenti molto energetici. I bambini
concepiti da ottantaquattro madri durante la stagione di carestia avevano un
peso inferiore alla nascita e maggiori livelli di modificazioni epigenetiche
(metilazioni) nel loro genoma rispetto a quelli concepiti da ottantatré madri
durante la stagione del raccolto. (Lo studio in Gambia ha rilevato anche
importanti differenze nei livelli di vitamina B e acido folico in campioni di
sangue materno nelle due stagioni, e queste erano correlate ai cambiamenti
epigenetici.)
I bambini nati da madri che durante il concepimento si erano
sottoalimentate avevano anche maggiori probabilità di sviluppare, crescendo,
insulino-resistenza e diabete di tipo 2. Ovviamente, questi dati evidenziano la
necessità per le gestanti di seguire un’alimentazione sana, ma il principio
generale valido per tutti è stato espresso quasi duecento anni fa dal celebre
gastronomo francese Jean-Anthelme Brillat-Savarin: «Dimmi cosa mangi e ti
dirò chi sei».
Dalla teoria alla pratica
Quando le persone cercano informazioni sulle diete sono soggette a tre
condizionamenti, tutti teoricamente fondati su basi scientifiche ma che si
contraddicono l’uno con l’altro.
Il primo è la raccomandazione nutrizionale standard di seguire una dieta
bilanciata. È ormai un classico negli studi sull’alimentazione, ma il problema
è che la gente non la rispetta. Nonostante le solide prove scientifiche, molti
continuano a consumare troppi grassi e zuccheri, cibi spazzatura e da fast-
food.
Il secondo condizionamento è quello degli studi più innovativi. Alcuni
possono essere molto avvincenti, e quelli relativi a dieta e infiammazione
sono in effetti rivoluzionari. Il problema, però, è la mancanza di una
sperimentazione su larga scala condotta su esseri umani, nonché i risultati che
spesso si contraddicono a vicenda.
Il terzo condizionamento è la dieta all’ultima moda per perdere peso. Di
solito queste diete promettono più di quanto possano mantenere, e inoltre
cambiano in continuazione, utilizzando ricerche all’avanguardia non di rado
infondate o inaffidabili. Può capitare che a sostegno della dieta all’ultima
moda non vi sia una vera base scientifica, eppure la gente si affretta a
seguirla, almeno finché il passaparola non si concentra su una nuova.
Noi abbiamo preso posizione riguardo ad alcune ricerche innovative,
malgrado l’assenza di sperimentazione umana su larga scala. Contrastare
l’infiammazione, per esempio, con la dieta mediterranea, ci pare
scientificamente fondato. Una dieta antinfiammatoria coincide pressoché
totalmente con i precetti di una sana alimentazione, il che fornisce una
seconda fonte di validazione scientifica. Tuttavia, in una dieta
antinfiammatoria sussistono aree di confusione che andrebbero affrontate con
onestà.
Gli acidi grassi, per esempio. Negli ultimi anni c’è stata una crescente
presa di coscienza del fatto che gli acidi grassi omega-3 presenti nel pesce
grasso sono positivi, e i nutrizionisti raccomandano di consumarne un paio di
volte alla settimana. Ma c’è un altro gruppo di acidi grassi, gli omega-6, che
complicano la questione. Il corpo ha bisogno di entrambi i tipi di grassi,
omega-3 e omega-6, e poiché non è in grado di produrli da sé deve assumerli
attraverso l’alimentazione. Ciò che rende speciali queste sostanze è che, a
differenza di altri grassi, il gruppo omega non viene usato in primo luogo per
generare energia, ma per processi biologici tra cui la produzione di globuli
rossi.
Secondo numerosi studi, pare sia cruciale mantenere bassi i livelli di
omega-6, perché livelli elevati sono fortemente correlati a stati infiammatori.
Nelle cardiopatie e nell’artrite reumatoide sono stati riscontrati miglioramenti
riportando l’equilibrio tra omega-3 e omega-6 entro i parametri salutari. Tutte
le diete dei Paesi industrializzati hanno tassi di omega-6 troppo elevati a
causa del pesante utilizzo di oli da cucina polinsaturi. Eppure questi oli,
ottenuti da fonti vegetali come mais, soia, cartamo eccetera, un tempo erano
considerati i più sani in termini di rischio infarto.
Oggi i dati più recenti vanno in un’altra direzione. Da studi condotti su
popoli indigeni, che usano pochi oli vegetali trasformati e non mangiano cibi
industriali e confezionati, è emerso che il rapporto omega-6-omega-3 nella
loro alimentazione è di circa quattro a uno. Per contro, le diete occidentali
mostrano livelli da quindici a quaranta volte più elevati di cibi ricchi di
omega-6, con un rapporto medio omega-6-omega-3 di sedici a uno. A questi
livelli gli acidi grassi omega-6 bloccano i benefici degli omega-3. Non è
facile trovare studi genetici in questo ambito, ma si ipotizza che ci siamo
evoluti in società di cacciatori-raccoglitori con una dieta ancora più bassa in
omega-6, con un rapporto omega-6-omega-3 vicino a due a uno. Secondo
alcuni esperti, avvicinarsi a un rapporto uno a uno sarebbe l’ideale.
Tra i cibi ad alto contenuto di omega-6, l’olio da cucina figura tra i primi,
ma ce ne sono anche altri, per esempio:

Principali fonti di acidi grassi omega-6

Alimenti industriali contenenti olio di soia.


Manzo nutrito a cereali.
Oli vegetali trasformati: quelli a più alto tasso di omega-6 sono gli oli di
girasole, mais, soia e semi di cotone.
Pollo e maiale non biologici.
Uova non biologiche.
Tagli grassi di carni non biologiche.

Come possiamo notare, gli oli polinsaturi, che sono una parte importante
dell’ormai classica prevenzione di numerose malattie, presentano gravi
inconvenienti sotto il profilo infiammatorio. L’unico olio vegetale a basso
contenuto di omega-6 e alto contenuto di omega-3 è l’olio di semi di lino. Gli
oli di cartamo, colza e oliva non sono particolarmente ricchi di omega-3, ma
sono i più bassi in omega-6 tra quelli vegetali più venduti (olio d’oliva al
primo posto).
A complicare ulteriormente le cose, i grassi saturi «cattivi» come strutto,
burro, olio di palma e di cocco sono a basso contenuto di omega-6. Questo è
uno dei motivi per cui i consigli nutrizionali standard hanno iniziato a
comprendere un equilibrio tra grassi saturi e polinsaturi. Ma i veri colpevoli
non sono tanto gli alimenti che consumiamo al loro stato naturale, bensì
quelli trasformati dall’industria alimentare. L’olio di soia è a buon mercato e
facilmente disponibile, di conseguenza si presta a essere impiegato in molti
alimenti confezionati. Il manzo cresciuto a cereali in allevamenti intensivi per
ottenere la massa ottimale nel più breve tempo possibile ha tassi di omega-6
molto più alti del manzo nutrito a erba (per non parlare del largo uso di
antibiotici e ormoni nel settore delle carni bovine e dei prodotti lattiero-
caseari). Ad alto tasso di omega-6 sono anche la carne di maiale e di pollo
allevati a cereali in allevamenti industriali, nonché le uova sempre da
allevamenti industriali.
Per questo una delle scelte più difficili che proponiamo è quella di passare
al manzo alimentato a erba e a polli e uova da allevamenti biologici in cui gli
animali siano allevati a terra con possibilità di uscire all’aperto (ma allevati a
terra non basta come garanzia, dal momento che potrebbero ancora essere
alimentati con mangimi tradizionali). Ciò che rende questa scelta difficile è il
fatto che costa di più e che i generi alimentari di questi tipo non sempre si
trovano nei supermercati.
A ogni modo, non abbiamo sollevato la questione dello squilibrio di
omega-6 per allarmarvi, ma solo per illustrare la complessità dell’interazione
tra gli alimenti e l’organismo. Riequilibrare gli acidi grassi nella propria dieta
vuol dire, in fin dei conti, adottare alcuni semplici accorgimenti. A questo si
aggiunge la raccomandazione generale di orientarsi, come già detto, verso
una dieta a grandi linee vegetariana, anche se non strettamente tale.

Per ripristinare l’equilibrio degli acidi grassi


Cucinare con olio d’oliva o di cartamo (l’olio di colza, se ne disponete,
non è l’ideale ma è accettabile).
Consumare frutta con il guscio: noci, mandorle, noci pecan e noci del
Brasile. Limitare la quantità di quella che contiene molti grassi, come gli
anacardi, le noci macadamia e le arachidi.
Consumare semi oleosi: chia, girasole, zucca, canapa, lino.
Mangiare pesci grassi, non più di due etti a settimana. Per i vegetariani:
consumare più frutta con il guscio a basso contenuto di grasso, come
noci e mandorle, e semi oleosi.
Evitare cibi confezionati con l’olio di soia tra i primi posti nella lista
degli ingredienti.
Non cucinare con olio di soia, semi di girasole o di mais.
Ridurre o eliminare le carni di manzo, maiale e pollo non biologiche.
Di qualsiasi carne e pollame, acquistare tagli magri ed eliminare il
grasso dagli altri tagli.

La nostra alimentazione, quindi, dovrebbe non solo essere più bassa in


omega-6 ma molto più ricca di omega-3. Ecco la grande sfida. E per i
vegetariani che fanno molto affidamento sulla soia e sui suoi derivati, come il
tofu, la sfida è ancora più grande.
Dovremmo dunque orientarci con determinazione verso gli acidi grassi
omega-3? Secondo alcuni esperti, questi dovrebbero in realtà superare gli
omega-6 nell’alimentazione di una persona, ma riteniamo che su questo
argomento non sia ancora stata fatta sufficientemente chiarezza. Tra le
popolazioni indigene, gli inuit, che mangiano grandi quantità di pesce, sono
gli unici a invertire il rapporto omega-3-omega-6, con i primi che superano
quattro a uno i secondi. Infatti agli inizi della moda degli omega-3 gli inuit
venivano citati come esempio di popolo a bassissimo rischio di malattie
cardiache. Studi successivi, però, hanno scoperto che le prove scientifiche a
sostegno di questa tesi erano deboli. Inoltre, le proprietà anticoagulanti degli
acidi grassi omega-3 potrebbero essere il motivo per cui gli inuit hanno una
maggiore mortalità per ictus rispetto al normale.
Il punto è che farsi cogliere da manie per alimenti o sostanze nutritive
«miracolosi» e dalla fobia per altri «proibiti» non fa che aumentare la
confusione. La grande forza della digestione umana è la sua capacità di
adattamento. Noi esseri umani siamo sostanzialmente onnivori, ma siamo
anche gli unici esseri viventi capaci di modificare la propria alimentazione in
base alle convinzioni e alle tradizioni che ci appartengono.
Rispettiamo le idee innovative, ma volte si rivelano semplici scuse per
ignorare i solidi risultati della scienza e cadere vittime delle mode. Adottare
scelte facili sembra la cosa migliore da fare. Ovviamente, però,
l’alimentazione non è tutto. Ci sono altri cinque ambiti dello stile di vita che
integrano la capacità degli alimenti di modificare microbioma, epigenoma e
attività cerebrale. Possono agire attraverso il meccanismo antinfiammatorio,
ma esistono anche altri meccanismi che arrecano grandi benefici. Scelte facili
da cui dipendono risultati in grado di cambiare la vita di una persona possono
riguardare ambiti diversi.

a. Il Quorn è un alimento prodotto da una micoproteina estratta da un fungo, il Fusarium venenatum, ed


è in vendita negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in alcuni Paesi europei. (N.d.T.)
Stress
Un nemico nascosto

LA raccomandazione di ridurre lo stress è in gran parte disattesa. La vita


moderna è di per sé stress. Non c’è via di fuga dalle pressioni esterne (o
fattori di stress) che rendono la vita di tutti i giorni troppo frenetica, troppo
esigente, troppo faticosa. Chiedere a qualcuno di stressarsi di meno è come
chiedere a un pesce di vivere fuor d’acqua. Tuttavia, razionalmente possiamo
tentare di ignorare lo stress e considerarlo un fatto normale, visto che è così
diffuso, ma il nostro corpo no. Anche un’esperienza apparentemente positiva
come vincere alla lotteria o partire per le vacanze può attivare gli stessi
ormoni dello stress coinvolti negli eventi negativi.
La maggior parte di noi dà per scontato che lo stress sia dannoso, tranne
alcuni altamente competitivi che affermano di sentirsi bene solo sotto
pressione. Un drogato da adrenalina può pure passare dal free-climbing ai
lanci con il paracadute o alla lotta con un alligatore, magari con il pieno
sostegno della copertura mediatica, che esalta la frenesia di una vita alla
ricerca di emozioni forti, ma la scienza medica non è dalla sua. L’aumento
degli ormoni dello stress – adrenalina e cortisolo – può essere interpretato
come qualcosa di esaltante, ma dietro ciò che si vede c’è la realtà fisiologica.
Questi ormoni portano a una valanga di reazioni, tra cui un innalzamento
della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna che il corpo può
sopportare solo per un breve periodo in condizioni acute. Se prolungata e
reiterata, la risposta allo stress inizia a danneggiare tessuti e organi del corpo.
Il pericolo nascosto è lo stress cronico, così basso e costante da illuderci di
esserci assuefatti a subirlo. Tuttavia il corpo non la pensa in questo modo. Un
esempio estremo? Un soldato vittima di shock da combattimento torna a casa
dal fronte. È come frastornato, stordito. Lamenta di sentirsi stanco, esausto,
eppure non riesce a dormire. Rumori forti e improvvisi lo mettono in stato
d’allarme. Quando non è agitato è mentalmente assente, spesso depresso.
Ecco la classica immagine dello stress acuto quando si protrae oltre la
capacità del corpo di riprendersi correttamente. Una volta lo shock da
combattimento era ritenuto segno di debolezza o di viltà, ma ora sappiamo
che ha una chiara base fisiologica. Benché la nostra tolleranza allo stress,
come del resto quella al dolore, vari molto da individuo a individuo, tutti i
soldati soccombono allo shock da combattimento, se sottoposti a costante
stress acuto, come avveniva nelle trincee della Prima guerra mondiale.
Ora immaginiamo di essere seduti a casa nostra, la sera, davanti alla
televisione, quando all’improvviso il cane dei vicini inizia ad abbaiare.
Tentiamo di ignorare il rumore, ma il cane non la smette. Questo non è un
esempio di stress acuto, poiché non esige la classica risposta combatti o
fuggi, ma siamo ugualmente sottoposti ai medesimi tre fattori che aggravano
qualunque forma di stress.

Ripetizione: il cane continua ad abbaiare e non la smette.


Imprevedibilità: l’abbaiare è iniziato senza preavviso, e non si sa quando
finirà.
Mancanza di controllo: non c’è un modo diretto per far smettere il cane
di abbaiare.

Sono questi i tre fattori che di solito stanno alla base dello stress cronico.
Ovviamente, colpiscono in modo molto più drammatico un soldato in prima
linea che noi sul divano di casa. Essere bombardati letteralmente e
ripetutamente, in momenti imprevedibili e senza la possibilità di fermare
l’artiglieria nemica, moltiplica infinite volte il senso di pericolo rispetto a
quanto possa fare un cane fastidioso. Ma la risposta allo stress esiste per
proteggerci proprio dal pericolo, e se il cervello «superiore» ha la capacità di
comprendere la differenza tra un cane che abbaia e la guerra di trincea, il
cervello «inferiore» è bloccato al livello in cui si trovava milioni di anni fa e
segnala al sistema endocrino di secernere gli ormoni dello stress, non a
pioggia ma come sotto il controllo, per così dire, di un reostato. In altre
parole, lo sgocciolio della risposta a uno stress di basso livello è distruttivo
come una tortura dell’acqua cinese, e per la stessa ragione. Una serie di
piccoli stress apparentemente innocui può portare, con il tempo, a un collasso
totale.
L’obiettivo di tutti dovrebbe essere quello di prevenire i fattori aggravanti
dello stress. È questa, a nostro avviso, la vera gestione dello stress. Nel menu
di scelte riportato di seguito, molti fattori nocivi non possono essere eliminati
del tutto, perché la vita moderna non lo consente. Tuttavia è possibile favorire
le reazioni del corpo inserendo messaggi migliori nel ciclo di feedback. Dopo
avere discusso delle varie scelte e del loro significato, passeremo in rassegna
gli esiti delle più recenti ricerche scientifiche sulla gestione dello stress.

LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):

Parte 1: scelte facili


Parte 2: scelte più difficili
Parte 3: scelte sperimentali

E ricordate: ogni scelta fatta dovrà essere permanente.


La prima domanda che viene da porsi è: Devo raddoppiare le scelte, una
per l’alimentazione e l’altra per lo stress? Qualcuno di voi potrebbe avvertire
l’urgenza di apportare subito modifiche in più di un ambito della propria vita,
e se individuate scelte facili in due categorie – non solo alimentazione e
stress, ma anche le altre quattro che affronteremo – sta a voi decidere se
adottarle contemporaneamente. Secondo noi, però, questa non è la strategia
migliore. Apportando due modifiche allo stesso tempo è più probabile che
non si riesca a rispettarle. Il cambiamento permanente dipende anche da
quanto ci si rende le cose facili facendole davvero proprie. Per questo una
scelta alla volta basta e avanza. E ricordate: ne faremo cinquantadue in un
anno, il che rappresenta un cambiamento enorme.
La meditazione è la prima scelta elencata, e più avanti troverete un intero
capitolo in proposito, a cui rimandiamo per una trattazione più esaustiva
(vedi). Meditare è la strategia più importante per ridurre la risposta allo stress
e riequilibrare il sistema mente-corpo, ma ci sono molte altre scelte facili che
sortiscono ottimi risultati.
Nella lista delle scelte più difficili, all’ultimo punto, consigliamo di
affrontare e risolvere le emozioni negative. Una trattazione più esaustiva di
questo aspetto, che consideriamo una fonte primaria di prevenzione dello
stress, è nel capitolo sulle emozioni (vedi).

STRESS: IL MENU DELLE SCELTE


Annotate a parte da due a cinque cambiamenti che ritenete facile apportare
al vostro attuale metodo di gestione dello stress. Le scelte più difficili
andrebbero introdotte solo dopo avere adottato le più facili, e sempre una alla
settimana.
PARTE 1: SCELTE FACILI

Meditare ogni giorno.


Ridurre rumori di fondo e distrazioni sul lavoro.
Evitare il multitasking e affrontare una cosa alla volta.
Smettere di essere fonte di stress per qualcun altro (vedi).
Variare le proprie attività quotidiane, compreso il tempo libero e le
pause (vedi).
Almeno tre volte alla settimana non trattenersi al lavoro oltre l’orario.
Smettere di scaricare lo stress su famigliari e amici.
Evitare le persone che sono fonti di pressione e di conflittualità.
Tenersi in contatto con le persone con cui si hanno legami significativi.
Diminuire il lavoro noioso e ripetitivo.
Ridurre l’alcol a una birra o un bicchiere di vino al giorno e a stomaco
pieno.
Iniziare a coltivare un hobby.
Ritirarsi rapidamente da situazioni stressanti.
Trovare uno sfogo fisico per scaricare lo stress quotidiano.

PARTE 2: SCELTE PIÙ DIFFICILI

Cercare il lavoro più gratificante possibile.


Privilegiare la sicurezza del lavoro e non il guadagno.
Risparmiare per il futuro. Essere assicurati.
Diventare più tolleranti.
Per quanto possibile, smettere di opporsi.
Smettere di assumersi troppe responsabilità.
Smettere di portarsi il lavoro a casa: lasciare l’ufficio in ufficio.
Prendere più giorni di riposo dal lavoro.
Eliminare i lavori noiosi, ripetitivi.
Godersi ogni giorno un po’ di natura.
Trovare un confidente intimo.
Trovare un mentore.
Elaborare un progetto a lungo termine per la propria vita.
Diventare guaritori dello stress (vedi).
Imparare a gestire le emozioni negative: rabbia, paura, ansia, giudizi
ipercritici verso se stessi, depressione.

PARTE 3: SCELTE SPERIMENTALI

Diventare il capo di se stessi.


Lavorare su di sé in modo da acquisire una maggiore autostima.
Diventare il confidente di qualcuno.
Diventare il mentore di qualcuno.
Seguire un corso sulla gestione delle crisi.
Affrontare problemi psicologici di lunga data rivolgendosi a uno
psicoterapeuta.
Spiegazione delle scelte
Meditazione a parte, che come abbiamo detto è la strategia privilegiata per
gestire lo stress e sarà oggetto di un capitolo a sé, ci siamo concentrati sul
lavoro e il luogo in cui si svolge. Per due ragioni: primo, quasi tutti lavoriamo
con altre persone in un ambiente in cui inevitabilmente si genera dello stress;
secondo, l’altra principale fonte di stress, i rapporti famigliari, avrebbe
bisogno di un libro intero, dato che ogni famiglia è diversa dall’altra.
Apportare modifiche alla sfera del lavoro insegna ad applicare i principi
generali, e qualunque riduzione dello stress non potrà che ripercuotersi
positivamente anche sui rapporti famigliari.
Rimanendo sul tema lavoro, le pressioni quotidiane si suddividono in tre
categorie: tempo, colleghi e performance. È raro non essere toccati da questi
fattori, perché lavoro significa scadenze, collaborazione e obiettivi da
raggiungere. Ma come adattarsi a queste costanti? La maggior parte delle
persone è reattiva. Non presta attenzione ai propri modelli ripetitivi di
comportamento, e quindi gestisce molto male lo stress.

MODI NEGATIVI DI GESTIRE LO STRESS


Quante delle seguenti, inefficaci modalità adottate per affrontare le
pressioni quotidiane sul lavoro?

Reagisco emotivamente e a volte do in escandescenze.


Mi lamento della pressione a cui sono sottoposto, per lo più con persone
che non c’entrano nulla.
Scarico lo stress su qualcun altro.
Fuggo dalle persone che mi causano più stress, tenendomi alla larga il
più possibile.
Sopporto lo stress finché non ho la possibilità di «staccare», per esempio
andando in palestra o a un happy hour.
Metto ulteriormente sotto pressione me stesso e gli altri, convinto che
questo mi renda più forte e più competitivo.

Questi comportamenti sono di solito inconsci, perché a esaminarli


razionalmente si constata che non ottengono ciò che si propongono, cioè
ridurre gli effetti dannosi dello stress. Lo stress è un ciclo di feedback in cui
l’input è il fattore di stress – per esempio una scadenza vicina, un capo
insopportabile, un obiettivo di vendita impossibile da raggiungere –, l’output
è la nostra risposta. Possiamo intervenire in qualunque punto del ciclo,
cambiando l’input o l’output. Più consapevolmente interveniamo, più alte
sono le probabilità di ridurre gli effetti negativi dello stress.
Nel nostro menu di scelte facili, alcune riguardano l’input e altre l’output.
Per esempio, è possibile interrompere il multitasking, che come è stato
dimostrato da recenti studi sul cervello diminuisce la performance e aumenta
la disattenzione.
Spesso si può ridurre il rumore di sottofondo e le distrazioni sul luogo di
lavoro, ed entrambi i cambiamenti sono sul versante dell’input. Su quello
dell’ouput si può migliorare la risposta allo stress smettendo di scaricarlo su
altri, per esempio, o evitando il più possibile le situazioni stressanti.
Tuttavia, la più importante delle scelte facili è forse quella di smettere di
essere causa di stress per qualcun altro. Questa comporta una maggiore
consapevolezza rispetto alle altre, e diventare più consapevoli è quanto di più
vicino conosciamo a una panacea universale. Alcuni modi negativi di gestire
lo stress sono già stati menzionati, e fondamentalmente consistono nello
stressare gli altri anziché imparare a gestire il proprio stress. Molti di noi lo
fanno involontariamente, tenendosi tutto dentro e bloccando quelle linee di
comunicazione con gli altri che potrebbero risolvere il problema. Andare in
palestra per scaricarsi può essere positivo, ma non migliora l’atmosfera al
lavoro. Un capo nervoso non fa che stressare i dipendenti.
Siamo fonte di stress quando abbiamo l’abitudine di lamentarci e di
criticare. Le persone che si lamentano hanno anche difficoltà a lodare e ad
apprezzare gli altri. Siamo fonte di stress quando indulgiamo nel
perfezionismo, non siamo mai contenti di nulla e mettiamo sempre il puntino
sulle i. Anche il «normale» comportamento da ufficio, come formare cricche
e spettegolare alle spalle altrui, è una fonte di stress che può essere
emotivamente devastante. È una forma di mobbing, un’altra evidente fonte di
stress.
Osservate il vostro comportamento e cercate di capire come potreste
diventare guaritori dello stress (vedi). Quando noterete i primi risultati di una
maggiore consapevolezza potrete passare alle scelte più difficili del menu,
che riguardano perlopiù abitudini inveterate e difficili da spezzare.
Anche la gestione del tempo può ridurre lo stress in modi a cui la gente di
solito non pensa. Variare attività nel corso della giornata apre molte
possibilità. Il lavoro d’ufficio è sedentario, mentre il corpo umano è fatto per
muoversi. Alzarsi dalla sedia una volta ogni ora è sufficiente a invertire
alcuni effetti negativi di un lavoro sedentario. Decenni fa un fisiologo di Yale
prese degli studenti atleti e li costrinse a una lunga permanenza a letto, senza
possibilità di alzarsi (allora stare a letto era la tradizionale prescrizione per la
convalescenza di pazienti che avevano subìto un intervento chirurgico o di
donne che avevano partorito).
Dopo due settimane, i ragazzi accusavano una grave perdita di massa
muscolare, pari all’equivalente di due anni di allenamento. Ma ad avere
causato il danno non era semplicemente l’essere rimasti a letto, anche la
gravità aveva avuto la sua parte. Se invece durante il giorno i soggetti si
alzavano in piedi, facendo anche solo una minima attività fisica, la maggior
parte della perdita di massa muscolare non si verificava. Per questo oggi,
dopo un’operazione o un parto, si fa alzare e camminare il paziente il più
presto possibile.
Oltre ad alzarsi e a muoversi un po’ almeno una volta all’ora, durante la
giornata di lavoro bisognerebbe concedersi alcune pause in cui
semplicemente rilassarsi, meditare o starsene semplicemente seduti tranquilli
a occhi chiusi. Queste attività permettono all’intero organismo di resettarsi.
Inoltre, fanno sentire più centrati psicologicamente. Si è infatti scoperto che
pochi, semplici accorgimenti di questo genere contrastano la tendenza, tipica
del lavoro ripetitivo, a ottenebrare la mente con quel genere di stress di basso
livello che spesso passa inosservato.
Le scelte più difficili si spiegano da sé, tranne una: diventare manager
anziché impiegati. Secondo una vecchia battuta, il capo dice: «A me l’infarto
non viene, lo faccio venire agli altri». C’è una verità psicologica in questa
frase: più si è indipendenti, meno si è costretti a seguire ordini dall’alto, e più
basso è il proprio livello di stress. E questo dato non è correlato al numero di
ore lavorate. Più in alto si sale nella gerarchia aziendale, più è probabile che
si ami il proprio lavoro, ma anche che lo si porti a casa la sera.
Chi ama il proprio lavoro di solito dice di lavorare anche ottanta ore alla
settimana, tra ufficio e casa.
Solo l’amministratore delegato di un’azienda non deve riferire a qualcuno
più in alto, ma perde il sonno per soddisfare gli azionisti, il che ci porta a una
delle nostre scelte sperimentali. Queste scelte si concentrano sul perseguire
una maggiore indipendenza, per esempio, intraprendendo un’attività in
proprio, che molti vedono come soluzione ideale. Ma indipendenza non è
solo essere il capo di se stessi. Elaborare un progetto a lungo termine per la
propria vita offre un genere di indipendenza ben più significativo. Lavorare
sui propri problemi psicologici profondi dischiude la possibilità di una libertà
psicologica, affrancandosi dal proprio passato negativo e dalle proprie
cicatrici interiori.
Si tratta di scelte importanti, che vanno oltre la limitata definizione di
gestione dello stress, tuttavia è questo il genere di cambiamento che migliora
davvero la vita.
Le ragioni scientifiche per cambiare
Lo stress è stato il primo ambito in cui la connessione mente-corpo è stata
dimostrata, aprendo la via alle molte ricerche e conferme di oggi. Il motivo
principale per cui ci si è concentrati sullo stress è stato probabilmente la
semplicità. Estrarre un neurotrasmettitore come la serotonina o la dopamina
dal tessuto cerebrale è un lavoro difficile e impegnativo. È necessario
lavorare con campioni di tessuti morti anziché in tempo reale, e ovviamente i
soggetti di studio raramente sono esseri umani. Ma ormoni dello stress come
il cortisolo e l’adrenalina scorrono nel flusso sanguigno, e se ne può ottenere
all’istante un campione con un semplice prelievo di sangue. Inoltre, gli effetti
fisici della risposta combatti o fuggi sono facilmente osservabili in ciascuno
di noi.
Scoperte significative hanno chiarito ciò che accade nel nostro corpo
quando siamo sotto stress. Gli studiosi sono riusciti a dimostrare che
ripetizione, imprevedibilità e mancanza di controllo sono fattori aggravanti.
In un esperimento ormai classico, dei topi venivano collocati in gabbie
concepite in modo da somministrare loro lievi scosse elettriche. Di per sé
ogni scossa era innocua, ma queste venivano somministrate ripetutamente a
intervalli casuali, e gli animali non avevano dove rifugiarsi. Dopo pochi
giorni diventavano apatici e demotivati. Il loro sistema immunitario risultava
gravemente compromesso, e alcuni addirittura morivano in seguito a quelle
scosse «innocue». Questo esperimento ha permesso di capire come lo stress
cronico di basso livello danneggi l’organismo. Inoltre, ha sfatato il mito
secondo cui soccombere allo stress ripetuto sarebbe segno di debolezza o di
qualche altro difetto caratteriale, mentre in verità è semplicemente una
questione fisiologica.
All’epoca dell’epigenetica queste ricerche sono penetrate al livello più
profondo della nostra fisiologia, nella speranza di modificare e migliorare la
nostra risposta allo stress. Non solo il cibo che mangiamo, ma anche lo stress
che sperimentiamo può causare modificazioni epigenetiche e alterare le
attività geniche. In uno studio sugli effetti della Shoah sull’attività genica,
ricercatori della Icahn School of Medicine del Mount Sinai Hospital di New
York hanno confrontato ottanta bambini che avevano almeno un genitore
sopravvissuto allo sterminio con quindici bambini «demograficamente
simili» i cui genitori non avevano vissuto quel trauma. I risultati sono
descritti in un toccante racconto in prima persona della figlia di un
sopravvissuto, Josie Glausiusz, nel numero del giugno 2014 di Nature.
Per due settimane, nella primavera del 1945, «mio padre, sua madre e i tre
fratelli superstiti erano stati stipati su un treno insieme ad altri
duemilacinquecento prigionieri di Bergen-Belsen, il lager tedesco in cui mio
padre era rinchiuso dal 6 dicembre del 1944», scrive Glausiusz. «Per
quattordici giorni, mentre loro sopravvivevano di minuscole razioni di bucce
di patata crude raccolte tra i rifiuti, il ‘Treno Perduto’ vagò per la Germania,
bloccato dall’avanzata degli eserciti russo e americano, prima di fermarsi in
un bosco nei pressi della cittadina tedesca di Tröbitz.»
All’insaputa dei prigionieri intrappolati nei carri merci, durante la notte i
tedeschi avevano staccato la locomotiva ed erano fuggiti. All’improvviso
apparvero due ufficiali russi in sella a due cavalli bianchi e spezzarono le
serrature che tenevano prigioniera tutta quella gente.
Glausiusz, cresciuta nel ricordo di questa terribile storia, nel 2012 si è
offerta volontaria per lo studio della Icahn School condotto da Rachel
Yehuda, neuroscienziata e direttrice del dipartimento sullo stress traumatico
del celebre istituto. Scopo dello studio era «determinare se il rischio di
patologia mentale conseguente a un trauma venga biologicamente trasmesso
da una generazione all’altra. In particolare, i ricercatori volevano verificare se
tale rischio poteva essere ereditato tramite segnali epigenetici».
In merito alla sua partecipazione allo studio, Glausiusz scrive: «Mi hanno
fatto compilare un questionario on line per valutare il mio stato di salute
emotiva in quanto figlia di sopravvissuti alla Shoah e se i miei genitori
soffrivano di disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Uno psicologo mi ha
intervistata sulle esperienze dei miei in tempo di guerra e sulla mia storia di
ansia e depressione. Mi sono sottoposta a esami del sangue e delle urine per
misurare il livello di un ormone, il cortisolo, che permette al corpo di reagire
allo stress, e la metilazione di GR-1F, il promotore di un gene che codifica un
recettore dei glucocorticoidi, il quale si lega al cortisolo e contribuisce a
disattivare la risposta allo stress».
I risultati si sono rivelati leggermente contraddittori, a seconda di quale dei
genitori soffriva di DPTS. Per semplificare, il punto era determinare se
segnali epigenetici potevano produrre maggiori o minori tassi di cortisolo nel
sangue dei figli dei sopravvissuti. Quando entrambi i genitori soffrivano di
DPTS, i figli mostravano una maggiore attività genica che portava alla
produzione del recettore dei glucocorticoidi che, legandosi al cortisolo (cioè
rendendolo inefficace), contribuisce a disattivare la risposta allo stress.
Quindi attivare il gene disattiva lo stress.
Se un solo genitore aveva sofferto di DPTS, i risultati erano misti. Secondo
Yehuda, «i figli di padri affetti da DPTS sono probabilmente più inclini alla
depressione o allo stress cronico, [ma] ai figli di madri affette da DPTS
sembra accadere il contrario». Questi ultimi mostravano livelli di cortisolo
più bassi. Perché? Una possibile spiegazione: «Le madri sopravvissute alla
Shoah spesso erano terrorizzate all’idea di essere separate dai loro figli.
Quando sei stata esposta a così tante perdite, sei angosciata all’idea di poter
perdere di nuovo i tuoi cari, e puoi diventare iperprotettiva». E i figli della
Shoah, secondo Yehuda, si lamentano spesso che le loro madri erano
iperprotettive.
«Pur non identificando il meccanismo sotteso a questi cambiamenti,
Yehuda ritiene che le modificazioni epigenetiche potrebbero verificarsi prima
del concepimento nei padri, e sia prima del concepimento sia durante la
gestazione nelle madri.»
Questo studio sulla Shoah ha segnato una svolta. Secondo Yehuda, e per
quanto ne sanno lei e il suo team, «questa è la prima prova […] di un segnale
epigenetico nella prole umana causato da un’esposizione preconcepimento di
un genitore». (Un precedente e già citato esperimento sui topi aveva mostrato
che il modo in cui un topolino veniva accudito dalla madre dava luogo a
segnali epigenetici che influivano sulla risposta allo stress; la sollecitudine
delle buone madri riduceva il comportamento ansioso nella prole, con livelli
di cortisolo più bassi.) Va detto che lo studio di Yehuda è controverso,
soprattutto perché la biochimica delle differenze di genere è complessa, e
quelle rinvenute dalla neuroscienziata erano piccole o, per usare la sua
espressione, «sfumate». E bisogna anche dire che, a prescindere dallo studio
dei segnali epigenetici, la psichiatria sapeva da tempo che gli effetti del
DPTS patito dai sopravvissuti alla Shoah avevano ripercussioni sui figli.
Dalla teoria alla pratica
Dice una vecchia battuta: «I capelli bianchi sono ereditari. Sono i figli a
farteli venire». In realtà la cosa è reciproca. Può darsi che ci interessi molto
più la gestione dello stress in famiglia che non al lavoro, ma in entrambi i
contesti il metodo migliore è il medesimo: diventare guaritori dello stress. Il
nostro comportamento oggi può avere conseguenze domani, anche in un
futuro molto remoto.
Quando prendiamo consapevolezza del fatto che non siamo soltanto
vittime ma anche potenziali fonti di stress, il nostro comportamento cambia.
Ecco alcune scelte positive per alleviare lo stress intorno a noi al lavoro, ma
anche in famiglia e con il prossimo in genere.

Come diventare guaritori dello stress

Chiedere agli altri come stanno e stare a sentire davvero ciò che
rispondono.
Non pretendere che si faccia sempre a modo mio.
Mostrare sempre rispetto per tutti. Mai sminuire il prossimo o farne un
capro espiatorio.
Mai criticare qualcuno in pubblico.
Accettare suggerimenti da più persone possibile.
Lodare e apprezzare il lavoro altrui.
Essere leale per ottenere lealtà.
Non spettegolare né parlare male alle spalle altrui.
Attendere di essere calmo prima di affrontare una situazione critica.
Concedere a collaboratori e dipendenti spazio sufficiente per prendere le
loro decisioni.
Essere aperto a nuove idee, a prescindere da chi le propone.
Non creare cricche che escludano gli altri.
Affrontare le tensioni a mano a mano che si presentano, anziché negarle
o sperare che si risolvano da sé.
Non essere un perfezionista sempre insoddisfatto.
Trattare alla pari entrambi i sessi.
Se avete già adottato in tutto o in parte i comportamenti qui elencati,
complimenti: siete già dei guaritori dello stress. Ma la maggior parte di noi
deve fare uno sforzo cosciente per cambiare, poco o tanto, il proprio modo di
agire. Nessuno di noi viene sottoposto a esperimenti di laboratorio sullo
stress, ma la nostra vita è di fatto il laboratorio in cui affrontiamo una miriade
di stress diversi. Sta a noi diventarne consapevoli, e quindi comprendere il
ruolo che svolgiamo in un mondo oberato di doveri, pressioni e crisi.
L’individuo è la vera fonte di guarigione, e questa verità è sempre attuale.
Esercizio fisico
Trasformare i buoni propositi in azioni concrete

IL segreto dell’esercizio fisico può essere riassunto in una frase: persevera,


non smettere mai. È meglio essere attivi tutta la vita a qualunque livello,
anche solo moderato, che fare un sacco di sport al liceo e all’università e poi,
con il passare degli anni, diventare sedentari. L’obiettivo è la continuità, non
ammazzarsi di fatica ogni tanto. Ma questo richiede una scelta consapevole a
cui tenere fede. La buona notizia, d’altro canto, è che più ci si muove, più
aumenta il desiderio di farlo. L’attività fisica diventa così un’abitudine, e
inoltre contribuisce a creare nuovi percorsi neurali nel cervello.
La vita moderna ha reso l’esercizio fisico una benedizione e una
maledizione al tempo stesso. La benedizione è che non siamo più schiavi di
una massacrante fatica fisica; la maledizione è che la benedizione si è spinta
troppo oltre. Per la maggior parte di noi la vita moderna è fisicamente troppo
soft, ma nonostante il prezzo che i nostri corpi pagano per questo, sembriamo
apprezzarla. Potendo scegliere, la maggior parte di noi preferisce:

Starsene seduto anziché muoversi.


Dedicarsi a passatempi sedentari (televisione, videogiochi, Internet)
anziché praticare uno sport.
Dedicarsi a un lavoro mentale e non fisico.
Far svolgere alle macchine i compiti fisici.
Lasciare che i propri figli trascorrano più tempo al computer che a
giocare all’aria aperta.

Queste sono tutte scelte moderne, e la tendenza non pare volersi invertire.
Finché questo stato di cose perdurerà, gli inconvenienti di una vita sedentaria,
come l’aumento dell’obesità e del diabete di tipo 2, continueranno ad
affliggere la società, mentre i benefici dell’attività fisica – salute
cardiovascolare, prevenzione di alcuni tipi di tumori e miglioramento dello
stato mentale – continueranno a essere opportunità mancate. Nel 2013 solo il
20% degli americani adulti praticava la quantità raccomandata di esercizio
regolare, che è di due ore e mezzo di attività aerobica moderata alla
settimana, o la metà della stessa attività ma vigorosa. Nella popolazione tra i
diciotto e i ventiquattro anni praticava esercizio fisico il doppio delle persone
rispetto agli over sessantacinque (31% contro 16%), benché sia evidente che i
due gruppi che più ne beneficiano sono i giovanissimi e gli anziani.
Per i nostri antenati il riposo era un lusso, invece per la maggior parte di
noi è un lusso trovare il tempo per andare in palestra. Ai primi del Novecento
l’80% circa delle calorie necessarie per gestire una fattoria venivano ancora
dall’agricoltore e dai suoi muscoli, malgrado l’avvento delle prime macchine
agricole e l’ampio uso del bestiame per trainare aratri, mietitrici e carri
agricoli.
È su questo modello di vita, basato su un’attività fisica dura e costante, che
ci siamo evoluti. I nostri corpi sono predisposti a un’attività fisica ben più
elevata di quella che facciamo oggi. Ci sono prove che i cacciatori-
raccoglitori primitivi arrivavano ai settant’anni di vita. Ad accorciargliela,
quando succedeva, erano le condizioni esterne – malattie, mortalità infantile,
esposizione agli elementi – non un’intrinseca fragilità del corpo.
La maggior parte di noi non è costretta a cacciare, raccogliere o coltivare i
frutti della terra, issare il fieno con il forcone nel fienile o fare il pane
impastandolo con le mani, e l’elenco delle attività essenziali che non
facciamo più potrebbe continuare. E per quanto martellati dalle
raccomandazioni sull’alimentazione e l’esercizio fisico, raramente
traduciamo i buoni propositi in azioni concrete, anche perché nel nostro
elenco delle priorità abbiamo messo la gestione dello stress prima
dell’esercizio fisico.
A ogni modo siamo realisti, e sappiamo che non sarà mai un rimprovero a
far cambiare a una persona le sue abitudini. Il senso di colpa porta solo a
inutili iscrizioni in palestra, né sarà l’equilibrio tra dolore e piacere a
motivare. Chi ama fare attività fisica corre o pratica qualche sport fin
dall’infanzia. Il suo corpo è abituato, e il ciclo di feedback che produce in lui
il cosiddetto sballo del corridore, o la piacevole stanchezza che segue un
allenamento, gli procura solo piacere. Ma per chi non è abituato a fare
esercizio fisico è vero esattamente il contrario: l’esercizio ha sul suo corpo lo
stesso effetto del lavoro fisico, (inizialmente) affatica e rende dolenti i
muscoli. Il corpo di chi non fa esercizio fisico è abituato alla sedentarietà, che
ha effetti negativi per lo più sul lungo periodo, perché possono volerci anni
prima che cardiopatie, diabete di tipo 2 e sovrappeso inizino a manifestarsi.
Il nostro obiettivo è dunque offrire scelte facili capaci di modificare il ciclo
di feedback, ovvero fare in modo che un minimo di attività porti a
desiderarne di più. I cambiamenti, però, vanno mantenuti a vita. Essere attivi
sporadicamente, con in mezzo lunghi periodi di inattività, non è salutare.
L’adattamento subentra naturalmente, se il lavoro su di sé è regolare e
costante. Meglio fare una rampa di scale ogni giorno che spalare la neve dal
vialetto di casa solo qualche volta d’inverno.

LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):

Parte 1: scelte facili


Parte 2: scelte più difficili
Parte 3: scelte sperimentali

E ricordate: ogni scelta fatta dovrà essere permanente.

ESERCIZIO FISICO: IL MENU DELLE SCELTE


Annotate a parte da due a cinque cambiamenti che ritenete facile apportare
al vostro attuale livello di attività fisica. Le scelte più difficili andrebbero
introdotte solo dopo avere adottato le più facili, e sempre una alla settimana.

PARTE 1: SCELTE FACILI

Alzarsi e muoversi un po’ una volta ogni ora.


Anziché prendere subito l’ascensore per andare a un piano alto, fare le
scale fino al secondo piano e poi chiamare l’ascensore.
Fare da sé i lavori di casa anziché delegarli ad altri.
Fare una passeggiata a passo veloce dopo cena.
Parcheggiare l’auto più lontano da casa, se il luogo è sicuro e bene
illuminato.
Per chi già porta a spasso il cane, fare una passeggiata più lunga e più
dinamica.
Se la destinazione è a meno di un chilometro, andarci a piedi anziché in
auto.
Acquistare uno step e usarlo 15 minuti al giorno guardando la
televisione o ascoltando musica.
Uscire per 5-10 minuti tre volte al giorno.
Iniziare a dedicarsi al giardinaggio, al golf o ad attività simili, a patto
che piacciano veramente.
Riservare 5-10 minuti al giorno per un po’ di ginnastica calistenica.
Fare da sé più della metà dei lavori in giardino.
Lavorare con pesi leggeri, anche davanti alla televisione.

PARTE 2: SCELTE PIÙ DIFFICILI

Farsi degli amici più attivi e partecipare alle loro attività.


Dedicare metà della pausa pranzo all’esercizio fisico.
Per chi porta i bambini al parco: giocare con loro anziché starli a
guardare.
Invece di prendere subito l’ascensore per andare a un piano alto, fare le
scale fino al terzo o quarto piano e poi chiamarlo.
Pianificare un’attività fisica da svolgere con il partner due volte alla
settimana.
Acquistare uno step e usarlo per almeno 30 minuti al giorno guardando
la televisione o ascoltando musica.
Riprendere uno sport che amavate praticare.
Fare 5-10 minuti di ginnastica calistenica due volte al giorno.
Camminare per un totale di 3 ore alla settimana.
Occuparsi personalmente di tutti i lavori in giardino.
Offrirsi volontari per aiutare chi ne ha bisogno a pulire o ridipingere
casa o a fare delle riparazioni.
Nella bella stagione, fare escursioni durante il weekend.
Affidarsi a un personal trainer.

PARTE 3: SCELTE SPERIMENTALI

Iscriversi a un corso in palestra.


Iniziare a praticare yoga (vedi).
Guidare un gruppo escursionistico.
Allenarsi con perseveranza in uno sport competitivo.
Trovare qualcuno con cui fare regolarmente esercizio fisico.
Iniziare a giocare a tennis.
Spiegazione delle scelte
Le scelte facili del menu sono intuitive. Sarà necessario accumularne più di
una per raggiungere il consiglio standard di due ore e mezzo di attività
aerobica moderata alla settimana, più un altro po’ di tempo dedicato al
sollevamento pesi. Ma queste raccomandazioni potrebbero sembrarvi
fantascienza, se siete abituati da anni a una vita sedentaria. La buona notizia,
però, è che alzarsi semplicemente dalla sedia porta un grande beneficio.
Abbandonare una vita totalmente sedentaria è il passo più importante per
prevenire gli effetti negativi della mancanza di attività fisica. Con l’età il
rischio di malattia aumenta, se non si fa movimento. E alla fine una drastica
inattività porta a un tasso di mortalità maggiore del 30% per gli uomini e
raddoppiato per le donne. La «nuova vecchiaia», in cui gli anziani si
mantengono attivi e vitali ben oltre i sessantacinque anni, ha invertito una
delle tendenze più malsane della vita sociale.
Più attività aggiungiamo alla nostra routine, meglio risponderà il nostro
fisico. Se passiamo dal camminare per un chilometro e mezzo a correre per la
stessa distanza gli effetti positivi aumenteranno. Ciò di cui il cuore, il
cervello, il sistema circolatorio il tasso di grassi e zuccheri nel sangue hanno
più bisogno è un minimo di attività fisica, dopodiché potremo pensare di
aggiungerne altra.
Iniziare a fare attività fisica nella mezz’età riduce il rischio di patologie
croniche. Le statistiche lo hanno più volte confermato. Ma a differenza dei
fattori di rischio, l’attività fisica è più che pura statistica. Migliora la vita di
tutti, qualunque sia il livello di impegno. Negli ottantenni e ultraottantenni,
un allenamento di pochi minuti con un peso da un chilo o due soltanto e con
il minimo sforzo, può addirittura raddoppiare o triplicare il tono muscolare.
Il nostro obiettivo non è sollevare sempre più chili o correre sempre di più,
ma semplicemente fare in modo che l’attività fisica non sia qualcosa che si fa
da giovani, con una brusca caduta nella mezz’età e ancora di più tra gli
anziani. Livellare questa curva nella propria esistenza è più importante che
essere molto attivi in gioventù e inattivi in età avanzata. Il corpo si adatta a
ciò che facciamo sempre, non a ciò che facciamo saltuariamente. Questo è
anche il segreto per rendere piacevole l’esercizio fisico. Il ciclo di feedback
tra muscoli e cervello si attiva quanto più lo si innesca, proprio come i bicipiti
o gli addominali si tonificano nella misura in cui li usiamo.
Naturalmente, ci auguriamo che passerete presto alle scelte più difficili in
menu, ma datevi tempo. Se per due mesi farete le scale fino al secondo piano
prima di premere il pulsante dell’ascensore, il passo successivo, cioè salire
fino al terzo o quarto piano, non vi costerà fatica. Ma se oggi, di punto in
bianco, vi mettete in testa di fare a piedi fino al quarto piano, rischiate di
arrivare esausti e il vostro corpo riceverà un messaggio preciso che non è
quello giusto: «Qui si fatica, questo è lavoro!» Fare le scale a piedi dev’essere
una scelta piacevole.
Se dovessimo scegliere un’unica attività che risulti benefica sia al corpo sia
alla mente, diremmo lo yoga. Il termine corretto è hatha yoga, un ramo
dell’antica tradizione dello yoga, che in tutto ha otto rami (o ausili). Gli altri
rami hanno a che fare con la mente e il comportamento, ma il corpo non può
essere escluso dal perseguimento di una consapevolezza superiore. In
sanscrito yoga significa «unione», e ha un legame con l’inglese yoke, cioè
«giogo».
Il concetto di illuminazione potrà sembrare misterioso, ma lo yoga mira
semplicemente a mettere mente, corpo e spirito in armonia. Ciascuna
posizione (o asana) insegnata nello yoga ha lo scopo di concentrare la mente
per dirigere il flusso di energia fisica nel corpo. Non che le due cose siano
separate. Quando si attiva la consapevolezza, si attiva anche l’energia. Gli
insegnamenti dell’hatha yoga possono essere molto sottili, addirittura
esoterici. Il flusso di energia vitale (prana) che viene regolato dal respiro può
essere allenato in modo estremamente preciso. Il flusso di energia vitale
direttamente connesso dalla mente (shakti) è ancora più esatto. I maestri
insegnano che una sola sillaba in un mantra, per esempio, ha influenze che si
estendono dalla mente e dal corpo all’intero ambiente circostante.
L’argomento è talmente affascinante che dedicheremo un capitolo intero
alla consapevolezza come ponte tra benessere quotidiano e benessere
profondo (vedi). L’hatha yoga è un passo in quella direzione: migliora la
consapevolezza del corpo, riporta la persona alla fisicità, acuisce la mente e
tonifica i muscoli. Ironia della sorte, in India questa disciplina è praticata
soprattutto da uomini, in Occidente perlopiù da donne. In India la ricerca di
una maggiore consapevolezza è in teoria aperta a tutti, ma in pratica le donne
ne sono state escluse. In Occidente, invece, gli uomini disdegnano lo yoga
perché non è un allenamento con i pesi o aerobico. Due atteggiamenti
sbagliati che vanno cambiati.
Le ragioni scientifiche per cambiare
Attualmente lo studio in chiave epigenetica dell’esercizio fisico è talmente
nuovo che le ricerche sono ancora scarse, ma i genetisti si stanno
impegnando. A ogni modo, ora sappiamo che quella dell’olismo non può
essere soltanto una scelta di pochi, è necessaria per tutti. Dal momento che
centinaia e talvolta migliaia di attività geniche vengono modificate dalle
scelte di stile di vita, l’esercizio fisico non può essere separato
dall’alimentazione, né l’alimentazione dalla gestione dello stress. Ed è un
cambiamento che ha enormi implicazioni.
Per esempio, un tempo si minimizzavano i rischi per la salute che una vita
sedentaria può comportare. Se trent’anni fa avessimo chiesto a un medico a
che cosa saremmo andati incontro non facendo attività fisica, l’unica cosa che
probabilmente ci avrebbe prospettato sarebbe stata l’atrofia, ovvero il
decadimento del tessuto muscolare che si verifica quando un muscolo non
viene usato. Oggi invece sappiamo che una vita sedentaria causa tutta una
serie di problemi fisici e mentali, dalle patologie cardiocircolatorie all’ansia,
alla depressione, all’ipertensione e al diabete.
Questi effetti negativi oggi vengono ricavati dalle statistiche sulla
popolazione, ma un giorno non lontano l’epigenetica sarà in grado di predire
con accuratezza il rischio personale del singolo. A volte, infatti, ciò che vale
per i grandi numeri non vale per l’individuo. Per esempio, tra la popolazione
generale è ben documentato che l’inattività fisica conduce all’obesità, per il
semplice principio secondo cui bruciare meno calorie di quante se ne
assumono fa accumulare grasso corporeo. Ma come abbiamo visto, l’ormai
datato modello calorie introdotte-calorie assunte è stato messo in discussione.
Per giungere a un possibile legame genetico tra attività fisica e grasso
corporeo, uno studio condotto dall’Università di Lund, in Svezia, ha
monitorato gli effetti dell’attività fisica sulle modificazioni genetiche di
origine epigenetica nelle cellule adipose. I ricercatori hanno così scoperto che
l’esercizio fisico portava a cambiamenti epigenetici dell’attività genica
(tramite segnali metilici) che influivano sul deposito di grasso nel corpo.
Monitorando il genoma delle cellule di grasso di ventitré maschi sani di
trentacinque anni prima e dopo un corso di aerobica semestrale a frequenza
bisettimanale, hanno scoperto che l’esercizio fisico aveva introdotto
modificazioni epigenetiche in settemila geni, molte delle quali avevano
portato a mutazioni su scala genomica della metilazione del DNA nelle
cellule adipose, cambiandone l’attività in termini di potenziamento del
metabolismo delle cellule adipose.
La metilazione può rimuovere gruppi metilici, se correttamente esposti
dagli istoni, i quali operano alla modificazione epigenetica di concerto con il
DNA, esponendolo o meno a segnali epigenetici: in concreto, l’interruttore è
reso o meno disponibile. Con l’esercizio fisico i modelli di metilazione
cambiano: alcuni geni vengono silenziati da segnali metilici e viceversa, altri
vengono attivati per demetilazione. Si tratta di cambiamenti complessi, ma in
sostanza gli interruttori dei geni proinfiammatori vengono iporegolati, mentre
quelli dei geni antinfiammatori vengono sovraregolati. Senz’altro, i sempre
maggiori riscontri positivi riguardanti i cambiamenti di stile di vita
amplieranno questa dinamica antinfiammatoria all’intero sistema corpo-
mente.
La perdita di peso è uno dei principali obiettivi che spingono a iniziare o a
ricominciare a praticare attività fisica, ma i risultati sono controversi. Le
calorie consumate tramite attività fisica non sono così tante come si crede.
Una camminata di buon passo brucia 280 calorie all’ora, che salgono a 350
circa facendo trekking, giardinaggio, danza o allenamento con i pesi. Fare in
bicicletta meno di 15 chilometri all’ora brucia poche più calorie che
camminare, cioè 290. Se l’attività fisica è vigorosa – corsa, nuoto, aerobica –
il consumo energetico sale a 475-550 calorie all’ora. Considerando che un
muffin ai mirtilli di medie dimensioni contiene 425 calorie, è chiaro che
l’esercizio fisico, da solo, non è la soluzione per combattere l’aumento di
peso.
Se invece assumiamo una prospettiva olistica, sono talmente tante le cose
che cambiano quando si inizia a fare attività fisica che le calorie perdono
importanza. Uno studio ha suddiviso dei soggetti in sovrappeso in tre gruppi:
al primo gruppo è stato chiesto di correre per un chilometro e mezzo, al
secondo gruppo di fare jogging e al terzo di camminare soltanto, sempre sulla
stessa distanza. Al termine del periodo di sperimentazione, il gruppo che
aveva perso più peso era quello che aveva soltanto camminato. Una delle
ragioni di questo fenomeno è di tipo metabolico. Una volta che si inizia a
sudare, il corpo passa dal metabolismo aerobico, che brucia calorie, al
metabolismo anaerobico, che non le brucia. In certi casi, quindi, meno fatica
equivale a maggiori risultati.
Praticare un’attività fisica leggera ma costante pare dunque essere la chiave
del successo. Tuttavia, anche questa nota positiva è controbilanciata dal fatto
che l’esercizio fisico, essendo lavoro per il corpo, può rendere più affamati.
Inoltre, se intenso, l’esercizio forma massa muscolare, che pesa più del
grasso corporeo. Messe in conto tutte queste variabili, si conferma il principio
base di intraprendere cambiamenti facili da portare avanti con costanza.
Molto poco si è scoperto, finora, sugli effetti epigenetici del cercare di
perdere peso. Da un lato, l’obesità negli adulti sembrerebbe risalire a
esperienze infantili e adolescenziali. La metilazione potrebbe avere impresso
cattive abitudini alimentari e fame compulsiva nell’attività genica di una
persona. E c’è anche la controversa questione dell’influsso epigenetico dei
genitori obesi sui propri figli. Abbiamo già citato i dati della carestia olandese
durante la Seconda guerra mondiale, ma quei valori vengono da una
denutrizione estrema, la quale poi portò a modificazioni genetiche che
apparentemente aumentarono il rischio di obesità nei figli, a seconda che le
loro madri fossero o meno incinte durante la carestia. Tutt’altra cosa è
classificare i segnali epigenetici in base alla causa operante, dal momento che
genitori obesi possono facilmente trasmettere sia cattive abitudini alimentari
sia segnali epigenetici derivanti dalla propria esperienza prima e durante la
gravidanza.
Altrettanto significativo è uno studio spagnolo che ha preso in esame
duecentoquattro adolescenti obesi o in sovrappeso e li ha sottoposti a un
regime dimagrante di dieci settimane. Essere obesi da adolescenti comporta
un maggiore rischio non solo di esserlo anche da adulti, ma di soffrire di tutta
una serie di patologie. Si trattava di uno studio sfaccettato. Ai giovani
partecipanti sono stati assegnati programmi dietetici e ginnici personalizzati;
in più potevano fruire di un supporto psicologico e di riunioni settimanali in
cui venivano impartite loro informazioni nutrizionali e riguardanti l’attività
fisica.
Al termine delle dieci settimane, i ricercatori hanno selezionato i soggetti
considerati alti e bassi responder al programma in base alle misurazioni di
indice di massa corporea e di quantità di peso perso. Esaminando il loro
epigenoma, sono emerse alcune forti correlazioni. Gli alti e bassi responder
mostravano differenze di metilazione in 97 diversi punti lungo il DNA. Come
riportato sul sito di epigenetica EpiBeat, c’era una forte correlazione con
l’infiammazione: «I geni coinvolti appartengono a reti correlate al cancro,
alla risposta infiammatoria, al ciclo cellulare, al traffico delle cellule del
sistema immunitario, allo sviluppo e al funzionamento del sistema
ematologico».
In cinque punti del DNA i cambiamenti erano così diversi che esaminando
semplicemente i segnali metilici in quelle aree sarebbe stato possibile predire
chi sarebbe stato un basso o alto responder a un programma di
dimagramento. Infatti, più le differenze aumentavano, meglio il soggetto
rispondeva al programma.
Questi risultati ci offrono due possibilità: primo, la profilazione epigenetica
ci permetterà di sapere in anticipo per chi sarà facile e per chi difficile
perdere peso; secondo, potremo essere in grado di individuare quali attività
geniche siano favorite dall’esercizio fisico.
Rendere più precisa la correlazione genica risolve solo in parte il problema.
In origine si pensava che la metilazione si verificasse nel grembo materno e
durasse per tutta la vita. Ora sappiamo che i cambiamenti epigenetici sono
dinamici, costanti e spesso rapidissimi, addirittura nell’arco delle
ventiquattr’ore. Sostanze chimiche note come demetilasi sono in grado di
rimuovere i segnali metilici, e sono state collegate a uno specifico gene,
l’FTO, che come abbiamo detto è associato alla massa grassa e all’obesità.
Varianti di questo gene sono legate al rischio di obesità più di qualunque altro
gene. Studiosi di epigenetica dell’Università dell’Alabama a Birmingham
ipotizzano che le istruzioni codificate nell’FTO creino una proteina che
agisce da demetilasi. Probabilmente questa proteina attiva o disattiva i geni
che inducono l’obesità, benché l’esatto meccanismo sia ancora ignoto, come
pure il motivo per cui l’FTO è correlato all’obesità. Ma la scoperta chiave è
che l’esercizio fisico regolare «annulla in gran parte il maggior rischio di
obesità associato alle versioni del gene FTO. Nessuno quindi è predestinato
dai propri geni», afferma la dottoressa Molly Bray, a capo della ricerca.
Quanto al microbioma, finora il suo collegamento all’esercizio fisico è
stato poco studiato. Una scoperta interessante, però, viene dall’Irlanda, dove
un team di ricercatori dello University College di Cork ha confrontato
quaranta giocatori professionisti di rugby con un gruppo di controllo di
maschi adulti sani. Gli atleti si trovavano a un ritiro precampionato: un
ambiente controllato, quindi, dal momento che mangiavano e si allenavano
insieme. I ricercatori ne hanno monitorato i marcatori ematici che segnalano
l’infiammazione, connessi anche alla risposta immunitaria e al metabolismo,
ed è emerso che gli atleti avevano un microbioma molto più diversificato
rispetto al gruppo di controllo. Migliori erano anche i marcatori dello stato
infiammatorio, della risposta immunitaria e del metabolismo. Certo, i risultati
potevano essere dovuti in parte all’alimentazione, ma questo sembra essere
un dato significativo, ancorché molto generico, su come i microbi intestinali
rispondono all’esercizio fisico.
Allo stato attuale della ricerca scientifica, riteniamo che la prassi migliore
sia una demetilazione ottenuta grazie a scelte di stile di vita positive; in altre
parole, fare il possibile per regolare i geni benefici, concentrandosi in
particolare sull’obiettivo di ottenere un decremento dei marcatori
dell’infiammazione. A oggi non c’è modo di focalizzarsi solo sui
cambiamenti legati alla perdita di peso, ma del resto questo non è essenziale
per la maggioranza delle persone, la quale non è significativamente in
sovrappeso. Un programma generale come quello che raccomandiamo qui è
la medicina migliore e con più basi scientifiche che sia mai stata concepita.
Meditazione
La colonna portante del benessere?

QUESTO capitolo ha nel titolo una domanda: la meditazione aumenta il nostro


benessere? I suoi benefici sono cumulativi. Più la si pratica, migliori sono i
risultati. Ma quanti iniziano a meditare e poi non hanno la costanza di
proseguire? Per nostra esperienza, questo è ormai un problema più grande del
convincere un paziente a cominciare. Le stesse, logoranti pressioni che
portano le persone all’oasi di pace della meditazione li spingono poi ad
abbandonarla. Le scuse, di solito, sono la frenesia dell’epoca moderna, la
mancanza di tempo o il fatto che semplicemente ci si dimentica di meditare.
Molti considerano la meditazione una sorta di «toppa» da mettere su una
giornata particolarmente nera. «Oggi sto bene. Non ho bisogno di meditare»,
è il tipico atteggiamento di chi considera la meditazione un «aiutino» in più,
una specie di pronto soccorso per l’anima.
Il nostro obiettivo in questo capitolo è spiegare perché la meditazione
dovrebbe essere una pratica da adottare a vita. Ci rendiamo conto che
comporta un grosso cambiamento. È un impegno unico nel suo genere, e gli
inconvenienti possono essere considerevoli. Fermarsi per meditare spezza le
attività della giornata, isola dagli altri e offre benefici in larga misura
invisibili. Tuttavia, praticare assiduamente la meditazione arreca vantaggi
unici.
Considerare questa attività per i suoi risultati fisici è una novità occidentale
e moderna. Gli studi su pressione sanguigna, frequenza cardiaca e sintomi
correlati allo stress hanno infatti portato all’introduzione su larga scala della
meditazione in Occidente. Il fatto che i medici di famiglia abbiano
cominciato a prescrivere la meditazione ha aggirato il problema del
«crederci» o meno. In Oriente, invece, la meditazione è sempre stata
finalizzata all’illuminazione, un concetto a cui gli occidentali guardano con
sospetto, come un mistero insondabile e probabilmente irraggiungibile, se
non da swami, yogi, guru e mistici.
Questa dicotomia permane tuttora. Come scelta di stile di vita, la
meditazione attira chi vuole migliorare la propria salute. Come scelta
spirituale, attira chi vuole raggiungere uno stato di consapevolezza superiore.
Di solito è questo secondo tipo di praticanti che continua a meditare
regolarmente per anni, e forse per il resto della vita. Il loro obiettivo, sebbene
invisibile, è chiaro e produce una motivazione duratura. Viceversa, chi
medita per sentirsi meglio, non vede il motivo di farlo nei giorni in cui si
sente già bene.
Meditazione e successo
La nostra strategia per superare questo problema è semplice: rendere la
meditazione la colonna portante del proprio benessere profondo. Praticarla
non per motivazioni spirituali, ma perché la si intende come un mezzo per
ottenere qualcosa che si desidera intensamente. Solo un bisogno legato a un
desiderio verrà appagato. Il desiderio è la motivazione più potente di tutte,
anche se nella vita della maggior parte delle persone non c’è un bisogno di
meditare intenso come quello di cibo, riparo, compagnia, denaro o sesso. Vi è
però un desiderio abbastanza comune, intenso e duraturo da fare al caso
nostro: il successo. Se la gente riuscisse a correlare meditazione e successo,
di sicuro non abbandonerebbe tanto facilmente la meditazione.
A ogni modo, anche questa correlazione richiede un grande cambiamento.
Entrambi i tipi di meditazione – per chi vuole migliorare la propria salute e
per chi aspira a una consapevolezza superiore – si concentrano su un
obiettivo che è molto diverso dal successo mondano. Se elencassimo i tratti
caratteriali basilari di uomini e donne di successo, imprenditori, top manager
e così via, il loro successo non sembrerebbe immediatamente attribuibile alla
meditazione. Ma nemmeno lo stereotipo dello scalatore sociale ambizioso,
competitivo e senza scrupoli corrisponde alla realtà.
«Successo» è dunque una parola, e una motivazione, più potente di
«prevenzione» o «benessere». E i tratti caratteriali di uomini e donne di
successo sono associabili ai benefici che derivano dalla meditazione.

Elementi del successo

Capacità di prendere buone decisioni


Forte personalità
Sapersi concentrare
Non farsi distrarre
Indipendenza dall’approvazione o disapprovazione altrui
Energie sufficienti per affrontare lunghe giornate di lavoro
Capacità di non cedere facilmente allo scoraggiamento
Resilienza emotiva, capacità di ripresa da fallimenti e battute d’arresto
Intuitività e lungimiranza, capacità di leggere una situazione prima degli
altri
Creatività, capacità di avere nuove idee e trovare soluzioni
Saper mantenere sangue freddo in situazioni di crisi
Forti capacità di gestire stress anche elevati.

Se questi non sono ancora considerati i tratti chiave del successo,


dovrebbero esserlo. E la meditazione li rafforza tutti. Quante persone si
rendono conto che meditando potranno prendere decisioni migliori o
sapranno mantenere sangue freddo nei momenti difficili? Lo stereotipo della
persona dedita alla meditazione come solipsista intento a guardarsi
l’ombelico è falso quanto quello dell’individuo di successo come
arrampicatore sociale ambizioso, competitivo e senza scrupoli. Il motivo
principale per cui la meditazione ha preso piede in Occidente è che medici e
psicologi hanno trovato il modo di accantonare l’immagine dello yogi
barbuto che ha rinunciato al mondo e vive da asceta nella sua grotta
sull’Himalaya. Tuttavia solo recentemente la ricerca epigenetica ha
dimostrato che la meditazione provoca migliaia di cambiamenti con
implicazioni olistiche per la mente e per il corpo.
Questo è di per sé un grande passo avanti, ma c’è bisogno di qualcosa in
più. Se il successo nella vita è definito da elementi esteriori – denaro, beni
materiali, posizione sociale, potere – allora è riservato a pochi eletti che di
solito partono fin dalla nascita da una condizione privilegiata. Ma se lo
definissimo diversamente, e cioè come uno stato di appagamento interiore?
Se rivolgiamo l’attenzione a ciò che accade dentro di noi, possiamo essere
uomini e donne di successo in questo preciso istante, perché il successo è un
processo creativo. Ci siamo già dentro, perché il vero successo è qualcosa che
accade vivendo, non uno stato ultimo da raggiungere. È questo il messaggio
che da trent’anni Deepak va diffondendo ed esemplificando con la sua vita,
quello che porta ogni anno nelle business school, insegna ai top manager e
illustra in libri come questo. E Rudy, ancora prima di conoscerlo, la pensava
esattamente come lui.

LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):
Parte 1: scelte facili
Parte 2: scelte più difficili
Parte 3: scelte sperimentali

E ricordate: ogni scelta fatta dovrà essere permanente.

MEDITAZIONE: IL MENU DELLE SCELTE


Annotate a parte da due a cinque cambiamenti che ritenete facile apportare
al vostro attuale stile di vita per quanto riguarda la meditazione. Le scelte più
difficili andrebbero introdotte solo dopo avere adottato quelle più facili, e
sempre una alla settimana.

PARTE 1: SCELTE FACILI

Ritagliare 10 minuti della pausa pranzo per starsene seduti da soli e a


occhi chiusi.
Imparare un semplice esercizio di meditazione del respiro da svolgere
per 10 minuti mattina e sera (vedi).
Utilizzare più volte al giorno una tecnica di mindfulness (vedi).
Raccogliersi in una semplice meditazione con un mantra per 10 minuti
due volte al giorno (vedi).
Trovare qualcuno con cui meditare.
Prendersi del tempo per raccogliersi interiormente ogni volta che se ne
sente il bisogno, e almeno una volta al giorno.

PARTE 2: SCELTE PIÙ DIFFICILI

Iscriversi a un corso di meditazione.


Aumentare il tempo dedicato alla meditazione a 20 minuti due volte al
giorno.
Iniziare a meditare insieme al proprio partner.
Assumere alcune semplici posizioni yoga prima della meditazione
quotidiana.
Praticare 5 minuti di pranayama (una tecnica respiratoria) prima di
meditare (vedi).
Insegnare ai propri figli a meditare.
PARTE 3: SCELTE SPERIMENTALI

Approfondire con letture le tradizioni spirituali da cui è nata la


meditazione.
Partecipare a un ritiro di meditazione.
Imparare a insegnare la meditazione.
Insegnare a titolo di volontariato la meditazione agli anziani.
Insegnare a titolo di volontariato la meditazione in un’organizzazione
locale.
Spiegazione delle scelte
Le scelte facili del menu non richiedono altro che la determinazione a
ritagliarsi un po’ di tempo durante la giornata per guardarsi dentro. I modi più
semplici consistono in una sorta di premeditazione: mettersi semplicemente
seduti a occhi chiusi, o addirittura definire il «tempo interiore» come si
desidera; l’importante è rimanere un po’ da soli con se stessi, eliminando il
più possibile rumori e distrazioni esterne. Ovviamente, da parte nostra ci
auguriamo che da qui passiate alla meditazione vera e propria, ma
considerato che i cambiamenti devono essere permanenti, non abbiate fretta
di prendere un impegno che poi non sarete in grado di mantenere. Per fortuna
molti rimangono sorpresi dalla facilità con cui si abituano a meditare, e
godono dell’opportunità di concedersi ogni giorno un po’ di tempo interiore.
Meditazione del respiro: è una tecnica che sfrutta la connessione mente-
corpo. Il respiro è un ritmo corporeo fondamentale, connesso alla frequenza
cardiaca, alla pressione, alla risposta allo stress e a molti altri ritmi fisiologici.
Ma è legato anche allo stato d’animo: pensiamo al sollievo che si prova
facendo sospiri profondi quando si è tesi, e a come il respiro si fa affannoso
quando si è in ansia o stressati. La meditazione del respiro, inoltre, aiuta a
resettare l’intero sistema e produce naturalmente un profondo rilassamento.
La tecnica è semplice. Sedetevi in un posto tranquillo e chiudete gli occhi.
Quando vi sentite calmi, iniziate a concentrarvi sul respiro che entra ed esce
da voi. Non forzatelo a un certo ritmo, non cercate di farlo cambiare. Se
venite distratti da pensieri o sensazioni moleste, tornate dolcemente sul
respiro. Alcuni trovano utile rivolgere l’attenzione alla punta del naso, dov’è
facile mettere a fuoco la sensazione di inspirazione ed espirazione.
Continuate a seguire il vostro respiro per il tempo che avete deciso di
riservare alla meditazione. Quando avete finito, restate seduti e rilassati per
qualche istante. Non rituffatevi immediatamente nella vita attiva.
Meditazione con un mantra: uno dei rami più intricati e sottili della
tradizione spirituale indiana ha a che fare con il suono (shubda). I particolari
mantra nati da questa tradizione erano apprezzati non per il loro significato,
ma per il loro effetto vibrazionale. A livello scientifico non vi è consenso sul
fatto che pensare a una specifica parola possa influire sul cervello, tuttavia
migliaia di persone riferiscono che meditare con un mantra è un’esperienza
più intensa e profonda.
Esistono mantra personalizzati in base a criteri noti ai maestri di
meditazione (l’età del praticante, la sua data di nascita, le sue predisposizioni
psicologiche), ma anche mantra per tutti. Se volete provare la meditazione
con un mantra, seguite la stessa tecnica descritta sopra per la meditazione del
respiro. Mentre inspirate ed espirate, pronunciate interiormente il mantra so
hum. Tradizionalmente, si usa «so» inspirando e «hum» espirando.
Pensate a ciascuna sillaba lentamente e silenziosamente, mentre respirate.
Non forzate il pensiero, e se perdete l’attenzione, riportatela dolcemente sul
mantra. Secondo alcuni insegnamenti, la meditazione con un mantra non
andrebbe legata ad alcun ritmo, neppure a quello naturale del respiro. Viene
proposta anche una tecnica alternativa in cui ci si siede tranquilli e si pensa so
hum, poi si lascia andare il mantra e vi si ripensa solo quando ritorna di
nuovo in mente. Non si tratta di ignorarlo: ci si ricorda dolcemente di
pronunciarlo in modo regolare, gli si concede la precedenza rispetto ad altri
pensieri. Non bisogna instaurare un ritmo regolare, e soprattutto non
martellare meccanicamente i mantra in testa.
Dopo avere meditato per il tempo stabilito, è importante restare fermi, o
meglio ancora sdraiarsi, e rilassarsi per qualche istante prima di tornare alle
proprie attività. Spesso la meditazione con un mantra porta chi la pratica così
in profondità dentro di sé che risulta brusco ributtarsi nella vita attiva senza
concedere alla mente il tempo di ritornare alla superficie dei pensieri di tutti i
giorni.
Pranayama: visto che la respirazione è intimamente connessa a ogni
attività del corpo, perché non prendere in considerazione alcune tecniche
antiche della tradizione yoga incentrate sul respiro? Sebbene possano essere
molto complesse e lunghe da perfezionare per chi si propone di controllare o
dirigere il proprio respiro, esistono anche forme di pranayama più semplici.
Quella che consigliamo mira a perfezionare la respirazione e a potenziare
l’effetto calmante e rilassante della meditazione.
Seduti con la schiena eretta, respirate dolcemente alternando narice destra
e narice sinistra. Il ritmo è inspirare dalla destra ed espirare dalla sinistra, poi
il contrario. Qualche minuto di pratica varrà più di tante parole.
Innanzitutto, appoggiate il pollice della mano destra sulla narice destra e le
due dita centrali sulla narice sinistra. Chiudete delicatamente la narice sinistra
e inspirate con la destra. Ora espirate attraverso la narice sinistra allontanando
le dita chiudendo delicatamente la narice destra con il pollice. Senza muovere
la mano, inspirate dalla narice sinistra, poi chiudetela con le due dita e
allontanate il pollice per aprire la narice destra ed espirate.
A descriverlo sembra difficile, ma in sostanza si tratta di alternare la narice
con cui si inspira. Vi risulterà forse più facile se fate il primo paio di tentativi
espirando e inspirando dalla destra, poi cambiando posizione della mano ed
espirando e inspirando dalla sinistra.
In ogni caso, non esagerate con il pranayama. Praticatelo per cinque
minuti prima di iniziare a meditare. La maggior parte di noi ha una narice
dominante che cambia nel corso della giornata: a volte respiriamo soprattutto
con la destra, altre soprattutto con la sinistra, probabilmente perché una
narice è più aperta dell’altra. Ma il pranayama è in grado di uniformare e
perfezionare il respiro. In un primo momento può dare delle strane
sensazioni, quindi se vi trovate a corto di fiato o in affanno interrompete,
mettetevi seduti tranquilli e riprendete la respirazione normale. Non forzate
mai il respiro per fare questo esercizio. Ogni espirazione e inspirazione
dev’essere del tutto naturale. Non cercare di imporre un ritmo regolare, né di
rendere i vostri respiri più profondi o più superficiali. Per praticare il
pranayama è necessaria più disciplina che per la meditazione semplice, ma
chi lo padroneggia riferisce di esperienze di meditazione più profonde.
Le ragioni scientifiche per cambiare
Genoma ed epigenetica stanno iniziando a rivelarci cose sorprendenti sui
meccanismi della meditazione. Nel 2014 abbiamo testato gli effetti della
meditazione intensiva valutando l’attività genica sull’intero genoma umano.
Lo studio è stato condotto nell’ambito di un ritiro presso il Chopra Center di
Carlsbad, in California.
Sessantaquattro donne sane sono state invitate a soggiornare presso il La
Costa Resort per una settimana – il Chopra Center ha lì le sue strutture – e
sono state assegnate in modo casuale o a un corso di meditazione o a uno di
solo rilassamento, dove non si imparava a meditare. In quanto soggetti di
controllo dello studio, le donne del gruppo di rilassamento hanno
sostanzialmente trascorso una vacanza al resort.
Durante la settimana di ritiro, alle donne di entrambi i gruppi sono stati
prelevati campioni di sangue da cui misurare i biomarcatori correlati
all’invecchiamento. Inoltre, si è tenuto conto anche di qualunque
cambiamento del benessere psicologico e spirituale dei soggetti, non solo nel
corso della settimana ma fino a dieci mesi dopo il ritiro. Al quinto giorno
entrambi i gruppi avevano effettivamente riscontrato significativi
miglioramenti in termini di salute mentale e registrato cambiamenti positivi
nell’attività genica, tra cui una diminuita attività dei geni coinvolti nello
stress difensivo e nella risposta immunitaria (come abbiamo visto,
l’infiammazione è una risposta difensiva del sistema immunitario).
Nel gruppo di controllo, che non meditava, tali cambiamenti positivi
potrebbero essere attribuibili a una sorta di «effetto vacanza», in cui i livelli
di stress sono ridotti al minimo e i geni che di solito intervengono in caso di
stress e di attacchi al sistema immunitario sono finalmente in grado di
prendersi una pausa: il corpo, sentendo che tutto va bene, può disattivare tutti
i geni di risposta allo stress. Ma nel gruppo di donne che meditavano si sono
osservati ben altri cambiamenti. Per esempio, si sono registrati un effetto
antinvecchiamento e una soppressione da due a tre volte maggiore di
un’attività genica associata alle infezioni virali e alla guarigione dalle ferite.
Ci sono anche stati cambiamenti benefici nei geni associati al rischio di
Alzheimer. Questi inducono a ipotizzare che sarebbe stato più difficile per le
donne che meditavano contrarre un’infezione virale, e che allo stesso tempo il
loro organismo fosse meno pressato dalla necessità di guarire ferite o riparare
lesioni.
A ogni modo, il risultato forse più sorprendente riscontrato nelle donne che
meditavano è stato un vistoso aumento dell’attività antinvecchiamento della
telomerasi. L’importanza di questo cambiamento è spiegato nell’ultima
edizione del libro di Deepak sulla connessione mente-corpo, Guarirsi da
dentro. Nel 2008 il pioniere della cardiologia Dean Ornish, in team con il
Premio Nobel per la medicina Elizabeth Blackburn, ha fatto una scoperta
epocale, mostrando come le scelte di stile di vita migliorino l’espressione
genica. Uno dei cambiamenti più interessanti riguardava la produzione
dell’enzima telomerasi (vedi). Riassumendo, ogni filamento di DNA è
chiuso, come una frase da un punto, da una struttura detta telomero. Con l’età
questi telomeri si indeboliscono, lasciando che la sequenza genetica si sfilacci
alle estremità.
L’ipotesi, corroborata da numerose ricerche in merito, è che un aumento
della telomerasi, l’enzima che costruisce i telomeri, potrebbe ritardare
significativamente l’invecchiamento. E lo studio di Ornish-Blackburn ha
scoperto che la telomerasi in effetti aumentava nei soggetti che seguivano il
programma di stile di vita sano raccomandato da Ornish.
Lo studio del Chopra Center ha ampliato questi risultati, approfondendo
specificamente la componente mentale-spirituale di un diverso stile di vita. Il
programma di Ornish contempla diverse componenti, tra cui alimentazione,
esercizio fisico e gestione dello stress. Nelle condizioni di quiete e
introspezione sperimentate dalle donne da noi iniziate alla meditazione, la
telomerasi ha iniziato a prolungare la longevità dei cromosomi e delle cellule
che li racchiudono.
In pratica, la riduzione dello stress tipica di una vacanza – le donne che
non meditavano – favorisce lo sviluppo di modelli benefici per la salute. Ma
le partecipanti a cui è stata offerta l’opportunità di praticare una meditazione
profonda ed efficace hanno avuto, come abbiamo visto, più benefici ancora.
Va sottolineato che gli effetti si sono verificati rapidamente, nel giro di pochi
giorni, il che concorda con altri dati scientifici circa la rapidità con cui può
cambiare l’epigenoma.
Morale: non è possibile andare in vacanza tutto l’anno, ma è possibile
meditare tutto l’anno con risultati identici, se non addirittura migliori.
La prossima frontiera: dopo questo interessante studio abbiamo elaborato
un progetto per esplorare la possibilità di indurre cambiamenti ancora più
profondi, perché siamo convinti che la facoltà di scegliere abbia un potenziale
infinito. Abbiamo chiamato questo progetto Self-Directed Biological
Transformation Initiative (SBTI, ovvero Iniziativa di trasformazione
biologica autodiretta). Abbiamo messo insieme una squadra di ricercatori e
medici di altissimo livello di sette grandi istituti di ricerca: l’Università di
Harvard, il Massachusetts General Hospital, la Scripps Clinic, le Università
di San Diego e di Berkeley, la Icahn School of Medicine del Mount Sinai
Hospital e la Duke University. Particolare attenzione è stata riservata ai
benefici per la salute delle tradizionali pratiche ayurvediche. Da oltre duemila
anni l’ayurveda enfatizza l’importanza di equilibrare corpo, mente e ambiente
per massimizzare il potere di ringiovanimento dell’organismo. Il nostro
progetto impiega i più recenti metodi scientifici per testare i benefici di un
approccio ayurvedico olistico che include alimentazione, yoga, meditazione e
massaggi. Anziché perseguire un solo possibile risultato, stiamo puntando su
un metodo sistemico.
L’odierna tecnologia lo permette. Il nostro studio controllato sfrutta
dispositivi indossabili, ovvero sensori mobili che monitorano lo stato di
salute, e attinge da aree specialistiche oggi in vertiginosa espansione:
genomica, biologia cellulare e molecolare, metabolomica, lipidomica,
microbiomica, analisi della telomerasi, biomarcatori dell’infiammazione e
dell’Alzheimer. (Il progetto comporta inoltre valutazioni personali degli
effetti psicologici del soggiorno al Chopra Center.)
Tecnicismi a parte, per quanto ne sappiamo questo è il primo studio clinico
che si avvale di un approccio sistemico allo stile di vita, e specificamente
dell’ayurveda. Se la ricerca medica tradizionale tenta di sviluppare e
convalidare nuovi farmaci mirati a precise malattie, noi crediamo che,
parallelamente, sia necessario perseguire la strada del cambiamento di stile di
vita, per tutte le ragioni esposte in questo libro. Per essere davvero concreto,
il benessere profondo deve fare un salto di qualità e fornire dati
scientificamente validi, come sta facendo attualmente il nostro progetto.
Cambiamenti a livello cerebrale: a rifletterci bene, ciò che stiamo
scoprendo è davvero sorprendente, ovvero la capacità della mente di
trasformare il corpo, e per di più in tempi brevi e con il minimo sforzo. La
mente può persino portare alla generazione di nuove cellule cerebrali. Già
dagli anni Settanta numerosi studi avevano mostrato che durante la
meditazione avviene qualcosa nel cervello, il che conferma l’esperienza
soggettiva di maggiore calma e rilassamento di chi la pratica abitualmente.
Ma nell’ultimo decennio la ricerca ha iniziato a mostrare che la meditazione
può addirittura causare cambiamenti strutturali duraturi, soprattutto nelle aree
del cervello associate alla memoria. Vi è un aumento di consapevolezza di sé
e di empatia verso gli altri, nonché una riduzione dei livelli di stress. Una più
intensa attività cerebrale inizia a manifestarsi, nei soggetti che praticano la
meditazione mindfulness, dopo sole otto settimane. Un team guidato da
ricercatori di Harvard presso il Massachusetts General Hospital ha riferito
questo dato nel primo studio dedicato a documentare i cambiamenti indotti
dalla meditazione nella materia grigia cerebrale.
Ciò che rende tanto importante questa scoperta è il fatto che collega le
sensazioni che le persone provano quando meditano e la loro fisiologia, cioè
il genere di prova richiesto dalle neuroscienze. La vecchia idea era che chi
meditava riferisse ogni sorta di benefici mentali e psicologici quando in realtà
non faceva altro che entrare in uno stato di profondo rilassamento. Nello
studio di Harvard, invece, il cervello dei sedici partecipanti è stato sottoposto
a imaging a risonanza magnetica (MRI) due settimane prima dello studio e
subito dopo la sua conclusione. Già sapevamo che durante la meditazione si
registra un aumento di onde alfa nel cervello associate a uno stato di
profondo rilassamento. Ma le risonanze hanno mostrato qualcosa di ben più
permanente: una materia grigia più densa (cioè più cellule nervose e più
connessioni) in determinate aree, come l’ippocampo, cruciali per
l’apprendimento e la memoria, e in altre associate alla consapevolezza di sé,
alla riflessione e alla compassione.
Un altro studio ha confrontato un gruppo di persone che meditavano da
tempo a un gruppo di controllo, e ha scoperto che le prime avevano volumi di
materia grigia maggiori in aree del cervello superiore (corteccia cerebrale)
associate alla regolazione emotiva e al controllo della risposta. E un celebre
studio condotto su alcuni monaci buddisti tibetani ha mostrato attività
nell’area del cervello associata alla compassione.
La perdita di materia grigia (cellule cerebrali) e delle relative connessioni è
un aspetto dell’invecchiamento, ma pare che questa perdita non sia
inevitabile. Alcuni anziani sembrano essere geneticamente protetti dal
declino della memoria e dal deterioramento delle cellule cerebrali, ma
mediamente solo il 10% di quanti ritengono di essere dotati di una memoria
superiore lo sono veramente, in base agli standard stabiliti per uno studio di
questi «super anziani». Tuttavia, abbiamo molto da imparare da questi
anziani. Scoprire che cosa li renda così diversi, confrontando prima di tutto i
loro cervelli con quelli di soggetti di controllo più giovani e di anziani
«normali», è un ambito di ricerca che si preannuncia molto promettente.
Dalla teoria alla pratica
Le teorie scientifiche sono imprescindibili, ma non bastano a motivare le
persone. Dobbiamo dunque tornare alla questione fondamentale
dell’osservanza. Noi siamo convinti che dal successo nasca altro successo.
Siate dunque vigili a intercettare cambiamenti positivi nella vostra vita
esteriore, oltre che interiore. La scienza ci dice che le sensazioni sono un
indicatore affidabile del fatto che nel cervello si stanno davvero verificando
dei cambiamenti. Inoltre, l’input positivo di sperimentare un successo
incrementa il ciclo di feedback mente-corpo.
Per il momento il legame con il successo esteriore, spesso riferito da quanti
intraprendono un’assidua pratica di meditazione, attende ancora la conferma
di studi scientifici. Sarete voi a valutarlo. L’obiettivo è vedere se la vostra
vita esteriore inizia a mostrare dei miglioramenti spiegabili solo grazie alla
meditazione. Nessuno è in grado di giudicare questo, se non voi. Forse siete
convinti, e neanche tanto segretamente, che la meditazione renda più deboli,
meno motivati, meno competitivi, ma sappiate che è vero il contrario.
Ma di quali cambiamenti stiamo parlando? Eccone un elenco.

CHE COSA STA FACENDO LA MEDITAZIONE PER IL MIO SUCCESSO


Dopo una-due settimane da quando avete iniziato a meditare, annotate a
parte i risultati che cominciate a notare tra quelli indicati di seguito.

Prendo decisioni migliori.


Mi sento più tranquillo, meno ansioso nel prendere una decisione.
Il lavoro mi dà meno problemi.
Mi sento più a mio agio.
È migliorata la mia autoconsapevolezza.
Sono più attento e concentrato.
La mia mente è meno distratta da pensieri molesti o intrusivi.
Dipendo meno dall’approvazione altrui.
Ho idee migliori.
Ho più energia sul lavoro.
Ho più entusiasmo per quello che faccio.
Sono più ottimista.
Mi riprendo meglio da eventi negativi.
Ho più discernimento nel valutare una situazione.
Lavoro più facilmente con gli altri.
Sono più intuitivo.
Trovo i problemi meno scoraggianti, li vedo più come un’opportunità.
Affronto meglio lo stress.
Sopporto meglio le persone difficili.
Mi sento più in forma.
Mi sento più equilibrato in generale.
Il mio umore è generalmente migliorato.

Studi come quelli condotti da Ornish-Blackburn e dal Chopra Center


confermano che questi benefici hanno una base biologica. Inoltre, emergono
semplicemente dalla decisione di adottare una delle scelte più difficili:
meditare per 20 minuti due volte al giorno. E se anche opterete per una delle
scelte facili come meditare 5-10 minuti in pausa pranzo, inizierete
ugualmente ad avere dei benefici. Per esempio, un maggiore rilassamento e
un riequilibro dell’intero organismo.
Possiamo dunque dare credito alla testimonianza di migliaia di persone che
hanno praticato e praticano la meditazione. Certo, si tratta di un grosso
cambiamento rispetto al modello occidentale. secondo cui successo è
sinonimo di duro lavoro e lotta accanita. Ne siamo consapevoli, ma crediamo
che trarre benefici da una svolta così epocale sia qualcosa che dovete prima
di tutto a voi stessi.
Sonno
Ancora un mistero, ma assolutamente indispensabile

NULLA è cambiato negli ultimi decenni per quanto riguarda la


raccomandazione standard di riposare bene la notte. La scienza medica non
ha ancora deciso a che cosa serva esattamente il sonno, ma attendere che il
mistero si risolva è secondario. Ciò che conta è che privarsi del giusto riposo
danneggia tutto l’organismo. Qualcosa di apparentemente molto lontano dal
sonno come l’obesità vi è in realtà strettamente connessa. È ormai noto che i
due ormoni che regolano l’appetito, grelina e leptina, vengono squilibrati
dalla mancanza di sonno. E quando il cervello non riceve segnali normali
riguardo alla fame ci fa mangiare troppo. Cosa altrettanto importante, il
cervello non riesce più a capire quando siamo sazi.
Per i nostri antenati era più facile rispettare le canoniche otto ore di sonno
per notte. Oggi dormiamo una media di 6,8 ore: meno del minimo
considerato sano, cioè sette ore. Gli anziani dormono meno, ma non perché
abbiano bisogno di meno sonno. Da recenti scoperte è emerso che un piccolo
gruppo di cellule cerebrali nell’ipotalamo agisce da «interruttore del sonno»,
e con l’avanzare dell’età queste cellule diminuiscono. Prima la causa
dell’insonnia negli anziani era ignota. Ora pare sia dovuta a cambiamenti
cerebrali, il che contribuisce a spiegare perché i settantenni dormano in media
un’ora meno dei ventenni.
Ci concentreremo dunque sull’insonnia piuttosto che sul sonno in sé. La
maggior parte delle persone non è affetta da un disturbo clinico del sonno.
Nella tradizione ayurvedica, l’insonnia è dovuta a uno squilibrio della Vata,
uno dei tre dosha, o forze fisiologiche di base. La Vata, che è connessa al
movimento biologico, causa ogni sorta di comportamento inquieto e
anomalo. Quando è squilibrata, l’individuo trova difficile mantenere una
routine nell’alimentazione, nella digestione, nel sonno o nel lavoro. Ha sbalzi
d’umore e stati d’ansia.
Non vi chiediamo di adottare una visione del mondo ayurvedica, ma
riteniamo utile sapere che la Vata collega mente e corpo in modo molto
concreto. Appetito, umore e livelli di energia perdono il loro equilibrio
quando non si dorme abbastanza, perché il sonno è il rimedio naturale per gli
squilibri della Vata.
Ecco un elenco di che cosa toglie equilibrio sia al sonno sia alla Vata.

Cause perturbanti della connessione Vata-sonno

Affaticamento eccessivo
Alimentazione cattiva o irregolare
Ambiente circostante ostile
Ansia e depressione
Dolori e fastidi fisici
Eccitazione e agitazione
Freddo
Preoccupazioni
Restare alzati fino a tardi
Rumore eccessivo
Sofferenza psichica
Stress
Turbamenti emotivi

Alla luce della connessione Vata-sonno, dovreste innanzitutto tornare a


concedervi un buon sonno ristoratore. Passare dalle otto ore canoniche alle
cinque o sei dell’occidentale moderno vuol dire prendere una brutta china. Se
avete un problema di insonnia, sia con difficoltà ad addormentarvi sia con
frequenti risvegli notturni, non ricorrete a pillole. Infatti, non c’è aiuto
farmacologico che possa uguagliare il ristabilimento di un naturale ritmo del
sonno.
Il nostro menu di scelte propone invece di mettere corpo e mente nelle
condizioni idonee ad attivare l’interruttore cerebrale del sonno.

LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):

Parte 1: scelte facili


Parte 2: scelte più difficili
Parte 3: scelte sperimentali
E ricordate: ogni scelta fatta dovrà essere permanente.

SONNO: IL MENU DELLE SCELTE


Annotate a parte da due a cinque cambiamenti che ritenete facile apportare
al vostro attuale stile di vita per quanto riguarda il sonno. Le scelte più
difficili andrebbero introdotte solo dopo avere adottato quelle più facili.

PARTE 1: SCELTE FACILI

Fare in modo che in camera da letto regni il buio assoluto. Se ottenere il


buio totale è impossibile, indossare una mascherina per dormire.
Rendere la camera da letto il più possibile silenziosa. Se ottenere un
silenzio totale non è possibile, mettere i tappi per le orecchie, ottimi
anche contro i rumori di prima mattina.
Assicurarsi che la stanza sia piacevolmente calda e senza correnti d’aria.
Fare un bagno caldo prima di coricarsi.
Bere un bicchiere di latte di mandorle caldo prima di coricarsi, è ricco di
calcio e promuove il rilascio di melatonina, un ormone che serve a
regolare il ciclo sonno-veglia.
Meditare per una decina di minuti seduti sul letto, poi scivolare
nell’abituale posizione di riposo.
Evitare di leggere o guardare la televisione nella mezz’ora prima di
coricarsi.
Fare una passeggiata rilassante prima di andare a dormire.
Prendere un’aspirina un’ora prima di coricarsi per sedare i piccoli dolori
e fastidi che turbano il sonno.
Non bere caffè o tè nella seconda metà della giornata.
Dedicare le ore serali al relax.
Meditare la sera dopo essere rientrati dal lavoro.
Trovare dei modi per scaricare lo stress (vedi).

PARTE 2: SCELTE PIÙ DIFFICILI

Essere regolari nella routine di sonno: coricarsi e alzarsi ogni giorno alla
stessa ora.
Togliere il televisore dalla camera da letto e fare di questa stanza un
luogo consacrato esclusivamente al sonno.
Risolvere con l’aiuto di uno specialista problemi di ansia, apprensione,
depressione.
Non portare a casa il lavoro dall’ufficio (nemmeno col pensiero).
Farsi fare un massaggio dal partner prima di coricarsi.
Non bere alcolici la sera.
Acquistare un materasso più confortevole.

PARTE 3: SCELTE SPERIMENTALI

Sperimentare erbe e tisane che favoriscono il sonno: camomilla,


valeriana, passiflora, luppolo, lavanda (ma attenzione: non si tratta di
rimedi scientificamente provati).
Ricorrere alla terapia cognitiva (vedi).
Rivolgersi a un esperto in disturbi del sonno.
Farsi fare un massaggio all’olio di sesamo (vedi)
Adottare rimedi erboristici ayurvedici per lo squilibrio della Vata (varie
formulazioni da banco sono disponibili on line o nei negozi di alimenti
naturali).
Spiegazione delle scelte
La connessione Vata-sonno mette in relazione la maggior parte delle scelte ai
rimedi convenzionali contro l’insonnia della medicina occidentale. Poche
voci soltanto necessitano di ulteriori spiegazioni. Innanzitutto, i fattori spesso
trascurati che causano insonnia sono la troppa luce o il troppo rumore in
camera da letto, oppure dolori e fastidi che non si notano finché non ci si
corica. Se soffrite del tipo di insonnia caratterizzato da risvegli nel cuore
della notte o la mattina troppo presto, attenti innanzitutto a questi fattori.
La tendenza a dormire meno a mano a mano che si invecchia ha un
collegamento con la Vata, dal momento che secondo l’ayurveda questo dosha
aumenta con l’età. Tuttavia la prudenza insegna a non dare mai per scontato il
sonno, anche se uno non ha mai avuto problemi di insonnia. Seguendo le
nostre raccomandazioni eviterete problemi futuri.
La mancanza di sonno è stata associata all’insorgenza dell’Alzheimer. Più
avanti affronteremo la connessione sonno-Alzheimer (vedi), nella cui
risoluzione Rudy ha avuto un ruolo importante. La mancanza di sonno è
anche associata alla pressione alta, che tende ad aumentare con l’avanzare
dell’età.
Il massaggio è ovviamente molto rilassante, e se avete la fortuna di avere
un partner collaborativo fatevi massaggiare collo e spalle prima di coricarvi.
L’ayurveda consiglia l’abhyanga, un massaggio quotidiano con olio di
sesamo per riequilibrare la Vata. Si tratta di una procedura semplice ma che
richiede buona volontà: scaldate un paio di cucchiai di olio di sesamo puro
(lo trovate nei negozi di prodotti naturali, ma non confondetelo con quello più
scuro usato nella cucina asiatica), sedetevi per terra su un grande
asciugamano e massaggiate delicatamente con l’olio braccia, gambe, torso,
collo. Di olio ne basta un velo, e il momento migliore è la mattina dopo il
bagno o la doccia. L’abhyanga è considerato il rimedio sovrano per la Vata, e
in più è un’ottima prevenzione contro le malattie a questa correlate, come il
raffreddore e l’influenza. Ma per fare questo massaggio abitualmente è
necessaria una buona dose di impegno.
La terapia cognitiva si è rivelata talvolta efficace per chi soffre di insonnia
di lunga data, che quasi sempre provoca danni psicologici. Rivoltarsi nel letto
senza riuscire a prendere sonno è sgradevole e deprimente. L’insonne diventa
sempre più frustrato. Detesta la mancanza di lucidità mentale e di energia che
questo problema inevitabilmente comporta. La terapia cognitiva tenta di
invertire il cattivo pensiero accumulatosi dopo così tante associazioni
negative con l’insonnia. Tra i seguenti schemi mentali e comportamenti,
annotate a parte quelli in cui vi riconscete:

Temo il sopraggiungere della notte, certo che anche questa volta non
riuscirò ad addormentarmi.
Provo avversione per le lenzuola e la camera da letto in generale.
Mi preoccupo di non riuscire a dormire nemmeno un minimo.
Mi rigiro frustrato nel letto.
Sono ossessionato dall’idea di non prendere sonno.
Mi sento una vittima.
Attribuisco la mia insonnia a qualunque contrarietà o seccatura.
Faccio le ore piccole perché tanto so che non riuscirei a dormire.
Mi alzo nel cuore della notte per leggere o guardare la televisione.

Queste abitudini mentali e comportamentali inveterate peggiorano


l’insonnia. Vale dunque la pena di sperimentare alcuni accorgimenti cognitivi
in solitudine prima di cercare l’aiuto di uno psicoterapeuta o di un esperto di
disturbi del sonno. Innanzitutto, un po’ di pensiero positivo, corroborato dalle
più recenti ricerche.

L’insonnia è di solito temporanea e legata allo stress. Svanisce quando


la vita quotidiana diventa meno stressante.
Gli insonni in realtà riescono a dormire a tratti durante la notte, anche
quando dicono di non dormire affatto.
Il sonno della fase REM (movimento rapido degli occhi) può essere
raggiunto abbastanza in fretta, anche durante un breve sonnellino
pomeridiano.
Contrariamente a quanto si riteneva in passato, è possibile recuperare il
deficit di sonno dormendo di più nei fine settimana.
Dopo un breve sonno, il cervello è in grado di rimanere vigile per alcune
ore. Con sole sei ore di sonno si può essere normalmente vigili e attivi
per un po’, prima di risentire del poco riposo.
Concentratevi dunque su questi pensieri positivi, in modo da alleggerire il
fardello di preoccupazioni e non aggravare ulteriormente l’insonnia. Siate
realistici in merito ai problemi reali che vi causano insonnia: non createne
altri nuovi o immaginari. Smettete di sentirvi vittime e di fissarvi sulla vostra
insonnia. Spendete invece le energie che avete per risolvere il problema: per
esempio, mettete per iscritto un elenco di cose che farete in proposito, poi
fatele davvero. Non permettete al vostro partner di alimentare il problema
continuando a tenere la luce accesa quando a voi viene voglia di dormire o
muovendosi troppo nel letto. Se per qualunque motivo non potete dormire
separati, chiedetegli di aiutarvi.
Se prendete l’insonnia come una sfida anziché come una condanna,
cambierete disposizione mentale. Le soluzioni qui suggerite sono tante, e
parecchie persone nella vostra stessa situazione hanno imparato a vincere
l’insonnia. Non c’è motivo per cui non dovreste riuscirci anche voi.
Le ragioni scientifiche per cambiare
L’incapacità della scienza di spiegare sia i meccanismi sia lo scopo del sonno
è ben riassunta da una battuta da facoltà di medicina: «L’unica funzione
accertata del sonno è curare l’insonnia». Finora le ricerche sul sonno si sono
concentrate più sul cervello che sul genoma. Sappiamo che l’attività cerebrale
varia durante il sonno, e alcune scoperte fondamentali, per esempio la
necessità del sonno REM, risalgono ormai a decenni fa. È anche ormai
assodato che il deteriorarsi del sonno normale è indice del fatto che sono in
corso altri fenomeni. Per esempio, le persone che soffrono di depressione
maggiore riferiscono che spesso il primo segnale di malessere è che non
riescono più a riposare bene. Adottando immediatamente rimedi contro il
sonno irregolare, a volte riescono a prevenire l’attacco depressivo.
Inoltre, è ormai chiaro che i ritmi del sonno differiscono da persona a
persona. Secondo la terminologia della ricerca sul sonno esistono le
«allodole» (i mattinieri) e i «gufi» (i nottambuli), e le abitudini di entrambe le
categorie sono impostate a vita. Come ciò avvenga non lo sappiamo ancora, e
questa potrebbe essere una feconda area di ricerca per l’epigenetica, poiché è
attraverso segnali epigenetici che la predisposizione genetica si incrocia con
l’esperienza. È noto che interrompere il naturale ritmo del sonno di un
individuo ha ripercussioni su tutto l’organismo. I lavoratori costretti a fare
turni di notte, per esempio, non si adattano mai del tutto a un ritmo innaturale
di sonno e veglia. Quasi nove milioni di americani fanno il turno di notte o
turni a rotazione, e questi sono a più alto rischio di malattie cardiovascolari,
diabete e obesità. E poiché sono le stesse patologie associate
all’infiammazione, la coincidenza fa riflettere.
Forse la società paga un prezzo anche fissando troppo presto l’inizio delle
lezioni della scuola dell’obbligo. Gli insegnanti statunitensi lamentano che gli
allievi delle scuole medie la mattina presto sono in un tale stato di sonnolenza
che per le prime due ore sostanzialmente dormono. Gli adolescenti hanno
bisogno di dormire più degli adulti, cioè dalle otto alle dieci ore a notte, ma
uno studio ha scoperto che solo il 15% degli adolescenti dorme così tanto; il
40% dorme solo sei ore o anche meno.
Il tipico modello adolescenziale «orari sballati e tardi la sera» porta a
problemi facilmente prevenibili. Per un adolescente, l’ora ideale per andare a
dormire è verso le undici. Di conseguenza, è evidente che la scuola dovrebbe
iniziare più tardi. Negli Stati Uniti i docenti hanno avviato un dibattito
sull’argomento. Almeno un distretto scolastico ha sperimentato l’inizio delle
lezioni differito di un’ora, e ha scoperto che tra gli studenti delle scuole
medie i punteggi dei test aumentavano in modo significativo.
La scienza trarrebbe molti benefici se scoprisse perché effettivamente
abbiamo bisogno di dormire. Il cervello deve forse riposare per un certo
tempo? Mentre dormiamo si resetta o entra in modalità autoriparazione o
genera nuove cellule? Le teorie scientifiche sono molteplici. La famosa teoria
freudiana secondo cui i sogni sarebbero messaggi in codice sullo stato del
nostro inconscio parrebbe non essere più valida, secondo alcune scuole di
pensiero della moderna psichiatria (ovviamente, non mancano resistenze a
questa «revisione» di Freud). La tesi di alcuni è che i sogni e le immagini che
producono siano essenzialmente casuali, ma anche questa è aperta a
congetture.
Allo stato attuale le neuroscienze non sanno ancora superare Shakespeare,
che sul sonno, di cui il colpevole Macbeth non poteva più godere, scrisse
parole memorabili: «Il sonno innocente. […] Il sonno che pettina e ravvia il
filaticcio di seta arruffato delle cure di quaggiù, morte della vita d’ogni
giorno, bagno ristoratore del faticoso affanno, balsamo alla dolente anima
stanca, piatto forte alla mensa della grande Natura, nutrimento principale nel
banchetto della vita».
Senz’altro una piena comprensione del sonno deve avere radici nella nostra
evoluzione. I geni sono dunque cruciali in un modo oggi ancora ignoto.
Deepak è stato coautore di un articolo sul sonno insieme a un esperto, il
dottor Murali Doraiswamy, docente di psichiatria alla Duke University, e
poiché le connessioni genetiche tra sonno umano e animale sono molto
affascinanti abbiamo pensato di riportare qui alcuni dati contenuti in
quell’articolo, anche se non vi aiuteranno concretamente a dormire meglio.
Come fanno notare gli autori, i neonati trascorrono la maggior parte della
loro giornata dormendo, ma per quale motivo? E perché idee e soluzioni
creative a volte ci vengono in mente nel sonno o subito dopo il risveglio?
(«Un problema difficile di notte è spesso risolto la mattina, dopo che il
comitato del sonno ci ha lavorato su», diceva John Steinbeck.) E le piante,
attraversano forse cicli di riposo equivalenti al nostro sonno?
Questi interrogativi hanno ricevuto parziale risposta da un recente studio
sui topi, che ha mostrato come uno dei ruoli del sonno potrebbe essere quello
di eliminare le scorie accumulatesi nel cervello. Se questa fosse l’unica
spiegazione, però, perché avremmo bisogno di trascorrere un terzo della
nostra vita nell’incoscienza? L’evoluzione non poteva sviluppare un sistema
per eliminare le scorie dal cervello mentre siamo svegli, come avviene per le
urine e per le feci?
Consideriamo alcuni fatti che possono aiutarci ad affrontare il mistero del
sonno. Dormire è uno stato in cui la consapevolezza dell’organismo è ridotta
o assente, e in cui si perde l’uso di tutti i muscoli non essenziali (siamo
sostanzialmente paralizzati, incapaci di muovere gli arti). Dalla nascita alla
vecchiaia si verificano cambiamenti eclatanti nella quantità di tempo che
trascorriamo nelle varie fasi del sonno, e nel sonno in generale. I neonati
dormono più di quindici ore, poi il numero cala costantemente fino alle dieci-
undici ore di bambini e adolescenti, otto degli adulti e sei degli anziani, anche
se questi ultimi avrebbero bisogno delle stesse ore di sonno di quand’erano
più giovani.
Anche la quantità di sonno trascorso nella fase REM rispetto a quello
trascorso in quella non REM diminuisce nel corso della vita. I bambini nati
prematuri trascorrono quasi tutto il loro sonno (il 75% circa) in fase REM,
mentre quelli nati a termine vi trascorrono circa otto ore a notte, che
diventano una o due negli adulti. Durante il sonno REM il cervello mostra
un’elevata attività (onde gamma) e un ingente flusso sanguigno, a volte anche
maggiore di quando è sveglio. Secondo gli scienziati, è in questa fase che il
cervello rivive e fissa nella memoria esperienze e ricordi. Resta però il
mistero di che cosa possa sognare un neonato, che trascorre otto ore in fase
REM ma ne ha vissute pochissime di veglia.
La maggior parte delle specie animali studiate sembra dormire. Molti
primati, come le scimmie, dormono come noi, circa dieci ore. I delfini e altri
animali marini sono in grado di dormire con mezzo cervello soltanto (sonno
uniemisferico), sia per proteggersi dai predatori sia perché il sonno totale di
entrambi gli emisferi cerebrali potrebbe causare annegamento. Si discute
ancora se gli uccelli migratori siano o meno in grado di dormire anche
durante il volo (con un occhio aperto, un po’ come gli esseri umani possono
fare un pisolino senza sdraiarsi). Per qualche ragione, almeno in cattività, i
carnivori (come i leoni) hanno bisogno di più sonno degli erbivori (come
elefanti e mucche); non sappiamo se la stessa differenza si riscontri anche
negli esseri umani tra carnivori e vegani!
Da tutti questi dati si evince come il sonno sia programmato nei nostri geni
e nei nostri comportamenti, ma in un’ottica evoluzionista, il sonno sembra
essere un tratto poco utile alla sopravvivenza. Siccome metteva i nostri
antenati (e gli esseri viventi in genere) più a rischio di attacco dei predatori,
evidentemente i benefici dovevano essere superiori ai rischi, ed è questo il
solo elemento su cui gli scienziati riescono a concordare. A differenza degli
esseri umani, certi animali (come i delfini neonati) possono sopravvivere alla
privazione del sonno anche per due settimane senza mostrare danni apparenti.
Tuttavia, nella maggior parte delle specie, dopo una prolungata privazione del
sonno la temperatura corporea e il metabolismo diventano instabili e alla fine
l’individuo muore. La più lunga sopravvivenza di un essere umano senza
dormire si ritiene sia stata di due settimane circa, ma assai prima di questo
termine insorgono numerosi deficit fisici e mentali; la capacità di guidare, per
esempio, risulta significativamente compromessa dopo una sola notte di
sonno insufficiente.
Infine, il sonno influisce parecchio sull’umore. Stranamente, la privazione
di sonno può rendere euforici e talora sovraeccitati come nella fase maniacale
del disturbo bipolare. Nei decenni passati gli psichiatri hanno anche tentato di
sfruttare questo fenomeno per curare la depressione (una strategia che appare
maldestra, oggi che sappiamo del nesso tra depressione e insonnia). Sono
molte le idee sbocciate in sogno, tra cui, per esempio, la melodia di Yesterday
dei Beatles (Paul McCartney), la struttura del carbonio e del benzene, che
fino ad allora era stata un enigma per i chimici (August Kekulé) e la
macchina da cucire (Elias Howe). A dire il vero anche la scoperta
dell’acetilcolina, una sostanza chimica che regola molti aspetti della fase del
sonno in cui sogniamo, fu rivelata in sogno a Otto Loewi in due notti
consecutive del 1921, come raccontò lui stesso. La prima notte si svegliò e
scarabocchiò sul suo diario alcune note che la mattina seguente, ahimè, non
fu più in grado di decifrare. La seconda notte ebbe la fortuna di rifare lo
stesso sogno e se lo annotò in modo più leggibile. Il successivo esperimento
basato su quei sogni fruttò a Loewi il Premio Nobel. Anche Rudy è stato
aiutato da una serie di sogni basati su fotografie storiche appese vicino al suo
laboratorio a scoprire uno dei geni responsabili dell’Alzheimer.
L’esperienza ci induce dunque a concordare con la semplice conclusione di
Shakespeare che il sonno «ravvia il filaticcio di seta arruffato delle cure di
quaggiù». Senza una maggiore conoscenza della stessa consapevolezza
umana, infatti, tutte le teorie sul sonno sprofondano in quelle stesse tenebre
che ci inghiottono ogni volta che ci addormentiamo.
Dalla teoria alla pratica
A questo punto, di fronte alla prospettiva di mettere in pratica le teorie
scientifiche sul sonno, potreste obiettare: «Quali teorie scientifiche?» Ma i
dati sulla privazione di sonno sono tali e tanti da persuaderci della necessità
assoluta di riposare bene a tutte le età, se vogliamo evitare conseguenze
deleterie per la nostra salute fisica e psichica. Non dobbiamo credere di
essere ormai abituati e di stare bene con meno di sette ore di sonno per notte,
perché solo una minima parte della popolazione adulta rientra in questa
categoria.
E le connessioni genetiche? Sappiamo che il ritmo quotidiano, o
circadiano, del sonno è mantenuto da «geni orologio» che operano in base a
sofisticati cicli di feedback. Un’intera rete di questi geni presenta attività
ritmica, anche se, ancora una volta, non sappiamo come tale attività si
verifichi. Alcune varianti dei geni orologio sono state associate al nostro
essere mattinieri o nottambuli. Finora i tentativi di correlare disturbi del
sonno e disordini neuropsichiatrici hanno portato all’identificazione di
mutazioni genetiche nei geni orologio associate a rari disturbi del sonno.
Si è inoltre osservato che l’epigenetica regola i ritmi circadiani e potrebbe
essere strettamente connessa ai disturbi del sonno. Dal momento che le
interruzioni del ritmo del sonno sono state correlate a numerose patologie, tra
cui Alzheimer, diabete, obesità, cardiopatie, patologie autoimmuni e alcuni
tipi di tumore, è tassativo esplorare ulteriormente le connessioni epigenetiche
alla regolazione del sonno.
Progressi in questo campo sono già in corso. Uno specifico gene orologio,
detto CLK (clock), funge da principale regolatore del nostro ciclo del sonno,
attivando o disattivando epigeneticamente altri geni del ritmo circadiano. Il
fatto è che centinaia di geni seguono un ciclo di ventiquattro ore di attività
variabili, e molti di questi influenzano il nostro ciclo del sonno, quindi la
nostra salute. Poiché è stato ormai dimostrato che l’epigenetica modifica le
attività di questi geni, una serie di cambiamenti nello stile di vita che
influenzino la nostra epigenetica potrebbero influenzare anche il nostro ciclo
del sonno.
È molto importante capire quali stili di vita, esperienze e situazioni ci
permettono di dormire regolarmente o causano insonnia. Su quest’ultima
deve senz’altro influire lo stress. Abbiamo già visto come lo stress sia
determinante nelle modificazioni epigenetiche che conducono alla malattia,
ma qui rischiamo di arenarci in un interrogativo del tipo «prima l’uovo o la
gallina», perché la privazione del sonno crea stress e viceversa. Si impongono
quindi ulteriori ricerche epigenetiche.
Le nostre raccomandazioni su come curare l’insonnia saranno utili anche a
chi non soffre di questo problema, perché migliorano la qualità del sonno.
L’interruttore cerebrale del sonno comanda due attività che sono l’una
l’opposto dell’altra: l’attivazione e il rilassamento. L’attivazione ci tiene
svegli, o ci sveglia se dormiamo. Un forte rumore ci sveglia nel cuore della
notte? Ecco un esempio di attivazione. E così pure una luce forte che ci
colpisce gli occhi o un rubinetto che sgocciola.
Questi stimoli esterni possono essere evitati con qualche accorgimento, ma
c’è il problema sottile dell’attivazione interiore, che è ben più difficile da
gestire. Una preoccupazione ci tiene svegli la notte? Ecco un esempio di
attivazione interiore. Il cervello si rifiuta di darsi pace, di quietarsi e di
smettere di pensare. Alcuni stimoli interiori sono fisici, per esempio quando
una fitta di dolore o il bisogno di svuotare la vescica ci svegliano nel cuore
della notte. Secondo noi in questo caso può essere utile la connessione Vata,
perché l’ayurveda dà per scontato che corpo e mente lavorino insieme, il che
è certamente vero per quanto riguarda il sonno.
Per dirla in termini occidentali, gli stimoli di attivazione inviano troppi
segnali al ciclo di feedback del cervello. Preoccupazione, ansia e depressione
tendono ad autoperpetuarsi. Se non si trova il modo di spezzarne la
ripetitività, gli stessi pensieri tornano in maniera ossessiva, e questo
interrompe il segnale a cui il cervello dovrebbe prestare ascolto, cioè quello
di entrare in modalità sonno. Il consiglio ayurvedico di non stimolare
eccessivamente la mente prima di coricarsi si conferma ottimo, considerata la
nostra fisiologia. Lo stimolo porta all’attivazione. Rendere le nostre serate più
rilassanti non è difficile in circostanze normali, ma l’ansia e la depressione
creano particolari difficoltà. Questo è vero soprattutto quando si è ormai
talmente abituati a preoccuparsi o a pensare negativo che l’interruttore
cerebrale del sonno è stato, per così dire, esautorato.
L’opposto dell’attivazione è il rilassamento, un’attività a cui l’uomo
contemporaneo riserva una parte marginale della propria giornata. Si rilassa
quando e se gli rimane del tempo dopo il lavoro, anziché fare del
rilassamento un’attività primaria. Oggi ciò che ci serve è un nuovo modello
di funzionamento di un «super cervello». Che cosa possiamo fare per
contrastare l’attuale tendenza a cercare sempre più stimoli e a privarsi di
effettivo rilassamento?
La versione più credibile di un cervello pienamente integrato è quella
proposta da uno psichiatra e neuroscienziato formatosi ad Harvard e
attualmente alla School of Medicine dell’Università della California a Los
Angeles, il dottor Daniel J. Siegel, che ha dedicato la propria carriera allo
studio della neurobiologia degli stati d’animo e mentali nell’uomo. In Super
Brain avevamo entusiasticamente appoggiato la tesi di Siegel secondo cui il
cervello necessita, durante la giornata, di un intero «menu» di attività. Per
una trattazione approfondita dell’argomento rimandiamo a quelle pagine, qui
invece ci concentreremo su tre opzioni di quel «menu»: tempo interiore,
tempo dell’inattività e tempo del gioco.
Nel capitolo sulla meditazione abbiamo già accennato alla necessità di
concedersi quotidianamente un po’ di tempo interiore, che è il tempo che si
trascorre familiarizzando con la propria interiorità e sperimentando la mente
nel suo stato più calmo, pacifico e profondo. Il tempo dell’inattività è quello
trascorso non pensando al lavoro e ai tanti doveri della vita, ma
semplicemente oziando. Starsene sdraiati su un prato a guardare le nuvole ne
è un esempio ideale. Il tempo del gioco non ha bisogno di spiegazioni, ma
quanti di noi si concedono qualche minuto, durante la giornata, per essere
giocosi, ridere e divertirsi? Secondo le ricerche di Siegel, queste attività
cerebrali così spesso trascurate hanno effetti straordinariamente benefici sui
pazienti che ricorrono alla psicoterapia. Il loro cervello soffre per carenza di
attività assolutamente necessarie a una vita piena e appagante, nonché di
emozioni e stati d’animo normali e indispensabili.
È solo questione di tempo, poi l’iperstimolazione verrà correlata a
modificazioni epigenetiche e stati infiammatori. Ma perché attendere il
benestare della scienza? Iniziate subito a rivedere la vostra vita quotidiana!
Se a fine giornata siete esausti, se vi sentite sfiniti e a pezzi e non avete mai
tempo per rilassarvi, o se da un pezzo non ridete più di gusto né riuscite più
ad apprezzare le semplici gioie della vita, non trascurate questi segnali. Il
sonno continua a custodire i suoi misteri, ma i benefici del rilassamento e i
rischi dell’iperstimolazione sono palesi. Se smettiamo di iperattivare il nostro
cervello, questo tornerà al suo naturale equilibrio, e anche il nostro riposo
non potrà che migliorare.
Emozioni
Come trovare un appagamento più profondo

LE emozioni sono un argomento sconfinato, ma un’affermazione vale per tutti


gli esseri umani: lo stato emotivo più desiderabile è la felicità. E benché si
tratti di uno stato mentale, il corpo risente profondamente dei nostri stati
emotivi. Sofisticati messaggi chimici comunicano a ogni cellula come ci
sentiamo. A suo modo una cellula può essere felice o triste, serena o inquieta,
gioiosa o disperata. Il super genoma lo conferma ampiamente. Quando il
nostro stomaco si chiude per la rabbia o l’intestino si blocca per la paura è
perché i visceri, il nostro secondo cervello, prestano ascolto alle nostre
emozioni. E quando la depressione colpisce più generazioni di una stessa
famiglia, i segnali epigenetici hanno probabilmente un ruolo chiave. Secondo
la maggior parte dei sondaggi, l’80% circa degli intervistati dice di essere
felice, ma altre ricerche indicano che nella migliore delle ipotesi solo il 30%
delle persone lo è davvero, mentre i tassi di depressione, ansia e stress
continuano a salire.
È altamente improbabile che verrà mai scoperto un gene della felicità. La
genetica moderna ci dice che in malattie complesse come il cancro sono
probabilmente centinaia le mutazioni genetiche coinvolte. E le emozioni sono
ben più complesse di qualunque malattia.
A ogni modo, a noi non serve scoprire il gene della felicità. Ci occorre dare
più input positivi possibile al super genoma, confidando che poi produca
output positivi. Forse la scienza avrà bisogno ancora di secoli per correlare la
complessa attività genica che produce la felicità. Nel frattempo, il super
genoma mette già in correlazione tutti gli input che la vita ci dona.
Mettiamo ora a confronto alcuni esempi di input positivi che promuovono
un’attività genica benefica con altri negativi che viceversa la ostacolano.
Alcune delle voci che seguono vi saranno ormai familiari, ma è utile vederle
riunite in un unico elenco.

Input che rinforzano la felicità

Meditazione
Amore e affetto
Un lavoro soddisfacente
Sbocchi creativi
Uno o più hobby
Successo
Essere apprezzati
Essere altruisti
Cibo, acqua, aria sani
Obiettivi a lungo termine
Forma fisica
Routine regolare senza stress

Una vita ricca di questi elementi non può che essere felice. Viceversa,
vanno evitati quelli che il super genoma interpreta come negativi.

Input che impediscono la felicità

Stress
Relazioni «tossiche»
Un lavoro noioso e insoddisfacente
Essere ignorati o sottovalutati
Distrazioni continue durante la giornata
Abitudini sedentarie
Convinzioni negative e pessimismo
Alcol, tabacco e droghe
Mangiare quando si è sazi
Alimenti lavorati e cibo spazzatura
Malattie fisiche, specie se dolorose
Ansia e preoccupazione
Depressione
Amici infelici

Questi due versanti antitetici dell’esperienza umana competono


costantemente per attirare la nostra attenzione, e senza dubbio per la maggior
parte di noi le cicatrici delle esperienze negative sono difficili da guarire.
Gli input positivi senz’altro aiutano: per esempio, se da piccoli non siamo
stati amati, esserlo da adulti fa una grande differenza. Ma la felicità non sarà
mai il risultato dell’ingegneria genetica. Finché non arriveremo alla terza
parte di questo libro, che tratta consapevolezza e genoma, il mistero delle
emozioni resterà tale. A ogni modo, le scelte di stile di vita qui proposte sono
tutte valide, questo è certo. Tuttavia l’argomento ci condurrà più lontano.

LEGGERE IL MENU
Come in ogni sezione sulle scelte di stile di vita, il menu è diviso in tre
parti, a seconda del livello di difficoltà e di provata efficacia (vedi per la
descrizione di ciascuna parte):

Parte 1: scelte facili


Parte 2: scelte più difficili
Parte 3: scelte sperimentali

E ricordate: ogni scelta fatta dovrà essere permanente.

EMOZIONI: IL MENU DELLE SCELTE


Annotate a parte da due a cinque cambiamenti che ritenete facile apportare
al vostro attuale stile di vita per quanto riguarda le emozioni. Le scelte più
difficili andrebbero introdotte solo dopo avere adottato le più facili.

PARTE 1: SCELTE FACILI

Annotare cinque cose che rendono felici. Da domani, farne


consapevolmente una ogni giorno.
Esprimere ogni giorno gratitudine per una cosa.
Esprimere ogni giorno apprezzamento per una persona.
Trascorrere più tempo con persone felici.
Stabilire la regola che durante i pasti si parla solo di buone notizie.
Prima di addormentarsi, rievocare mentalmente le cose buone accadute
durante la giornata.
Riservare una sera alla settimana completamente per sé e per il proprio
partner.
Fare una cosa alla settimana che per qualcun altro rappresenti un
momento di felicità.
Rendere creativo il tempo libero: c’è un mondo là fuori oltre alla
televisione e a Internet.
PARTE 2: SCELTE PIÙ DIFFICILI

Prefiggersi un obiettivo valido a lungo termine – meglio ancora se per


tutta la vita (vedi) – e perseguirlo.
Trovare qualcosa a cui appassionarsi.
Ridurre l’esposizione alle cattive notizie dei media; accontentarsi di
ascoltare un telegiornale o di leggere un approfondimento on line.
Consultare ogni giorno il precedente elenco degli input positivi e
negativi.
Ogni volta che una situazione rende infelici, uscirne il più rapidamente
possibile.
Non scaricare la propria negatività sugli altri; cercare invece empatia e
compassione.
Fare una cosa al giorno che per qualcun altro rappresenti un momento di
felicità.
Imparare a gestire le cose negative dopo essersi calmati, non mentre si è
arrabbiati o ansiosi.

PARTE 3: SCELTE SPERIMENTALI

Mettere per iscritto la propria idea di vita felice.


Individuare un’abitudine autolesionista ed elaborare per iscritto un
progetto per liberarsene.
Ritornare con la mente ai tempi in cui si era più felici e imparare da
allora.
Prefiggersi di migliorare la propria intelligenza emotiva (vedi).
Spiegazione delle scelte
Il benessere dipende dalla felicità, ma molti non si rendono conto di questo
nesso e non si prendono cura a sufficienza del proprio stato emotivo.
Recentemente da Deepak si è presentata una signora sulla cinquantina che
insisteva nel dire che era attentissima all’alimentazione, faceva regolarmente
esercizio fisico ed era un’imprenditrice di successo che amava il suo lavoro,
suo marito e la sua famiglia. Allora perché era tormentata da fastidi e dolori,
soffriva di insonnia ed era sempre stanca e leggermente depressa?
Ci è voluta mezz’ora per passare in rassegna tutti gli aspetti del suo stile di
vita, dopodiché Deepak le ha rivolto una semplice domanda riguardo al
sonno. Era evidente che la causa di quasi tutti i suoi problemi era il fatto che
dormisse solo sei ore per notte.
«Finora cos’ha fatto per migliorare il suo sonno?» le ha chiesto.
«A dire il vero, niente…» ha risposto la donna, che aveva già rivelato che
il marito russava, alle prime luci dell’alba il loro cane saltava sul letto e il
minimo rumore esterno la svegliava. Al che Deepak ha proposto alcuni
semplici rimedi, ma la donna lo ascoltava a malapena.
«Aspetti un attimo», le ha detto allora Deepak. «Lei pensa che prendersi
cura di se stessa sia importante?»
La donna ha chinato il capo. «In questo campo non sono un granché…»
«Ma lei è meticolosa su tante cose. L’alimentazione, per esempio…»
La donna ha assunto un’espressione ancora più colpevole. «Lo faccio per i
miei famigliari. Se non fosse per me, mangerebbero qualunque porcheria.»
Ora il quadro era chiaro. Quella donna si faceva carico del benessere di
tutti, ma non del proprio. Sacrificarsi faceva parte della sua personale idea di
felicità. Dimenticava se stessa e si caricava di uno stress inverosimile, perché
questo rientrava nella sua idea di buona moglie e buona madre.
La soluzione a breve termine era aiutarla a risolvere l’insonnia, mentre
quella a lungo termine era più complessa: doveva rieducarsi a credere
all’importanza della sua felicità. Aveva permesso che il suo stato emotivo
andasse alla deriva, e così aveva perso il contatto con il suo benessere. La sua
felicità di coppia, il suo successo professionale e anche il suo stile di vita
tanto attento ne venivano inficiati.
Molti di noi sopportano una grande quantità di disagio senza nemmeno
tentare di apportare alla propria vita le opportune modifiche. Ecco perché le
nostre scelte facili sono fondamentalmente incentrate sulla presa di coscienza
di quali cose rendono felici, e sul pensare concretamente ogni giorno a cose
specifiche. Tutti abbiamo bisogno di sperimentare, per esempio, che cosa si
prova ad apprezzare un’altra persona. L’apprezzamento, come l’amore, non è
qualcosa di teorico. La sensazione deve registrarsi concretamente nel
cervello: solo quando questo accade il ciclo di feedback mente-corpo ha
qualcosa di reale da elaborare.
Ripensare per qualche minuto prima di addormentarsi alle cose belle
accadute durante la giornata rinforza le esperienze positive. Ricordandole
consapevolmente rieduchiamo il nostro cervello. È una sorta di filtraggio:
dobbiamo selezionare solo le cose che vogliamo rinforzare ed eliminare
quelle mediocri, irrilevanti o negative. Quando questo atteggiamento
diventerà un’abitudine, assisteremo a un vera svolta nella nostra realtà
personale. Sarà stupefacente constatare quante cose avevamo trascurato o
dato per scontate per anni. La vita non è bella di per sé, bisogna renderla tale
reagendo bene ai suoi eventi.
Nelle scelte più difficili chiediamo di andare più in profondità, di
analizzare ciò che rende veramente felici «dentro». Tutti siamo sottoposti a
un autentico lavaggio del cervello da parte dei media, i quali tentano di
convincerci che il consumismo porta alla felicità, ma riceviamo pochissimi
messaggi che vadano nella direzione giusta, cioè verso la felicità come stato
interiore. Ecco un’altra ragione per fare scelte consapevoli: nessuno le farà
per noi. Solo noi potremo emanciparci dal continuo flusso di notizie che ci
inonda di negatività tutto il giorno. E solo noi possiamo trovare qualcosa a
cui appassionarci davvero.
Senza rendercene conto abbiamo ingombrato la nostra mente con anni e
anni di esperienze che hanno depositato ricordi di tragedie, disastri, delusioni,
frustrazioni. Nella tradizione vedica, l’antica tradizione sapienziale indiana,
questi ricordi risiedono nel chit akasha (letteralmente, «spazio mentale»), ed
è nel nostro chit («consapevolezza») che costruiamo il nostro sé. Non vi è
alcun compartimento separato per pensieri, ricordi ed esperienze obiettivi,
impersonali e quindi disinteressati.
Come una duna di sabbia che raccoglie miliardi di granelli, i venti della
nostra vita hanno depositato particelle di esperienza nel chit akasha, dove
sono diventate parte di noi. Ma una duna di sabbia non ha altra scelta se non
quella di essere un deposito passivo di qualunque cosa le venga soffiata
contro. Noi, invece, possiamo scegliere di non esporci a esperienze che
costituiscono input negativi.
Obiettivi validi. Per quanto riguarda la quotidianità, la scelta più
importante del menu è probabilmente la raccomandazione di consultare gli
elenchi degli input positivi e di quelli negativi. Ricordare a se stessi di
massimizzare i primi e minimizzare i secondi può fare miracoli. Tuttavia, noi
attribuiamo grande importanza a una felicità destinata a durare tutta la vita, e
questa dipende soprattutto dal prefiggersi un obiettivo valido a lungo termine.
Un piacere momentaneo non può competere con l’appagamento che procura
raggiungere un obiettivo per cui ci siamo impegnati per anni, dove ogni passo
del cammino aggiungeva più senso e scopo alla nostra esistenza.
Quale sarà il vostro valido obiettivo a lungo termine? È una decisione
davvero unica e inestimabile. Per alcuni di noi è profondamente appagante
crescere un figlio e farne un adulto realizzato, per altri lo è darsi con passione
al volontariato. Tuttavia ci sono anche obiettivi spirituali, come raggiungere
stati di consapevolezza superiore, o pragmatici, per esempio dare vita a
un’impresa a conduzione famigliare. Non è detto che dobbiate decidere una
volta per tutte. Il vostro obiettivo può, anzi deve evolvere. La chiave per
trovare un obiettivo che possa sostenervi a lungo è l’autoconsapevolezza: la
felicità duratura è legata al conoscere se stessi e il proprio ruolo nel mondo.
Nessuno è in grado di essere tutte le cose. In India quell’unico scopo,
peculiarmente nostro e che ci permetterà di essere felici nella vita, è detto
dharma. Il termine deriva da una radice sanscrita che significa «sostenere».
Se siamo nel nostro dharma, l’universo ci sosterrà, o almeno così si crede.
Ma ognuno di noi deve sperimentare personalmente questa teoria.
Gli uomini e le donne di oggi hanno la fortuna di essere liberi di trovare il
proprio scopo; nella tradizione indiana, invece, la scelta era sostanzialmente
limitata al lavoro svolto dai propri genitori. Il principio resta però lo stesso:
cercare l’appagamento interiore e il cammino si appianerà. L’opposto è
attribuire così scarso valore alla propria felicità da accontentarsi di un
mancato appagamento. Chi fa questo non potrà aspettarsi che la vita lo
sostenga più di tanto; l’insoddisfazione non fa che attirare ancora più
insoddisfazione.
Il dharma può essere suddiviso in diverse sfere d’azione. Proviamoci:
pensiamo al nostro obiettivo valido. Per Deepak è il «servizio», termine che
raccoglie molte sfere d’azione minori, specifiche, come devolvere
gratuitamente il proprio tempo, essere attenti ed empatici verso i bisogni
altrui, comportarsi disinteressatamente e così via. Quanto a Rudy,
l’espressione che contiene il suo obiettivo valido è «trasformazione positiva»,
ovvero lasciare questo pianeta in condizioni migliori di come lo si è trovato
venendo al mondo. Scegliete anche voi una sfera d’azione. Eccone alcune da
cui trarre ispirazione:

Amore e compassione per gli altri.


Diffondere la pace e ridurre la violenza.
Studiare per poi divulgare il sapere e contrastare l’ignoranza.
Perseguire la propria creatività.
Proteggere i deboli e i diseredati.
Tutelare e promuovere cultura e tradizioni del proprio Paese.
Esplorare e conoscere un ambito ricco di entrambe le suddette cose.
Essere d’aiuto al prossimo, senza pregiudizi verso nessuno.

Non è difficile trovare un obiettivo valido tra queste categorie. Sceglietelo


senza preoccuparvi che dovrà diventare permanente. Sedetevi e
concentratevi. Fate un respiro profondo, espirate. Un altro, ed espirate.
Ancora uno, ed espirate di nuovo.
Ora siete calmi e concentrati. Pensate all’obiettivo che vorreste
raggiungere. Supponiamo che vogliate essere di aiuto al prossimo. Ponetevi
le seguenti domande:

Sto già perseguendo questo obiettivo, anche se per ora occupa solo una
parte del mio tempo?
Questa attività mi gratifica?
Mi viene facile e naturale?
Mi dà nuove energie, anziché esaurirmi?
Mi fa sentire di più la persona che vorrei essere?
Sono nelle condizioni giuste per perseguirlo?
Sento che mi permetterà di crescere?

Queste sette domande sono fondamentali per trovare la via della felicità,
cioè il vostro dharma. Se avete risposto di sì a tutte, siete esattamente sul
cammino che vi porterà al successo. Avrete ancora tante cose da imparare e
competenze da perfezionare, ma avete compiuto un passo di grande valore,
perché avete fatto del successo una realtà viva, qualcosa che vi permetterà di
essere felici oggi e domani, non in un futuro remoto.
Le ragioni scientifiche per cambiare
La nuova genetica arriva giusto in tempo, perché oggi da un punto di vista
psicologico la felicità è a un bivio. Storicamente, psicologia e psichiatria
hanno tentato di guarire i disturbi mentali, cioè si sono occupate di trovare
rimedio all’infelicità. Ma oggi si sente spesso parlare di psicologia positiva,
un termine che suona decisamente ottimista. In realtà gli esiti più
pubblicizzati della psicologia positiva sono alquanto pessimistici. Eccone
alcuni:

Le persone non sono molto brave a prevedere che cosa potrà renderle
davvero felici. Dopo avere conquistato una maggiore ricchezza, una casa
più bella, un nuovo partner, un lavoro migliore, non sono quasi mai
felici come avevano sperato.
La felicità tende a essere fortuita e di breve durata. Magari ci capita
un’esperienza che per un po’ ci rende felici, ma di lì a poco finisce con
l’apparirci noiosa e superata.
La felicità permanente è una chimera. Se uno è proprio fortunato e nella
vita gli va tutto liscio, potrà al massimo raggiungere una sorta di
appagamento permanente, che però è ben diverso da una felicità
permanente.
Dentro ognuno di noi c’è un livello stabile e predeterminato di felicità
che possiamo modificare solo temporaneamente. Dopo ogni esperienza
intensa, positiva o negativa, nel giro di sei mesi circa torniamo a quel
livello, e di solito è inutile tentare di cambiarlo.

Sono conclusioni scoraggianti, ma fortunatamente provvisorie. La natura


umana è troppo complessa per essere ridotta a un paio di regolette ferree
senza eccezioni. Il merito della psicologia positiva è avere fatto della felicità
un obiettivo perseguibile che possiamo allenarci a raggiungere. Sebbene
dentro di noi ci sia un livello emotivo predeterminato che ci riporta al nostro
stato congenito di felicità o infelicità, si stima che il 40% della felicità di una
persona dipenda dalle scelte che fa.
Secondo noi questa cifra è troppo bassa, perché non tiene conto delle
nuove acquisizioni dell’epigenetica e di come l’esperienza si inscrive nei
nostri geni, per non parlare dell’influsso degli epigenomi dei nostri genitori e
nonni. Inoltre, non conosciamo ancora il modo in cui il microbioma è legato
alla felicità, ma sappiamo che l’intestino, il nostro «secondo cervello», invia
costantemente una quantità enorme di input al cervello.
Abbiamo visto che lo stress può portare a modificazioni epigenetiche
dannose. Anche la paura può apportare cambiamenti della stessa natura al
genoma. Una reazione di paura intensa, talora paralizzante, si verifica quando
un soggetto soffre di una fobia. Non importa quale sia la cosa che induce lo
stato di panico: è la risposta del cervello a creare la fobia. Recenti studi hanno
ipotizzato che la risposta fobica possa essere trattata a livello di attività
genica. Alcuni ricercatori australiani hanno individuato i geni dei mammiferi
che vengono modificati quando un soggetto è sopraffatto dalla paura. Come
nel caso di malattie complesse quali il cancro, il quadro è complicato. Nei
ratti, più di una trentina di geni diversi subiscono modificazioni epigenetiche
in risposta a condizioni ansiogene. Grazie a questi studi e ad altri analoghi, ci
siamo ormai fatti una buona idea dei geni che controllano la risposta alla
paura nell’uomo. Potrebbero essere sfruttati terapeuticamente per alleviare le
fobie? È ancora presto per dirlo.
Ovviamente, anche le emozioni positive, in particolare l’amore, possono
modificare l’attività genica. Nel regno animale molte specie si accoppiano
per tutta la vita, per esempio i lupi, il pesce angelo francese, l’aquila calva e
persino i vermi parassiti intestinali. E anche un piccolo roditore, l’arvicola
della prateria. Studiando proprio questa specie, i ricercatori hanno avuto la
sorpresa di scoprire che quando le arvicole si accoppiano, la loro attività
genica cambia innescando un comportamento monogamo.
Nelle specie che favoriscono un comportamento monogamo, compresa la
nostra, le coppie tendono a mettere su casa insieme e a condividere le
responsabilità genitoriali. Una specifica sostanza neurochimica, l’ossitocina
(comunemente detta ormone dell’amore), è stata associata alla monogamia.
Apparentemente, quando le arvicole della prateria si accoppiano stimolano
l’attività del gene che produce una proteina nel cervello che si innesta sulla
superficie della cellula nervosa e serve da recettore dell’ossitocina. Tali
recettori si legano con sostanze neurochimiche in modo da provocare il loro
effetto sulla cellula. In altre parole, anche se l’ossitocina non aumenta o è
poco disponibile, è più probabile che abbia effetto sui circuiti delle cellule
nervose, ora che esistono più recettori per legarvisi.
Nell’arvicola della prateria l’accoppiamento suscita questi cambiamenti,
alterando l’attività genica. Successivi studi hanno dimostrato che
l’epigenetica ha un ruolo nel comportamento del maschio dell’arvicola della
prateria. In questi studi i geni del recettore dell’ossitocina, e quelli del
recettore di un’altra sostanza neurochimica, la vasopressina, sono stati
entrambi stimolati in modo da produrre più recettori. La vasopressina ha
l’effetto di indurre i maschi delle arvicole a trascorrere più tempo con le loro
compagne e a proteggerle più aggressivamente da altri maschi. Tuttavia,
quando gli stessi geni venivano stimolati artificialmente mediante farmaci, le
arvicole non subivano questi cambiamenti genetici, né diventavano
monogame. I risultati auspicati potevano essere ottenuti artificialmente solo
se agli esemplari dei due sessi era permesso di trascorrere almeno sei ore
insieme nella stessa gabbia prima che venisse loro somministrato il farmaco.
Le implicazioni di questo studio sono profonde: anziché vedere la chimica
cerebrale come una strada a senso unico, con un ormone come l’ossitocina
che detta il comportamento, si scopre che ha bisogno anche del giusto tipo di
comportamento.
Gli animali si accoppiano, gli esseri umani si amano. Per quanto diversi
emotivamente possano essere questi due comportamenti, l’epigenoma svolge
un ruolo fondamentale in entrambi? Nell’arvicola della prateria il gene
recettore dell’ossitocina veniva attivato dalla rimozione dei segnali metilici
dal gene. Questo induce il desiderio di monogamia, e negli esseri umani gli
endocrinologi lo associano ai sentimenti d’amore tra madre e neonato. Per
contro, negli esseri umani i geni recettori dell’ossitocina con troppi segnali
metilici, che li inibiscono, sono associati all’autismo (sono state associate
all’autismo anche mutazioni specifiche del gene recettore dell’ossitocina).
Insomma, l’epigenetica ha un profondo effetto su questo gene, e se l’arvicola
della prateria può offrire indizi sul comportamento umano, l’ossitocina a
quanto pare ci aiuta a tenere un comportamento monogamo.
Chiaramente, negli esseri umani l’accoppiamento a vita non può essere
indotto geneticamente dal semplice fare l’amore. Ma c’è un legame a livello
genetico? Forse prima è necessario conoscersi l’uno con l’altra, come accade
per le arvicole. Molti neuroscienziati accettano ormai l’idea che ossitocina e
vasopressina siano indispensabili agli esseri umani per legarsi tra loro e
provare amore. Certe sostanze neurochimiche stimolano le aree cerebrali
della ricompensa, il che suscita un maggiore desiderio della stessa. Questo
meccanismo è tipico della cocaina, che stimola i recettori della dopamina
innescando una dipendenza.
Ci sono persone che si dicono «dipendenti» dall’amore. A parte l’effetto
chimico diretto dell’ossitocina, quando sentimenti piacevoli vengono
rievocati e desiderati tramite il centro di ricompensa dell’ossitocina, l’amore
può davvero diventare una dipendenza.
Tuttavia il piacere, in ogni sua forma, non può essere paragonato alla
felicità. Mettendo del cibo di fronte a un animale affamato, questo mangerà, e
le scansioni cerebrali mostreranno che nel suo cervello il centro del piacere si
è attivato. Negli esseri umani le risposte emotive complicano la questione: un
bambino capriccioso che si rifiuta di mangiare può essere molto ostinato, al
ristorante c’è chi è estremamente difficile nella scelta dal menu e tutti noi
possiamo rifiutare il cibo a causa del nostro stato d’animo (dolore, rabbia,
preoccupazione, voglia di fare altro, frustrazione eccetera). Le reazioni
umane dipendono sì da messaggi chimici, ma questi sono così tanti che è
difficile trovare una semplice formula chimica per la felicità. Siamo gli unici
esseri viventi che reagiscono a un certo stimolo X in modo imprevedibile. Le
sostanze chimiche cerebrali supportano la mente, non viceversa.
Dalla teoria alla pratica
La felicità è un ramo recentissimo della ricerca genetica, e per ragioni etiche
gli esseri umani non possono essere sottoposti a stati emotivi estremi. Il
nostro menu di scelte si basa sulle migliori conoscenze scientifiche
attualmente disponibili. Introdurre nella vostra vita input positivi è
fondamentale, e per fortuna il vostro stato d’animo migliorerà quando avrete
introdotto tutti gli altri cambiamenti qui suggeriti. Del resto, se uno di questi
non vi farà sentire più felici di quanto eravate prima, non riuscirete a
mantenerlo a lungo.
Ma torniamo al mistero delle emozioni e al fatto che, a differenza degli
animali, a noi non basta il semplice piacere per essere felici. Che cosa ci
vuole, allora? Vent’anni fa andava di moda un particolare tipo di intelligenza,
allora appena scoperta, che non si misurava in termini di QI (quoziente
intellettivo) ma di QE (quoziente emotivo). La scoperta chiave fu che il QI di
un individuo è diverso dalla sua capacità di gestire in maniera intelligente le
emozioni. All’epoca alcuni libri che enfatizzavano l’importanza
dell’intelligenza emotiva ebbero grandissimo successo, tuttavia non esiste
alcuno standard in proposito. Il test più accreditato per misurare l’intelligenza
emotiva venne applicato a centoundici dirigenti d’azienda, ma il risultato non
corrispose affatto all’immagine dei soggetti che avevano i loro dipendenti.
Dunque il nesso tra QE e capacità di leadership, o superiorità in qualunque
campo, non è stato scientificamente accertato.
Da parte nostra riteniamo che possa avere più fortuna il nesso intelligenza
emotiva-felicità. Consideriamo le seguenti caratteristiche emotive positive:

Sette caratteristiche delle persone dotate di un alto QE

1. Hanno un buon controllo degli impulsi.


2. Sopportano bene la gratificazione differita.
3. Hanno elevate capacità empatiche.
4. Non si vergognano delle proprie emozioni.
5. Sanno come funzionano e dove conducono le emozioni.
6. Vivono in modo istintivo, non troppo cerebrale.
7. Sanno trovare le persone giuste che appaghino le loro esigenze emotive.

Appropriarsi di queste caratteristiche permetterebbe di elaborare le proprie


esperienze in modo più felice, perché in ultima analisi è questo che conta. È
possibile elaborare qualunque evento – la nascita di un figlio, una vincita alla
lotteria, il trasloco in una nuova casa – e farne una fonte di felicità o di
infelicità. Le emozioni non seguono regole, ecco perché siamo creativi ma
anche imprevedibili. È però necessario acquisire una certa dimestichezza con
le proprie emozioni. A nostro avviso è questo il grande valore
dell’intelligenza emotiva.
Vediamo insieme come ciascuna caratteristica delle persone dotate di un
alto QE potrebbe servire alla nostra vita.
1. Controllo degli impulsi
Il consumismo crollerebbe da un giorno all’altro se la gente smettesse di agire
d’impulso. Sono infatti scelte impulsive, non ponderate, quelle che ci
spingono, per esempio, a entrare in un fast-food anziché consumare un pasto
cucinato in casa, pur sapendo quanto quest’ultimo sia più sano e appagante. È
d’impulso che mangiamo, beviamo e spendiamo troppo. Come qualunque
altra cosa che il cervello si è allenato a fare ripetutamente, anche l’impulsività
diventa un’abitudine e, una volta radicata, è molto difficile da estirpare.
La causa del comportamento impulsivo è la mancanza di controllo. La
maggior parte degli errori dettati dall’impulsività non è irreparabile, e a tutti
noi piace perdere il controllo di tanto in tanto. Talvolta però mollare la presa
significa lasciarsi dominare dai propri impulsi. Le lezioni del passato non
sono servite a nulla, se non siamo in grado di applicarle quando proviamo un
impulso irrefrenabile.
Le persone dotate di un alto QE, viceversa, imparano dal passato, quindi
sanno che un comportamento impulsivo è perlopiù autolesionista. Non
dimenticano quanto ci si sente male dopo avere esagerato con l’alcol, con il
cibo o con acquisti incauti. Sono orgogliosi di avere una memoria emotiva,
cosa che alla maggior parte della gente invece non interessa costruire. La
memoria degli impulsivi è piena di decisioni incaute che preferiscono
dimenticare, mentre quella di chi ha un alto QE è affollata di scelte oculate, le
quali rinforzano la loro capacità di fare ulteriori scelte oculate.
Che cosa fare, dunque? Cercate di differire i vostri impulsi. Ogni volta che
ne avete uno, imparate a riconoscerlo e ad aspettare cinque minuti prima di
agire. Se questo non basta, prendete un foglio e annotate i pro e i contro di
ciò che intendete fare, in particolare il modo in cui vi siete sentiti il mattino
dopo avere ceduto all’ultimo impulso.
2. Gratificazione differita
Spesso sentiamo gli anziani criticare i giovani che cercano una gratificazione
immediata, ma in realtà questa non è sempre un male: tutto sta nel saper
distinguere quali piaceri vanno differiti e quali invece possono essere goduti
subito. Per esempio, è gratificante andarsene a vivere per conto proprio in
giovane età e mantenersi da soli. Frequentare un’università, invece,
soprattutto se nella propria città, rimanda di anni questa gratificazione e costa
parecchio, in tutti i sensi. D’altro canto, la società facilita questa scelta con la
promessa di una posizione e di un reddito più elevati dopo la laurea.
Come già accennato, è soprattutto nelle piccole scelte quotidiane che
fatichiamo a rinunciare alla gratificazione immediata. Ecco perché ci
ritroviamo a fare tutta una serie di cose che non dovremmo fare, per esempio:

Mangiare fuori pasto.


Esagerare con l’alcol.
Mangiucchiare guardando la televisione.
Poltrire in casa anziché fare attività fisica.
Entrare nei fast-food.
Eccedere con gli zuccheri.
Trascorrere ore su Internet anziché incontrare persone vere.
Dire cose di cui poi ci pentiremo.
Uscire con la prima persona che capita anziché cercarne una che valga
davvero la pena.

Come per il controllo degli impulsi, le persone con un alto QE non cercano
la gratificazione immediata. E non per motivazioni esclusivamente razionali,
o almeno non del tutto. Sentono che è meglio per loro rimandare il piacere al
momento opportuno, e lo rimandano. Sono abbastanza flessibili da non
sentire il bisogno di stabilire regole ferree. La flessibilità è un’altra
caratteristica di chi ha un QE elevato. Di fronte a una tentazione passeggera,
queste persone non dicono: «Cederò solo stavolta. Che c’è di male?» che è
una pura e semplice razionalizzazione. Dicono piuttosto: «È davvero questa
la cosa giusta da fare? Aspetta un attimo, vediamo…»
Che cosa fare, dunque? Analizzate la vostra vita in maniera obiettiva e
chiedetevi se vi create problemi cercando gratificazioni immediate. Buttate i
vostri soldi in acquisti inutili? Il vostro armadio è pieno di vestiti mai
indossati? Gli acquisti impulsivi stanno erodendo il vostro conto in banca?
Avete la dispensa piena di prodotti che non consumate?
Se constatate di avere un problema, affrontatelo gratificandovi in un altro
modo. Quando per esempio siete tentati dall’ennesimo paio di scarpe, o da un
attrezzo ginnico all’ultima moda che finirà soltanto per prendere polvere,
prendete carta e penna e annotate qualcosa di meno immediato ma che potrà
darvi ancora più piacere. Anziché acquistare le scarpe potreste risparmiare
per una vacanza. Invece di comprare quel costoso attrezzo potreste iscrivervi
a un corso di tennis. Prefigurando una gratificazione differita, quella
immediata perde attrattiva.
3. Capacità empatiche
Percepire lo stato d’animo altrui viene spontaneo. È una capacità che
abbiamo tutti fin dall’infanzia, quando il nostro stato d’animo dipendeva
fortemente, se non esclusivamente, da quello di nostra madre. La famiglia è il
contesto in cui tutti apprendiamo i capisaldi dell’educazione emotiva, e alcuni
bambini sono più fortunati di altri, perché non imparano quelle cattive
abitudini che vanno poi disimparate.
Se non riuscite facilmente a capire ciò che provano gli altri, probabilmente
da qualche parte lungo il vostro percorso esistenziale questa capacità innata si
è come bloccata. O magari avete avuto un modello che non ha saputo
motivarvi nella direzione giusta, per esempio un padre assente e distaccato.
Oppure avete maturato la convinzione che le emozioni non sono un aspetto
positivo della vita. In ogni caso, non sapete più immedesimarvi nel prossimo.
Le persone con un elevato QE capiscono subito cosa provano gli altri. Un
buon medico, per esempio, è capace di mettere i pazienti a proprio agio, e un
venditore di attrarre clienti perché tiene in considerazione le loro esigenze.
Nessuno di noi si fa granché ingannare dalla falsità e dall’ipocrisia, perché
abbiamo antenne emotive sensibilissime. E chi ha un alto QE trova
particolarmente facile leggere nell’intimo del prossimo e capire, al di là delle
parole, ciò che prova realmente.
Che cosa fare, dunque? Entrare in empatia con il prossimo è qualcosa che
si deve volere. Con le persone che amiamo è facile; quando i nostri figli
soffrono, anche noi soffriamo. Anche con chi ci piace è abbastanza semplice.
Dunque, sapendo di custodire in noi il seme dell’empatia, possiamo scegliere
di farlo sbocciare.
Provate ad ascoltare un estraneo o un collega come se fossero amici.
Notate la loro reazione, e calibrate la vostra di conseguenza. Se entrare in
empatia con il prossimo vi mette a disagio, da qualche parte dentro di voi c’è
resistenza. Forse temete che i problemi degli altri vi carichino di
responsabilità. Potreste sentirvi in dovere di aiutarli o di preoccuparvi per
loro.
L’intelligenza emotiva sta proprio nell’accettare questi ostacoli e saperli
gestire. Aiutare gli altri è bello, ma non è detto che si debba aiutare tutti. È
empatico stare ad ascoltare la storia di un’altra persona, ma non troppe volte.
Appena inizierete a fare queste distinzioni, vi accorgerete che l’empatia è un
dono meraviglioso, non qualcosa da cui rifuggire o di cui preoccuparsi. C’è
una giusta via di mezzo tra un cuore troppo tenero e uno troppo duro. Dovete
solo trovare l’equilibrio che funziona per voi.
4. Accettazione emotiva di sé
Essere totalmente aperti alle proprie emozioni è raro. Ognuno di noi desidera
essere visto nella sua luce migliore, quindi nascondiamo le nostre emozioni
negative persino a noi stessi. Ma c’è un’altra forza dentro di noi che si
oppone a questo desiderio, una voce che ci ricorda colpe, vergogne e cattive
azioni. Ripetersi continuamente quanto si è bravi è tanto lontano dalla realtà
quanto dirsi ogni momento che si è cattivi. Le persone con un elevato QE non
temono di confrontarsi con il meglio e con il peggio di se stesse, e di
conseguenza si accettano molto più degli altri.
Considerato quanto ci mettiamo sulla difensiva nei confronti degli aspetti
di noi stessi che ci suscitano colpa e vergogna, accettarci non è facile né
immediato. Amare noi stessi è l’obiettivo da raggiungere. Anche riuscire a
dire: «Merito di essere amato» può risultare molto difficile. Non abbiamo
ricevuto abbastanza amore da bambini, ed è proprio da questo che
acquisiamo il nostro senso del sé.
Bisogna prendere coscienza di due verità. Primo, provare un’emozione che
turba non equivale a metterla in atto. Invece, vergogna e senso di colpa non
vedono alcuna differenza. Vorrebbero punirvi anche solo per avere formulato
un certo pensiero. In realtà i pensieri vanno e vengono, sono fenomeni
transitori, non aspetti del vostro sé profondo.
Secondo, non siete la stessa persona che eravate in passato. Ma vergogna e
senso di colpa lo ignorano: ribadiscono costantemente il messaggio che non
siete cambiati e non cambierete mai. In realtà siete in costante cambiamento.
Sta a voi rafforzare la persona che siete oggi o quella che eravate un tempo.
Le persone con un alto QE acquistano vitalità nell’essere se stesse qui e ora.
Non si trascinano dietro dei sé morti e sepolti nel passato.
Che cosa fare, dunque? Ogni volta che vi coglie una sensazione di colpa o
di vergogna relativa a un accadimento del passato, fermatevi e ditevi: Io non
sono più quella persona. A volte questi pensieri sono ricorrenti e molto
intrusivi. In tal caso cercate un angolo tranquillo e sedetevi. Chiudete gli
occhi, fate un paio di respiri profondi e concentratevi. Non intendiamo
minimizzare il fatto che le ferite del passato possano avere un forte influsso
sul presente. Il punto è rendersi conto di quanto sia sbagliato farsi
condizionare da vecchie ferite per affrontare nuove situazioni. Tenendo a
mente questo, potrete progredire giorno dopo giorno verso l’accettazione di
voi stessi.
Vivere pienamente nel momento presente è il modo migliore per riuscire
ad accettarsi. E viceversa, più ci si accetta, più intenso diverrà il qui e ora.
Fate il possibile affinché la verità intervenga a vostro vantaggio.
5. Consapevolezza delle emozioni
Tutte le azioni hanno delle conseguenze, comprese le emozioni. Per il nostro
cervello, infatti, produrre le sostanze neurochimiche che provocano rabbia,
gioia, paura, fiducia eccetera è un’azione. Tutto il corpo reagisce a questi
messaggi chimici. Le emozioni, quindi, non vanno viste come qualcosa di
passivo. Persino uno stoico che reprime ogni emozione sgradita fa qualcosa
di attivo. In questo libro ci siamo concentrati su scelte olistiche che arrechino
benefici sia alla mente sia al corpo usando come veicolo il super genoma.
Quando ci rendiamo conto che le emozioni negative ci danneggiano, il
nostro punto di vista cambia. Non è più scontato attaccare gli altri, provare
invidia, agire per ripicca o tramare vendetta. Ciascuna di queste reazioni ha
ripercussioni su di noi, anche a livello genetico. Un vero benessere non è
possibile, se è minacciato dalla negatività. Le persone con un elevato QE
intuiscono questa verità anche se non sanno nulla di modificazioni
epigenetiche. Per capire come le emozioni abbiano sempre delle conseguenze
basta osservare gli effetti della collera o delle preoccupazioni di un genitore
sui figli, che ne soffrono.
Che cosa fare, dunque? Non potete impedire alle vostre emozioni negative
di avere ripercussioni tanto su di voi quanto su chi vi sta intorno. Assumervi
la responsabilità delle vostre emozioni è quindi fondamentale. Non c’è più
ragione di sfogare sugli altri la propria rabbia o di fare di tutto perché vi
temano, né di cercare di prevaricare su di loro o di dominarli per motivi
egoistici.
Nessuno vi chiede di diventare santi. Sapere che le emozioni hanno delle
conseguenze serve in primo luogo a voi stessi. Aprite gli occhi e osservate
come la rabbia o l’ansia inquinano l’atmosfera. Provatelo su di voi, poi
chiedetevi se è questo l’effetto che volete avere sugli altri.
Le emozioni sono vive. Dovete imparare a negoziare con loro, e se
un’emozione vede un vantaggio nel cambiare, lo farà. Sarete voi a farglielo
fare.
6. Vivere d’istinto
Poiché sono in tanti a diffidare delle proprie emozioni e a cercare di
nasconderle – soprattutto i maschi – fa un certo effetto sentir dire che un
approccio istintivo alla vita funziona meglio di uno troppo razionale. In
effetti, questo concetto è talmente estraneo alla maggior parte delle persone
che sentiamo il bisogno di citare alcune ricerche psicologiche che lo
confermino.
Innanzitutto, i ricercatori hanno scoperto che le emozioni intervengono in
ogni decisione che prendiamo. Non esistono scelte puramente razionali. Se
tentiamo di eliminare dall’equazione i sentimenti, reprimiamo un aspetto
naturale di noi stessi. Spendete di più quando siete di buon umore? Forse
pensate di no, ma numerosi studi dimostrano che il buon umore induce a
mettere mano al portafoglio. Pagate qualcosa più di quanto valga, per vanità
o per non sfigurare agli occhi di un commerciante? Molti lo fanno.
In uno degli esperimenti più interessanti a questo proposito è stata
inscenata un’asta a cui i partecipanti venivano invitati a fare un’offerta per
mettersi in tasca una banconota da venti dollari. All’inizio c’era un po’ di
confusione e di derisione intorno a quello che pareva un gioco. Sembrava
logico, infatti, che nessuno avrebbe offerto più di venti dollari per un biglietto
da venti dollari, ma a un certo punto le offerte hanno cominciato a fioccare.
Soprattutto tra i maschi, spuntarla sui concorrenti era più importante della
razionalità, quindi le offerte salivano sempre di più finché qualcuno a mano a
mano rinunciava. Ovviamente, il «vincitore» ha fatto un affare ridicolo,
perché l’emozione è riuscita ad avere la meglio sulla ragione.
Le persone con un alto QE non si sottraggono alla componente emotiva del
processo decisionale. Sanno relazionarsi con i propri sentimenti, e così
attingono agli aspetti più profondi dell’intuito e del discernimento. Lasciar
emergere le proprie emozioni non significa farsene dominare (questa è la
paura principale delle persone represse, incapaci di sopportare l’idea di
manifestare ciò che provano). Il passo successivo è rendersi conto che le
emozioni hanno una loro peculiare intelligenza, e quindi nutrire più fiducia
nell’intuizione. Le emozioni sbloccano interi scompartimenti di
consapevolezza di cui la maggior parte di noi non sospetta neppure
l’esistenza. Per ogni intuizione che si rivela giusta ci sono innumerevoli altri
segnali che riceviamo ogni giorno e che vanno «sentiti», non analizzati.
Che cosa fare, dunque? Se siete già abituati a farvi guidare dall’istinto,
tutto ciò che abbiamo appena detto vi sembrerà ovvio. Non sarà così, invece,
per chi diffida delle proprie emozioni. Imparare a farsi guidare dall’istinto
significa fare un passo alla volta. Per iniziare, pensate a tutte quelle volte che
avete accantonato l’istinto per ragionare solo con la testa e vi siete poi
ritrovati a pensare: Sapevo che sarebbe successo. Perché non mi sono fidato
delle mie sensazioni?
Non è una domanda retorica. Non l’avete fatto perché non siete allenati a
farlo.
La prossima volta che mille ragioni razionali per fare una cosa si
oppongono al vostro semplice istinto, il quale vi dice di non farla, prendete
un foglio e annotate ciò che entrambe queste due parti di voi vi stanno
dicendo. Poi agite seguendo l’una o l’altra. A cose fatte, riprendete quel
foglio e guardate che cosa avevate scritto. Questo funziona al meglio con i
rapporti umani, perché tutti abbiamo delle interazioni – un appuntamento al
buio, il periodo iniziale con un nuovo capo, una trattativa commerciale – in
cui i sentimenti non possono essere ignorati e potrebbero fare la differenza tra
successo e fallimento. Se annotate per iscritto che cosa provate, la prossima
volta sarà molto più facile fidarvi del vostro intuito. Il segreto è la ripetizione,
nonché la constatazione diretta e obiettiva di quanto spesso le vostre
sensazioni si rivelano giuste.
7. Appagamento dei propri bisogni emotivi
Quando avete un bisogno emotivo, a chi ricorrete? Per esempio: avete trovato
il coraggio di dire a qualcuno una cosa non facile, e la persona a cui l’avete
detta vi ha risposto per le rime. Siete feriti e scoraggiati. Le sue parole
sferzanti vi risuonano nelle orecchie.
In un momento simile vi servono conforto ed empatia. Se l’amico a cui vi
rivolgete vi ascolta educatamente, butta lì un paio di luoghi comuni e poi si
affretta a cambiare discorso, vi siete rivolti alla persona sbagliata. Perché
l’avete fatto? La risposta è complessa, e riguarda l’intelligenza emotiva.
Quando sta male, la maggior parte delle persone ha talmente bisogno di
sfogarsi che si rivolge al primo che trova. Ma chi ha un alto QE sa chi potrà
essere un ascoltatore empatico e chi no.
Ora pensate a un bisogno più profondo, come l’amore. Se nell’infanzia è
stato appagato – un aspetto critico, questo, dell’intelligenza emotiva – la
certezza di essere amati è venuta dalla fonte giusta, cioè dai propri genitori. A
volte però capita di avere genitori distanti e anaffettivi, e questo crea
confusione emotiva. Si cresce senza sapere chi possa darci l’amore che ci
serve, e alla fine questo sentimento si sperimenta così, a casaccio, passando
da una persona all’altra, senza capire chi sia in grado di amarci davvero e chi
no. E se anche si trova una persona che non ne è capace, spesso si finisce per
sceglierla comunque. Insicurezza, bisogno e fragilità emotiva portano a
relazioni che si rivelano frustranti, deludenti e, nel peggiore dei casi, nocive.
Per le persone con un alto QE trovare la persona giusta che soddisfi le loro
esigenze emotive è essenziale, e non accettano l’idea che ci si possa
accontentare di qualcosa di meno. Ma la triste verità è che le persone ferite
cercano perlopiù altre persone ferite, se non addirittura qualcuno che farà loro
di nuovo del male. Spesso il comportamento di chi è emotivamente sano li
mette in ansia, perché minaccia di abbattere le loro barriere difensive. Invece
è necessario sforzarsi, altrimenti ci si accontenta di tirare avanti in un mare
d’insoddisfazione.
Che cosa fare, dunque? La maggior parte di noi si trova da qualche parte
tra il primo appuntamento, il corteggiamento, il matrimonio e il divorzio, e sa
bene quanto sia ampio lo scarto tra l’avere un bisogno e l’appagarlo. In ogni
relazione è inutile chiedere qualcosa che l’altro non può darci, ma spesso ci
troviamo a farlo lo stesso. Chiediamo empatia a chi non ne ha, comprensione
a un egocentrico, amore a un anaffettivo e così via.
Risolvere questa impasse non è così difficile come sembra. Quando avete
un bisogno emotivo, rivolgetevi a chi è in grado di soddisfarlo. E chi è quella
persona? Potete scoprirlo solo vedendola comportarsi in una situazione
analoga. Non tirate a indovinare, o rischierete di farvi del male. Le persone
umane, empatiche, emotivamente generose e comprensive manifestano in
concreto questi tratti.
Presto scoprirete che c’è molta più gente disponibile di quanta pensiate.
Chi di voi non ha trovato, in una sala d’aspetto o su un treno, una persona
gentile disposta ad ascoltarvi parlare di una vostra situazione famigliare, di un
problema sentimentale o lavorativo, o persino di un segreto? Ovviamente,
l’impulso è quello di trattenersi, per timore di un rifiuto. Tuttavia non è
difficile discernere un primo segno di disponibilità e poi fare un passo alla
volta. Aprirsi un po’ aiuta a farlo sempre di più, e se uno vede che l’altra
persona non ha più tempo, consigli, simpatia o interesse, ci si regola di
conseguenza.
Un’unica avvertenza: anche chi ha affetto, simpatia, compassione e
comprensione da dare, ha il diritto di negarsi. Certo, è difficile da accettare. Il
rifiuto è la ragione principale per cui molti evitano incontri che chiamino in
causa le emozioni. È più facile condividere le proprie pene con un famigliare
o un amico indifferenti. L’indifferenza sembra meglio di un rifiuto. Ma le
esigenze emotive vanno appagate, e bisogna trovare il coraggio di cercare le
persone giuste, anche a costo di essere respinti.
Di solito, però, questo non succede. Non sempre il nostro bisogno emotivo
è di amore eterno. Quello più comune è essere ascoltati, seguito da simpatia e
comprensione. L’accettazione è il filo conduttore. Una volta che avrete
scoperto di essere accettati, e che meritate di esserlo, sarete più forti dentro. A
quel punto chiedere affetto e amore vi sarà molto più facile.
Le emozioni suscitano reazioni intense, e tutti i bisogni che abbiamo citato
inducono cambiamenti nell’organismo. In questo campo la scienza è in
ritardo rispetto alla saggezza. Come specie abbiamo avuto migliaia di anni
per diventare più saggi; una conquista non da poco, visto che tutti a volte ci
comportiamo da sciocchi. Forse un giorno la genetica troverà una magica
combinazione di modificazioni genetiche che porterà alla saggezza. Intanto,
però, la migliore guida sono ancora le nostre emozioni, sempre un passo
avanti rispetto alla scienza, per quanto la genetica si sforzi di recuperare
terreno.
PARTE TERZA
Guidare la propria evoluzione
La saggezza del corpo

IL super genoma ha liberato la nostra concezione del corpo. Può fare lo stesso
per la mente? Assolutamente sì. Il cervello non è più una torre d’avorio in cui
la mente dimora in splendida solitudine. Tutto ciò che pensiamo e proviamo è
condiviso dal resto del corpo. Il cervello non dice cose come «Mi annoio» o
«Sono depresso». Tutto è questione di chimica e di genetica. Lo stesso
linguaggio è compreso da ogni cellula. Qualunque cosa accada nel cervello si
riflette nelle attività squisitamente integrate di ogni cellula.
Siamo abituati a credere che solo il cervello abbia consapevolezza di noi e
dell’ambiente che ci circonda, ma è ormai innegabile che tutte le parti del
corpo sono intimamente interconnesse. La consapevolezza non solo delle
cellule cerebrali, ma di ogni cellula del corpo, è affinata da centinaia di
milioni di anni. Naturalmente, se uno prova a dire che una cellula dei reni è
consapevole, i biologi tradizionali, convinti come sono che le interazioni
biologiche possano solo essere casuali, gridano allo scandalo. E se poi ci si
azzarda ad affermare che un gene o un microbo sono consapevoli quanto noi,
una falange di altri scienziati insorge indignata.
A ogni modo, indignarsi per cose simili non fa bene alla scienza. Uno dei
più brillanti pionieri della fisica quantistica, Erwin Schrödinger, ha detto: «La
consapevolezza è un singolare che non ha plurale. […] Dividerla o
moltiplicarla è cosa insensata». Siamo così abituati a separare mente e corpo
che fonderli in un unico campo di consapevolezza non è accettabile, ma da
oltre un secolo la fisica sa che tutto nell’universo fisico ha origine da campi:
il campo elettromagnetico da cui emerge la luce, quello gravitazionale che ci
tiene attaccati alla terra o quello quantico, la fonte ultima di materia ed
energia.
Immaginiamo per un attimo che ogni cellula sia consapevole come una
persona. Questo declasserebbe il cervello dalla sua posizione privilegiata.
Dovremmo abbandonare la convinzione che il pensiero sia rigorosamente
mentale, fatto di un flusso di pensieri, immagini e sensazioni interne al
cervello. Ma è evidente che esiste un diverso tipo di pensiero – non-verbale,
privo di immagini, senza voce – che sostiene silenziosamente ogni cellula.
Questa intelligenza cellulare è stata definita saggezza del corpo. Per
elevare il nostro benessere quotidiano al livello di benessere profondo è
sufficiente fare tre cose:

1. Cooperare con la saggezza del nostro corpo.


2. Non opporsi a tale saggezza.
3. Incrementarla.

Fino a pochi anni fa questo modo di esprimersi sarebbe sembrato una


licenza poetica. «Saggezza» è una parola altisonante, che riserviamo a
venerabili sapienti e maestri. In tempi moderni è persino caduta un po’ in
disuso, ma qui non la usiamo in senso metaforico. La saggezza è la
conoscenza che viene solo con l’esperienza, e le nostre cellule ne hanno
molta.
Tutti i cambiamenti di stile di vita consigliati fin qui si riducono, in
definitiva, a un unico precetto: ripristinare la saggezza del corpo e obbedirle.
Finora abbiamo usato il lessico della genetica, ma vediamo se questo
vocabolario può essere ampliato fino ad abbracciare la saggezza del corpo
come entità unica – un campo di consapevolezza – anziché una serie di
frammenti. Questo getterà le basi per la possibilità più eccitante di tutte:
influenzare la vostra personale evoluzione e quella dei vostri figli, se non
addirittura dei vostri nipoti.
Cellule sagge, geni saggi
Le cellule devono affrontare molte sfide. Se per un attimo accantoniamo tutte
le sofisticate conoscenze scientifiche, una cellula è come un palloncino pieno
d’acqua, ma vivo. E proprio come un palloncino, corre dei rischi. Basterebbe
una puntura per far fuoriuscire tutta l’acqua; il calore eccessivo per farlo
scoppiare o il troppo freddo per far sviluppare al suo interno dei cristalli di
ghiaccio che lo forerebbero. Sia un palloncino pieno d’acqua sia una cellula
devono preoccuparsi di restare intatti in un ambiente circostante duro ed
estremamente mutevole. Ma nel corso degli eoni le cellule si sono ingegnate
per sostenere questa sfida.
La loro strategia è nota come omeostasi, ovvero la capacità di conservare
uno stato saldo «dentro», a prescindere da ciò che accade «fuori».
Inizialmente l’omeostasi era primitiva. Gli organismi unicellulari sono
evoluti per avere sulla propria membrana esterna delle pompe ioniche (per
sostanze chimiche come sodio, calcio e potassio) in grado di mantenere il
giusto equilibrio chimico e di fluidi al loro interno. Il passo successivo è stato
diventare mobili, così da poter nuotare dietro al cibo, sfuggire ai predatori e
dirigersi verso il livello di temperatura e di luce migliori per la propria
sopravvivenza. Le cellule non sono soltanto dei palloncini pieni d’acqua, ma
delle forme di vita incredibilmente complesse, proprio perché hanno risolto il
problema dell’equilibrio interno.
Ora facciamo un enorme salto in avanti fino al presente. Grazie al DNA le
nostre cellule «ricordano» ancora come funziona quella strategia. La memoria
genetica perenne assicura che nessuna cellula, per quanto primitiva,
regredisca a palloncino pieno d’acqua. Imparando il trucco della divisione
cellulare, durante la quale ogni filamento di DNA produce un perfetto
duplicato di se stesso, le forme di vita sono progredite. La memoria è stata la
più grande invenzione dell’evoluzione, un’invenzione totalmente invisibile, e
una volta apparsa non aveva motivo di fermarsi. Le cellule hanno cominciato
a ricordare sempre più cose, a sviluppare sempre più abilità, proprio come
facciamo noi grazie al nostro cervello.
Ora, con l’aiuto dei nostri geni, le nostre cellule ricordano come
mantenerci in vita, un miracolo che la scienza a malapena comprende, perché
sono necessari infiniti eventi dinamici, interdipendenti, perfettamente
sincronizzati per mantenere il giusto equilibrio chimico all’interno di una
cellula cardiaca, epatica o cerebrale! Benché programmate dallo stesso DNA,
le cellule del cuore, del fegato e del cervello svolgono decine di compiti
specifici, peculiari a ciascuna. Nella nuova genetica dobbiamo pensare al
corpo come a una comunità di centomila miliardi di abitanti (sommando a
tutte le nostre cellule i vasti, brulicanti geni del microbioma), ciascuno dei
quali ha un proprio interesse. Una cellula cardiaca ha troppo da fare per poter
intervenire nelle faccende di una cellula epatica, eppure questo regime così
individualistico riesce a contemplare anche la condivisione e la cooperazione;
perché se la cellula del cuore, stanca dei messaggi che le giungono dal fegato
o dal cervello, tronca la conversazione, presto muore.
L’omeostasi, che è iniziata trasformando un palloncino pieno d’acqua in
una cellula, è dovuta diventare miliardi di volte più complessa, a mano a
mano che sempre più cellule venivano invitate nella comunità. Ma in
sostanza il DNA continuava a ripetere lo stesso monito: restate in equilibrio,
mantenete uno stato stazionario «dentro». Per rendervi conto di quanto questo
sia essenziale, pensate ai detenuti che praticano lo sciopero della fame, come
durante il periodo di agitazione in Irlanda del Nord (i cosidetti Troubles),
quando alcuni membri dell’IRA usarono il digiuno come mezzo di protesta
politica. Il corpo può mantenere un certo equilibrio per soli tre giorni,
attingendo alle riserve di glucosio nel sangue e nel fegato. Poi inizia a
prelevare lo zucchero dalle cellule adipose, e dopo tre settimane circa attacca
i muscoli, che cominciano a consumarsi. Quando anche i muscoli sono
consumati subentra l’inedia, e intorno al trentesimo giorno di digiuno la
morte diventa inevitabile. Il più lungo digiuno del Mahatma Gandhi, attuato
per dare visibilità alla lotta per l’indipendenza indiana, si protrasse per ventun
giorni. I dieci prigionieri politici nordirlandesi che nel 1981 commossero il
mondo con il loro sciopero dalla fame sopravvissero tra i quarantasei e i
settantatré giorni (non consideriamo i grandi obesi che decidessero di
smettere di alimentarsi; esistono casi di sopravvivenza per oltre un anno,
quando si hanno dai cento ai centottanta chili di riserve di grasso e proteine a
cui attingere).
Il digiuno totale porta alla progressiva crisi dell’omeostasi, che presto
ostacola il normale funzionamento di tutti gli organi e infine risulta fatale. Ma
la sopravvivenza può essere prolungata parecchio se si aggiunge una piccola
quantità di zucchero e sale all’acqua bevuta durante il digiuno. Digiunatori
che mettevano un po’ di miele nell’acqua che bevevano sono riusciti a
prolungare il loro digiuno fino a cinque mesi. Non è solo l’apporto calorico a
prolungare la sopravvivenza, ma il mantenimento dell’equilibrio elettrolitico
delle cellule, fattore basilare che rende anche la cellula più primitiva qualcosa
di vivente anziché un mero palloncino pieno d’acqua. (Per essere chiari, non
intendiamo in alcun modo approvare digiuni, di qualunque durata, a base di
succhi di frutta o di acqua con miele o zucchero. Non è questa la sede per
discutere i pro e i contro di simili regimi.)
Notate quanto sistematicamente il corpo reagisce al digiuno totale,
passando da una strategia all’altra pur di restare il più a lungo possibile in
equilibrio. Quello che ci preme evidenziare è che il meccanismo responsabile
della più elementare sopravvivenza si è preservato nel nostro corredo
genetico per oltre un miliardo di anni; simultaneamente, il nostro super
genoma si tiene al passo con tutto ciò che vogliamo fare oggi.
L’omeostasi è complessa quanto noi. Questo implica una visione molto più
ampia della connessione mente-corpo. Mentre pensiamo, sentiamo,
sogniamo, immaginiamo, ricordiamo e impariamo dal passato, anticipando e
al contempo pianificando il futuro, il nostro corpo deve far funzionare tutto
nel presente, senza mai sacrificare il proprio interesse personale, che è quello
di sopravvivere, se non prosperare, e mantenersi in salute.
Una cellula tipica immagazzina solo l’ossigeno e il carburante necessari
per sopravvivere qualche secondo, quindi i dispositivi d’emergenza devono
venire da altrove, cioè dalla cooperazione. Una cellula «sa», chimicamente
parlando, che otterrà ossigeno e carburante dal sangue, quindi non deve
«pensare» a queste cose e può devolvere invece la sua «intelligenza» ad altri
processi (usiamo le virgolette semplicemente per distinguere l’intelligenza
naturale e spontanea di una cellula dall’uso consueto del termine, che
comporta un ulteriore sforzo da parte del cervello).
A meno che l’omeostasi si interrompa e iniziamo a provare qualcosa di
anomalo (dolore, confusione, affaticamento, depressione), i dispositivi
d’emergenza del corpo non scattano. Possiamo però rapportarli a nostre
esperienze personali, allora ecco che la connessione mente-corpo trascende i
processi chimici e biologici. Le nostre cellule vivono le nostre stesse
esperienze, condividono lo stesso senso e scopo. Le proprietà intrinseche di
una singola cellula sono straordinarie, vediamole.

La saggezza di una cellula: i nove fondamentali della vita


1. Consapevolezza: le cellule sono estremamente consapevoli
dell’ambiente circostante, nel senso che ricevono continui segnali
biochimici a cui subito rispondono. Una singola molecola basta a far
loro cambiare rotta. Si adattano in continuazione in base al mutare delle
circostanze. Per le cellule, la mancanza di consapevolezza non è
un’opzione.
2. Comunicazione: ogni cellula si tiene in costante contatto con quelle
vicine, e persino con alcune lontane. Messaggi elettrici e biochimici
vengono incessantemente scambiati tra le cellule per notificare anche ai
più remoti avamposti qualunque necessità o intenzione, per quanto
minima. Per le cellule, chiudersi in se stesse o rifiutarsi di comunicare
non è un’opzione.
3. Efficienza: le cellule funzionano con il minimo dispendio di energia
possibile. Devono vivere dell’attimo presente, ma questo non è un
problema, per loro. Per le cellule l’eccessivo consumo di cibo, aria o
acqua non è un’opzione. E mentre tentano di trarre il massimo dal
minimo di energia, evolvono costantemente per diventare sempre più
efficienti.
4. Solidarietà: le cellule che costituiscono un dato tessuto o organo sono
compagne inseparabili. Condividono un’identità comune grazie al loro
DNA, e pur conducendo una vita propria, quelle di cuore, fegato, reni,
cervello restano legate alla loro fonte, a prescindere dalle loro peculiari
funzioni. Tra le cellule, l’emarginazione non è un’opzione, benché a
volte quelle «traditrici» possano dare vita a un tumore.
5. Generosità: l’interscambio chimico che avviene nel corpo è un costante
dare e ricevere. Il dono del cuore consiste nel pompare il sangue a tutte
le altre cellule; il dono dei reni nel purificarlo; il dono del cervello nel
vigilare sull’intera comunità cellulare. E così via. La totale abnegazione
e generosità di una cellula rende automatico il suo ricevere: è l’altro
aspetto, speculare, di un ciclo naturale. Prendere senza dare non è
un’opzione, tra le cellule.
6. Creatività: divenute più complesse ed efficienti, le cellule si combinano
tra loro in modi creativi. Un essere umano può digerire cibi mai
mangiati prima, pensare pensieri mai pensati prima, danzare passi mai
visti prima. Queste innovazioni dipendono dal fatto che le cellule sono
aperte al nuovo. Aggrapparsi a vecchi comportamenti senza una valida
ragione non è un’opzione, tra le cellule.
7. Accettazione: le cellule si riconoscono reciproca e pari importanza. Ogni
funzione del corpo è interdipendente da tutte le altre. Nessuna cellula
pretende di avere il controllo. Non tenere conto delle esigenze altrui non
è un’opzione, tra le cellule, altrimenti può verificarsi qualcosa di
abnorme come il cancro.
8. Essere: le cellule sanno «essere». Hanno trovato il loro posto nel cosmo,
obbedendo al ciclo universale di riposo e attività. Questo ciclo si
esprime in vari modi: fluttuazione dei livelli ormonali, della pressione
sanguigna, dei ritmi digestivi e circadiani. L’interruttore che spegne è
importante quanto quello che accende. Nel silenzio dell’inattività si
prepara il futuro del corpo. Essere iperattivi e frenetici non è un’opzione,
tra le cellule.
9. Immortalità: anche se alla fine muoiono, le cellule sono immortali, nel
senso che dopo la morte usano la genetica e l’epigenetica per trasferire
le loro conoscenze, la loro esperienza e i loro talenti alle cellule
staminali. Non sottraggono nulla alla loro progenie. Questa continuità di
esistenza è anche una sorta di immortalità pratica, un sottomettersi alla
morte sul piano fisico, ma sconfiggendola grazie alla propagazione del
DNA. Lo scarto generazionale non è un’opzione, tra le cellule.

Quando uno qualunque di questi nove fondamentali della vita entra in crisi,
la vita stessa è a rischio. Non c’è esempio più eclatante, e terribile, del
cancro. Una cellula tumorale è una cellula che ha tradito i fondamentali della
vita. Il suo comportamento la rende praticamente immortale, grazie al suo
infinito dividersi. Toglie spazio alle cellule vicine e le uccide. Non tiene più
conto dei segnali chimici regolatori delle cellule circostanti. Nulla le importa
più, se non il suo tornaconto personale, e il naturale equilibrio della comunità
cellulare viene tragicamente sbilanciato.
Oggi l’oncologia è impegnata a decifrare gli stimoli genetici del cancro,
che sono però incredibilmente complessi. La terribile verità è che una cellula
maligna è in grado di attingere alla stessa «intelligenza» di ogni altra cellula,
ma la sua mutazione genetica fa praticamente impazzire la sua attività. Come
un consumato delinquente, cambia freneticamente travestimento per sfuggire
alla «polizia», che in questo caso è il sistema immunitario. Il cancro è una
terribile minaccia, ma una simile abilità prova, sebbene su un altro fronte, che
ogni possibilità concepibile dalla mente umana è stata anticipata dalle nostre
cellule.
Dall’incredibile complessità del super genoma emerge qualcosa di
semplice e utile: i nove fondamentali che le cellule osservano a ogni costo
sono gli stessi che fanno di noi degli esseri umani. La connessione mente-
corpo è talmente flessibile che può adattarsi non solo alle avversità, ma anche
alla perversità: quella di volgere le spalle a ciò per cui la Natura ci ha creati,
ovvero restare in equilibrio. Quando avveleniamo il nostro corpo con le
tossine, lo sfruttiamo fino all’esaurimento, ne ignoriamo i segnali di disagio,
violiamo la saggezza insita in ogni cellula.
Viceversa, possiamo scegliere di allinearci a quella saggezza, e in questo
caso la connessione mente-corpo realizza tutto il suo potenziale.

Come vivere i nove fondamentali

1. Avere uno scopo più elevato, che trascenda se stessi.


2. Attribuire valore all’intimità e alla comunione: con la Natura, con il
prossimo, con ogni essere vivente.
3. Essere aperti al cambiamento e sensibili a tutto ciò che ci accade
intorno.
4. Accettare gli altri come uguali a se stessi, senza giudizi né pregiudizi.
5. Coltivare la creatività. Sapersi adattare alla rinnovata freschezza
dell’oggi, anziché aggrapparsi a ciò che è vecchio e obsoleto.
6. Sentirsi cullati, protetti e custoditi dai ritmi naturali dell’universo.
7. Lasciare che il flusso della vita porti ciò che ci serve. L’ideale di
efficienza è permettere alla Natura di prendersi cura di noi. Forza,
controllo e lotta non sono strategie vincenti.
8. Avvertire un intimo senso di comunione con la propria origine,
l’immortalità della vita stessa.
9. Essere generosi. Impegnarsi a dare come unico modo per ricevere.

Questi nove fondamentali soddisfano la necessità di cooperare con la


saggezza del corpo anziché opporvisi, e se possibile perfezionarla. Siamo
dunque passati dalla scelte di stile di vita al rendere la vita più piena di senso,
che è l’autentica chiave del benessere. Lo scopo non è semplicemente sentirsi
meglio, ma gettare le basi per una vita realmente appagata.
Il campo mentale
Ci sforziamo di sostenere le nostre tesi con solidi argomenti scientifici, e la
concezione del corpo come campo di intelligenza non fa eccezione. Alla
domanda: «Dove si trova la mente?» la gente indica perlopiù la testa. Perché?
Forse perché ospita tanti organi sensoriali: gli occhi, le orecchie, il naso, la
lingua. Con tutte le informazioni che transitano in quella parte del corpo,
potrebbe essere semplicemente l’abitudine a farci collocare la mente nella
testa. Mente e cervello albergano insieme in una «scatola», la cosiddetta
scatola cranica. Ma davvero il cervello è così chiuso nella sua scatola che ha
senso parlarne come una macchina per fabbricare la mente, un po’ come una
stampante stampa documenti? La nuova genetica ci pone alcuni interrogativi
culturalmente radicali, primo fra tutti: il cervello è davvero necessario per
ogni forma di consapevolezza?
Dal punto di vista evolutivo, i sistemi nervosi non sempre sono
centralizzati. Le meduse, per esempio, hanno reti neurali distribuite su tutto il
corpo. Noi umani, pur avendo un sistema nervoso centrale, abbiamo anche
altri sistemi nervosi, tra cui quello periferico, il quale include nervi che
raccolgono informazioni per il cervello (come quelli dei nostri organi di
senso) e nervi che inviano segnali dal cervello (come quelli che dicono ai
nostri muscoli che cosa fare). Dopo avere osservato che l’apparato
gastrointestinale può funzionare abbastanza bene anche se separato dal
sistema nervoso periferico, si è concluso che questo costituisce un sistema
nervoso enterico (intestinale) retiforme.
Il fattore decisivo per poter definire il sistema nervoso enterico come
sistema nervoso a sé stante sono state le cellule gangliari specializzate, situate
fra gli strati muscolari della parete intestinale. Queste cellule si comportano
come un cervello locale: se si recidono i nervi che le collegano al cervello, le
cellule gangliari continuano a istruire l’intestino a muoversi, assorbire e
secernere, funzionando abbastanza bene e come unità autonoma.
A quanto pare, dunque, l’apparato intestinale non solo riceve istruzioni dal
resto del corpo, ma ha reazioni proprie. Quando una cattiva notizia ci provoca
una stretta alla bocca dello stomaco, sperimentiamo questa sensazione con
pari intensità anche nella testa; anzi, di solito tale precede qualunque nostro
pensiero. Non è chiaro se il sistema nervoso enterico abbia creato questa
sensazione autonomamente, ma si è tentati di crederlo. Di sicuro, molti di noi
si fidano più delle proprie impressioni «di pancia» che di quelle del cervello,
spesso confuse e ambigue, soprattutto quando rimuginiamo troppo.
Ultimamente le scoperte sui processi simili a quelli del cervello che
avvengono al di fuori della scatola cranica si moltiplicano. I muscoli del viso,
per esempio, sono direttamente collegati al cervello. E se da un lato sappiamo
che questo dice alle labbra di sorridere quando ci sentiamo felici, è vero
anche il contrario: vedere un sorriso può renderci felici, e ai bambini si
insegna a sorridere per cancellare la tristezza. Se poi questo funzioni davvero
o meno varia da persona a persona, ma si potrebbe argomentare che in quei
casi è il viso a controllare il cervello.
Può anche succedere che certe parti del corpo si ribellino al cervello. Rudy,
che gioca a basket due volte alla settimana, ha sperimentato personalmente il
fenomeno del «braccino»: quando si è stressati, distratti o ansiosi, è come se
la memoria muscolare del braccio e del polso si bloccasse, e la palla, pur
tirata con le migliori intenzioni del cervello, manca clamorosamente il
canestro.
Anche il sistema di conduzione del cuore, che organizza il nostro battito
cardiaco, può essere visto come il «cervello» di questo organo, proprio come
le cellule gangliari dell’intestino sono il «cervello» dell’intestino.
L’autonomia di tale sistema è evidente quando un cuore trapiantato continua
a battere sebbene i nervi che lo connettevano ai sistemi nervoso centrale e
periferico del donatore siano stati recisi. L’interazione tra elaborazione
autonoma del cuore e cervello è complessa, e non ancora del tutto chiarita.
Il sistema immunitario è stato definito cervello in movimento. In modo
molto concreto e tangibile, grazie alla cosiddetta sorveglianza immunitaria, le
cellule del nostro sistema immunitario sono in grado di decidere se una
sostanza in entrata è amica o nemica. Se sbagliano, noi sviluppiamo
un’allergia a cose innocue come polvere domestica, pollini, peli e forfora di
gatto, che non costituendo un pericolo non era affatto necessario respingere.
Provate a chiedere a un soggetto allergico se la sua allergia influisce
negativamente sulla sua attività intellettiva: l’intorpidimento e la mancanza di
energia e di entusiasmo che molti allergici sperimentano lasciano pochi dubbi
sul fatto che anche il sistema immunitario sia parte di una più vasta
intelligenza del corpo.
Bastano questi dati a dimostrare che le nostre convinzioni riguardo a mente
e cervello sono estremamente lacunose. La collocazione della mente è una
questione aperta, e qualunque tentativo di isolarla fisicamente nella scatola
cranica si scontra con valide obiezioni. Sempre di più si ha la sensazione che
ogni organo racchiuda in sé una propria versione della mente (si potrebbe
immaginare il tutto come gli Stati Uniti, con un governo federale
centralizzato, molti governi statali e una miriade di amministrazioni locali
che cooperano influenzandosi a vicenda).
L’attività del pensiero si verifica, in una forma o nell’altra, ovunque e
incessantemente nel nostro corpo. Questa teoria emergente ha il potenziale di
sovvertire il concetto di mente finora accettato. Il cervello somiglia sempre di
più a una sorta di affioramento in un paesaggio permeato da varie forme di
intelligenza. Ora analizziamo meglio le implicazioni di questo nuovo
modello.
In quello vecchio, i nervi erano l’equivalente del circuito elettrico che porta
la corrente in ogni parte di una casa. Ma non è solo il circuito nervoso a
connettere cervello e corpo. Ormoni e sostanze neurochimiche prodotte da
organi molto diversi del corpo influenzano il funzionamento del cervello e il
modo in cui sperimentiamo la mente. Pensiamo agli sbalzi d’umore di molte
donne durante il ciclo mestruale o la menopausa, o a quelli degli uomini
durante la cosiddetta crisi di mezza età.
Anche altri eventi mentali sono scatenati da fattori biologici simili. Vi siete
mai sentiti assonnati dopo un pasto troppo abbondante? Avete mai sentito una
scarica di adrenalina dopo avere parlato in pubblico? Vi siete mai sentiti
storditi dopo essere caduti dalla bicicletta? Gli ormoni viaggiano fino al
cervello attraverso il flusso sanguigno, con profondi effetti sulla natura della
mente. Per esempio, il panico creato dall’adrenalina, secreta molto lontano
dal cervello (nella corteccia surrenale), si avverte come un «nostro pensiero»:
la biologia si è misteriosamente trasformata in mente.
Il cervello al di fuori del cervello
Osservare il comportamento del cervello rivela una complessità ancora
maggiore del rapporto mente-cervello. La gente di solito pensa ai neuroni
come a specifiche cellule cerebrali che producono la mente (interfacciandosi
grazie a reti indescrivibilmente complesse), ma nel cervello vi sono altre
cellule senza le quali i neuroni non potrebbero svolgere il loro lavoro: le
cellule gliali, per esempio, che superano per numero i neuroni e svolgono
molti compiti essenziali come trasportare nutrienti e ossigeno ai neuroni,
creare le guaine di mielina che ne avvolgono gli assoni per facilitare una
rapida trasmissione dei segnali, stabilizzare le connessioni tra neuroni e
fungere da sistema immunitario per proteggere le cellule da microbi dannosi.
Per quanto riguarda l’Alzheimer, per esempio, le cellule gliali eliminano i
detriti delle cellule nervose senescenti o danneggiate, ma possono anche
ritorcersi contro di loro e ucciderle. Questo «fuoco amico» può verificarsi
durante il tentativo di proteggere il cervello da invasori come batteri, virus e
funghi.
Le cellule che elaborano eventi mentali non sono necessariamente solo del
cervello. I neuroni possono anche derivare da altre cellule del corpo, e alcuni
neuroni e molte cellule gliali giungono nel cervello attraverso il sistema
circolatorio. Sono come nomadi che alla fine trovano un luogo in cui
stanziarsi in modo permanente. Ancora non sappiamo con esattezza quanto e
in quali regioni del cervello questo accada (la produzione di alcune cellule
cerebrali potrebbe avvenire a opera di cellule staminali in circolo che
diventano direttamente neuroni e cellule gliali, o dalla fusione con cellule
preesistenti). Tutti questi interrogativi sono attualmente oggetto di studio dei
biologi evoluzionisti. A ogni modo, è chiaro che tra corpo e cervello vi è un
costante traffico di cellule.
I confini tra cervello e «non cervello» sono dunque tutt’altro che netti e
distinti. Il cervello è per così dire permeabile al resto del corpo. Dire che
«crea» la mente è nella migliore delle ipotesi un’affermazione incompleta.
Può essere più esatto dire che il cervello dà accesso alla mente. Per usare una
semplice metafora: ogni automobile ha bisogno di un motore per funzionare,
ma un motore da solo non va da nessuna parte. Le funzioni che rendono
un’auto ciò che è esigono che ogni parte agisca di concerto con le altre. Allo
stesso modo, le funzioni che la nostra mente dinamica svolge vengono create
dal complesso corpo-cervello, non da quest’ultimo soltanto. Il cervello è
sempre stato fuori dalla «scatola»: aspettava solo che la scienza se ne
accorgesse.
La scienza ufficiale rifiuta, se non disprezza, l’idea di una mente collocata
al di fuori del cervello. In realtà, far in modo che la nostra mente si sposti al
di fuori della nostra testa è relativamente facile. Se ci bruciamo una mano sui
fornelli, per esempio, la nostra attenzione si precipita nel punto ustionato. E il
dolore di un amore non corrisposto sposta l’attenzione al centro del petto. In
alcune tradizioni spirituali questa specie di «mente in movimento» diventa
un’abilità consapevole. Ecco un esempio introduttivo di «mente fuori dalla
scatola» tipico della pratica buddista zen.
I praticanti che hanno intrapreso una disciplinata meditazione zen
quotidiana – di solito contando o seguendo il respiro – vengono poi iniziati a
dirigere la loro mente sull’hara, ovvero il secondo chakra, o centro di energia
sottile, ubicato sotto l’ombelico, di fronte all’osso sacro. Un modo per
descrivere questo esercizio della «mente in movimento» è immaginare che
questa si trovi in una goccia di miele al centro del cranio – laddove perlopiù
individuiamo la nostra mente –, e poi lasciare che la goccia scenda
lentamente verso il basso, scivolando lungo il lato anteriore della colonna
vertebrale fino a raggiungere l’hara.
Riuscire in questo esercizio richiede tempo e pratica. Le prime volte
avvertirete solo un minimo movimento, perché la vostra attenzione scatterà
indietro nella testa come se fosse trattenuta da un elastico. Allora
ricominciate, lasciando la goccia di miele scendere piano piano, portando la
mente con sé. Perché fare questo esercizio? Per esempio perché lo
spostamento della mente dalla scatola cranica a quella posizione di fronte
all’osso sacro può produrre nel soggetto una specie di frustata di energia, un
po’ come un buon caffè la mattina: quello che altrimenti sarebbe stato uno
zen sonnacchioso diventa improvvisamente uno zen vivace. E soprattutto
perché i praticanti riferiscono che quando spostano la mente in quella
posizione avvertono un meraviglioso senso di stabilità mentale: i pensieri
vanno e vengono come sempre, ma anziché seguire il ritmo di una scimmia
dispettosa che saltella dappertutto, assumono quello delle onde del mare, o
delle nuvole che passano, lente e pacifiche, nel cielo. Una mente in preda a
pensieri incontrollati ci esaurisce, ma nasconde dentro di sé il potenziale di
una mente salda, quieta e silente.
«Fuori di testa»
Le neuroscienze diffidano delle esperienze soggettive, ma di fatto chi pratica
lo zen o altre tradizioni orientali è abituato a spostare la propria mente al di
fuori della testa. L’esperienza viene replicata da tempo immemorabile, non è
casuale, accidentale o frutto di allucinazioni. Con sufficiente pratica c’è chi
riesce a spostare la propria mente nel mignolo del piede, nella spalla, nel
gomito e addirittura dall’altra parte della stanza. La replica immediata della
maggior parte dei neuroscienziati è che quel senso soggettivo, personale di
«mente in movimento» non è reale, o è spiegabile come una sorta di illusione
neurologica, analoga a quella dell’«arto fantasma» che i pazienti riferiscono
di sentire dopo l’amputazione: l’arto fantasma sembra occupare lo stesso
spazio dell’arto che non c’è più, e addirittura fa male.
La migliore risposta a tesi simili è che in medicina tutta una serie di
esperienze soggettive viene riferita dai pazienti, e queste non sono
quantificabili se non chiedendo direttamente a loro. Affermazioni come:
«Avverto un dolore qui», «Sono depresso», «Mi sento confuso», «Ho perso il
mio equilibrio» a volte possono essere ricondotte a un’attività cerebrale
anomala osservabile tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI), ma solo
il paziente è in grado di esprimere quanto sta realmente accadendo. Una
scansione cerebrale non può dire a un paziente che prova dolore se lui dice di
non provarlo. (Quando in una capsula di Petri un batterio evita una tossina o è
attratto dal cibo, possiamo essere certi che non provi una primitiva forma di
repulsione o di attrazione?)
In tutte le tradizioni contemplative c’è un istante in cui nell’individuo il
senso della mente e del sé ordinario cambiano radicalmente, per quell’istante
soltanto o per tutta la vita. Nelle tradizioni vedica e buddista tali esperienze,
in cui avviene una comunione con la pura consapevolezza al livello più
profondo, sono dette samadhi. Nella mistica ebraica si parla di devekut, in
quella cristiana di «estasi». È un andare oltre l’ordinaria mente pensante,
pervenendo a una consapevolezza priva di contenuto.
Il samadhi penetra in quella zona d’ombra in cui la «mia» mente si
dissolve nella mente stessa. La realtà muta drasticamente. Anziché trovarsi
all’interno di uno spazio fisico (per esempio una stanza), il praticante si trova
all’interno dello spazio mentale (chit akasha). Tuttavia, gli eventi che hanno
luogo non sono strettamente mentali. Durante il viaggio interiore, tempo,
spazio, materia ed energia emergono dal silenzio come nella descrizione che
la fisica fa della creazione, che scaturisce dalla «schiuma quantica». A nostro
parere, le esperienze interiori di meditazione, yoga, buddismo zen e simili
non sono da meno dei dati raccolti su stati soggettivi come il dolore, la
felicità o l’innamoramento. Le scansioni cerebrali rappresentano un
correlativo di queste esperienze, ma ci vuole un essere umano per averle.
Scoprire che non esistono confini tra «me» e il resto del mondo è fonte di
confusione, talora persino di ansia. E la pelle? A scuola, nelle ore di scienze,
ci veniva descritta come una barriera impermeabile per proteggerci dagli
agenti che vorrebbero invadere il corpo «dal di fuori». Ma la metafora della
pelle come armatura viva non è corretta. Piuttosto, è una comunità composta
di cellule umane e batteri ospiti. Muovete una mano, osservate come le
articolazioni di polso e dita si muovono sottopelle. Come mai con tutti quei
movimenti delle dita che si chiudono e si aprono, del polso che si flette e si
estende, la pelle non si lacera? Perché i batteri che rivestono le pieghe della
pelle, digerendo le membrane cellulari delle cellule cutanee morte, producono
lanolina, che lubrifica la pelle (come il collagene che connette le cellule
cutanee). Quanto dureremmo «noi» e il nostro genoma se la nostra pelle si
lacerasse per il solo digitare i tasti di un portatile o stringere la mano a
qualcuno, aprendosi e diventando così vulnerabile alle infezioni? Per fortuna,
siamo comunità viventi che prosperano in un’armoniosa interazione guidata
dal super genoma.
L’unica ragione per separare il «dentro» dal «fuori» può essere biologica,
più che basata sulla realtà. La ricerca sta iniziando a studiare l’oscillazione tra
mondo interiore ed esteriore, un fenomeno che tutti sperimentiamo ogni
giorno. A volte rivolgiamo la nostra attenzione a oggetti «esterni», altre a
eventi mentali «interiori». Ora si ipotizza l’esistenza di una specifica attività
neurale in due reti complementari del cervello: una, detta rete task-positive, si
attiva quando abbiamo a che fare con il mondo esterno a noi; l’altra, la rete di
default (o task-negative), s’innesca quando la nostra attenzione è rivolta verso
l’interno, come accade nel riposo vigile, nell’introspezione o in assenza di
input sensoriali significativi. Si ritiene che il nostro cervello alterni
rapidamente l’utilizzo di queste due reti, ma che quando si è immersi nella
meditazione profonda entrambe si attivino insieme. Nella meditazione,
«dentro» e «fuori» non sono più opposti e contrari, ma vengono sperimentati
come un tutt’uno, senza soluzione di continuità. E nel corso di tutto questo
straordinario processo, l’attività genica si modifica.
L’ultima frontiera
Un ultimo confine separa mente e corpo: un rigido concetto di fisicità.
L’intera struttura del cervello è fisica. Ogni azione che un neurone compie è
fisica, e così pure le sequenze codificate nel DNA che creano le cellule
nervose. Grazie alla nuova genetica, questa codifica è oggi molto più
trasparente. Grazie agli straordinari progressi della tecnologia siamo in grado
di vedere anche le minime alterazioni nell’attività genica. Tuttavia, non esiste
un punto in cui possiamo vedere il DNA obbedire alla mente. I pensieri sono
invisibili, e la scienza diffida di tutto ciò che non è rilevabile e misurabile. La
validità, per la scienza, sta tutta nelle misurazioni, anche quando le occorre
un microscopio elettronico per potenziare la vista umana.
Eppure sappiamo che le nostre menti lavorano. La nuova genetica ha
patrocinato, per così dire, la causa dell’invisibilità, mostrando che esperienze
esistenziali soggettive possono portare a modificazioni epigenetiche che
alterano l’attività genica. In un certo senso, il fatto che i nostri corpi cambino
a seconda di ciò che pensiamo e proviamo è talmente evidente che non ha
bisogno di dimostrazioni scientifiche. Tutto il corpo reagisce quando
perdiamo il coniuge, un amico o il lavoro, e il dolore può causare
depressione, più vulnerabilità alle malattie e persino un maggiore rischio di
morte prematura. Il super genoma reagisce direttamente a questi cambiamenti
esistenziali.
Tutti questi eventi sono regolati da geni, eppure l’ascendente della fisicità
resta forte nella scienza ufficiale. Un genetista esaminerà innanzitutto la
catena di alterazioni molecolari nel DNA, trovando collegamenti sempre più
complessi, prima di considerare qualcosa di intangibile come il sentimento
del dolore. Questa limitazione è l’ultima frontiera da varcare. Come riuscirci?
Per esempio, attraverso il concetto di campo, basilare nella fisica moderna.
Tutto ciò che accade fisicamente a livello di atomi e molecole (che sono
«cose» osservabili) deriva da fluttuazioni di un campo (che è invisibile, «non-
cosa»). È possibile vedere l’ago di una bussola puntare verso Nord, ma non il
campo elettromagnetico terrestre, che è la causa di questo effetto. Si può
vedere una foglia cadere da un albero, ma non la gravità che l’attira al suolo.
Accade qualcosa di simile quando i geni si attivano?
Un interessante esperimento condotto nel 2009 da biologi molecolari
britannici chiarisce questo punto. Sappiamo da decenni che il DNA ha la
capacità di riparare se stesso, e lo fa riconoscendo quali parti della doppia
elica sono codificate in modo errato, rotte o mutate. Quando una cellula si
divide e un filamento di DNA si duplica, il riconoscimento è dunque
implicato nel riassemblamento del nuovo filamento, a mano a mano che ogni
coppia di basi trova il suo giusto posto. Il team britannico ha posto filamenti
separati di DNA in acqua e li ha osservati mentre iniziavano a formare grumi
rotondi (sferici) di materiale genetico. Una lunga sequenza di
duecentoquarantanove basi chimiche (i cosiddetti nucleotidi) è stata marcata
con colorante fluorescente per seguire come si collegava ad altri frammenti di
DNA all’interno del grumo.
I risultati sono stati sorprendenti e inspiegabili. Le sezioni corrispondenti
di DNA avevano circa il doppio delle probabilità di ricongiungersi,
riconoscendosi reciprocamente anche quando erano separate nell’acqua da
distanze che non permettevano alcun contatto fisico. Per un biologo cellulare
questo non ha senso, visto che qualunque cosa accada all’interno di una
cellula necessita di contatto fisico o di connessioni chimiche. Ma nel contesto
di un campo il mistero trova spiegazione. Come una bussola obbedisce alle
linee di forza magnetica che circondano il pianeta, questi filamenti di DNA
potrebbero obbedire a un «biocampo» che mantiene intatta la vita.
I biologi molecolari britannici che hanno condotto l’esperimento hanno
definito il comportamento dei filamenti di DNA «telepatico», vista l’assenza
di qualunque collegamento fisico che li attirasse reciprocamente. Un
biocampo operante tramite cariche elettriche infinitesimamente piccole
potrebbe fornire una spiegazione meno soprannaturale, tuttavia il
riconoscimento è una facoltà che attribuiamo alla mente. Quando andiamo a
prendere un’amica all’aeroporto, la riconosciamo in una folla di estranei
senza passarli tutti in rassegna: ci basta sapere com’è fatta la persona che
stiamo cercando. Analogamente, sebbene in un modo più misterioso, un
pinguino antartico che torna dall’oceano con del cibo nel gozzo è in grado di
riconoscere il suo piccolo tra migliaia di altri.
Qualcosa nel riconoscimento è basilare e si oppone alla scelta casuale.
Questa è una proprietà del campo mentale da cui tutti dipendiamo: in questo
preciso istante, su questa pagina voi riconoscete delle parole, non una serie di
lettere dell’alfabeto che analizzate per cavarne un senso. Apparentemente il
DNA è in grado di fare lo stesso, perché i duecentoquarantanove nucleotidi
non si accoppiavano a uno a uno; l’intera sequenza trovava la sua immagine
speculare, beffando la casualità.
Entrare in contatto con il campo
Questo significativo esperimento ci aiuta a varcare l’ultima frontiera, ma non
ci libera del tutto della fisicità. Per farlo dobbiamo accettare che altri fattori,
ancora non descrivibili e non misurabili, agiscano dietro le quinte,
organizzando frammenti di materia in creature viventi.
Gli adepti delle tradizioni mistiche di tutto il mondo hanno fatto esperienza
di questo agente invisibile. È sufficiente prendere contatto con il proprio
naturale campo di intelligenza, presente dal cervello fino a ogni cellula del
corpo. I campi sono infiniti, ma non è necessario esserlo anche noi. Un
piccolo magnete a ferro di cavallo è come un affioramento dell’immenso
campo magnetico della Terra, e a sua volta il campo magnetico terrestre è un
nulla nell’immenso campo elettromagnetico dell’universo. Eppure, ogni tratto
di quel campo infinito è presente in un piccolo magnete. Allo stesso modo, la
nostra mente è un affioramento di un più vasto campo mentale, il che ci
conferisce una connessione automatica a quest’ultimo. Quando si ha una
chiara esperienza del campo mentale, come nella meditazione profonda, la
percezione cambia. Persone entrate in questo stato di consapevolezza hanno
riferito le seguenti esperienze:

Percepivano l’infinito in ogni direzione.


Tempo e spazio smettevano di essere degli assoluti, venivano visti come
creazioni puramente mentali.
Ogni senso di separazione cessava. Soltanto la comunione era reale.
Ogni evento era collegato a tutti gli altri, come onde che salgono e
scendono in un oceano sconfinato.
Vita e morte non rappresentavano più un inizio o una fine ma erano una
cosa sola nel continuum dell’esistenza.

Esperienze simili sono alla portata di tutti; non c’è bisogno di essere dei
mistici o di andare chissà dove. Non occorre andare alla ricerca del campo
mentale, perché ne siamo circondati fin nei nostri geni. C’è semmai bisogno
di una visione delle cose particolare per far sì che il campo si mostri. Nella
tradizione vedica, un testo miscellaneo detto Shiva sutra fornisce centootto
tecniche per vedere oltre la maschera della materia. Una di queste permette di
scrutare ciò che sta al di là del cielo. Un’impresa impossibile, almeno in
termini fisici, ma provandoci accade qualcos’altro: la mente si ferma. Per lo
sconcerto causato dall’impossibilità dell’esercizio, il normale flusso dei
pensieri si arresta. In quell’istante la mente percepisce solo se stessa. Nessun
oggetto ostacola la pura consapevolezza! Ecco che cosa c’è al di là del cielo!
Un pesce, costantemente circondato dall’acqua, non può sapere che cosa
questa sia realmente. Ma se vi salta fuori si crea un contrasto, ed ecco che il
bagnato può essere percepito come opposto dell’asciutto. Non si può uscire
dal campo mentale, ma si può rallentare la mente, e allora si verifica un
contrasto del genere: si possono così sperimentare la quiete, il silenzio e la
cessazione dell’attività.
Anche se non praticate la meditazione, che ha permesso ai grandi saggi,
mistici e santi di trovare un profondo contatto con il campo, potete
ugualmente averne un assaggio. Sedetevi tranquilli, a occhi chiusi, senza fare
nulla. Notate il flusso di pensieri che vi passa per la mente. Ogni evento
mentale è temporaneo. Viene, permane un attimo e se ne va. Tra l’uno e
l’altro evento mentale c’è come un breve iato, un piccolo spazio vuoto.
Tuffandovi in questo gap potete raggiungere il campo mentale nella sua
infinita estensione.
Dopo avere intravisto lo spazio vuoto tra due pensieri, riaprite gli occhi.
Considerate ciò che avete appena sperimentato. Eventi mentali nascono, ma
da dove? E si dissolvono, ma per andare dove? Nel campo mentale.
Prestiamo così tanta attenzione ai nostri pensieri che non ci accorgiamo di
questo semplice fatto. Ogni pensiero è un evento transitorio, mentre la mente
è durevole e immutabile. Avete visto com’è facile notarlo? Per un istante
siete diventati gyan yogi, cioè qualcuno che è entrato in comunione con il
campo mentale. O per essere più precisi, qualcuno che sa di essere in
comunione con il campo mentale, perché in verità non è possibile non
esserlo. È solo che ci dimentichiamo del campo, ossessionati come siamo dal
costante avvicendarsi di pensieri, sensazioni, emozioni, fantasie nella nostra
mente.
Non intendiamo criticare l’attività della mente. Sperimentare il campo
mentale non fa che approfondire il nostro apprezzamento della vita. Suscita
quella meraviglia che fece esclamare al grande poeta persiano Rumi: «Siamo
venuti dal vorticoso nulla, spargendo stelle come polvere». E in un’altra
occasione: «Guarda questi mondi che escono roteando dal nulla / Questo è in
tuo potere».
La vita evolve secondo schemi che suscitano meraviglia in chiunque.
L’evoluzione ha dato origine al genoma umano e al cervello, la struttura più
complessa dell’universo conosciuto. Può questo mistero essere risolto
guardando oltre la maschera della materia? Il corpo manifesta
un’«intelligenza» pressoché infinita in ogni cellula. Quella che definiamo
intelligenza cellulare è la naturale capacità della cellula di adattarsi, reagire e
fare le scelte giuste in ogni istante, non solo per se stessa ma per tutte le altre
cellule, tessuti e organi del corpo. Qualcosa deve avere fatto sì che questo
accadesse. In cerca di quel qualcosa, dobbiamo volgere la nostra attenzione
all’evoluzione stessa, la forza che ha reso possibile a tutti noi di esistere.
Rendere consapevole l’evoluzione

IL super genoma ha notevolmente ampliato l’idea di cellula reattiva e


adattabile, e apre la via a molte altre prospettive interessanti. Una cellula
reattiva e adattabile è in grado di modificare il suo DNA quando l’ambiente
pone nuove sfide e opportunità. È in grado di ricevere e interpretare i
messaggi provenienti dal cervello e di rispondervi a tono. Si adatta quindi alle
nostre esperienze, sempre mirando a ristabilire uno stato di equilibrio, per il
suo bene e quello di tutte le altre cellule del corpo.
Quella a cui assistiamo è una partnership mente-corpo. La mente umana è
consapevole. Utilizza in modi sorprendenti adattamento, cicli di feedback,
creatività e complessità: il prezioso patrimonio della nostra evoluzione in
seno alla Natura. Le cellule rispecchiano la mente, conferendole espressione
fisica.
C’è un unico problema in questo quadro, ed è un grosso problema. La
teoria dell’evoluzione non ritiene che i geni possano avere consapevolezza.
Introdurre un termine come «gene intelligente» sarebbe anatema, sebbene la
maggior parte dei genetisti non abbia avuto nulla da dire contro il termine
«gene egoista». Essere egoisti implica fare delle scelte che servono solo a se
stessi, e ci vuole consapevolezza per fare questo.
Le nostre cellule compiono costantemente delle scelte. Immaginate una
sfera d’acciaio che si muova in cerchio su un foglio di carta: sembra
muoversi magicamente da sé, finché scopriamo che sotto il foglio un magnete
la controlla. Qualcosa di simile sembra accadere con l’attività delle cellule
nel nostro corpo.
Ipotizziamo di poter in qualche modo osservare le cellule del cuore
individualmente, e che senza alcun motivo apparente queste inizino a
contrarsi come impazzite, per poi rallentare di lì a poco. Sembrerebbero avere
intrapreso questa azione per conto proprio, ma poi scopriamo che l’uomo nel
cui petto batte quel cuore stava correndo su per le scale. La cellula cardiaca
risponde a istruzioni del cervello, e il cervello obbedisce alla mente. Ecco
come funziona la partnership. Ciò che riteniamo intelligente è la persona, non
le sue cellule. Persino le cellule cerebrali vengono dopo, nella partnership,
perché la mente è sempre al primo posto.
La teoria evoluzionista, invece, mette prima la materia. La mente, per il
darwinismo moderno tradizionalista, si è evoluta da un’attività cellulare di
base inconsapevole. Poi le interazioni chimiche sono diventate più
complesse, e così pure la capacità delle cellule di adattarsi all’ambiente
circostante. Singole cellule hanno iniziato a raggrupparsi per formare
organismi complessi. Dopo centinaia di milioni di anni quegli aggregati si
sono specializzati, e l’agente centrale, che era un nucleo, si è evoluto in
cellule nervose, poi in sistema nervoso primitivo e infine in cervello
primitivo. Abbiamo consapevolezza di tutto questo perché, essendo gli esseri
umani creature fortunate, le nostre cellule nervose raggruppate hanno finito
per collocarsi all’apice dell’evoluzione cerebrale. Il cervello umano ci ha resi
coscienti, consapevoli, creativi e altamente intelligenti.
In questo libro ipotizziamo, al contrario, che cellule e geni partecipino allo
stesso campo mentale del cervello. Questa teoria è accettabile a chiunque
creda, come i darwiniani, nella priorità della materia. La nostra tesi offre però
un grande vantaggio: apre una nuova frontiera nella partnership mente-corpo.
I panda continueranno a mangiare germogli di bambù; le tigri daranno
sempre la caccia alle antilopi; i pinguini attraverseranno sempre le sterminate
vastità antartiche per deporre le loro uova, almeno per il prossimo milione di
anni. Tanti ce ne vorrebbero, infatti, perché un gene mutato possa alterare
comportamenti istintivi tanto radicati.
Noi esseri umani possiamo tuttavia modificare la nostra alimentazione,
rinunciare alla violenza, diventare vegetariani e avere figli in un caldo e
confortevole ospedale anziché tra i ghiacci dell’Antartide. Siamo
infinitamente adattabili, per questo abbiamo spinto l’evoluzione ben oltre i
limiti fisici. La nostra pelle disperde un calore tale che trascorrere una notte
d’inverno nudi e all’aperto ci sarebbe fatale, infatti abbiamo aggirato un
simile svantaggio con ripari, vestiti e fuoco. Siamo diventati «stravaganze
evolutive», ma il nostro prossimo progresso potrebbe andare oltre qualunque
previsione del darwinismo classico.
Gli esseri umani potrebbero essere le prime creature nella storia della vita
sulla Terra a guidare autonomamente la propria evoluzione. Allora il super
genoma diventerebbe la chiave del futuro di tutti, a partire da ciò che ognuno
di noi sta pensando e facendo in questo preciso istante. Per arrivare a tanto,
però, dovrebbero prima verificarsi tre grandi cambiamenti nella nostra
comprensione dell’evoluzione, ciascuno dei quali abbatterebbe un pilastro
della teoria darwiniana.
Primo, l’evoluzione dovrebbe essere guidata da qualcosa di più della pura
casualità.
Secondo, l’evoluzione dovrebbe accelerare drasticamente, essere in grado
di apportare cambiamenti non nell’arco di centinaia di migliaia o milioni di
anni, ma in una sola generazione.
Terzo, l’evoluzione dovrebbe essere autorganizzante e quindi consapevole,
contemplando l’influsso della scelta, dell’apprendimento e dell’esperienza.
Queste sono serie provocazioni per lo status quo. Normalmente, dispute di
questo genere avvengono nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori, ma
l’obiettivo è di tale importanza per la vita di tutti che vogliamo introdurvi in
questa cerchia privilegiata. Come qualunque famoso genetista, anche voi
avete diritto di partecipare al dibattito sull’evoluzione umana e la direzione
che sta prendendo. Esaminiamo dunque i tre cambiamenti che dovrebbero
avvenire rispetto al darwinismo, e non perché lo diciamo noi, ma proprio
perché sono i cambiamenti a cui potrebbe portarci la nuova genetica.
L’evoluzione è solo un colpo di fortuna?
L’abbiamo già accennato all’inizio: l’idea che tutte le nuove mutazioni
avvengano casualmente appartiene ai miti obsoleti della genetica. Molti
biologi evoluzionisti insorgono a sentirlo dire, perché il fenomeno delle
mutazioni solo ed esclusivamente casuali è stato uno dei fondamenti del
darwinismo. Sostenere il contrario è stata una delle classiche strategie
d’attacco degli antievoluzionisti animati da fini religiosi, quindi ribadirlo
suscita il sospetto che si appartenga al loro schieramento.
Nella teoria darwiniana le mutazioni che guidano l’evoluzione non sono
indotte da esperienze di vita. Secondo Darwin, una giraffa non ha sviluppato
il suo collo lungo perché le era necessario. Un giorno un collo più lungo è
apparso accidentalmente su un esemplare, e quella giraffa felicemente mutata
ha finito per ottenere un vantaggio di sopravvivenza, che è stato poi
naturalmente selezionato per essere trasmesso alle generazioni successive.
È ovvio che un collo più lungo permette alle giraffe di raggiungere le
foglie più in alto su un albero, ma il darwinismo non ammette alcun perché.
La teoria evoluzionista classica non consente che si dica che un collo più
lungo è apparso perché l’animale aveva necessità di mangiare le foglie più in
alto sugli alberi; dice che la nuova mutazione è stata casuale, ed è rimasta
poiché conferiva all’animale una nuova capacità di sopravvivere.
Fuori del campo dell’evoluzione parliamo in continuazione di perché. Se
un giocatore di basket è una decina di centimetri più alto di qualunque altro
giocatore in campo e fa più canestri, è perché ha il vantaggio dell’altezza.
Allora perché non possiamo dire lo stesso della giraffa? La risposta ha a che
fare con il modo in cui le mutazioni vengono trasmesse. Quella prima,
fortunata giraffa doveva essere sopravvissuta, altrimenti la sua nuova
mutazione sarebbe stata inutile. Poi il gene mutato doveva essere passato alla
generazione successiva. Se continuava a dare un vantaggio di sopravvivenza,
adesso il gene era presente in più di un animale, e questo aumentava la sua
possibilità di lotta.
Tuttavia le probabilità erano ancora molto a suo sfavore, perché per essere
acquisito in modo permanente il gene mutato doveva prevalere nel genoma di
ogni giraffa; quelle dal collo corto, quindi, dovevano essere così svantaggiate
che sono scomparse dal pool genico. Tale processo è una questione di
numeri, pure statistiche ripetute di generazione in generazione. Ciò che conta
è il gene, e il maggiore o minore successo con cui viene trasmesso. Gli
evoluzionisti potrebbero ribattere, attingendo al buon senso, che un collo più
lungo permetteva alle giraffe avvantaggiate di arrivare a foglie a cui le giraffe
svantaggiate non potevano arrivare, ma scientificamente le cose non stanno
solo così. I dati concreti riguardano la persistenza di una mutazione nel
tempo.
Grazie alla moderna teoria genetica, le statistiche di sopravvivenza sono
state affinate. Il muro di ferro delle mutazioni casuali è qualcosa che
intimidisce; ci si trova di fronte l’intero establishment della genetica, che
respinge le idee alternative. O almeno così era in passato, fino allo scorso
decennio. Ora quel muro di ferro è diventato qualcos’altro: un baratro.
Un baratro è già meno ostile di un muro, perché per annullarlo non è
necessaria una palla demolitrice, basta un ponte. Su una sponda abbiamo il
fatto ovvio che gli esseri umani sono intelligenti. Sull’altra abbiamo la teoria
darwiniana, che considera «intelligenza» una parola sospetta. Questo termine
è stato corrotto dall’intrusione del Disegno Intelligente, un movimento che ha
cercato di usare la scienza per giustificare il libro della Genesi, tentativo
sventato da una netta opposizione della comunità scientifica, a cui noi
peraltro ci uniamo. Non è il caso, quindi, di ricombattere la stessa battaglia.
La rancorosa contrapposizione tra ragione e fede va semmai sanata, perché
entrambe meritano il posto che gli spetta.
Il baratro va colmandosi a mano a mano che nuovi studi e ricerche erodono
la teoria evoluzionista classica. Le mutazioni casuali non esauriscono la
questione, e la nuova genetica lo sta dimostrando. (Come disse il grande
filosofo ebreo olandese Spinoza: «Nulla in natura è casuale. Una cosa appare
casuale solo per l’incompletezza della nostra conoscenza».) E neppure la
selezione naturale la esaurisce. A differenza di giraffe, microbi e moscerini
della frutta, noi non esistiamo unicamente allo stato di Natura, ma nel
contesto di una cultura che ha profondi effetti sul funzionamento del super
genoma. Se tra i ratti una madre cattiva può trasmettere il suo comportamento
alla prole, l’uomo potrebbe fare lo stesso, ma su scala molto più ampia.
Se il baratro tra evoluzione classica e nuova genetica può essere colmato,
la notizia è straordinaria. Significa che stiamo davvero evolvendo in tempo
reale, e se questo è vero le conseguenze sono enormi.
Può l’evoluzione restare intatta e al tempo stesso rinunciare alla casualità
come verità assoluta? Può l’evoluzione consapevole passare da eresia
darwiniana a fatto accettato? Non solo può ma deve, se il super genoma
dovrà realizzare il suo enorme potenziale.
La fine della casualità
Le prove che le mutazioni genetiche non sono semplicemente casuali sono in
costante aumento. In uno studio del 2013 pubblicato sull’influente rivista
scientifica Molecular Cell, ricercatori della Johns Hopkins University hanno
dimostrato che quando delle mutazioni vengono deliberatamente introdotte
nel lievito per impedirne la crescita, sorgono immediatamente nuove
mutazioni per ripristinarla. Queste sono chiamate mutazioni secondarie
compensatorie, e sono tutt’altro che casuali. Mutazioni compensatorie
possono verificarsi anche se la soluzione di coltura del lievito viene privata
delle necessarie sostanze nutritive, il che crea un ambiente più stressante. Il
lievito è un organismo molto semplice, ma il punto qui è che in presenza di
difficoltà ambientali il genoma è in grado di adattarsi rapidamente e di
compensare con mutazioni indispensabili (cioè non casuali) alla
sopravvivenza. Le modificazioni epigenetiche dell’attività genica possono
essere utilizzate allo stesso scopo.
Un altro studio sui batteri di Escherichia coli pubblicato su Nature è giunto
a una conclusione analoga. I tassi di mutazione erano altamente variabili in
diverse parti del genoma dei batteri. I ricercatori hanno rilevato frequenze
minori di mutazione nei geni ad alta attività. Contrariamente alla teoria per
cui tutte le mutazioni sarebbero casuali, il tasso di mutazione tra geni sembra
essere stato evolutivamente ottimizzato per ridurre le mutazioni dannose in
determinati geni, i più critici per la sopravvivenza. Viceversa, un aumento di
mutazioni si registra laddove sono più utili, per esempio nei geni del sistema
immunitario, costretti a riorganizzarsi continuamente per produrre nuovi
anticorpi contro gli agenti patogeni invasori. Benché non sia ancora del tutto
chiaro come le mutazioni siano dirette ad alcuni geni e non ad altri quando
l’ambiente è problematico, un’ipotesi verosimile, attualmente in fase di
studio, è che l’epigenetica svolga un ruolo chiave.
Ovviamente Darwin, vissuto nell’Ottocento, ignorava che la frequenza
delle mutazioni variasse ampiamente nei diversi punti del genoma. Anzi,
ignorava l’esistenza stessa del genoma. Nel XXI secolo, tuttavia, per i
darwiniani puri sta diventando sempre meno sostenibile attenersi al dogma
che le mutazioni si verificano solo casualmente e sono poi soggette a
selezione naturale. L’effettivo tasso di mutazione in qualunque punto del
genoma è influenzato da molteplici fattori che variano per proteggere o
riparare il DNA, o da fattori epigenetici. Non si tratta di un processo casuale.
Nella nuova genetica c’è spazio sufficiente per sostenere che ogni essere
umano si sta evolvendo in questo preciso momento? Non ancora. Ci sono
degli ostacoli da superare, a cominciare dalla velocità dell’evoluzione, che è
così lenta da richiedere milioni di anni.
Alcune prove molto interessanti sembrano dirci che anche le mutazioni
tumorali non sono del tutto casuali come si credeva un tempo. Ma dal
momento che i dettagli scientifici sono piuttosto tecnici, rimandiamo alle
Appendici per una trattazione più approfondita di questo argomento.
Accelerare l’orologio
Nel darwinismo classico una specie deve attendere che una mutazione
genetica si verifichi casualmente. Se promuove la sopravvivenza, la
mutazione instaura nel portatore un nuova caratteristica comportamentale o
strutturale, dopodiché possono volerci milioni di anni per diffonderla tra la
popolazione della specie. Con l’epigenetica, invece, questi cambiamenti
possono riscontrarsi in vaste fasce della popolazione fin dalla generazione
successiva.
Quanto tempo esattamente sia necessario perché l’evoluzione abbia luogo
è discutibile, e la discussione può iniziare da molti punti. Cominciamo dalla
«difficoltà speciale» di Darwin, come lui stesso la chiamava, una difficoltà di
vasta portata. Il problema concerneva formiche e api. Darwin non riusciva a
capacitarsi di come formiche femmine sterili continuassero a ripresentarsi
nella colonia, generazione dopo generazione, pur non essendo in grado di
riprodursi. Aveva notato che le femmine sterili differivano da quelle fertili
sotto il profilo del comportamento e della morfologia. Non avendo le prime,
ovviamente, alcuna possibilità di riprodursi, come potevano i loro geni
continuare a essere trasmessi? Darwin non sapeva nulla di geni, ma la sua
teoria dipendeva dalla sopravvivenza, che non è possibile se un’intera classe
di formiche è sterile.
Trovare la risposta è stato impossibile fino all’avvento dell’epigenetica,
molto tempo dopo la morte di Darwin. L’epigenetica spiega come
modificazioni chimiche del DNA possono alterare in modo permanente
l’attività genica, attivandola o disattivandola. Questo processo può avvenire
dopo la nascita, aggirando la vessata questione della trasmissione di nuovi
geni; infatti è sufficiente modificare quelli esistenti. Darwin, del resto, è
arrivato vicino alla risposta ipotizzando che si potesse rinvenire nei sistemi di
casta delle api.
A seconda del tipo di cibo che mangiano, le larve delle api possono
aspirare a diventare ape regina o finire invece come sterili operaie
nell’alveare. La differenza sta in un alimento speciale, la cosiddetta pappa
reale, ricca di sostanze nutritive che favoriscono un maggiore sviluppo delle
ovaie. Si è visto che l’esatto meccanismo comporta alterazioni epigenetiche
di particolari geni. Mentre la dieta a pappa reale permette all’ape regina di
vivere per anni deponendo milioni di uova, la breve vita di un’ape operaia è
tutta devoluta alla cura dell’alveare e delle larve e alla ricerca di cibo. In altre
parole, si spende interamente per il bene dell’alveare.
Un meccanismo simile si ritrova in una colonia di formiche. Alla fine
Darwin ha ipotizzato che nel caso delle formiche la selezione naturale non si
applicasse solo all’individuo, ma anche alla famiglia e alla società. Iniziava a
intuire che un’intera colonia poteva essere vista come un singolo «super
organismo» in evoluzione, che è come la vediamo oggi.
L’alimentazione può ulteriormente modificare l’attività genica
programmando alcune api a emettere feromoni che le istruiscono a prendersi
cura dei piccoli o a uscire alla ricerca di cibo. L’attività genica può essere
modificata dall’azione di enzimi detti istone deacetilasi (HDAC), che
rimuovono sostanze chimiche note come gruppi acetile dai geni
epigeneticamente modificati. Si è scoperto che la pappa reale contiene
inibitori di HDAC, che garantiscono a un’ape la posizione di possibile regina
futura. È interessante notare che proprio mentre scrivevamo questo libro
l’FDA ha approvato il Farydak, il primo farmaco epigenetico, un inibitore di
HDAC per la cura delle forme ricorrenti di un particolare tumore, il mieloma
multiplo (MM). Il Farydak inverte le modificazioni epigenetiche che si
verificano in alcuni geni con l’intento di prevenire la diffusione del MM in
altre parti del corpo.
Dopo centocinquant’anni la «difficoltà speciale» di Darwin ha portato a
capire che l’epigenetica determina non solo il destino delle larve di ape, ma
anche il loro successivo comportamento. Questa deviazione genetica accelera
l’evoluzione e, cosa non meno importante, la rende personale. Nella teoria
darwiniana classica l’evoluzione è totalmente impersonale. Per affermarsi,
una nuova mutazione genetica deve essere trasmessa a una larga fascia di
popolazione vegetale o animale. Le ali inabili al volo di un pinguino, per
esempio, hanno permesso all’intera specie di sopravvivere tuffandosi in mare
e nuotando dietro ai pesci.
L’epigenetica, invece, modifica la vita dell’individuo. Nel caso delle api, la
vita di una singola femmina sterile viene determinata da modificazioni
epigenetiche. Questa differenza può avere implicazioni rivoluzionarie per gli
esseri umani. Finora abbiamo offerto molte prove che la commutazione
epigenetica è il fattore chiave nelle scelte di stile di vita e nel benessere, ma la
speranza che gli evoluzionisti prendano anche solo in considerazione,
figurarsi approvare, questo nuovo paradigma si scontra con notevoli
resistenze.
Attualmente vi è un’accesa controversia sul fatto se l’Homo sapiens sia
geneticamente progredito nel corso della nostra vita relativamente breve
come specie. Dopo avere lasciato l’Africa duecentomila anni fa, i nostri
progenitori popolarono aree del pianeta tra loro remote, per questo le
caratteristiche di viso, pelle e struttura scheletrica di ciascun grande gruppo
sono diventate uniche. Un volto asiatico non assomiglia a un volto europeo in
qualche aspetto caratteristico, esattamente come il colore della pelle di un
africano non assomiglia a quello di nessuna delle suddette popolazioni.
Come spiega il noto biologo e scrittore H. Allen Orr: «I genetisti
potrebbero scoprire che la variante di un dato gene si trova nel 79% degli
europei, ma solo, diciamo, nel 58% degli abitanti del Sudest asiatico. Solo di
rado tutti gli europei sono portatori di una variante genetica che non appare in
tutti gli asiatici. Ma all’interno dei nostri vasti genomi queste differenze
statistiche si sommano, e i genetisti non hanno difficoltà a concludere che il
genoma di un individuo è probabilmente europeo, e quello di un altro è
probabilmente del Sudest asiatico».
Si è argomentato che da un genoma all’altro vi è tanta differenza che la
cronologia dell’evoluzione andrebbe accelerata per giustificare tale
fenomeno. Secondo alcuni evoluzionisti, fino all’8% dei cambiamenti
genetici si sarebbe verificato tramite selezione naturale solo negli ultimi
venti-trentamila anni, un batter di ciglia in termini di epoche evolutive,
considerata per esempio l’evoluzione del cavallo da un piccolo progenitore,
l’Eohippus (in greco, «cavallo dell’alba»), che era grande solo il doppio di un
fox terrier e vagava per il Nordamerica tra i quarantotto e i cinquantasei
milioni di anni fa.
All’interno di questa controversia, in cui i dati tendono a essere molto soft
e le conclusioni ipotetiche, non è nemmeno chiaro se il nostro genoma sia
cambiato per vantaggi in termini di sopravvivenza (avere più cibo) o di
accoppiamento. Secondo alcuni, forse i cambiamenti genetici non sono
interamente dovuti a mutazioni casuali e selezione naturale, ma guidati dalla
cultura. Dato che gli esseri umani vivono in comunità, è plausibile, secondo
questa tesi, che i tratti a supporto delle abilità sociali siano stati privilegiati
nella riproduzione, e quindi tramandati fino ai giorni nostri. Come
esattamente un gene promuova un’abilità specifica è tuttavia opinabile.
È interessante seguire la lotta che un medico e sociologo di Yale, Nicholas
Christakis, ha dovuto affrontare prima di dichiarare pubblicamente che «la
cultura può modificare i nostri geni».
Questo è anche il titolo di un articolo di Christakis comparso on line nel
2008, in cui si legge: «Ho cambiato parere su come gli individui giungono
letteralmente a incarnare il mondo sociale che li circonda». Come sociologo
Christakis aveva raccolto abbondanti prove che le esperienze degli esseri
umani – la povertà, per esempio – forgiano i loro ricordi e la loro psicologia.
Ma quello era il limite. Come medico, invece, ha affermato: «Ritenevo che i
nostri geni fossero storicamente immutabili, e che non fosse possibile
immaginare un dialogo tra cultura e genetica. Credevo che come specie
evolvessimo in tempi di gran lunga troppo estesi per poter essere influenzati
dalle azioni umane».
Evoluzione in tempo reale
Senza ricorrere all’epigenetica per descrivere il motivo per cui ha cambiato
parere, Christakis fornisce un esempio illuminante di come la cultura parla ai
geni:
L’esempio migliore che conosciamo è l’evoluzione della tolleranza al lattosio negli adulti. La
loro capacità di digerire il lattosio (uno zucchero del latte) conferisce vantaggi evolutivi solo
quando sia disponibile un approvvigionamento stabile di latte, cioè dopo che sia avvenuta la
domesticazione degli animali che lo producono (ovini, bovini, caprini). Tali vantaggi sono
numerosi, e vanno dalla disponibilità di una fonte di preziose calorie a quella di una fonte di
indispensabile idratazione nei periodi di carenza d’acqua. Sorprendentemente, solo negli ultimi
tremila-novemila anni si sono verificate numerose mutazioni adattative in popolazioni
ampiamente separate in Africa e in Europa, che hanno conferito la capacità di digerire il lattosio.
[…] Questa caratteristica è sufficientemente vantaggiosa da permettere a quelli che la
possiedono di avere molti più discendenti rispetto a chi ne è privo.

Da tre a novemila anni è una velocità vertiginosa in termini di epoche


evolutive, ma Christakis non vede più il motivo di dubitarne: «Stiamo
evolvendo in tempo reale», scrive, «sotto la pressione di forze storiche e
sociali ben visibili». La portata di queste parole non si coglie appieno finché
non ci si rende conto che discernere «forze storiche e sociali» sono in qualche
misura sotto il nostro controllo. Dopotutto noi esseri umani intraprendiamo
guerre, sterminiamo masse umane, infliggiamo carestie o, sul versante
positivo, aiutiamo i popoli che ne sono colpiti, curiamo epidemie,
soccorriamo i poveri.
Per Christakis l’argomento decisivo è stato uno studio del 2007
dell’antropologo John Hawks e dei suoi colleghi dell’Università del
Wisconsin apparso nei prestigiosi Proceedings of the National Academy of
Sciences, il quale forniva la prova che l’adattamento umano ha accelerato
negli ultimi quarantamila anni. Secondo Hawks e il suo team, un tasso
accelerato di «selezione positiva» può essere statisticamente provato
studiando genomi di tutto il mondo, che avallano «la straordinariamente
rapida evoluzione genetica recente della nostra specie». Tutto un ventaglio di
possibilità si è improvvisamente aperto. Varianti genetiche possono avere
favorito alcuni nella sopravvivenza a epidemie come il tifo dopo la nascita
delle città e la più accentuata promiscuità con altri.
Dopo avere iniziato a pensarla in questo modo, Christakis si è reso conto
che né la cultura né i geni stavano facendo un soliloquio, ma che erano da
sempre in dialogo. «È difficile dire quali siano i limiti di questo fenomeno.
Possono esistere varianti genetiche che favoriscono la sopravvivenza in
ambito urbano, o il risparmiare per la pensione, o il consumo di alcolici, o
una preferenza per reti sociali complesse. Possono esistere varianti genetiche
(basate su geni altruistici che fanno parte del nostro retaggio di ominidi) che
favoriscono la vita in una società democratica, o tra i computer. […] Forse
anche il mondo più complesso in cui viviamo oggi ci sta davvero rendendo
più intelligenti.»
L’evoluzione in tempo reale è cruciale per il super genoma. Possiamo
essere certi che sta avvenendo nel microbioma, perché i batteri hanno vita
molto breve e sono inclini a rapide mutazioni. Ma se il benessere profondo
deve diventare una realtà, l’evoluzione in tempo reale deve necessariamente
valere per tutto il sistema corpo-mente. Com’è possibile? Prima che il
darwinismo trionfasse c’erano altre teorie evolutive, e una in particolare
secondo cui le creature potevano evolvere nel corso di una singola vita.
Il naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) fu un sostenitore
della teoria dell’evoluzione quasi mezzo secolo prima di Darwin. Eroe sui
campi di battaglia la Prussia e scienziato determinato in laboratorio, morì
povero, cieco e pubblicamente ridicolizzato; anzi, le sue idee sull’evoluzione
continuarono a essere oggetto di scherno fino a poco tempo fa, perché
contraddicevano quelle di Darwin. Lamarck ipotizzava che le specie si
evolvessero in base ai comportamenti dei genitori. Per esempio, riteneva che
se uno diventa colto leggendo centinaia di libri avrà figli intelligenti.
Naturalmente non è così, ma ora, alla luce dell’epigenetica, le tesi
lamarckiane appaiono un po’ meno assurde.
Lamarck potrebbe essere considerato il padre dell’ereditarietà soft, che è il
fulcro dell’epigenetica: tratti che vengono trasmessi alla generazione
successiva se il padre o la madre hanno vissuto esperienze sufficientemente
forti – per esempio una carestia o la prigionia in un campo di concentramento
– da creare segnali epigenetici, o se durante la gravidanza la madre ha fumato
o bevuto troppo, o se è stata esposta a tossine ambientali. Con gli enormi
progressi delle analisi genetiche dei genomi – tutti, da quello umano a quelli
virali – sono state confermate non solo le teorie darwiniane dell’ereditarietà
hard, ma anche alcuni principi lamarckiani.
Un corpus crescente di dati epigenetici suggerisce che se non altro
Lamarck era sulla strada giusta. L’ereditarietà soft è un ottimo esempio di
evoluzione accelerata. Tuttavia, resta ancora da dimostrare che i cambiamenti
di stile di vita dei genitori possano essere trasmessi ai figli: a livello
epigenetico sono abbastanza forti e persistono abbastanza a lungo? Per ora
queste domande restano senza risposta. Mancando di qualunque nozione di
genetica, Darwin non poteva neppure azzardarne una. Un giorno, forse, una
qualche combinazione di ereditarietà soft e hard ci riuscirà.
Attribuire un ruolo alla mente
Abbiamo iniziato questo capitolo dicendo che la teoria evoluzionista doveva
subire tre cambiamenti affinché il super genoma potesse realizzare il proprio
potenziale. Poi abbiamo parlato dei primi due, rimuovendo la barriera delle
mutazioni casuali e accelerando il tasso di cambiamento evolutivo. Ora
rimane il terzo, quello potenzialmente più controverso: conferire un ruolo alla
mente.
Visto che la parola stessa, «mente», è fonte di tante polemiche e
controversie, sostituiremo i termini che descrivono come funzionano i sistemi
quando diventano complessi ed evoluti. Non serve a nulla scontrarsi con gli
arcimaterialisti, molti dei quali considerano la mente una branca dell’attività
fisica del cervello, come il calore emanato da un falò.
Anni fa abbiamo scritto un volume intero, Super Brain, sul rapporto tra
mente-cervello, sostenendo con forza la tesi secondo cui la mente viene prima
e il cervello dopo. Ma un libro sulla genetica deve reggersi in piedi da solo.
Non ci sono controversie, o quasi, sul fatto che i sistemi complessi siano
autorganizzanti e si avvalgano di cicli di feedback come forma di
apprendimento. L’apprendimento implica sempre evoluzione,
indipendentemente dal fatto che lo chiamiamo apprendimento consapevole o
comportamento di un sistema complesso. Stabilito questo, procediamo.
Come sarebbe un’evoluzione consapevole? Avrebbe direzione, senso e
scopo. La bellezza di un uccello del paradiso multicolore nella foresta
pluviale della Nuova Guinea, la meravigliosa simmetria di una tigre, la
fremente gracilità di un cerbiatto: tutte queste caratteristiche sarebbero
intenzionali. Ci sarebbe una ragione per il loro esistere al di là della
sopravvivenza del più adatto.
Come per altri aspetti della nuova genetica, l’assurdità di una simile
nozione si è gradualmente attenuata. Se sostenere che l’evoluzione ha uno
scopo e un fine (in pratica, una teleologia) è ancora un salto enorme, definire
l’evoluzione del tutto cieca non è più una tesi sostenibile. La svolta si è avuta
quando, nel corso degli ultimi decenni, ha iniziato ad affermarsi il concetto di
autorganizzazione. Da adolescenti, probabilmente, la vostra cameretta era
quella tipica di un ragazzino o ragazzina di quell’età – disorganizzazione
totale, abiti sparsi ovunque, letto sfatto eccetera –, ma da adulti avete poi
avuto la necessità di organizzare la vostra vita per liberarvi del caos.
L’evoluzione si è trovata dinanzi lo stesso dilemma, e aumentare
l’organizzazione per scongiurare il caos ha portato alla stessa soluzione.
Nel 1947 un brillante neuroscienziato e psichiatra britannico, William Ross
Ashby, pubblicò sul Journal of General Psychology un articolo intitolato
«Principle of the Self-Oraganizing System» («Principio del sistema
autorganizzante»). La sua definizione di «organizzazione» non ruotava
intorno all’utilità, secondo cui è meglio gestire un business organizzato
anziché uno disorganizzato. Ashby non dava giudizi di valore sull’essere o
meno organizzati. Sosteneva piuttosto che l’organizzazione riguarda
determinate condizioni tra le parti interconnesse di un sistema emergente. E
questo si dà il caso che abbia enormi implicazioni con il modo in cui il nostro
genoma si organizza.
Secondo Ashby, un sistema autorganizzante è composto di parti unite, non
separate, e ciascuna deve influire sulle altre. L’importante è il modo in cui le
parti si regolano a vicenda. Un fornello, per esempio, non è autoregolante. Se
vi mettiamo sopra un bollitore e ci allontaniamo, la temperatura dell’acqua
diventerà sempre più calda finché questa evaporerà e il bollitore inizierà a
fondersi sul fornello. Un termostato, invece, è autoregolante: infatti è
possibile impostare la temperatura desiderata e andarsene, sapendo che se
nella stanza inizierà a fare troppo caldo il dispositivo spegnerà il
riscaldamento.
Se il nostro corpo funzionasse come un fornello non potremmo
sopravvivere: una febbre che salisse indisturbata di anche solo cinque gradi
potrebbe causare danni al cervello e portare alla morte; un raffreddamento
eccessivo bloccherebbe il metabolismo e causerebbe ipotermia, che in casi
estremi potrebbe rivelarsi fatale. L’autoregolazione tipica di un termostato
esiste ovunque nel nostro corpo, e regola non solo la temperatura, ma anche
decine di altri processi. Grazie a questa autoregolazione, infatti, a un certo
punto della vita smettiamo di crescere, la nostra frequenza cardiaca non
continua ad accelerare fino a farci scoppiare il cuore e la risposta combatti o
fuggi non ci fa scappare senza mai fermarci.
Ogni cellula del nostro corpo si è sviluppata per passi ordinati e
autoregolati, i quali raggiungono una sorprendente complessità nel cervello
del feto. A partire da una singola cellula-uovo fecondata, nell’arco di nove
mesi cellule nervose iniziano a differenziarsi, prima isolatamente e poi
formando una rete. Nel secondo trimestre nuove cellule cerebrali si formano
all’incredibile velocità di duecentocinquantamila al minuto, per giungere,
secondo alcune stime, addirittura al milione di nuove cellule al minuto poco
prima della nascita. Queste cellule non sono semplicemente «gocce» di vita
legate insieme. Ciascuna ha un compito specifico e si relaziona ad altre
cellule nervose circostanti. E il cervello sa dove deve stare ognuna delle sue
cento miliardi di cellule.
Connessioni, reti e cicli di feedback sono la base di tutti i sistemi
autorganizzanti. Miliardi di anni fa i primi batteri esordirono forse in modo
indipendente, ma una volta incontratisi iniziarono a interagire e a formare
comunità, finendo per dipendere gli uni dagli altri per sopravvivere e
prosperare. Nel nostro corpo, come abbiamo visto, i batteri cooperano con le
cellule. Condividono gran parte del nostro DNA e interagiscono per formare
un microbioma immensamente complesso e sofisticato. L’evoluzione ha reso
la nostra sopravvivenza totalmente dipendente dai batteri. Se nel XX secolo
abbiamo trascorso la maggior parte del tempo a capire come combattere i
microbi, nel XXI ci stiamo concentrando sul modo per convivere
armoniosamente con loro. Il super genoma è il sistema autorganizzante
migliore di tutti, perché rispecchia l’intera storia della vita sulla Terra.
Il DNA, non c’è bisogno di dirlo, è incredibilmente ordinato, con i suoi
miliardi di coppie di basi ben sistemate. A ogni modo, questo è più che un
comune legame chimico. All’interno di una cellula è in corso un’attiva
autorganizzazione. Cromosomi specifici occupano posizioni specifiche nel
nucleo. Solo il 3% del genoma è in realtà composto di geni, e le regioni
povere di geni sono vicino al bordo del nucleo, dove vi è la minima capacità
per l’epigenetica di modificare l’attività genica. Per contro, le aree ricche di
geni del genoma si trovano al centro del nucleo, dove la regolazione
dell’attività genica è più concentrata. I geni controllati dalle stesse proteine
tendono a raggrupparsi in «domini» genomici, rendendo più facile a quelle
proteine trovarli. Tutto ciò che vediamo nel genoma ci dice che non è
disposto casualmente, ma logicamente. Detto questo, sarebbe un errore
spingersi all’estremo opposto e sostenere che sia stato «progettato» in questo
modo. Il disegno diventa evidente solo a posteriori. Il viaggio fino a quel
punto è stato portato a termine dai principi di autorganizzazione.
I sistemi autorganizzanti esistono come propria ragione e causa: ricreano
costantemente se stessi con nuove interazioni, il che porta a nuovi stati di
ordine che non sono mai definitivi. Per esempio, un atomo è in realtà un
sistema submicroscopico che obbedisce a regole di ordine e sistematicità. Gli
elettroni sono disposti in modo tale che un atomo di ossigeno sia diverso da
un atomo di ferro. Ma è stato lasciato spazio al cambiamento. Poiché gli
elettroni esterni in questi atomi possono legarsi, si crea l’ossido ferroso (la
comune ruggine). Anche questa non è totalmente stabile, cosa che porta a
ulteriori cambiamenti. La ruggine è più complessa delle sue due componenti,
l’ossigeno e il ferro. Così la complessità alimenta maggiore
autorganizzazione, e viceversa.
Questo è il miracolo perenne dell’evoluzione, che sfida il caos con slanci
creativi sempre maggiori. Accumulando sabbia su una spiaggia si ottiene una
duna di sabbia. È grande, ma non complessa; nulla la tiene insieme facendone
un sistema, basta una mareggiata a farla sparire. Ma le cellule che si
accumulano in un feto non lo fanno come granelli di sabbia: si legano,
interagiscono, si organizzano. Così nessuna mareggiata può disperdere un
corpo umano.
Questo è solo l’inizio. Complessità e autorganizzazione, procedendo di
pari passo, hanno imparato a creare la vita, e la vita ha imparato a pensare.
Accantoniamo per il momento il concetto che il pensiero, secondo la maggior
parte degli evoluzionisti, sarebbe nato solo con il cervello umano. L’intera
marcia di eventi che ha condotto al cervello mostra che i nuovi stati di ordine
non sono mai completi. Come ha detto l’eminente biologo teorico Stuart
Kauffman: «L’evoluzione non è solo ‘caso colto al volo’. Non è solo
ingegnosa riproposizione di ciò che si presenta ad hoc, bricolage, insieme di
accorti espedienti. È ordine emergente rispettato e perfezionato dalla
selezione».
Tenere tutto insieme
Il legame chimico che associa atomi di ossigeno e di ferro per creare la
ruggine è un fenomeno fisico, ma il funzionamento del genoma umano
contiene qualcosa che va ben oltre il fisico. Il termine tecnico per designare
questo fattore invisibile è «autoreferenza». Significa che un sistema si
mantiene sotto controllo inviando costantemente messaggi avanti e indietro,
cosicché un ciclo di cambiamento sia anche un ciclo di stabilità.
Chiave dell’autoreferenza è il ciclo di feedback. Quando un gene produce
una proteina, è certo che direttamente o indirettamente questa contribuirà a
regolare l’attività del gene in futuro. In parole povere, se A produce B, B
deve in qualche modo, direttamente o indirettamente, governare A. Le nostre
scelte, fisiche o mentali, tornano a governarci. La scala può essere molto
grande o molto piccola. Se siamo single e decidiamo di sposarci, questa
decisione getta su tutti i nostri ricordi del passato una nuova luce, esattamente
come ammalarsi mette sotto una nuova luce la salute e invecchiare modifica
l’idea di gioventù. Ogni fase della vita produce un avanzamento e al tempo
stesso interpreta il passato.
L’autoreferenza permette dunque ai nostri geni di darci esattamente ciò che
serve alla nostra vita oggi, senza mai perdere di vista la loro programmazione
passata. Al tempo stesso, tramite mutazioni e segnali epigenetici, il presente è
in grado di alterare queste istruzioni. Questa è la base dell’autoreferenza.
Nell’universo niente viene prodotto senza che in qualche modo torni a sua
volta a controllare ciò che lo ha creato. In termini spirituali abbiamo il
principio dell’equilibrio morale tra bene e male (legge del karma), espresso
nel Cristianesimo dal celebre adagio biblico: «Come semini, così
raccoglierai». Nella fisica newtoniana, è la terza legge della dinamica: a ogni
azione corrisponde una reazione pari e contraria. Gli opposti dovrebbero
compromettere un sistema, ma non è così, perché l’elemento invisibile
dell’autorganizzazione lo mantiene intatto.
Dietro i legami tra un organismo e il suo ambiente ci sono meccanismi di
feedback. Lasciatecelo spiegare un po’ tecnicamente, perché il feedback è un
elemento fondamentale di questo discorso. Oggi sappiamo che i geni sono
resilienti a forze e controforze. Nell’evoluzione, nuove mutazioni si
verificano in presenza di stress e difficoltà nell’ambiente. In condizioni
difficili, il DNA di certi geni viene esposto in modo da poter essere attivato o
disattivato epigeneticamente, o aumentato o diminuito nella sua attività da
specifiche proteine dette fattori di trascrizione. Questo comporta innanzitutto
cambiamenti nella vera e propria ripiegatura e topografia del DNA.
Di conseguenza, le regioni di DNA esposte possono essere più inclini a
mutazione. Dunque in questo modello, oggi sempre più accettato, le
mutazioni non avvengono in punti casuali del genoma. Alterazioni ambientali
inducono cambiamenti nel modo in cui il DNA è ripiegato, non nell’effettiva
sequenza di coppie di basi, e questo determina quali regioni del gene sono
esposte a possibili mutazioni. In altre parole, ambiente, circostanze della vita,
stress e difficoltà esterne influiscono sul modo in cui il DNA è ripiegato nel
nucleo, lasciando più esposte a una mutazione certe regioni e non altre. In
questo caso le mutazioni non sono casuali ma nascono in seguito a specifiche
condizioni ambientali. Anche se siamo ancora in parte nel campo delle
ipotesi, è indubbio che il feedback tra geni e condizioni esterne è
fondamentale. Permette a un organismo di adattarsi alle condizioni dettate
dalla Natura, ed è un meccanismo tanto affidabile da avere sostenuto la vita
dai primordiali microrganismi fino a oggi.
A mano a mano che ciascun componente del genoma emergeva e
interagiva con gli altri, tutti si regolavano reciprocamente per dare luogo a
quello che appare come un disegno logico. In realtà non vi era nessun
disegno precostituito, né vi sarà in futuro. I processi naturali raggiungono i
loro risultati in tempo reale tramite autointerazione. La nostra mente fatica a
capire come questo possa accadere. Leonardo da Vinci commentava,
ammirato: «Lo ingegno umano mai troverà invenzione più bella, né più
facile, né più breve della natura, perché nelle sue invenzioni nulla manca e
nulla è superfluo».
In sostanza, la Natura si basa tutta su cicli di feedback. Se i nostri geni
approntano il palcoscenico, noi decidiamo quale personaggio interpretare e
scegliamo gli altri con cui interagire su quel palcoscenico. E a sua volta il
palcoscenico si adatta a noi. Modifichiamo costantemente i nostri geni con le
nostre parole, azioni e opere, e questo meccanismo di feedback è stato e sarà
sempre la pietra angolare dell’evoluzione.
Ereditarietà misteriosa
A pensarci bene, il fatto che rivendichiamo la mente come nostra prerogativa
personale può sembrare arbitrario, presuntuoso e decisamente
antropocentrico. Del resto, l’idea che la Natura abbia creato la nostra mente
in modo inconsapevole non ha molto senso. La connaturata ingegnosità degli
stratagemmi evolutivi è stupefacente persino nelle forme di vita cosiddette
inferiori. Per esempio, cambiamenti in termini di sopravvivenza basati sui
geni possono avere luogo per semplice furto. Prendiamo il caso della scaltra
lumaca di mare verde smeraldo Elysia clorotica, che assomiglia molto a una
pianta. Quando è il momento di mangiare, questa lumaca sottrae cloroplasti
(organuli in grado di compiere la fotosintesi clorofilliana) alle alghe presenti
nell’ambiente per produrre cibo per sé nello stesso modo in cui lo fa una
pianta, cioè ottenendo zuccheri da acqua, clorofilla e luce solare.
Questo interessante caso di furto di cloroplasti è noto da decenni, ma più di
recente si è scoperto che l’astuta lumaca di mare è in grado di rubare alle
alghe anche interi geni, i quali le permettono di prodursi il cibo.
Normalmente i cloroplasti rubati durerebbero solo poco tempo, ma i geni che
la lumaca ruba e lega al proprio genoma li fanno durare a lungo, producendo
cibo per molto più tempo. È stupefacente che un animale possa nutrirsi come
una pianta grazie a un furto di geni tra specie.
Qualcosa di simile riguarda anche noi. Un tempo gli scienziati credevano
che tutte le cellule del nostro corpo contenessero genomi identici, ma ora si
scopre che nel nucleo di una singola cellula umana è possibile trovare più di
un genoma. Nello specifico, in alcuni individui sono stati trovati gruppi di
cellule contenenti mutazioni genetiche multiple che non si osservano in
nessun’altra parte del loro corpo. Questo può accadere quando i genomi di
due cellule-uovo diverse si fondono insieme in un’unica cellula-uovo. Una
madre incinta può persino acquisire nuovi genomi dal suo bambino, che dopo
la nascita lascia dietro di sé cellule fetali. Queste cellule possono migrare
negli organi della madre, cervello compreso, ed essere assorbite. È un evento
noto come mosaicismo, e apparentemente è molto più comune di quanto si
credesse in passato. In alcuni casi si ipotizza che il mosaicismo possa
contribuire a patologie come la schizofrenia, ma perlopiù è ritenuto benigno.
Persino nelle roccaforti darwiniane è ormai evidente che l’evoluzione è una
complessa danza tra ereditarietà hard e soft. Per esempio, la riproduzione
sessuale nella maggior parte delle specie è geneticamente determinata. Un
moscerino della frutta sa automaticamente che per accoppiarsi deve trovare
una femmina adatta, sfiorarla con le zampette anteriori, cantarle delle
particolari melodie, vibrare un’ala e leccarle i genitali. Nessuno deve
insegnargli tutto questo. Ogni gesto è geneticamente determinato, e in termini
evolutivi il programma è molto antico. Ma a un dato momento di molto
tempo fa questi comportamenti non erano ancora automatici. Ciascun
componente del rituale di accoppiamento dev’essersi manifestato
individualmente in qualche moscerino della frutta ancestrale per poi
diffondersi agli altri. Con il tempo il nuovo tratto ha avuto un tale successo
che l’accoppiamento non poteva più avvenire senza. A quel punto, il
comportamento ormai radicato è detto istintivo, innato o geneticamente
determinato.
In altre parole, il comportamento si manifesta senza alcun pensiero che lo
anticipi. Si produce in risposta a uno stimolo specifico; uno scarafaggio corre
a nascondersi appena si accende la luce; una lucertola fa altrettanto quando
percepisce l’ombra di una persona; uno scoiattolo allarga la coda per
sembrare più grande di fronte a un aggressore. Queste risposte geneticamente
determinate sono diventate automatiche per motivi di sopravvivenza, ma è
esagerato affermare, come fanno gli psicologi evoluzionisti, che anche il
comportamento umano sia dettato perlopiù da questo.
Un’affermazione simile è un tentativo di farci apparire geneticamente
determinati come i moscerini della frutta, gli scarafaggi e gli scoiattoli.
Senz’altro abbiamo ereditato dai nostri progenitori mammiferi meccanismi
geneticamente determinati, e la risposta combatti o fuggi ne è l’esempio più
lampante. Noi però non possiamo ignorare la nostra eredità ancestrale: per
esempio, davanti a un incendio un vigile del fuoco anziché fuggire si getta tra
le fiamme per salvare qualcuno, o un soldato in battaglia affronta il fuoco
nemico per andare a recuperare un compagno ferito. La mente trionfa
sull’istinto grazie al libero arbitrio. Allo stesso modo, la mente trionfa sui
geni, ma questa idea i genetisti tradizionalisti non la tollerano.
Vi è forse un beneficio di sopravvivenza nell’arte, nella musica,
nell’amore, nella ricerca della verità, nella filosofia, nella matematica, nella
compassione, nella carità e in pressoché ogni altro aspetto che ci rende
pienamente umani? Questi tratti sono acquisiti per via genetica? Elaborati
scenari vengono continuamente concepiti dagli psicologi evoluzionisti, i quali
sostengono, per esempio, di poter dimostrare che l’amore è solo una condotta
finalizzata alla sopravvivenza o una strategia emersa per favorire
l’accoppiamento. Qualunque altro tratto umano viene «spiegato» in modo
simile per un solo motivo: preservare a tutti i costi l’originario schema
darwiniano.
In questa prospettiva è dunque anatema sostenere che l’Homo sapiens si
sia evoluto usando la mente e aggirando i geni. Eppure è così ovvio che ci
dedichiamo alla musica perché è bella, proviamo compassione perché toccati
dalla sorte altrui e così via. In qualche modo questi comportamenti li abbiamo
ereditati, ma nessuno sa come. L’esistenza della mente come forza motrice è
una spiegazione valida quanto un’altra, e spesso decisamente di più. È del
tutto plausibile che «installiamo» in noi molti dei meravigliosi tratti che ci
rendono umani, ma non facendo evolvere i tanti piccoli gesti che
compongono il rituale di accoppiamento di un moscerino della frutta, bensì
prendendoli in blocco.
Per esempio, a volte sentiamo parlare di bambini prodigio che, pur non
avendo mai seguito lezioni di musica, sanno istintivamente come suonare uno
strumento fin dalla più tenera età. La grande pianista argentina Martha
Argerich racconta una storia simile:
Avevo due anni e otto mesi, andavo a una scuola materna con un programma pedagogico
d’avanguardia. Ero molto più piccola dei miei compagni. Tra loro c’era un bambino che mi
provocava in continuazione. Aveva cinque anni e mi diceva sempre: «Tu questo non lo sai fare,
quest’altro nemmeno…» Allora io, a ogni cosa che secondo lui non ero capace di fare, mi ci
mettevo d’impegno e la facevo. Una volta gli saltò in mente di dirmi che non ero capace di
suonare il piano. Ecco com’è iniziato tutto. Lo ricordo come se fosse ora: mi alzai, andai al
pianoforte e cominciai a suonare una melodia che la maestra ci suonava spesso. La suonai a
orecchio, perfettamente. La maestra mandò subito a chiamare mia madre e rimasero incantate. E
tutto per quel bimbo che aveva detto: «Scommetto che non sei capace di suonare il piano».

È impossibile sapere se Argerich abbia semplicemente ereditato i geni o i


segnali epigenetici a cui deve il suo incredibile dono. Esistono, del resto,
competenze ereditate. I neonati nascono con il riflesso di prensione, che
permette loro di attaccarsi al seno. Hanno il senso dell’equilibrio e alcuni
rudimentali ma potenti riflessi finalizzati alla sopravvivenza. Per esempio,
sono stati condotti esperimenti in cui bimbi di pochi mesi venivano messi su
un tavolo mentre le loro madri, a breve distanza da loro, li incoraggiavano a
raggiungerle. Ma quando si avvicinavano al bordo del tavolo, i piccoli si
fermavano: sapevano istintivamente che oltrepassarlo significava cadere (in
realtà il tavolo aveva una prolunga di vetro trasparente, quindi l’esperimento
non comportava rischi). Dato che volevano ricongiungersi alle madri, i
bambini iniziavano a piangere disperati, ma per quante moine le madri
facessero per convincerli a raggiungerle, loro obbedivano al proprio istinto
innato.
Fare musica, tuttavia, è un’abilità mentale complessa che coinvolge il
cervello superiore. A differenza di un semplice istinto innato, per poter
suonare molte informazioni devono essere apprese, organizzate e
immagazzinate. Com’è possibile che i piccoli musicisti prodigio, numerosi
sia in passato sia oggi, in qualche modo ereditino un’abilità mentale
complessa? Nessuno lo sa, ma questo va fortemente a sostegno dell’ipotesi
che la mente sia cruciale per l’evoluzione, dato che quest’ultima si basa tutta
sull’ereditarietà.
Per approfondire ulteriormente questo mistero, prendiamo il caso di Jay
Greenberg, un bambino prodigio musicista tra i più grandi della storia della
musica. La prima volta che Jay vide un violoncello a misura di bambino
aveva due anni: subito lo prese e iniziò a suonare. A dieci anni entrò alla
Juilliard School fermamente intenzionato a diventare un compositore, ed era
appena adolescente quando la Sony pubblicò la sua Sinfonia n. 5 eseguita
dalla London Symphony Orchestra e il suo Quintetto per archi interpretato
dal Juilliard String Quartet insieme al violoncellista Darrett Adkins.
Per quanto riguarda il suo metodo di lavoro, Jay, come molti altri bambini
prodigio dice di sentire la musica in mente e di scriverla come sotto dettatura
(anche Mozart aveva questa capacità, sebbene poi vi facesse seguire un
processo di affinamento creativo). Caratteristica forse soltanto sua, Jay è in
grado di vedere o sentire nella sua mente più partiture contemporaneamente.
«Il mio inconscio dirige la mia mente conscia alla velocità della luce», ha
dichiarato in un’intervista televisiva a 60 Minutes.
I prodigi suscitano stupore e meraviglia, ma l’intera questione dell’istinto e
della memoria genetica è un concetto evolutivo incredibilmente interessante.
Un platelminta, o verme piatto, può essere addestrato a evitare una luce
somministrandogli scariche elettriche ogni volta in cui la vede. Se il verme
viene poi tagliato a metà e la metà con la testa genera una nuova coda, o
quella con la coda genera una nuova testa, entrambe le parti continueranno a
evitare la luce. Come fa un cervello rigenerato ad avere gli stessi ricordi del
vecchio cervello? In questo caso la memoria è forse memorizzata nel DNA
del verme? Il modo in cui i nostri stessi comportamenti istintivi siano stati
codificati sotto forma di ricordi nel nostro DNA è ancora una questione
aperta. E resta da scoprire quanto tempo ci è voluto perché venissero
programmati automaticamente in noi.
Altrettanto interessante, se non di più, sarebbe sapere quale dei nostri
comportamenti attualmente non programmati o automatici potrebbe divenire
tale in un remoto futuro. Non lo sappiamo, ma se cellule staminali identiche
possono diventare una qualunque delle duecento differenti cellule
specializzate del corpo umano, in gioco ci sono l’epigenetica e le attività
geniche coordinate. Le sinfonie mirabilmente orchestrate delle reti geniche
sono innate, e forniscono l’inizio di una risposta circa il modo in cui abilità
complesse possano essere «installate» in blocco. E non possiamo neppure
essere certi che «ereditarietà» sia il termine giusto, visto che i prodigi
musicali e matematici, e i grandi geni in generale, possono anche nascere in
famiglie prive di qualunque background culturale in quelle discipline o di un
quoziente intellettivo particolarmente alto.
La nostra mente, la nostra evoluzione
Lo scopo di questo capitolo era aprire nuove possibilità a chiunque desideri
acquisire un controllo sul proprio benessere. È stato necessario trattare in
dettaglio l’evoluzione in modo da far capire quanto controllo si può
effettivamente avere. Evolvere in tempo reale è dunque possibile. Rivediamo
perché:

Le mutazioni non sono sempre casuali, possono anche essere indotte


dall’ambiente e dalle interazioni.
Il mutamento evolutivo non ha bisogno di milioni di anni, può
verificarsi anche in una sola generazione (almeno nei topi e in altre
specie).
I geni operano per cicli di feedback che monitorano costantemente i
nuovi messaggi, informazioni e cambiamenti nell’ambiente.
Il cervello interagisce in maniera costante con il genoma, consentendo al
vasto potenziale della mente di influenzare ogni cellula del corpo.

Questi quattro punti sono il fulcro del capitolo, e spianano la strada alla
trasformazione favorita dal super genoma. Non solo: facilitano anche la
trasformazione dell’intero nostro concetto di funzionamento dell’evoluzione.
Non chiediamoci in quale direzione evolverà la genetica tra una generazione.
Attualmente disponiamo di sufficienti conoscenze per fare qualcosa di
incredibilmente importante, cioè cooperare con l’infinita creatività della
Natura.
«Evoluzione», in fondo, non è che un termine scientifico per riferirsi alla
creatività e ai fattori organizzanti che guidano l’intero universo, ma in
particolare la vita sulla Terra. Il super genoma registra ogni salto creativo
intrapreso dalla vita. Fino alla comparsa degli esseri umani, agli esseri viventi
mancava l’autoconsapevolezza necessaria per analizzare il proprio stato
evolutivo. Un platelminta che, tagliato a metà, forma un nuovo cervello che
contiene i suoi vecchi ricordi non ha alcuna consapevolezza di un evento
tanto enigmatico. Noi però possiamo sfruttare la nostra consapevolezza per
scegliere quale direzione dare alla nostra vita. Il super genoma risponderà
sempre, quindi anche in assenza di dati scientificamente accertati abbiamo
delle possibilità:

Le nostre intenzioni hanno un potente effetto sul nostro genoma.


Se ci poniamo un obiettivo, i nostri geni si autorganizzeranno intorno a
quel proposito e lo sosterranno.
La creatività è il nostro stato naturale, non abbiamo che da attingervi.
Siamo al mondo per evolvere, e il super genoma esiste per lo stesso
scopo.

Tenere a mente queste conclusioni è importante, perché l’ambiente


continua a presentare sempre nuove sfide ai nostri geni. A differenza dei
nostri antenati, che si sentivano minacciati perlopiù dalle condizioni
climatiche avverse e dai predatori, molti fattori di stress che ci affliggono
sono purtroppo creati da noi: cambiamenti climatici globali, inquinamento,
OGM, microbi resistenti agli antibiotici, pesticidi sempre più tossici, acqua e
alimenti sempre più inquinati. Se vogliamo garantire la sopravvivenza nostra
e della nostra specie, dobbiamo iniziare ad «armare» i nostri genomi. In altre
parole, non siamo responsabili soltanto della nostra salute e longevità
personale, che sono correlate al singolo super genoma. Il vero super genoma
è planetario, e il modo in cui il singolo si evolve ha implicazioni globali.
Questo non significa che dobbiamo caricarci di una responsabilità che ci
procura ansia, ma che siamo parte di un progetto affascinante. Se e quando
l’umanità trionferà in queste nuove sfide, farà un salto evolutivo quantico,
come ha sempre fatto e sempre farà.
Epilogo
Il vero «me»

SE avete mai visto un programma televisivo sul Big Bang o un film di


fantascienza incentrato su un viaggio su Marte, avrete presente
quell’immancabile momento in cui qualcuno, contemplando lo spazio
infinito, mormora che minuscolo puntino sia la Terra nella vastità del creato.
Vorremmo che per ogni momento del genere venisse concesso altrettanto
tempo alle splendide parole di William Blake: «Vedere un mondo in un
granello di sabbia / E un cielo in un fiore selvatico, / Tenere l’infinito nel
cavo della mano / E l’eternità in un’ora…» Chi mai ha saputo riassumere la
storia della genetica in un modo tanto conciso e bello?
Un microscopico frammento di DNA è il mondo compresso in un granello
di sabbia, e noi possiamo vederlo. Come la Natura abbia ideato un tale
sistema è qualcosa che supera ogni immaginazione. Eppure l’ha fatto, ed
eccoci qui, espressione di quel mondo e dei milioni di anni di evoluzione che
l’hanno plasmato. Il DNA comprime vita, spazio e tempo nello stesso,
infinitesimale granello. Se ci riflettiamo un attimo, questo cambia tutto ciò
che sappiamo di noi stessi: in altre parole, in ogni momento siamo un tutt’uno
con l’intero flusso della vita.
Il vero «me» di ciascuno di noi non è vincolato da limiti, esattamente come
non lo è il DNA. Alla domanda: «Quanti anni hai?» possiamo facilmente
rispondere contando le candeline sulla nostra ultima torta di compleanno. Ma
che dire dei novanta-centomila miliardi di microrganismi che costituiscono la
maggior parte biologica del nostro «me»? Gli organismi unicellulari possono
riprodursi solo per divisione. Un’ameba si divide in due, ma le due nuove
amebe non sono sue figlie. Sono ancora e sempre quella stessa ameba.
Concretamente, tutte le amebe oggi viventi altro non sono che la prima
ameba con cambiamenti selezionati nel genoma. Lo stesso vale per le
migliaia di miliardi di microrganismi che occupano il nostro corpo e gli sono
indispensabili per sopravvivere.
Chi è allora il vero «me» di ciascuno di noi? Null’altro che l’identità che
ciascuno di noi sceglie di assumere. Una volta che si inizia a guardare a se
stessi in questo modo, l’individuo gradualmente svanisce. Disse una volta un
saggio indiano a un suo discepolo: «La differenza tra noi non è visibile da
fuori. Siamo due uomini seduti in una stanza in attesa della cena. Eppure la
differenza è grande, perché quando tu ti guardi intorno vedi le pareti della
stanza, io invece vedo l’infinito in tutte le direzioni». Se il DNA potesse
parlare, direbbe più o meno la stessa cosa. Tempo e spazio sono illimitati, e la
forza dell’evoluzione è tale per cui il DNA è il suo gioiello.
A mano a mano che il «me» si espande e va oltre, sempre più confini
possono essere lasciati cadere come limitazioni inutili. Dal momento che
l’intera massa di vita animale e vegetale sul Pianeta risale a organismi
unicellulari, il «me» è un unico, gigantesco essere di tre miliardi e mezzo di
anni. La separazione spaziale fa erroneamente ritenere a ciascuno di noi di
essere un individuo. E in effetti lo siamo, ma il continuum temporale su scala
cellulare rivela un’altra realtà: siamo uniti, un unico essere biologico. Le
caratteristiche umane individuali – consapevolezza, intelligenza, creatività,
motivazione a ottenere di più dalla vita – hanno una fonte universale. Come
abbiamo visto, i fondamentali della vita umana sono presenti in ogni cellula
del corpo.
Il «me» sembra abitare il nostro corpo come sistema di supporto alla vita di
considerevole fragilità. Tuttavia persino questo limite è questione di ciò con
cui scegliamo di identificarci: la parte o il tutto. Non c’è atomo del nostro
corpo che non derivi da qualcosa di mangiato, bevuto o respirato dalla
sostanza del Pianeta. Né il «me» seduto a leggere questa frase, né il «me»
unico, gigantesco essere di tre miliardi e mezzo di anni vive sul Pianeta, ma
entrambi sono il Pianeta stesso. Il nostro corpo vivente è l’autorganizzazione
della sostanza della Terra – minerali, acqua e aria – in un’infinità di forme di
vita. È come se la Terra giocasse a Scarabeo, formando parole diverse
attraverso la ricombinazione delle lettere genetiche, e alcune parole, come
«umano», se ne andassero a vivere per conto proprio, dimenticandosi di chi
ha in mano il gioco, in realtà.
Se per il Pianeta «me» è un passatempo ricreativo, quale prossima mossa
ha in mente per noi? I giochi comportano una grande quantità di ripetizione,
ma dev’esserci anche la novità, dei record da superare. Il «me» può scegliere
il campo da gioco. In un certo senso, la sonda Curiosity inviata su Marte può
essere interpretata come una conquista umana autonoma, e anche molto
complessa. Ha impegnato ingegneri e scienziati di grande valore, che hanno
pensato a come creare un robot, inviarlo su un altro pianeta e fare in modo
che ci inviasse delle informazioni. Ma c’è un altro modo per interpretare
questa impresa: altrettanto ragionevolmente, logicamente e scientificamente,
è il nostro Pianeta vivente che si protende a toccare un pianeta vicino.
Quanto ha saputo essere paziente il nostro Pianeta in questa impresa!
Mentre i vari «me» si focalizzavano esclusivamente sulla loro identità
distinta, occupati com’erano a scoprire il fuoco, inventare l’agricoltura,
scrivere testi sacri, combattere guerre sanguinose, accoppiarsi ed elaborare
altre strategie di sopravvivenza, forse la Terra sognava questo suo incontro
con Marte. (Rudy oggi fa parte della squadra che studia come proteggere il
cervello degli astronauti dalle radiazioni cosmiche nei futuri viaggi su Marte.)
Se questa immagine appare troppo fantasiosa, consideriamo l’attività del
nostro cervello. Siamo consapevoli di avere in mente uno scopo quando
camminiamo, parliamo, lavoriamo, amiamo. È però innegabile che molte
attività cerebrali sono inconsce, mentre l’attività del cervello nel suo insieme
è ancora del tutto ignota. Qualunque cosa faccia della Terra una totalità fa
anche del nostro cervello una totalità. Quindi non è fantasioso pensare alla
Terra come a un’entità che si muove in una direzione unitaria e coerente,
esattamente come fa il nostro cervello da quando siamo nati.
In altre parole, se come individui abbiamo uno scopo, ne abbiamo uno
anche in quanto vita sulla Terra. Forse anche la Terra come insieme di specie
diverse, proprio come noi siamo un insieme di microbi e cellule di
mammifero, ha uno scopo nel sistema solare, e il sistema solare nella
galassia, e così via fino all’intero universo. Come specie abbiamo una
funzione precisa sulla Terra intesa come pianeta capace di «essere»
nell’universo? Siamo forse il suo sistema immunitario? E in che senso? Gli
unici predatori naturali che potrebbero trasformarla in un deserto senza vita
sono un asteroide o una cometa gigante, e noi siamo l’unica specie in grado
di prevedere e potenzialmente prevenire un simile evento.
Siamo per la Terra ciò che il nostro sistema immunitario è per noi: ne
abbiamo bisogno, ma se perde il suo equilibrio può anche danneggiarci, per
esempio causandoci infiammazioni o malattie autoimmuni. Questi rapporti
tra cellule ed esseri umani, esseri umani e Terra e così via sono tutti senza
soluzione di continuità, sebbene ci piaccia sentirci superiori e vederci come
separati da ciò che ci circonda.
Il super genoma non è qualcosa di finito. È «in progress», ma nel frattempo
ha intessuto il «me» di tutti noi nel grande arazzo della vita e dell’universo.
In un mondo ideale basterebbe questo per salvare il Pianeta. Risanando
l’ambiente, il nostro «me» lo salverebbe dalla distruzione. Fino a oggi, in
verità, i segni non sono stati granché promettenti. La nostra speranza è che,
grazie a questo libro, la conoscenza del concetto di super genoma indichi a un
maggior numero di persone la giusta direzione, cioè quella di assumersi la
responsabilità del proprio genoma e di tutto il Pianeta. Una cosa è certa:
l’evoluzione umana è consapevole. Non resta che decidere dove orientare
questa consapevolezza. Noi auspichiamo verso la luce.
Appendici
FIN qui abbiamo esposto in termini divulgativi alcune avvincenti scoperte e
teorie genetiche. Ai lettori che però nutrissero un interesse più profondo per
questi argomenti proponiamo le seguenti Appendici, le quali contengono
informazioni più tecniche su mutazioni genetiche e modificazioni
epigenetiche, queste ultime così cruciali nell’indicare la direzione di ulteriori,
rivoluzionari sviluppi. In particolare, vorremmo qui affrontare la nota
questione dei geni «cattivi» e del destino della persona che li ha in corpo, per
capire se questa svilupperà o meno una specifica malattia. La risposta non è
così semplice, ma i migliori indizi che connettono geni e malattie complesse
si basano sulle ricerche scientifiche qui esposte.
Il filo rosso che lega epigenetica e infiammazione sembra portare in molte
direzioni, e questo potrebbe essere lo sviluppo medico più entusiasmante dei
prossimi decenni. Come i geni, l’infiammazione è un’arma a doppio taglio.
La scienza medica inizia solo ora a capire come meccanismi così variamente
cruciali e benefici per il corpo possano anche rivoltarglisi contro,
procurandogli enormi problemi.
Queste Appendici intendono esplorare tali misteri.
Genetica delle malattie complesse

TRA i progressi della tecnologia genetica indotti dal Progetto genoma umano
vi è il cosiddetto sequenziamento di nuova generazione, che consente di
decifrare vaste aree di genoma in tempi brevi. Oggi possiamo dunque
scansionare l’intero genoma di un paziente in cerca di mutazioni causative
connesse alla sua particolare patologia. Inoltre si è scoperto, come abbiamo
già detto, che per quanto riguarda le malattie più comuni con una componente
genetica, solo il 5% circa delle mutazioni geniche associate alla malattia sono
sufficienti a causarla. Se ereditate, queste mutazioni completamente
penetranti garantiscono che il soggetto svilupperà la malattia (sono dette
anche mutazioni genetiche mendeliane, dal nome del famoso monaco che con
i suoi studi sui piselli fu il padre della genetica, cioè Gregor Mendel).
I primi geni del morbo di Alzheimer che Rudy e altri scienziati hanno
scoperto negli anni Ottanta-Novanta contenevano in effetti tali mutazioni.
Tuttavia, nel 95% delle malattie ereditarie, variazioni nel DNA di numerosi
geni (dette varianti) concorrono in ultima analisi a determinare il vero e
proprio rischio di malattia, insieme allo stile di vita e alle esperienze
esistenziali. Queste varianti del DNA sono classificate come fattori di rischio
genetico. Se alcune aumentano il rischio di contrarre una data malattia, altre
possono avere un effetto protettivo nei confronti della stessa. A ogni modo,
nella maggior parte dei casi l’esito ultimo dipende dall’esposizione
ambientale e dallo stile di vita.
Per uno specifico individuo, scoprire quale sia esattamente il contributo
genetico comporta una quantità enorme di ricerche, l’analisi simultanea di
varianti genetiche multiple e la comparazione dei relativi risultati con la sua
storia famigliare, le sue esperienze esistenziali e le sue esposizioni
ambientali. Così, malgrado i considerevoli successi riportati dai «cacciatori di
geni» come Rudy e il suo team, per molte malattie come la schizofrenia,
l’obesità, il disturbo bipolare e il cancro al seno, le varianti genetiche a queste
associate spiegano, a oggi, meno del 20% del rischio connesso alla varianza.
Ormai ci si è resi conto che per la maggior parte delle malattie complesse
entra in gioco un’interazione tra natura e cultura. In questa interazione
l’influsso dei fattori epigenetici assume un ruolo di primo piano. Meccanismi
epigenetici sono già stati connessi a molte malattie, tra cui tre gravi patologie
infantili: la sindrome di Rett, la sindrome di Prader-Willi e la sindrome di
Angelman. In alcuni casi l’attività genica è disattivata direttamente dalla
metilazione delle basi del DNA nel gene stesso. In altri, modificazioni
chimiche (metilazione e acetilazione) vengono apportate alle proteine
istoniche che avvolgono il DNA al fine di silenziare il gene.
Tuttavia il quadro si è fatto ancora più complesso. Ora che siamo in grado
di sequenziare interi genomi, stiamo scoprendo che ciascuno di noi è
portatore di massimo trecento mutazioni che conducono alla perdita di
funzione di specifici geni, e di massimo cento varianti che sono state
associate al rischio di contrarre determinate malattie. Inoltre, alcune
mutazioni e varianti del DNA che influenzano il rischio non erano presenti
nei genomi dei nostri genitori, si sono ripresentate nello sperma o nell’ovulo
che si sono uniti per dare vita al nostro embrione. Queste mutazioni sono
dette de novo, e avvengono una o due volte ogni cento miliardi di basi nelle
due serie di tre miliardi di basi di DNA ereditate dai nostri genitori.
Ciò significa che nel nostro genoma ospitiamo circa settantadue mutazioni
de novo di cui i nostri genitori non erano portatori nei loro genomi. (Il tasso
effettivo di mutazioni de novo dipende fortemente dall’età del padre al
momento del concepimento del bambino. Dopo i trent’anni, ogni sedici anni
il numero di mutazioni negli spermatozoi paterni raddoppia, il che, è stato
dimostrato, contribuisce al rischio di malattie come l’autismo.)
Oltre alle varianti a livello di singolo nucleotide nel nostro DNA siamo
portatori anche di duplicazioni, delezioni, inversioni e riarrangiamenti di
diversi milioni di basi del DNA. Queste sono dette varianti strutturali (SV).
Come le varianti di singolo nucleotide (SNV), le varianti strutturali del DNA
possono essere ereditate dai genitori o verificarsi ex novo. Nel morbo di
Alzheimer, una duplicazione del gene APP (amyloid precursor protein,
proteina precursore della betaamiloide), che è il primo gene dell’Alzheimer a
essere stato scoperto, porta inevitabilmente all’insorgenza della demenza
precoce (al di sotto dei sessant’anni).
Le SV e le SNV possono entrambe essere rinvenute grazie al
sequenziamento di nuova generazione del DNA. Ma in un altro tipo di analisi
genetica, l’espressione genica (o attività genica) può essere valutata
nell’ambito dell’intero genoma. Questa è detta analisi del trascrittoma.
Quando un gene produce una proteina, prima fa una trascrizione dell’RNA
che sarà usata per guidare la sintesi della proteina. L’analisi del trascrittoma
può essere utilizzata come parte di una verifica della regolazione epigenetica
di geni, in quanto fornisce informazioni sull’attività genica, non sulla
sequenza del DNA.
Il fatto è che ora abbiamo a disposizione strumenti potenti per dipanare
l’intricata matassa della maggior parte delle malattie che hanno una
componente genetica. Un problema è che una malattia complessa progredisce
attraverso una serie di stadi interconnessi. Nella vita di ogni giorno, quando
prendiamo un raffreddore all’inizio notiamo un sintomo lieve, magari un po’
di irritazione in gola, e se non lo fermiamo a questo stadio molto precoce (per
esempio assumendo delle compresse di zinco), sappiamo per esperienza che
il raffreddore si scatenerà con tutta una serie di sintomi.
Qualcosa di simile accade anche nella genetica. Studi genetici che
utilizzano insieme l’analisi del trascrittoma e il sequenziamento dell’intero
genoma effettuano la cosiddetta analisi di pathway, che prende
contemporaneamente in esame molti geni coinvolti in una determinata
malattia.
Con queste informazioni, l’obiettivo è comprendere i meccanismi
patologici dai quali la malattia è causata e progredisce. Pathway biologici
specifici, per esempio l’infiammazione o la guarigione di una ferita,
influenzano il rischio di malattia. L’analisi di pathway individua anche altri
nuovi geni specifici che potrebbero essere coinvolti nella malattia, in base ai
pathway biologici implicati. Per esempio, negli studi condotti da Rudy
sull’Alzheimer le analisi di pathway dei geni di rischio implicavano un ruolo
di primo piano del sistema immunitario e dell’infiammazione. Nelle patologie
umane – cancro, diabete, cardiopatie o Alzheimer, per citarne solo alcune – il
fattore letale è quasi sempre l’infiammazione. Se dovessimo dare un nome
alla modificazione epigenetica che svolge il ruolo più importante nella
modulazione di un processo biologico, quello migliore sarebbe probabilmente
infiammazione.
DIABETE DI TIPO 2
Circa quattrocento milioni di persone in tutto il mondo soffrono di diabete di
tipo 2 (DT2), una cifra destinata a crescere fino a oltre cinquecento milioni
nei prossimi vent’anni. Nei pazienti di DT2 i livelli di glucosio plasmatico (o
zucchero nel sangue) sono elevati, e di solito questo avviene in età avanzata a
causa sia della genetica sia delle cattive abitudini di vita, in particolare
alimentari. Un serio fattore di rischio è l’obesità. Spesso si osservano
concentrazioni di diabete in determinate famiglie, e se questo sembrerebbe
implicare mutazioni genetiche presenti in più membri della stessa famiglia, è
anche vero che questi tendono a mangiare insieme, condividendo quindi
identiche o simili abitudini alimentari.
Il rischio è diventato più preciso, ma non necessariamente più semplice.
Per quanto riguarda il DT2, sappiamo che decine di geni sono associate al
rischio di insorgenza in età adulta. (Non stupisce che molti di questi geni
siano anche stati associati all’obesità e ad alterati livelli di glucosio.)
Tuttavia, la maggior parte delle varianti del DNA nei geni implicati ha solo
modesti effetti sul rischio permanente di contrarre la malattia. Molto più
importante è probabilmente lo stile di vita, il che, come ormai sapete,
significa che è in gioco l’epigenetica.
Alcune delle prove più convincenti in questo senso vengono dalla scoperta
che l’alimentazione di un individuo durante l’infanzia determina il rischio di
diabete e cardiopatie in età anziana. La tribù degli indiani pima dell’Arizona
è gravemente affetta da DT2 e obesità. Se una madre pima soffriva di DT2
durante la gravidanza, i suoi figli risultano molto predisposti sia al DT2 sia
all’obesità.
Gli studi scientifici che connettono epigenetica e malattie complesse
procedono a ritmo frenetico. Oggi disponiamo di tecnologie in grado di
vagliare mezzo milione di siti del genoma per trovare dove una metilazione
può disattivare l’attività di uno qualunque dei nostri ventitremila geni. Tali
siti possono essere scandagliati per vedere esattamente quali geni vengano
attivati in malattie specifiche come il diabete. Questi studi di associazione
epigenome-wide, cioè sull’intero epigenoma, vengono attualmente condotti in
tutto il mondo per le più comuni patologie. Nel caso del DT2, alcune delle
maggiori modificazioni epigenetiche sono state trovate intorno al gene FTO,
che come abbiamo visto è stato associato all’obesità e all’indice di massa
corporea, il quale misura il rapporto tra massa grassa e peso complessivo.
Un altro fattore che contribuisce al rischio di sviluppare il diabete è il peso
alla nascita. Si è scoperto che il futuro rischio di diabete è più alto nei neonati
con peso alla nascita troppo basso o troppo alto. Gli effetti epigenetici sul
genoma dei neonati a basso peso possono iniziare già in utero. Per quelli ad
alto peso il problema sembra essere l’esposizione al diabete materno durante
la gravidanza. Tutto considerato, il rischio di sviluppare DT2 nasce quasi
certamente da una combinazione e interazione di predisposizione genetica,
stile di vita ed epigenetica. Lo stesso modello vale probabilmente per la
maggior parte delle malattie complesse, dai disordini metabolici alle
dipendenze, alle psicosi.
IL MORBO DI ALZHEIMER
Una patologia che è stata a lungo oggetto degli studi di Rudy è il morbo di
Alzheimer. Nel 2015 Nature ha pubblicato un’approfondita analisi del ruolo
dell’epigenetica nel morbo di Alzheimer, e gli esiti sono stati sorprendenti.
Ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno utilizzato
topi modificati con un gene umano che causava loro una perdita di cellule
nervose, anche detta neurodegenerazione. Questo tipo di morte delle cellule
nervose è simile a quanto avviene nel cervello umano nelle fasi terminali del
morbo di Alzheimer, che priva fondamentalmente il paziente della coscienza
di sé.
A mano a mano che nel cervello dei topi le cellule nervose iniziavano a
morire, gli scienziati andavano in cerca dei relativi cambiamenti
nell’epigenoma. Quando il cervello era ormai in preda a una
neurodegenerazione dilagante sono stati individuate due grandi categorie di
geni portatori di segnali epigenetici, tra cui quelli coinvolti nella
neuroplasticità e nella riconnessione delle reti neurali – cruciali per la
capacità del cervello di rinnovarsi –, insieme ad altri geni coinvolti nel
sistema immunitario cerebrale. Quest’ultimo utilizza l’infiammazione per
proteggere il cervello, spesso a scapito delle cellule nervose, che muoiono a
seguito di un’infiammazione incontrollata.
In quest’ultimo caso, speciali cellule note come «cellule della microglia»,
che normalmente sostentano e ripuliscono le cellule nervose, percepiscono il
massacro circostante e credono erroneamente che il cervello sia sotto attacco
di batteri o virus. Di conseguenza, le sovraeccitate cellule microgliali iniziano
a sparare radicali liberi (proiettili a base di ossigeno) per uccidere gli invasori
estranei. Facendo questo, però, uccidono ancora più cellule nervose, un po’
come nei cosiddetti danni collaterali di un conflitto.
Il team del MIT ha quindi confrontato la firma epigenomica dei cervelli dei
topi modificati con cervelli di malati di Alzheimer deceduti in seguito alla
malattia e sottoposti ad autopsia. Sono state osservate coincidenze
sbalorditive. (Questi risultati sono stati successivamente estesi a segnali
epigenetici in pazienti attualmente affetti dalla malattia.) Fin dal 2008 il team
di Rudy e altri colleghi avevano trovato sempre più geni nuovi associati
all’Alzheimer che agivano come parte del sistema immunitario cerebrale ed
erano portatori di mutazioni che predisponevano all’infiammazione.
Quando i risultati del Progetto genoma per l’Alzheimer di Rudy sono stati
combinati con i dati del team del MIT, un messaggio è risuonato forte e
chiaro: il morbo di Alzheimer è essenzialmente una malattia immunitaria
sorta dall’interazione tra mutazioni di geni immunitari e stile di vita, la quale
infine culmina in alterazioni epigenetiche degli stessi geni immunitari.
Nasceva così un paradigma interamente nuovo per la causa e la
progressione del morbo di Alzheimer. Il team di Rudy e altri stanno ancora
cercando di capire come «calmare» il sistema immunitario del cervello in
modo da prevenire e curare la malattia. Le risposte si troveranno
indubbiamente nel modo in cui i geni immunitari sono orchestrati per
affrontare l’assalto della neurodegenerazione cerebrale.
SONNO E ALZHEIMER
Vediamo ora l’avvincente serie di indizi che ha risolto uno dei principali
misteri del morbo di Alzheimer. Apparentemente, il sonno ha un ruolo
considerevole. Disturbi del ciclo sonno-veglia sono stati associati a numerose
malattie neurologiche e psichiatriche, tra cui l’Alzheimer. La scienza sta
iniziando a capire in che modo il sonno è legato a questa malattia. Ora
sappiamo che la patologia viene innescata da un eccessivo accumulo nel
cervello di una piccola proteina detta beta-amiloide (Aβ), il che non è stato
sempre ovvio.
Quando Rudy era ancora studente, a metà degli anni Ottanta, lui e altri
colleghi sostenevano che il morbo di Alzheimer fosse innescato da depositi di
amiloide nel cervello. Nel 1986 Rudy e altri hanno scoperto il gene APP che
produce la Aβ (e che si è rivelato anche il primo gene responsabile
dell’Alzheimer), e ventotto anni più tardi lui e i suoi colleghi hanno
sviluppato il primo modello di morbo di Alzheimer in una capsula di Petri,
coltivando cellule nervose in un ambiente artificiale simile al cervello. In
quello studio, Rudy e i suoi colleghi Doo Yeon Kim, Se Hoon Choi e Dora
Kovacs sono stati in grado per la prima volta di ricapitolare per intero le
placche e i grovigli senili (amiloidi) all’interno delle cellule nervose che
ostruiscono il cervello dei malati d’Alzheimer. Lo studio è valso al team il
prestigioso Smithsonian American Ingenuity Award nel 2015.
La creazione dell’«Alzheimer in capsula», come ha scritto il New York
Times riassumendo l’articolo di Nature che annunciava l’impresa, dirimeva
un dibattito trentennale, il più acceso nel campo dell’Alzheimer (lo studio
pubblicato su Nature è stato possibile grazie al finanziamento di una
fondazione lungimirante, il Cure Alzheimer’s Fund). Il dibattito verteva sulla
possibilità che quantità eccessive di amiloide che circondano l’esterno delle
cellule cerebrali colpite fosse la vera causa della formazione di grovigli
all’interno delle cellule, che ne induce la morte (i grovigli sono aggregati
abnormi di proteine all’interno di una cellula cerebrale che fungono da
marcatore decisivo dell’Alzheimer). Il nuovo studio ha fornito la prima prova
convincente che la beta-amiloide può scatenare tutta la successiva patologia
che porta alla morte delle cellule nervose e alla patologia in questione.
L’Alzheimer è la causa più comune di demenza negli anziani, e chi ne
soffre ha spesso gravi problemi a dormire. Mentre un tempo questi disturbi
del sonno venivano liquidati come una semplice conseguenza della malattia,
ora sappiamo che si verificano fin dalla fase iniziale e forse contribuiscono a
causare la malattia. Notevoli prove scientifiche indicano che il ciclo sonno-
veglia è strettamente collegato alla produzione di beta-amiloide nel cervello
di modelli umani e murini del morbo di Alzheimer. Come ha dimostrato un
collega di Rudy, il dottor David Holtzman della Washington University a St.
Louis, una maggiore quantità di amiloide viene prodotta a livelli più elevati
nel cervello quando siamo svegli e le cellule nervose sono più attive. Di
notte, soprattutto durante il sonno profondo (a onde lente), la produzione di
amiloide è assai ridotta. In questa fase del sonno avvengono nel cervello
anche altri fenomeni di grande utilità. Innanzitutto, secondo alcuni scienziati
la memoria a breve termine si consolida in memoria a lungo termine. Poi, per
quanto riguarda il morbo di Alzheimer, durante il sonno profondo non solo si
riduce la produzione di betaamiloide, ma il cervello si ripulisce,
letteralmente. Produce più fluido intorno alle cellule cerebrali, il quale serve a
smaltire la maggior parte dei metaboliti e dei detriti di proteine come la beta-
amiloide. Questo sistema di ripulitura dalle scorie del metabolismo cerebrale
è detto sistema glinfatico cerebrale. È simile al sistema linfatico del corpo,
ma si avvale delle cellule gliali del cervello anziché di quelle linfatiche.
Quindi durante il sonno profondo, quando l’attività delle cellule nervose
rallenta, non solo si ha una pausa dalla formazione di proteina beta-amiloide,
ma se ne smaltisce anche una quantità significativamente maggiore di quanto
avvenga da svegli. D’altro canto, gli esseri umani o i topi che vengono privati
del sonno, che come abbiamo visto è uno tra i principali fattori di stress,
producono molta più beta-amiloide e mostrano segni di notevoli lesioni delle
cellule nervose e addirittura di grovigli neurofibrillari. Considerato che la
proteina beta-amiloide e i grovigli neurofibrillari determinano la morte delle
cellule nervose nell’Alzheimer, abbiamo una ragione in più per concederci
otto ore di sonno per notte ed evitare lo stress che subisce il nostro organismo
se ce ne priviamo.
Dormire bene sembra essere uno dei modi migliori per ridurre il rischio di
Alzheimer. E forse migliorare qualità e quantità del sonno potrebbe anche
aiutare i pazienti già colpiti. Benché non abbiamo ancora capito esattamente
come il sonno ripulisca il cervello a livello genico, curarsi di dormire
contribuisce a ridurre l’ansia provocata da questa terribile malattia.
CANCRO AL SENO
Un’altra patologia dai modelli di rischio molto complessi è il cancro al seno.
Ricercatori dello University College di Londra hanno rivelato gran parte della
firma epigenetica del cancro al seno studiando donne sane successivamente
colpite da cancro al seno, con o senza la presenza di una mutazione del gene
BRCA1. Le mutazioni di BRCA1 sono responsabili del 10% circa dei tumori
al seno, il che lascia in gran parte nel mistero il restante 90% dei casi.
L’interrogativo era: quanta «ereditabilità mancante» è epigenetica? È emerso
che le alterazioni epigenetiche coinvolte erano molto simili in entrambi i
gruppi di donne. In altre parole, le alterazioni erano indipendenti
dall’ereditare o meno la mutazione del gene BRCA1. Se la firma epigenetica
della malattia è nota, può essere utilizzata per predire chi ha probabilità di
ammalarsi di cancro al seno: un grande passo avanti, dato che ogni anno
duecentocinquantamila donne contraggono la malattia e quarantamila ne
muoiono.
Il fatto che l’epigenetica abbia un effetto apparentemente così forte sul
rischio significa che dobbiamo prendere seriamente in considerazione tutta
una serie di cambiamenti del nostro stile di vita, a iniziare dall’alimentazione.
Tra le sostanze nutritive e gli integratori di cui è stato dimostrato un effetto di
riduzione del rischio di cancro al seno vi sono l’aspirina, il caffè, il tè verde e
la vitamina D.
Nel caso dell’aspirina, i dati più significativi vengono da uno studio
trentennale che ha seguito centotrentamila soggetti. Di questi, quelli che
avevano assunto regolarmente aspirina (almeno due alla settimana) hanno
avuto una diminuzione del cancro gastrointestinale del 20% e del cancro del
colon-retto del 25%. I risultati per questi tumori specifici non si applicano a
tutti i tipi di cancro in generale, e sono stati necessari sedici anni di
assunzione di aspirina perché il vantaggio si manifestasse. In quelli che
avevano smesso di prendere l’aspirina per tre o quattro anni, il vantaggio si è
annullato. La ragione per cui l’aspirina funziona contro il cancro, per quanto
ne sappiamo, ha a che fare con il suo effetto antinfiammatorio (cosa che non
sorprende) e con la sua apparente capacità di ridurre la formazione di nuove
cellule tumorali.
CARDIOPATIE
Anche nelle cardiopatie sappiamo che mutazioni genetiche e stile di vita
concorrono a determinare il rischio, ma come nel diabete e nel cancro al seno,
sono coinvolte anche le modificazioni epigenetiche (metilazioni) che
disattivano certi geni. Da uno studio è emerso che i livelli di due grassi nel
sangue, trigliceridi e lipoproteine a densità molto bassa (VLDL), erano legati
alla metilazione di un gene detto carnitina palmitoiltrasferasi 1A (CPT1A).
Questo gene produce un enzima necessario per scomporre i grassi e, quando è
disattivato da meccanismi epigenetici, gli acidi grassi del corpo anziché
trasformarsi in energia restano in circolazione nel sangue, aumentando il
rischio di malattie cardiache. La metilazione del gene CPT1A è influenzata
dal cibo, dal consumo di alcol e dal fumo.
ALCOL E GENI
Anche la dipendenza da alcol è influenzata da eventi epigenetici. L’alcolismo
ha effetti devastanti sia sulle vittime sia sulle loro famiglie, contribuendo a
uno su trenta morti in tutto il mondo. I geni più noti associati alla dipendenza
da alcol sono l’alcol deidrogenasi (ADH) e l’aldeide deidrogenasi (ALDH).
Entrambi producono enzimi che aiutano a scomporre l’alcol nell’organismo,
ma variazioni di questi geni spiegano solo in minima parte l’ereditarietà
dell’alcolismo. L’ereditabilità mancante risiede probabilmente in
cambiamenti epigenetici legati ai centri di ricompensa del cervello, la fonte
del «sentirsi bene» quando si beve un bicchiere.
Ora sappiamo che i centri di ricompensa subiscono effettivamente
cambiamenti nell’attività genica in seguito all’assunzione di alcol. Ciò
significa che persone diverse reagiscono al consumo di alcol in modo diverso
a seconda delle loro attività geniche. Nei forti bevitori un aminoacido detto
omocisteina può aumentare, portando infine a cambiamenti metilici che
silenziano specifici geni. Queste attività geniche possono innescare un circolo
vizioso in cui la risposta al piacere e al dolore risulta alterata, e questo porta a
un aumento del desiderio di alcol che offre peraltro sempre meno piacere.
MALATTIE MENTALI
Modificazioni epigenetiche possono anche essere associate a disturbi
psichiatrici come la schizofrenia e il disturbo bipolare (psicosi maniaco-
depressiva). La ricerca delle mutazioni genetiche ereditarie che portano a
queste malattie ha finora avuto ben poco successo. Questa impasse riserva
ancora una volta un ruolo potenzialmente significativo all’epigenetica nel
contribuire a colmare l’ereditabilità mancante e il ruolo dello stile di vita.
Sempre più numerose prove scientifiche mostrano che la schizofrenia e il
disturbo bipolare potrebbero non essere garantiti, o soltanto dipendere, da
mutazioni genetiche trasmesse dai genitori ai figli.
Tra i sospetti nello stile di vita di chi ne soffre figurano la dieta, le tossine
chimiche e le condizioni in cui si è cresciuti, che influiscono sulle
modificazioni epigenetiche. Lo stile di vita di un paziente può determinare
segnali epigenetici acquisiti fin dalla nascita, ma studi sui topi sembrano
suggerire che altri segnali epigenetici possano essere ereditati. Questi segnali
si produrrebbero, presumibilmente, a causa degli stili di vita dei genitori, se
non addirittura dei nonni. (Attenzione: non intendiamo suggerire che vadano
pertanto attribuite delle responsabilità. L’epigenetica delle malattie mentali è
ancora assai provvisoria e incompleta. Nessuno finora è riuscito a connettere
causa ed effetti per una qualsiasi scelta di stile di vita che possa essere
implicata nei disturbi mentali.)
Studi a livello di intero epigenoma sulla schizofrenia e sul disturbo
bipolare hanno rivelato segnali epigenetici su alcuni geni prevedibili, come
quelli implicati nella produzione di certe sostanze neurochimiche
precedentemente associate alle psicosi. Altri hanno però prodotto risultati
meno prevedibili. Per esempio, geni chiave per il sistema immunitario si sono
attivati sia nella schizofrenia sia nel disturbo bipolare, e questo suggerisce
che il sistema immunitario possa essere in qualche modo correlato a una
predisposizione a questi disturbi. Naturalmente, qui e in altre firme
epigenetiche associate al rischio, causa ed effetto costituiscono un problema.
Come si fa a sapere se i segnali epigenetici si sono verificati prima
dell’insorgenza (causa) o in seguito alla malattia (effetto)? Per ora possiamo
affermare con certezza che i test epigenomici per malattie specifiche
diventeranno irrinunciabili in ogni aspetto della prevenzione e del trattamento
delle malattie complesse, fino alla cura definitiva.
A dire il vero, siamo molto ottimisti riguardo agli sviluppi della genetica,
ma anche molto realisti. Resta una netta divisione tra due domini, il visibile e
l’invisibile. Tutti viviamo in entrambi, cosa che non può essere ignorata.
Scrutando in un microscopio, un biologo cellulare può vedere miriadi di
cambiamenti nel modo in cui una cellula funziona, ma la componente
cruciale, l’esperienza che guida tali cambiamenti, non può essere osservata.
L’ambito non fisico svolge un suo ruolo in ogni secondo della vita di
ciascuno di noi, e crediamo che questo sia il motivo principale per cui la
genetica deve saper guardare oltre il materialismo e la casualità.
I dati dovranno certo sostenere un simile, radicale cambiamento di
prospettiva, ma è di gran lunga più importante formulare le idee che questi
dovranno confermare: ecco qual è il nostro obiettivo in questo libro, e
riteniamo di avere compiuto alcuni passi da gigante in questa direzione.
Ora sapete sulla natura dinamica del vostro genoma persino più di quanto
ne sapessero i genetisti venti o trent’anni fa. A questo punto, dunque,
l’importante è mettere in pratica queste nuove conoscenze e questa rinnovata
consapevolezza per ottimizzare la vostra attività genica. Prima però è
necessario esporre un altro importante blocco di informazioni tecniche,
questa volta proveniente da una fonte del tutto inattesa.
Il grande paradosso del DNA

L’EPIGENETICA è un argomento molto complesso, ma leggendo questo libro


avete afferrato il concetto principale: l’espressione genica è attivata o
disattivata, aumentata o diminuita dalle scelte che fate ogni giorno e dalle
relative esperienze che fanno di voi quello che siete. Questo meccanismo di
commutazione, che porta a migliaia di miliardi di possibili combinazioni, è il
modo in cui l’esperienza quotidiana viene trasmessa alle cellule del vostro
corpo. Ma subito sorge un problema: perché alcune esperienze sono così
dannose per il corpo? Perché il DNA non è progettato per preservare la vita
come sua unica missione?
Ecco il grande paradosso del DNA, nonché il passaggio successivo della
nostra storia. Il DNA rende possibile la vita, ma al tempo stesso ha il
potenziale per azioni rovinose che la distruggono. È come una bomba che sa
come disinnescarsi ma anche come far saltare tutto in aria. Quale delle due
alternative sceglierà? Perché il codice della vita è impiegato per creare la
morte? Questo è il fulcro del paradosso. In tutti noi sono presenti geni per
sviluppare il cancro (proto-oncogeni) e geni che viceversa lo combattono
(onco-soppressori). Sembra inspiegabile, almeno finché non ci rendiamo
conto che il DNA rispecchia ogni aspetto dell’esistenza.
Anziché scegliere tra le parti, il DNA le sposa tutte, abbraccia tutte le
possibilità. Un virus o un batterio che può farci stare male ha la sua firma
genetica, e fa di tutto per mantenerla intatta. Stessa cosa fanno le cellule
immunitarie del nostro corpo che combattono contro virus e batteri. Quando
le nuove cellule nascono, ereditano un programma genetico per la loro morte.
Di fatto, il DNA inscena un dramma in cui interpreta il ruolo dell’eroe e del
cattivo, dell’aggressore e del difensore, del costruttore e del distruttore della
vita.
La sfida, dunque, è fare scelte che attivino il lato del DNA che promuove
la vita. Come abbiamo visto, sono stati fatti grandi passi in questa direzione.
Abbiamo iniziato a vedere la vita dal punto di vista di una cellula, che non
solo avverte l’ambiente circostante e compie gli adattamenti più utili alla sua
sopravvivenza, ma lo fa usando la minima energia possibile per mantenere
l’equilibrio e tornare utile alle cellule vicine e a tutto il corpo. Se non lo
facesse, il risultato sarebbe il cancro o altre patologie potenzialmente in grado
di uccidere lei stessa e chi la ospita. Ogni cellula, dunque, sa naturalmente
che cosa fare in ogni situazione, lavorando in perfetta sinergia con i suoi geni.
Il nostro auspicio è che come esseri umani riusciamo a fare altrettanto.
Dalle più recenti ricerche su una vasta gamma di patologie, tra cui le
cardiopatie, l’autismo, la schizofrenia, l’obesità e il morbo di Alzheimer, si
evince che per ogni malattia vi sono indicatori che risalgono a decenni prima
nella vita del soggetto, talvolta addirittura alla prima infanzia. È una scoperta
sorprendente, perché si scontra con la nostra idea convenzionale circa il modo
in cui ci ammaliamo. Tendiamo infatti a credere che contraiamo una malattia
secondo il modello del comune raffreddore: siamo seduti su un mezzo
pubblico accanto a qualcuno che starnutisce e tossisce, e tre giorni dopo ci
siamo presi il raffreddore di quella persona. Vi è un semplice rapporto di
causa-effetto, e un punto di partenza ben definito dell’infezione.
In effetti, molte malattie acute seguono questo modello, ma in base a
quanto si è scoperto per le malattie croniche non è così, e nella società
moderna le principali cause di mortalità sono proprio le malattie croniche. Ma
come si fa a elaborare un programma di prevenzione per una malattia decenni
prima della comparsa dei sintomi? Un esempio eclatante di questo dilemma si
presentò durante la guerra di Corea, quando vennero eseguite autopsie di
giovani soldati morti in battaglia. Ragazzi poco più che ventenni
presentavano nelle loro coronarie la nota placca di grasso, che è la causa
principale dell’infarto. Come potevano uomini tanto giovani averne una
quantità così elevata, sufficiente a metterli a rischio di un imminente attacco
di cuore? La medicina non riuscì a trovare risposte, e ancora oggi la genesi
della placca arteriosa resta da chiarire. Una cosa che lascia altrettanto
perplessi è: perché quegli uomini non ebbero attacchi di cuore in giovane età,
visto che l’insorgenza di infarti prematuri di solito si manifesta verso i
quarant’anni? Nonostante la mancanza di risposte soddisfacenti, in questi dati
c’era un indizio precoce, risalente agli anni Cinquanta, del fatto che la
malattia cronica precede di molti anni l’esordio dei sintomi e non ha un inizio
definito, se non a livello microscopico.
Ma in questo mistero c’è anche un aspetto molto promettente. Questi
indicatori precoci offrono ottime possibilità di prevenire e curare le malattie
croniche, perché ogni volta che il corpo perde il suo equilibrio, prima lo si
prende, più facile è trattarlo. Milioni di persone seguono questo principio
quando assumono compresse di zinco ai primi segnali di un raffreddore, o
aspirina al primo accenno di nevralgia. Lo stesso principio può essere spinto
ancora più indietro, ed è questo il motivo per cui i vaccini sono efficaci:
forniscono al corpo una difesa preventiva contro la poliomielite, il morbillo o
l’influenza annuale prima che una di queste abbia la possibilità di svilupparsi.
In effetti, un vaccino «insegna» all’intelligenza del corpo qualcosa di
nuovo. Il corpo ascolta (cioè i geni rispondono in modo nuovo) e impara
dalla nuova esperienza. «Così si presenta il morbillo: attrezzati!» Un vaccino
universale contro tutte le malattie che affliggono il genere umano non esisterà
mai (persino i vaccini attuali hanno i loro problemi e chi li critica), ma qui
proponiamo un nuovo modello di cura di sé basato su un modo rivoluzionario
di rapportarsi ai propri geni.
Questo cambiamento di mentalità è in linea con tutte le più avanzate
scoperte mediche, ma i più non hanno ancora recepito quanto potrà essere
radicale. Una nuova era del benessere è oggi a portata di mano, e
l’intelligenza del corpo sarà il nostro alleato più forte.
Per capire perché questo approccio sia tanto urgente e necessario,
consideriamo una malattia terribile in modo da mettere a punto una strategia
di benessere molto più efficace e più ottimista. La malattia in questione è il
carcinoma del polmone. La lotta contro questo cancro costringe a un duro
confronto tra fumo da un lato e prevenzione dall’altro.
La linea di combattimento non potrebbe essere più chiara. Quello del
polmone è il cancro più mortale in entrambi i sessi, superando gli altri tre tipi
di cancro combinati (mammella, colon e pancreas) che lo seguono nelle
classifiche. Sorprende scoprire che già nel 1987 il cancro del polmone aveva
superato quello della mammella come principale causa di morte per cancro
tra le donne.
Questa malattia sarebbe rara, se non fosse per il tabacco. Nel 1900, prima
della grande diffusione del tabagismo, i casi di cancro del polmone erano così
pochi che spesso un medico di medicina generale conosceva questa patologia
esclusivamente attraverso i libri di testo. Con il drammatico aumento del
fumo in tempi moderni, il cancro del polmone correlato al tabacco
rappresenta il 90% dei casi, e quando un fumatore smette di fumare i rischi
diminuiscono di anno in anno, pur non raggiungendo mai lo zero.
Queste sono le statistiche fornite dall’American Lung Association, e da
quando, nel lontano 1964, il chirurgo generale degli Stati Uniti costrinse le
aziende produttrici di tabacco a stampare un avvertimento su ogni pacchetto
di sigarette, la prevenzione nel Paese è stata chiara e palese. (Il triste fatto che
sempre più donne oggi scelgano di iniziare a fumare è il motivo per cui il
cancro del polmone è drasticamente aumentato tra la popolazione femminile.)
È qui che si delinea la differenza tra benessere e benessere profondo. Il
fatto è che non tutti i fumatori contraggono il cancro del polmone. Perché no?
È quasi garantito che gli agenti patogeni presenti nel fumo di tabacco
danneggino il tessuto polmonare. Tutta una serie di problemi respiratori, tra
cui asma ed enfisema, minacciano i fumatori attivi.
Secondo uno studio condotto in Europa nel 2006, il rischio di sviluppare il
cancro del polmone era:

dello 0,2% per gli uomini che non hanno mai fumato (0,4% per le
donne);
del 5,5% per gli ex fumatori (2,6% per le ex fumatrici);
del 15,9% per i fumatori attuali (9,5% per le fumatrici attuali);
del 24,4% per i «fumatori forti», cioè chi fuma più di cinque sigarette al
giorno (18,5% per le donne)

Un precedente studio canadese calcolava il rischio per i fumatori maschi al


17,2% (11,6% per le donne) contro solo l’1,3% nei non fumatori di maschi
(1,4% per le non fumatrici).
Questi dati raccontano una storia molto semplice: se non si fuma, è
parecchio improbabile essere colpiti dal cancro del polmone; se invece si
fuma, le percentuali di rischio aumentano esponenzialmente. Tuttavia, anche
quando si rientra nella categoria a più alto rischio, cioè quella dei «forti
fumatori», il 75% delle volte non si contrae il cancro ai polmoni.
Con questo non intendiamo certo suggerire di tentare la sorte e iniziare a
fumare. La storia che raccontano i dati, in realtà, conduce in una direzione
ben diversa e inaspettata. Come mai alcuni fumatori riescono a farla franca?
È la domanda da un milione di dollari a cui le statistiche non danno risposta.
Quello che tutti noi vorremmo sapere, naturalmente, è come andrà a finire per
noi. Il cancro del polmone è solo un terribile esempio fra tanti. Nelle
statistiche relative a qualunque malattia si nota che certe persone riescono a
non ammalarsi, ma come possiamo diventare una di quelle persone?
La risposta è genetica, ma va ben oltre il luogo comune secondo cui alcuni
di noi hanno geni buoni e altri hanno geni cattivi. Immaginiamo il fumo di
tabacco che penetra nei polmoni di due persone. Le sostanze chimiche
tossiche presenti nel fumo sono le stesse, e anche gli agenti cancerogeni noti.
Quando il fumo colpisce il rivestimento esterno del tessuto polmonare, è
inevitabile che si verifichino dei danni, ma non necessariamente allo stesso
modo o nella stessa misura.
Le cellule sono molto resilienti, e compiono costantemente delle scelte.
Nel corso di milioni di anni di evoluzione una scelta spicca sulle altre. Le
cellule scelgono di combattere contro qualunque minaccia alla loro
sopravvivenza. Una di queste, tipica anche del fumo di tabacco, è quella
rappresentata dalle mutazioni patogene, ovvero le varianti deleterie che si
manifestano nei geni. Le tossine presenti nel fumo di tabacco possono
causare un’improvvisa mutazione che porta a una distorsione del
funzionamento delle cellule. Il DNA sa come regolarsi e ripararsi, e di norma
le mutazioni dannose vengono distrutte, ma c’è un limite alle capacità di una
cellula di ripararsi. Non solo: la cellula non viene semplicemente avvelenata a
morte. Con una sufficiente esposizione alle tossine presenti nel tabacco,
alcune distorsioni superano le difese della cellula, e se il danno è significativo
e di un tipo preciso, allora diventa irreparabile. La cellula non riesce più a
dividersi normalmente, e quando imbocca la strada della divisione
incontrollata e si impone sulle cellule vicine crescendo in modo sregolato,
diventa tumorale.
Ecco dove ci ha portato la storia che raccontano i dati sul fumo.
L’insorgenza di un tumore maligno è questione di singole cellule che
decidono che cosa fare, guidate dal loro DNA. Ma approfondiamo
ulteriormente l’indagine.
Se su quattro forti fumatori tre riescono a sfuggire al cancro del polmone
(anche se non è detto che sfuggano ad altre gravi patologie associate al
fumo), quali scelte hanno fatto le loro cellule? Perché solo queste scelte ad
averli salvati, alla fine.
Secondo le più recenti conoscenze mediche, certe persone sono in grado di
difendersi dalle tossine meglio di altre. Alcuni DNA riescono a proteggersi
meglio e a distruggere le mutazioni dannose. Sono in gioco molti fattori
misteriosi nel modo in cui una cellula si risana e scampa al pericolo. Al
momento tutto è ancora molto incerto. Sapere come una cellula generica
prende le sue decisioni non ci dice come le nostre cellule prendono le loro. Le
cellule di ciascuno di noi sono diverse in base alla loro specifica componente
genica e all’espressione genica che impartiamo loro con il nostro stile di vita.
Vi è poi tutta la questione dei percorsi che le nostre cellule imboccheranno tra
un giorno, un mese o dieci anni, perché come gli esseri umani queste possono
essere mutevoli e incostanti, in parte a causa delle nostre scelte.
Abbiamo indugiato su un brutto argomento, ma l’abbiamo fatto per fare
luce su qualcosa di positivo: l’enorme intelligenza e resilienza della cellula,
anzi delle nostre cellule. La ricerca ha mostrato che ogni giorno nel nostro
corpo vengono individuate e distrutte migliaia di anomalie potenzialmente
dannose. La differenza tra benessere e benessere profondo sta nell’imparare a
guidare e a influenzare i nostri geni in modo positivo.
Come abbiamo detto, noi siamo più dei nostri geni, così come siamo più
del nostro cervello. Siamo gli utenti dei nostri geni e del nostro cervello. Il
punto è imparare a usarli in modo che possano garantirci salute e felicità.
Chiunque vogliamo diventare, qualunque traguardo ci proponiamo di
raggiungere e qualunque valore vogliamo abbracciare, per diventare reale
tutto deve passare attraverso il nostro cervello e i nostri geni. Imparare a
comunicare con i nostri geni, quindi, non è qualcosa di accessorio, un di più
di cui si può anche fare a meno. È invece qualcosa di essenziale. In realtà
stiamo già comunicando con i nostri geni, ma la maggior parte dei messaggi
che inviamo loro sono inconsci. La ripetizione ha un ruolo importante. Le
reazioni diventano radicate e automatiche, e questo è uno spreco terribile
della nostra capacità di scegliere liberamente.
LA DEPRESSIONE È GENETICA?
La genetica sarebbe ovviamente più semplice se percorresse una strada a
senso unico in cui il gene A fosse sempre collegabile al disturbo B: il
rapporto lineare di causa-effetto sarebbe chiaro e soddisfacente. Ma i geni
viaggiano lungo una strada a doppio senso su cui i messaggi vanno avanti e
indietro, o, per essere più precisi, su una superstrada a sei corsie affollata di
messaggi provenienti da tutte le direzioni.
Questa presa di coscienza sta provocando un’enorme reazione a catena
sulla medicina e sulla biologia, rivoluzionando ciò che credevamo di sapere
sul cervello, la vita di una cellula e pressoché ogni tipo di malattia. Un
esempio lampante è l’attuale situazione della depressione, un «male oscuro»
che direttamente o indirettamente ha toccato la vita di quasi tutti noi, perché
l’abbiamo sperimentata direttamente o perché ha investito un nostro
famigliare o un amico.
Il 20% circa di noi sperimenta una depressione grave in qualche momento
della propria vita. Attualmente negli Stati Uniti vi è un’ondata di depressione
tra i soldati che hanno prestato servizio in Afghanistan (con conseguente e
significativo aumento dei suicidi) e tra i lavoratori licenziati e disoccupati da
tempo. In entrambi i casi, a portare alla depressione è stato un evento esterno,
ma non sappiamo perché, dato che solo una certa percentuale di persone cade
in depressione sotto un medesimo stimolo (guerra o licenziamento).
Il collegamento tra depressione e geni si è finora dimostrato inafferrabile.
Non esiste un semplice gene della depressione. Nei primi mesi del 2013, un
articolo di Science News sulla depressione si apriva con questo giudizio
globale: «L’enorme sforzo per scoprire i geni implicati nella depressione è in
gran parte fallito». Questa notizia ha suscitato scalpore nella comunità
medica, ma non presso il grande pubblico, che continua a finanziare la già
multimiliardaria industria farmaceutica e la sua costante produzione di nuovi,
e ipoteticamente migliori, antidepressivi. Ventisette anni dopo l’avvento del
Prozac (1988), circa un americano su cinque assume un farmaco psicotropo
(cioè che altera la mente), malgrado il comprovato rischio di effetti
collaterali. Il Prozac, per esempio, secondo Drugs.com ha tre effetti
collaterali frequenti (orticaria o rash cutaneo, irrequietezza e agitazione), due
meno frequenti (brividi o febbre e dolori articolari o muscolari) e venticinque
rari (tra cui ansia, stanchezza e polidipsia).
La questione del collegamento con i geni non viene sollevata quando un
medico prescrive un farmaco per alleviare le sofferenze del paziente. Ma i
geni sono il fattore discriminante tra un farmaco che funziona e uno che non
funziona. Il modello della depressione che è prevalso per decenni classifica
questa patologia come un disturbo del cervello, eppure questo tipo di disturbi
affonda le sue radici nella genetica. La logica è ingannevolmente semplice.
Se uno si sente depresso, ha uno squilibrio nelle sostanze chimiche cerebrali
responsabili dell’umore (perlopiù i neurotrasmettitori serotonina e dopamina).
In caso di depressione, quindi, il meccanismo cellulare che produce queste
sostanze chimiche dev’essere compromesso, il che alla fine significa geni
deteriorati, dal momento che i geni sono il punto di partenza per ogni
processo che si svolge all’interno di una cellula.
Perché questa semplice logica non si è rivelata vera? Come eminenti
ricercatori ora ammettono, i geni delle persone depresse non sono danneggiati
o distorti rispetto a quelli di chi non è depresso. Ne consegue che altri assunti
di base sono errati. Gli antidepressivi più popolari si diceva riparassero
squilibri chimici delle sinapsi – le connessioni tra due cellule nervose – dove
il colpevole era uno squilibrio della serotonina. Ma la serotonina è
direttamente regolata da geni, e alcune ricerche decisive indicano che o i
farmaci per risolvere il problema della serotonina non funzionano in questo
modo o a monte non c’era proprio un problema di serotonina. L’articolo di
Science News non lasciava molto spazio di manovra su questo punto:
«Analizzando attentamente il DNA di 34.549 volontari, un team
internazionale di 86 scienziati sperava di scoprire gli influssi genetici che
determinano la vulnerabilità di una persona alla depressione. Ma l’analisi non
è approdata a nulla». (Lo studio a cui si fa riferimento nell’articolo era stato
pubblicato sul numero di Biological Psychiatry del 3 gennaio 2013.)
Nulla non vuol dire qualcosa. Se la catena di spiegazioni che va dai geni
alle sinapsi per approdare infine ai laboratori farmaceutici è spezzata, sorge
una quantità di dubbi. Tanto per cominciare, la depressione è davvero una
malattia del cervello o piuttosto, come ipotizzava la psichiatria prima
dell’avvento delle moderne terapie farmacologiche, un disturbo della mente?
Le ultimissime teorie, peraltro, non sono tornate al punto di partenza. Ciò che
sappiamo attualmente in proposito non è tutto bianco o tutto nero, ma
sfumato. Esistono variabili multiple nella depressione, il che porta ad alcune
conclusioni ragionevolmente buone. Per esempio:
Esistono molti tipi di depressione. Non si tratta di una patologia unica.
Ogni soggetto depresso mostra un insieme di possibili cause per i suoi
sintomi.
La componente mentale della depressione include le esperienze infantili,
il comportamento appreso, le convinzioni di base e il giudizio di sé.
La componente cerebrale della depressione include percorsi neurali
innati, con probabili debolezze in alcune aree del cervello la cui causa
non è attualmente nota.
La depressione non può essere circoscritta a una singola regione del
cervello. Vi è coinvolta l’interazione di più regioni cerebrali.

Come possiamo constatare, queste conclusioni mandano all’aria un


semplice modello di causa-effetto. «Se hai mal di testa, prendi un’aspirina»
non si traduce in «Se ti senti depresso, prendi un antidepressivo». La
sensibilità alla depressione è complessa quanto l’espressione genica. Perché
la depressione scorre nel sangue di una famiglia, com’è ormai noto? Anche in
questo caso, non esiste una risposta semplice. Nessun gene o gruppo di geni
da noi ereditato garantisce, per quanto ne sappiamo, che anche noi cadremo
in depressione. Ci sono semmai geni che rendono più sensibili al disturbo.
Che cosa faccia scattare questi geni, peraltro ignoti, resta un mistero. La
stessa predisposizione genetica potrebbe essere presente in un figlio che da
grande non diventerà mai depresso, e in un altro in cui scatterà qualcosa che
in qualche modo lo farà cadere in depressione. Possono, per esempio, le
interazioni sociali far sentire impotenti e disperati? È così che ci si sente
quando si è depressi, e chissà che forse (nell’epigenoma) un numero
sufficiente di brutti ricordi di abbandono, emarginazione o esclusione porti a
un punto critico e la depressione insorga.
Secondo noi, la depressione non è un disordine del cervello in attesa di una
pozione magica in grado di risolverlo, e l’intero modello di malattia va
drasticamente rivisto. Persino come diagnosi medica è sospetta. Il grande
studio che ha fallito nell’individuare i geni responsabili della depressione
ignorava le diagnosi e si interessava invece ai sintomi. E chiedere ai soggetti
di parlarne si è tradotto in un minor numero di persone considerate depresse.
Forse alcuni sono in fase di negazione, o ignorano la differenza tra
depressione e comune tristezza. Ma nel corso della vita i sintomi cambiano, e
vi è un’alternanza in ciascun paziente. Come le emozioni in generale, anche
la depressione va e viene. Si modifica da un giorno all’altro.
Quindi la depressione sarà mai curabile? Al momento la situazione è
ancora troppo confusa perché si possa offrire una previsione, sia questa
pessimista o ottimista. Il trattamento farmacologico resta molto popolare, a
prescindere da quello che dice la scienza di base. In casi di depressione da
lieve e moderata (il tipo più comune) gli antidepressivi talvolta funzionano
solo nel 30% dei casi, più o meno come l’effetto placebo. Alcuni sintomi
della depressione maggiore restano incurabili, e tuttavia in altri casi soggetti
cronicamente depressi rispondono bene al trattamento farmacologico. La
speranza è sempre l’ultima a morire.
Ora che abbiamo descritto la situazione con tutte le sue incertezze
possiamo considerarci all’avanguardia, perché la stragrande maggioranza dei
medici ignora le ricerche e continua a prescrivere gli stessi antidepressivi. E
milioni di pazienti continuano ad assumerli, credendo che non esista altra
soluzione. Invece esiste. La depressione non rientra nel vecchio modello di
malattia, ma nel nuovo modello fin qui descritto. Risente dello stile di vita e
dell’ambiente. I geni svolgono un loro ruolo, ma anche il comportamento, la
visione del mondo e il modo in cui la persona reagisce alle esperienze
quotidiane sono determinanti. L’epigenoma immagazzina reazioni genetiche
a esperienze personali e ricordi, e questo causa l’espressione costantemente
mutevole dei nostri geni.
Epigenetica e cancro

E ORA un approfondimento su ciò che sappiamo in merito a geni e cancro.


Forse nessun’altra malattia più del cancro dipende dai rischi correlati al
genoma. Per spiegare il perché, abbiamo bisogno di fare un salto indietro.
Come già accennato, quando era ancora studente alla Harvard Medical
School, Rudy ha avuto la fortuna di partecipare al primo studio mai condotto
per trovare il gene di una patologia, il morbo di Huntington, la cui causa era
sconosciuta. Fin da quei primi, pionieristici studi basati su analisi genetiche
dei primi anni Ottanta, la speranza era che tutti i misteri delle malattie
ereditarie potessero essere risolti comparando il genoma di malati a quello di
persone sane. Dei sei miliardi di basi (combinazioni di A, G, C e T) ereditate
dai nostri genitori, solo duecento milioni circa sono usate per fabbricare i
geni. I geni disseminati sono come parole nella storia della vita raccontata dal
genoma. I restanti 5,8 miliardi di basi servono a organizzare e punteggiare
quelle parole, creando potenzialmente innumerevoli varianti della stessa
storia.
Dopo la scoperta del gene del morbo di Huntington, dal 1990 al 2010 i
genetisti si sono perlopiù dedicati alla ricerca di mutazioni della malattia solo
nella sequenza di DNA dei geni, come refusi nelle parole del racconto del
genoma. Ma ora l’epigenetica ci dice che gran parte della storia è in quel
DNA intergenico, le regioni del genoma che eravamo soliti chiamare DNA
spazzatura. Queste aree determinano come viene letta la storia e quali capitoli
contano di più.
Un editoriale di Nature a commento dei primi dati emersi dal Roadmap
Epigenomics Project puntualizzava: «Nelle malattie umane genoma ed
epigenoma operano congiuntamente. Affrontare la malattia utilizzando le
informazioni sul solo genoma è stato come cercare di lavorare con una mano
legata dietro la schiena. La nuova miniera di dati epigenomici è in grado di
liberare la mano prigioniera. Certo, non fornirà tutte le risposte, ma potrebbe
aiutare i ricercatori a decidere quali domande porre». Si è scoperto che le
malattie più comuni con una base genetica sono estremamente complesse, e
che un gran numero di fattori, dalle mutazioni del genoma ereditate dai nostri
genitori alle modificazioni epigenetiche causate dalle esperienze della nostra
vita, concorrono a determinare il rischio di contrarre una determinata
malattia.
Nella decennale guerra contro il cancro si sono indubbiamente compiuti
notevoli progressi. Secondo l’American Cancer Society, tuttavia, ogni anno
viene ancora diagnosticato un tumore a oltre 1,6 milioni di americani, e
settecentomila circa soccombono a tumori di tutti i tipi. Più di ogni altra
malattia, il cancro ha portato a incredibili progressi nella comprensione delle
mutazioni genetiche patogene. La convinzione corrente è che lo sviluppo del
cancro sia dovuto all’accumulo di mutazioni genetiche che trasformano le
cellule normali in cellule tumorali e danno origine a tumori di vario tipo.
Tuttavia, ora sappiamo che il rischio di cancro dipende anche da come le
modificazioni epigenetiche del genoma rendono certe regioni più vulnerabili
a nuove mutazioni. (Finora le maggiori prove del ruolo dell’epigenetica nella
genesi delle malattie viene proprio da studi sul cancro.)
Queste mutazioni possono essere attivate dall’esposizione a determinate
tossine ambientali, per esempio la diossina, una famiglia letale di sostanze
chimiche che si liberano dai processi di produzione di pesticidi e
dall’incenerimento dei rifiuti, e per le quali non esiste un dosaggio tollerabile.
L’Environmental Protection Agency stima che il danno causato dalla diossina
superi quello causato dal DDT negli anni Sessanta. Una tossina ambientale ha
la capacità di causare nuove alterazioni epigenetiche. Queste possono
modificare il modo in cui il DNA genomico in quella regione è ripiegato, il
che a sua volta può influenzare il dove possono formarsi nuove mutazioni.
La genesi di un tumore implica dunque più fasi, tra cui alterazioni sia
genetiche sia epigenetiche del genoma. A differenza delle mutazioni
genetiche, le modificazioni epigenetiche sono impermanenti e persino
reversibili. Alcune forme di cancro sono causate da geni che vengono attivati
attraverso un processo detto di ipometilazione (ipo è un prefisso greco che
significa «sotto»).
In questo caso i segnali metilici sui geni che ne silenziano l’attività sono in
qualche modo stati rimossi. Senza un soppressore che li trattenga, i geni
dannosi vengono attivati. In altri casi accade il contrario. La disattivazione di
certi geni tramite metilazione può portare alla formazione di tumori o
comportare l’aggiunta di gruppi acetile alle proteine istoniche che avvolgono
il DNA.
Attualmente sono in fase di elaborazione nuovi farmaci che dovrebbero
riequilibrare queste alterazioni epigenetiche oncogene. Per esempio, gli
inibitori della DNA-metiltransferasi (DNMI) agiscono come agenti
demetilanti in grado di rimuovere i segnali metilici dai geni. Questi farmaci
sono già utilizzati con successo nel trattamento di forme di leucemia. Altri
ancora, gli inibitori di istone deacetilasi (HDACI) vengono utilizzati per il
trattamento della leucemia e dei linfomi. Naturalmente, questi «epifarmaci»
non sono esenti da problemi, essendo terribilmente specifici nella loro azione
sul genoma. E se vengono utilizzati con un certo successo nella cura dei
tumori del sangue, non si sono ancora rivelati efficaci contro i tumori solidi.
Pur auspicando il successo di questa nuova classe di epifarmaci, ribadiamo
che sono necessari studi sui cambiamenti di stile di vita – alimentazione sana,
gestione dello stress, esercizio fisico, controllo del peso eccetera –,
potenzialmente in grado di raggiungere gli stessi risultati senza effetti
collaterali.
IL CANCRO È CASUALE?
La casualità qui è più che una questione teorica, dato che il cancro provoca
una parte considerevole delle sofferenze umane e minaccia la vita di tutti noi.
Vent’anni fa, negli anni Novanta, si pensava che il cancro fosse
essenzialmente casuale, e che praticamente tutti corressero lo stesso rischio.
In quel periodo la genetica ha rafforzato l’immagine del cancro come nemico
spietatamente impersonale, che colpiva le sue vittime in maniera arbitraria.
Ma c’erano pareri contrari. Quelli che pensavano che il cancro fosse causato
da tossine indicavano come cause tipiche il tabacco e l’amianto. Altri, più
propensi ad attribuire le cause ai virus, citavano il cancro del collo dell’utero,
che è causato dal papilloma virus umano (HPV). In base a quanto si è poi
scoperto, tutti avevano tra le mani una tessera del puzzle o, come ha detto
uno dei massimi esperti di oncologia, erano come ciechi che possedevano
ciascuno un frammento della risposta.
L’opinione attuale in materia ci riporta a un’immagine familiare, quella
della nebulosa di cause. Tossine ambientali, virus e mutazioni casuali hanno
tutti un ruolo, e come per l’enigma degli olandesi diventati improvvisamente
gli uomini più alti del mondo, la nebulosa non aiuta quando si tenta di
connettere causa ed effetto. L’unica vera certezza è che alla fine tutte le
strade portano al genoma.
Com’è ormai noto, qualunque tipo di cancro ha bisogno di una causa
scatenante all’interno della cellula sotto forma di un oncogene, o gene del
cancro. Questi geni sono molti, e negli ultimi anni sono stati catalogati grazie
a un grosso impegno a livello internazionale che ha portato alla formulazione
del Cancer Atlas, un catalogo completo delle mutazioni genetiche
responsabili del cancro. Oltre che attivando un oncogene, il cancro può
iniziare disattivando il suo opposto, ovvero il gene oncosoppressore.
Quando si parla di interruttori accesi o spenti, l’epigenetica entra
nell’equazione, e così pure gli interrogativi sulla casualità, perché l’evento
che fa scattare l’interruttore può non essere affatto casuale. Fumare sigarette,
per esempio, non lo è. Per chi fuma, il rischio di contrarre il cancro del
polmone diventa altamente probabile. Ma una spiegazione epigenetica del
cancro fornisce tanti problemi quante soluzioni. Innanzitutto, la speranza che
il cancro potesse interessare un singolo gene, svanita negli anni Ottanta, è
riemersa con l’epigenetica: si è infatti scoperto che una singola mutazione
genetica può portare a un dato tipo di cancro; d’altra parte, però, la malattia
sembra coinvolgere fino a cinquanta-cento geni. I geni del cancro possono
continuare a mutare a mano a mano che questo va diffondendosi, rendendo la
malignità un bersaglio in rapido movimento e quindi sfuggente.
I farmaci antitumorali mirati si sono guadagnati i titoli dei giornali curando
tumori molto specifici come una forma di leucemia infantile che coinvolge
solo un unico gene. Tuttavia, vent’anni di ricerche di farmaci analoghi che
fossero in grado di sgominare un’ampia varietà di tumori hanno avuto un
successo molto limitato. A peggiorare ulteriormente le cose, anche i farmaci
che riescono brillantemente a cancellare ogni traccia di malignità hanno
spesso un effetto tragicamente temporaneo: di lì a pochi mesi il paziente torna
con il suo cancro. L’arma segreta del cancro sembra essere la velocità e la
casualità con cui può mutare, il che sembrerebbe confermare il dogma
evoluzionista secondo cui è la casualità a dominare.
A ogni modo, ci sono segni che indicano una nuova direzione. Di tutte le
malattie, nessuna più del cancro è stata chiaramente correlata ad aberrazioni
epigenetiche.
Gli epigenomi di specifici tipi di cellule tumorali recano la stessa impronta
epigenetica corrispondente alla cellula che ha avviato il cancro. Questo serve
a rivelare il tessuto in cui il cancro ha avuto origine, ovunque si trovi nel
corpo. Informazioni di questo genere potrebbero essere di enorme utilità in
futuro per la diagnosi e il trattamento di varie forme di cancro, perché una
volta che un tumore si è diffuso, spesso è estremamente difficile risalire al
punto da cui era partito. A complicare ulteriormente il problema vi è la
tendenza della cellula tumorale a mutare in continuazione. La speranza è che,
comparando gli epigenomi di cellule sane e maligne, si riesca a capire meglio
come il rischio di contrarre la malattia possa essere influenzato da qualcosa di
più che i soli genomi ricevuti dai nostri genitori.
Si è scoperto che un attento esame dei segnali epigenetici (metilazione e
acetilazione) può effettivamente predire quale tipo di cancro si svilupperà.
Questa rivelazione è l’arma decisiva contro le mutazioni casuali. Mentre
viviamo la nostra vita, e ambiente ed esperienze governano chimicamente la
nostra attività genica (ne abbiamo parlato ampiamente), possono sorgere
nuove mutazioni specifiche che sono le stesse per ogni cellula in un
particolare tipo di tumore. Così le modificazioni epigenetiche portano a
nuove prevedibili mutazioni. E quando qualcosa è prevedibile non è più
puramente casuale.
Questo livello di prevedibilità non risolve però tutto il mistero. Per fare una
metafora, pensiamo al tempo atmosferico. In un giorno d’agosto è probabile
che vi siano dei temporali, e il momento in cui arriveranno può essere
previsto con un discreto grado di accuratezza: poiché il calore del giorno si
accumula, un temporale è più frequente nel pomeriggio o la sera che non
nelle ore più fresche del mattino. Tuttavia l’esatto movimento delle correnti
d’aria, dell’umidità e delle nuvole è molto meno prevedibile, e sarebbe
impossibile conoscere la causa di uno specifico temporale fino all’ultima
molecola d’aria.
Nel cancro, molte mutazioni si verificano spesso contemporaneamente, e
non tutte portano a esiti negativi. Le possibilità che si presentano sono
migliaia, con grande imprevedibilità (il fatto che qualcosa sia imprevedibile
non lo rende casuale: il prossimo pensiero che sta per venirci in mente non è
casuale, bensì imprevedibile; ma la ricerca sul cancro deve ancora capire se il
cancro è così o no).
Dopo le trionfanti scoperte sulle cause genetiche del cancro, questa
constatazione è stata fonte di grandissimo sconforto. Gli oncologi hanno
iniziato a lamentarsi del cancro come nemico subdolo il cui arsenale di difese
si moltiplica ogni volta che sembrano avere tra le mani una soluzione (un
buon esempio della nostra tesi, esposta nel capitolo precedente, secondo cui
purtroppo il cancro può attingere alla completa intelligenza della cellula). Ora
le speranze tornano nuovamente a crescere, non solo perché il Cancer Atlas
ha classificato le mutazioni pericolose, ma anche perché, cosa altrettanto
importante e terapeuticamente significativa, pare che il cancro si sviluppi
lungo alcuni percorsi stabiliti e numericamente limitati, forse solo una decina
per ogni tipo di tumore maligno. In altre parole, vi è un modello che va
persino oltre nell’invalidare la tesi ortodossa delle mutazioni casuali.
Una scoperta promettente è che alcuni tumori impiegano anni, decenni
addirittura, per svilupparsi dopo che l’iniziale fattore scatenante mette una
cellula su un percorso anormale. Si ritiene che una specifica sequenza – il
percorso genetico che una cellula anormale deve seguire – comporti una serie
di passi che devono succedersi in un certo ordine. Tentiamo di spiegarci
meglio con una metafora.
Pensiamo a quei giocattoli piccoli portatili in cui biglie d’acciaio rotolano
su una tavoletta su cui sono praticati dei fori; il gioco consiste nell’inclinare
la tavoletta per far cadere tutte le biglie nei fori, i quali non sono molto più
grandi di una biglia, quindi è tutt’altro che facile. Ora immaginiamo che una
mutazione tumorale si trovi ad affrontare una sfida simile. Deve farsi strada
attraverso una piccola apertura – una specifica modificazione genetica tra una
miriade di possibilità – per poi passare alla fase successiva. Una volta che c’è
riuscita, la prossima piccola apertura si presenta sotto forma di una nuova
mutazione tra una miriade di possibilità, e così via.
Se un tumore è a crescita lenta, come lo sono certi tipi di cancro al colon o
alla prostata, potrebbero volerci trenta-quarant’anni perché una cellula
tumorale esegua l’intera sequenza. La speranza è che, individuando il più
presto possibile la prevedibile impronta digitale dei marcatori epigenetici, il
cancro sia vinto molto prima della comparsa dei sintomi. Questo scorcio di
luce viene dalla scoperta che le esatte mutazioni genetiche di molti tipi di
tumori possono essere predette dalla firma epigenomica del tipo di cellula da
cui il cancro molto probabilmente ha avuto origine.
Non possiamo dunque fare a meno di chiederci: è possibile che quando
negli adulti avvengono mutazioni epigenetiche dovute a tossine, stress,
traumi, alimentazione e simili si verifichino nuove, prevedibili mutazioni in
alcune cellule? E se la mutazione si verifica nelle cellule spermatiche e nelle
cellule-uovo, potrebbe essere trasmessa alla generazione successiva? Ancora
non lo sappiamo. Ma anche solo l’idea che questo possa accadere avrebbe
fatto girare la testa a Darwin, e oggi sta portando a una consistente revisione
della sua teoria.
Se le alterazioni epigenetiche producessero specifiche mutazioni oltre a
quelle che causano tumori, allora le esperienze di vita individuali e
l’ambiente potrebbero, almeno teoricamente, fornire una più ampia
prevedibilità. Firme epigenetiche di altre malattie croniche potrebbero
apparire molto prima dei sintomi. E sarebbe ancora più straordinario se la
prevenzione si estendesse alle generazioni non ancora nate, eredi di questi
marcatori fin dal grembo materno. Mentre scriviamo questo libro, tali
possibilità non sono che una serie di congetture molto stimolanti. Tuttavia è
affascinante pensare a quello che i futuri studi in questo campo potranno
rivelare.
TOSSINE AMBIENTALI ED EPIGENETICA
Finora ci siamo concentrati sui contributi genetici al rischio di malattia, ma
c’è uno scheletro nell’armadio: l’effetto delle tossine ambientali sui nostri
geni e sul nostro epigenoma. I centri per la prevenzione e il controllo delle
malattie negli Stati Uniti hanno selezionato centoquarantotto sostanze
chimiche ambientali diverse nel sangue e nelle urine degli americani.
Sempre più prove scientifiche avvalorano l’ipotesi che gli inquinanti
ambientali possano provocare varie malattie inducendo nel nostro genoma
cambiamenti epigenetici, e alterando così le attività di specifici geni. Per
esempio, l’arsenico presente in acque contaminate influisce molto
gravemente sulla metilazione del genoma, causando tumori della vescica.
L’esposizione a livelli elevati di altri metalli pesanti (nichel, mercurio,
cromo, piombo, cadmio) presenti nei cibi e nell’acqua può causare
cambiamenti nella metilazione dei geni, determinando vari tipi di cancro, tra
cui quello del polmone e del fegato. Morale: in tutto il mondo si registrano
più di tredici milioni di morti all’anno a causa degli inquinanti ambientali,
molti dei quali sono stati collegati a modificazioni epigenetiche del genoma.
Non vogliamo essere allarmisti, ma bisogna stare al passo con la scienza.
Forse nessuno come Michael Skinner, un biologo molecolare della
Washington State University, ha contribuito così tanto alla conoscenza di
questo problema. In un suo studio, Skinner ha esposto dei ratti femmina
gravide a una sostanza chimica nota per interferire con lo sviluppo
embrionale, un fungicida chiamato vinclozolin, che viene usato per
proteggere i vigneti dalla muffa, e frutta e verdura da altri fattori che causano
decomposizione. Era già stato dimostrato che nei topi maschi il vinclozolin
diminuiva la fertilità. Il dato inquietante scoperto da Skinner è che anche i
discendenti dei topi chimicamente trattati erano affetti da una bassa conta
degli spermatozoi, e fino alla quarta-quinta generazione. Un risultato, questo,
replicato con successo ben quindici volte.
La ragione del disturbo nella produzione di sperma causata dal vinclozolin
non era da ricercarsi in mutazioni del DNA, bensì in modificazioni
epigenetiche (attraverso segnali metilici) nei topi adulti esposti, le quali
venivano poi trasmesse alle generazioni successive. (Questo è diverso da ciò
di cui sentiamo normalmente parlare, quando geni effettivamente mutati di
specifiche patologie vengono trasmessi dai genitori ai figli, come per esempio
nel caso dell’anemia falciforme.) Veniva così aggiunto un altro indizio
sull’esistenza di una genetica transgenerazionale.
Inoltre, Skinner e colleghi hanno scoperto un modello specifico che
stabiliva dove i segnali metilici andavano ad attaccarsi nel genoma dopo
l’esposizione dei topi a vari tipi di tossine chimiche. Ogni tossina,
proveniente sia da insetticidi sia dal carburante dei jet, lasciava il proprio
modello distintivo. In alcuni casi le modificazioni causate nell’attività genica
potevano essere ereditate, e quindi predisporre la prole a patologie specifiche.
Per esempio, il noto insetticida DDT, da tempo vietato negli Stati Uniti a
causa dei gravi danni che causa alla catena alimentare di animali e volatili, ha
anche uno specifico effetto epigenetico. È stato dimostrato che esporre i topi
al DDT crea nelle generazioni successive una predisposizione all’obesità e a
patologie a questa correlate, come diabete e cardiopatie.
La gamma dei cambiamenti epigenetici nocivi causati dai pesticidi è molto
ampia. È stato dimostrato che il metossicloro, utilizzato per proteggere il
bestiame da pulci, zanzare e altri insetti, causa nei topi disfunzioni testicolari
e ovariche. Un altro pesticida ancora, la dieldrina, ha effetti drammatici sulle
modificazioni epigenetiche (acetilazione) di istoni che nei topi portano alla
morte delle cellule nervose associata al morbo di Parkinson. Skinner ha anche
mostrato, sempre tramite studi murini, che la purtroppo comune diossina,
prodotto di scarto di molti processi industriali, inquinante e cancerogena,
causa ereditarietà epigenetica di patologie prostatiche e renali, nonché della
sindrome dell’ovaio policistico.
Una delle più studiate tossine ambientali capaci di causare modificazioni
epigenetiche anomale è il bisfenolo A (BPA), ampiamente usato per produrre
i materiali plastici di cui sono fatti i contenitori di alimenti e bevande, biberon
compresi. È ormai noto che il BPA causa cambiamenti epigenetici. Citeremo
solo alcuni dei molti, importanti studi in merito.
Ricerche condotte presso la Tufts University hanno mostrato che il BPA
può modificare l’attività genica nelle ghiandole mammarie di ratti femmina
che vi sono state esposte quando erano ancora nel grembo materno,
rendendole più vulnerabili al cancro della mammella. In precedenza era stato
dimostrato che nei ratti maschi il BPA causa un aumento del rischio di cancro
alla prostata. In un’altra serie di studi, il BPA ha prodotto modificazioni
epigenetiche associate alla mutazione del colore rossastro di una particolare
razza di topi, oltre ad aumentarne il rischio di cancro. (Per evitare di esporre i
neonati al bisfenolo A è bene usare biberon e contenitori di vetro, oppure
prodotti sulla cui etichetta sia chiaramente riportato che sono stati fabbricati
senza l’utilizzo di BPA.)
Infine, si è visto che il dietilstilbestrolo (DES), utilizzato dal 1940 al 1960
sulle donne gravide per prevenire aborti spontanei, aumenta il rischio di
cancro al seno. Ora sappiamo che questo rischio è associato a cambiamenti
epigenetici. C’è da chiedersi, allora, se tali cambiamenti vengano trasmessi
alle generazioni successive insieme a un maggiore rischio.
L’inquinamento atmosferico, soprattutto da particolato proveniente dagli
scarichi dei veicoli, causa modificazioni epigenetiche che possono portare a
stati infiammatori in tutto il corpo. Il benzene, presente nella benzina e in altri
combustibili derivati dal petrolio, porta a un’alterata metilazione del DNA
associata alla leucemia. Nella nostra rete idrica, la clorazione genera
sottoprodotti con nomi come trialometano, trietilstagno e cloroformio, tutti in
grado di indurre modificazioni epigenetiche nel genoma. Di molte di queste
sostanze chimiche sono stati studiati gli effetti nocivi sulla salute. Nei ratti la
cui acqua era stata addizionata di trietilstagno si è registrata una maggiore
incidenza di infiammazione e gonfiore cerebrale associate a un aumento delle
attività di metilazione. Il cloroformio e il trialometano noto come
bromodiclorometano aumentava la metilazione nelle cellule epatiche in un
gene associato alle patologie del fegato.
Persino sostanze benigne che non associamo a simili rischi possono dare
problemi a causa del loro processo produttivo. Dato allarmante, molte spezie
tipiche indiane provenienti dall’India sono risultate contaminate da metalli
pesanti. La causa è verosimilmente da ricercarsi nella prossimità tra aziende
agricole produttrici delle spezie e aree industriali di estrazione e fusione dei
metalli, la cui acqua contaminata viene usata a scopi irrigui. Solo nel 2013
l’FDA ha bloccato l’importazione di oltre ottocentocinquanta carichi di
spezie di provenienza estera.
Per minimizzare questi rischi si possono usare spezie da agricoltura
biologica coltivate in Europa e negli Stati Uniti, mentre occorre prestare
attenzione a quelle provenienti da India e Cina. È consigliabile l’acquisto di
marchi noti presso rivenditori affidabili, mentre occorre prestare particolare
attenzione alle spezie acquistate su Internet o sfuse, magari conservate in
contenitori privi di etichette, che si trovano per esempio sulle bancarelle dei
mercati o nei negozietti di specialità etniche. Spesso, infatti, questi
commercianti vendono spezie che sono riuscite a eludere i controlli. Benché
solo il 2% circa delle spezie importate venga dichiarato contaminato,
comprando spezie non di marca da fonti estere anonime è più probabile
incapparvi.
Insomma, non c’è dubbio che un’ampia gamma di tossine e inquinanti
ambientali è in grado alterare il nostro epigenoma, con conseguente aumento
della vulnerabilità a tutta una serie di tumori (seno, fegato, ovaie, polmone) e
ad altre patologie, tra cui cardiopatie, schizofrenia e diabete. L’esposizione di
ogni singolo individuo è diversa e unica, il che complica notevolmente il
problema. Secondo alcuni esperti, in futuro andremo dal medico per farci fare
una scansione completa delle nostre alterazioni epigenetiche in modo da
determinare il nostro futuro rischio di malattia. Useremo anche sempre più
farmaci capaci di modulare l’espressione del DNA, come inibitori di HDAC e
terapie basate sull’RNA per compensare questi rischi e curare le malattie?
Questi scenari stanno già iniziando a delinearsi. In questo libro abbiamo
proposto un’alternativa perseguibile fin da subito, modificando il proprio stile
di vita per minimizzare i rischi. Forse in futuro anche questo metodo verrà
ottimizzato in base agli specifici segnali epigenetici di una determinata
malattia. Un interrogativo ancora più impegnativo, basato su studi come
quelli fin qui citati, è se le modificazioni epigenetiche negli adulti di oggi
verranno ereditate dalle prossime generazioni. Skinner sembra nutrire pochi
dubbi in proposito: «In sostanza, ciò a cui è stata esposta la nostra bisnonna
potrebbe causare malattie in noi e nei nostri nipoti».
Sarà dunque cruciale continuare a sviluppare consapevolezza sulle
modificazioni epigenetiche e il modo in cui avvengono in seguito
all’esposizione a tossine e inquinanti ambientali. È questo l’unico modo per
progredire, per il bene della salute nostra e delle generazioni che verranno.
Ringraziamenti

LA nuova genetica è uno degli argomenti più appassionanti su cui abbiamo


mai scritto, e poiché il terreno da coprire è molto vasto, sono tante le persone
che desideriamo ringraziare. La lista è lunga, ma ogni singolo rapporto è stato
personale e intensamente gratificante.
Ogni libro richiede l’impegno di un team editoriale, e anche questo ha
avuto la fortuna di averne uno splendido, a partire dal nostro editor Gary
Jansen, così perspicace e capace di motivarci. Grazie anche agli altri che alla
Harmony Books hanno costituito e gestito il team editoriale: Diana Baroni,
vicepresidente e direttrice editoriale; Tammy Blake, vicepresidente e
direttrice marketing; Julie Cepler, responsabile marketing; Lauren Cook,
ufficio stampa; Christina Foxley, addetta marketing; Jessica Morphew,
grafica delle copertine; Debbie Glasserman, grafica impaginatrice; Patricia
Shaw, redattrice; Norman Watkins, direttore della produzione; Rachel
Berkowitz e Lance Fitzgerald, ufficio diritti.
Sappiamo tutti in quali difficoltà versi oggi l’editoria, quindi un
ringraziamento particolare va agli alti dirigenti a cui spetta prendere decisioni
difficili su quali libri pubblicare, compreso il nostro. Un grazie sincero a
Maya Mavjee, presidente ed editore di Crown Publishing Group, e ad Aaron
Wehner, vice presidente senior ed editore di Harmony Books.
Il nostro entusiasmo per le ricerche d’avanguardia nel campo
dell’epigenetica è stato amplificato dalla Self-Directed Biological
Transformation Initiative (SBTI), un progetto rivelatosi straordinariamente
proficuo grazie all’impegno dei ricercatori che vi hanno collaborato. Un
grazie di cuore a tutti voi, ovvero:

Sheila Patel, Valencia Porter, Lizabeth Weiss, Wendi Cohen, Sara


Harvey e tutto il resto dello staff del Chopra Center for Well-Being.
L’Omni La Costa Resort & Spa, per averci generosamente ospitati.
Murali Doraiswamy, Arthur Moseley, Lisa St. John e Will Thompson
della Duke University.
Susanna Cortese del Massachusetts General Hospital e della Harvard
Medical School.
Eric Schadt, Sarah Schuyler, Seunghee Kim-Schulze, Qin Xiaochen,
Jeremiah Faith, Milind Mahajan, Yumi Kasai, Jose Clemente, Noam
Beckman, Zhixing Feng e Harm Van Bakel dell’Institute for Genomics
and Multiscale Biology del Mount Sinai Hospital.
Scott Peterson del Sanford Burnham Medical Research Institute.
Paul Mills, Christine Peterson, Kathleen Wilson, Meredith Pung, Chris
Pruitt, Kelly Chinh, Cynthia Knott e Augusta Modestino dell’Università
della California a San Diego.
Elizabeth Blackburn, Elissa Epel, Jue Lin, Amanda Gilbert e Nancy
Robbins dell’Università della California a San Francisco.
Eric Topol e Steven Steinhubl dello Scripps Translational Science
Institute.
Barry Work, per il suo generoso contributo in ambito informatico.

Un ringraziamento particolare ai nostri generosi sostenitori Gina Murdock,


Glenda Greenwald e Jennifer Smorgon, e a i Self-Directed Biological
Founders and Pioneers. Grazie anche al consiglio di amministrazione e al
comitato consultivo della Chopra Foundation, nonché a tutti i partecipanti
allo studio.
Deepak ringrazia il suo favoloso team, il cui impegno instancabile, giorno
dopo giorno e anno dopo anno, rende possibile qualunque progetto: Carolyn
Rangel, Felicia Rangel, Gabriela Rangel e Tori Bruce. Occupate un posto
speciale nel mio cuore.
Un sentito grazie anche a Poonacha Machaiah, cofondatore di Jiyo, per
avere contribuito alla presenza online del Chopra Center e della Chopra
Foundation.
Come sempre, la mia famiglia resta il centro del mio mondo, e mi è tanto
più cara quanto più si espande: Rita, Mallika, Sumant, Gotham, Candice,
Krishan, Tara, Leela e Geeta.
Ringraziamenti particolari di Rudy
Desidero ringraziare mia moglie Dora per il suo amore, il suo sostegno
incondizionato, il suo costante essermi vicina con la sua competenza e i suoi
saggi consigli. Un grazie speciale a mia figlia Lyla che, trovando esilarante
chiamare questo libro «geni caccosi», mi ha ricordato l’importanza del
microbioma, il nostro secondo genoma.
Un grazie dal profondo del cuore a mia madre e a mio padre, per avermi
iniziato alle meraviglie della biologia. Grazie anche ai miei cari amici
dell’Himalayan Academy, per avermi insegnato che non sono semplicemente
i miei geni, ma il loro utente. E un grazie particolare al dottor James Gusella,
che per primo, al Massachusetts General Hospital, mi ha fatto conoscere la
sorprendente complessità del genoma umano e con il suo esempio mi ha
spinto a proseguire con entusiasmo questi studi. Infine, un sentito
ringraziamento al Cure Alzheimer’s Fund, per il generoso e partecipe
sostegno agli studi genetici sul morbo di Alzheimer che sto attualmente
conducendo.
Per avere informazioni sui seminari e sul materiale audiovisivo del dottor
Deepak Chopra, potete contattare:

Hi-Performance ®
Formazione di qualità
via Federico Cesi, 72
00193 Roma

tel.: 06 36005152
http://www.hiperformance.it
info@hiperformance.it
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professionale del vostro medico curante. L’editore declina qualunque responsabilità diretta o indiretta derivante
dall’uso o dall’applicazione di qualsivoglia indicazione riportata in queste pagine.
Illustrazioni di Mapping Specialists, Ltd.
Le citazioni nel testo di Shakespeare e Blake sono tratte rispettivamente dalle seguenti opere: William
Shakespeare, Macbeth, in Tragedie, Rizzoli, Milano 2006; William Blake, Gli auguri dell’innocenza, in
Visioni, Mondadori, Milano 2007.

www.sperling.it
www.facebook.com/sperling.kupfer

Super geni
di Deepak Chopra, Rudolph E. Tanzi
Titolo originale Super Genes
Copyright © 2015 by Deepak Chopra, M.D., and Rudolph E. Tanzi, Ph.D.
All rights reserved.
This translation published by arrangement with Harmony Books, an imprint of the Crown Publishing Group, a
division of Penguin Random House LLC.
© 2016 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Realizzazione editoriale a cura di Giuseppe Doldo.
Ebook ISBN 9788820094591

COPERTINA || COPERTINA: ILLUSTRAZIONE © SHUTTERSTOCK | ART DIRECTOR: FRANCESCO


MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: LAURA DE MEZZA
Indice
Il libro
Gli autori
Frontespizio
Geni buoni, geni cattivi e super geni
Perché super geni? Una risposta urgente
PARTE PRIMA. La scienza della trasformazione
Come trasformare il nostro futuro. L’avvento dell’epigenetica
Costruire ricordi migliori
Dall’adattamento alla trasformazione
Un nuovo protagonista: il microbioma
PARTE SECONDA. Scelte di stile di vita per un benessere profondo
Alimentazione. Liberarsi dell’infiammazione
Stress. Un nemico nascosto
Esercizio fisico. Trasformare i buoni propositi in azioni concrete
Meditazione. La colonna portante del benessere?
Sonno. Ancora un mistero, ma assolutamente indispensabile
Emozioni. Come trovare un appagamento più profondo
PARTE TERZA. Guidare la propria evoluzione
La saggezza del corpo
Rendere consapevole l’evoluzione
Epilogo. Il vero «me»
Appendici
Genetica delle malattie complesse
Il grande paradosso del DNA
Epigenetica e cancro
Ringraziamenti
Copyright
Table of Contents
Il libro
Gli autori
Frontespizio
Geni buoni, geni cattivi e super geni
Perché super geni? Una risposta urgente
PARTE PRIMA. La scienza della trasformazione
Come trasformare il nostro futuro. L’avvento dell’epigenetica
Costruire ricordi migliori
Dall’adattamento alla trasformazione
Un nuovo protagonista: il microbioma
PARTE SECONDA. Scelte di stile di vita per un benessere profondo
Alimentazione. Liberarsi dell’infiammazione
Stress. Un nemico nascosto
Esercizio fisico. Trasformare i buoni propositi in azioni concrete
Meditazione. La colonna portante del benessere?
Sonno. Ancora un mistero, ma assolutamente indispensabile
Emozioni. Come trovare un appagamento più profondo
PARTE TERZA. Guidare la propria evoluzione
La saggezza del corpo
Rendere consapevole l’evoluzione
Epilogo. Il vero «me»
Appendici
Genetica delle malattie complesse
Il grande paradosso del DNA
Epigenetica e cancro
Ringraziamenti
Copyright

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