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La traccia scientifica e scritturale della polisemia


di ‘cuore’ nella ‘Vita nova’

VITTORIO BARTOLI
Firenze
bartoli.vit@gmail.com

RIASSUNTO:
Il cuore è nella Vita nova l’organo egemone che condiziona e regola la vita del
poeta nello stato di veglia, nel sonno e nelle ymaginationi. Il lemma cuore è usato
con l’ampia gamma di significati che la scienza medica, le Scritture e l’esegesi
scritturale gli attribuiscono. Nella prima e nella seconda novena la descrizione
della funzione e delle disfunzioni del cuore e dello spirito vitale contenuto nel
ventricolo sinistro è in armonia con il canone scientifico medievale. Nella terza
novena e nei paragrafi finali è spesso in antitesi: il cuore, oltre ad ospitare le pas-
sioni dell’anima, è la sede della conoscenza sensoriale, del pensiero, della vo-
lontà, della memoria ed ha come avversario l’anima, cioè la Ragione. La precisa
definizione delle potenze dell’anima legata al corpo, la descrizione del tremore
emozionale squassante che si trasmette orribilmente fino ai polsi più periferici,
il rapporto del tremore e dell’incipiente sincope con la visione della Gentilissima
e la scomparsa della sintomatologia con la cessazione della visione sono gli
aspetti più significativi dell’influenza della medicina di tradizione galenica.
Esprimono l’influsso delle Scritture l’attribuzione al cuore di molte funzioni
dell’anima e l’incontro con la Pietosa che permette a Dante di descrivere le tre
fasi della concupiscenza secondo il maestro Pietro Lombardo.

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PAROLE CHIAVE: Cuore, spirito vitale, anima, Amore, Ragione, concupiscenza,


ymaginatione.

ABSTRACT:
In the little book Vita Nova, the heart is the hegemonic member that regulates
Dante’s life in vigil, dreams and ymaginationi. The poet ascribes to the heart
several meanings, derived either from the medical science of Galen’s tradition or
from the Scriptures and scriptural exegesis. Following Gorni’s ninefold division
of the Vita Nova, the influence of medical science is evident in the first and second
novena, where the function and the disfunctions of the heart are described ac-
cording to the canons of medieval medicine, e. g. the definition of the three powers
of the body-linked soul, and the account of the tremor of the heart and the pulses
arising at the sight of Beatrice and disappearing at the end of the vision. The third
novena and the final paragraphs are unhooked from medicine. The heart is the
seat of Love, its king, and the seat of sensory perception and knowledge, thought,
will, memory, as set forth in the Scriptures. Moreover, the meeting of the crying
poet with a gracious, young and very beautiful Lady, the Donna Pietosa or Gen-
tile, lets Dante illustrates the three phases of concupiscence, according to Master
Pietro Lombardo.
KEY WORDS: Heart, vital spirit, soul, Love, Reason, concupiscence, ymagina-
tione.

Nella rubrica Incipit Vita Nova, dice Dante, «io trovo scripte le parole
le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte,
almeno la loro sententia» [1, 1]. Il racconto è imperniato sulla dinamica
scenica delle operazioni dell’anima del poeta conseguenti alla visione
della «gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Bea-
trice» [1, 2].
Nell’ambito degli studi sulla Vita nova, «un libro così composito e
sfuggente, astratto, ricco più di zone d’ombra che di luci», del quale
«sfugge il vero modello fondante» (Rossi in Alighieri 1999: 243, 246),
scarsa attenzione, per quanto è a mia conoscenza, è stata dedicata alla po-
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lisemia del lemma ‘cuore’. Il cuore, insieme allo spirito vitale contenuto
nel ventricolo sinistro, è presente in tutta la narrazione ed è impiegato con
l’ampia gamma di significati che la scienza medica e, ancor più, le Scrit-
ture e l’esegesi scritturale gli hanno attribuito:1 esso è nella Vita nova l’or-
gano egemone che condiziona e regola la vita del poeta in ogni momento,
nello stato di veglia e nel sonno.
Alla ripartizione novenaria del libello, proposta da Gorni (Alighieri
1996) e accolta in questo studio, corrisponde una diversa presentazione
del cuore, aderente al canone scientifico nella prima novena e in buona
parte della seconda, distante e spesso in antitesi nella terza e nei quattro
paragrafi finali. Negli ultimi tredici paragrafi il cuore, oltre ad ospitare le
passioni dell’anima, è la sede della conoscenza sensibile, del pensiero,
della volontà, della memoria ed ha infine come adversario l’anima, cioè
la Ragione. L’acceso dibattito fra il cuore e i sensi e fra il cuore e l’anima
[26 e 27] conduce all’ultima ymaginatione [28], ove Beatrice appare «glo-
riosa», «giovane» e «con quelle vestimenta sanguigne colle quali [dice
Dante] apparve prima agli occhi miei». Dopo «questa tribulatione» [29,
1] e la vista dei pellegrini «pensosi» che attraversano «la città dolente»
[9], il sonetto Oltre la spera [30, 10-13] indica la nascente evoluzione
dell’amore per «quella benedecta Beatrice» che «gloriosamente mira nella
faccia di Colui “qui est per omnia secula benedictus”» [31, 3]. L’«intel-
ligenza nova» che «Amore piangendo» mette nel cuore del poeta pone
fine alla precedente esperienza di vita, d’amore e di poesia2 nell’attesa di
«dire di lei [Beatrice] quello che mai non fue detto d’alcuna» [31, 2]. Que-
sta intelligenza nova assicurerà l’«impulso capace di superare le barriere
della “temporalità”» e fornirà «aspirazione e energia spirituale che indi-
rizzano l’anima verso l’integrazione finale con Dio» (Picone 1979: 61).
Occorre ricordare che la ratio è deputata alle cose terrene, “respicit infe-
riora”, l’intellectus alle celesti, “superiora respicit” come gli angeli, l’in-
telligentia, l’espressione più elevata dell’intelletto, consente la
conoscenza e la congiunzione con Dio (Alessandro di Hales 1928: 446
ss). In perfetto accordo con il pensiero teologico medievale, essa è «men-
tis visio», che fa comprendere ed amare la verità stessa, cioè Dio, e con-
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duce ad un grado di contemplazione che permette di conoscere «ea […]


quae nulla humana ratione plene comprehendere, quae nulla nostra ratio-
cinatione integre investigare sufficimus» (Riccardo di S. Vittore, PL 196,
De gratia contemplationis seu Benjamin major I, VI).
Al pari delle nozioni scientifiche, le Scritture e l’esegesi scritturale
sono spesso richiamate nel libello, ove alle lamentazioni di Yeremia e ad
altre referenze veterotestamentarie si uniscono quelle neotestamentarie
«avanzate in modi enigmatici dall’autore o volonterosamente escogitate
dai critici» con l’intento di evidenziare nella figura e nell’azione di Bea-
trice un modello cristologico (Singleton 1968: capp. I, III, V), ancorché
non spogliato di «prerogative mariane che si tende a misconoscere»
(Gorni in Alighieri 1999: XIX e XVI).
Oggetto del presente studio è la ricerca della traccia scientifica e scrit-
turale della polisemia di ‘cuore’ all’interno della narrazione della Vita
nova.

LA TRACCIA SCIENTIFICA

Sin dall’inizio del libello il poeta avverte la necessità di definire la tri-


partizione dell’anima legata al corpo con le sue virtù e i relativi spiriti e
lo fa conciliando l’espressività letteraria con un’estrema precisione fisio-
logica (Boyde 2002: 171):
1 [5] In quel puncto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale di-
mora nella secretissima camera del cuore, cominciò a tremare sì forte-
mente, che apparia nelli menomi polsi orribilmente; e tremando disse
queste parole: «Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!».
1 [6] In quel puncto lo spirito animale, lo quale dimora nell’alta camera
nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro perceptioni, si cominciò
a maravigliare molto, e parlando spetialmente alli spiriti del viso, disse
queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra!».

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1 [7] In quel puncto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte


ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo
disse queste parole: «Heu, miser, quia frequenter impeditus ero dein-
ceps!».

Questa sequenza, oltre la cronologia delle modificazioni indotte su


virtù e spiriti di Dante dalla visione di Beatrice, esprime la scala di domi-
nanza degli spiriti stessi fino alla «mirabile visione» finale. A differenza
del Convivio (IV, VII, 11-14), ove le potenze dell’anima sono descritte con
il paragone aristotelico del «triangulo», «quadrangulo» e «pentangulo»,
senza alcun riferimento alla localizzazione nelle tre “membra officialia
seu radicalia”, Dante nella Vita nova, in pieno accordo con la medicina
medievale di tradizione galenica e con molti scritti patristici e scolastici3,
localizza, con chiarezza e precisione scientifica, le tre virtù e i loro spiriti
nel cuore, nel cervello e nel fegato, discostandosi da Alberto Magno4 che
recepisce le quattro potenze proposte da Platone nel Timeo, con la sepa-
razione della nutritiva nel fegato dalla generativa nei testicoli.
Il primo descritto è lo «spirito della vita», messaggero della “virtus vi-
talis seu spiritalis”, che risiede nel ventricolo sinistro, «la secretissima ca-
mera del cuore», e, attraverso l’aorta e le successive diramazioni arteriose
fino «alli menomi polsi», penetra in tutte le membra5, inducendovi quelle
«“trasmutazioni corporali” involontarie che rivelano i sentimenti più na-
scosti, i cambi d’espressione repentini che “soglion esser testimoni del
core”» (Boyde 2002: 162). È lui lo spirito dominante, il responsabile di
tutta la fenomenologia dolorosa e gioiosa, di lacrime e di beatitudine, di
abbandono e di speranza, che incornicia l’amore di Dante per Beatrice.
Gli altri due spiriti sono in posizione secondaria o “ancillare”, per usare
un aggettivo caro alla medicina medievale. Lo spirito animale, la cui virtù
risiede nei ventricoli cerebrali, cioè «nell’alta camera nella quale tutti li
spiriti sensitivi portano le loro perceptioni», è responsabile della sensa-
zione e della sua successiva elaborazione attraverso la “vis cogitativa” e
la “existimativa”. Si spiega così che, alla fine, lo spirito animale personi-
ficato esclami rivolto agli spiriti visivi coinvolti nel processo percettivo:
«Apparuit iam beatitudo vestra!». Lo spirito naturale subisce le conse-
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guenze degli accadimenti, senza alcuna possibilità di interferire: la virtù


da cui scaturisce «dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento
nostro», cioè nel fegato, che è il viscere nel quale il chilo, proveniente
dallo stomaco e dagli intestini attraverso le vene meseraiche, è trasformato
nei quattro umori e diviene il nutrimento di tutte le membra “officialia et
consimilia” del corpo umano ed animale.
Con inizio dalle potenze dell’anima legata al corpo, vengono chiosati
i passi della Vita nova nei quali è evidente l’impronta della scienza medica
di tradizione galenica, procedendo per chiarezza attraverso successivi
commi.

1. In perfetto accordo con le conoscenze mediche del suo tempo, Dante


scrive che a seguito della visione di Beatrice lo spirito vitale comincia a
tremare nel suo cuore e il tremore si trasmette fino alle più piccole arterie,
«nelli menomi polsi», ove appare «orribilmente». Nell’opera Theizir di
Abimeron Abynzoahar (Avenzoar 1549: 18v-19r), denominato in Europa
Avenzoar, si legge che la replezione del cuore vi genera un tremore dal
quale proviene «motus ille extraneus et horribilis qui dicitur altadeg». È
notevole e merita di esser rimarcata la vicinanza dell’avverbio dantesco
‘orribilmente’ con l’aggettivo horribilis usato da Avenzoar per qualificare
il tremore cardiaco, altadeg nella lingua araba. Anche se non è documen-
tato che Dante abbia conosciuto le opere di questo grande medico e filo-
sofo arabo-andaluso del XII secolo, occorre ricordare che le traduzioni
ebraica e latina del libro Theizir influenzarono fortemente il pensiero e
l’insegnamento medico ed alchemico medievale, secondo quanto si legge
nei trattati di storia della medicina.6

2. Il ventricolo sinistro è la «secretissima camera» del cuore per motivi


scritturali più che scientifici. È possibile, tuttavia, che la medicina giusti-
fichi in parte il superlativo usato dal poeta. Il cuore è, giusta la definizione
di S. Agostino (1845, PL 44), «illa particula carnis nostrae quae sub costis
latet» (De Anima et eius origine IV, VI § 7), e lo spirito vitale è contenuto
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«in ventriculo cordis sinistro», dal quale origina «pulsuum motus, qui et
vitalis facultas dicitur», che «innatum vitalemque calorem in omni parte
corporis per arterias impertit» (Costantino Africano 1537: 309). Le vie e
le modalità attraverso le quali il sangue perviene al ventricolo sinistro
sono oscure alla medicina classica e medievale e questo può essere uno
dei motivi che rendono questo ventricolo una «secretissima camera». Lo
pneuma, che giunge al cuore attraverso l’asperarteria o trachea, i polmoni
e la vena arteriale, durante la sistole si trasforma in spirito vitale che passa
nell’aorta e nelle successive diramazioni arteriose al fine di mantenere la
vita e la funzione di tutte le membra “officialia et consimilia”. Secondo
Galeno (1964²: XIX, 630) il lemma arteria deriva dal verbo teréo, perché
il compito primario del vaso arterioso, quindi anche del ventricolo sini-
stro, è quello di proteggere e conservare lo spirito vitale. Il polso, inoltre,
è definito nei Libri Isagogici «verax earum nuncius, quae in profundo de-
litescunt, & vates obscurorum, & incertorum index» (Galeno 1597: 44v).
Questo può essere un secondo motivo scientifico. Ma la definizione dan-
tesca affonda le sue radici ancor più nelle Scritture, ove al cuore si pensa
sempre come ad un organo inaccessibile, nascosto nella parte più intima
del corpo (Wolff 1975: 58-83).

3. L’ancillarità della virtus naturalis alla vitalis, affermata sia da Ari-


stotele che da Galeno, fu accolta dalla scienza medica medievale. Nel
pensiero di Avicenna la virtù vitale, oltre ad essere la prima a comparire
nell’embrione, domina sulle altre due, animale e naturale, che da lei di-
pendono. L’attività di queste virtù inizia dopo che la vitale «in membris
recepta fuerit» e una volta penetrata nelle membra
praeparabit ea ad recipiendam virtutem sensus & motus & operationis
vitae, quibus etiam adduntur timoris et irae motiones, per id quod in eis
reperitur de dilatatione et constrictione, quae accidunt spiritui, qui huic
proportionatus est virtuti (Liber Canonis I, I, VI, cap. 4).

Nel Libellus de medicinis cordialibus (I, 6), Avicenna scrive:


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Tristandi vero frequentia, duo consequuntur, videlicet, debilitas naturalis


virtutis: & secundum, scilicet, inspissatio spiritus, propter frigiditatem ac-
cidentem apud extinctionem caloris naturalis, causatam a vehementi coa-
dunatione, & coarctatione spiritus.

Arnaldo di Villanova (1586: 197 ss.), nel capitolo De amore heroico,


in armonia con il pensiero di Andrea Capellano, illustra i meccanismi at-
traverso i quali si realizza il decadimento fisico dell’amante e spiega i
sintomi del gaudium in presenza dell’oggetto del desiderio amoroso e
della tristitia in assenza. A questa impostazione di pensiero, propria della
medicina medievale, aderisce il poeta nel secondo paragrafo:
Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad essere im-
pedito nella sua operatione, però che l’anima era tutta data nel pensare di
questa gentilissima. Onde io divenni in picciolo tempo poi di sì frale e
debole conditione, che a molti amici pesava della mia vista [3].

4. Dopo quello segnalato in 1 [5], il tremore o terremoto del cuore com-


pare più volte nella prima novena. Dev’essere sottolineato che i riferi-
menti danteschi sono in armonia con la scienza medica, in particolare il
richiamo all’insorgenza e all’evoluzione del tremor cordis che è «motus
iectigativus accidens cordi. Et causa eius est omne, quod ledit cor» (Avi-
cenna 1582–4: Liber Canonis 278), incluse le passioni dell’anima, gli
«accidentia animae quae calefaciunt complexionem cordis» (Averroè
1549: Colliget 62). Al tremore squassante del cuore, se persiste e si incre-
menta, consegue la sincope e a questa, in caso di ulteriore aumento, la
morte.7 Nel paragrafo 6, i «molti e diversi pensamenti» [1] «sol s’accor-
dano in cherer pietate,/ tremando di paura che è nel core» [8]. In 7, il ri-
chiamo all’anatomia e alla disfunzione del cuore è molto preciso: alla
vista delle altre donne, insorge «uno mirabile tremore» che, scrive Dante,
inizia «nel mio pecto dalla sinistra parte» e si diffonde per le arterie o
polsi «di subito per tutte le parti del mio corpo» [4], primo sintomo di
un’incipiente sincope quando «vidi tra ·lloro la gentilissima Beatrice» [4].
Lo stato sincopale non si realizza completamente perché Dante è tratto
«fuori della veduta di queste donne» dallo «ingannato amico», accortosi
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«della mia transfiguratione» [7]. È notevole la corrispondenza fra lo


scritto dantesco e quello di Galeno (1964²: XVI, 68) nel secondo libro
del commento a Hippocratis de humoribus, laddove sono descritte le af-
fezioni causate dall’amore:

itemque propter vehementem tristitiam aut amorem, id quod pulsus, quum


primum visa est quaedam ex iis mulieribus, quae in domo sunt, indicat;
siquidem statim inaequalis et inordinatus redditur, ac paulo post, ubi illa
quae visa est discessit, in suum naturalem statum redit; is enim pulsus tur-
bolentam quandam in animo hominis factam esse perturbationem indicat.

Questo testo, parafrasato, si trova anche in un libro di Bernardo Gor-


donio, professore di medicina a Montpellier dal 1283 al 1308 (Tonelli
2001: 68).
Nel settimo paragrafo la causa della sincope è correttamente attribuita
sia nella prosa che nella poesia del sonetto alla distruzione degli spiriti
operata da Amore per «tanta propinquitade alla gentilissima donna» [5]:

ché Amor, quando sì presso a voi mi trova,


prende baldanza e tanta sicurtate,
che fere tra’ miei spiriti paurosi,
e quale ancide e qual pinge di fore,
sì che solo rimane a veder voi:
onde io mi cangio in figura d’altrui [12].

In 8, il poeta ritorna sullo stato presincopale cui va incontro ogni volta


che vede la donna, dopo che «uno disiderio di vederla» ha ucciso e di-
strutto nella «memoria ciò che contra lui si potesse levare», cioè il ricordo
delle «passate passioni» [2]. Il sonetto precisa meglio il quadro clinico:

Lo viso mostra lo color del core,


che tramortendo ovunque pò s’appoia;
e per l’ebrïetà del gran tremore
le pietre par che gridin: Moia, moia! [5].

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In altri termini, scrive il poeta nella spiegazione del sonetto, «manifesto


lo stato del cuore per exemplo del viso» [8]. Una situazione simile ricom-
pare nella prosa del nono paragrafo con la veduta della donna tanto desi-
derata che «disconfiggea la mia poca vita» [5] e nei versi del sonetto:
E se io levo gli occhi per guardare,
nel cor mi si comincia un terremoto
che fa de’ polsi l’anima partire [10].

Nella seconda novena il poeta descrive gli effetti della donna sul suo
cuore, sottolineando che possono insorgere sia in presenza, per il tramite
della percezione sensoriale visiva e uditiva, che in assenza, attraverso il
ricordo o la “loda”. Alla sindrome somatica, con le subitanee, irrefrenabili
modificazioni del cuore, del polso e del viso e il più lento decadimento fi-
sico, che a molti rende manifesto «lo secreto del mio core» [10, 3] per
l’annientamento o la fuga degli spiriti dalle loro sedi abituali, si associa
ora il beneficio indotto sul cuore di chi vede Beatrice e ne sostiene lo
sguardo. In 12, il poeta ritorna sullo stato presincopale conseguente al tre-
more del cuore nella prima parte del sonetto, quando dice:
ov’ella passa, ogn’om ver’ lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sì che, bassando il viso, tutto smore [2],

ma si diffonde di più sui benefici spirituali. Nella canzone del paragrafo


14, in armonia con la medicina di Avicenna, il viso di Dante è di un pallore
cadaverico «che facea ragionar di morte altrui» [20]. In 15 non è la visione
diretta o il saluto della donna, ma il pensiero di lei, attraverso la rimemo-
razione fantastica, a causare la sintomatologia: «avvenne uno die che se-
dendo io pensoso in alcuna parte, e io mi senti’ cominciare un terremuoto
nel cuore, così come se io fossi stato presente a questa donna» [1].
Nel sonetto il terremoto nel cuore è descritto come il risveglio «dentro
allo core/ [di] un spirito amoroso che dormia» [7], ove lo spirito amoroso
riunisce in sé la causa e l’effetto, e il poeta lo spiega subito dopo: «come
io mi senti’ svegliare lo tremore usato nel cuore» [10]. Nella terza novena
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un vago richiamo all’anatomia e alla funzione del cuore è reperibile in


22 [5] con il ricordo doloroso, «la dolorosa mente», di Beatrice che «tanto
dolore intorno al cor m’asembra», e in 23 con
Amor, che nella mente la sentia,
s’era svegliato nel destructo core,
e dicea a’ sospiri: “Andate fore!”,
per che ciascun dolente si partia.
Piangendo uscivan for dello mio pecto [9-10].
Al dolore del cuore si associano, di volta in volta, «lo tremare degli
occhi» [5, 5], le «amarissime lagrime» [5, 8], che sono il segno esteriore
da tutti percepito del pianto d’Amore nel cuore, «piansemi Amor nel core,
ove dimora» [14, 21] e, in una circostanza, l’estrema difficoltà dei movi-
menti del corpo, che «molte volte si movea come cosa grave inanimata»
[5, 6]. Questo è il sintoma patognomonico del Casus virtutis subitus che
Avicenna (1582-4: 282) descrive nel Liber Canonis (III, XII, cap. 9) quale
variante leggera e incompleta della sincope, perché la virtus vitalis è
spenta soltanto nei nervi e nei lacerti.

5. Con riferimento al meccanismo di produzione della sincope, il poeta


nella Vita nova non va oltre la precisazione che gli spiriti sono distrutti,
uccisi, oppure costretti a fuoriuscire dalle loro dimore attraverso i polsi,
come nel sonetto del paragrafo 9 [10], o il torace, «pecto», come nel so-
netto del paragrafo 23 [10], nel quale ultimo il sospiro rappresenta
l’aspetto percepito dai sensi dello spirito che fuoriesce dal cuore. Manca
ogni riferimento a quella che la moderna medicina chiama la fisiopatolo-
gia della sincope, perfettamente descritta nella Canzone CIII (I, nell’or-
dinamento di De Robertis in Alighieri 2005) che conviene richiamare.
Amore, «con quella spada ond’elli ancise Dido» (36), «sfida/ la debole
mia vita» (40-41), dice il poeta, «mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco»
(43), incapace, quindi, di ogni minimo movimento, e causa la sincope,
che è simile alla morte, perché «’l sangue, ch’è per le vene disperso,/ fug-
gendo corre verso/ lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco» (45-47).
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La medicina classica e medievale postula, infatti, che la sincope insorga


per il venir meno dello spirito vitale per motivi diversi, anche di ordine
psico-emotivo, quali gioia, tristezza, dolore, timore e ira, a causa del mas-
sivo e brusco reflusso del sangue da tutte le vene alle cavità cardiache
(Tonelli 2001: 73-81; De Robertis in Alighieri 2005: 12), associato ad una
«revocatio subita caloris naturalis ab omnibus partibus corporis ad cor,
ita quod membra regi non possunt». Ed è proprio per la sofferenza delle
membra nelle quali risiedono le virtù e gli spiriti dell’anima legata al
corpo che insorge la sincope: «membra quae leduntur […] sunt membra
principalia» (Averroè 1549: Colliget 62r).

6. Il canone della medicina medievale è rispettato anche nella descri-


zione delle visioni nel sogno e delle ymaginationi. Dante, in armonia con
la trattazione medico-filosofica del tempo pareggia il sonno e le infermità
in questo punto, in quanto, debilitando il corpo e impedendo intellectum
et cognitionem, rendono l’imaginazione libera di operare, ed usa «la pa-
rola visione soltanto in riferimento agli accadimenti del sogno, mentre
indica le apparizioni in veglia soltanto con imaginazione o fantasia» (Bal-
delli 1985: 1). Il meccanismo attraverso il quale avviene, in entrambi i
casi, lo sganciamento della fantasia è noto a Dante che bene lo sintetizza
nel Convivio:
E, secondo malizia, o vero difetto di corpo, può essere la mente non sana:
quando per difetto d’alcuno principio de la nativitade, sì come [sono]
mentecatti; quando per l’alterazione del cerebro, sì come sono frenetici
(IV, XV, 17).

Proprio questa seconda evenienza, di natura funzionale, è alla base


delle visioni nel sogno e delle immagini nelle farneticazioni durante lo
stato di veglia, descritte nella Vita nova.
Le due visioni nel sogno della prima novena hanno come protagonista
il cuore insieme ad Amore e alla Gentilissima e le nozioni scientifiche
sono dispensate in contesti biblici intessuti di riflessi scritturali. Tutti i
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dettami della scienza medica e teologica medievale sono rispettati, ecce-


zion fatta per l’ora diurna nella quale si avvera il sogno, che nella sua enig-
maticità ha valenza profetica: «lo verace iuditio del detto sogno non fu
veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo alli più semplici» [2, 2].
Il primo sogno, all’inizio del libello, insorge quando Dante, che ha rag-
giunto «tutti li termini della beatitudine» [1, 12] per il saluto di Beatrice,
di giorno si ritira nella solitudine della sua camera, ove, dice, «pensando
di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, nel quale m’apparve una maravi-
gliosa visione» [14]. E’ una visione premonitoria nella quale è anticipata
l’ascesa al cielo della «donna della salute», che, «involta in uno drappo
sanguigno» [15], nuda in braccio ad Amore, «lieto in vista, ma pauroso
nell’aspetto» (Gorni in Alighieri 1996: 245), è costretta a pascersi, sia
pure «dubitosamente» [17], del cuore ardente dell’amante. Nel corso del
sogno l’iniziale «letitia [d’Amore] si convertia in amarissimo pianto» e
una «sì grande angoscia» s’impadroniva dell’animo del poeta sognatore,
interrompendo lo «deboletto sonno»[18]. Questa visio in somnio è provo-
cata da una causa interna all’anima, interius animalis secondo la classi-
ficazione di S. Tommaso: nella visione «ea occurrunt hominis phantasiae
in dormiendo circa quae eius affectio fuit immorata in vigilando» (S.
Theol. II-II, q. 95, a. 6).
Nel paragrafo 5 la negazione del saluto da parte di Beatrice a causa
della donna-schermo e la conseguente perdita della beatitudine provocano
in Dante «tanto dolore» e «amarissime lagrime» [8]; il poeta, ancora di
giorno, si ritira nella propria camera, «là ove io potea lamentarmi sanza
essere udito», si addormenta «come uno pargoletto battuto lagrimando»
[9] e «quasi nel mezzo» [10] del sonno ha una seconda visione, di tipo am-
monitorio, con l’invito esplicito a scrivere una ballata per riaffermare a
Beatrice che il cuore dell’amante le è rimasto fedele e «mai non s’è sma-
gato» [20]. Non deve meravigliare che due passioni dell’anima opposte,
letizia e tristezza, favoriscano in ugual maniera l’insorgenza del sogno
durante l’addormentamento: per i medici medievali (Avicenna 1582–4:
Liber Canonis 40r), il gaudium nimium, come in 1, e la tristitia superflua,
come in 5, si accompagnano a distemperanza colerica, che modifica la
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complessione inducendovi siccità. La complessione secca, sia calda (bilis


flava) che fredda (bilis atra), facilita il sogno perché il cervello, organo
flegmatico e pertanto umido, entra in sofferenza (Bartoli 2008: 97, tab. 2).
Ancor più rispettosa del canone della medicina medievale è la descri-
zione in 14 della “risoluzione per crisi” della «dolorosa infermitade» [1]
febbrile che colpisce Dante rimasto «in tanta tristitia» [13, 4] all’indomani
della morte del padre di Beatrice, ulteriore presagio dell’imminente scom-
parsa della Gentilissima. La crisi avviene al nono giorno di malattia e il
nono è, dopo il settimo, un dies decretorius et criticus molto importante,
ma 9 è il numero di Beatrice e, pertanto, questo dato semeiologico non
può aver influenzato il poeta. Degli altri segni e sintomi descritti nei testi
di medicina, Dante ricorda con dovizia di particolari il grave decadimento
fisico, macies corporis, il pallore cadaverico e il delirio. All’inizio della
crisi «mi giunse uno sì forte smarrimento» [4], dice il poeta, e «cominciai
a travagliare come farnetica persona» [4], talché «fue sì forte la erronea
fantasia» [8] che ymaginationi apocalittiche dominarono la mente scon-
volta. La causa di queste farneticazioni, peraltro a valenza profetica, deve
essere ricercata nella distemperanza di tipo melancolico che la grande tri-
stezza e la malattia febbrile inducono nella complessione8 di Dante, la cui
fantasia, in stato di veglia ad occhi chiusi, erra e produce immagini di
oscurità, di morte e di solitudine. Il pallore cadaverico e la macies corpo-
ris del poeta delirante fanno esclamare alle donne presenti nella stanza:
«Questi pare morto», «Procuriamo di confortarlo» [14, 14].

LA TRACCIA SCRITURALE

Nelle Scritture il significato di anima si integra e si confonde con quello


di cuore. In effetti, il termine ‘cuore’ fa parte del vocabolario biblico del-
l’anima: Lêb e l’equivalente lebab risuonano nell’antico Testamento circa
860 volte, attestandosi al cinquantesimo posto nelle parole ebraiche più
usate. Con il termine kardía del greco neotestamentario si giunge ad un
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Vittorio BARTOLI Traccia scientifica e scritturale della polisemia di ‘cuore’

migliaio di presenze testuali dell’immagine del cuore nella Bibbia (Ravasi


2003: 106).
‘Cuore’ è, pertanto, il concetto antropologico biblico di gran lunga più
diffuso. Esso copre tutto l’ambito delle emozioni, delle funzioni intellet-
tive, delle funzioni volitive, e la Bibbia con il concetto di ‘cuore’ ha pre-
sente soprattutto il centro dell’uomo che vive in maniera consapevole
(Wolff 1975: 79).
Rarissimi e grossolani sono nella Bibbia i richiami all’anatomia del
cuore e si riferiscono alla posizione profonda all’interno della gabbia to-
racica, al di dietro delle coste. Questa localizzazione fa sì che il cuore sia
percepito dagli scrittori vetero- e neotestamentari come un viscere inac-
cessibile ed inesplorabile e, pertanto, segreto a tutti tranne che a Dio. Pro-
prio la segretezza è alla base di un gran numero di enunciazioni intorno
all’uomo: ad es., 1Sam. 16, 7: «homo enim videt ea quae parent, Dominus
autem intuetur cor»; Ier. 17, 9: «Dolosum est cor super omnia et insana-
bile;/ quis cognoscet illud?». Il tema dell’inaccessibilità, profondità e se-
gretezza del cuore umano, proprio delle Scritture, è ripreso e sviluppato
dall’esegesi patristica e scolastica.9 Il cuore nascosto, impenetrabile e se-
greto è, tuttavia, la sede delle attività di tipo spirituale dell’anima – sen-
timento, desiderio, ragione, pensiero, memoria e volontà – ed è
responsabile di ogni decisione, perché gli scrittori della Bibbia, ignorando
le funzioni del cervello, del midollo spinale e dei nervi, gli attribuiscono
la facoltà di presiedere e determinare la vita corporea e spirituale del-
l’uomo.
Oltreché della «secretissima camera del cuore», Dante parla del segreto
del suo cuore nei paragrafi 2, 4 e 5 della prima novena e nel primo della
seconda, il 10, dopo il quale il lemma secreto, «come anche beatitudine,
sparisce dal lessico del libello» (Gorni in Alighieri 1996: 30). Che i segreti
dell’anima siano custoditi e nascosti nel cuore è pensiero scritturale, come
appare, ad es., nel Libro dei Giudici ove la parola lêb è tradotta nella Vul-
gata prima con animus e subito dopo con cor. Dalila rimprovera l’inna-
morato Sansone, che non vuole rivelare il segreto della sua straordinaria
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forza fisica, dicendo: «Quomodo dices quod ames me, cum animus tuus
non sit mecum?»; quando Sansone lo svela, il testo reca «aperiens ei
totum cor suum dixit ei» (Idc. 16, 15-17).
Nelle Scritture il segreto del cuore può esser evidenziato dalle modifi-
cazioni del volto e, talora, dell’intero corpo. Il volto è la parte dell’uomo
rivolta verso gli altri e riunisce in sé gli organi della comunicazione, occhi,
orecchie, bocca, labbra, attraverso i quali può manifestare lo stato del lêb,
cioè del cuore e dell’animo.10 Ad es., in Gn. 31, 2-5, Giacobbe si accorge
del cambiamento di Labano nei suoi confronti dall’aspetto del viso e lo
comunica alle due mogli: «Video faciem patris vestri quae non sit erga me
sicut heri». Nella Vita nova, soprattutto nei paragrafi della prima novena
il ‘secreto del core’ è rivelato dall’espressione del viso, dagli occhi tre-
manti e lacrimosi, dal deliquio e dal decadimento fisico: da qui nascono
il gabbo, la curiosità, le domande delle donne e la conseguente necessità
di mascherare il segreto deviando l’attenzione su una donna-schermo. Il
viso, infatti, porta «tante delle sue [d’Amore] insegne, che questo non si
potea ricoprire» [2, 4]: nel sonetto del paragrafo 8 è scritto che «lo viso
mostra lo color del core» [5], in altri termini, spiega Dante subito dopo,
«manifesto lo stato del cuore per exemplo del viso»[8].
Accade anche, al contrario, che l’aspetto del viso, le parole e il porta-
mento dell’uomo, anziché rivelare il pensiero e i proponimenti del cuore,
li dissimulino (Eccli. 12, 15-6; 27, 25; Ps. 28, 5; Prv. 26, 24). La stessa
Giuditta, bella, avvenente, timorata di Dio, saggia e intelligente come nes-
sun’altra donna al mondo, degna quindi di stare nella candida rosa (Par.
XXXII, 10), dopo aver decapitato Oloferne, dice: «quoniam seduxit eum
facies mea in perditionem eius» (Idt. 14, 16). Il proposito della dissimu-
lazione compare più volte nella Vita nova. Nel paragrafo 2 il poeta si com-
piace dell’opportunità che la «gentil donna schermo della veritade» [8] gli
offre di nascondere il segreto del proprio cuore; al venir meno «della bella
difesa», che se ne va in un «paese molto lontano» [12], «in ossequio alla
sua funzione, Dante ne lamenta la partenza in O voi che per la via
d’Amore passate» (Gorni in Alighieri 1996: 248), all’interno del quale
afferma: «di fuor mostro allegranza, / e dentro dallo core struggo e ploro»
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Vittorio BARTOLI Traccia scientifica e scritturale della polisemia di ‘cuore’

[17]. Quasi lo stesso significato ha la ballata del paragrafo 5 alla quale il


poeta affida il compito di rivelare la verità a Beatrice che gli ha tolto il sa-
luto, spiegandole la causa per la quale la donna-schermo è solo un’appa-
renza [19]:
Amore è qui, che per vostra biltate
lo face, come vol, vista cangiare:
dunque perché li fece altra guardare
pensatel voi, da che non mutò ’l core

e confermandole [20] che


[…] lo suo core è stato
con sì fermata fede,
che ’n voi servir l’à ’mpronto omne pensero:
tosto fu vostro, e mai non s’è smagato.

Il cuore lapideo contrapposto al cuore carneo è ricorrente in tutta la


Scrittura per indicare che l’indurimento del cuore è responsabile della
perdita di ogni funzione sensoriale, intellettiva e memoriale. Il cuore in-
durito e pietrificato si rifiuta di conoscere perché le orecchie e gli occhi,
suoi strumenti, sono impediti (Ex. 7, 3; Dt. 2, 30; Is. 6, 10; Io. 12, 40); per-
tanto il Signore, per redimere il suo popolo, deve asportare «cor lapideum
de carne eorum» e sostituirlo con «cor carneum», affinché i propri «iudi-
cia» siano ascoltati, compresi, messi in atto e conservati nel cuore (Ez.
11, 19-20; 36, 26-27; Lc. 2, 19·51). Il cuore carneo è lo scrigno del sapere
e il tesoro delle ricordanze e, con questo significato, l’apostolo Paolo an-
nuncia ai Corinzi che essi sono la lettera di Cristo, scritta non sulle tavole
di pietra, ma sulle tavole carnee dei loro cuori (2Cor. 3, 2s.). Nel com-
mento ad Ezechiele ed a Paolo, S. Agostino (1845, PL 44) spiega: «ut car-
naliter vivant qui debent spiritualiter vivere: sed, quia lapis sine sensu est,
cui comparatur cor durum, cui nisi carni sentienti cor intelligens debuit
comparari?» (De gratia et libero arbitrio XIV, 29).
Nella Vita nova cuore di pietra è contrapposto a cuore di carne come
“cor villano” a “cor gentile”. Questo parallelismo appare con la massima
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evidenza nel sonetto del paragrafo 20, ove il poeta afferma che chi non
piange la perdita di Beatrice
core à di pietra sì malvagio e vile,
ch’entrar no i puote spirito benigno.
Non è di cor villan sì alto ingegno,
che possa ymaginar di lei alquanto,
e però no li ven di pianger doglia [11].

Come nelle Scritture, ove Dio asporta il cuore di pietra e lo sostituisce


con uno di carne per sanare il suo popolo, così la vista e la parola di Bea-
trice possono modificare lo stato del cuore villano che «diverria nobil
cosa o si morria» [10, 20].
Le disfunzioni del cuore, fra cui il tremore, sono grossolanamente ac-
cennate nelle Scritture, talora per mezzo di similitudini immaginifiche. Ad
es., il tremore del cuore è descritto come il lêb che freme per l’angoscia
al pari degli alberi del bosco squassati dal vento (Is. 7, 2); quando la fun-
zione si indebolisce o viene meno si dice che il cuore diviene molle, de-
bole (Is. 7, 4; Dt. 20, 8), si scioglie come cera (Ps. 22, 15) o si dilegua
come acqua (Is. 13, 7 e 19, 1), viene a mancare (Gn. 48, 28) o abbandona
l’uomo (Ps. 40, 13). In questi passi le Scritture non distinguono fra animo
e cuore considerati un tutt’uno, in assenza di ogni riferimento anatomico.
Nella Genesi (45, 26) è ravvisabile una situazione sovrapponibile al Casus
virtutis subitus, quando è descritta la reazione emotiva di Giacobbe nel-
l’apprendere le notizie del figlio Giuseppe: il cuore di Giacobbe si fiaccò
e Giacobbe rimase immoto, senza forze. Ma nessuno dei riferimenti bi-
blici ha la precisione e la correttezza scientifica della narrazione dantesca
e, pertanto, non si può affermare che siano evidenti influenze scritturali
nei numerosi paragrafi della Vita nova ove è descritto il tremore del cuore
con la sua evoluzione verso la sincope. Si può al massimo avvicinare qual-
che proposizione degli ultimi quattordici paragrafi all’ indeterminatezza
delle enunciazioni bibliche: ad es., «Pianger di doglia e sospirar d’ango-
scia / mi strugge ’l core ovunque sol mi trovo» [20, 15]; «destructo core»
[23, 9]; «ch’io temo forte non lo cor si schianti» [25, 4].
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Vittorio BARTOLI Traccia scientifica e scritturale della polisemia di ‘cuore’

La tristitia che opprime l’anima e il cuore di Dante per i presagi di


morte, prima, e per la scomparsa di Beatrice, poi, è espressione, come già
rilevato, di «malitia complexionis melancholicae in corde», «secundum
mutationem», cioè di natura funzionale. Escluso questo aspetto scienti-
fico, prevalgono l’impronta scritturale, vetero- e neotestamentaria, dalle
citazioni di Yeremia alla scena apocalittica della farnetica ymaginatione
nel paragrafo 14, e il pensiero medievale in merito al valore e al signifi-
cato dei pellegrini, palmieri, peregrini e romei, che vanno «pensosi» at-
traverso «la città dolente» [29, 9].
La beatitudo è il fine di «omnis mortalis cura» ed è quel sommo bene,
«statum bonorum omnium congregatione perfectum», che esaurisce ogni
desiderio, «quo quis adepto nihil ulterius desiderare queat». Il senso di
quest’affermazione di A. M. Severino Boezio (1845, PL 63) nel De con-
solatione philosophiae (III, prosa II) affiora sin dal primo paragrafo della
Vita nova, quando Beatrice «mi salutòe virtuosamente tanto» –scrive
Dante –, «che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine»
[12]: trattasi di una concezione nobile, ma ancora mondana della condi-
zione di beato (Gorni in Alighieri 1996: 16), perché legata ai sensi, sia
pure i più spirituali come vista e udito, e, loro tramite, al cuore. Ma dov’è
il cuore può esserci beatitudine o dolore: «Ubi erit thesaurus tuus, ibi erit
et cor tuum (Matth. VI, 21): ubi delectatio, ibi thesaurus: ubi autem cor,
ibi beatitudo aut miseria» (S. Agostino, De Musica VI, cap. XI - PL 32,
1179).
Infatti, la perdita del saluto a causa della donna-schermo provoca do-
lore per la perdita della beatitudine [5, 2-8] che il poeta, guidato da Amore,
riconquisterà attraverso «quelle parole che lodano la donna mia»[10, 8].
Questa beatitudine sarà definitiva perché risiede «in quello che non mi
puote venire meno» [10, 6], la poesia di ‘loda’, che nasce non dall’imma-
gine o fántasma, di natura sensoriale e, pertanto, particolare e transeunte,
ma dal pensiero dell’immagine, noetón, di natura intellettuale e, pertanto,
universale e immodificabile: «Beatitudo in perfecta operatione intellectus
consistit» (S. Tommaso, S. contra Gentiles I, CII, [845] e S. Theol. I-II q.
2, a. 8).
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Così, attraverso l’aristotelico noetón e in armonia con la metafora ago-


stiniana della memoria come deposito di immagini «in cui è dato ritrovare
tutto ciò che è stato di tempo in tempo tesaurizzato», sia esso frutto della
«percezione sensibile» che di «realtà intellegibili quali sono le idee» (Cri-
staldi 2004: 104), Dante può perseguire «il proposito di adeguare la ma-
teria cortese dell’amore per visum al canone mistico della praesentia in
absentia […], mediante un processo d’interiorizzazione che comporta
perfino la rinuncia alla ‘beatitudine’ del saluto» (Mancini 1988: 66).
Solo Dio è «fons beatae vitae», ma nel Nuovo Testamento, Gesù Cristo
si presenta come colui che porta a compimento l’umana aspirazione a
quella beatitudine che lui stesso ha proclamato (Mt. 5, 3-12; Lc. 6, 20-
26) e vissuto, essendo mite ed umile di cuore. Nella Vita nova, il poeta at-
tribuisce questa funzione a Beatrice, conferendole quei connotati di umiltà
propri di Gesù (Mt. 11, 29) e di Maria (Lc. 1, 38 e 48). Con l’impronta di
umiltà oltreché di sovrannaturalità è descritta Beatrice sin dal primo pa-
ragrafo del libello, ove appare «vestita di nobilissimo colore umile e one-
sto sanguigno» [4] e «di lei si potea dire quella parola del poeta Homero:
“Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio”» [9]. L’umiltà ri-
torna più volte nei paragrafi della seconda e terza novena, perché Beatrice
è vestita d’umiltà [17, 2, 8] e, «disïata in sommo cielo» [10, 20] durante
la vita terrena, dopo la morte, per la «luce della sua umilitate» [20, 10],
«fu posta dall’Altissimo Signore/ nel ciel dell’umiltate, ove è Maria» [23,
7]. Doppiamente denso di significato è l’ossimoro di 17, 2, che mostra
Beatrice, oltreché vestita, «coronata d’umiltà», perché la corona indica
che attraverso l’umiltà si perviene alla magnanimità e perché la contrad-
dizione solo apparente fra umiltà e magnanimità anticipa l’ossimoro di
Par. XXXIII, 2, quando S. Bernardo definirà Maria «umile e alta più che
creatura».

LA TRACCIA SCIENTIFICA E SCRITTURALE DELLE PASSIONI DELL’ANIMA

Le passioni dell’anima – gioia, dolore, beatitudine, tristezza, speranza,


timore – sono uno dei fili conduttori del racconto della Vita nova, ma è im-
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Vittorio BARTOLI Traccia scientifica e scritturale della polisemia di ‘cuore’

possibile discernere quanto è scientifico e quanto scritturale sia nell’opera


di Dante che nei testi medievali di riferimento. La causa ultima che sca-
tena queste passioni è concordemente indicata nelle modificazioni dello
spirito cordiale ed il cuore è ritenuto «instrumentum passionum animae»,
giusta la definizione di S. Tommaso (S. Theol. I-II, q. 48, a. 2). Come
scrive Nancy G. Siraisi (1981: 226), Taddeo Alderotti e i suoi allievi pon-
gono «the accidentia anime, or passions of the soul, among six “nonna-
turals” that inevitably affect human life».
La percezione sensoriale e la sua elaborazione mentale interferiscono,
infatti, con le virtù razionale, concupiscibile e irascibile dell’anima,11 la
quale, mediante la virtus spiritalis, evoca il movimento, perché è proprio
del mondo animale possedere sensazione e movimento, fra loro intima-
mente collegati. Il corpo mediante i sensi coinvolge l’anima, annuncian-
dole con il fántasma la presenza dell’oggetto. L’elaborazione del fántasma
da parte delle virtù cogitativa & exixtimativa causa l’insorgenza di due tipi
di movimento, automatico e volontario. Il primo, indotto dalla virtus spi-
ritalis motiva, muove subitamente il cuore e le arterie e altera la virtù na-
turale nutritiva. Del cuore modifica sistole, diastole, ritmo e frequenza,
delle arterie il polso, determinando così lo spostamento di calore verso
l’interno o l’esterno del corpo a seconda del tipo di passione, cioè di rea-
zione emotiva, evocata dall’elaborazione della sensazione. Al ripetersi di
offese alla virtù vitale consegue l’attenuazione della virtù naturale, con de-
cadimento di tutta la persona, come Dante illustra soprattutto nel para-
grafo 2. Il secondo movimento, causato dalla virtus voluntarie motiva,
muove il corpo attraverso i lacerti e, nell’uomo, può esser controllato dalla
ragione oppure no: quando «seclusus est a ratione sapientiae» è comune
all’uomo e agli animali, «nobis pecoribusque est communis»; quando è
governato dalla ragione, che è «cognitiva boni vel mali», è esclusivo
dell’uomo perché è indotto dalla voluntas (Alessandro di Hales 1928:
441).12 Come tutte le passioni dell’anima, anche l’amore può essere o non
essere governato dalla ragione. Nella Vita nova il poeta precisa sin dal-
l’inizio che «nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele
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consiglio della Ragione in quelle cose là dove cotale consiglio fosse utile
a udire» [1, 10].
Nei paragrafi 26 e 27 della terza novena, in relazione all’affermarsi
dell’amore per la Donna pietosa, viene alla luce prima il conflitto fra il
cuore, «voce della coscienza più alta del poeta» (Gorni in Alighieri 1996:
276), e gli occhi, che hanno cominciato «a dilectare troppo di vederla»
[26, 1]; poi fra il cuore, che, consentendo ormai con gli occhi, esprime il
desiderio smodato e irrazionale, e l’anima, cioè la Ragione. Trattasi del
tentativo dell’animus concupiscibilis di sganciarsi dal controllo della vo-
luntas, per ottenere, come le bestie, qualsiasi cosa desiderata, non, come
l’ uomo, solo quello che la ratio ritiene lecito acquisire. I due paragrafi si
integrano completandosi a vicenda e Dante lo dice esplicitamente in 27:
Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella
degli occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però
dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore de-
siderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che
di vedere costei, avegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggiero
parea: onde appare che l’uno decto non è contrario all’altro [6].

Ritengo importante rimarcare, seppur trattato in altra nota (Bartoli


2010), che l’amore del poeta per la Pietosa procede secondo le tre fasi
della concupiscenza illustrate da Pietro Lombardo (PL 191: 1407): pro-
passio, delectatio, consensus. In 26 Dante descrive la propassio con il
contrasto fra il diletto degli occhi e il cruccio del cuore, che ancora non
avverte il peccato nel quale sta scivolando. La vista cede alle lusinghe
della Pietosa per la concupiscenza degli occhi (1Io. 2, 16) e così offende
il cuore occupato dal compianto della Gentilissima. Anche il tono con il
quale Dante bestemmia «la vanitade degli occhi» [2] è biblico (Dt. 27,
15-26; 28, 11-28; 36, 15-26; Mt. 26, 41), soprattutto quando li maledice
nel suo pensiero: «maladecti occhi, che mai, se non dopo la morte, non do-
vrebbero le vostre lagrime avere restate!» [2]. Poi [3-8], per rendere espli-
cita la «battaglia» presente al suo interno, decide di scrivere un sonetto,
nella prima parte del quale, egli spiega, «parlo agli occhi miei sì come
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Vittorio BARTOLI Traccia scientifica e scritturale della polisemia di ‘cuore’

parlava lo mio cuore in me medesimo; nella seconda rimuovo alcuna du-


bitatione, manifestando chi è che così parla», cioè «’l meo core». Il cuore
esprime qui, oltreché il giudizio della ragione, la sofferenza dell’anima per
la contrapposizione delle due passioni amorose, essendo quella spirituale
per la Gentilissima sul punto di essere sopraffatta da quella sensoriale per
la Pietosa. Il contrasto interiore prosegue e si completa nel paragrafo 27,
ove il cuore è inteso come «appetito» e l’anima come «Ragione» [5], al-
lorché il poeta descrive le ulteriori due fasi della concupiscenza per la
Pietosa, delectatio e consensus. Il richiamo allo scritto di Pietro Lombardo
è esplicito sia nella prosa: «molte volte ne pensava sì come di persona
che troppo mi piacesse […] tanto che lo cuore consentia in lui, cioè nel
suo ragionare» [1], che nella poesia del sonetto: «Gentil pensero che parla
di voi / […] ragiona d’amor sì dolcemente, / che face consentir lo cor in
lui» [8].
Occorre, infine, rilevare che la separazione fra cuore ed anima è al di
fuori di ogni concreto riferimento anatomico perché il cuore non è inteso
come l’agostiniana «particula carnis quae sub costis latet», ma esclusiva-
mente come la sede o «magione» di Amore che è passione dell’anima, e
l’anima razionale viene nominata, come nelle Scritture e in Aristotele, al
di fuori di ogni riferimento o localizzazione viscerale.
Nell’ymaginatione del paragrafo 28 il cuore, sede di pensieri amorosi
in continua successione, è bersagliato dal pentimento, dalla vergogna, dal
dolore: «cominciò dolorosamente a pentere dello desiderio a cui sì vil-
mente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ra-
gione» [2]; a causa di «cotale malvagio desiderio», diviene «vergognoso»
[3] e anche doloroso perché «tanto dolore avea in sé alcuno pensero» [3].
Manifestano questo dolore, oltre al frequente «lagrimare», «uno colore
purpureo» [4] intorno agli occhi, la «corona di martiri» [9] del sonetto, e
infine «li sospir’ ch’io gitto» [10], che nel cuore divengono «sì angosciosi,
/ ch’Amor vi tramortisce, sì lien dole» [10]. I sospiri, insieme all’estenua-
zione della facies e agli occhi incavati e lacrimosi, sono i maggiori sintomi
della tristitia che colpisce l’amante «in absentia rei desideratae». Come
spiega Arnaldo di Villanova (1586: 200), il «copiosus aer attractus» per
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«cordis recreatione» è soffocato internamente e deve essere alla fine


espulso: con questo meccanismo «oritur alta suspiriorum emissio».
Nel sonetto Oltre la spera del paragrafo 30 «’l sospiro» che esce dal
cuore del poeta, grazie all’«intelligenza nova, che l’Amore / piangendo
mette in lui» [10], può ascendere «là ove disira» e vedere «una donna che
riceve onore» [11] e poi riferire «al cor dolente, che lo fa parlare» [12],
sia pure con un linguaggio che il poeta ancora non comprende: «io no·llo
’ntendo, sì parla sottile / al cor dolente, che lo fa parlare» [12]. Il sonetto
è un esempio paradigmatico di platonismo percettivo e conoscitivo (Pinto
2008: 63), nel quale si coagula buona parte della polisemia di ‘cuore’: il
sospiro, come uno spirito, esce dal cuore, ascende fino all’Empireo, mira
Beatrice e riferisce allo stesso cuore da cui è partito, che ascolta, ma an-
cora non comprende. Quest’interpretazione di ‘cuore’, oltre le Scritture e
al di là di ogni nozione scientifica, è la premessa della terza «mirabile vi-
sione» [31, 1], sulla quale il poeta è reticente perché «il sogno di “dicer
di lei quello che mai non fue detto d’alcuna” (XLII, 2) appartiene al fu-
turo» (De Robertis in Alighieri 1970²: 165).

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NOTE

1
Cfr. Rabano Mauro (PL 110: 169-170), De Universo, VI, cap. I, De homine
et partibus eius: «Cor enim multis speciebus significandi convenienter aptatur.
Nam aliquando pro anima ponitur, aliquando pro intelligentia, aliquando pro con-
silio et verbo occulto […]. Nam pro anima cor ponitur ut est illud Salomonis
«Omni custodia serva tuum cor, quia ex ipso vita procedit» (Prov. IV). Item cor
pro intelligentia ponitur, ut est illud Psalmistae: Cor meum et caro mea exulta-
verunt in Deum vivum (Psal. LXXXIII). Quamvis utraque videantur pertinere ad
carnem, cor tamen ad intelligentiam referri posse non dubium est […]. Pro dili-
gentia vero et devotione illud est positum: In toto corde meo exquisivi te (Psal.
LXXXV)». Inoltre, Bertini Malgarini (1989: 54-61); Gentili (2005: 57-73) e, per
la conoscenza dell’opera di Rabano Mauro da parte di Dante, Gentili (2003).
2
Moleta (1994: 9): «a passage from the metaphorical courtly bliss of delight
in her earthly physical presence, to the literal theological bliss of partecipation in
her soul’s vision of the Godhead, the passage from his beatitude to her glory»;
Carlos López Cortezo, (2007: 101): «El poeta, por lo tanto, está concluyendo
una etapa considerada, probablemente a posteriori, epicúrea e iniciando otra
‘estoica’, marcada por un amor perfecto, virtuoso (honesto), no utilitarista y, en
consecuencia, duradero […]; etapa en la cual Beatrice es amada por sí misma, por
su honestidad, y por ello es alabada».
3
Fra i medici e filosofi arabi, Giovannizio fornisce una sintetica e chiara de-
scrizione delle potenze dell’ anima legata al corpo nel Liber Isagoge in Medicina,
Pavia 1506, p. a3, commentata da Taddeo Alderotti nelle Expositiones in subti-
lissimum Joannitii Isagogarum libellum, Venezia, Junta, 1527, pp. 347-348;
ugualmente lucida, ancorché più estesa, è la trattazione di Avicenna, Liber Ca-
nonis I, I, VI, p. 25v ss. Fra i teologi di lingua greca possono esser ricordati Ne-
mesio di Emesa (PG 40), De natura hominis, [28-78], e Giovanni Damasceno
(PG 94), De fide ortodoxa II, cap. XII ss.; fra quelli di lingua latina, S. Ambrogio
(PL 12), Hexaëmeron VI, IX, p. 264 ss.; Alessandro di Hales (1928: [348], [352-
353]), S. Theol., I-II; Alberto Magno (1968: 248-249; III, 5, cap. 4). Inoltre, in
Bartolomeo Anglico, De rerum Proprietatibus, Minerva G.M.B.H., Frankfurt a.
M. 1966, il terzo libro è dedicato all’anima e ai polsi, in specie capp. VI-XVI e
XXII.

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Alberto Magno (1955: 127; III, q. 6): «Ad istud dicendum, quod cum quat-
tuor sint virtutes in homine: nutritiva sive naturalis, quae est in hepate, et vitalis,
quae est in corde, et animalis, quae est in cerebro, et generativa, quae est in par-
tibus generationi deputatis, nempe testiculis in viris et mulieribus, sicut virtuti vi-
tali correspondet arteria, per quam fluat ad singula membra, et naturali vena, sic
virtuti animali correspondet nervus».
5
Nemesio di Emesa (PG 40), cap. XXIV – De pulsibus: «Pulsuum motus, qui
et vitalis facultas dicitur, initium habet a corde, et maxime a sinistro eius ventri-
culo, qui spirabilis appellatur, et innatum vitalemque calorem omni parte corporis
per arterias, ut iecur alimentum per venas, impertit. Nam calefacto corde contra
naturam, statim totum animal contra naturam calefit, et refrigerato, refrigeratur.
Nam spiritus vitalis, ab eo per arterias in totum corpus dispergitur». Al tempo di
Dante, l’opera di Nemesio di Emesa era nota in Italia e nell’Occidente latino gra-
zie alle traduzioni di Alfano della Scuola medica salernitana nell’XI secolo e di
Burgundio da Pisa nel XII, come documentato da C. S. Sanfilippo (2004).
6
Puccinotti (1859: II-II, 84-85); Leclerc (1876: II, 86-93); Castiglioni (1948:
I, 246-247); Major (1959: I, 232-233); Lyons - Petrucelli (1978: 313).
7
Avicenna, Liber Canonis III XI II, cap. 6, p. 279v: De speciebus syncopis &
causis ipsius: & causa mortis subitae; cap. 7, p. 280v: «De signis – Signa signi-
ficantia causam syncopis, & dolores eius, proportionalia sunt signis praedictis
tremoris cordis, nam si ipsa sunt debilia, sunt tremoris cordis, & quando sunt for-
tia, sunt syncopis, & quanto plus fiunt vehementiora, sunt mortis subitae». La
sincope insorge perché «sanguis incipit occultari ad interiora». Dev’essere infine
segnalato che Dante fa sempre iniziare lo stato sincopale dal tremore del cuore,
perché, come scrive Costantino Africano (1537: 63), «impossibile est esse syn-
copin sine passione cordis».
8
Avicenna, Liber Canonis III, I, IIII, cap. 11, p. 202v: il delirio è causato da
«laesio in operationibus cogitationis secundum mutationem», mentre l’amenza
e la fatuità sono «secundum diminutionem, aut destructionem»; cap. 15, p. 203r:
De corruptione imaginationis, id est Delirio: «corruptio, est ut imaginetur quod
non est: & videat res, quibus non est inventio: illud est propter dominium chole-
rae in anteriore parte cerebri»; «corruptio imaginationis cadit in similitudine sen-
satorum & speciebus seu formis ipsorum»; cap. 18, p. 204v: De melancholia:
«Eius vero quae fit a frigiditate et siccitate sine materia causa est malitia comple-

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xionis melancholicae in corde cum materia, aut sine materia cui communicat in
ipsa cerebrum».
9
S. Agostino (PL 37), Enarratio in Psalmum CXXXIV: «Latet cor bonum,
latet cor malum; abyssus est et in corde bono, et in corde malo: sed haec nuda
sunt Deo, quem nihil latet»; Id. (PL 36), Enarratio in Psalmum XLI: «Abyssus
enim est profunditas quaedam impenetrabilis, incomprehensibilis: et maxime
solet dici in aquarum multitudine […]. Si profunditas est abyssus, putamus non
cor hominis abyssus est? Quid enim est profundius hac abysso? Loqui homines
possunt, videri possunt per operationem membrorum, audiri in sermone; sed
cuius cogitatio penetratur, cuius cor inspicitur?»; Id. (PL 38), Sermo de Sanctis
CCCVI, cap. IX: «Corda ergo nostra in hac vita videre non possumus, donec ve-
niat Dominus, et illuminet abscondita tenebrarum, et manifestabit cogitationes
cordis; et tunc laus erit unicuique a Deo (1Cor. IV, 5)»; Alberto Magno (1974:
70; II, III, cap. 2): «Sed et tenebrae ignorantiae dei super faciem abyssi humani
cordis, quod ‘profundum est et inscrutabile’ secundum Ieremiam».
10
S. Girolamo (PL 25), Commentariorum in Ezechielem III, VIII [85]: «Et se-
creta cordis, motu corporis et gestibus indicantur»; Id. (PL 22), Epistolae – Prima
classis, LIV [290]: «Speculum mentis est facies, et taciti oculi cordis fatentur ar-
cana»; S. Isidoro (PL 82-IV), Etymologiarum XI, I [6]: De homine et portentis:
«Vultus vero dictus, eo quod per eum animi voluntas ostenditur; secundum vo-
luntatem enim in varios motus mutatur».
11
Galeno (1964²: XVI, 302), Hippocratis de humoribus et Galeni in eum Com-
mentarii, II: «Tres sunt animi partes quibus ad voluntarium motum incitamur
[…], una fit qua ratiocinamur, altera qua irascimur, tertia qua cupimus»; Nemesio
di Emesa (PG 40), cap. I [24]: «Videmus in nostra anima partem eam quae ratio-
nis est expers, eiusque item duas partes, iram et cupiditatem, servire rationi»;
cap. XVI [97]: «Ratione carentis animae partis, aliud non paret rationi, aliud
paret»; cap. XXII [109] : «De genere eo quod rationi non paret, est in quo nu-
triendi, procreandi, et pulsuum vis inest. Quorum duo illa naturalia, hoc postre-
mum vitale nominatur»; Alberto Magno (2008: 474-503; 2, 2, 1), De phantasia
movente – Quid sit; 2.3.1, De voluntate - Quid sit voluntas; 2.3.1.3, De consensu
voluntatis; S. Tommaso (1959: 40; I, X, 150): «Anima enim iudicat aliquid esse
dignum ira, cor autem animalis ex hoc movetur, et fervet circa ipsum sanguis».
Si veda anche Gilson 2007.

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Inoltre, Alberto Magno (2008: 493), De consensu voluntatis: «Dicendum
quod quidam consensus est rationis et quidam voluntatis. Rationis consensus est
quasi sententia de faciendo […]. Et ille consensus semper est in rem ex consilio
inventam. Voluntatis autem consensus est in concordia rationis».

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