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Lavagetto, M. (1984).
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M.ª Antonietta Terzoli La testa di Lorenzo: lettura di Decameron IV,5
cita i primi due versi: «Qual esso fu lo malo cristiano, / che mi furò la grasta,
et cetera» (p. 532). Si tratta, come è noto, di una canzone popolare attestata in
molte varianti, studiate fin dall’Ottocento dai folkloristi e pubblicata tra gli
altri dal Carducci (1871)3. La novella si configura allora come un racconto
eziologico, un’esegesi e uno svelamento di quanto nella canzone si suppone
implicito, taciuto o non dichiarato: «Quella novella che Filomena aveva detta
fu alle donne carissima, per ciò che assai volte avevano quella canzone udita
cantare né mai avean potuto, per domandarne, sapere qual si fosse la cagione
per che fosse stata fatta» (p. 534). Il Boccaccio, prima di dare la parola al
narratore successivo, la presenta insomma come esegesi autorizzata di una
canzone anonima: ben nota ai componenti della lieta brigata, ma anche ai
lettori contemporanei del Decameron, dal momento che il semplice incipit è
sufficiente a renderla immediatamente riconoscibile.
Per descrivere il rapporto tra novella e canzone si è parlato, a giusto titolo
mi pare, di un procedimento compositivo analogo a quello che si può indicare
nelle razos provenzali, che narrano la vita di un trovatore a partire da pochi
elementi autobiografici o pseudoautobiografici disseminati nei suoi
componimenti4. Ma occorre notare che nel testo del Boccaccio l’operazione è
compiuta con una sofisticata strategia narrativa: la canzone stessa è presentata
come qualcosa che rivela, che denuncia il sopruso e la violenza narrati nella
novella («divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun che compuose quella
canzone la quale ancora oggi si canta», p. 532). È anzi la rivincita postuma di
Lisabetta contro il timore dello scandalo che aveva dettato il comportamento
dei fratelli: prima nel controllo delle loro emozioni («senza far motto o dir cosa
alcuna, [...] infino alla mattina seguente trapassò», «diliberò di questa cosa [...]
di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o
saputa infino a tanto che tempo venisse», p. 528), poi nell’uccisione segreta di
Lorenzo e nell’occultamento del corpo nel bosco («uccisono e sotterrarono in
guisa che niuna persona se n’accorse, p. 528), infine nella sottrazione del vaso
di basilico («nascosamente da lei fecero portar via questo testo», p. 531), fino
alla subitanea partenza («cautamente di Messina uscitisi», p. 532).
La dialettica del nascondere e dello scoprire, nelle sue molteplici accezioni,
attraversa in effetti tutta la novella, di cui sembra costituire un potente motore
narrativo. I due amanti avevano tentato di nascondere la loro passione, ma «non
seppero sì segretamente fare» (p. 527). I fratelli prima cercano di nascondere ai
vicini l’avventura della sorella e poi a tutti il loro delitto, ma sono scoperti grazie
all’intervento della vittima stessa che svela la violenza subita e indica a Lisabetta
dove si trova il suo corpo. La donna nasconde la testa dell’amato in un vaso ma a
lungo andare viene scoperta: «servando la giovane questa maniera del continuo,
più volte da’ suoi vicin fu veduta» (p. 531). I fratelli scoprono che cosa contiene
il vaso di basilico e lo nascondono a loro volta, seppellendo di nuovo la testa. In
alcuni casi il nascondere e lo scoprire coincidono proprio con l’atto di seppellire
e disseppellire: i fratelli seppelliscono il corpo; Lisabetta lo disseppellisce, ne
taglia la testa, riseppellisce il resto nel bosco e la testa nel vaso; i fratelli a loro
volta disseppelliscono la testa e poi la seppelliscono di nuovo. Così è più volte
iterato — quasi chiave di volta dell’architettura narrativa — il verbo che segnala
il momento in cui qualcosa viene percepito, o viceversa sfugge alla percezione:
«Di che Lorenzo accortosi» (p. 527), «non seppero sì segretamente fare, che [...]
il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse» (pp. 527-
28), «niuna persona se n’accorse» (p. 528), «Noi ci siamo accorti» (p. 531), «Il
che udendo i fratelli e accorgendosene» (p. 531).
Tutti insomma hanno qualcosa da nascondere e da scoprire, e ci riescono
più o meno bene. Vale allora la pena di chiedersi se anche Boccaccio non si
diverta a nascondere qualcosa, se la novella stessa non si configuri, a sua volta,
come un testo che provoca ambiguamente il lettore a cercare altri significati,
nascosti dietro la più evidente storia di un amore tragico concluso con la follia
e la morte. È l’autore stesso che sembra mettere il lettore su questa strada, con
un’implicita e inattesa omologia tra il suo testo (la novella) e quello di
Lisabetta (il vaso di basilico): ricorrendo proprio alla parola testo per indicare
l’oggetto che nella canzone è chiamato invece grasta o resta. È stato più volte
notato il gioco paronomastico tra testa e testo di basilico, indicato addirittura
come una possibile ragione della presenza della testa tagliata5. Credo però che
si debba anche considerare l’esibita omonimia tra testo, nel senso più consueto
di testo letterario, e testo nel senso qui utilizzato di vaso. Nel testo della
novella — sembra dirci allora Boccaccio — è nascosto qualcosa che non è
immediatamente visibile o prevedibile, come nel vaso (testo) di Lisabetta è
nascosta, in maniera inattesa, la testa di Lorenzo.
5
Branca nel suo commento suggerisce che «il trovar chiamato resta o testa il vaso,
avrebbe fatto immaginare che vi stesse sepolta una testa», Boccaccio, G. (1987: 526). Segre, a
sua volta, nota: «il vaso che conterrà la testa di Lorenzo è chiamato, con ritorno etimologico,
testo. Mediante la coppia testa-testo [...] si può dire che il vaso contiene la testa di Lorenzo,
come testo contiene testa», Segre, C. (1982: 84).
così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano, avvenne che,
sembianti facendo d’andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco
menaron Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto,
veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva,
uccisono e sotterrarono (p. 528).
essa un giorno tornò a casa sua, portando chiuso nel suo canestrino da
lavoro un cranio di morto; e ci scoverse il coperchio, e rideva; e
mostrava il cranio in mezzo a un nembo di rose. — E le sono tante e
Era l’estate delle notti neroazzurre, dei tuoni ambigui che scoppiavano
rochi e falsi a oriente, del reticolo della città giù in strada — un tizio
decapita l’amante, mette la testa in una scatola e se la porta sul treno per
Queens11.
Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e co’ panni tutti
stracciati e fracidi: e parvele che egli dicesse: ‘O Lisabetta, tu non mi fai
altro che chiamare e della mia lunga dimora t’atristi e me con le tue
lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più
ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli
m’uccisono’. E disegnatole il luogo dove sotterrato l’aveano, le disse
che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve (p. 529).
tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la
terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo
misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto: per che
manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione (p. 530).
Che fosse passato molto tempo dal momento della morte ci era stato detto
più volte, insistendo sulla lunga attesa di Lisabetta e sulla iterazione dei giorni
e delle notti, trascorsi in un confuso dolore («temendo e non sappiendo che»),
in vane suppliche e in pianto: «Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso
e sollecitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga
gravava, avvenne un giorno», «assai volte la notte pietosamente il chiamava»,
«della sua lunga dimora si doleva» (p. 529), e così via. Si tratta in effetti di una
conservazione miracolosa del corpo morto, e non di un «fiabesco magico»,
come proponeva per esempio Luigi Russo (1988: 165). Nel séguito, quando i
fratelli scoprono la testa nel vaso di basilico, questa appare invece consumata,
al punto che solo i capelli ne consentono il riconoscimento: «versata la terra,
videro il drappo e in quello la testa non ancora sì consumata, che esso alla
capellatura crespa non conoscessero lei essere quella di Lorenzo» (p. 531).
È esattamente quello che accade per i corpi e le reliquie dei santi:
conservazione miracolosa fino al loro ritrovamento da parte di uno o più
fedeli, trasformazione in reliquia e poi naturale consunzione. Basti ricordare,
tra i molti esempi che si potrebbero citare, il caso del martire Panfilo e dei suoi
compagni, uccisi a Cesarea sotto Diocleziano: i corpi, benché esposti alla furia
delle bestie e alle intemperie, contro ogni previsione erano rimasti intatti per
vari giorni. Il narratore della Historia Ecclesiastica (l. VIII, c. VI, 7) precisa
Sed cum praeter omnium exspectationem, nec fera, nec volucris ulla,
nec capis ad ea accederet, tandem divina ordinante Providentia integra
atque illaesa asportata sunt, omnique funebri cultu, ut par erat, ornata et
curata, consuetae tradita sunt sepulturae14.
2323). A questa voce si rinvia per le informazioni generali relative alla pratica delle reliquie.
Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa
lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la
lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel
Lisabetta bacia la testa dell’amato e la lava con le sue lacrime. Pianta poi
«parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano» e lo bagna solo con le sue
lacrime o con liquidi preziosi e profumati (acqua rosata o di fior d’aranci).
Non può non colpire in queste pratiche la somiglianza con gli onori resi a Gesù
da Maria Maddalena, che gli lava i piedi con le sue lacrime, li bacia e li
cosparge di unguento prezioso:
Più che la ragione invocata da Gesù per la salvezza della donna, l’aver
molto amato — «Remittuntur ei peccata multa, quoniam dilexit multum» (Lc
7, 47) — importa notare qui l’equivalenza tra piedi e testa, relativamente alle
cure loro riservate, istituita da Gesù nella risposta alle critiche del fariseo:
Vides hanc mulierem? Intravi in domum tuam, aquam pedibus meis non
dedisti; haec autem lacrimis rigavit pedes meos, et capillis suis tersit.
Osculum mihi non dedisti, haec autem ex quo intravit non cessavit
osculari pedes meos. Oleo caput meum non unxisti, haec autem
unguento unxit pedes meos (Lc 7, 44-46).
18
Damasceno, G. (1864: 1166): «Nostro Signore Gesù ci ha dato le reliquie dei santi
come fonte di salvezza, da cui derivano molteplici benefici e sgorga un unguento
profumatissimo. Che nessuno si mostri incredulo. Infatti, se per volontà di Dio l’acqua è
sgorgata nel deserto da una roccia scabra e dura, e anche dalla mascella di un asino per calmare
la sete di Sansone, perché dovrebbe sembrare incredibile che un unguento profumato sgorghi
dalle reliquie dei martiri?». Cfr. anche Dictionnaire de Théologie (1936: 2348).
19 Enrico di Gand (1981: 143): citato in Wirth, J. (1999: 286).
20 Tommaso d’Aquino (1891: 193): cfr. Wirth, J. (1999: 287-88).
21
Tomasi di Lampedusa, G. (1959: 37).
22
Può essere interessante notare che «martiro» e «martìre» nel Decameron sono usati
solo in versi e nel senso figurato di sofferenza d’amore: «che lieve reputava ogni martiro / che
per te nella mente, / ch’è rimasa dolente, / fosse venuto» (Conclusione IV giornata, p. 586); «e
dicoti che tanto e sì mi cuoce, / che per minor martir la morte bramo» (Ibid., p. 587); «ché vedi
ch’io / già mi consumo amando e nel martire / mi sfaccio a poco a poco» (Conclusione V
giornata, p. 709).
23 Cfr. la voce «Lorenzo (santo)», in Enciclopedia Cattolica (1951: 1538-45). Cfr. anche
Delcorno, C. (1989: 82-87). Si può notare incidentalmente che il diacono Lorenzo amministra
i beni del pontefice, come poi il Lorenzo di Boccaccio sarà amministratore dei fratelli di
Lisabetta («tutti i lor fatti guidava e faceva», p. 527).
ricorre a un nome emblematico: come già nella scelta del modello evangelico
(l’episodio fondatore) e nella tipologia della reliquia (la testa, cioè la più
importante di quelle corporali). E anche qui si assiste di nuovo a un
abbassamento di livello, a un declassamento parodico: se l’etimologia di
Lorenzo rinvia al lauro, segno di vittoria e di gloria, nella novella del
Boccaccio la testa di Lorenzo è più modestamente incoronata di un domestico
basilico.
Ma il nome di Lorenzo istituisce anche un forte collegamento interno al
macrotesto del Decameron. E lo istituisce proprio con la novella nella quale il
culto delle reliquie, i suoi abusi e la facile credulità popolare sono messi alla
berlina con aperta e dissacrante comicità. Penso naturalmente alla novella di
Fra Cipolla che chiude la VI giornata, nella quale al protagonista viene
sottratta una penna di pavone, che egli voleva spacciare per una penna
dell’arcangelo Gabriele, e sostituita con alcuni carboni che giacevano in un
angolo della camera. Egli si rende conto dello scambio solo al momento di
aprire la cassetta e di mostrarla ai fedeli in attesa. Allora, dopo aver elencato
le più inverosimili reliquie — tra le altre «il dito dello Spirito Santo», «una
dell’unghie de’ gherubini», «alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre
Magi», «una ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavolo»
(p. 771) — e aver accennato di sfuggita all’autenticità di quelle che egli
possiede24, risolve brillantemente la situazione presentando i carboni, messi
per burla nella cassetta al posto della penna, come i carboni con i quali San
Lorenzo era stato arso sulla graticola:
[...] Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo
che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de’ carboni
ponesse nelle mie mani, ricordandom’io pur testé che la festa di san
Lorenzo sia di qui a due dì. E per ciò, volendo Idio che io, col mostrarvi
i carboni co’ quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la
devozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i
benedetti carboni spenti dall’omor di quel santissimo corpo mi fé
pigliare [...]». E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san
Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto
la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati,
con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e, migliori
24 «È vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l’abbia mostrate infino a tanto
che certificato non s’è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere
ricevute dal Patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenzia che io le mostri» (p. 772).
offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toccare il
pregava ciascuno (pp. 773-74).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
25 Con un riferimento alla trasformazione dei suoi abiti in reliquie: «poi che fornito fu
l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato a basciargli i piedi e le mani, e tutti
i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere»
(p. 69).
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