TEORIA
XXVI/2006/1
L’identità
a questione dell’identità e il rapporto di questo concetto con
quello correlato di ‘alterità’ sono problemi ormai impostisi
nell’odierno dibattito socio-culturale. Bisogna però pensar-
li, al tempo stesso, da un punto di vista propriamente filosofico. È
questo che si propone il presente fascicolo di «Teoria», la rivista
fondata da Vittorio Sainati che inaugura qui la sua terza serie.
In questo numero non mancano contributi che si riferiscono ad au-
tori classici e contemporanei del pensiero occidentale (da Aristotele
in questione
a Cusano, da Fichte a Heidegger, da Levinas a Derrida, fino a Se- Prospettive filosofiche
L’identità in questione
verino). Ma, insieme, si trovano scritti che affrontano la differenza
di genere, l’ambito transgender e i problemi dell’identità maschile.
Il tutto per offrire un’introduzione complessiva e una mappatura
adeguata dei diversi modi in cui si può parlare, oggi, di identità.
TEORIA
Scritti di: Adriano Fabris, Mauro Mariani, Francesco Tomatis, Rivista di filosofia
Marco Ivaldo, Antonia Pellegrino, Francesco Camera, fondata da Vittorio Sainati
Leonardo Samonà, Luigi Vero Tarca, XXVI/2006/1 (Terza serie I/1)
Flavia Monceri, Giovanni Ventimiglia
€ 18,00
ISBN 88-467-1577-2
TEORIA
Rivista di filosofia
fondata da Vittorio Sainati
XXVI/2006/1 (Terza serie I/1)
L’identità
in questione
Prospettive filosofiche
Edizioni ETS
000 frontespizio 22-11-2010 10:45 Pagina 2
000 indice 22-11-2010 10:46 Pagina 3
Indice
Adriano Fabris
Premessa, p. 5
Mauro Mariani
Identità, essenza ed accidente, p. 7
Francesco Tomatis
Ipseità, diversità e dia-ferenza, p. 31
Marco Ivaldo
Fichte: l’orizzonte comunitario dell’etica
(le lezioni del 1812), p. 37
Antonia Pellegrino
Cosa significa diventare ciò che si è. Forme e aspetti
del problema dell’identità in Martin Heidegger, p. 55
Francesco Camera
Il primato dell’alterità e le metamorfosi dell’identità
in Emmanuel Levinas, p. 71
Leonardo Samonà
Sulla logica dell’opposizione:
l’alterità tra Derrida e Levinas, p. 93
Luigi Vero Tarca
Tutto diverso dalla negazione, p. 113
Flavia Monceri
L’identità come pratica dell’identificazione, p. 137
Giovanni Ventimiglia
Problemi di identità maschile, p. 153
000 indice 22-11-2010 10:46 Pagina 4
000 premessa_Fabris 22-11-2010 10:46 Pagina 5
L’identità in questione
Premessa
Adriano Fabris
6 Adriano Fabris
1 Definire esattamente che cosa è il tiv h\vn ei\nai (che in ogni caso tradurrò, seguendo una
tradizione consolidata, con «essenza») è questione difficile e controversa, ma fortunatamente po-
tremo limitarci a (parte di) quanto lo stesso Aristotele dice in Met. Z 4-6, e questo non solo per
economia espositiva, ma anche per precise ragioni metodologiche che appariranno chiare tra
breve.
TEORIA 2006/1
8 Mauro Mariani
3 Ho sostenuto questa tesi in Dialettica e principi in Aristotele, in M. Barale (a cura di), Ma-
teriali per un lessico della ragione, Pisa 2002, pp. 149-204.
Identità, essenza ed accidente 11
4 Lo dimostra anche il fatto che in questi capitoli il termine «materia» non compare e, con
un’unica eccezione (Z 4,1030a12, dove si parla di ei[dh di un genere, con riferimento, dunque,
non alla forma, ma alle specie dei Topici e della Categorie – ma su questo punto ritornerò più
avanti), il termine ei\do~ compare riferito unicamente alle idee platoniche.
12 Mauro Mariani
per sé7, in quanto, pur non potendo esistere senza un soggetto che sia
bianco, il discorso che dice che cosa sono può invece prescindere da
questo soggetto8.
La distinzione tra predicazione per sé e predicazione per accidente si
basa sulle prime tre accezioni: la predicazione per accidente è definita
semplicemente come una predicazione non per sé, e quindi avrà altrettante
accezioni9. La distinzione tra cose dette per sé e cose dette per accidente si
basa invece sulle ultime due, ma ad essere dette per accidente sono in pri-
mo luogo cose come ‘uomo camminante’ o ‘uomo bianco’, piuttosto che
‘camminante’. La differenza non è molta (dal momento che ‘camminante è
detto per accidente proprio perché presuppone un soggetto che cammina, e
‘uomo camminante’ non fa che rendere esplicito questo soggetto), ma serve
ad evidenziare che le cose dette per accidente derivano da una predicazio-
ne per accidente nella prima accezione. Quindi una cosa detta per acci-
dente possiede una struttura predicativa intrinseca e deriva, ontologica-
mente, da altre più fondamentali; al contrario una cosa detta per sé è sem-
plice, nel senso che non è il risultato di una relazione predicativa10.
Esiste quindi un’evidente asimmetria tra le cose dette per accidente e le
cose dette per sé: le prime derivano dalla predicazione di un accidente, le
seconde non derivano da una predicazione per sé. In particolare il rapporto
tra una cosa detta per sé e ciò che si predica per sé nella prima accezione è
un rapporto di identità. Scrive infatti Aristotele in An. Post. A 22:
Ancora se qualcosa significa la sostanza significa esattamente (o{per) quel qualcosa
o esattamente un quel qualcosa in relazione a ciò di cui si predica; se qualcosa non si-
gnifica la sostanza, ma si dice di un altro come di un soggetto che non è esattamente
quel qualcosa o esattamente un quel qualcosa, allora è un accidente, ad esempio ‘bian-
co’ in relazione a ‘uomo’. L’uomo non è infatti esattamente bianco né un bianco, piutto-
sto un animale: infatti l’uomo è esattamente un animale. Quanto appunto non significa
la sostanza dev’essere predicato di qualcosa d’altro come di un soggetto e non è possibi-
le che vi sia qualcosa di bianco che sia bianco senza essere qualcosa d’altro. (83a24-32)
7 Cfr. Met. ∆ 7, 1017a22-4: «Sono dette essere per sé le cose significate dalle varie figure
siamo dire che la bianchezza è un colore di un certo tipo senza specificare il primo recipiente
della bianchezza.
9 È tuttavia probabile che «per accidente» nella seconda accezione si riduca alla prima:
infatti ciò di cui un accidente si predica non rientra mai, in senso stretto, nella definizione
dell’accidente stesso.
10 È necessario qualificare in questo modo la semplicità: un corpo, ad esempio, è semplice
in questo senso, anche se non lo è dal punto di vista della composizione fisica.
14 Mauro Mariani
Il testo è difficile anche per il gergo usato, ma una cosa è chiara: in una
predicazione per sé soggetto e predicato significano la stessa cosa, e quin-
di la predicazione è riducibile, in un certo senso, ad un’identità. Ad esem-
pio, se l’uomo e il cane sono entrambi animali, l’uomo è identico ad un
certo animale e il cane è identico ad un certo altro animale: la presenza
degli indefiniti evita conseguenze paradossali (ad esempio che il cane e
l’uomo sono identici essendo entrambi identici ad animale), ma, poiché ciò
che differenzia un certo animale e un certo altro animale è lasciato indeter-
minato, si può parlare ugualmente di identità. Di conseguenza l’espressio-
ne «uomo animale» è tanto malformata quanto quella formata giustappo-
nendo due espressioni numeriche che denotano lo stesso numero, ad
esempio «9(7+2)».
Si può dire che Met. Z 4-6 hanno a che fare pressoché esclusivamente
con le nozioni e le distinzioni che ho appena esposto. In breve, il risultato
di Z 4 è che le essenze nel senso primo e fondamentale del termine corri-
spondono alle definizioni in senso stretto e sono quindi costituite da ciò
che si dice per sé, nella prima accezione, di cose dette per sé nella quarta
accezione, ma non nella quinta. Z 5 affronta le difficoltà legate alle acce-
zioni (2) e (5). Infatti cose come ‘maschio’ (o ‘camuso’ in relazione al naso)
non possono essere definite se non tramite quello di cui sono dette per sé
nell’accezione (2): ma questo costituisce il loro soggetto e nessuna defini-
zione in senso stretto può fare ricorso a ciò cui il definiendum appartiene.
Ma questo vale anche per le cose dette per sé nell’accezione (5), e quindi
neppure loro sono definibili in senso stretto. Infine Z 6 cerca di dimostrare
ciò che era stato solo enunciato nel già citato passo di An. Post. A 22, os-
sia che ad essere identiche alla loro essenza sono tutte e sole le cose dette
per sé.
3. Identità accidentale
11 In realtà mousikovn vuol dire «educato artisticamente», ma per brevità traduco con «mu-
sico» o «cosa musicale». Tra poche righe si vedrà che «musico» si riferisce in realtà sia
all’astratto ‘musicalità’ che al paronimo derivato ‘cosa musicale’. Aristotele non fa che generaliz-
zare i molti casi in cui nella lingua greca il neutro sostantivato denota anche l’astratto: ad esem-
Identità, essenza ed accidente 15
Dal confronto con Met. ∆ 6, capitolo dedicato alla nozione di «uno», ri-
sulta chiaro che A e B sono accidentalmente identici se la loro combinazio-
ne è un’unità accidentale: infatti, ad esempio, ‘musico’ e ‘bianco’ sono ac-
cidentalmente uno esattamente per la stessa ragione per cui sono acciden-
talmente identici, ossia perché ‘bianco’ e ‘musico’ si predicano di uno stes-
so soggetto, mentre ‘uomo’ è accidentalmente identico a ‘musico’ perché
‘musico’ si predica di ‘uomo’ e quindi ‘uomo musico’ è accidentalmente
uno. Inoltre un’unità accidentale come ‘uomo musico’ è accidentalmente
identica sia all’accidente (o meglio al paronimo derivato dall’accidente, os-
sia la ‘cosa musicale’) sia a ciò di cui l’accidente si predica, ossia ‘uomo’.
Tutti i termini universali (e quindi anche «uomo musico») possono es-
sere usati anche per riferirsi, in un determinato contesto, ad un
particolare13. Ed in effetti quando abbiamo a che fare con le cose che sono
accidentalmente uno sembrerebbe che il riferimento non possa che essere
ad un particolare:
Analogamente l’accidente si dice in relazione ai generi e ai nomi di un universale,
che cioè ‘uomo’ è lo stesso che ‘uomo musico’: infatti [questo accade] o perché ‘musi-
co’ appartiene a ‘uomo’ inteso come sostanza unitaria [mia/` ou[sh/ oujsiva/], o perché si
predicano entrambi di uno dei particolari, ad esempio Corisco, con la differenza che
non appartengono allo stesso modo, ma certamente uno come genere nella sostanza,
l’altro come stato o affezione della sostanza. (Met. ∆ 6, 1015b28-34)
pio leukovn significa sia ‘cosa bianca’ che ‘bianchezza’. Certamente mousikovn non è il termine
usuale per riferirsi all’astratto ‘musicalità», ma Met. Z 6, 1031b23-32 sfrutta il doppio significa-
to anche di questo termine.
12 Per una trattazione più approfondita dell’identità accidentale rimando al mio Numerical
Identity and Accidental Predication in Aristotle, in «Topoi», 2/19 (2000), pp. 99-110, dove si tro-
va anche una bibliografia sull’argomento.
13 Addirittura nella stessa frase. «Il cane abbaia», ad esempio, può voler dire che i cani in
14 Naturalmente vi sono universali che non fanno parte della definizione, ad esempio la pro-
prietà di avere gli angoli interni pari a due retti che si predica per sé dei triangoli. Ma per mo-
strare l’impossibilità che gli universali siano in generale accidentalmente identici a qualcosa
detto per accidente è sufficiente limitarci a quegli universali che appartengono per sé nella pri-
ma accezione.
Identità, essenza ed accidente 17
15 Si tratta di qualcosa di simile alla «regola del peiorem» che Teofrasto applicava alla sillo-
gistica modale.
16 Cfr. M. Frede - G. Patzig, Aristoteles, Metaphysik Z, Text, Übersetzung und Kommentar,
17 Da ora in poi quando parlerò di (c) farò riferimento unicamente a questo secondo modo
d’intenderla.
18 Le due traduzioni corrispondono rispettivamente all’inserimento o meno del ta; posto tra
parentesi quadre in ta; a{kra givgnesqai taujta; [ta;] kata; sumbebhkovv~ (cfr. le righe 26-
7). Entrambi i testi sono attestati nei codici, e neppure gli editori moderni sono in accordo tra lo-
ro: Ross e Jaeger inseriscono ta;, Frede-Patzig (seguito da Bostock – cfr. D. Bostock, Aristotle:
Metaphysics, Books Z and H, translated with a Commentary, Oxford 1994, p. 8) no.
22 Mauro Mariani
19 Il testo ta; a{kra givgnesqai taujta; ta; kata; sumbebhkovv~ non è in questo caso giu-
stificato, dal momento che i termini che compaiono in (jjj) sono sì essenze di accidenti, ma non
di cose dette per accidente.
24 Mauro Mariani
EssU.B. = EssU.M.
Da quest’ultimo segue a sua volta (jjj), ossia
EssB = EssM
Ma quest’ultima identità è evidentemente falsa e costituisce perciò ra-
gion sufficiente per la reiezione di entrambe le premesse U.B. = EssU.B. e
U.M. = EssU.M. (a voler sottilizzare una dimostrazione per assurdo può falsifi-
care una sola premessa, ma in questo caso U.B. = EssU.B. e U.M. = EssU.M. o
sono entrambe vere o sono entrambe false). Nell’interpretazione di Frede e
Patzig, dunque, la clausola finale «ma sembra di no» è il riconoscimento
della falsità di EssB = EssM e quindi una conferma della validità della re-
ductio; inoltre, poiché è attraverso l’identità accidentale (jj) che otteniamo
l’dentità di EssB = EssM, il testo corretto deve essere ta; a{kra givgne-
sqai taujta; kata; sumbebhkovv~ e la traduzione «gli estremi diventino
identici per accidente». La debolezza di questa interpretazione è duplice:
da un lato attribuisce ad Aristotele un errore logico, il passaggio da (jj) a
(jjj), che lo stesso Aristotele in altre sedi riconosce essere effettivamente
una fallacia; dall’altro, come ho detto nel paragrafo precedente, Frede e
Patzig non forniscono nessuna ragione per la falsità di EssU.B. = EssU.M.
intesa come identità accidentale.
Resta solo (c). In base a questa interpretazione il primo argomento non
è valido non perché contiene un’identità accidentale, ma perché contiene
termini non omogenei, ossia cose dette per sé, come ‘uomo’, e cose dette
per accidente come ‘uomo bianco’: quindi il secondo argomento emenda il
primo semplicemnte sostituendo ‘uomo musico’ a ‘uomo’20. In base a (c) il
passaggio a (jjj) è superfluo, la clausola finale «ma sembra di no» è una
conferma ed il testo corretto non può essere che ta; a{kra givgnesqai
taujta; ta; kata; sumbebhkovv~. Fin qui tutto bene: purtroppo l’interpre-
tazione (c), se non imputa ad Aristotele la fallacia della cancellazione e
rende ragione della presenza del secondo argomento, non è poi in grado di
giustificare la validità di quest’ultimo più di quanto lo fosse di giustificare
l’invalidità del primo.
20 È vero che nella ricostruzione di Frede e Patzig il termine ‘uomo’ compare, ma si tratta di
un’aggiunta che non è giustificata dal testo: nella loro interpretazione, tuttavia, la questione non
è rilevante, mentre diventa cruciale per (c).
Identità, essenza ed accidente 25
21 L’induzione intesa in questo senso assomiglia, molto più che all’induzione baconiana, al-
delle idee comporta difficoltà insuperabili, è meglio che il loro ruolo sia ri-
coperto da altro22.
Si può dunque supporre che anche nella dimostrazione che le cose det-
te per accidente non sono identiche alla loro essenza la procedura sia in
qualche misura analoga. Per sviluppare il primo argomento è infatti neces-
sario utilizzare l’esempio di una cosa detta per sé che sia strettamente cor-
relata con una cosa detta per accidente; d’altra parte in Z 4 Aristotele ave-
va contrapposto le cose dette per accidente alle cose che sono prime, e
queste erano stato identificate con le specie di un genere: se, come appare
del tutto ragionevole, le cose che sono prime sono dette per sé, ‘uomo’ in
Z6 deve essere inteso come la specie di un genere, ed ‘uomo bianco’ come
il composto accidentale di una specie e di un accidente.
È facile obiettare che in Met. Z le specie di un genere non sono in
realtà sostanze prime. Infatti anche chi, in disaccordo con i già citati Fre-
de e Patzig, non ritiene che le forme siano individuali tende ad escludere
che possano essere identificate con le specie delle Categorie, le quali, a
loro volta, vengono di solito identificate con quei composti di forma e ma-
teria prese in universale di cui si parla in Met. Z 10, 1035b27-30 e che
non sono sostanza23. E comunque, siano o non siano le specie della Cate-
gorie composti universali, si può affermare che ‘uomo’ è identico a qual-
cosa come ‘uomo bianco’ solo intendendo ‘uomo’ come un composto di
questo tipo. E non importa se questa identità accidentale viene interpre-
tata come quella di un dato uomo con un dato uomo bianco, oppure nel
senso che un universale A è accidentalmente identico ad un universale B
se e solo se ognuno degli A è accidentalmente identico ad uno dei B, o vi-
ceversa. Abbiamo visto infatti nel paragrafo 3 che si può parlare di iden-
tità accidentale relativamente ad un universale solo se l’universale viene
inteso semplicemente come qualcosa che «per natura si predica di più
22 Una conferma di ciò si può ricavare anche dagli Analitici Secondi. Nel paragrafo 2 ho già
osservato che in A 22, 83a24-32 Aristotele assume l’identità tra le cose dette per sé e la loro es-
senza. Subito dopo il passo citato troviamo alle righe 83a32-35 un’osservazione dal tono piuttosto
sprezzante («Dunque tanti saluti alle idee: sono infatti suoni privi di senso, e, se esistono, non
hanno alcuna funzione nel discorso razionale: le dimostrazioni vertono infatti su tali cose [scilicet
sulle cose che sono dette per sé di cose dette per sé ].»), nella quale Aristotele asserisce che le
cose dette per sé, necessarie per la scienza, non sono le idee. Più precisamente il fatto che alcuni
item di marca aristotelica siano cose per sé, identiche alla loro essenza, toglie efficacia all’argo-
mento platonico di indispensabilità secondo cui senza le idee la scienza è impossibile.
23 «‘Uomo’ e ‘cavallo’ e cose di questo genere che si riferiscono ai particolari, ma sono uni-
versali, non sono sostanze, ma composti di questa data forma e di questa data materia prese in
universale».
Identità, essenza ed accidente 27
24
Si tratta di una delle tesi principali sostenute in Primary Ousia, Ithaca (New York) 1991.
25
Non risulta molto chiaro, dagli sparsi accenni aristotelici, l’esatto significato di questo ti-
po di predicazione. A questo proposito si può consultare J. Kung, Can Substance be Predicated of
Matter, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 60, 1978, pp. 140-59, che contiene un
elenco esauriente ed una discussione dei passi rilevanti.
28 Mauro Mariani
26 Anche in Top. E 4 si parla dell’identità tra ‘uomo’ e ‘uomo bianco’ in un contesto dove è
evidente che si tratta di universali. Più precisamente essi sono detti diversi solo perché il loro
essere è diverso, e quindi ci sarà un senso in cui sono identici: ma, trattandosi di universali, tale
identità non può essere data che dal fatto che tutti gli uomini bianchi sono accidentalmente
identici a uomini.
Identità, essenza ed accidente 29
Abstract
In Met. Z 6 Aristotle argues, inter alia, that things which are spoken of coincidental-
ly are different from what being is for them. Unfortunately the arguments which are
aimed at supporting this claim are less than compelling, and Aristotle himself seems to
cast serious doubt on their validity. The main purpose of this paper is to stress the di-
alectical features of Met. Z 4-6 in order to display the logical structure of the abovemen-
tioned arguments and to put forward a new interpretation that vindicates what is, on my
mind, Aristotle’s claim, i.e. that his first argument is actually untenable, while his sec-
ond looks sound.
L’identità in questione
TEORIA 2006/1
32 Francesco Tomatis
è libertà iniziale solo in quanto sia anche scelta di qualcosa che la prece-
de, scelta di sé come precedente se stessa, in quanto originata forse da al-
tro. L’esistenza è preceduta da qualcosa rispetto al quale essa, soltanto es-
sa, può essere inizialità, libertà. Ma allora l’essere preceduta comporta che
la sua inizialità, la sua libertà, sia una scelta, cioè una libertà esercitata ri-
spetto ad alcunché di presupposto. E poiché tale presupposto non è qual-
cosa di noto all’esistenza in quanto tale, anzi altamente ignoto e misterio-
so, ecco che l’esperienza di libertà propria all’esistenza (costituita dalla
polarità inscindibile e inidentificabile di inizio-scelta) è propriamente
un’esperienza di trascendenza: di autotrascendenza che l’esistenza umana
costitutivamente è.
Approfondendo l’identità attraverso il suo particolare senso ipseistico,
l’esistenza in quanto tale può essere concepita come apertura alla trascen-
denza nella sua stessa finitezza. Che cosa significa questa autotrascenden-
za? Significa apertura all’alterità dell’altro, o più specificamente alla di-
versità delle molteplici esistenze. Ma non nel senso che attraverso la com-
prensione delle altre identità io possa fondare, concepire la mia identità,
l’esperienza di autotrascendenza che l’esistenza umana in quanto tale è.
L’autotrascendenza non ci dice né che le altre ipseità possano essere spie-
gate esclusivamente partendo dalla mia, né che un’altra particolare ipseità
possa spiegare, giustificare, fondare la mia ipseità. Non è attraverso un
processo sostitutivo che è possibile comprendere l’ipseità. Ciò mostra allo-
ra bene come le tante ipseità possano sì tentare di comprendere se stesse
attraverso il dialogare con altre ipseità, ma secondo un dialogare possibile
non perché svolto attraverso una giustapposizione di ipseità, che compor-
terebbe necessariamente un «bellum omnium contra omnes» (guerra di tut-
ti contro tutti) o al massimo un patto di non belligeranza decretabile attra-
verso leggi più o meno naturali, bensì perché capace di un’apertura alla
trascendenza che trascenda tutte le ipseità: che le trascenda tutte com-
plessivamente e le trascenda singolarmente prese, in quanto esse auto-
comprendendosi si comprendano come autotrascendenza costitutivamente.
Qui si apre allora una prospettiva nella quale è forse possibile comprende-
re quanto, attraverso le molte differenze, sia possibile trovare un’armonia
fra di esse, ma solamente allorquando ogni differenza sia appunto ap-
profondita in quel senso specifico della propria esistenzialità che la mostra
come autotrascendenza.
Un simile percorso è stato indicato ad esempio da Nicolò Cusano, per
gli aspetti teologici e politico-religiosi, ma anche filosofici del tema, nel
suo dialogo De pace fidei, scritto nel 1453 sull’onda impressionante della
Ipseità, diversità e dia-ferenza 35
Abstract
This paper aims to understand the original meen of the terms “ipseity”, “diversity”
and “/dia-ferenza/”, by studing the occidental ideas of “identity” and “otherness”.
Identity comes from latin /idem/ that meens an autoreferencial identity, expressed by the
equality of oneself with himself. The latin /ipse/, on the other hand, meens a divided
identity, a differentiated one, which build itself by a mouvement and a relationship with
an other one. In the ipseity we can so understand the /dia-ferenza/ which caracterizes
every different reality, the non-otherness which is capable of every relation.
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 37
L’identità in questione
Marco Ivaldo
1 Questo scritto appartiene a un programma di ricerca sostenuto dalla Alexander von Hum-
boldt-Stiftung (Bonn), che ringrazio.
2 Hanno parlato di «egoismo» per caratterizzare il principio della dottrina della scienza ad
esempio Baggesen, Reinhold, Weißhuhn, Jacobi. Cfr. su questo Reinhard Lauth, Das Fehlver-
ständnis der Wissenschaftslehre als subjektiver Spinozismus, in Id., Vernünftige Durchdringung
der Wirklichkeit. Fichte und sein Umkreis, Ars Una, München 1994, p. 40 ss.
3 Su questo tema la letteratura secondaria è oggi molto amplia. Mi limito perciò a
TEORIA 2006/1
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 38
38 Marco Ivaldo
contributo vorrei invece mettere a fuoco il rilievo specifico che il tema del-
la comunità ha nell’etica che Fichte elabora nella fase finale del suo cam-
mino di uomo e di filosofo, cioè durante gli anni di insegnamento presso
l’università di Berlino, allorché egli sviluppa la sua dottrina della scienza
come la teoria delle condizioni per una comprensione della apparizione
dell’assoluto in grado di giustificare se stessa. In particolare mi concen-
trerò sulle lezioni di dottrina morale (etica, Sittenlehre) tenute da Fichte
dal 12 giugno al 13 agosto del 18124.
È noto che dopo la seria malattia attraversata negli anni 1808-1809 il
Filosofo aveva iniziato nell’autunno del 1809 – già prima dell’apertura uf-
ficiale dell’Università – i propri corsi accademici. Dopo la fase di Jena, e
gli intermezzi di Erlangen e di Königsberg, Fichte riprende perciò l’inse-
richiamare il noto saggio di Reinhard Lauth che ha esercitato un grande influsso nel sollecitare
l’attenzione degli studi fichtiani sul tema interpersonale: Le problème de l’interpersonnalité chez
Fichte, «Archives de Philosophie», 35 (1962), pp. 325-334 (ora in: Reinhard Lauth, Transzen-
dentale Entwicklungslinien von Descartes bis zu Marx und Dostojewski, Meiner, Hamburg 1989,
pp. 180-195). Ricordo inoltre solo alcuni volumi, omettendo i saggi pubblicati in riviste o i saggi
in volumi: Hans Ulrich Kopp, Vernünftige Interpersonalität als Erscheinung des Absoluten, Diss.
München 1972; Charles K. Hunter, Der Interpersonalitätsbeweis in Fichtes früher angewandter
praktischer Philosophie, A. Hain, Meisenheim am Glan 1973; Eberhard Heller, Die Theorie der
Interpersonalität im Spätwerk J. G. Fichtes, dargestellt in den «Tatsachen des Bewußtseins» von
1810/11. Eine kritische Analyse, Diss. München 1974; Hansjürgen Verweyen, Recht und Sittlich-
keit in J. G. Fichtes Gesellschaftslehre, Alber, München 1975; Alexis Philonenko, La liberté
humaine dans la philosophie de Fichte, II ed. aumentata Vrin, Paris 1980; Aldo Masullo, Fichte.
L’intersoggettività e l’originario, Guida, Napoli 1986; Edith Düsing, Intersubjektivität und Selbst-
bewußtsein. Behavioristische, phänomenologische und idealistische Begründungstheorien bei
Mead, Schütz, Fichte und Hegel, Jürgen Dinter, Köln 1986; Manuel Gonzáles Riobó, Fichte, filó-
sofo de la intersubjetividad, Barcelona 1988; Robert R. Williams, Recognition. Fichte and Hegel
on the Other, Albany 1992; Ives Radrizzani, Vers la fondation de l’intersubjectivité chez Fichte.
Des Principes à la Nova methodo, Vrin, Paris 1993.
4 Su queste lezioni cfr. Hans Freyer, Das Material der Pflicht. Eine Studie über Fichtes spä-
tere Sittenlehre, «Kantstudien», 25 (1920), pp. 113-155; Günter Zöller, Einheit und Differenz von
Fichtes Theorie des Willens, «Philosophisches Jahrbuch», 106 (1999), pp. 430-440; Carla De Pa-
scale, Le lezioni di etica del 1812: appunti di lettura, in Id., Vivere in società. Agire nella storia.
Libertà, diritto, storia in Fichte, Guerini e associati, Milano 2001, pp. 61-74; Marco Ivaldo, Ethik
der Inkarnation in J.G. Fichtes Vorlesungen über die Sittenlehre 1812, in Marszalka R.-Nowak-
Juchacz E. (cur.), Rozum Jest Wolny, Wolność-Rozumna, Wydawnictwo IFiS PAN, Warszawa
2002, pp. 101-116; Jacinto Rivera de Rosales, Das Absolute und die Sittenlehre 1812. Sein und
Freiheit, «Fichte-Studien», 23 (2003), pp. 39-56; Giovanni Cogliandro, La dottrina morale supe-
riore di J.G. Fichte. L’Etica 1812 e le ultime esposizioni della dottrina della scienza, Guerini e as-
sociati, Milano 2005; Marco Ivaldo, «Das Wort wird Fleisch». Sittliche Inkarnation in Fichtes
später Sittenlehre, in G. Von Manz - G. Zöller (cur.), Fichtes praktische Philosophie. Eine syste-
matische Einführung, Olms, Hildesheim 2006, pp. 175-198; Marco Ivaldo, Sittlicher «Begriff»
als wirklichkeitsbildendes Prinzip in der späten Sittenlehre, relazione tenuta al Fichte-Kongress,
München 2003 (in corso di pubblicazione).
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 39
5 Cfr. Reinhard Lauth, Il sistema di Fichte nelle sue tarde lezioni berlinesi, introduzione a J.
G. Fichte, Dottrina della scienza. Esposizione del 1811, cur. Gaetano Rametta, Guerini e associa-
ti, Milano 1999, p. 41.
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 40
40 Marco Ivaldo
6 Georg Gurwitsch, Fichtes System der konkreten Ethik, Mohr (Paul Siebeck) Tübingen
1924; riproduzione: Olms, Hildesheim-Zürich-New York 1984.
7 Cfr. Gurwitsch, op. cit., p. 203 ss.
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 41
8 Su Fichte e Platone cfr.: Paul Wolfgang Junker, Der Begriff der Liebe bei Plato, Eckhart,
Fichte und in der Philosophie des Ungegebenen, I. D. Greifswald 1922; Max Wundt, Fichte als
Platoniker, in Id., Fichte-Forschungen, Stuttgart 1929, pp. 343-368 (nuova ed. Frommann-Holz-
boog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1976); Tom Rockmore, Le concept fichtéen de la science et la tradi-
tion platonicienne, «Le Savoir Philosophique (Ann. Fac. Lettres Sc. Hum. Nice, Nr. 32)», Nice
1977, pp. 31-40; Jean-Louis Vieillard-Baron, Platon et l’idéalisme allemand (1770-1830), Paris
1979; Wolfgang Janke, Wiederholung der Dialektik. Die Übersetzung platonischer Dialektik in Fi-
chtes Wissenschaftslehre, «Diskussionsbeiträge des Fachbereichs 2, Philosophie, Theologie der
Gesamthochschule Wuppertal, Nr. 1», Wuppertal 1979; Id., Vom Bilde des Absoluten. Grundzü-
ge der Phänomenologie Fichtes, de Gruyter, Berlin-New York 1993; Karen Gloy, Einheit und
Mannigfaltigkeit. Eine Strukturanalyse des «und»: systematische Untersuchung zum Einheits-
und Mannigfaltigkeitsbegriff bei Platon, Fichte und Hegel sowie in der Moderne, Berlin-New
York 1981; Barbara Zehnpfennig, Reflexion und Metareflexion bei Platon und Fichte. Ein Struk-
turvergleich des Platonischen «Charmides» und Fichtes «Bestimmung des Menschen», Symposion
82, Freiburg i. Br.-München 1987; Monika Budde-Burmann, Das lebensorientierende Eine bei
Plato und Fichte. Zum Verhältnis von Platons «Parmenides» zu Fichtes «Wissenschaftslehre
(1804-II)», «Prima philosophia», 4 (1991), pp. 11-31.
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 42
42 Marco Ivaldo
che der Grundlegung einer ethischen Personalismus (I parte: 1913, II parte: 1916), Francke, Bern
und München 1966. Ad es.: «Ogni dovere è fondato in un valore» (p. 193).
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 43
Sulla base di questa visione ciò che finora si è chiamata dottrina morale
(Sittenlehre) – leggiamo – si trasforma in una «dottrina dell’essere» (Seyn-
slehre). Questa conclusione, prima facie sorprendente, viene spiegata così:
in virtù di queste premesse la dottrina morale si trasforma nella «dottrina
dell’essere vero, della realtà vera e propria» (GA II 13, p. 331), cioè – co-
me ormai sappiamo – nella teoria dell’ «essere puramente spirituale», il
«concetto». Nell’etica l’«essere» è il «concetto», e viceversa (non così nel-
la scienza del sapere, per cui il «concetto» è a sua volta immagine
dell’uno-essere). Dal concetto=essere deve venire dedotto tutto il restante
della manifestazione, anche il «mondo oggettivo». Orbene, significa que-
sto che una dottrina morale «in senso proprio» (GA II 13, p. 332) – chia-
rirò più avanti questa espressione – non avrebbe più senso e che essa si ri-
solverebbe semplicemente nella dottrina dell’essere spirituale? Formulato
con una terminologia moderna: la teoria dell’agire morale si risolverebbe
interamente nella teoria del valore morale?
Fichte non vuole affermare ciò. Anzitutto chiarisce che la differenza fra
la dottrina morale e la dottrina dell’essere spirituale risiede nella diversa
posizione che in esse ha la libertà. La dottrina morale «presuppone» la li-
bertà in quanto quella «possibilità dell’essere e anche del non essere» di
cui ho sopra parlato (=la libertà radicale), la vede come una realtà vera e
immediatamente conosciuta, e la conduce sotto la legge morale. La dottri-
na dell’essere spirituale invece «deduce» la libertà come una «forma della
manifestazione», la pone cioè non immediatamente nell’essere, ma nella
«visibilità dell’essere» come il membro sintetico del rapporto fra l’espri-
mersi della vita in una immagine e la vita stessa del «concetto»; con altre
parole: la libertà è il medio vivente fra la vita nell’immagine e la vita se-
condo l’idea, fra apparizione e realtà.
Si capisce allora che la dottrina morale risiede «non nel punto di vista
della verità, ma in quello della manifestazione» (GA II 13, p. 332; cfr. an-
che pp. 336 e 338) e che essa ha il compito di risolvere la manifestazione
nella verità. Sotto questo profilo epistemologico è legittimo conservare il ter-
mine dottrina morale e attribuirgli un significato specifico. La dottrina mo-
rale in senso proprio è il «sistema della manifestazione». Il suo presupposto
è la libertà radicale, l’«indifferenza in relazione al volere», e ciò include
l’ammissione di un io «prima della sua determinazione da parte del concet-
to», cioè di un io autonomo e «indifferente» (=libero) rispetto alla determi-
nazione categorica stessa dell’idea etica. La determinazione etica appella,
non necèssita, anche se appella in modo incondizionato. Segue da ciò che
nell’idea etica in sè non esiste nessuna indifferenza. L’«indifferenza» – con-
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 44
44 Marco Ivaldo
13 Per questa posizione su Schelling mi riferisco a Reinhard Lauth e alla sua lettura di
Schelling ora raccolta nel volume: Schelling vor der Wissenschaftslehre, Christian Jerrentrup,
München 2004.
14 È interessante notare che Fichte in queste lezioni di etica riprende la distinzione di dot-
trina della verità, della manifestazione e della parvenza già avanzata nella Dottrina della scienza
1804-II (cfr. GA II 8, p. 2 ss.).
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 45
46 Marco Ivaldo
15 Ha richiamato l’attenzione sulla differenza nella concezione del carattere individuale che
si può rilevare fra le precendenti elaborazioni di Fichte e queste lezioni di etica Carla de Pasca-
le, Le lezioni di etica del 1812. Appunti di lettura, op. cit., p. 71.
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 48
48 Marco Ivaldo
particolarità in ambito etico Günter Zöller, Konkrete Ethik. Universalität und Partikularität in
Fichtes System der Sittenlehre, in K. Engelhard-D. H. Heidemann (cur.), Ethikbegründungen zwi-
schen Universalismus und Partikularismus, de Gruyter, Berlin-New York 2005, pp. 203-229.
17 Fichte enuncia anche un criterio «puramente formale»: «la volontà morale vuole eterna-
mente il concetto eterno, cioè puramente formale, fatta astrazione da tutte le configurazioni che
esso riceve nel tempo» (GA II 13, p. 363).
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 50
50 Marco Ivaldo
18 Seguo in questo il suggerimento dei curatori della Edizione completa, cfr. GA II 13, p.
pio per il «concepire» dell’altro, e la parola. Questa «interazione attraverso concetti» richiede
un «principio comune». Sono auspicabili perciò «alcuni concetti fondamentali morali» su cui si
realizzi il consenso della comunità etica universale. Ora, l’accordo sulla intellezione morale si
chiama «simbolo», e la comunità di coloro che riconoscono il simbolo è la «chiesa». Qui è il
punto di partenza della dottrina della chiesa nelle lezioni del 1812, alla quale Fichte dedica la
«appendice» (GA II 13, pp. 380-392), e che meriterebbe una trattazione specifica, che qui devo
omettere. Cfr. sul tema: Emilio Brito, J. G. Fichte et la transformation du christianisme, cit., pp.
369-377; Giovanni Cogliandro, La dottrina morale superiore di J. G. Fichte, cit., pp. 294-310.
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 52
52 Marco Ivaldo
della persona come «fine in sé». Sappiamo che l’io individuale deve porsi
al servizio dell’incarnarsi dell’idea etica, deve divenire «vita del concet-
to», e precisamente in questo consiste, volendo dire la cosa in termini
kantiani, la sua «dignità». D’altra parte l’esser-strumento non può essere
separato dal fatto che ogni individuo è al servizio dell’idea etica come un
essere libero. Perciò il genere umano viene amato sì come strumento della
moralità, ma in quanto questo amore si fonda e si riferisce alla «base mo-
rale [che è] nell’uomo e [allo] sviluppo della stessa» (GA II 13, p. 375).
Ogni membro dell’umanità viene perciò amato dall’io morale nel suo es-
ser-capace di moralità, in virtù della sua inalienabile e intangibile perso-
nalità morale.
Ne segue che l’uomo morale ama senza eccezione chiunque «abbia vol-
to umano» ed è pieno di fiducia e di speranza in ogni uomo, sapendo che
finché ogni individuo vive è perché l’idea etica – o Dio stesso – vuole of-
frirgli l’occasione di diventare migliore. Non che questo atteggiamento lo
porti a essere cedevole di fronte al male: l’uomo morale non ama, né tolle-
ra, né giustifica affatto il male, ma ama piuttosto la «persona vera e perdu-
rante» di ognuno, il suo «nocciolo morale», che vuole liberare da ogni ri-
vestimento occultante e portare in piena luce. Sa però che questa libera-
zione non può avvenire con la costrizione e l’inganno – si rammenti la pre-
cedente critica dell’eroismo e dell’entusiasmo amorali – ma con la cono-
scenza e attraverso l’amore del meglio. In definitiva l’uomo morale vuole
gli uomini liberi, non schiavi della paura o dell’errore.
Ancora: compiutezza e indigenza caratterizzano l’uomo morale. Questi è
compiuto e autonomo per quanto riguarda la sua volontà di fare ciò che è
giusto, ma «è indigente in senso esterno e dipendente dall’intero genere
umano» (GA II 13, p. 375). Ciò di cui egli ha propriamente bisogno – os-
serva Fichte – è la cultura morale dell’intero genere umano. Si potrebbe
dire: l’uomo morale è sì autonomo nella sua volontà morale, che non può
venire prodotta in lui da nessun fattore esterno a lui stesso, ma non è auto-
sufficiente nella sua esistenza di fatto, nella quale egli si presenta biso-
gnoso della integrazione morale che nasce dalla moralità di tutti. L’inter-
personalità etica è perciò non solo un dovere, ma anche un bisogno
dell’individuo.
Infine, se l’uomo morale abbraccia nel suo amore l’umanità come stru-
mento della moralità, egli per primo si pone nella condizione dello stru-
mento, sicché è pronto e interessato a mettersi al servizio degli altri in mo-
do effettivo e concreto, a partire dalla cura del loro benessere fisico,
dell’ordine sociale che li abbraccia, della rettitudine della loro costituzio-
03 Ivaldo 37 22-11-2010 10:51 Pagina 54
54 Marco Ivaldo
ne, della loro libertà, poiché egli è consapevole di come e quanto le condi-
zioni fattuali, materiali, ambientali e giuridiche possano favorire (o impe-
dire) agli uomini di sollevarsi «a ciò che è spirituale e più alto».
Questo amore etico creativo è designato conclusivamente da Fichte co-
me il «sigillo della nostra moralità» (GA II 13, p. 376), cioè come il suo
compimento e insieme come il suo segno di riconoscimento. La concezione
dell’amore etico consente probabilmente più di altri aspetti di percepire e
di apprezzare il cammino che Fichte ha compiuto dal suo primo Sistema di
etica del 1798 nella determinazione dell’atteggiamento morale fondamen-
tale dell’uomo.
Abstract
In his Ethics of the year 1812 Fichte developes a theory of morality as incarnation of
moral values and ethical ideas in a context of communication. The moral idea is “im-
age of God”. Individual identity can be formed only through the interactive process. No
I without the Other. Moral community is the manifestation of the Absolute.The creative
love is seen as the “signet of morality”: this is probably the greatest difference from the
Ethics of the year 1798.
L’identità in questione
1. Identità e universale
TEORIA 2006/1
56 Antonia Pellegrino
di fisionomia unitaria di quella cultura da cui pure era scaturito. Il pari va-
lore attribuibile alle diverse visioni del mondo si traduceva nella difficoltà
di legittimare i contenuti interni di ciascuna di esse. Anche l’interesse ver-
so la molteplicità delle culture e delle loro realizzazioni correva il rischio di
assumere le forme di una ricerca comparativa puramente esteriore, esteti-
camente compiaciuta di se stessa. Da questa diagnosi sull’epoca contempo-
ranea erano scaturiti diversi tentativi di ripensare la possibilità di una di-
mensione ideale, che allo stesso tempo si sottraesse alla contingenza storica
e, rispetto alle molteplici realizzazioni dell’umanità nel corso del tempo, in-
dicasse i criteri di rilevanza per organizzarle e giudicarle. In questo senso
si era mossa ad esempio la filosofia dei valori, ma anche la teologia liberale
protestante. Heidegger ne è ben consapevole, nel momento in cui ripetuta-
mente individua come una delle principali caratteristiche della sua epoca
l’inclinazione alla metafisica (Zug zur Metaphysik)2.
Il primo conflitto mondiale aveva portato all’estremo il senso della crisi
dell’Occidente, particolarmente in Germania, che esce dalla guerra non so-
lo militarmente sconfitta e umiliata nelle sue ambizioni di potenza ma an-
che stravolta nelle istituzioni politiche. Alcuni giovani intellettuali, e tra
questi sicuramente Heidegger e Jaspers, avvertono l’inutilità di insistere
sull’impostazione del problema e sulle soluzioni prospettate negli anni pre-
cedenti. La filosofia, minacciata nella sua identità dal relativismo, non ri-
trova se stessa nella dimensione dell’ideale sottratto al tempo, ed è indiffe-
rente che questo ideale venga interpretato in termini di dover-essere (di va-
lore) o come oggetto specifico della logica trascendentale elaborata dalla fe-
nomenologia husserliana. Il relativismo si fonda sul riconoscimento della
molteplicità, della differenza, dell’individualità specifica, della temporalità.
Non ha senso contrapporgli ancora, ammantata solo esteriormente di nuove
forme, un’universalità già contestata. Il problema che si pone è come evita-
re però che tale riconoscimento si rovesci nel suo contrario, ovvero nell’in-
differenza verso i contenuti del molteplice, nel considerarli equivalenti in
2 Questo avviene in molti corsi universitari, sia precedenti che successivi a Essere e tempo;
la diagnosi sull’epoca contemporanea viene da Heidegger infatti continuamente ripresa ed ap-
profondita, nella piena consapevolezza della difficoltà di fornire soluzioni credibili che riuscis-
sero ad andare oltre la mera enunciazione programmatica. Da questo punto di vista, anche l’ana-
litica esistenziale di Essere e tempo si rivela una risposta insufficiente. Cfr. come esempio alme-
no Phänomenologie des religiösen Lebens (1920/21), GA 60, a cura di M. Jung, T. Regehly, C.
Strube, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, pp. 19-30, tr. it. a cura di G. Gurisatti, Fenomenolo-
gia della vita religiosa, Adelpi, Milano 2003, pp. 52-64; Der deutsche Idealismus (Fichte, Schel-
ling, Hegel) und die philosophische Problemlage der Gegenwart (1929), GA 28, a cura di C. Stru-
be, Klostermann, Frankfurt a. M. 1997, pp. 9-21.
Cosa significa diventare ciò che si è 57
vere a partire dalla vita stessa e dalla sua pienezza, dalla sua storia. La storia, non co-
me critica delle fonti, storiografia, raccolta di materiale, negozio di antichità, o come
realtà empirica dominabile attraverso un’elaborazione concettuale di tipo individualiz-
zante e non altrimenti, bensì come vita che vive con se stessa, come familiarià della
vita con se stessa in tutti i suoi riferimenti, fornisce le esperienze-guida7.
«Dilthey-Jahrbuch», 6, 1989, pp. 235-274, p. 245, tr. it. a cura di V. Vitiello e G. Cammarota,
Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, in «Filosofia e teologia», 3, 1990, pp. 496-532, p.
505 (traduzione modificata): «L’essere della vita, accessibile nell’effettività stessa, è tale da di-
venire visibile e raggiungibile solo attraverso il contromovimento che si oppone alla tendenza
deiettiva della cura. Questo contromovimento, che è proprio dell’inquietudine del vivere che non
smarrisce se stesso, è il modo in cui l’essere autentico della vita, colto nella sua temporalità, si
sviluppa temporalizzandosi. Si designi questo essere autentico, di per sé accessibile nella vita
effettiva, col termine esistenza».
10 Ivi, p. 238, tr. it. cit., pp. 498-499: «L’esserci effettivo [faktisches Dasein] è ciò che è,
sempre e solo in quanto esserci determinato, e non un esserci in generale di una qualche uma-
nità universale per la quale bisogna preoccuparsi unicamente di compiti immaginari. La critica
della storia è sempre solo critica del presente».
Cosa significa diventare ciò che si è 61
me sul mondo del sé (Selbstwelt) quale cardine della vita, lasciavano inten-
dere che con il termine vita si dovesse intendere l’esistenza, Heidegger te-
meva evidentemente che questo potesse far assimilare il suo progetto
all’individualismo e al relativismo che cercava di combattere. Il concetto
di essere gli fornisce la soluzione a questa difficoltà11.
La domanda sull’identità della filosofia si trasforma quindi nella do-
manda sull’identità dell’ente che, solo fra tutti, ha la possibilità di porre la
domanda sull’essere proprio (ovvero sull’essere della vita come vita pro-
pria) e sull’essere di ciò che è difforme da sé. La filosofia diventa analitica
esistenziale e ontologia.
La crisi dell’epoca contemporanea è generata quindi da due ordini di
fattori. In primo luogo, il graduale e inarrestabile emergere delle caratteri-
stiche più proprie dell’esistenza, e soprattutto della sua ineliminabile tem-
poralità. Trova così compimento un processo iniziato con il Cristianesimo,
ma, anche al di là di esso, riportabile a uno dei caratteri fondamentali della
vita, cioè la tendenza a comprendere se stessa, a ritrovarsi infine al di là
dello smarrimento in occupazioni e compiti molteplici aventi come proprio
centro l’ente difforme da sé. Allo stesso tempo, tuttavia, la mancanza di
un’elaborazione concettuale adeguata a tenere il passo con le nuove pro-
spettive apertesi alla comprensione dell’esistenza. Si tratta di una mancan-
za non dovuta a motivi casuali: il pensiero occidentale, sin dalle sue origini
greche, si è rivolto principalmente all’ente intramondano, con il fine di de-
finirlo (di fissarne l’identità) e in questo modo progressivamente di control-
larlo. Da questo squilibrio tra il venire in luce di nuovi problemi e l’impos-
sibilità di inquadrarli tramite la concettualità in uso sorgono tutte le aporie
del pensiero contemporaneo. Via d’uscita è pensare fino in fondo la diffe-
renza fra ente e esistenza (Dasein), ovvero riconoscere il carattere peculia-
re dell’unico ente in grado di porre la domanda sull’essere. E la caratteri-
stica essenziale del Dasein è il non essere determinabile in quanto qualco-
sa, il suo continuo divenire se stesso nella propria esistenza temporale:
L’Esserci non è una semplice presenza che, in più, possiede il requisito di potere
qualcosa, ma, al contrario, è prima di tutto un esser-possibile […]. La possibilità come
esistenziale non significa un poter-essere indeterminato del genere della “libertà di
indifferenza” (libertas indifferentiae). L’Esserci, in quanto emotivamente situato nel
11 Questa oscillazione è evidente soprattutto nei corsi sulla fenomenologia della vita religio-
sa, GA 60, pp. 9-18 e pp. 116-125, tr. it. cit, pp. 41-51 e pp. 158-167; si veda anche GA 58, pp.
61-62, sul Cristianesimo come primo emergere della tematica della vita e della Selbstwelt, e
sull’ellenizzazione del Cristianesimo come momento a partire da cui categorie adatte solo all’in-
terpretazione teoretica dell’essere dell’ente vennero utilizzate per la vita e il mondo del sé.
62 Antonia Pellegrino
suo essere stesso, è già sempre insediato in determinate possibilità e, in quanto è quel
poter essere-che è, ne ha già sempre lasciate perdere alcune; rinuncia incessantemen-
te a possibilità del suo essere, riesce a coglierne talune oppure fallisce. Ciò significa
che l’Esserci è un esser-possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da ci-
ma a fondo12.
Divenire se stesso, divenire ciò che già si è, non vuol dire assoluta li-
bertà di scegliere e di determinarsi. Essa, al contrario, equivarrebbe alla
posizione di un osservatore oggettivo di fronte a possibilità tra di loro equi-
valenti. Pensare come possibile una tale libertà assoluta significa, ancora
una volta, trasferire al Dasein le categorie interpretative adeguate all’ente
intramondano: l’esistenza continuerebbe a essere una forma trascendenta-
le rispetto alla quale le determinazioni singole sarebbero contingenti, le
scelte equivalenti tra di loro. Si ritornerebbe ai problemi connessi con il
relativismo. Comprendere la concretezza dell’esistenza significa invece
prendere atto, senza voler eliminare questo aspetto, del suo muoversi sem-
pre in un ambito di possibilità già date, sulle quali essa non ha potere, che
essa non sceglie, e che non può scegliere di cambiare. Da tali possibilità
ciascuna esistenza concreta è resa quella che è. Nella maggior parte dei
casi, l’esistenza si muove inconsapevolmente all’interno delle proprie pos-
sibilità, non riflette né sul loro carattere né sulla loro provenienza, le assu-
me semplicemente come un dato di fatto, per occuparsi d’altro. Ma l’esi-
stenza ha sempre in sé la possibilità di ripercorrerne genesi e motivazione,
assumendole consapevolmente, e giungendo alla comprensione di sé, che
è cosa completamente diversa dall’autocoscienza:
La decisione, in cui l’Esserci ritorna su se stesso, apre le singole possibilità effetti-
ve di un esistere autentico a partire dall’eredità che essa, in quanto gettata, assume. Il
ritorno deciso all’esser-gettato porta con sé un tramandamento di possibilità ricevute,
benché non necessariamente in quanto ricevute […]. Soltanto l’anticipazione della
morte elimina ogni possibilità casuale e “provvisoria”. Solo l’essere libero per la morte
offre recisamente all’Esserci il proprio fine e installa l’esistenza nella sua finitudine.
La finitudine, una volta afferrata, sottrae l’esistenza alla molteplicità caotica delle pos-
sibilità che si offrono immediatamente (i comodi, le frivolezze e le superficialità) e
porta l’Esserci in cospetto della nudità del suo destino. Con questo termine designamo
lo storicizzarsi originario dell’Esserci quale ha luogo nella decisione autentica, stori-
cizzarsi in cui l’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità eredita-
ta e tuttavia scelta13.
12 Cfr. Sein und Zeit (1927), tr. it. a cura di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano
19762, p. 183.
13 Cfr. Essere e tempo, cit., p. 460.
Cosa significa diventare ciò che si è 63
quanto la verità è [ist]. Ed essa è soltanto in quanto e fin tanto che l’Esserci è. Essere e verità
“sono” cooriginari. Che cosa significhi l’affermazione che l’essere “è”, posto che l’essere debba
esser distinto da ogni ente, può essere discusso concretamente solo se sono stati chiariti il senso
dell’essere e la portata della comprensione dell’essere in generale».
64 Antonia Pellegrino
15 Per questa prima interpretazione, precedente a Essere e tempo, cfr. Prolegomena zur Ge-
schichte des Zeitbegriffs (1925), GA 20, a cura di P. Jaeger, Klostermann, Frankfurt a. M. 1979,
19882 (edizione riveduta), 19943 (edizione riveduta), tr. it. a cura di R. Cristin e A. Marini, Pro-
legomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melangolo, Genova 1991, pp. 143-164.
16 Cfr. M. Heidegger, GA 28 (=Der deutsche Idealismus), p. 21.
Cosa significa diventare ciò che si è 65
17 Ivi, p. 18.
18 Ivi, pp. 16-17: «E tuttavia, nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uo-
mo. Per nessun’altra epoca l’uomo è stato così problematico come lo è per la nostra».
19 Ivi, p. 17.
66 Antonia Pellegrino
In due saggi del 1957, raccolti nel volumetto Identità e differenza, Hei-
degger procede alla decostruzione del principio di identità, interpretato or-
mai come cardine del pensiero metafisico e onto-teo-logico dell’Occidente.
Egli ripercorre la genesi del principio d’identità nella sua forma moderna
e contemporanea rintracciandone le origini nel pensiero greco, e questo
con un duplice scopo; da un lato, esplicitare attraverso quale processo e
quali motivazioni (vitali) esso abbia assunto la sua configurazione più no-
ta; dall’altro, mostrare che la formulazione originaria di tale principio è
tutt’altro che assimilabile alla sua forma ultima. Anzi, nella formulazione
originaria era presente qualcosa che il pensiero successivo ha gradual-
mente dimenticato, e che potrebbe rappresentare l’ambito di un nuovo ini-
zio del pensiero. Il pensiero del nuovo inizio, infatti, sarà il totalmente al-
tro dal primo, ma dovrà rivolgersi a ciò che nell’origine era già, sebbene
posto poi a margine dalla nascente metafisica:
Il principio di identità asserisce qualcosa circa l’identità? No, per lo meno non im-
mediatamente. Piuttosto il principio presuppone già che cosa voglia dire identità e di
che cosa essa faccia parte. Come conseguire informazioni su questa presupposizione?
Ce le fornisce il principio di identità stesso se ascoltiamo con cura la sua nota fonda-
mentale, se lo seguiamo col pensiero anziché limitarci a ridire senza pensare la formu-
la “A è A”. In realtà la formula va letta così: A è A. Che cosa cogliamo ascoltando? In
questo “è” il principio dice il modo in cui l’ente è, ossia: esso stesso con se stesso lo
stesso. Il principio d’identità parla dell’essere dell’ente. Come legge del pensiero il
principio vale solo in quanto è una legge dell’essere, una legge che dice: ad ogni ente
appartiene in quanto tale l’identità, l’unità con se stesso.
Ciò che il principio di identità, colto a partire dalla sua nota fondamentale, asseri-
sce, è esattamente ciò che l’intero pensiero europeo-occidentale pensa, e cioè che
l’unità dell’identità costituisce un tratto fondamentale nell’essere dell’ente20.
20 Cfr. M. Heidegger, Der Satz der Identität, in Identität und Differenz, Neske, Pfullingen
1957, pp. 16-17, tr. it. Il principio di identità, in Identità e differenza, a cura di U.M. Ugazio, in
«aut aut», 187-188, gennaio aprile 1982, pp. 5-6. Traduzione modificata.
Cosa significa diventare ciò che si è 67
giustificante [begründende Einheit]. Così l’essere dell’ente sin dall’inizio è pensato co-
me fondamento che fonda21.
Differenz, cit., p. 55., tr. it. La costituzione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differen-
za, cit., p. 27. Traduzione modificata.
22 Der Satz der Identität, cit., p. 18, tr. it. cit., p. 6. Traduzione modificata.
68 Antonia Pellegrino
Traduzione modificata.
24 Ivi, p. 71, tr. it. cit., p. 36. Traduzione modificata.
Cosa significa diventare ciò che si è 69
guaggio, tr. it. a cura di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 88.
26 Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi,
Abstract
This article analyses Heidegger’s approaches to the problem of identity from the ear-
ly university lecturers of the Twenties until Identity and difference, 1957. First of all,
he was faced with the crisis of identity of Western thought arising from historicism and
relativism: his solution was the rejection of timeless universality in favour of life and its
categories. Gradually, this evolved in a reflection on the identity of the human existence
in its difference from every fixed essence. In a third form, taking place after Being and
Time, identity, now seen as absolute, becomes the main character of metaphysics, origi-
nated from an anthropological drift of the thought. In Identity and difference H. distin-
guishes between a metaphysical and an initial meaning of identity: nevertheless he as-
cribes to the initial identity the same characters previously attributed to the existence: is
that still anthropology, and still metaphysics?
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 71
L’identità in questione
Il primato dell’alterità
e le metamorfosi dell’identità
in Emmanuel Levinas
Francesco Camera
TEORIA 2006/1
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 72
72 Francesco Camera
Come si può constatare da questi brevi accenni, sia per Platone sia per
Hegel la riflessione sull’alterità si accompagna a quella sull’identità, tan-
to che i due concetti sembrano essere strettamente correlati. Questa im-
postazione costituisce lo sfondo delle principali opere filosofiche di Levi-
nas, l’autore che più di altri nella seconda metà del Novecento ha posto al
centro delle sue riflessioni il problema dell’alterità nella molteplicità se-
mantica delle sue possibili manifestazioni3. Già ad una prima lettura nel-
le sue opere principali assistiamo ad una profonda critica dell’impostazio-
ne tradizionale, che arriva a porre l’alterità sganciata dall’essere e indi-
pendente dall’identità. L’alterità non è più pensata come «essere altro»
(Anderssein), come categoria ontologica neutra, ma viene descritta concre-
tamente a partire dallo scenario umano: a partire dall’epifania del visage
d’autrui, che si manifesta «per sé» con autonomi semantemi e contenuti
etici senza il bisogno di ulteriori argomentazioni o giustificazioni. Inoltre,
ad una lettura più approfondita, nelle opere filosofiche levinassiane è
presente anche il tentativo di approfondire e ridisegnare la nozione di
identità; essa può assumere un significato non esclusivamente negativo se
viene sganciata dall’essere e subisce una profonda torsione che la capo-
volge in alterità. Il contributo di Levinas quindi non è limitato ad una
strenua difesa del primato dell’alterità al di fuori da ogni rapporto con
l’identico, ma – in una forma paradossale e provocatoria – coinvolge an-
che la nozione di identità lungo un percorso che non esita a mettere in di-
scussione l’impostazione ontologica del pensiero tradizionale nel suo
complesso e non si limita affatto a fissare entrambi i termini in significati
univoci tra loro contrapposti.
3 Per una definizione concettuale della nozione di alterità rimandiamo allo studio sistema-
tico J. de Finance, A tu per tu con l’altro. Saggio sull’alterità, Pontificia Università Gregoriana,
Roma 2004. Per una visione d’insieme dei differenti approcci a questo tema nella storia della fi-
losofia occidentale è utile la ricostruzione di G. Cicchese, I percorsi dell’altro. Antropologia e sto-
ria, Città Nuova, Roma 1999. Per le discussioni nel contesto del dibattito contemporaneo si veda
P.A. Rovatti (a cura di), Scenari dell’alterità, Bompiani, Milano 2004.
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 73
4 E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’exteriorité, Nijhoff, La Haye 1961, p. 281 [Tota-
lità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 313].
Si veda anche il saggio programmatico «L’Éthique comme philosophie première», in AA.VV.,
Justification de l’éthique, Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1982, pp. 41-51. Nelle
analisi che seguono abbiamo spesso fatto riferimento all’ampia monografia di G. Ferretti, La filo-
sofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1996; inoltre abbiamo te-
nuto presente anche il lavoro di G. Bailhache, Le sujet chez Emmanuel Levinas. Fragilité et
subjectivité, Puf, Paris 1994.
5 Come si afferma in E. Levinas, La pensée juive au jourd’hui (1961), in Id., Difficile liberté.
Essais sur le judaïsme, Albin Michel, Paris 19833, p. 209 [Difficile libertà. Saggi sul giudaismo,
trad. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, p. 199]: «il senso del reale si comprende in fun-
zione dell’etica».
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 74
74 Francesco Camera
6 E. Levinas, L’ontologie est-elle fondamentale? (1951), in Id., Entre nous. Essais sur le
penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991, pp. 13-24; la citazione è a p. 24 [Tra noi. Saggi sul pensa-
re-all’altro, trad. it. di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, pp. 29-40; la citazione è a p. 40].
7 E. Levinas, Éthique et esprit (1952), in Id., Difficile liberté, cit., pp. 15-24; la citazione è a p.
22 [trad. it. cit., pp. 17-25; la citazione è p. 23]: «Il volto non è l’insieme di naso, fronte, occhi,
ecc., è tutto questo, ovviamente, ma assume il senso di volto attraverso la dimensione nuova che
inaugura nella percezione di un essere. Attraverso il volto l’essere non è solo catturato nella sua
forma e offerto alla mano: è aperto, si installa in profondità e, in tale apertura, si presenta in qual-
che modo in persona. Il volto è una modalità irriducibile in cui l’essere può presentarsi nella sua
identità (identité). Le cose non si presentano mai in persona e, in fin dei conti, non hanno identità».
8 Ibidem.
9 E. Levinas, Le moi et la totalité (1954), in Id., Entre nous, cit., pp. 25-52; la citazione è a
p. 48 [trad. it. cit., p. 64].
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 75
10
Ivi, p. 24 [trad. it. cit., p. 25].
11
E. Levinas, Le moi et la totalité, cit., p. 26 [trad. it. cit., p. 38].
12 E. Levinas, Une religion d’adultes (1957), in Id., Difficile liberté, cit., pp. 25-41; la cita-
Singolarità differente da quella degli individui che si sussumono sotto un concetto […]. L’io è
ineffabile perché parlante per eccellenza; perché risponde, responsabile». Viene qui introdotta
la fondamentale determinazione etica della responsabilità.
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 76
76 Francesco Camera
viene a dipendere dalla sua irruzione. Per questa ragione Levinas può af-
fermare che nella ricerca dell’identità autentica «l’altro non pesa mai sul
medesimo» e che solo la presenza del volto può essere detta in senso positi-
vo e primario «identica». «Il volto è l’identità stessa di un essere. Egli vi si
manifesta a partire da se stesso, senza concetto […]. La presenza sensibile,
qui, si desensibilizza, per lasciare apparire direttamente colui che si riferi-
sce unicamente a sé, l’identico [l’identique]»14.
Da queste parole emerge chiaramente come il visage d’autrui, che si
manifesta autonomamente «a partire da se stesso», sia per Levinas il luogo
epifanico che attesta il primato indiscutibile dell’alterità e in cui diventa
possibile conferire un significato positivo all’identico, ripensando entrambi
i termini al di fuori di un orizzonte sostanzialistico o ontologico. Come si
può notare, in questo ripensamento è avvenuto un capovolgimento dell’im-
postazione tradizionale; l’alterità non è più «esser altro» e la vera identità
non ha origine nell’io (nell’interiorità del soggetto alla prima persona sin-
golare), ma nel volto d’altri. Alla descrizione fenomenologica la relazione
intersoggettiva si presenta quindi come uno scenario in cui ciascun io si
trova esposto ad un interlocutore altro che, manifestando se stesso come
alterità, mette radicalmente in discussione l’identità egoistica. In questo
confronto l’io – il moi haïssaible con la sua «cattiva identità» – viene chia-
mato a subire una profonda trasformazione in senso etico. Lo scenario del-
la relazione intersoggettiva permette quindi a Levinas di introdurre il pri-
mato dell’alterità sull’identità, ma al tempo stesso di ripensare anche la
pluralità significante di entrambi i termini e i loro possibili intrecci.
14
Ivi, p. 46 [trad. it. cit., p. 62].
15
E. Levinas, La philosophie et l’idée de l’Infini (1957), in Id., En découvrant l’existence
avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 19823, pp. 165-178 [Scoprire l’esistenza con Husserl e Hei-
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 77
degger, trad. it. di F. Sossi, Cortina, Milano 1998, pp. 189-204]; Transcendance et Hauteur
(1962), in Id., Liberté et commandement, a cura di P. Hayat, Fata Morgana, Montpellier 1994,
pp. 49-100; La trace de l’autre (1963), in Id., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger,
cit., pp. 187-202 [trad. it. cit., pp. 215-233].
16 E. Levinas, Totalité et Infini, cit., p. XVI [trad. it. cit., p. 26]: «L’opposizione all’idea di
totalità ci ha colpito nello Stern der Erlösung di Franz Rosenzweig, troppo spesso presente in
questo libro per poter essere citato». Si veda F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, trad. it.
di G. Bonola, Marietti, Casale Monf. 1985, in particolare l’introduzione programmatica «Sulla
possibilità di conoscere il Tutto», pp. 3-23.
17 E. Levinas, La philosophie et l’idée de l’Infini, cit., p. 166 [trad. it. cit., p. 191].
18 Ivi, p. 167 [trad. it. cit., p. 192].
19 E. Levinas, La trace de l’autre, cit., p. 188 [trad. it. cit., p. 216].
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 78
78 Francesco Camera
Questi passaggi, che aprono un varco oltre l’ontologia dal suo interno, ven-
gono individuati nella definizione platonica del Bene come epekeina tes
ousias, nella concezione aristotelica dell’intelletto agente, nella teoria
dell’uno plotiniano come epekeina nou ed infine nell’«idea dell’Infinito in
noi» teorizzata da Cartesio. Questo sfondo filosofico si intreccia con
l’esperienza dell’esodo propria del popolo ebraico. A questo proposito Le-
vinas contrappone esplicitamente all’avventura di «Ulisse che desidera
soltanto di tornare a casa sua» la storia di Abramo che lascia per sempre
la propria patria per incamminarsi verso una terra che non arriverà a cono-
scere20. Come per il popolo ebraico l’uscita dall’Egitto è avvenuta ad opera
dell’intervento esterno e decisivo di Jhwh, così nel caso della relazione in-
tersoggettiva la rottura dell’identità del medesimo viene provocata dall’in-
contro col visage d’autrui. Il volto d’altri è espressione di una esteriorità
radicale, di una differenza assoluta rispetto all’io ripiegato su di sé che
non può essere contenuta da nessuna tematizzazione concettuale e non
può essere preda di alcuna appropriazione.
Questa ricerca viene esposta in modo organico in Totalité et Infini, se-
guendo la via indicata dai due termini che compaiono nel titolo e che allu-
dono rispettivamente all’identità e all’alterità. Il termine «totalità» rimanda
alla tendenza del pensiero occidentale che racchiuderebbe l’umano nella
sintesi totalizzante (e totalitaria) della conoscenza; il termine «infinito» ri-
manda invece a ciò che opera la rottura della totalità, all’appello che pro-
viene dall’esterno, dal volto dell’altro uomo incontrato nella relazione in-
tersoggettiva. Muovendosi tra questi due poli, Levinas opera una critica ra-
dicale della nozione di identità egoistica, che costituisce la premessa della
nuova concezione della soggettività etica, capace di accogliere l’alterità21.
Nella «Sezione prima» del libro la relazione intersoggettiva viene ana-
lizzata nella sua struttura generale a partire dagli elementi che la compon-
gono. Essa si presenta come una relazione tra il medesimo e l’altro, in cui
si fronteggiano interiorità ed esteriorità, identità e alterità, senza alcuna
20 E. Levinas, Totalité et Infini, cit., p. XV [trad. it. cit., p. 25]. Si veda anche Id., La philo-
sophie et l’idée de l’Infini, cit., p. 191 [trad. it. cit., p. 219]: «al mito di Ulisse che ritorna a Itaca,
noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra
ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza».
21 E. Levinas, Totalité et Infini, cit., p. XIV [trad. it. cit., p. 24], dove si afferma esplicita-
mente che il libro «si presenta come una difesa della soggettività, ma non la coglie a livello della
sua portata puramente egoistica […], ma come fondata nell’idea di infinito. Esso procederà di-
stinguendo tra l’idea di totalità e l’idea di infinito e affermando il primato filosofico dell’idea di
infinito. Racconterà come l’infinito si produce nella relazione del Medesimo con l’Altro».
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 79
coeur, Sé come un altro, trad. it. di D. Jannotta, Jaca Book, Milano 1993, pp. 451 ss. Per un ap-
profondimento del confronto tra i due pensatori rimandiamo a quanto scrive G. Ferretti, Il Bene
al-di-là dell’essere. Temi e problemi levinassiani, ESI, Napoli 2003, pp. 265-290. Anche B. Wal-
denfels, Fenomenologia dell’estraneità, a cura di G. Baptist, Vivarium, Napoli 2002, vede
nell’impostazione levinassiana una problematica contrapposizione tra identità e alterità, che ren-
derebbe difficile parlare di relazione tra l’io e l’altro.
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 80
80 Francesco Camera
parte di altri e che cerca la verità nel segreto della sua anima. Si tratta di
una posizione che rievoca il mito di Gige, «il mito dell’io e dell’interiorità
che esistono non riconosciuti» 26.
Nella «Sezione seconda» dell’opera Levinas si sofferma a descrivere al-
cuni eventi che contribuiscono alla costituzione dell’identità del medesi-
mo. Essa si produce come un’attività psichica basata sul «godimento» che
basta a se stesso senza alcun rinvio ad altro da sé, in un orizzonte senza
volti. «Nel godimento io sono assolutamente per me, egoista senza riferir-
mi ad altri – sono solo senza solitudine, innocentemente egoista e solo […]
assolutamente sordo nei confronti di altri»27. Nella felicità del godimento
l’io è separato da tutto, è assolutizzato nel finito, senza alcun riferimento
all’infinito. Questo processo di identificazione si rafforza mediante il rac-
coglimento dell’io in una dimora o in una casa propria. Quest’ultima è la
condizione dell’interiorità in cui si attua concretamente la separazione dal
mondo pubblico e sociale. Nell’intimità della casa l’io, attraverso il lavoro,
prende possesso delle cose e ne dispone esclusivamente per i suoi bisogni.
L’appropriazione rimanda al luogo privato in cui avviene; è l’abitazione
quindi a rendere possibile il lavoro e la proprietà e a fondare la dimensio-
ne «economica». Per questo Levinas può affermare che «l’esistenza econo-
mica […] dimora nel Medesimo» e «riduce al Medesimo ciò che, in un
primo momento, si offre come altro»28. Anche in questa dimensione ritor-
na il riferimento al mito di Gige per sottolineare la separazione quale tratto
distintivo della «cattiva identità»: «Gige è proprio la condizione dell’uo-
mo, la possibilità dell’ingiustizia e dell’egoismo radicale, la possibilità di
accettare le regole del gioco, ma di barare»29.
L’altro – colui che è «per sé» (kath’auto), che è «separato» nel senso
positivo di esteriore o trascendente – non viene cercato per soddisfare un
«bisogno» proprio dell’io e quindi per consolidare la sua «cattiva iden-
tità». Mentre il bisogno «parte dal soggetto» e tende a colmare un suo vuo-
to, l’altro è il desiderabile che accende un «desiderio infinito» destinato a
rimanere inappagato32. Questo «desiderio infinito» si concretizza nel visa-
30 Ivi, p. 20 s. [trad. it. cit., p. 48]. Si veda anche ivi, pp. 18 ss.; 168 ss.; 268 ss. [trad. it.
cit., pp. 46 ss.; 199 ss.; 300 ss.]. Per i testi cartesiani cfr. R. Descartes, Méditation métaphysi-
ques, in Oeuvres, a cura di Ch. Adam e P. Tannery, Cerf, Paris 1904 ss., t. IX, pp. 27-42 [Medi-
tazioni metafisiche, trad. it. di A. Tilgher, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1992,
vol. 2, pp. 43 ss.]. Per un approfondimento del tema dell’infinito in riferimento alla tradizione fi-
losofica cui Levinas stesso si richiama rimandiamo al saggio di S. Moses, L’idea di infinito in
noi, in «Aut Aut», 1988, n. 228, pp. 43-61.
31 E. Levinas, Totalité et Infini, cit., p. 33 [trad. it. cit., p. 60].
32 Ibidem, in cui viene introdotta la distinzione tra «desiderio» e «bisogno»: «Il Desiderio è
un’aspirazione animata dal desiderabile; nasce a partire dal suo ‘oggetto’, è rivelazione. Invece il
bisogno è un vuoto dell’Anima, parte dal soggetto».
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 82
82 Francesco Camera
33 Ivi, p. 13 [trad. it. cit., p. 41]: «Questa messa in questione della mia spontaneità da parte
della presenza d’Altri (Autrui) si chiama etica». Occorre tenere presente che per Levinas l’etica
precede l’ontologia ed ogni approccio teoretico.
34 Ivi, p. 34 [trad. it. cit., p. 61]. Levinas parla di una «inversion foncière», che mette in di-
84 Francesco Camera
40 Ivi, p. 222 [trad. it. cit., p. 250]: «L’io […] si conferma nella sua singolarità svuotandosi
di questa gravitazione, che continua a svuotarsi e che si conferma, appunto, in quanto incessante
sforzo di svuotarsi». Si tratta di un aspetto che sarà ripreso in Autrement qu’être e poi ripensato
attraverso il termine religioso di «kenosi»: cfr. E. Levinas, Judaisme et kénose (1985), in Id., A
l’heure des nations. Lectures et discours talmudiques, Éditions de Minuit, Paris 1988, pp. 133-
151 [Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici, trad. it. di S. Facioni,
Jaca Book, Milano 2000, pp. 131-149].
41 E. Levinas, Totalité et Infini, cit., p. 223 [trad. it. cit., p. 251].
42 Ivi, p. 224 s. [trad. it. cit., p. 252].
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 85
che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983].
44 Nella «Nota preliminare», che apre il libro, Levinas parla a questo proposito di «identità
divisa». Egli scrive infatti: «Riconoscere nella soggettività un’eccezione che scompagina la con-
giunzione dell’essenza […]; vedere nella sostanzialità del soggetto, nel duro nocciolo dell’“uni-
co” in me, nella mia identità divisa, la sostituzione ad altri; pensare questa abnegazione, prima
di volerla, come un’esposizione senza ringraziamento, al trauma della trascendenza […], ecco le
proposizioni di questo libro che nomina l’al di là dell’essenza» (ivi, p. X [trad. it. cit., p. 2]).
45 Ivi, p. 14 [trad. it. cit., p. 16]. Levinas si richiama in questo contesto alla concezione del-
86 Francesco Camera
tito della coscienza di sé, del rilassamento e del ritrovamento del Medesimo», è una «identità
singolare» che si attua «nella permanenza della perdita di sé» (ivi, p. 136 [trad. it. cit., p. 134]).
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 87
52Si tratta del paragrafo 4 del capitolo IV: ivi, pp. 144-151 [trad. it. cit., pp. 142-149].
53Ivi, p. 142 [trad. it. cit., p. 140].
54 Ivi, p. 143 [trad. it. cit., p. 141].
55 Ivi, p. 146 [trad. it. cit., p. 143]. Il corsivo è nostro. Questo tema troverà la sua prosecu-
zione nelle analisi sul «risveglio» e sulla «vigilanza» dell’io in E. Levinas, De Dieu qui vient a
l’idée, Vrin, Paris 1982, pp. 39 ss.; 186 ss. [Di Dio che viene all’idea, trad. it. di G. Zennaro, Ja-
ca Book, Milano 1983, pp. 46 ss.; 241 s.].
56 Autrement qu’être, cit., p. 146 [trad. it. cit., p. 143].
57 Ivi, p. 147 [trad. it. cit., p. 144].
58 Ivi, p. 148 [trad. it. cit., p. 145].
59 Ivi, p. 131 [trad. it. cit., p. 129].
60 Ivi, p. 142 [trad. it. cit., p. 139 s.]. Si veda anche ivi, p. 133, nota 9 [trad. it. cit., p. 131
s.]: «La singolarità del soggetto non è l’unicità dell’apax. […] Essa è nell’unicità del convocato
[…], è una convocazione a rispondere senza indietreggiare, che convoca il sé come sé». Il tema
dell’unicità del soggetto, già accennato in Totalité et Infini, era già stato anticipato a p. 73 [trad.
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 88
88 Francesco Camera
it. cit., p. 72]: «Unicità significa qui impossibilità di sottrarsi e di farsi sostituire, unicità nella
quale si annoda la ricorrenza stessa dell’io. Unicità non assunta, non sus-sunta, traumatica: ele-
zione nella persecuzione». Questo tema ritorna nel saggio De l’unicité (1986), in Id., Entre nous,
cit., pp. 209-217 [trad. it. cit., pp. 223-231].
61 E. Levinas, Autrement qu’être, cit., p. 145 [trad. it. cit., p. 143]; cfr. anche pp. 180 s. e
185 s. [trad. it. cit., pp. 178 e 182 s.]. Nel tema dell’«eccomi» traspare un esplicito riferimento
al linguaggio religioso: alla teofania di Es 3,6 e alla missione profetica di Is 6,8.
62 Quanto il tema dell’esecuzione del comandamento che precede ogni comprensione sia col-
legato allo sfondo religioso ebraico emerge con chiarezza dalla lettura talmudica intitolata La ten-
tation de la tentation, in Id., Quatre lectures talmudiques, Éditions de Minuit, Paris 1968, pp. 67-
109 [Quattro letture talmudiche, trad. it. di A. Moscato, il melangolo, Genova, 1982, pp. 67-97].
63 Ivi, p. 158 [trad. it. cit., p. 155].
64 Ivi, p. 151 [trad. it. cit., p. 148]. Levinas sottolinea che l’espiazione non è un atto volonta-
rio: «L’io non è un ente ‘capace’ di espiare per altri: l’io è questa espiazione originale – involon-
taria – poiché anteriore all’iniziativa della volontà (anteriore all’origine), come se l’unità e l’uni-
cità dell’io fossero già la presa su di sé della gravità dell’altro» (ibidem).
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 89
stesso «è con questa sostituzione che io sono non ‘un altro’ ma io. […].
L’ipseità è di conseguenza un privilegio o una elezione ingiustificabile che
mi elegge io (moi) e non l’Io. Io unico ed eletto. Elezione per soggezione»65.
È evidente che questa identità per sostituzione disegna una nuova con-
figurazione della singolarità che ricorre ad una terminologia proveniente
dalla tradizione religiosa ebraica. L’io identifica se stesso «a causa di al-
tri» quando nella donazione si trova ad essere insostituibile, a prendere
sulle proprie spalle il peso dell’intero universo. Egli non è «per sé», ma
«per tutti»66. Attraverso la sostituzione, l’identità dell’unico assume ora
un’ampiezza universale e cosmica; essa si trova sottoposta ad un compito
in cui identità e alterità si intrecciano senza confondersi, in un «intrigo»
etico che si profila come testimonianza profetica e messianica67.
sponsabile di tutto. L’unità dell’universo non è ciò che il mio sguardo abbraccia nella sua unità
dell’appercezione, ma ciò che da tutte le parti mi incombe, mi riguarda nei due sensi del termi-
ne: mi accusa ed è affar mio».
67 A questo proposito rimandiamo ai numerosi riferimenti presenti in E. Levinas, Autrement
qu’être, cit., pp. 174-207 [trad. it. cit., pp. 172-203], e alle riflessioni sviluppate nelle letture tal-
mudiche dedicate al tema del messianismo: Textes messianiques (1960/61), in Id., Difficile
liberté, cit., pp. 83-129 [Il messianismo, trad. it. di F. Camera, Morcelliana, Brescia 2002]. Per
un approfondimento ci sia concesso di rinviare al nostro precedente saggio Responsabilità etica e
testimonianza messianica in Emmanuel Levinas, in D. Venturelli (a cura di), Religioni, etica
mondiale, destinazione dell’uomo, il melangolo, Genova 2002, pp. 197-232.
68 P. Ricoeur, op. cit., p. 284.
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 90
90 Francesco Camera
terno del più generale concetto di essere, Levinas rifiuta nettamente questa soluzione. Una via,
che accetta la sfida della posizione levinassiana ma che tenta di pensare l’originaria unità tra i
due termini nella libertà, è stata tratteggiata da C. Ciancio, Riconoscimento dell’altro e alterità
della libertà, in «Giornale di Metafisica», n.s., XXVII (2005), pp. 45-62.
70 A questo proposito rimandiamo ai numerosi riferimenti al tema del sacrificio e della so-
stituzione vicaria presenti in E. Levinas, Autrement qu’être, cit., pp. 148 s.; 180; 185 s.; 190 s.
[trad. it. cit., pp. 145; 178; 182 s.; 187 s.]. Si tratta di elementi che confermano lo sfondo religio-
so o «pre-filosofico», in cui si colloca l’intera meditazione levinassiana sull’alterità.
71 P. Celan, «Lob der Ferne», in Id., Gesammelte Werke, a cura di B. Allemann e S. Rei-
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 91
Abstract
The intention of this paper is to examine the relationship between identity and other-
ness in philosophical work of Emmanuel Levinas. In this work we find the ethical su-
premacy of otherness, which is separated from beeing and from identity. But identity
doesn’t disappear, undergoes a deep ethical change through the paradoxical theses of
substitution and expiation
chert, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 19922, vol. I, p. 33 [Poesie, trad. it. a cura di G. Bevilacqua,
Mondadori, Milano 1998, p. 51]. Il verso «Io sono tu, quando io sono io» è posto da Levinas in
esergo al capitolo IV di Autrement qu’être, cit., p. 125 [trad. it. cit., p. 123].
05 Camera 71 22-11-2010 10:53 Pagina 92
06 Samonà 93 22-11-2010 10:54 Pagina 93
L’identità in questione
Il compito più urgente della filosofia non sembra più riassumibile nella
formula: «pensare l’uno», quanto piuttosto in quella opposta: «pensare
l’altro». Un tale rivolgimento di senso nei confronti di un’antica e autore-
vole tradizione scaturisce dalla denuncia di un gesto negativo, di esclusio-
ne, nascosto nella posizione di un principio stabile e immutabile del pen-
siero. L’istituzione metafisica dell’identico, sottoposta a questo spostamen-
to dell’interrogazione filosofica, lascia trasparire sullo sfondo una violenta
opera di riduzione della diversità, e insieme il moto ad essa contrario di
un’inesauribile resistenza dell’alterità, che assegna un profilo antinomico
alla questione del fondamento.
Tuttavia non sarebbe difficile sostenere che una tale mossa critica non
fa che rinnovare con una diversa tonalità un’antica battaglia sull’essere,
annunciata già da Platone con quella svolta verso il non-essere che, come
egli avverte, potrebbe apparire persino nella forma ostile di un «parrici-
dio» di Parmenide. Già secondo un decisivo argomento di quest’antica di-
sputa, un pensiero che si richiude nell’unità dell’essere occulta una mossa
dialettica di negazione attraverso cui si costituisce nell’identità, e assume
in realtà, sia pure in forma di una fuga dall’apparenza e dall’inganno, un
riferimento alla diversità. La filosofia sembra aver ben presto assunto un
atteggiamento critico nei confronti di simili salti troppo facili e rassicuran-
ti nel possesso della verità. L’identità si deve cercare piuttosto attraverso
la via lunga dell’inclusione della diversità, nella differenza e anzi come
differenza, e in base a ciò perfino come un che di altro dalla physis, da
quest’ultima implicato come proprio necessario riferimento: insomma, co-
me un principio meta-fisico.
In che consiste allora il gesto più radicale che un pensiero dell’alterità,
come quello di Derrida e Levinas, pretende di compiere? Quella che sem-
TEORIA 2006/1
06 Samonà 93 22-11-2010 10:54 Pagina 94
94 Leonardo Samonà
96 Leonardo Samonà
98 Leonardo Samonà
6 J. Derrida, Violence et métaphysique. Essai sur la pensée de E.L. (VM), in Id., L’écriture et
la différence, Seuil, Paris 1967, p. 119 (tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, p. 100). Per una
presentazione complessiva del confronto tra Derrida e Levinas si veda S. Petrosino, L’umanità
dell’umano o dell’essenza della coscienza. Derrida lettore di Levinas, prefazione a J. Derrida, Ad-
dio a Emmanuel Levinas, tr. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998, pp. 9-51. Mi per-
metto di rinviare anche a L. Samonà, Diferencia y alteridad. Después del estructuralismo: Derrida
y Levinas, Akal, Madrid 2005.
06 Samonà 93 22-11-2010 10:54 Pagina 100
rida. Si potrebbe dire che si tratta di una certa ripresa della distinzione ari-
stotelica tra diversità e differenza, che tuttavia (con una decisa lettura di
Hegel quale compimento della filosofia occidentale nel suo insieme) consi-
dera l’ordine metafisico del discorso sin dagli inizi guidato da una strategia
tesa a unificare tutto lo spazio dell’alterità entro l’orizzonte egemonico
dell’identico, e dunque risale verso diversità e alterità ripartendo dal go-
verno metafisico dell’opposizione. L’identità metafisica non è mai senza op-
posizione: essa ha infatti il carattere di un ritorno a sé mediante l’altro.
L’identità metafisica è perciò piuttosto per Derrida il conferimento di un
senso unico all’opposizione attraverso un gesto violento di esclusione, che
assoggetta la diversità entro una forma di opposizione già regolata dal pre-
dominio del suo opposto, mentre estromette l’opposizione a questo predo-
minio. Non si tratta però di rovesciare questa logica. Si tratta piuttosto di
coglierla come la smentita di un’«altra» logica, cioè come un «doppio lega-
me» che accoglie e insieme respinge l’opposizione. Il «doppio legame» è la
logica della decostruzione, che sdoppia la necessità logica, trasformandola
in un’obbligazione senza costrizione, in un legame etico con l’alterità.
Ma questo percorso argomentativo implica il passo più difficile: l’am-
missione di una violenza necessaria nel darsi insieme dello Stesso e
dell’Altro. Ossia l’ammissione di una violenza non imputabile per un verso
soltanto alla rottura di un’unità originaria, che si presume invece immune
dalla violenza, ma per altro verso nemmeno soltanto a una prevaricazione
di quest’unità sull’altro. La violenza va invece già imputata a ciò che si
colloca prima di queste relazioni negative, cioè alla stessa indifferente
coesistenza dello Stesso e dell’Altro, nella loro separatezza. Una tale coe-
sistenza è violentemente estranea alla diversità, è già decisa nel rifiuto di
questa; è lo stesso insorgere della violenza, che a questo livello Derrida
chiama «pre-etica»7, perché si colloca prima della relazione ad altro e de-
finisce proprio l’indifferenza di questo esser «prima». Nella coesistenza
«originaria» è già deciso il destino dell’uno rispetto all’altro. La violenza è
insita nell’indifferenza di ognuno dei due termini rispetto alla sussistenza
dell’altro, nella «dissimmetria» tra i due termini generata dall’indifferen-
za. Ma poiché in quest’ultima ognuno dei due è l’altro dell’altro, la dissim-
metria produce una «strana simmetria», nella quale Derrida circoscrive la
violenza «pre-etica», conferendole la figura paradossale di un diallele: la
violenza è originariamente la cancellazione dell’opposizione, la cancella-
zione violenta della violenza stessa.
7 VM 188 (162).
06 Samonà 93 22-11-2010 10:54 Pagina 101
9 VM 227 (197).
10 VM 224 (194).
06 Samonà 93 22-11-2010 10:54 Pagina 103
15 J. Derrida, Positions, Minuit, Paris 1972, p. 132 (tr. it. a cura di G. Sertoli, Bertani, Vero-
na 1975, p. 127).
06 Samonà 93 22-11-2010 10:54 Pagina 105
16 E. Levinas, Noms propres, Fata Morgana, Montpellier 1976, tr. it. a cura di F. P. Ciglia,
Abstract
Derrida got nearer and nearer to the thought of otherness by deconstructing the
metaphysical supremacy of identity, using a new logic: the logic of the double bind to
opposition which is accepted when it’s subjected by the supremacy of the identity, but
which is refused when it’s opposed to this supremacy. By considering this opposition in
its irreducibility Derrida accepted the attention for the other typical of Levinas’ philoso-
phy; but, in this way, the thought of otherness comes to be linked with violence.
06 Samonà 93 22-11-2010 10:54 Pagina 112
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 113
L’identità in questione
TEORIA 2006/1
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 114
netta impressione che quasi sempre tali parole vengano assunte in manie-
ra ovvia e scontata, come se fosse del tutto chiaro e pacifico che cosa esse
significhino. L’intento del mio lavoro filosofico è in gran parte proprio
quello di contribuire a chiarire queste due nozioni (differenza e negazio-
ne), la loro reciproca relazione e quindi anche la differenza tra di esse.
Per essere più esplicito ed entrare subito nel cuore della questione, di-
rei che mi pare che nel discorso filosofico (come del resto anche in quello
ordinario) valga generalmente un tacito presupposto, precisamente l’assun-
zione che non vi sia differenza che non sia una forma di negazione, e che
quindi ogni differenza sia una negazione, quanto meno nel senso che la
differenza equivale comunque alla negazione della identità dei differenti.
Ritengo che questa identificazione della differenza con la negazione
dell’identità, conferendo un privilegio aprioristico alla negazione, ostacoli
una soluzione soddisfacente dei problemi filosofici, la risposta ai quali esi-
ge che si pensi una nozione di differenza distinta da ogni forma di negazio-
ne (compresa la negazione dell’identità), quella che appunto per ciò io
chiamo pura differenza.
Ancora a livello di battuta preliminare potrei aggiungere che forse uno
dei motivi per i quali Severino dice di non trovare nei miei scritti il signifi-
cato o, se vogliamo, la definizione della pura differenza consiste nel fatto
che anch’egli – come del resto, per quanto mi è dato di vedere, quasi tutti
coloro che ascoltano i miei discorsi – si attende di trovare una definizione
del termine, o una determinazione del suo significato, di tipo negativo, tale
cioè che l’affermazione di una proposizione implichi automaticamente la
negazione di almeno un’altra proposizione (per esempio, e in particolare,
la negazione della sua negazione); è naturale allora che ciò che egli trova
in un discorso come il mio, il quale ha invece cura di distinguere chiara-
mente l’affermazione di una proposizione (p) dalla negazione di qualsiasi
proposizione (compresa la negazione della negazione di p), sia essenzial-
mente diverso da ciò che egli si aspetta, e appaia quindi insoddisfacente o
addirittura privo di senso dal suo punto di vista. Insomma, credo di poter
dire che la comprensione della mia proposta filosofica richiede una rota-
zione dello sguardo, cioè l’apertura di un modo nuovo e poco usuale di ve-
dere la realtà; così che se le mie parole vengono assunte all’interno della
vigente interpretazione ‘negativa’ od ‘oppositiva’, esse finiscono per avere
un significato contraddittorio o per apparire prive di significato. A questo
proposito è significativo l’incipit (p. 3) del discorso di Severino («Tra le
critiche più interessanti ed originali rivolte al mio discorso filosofico
[...]»); perché se il mio discorso viene inteso come una critica nei confronti
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 115
anche dispari (e viceversa). Lo stesso vale per la differenza tra maschio e femmina (un individuo
maschio non può essere femmina, e viceversa), tra bene e male, tra freddo e caldo, tra vero e fal-
so; ma anche tra freddo e non freddo, tra vero e non vero, ecc. In generale si istituisce una diffe-
renza negativa tutte le volte che la differenza implica che vi sia almeno un elemento dell’un ter-
mine, precisamente quello che lo definisce differenziandolo dall’altro, che viene negato rispetto
a quest’ultimo. Per esempio la differenza negativa tra il pari e il dispari consiste nel fatto che il
numero pari possiede un tratto (la divisibilità senza resto per due) che invece viene escluso ri-
spetto al numero dispari. La differenza negativa tra il caldo e il non caldo (il contraddittorio del
caldo) è il fatto che il non caldo (poniamo per esempio il verde) manca di almeno una proprietà
che rende caldo il caldo (poniamo: la capacità di alzare la temperatura di un altro corpo con il
quale entri in contatto); e così via. Come si vede, tale definizione include tanto quelli che tradi-
zionalmente vengono chiamati i contrari (bene/male) quanto quelli che vengono chiamati i con-
traddittori (bene/non bene).
8 Per esempio la relazione di vicinanza istituisce la differenza tra i vicini. Se si volesse dire
che i vicini, per essere differenti, devono essere non identici, si può osservare che in tal modo
viene attribuito, ai differenti, un carattere negativo che è aggiuntivo rispetto a quello della diffe-
renza, e di questa aggiunta bisogna allora rendere ragione. Ovvero si può osservare che l’impli-
cazione necessaria tra la differenza e la negazione presuppone una particolare concezione di dif-
ferenza, quella appunto che la identifica con la negazione dell’identità dei differenti. Qui, inve-
ce, si definisce la differenza tra la differenza (ciò che istituisce le determinazioni) e la differenza
negativa (ciò per cui le determinazioni risultano reciprocamente escludentisi); nel seguito imme-
diato del discorso si mostrerà come l’assunzione della equivalenza delle due figure (differenza e
differenza negativa), ovvero l’identificazione della differenza con la negazione dell’identità, con-
duca a conclusioni contraddittorie.
9 In quanto istituisce le determinazioni, la differenza ne costituisce l’elemento definitorio e
quindi essenziale. Di conseguenza, la differenza negativa costituisce un tratto essenziale dei due
poli opposti che mediante essa vengono istituiti.
10 Si faccia attenzione a quanto segue. O si dice che i termini ‘differenza’ e ‘negazione’ sono
assolutamente sinonimi, ma allora anche la semplice differenza (per esempio) tra l’Essere e l’en-
te, o tra il bianco e la neve, viene ad essere una reciproca negazione dei due differenti, con con-
seguente estensione universale della contraddizione (giacché la semplice attribuzione dell’esse-
re all’ente equivale alla congiunzione di due elementi incompatibili); oppure si riconosce che i
due termini hanno significati diversi, ma allora è chi afferma che vi è un nesso necessario tra la
differenza e la negazione (come è costretto a fare chi afferma che ogni differenza è una negazio-
ne) che ha l’onere di dimostrare la necessità di questo nesso. Ora, a me pare che ogni dimostra-
zione siffatta presupponga il nesso necessario tra differenza e negazione. Ciò vale anche per la
‘tradizionale’ fondazione elenctica dell’opposizione. Questa, infatti, ‘dimostra’ che, se vi fosse
una determinazione differente da quella negativa, essa sarebbe non negativa, e costituirebbe con
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 118
ciò stesso una individuazione proprio di ciò a cui vorrebbe sfuggire. Ma questo tipo di ‘confuta-
zione’ presuppone appunto quella equivalenza tra differenza e negazione che si tratta invece di
giustificare. E se persino la confutazione elenctica (di tipo negativo) fallisce nella giustificazione
di quella proposizione, ci si deve chiedere quale altro tipo di giustificazione filosofica si potreb-
be proporre a suo sostegno. Ma per una trattazione meno sintetica di questo punto devo rimanda-
re agli altri miei scritti indicati nella nota 27.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 119
differenza tra i due è data proprio dal fatto che la parte manca di qualche tratto mentre il Tutto
non manca di alcun tratto; ebbene, anche in questo caso resterebbe fermo che il Tutto manche-
rebbe almeno del tratto di mancare di qualche tratto. Il Tutto mancherebbe almeno del tratto di
non essere il Tutto (di non essere identico al Tutto), tratto che invece la parte possiede.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 120
12 Naturalmente si può tentare di evitare tale contraddizione sopprimendo la figura del Tut-
to. Questa, del resto, è la strada imboccata da gran parte del pensiero contemporaneo, soprattut-
to a seguito dell’antinomia di Russell e degli studi di Gödel e Tarski. Essendo però qui il mio in-
terlocutore principale Severino, posso dare per scontato che tale figura sia filosoficamente es-
senziale. Chi invece richiedesse una ‘giustificazione’ di tale assunzione, può fare riferimento, ol-
tre che agli scritti di Severino, anche al mio libro sopra citato. In questa sede mi limiterò dunque
a una battuta di ispirazione wittgensteiniana. A chi dice che il Tutto non può esistere si deve
chiedere: ‘Che cosa è, esattamente, che non esiste?’. Se egli replica che con ciò si intende solo
dire che la parola ‘Tutto’ non ha significato, gli si può chiedere giustificazione di tale affermazio-
ne. Se poi come giustificazione viene addotta la circostanza che appunto essa comporta contrad-
dizione, allora gli si deve chiedere ragione della inviolabilità del principio di non contraddizio-
ne; a questo punto proprio il tentativo di fondare rigorosamente tale principio pone il problema
della giustificazione elenctica e, attraverso questa, conduce alla contraddizione che caratterizza
la figura del negativo di cui qui di seguito si dice. Per l’approfondimento di questi aspetti mi
permetto di rimandare ai miei scritti citati nella nota n. 27.
13 La realtà in quanto è negativo differisce dalla realtà in quanto è tavolo, sedia ecc. Dun-
que il negativo differisce da tutto ciò che è altro da esso; il negativo resta appunto determinato
mediante tale differenza essenziale.
14 Questo – si badi – vale sia se si intende (‘estensionalmente’, potremmo dire, ma con tutte
le cautele del caso, considerati i ‘presupposti’ della logica formale) il negativo come l’insieme di
tutto ciò che possiede il tratto del negativo, sia se lo si intende (‘intensionalmente’) come ciò che
è tale da rendere negativa qualsiasi cosa lo possegga.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 121
determinata in tutti i suoi aspetti. Si badi però che anche la determinazione più vaga, sfuggente
e confusa risulta comunque completamente (conclusivamente, perfettamente) determinata (ap-
punto come vaga, sfuggente e confusa).
16 Si tratta in particolare, come si ricorderà, da un lato dell’insieme che è costituito dei due
poli opposti, e dall’altro lato della differenza che oppone ciascuno di essi all’altro. Questo punto
può essere chiarito mediante la seguente semplice considerazione. Si consideri la differenza tra
x e y. Se tale differenza è negativa, allora vi è anche una nuova entità (z) differente da entrambi.
Ma se tutte le differenze sono negative, allora anche la differenza tra x e z determina una nuova
entità (z1), come pure la differenza tra y e z (z2); e così via all’infinito.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 123
17 Per esempio, in una scacchiera, una casella bianca è costitutiva (co-istitutiva) della vici-
na casella nera, perché contribuisce a costituire quella (a costituirla come casella nera della
scacchiera); questo però è molto diverso dal dire che la casella bianca è identica a quella nera, e
ancor più diverso dal negare che l’una differisca dall’altra.
18 ‘Puro’, infatti, significa qui ‘distinto da tutto ciò che è negativo’, essendo il negativo – lo
differenza positiva è quella che è definita (in generale) dal fatto di istituire
determinazioni reciprocamente costituentisi, la pura differenza è
quell’aspetto della differenza positiva che distingue (in generale) la deter-
minazione (in quanto) positiva dalla determinazione (in quanto) negativa (e
quindi anche dalla determinazione in quanto non negativa, cioè negativa
nei confronti delle determinazioni/differenze negative).
La pura differenza è dunque quella che istituisce positivamente la deter-
minazione positiva definendola positivamente rispetto alla determinazione
negativa in generale, e quindi anche rispetto a quella particolare forma di
determinazione negativa che è la determinazione non negativa19.
Il compimento coerente del discorso filosofico esige dunque la definizione
positiva della determinazione positiva e della differenza positiva; richiede
cioè che si definisca la realtà mediante una differenza puramente positiva,
ossia mediante la pura differenza.
***
Le nozioni ‘pura determinazione’ e ‘pura differenza’ consentono di parlare
in maniera coerente di ciò di cui invece all’interno di una prospettiva nega-
tiva (quella per la quale non vi è altro tipo di differenza/determinazione
che quella negativa, e quindi ogni differenza/determinazione è negativa) si
parla in maniera contraddittoria.
All’interno dell’ottica che possiamo chiamare puramente positiva, risul-
ta infatti possibile determinare (e quindi pensare) in maniera coerente il
Tutto. Perché la pura differenza, consentendo di pensare la differenza co-
me qualcosa di diverso dalla negazione dell’identità, consente di affermare
che la determinazione del Tutto (intesa sia come determinazione di tutto
sia come determinazione-Tutto, cioè come Tutto-determinato) è diversa dal
Tutto e pur tuttavia coincide con esso. La pura differenza, insomma, con-
sente di pensare la parte come diversa dal Tutto eppure (e pure) come nel-
lo stesso tempo coincidente con esso; ed è appunto questo ciò che consen-
20 Il Tutto potrebbe essere definito come la realtà in quanto completa (compiuta, perfetta);
perché, qualunque aggiunta di parti si realizzi, il Tutto resta identico. Per esempio, se all’Europa
(intesa come il tutto che comprende l’Italia) aggiungo l’Italia, il risultato è ancora lo stesso del
punto di partenza (l’Europa). Infatti l’Europa è identica all’Europa-comprendente-l’Italia, e l’Ita-
lia a sua volta è identica all’Italia-appartenente-all’Europa. Se si intende invece che il darsi
dell’Italia costituisce l’aggiunta di qualcosa che non è già dato con il darsi dell’Europa, è perché
si sottintende un ulteriore punto di vista, per il quale l’Europa non è veramente il Tutto. Se noi
ora pensiamo al Tutto che è davvero il Tutto, ecco che qualsiasi ‘aggiunta’ ad esso lascia immu-
tato il ‘totale’.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 126
21 Possiamo ben dire che T differisce da A perché la parte (A) è definita in maniera diversa
T, in quanto include ogni tratto, include pure A e, con essa, tanto il suo (di A) essere determina-
ta parzialmente (cioè il suo differire da T) quanto il suo (di A) essere (in-quanto-T) determinata
totalmente. Insomma T, in quanto è costituito di ogni entità, è costituito pure della parzialità, e
in questo senso si può dunque dire che pure T è parziale. In tal modo T ed A restano distinti, ma
perché A consiste di una parte del Tutto, mentre T consiste di tutto (compreso A e il suo consi-
stere di una parte di T). Insomma, è la formulazione puramente positiva del Tutto quella che di-
stingue la presente formulazione del rapporto parte/Tutto da quella aporetica presentata sopra,
nella nota n. 11.
22 Se si obietta che in tal modo anche T viene a possedere i caratteri negativi ed escludenti
che caratterizzano N, si deve rispondere che ciò in un certo senso è vero (T, infatti, in quanto è
costituito di ogni tratto, è costituito pure dei tratti negativi ed escludenti di N); ma ciò è diverso
da una contraddizione; perché è in-quanto-N che T è negativo ed escludente, mentre invece in-
quanto-T esso è includente anche N e tutti i suoi tratti, compresi quelli negativi. È appunto la
pura differenza tra l’inclusione totale (T) e l’esclusione (N) ciò che consente di pensare insieme
N e T, e di pensare N come (co-istitutivo di) T.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 128
Severino, pp. 7, 8 e 12), in questa sede basti rispondere che la libertà nei confronti della con-
traddizione è la stessa libertà che sussiste nei confronti del negativo; e tale libertà è semplice-
mente la differenza nei confronti del negativo, la quale è implicita nella stessa determinazione
del negativo, ovvero nella stessa differenza tra il Tutto e il negativo. Così, la ‘libertà’ rispetto alla
contraddizione è già implicita nella contraddizione stessa. Che una realtà sia determinata con-
traddittoriamente significa che la sua determinazione compiuta sta al di là di (è diversa da) ciò
che viene determinato contraddittoriamente. Nel caso del Tutto, dunque, la contraddittorietà
della sua determinazione sta a significare che il Tutto è diverso da ciò che resta determinato
contraddittoriamente come Tutto.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 129
24 Così, per esempio, un’espressione come ‘x non è y’, anche intesa come semplice negazio-
ne della identità dei due differenti x e y, implica in qualche modo che x resti definito come qual-
cosa che manca del tratto che compete a y (e lo stesso vale per y). Questo, si badi, accade anche
se si intende y come ciò che manca di qualcosa ed x come ciò che non manca di nulla. Anche in
questo caso, infatti, x viene a mancare, di contro a y, del fatto di mancare di qualcosa. Anche in
questo caso, dunque, il Tutto inteso come ciò che è completo di tutto va distinto da ciò che non
manca di nulla. Anche in questo caso, insomma, la determinazione del Tutto si distingue dalla
determinazione negativa che resta testimoniata dalla proposizione negativa.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 130
25 Espressioni come ‘x non è y’ (anche intesa come mera negazione dell’identità di x e y) te-
26 A questo giro di problemi allude la proposizione, criticata da Severino (p. 13) che la verità
è la negazione della negazione in generale. Ricordo, brevemente, che l’in-negabile, inteso (alla
lettera) come negazione di ogni negativo, è appunto il negativo; precisamente perché persino la
sua negazione (il non negativo) è negativo (e quindi lo riafferma). Ma proprio attraverso questa
estrema contraddizione per la quale il negativo, essendo l’innegabile, viene ad essere il negativo
del negativo (cioè di se stesso), si manifesta la verità intesa come pura differenza/determinazione.
Da questo punto di vista, dunque, ha pienamente ragione Severino a ricordare che la verità è di-
stinta dalla negazione di ogni negazione; ma questo, a mio avviso, va appunto inteso nel senso
che essa va distinta da ogni negazione, quindi anche dalla negazione della sua negazione.
27 Qui mi limito ad osservare che, per quanto riguarda la libertà (cfr. p. 10), essa va letta
re con maggiore chiarezza pure il colloquio avviato con altri pensatori che
si sono seriamente interessati alla prospettiva filosofica da me suggerita28.
***
Io credo che una rilettura dei temi severiniani svolta a partire dalle con-
siderazioni qui proposte potrebbe favorire lo sviluppo di una reciproca
comprensione e valorizzazione tra il discorso di Severino da una parte e le
più significative istanze del pensiero contemporaneo dall’altra. Mi riferisco,
in particolare, proprio al tema cruciale della relazione tra identità e diffe-
renza; e penso per esempio ad autori come Heidegger, Wittgenstein, Deleu-
ze, Derrida, che peraltro qui devo limitarmi semplicemente a nominare.
Ma poi, nell’epoca della globalizzazione, ritengo che sarebbe utile pen-
sare a una possibile ‘mutua fecondazione’ (espressione che prendo in pre-
stito da Raimon Panikkar) tra il pensiero di Severino e alcuni momenti alti
della sapienza orientale. Penso innanzi tutto alla prospettiva advaita, la
quale a mio avviso può assumere una valenza filosofica particolarmente si-
gnificativa quando venga letta alla luce della verità severiniana pensata
sulla base delle proposte teoriche qui avanzate: la realtà, in quanto distin-
ta da ogni scissione dicotomica (cioè in quanto diversa sia dal due sia
dall’uno), può essere pensata coerentemente, all’interno della relazione
della pura identità/differenza, come ‘tempiterna inter-in-dipendenza’ di
ogni entità (anche qui il riferimento è al pensiero di Raimon Panikkar29).
Ma un discorso analogo vale poi anche per quanto riguarda una possibile
interpretazione del vuoto buddhista (ÊnyatÇ) che lo reinterpreti all inter-
di rimandare, chi fosse interessato, oltre al già citato Differenza e negazione, ai seguenti miei
scritti: il saggio Filosofia ed esistenza oggi. La pratica filosofica tra epistéme e sophía, in R. Mà-
dera - L.V. Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno
Mondadori, Milano 2003, pp. 111-220; il volume Dare ragioni. Un’introduzione logico-filosofica
al problema della razionalità, Cafoscarina, Venezia 2004; il saggio Parmenide (Frammento 2,
verso 3), in A. Petterlini - G. Brianese - G. Goggi, Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino,
Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 581-631; e infine il volume Quattro variazioni sul tema ne-
gativo/positivo. Saggio di composizione filosofica, Ensemble ’900, Treviso 2006, scritti nei quali
è possibile trovare pure altre indicazioni bibliografiche.
28 Penso in particolare agli interventi di Enrica Lisciani Petrini, Adriano Fabris, Francesco
Berto, Vincenzo Vitiello, Massimo Adinolfi e Massimo Donà, ai quali pure devo dare appunta-
mento a una prossima occasione, giacché l’introduzione di contesti teorici e di universi di di-
scorso così diversi tra di loro risulterebbe qui, per limiti di spazio, sostanzialmente liquidatoria
nei confronti di questi autori.
29 Mi riferisco in particolare a R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio-uomo-mondo (a
cura di Milena Carrara Pavan), Jaca Book, Milano 2004; per esempio alle pp. 15, 81, 107, 111,
112, 139.
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 135
Abstract
By answering to a Severino’s critic who objects him that there is no kind of difference
which is not a form of negation, Tarca, in this paper, aims to show the distinction be-
tween difference and negative difference.
30 Mi riferisco a Thich Nhat Hanh, Essere pace (trad. it. Giampaolo Fiorentini), Ubaldini,
Roma 1989; in particolare alle pp. 14-15 [Being Peace, Parallax Press, Berkeley 1987].
07 Tarca 113 22-11-2010 10:55 Pagina 136
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 137
L’identità in questione
1. Introduzione
TEORIA 2006/1
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 138
non può essere a esse ridotto perché tiene conto anche di tutte le differen-
ze che concorrono a configurare in ogni momento dato questo individuo co-
sì e non altrimenti.
Naturalmente non è possibile affrontare questa complessa problematica
in modo sufficientemente adeguato nello spazio qui a disposizione, che in-
tendo usare semplicemente per introdurre alcuni suoi nodi concettuali ar-
ticolando la mia argomentazione in due sezioni. Nella prima, considero il
problema del rapporto fra identità e identificazione sulla scorta del fonda-
mentale e ancora estremamente attuale concetto di «stigma» ampiamente
analizzato più di quarant’anni fa in ambito sociologico da Erving
Goffman1, cui affianco un richiamo al paradigma del «sé dialogico» di re-
cente elaborato in ambito psicologico2, che si colloca fra quelli più ricchi
di spunti di riflessione anche per una radicale riconsiderazione del con-
cetto di identità individuale in ambito filosofico. Nella seconda presento
un caso concreto, quello dell’identità sessuale/di genere, in particolare
delle «persone transgender». In questo particolare caso, l’ambiguità del
concetto di identità si presenta con tutta evidenza nel suo essere un risul-
tato di pratiche di identificazione attualizzate nelle interazioni entro un
contesto dato, che danno luogo a connesse pratiche di discriminazione allo
scopo di tenere sotto controllo il potenziale eversivo della diversità «esibi-
ta» da coloro che rifiutano di fornire a richiesta una definizione statica
della propria «identità».
In uno dei suoi più celebri lavori, Erving Goffman indaga il concetto di
«stigma», un termine usato già dai Greci «per indicare quei segni fisici
che vengono associati agli aspetti insoliti e criticabili della condizione mo-
rale di chi li ha»3, e che può riguardare tre ambiti diversi: quello delle
«deformazioni fisiche», quello degli «aspetti criticabili del carattere» e
quello degli «stigmi tribali della razza, della nazione, della religione»4. Al
di là della specifica ricostruzione goffmaniana delle forme in cui lo stigma
si presenta e delle pratiche specifiche cui dà luogo – pur ricca di numero-
si spunti di riflessione –, sono almeno due gli aspetti generali che risulta-
no di notevole interesse per l’analisi del rapporto fra identità e identifica-
zione: l’aspetto dell’«accertamento» cognitivo dell’identità e quello del
rapporto fra stigma e normalità.
Goffman mette in chiaro fin dalle prime pagine del lavoro che «è la so-
cietà a stabilire quali strumenti debbano essere usati per dividere le per-
sone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considera-
ti ordinari e naturali nel definire l’appartenenza a una di quelle
categorie»5. In altri termini, la società ha fra i suoi compiti quello di forni-
re i criteri orientativi per collocare univocamente gli «altri» individui con
i quali «questo» individuo entra in interazione in un determinato contesto
– e viceversa – in modo che ciascuno di essi possa elaborare una fondata
aspettativa sull’esito delle concrete interazioni nelle quali si trova coinvol-
to. Da tale processo scaturisce anche il concetto di «identità sociale»:
«Quando ci troviamo davanti un estraneo, è probabile che il suo aspetto
immediato ci consenta di stabilire in anticipo a quale categoria appartiene
e quali sono i suoi attributi, qual è, in altri termini la sua “identità socia-
le”»6. In questo contesto, lo stigma gioca un ruolo fondamentale proprio ai
fini del «riconoscimento» o «accertamento cognitivo» dell’identità delle
persone con le quali si entra in interazione e che consiste nell’«atto per-
cettivo di “situare” una persona sia in una particolare identità sociale che
in una specifica identità personale»7.
Infatti, l’individuazione degli attributi «non ordinari e non naturali» che
trasformano una particolare identità in una «identità stigmatizzata» è di
estrema rilevanza per fornire criteri orientativi ai «normali» sui comporta-
menti da tenere e sui giudizi di valore da emettere nei confronti degli
3 E. Goffman, Stigma, cit., p. 11. Fra i lavori più noti e importanti di questo autore si veda-
no almeno E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969; Il ri-
tuale dell’interazione, il Mulino, Bologna 1988; Espressione e identità. Gioco, ruoli, teatralità, il
Mulino, Bologna 2003.
4 Ivi, pp. 14-15.
5 Ivi, p. 12.
6 Ibidem.
7 Ivi, p. 86.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 141
all’altra, ovvero – nel caso non sia possibile una scelta per il tipo di stigma
che si è costretti a portare – per elaborare strategie di sopravvivenza entro
un contesto ostile nel quale egli è comunque obbligato all’interazione con
«altri». Infatti, come ricorda anche Goffman, il presupposto da cui muove
ogni individuo è che «egli abbia la stessa identità sociale degli altri»9 al-
meno finché tale presupposto non si scontri con una diversità che si fa evi-
dente nella concreta situazione interattiva. In quest’ultimo caso, si può af-
fermare che «le informazioni generalmente note riguardo a se stesso costi-
tuiscono la base da cui l’individuo deve muovere quando deve decidere
l’atteggiamento da prendere rispetto al suo stigma» e ciò comporta che
«qualsiasi modifica nel modo in cui l’individuo deve sempre e comunque
presentarsi sarà, proprio per queste ragioni, fatale»10.
Lo stretto rapporto fra identità e identificazione diviene ancora più evi-
dente nel caso della cosiddetta identità personale che Goffman definisce
come «i segni positivi o piastrine di riconoscimento e la combinazione
unica degli elementi della sua vita che viene ad essere attribuita all’indi-
viduo con l’aiuto di questi segni della sua identità». Tale identità viene co-
struita con l’ausilio di un «processo di identificazione personale» che ha
lo scopo di rendere «unico» l’individuo, nonostante ne risulti piuttosto, e
paradossalmente, «un ruolo strutturato, abitudinario, standardizzato,
nell’organizzazione sociale, proprio a causa di questa sua unicità»11. Goff-
man lascia qui da parte un terzo possibile carattere distintivo dell’identità
personale, quello che ha a che fare con «il fulcro del suo essere, un aspet-
to generale e insieme centrale di lui, che lo rende diverso completamente,
e non soltanto dal punto di vista dell’identificazione, da quelli che sono in
gran parte come lui»12. Questa scelta sembra essere piuttosto indicativa.
Infatti, a mio avviso Goffman tralascia questo aspetto sia perché intende
occuparsi dell’identità personale rilevante per la società e non del residuo
irriducibile e incomunicabile proprio dell’individuo in quanto singolo, sia
perché il tentativo di analizzare questo aspetto non rientra fra i compiti
della sociologia, ma semmai in quelli della psicologia e della filosofia. Co-
munque stiano le cose, il punto decisivo è che anche Goffman sembra rite-
nere che l’identità personale rilevante a livello sociale coincida con un
processo di identificazione il cui risultato non è la «scoperta» del vero sé
9 Ivi, p. 64
10 Ivi, p. 65.
11 Ivi, p. 74.
12 Ibidem.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 143
tive Approach to the Problem of Reification, in «Culture & Psychology», 7/3 (2001), pp. 283-296.
19 H.J.M. Hermans, The Dialogical Self, cit., p. 249.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 145
mondo e su me stesso», mentre a sua volta tale prospettiva può essere anche
del tutto immaginaria e non corrispondere affatto alla prospettiva dell’altro
«effettivo», come ha potuto ritenere per esempio George H. Mead20. Ciò che
rende il modello del sé dialogico interessante dal punto di vista di altre
scienze sociali (in particolare della filosofia e della sociologia) sembra esse-
re per l’appunto il suo tentativo di considerare l’individuo in relazione con il
proprio contesto senza sacrificare la sua unicità, e tuttavia intendendo tale
unicità anche come il risultato di continue interazioni, vale a dire scambi
comunicativi, che avvengono tanto con l’interno quanto con l’esterno.
20 Ivi, p. 250. Sulla posizione di G.H. Mead cfr. Mind, self, and society, University of Chica-
go Press, Chicago, IL 1934; e J. Martin, Perspectival Selves in Interaction with Others: Re-reading
G.H. Mead’s Social Psychology, in «Journal for the Theory of Social Behaviour», 35/3 (2005), pp.
231-253.
21 Per una introduzione al concetto e alle forme e modalità del transgenderismo cfr. almeno
R. Ekins e D. King (a cura di), Blending Genders. Social Aspects of Cross-dressing and Sex-chan-
ging, Routledge, London and New York 1996; B. Bullough, V.L. Bullough e J. Elias (a cura di),
Gender Blending, Prometheus Books, Amherst, New York 1997; S. Whittle, The Transgender De-
bate. The Crisis Sourrounding Gender Identities, South Street Press, Reading 2000; P. Califia,
Sex Changes. Transgender Politics, II edn., Cleis Press, San Francisco, CA 2003
22 Sul concetto di identità di genere cfr. E. Ruspini, Le identità di genere, Carocci, Roma
2003.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 146
23 M. Foucault, The Abnormals, in Ethics Subjectivity and Truth. Essential Works of Foucault
1954-1984, vol. I, a cura di P. Rabinow, The New Press, New York 1997, pp. 51-59, qui p. 51.
Sul concetto di «normalità» in ambito sessuale/di genere si veda anche M. Warner, The Trouble
with Normal. Sex, Politics, and the Ethics of Queer Life, Harvard University Press, Cambridge,
MA 2000.
24 C. Chase, Hermaphrodites with Attitude: Mapping the Emergence of Intersex Political Acti-
vism, in R.J. Corber e S. Valocchi (a cura di), Queer Studies. An Interdisciplinary Reader,
Blackwell, Malden, MA e Oxford 2003, pp. 31-46. Dopo aver subito personalmente una serie di
interventi chirurgici intesi a conferirle una «chiara» identità sessuale/di genere, Chase ha fon-
dato nel 1993 la ISNA- Intersex Society of North America. Di particolare interesse, soprattutto
per quanti, pur dichiarandosi sostenitori dei diritti umani, tendono a coglierne la violazione sol-
tanto nelle «culture altre» e non anche «qui da noi», la sua posizione sulla questione della clito-
ridectomia in Africa, le cui «rappresentazioni manifestano tutte una profonda trasformazione in
altro della clitoridectomia africana che contribuisce al silenzio che circonda pratiche mediche
simili nell’occidente industrializzato. Il “loro” taglio dei genitali è un rituale barbarico; il “no-
stro” è scientifico. Il loro sfigura, il nostro normalizza il deviante» (ivi, p. 41). Più in generale,
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 147
sugli «intersessuali» si veda almeno S.J. Kessler, Lessons from the Intersexed, Rutgers University
Press, New Brunswick, NJ and London 2002.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 148
25 L. Feinberg, TransLiberation. Beyond Pink or Blue, Beacon Press, Boston 1998, p. 1. Nel
riportare le affermazioni di Feinberg impiego la forma italiana “maschile”, che va intesa come
“neutra”, nel tentativo di rispettare la preferenza di Feinberg per forme grammaticali «neutrali
rispetto al genere» – che peraltro personalmente condivido.
26 Ivi, p. 6.
27 Ivi, p. 8.
28 E. Goffman, Stigma, cit., p. 17.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 149
29 Ibidem.
30 Su questa nozione, sulla quale sto lavorando da qualche tempo tanto in ambito intracultu-
rale, quanto in ambito interculturale cfr. F. Monceri, The Transculturing Self: A Philosophical
Approach, in «LAIC-Language and Intercultural Communication», 3/2 (2003), pp. 108-114.
31 Si vedano almeno K. Bornstein, Gender Outlaw: On Men, Women and the Rest of Us, Rou-
tledge, New York and London 1994; L. Feinberg, TransLiberation, cit.; J. Nestle, C. Howell e R.
Wilchins, Genderqueer. Voices from beyond the sexual binary. Alyson Books, Los Angeles/New
York 2002; P. Califia, Sex Changes, cit.; R. Wilchins, Queer Theory, Gender Theory. An Instant
Primer, Alyson books, Los Angeles 2004.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 150
mali, e anche fra di loro, alla quale non intendono rinunciare, e che anzi
in molti casi risulta nel tentativo di sovvertire la pratica dell’identità in ge-
nerale attraverso la creazione ed esibizione di identità/identificazioni flui-
de, mutevoli e ibride. Esse possono anche mostrarsi tramite modificazioni
«anormali» del corpo fisico (come nel caso dei «transessuali» che si sotto-
pongono solo parzialmente al trattamento chirurgico32), o tramite l’appro-
priazione di un ruolo sociale non adeguato alla conformazione visibile di
quello stesso corpo (come nel caso dei «cross-dressers»), o tramite l’attua-
lizzazione di pratiche sessuali «perverse» o «aberranti» che «giocano»
con il genere e con tutti gli atteggiamenti o ruoli ad esso assegnati anche
in termini di rapporti di potere (come nel caso del sadomasochismo33).
Questo «superamento dell’identità» sul piano concreto ha peraltro un ri-
svolto in ambito teorico nella Queer Theory – sulla quale non è possibile
qui soffermarsi – che tuttavia non è ancora riuscita a influenzare il pensie-
ro scientifico-sociale più generale anche per il suo carattere frammentario,
che rifiuta di confluire in unico paradigma proprio per difendere la varietà
inesauribile dei «fenomeni identitari» di cui si occupa34.
4. Conclusioni
32 Cfr. fra gli altri S. Whittle, Gender Fucking or Fucking Gender? Current Cultural Contri-
butions to Theories of Gender Blending, in R. Ekins e D. King (a cura di), op. cit., pp. 196-215;
W.O. Bockting, Transgender Coming Out: Implications for the Clinical Management of Gender
Dysphoria, in B. Bullough, V.L. Bullough e J. Elias, op. cit., pp. 48-53.
33 Sui risvolti del sadomasochismo in termini di rovesciamento dell’identità sessuale/di ge-
nere e dei rapporti di potere che essa presuppone si vedano, fra gli altri, P. Califia, Public Sex.
The Culture of Radical Sex. II edn. Cleis Press, San Francisco, CA 2000; M. Foucault, Sex,
Power, and the Politics of Identity, in Ethics Subjectivity and Truth, cit., pp. 163-175.
34 Sul rapporto fra teorie queer e teorie di genere cfr. il recente R. Wilchins, Queer Theory,
cit. Per una introduzione alle teorie queer cfr. J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Sub-
version of Identity, Routledge, New York 1990; J. Butler, Bodies that Matter. On the Discursive
limits of “Sex”, Routledge, New York/ London 1993; A. Jagose, Queer Theory. An Introduction,
New York University Press, New York 1996; W.B. Turner, A Genealogy of Queer Theory, Temple
University Press, Philadelphia 2000; R.J. Corber e S. Valocchi (a cura di), Queer Studies. An In-
terdisciplinary Reader, Blackwell, Malden, MA and Oxford 2003; D.E. Hall, Queer Theories, Pal-
grave Macmillan, Houndsmill, Basingstoke, Hampshire/ New York 2003; N. Sullivan, A Critical
introduction to Queer Theory, Edinburgh University Press, Edinburgh 2003.
08 Monceri 137 22-11-2010 10:56 Pagina 151
Abstract
In this article the author maintains that the notion of identity originates at the inter-
subjective level from identification and self-identification practices, whose actualization
is needed in order for individuals to interact with each other. Therefore, the very term
identity should be considered as misleading in that it always entails a reference to (so-
cial) identification. In the first section, the relationship between identity and identifica-
tion is considered in the light of Erving Goffman’s notion of «stigma». In the second
section, the case of the sexual/gender identity of «transgendered persons» is briefly dis-
cussed in order to show in what sense the overlapping between identity and identifica-
tion is closely related to the social control of individual diversity.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 153
L’identità in questione
1. Introduzione
TEORIA 2006/1
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 154
1.2.1. Il primo e più evidente motivo alla base del movimento degli uo-
mini è l’emancipazione femminista. Anche se molta strada è ancora da
percorrere in questa direzione, tuttavia sono innegabili le conquiste che,
spesso con molta fatica, sono state ottenute dalle donne. Al riguardo si so-
no avute, mi sembra, due fasi, diverse anche cronologicamente. La prima,
che va grosso modo dalla Rivoluzione francese agli anni Sessanta, è quella
della parità, allorché le donne hanno reclamato giustamente gli stessi di-
ritti degli uomini: diritto all’istruzione, di voto, di accesso alle libere pro-
fessioni. La seconda fase, che parte dagli anni Settanta, è quella della dif-
ferenza, allorché le donne hanno reclamato alcuni diritti come propri ed
esclusivi: si pensi a campi quali l’aborto o l’affidamento dei figli in cui i
6 Cfr. www.maschio100x100.com
7 Cfr. www.uomini3000.it
8 Cfr. www.maschiselvatici.it nonché i libri di Claudio Risé, Il maschio selvatico. Ritrovare
la forza dell’istinto rimosso dalle buone maniere, Red, Como 1993; Idem, Maschio amante felice.
Ovvero della bellezza di essere uomini, Frassinelli, Milano 1995; Idem, Il padre l’assente inaccet-
tabile, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003. La bibliografia completa di Risè si trova sul suo sito:
http://www.claudio-rise.it
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 156
diritti delle madri (ad abortire o a ricevere l’affidamento dei figli) preval-
gono senz’altro, secondo la legge e la prassi giuridica, sui diritti dei padri
(a tenere il bambino o ricevere l’affidamento dei figli). Si pensi, poi, alle
«quote femminili», obbligatorie in alcuni paesi nell’ambito del lavoro, se-
condo cui, a prescindere dal merito, una parte dei posti di un determinato
ente pubblico o privato devono essere riservati alle donne. Come si vede,
si tratta di diritti che le donne reclamano non in quanto uguali agli uomini,
ma proprio in quanto donne: zone franche in cui nessun uomo può entrare.
È a questa seconda fase del movimento femminista che si oppongono,
oggi, molti uomini: padri che non accettano le decisioni abortive delle loro
compagne, o desiderosi, magari più delle madri, di prendersi cura dei pro-
pri figli in seguito ad un divorzio; o semplicemente uomini meritevoli,
esclusi da posti di lavoro, a causa delle «quote femminili», soltanto, dun-
que, perché maschi.
Non è però ancora tutto. Perché, al di là dell’ambito puramente politico,
è l’ambito delle proposte culturali a spaventare l’uomo. Anche in questo
caso bisogna distinguere due correnti del femminismo, diverse stavolta
non già cronologicamente ma, piuttosto, geograficamente. Il femminismo
europeo, infatti, quello di Luce Irigaray9, di Carol Gilligan10 e di Luisa
Muraro11, conosciuto anche come «femminismo della differenza sessuale»,
non spaventa tanto gli uomini, dal momento che la differenza, e dunque
l’esistenza di entrambi i sessi, è vista come un valore positivo da difendere
a tutti i costi contro l’appiattimento e l’omologazione indifferenziata dei
sessi (tipico della prima ondata del femminismo). Luisa Muraro, per esem-
pio, in Italia continua a rivolgere agli uomini appelli incoraggianti e per
nulla ostili, affinché gli uomini prendano coscienza dei valori contenuti
nella teoria della differenza sessuale, e comincino di conseguenza un per-
corso di presa di coscienza di se stessi in quanto uomini (non in quanto
neutri universali, come è avvenuto fino ad ora)12.
È invece il femminismo soprattutto americano a spaventare gli uomini.
E difatti è proprio lì che sono nati, come abbiamo visto, i primi movimenti
maschili. Si tratta della originaria corrente emancipazionista divenuta or-
9 L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, tr. it., Feltrinelli, Milano 1985. Per questo, co-
me per i testi che seguono non ho ritenuto necessario citare la prima edizione in lingua origina-
le, non essendo a tema la storia del pensiero femminista.
10 C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr. it., Feltrinelli, Mi-
lano 1987.
11 L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991.
12 L. Muraro, Se il cardinale fosse un mio studente, Il Manifesto, 7 agosto 2004.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 157
mai tanto matura da proporre visioni del mondo e della società affrancate
completamente dagli uomini e dalle sue funzioni.
Fra i tanti che si potrebbero citare, basterà qui far riferimento al testo
di Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi13, in cui l’autrice, riflettendo
sui grandi vantaggi portati alle donne dagli elettrodomestici, ipotizzava un
futuro finalmente libero dal peso degli uomini.
Sulla stessa lunghezza d’onda, per rimanere sempre nell’ambito degli
esempi, si colloca il libro di Arianna Dagnino, Uoma: la fine dei sessi14, in
cui viene preconizzata una nuova era dell’umanità che, con l’aiuto delle
tecnologie, farà a meno degli uomini.
Fondamentale, infine, in questa ottica è poi Manifesto Cyborg di Donna
Haraway15, non a caso biologa di formazione, che ipotizza per il suo cy-
borg post-genere (ma in realtà femminile) forme di riproduzione umana in
cui l’uomo non ha alcuna parte.
Importante è notare che per la Haraway, a differenza che per la Dagni-
no, il processo che porterà al cyborg trans-genere (ma di fatto donna), non
sarà un processo deterministico ma il risultato di una lotta politica delle
donne contro gli uomini: «il cyborg è la nostra ontologia – scrive – ci dà la
nostra politica»16. Insomma, per la Haraway, se siamo già tutti cyborg non
lo siamo ancora del tutto: l’ultimo tratto di strada dovrà essere gestito dalle
donne che, sfruttando le tecnologie, si sbarazzeranno definitivamente degli
uomini.
Bisognerà ritornare, alla fine di questo articolo, sulla proposta della Ha-
raway, perché è quella che meglio di tutte si sforza di pensare il problema
della differenza di genere al passo con la situazione della società contem-
poranea, in cui, volenti o nolenti, siamo tutti dei cyborg.
Per ora, basterà notare come, di fronte a tali proposte culturali, sia com-
prensibile che gli uomini abbiano cominciato a risvegliarsi, a riunirsi, a
fondare movimenti culturali, a scrivere libri e girare film.
Con quali teorie sul genere maschile hanno reagito gli uomini all’eman-
cipazione della donna e alle inquietanti possibilità delle tecnologie ripro-
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 159
menu/perilpadre.htm
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 162
3. Aporie
22 «Nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi e sono stati tutti funzionali
alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, la gente di colore, la natura, i lavoratori, gli
animali: del dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro, col compito di rispecchiare il
sé. Primeggiano tra questi problematici dualismi quelli di sé/altro, mente/corpo, cultura/natura,
maschio/femmina, civilizzato/primitivo, realtà/apparenza, intero/parte, agente/espediente, artefi-
ce/prodotto, attivo/passivo, giusto/sbagliato, verità/illusione, totale/parziale, Dio/uomo. Il Sé è
l’Uno che non è dominato, e le servitù dell’altro glielo confermano, l’altro è colui che possiede il
futuro, e l’esperienza della dominazione glielo conferma, smentendo l’autonomia del sé. Essere
l’Uno significa essere autonomo, essere potente, essere Dio, ma significa anche essere un’illusio-
ne e quindi essere intrecciato all’altro in una dialettica apocalittica. Ma essere l’altro significa
essere multiplo, senza confini precisi, logorato, inconsistente. Uno è troppo poco, ma due sono
troppi» (Haraway, Manifesto cyborg, cit., p. 78)
23 Sciascia sosteneva che la mafia è nata quando un gruppo di uomini ha deciso di mettersi
insieme per esercitare almeno fuori casa quel potere che in casa non era loro dato di esercitare.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 163
24 Cfr. per esempio: V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, pp.
25-27; 60-69. Melchiorre si rifà espressamente anche a E.H. Erikson, Infanzia e società, tr. it.,
Roma 1970 e a A. Zarri, Impazienza di Adamo, ontologia della sessualità, Torino 1964.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 165
tratti del primo e a livello inconscio tratti del secondo): in sintesi un rap-
porto irrisolto con le donne sentite ora come diverse e da odiare, ora come
tanto interne da condividerne le preferenze anche sessuali.
A queste problematiche se ne aggiunge però un’altra, specifica del
«maschio selvatico». Infatti, valorizzando alcune figure mitiche maschili,
come il selvatico, il peloso, il cavaliere, il guerriero, il samurai etc. neces-
sarie nel percorso iniziatico verso la riscoperta della propria virilità, si ri-
schia di vivere in costante ammirazione di figure per l’appunto mitiche,
inimitabili concretamente, rinviando asintoticamente il momento della in-
teriorizzazione della maschilità, quando il vero uomo non sarà più il guer-
riero mitico fuori di me ma, finalmente, il maschio così così che sono io.
C’è insomma qualcosa di adolescenziale, e ancora narcisistico, nel tributo
che alcuni uomini selvatici riservano a mitici eroi del passato: ricordano i
poster dei miti del momento nella stanza degli adolescenti.
25 Semmai potrebbe essere vero proprio il contrario: molti analisti che mitizzano il padre e
odiano nascostamente le altre donne in quanto possedute dalla Grande madre, potrebbero essere
inconsciamente innamorati di un’unica donna, cioè della propria madre.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 169
prio bisogna trovarne una, sarebbe quella del «gentil-uomo», del tutto uo-
mo e del tutto gentile, proprio in quanto uomo. Credo tuttavia che una tale
proposta non verrebbe accettata dai sostenitori del «padre», legati al sel-
vatico come al loro modello originario di uomo, e di conseguenza sospetto-
si nei confronti di tutto quello che ricorda, come il «gentiluomo», le buone
maniere.
Il punto tuttavia non è tanto qui perché, se gentiluomo ha da essere, l’uo-
mo del Terzo Millennio ha da esserlo all’interno della civiltà della tecnica
nella quale vive. In altre parole se sarà gentiluomo, lo sarà solo da cyborg.
4. Cyborg de-genere
sto, altre modalità di riproduzione per i cyborg, che non necessitano dei
maschi).
Tuttavia, il motivo per cui il cyborg mi sembra costituire un vero pro-
blema per l’uomo è più profondo.
Per spiegarlo, torno all’esempio della scala mobile. Immaginiamo che
un giorno la scala mobile si rompa e i nostri cyborg si ritrovino così all’im-
provviso nella necessità di dover scendere le scale a piedi. Si dirà: ci si ri-
troverebbe nella stessa situazione di cento anni fa. E invece no! Qui è la
differenza. I cyborg non sono più abituati a scendere le scale a piedi. È fa-
cile immaginare che non sarebbero pronti, sia fisicamente che psicologica-
mente, ad affrontare un simile imprevisto, o almeno non sarebbero pronti
come lo erano i loro antenati umani cento anni fa.
In altre parole se, come direbbe Gehlen, le scale mobili agevolano, tut-
tavia, nello stesso tempo, esonerano26. Di conseguenza rendono il soggetto,
che ha delegato alle tecnologie le sue capacità, meno capace di affrontare
la difficoltà, l’imprevisto, il rischio, la fatica, il negativo in generale.
L’uomo tecnologico è un umano potenziato e nello stesso tempo protetto
– in genere grazie ad uno schermo (di computer, televisione, display, cine-
ma) – da ogni genere di pericolo. È un uomo «safe». D’altra parte però,
proprio mancandogli l’esperienza del rischio e del negativo, gli manca la
palestra per diventare uomo (o donna).
Immaginiamo che le tecnologie della riproduzione riescano a rendere
del tutto inutile l’apporto del maschio. Che ne sarebbe del suo apparato ri-
produttivo fisico? Probabilmente comincerebbe un lento processo di atro-
fizzazione. E che ne sarebbe di tutte quelle caratteristiche di donazione, di
disposizione al rischio, di forza, di altruismo, attribuite agli uomini proprio
sulla base della sua capacità procreativa paterna? Si dice, infatti, che al-
cune virtù tipicamente maschili, come quelle appena menzionate, sono
conseguenza simbolica della capacità dell’uomo di donare il proprio seme
alla donna. Credo che sia vero: anche l’uomo, come la donna, ha plasmato
il suo carattere nei secoli a partire da alcune sue esperienze fisiche fonda-
mentali, come la caccia, la donazione dello sperma etc. Ora però, se le
tecnologie rendono quelle attività primordiali obsolete, che ne sarà delle
virtù corrispondenti? Anche queste diverrebbero presto cose di altri tempi.
Con ciò però si sarebbe detto addio anche a molti atteggiamenti e virtù ti-
picamente maschili.
Il caso dell’esclusione del maschio dal processo riproduttivo della spe-
26 Cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, tr. it., Sucargo, Milano 1984.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 171
cie umana è solo un esempio di una situazione generale in cui non avreb-
be più senso parlare di «uomini». L’analisi di una espressione del linguag-
gio ordinario viene qui in soccorso. Quando parliamo ancora oggi di «gran-
di uomini»? A che cosa viene associata questa espressione se non a straor-
dinarie capacità di affrontare pericoli, rischi, difficoltà e, in generale, il
negativo della vita? E se tale capacità fossero divenute obsolete a motivo
delle agevolazioni tecnologiche, che ne sarebbe dei grandi uomini?
Il cyborg interconnesso in rete e con-fuso con la tecnologia, a cui ha de-
legato tutta una serie di compiti, non potrebbe essere se non un bambino
immaturo, ché la maturità ha a che fare, secondo modalità diverse nella
donna e nell’uomo, con la capacità di affrontare il negativo e apprendere
dall’esperienza di esso, secondo l’insegnamento, tra gli altri, di Gadamer27.
Parole come «grandi uomini», «coraggio», «forza», «donazione», che
insieme costituiscono ancora oggi quello che l’immaginario associa alla
parola «uomo», rischiano di non aver più senso nell’epoca dei cyborg al-
meno per due motivi: anzitutto perché la tecnologia tenderà a sostituirsi
agli uomini in tutta una serie di funzioni; in secondo luogo, e più in
profondità, perché, proprio a causa delle deleghe alle tecnologie, stavolta
concepite in senso generale, gli uomini, come eterni bambini, non avranno
maturato alcuna capacità di affrontare, con coraggio, forza, donazione,
amore del rischio, gentilezza, e altre qualità simili, il negativo della vita28.
to può produrre, in chi possiede esperienza, un’esperienza nuova (…). L’esperienza è sempre an-
zitutto esperienza della nullità: in essa ci si accorge che le cose non sono come credevamo (…)
Non significa solo esperienza nel senso di informazione che si possiede su questa o quella cosa
(…). Per quanto possa costituire uno specifico obiettivo della preoccupazione educativa, per
esempio dei genitori verso i figli, quello di risparmiare a qualcuno determinate esperienze,
l’esperienza come tale nel suo insieme non è qualcosa a cui qualcuno possa sottrarsi. In questo
senso, essa comporta necessariamente una molteplicità di delusioni e solo attraverso questa può
essere acquistata. Che esperienza in questo senso indichi prevalentemente qualcosa di doloroso
e di spiacevole non è indizio di una colorazione pessimistica del termine, ma è legato immedia-
tamente alla sua stessa essenza. Già Bacone aveva insegnato che solo attraverso le istanze nega-
tive si perviene a una nuova esperienza. Ogni esperienza degna di questo nome viene a turbare
una certa aspettativa. Sicché l’essere storico dell’uomo contiene come suo momento essenziale
una fondamentale negatività, che viene in luce nel rapporto che si stabilisce tra esperienza e
giudiziosità (…). Se si vuol citare un testo significativo per questo terzo momento costitutivo
dell’esperienza che qui intendiamo evidenziare, esso andrà cercato senz’altro in Eschilo. Egli ha
trovato, o meglio riconosciuto nel suo senso metafisico, la formula che esprime l’intima storicità
dell’esperienza: imparare attraverso la sofferenza (patei matos)» (H.G. Gadamer, Verità e metodo,
tr. ti. Milano, Bompiani 1994, p. 409).
28 Non voglio sostenere qui che la tecnologia eliminerà il negativo. Sarebbe una visione ot-
tocentesca che ha ricevuto abbondanti smentite. Basti far riferimento alla nemesi di cui parla
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 172
5. Un-cyborg-per-genere
Rimango sull’esempio della scala e do la parola a Ivan Illich: «Vi parlo
nella speranza di rendere plausibile quella che io chiamo àskesis. Intendo
con questa parola oggi l’evitare deliberatamente il consumo quando esso
prende il posto dell’azione conviviale. È l’àskesis e non il pensiero della
salute a farmi salire a piedi le scale nonostante la porta spalancata
dell’ascensore, a farmi mandare un biglietto scritto a mano invece di batte-
re una e-mail»29. Salire le scale a piedi, nonostante l’ascensore o le scale
mobili: ecco una piccola pratica di resistenza, di àskesis, da parte di uo-
mini e donne contro l’omologazione del neutro tecnologico.
D’altra parte lo sostiene la stessa Haraway, come abbiamo visto all’ini-
zio di questo saggio: il cyborg non è solo un’ontologia, è anche una politi-
ca! Se esiste dunque, ancora, la possibilità di negoziare la nostra transizio-
ne verso il cyborg, allora non vedo perché si debba negoziare al modo del-
la Haraway.
D’altra parte mi sembra ci sia qualche elemento per dire che si tratta di
una negoziazione che rischia di essere già vecchia, nonostante l’apparente
novità. Provo a spiegare questo concetto, ricorrendo alla teoria della com-
pensazione di Odo Marquard30.
Secondo il filosofo tedesco, la storia funziona in base alla legge di com-
pensazione. Così, per esempio, se una tendenza storica va verso la costru-
zione di oggetti artificiali, nascerà, per compensazione, una tendenza op-
posta che rivaluta come mai prima gli oggetti naturali. Il contrasto tra le
due tendenze finirà poi – necessariamente secondo Marquard – nel mo-
mento in cui esse si fonderanno in un’unica nuova tendenza che costruirà
oggetti artificiali con materiali naturali. Non è esattamente quello che av-
viene di fronte ai nostri occhi?
Ivan Illich in tutte le sue opere. È sotto gli occhi di tutti che le tecnologie producono una serie di
effetti collaterali, divenuti ormai superiori rispetto al progresso che promettono. Tuttavia, uno
degli effetti collaterali più vistosi è proprio, come rileva acutamente lo stesso Illich, la incapa-
cità di affrontare in prima persona la sofferenza e la morte, l’abdicazione ad ogni arte di vivere e
di morire. La nostra società, scrive Illich, «rende oggi difficilissimo ammettere che la capacità di
soffrire può essere un segno di buona salute» (I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della sa-
lute, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 167. «La pazienza, la sopportazione, il coraggio,
la rassegnazione, l’autocontrollo, la perseveranza, la mansuetudine esprimono ciascuna una di-
versa sfumatura delle risposte con le quali le sensazioni dolorose venivano accettate, trasformate
nell’esperienza del soffrire e sopportare» (Ibi, p. 148).
29 Illich, Nemesi, cit. p. 303.
30 Cfr. O. Marquard, Abschied vom Prinzipiellen, Reclam, Stuttgart 1981; Idem, Apologie des
Zufälligen, Reclam, Stuttgart 1986; Philosophie des Stattdessen, Reclam, Stuttgart 2000.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 173
Se ora applichiamo lo stesso discorso al caso del rapporto tra nuove tec-
nologie e problema del genere, ci renderemo facilmente conto di come ri-
schi di essere già superata la tesi di Donna Haraway. Infatti, la tendenza
delle nuove tecnologie (dagli elettrodomestici alle gru, dalle nuove tecno-
logie di riproduzione artificiale alla chirurgia plastica) a superare la diffe-
renza di genere, ha prodotto, per compensazione, una contro-tendenza alla
difesa della «naturalità» della differenza tra uomo e donne – tendenza di
solito (ma non sempre) molto conservatrice e anti-tecnologica. Non è, a
questo punto, facilmente ipotizzabile la nascita del terzo momento, quello
in cui le tecnologie saranno pensate e costruite non più contro ma a favore
della differenza corporea e di genere tra donne e uomini?
Sta già avvenendo così a proposito dell’ambiente. Si pensi ai pc portatili
wireless che permettono di mandare mail a tutto il mondo seduti su un
prato in montagna. Si pensi alla diffusione delle automobili catalitiche o
elettriche, tecnologie non più contro ma per l’ambiente.
Ora, se avviene così già nei rapporti tra le tecnologie e l’ambiente, per-
ché non immaginare un processo analogo anche a proposito della differen-
za tra donne e uomini? L’esempio dell’enorme diffusione dell’ecografia,
cioè di una tecnologia a servizio della maternità – e non sostitutiva di essa
– è solo uno dei tanti segni che si potrebbero indicare della tendenza che
sto cercando di descrivere.
A differenza però di quanto riteneva Marquard, e in accordo con la tesi
anti-determinista di Donna Haraway, credo che tale tendenza non sia una
necessità ineluttabile, ma solo una possibilità che si nutre della volontà di
tutte le donne e gli uomini. Un cyborg che non si sostituisca ma che sia al
servizio di donne e uomini è, cioè, anche un compito politico. È vero dun-
que, come scrive la Haraway che «il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la
nostra politica». Solo che la «nostra politica», quella delle donne e degli
uomini che amano la differenza, combatterà contro un cyborg de-genere,
cioè un unico neutro cyborg, degenerazione patologica della differenza di
generi. Al contrario combatterà a favore di un cyborg per genere, intenden-
do con questa formula sia la necessità di pensare ad un cyborg per genere,
cioè a due cyborg sia, al tempo stesso, la necessità di progettare due cy-
borg non al posto di ma a servizio di – per – donne e uomini. La nostra po-
litica non permetterà alla tecnologia di invadere i nostri corpi, di impos-
sessarsi della differenza di genere e di eliminare gli uomini e le donne.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 174
Abstract
In the last years many associations and movements in defense of men’s rights and
men’s culture are rising in the world. This paper aims to analyse the causes of this phe-
nomenon and the theories which lie beneath it. But a real analysis of these theories
could not be developed without studing the influence of new technologies in the relation-
ship between genders. For the paper includes a discussion of the concept of “cyborg” in
relation with gender’s problems.
09 Ventimiglia 153 22-11-2010 10:57 Pagina 175
TEORIA
XXVI/2006/1
L’identità
a questione dell’identità e il rapporto di questo concetto con
quello correlato di ‘alterità’ sono problemi ormai impostisi
nell’odierno dibattito socio-culturale. Bisogna però pensar-
li, al tempo stesso, da un punto di vista propriamente filosofico. È
questo che si propone il presente fascicolo di «Teoria», la rivista
fondata da Vittorio Sainati che inaugura qui la sua terza serie.
In questo numero non mancano contributi che si riferiscono ad au-
tori classici e contemporanei del pensiero occidentale (da Aristotele
in questione
a Cusano, da Fichte a Heidegger, da Levinas a Derrida, fino a Se- Prospettive filosofiche
L’identità in questione
verino). Ma, insieme, si trovano scritti che affrontano la differenza
di genere, l’ambito transgender e i problemi dell’identità maschile.
Il tutto per offrire un’introduzione complessiva e una mappatura
adeguata dei diversi modi in cui si può parlare, oggi, di identità.
TEORIA
Scritti di: Adriano Fabris, Mauro Mariani, Francesco Tomatis, Rivista di filosofia
Marco Ivaldo, Antonia Pellegrino, Francesco Camera, fondata da Vittorio Sainati
Leonardo Samonà, Luigi Vero Tarca, XXVI/2006/1 (Terza serie I/1)
Flavia Monceri, Giovanni Ventimiglia
€ 18,00
ISBN 88-467-1577-2