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DETTI - INTERPRETAZIONI DEL 900 ( mediazione didattica)

Periodizzare il Novecento significa identificare in questo periodo una fase storica dotata di una sua specificit.
Come ha osservato Scipione Guarracino nel suo Il Novecento e le sue storie , il nostro secolo ha cambiato volto
continuamente: si era annunciato come compimento del secolo delle nazionalit, ma la grande guerra ne fece il tempo
della rivoluzione. Negli anni '30 apparve come l'epoca del comunismo e del fascismo, ma presto divenne il secolo dei
conflitti mondiali e dello sterminio di massa. Dopo gli anni '50 vest i panni di un'et della decolonizzazione, dello
sviluppo illimitato, del confronto fra capitalismo e comunismo, e infine dagli anni '70 ha mutato ancora sembianze.
Un nodo cruciale della gran parte delle interpretazioni comunque costituito dal valore di spartiacque della grande
guerra, che rinvia all'immagine pi fortunata e consolidata del Novecento: quella che lo vuole secolo del fascismo e del
comunismo.
Non sempre, peraltro, gli studi che pi hanno contribuito a fare della grande guerra la levatrice del Novecento hanno
assunto esplicitamente il nesso che la lega alla nascita del fascismo e del comunismo come pernio di una proposta
interpretativa di carattere generale. Alcuni studiosi hanno insistito sul nesso tecnologia guerra di massa istituitosi nel
1914-1918, indagando le profonde trasformazioni delle mentalit individuali e collettive prodotte dal conflitto, mostrando
come fosse il binomio tecnologia-distruzione a introdurre la gente comune alla societ massificata del Novecento.
Allo storico Hobsbawm si deve lidea di secolo breve che si apre con la Grande Guerra per chiudersi nel 1989-91.

Secondo Maier, la crisi economica degli anni '70-80 ha posto fine a una fase di sviluppo iniziata non nel 1914, ma alla
met dell'Ottocento. I suoi caratteri originali sono un ordine industriale fordista fondato sull'acciaio e la chimica e sul
movimento fisico di persone e merci e una organizzazione territoriale dell'umanit centrata sullo Stato-nazione: Lo
spazio politico - scrive Maier - venne riorganizzato in modo decisivo nei decenni successivi al 1850 (o 1860). I territori
nazionali vennero considerati ambiti spaziali che potevano essere dominati fisicamente tramite la ferrovia e i trasporti. Le
strutture di governo divennero pi centralizzate [...]. Una nuova consapevolezza dello spazio circoscritto, una
preoccupazione di stabilire linee di confine, di demarcazione tra chi era dentro e chi fuori, tra pubblico e privato,
trasform la coscienza sociale. Questa fondamentale ristrutturazione dello spazio non sub sostanziali mutamenti nella
prima met del Novecento, anche se il primato della territorialit affermatosi nei cinquant'anni precedenti ebbe una prima
crisi con le rivalit nazionali e imperiali culminate nella grande guerra, entrando poi in contraddizione, tra i due conflitti
mondiali, con la dimensione transnazionale acquista dalle forze economiche e finanziarie. Visti con gli occhi di oggi, gli
aspri conflitti ideologici di questi decenni, il fascismo e il comunismo, non hanno lasciato a giudizio di Maier segni
profondi: il tratto pi significativo della sua epoca lunga invece costituito dalla territorialit in quanto principio di
organizzazione politico-sociale ed economica. Ed stata appunto la sua dissoluzione a sancire la fine di tale epoca
quando la crisi degli anni settanta e ottanta, unita a una nuova tecnologia di trasformazione, ha annullato le
premesse territoriali dell'organizzazione politica ed economica. Agenti di tale mutamento sono stati la cosiddetta
globalizzazione, ovvero l'internazionalizzazione delle grandi corporations e la dislocazione delle fabbriche lontano dai
centri direzionali delle imprese, nonch lo sviluppo di una comunicazione non gerarchica su Internet e di un'economia
centrata non pi tanto sui metalli e sugli altiforni, sulla produzione in serie e sul movimento fisico dei beni, quanto sulla
trasmissione di dati.
Lo storico Leonardo Paggi, da canto suo, ha visto nel Novecento un secolo spezzato e tuttora aperto, individuando
una rottura epocale nel 1945. Secondo Paggi occorre abbandonare il 1914 come punto di partenza della narrazione e
pensare unitariamente il periodo 1870-1945, perch i problemi di cui siamo contemporanei non nascono nel 1914, ma
all'indomani della seconda guerra mondiale . Se per altri aspetti proposte interpretative come queste mi appaiono molto
feconde , dal punto di vista della periodizzazione continuo insomma a ritenere pi pertinente la proposta avanzata da
Hobsbawm in The Age of Revolutions, sviluppata dallo stesso autore con la nozione di un lungo Ottocento disteso tra
la duplice rivoluzione e il 1914 e prolungata infine con una lettura del Novecento come secolo breve .
Ci, a maggior ragione, quanto la forte sottolineatura degli aspetti ideologico-politici della storia del XX secolo,
indubbiamente presente nel libro dello storico inglese, risulta molto ridimensionata da una rilettura unitaria della sua
opera che faccia de Il secolo breve lepilogo della precedente trilogia costituita da Le rivoluzioni inglesi, Il trionfo della
borghesia e Let degli imperi. In questottica mi sembrato opportuno proporre una riformulazione della tesi di Maier
basata sulipotesi che i due secoli compresi fra la rivoluzione industriale inglese e la crisi economica degli anni 79-90
del Novecento, costituiscano un periodo storico sostanzialmente omogeneo. Se allora il lavoro, dopo essere stato
decentrato per secoli a domicilio, venne accentrato nella fabbrica, oggi esso torna ad essere privo di un luogo fisico ben
definito. Se allora i lavoratori dovettero rinunciare a stabilire il proprio orario per assoggettarsi alla disciplina imposta
dalle macchine, oggi gli orari tornano ad essere flessibili. Se la divisione del lavoro fu un aspetto decisivo del nuovo
modo di produzione capitalistico, oggi essa si riduce e diviene meno rigida. Se lo sviluppo economico portato
dall'industrializzazione si fond sulla produzione e sulla commercializzazione di massa di beni materiali, oggi l'economia
poggia in misura crescente su scambi finanziari ai quali non corrisponde uno scambio di merci e la specializzazione del
lavoro pu essere indipendente dal suo contenuto. La figura dell'operaio specializzato che organizza la produzione e
controlla il mercato del lavoro appartiene alle prime fasi dell'industrializzazione e l'immagine di un proletariato composto
da persone che facevano l'operaio per tutta la vita stata smentita, per il Novecento, dagli studi pi recenti. Ci
nonostante un'innovazione tecnologica cos rapida da indurre una perdita di attaccamento e memoria perch abbrevia
drasticamente il tempo di lavoro e provoca una mobilit discendente con l'avanzare dell'et anch'essa segno di una
profonda trasformazione. Si aggiunga che da anni i tassi di sviluppo economico pi sostenuti non sono pi quelli della
Germania o degli Stati Uniti e neppure del Giappone, ma si trovano in Indonesia, in Thailandia, in Malesia, nel Vietnam,
nelle Filippine, in Cina e in India. un dato che fa riflettere perch non riguarda pi soltanto le cosiddette quattro tigri
asiatiche: Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore hanno un numero limitato di abitanti e il loro peso
nell'economia mondiale relativo. Prodotti da paesi come la Cina e l'India, che detengono una fetta molto consistente
della popolazione del pianeta, gli stessi tassi di sviluppo segnalano fenomeni macroscopici e di portata sconvolgente.
Sembra proprio che dall'Occidente europeo e nordamericano, dove l'aveva collocato l'industrializzazione, il baricentro
dello sviluppo si stia spostando in Asia. N si tratta soltanto di fenomeni economici, per quanto decisivo possa essere il
loro peso. Il nesso su cui si fondato il modello occidentale di sviluppo degli ultimi 200 anni quello tra estensione dei
consumi e democratizzazione. Molto spesso, invece, i paesi asiatici in via di espansione sono retti da regimi autoritari.
C allora d domandarsi se il binomio sviluppo economico autoritarismo diffuso nelle aree trainanti del continente
asiatico, non configuri anche sul piano culturale un modello alternativo a quello occidentale, basato sullorganizzazione
giuridica dello Stato e sulla universalit dei diritti. Le tensioni sociali e politiche che attraversano questi paesi, assieme
alle loro ricorrenti crisi finanziarie, non consentono di dare a tale quesito una risposta affermativa, ma il problema
aperto. Tra i molti argomenti che potrebbero essere addotti a sostegno di questa tesi l'unico che vorrei ancora richiamare
quello del cosiddetto sviluppo compatibile. Dato che tra i suoi fattori indubbiamente centrale l'erosione delle risorse
minerali non reintegrabili che furono alla base dell'industrializzazione, non azzardato pensare che ci troviamo, anche
da questo punto di vista, a un tornante cruciale: il modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento illimitato delle risorse e
dell'ambiente non entrato in crisi soltanto nella coscienza di un numero crescente di persone, ma per ragioni oggettive
e dovr cedere il passo ad altri modelli perch ad essere in discussione la stessa sopravvivenza del genere umano. Se
infine collochiamo questi fenomeni sullo sfondo pi generale della globalizzazione e della rivoluzione telematica,
possiamo ben trarne l'impressione che il periodo in cui stiamo vivendo possa risultare un momento di svolta epocale di
rilievo molto maggiore che non la fine del Novecento.

Tuttavia , qualche storico ha sottolineato come la globalizzazione tenda ad azzerare tutte le forme (culturali, politiche,
istituzionali e sociali, e tra queste segnatamente lo Stato-nazione) che si sono definite nel corso dell'Ottocento e che
ancora nel Novecento hanno permesso di governare il mondo. Si sarebbe cos compiuta, nella fase che stiamo vivendo,
una lunga fase di transizione all'et contemporanea. A conclusioni non dissimili era gi approdato uno stimolante libro
del sociologo Giovanni Arrighi, apparso nel 1994 contemporaneamente a Il secolo breve. La coincidenza singolare
perch i due testi si presentano come diametralmente opposti: The Short Twentieth Century il sottotitolo dell'edizione
inglese dell'opera di Hobsbawm, The Long Twentieth Century si intitola il saggio di Arrighi .
Il regime statunitense del lungo XX secolo entrato per Arrighi nella sua terza fase con la crisi economica degli anni
'70-90, come indica la prevalenza, in questa fase, delle intermediazioni e delle speculazioni finanziarie sugli investimenti.
Un'altra spia della crisi dell'egemonia statunitense inoltre costituita da un fondamentale mutamento spaziale,
determinato dalla spettacolare ascesa di un arcipelago produttivo e finanziario nell'Asia orientale e sudorientale. Il suo
pernio il Giappone, intorno al quale stanno le cosiddette quattro tigri e gli altri paesi pi popolosi dell'area, uniti da un
sistema flessibile di subappalti su pi livelli fondato sui bassi costi di una sterminata riserva di manodopera. Questo
sistema asiatico detiene ormai il quasi monopolio della liquidit mondiale: nel 1989 il Giappone era il maggiore
investitore all'estero con 44,1 miliardi di dollari contro i 31,7 degli Stati Uniti. Alla potenza economico-finanziaria della
costellazione asiatica non corrisponde tuttavia una potenza statale e militare: il quasi monopolio della violenza legittima
nelle mani degli Stati Uniti, che usano il Fondo monetario internazionale come ministero del tesoro mondiale e le Nazioni
unite come ministero di polizia mondiale, mentre dal punto di vista militare il Giappone ancora una sorta di protettorato
americano. Come si risolveranno le tensioni di questo periodo della storia dell'umanit impossibile dire perch la terza
fase del lungo XX secolo tuttora in divenire.
A conclusione del suo lavoro, chiedendosi quale esito avr l'emancipazione del regime di accumulazione dell'Asia
orientale dal vecchio regime statunitense, Arrighi prospetta tre scenari: 1) Gli Stati Uniti potrebbero riuscire ad arrestare il
corso della storia del capitalismo sfruttando le loro capacit belliche e di formazione dello Stato. Ci comporterebbe la
fine del capitalismo in quanto sistema di accumulazione e di governo interstatale e la sua sostituzione con un impero
mondiale globale statunitense; 2) Se la vecchia nazione egemone non vi riuscisse, il capitale dell'Asia orientale potrebbe
acquisire una posizione dominante, ma la nuova nazione egemone sarebbe priva delle capacit belliche e di formazione
dello Stato storicamente associate alla riproduzione capitalistica. Il capitalismo giungerebbe allora a termine come
conseguenza non intenzionale dello sviluppo del mercato mondiale, che si evolverebbe verso un'economia di mercato
dotata di un ordine anarchico; 3) Anzich soffocare in un impero mondiale postcapitalistico o in una societ mondiale
di mercato postcapitalistica, l'umanit potrebbe bruciare nella crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione
dell'ordine della guerra fredda. In tal caso la fine del capitalismo darebbe luogo a un ritorno al caos sistemico, dal
quale esso ebbe origine seicento anni fa. Fine del capitalismo, dunque? Soltanto il tempo dar una risposta a questo
interrogativo.

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