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Defeudis Pietro, Melania Destefano,

Beatrice Luison, Zancan Matteo, Marchetti Federica

02/06/2012

La scultura
Scomparsi tutti i monumenti di una pittura che gli antichi scrittori celebravano
come eccelsa, la scultura rimane la somma testimonianza della figurativit
ellenica. E anche questa conosciamo soltanto da pochi originali, per lo pi
mutili e privi dell'antica policromia, e dalle numerose copie eseguite per i
committenti romani, dopo la conquista.
N l'eredit minoico-micenea n i rapporti, pur certi, con la statuaria egizia
bastano a spiegare la fioritura quasi improvvisa della grande statuaria arcaica
nell'area dorica (Peloponneso), ionica (Egeo, Asia Minore) e attica. Gli stessi
greci spiegavano con la leggenda - la fuga del mitico DEDALO da Creta e il
suo arrivo nell'Attica - il nascere di una scultura, le cui immagini non erano
soltanto idoli o materializzazioni del divino in oggetti vagamente antropomorfi,
ma rappresentazioni del divino in immagini che avevano l'apparenza della
vita e del movimento. Corrisponde infatti al passaggio dal circolo chiuso della
reggia micenea all'aperta socialit delle poleis il trapasso del sentimento del
sacro dall'oggetto direttamente investito del potere divino all'intuizione del
divino attraverso la rappresentazione delle forme naturali idealizzate. Poich
la figura umana pensata essere la pi eletta delle forme naturali e la pi
prossima alla perfezione ideale, essa anche quella che compendia
nell'armonia delle proprie forme l'infinita armonia del cosmo: perci, pi che
una ripetizione della morfologia del corpo umano, la statua l'espressione in
figura umana della natura come un tutto e cio, ancora, dello spazio. Lo
conferma il procedimento tecnico generalmente seguito: lo scultore lavorava
con scalpelli a punta, riducendo via via il blocco di marmo tutt'intorno alla
figura ideale di cui andava ricercando i limiti e i contorni, quasi disegnandola
nella materia. Procedendo dall'esterno, insomma, lo scultore non cercava
tanto la superficie solida del corpo quanto il suo limite imponderabile con la
luce e lo spazio: un limite, appunto, che definisse insieme lo spazio infinito e
la forma umana in cui quasi simbolicamente si identificava. Pu sorprendere
che una materia tanto raffinata e preziosa fosse poi ricoperta di colore: ma
una forma che si dia come universale, o come fenomeno assoluto che
compendi in s tutto il mondo dei fenomeni, non pu prescindere dal colore e
nella scultura, come nell'architettura, il colore sottrae la luce-forma alla
variabilit o mutabilit della luce naturale.
La Hera di Samo, uno dei pi antichi esemplari della grande statuaria greca,
dimostra come questo processo tecnico non fosse un processo di traduzione
in pietra di un'immagine concepita dalla mente, ma un processo stilistico, di
determinazione o individuazione dell'immagine. Come nel tempio, forma
ideale dello spazio, si passa dalla forma curva delle colonne, su cui la luce si
gradua in infiniti passaggi, alla volumetria dell'insieme, che offre alla luce i

suoi piani squadrati, cos qui si passa dallo stelo cilindrico delle gambe
avvolte nella veste pieghettata (chitone) al busto squadrato, idealmente
chiuso in quattro piani ortogonali (frontale, tergale, laterali). Lo scultore non si
fermato a questa schematica identit di modulo geometrico tra la forma
ideale dello spazio geometrico e quella della figura umana; ma non ha
cercato, al di l di quel limite, di individuare e descrivere i particolari delle
membra. Ha invece cercato di definire come la sostanza viva dello spazio, la
luce, penetrasse in quella struttura geometrica fino a identificarsi con la
materia del marmo. Ha solcato il lungo fusto cilindrico della veste con tante
pieghe sottili, tutte uguali come le scanalature di una colonna, in modo da
costringere la luce a non trascorrere, ma ad indugiare sulla superficie
incurvata; e, in alto, ha dato al ritmo pi largo delle pieghe del
manto (himation) un andamento sinuoso per suggerire le curve del braccio e
del busto al di l di quei piani ideali. La Hera di Samo opera ionica, e
tipicamente ionico questo intrecciarsi di un'attenta sensibilit alle variazioni
e vibrazioni luminose, alla rigorosa geometria dei grandi volumi. Nel giovane
nudo (kouros) di Milo, il passaggio da una squadratura ideale, che taglia la
forma per piani frontali, ad una forma tornita e quasi cilindrica, che filtra e
guida la luce entro la plastica del corpo, anche pi evidente: come se la
figura umana, data come forma perfetta, non potesse che risultare dalla
combinazione e dalla sintesi dei due tipi fondamentali delle forme
geometriche, quelle a facce piane (cubo, parallelepipedo, piramide) e quelle a
superfici curve (sfera, cilindro, cono). Ma tra queste forme, appunto, intese
come forme archetipe di tutta la realt, l'infinita variet, la molteplicit
illimitata degli eventi della vita: in scultura, tutte le possibili qualit e quantit
della luce.
Nella scultura ionica molti e diversi sono i modi di qualificare plasticamente
una superficie fissando il modo della sua reazione alla luce: le piegoline del
chitone o i pi radi solchi sinuosi dello himation della Hera, le treccioline dei
capelli e il modellato disteso, offerto al trascorrere della luce, del kouros di
Milo; la criniera cesellata, che forma un alone di luce intorno alla testa del
leone di Mileto. Le stesse stilizzazioni (come le pieghe geometrizzate delle
vesti, le chiome trattate come rigide treccioline accostate, con ondulazioni
ritmiche, ripetute e uniformi) non sono che altrettanti modi di trattenere e
impegnare, in frequenze pi fitte o pi rade, la luce sulla materia. La struttura
e perfino lo schema d'immagine sono identici nelle statue di Kleobis e Biton
(c. 610), scolpite da POLYMEDES, della corrente dorica. Se, riprendendo il
paragone con l'architettura, il kouros di Milo come un tempio in cui il fusto
snello e affusolato della colonna domina con il suo slancio elastico tutto
l'insieme, il kouros di Polymedes come un tempio in cui il valore dominante
sia quello dello squadrato volume dell'insieme e le colonne non
siano che elementi di sostegno nel sistema volumetrico. Lo squadro della
testa e del busto include nella propria architettura le curvature del torso, delle
gambe, delle braccia; i passaggi chiaroscurali sono netti e concisi; le minime
indicazioni anatomiche si riducono a pochi tratti graffiti per non turbare la

compatta unit del volume. Analogamente, il leone di Corf, paragonato a


quello di Mileto, una massa in tensione, rafforzata da vuoti profondi, senza
mediazioni o trapassi tra i pieni, luminosi, ed i vuoti carichi d'ombra.
Appartiene alla terza corrente, attica, il kouros del capo Sunio, del principio
del VI secolo; e potrebbe, a prima vista, parere il risultato di una somma delle
due correnti, dorica e ionica. V' invece un fatto nuovo: la figura umana non
pi pensata come la risultante armonica di due forme geometriche archetipe
(piane e curve), ma come un terzo tipo di forma, autonoma, capace di
sprigionare da s una forza di moto, di prendere possesso dello spazio. In
altri termini, se all'idea del puro essere-nello-spazio succede quella
dell'esercitare una forza nello spazio, necessario mettere in evidenza le
sorgenti di questa forza, la struttura dinamica del corpo, i muscoli. Non si
tratta, tuttavia, di una ricerca naturalistica ma, ancora, strutturale: ossa,
muscoli, tendini sono considerati solo come linee o correnti di forza che,
dall'interno, determinano le espansioni e le contrazioni, le sporgenze e le
depressioni della massa.
Del kouros di Tenea (560 circa), chi l'analizzasse in rapporto alla conoscenza
dell'anatomia umana direbbe che rivela una nozione ancora sommaria ma in
qualche parte gi avanzata della muscolatura. Invece il movimento della
figura dipende molto pi da un leggero spostamento dell'asse di simmetria
che da un gioco di muscoli; le ginocchia sono i giunti di un congegno di forze;
i muscoli dei polpacci, gli inguinali, i pettorali, sono altrettante spinte
dall'interno che determinano sporgenze dove la luce batte pi forte e vuoti
dove l'ombra s'addensa pi fonda. Si veda, per esempio, come la larga
superficie del petto campeggi nella luce perch i fianchi, contratti, formano
con le braccia leggermente flesse due profonde cavit d'ombra; e come i
capelli, formando una massa compatta, spingano in avanti, quasi anticipando
il movimento del corpo, il profilo acuto e proteso del volto. Il senso "eroico" di
questa figura di giovane atleta non espresso da un gesto corrispondente a
un'azione precisa; ma da una forma che diventa forza e che si traduce
nell'espressione di un sicuro e sereno dominio della figura umana sullo
spazio naturale.
Nella kore di ANTENORE (530 circa) non v' neppure anatomia, ma soltanto
drappeggio. Come in tutto il gruppo delle korai dell'Acropoli di Atene, un
sottile luminismo di origine ionica increspa tutte le superfici, variamente
incanalando la luce nei rivoli fitti delle pieghe irraggiate in direzioni diverse,
nei festoni dei lembi ricadenti dei pepli, nelle fini treccioline ondulate. Il moto
o, piuttosto, la vita della figura dunque interamente ottenuto con diverse
qualificazioni delle superfici per una varia modulazione della luce.
Diverso , almeno per l'importanza del risultato artistico, il problema della
scultura; e, bench anch'esso rechi profonda l'impronta della concezione
escatologica (o dell'aldil) che abbiamo indicato, per altri versi legato al
mondo della tecnica e dell'industria, cio al mondo reale della societ
etrusca.
Le funzioni della plastica, in quella societ, sono molte e non tutte relative al

culto dei morti: v' una grande scultura decorativa, v' la piccola plastica
collegata all'arredamento della casa e all'ornamento della persona e v',
naturalmente, la scultura funeraria dei canpi (urne cinerarie col coperchio a
forma di testa umana) e quella dei sarcofagi.
I canpi della regione chiusina risalgono al secolo VII: il corpo del vaso evoca
schematicamente il busto umano, i manici ricurvi le braccia, la testa sul
coperchio spesso caratterizzata come maschera o ritratto del defunto. Ve
ne sono di terracotta e di metallo. La plastica, per piani semplificati e tratti
fortemente incisi, ancora quella della protostoria mediterranea.
Con il VI secolo comincia a farsi sentire l'influenza della scultura arcaica
ionica. A VULCA, il solo artista etrusco arcaico di cui si conosca il nome, o
alla sua cerchia immediata, appartiene la grande statua dell'Apollo di Veio,
parte della decorazione esterna, in terracotta, di un tempio. ionica
l'impostazione della figura, in cui la massa, spianandosi in ampie superfici, si
risolve nelle sottili, vibranti nervature luminose delle pieghe della veste; ma
diversa la modellazione, che espande la forma nello spazio per un contatto
pi crudo, quasi d'attrito, con la luce. Cos nella Lupa Capitolina, in bronzo,
l'influenza ionica evidente nella modulazione finissima della luce sul corpo
dell'animale e nella stilizzazione del pelo sul collo, ma nuovo, e dovuto ad
un'acuta lettura del vero, il modo con cui accennata la tensione dei muscoli
sotto la pelle. Poco dopo (V secolo) la Chimera d'Arezzo, uno dei massimi
capolavori dell'antica arte del bronzo, intensifica i motivi della stilizzazione
ionica fino a rovesciarne il significato, a tradurli in fattori di concisione e
tensione espressiva. Il corpo inarcato, la coda-serpente flessa come una
molla, contraggono la forma nello spazio; la materia dura e brillante diventa la
sostanza viva dell'immagine; vene affioranti, tendini, muscoli, perfino le
ciocche della criniera, pi che descrivere l'anatomia del corpo, fanno scorrere
nel bronzo correnti di energia vitale.
I sarcofagi, per lo pi in terracotta, sono la creazione pi originale della
scultura etrusca. Il coperchio della cassa ha la forma del letto per il simposio:
su di esso, appoggiandosi sul gomito, il defunto, e spesso gli accanto la
moglie. Le figure, specialmente nei volti, sono acutamente caratterizzate, con
una fedelt ritrattistica che va facendosi, col tempo, sempre pi insistente,
quasi indiscreta.
Le deformit fisiche, i segni dell'infermit, della vecchiaia, del vizio sono
descritti senz'ombra di piet ma, anche, senza il compiaciuto gusto del
pittoresco che increspa il verismo ellenistico della vecchia ubriaca. A partire
dal IV secolo, il rapporto tra l'arte etrusca e l'ellenistica storicamente
provato dai temi e dallo stile dei rilievi frontali dei sarcofagi stessi; ma
un'esigenza ben pi profonda che determina il realismo tutt'altro che
superficiale e descrittivo della ritrattistica funeraria etrusca. L'antica volont di
appesantire l'immagine, di darle corpo e materia reali diventa pi ansiosa, si
complica. La persona che viene rappresentata vivente, nell'atto di
banchettare, morta: quella che vediamo un'immagine a cui non
corrisponde pi una cosa o persona reale. L'etrusco, industriale o mercante

che ha il senso concreto della vita pratica, si smarrisce davanti al vuoto della
morte. Cerca di riempirlo con le immagini, le vuote forme di s, delle cose del
mondo; ma le medesime forme che si muovono e vivono nelcontesto di
relazioni infinite di cui fatto il mondo, rimangono immobili e immutabili nello
spazio vuoto dell'aldil. Tutto veduto dal punto di vista del morto, in una
prospettiva rovesciata, con una "passione per la vita" che non pu pi essere
soddisfatta e che non ammette scelte: non v' pi il bello e il brutto, il buono e
il cattivo, tutto egualmente pieno di significato. Le tare, i mali, le deformit
sono pur sempre indizi di vita, segni concreti dell'esistere: oggetti di
rimpianto, perfino, per colui su cui sovrasta l'insopportabile minaccia di non
essere pi.
Non basta che l'immagine finga la persona viva: nell'immagine non batter
mai un cuore, non circoler il sangue. Della persona si avr la forma, non la
struttura. Ma l'immagine cesser di essere finzione, avr una propria e sia
pur diversa realt, se avr una propria struttura: sar questa a seguitare la
vita della persona, a far s che l'immagine sia qualcosa di assoluto e non di
relativo a una realt non pi esistente. Con quel suo pancione, quel suo collo
corto sotto il volto asfittico, e tutta quella sua carne molle e pesante, l'obesus
etruscus al di l delle categorie del bello e del brutto, che tanto
preoccupavano gli scultori alessandrini. Il grande volume del ventre rilassato
lievita nella luce con la sua curvatura continua, cui pone un fermo brusco il
solco d'ombra nel materasso pigiato. Una grinza della pelle, una piega, un
nervo che guizza bastano a mettere in movimento, a dare un'illusione di vita
a quella massa inerte. Ma questi accenti rapidi e acuti vengono tuttavia dalla
persona: sono quanto di vivo trapassa nella materia inerte e ne fa forma viva.
La ritrattistica etrusca la prima ritrattistica non celebrativa, commemorativa,
interpretativa: perci pu dirsi veramente realistica. Non v' ricerca
psicologica, non v' giudizio in questi ritratti: qualit e difetti sono ridotti al
minimo comun denominatore dell'indizio vitale, della prova dell'esistere.
Perci l'arte etrusca, malgrado i suoi rapporti col classicismo, nettamente
anti-classica: per l'arte classica le sembianze mutano e la sostanza resta, per
l'etrusca la sostanza non esiste pi, le sembianze diventano sostanziali. Lo si
vede in uno dei capolavori pi tardi, la statua bronzea dell'arringatore: d'una
dignit gi romana, ma con tutta l'ansia e la malinconia dell'inoltrata cultura
etrusca. Il corpo leggermente proteso in avanti, le pieghe della toga
sfuggono nella direzione opposta, come la figura fosse attirata all'indietro da
una forza misteriosa; e gi stesse per scomparire, con quello sguardo e quel
gesto che sembrano di congedo pi che di esortazione, nella buia regione del
nulla. Della "passione per la vita", del senso concreto del valore delle cose
sono documenti le forme piene di animazione che gli etruschi hanno dato alle
suppellettili delle loro case, agli ornamenti delle loro persone: creando una
ceramica d'alto livello, unoreficeria raffinata, preziosi arredi metallici, piccole
sculture bronzee etc. Forse proprio nella civilt etrusca l'arte stata
concepita per la prima volta come momento supremo, metafisico, della
tecnica o del lavoro umano.

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