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Vittorio Veneto http://www.tragol.it/Flaminio/flaminio-2/73-79.

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Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°2 - 1980- Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi
Trevigianae

Renato DELLA TORRE


Note sul potere, temporale dei Vescovi di Ceneda

IL POTERE LONGOBARDO E I VESCOVI CENEDESI

Non è possibile stabilire con sicurezza la data di fondazione del ducato longobardo di
Ceneda a causa della mancanza di documenti. Perciò ci si è dovuti accontentare di
semplici congetture. Qualcuno avrebbe voluto la data di poco posteriore a quella (568) del
vicino ducato di Forogiulio (odierna Cividale), sostenendo che il "castrum" (città
fortificata) di Ceneda era, a quell'epoca, già molto importante. Altri, invece, la vorrebbero
abbassare all'anno dell'invasione degli Avari provenienti dal nord (610), perchè dicono,
solo allora, dopo la sconfitta delle milizie forogiuliesi, Ceneda, bloccando gl'invasori e
contribuendo a ricacciarli al di là delle Alpi, potè dimostrare quanto fosse forte ed utile il
suo apporto per la difesa dei regno. Nessuna incertezza, invece, sussiste riguardo
all'esistenza del ducato, grazie alla testimonianza di Paolo Diacono (720-799), storico dei
Longobardi e che visse alla fine del loro regno. Egli, infatti nella sua patriottica e colorita
"Storia dei Longobardi" (1), vi fa chiara allusione quando racconta che Grimoaldo,
distrutta Oderzo (665), "ne divise il territorio tra Forogiulio, Treviso e Ceneda" (1) e, più
esplicitamente, quando ricorda "Orso, duca cenedese" (2). Senza contare che esiste ancora
un atto di donazione di quei tempi (3 maggio 762) (3), nel quale, fra i beni ceduti alla
badia di Sesto, si elencano delle "case síte in Belluno, giudiciaria (o sculdascia)
cenedese", cioè appartenente al ducato di Ceneda.

RENATO DELLA TORRE - Scrittore e critico, dopo aver tradotto '11 Castello dei
rifugiati" di F. Céline, ha pubblicato una monografia sullo stesso autore ed un volume su
'1 Medici". L. Pugliese ed., 1980. Lavora attualmente ad un libro su S. Francesco d'Assisi.

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A causa della scarsità di notizie si trova qualche difficoltà anche quando si tenta di
tracciare, sia pure per sommi capi, la situazione del clero cenedese durante il ducato. Così,
a proposito dell'origine della diocesi, non esistendo fonti storiche del tutto convincenti, si
sono formulate delle ipotesi più o meno logiche e verosimili, anche se contrastanti. Da
una parte, seguendo una vecchia tradizione, si è asserito che quella origine fu autonoma
(nel IV o VI' secolo), per concessione del patriarcato di Aquileia, e si sono fatti i nomi di
alcuni antichi vescovi: S. Evenzio (390) Vindemio (560), Angelo, Orsino, Sasino (726).
Però ci si è basati su riferimenti piuttosto vaghi, tanto è vero che i sostenitori della teoria
non si sono trovati d'accordo sulle date, sul numero dei vescovi e nemmeno sulla
formulazione esatta dei loro nomi. Per di più, in qualcuno, è sorto il dubbio perfino sulla
loro effettiva appartenenza alla diocesi cenedese. Dall'altra parte stanno i fautori
dell'origine derivata, cioè quelli che sostengono che la diocesi è sorta per la necessità di
sostituire il vescovo di Oderzo, fuggito ad Eraclea dopo la distruzione della sua città.

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Anche essi si arroccano su una tradizione religiosa antica che, basata essenzialmente sull'
"Antico Ufficio" della cattedrale (150, 1606) e sul "Liber maximus" (o catasto) del 1518,
tende a considerare la fondazione della diocesi come la necessaria conseguenza della
traslazione delle spoglie di S. Tiziano dalla sede di Oderzo a Ceneda. Le due tradizioni,
naturalmente, per mancanza di fonti sicure, non possono considerarsi decisive e neppure
la scoperta (con successiva pubblicazione nel 1871) (4) del documento del re longobardo
Liutprando con la data 6 giugno 743 può ritenersi del tutto determinante per la soluzione
del problema. E' vero che nel documento, a un certo punto, si ritrova il concetto
dell'origine derivata espresso dall' "Antico Ufficio", però gli stessi sostenitori del
documento, da Botteon (1907) (5) che, come è noto, gli ha dedicato il primo e più
esauriente studio storico -filologico, all'autorevole Cessi (1928) (6) e al più recente Mor
(1970) (7), lo considerano una copia, non molto fedele, d'un originale andato perduto.
Tanto basta per incoraggiare la resistenza della surriferita teoria dell'origine autonoma.
Tuttavia alcuni aspetti accennati dal documento, che è riconosciuto vero nella sostanza,
possono trovare conferma, in qualche modo, nella descrizione che gli storici del diritto
(Pertile, Besta, Leicht, ecc.) ci hanno fatto, per l'Italia in generale, delle relazioni fra clero
e Longobardi. Il primitivo furore degli invasori di cui parla Paolo Diacono in modo
realistico e che il vivace storico latino Velleio Patercolo definisce "più feroce della
germanica ferocia" (8), si era a poco a poco attenuato fino a trasformarsi in una pacifica
convivenza con la popolazione sottomessa, specialmente dopo la conversione del re
Agilulfo

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al cattolicesimo (602). C'era piena libertà di culto e così i cenedesi, in occasione della
traslazione di S. Tiziano (650 circa) ricordata nel citato documento e nell' "Antico
Ufficio", poterono accogliere pubblicamente i resti del santo e riportarli in modo solenne
nella loro chiesa. Non solo, ma la vicenda narrata nel documento dimostra che fra il duca
cenedese e il suo vescovo si era stabilita una comunanza d'interessi e, più ancora, un'attiva
collaborazione, ben comprensibile in quel clima di amicizia e, quasi di protezione, che un
po' dappertutto in Italia regolava ormai i rapporti fra l'autorità civile e quella religiosa. Il
duca di Ceneda, Teudemar, espose al re Liutprando il desiderio del clero cenedese di
avere un proprio vescovo, dopo la fuga di quello opitergino e, verosimilmente, chiese per
il neo eletto gran parte della circoscrizione diocesana di Oderzo. Lo svolgimento delle
trattative, poi, proseguì secondo una prassi che può considerarsi normale in quei tempi. Il
re, che controllava, è vero, le attività della Chiesa ma non voleva far vedere d'ingerirsi
direttamente nella delicata questione della nomina d'un vescovo, si limitò a concedere
l'autorizzazione a procedere e girò la faccenda al competente patriarca d'Aquileia,
Giovanni, affinché provvedesse "secondo i sacri canoni". Le trattative, cui allude il
documento col termine "collocutiones", dovettero essere brevi ma abbastanza tese,
considerando il seguito della contesa sui confini diocesani. Tuttavia, per il momento, il
patriarca se la cavò con un compromesso, nominando, sì, il primo vescovo, Valentiniano,
ma non concedendogli tutte le parrocchie dovute. Qualche tempo dopo, la lite si
riaccendeva, dato che Valentiniano, considerandosi erede della diocesi di Oderzo, aveva
esteso la giurisdizione spirituale su alcune parrocchie opitergine, tra quelle assegnate ad
Aquileia. La disputa fu dura perché dietro ai prelati agivano i rispettivi duchi, che, come si

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sa, cercavano di aumentare la propria sfera d'influenza anche per mezzo delle
amministrazioni ecclesiastiche e c'era il re che voleva evitare discordie fra i dipendenti e,
in quel caso particolare, cercava una soluzione non sfavorevole al nuovo patriarca,
Callisto, suo amico che, secondo Paolo Diacono, egli aveva già protetto all'atto della
nomina e nei recenti contrasti col duca friulano. Si giunse così ad una breve tregua quando
al contendente aquileiese fu concessa la disponibilità di quattro parrocchie, "onde ogni
volta che egli andasse e tornasse dal Friuli alla reggia di Pavia vi trovasse una stanza per
riposarsi del viaggio". Questa prima sentenza, emessa dal vescovo di Pavia e, quindi,
d'accordo col re, pur accontentando, sul momento, Callisto, in fondo riconosceva anche le
ragioni della nuova diocesi cenedese, con l'imporre, come condizione, la restituzione ad
essa delle quattro parrocchie, appena fosse deceduto Valentiniano. Il patriarca, però, alla
morte di quel prelato, non restituì le parrocchie e, anzi, volle dal

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nuovo vescovo Massimo, che aveva appena nominato, la promessa scritta che "mai
avrebbe trattato, né mosso lamento, nè agito giuridicamente" per riaverlo sotto la sua
giurisdizione. A questo punto il diretto intervento in causa dei duchi cenedesi Aulmo,
presto morto, e Aginualdo, suo successore, forse significava che la questione aveva
assunto un interesse, per così dire, politico. Probabilmente le parrocchie contese facevano
parte del ducato di Ceneda e può darsi che il duca in quel momento avesse delle serie
ragioni per non tollerare ingerenze nel proprio territorio da parte del patriarca e, per suo
tramite, del duca friulano. Perciò Aginualdo agì energicamente per recuperare quelle
parrocchie e di nuovo il re Liutprando si interessò del caso, avocando il relativo processo
("discussione della causa nel sacro palazzo di Pavia in presenza nostra") tanto più che si
trattava di una "causa regalis", cioè sorta fra importanti personaggi dello Stato. Il duca
cenedese mandò come suo rappresentante un messo, Fausto, che sarà stato un esperto del
diritto, e il re, forse assistito, come d'uso, dalla commissione di giudici palatini, convocò,
oltre al patriarca, anche i vescovi di Treviso e di Padova che detenevano qualche zona
della disfatta diocesi di Oderzo. Ma l'azione del messo era diretta soprattutto contro il
patriarca che, più degli altri, disturbava Ceneda ducale per la vicinanza e la quantità delle
parrocchie indebitamente occupate. Parlò con accesa polemica di pretesti ingiusti,
d'inosservanza di leggi, di necessaria restituzione: "0 padre Callisto, diceva, ti prego per
amore del Dio onnipotente che la parrocchia del vescovado di Ceneda che tu
ingiustamente e contro la legge tieni violentemente, rimosso ogni pretesto, ti affretti a
restituire legalmente a Massimo nostro vescovo e ti accontenti delle cose tue e non goda le
altrui giacche la sua chiesa, senza quella parrocchia tanto vicina, non può andar bene".
Infine, di fronte alla debole eccezione del convenuto basata sul dovere di rispettare la
primitiva spartizione autorizzata dal re Rotari, l'eloquente messo addusse una ragione
pratica, allora considerata molto importante, che gli assicuro la vittoria della causa. Cioè
l'avvenuta traslazione dei resti di S. Tiziano da Oderzo a Ceneda significava, logicamente
e, quasi per disposizione divina, l'opportunità di trasferire al vescovo cenedese tutta intera
la diocesi opitergina. E infatti, appurato che il vescovato cenedese era sorto solo dopo la
spartizione di quella diocesi e come sua naturale sostituzione, il re Liutprando convinse i
tre prelati convenuti a concedere le parrocchie tanto contese: 'U pare cosa giusta e
conforme ai sacri canoni... che il vescovo di Ceneda tenesse e possedesse tutta la diocesi

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opitergina... e così è terminata la contesa... Onde comandiamo che tutti rispettino questa
deliberazione: dando questi ordini a tutti i patriarchi, vescovi, duchi... e a tutti i nostri
sudditi... Data

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in Pavia nel regio Palazzo, il 6 giugno del 31o anno del nostro regno, undicesima
edizione". Da notare che, nonostante la perentorietà della sentenza, le parrocchie non
furono consegnate tanto presto e neppure in modo completo. Comunque, dall'insieme del
documento, pare che i vescovi cenedesi godessero già d'un certo prestigio sia nella
gerarchia della Chiesa, sia nei rapporti con l'autorità longobarda. Non tanto, però, da
ottenere cariche politiche e l'esercizio del potere temporale. Invece lo storico Mondini
(1710) (9), che segue l'ipotesi dell'origine autonoma, racconta, peraltro senza prove
convincenti, che un vescovo di nome Orsino, era anche duca verso il 670. Evidentemente
lo aveva confuso, a causa dell'omonimia, col duca Orso (ricordato da Paolo Diacono).
Seguendo la sua opinione il pittore De Min, nel dipingere (1840) gli stemmi vescovili
nell'Aula della loggia comunale di Ceneda, vi aggiunse la spada come simbolo
dell'autorità civile a partire appunto dall'Orsino e, molti anni dopo, ancora qualcuno
credeva che % vescovi avessero ricevuto in dono dai re longobardi ampi possedimenti e
che cominciassero a figurare con giurisdizione civile e militare arrogandosi le attribuzioni
di duchi specialmente durante lo Scisma dei tre Capitoli: il vescovo Satino con tali poteri
avrebbe recato aiuto a Iesolo contro Eraclea" (10). Si può, inoltre, citare come curiosità
diplomatica lo strano documento riportato dall'antico Statuto di Ceneda (1609) con la data
"3 aprile 994, indizione settima", e che contiene la sentenza emessa del re Liutprando,
allora "sul trono del palazzo di Oderzo", per redimere una controversia d'investitura fra il
conte Giovanni (feudatario) e il vescovo di Ceneda Valentino (suo signore), essendo
presenti Callisto patriarca d'Aquileia, Ludovico di Carinzia, Trevisano vescovo di Oderzo:
"In nome di Dio, amen... Poiché i predecessori del conte Giovanni ricevettero l'investitura
dai predecessori del vescovo di Ceneda, Valentino, dei paesi di Zumelle, Valmarino, ecc.
con ogni giurisdizione del mero e misto imperio e poiché il conte Giovanni è stato a lungo
in lite col Valentino, è piaciuto al re e al patriarca Callisto..., per il bene della pace, di
supplicare il vescovo Valentino che si degnasse di investire dei detti luoghi il detto conte
nei modi stessi con cui furono investiti i suoi predecessori secondo un retto e legale feudo.
Allora il vescovo ha investito il conte, a patto che egli paghi lo stesso tributo pagato dai
suoi predecessori. Se non pagherà, sarà privato del feudo". E' quasi inutile osservare che il
documento è falso: la data e il sistema feudale delle investiture non appartengono ai tempi
di Liutprando. Probabilmente fu compilato dopo il mille con lo scopo d'essere esibito
come prova in occasione di una della tante controversie sorte tra i vescovi e i vassalli. Fra
gli studiosi che lo respingono, G. Lioni osserva che "esso fa stomaco agli eruditi " e il
Botteon lo giudica inventato "da un indotto scrittore del sec. XV°".

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Insomma non si può affermare con fondatezza che i vescovi cene-desi esercitassero poteri
temporali durante il ducato. E d'altronde lo stesso può ripetersi per gli altri vescovi d'Italia,
i cui rari interventi nel-l'amministrazione civile se pur contribuirono, in certo modo, al

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man-tenimento degli equilibri sociali, ebbero comunque un carattere margi-nale e


provvisorio. Più frequenti, invece, furono le donazioni di beni immobiliari da parte di
privati in favore di chiese o vescovi. Così anche per la chiesa di Ceneda si può citare la
donazione che è ricordata nelle lezioni del- più "Antico Ufficio" di S. Tiziano (usato fino
al 1606) (12). In occasio-ne della traslazione delle spoglie dì S. Tiziano (650 circa)
un'ossessa fu miracolata e suo padre, per riconoscenza, "donò alla chiesa della Bea-ta
Maria un campo che possedeva là presso". Non si ha notizia di altre donazioni al clero
cenedese nel periodo longobardo, ma è verosimile che ne siano state fatte altre. In quanto
al castello di S. Martino sembra poco probabile che esso sia stato ceduto dal duca al primo
vescovo Valentiniano, appena eletto (713 circa), perché vi risiedesse. L'opinione è sorta
dalla dubbia inter-pretazione del termine "Castrum" come "castello" nella frase "in
cenetensi castro nostro" del citato documento liutprandeo, quando si parla dell'avvenuta
nomina del vescovo. Sarebbe, invece, preferibile dare a quel, termine il significato di
"città fortificata" (13), pensando che il duca non avrebbe rinunciato tanto facilmente alla
posizione stra-tegica del castello di S. Martino che dall'alto del colle domina la pianura
Renato

Della Torre

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Note

1) P. DIACONO, op. c., l. V, e. 28 78


2) P. DIACONO, op. e. 1 VI', c. 24
3) L. SCHIAPARELLI "Codice diplomatico longobardo-, 1929
4) A.S. MINOTTO "Documenta ad Bellunum, Cenetam, Feltria spectantia", 1871
5) V. BOTTEON, "Un documento prezioso 7, 1907.
6) R. CESSI, "Crisi ecclesiastica veneziana", 1928
7) G. MOR, "Studi medioevali del diritto", 1970
8) P. VELLEIO, "Historiae", l. Il>, 106
9) G.B. MONDINI, 'Ystoria della città di Ceneda" 1765, ms.
10) L. MARSON, "Cenni storici su Vittorio", 1889
11) MINOTTO in op. cit. lo riporta con la data corretta "739 l'anno in cui si presume che
Trevisano, citato nel doc., fosse vescovo
12) A. MASCHIETTO '5 Tiziano", 1932
13) D. DU CANGE, "Glossarium", 1954

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