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IL FANTASMA DEL DUOMO

La grande guerra si era portata via tutto, anche i mobili della sagrestia.
Amelia, la perpetua, aveva scovato chissà dove un vecchio cassettone scrostato e
ammuffito, ne aveva rivestito l’interno con carta a fiorami promovendolo al rango di
armadio. Così nobilitato, poteva contenere degnamente i paramenti del nuovo parroco,
con una nevicata di naftalina a scongiurarne invasioni da parte delle tarme, se non
teutoniche, certo altrettanto affamate.
Una mattina, scegliendo una pianeta dal magro assortimento di abiti, il
giovane Don Arturo contemplò mestamente l’arredo della stanza: un triste crocifisso lo
guardava sbilenco da sopra il secchiaio di marmo, dove gocciolava un calice, per di più
ammaccato, che era riuscito a sottrarre all’incuria di Don Geremia, suo defunto
predecessore, male forse ancor peggiore del vandalismo degli austriaci in ritirata.
L’Amelia gli contrabbandava ogni giorno mezzo litro di vino, le suore
dell’asilo avevano riesumato lo stampino delle particole, la pioggia aveva smesso di
cadere, insomma, era il primo giorno “normale” dopo la fine della guerra.
Il mal di testa però gli si era talmente affezionato che, non pago di avergli
imbiancato la notte, lo stilettava duramente anche ora che doveva dire la sua prima
messa nel Duomo di Motta.
Bell’inizio, e ci mancavano solo i pipistrelli in sagrestia, pensò Don Arturo
cogliendo con la coda dell’occhio un frullio nero provenire dal soppalco.
Si lanciò dietro la porta dell’altar maggiore a prendere la scopa, preparandosi
a zompare su per la scala a chiocciola a sistemare il nottolo intruso. Fu dopo aver
alzato gli occhi per individuare con precisione l’incursore che la scopa gli cascò di
mano, battendo col manico sul nudo pavimento di pietra con un secco rumore di
schioppettata, che non sembrò peraltro disturbare l’opera di una figura china sul
parapetto del soppalco, che si agitava senza emettere un suono. Era un prete, un
vecchio prete salmodiante, curvo e talmente lacero che pareva gli si vedesse attraverso
i buchi della tonaca.
“Ma ci si vede proprio attraverso, altro che buchi!” fu la sostanza, se non la
lettera del pensiero che balenò in capo a Don Arturo il quale, guarito o dimentico del
mal di testa, pestò il manico della scopa finita a terra schiantandolo in due, e cadde in
ginocchio dandosela a gambe a gattoni senza nemmeno tentare di rialzarsi, per cui
picchiò d’ariete direttamente nella porta chiusa, che spalancò buttandosi di lato e
aggrappandosi alla maniglia come fosse il tientibene della Viribus Unitis.
Una volta all’aperto, annaspando nell’aria e senza smettere di gridare “Mater
Dei, ora pro nobis”, il giovane prete incocciò contro l’Amelia, che stava arrivando di
corsa dalla canonica, richiamata dalle urla.
In un affanno di litanie e lamenti, Don Arturo e la perpetua si rialzarono
doloranti, lei tenendosi la schiena con tutt’e due le mani, lui aggrappato alle sue spalle
che la scrollava come un sacco di patate, continuando a urlare.
Con non poca fatica la perpetua riuscì a convincere il tremolante pievano a
spiegarsi meglio, e quando finalmente entrarono in sagrestia la trovarono spoglia come
sempre, e soprattutto vuota. Nessuna traccia dell’incredibile personaggio visto da Don
Arturo poco prima.
Pur dando mostra di sano scetticismo, l’Amelia non si sentiva tranquilla, e
mentre il suo nuovo parroco andava finalmente a dir messa, si fermò un attimo nella
stanza a guardare in alto, verso il soppalco vuoto.

Il resto della settimana passò senza novità, e fu la domenica successiva che la


perpetua, scopa nuova in mano, tornò in sagrestia per portarvi la biancheria lavata e
stirata.
Stava appunto riponendo le cotte di Don Arturo nell’armadio, mezza
inginocchiata sull’ultimo cassetto, quando le parve di vedersi oscurare la luce. “Non
starà mica per piovere?”, pensò, voltandosi istintivamente a guardare verso la finestra,
alta sul soppalco. Poco mancò che ci rimanesse stecchita: i paramenti lisi e trasparenti,
storto e vecchissimo ma perfettamente riconoscibile, Don Geremia, defunto parroco del
Duomo, stava levando il calice al vuoto, in una caricatura di ostensione.
Più che un urlo, l’Amelia cacciò una sorta di rantolo strozzato, portandosi le
mani al petto e rimanendo bloccata in quella posizione con gli occhi sbarrati,
terrorizzata dall’apparizione ma incapace di staccarsene.
Fu così che la trovò Don Arturo, arrivando in sagrestia per la messa. Dovette
praticamente caricarsela sulle spalle per riportarla in canonica, dove riuscì a rianimarla
solo dopo qualche schiaffone e un’abbondante dose di mistrà. Non si diede nemmeno
pena di chiederle cosa le fosse preso, tanto aveva la netta sensazione di saperlo già.
L’Amelia infatti, destatasi dalle nebbie dell’oblio, gli descrisse la visione con tale
vivezza che il parroco non ebbe dubbi: anche lei aveva visto la stessa cosa.
Don Arturo non aveva mai conosciuto il vecchio parroco di Motta, ma la sua
nomea gli era giunta in orecchio fin dai tempi del seminario. Si sapeva che durante la
guerra non soleva portare parole di conforto, ma girava di casa in casa a vendere olio e
candele; che approfittava della semplicità della gente per offrirsi, a seconda dei casi,
come esorcista o taumaturgo: c’è la vacca che sta male? ecco qui il medicinale! e giù
benedizioni e giaculatorie in un latino approssimativo ma di grande presa. Le famiglie
poi davano ormai per scontato che ogni porcello nasceva virtualmente monco: un paio
di salami erano il sacrificio minimo all’altare di Don Geremia, per scongiurare futuri
malanni suini. In pratica il maiale, morendo, garantiva la salute alla sua stirpe ventura,
e al novello Shylock la sua brava libbra di carne.

Era ora chiaro che lo spirito del vecchio parroco stava calcando inquieto la
scena dismessa di quello che era stato il teatro delle sue poco cristiane abitudini. Ma
bastavano quei fatti, senz’altro riprovevoli ma in fondo veniali, per giustificarne la
condanna all’eterna sospensione in terra? Don Arturo ne dubitava, e aveva
l’impressione che l’Amelia ne sapesse qualcosa. Era pur vissuta a fianco di Don
Geremia per più di trent’anni, possibile che non immaginasse qual era il tormento di
quell’anima triste?
Sotto l’incalzante interrogatorio di Don Arturo, forse per lo spavento da poco
patito, forse per l’ansia di scaricarsi di un peso, fatto sta che la maschera grinzosa
dell’Amelia si stirò in una «o» di sùbita rimembranza, e lei aprì finalmente le cateratte
dei ricordi.

***

Vuole una nostra tradizione che la memoria dei defunti venga tenuta sempre
in buona considerazione dai loro cari, che anche ai nostri tempi usano far dire una
messa, o anche più di una, per un certo periodo dopo la morte, nell’anniversario o
comunque nella ricorrenza annuale comune. Prestazione, questa della messa, che ha
ovviamente un costo, del quale ad ogni modo i parenti o gli amici si fanno carico
volentieri.
Ora pare che, oltre che meschino, Don Geremia fosse anche alquanto
filibustiere.
In ragione del suo ministero, il vecchio prete raccoglieva decine di
“prenotazioni” per le funzioni dei morti. Diligente, annotava con cura il nome del
defunto, la data e l’ora della messa, il prezzo. Quest’ultima voce del registro andava,
com’è chiaro, a gonfiare la sua cassa personale, e la messa andava a farsi benedire, con
buona pace del morto, accomunato così ai parenti nella doppia fregatura.
L’Amelia ricordava quel registro. Anzi i registri, perché Don Geremia aveva
seppellito due generazioni di mottensi, oltre che la loro memoria. Ed ecco allora cosa
faceva lo spettro in sagrestia: per una specie di casereccio contrappasso, era costretto a
dir messa al vento per l’eternità, a compenso delle funzioni di cui aveva defraudato i
parrocchiani.

I registri saltarono fuori dalla soffitta della canonica, e iniziò per Don Arturo
un lungo periodo di catarsi per conto terzi.
Ogni giorno riservava una messa per ciascuna di quelle “saltate” dal vecchio,
e la spuntava regolarmente dai registri. Fu un compito improbo, ma anche un sacrificio
che sentiva di dovere al suo paese, ai morti, alla Chiesa.

***

Dopo oltre quattro anni si apprestò finalmente a tracciare una riga sopra
l’ultima registrazione, e il suo sollievo nel chiudere il registro non fu nulla al confronto
dello sgomento che lo prese nello scorgere il fantasma del vecchio prete ancora sul
soppalco della sagrestia. “Ma se ho detto tutte le messe che lui aveva saltato, cos’altro
succede ancora?”
Gli venne in soccorso un’ispirazione improvvisa.
Rivestì i paramenti appena smessi, ritornò all’altare e ricominciò a celebrare,
per un’ultima volta, per l’unica anima che non compariva nel registro, quella di Don
Geremia...

All’”Ite, missa est” un vento improvviso gli scompigliò le vesti, e fu


attraversato da un brivido. Entrò in sagrestia tremando di eccitazione, ma il soppalco
era finalmente, definitivamente vuoto, e la stanza non sembrava più così fredda come
in passato. Persino il crocifisso pareva rinvigorito.
Si avvicinò fin sotto al parapetto del soppalco con gli occhi in su, e nella luce
dell’unica finestra gli sembrò di cogliere un lieve movimento. Con la mano si tolse
qualcosa che gli era caduto sul volto. Una limpida gocciolina.

L’assaggiò, era salata.

Paolo Sanchetti

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