Sei sulla pagina 1di 18










Il
vascello
fantasma.




Ciurma
di
derelitti,
malati
di
nostalgia
che
ululano
al
cielo
plumbeo
le
tutte
loro
disgrazie,

moncherini
che
scivolano
sul
vomito
dei
loro
ricordi,
scheletri
di
uomini
una
volta
fieri
del

loro
ardore
e
che
ora
giacciono
inermi
aspettando
solo
che
un
fulmine
solitario
gli
incenerisca

così
da
poter
sparire
senza
più
lasciare
traccia.



Orde
di
uccelli
neri
che
volteggiano
aspettando
il
momento
di
abbattersi
su
quelle
impotenti

carcasse
per
placare
il
loro
inesorabile
languore
e
tutto
questo
mentre
il
vascello
fantasma

solca
silenzioso
i
mille
mari
della
disperazione.

Esodo,
shoa,
apocalisse,
sono
i
venti
che
senza
tregua
frustano
a
sangue
le
vele
sgualcite
di

questa
misera
nave,
mentre
le
onde
irrompono
con
stridore
di
tuono
nelle
falle
aperte
del

marcio
fasciame.
Queste
fessure
assomigliano
a
quelle
dolci
nature
femminili
che
come
frutti

acerbi
e
maturi
bandivano
un
tempo,
le
nostre
tavole
lussuriose.


In
nome
di
questo
ricordo,
di
quel
sapore
acidulo
e
quell’odore
acre
e
penetrante,
il
mesto

capitano
senza
denti
saldo
ancora
al
suo
timone,
incita
a
tenere
la
rotta,
ma
le
sue
urla

silenziose
s’infrangono
senza
rumore
spazzate
via
del
gelido
vento
della
solitudine
che
soffia

senza
fermarsi
mai.

Marinai
senza
più
cuore,
si
dannano
a
tirare
le
sartie
e
legarsele
saldamente
al
collo
per

potere
finalmente
mettere
fine
al
loro
soffrire,
ma
non
c’è
fine
alla
sofferenza
dei
dannati,
non

c’è
termine
alla
tormento
della
solitudine.

Gesù
morì
solo,
issato
sull’albero
maestro
cosicché
tutti
lo
potessero
vedere,
ma
una
nube

ottenebrò
il
cielo
e
sugli
occhi
dell’umanità
cadde
allora
la
nebbia.


Io
sono
un
marinaio
malato,
la
salsedine
della
lontananza
ha
oramai
corrotto
le
mie
ossa,
la

mia
carne
è
finita
in
bocca
ai
pesci
che
irriconoscenti
ne
chiedono
ancora.

Ingannato
dal
bagliore
di
un
sole
sbagliato,
sono
cieco
e
la
mia
cecità
si
chiama
orgoglio
ma

ancora
arranco
con
pavido
timore
ferendomi
i
calli,
ficcando
i
piedi
tre,
le
travi
sconnesse
di

una
nave
in
rovina.


Vi
era
una
stella,
un
tempo
tanto
lontano,
che
brillava
solo
per
me
di
luce
divina,
io
me
ne

innamorai,
giovane
e
sprovveduto
volli
salire
sino
al
cielo
per
coglierla,
sfidai
il
bene
e
il
male,

con
la
mia
scala
fatta
di
vetro
e
quando
raggiunsi
la
stella
lucente,
potei
soltanto
toccarla
e
ciò

mi
fu
sufficiente
e
fui
felice,
dopo
di
che
caddi
finendo
rovinosamente
anch’io
sopra
il
vascello

fantasma.

Sono
uno
dei
numerosi
marinai
senza
volto
e
senza
più
nome
che
ancora
credono
che
in
una

notte
senza
luna,
una
stella
si
affacci

tra
le
nubi
cariche
di
pioggia
e
tendendomi
una
mano
mi

dica
ancora
una
volta
“ti
amo”.



Alla
mia
stella
Polare.


16
‐01‐
10

Notti
pietose.


Se
c’è
qualche
cosa
più
lacrimevole
del
suono
di
un
violino
in
una
notte
d’inverno,
io
l’ho

sentito
attraverso
i
vetri
appannati
della
mia
camera,
mentre
il
fiato
faceva
velo
ai
miei

pensieri,
il
vento
fuori
monotono
e
grève
suonava
il
suo
più
triste
lamento,
sputando
la
neve

con
odio
e
rancore.


Se
v’è
qualche
cosa
più
struggente
di
una
notte
senza
luna
è
sapere
che
si
è
soli
abbandonati
al

proprio
destino
e
il
freddo
e
le
tormente
che
lacerano
l’anima,
non
sono
più
gelide
del
ghiaccio

che
si
ha
nel
cuore.


La
tristezza
è
noia,
vanità
ipocrisia,
escrescenze
mentali.


Se
esiste
qualche
cosa
più
dolorosa
di
una
campana
che
suona
a
morto
e
che
quel
morto
non

sono
io,
è
sapere
che
i
solchi
di
quel
carro
che
a
fatica
avanza
nella
tormenta
non
è
il
mio

corpo
logoro
che
porta,
ma
i
miei
pensieri
che
in
una
notte
come
questa
sbattono
sui
vetri

chiusi
di
una
piccola
camera
da
letto,
troppo
minuscola
per
contenere
una
persona
e
troppo

grande
per
contenerne
il
pensiero.


Se
c’è
qualcosa
più
triste
di
uomo
è
la
sua
notte
pietosa.


05‐01‐10



A
una
musa.


Ti
porterò
al
guinzaglio
e
tu
mi
seguirai
al
passo
saltellando
allegramente
evitando
i
calci
dei

passanti
distratti,
tra
le
piante
e
i
fiori
ti
aggirerai
festante,
come
tra
le
strade
sconnesse
di
una

città
viziosa.


Bagnata
di
lacrime
e
giada,
ebbra
di
vizi
e
vezzi,
incurante
del
gelo
più
intenso
come
della

calura
più
opprimente,
nuda
e
casta,
ti
mostrerai
ai
raggi
caldi
del
sole
come
agli
occhi

perversi
della
notte.


Languida
e
lasciva
col
tuo
osceno
andare
inumidisci
col
tuo
forte
odore
l’asfalto
arroventato.


Calpestata
e
derisa,
invocante
pietà
e
amore
ti
mostrerai
compiacente
alle
mie
mille
voglie,
tu

scritta,
disegnata,
incisa
e
cantata,
tu
persa
e
trovata,
tu
musa
snaturata.


05‐01‐10

Seduto
sui
gradini
di
una
chiesa.


Seduto
sui
gradini
di
una
chiesa,


implorando
e
imprecando
dove
la
gente
perbene


calza
scarpe
sempre
lucide
e
le
loro
donne
mettono
veli
scuri
sui
loro
capelli.


Dove
la
pioggia
gelida
dell’inverno
veste
di
brina
il
mio
cuore

e
l’arsura
dell’estate
allunga
la
mia
ombra
fino
al
cielo.


Di
loro
conosco
a
memoria
i
polpacci
e
il
colore
delle
loro
calze
a
rete,

di
me
conoscono
solo
la
puzza.

I
miei
occhi
si
abbassano
sino
a
sfiorare
il
selciato,
perché
provo
pietà,


pietà
per
loro.


Seduto
sui
gradini
di
una
chiesa,
ho
venduto
tutti
i
miei
denti,


e
mentre
muoio
di
fame,
là
dentro
le
belve
divorano
senza
vergogna
il
corpo
di
un’innocente.


Suonano
le
campane,
una
triste
canzone
di
morte,

mentre
i
morti
entrano
in
un
eterno
funerale.


Io
sono
l’unico
vivente,
e
mentre
intono
un
requiem

rido,
rido
alla
vita
come
riderò
alla
morte.



Riflessioni.

(a
me
stesso).


Conosci
la
pietà?

Lei
sta
di
fronte
alla
porta
di
casa
tua,
eppure
lei
ti
conosce,

più
volte
ha
bussato
alla
tua
soglia
e
tu
non
gli
hai
mai
aperto.

L’hai
guardata
curiosa
dal
buco
della
serratura
e
l’hai
vista
sgradevole,
male
vestita,
coi
capelli

in
disordine,
semplicemente
sciatta
e
mentre
lei
continua
a
bussare
tu
continui
a
non
sentire.


Conosci
l’umiltà?

È
la
tua
vicina
di
casa
e
lei
ti
conosce,

tante
volte
ti
ha
invitato
a
casa
sua,
tante
volte
hai
rifiutato,
tante
volte
si
è
presa
cura
di
te
e
te

lo
sei
dimenticato.
Ancora
oggi
ti
lava
i
panni
quelli
dismessi
perché
te
ne
vergogni.


Conosci
la
speranza?

È
la
tua
compagna
di
stanza,
ma
tu
non
l’hai
mai
degnata
nemmeno
di
uno
sguardo,
quante

volte
si
è
presa
premura
di
te,
ti
ha
acceso
la
luce
quando
entravi
nella
stanza
e
ti
ha
scaldato

negli
inverni
gelidi.



Neanche
io
mi
conosco,
eppure
mi
frequento
da
anni
da
una
vita,
eppure
che
cosa
devo


aspettarmi
di
più?


Il
volo.


Sono
pronto
da
una
vita,

ed
ecco
finalmente
dopo
tanta
pena
è
giunto
il
mio
momento,

tutto
è
pronto
e
davanti
a
me
si
spalanca
l’orizzonte.


Che
scenario,
gli
dei
dell’olimpo
proverebbero
invida
per
me
ora,

io
che
ora
mi
atteggio
a
novello
Icaro

a
sfidare
i
numi
celesti.


Dinanzi
a
me
danza
il
vuoto

e
il
vento
teso
di
un
maestrale
ruvido
mi
carteggia
il
volto,

strappandomi
a
ciocche
i
capelli,

si
riempiono
di
sale
marino
le
mie
narici,

vorticosamente
sale
l’ansia,

e
il
respiro
s’abbatte
come
un
macigno
sfondandomi
i
polmoni.


Che
meravigliosa
sensazione,

essere
onnipotente
e
sfidare
l’infinito,

afferro
il
vento
con
le
mani

e
le
mie
ali
si
gonfiano,

mentre
sotto
di
me
il
mare

che
sbattendo
i
suoi
furiosi
flutti
sui
ruvidi
scogli,

sembra
invocare
il
mio
nome.


Un
solo
attimo,

l’ultimo
affannoso
respiro
di
vita

e
le
mie
ali
si
tendono,

abbrancando
il
vento
come
possono
e
che
ora
soffia
in
tutte
le
direzioni.


Volo,

Dio
sa
che
posso
volare,

Dio
sa
che
so
volare,

il
mio
essere
si
riempie
d’aria

e
finalmente
respiro
la
vita.


È
ancora
troppo
presto,

è
ancora
troppo
presto

ma
il
mare
già
mi
allarga
le
sue
poderose
braccia,

preparando
i
ruvidi
scogli
che
saranno
cuscini
per
la
mia
ultima
eterna
notte.


Io
non
so
esattamente
dove
stia
andando,

ma
ti
posso
giurare
che
qua
sotto,

sotto
questa
pesante
massa
d’acqua
in
continuo
movimento,

niente
ha
più
un
senso,

né
uno
scopo.

Tutto
si
ferma
ed
è
bellissimo,
stare
a
guardare.





Notturno.


Penelope
sta
alla
finestra,

come
le
nuvole
stanno
al
mare

e
un
vortice
di
assurdi
racconti
infastidisce
anche
l’aria.

già
per
se
stessa
rarefatta
e
tediosa.


Sono
arrivato
a
festa
già
iniziata,

l’aria
nervosa
di
una
nottata
newyorchese,
mi
si
appiccica

sui
vestiti
come
la
bava
di
un
ubriaco,

e
una
birra
tira
l’altra,

un
discorso
tira
l’altro,

tra
chatters
notturni,

e
asshole
metropolitani,


il
chiacchiericcio
d’asettiche
megere,

scivola
lentamente
sul
pavimento
come
i
vestiti
di
giovani
ballerini,

che
nudi
si
avvinghiano
tra
loro
in
danze
lascive.

In
una
notte
dove
puoi
andare
a
letto
con
chiunque,

Penelope
sta
alla
finestra,


come
le
nuvole
stanno
al
mare.

Lei
cerca
storie,
e
si
attacca
ai
pianti
di
luna,
mentre
giù
per
la
strada

un
altro
ragazzo
muore,
e
un’overdose
di
pugni
e
biascichi
maleodoranti,
impregna
l’aria

tediosa
di
una
qualsiasi
nottata
neworkese.


“Che
cazzo
ti
stai
ancora
a
guardare
dalla
finestra”,
dico
io,


e
mentre
nel
mondo
si
sta
scatenando
l’apocalisse,

Penelope
sta
ancora
alla
finestra,

come
le
nuvole
stanno
al
mare.

Non
si
possono
togliere
le
nuvole
da
sopra
il
mare,

né
si
può
levare
Penelope
dalla
sua
finestra.


E
mentre
la
luna
se
ne
fotte
di
noi
tutti,

l’uomo
dal
vestito
grigio,
ha
già
messo
fine
alla
sua
penosa
esistenza,

e
intanto
che
aspetto
la
polizia
che
come
sempre
tarda
ad
arrivare,

guardo
la
mia
dea
alla
finestra.

Altera
e
leggiadra,
scende
allora
le
scale,
e
non
le
importa
se
le
sue
scarpe
di
vernice

s’insozzano
di
sangue,
e
se
il
vomito
le
macchia
il
suo
leggero
vestito
di
lino.

Lei
è
una
dea
metropolitana,
non
avvezza
alle
cose
terrene.


Io
sto
alla
finestra,
come
il
sorgere
del
giorno
sta
alla
noia,

al
tedio,
al
nulla.



















Il
Circo

(
overture
in
Do
M.)


Ognuno
è
una
storia,

e
come
ogni
storia,
si
ripete,

e
si
ripete
senza
tempo.


Sotto
un
pesante
e
logoro
tendone
da
circo,

io
sono
un
attore,


forse
un
clown,

un
giocoliere,

o
un
domatore,

magari
un
trapezista,

o
piuttosto
un
mago,
un
indovino,

probabilmente
un
ladro
o
un
assassino.


E
davanti
alla
vita,

come
dinnanzi
allo
specchio,

la
mia
immagine
riflette,

le
mie
quotidiane
gesta,

sempre
le
stesse,

sempre
uguali,
logorroiche.


Quindi
sotto
la
luce
fioca
di
una
luna
malata,

che
a
malapena
fa
capolino
tra
gli
squarci
frusti
del
cielo,

comincio
a
truccarmi,

ancora
una
volta
prima
di
entrare
in
scena,

lentamente
come
le
ali
di
una
farfalla,

io
divento
un
altro,

ciò
che
ho
sempre
desiderato
di
essere…

…me
stesso,
finalmente.


Il
rimmel
leggero,
come
battiti
di
ciglia,

e
matita
nera
agli
occhi,
perché
diventino
più
profondi,

e
come
Penelope,

un
fondo
tinta
pallido,

e
ritorna
l’innocenza
sul
mio
volto.


Indosserò
il
mio
abito
più
bello,

vestirò
il
mi
sorriso
più
triste,

sfodererò
il
mio
sguardo
più
cupo,


metterò
argento
sulle
mie
ali,

e
una
corona
di
spine
sopra
il
mio
capo.


Incederò
a
passi
leggeri,

e
quando
finalmente
s’aprirà
dinnanzi
a
me
il
sipario,

allora
tutta
quella
gente
seduta
sugli
spalti,
e
anche
quelli
più
lontani,

cominceranno
ad
applaudirmi
ed
inneggeranno
il
mio
nome.


Tornerò
a
vivere,

a
volare,

ad
essere.


Sulle
note
di
un
valzer
viennese,

Cavalcherò
gli
aliti
di
vento,

volerò,

scenderò
in
picchiata,

veleggerò
in
ardite
evoluzioni,

ma
quando
la
macchia
nera
del
destino,

macchierà
il
mio
candido
vestito,

e
la
falsa
maschera
d’innocenza,

svanirà
dal
mio
volto,

pesantemente,

come
un
sacco
di
letame,

mi
sfracellerò
al
suolo,

e
allora
la
gente
che
prima
applaudiva,

riderà
di
me,

e
mi
dileggerà…


…com’è
buffo
il
destino,

che
all’apice
del
mio
volo,

quando
avevo
appena
sfiorato
i
primi
lembi
del
paradiso….

…mi
fa
precipitare…e….

…assaporare
la
sapidità
della
sabbia
umida,

e
il
gusto
aspro
della
disfatta.


E
sì
che
io
dovrei
esserci
ormai
abituato,
ma
tant’è…


Ogni
giorno
che
il
Signore
ha
mandato
su
questa
terra,

ho
calpestato
a
piedi
nudi
questo
palcoscenico,

e
ogni
giorno
è
stato
un
fiasco
dopo
l’altro,
fino
ad
ora…

ma
come
ogni
attore
che
si
rispetti,
buono
o
mediocre
che
possa
essere,

eccomi
sempre
pronto
a
ricalcare
le
scene,

e
recitare
la
mia
odiosa
parte,

a
mascherarmi,

per
essere
ancora
me
stesso,

mentre
lontano
in
qualche
altro
posto,

un
altro
io
rivendica
il
suo
fato.













Cordoglio.


Cristo
è
stato
crocefisso,

ancora
una
volta,

ed
è
stato
innalzato
più
in
alto,

in
modo
che
ognuno
lo
posa
vedere.


E
i
chiodi
infissi
nelle
carni,

sono
le
nostre
colpe,
e

la
sua
corona
di
spine,

i
nostri
peccati,
e

gli
squarci
delle
frustate
sulla
sua
pelle
le
nostre
bestemmie.


Giù
duro
picchia
il
martello,

e
quante
volte
ancora
conficco
nelle
sue
carni
innocenti,

la
mia
cieca
lancia.

Giuda
l’ha
tradito
ancora,

e
ancora
lo
tradirà.,
ed
anche
io
l’ho
tradito.


Ho
crocefisso
il
Cristo
ancora
una
volta,

ma
il
suo
sangue
immacolato
non
s’è
disperso,

asciugato
da
una
terra
arsa
dall’odio.


Ho
crocefisso
il
Cristo
ancora
una
volta,

e
Roma,

e
Londra,

e
San
Francisco,

e
New
York,

e
Beirut,

e
Gerusalemme,

e
in
tutta
la
Palestina,

e
nei
deserti
dei
nostri
cuori,

e
nelle
cattedrali
vuote,

e
nei
pianti
dei
bimbi
innocenti,

non
vi
sarà
cordoglio.


Nella
violenza,

e
nell’odio,
un
grido
di
dolore

e
in
noi
forse
la
speranza
di
un
futuro.













Estate.


Musa,

Eccentrica
ispiratrice
marina,

che
si
assopisce
lentamente,

sensuale
come
una
ragazzina
impertinente,

che
mostra
il
suo
bruno
colore,

scintillante
come
una
stella
marina.


Spudorata,


lascia
che
il
suo
corpo
acerbo
e
peccaminoso,
si
mostri
conscia,


agli
sguardi
distratti
degli
dei
marini
distesi
pigri
sul
bagnasciuga.


Estate,

leggera,
come
i
teneri
amori,
che
s’incrociano
veloci,

e
svaniscono
come
nuvole
trasportate
dal
vento.

Sapori
di
frutti
di
bosco,
melone
e
fragola,

di
sabbia
e
sale,
di
sassi
che
scottano.


E
di
sera,

al
tramonto,
lieve
si
smorza
la
calura,

una
brezza
leggera,
carezza
i
giovani
amanti,

ancora
in
spiaggia,
e
la
luce
del
sole,
si
smorza

e
a
fare
da
ruffiana
spunta
una
pallida
luna.


Lontano
le
lampare,
che
fluttuano
sulle
onde,
come
tremule
candele,

e
il
mare
che
suona
la
sua
calma
litania.


Dammi
le
tue
mani
amore
mio,


l’amore
non
ha
età,
il
sole
non
ha
età,

la
luna
non
ha
età,
e
noi
saremo
eterni,

come
l’amore,

come
l’estate.





30/06/2007















Una poesia d'amore.


Se
il
caffé
fosse
amaro,


tu
l'addolciresti.


e
un
giorno
di
pioggia,


tu
lo
rischiareresti.



Se
suonassero
una
musica
triste,


tu
la
rallegreresti.



Se
uno
più
uno
non
facesse
due,


tu
potresti
farlo.


Se
la
vita
fosse
solo
un
sogno,


tu
l'avvereresti.


Se
non
esistesse
l’amore,

tu
lo
inventeresti.


Un
mondo
grigio,

tu
lo
coloreresti,

e
il
deserto
arido,

tu
lo
innaffieresti.

Tu
sei
acqua,

e
io
mi
disseto
in
te.


Dio
esiste
ed
è
riflesso
in
te.


























Colorami.


Colorami
del
colore
dei
tuoi
occhi,


di
quel
tiepido
colore,
che
l’innocenza
del
tuo
sguardo
mi
sa
donare.

Colorami
del
colore
della
tua
età.

Io
sono
come
un
foglio
bianco
disteso
ad
asciugare
al
sole.

Tu
sei
il
vento
d’estate,

l’aria
di
primavera,

il
profumo
dei
fiori,


il
colore
dell’aurora.


Colorami
del
colore
dei
tuoi
sogni,

del
calore
delle
tue
parole,

colorami
con
i
colori
tenui
delle
tue
gote,

colorami
del
colore
rosso
della
passione,

di
quello
giallo
della
gelosia,

colorami
del
colore
della
primavera.

Io
sono
come
un
foglio
bianco
steso
ad
asciugare
al
sole.



Colorami
del
tuo
colore,

del
colore
dei
tuoi
respiri,

del
colore
dei
tuoi
baci,

del
caldo
colore
dell’amore,

dello
scintillante
colore
della
vita.





























Lo
specchio
di
Sofia.


Sulla
scia
di
una
lacrima,

s’infrangono
i
sogni.

Alita
sullo
specchio
la
piccola
Sofia

per
poter
contemplarsi,

ma
non
vede
nella

bambina
cresciuta
troppo
in
fretta,

caduta
dall’albero
delle
meraviglie,

ancora
troppo
acerba.


Il
suo
frutto
troppo
dolce

ha
inquinato
i
fiumi,

il
suo
colore
troppo
intenso

ha
seccato
i
campi.


Sofia
non
ha
bisogno
di
trucco,

i
suoi
grandi
occhi,

sono
seganti
da
troppe
notti
insonni,

e
da
mani
troppo
ansiose,

le
sue
braccia
e
le
sue
gambe,

portano
i
segni
d’un
amore
che
nulla
ha
di
dolce,


neanche
il
nome,

ha
le
cicatrici
dei
morsi
che
soli
i
cani
in
calore
sanno
dare.

L’innocenza
è
un
ricordo
rosso
sulle
lenzuola.


Lacrime
d’argento,

e
fili
di
seta,

canta
la
sua
ninna
nanna,
roca
e
senza
voce,

mentre
sotto
la
luce
di
una
luce
ruffiana,

scintilla
la
cinghia
che
ora
sì
abbatte
sulla
sua
schiena.


Come
suonano
sinistri
ora
quei
cantici
d’amore,

come
stonano
quelle
brutte
parole,

come
piange
quella
piccola
bimba.


Ecco
che
s’avanza
il
nero
corteo

Va
a
seppellire
l’innocenza
perduta,

Va
a
sotterrare
i
sogni
di
una
bambina,

Suono
lugubre
di
campane,

una
bambina
è
morta

ed
è
rinata
donna.


Ne
siano
dunque
lieti,

le
orde
di
cani
randagi,
fuori
dalla
porta,

che
ora
attendono
la
loro
ricompensa,

ne
siano
lieti,
che
non
ha
orecchie,


né
voce,

una
bambina
è
morta,

ed
è
nata
una
donna.


Sofia,

si
guarda
ancora
alla
specchio,

e
lo
specchio
guarda
Sofia,

seppellendola

in
una
buca
più
profonda,

quella
dell’odio.















































L’Elogio
del
vino.


Goccia
dopo
goccia,

linfa
della
terra
scende
come
un
caldo
bacio
di
un’amante

giù
per
le
mie
secche
viscere.


Goccia
dopo
goccia,

saliva
della
natura,
m’invade
col
suo
lento
fuoco

l’anima,
il
cuore,
la
mente

e
tutto
d’un
tratto
desta
il
nano
assopito.


Ed
ecco
che
s’alza
dalla
sua
cupa
dimora
e
danza,
danza,
danza,

in
un
vortice
senza
fine
d’oblio
e
d’inedia,

come

fiume
in
piena
la
lingua
si
scioglie

e
versa
parole,
inondando
il
tavolo
di
assurdo
rumore.


Goccia
dopo
goccia,

calice
dopo
calice,
la
botte
si
svuota,

ma
è
del
caldo
sangue
della
terra
si
riempiono
i
cuori,

di
sconce
risa
s’impregna
l’aria,
dell’odore
allegro
di
labbra
umide

si
imbiancano
i
muri.

Di
colpo
si
cancellano
paure
e
inibizioni,
quando
mesci
nel
tuo
calice
assetato


il
nettare
di
Bacco,


Evviva
il
vino,
evviva
le
donne

vivaddio,
che
ci
ha
concesso
nella
sua
immensa
grazia
di
poter
glorificare
nel
suo
nome


tutto
il
creato.



14/04/2001





















Il
Tesoro.



Oggi
il
mare
è
stato
cattivo.
Non
ha
giocato
come
me
nel
modo
come
è
solito
fare.

Abitualmente
lui
scherza,
ma
poi
mi
accarezza
e
con
onde
leggere,
come
se
quasi
mi
volesse

cullare
per
farmi
addormentare,
e
mi
dondola
al
dolce
suono
di
mille
sirene.

Mi
sa
prendere
con
infinita
pazienza
quasi
voglia
abbracciarmi,
sembrerebbe
quasi
che
mi
ami

davvero.


Ma
se
davvero
devo
rivolgerli
un
rimprovero,
è
quasi
che
voglia
tenere
tutto
per
se
il
suo

grande
tesoro
che
cela
nel
suo
immenso
grembo.

Geloso
come
un’amante
crudele,
come
solo
gli
adulti
sanno
essere.


Complice
la
brezza
mattutina,
il
dolce
suono
dell’ozio
mi
prende
per
mano
e
mi
conduce
tra
i

flutti
del
mio
celeste
amico;
mi
arrendo
ai
suoi
innocenti
giochi
e
calmo
come
in
un
abbraccio

materno
mi
perdo.


Ma
oggi
il
mare
è
stato
cattivo
con
me,
d’improvviso
ha
spalancato
il
suo
immenso
coperchio
e

mostrandomi
i
gioielli
del
suo
grande
tesoro,
mi
invita
ad
entrare
ed
a
raccogliere
ogni
cosa

potessi
arraffare
con
le
mie
incredule
mani.


Quale
spettacolo
indescrivibile
appare
ora
dinnanzi
a
me:
oro
e
coralli,
piccoli
pesci

multicolori
che
sembrano
ansiosi
di
esser
presi.

Allora
comincio
a
correre
sotto
i
raggi
d’un
cocente
sole
estivo
verso
quei
tesori
scintillanti,

nella
attesa
solo
d’essere
raccolti.


Ma
oggi
il
mare
oggi
è
stato
cattivo
con
me,
perché
d’improvviso
ha
richiuso
il
suo
pesante

coperchio
di
acque
proprio
sopra
di
me.

Brutto,
cattivo,
impudente
e
codardo
come
solo
gli
adulti
sanno
essere.


Ma
poi
ho
pensato:
forse
non
si
è
accorto
che
ero
ancora
lì
sotto.
O
forse
chissà
ha
avuto
paura

di
essere
derubato
di
nuovo
dei
suoi
grandi
tesori,
o
ancora
la
mia
voce
forse
era
troppo

flebile
per
essere
sentita?

Fatto
stà
che
mi
ha
preso,
confinandomi
tra
le
miriadi
di
gemme
preziose
del
suo
grande

tesoro.

Forse
l’innocenza
che
avevo
negli
occhi
è
stato
il
prezzo
che
ho
dovuto
pagare
per
la
mia

sfacciataggine?

Ma
io
non
volevo,
è
stato
lui
che
mi
ha
detto
vieni.


Ma
ora
sono
qui.
Come
il
più
prezioso
gioiello
a
giocare
con
altri
angeli
come
me.

Padre
non
ti
disperare,
e
tu
madre
non
piangere
più.
Io
sto
bene,
e
qui
c’è
quiete
e
tranquillità.

Il
mare
geloso
mi
ha
preso
con
lui,
ma
io
sarò
sempre
con
voi,
e
mai
vi
lascerò
più
un
solo

momento.
E
se
un
giorno
vorrete
sentire
la
mia
voce,
sedativi
allora
sulla
spiaggia
ad
ascoltate

il
mare,
e tra
il
sussurrare
delle
onde,
lì
è
la
mia
voce,
e
se
una
piccola
onda
vi
sfiorerà
le

caviglie,
avvicinatevi
di
più
senza
avere
paura,
quella
è
una
mia
carezza
per
ricordarvi
che
vi

amo.


Potrebbero piacerti anche