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Oblitus
fabularum.
Chissà
se
le
cose
sarebbero
andate
davvero
così
e
se
saremmo
arrivati
ai
punti
di
oggidì,
se
quel
piccolo
fanciullo
dai
biondi
capelli,
generato
dalla
dea
Artemide
e
da
Ares
così
narrato
dagli
antichi
scritti
e
chiamato
Amore
o
Eros,
non
fosse
stato
sostituito
appena
nato
da
altri
infanti,
di
ben
altra
stirpe.
Alcuni
or
grideranno
alla
bestemmia,
alla
blasfemia,
all’eresia
in
preda
a
quell’ira
funesta
che
ben
conobbe
il
pelide
Achille.
Ha!
Umani,
la
vostra
mente
è
ben
lungi
dalle
congiure
meschine
e
grette
di
corte,
che
ne
sapete
voi
delle
invidie
divine,
delle
gelosie
che
le
divinità
di
ogni
tempo
e
luogo
hanno
sempre
provato
l’una
l’altra.
Non
conoscete
le
rivalità
che
hanno
riempito
i
cieli
sempiterni
dell’Olimpo
prima
che
il
mondo
avesse
la
sua
attuale
forma.
Avanti
che
i
venti
cominciassero
a
soffiare
e
portare
gli
echi
onnipotenti
delle
divinità,
gli
uomini
già
vagavano
sulla
terra,
erano
esseri
rozzi,
sgraziati,
brutti
e
ignoranti,
violenti
e
senza
quasi
il
dono
della
parola.
Queste
brutture
vaganti
erano
opera
di
Crono,
che
per
vendicarsi
dell’affronto
subito
da
suo
figlio
Zeus,
le
aveva
mandate
sulla
neonata
terra
a
prolificarsi
nel
tentativo
di
distruggere
quanto
madre
Gea
aveva
fatto.
Saturno
aveva
plasmato
queste
orride
creature
col
fango
bollente
e
putrescente,
che,
giù
nei
più
profondi
inferi
ha
il
suo
dominio,
poi
gli
aveva
dato
una
forma
simile
alla
sua,
perché
voleva
che
in
qualche
modo
riflettessero
la
sua
potenza,
ma
si
dimenticò
di
dare
loro
un’anima,
e
limitandosi
a
soffiar
loro
nelle
orecchie,
le
infuse,
la
vita.
Queste
maldestre
creature
s’impossessarono
della
terra
appena
creata,
ignoranti
e
senza
un’anima,
questi
giganti,
presero
a
distruggere
tutto
ciò
che
incontravano
sul
loro
cammino,
gli
alberi
che
appena
piantati,
stavano
gettando
i
primi
germogli,
le
giovani
piante
che
un
giorno
avrebbero
dominato
il
mondo,
ma
allora
ancora
teneri
virgulti
subirono
la
stessa
sorte,
e
che
dire
delle
piccole
creature
che
stavano
facendo
i
primi
passi
su
quel
nuovo
pianeta,
giovani
animali
a
due
e
a
quattro
zampe,
striscianti
e
volanti,
guizzanti
nei
dolci
fiumi
spumeggianti
o
saltellanti
tra
gli
stagni
appena
formati,
starnazzanti
e
cinguettanti,
tutti
alla
fine
avrebbero
seguito
una
stessa
unica
sorte.
Avanti
che
altre
deità
avrebbero
di
lì
a
poco
occupato
il
loro
posto
nell’Olimpo,
Crono
si
godeva
ciò
che
aveva
appena
creato
dal
suo
punto
privilegiato
che
sta
proprio
a
metà
tra
la
terra
e
il
cielo,
un
luogo,
che
per
qualcuno
sarà
i
“campi
elisi”
,
posto
luminoso
dove
soggiornano
le
anime
pie,
un
posto
senza
gioia
né
tristezza,
e
per
altri
sarà
il
“tartaro”
tenebroso
e
terribile
luogo
dove
in
eterno
vengono
punite
le
anime
dei
malvagi.
Gea
la
madre
terra,
mal
sopportava
i
soprusi
che
Crono
le
stava
arrecando,
come
mal
digeriva
quegli
esseri
abominevoli
che
di
punto
in
bianco
avevano
preso
a
prosperare,
scorrazzare
e
a
fare
danni
sulla
sua
superficie,
e
fu
solo
l’intervento
della
provvidenza
che
cambiò
(o
peggiorò)le
cose.
Col
passare
del
tempo
anche
l’Olimpo
andava
affollandosi
di
nuove
divinità,
alcune
di
queste
presero
a
cuore
il
destino
di
madre
Gea.
Una
in
particolare
già
famosa
per
la
sua
bellezza
e
grazia,
aveva
così
a
cuore
il
destino
di
madre
Gea,
che
non
esitò
di
recarsi
dal
sommo
padre
per
avere
consiglio
e
costui
dopo
avere
ascoltato
così
accorate
richieste,
rispose:
-‐Aimè!
Nella
fretta
che
ebbe
Crono
di
creare
l’essere
a
lui
così
somigliante,
si
dimenticò
di
dargli
un’anima,
un
cervello
e
un
cuore.
Allora
la
dea
famosa
per
la
sua
bellezza,
chiese
a
cosa
potessero
servire
quei
tre
elementi.
Così
il
sommo
padre,
rispose:
Figlia
mia
Afrodite,
l’amina
è
per
i
sentimenti,
il
cervello
per
la
comprensione
e
il
cuore
per
ciò
che
non
è
stato
ancora
creato.
Sta
a
noi,
dover
trasmettere
a
quegli
esseri
ciò
che
necessitano,
per
farli
progredire.
Ancora
una
volta
la
dea
della
bellezza
domandò
al
padre
supremo
perché
tali
esseri
abbietti
dovessero
perfezionarsi
e
perché
tale
compito
dovesse
spettare
a
loro.
Con
infinita
pazienza
il
sommo
padre
rispose:
-‐
Crono,
nonostante
si
sia
volto
dalla
parte
del
male
è
sempre
un
nostro
congiunto
e
ciò
che
ha
creato
suo
malgrado,
è
il
nostro
riflesso
sulla
terra,
sta
dunque
a
noi
renderlo
perfetto
e
quanto
più
simile
a
noi.
Per
questo
ho
deciso
che
ognuno
dei
voi,
figli
miei,
scenda
sulla
terra
e
infonda
in
questi
esseri
ciò
per
cui
è
stato
creato.
Costoro
conosceranno
Vulcano,
apprenderanno
dal
lui,
l’arte
del
ferro,
conosceranno
il
lavoro,
apprenderanno
a
manipolare
il
fuoco
e
a
non
averne
paura.
Manderò
dunque
Cerere,
la
dea
delle
messi,
con
lei
apprenderanno
l’arte
dell’agricoltura
e
la
coltivazione,
riceveranno
dalla
generosa
madre
Gea,
quello
che
prima
le
rubavano.
Da
Diana,
apprenderanno
l’arte
della
caccia,
da
Atena
la
saggezza,
da
Poseidone
i
segreti
del
mare,
la
pesca
e
la
navigazione,
mentre
da
Apollo
le
arti
e
la
divinazione,
con
Mercurio
il
commercio
e
infine
con
Asclepio
l’arte
della
medicina.
Venere
pur
avendo
delle
riserve,
acconsentì
al
volere
del
sommo
padre
e
di
conseguenza
anche
tutte
le
altre
divinità.
Vulcano
fu
il
primo
che
dalla
sua
fucina
nel
mezzo
della
terra,
risalì
sulla
superficie.
La
divinità
aveva
della
affinità
con
le
creature
che
andava
a
incontrare,
e
forse
per
questo
che
fu
scelto
per
primo.
Quando
giunse
sulla
superficie,
lo
spettacolo
che
vide
non
fu
certo
dei
più
incoraggianti,
una
massa
di
esseri
puzzolenti
e
rozzi
che
sbraitavano
e
vociavano
in
maniera
concitata
e
confusionaria,
il
caos
regnava
tra
loro.
Per
prima
cosa,
rifletté
il
dio
Vulcano,
qui
ci
sarebbe
bisogno
di
un
qualcosa
che
facesse
in
modo
che
questi
esseri
si
comprendessero
l’un
l’altro,
e
così
la
divinità
creò
la
parola,
e
l’infuse
in
quelli
esseri,
che
da
allora
cominciarono
a
comprendersi.
Dopodiché
la
divinità
mischiandosi
tra
loro
tentò
d’insegnare
anche
le
sue
arti.
Arduo
fu
il
compito,
perché
quegli
esseri
pur
essendo
dotati
della
parola
non
avevano
sufficiente
intelligenza
per
comprendere
ciò
che
la
divinità
voleva
insegnare
loro.
Così
il
dio
Vulcano
si
rivolse
a
sua
volta
al
padre
supremo
e
quest’ultimo
non
esitò
a
mandare
sulla
terra
Minerva,
dea
della
sapienza
e
delle
arti,
nel
tentativo
di
dare
una
parvenza
di
educazione
a
quei
rozzi
primi
abitanti
della
terra.
Aimè!
Anche
per
la
saggia
Minerva
il
compito
si
rivelò
improbo,
perché
appena
giunta
sulla
terra,
fu
assalita
da
un
nugolo
di
loschi
figuri
e
a
stento
si
salvò
dalle
loro
grinfie.
Lo
stesso
Giove,
preso
da
un
impeto
d’ira,
volle
distruggere
con
un
fulmine
la
terra
stessa
e
tutti
i
suoi
abitanti,
fu
invece
l’intervento
provvidenziale
di
Venere
a
farlo
desistere
dai
suoi
propositi.
Il
simposio
delle
divinità
era
pieno
in
ogni
ordine
e
grado,
e
tutto,
si
poteva
dire
che
era
stato
ormai
creato.
Ancora
però
mancava
qualcosa,
si
certo;
le
arti,
la
saggezza,
la
forza,
l’arguzia,
la
musica,
la
filosofia
e
la
medicina,
la
caccia
e
la
pesca,
le
arti
divinatorie
e
quelle
mediche,
tutto
era
stato
preventivato,
ma
ancora
qualcosa
non
tornava,
infatti,
non
era
stato
ancora
creato
l’amore.
Orbene,
la
storia
della
nascita
di
amore
è
avvolta
da
mille
misteri,
ognuno
ha
provveduto
nel
tempo,
a
fornire
la
propria
versione
ma,
ciò
che
accadde
veramente
forse
nessuno
lo
sa,
dunque,
io
darò
la
mia
trasposizione
dei
fatti,
consono
che
ciò
che
racconterò
è
frutto
di
un
sogno,
una
visione
tanto
vicina
alla
realtà
di
trasfigurarla.
L’amore
com’era
stato
concepito
originariamente
dagli
dei,
era
ben
altra
cosa
di
quello
che
oggigiorno
fa
girare
tutte
le
cose.
Infatti,
ciò
che
oggi
regna
incontrastato
sullo
scanno
del
mondo
non
è
l’Amore
originario,
bensì
il
suo
mero
sostituto,
o
meglio
i
suoi
sostituti,
ed
è
da
qui
che
parte
questa
fantastica
storia
di
amore
e
di
quando
ancora
infante
fu
scambiato
nella
culla.
II
Apocrifa.
Strano
destino
di
questo
bambino,
sostituito
nel
suo
lettino
per
ben
sette
volte,
con
altrettanti
suoi
cloni,
ma
procediamo
con
ordine:
Come
detto
prima,
sulla
terra
vivevano
i
primi
esseri
creati
dal
dio
Crono;
costoro
rozzi
e
ignoranti
avevano
preso
a
scorrazzare
per
tutta
la
superficie
terrestre
facendone
scempio,
a
questo
disastro
aveva
cercato
lo
stesso
Giove
a
porvi
rimedio,
mandando
sulla
terra
gli
dei,
col
compito
di
“civilizzare”
quegli
esseri
abbietti.
Così
mandò
Manderò
Cerere,
la
dea
delle
messi,
per
insegnare
loro
l’arte
dell’agricoltura,
Diana
per
istruirli
nell’arte
della
caccia,
Atena
per
inculcare
loro
la
saggezza,
Poseidone
i
segreti
della
pesca
e
la
navigazione,
con
Apollo
le
arti
e
la
divinazione,
con
Mercurio
il
commercio
e
infine
con
Asclepio
la
medicina.
Ma
aimè,
tutto
quello
sforzo
si
rivelò
vano,
quando
i
primi
gretti
abitanti
della
terra,
non
comprendendo
i
doni
che
il
sommo
padre
aveva
fatto
loro,
avevano
trattato
i
loro
ospiti
celesti
come
nemici
e
quindi
scacciati.
Anche
se
il
primo
impulso
del
sommo
Giove,
fu
quello
di
distruggere
il
pianeta
appena
creato
e
con
esso
tutti
i
suoi
abitanti,
il
padre
degli
dei
dovette
ritornare
sui
suoi
passi,
perché
nonostante
tutto,
quello
che
voleva
annientare
era
opera
di
suo
fratello
Crono,
divinità
come
lui
e
quindi
degna
di
rispetto.
Nel
simposio
degli
dei,
da
sempre
vi
era
un
posto
vuoto
che
fino
allora
nessuno
si
era
provveduto
di
riempire,
era
accanto
a
saggezza
e
bellezza
e
di
fronte
a
ragione
e
volontà.
Si
avvertiva
così
la
mancanza
di
una
forza
di
coesione
che
potesse
come
in
un
abbraccio
comprendere
tutte
quelle
belle
qualità
che
gli
dei
avevano
e
che
secondo
il
potente
Giove,
avrebbe
dovuto
chiamarsi
amore.
L’amore
secondo
l’idea
del
padre
degli
dei,
doveva
essere
un
sentimento
intenso
e
profondo,
di
affetto,
simpatia
ed
adesione,
rivolto
verso
una
persona,
un
animale,
un
oggetto,
o
verso
un
concetto
o
un
ideale,
la
mancanza
di
“amore”
era
il
limite
che
impediva
agli
esseri
della
terra
di
apprendere
gli
insegnamenti
delle
divinità.
Nel
“mito”
di
Platone,
viene
narrato
come
nacque
amore:
-
Quando
nacque
Afrodite
gli
dei
fecero
un
banchetto
e,
tra
gli
altri,
c'era
anche
Poro,
figlio
di
Metide.
Quando
ebbero
terminato
di
mangiare
arrivò
la
dea
Povertà
per
chiedere
oboli,
dopo
questo
suntuoso
banchetto,
ma
si
trattenne
sulla
porta.
Poiché
Poro
dunque
si
era
inebriato
con
il
nettare
degli
dei,
(il
vino,
infatti,
non
ancora
esisteva)e
dopo
esser
arrivato
nel
giardino
di
Zeus,
appesantito
dal
nettare,
si
addormentò.
La
dea
Povertà,
a
quel
punto
a
causa
del
suo
stato
e
visto
che
desiderava
un
figlio
da
Poro,
si
coricò
accanto
a
lui
e
rimase
incinta
di
Amore.
E
proprio
così
Amore
diventò
compagno
e
servitore
di
Afrodite,
poiché
era
stato
generato
nel
giorno
della
sua
nascita
e
siccome
era
anche
amante
del
bello
per
natura,
e
di
Afrodite
che
era
molto
bella,
ma
anche
per
la
leggenda
esistono
le
scritture
apocrife
e
alcune
diverse
versioni
della
sua
genealogia.
A
volte
è
considerato
figlio
di
Afrodite
generato
con
Ermes,
oppure
della
dea
e
di
Ares,
il
dio
della
guerra,o,
infine,
un
figlio
di
Zeus,
concepito
con
la
figlia
Afrodite,
in
modo
tale
che
Zeus
fosse
al
contempo
padre
e
nonno
del
piccolo.
Una
tarda
leggenda
di
origine
poetica
lo
definiva
figlio
di
Iride
l'arcobaleno
e
del
vento
dell'Ovest.
Più
spesso
è
detto
figlio
di
Afrodite
e
Ares
o
divinità
primordiale
e
una
di
queste
leggende
sconosciuta
a
molti
ci
racconta
una
differente
versione
dei
fatti.
La
nascita
di
Amore
concepito
da
Afrodite
e
suo
padre
Zeus
aveva
provocato
un
gran
subbuglio
e
sgomento
in
tutto
l’Olimpo,
e
comunque
tutte
le
divinità
non
mancarono
di
andare
a
rendere
omaggio
al
nuovo
arrivato
e
tra
esse
anche
tre
dee
che
molto
difficilmente
facevano
la
loro
comparsa,
tanto
erano
poco
stimate
da
tutte
le
atre.
Queste
erano;
invidia,
desiderio
ed
egoismo,
queste
ultime
non
vedevano
di
buon
occhio
il
nuovo
arrivato
proprio
perché
generato
da
Afrodite
col
padre
Zeus
che
mal
sopportava
la
vista
di
queste
tre
divinità
tanto
nefaste,
e
forse
anche
per
questo
che
le
tre
decisero
di
metter
in
atto
un
patto
scellerato.
III
Il
patto
scellerato.
Quale
misero
atto
potevano
dunque
mettere
in
scena
queste
tre
misere
divinità,
che
aimè,
chiamarle
numi
mi
suona
ora
così
fuori
posto,
un’espressione
che
mal
si
addice
a
creature
così
misere
e
meschine,
che
sarebbero
dovute
nascere
non
sull’Olimpo,
bensì
in
fondo
agli
inferi.
Quale
ignobile
azione,
poetavano
dunque
escogitare
per
vendicarsi
del
loro
stesso
padre,
dei
fratelli
e
delle
sorelle
e
in
seguito
di
tutta
l’umanità,
solo
per
il
semplice
fatto
di
non
avere
un
posto
nelle
sommità
eterne
del
mito.
Tra
tutti
gli
abomini,
quello
che
scelsero
per
la
loro
ripicca
avrebbe
avuto
conseguenze
sul
destino
degli
dei
e
su
tutta
l’umanità,
così
decisero
che
avrebbero
sostituito
amore
con
sette
infanti
gemelli,
uno
per
ogni
giorno
della
settimana.
A
volte
le
divinità
stupiscono
per
le
loro
dissolutezze,
così
Invidia,
accompagnata
da
desiderio
ed
egoismo,
chiesero
proprio
a
Crono
un
aiuto.
Costui
non
si
fece
ripetere
l’invito
due
volte
e
fecondò
invidia
che
diede
al
mondo
sette
gemelli
tutti
uguali.
Da
Crono
e
invidia
nacquero
dunque;
Phlia,
Eros,
Anteros,
Himeros,
Pothos,
Storge,
Thelema.
Ognuno
di
questi
fanciulli,
aveva
una
sua
peculiarità,
una
propria
eccellenza
sia
nel
bene
che
nel
male,
ma
tutti
compreso
Agape
il
primo
eccelso
generato
da
Afrodite
e
Zeus,
(e
cioè
l’amore
che
da
senza
chiedere,
l’amore
incondizionato,
quello
di
ragione,
l’amore
che
va
al
di
là
di
tutti
i
sentimenti,
l’amore
che
si
sacrifica),
erano
stirpe
divina,
uno
si
rispecchiava
nell’altro,
uno
era
uguale
all’altro,
per
sacro
volere.
Così
Philia,
il
primo
clone
originato
da
Invidia
e
Crono,
è
l’amore
di
affetto
e
piacere,
da
cui
ci
si
aspetta
un
contraccambio,
poi
Eros,
l’amore
sessuale
che
viene
accompagnato
spesso
e
volentieri
da
Himeros,
la
possessione
del
momento,
il
desiderio
fisico
presente
e
immediato,
che
deve
essere
soddisfatto,
quindi,
Anteros,
L’amore
corrisposto,
successivamente
Photos,
è
il
desiderio
verso
cui
si
tende
a
ciò
si
sogna,
dappresso
Storge,
che
è
l’amore
di
appartenenza,
e
quindi
Thelema,
l’amore
di
fare
qualcosa
per
il
solo
desiderio
di
volerlo
fare.
Il
problema
era
dunque
come
sostituire
Agape
(l’amore
incondizionato)
con
gli
altri
gemelli,
nella
sua
culla
senza
che
Afrodite
non
se
ne
accorgesse.
Zeus
dal
canto
suo
era
troppo
impegnato
con
le
sue
faccende
celesti
per
interessarsi
troppo
ai
suoi
pargoli
che
aveva
disseminato
per
tutto
il
creato,
e
Amore
era
dal
canto
suo
di
giorno
era
troppo
attaccato
a
sua
madre
per
riuscire
nell’impresa,
così
i
tre
antagonisti
giocarono
d’astuzia,
decidendo
di
sostituire
Agape
nel
cuore
della
notte,
ma
c’era
un
altro
problema,
a
vegliare
sul
sonno
di
amore
era
stato
posto
un
guardiano,
infatti,
per
volere
divino
a
turno
ogni
notte
una
divinità
faceva
da
guardia
all’infante,
senza
lasciarlo
mai
un
istante
da
solo.
Così
i
tre
decisero
di
aspettare
il
turno
quando
la
guardia
sarebbe
toccata
a
Dionisio.
Orbene,
ognuno
conosceva
le
debolezze
di
questa
divinità
e
di
quanto
fosse
incline
a
libagioni
goderecce
e
di
come
prediligesse
la
compagnia
di
compiacenti
ninfe
che
affollavano
l’Olimpo.
Invidia
(sempre
lei)
quando
fu
il
momento,
si
presentò
discintamente
vestita
e
in
compagnia
di
alcune
naiadi
agghindate
allo
stesso
modo
al
cospetto
del
giovane
dio
offrendo
ambrosia
e
libagioni
e
dilettandolo
anche
con
vezzi
e
dolci
parole,
e
in
meno
che
non
si
dica
quel
posto
che
doveva
fare
da
sicuro
giaciglio
all’Amore
infante,
si
trasformò
in
un
allegro
baccanale,
e
tanto
fu
il
chiasso
che
gli
stessi
dei
richiamati
da
così
assordante
frastuono,
non
esitarono
a
scendere
per
vedere
cosa
stava
succedendo.
Ancora
una
volta,
il
piano
di
Invidia,
desidero
ed
egoismo
era
sul
punto
di
non
potere
essere
portato
a
termine,
perché
tutta
la
stirpe
divina
precipitandosi
dabbasso
per
vedere
cosa
stava
succedendo,
non
solo
aveva
svegliato
il
pargolo,
ma
aveva
messo
in
allarme
tutto
l’Olimpo.
Nel
trambusto
generale
però
nessuno
ebbe
l’accortezza
di
guardare
Amore;
con
un
balzo
egoismo
afferrò
l’infante
dalla
sua
culla
e
desiderio
lo
sostituì
con
Philia.
Ci
volle
del
tempo
che
in
tutto
l’olimpo
tornasse
la
calma
e
quando
tutto
ritornò
normale,
nessuno,
si
accorse
della
sostituzione
di
Amore
con
Philia,
nemmeno
sua
Madre
Afrodite
se
ne
accorse,
che
con
tutto
quel
trambusto,
non
si
era
mai
mossa
dal
suo
posto
continuando
a
dormire,
e
per
quanto
riguarda
la
sorte
di
Dionisio,
si
sa
che
anche
gli
dei
dell’Olimpo
sempiterno
di
fronte
alla
bellezza
e
alla
sensualità
di
giovani
bellezze,
non
sanno
tenere
a
freno
i
loro
istinti
e
complice
ancora
una
volta
l’ebbrezza
dell’ambrosia
si
unirono
a
Dionisio
nell’allegro
baccanale.
Così
il
puro
e
incondizionato
amore,
creato
per
volere
divino
perché
gli
umani
potessero
tramite
lui
rendere
grazia
agli
dei,
e
che
ora
per
colpa
d’invidia,
egoismo
e
desiderio,
si
moltiplica
in
mille
sfaccettature
che
come
in
uno
specchio
che
si
rompe
irradia
mille
immagini
di
sé,
dando
di
ognuna
una
distorta
visione.
L’amore
puro
ora
è
irrimediabilmente
sporcato,
come
se
l’acqua
che
sgorga
da
una
pura
sorgente
fosse
contaminata
da
labbra
blasfeme
e
più
non
luccica
orgogliosa
sotto
il
sole
sempiterno,
ma
s’insinua
sotto
le
cavità
di
un
monte,
perché
ha
vergogna
di
mostrarsi
ancora.
1°
giorno
-‐
Philia.
Così
il
giorno
dopo,
Zeus
dopo
un
conciliabolo
con
le
altre
divinità,
stabilì
che
Afrodite
dovesse
scendere
sulla
terra
con
Amore,
per
infondere
nella
razza
umana
appena
plasmata
il
seme
di
un
sentimento
nuovo
che
avrebbe
aperto
loro
un
mondo
diverso,
in
grado
di
fare
appezzare
tutti
i
doni
che
d’ora
in
avanti
gli
dei
avrebbero
regalato
loro.
Quando
però
Afrodite
posò
il
suo
sacro
piede
sulla
ruvida
scorza
terrestre
la
prima
volta,
una
sensazione
di
disagio
la
pervase.
Com’era
diversa
quella
grezza
soglia
così
fredda
e
umida,
dalle
stanze
celesti,
quant’era
differente
quell’aria
pesante
e
maleodorante,
così
dissimile
dai
soavi
profumi
che
permeavano
gli
spazi
sempiterni.
Mentre
Afrodite
rimuginava
tra
se
questi
pensieri,
l’infante
Amore
(Philia)
invece
se
la
dormiva
della
grossa,
quand’ecco
che
ben
presto
un’
altra
riflessione
cominciò
ad
assillare
la
mente
della
bella
divinità,
allorché
scorse
da
distante
un
gruppo
di
strani
personaggi
male
in
arnese
si
misero
a
correre
ed
urlare
verso
di
lei.
A
mano
a
mano
che
il
gruppo
si
avvicinava,
le
loro
urla
sembravano
sempre
di
più
squarciare
l’aria
e
la
terra
tremare
sotto
i
loro
pesanti
passi
e
più
si
avvicinavano
più
la
terra
sussultava,
come
se
un
terremoto
avesse
preso
a
squassare
le
volte
terrestri,
fino
a
che
l’orda
vociante
e
puzzolente
non
si
arrestò
a
due
passi
dalla
divinità,
e
a
quel
punto
che
Amore
(Philia)
si
destò.
Che
cosa
può
fare
un
bambino
appena
risvegliato
dai
suoi
dolci
sonni,
vedendo
attorno
a
se
degli
esseri
brutti
e
puzzolenti
che
anche
il
solo
ansimare
era
rumore,
se
non
piangere
disperatamente?
E
a
nulla
valsero
le
disperate
parole
della
divina
madre
a
tranquillizzarlo,
a
niente
le
passionali
carezze
e
a
ben
poco
i
rassicuranti
baci,
fino
a
che
un
essere
di
quell’orda,
prese
ad
avanzare
verso
le
divinità
con
fare
incerto
e
a
quel
punto
tutto
sembrò
definitivamente
tacere.
Afrodite
dal
canto
suo
ben
sapeva
che
il
severo
sguardo
del
padre
suo
non
l’avrebbe
mai
abbandonata,
com’era
ben
conscia
che
mai
avrebbe
permesso
a
nessuno
anche
solo
di
sfiorare
suo
figlio,
ma
l’essere
che
ora
si
parava
davanti
sembrava
non
saperlo,
così
come
sembrava
ignorare
chi
fossero
i
due
esseri
dinanzi
a
lui.
Gli
occhi
dell’essere
scrutavano
le
due
creature
con
curiosità
infantile,
le
sue
enormi
narici
ne
annusavano
gli
odori,
tutto
sembrava
andare
liscio
fino
a
che
quell’essere
abbietto,
non
osò
fare
il
passo
più
lungo
della
gamba.
Afrodite
si
sa
è
la
dea
della
bellezza,
la
perfezione
divina
in
ogni
sua
forma,
la
grazia
e
la
dolcezza
e
dunque
anche
per
un
essere
grezzo
e
grossolano
non
poteva
che
essere
soggiogato
dal
suo
fascino.
Vero
è
che
con
un
gesto
insulso
quanto
improvviso
il
bruto
tentò
di
afferrare
la
divinità,
costei
non
aspettandosi
un
così
gesto
maldestro
lanciò
un
urlo
che
si
espanse
quattro
venti,
che
subito
accorsero
in
aiuto
della
dea,
portando
a
chi
compete
quell’invocazione
d’aiuto.
Zeus
dal
canto
suo
scese
precipitandosi
giù
dal
monte
Olimpo
fino
sulla
terra,
facendosi
precedere
da
un’esibizione
di
tuoni,
fulmini
e
saette,
in
modo
che,
chi
di
dovere,
sapesse
chi
stava
per
arrivare.
In
un
certo
qual
mondo
la
venuta
del
padre
celeste,
non
poté
non
destare
timore
e
curiosità
in
quegli
esseri
trogloditi,
che
sì,
arretrarono
di
qualche
passo,
ma
poi
ripresero
ad
avanzare
incuriositi
dalla
venuta
di
un
nuovo
ospite
anche
lui
così
diverso
da
loro.
In
quei
tempi
il
padre
Zeus,
non
aveva
ancora
preso
l’abitudine
di
trasformarsi
a
suo
piacere
per
portare
a
termine
i
propri
scopi
qualsiasi
fossero
stati,
vuoi
perché
era
ancora
immacolato
dalle
miserie
terrene,
vuoi
perché
la
parola
“dio”,
aveva
ancora
quel
significato
alto
e
sacro
che
col
tempo
gli
esseri
umani
avrebbero
contribuito
a
dimenticare.
Comunque,
anche
quell’attimo
di
titubanza
sparì
presto
e
lo
stesso
essere
che
prima
tentò
l’approccio
con
Afrodite,
ora
stava
facendo
lo
stesso
con
Zeus;
ma
non
ebbe
neanche
il
tempo
di
cominciare
una
benché
minima
azione,
che
il
padre
di
tutti
gli
dei
lo
fulminò
seduta
stante.
Un’improvvisa
fiammata
avvolse
il
povero
essere
che
non
ebbe
nemmeno
il
tempo
di
capacitarsi
di
cosa
stesse
succedendo,
perché
in
meno
che
non
si
dica,
il
suo
povero
corpo
fu
ridotto
and
un
ammasso
informe
di
cenere
fumante.
Di
colpo
un
mormorio
misto
d’incredulità
e
stupore
cominciò
a
pervadere
il
resto
della
marmaglia,
che
non
sapendo
cosa
fare,
rimase
inchiodata
al
terreno
più
dalla
meraviglia
che
dalla
paura.
Ancora
una
volta
il
padre
di
tutti
gli
dei,
prese
la
parola
e
con
tono
deciso
ammonì:
-‐
Guai
a
voi
esseri
ingrati,
che
madre
Gea
generò
dalle
sue
viscere
e
partorì
col
seme
di
Urano,
guai
a
voi
esseri
immondi
se
tenterete
ancora
gli
dei
con
le
vostre
morbose
attenzioni,
tanto
avete
ancora
da
imparare;
ecco
io
vi
mando
Amore,
mio
figlio.
Ecco
che
v’insegnerà,
vi
guiderà,
vi
ammaestrerà
nel
nome
mio,
egli
vi
donerà
acutezza,
intelligenza,
rispetto,
educazione,
perché
nella
sua
bellezza
sono
insite
tutte
queste
cose,
e
nell’amore
è
la
continuazione
di
esse.
Le
parole
di
Zeus
echeggiavano
nell’aria
con
la
potenza
del
tuono,
ma
come
il
seme
che
cade
sulla
roccia,
e
non
nel
fertile
terreno,
la
sua
parola
non
attecchì
come
avrebbe
voluto.
Philia,
aveva
già
fatto
breccia
nei
primitivi
sentimenti
dei
figli
della
terra,
quando
questi
ultimi
cominciarono
ad
adorare
i
nuovi
venuti,
portare
loro
doni
e
a
chiedere
grazie.
Naturalmente,
come
dalla
sorgente
scaturisce
un
rivolo
d’acqua,
che
lungo
il
declivio
scende
verso
valle,
ingrossandosi
nella
sua
corsa,
così
Philia
comincia
a
invadere
il
cuore
degli
uomini,
che
dalla
rozzezza
dei
primi
vagiti,
ora
potevano
anelare
a
salire
un
gradino
più
in
alto,
uno
scalino
che
forse
gli
avvicinava
all’assomiglianza
con
gli
dei
creatori.
2°
giorno
Eros
e
Himeros
A
riportare
tutto
come
prima
ci
pensò
Eros.
Strano
bambino
Eros.
Paffuto,
dalle
gote
rosate
come
i
petali
delle
rose
a
primavera,
dall’incarnato
bianco
come
latte
virgineo
e
dallo
sguardo
arrogante
e
prepotente.
Complice
la
madre
Afrodite,
rigettò
nel
caos
il
nuovo
mondo
e
tutti
i
suoi
abitanti,
già
al
secondo
dì.
La
sua
venuta
sciolse
nell’aria
frizzante
di
una
stagnante
primavera
un
nuovo
istinto,
così
diverso
da
quello
che
da
sempre
accumunava
gli
uomini
e
le
donne
in
quell’atto
che
volgeva
solo
a
un
unico
compito,
la
procreazione.
Un
dolce
piacere
ora
aleggiava
nell’aria,
gli
uomini
guardavano
le
donne
con
altri
occhi,
e
quest’ultime
quasi
consapevoli
di
ciò,
ingaggiavano
coi
maschi,
dolci
battaglie.
Strane
danze
di
giovani
ninfe
che
lo
stesso
Zeus
scosso
da
gelosia
muteranno
poi
in
leggiadre
libellule,
e
di
fauni
e
satiri,
trasformati
da
giovani
uomini
che
erano,
dal
livore
di
un’ardente
Afrodite.
Corpi
che
prima
era
solo
l’armatura
di
sostentamento
dei
figli
della
terra,
ora
per
magia
di
Eros,
si
trasformano
in
oggetti
di
culto,
manufatti
del
piacere,
qualcosa
di
esageratamente
bello,
che
grazie
a
Eros
cominciò
a
spandere
il
suo
potente
seme
su
tutto
il
creato,
ma
non
si
limitò
solo
a
questo.
L’uomo
trasse
il
piacere
dalle
labbra
della
donna
e
se
ne
inebriò,
costei
sorseggiò
il
diletto
dalle
labbra
dell’uomo
e
ne
divenne
vestale.
L’uomo
divenne
succube
della
donna
e
lei
del
piacere.
Il
mondo
si
abbandonò
a
questo
nuovo
gioco,
dove
le
battaglie
si
vincono
e
si
perdono
l’arco
di
un’amplesso,
dove
gli
ansimi
salgono
all’unisono
alla
luna
come
cantici
di
lupi
affamati
e
dove
un
altro
figlio
clone
di
Agape,
gettò
le
basi
per
il
suo
regno
eterno,
Himeros.
Potrei
paragonare
Eros
e
Himeros,
all’aria
e
l’acqua,
dove
da
uno
prende
vita
l’altro
e
viceversa,
come
il
giorno
e
la
notte,
come
la
donna
e
l’uomo.
Se
il
primo
era
l’attrazione,
il
secondo
era
il
possesso,
se
uno
era
il
piacere
il
secondo
era
la
passione,
così
anche
l’antica
remora
del
nome
amore,
si
arricchì
di
un
nuovo
significato
“γένος”,
(genos,
sesso).
La
ricerca
del
piacere
fine
a
se
stesso,
se
da
un
lato
fece
sprofondare
il
genere
umano
nel
baratro
dell’oblio,
donò
all’uomoun
inaspettato
dono,
la
coscienza
di
sé.
Grazie
a
questi
due
degenerati,
“gemelli”
l’umanità
apprese
la
bellezza
e
dall’avvenenza
nacque
il
mito
di
“Ego”.
Ego.
L’uomo
si
affezionò
a
“Ego”,
in
altre
parole
a
se
stesso,
mitizzando
il
culto
della
bellezza,
di
cui
Artemide
era
vestale
suprema
e
idealizzando
la
sua
natura
divina
di
cui
anche
gli
umani
si
ritenevano
investiti.
“Ego”,
aveva
trovato
la
sua
naturale
posizione
negli
stagni
e
in
quieti
corsi
d’acqua,
dove
giovani
uomini
e
donne
si
soffermavano
ad
abbeverarsi
o
per
trovare
riparo
dalla
canicola
estiva,
o
per
approvvigionarsi
di
quell’elemento
liquido
e
sfuggevole
che
è
l’acqua.
In
quell’elemento
“Ego”,
soleva
sostare
seminascosto
tra
le
ninfee
e
le
rocce,
per
balzare
fuori
all’improvviso
quando,
uno
o
una
sprovveduta
si
fosse
avvicinata
allo
stagno
per
dissetarsi,
a
quel
punto
“Ego”
rifletteva
l’immagine
del
malcapitato
accentuandone
i
pregi
e
smorzandone
i
difetti,
ed
ecco
che
solo
allora,
facendo
breccia
nei
loro
sentimenti,
li
possedeva
e
li
rendeva
schiavi
del
suo
culto.
A
questo
punto
l’attento
lettore,
si
potrà
domandare
se
anche
“Ego”,
fosse
un
figlio
di
Zeus.
Posso
solo
dire,
che
“Ego”
è
uno
dei
figli
dell’uomo,
perché
nato
dall’uomo
stesso,
voluto,
desiderato
e
cercato
e
creato
della
stessa
materia
umana,
fragile,
instabile
e
debole
cui
l’uomo
è
fatto.
Avendo
la
consapevolezza
di
sé
l’uomo
apprezzò
anche
la
bellezza,
e
poté
così
gradire
ciò
che
gli
dei
avevano
voluto
elargire
all’umanità
tanto
tempo
prima.
Ma
l’essere
umano
stava
sfuggendo
alle
volontà
degli
dei,
troppo
consapevoli
e
troppo
liberi,
non
più
soggiogati
dalla
paura,
gli
dei
temettero
per
la
loro
supremazia
e
vollero
dunque
tener
consiglio,
su
che
sorte
riservare
al
genere
umano.
3°
giorno
il
gran
consiglio
dei.
Così
il
terzo
giorno
tutti
gli
dei
tennero
consiglio
per
decidere
sul
destino
degll’umanità.
In
effetti,
dopo
solo
tre
giorni,
gli
abitanti
della
terra,
memori
dunque
della
loro
natura
divina,
avevano
preso,
“un
po’
troppo
confidenza”,
con
le
“vere”
divinità”,
pure
era
anche
vero,
che
le
stesse
deità
avevano
elargito
magari
con
troppa
leggerezza
ai
loro
figli
terreni,
quei
doni
che
erano
stati
promessi
se
si
fossero
“evolutii”.
Philia,
era
stato
solo
l’inizio
di
questo
processo
di
trasformazione,
che
sarebbe
potuto
andare
avanti,
se
non
si
fossero
intromessi
ancora
una
volta;
invidia,
desiderio
ed
egoismo.
Nessuna
tra
le
divinità
sospettava
nulla;
la
colpa
di
una
tale
“confidenza”
era
da
attribuire
solo
agli
umani,
e
l’unico
metodo
per
riporli
al
loro
posto
era
una
severa
punizione.
Si
scelse
per
il
gran
consiglio
proprio
il
monte
Olimpo,
e
gli
dei
giunsero
in
gran
numero,
da
tutte
le
parti
del
mondo
conosciuto
e
sconosciuto,
dalle
profondità
degli
abissi,
alle
sommità
dei
sette
cieli
fin
dagli
astri
che
costellano
il
cielo
sempiterno,
mai
si
era
visto
un
tale
assembramento
di
divinità.
Dal
gelido
nord
delle
terre
di
Miðgarðr
sino
alle
colonne
d’Ercole
e
anche
più
in
là,
l’Olimpo
divenne
stretto
anche
per
tutte
queste
maestà,
che
si
trovarono
così
a
decidere
delle
sorti
della
loro
ultima
creazione.
Un
microcosmo,
così
piccolo
e
insignificante
che
a
distruggerlo
ci
voleva
un
niente,
ma
che
non
dovesse
essere
annientato,
perché
come
ricordò
Zeus,
senza
gli
umani
gli
dei
non
avrebbero
avuto
ragione
di
esistere.
Naturalmente
non
tutte
le
divinità
furono
d’accordo,
e
come
spesso
succede,
nei
grandi
assembramenti,
si
cominciò
a
discutere,
con
l’andare
del
tempo
la
discussione
degenerò,
tanto
che
le
conseguenze
di
queste
diatribe
si
fecero
sentire
sulla
terra,
terremoti,
maremoti
e
un
diluvio
che
durò
per
quaranta
giorni,
tantoché
dovette
intervenire
il
Creatore
del
tutto,
per
riportare
le
cose
alla
calma
iniziale.
E
sulla
terra…
Eros
e
Himeros,
stavano
facendo
proseliti,
tanto
che
il
loro
culto,
aveva
quasi
occupato
il
posto
di
tutte
le
altre
divinità,
troppo
comprese
nel
litigare
tra
di
loro.
A“γένος”
si
sacrificavano
sugli
altari
le
vergini,
si
consumavano
riti,
si
bruciavano
incensi,
si
dilapidavano
nelle
calde
alcove
come
nei
sacri
templi
le
ore
del
giorno
e
della
notte,
al
dio
Eros
l’umanità
tutta.
4°
giorno
Anteros.
Un
sollievo
si
levò
dall’Olimpo
tutto,
quando
il
quarto
giorno
comparve
Anteros.
Questa
creatura
molto
più
simile
ad
Agape
che
agli
altri
fratelli,
portò
tra
gli
umani
ciò
che
fa
la
differenza
tra
Eros/Himeros
e
Agape/Anteros.
Se
per
i
primi
due
con
l’arrivo
di
“γένος”
“amore”
era
un
atto
più
che
un
sentimento,
era
un
appagamento
dei
sensi,
più
che
uno
stato
dell’essere,
era
il
piacere
relegato
a
se
stesso,
con
gli
ultimi
due,
raggiunge
lo
stato
divino
di
sentimento,
l’amore
corrisposto;
si
da
e
nella
stessa
misura
si
riceve,
a
volte
si
dona
molto
di
più
di
quello
che
si
ha
in
cambio.
L’idea
dell’amor
divino
si
riflette
in
questo
binomio,
lo
specchio
degli
dei
si
manifesta
in
questo
sentimento,
troppo
sacro
perché
sia
profanato,
troppo
alto
per
essere
umiliato.
Le
divinità
si
appagano
e
l’amor
corrisposto
è
lo
scambio
che
rende
al
fine
degni
figli,
gli
umani
agli
dei.
Nacquero
così
in
suo
onore
le
preghiere,
le
invocazioni,
la
poesia,
il
canto,
la
scultura,
la
pittura,
l’amore
corrisposto
aprì
il
cuore
degli
uomini,
le
loro
menti,
videro
più
in
là
della
bellezza
e
riconobbero
la
pace.
5°
giorno
Pothos
Il
mito,
lo
consegna
personificato
su
una
rupe
davanti
al
mare
in
attesa
dell'amore
che
non
arriverà
mai
ed
è
insito
in
tutte
quelle
folli
peregrinazioni
della
mente
dietro
all'impossibile,
che
spinge
sempre
a
cercare
qualcosa
che
non
si
troverà
mai,
senza
mai
dare
pace.
Figlio
solitario
dell’attesa,
un
giorno
insegnò
agli
uomini
la
sofferenza,
il
tormento
che
come
un
carnefice
sadico,
stilla
goccia
a
goccia
lentamente
l’arsura
del
tempo
e
lo
rende
quasi
perenne,
salvo
poi
farlo
svanire
in
un
attimo.
La
sofferenza
che
cesella
l’uomo
e
lo
fortifica,
ed
è
quella
stessa
afflizione
così
restia
a
radicarsi
nell’essere
umano,
che
lo
allontana
anche
dalla
sua
stesa
natura
divina.
Invidia,
desiderio
ed
egoismo
si
assaporavano
la
loro
vendetta,
ritenendo
l’essere
umano
troppo
debole
per
accostarsi
agli
dei,
e
forse
avrebbero
vinto,
se
non
fosse
che
un
giorno
non
tanto
lontano,
un
Dio
avrebbe
avuto
pena
per
i
figli
della
terra.
L’umanità
non
volle
conoscere
la
sofferenza,
come
segno
degli
dei
e
da
quel
giorno
il
mondo
cambiò.
6°
giorno
Storge.
Quando
arrivò,
vide
le
genti
divise
e
senza
guida,
facendo
perno
sulla
sua
loquacità
e
intelligenza,
incominciò
a
raggruppare
in
tribù
tutti
quelli
che
erano
senza
una
guida,
e
diede
loro
un’appartenenza,
un
nome,
un
colore,
una
ragione
di
esistere,
una
comunità.
Dall’amore
per
l’appartenenza,
con
l’aiuto
di
orgoglio
e
desiderio,
nacquero
le
guerre,
il
sangue
ingrossò
i
fiumi
sino
ad
allora
vergini
e
la
terra
diede
nuovi
frutti,
venne
calpestato
il
sacro
suolo
dei
templi,
per
gli
dei
si
combatte
e
si
soccombe,
le
armi
siano
i
nuovi
vessilli
e
l’amore
si
colorerà
di
rosso
colore,
Storge
innalzerà
su
cumuli
d’ossa
la
sua
nera
bandiera
che
scuoterà
al
vento
per
i
secoli
a
venire.
7°
giorno
Quando
Thelema
arrivò
sul
suo
bianco
destriero
il
settimo
giorno,
gli
uomini
s’inginocchiarono
al
suo
cospetto,
perché
nulla
vi
era
più
potente
sulla
terra.
Volontà
sarà
chiamata
e
neanche
gli
dei
dell’Olimpo
avranno
ragione
su
lui.
L’ultimo
clone
di
Agape,
si
rivelò
il
più
forte,
ma
nullo
senza
gli
altri
fratelli,
infatti,
la
volontà
da
sola,
se
non
v’è
una
ragione
che
la
spinge,
non
approda
a
niente.
Thelema
e
Agape,
Thelema
e
Storge,
Thelema
e
Pothos,
Thelema
ed
Eros,
Thelema
e
Anteros,
Thelema
e
Himeros,
Thelma
e
Philia,
l’amore
senza
volontà
è
come
una
bella
farfalla
che
tenta
di
arginare
la
potenza
dell’oceano.
Conclusione
Da
quel
nefasto
giorno
anche
gli
dei
smisero
di
parlare
agli
umani,
lasciandoli
nella
solitudine
e
nei
rimorsi,
invidia,
egoismo
e
desiderio,
furono
lasciati
a
marcire
sulla
faccia
della
terra
e
a
piantare
le
loro
blasfeme
sementi
nei
cuori
degli
uomini,
l’amore
nato
per
desiderio
divino,
cadendo
sula
terra
mi
macchiò
delle
debolezze
umane,
perdendone
il
sacro
significato,
diventò
vento
nel
vento,
ci
volle
ancora
una
volta
l’intervento
Divino
perché
l’uomo
ritrovasse
l’antico
significato,
ma
questa
è
un’altra
storia,
che
ancora
deve
essere
ancora
finita
di
narrare.