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RESOCONTI

La lezione si apre, nel mio ricordo, con la mia proposta di attendere un paio di
minuti per valutare se giocare l’attivazione del Dilemma del Prigioniero o pensare
ad un altro stimolo, nel caso si rimanga in pochi.

E con il commento di uno studente, che mi dice ‘non credo verranno altri colleghi’
Lo sento come qualcosa che mi dice ‘non ci speri’.
Mi domando se sono io che ci spero o lui, o entrambi
Mi dico che alcune assenze suonano come mosse y; alcune volte sono tentata di interpretare in
maniera più composta e didattica il mio ruolo.
Poi prevale ..
La mia matrice famigliare. Mio padre, tra le altre cose, è stato un'insegnante, amante del suo lavoro
e dei suoi studenti, e con cui incrociava storie, e da cui provava ad apprendere continuamente,
sapendo quale fosse la posta in gioco
E con essa, il pensiero del terzo (il cliente)
ed è questo a motivarmi su una mossa che considero X:
Farci faticare con l’esperienza perché…
Il sentirsi isole, il sentirsi stanchi, il sentire che la conversazione che va avanti anche
senza di te ….ecc. ecc.
 il senso del tentativo di difendersi o sfuggire…La paura quando le isole cominciano
ad avvicinarsi….
Così come gli automatismi del riconoscere nell’altro un mostruoso gigante o porgere
la guancia al mostruoso gigante a prescindere

non si insegnano didatticamente

e…………
nella relazione formativa tra gli studenti ed il professore, il Terzo è la professione, quindi tutte
le azioni sono nella direzione della costruzione di competenze. Mi pare che la difficoltà
consista proprio in questo: mettere da parte la soggettività dei bisogni e delle fantasie – e con
essi le emozioni – per costruire un’oggettività fatta di regole non familistiche, note, implicite,
ma proprie al contesto che ne consentono lo sviluppo e convivenza.

E non è appropriata al contesto qualsiasi mossa che prova a ripetere, senza pensare,
quanto riferito o proposto in altro contesto (per es. un’altra lezione, un altro docente)
Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio. (Le città invisibili)

Anche ad essere si impara. (Il visconte dimezzato)


Potrebbe sembrare che non abbia niente da dire ma io, in realtà,
ho sempre qualcosa da dire; spesso però nascondo il mio sentire
dietro l’illusione che prima o poi avrò il coraggio di tirarlo fuori…
con il tempo è come se fossi riuscita a “posticipare” le emozioni, perché nella
mia estrema rigidità anche l’istinto deve essere in qualche modo
“gestito”…
Questa lezione l’ho sentita molto forte emotivamente (…) mi ha fatto molto piacere
sentire il parere di chi non si esprime mai ed entrare un po’ nel loro mondo di
significazione.
Quello che al momento mi sfugge è come io possa essere utile a loro, loro inteso
come gruppo e io intesa come professionista. Non riesco a capire ancora se il nostro
comportamento si sta effettivamente rendendo funzionale per questo scopo, per il
gruppo in sè. Il fatto di aver sentito più emotività forse mi fa pensare di sì, che la
strada è quella che porta al mio obiettivo, ma forse questo obiettivo non è lo stesso
per tuttə, non ce lo siamo mai chiestə.
Il resoconto pone una questione importante

Che tipo di aiuto immaginiamo in e da questo gruppo?

Che gruppo è un gruppo che mette in campo emozioni e pezzi di storia?

Sono questioni centrali.

L’input che sento utile darvi: è sempre una questione legata al Terzo, che possiamo o no tenere
a mente come regolatore dei nostri incontri (del tipo di ascolto che daremo alle storie, e
dell’obiettivo che assegneremo a questo processo).
Passare da noi per tornare al terzo, che da senso al nostro
incontro formativo

La cura deve essere sempre quella di provare a trasferire quanto accade qui in quello che
accade o può accadere nel là e allora professionale

È al nostro Sé professionale che l’aiuto tende o deve tendere


silenzi, di corpi che vogliono scappare, cuori accelerati, mani sudate e
blocchi di ghiaccio che si sciolgono nello stomaco …
È emozione. È fatica.

È il processo clinico!
È la fatica
di chi prova a parlare ma i suoi pensieri viaggiano più lenti di quello che succede al di fuori
della sua mente,
di chi a dire a quello che prova si sente spogliata di una parte di sé,
di chi è all’esterno del cerchio e al centro proprio non ci vuole finire;
ma è anche la fatica di chi, al contrario, cerca di comprendere come si faccia a non dire la
propria,
di chi si auto impone con forza di non interrompere ma di ascoltare per una volta,
di chi cerca di farci capire che per ottenere qualcosa nella vita bisogna provarci, misurarsi
con se stessi e non guardare, con invidia, quello che gli altri riescono a fare

È il coro di un setting gruppale!


Allora, forse, …dovremmo imporci di giocarla questa partita ..
probabilmente, fare andare avanti la conversazione senza di noi e rimanere a guardare un
mondo che si costruisce come se noi non ne facessimo parte non è la miglior mossa da fare.

È un pensiero gruppale che potremmo sostenere su tutti i problemi della convivenza!

La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso


Quale aiuto …

anche dandogli una svegliata sto cooperando... Gli sto dando una mano a non scrivere sempre
la stessa storia o meglio a non esibire sempre la stessa storia, ma a tessere un’altra
narrazione. A me piace far domande ai miei colleghi – ma in generale mi piace far domande –
perché sono le domande, non quelle malignamente curiose, ma quelle sinceramente curiose,
che permettono di incontrare l’altro. ... A volte, i miei colleghi cominciano a tessere una
narrazione, per il tempo in cui la lezione lo permette, certo. Ma poi mi chiedo se questa
narrazione se la portino anche fuori dall’aula, se ci pensino dopo, se vorrebbero rivederla o,
persino, ritrattarla. Come se un filo cominciasse a dipanarsi. Appena, appena, ma poi ognuno
lo raccoglie e lo continua: anche questo è cooperare. Io ti do le domande, tu le parole per
conoscerci meglio. Non dico le risposte: non basta una vita per trovare risposte, ma il bello è
che se ne generano sempre di più complesse, a volte contraddittorie. Ma l’ambivalenza fa
parte del gioco, come l’aggressività, la rabbia, la paura. Potremmo davvero cooperare se non
riconoscessimo che in noi abita anche questo?
Il nostro caso

La storia siamo noi, nessuno si senta escluso (De


Gregori)
«Quando le tecniche? Quando l’esperienza? Quando il fare?»
 QUI (In aula)
 ORA (durante il percorso formativo)
«Non sarebbe meglio .. Imparare dai fallimenti, dalle collusioni, dalle violazioni di tutte le
regole del setting e dagli scazzi con la committenza?»

Vi propongo ---- >


 QUI (In aula)
 ORA (durante il percorso formativo)
La sensazione che ho avuto, pensandoci e ripensandoci è che probabilmente siamo in
possesso di tanti strumenti, ma siamo, forse, un po’ lontani dall’usarli adeguatamente. Forse
l’unico modo per imparare a farlo è fare esperienza…ma mi chiedo, le prime volte come
faremo?

Vi propongo …..
La prima volta è …..

 QUI (In aula)


 ORA (durante il percorso formativo)
Il vostro «cliente» in carne ed ossa

 L’Altro (che ha percorsi formativi/conoscenze/linguaggi/modi di partecipare … diversi)

Tema clinico per eccellenza:


come mettersi in rapporto con questo Altro da sé?
Chi deve risolvere questo rapporto? Chi immaginiamo ci debba autorizzare?
In quale corridoio pensiamo di risolverlo?
Il «materiale» clinico. La relazione e i processi emozionali

puoi dire poi negare


 L’irritazione puoi giocare, lavorare
 La delusione …
Puoi dormire, puoi soffrire
 I moti di protesta
puoi ridere, sognare
 L’ansia ….
 puoi cadere, puoi sbagliare
La preoccupazione
e poi ricominciare.
 L’impotenza …
 ………….. puoi partire, ritornare
E poi ricominciare.
….
puoi chiedere, trovare.

puoi fingere, mentire,
poi distruggere, incendiare
e ancora riprovare.

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