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L'Università DISMESSA ‐ AL LIBERO MERCATO DEI CENTRI DI ECCELLENZA
Meritocrazia, prestito d'onore, deregulation nelle assunzioni, fondazioni per gli investimenti privati. La
ricetta liberista per l'università letta attraverso le pratiche culturali di resistenza negli atenei
BENEDETTO VECCHI
L'obiettivo, che fa capolino pagina dopo pagina, senza però mai essere dichiarato è la costruzione di una
«università degli eccellenti», che prende il posto di quella, clientelare e sprecona, «di massa». E dunque,
spazio al merito, alla concorrenza tra atenei per attrarre docenti e ricercatori di qualità, attraverso la
liberalizzazione delle assunzioni. Oltre a questo, aumento delle tasse, prestito d'onore per gli studenti,
valutazione della qualità delle ricerche svolte, possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni per
attirare finanziamenti privati. Questo ultimo aspetto prevede una gerarchia tra le università, che dovrebbe
spaziare, dai centri d'eccellenza all'equivalente italiano dei community college noti negli Stati Uniti per la
bassa qualità dell'insegnamento e per essere il ripiego di chi non può permettersi, per soldi, un college
degno di questo nome.
Sono questi i temi trattati nel pamphlet di Roberto Perotti L'università truccata (Einaudi, pp. 178, euro 16),
che non nasconde l'ambizione di presentarsi come una feroce critica dei «baroni» e, al tempo stesso, come
una proposta organica di modernizzazione dell'università italiana all'insegna di una vision aziendalista della
formazione, all'interno della quale la diffusione della cultura e della conoscenza sono equiparate alla
produzione di una qualsiasi merce. Elemento, quest'ultimo, che ricorre nelle reiterate esemplificazioni
dell'autore, quando invita a comparare i comportamenti di un consumatore di fronte alla scelta di quale
automobile acquistare a quelli di uno studente che deve decidere a quale università scriversi.
Un sistema feudale
Non è la prima volta che Roberto Perotti affronta lo «stato di salute» dell'università italiana. Alcuni anni fa,
assieme a Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, aveva contribuito a stilare un Manifesto per l'università
(Rizzoli editore); poi ha continuato a monitorare la formazione universitaria con contributi al sito
lavoce.info e con la newsletter sui concorsi elaborata dall'«Innocenzo Gasparini Institute for Economic
Research» dell'Università Bocconi di Milano, polo universitario privato dove insegna dopo una docenza alla
Columbia University di New York. È dunque un economista, a cui forse non dispiacerebbe la qualifica, resa
nota da Giavazzi, di «liberista di sinistra». Ma non è questione di etichette, quanto di un ordine del discorso
che nonostante gli insuccessi ‐ la riforma dell'università di Letizia Moratti è state fatta in nome del libero
mercato ‐ e le critiche che ha incontrato continua a autoalimentarsi in nome di una superiorità del mercato
che l'attuale crisi finanziaria sta mettendo a nudo come una ideologia poggiata oramai su una montagna di
inesigibili titoli di borsa.
C'è però nel volume di Perotti un punto forte. È quello in cui viene denunciato il potere dei baroni, che
manipolano i concorsi al solo fine di mantenere inalterato il loro potere, al punto che la documentazione
fornita dall'autore rappresenta il loro operato alla stessa stregua di un clan mafioso o di una lobby
economica su base familiare. Ordinari e presidi che fanno vincere i concorsi a figli, figlie, mogli, fidanzate;
oppure scambi di favore tra «clan universitari» al fine di consolidare la propria posizione e così partecipare
al banchetto dei finanziamenti pubblici. Un repertorio di ordinario saccheggio che rendono i «baroni» il
maggior centro di potere dell'università. E poco serve ricordare che la maggioranza dei ricercatori e dei
docenti sono persone oneste. Il problema, semmai, è che il marchio di fabbrica impresso all'università è
proprio quel sistema di potere che i baroni hanno sviluppato in questi decenni.
I baroni, va da sé, sono stati sempre presenti nelle università italiana, condizionando l'accesso alla docenza
e alla ricerca. Ma solo da pochi decenni il potere viene esercito non in nome di una «scuola di pensiero»
che vuole diventare egemone, quanto per condizionare la redistribuzione del reddito e dei privilegi.
Insomma, una casta come molte altre presenti in Italia. E che andrebbe smantellata, sostiene Perotti,
attraverso l'abolizione dei concorsi con gli atenei che chiamano il docente che vuole e che contrattano
individualmente il compenso.
L'autore propone inoltre di introdurre anche in Italia il sistema dei peer review, cioè quel giudizio tra pari
che consente la pubblicazione di articoli su prestigiose riviste internazionali. Con una omissione: la feroce
critica al funzionamento delle peer review maturata nell'accademia statunitense, laddove è stata
individuata un'inflazione di mediocri articoli inviati per essere pubblicati e quindi fare «titolo», una scarsa
attenzione nella loro valutazione, e il fatto che la peer review serve per consolidare il flusso di finanziamenti
pubblici ai centri di ricerca seppur privati e, per gli atenei scientifici, di poter sfruttare la rendita di posizione
per brevetti di nessun valore. Un sistema di questo tipo significherebbe per l'Italia una novità, perché
introduce per la prima volta il principio della valutazione, ma significa solo innovare il dispositivo attraverso
il quale i baroni divenuti «dotti» esercitano sempre lo stesso potere. La sanzione verrebbe dal mercato: se
un ateneo è ritenuto un centro di eccellenza lo rimarrà, chi non lo è proverà a diventarlo, cercando di
accaparrarsi a colpi di assegni con molti zeri le «migliori menti». Ma il potere di definire la qualità spetta
sempre ai «dotti», senza nessuna possibilità di dissentire.
Macerie da rimuovere
Il nodo da sciogliere per Perotti è come razionalizzare le risorse destinate all'università. Anche in questo
caso, l'autore parte da un dato di fatto: l'università italiana sarà anche di massa, ma chi arriva alla laurea è
spesso figlio o figlia di una famiglia «ricca». Che l'università italiana sia un'università di classe è indubbio,
ma il tanto deprecato Sessantotto aveva introdotto un fattore che costituiva una vivente contraddizione:
l'accesso al sapere e alla conoscenza come un diritti sociale per tutti. L'autore, che ama presentarsi come
un uomo che si è fatto da solo, e vista la sua giovane età, dovrebbe forse tenere presente che le sue
possibilità di andare all'università, spostarsi negli Stati Uniti sono dovute, oltre che ai suoi meriti, anche a
quel principio del Sessantotto che affermava l'accesso al sapere come espressione di una piena
cittadinanza. Ora Perotti sostiene che innalzando le tasse universitarie affluirebbero risorse che possono
essere investite nel creare centri di eccellenza. Così come l'uso delle fondazioni, come invoca anche la
collega d'università, la bocconiana e ministro Mariastella Gelmini. Le famiglie saranno bramose di pagare
tasse più onerose, così come sarebbero felici gli studenti di accedere al «prestito d'onore», cioè quei debiti
che possono essere estinti una volta entrati nel mercato del lavoro. Bisognerebbe chiederlo a quel signore
che negli Stati Uniti innalzava un cartello, nel quale affermava che si era indebitato fino al collo e che mai
avrebbe potuto pagare il prestito d'onore contratto con l'università per conseguire la laurea.
Sotto il tallone dell'impresa
L'ordine del discorso di Roberto Perotti ha due parole chiave per decifrarlo: mercato e imprese. Due realtà
che godono di pessima salute. E che vanno a comporre quel puzzle con il quale si è cercato di immaginare
l'università dopo la sua privatizzazione. I privati, però, non hanno quasi mai investito nell'università (quelle
private esistenti funzionano come ogni altra imprese che vuol fare profitti, attraverso anche le congrue
rette). Il fatto vero è la dismissione in atto dell'università, attraverso la riduzione dei finanziamenti e il patto
luciferino e bipartisan tra baroni e sistema politico per spartirsi una torta sempre più piccola. I centri
d'eccellenza che sorgeranno sulle ceneri dell'università renderanno contente chi salirà sul carro della
necessaria trasformazione del sapere in forza produttiva sottomessa alle imprese.
All'ordine del discorso di Perotti ne andrebbe contrapposto un altro. Quello sostiene che ogni uomo e
donna possa partecipare alla produzione e alla trasmissione del sapere. Che i docenti non sono titolari di
nessuna eccellenza, né titolari di un potere speciale perché «sanno», ma che sono uomini e donne che
vogliono condividere ciò che hanno appreso e coltivato nella loro vita. E che il loro lavoro non sia
sottoposto al regime del lavoro salariato. Che la formazione deve essere permanente. Che la logica del
mercato inibisce l'innovazione, come dimostrano la decennale discussione statunitense sulla perdita di
autonomia del sapere dall'imprese. Che l'università è un bene comune da difendere e che deve eccellere
sempre. Perché un'università che risponde all'ordine del discorso sviluppato in questo saggio è
un'università truccata, tanto quanto quella che l'autore vorrebbe criticare.