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Il Manifesto 16 ottobre 2008 

 
L'Università DISMESSA ‐ AL LIBERO MERCATO DEI CENTRI DI ECCELLENZA 
Meritocrazia,  prestito  d'onore,  deregulation  nelle  assunzioni,  fondazioni  per  gli  investimenti  privati.  La 
ricetta liberista per l'università letta attraverso le pratiche culturali di resistenza negli atenei 
 
BENEDETTO VECCHI 
 
L'obiettivo, che fa capolino pagina dopo pagina, senza però mai  essere dichiarato è la costruzione di  una 
«università  degli  eccellenti»,  che  prende  il  posto  di quella,  clientelare  e  sprecona,  «di  massa».  E  dunque, 
spazio  al  merito,  alla  concorrenza  tra  atenei  per  attrarre  docenti  e  ricercatori  di  qualità,  attraverso  la 
liberalizzazione  delle  assunzioni.  Oltre  a  questo,  aumento  delle  tasse,  prestito  d'onore  per  gli  studenti, 
valutazione della qualità delle ricerche svolte, possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni per 
attirare finanziamenti privati. Questo ultimo aspetto prevede una gerarchia tra le università, che dovrebbe 
spaziare, dai centri  d'eccellenza all'equivalente italiano dei community  college noti negli Stati Uniti per la 
bassa  qualità  dell'insegnamento  e  per  essere  il  ripiego  di  chi  non  può  permettersi,  per  soldi,  un  college 
degno di questo nome. 
Sono questi i temi trattati nel pamphlet di Roberto Perotti L'università truccata (Einaudi, pp. 178, euro 16), 
che non nasconde l'ambizione di presentarsi come una feroce critica dei «baroni» e, al tempo stesso, come 
una proposta organica di modernizzazione dell'università italiana all'insegna di una vision aziendalista della 
formazione,  all'interno  della  quale  la  diffusione  della  cultura  e  della  conoscenza  sono  equiparate  alla 
produzione  di  una  qualsiasi  merce.  Elemento,  quest'ultimo,  che  ricorre  nelle  reiterate  esemplificazioni 
dell'autore,  quando  invita  a  comparare  i  comportamenti  di  un  consumatore  di  fronte  alla  scelta  di  quale 
automobile acquistare a quelli di uno studente che deve decidere a quale università scriversi. 
 
Un sistema feudale 
Non è la prima volta che Roberto Perotti affronta lo «stato di salute» dell'università italiana. Alcuni anni fa, 
assieme  a  Alberto  Alesina  e  Francesco  Giavazzi,  aveva  contribuito  a  stilare  un  Manifesto  per  l'università 
(Rizzoli  editore);  poi  ha  continuato  a  monitorare  la  formazione  universitaria  con  contributi  al  sito 
lavoce.info  e  con  la  newsletter  sui  concorsi  elaborata  dall'«Innocenzo  Gasparini  Institute  for  Economic 
Research» dell'Università Bocconi di Milano, polo universitario privato dove insegna dopo una docenza alla 
Columbia University di New York. È dunque un economista, a cui forse non dispiacerebbe la qualifica, resa 
nota da Giavazzi, di «liberista di sinistra». Ma non è questione di etichette, quanto di un ordine del discorso 
che nonostante gli insuccessi ‐ la riforma dell'università di Letizia Moratti è state fatta in nome del libero 
mercato ‐ e le critiche che ha incontrato continua a autoalimentarsi in nome di una superiorità del mercato 
che l'attuale crisi finanziaria sta mettendo a nudo come una ideologia poggiata oramai su una montagna di 
inesigibili titoli di borsa.  
C'è  però  nel  volume  di  Perotti  un  punto  forte.  È  quello  in  cui  viene  denunciato  il  potere  dei  baroni,  che 
manipolano i concorsi al solo fine di mantenere inalterato il loro potere, al punto che la documentazione 
fornita  dall'autore  rappresenta  il  loro  operato  alla  stessa  stregua  di  un  clan  mafioso  o  di  una  lobby 
economica su base familiare. Ordinari e presidi che fanno vincere i concorsi a figli, figlie, mogli, fidanzate; 
oppure scambi di favore tra «clan universitari» al fine di consolidare la propria posizione e così partecipare 
al  banchetto  dei  finanziamenti  pubblici.  Un  repertorio  di  ordinario  saccheggio  che  rendono  i  «baroni»  il 
maggior  centro  di  potere  dell'università.  E  poco  serve  ricordare  che  la  maggioranza  dei  ricercatori  e  dei 
docenti  sono  persone  oneste.  Il  problema,  semmai,  è  che  il  marchio  di  fabbrica  impresso  all'università  è 
proprio quel sistema di potere che i baroni hanno sviluppato in questi decenni.  
I baroni, va da sé, sono stati sempre presenti nelle università italiana, condizionando l'accesso alla docenza 
e alla ricerca. Ma solo da pochi decenni il potere viene esercito non in nome di una «scuola di pensiero» 
che  vuole  diventare  egemone,  quanto  per  condizionare  la  redistribuzione  del  reddito  e  dei  privilegi. 
Insomma,  una  casta  come  molte  altre  presenti  in  Italia.  E  che  andrebbe  smantellata,  sostiene  Perotti, 
attraverso  l'abolizione  dei  concorsi  con  gli  atenei  che  chiamano  il  docente  che  vuole  e  che  contrattano 
individualmente il compenso.  
L'autore propone inoltre di introdurre anche in Italia il sistema dei peer review, cioè quel giudizio tra pari 
che consente la pubblicazione di articoli su prestigiose riviste internazionali. Con una omissione: la feroce 
critica  al  funzionamento  delle  peer  review  maturata  nell'accademia  statunitense,  laddove  è  stata 
individuata un'inflazione di mediocri articoli inviati per essere pubblicati e quindi fare «titolo», una scarsa 
attenzione nella loro valutazione, e il fatto che la peer review serve per consolidare il flusso di finanziamenti 
pubblici ai centri di ricerca seppur privati e, per gli atenei scientifici, di poter sfruttare la rendita di posizione 
per  brevetti  di  nessun  valore.  Un  sistema  di  questo  tipo  significherebbe  per  l'Italia  una  novità,  perché 
introduce per la prima volta il principio della valutazione, ma significa solo innovare il dispositivo attraverso 
il quale i baroni divenuti «dotti» esercitano sempre lo stesso potere. La sanzione verrebbe dal mercato: se 
un  ateneo  è  ritenuto  un  centro  di  eccellenza  lo  rimarrà,  chi  non  lo  è  proverà  a  diventarlo,  cercando  di 
accaparrarsi a colpi di assegni con molti zeri le «migliori menti». Ma il potere di definire la qualità spetta 
sempre ai «dotti», senza nessuna possibilità di dissentire. 
 
Macerie da rimuovere 
Il  nodo  da  sciogliere  per  Perotti  è  come  razionalizzare  le  risorse  destinate  all'università.  Anche  in  questo 
caso, l'autore parte da un dato di fatto: l'università italiana sarà anche di massa, ma chi arriva alla laurea è 
spesso figlio o figlia di una famiglia «ricca». Che l'università italiana sia un'università di classe è indubbio, 
ma il tanto deprecato  Sessantotto aveva introdotto un fattore che costituiva una vivente  contraddizione: 
l'accesso al sapere e alla conoscenza come un diritti sociale per tutti. L'autore, che ama presentarsi come 
un  uomo  che  si  è  fatto  da  solo,  e  vista  la  sua  giovane  età,  dovrebbe  forse  tenere  presente  che  le  sue 
possibilità di andare all'università, spostarsi negli Stati Uniti sono dovute, oltre che ai suoi meriti, anche a 
quel  principio  del  Sessantotto  che  affermava  l'accesso  al  sapere  come  espressione  di  una  piena 
cittadinanza.  Ora  Perotti  sostiene  che  innalzando  le  tasse  universitarie  affluirebbero  risorse  che  possono 
essere  investite  nel  creare  centri  di  eccellenza.  Così  come  l'uso  delle  fondazioni,  come  invoca  anche  la 
collega d'università, la bocconiana e  ministro Mariastella Gelmini. Le famiglie saranno bramose di pagare 
tasse più onerose, così come sarebbero felici gli studenti di accedere al «prestito d'onore», cioè quei debiti 
che possono essere estinti una volta entrati nel mercato del lavoro. Bisognerebbe chiederlo a quel signore 
che negli Stati Uniti innalzava un cartello, nel quale affermava che si era indebitato fino al collo e che mai 
avrebbe potuto pagare il prestito d'onore contratto con l'università per conseguire la laurea. 
 
Sotto il tallone dell'impresa 
L'ordine del discorso di Roberto Perotti ha due parole chiave per decifrarlo: mercato e imprese. Due realtà 
che godono di pessima salute. E che vanno a comporre quel puzzle con il quale si è cercato di immaginare 
l'università dopo la sua privatizzazione. I privati, però, non hanno quasi mai investito nell'università (quelle 
private  esistenti  funzionano  come  ogni  altra  imprese  che  vuol  fare  profitti,  attraverso  anche  le  congrue 
rette). Il fatto vero è la dismissione in atto dell'università, attraverso la riduzione dei finanziamenti e il patto 
luciferino  e  bipartisan  tra  baroni  e  sistema  politico  per  spartirsi  una  torta  sempre  più  piccola.  I  centri 
d'eccellenza  che  sorgeranno  sulle  ceneri  dell'università  renderanno  contente  chi  salirà  sul  carro  della 
necessaria trasformazione del sapere in forza produttiva sottomessa alle imprese.  
All'ordine  del  discorso  di  Perotti  ne  andrebbe  contrapposto  un  altro.  Quello  sostiene  che  ogni  uomo  e 
donna possa partecipare alla produzione e alla trasmissione del sapere. Che i docenti non sono titolari di 
nessuna  eccellenza,  né  titolari  di  un  potere  speciale  perché  «sanno»,  ma  che  sono  uomini  e  donne  che 
vogliono  condividere  ciò  che  hanno  appreso  e  coltivato  nella  loro  vita.  E  che  il  loro  lavoro  non  sia 
sottoposto  al  regime  del  lavoro  salariato.  Che  la  formazione  deve  essere  permanente.  Che  la  logica  del 
mercato  inibisce  l'innovazione,  come  dimostrano  la  decennale  discussione  statunitense  sulla  perdita  di 
autonomia del sapere dall'imprese. Che l'università è un bene comune da difendere e che deve eccellere 
sempre.  Perché  un'università  che  risponde  all'ordine  del  discorso  sviluppato  in  questo  saggio  è 
un'università truccata, tanto quanto quella che l'autore vorrebbe criticare. 

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