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Read online textbook Pedagogical Journeys Through World Politics 1St Ed Edition Jamie Frueh ebook all chapter pdf
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ciò che del resto affermava pure Sallustio, quando, narrando della
Guerra Catilinaria, qualificava la romana razza genus hominum
agreste, sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum [253]; e più
innanzi così enunciava gli scopi de’ loro fatti militari: hostibus obviam
ire, libertatem, patriam, parentesque armis tegere [254]. Ciò non tolse
che il dovere star sempre all’erta e dover respingere tanti e
innumerevoli nemici, avesse a modificare le primitive inclinazioni.
Epperò l’occupazione generale doveva essere di ginnastiche
esercitazioni, di ludi bellici, di studio, di violente imprese, e si hanno
così le ragioni di que’ fatti d’armi gloriosi che si succedevano senza
posa l’un l’altro e di quelle virtù eziandio primitive che si videro
scemare man mano che crebbe la potenza romana e con essa le
passioni individuali.
I Romani inoltre situati fra tanti popoli e nazioni prodi e bellicosi, che
dovevano diventare? Altrettanti soldati, risponde il Mengotti
nell’opera sua, Il Commercio dei Romani [255]. Bisognava o
distruggere o essere distrutti. Stettero dunque coll’armi alla mano
per quattro secoli, rodendo pertinacemente i confini ora di questo,
ora di quello stato, finchè superati tutti gli ostacoli, dominati i Sanniti
e vinto Pirro, o piuttosto non vinti da lui, si resero signori d’Italia. In
appresso l’orgoglio, che ispira la felicità delle prime imprese e la
smoderata cupidità di bottino, gli stimolarono a divenir conquistatori
della terra. Questo fu il genio che si venne necessariamente
formando e il carattere de’ Romani. La guerra, dopo che divenne
indispensabile, fu la loro educazione, il loro mestiere e la loro
passion dominante. Essi furono quindi soldati per massima di stato,
per forza di istituzione, per necessità di difesa, per influenza di
religione, per esempio de’ ricchi e dopo altresì che divennero ricchi e
potenti in Italia, conservarono la stessa ferocia e la stessa tendenza
a crescere di stato per il lungo uso di vincere e per impulso delle
prime impressioni.
Un popolo poi fiero e conquistatore riguarda allora la negoziazione
come un mestiere ignobile, mercenario ed indegno della propria
grandezza. Le idee vaste, i piani magnifici, i progetti brillanti, i
pensieri ambiziosi di gloria e di rinomanza, lo splendore e la celebrità
delle vittorie, la boria de’ titoli, la pompa ed il fasto de’ trionfi non si
confacevano con le piccole idee e coi minuti particolari della
mercatura. Lo stesso Cicerone preponeva ad ogni altra virtù la virtù
militare: Rei militaris virtus præstat cæteris omnibus; hæc populo
romano, hæc huic urbi æternam gloriam peperit [256].
All’agricoltura, la passione e virtù d’origine, si sarebbero piuttosto nei
giorni di calma e in ricambio rivolti, tornando più confacente a que’
caratteri indomiti; e così que’ grandi capitani che furono Camillo,
Cincinnato, Fabrizio e Curio alternavano le cure della guerra con
quelle del campo, infra i solchi del quale era duopo che i militari
tribuni andassero a cercarli quando avveniva rottura di ostilità coi
popoli limitrofi.
Quindi nulle le arti, povere le manifatture, rustico il costume.
Grossolane le vesti, venivano confezionate dalle spose pei mariti;
onde si diceva della donna a sommo di lode, domum mansit, lanam
fecit [257], e i capi stessi non permettevansi lusso maggiore; sì che si
legga nelle storie di Roma della toga di Servio Tullio, lavoro di sua
moglie Tanaquilla, che stesse gran tempo, siccome sacra memoria,
appesa nel tempio della Fortuna.
Colle spoglie de’ vinti nemici si fabbricarono e ornarono persino i
templi: nulla insomma si faceva in casa propria.
Quali arti dunque, chiede ancora il Mengotti, seguite pur dal
Boccardo, qual industria, quali manifatture, qual commercio
potevano avere i Romani senza coltura, senza lettere, senza
scienze? Le arti tutte e le scienze si prestano un vicendevole
soccorso e riflettono, per dir così, la loro luce, le une sulle altre. Tutte
le cognizioni hanno un legame ed un’affinità fra di loro. La poca
scienza della navigazione presso i Romani contribuì finalmente ad
impedire che il traffico progredisse.
Tuttavia noi abbiam veduto diggià, nel ritessere la storia di Pompei,
come questa città fosse emporio di commercio marittimo e così
erano pure città commercianti tutte quelle littorane. Ma esse erano
quasi divise allora dalla vita e partecipazione romana. La Sicilia
contava floridi regni, che hanno una propria ed onorifica istoria, e la
Campania, ed altre terre che costituiron di poi lo stato di Napoli,
popolate da gente di greca stirpe, giunse a tale di prosperità, da
essere appellata dai Greci stessi Magna Grecia. Navigarono questi
commercianti della Campania lungo le coste d’Italia e delle isole
vicine, visitarono la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e fino in Africa
pervennero a vendervi e scambiarvi i ricchi prodotti del suolo. Del
commercio di Pompei con Alessandria ho già trattato, allor che dissi
dell’importazione fatta dagli Alessandrini in Pompei; fra l’altre cose,
pur del culto dell’egizia Iside.
Istessamente abbiam qualche dato che attesta il commercio
marittimo di Roma con l’Africa. Nell’anno che seguì l’espulsione dei
re da Roma, venne, al dir di Polibio [258], conchiuso fra questa
repubblica e Cartagine il primo trattato di commercio, che fu di poi
rinnovato due volte. Vuolsi dire per altro che nelle loro relazioni con
Cartagine i Romani comprassero più che non vendessero,
importando di là tessuti rinomati per la loro leggerezza, oreficerie,
avorio, ambra, pietre preziose e stagno; e però può aver ragione il
succitato Mengotti nel credere che fossero stati piuttosto i
Cartaginesi, sovrani allora del mare, i quali fossero andati ai Romani,
anzi che questi a quelli; giacchè dove avessero avuto vascelli o navi
proprie e conosciuta la nautica, se ne sarebbero valsi a respingere
Pirro dal lido italico, nè le tempeste e gli scogli avrebbero distrutte
sempre le loro flotte; tal che la strage causata dai naufragi fosse sì
grande, che da un censo all’altro si avesse a trovare una
diminuzione in Roma di quasi novantamila cittadini [259].
Porran suggello a questo vero dell’imperizia de’ Romani nella
nautica, le frequenti disfatte toccate da essi nei mari, la guerra de’
Pirati, che li andavano ad insultare sugli occhi proprj, e le parole di
Cicerone che l’abbandono vergognoso della loro marina chiama
labem et ignominiam reipublicæ [260], macchia e ignominia della
Repubblica.
Ma le cose migliorarono, convien dirlo, dopo Augusto, se Plinio ci fa
sapere che i Romani portassero ad Alessandria ogni anno per
cinque milioni di mercanzie, e vi guadagnassero il centuplo, e se
tanto interesse vi avessero a trovare, da spingere la gelosia loro a
vietare ad ogni straniero l’entrata nel mar Rosso.
Roma per cinquanta miglia di circonferenza, con quattro milioni di
abitanti [261], con ricchezze innumerevoli versate in essa da
conquiste e depredamenti di tante nazioni, con infinite esigenze di
lusso e di mollezza da parte de’ suoi facoltosi, opulenti come i re,
doveva avere indubbiamente attirato un vasto commercio, certo per
altro più di importazione che di esportazione. Il succitato Plinio ci
informa come si profondessero interi patrimonii nelle gemme che si
derivavan dall’Oriente, negli aromi dell’Arabia e della Persia; che
dall’Egitto poi si cavasse il papiro, il grano ed il vetro, che si
cambiavan con olio, vino, e Marziale ci avverte anche con rose in
quel verso:
PSEUDOLUS
CHARIN
Rogas?
Murrhinam, passum, defrutum mellinam, mel cujusmodi.
Quin in corde instruere quondam cœpit thermopolium [277].
LIBANUS
DEMÆNETUS
LIBANUS