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F.

Petrarca
Triumphus Mortis, I

Quella leggiadra e glorïosa donna, Or a voi, quando il viver più diletta,


ch’è oggi ignudo spirto e poca terra drizzo il mio corso inanzi che Fortuna
e fu già di valor alta colonna, nel vostro dolce qualche amaro metta. »
tornava con onor da la sua guerra, « In costor non hai tu ragione alcuna,
allegra, avendo vinto il gran nemico, ed in me poca; solo in questa spoglia
che con suo’ ingegni tutto ’l mondo atterra, (rispose quella che fu nel mondo una).
non con altr’arme che col cor pudico Altri so che n’avrà più di me doglia,
e d’un bel viso e de’ pensieri schivi, la cui salute dal mio viver pende;
d’un parlar saggio e d’onestate amico. a me fia grazia che di qui mi scioglia. »
Era miracol novo a veder ivi Qual è chi ’n cosa nova gli occhi intende,
rotte l’arme d’Amore, arco e saette, e vede ond’al principio non s’accorse,
e tal morti da lui, tal presi e vivi. di ch’or si meraviglia e si riprende,
La bella donna e le compagne elette, tal si fe’ quella fera, e poi che ’n forse
tornando da la nobile vittoria, fu stata un poco: « Ben le riconosco, »
in un bel drappelletto ivan ristrette; disse « e so quando ’l mio dente le morse. »
poche eran, perché rara è vera gloria; Poi col ciglio men torbido e men fosco
ma ciascuna per sé parea ben degna disse: « Tu che la bella schiera guidi
di poema chiarissimo e d’istoria. pur non sentisti mai del mio tosco.
Era la lor vittoriosa insegna Se del consiglio mio punto ti fidi,
in campo verde un candido ermellino, ché sforzar posso, egli è pur il migliore
ch’oro fino e topazi al collo tegna fuggir vecchiezza e’ suoi molti fastidi.
Non uman veramente, ma divino I’ son disposta a farti un tal onore
lor andar era e lor sante parole: qual altrui far non soglio, e che tu passi
beato s’è qual nasce a tal destino. senza paura e senz’alcun dolore. »
Stelle chiare pareano; in mezzo, un sole « Come piace al Signor che ’n cielo stassi
che tutte ornava e non togliea lor vista; et indi regge e tempra l’universo,
di rose incoronate e di viole. farai di me quel che degli altri fassi. »
E come gentil cor onore acquista, Così rispose: ed ecco da traverso
così venia quella brigata allegra, piena di morti tutta la campagna,
quando vidi un’insegna oscura e trista: che comprender nol pò prosa né verso;
et una donna involta in veste negra, da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna
con un furor qual io non so se mai el mezzo avea già pieno e le pendici
al tempo de’ giganti fusse a Flegra, per molti tempi quella turba magna.
si mosse e disse: « O tu, donna, che vai Ivi eran quei che fur detti felici,
di gioventute e di bellezze altera, pontefici, regnanti, imperadori;
e di tua vita il termine non sai, or sono ignudi, miseri e mendici.
io son colei che sì importuna e fera U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori
chiamata son da voi, e sorda e cieca e le gemme e gli scettri e le corone
gente a cui si fa notte inanzi sera. e le mitre e i purpurei colori?
Io ho condotto al fin la gente greca Miser chi speme in cosa mortal pone
e la troiana, a l’ultimo i Romani, (ma chi non ve la pone?), e se si trova
con la mia spada la qual punge e seca, a la fine ingannato è ben ragione.
e popoli altri barbareschi e strani; O ciechi, el tanto affaticar che giova?
e giugnendo quand’altri non m’aspetta, Tutti tornate a la gran madre antica,
ho interrotti mille penser vani. e ’l vostro nome a pena si ritrova.
Pur de le mill’ è un’utile fatica,
F. Petrarca
Triumphus Mortis, I

che non sian tutte vanità palesi? e de la vita ch’altri non mi tolse.
Chi intende a’ vostri studii sì mel dica. Debito al mondo e debito a l’etate,
Che vale a soggiogar gli altrui paesi cacciar me innanzi ch’ero giunto in prima,
e tributarie far le genti strane né a lui torre ancor sua dignitate.
cogli animi al suo danno sempre accesi? Or qual fusse il dolor qui non si stima,
Dopo l’imprese perigliose e vane, ch’a pena oso pensarne, non ch’io sia
e col sangue acquistar terre e tesoro, ardito di parlarne in versi o ’n rima.
vie più dolce si trova l’acqua e ’l pane, « Virtù more, bellezza e leggiadria! »
e ’l legno e ’l vetro che le gemme e l’oro. le belle donne intorno al casto letto
Ma per non seguir più sì lungo tema, triste diceano « Omai di noi che fia?
tempo è ch’io torni al mio primo lavoro. chi vedrà mai in donna atto perfetto?
I’ dico che giunta era l’ora estrema chi udirà il parlar di saver pieno
di quella breve vita glorïosa, e ’l canto pien d’angelico diletto? »
e ’l dubbio passo di che ’l mondo trema, Lo spirto, per partir di quel bel seno,
et a vederla un’altra valorosa con tutte sue virtuti, in sé romito,
schiera di donne non dal corpo sciolta, fatto avea in quella parte il ciel sereno.
per saper s’esser pò Morte pietosa. Nessun degli avversari fu sì ardito
Quella bella compagna era ivi accolta ch’apparisse già mai con vista oscura
pure a vedere e contemplare il fine fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.
che far convensi, e non più d’una volta: Poi che deposto il pianto e la paura
tutte sue amiche e tutte eran vicine. pur al bel volto era ciascuna intenta,
Allor di quella bionda testa svelse per desperazïon fatta sicura,
Morte co la sua mano un aureo crine: non come fiamma che per forza è spenta,
così del mondo il più bel fiore scelse, ma che per sé medesma si consume,
non già per odio, ma per dimostrarsi se n’andò in pace l’anima contenta,
più chiaramente ne le cose eccelse. a guisa d’un soave e chiaro lume
Quanti lamenti lagrimosi sparsi cui nutrimento a poco a poco manca,
fur ivi, essendo que’ belli occhi asciutti tenendo al fine il suo caro costume.
per ch’io lunga stagion cantai ed arsi! Pallida no, ma più che neve bianca
E fra tanti sospiri e tanti lutti che senza venti in un bel colle fiocchi,
tacita e sola lieta si sedea, parea posar come persona stanca.
del suo ben viver già cogliendo i frutti. Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,
« Vattene in pace, o vera mortal dea! » sendo lo spirto già da lei diviso,
diceano; e tal fu ben, ma non le valse era quel che morir chiaman gli sciocchi:
contra la Morte in sua ragion sì rea. Morte bella parea nel suo bel viso.
Che fia de l’altre, se questa arse et alse
in poche notti e sì cangiò più volte?
O umane speranze cieche e false!
Se la terra bagnar lagrime molte
per la pietà di quella alma gentile,
chi ’l vide il sa; tu ’l pensa che l’ascolte.
L’ora prima era, il dì sesto d’aprile,
che già mi strinse, et or, lasso, mi sciolse:
come Fortuna va cangiando stile!
Nessun di servitù giammai si dolse,
né di morte, quant’io di libertate

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