Sei sulla pagina 1di 10

DON BOSCO “TESTIMONE”

1. DON BOSCO TESTIMONE NON SEMPLICE MODELLO

Vorrei iniziare questo intervento su “Don Bosco, testimone” con questa citazione dal Vangelo di
Giovanni, perché introduce con chiarezza il significato del termine “Testimone”.
Nel Vangelo di Giovanni 1, 35-42 si dice: “In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli
e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi due discepoli,
sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano,
disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì - che, tradotto, significa maestro - dove
dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel
giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Il Vangelo, quindi indica già con chiarezza chi deve essere l’adulto educatore testimone.
Un adulto è sempre nell’ordine del fare, quindi un adulto educatore pensa, dice e fa, sono tre azioni
che stanno insieme e costruiscono la coerenza dei gesti. Un adulto pensa e ciò che dice e fa, è in
coerenza con il suo agire. L’adulto non è un modello chiuso, perché se così fosse mancherebbe di
dinamismo relazionale, Un modello passa di solito per via ereditaria, è qualcosa di originale che si
vuole copiare, imitare, riprodurre e in senso più stretto è la persona o la cosa che un artista intende
rappresentare più o meno fedelmente. Oggi il termine modello si usa per individuare quella persona
che posa davanti a un pittore, oppure chi indossa abiti e fa le sfilate, un modello è una qualsiasi cosa
o persona che fa da punto di riferimento, che si tiene presente come esempio da seguire. Nel
linguaggio burocratico, un modello è un modulo stampato, è una costruzione che riproduce.
Io preferisco usare il termine testimone, che nell’etimologia latina richiama al terstis colui che «sta
terzo» e che, classicamente, depone in un processo. Ma accanto, a questa etimologia ve n’è un’altra,
quella che deriva dalla parola con cui in greco si designava il testimone: mártys (poi in latino
martyr) e che indica un diverso soggetto produttore di testimonianza: il martire, colui che
testimonia in pubblico la sua fede in un assoluto.
Quindi l’adulto educatore è un testimone, che richiama il giovane a guardare quello che un adulto
fa, non da lontano, ma da vicino, vivendo insieme, senza chiedere l’obbligo dell’imitazione. Se il
modello può essere interpretato come una Dima, il testimone, ci ricorda il Vangelo di Giovanni
dice: “Venite e vedrete”.
Così fa don Bosco e lo possiamo vedere nel racconto che fa nelle Memorie dell’Oratorio.

Appena entrato nel Convitto di San Francesco, subito mi trovai una schiera di giovanetti che
mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell’Istituto. Ma non
poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale. Un lepido incidente porse
occasione di tentare l’attuazione del progetto in favore dei giovanetti vaganti per le vie della
città specialmente quelli usciti dalle carceri. Il giorno solenne all’Immacolata Concezione di
Maria (8 dicembre 1841) all’ora stabilita era in atto di vestirmi dei sacri paramentali per
celebrare la santa messa. Il chierico di sacristia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in
un canto lo invita di venirmi a servire la messa. “Non so, egli rispose tutto mortificato”. –
Vieni, replicò l’altro, voglio che tu serva messa. – Non so, replicò il giovanetto, non l’ho
mai servita. – Bestione che sei, disse il chierico di sacristia tutto furioso, se non sai servire
1
messa, a che vieni in sacristia? Ciò dicendo dà di piglio alla pertica dello spolverino, e giù
colpi sulle spalle o sulla testa di quel poverino. Mentre l’altro se la dava a gambe. – Che
fate, gridai ad alta voce, perché battere costui in cotal guisa, che ha fatto? – Perché viene in
sacristia, se non sa servir messa? – Ma voi avete fatto male. – A lei che importa? – Importa
assai, è un mio amico, chiamatelo sull’istante, ho bisogno di parlare con lui. – Tuder, tuder
(zotico), si mise a chiamare; e correndogli dietro, e assicurandolo di miglior trattamento, me
lo ricondusse vicino. L’altro si approssimò tremante e lagrimante per le busse ricevute. –
Hai già udita la messa? gli dissi colla amorevolezza a me possibile. – No, rispose l’altro. –
Vieni adunque ad ascoltarla; dopo ho piacere di parlarti di un affare, che ti farà piacere. Me
lo promise. Era mio desiderio di mitigare l’afflizione di quel poveretto e non lasciarlo con
quella sinistra impressione verso ai direttori di quella sacristia. Celebrata la santa messa e
fattone il dovuto ringraziamento condussi il mio candidato in un coretto. Con faccia allegra
ed assicurandolo, che non avesse più timore di bastonate, presi ad interrogarlo così: – Mio
buon amico, come ti chiami? – Mi chiamo Bartolomeo Garelli. – Di che paese tu sei? –
D’Asti. – Vive tuo padre? – No, mio padre è morto. – E tua madre? – Mia madre è anche
morta. – Quanti anni hai? – Ne ho sedici. – Sai leggere e scrivere? – Non so niente. – Sei
stato promosso alla santa comunione? – Non ancora. – Ti sei già confessato? – Sì, ma
quando era piccolo. – Ora vai al catechismo? – Non oso. – Perché? – Perché i miei
compagni più piccoli sanno il catechismo; ed io tanto grande ne so niente; perciò ho rossore
di recarmi a quelle classi. – Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo? – Ci
verrei molto volentieri. – Verresti volentieri in questa cameretta? – Verrò assai volentieri,
purché non mi diano delle bastonate. – Sta tranquillo, ché niuno ti maltratterà. Anzi tu sarai
mio amico, e avrai da fare con me e con nissun altro. Quando vuoi che cominciamo il nostro
catechismo? – Quando a lei piace. – Stasera? – Sì. – Vuoi anche adesso? – Sì anche adesso
con molto piacere. Mi alzai e feci il segno della santa croce per cominciare, ma il mio
allievo nol faceva perché ignorava il modo di farlo. In quel primo catechismo mi trattenni a
fargli apprendere il modo di fare il segno della croce e a fargli conoscere Dio creatore e il
fine per cui ci ha creati. Sebbene di tarda memoria, tuttavia coll’assiduità e coll’attenzione in
poche feste riuscì ad imparare le cose necessarie per fare una buona confessione e poco dopo
la sua santa comunione. A questo primo allievo se ne aggiunsero alcuni altri e nel corso di
quell’inverno mi limitai ad alcuni adulti che avevano bisogno di catechismo speciale e
soprattutto per quelli che uscivano dalle carceri. Fu allora che io toccai con mano che i
giovanetti usciti dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola che di loro si prenda
cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso o di qualche onesto
padrone e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, questi giovanetti si davano
ad una vita onorata, dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini.
Questo è il primordio del nostro Oratorio, che benedetto dal Signore prese quell’incremento,
che certamente non avrei potuto allora immaginare.

2. COSA DON BOSCO TESTIMONIA

Don Bosco incontra Dio nel sogno dei nove anni e questa esperienza non lo abbandona più. Non
solo, per tutta la vita, continua a fidarsi di questo Dio, ma sente il bisogno di testimoniarlo, e cioè di
dire agli altri quanta vita e quanta felicità si provi nell’incontrare Dio! Fin da piccolo ha la passione
di cercare i ragazzi delle cascine vicine alla sua, di incontrarli, di metterli insieme per passare
allegramente il tempo; ed è lui il capo banda, l’animatore, il centro di ogni piccola o grande
impresa; ha il temperamento del leader. Ma non manca mai di suggerire una parola, di fare una
riflessione, di offrire un consiglio che, chiaramente, si ispirano alla fede. Comunica Dio con
semplicità, nel linguaggio dei ragazzi!
Lo stesso farà da studente a Chieri e poi da grande quando sarà prete a Torino; e saprà testimoniare
la sua fede anche di fronte a personalità ostili, a polemiche pubbliche, ad attacchi più o meno
scoperti, sempre rischiando di persona. L’ambiente, allora, era ostile alla fede: la massoneria da una
2
parte e le sette protestanti dall’altra costituivano un continuo attacco alla religione. E don Bosco
sempre in prima fila, anche quando altri si ritirano nell’ombra per non essere compromessi; non
solo, ma incoraggia i suoi ragazzi e i suoi amici ad uscire allo scoperto, ad essere dei lottatori, a
seminare germi di bene ovunque, in ogni ambiente, dentro ogni situazione.
Don Bosco ebbe tanti amici ma anche tanti nemici; ma anche questi ultimi ebbero a riconoscere la
sua lealtà e a manifestare il loro rispetto per questo prete povero ed inerme ma che non taceva e non
si ritirava di fronte a nessuna sfida.
Tutti noi abbiamo delle idee; fra le tante idee, alcune diventano convinzioni, vale a dire principi
interiori che regolano il nostro modo di pensare, di scegliere, di decidere, di agire. E le convinzioni
si trasformano in comportamenti, manifestazioni esteriori di ciò che siamo dentro, di ciò in cui
crediamo con tutto noi stessi. E i comportamenti si trovano a fare i conti con gli ambienti nei quali
ci muoviamo, con le convinzioni degli altri, con le abitudini, con le mode, con i costumi. Possono
trovare approvazione e sostegno; ma possono anche trovare negazione e ostilità.
Anche oggi l’ambiente è ostile alla fede. Se non troviamo una ostilità aggressiva come nella Torino
dell’Ottocento; possiamo dire che l’ostilità, oggi, si chiama indifferenza. Così che se uno osa
manifestare la sua fede è guardato come un animale raro e si sente addosso il gelo del
compatimento: “Credi ancora a queste cose?”.
Ma è anche vero che, mai come oggi, la nostra cultura è anonima, massificata, spersonalizzata e
spersonalizzante; e che molti provano il disagio di essere, dentro la massa, niente e nessuno. Ed è
vero che i giovani, più di altri, avvertono il richiamo di valori autentici, di ideali veri, di impegni
seri. Almeno ad un certo momento avvertono tutto questo; poi dopo, i più si rassegnano e si
uniformano.
Don Bosco metteva spesso i suoi ragazzi di fronte a queste responsabilità: allegri sì ma non
incoscienti, sereni sì ma non disimpegnati, in mezzo a tutti gli altri ma non anonimi. E, a volte, don
Bosco usava anche parole dure per risvegliare la coscienza dei suoi giovani su queste realtà; perché
era consapevole che, ad essere in gioco, era la vita!

Ci ricorda il Rettor Maggiore emerito don Pascual Chávez che “conoscere la vita di Don Bosco e la
sua pedagogia non significa ancora comprendere il segreto più profondo e la ragione ultima della
sua sorprendente attività”. Alla base di tutto è la sua “profonda vita interiore”, la sua “familiarità
con Dio”.

“Non ci sono dubbi che in Don Bosco la santità rifulge nelle sue opere, ma è certamente vero che le
opere sono solo un’espressione della sua fede”.
Con la sua dedizione ai giovani Don Bosco voleva comunicare loro l’esperienza di Dio. La sua non
era solo generosità o filantropia, ma carità pastorale. Interessante la testimonianza lasciataci da Don
Orione: “Ora vi dirò la ragione, il motivo, la causa per cui Don Bosco si è fatto santo. Don Bosco si
è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio, perché nutrì la vita nostra di Dio. Alla sua scuola
imparai che quel santo non ci riempiva la testa di sciocchezze, o di altro, ma ci nutriva di Dio, e
nutriva se stesso di Dio, dello spirito di Dio”.

La spiritualità di Don Bosco è una spiritualità attiva e popolare. “Don Bosco non ha lasciato
formule di pietà, neppure una sua devozione particolare. La sua concezione è realista e pratica. Solo
le preghiere del buon cristiano, facili, semplici, ma fatte con perseveranza”. È una spiritualità
alimentata di Eucaristia, di confessione e di devozione alla Madonna. Non ci sono dubbi che in Don
Bosco la santità rifulge nelle sue opere, ma è certamente vero che le opere sono solo un’espressione
della sua fede. Non sono le opere realizzate che fanno di Don Bosco un santo, come ci ricorda San
Paolo: «Se anche parlassi le lingue degli uomini… ma non ho la carità, nulla mi serve» ( 1 Cor 13);
ma è una fede ravvivata dalla carità operativa (cf. Gal 5,6b) che lo fa santo: dai frutti conoscerete le
sue opere (cf. Mt 7,16.20).
Don Bosco è sempre stato fedele alla sua missione di carità effettiva: là dove un misticismo
disincarnato avrebbe rischiato di tagliare i ponti con la realtà, la fede lo ha obbligato a restare in
3
trincea per atto di estrema fedeltà all´uomo bisognoso; là dove poteva subentrare stanchezza e
rassegnazione, lo sorresse la speranza; là dove non sembrava esserci rimedio, lo spinse ad agire la
via indicata da Paolo: «Caritas Christi urget nos» (1 Cor 5,14). La carità vissuta da Don Bosco non
si arrestava di fronte alle difficoltà: «Mi sono fatto tutto per tutti per salvare ad ogni costo
qualcuno» (1 Cor 9,22). Non le sconfitte erano da temere in campo educativo, ma l’inerzia e il
disimpegno.
In Don Bosco si ha una spiritualità attiva; egli tende all´azione, all’operosità sotto lo stimolo dell
´urgenza e della coscienza di una missione celeste. In Don Bosco si scopre il senso della relatività
delle cose e contemporaneamente della loro necessaria utilizzazione per lo scopo che gli sta a cuore.
Egli preferisce non attaccarsi rigidamente a certi schemi; meglio dunque una lettura più pratica,
pastorale, spirituale, che teologico-speculativa.
Don Bosco ha saputo inserirsi realisticamente nella società, dando testimonianza di fede, esortando,
intervenendo in modo diretto, anche là dove pareva compromettere agli occhi di alcuni la dignità
sacerdotale. Ha vissuto i valori forti della sua vocazione ma ha anche saputo tradurli in fatti sociali,
in gesti concreti, senza ripiegamento nello spirituale, nell’ecclesiale, nel liturgico, inteso come
spazio esente dai problemi del mondo e della vita.
In Don Bosco lo Spirito si è fatto vita. Non è fuggito in avanti, ma neppure è rimasto attardato.
Forte della sua vocazione, non ha vissuto il quotidiano come assenza di orizzonti; come nicchia
protettiva; come rifiuto del confronto aperto con una realtà più ampia e diversificata; come mondo
ristretto di pochi bisogni da soddisfare; come luogo di ripetizione quasi meccanica di atteggiamenti
tradizionali; come rifiuto delle tensioni, del sacrificio esigente, del rischio, della rinuncia al
successo immediato, della lotta.
È interessante al riguardo una citazione di 120 anni fa, che, se non fosse per alcuni termini, potrebbe
essere scambiata per contemporanea. Si tratta di una testimonianza “esterna” a Don Bosco; essa ci
offre la lettura che altri, forse anche ispirati dai Salesiani, facevano della sua opera. Si tratta del
Card. Vicario di Roma, Lucido Maria Parocchi, che nel 1884 scriveva:

«Quale lo specifico della società salesiana? Intendo di parlarvi di ciò che distingue la vostra
Congregazione, ciò che forma il vostro carattere; così come i francescani si distinguono per
la povertà; i domenicani per la difesa della fede; i gesuiti per la cultura. Essa ha in sé
qualche cosa che si apparenta a quella dei francescani, dei domenicani e dei gesuiti, ma se ne
distingue per l’oggetto e le modalità… Che cosa dunque di speciale vi sarà nella
Congregazione Salesiana? Quale sarà il suo carattere, la sua fisionomia? Se ne ho ben
compreso, se ne ho ben afferrato il concetto, il suo carattere specifico, la sua fisionomia, la
sua nota essenziale, è la carità esercitata secondo le esigenze del secolo: nos credidimus
caritati: Deus caritas est. Il secolo presente soltanto colle opere di carità può essere adescato
e tratto al bene. Il mondo ora null’altro vuole e conosce, fuorché le cose materiali; nulla vuol
sapere delle cose spirituali. Ignora le bellezze della fede, disconosce le grandezze della
religione, ripudia la speranza della vita avvenire, rinnega lo stesso Dio. Questo secolo
comprende della Carità soltanto il mezzo e non il fine e il principio. Sa fare l’analisi di
questa virtù, ma non sa comporre la sintesi. Animalis homo non percipit quae sunt spiritus
Dei: così S. Paolo. Dire agli uomini di questo secolo: «Bisogna salvare le anime che si
perdono, è necessario istruire coloro che ignorano i principi della religione, è d’uopo far
elemosina per amor di quel Dio, che un giorno premierà i generosi» gli uomini di questo
secolo non capiscono. Bisogna dunque adattarsi al secolo, il quale vola, vola.

La caratteristica sottolineata in Don Bosco è una santità comune, per tutti, ognuno secondo il
proprio stato. Non distingue gradi di santità. Don Bosco ci insegna che la santità è possibile per
tutti, che a tutti è data la grazia sufficiente per raggiungerla, che la sanità dipende molto dalla
cooperazione dell’uomo con la grazia. Certo che la santità è resa difficile, ma non impossibile, da
vari ostacoli: imperfezioni, difetti, passioni. La santità non è impossibile, dati i molti mezzi a nostra
disposizione
4
È interessante vedere parallelamente a quanto racconta il Card. Vicario di Roma, Lucido Maria
Parocchi, nel 1884 quello che Papa Benedetto XVI dice nel 2010 alle scuole cattoliche
dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia. Papa Benedetto afferma:” C’è qualcosa che mi sta
davvero molto a cuore di dirvi. Ho la speranza che fra voi che oggi siete qui ad ascoltarmi vi siano
alcuni dei futuri santi del ventunesimo secolo. La cosa che Dio desidera maggiormente per ciascuno
di voi è che diventiate santi. Egli vi ama molto più di quanto voi possiate immaginare e desidera per
voi il massimo. E la cosa migliore di tutte per voi è di gran lunga il crescere in santità.
Forse alcuni di voi non ci hanno mai pensato prima d’ora. Forse alcuni pensano che essere santi non
sia per loro. Lasciatemi spiegare cosa intendo dire. Quando si è giovani, si è soliti pensare a persone
che stimiamo e ammiriamo, persone alle quali vorremmo assomigliare. Potrebbe trattarsi di
qualcuno che incontriamo nella nostra vita quotidiana e che teniamo in grande stima. Oppure
potrebbe essere qualcuno di famoso. Viviamo in una cultura della celebrità ed i giovani sono spesso
incoraggiati ad avere come modello figure del mondo dello sport o dello spettacolo. Io vorrei farvi
questa domanda: quali sono le qualità che vedete negli altri e che voi stessi vorreste maggiormente
possedere? Quale tipo di persona vorreste davvero essere?
Quando vi invito a diventare santi, vi sto chiedendo di non accontentarvi di seconde scelte. Vi sto
chiedendo di non perseguire un obiettivo limitato, ignorando tutti gli altri. Avere soldi rende
possibile essere generosi e fare del bene nel mondo, ma, da solo, non è sufficiente a renderci felici.
Essere grandemente dotati in alcune attività o professioni è una cosa buona, ma non potrà mai
soddisfarci, finché non puntiamo a qualcosa di ancora più grande. Potrà renderci famosi, ma non ci
renderà felici. La felicità è qualcosa che tutti desideriamo, ma una delle grandi tragedie di questo
mondo è che così tanti non riescono mai a trovarla, perché la cercano nei posti sbagliati. La
soluzione è molto semplice: la vera felicità va cercata in Dio. Abbiamo bisogno del coraggio di
porre le nostre speranze più profonde solo in Dio: non nel denaro, in una carriera, nel successo
mondano, o nelle nostre relazioni con gli altri, ma in Dio. Lui solo può soddisfare il bisogno più
profondo del nostro cuore.
Dio non solo ci ama con una profondità e intensità che difficilmente possiamo immaginare: egli ci
invita a rispondere a questo amore. Tutti voi sapete cosa accade quando incontrate qualcuno di
interessante e attraente, come desideriate essere amici di quella persona. Sperate sempre che quella
persona vi trovi a sua volta interessanti ed attraenti e voglia fare amicizia con voi. Dio desidera la
vostra amicizia. E, una volta che voi siete entrati in amicizia con Dio, ogni cosa nella vostra vita
inizia a cambiare. Mentre giungete a conoscerlo meglio, vi rendete conto di voler riflettere nella
vostra stessa vita qualcosa della sua infinita bontà. Siete attratti dalla pratica della virtù.
Incominciate a vedere l’avidità e l’egoismo, e tutti gli altri peccati, per quello che realmente sono,
tendenze distruttive e pericolose che causano profonda sofferenza e grande danno, e volete evitare
di cadere voi stessi in quella trappola. Incominciate a provare compassione per quanti sono in
difficoltà e desiderate fare qualcosa per aiutarli. Desiderate venire in aiuto al povero e all’affamato,
confortare il sofferente, essere buoni e generosi. Quando queste cose iniziano a starvi a cuore, siete
già pienamente incamminati sulla via della santità.
C’è sempre un orizzonte più grande, nelle vostre scuole cattoliche, sopra e al di là delle singole
materie del vostro studio e delle varie capacità che acquisite. Tutto il lavoro che fate è posto nel
contesto della crescita nell’amicizia con Dio, e da quell’amicizia tutto quel lavoro fluisce. In tal
modo apprendete non solo ad essere buoni studenti, ma buoni cittadini e buone persone. Mentre
proseguite con il percorso scolastico dovete compiere delle scelte circa la materia del vostro studio
e iniziare a specializzarvi in vista di ciò che farete nella vita. Ciò è giusto e conveniente. Ricordate
sempre però che ogni materia che studiate si inserisce in un orizzonte più ampio. Non riducetevi
mai ad un orizzonte ristretto. Il mondo ha bisogno di buoni scienziati, ma una prospettiva scientifica
diventa pericolosamente angusta, se ignora la dimensione etica e religiosa della vita, così come la
religione diventa angusta, se rifiuta il legittimo contributo della scienza alla nostra comprensione
del mondo. Abbiamo bisogno di buoni storici, filosofi ed economisti, ma se la percezione che essi
offrono della vita umana all’interno del loro specifico campo è centrata su di una prospettiva troppo
ristretta, essi possono seriamente portarci fuori strada.
5
Una buona scuola offre una formazione completa per l’intera persona. Ed una buona scuola
cattolica, al di sopra e al di là di questo, dovrebbe aiutare i suoi studenti a diventare santi. So che vi
sono molti non cattolici che studiano nelle scuole cattoliche in Gran Bretagna e desidero rivolgermi
a tutti con le mie odierne parole. Prego affinché anche voi vi sentiate incoraggiati a praticare la virtù
e a crescere nella conoscenza ed amicizia con Dio, assieme ai vostri compagni cattolici. Voi siete
per loro il richiamo all’orizzonte più vasto che esiste fuori della scuola ed è fuor di dubbio che il
rispetto e l’amicizia per membri di altre tradizioni religiose debba essere tra le virtù che si
apprendono in una scuola cattolica. Spero anche che vorrete condividere con chiunque incontrerete i
valori e gli insegnamenti che avrete appresi mediante la formazione cristiana ricevuta.
La nostra spiritualità corre il rischio di vanificarsi, perché i tempi sono cambiati e perché talvolta
noi la viviamo superficialmente. Per attualizzarla dobbiamo ripartire da Don Bosco, dalla sua
esperienza spirituale e dal suo sistema preventivo.
In precedenza abbiamo visto che “tipo” di persona spirituale fosse Don Bosco: profondamente
uomo e totalmente aperto a Dio; in armonia tra queste due dimensioni egli ha vissuto un progetto di
vita assunto con decisione: il servizio ai giovani. Lo rileva Don Rua: «Non diede passo, non
pronunciò parola, non mise mano ad impresa alcuna che non avesse di mira la salvezza della
gioventù e come lo fa, attraverso la carità.
«La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà, la scienza
svanirà. Quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà» (1 Cor 13,8-10). Ciò
si applica non solo alla vita, ma alla nostra storia. Quello che si edifica sull’amore rimane e
costruisce la nostra persona, la nostra comunità, la nostra società; mentre ciò che si fonda e si
costruisce sull’odio e sull’egoismo si consuma.
Perciò la carità è il più grande e la radice di tutti i carismi, attraverso cui si costruisce e opera la
Chiesa. È il carisma principale, anche quando si esprime in gesti quotidiani e non ha nulla di
straordinario o vistoso: «è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia,
non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia, ma si compiace nella verità. Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» ( 1
Cor 13,4-6).

3. COME DON BOSCO TESTIMONIA

Il Sistema Preventivo è una espressione e traduzione concreta di questa spiritualità comune. Esso ci
ricollega all’anima, agli atteggiamenti e alle scelte evangeliche di Don Bosco.
Il sistema preventivo di Don Bosco si identifica con la persona dell’educatore. La funzione
predominante dell’educatore giunge ad assumere i tratti di una consacrazione, quasi di una
vocazione: «L’educatore è un individuo consacrato al bene dei suoi allievi, perciò deve essere
pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale,
scientifica educazione dei suoi allievi».
L’educazione dunque, più che un tipo di lavoro, è quasi una forma di vita, poiché non «produce»
cose materiali, ma «costruisce» persone dotate di progetti, idee, certezze, speranze, anima.
All’educatore si richiederà allora non solo competenza pedagogica e capacità relazionali costruttive
(come fare per...), ma una precisa identità (come essere per...).

1. Stare accanto

Al centro del sistema si colloca il giovane e le sue aspirazioni; al suo fianco però disponibile a porsi
totalmente e lealmente dalla sua parte sta l’educatore. Pertanto ogni educazione diventa, per così
dire, «coeducazione»: non tanto nel senso di «educazione reciproca», a doppio senso, tra adulto e
giovane, quanto nel senso che sono chiamati a partecipare entrambi alla «comune» opera educativa
[Gino Carollo].
Il primo compito dell’educatore è dunque quello di esserci, di stare accanto, ad-sistere. La linea di
demarcazione fra adulti e giovani non è molto netta. L’educatore e l’educando sono, per usare una
6
metafora, nella stessa barca; se questa affonda, annegano entrambi. L’educatore non si trova, per
utilizzare un’altra metafora, fuori del campo dove viene giocata la partita, né può ridursi al ruolo di
arbitro imparziale. Se l’educando lungo la strada verso l’età adulta non si sente accompagnato
dall’educatore, si sente esposto ai quattro venti. Se non ha la sicurezza che insieme vanno verso la
maturità, si impaurisce.

2. Stare accanto come persone

Ci sono diversi modi di essere presenti agli altri. Ad esempio come personaggi che coprono un
ruolo, quali insegnanti, custodi dell’ordine, assistenti sociali...; oppure come attori, che recitando la
parte, si presentano ad un pubblico cui comunicano un messaggio. Invece per un’attuazione del
metodo preventivo si è presenti come persone, nella totalità ed essenzialità del proprio essere
«consacrato» al bene della «porzione la più delicata e la preziosa dell’umana società».
L’educatore è sempre personalmente implicato nella relazione educativa. La sua personalità, il suo
passato, le sue paure, le sue ansie incidono sulla formazione dell’educando. Chi educa è sempre e
soprattutto la persona. L’educazione preventiva non esiste se non come frutto di un incontro di
persone, che si pongono una di fronte all’altra con una presenza totale. Per Don Bosco, e per uno
stuolo di psicologi moderni, un’autentica relazione umana personale significa che io sono
completamente presente all’altro, che sono pienamente con lui, che partecipo della sua esistenza
personale, perché ho interesse per lui.
Il giovane facilmente scopre se le manifestazioni dell’educatore sono autentiche, provenienti cioè
da quelle valide motivazioni e da quelle intime convinzioni che costituiscono l’identità stessa
dell’educatore. In lui il giovane cerca non tanto il padre che pensa a tutto in sua vece,
l’organizzatore del proprio tempo libero, il professore che si preoccupa della sua istruzione, l’adulto
che distribuisce ordini, o il sorvegliante che minaccia castighi, ma l’uomo capace di mettersi
accanto a lui, più attento alla sua persona che alle esigenze generiche dell’educazione, disponibile
ad offrigli un contributo positivo allo sviluppo delle sue potenzialità. Proprio nella misura in cui
l’educatore darà al giovane la sensazione di essere in grado di valorizzare tali potenzialità, allora
vedrà aprirsi la strada ad una presenza propositiva dalla probabile efficacia.
Il sistema preventivo chiede agli educatori di «mettersi in gioco», di porre continuamente in
discussione le proprie convinzioni, comprese quelle relative ai problemi giovanili, sapendo provare
umano rincrescimento per le difficoltà insuperabili e vivendo accanto al giovane in costante
atteggiamento di fiducia e non di consigliere severo o giudice inflessibile. In particolare gli
domanda di farsi figura di risonanza interpretativa di valori di cui è portatore, onde preparare il
giovane ad acquisire i criteri di scelta e strumenti atti a vivere con serenità nel momento in cui si
allontanerà da lui.
In sintesi: nel sistema preventivo l’efficacia educativa dipende anzitutto dalla «qualità» della
presenza dell’educatore al suo educando. Don Bosco amava ripetere ai giovani che senza di loro
non poteva far nulla e che tutto con loro diventava possibile. «Trattiamo ì giovani [...] con amore ed
essi ci ameranno, trattiamoli con rispetto ed essi ci rispetteranno. Bisogna che essi stessi ci
riconoscano come Superiori. Se vogliamo umiliarli con parole per la ragione che siam Superiori
[sic], ci renderemmo ridicoli».
L’educatore è la chiave di lettura dell’azione educativa posta in perfetta sintonia col suo «compagno
di viaggio» che parla la stessa lingua. Don Bosco non ha dubbi.

3. Comunicare tra persone

La difficoltà maggiore che può incontrare l’educatore è forse quella di riuscire a comunicare in
modo appropriato, dato e concesso che i conflitti generazionali sono una costante della storia
dell’educazione. A tale ineliminabile gap generazionale, per cui l’autonomia del ragazzo è
emancipazione da qualsiasi autorità di tipo educativo che, all’interno del processo di crescita, li
porterà all’autonomia, si aggiungono le ambiguità, le diffidenze, la discontinuità, l’incoerenza, la
7
provocazione proprie dell’età evolutiva, talora in rivolta nei confronti del mondo adulto. Questo non
poche volte disinformato, turbato, preoccupato, con difficoltà riesce a comprendere le «bizzarrie» e
i comportamenti oscillanti del figlio, dell’allievo, del membro del proprio gruppo. Oggi poi, per un
insieme di motivi, la comunicazione sembra costituire il punctum dolens dell’interazione non solo
tra le generazioni, ma anche tra le singole persone, tra i coniugi, tra le istituzioni e con i loro
destinatari. La comunicazione pare confusa, disturbata, esposta all’ambiguità per eccesso di rumore,
per molteplicità dei messaggi, per la mancanza di sintonia fra emittente e ricevente. Ebbene il
sistema preventivo offre utili indicazioni al riguardo.

4. «Padre, fratello e amico»

Nello stile preventivo fra educando ed educatore si tende a creare un rapporto interpersonale
ravvicinato, tipico di una famiglia, dove se vige una convivenza che permette lo scambio e
un’intesa a livello di intimità, è però naturalmente presente un codice di diritti e di doveri, che si
traduce in una distribuzione articolata di ruoli e responsabilità. «Fino al 1858 - vale a dire finché
Valdocco raggiunse grandi dimensioni - D. Bosco governò e diresse l’Oratorio come un padre
regola la propria famiglia, e i giovani non sentivano che vi fosse differenza tra l’Oratorio e la loro
casa paterna».
a) L’educatore esercita anzitutto la paternità. Nel sistema preventivo di Don Bosco non c’è l’alibi
dello spontaneismo, del permissivismo, del presunto rispetto della freschezza infantile; ma
neppure si opta per un autoritarismo altrettanto pernicioso. Con perfetta intuizione di Don Bosco
educatore si è detto che «ebbe del pedagogo il puro necessario, del carabiniere niente, del padre
tutto». Ed anche: «Non comprenderà mai Don Bosco chi non riesca a figurarselo come un padre
in mezzo ai figli». L’educatore non abdica alle proprie responsabilità, delegando ad altri i propri
doveri o rimanendo in situazione oscillante fra tentativo di proposta e tendenza sottile
all’imposizione. Autorevole di fronte ai giovani perché credibile, non si dimette dal proprio
ruolo di padre col cercare la simpatia del giovane evitando di dire le verità scomode. Educare è
fatica. Don Bosco non chiede di discendere allo stesso livello dell’educando per rimanerci
comodamente in modo inerte: significherebbe non promuovere la sua responsabilità con la
sottrazione del necessario confronto.
b) Ma non basta la paternità. È necessario coniugarla con l’amicizia e con la fraternità. Don Bosco
domanda che l’educatore sia nello stesso tempo amico e fratello, in quanto sa che nel giovane è
fondamentale l’esigenza di comunicazione, di amicizia, di sentirsi importante per il pari età, il
quale vive le stesse situazioni, con il quale non si prova disagio ad esprimersi ed a confidarsi, in
quanto non è un arrivato, ma un compagno che non ti giudica, che sperimenta le stesse difficoltà
nella progressiva scoperta di sé. In lui si rispecchia e valuta l’esattezza del proprio giudizio, la
qualità e la portata delle proprie azioni.

5. Accogliere

Da parte dell’educatore punto di partenza è l’accettazione incondizionata dei giovani così come
sono e non come vorrebbe che fossero, ossia volontà e capacità di incontrarli indipendentemente
dalla loro struttura psichica, dalle loro qualità fisiche, dalla loro provenienza sociale, dalla loro
intelligenza, dal loro modo di presentarsi ecc. Un’accettazione quindi che si impone a livello di
modalità dell’essere e non dell’avere: «Basta che siate giovani - scrive Don Bosco nell’introduzione
al Giovane Provveduto - perché io vi ami assai». Accettare significa «capire» il comportamento del
ragazzo, vale a dire essere disposto a riconoscere le attenuanti, gli influssi temperamentali,
costituzionali, ambientali. Non che il ragazzo abbia di per sé ragione, ma indubbiamente ha delle
ragioni che l’educatore non può non considerare. Dunque si chiederà all’educatore di fornirsi di
bontà, di escludere ogni animosità e permalosità personale, di ammettere nel giovane difficoltà
oggettive e soggettive che possono coesistere anche con un’autentica buona volontà, di possedere
sicurezza di giudizio fondato su esperienza e non ingenuità. Non per nulla a conclusione degli
8
articoli preliminari al Regolamento per le case salesiane si legge: «Ma a tutti è indispensabile la
pazienza, la diligenza e molta preghiera, senza cui sarebbe inutile ogni Regolamento».
Ma anche il giovane deve accettare l’educatore e il suo intervento in forza di un insieme di motivi:
di razionalità e ragionevolezza, di autorità e di timore, di ascendente personale e di suggestione, di
altri dinamismi emotivi, forse anche di calcolo utilitario. Per far questo il giovane deve superare
eventuali ostacoli: lo stato d’urto con l’ambiente e con gli educatori oppure quello di delusione, di
frustrazione, di disistima personale dell’educatore; l’istintiva resistenza all’intrusione di estranei
nella propria vita; l’indisponibilità dovuta a pigrizia e orgoglio: insomma un insieme di meccanismi
psicologici di difesa, perché il bene futuro costa la rinuncia a cose immediatamente piacevoli.

6. Esserci

Scrive Don Bosco nel Trattatello: «Il Sistema Preventivo consiste nel far conoscere le prescrizioni e
i regolamenti di un istituto e poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre sopra di loro
l’occhio vigile del direttore e degli assistenti, che come padri amorosi, parlino, servano di guida ad
ogni evento, diano consigli ed amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi
nell’impossibilità di commettere mancanze». Per lui tutti gli educatori sono «assistenti»: «Quelli
che trovansi in qualche ufficio o prestano assistenza ai giovani che la divina Provvidenza ci affida -
si legge negli articoli generali introduttori al Regolamento delle case salesiane -, hanno tutto
l’incarico di dare avvisi e consigli a qualsiasi giovane della casa, ogni qual volta vi è ragione di
farlo, specialmente quando si tratta d’impedire l’offesa di Dio».
L’assistenza racchiude l’essenziale degli aspetti pratici del sistema preventivo nella misura in cui il
preventivo non sia unicamente concepito come pura preservazione, ma come efficace azione
positiva, di influsso continuo e persistente. Nella prassi e negli scritti di Don Bosco, essa non si
identifica con la pura sorveglianza, con la repressione, con una presenza-controllo. Questa è propria
del sistema repressivo. Tanto meno consiste nella presenza insignificante dell’educatore in qualità
di semplice osservatore. Don Bosco non vuole né gendarmi che minacciano né spettatori
indifferenti: «abbi sempre l’occhio aperto, aperto e lungo»; è necessario «sorvegliare continuamente
i giovani in qualunque luogo si trovino mettendoli quasi nell’impossibilità di far male».
Ma quale è il criterio preciso con cui interpretare l’espressione «mettere gli allievi nell’impossibilità
di commettere mancanze»?
Prima di tutto quello di una presenza (anche fisica) costante ed educativa, che si esprima cioè in
quantità di tempo e qualità dei modi da parte di chi ha abbracciato con gioia lo stare sempre in
mezzo ai giovani e ne condivide i gusti, le inclinazioni, le tendenze, il gioco, la preghiera, il riposo,
la fatica del «dovere» quotidiano. Una «assistenza per», illuminata e guidata dall’intenzione
educativo-morale e religiosa esplicita e che include necessariamente quell’atteggiamento
d’amorevolezza e di ragionevolezza tale da evitare che la convivenza assidua e vigilante coi giovani
assuma forma di struttura di imposizione autoritaria. Don Bosco «era sempre in mezzo ai giovani.
Aggiravasi qua e là, si accostava ora all’uno ora all’altro, e, senza che se ne accorgessero, li
interrogava per conoscerne l’indole, e i bisogni. [...] Egli poi era sempre lieto e sorridente, ma nulla
di quanto accadeva sfuggiva alla sua osservazione».
In secondo luogo una assistenza individualizzata, che mentre non trascura la massa, mira ad ogni
giovane come all’unica persona che gli interessa. A detta stessa dei giovani, a Valdocco ciascuno si
sapeva conosciuto e amato da Don Bosco, avendo ciascuno ricevuto da lui un sorriso, una parola
cordiale, un consiglio. Molti poi si credevano preferiti. Non si trattava di telepatia, tanto meno di
suggestione, ma del principale substrato di ogni comunicazione interpersonale: l’empatia, la
capacità di cogliere immediatamente ciò che il giovane vive e sente in quel momento. Cosa che
evidentemente si realizza là dove il rapporto educativo vibra di confidenza, di riconoscenza, di
«cuore». Ai neo direttori Don Bosco lasciava sempre il seguente «ricordo confidenziale»: «Procura
di farti conoscere dagli allievi e di conoscere essi passando con loro tutto il tempo possibile
adoperandoti di dire all’orecchio loro qualche affettuosa parola, che tu ben sai, di mano in mano ne
scorgerai il bisogno. Questo è il gran, segreto che ti renderà padrone del loro cuore».
9
4. DON BOSCO TESTIMONE OGGI ATTRAVERSO I SUOI SALESIANI

Ciò che a Don Bosco premeva era che i Salesiani consacrassero tutta la loro vita alla salvezza delle
anime e santificassero il loro lavoro offrendolo a Dio; la preghiera doveva intervenire come
elevazione dell´anima a Dio, come petizione e come alimento, in altre parole, le “pratiche di pietà”
avevano una sorta di funzione ascetica. I risultati di questo esercizio nella vita di Don Bosco sono
sotto gli occhi di tutti.

Paola MARASCHI

10

Potrebbero piacerti anche