Sei sulla pagina 1di 274

Clessidra è il più sconcertante, il più audace e il più

complesso fra i romanzi di Danilo Kiš. Quella realtà che in


Giardino, cenere appariva ancora velata nei colori favolosi
dell'infanzia qui si stravolge in una sorta di tranquillo
delirio, divagante e lacerante. Lo stesso personaggio (il
padre del narratore) che in Giardino, cenere si dedicava
alla patetica e incongrua impresa di preparare un orario
ferroviario universale qui appare subito su uno sfondo nero
e desolato, quello della persecuzione degli ebrei - e di tanti
altri massacri, semisommersi nell’oblio e coperti dalla neve
della colpa (la neve compare più volte in queste pagine, con
la stessa connotazione sinistra) -negli anni della seconda
guerra mondiale. Tutto procede come in un verbale di
polizia, che lascia emergere la verità scheggia per
scheggia, finché tutte le schegge si ricompongono in una
immagine unica, che però ha acquisito la profondità del
tempo e delle sue ferite. Rare volte, in questi ultimi
decenni, la letteratura ha trovato un timbro così penetrante
e così puro. «Forse resteranno - se anche tutto ciò dovesse
essere sommerso in un diluvio universale -, sì, resteranno la
mia follia e il mio sogno, come un’aurora boreale e un’eco
lontana. Forse, qualcuno scorgerà il chiarore di questa
aurora, forse sentirà questa eco lontana, ombra del suono
di un tempo, e comprenderà il senso di quel chiarore, di
quello scintillio».
Di Danilo Kiš (1935-1989) Adelphi ha già pubblicato
Giardino, cenere (1986) ed Enciclopedia dei morti (1988) e
ha in preparazione Rani jadi («Dolori precoci», 1969).
Clessidra è apparso per la prima volta nel 1972.

In copertina: Lucien Lévy-Dhurmer, L’inverno (il


padiglione di musica a Versailles), 1929. Musée du Petit
Palais, Paris.
Scansione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche
FABULA

43
DELLO STESSO AUTORE:

Enciclopedia dei morti


Giardino, cenere
Danilo Kiš

CLESSIDRA

Traduzione di Lionello Costantini

ADELPHI EDIZIONI
TITOLO ORIGINALE
Peščanik

© 1989 BY HEIRS OF DANILO KIŠ


© 1990 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
ISBN 88-459-0759-7
INDICE

PROLOGO

SCENE DI VIAGGIO (I)

APPUNTI DI UN FOLLE (I)

PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (I)

APPUNTI DI UN FOLLE (II)

PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (II)

APPUNTI DI UN FOLLE (III)

SCENE DI VIAGGIO (II)

APPUNTI DI UN FOLLE (IV)

INTERROGATORIO DEL TESTE (I)

PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (III)

SCENE DI VIAGGIO (III)


INTERROGATORIO DEL TESTE (II)

SCENE DI VIAGGIO (IV)

PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (IV)

APPUNTI DI UN FOLLE (V)

LETTERA ο INDICE
CLESSIDRA

Ex voto all’antica a Mirjana


Was it thus in the days of Noah? Ah
no.

Anonimo, sec. XVII


PROLOGO

Le ombre tremolanti dissolvono i contorni degli oggetti e


spezzano la superficie dei volumi, allontanando il soffitto e
le pareti secondo l’umore della fiamma crestata, che ora
cresce, ora vien meno, come sul punto di spegnersi.
L’argilla giallastra del pavimento si solleva come le tavole
sul fondo di una barca che si inabissi, per immergersi poi
anch’essa nell’oscurità, quasi investita da acqua torbida e
sudicia. L’intero ambiente tremola, ampliandosi o
rimpicciolendo, oppure spostandosi appena di qualche
centimetro da sinistra a destra o dall’alto in basso,
conservando però immutato il proprio volume complessivo.
Le verticali e le orizzontali si intersecano così in vari punti,
in modo assolutamente confuso, ma secondo una sorta di
ordine superiore e in un equilibrio di forze che impedisce
alle pareti di franare o al soffitto di inclinarsi o cedere del
tutto e crollare. L’equilibrio è probabilmente raggiunto
grazie allo spostamento uniforme delle travi longitudinali
sotto la volta, che sembrano scivolare anch’esse da sinistra
a destra e dall’alto in basso, assieme alle loro ombre, senza
scricchiolìi o sforzi, con leggerezza, come sull’acqua. Si
sentono i marosi della notte frangersi sui fianchi della
barca-stanza: il vento getta contro la finestra, a ondate
successive, ora fiocchi impalpabili ora aguzzi cristalli di
neve. La finestra quadrata, simile a una feritoia, è tappata
da un cuscino sfondato da cui spuntano stracci che
oscillano come piante amorfe o rampicanti, e non è dato
sapere con certezza se tremolino sotto i colpi del vento che
penetra attraverso le fessure o se solo la loro ombra
dondoli secondo l’umore della fiamma crestata.
L’occhio si abitua lentamente alla semioscurità,
all’ondeggiare dell’ambiente dai contorni indefiniti, al
tremolio delle ombre. Attratto dalla fiamma, lo sguardo si
dirige verso la lampada, solo punto luminoso nella grande
oscurità della stanza, lanciandosi su di essa come una
mosca sperduta per arrestarsi su questa unica sorgente di
luce, che tremola come una stella lontana, fortuita.
Accecato per un istante e quasi stregato da questa luce,
l’occhio non vede null’altro all’infuori di essa, nulla, né le
lunghe ombre, né le superfici ondeggianti, né gli stracci
che oscillano; nulla. L’occhio vede solo questa luce, questa
fiamma crestata, quasi fuori dello spazio, come sono fuori
dello spazio le stelle, poi comincia pian piano a scomporla
(questa luce), a rifrangerla attraverso il proprio prisma, a
scoprire in essa tutti i colori dello spettro. E solo allora,
dopo averla scomposta, dopo averla sezionata, l’occhio
scopre, nelle onde lente della luce sempre più pallida che si
dilata intorno alla fiamma, tutto ciò che si può ancora
scoprire tra le pieghe delle ombre e del vuoto: dapprima il
cilindro, cristallino involucro della fiamma, all’inizio
impercettibile, astratto, quasi fosse solo l’eco della fiamma
e del nucleo luminoso, l’eco oltre cui comincia l’oscurità, di
colpo, come se la luce fosse tagliata dal vetro, cacciata in
una caverna, sepolta nella tenebra, e tutt’intorno si
stendesse non solo il buio più profondo ma un’altra
materia, densa, con peso specifico del tutto diverso rispetto
a quella da cui è avvolta la fiamma. Ma questo dura solo un
istante: il tempo necessario all’occhio per abituarsi, non
all’oscurità, ma alla luce. L’occhio scopre allora,
lentamente, l’illusione e scorge tracce di fuliggine sulle
pareti del cilindro, tracce che passano dal nerastro
all’argenteo come su uno specchio scurito, e vede che
l’involucro di cristallo non è il confine della luce, così come
scopre, non senza meraviglia, che il riflesso argenteo della
fuliggine è anch’esso illusione e che il paragone con lo
specchio scurito non è un gioco dello spirito ma un gioco
della luce, chiaramente visibile nello specchio rotondo
posto verticalmente dietro il cilindro e nel quale si scorge
l’altra fiamma, la fiamma gemella, quasi irreale, ma pur
sempre fiamma; e se l’occhio non l’ha notata fino a questo
momento, era solo perché lo spirito resisteva a questa
illusione, perché lo spirito non voleva ammettere
l’apparenza (come sul disegno qui di seguito dove l’occhio
vede un vaso bianco, un vaso o una clessidra, o un calice,
finché lo spirito - la volontà? - non scopre che il vaso è un
vuoto, un negativo, dunque una apparenza, e che positivi, e
quindi reali, sono i due profili identici, i due visi rivolti l’uno
verso l’altro, l'en face simmetrico, come in uno specchio,
uno specchio inesistente, il cui asse passerebbe per l’asse
dell’ormai inesistente vaso-clessidra, calice, coppa, in uno
specchio in realtà doppio,

perché i due visi siano entrambi reali, e non uno solo,


giacché altrimenti il secondo sarebbe solo un riflesso, l’eco
del primo, e allora non sarebbero più simmetrici, non
sarebbero più nemmeno reali; perché, dunque, tutti e due i
visi siano uguali, entrambi archetipi platonici e non uno
solo, giacché altrimenti il secondo sarebbe
necessariamente solo imitatio, riflesso di un riflesso,
ombra; ed è per questo che i due visi, a guardarli a lungo,
si avvicinano ugualmente l’uno all’altro, quasi
desiderassero di unirsi, per confermare la propria identità).
Abituatosi ormai alla luce, come lo spirito si è abituato
all’illusione, l’occhio comincia a frugare nell’oscurità e
nella penombra, libero adesso dalla magica attrazione della
fiamma, e vede infine la lampada a petrolio, come vede
l’ombra tremolante e riconosce i grandi volumi oscuri delle
ombre. Nella parte nascosta dallo specchio l’oscurità è
ancora totale (ma la fiamma viene proprio da questa
oscurità, come se di essa si nutrisse), mentre a sinistra e a
destra della lampada si muovono grandi superfici grigie,
troppo luminose per essere ombre, troppo poco chiare per
essere luce. Ma allora lo spirito viene in aiuto dell’occhio e
scopre, come se la toccasse con la mano, la superficie
compatta delle pareti grigiobianche, così come scopre, a
separare nettamente l’ombra dalla luce, tre lunghe travi sul
soffitto, tre lunghe travi raddoppiate dalle loro ombre,
spezzate, come un bastone immerso nell’acqua, da ombre
trasversali di origine incerta. Situatosi nello spazio, trovato
un saldo sostegno, determinato il Nord, l’occhio individua
la grande ombra della cucina economica confusa con la
cucina stessa, la doppia cucina economica di nera lamiera
arrugginita e di ombra sottile, la cucina economica a otto
piedi che si dondola sulle sue lunghe zampe come un
grosso cane gelato tremante nel vento. Dietro lo specchio
della lampada, dietro la fiamma-riflesso, c’è l’oscurità, c’è
la finestra cieca: di là viene il freddo, di là arrivano il suono
acuto e le vibrazioni soffocate del vetro. Dall’altra parte, di
fronte alla finestra cieca, si trova una cassa di legno, di cui
è visibile un solo lato, che si dondola, senza però cadere.
Accanto alla cassa di legno, contro il suo fondo, l’ombra si
rompe in modo ineguale, ondeggiando: vi si scorge una
sporgenza sul pavimento d'argilla, lunga un metro, un
metro e mezzo, simile più a una cicatrice che a un tumulo.
Più intuibile che visibile, nell’angolo, proprio contro alla
cassa, appoggiata al suo lato di oscurità, come emersa da
acqua torbida, incastrata tra la parete corrosa e le tavole
della cassa, si trova ciò che l’occhio cercava: una cartella
dai fianchi arrotondati.
Sorvolando la stanza come una farfalla notturna,
scontrandosi con le ombre fluttuanti, urtando nelle pareti e
nelle travi, lo sguardo ritorna verso la luce, dove giacciono
come nascosti (perché lo sguardo li scopre per ultimi, non
cercandoli in prossimità della fiamma, non cercando nulla
in prossimità della luce) alcuni oggetti disposti sul tavolo
fino a questo momento invisibile, nell’ombra o alla luce,
fino a questo momento. A sinistra, contro la lampada,
blocchi di carta a quadretti; accanto a essi un giornale
ripiegato in due, quasi nel mezzo del tavolo; all’estremità
destra, due o tre numeri di una rivista unta e un libro dalla
copertina nera, le cui impressioni in oro sembrano della
stessa materia della fiamma; nascosta dall’ombra dello
specchio, un poco al di sopra della superficie del tavolo,
quasi a librarsi in aria, una sigaretta fumata a metà.
Attraverso vie invisibili, il fumo arriva alla lampada e
sfugge, azzurrognolo, attraverso il cilindro.
Una mano che si avvicina alla fiamma.
SCENE DI VIAGGIO (I)

Il respiro trattenuto, la testa rivolta verso la porta,


l’uomo è in ascolto. Ha l’impressione che, nell’altra stanza,
essi non dormano, ma siano svegli e facciano solo finta di
dormire. Attende, quindi, che il sonno li vinca. Gli sembra
che con il loro essere svegli, con la loro vicinanza (li separa
solo una porta sconnessa con una grande fessura in basso),
col flusso dei loro pensieri, potrebbero influenzarlo. Perché
il pensiero, specialmente in simili notti tranquille, prima del
sonno, si condensa con tale forza da vibrare nell’aria come
una scarica elettrica, quasi visibile, come il calore al di
sopra di una stufa rovente.
Dall’altro lato della porta, tuttavia, non si sente nessuna
respirazione, non si sente nulla. Ovvero quello che si sente,
questo silenzio fremente, è il loro respiro, il silenzio dei
loro pensieri e del loro sonno.
Ora volge le spalle al tavolo. La sua lunga ombra,
indefinita e tremolante, taglia l’ambiente in diagonale,
mentre l’ombra informe e distorta della testa si spezza
contro il fianco della cassa di legno. Calpestando la propria
ombra, come un sonnambulo, l’uomo si dirige verso
l’angolo. Con il corpo che la ripara dalla luce, la mano
scende alla cieca verso un oggetto invisibile che lui ha
intravisto quando si è diretto verso l'angolo o quando è
entrato nella stanza. Sente sotto le dita i bordi arrotondati
della cartella di cartone e la superficie fredda e liscia della
cerniera di ottone. Ora tiene in mano lo zainetto da scolaro
senza le cinghie (queste devono essere state staccate
perché sul dorso brillano ancora gli attacchi lucenti), con i
fianchi di legno arrotondati e il risvolto di cartone che imita
la pelle di cinghiale. Solleva il risvolto e lo tiene fermo col
mento. Sotto alcuni quaderni sottili palpeggia una boccetta
quadrata. La boccetta è fredda e liscia come un cubetto di
ghiaccio. La stringe nel palmo della mano, poi ne svita il
tappo, sempre senza voltarsi verso la luce. Accosta il collo
della boccetta al naso, stando attento a non toccarlo, e
sente l’odore dell’inchiostro. Allora richiude la boccetta e la
scuote leggermente, voltandola verso la luce. Sugli angoli
levigati tremola la fiamma torbida della lampada, lambendo
l’inchiostro viola scuro lungo le pareti interne del vetro.
L’uomo torna a frugare nella cartella, tenendo sempre il
risvolto col mento. Sotto i quaderni trova un sottile
portapenne a forma di fuso e lo stringe fra tre dita,
tracciando in aria un arabesco. Poi preme la punta della
penna contro l’unghia del pollice: si sente un rumore simile
al crepitio delle ali di un insetto.
Ora è di nuovo al tavolo, momentaneamente immobile.
Ha preso dalla tasca interna del cappotto dei lunghi fogli di
carta a quadretti e li ha messi sul giornale. La carta è
piegata per lungo, come un documento, ma non
schiacciata. All’inizio, i piccoli quadretti sono ancora
visibili, poi le linee lentamente si perdono, confondendosi e
scomparendo, seguite poco dopo anche dai margini
illuminati dei fogli. Al loro posto resta solo la sorgente della
luce, di un giallo smorto. Se non avesse in tasca, piegata in
due, la minuta scritta negli ultimi giorni (in qualche
ristorante anonimo, accanto a una stufa rovente, su una
tavola coperta da una incerata bisunta; in una stanzetta
semibuia, nel retro di un negozio di modelli per ricami a
mezzopunto, su un vecchio tavolo da gioco, alla luce di una
lampada a gas; nello scompartimento di un rapido, pure di
notte, alla luce bianca dell’acetilene; ma anche, nel
dormiveglia, in questa stessa stanza); se non avesse,
quindi, impiegato tanta fatica per questa minuta, forse ora
abbandonerebbe tutto. Ma la minuta lo attira, benché provi
un forte desiderio di accostarla alla fiamma e andarsene a
dormire. Però non se la sente proprio di buttare tutto nel
fuoco, ora che ha fatto il primo passo e strappato al vuoto
quelle pagine. Nonostante l’attimo di abbattimento e di
dubbio, affiora in lui, al limite della coscienza, il
presentimento che forse quel piccolo frammento di storia
familiare, quella breve cronaca, reca in sé la forza di quegli
annali che, quando vedono la luce del giorno dopo una
lunga serie di anni, o magari di millenni, diventano una
testimonianza del loro tempo (e poco importa allora di chi
si tratti), come quei frammenti di manoscritti scoperti nel
Mar Morto o nelle rovine dei templi o sui muri delle
prigioni.
Prende quindi dalla tasca interna la minuta scritta a
matita sulla stessa carta a quadretti e la scorre con lo
sguardo.
La minuta è vicinissima alla lampada. Lo stoppino arde
ondeggiando, la fiamma sboccia dal suo nucleo violaceo,
passando dal rosso al giallo pallido. Il cilindro della
lampada è annerito di fuliggine e attorno alla fuliggine si
scorge una pellicola argentea come su uno specchio
scurito. Nel silenzio, si sente sibilare, appena percettibile,
la cresta ondeggiante della fiamma. Il suono del tempo.
Ha posato per un istante la penna. Giornale-carta
assorbente. Su di esso, sopra il testo a stampa di un
articolo sui piccioni viaggiatori,1 le prime parole della
lettera, come in uno specchio, come in ebraico.

3
L’uomo guarda la fiamma aguzza, vibrante nella corrente
d’aria gelida che soffia dalla finestra invisibile posta di
fronte a lui, poi il suo sguardo scivola in basso, verso il
serbatoio di vetro della lampada. Il serbatoio si restringe
nel mezzo, formando una profonda scanalatura fasciata da
un anello di latta arrugginita. Questo anello non è saldato
in un cerchio completo, ma è fatto di due semicerchi
simmetrici che si riuniscono sul davanti a un centimetro o
due di distanza. Dall’anello di lamiera si dipartono due
asticciole metalliche parallele che si congiungono in alto
formando un triangolo dai lati arrotondati che sostiene in
una cornice di lamiera arrugginita uno specchio rotondo
semiopaco e corroso lungo i bordi. Lo specchio crea due
fiamme gemelle, due fiamme crestate, una di fronte
all’altra, uguali, per quanto una, quella dello specchio, che
viene riflessa, viva solo in virtù dell’illusione e
dell’apparenza, della grazia dell’altra. Il serbatoio
all’interno è di un colore verde scuro, simile a un acquario
pieno di acqua putrida e come reso viscido da alghe e
licheni appena visibili. L’uomo esamina il serbatoio,
cercando la linea che deve indicare il livello del petrolio, la
superficie del liquido, e che si è del tutto confusa col colore
del vetro, esercitando su di esso la sua azione, dandogli la
sua tinta: grigio sporco, verde scuro, rosso ruggine. La
cerca dapprima con gli occhi sotto l’anello ondulato,
penetrando con lo sguardo tra le minuscole sporgenze che
ricoprono la semisfera del recipiente di vetro, tra le quali
s’è stesa una grassa pellicola di petrolio misto a fuliggine e
polvere. Non avendo trovato il livello del liquido (e troppo
pigro per compiere il gesto, rischioso e complicato, di
agitare la lampada perché il livello si riveli da sé), sorvola
con lo sguardo l’anello di lamiera arrugginito alla
strozzatura del serbatoio, esattamente nel mezzo, alla sua
vita, e proprio mentre pensa che il livello del liquido deve
nascondersi in quel punto, scopre alla base dello stoppino
ben impregnato, bianco e inerte come un verme solitario
rigonfio, un restringimento appena visibile, una piccola
deformazione, come quando si immerge un bastone
nell’acqua. Capisce, non senza inquietudine, che nel
serbatoio c’è sì e no un dito di petrolio. Se lo succhierà
tutto, se lo berrà tutto. E, come spaventato a questo
pensiero (che la lampada sta per spegnersi), scuote di
nuovo la penna e scarabocchia sulla carta per continuare
quello che è cominciato, per prevenire l’oscurità.

A gambe larghe, leggermente chino in avanti, l’uomo sta


alla finestra. Ha una coperta sulle spalle. La coperta odora
di cavallo e di orina. L’uomo ha ai piedi un paio di calosce,
sulle quali si scorge il riflesso della luce che penetra dalla
finestra bassa e quadrata. Da tale altezza, può vedere solo
il turbinio dei fiocchi di neve davanti al vetro e, di tanto in
tanto, i contorni di un albero avvolti dalla nebbia. La neve
si deposita sulle sporgenze della finestra, formando una
piccola montagnola ondulata che continua a salire. Sotto gli
assalti del vento, la montagnola cambia l’angolo dei suoi
versanti, la curva dell’orizzonte. Ora sono due poggi
dolcemente ondulati, quasi della stessa altezza,
assolutamente schematici, ma ecco che il vento ne modifica
di colpo il profilo, riunendo i due poggi in uno o formando
una cresta aguzza nel punto dove qualche istante prima
c’era una depressione. Quando la neve si fa un poco più
rada, l’uomo ha l’impressione che dalla finestra all’albero
non ci siano più di una decina di metri, ma quando il vento
riprende a far turbinare grossi fiocchi di neve, l’albero si
allontana dalla casa, come una barca che si stacchi dalla
riva, impercettibilmente. Questo spazio dai contorni
ingannevoli è a sua volta coperto di neve, e la superficie
ondulata, mutevole anch’essa, è segnata da tracce di passi,
forse della sera avanti, forse della stessa giornata, forse di
qualche ora prima. La finestra trema sotto l’urto del vento
e si sente lo scricchiolio sottile e cristallino della neve sul
vetro. L’uomo solleva la testa e ascolta. Per un attimo ha
l’impressione di sentire in lontananza il latrato di un cane.
Ma questo suono si perde nell’urlio del vento, si confonde
con esso, e l’uomo non sa più con certezza se era davvero
un latrato o solo l’urlo della bufera. E da quanto tempo
ormai è lì alla finestra, avvolto in una coperta? Forse una
giornata intera, forse un’ora, forse due, forse appena dieci
minuti.
Ora è appoggiato contro la finestra e in questo modo
oscura tutta la stanza. Cerca di spingere lo sguardo, in
quella luminosità opalescente, oltre l’albero, là dove si erge
la recinzione di rete metallica, le cui maglie sono
completamente ostruite dalla neve. D’un tratto, un tintinnio
di sonagli, improvviso, limpido. Quasi insieme con questo
suono, chiaro e cristallino, l’uomo intravede nella nebbia i
contorni di due teste di cavallo e, subito dopo, le persone
sedute sulla slitta: il cocchiere con un berretto di pelliccia
bianco di neve e una donna che ora si appresta a scendere.
Anche lei ha in testa un berretto di pelliccia, a meno che
non si tratti dei suoi capelli raccolti in un’alta crocchia
ricoperta di neve. Ora la donna prende qualcosa sul sedile
e tende la mano verso il cocchiere. Dalla finestra, l’uomo
vede la donna avvicinarsi, con una piccola valigia in mano,
al cancello della recinzione di rete metallica che, scossa
quando lei lo apre, lascia cadere la neve ammassata; la
vede poi calpestare la neve profonda. La donna viene
diritto verso di lui. L’uomo lascia di colpo la finestra e va
rapidamente alla porta. Sente bussare. Ora, attraverso la
lunga fessura, vede agitarsi un’ombra, poi sente i passi che
si allontanano, facendo scricchiolare la neve. L’uomo
guarda attraverso la fessura. Dapprima non vede nulla, poi
solo il turbinio dei fiocchi di neve. Sente di nuovo
avvicinarsi i passi sulla neve che scricchiola. Ora vede
anche la donna, quella di poco prima. Ha scosso via la neve
dalla testa e l’uomo distingue adesso chiaramente la sua
capigliatura abbondante e riccioluta, raccolta in un’alta
crocchia su cui si posano cristalli di neve. La donna è
avvolta in un grande scialle nero da sotto il quale tira fuori
una busta azzurra. L’uomo solleva brusco la testa e vede
sopra la porta, dall’interno, l’estremità triangolare della
busta con le impronte umide delle dita. Accosta di nuovo
l’occhio alla lunga fessura, ma la donna è già scomparsa. I
passi non si sentono più. Scostandosi dalla porta, l’uomo
osserva la busta, senza toccarla. Probabilmente pensa che
la donna che ha portato la lettera si è nascosta in un punto
dal quale ora sorveglia la busta azzurra che si muove al
vento e la cui parte più grande è fuori, infilata nella fessura
sopra la porta.

L’uomo è disteso sul letto; più esattamente è seduto,


appoggiato a un grosso cuscino. Ha steso su di sé una
coperta grigia da cui spuntano solo la testa e le braccia. Ha
in mano un libro sottile o una rivista. Sul frontespizio si
vedono foto pubblicitarie di pneumatici di diversa
grandezza solcati da diverse linee serpeggianti con sopra
grandi lettere stilizzate, senza dubbio la marca delle
gomme. Il titolo è impresso a caratteri più grandi, di
sbieco, nel terzo superiore del foglio, su fondo grigioverde.
Le pagine sono unte e molte hanno gli angoli ripiegati,
forse per caso, forse per segnare qualche particolare
importante. L’uomo fa scorrere rapidamente le pagine col
pollice, producendo un movimento d’aria che piega la
fiamma della lampada a petrolio poggiata sul marmo del
comodino. Con la fiamma, cominciano a tremolare, quasi si
mettessero in moto, le numerose slitte della tappezzeria,
disposte simmetricamente, a intervalli di una decina di
centimetri. (A causa di questa simmetria e anche della
continua ripetizione del disegno grigio, tutte le slitte si
riducono a una sola e così pure i personaggi raffigurati, ma
la scena rappresentata nel disegno, anziché sembrare
statica, comincia ad animarsi, nonostante l’identicità delle
figure, o forse proprio per questo). È una slitta all’antica,
con alti pattini ricurvi che le danno l’aspetto di una nave.
Alla slitta sono attaccati due cavalli fermi o nell’atto di
fermarsi. Un cocchiere dai grandi baffi e con in testa un
berretto di pelliccia ricoperto di neve tira le redini. I cavalli
hanno la testa sollevata, sollevata e rivolta di lato,
probabilmente per l’azione delle redini. Dalla slitta scende
una donna che regge con la sinistra un grande manicotto, o
forse è una valigetta, mentre si appoggia con la destra alla
barra rialzata a lato del sedile. Da sotto la pelliccia e il
lungo vestito che le arriva fino alle caviglie spunta un
piedino incredibilmente piccolo infilato in una scarpetta a
punta. Il piedino si è fermato in aria, a mezza strada tra il
sedile della slitta e la superficie ondulata della neve. A
destra della slitta, all’altezza delle teste dei cavalli, si
scorgono le imposte serrate delle finestre di un elegante
edificio con un grande portone a volta. La donna
evidentemente arriva inattesa perché le imposte sono
serrate e il grande portone gotico è chiuso, sicuramente
sprangato. La fiamma si è calmata e il piedino della donna
si è fermato a mezz’aria, immobile. Irrigidite anche le teste
dei cavalli. Le zampe anteriori, piegate ad angolo retto, si
sono bloccate in aria anch’esse. Dopo aver gettato uno
sguardo sul libro appena chiuso, l’uomo lo posa sul ripiano
di marmo del comodino. Oltre il libro che vi ha posto, sul
marmo, accanto alla lampada, si trovano un portacenere di
latta e un pacchetto di sigarette cominciato. La lampada è
di porcellana bianca con un paralume di sottile vetro
trasparente su cui sono dipinti grossi giaggioli viola. Prima
di soffiare sulla lampada, l’uomo abbassa lo stoppino. Ora
nella stanza si intravede solo il ripiano di marmo, simile a
una lastra di ghiaccio. Il cocchiere ha frustato i cavalli, la
slitta è scivolata via nell’oscurità. Non si sentono più i
sonagli, non si sente nulla. Solo l’ululato della bufera oltre
la finestra e il buio. La donna con la pelliccia si è arrestata
un attimo davanti al portone, che la inghiotte, per essere a
sua volta inghiottito dall’oscurità. A una finestra, dietro le
imposte di legno semichiuse, si scorge una striscia di luce
che trapela dalle commettiture. L’uomo osserva la striscia
di luce che, di fronte a lui, trapela dalle commettiture della
porta invisibile. Questa striscia di luce si muove, come se al
di là della porta qualcuno stesse spostando la sorgente
della luce, o regolando la fiamma della lampada, o
semplicemente riparandola con la mano dalla corrente
d’aria. Non si sentono né passi né voci, non si sente nulla
all’infuori dell’ululato del vento e della bufera oltre la
finestra e il buio. La striscia di luce, intanto, si allarga
sempre più, disegnando sul pavimento il lato di un
triangolo luminoso, e le lunghe ombre cominciano a
muoversi, in semicerchio, intorno all’asse degli oggetti. Il
ripiano di marmo del comodino emerge alla luce, insieme
con la lampada, la rivista, il portacenere smaltato, il
pacchetto di sigarette cominciato. Alla porta, nella fessura
di luce sempre più larga, appare una lampada, più
esattamente un paralume di porcellana illuminato dalla sua
stessa luce. Lo stoppino deve essere stato abbassato,
perché non si vedono né le altre parti della lampada né la
mano che la regge. Solo si scorgono sul paralume di sottile
vetro trasparente dei fiori viola, probabilmente giaggioli.
Questo paralume luminoso con i suoi giaggioli si libra in
aria un istante, oscillando appena, poi una mano invisibile
rialza lo stoppino. Nello stesso tempo, la lampada e la mano
che la regge cominciano a spostarsi in avanti, e la fiamma
danza nella corrente d'aria che spira dalla porta dischiusa e
dalle imposte accostate. La donna attraversa la stanza
senza fare alcun rumore, tenendo la lampada all’altezza
della testa e un poco discosto da sé. Il suo volto è del tutto
privo di espressione, come fuso nella cera, gli occhi
all'apparenza chiusi. I capelli sono raccolti in un’alta
crocchia, nera o forse grigia. Indossa una lunga camicia da
notte trasparente che sfiora il pavimento e le ricade in
pieghe profonde intorno alle caviglie invisibili o appena
percepibili, dando l’impressione che si libri nell’aria,
diafana e leggera come una sonnambula. Questa camicia da
notte è rosa o color carne, ma forse alla luce della lampada
questi due colori si confondono e si compenetrano. A non
più di un braccio di distanza, dietro di lei scivola senza
rumore una seconda donna con la stessa camicia da notte
che sfiora il pavimento. Anche lei ha i capelli raccolti in
un’alta crocchia, il volto come fuso nella cera, gli occhi
all’apparenza chiusi. Questa seconda donna non porta una
lampada, ma tende le braccia in avanti, quasi volesse
afferrare la lampada che è nelle mani dell’altra per
togliergliela, sicché ora sembra più l’ombra che la gemella
della prima, la sua immagine riflessa in uno specchio
laterale, o nell’anta spalancata di un armadio, o nelle
superimi brillanti dei mobili.

La bufera si è momentaneamente placata, la neve


volteggia in fiocchi piccoli e radi. L’uomo è in piedi davanti
alla porta. In testa ha un cappello grigio, un cappotto
logoro gli arriva alle caviglie, sfiorando le ghette color topo
calzate su un paio di calosce brillanti. Con una mano
stringe al petto, all’altezza del cuore, una cartella di pelle
di cinghiale tutta unta, nell’altra tiene un bastone. L’uomo
si allontana. Alla sua sinistra, a due o tre metri dal sentiero
aperto nella neve, sorge una veranda. Dietro la porta a
vetri che conduce all’interno della casa si sentono risa
soffocate e voci che non riesce a distinguere bene. Quando
l’uomo si trova al livello della porta, le risa si fanno d’un
tratto più chiare. Qualcuno deve aver aperto di colpo la
porta. L’uomo guarda in quella direzione. Al livello della
porta si trova un tavolo, messo nel senso della lunghezza,
sicché lui lo vede scorciato. Il posto a capotavola è vuoto
(non era seduto qui un istante prima colui o colei che ha
aperto la porta?); ma ci sono ugualmente un piatto di
porcellana e un bicchiere di vino rosso bevuto a metà.
All’altra estremità (non sarà questo il posto d’onore?) è
seduta una donna con un’alta crocchia, vestita di nero. Ai
due lati del tavolo, quasi alla stessa altezza,
simmetricamente, due persone sedute di profilo: due
donne, anch’esse vestite di nero, forse un po’ più giovani
della prima; di fronte a loro, un uomo dal viso giallo e
un’altra persona che non si vede bene. Alla luce che giunge
di fronte (attraverso le tende delle finestre tirate solo in
parte penetrano minuti fiocchi di neve simili a coriandoli),
si distinguono chiaramente, disposti in simmetria, i piatti di
porcellana, il vasellame e i bicchieri. Sul tavolo è posto per
lungo, leggermente rialzato, un vassoio con un maialino
arrosto. L’uomo lo vede scorciato: orecchie corte e coda
rivolta all’insù su un corpo rotondo color del bronzo. Il
muso è rivolto verso di lui: tra i denti anneriti e i grandi
canini, una mela verde. La mano dell’uomo dal viso giallo è
rimasta bloccata, insieme col bicchiere, a mezza strada fra
il tavolo e i suoi denti gialli. Esattamente nell’istante in cui
ha scorto, attraverso la porta aperta, l’uomo con il bastone.

7
L’uomo è seduto su un grosso sasso sul ciglio della
strada. Il sasso è rotondo, rozzamente scolpito, e mostra
chiaramente l’effetto dell’erosione e del tempo, nella sua
superficie spugnosa ricoperta di macchie di licheni, che
sembrano piccole gocce di ruggine. Il sasso, chiaramente,
non è capitato per caso lì, sull’orlo del precipizio, è stata
una mano di uomo a mettercelo, dandogli la sua forma
definitiva (se può chiamarsi definitiva). Sulla parte
superiore del sasso c’è un piccolo incavo a forma di sella,
costituito da uno strato grigio più scuro, che è senza dubbio
di età e di composizione geologica diverse da quelle della
massa c alcarea principale. Dal margine esterno dell’incavo
parte un canale largo un pollice e lungo una ventina di
centimetri. Il canale corre in verticale rispetto all'asse del
blocco di pietra. Il percorso diritto dimostra che anch’esso
è stato scavato dalla mano dell’uomo: gli archi a spirale
sono senza dubbio dovuti a una trapanatrice pneumatica o
a un cuneo di ferro con cui è stato fatto il foro per la
dinamite (se il blocco non è stato staccato dalla massa
principale con la sola forza meccanica). L’uomo si volta.
Sulla parete rocciosa e piatta che s’innalza dall’altra parte
della strada, come un alto muro, scopre una fessura
verticale che potrebbe corrispondere perfettamente, come
sua metà simmetrica, al canale della superficie a sella,
tanto più che anche su questa fessura si distinguono
chiaramente due strati diversi: uno strato superiore, più
scuro, e uno inferiore, più chiaro e friabile. Sotto il blocco
di pietra, in direzione dell’orizzonte, si stende un massiccio
roccioso percorso da rughe, fenditure e crepacci. Una
ventina di metri più in basso del blocco su cui l’uomo è
seduto, si distinguono ancora le macchie rossastre dei
licheni che in qualche punto diventano completamente
bianche, come se le rocce a picco fossero spruzzate di calce
o cosparse di escrementi di uccelli. Accanto al sasso su cui
è seduto, da profondi crepacci lungo la strada, spuntano
foglie irsute e polverose di assenzio, già in parte sbiadite.
L’uomo sente il loro profumo che si alza col calore emanato
dalla pietra rovente. Radi arbusti, sparsi qua e là sulle
rocce e nelle cavità, risaltano nettamente con le loro foglie
verde pallido sulla pietra grigiastra e sulle macchie chiare
dei licheni simili a macchie di calce. Sul lontano versante
grigio che si stende verso l’orizzonte, si scorge il nastro
bianco della strada che scende in linee oblique e parallele
intagliate nella roccia. La strada si restringe sempre più di
versante in versante e, a poca distanza dalla cintura verde,
dove è già stretta come un sentiero di capre, comincia a
piegarsi in meandri, formando una grande M, come le tre
linee nette della mano. Nella linea sinuosa e spezzata che
congiunge terra e mare, si scorgono insenature e baie
profonde, separate da pareti rocciose a strapiombo. Il sole,
perfettamente rotondo e rosso, sfiora precisamente la vetta
più aguzza. Le grandi ombre delle rocce tingono l’azzurro
del mare di verde scuro, separando con una linea netta
l’azzurro dal verde, come due colori che non si mescolano,
almeno non così facilmente e intimamente come si
mescolano sulla lontana linea dell’orizzonte il turchino del
cielo e il turchino del mare.
Lungo la linea spezzata dove terra e mare si
congiungono, si scorgono, in mezzo al verde, piccole case
strette le une alle altre, anch’esse schematiche: muri
bianchi e tetti rossi. A sinistra, un po’ più in là del gruppo
di casette, sotto un camino da cui si leva diritto un filo di
fumo nero, il riverbero rosso del sole sulla facciata a vetri
di qualche fabbrica, simile al bagliore di un incendio.
All’estremità di un piccolo molo s’innalza la colonna di
pietra di un faro. In cima al faro lampeggia una luce viva, e
l’uomo non può capire se si tratti del riflesso del sole o
della luce di una lampada a gas. Lungo i bordi del molo, da
un’estremità all’altra, c’è una fila di bitte di ormeggio in
ferro. L’uomo è seduto su una di esse, in un punto a metà
del molo, col viso rivolto al mare. Al molo è ormeggiata
un’unica barca, un trabaccolo da pesca a un albero. Sulla
piccola imbarcazione non c’è nessuno. Una fune, arrotolata
come un serpente, è poggiata su un pianale verso prua.
Questo pianale è fatto di assi un tempo dipinte di verde; la
vernice è ora completamente sbiadita e si è ricoperta di
squame oppure è solo piena di screpolature come una
vecchia tela di quadro. Lo scafo dell’imbarcazione è pure
fatto di assi, ricurve come doghe di grandi botti. La parte
esterna è dipinta di nero, e fra le assi, nelle commettiture,
brilla il catrame fresco e molle che sboccia lentamente
come sangue rappreso. I bordi delle fiancate, fatti di assi
più spesse, sono dipinti anch’essi di verde, e così la prua, la
cui chiglia è rinforzata da una lastra di metallo. Alla
fiancata del trabaccolo sono appesi due copertoni,
completamente lisci, tanto che non vi si possono più
distinguere i rilievi ondulati o gli intagli a zigzag, ma solo
alcune lettere sul fianco, sicuramente la marca. Tra i
copertoni attaccati alla fiancata dell’imbarcazione e il molo
di pietra si stende una striscia d’acqua verde, arcuata. La
barca è rivolta con la prua verso il mare, leggermente di
sbieco rispetto al molo.
Il mare intorno al trabaccolo è assolutamente calmo,
verde scuro e trasparente, tanto da lasciar vedere
distintamente tutto lo scafo dell’imbarcazione, il timone
inclinato e la piccola elica in forma di otto. Più in basso, a
una profondità indeterminata, si scorge l’ombra dello scafo
bucherellata dallo sfavillio di un raggio di sole riflesso da
un pesce morto, da un pezzetto di specchio, da una
conchiglia vuota o da una latta di conserva.
A un tratto, l’ombra dello scafo comincia a vibrare, a
sciogliersi, a scomparire. Lo sfavillio si spegne e la
superfìcie verde scintilla e ondeggia. Si sente lo sciabordio
dell’acqua contro il molo e i fianchi della barca. Lo stridio
della fune legata alla bitta. Lo strusciarsi lieve delle
imbarcazioni nella baia. Una barca si avvicina al molo
tracciando un leggero arco. Lo sbuffare sommesso del
motore si sente in ritardo, solo quando il motore è già
spento, perché il rumore si è introdotto nel silenzio in modo
impercettibile. L’acqua si corruga in onde che scoprono
sulle pareti del molo di pietra il verde velluto delle alghe e
le macchie nere delle conchiglie. L’erba marina e i rifiuti,
prima fermi sul pelo dell’acqua, si mettono di colpo in
movimento, cullati e gettati da sinistra a destra e da destra
a sinistra: bucce di cocomero, un pomodoro, un torsolo di
mela color ruggine, cicche rigonfie, un pacchetto di
sigarette, un pesciolino morto, una crosta di pane, un ratto
morto, una scatola di fiammiferi, mezzo limone spremuto,
un ramo marcio, una noce di galla, stuzzicadenti, fuscelli di
paglia, squame di pesce, un’arancia imputridita, una
bottiglia verde di birra, un pezzo di tavola, una busta
azzurra strappata, un portapenne di legno corroso, piume
di uccello, un tutolo di granturco, un tappo di sughero, un
cappello di paglia sfondato, un biglietto ferroviario forato,
due mozziconi di matita senza grafite, pezzetti di giornale,
un foglio di carta a quadretti con lettere che si sciolgono,
una scatola di conserva, una noce, un barattolo di latta un
tempo contenente vernice verde, un frammento di vaglia,
l’etichetta gialloverde di una bottiglia di birra, un vetro di
lampada sbreccato, un pezzo degli scacchi (un pedone
bianco che ha fuori dell’acqua solo la testa), un re di quadri
dai bordi sfilacciati piegato in due ma non schiacciato,
tanto che i personaggi simmetrici e schematici si
distinguono chiaramente, una cartolina illustrata che
mostra in primo piano il mare azzurro, un molo con un faro
e accanto al molo una barca da pesca ormeggiata a una
bitta di pietra, mentre una seconda barca si avvicina al
molo e fende l’acqua disegnando un leggero arco. In
secondo piano, dietro una fila di palme verdi, bianche
casette dai tetti rossi. In lontananza, alte montagne lungo i
cui fianchi serpeggia una strada stretta, e sopra un cielo
azzurro e due o tre nubi rossastre. In un punto a metà del
molo, su una delle bitte, è seduto un uomo. È leggermente
curvo e piegato in avanti. In testa ha un cappello di paglia
gettato sulla nuca e tra le gambe divaricate un bastone,
forse una canna da pesca. A una decina di metri da lui,
appoggiata con i gomiti al parapetto di pietra, c’è una
donna, e con lei un ragazzino di cinque o sei anni e una
ragazzina un po’ più grande. Tutti guardano verso
l’orizzonte, forse contemplano il tramonto. Si trovano
proprio su una curva, nel punto dove la strada si allarga
formando una specie di terrazza o di altana. Un poco oltre,
proprio contro il parapetto fatto di blocchi di pietra appena
sgrossati, c’è un’automobile. La vernice nera della
carrozzeria è coperta da un sottile strato di polvere. I vetri
quadrati dei finestrini sono completamente abbassati, le
portiere spalancate. I grandi fari rotondi sono illuminati dai
rossi bagliori del tramonto. Al di sopra del radiatore, simile
a un alveare, un tappo metallico nichelato intagliato a
dentelli da cui esce vapore. Tutta la parte anteriore
dell’automobile vibra nel calore, visibile come quello che si
osserva su una stufa rovente. Sotto i larghi parafanghi,
simili a quelli di un fiacre, sulle gomme ormai lisce, si
distinguono appena i rilievi ondulati o gli intagli a zigzag.
Di lato, sui fianchi dei copertoni, si intravedono alcune
lettere piene di polvere: la marca delle gomme. Con le
braccia incrociate sul petto, un uomo con un casco a
quadretti e occhialoni da pilota in celluloide è appoggiato al
parafango. È rivolto verso coloro che ha portato lì, verso
l’uomo seduto sul masso, una decina di metri più in basso
rispetto alla curva, e verso il gruppo appoggiato al
parapetto di pietra non lontano da lui. Poi si volge a
guardare l’orizzonte,· forse ammira il tramonto. Adesso
anche la donna guarda verso l’uomo seduto un po’ più in
giù sul masso. Ma lui sembra non notarli nemmeno. Fissa
un punto in lontananza; forse ammira il tramonto.
Ora guarda verso la curva, da dove giunge un rumore di
passi con un rotolio di pietrisco. Un attimo dopo, da dietro
la curva spunta un asino, carico di fascine. A testa bassa, le
orecchie penzoloni, la bestia vien giù per la china. Il carico
di fascine, assicurato con delle funi a un basto invisibile,
pende sui fianchi polverosi. Sugli sterpi nodosi si vedono
incisioni oblique fatte di recente. Infilata tra le fascine,
sporge la lama ricurva di una roncola fissata a un sottile
manico quadrato. Al di sopra del carico, in otri scuri e
flosci, sbatte un liquido: vino, latte o acqua. Due o tre passi
dietro l’asino avanza una donna con un vestito nero
sbiadito e un fazzoletto anch’esso sbiadito legato sotto il
mento, curva sotto un carico di fascine non minore di
quello legato al basto. L’uomo li segue con lo sguardo fino a
che scompaiono dietro una stretta curva. Poco dopo li
scorge di nuovo, sul versante successivo, una ventina di
metri più in basso. Poi li perde di vista per un certo tempo
finché non li rivede alla svolta seguente. Non si sentono più
lo sciacquio del liquido negli otri né lo scricchiolio del
pietrisco sotto i loro passi. L’uomo si alza e risale la strada
appoggiandosi al bastone, poi si siede nell’automobile
accanto all’autista.

1 I piccioni non riescono a orientarsi subito quando sono lanciati


dall’aereo. Quelli che hanno già esperienza in materia si lasciano cadere
come pietre e procedono così finché non si sono liberati dell’azione delle
correnti aeree. I principianti, invece, cercano di volare subito. Di
conseguenza, il vento li sbatte in ogni direzione come una barca nella
tempesta ed essi devono girare in tondo per un certo tempo finché non
tornano in sé e ritrovano la direzione da seguire per giungere alla loro
meta.
APPUNTI DI UN FOLLE (I)

È diffìcile innalzare a vette eccelse la propria sventata.


Essere contemporaneamente osservatore e osservato.
Quello che è in alto e quello che è in basso. Quello in basso
è una macchia, un’ombra... Considerare il proprio essere
dal punto di vista dell’eternità (leggi: dal punto di vista
della morte). Slanciarsi in alto! Il mondo guardato dalla
visuale di un uccello.
La mia idea di un congegno per volare è antica quanto
l’umanità. Non è altro che la prosecuzione del proposito di
Icaro. Perché anche il mio congegno è nato osservando il
volo degli uccelli. Non ha bisogno nemmeno della forza di
un rematore. Del resto io non sono uno sportivo. E
nemmeno un uomo di forza eccezionale: i miei bicipiti
sembrano quasi quelli di una donna. Potete figurarvi la
scena: in alta tenuta, con cravatta a pallini annodata a
farfalla, infilo le braccia nelle cinghie e mi alzo in volo come
un piccione, lanciandomi giù dal decimo piano come una
pietra, per uscire poi dal looping con un solo colpo d’ala e
tracciare un alto arco sopra la folla. Mi lascio andare al
capriccio delle correnti e atterro in un prato nei pressi del
mio paese natale (« natio borgo selvaggio »).1 Poi ripongo
le mie ali nella cartella ed entro in paese del tutto
inosservato, anonimo, se volete.
Dal vostro punto di vista, vi trovaste pure sulla terrazza
di un grattacielo, somiglierò a una gru, poi a una rondine,
poi a un pipistrello, poi a una farfalla (o a una cravatta a
farfalla), poi a un moscone, poi a un’ape, poi a una mosca e,
infine, a una caccola di mosca. Sono scomparso dal vostro
orizzonte, completamente scomparso. Mi sono innalzato in
cielo, miei cari signori. Sì, nel cielo della pura astrazione.

Appoggiando la testa sul terreno, al momento adatto, un


uomo dotato di un udito canino potrebbe sentire un debole
rumore, appena percettibile, come quando si travasa
l’acqua da un recipiente in un altro o come lo scorrere della
sabbia nella clessidra - qualcosa del genere si potrebbe
sentire, qualcosa del genere si sente quando si appoggia la
testa sul terreno, con l’orecchio attaccato al suolo, con i
pensieri che penetrano nella profondità della terra
attraversando gli strati geologici, fino al mesozoico, fino al
paleozoico, gli strati di sabbia e di spessa argilla, che
penetrano come le radici di un albero gigantesco, negli
strati di fango e di roccia, negli strati di quarzo e di gesso,
negli strati di conchiglie e di gusci di chiocciola, negli strati
torbosi di scaglie e di lische di pesci, di carcasse di
tartarughe e di stelle di mare, di ippocampi e di mostri
marini, negli strati di ambra e di sabbia sottile, negli strati
di erbe marine e di humus, negli strati spessi di alghe e di
conchiglie madreperlacee, negli strati di calcare, negli
strati di carbone, negli strati di sale e di lignite, di stagno e
di rame, negli strati di scheletri umani e animali, negli
strati di crani e di scapole, negli strati d’argento e d’oro, di
zinco e di pirite; perché là in qualche punto, a qualche
centinaio di metri di profondità, si trova l’enorme cadavere
del Mare Pannonico, non ancora del tutto morto, ma solo
soffocato, schiacciato da sempre nuovi strati di terra e di
pietra, di sabbia, di creta e di colofonia, di cadaveri di
animali e di cadaveri di uomini, di cadaveri di uomini e di
cadaveri di opere umane, solo bloccato, perché, ecco,
respira ancora, già da alcuni millenni, attraverso i gambi
delle messi ondeggianti, le canne delle paludi, le radici
delle patate, non ancora del tutto morto, ma solo
schiacciato dagli strati del mesozoico e del paleozoico,
perché, ecco, respira già da alcune ore, da alcuni minuti
(nella scala temporale della Terra), respira con affanno e a
fatica, come un minatore schiacciato sotto un cumulo di
travi, di puntelli e di pesanti blocchi di carbone stillante;
quando l’uomo appoggia la testa sul suolo, quando incolla
le orecchie alla creta umida, specialmente in notti calme
come questa, può sentire il suo respiro, il suo rantolo
prolungato.

10

Se tutto avviene secondo le leggi rigorosamente


deterministiche del Dio-natura, secondo il principio
generale della causa sui, allora il caso come fenomeno
oggettivo non esiste, non solo su scala universale, ma
nemmeno negli aspetti più insignificanti, come per esempio
quando uno lascia (dimentica?) il suo libro in treno, in uno
scompartimento di prima classe (come se vi fosse stato
messo dalla divina provvidenza o vi fosse giunto a volo da
una lontana regione sconosciuta, come un angelo che si
accomodasse con le ali semispiegate sul sedile di felpa
verde, in prima classe, al posto numero ventisei, proprio
quello accanto al finestrino, riservato per lui alla stazione
provinciale di Šid), e qualcun altro (predestinato?) venisse
a sedersi allo stesso posto e vi trovasse un libro rilegato in
pelle nera (Tractatus theologico-politicus) che avrà su di lui
un’influenza determinante e duratura.

11
Proposizione:
Per il tranquillo lavoro dello spirito è necessaria una
solitudine totale, altrimenti lo spirito cadrà sotto la nefasta
influenza di un altro spirito, senza forse neppure
rendersene conto.
Dimostrazione:
Se nella stanza accanto non avesse dormito mia moglie,
di certo non mi sarebbero venuti in mente i villaggi
montenegrini, ma probabilmente un altro paragone, un
altro determinante, perché nella mia minuta non c’era
alcun accenno a villaggi montenegrini, né a villaggi di
nessun’altra regione, dato che a quel tempo (quando
scrivevo la minuta) il mio spirito non era ancora sotto
l’influenza del suo, ma (come risulta da quanto precede)
sotto l’influenza di un’altra irradiazione. Q.E.D.
Corollario:
La solitudine totale è irraggiungibile, perché conseguirla
vorrebbe dire conseguire la perfezione, e questa non è altro
che l’idea pura o Dio.

12

La borsanera può, da un lato, procurare un grande


profitto (con grande rischio, beninteso), ma, dall'altro,
causare l’incalcolabile pericolo del contagio. La rivendita di
bestie crepate o malate; intossicazione collettiva da carne
avariata (giorni fa sui giornali). Una specie di verme, di
parassita, che si trasmette dal maiale all’organismo umano;
salsicce di cinghiale avvelenato; non salsicce verminose:
salsicce di vermi.

13
Le spezie hanno probabilmente un’azione profilattica e
disinfettante, certe proprietà mimetiche in virtù rielle quali
producono uno straordinario effetto sull'odorato degli
acquirenti schizzinosi di salsicce avariate. A seguito delle
operazioni di guerra, del blocco operato dai sottomarini,
ecc., le spezie acquistano pian piano il valore e il prezzo dei
metalli preziosi o, più esattamente, riprendono il valore e il
prezzo che avevano nel Medioevo e che poi avevano
perduto, la loro aureola offuscata di rarità.
Cassaforte wertheim & co. Cambiale, assegno, firma del
traente; verifica, timbri. La pesante porta di acciaio, ben
oliata, si apre senza rumore. Dalla cassaforte si sprigiona a
onde il profumo delle spezie. Probabilmente a causa del
loro peso specifico. In aria volteggiano invisibili particelle
di pepe: starnuti e colpi di tosse. Cambiale prorogata e
bustina di chiodi di garofano o di cannella. Ai suoi ordini,
signore! Verificare ancora una volta se la borsa di pelle è
abbastanza sicura. Scorta armata e macchina blindata
davanti alla porta laterale della banca. Le portiere della
macchina blindata, nell’aprirsi, liberano di colpo gli aromi
imprigionati di continenti lontani. L’anima di Colombo, di
Vasco da Gama.

14

Cambiare la struttura del tetto: travi, correnti; mettere


nuove tegole, a gronda; sostituire gli stipiti marci e
allargare le finestre; raschiare rintonaco e lo strato fradicio
friabile; rinzaffare il muro e imbiancare a calce; scavare la
terra alla profondità di un metro, un metro e mezzo
(secondo la profondità a cui l’argilla risulta imbevuta di
orina di cavallo); riempire di terra fresca calcandola bene,
poi mettere delle assi; pavimentare anche la cucina oppure
mettere delle assi; allargare il vano di un metro o due, cioè
abbattere e spostare il muro che lo separa dalla dispensa;
pulire la dispensa e trasformarla in uno spazio utile;
buttare nell’immondizia tutto il ciarpame: vecchie
biciclette, scatole, valigie, finimenti, ecc., tutto
nell’immondizia. Sì, anche i suoi gerani: nell’immondizia.

15

Alla fin fine, il latte è un nutrimento. Il latte materno,


per esempio. Il latte di mammifero. Gesù, che tiene in
bocca una poppa di vacca. O di pecora. O di cammella.
Invece della mammella bianchissima della Santissima
Vergine. Anche Maria è un mammifero. Anche le sue
mammelle hanno stillato il bianco succo lattiginoso. Perché
Yehovah nella sua saggezza si è preoccupato dei bambini,
dei piccoli di tutti gli animali. Che la ghiandola sia, e la
ghiandola fu. Che coli il latte, e il latte colò dalla boccuccia
porosa della mammella. Salvare la vita col metodo bocca a
bocca. Una specie di razione militare arricchita, con un
procedimento speciale, di tutti gli ingredienti necessari
all'organismo (così si rende più facile il problema del
trasporto e si semplifica quello dell’alimentazione). Grasso,
albumina, carboidrati, enzimi, vitamine, elementi minerali;
tutto quello che i convitati hanno introdotto nel proprio
organismo, in solido e senza misura, durante il banchetto
pasquale (luculliano). Tutto ciò si trova nel latte, sotto
forma di particelle minute, microscopiche. Accorsero
vacche infuriate e in un batter d’occhio fecero piazza pulita
di tutto quello che era sulla tavola, e il maialino arrosto, e
la gallina, e il prosciutto, e i dolci, e la frutta, e le noci,
tutto, tutto, ma senza ordine, trascurando le buone
maniere, o piuttosto secondo le loro buone maniere da
vacche, cominciando col divorare i dolci, per lappare subito
dopo il brodo di gallina e ingoiare infine, per dessert, la
tovaglia di batista impregnata di grasso, di vino e di
idromele. Poi la fabbrica che è nella loro pancia ha
trasformato il tutto, triturando, cuocendo, fermentando,
raffinando, filtrando, pastorizzando, acidificando, agitando,
filtrando di nuovo e infine mescolando con caseina,
albumina e lattosio, perché tutto ciò possa finalmente
ritrovarsi nelle poppe e quindi nelle tazze di latte in mano
ai miei bambini; tre volte di seguito, come in una favola.

1. In italiano nel testo [Nd.T.].


PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (I)

16

E.S. ha postdatato la sua lettera?


Accanto al nome del suo villaggio ha scritto la data del
giorno dopo, giustificando la cosa col fatto che sul suo
orologio di marca Longines non restavano che sedici minuti
del giorno in corso e che quindi non solo la fine prevedibile
(ancora lontana), ma anche l’inizio della lettera si poneva
già al giorno dopo, dato che la lettera stessa, pur
cominciata al limite di un giorno, era però tutta rivolta al
giorno avvenire, all’alba avvenire, a un’aurora lontana.
Gli era già successo di postdatare un documento?
Nell’anno scolastico 1905-1906 postdatò un certificato
medico, prolungando le sue vacanze di quasi una
settimana; nel 1912 postdatò un biglietto gratuito di
seconda classe per il rapido della linea Ramerai Moravice -
Zagabria, prolungandone la validità di circa quattro mesi;
nel 1924 replicò questa sua impresa, non avendo tratto
(evidentemente) alcun ammaestramento dalla precedente
multa (quella del 1912), di cui con tutta probabilità si era
completamente dimenticato, e di nuovo postdatò il proprio
documento di viaggio, questa volta un biglietto ridotto di
prima classe, numero 755363, per poter viaggiare gratis
sulla linea Vrbovsko - Novi Sad e Novi Sad-Budapest (via
Subotica), prolungandone la validità di dieci giorni in tutto,
cioè dal primo all’undici novembre; nel 1932 postdatò di
nuovo un documento: il certificato medico numero 2249,
che lo dichiarava temporaneamente capace di provvedere a
se stesso, a condizione di sottoporsi ogni sei mesi a una
visita medica approfondita: questa volta, spostò la data di
un anno intero (dal 1932 al 1933); nel 1934 postdatò vari
documenti della fabbrica di spazzole e pennelli di Subotica
di cui era comproprietario e azionista, ecc.
Ha risposto di qualcuna di queste azioni?
Due volte. Nel 1912 (Ramerai Moravice-Zagabria) fu
condannato a una multa di dieci corone e nel 1934
(fabbrica di spazzole e pennelli) perse la causa contro il suo
socio Weiss, che non potè provare le sue falsificazioni, ma
convinse la giuria della sua colpa: c’erano abbastanza
prove della sua scarsa coscienziosità nel lavoro.
Ma E.S. conservava tra i suoi documenti qualche prova
della sua colpa?
Tra le altre sue carte, nel fascicolo intitolato Documenti
ferroviari, custodiva la delibera dell’Ispettore Generale
delle Reali Ferrovie Ungheresi (Magyar Királyi
Államvasútak), datata 1912, sotto il numero d’ordine 1042,
mentre aveva distrutto tutti i documenti relativi al caso
Weiss.
Citi il testo integrale di tale delibera.
Signor E.S., diurnista addetto al traffico, Ramerai
Moravice (per il tramite della direzione della stazione). - È
accertato che il 23 febbraio c. a. Ella ha viaggiato sul
percorso Ramerai Moravice - Zagabria utilizzando un
biglietto gratuito di seconda classe sul rapido numero
1091, biglietto rilasciato il 4 novembre dell’anno scorso
sotto il numero d’ordine 95463. Ella ha tentato di
nascondere la non validità del suo biglietto cambiando la
data dal 4 al 24. Per tale motivo La condanno all’ammenda
di 10 (dieci) corone, da trattenersi in due rate dalla sua
paga e al tempo stesso La invito ad astenersi in avvenire da
comportamenti indegni di un futuro impiegato. Ispettore
del traffico I. Šušnjić.
Ha mostrato a qualcuno questa delibera?
L’ha mostrata due anni fa al signor Gavanski, con
l’intento di mettere in evidenza la serietà che
caratterizzava un tempo le ferrovie (a confronto con la
situazione di oggi) e anche per vantarsi di essere stato in
giovinezza un vero briccone, capace di ogni bricconeria,
non importa quanto pericolosa.
Chi invocava E.S. all’inizio della sua lettera?
La sorella minore Olga.
Aveva altri fratelli e sorelle?
Altre quattro sorelle (senza contare Olga) e un fratello,
cioè (contando Olga) cinque sorelle e un fratello.
A parte lei, a chi poteva ancora rivolgersi allo stesso
modo, per lettera?
Senza aspettarsi un risultato migliore di quello che si
aspettava adesso, poteva rivolgersi al suo vecchio e per
così dire unico amico, il signor Gavanski (Novi Sad, viale
della Stazione 8), a suo fratello Adalbert Dolfi (Trieste, via
Lazzaretto Vecchio 11), al presidente Roosevelt, al primo
ministro Churchill, al cancelliere Adolf Hitler,
all’ammiraglio Horthy, al ministero dei Trasporti, al
ministero delle Finanze, all’avvocatura dello Stato, alla
Croce Rossa Internazionale, alla Società delle Nazioni,
all’Associazione per la Difesa dei Diritti dell’Uomo,
all’Organizzazione Sionistica Mondiale, alla Società per la
Protezione degli Animali, a Dio Padre Sabaoth.
Perché allora non si è rivolto a una di queste persone o
di queste istituzioni?
A Gavanski per non comprometterlo nel caso che la
polizia tenesse sotto controllo la sua corrispondenza; a suo
fratello Dolfì a causa della tensione delle relazioni sia
personali sia internazionali; agli altri perché non aveva
fiducia in nessuno di loro, tranne forse nell’ultimo, col
quale aveva comunque relazioni costanti.
In quali rapporti erano il mittente e il destinatario?
Di obbligazione, perché il mittente di un tempo, attuale
destinatario, aveva spedito una decina di giorni prima una
breve lettera all’attuale mittente, già destinatario.
Di che cosa si trattava in questa lettera?
Delle condizioni atmosferiche (freddo, neve); di
questioni di salute (influenza, tosse, reumatismi, mal dei
testa, nervosismo, costipazione); di farmaci e di erbe
medicinali (aspirina, salvia, camomilla, impacchi di acqua
vegeto-minerale, canfora); del rincaro della legna e del
carbone (rispettivamente, da 240 a 320, e da 350 a 380);
del cattivo stato delle strade (ingombre di neve); di vestiti
invernali da uomo, e in particolare di un completo grigio; di
certe coperte; dei limoni ormai introvabili; di prosciutto; di
noci di Hanukkah; di Dio onniveggente e onnipossente; di
certe calze; di boschi incendiati; di potassa.
Di che cosa non si trattava in questa lettera e di che
cosa avrebbe desiderato avere notizie?
Di certe scarpe da uomo e di un pennello da barba.

17

Che cosa gli facevano venire in mente le sue dita gelate?


Le dita corte, tozze e insanguinate del signor Hordós, il
macellaio.
Quale pericolo si figurava E.S.?
Che quelle dita potessero venir scambiate per salsicce e
che il signor Hordós potesse tagliarsi un dito insanguinato
e incartarlo insieme con le salsicce, motivo per cui smise di
acquistare sanguinacci.
Che cosa vide l’acquirente indeciso?
Vide il signor Hordós staccare dall’uncino un pezzo di
carne di maiale, infilare poi il suo dito simile a una salsiccia
in un taglio fatto nella carne, metterne un bel pezzo sul
palmo della mano, e poi batterci sopra, e la carne scivolare
sul bordo della bacinella, torcendosi come un’anguilla.
Che cosa pensava l’acquirente indeciso?
Che non doveva mostrare né con l’espressione del viso,
né con un gesto o una parola, di non avere in tasca più di
cinque pengő e ventotto fìllér, se non voleva che il
macellaio gli servisse gli scarti o un pezzo di carogna.
Aveva notato qualche segno che gli potesse far credere
che il signor Hordós lo aveva comunque capito?
Sì, il fatto che quest’ultimo, vista la sua indecisione,
aveva tirato fuori da sotto il bancone un tegame,
piegandolo un attimo davanti a lui per rimetterlo poi subito
in posizione orizzontale, sicché l’acquirente indeciso aveva
potuto scorgere, nel punto dove la gelatina si rigonfiava,
pezzi di cartilagine biancastra e di membrana pelosa (un
orecchio?).
Quando fu sicuro E.S. che il signor Hordós gli aveva
letto nell’animo?
Nel momento in cui quest’ultimo cominciò a tirar fuori
da sotto il bancone pezzi di frattaglie: un fegato color rosso
mattone, simile a sangue rappreso, una milza viscida e
guizzante, del polmone che sembrava gomma schiumosa,
listerelle dentellate di trippa, rognoni somiglianti a due feti
gemelli, un cuore crudelmente trapassato dal coltello del
macellaio.
Come tradusse dentro di sé E.S. la domanda che per un
attimo potè leggere negli occhi del signor Hordós?
Ma lei mangia forse carne di maiale, signore?
Come gli rispose E.S., sempre con lo sguardo?
Si, signore: tutto, tranne che carne di carogna!
Quale immagine sorse allora nella macchia gialla del suo
ricordo?
Le proprie dita che armeggiano attorno alla cernie ra di
ottone della cartella e che la premono e la cerniera che
scatta.
Quale sensazione?
La sensazione, sulla palma della mano, del pezzo di
carne incartato nel giornale, l’odore di carne fresca misto a
quello della carta stampata e un’occhiata rapida ma precisa
all’impaginazione del foglio.
Che cosa cerca di fare E.S.?
Cerca di ricordare il gesto compiuto per mettere la
carne nella cartella, e lo fa con una ostinazione maniacale,
analizzando per l’ennesima volta (nel ricordo) ogni suo
gesto, calcolando nella mente il peso di ogni pezzo di carne.
Aveva qualche prova di aver messo la carne nella
cartella, quel giorno, nella macelleria?
C’è (c’era) un corpus delicti inconfutabile: un pezzo di
giornale insanguinato e un brandello di cuore del peso di
un grammo o due.
Come cercò E.S. di liberarsi dalle immagini che si
affollavano nel suo ricordo e dai rimorsi che tali immagini
gli procuravano?
Con un balzo lirico in avanti: desiderava saltare nel
ricordo il tratto dalla macelleria all’osteria e dall’osteria al
villaggio, riuscendovi però solo in parte, perché gli
rimaneva una macchia nel pensiero, nella coscienza, come
quando un’immagine cade sulla macula cieca dell’occhio.
Quale domanda precisa rivolse a se stesso, senza trovare
risposta?
È possibile evitare un’immagine che nasce dal ricordo,
così come è possibile, storcendo intenzionalmente il bulbo
oculare, far sì che un’immagine cada sulla macula cieca?
Quale effetto ottenne storcendo intenzionalmente il
bulbo oculare del ricordo?
Che il ricordo sbriciolò e confuse pensieri, immagini e
suoni, ma su questo ricordo da incubo vegliava il biondo
angelo del sogno, l’angelo dalle gote rosse e dall’ampio
petto, con le mani arrossate e gonfie a forza di lavare
bicchieri. (Ah, le mani dell’ostessa, mani sinistre!).
Vedeva i cani?
No, ma poteva concludere, dal registro delle voci, così
come da certe ombre appena visibili sullo sfondo bianco
della neve, di essere verosimilmente finito in mezzo a un
sabba di cani, a un tenebroso carnevale di cani, una festa
rituale antropofaga di tutti i cani, la cui vittima rituale
doveva essere proprio lui, E.S. in persona.
Che altro sentiva?
L’urlo della bufera di neve che, con le sue raffiche,
cambiava il registro delle voci dei cani, deformandole e
assorbendole, mescolando i propri ululati ai loro, adattando
i loro ululati ai propri.
Come vedeva se stesso E.S.?
Con gli occhi di un cane, come attraverso una lente
biconvessa o uno specchio deformante: la punta del
bastone si allunga in prospettiva verso il pugno grosso
come una testa in cui termina la sua impugnatura. Questo
pugno-testa si assottiglia nella lontananza della prospettiva
e si trasforma in un lunghissimo braccio sottile, anche più
sottile del bastone stesso verso la fine, all’altezza delle
spalle. Guardando lungo questo braccio deformato, dal
basso verso l’alto, si scorge una testa magra della
grossezza di un pugno.
Che altro si vede da questo punto di vista canino?
Una caloscia con le tacche, in primo piano, e una
cartella nera logora in cui si trova, invisibile presenza, della
carne di maiale (un chilo e qualcosa), un pezzo di coscio
(70 grammi), bistecche (2 etti), lardo (2 etti), frattaglie (2
etti e mezzo), il tutto incartato in un giornale invisibile.
Come avvertivano la loro rispettiva presenza?
Essi con l’olfatto, l’udito e la vista, lui solo con l’udito.
Quali pensieri gli ispirava la paura?
Il pensiero e la possibilità non solo di un mimetismo, ma
anche di una identificazione: cambiando le lenti dei suoi
occhiali, avrebbe potuto diventare un cane.
Λ quale fantasia lo indusse il suo ben noto senso della
pubblicità?
L’uomo diventa a volontà cane, gatto, cavallo o uccello.
Acquistate gli occhiali magici della ditta ES. A vostro gusto
e a vostra scelta, potrete guardare il mondo con gli occhi di
un animale.
Quale annuncio pubblicitario immaginò in cuor suo?
Vi piacerebbe vedere il vostro fedele cane da guardia o il
vostro gattino prediletto così come essi vedono voi, con i
loro occhi? Volete andare a caccia con gli occhi di un cane?
Oppure guardare il pubblico delle corse dei cavalli con gli
occhi di un cavallo? Diventate cavallo, cane o gatto, per soli
10 pengő. Se non potete procurarvi le ali di un uccello,
potete però guardare il mondo con gli occhi di un
fringuello, ecc. Sulla base delle più recenti ricerche ottiche,
psicologiche, biologiche e oftalmologiche. Ditta ottica ES.
Gratis a richiesta il catalogo con foto a mosaico a colori.
Ditta paraottica ES.
Come si comportavano i cani?
Non si contentavano più dei pezzi di carne che lui
gettava lontano da sé nella neve (per farli arretrare e per
confonderli), ma, avendo compreso la propria superiorità
numerica e tattica, si buttarono sulla carne cruda,
comprendendo senza dubbio anche loro (come pensava lui
segretamente) che il nemico era ubriaco e stordito e che,
nonostante la sua esperienza teorica e tattica, non era in
grado di battersi a lungo in quel freddo siberiano.
Che fece allora E.S.?
Continuò a staccare pezzi di carne, strappandola
insieme col giornale, afferrando a caso grossi pezzi
sanguinolenti, gelati, strappandoli con le unghie e
lacerandoli con i denti, gettandoli lontano, per cercare di
staccare da sé gli inseguitori con questa tattica povera e
ovvia.
Che cosa sentiva e intuiva E.S.?
Che i cani si gettavano sui pezzi di carne, mugolando e
ringhiando nervosamente, seguendo come a caccia, testa
eretta e pelo irto, l’odore della carne che attraversava l’aria
descrivendo un arco invisibile ma perfetto, secondo le leggi
rigorose della fìsica euclidea, ma con una traiettoria nella
quale mettevano lo zampino anche quello stordito del
genero di Marič,1 il vento, la bufera di neve e il diavolo in
persona; che i cani seguivano quella traiettoria odorosa di
sangue con l’olfatto, testa eretta e pelo irto sulla schiena e
sul collo, tutti rivolti nella stessa direzione, ma guidati dalla
sua mano, dal suo gesto che era all’inizio di tutto.
Come terminava la traiettoria balistica della carne
lanciata?
Il pezzo di carne sanguinolenta, che lui staccava con le
mani, le unghie e i denti, non riusciva a terminare il suo
percorso, che si interrompeva bruscamente, a un metro o
due da terra, dove i cani furibondi e affamati lo
azzannavano e lo dilaniavano, con violenza, al volo.
Che cosa fecero i cani quando capirono la sua povera
tattica umana (divide ut regnes)?
Si organizzarono, perché in loro dovette risvegliarsi
l’antica legge degli avi: i cani lupo dalla memoria ancor
fresca condussero il branco di mostri per nuove vie: mentre
alcuni rimanevano intorno a lui, assediando questa fortezza
umana, questa città fortificata, lasciandogli libero solo il
territorio delimitato dal compasso del suo braccio-bastone,
costringendolo a strappare sempre più velocemente i pezzi
di carne, altri, ora ben guidati, seguivano di corsa la
traiettoria del boccone lanciato e lo afferravano con
destrezza, senza azzannarsi fra loro e senza la confusione
di prima.
Consapevole della propria sconfìtta, che cosa fece E.S.?
Cadde in ginocchio e sentì l’odore dei cani, il respiro dei
cani: come carne cruda in bocca.
Come vedeva se stesso (con una certa risonanza
metaforica)?
Si vedeva afferrare il proprio fegato che i cani-aquile
sbranavano; strappare i propri reni-gemelli che i cani
ingoiavano; staccare a morsi pezzetti del proprio cuore e
sputarli lontano, dove il suo cuore di padre diventava preda
dei cani affamati.
Come cercò, il giorno dopo, a letto, di intendere il senso
del suo incubo?
La corsa era l’atto del coito (il medium: la signora Klara,
l’ostessa); le fauci spalancate dei cani, come pure la
cartella, erano l’utero sanguinante a cui si aspira, in cui si
vorrebbe tornare, per raggomitolarvisi di nuovo come un
feto; ma era anche l’utero sanguinante della donna, la
vagina, vulva vulgaris, velaria, verbasco, verbena, vello,
voluta, ecc.
Come spiegò la presenza dei cani nel suo sogno?
I cani erano senza dubbio usciti dalle pagine di «
Selezione » che aveva letto la sera precedente, prima di
addormentarsi.
Come spiegò ancora il simbolismo del suo sogno?
La neve era la placenta; il cuore l’utero; il fegato la
clitoride; i reni i testicoli; la bile lo sperma; i fianchi il
complesso di Edipo; i denti dei cani l’aggressione sessuale;
la coda dei cani il pene; la cartella la vagina, la vulva, ecc.
E ogni cosa, dunque, in quel sogno sgorgava dalla cartella
utero-vaginale; il cuore, il fegato, le costate, i reni: il foetus.
Come volle dimostrare a se stesso l’esattezza della sua
spiegazione?
Tese la mano verso la sedia accanto al letto (dalla sedia
pendeva il suo abito stracciato e umido) e prese
«Selezione», aperta a pagina 36, dove c’era un articolo
intitolato L’influenza della guerra sui cani, tradotto dal
«World Review» di Londra.
Citi tale articolo per intero.
« Da quando è cominciata la guerra, in Inghilterra si è
osservato che i cani hanno lanciato un’offensiva generale
su tutti i fronti e che si ammazzano tra di loro. In ogni caso,
gli ambulatori veterinari segnalano un numero crescente di
zuffe tra cani. Così, per esempio, il Centro veterinario
londinese ha registrato, nel settembre del 1941, 198 casi di
cani feriti e, nel successivo mese di ottobre, 410 casi. Un
esperto di tale istituzione, il signor Gowent, dà questa
spiegazione del fenomeno: i cani sono molto sensibili
all’umore dei loro padroni. Se siete nervosi, il vostro cane
sarà inquieto. Voi andate in collera quando leggete notizie
di attacchi aerei, e il vostro cane, appena scende in strada,
assale il cane del vicino o il vicino stesso. Non sa perché lo
fa, non ha per così dire “obiettivi di guerra”. Gli basta
vedere il suo padrone irritato e nervoso. Perché il cane si
identifica col suo padrone. Certi casi specifici sono
sicuramente dovuti al fatto che i cani mancano di cure e di
moto a causa del continuo oscuramento delle città e
dell’esodo forzato dei loro padroni. Ma i cani sono diventati
bellicosi, e a volte sanguinari, soprattutto perché la psicosi
di guerra dei padroni si trasmette a loro. Se il vostro cane
si trova accanto a voi mentre leggete notizie di attacchi
aerei o di insuccessi nelle operazioni sui vari fronti e voi vi
fate prendere dalla collera contro il nemico, questa vostra
collera si trasmette al cane, provocando in lui disperazione
o umore combattivo. Il cane non è meno sensibile
dell’uomo, né meno sanguinario di lui, nonostante ciò che
comunemente si crede».
Quale pensiero gli venne rileggendo questo articolo?
Il pensiero che Freud, scrivendo L’interpretazione dei
sogni, non tenne sufficientemente conto delle letture che
uno fa prima di addormentarsi.
Colto dal dubbio, che cosa fece l’istante successivo?
Gettò via bruscamente il piumino e scese dal letto con
passo deciso, nonostante i postumi della sbornia e il mal di
testa.
Che cosa trovò in cucina, accanto alla cassa di legno?
La sua cartella, con la cerniera d’ottone aperta.
Reggendone il risvolto col mento, frugò l’interno con la
mano, che ritrasse poi bruscamente, come se si fosse punto
o scottato.
Che cosa teneva fra le dita?
Un brandello di giornale insanguinato.
Voltandosi di colpo verso sua moglie, che cosa le chiese?
Se aveva preso dalla cartella della carne.
Si aspettava una risposta da lei?
No, perché aveva già capito tutto dal suo sguardo
atterrito.
Che cosa le disse alla fine?
Che in quel giornale, di cui teneva un brandello sulla
palma della mano, era stata incartata della carne: un chilo
(e qualcosa) di carne di maiale, un pezzo di coscio, alcune
bistecche, del lardo e un due etti di frattaglie.
Dopo essersi gettato di nuovo sulla cartella,
annusandola e palpeggiandola, che cosa ne trasse fuori alla
fine?
Teneva tra le dita un pezzetto di cuore di maiale con le
impronte dei suoi denti sulla carne cruda: il corpus delicti.
Nel dubbio di non essere davvero sveglio, che cosa fece
allora E.S.?
Si precipitò di colpo in camera sua e diede una rapida
occhiata al suo numero di «Selezione», trovandovi a pagina
36 un articolo intitolato L’influenza della guerra sui cani,
che iniziava così: « Da quando è cominciata la guerra, in
Inghilterra si è osservato che i cani hanno lanciato
un’offensiva generale su tutti i fronti e che si ammazzano
tra di loro», ecc., ecc.

18

Come erano sistemati i viaggiatori nella slitta?


Sul sedile posteriore c’erano la moglie dell’epistolografo
con i figli, e su quello anteriore, accanto al cocchiere, c’era
l’autore della lettera, la guida dell’esodo, il capitano della
nave, l’esiliato.
In che cosa erano avviluppati i viaggiatori?
Quelli del sedile posteriore in due coperte, di cui la più
sottile era di cotone e la più spessa di pelo di cammello,
mentre quelli del sedile anteriore avevano le gambe e le
reni anch’esse avvolte in coperte di pelo di cammello.
Di che cosa odoravano le coperte?
Di cavallo e di orina.
Di che cosa parlavano il capitano della nave E.S. e il
primo timoniere di nome Martin?
Del tempo, del fronte orientale, della ammirevole
partecipazione dei reggimenti ungheresi alle ultime
operazioni militari, delle razze equine, del peperoncino
sotto spirito, del gulasch, dell’acquavite di pesca, della
penuria di certi articoli di prima necessità come gas, burro,
candele steariche, lamette da barba, calzature, ecc.
Quale osservazione degna di essere menzionata fece
E.S.?
Che un grosso naso adunco non è necessariamente una
caratteristica degli ebrei, perché vi sono spesso eccezioni
evidenti.
Come fu accolta dal timoniere di nome Martin?
Con sospetto, incredulità, disapprovazione.
Quale materiale probatorio accampò il timoniere a
sostegno della sua tesi sugli uccisori di Dio?
L’uomo-dio crocifisso avvolto di neve sul ciglio della
strada, con gli occhi azzurri come l’azzurro del cielo e le
palme insanguinate coperte da un impiastro di fiocchi
gelati, con una corona di spine simile al triste nido vuoto di
una cornacchia; l’uomo-dio crocifisso che gelava sul
limitare del villaggio, dimenticato da tutti.
Il capitano-uccisore di Dio e il timoniere (uccisore degli
uccisori di Dio) trovarono argomenti di conversazione sui
quali essere d’accordo interamente e senza riserve?
L’aglio come mezzo efficace per riscaldare il sangue e
regolare la digestione, l’aumento dei prezzi, la penuria di
certi articoli di prima necessità, ma soprattutto e innanzi
tutto si trovarono d’accordo sull’acquavite di pesca, che
riscalda il sangue e migliora la circolazione, ringiovanisce,
rasserena, rallegra, eccita, ed esala tutti i profumi di
questo mondo.
Quando si furono scolate la borraccia del capitano, col
tappo a vite, e la bottiglia del timoniere, chiusa con un
tutolo, come si riscaldarono?
In vista ormai del porto e prossimi alla meta, fecero
sosta in un’osteria a Baksa, dalla signora Klara, dove
ordinarono cinque decilitri di acquavite d’albicocca, sul
conto del capitano, come esigono le buone maniere e le
leggi non scritte.
Quale fu l’ultima immagine che apparve loro al momento
in cui viaggiatori e carrettiere si separarono?
L’ano rossastro del cavallo, simile a una rosa, che nella
corsa proiettava sulla neve piccole sfere di colore
verdognolo.
Perché i viaggiatori non vennero condotti fino a
destinazione?
Perché E.S. non riuscì a mettersi d’accordo col
carrettiere. Questi, infatti, riteneva che, a causa della
stanchezza dei cavalli e dell’ora tarda, non sarebbe riuscito
a tornare in tempo a Lenti, e chiedeva perciò che il cliente
gli pagasse anche il viaggio di ritorno, mentre quest’ultimo
giudicava la cosa un vero ricatto, perché non se n’era
parlato all’inizio del viaggio.
Che cosa esige la giustizia?
La giustizia vuole sostenere la sua verità fino
all’estremo, e per questo il pensiero dell’epistolografo torna
sul luogo dove si separò dal cocchiere e dove lo sorprese
all’ultimo istante, quando già aveva tirato le redini e
sollevato la frusta, ritto in piedi, come congelato,
pietrificato.
Che cosa disse E.S. al cocchiere?
Scostò la cartella dal petto dove l’aveva tenuta stretta
fino a quel momento e gli indicò, senza una parola, nella
costellazione del torace, nella regione del mediastino, ben
visibile nell’oscurità invernale, la stella di David.

1 Albert Einstein, la cui prima moglie fu la matematica serba Mileva


Marič [N.d. T.].
APPUNTI DI UN FOLLE (II)

19

Solét al ristorante New York di Budapest (nel 1924,


1925, 1930, ecc.); ostriche a Trieste, all’albergo Impérial
(nel 1921?); storione e dentice a Fiume (più volte nel corso
del 1931); zuppa di pesce a Novi Sad al Pescatore;
Wienerschnitzel al Leone d’Argento di Subotica; šiš-kebap a
Skoplje (nel 1935); kastradina con verdura a Cetinje (nel
1939); bistecca alla tartara a Zagabria, nella Città Vecchia;
braciole in salsa nel wagon-restaurant dell’Orient-Express
(nel 1921); paella valenciana pure a Trieste (nel 1931).
Tutto generosamente innaffiato di žilavka, borgogna,
traminac.

20

La paella valenciana, questo mélange ispano-moresco-


ebraico di flora e fauna, mi fu servita in un largo tegame
rotondo e io, prendendone con un cucchiaio, pensai che
quel tegame dovevano averlo immerso in mare e poi
trascinato sulla sabbia, afferrando così direttamente dal
mare tutti i suoi benefici, flora e fauna, come con
un’enorme rete o piuttosto come con un setaccio di legno,
di quelli usati dai lavatori d’oro. Nel riso bianco ben lavato
c’erano non solo granelli di sabbia e persino sassolini, forse
perché il tutto apparisse più naturale (a meno che tali
granelli non fossero sale marino, perché si scioglievano
sulla lingua), ma anche alghe, licheni e condimenti, alloro,
zafferano, capperi e origano, ma anche sogliole e sardine,
gamberetti e frutti di mare (vongole, datteri di mare,
cannelli), ma anche aragoste, scampi, astici, calamari, ma
anche un’ala di pollo e un coscetto di lepre e una lombata
di vitello, tutto ciò immerso nel riso come sepolto nella
sabbia del mare, piantato nel riso, interrato nel risotto, e
solo quando si affonda il cucchiaio in questo riso si capisce,
nel veder affiorare il baffetto rosso di un gambero, l’ala di
un uccello, la chela croccante e macchiettata di una
aragosta, la conchiglia aperta di un dattero di mare, il
guscio rigato di una lumaca di mare, la fiaschetta piatta di
un’ostrica, solo allora si capisce che questo non è un piatto
nel comune senso del termine, ma una sorta di vivanda
mitica, di cibo degli dèi, non preparato in una cucina come
tutte le altre vivande, ma preso dal mare, alla rinfusa,
insieme all’acqua e al sale e alla sabbia e alla ghiaia, con
questo tegame di rame che deve essere stato trascinato
nelle profondità marine e poi lungo la riva e sopra la riva,
che deve essere stato sollevato e trascinato tutto il giorno
nell’acqua e poi attraverso i cespugli del litorale, attraverso
la folta macchia delle rive verdeggianti - di là vengono
quelle tre foglie di alloro che spuntano dal riso, di là le
olive, di là lo zafferano e l’origano, di là infine quella sottile
fettina di limone tagliata a metà e a cavalcioni del bordo
del tegame, dove splende come un piccolo sole
mediterraneo che illumini un lontano paesaggio mitico.

21

Trattato sulla patata. È giunto il tempo di pensare a noi


nella prospettiva della vita e della morte, non come
individui egoisti, ma dal punto di vista di tutta la nostra
razza, questa divina malerba della terra, diffusa nel mondo
intero, sparsa per tutti i continenti, proprio come questa
misera patata (Solanum tuberosum), sorta, come noi, dalle
lontane tenebre della storia e della terra, ma la cui
sopravvivenza non verrà più posta in questione, come la
nostra, finché al mondo ci saranno bocche affamate e
finché ci sarà terra. Questa povera patata, Kartoffel, patate,
dunque, questo pane dei poveri che non è disdegnato
nemmeno alla mensa dei ricchi, servita un po’ camuffata, in
forma di purè o di salsa, cosparsa di latte e di panna e di
sugo di selvaggina, questa patata volgare, questa manna
terrestre-celeste, questa escrescenza sotterranea, scrofola
terrestre, ernia dura, tubero granuloso, non è mai
pervenuta, nel corso della sua lunga storia, alla perfetta
forma circolare della mela o del pomodoro (altro frutto
divino), ma è rimasta imperfetta come l’uomo, simmetrica
solo in apparenza, piena di nodi e di protuberanze, piena di
rilievi e di escrescenze, di buchi e di fenditure, senza
centro e senza seme, senza nulla che indichi in essa la
presenza del Creatore e della sua saggezza, ed è diventata
l’immagine ideale della terra e dell’uomo creato dalla terra,
carne e pelle, senza midollo e senza cuore, vero
homunculus (homo-homulus-humus), perfetta immagine
dell’uomo, un uomo senza anima, un uomo da cui Dio è
bandito.
Ricordi, sorella, quando, ancora bambini, sbucciavamo
le patate germinate nella dispensa, ricordi come cercavamo
quelle piccole patate dalle forme umane, con le loro piccole
teste e le membra atrofizzate e deformi, quei piccoli
omuncoli con i quali giocavamo come fossero bambole,
finché non gli si staccava la testa o si rattrappivano e
avvizzivano come vecchi. E vedi, oggi che mendico questa
patata non posso non ricordare la prodigiosa somiglianza
tra la patata e l’uomo e, d’altra parte, permettete, tra la
patata e l’Ebreo. Proveniamo, l’ho detto, dalle stesse
tenebre della storia. Ma perché, signori, la patata dura più
a lungo di noi? Forse perché noi siamo, perché l’uomo è più
perfetto? Non credo. Per quanto ci riguarda, penso che
essa sia più duratura e perfetta di noi, di voi, e che, quindi,
ci sopravviverà; sopravviverà al grande cataclisma. E
quando la colomba sarà tornata recando nel becco un
ramoscello d’ulivo, quando l’arca toccherà di nuovo la
terraferma, la sua chiglia dissotterrerà dal suolo scavato,
esaurito, sommerso, tormentato, su un nuovo Ararat, un
grappolo di tuberi. E io comincio a credere seriamente,
magari per amore dell’immagine e della fantasia, che la
patata (Kartoffel, patate) sia la sola creatura al mondo - Dio
mi perdoni -che non è stata creata dalla volontà divina e
dalla mano del Creatore, ma che sia opera di uno sciamano
sterilfecondo e folle, il frutto di qualche sterile alchimia (di
cui il De generatione rerum naturalium di Paracelso non
tiene abbastanza conto). Da qui, forse, la sua giovinezza, la
sua resistenza. Essa non ha nemmeno cinquecento anni, in
Europa fu introdotta appena nel sedicesimo secolo, come
pianta ornamentale, e sapete dove? - In Spagna, signori!
Penso che questo fatto parli da solo nel quadro della mia
felice comparazione tra l’Ebreo e la patata, perché è fuori
dubbio che proprio là, in Spagna, dove fu compiuta la
selezione per il proseguimento del viaggio - Ewige Jude - si
verificò il fatale incontro fra l’uomo e la patata, fra il naso
adunco del sefardita e la protuberanza imperfetta del
tubero... per partire da lì insieme verso il mondo e arrivare
alla fine del diciottesimo secolo - la patata, capitemi bene -
sulla mensa dei sovrani francesi, per diffondersi poi nel
resto del mondo, acquistando, attraverso incroci e sotto
l’influenza dei diversi climi e terreni, le forme e le
denominazioni più varie: la farinosa, la rossa, l’olandese, la
primaticcia, la dolce e infine, vertice di qualità, magnum,
bonum, la bianca.

22
I porci sono i meno schifiltosi degli animali. Non c’è
dubbio che Maometto lo sapesse, come pure i profeti-
igienisti ebrei. Così, un giorno, il giovane Maometto se ne
stava seduto osservando un maiale che mangiava qualcosa
di orribilmente sporco: dilaniava una carogna o mangiava
una patata marcia, simile a escrementi umani. Allora, sazio
di arrosto di maiale di cui poco prima si era riempito la
pancia, Maometto cominciò a vomitare, ricordandosi che
quella che aveva mangiato era carne di maiale. Si cacciò
svelto un dito in bocca, come fanno gli ubriachi, e vomitò
sulla sabbia accanto al mare. Poi si affrettò a casa e
introdusse nel codice che stava scrivendo e che più tardi
avrebbe chiamato Corano: non mangiate carne di maiale,
perché vomiterete. La stessa cosa avvenne per
l’attribuzione di kasher: un profeta mangiò carne avariata...
Il fanatico trasforma il suo caso personale in regola sacra,
in legge, in comandamento di Dio. La storia delle religioni
(le proibizioni e i tabù, kasher, ecc.) è il risultato finale di
un’esperienza individuale. De gustibus: questa specie di
democrazia estetizzante non è ammessa dai fanatici. Essi
proclamano il proprio gusto come solo e unico possibile,
gusto canonico. La stessa cosa avvenne per la proibizione
dell’alcol. Un santo si ubriacò e vomitò. Avendo cominciato
a ciarlare un po’ troppo, impappinandosi mentre
trasmetteva i messaggi che gli giungevano dal cielo, il
santo, per ordine del consiglio dei saggi, rinunciò all’alcol.
Ma i fedeli continuano a bere, le bestie sono bestie, e lui
sbava, con la saliva che gli cola sul santo mento. Allora si
rifugia nella sua capanna e sogna che Dio gli ordina di
trasmettere agli uomini il Suo messaggio: il vino è peccato.
Versate il vino in mare e gettate tra le onde gli ubriachi
insieme con le botti. E così sia. Per fortuna, nessun profeta
si ricordò del gusto del latte materno. Altrimenti...

23
Sono incline a credere che Newton abbia scoperto la
legge della gravitazione universale grazie alle feci:
accoccolato nell’erba, sotto un melo, verso sera, quando le
prime stelle cominciano a risplendere, con l’oscurità che lo
proteggeva da occhi indiscreti, perché era abbastanza fitta
da nasconderlo, le stelle non abbastanza chiare da
illuminarlo, e la luna ancora dietro l’orizzonte; in
quell’istante di silenzio, dunque, quando le prime rane
cominciano a gracidare e gli intestini pigri prendono ad
agitarsi per l’emozione lirica provocata dalla bellezza della
natura e della creazione divina, perché il simpatico
trasmette le emozioni intellettuali agli intestini e influisce
sul lavoro del metabolismo, in questo centro di tutte le
emozioni, avendo egli cominciato a presentire la scoperta
di questa legge così semplice ma fondamentale per
l’avvenire della scienza, sempre accoccolato sotto il melo e
immerso nella contemplazione delle stelle (mele non se ne
vedevano nell’oscurità, perché non ce n’erano, ma l’albero
era trapunto di stelle e le mele erano state tutte colte due
giorni prima sotto la sua personale sorveglianza e non c’era
quindi pericolo che qualcuna lo potesse colpire mentre
stava accoccolato sotto quel nuovo albero della conoscenza,
altrimenti non sarebbe andato ad accoccolarsi proprio lì,
ma avrebbe cercato un posto più sicuro), Newton, dunque,
sentiva le sue feci scivolar fuori dai suoi intestini commossi,
senza sforzo e con facilità, nonostante la sua cronica
stitichezza, che era solo la conseguenza delle lunghe ore
passate seduto al tavolo ingombro di libri, insieme con la
gioia di questa scoperta che balenò d’un tratto nella sua
mente, cioè che la forza della gravitazione terrestre dà a
tutti i corpi la stessa accelerazione di 981 cm/s2, persino
alla merda, e che questa forza di gravità diminuisce
proporzionalmente al quadrato della distanza di un corpo
dal centro della Terra, insieme con la consapevolezza
dell’importanza capitale di questa scoperta, accompagnata
da un nuovo svuotamento degli intestini, ebbe un pensiero
terribilmente umiliante: aveva scoperto questa legge così
essenziale e decisiva per la storia dell’umanità osservando
la caduta libera delle proprie feci, accoccolato, una sera,
sotto un melo... Questa consapevolezza, di certo, gli fece
salire il rossore al viso, spingendolo a chiedersi se doveva o
no rivelare all’umanità la sua scoperta, umiliante nella sua
essenza, nella quale sembrava di poter scorgere lo zampino
del diavolo in persona. Ma, sempre accoccolato sotto quel
melo della conoscenza, ripreso dalla sua stitichezza,
Newton immaginò la sua grande menzogna storica e
trasformò la sua merda in mela, e così l’umanità non
conobbe mai l’autentica verità e attribuì alla mela il merito
di questa scoperta, perché la mela aveva già il suo pedigree
che la faceva risalire all’Eden e il suo antefatto mitico con
la scelta di Paride, quindi non era sconosciuta, cosa che lui,
Newton, non ignorava di certo. Così, da allora, le mele
cadono secondo la nuova legge, la legge di Newton, mentre
la merda continua a scivolare nel più completo anonimato,
al di fuori della legge per così dire, quasi che le leggi
dell’attrazione terrestre e dell’accelerazione di 981 cm/s2
non la riguardassero!

24

Oh, lo sforzo doloroso del frenetico utero femminile che,


di mese in mese, per una quarantina d’anni, depone con
ostinazione e frenesia le sue uova come uno storione,
sempre disponibile a una nuova gestazione, pronto ad
accogliere ogni mese il seme della morte, a nutrirlo in seno,
a custodirlo in grembo!

25
Lo riconosco francamente: il mio cuore ha le
mestruazioni. Tardive e dolorose mestruazioni della mia
ebraicità... Il signore che vi vedete passare accanto,
spettabili dame e signori, quel signore sui cinquant'anni, in
vestito grigio, con occhiali dalla montatura metallica,
bastone e stella gialla (che però non vedete, perché la
nasconde sotto la sua cartella), quel signore, ecco, ha le
mestruazioni. Per favore! Signori giudici, il mio cuore ha le
mestruazioni. Deviazione biologica come incarnazione del
principio ebraico, femminile. Notizia sensazionale per i
giornali: un signore brizzolato ha i dolori mestruali! La cosa
più interessante è che si tratta di un uomo in perfetta
salute fisica (a parte un leggero raffreddore), di un uomo
nel quale non si è osservata la benché minima alterazione
della funzionalità ghiandolare e ormonale. Mestruazioni
maschili? No. Principio femminile portato alle estreme
conseguenze. Fiore mensile del cuore. Seme di morte.
Weltschmerz.

26

Se lei scrive del cuore sanguinante o se, più


semplicemente, il suo cuore ha le mestruazioni, l’inchiostro
deve diventare rosso, e qui non è questione dell’angolo con
cui la luce della lampada a petrolio cade sul suo
manoscritto. Poeticamente, sarebbe davvero
un’esagerazione infantile sottolineare questo fatto
pungendosi un polpastrello col pennino d’acciaio, come
quando l' infermiere le preleva del sangue.

27
Quanto a questa lettera (signora), il signore che gliel’ha
scritta (sappiamo che ciò suona assai strano) è in stato
interessante! L’analisi della sua orina lo mostra
chiaramente. E altrettanto chiaramente abbiamo compreso
dal referto medico che si tratta di un uomo. Questo è
quanto. Poiché lei ha detto che è suo fratello, gli consigli di
prepararsi. È gravido, signora. Porta dentro di sé il seme
della morte. Le mie condoglianze, cara signora.

28

Favola invernale pannonica. Ed ecco, cadeva una


pioggia di piume candide, come se in cielo stessero
spennando delle grasse oche di Pannonia. E tutti le
raccoglievano in sacchi di iuta: i commercianti ebrei e le
loro mogli, i commessi e le loro sorelle, i figli dei
commercianti ebrei e i figli dei commessi. Perché, quella
notte, Yehovah aveva loro sussurrato nel sonno che sarebbe
caduta una pioggia di bianche piume d'oca e che nessuno
all’infuori di loro, gli eletti, lo avrebbe saputo. E quando
ebbero riempito i loro sacchi, videro a un tratto che dal
cielo cominciava a cadere, volteggiando, in fiocchi
compatti, una lanugine finissima, ma essi non avevano più
nulla per raccoglierla, perché tutti i sacchi erano ormai
pieni, tutti i piumini, tutti i cuscini, tutte le pentole e tutti i
trogoli, tutti i berretti e tutti i cappelli. Avidi dei doni divini,
gettarono via allora, su consiglio di un vecchio saggio, tutto
quello che avevano raccolto fino a quel momento, e
cominciarono ad arraffare con accresciuto ardore quella
lanugine, simile a manna celeste: il prezzo della piuma
d’oca spennata era salito quell’anno di una moneta
d’argento al moggio. Il mattino dopo, quando ebbero
rinchiuso tutto nei loro depositi e vollero infine riposare,
alcuni andarono a esaminare il proprio tesoro per
accertarsi, alla luce del giorno, che non fosse stato tutto un
sogno. I sacchi e i piumini, i cuscini, le pentole e i trogoli, i
berretti e i cappelli, tutto era pieno di umida neve gelata.
Furibondi, andarono a cercare il vecchio saggio per
punirlo, per lapidarlo, ma il vecchio sembrava essersi
eclissato. Allora i più arditi e pii volsero lo sguardo al cielo
e sentirono la voce di Dio che diceva loro: Che questo vi
serva da lezione. Non chiedete al cielo più di quello che
esso può darvi. Quanto alla prima pioggia, vi dico, erano
davvero piume, ma voi le avete buttate al vento. Inseguitele
e le riprenderete...

29

Il cervello del signor Freud, il primario.1 Era un pezzo di


carne congelata, gelatinosa, assai ben conservata, come il
cervello d’agnello servito intero (a Vienna, nel 1930, nel
ristorante Danubius). La neve intorno, calpestata da
scarponi chiodati, pareva essersi un poco sciolta solo
accanto al cervello, sul quale si distinguevano chiaramente
le circonvoluzioni ondulate, come su un guscio di noce, e i
fili rossi dei capillari. Il cervello giaceva così nella neve,
all’angolo di via Miletić con via della Scuola Greca, e lo
sentii qualcuno dire a chi era appartenuto quel cervello, da
quale cranio proveniva. Il cervello del signor Freud, il
primario, giaceva quindi su un piccolo cerchio candido, fra
due solchi tracciati nella neve, intelligenza strappata alla
scatola cranica come un mollusco alla sua dura conchiglia
di smeraldo, massa di cervello palpitante, tremolante nella
neve come in un frigorifero, ma (sapendo a chi era
appartenuto) non come il cervello di un idiota messo in un
recipiente di vetro, bensì come quello di un genio,
conservato, custodito nell’incubatrice della natura, perché
in essa (in questa incubatrice), liberata dai ceppi del corpo,
possa svilupparsi la perla nera del pensiero, il pensiero
infine materializzato, cristallizzato.

30

La sigaretta mi si è consumata fino alle unghie, e io ho


visto disfarsi il molle verme della cenere grigiastra simile a)
a dentifricio spremuto dal tubetto, b) a un amento di
nocciolo che cominci a marcire, c) al fossile carbonizzato di
un verme. Lo sfaldamento improvviso del midollo spinale
della sigaretta si è prodotto di colpo, ai confini del sogno, ai
confini del movimento e del respiro, e non è del tutto chiaro
se la colonnina porosa della cenere si è frantumata, polvere
e cenere, nell’istante in cui mi sono riscosso di soprassalto,
destandomi dalla mia letargia e dalle mie stanche
fantasticherie, o se invece è accaduto il contrario, cioè che
io mi sono riscosso precipitando, dal mio dormiveglia
letargico, nel vortice frenetico e nell’intersezione di tutti i
pensieri, le immagini e i presentimenti, ai confini del sogno,
proprio nell’istante in cui la colonnina porosa della cenere
della mia sigaretta si infrangeva con un paf appena
percettibile, come d) sterco di piccione che cadesse sulla
membrana sottile del foglio di carta a quadretti che mi sta
davanti sul tavolo. In quell’istante fui pervaso dalla forte
sensazione di uno scorrere senza fine, come se quella
piccola colonna di cenere (ancora visibile come colonna,
anche se già frantumata e dissolta, colonna vertebrale
spezzata del tempo), quella colonna sgretolata del tempo,
rappresentasse lo scorrere in sé, l’immagine dolorosa e
nitida dello scorrere, come quello che l’uomo sente
(intuisce) quando si sposta la lancetta dell’orologio (sul
grande orologio elettrico della stazione ferroviaria di
Subotica, Novi Sad, Trieste, Budapest), dove lo
spostamento della lancetta non avviene in modo graduale e
impercettibile, ma bruscamente, con un suono sordo e un
colpo, come un sussulto, e la lancetta metallica continua a
vibrare ancora per qualche attimo in conseguenza dello
scatto improvviso, strappata anch’essa al suo sopore e alla
sua atemporalità, quasi che all’ultimo istante fosse tornata
in sé, o qualcuno l’avesse fatta tornare in sé, ridestandola,
scuotendola dalla sua quieta immobilità, un orologio al di
sopra degli orologi, il re degli orologi, una sveglia
inesorabile e severa, il dio-sveglia, Chronos-Yehovah, che
col battito ritmico del suo cuore, del suo polso, scuote e
ridesta e non permette al tempo di fermarsi.

31

Prolegomeni a ogni storia. Masse sporche e sudate dei


poveri della città, gli straccioni; folla confortata, riscaldata
dall’idea della giustizia divina e umana; scene patetiche di
madri che tengono in braccio bambini affamati, invocando
pane; fede in Dio, nella Bontà, nella Giustizia, nel Cielo;
grida di disperazione, di vendetta; oratori e provocatori che
si arrampicano su tribune improvvisate; pianto di bambini
che non capiscono nulla; spaventoso brusio della storia.
Ma che cosa accade nel frattempo dall’altra parte, extra
muros?
Attraverso le tende di felpa color rosso oro che
ondeggiano appena giunge il mormorio della folla affamata,
attraverso le invetriate e le tende, come attraverso un
foglio di carta assorbente, come dal fondo del mare, appena
udibile; tremolio di candele in enormi candelabri d’oro e
riflesso di queste candele in specchi veneziani, o nell’anta
spalancata di un armadio, o nelle superfìci brillanti dei
mobili. Solo il cane e i paggi, i cavalli e la servitù, sentono
distintamente la voce della folla, e hanno persino
l’impressione, paggi e domestici, di riconoscere la voce dei
propri simili, come rimprovero e come minaccia...
Ed ecco che dalla spuma dei suoi cuscini si leva la
Regina, mani candide e occhi colmi di meraviglia, perché
quel baccano le è del tutto sconosciuto ed estraneo, quindi,
appena appena turbata, si veste con l’aiuto delle sue dame,
pone sul viso una veletta nera trasparente e in testa un
cappello nero da cacciatore, perché è in lutto, chissà per
chi e perché, a meno che non si tratti soltanto di un
capriccio della moda - questo il popolo non lo sa, questo il
popolo non può saperlo. Ed ecco, nello splendore del suo
abbigliamento, «possente come esercito schierato a
battaglia», con le mani bianchissime cariche di anelli
regali, gli occhi azzurri come il lago nel parco della reggia,
con un ventaglio tra le dita sottili, un ventaglio sul quale è
raffigurata, come in uno specchio, una scena in cui la
regina, affacciandosi al balcone, saluta con la mano sinistra
il suo popolo adorato e adorante, tenendo nella destra un
ventaglio, e sull’altro lato (a diritto? a rovescio?), sul lato
che non si vede, che la gente non vede, e col quale essa
copre il suo petto regale, su questo lato del ventaglio, ora
spiegato come a) un mazzo di tarocchi [tarots de Marseille')
o come b) la coda di un uccello esotico o del pavone del suo
giardino, il poeta ha scritto un sonetto colmo di malinconia,
su questo lato del ventaglio -
gli occhi bisogna cavarle, a questa cagna, grida la
plebaglia inferocita -
e lei solleva la mano nivea per salutare il suo popolo
adorato e adorante (tuttavia), quando, laggiù, la folla
rimane un istante silenziosa e poi, in quel silenzio
improvviso, tuona la voce dei capi e dei demagoghi che
chiedono (non per sé, per il popolo) Pane e Giustizia, e la
Regina non capisce più niente, perché tutto è così contrario
alle buone maniere e al protocollo, quelle non sono più
grida di adorazione e di fedeltà, ma una strana rivolta.
Che vuole questa gente, che grida da stamane?
Pane, signora.
Pane? Oh, Elvira, forse non hanno pane?
No, signora!
Allora la Regina, senza metro e senza rime: Perché
allora non mangiano brioches, mia cara Elvira? Signore e
signori, perché non mangiano brioches? Così dicendo, le si
gonfia il petto, il suo petto regale a cui stringe il ventaglio
chiuso, che subito dopo si dispiega di colpo, sfarzoso e
ricco come la coda di un pavone o come se la Regina si
preparasse a giocare la sua carta migliore.

1. Noto medico di Novi Sad, assassinato dai fascisti ungheresi nei


massacri del gennaio 1942, nei quali perirono migliaia di ebrei e di serbi
della Vojvodina [N.d.T.].
PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (II)

32

Come sarebbe stata presentata sui giornali la notizia del


tragico destino dell’epistolografo che aveva respinto la
vergognosa offerta di macinare il suo grano senza
autorizzazione, e per di più nel mulino di un certo
Rosenberg?
Ieri, a Kerkabarabás, sono stati trovati morti nella loro
abitazione i membri della famiglia del signor E.S., ispettore
capo delle ferrovie in pensione. Secondo il rapporto della
polizia, basato sugli accertamenti medici, la morte risale a
cinque giorni fa. Cause del decesso: la fame e il freddo. Gli
sventurati - il padre (53 anni), la madre (40 anni) e due figli
(rispettivamente, 9 e 7 anni) - sono spirati dopo una lunga
agonia, a due passi dai loro facoltosi parenti: la famiglia
della vedova di Ignacij Boroska, commerciante del posto.
La signora Boroska ha dichiarato alla polizia di non essere
rimasta affatto sorpresa dalla morte della famiglia in
questione, perché lui, cioè il defunto E.S., non era
responsabile delle sue azioni. A sostegno della sua
affermazione, ha citato il fatto che il defunto E.S. aveva
rifiutato l’aiuto da loro offerto a condizioni davvero
favorevoli (sic!), cioè due quintali di grano al prezzo di soli
40 pengő al quintale metrico!
Compili il rapporto del processo intentato
all’epistolografo nell’ipotesi che egli avesse accettato
l’offerta rischiosa di macinare il suo grano senza
autorizzazione, e per di più nel mulino di un certo
Rosenberg, proprietario del mulino a vapore di Baksa.
Come ci informa il nostro corrispondente, in questi
giorni è comparso di fronte al tribunale speciale di
Subotica un gruppo di commercianti ebrei per rispondere
dei reati di frode fiscale, commercio illecito, corruzione e
profitti di guerra. L’accusato principale, signor E.S.,
ispettore capo delle ferrovie in pensione, ha confessato che,
d’intesa e per suggerimento del signor Gyula Boroska,
detto Georges, ha comprato grano da un contadino al
prezzo di strozzinaggio di 20 pengő al quintale metrico,
portando poi questo stesso grano al mulino a vapore di
proprietà del signor Rosenberg, il quale gli ha macinato il
grano senza autorizzazione, con il che gli accusati si sono
procurati un profitto materiale, a spese dei nostri bravi
contadini e della loro fatica.
Che cosa avrebbe detto la parte dell’articolo dedicata a
una certa signora Rebeka?
La signora Marija, precedentemente Rebeka - che
l’accusato principale chiamava Maria Antonietta - nipote
dell’accusato principale, ha dichiarato in tribunale di non
ritenersi responsabile della morte di suo zio e della sua
famiglia. Presentandosi con un cappello nero e una veletta
nera, e con in mano un ventaglio, la signora Rebeka non ha
potuto convincere né la corte né i giurati della sincerità del
suo dolore.

33
Che cosa si intravede in questa parte della minuta
scritta a matita?
L’effetto delle scosse del rapido della linea Lenti-Novi
Sad.
Che cosa rappresentano le fotografie dello
scompartimento di prima classe?
1. Sopra il suo posto: un paesaggio pannonico. La
pianura coperta di neve a perdita d’occhio, neri tratti di
campi arati che emergono qua e là dalla neve e, in primo
piano, nell’angolo inferiore destro, un albero spoglio e
nodoso sui cui rami si vedono appollaiati neri corvi
intirizziti. Di sbieco, quasi in diagonale, come fuori del
paesaggio, grossi fili telegrafici carichi di neve, forse sei o
sette, collegati ai pali sulla sinistra, proprio sul margine
della fotografia, dove vengono catturati dalla cornice di
legno, con bianchi isolatori a forma di pera. Questo primo
piano (i fili e gli isolatori bianchi di porcellana) è sfocato e
impreciso, gli oggetti sono quasi trasparenti, tanto che lo
sguardo inizialmente li trascura per concentrarsi tutto sul
grigio paesaggio invernale dello sfondo.
2. Di fronte al viaggiatore seduto sul sedile di felpa: il
panorama di una città con una cattedrale che si intravede
in lontananza, mentre in primo piano si scorge un argine
con rotaie e alcune baracche. Sullo sfondo, la pianura e un
mazzacavallo, lontano. Sulla sinistra, sempre in secondo
piano, degli scavi e qualcosa che somiglia a una fabbrica di
mattoni, e accanto un grande fiume pigro che attraversa
tutta la parte destra del quadro e si getta nell’angolo
inferiore destro, sotto la cornice di legno.
3. A sinistra del posto dove siede il viaggiatore, a
sinistra e dietro: in primo piano, il mare e un molo con un
faro; accanto al molo una barca da pesca ormeggiata a una
bitta di pietra, mentre dall’altro lato una barca uguale si
avvicina al molo e fende l’acqua disegnando un piccolo
arco. In secondo piano, dietro le palme, alcune casette con i
tetti di assicelle incurvate e, in lontananza, alte montagne
grigie lungo i cui fianchi serpeggia una strada stretta; al di
sopra di esse un cielo sereno con due o tre nuvolette. In un
punto a metà del molo, su una delle bitte, è seduto un
uomo, ripreso di spalle. È leggermente curvo e piegato in
avanti. In testa ha un cappello di paglia gettato sulla nuca e
tra le gambe divaricate un bastone, probabilmente una
canna da pesca.
4. A sinistra del posto dove siede il viaggiatore, a
sinistra e di fronte: di nuovo il panorama di una città con
una cattedrale. Forse sono la stessa città e la stessa
cattedrale che il viaggiatore ha di fronte, ma viste da
un’angolazione diversa. Ora la cattedrale è chiaramente
visibile, sulla parte destra del quadro, e così pure il
campanile e il rosone trinato sopra il portale a ogiva. Il
portale della cattedrale è aperto e sull’ingresso si intravede
una figura protetta dalla sua ombra. Non è possibile
affermare se sia un uomo o una donna. Le lancette
dell’orologio sopra l’alta finestra gotica segnano le tre.
Probabilmente le tre del pomeriggio. Le strade sono
deserte. Oltre la figura all’ombra del portale, sulla strada
c’è solo un uomo, probabilmente uno spazzino, perché ha in
mano qualcosa, forse la pala con cui ha sgombrato fino a
questo momento la neve che si vede ammassata accanto a
lui in un grande cumulo. Nel cielo scuro e torbido, una
nube nera incombe sugli edifici gotici chiaramente visibili
in secondo piano, con le loro finestre ogivali e le porte
chiuse, così come sono chiuse le imposte alle finestre. In
primo piano c’è una piazza e si intravedono alcuni piccioni
che beccano sulla neve. Sembra che non avvertano nessun
pericolo. Forse capiscono che il cane che si trascina dietro
a un carro carico di mobili non li prenderà nemmeno in
considerazione. Il carro passa davanti al portone chiuso
dell’edificio gotico. Sul carro sono seduti due uomini, uno
col cappello e l’altro con un berretto di pelliccia, di certo il
cocchiere. È difficile distinguere in che cosa consista il
carico. Si intravedono soltanto superfici incurvate. Gli
oggetti sono legati con una fune, ma non sono coperti. In
questo istante il carro si trova accanto a un monumento e
le teste dei cavalli sono completamente nascoste dal corpo
della statua dietro la quale stanno passando, diretti verso la
cattedrale, sulla sinistra. Il monumento si vede di sbieco.
Sul piedistallo di marmo si erge un uomo che spinge avanti
la gamba destra in un passo deciso, mentre il peso del
corpo poggia sulla gamba sinistra. Il braccio destro è levato
in un gesto patetico, l’indice puntato verso la sommità del
campanile o verso il cielo. Indossa un caffettano, o un lungo
cappotto, o un pastrano. La mantellina posata sul
caffettano svolazza in pieghe di bronzo che accompagnano
a ventaglio il movimento del braccio. Sidle spalle e sul
piedistallo biancheggiano chiazze di neve appena caduta. O
forse, all’angolo del piedistallo, accanto al piede del grande
personaggio, si è posato un piccione che, nella foto, si può
facilmente confondere con una macchia di neve. Da questa
parte della piazza, di scorcio, si intravedono, un po’
confusamente, dei pannelli pubblicitari sui quali si possono
leggere le scritte: Astra, Royal, Φοτο, e il resto si perde
nella nebbia.
Come si vede ora l’epistolografo, tornando indietro nel
tempo di una quindicina di giorni e nello spazio di un
duecento chilometri dal punto fisso in cui si trova adesso?
Impegnato a raccogliere con mani tremanti le sue carte
dal piccolo tavolo accanto al finestrino, in una vettura di
prima classe, posto numero 26, e a ficcarle nella cartella
tra una bottiglia di birra e i tramezzini all’aringa secca che
sua sorella Berta gli ha preparato, incartandoli prima in
carta da lettere a quadretti e poi in un giornale, e ad
armeggiare intorno alla cerniera d’ottone, senza riuscire a
chiuderla.
Chi gli stava davanti in quel momento?
Un giovane controllore biondo che gli aveva puntato
contro la sua pinza nichelata come un revolver, sul petto,
sulla stella.
Chi era presente alla scena, oltre il controllore e colui
che tentava (vedendo se stesso) di chiudere la cartella?
Una signora con cappello e veletta (circa trent’anni) che
stringeva a sé una bambina addormentata (circa tre anni)
quasi che nel treno, nello scompartimento di prima classe
di quel rapido, dovesse ora accadere qualcosa di orribile,
un delitto sanguinoso, come in un romanzo; un giovanotto
dai capelli neri impomatati (circa venticinque anni),
studente o spia, che da dietro la sua rivista illustrata
cercava di cogliere un pezzetto di bianco sotto il vestito
nero della dama in nero; un signore robusto (circa
cinquant’anni), molto probabilmente un borsaro nero, con
un orologio dalla catena d’oro, che in quell’istante stava
appunto osservando il suo orologio d’oro, a lungo, con
attenzione, come per farne una stima; un’anziana signora
(circa sessantanni) con un libro di preghiere dalla copertina
incrostata di madreperla; un ufficiale sonnacchioso (circa
trent’anni), con speroni risonanti.
A quale di queste persone E.S. aveva dedicato più
attenzione?
Alla Vedova dal volto velato.
Come era diventata vedova?
Suo marito era caduto sul fronte orientale. Mentre stava
facendo i suoi bisogni.
Come era redatta la comunicazione della morte di suo
marito, comunicazione che l’epistolografo componeva tra
sé e sé?
Con la presente La informiamo che il suo consorte,
capitano della riserva del glorioso Primo Reggimento degli
Ussari Ungheresi, ha dato eroicamente la vita per la Patria,
nell’adempimento del suo dovere più sacro.
Come accolse lei la notizia?
Scelse subito su una rivista femminile un vestito nero
all'ultima moda per la stagione autunno-inverno 1941-42
(grandi spalline, arricciatura in vita, un profondo spacco
davanti, lunghezza media: al polpaccio), assieme a una
combinazione nera con pizzo nero e, senza dubbio,
mutandine nere, pure orlate di pizzo, un cappello con
spillone, una veletta nera e guanti neri lunghi fino al
gomito.
Che cosa notò l’osservatore curioso?
Che la Dama Nera aveva messo sulle guance pallide un
po’ di rosso.
A che cosa poteva essere dovuto il fulgore degli occhi
della Vedova dal volto velato, se non al pianto e al lutto?
I suoi occhi si illuminavano all’idea di una possibile
prossima avventura che, anche se non fosse finita in un
felice matrimonio con un ricco pretendente, si sarebbe
potuta trasformare in una serie di sempre nuove relazioni
con giovani amanti che lei avrebbe potuto istruire
gratuitamente, ma con piacere reciproco, nelle arti
dell’amore.
Chi sospettò E.S. come primo possibile amante della
Dama Nera e quindi come primo presumibile rivale?
Il giovanotto dai capelli impomatati che sbirciava da
dietro la sua rivista illustrata, mostrando un vivo interesse
per le calze di seta (nera) di lei.
Quali notizie riuscì a leggere di sottecchi E.S. sul
giornale del giovanotto prima di lasciare lo scompartimento
di prima classe?
L’ambasciatore tedesco Jagow e consorte e il console
generale giapponese Okubo Tashitaka e consorte hanno
assistito alla parata
Quale fotografia?
Un uomo dalla barba bianca (circa quarant’anni), con un
berretto militare e una specie di pastrano, consegna una
icona a un giovane soldato (circa trent’anni) che sorride
contento sotto l’elmetto.
Che cosa è rappresentato sull’icona?
La Santissima Vergine e Gesù Bambino, circondati da
grandi aureole.
Qual era il corso dei suoi pensieri al momento di lasciare
lo scompartimento di prima classe? (Sincopi).
Tutto questo è banale. Lezione di anatomia femminile.
L’eterno élan vital. Alcol. Alcol! Oh, lo splendore di nero
tulipano. Non vorrà quel tanghero giocarle un brutto tiro?
Rosea la guancia, ardente quello sguardo. Dovrà certo
comprendere il mio cuore. Resterà vuota l’anima, quando
sarai partita. Addio, ah, addio. Oh, vita mia!
Che cosa fece E.S. prima di passare nel corridoio?
Gettò un rapido sguardo dal finestrino della prima
classe.
Che cosa vide?
La pianura coperta di neve a perdita d’occhio, neri tratti
di campi arati che emergevano qua e là dalla neve, un
albero spoglio e nodoso sui cui rami si vedevano appollaiati
neri corvi intirizziti.
Passato in seconda classe, che cosa percepì?
Dapprima odori.
Quali?
Di piedi sporchi, di galline bagnate, di pastrani militari,
di cuoio fradicio, di stoffa inzuppata, di scarpe imbevute
d’acqua, di cipolla, di tabacco forte, di sospiri d’intestini.
Chi vide?
Soldati, contadini, guardie di finanza, guardie forestali,
ferrovieri, commercianti, borsari neri.
Quali oggetti?
Uniformi, bauli di legno, ceste di vimini, fucili, baionette
(nei loro foderi), scarponi da soldato, mollettiere, cinghie,
pollame, carte, coltelli.
Quali colori?
Grigio sporco, verde oliva, giallo verdastro, rosso
stridente, bianco sporco, rosso ruggine, grigio ferro.
Che cosa gli rivelò subito che il suo arrivo era stato
notato?
Il coltello dalla lama ricurva di un contadino si bloccò a
mezza strada fra il lardo con paprica e i baffi unti.
Chi si mise a osservarlo con la più viva curiosità?
Un’oca il cui lungo collo spuntava da un cesto di vimini,
che lo guardò con i suoi occhi rossi, girando la testa ora da
un lato ora dall’altro.
Che cosa attirò lo sguardo di E.S. appena si fu seduto?
Un’enorme gamba di gesso che si dondolava dal
portabagagli di legno, a una distanza tra i cinque e i dieci
centimetri dal suo naso, e sulla quale erano disegnati a
matita copiativa ninfe, organi sessuali femminili e maschili,
croci uncinate e frecciate, nonché un cuore trafitto da una
freccia con sotto i nomi delle fanciulle amate.
Li citi.
Marica, Ana, Fanika, Ursula, Doroteja, Rozika, Gretchen,
Juliška, Pandora, Ilonka, Lili, Lulu, Hajnalka, Milena,
Gracia, Melanija, Piroška, Margita, Katica, Anita, Lana,
Helena, Romi, Ingrid, Kora, Bella, Jelisaveta, Tatjana.
Che cosa vide susseguirsi il passeggero, entrando in
stazione?
Il posto di manovra numero 2, un’officina di riparazione,
spiazzi di carico per il carbone, una piattaforma girevole, la
pompa per riempire i serbatoi, un magazzino, uffici,
l’edificio giallastro della stazione, ceste di fiori, il buffet.
Al momento in cui il treno entrò in stazione, stavano
riempiendo il serbatoio di qualche locomotiva?
No, ma dovevano averlo appena fatto, perché l’acqua
gocciolava ancora dalla pompa, il cui corpo di ghisa era
avvolto di paglia intrecciata sulla quale aderiva una sottile
pellicola di ghiaccio.
Che cosa ricordò questo al viaggiatore?
Gli ricordò, non senza tristezza, il rigore e la tetraggine
dell’inverno, e l’irraggiungibile bellezza di una estate
benedetta piena di sole.
Con quali versi espresse ciò?
Questo è un tempo triste
oltre ogni dire, signora!
A chi erano indirizzati questi versi?
Questi versi erano senza dubbio indirizzati alla Vedova
dal volto velato che in queiristante scendeva con le sue
gambe bianche e sode (fasciate dalle calze di seta nera) dal
predellino a grata della vettura di prima classe, un po’ più
avanti di lui.
Chi stava aspettando la Vedova dal volto velato?
Contrariamente alle sue malevole previsioni, la stava
aspettando una signora anziana, pure a lutto, e le due
donne caddero l’una nelle braccia dell’altra, senza dire
parola, stringendo in mezzo la bambina.
Chi stava aspettando E.S.?
Del suo arrivo non era stato informato nessuno.
Scorse tra i viaggiatori il soldato con la gamba
ingessata?
Per un istante gli parve di veder dondolare una gamba di
gesso in mezzo alla folla che si affrettava verso l’uscita.
Il nostro viaggiatore si trattenne al buffet della stazione?
No, perché già dal finestrino del treno aveva notato lo
sventolio sinistro delle penne di gallo sui cappelli neri dei
gendarmi e lo scintillio delle baionette sui loro fucili.
Ritenne perciò saggio allontanarsi al più presto dalla
pericolosa zona della stazione dove, oltre i gendarmi, aveva
visto anche una pattuglia di soldati con elmetti e armi, e
alcuni civili nei quali non aveva avuto difficoltà a
riconoscere agenti in borghese.
Come li aveva riconosciuti?
Grazie alla sua intuizione e alla sua esperienza, nonché
alla loro studiata disinvoltura.
Come erano vestiti gli agenti?
Indossavano lunghi cappotti invernali di gabardine
grigio topo, cappelli a larghe falde, paraorecchi neri,
robuste scarpe nere con doppia suola.
Gli chiesero i documenti?
All’uscita della stazione dovette mettersi in fila tra i
viaggiatori appena arrivati e mostrare la sua carta di
identità agli agenti.
Ebbe qualche problema?
Uno degli agenti lo esaminò attentamente, confrontando
il suo viso con la fotografia della carta di identità, che poi
gli restituì senza dir parola.
L’agente controllò pure la tessera per la riduzione
ferroviaria?
No, benché E.S. gliela tendesse, perché voleva fargli
vedere quale alto posto aveva occupato il suo titolare prima
del pensionamento: contava sullo stesso riguardo che gli
dimostravano un tempo gli impiegati delle ferrovie quando
mostrava loro questa stessa tessera.
Se per caso gli agenti avessero dato un’occhiata alla sua
cartella, che cosa vi avrebbero trovato?
Tre tramezzini all’aringa secca, incartati prima in carta
da lettere a quadretti e poi in un giornale unto; quattro
uova sode anch’esse avvolte in un giornale; una bottiglia
vuota di birra ormai; due camicie, una bianca e una ocra,
marca Kaiser; quattro colletti duri; quattro cravatte, marca
Breiner, color pastello, più una nera di mohair, marca
Rapajič; un blocco di fogli di carta a quadretti (cm. 29,3 X
20,8), in gran parte già scritti a matita; un fascicolo unto
della rivista « Selezione dei migliori articoli », numero 12,
annata 1941, edizioni bata; due paia di calze grigie, con
rammendi di tutti i colori; un fazzoletto di tela con l’orlo a
quadri, non usato; una borraccia vuota con un tappo-
bicchiere di celluloide; due pacchetti di sigarette
Symphonia, confezione da 25 pezzi; un asciugamano di
spugna rosa scolorito, gualcito e ancora umido; un pigiama
azzurro di cotone marca tivar, taglia 39; un pezzo di sapone
fatto in casa consumato, in un astuccio di celluloide; un
rasoio di sicurezza in ottone; due lamette da barba, marca
Tabula Rasa; un pennello dai peli logori; un tappo di
sughero che sapeva di vino; un paio di mollette di legno; un
bottone da camicia di latta.
34

Una volta fuori dell’edifìcio della stazione, dove si


diresse il viaggiatore?
Si affrettò verso le vetture di piazza, perché ne
rimanevano in tutto due, e la terza, col lampione laterale
acceso, simile a una enorme gondola nera, aveva appena
preso il largo, portando via dalla sua vita, forse per sempre,
nascosta sotto il mantice di cuoio nero, la Vedova dal volto
velato, la Madonna del wagon-lit, la Passante, l’origine
delle sue brevi fantasticherie, la Dama Bruna
shakespeariana, per la quale aveva composto in cuor suo
due o tre versi e che salutò cortesemente togliendosi il
cappello nell’istante in cui lei saliva nella vettura, cosa che
lei non notò o finse di non notare.
Dov’erano le vetture di piazza?
A sinistra dell’uscita della stazione, su uno spiazzo
delimitato da una parte da un muro e dall’altra da una
barra di ferro per i carrelli dei facchini, su questo spiazzo
coperto da grosse lastre di pietra, né macadam né vero
selciato, dove i ferri dei cavalli producevano scintille e la
loro orina schiumosa spumeggiava come birra, facendo
sciogliere di colpo i fiocchi di neve appena caduti e
riempiendo poi tutte le fessure tra le lastre di pietra, per
versarsi infine in uno stretto canale di scolo che portava
all’imboccatura quadrata di una fogna.
Quali sentimenti si agitavano in lui quando la vettura di
piazza si mosse?
Piacere, sollievo, preoccupazione.
Piacere?
Sì, perché nella vettura di piazza poteva abbandonarsi di
nuovo alle dolci fantasticherie sulla possibilità di un nuovo
incontro con una dama, forse la stessa, e perché la vettura
di piazza era, come lo scompartimento di prima classe, il
suo ambiente naturale e quindi vi si sentiva (nella vettura
di piazza) come a casa sua.
Sollievo?
Sì, perché la faccenda del controllo dei documenti si era
risolta senza problemi e questo gli dimostrava che il suo
slancio vitale e la sua intuizione non l’avevano tradito.
Preoccupazione?
Sì, perché la sua intuizione e la sua esperienza gli
dicevano che il passo successivo avrebbe dovuto essere
l’antitesi del precedente, dato che nella vita umana le cose
si svolgono in base alla legge del contrasto, e quindi al
flusso segue il riflusso, al successo la difficoltà, all’ascesa la
caduta e così via, solo che l’uomo non è sempre in grado,
nonostante il suo sapere empirico, di tracciare in anticipo
tale schema, l’ampiezza della curva dell’onda, altrimenti
potrebbe prevedere gli avvenimenti fin nei loro minimi
particolari.
Che cosa gli accadde durante il percorso?
Cullato dal suono cadenzato degli zoccoli dei cavalli, si
appisolò brevemente.
Che cosa sognò?
Che nuotava in un’acqua profonda, in un’oscurità totale,
ma consapevole ad ogni istante, nel sogno, di essere salvo,
come Noè, e che tutti coloro che erano con lui fino a pochi
secondi prima erano annegati e lui dunque era l’unico
sopravvissuto al disastro, cosa che lo riempì nel sogno di un
sentimento di torbido orgoglio, perché il fatto di essere
stato l’unico a salvarsi non era dovuto solo alla grazia
divina ma anche al proprio merito, alla propria abilità a
trarsi d’impaccio nelle situazioni difficili della vita.
Quando si svegliò?
Nell’istante in cui il suo battello del sogno, la sua arca,
urtò contro la terraferma e cominciò a vibrare; ma non
riuscì a scorgere il nuovo continente, perché la vettura di
piazza aveva girato in via Germania (attualmente via Bem).
Quanto diede di mancia al cocchiere?
E.S. arrotondò i tre pengò e venti fìllér richiesti dal
cocchiere a quattro, perché metteva in rapporto il fatto
miracoloso di essersi salvato (in sogno) col felice arrivo (da
sveglio) alla sua prima tappa.
Quale decisione prese davanti al numero 21 di via Bem
(già via Germania)?
Cambiò di colpo la sua decisione precedente e disse al
cocchiere di aspettarlo, perché sarebbe tornato subito.
Che cosa determinò questo ripensamento improvviso?
La decisione repentina di non passare dalla sua padrona
di casa (la signora Mészàros) fu dovuta probabilmente al
ritardo prodottosi alla stazione e alla consapevolezza che
era troppo tardi per una visita.
Che cosa doveva fare in via Germania (Bem)?
Intendeva saldare i suoi debiti (due mesi di affitto) e
convincere la padrona di casa ad aspettare a buttare la sua
roba sulla strada fino a due giorni dopo, quando avrebbe
traslocato definitivamente.
Scese comunque dalla carrozza-arca?
Rialzandosi, a causa del vento, il bavero del cappotto, si
lasciò cadere pesantemente sul predellino della vettura di
piazza che scricchiolò, poi andò alla finestra del suo
appartamento di un tempo. Poiché la finestra era rivestita
dall’interno di carta da imballaggio, non riuscì a vedere
proprio niente, né ad accertarsi che le sue cose fossero
ancora là.
Quanto si trattenne accanto alla finestra?
Un minuto o due. Poi tornò rapidamente alla vettura di
piazza e proseguì: viale della Stazione 8.
Come lo accolse il signor Gavanski?
Il signor Gavanski lo osservò per un certo tempo
attraverso lo spioncino, senza parole, come se non credesse
ai propri occhi, poi, respirando con affanno, si infilò la
vestaglia.
Che cosa fecero poi l’ospite inatteso e il padrone di
casa?
Dopo essersi stretta la mano con molta cordialità e aver
scambiato parole affettuose già nell’ingresso, si
affrettarono, su proposta dell’ospite, ad ascoltare le notizie
delle 20, ora di Greenwich.
A che cosa pensava l’ospite mentre, riscaldato da un
buon bicchiere di vino, sviluppava la sua spettacolosa
difesa olandese (1. Cf3, f5; 2. g3, Cf6, ecc.)?
A come una volta aveva incontrato suo fratello,
rivedendolo (nel 1937) dopo una ventina d’anni, e a come,
avendo esaurito in nemmeno dieci minuti tutti gli
argomenti di conversazione, erano rimasti a lungo zitti, per
mettersi infine a giocare a scacchi, rompendo così il
silenzio sgradevole e penoso seguito alla loro breve
conversazione.
Di che cosa si lamentarono il padrone di casa con
l’ospite e l’ospite col padrone di casa?
Il padrone di casa si lamentò di sua figlia, che aveva
intenzione di sposare un avventuriero, della gastrite
sempre più tormentosa, dei dolori alle reni, della sua asma,
della sua miopia sempre più accentuata, del suo continuo
mal di denti, dell’insonnia che cercava di vincere bevendo
o, se non aveva nulla da bere, prendendo pillole e aspirina,
della sua calvizie, della perdita della virilità, della perdita
della memoria, della sua claustrofobia, della sua paura del
cancro, della sua ingordigia e del suo desiderio infantile di
dolci; l’ospite ammise di condividere con lui la maggior
parte dei suoi guai (dolori alle reni, miopia sempre più
accentuata, insonnia che non sapeva come mitigare,
claustrofobia), aggiungendo di suo i seguenti: paura della
notte, paura dell’indomani, paura delle persone in
uniforme, paura della vecchiaia e dell’impotenza, paura dei
cani (cinofobia), paura di Dio, paura della morte, paura
dell’inferno.
L’ospite nascose qualcosa al padrone di casa?
In considerazione della sua provata tolleranza religiosa,
non disse che lo avevano cacciato dallo scompartimento di
prima classe, non disse nulla dell’incontro galante con la
compagna di viaggio, probabilmente vedova di guerra, che
fino a quell’istante (quando l’avevano pregato di voler
lasciare lo scompartimento di prima classe) era seduta
davanti a lui, tanto che aveva potuto per un attimo
intravedere la carne bianca e soda delle sue cosce oltre
l’orlo delle calze di seta nera e alla quale aveva più tardi
dedicato due o tre versi, per salutarla infine cortesemente,
in occasione del loro ultimo incontro, con un gesto
significativo e inequivocabile: togliendosi il cappello.
E il padrone di casa nascose qualcosa al suo ospite?
Che l’avventuriero che ronzava attorno a sua figlia, pur
avendo il cognome autenticamente ungherese di Fekete e
facendo il commesso viaggiatore, era il figlio di una certa
Rachel.
Quali conoscenti comuni ricordarono?
Il signor Dragutin Floriani, giudice supplente, che,, in
una gara in simultanea a nove tavoli nel 1924, vinse il
celebre Otto Titusz Bláthy di Budapest; il signor Richard
Engel, commerciante, che soffriva di claustrofobia e che nel
1938 si buttò sotto le ruote di un treno, lasciando una
giovane vedova e due figlie; il signor Tihomir Petrović, funz.
min. Fin., che tornò da Parigi intorno al
millenovecentoventi con una folta capigliatura nera,
affermando di aver riacquistato, grazie a una cura
ormonale, non solo i capelli perduti ma anche la virilità; il
signor Andrian Fehér, detto Fedja, impiccatosi due anni
prima a causa di emicranie insopportabili; il signor Maxim
Freud, primario, fucilato il 24 gennaio 1942, il cui cervello,
fuoriuscito dal cranio, rimase un giorno intero nella neve
disciolta all’angolo di via Miletić con via della Scuola
Greca; un certo Sándor (cognome sconosciuto), che poteva
bere d’un fiato tre litri di vino rosso; il signor Jovan Gondja,
becchino, ucciso nel cimitero insieme con la moglie e il
figlio; l’accalappiacani comunale Helmár Béla, col quale
avevano bevuto più volte alla Porta Cattolica, dalla signora
Weinhebbel, e che di recente tagliò in due una donna,
gettandola poi nel Danubio; il commerciante A. Ziegler, che
rimase paralizzalo; il signor Béla Sternberg, ispettore capo
delle ferrovie, che nel dicembre del 1941 si buttò sotto un
treno merci all’ingresso di una galleria, lasciando scritto
nella sua lettera d’addio di essersi deciso a tale passo a
causa del «caos generale»; il signor Miksa Kohn,
commerciante all’ingrosso, che fu fucilato con tutta la sua
famiglia (moglie e tre bambini); il signor Žarko Uzelac,
fornaio, a cui strapparono i baffi e tagliarono le orecchie,
ma che sopravvisse; il signor Paja Schwarz, « letto Herz
Schwarz, a cui fracassarono la testa con una scure e che
poi gettarono nel Danubio, sotto il ghiaccio; la signora
König, maestra, che alcuni soldati ungheresi violentarono e
poi uccisero con le baionette; il signor Scheinberger, detto
Sanyi, che in un attacco di follia si tirò una palla in bocca
col fucile da caccia; il signor Djordje Stanković, tipografo,
che era scomparso l’anno prima in maniera misteriosa,
dopo essere uscito di casa per andare a comprare della
birra dal droghiere Ziegler; il signor Dezsó' Guttmann,
ingegnere, che tre anni prima aveva tirato il segnale
d’allarme sul rapido Novi Sad-Budapest, col pretesto che il
vento gli aveva portato via un fazzoletto di seta, caro
ricordo; la signora Fischer, vedova, che per lo spavento
subito si ammalò di diabete e di una grave forma di
insonnia; il signor Anton Buarov, guardia di finanza, che per
ragioni misteriose finì al manicomio; il signor Gyula Berecz,
notaio, che si sposò cinque volte, di cui quattro con vedove;
il signor Aladár Sichermann, scrivano, che si gettò in un
pozzo quando vennero a prenderlo per accompagnarlo in
chiesa a sposarsi; il signor Marko Kapamadžija, sarto, che
perì in casa sua, con i sei membri della sua famiglia,
mentre costruiva bombe artigianali; il signor Žarko
Blagotić, medico, che si gettò dalla finestra del carcere
preventivo; il signor Josip Kostić, magazziniere alla
stazione, che scriveva poesie in decasillabi sull’imminente
fine del mondo; il signor Adolf Singer, medico, a cui in
prigione tagliarono una gamba da sveglio; il signor Márton
Böszörményi, che si tirò una palla di pistola in testa; il
signor Ârpâd Kertel, avvocato, che, durante la formazione
di un convoglio, si gettò da una chiatta arroventata dal sole
nel Begej, annegandosi; il signor Bulat, ingegnere e
illusionista, che all’ingresso della stazione, anziché il
lasciapassare, esibì la sua pagella di terza elementare,
l’unica cosa che aveva potuto trovare nella sua casa
saccheggiata, e che, grazie a certe sue arti psichiche, riuscì
a trasferirsi, con questa stessa pagella, fino in America, da
dove diede notizie di sé ai suoi parenti di Novi Sad; il
signor Dezsó Balint, giudice titolare, al quale, a causa di
certi disturbi ormonali, cominciò a crescere il seno; il
signor Filip Uhlmann, oculista, che di recente aveva
lasciato la famiglia e si era trasferito in un canile
abbandonato, convinto di essere un cane idrofobo; il signor
Adam Mandi, ufficiale, che si aprì il ventre con la sciabola,
nel tentativo di fare harakiri, senza però riuscirvi, perché
morì di infezione; il signor Ivan Popov, caffettiere, al quale
la moglie in un accesso di pazzia servì un pollo non
spennato, dopo avergli solo cavato gli occhi con un ferro da
calza, e lui, per la paura, cominciò a mangiarlo con tutte le
penne e si soffocò; il signor Dezsó Bleier, che perse la
favella dopo una scena a cui assisté tra le sette e le nove
del mattino, il 12 gennaio 1942; il signor Marko Mudrinski,
fisioterapista, che cominciò a iniettarsi droghe; la signorina
Hollós, cassiera, che aveva sposato un ebreo per amore, sei
mesi prima; il signor Vladeta Markovič, geografo, che era
bigamo, cosa che fu scoperta solo di recente, in occasione
di un controllo di documenti: aveva una moglie a Bečej e
un’altra a Subotica; la vedova Horgós, fornata, che si era
risposata (per la terza volta) due mesi prima, con un
sottufficiale ungherese; il signor János Kovács, che faceva il
bagno tutti gli anni nel Danubio gelato, forando il ghiaccio
presso la palizzata verde che circonda lo stabilimento
balneare, e che era morto quell’anno in un incidente
automobilistico; il signor Karlo Stajner di Zagabria, che
scomparve in U.R.S.S. nel 1937 senza lasciar traccia di sé;
il signor Živan l’avkov, calzolaio, che ricevette una favolosa
fortuna dall’America tre giorni dopo essere morto,
semicieco e in miseria; il signor Andrija Läufer, impiegato,
che per amore si convertì alla religione musulmana; il
signor Márton Fuchs, che morì per una puntura d’ape; il
conte M.L. Poltarackij, col quale avevano giocato in più
occasioni a chemin de fer e che, come si poteva leggere in
quei giorni sulla stampa, era morto a New York di una
dolce morte; il signor Djordje Ivković, tipografo, per il
quale avevano lavorato tutti e due negli anni 1936, 1937 e
1938, e di cui negli ultimi due anni non si era saputo nulla;
il signor Jovan Sengili, pellicciaio a Bečej, che sapeva
curare l’asma con erbe medicinali; il dottor Komáromi di
Budapest, che curava tutte le malattie con l’agopuntura; il
dottor Šafarìk, che sapeva curare le ernie e operava alla
prostata; il signor Osip Nezmečić, arrotino, che si fece
pope; il signor Popovič, droghiere, che ebbe tre gemelli
(due maschi e una femmina); il signor Lujo Letringer,
fabbro, che diventò pilota e alla vigilia della guerra gettava
volantini sopra la propria casa, eseguendo pericolosi
looping; il signor Emil Tumpić, ragioniere, che si credeva
un alto ufficiale tedesco e si era cucito i gradi sul cappotto;
il signor Aleksandar Vukčević, professore di storia, che era
al terzo stadio della sifilide; il signor Arnold Wenzel,
impiegato al Lloyd danubiano, sposatosi nel 1928 con una
contessa russa che più tardi picchiava in pubblico; il signor
Johan Krohn, capocameriere, che era un genio matematico
capace di elevare alla decima potenza numeri di più cifre e
che finì come artista di circo; il signor David Baumann, che
nel 1937 tornò dal Canada « per le cattive condizioni
climatiche di quel paese »; la signorina Darinka Mrazovac,
cameriera, che avevano corteggiato entrambi con
insistenza verso il 1925 e che ultimamente era fuggita con
un avventuriero, abbandonando quattro bambini e il marito
malato (paralizzato), professore in pensione; la signorina
Julijana Farkas, impiegata della Compagnia di
assicurazione e riassicurazione, da cui avevano preso tutti
e due lo scolo nel 1920; la signorina Magdalena Ivanovič,
parrucchiera, che nel 1939 abortì al ballo di Capodanno dei
ferrovieri; la signorina Mariska Kenyeres, prostituta,
originaria di Pečuj, che si avvelenò nel 1922 con la soda
caustica, due giorni dopo aver sposato un riccone; il signor
Mosha Altarac, che nel 1934 si trasferì in America e
diventò comproprietario di una fabbrica di soda; il signor
Albert Einstein, genero di Marié che, nonostante la sua
stravaganza, diventò un celebre scienziato; il signor
Simonovié, Stanislav, scambista, che rimase contuso in un
incidente; il signor Ilija Marinković, casellante, colpito da
delirium tremens due anni prima; il signor Mârton Barabás,
ex allenatore di calcio, che alla nascita di suo figlio smise di
tartagliare.
Con quale pretesto l’ospite rifiutò la cena che gli veniva
offerta?
Col pretesto che lui, come l’asino di Nasr ed-Din, si era
abituato a digiunare, con la differenza però che a lui non
sarebbe capitata la stessa cosa che capitò all’asino, cioè di
crepare, perché aveva nel proprio organismo grandi riserve
di energia che di tanto in tanto completava in forma di
alcol.
In che direzione questo commento dell’ospite orientò la
discussione?
Verso argomenti superiori, celesti: il padrone di casa
espresse la sua meraviglia di fronte alla perfezione degli
organismi viventi, e soprattutto dell’uomo, che il Creatore
realizzò secondo un concetto superiore, come strutture
pratiche, perfette e funzionali.
Con quale esempio illustrò la propria tesi?
Con l’esempio del cammello che reca nel suo corpo,
come in un serbatoio, una grande quantità di liquido, tanto
che a volte i viaggiatori assetati nel deserto uccidono i
propri cammelli perché nel loro stomaco così complicato si
trovano diversi galloni di acqua fresca.
L’ospite prese per buona questa informazione?
D’accordo in sostanza con la tesi del padrone di casa
sulla funzionalità introdotta dal Creatore nella struttura del
mondo e degli organismi viventi, contestò decisamente la
storia del cammello, citando, da « Selezione », la
testimonianza del dottor Brehm che, durante un suo
viaggio di studio in Egitto, aveva ordinato di aprire lo
stomaco di un cammello e non vi aveva trovato alcun
liquido che si potesse bere, benché l’animale avesse
ingurgitato il giorno prima una grande quantità di acqua
fresca.
Quale fu, alla fine della sesta partita a scacchi, l’ultimo
risultato del loro torneo-maratona che durava orinai da tre
anni?
Secondo l’ospite, 85 1/2 a 62 1/2; secondo il padrone di
casa, 85 1/2 a 79 1/2 sempre in favore dell’ospite.
Con quali prove l’ospite e il padrone di casa
suffragavano le loro affermazioni antitetiche?
Il padrone di casa si richiamava al suo taccuino unto e
bisunto nel quale aveva scritto i risultati di tutte le partite
giocate, mentre l’ospite si richiamava alla sua memoria
fenomenale.
Quali temi politici furono discussi dall’ospite e dal
padrone di casa, sottovoce, accanto a una bottiglia di
riesling del Banato?
La potenza economica dell’Unione Sovietica, con
particolare riguardo alla sua industria pesante, alla
elettrificazione, all’armamento, al petrolio e ai trasporti;
l’importanza strategica delle frontiere russe; la potenza
economica e il potenziale militare degli Stati Uniti; il
fanatismo giapponese, con particolare riguardo al principe
Konoye; Daladier e Gamelin; i metodi di guerra tedeschi; il
problema dell’antisemitismo e della discriminazione
razziale alla luce degli ultimi avvenimenti politici; la
responsabilità del governo ungherese e del cavaliere
Grassy nel massacro di Novi Sad; la disfatta della Francia
con particolare riguardo alla linea Maginot e il suo ruolo
nelle due guerre; il trattato di pace finnosovietico; la
battaglia di Narvik; Chamberlain e Churchill; l’evacuazione
degli alleati a Dunkerque; i rapporti tra Italia e Francia alla
luce della nuova situazione; la capitolazione degli italiani in
Etiopia; Antonescu e il suo governo; la fuga del governo
jugoslavo e del re, e la questione delle riserve auree;
l’intesa tra il governo polacco in esilio e il governo
sovietico; le forze britanniche in Libia; la Carta atlantica;
l’invasione dell’Olanda; l’invasione italotedesca in Libia; la
capitolazione di Singapore; lo sbarco delle truppe
americane in Irlanda del Nord; la guerriglia in Jugoslavia; i
partigiani e i četnici; lo Stato Indipendente di Croazia;
Singapore e la ritirata dei britannici.
A quali considerazioni pessimistiche si lasciò andare
l’ospite?
Espresse il timore che l’Unione Sovietica, una volta
riportata la vittoria, sarebbe entrata in guerra con gli Stati
Uniti; che l’Oriente si sarebbe rivolto contro le istituzioni
democratiche dell’Occidente; che un’arma segreta tedesca
avrebbe prolungato la guerra di una decina d’anni; che i
paesi vincitori avrebbero a loro volta assoggettato e
sfruttato gli altri popoli; che la stupidità umana non
sarebbe mai venuta meno; che le ingiustizie e i massacri
sarebbero continuati all’infinito; che, dopo la guerra, un
brusco incremento demografico avrebbe minacciato il
genere umano; che nuove sètte e nuovi partiti avrebbero
messo in pericolo gli Stati rimasti democratici; che il
fanatismo religioso e politico dopo la guerra avrebbe fatto
nuove vittime; che gli uomini della sua generazione (quelli
sopravvissuti) sarebbero apparsi, nel mondo nuovo, come
fossili di una storia lontana, antidiluviana.
Quali argomenti cercò di opporre il padrone di casa a
questa esposizione eloquente e a tratti persuasiva?
Il Progresso, l’Evoluzione, la Democrazia, l’Umanesimo.
Quali personaggi citarono, a sostegno delle proprie tesi,
l’ospite e il padrone di casa?
L’ospite: Spinoza, Churchill, Fritz Sternberg, Bruce
Bliven, Nostradamus, Einstein, Mosè, David, l’Ecclesiaste,
il defunto M. L. Poltarackij, Adolf Singer, Osip Nezmečić e
la sua defunta madre Regina; il padrone di casa: Paolo,
Giacomo e Giovanni, Vladimir Il’ič, Churchill, Daladier, il
dottor Slobodan Jovanovič, il re Pietro I, Vasa Pelagic,
Svetozar Miletič, il suo defunto patrigno, la sua consorte,
nonché il capitano della riserva, signor Marinkovič.
Quali ricette si scambiarono il padrone di casa e
l’ospite?
L’ospite confidò al padrone di casa una ricetta per la
preparazione della zuppa di acetosa e ortica con o senza
margarina, e il padrone di casa confidò all’ospite una
formula prodigiosa per ricavare una bevanda alcolica dalle
patate, utilizzando mezzi artigianali.
Come procedette l’uno e come l’altro?
Il padrone di casa scrisse la ricetta sul suo taccuino unto
e bisunto e l’ospite fece di nuovo appello alla sua memoria,
osservando ironicamente che per il padrone di casa il
grasso non era davvero un genere alimentare così raro
come credeva perché, in caso di bisogno, poteva mettere in
padella quel suo zibaldone ed estrarne tanta sostanza
grassa da bastare per un pasto, e in questo modo avrebbe
avuto anche il vantaggio di bruciare i suoi risultati delle
partite di scacchi, così lontani dalla realtà.
Come reagì il padrone di casa a questa osservazione?
Propose al suo rivale negli scacchi di annullare i risultati
del torneo in corso (ormai da tre anni) e di ricominciare
tutto daccapo; da zero.
Quali consigli medici si scambiarono il padrone di casa e
l’ospite?
Il padrone di casa raccomandò all’ospite la genziana
gialla (un bicchierino a stomaco vuoto) per migliorare la
circolazione del sangue e stimolare l’appetito, e l’infuso di
melissa contro la nausea e il vomito; l’ospite raccomandò al
padrone di casa impacchi di acqua vegeto-minerale per i
gonfiori alle gambe e tisane contro la calcificazione dei vasi
sanguigni e contro la pressione alta: fiore di biancospino
(Crataegus monogyna), aglio, equiseto (Equisetum) e
vischio (Viscum album): una tazza la mattina e una la sera
prima dei pasti.
A che ora si separarono il padrone di casa e l’ospite?
Alle tre e venti, ora dell’Europa centrale.
L’ospite accettò l’offerta di rimanere a dormire?
Quando il padrone di casa gli fece presente che il
coprifuoco era già cominciato e che sarebbe durato fino
alle sei del mattino, l’ospite accettò con riconoscenza
l’offerta e di lì a poco si sprofondò nei morbidi cuscini del
sofà nella stanza che dava sull’argine della ferrovia.
Che cosa gli favoriva il sonno?
Oltre il vino che scorreva nelle sue vene, riscaldandogli
il sangue e stimolandogli il cervello, era cullato dal sibilo
del vento, dal battito di una sveglia in una delle stanze
vicine, dal rumore ritmato delle ruote dei treni e dal fischio
delle locomotive.
Che cosa gli impediva di prendere sonno?
I piedi gelati che cercava di riscaldare sfregandoli l’uno
contro l’altro.
Dimenticò di recitare la preghiera di ringraziamento a
Yehovah?
Prima di abbandonarsi al sonno, rivolse il proprio viso al
Suo Viso e pronunciò sottovoce alcune preghiere con le
labbra inaridite.
Che cosa gli impediva di dedicarsi completamente a Dio?
Il pensiero di aver dimenticato di chiedere al padrone di
casa di lasciargli sul comodino una bottiglia d’acqua,
perché senza dubbio la sete avrebbe cominciato ben presto
a tormentarlo.
Che cosa non dimenticò di fare?
Di ricaricare l’orologio.
Che cosa dimenticò di fare?
Di orinare nuovamente, perché da quando l’aveva latto
l’ultima volta a quando si era messo a letto erano passati
quindici minuti buoni, impiegati in azioni secondarie come
lavarsi i denti, cercare gli occhiali, spogliarsi, infilarsi il
pigiama, ecc.
Dove finì sulle leggere ali del sogno?
Come se le avesse confuse con le ali d’angelo incise sul
coperchio del suo orologio, che si dispiegavano ai due lati
dell’asse della pesante ruota di ferro (simbolo delle
ferrovie), si ritrovò all’improvviso in una stazioncina non
identificata, simile a quelle di Šid, Mala Krsna, Lenti o
Ramerai Moravice, benché non fosse nessuna di queste.
Qual era la sua preoccupazione maggiore?
Come svuotare la vescica.
Che cosa gli impediva di farlo?
La folla eccezionalmente grande per una così piccola
stazione, composta per lo più di soldati e di zingari che si
accalcavano tutti insieme intorno al gabinetto, alla cui
porta sgangherata riuscì ad arrivare solo facendosi largo a
fatica.
Quale spettacolo si offrì allora al suo sguardo?
La latrina era piena di escrementi e dalla cloaca a forma
di imbuto traboccava una melma maleodorante che copriva
tutto il ripiano di cemento con un liquame denso e
nauseabondo, mentre i muri, il cui intonaco cadeva a pezzi,
erano imbrattati di ditate di escrementi. A quella vista,
rinunciò al suo proposito di svuotare la vescica e fece il
percorso a ritroso aprendosi un varco tra la folla che
puzzava di sudore.
Che cosa gli impediva di orinare contro lo steccato
imbiancato a calce dietro la stazione?
Un uomo il cui viso non poteva distinguere chiaramente
nell’oscurità, ma di cui vedeva bene i denti scoperti: l’uomo
rideva.
Aveva già visto quell’uomo da qualche parte?
Quell’uomo, a giudicare dai suoi denti di un bianco
splendente e dalla sua pelle scura, era lo stesso che prima
aveva violentemente protestato perché qualcuno gli aveva
chiesto di pagare per entrare nel gabinetto.
Mentre il suo essere fantomatico rimaneva così indeciso,
quale cambiamento si verificò nella stazione?
Al suono soffocato di pifferi, timpani, violini e tamburi, la
folla chiassosa si era precipitata nella stazione per riunirsi
poi sullo spiazzo dietro l’edificio, senza che lui, E.S.,
riuscisse, con sua grande meraviglia, a capire che cosa
fosse accaduto: un treno era entrato in stazione senza
rumore, come un fantasma.
Osservando il corteo disporsi in circolo, che cosa cercò
di capire il sognatore?
Che stazione fosse quella, che treno, dove, quando e
perché, ma a nessuna di queste domande potè dare una
risposta. L’unico a notare la sua agitazione fu l’uomo dalla
pelle scura e dai denti di un bianco splendente che lo
osservava con un sorriso malvagio.
Che cosa fece allora l’osservatore osservato?
Si avvicinò alla folla ed esaminò una barella che era
posta in mezzo al cerchio, in un tratto sgombro, dietro
l’edificio in pietra della stazioncina: sulla barella era
disteso un giovane soldato, mortalmente pallido e con gli
occhi chiusi, e la folla si muoveva come in pellegrinaggio
attorno a quel corpo senza vita, in una sorta di girotondo
rituale.
Che cos’altro si poteva ancora osservare?
Che timpani e tamburi tacevano: adesso regnava un
silenzio di tomba.
Che cosa accadde poi?
Il giovanotto si raddrizzò di colpo e si mise in piedi, poi
barcollò come sul punto di cadere per terra.
Dopo il momento di costernazione generale e il grido di
sgomento che risuonò tutt’intorno, che cosa accadde?
Quattro uomini robusti in lunghi impermeabili e con
cappelli calcati sulla fronte si avvicinarono al giovanotto e
cercarono di farlo distendere sulla barella, ma non vi
riuscirono perché il giovanotto li respinse uno dopo l’altro
facendoli cadere in mezzo all’erba, e riprese poi ad
avanzare con passo incerto, come un bambino.
A chi si avvicinò il risorto col suo passo esitante?
La gente si scostò al suo passaggio e lui si fece largo tra
la folla, venendosi infine a trovare faccia a faccia con E.S.
Che cosa gli disse il risorto, con una voce muffita e
fioca?
Lo pregò di fare qualcosa perché ci si opponesse infine a
quell'umiliante e doloroso commercio di ossa umane,
giacché lui personalmente non aveva nulla contro il fatto
che lo uccidessero, ma considerava cosa estremamente
inumana comportarsi con gli uomini come ci si stava
comportando con loro: togliere loro le ossa e lasciare il
corpo vuoto, sfilandole da esso (il corpo) come da un sacco;
e a riprova indicò un fatto evidente: la sua andatura non
era solo vacillante ma anche fantomatica. Lui era una
vittima dei ladri di ossa.
Che cos’altro gli confidò la vittima mutilata dei ladri di
ossa?
Che la sua temperatura variava fortemente nel corso
della giornata, da meno cinquantasei gradi Celsius a più
mille e cento (sic!), cosa che procurava al suo giovane
corpo dolori terribili, e perciò pregava E.S. di intervenire in
suo favore e in favore degli sventurati come lui, rivelando
al mondo tutta l’orribile verità sull’organizzazione
internazionale dei ladri di ossa.
Che cosa accadde nel frattempo?
Gli agenti in borghese e i medici-ladri di ossa (in camici
bianchi e con grandi siringhe) riuscirono a sopraffare due
nuovi feriti che si erano alzati dalle loro barelle e ora, dopo
averveli legati con delle corde, li caricavano sul treno.
Quale preziosa testimonianza fornì il primo risorto?
Che i ladri di ossa erano riusciti a sopraffare quei due
solo perché in quel momento la loro temperatura era scesa
a meno 56° C, ma se fosse stata uguale alla sua di ora (più
mille e cento gradi Celsius), gli agenti e i medici non ci
sarebbero riusciti, come non potevano riuscirci con lui,
cosa che purtroppo non sarebbe durata a lungo, perché
anche a lui adesso (verso sera) la temperatura sarebbe
scesa di colpo e tra qualche minuto avrebbe toccato il
punto più basso: meno cinquantasei, e lui avrebbe dovuto
tornare nella sua barella.
Che cosa fece alla fine (prima che la sua temperatura
scendesse) il giovanotto?
Baciò E.S. sulla guancia e questi sentì qualcuno tra la
folla dire che era il Bacio della Morte.
Chi risparmiò a E.S. un tremito umiliante?
Una signora in nero che respinse il giovane moribondo
e, in luogo di spiegazioni, attirò a sé E.S. teneramente e
appassionatamente, premendo le proprie labbra ardenti
contro le sue, e poi diresse la propria mano sul davanti dei
suoi pantaloni dove, passando abilmente tra i bottoni,
trasse fuori il suo membro gonfio e bollente.
Chi apparve subito dopo nel ruolo di salvatrice e
consolatrice?
Non era più la Dama Nera, ma una ragazza in grembiule
nero da scolara che gli sussurrò porcherie, tenendo sempre
tra le sue dita frementi il membro bollente.
Perché non si arrivò all’eiaculazione, nonostante la forte
eccitazione?
Perché la folla non si limitava a guardarli con sdegno,
ma lanciava loro rimproveri minacciosi, sicché lui dovette
scostare la mano della ragazza e tornare nel suo
scompartimento.
Che cosa fece nel suo scompartimento?
Sprofondato nella soffice felpa del sedile, si immerse
nella lettura di un opuscolo dedicato alle balene.
Dopo essersi svegliato, ricordava qualche passo
dell’opuscolo letto in sogno?
Poteva ripetere quasi alla lettera l’ultimo capitolo, (love
si affermava che le balene, pur vivendo in acqua, spesso
muoiono di sete: cercando le fresche foci dei fiumi o le
sorgenti d’acqua dolce, finiscono in secco sulla riva, dove
muoiono fra atroci sofferenze, sgonfiandosi lentamente,
come palloncini bucati.
Come interpretò E.S. la parte da incubo del suo sogno?
Attribuì una certa esagerazione all’azione dell’alcol
(fisiologia), alla stanchezza e alle emozioni della giornata
(psicologia), al cambiamento di letto (abitudine).
Che sogno gli raccontò il padrone di casa, nel desiderio
di ricambiare la fiducia che l’ospite gli aveva dimostrato
descrivendogli la parte del suo sogno che si riferiva alle
balene?
Il padrone di casa confidò all’ospite di aver sguazzato
tutta la notte nella merda fino al ginocchio, cosa che
l’ospite interpretò come un buon segno: aumento della
pensione, vincita alla lotteria, vaglia inatteso, eredità,
ritrovamento di un borsellino pieno o di qualche moneta
nella tasca di vecchi pantaloni finiti dietro un comò.
Quali prove addusse a sostegno di questa sua
interpretazione?
La sua esperienza personale: nel 1911 aveva trovato
davanti all’edificio della stazione di Ramerai Moravice un
borsellino con 25 corone e senza documenti; nel 1925,
aveva vinto alla lotteria nazionale una somma dieci volte
superiore a quella impiegata per l’acquisto del biglietto; nel
1928, al ballo dei ferrovieri a Subotica, aveva vinto 25
dinari alla tombola; sempre nel 1928, suo fratello Dolfi gli
aveva spedito da Trieste un vaglia di cento lire, e ogni
volta, la vigilia di tali colpi di fortuna, aveva sognato
precisamente di sguazzare nella merda o di soffocare
immerso negli escrementi fino alla gola.
Che cosa apprezzava E.S. nel sogno?
La sua somiglianza con la vita e la sua diversità dalla
vita; la sua azione profilattica; il suo effetto corroborante
sia sull’anima che sul corpo; la sua illimitata possibilità di
scelta e di disposizione di temi e di contenuti; la profondità
dei suoi abissi e l’altezza dei suoi voli; il suo erotismo; la
sua libertà; la possibilità di dirigerlo con la forza della
volontà e della suggestione (un fazzoletto profumato sotto il
cuscino, una dolce musica sul grammofono o alla radio,
ecc.); la sua somiglianza con la morte e la sua capacità di
evocare l’eternità; il suo rapporto con la follia, ma senza
conseguenze reali; la sua brutalità e la sua dolcezza; la sua
capacità di strappare agli uomini i loro segreti più intimi; il
suo quieto silenzio che non ignora il grido; il suo potere
telepatico e spiritistico di comunicare con esseri lontani o
defunti; la sua lingua cifrata, che a volte è possibile
comprendere e tradurre; la sua capacità di condensare in
una immagine le rappresentazioni mitiche di Icaro,
Assuero, Giona, Noè, ecc.; la sua monocromia e la sua
policromia; la sua somiglianza con l’utero e con le mascelle
del pescecane; il suo potere di trasformare luoghi, persone
e paesaggi sconosciuti in conosciuti, e viceversa; la sua
capacità di diagnosticare per tempo determinate malattie e
determinati traumi; la sua durata, che non si lascia
misurare facilmente; la sua attitudine a confondersi con la
realtà; il suo potere di conservare immagini e ricordi
lontani; la sua inosservanza della cronologia e della
classica unità di azione, tempo e luogo.

35
Perché il nostro epistolografo compendiò la sua gita di
tre giorni a Novi Sad in due o tre frasi soltanto?
Perché considerava certe faccende, come ad esempio la
visita al signor Gavanski e quella alla signora Fischer,
irrilevanti per il prosieguo degli avvenimenti, e altre, come
la visita all’ufficio delle ferrovie e al parroco, troppo
delicate e persino pericolose da menzionare in una lettera:
la prima in quanto segreto professionale e la seconda in
quanto segreto religioso, godevano entrambe di una totale
immunità.
Che cosa voleva E.S. dal parroco (e viceversa)?
Che mantenesse il segreto.
Dove e quando in precedenza E.S. aveva parlato con
personalità religiose?
Nel 1903, quattordicenne, aveva discusso una ventina di
minuti col rabbino Steinovitz, dopo la lezione, nel corridoio
della scuola sul tema dei miracoli biblici; nel 1905, aveva
avuto con lo stesso Steinovitz una breve conversazione
(nello stesso luogo) sulle origini degli usi della Hanukkah e
sulle proibizioni del sabato, nonché su certi misteri del
corpo, a cui il rabbino non seppe o non volle rispondere; nel
1912, sul treno per Dombóvár, aveva avuto una discussione
con un giovane francescano sul dogma (senza rivelare la
propria identità), sostenendo che il non credere al dogma,
specialmente a quello dell’infallibilità del papa, non esclude
la fede in Dio; nel 1929, aveva dimostrato a un gesuita,
sempre in treno, che i Protocolli dei savi Anziani di Sion
sono un falso, un malevolo centone di un libro utopico
pubblicato a Bruxelles nel 1864 col titolo Dialogo
all’inferno tra Montesquieu e Machiavelli, scritto da un
certo Maurice Joly, socialista-utopista; nel 1939, a Cetinje,
aveva discusso con un pope di nome Luka sull’origine della
patata farinosa di cui si sa con certezza che fu Pietro I a
introdurla dalla Russia, nonché sulla abilità eccezionale
necessaria per imbalsamare le mani e i resti dei corpi dei
santi le cui reliquie vengono conservate nei monasteri,
abilità che sembra cominci a venir meno, come dimostrano
i casi di imbalsamazione sempre meno riusciti, quello di
Vladimir Il’ič ad esempio, dovuto, secondo la stampa
viennese, a macellai, sarti e truccatori; nel 1940, aveva
discusso all’angolo di via della Scuola Elementare col
rabbino Blahm, di Novi Sad, che gli aveva consigliato di
rinunciare a bere perché stavano per arrivare giorni in cui
si sarebbe dovuto guardare la morte in faccia con piena
lucidità, e gli aveva proposto di trasferire al più presto il
suo denaro in qualche banca svizzera, confidandone il
numero di codice a persona di fiducia.
Di quale procedimento stilistico si servì perché la venuta
del Miracolo fosse preparata al meglio?
Ricorse all’arresto e al rinvio, nonché a un accostamento
virtuosistico del tema e dell’intonazione al livello del
quotidiano e del comune: il giorno del Giudizio universale si
sentirà solo il tintinnio di cucchiai e di forchette di latta,
questo tintinnio idillicamente piccoloborghese di posate,
per servire da contrappunto alle trombe del giorno del
Giudizio, e le compatte forme degli armadi Biedermeier
saranno anch’esse solo un’illusione ottica di fronte al
cataclisma incombente che non lascerà pietra su pietra.
Dopo l’esodo, che cosa rimaneva ancora
nell’appartamento?
Due armadi nella stanza e un tavolo sbilenco ricoperto
da una incerata in cucina.
Ghe cosa mancava?
Due comodini con ripiano di marmo (venduti), un letto
matrimoniale francese (venduto), una credenza con
specchio (venduta), una credenza da cucina (venduta),
quattro sedie di legno (vendute), una cucina economica a
legna (buttata tra i rifiuti), una stufa di ghisa a legna
(venduta ai rigattieri), una macchina da cucire marca
Singer (affidata in custodia alla signora Fischer), cornici
per foto di famiglia (gettate nel fuoco).
Descriva gli armadi.
Due armadi antichi in noce a un’anta, un tempo di una
magnifica lucentezza, con l’anta sormontata da una volta
formata da due archi carenati e decorati da rose di legno
stilizzate al cui centro figurava una voluta a forma di
chiocciola, simile a quella di un contrabbasso.
Che cosa c’era dentro?
In uno c’erano due piumini tutti schiacciati senza federa
e l’altro conteneva solo vecchi giornali e una scatola di
cartone piena di foto di famiglia.
Che cosa si vedeva nella fotografìa che, accoccolato
davanti all’armadio, tirò fuori dalla scatola?
Un giovanotto sui diciotto-vent’anni, i capelli con la
scriminatura, una grande bocca e un naso regolare. I
risvolti della giacca scura sono profilati di seta nera
rilucente e il lungo collo sembra ancora più lungo, serrato
com’è nel colletto duro, sotto il quale si intravede il nodo di
una cravatta a farfalla.
Che cosa potè constatare il modello in rapporto alla sua
immagine?
Scorgendo per caso il proprio viso nello specchio
dell’anta aperta dell’armadio, potè constatare in esso con
rimpianto l’azione rovinosa del tempo.
Esamini e descriva le altre foto.
Una donna snella con un bambino in braccio. Sullo
sfondo, il panorama di una città avvolta nella nebbia:
ciminiere di fabbriche, un campanile, un albero nodoso. Sul
retro: Gabriella e Lully. Trieste (senza data).
Nell’angolo superiore destro un sigillo (lo stemma e la
corona di Santo Stefano). E.S. in cravatta e con la
scriminatura. Sul verso: Magyar királyi államvasútak /
Königl. ung. Staatseisenbahnen, SZEMÉLYAZONOSSÁGI
IGAZOLÓJEGY / IDENTITÄTSKARTE. Vasúton vagy hajón
való utazásnál a személyazonosság igazolàsàra / Zum
Nachweise der Identität bei Fahrten auf Eisenbahnen und
Schiffen. Kelt / Datum: Pécs, 1920, dpr. 1. A tulajdonos
névaláirása / Unterschrift des Inhabers: E.S.
Tre ragazze fra i sedici e i vent’anni, in ordine di statura.
La più piccola (la più giovane?) tiene in mano due o tre fiori
di campo, ha un fiocco fra i capelli sciolti. La seconda
(quella di mezzo) ha un piccolo medaglione appeso al collo
e una camicetta col colletto di pizzo. La terza tiene le mani
dietro la schiena. Ha un vestito a righe chiare, con sprone
plissettato, una collana di ciondoli, capelli neri pettinati con
la frangia. Sul verso: Cetinje, agosto 1921. Timbro: S.
Hendler, Wien III, Steingasse 9.
Due bambini, un maschietto e una femminuccia, fra i tre
e i cinque anni, in tuta sportiva e calosce, abbracciati, su
una panchina bianca.
E.S. con occhiali dalla montatura metallica e il colletto
duro. Sul verso: Ricevuta. Dinari 600 (in lettere: seicento),
somma che ho... Hirschl... in forma di... (il resto è
illeggibile).
Una bambina di due o tre anni con la mano sotto il
mento, un fiocco nei capelli. Un vestito plissettato. Sguardo
al cielo. Sul verso: Postcard / Carte postale.
La foto di un gruppo scolastico: undici ragazzini e dodici
ragazzine, più la signora maestra e un’altra signora di lato,
probabilmente la sorvegliante o una donna delle pulizie.
E.S. con barba e i capelli pettinati con la scriminatura da
una parte. Sul verso: 1919.
Due ragazzine e un ragazzino dietro un cespuglio
striminzito. Sullo sfondo si intravede il nastro bianco di una
strada che si snoda in linee oblique e parallele tagliate
nella roccia. Nella linea spezzata e sinuosa che congiunge
terra e mare, si scorgono insenature e baie profonde,
separate da pareti rocciose a strapiombo. Sul verso: 16
agosto 1939.
In primo piano, l’estremità di una presa d’acqua o
l’imboccatura di un canale di scolo. Due stenti alberelli di
oleandro in casse di legno quadrate. Davanti al primo
oleandro c’è un bambino dalle gambe arcuate, forse ha
appena cominciato a camminare, che sbriciola fra le dita
una zolla di terra. Tra i due alberelli, su una seggiolina
bassa, siede una ragazzina con un fiocco tra i capelli. In
fondo si intravedono il retro malandato di un edificio e una
porta di legno, l’entrata di una cantina o di un magazzino.
Sul verso: Foto Aleksič, Novi Sad, 1937.
Un tavolo al livello della porta, messo nel senso della
lunghezza, sicché lo si vede scorciato. Una cena di festa o
un matrimonio. Il posto a capotavola è vuoto, ma vi sono
ugualmente un piatto di porcellana e un bicchiere di vino
rosso bevuto a metà. All’altra estremità del tavolo è seduta
una donna con un’alta crocchia, vestita di nero. Ai due lati
del tavolo, quasi alla stessa altezza, simmetricamente, due
persone sedute di profilo: due donne vestite di nero e, di
fronte a loro, un uomo e un’altra persona che non si vede
bene. Tutti gli sguardi sono rivolti verso la porta. È forse
uscito di là colui per il quale è stato imbandito il banchetto
o il convito nuziale? Oppure gli invitati guardano verso
l’obiettivo del fotografo? Una giovane donna, che potrebbe
essere la sposa, guarda anche lei nella stessa direzione.
Capelli neri, orecchini, pettine di celluloide nella crocchia.
Sul verso: Foto Aleksić, ecc.
Una giovane donna (busto), la stessa di poco prima.
Lungo collo bianco, grandi occhi neri, capelli neri pettinati
in alto, orecchini simili a due gocce di catrame, pettine di
celluloide nella crocchia. Tiene la mano destra in grembo.
In mano ha un fazzoletto bianco o un guanto. All’anulare
due anelli: una fede e un altro anello con un motivo simile a
una formica. Sul verso: Foto Vujović, Cetinje.
E.S. Dal taschino della giacca spunta una matita da
falegname con la punta aguzza rivolta in alto. È chino in
avanti e sembra frugare tra i documenti, le vecchie carte, le
lettere scolorite e le foto ingiallite. Dietro di lui si scorgono
due vecchi armadi che hanno al centro volute a forma di
chiocciola. Il resto dell’ambiente non si vede bene.
Una istantanea per strada. E.S. e un altro uomo della
sua età con i cappelli in mano. Davanti a loro, due ragazzini
e tre ragazzine. Una delle ragazzine tiene in mano una
bambola, un’altra un mazzo di lillà. Sulla fotografia si
vedono anche una decina di passanti. Sullo sfondo, un
monumento. Lo si vede di lato. Sul piedistallo di marmo, un
uomo fa un passo deciso con la gamba destra. Il braccio
destro è sollevato in un gesto patetico, l’indice forse rivolto
verso il campanile che si scorge sulla destra. In primo
piano si vedono le facciate di alcuni edifici con insegne:
Astra, Royal, Foto Aleksić, Parrucchiere, Giardino, e un
pannello pubblicitario illeggibile su cui si vede un uomo col
cappello in mano. Sul verso: Foto Aleksić, Novi Sad, 1939.
Che cosa fece E.S. dopo aver rimesso le fotografie
sparse nella scatola di cartone?
Andò in cucina e prese il cassetto del tavolo che mise
insieme con le posate in mezzo ai piumini. La stessa cosa
fece con alcune pentole e con i piedi tozzi dell’armadio,
simili a birilli di legno.
Quale indirizzo scrisse sugli armadi?
Con la sua matita quadrata da falegname scrisse sui
fianchi e sul dorso degli armadi il proprio indirizzo (come
destinatario) e, come mittente, scrisse il nome della signora
Agnes Fischer (via Vitéz 27, Novi Sad).
Quale fatto poteva rivelare il dito di Dio ed essere
considerato come un primo avvertimento?
Dall’armadio, come per magia, cadde una forchetta,
l’unica che non fosse di latta; cadde sul cemento davanti
alla porta e vibrò un attimo come una libellula, continuando
poi per alcuni secondi a risuonare come un diapason.
Lasciando la casa per ultimo, subito dopo i facchini, a
che cosa E.S. rivolse lo sguardo?
Ai muri.
Che cosa vide su di essi?
Un riquadro di polvere nei punti dove si trovavano le
foto di famiglia, una riproduzione della Gioconda ritagliata
da una rivista e una litografia a colori dal titolo DAS
STUFENALTER DES MANNES, che poco meno di un anno
prima gli aveva donato il defunto Moritz; piccoli schizzi di
liquido sul soffitto, che facevano pensare all’esplosione in
cielo di una granata antiaerea; una macchia grassa nel
posto dove prima c’era il letto, sul punto dove appoggiava
la testa al muro; i disegni verdi della muffa; le ombre cinesi
nei punti dove l’intonato si era staccato; le stampe tracciate
dall’umidità.
Λ che cosa pensava?
Alla possibilità di leggere il destino nelle macchie dei
muri, in analogia col test di Rorschach: il paziente è posto,
in casa o nella sua cella, di fronte alle macchie del muro e
le interpreta alla presenza dei medici.
Per esempio?
Che cosa vede in questa macchia? - Il mare. - E che
altro? - Una barca che galleggia in alto mare... un rospo...
una farfalla nera... una vagina... una bocca di t ane
spalancata... una vagina (questo l’ho già detto). Continui
pure: che cos’altro vede in questa macchia, signor E.S.? -
La foto del mio bacino nell’istante del concepimento. -
Concepimento! Quale concepimento?
Il concepimento intellettuale. - Che cos’è che viene
concepito nel suo intelletto? - La morte, signore!
Girandosi a guardare un’ultima volta, quando ormai
aveva già oltrepassato la soglia e fatto il primo passo in
strada, che cosa gli parve di vedere, pur non potendoci
giurare?
Gli parve di vedere un ratto grigio correre da un buco a
un altro, nel punto dove fino a poco prima < era uno dei
due armadi.
Quale fu il prosieguo degli avvenimenti?
Dapprima, dalla finestra aperta, l’ultima verso la porta,
si sprigionò una nube di polvere, simile al fumo che esce da
un cannone al momento dello sparo. Poi dalla finestra
successiva. E così via, una dopo l’altra, a intervalli regolari,
la polvere si sprigionò anche dalle altre due finestre, come
da feritoie, per avvolgere infine anche la parte della casa
dove non abitava nessuno e dove c’era una cantina o un
magazzino (nella parte dell’edificio di fronte alla presa
d’acqua). L’onda distruttrice travolse subito dopo anche il
tetto, trascinando via le scandole, le travi e i muri.
Quanto durò tutto questo?
Pochi minuti o pochi secondi.
Che cosa si udì?
I vetri scoppiare, i mattoni e le scandole sbriciolarsi, le
assi spaccarsi e crepitare come durante un incendio.
In piedi accanto alle rovine, vicino al coperchio della
presa d’acqua, tutto bianco di polvere, come per uno
spavento terribile, quale necrologio compose tra sé e sé lo
scampato per miracolo? (Notizia di giornale).
E.S., creatore della muromanzia, l’interpretazione delle
macchie sui muri (che dalle nostre parti viene
comunemente detta scienza del mosaico o scienza mosaica,
che è forse più giusto), ha trovato la morte, il 18 marzo c.a.,
sotto le rovine della casa nella quale praticava questa
oscura magia, da lui definita scienza. Così, questo
poliedrico Schwarzkünstler è rimasto vittima delle proprie
macchinazioni. La casa di Novi Sad nella quale abitava (via
Bem 21, già via Germania), di proprietà della signora
Mészáros, è crollata nel momento in cui l’autore dell’oscuro
libro Muromantische Schriften cercava di riprodurre alcuni
modelli di macchie murali provocate dall’umidità in base
alle quali voleva dimostrare, nero su bianco, l’esattezza
delle proprie teorie. Secondo la dichiarazione del signor
Hanifović, facchino, domiciliato in viale Danubio, E.S. tenne
a lui e al suo ingenuo collega, il signor Pupavac, una vera e
propria conferenza sull’importanza e le prospettive di tale
«scienza», affermando che il suo destino, come pure il
destino della sua famiglia, era scritto in quelle macchie
altrettanto chiaramente che sulla palma della mano, «
irrevocabile come nel rotolo della santa Torah » (sic!). I due
facchini con le loro dichiarazioni hanno smentito la falsa
notizia secondo la quale E.S. avrebbe affermato di aver
visto in una di quelle macchie, in uno di quei « rotoli della
Torah », il giorno e l’ora della propria morte, imminente.
Secondo la dichiarazione del signor Pupavac, facchino, uno
dei testimoni del misterioso incidente, il « Padre della
Magia » non fece parola di tale disgrazia, ma, al momento
in cui la casa crollò, stava discutendo con i facchini il
prezzo del trasporto dei mobili.
Che cosa fu a provocare il crollo della casa?
E.S. fu in un primo momento propenso a credere che si
trattasse di un terremoto il cui epicentro si trovava lontano
oppure di una forte esplosione in un deposito di munizioni.
Riuscì a trovare qualche notizia che potesse confermare
le sue ipotesi?
Né quel giorno né nei giorni successivi ci fu notizia sui
giornali o alla radio di un terremoto in Europa (entrale o
nei Balcani o in qualsiasi altra parte del mondo; quanto
all’esplosione di qualche deposito di munizioni, nemmeno
di questo c’era alcuna notizia, cosa in sé magari
comprensibile, perché poteva essere nn segreto militare.
Perché non potè stabilire un rapporto di causa ed effetto
tra il crollo della casa e lo spostamento degli armadi?
Perché gli armadi non toccavano i muri.
Che cosa era propenso a credere E.S. basandosi su un
ragionamento positivistico?
Che a far crollare la casa fosse stato il ratto che aveva
trovato nelle fondamenta, alla base dei muri, al punto
d’intersezione delle forze su cui poggiava lutto.
Che cosa non era propenso a credere?
Che fosse stato il caso a guidare il ratto verso quel
punto.
Quali domande rimanevano per lui senza risposta?
Chi aveva dato ordine al ratto di rosicchiare con i suoi
dentini proprio quel punto? E perché proprio allora, in quel
giorno e in quel momento?
Quale altra domanda?
In che lingua era stato dato quest’ordine?
Possibile risposta?
In ebraico.
Perché non era propenso a credere al caso?
Perché credeva piuttosto al condizionamento reciproco
delle cose, alle leggi deterministiche del Dio-natura,
secondo il principio generale della causa sui.
Che cosa credeva?
Credeva che il caso come fenomeno oggettivo non
esiste, non solo sulla scala dell’universo ma nemmeno nei
fenomeni di minor conto, come, ad esempio, quando uno
lascia per ultimo il proprio appartamento, subito dopo i
facchini, e quando si volta per guardare il luogo dove ha
vissuto due anni, per avvolgerlo con un ultimo sguardo
globale (nostalgico, nonostante tutto, perché al fondo di
questo sguardo c’è la consapevolezza della caducità,
rivelata dai cambiamenti, della caducità e della morte,
presentita e vicina, nostalgico nonostante l’esperienza
negativa che promana dalle pareti umide dell’appartamento
lasciato per sempre, nonostante le macchie traditrici sul
soffitto, là dove rompeva i bicchieri nei momenti di rabbia e
di disperazione), quando, dunque, uno lascia per ultimo,
con uno sguardo nostalgico, il proprio appartamento, e la
casa in quello stesso istante si scuote dalle fondamenta,
violentemente, come sotto il peso di quello sguardo, sotto il
peso di tutte le sventure (sue e degli altri) concentratesi in
esso nel corso degli anni, sostenendo il vuoto fragile dei
muri fragili, riempiendo lo spazio con la propria massa
compatta, sotto il peso delle sventure e dei pensieri chiusi lì
come sotto vuoto, compressi fino a esplodere, e che a un
tratto sono scoppiati, proiettandosi in ogni direzione, in una
terribile esplosione provocata da quel suo sguardo gettato
sprezzantemente come una cicca accesa in una sacca di gas
naturale in mezzo al fango pannonico.
A quali pensieri si lasciava andare adesso?
Pensava a che cosa sarebbe potuto accadere se si fosse
trattenuto un istante di più in quell’appartamento per
mettere in atto il proposito che gli era maturato
contemporaneamente nella vescica e nella coscienza (o
viceversa), cioè se si fosse messo a orinare, come per un
attimo aveva pensato di fare, sui muri umidi del suo
vecchio appartamento: le travi e i mattoni gli si sarebbero
abbattuti sulla testa (come il piccone sulla testa di Lev
Davidovič Bronštejn), sulla chierica appena accennata tra i
suoi capelli grigiastri, la chierica che sembrava
predestinata al piccone del destino vendicatore: malleus
iudeorum.
Quale immagine gli tornò allora alla memoria?
Il cervello del signor Freud, il primario.
Quale illuminazione?
Il riflesso rosso del sole, simile a un incendio, sulla
facciata di vetro di una fabbrica di sapone a Cattaro, nel
1939, e la nube guardata dall’alto, dall’altezza celeste al di
sopra del golfo.
Quale immagine si costruì E.S.?
Col davanti dei pantaloni aperto, col membro gonfio, con
la vescica da cui cola lentamente la birra calda (bevuta
insieme con i facchini al buffet della stazione), giace nella
polvere: il getto dorato interrotto bruscamente dalle forbici
della morte, la calda iniezione d’orina che ha praticato nel
muro come un cavallo si è ora disseccata e dal membro
rilassato, allentato come un elastico, stilla un getto
indebolito, non più un getto ma solo uno sgocciolio, come
da una vescica di maiale con cui giocano i bambini, lo
sgocciolio di un rubinetto chiuso male che nemmeno la
mano della morte è riuscita ad arrestare del tutto, uno
stillicidio di liquido che si spande sotto di lui e intorno a lui,
penetra nell’intonaco poroso e negli spessi strati di calce,
nelle fessure delle travi tarlate e delle assi, nella polvere
che beve l’orina come la cenere della sigaretta beve
l’inchiostro.
Come fu considerato questo avvenimento da E.S.?
Questa non era più la sua morte futura, presentita, ma la
sua morte passata, sotto le rovine della casa di Novi Sad, la
morte, dunque, che aveva già superato, il Lete che aveva
già attraversato: tranquillo post festum quando il corpo non
è più schiavo, quando la vescica si è svuotata come una
vescica di maiale, quando il sangue si è ormai rappreso sul
cranio fracassato, quando gli occhi sono ormai vitrei,
quando l’anima è ormai uscita dal carcere terrestre.
Chiudendo gli occhi, quale domanda si pose?
Perché tutto quello che è e tutto quello che non è (e
quello che potrebbe essere), perché tutto ciò, se insieme
col corpo, con l’occhio, con i testicoli, muore anche lo
spirito, questa nube, questo nucleo del cuore nel cuore del
cuore morente? Perché, se non è per sopravvivere alla
fragile polvere del corpo, per riunire nella più perfetta
quintessenza il passato, il presente e il futuro, la
conoscenza e l’intuizione, polvere e nube, amalgama di tutti
i sensi, amalgama di cuore e cervello, affinché tutto ciò si
riunisca in una piccola nube eterna, in vapore di nube, e
continui a vivere, come conoscenza e come sostanza?
Mentre il suo spirito si libra nel cielo azzurro come una
nube azzurra, che cosa fa la riserva terrena, la parte di
questo spirito rimasta quaggiù?
Osserva le conseguenze terrene della morte, le osserva
come farebbe Dio o come avrebbero fatto i buoni vecchi
scrittori: obiettivamente.
L’ultima immagine (obiettivamente)?
Nel suo occhio sbarrato, come nell’obiettivo di una
macchina fotografica, o come nell’occhio cavato del
Ciclope, non si scorge più il paesaggio terreno con la casa,
le casse di legno degli oleandri e la presa d’acqua, ma una
scena di rovina: l’istante eternato in cui rintonaco si sfalda
e i muri crollano: una nube di polvere, e mattoni simili a
gengive messe a nudo.
Descriva col minor numero di parole possibile la
situazione al momento del crollo della casa.
Un attimo di confusione; sbigottimento.
Che cosa ci fu dopo lo sbigottimento?
Fuggifuggi generale, panico, invocazioni di aiuto.
Chi fu il primo a correre in aiuto?
Sulle rovine accorsero i facchini, a mani nude,
proteggendosi bocca e naso dalla polvere con un fazzoletto
sporco; poi cominciarono a rimuovere i mattoni e i pesanti
blocchi.
A quale casta appartengono i facchini?
Alla grande casta dei parenti della morte, della quale
fanno parte altresì i pompieri, i becchini, gli impiegati delle
pompe funebri, i medici, gli infermieri, i giudici, i boia, i
poliziotti, gli agenti segreti, i banditi, i popi, gli imam, i
rabbini, gli shohet, i macellai, i saltimbanchi, le spie, i
domatori, i campioni del volante, i lavatori di finestre, gli
sportivi, i piloti, i soldati, gli ufficiali, i generali, i ferrovieri,
i pescatori, i marittimi, i palombari, i minatori, i ciclisti, gli
automobilisti, i viaggiatori, i pedoni, gli alpinisti, gli
esploratori, i chimici, i fachiri, gli incantatori di serpenti,
gli accalappiacani, i veterinari, gli alcolisti, i vegetariani, i
buongustai, i narcomani, i fumatori, gli ammalati, i
nevrastenici, i melanconici, gli ipocondriaci, gli psichiatri, i
profeti, i rivoluzionari, i farmacisti, i pazzi, i funamboli, gli
elettricisti, i filosofi, gli idraulici, i muratori, gli
spazzacamini, le casalinghe, i suicidi, gli amanti, gli
adulteri, gli impiegati, i cacciatori, i guardacaccia, i
finanzieri, i doganieri, i ladri di legna, i guardaboschi, i
venditori di cenere, le guardie notturne, i riparatori di
ascensori, gli ascensoristi, gli scassinatori, i giuristi, i
frenatori, gli stallieri, i vetturini, i carrettieri, gli apicultori,
i pastori, gli agricoltori, le prostitute, i vecchi, i pittori di
ponti, i costruttori, i sommozzatori, i cercatori d’oro, i
giocatori, i poeti, i pugili, i primatisti, i dinamitardi, i
marinai, i festaioli, i commercianti, i sicari, i maniscalchi, i
soffiatori di vetro, i cacciatori di teste, gli schiavi, i
proprietari di schiavi, i mercanti di schiavi, i presidenti di
repubbliche, gli zar, i re, i vulcanologi, i raccoglitori di
banane, gli spazzini, i postiglioni, le suore, i fedeli, gli
idolatri, i guardiani degli harem, i pascià, i milionari, i
mendicanti e altri.
Quale somiglianza si può osservare tra un facchino e un
becchino?
Somiglianza di azione: trasporto dei resti terreni da una
dimora all’altra; sangue freddo e abilità nel maneggiare
una cassa di legno; corde come mezzo sussidiario; fìsica e
metafìsica al servizio del quotidiano.
Quali suoni si possono sentire?
Lo scricchiolio delle travi marcite; lo sfaldarsi
dell’intonaco, con ritardo, prolungato, come il crepitio di
una pentola che venga sfregata.
Quale altra immagine poteva cogliere l’occhio morente?
Le campanule sbiadite degli ornamenti murali che
brillavano, attraverso la polvere, da sotto i blocchi pesanti.
Poesiola d’occasione (scherzo, csárdás, canzone a
ballo)?
Oilà, sulla mia tomba
campanule piantate.
Oilà, sulla mia tomba
bevete e poi cantate.

Il suono che copre il tintinnio astratto delle campanelle?


Il fischio della sirena dell’ambulanza.
Cose / oggetti?
Barella, camice bianco, stetoscopio, bracciale col
contrassegno della Croce Rossa, borse di cuoio, pale,
vanghe, picconi, tubo di gomma per innaffiare.
Pubblico?
Bambini, vicini, giornalisti, curiosi.
Come si svolgono le operazioni di salvataggio?
I facchini sollevano con una leva un pezzo di muro sotto
il quale scoprono il loro datore di lavoro (ex), poi lo voltano
sulla schiena. Vanno a lavarsi le mani sotto il tubo di
gomma che qualcuno ha attaccato alla presa d’acqua per
bagnare la polvere che si è sollevata dopo il crollo.
Chi entra allora in scena?
Figure ufficiali: medici, infermieri, poliziotti.
Che cosa scrivono costoro sotto la dicitura: giorno, ORA
E MINUTO DELL’INCIDENTE?
Diciotto marzo, millenovecentoquarantadue, ore
diciassette e dodici.
Stenda l’elenco ufficiale dei beni del defunto.
Portamonete in pelle di cinghiale (uno); fazzoletto di tela
(uno); matita con portamatita (una); matita gialla da
falegname (una); pacchetto di sigarette marca Symphonia,
confezione morbida (aperto); scatola di fiammiferi (una);
orologio da tasca marca Longines (uno); in spiccioli 2,80 P
(due pengó' e ottanta filler); fascio di ritagli di giornali;
taccuino (uno); vestito grigio (uno); scarpe nere (un paio);
camicie (due); calzoni (un paio); cravatte (quattro); colletti
duri (cinque); cartella in pelle di cinghiale (una); blocco di
carta a quadretti; tre paia di calzini; rasoio di sicurezza
(uno); bottone di latta (uno); asciugamano (uno); molletta
da biancheria in legno.
Citi l’elenco dei documenti trovati nel portafoglio della
vittima.
Carta di identità numero 225464, rilasciata l'11 gennaio
1941 a Novi Sad; tessera di riduzione ferroviaria di prima
classe numero 56666, rilasciata l'8 novembre 1941
(scaduta); ricevuta del pagamento della pigione per i mesi
di ottobre, novembre e dicembre; copia di un estratto del
certificato di battesimo della chiesa ortodossa
dell’Ascensione a Novi Sad, a nome dei membri della
famiglia della vittima; verbale dell’esame medico
giudiziario rilasciato dal tribunale distrettuale di Kovin.
Citi per intero il testo di questo verbale.
In merito alla privazione dei diritti personali stabilita nei
confronti del signor E.S. di Novi Sad, il Tribunale
distrettuale di Kovin, preso atto del verbale del 25 marzo
1940 riguardante l’esame medico giudiziario del paziente
E.S., delibera: Il Tribunale distrettuale di Kovin, ai sensi
dell’art. 194, commi 2 e 10, autorizza il paziente E.S., di cui
si è constatata l’avvenuta guarigione, a lasciare l’ospedale
psichiatrico di Kovin a condizione che la sua legittima
consorte, in qualità di temporanea tutrice del paziente, se
ne assuma la piena responsabilità, con l’obbligo, nel caso di
peggioramento del suo stato di salute, di farlo ricoverare
nel più vicino centro per la cura delle malattie mentali. Si
autorizza altresì il Comune di Novi Sad a prelevare dai beni
del paziente e a rimettere a questo Tribunale la somma
complessiva di 50 dinari a titolo di onorario per la visita
medica specialistica a cui il suddetto paziente è stato
sottoposto. Motivazione: Il paziente è stato esaminato in un
ospedale psichiatrico pubblico e gli specialisti hanno
unanimemente concluso non essere egli in grado di badare
a se stesso e al suo patrimonio, ma, preso atto del sensibile
miglioramento del suo stato di salute e della sua attuale
non pericolosità per sé e per gli altri, ritengono possa
venire affidato, in quanto individuo tranquillo e ristabilito,
alle cure della sua famiglia. Sulla base del precedente
parere medico, il Tribunale ha deliberato come nell’atto di
cui sopra.
Giorno, mese e anno di nascita della vittima
(continuazione del verbale).
Undici luglio milleottocentottantanove.
A quale segno zodiacale appartiene, secondo il suo testo
di astrologia?
Al quarto segno dello zodiaco chiamato Cancro (karkata,
cancer), che segna l’inizio dell’estate, e sotto il fulgore
della stella Sirio, che annuncia il solstizio d’estate, nella
trentunesima porzione zodiacale che va dal solstizio
d’estate all’equinozio d’autunno, quando le forze del giorno
sono sopraffatte dalle forze della notte.
Quali altri corpi celesti esercitano la loro influenza su di
lui?
La Luna, che agisce sui suoi flussi e riflussi sensoriali,
sulla sua fertilità, sulla sua sensibilità, sulla sua
immaginazione, sul suo lirismo, sul suo sonno inquieto,
sulla sua euforia digestiva, sulla sua pigrizia, sul suo
fatalismo, sul suo nomadismo malinconico, sulle sue manie,
sulla sua isteria e sulle sue paure; Marte, che gli trasmette
una certa aggressività, quale si manifesta nella sua lotta
contro la famiglia e la religione; Saturno, che col suo segno
produce una pericolosa interferenza con inclinazione al
ripiegamento su se stesso, al desiderio di rinchiudersi nel
proprio guscio, donde il suo carattere introverso, la sua
gelida solitudine, le sue aberrazioni schizoidi.
Quale elemento?
L’acqua, perché la sua anima si bagna in un mare di
sensazioni contraddittorie e il suo linfatismo genera
un’apparente pigrizia e un’assenza di movimento, mentre
sotto la scorza del suo guscio si sviluppa un’intensa vita da
nottambulo.
Significato del segno?
Concepimento, sperma, fertilità, frutto.
Princìpi del simbolo?
Profondità, abisso, pozzo, grotta, fossa, tasca, stomaco,
vagina, vaso, bottiglia.
Senso generale del segno?
I quattro aspetti della causa prima, Parabrahman; il
quarto elemento complementare del triangolo nascosto o
dei triangoli.
Lati del tetragramma?
Unità nel personale; sogno senza sonno; sogno come
pensiero espresso in immagini; stato di veglia come
espressione e riflesso del pensiero.
Lati del triangolo?
Intuizione (parte del sogno); deduzione (parte
dell’intelligenza); verifica (parte del dubbio).
Treppiede vegetale?
Sete-fame-veglia.
Organi esposti?
Piedi, stinchi, dita, prostata, pancreas, fegato, vescica,
simpatico, ghiandole, cranio.
Forme?
Aguzze.
Segno affine?
Pesci. Concepiti nello stesso elemento, Cancro e Pesci
hanno molti tratti in comune, si completano a vicenda e a
volte hanno la stessa scrittura. Si comprendono in maniera
intuitiva e tendono a un medesimo ideale di bellezza. La
loro unione è appassionata, profonda, duratura.
Incantesimo e lucidità.
Tendenze?
Passività, narcisismo.
Funzioni?
Vedere, dubitare, sperimentare.
Azioni?
Creare, moltiplicare, sopportare, vegliare, volare,
scrivere, navigare, dormire.
Oggetti?
Bastone, vestiti, cappello, giornale, portapenne, sedia,
borsa.
Luoghi?
Birreria, vagone ristorante, negozio, libreria, biblioteca,
bagni pubblici, bosco, mercato, macelleria, teatro dei
burattini, circo, processione, servizio religioso, chiesa,
buffet, sinagoga, asta, banca, stazione ferroviaria, vettura
di piazza, panificio, fabbrica, manicomio.
Che cosa dissotterrarono gli operai sgomberando le
macerie della casa di via Bem 21?
Nelle fondamenta dell’edificio trovarono una scatola di
vetro verde ermeticamente chiusa con dentro un
documento scritto con bei caratteri ed esemplari di monete
in corso.
Citi il testo del documento.
Questa casa è stata progettata da Ludwig Detzer e
costruita da Dezsó' Detzer di Budapest. Questi costruì nello
stesso anno molte altre case di abitazione, come pure la
prefettura della città di Sombor. In quell’anno regnava
Francesco Giuseppe. In Bosnia-Erzegovina c’era la guerra.
Ci fu un’eclissi di sole e apparve una cometa. Nel Danubio
a primavera c’era così poca acqua che a Paks lo si poteva
attraversare a piedi asciutti. In quell’anno ci fu una
persecuzione di ebrei in Russia. La prima pietra è stata
benedetta da Nikifor Janković, sostituto dell’arciprete. La
prima pietra è stata posta l'11 luglio 1889.
Quali personalità civili espressero le loro condoglianze
per telegramma?
Le sue sorelle da Kerkabarabás, Szentadorián, Sziget e
Csesztreg, suo fratello da Trieste, le famiglie Drašković,
Vujović e Dragićević da Cetinje, il dottor Viktor Bugalj, pure
da Cetinje, le famiglie Sidak, Gavanski, Horvat, Schwarz,
Baumann, Popov, Rónai, Berecz, Guttmann, Kostić,
Böszörményi, Jankov, Mirković, Klein, Konstantinov,
Vasiljević, Kesić, Protić e Krohn da Novi Sad, le famiglie
Krauss da Sombor, Ziegler da Subotica, Mayer da
Porszombat, il dottor Papandopulos da Kovin, Rosenberg da
Baksa, le famiglie Fischer, Berki, Pap, Lerm, Kiss, Schlang
e Kohn da Budapest, la famiglia Čakljević da Šid, la
famiglia di A. Okoličanji da Zagabria, la famiglia Koričanski
da Vienna, il dottor Abravenel da Toronto, M. Margelius
dalla Galizia, L. Perez dal Brasile, Aharon Ceitlin da
Gerusalemme.
Quali istituzioni?
Le Ferrovie dello Strazio Jugoslave, Magyar Árva
Vasútak, l’Organizzazione delle Nazioni Avvilite,
l’Organizzazione Sionista Sinistrata, l’International
Cheerless Chess Federation, il Pen Club Penante.
Quale rito immaginava?
Esitava tra una modesta cerimonia funebre con i parenti
più stretti (su espresso desiderio del defunto), e un
pomposo funerale di prima classe (a spese dello Stato,
beninteso), con uguale partecipazione dei rappresentanti di
tutte le religioni.
Che cosa lo induceva a scegliere questa seconda
variante?
Il suo momento estetico e cosmopolita: l’alternarsi delle
lamentazioni del rabbino (ebraico), del contrappunto
cattolico (latino), dei canti ortodossi (paleoslavo) e delle
nenie musulmane (arabo).
A quale soluzione si adattò alla fine?
A una soluzione intermedia, una specie di compromesso:
in questa terza variante, il suo feretro veniva seguito da
una orchestrina zigana impegnata a suonare tristi canzoni
d’amore e di morte.
Che cosa non doveva assolutamente mancare in questa
terza variante?
Un cimbalom, a costo di portarlo a spalla, quasi bara di
riserva, o di spingerlo su un barroccio, come tante volte
avevano fatto per lui durante la sua vita, spostandoglielo da
un angolo all’altro delle sale del ristorante e a volte
portandolo fin sulle strade.
Quale inganno ci si poteva attendere nella parte mosaica
del rito?
Che Gyula (Georges) lacerasse il suo cappotto nuovo di
tweed con troppa abilità, cioè sempre seguendo le cuciture,
il che avrebbe dimostrato che aveva scucito in precedenza i
fili intorno al collo e alle maniche; che Rebeka emettesse
dal suo profondo un lamento più simile al muggito di una
vacca infuriata che a un sospiro; che Neti si soffiasse il
naso in un fazzoletto orlato di nero, ma più per un
raffreddore che per il dispiacere.
Quale altra variante poteva essere presa in
considerazione?
La fanfara dei ferrovieri di Subotica, vincitrice del
concorso per fanfare dell’Europa centrale svoltosi a
Budapest nel 1936, che suona il Salmo 114 di
Mendelssohn, secondo il desiderio del defunto.
Citi per intero il testo dell’orazione funebre che E.S.
pronunciò sulla tomba di un certo Béla Sternberg, ispettore
capo delle ferrovie, che nel dicembre del 1941 si buttò
sotto un treno merci all’ingresso di una galleria; orazione
stampata, con grossi tagli e a insaputa dell’autore, sul
«Messaggero ferroviario», numero 218, del 20 dicembre
1941.
Signore e signori! Trasportare le persone nello spazio e
quindi anche nel tempo è compito alto e degno di lode,
giacché, grazie a questi accompagnatori pressoché
invisibili per il viaggiatore, voi, signore e signori, superate
pianure ricoperte di neve, fitte foreste, cime di monti, fiumi
e viadotti, attraversate le tenebrose gallerie della notte,
sotto la pioggia e sotto la neve, a una velocità tra i cento e i
centoventi chilometri l’ora, per gettarvi al più presto nelle
braccia dei vostri cari lontani, correte loro incontro sulle ali
delle ruote di ferro (simbolo delle Ferrovie), nelle soffici
cuccette di un vagone letto, o allungati in comodi sedili di
felpa, o, nel peggiore dei casi, stretti sulle panche di legno
di seconda classe, o addirittura nel bagagliaio, cullati non
in braccio a Morfeo ma nel caldo grembo materno delle
Ferrovie, questa meravigliosa invenzione della nostra epoca
moderna; ve ne state allungati, dunque, sui vostri caldi
sedili di felpa o siete seduti in grembo a questa madre di
ferro, raggomitolati come feti, e attraversate lo spazio e il
tempo, piacevolmente, come in un romanzo russo (lo stesso
che forse state appunto leggendo alla luce delle lampade al
vapore di mercurio in uno scompartimento di prima classe),
senza pensare a tutte quelle brave e coscienziose persone
che vegliano negli uffici delle stazioni, accanto al telegrafo
e al telefono, non solo nei grandi nodi ferroviari ma anche
nelle piccole stazioncine dove anche Dio se n’è andato a
dormire, a coloro, dunque, che vegliano, che aspettano le
locomotive possenti, che nutrono e guidano questi colossi a
vapore, con facilità e destrezza, come i cocchieri i propri
cavalli... Sì, signore e signori, quest’uomo era uno di coloro
dai quali dipendono, dai quali dipendevano, la vostra
sicurezza, la comodità dei vostri viaggi, un uomo che, come
un valente generale, veterano di molte guerre, cominciò
come soldato semplice, circa quarant’anni fa, in una
stazioncina anonima, pervenendo poi, col suo lavoro e la
sua assiduità, col suo sacrificio e la sua devozione alle
Ferrovie, ai sommi fastigi, al grado di generale, se così
posso dire, per porre fine in tali funzioni, dopo aver
superato tutti i pericoli, dopo aver conosciuto tutta la
grandezza e tutta la miseria della missione ferroviaria, per
porre fine dunque, in tali funzioni, nella tragedia, alla sua
vita fruttuosa e utile alla società. Sì, meine Damen und
Herren, quest’uomo si è trovato più volte fra i pericolosi
respingenti dei vagoni, si è aggirato intorno alle ruote
micidiali, ha attraversato i binari e si è arrampicato sulle
locomotive, e mai, mai gli è capitato il più piccolo incidente,
anzi, il mostro di ferro l’ha sfiorato con i suoi terribili
zoccoli come se lo conoscesse, come se fossero amici, che
dirvi, come se fossero cavallo e padrone, un cavallo docile e
un buon padrone... ed ecco, ora lui, il mite padrone, ha
trovato la morte lontano dal campo di battaglia, lontano dal
suo posto, tragicamente, volontariamente, non potendo
immaginare nel momento fatale altro modo di morire che
questo, sotto le ruote di un treno, e proprio adesso, in
tempo di pace per così dire, perché, nonostante la
situazione di fatto, nonostante la carneficina internazionale,
le Ferrovie sono in pace, o dovrebbero essere in pace,
voglio dire extraterritoriali, non belligeranti come la
Svizzera, neutrali, perché esse, nonostante tutto,
continuano a compiere, o dovrebbero compiere, il loro
dovere di assicurare i trasporti internazionali, attenendosi
al proprio codice, benché certi politici tentino di sviarle, di
utilizzarle per i loro scopi micidiali, di fare un uso illecito
dell’alto compito delle Ferrovie, organizzazione
internazionale per il collegamento degli uomini di buona
volontà, di fuorviarle, di respingere il loro codice morale, di
capovolgere completamente il loro principio di unificazione,
trasformando l’unificazione in separazione, l’avvicinamento
in allontanamento; e voi sapete, signore e signori, che i
ferrovieri, come i vigili del fuoco, debbono tenersi, e difatti
si tengono, al di sopra degli interessi del singolo e persino
dello Stato, perché il loro compito, come il compito del
medico e del sacerdote, è sopraindividuale,
soprannazionale; divino, se volete. Sì, amici dolenti, questo
sventurato - l’ho detto - non è caduto sul campo di
battaglia, non è stato vittima di un incidente ferroviario, ma
ha di sua volontà abbracciato il gelido ferro delle rotaie, e
le ruote massicce di un carro bestiame hanno compiuto su
di lui il cruento strazio che egli aveva scelto per la sua fine
ingloriosa. Rendiamogli tuttavia, signore e signori,
rendiamogli tuttavia gli onori militari che ha meritato, che
il plotone d’onore spari una salva, che risuonino a una voce
i fischietti degli scambisti, che rimbombino gli organi delle
locomotive, con un’eco prolungata, come un gemito. E che
riposi in pace.
Quale il tenore delle dichiarazioni che in occasione della
sua morte (di E.S.) farebbero alla stampa e alla radio
alcune delle personalità più illustri?
Tutto ciò che è possibile accade; possibile è solo ciò che
accade (Franz Kafka). Critico verso i suoi avversari, non lo
era verso se stesso: pensava di poter creare una filosofia
anche senza superarla. Rimarrà nel nostro ricordo come
l’immagine dell’uomo alienato in una società alienata.
Come un esempio e una lezione (Karl Marx). Non era altro
che l’incarnazione di un sogno, e i suoi disturbi mentali
erano legati al sogno e derivavano dal sogno. Sia lode al
cielo che questo incubo sia stato così ricco (Sigmund
Freud). Uno dei tanti modi per risolvere il problema
dell’esistenza è quello di avvicinarsi sufficientemente alle
cose e alle persone che da lontano ci sono parse belle e
misteriose, per renderci conto che sono senza mistero e
senza bellezza; è, questa, una igiene per la quale possiamo
optare, una igiene che non è forse troppo raccomandabile,
ma che ci dà una certa tranquillità per affrontare la vita e
anche - poiché ci permette di non rimpiangere nulla,
persuadendoci che abbiamo conseguito il meglio e che
questo meglio non è poi un gran che - per rassegnarci alla
morte. Era uno di coloro che conoscono questa pericolosa
igiene? Io credo di sì (Marcel Proust).
Quali espressioni usò E.S. per aiutare l’impiegato della
Compagnia di assicurazione e riassicurazione a riempire lo
spazio relativo alle cause possibili del sinistro (crollo della
casa)?
Provvidenza; dito di Dio; Deus ex machina; ratto,
comune; maleficio.
Che cosa gli sembrava possibile?
Di essere stato vittima di un attentato preparato con
cura. Infatti, basta che una persona (e qui ne erano state
senza dubbio coinvolte parecchie) concentri la macchina
omicida dei suoi desideri contro un’altra persona, perché
una casa crolli sulla testa di quest’ultima, o essa si ammali
o muoia all’improvviso. Di casi del genere aveva già letto:
questo tipo di malefici e di pratiche magiche risulta agire
ancora con molta efficacia presso certe tribù primitive
(nonostante le affermazioni dei positivisti europei).
Comunicò a qualcuno questa sua idea?
In tono scherzoso, disse al signor Gavanski che a far
crollare la casa erano state con tutta probabilità Neti e
compagnia e a questo proposito citò alcuni esempi della
storia europea (tratti da « Selezione»): nel 1437, un certo
Hubert (cognome sconosciuto) di Ratisbona, in Baviera,
aveva deciso di accecare una donna di nome Ivanka, vedova
di Ivan Pagani, perché lo aveva offeso, e a tale scopo,
secondo quanto confessò egli stesso, trafisse con due chiodi
il ritratto della donna che aveva fatto il più somigliante
possibile; nel 1640, una certa Magda Muhić, della periferia
della libera città di Zagabria, per danneggiare la signora
Jelenovačka, aveva riempito una fossa di latte, poi vi aveva
compiuto sopra un sortilegio con un attizzatoio
incandescente, pronunciando le seguenti parole: «Adesso
questo attizzatoio trafigge il cuore di Jelenovačka», e in
conseguenza di ciò quest’ultima morì; nel 1327, il re di
Francia Carlo IV si ammalò gravemente e il giorno di san
Bartolomeo fu trovata in camera di una certa Caroline,
fantesca a corte, una statua di cera che raffigurava assai
fedelmente il re, tutta trafitta da chiodi e da ferri da calza,
e per quante erano le ferite e i buchi sulla statua, tanti
erano i punti del corpo che tormentarono il buon re fino a
che ne morì; nel 1864, una domestica dei dintorni di
Nagykanizsa uccise in modo simile i suoi vecchi padroni: le
sue vittime morirono di commozione cerebrale.
E lui, E.S., era stato mai tentato di vendicarsi di
qualcuno in questo modo?
Si era soffiato più volte il naso in pagine di giornale con
la foto del Führer.
Ma era consapevole del pericolo a cui si esponeva?
Altroché. Per questo piegava e ripiegava il foglio di
giornale e solo quando questo era ridotto ai minimi termini
lo buttava in un luogo sicuro: in un folto cespuglio oppure
nel fiume, facendo così scomparire anche l’ultimo corpus
delicti della sua folle e pericolosa macchinazione.
Considerando Tessersi salvato da sotto le rovine della
casa come un fausto presagio e un segno della provvidenza,
quali possibilità vedeva per il futuro?
Una violenta controffensiva degli Alleati, preceduta da
un lancio di paracadutisti improvviso e ben preparato,
attuato di notte, contando sull’effetto sorpresa (i
Maccabei); un attentato simultaneo contro il Führer e gli
altri pezzi grossi delle potenze dell’Asse, organizzato da
qualche centro di spionaggio in Svizzera; la scoperta da
parte degli Alleati di un’arma supersegreta, un gas nervino
o qualche altro tossico capace di tenere per un periodo di
almeno ventiquattro ore i soldati nemici in uno stato di
incoscienza o di completo delirio; un accordo in base al
quale gli Alleati avrebbero scambiato gli ufficiali e i soldati
prigionieri con la vita degli ebrei, in un rapporto che
avrebbe potuto essere di 1:5 e 1:3 (cinque ebrei per un
ufficiale o tre ebrei per un soldato semplice); il permesso
rilasciato agli ebrei di emigrare in un paese africano o in
un’isola deserta, permesso ottenuto dagli Alleati a prezzo di
certe concessioni territoriali; un sensazionale sequestro del
Führer (opera di un folle Maccabeo o di una organizzazione
sionistica segreta), in cambio della cui vita si sarebbe
richiesta la garanzia per gli ebrei della diaspora di poter
emigrare in U.S.A., Canada, Palestina o in qualche paese
africano; l’atterraggio di un aeroplano alleato danneggiato
tipo « superfortezza » nel territorio del villaggio, sul Campo
grande o sulla via Romana, aeroplano che sarebbe stato
riparato nel corso della notte per partire il mattino dopo
con lui (E.S.) e la sua famiglia verso un aeroporto fuori
della portata del male (per esempio, in Svizzera); un
viaggio con documenti falsi in Montenegro, dove, tramite la
moglie, aveva parenti e amici e dove, di notte, nel golfo di
Cattaro, in un luogo convenuto in precedenza, sarebbe
stato preso a bordo da un sommergibile inglese; un segno
celeste che gli avrebbe indicato una concreta possibilità di
salvezza: una voce che gli avrebbe detto in sogno (roveto
ardente) il luogo di atterraggio dell’aereo venuto a
prelevarlo o dell’approdo del sommergibile su cui doveva
imbarcarsi (arca di Noè), ecc.
Quale ringraziamento talmudico apprezzava in
particolare per la sua moralità estetizzante?
Quello che esige dai figli di Israele di rivolgere parole di
gratitudine a Yehovah nel momento in cui sentono il dolce
effluvio di una pianta odorosa o la fragranza di una spezia:
l’intensa scia di profumo lasciata dietro di sé da una
signora civetta (sui trent’anni) che incrociò di ritorno da
Novi Sad nel corridoio del treno, davanti a uno
scompartimento di prima classe (Paradiso perduto); il
profumo di cannella e di vaniglia sprigionato dal dolce
ancora caldo che una prosperosa signora (madre di due
gracili bambini) tagliò sulla tavoletta sotto il finestrino,
offrendogliene un pezzo che lui, scacciato dal paradiso,
rifiutò cortesemente; il profumo del mazzolino di violette
che una giovane zingara gli mise sotto il naso alla stazione
di Lenti.
Come associava E.S. nella coscienza e riconciliava nello
spirito il ringraziamento talmudico che si riferisce ai
profumi con l’estetica cristiana (scolastica), nell’esempio
concreto del profumo della signora civetta davanti allo
scompartimento di prima classe (Paradiso perduto)?
Credendo con pari fede nell’espressione di gratitudine
rivolta in cuor suo a Yahveh ed essendo al tempo stesso
consapevole del fatto che san Bernardo aveva ragione
quando attribuiva ai profumi un potere funesto per la
ragione (odoratus impedii cogitationem). Quella signora
profumata, che era apparsa un istante scomparendo subito
dietro la porta dello scompartimento di prima classe, aveva
reso col suo odore (odor di femmina)1 più pesante e
doloroso il suo esilio, e più confusi i suoi pensieri.
Aveva mai comprato prima dei fiori?
Nel 1919, a Budapest, aveva acquistato un mazzo di
narcisi (un fiorino l’uno) destinato a una certa Fanika, che
egli attese inutilmente per quarantacinque minuti buoni
davanti al ristorante New York, stringendo in mano questo
mazzo, che poi buttò in un secchio della spazzatura; nel
1928, aveva portato di persona un mazzo di rose (sette, a
mezzo pengő l’una) al matrimonio della contessa Arcybasev
con un certo Arnold Wenzel, impiegato al Lloyd danubiano;
nel 1931, aveva deposto personalmente sul feretro della
signorina Maricki una rosa bianca (da un dinaro); nel 1931-
32, aveva inviato, dapprima in maniera anonima poi con un
biglietto da visita, sette volte sette rose, sei volte tutte
rosse e la settima volta sei rosse e una bianca (da mezzo
dinaro a un dinaro l’una!), all’indirizzo della signora
Horgós, Novi Sad, via San Saba 8; nel 1934, aveva portato
un mazzo di anemoni alla figlioletta del signor Gavanski,
che si era ammalata; sempre nel 1934, al caffè Il Leone d’
Argento di Subotica, aveva comprato un enorme mazzo di
garofani (una trentina), facendone dono alla cassiera dai
capelli rossi (nome sconosciuto) che lavorò in tutto tre
giorni in quel locale; nel 1938, al ballo dei ferrovieri di Novi
Sad, aveva fatto consegnare da un cameriere tre tulipani
(tre per due dinari) a una certa signorina Magdalena,
parrucchiera.
Quale argomento addusse E.S. per dimostrare al
padrone dei due cavalli la giustezza del prezzo del
trasporto, cioè un pengő?
Che il prezzo di un pengő, che aveva intenzione di
pagargli, era del tutto adeguato se si teneva conto del fatto
che lui, cioè il cocchiere, si proponeva comunque di andare
in quella direzione, verso il villaggio, e che qualsiasi calcolo
matematico gli avrebbe dimostrato chiaramente che due
cavalli attaccati a una buona carrozza (come accadeva in
quel caso) non potevano in nessun modo, con un
sovraccarico di settantatré chili di peso vivo, perdere
(nonostante il fango, perché in questa operazione l’effetto
del fango, in quanto incognita, non poteva essere preso in
considerazione) tanta energia quanta se ne poteva
ricuperare col fieno o con granaglie ricche di calorie
(avena, granturco, segala) acquistabili con un pengő.
Il padrone dei due cavalli rimase convinto da questo
calcolo?
Per convincerlo, E.S. dovette addurre anche l’argomento
dell’effetto morale che può procurare un pengő buttato sul
piatto della bilancia il giorno del giudizio: quest’unico
pezzo di latta può essere decisivo nel momento di porre
sulla bilancia della giustizia divina da un lato le buone
azioni e dall’altro i peccati.
Quali sono i vantaggi della primavera (tempo della
fioritura e della germinazione) rispetto all’invemo?
È possibile, al riparo dal vento, esporre le reni ai raggi
del sole, gradevoli e utili alla salute, attenuando così i
dolori reumatici; la luce in camera, di prima mattina,
procura sensazioni piacevoli e ci si sveglia più facilmente;
si può leggere a letto senza paura di raffreddarsi; si può
rimanere nel gabinetto quanto si vuole, sfidando così la
stitichezza; si possono fare lunghe passeggiate nei campi
per tutta una giornata, sulla riva del fiume o nel bosco; si
possono studiare la germinazione e la fioritura su ottimi
campioni che, contrassegnati, serviranno nel corso
dell’anno come specimen dell’intero ciclo biologico; il
cinguettio degli uccelli produce nell’anima un sentimento
piacevolmente doloroso di libertà; il problema del
riscaldamento e del vestiario acquista un’importanza
secondaria; l’alimentazione è facilitata dalle erbe selvatiche
primaverili e da varie altre piante; l’igiene corporale
(radersi, lavarsi) da dovere si trasforma in piacere; le
donne e le ragazze scoprono le gambe fino al ginocchio e
anche sopra il ginocchio.
Qual è l’effetto negativo della primavera (tempo della
crescita e della fioritura) sull’uomo?
I manicomi accolgono un maggior numero di pazienti, la
curva statistica dei suicidi sale pericolosamente.

1. In italiano nel testo [N.d.T.].


APPUNTI DI UN FOLLE (III)

36

(MINUTA). Non spaventatevi, non vengo in visita di


famiglia! Pur essendo convinto che non avete rotto ancora
tutti i ponti, vorrei credere che abbiate agito almeno in
parte sotto l’influenza di un estraneo, voglio dire: contro
coscienza. Motivo della mia venuta: la cartolina postale del
9 marzo u.s. grazie a dio, non ho bisogno di denaro (quindi
non abbiate paura!) e spero di non averne bisogno, perché
cercherò in tutti i modi di impedirvi di vendere la casa che
finora dava asilo a chi si trovava in difficoltà, e anche a me.
Perciò, non fosse altro che per gratitudine verso di essa,
cercherò in tutti i modi di impedirne la vendita. La
conseguenza è evidente: non desidero denaro, ma la mia
parte di casa, e subito! in una parola, da voi non voglio
altro che questo: che firmiate la dichiarazione (acclusa alla
presente) e mi diciate che cosa ne è stato della parte di
casa che spetta a Dolfi; e io scomparirò. in caso contrario,
cioè se rifiuterete di firmare l’attestato che allego, non mi
muoverò di casa finché non avrete soddisfatto la mia
richiesta. E se vi opporrete, solleverò un tale scandalo che
se ne parlerà non solo nella nostra provincia ma in tutta la
nazione. Non ho sopportato i miei Lehrjahre perché voi
adesso, approfittando della mia bontà, mi stiate a
minacciare ogni giorno, né per dover subire prepotenze
nella mia casa da parte di individui che non hanno con essa
alcun rapporto (intimo). Dal momento che non avete voluto
capire le mie lamentele e le mie lettere amare, dal
momento che non avete saputo, o voluto, comprendere il
dolore della mia anima malata, accrescendolo anzi ancor
più col vostro comportamento, ora la pagherete cara. Non
starò a descrivervi nei particolari tutto quello che mi è
accaduto in questi giorni, le ingiustizie che mi hanno
inflitto i miei parenti, non vi parlerò di certi strani segni
(celesti) - tutto ciò oltrepassa le capacità della vostra
immaginazione. Da voi voglio solo che non facciate ricorso
a opposizioni o sotterfugi, e desidero una sola cosa: che
firmiate, perché ripeto che nella casa in cui sono nato, per
la quale mi sono privato di tante cose, per la quale ho tanto
sofferto, voglio essere il padrone io, e non permetterò a
nessuno di farmi prepotenze. Vi avverto che il tempo e la
storia procedono e che entrambi, sia lode all’Onnipotente,
mi danno ragione. Vi prego di non costringermi, con un
comportamento arrogante, a compiere un gesto a cui non si
potrà più porre rimedio. (Il caso del bosco e della potassa
non si ripeterà!). Vi ripeto che la storia e il tempo mi danno
ragione e che presto tutte le cambiali esigibili saranno
pagate, ma non ci sarà pietà per nessuno. Perché, come
dice il Talmud (Sanhedrin, 100), l’uomo sarà giudicato con
la stessa misura con la quale egli giudica.

37

Nonostante la critica di Marx, credo che Malthus avesse


ragione. E per provare la mia tesi, voglio dire le mie
speculazioni, mi è ora perfettamente indifferente stabilire
se quel signore, cioè Malthus, fosse solo un allievo
superficiale o un plagiario di idee altrui. A me interessano
solo le idee e non importa, quindi, se ha copiato James
Steuart, Townsend, Franklin e compagnia bella. Perché, sia
come sia, resta il fatto che il mondo si è accresciuto troppo
e che la popolazione naturale diventa il problema numero
uno. Problema economico ed esistenziale. Metafisico, se
volete. Gli uomini si moltiplicano come mosche, e ad ogni
istante ci sono parecchi milioni di membri in stato di
pericolosa e minacciosa erezione. E le conseguenze sono
evidenti. Questo fallo impazzito, questo simbolo mitico
originario, fruga nelle sanguinanti viscere femminili,
l’umanità ansima nelle notti afose e nessuno più pensa alle
conseguenze. Ma le conseguenze sono catastrofiche... Con
la moltiplicazione degli uomini si moltiplica anche il
peccato. Perpetuum mobile. Come quel tentativo
medioevale di utilizzare l’attrazione terrestre. Su una ruota
sono disposti pesi a intervalli regolari. La forza di gravità
attira un peso, questo peso mette in moto la ruota, allora il
peso successivo entra nel campo magnetico della forza di
gravità. E così via. Qualcosa come i mulini ad acqua o a
vento. E perché fu allora giudicato follia questo sogno
umano di rotazione perpetua? Il sogno del perpetuum
mobile non è forse altrettanto degno di attenzione e di lode
dell’eterno sogno di volare? I vari Icari e gli altri esaltati
come lui erano forse davvero pazzi? Niente affatto! Quanto
a me, io metto un segno di uguaglianza tra questi due
sogni. Perché, in fin dei conti, anche la ruota è nata come
conseguenza di un tale sogno. E lascio a voi di sviluppare
questo parallelo fino in fondo. Voglio dire fino all’aereo, da
un lato, e alla ruota, dall’altro. Prego. Questo ronzio al di
sopra della mia testa nella tranquilla notte della campagna
(mentre scrivo queste righe), in qualche punto a grande
altezza, questi aerei che sorvolano il villaggio giorno e
notte, ad altitudini tra i cinque e i diecimila metri, con rotta
sudest-nordovest, questo miracolo della tecnica (bellica)
moderna, anche questo è solo l’unione e l’estrema
conseguenza di quei due folli sogni che gli oscurantisti e i
positivisti per secoli hanno dichiarato pazzia. Dal Medioevo
ai nostri giorni, i medici hanno diagnosticato migliaia di
casi di pazzia, avendo come corpus delicti di tale pazzia
appunto prove materiali o la sola ammissione di questo
desiderio idealistico di diventare uccello! E non
consideratemi questo « eterno sogno di volare » semplice
curiosità, semplice desiderio di conoscere, perché, vi
assicuro, vi ingannereste. Io affermo, e ho per farlo prove
inconfutabili (se siete in grado di accettare come prove
evidenti i risultati lirici di una operazione logica), che il
sogno umano di volare, come la sua realizzazione, non è
altro che la conseguenza del desiderio di fuggire il peccato.
Perché la Terra, signori, è il ricettacolo di tutti i vizi; la
Terra e l’Acqua sono, come ha dimostrato il celebre
Sinistario d’Ameno, due concetti inseparabili, e non è
quindi meraviglia (lo cito, a memoria naturalmente) che i
poeti abbiano fatto nascere Venere dal mare, volendo così
di certo unire in questa immagine simbolica due princìpi
peccaminosi: la Terra e l’Acqua, due ambienti viscosi che,
rimestati, generano l’uomo e il peccato (il peccato e
l’uomo). Dunque, dico, non solo la Terra, ma anche l’Acqua,
anzi soprattutto quest’ultima, sono il ricettacolo del
peccato e del vizio, e la lussuria ha la sua fonte
nell’umidità. Ecco perché l’uomo tende verso l’alto, ecco il
senso eterno del mito di Icaro... Non intendo citare qui i
dati precisi sulla popolazione, né provare l’esattezza delle
progressioni geometriche e delle formule di Malthus (tutto
ciò lo si può trovare in qualsiasi enciclopedia). E neppure
desidero, come un rabbino di provincia (così una volta
avete voluto definirmi), annunciare l’apocalisse e
dimostrare a chicchessia, a voi poi meno di tutti, che il
mondo è ineluttabilmente destinato alla rovina. Io non ho
bisogno per questo di prove più evidenti di quelle che già
ho. E dove sono queste prove? mi chiederete.
Qui, signori, qui, mia cara sorella. Guardate bene: vi sto
mostrando il mio cuore!

38
Vi parlo, quindi, da iniziato ai misteri. Il mondo si è
pericolosamente moltiplicato. Ma non ho intenzione in
questo momento di dirvi come appare il nostro mondo
considerato da un punto di vista più alto e più morale. Dico
solo che il mondo si accresce a un ritmo spaventoso e che i
mezzi con i quali l’umanità cerca di salvarsi sono
assolutamente insufficienti e inefficaci. La sterilizzazione
coatta o volontaria, la pianificazione familiare, le guerre
come applicazione spontanea dei princìpi di Darwin, la
selezione naturale, le carestie, l’eutanasia e tutto il resto
non sono altro che tentativi ridicoli e vani. La Cina con i
suoi cinque o seicento milioni di abitanti, questo pericolo
giallo così a lungo annunciato e col quale ci viene messa
paura da tanto tempo, non è il solo pericolo che minaccia il
mondo. Non temete l’invasione delle formiche gialle! Il
castigo di Dio non viene dalle paludi. È dal cielo che verrà!
E non ci sarà allora pietà per nessuno. Periranno tutti
ugualmente, e soprattutto periremo noi - gli eletti!

39

(MINUTA). Da questa distanza di tempo e di spazio il


vostro comportamento da maiali non perde nulla della sua
gravità. Pensando a tutto quello che voi mi avete fatto, alla
vergogna di cui mi avete ricoperto, ho l’impressione che
tutto ciò sia stato un incubo. Ti scongiuro, quindi, perché
purtroppo sono ancora in grado di distinguere l’incubo del
sonno dall’incubo della veglia, di impedire a tua figlia e a
Georges di fare del male ai miei, perché non prenderò in
nessuna considerazione ogni eventuale scusa che
sarebbero stati loro (cioè mia moglie e i miei figli) a
cominciare la disputa con voi. Ed è meglio, credimi, che
non si giunga a questo! E ugualmente ti prego, te
personalmente, (li assicurarti che al mio ritorno io trovi i
miei in vita, perché spero che tu abbia ancora abbastanza
cuore da non permettere che muoiano di fame. E non
dimenticare quello che dice il Talmud: Quando facciamo del
bene, dobbiamo farlo con gioia (Vajkra rabba, 34).
P. S. Il povero fa più lui del bene al ricco accettando il
suo dono che il ricco mostrandogli la propria bontà
(ibidem).
SCENE DI VIAGGIO (II)

40

L’albero appare tra le teste dondolanti dei cavalli, poi


prende a danzare tra i loro orecchi. È il cocchiere che,
svegliato di colpo, ha tirato bruscamente le redini, accanto
all’ingresso della recinzione metallica. L’uomo vede i musi
digrignanti rivolti un poco in alto e di lato (i grossi denti
equini, che hanno il colore delle vecchie tessere di domino,
tutti neri internamente), e vede per un attimo la schiuma
bianca sul ferro tra le mandibole dei cavalli. L’albero è
leggermente inclinato e, sotto la chioma, si scorge una
escrescenza tagliata in diagonale che si allunga quasi
diritta, ad angolo retto. I rami sono avvolti da una sottile
pellicola gelata, perfettamente trasparente e a tratti esile
come un foglio di cellofan. Anche l’albero è fasciato da
questo involucro vitreo, ma ancor più sottile, specialmente
dal lato esposto al sole, sicché sulla sporgenza orientale è
possibile scorgere chiaramente la corteccia appena
aggrinzata. Si sente il ritmico sgocciolare dell’acqua dai
rami, lo stillicidio nelle grondaie di lamiera. Ora le teste dei
cavalli sono rivolte di lato, di lato e verso l’interno, verso il
timone del carro che si trova quasi all’altezza dei loro
occhi, perché sono piegate in modo innaturale, come se i
due animali si voltassero bruscamente, in modo assurdo e
impossibile, uno a sinistra e l’altro a destra, non
scostandosi dal timone ma verso di esso, in quel piccolo
spazio dove non possono evitarsi. Il carro si è fermato
stridendo e cigolando, ma sembra muoversi ancora
leggermente, all’indietro. L’uomo scorge ora i due grandi
occhi neri dei cavalli dietro i paraocchi allentati. I cavalli
guardano, a lui almeno così sembra, davanti a sé, come
attratti verso quella prospettiva indeterminata e indefinita
dalla stessa forza d’inerzia che li ha sospinti fin là, tanto
che i loro occhi, rivolti a forza, insieme con la testa, in
basso e all’interno, verso il timone del carro, sembrano
prolungare da soli (o più esattamente con il loro sguardo
guercio) la linea del movimento del carro ormai fermo.
L’uomo volge ora lo sguardo all’indietro e percorre con
l’occhio il carro vuoto su cui brillano al sole alcuni fili di
paglia particolarmente gialli. Poi scorge i cerchi di ferro
delle ruote posteriori, ispessiti di fango, e dietro, su
entrambi i lati, parallele, le tracce fresche delle ruote nel
terreno fangoso.

41

Il raggio quadrato del sole, che penetra attraverso la


piccola finestra, cade ora, senza incontrare alcun ostacolo,
sull’argilla gialla. L’uomo ha l’impressione che l’argilla
fumi. O forse è solo un’illusione. Il suo cappotto dai gomiti
infangati è poggiato sulla sedia. Porta pantaloni schizzati di
fango e calosce ai piedi. Ha la cravatta allentata e le
maniche della camicia rimboccate. Tiene in mano una
vanga, già un poco arrugginita ma ancora brillante sotto la
ruggine che si è depositata sul taglio in forma di minute
goccioline. L’uomo poggia la lama proprio sul margine del
quadrato disegnato dal sole, poi preme la vanga, facendovi
forza sopra con tutto il peso del corpo. La lama affonda
nell’argilla per cinque o sei centimetri, poi rimuove una
zolla di dura terra gialla.

42
La sua giacca dai gomiti infangati è gettata su un
mucchio di mattoni che si alza a una decina di metri da lui,
ed egli vede la stella gialla completamente deformata, non
tanto dalla prospettiva quanto dalle pieghe della giacca. I
mattoni sono gettati in un mucchio, alcuni totalmente
informi, altri spezzati in due, altri ancora appena sbreccati.
Il loro colore è ormai completamente sbiadito come se il
mattone col tempo si fosse trasformato in pietra, o forse si
ha questa impressione a causa dello strato di intonaco
indurito che si è attaccato alla carne del mattone,
fondendosi con essa. Sotto la manica sinistra della camicia
rimboccata fino al gomito (la destra, tutta gualcita e
coperta di fango, gli pende attorno al polso, spiegazzata e
sformata) brilla al sole la sua pelle bianca, picchiettata di
chiazze rosse come una trota. Sull’avambraccio si scorgono
appena i sottili peli rossicci. L’uomo poggia la lama della
vanga sulla terra indurita, poi la preme, facendo forza con
tutto il peso del corpo sul bordo superiore già deformato
dell’attrezzo. Scricchiolando, come se strappasse o
tagliasse delle radici, la lama penetra nella terra per cinque
o sei centimetri, poi la si sente urtare contro qualcosa di
duro. L’uomo si mette a scuotere il manico, da sinistra a
destra, come se il ferro si fosse incastrato. Si sente uno
scricchiolio, come quando il moncone di un dente si spezza
sotto la pinza del dentista. Quindi da sotto terra appare,
rosso e umido, colore della carne fresca, un mattone
sbreccato. L’uomo si china e lo afferra. Ha le palme delle
mani avvolte in uno straccio, forse un fazzoletto, ma non è
possibile vedere né il colore del tessuto né le eventuali
linee dei riquadri, perché il tessuto è tutto ricoperto di
fango ormai indurito. Lo straccio serra la palma della mano
e le dita sono un po’ contratte, strette le une alle altre,
rendendo il movimento della mano insicuro e impacciato.
Volta il mattone di lato, poi lo afferra con le dita come
fossero pinze. Il mattone gli scivola di mano e ricade nel
fango. L’uomo si gira e vede nella luce purpurea del
tramonto la punta affilata della baionetta sul fucile della
guardia. Per un istante è tutto quello che vede, perché la
luce rossastra del sole inonda le lenti dei suoi occhiali sui
quali si scorgono tracce di dita infangate. La guardia sta
seduta su un mucchio di travi marcite, tenendo il fucile tra
le ginocchia. L’uomo capisce che la guardia non bada a lui e
la osserva per un attimo, come se la vedesse ora per la
prima volta. In breve riesce a distinguere nettamente la
figura senza volto, la guardia sullo sfondo rosso
dell’orizzonte, il suo cappello duro sul quale sventolano
penne di gallo, non più verde scuro, ma ora gialle e rosse
come una fiamma. Poi l’uomo abbassa di nuovo lo sguardo
verso il mattone e cerca di sollevarlo con le pinze delle sue
dita che non si aprono a sufficienza. Finalmente riesce a
prenderlo e a gettarlo verso il mucchio. Il mattone cade a
un metro o due di distanza da lui. Allora l’uomo sente che
la guardia gli dice qualcosa, parole prive di senso, forse
un’ingiuria, forse una minaccia. Spaventato, l’uomo si butta
in avanti e subito si trova accanto al mattone che è caduto
nel fango. Sente ancora la voce della guardia. Forse la
guardia ride soltanto.

43

Il quadrato luminoso tracciato dal sole, intorno al quale


l’uomo ha cominciato a scavare l’argilla, si è spostato e sul
suolo, fra il tavolo e la finestra, vi sono ora due quadrati di
pari grandezza: uno più chiaro, tracciato dal raggio di sole,
e l’altro, pure giallo, del colore dell’argilla fresca, appena
scavata. Questi due quadrati si tagliano quasi
simmetricamente, a metà, perché il sole si è spostato di
altrettanto. Il secondo quadrato, quello d’argilla, è scavato
in maniera ineguale. L’argilla estratta è accumulata a lato
della cavità, come grosse schegge di acacia. Su di esse si
scorgono qua e là le superimi levigate e lucenti lasciate
dalla lama della vanga, a tratti tagliate nettamente come in
uno stampo di gesso. Leggermente curvo, con la giacca
gettata sulle spalle, l’uomo è ora seduto a un tavolo
zoppicante, le mani sopra il ripiano. La mano destra è
avvolta in uno straccio, certo un fazzoletto, ma a causa del
fango si scorgono appena le linee dei riquadri. Tra le dita
serrate e fangose, simili a pinze, tiene una sigaretta. Il
fumo della sigaretta si leva in alto, invisibile, poi appare
nella colonna trasparente della luce del sole che cade
obliquamente dalla finestra, e comincia a roteare in quella
luce gialla, come una nebbia azzurra. La vanga è
appoggiata al muro accanto alla cucina economica. Non è
illuminata dal raggio di sole, ma uno sprazzo di luce diffusa
sfiora la lama, ora tutta brillante, perché le gocce di
ruggine sono sparite. Perché l’uomo ha rinunciato di colpo
a scavare? Forse è stanco oppure l’argilla è troppo dura e
ha dovuto smettere. O forse il manico della vanga gli ha
fatto venire i calli alle mani?

44

Afferra il mattone con entrambe le mani, in modo


maldestro, poi prende un po’ di slancio e lo getta in
direzione del mucchio. Il mattone rotola e si sente un suono
simile a quello di birilli di legno che si urtino. L’uomo ha
l’impressione di poter vedere, nonostante il fango che
ricopre le lenti dei suoi occhiali, la ferita color rosso vivo
del mattone e la nube vermiglia della polvere. Ora torna
indietro e prende la vanga che giace in terra, là dove si
vedono ancora chiaramente le impronte delle sue calosce.
Il suo sguardo è diretto alla lama e sembra penetrare con
essa nella profondità della terra. I suoi movimenti sono
bruschi e insicuri, la testa è chinata. A un tratto, un fremito
percorre il suo corpo, un po’ come quando ci si riscuote dal
sonno. È la guardia che ha detto di nuovo qualcosa o è
stato solo un colpo di fischietto? Il fremito dura appena un
attimo. Trascinandosi dietro la vanga, l’uomo si avvicina al
mucchio di mattoni e prende la giacca. Poi marcia in fila,
con la vanga sulla spalla.

45

Avvolto in una coperta grossolana che odora di cavallo,


l’uomo è seduto al tavolo. La lampada non è più sul tavolo,
ma è appesa a un chiodo, sul muro, a sinistra del tavolo, un
po’ più in alto della sua testa. La luce viene dalla finestra
quadrata di fronte a lui. È una luce bianca, di un bianco
grigiastro, più riflesso della neve che luce del giorno. La
finestra vibra sotto i colpi del vento e a volte sembra che,
attraverso fessure invisibili fra il telaio e le assi della
finestra, penetrino fiocchi di neve sottili come aghi. O forse
questa impressione è dovuta solo alle raffiche di vento che
fanno passare attraverso le fenditure ondate di aria gelida.
Leggermente ricurvo, con le mani sul tavolo, l’uomo guarda
verso la finestra. Ma nel riquadro della finestra non si vede
nulla all’infuori del turbinio dei fiocchi di neve e di un
piccolo cumulo obliquo di neve sul bordo inferiore. Le sue
dita si bloccano di colpo e le mani rimangono per un istante
immobili davanti a lui. Poi una mano si tende verso uno
degli opuscoli che stanno in cima a una pila di libri, alla sua
destra. Lo avvicina a sé e lo tiene così, chiuso,
osservandone la copertina come se la vedesse per la prima
volta. È una vecchia rivista unta e con le pagine gualcite.
Sul frontespizio verde vi sono foto pubblicitarie di
pneumatici e grandi lettere stilizzate, di certo la marca
delle gomme. Il titolo è impresso a caratteri più grandi, di
sbieco, sul terzo superiore della pagina, su fondo
grigiorosso: « Selezione ». In un grande riquadro chiaro
sotto il titolo si scorgono parole ordinate in due colonne,
forse l’indice della rivista. L’uomo fa scorrere col pollice le
pagine unte e dagli angoli accartocciati, senza badare
evidentemente al loro movimento rapidissimo. Poi rimette
la rivista sulla pila di libri da dove l’ha presa. Il secondo
fascicolo che ha adesso in mano è in apparenza
perfettamente uguale al primo; le stesse fotografie di
pneumatici con le linee ondeggianti dei rilievi, la stessa
fascia obliqua su cui figura il titolo, lo stesso quadrato
chiaro con l’indice su due colonne. Unica lieve differenza il
colore del fondo. Rimette la rivista al suo posto, si toglie la
coperta di dosso e va alla finestra. Tenendo le mani
incrociate sulla schiena, all’altezza della vita, guarda fuori.
Rapido movimento di fiocchi di neve e a tratti, fra due
raffiche di vento, il profilo incerto di un albero.

46

La giacca buttata sulle spalle, l’uomo ha un grosso fiore


giallo infilato nell’occhiello sinistro. Il sentiero del bosco è
coperto a tratti da una volta di querce. L’uomo tiene in
mano un ramo nodoso con cui colpisce le alte ortiche ai
bordi del sentiero. All’improvviso si arresta: sente dei colpi
di scure. Ora gli sembra di sentire anche delle voci. Si
toglie la giacca e se la mette sul braccio, poi, di colpo, si
trova, abbagliato dal sole, fuori del bosco. Riparandosi gli
occhi con la inano, vede sulla radura, a una decina di passi
davanti a sé, le lame lucenti delle scuri che scintillano come
pezzi di specchio infranto. Non vede ancora chiaramente i
taglialegna, li distingue appena attraverso il fogliame, al
limite del bosco, di fronte, ma ora sente il loro sospiro che
accompagna lo slancio lampeggiante delle lame. Alta sopra
la radura incendiata, la chioma verde di un albero trema. I
fiori e le foglie del sambuco di fronte a lui sono immobili,
come gli alti steli dell’ortica e le cime verdi tutt’intorno.
L’uomo resta un attimo confuso. Guarda in alto, oltre la
cima dell’albero che oscilla, verso il cielo. Il cielo è azzurro,
perfettamente azzurro. Solo in un punto, al di sopra della
cima oscillante, si intravede una nube bianca. Prima ancora
di scorgere tra le pieghe della verde tenda di fogliame i
torsi muscolosi dei taglialegna, capisce che la chioma
dell’albero trema sotto i colpi delle loro scuri. Ma l’uomo
sembra non credere ai propri occhi.
I taglialegna devono averlo visto, perché si sono fermati
tutt’a un tratto e l’uomo ha l’impressione che ora lo stiano
osservando. Si aspetta che si diano subito alla fuga e già si
immagina la scena: gettano le scuri e si precipitano verso le
camicie che hanno appeso sui cespugli vicini. Oppure se le
infilano correndo, e le camicie si impigliano lacerandosi nei
rami degli arbusti e nelle spine dei rovi. Nulla di tutto ciò.
Forse non l’hanno notato? Oppure fanno solo fìnta? Le loro
scuri sono appoggiate a terra col dorso. Le tengono con
una mano come si tiene un bastone. Il sole ha disegnato
chiaramente la linea delle canottiere sulla loro pelle e, se
non fosse per i ciuffi dei peli sul petto, forse l’uomo non
noterebbe subito che sono nudi fino alla cintura. I loro colli
sono rugosi e scuri come la corteccia degli alberi che hanno
davanti. Il tronco è intaccato alla base, in profondità e
obliquamente, da entrambi i lati, in modo simmetrico. Dal
taglio fresco promana un vivo chiarore, come se l’albero
riflettesse una fiamma o avesse in sé una forte sorgente di
luce. La chioma dell’albero non tremola più. I taglialegna
cambiano le scuri: le sollevano con una mano, poi con due.
Le agitano in aria come se dovessero colpire un tronco.
L’uomo si è ormai avvicinato, in linea retta, attraverso
l’erba alta e i biancospini. Sente uno dei taglialegna dire
qualcosa, sempre senza guardarlo: che il manico è un po’
troppo sottile, che lui è abituato alla sua scure e che questa
è la scure di suo figlio, o di suo fratello; qualcosa del
genere. Allora l’uomo capisce che essi fingono e che non
fuggiranno. Gli dicono che li ha fatti venire « il signore».
Quale signore, domanda l’uomo. «Il signore». Poi, senza più
badare a lui, riprendono a provare le scuri, fendendo l’aria
con colpi forti e ritmati, accompagnati da profondi sospiri.
L’uomo già pensa di voltarsi e andar via quando uno dei
taglialegna dice, trattenendo la lama scintillante alta sopra
un albero immaginario: «Quello con la gamba». Poi
riprendono a fendere l’aria con le scuri. A torso nudo, sono
di nuovo l’uno di fronte all’altro (come erano certo poco
prima, quando l’albero risuonava) e brandiscono le lame
scintillanti nel raggio di sole che cade obliquamente dalla
chioma dell’albero intaccato e si innalza tra loro come
un’alta colonna splendente.

47

Dal quadrato della finestra, fra i grossi fiocchi di neve


che volteggiano, si intravedono solo gli alti rami di qualche
albero. I rami sono ricoperti di spessi strati di neve e le loro
punte sottili si perdono nella bufera. L’uomo si alza e si
avvicina alla finestra. Ora scorge anche il tronco, quasi
interamente bianco, almeno dal lato che lui vede.
A sinistra dell’albero, il muro cieco di una casa e, più in
là, nella direzione dell’albero, si intravedono appena,
attraverso la cortina di neve, le maglie arrugginite della
recinzione metallica. Senza dubbio anche queste maglie
sono adesso completamente bianche, contornate dalla neve
che vi si è attaccata, restringendole. Forse anzi la neve le
ha completamente ostruite, trasformando la recinzione
metallica in un bianco muro di neve. In lontananza risuona
il latrato di un cane, debole, come attraverso una falda di
ovatta. Ma l’uomo non vede il cane, non vede niente.
Tranne l’albero imbiancato e il muro cieco della casa.
All’improvviso, attraverso i fiocchi di neve, scorge un
oggetto nero, quadrato. Questo oggetto si avvicina di lato,
dalla parte dove si alza il muro cieco. Per un istante, l’uomo
non capisce che cosa sia. Solo quando una mano invisibile
volta l’oggetto verso di lui, riesce a capire. Subito dopo
scorge anche un uomo. L’uomo è zoppo. È avvolto anche lui
in una coperta color grigio cenere, assai simile alla sua. Gli
sembra di sentire anche l’odore della coperta: un odore di
cavallo e di orina. La testa e le spalle sono bianche di neve.
È tutto piegato sulla cucina economica che sta spingendo.
La macchina è nera, forse arrugginita; avanza lentamente
nella neve alta che taglia a metà le gambe dell’uomo. Poi la
cucina economica e l’uomo che la spinge scompaiono dal
riquadro della finestra. E lui non riesce più a vedere le loro
tracce nella neve.

48

(L’uomo col bastone sta in piedi davanti alla porta.


Davanti a lui si stende un muro cieco e basso, una
recinzione di pietra o la parte posteriore di una casa.
A sinistra, un altro muro, con finestre dalle imposte
sbarrate. A destra, una grande porta a volta. Sotto la volta,
nel punto dove la neve è stata sgombrata, siede un uomo,
con le gambe incrociate all’orientale, la schiena appoggiata
al muro. In testa ha un cappello scuro deformato intorno al
quale si vede chiaramente la traccia più cupa del nastro
staccato. Dalle scarpe infangate spuntano le caviglie nude.
Accanto a lui c’è una stretta cassetta di legno fasciata di
sottili lamine di latta simili a foglie di stagnola. Da un
cassettino tira fuori una piccola incudine da zingaro e la
fissa tra due delle pietre levigate di cui è pavimentato il
cortile. In mano tiene un martello. Ora prende una delle
pentole ammaccate che sono poste accanto a lui. Dopo aver
asciugato con la palma della mano il fondo smaltato, la
solleva verso la luce. L’uomo gli chiede qualcosa. L’altro si
stringe nelle spalle e continua a battere leggermente.
L’uomo gli ripete la domanda e lui dice che la signora ha
ospiti. L’uomo col bastone allora tace, ma resta ancora
qualche momento accanto a lui. Sente lo smalto crepitare,
con un suono prolungato. Guarda introdurre nella latta
delle vecchie padelle fili di piombo simili a pallottole di
revolver calibro 6,35).

49

I sottili piedini di lamiera della cucina economica,


completamente sconnessi, oltrepassano la soglia bassa
dell’ingresso. La cassa nera avanza lentamente, con un
tintinnio metallico. Si sente all’interno sbattere qualcosa:
deve essere lo strato di fango e di argilla che si stacca.
Colui che la spingeva ora si raddrizza. Rimane un attimo
immobile, come accecato. La porta dietro di lui è
spalancata e lascia passare la debole luce del pomeriggio
d’inverno. Sembra che ora abbia scoperto nella penombra,
a sinistra, vicino alla piccola finestra, la persona che lo sta
osservando. Scuotendosi la neve dalla spalla, quello che è
entrato dice qualcosa. L’altro non lo sente, o fa finta di non
sentirlo. All’improvviso, l'uomo vicino alla finestra getta via
la coperta dalle spalle e si avvicina all’angolo. L’altro lo
perde di vista per un attimo. Solo per un attimo. Poi viene
fuori dall'oscurità, tenendo davanti a sé il bastone. Senza
dire una parola, si avvicina alla cucina economica e
all'uomo che ansima accanto a essa. Tiene il bastone
sollevato da terra, obliquamente, puntato al fianco della
cucina economica. Subito dopo, si sente un colpo. La punta
ferrata del bastone si è piantata nel fianco della cucina
economica. Si sente scricchiolare la lamiera e staccarsi
l’argilla. Il bastone è penetrato a fondo nel metallo
imputridito. L’uomo lo tira fuori a fatica: cadono pezzi di
ferro corrosi, simili a cenere. Allora l’uomo dà un forte
calcio alla lamiera. La cucina economica si rovescia nel
vano della porta, lentamente, prima di lato, poi roteando
attorno al suo asse longitudinale.

50

L’uomo si è fermato un istante, forse per considerare il


cammino percorso. Ora non sente più lo scricchiolio delle
proprie scarpe. Il vento reca da una distanza indefinita il
latrato di un cane, prolungato, teso. Dovunque penetri il
suo sguardo attraverso la notte e la tormenta, l’uomo non
vede nulla, non un’ombra, non un movimento. Di nuovo in
posizione di schermidore, tende l’orecchio. Il cane invisibile
abbaia in lontananza; il vento spezza e disperde il suo
latrato.
Un ragazzino appare all’improvviso, sbucando dalla
tormenta, proprio davanti al suo bastone; il bastone è
puntato verso il petto del ragazzo. L’uomo lo vede aprire la
bocca come un pesce, ma non lo sente perché la bufera
cancella la sua voce. Il ragazzino si accosta fino a sfiorare
col petto la punta ferrata del bastone. Di nuovo dice
qualcosa, cercando di dominare l’ululio del vento. Poi,
comprendendo che l’uomo non lo sente, afferra con la mano
il bastone, all'estremità, sotto la punta. Ora il ragazzino
cammina davanti all’uomo, tenendo il bastone. L’uomo
avanza lentamente, come guidato dalla sua mano. Avanzano
così, tenendo il bastone ognuno a una estremità, avanzano
nella neve e nella tormenta.
APPUNTI DI UN FOLLE (IV)

51

Consapevole del fatto che sono incapace di attentare


alla mia vita, perché mi ripugna il mio corpo, mi ripugnano
la morte, il sangue e tutti gli accessori della morte, corda,
rasoio, arma, ho sentito, poco fa, quando mi sono diretto
verso il villaggio, accompagnando mio figlio alla porta, ho
sentito a un tratto come un’illuminazione che mi svelava la
possibilità di liberarmi senza dolore di tutte le paure e di
tutte le preoccupazioni, senza d’altra parte dovermi esibire
in uno spettacolo granguignolesco: la morte nella neve, una
morte dolce, senza sangue e senza mutilazioni del corpo,
senza dolore e senza violenza!
Perché il cerchio si chiude. Il mio ritorno al villaggio
natio non è altro che questo: il ritorno alle origini, il ritorno
nel grembo della terra, l’ultimo grado del grande cerchio
che ogni essere vivente descrive nella sua traiettoria
vertiginosa tra la vita e la morte, finché questi due punti
estremi non si congiungono tra loro.
In realtà, questa non era una decisione, non è stata mai
una decisione, perché per una decisione occorre la volontà,
era solo un vago proposito che ho tentato di far passare di
contrabbando non solo nella mia natura animale ma anche
nella mia coscienza, perché se solo me la fossi figurata
davvero, forse l’avrei fatta finita.

52
La natura regna su tutto, tranne che sulla paura che
essa suscita (T. Berakoth, 33 B).

53

Questa sensazione di essere stato abbandonato dal mio


proprio Io, questo vedermi con gli occhi di un altro, questo
rapporto con me stesso come con un estraneo1 sulla riva
del Danubio, mentre ero in fila.2 Era la medesima
sensazione: da una parte E.S., cinquantatré anni,
coniugato, padre di due figli, riflette, fuma, lavora, si rade
con un rasoio di sicurezza, e dall’altra, accanto a lui, anzi in
lui, in qualche punto al centro del suo cervello, come in
sogno o in stato di dormiveglia, vive un altro E.S., che è e
non è Me, giacché, mentre l’uno si rade, con un movimento
preciso della mano che non trema, l’altro, ridotto alle
dimensioni di un embrione, fa cose del tutto diverse, si
occupa di una faccenda completamente sconosciuta ma
pericolosa, e io a tratti, in un lampo, lo colgo in flagranti a
fare qualcosa d’altro, qualcosa di assolutamente
incomprensibile per me, perché ciò che quest’altro fa non
solo non ha il benché minimo rapporto con il fatto di
radersi, di farsi il nodo della cravatta o di mangiare, ma
non ha nemmeno niente a che vedere con le mie riflessioni,
col corso dei miei pensieri, né con le mie azioni: è qualcun
altro! Ma la cosa più terribile in questa storia è che non
posso sapere esattamente che cosa fa quest’altro (mentre
io, ad esempio, mi rado), che cosa orribile, perché me la
nasconde, e quando mi sembra, mentre sono impegnato a
radermi, di averlo afferrato alla gola, di averlo preso sul
fatto, quest’altro mi sfugge, nascondendosi in qualche
punto del mio cervello, e io non posso mai averlo
completamente in mio potere, chiedergli conto delle sue
azioni o almeno farlo uscire alla luce del giorno e lasciarlo
andare alla mercé di Dio, senza una parola di rimprovero o
di biasimo. Che fa dunque quest’altro mentre io mi rado?
Attraversa regioni sconosciute, pronuncia suoni
incomprensibili, parole e frasi incomprensibili, ma non
prive di senso, solo che le dice in un sussurro, oppure, se le
articola distintamente, le fa seguire da un flusso di altre
frasi e suoni sconnessi, probabilmente per costringermi a
dimenticare il significato del tutto chiaro e inequivocabile
delle prime parole, del tutto chiare e sufficienti per
comprendere il significato dell’intero testo, per intenderne
l’idea. Quest’altro si muove in regioni a me sconosciute e
quando lo sorprendo per un istante, fingendo di essere
tutto preso dalla rasatura e dai peluzzi che si nascondono
negli angoli delle narici, riesco a volte, per un istante, per
un solo istante, a vederlo, quest’altro, mentre va a un
funerale, dietro il corteo, senza però sapere esattamente se
è quest’altro a trovarsi nel carro funebre oppure se sta
seguendo il funerale per caso, ma l’istante dopo (o
piuttosto nello stesso istante) non si capisce più se si tratta
di un carro funebre o solo di una vettura di piazza laccata
di nero e se quest’uomo è davvero lui, l’Altro. Ma la cosa
peggiore in questa caccia all’Altro che è e non è Me è il
fatto terribile che quest’altro, il quale è unito a me come
fossimo fratelli siamesi, per la spina dorsale, il cervello e il
simpatico, questo mio fratello siamese, che avanza solo e
rivolto in un’altra direzione, con le braccia e le gambe
completamente libere, questo mio Io-non-io pensa in fondo
con la mia testa, ruba le idee del mio cervello, come se
anche i nostri cervelli fossero uniti o chiusi in uno stesso
cranio mostruoso, formato da due crani concresciuti in un
unico mostruoso Wasserkopf che ospita due cervelli, l’uno
accanto all’altro, e i pensieri dell’uno passano nell’altro, ma
in modo niente affatto chiaro, bensì insufficientemente
articolato, perché si disturbano a vicenda, come quando si
ascolta, nel dormiveglia, una conversazione che si svolge al
di là di una parete, una spessa parete che separa e unisce
al tempo stesso due stanze: nell’altra stanza, forse, una
coppia gelosa si sta sgozzando, forse una fredda lama sta
penetrando nella carne viva, perché si sentono delle grida,
qualcosa che rotola, gemiti di dolore, ma possono anche
essere le carezze e i sospiri di due amanti stretti in un
abbraccio appassionato (attraverso la spessa parete non si
distingue bene) o magari una risata isterica o un grido di
dolore. Così quest’altro mi perseguita, così compare in me
all’improvviso mentre mi rado davanti allo specchio
sbreccato e guardo il mio viso incorniciato di schiuma, in
tutta tranquillità; è mattina, la bufera si è calmata, il sole
entra dalla finestra quadrata, si sente un muggito di vacche
nel cortile di fronte, suona la campana al campanile del
villaggio. Dentro fa caldo, le pigne bruciano nella cucina
economica, il fumo si spande per la stanza, si sente solo
l’odore della resina, l’odore dei boschi. In quell’istante,
l’altro compare in me, sorge dal mio cervello,
dolorosamente, da averne i brividi, perché a quest’altro è
accaduto qualcosa di terribile, un pensiero funesto ha
scottato il suo cervello, il pensiero della morte, pensiero
intenso e spietato come in un uomo che si sia risvegliato
nella sua tomba, ma io, E.S., non conosco l’esatto
significato di questo pensiero, non so nemmeno se è
davvero il pensiero della morte, ma sento l’intensità, il peso
di questo pensiero, il suo pericoloso pessimismo, la sua
realtà micidiale, e comincio a tremare in qualche punto nel
profondo del mio essere, le mie mani non tremano, le mie
mani continuano a tenere il rasoio di sicurezza mentre le
dita gialle di nicotina seguono la linea ossuta del mento,
palpando i peli, ma tremano il mio simpatico, il mio cuore,
le mie viscere, il mio Io spaventato, confuso. Perché tutta la
forza della mia personalità si è ora concentrata sulla
soluzione di questo mistero, di questo enigma, di questa
terribile faccenda nella quale è coinvolto quell’altro dentro
di me, sulla soluzione di questo caso poliziesco nel quale
non c’è nessun elemento positivo, nessun indizio, e si sa
soltanto che si tratta di morte, della morte di qualcuno o
della morte in quanto tale, fuori del suo contesto abituale,
ma che si tratti della morte, della rovina, di una terribile
catastrofe dell’essere, questo è fuori di dubbio: questo
tremito in me, lo sguardo folle dell’altro che mi guarda
dallo specchio incrinato mentre mi rado, tutto ciò lo dice
chiaramente.

54

Tutto quello che mi restava nella coscienza era


l’impressione di un incubo, tutto quello che potevo
formulare in maniera sensata era una sola e unica parola:
GRANDE, un aggettivo unito a una cosa impossibile, a un
concetto che non si lasciava identificare, ma che suscitava
un terrore incomprensibile, e la parola GRANDE che ero
riuscito, attraverso un doloroso sforzo della coscienza, a
gettare nel campo della ragione, nel campo
dell’articolazione, ad afferrare per un attimo in quel rapido
passaggio di concetti e di immagini, così simile a un sogno,
questa parola era perfettamente adeguata, si univa in modo
perfettamente naturale e logico a un concetto sconosciuto,
accordandosi con esso in genere, numero e caso, benché
tale concetto fosse ancora fuori della sfera del
comprensibile, fuori della macchia gialla della coscienza.
Questo terribile e terrificante GRANDE mi schiacciava con
la sua imponente e spaventosa presenza, e il terrore
scaturiva dall’incapacità del mio spirito e della mia
coscienza a unire a tale aggettivo un nome, perché,
precisando il concetto, il contenuto del mio incubo sarebbe
diventato più chiaro, il terrore avrebbe forse preso contorni
umani, o almeno la forma di una paura comprensibile e
definita. Così, con questo aggettivo neutro (cioè proprio
senza genere) unito a un nome o magari a un verbo, la mia
paura, il mio tremito interiore diventavano un incubo desto,
e io allora intuii che forse tutto quello che mi stava
accadendo non era altro che la continuazione di un sogno
bruscamente interrotto: mentre una parte del mio essere
seguiva il corso quotidiano (logico) del pensiero, un’altra
parte, nello stesso tempo, era immersa in un sonno
profondo, tormentata dall’incubo di un sogno a cui non
poteva sfuggire: frammenti di questo sogno desto, di
questo incubo (da cui si era staccata solo la parola
GRANDE), devastavano la mia coscienza e le mie viscere,
mentre nel mio cervello, nel mio essere, si svolgevano
contemporaneamente due processi, il sonno e la veglia,
l’incubo e la lucidità, ma tra questi due processi si levava
un muro impenetrabile, un legame interrotto: tutto lo
sforzo della mia personalità desta consisteva nel tentativo
di afferrare una parola che provenisse dall’altra parte del
muro, dall’altra corteccia cerebrale addormentata, perché,
dal momento che non potevo vedere, sentissi almeno che
cosa accadeva nel mio proprio essere, ora, nello stesso
istante: la parola GRANDE era ancora la sola parola
articolata e percepibile, a meno che essa non fosse altro
che una traduzione, il surrogato di qualche altra parola, di
qualche altro concetto, di qualche altra situazione: quello
che accadeva dall’altro lato della coscienza avveniva troppo
in fretta, le immagini scorrevano a una velocità
inconcepibile, e le cose che accadevano laggiù, nella
profondità tenebrosa del mio essere, le immagini che
scorrevano sulla corteccia del mio cervello, erano troppo
spaventose perché io potessi analizzarle, freddamente,
anche se fossi riuscito ad afferrarle: tutto avveniva
dall’altra parte della vita, nelle profonde regioni mitiche
della morte, nella terrificante valle dell’aldilà. Quell’altro,
l’altro mio essere, ero io dopo la mia morte: il defunto E.S.
di fronte al vivo, il defunto E.S. sorto dal mio proprio sogno,
incarnatosi e levatosi accanto al vivo.
*
Il mio Io diviso, miserando.

55

Che cosa sono tutti gli sforzi dell’umanità, tutto ciò che
si chiama storia, civiltà, tutto ciò che l’uomo fa e ciò che fa
l’uomo, che cos’è tutto questo, se non un inutile e vano
tentativo di opporsi all’assurdo della morte universale, di
dare ad essa un senso apparente, come se la morte potesse
avere un senso, come se alla morte si potesse dare un
significato e un senso diverso da quello che ha! I filosofi, i
più cinici, tentano di dare un senso al non senso della
morte mediante una logica superiore o una battuta
spiritosa che possano servire di consolazione generale, ma
quello che resta, almeno per me, il massimo dei misteri è la
domanda: che cos’è che permette all’uomo, nonostante la
sua consapevolezza della morte, di vivere e operare come
se essa fosse qualcosa di estraneo a lui, come se la morte
fosse un fenomeno naturale? Il tremito che mi ha scosso
negli ultimi giorni mi ha aiutato a capire, nonostante i gravi
attacchi di paura, che la mia malattia non è altro che
questo: a volte, per ragioni a me del tutto ignote e per
impulsi assolutamente incomprensibili, io divento lucido, in
me compare la coscienza della morte, della morte in quanto
tale; in questi momenti di illuminazione diabolica la morte
acquista per me il peso e il significato che essa ha an sich,
e che gli uomini perlopiù non intuiscono nemmeno
(ingannandosi con il lavoro e con l’arte, mascherando il suo
senso e la sua vanitas con formule filosofiche), scoprendo il
suo vero significato solo nel momento in cui essa bussa alla
loro porta, in modo chiaro e inequivocabile, con la falce in
mano, come nelle incisioni medioevali. Ma quello che mi
atterriva (la consapevolezza non genera consolazione) e
accresceva ancor più il mio tremito interiore, era la
coscienza che la mia follia era in fondo lucidità e che per
guarire - perché questo tremito continuo è cosa
insopportabile - avevo bisogno proprio della follia, della
demenza, dell’oblio, e che solo la demenza mi avrebbe
salvato, solo la follia mi avrebbe guarito! Se per caso il
dottor Papandopulos mi interrogasse ora sul mio stato di
salute, sull’origine dei miei traumi, delle mie paure, adesso
saprei rispondergli in modo chiaro e inequivocabile: la
lucidità.

1 Incompleto. Manca una pagina.


2 Riferimento alle stragi del gennaio 1942 (si veda la nota a p. 66),
quando le vittime attendevano in fila di essere uccise e gettate sotto il
ghiaccio del Danubio. Alcune persone, dopo lunghe attese, furono
rilasciate [N.d.T.].
INTERROGATORIO DEL TESTE (I)

56

Ho trovato la convocazione al mio ritorno da


Porszombat, ossia ieri.
Che cosa ha fatto a Porszombat?
Ho fatto visita ai Mayer.
Chi sono i Mayer?
Il signor Samuel Mayer è una mia vecchia conoscenza
dei tempi dell’istituto commerciale. Non ci vedevamo da
più di trent’anni. Giorni fa ho sentito dire che un certo
Mayer, commerciante, viveva a Porszombat e ho pensato
che potesse trattarsi di lui. Perciò ho deciso di fargli visita.
Per quali motivi?
Prima di tutto per il desiderio di rivedere un vecchio
compagno di scuola e poi perché speravo di avere da lui un
certo aiuto morale e materiale.
Da chi ha sentito dire che Mayer viveva a Porszombat?
Non ricordo. Forse da mio nipote Gyula, detto Georges.
Come gli è capitato di nominare i Mayer?
Se non sbaglio, è stato per puro caso. Io e Georges, cioè
Gyula, non siamo in ottimi rapporti, si potrebbe anzi dire
che siamo in lite.
Come gli è capitato allora di nominare i Mayer?
Durante una delle nostre discussioni, gli ho detto, a
Georges, che non avrei concluso con lui nessun affare da
Giacobbe, al che mi ha risposto, non ricordo più
esattamente dopo quale replica, che io non ero altro che un
bancarottiere e un Luftmensch, perché, in caso contrario,
avrei vissuto in maniera decorosa come Mayer, stimato
commerciante di Porszombat, il quale gli aveva detto che
avevamo frequentato insieme l’istituto commerciale di
Zalaegerszeg. Ne fui sorpreso e decisi di far visita a Mayer
per chiedergli, come ho già detto, un certo aiuto.
Vuol dire del denaro?
Sulle prime non ho pensato a niente di preciso.
Desideravo semplicemente conquistare la fiducia di un
agiato commerciante da cui avrei potuto di tanto in tanto
avere in prestito un po’ di denaro, di farina o di tabacco. La
cosa mi sarebbe utile particolarmente ora che sono in lite
con Georges e con mia sorella, presso la quale vivo
temporaneamente con la mia famiglia composta di tre
persone.
E Mayer le è venuto incontro?
Mi ha prestato quaranta pengo e mi ha promesso di
mandarmi tra qualche giorno un po’ di farina.
Gratis?
Penso che intendesse dire gratis, ma io mi sono
comportato come se si trattasse di un prestito temporaneo,
com’era il caso del denaro che ho avuto da lui.
Gli ha reso questo denaro?
Non ancora. Il fatto è che con la nuova legge la mia
pensione è stata drasticamente ridotta e le spese per il
trasloco e il restauro dell’appartamento sono enormi. Conto
di restituirgli il denaro a rate, in un anno. Al massimo.
Con un interesse?
Non si è parlato di alcun interesse.
Torniamo ai Mayer. Quanti sono in famiglia?
Sua moglie, nativa di Pest, e uno dei tre figli, il più
grande, che aiuta il padre nel suo commercio. È un
commercio al minuto, una specie di negozio di articoli
coloniali, ma pare che gli affari non vadano troppo bene
attualmente. Me l’ha detto Mayer stesso. Si è lamentato
delle difficoltà di approvvigionamento e della concorrenza
sleale. Sospetta che molte persone del posto, già suoi
clienti, evitino il suo negozio a causa di certe lettere
minatorie mandate dall’organizzazione locale del partito.
Dove sono gli altri figli del signor Mayer?
Il più giovane è sul fronte orientale. È più di un mese
che non scrive e loro pensano al peggio. L’altro, archeologo
di professione, si trovava in qualche punto della frontiera
ungaro-jugoslava, dove stava studiando certi scavi romano-
pannonici, e lì è stato arrestato perché sospettato di voler
attraversare la frontiera e unirsi a un movimento illegale.
Queste notizie non sono del tutto sicure perché le hanno
avute da un uomo assai poco attendibile, che non ha voluto
dir loro il suo nome e che per queste informazioni ha
preteso una somma piuttosto considerevole. Sì. Ho
dimenticato di dire che con loro abitano anche la madre di
Mayer, semiparalizzata e sorda, e un commesso, o
domestico, o qualcosa del genere, un uomo sui
cinquant’anni, che spacca la legna, accende le stufe e si
occupa dell’anziana signora. Se ricordo bene, si chiama
Alojz, uno sloveno di Muraszombat. Lavora da loro da più di
vent’anni. È tutto, credo.
Lei dice che non conosceva i figli di Mayer?
È così.
Come fa allora a sapere che uno di loro si occupa di
ricerche archeologiche nella località di cui parlava?
Me l’ha detto Mayer. Mi ha persino fatto vedere una
statuetta di ceramica che appartiene a suo figlio dicendomi
che è autentica. Si trova in una vetrina.
La descriva.
È una ceramica relativamente ben conservata, alta una
ventina di centimetri, e rappresenta un cinghiale ferito. La
parte posteriore è danneggiata, ma la testa, la parte
superiore del tronco e le zampe anteriori sono in buono
stato. Il cinghiale sembra ferito perché è piegato sulle
zampe anteriori, come nello spasimo dell’agonia, e la testa
è leggermente storta da un lato, le fauci spalancate con le
zanne in mostra. Questa smorfia di bestia ferita rivela più
l’impotenza e l’agonia che non la forza e la crudeltà. Negli
occhi si scorge un terrore quasi umano, benché si possa
appena dire che la testa sia stilizzata.
Che altro c’è nella vetrina?
Una statuetta di marmo bianco dalla grana minuta che
rappresenta Ermete col piccolo Pluto in braccio. È alta una
trentina di centimetri e le mancano la testa, il braccio
destro quasi fino alla spalla e ambedue le gambe fino al
ginocchio. Ermete è completamente nudo, ha solo una
specie di tunica che scende dalla spalla sinistra lungo la
schiena e gli si avvolge attorno al braccio sinistro. Sulla
mano che regge Pluto si scorgono i resti del suo caduceo. Il
peso del corpo poggiava probabilmente sul piede destro.
Anche il piccolo Pluto è seriamente danneggiato: gli
mancano la testa, la parte anteriore del petto e del ventre e
tutte e due le gambe al di sotto del ginocchio. Sul petto di
Ermete si vedono le mani del divino infante e un frammento
della gamba sinistra.
Continui.
La statuetta di un genio nudo, di una settantina di
centimetri d’altezza, pure molto danneggiata. Mancano la
testa e il collo, le gambe fino al ginocchio e il braccio
sinistro fino alla spalla. Le lunghe ali non sono troppo
danneggiate. Il braccio destro è incrociato sul petto, gli
manca solo la mano. È probabile che il genio fosse
rappresentato con un serpente in mano.
Continui.
Un certo numero di orecchini, pure romani, monete di
Adriano, parti di vasi da cerimonia, vasi ebraici, una
menorah, tutto questo di minor valore, almeno stando alle
sue parole.
Le ha mostrato una fotografia del figlio?
Me ne ha fatte vedere parecchie, scattate a varie età. Le
fotografie erano in un grande album di velluto verde con
borchie metalliche.
Le sembra, stando alle fotografie, di aver già incontrato
da qualche parte quest’uomo, cioè il figlio di Mayer,
l’archeologo?
Credo di no.
Che aspetto ha?
Statura media, un po’ di pancia, labbro inferiore
sporgente, largo naso carnoso, capelli duri e corti, occhiali
con la montatura metallica, sopracciglia spesse, braccia
corte, piuttosto trasandato nel vestire.
Andatura?
Non glielo saprei dire.
Da quando si conoscono il signor Mayer e suo nipote
Georges?
Non lo so. Mayer mi ha detto soltanto che lui e Georges
si scambiano da tempo articoli di largo consumo.
Che articoli?
Non lo so.
Conosce una certa signora Fischer, di Novi Sad?
Sì.
Quando l’ha vista l’ultima volta?
Verso il sedici o il diciassette marzo di quest’anno, un
giorno o due dopo il mio arrivo a Novi Sad.
Che è andato a fare a Novi Sad?
Volevo spedire le cose che mi sono rimaste là: due
armadi e della biancheria da letto.
Di che si occupa la signora Fischer?
Fino a poco tempo fa teneva una merceria.
Ha detto fino a poco tempo fa?
Sì. Ora è malata e ci vede poco. Ha avuto di recente uno
shock nervoso.
Che cosa le è successo?
Non lo so. Non me ne ha parlato. Ho saputo della sua
malattia dalla custode che mi ha aperto la porta.
Descriva il negozio della signora Fischer.
È un piccolo negozio in un cortile, 3x2, con una finestra
che un tempo doveva servire da vetrina. In questa vetrina,
dove una volta erano esposti i modelli, adesso c’era un
cartello scritto a matita copiativa che offriva, a condizioni
molto vantaggiose, un canapè, due poltrone, uno specchio,
una credenza, una cucina economica. All’interno, la finestra
era chiusa da carta da pacchi azzurra e da una tenda
ricavata da una coperta, sicché in casa regnava una
semioscurità, perché la stanza era illuminata solo da una
candela. Quando entrai, la padrona di casa accese una
lampada a gas.
Che cosa c’è in questo locale?
In un angolo, una stufa color argento, accanto alla
finestra un tavolo allungabile, su cui si trovano forbici,
cuscinetti con aghi e spilli, cartamodelli e pezzetti di stoffa
di tutti i colori, rocchetti di filo, fili di seta, bobine, nastri,
frange, merletti; su un altro tavolo, un tavolo da gioco, si
trovano una seconda lampada, spenta, un mazzo di carte
spagnole logoro dall’uso, un pezzo di cretonne su un resto
di rotolo di carta; sulle pareti sono appesi canovacci da
ricamo con scene di vita familiare disegnate in inchiostro
azzurro: la padrona di casa solleva il coperchio di una
pentola da cui si sprigiona un vapore odoroso mentre il
marito sorride, tenendo un mazzo di rose dietro la schiena.
Questa scena si ripete su numerosi canovacci identici,
fissati alla parete con puntine da disegno, gettati sulla
spalliera della sedia, sopra la macchina da cucire, sui
tavoli, a mo’ di tovaglie.
Lei conosceva il marito?
Sì, era commesso viaggiatore per la fabbrica di spazzole
e pennelli Weiss & Comp., ma vendeva anche i canovacci e i
ricami che faceva sua moglie, vale a dire la signora Fischer.
In che rapporti era lei con questa ditta?
Ero uno dei comproprietari. Dopo la causa intentatami
da Weiss, perdetti tutto il capitale che vi avevo investito.
Che cosa produceva?
Spazzole e pennelli.
E oltre le spazzole e i pennelli?
Niente altro. Solo spazzole e pennelli: pennelli da
muratore, da imbianchino, da pittore, spazzole da bagno e
simili.
Che cosa vuol dire con questo « e simili »?
Spazzole d’acciaio, striglie, pennelli da barba. Sì, anche
pennelli da barba.
Ha parlato dei Mayer con la signora Fischer?
No. Non ricordo.
C’è qualche altro ingresso alla bottega oltre quello che
ha menzionato?
C’è una sola porta, quella che si apre a metà, perché è
bloccata dal divano.
Descriva questo divano.
È un normale divano di vecchio tipo con spalliera,
rivestito di un velluto che un tempo doveva essere rosso,
ma che ora è tutto liso e macchiato di cera di candele, di
sperma o di sangue. Più tardi la signora Fischer distese
sulla spalliera e su tutto il divano i modelli di cui ho parlato.
Perché lo fece?
David Fischer, suo marito, si è ucciso proprio su questo
divano. Il segno lasciato dalla pallottola che gli attraversò
la nuca era visibile fino a poco tempo fa sulla spalliera dove
formava un grosso buco.
Ha visto qualche oggetto maschile nell’appartamento
della signora Fischer? Mi capisce? Scarpe da uomo,
l’occorrente per radersi, una giacca, un cappello, o
qualcosa del genere?
No, non ho visto niente del genere.
Ci pensi bene!
In una vetrina, dietro una sudicia tenda di tela da
canovaccio, con gli stessi motivi di colore azzurro, c’erano
oggetti che a certe condizioni si potrebbero definire
maschili, non solo perché erano appartenuti al signor
David, il suo defunto marito, ma anche perché tali oggetti
sono, per così dire, maschili di natura: un bocchino
d’ambra, una tabacchiera d’argento e qualche altra
sciocchezza.
Non ha dimenticato niente?
C’erano anche delle cinture da preghiera, un rotolo della
Torah e alcuni strumenti.
Quali strumenti?
Coltelli di ogni dimensione, già un poco arrugginiti,
benché mi sembri che la signora Fischer ne abbia molta
cura. Ogni volta che me li mostrava (e lo faceva a ogni mia
visita) puliva i coltelli con uno straccio sudicio, alitando
prima sulle lame d’acciaio lucenti.
Quanti erano questi coltelli?
Almeno una decina.
Quali erano il significato e la destinazione di questi
coltelli?
Suo marito, il defunto David Fischer, era uno shohet,
una specie di sacerdote incaricato di sgozzare gli animali
per le tavole degli ebrei.
Ne mancava qualcuno, di questi coltelli?
Questo non glielo saprei dire.
Perché la signora Fischer glieli mostrava?
Era, come le ho già detto, parte di un rituale, in ognuna
delle mie visite. Cioè, lei apriva questa vetrina davanti alle
persone di fiducia o ai vecchi amici di suo marito e così
introduceva nella conversazione il defunto David.
Sistemava due sedie davanti alla vetrina, sollevava la
tenda, e cominciava a parlare. Poi, a un certo punto,
tenendo in mano il bocchino d’ambra o la tabacchiera
d’argento, oppure strofinando i coltelli con uno straccio, si
rivolgeva all’improvviso a David, in modo assolutamente
normale, come se lui fosse là: No, David? Ti ricordi, David?
Hai proprio ragione, David.
Ma è sicuro che si rivolgesse proprio a lui, il suo defunto
marito?
Assolutamente sicuro.
Quindi, lei sostiene che erano coltelli da macellaio?
Sì.
Ma non ha detto poco fa che il signor Fischer era un
commesso viaggiatore?
Lo era molto prima. Del resto, queste due occupazioni in
certi casi non si escludono a vicenda.
Che significa « in certi casi »?
Voglio dire in casi eccezionali. Negli ultimi tempi era
sempre più difficile trovare qualcuno che potesse svolgere
tale compito. Non basta essere un abile macellaio. E,
d’altra parte, si tratta di una professione scarsamente
remunerativa. Sono sempre di meno coloro che osservano
con scrupolo le antiche consuetudini. Dopo la morte del
signor Glessinger, l’unico possibile candidato al posto di
shohet era il signor Fischer. È vero che non era macellaio,
ma aveva tutte le altre qualità: era credente e vecchio topo
di sinagoga, conosceva le leggi a memoria (le aveva
imparate in gran parte da suo padre), e in più impagliava
uccelli, sicché l’anatomia degli animali non gli era
sconosciuta.
Perché non ha detto prima che il signor Fischer faceva
questo mestiere?
L’ho detto.
Ha detto che era commesso viaggiatore.
Pensavo che quest’ultima cosa non fosse importante.
Glielo ricordo: tutto è importante.
Stavo proprio per...
Torniamo a suo nipote Georges. Ha detto che siete in
lite.
Sì.
Pure vivete sotto lo stesso tetto.
Io ho lasciato, per mio proprio desiderio e per bisogno di
indipendenza, la casa di mia sorella. Adesso abito, con la
mia famiglia, nel cosiddetto annesso, che non è altro che la
vecchia stalla.
In ogni caso, lei non ignora le abitudini di Georges.
Se le mie osservazioni sono esatte, a lui interessa solo il
suo negozio. Non direi proprio che ha il bernoccolo del
commercio; il suo attaccamento al piccolo profitto è un
modo come un altro per ammazzare il tempo, come sono
modi per ammazzare il tempo la sua partita doppia, la
sistemazione degli scaffali, la sua mania di collezionare e
mettere in mostra le réclames dei prodotti più diversi,
specialmente di quelli che non ha mai venduto e che
probabilmente non venderà mai. Sì, anche la sua bicicletta.
Credo che qui vada ricordata anche la bicicletta che è
adattata apposta per la sua gamba sinistra anchilosata: il
pedale è tolto.
Continui.
Per quanto ne so, Georges non ha mai avuto avventure,
voglio dire di tipo femminile, benché un tempo, una decina
d’anni fa, ci fosse una certa signora a Donja Lendava che si
pensava sarebbe diventata sua moglie. Era la vedova di un
commerciante del luogo, un certo Bernfeld. Io tutto questo
lo sono venuto a sapere solo grazie a una lettera che
intorno a quel tempo mi inviò a Novi Sad mia sorella, cioè
la madre di Georges. Ma non ne venne fuori niente e
nessuno parlò più della cosa nelle lettere. A quanto so,
Georges fino allo scoppio della guerra andava ancora in
bicicletta a Donja Lendava. Crede che la bicicletta sia un
mezzo di trasporto moderno che ha rimpiazzato il vecchio
calesse di cui si serviva ancora suo padre.
Suo nipote va a caccia?
Durante il mio soggiorno a casa loro, ha lasciato il
negozio una sola volta e mi fu detto che era uscito la
mattina presto per andare a caccia. Personalmente, non
l’ho visto uscire né ho chiesto poi come fosse andata la
caccia. Comunque, non prendo parte ai pasti preparati con
la sua cacciagione. Io non sono un fautore della caccia, si
potrebbe anzi dire...
Torniamo a suo nipote.
Credo che sia tutto.
Dove tiene il fucile e che fucile è?
In casa non ho mai visto nessun fucile, e dell’occorrente
per la caccia ho visto soltanto - proprio quel mattino di cui
ho parlato - una cartucciera di cuoio, vuota. Più tardi trovai
sotto il letto una cartuccia vuota, bruciata, di cartone, che
era con tutta probabilità caduta quando Georges aveva
riempito le cartucce di pallini o quando aveva messo le
nuove capsule. Per quanto riguarda il fucile, l’ho visto
un’unica volta, piuttosto da lontano e in maniera indistinta.
Penso a causa della mia miopia e delle condizioni
atmosferiche che regnavano in quel momento. Durante la
mia passeggiata mattutina vidi Georges sul limitare del
bosco. Camminava col fucile imbracciato, sulle tracce di un
animale, probabilmente una lepre. Io mi ero nascosto dietro
una quercia perché non volevo incontrarlo, dato che i nostri
rapporti avevano cominciato a guastarsi fin dal primo
giorno del mio arrivo. Poiché soffiava la bufera e turbinava
la neve, non potei vedere che fucile portava e sulle prime
non ero nemmeno sicuro che fosse proprio un fucile e non
magari un bastone di cui Georges si servisse per
spaventare le gazze. Solo più tardi, quando passò accanto
al mio nascondiglio, potei accertarmi che si trattava di un
fucile, con tutta probabilità una doppietta, perché udii due
spari consecutivi e subito scorsi anche il tragico effetto dei
pallini: dall’albero sopra la mia testa caddero a terra due
cornacchie innocenti, si può dire davanti ai miei piedi.
Credo che avesse ucciso quelle cornacchie semplicemente
per dimostrarmi che per lui sparare era una cosa del tutto
normale. Senza dubbio mi aveva visto prima che mi
nascondessi dietro l’albero e in questo modo voleva
spaventarmi, o più esattamente darmi un avvertimento.
Che pallini usava?
La cartuccia che trovai quel giorno sotto il letto era
vuota. Ma le cornacchie erano orrendamente sfigurate,
letteralmente fatte a pezzi. Non dovevano essere pallini, ma
pailettoni per la caccia al cinghiale o all’orso.
È sicuro che fosse suo nipote Georges?
Sì, signore.
È sicuro che fosse lui a sparare?
Con tutta probabilità.
In base a che cosa lo afferma?
Al tempo trascorso fra la comparsa di Georges e i due
spari consecutivi.
Quanto tempo era trascorso?
Un minuto o due.
Non è troppo poco questo per concludere che a sparare
fosse proprio lui?
Non vidi nessun altro cacciatore e non notai altre tracce
all’infuori delle sue. E queste sono facilmente riconoscibili:
la sua gamba sinistra rigida, con la scarpa ortopedica,
lascia un’impronta assai caratteristica, simile a quella di un
ferro da stiro. Inoltre, le cornacchie erano disintegrate:
questo è proprio da lui.
Quali convinzioni politiche ha suo nipote?
Conservatore.
Che cosa intende con questo termine?
Non ingrandirebbe né ammodernerebbe il suo negozio
per nessuna cosa al mondo, né amplierebbe la classica lista
degli articoli da vendita al minuto: petrolio, zucchero,
lucido da scarpe (due colori), lacci da scarpe (due
lunghezze), candele, acchiappamosche, caramelle da
quattro soldi, ecc. È convinto che, procurandosi qualche
altro articolo, come, ad esempio, saponette, acqua di
Colonia o magari una cintura elettrica, potrebbe suscitare il
sospetto dei contadini e delle autorità. Teme, inoltre, che i
contadini possano proclamarlo modernista e pornografo,
sovvertitore del modo di vita patriarcale. Ma io credo, e
gliel’ho già detto da tempo, che questa sia solo una sua
idea: è lui a pensarla così e non i contadini.
Ma quali sono le sue convinzioni politiche? Credo che
abbia capito la mia domanda.
Per quanto riguarda la politica, Georges è un vero
ignorante. Per lui la politica è una cosa su cui non si può
esercitare alcuna influenza, qualcosa come un fenomeno
naturale, il tuono o la bufera, quindi è fuori della sfera dei
suoi interessi. La sua logica è semplice e spaventosa nella
sua semplicità: la politica come tale è dunque un’idea
pericolosa e impenetrabile, una cosa pericolosa in se
stessa, direi contagiosa, qualcosa di simile alla peste. Se tu
non la tocchi, nemmeno lei tocca te. In tal modo il pericolo
del contagio è ridotto al minimo, basta lavarsi le mani il più
spesso possibile, come fanno gli ipocondriaci e i ginecologi,
e puoi sorseggiarti tranquillamente il tuo succo di lamponi.
Ora come ora, ha paura soltanto degli aerei alleati che
sorvolano il villaggio, ma non per la ragione che essi
potrebbero gettare le loro bombe sul suo territorio (perché
lui sa che le bombe costano e quindi non si buttano mica
così); teme che possa accadere che un aereo colpito sganci
le sue bombe a casaccio, per necessità, allo scopo di
alleggerirsi, oppure che esse si stacchino « da sole, senza
che nessuno le tocchi » e che così, per un gioco del caso e
della sorte, distruggano il suo negozio e disperdano ai
quattro venti il suo zucchero in zollette. Io fin dal primo
giorno del mio arrivo al villaggio ho dichiarato in maniera
categorica che non volevo parlare di politica con Georges,
perché per me la politica non è un fatto di superstizione.
Gli ho detto anche che trovo più comprensibili e accettabili
le riflessioni politiche di un carrettiere delle sue
chiacchiere sulle bombe che cadono dal cielo diritte sul suo
negozio e sul suo zucchero in polvere.
Che altro ha ancora in negozio suo nipote oltre lo
zucchero?
L’ho già detto: sale, caramelle di poco prezzo,
acchiappamosche, lucido da scarpe, grasso da scarponi,
lacci, sugna da carro, candele, petrolio, cilindri di lampade
a gas, saponette, cretonne, nastri, stoppini per lampade,
articoli di merceria. Credo che sia tutto.
Non ha dimenticato niente?
In ogni caso, quello che ho enumerato è l’inventario
attuale del suo negozio. Forse ho anche esagerato. Ho detto
saponette quando si tratta di un ordinario sapone fatto di
scarti di animale. L’ha comprato da un contadino nel caso
che qualcuno ne facesse richiesta, qualcuno di città, un
ufficiale o un viaggiatore fermatosi lì per caso. Ma sono
incline a pensare che si sia procurato quel sapone
puzzolente per venderlo a me. Non vedo chi altri al
villaggio potrebbe comprare oggi del sapone.
Aveva più articoli prima della guerra?
Per un certo tempo ha tenuto in negozio i prodotti della
ditta Mepol di Vrbas, Mepol Šlonski & Strauss. Intorno al
millenovecentoventicinque mi pregò per lettera di
intervenire presso questa ditta perché lo liberassero
dall’impegno di vendere quegli articoli che non riusciva a
smerciare nel villaggio ma che era obbligato a vendere a
termini di contratto, orale o scritto, non ricordo più.
Georges aveva sperato di piazzare certi prodotti presso i
contadini e i ricchi della zona, perché si era sparsa la voce
che tutta la regione sarebbe stata elettrificata nel corso dei
due o tre anni successivi. Ma, come il signore con tutta
probabilità sa bene, la cosa finì nel nulla e a tutt’oggi il
villaggio è ancora privo di elettricità.
Di che articoli si trattava?
Stando a quanto dichiarato dal signor Glušac, unico
rappresentante legale di tale ditta, che mi informò per
iscritto degli affari della Mepol, si trattava di prodotti di
celluloide e bachelite: contenitori per telefono, cassette per
medicinali, zuccheriere, interruttori, isolatori elettrici di
ogni tipo, «lamiera morbida», piastrelle per il rivestimento
dei bagni, come pure pettini, rasoi di sicurezza, spazzole,
specchietti, cornici per quadri e altre sciocchezze da fiera
su cui non era impresso il nome della ditta, perché questi
articoli venivano venduti sottomano agli zingari, ai
rivenduglioli e ai piccoli commercianti di campagna come
Georges. Mio nipote, dunque, mi pregò di intervenire
presso questa ditta e di concludere a suo nome un accordo
che avrebbe cambiato le condizioni precedenti: cioè che
non gli fornissero più articoli col nome della ditta perché -
con l’eccezione delle zuccheriere - non incontravano
affatto, e che gli mandassero solo merce di seconda serie,
cioè le sciocchezzuole che si vendono nelle fiere: pettini,
specchietti, cornici, spazzole, fermagli e forcine di
celluloide.
Suo nipote lavora sempre con questa ditta?
Secondo le informazioni che ho ricevuto dal suddetto
signor Glušac, la ditta Šlonski & Strauss ha cessato
l’attività nel millenovecentoventinove, quando il signor
Avigdor Strauss si trasferì in Israele. Con la sua partenza,
la ditta perdette reputazione e importanza, e per un certo
tempo si limitò a vendere le scorte residue di merce da
fiera. Al momento in cui intervenni per Georges, la ditta
Mepol era praticamente liquidata. Georges si convinse però
una volta di più, una volta per tutte, che era rischioso e
quindi inutile ampliare la scelta degli articoli.
Che ne è stato di Slonski?
Anche lui si trasferì in Palestina, come mi confermò il
signor Glušac in persona. Resta però da chiarire se il nostro
Slonski sia la stessa persona del celebre poeta Abraham
Shlonski, l’autore di Pietre del caos. Il defunto Paja
Schwarz mi affermò una volta che si trattava della stessa
persona, citandomi come prova una lettera del suo parente
Feuerstein in cui si diceva che Slonski aveva acquistato
rinomanza mondiale e che sembrava avesse chiesto notizie
di certi suoi amici di Vrbas e di Novi Sad, e in particolare di
Herz Schwarz, come chiamavano il defunto Paja.
Chi è Feuerstein?
Feuerstein è pure lui uno scrittore, originario di queste
parti. Si è trasferito in Israele più o meno nello stesso
periodo di Slonski e spesso vengono ricordati insieme,
come appartenenti a una stessa scuola. Pubblica i suoi libri
sotto il nome di Avigdor Hameiri. Di lui avrebbe potuto
dirle di più il defunto Paja Schwarz che, come le ho detto,
era parente di Feuerstein, alias Avigdor Hameiri, e teneva
con lui una corrispondenza in ungherese e in ebraico,
perché il defunto Herz aveva studiato l’ebraico ed era
giunto a padroneggiarlo abbastanza bene.
Ha sbrigato qualche altra faccenda per Georges?
Intorno al millenovecentotrentanove, durante il mio
viaggio a Trieste e poi a Cattaro e a Cetinje, Georges mi
scrisse di informarlo sui prezzi della frutta nel Sud e sulle
possibilità di trasporto. Voleva, infatti, coinvolgermi in una
specie di società commerciale, perché questa idea del
commercio di frutta meridionale era mia. Ma in tutta la
questione non mi sono mai mostrato come un socio
potenziale, limitandomi a fargli presente in una lettera che
avrebbe potuto vendere fichi secchi e melagrane, e io gli
avrei fornito certi indirizzi, raccomandandolo anche ad
alcuni commercianti. Ma lui mi rispose proponendomi di
occuparmi io del rifornimento e del trasporto, con una
partecipazione finanziaria naturalmente, mentre lui si
sarebbe occupato della vendita; in questo modo, l’unico a
rischiare sarei stato io. Perciò non ho mai risposto a questa
lettera, perché, da un lato, non volevo lasciarmi coinvolgere
e, dall’altro, a dirla schietta, non credevo alla serietà
dell’offerta di Georges. Giacché, se voleva vendere questa
frutta meridionale così cara solo ai contadini, tutta
l’impresa era priva di senso. Avevo intenzione per questo di
scrivergli che gli avrei portato un cesto di arance e di fichi
secchi, rifornendolo così per almeno due o tre stagioni, e
anzi scrissi una lettera del genere, ma alla fine rinunciai a
spedirla: Georges è incapace di comprendere l’umorismo
almeno quanto lo è di orientarsi nei segreti del commercio.
È il classico tipo del vecchio negoziante sefardita e direi
che persino quella sua drogheria era per lui un lusso troppo
grande; a mio modo di vedere, dovrebbe andare in giro con
una di quelle cassettine che si portano a tracolla con una
cinghia a vendere specchietti ed elastici nelle fiere di
paese, oppure occuparsi del commercio di piume come suo
nonno.
Vi sono altre prove che prima della guerra disponesse di
una scelta di articoli più ampia di quella di oggi?
Nel negozio si possono anche adesso vedere
chiaramente le scritte sopra i cassetti vuoti e sulle scatole
di latta: riso, pepe, vaniglia, alloro, cannella. Ma non posso
affermare che in questi cassetti ci fossero proprio tali
articoli. A quanto mi ha raccontato mia sorella, aveva pure
chiodi, fil di ferro, spago, viti, tegami, pentole, padelle,
l’occorrente per la cucina, e anche carta, tabacco, marche
da bollo, inchiostro, penne, portapenne.
Aveva l’attrezzatura per la caccia?
Non lo so.
Suo nipote e la signora Fischer si conoscono?
No. Non si conoscono.
Suo nipote conosceva il signor Fischer?
Credo di no. In ogni caso, tra di noi non se n’è mai
parlato. Georges non l’ha mai nominato. Inoltre, come ho
già detto, Georges lasciava di rado il negozio: dato che
andava quasi esclusivamente in bicicletta, fino a
Muraszombat, Nagykanizsa, Lendava, è poco probabile che
venisse a Novi Sad.
Che ha fatto lei a Novi Sad, a parte la visita alla signora
Fischer?
L’ho già detto: ho spedito le mie cose a piccola velocità:
due armadi riempiti di biancheria da letto e di utensili da
cucina, che, sia detto per inciso, non mi sono ancora
arrivati. Inoltre, ho fatto visita al mio vecchio amico, il
signor Gavanski.
Chi è Gavanski?
Ci conosciamo da quando ho prestato servizio per la
prima volta a Novi Sad. Mi fu di aiuto nella ricerca di un
appartamento e nell’acquisto dei mobili. Cioè, io non ero in
grado di acquistare mobili nuovi, ma, grazie appunto a
Gavanski, che a quel tempo lavorava come agente
commerciale, riuscii a comprare del mobilio vecchio ma in
ottime condizioni e a un prezzo conveniente.
Nell’operazione, Gavanski mi fece da garante.
Continui.
Ci siamo conosciuti al Bosniaco. Era una trattoria molto
decorosa vicino alla stazione, proprio accanto agli uffici
della ferrovia, dove io a quel tempo capitavo spesso perché
mi avevano affidato un certo lavoro. Un giorno ci facemmo
una bella bevuta e poi andammo a casa sua in vettura di
piazza. Gavanski aveva in cantina un buon numero di
bottiglie.
Che lavoro faceva?
Era, come ho già detto, agente di una ditta commerciale
e si occupava della vendita di terreni e di immobili.
Ha famiglia?
Moglie e una figlia, ma sembra in lite con tutti. So che in
genere si cucina i pasti da solo perché sostiene che il modo
di cucinare di sua moglie è pericoloso per la sua pressione
e lui non vuole rinunciare alle sue abitudini. Difatti, è
vegetariano dalla giovinezza e per anni ha mangiato solo
frutta e legumi, benché mi sembri che negli ultimi tempi
abbia rinunciato ai suoi princìpi erbivori e che ora mangi
spesso, di nascosto, persino del lardo, e con molta cipolla,
quasi volesse imbrogliare se stesso.
La figlia?
Ha ventiquattro anni ed è fidanzata a un commerciante,
un certo Fekete, originario di Csantavér. Non ho avuto
occasione di conoscerlo personalmente, ma mi sembra che
Gavanski non sia troppo contento di questa relazione.
Per quale motivo?
Non glielo saprei dire. Lui ne parla malvolentieri e non
ho osato chieder nulla.
In che rapporto sono Gavanski e la signora Fischer?
Per quanto ne so, non si conoscono.
Gavanski viaggia spesso?
Credo siano anni che non si muove di casa. Lo spaventa
ogni movimento, anche in camera sua, ed è inchiodato alla
sua bergère come a una carrozzella da invalido. Gliel’ho
anche detto, un giorno. È questo che gli fa gonfiare le
gambe e provoca la sua obesità.
Durante la sua visita, c’era qualcun altro in casa?
All'infuori di lui e di sua moglie, non c’era nessuno.
Dov’era la signorina Gavanski?
Mi dissero che era in gita col fidanzato.
In gita dove?
Questo non glielo saprei dire.
Ha detto che il fidanzato è un commerciante?
Sì, commerciante o commesso viaggiatore. Così mi
hanno detto.
In che cosa commercia questo Fekete?
Non lo so. Non se n’è parlato.
Cerchi di ricordare.
Non se n’è parlato.
Quando è venuto via da casa di Gavanski?
Ho dormito da lui quella notte.
Perché?
Gavanski mi disse che era cominciato il coprifuoco e che
non c’era motivo che andassi vagabondando.
Quanto tempo è rimasto sotto il suo tetto?
Una notte.
E dove è andato poi?
Ho preso una vettura di piazza.
Dove?
In via Louis Barthou.
Quindi, fin lì è andato a piedi?
Sì.
Le ci sono quindi volute due ore per andare dal viale
della Stazione a via Barthou?
Va bene. Sono passato dal parroco.
Che cosa voleva dal parroco?
Un estratto di battesimo per i membri della mia famiglia.
Quanto ha pagato per averlo?
Il costo della marca da bollo.
Verificheremo le sue dichiarazioni.
Due pengő per ogni estratto di battesimo.
È entrato in chiesa?
No.
Quindi, è il parroco che le ha consegnato gli estratti?
Sì.
Glieli ha dati nel suo appartamento? Sì o no?
Sì.
Chi l’ha messo in contatto con lui?
La parrocchia.
Lo conosceva da prima?
No.
Chi è che l’ha mandato da lui?
Nella segreteria della parrocchia ho trovato un
impiegato, di cui ignoro il nome, che mi ha indirizzato dal
parroco. Questo impiegato era molto prudente. Mi ha detto
che negli ultimi tempi c’erano molte richieste del genere,
perché molti volevano procurarsi certificati falsi per le loro
famiglie. Gli ho risposto che questo non era il mio caso, che
ero venuto a procurarmi questi documenti in modo
assolutamente legale. Allora mi ha mandato dal parroco.
In una nostra precedente conversazione, le dirò
esattamente la data, ecco, il ventotto marzo, quindi non
molto tempo fa, lei ha dichiarato testualmente (cito): « Mia
nipote Rebeka, attualmente Marija, studia il catechismo
sotto la guida di un giovane sacerdote e io credo che la sua
conversione sia dovuta più al desiderio di una sorta di
prostituzione spirituale che a un atto cosciente e convinto».
Sì, in sostanza questo è esatto.
Cito ancora: «Non esiste religione tanto perfetta da
giustificare la conversione. La sola religione è la fede in Dio
».
Sì, la penso sempre così.
Se ci siamo capiti bene, lei non ha l’intenzione di seguire
l’esempio di sua nipote che frequenta il corso di
catechismo.
È così.
Come spiega il fatto di essere stato alla chiesa ortodossa
e non alla sinagoga?
Neanche prima andavo alla sinagoga e non ero in buoni
rapporti col rabbino.
Ha incontrato qualche altra persona oltre quelle che ha
menzionato?
Credo di aver citato tutti i miei incontri privati.
Quindi, ha avuto anche incontri ufficiali?
Λ parte quella col parroco, si potrebbe chiamare
ufficiale la mia visita agli uffici della stazione, dove mi sono
informato di certe questioni di servizio.
Quali questioni di servizio?
La mia pensione.
Con chi ha parlato di questo?
Col signor Laufer. Andrija Laufer.
Chi è Laufer?
Un impiegato degli uffici. Un tempo abbiamo lavorato
insieme a Šid, quando lui era ancora praticante.
Che funzione ha adesso?
Non è andato più in là della funzione di agente. Ora è
stato retrocesso all’incarico di scrivano. In ogni caso,
lavora, anche se si aspetta di essere licenziato da un
momento all’altro.
Non è strano che continui a lavorare a un posto di tale
responsabilità?
Non bisogna dimenticare che il signor Laufer è
musulmano, convertito. Il suo nome ufficiale è Alija Latifìć,
ma noi lo chiamavamo sempre col suo vecchio nome, cioè
Andrija. Intorno al millenovecentoventi, sposò una
musulmana di Sarajevo e fu allora che si convertì. Credo
che l’abbia fatto senza particolari insistenze dei suoceri,
voglio dire per amore. Quando sua moglie morì, dopo un
anno o due di matrimonio, diventò una specie di derviscio
laico: leggeva il Corano e studiava l’arabo. Credo che si
preparasse intimamente a una missione alla Mecca o in
Palestina, ma non trovò mai la forza di partire. Non poteva
allontanarsi dal luogo dell’eterna dimora di sua moglie ed
era convinto che un incontro con lei nell’altro mondo
sarebbe stato possibile solo in seno alla fede di Maometto.
Stringa.
Questa specie di conversione è anche un atto di fede:
l’amore è una emanazione di Dio.
Di che cosa avete parlato?
Laufer lavora in un ufficio con altri due impiegati e non
voleva parlare con me di fatti privati in loro presenza. Sulle
prime, pensai che non mi avesse riconosciuto, ma poi capii,
quando gli dissi il mio nome, che faceva solo fìnta di non
conoscermi. Così, mi limitai a chiedere della mia pratica:
sapeva a che punto era il ricorso che avevo presentato
contro la riduzione dell’importo della mia pensione? Mi
disse che la pratica gli era pervenuta e mi scrisse su un
pezzetto di carta il numero col quale il documento era stato
registrato. Alla fine, mi consigliò di farmi vivo di lì a un
mese, per iscritto, e disse che sperava che per allora la
questione sarebbe stata presa in esame.
Dove stavano seduti i due impiegati che ha menzionato?
Il più giovane, in borghese, era seduto proprio di fronte
ad Andrija e scriveva qualcosa o fingeva di scrivere. L’altro,
all’incirca dell’età di Andrija, era seduto alla sua destra,
allo stesso grande tavolo, che era in realtà costituito da due
grandi tavoli d’ufficio appaiati e ricoperti di carta da pacchi
azzurra. Il secondo era leggermente calvo e indossava,
come Andrija, una giacca sbiadita dell’uniforme dei
ferrovieri, con ancora visibili sulle maniche i punti dove un
tempo figuravano i contrassegni del grado. Stava
mangiando una fettina di pane spalmata di strutto e
paprica. Penso che fosse completamente preso dalla cosa e
che non facesse affatto caso a noi. Non sono nemmeno
sicuro che si fosse accorto del mio ingresso nell’ufficio. A
un certo momento si voltò di lato, quasi mostrandomi la
schiena, e non vidi più il suo viso. Credo che frugasse nel
cassetto alla ricerca di un foglio di carta per pulirsi le dita
unte. Lo sentii ancora per qualche istante far rumore
risucchiando le briciole di tra i denti.
Dal posto dove siede Andrija Laufer è possibile vedere la
stazione?
Andrija volta la schiena alla finestra che dà sulla
stazione. La luce cade su di lui provenendo dalla finestra di
destra, che dà su un muro. Credo che sia un deposito o un
silo.
Dal posto dove era seduto lei si vede la stazione?
Si vedono solo gli scambi e i binari, il corpo metallico
della pompa e, un po’ più lontano, la stadera a ponte. La
pompa è avvolta in un involucro di paglia. L’edifìcio della
stazione si trova parecchio più in là, a cinque o seicento
metri sulla destra.
Come fa a sapere che la stazione è a questa distanza?
Ho lavorato un tempo in questa stazione e facevo questo
percorso più volte al giorno, a volte a piedi e a volte in
draisina.
Perché andava in draisina?
A volte dovevo intervenire personalmente nel deposito,
alla piattaforma girevole o nell’officina di riparazioni delle
locomotive, e a volte andavo in ispezione la mattina presto
col sorvegliante della linea o col capo meccanico.
Chi è il capo meccanico?
Ce n’erano parecchi. L’ultimo fu uno slovacco, Halupka.
Non so chi occupi attualmente tale posto.
Per il suo Orario dei treni, quello del 1938, ha dovuto
fare una pianta della stazione?
No, signore.
Saprebbe fare una pianta del genere?
Forse, a memoria, e molto schematicamente, sempre che
nel frattempo non sia cambiato nulla.
Ha fatto parte delle squadre di lavoro?
Dal gennaio del quarantuno, nonostante che un
certificato medico attestasse il mio cattivo stato di salute
fisica e mentale, ho lavorato alla sistemazione dell’argine e
nella fabbrica di mattoni.
Quindi, conosce la tecnica della posa dei binari?
Io ero impegnato nei lavori di sterro, cioè sull’argine. I
binari li posavano probabilmente altri. Non lo so. Non
credo nemmeno che qualcuno posasse dei binari su quegli
argini.
Che intende dire?
Gli argini erano fatti senza alcuna competenza, senza un
esame preliminare del terreno e senza alcun piano, per
questo sono convinto che oggi non esistano nemmeno più.
Si spieghi.
Nella squadra di lavoro c’erano con me degli ingegneri,
come per esempio Ofner, e loro mi hanno detto che quegli
argini sarebbero venuti giù alla prima pioggia e sarebbero
scomparsi dalla faccia della terra.
Chi è Ofner?
Un ingegnere, come ho detto. L’ho conosciuto nella
squadra di lavoro.
Conosce il suo indirizzo attuale?
Ho sentito dire che è stato ucciso.
Ha detto che c’erano vari specialisti nella squadra di
lavoro.
Oltre a Ofner, c’erano altri ingegneri di diverse
specialità, come per esempio Pollak e Herz, alcuni geometri
e geologi, come Weiss e uno dei fratelli Krauss, credo il
maggiore. Erano anch’essi dell’idea che quell’argine
sarebbe durato solo fino alla prima pioggia, come poi difatti
è accaduto.
Perché non si servirono delle loro conoscenze tecniche?
I cosiddetti ragazzi dell’inquadramento non
permettevano loro di immischiarsi nel lavoro. Una volta,
proprio all’inizio, il povero Ofner richiamò l’attenzione del
capo dei ragazzi sul fatto che tutto veniva realizzato senza
la minima competenza e che l’argine non sarebbe durato a
lungo, e quello lo ricambiò con una frustata in pieno viso,
affermando che voleva sottrarsi al lavoro. Ci furono anche
altri tentativi di convincere i ragazzi dell’inquadramento
della necessità di creare una specie di ufficio sul posto, per
compiervi i calcoli tecnici, le misurazioni geologiche e
geometriche, e approntare un piano chiaro e preciso, ma
ogni tentativo del genere cadde nel vuoto. Di questo
gruppo tecnico avrebbero dovuto far parte tutti gli
specialisti e di questi, come ho detto, ce n’erano parecchi
nelle stesse squadre di lavoro, come Ofner, i fratelli Krauss,
Pollak, Herz, cioè Paja Schwarz. Avrebbero fatto i piani a
casa, per evitare il sospetto di volersi sottrarre al lavoro, e
avrebbero svolto il loro compito sul terreno, come era
previsto. A questa proposta, che fu presentata dal povero
Schwarz, i ragazzi dell’inquadramento si gettarono su di
loro e li colpirono con bastoni e scudisci, sostenendo che
volevano tracciare le piante della stazione e degli obiettivi
militari, dell’aeroporto e del poligono di tiro, e annotare la
disposizione dell’artiglieria contraerea, nell’intenzione di
fornire il tutto a un servizio di spionaggio straniero. Fu
l’ultimo tentativo di fare qualcosa per quell’argine.
Come spiega la preoccupazione di Ofner e degli altri per
quell’argine?
Credo che, come specialisti, soffrissero all’idea di fare
un lavoro inutile. Per non parlare dell’umiliazione.
Ha visto per caso, in occasione del suo ultimo soggiorno
a Novi Sad, qualche membro di questo gruppo di
ingegneri?
Per quanto ne so, di essi oggi sono vivi solo Pollak e uno
dei fratelli Krauss. Ma nemmeno loro ho visto: Pollak è in
carcere e il minore dei Krauss figura sulla lista dei dispersi.
Che ne è stato degli altri?
Furono uccisi in uno scontro con i ragazzi
dell’inquadramento o più tardi. Paja, cioè Schwarz, si
impiccò in una cella frigorifera. Per molto tempo hanno
pensato tutti, compresa sua moglie, che fosse fuggito
all’estero o che si fosse annegato nel Danubio, finché non lo
ritrovarono in quella cella frigorifera: carne umana.
Da chi ha avuto queste informazioni?
Lo seppi il giorno stesso in cui fu ritrovato nella cella
frigorifera e più tardi ne parlarono pure i giornali. Secondo
il «Völkischer Beobachter», si trattava di bancarotta e di
affari poco puliti nei quali Schwarz sarebbe stato
immischiato. Per «Der Stürmer», che ne fece un vero e
proprio caso, nelle salsicce di Schwarz sarebbero stati
trovati, secondo la testimonianza di un certo Malmos,
veterinario a Čurug, dei pezzetti di carne umana. Sempre
secondo « Der Stürmer», la prova era costituita da un
brandello di carne preso da una delle salsicce di Schwarz,
che era stato accertato in maniera scientifica e
incontestabile essere (cito a memoria) «una parte del
polpastrello di un dito con una escrescenza cornea di tanti
e tanti millimetri di grandezza; quest’ultima, come è stato
scientificamente provato al di là di ogni dubbio, aveva la
stessa composizione delle unghie umane, nel caso specifico,
dell’unghia di un bambino tra gli otto mesi e un anno di
età». Naturalmente, era tutta un’invenzione, legata al
mestiere del vecchio Schwarz, il padre di Paja, che era
pizzicagnolo e macellaio. Paja, rimasto senza lavoro, si era
impiegato nel negozio del padre, perché il vecchio
Schwarz, ormai completamente cieco, era incapace di
qualsiasi attività.
Chi le ha dato informazioni sugli altri membri del gruppo
degli ingegneri?
Per Pollak, la signora Fischer. Mi disse che era stato
trasportato all’ospedale della prigione privo di coscienza e
con gli organi sessuali mutilati.
Da chi lo aveva saputo?
Il povero Fischer, prima di suicidarsi, era stato insieme
con Pollak nel carcere preventivo della Casa Gialla e poi nel
cosiddetto Tunnel.
Krauss?
Me ne ha parlato sua moglie.
Dove e quando l’ha incontrata?
Prima della mia partenza da Novi Sad, quindi verso la
fine di febbraio o l’inizio di marzo. Ci siamo incontrati in
municipio, dove eravamo stati convocati per un controllo. È
stato allora che mi ha detto che suo marito, cioè il minore
dei Krauss, era nella lista dei dispersi.
Che altro le ha detto in questa occasione a proposito di
suo marito?
Niente altro.
Come interpreta questa espressione: « nella lista dei
dispersi »?
Suppongo che sia annegato nel Danubio o che sia stato
deportato.
Ofner?
L’ho detto: ucciso. L’ho saputo da Béla Sternberg. Me ne
parlò un giorno o due prima di suicidarsi.
Quindi, lei è praticamente l’unico sopravvissuto di quel
gruppo di ingegneri.
Io non appartenevo a quel gruppo. Di esso facevano
parte, come ho già detto, solo ingegneri, architetti, geologi,
geometri e persone di professioni simili. Io ero solo nella
stessa unità di lavoro a cui apparteneva tale gruppo.
Dunque, lavorava insieme con loro?
Sì. Trasportavo la terra e la sabbia per l’argine, scavavo,
estraevo mattoni.
Conosceva i loro progetti?
Non capisco.
Ha visto i progetti che avevano presentato alla direzione
della squadra di lavoro?
Non c’era nessun progetto. La proposta di elaborarli, di
fare misure e calcoli, non fu mai accolta dai ragazzi
dell’inquadramento, anche se essi ne discussero con Ofner
e gli altri, allo scopo di metterli alla prova e scoprire
l’intenzione occulta dei loro piani, per procurarsi nero su
bianco dei progetti che avrebbero potuto essere considerati
attività di spionaggio e come tali venire presentati
all’opinione pubblica. Credo che i membri del gruppo di
ingegneri avessero compreso questa macchinazione e alla
fine cessarono di insistere su tale questione.
Anche suo nipote Gyula, detto Georges, faceva parte di
una squadra di lavoro?
Ne era stato esonerato per il suo alto grado di invalidità.
Inoltre, per quanto mi consta, in campagna la situazione
era del tutto diversa rispetto alle città. Voglio dire che
Georges poteva sottrarsi all’obbligo del lavoro anche senza
certificato medico.
Torniamo alla scena del bosco. Suppongo che capisca a
che cosa penso.
Di questo, ho detto tutto quello che avevo da dire.
Quando sentii i passi, mi nascosi dietro un albero. Poi udii
lo sparo, più esattamente due colpi consecutivi, e le
cornacchie, fatte a pezzi, caddero ai miei piedi. È tutto.
A che ora accadde questo?
Erano circa le otto del mattino.
Non le sembra un po’ strano che lei e suo nipote
Georges vi siate trovati alle otto del mattino nello stesso
posto, nel bosco, senza esservi preventivamente messi
d’accordo, direttamente o attraverso una terza persona?
Suppongo che Georges seguisse le mie tracce, pensando
a un cacciatore. Oppure, nel caso che mi avesse
riconosciuto dall’impronta delle mie calosce, è possibile che
mi seguisse di proposito.
Che cosa poteva destare la sua curiosità?
Forse avrà pensato che stavo sistemando delle trappole
per lepri o qualcosa del genere.
E lei sistemava simili trappole nel bosco?
Tanto tempo fa, saranno passati ormai quarant’anni.
Quindi, non poteva essere questa la vera ragione della
curiosità di Georges.
Ho detto solo che è possibile che Georges mi seguisse
per curiosità. Non lo so con esattezza. Siccome con lui non
parlo, non potevo chiedergli perché mi pedinasse.
Quale altra ragione avrebbe potuto avere per pedinarla?
Forse seguiva le mie tracce per puro caso. Oppure
voleva mostrarmisi col fucile in mano, quindi in posizione di
superiorità, perché fino a quel momento ci eravamo
incontrati in situazioni in cui io ero armato e lui inerme.
Penso al mio bastone dalla punta ferrata. Questo.
Aveva già incontrato qualche cacciatore nel bosco,
durante le sue passeggiate?
Una o due volte durante il mio soggiorno nel villaggio.
Ne conosceva qualcuno?
Una volta, un giorno o due prima di questo incontro con
Georges, mi imbattei in un gruppo di cacciatori tra cui
c’era anche un certo Tóth, del nostro villaggio. Era con
altre sette o otto persone a me sconosciute, penso che
fossero di altri villaggi, forse di Baksa o di Csesztreg.
Chi è Tóth?
Una notte, venne sotto la nostra finestra, armato di
fucile da caccia, minacciando di ucciderci tutti. Credo che
fosse ubriaco. Sparò alcuni colpi in aria prima che il capo
del villaggio e alcuni contadini lo riportassero a casa.
Anche in occasione dell’incontro di cui sto parlando mi
lanciò insulti e caricò il fucile per farmi paura.
Che insulti?
Aizzò i cani e i cacciatori contro di me. Disse, ad alta
voce perché lo sentissi, che avrebbe sparato una cartuccia
con pallettoni da nove su una iena (qualificandola con
alcuni aggettivi) e che loro dovere, cioè degli altri
cacciatori, era quello di confermare di aver visto che aveva
sparato su una iena. Io però sapevo bene che voleva solo
spaventarmi, perché se avesse pensato di uccidermi non
sarebbe stato a chiacchierare tanto, ma avrebbe sparato
senz’altro. Da allora, evitavo i luoghi dove potessi
incontrare dei cacciatori, per quanto è possibile evitare
posti del genere. Perciò non mi allontanavo dal sentiero
principale e non mi addentravo nel bosco. Per fortuna, i
cani avevano fiutato una traccia fresca e si lanciarono nel
folto, sicché quella volta me la cavai bene.
Ha incontrato qualcun altro nel bosco durante le sue
passeggiate?
Nessuno.
Ladri di legna, per esempio.
No, signore. Non ho incontrato nessuno del genere.
Aveva incontrato qualche volta Georges nel bosco anche
in precedenza?
No. Solo in quell’occasione.
Georges va spesso a caccia?
Per quanto ne so, era la prima volta che Georges andava
a caccia. Io stesso ne fui sorpreso. In genere, se ne sta
sempre tappato nel negozio, che non vuole affidare a
nessuno, nemmeno a sua madre.
Portò a casa della selvaggina quel giorno?
Non so. La cosa non mi interessava.
Lo vide rientrare?
Sì. Erano circa le due del pomeriggio.
Aveva qualcosa in mano?
Non so. Portava a tracolla il vecchio carniere che era
appartenuto già a nostro nonno, ma se ci fosse dentro
qualcosa o no, non glielo saprei dire. Anche se fosse stato
rigonfio, non avrei potuto esser sicuro che si trattasse
proprio di selvaggina.
Perché mai?
Credo che Georges sarebbe capace di riempirlo di neve,
di ramoscelli, di qualsiasi cosa, pur di apparire ai miei
occhi un brillante cacciatore.
Allora, il carniere era pieno?
Infuriava la tormenta e non potevo vedere bene.
Georges passò accanto alla recinzione metallica e
scomparve di colpo in casa, sicché non fui in grado di
vedere se il carniere fosse pieno o vuoto. Lo portava sulla
spalla destra.
Che distanza c’è tra la recinzione metallica e la sua
finestra?
Una ventina di metri. Forse meno.
Quel giorno nel bosco trovò altre tracce fresche?
Solo quelle di Georges. Come le ho già detto, la sua
scarpa ortopedica lascia nella neve un’impronta simile alla
forma di un ferro da stiro.
E prima?
A volte incontravo impronte di passi, ma evitavo di
seguirle. Voglio dire che cercavo sempre di non seguire
tracce di persone, ma solo di animali e di uccelli.
Di che cosa aveva paura?
Di incontrare di nuovo Tóth o qualcuno come lui, e
anche della eventualità di essere impallinato per errore da
qualche cacciatore che mi scambiasse per selvaggina. Ma
avevo soprattutto paura di essere assalito dai cani dei
cacciatori.
Georges sa usare apparecchi tecnici?
Non capisco.
Ha detto che Georges vendeva per la ditta Mepol
materiale tecnico e anche apparecchi telefonici.
Erano solo contenitori per telefono, esclusivamente parti
di bachelite, quindi soltanto gli involucri, e latti in maniera
assai primitiva. Quei prodotti della ditta Šlonski & Strauss
potevano essere comprati solo da imbecilli e da ignoranti
come Georges. Per quanto ne so, prese da questa ditta
cinque di tali contenitori, riuscendo a venderne un solo
esemplare, o più esattamente a rifilarlo a un povero
commesso viaggiatore di Pečuj che credo non sia riuscito a
tutt’oggi a sbarazzarsene.
Che ne è stato degli altri esemplari?
Intorno al trentanove o al quaranta, Georges rispedì per
posta i quattro pezzi rimasti all’indirizzo della ditta che
glieli aveva forniti in base al contratto, ma il pacco non
arrivò mai al destinatario perché, come ho già detto, la
ditta non esisteva più da tempo. Dopo molti reclami scritti,
ricevette la comunicazione che la ditta Mepol era stata
liquidata, ma i contenitori non gli furono più restituiti. A
quel tempo, mi scrisse più volte a Novi Sad, pregandomi di
fare qualcosa perché fosse risarcito, ma io gli risposi che il
solo danno era quello di perder tempo in una faccenda del
genere. Gli scrissi persino che il prezzo dei francobolli della
sua lettera raccomandata era più alto del valore di quegli
oggetti e allora parve rinunciare definitivamente alle sue
pretese. Perlomeno, non mi seccò più. Se continuasse la
disputa con la posta o col fantasma della ditta Šlonski &
Strauss, non lo so. Non credo. Penso che la mia lettera gli
aprisse gli occhi, facendogli capire che non solo aveva
perduto i suoi contenitori ma che tutto quell’affare fin
dall’inizio non era stato altro che denaro buttato al vento e
tempo perduto.
Chi era il commesso viaggiatore che prese da Georges
uno di quei contenitori?
Tutto quello che so di lui è che era di Pečuj. Fu lo stesso
Georges a dirmelo, a suo tempo.
Lei l’ha conosciuto?
Io personalmente non l’ho mai visto e penso che
Georges si sia inventato tutto, voglio dire: il commesso
viaggiatore di Pečuj e il fatto che prendesse un contenitore
per telefono. Credo che Georges si sia inventato tutta la
storia per cercare di apparire ai miei occhi meno sciocco di
quello che è. Voleva dimostrare che i contenitori per
telefono non erano poi quelle sciocchezze che dicevo io e
che c’erano, ecco qua, delle persone che volevano e
potevano venderli, e gente del mestiere per di più, come
appunto quel commesso viaggiatore di Pečuj. L’unico
ostacolo, quindi, vis maior, era la politica del governo che si
era rimangiato la promessa di elettrificare tutta la regione.
Di conseguenza, era solo questo particolare che gli
impediva di vendere la sua merce.
Comunque, non possiamo ritrovare questo contenitore.
Sono convinto che Georges l’ha restituito alla ditta
Mepol insieme con gli altri quattro. Semplicemente, non
voleva ammettere di non essere stato capace di venderne
nemmeno uno. Perciò si è inventato la storia del commesso
viaggiatore.
Secondo lei, quel contenitore poteva essere montato?
Forse era adattabile ad alcuni apparecchi telefonici.
Naturalmente, solo certi modelli. E comunque solo se fosse
stato fatto di un materiale appena un tantino più solido,
cosa di cui dubito.
Che cosa glielo fa pensare?
L’intera gestione degli affari della ditta Šlonski &
Strauss. Sembrava un lavoro di dilettanti e di poeti che si
occupassero di artigianato e di commercio per necessità.
Ha mai avuto in mano uno di quei contenitori?
Li ho visti, ma non li ho mai avuti in mano.
Dove li ha visti?
Quando Georges mi chiese per lettera di intervenire
presso Mepol, andai nel negozio Orione a Novi Sad e cercai
tra il materiale elettrico i prodotti col marchio depositato
Mepol. I contenitori per telefono di questa marca si
distinguevano chiaramente sugli scaffali per la loro
scadente fattura e l’aspetto mediocre. Le giunture e i punti
d’attacco non erano rifiniti e il marchio depositato impresso
sui loro prodotti era anch’esso lavoro di poeti e la diceva
lunga sul tandem Slonski-Strauss.
Che cosa rappresentava questo marchio?
Sulla superficie scura della bachelite era disegnato un
vaso bianco, un vaso o una clessidra, o un calice, ma,
guardando meglio, si vedeva che questo vaso era un vuoto,
quindi una apparenza, e che soli positivi, e dunque reali,
erano i due profili rivolti l’uno verso l’altro, come in uno
specchio, e che coincidevano con i contorni del vaso-
clessidra. Lo stesso marchio, che probabilmente
rappresentava la felice simbiosi e la parità di diritti dei soci
Šlonski-Strauss, compariva nell’intestazione della loro carta
da lettere in forma di memorandum.
Sarebbe in grado di sistemare qualcuno degli
apparecchi della ditta Mepol?
Di installare un telefono?
Mi ha capito bene.
Non saprei. Se si tratta di tecnica...
Sarebbe forse capace di utilizzare qualcuno di questi
contenitori ad altri fini? Voglio dire in senso tecnico?
Non sono affatto un esperto in campo tecnico e non mi
occupo volentieri di simili faccende. Voglio dire riparazione
di installazioni elettriche e lavori del genere. E poi i
contenitori di cui stiamo parlando sono sì e no utilizzabili
per lo scopo a cui sono destinati, cioè per il telefono.
Eppure, come ex impiegato delle ferrovie, lei non
dovrebbe essere privo di una certa preparazione tecnica.
Lei doveva conoscere l’uso del telegrafo, per esempio, no?
Sì, certo.
Quale apparecchio telegrafico usavate?
In principio, a Šid e a Kameral Moravice, il Morse.
Successivamente, a Novi Sad e a Dombovar, avevamo il
Baudot e lo Hughes. Siccome questi ultimi apparecchi
erano più complicati del Morse, dovemmo tutti, dai
telegrafisti e capitreno fino ai funzionari superiori, seguire
dei corsi di perfezionamento. Lo Hughes esige un certo
virtuosismo, quasi musicale: hai davanti una tastiera con
una trentina di tasti e gli apparecchi che funzionano
contemporaneamente devono accordarsi in modo che su
ogni lato venga a trovarsi la stessa lettera sopra il nastro di
carta che riceve il messaggio.
Sarebbe in grado oggi di inviare un messaggio su questo
apparecchio o su uno simile? Intendo dire nel caso che, per
motivi eccezionali, la riprendessero in servizio?
Non credo. Comunque, dovrei esercitarmi a lungo per
riacquistare l’abilità di un tempo. È come col pianoforte.
Bisogna abituarsi a guardare il testo al di sopra della
tastiera e a muovere le dita alla cieca, con esattezza, come
quando si suona il piano o l’armonium. E questo lo si
dimentica facilmente. Se rimane una certa capacità di
suonare per abitudine, è solo questione di orecchio e di
talento, ma suonare seguendo le note è un’altra cosa. Qui,
contare solo sull’orecchio e sul talento non basta più.
Perché vi sono regole matematiche precise, come il ritmo, il
tempo e così via. La stessa cosa con l’apparecchio Hughes.
Sa suonare il piano?
No, non ho mai studiato pianoforte.
Una volta ha dichiarato di essere stato un virtuoso del
pianoforte.
Non so dove o quando ho potuto dichiarare una cosa del
genere.
L’ha detto a suo nipote Georges, non molto tempo fa.
Avevo l’abitudine di definire per scherzo il mio lavoro
all’apparecchio Hughes una pratica musicale. Tra unici, o
al caffè, sotto l’effetto dell’alcol, ero solilo dire, quando la
conversazione cadeva sulla musica, che mi dispiaceva
molto di non aver perfezionato la tecnica del piano. A dire
la verità, mi dispiace davvero di non aver imparato in
gioventù a suonare qualche strumento, penso in particolare
al pianoforte, ma era sempre sottinteso che si trattava del
telegrafo Hughes, cosa che i miei amici sapevano, e portavo
il paragone all’estremo, chiamando i telegrammi partiture,
l’invio dei telegrammi concerto e così via. A scuola, sia
detto per inciso, ho suonato per un certo tempo il violino,
che era materia obbligatoria nella scuola media intorno al
millenovecentodieci. Ma lo stridio del violino ti toglie
presto ogni voglia di studiare, perché ti rendi conto che ti
ci vorrebbe tutta la vita per trasformare quello stridio in
una musica appena appena sopportabile. Mi sembra che col
piano la cosa sia diversa. Quindi ho potuto dire questo a
Georges solo in un contesto del genere, cioè in senso
traslato, benché mi sembri strano di aver detto qualcosa di
simile davanti a Georges.
Qualcuno dei suoi conoscenti suona il piano?
Per quanto ne so, no.
La signora Fischer ha un piano in casa?
No.
Gavanski?
Da Gavanski ho visto un piano nella stanza degli ospiti,
in un angolo, più esattamente nella parte della stanza che
si prolunga in una specie di locale circolare, che non è altro
che la parte della facciata che si allarga in forma di torre.
Chi suona quel piano?
La figlia di Gavanski. Il padre le fa prendere lezioni
private da un musicista.
Chi è questo musicista?
Un poveraccio che è venuto da Pest perché non riusciva
a trovarvi un lavoro. Ha avuto una storia con una allieva
minorenne e ha dovuto scappar via. Pare che ne abbiano
parlato anche i giornali.
Come fa Gavanski ad avere fiducia in lui dopo questo
fatto?
Sembra che l’ex dongiovanni sia invecchiato e che le sue
follie giovanili siano passate. Ha sposato una donna
alquanto dubbia che sta per dargli un bambino. Così mi ha
detto Gavanski.
Come si chiama?
Non lo so.
Cerchi di ricordare.
Qualcosa come Zöldes o Zilas. Forse Zöldesi.
È un nome d’arte?
No, credo che sia il suo vero nome.
E, secondo lei, questo Zöldesi, o come si chiama,
sarebbe in grado di utilizzare il telegrafo Hughes, vista la
sua professione?
Il mio paragone tra la tecnica del piano e quella che si
impiega nell’uso del telegrafo Hughes o altri simili telegrafi
a tastiera è una semplice metafora e come tale non ha un
senso pratico. Per quanto la cosa possa apparire in
contraddizione con ciò che ho affermato poco fa, penso che
la conoscenza della tecnica pianistica possa essere solo di
ostacolo per chi voglia imparare i princìpi del telegrafo
Hughes: un certo automatismo dei movimenti, nella mente
e nelle dita, non può che interferire. Potrebbe così
accadere che la persona abituata alla tastiera di uno
strumento, piano o armonium, anziché le lettere si metta,
per entusiasmo, per abitudine oppure semplicemente per
stanchezza o distrazione, a battere un accordo. Le
conseguenze potrebbero essere catastrofiche.
Quello che sta dicendo vale anche per la radiotelegrafia?
Io, personalmente, non conosco questa tecnica, anche se
so che certe compagnie ferroviarie europee già se ne
servono per l’uso quotidiano.
Come l’ha saputo?
L’ho letto sul « Messaggero ferroviario » e recentemente
su « Selezione ».
Qualcuno dei suoi conoscenti si occupa di
radiotelegrafia per hobby, quindi da dilettante?
Non mi consta.
Magari la signorina Gavanski? O il suo fidanzato?
Non l’ho sentito dire.
Ha detto che il pianoforte si trova nel prolungamento
della casa, vicino alla finestra.
Sì.
Lo descriva.
È un pianoforte a coda, nero, ben conservato, di solito
ricoperto da un panno di stoffa rossa, la stessa di cui sono
fatte le tende che pendono dalle aste al di sopra della
grande finestra nella parte arrotondata della stanza, che
corrisponde alla sporgenza della facciata da cui entra la
luce. I piedi hanno la forma di coni stilizzati sulla cui punta
si trovano delle rotelline di ottone. I pedali, pure di ottone,
sono fissati a un meccanismo a forma di lira. Una sola volta
ho visto questo piano aperto, cioè senza il suo panno rosso.
La parte di sopra era alzata e sostenuta da una bacchetta.
Fu anche la prima volta che vidi i tasti, già un po’ ingialliti,
come di nicotina. Sul pianoforte c’era uno spartito aperto.
Quando è stato questo?
Tre o quattro mesi fa. Ero passato da Gavanski al
mattino per prendere un caffè dopo una notte insonne.
Dove aveva passato quella notte?
Avevo cominciato da Márton, poi ero stato alla Porta
Cattolica da Weinhebbel, per finire al buffet della stazione.
Avevo bevuto parecchio vino scadente, ma prima di
arrivare da Gavanski avevo già smaltito la sbornia.
Con chi aveva bevuto quella notte?
Con degli operai di cui non so il nome. Ne ricordo solo
uno che si chiamava Sandor. È un tipografo invalido. Me lo
ricordo perché intorno a mezzanotte si scolò per
scommessa tre litri di vino rosso. Sembra che fosse un suo
numero abituale.
Come spiega il fatto che il pianoforte fosse aperto e che
qualcuno suonasse così presto la mattina?
Gavanski si lamentò con me di non aver potuto dormire
perché quella notte sua figlia aveva invitato degli amici. La
stanza era in disordine, come gli altri ambienti.
Dappertutto, sul pavimento e sui tappeti si scorgevano
bicchieri vuoti o pieni a metà, i cuscini del divano erano
sparsi qua e là, e in cucina, dove andai a prendere un
bicchiere d’acqua, il disordine non era minore: piatti
sporchi nel lavandino, resti di cibo, bottiglie vuote. Ne
annusai una: era vino artefatto.
Chi erano questi amici?
Non lo so.
Gavanski non le fece qualche nome?
No.
Quanti erano gli invitati?
Non mi fu detto.
Gavanski aveva preso parte alla festa?
Mi disse che aveva bevuto mezzo litro di vino, ma in
camera sua. Non aveva voluto disturbare i giovani.
La tenda alla finestra sopra il pianoforte era alzata
quando lei entrò?
Sì.
Che cosa si vede dalla finestra accanto al piano?
A destra, una parte della città con la cattedrale; di
fronte, in primo piano, un argine con dei binari e qualche
baracca; dietro, la pianura e un mazzacavallo sullo sfondo;
all’estremità sinistra, pure in secondo piano, grosse buche
e una fabbrica di mattoni, nonché il Danubio. Stando
accanto alla finestra, tra il muro e la rientranza sul fianco
del pianoforte, si vedono un binario morto, casupole di
artigiani a un solo piano e alcune baracche di tavole in
fondo ai giardini. D’estate, questi giardini sono piantati a
pomodori, cipolle, zucche, girasoli, cetrioli. Allora, in mezzo
al verde, si distinguono chiaramente i gabinetti di legno
imbiancati a calce.
Da questa finestra si vedono il poligono o l’aeroporto?
Non ho visto niente del genere.
Ha parlato di grosse buche vicino alla fabbrica di
mattoni.
Sì, da quel punto si vedono appena a occhio nudo. Lì
c’era un tempo una fabbrica di mattoni, che fu distrutta da
un’inondazione. A cinquanta centimetri o a un metro di
profondità, si possono ancora trovare mattoni in buono
stato, conservati nell’argilla.
Ha detto a occhio nudo. Quindi, qualche volta ha visto
questo paesaggio col binocolo.
Gavanski mi disse di averci osservato, noi della squadra
di lavoro, col binocolo, ma che in quel formicaio umano non
poteva distinguere un uomo da un altro.
Che binocolo è?
Un semplice binocolo da donna, incrostato di
madreperla e con un’impugnatura lunga una quindicina di
centimetri, anch’essa incrostata di madreperla.
Ha mai avuto in mano questo binocolo? Voglio dire, l’ha
mai preso per guardare dalla finestra?
Una volta l’ho accostato all’occhio, ma non ho visto altro
che un baluginio rossastro, che faceva pensare al sole al
tramonto: doveva essere la tenda o il panno che ricopre il
pianoforte.
Che cosa aveva visto prima?
Solo un baluginio rossastro.
Ripeto: che cosa aveva visto prima? O dopo? È lo stesso.
Alcuni uomini vicino alla fabbrica di mattoni.
Che cosa facevano?
Probabilmente estraevano mattoni dal fango e dalla
sabbia e li buttavano in un mucchio per sistemarli poi
meglio.
Ne riconobbe qualcuno?
A quella distanza era impossibile distinguere le facce.
Me l’aveva detto anche Gavanski, che pure ha una vista
migliore della mia.
A che ora guardò dalla finestra col binocolo?
Era sera, poco prima del tramonto.
Che cosa vide in quel momento?
A sinistra, proprio vicino alle rovine della fabbrica,
scorsi un uomo che raccoglieva dei mattoni. Lo notai
perché era un poco distante dagli altri.
Continui.
Aveva le mani avvolte in uno straccio, sicuramente un
fazzoletto. A un certo momento si fermò e allora gli si
avvicinò un uomo, forse con l’intenzione di aiutarlo a
sistemarsi la fasciatura alle mani.
Continui.
A quel punto arrivarono di corsa altri uomini armati di
bastoni e cominciarono a picchiarli finché non li ebbero
buttati a terra.
Continui.
Più tardi vidi i due rialzarsi e mettersi in fila con gli altri
con una vanga o una pala.
Continui.
È tutto.
Di chi è questo binocolo?
Gavanski lo comprò a sua moglie una decina di anni fa
dal signor Poltarackij.
Chi è Poltarackij?
Un emigrato russo. Capitò a Novi Sad intorno al
millenovecentoventicinque. Credo che prima vivesse per un
certo tempo a Valjevo e a Belgrado. Si diceva che fosse un
conte, addirittura che fosse stato assai vicino alla corte
russa, che fosse stato membro di un governo, ovviamente
controrivoluzionario, ma che poi, deluso dei bianchi, si
fosse dato alla bella vita. A quel tempo, si manteneva
vendendo le sue cose, sue e della moglie, o amante, non so,
e dando lezioni di piano, di cinto, di scherma, di
equitazione e simili. Sof’ja Nikolaevna si interessava invece
di spiritismo ed era lei in pratica che manteneva il vecchio
conte col denaro che guadagnava cantando nelle case dei
ricchi. Di lei si raccontava, sia detto per inciso, che fosse
una ninfomane e che mettesse le corna al conte a tutto
spiano.
Ha conosciuto personalmente Poltarackij?
Intorno al millenovecentoventicinque o trenta abbiamo
giocato qualche volta a scacchi e a biliardo nella sala di
lettura della Casa dell’artigiano.
Che ne è stato di lui?
Ho sentito dire che è morto in California alla vigilia della
guerra, di una dolce morte, tra le braccia di una meticcia.
Da chi l’ha sentito dire?
L’ho letto su un giornale di Vienna. Poltarackij era infatti
un membro dell’alta società e frequentava ex re, reggenti e
conti.
In che rapporti era il defunto Poltarackij con Trockij?
In una conversazione intorno al tavolo da biliardo mi
disse una volta che avrebbe fatto immancabilmente visita a
Lev Davidovič nella sua residenza messicana.
Di recente lei ha fatto un paragone tra il suo cranio e
quello di Lev Davidovič Bronštein.
Non ricordo.
Lei ha dichiarato (cito): « Avrei potuto avere lo stesso
destino di Lev Davidovič Bronštein. Solo la provvidenza mi
ha salvato ». Ecc.
Sì, è possibile che l’abbia detto.
In che occasione?
Non ricordo.
Che tipo di esplosivo teneva nell’appartamento?
Non capisco la domanda.
Testimoni oculari affermano di aver sentito una
esplosione prima del crollo della casa di via Bem 21.
È un’invenzione.
In che rapporti era con la signora Mészáros, la sua
padrona di casa?
La vedevo piuttosto di rado.
Quanti mesi di pigione le doveva?
Tre.
In che rapporti era col marito?
Credo che mi evitasse.
Perché?
Non glielo saprei dire. Probabilmente si trattava di una
antipatia reciproca.
Lei, dunque, afferma che il signor Mészáros le era
antipatico.
Sarebbe più giusto dire che mi era indifferente. Più
semplicemente, lo ignoravo. La cosa mi era tanto più facile
in quanto delle questioni finanziarie si occupava la signora
Mészáros, sicché non mi era necessario avere rapporti con
lui.
Come spiega il fatto che la casa sia crollata qualche
secondo dopo che lei era uscito?
Mi ha salvato la provvidenza.
Risponda alla mia domanda.
Sono stanco.
Come è crollata la casa? Ripeto: come è crollata la casa?
Credo che sia stato un ratto.
Quando ha visto il ratto?
L’ho visto due volte. La prima, quando i facchini
spostarono gli armadi, e la seconda, per un attimo, quando
mi voltai indietro uscendo dall’appartamento. È possibile
quindi che siano stati due.
Dove li ha visti?
Uno era, come ho detto, in un angolo, proprio accanto al
muro. Uscì da un buco del pavimento, poi corse via
scomparendo nell’angolo opposto in uno dei buchi che si
trovavano nel punto di contatto tra le assi marcite del
pavimento e la parete imbevuta di umidità. L’altro, sempre
che non fosse lo stesso, attraversò velocissimo la stanza in
diagonale e scomparve in un grosso buco che si apriva nel
mezzo del pavimento, nel punto dove prima c’era un
tappeto.
C’erano crepe alle pareti?
No.
La casa pendeva o era sostenuta da travi?
Come ho dichiarato a verbale, la casa non presentava
alcun segno esteriore visibile che facesse pensare a un
pericolo di crollo.
Aveva fatto dei lavori di restauro in casa?
No. A parte la sostituzione di alcune assi del pavimento.
Chi le aveva sostituite?
Io.
Dove le aveva prese?
Erano quattro lunghe palanche che avevo trovato una
sera vicino a casa. Probabilmente erano cadute dal camion
di uno spedizioniere. Non superavano, ciascuna, un metro,
un metro e venti di lunghezza.
E scavò il pavimento sotto le assi?
No. Mi limitai a togliere le assi marcite e a mettere al
loro posto le palanche. Tra esse, nel senso della lunghezza,
rimaneva un vuoto di una decina di centimetri.
Inchiodò le assi?
No, perché le travi portanti, sotto il pavimento, erano
anch’esse completamente marcite e tarlate, e quindi
sarebbe stato del tutto inutile piantarvi dei chiodi.
La casa era assicurata?
La signora Mészáros ha dichiarato a verbale che la casa
era assicurata con la compagnia di assicurazioni Pannonia
e che tutta la documentazione era in ordine. E sulla
facciata della casa c’era una targa arancione con la scritta
Pannonia. Ma questa targa non si è più ritrovata dopo lo
sgombero delle macerie.
Questa assicurazione dà diritto anche a lei a qualche
risarcimento?
Non credo. In ogni caso, nessuna delle mie cose ha
subito danni in occasione del sinistro, quindi non vedo il
motivo di...
Aveva fatto qualche scavo nella cantina della casa?
La cantina era piena d’acqua, credo a causa di qualche
vena sotterranea, ed era tenuta chiusa a chiave,
probabilmente per i bambini. Io personalmente non ci sono
andato mai. Della sua esistenza sapevo solo per quello che
mi diceva la signora Mészaros. Consegnandomi le chiavi,
mi aveva detto che non mi avrebbe dato quella della
cantina, perché era impraticabile. Non ricordo se mi disse
anche qualcosa delle acque sotterranee.
Dove si trovava l’ingresso della cantina?
Vi si scendeva per una scala di legno sulla facciata
dell’edifìcio. Alla porta c’era un lucchetto arrugginito,
prova che nessuno vi era sceso da un pezzo.
Come fa a sapere che la cantina era piena d’acqua e che
vi si scendeva per una scala di legno?
Ho potuto rendermene conto durante lo sgombero delle
macerie. Gli stivali di gomma degli operai erano ricoperti di
uno spesso strato di argilla. Inoltre, di notte si poteva
sentire uno strano sciabordio sotto le assi: come se
qualcuno sguazzasse nell’acqua. Erano i ratti. Una volta ne
parlai al signor Freud, il primario, e lui mi consigliò di
rivolgermi a uno psichiatra.
Chi è Freud?
Un ginecologo. L’ho conosciuto nella squadra di lavoro.
Lo notai fin dal primo giorno. Aveva le mani avvolte nella
garza. I ragazzi dell’inquadramento gliela strapparono e lo
picchiarono.
L’ha rivisto più tardi?
L’ho visto una sola volta. Stava in fila accanto alle
baracche verdi. Poi vidi solo il suo cervello. Formava come
una piccola isola nella neve, all’angolo di via Miletić con via
della Scuola Greca.
Lei, quindi, afferma che quello sciabordio che si sentiva
nella cantina era dovuto ai ratti?
Sì.
Come fa a esserne convinto?
Quel rumore era accompagnato da squittii come quelli
che emettono i ratti.
È stato mai pescatore?
Una volta pescavo con l’amo o con la mano, ma è stato
tanto tempo fa.
Ha mai pescato nel Danubio?
No.
Ha stivali di gomma?
No.
Ha mai sentito provenire dalla cantina di via Bem 21
altri rumori, oltre gli squittii che ha detto? Colpi di tosse,
parole, mormorii?
No.
E il suo padrone di casa, il signor Mészáros, aveva stivali
di gomma?
Non so.
Ha mai visto qualcuno trafficare intorno al lucchetto
della porta della cantina?
No.
Descriva il lucchetto.
Sono stanco.
Descriva il lucchetto.
Non me ne ricordo.
Ripeto: descriva il lucchetto.
Quadrato, grandezza circa 6x6 centimetri, con una staffa
metallica coperta di ruggine che formava come delle
goccioline. Sulla serratura si trova una mascherina
rotonda, di otto o dieci millimetri di diametro. Quando si
sposta la mascherina, si può vedere nel meccanismo di
bloccaggio il dente dello scatto, simile a un grosso chiodo.
Anche la mascherina della serratura è arrugginita, tanto
che è appena possibile spostarla, e in un senso soltanto (a
sinistra). Sotto la serratura si distinguono nettamente
alcune lettere di una decina di millimetri di grandezza:
elzett.
Continui.
È tutto.
Descriva la parte posteriore del lucchetto.
Al punto di intersezione delle diagonali si trova un
piccolo rilievo dove termina il dente dello scatto. Queste
diagonali, che formano linee rigonfie in rilievo, si trovano
da entrambe le parti del lucchetto.
Continui.
Sono stanco.
Quando è tornato da Novi Sad?
Tre giorni fa.
Perché non si è presentato prima a questo ufficio?
Ho trovato la convocazione al mio ritorno da
Porszombat, ossia ieri.
Che cosa ha fatto a Porszombat?
Ho fatto visita ai Mayer.
Chi sono i Mayer?
Sono stanco.
Chi sono i Mayer?
Il signor Samuel Mayer è una mia vecchia conoscenza
dei tempi dell’istituto commerciale. Non ci vedevamo da
più di trent’anni. Giorni fa ho sentito dire che un certo
Mayer, commerciante, viveva a Porszombat e ho pensato
che fosse lui. Allora ho deciso di andare a cercarlo.
Per quali ragioni?
Desideravo farmi prestare un po’ di denaro.
Da chi ha sentito dire che Mayer viveva a Porszombat?
Da Georges.
Perché Georges ha fatto menzione di Mayer?
Sono stanco.
Perché Georges ha fatto menzione di Mayer?
Durante uno dei nostri litigi, Georges mi ha detto che
sono un bancarottiere e un Luftmensch e come esempio di
uomo di successo mi ha fatto il nome di Mayer.
Continui.
Sono stanco.
Continui. Continui.
PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (III)

57

Quali congetture fece E.S. sul senso e sullo scopo della


convocazione che aveva ricevuto da Novi Sad?
Riassunzione in servizio, a un grado inferiore a quello
che aveva al momento in cui era andato in pensione; visita
medica per l’invio ai lavori forzati; tentativo di
arruolamento da parte della polizia per attività di
spionaggio tra gli impiegati delle ferrovie; arresto di
personalità di rilievo come ostaggi; fucilazione di ostaggi
per rappresaglia dei sabotaggi alla rete ferroviaria.
Quale rapporto di causa ed effetto vedeva tra questi
avvenimenti e lo spostamento di tutti i suoi beni mobili?
La velocità di spostamento dei suoi armadi per ferrovia
era direttamente proporzionale ai successi delle forze
dell’Asse sui vari teatri di guerra e inversamente
proporzionale ai successi dell’Armata Rossa.
Che possibilità aveva di venire in possesso dei sessanta
pengő necessari per recuperare i suoi beni mobili?
Il prestito, il furto, la fortuna.
Il prestito?
Come prestatori potenziali vedeva Mayer, Gavanski,
Rosenberg e la signora Klara, la proprietaria del caffè,
benché avesse già debiti con ognuna di queste persone: da
Mayer aveva preso a prestito due volte venti pengő, la
prima con una richiesta orale, la seconda con una richiesta
scritta, senza però indicare la data della restituzione; con
Gavanski era in debito di cinquantasei pengő, dato che
gliene aveva già restituiti cento; da Rosenberg non aveva
ancora preso in prestito nulla perché questi, in occasione di
un loro incontro, aveva abilmente schivato l’argomento
affrontato da E.S. con chiare allusioni al denaro e ai
prestiti; alla signora Klara doveva una ventina di pengő, ma
considerava questa somma una sciocchezza a confronto col
denaro che in più occasioni aveva lasciato nel suo caffè.
Il furto?
Se avesse saputo dove Georges e Neti nascondevano il
proprio denaro, ne avrebbe preso una manata, pensando
così di ripagarsi semplicemente dei boschi che loro avevano
bruciato e sui quali anche lui accampava dei diritti; non
escludeva nemmeno l’eventualità di sfilare il portafoglio in
treno a qualche commerciante o a un borsaro nero,
facendoli prima ubriacare o cacciando loro sotto il naso un
fazzoletto imbevuto di narcotico.
La fortuna?
Il ritrovamento di un borsellino nel corridoio del treno,
per strada o al caffè; il regalo di uno sconosciuto donatore;
un vaglia della Croce Rossa o di qualche altra istituzione di
beneficenza; una revisione straordinariamente favorevole
della sua pensione, col recupero, in base a una nuova
legge, degli arretrati relativi all’intera somma percepita dal
momento della sua entrata in servizio; un biglietto della
lotteria trovato per terra e risultato vincente; la scoperta di
un’arma segreta ed efficace e la sua vendita agli americani.
Ecc.
Di che cosa aveva paura?
Dell’eventualità che, durante la sua assenza, si tramasse
un inatteso e terribile complotto contro di lui tra i suoi
parenti e i suoi stessi figli.
Come reagì E.S. leggendo l’elenco di coloro che,
secondo sua sorella Neti, erano morti, erano rimasti vittime
di incidenti, erano stati uccisi o erano semplicemente
scomparsi?
Scorse rapidamente questa parte della lettera, cercando
di dimenticarla e così, apparentemente per caso (in realtà
di proposito), per soffiarsi il naso utilizzò subito questa
parte della lettera, la parte finale, più esattamente gli
ultimi due paragrafi, perché, ritagliandoli e mettendoli
nella tasca esterna destra della giacca, li aveva sistemati
proprio in modo che gli venissero per primi sotto la mano
quando gli sarebbero serviti per igiene personale e per
l’abitudine di soffiarsi il naso in un pezzo di carta di
giornale o di carta da lettere. Poiché era miope, non mancò
di verificare, prima di soffiarsi il naso, se aveva usato
proprio quei passi di cui voleva sbarazzarsi quanto prima.
Perché voleva farlo?
Perché i nomi dei suoi vecchi conoscenti e amici
parlavano con una voce più chiara dell’Ecclesiaste e di
qualsiasi riflessione filosofica sul destino di ogni essere
vivente. Era incline a sopportare più facilmente le più cupe
speculazioni sulla morte che non a considerarne l’opera:
tra coloro che Neti citava nella sua lettera (bilancio degli
ultimi due-tre anni) non erano pochi quelli che avevano la
sua età o che erano addirittura parecchio più giovani di lui.
Vanitas vanitatum...
A quali fantasticherie si lasciò andare?
Come in un parodistico romanzo d’avventure di P.
Howard (Rejtő Jenő), in un accesso di legittimo furore, nel
ruolo di pater familias, si scaglia con un coltello in pugno
contro i suoi familiari e, con un colpo ben assestato nella
regione del cuore, pone fine a questa penosa storia di
famiglia. Mentre nelle stanze lordate di sangue giacciono i
cadaveri di coloro che ha giustamente condannato, lui, con
le manette ai polsi, è condotto via in mezzo ai gendarmi,
prima in carcere, poi all'asilo per i malati di mente:
dimostrare in tribunale la sua irresponsabilità non sarà
difficile.
Quale sarebbe il comunicato dei giornali sul triplice
delitto in una casa ebraica di Kerkabarabás?
(Primo comunicato): Ieri, nel villaggio di Kerkabarabás,
comune di Baksa, è stato commesso un triplice delitto.
Vittime di una lite familiare e di un gesto di collera, sono
periti, sotto i colpi di un coltello, la signora Neti, vedova di
I. Boroska (di anni 59), suo figlio Gyula, detto Georges (di
anni 39), commerciante, e sua figlia Marija (già Rebeka),
vedova di István Horváth (di anni 36), casalinga. Questo
crimine odioso è stato compiuto, in un accesso di follia,
dall’ispettore capo delle ferrovie a riposo E.S., padre di due
figli. L’omicida si è arreso ai gendarmi senza opporre la
minima resistenza; l’espressione ebete del viso rivelava
chiaramente lo stato mentale dell’assassino. (Secondo):
Come ci informa il nostro corrispondente, il processo del
triplice omicida (si veda il nostro numero del 4 aprile) è
stato rinviato a data da destinarsi, perché la commissione
medica ha stabilito che l’uomo ha compiuto questo orrendo
misfatto in stato di grave turbamento psichico. Secondo la
testimonianza del dottor Papandopulos, il quale in due
occasioni ha curato il signor E.S., quest’ultimo manifestava
chiari sintomi di aggressività ed era stato dimesso
dall’istituto psichiatrico di Kovin come persona
estremamente insicura e sotto la responsabilità della
moglie. (Terzo): A proposito del triplice delitto nel villaggio
di Kerkabarabás (si vedano i nostri numeri del 4 e 10
aprile), apprendiamo che una certa signorina Nedomački,
commessa alla cartoleria Record di Novi Sad, ha
riconosciuto l’omicida da una fotografia e ha dichiarato a
questo riguardo che, alcuni giorni prima del delitto, gli
aveva venduto il tagliacarte con cui è stato appunto
commesso il delitto. La signorina Nedomački afferma nella
sua dichiarazione, fatta sotto giuramento, che il signor E.S.
era stato estremamente gentile con lei e che aveva rimirato
il tagliacarte giapponese più con gli occhi di un esteta (sic!)
che con quelli di un criminale. Afferma inoltre che
l’acquisto del tagliacarte giapponese da parte del signor
E.S. le era parso tanto meno sospetto in quanto lui, cioè
E.S., oltre al tagliacarte aveva acquistato anche alcuni
blocchi di carta da lettere a quadretti, cosa che
chiaramente doveva servire a sviare eventuali sospetti.
Dopo tutte le sue disgrazie (fucilazione, impiccagione,
morte naturale nel suo letto) e dopo la sua resurrezione o
almeno la sua amnesia totale (di cui già avverte i primi
sintomi), che cosa farebbe E.S.?
Prenderebbe per mano la povera ragazza lentigginosa
della cartoleria Record e ricomincerebbe con lei una nuova
vita (Vita nova).
Con che cosa la conquisterebbe?
Con la ricchezza (materiale e spirituale); con mazzi di
fiori accompagnati dal suo biglietto da visita; con l’acquisto
scriteriato di ogni articolo della sua cartoleria, senza parole
(le parole sono fuori posto). Fino a svuotarle l’ultimo
scaffale. Levando lo sguardo, lei mostrerebbe di avere
infine compreso le sue nobili intenzioni. Tutto ciò non era
altro che un pretesto e un gioco: la carta a quadretti e il
tagliacarte giapponese. Tutto.
Quale sarebbe stata la trama del romanzo che E.S. si
proponeva di scrivere nel 1932 a Kovin, su consiglio del
dottor Papandopulos, quindi a scopo terapeutico, dato che
il suddetto dottore aveva scoperto in lui, leggendo la «
Storia della mia malattia » che aveva scritto di suo pugno,
una notevole capacità di osservazione unita a un pathos
colmo d’ironia?
Un certo Malchus o Kartafil o Johannes Buttadeus (a
volte solo Buttadio), spinto da un oscuro rimorso (storico) e
dalla paura, comincia dalla prima giovinezza a cambiare
non soltanto il nome, quindi l’identità, ma anche mestiere e
luogo di residenza. Trovando ovunque incomprensione, fa
bancarotta e finisce in manicomio dove ha una sorta di
illuminazione. Questa illuminazione gli rivela che la
professione di ferroviere è la vera vocazione della sua vita e
che il viaggiare è una specie di terapia per la sua paura.
Così, dopo una serie di viaggi e di peripezie, diventa
incaricato a tempo, poi impiegato e infine ispettore delle
ferrovie dello Stato, dapprima nella JDŽ,1 poi nella MAV,2
quindi nelle compagnie ferroviarie romena, bulgara, belga,
italiana, austriaca, tedesca, cecoslovacca, polacca e
portoghese, sempre cambiando luogo di residenza e nome.
Naturalmente, non tralascia (nel romanzo) di presentare
abitanti e costumi di molti paesi, nonché le varie forme dei
suoi incubi. Alla fine, ha una nuova illuminazione, assai
simile alla precedente: il signor Johannes Buttadeus (o
Buttadio), o Joäo d’Espera em Dios, alias Isaac Laquedem,
è posto a confronto, nel suo ufficio di dirigente di una
piccola stazioncina, col suo carnefice Gesù. Follia o sogno?
Qui, il libro sfocia nel delirio.
Faccia una breve presentazione del romanzo che
descrive, con ironico distacco, le recenti e spesso
incredibili avventure del nostro eroe.
Parata in un harem, il romanzo che ci è stato proposto in
una buona edizione economica dalla casa editrice Tábor, è
la prima opera (a quanto almeno ci comunica l’editore in
una breve nota) del signor E.S. Dietro un titolo volutamente
d’effetto, di certo ispirato a P. Howard, il lettore scopre con
piacere uno scrittore sensibile e ricco di talento, e un
interessante tema sociale e psicologico. Non volendo, al
modo di certi inopportuni guastafeste, rivelare
completamente al lettore l’argomento del libro, diremo
soltanto che l’azione del romanzo non si svolge, come il
titolo potrebbe far pensare, nell’ambiente esotico di corti
orientali, ma in uno sperduto borgo pannonico, ai nostri
giorni. Il protagonista del romanzo, un certo E.S., uomo
estremamente sensibile e fors’anche un po’ strampalato,
viene a trovarsi, dopo una esperienza terribile (un
rastrellamento a Novi Sad), in una serie di situazioni
quotidiane, del tutto normali, nelle quali però non riesce a
trarsi d’impaccio. L’azione del romanzo si svolge nel corso
di una sola notte, dalla tarda sera al mattino. In questo
breve lasso di tempo, il protagonista rivive i momenti più
importanti delle sue esperienze passate e recenti, e fa il
bilancio della propria vita. Il suo conflitto col mondo è in
fondo il conflitto con la morte, una lotta con la morte, di cui
presagisce l’arrivo imminente. Raccomandiamo di cuore
questo romanzo ai nostri abbonati e ai nostri nuovi lettori,
a tutti coloro che non corrono dietro a soggetti banali e
d’effetto, e che sono convinti, come noi, che il cosiddetto
intreccio non è né l’attrattiva principale, né il valore
essenziale di un’opera letteraria.
Citi le due versioni (non la terza, la definitiva) della
ricevuta che E.S. scrisse il 4 aprile AD 1942 e che
riguardava il pagamento di certi debiti.
1) Ricevuta del pagamento di 50 (in lettere: cinquanta)
pengő, somma che riceverò da mio fratello E.S.,
pensionato, appena sarà in grado di versarmela, a saldo del
mantenimento suo e dei tre membri della sua famiglia per
un periodo di quindici giorni. 4 aprile 1942.
2) Ricevuta del pagamento di 30 (in lettere: trenta)
pengő, somma che ho ricevuto da mio fratello E.S.,
funzionario delle ferrovie in pensione, a saldo del periodo
di quindici giorni che lui e la sua famiglia hanno trascorso
in casa mia. Luogo e data: Kerkabarabás, 4 aprile 1942.
Ecc.? (Variazioni).
« Herr Kontrollor minaccia col coltello! », « se avesse
venti pengò, comprerebbe una cucina economica», « ne
abbiamo le tasche piene di quei suoi boschi! », « ma quali
boschi! », « il povero nonno l’aveva già regolata con lui, la
questione dei boschi », « era d’accordo di farvi bruciare la
potassa », « è lui che ci ha raccomandato quel Pollak, è
tutto scritto », « il signore voleva diventare pure lui
Potaschen Fabrikant », « venti pengó', per favore! », « ma
lo sa che cosa sono, oggi, venti pengő? ».
Ecc.? (Sincopi).
« Ma a quella Klara di Baksa il doppio le ha lasciato»,
«scialacquato ha di certo, dava mance più alte dell’importo
», « gli importa forse se i figli son privi di ogni cosa?»,
«sapete come beveva, ma adesso è giunto proprio al
fondo», «dopo aver spennato tutti i suoi parenti », « venti
volte al giorno cambia opinione », « ne avrà ancora almeno
un briciolo, di senno?», «non preoccuparti, ci pensa il
commissario», «sarà, ma non credevo arrivasse a questo
punto», « togliti di mezzo, Georges! », « toglietevi tutti di
torno! », «non vedete che è pazzo da legare?», «restate
indietro, è pericoloso!».
Quanto tempo passò prima che E.S. aprisse la porta e
afferrasse rapidamente la lettera azzurra che era stata
infilata in una fessura al di sopra dell’uscio?
Esattamente venti minuti, secondo il suo orologio di
marca Longines che serrava nella palma gelata della mano
sinistra.
Dov’era la sua mano destra?
Con la destra stringeva l’impugnatura del bastone la cui
punta ferrata era confitta nel buco della serratura.
In che modo E.S. verificò il peso del prosciutto (dono di
sua sorella minore)?
Dapprima soppesò con la mano il moncone bronzodoroso
e fuligginorosato, poi sollevò un poco la carta oleata nella
quale era avvolto il prosciutto che annusò da presso, cosa
che gli provocò un’improvvisa secrezione di saliva. Infine,
prese sotto braccio il prosciutto (avvolto in un vecchio
giornale) e lo portò dal signor Horváth per pesarlo.
Come si riuscì a conoscere il peso netto del prosciutto
(senza giornale e senza la carta oleata) grazie alla bilancia
del signor Horváth?
Sul piatto di ottone di sinistra (visto dalla parte del
proprietario del prosciutto) furono posti due pesi di ferro
marcati 1 kg, poi un altro ancora dello stesso valore
numerico, e la bilancia pendette da quel lato, mentre le
lancette a forma di becco passarono nettamente una
accanto all’altra; poi fu tolto uno dei tre pesi di uguale
valore numerico e sostituito da uno marcato 0,5 kg, pure di
ferro, e i becchi delle lancette si accostarono di nuovo
leggermente, mentre il signor Horvath cercava, con la
pressione del pollice e dell’indice, di tenerle allineate; al
terzo tentativo, invece del peso di ferro di 0,5 kg, furono
posti sul piatto della bilancia, uno accanto all’altro, due
pesi di ottone marcati 0,20 kg e finalmente si ottenne
l’allineamento tra le due lancette, i piatti si trovarono in
una relazione rispondente, con un rapporto equilibrato, in
rimando relativistico, in equilibrio relativo, con equilibrata
relatività, in un equipeso equicameo e in una
corrispondenza pesocarnea.
A quali due brevetti (tra i tanti altri) aveva pensato E.S.
tra quelli di cui aveva appreso recentemente l'esistenza
leggendo «Selezione degli articoli migliori»?
Una coperta riscaldata elettricamente e una cintura
elettrica per uomo.
Quali erano i vantaggi di queste due invenzioni?
Il peso minimo rispetto al classico piumino o alla coperta
imbottita di piume o di lana e il calore massimo, la
possibilità di regolare la temperatura e la facilità dell’uso;
la cintura elettrica per uomo, oltre alla sua funzione
classica di cintura (reggere cioè i pantaloni alla vita e
impedire così spiacevoli sorprese), grazie a una pila
attivata premendo un interruttore ben camuffato in forma
di bottone, riscalda la regione addominale e vertebrale,
rinvigorisce tutta la nox microcosmica, accrescendo così la
virilità, impedendo la prostatite, curando l’impotenza,
regolando il funzionamento dei reni, del fegato, delle
ghiandole endocrine e della vescica, eliminando le
polluzioni notturne (basta disattivare la pila) e provocando,
a volontà, una possente erezione e una piacevole
eiaculazione.
Perché un mese prima non aveva accettato le scarpe
(eredità del defunto Moritz) che gli aveva offerto sua
sorella Olga, vedova del povero Moritz?
Perché credeva che sarebbero venuti giorni migliori
(ottimismo), perché non voleva portare le scarpe di un
morto (superstizione), perché non gli piacevano
(estetismo), perché erano troppo piccole per lui (realismo).
Descriva le scarpe.
Pelle di antilope (imitazione), colore grigio, punte
rotonde, contrafforti duri, scollate, numero 45, sei paia di
fori per lacci rotondi, suola doppia (cuoio e cartone),
forellini decorativi a semicerchio sulla mascherina in forma
di cristalli di neve che ricoprono tutti e due i lati sotto
l’allacciatura, tacco basso, doppia cucitura della suola con
filo bianco, modello Bata per la stagione autunno-inverno
1940-41.
Quando era passato dal solido rasoio marca Solingen
alle lamette a buon mercato della marca Tabula Rasa?
Nel 1932, a Kovin. Voleva tagliarsi la gola, ma ne fu
impedito dal medico, più esattamente dall’infermiera. In
piedi a due passi da lui, gli aveva chiesto, con voce calma e
severa, di gettare « quella cosa » o di darla a lei, chiusa.
Lui aveva continuato per un po’ ad agitare la lama,
fendendo l’aria con movimenti ora rapidi come quando si
affetta una patata, ora lenti e calcolati come quando si
sbuccia una mela. Poi, di colpo, aveva gettato con disgusto
il rasoio nell’erba, lontano da sé, e si era seduto su una
panchina. Era la primavera. Nel parco dell’ospedale, i
castagni erano in fiore e spandevano un profumo pesante e
nauseabondo.
Che cosa dimenticò di menzionare nella sua lettera colui
che oggi si serve non di un pennello da barba ma di un
mozzicone di pennello senza più colore, con l’impugnatura
screpolata, col pelo logoro e rado?
Il fatto che queirindividuo era stato un tempo
comproprietario della fabbrica di spazzole e pennelli Weiss
& Comp., che produceva annualmente circa cinquantamila
pennelli da barba di prima qualità, esportandoli in tutti i
paesi dei Balcani e dell’Europa centrale, e persino nella
Russia sovietica, fin verso il 1930.
Non avendo nemmeno un ciotolino per radersi, come si
consolava?
Stringendo tra le dita un pezzetto di sapone, come un
sacerdote l’ostia, si consolava pensando alla storia del
saggio eremita che solo in vecchiaia, vedendo un pastore
prender l’acqua alla sorgente nel cavo della mano, capì di
poter fare a meno anche del bicchiere.

1 La compagnia ferroviaria jugoslava [N.d. T.].


2 La compagnia ferroviaria ungherese [N.d.T.].
SCENE DI VIAGGIO (III)

58

L’uomo afferra un mattone e cerca di lanciarlo sull’alto


mucchio che si leva non lontano da lui. Ha le mani avvolte
in uno straccio, di certo un fazzoletto, perché attraverso il
fango incrostato vi si scorgono ancora le linee scure dei
riquadri, forse azzurre, forse brune, forse verdi. Ora si è
fermato un istante e cerca di aggiustarsi la fasciatura.
Poiché le bende gli arrivano fino alla base delle dita e si
sono disfatte attorcigliandosi attorno a esse, i suoi
movimenti sono goffi e impacciati. La goffaggine è
accresciuta da un certo panico dei suoi movimenti. Non
sapendo che fare, con le dita contratte, l’uomo sembra
chiedersi se deve lacerare la fasciatura, o cercare di
riaggiustarla di nuovo, oppure strapparla con i denti.
L’indecisione è di breve durata. All’improvviso, scorge nel
suo campo visivo, nel ristretto spazio delimitato dalle sue
mani contratte, due mani ricoperte di fango come le sue,
ma senza bende. L’uomo, impotente, abbandona le sue mani
a queste altre mani. Solo allora scorge il viso. Un viso cupo
e duro, uno sguardo leggermente abbassato, una fronte
solcata da rughe e un cappello sporco di fango. Sul viso
dell’altro si legge una forte concentrazione, mentre la
bocca si muove nervosamente, in modo strano, quasi che
anch’essa, insieme con le dita, fosse impegnata a sciogliere
il nodo. L’uomo sente il respiro sommesso dell’altro. Non
dicono nulla. L’uomo sente che tutto ciò dura
spaventosamente a lungo: lo sforzo di sciogliere i nodi con i
denti e le unghie, il tentativo di avvolgere le mani con
stracci sudici. Sente forse che l’altro comincia a perdere la
pazienza, perché i suoi gesti si fanno sempre più nervosi.
Cerca di dirgli qualcosa, forse per esonerarlo da quel
compito penoso, o per ringraziarlo, o per chiedergli di
strappare la fasciatura e buttarla via. Ma non emette voce,
solo una sorta di gorgoglio, quasi stesse per tossire.
L’altro continua ad accanirsi intorno alla fasciatura. Ha
appena finito una mano e ora prende nelle sue mani l’altra,
cercando il nodo sul fazzoletto incrostato di fango.
Finalmente lo trova, ma non riesce a scioglierlo. Accosta la
bocca alla mano che gli si è abbandonata. L’uomo vede per
un istante i denti corti, come tagliati, dell’altro, poi solo il
suo cappello sporco di fango. L’uomo guarda oltre la testa
di colui che gli sta sistemando la fasciatura. Attraverso le
lenti infangate degli occhiali, non vede l’argine della
ferrovia, né la casa dalla facciata arrotondata. Vede
soltanto, a un passo o due di distanza, aggirarsi delle
ombre su quello che sa essere l’argine fangoso. Sente il
cigolio del barroccio e i sordi colpi dei mattoni, simili
all’urto di birilli. Ha il viso rivolto al sole e vede solo uno
scintillio rossastro al di sopra delle ombre che si muovono.
A un tratto, gli sembra che tutte le ombre, fino ad allora in
movimento, si siano di colpo bloccate. Gli sembra che
anche il cigolio del barroccio sia cessato, così come il
rumore dei mattoni che si urtano, come birilli. Pensa che
tutto ciò è forse dovuto solo a un’allucinazione o magari al
fatto che sta per perdere coscienza dalla stanchezza: come
se la luce rossastra di quel freddo sole invernale si
rovesciasse nel suo cervello, attraverso gli occhi. Nel
momento in cui capisce di aver ragione (che il cigolio del
barroccio è davvero cessato), comprende anche che è
ormai troppo tardi. Questa consapevolezza gli è brillata
nella coscienza contemporaneamente a un forte dolore alla
testa. Ma non è svenuto. Il colpo che gli è stato vibrato da
tergo, probabilmente con uno sfollagente, gli ha solo
illuminato per un attimo l’orizzonte di una strana luce
rossastra. Ripiegandosi su se stesso, l’uomo è ora in
ginocchio, cercando di ripararsi dai colpi con le mani.
Sente piovere i colpi, alcuni dei quali non gli procurano
dolore, e allora capisce che questi colpi cadono sull’altro,
su colui che poco prima gli sistemava la fasciatura. Adesso
sente anche i suoi lamenti, mescolati alle grida di coloro
che li riempiono di botte. A un certo punto, un colpo alla
testa gli la schizzare di bocca una massa dura, che sputa
via con una facilità sorprendente, insieme con sangue e
saliva. L’uomo si rende conto di aver sputato la dentiera.
Poi sente di nuovo (a meno che sia solo un’impressione) il
cigolio del barroccio, vicinissimo ora, quasi contro la testa.
E sente cadere i mattoni sul mucchio, più rapidamente di
prima, gli sembra. All’improvviso, capisce che la sua
fasciatura è di nuovo a posto, perché il suo viso poggia
sugli stracci. Sente l’odore dell’argilla incrostata sulla
fasciatura. Rimane qualche attimo così, tutto ripiegato su
se stesso, forse teme di non potersi rialzare. Quelli che
impugnano gli sfollagente sembrano gridargli qualcosa, ma
l’uomo non è sicuro se questo riguardi lui o l’altro. Ora
cerca, procedendo sulle ginocchia, di ritrovare la sua
dentiera e i suoi occhiali. Le dita, che spuntano fuori dalle
bende, e le palme fasciate tastano il fango indurito. A un
certo momento, sente sotto le dita qualcosa che è al tempo
stesso nocchieruto e vischioso, e capisce, ancor prima di
vederla, che è la sua tormentosa dentiera, la sua mascella
superiore con i grossi denti di porcellana. Tenta
maldestramente di accostarla a sé, quando sente un forte
dolore alla mano e lancia un grido. In un baleno, vede un
pesante scarpone chiodato premergli le dita con tutto il suo
peso. E sente spezzarsi tutto, frantumandosi come un
bicchiere di vetro, e vede i propri denti conficcarglisi nella
palma della mano.

59
Con una vanga in spalla, l’uomo cammina in fila con gli
altri, zoppicando, a capo chino. La fasciatura a una mano
(quella che pende lungo il corpo) è tutta allentata e ora
tiene solo al polso. Con la sinistra stringe il manico della
vanga. La luce rossastra del sole al tramonto avvolge
ancora i tetti delle case tra le quali procede e la cupola di
un alto campanile in lontananza. Ma l’uomo non vede nulla
di tutto ciò. Vede solo le scarpe infangate di colui che gli
cammina davanti. E sente i passi che risuonano cupamente.
Ora sono rimasti in sei. Hanno svoltato su una piazza. La
piazza è vuota. Davanti a loro s’innalza la cattedrale e, a
sinistra, nel mezzo della piazza, un monumento. Sul
piedistallo si erge un personaggio che leva il braccio destro
in alto, verso la cattedrale o verso il cielo. Ora passano in
una strada laterale, sulla sinistra. L’uomo cammina
zoppicando, a testa bassa. Ora svoltano (sono rimasti in tre
o quattro) accanto a un pozzo. Si sente qualcuno smettere
di colpo di girare la manovella della pompa e il getto
d’acqua estinguersi lentamente. Poi svoltano di nuovo.
(Ora, sembra, è solo, i passi dell’altro si sono spenti: si
sente cigolare una porta). L’uomo avanza solo, dapprima
lungo un muro giallo da cui spuntano dei mattoni, poi lungo
una stecconata. Gli sembra di vedere a una finestra agitarsi
una tenda bianca, simile a garza. Quasi nello stesso istante,
sente la ruota di ferro della pompa rimettersi in moto con
un cigolio regolare e il getto d’acqua zampillare
nuovamente.
Ora è giunto a una porta di legno e posa la vanga a
terra, con la lama rivolta in basso. Con la mano destra, da
cui pendono svolazzando le bende, stringe la maniglia, poi
apre la porta, quel tanto che occorre per potersi infilare
dentro di fianco, ma non può impedire che i cardini
cigolino. Alle finestre alla sua sinistra già brilla una luce.
L’uomo percorre in punta di piedi i pochi metri occupati
dalle finestre. Alla fine, sembra sentirsi fuori pericolo,
perché il suo passo si fa più sicuro, benché continui a
zoppicare. Lascia la vanga accanto a una porta di legno dai
grandi cardini, chiusa con un lucchetto, e si mette ad
armeggiare intorno a questo lucchetto quasi volesse
staccarlo. Poi lo tiene per un po’ nella palma della mano
ferita, impotente, come a chiedersi che fare. L’uomo scosta
infine la mascherina arrugginita del lucchetto, poi tira fuori
dalla tasca un mazzo di chiavi che cerca di infilare, una
dopo l’altra, nella serratura, ma inutilmente. Disperato, si
prende la testa fra le mani e resta così per un certo tempo.
Forse un’ora, forse due, forse anche più a lungo.
INTERROGATORIO DEL TESTE (II)

60

Cerchi di ricordare.
Facevamo un argine. L’ho già detto.
Che cosa accadde quel giorno?
Mi fermai un attimo per sistemarmi le bende alle mani.
In realtà, non erano bende, ma due fazzoletti. Ofner mi
aiutava a legarli.
Chi è Ofner?
Un ingegnere. L’avevo conosciuto nella squadra di
lavoro.
Aveva compiuto quel giorno la norma di lavoro prevista?
Sì. Credo di sì.
Che cosa accadde poi?
Io ero come accecato, perché le lenti dei miei occhiali
erano ricoperte di fango secco.
Continui.
A un certo momento, mi parve di vedere, o di sentire,
che stava succedendo qualcosa. Come se il cigolio del
barroccio fosse cessato e le sagome che distinguevo fossero
di colpo scomparse. Mentre mi chiedevo che cosa stesse
succedendo, qualcosa mi colpì alla testa.
Continui.
Cominciò a girarmi la testa. Poi, sotto i colpi, capii che
anche Ofner era per terra.
Continui.
Ero in ginocchio e cercavo di proteggermi la testa con le
mani. Un momento dopo sentii, attraverso le grida di coloro
che ci battevano, che il barroccio cigolava di nuovo,
vicinissimo adesso, quasi contro la mia testa. Capii anche
che la fasciatura era di nuovo a posto, perché il mio viso
poggiava sugli stracci. Sentivo l’odore dell’argilla
incrostata sui fazzoletti.
Continui.
Poi, di colpo, tutto cessò. Rimasi un certo tempo
ripiegato su me stesso, pensando che non sarei riuscito a
rialzarmi. Per un po’, cercai a tastoni i miei occhiali.
Finalmente li trovai. Una lente era sbriciolata. È tutto.
Continui.
È tutto.
Che cosa cercava quel giorno nella cantina della casa di
via Bem 21?
Non ricordo di essere stato in quella cantina.
Lei tentò di aprire il lucchetto con un grimaldello.
Mi servii solo delle mie chiavi. Credo che la mia
intenzione fosse di nascondermi. Per passare la notte. Non
volevo presentarmi ai miei in quello stato, senza la
mascella superiore e senza gli occhiali.
Perché scelse proprio quella cantina?
Non so. In quella cantina, due anni fa, si impiccò una
vecchia.
Voleva, dunque, impiccarsi?
Non so. Forse.
In una sua precedente dichiarazione, ha detto che
desiderava farla finita.
Forse l’ho detto.
Perché rinunciò a questa idea?
Forse perché non riuscii ad aprire il lucchetto. Non so.
In una sua precedente dichiarazione, rilasciata a Baksa,
ha detto che solo Ofner era stato picchiato.
Mi riferivo a un’altra circostanza. Quella volta, Ofner,
per aver fatto un’osservazione, fu colpito con un nerbo di
bue.
Perché ha passato sotto silenzio l’episodio che
riguardava lei?
Non so. Comunque, desidero dimenticarlo prima
possibile.
Quanto si trattenne davanti alla porta della cantina?
Non so. Forse un’ora, forse due, forse anche più a lungo.
Da chi era andato prima?
In quelle condizioni, non potevo presentarmi a nessuno.
In un punto, lei ha dichiarato (cito): « Ho solo detto a
Netika, prima della sua partenza per Budapest, di chiedere
ai suoi figli di lasciarci in pace, perché se qualcuno di loro
osava toccare... », ecc.
Sì, è possibile che l’abbia detto. Volevo soltanto...
Chi è Neti?
Mia sorella.
Che cosa andava a fare a Budapest?
A richiedere dei certificati. Per quanto ne so.
Che certificati?
Un certificato di cittadinanza, che riguardava anche
nostro padre e nostro nonno, e un attestato comprovante
che essi, cioè nostro padre e nostro nonno, avevano
regolarmente pagato la tassa comunale tra il 1870 e il
1880. È possibile che, con la stessa richiesta, volesse anche
ottenere certi documenti relativi alla vendita del bosco di
nostro padre e agli affari della ditta Weiss & Egel.
Si spieghi.
Jakob Weiss arrivò ad Agram1 intorno al milleottocento,
con sua moglie Franciska, nata Pollak, originaria di
Nagykanizsa. Perciò, commerciava soprattutto con Kanizsa
e dintorni, ricorrendo in primo luogo ai parenti di sua
moglie.
In che cosa commerciava?
All’inizio, vendeva frutta del Sud, uva secca, tabac co e
acquavite di prugne, ma più tardi, verso il mil
leottocentodieci, aveva già un commercio di merceria,
Schnittwarenhandlung.
Continui.
Dopo una serie di successi commerciali, accompa gnati
da vari casi giudiziari, Weiss riesce a estendere la sua rete
commerciale su gran parte dell’Ungheria, mentre
l’assortimento dei suoi articoli si fa più vasto: oltre ai
prodotti già menzionati, ora vende anche aceto di vino,
miele e cereali. Intorno al milleottocentoquindici, stipula un
contratto con un commerciante di potassa di Zagabria, un
certo Martin Egel, e ben presto i due ottengono la
concessione per lo sfruttamento della potassa nei boschi
dell’Ungheria. In questo affare, hanno come soci un certo
Schlesinger e Pinkas Pollak, fratello della moglie di Weiss,
Franciska.
Continui.
Questa ditta, con lo stesso nome, stipulò un contrai to
per la produzione della potassa anche con nostro nonno,
benché in quel momento la direzione fosse nel le mani della
vedova di Weiss, Franciska, e di suo fratello Pinkas. Dopo la
morte di nostro nonno, il contratto fu rinnovato senza il mio
consenso e i proventi dei boschi bruciati vennero ripartiti
dalle mie sorelle tra di loro.
Continui.
Più tardi, la ditta fu liquidata e i creditori, tra i quali le
mie sorelle, rimasero a mani vuote. Di questo affare
restarono solo alcuni ettari di bosco bruciato.
Dov’era lei due giorni fa?
Sono andato a ritirare la roba che ho spedito da Novi
Sad: due armadi pieni di biancheria da letto e di stoviglie.
Descriva gli armadi.
Due armadi antichi in noce a un’anta, un tempo di una
magnifica lucentezza, con l’anta sormontata da una volta
formata da due archi carenati e decorati da rose di legno
stilizzate, più precisamente un mazzo di rose, al cui centro
figura una voluta a forma di chiocciola, simile a quella di un
contrabbasso.
Chi l’ha portato a Lenti?
Un certo Martin, un carrettiere.
Di che cosa avete parlato in viaggio?
Dell’aglio, rimedio efficace per scaldare il sangue e
regolare la digestione, dell’aumento dei prezzi, della
penuria di certi articoli, dell’acquavite di pesca.
Questo Martin l’aveva già portato sul suo barroccio in
precedenza?
Più volte. Nel 1909, mi portò dalla stazione di Lenti al
villaggio, e due giorni dopo dal villaggio alla stazione; nel
1914, di nuovo sullo stesso percorso, meno di un mese fa
sul tratto Lenti-Kerkabarabás, l’altro ieri sul tratto Barabás-
Lenti-Sziget, e oggi su quello Barabás-Csesztreg.
Che cosa è andato a fare a Sziget?
Sono andato dai Rosenberg.
Questo Rosenberg è la stessa persona che ha già
menzionato una volta?
No. Quello era Isaac Rosenberg, mugnaio e grossista di
Baksa, questo è Jakob Rosenberg, suo fratello minore,
commerciante anche lui.
Che cosa voleva da Rosenberg?
Un prestito. In realtà, andando da lui, l’ho messo davanti
al fatto compiuto, perché sapevo che non avrebbe potuto
respingere la mia preghiera: per dimostrargli in che
difficile situazione mi trovavo, gli ho fatto vedere dalla
finestra il barroccio su cui erano caricati i miei due armadi.
Gli ho confessato che ero partito senza un soldo bucato e
che non ero in grado di pagare nemmeno il carrettiere che
mi stava aspettando pazientemente.
Quanto le ha dato Rosenberg?
Trenta pengő.
Perché si è trattenuto da lui?
È stato lui a trattenermi. Mi ha proposto di passare la
notte in casa sua, trattenendo o rimandando via il
carrettiere, perché l’indomani poteva prestarmi il suo
calesse. Io ho preferito la prima soluzione, che cioè Martin
rimanesse con me a Sziget, perché sapevo che a casa non
c’era nessuno per aiutarlo a scaricare i miei armadi. E su
Martin non si può fare gran conto: quando ci si rivolge a
lui, si fa affidamento soprattutto sull’intelligenza dei suoi
cavalli. Martin non riesce a smaltire le sbornie che si
prende regolarmente e dorme per quasi tutto il viaggio.
Che cosa ha fatto dai Rosenberg?
Stanco com’ero, sono andato a dormire presto. Ma. non
riuscendo a prender sonno, ho cercato di finire la lettera
che sto scrivendo a mia sorella Olga di Szentadorián. È la
minuta di questa lettera che mi trascino dietro da tanto
tempo.
Da quando conosce Rosenberg?
Dai tempi dell’attività della ditta Weiss & Poliak. Questa
ditta aveva stipulato a suo tempo un contratto col vecchio
Rosenberg, il padre di Isaac, e il defunto Max, cioè mio
padre, entrò in rapporti di affari con la ditta Weiss & Poliak
proprio per suggerimento e con la garanzia del vecchio
Rosenberg. Più tardi, i figli ricavarono buoni profitti dal
commercio della potassa e investirono il capitale restante
nella produzione del vetro, affidando la cosa a maestri
vetrai di Boemia.
Continui.
La moglie di Weiss, Franciska, si rimaritò più tardi con
Rosenberg padre e continuò a dirigere i loro affari,
associandosi con un parente di Rosenberg, un certo
Schreiner, che era maestro vetraio di professione. Sotto il
suo controllo lavoravano un notevole numero di aiutanti e
di apprendisti, nonché una decina di operai che
producevano la potassa necessaria per la lavorazione del
vetro.
Che ne è stato di Schreiner?
Schreiner prendeva denaro a prestito e lo investiva in
boschi, spesso anche in boschi novelli e macchie, ma a un
certo momento si ritrovò senza un soldo, e con i creditori
sull’uscio. Prima, un incendio di boschi dovuto a negligenza
distrusse gran parte dei suoi beni immobili, poi il vetro di
Boemia e d’Italia, meno caro e di migliore qualità, rovinò
gli affari della ditta Weiss & Poliak, e Schreiner abbandonò
tutto, fuggendo di nascosto a Pest, poi a Zagabria e infine a
Weissenbach. Al momento della liquidazione della ditta, i
boschi erano bruciati e per la vendita all’asta restavano
solo cinque forni per il vetro, l’edificio in cui era situata la
fabbrica, i locali d’abitazione dei maestri vetrai, degli
apprendisti e degli operai, un forno da pane a parte e una
scuderia capace di accogliere da otto a dieci cavalli. Il
valore complessivo, secondo la valutazione che ne fu data,
ammontava a circa duemila fiorini di allora. Lo stesso
giorno, fu fatto anche l’inventario degli altri oggetti di
vetro, del quarzo di prima e seconda scelta, e della potassa,
per un valore complessivo di poco più di trecento fiorini,
mentre la mobilia, le altre opere dei maestri e
l’attrezzatura, tutto questo fu stimato valere circa
duecentocinquanta fiorini. Bisogna dire che i vari prodotti
di vetro, bicchieri normali, bottiglie per l’aceto o per la
birra, ecc., erano piuttosto mediocri: si lavorava in maniera
assolutamente primitiva.
I Rosenberg posseggono ancora una parte di boschi?
Per quanto ne so io, no. Credo che avessero rinunciato
per tempo a occuparsi di potassa e che avessero venduto
poi i boschi ricresciuti nel frattempo alla famiglia del conte
Eszterházy.
Isaac Rosenberg va a caccia?
Non lo so.
Quali sono i rapporti tra Rosenberg e suo nipote
Georges?
Georges si riforniva da lui di articoli di vetro. Erano le
rimanenze della paccottiglia che i Rosenberg custodivano
in cantina, o merce di qualità simile che ricevevano da Pest
o da Kanizsa.
Quali sono i rapporti tra Rosenberg e la signora Fischer
di Novi Sad?
Rosenberg fa collezione di servizi di vetro e di cristalli di
Boemia. Possiede pure una pregevole raccolta di oggetti
rituali, vasi per il culto e candelabri. Dato che il defunto
Fischer era shohet e anche lui collezionista di oggetti sacri,
è logico che Rosenberg si interessasse di ciò che questi
aveva lasciato. Per quanto ne so, Rosenberg ha acquistato
buona parte di questi oggetti dalla signora Fischer. Per i
cinque o sei pezzi rimasti non ha dimostrato interesse, e
comunque la signora Fischer mi ha detto una volta che non
se ne separerebbe nemmeno se stesse morendo di fame.
Personalmente, penso che Rosenberg cerchi di fare il furbo
quando sottovaluta il valore e l’antichità di quegli oggetti,
perché anche l’ultima volta che ci siamo visti mi ha chiesto
se la Fischer custodiva sempre nel suo museo personale
(cito) « quelle sciocchezze che considera veri e propri
tesori ».
Lei, quindi, ha fatto da intermediario tra Rosenberg e la
signora Fischer.
Sì, ma in un’occasione precedente, intorno al
millenovecentotrentacinque. A quel tempo, siccome Fischer
era rimasto senza lavoro e non aveva ancora ottenuto il
posto di shohet, mi ero offerto di trovare qualcuno disposto
ad acquistare a condizioni vantaggiose una parte della sua
collezione, ma lui non aveva voluto nemmeno sentirne
parlare. Perciò, già allora, se ricordo bene, Rosenberg era
passato da loro a vedere quegli oggetti. Se comprasse
qualcosa, questo non lo so.
Quante volte ha fatto da intermediario tra di loro?
Una sola volta. In seguito, Rosenberg era solito andare
piuttosto spesso a Novi Sad e regolava personalmente i
suoi affari. A quel tempo, poteva ancora spostarsi.
Ha detto: « a quel tempo, poteva ancora spostarsi ».
Sì. Sono ormai tre anni che è immobilizzato. Voglio dire:
inchiodato su una sedia a rotelle. Deve trattarsi di una
paralisi progressiva o di qualcosa del genere.
Prima, cioè quando poteva ancora muoversi, faceva
visita ai Mayer?
Non lo so.
Quale altro hobby ha Rosenberg, oltre a quello di far
collezione di oggetti di vetro?
Penso che un tempo facesse anche collezione di
francobolli, ma ultimamente non me ne ha fatto parola. A
suo tempo, mi chiese di mettergli da parte i migliori
francobolli di provenienza estera. Una volta, si era
particolarmente interessato a certi francobolli del
Montenegro dell’epoca del re Nicola e mi aveva pregato di
procurarglieli, ma io mi ammalai e non potei venirgli
incontro.
Si occupa forse, da dilettante, di radiotelegrafia?
Per quanto ne so io, no.
Non le ha comunicato qualche notizia affermando di
averla saputa da fonte sicura?
No.
Ci pensi bene.
Mi disse soltanto di ritenere che l’ingiunzione di
presentare quei documenti, cioè il certificato di
cittadinanza e l’attestato comprovante l’avvenuto
pagamento della tassa comunale, fosse l’ultima misura
presa dalle autorità nei nostri confronti. Ma non mi disse
che si trattava di una informazione avuta da fonte sicura.
Che rapporti vi sono tra i Mayer e i Rosenberg?
Oltre ai rapporti di affari, di commercio, per un certo
tempo Rosenberg e uno dei figli di Mayer, quello che si
occupava di ricerche archeologiche, hanno avuto, per così
dire, rapporti scientifici. Rosenberg cercava di indurre
Mayer a studiare, nel corso delle sue ricerche, la parte
dell’archeologia e paleografìa semitiche negli scavi
pannonici.
Si sono incontrati di recente?
Non lo so.
Chi c’è ancora in casa Rosenberg?
Sua moglie Silvia, che dirige il commercio da quando
Rosenberg è immobilizzato, e la servitù: uno stalliere, un
giardiniere e una domestica che si occupa del malato.
Chi è lo stalliere?
È un uomo sui sessant'anni, tutto il ritratto di Martin il
carrettiere. Aiutava Martin a staccare i cavalli e non era
difficile accorgersi che erano tutti e due ubriachi. Anche
Rosenberg mi ha detto che il suo stalliere e servitore è
sempre sbronzo.
Il giardiniere?
Un certo Boris Avramovič Struve, originario di Riga.
Arrivò ad Abbazia come prigioniero di guerra russo nel
millenovecentosedici. Qui, dopo la prima guerra mondiale,
aprì in un primo momento un negozio di barbiere, poi una
legatoria e infine una sartoria. Per qualche tempo tenne
una piccola serra, dove faceva esperimenti con frutti
meridionali e fiori esotici, di cui acquistava i semi dai
marinai. So che è stato per un certo periodo giardiniere e
ascensorista in un albergo di Abbazia, e qui ha conosciuto
Rosenberg. Ancor oggi rade Rosenberg, ogni mattina alle
otto, e gli prepara un bagno speciale, mentre del giardino
si occupa di sfuggita e si direbbe ormai controvoglia.
La domestica e infermiera?
È una zitella sui cinquant’anni. Tiranneggia Rosenberg e
sua moglie. Mentre stavamo parlando, di sera, entrò in
camera senza bussare e spinse via la carrozzella con
Rosenberg, che si limitò a sorridere stringendosi nelle
spalle per farmi capire che non c’era niente da fare. Si
chiama Rosalia. Rosenberg l’ha portata pure lei da Abbazia,
dove faceva la cameriera. Credo che all’inizio ci fosse una
certa simpatia reciproca tra lei e Boris Avramovič, ma ora
non si sopportano più. Me l’ha detto la signora Rosenberg.
Quali sono le ragioni del contrasto?
Rosalia è venuta a sapere che Boris è in rapporti
epistolari con una signora di Riga, cioè che lo era fino a tre
o quattro anni fa. Pare che questa signora di Riga abbia
vissuto con Boris more uxorio, avendone un figlio. Rosalia,
a quarantun anni compiuti, ha sentito questa relazione
come una terribile infedeltà e ha tentato il suicidio: ha
ingerito i tranquillanti di Rosenberg, ma in quantità
insufficiente a uccidere la sua sventura.
Boris Struve è in corrispondenza con questa signora o
col figlio?
Sono scomparsi entrambi intorno al millenovecento-
quaranta. Il figlio fu accusato di alto tradimento, perché
avrebbe di proposito curato erroneamente e avvelenato
certi politici di Riga, e fu condannato a morte. La pena fu
poi commutata nei lavori forzati in Siberia, e qui è
probabilmente morto. Sua madre, che era infermiera in un
ospedale, finì anche lei in Siberia, dove è scomparsa senza
lasciar traccia di sé.
Struve è in corrispondenza con qualcun altro all’estero?
Per un certo tempo ha scritto a un suo parente a Parigi,
ma dopo la notizia della morte di sua moglie e di suo figlio,
della cui sorte seppe pure attraverso Parigi, ha smesso di
scrivere a chicchessia. È stato Rosenberg stesso a dirmelo.
Quando ha conosciuto Struve?
In occasione della mia prima visita ai Rosenberg, intorno
al millenovecentoventisette o ventotto. A quel tempo,
Struve lavorava da loro come giardiniere e stava appunto
sistemando il grande giardino dei Rosenberg. Toglieva i
Gartenzwerge e strappava i modesti garofani per piantare
al loro posto rose francesi. Mi insegnò molte cose in questo
campo, che purtroppo non ho avuto né l’occasione né la
possibilità di mettere in pratica.
Ha avuto nel frattempo rapporti epistolari con Struve?
Mi ha scritto una sola volta, intorno al
millenovecentotrentadue, pregandomi di acquistargli e
spedirgli un libro sui tulipani olandesi. Non gli ho mai
risposto, perché il mio stato di salute me l’ha impedito.
Perché era andato quell’anno dai Rosenberg a
Csesztreg?
C’ero andato per sistemare la faccenda dei boschi. Dato
che, secondo le mie sorelle, la maggior pane del ricavato di
quei boschi bruciati era andato ai Rosenberg, mi ero recato
da loro per chiarire alcune cose. Tomai a casa a mani vuote
e senza aver risolto nulla. I Rosenberg se ne lavarono
semplicemente le mani, affermando che la cosa era
legalmente del tutto corretta e che loro non si sentivano né
colpevoli né responsabili del fatto che il loro defunto padre
avesse consigliato al mio di affidare i suoi boschi alla ditta
Weiss & Pollak.
In questa occasione, le diedero del denaro, magari a
titolo di indennizzo?
Sì, la somma assolutamente simbolica di duecento
pengó'.
Considera anche il prestito che attualmente cerca di
ottenere dai Rosenberg come parte del loro debito nei suoi
confronti?
In un certo senso, sì.
Faceva altre cose Struve oltre a quelle menzionate?
Per quanto ne so io, no.
In una sua precedente dichiarazione, lei ha detto: «
Struve mi pregò di portargli da Novi Sad certe parti di
radio ».
Sì. Una valvola per una radio marca Orione.
E gliela portò?
No. Alcuni avvenimenti imprevisti mi impedirono di
pensare a queste cose.
Che cosa intende per « avvenimenti imprevisti »?
Il crollo della casa in cui abitavo e le conseguenze di
questo crollo.
In una sua precedente dichiarazione, lei ha detto (cito):
« Sono profondamente convinto che a provocare il crollo
della casa sia stato un ratto». Conferma tale dichiarazione?
Sì.
Torniamo a Struve. Le diede qualche altro messaggio
prima della sua partenza per Novi Sad?
Mi pregò di procurargli un buon pennello da barba, «per
il signore», come si espresse. Dato che nemmeno io avevo
un pennello decente, gli dissi che avrei cercato di trovarlo.
Purtroppo, non lo trovai, né per me né per lui.
Se uno è capace di sostituire una valvola alla radio, non
le sembra che debba intendersi anche di radio-tecnica?
Non necessariamente. Questo tipo di riparazione, o più
esattamente di sostituzione di pezzi, è alla portata di ogni
dilettante.
Sa se il detto Struve era maestro armatolo?
L’ho sentito dire.
Ha visto un’officina nella casa dei Rosenberg?
No.
In quali locali è stato lei?
Nell’ingresso, nel salotto e in una delle due camere da
letto. Per la verità, era una stanza con un divano che
Rosenberg mi offrì per la notte.
Sentì qualche rumore sospetto?
Non sentii nessun rumore. Prima di andare a dormire,
avevo bevuto col padrone di casa un buon litro di vino e,
stanco com’ero per il viaggio, mi addormentai come un
ghiro.
Struve era con voi in quel momento? Voglio dire mentre
bevevate?
No.
Dov’era?
Credo che fosse andato a sistemare il carro e a
occuparsi di Martin. Lo vidi solo a cena. Era abbattuto e si
lamentava di avere un forte mal di testa.
In che rapporti erano Struve e Poltarackij?
Una volta gli chiesi, al signor Struve voglio dire, che
cosa pensasse di Poltarackij (è stato due o tre anni fa) e lui
mi rispose che, per quanto lo riguardava personalmente, gli
avrebbe volentieri cacciato una pallottola in testa. Questa
affermazione mi lasciò sbigottito, perché il signor Boris,
cioè Struve, è un uomo calmo e controllato e quindi una
dichiarazione del genere da lui non me la sarei mai
aspettata. Sapevo che avevano vissuto un certo tempo a
Novi Sad come fratelli, dividendo il male e il bene, e che i
conoscenti li consideravano come due cospiratori o
massoni. A quel tempo, Struve sembrava essere
l’attendente del signor Poltarackij, voglio dire che
rappresentava davanti a tutti questa parte che gli era stata
assegnata. Penso che ci fossero anche degli intrighi
amorosi intorno a Sof'ja Nikolaevna, la moglie di
Poltarackij. Si diceva che questo triangolo, cioè Struve-
Sof’ja Nikolaevna-Poltarackij, vivesse in perfetta armonia.
Perciò, la dichiarazione del signor Struve, che assai
volentieri avrebbe sparato una revolverata in fronte a
Poltarackij, non poteva essere ispirata dalla gelosia. Questo
mi parve subito chiaro. Boris stesso mi confermò nella mia
supposizione, spiegandomi i motivi della sua collera:
Poltarackij era entrato in rapporto con i trockisti. Credo
che fosse questo il motivo della loro rottura.
Secondo lei, quindi, Boris Struve non poteva lavorare
per i Soviet, nonostante certi fatti.
Ne sono assolutamente convinto.
Come potrebbe provarlo?
Tutto fa ritenere che Struve, all’epoca in cui strinse
amicizia con Poltarackij, con la sua attività o le sue
convinzioni operava di già contro i Soviet. Dopo la notizia
dell’arresto e della scomparsa di suo figlio e di sua moglie,
il suo atteggiamento cambiò di colpo, sia nei confronti dei
Soviet sia nei confronti di Poltarackij, benché a quel tempo
le loro fossero posizioni opposte: lasciò perdere tutto. Il suo
stato psichico attuale è anch’esso una conseguenza di tale
atteggiamento. Rosenberg affermava di aver notato in lui,
cioè in Boris, i sintomi di un serio turbamento psichico. Il
mal di testa di cui si lamentava quel giorno era solo una
scusa. Attualmente, si è dato tutto alla teosofia e, a quanto
sembra, frequenta un circolo spiritistico, di cui è membro
attivo anche la sua vecchia amica Rosalia. Struve sembra
cercare, come dice Rosenberg, di vivere fuori di questo
mondo. Proprio così mi ha detto: fuori di questo mondo.
Torniamo a Rosenberg. Lei ha detto che il suo unico
figlio è scomparso.
Per la verità, non ho potuto sapere esattamente come
stia la faccenda. Mia sorella mi aveva raccomandato di non
far parola con Rosenberg di suo figlio e la stessa cosa mi
disse sull’uscio la sgarbata signorina Rosalia, la domestica.
Lei lo conosceva personalmente?
L’ho visto una sola volta. A quell’epoca, lavorava a Novi
Sad come praticante nella farmacia La Croce Bianca, di cui
era titolare un certo Zsigmond Lukács. Più tardi, lavorò per
qualche tempo come collaboratore nella farmacia di János
Grossinger. Questo due anni fa.
Chi è Zsigmond Lukàcs?
Un mio vecchio conoscente. Aveva una farmacia in via
Louis Barthou. Fu rinchiuso per un certo tempo a
Pétervárad, da dove venne poi trasferito a Belgrado. Ho
sentito dire che è morto sotto le percosse. Mentre lo
battevano, aveva la bocca riempita di stracci sporchi. Me
l’ha raccontato Grossinger.
Chi è Grossinger?
Un farmacista anche lui. Incarcerato per qualche tempo
a Pétervárad, fu più tardi fucilato come ostaggio. Lessi il
suo nome sul tabellone degli annunci, fra i nomi degli altri
ostaggi fucilati.
Torniamo a Rosenberg figlio. Che cosa ha saputo della
sua sorte?
Secondo la versione di mia sorella Olga, si sarebbe
nascosto per un certo tempo a Novi Sad, in un ospedale,
lavorandovi come anestesista. Qualcuno, a quanto pare, lo
tradì e lui allora ingerì una forte dose di morfina, ma,
grazie al rapido intervento di un medico, si salvò. Trasferito
a Pest, ebbe una grave crisi di nervi e si uccise.
Continui.
In un attacco di follia, si strappò i denti e si fracassò il
cranio, sbattendo la testa contro il muro della cella.
Sembra che fosse sotto l’effetto di un narcotico.
Lei lascia spesso il suo domicilio?
Solo in caso di bisogno e con l’autorizzazione delle
autorità.
Durante le sue passeggiate nel bosco, ha visto qual· che
persona sospetta?
Finora, come ho già dichiarato in precedenza, ho avuto
solo due incontri con persone nel bosco:. quello con mio
nipote Georges e quello con i cacciatori tra i quali si
trovava un certo Tóth, per nulla ben disposto verso di me.
Quando è partito da Sziget?
Il giorno dopo, quindi il nove.
Rosenberg ha cercato di trattenerla?
Gli ho detto che avevo fretta di tornare a casa e gliene
ho spiegato il motivo: entro il quattordici al più tardi
dovevo essere di nuovo a Novi Sad, secondo la
comunicazione ufficiale che ho ricevuto dalla sezione
incaricata del controllo degli stranieri.
Ha i documenti richiesti?
Mia sorella Neti è andata a Pest proprio per questo
motivo. Una parte dei documenti, l’attestato comprovante il
pagamento della tassa comunale e il certificato di
cittadinanza dei nostri genitori, li ritirerà anche per me.
Così almeno siamo rimasti intesi prima della sua partenza.
Prima di andar via dai Rosenberg, ha rivisto Struve?
Non l’ho rivisto fino al momento di salire sul barroccio.
A quel punto, è apparso per un attimo dietro la tenda e mi è
sembrato che mi facesse un segno di saluto con la mano.
Si è fermato da qualche parte durante il percorso?
A Baksa abbiamo bevuto, Martin e io, un quartino
d’acquavite a testa per riscaldarci.
Ha attaccato discorso con qualcuno al caffè?
All’infuori di noi due, in quel momento nel caffè non
c’era nessuno. A parte la signora Klara, naturalmente.
Di che cosa ha parlato con lei?
Del tempo, dei prezzi, dell’aumento della tassa sull’alcol.
Le ha pagato i debiti?
Non ero in grado di farlo.
Ha fatto qualche allusione?
Non capisco.
Cerchi di ricordare.
Non ne ho fatte, a meno che lei non consideri allusione
la frase con cui ho rivolto un complimento galante alla
signora Klara.
Che frase?
Ho detto all’incirca che avrei voluto rivederla, la signora
Klara, in primavera. Se sarò ancora qui. Volevo dire che...
Che cosa significa: se sarò ancora qui?
Se sarò vivo. Questo volevo dire.
Che cosa si nasconde sotto l’espressione in cifra scarpe
e pennello da barba?
Si tratta di normalissime scarpe e di un banalissimo
pennello da barba. Me li aveva promessi mia sorella Olga
quando sono stato da lei per una settimana circa.
Di chi erano queste scarpe?
Appartenevano al suo defunto marito Moritz.
Le ha viste lei?
Sì. Erano in un ripostiglio, su un palchetto, in mezzo a
una decina di paia di scarpe da donna, calosce e stivali.
Descriva queste scarpe.
Sono stanco.
Le descriva.
Sono scarpe grigie di finta pelle d’antilope, così almeno
mi è parso, a contrafforti duri e punte rotonde, numero
quarantaquattro o quarantacinque; comunque mi stanno
strette, perché le ho provate in fretta, senza farmi vedere
da Olga. Mettendole un po’ in forma, potrei forse portarle
lo stesso, tanto più che hanno una suola doppia, benché io
sia convinto che una delle due sia di cartone. Quanto
all’aspetto, non mi piacciono per niente, perché hanno dei
forellini decorativi a forma di cristalli di neve su tutti e due
i lati, sotto l’allacciatura e sulla punta.
È andato da qualche altra parte, oltre che nel caffè di
Baksa? Sì o no?
No. Può confermarlo anche Martin, se si ricorda di
qualcosa.
Quando è arrivato a casa?
Verso le cinque del pomeriggio.
Chi l’ha aiutato a scaricare?
Abbiamo spinto gli armadi nella neve, il cocchiere e io,
come fossero slitte. È stata una mia idea.
L’ha aiutato qualcun altro?
No.
Dov’erano sua moglie e i suoi figli?
Quando ho aperto la porta ho capito subito che avevano
lasciato la casa in tutta fretta.
In base a che cosa ha concluso che l’avevano fatto in
tutta fretta?
Ho visto subito i libri e le cartelle di cartone con le
cinghie. Era tutto buttato nel massimo disordine sul tavolo
di cucina e sulla cassa di legno sotto la finestra.
I libri erano aperti, l’astuccio delle penne rovesciato.
Il letto non era rifatto, la parte del muro che doveva
essere imbiancata durante la mia assenza era sempre come
prima e il secchio col pennello stava accanto al muro, sul
quale si vedevano chiaramente due o tre colpi di pennello
interrotti bruscamente.
Si è rivolto ai suoi parenti?
No. Ho chiesto al signor Hermann, il vicino le cui
finestre danno sul nostro cortile, se per caso aveva visto
quando mia moglie e i miei figli avevano lasciato la casa.
Chi è Hermann?
Un calzolaio. Ci ha fatto più volte dei piaceri,
prestandoci patate, farina di granturco, sale.
Che cosa le ha detto?
Che aveva visto verso le dieci di mattina dei gendarmi
probabilmente venuti a cercarmi e, subito dopo che se
n’erano andati, aveva visto mia moglie lasciare la casa con i
figli in tutta fretta. Quando gli ho chiesto se sapeva in che
direzione era andata, mi ha fatto un gesto vago della mano
verso il bosco.
Ha chiesto a qualcun altro?
Vicino al ponte sul fiume, ho incontrato una certa
signora Fanny, una «sorella del terzo ordine», come si
definisce lei. Quando mi ha visto avvicinarmi, ha afferrato
la corda che porta sotto la gonna ed è scappata come una
lepre.
Come spiega questo fatto?
Credo che abbia qualche rotella fuori posto.
Ha chiesto a qualcun altro?
Per via, ho incontrato il postino che mi ha detto che gli
pareva di averli visti dirigersi di fretta verso la via Romana.
Allora ho capito che la cosa migliore da fare era aspettarli a
casa, perché, se fossero tornati, poteva verificarsi un nuovo
malinteso. Inoltre, ero stanco e la gamba mi faceva male.
Sono tornati solo col buio.
Perché non si è rivolto ai suoi parenti?
Pensavo che avrebbero potuto informarmi da soli di una
cosa tanto importante. Tanto più che ero convinto che mi
stessero osservando da dietro la tenda.
Dove sono stati in quelle ore sua moglie e i suoi figli?
Si sono nascosti in un boschetto al di là del fiume, in una
casupola di pastore. Sono tornati a casa intirizziti e in
preda al panico.
Perché non ha risposto subito alla convocazione che le
hanno lasciato i gendarmi?
Visto che non ero in grado, per la stanchezza e per la
gamba malata, di partire subito, sono andato dal signor
Fehér, capo del villaggio, per chiedergli consiglio. Mi ha
detto di non potermi dare consigli in una questione così
delicata ma che, in caso di bisogno, era disposto a
testimoniare che quella sera ero stato da lui.
Aveva parlato in precedenza col signor Fehér, capo del
villaggio?
L’ho visto la prima volta quando siamo arrivati al
villaggio. In quell’occasione, mi disse che avrebbe preferito
che non dipendessi da lui perché non voleva aver niente a
che fare con la polizia. Una seconda volta l’ho visto quando
mi ha convocato, intervenendo a proposito di una lite, forse
un po’ troppo aspra, con mio nipote Georges. Chissà che
cosa gli avrà raccontato mio nipote.
Che cosa ha alla gamba?
Quando ci fu quell’incidente al lavoro coatto, sembra
che uno dei ragazzi dell’inquadramento mi abbia leso la
tibia, colpendomi con lo scarpone. Per fortuna, non fino a
procurarmi una frattura.
Ha un certificato medico che attesti quanto dice?
No.
Da chi è stato curato?
Dal signor Jakob Herzog.
Dove e quando ha conosciuto Herzog?
Herzog arrivò a Kovin alla vigilia della mia seconda
partenza. E vi rimase per un certo tempo come medico
praticante. Lo rividi poi nella squadra di lavoro impegnata
nella fabbrica di mattoni.
Continui.
Dato che l’indomani dell’incidente zoppicavo
visibilmente, il dottor Herzog mi si avvicinò al ritorno
dicendomi che sarebbe stato bene che fossi andato da lui a
farmi esaminare la gamba. Tanto più che lamentavo dolori
insopportabili, lividi e un grosso gonfiore. Abitava in via
della Scuola Greca. Ci andai quello stesso giorno e lui mi
esaminò la gamba. Disse che avevo bisogno di riposo, ma
che l’osso non sembrava leso, così almeno credeva. Solo
una radiografia avrebbe potuto fornire un quadro esatto
della situazione.
Continui.
È tutto.
Quando scomparve Herzog dalla squadra di lavoro?
Qualche giorno dopo questo fatto. Al mattino, non era
presente all’appello. Quel giorno, i ragazzi
dell’inquadramento erano particolarmente brutali.
Sa che ne è stato di lui?
Si nascose da qualche parte a Pest sotto falso nome
insieme con sua moglie. Nell’istante in cui la polizia bussò
alla porta del suo appartamento, ingerirono tutti e due una
pastiglia di cianuro.
Chi le ha raccontato i particolari della morte di Herzog?
L’ottico Filip Uhlmann.
Chi è Filip Uhlmann?
Uhlmann aveva un negozio in via San Saba che di
recente è stato chiuso. Abita con la moglie nel cortile dello
stesso fabbricato. Dopo l’incidente, lo pregai di fare
qualcosa per me, ma mi disse che aveva tutti gli strumenti
e il materiale sigillati nel negozio e che aspettava
l'autorizzazione delle autorità per ricominciare a lavorare.
Mi indirizzò allora da Jovan Benedek, Lungodanubio 8, che
mi sostituì la lente facendomi un forte sconto.
Chi è Jovan Benedek?
La madre di Benedek è una cattolica originaria di
Sopron e Benedek stesso è sposato con una cattolica, una
certa Julija Almasi, di Subotica. Dopo due settimane di
carcere preventivo, era stato rimesso in libertà. Grazie
all’intervento di certi influenti amici di sua madre, il
negozio gli fu reso e l’autorizzazione a lavorare prolungata.
Conosceva già prima Benedek?
No.
I suoi parenti, in particolare Gyula-Georges Boroska,
hanno dichiarato ai gendarmi che lei era partito per
Budapest.
Penso davvero di andare a Pest in questi giorni, ma loro
dovevano sapere che non ero ancora partito.
Che cosa deve fare a Pest?
Cercherò di fare pressione, tramite il ministero dei
Trasporti, sulla commissione che, secondo me in maniera
ingiusta e illegale, ha ridotto la mia pensione di invalido.
È questa l’unica ragione del suo viaggio?
La dentiera che mi ha applicato Lobi mi fa molto male.
Perciò penso di andare da un certo Barna, di cui ho visto la
pubblicità sui giornali: « Dentiere a prezzi moderati,
garanzia ventennale».
Chi è Lobi?
Lobi era con me nella squadra di lavoro, ma scomparve
all'improvviso. Più tardi ho saputo da Herzog, che era stato
con lui nel carcere preventivo, che Lobi era stato
condannato a morte e impiccato. Lo portarono alla forca
che era già mezzo morto. A seguito dei colpi ricevuti, la
pianta di uno dei suoi piedi era tutta suppurata e su uno
stinco si apriva una profonda ferita che lasciava scorgere
l’osso.
SCENE DI VIAGGIO (IV)

61

L’uomo è seduto accanto al cocchiere sul davanti del


barroccio carico di mobili assicurati con due corde. Tiene
fra le ginocchia un bastone di cui fa girare il manico tra le
mani. Il cocchiere stringe tra i denti una pipa spenta. Due
enormi cavalli stiriani trascinano lentamente il carro sulla
neve gelata che scricchiola sotto le ruote. Seguono
dapprima una via stretta, poi voltano a sinistra e sbucano
in una grande piazza.
La neve ora non cade più e l’uomo solleva la testa, si
toglie gli occhiali e pulisce le lenti con un lembo del
fazzoletto. Alla sua sinistra sfilano lentamente edifici gotici
dai cornicioni stilizzati. La facciata di uno degli edifici
mostra un grande portone di bronzo chiuso e le finestre con
le imposte di legno sbarrate. Davanti a lui, nella direzione
in cui si muove il carro, si alza una cattedrale gotica.
L’uomo guarda l’orologio sulla torre, poi prende il suo
orologio da tasca, probabilmente per regolarlo. L’orologio
della torre segna le tre. Il portale è aperto e l’uomo
intravede nell’ombra una figura umana, ma non può
stabilire se si tratti di una donna o di un uomo. Gli sembra
che la figura si muova e pensa che la persona in questione
si stia facendo il segno della croce più volte di seguito,
inchinandosi. Guardando verso il fondo, gli sembra di
scorgere un tremolio di candele, a meno che non si tratti di
un gioco di luce sulle vetrate o di una falsa impressione. La
piazza è vuota. Si vede solo un uomo che si è alzato di colpo
da dietro un cumulo di neve. Ora si appoggia a una pala di
legno e guarda in direzione del carro. Anche l’uomo dagli
occhiali si mette a osservarlo. Poi, improvvisamente, lo
perde di vista. L’uomo con la pala segue ancora per un po’ il
carro con lo sguardo, poi si china e riprende a buttare la
neve sul cumulo. L’uomo sul carro si volta verso il punto
dove qualche istante prima ha visto lo spazzino che spalava
la neve, ma non può più vederlo perché questi, nascosto dal
monticello bianco e chino in avanti, è impegnato a
raschiare con la pala la neve dura e scricchiolante. Ma
l’uomo non può sentire. Sente solo il cigolio del carro su cui
è seduto. Ora vede soltanto il cane che da un po’ di tempo
si sta trascinando dietro il carro, a capo chino. Il cane si
butta improvvisamente di lato, saltellando goffamente nella
neve in cui le sue zampe sprofondano. Alcuni piccioni, fino
a quel momento intenti a beccare tranquillamente, si
levano in volo, poi, dopo qualche esitazione, vanno a
posarsi sullo zoccolo di marmo di un monumento. L’uomo
osserva il cane farsi strada nella neve, saltellando. Il cane è
ora giunto vicino al monumento. Sullo zoccolo di marmo si
erge un uomo che leva in alto il braccio destro, verso la
cattedrale o verso il cielo tenebroso. Sulle spalle ha uno
strato di neve, che fa pensare a grandi spalline bianche. Il
cane è ora ai piedi del monumento sul quale si sono
rannicchiati due piccioni bianchi che, visti da lontano,
sembrano due mucchietti di neve. Non pare che abbiano
fretta di volar via, quasi sentissero che il cane non è in
grado di raggiungerli. Restano così per un poco, immobili,
poi, all’improvviso, spiccano il volo, con un forte battito di
ali. Il cane li segue con lo sguardo, poi si accosta allo
zoccolo del monumento e alza la zampa posteriore. L’uomo
sul carro segue con lo sguardo i piccioni che per un po’
volteggiano indecisi, poi di colpo salgono più in alto,
scomparendo tra le pieghe delle finestre gotiche della
cattedrale, o su un cornicione, o nel rosone trinato al di
sopra del portale. L’uomo sul carro osserva ora il cane che
torna indietro attraverso la neve a riprendere il suo posto
di prima, a cinque o sei passi dietro il carro. L’uomo dice
qualcosa al cocchiere che gli siede accanto, probabilmente
l’indirizzo dove bisogna scaricare i mobili. L’altro fa un
cenno col capo e tira lentamente le redini. Il carro svolta in
una strada laterale, a destra, ora. Poi, continuano ancora
per un po’ senza parole.
PROCEDIMENTO ISTRUTTORIO (IV)

62

A che ora E.S. arrivò a destinazione?


Arrivò alla Stazione Est di Budapest alle diciassette e
venti, ora dell’Europa centrale, con un catastrofico ritardo
di circa centoventi minuti.
A che cosa era dovuto questo ritardo?
A ingombri di neve.
Di che cosa era pentito il viaggiatore?
Di non aver riempito la sua cartella di tramezzini e di
non aver preso più di una bottiglia di birra alla stazione di
Novi Sad.
Perché era furibondo?
Perché il più delle volte non era capace di trarre dalle
sue esperienze il dovuto ammaestramento.
Per esempio?
Benché fosse accaduto più volte su vari percorsi, questo
di Novi Sad-Budapest compreso, che per una ragione o per
l’altra non venisse aggiunto al convoglio il vagone
ristorante e lui fosse di conseguenza rimasto
affamato/assetato (esperienza), pure continuava a credere,
ostinatamente e stupidamente, più all’orario ferroviario,
dove, accanto al numero del treno, faceva bella mostra di
sé il segno araldico della forchetta e del coltello incrociati,
che alla sua esperienza più volte ripetuta e acquisita con
tanta tribolazione.
Faccia un altro esempio.
Pur avendo provato innumerevoli volte l’effetto rovinoso
dell’alcol (esperienza), ricominciava sempre a bere come se
fosse la prima (o almeno l’ultima) volta della sua vita, e
come se non avesse sofferto appena un giorno o due prima
tutte le conseguenze di questa sua non-esperienza.
Quali vantaggi, nell’ultimo esempio, prevalevano sulle
cosiddette conseguenze negative, vanificando la
consapevolezza di tali conseguenze con una nuova
esperienza?
Una vita emotiva intensa finché durava lo stato di
ebbrezza: sensazione di forza, flusso di potenza,
accresciuta libido; abilità retorica che si perde pian piano
in vaneggiamento, procedimenti oratori e figure stilistiche
(metafore, metonimie, variazioni su uno stesso tema,
sincopi, giochi di parole, ecc.); sparizione parziale o totale
della cinofobia; accrescimento della mobilità e rilassamento
del simpatico; avvicendamento di stati d’animo sentimentali
(femminili) e di stati d’animo aggressivi (maschili); risveglio
improvviso della socievolezza tanto con i superiori quanto
con gli inferiori (per funzioni, rango, denaro e intelligenza);
familiarità con rappresentanti di tutte le professioni, senza
badare al sesso, alla posizione sociale e alla religione;
avvicendamento di esultanza e di aggressività; improvvisa
capacità di ricordare e usare varie lingue (conosciute e
sconosciute), combinandole tra loro con largo ricorso a
giochi di parole, per modo che la parola di una lingua viene
facilmente compresa, cambiando l’accento o ricorrendo a
una leggera deformazione, in un’altra lingua; disprezzo del
denaro e benefiche conseguenze di tale disprezzo:
sentimento di ricchezza, galanteria principesca (ospitalità
generosa e grosse mance); improvvisa capacità di ricordare
canzoni (parole e musica) rimaste sepolte per anni o
decenni nel fondo dell’oblio; allegria che si sfoga attraverso
le canzoni e la musica; disposizione a battere il tempo con
le mani sul piano del tavolo o con i piedi sulle assi sonore
del pavimento, oppure palma contro palma; ampliamento
improvviso dell’estensione della voce dal contralto al basso
e capacità di pervenire facilmente a ottave irraggiungibili
in condizioni di sobrietà; musicalità accresciuta, corde
vocali rinvigorite, mutamento del timbro (in meglio); abilità
straordinaria a improvvisare su melodie e ritmi sconosciuti
(csárdás, carole, ballate, romanze); percezione della
propria voce (a occhi chiusi) come la voce di un altro in noi
o fuori di noi; alternanza di stati d’animo secondo l’umore
espresso dalla canzone; stati d’animo che si possono
ricreare a volontà (ripetendo la canzone) e con intensità più
o meno uguale; immedesimazione nei temi leggeri delle
canzoni e nelle associazioni da esse suscitate (amore,
giovinezza, morte); gradevole calore che promana dal
simpatico come da un piccolo sole posto all’interno
dell’uomo (paragone con la donna che sente i primi segni di
vita nel suo seno: benedetto il frutto del ventre tuo);
oscenità che, con canzoni, barzellette o giochi di parole,
consentono all’uomo di sfogarsi attraverso il riso;
baciamani alle cameriere, alle cassiere, alle guardarobiere,
alle prostitute, alle venditrici di fiori, come pure alle dame
più distinte, baciamani che si accompagnano alle mance in
segno di spirito democratico e di urbanità allo stesso
tempo; confessioni intime a persone sconosciute (donne e
uomini) per suscitare commozione, compassione,
meraviglia o ammirazione e, in definitiva, la catarsi;
commiserazione della natura mortale dell’uomo e
temporanea forte sensazione dell’immortalità dell’istante.
Quale esperienza negativa non poteva avere il
sopravvento sulla precedente?
Quella di cui dimenticava l’intensità appena passati i
primi segni della pesantezza di testa dovuta alla sbornia
(Katzenjammer, máásnaposságy. sogni con incubi
(vecchiaia, pericolo, morte); risveglio penoso con una sete
infernale nelle viscere che l’acqua può spegnere appena,
quasi si trattasse dell’incendio di un bosco; mal di testa
insopportabile che l’aspirina non può attenuare;
tormentoso sentimento di rimorso per una azione compiuta,
sentimento ancora poco chiaro, ma che è destinato a
diventare sempre più penoso ed evidente, a mano a mano
che gli avvenimenti della sera prima tornano alla memoria,
acquistando il loro vero significato; visione di sé come di un
altro, un altro che sperpera stupidamente il denaro, urla,
batte il tempo con le mani e con i gomiti sul ripiano sonoro
del tavolo, bacia la mano alle cassiere, alle cameriere e alle
prostitute, che parla in una lingua straniera che lui stesso
capisce appena e con persone che o non la capiscono
affatto oppure la intendono poco e male, che fa giochi di
parole tutt’altro che spiritosi e racconta barzellette sporche
o inventa parolacce sconce (le vagytok szarva
cseresznyemagos büdös kurvaszarral), che fa confessioni
intime a persone sconosciute e indifferenti; fetore di
vinaccia nella stanza e fetore del proprio corpo, mentre
vede i pantaloni sulla sedia accanto al letto tutti macchiati
e bagnati di orina, e ricorda con che tormento ha rigettato
la sera avanti, dietro la porta, il gulasch grasso e la zuppa
di pesce che aveva mangiato, schizzandosi tutte le scarpe e
i pantaloni. (E non serve a niente tirarsi la coperta sulla
testa e cercare di dormire, di dimenticare tutto. Non serve
a niente).
Che consiglio diede E.S. a un viaggiatore sconosciuto
(sui quarant’anni) in uno scompartimento del rapido Novi
Sad-Budapest, consiglio che riguardava i postumi della
sbornia?
Il rimedio più efficace contro i postumi della sbornia
(mein Herr) è il suicidio!
Dove andò il viaggiatore uscendo dalla stazione?
Non potendo sbrigare nessuna delle sue faccende a
causa del ritardo del treno, prese una vettura di piazza e si
fece portare in via Dohány 12, 3° piano, all’indirizzo che gli
aveva dato Rosenberg.
Aveva l’indirizzo scritto?
Per precauzione non aveva voluto scriverlo e si era
affidato alla propria memoria.
Perché non si fermò al buffet della stazione per
spegnere la sete?
Perché la prudenza gli imponeva e l’esperienza gli
consigliava di evitare al massimo i luoghi pubblici come
birrerie, vagoni ristorante, negozi, librerie, biblioteche,
bagni pubblici, fiere, teatrini, circhi, processioni, servizi
religiosi, buffet, sinagoghe, aste pubbliche, banche,
stazioni.
Che cosa sperava lo stanco viaggiatore?
Che, giunto alla sua destinazione segreta (via Dohány
12, 3° piano), avrebbe ricevuto da bere e un buon caffè, e
che magari gli sarebbe stata offerta ospitalità per la notte.
Come fu ricevuto?
Dopo aver suonato ripetutamente e insistentemente il
campanello alla porta dell’appartamento numero 18 (Barna
I. fogorvoslásra jogositott áll. vizsg. fogász), vide uscire
dalla porta vicina una signora con i bigodini in testa che gli
disse che il signore alla cui porta stava suonando non si
faceva vivo da oltre due mesi e che lei, quindi, gli
consigliava di scomparire al più presto, altrimenti avrebbe
chiamato la polizia.
Come cercò E.S. di giustificare la sua presenza?
Raccontando che il signor dottor Barna gli aveva a suo
tempo curato i denti e che gli aveva anche applicato di
recente una dentiera che, purtroppo, cominciava a fargli
male.
Nonostante la cautela e l’esperienza, dove andò lo
stanco viaggiatore?
Al ristorante New York.
Che cosa l’attirava in questo luogo?
La possibilità di osservare i passanti attraverso le grandi
vetrate (d’inverno) oppure da vicino, stando comodamente
seduto con un boccale di birra davanti al caffè (nei giorni di
sole); la presenza di artisti e di bohémien tra cui
riconosceva spesso qualche volto visto sui giornali o sulle
riviste; la cortesia del personale femminile, in particolare
della cassiera dai capelli rossi, che lo salutava sempre con
un sorriso, chiedendogli a volte le ragioni della sua lunga
assenza.
Quale cambiamento notò?
La cassiera dai capelli rossi non c’era, e al suo posto
(dietro la grande cassa barocca simile a una cattedrale)
troneggiava una signora grassa che non si accorse
nemmeno della sua presenza.
Ebbe qualche incontro quel giorno al ristorante New
York?
Vide passare un certo Zöldesi (già Grünwald), pianista,
che aveva conosciuto non molto tempo prima a Novi Sad
nelle sue funzioni di maestro di piano della signorina
Gavanski, ma questi non rispose al suo saluto, o perché non
l’aveva riconosciuto o perché non voleva riconoscerlo;
strinse la mano a un certo Viktor Kolb, farmacista
originario di Koprivnica, che però non volle trattenersi,
accampando una grande fretta; un certo Roder (nome di
battesimo sconosciuto), ex redattore del «Messaggero
commerciale», lo salutò togliendosi il cappello; un certo
Imre Vándor, proprietario di un negozietto di articoli vari,
non rispose al suo saluto, benché i loro sguardi si fossero
incrociati; una signora di mezza età (nome e cognome
sconosciuti) gli sorrise passandogli davanti e lui rispose al
saluto togliendosi il cappello, senza però potersi ricordare
dove e quando l’aveva già vista; un certo István Szemere
(professione sconosciuta) gli chiese in prestito due pengò;
una ragazzina gli offri degli anemoni al prezzo di due pengő
l’uno; un agente gli chiese cortesemente di mostrargli i
documenti.
A chi telefonò dal ristorante New York?
A un certo Otto Weiss, venditore di immobili, abitante in
via Thököly, ma non rispose nessuno, benché richiamasse
tre volte nel corso di un’ora; alla signora Ida Krauss,
vedova di Jenő Krauss, ottico, ma si sentì dire che la
signora « si era degnata di trasferirsi un mese prima a un
indirizzo sconosciuto»; a un certo Béla Guttmann,
funzionario delle ferrovie, sentendosi rispondere da una
voce femminile (probabilmente quella della moglie) che gli
comunicò piangendo che Béla, purtroppo, non era più tra i
vivi; a un certo Zsigmond Móricz (omonimo del celebre
scrittore), notaio, che gli fissò un appuntamento solo di lì a
tre giorni, giustificandosi con i molti impegni; a una certa
Klara Kohn, nata Müller, ex redattrice al « Messaggero
commerciale », che gli fu detto essere uscita per tornare di
lì a una mezz’ora al massimo e che invece non trovò
nemmeno dopo un’ora, alla terza telefonata: si sentì dire
che era partita all’improvviso; a un certo Aladàr Nagy,
avvocato, che gli fu detto trovarsi già da tempo in ospedale;
a un certo Tassinger, rilegatore di libri, ma nessuno rispose
benché ripetesse la chiamata; a una certa Rachel
(occupazione e cognome sconosciuti), che gli fu detto
essersi sposata e trasferita a un indirizzo sconosciuto,
probabilmente a Buda; a Ferenc Fehér, funzionario delle
ferrovie a riposo, che lo invitò a cena per le nove.
Perché non accettò questo invito?
Perché il suo treno partiva alle venti e quindici.
Aveva tratto qualche ammaestramento dalla sua recente
esperienza, in rapporto ai viaggi in treno?
No, ma poteva almeno giustificarsi di fronte a se stesso
con i fatti seguenti: avendo speso in telefonate, birra,
cicoria (cappuccino), anemoni (inviati alla nuova cassiera) e
in vetture di piazza quasi tutto il suo denaro (ed essendo
impedito, vis maior, di trovare qualcuno che gli facesse
credito), questa volta non potè proprio riempire la sua
cartella di tramezzini e di bottiglie di birra e dovette quindi
contentarsi della bottiglietta di birra dorata che teneva in
tasca come ultima riserva (d’oro).
A che cosa pensava mentre il treno, nel frastuono del
ponte di ferro, attraversava rallentando il fiume che
scorreva invisibile sotto uno spesso strato di ghiaccio?
Al fatto che quel fiume pulsava come una grande arteria
dalla Selva Nera al Mar Nero, su una lunghezza di circa
tremila chilometri, unendo uomini e paesi, sicché tutti quei
popoli, separati da lingua, religione e costumi, potevano
considerarsi come fratelli.
Quale visita di cortesia fece prima di abbandonarsi
completamente al sonno e all’oblio?
Uscito per svuotare la vescica della birra dorata che
sgorgò con un getto aureo, attraversò il corridoio della
vettura di prima classe (Paradiso perduto), spinto dal
desiderio nostalgico di ricordarsi della terra di Canaan.
Che cosa vide in uno scompartimento di prima classe
(non fumatori)?
Nella luce violacea dello scompartimento, una signora
vestita di nero poggiava il suo bel capo sull’alto cuscino di
velluto, mentre una bimbetta dormiva tra le sue braccia.
Che cosa gli ricordò questo spettacolo?
Un’altra signora (a meno che non fosse la stessa) che,
non molto tempo prima, aveva visto in qualche luogo,
durante un suo precedente viaggio in uno scompartimento
di prima classe, e che era scomparsa dalla sua vita senza
lasciar traccia, per riapparire adesso di nuovo come una
visione.
Che cosa gli sembrava possibile?
Che quelle due signore in nero fossero in realtà la stessa
donna che il destino gli faceva incontrare per la seconda
volta sul suo cammino.
Che possibilità c’era di verificare questa congettura? a)
Interrogare l’unico testimone (a parte lui) di quel primo
incontro (dove? quando? come?), perché non era più in
grado di ricordare la prima dama in nero; b) lasciare
all’unico testimone (all’infuori di lui) l’iniziativa di fargli
sapere con qualche cenno che le sue supposizioni erano
esatte.
E.S. portò a termine la sua inchiesta?
No.
L’Unico Testimone fece qualche cenno?
La signora in nero dormiva con la bocca semichiusa
(quando lui tornò indietro nel corridoio) nella luce violacea
dello scompartimento di prima classe (non fumatori) e
probabilmente sognava.
Che cosa?
Un signore prestante con gli occhiali si toglie il cappello
in segno di omaggio e di ammirazione e lei lo ricambia con
un sorriso di incoraggiamento; questo signore è poi
scacciato dallo scompartimento prima che qualcosa possa
accadere; lo rivede più tardi per un attimo precipitarsi
verso le vetture di piazza e scomparire infine per sempre
(per sempre?) dalla sua vita di vedova.
Dove andava E.S.?
Alla velocità ridotta di 70 chilometri orari (a causa della
tormenta) attraversava la notte pannonica, superava fiumi
e torrenti gelati, ponti, terrapieni, pascoli e prati, boschi e
valli, cave di sabbia, ingombri di neve, mari, ricordi, verso
un’alba lontana, appena presagita.
Dove si ritrovò subito dopo?
Descrivendo un enorme cerchio, il suo corpo (il suo
spirito) si ritrovò subito dopo in un locale gelido dove
tremolava l’esile fiamma di una lampada a olio (ner
tamid).1
Quale tema sacrale si celava dietro la sua
preoccupazione per la lampada?
Il tema del miracolo di Hanukkah, quando una quantità
minima d’olio trovata in fondo ai candelabri bruciò per otto
giorni interi (presa del tempio di Gerusalemme; Giuda
Maccabeo); per questo credeva, sperava, confidando in Dio,
che anche il suo poco olio sarebbe bruciato fino all’alba,
perché se per loro (i Maccabei) l’olio aveva potuto resistere
otto giorni, per quale motivo non avrebbe potuto resistere
per lui otto ore?
Che cosa voleva verificare di passaggio?
Voleva verificare, con questo piccolo esperimento
secondario, empiricamente e con esattezza, la possibilità
del miracolo (quello precedente).
Quando sorgerà, secondo l’ora dell’Europa centrale, il
sole del quinto giorno del quarto mese dell’anno 1942 nella
località dell’epistolografo, prendendo come punto di
partenza del calcolo Lendava, posta a 1 ora e 6 minuti a est
di Greenwich e alla latitudine di 46,5 minuti a nord
dell’equatore?
Il crepuscolo nautico sarà alle ore 3 e 33 minuti, e quello
civile durerà dalle ore 4 e 13 minuti alle ore 4 e 47 minuti.
A che cosa conduce ineluttabilmente la conoscenza del
movimento ciclico del sole, della luna e dei pianeti, e del
ciclico alternarsi del giorno e della notte?
Alla coscienza della morte, perché lo spirito di colui che
crea non può sottrarsi nemmeno lui alle leggi del
movimento ciclico della Terra, del Sole e dei pianeti.
Dove era rappresentato un altro movimento circolare?
Nella litografia a colori (dono del defunto Moritz), che il
suo nuovo proprietario aveva fatto venire da Novi Sad e che
illustrava in maniera schematica la linea prima ascendente
e poi discendente della vita dell’uomo, sotto l’eloquente
titolo di das stufenalter des mannes (La scala della vita).
Che cornice ha questo quadro?
Una sottile cornice di legno tarlata e punteggiata di
macchioline nere di escrementi di mosche sulla doratura
consumata.
Illustri, schematicamente, gradino per gradino (senza
dimenticare il motivo centrale del giardino dell’Eden), i
motivi della litografia a colori das stufenalter DES
MANNES.
Il giardino dell’Eden. In primo piano, un melo
leggermente inclinato. Sotto la chioma dell’albero, si
protende diritto, quasi ad angolo retto, un ramo separato
dagli altri. Tra il verde lussureggiante occhieggia un frutto.
In lontananza, l’orizzonte è avvolto nella bruma azzurrina
del cielo. Nella linea sinuosa e spezzata che congiunge
terra e mare (in secondo piano), si scorgono profonde
insenature separate da pareti rocciose a strapiombo. Il
sole, rotondo e rosso, sfiora appunto la cima più aguzza. Le
grandi ombre delle rocce tingono l’azzurro del mare di
verde scuro, separando con una linea netta l’azzurro dal
verde, come due colori che non si mescolano, almeno non
così facilmente e intimamente come si mescolano sulla
lontana linea dell’orizzonte il turchino del cielo e il turchino
del mare. Da un punto del lontano orizzonte, giunge un volo
di uccelli. La fratellanza di tutte le creature di Dio. A
sinistra del melo, la leonessa. A destra, l’orso grigio. Dietro,
il leone e il dromedario. Un po’ più distanti, il cervo e la
cerva, in attesa indifferente. Le galline razzolano tranquille
tra il letame del paradiso. Un branco di oche candide
biancheggia nel verde. Il serpente, avvolto attorno al ramo
sporgente, fa vibrare la lingua: la sua testa si trova
esattamente nel mezzo tra quella di Adamo e quella di Eva.
Eva, tutta nuda, ha afferrato con la mano destra il ramo più
basso, e nella mano sinistra stringe una mela che offre ad
Adamo. La sua chioma scende in due masse rigogliose
lungo il petto e le spalle fino alle anche. Adamo è seduto
sotto il melo, nudo, con un ramoscello verde sul ventre.
Tende la mano verso la mela.
La nascita. Il bambino dorme in una culla di vimini,
all’ombra di un melo. Il suo braccio destro,
sproporzionatamente piccolo rispetto alla testa, è ripiegato
sul petto. La madre non si vede, ma di certo è lì vicino che
veglia su di lui.
Dieci anni. Il fanciullo corre dietro un cerchio,
percuotendolo con una bacchetta. Poggia tutto sulla gamba
sinistra e la destra, piegata al ginocchio, è leggermente
sollevata, come lo è la mano destra che regge la bacchetta
con cui sospinge il cerchio. Porta un berretto blu da
marinaio con le nappe, un pullover grigio e pantaloni
turchini. Sul pullover è ripiegato un colletto bianco.
Vent’anni. Il giovanotto abbraccia una ragazza. I suoi
capelli sono sempre biondi, forse un po’ più scuri rispetto a
dieci anni prima. Bocca grande, naso regolare. I risvolti
della giacca scura sono profilati di seta nera rilucente. Il
lungo collo sembra ancora più lungo, serrato com’è nel
colletto duro, sotto il quale si intravede il nodo di una
cravatta a farfalla. La ragazza ha un abito blu plissettato e
un grande fiocco alla vita. Capelli scuri pettinati alti, sotto i
quali spuntano due orecchini simili a due gocce di sangue.
Un pettine di celluloide trattiene i capelli. Dalla manica
sporge un braccio sottile. Con la mano sinistra stringe al
petto un fiore, sopra il quale si vede un bianco colletto
trinato. Il braccio destro del giovanotto scompare dietro la
schiena della ragazza. Si tengono per la punta delle dita,
come all’inizio di un valzer.
Trent’anni. L’uomo torna dal lavoro. Porta un abito scuro
e un cappello. Dalla cartella che ha sollevato all’altezza del
petto spunta un pacchetto avvolto in carta colorata con un
gran fiocco dorato. L’uomo è intento ad aprire la cartella.
La donna ha un vestito lungo color rosso brillante. Tiene un
bambino in braccio. I suoi capelli sono raccolti in una
grande crocchia. Un secondo bambino, più grande, volge la
schiena a chi guarda. È una bimbetta di cinque o sei anni.
Anche il suo vestitino è rosso. Con l’indice della mano
sinistra indica la cartella del padre. Accanto a loro si vede
un aquilone e un po’ più lontano si scorgono un tamburo
giocattolo e una bambola di celluloide senza testa.
Quarant’anni. In redingote e bombetta, l’uomo tiene in
mano un rotolo di carta svolto. Un diploma? Azioni?
Un’ingiunzione del tribunale? Sotto l’alto colletto, una
cravatta nera con un grosso nodo.
Cinquant’anni. Indossa un vestito grigio. Nella mano
sinistra tiene un cappello, la destra è sollevata in un gesto
oratorio. Di che cosa parla? Politica? Finanza? Arte?
Esperienza amorosa? Morte?
Sessant'anni. Con un bastone in mano, l’uomo scende
una scala. Ora appare di profilo. Con la mano destra si
appoggia al bastone, la sinistra è stretta sul petto. Indossa
un lungo cappotto, che tocca quasi terra. In testa ha un
cappello. Il suo viso è un poco avvizzito, gli occhi sono
gonfi. Basette brizzolate.
Settant’anni. Con la mano sinistra si appoggia a un
bastone, con la destra tiene una pipa. In testa un berretto.
Da sotto il berretto spuntano capelli grigi pettinati dietro
l’orecchio. Indossa uno spesso pullover, ma sta rannicchiato
come se avesse freddo.
Ottant’anni. Curvo, ingobbito, con un bastone nella
mano destra, l’uomo è sceso sul gradino successivo.
Indossa una vestaglia scura, con una cintura alla vita.
Sollevando la testa a fatica, l’uomo fissa un punto in
lontananza.
Novant’anni. Sull’ultimo gradino, l’uomo sembra voltarsi
bruscamente, in uno sforzo estremo. Indossa la medesima
vestaglia, abbottonata fino al collo e un poco sbiadita. È in
pantofole. Ha la testa china in basso, come se cercasse
qualcosa sul pavimento. Protegge dalla luce gli occhi malati
con una visiera di celluloide legata intorno al cranio nudo
con un elastico.
Su quale gradino si trovava E.S.?
Scendeva dal quinto gradino, il più alto (non calcolando
quello di grado zero, che è ancora inesistenza), sul quarto
(senza contare l’ultimo, parallelo a quello di grado zero,
che è già inesistenza).

1. In ebraico, « fiamma eterna » [N.d.T.].


APPUNTI DI UN FOLLE (V)

63

Persino Spinoza (Tractatus theologico-politicus) riduce


certi fenomeni soprannaturali e determinati miracoli biblici
al loro aspetto positivistico. Non intendo qui sottoporre ad
analisi i suoi errori, benché, considerandolo pur sempre
uno dei grandi, e uno dei miei, mi senta tentato di prendere
in considerazione le sue scorrette conclusioni. Ma che cosa
posso opporre alle sue argomentazioni, quando nemmeno
lui propone una prova positiva a sostegno della sua tesi?
Non c’è prova migliore della convinzione! Quando perciò
dice che « questa opera di Dio (l’apparizione di Yahveh a
Noè) non è altro che la rifrazione e il riflesso dei raggi del
sole attraverso goccioline d’acqua (sic!) che si trovano in
sospensione tra le nubi », io non posso opporre a tale suo
argomento positivistico altro che la mia convinzione
contraria (restando comunque nell’àmbito di un
ragionamento positivistico): non è altro che un sogno,
oppure: non è altro che quello che è in sé, cioè il verbo di
Yahveh, il Suo volto!
Che cosa aspettarsi, dunque, da un dottor S., psichiatra,
o dai miei parenti che non sono in grado di capire
nemmeno le cose prive della minima risonanza di irreale e
che, per quanto mirabili, non entrano ancora nel dominio
del miracolo: che la nostra faccenda è ormai da tempo
andata in malora! E quando dico la nostra faccenda, penso
alle vostre, alle nostre piccole vite. Perché, dal momento
che non credete alle visioni, potreste almeno credere ai
nudi fatti (positivistici) dei giornali. E questi fatti, questi
giornali, dicono chiaramente che tutto è andato in malora,
e che, prima ancora che gli Alleati possano intraprendere
alcunché, verranno a cercarci i Cavalieri dell’Apocalisse, se
non ci prenderà prima un colpo apoplettico, o se non
saremo comunque crepati. Di fame, di disperazione, di
paura. Mi chiedete, eh, che aspetto avranno i miei famosi
Cavalieri dell’Apocalisse, questi mostri che pensate nati
dalla mia fantasia malata. Anche se colgo bene lo scherno
nella vostra voce, anche se leggo perfettamente nei vostri
pensieri, voglio rispondervi senza ironia: saranno quattro
bei gendarmi in sella a cavalli bianchi, armati di carabine e
baionette. Bei gendarmi di provincia baffuti e a cavallo, con
una penna di gallo sul cappello nero. Forse non saranno
quattro, come in un mazzo di carte, ma solo due. E forse i
loro cavalli non saranno bianchi. E forse non saranno
neppure a cavallo, ma arriveranno su biciclette splendenti,
o addirittura a piedi. Ma verranno, questo è sicuro. Ecco
che si arricciano i baffi e inastano le baionette all’estremità
dei loro fucili. Sento i nitriti dei loro cavalli. E sento
schioccare al vento le penne fluttuanti sui loro cappelli
neri.

64

Forse questa mia lettera, questo mio scrivere,


appariranno, e forse appaiono di già, in questo
presentimento dell’alba, come opera della vanità, vanitas
vanitatum. Non appaiono forse questa mia lettera, la mia
vita trascorsa, già ora come l’ombra della vanità? Già ora,
quando tutto ciò è passato attraverso il purgatorio della
notte, attraverso il purgatorio della tenebra, attraverso il
catalizzatore dell’eternità che trattiene solo le particelle
cristalline dell’esistenza pura, solo i cristalli solidi
dell’essere (essenza). Tutto il resto sarà cancellato dalla
notte, e la mia lettera non sarà spedita, la mia scrittura
diventerà, con l’aurora, una scrittura morta nel morto mare
del tempo, papiro corroso nella putrida palude del mare
pannonico, o messaggio rinchiuso nel vuoto di una scatola
di cristallo opaco la cui chiave sia stata gettata in acqua,
nella palude, messaggio sepolto nelle oscure fondamenta
della notte, nelle fragili fondamenta dell’essere,
testimonianza per un avvenire lontano – postumus.

65

In base alla presente, quindi, il mio primo testamento


deve essere considerato non valido, annullato, e,
contrariamente a quanto stabiliva la mia decisione
precedente ora revocata, non permetto che qualsivoglia
parte del mio corpo venga utilizzata a scopi scientifici e
medici; penso in primo luogo al mio cervello, che
evidentemente interessava in modo particolare il dottor
Papandopulos, dalle cui insistenze fui indotto a prendere la
mia prima decisione che ora, ripeto, va considerata non più
valida: con la presente io lascio in legato il mio corpo alla
fiamma; come esecutrice della mia volontà nomino, sempre
con la presente, l’associazione per la cremazione Rinascita,
alle cui cure affido le mie spoglie mortali, con l’intesa che
la stessa Associazione ha il diritto di rifarsi delle spese
richieste dai servigi resi e dalla cremazione sui miei beni
immobili, cioè sul valore della parte della casa di famiglia
che mi appartiene; dopo la cremazione, le mie ceneri
devono essere trasportate, in apposita urna, sul ponte della
ferrovia, da dove saranno disperse nelle acque del Danubio;
a questa cerimonia possono assistere solo i miei intimi, cioè
i membri della mia famiglia, nonché il rappresentante
dell’Associazione per la cremazione. In luogo dell’ufficio
funebre o di qualsiasi altro servizio religioso, una persona
pagata allo scopo dovrà leggere passi dei salmi di Davide,
preferibilmente i salmi 44, 49, 54, e anche 114 e 137, in
una qualunque delle lingue seguenti·: ebraico, latino,
tedesco, ungherese, serbo, italiano, romeno, ucraino,
armeno, ceco, slovacco, bulgaro, sloveno, portoghese,
olandese, spagnolo, yiddisch; la persona in questione non
deve essere né rabbino, né cantore, né monaco, né in alcun
modo un religioso, e ugualmente non si deve permettere
che la solennità dell’istante in cui la polvere si unisce alla
polvere venga turbata dai belati di qualche attore o di
qualche cantore; meglio di tutto sarebbe trovare per la
circostanza un vagabondo, un Luftmensch, che si aggirasse
attorno al Danubio nel momento in cui il corteo con l’urna
fosse vicino al ponte, e a lui affidare la mia ultima volontà;
non importa che la persona in questione sia in quel
momento in stato di sobrietà o in stato di ebbrezza, importa
solo che sappia leggere - la mia generosità non può andare
oltre; dopo la lettura dei salmi e la dispersione delle mie
ceneri nel Danubio, l’urna-anfora deve essere infranta e
gettata anch’essa dal ponte, come un bicchiere andato in
pezzi.

66

La mia vita è stata più bella e più ricca della vostra


grazie alla sofferenza e alla follia, e desidero poter
affrontare anche la morte con dignità, come si addice a
quel grande momento dopo il quale vengono meno ogni
dignità e ogni grandezza. Il mio cadavere sarà la mia arca,
e la mia morte una lunga navigazione sulle onde
dell’eternità. Un niente nel nulla. E che altro potevo
opporre al nulla se non questa arca nella quale ho voluto
riunire tutto ciò che mi era vicino - uomini, uccelli, fiere e
piante - tutto ciò che porto nel mio occhio e nel mio cuore,
nell’arca a tre piani del mio corpo e della mia anima. Ho
voluto avere tutto ciò accanto a me, nella morte, come i
faraoni nella pace solenne delle loro tombe. Ho voluto che
tutto fosse come prima: che gli uccelli cantassero per me
nell’eternità. Ho voluto scambiare la barca di Caronte con
un’altra imbarcazione, meno priva di speranza e meno
squallida; ho voluto ingentilire l’inconcepibile vuoto
dell'eternità con amare erbe terrestri, quelle che spuntano
dal cuore dell’uomo; ho voluto ingentilire il vuoto
dell’eternità col canto del cuculo e con la melodia
dell’allodola. Io ho solo sviluppato questa amara metafora
poetica, l’ho sviluppata con passione e con coerenza, fino
all’estremo, fino alle ultime conseguenze, che si tramutano
da sogno in realtà (e viceversa), da lucidità in follia (e
viceversa), che passano dalla vita alla morte come se tra
l’una e l’altra non ci fosse confine, e viceversa, dalla morte
all’eternità, come se non fosse la stessa cosa. Così, il mio
egoismo non è altro che l’egoismo dell’essere umano,
l’egoismo della vita, il contrappeso all’egoismo della morte,
e la mia coscienza, nonostante le apparenze, si oppone al
nulla con un egoismo che non ha pari, si oppone allo
scandalo della morte mediante questa metafora
appassionata che vuole riunire quel poco di persone e di
amore che hanno fatto la mia vita. Ho voluto, quindi, e lo
voglio ancora, abbandonare la vita portando con me degli
specimen di uomini, di flora e di fauna, per farli entrare nel
mio cuore come in un’arca, per chiuderli sotto le mie
palpebre quando esse si abbasseranno per l’ultima volta.
Ho voluto far passare di contrabbando nel nulla questa
pura astrazione che sarà in grado di oltrepassare
segretamente la porta di un’altra astrazione, vana nella sua
immensità: la porta del nulla. Bisognava, dunque, cercare
di condensare questa astrazione, condensarla con la forza
della volontà, della fede, dell’intelligenza, della follia e
dell’amore (dell’amore di se stessi), condensarla a tal grado
e sotto tale pressione, da farle acquistare un peso specifico
capace di sollevarla in alto, come un pallone, mettendola
fuori della portata della tenebra e dell’oblio. In mancanza
d’altro, resteranno forse il mio erbario materiale o i miei
appunti, o le mie lettere. E che cos’è tutto ciò se non questa
idea condensata che si è materializzata? Una vita
materializzata; una piccola, triste, vana vittoria umana sul
nulla immenso, eterno, divino. O forse resteranno -se anche
tutto ciò dovesse essere sommerso in un diluvio universale
-, sì, resteranno la mia follia e il mio sogno, come un’aurora
boreale e un’eco lontana. Forse, qualcuno scorgerà il
chiarore di questa aurora, forse sentirà questa eco lontana,
ombra del suono di un tempo, e comprenderà il senso di
quel chiarore, di quello scintillio. Forse sarà mio figlio, che
un giorno pubblicherà i miei appunti e i miei erbari di
piante pannoniche (il tutto incompiuto, non portato a
termine, come ogni cosa umana). E tutto ciò che sopravvive
alla morte è una piccola, vana vittoria sull’eternità del nulla
- la prova della grandezza dell’uomo e della compassione di
Yahveh. Non omnis moriar.
LETTERA ο INDICE

67

Kerkabarabás, 5.4.1942

Cara Olga! Rispondo un po’ diffusamente alla breve


lettera che mi hai inviato tramite Babika perché, grazie a
Dio, sembra proprio che vi preoccupiate di procurarmi
argomenti per scrivere: i miei cari parenti mi offrono un
ricco materiale per un romanzo borghese dell’orrore a cui
potrei dare i titoli seguenti: « Parata in un harem », oppure
« Festa di Pasqua in una casa ebraica», o magari
«Clessidra» (tutto scorre, sorella mia).
Puoi davvero rimpiangere di non essere venuta a casa,
perché ti sei persa una festa di Pasqua di cui due villaggi
montenegrini potrebbero vivere tranquillamente una
settimana intera, una festa il cui costo avrebbe potuto
coprire le spese necessarie per il restauro della casa. I miei
figli, invece, in una stanza fredda, hanno avuto per
colazione, pranzo e cena, solo un po’ di latte freddo, benché
mi fossi anch’io preparato a festeggiare la loro modesta
Pasqua, portando da Baksa 1 kg di carne di maiale, un
pezzo di coscio, bistecche, lardo, frattaglie. Ma il Destino è
un cane e ha divorato tutto.
La storia di questa Pasqua celebrata con un po’ di latte
freddo è cominciata il cinque marzo, il venerdì in cui
tornammo da casa tua a Barabás (più esattamente, secondo
Netika, Marija e Georges, quando ci metteste alla porta).
Arrivammo a casa da Baksa a piedi, con un vento gelido
che tagliava la faccia, dopo aver abbandonato il nostro
bagaglio per via. Il programma, evidentemente, prevedeva,
per il nostro ritorno, la fine dell’ospitalità, e per questo
Neti, che non si era procurata (in cambio di denaro,
beninteso) quanto mi era indispensabile, non mi volle
nemmeno prestare delle stoviglie per il tempo necessario a
recuperare le mie (e ne hanno che basterebbero per tre
famiglie). Anzi, nonostante le promesse, questa faccenda
del prestito delle stoviglie causò tanti di quei bisticci che
mia moglie fu costretta a comprare subito due pentole,
quattro tazze, quattro cucchiaini, dei piatti di latta, ecc.,
per una somma complessiva di circa otto pengő. Adesso
abbiamo le stoviglie, ma continuano a farci un sacco di
questioni per darci qualche cavolo o qualche patata gelata,
per non parlare di quello che ci vuole per avere un po’ di
posto sulla cucina economica.
È perciò del tutto naturale che mia moglie - a cui la
grande tensione nervosa e il freddo avevano causato
ancora a casa vostra continue perdite di sangue - sia
diventata ancor più nervosa, come lo sono diventato io del
resto, a causa di tante scortesie. La nostra tensione
nervosa non può che crescere con tutta questa neve e
questo freddo che ci impediscono sia di uscire di casa sia di
cominciare a sistemare l’appartamento. La farina che ci hai
dato è finita, non abbiamo pane, io devo partire, ma non
posso lasciare la mia famiglia senza un pezzo di pane. È
devo partire d’urgenza, perché già il cinque marzo ogni
pensionato delle ferrovie doveva presentarsi, per un
eventuale richiamo in servizio.
I parenti di Neti mi fanno le proposte più equivoche per
farci avere un po’ di farina: mi chiedono di acquistare due
quintali di grano a quaranta pengő, che loro macineranno
senza autorizzazione, e in questo modo fino all’autunno non
dovrò preoccuparmi del pane. Quando ho rifiutato questa
proposta, me ne hanno fatta una ancora più equivoca: se
acquisto un quintale di grano a quaranta pengő, mi
daranno i loro buoni per la farina; naturalmente non devo
prendere il fior di farina, perché a che mi serve, ma solo la
farina da pane (dice tua nipote Maria Antonietta).
Logicamente, non ho potuto accettare questo affare da
Giacobbe, e ho cercato di cavarmela in altro modo. Così
sono rimasto cinque giorni senza pane e credo che tutta
questa persecuzione sia cominciata proprio per questo
motivo: siccome non ho voluto entrare in questo losco
affare con loro, tua nipote Marina (Rebeka) ha cominciato a
comportarsi come un cane idrofobo!
Finalmente, il diciassette marzo, ecco la salvezza:
Nandor e Berta. Sono stati loro a portarci pane, farina,
fagioli, patate e un grande sollievo di spirito, perché mi è
stato finalmente possibile partire. Non potendosi al giorno
d’oggi andare da Barabás a Novi Sad senza portarsi dietro
delle provviste, ho dovuto passare prima da Berta per
riempire la mia cartella, perché altrimenti avrei potuto
morire di fame e di sete in viaggio. Il giorno dopo, sono
partito da casa di Berta per Novi Sad, dove ho sistemato i
miei affari e spedito due armadi pieni di stoviglie e di
biancheria da letto (che, purtroppo, non sono ancora
arrivati). Ma, appena finito l’imballaggio e la spedizione
della roba, la casa in cui abitavo è crollata come un castello
di carte! Se mi fossi trattenuto dentro qualche istante di
più, sarei rimasto, con grande gioia dei miei parenti, sotto
le macerie!
Da Novi Sad, ho scritto due volte a Netika dicendole di
stare attenta e di aspettare il mio ritorno per regolare i
nostri conti, ammesso che ci siano ancora conti in sospeso
fra di noi.
Il ventotto marzo sono tornato felicemente a casa
trovando apparentemente tutto in ordine. Era una stupenda
giornata di primavera ed ero tutto contento di poter
finalmente sistemare la mia piccola stalla; perciò mi misi a
rimuovere la terra in cucina. L’indomani, di nuovo freddo,
tempo da crudo inverno. L’ozio forzato mi costringeva come
una maledizione a restarmene tappato in camera, più
esattamente in cucina, dove i bambini non potevano né
studiare né giocare. Mia moglie, raggomitolata come un
riccio (a causa delle perdite di sangue che il freddo e la
tensione nervosa le provocavano in continuazione), se ne
stava rannicchiata insieme con i bambini addosso alla stufa,
dove il fuoco stava per spegnersi. Dico allora alla mia
figlioletta di mettere un pezzo di legno nel fuoco. In
quell’istante, tuo nipote Georges viene fuori dall’altra
stanza e, sentite le mie parole, si mette a gridare come un
ossesso « che non si può accendere da tutte le parti ». Io
mandai giù anche questa provocazione, stringendo i denti e
i pugni e pensando ai boschi che ci hanno bruciato e
trasformato in potassa, come ti dissi a suo tempo,
spiegandoti che lo facevano perché non sapevano quel che
facevano.
Per coronare la sua generosità, tuo nipote Georges ci
procurò una vecchia cucina economica (che doveva aver
buttato via nostro nonno) e decise di farla riparare (come
hai fatto tu con le pentole e le padelle dandole da
rabberciare per noi a uno zingaro; l’ho visto io che
introduceva nella latta di quelle vecchie padelle fili di
piombo simili a palle di revolver calibro 6,35). Neti allora
disse che in casa c’erano dei pezzi di lamiera e che, se si
faceva riparare quella cucina, noi avremmo avuto per pochi
pengő una cucina economica che ci sarebbe servita fino
all’autunno, perché in autunno dovevamo restituirla al
proprietario! Il giorno di Venerdì Santo, nel pomeriggio,
eccoli che spingono sulla neve questa famosa cucina
economica e Gyula mi chiede, a titolo di riparazione, sette
pengő e quaranta fillér. Io, guardando la stufa, gli rispondo
seccamente che quel ferrovecchio non mi serve. Allora,
scoppia una rebillio generale, e tutti, insieme e
singolarmente, si accaniscono contro di me. Comincia Neti:
« Luftmensch! Luftmensch! »; Marija: « Non è una
vergogna per uno che ha delle entrate regolari farsi
mantenere dagli altri per mesi e mesi? »; Gyula: «E dove
pensi di cucinare? Guarda di non mettere sulla nostra
cucina economica nemmeno un pentolino, che te lo butto
nella spazzatura! », ecc., ecc. Ma io non perdo la testa
nemmeno di fronte a un simile concerto di pazzi,
limitandomi a dire a tua sorella Netika che, se non si
vergognano loro, non vedo proprio di che cosa dovrei
vergognarmi io. E me ne andai sbattendo la porta. Mia
figlia e mia moglie erano già a letto (erano quasi le otto),
ma mio figlio, spaventato, mi raggiunse di corsa in strada,
pregandomi di non andar via perché la zia Marusja aveva
detto che si sarebbe portata via i letti e noi avremmo
dovuto dormire per terra « come bestie ». Gli dissi di
rientrare tranquillamente, perché se lei avesse portato via i
letti, noi avremmo dormito sulla paglia.
Dopo di ciò, me ne andai a fare una passeggiata in paese
per riordinare le idee, calmare i nervi e l’anima. Quando
tornai, ero ancora assai nervoso. Mia moglie aveva paura
che ci togliessero davvero i letti e, a parte ciò, era già
angosciata perché il giorno prima, mentre io ero a
Porszombat, i gendarmi mi avevano cercato per un
controllo (ma io avevo sistemato tutto quel giorno stesso al
comune di Baksa). Come se non ne avessi già abbastanza,
quello stesso giorno ricevetti da Novi Sad un nuovo invito a
presentarmi immancabilmente di persona entro il
quattordici aprile all’ufficio della stazione. Che fare? La
questione dell’appartamento non era risolta, le cose che
avevo spedito erano ancora in viaggio e, se arrivavano
mentre io ero fuori, non c’era chi potesse ritirarle e farle
portare a casa, operazione che comunque costava sessanta
pengò; eravamo senza letto, senza cucina economica, ma la
cosa più terribile era che dovevo lasciare mia moglie e i
miei figli alla mercé di quella gente. Allora, dando credito
al motto che la nostra povera mamma ripeteva di continuo -
« la notte porta consiglio » -, scrissi, ispirato dalla notte, la
seguente lettera a Netika: « Mia cara sorella! Ti prometto
in anticipo, e con questa stessa promessa terminerò la
presente, che non intendo avere nessuna discussione né
con te né con i tuoi figli. Sei stata tu a invitarmi a passare
qualche settimana da ciascuna delle mie sorelle, contando
sul fatto che alla fine sarei risultato guarito. Io ho accettato
il tuo invito. Nel frattempo, la situazione è cambiata al
punto che sono stato costretto a venire non da solo ma con
tutta la mia famiglia, necessità di cui ho dovuto constatare
con amarezza le conseguenze negative fin dai primi giorni,
obbligato come sono stato a sopportare con sforzi
sovrumani provocazioni e maltrattamenti di ogni genere,
ma speravo che tutto ciò vi sarebbe venuto a noia e che non
fosse vostra intenzione spingere la cosa all’estremo. Io non
ho affatto l’abitudine di abusare dell’ospitalità di
chicchessia, perciò, se firmerai l’acclusa ricevuta, ti
pagherò venti pengò per i quindici giorni passati da te,
perché in fin dei conti sono stato ospite tuo e non dei tuoi
figli. Quello che avete fatto rimane e non si può fare in
modo che non sia stato fatto, ma cercate di non
ricominciare una nuova discussione, perché in questo
momento la cosa più importante per me è la mia salute, e la
salute della mia famiglia; quindi, è inutile ogni polemica,
ogni offesa, perché anche se non è un santo, tuo fratello è
comunque intangibile ». (Ricevuta acclusa): « Ricevuta del
pagamento di 20 (in lettere: venti) pengő, somma che ho
ricevuto da mio fratello E.S., controllore capo delle ferrovie
in pensione, a saldo del mantenimento suo e della sua
famiglia per un periodo di quindici giorni. Kerkabarabós,
4.4.1942».
Appena consegnata questa lettera, ci fu di nuovo una
grande rebillio, perché tua nipote Marija-Rebeka non fece
che ripetere per un’ora intera la stessa solfa: « se almeno
sapessi in che modo li ho offesi », « che il cielo mi fulmini
se li ho offesi », « dice che stanno qui a sbafare da quindici
giorni! », « è già un mese che stanno a sbafare qui da noi!
», «Herr Generalkontrollor è un gran cavaliere », « non gli
è andata bene con nessuna delle sorelle, e ora ce lo
dobbiamo sorbire noi », « ma chi diavolo li ha offesi? », «
ma che diavolo vuole da me? », « anche se mio marito non è
General-kontrollor, non sono certo meno signora di sua
moglie», «noi almeno non siamo schmutzig », ecc., ecc.
Un’ora intera è stata a urlare con quella sua boccaccia, e se
non fosse venuto suo cognato, starebbe ancora a blaterare,
tanto più che nel frattempo era arrivata anche Babika (per
il cui tramite mi hai inviato questa lettera per me
consolante) che di sicuro le avrebbe tenuto bordone.
Mi scrivi fra l’altro: «Rispondo in breve alla tua lettera.
Circa il prosciutto, sono stata io a dire a Gyula di
consegnartelo solo per Pasqua, perché in tale giorno,
secondo la tradizione della nostra campagna, in ogni casa
deve esserci un prosciutto, e così lo avrete pure voi », ecc.
(Ma l’indomani dell’arrivo della tua lettera, loro hanno
cucinato un grosso prosciutto, appena giunto Georges, e si
sono rimpinzati da scoppiare, per non parlare delle noci di
Hanukkah, pardon, voglio dire di Pasqua). Quanto al
prosciutto che Neti mi ha messo sulla tavola la domenica di
Pasqua, attenendosi rigorosamente alle istruzioni che tu
avevi dato a Georges, si trattava di un moncone di 2,40 kg
(che dalle nostre parti nemmeno un giudeo parvenu
oserebbe chiamare prosciutto), che del resto non ho potuto
nemmeno cucinare perché il giorno di Venerdì Santo sono
stato cacciato fuori dalla cucina. Mi scrivi poi brevemente
che hai «sentito dire che la grossa Berta ti ha portato un
po’ di farina, e per questo non ti ho mandato del pane,
pensando che ne avessi già ». Non hai sentito dire niente,
mia cara, sono io che ti ho scritto che « i cattivi Brandii »
mi avevano portato la prima volta del pane, perché erano
cinque giorni che non mangiavo, mentre « i buoni » Grosz e
Boroska non si erano vergognati a vedere che erano i
Rosenberg e i Mayer a farmi avere del pane. Delle scarpe a
me destinate non dici nemmeno una parola, e neppure del
pennello da barba.
Ma ora che ti ho messo un po’ le cose in chiaro, torno di
nuovo ai tuoi cari parenti per mostrarti a confronto come
hanno passato loro la domenica di Pasqua e come l’ho
passata io. Mentre, dunque, la tua cara sorella Neti
preparava un banchetto luculliano per il quale non
sarebbero bastati nemmeno trenta o quaranta pengő, io e
la mia famiglia, come ti ho già scritto, abbiamo fatto
colazione, pranzo e cena con un po’ di latte freddo nel
nostro gelido buco. La stanza era fredda perché ci avevano
tolto i tubi della stufa, e il latte perché non ci avevano
permesso di riscaldarlo sulla loro cucina economica. E
mentre noi, dopo questo latte freddo, ci vedevamo costretti
a infilarci nei nostri letti senza lenzuola subito dopo il «
pranzo », loro, tutti di ottimo umore, sorseggiando del buon
vino, mangiavano un’eccellente minestra in brodo, pollo,
prosciutto cotto (non un moncone), una enorme quantità di
dolci, ecc., ecc. Questa è stata la mia Pasqua anno 1942,
quella del 1941 te la racconterò un giorno di persona. (Per
la verità, i tuoi nervi, ma soprattutto quelli di tua sorella
Malvina, farebbero fatica a sopportare un racconto del
genere).
E ora passo a quella che è stata una vera e propria
tragicommedia. A quanto pare, tua nipote Babika, che già a
Szentadoriàn aveva cominciato a provocarci, specialmente
mia moglie, « in casa » prese ancor più coraggio, quando
Georges le raccontò che avevo avuto « l’inaudita
sfacciataggine » di non volermi prendere quella vecchia
cucina economica « per soli sette pengő e quaranta fillér,
pur potendola usare fino all’autunno ». Di rimando, tua
nipote gli chiese « perché non gli hai mollato uno
schiaffone, io lo avrei fatto di sicuro ». Io ho sopportato
tutto questo con la pazienza di un santo e senza dire una
parola, limitandomi a chiedere a Neti, prima della sua
partenza per Budapest, di raccomandare ai suoi figli di
lasciarci in pace, perché se qualcuno di loro ci avesse solo
toccato col mignolo, lei avrebbe dovuto tornare per il
funerale.
Penso di avere in sostanza terminato la mia lettera. I
miei armadi sono arrivati oggi, sono stati portati da Lenti a
Sziget, dove continuo questa lettera. Domani vado a casa,
perché al massimo entro domenica, cioè entro il dodici,
devo sistemare la faccenda dell’appartamento, ed entro il
quattordici aprile debbo assolutamente essere a Novi Sad,
per presentarmi di persona alle autorità.
Di ritorno da Lenti, il giorno dopo, con mia grande
sorpresa, non trovai in casa né mia moglie né i miei figli. I
lavori di sistemazione in casa erano fermi, si vedeva che i
bambini non erano andati a scuola. Nessuno dei vicini
sapeva dove fossero andati, li avevano solo visti
allontanarsi, chi diceva da una parte chi diceva dall’altra. I
tuoi cari parenti godevano chiaramente a vedermi in pena
non sapendo che cosa fosse accaduto in casa durante la
mia assenza. Finalmente, mentre cominciava a far buio,
ecco arrivare mia moglie, stanca morta e spaventata,
insieme con i bambini: non avevano avuto il coraggio di
rimanere a casa perché i gendarmi mi avevano di nuovo
cercato. Mi rivolsi subito al capo del villaggio, che mi
consigliò di presentarmi l’indomani alla gendarmeria di
Csesztreg. La gamba mi faceva molto male e dovetti andare
in barroccio a Csesztreg dove, a termini di legge, sbrigai le
formalità dell’inchiesta. Se, durante la mia assenza, i tuoi
cari parenti avessero onestamente informato i gendarmi,
mi avrebbero risparmiato parecchi fastidi e spese. È
naturale quindi che, dopo di ciò, io abbia telegrafato a Neti,
chiedendole di tornare a casa. Se sia già arrivata, non lo so,
perché domenica sono dovuto partire (attualmente mi trovo
a Novi Sad) per cambiare appartamento dopo il crollo della
casa. Il trasloco è ormai terminato. Da via Bem mi sono
trasferito a via Vitéz 27. Aspetto certe cose da mia moglie
e, appena le ricevo, spero di potere, già la settimana
prossima, martedì o mercoledì, tornare a casa a Barabás,
fermandomi un giorno a Budapest.
Ora debbo occuparmi nuovamente di te. Quando mi sarò
definitivamente sistemato, vi inviterò, perché ci è
straordinariamente piaciuta la vostra esibizione serale in
camicie da notte rosa. (Per la verità, ti sussurrerò
all’orecchio che qui è in simili abbigliamenti leggeri che
hanno posto davanti alle canne delle mitragliatrici quelle
rose di Hebron che avevano agitato troppo i fianchi).
Posso ormai capire tante cose che prima non capivo. Ora
so perché nell’ottobre del 1931 il fango pannonico rendeva
così difficile il percorso per Szentadorián, mentre le strade
per Cetinje e Trieste erano in perfetto ordine. Ora posso
capire anche il motivo per cui l’autobus tra Bah e
Szentadoriàn è così spaventosamente caro nel 1942. Ora
capisco tutto questo. Ma spero che anche voi capirete
presto che io sono un marito e un padre, e che inoltre ho
cinquantatré anni.
Per tornare alla domanda della tua cara lettera: ho
rifatto il vestito grigio? Rispondo: aspetto le tue istruzioni,
tramite Georges o Babika, per sapere quand’è che in
campagna si porta un completo invernale, perché in città lo
si porta sempre, se non se ne ha un altro.
Ma adesso ho davvero finito la mia lettera, nella
speranza che non mi darete più l’occasione di occuparmi
nuovamente di voi così a lungo e con tanta amarezza,
perché questa « piccola lettera » è solo un breve riassunto
di tutto ciò che ho vissuto con la mia famiglia in questi tre
mesi scarsi. I mulini di Dio girano lenti ma sicuri.
Penso di essere a casa già la prossima settimana, te lo
farò sapere e, siccome non voglio mettere mai più piede in
casa tua, ti prego di venirmi a trovare tu, perché ti debbo
parlare di cose assai importanti.
E adesso, arrivederci oppure a presto. Abbiti un
abbraccio da tuo fratello
Eduard

P.S. È meglio trovarsi fra i perseguitati che fra i


persecutori.

(T., Bavá Kamá)

Potrebbero piacerti anche