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FABULA
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DELLO STESSO AUTORE:
CLESSIDRA
ADELPHI EDIZIONI
TITOLO ORIGINALE
Peščanik
PROLOGO
LETTERA ο INDICE
CLESSIDRA
3
L’uomo guarda la fiamma aguzza, vibrante nella corrente
d’aria gelida che soffia dalla finestra invisibile posta di
fronte a lui, poi il suo sguardo scivola in basso, verso il
serbatoio di vetro della lampada. Il serbatoio si restringe
nel mezzo, formando una profonda scanalatura fasciata da
un anello di latta arrugginita. Questo anello non è saldato
in un cerchio completo, ma è fatto di due semicerchi
simmetrici che si riuniscono sul davanti a un centimetro o
due di distanza. Dall’anello di lamiera si dipartono due
asticciole metalliche parallele che si congiungono in alto
formando un triangolo dai lati arrotondati che sostiene in
una cornice di lamiera arrugginita uno specchio rotondo
semiopaco e corroso lungo i bordi. Lo specchio crea due
fiamme gemelle, due fiamme crestate, una di fronte
all’altra, uguali, per quanto una, quella dello specchio, che
viene riflessa, viva solo in virtù dell’illusione e
dell’apparenza, della grazia dell’altra. Il serbatoio
all’interno è di un colore verde scuro, simile a un acquario
pieno di acqua putrida e come reso viscido da alghe e
licheni appena visibili. L’uomo esamina il serbatoio,
cercando la linea che deve indicare il livello del petrolio, la
superficie del liquido, e che si è del tutto confusa col colore
del vetro, esercitando su di esso la sua azione, dandogli la
sua tinta: grigio sporco, verde scuro, rosso ruggine. La
cerca dapprima con gli occhi sotto l’anello ondulato,
penetrando con lo sguardo tra le minuscole sporgenze che
ricoprono la semisfera del recipiente di vetro, tra le quali
s’è stesa una grassa pellicola di petrolio misto a fuliggine e
polvere. Non avendo trovato il livello del liquido (e troppo
pigro per compiere il gesto, rischioso e complicato, di
agitare la lampada perché il livello si riveli da sé), sorvola
con lo sguardo l’anello di lamiera arrugginito alla
strozzatura del serbatoio, esattamente nel mezzo, alla sua
vita, e proprio mentre pensa che il livello del liquido deve
nascondersi in quel punto, scopre alla base dello stoppino
ben impregnato, bianco e inerte come un verme solitario
rigonfio, un restringimento appena visibile, una piccola
deformazione, come quando si immerge un bastone
nell’acqua. Capisce, non senza inquietudine, che nel
serbatoio c’è sì e no un dito di petrolio. Se lo succhierà
tutto, se lo berrà tutto. E, come spaventato a questo
pensiero (che la lampada sta per spegnersi), scuote di
nuovo la penna e scarabocchia sulla carta per continuare
quello che è cominciato, per prevenire l’oscurità.
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L’uomo è seduto su un grosso sasso sul ciglio della
strada. Il sasso è rotondo, rozzamente scolpito, e mostra
chiaramente l’effetto dell’erosione e del tempo, nella sua
superficie spugnosa ricoperta di macchie di licheni, che
sembrano piccole gocce di ruggine. Il sasso, chiaramente,
non è capitato per caso lì, sull’orlo del precipizio, è stata
una mano di uomo a mettercelo, dandogli la sua forma
definitiva (se può chiamarsi definitiva). Sulla parte
superiore del sasso c’è un piccolo incavo a forma di sella,
costituito da uno strato grigio più scuro, che è senza dubbio
di età e di composizione geologica diverse da quelle della
massa c alcarea principale. Dal margine esterno dell’incavo
parte un canale largo un pollice e lungo una ventina di
centimetri. Il canale corre in verticale rispetto all'asse del
blocco di pietra. Il percorso diritto dimostra che anch’esso
è stato scavato dalla mano dell’uomo: gli archi a spirale
sono senza dubbio dovuti a una trapanatrice pneumatica o
a un cuneo di ferro con cui è stato fatto il foro per la
dinamite (se il blocco non è stato staccato dalla massa
principale con la sola forza meccanica). L’uomo si volta.
Sulla parete rocciosa e piatta che s’innalza dall’altra parte
della strada, come un alto muro, scopre una fessura
verticale che potrebbe corrispondere perfettamente, come
sua metà simmetrica, al canale della superficie a sella,
tanto più che anche su questa fessura si distinguono
chiaramente due strati diversi: uno strato superiore, più
scuro, e uno inferiore, più chiaro e friabile. Sotto il blocco
di pietra, in direzione dell’orizzonte, si stende un massiccio
roccioso percorso da rughe, fenditure e crepacci. Una
ventina di metri più in basso del blocco su cui l’uomo è
seduto, si distinguono ancora le macchie rossastre dei
licheni che in qualche punto diventano completamente
bianche, come se le rocce a picco fossero spruzzate di calce
o cosparse di escrementi di uccelli. Accanto al sasso su cui
è seduto, da profondi crepacci lungo la strada, spuntano
foglie irsute e polverose di assenzio, già in parte sbiadite.
L’uomo sente il loro profumo che si alza col calore emanato
dalla pietra rovente. Radi arbusti, sparsi qua e là sulle
rocce e nelle cavità, risaltano nettamente con le loro foglie
verde pallido sulla pietra grigiastra e sulle macchie chiare
dei licheni simili a macchie di calce. Sul lontano versante
grigio che si stende verso l’orizzonte, si scorge il nastro
bianco della strada che scende in linee oblique e parallele
intagliate nella roccia. La strada si restringe sempre più di
versante in versante e, a poca distanza dalla cintura verde,
dove è già stretta come un sentiero di capre, comincia a
piegarsi in meandri, formando una grande M, come le tre
linee nette della mano. Nella linea sinuosa e spezzata che
congiunge terra e mare, si scorgono insenature e baie
profonde, separate da pareti rocciose a strapiombo. Il sole,
perfettamente rotondo e rosso, sfiora precisamente la vetta
più aguzza. Le grandi ombre delle rocce tingono l’azzurro
del mare di verde scuro, separando con una linea netta
l’azzurro dal verde, come due colori che non si mescolano,
almeno non così facilmente e intimamente come si
mescolano sulla lontana linea dell’orizzonte il turchino del
cielo e il turchino del mare.
Lungo la linea spezzata dove terra e mare si
congiungono, si scorgono, in mezzo al verde, piccole case
strette le une alle altre, anch’esse schematiche: muri
bianchi e tetti rossi. A sinistra, un po’ più in là del gruppo
di casette, sotto un camino da cui si leva diritto un filo di
fumo nero, il riverbero rosso del sole sulla facciata a vetri
di qualche fabbrica, simile al bagliore di un incendio.
All’estremità di un piccolo molo s’innalza la colonna di
pietra di un faro. In cima al faro lampeggia una luce viva, e
l’uomo non può capire se si tratti del riflesso del sole o
della luce di una lampada a gas. Lungo i bordi del molo, da
un’estremità all’altra, c’è una fila di bitte di ormeggio in
ferro. L’uomo è seduto su una di esse, in un punto a metà
del molo, col viso rivolto al mare. Al molo è ormeggiata
un’unica barca, un trabaccolo da pesca a un albero. Sulla
piccola imbarcazione non c’è nessuno. Una fune, arrotolata
come un serpente, è poggiata su un pianale verso prua.
Questo pianale è fatto di assi un tempo dipinte di verde; la
vernice è ora completamente sbiadita e si è ricoperta di
squame oppure è solo piena di screpolature come una
vecchia tela di quadro. Lo scafo dell’imbarcazione è pure
fatto di assi, ricurve come doghe di grandi botti. La parte
esterna è dipinta di nero, e fra le assi, nelle commettiture,
brilla il catrame fresco e molle che sboccia lentamente
come sangue rappreso. I bordi delle fiancate, fatti di assi
più spesse, sono dipinti anch’essi di verde, e così la prua, la
cui chiglia è rinforzata da una lastra di metallo. Alla
fiancata del trabaccolo sono appesi due copertoni,
completamente lisci, tanto che non vi si possono più
distinguere i rilievi ondulati o gli intagli a zigzag, ma solo
alcune lettere sul fianco, sicuramente la marca. Tra i
copertoni attaccati alla fiancata dell’imbarcazione e il molo
di pietra si stende una striscia d’acqua verde, arcuata. La
barca è rivolta con la prua verso il mare, leggermente di
sbieco rispetto al molo.
Il mare intorno al trabaccolo è assolutamente calmo,
verde scuro e trasparente, tanto da lasciar vedere
distintamente tutto lo scafo dell’imbarcazione, il timone
inclinato e la piccola elica in forma di otto. Più in basso, a
una profondità indeterminata, si scorge l’ombra dello scafo
bucherellata dallo sfavillio di un raggio di sole riflesso da
un pesce morto, da un pezzetto di specchio, da una
conchiglia vuota o da una latta di conserva.
A un tratto, l’ombra dello scafo comincia a vibrare, a
sciogliersi, a scomparire. Lo sfavillio si spegne e la
superfìcie verde scintilla e ondeggia. Si sente lo sciabordio
dell’acqua contro il molo e i fianchi della barca. Lo stridio
della fune legata alla bitta. Lo strusciarsi lieve delle
imbarcazioni nella baia. Una barca si avvicina al molo
tracciando un leggero arco. Lo sbuffare sommesso del
motore si sente in ritardo, solo quando il motore è già
spento, perché il rumore si è introdotto nel silenzio in modo
impercettibile. L’acqua si corruga in onde che scoprono
sulle pareti del molo di pietra il verde velluto delle alghe e
le macchie nere delle conchiglie. L’erba marina e i rifiuti,
prima fermi sul pelo dell’acqua, si mettono di colpo in
movimento, cullati e gettati da sinistra a destra e da destra
a sinistra: bucce di cocomero, un pomodoro, un torsolo di
mela color ruggine, cicche rigonfie, un pacchetto di
sigarette, un pesciolino morto, una crosta di pane, un ratto
morto, una scatola di fiammiferi, mezzo limone spremuto,
un ramo marcio, una noce di galla, stuzzicadenti, fuscelli di
paglia, squame di pesce, un’arancia imputridita, una
bottiglia verde di birra, un pezzo di tavola, una busta
azzurra strappata, un portapenne di legno corroso, piume
di uccello, un tutolo di granturco, un tappo di sughero, un
cappello di paglia sfondato, un biglietto ferroviario forato,
due mozziconi di matita senza grafite, pezzetti di giornale,
un foglio di carta a quadretti con lettere che si sciolgono,
una scatola di conserva, una noce, un barattolo di latta un
tempo contenente vernice verde, un frammento di vaglia,
l’etichetta gialloverde di una bottiglia di birra, un vetro di
lampada sbreccato, un pezzo degli scacchi (un pedone
bianco che ha fuori dell’acqua solo la testa), un re di quadri
dai bordi sfilacciati piegato in due ma non schiacciato,
tanto che i personaggi simmetrici e schematici si
distinguono chiaramente, una cartolina illustrata che
mostra in primo piano il mare azzurro, un molo con un faro
e accanto al molo una barca da pesca ormeggiata a una
bitta di pietra, mentre una seconda barca si avvicina al
molo e fende l’acqua disegnando un leggero arco. In
secondo piano, dietro una fila di palme verdi, bianche
casette dai tetti rossi. In lontananza, alte montagne lungo i
cui fianchi serpeggia una strada stretta, e sopra un cielo
azzurro e due o tre nubi rossastre. In un punto a metà del
molo, su una delle bitte, è seduto un uomo. È leggermente
curvo e piegato in avanti. In testa ha un cappello di paglia
gettato sulla nuca e tra le gambe divaricate un bastone,
forse una canna da pesca. A una decina di metri da lui,
appoggiata con i gomiti al parapetto di pietra, c’è una
donna, e con lei un ragazzino di cinque o sei anni e una
ragazzina un po’ più grande. Tutti guardano verso
l’orizzonte, forse contemplano il tramonto. Si trovano
proprio su una curva, nel punto dove la strada si allarga
formando una specie di terrazza o di altana. Un poco oltre,
proprio contro il parapetto fatto di blocchi di pietra appena
sgrossati, c’è un’automobile. La vernice nera della
carrozzeria è coperta da un sottile strato di polvere. I vetri
quadrati dei finestrini sono completamente abbassati, le
portiere spalancate. I grandi fari rotondi sono illuminati dai
rossi bagliori del tramonto. Al di sopra del radiatore, simile
a un alveare, un tappo metallico nichelato intagliato a
dentelli da cui esce vapore. Tutta la parte anteriore
dell’automobile vibra nel calore, visibile come quello che si
osserva su una stufa rovente. Sotto i larghi parafanghi,
simili a quelli di un fiacre, sulle gomme ormai lisce, si
distinguono appena i rilievi ondulati o gli intagli a zigzag.
Di lato, sui fianchi dei copertoni, si intravedono alcune
lettere piene di polvere: la marca delle gomme. Con le
braccia incrociate sul petto, un uomo con un casco a
quadretti e occhialoni da pilota in celluloide è appoggiato al
parafango. È rivolto verso coloro che ha portato lì, verso
l’uomo seduto sul masso, una decina di metri più in basso
rispetto alla curva, e verso il gruppo appoggiato al
parapetto di pietra non lontano da lui. Poi si volge a
guardare l’orizzonte,· forse ammira il tramonto. Adesso
anche la donna guarda verso l’uomo seduto un po’ più in
giù sul masso. Ma lui sembra non notarli nemmeno. Fissa
un punto in lontananza; forse ammira il tramonto.
Ora guarda verso la curva, da dove giunge un rumore di
passi con un rotolio di pietrisco. Un attimo dopo, da dietro
la curva spunta un asino, carico di fascine. A testa bassa, le
orecchie penzoloni, la bestia vien giù per la china. Il carico
di fascine, assicurato con delle funi a un basto invisibile,
pende sui fianchi polverosi. Sugli sterpi nodosi si vedono
incisioni oblique fatte di recente. Infilata tra le fascine,
sporge la lama ricurva di una roncola fissata a un sottile
manico quadrato. Al di sopra del carico, in otri scuri e
flosci, sbatte un liquido: vino, latte o acqua. Due o tre passi
dietro l’asino avanza una donna con un vestito nero
sbiadito e un fazzoletto anch’esso sbiadito legato sotto il
mento, curva sotto un carico di fascine non minore di
quello legato al basto. L’uomo li segue con lo sguardo fino a
che scompaiono dietro una stretta curva. Poco dopo li
scorge di nuovo, sul versante successivo, una ventina di
metri più in basso. Poi li perde di vista per un certo tempo
finché non li rivede alla svolta seguente. Non si sentono più
lo sciacquio del liquido negli otri né lo scricchiolio del
pietrisco sotto i loro passi. L’uomo si alza e risale la strada
appoggiandosi al bastone, poi si siede nell’automobile
accanto all’autista.
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Proposizione:
Per il tranquillo lavoro dello spirito è necessaria una
solitudine totale, altrimenti lo spirito cadrà sotto la nefasta
influenza di un altro spirito, senza forse neppure
rendersene conto.
Dimostrazione:
Se nella stanza accanto non avesse dormito mia moglie,
di certo non mi sarebbero venuti in mente i villaggi
montenegrini, ma probabilmente un altro paragone, un
altro determinante, perché nella mia minuta non c’era
alcun accenno a villaggi montenegrini, né a villaggi di
nessun’altra regione, dato che a quel tempo (quando
scrivevo la minuta) il mio spirito non era ancora sotto
l’influenza del suo, ma (come risulta da quanto precede)
sotto l’influenza di un’altra irradiazione. Q.E.D.
Corollario:
La solitudine totale è irraggiungibile, perché conseguirla
vorrebbe dire conseguire la perfezione, e questa non è altro
che l’idea pura o Dio.
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Le spezie hanno probabilmente un’azione profilattica e
disinfettante, certe proprietà mimetiche in virtù rielle quali
producono uno straordinario effetto sull'odorato degli
acquirenti schizzinosi di salsicce avariate. A seguito delle
operazioni di guerra, del blocco operato dai sottomarini,
ecc., le spezie acquistano pian piano il valore e il prezzo dei
metalli preziosi o, più esattamente, riprendono il valore e il
prezzo che avevano nel Medioevo e che poi avevano
perduto, la loro aureola offuscata di rarità.
Cassaforte wertheim & co. Cambiale, assegno, firma del
traente; verifica, timbri. La pesante porta di acciaio, ben
oliata, si apre senza rumore. Dalla cassaforte si sprigiona a
onde il profumo delle spezie. Probabilmente a causa del
loro peso specifico. In aria volteggiano invisibili particelle
di pepe: starnuti e colpi di tosse. Cambiale prorogata e
bustina di chiodi di garofano o di cannella. Ai suoi ordini,
signore! Verificare ancora una volta se la borsa di pelle è
abbastanza sicura. Scorta armata e macchina blindata
davanti alla porta laterale della banca. Le portiere della
macchina blindata, nell’aprirsi, liberano di colpo gli aromi
imprigionati di continenti lontani. L’anima di Colombo, di
Vasco da Gama.
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I porci sono i meno schifiltosi degli animali. Non c’è
dubbio che Maometto lo sapesse, come pure i profeti-
igienisti ebrei. Così, un giorno, il giovane Maometto se ne
stava seduto osservando un maiale che mangiava qualcosa
di orribilmente sporco: dilaniava una carogna o mangiava
una patata marcia, simile a escrementi umani. Allora, sazio
di arrosto di maiale di cui poco prima si era riempito la
pancia, Maometto cominciò a vomitare, ricordandosi che
quella che aveva mangiato era carne di maiale. Si cacciò
svelto un dito in bocca, come fanno gli ubriachi, e vomitò
sulla sabbia accanto al mare. Poi si affrettò a casa e
introdusse nel codice che stava scrivendo e che più tardi
avrebbe chiamato Corano: non mangiate carne di maiale,
perché vomiterete. La stessa cosa avvenne per
l’attribuzione di kasher: un profeta mangiò carne avariata...
Il fanatico trasforma il suo caso personale in regola sacra,
in legge, in comandamento di Dio. La storia delle religioni
(le proibizioni e i tabù, kasher, ecc.) è il risultato finale di
un’esperienza individuale. De gustibus: questa specie di
democrazia estetizzante non è ammessa dai fanatici. Essi
proclamano il proprio gusto come solo e unico possibile,
gusto canonico. La stessa cosa avvenne per la proibizione
dell’alcol. Un santo si ubriacò e vomitò. Avendo cominciato
a ciarlare un po’ troppo, impappinandosi mentre
trasmetteva i messaggi che gli giungevano dal cielo, il
santo, per ordine del consiglio dei saggi, rinunciò all’alcol.
Ma i fedeli continuano a bere, le bestie sono bestie, e lui
sbava, con la saliva che gli cola sul santo mento. Allora si
rifugia nella sua capanna e sogna che Dio gli ordina di
trasmettere agli uomini il Suo messaggio: il vino è peccato.
Versate il vino in mare e gettate tra le onde gli ubriachi
insieme con le botti. E così sia. Per fortuna, nessun profeta
si ricordò del gusto del latte materno. Altrimenti...
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Sono incline a credere che Newton abbia scoperto la
legge della gravitazione universale grazie alle feci:
accoccolato nell’erba, sotto un melo, verso sera, quando le
prime stelle cominciano a risplendere, con l’oscurità che lo
proteggeva da occhi indiscreti, perché era abbastanza fitta
da nasconderlo, le stelle non abbastanza chiare da
illuminarlo, e la luna ancora dietro l’orizzonte; in
quell’istante di silenzio, dunque, quando le prime rane
cominciano a gracidare e gli intestini pigri prendono ad
agitarsi per l’emozione lirica provocata dalla bellezza della
natura e della creazione divina, perché il simpatico
trasmette le emozioni intellettuali agli intestini e influisce
sul lavoro del metabolismo, in questo centro di tutte le
emozioni, avendo egli cominciato a presentire la scoperta
di questa legge così semplice ma fondamentale per
l’avvenire della scienza, sempre accoccolato sotto il melo e
immerso nella contemplazione delle stelle (mele non se ne
vedevano nell’oscurità, perché non ce n’erano, ma l’albero
era trapunto di stelle e le mele erano state tutte colte due
giorni prima sotto la sua personale sorveglianza e non c’era
quindi pericolo che qualcuna lo potesse colpire mentre
stava accoccolato sotto quel nuovo albero della conoscenza,
altrimenti non sarebbe andato ad accoccolarsi proprio lì,
ma avrebbe cercato un posto più sicuro), Newton, dunque,
sentiva le sue feci scivolar fuori dai suoi intestini commossi,
senza sforzo e con facilità, nonostante la sua cronica
stitichezza, che era solo la conseguenza delle lunghe ore
passate seduto al tavolo ingombro di libri, insieme con la
gioia di questa scoperta che balenò d’un tratto nella sua
mente, cioè che la forza della gravitazione terrestre dà a
tutti i corpi la stessa accelerazione di 981 cm/s2, persino
alla merda, e che questa forza di gravità diminuisce
proporzionalmente al quadrato della distanza di un corpo
dal centro della Terra, insieme con la consapevolezza
dell’importanza capitale di questa scoperta, accompagnata
da un nuovo svuotamento degli intestini, ebbe un pensiero
terribilmente umiliante: aveva scoperto questa legge così
essenziale e decisiva per la storia dell’umanità osservando
la caduta libera delle proprie feci, accoccolato, una sera,
sotto un melo... Questa consapevolezza, di certo, gli fece
salire il rossore al viso, spingendolo a chiedersi se doveva o
no rivelare all’umanità la sua scoperta, umiliante nella sua
essenza, nella quale sembrava di poter scorgere lo zampino
del diavolo in persona. Ma, sempre accoccolato sotto quel
melo della conoscenza, ripreso dalla sua stitichezza,
Newton immaginò la sua grande menzogna storica e
trasformò la sua merda in mela, e così l’umanità non
conobbe mai l’autentica verità e attribuì alla mela il merito
di questa scoperta, perché la mela aveva già il suo pedigree
che la faceva risalire all’Eden e il suo antefatto mitico con
la scelta di Paride, quindi non era sconosciuta, cosa che lui,
Newton, non ignorava di certo. Così, da allora, le mele
cadono secondo la nuova legge, la legge di Newton, mentre
la merda continua a scivolare nel più completo anonimato,
al di fuori della legge per così dire, quasi che le leggi
dell’attrazione terrestre e dell’accelerazione di 981 cm/s2
non la riguardassero!
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Lo riconosco francamente: il mio cuore ha le
mestruazioni. Tardive e dolorose mestruazioni della mia
ebraicità... Il signore che vi vedete passare accanto,
spettabili dame e signori, quel signore sui cinquant'anni, in
vestito grigio, con occhiali dalla montatura metallica,
bastone e stella gialla (che però non vedete, perché la
nasconde sotto la sua cartella), quel signore, ecco, ha le
mestruazioni. Per favore! Signori giudici, il mio cuore ha le
mestruazioni. Deviazione biologica come incarnazione del
principio ebraico, femminile. Notizia sensazionale per i
giornali: un signore brizzolato ha i dolori mestruali! La cosa
più interessante è che si tratta di un uomo in perfetta
salute fisica (a parte un leggero raffreddore), di un uomo
nel quale non si è osservata la benché minima alterazione
della funzionalità ghiandolare e ormonale. Mestruazioni
maschili? No. Principio femminile portato alle estreme
conseguenze. Fiore mensile del cuore. Seme di morte.
Weltschmerz.
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Quanto a questa lettera (signora), il signore che gliel’ha
scritta (sappiamo che ciò suona assai strano) è in stato
interessante! L’analisi della sua orina lo mostra
chiaramente. E altrettanto chiaramente abbiamo compreso
dal referto medico che si tratta di un uomo. Questo è
quanto. Poiché lei ha detto che è suo fratello, gli consigli di
prepararsi. È gravido, signora. Porta dentro di sé il seme
della morte. Le mie condoglianze, cara signora.
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Che cosa si intravede in questa parte della minuta
scritta a matita?
L’effetto delle scosse del rapido della linea Lenti-Novi
Sad.
Che cosa rappresentano le fotografie dello
scompartimento di prima classe?
1. Sopra il suo posto: un paesaggio pannonico. La
pianura coperta di neve a perdita d’occhio, neri tratti di
campi arati che emergono qua e là dalla neve e, in primo
piano, nell’angolo inferiore destro, un albero spoglio e
nodoso sui cui rami si vedono appollaiati neri corvi
intirizziti. Di sbieco, quasi in diagonale, come fuori del
paesaggio, grossi fili telegrafici carichi di neve, forse sei o
sette, collegati ai pali sulla sinistra, proprio sul margine
della fotografia, dove vengono catturati dalla cornice di
legno, con bianchi isolatori a forma di pera. Questo primo
piano (i fili e gli isolatori bianchi di porcellana) è sfocato e
impreciso, gli oggetti sono quasi trasparenti, tanto che lo
sguardo inizialmente li trascura per concentrarsi tutto sul
grigio paesaggio invernale dello sfondo.
2. Di fronte al viaggiatore seduto sul sedile di felpa: il
panorama di una città con una cattedrale che si intravede
in lontananza, mentre in primo piano si scorge un argine
con rotaie e alcune baracche. Sullo sfondo, la pianura e un
mazzacavallo, lontano. Sulla sinistra, sempre in secondo
piano, degli scavi e qualcosa che somiglia a una fabbrica di
mattoni, e accanto un grande fiume pigro che attraversa
tutta la parte destra del quadro e si getta nell’angolo
inferiore destro, sotto la cornice di legno.
3. A sinistra del posto dove siede il viaggiatore, a
sinistra e dietro: in primo piano, il mare e un molo con un
faro; accanto al molo una barca da pesca ormeggiata a una
bitta di pietra, mentre dall’altro lato una barca uguale si
avvicina al molo e fende l’acqua disegnando un piccolo
arco. In secondo piano, dietro le palme, alcune casette con i
tetti di assicelle incurvate e, in lontananza, alte montagne
grigie lungo i cui fianchi serpeggia una strada stretta; al di
sopra di esse un cielo sereno con due o tre nuvolette. In un
punto a metà del molo, su una delle bitte, è seduto un
uomo, ripreso di spalle. È leggermente curvo e piegato in
avanti. In testa ha un cappello di paglia gettato sulla nuca e
tra le gambe divaricate un bastone, probabilmente una
canna da pesca.
4. A sinistra del posto dove siede il viaggiatore, a
sinistra e di fronte: di nuovo il panorama di una città con
una cattedrale. Forse sono la stessa città e la stessa
cattedrale che il viaggiatore ha di fronte, ma viste da
un’angolazione diversa. Ora la cattedrale è chiaramente
visibile, sulla parte destra del quadro, e così pure il
campanile e il rosone trinato sopra il portale a ogiva. Il
portale della cattedrale è aperto e sull’ingresso si intravede
una figura protetta dalla sua ombra. Non è possibile
affermare se sia un uomo o una donna. Le lancette
dell’orologio sopra l’alta finestra gotica segnano le tre.
Probabilmente le tre del pomeriggio. Le strade sono
deserte. Oltre la figura all’ombra del portale, sulla strada
c’è solo un uomo, probabilmente uno spazzino, perché ha in
mano qualcosa, forse la pala con cui ha sgombrato fino a
questo momento la neve che si vede ammassata accanto a
lui in un grande cumulo. Nel cielo scuro e torbido, una
nube nera incombe sugli edifici gotici chiaramente visibili
in secondo piano, con le loro finestre ogivali e le porte
chiuse, così come sono chiuse le imposte alle finestre. In
primo piano c’è una piazza e si intravedono alcuni piccioni
che beccano sulla neve. Sembra che non avvertano nessun
pericolo. Forse capiscono che il cane che si trascina dietro
a un carro carico di mobili non li prenderà nemmeno in
considerazione. Il carro passa davanti al portone chiuso
dell’edificio gotico. Sul carro sono seduti due uomini, uno
col cappello e l’altro con un berretto di pelliccia, di certo il
cocchiere. È difficile distinguere in che cosa consista il
carico. Si intravedono soltanto superfici incurvate. Gli
oggetti sono legati con una fune, ma non sono coperti. In
questo istante il carro si trova accanto a un monumento e
le teste dei cavalli sono completamente nascoste dal corpo
della statua dietro la quale stanno passando, diretti verso la
cattedrale, sulla sinistra. Il monumento si vede di sbieco.
Sul piedistallo di marmo si erge un uomo che spinge avanti
la gamba destra in un passo deciso, mentre il peso del
corpo poggia sulla gamba sinistra. Il braccio destro è levato
in un gesto patetico, l’indice puntato verso la sommità del
campanile o verso il cielo. Indossa un caffettano, o un lungo
cappotto, o un pastrano. La mantellina posata sul
caffettano svolazza in pieghe di bronzo che accompagnano
a ventaglio il movimento del braccio. Sidle spalle e sul
piedistallo biancheggiano chiazze di neve appena caduta. O
forse, all’angolo del piedistallo, accanto al piede del grande
personaggio, si è posato un piccione che, nella foto, si può
facilmente confondere con una macchia di neve. Da questa
parte della piazza, di scorcio, si intravedono, un po’
confusamente, dei pannelli pubblicitari sui quali si possono
leggere le scritte: Astra, Royal, Φοτο, e il resto si perde
nella nebbia.
Come si vede ora l’epistolografo, tornando indietro nel
tempo di una quindicina di giorni e nello spazio di un
duecento chilometri dal punto fisso in cui si trova adesso?
Impegnato a raccogliere con mani tremanti le sue carte
dal piccolo tavolo accanto al finestrino, in una vettura di
prima classe, posto numero 26, e a ficcarle nella cartella
tra una bottiglia di birra e i tramezzini all’aringa secca che
sua sorella Berta gli ha preparato, incartandoli prima in
carta da lettere a quadretti e poi in un giornale, e ad
armeggiare intorno alla cerniera d’ottone, senza riuscire a
chiuderla.
Chi gli stava davanti in quel momento?
Un giovane controllore biondo che gli aveva puntato
contro la sua pinza nichelata come un revolver, sul petto,
sulla stella.
Chi era presente alla scena, oltre il controllore e colui
che tentava (vedendo se stesso) di chiudere la cartella?
Una signora con cappello e veletta (circa trent’anni) che
stringeva a sé una bambina addormentata (circa tre anni)
quasi che nel treno, nello scompartimento di prima classe
di quel rapido, dovesse ora accadere qualcosa di orribile,
un delitto sanguinoso, come in un romanzo; un giovanotto
dai capelli neri impomatati (circa venticinque anni),
studente o spia, che da dietro la sua rivista illustrata
cercava di cogliere un pezzetto di bianco sotto il vestito
nero della dama in nero; un signore robusto (circa
cinquant’anni), molto probabilmente un borsaro nero, con
un orologio dalla catena d’oro, che in quell’istante stava
appunto osservando il suo orologio d’oro, a lungo, con
attenzione, come per farne una stima; un’anziana signora
(circa sessantanni) con un libro di preghiere dalla copertina
incrostata di madreperla; un ufficiale sonnacchioso (circa
trent’anni), con speroni risonanti.
A quale di queste persone E.S. aveva dedicato più
attenzione?
Alla Vedova dal volto velato.
Come era diventata vedova?
Suo marito era caduto sul fronte orientale. Mentre stava
facendo i suoi bisogni.
Come era redatta la comunicazione della morte di suo
marito, comunicazione che l’epistolografo componeva tra
sé e sé?
Con la presente La informiamo che il suo consorte,
capitano della riserva del glorioso Primo Reggimento degli
Ussari Ungheresi, ha dato eroicamente la vita per la Patria,
nell’adempimento del suo dovere più sacro.
Come accolse lei la notizia?
Scelse subito su una rivista femminile un vestito nero
all'ultima moda per la stagione autunno-inverno 1941-42
(grandi spalline, arricciatura in vita, un profondo spacco
davanti, lunghezza media: al polpaccio), assieme a una
combinazione nera con pizzo nero e, senza dubbio,
mutandine nere, pure orlate di pizzo, un cappello con
spillone, una veletta nera e guanti neri lunghi fino al
gomito.
Che cosa notò l’osservatore curioso?
Che la Dama Nera aveva messo sulle guance pallide un
po’ di rosso.
A che cosa poteva essere dovuto il fulgore degli occhi
della Vedova dal volto velato, se non al pianto e al lutto?
I suoi occhi si illuminavano all’idea di una possibile
prossima avventura che, anche se non fosse finita in un
felice matrimonio con un ricco pretendente, si sarebbe
potuta trasformare in una serie di sempre nuove relazioni
con giovani amanti che lei avrebbe potuto istruire
gratuitamente, ma con piacere reciproco, nelle arti
dell’amore.
Chi sospettò E.S. come primo possibile amante della
Dama Nera e quindi come primo presumibile rivale?
Il giovanotto dai capelli impomatati che sbirciava da
dietro la sua rivista illustrata, mostrando un vivo interesse
per le calze di seta (nera) di lei.
Quali notizie riuscì a leggere di sottecchi E.S. sul
giornale del giovanotto prima di lasciare lo scompartimento
di prima classe?
L’ambasciatore tedesco Jagow e consorte e il console
generale giapponese Okubo Tashitaka e consorte hanno
assistito alla parata
Quale fotografia?
Un uomo dalla barba bianca (circa quarant’anni), con un
berretto militare e una specie di pastrano, consegna una
icona a un giovane soldato (circa trent’anni) che sorride
contento sotto l’elmetto.
Che cosa è rappresentato sull’icona?
La Santissima Vergine e Gesù Bambino, circondati da
grandi aureole.
Qual era il corso dei suoi pensieri al momento di lasciare
lo scompartimento di prima classe? (Sincopi).
Tutto questo è banale. Lezione di anatomia femminile.
L’eterno élan vital. Alcol. Alcol! Oh, lo splendore di nero
tulipano. Non vorrà quel tanghero giocarle un brutto tiro?
Rosea la guancia, ardente quello sguardo. Dovrà certo
comprendere il mio cuore. Resterà vuota l’anima, quando
sarai partita. Addio, ah, addio. Oh, vita mia!
Che cosa fece E.S. prima di passare nel corridoio?
Gettò un rapido sguardo dal finestrino della prima
classe.
Che cosa vide?
La pianura coperta di neve a perdita d’occhio, neri tratti
di campi arati che emergevano qua e là dalla neve, un
albero spoglio e nodoso sui cui rami si vedevano appollaiati
neri corvi intirizziti.
Passato in seconda classe, che cosa percepì?
Dapprima odori.
Quali?
Di piedi sporchi, di galline bagnate, di pastrani militari,
di cuoio fradicio, di stoffa inzuppata, di scarpe imbevute
d’acqua, di cipolla, di tabacco forte, di sospiri d’intestini.
Chi vide?
Soldati, contadini, guardie di finanza, guardie forestali,
ferrovieri, commercianti, borsari neri.
Quali oggetti?
Uniformi, bauli di legno, ceste di vimini, fucili, baionette
(nei loro foderi), scarponi da soldato, mollettiere, cinghie,
pollame, carte, coltelli.
Quali colori?
Grigio sporco, verde oliva, giallo verdastro, rosso
stridente, bianco sporco, rosso ruggine, grigio ferro.
Che cosa gli rivelò subito che il suo arrivo era stato
notato?
Il coltello dalla lama ricurva di un contadino si bloccò a
mezza strada fra il lardo con paprica e i baffi unti.
Chi si mise a osservarlo con la più viva curiosità?
Un’oca il cui lungo collo spuntava da un cesto di vimini,
che lo guardò con i suoi occhi rossi, girando la testa ora da
un lato ora dall’altro.
Che cosa attirò lo sguardo di E.S. appena si fu seduto?
Un’enorme gamba di gesso che si dondolava dal
portabagagli di legno, a una distanza tra i cinque e i dieci
centimetri dal suo naso, e sulla quale erano disegnati a
matita copiativa ninfe, organi sessuali femminili e maschili,
croci uncinate e frecciate, nonché un cuore trafitto da una
freccia con sotto i nomi delle fanciulle amate.
Li citi.
Marica, Ana, Fanika, Ursula, Doroteja, Rozika, Gretchen,
Juliška, Pandora, Ilonka, Lili, Lulu, Hajnalka, Milena,
Gracia, Melanija, Piroška, Margita, Katica, Anita, Lana,
Helena, Romi, Ingrid, Kora, Bella, Jelisaveta, Tatjana.
Che cosa vide susseguirsi il passeggero, entrando in
stazione?
Il posto di manovra numero 2, un’officina di riparazione,
spiazzi di carico per il carbone, una piattaforma girevole, la
pompa per riempire i serbatoi, un magazzino, uffici,
l’edificio giallastro della stazione, ceste di fiori, il buffet.
Al momento in cui il treno entrò in stazione, stavano
riempiendo il serbatoio di qualche locomotiva?
No, ma dovevano averlo appena fatto, perché l’acqua
gocciolava ancora dalla pompa, il cui corpo di ghisa era
avvolto di paglia intrecciata sulla quale aderiva una sottile
pellicola di ghiaccio.
Che cosa ricordò questo al viaggiatore?
Gli ricordò, non senza tristezza, il rigore e la tetraggine
dell’inverno, e l’irraggiungibile bellezza di una estate
benedetta piena di sole.
Con quali versi espresse ciò?
Questo è un tempo triste
oltre ogni dire, signora!
A chi erano indirizzati questi versi?
Questi versi erano senza dubbio indirizzati alla Vedova
dal volto velato che in queiristante scendeva con le sue
gambe bianche e sode (fasciate dalle calze di seta nera) dal
predellino a grata della vettura di prima classe, un po’ più
avanti di lui.
Chi stava aspettando la Vedova dal volto velato?
Contrariamente alle sue malevole previsioni, la stava
aspettando una signora anziana, pure a lutto, e le due
donne caddero l’una nelle braccia dell’altra, senza dire
parola, stringendo in mezzo la bambina.
Chi stava aspettando E.S.?
Del suo arrivo non era stato informato nessuno.
Scorse tra i viaggiatori il soldato con la gamba
ingessata?
Per un istante gli parve di veder dondolare una gamba di
gesso in mezzo alla folla che si affrettava verso l’uscita.
Il nostro viaggiatore si trattenne al buffet della stazione?
No, perché già dal finestrino del treno aveva notato lo
sventolio sinistro delle penne di gallo sui cappelli neri dei
gendarmi e lo scintillio delle baionette sui loro fucili.
Ritenne perciò saggio allontanarsi al più presto dalla
pericolosa zona della stazione dove, oltre i gendarmi, aveva
visto anche una pattuglia di soldati con elmetti e armi, e
alcuni civili nei quali non aveva avuto difficoltà a
riconoscere agenti in borghese.
Come li aveva riconosciuti?
Grazie alla sua intuizione e alla sua esperienza, nonché
alla loro studiata disinvoltura.
Come erano vestiti gli agenti?
Indossavano lunghi cappotti invernali di gabardine
grigio topo, cappelli a larghe falde, paraorecchi neri,
robuste scarpe nere con doppia suola.
Gli chiesero i documenti?
All’uscita della stazione dovette mettersi in fila tra i
viaggiatori appena arrivati e mostrare la sua carta di
identità agli agenti.
Ebbe qualche problema?
Uno degli agenti lo esaminò attentamente, confrontando
il suo viso con la fotografia della carta di identità, che poi
gli restituì senza dir parola.
L’agente controllò pure la tessera per la riduzione
ferroviaria?
No, benché E.S. gliela tendesse, perché voleva fargli
vedere quale alto posto aveva occupato il suo titolare prima
del pensionamento: contava sullo stesso riguardo che gli
dimostravano un tempo gli impiegati delle ferrovie quando
mostrava loro questa stessa tessera.
Se per caso gli agenti avessero dato un’occhiata alla sua
cartella, che cosa vi avrebbero trovato?
Tre tramezzini all’aringa secca, incartati prima in carta
da lettere a quadretti e poi in un giornale unto; quattro
uova sode anch’esse avvolte in un giornale; una bottiglia
vuota di birra ormai; due camicie, una bianca e una ocra,
marca Kaiser; quattro colletti duri; quattro cravatte, marca
Breiner, color pastello, più una nera di mohair, marca
Rapajič; un blocco di fogli di carta a quadretti (cm. 29,3 X
20,8), in gran parte già scritti a matita; un fascicolo unto
della rivista « Selezione dei migliori articoli », numero 12,
annata 1941, edizioni bata; due paia di calze grigie, con
rammendi di tutti i colori; un fazzoletto di tela con l’orlo a
quadri, non usato; una borraccia vuota con un tappo-
bicchiere di celluloide; due pacchetti di sigarette
Symphonia, confezione da 25 pezzi; un asciugamano di
spugna rosa scolorito, gualcito e ancora umido; un pigiama
azzurro di cotone marca tivar, taglia 39; un pezzo di sapone
fatto in casa consumato, in un astuccio di celluloide; un
rasoio di sicurezza in ottone; due lamette da barba, marca
Tabula Rasa; un pennello dai peli logori; un tappo di
sughero che sapeva di vino; un paio di mollette di legno; un
bottone da camicia di latta.
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Perché il nostro epistolografo compendiò la sua gita di
tre giorni a Novi Sad in due o tre frasi soltanto?
Perché considerava certe faccende, come ad esempio la
visita al signor Gavanski e quella alla signora Fischer,
irrilevanti per il prosieguo degli avvenimenti, e altre, come
la visita all’ufficio delle ferrovie e al parroco, troppo
delicate e persino pericolose da menzionare in una lettera:
la prima in quanto segreto professionale e la seconda in
quanto segreto religioso, godevano entrambe di una totale
immunità.
Che cosa voleva E.S. dal parroco (e viceversa)?
Che mantenesse il segreto.
Dove e quando in precedenza E.S. aveva parlato con
personalità religiose?
Nel 1903, quattordicenne, aveva discusso una ventina di
minuti col rabbino Steinovitz, dopo la lezione, nel corridoio
della scuola sul tema dei miracoli biblici; nel 1905, aveva
avuto con lo stesso Steinovitz una breve conversazione
(nello stesso luogo) sulle origini degli usi della Hanukkah e
sulle proibizioni del sabato, nonché su certi misteri del
corpo, a cui il rabbino non seppe o non volle rispondere; nel
1912, sul treno per Dombóvár, aveva avuto una discussione
con un giovane francescano sul dogma (senza rivelare la
propria identità), sostenendo che il non credere al dogma,
specialmente a quello dell’infallibilità del papa, non esclude
la fede in Dio; nel 1929, aveva dimostrato a un gesuita,
sempre in treno, che i Protocolli dei savi Anziani di Sion
sono un falso, un malevolo centone di un libro utopico
pubblicato a Bruxelles nel 1864 col titolo Dialogo
all’inferno tra Montesquieu e Machiavelli, scritto da un
certo Maurice Joly, socialista-utopista; nel 1939, a Cetinje,
aveva discusso con un pope di nome Luka sull’origine della
patata farinosa di cui si sa con certezza che fu Pietro I a
introdurla dalla Russia, nonché sulla abilità eccezionale
necessaria per imbalsamare le mani e i resti dei corpi dei
santi le cui reliquie vengono conservate nei monasteri,
abilità che sembra cominci a venir meno, come dimostrano
i casi di imbalsamazione sempre meno riusciti, quello di
Vladimir Il’ič ad esempio, dovuto, secondo la stampa
viennese, a macellai, sarti e truccatori; nel 1940, aveva
discusso all’angolo di via della Scuola Elementare col
rabbino Blahm, di Novi Sad, che gli aveva consigliato di
rinunciare a bere perché stavano per arrivare giorni in cui
si sarebbe dovuto guardare la morte in faccia con piena
lucidità, e gli aveva proposto di trasferire al più presto il
suo denaro in qualche banca svizzera, confidandone il
numero di codice a persona di fiducia.
Di quale procedimento stilistico si servì perché la venuta
del Miracolo fosse preparata al meglio?
Ricorse all’arresto e al rinvio, nonché a un accostamento
virtuosistico del tema e dell’intonazione al livello del
quotidiano e del comune: il giorno del Giudizio universale si
sentirà solo il tintinnio di cucchiai e di forchette di latta,
questo tintinnio idillicamente piccoloborghese di posate,
per servire da contrappunto alle trombe del giorno del
Giudizio, e le compatte forme degli armadi Biedermeier
saranno anch’esse solo un’illusione ottica di fronte al
cataclisma incombente che non lascerà pietra su pietra.
Dopo l’esodo, che cosa rimaneva ancora
nell’appartamento?
Due armadi nella stanza e un tavolo sbilenco ricoperto
da una incerata in cucina.
Ghe cosa mancava?
Due comodini con ripiano di marmo (venduti), un letto
matrimoniale francese (venduto), una credenza con
specchio (venduta), una credenza da cucina (venduta),
quattro sedie di legno (vendute), una cucina economica a
legna (buttata tra i rifiuti), una stufa di ghisa a legna
(venduta ai rigattieri), una macchina da cucire marca
Singer (affidata in custodia alla signora Fischer), cornici
per foto di famiglia (gettate nel fuoco).
Descriva gli armadi.
Due armadi antichi in noce a un’anta, un tempo di una
magnifica lucentezza, con l’anta sormontata da una volta
formata da due archi carenati e decorati da rose di legno
stilizzate al cui centro figurava una voluta a forma di
chiocciola, simile a quella di un contrabbasso.
Che cosa c’era dentro?
In uno c’erano due piumini tutti schiacciati senza federa
e l’altro conteneva solo vecchi giornali e una scatola di
cartone piena di foto di famiglia.
Che cosa si vedeva nella fotografìa che, accoccolato
davanti all’armadio, tirò fuori dalla scatola?
Un giovanotto sui diciotto-vent’anni, i capelli con la
scriminatura, una grande bocca e un naso regolare. I
risvolti della giacca scura sono profilati di seta nera
rilucente e il lungo collo sembra ancora più lungo, serrato
com’è nel colletto duro, sotto il quale si intravede il nodo di
una cravatta a farfalla.
Che cosa potè constatare il modello in rapporto alla sua
immagine?
Scorgendo per caso il proprio viso nello specchio
dell’anta aperta dell’armadio, potè constatare in esso con
rimpianto l’azione rovinosa del tempo.
Esamini e descriva le altre foto.
Una donna snella con un bambino in braccio. Sullo
sfondo, il panorama di una città avvolta nella nebbia:
ciminiere di fabbriche, un campanile, un albero nodoso. Sul
retro: Gabriella e Lully. Trieste (senza data).
Nell’angolo superiore destro un sigillo (lo stemma e la
corona di Santo Stefano). E.S. in cravatta e con la
scriminatura. Sul verso: Magyar királyi államvasútak /
Königl. ung. Staatseisenbahnen, SZEMÉLYAZONOSSÁGI
IGAZOLÓJEGY / IDENTITÄTSKARTE. Vasúton vagy hajón
való utazásnál a személyazonosság igazolàsàra / Zum
Nachweise der Identität bei Fahrten auf Eisenbahnen und
Schiffen. Kelt / Datum: Pécs, 1920, dpr. 1. A tulajdonos
névaláirása / Unterschrift des Inhabers: E.S.
Tre ragazze fra i sedici e i vent’anni, in ordine di statura.
La più piccola (la più giovane?) tiene in mano due o tre fiori
di campo, ha un fiocco fra i capelli sciolti. La seconda
(quella di mezzo) ha un piccolo medaglione appeso al collo
e una camicetta col colletto di pizzo. La terza tiene le mani
dietro la schiena. Ha un vestito a righe chiare, con sprone
plissettato, una collana di ciondoli, capelli neri pettinati con
la frangia. Sul verso: Cetinje, agosto 1921. Timbro: S.
Hendler, Wien III, Steingasse 9.
Due bambini, un maschietto e una femminuccia, fra i tre
e i cinque anni, in tuta sportiva e calosce, abbracciati, su
una panchina bianca.
E.S. con occhiali dalla montatura metallica e il colletto
duro. Sul verso: Ricevuta. Dinari 600 (in lettere: seicento),
somma che ho... Hirschl... in forma di... (il resto è
illeggibile).
Una bambina di due o tre anni con la mano sotto il
mento, un fiocco nei capelli. Un vestito plissettato. Sguardo
al cielo. Sul verso: Postcard / Carte postale.
La foto di un gruppo scolastico: undici ragazzini e dodici
ragazzine, più la signora maestra e un’altra signora di lato,
probabilmente la sorvegliante o una donna delle pulizie.
E.S. con barba e i capelli pettinati con la scriminatura da
una parte. Sul verso: 1919.
Due ragazzine e un ragazzino dietro un cespuglio
striminzito. Sullo sfondo si intravede il nastro bianco di una
strada che si snoda in linee oblique e parallele tagliate
nella roccia. Nella linea spezzata e sinuosa che congiunge
terra e mare, si scorgono insenature e baie profonde,
separate da pareti rocciose a strapiombo. Sul verso: 16
agosto 1939.
In primo piano, l’estremità di una presa d’acqua o
l’imboccatura di un canale di scolo. Due stenti alberelli di
oleandro in casse di legno quadrate. Davanti al primo
oleandro c’è un bambino dalle gambe arcuate, forse ha
appena cominciato a camminare, che sbriciola fra le dita
una zolla di terra. Tra i due alberelli, su una seggiolina
bassa, siede una ragazzina con un fiocco tra i capelli. In
fondo si intravedono il retro malandato di un edificio e una
porta di legno, l’entrata di una cantina o di un magazzino.
Sul verso: Foto Aleksič, Novi Sad, 1937.
Un tavolo al livello della porta, messo nel senso della
lunghezza, sicché lo si vede scorciato. Una cena di festa o
un matrimonio. Il posto a capotavola è vuoto, ma vi sono
ugualmente un piatto di porcellana e un bicchiere di vino
rosso bevuto a metà. All’altra estremità del tavolo è seduta
una donna con un’alta crocchia, vestita di nero. Ai due lati
del tavolo, quasi alla stessa altezza, simmetricamente, due
persone sedute di profilo: due donne vestite di nero e, di
fronte a loro, un uomo e un’altra persona che non si vede
bene. Tutti gli sguardi sono rivolti verso la porta. È forse
uscito di là colui per il quale è stato imbandito il banchetto
o il convito nuziale? Oppure gli invitati guardano verso
l’obiettivo del fotografo? Una giovane donna, che potrebbe
essere la sposa, guarda anche lei nella stessa direzione.
Capelli neri, orecchini, pettine di celluloide nella crocchia.
Sul verso: Foto Aleksić, ecc.
Una giovane donna (busto), la stessa di poco prima.
Lungo collo bianco, grandi occhi neri, capelli neri pettinati
in alto, orecchini simili a due gocce di catrame, pettine di
celluloide nella crocchia. Tiene la mano destra in grembo.
In mano ha un fazzoletto bianco o un guanto. All’anulare
due anelli: una fede e un altro anello con un motivo simile a
una formica. Sul verso: Foto Vujović, Cetinje.
E.S. Dal taschino della giacca spunta una matita da
falegname con la punta aguzza rivolta in alto. È chino in
avanti e sembra frugare tra i documenti, le vecchie carte, le
lettere scolorite e le foto ingiallite. Dietro di lui si scorgono
due vecchi armadi che hanno al centro volute a forma di
chiocciola. Il resto dell’ambiente non si vede bene.
Una istantanea per strada. E.S. e un altro uomo della
sua età con i cappelli in mano. Davanti a loro, due ragazzini
e tre ragazzine. Una delle ragazzine tiene in mano una
bambola, un’altra un mazzo di lillà. Sulla fotografia si
vedono anche una decina di passanti. Sullo sfondo, un
monumento. Lo si vede di lato. Sul piedistallo di marmo, un
uomo fa un passo deciso con la gamba destra. Il braccio
destro è sollevato in un gesto patetico, l’indice forse rivolto
verso il campanile che si scorge sulla destra. In primo
piano si vedono le facciate di alcuni edifici con insegne:
Astra, Royal, Foto Aleksić, Parrucchiere, Giardino, e un
pannello pubblicitario illeggibile su cui si vede un uomo col
cappello in mano. Sul verso: Foto Aleksić, Novi Sad, 1939.
Che cosa fece E.S. dopo aver rimesso le fotografie
sparse nella scatola di cartone?
Andò in cucina e prese il cassetto del tavolo che mise
insieme con le posate in mezzo ai piumini. La stessa cosa
fece con alcune pentole e con i piedi tozzi dell’armadio,
simili a birilli di legno.
Quale indirizzo scrisse sugli armadi?
Con la sua matita quadrata da falegname scrisse sui
fianchi e sul dorso degli armadi il proprio indirizzo (come
destinatario) e, come mittente, scrisse il nome della signora
Agnes Fischer (via Vitéz 27, Novi Sad).
Quale fatto poteva rivelare il dito di Dio ed essere
considerato come un primo avvertimento?
Dall’armadio, come per magia, cadde una forchetta,
l’unica che non fosse di latta; cadde sul cemento davanti
alla porta e vibrò un attimo come una libellula, continuando
poi per alcuni secondi a risuonare come un diapason.
Lasciando la casa per ultimo, subito dopo i facchini, a
che cosa E.S. rivolse lo sguardo?
Ai muri.
Che cosa vide su di essi?
Un riquadro di polvere nei punti dove si trovavano le
foto di famiglia, una riproduzione della Gioconda ritagliata
da una rivista e una litografia a colori dal titolo DAS
STUFENALTER DES MANNES, che poco meno di un anno
prima gli aveva donato il defunto Moritz; piccoli schizzi di
liquido sul soffitto, che facevano pensare all’esplosione in
cielo di una granata antiaerea; una macchia grassa nel
posto dove prima c’era il letto, sul punto dove appoggiava
la testa al muro; i disegni verdi della muffa; le ombre cinesi
nei punti dove l’intonato si era staccato; le stampe tracciate
dall’umidità.
Λ che cosa pensava?
Alla possibilità di leggere il destino nelle macchie dei
muri, in analogia col test di Rorschach: il paziente è posto,
in casa o nella sua cella, di fronte alle macchie del muro e
le interpreta alla presenza dei medici.
Per esempio?
Che cosa vede in questa macchia? - Il mare. - E che
altro? - Una barca che galleggia in alto mare... un rospo...
una farfalla nera... una vagina... una bocca di t ane
spalancata... una vagina (questo l’ho già detto). Continui
pure: che cos’altro vede in questa macchia, signor E.S.? -
La foto del mio bacino nell’istante del concepimento. -
Concepimento! Quale concepimento?
Il concepimento intellettuale. - Che cos’è che viene
concepito nel suo intelletto? - La morte, signore!
Girandosi a guardare un’ultima volta, quando ormai
aveva già oltrepassato la soglia e fatto il primo passo in
strada, che cosa gli parve di vedere, pur non potendoci
giurare?
Gli parve di vedere un ratto grigio correre da un buco a
un altro, nel punto dove fino a poco prima < era uno dei
due armadi.
Quale fu il prosieguo degli avvenimenti?
Dapprima, dalla finestra aperta, l’ultima verso la porta,
si sprigionò una nube di polvere, simile al fumo che esce da
un cannone al momento dello sparo. Poi dalla finestra
successiva. E così via, una dopo l’altra, a intervalli regolari,
la polvere si sprigionò anche dalle altre due finestre, come
da feritoie, per avvolgere infine anche la parte della casa
dove non abitava nessuno e dove c’era una cantina o un
magazzino (nella parte dell’edificio di fronte alla presa
d’acqua). L’onda distruttrice travolse subito dopo anche il
tetto, trascinando via le scandole, le travi e i muri.
Quanto durò tutto questo?
Pochi minuti o pochi secondi.
Che cosa si udì?
I vetri scoppiare, i mattoni e le scandole sbriciolarsi, le
assi spaccarsi e crepitare come durante un incendio.
In piedi accanto alle rovine, vicino al coperchio della
presa d’acqua, tutto bianco di polvere, come per uno
spavento terribile, quale necrologio compose tra sé e sé lo
scampato per miracolo? (Notizia di giornale).
E.S., creatore della muromanzia, l’interpretazione delle
macchie sui muri (che dalle nostre parti viene
comunemente detta scienza del mosaico o scienza mosaica,
che è forse più giusto), ha trovato la morte, il 18 marzo c.a.,
sotto le rovine della casa nella quale praticava questa
oscura magia, da lui definita scienza. Così, questo
poliedrico Schwarzkünstler è rimasto vittima delle proprie
macchinazioni. La casa di Novi Sad nella quale abitava (via
Bem 21, già via Germania), di proprietà della signora
Mészáros, è crollata nel momento in cui l’autore dell’oscuro
libro Muromantische Schriften cercava di riprodurre alcuni
modelli di macchie murali provocate dall’umidità in base
alle quali voleva dimostrare, nero su bianco, l’esattezza
delle proprie teorie. Secondo la dichiarazione del signor
Hanifović, facchino, domiciliato in viale Danubio, E.S. tenne
a lui e al suo ingenuo collega, il signor Pupavac, una vera e
propria conferenza sull’importanza e le prospettive di tale
«scienza», affermando che il suo destino, come pure il
destino della sua famiglia, era scritto in quelle macchie
altrettanto chiaramente che sulla palma della mano, «
irrevocabile come nel rotolo della santa Torah » (sic!). I due
facchini con le loro dichiarazioni hanno smentito la falsa
notizia secondo la quale E.S. avrebbe affermato di aver
visto in una di quelle macchie, in uno di quei « rotoli della
Torah », il giorno e l’ora della propria morte, imminente.
Secondo la dichiarazione del signor Pupavac, facchino, uno
dei testimoni del misterioso incidente, il « Padre della
Magia » non fece parola di tale disgrazia, ma, al momento
in cui la casa crollò, stava discutendo con i facchini il
prezzo del trasporto dei mobili.
Che cosa fu a provocare il crollo della casa?
E.S. fu in un primo momento propenso a credere che si
trattasse di un terremoto il cui epicentro si trovava lontano
oppure di una forte esplosione in un deposito di munizioni.
Riuscì a trovare qualche notizia che potesse confermare
le sue ipotesi?
Né quel giorno né nei giorni successivi ci fu notizia sui
giornali o alla radio di un terremoto in Europa (entrale o
nei Balcani o in qualsiasi altra parte del mondo; quanto
all’esplosione di qualche deposito di munizioni, nemmeno
di questo c’era alcuna notizia, cosa in sé magari
comprensibile, perché poteva essere nn segreto militare.
Perché non potè stabilire un rapporto di causa ed effetto
tra il crollo della casa e lo spostamento degli armadi?
Perché gli armadi non toccavano i muri.
Che cosa era propenso a credere E.S. basandosi su un
ragionamento positivistico?
Che a far crollare la casa fosse stato il ratto che aveva
trovato nelle fondamenta, alla base dei muri, al punto
d’intersezione delle forze su cui poggiava lutto.
Che cosa non era propenso a credere?
Che fosse stato il caso a guidare il ratto verso quel
punto.
Quali domande rimanevano per lui senza risposta?
Chi aveva dato ordine al ratto di rosicchiare con i suoi
dentini proprio quel punto? E perché proprio allora, in quel
giorno e in quel momento?
Quale altra domanda?
In che lingua era stato dato quest’ordine?
Possibile risposta?
In ebraico.
Perché non era propenso a credere al caso?
Perché credeva piuttosto al condizionamento reciproco
delle cose, alle leggi deterministiche del Dio-natura,
secondo il principio generale della causa sui.
Che cosa credeva?
Credeva che il caso come fenomeno oggettivo non
esiste, non solo sulla scala dell’universo ma nemmeno nei
fenomeni di minor conto, come, ad esempio, quando uno
lascia per ultimo il proprio appartamento, subito dopo i
facchini, e quando si volta per guardare il luogo dove ha
vissuto due anni, per avvolgerlo con un ultimo sguardo
globale (nostalgico, nonostante tutto, perché al fondo di
questo sguardo c’è la consapevolezza della caducità,
rivelata dai cambiamenti, della caducità e della morte,
presentita e vicina, nostalgico nonostante l’esperienza
negativa che promana dalle pareti umide dell’appartamento
lasciato per sempre, nonostante le macchie traditrici sul
soffitto, là dove rompeva i bicchieri nei momenti di rabbia e
di disperazione), quando, dunque, uno lascia per ultimo,
con uno sguardo nostalgico, il proprio appartamento, e la
casa in quello stesso istante si scuote dalle fondamenta,
violentemente, come sotto il peso di quello sguardo, sotto il
peso di tutte le sventure (sue e degli altri) concentratesi in
esso nel corso degli anni, sostenendo il vuoto fragile dei
muri fragili, riempiendo lo spazio con la propria massa
compatta, sotto il peso delle sventure e dei pensieri chiusi lì
come sotto vuoto, compressi fino a esplodere, e che a un
tratto sono scoppiati, proiettandosi in ogni direzione, in una
terribile esplosione provocata da quel suo sguardo gettato
sprezzantemente come una cicca accesa in una sacca di gas
naturale in mezzo al fango pannonico.
A quali pensieri si lasciava andare adesso?
Pensava a che cosa sarebbe potuto accadere se si fosse
trattenuto un istante di più in quell’appartamento per
mettere in atto il proposito che gli era maturato
contemporaneamente nella vescica e nella coscienza (o
viceversa), cioè se si fosse messo a orinare, come per un
attimo aveva pensato di fare, sui muri umidi del suo
vecchio appartamento: le travi e i mattoni gli si sarebbero
abbattuti sulla testa (come il piccone sulla testa di Lev
Davidovič Bronštejn), sulla chierica appena accennata tra i
suoi capelli grigiastri, la chierica che sembrava
predestinata al piccone del destino vendicatore: malleus
iudeorum.
Quale immagine gli tornò allora alla memoria?
Il cervello del signor Freud, il primario.
Quale illuminazione?
Il riflesso rosso del sole, simile a un incendio, sulla
facciata di vetro di una fabbrica di sapone a Cattaro, nel
1939, e la nube guardata dall’alto, dall’altezza celeste al di
sopra del golfo.
Quale immagine si costruì E.S.?
Col davanti dei pantaloni aperto, col membro gonfio, con
la vescica da cui cola lentamente la birra calda (bevuta
insieme con i facchini al buffet della stazione), giace nella
polvere: il getto dorato interrotto bruscamente dalle forbici
della morte, la calda iniezione d’orina che ha praticato nel
muro come un cavallo si è ora disseccata e dal membro
rilassato, allentato come un elastico, stilla un getto
indebolito, non più un getto ma solo uno sgocciolio, come
da una vescica di maiale con cui giocano i bambini, lo
sgocciolio di un rubinetto chiuso male che nemmeno la
mano della morte è riuscita ad arrestare del tutto, uno
stillicidio di liquido che si spande sotto di lui e intorno a lui,
penetra nell’intonaco poroso e negli spessi strati di calce,
nelle fessure delle travi tarlate e delle assi, nella polvere
che beve l’orina come la cenere della sigaretta beve
l’inchiostro.
Come fu considerato questo avvenimento da E.S.?
Questa non era più la sua morte futura, presentita, ma la
sua morte passata, sotto le rovine della casa di Novi Sad, la
morte, dunque, che aveva già superato, il Lete che aveva
già attraversato: tranquillo post festum quando il corpo non
è più schiavo, quando la vescica si è svuotata come una
vescica di maiale, quando il sangue si è ormai rappreso sul
cranio fracassato, quando gli occhi sono ormai vitrei,
quando l’anima è ormai uscita dal carcere terrestre.
Chiudendo gli occhi, quale domanda si pose?
Perché tutto quello che è e tutto quello che non è (e
quello che potrebbe essere), perché tutto ciò, se insieme
col corpo, con l’occhio, con i testicoli, muore anche lo
spirito, questa nube, questo nucleo del cuore nel cuore del
cuore morente? Perché, se non è per sopravvivere alla
fragile polvere del corpo, per riunire nella più perfetta
quintessenza il passato, il presente e il futuro, la
conoscenza e l’intuizione, polvere e nube, amalgama di tutti
i sensi, amalgama di cuore e cervello, affinché tutto ciò si
riunisca in una piccola nube eterna, in vapore di nube, e
continui a vivere, come conoscenza e come sostanza?
Mentre il suo spirito si libra nel cielo azzurro come una
nube azzurra, che cosa fa la riserva terrena, la parte di
questo spirito rimasta quaggiù?
Osserva le conseguenze terrene della morte, le osserva
come farebbe Dio o come avrebbero fatto i buoni vecchi
scrittori: obiettivamente.
L’ultima immagine (obiettivamente)?
Nel suo occhio sbarrato, come nell’obiettivo di una
macchina fotografica, o come nell’occhio cavato del
Ciclope, non si scorge più il paesaggio terreno con la casa,
le casse di legno degli oleandri e la presa d’acqua, ma una
scena di rovina: l’istante eternato in cui rintonaco si sfalda
e i muri crollano: una nube di polvere, e mattoni simili a
gengive messe a nudo.
Descriva col minor numero di parole possibile la
situazione al momento del crollo della casa.
Un attimo di confusione; sbigottimento.
Che cosa ci fu dopo lo sbigottimento?
Fuggifuggi generale, panico, invocazioni di aiuto.
Chi fu il primo a correre in aiuto?
Sulle rovine accorsero i facchini, a mani nude,
proteggendosi bocca e naso dalla polvere con un fazzoletto
sporco; poi cominciarono a rimuovere i mattoni e i pesanti
blocchi.
A quale casta appartengono i facchini?
Alla grande casta dei parenti della morte, della quale
fanno parte altresì i pompieri, i becchini, gli impiegati delle
pompe funebri, i medici, gli infermieri, i giudici, i boia, i
poliziotti, gli agenti segreti, i banditi, i popi, gli imam, i
rabbini, gli shohet, i macellai, i saltimbanchi, le spie, i
domatori, i campioni del volante, i lavatori di finestre, gli
sportivi, i piloti, i soldati, gli ufficiali, i generali, i ferrovieri,
i pescatori, i marittimi, i palombari, i minatori, i ciclisti, gli
automobilisti, i viaggiatori, i pedoni, gli alpinisti, gli
esploratori, i chimici, i fachiri, gli incantatori di serpenti,
gli accalappiacani, i veterinari, gli alcolisti, i vegetariani, i
buongustai, i narcomani, i fumatori, gli ammalati, i
nevrastenici, i melanconici, gli ipocondriaci, gli psichiatri, i
profeti, i rivoluzionari, i farmacisti, i pazzi, i funamboli, gli
elettricisti, i filosofi, gli idraulici, i muratori, gli
spazzacamini, le casalinghe, i suicidi, gli amanti, gli
adulteri, gli impiegati, i cacciatori, i guardacaccia, i
finanzieri, i doganieri, i ladri di legna, i guardaboschi, i
venditori di cenere, le guardie notturne, i riparatori di
ascensori, gli ascensoristi, gli scassinatori, i giuristi, i
frenatori, gli stallieri, i vetturini, i carrettieri, gli apicultori,
i pastori, gli agricoltori, le prostitute, i vecchi, i pittori di
ponti, i costruttori, i sommozzatori, i cercatori d’oro, i
giocatori, i poeti, i pugili, i primatisti, i dinamitardi, i
marinai, i festaioli, i commercianti, i sicari, i maniscalchi, i
soffiatori di vetro, i cacciatori di teste, gli schiavi, i
proprietari di schiavi, i mercanti di schiavi, i presidenti di
repubbliche, gli zar, i re, i vulcanologi, i raccoglitori di
banane, gli spazzini, i postiglioni, le suore, i fedeli, gli
idolatri, i guardiani degli harem, i pascià, i milionari, i
mendicanti e altri.
Quale somiglianza si può osservare tra un facchino e un
becchino?
Somiglianza di azione: trasporto dei resti terreni da una
dimora all’altra; sangue freddo e abilità nel maneggiare
una cassa di legno; corde come mezzo sussidiario; fìsica e
metafìsica al servizio del quotidiano.
Quali suoni si possono sentire?
Lo scricchiolio delle travi marcite; lo sfaldarsi
dell’intonaco, con ritardo, prolungato, come il crepitio di
una pentola che venga sfregata.
Quale altra immagine poteva cogliere l’occhio morente?
Le campanule sbiadite degli ornamenti murali che
brillavano, attraverso la polvere, da sotto i blocchi pesanti.
Poesiola d’occasione (scherzo, csárdás, canzone a
ballo)?
Oilà, sulla mia tomba
campanule piantate.
Oilà, sulla mia tomba
bevete e poi cantate.
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Vi parlo, quindi, da iniziato ai misteri. Il mondo si è
pericolosamente moltiplicato. Ma non ho intenzione in
questo momento di dirvi come appare il nostro mondo
considerato da un punto di vista più alto e più morale. Dico
solo che il mondo si accresce a un ritmo spaventoso e che i
mezzi con i quali l’umanità cerca di salvarsi sono
assolutamente insufficienti e inefficaci. La sterilizzazione
coatta o volontaria, la pianificazione familiare, le guerre
come applicazione spontanea dei princìpi di Darwin, la
selezione naturale, le carestie, l’eutanasia e tutto il resto
non sono altro che tentativi ridicoli e vani. La Cina con i
suoi cinque o seicento milioni di abitanti, questo pericolo
giallo così a lungo annunciato e col quale ci viene messa
paura da tanto tempo, non è il solo pericolo che minaccia il
mondo. Non temete l’invasione delle formiche gialle! Il
castigo di Dio non viene dalle paludi. È dal cielo che verrà!
E non ci sarà allora pietà per nessuno. Periranno tutti
ugualmente, e soprattutto periremo noi - gli eletti!
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La sua giacca dai gomiti infangati è gettata su un
mucchio di mattoni che si alza a una decina di metri da lui,
ed egli vede la stella gialla completamente deformata, non
tanto dalla prospettiva quanto dalle pieghe della giacca. I
mattoni sono gettati in un mucchio, alcuni totalmente
informi, altri spezzati in due, altri ancora appena sbreccati.
Il loro colore è ormai completamente sbiadito come se il
mattone col tempo si fosse trasformato in pietra, o forse si
ha questa impressione a causa dello strato di intonaco
indurito che si è attaccato alla carne del mattone,
fondendosi con essa. Sotto la manica sinistra della camicia
rimboccata fino al gomito (la destra, tutta gualcita e
coperta di fango, gli pende attorno al polso, spiegazzata e
sformata) brilla al sole la sua pelle bianca, picchiettata di
chiazze rosse come una trota. Sull’avambraccio si scorgono
appena i sottili peli rossicci. L’uomo poggia la lama della
vanga sulla terra indurita, poi la preme, facendo forza con
tutto il peso del corpo sul bordo superiore già deformato
dell’attrezzo. Scricchiolando, come se strappasse o
tagliasse delle radici, la lama penetra nella terra per cinque
o sei centimetri, poi la si sente urtare contro qualcosa di
duro. L’uomo si mette a scuotere il manico, da sinistra a
destra, come se il ferro si fosse incastrato. Si sente uno
scricchiolio, come quando il moncone di un dente si spezza
sotto la pinza del dentista. Quindi da sotto terra appare,
rosso e umido, colore della carne fresca, un mattone
sbreccato. L’uomo si china e lo afferra. Ha le palme delle
mani avvolte in uno straccio, forse un fazzoletto, ma non è
possibile vedere né il colore del tessuto né le eventuali
linee dei riquadri, perché il tessuto è tutto ricoperto di
fango ormai indurito. Lo straccio serra la palma della mano
e le dita sono un po’ contratte, strette le une alle altre,
rendendo il movimento della mano insicuro e impacciato.
Volta il mattone di lato, poi lo afferra con le dita come
fossero pinze. Il mattone gli scivola di mano e ricade nel
fango. L’uomo si gira e vede nella luce purpurea del
tramonto la punta affilata della baionetta sul fucile della
guardia. Per un istante è tutto quello che vede, perché la
luce rossastra del sole inonda le lenti dei suoi occhiali sui
quali si scorgono tracce di dita infangate. La guardia sta
seduta su un mucchio di travi marcite, tenendo il fucile tra
le ginocchia. L’uomo capisce che la guardia non bada a lui e
la osserva per un attimo, come se la vedesse ora per la
prima volta. In breve riesce a distinguere nettamente la
figura senza volto, la guardia sullo sfondo rosso
dell’orizzonte, il suo cappello duro sul quale sventolano
penne di gallo, non più verde scuro, ma ora gialle e rosse
come una fiamma. Poi l’uomo abbassa di nuovo lo sguardo
verso il mattone e cerca di sollevarlo con le pinze delle sue
dita che non si aprono a sufficienza. Finalmente riesce a
prenderlo e a gettarlo verso il mucchio. Il mattone cade a
un metro o due di distanza da lui. Allora l’uomo sente che
la guardia gli dice qualcosa, parole prive di senso, forse
un’ingiuria, forse una minaccia. Spaventato, l’uomo si butta
in avanti e subito si trova accanto al mattone che è caduto
nel fango. Sente ancora la voce della guardia. Forse la
guardia ride soltanto.
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La natura regna su tutto, tranne che sulla paura che
essa suscita (T. Berakoth, 33 B).
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Che cosa sono tutti gli sforzi dell’umanità, tutto ciò che
si chiama storia, civiltà, tutto ciò che l’uomo fa e ciò che fa
l’uomo, che cos’è tutto questo, se non un inutile e vano
tentativo di opporsi all’assurdo della morte universale, di
dare ad essa un senso apparente, come se la morte potesse
avere un senso, come se alla morte si potesse dare un
significato e un senso diverso da quello che ha! I filosofi, i
più cinici, tentano di dare un senso al non senso della
morte mediante una logica superiore o una battuta
spiritosa che possano servire di consolazione generale, ma
quello che resta, almeno per me, il massimo dei misteri è la
domanda: che cos’è che permette all’uomo, nonostante la
sua consapevolezza della morte, di vivere e operare come
se essa fosse qualcosa di estraneo a lui, come se la morte
fosse un fenomeno naturale? Il tremito che mi ha scosso
negli ultimi giorni mi ha aiutato a capire, nonostante i gravi
attacchi di paura, che la mia malattia non è altro che
questo: a volte, per ragioni a me del tutto ignote e per
impulsi assolutamente incomprensibili, io divento lucido, in
me compare la coscienza della morte, della morte in quanto
tale; in questi momenti di illuminazione diabolica la morte
acquista per me il peso e il significato che essa ha an sich,
e che gli uomini perlopiù non intuiscono nemmeno
(ingannandosi con il lavoro e con l’arte, mascherando il suo
senso e la sua vanitas con formule filosofiche), scoprendo il
suo vero significato solo nel momento in cui essa bussa alla
loro porta, in modo chiaro e inequivocabile, con la falce in
mano, come nelle incisioni medioevali. Ma quello che mi
atterriva (la consapevolezza non genera consolazione) e
accresceva ancor più il mio tremito interiore, era la
coscienza che la mia follia era in fondo lucidità e che per
guarire - perché questo tremito continuo è cosa
insopportabile - avevo bisogno proprio della follia, della
demenza, dell’oblio, e che solo la demenza mi avrebbe
salvato, solo la follia mi avrebbe guarito! Se per caso il
dottor Papandopulos mi interrogasse ora sul mio stato di
salute, sull’origine dei miei traumi, delle mie paure, adesso
saprei rispondergli in modo chiaro e inequivocabile: la
lucidità.
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Con una vanga in spalla, l’uomo cammina in fila con gli
altri, zoppicando, a capo chino. La fasciatura a una mano
(quella che pende lungo il corpo) è tutta allentata e ora
tiene solo al polso. Con la sinistra stringe il manico della
vanga. La luce rossastra del sole al tramonto avvolge
ancora i tetti delle case tra le quali procede e la cupola di
un alto campanile in lontananza. Ma l’uomo non vede nulla
di tutto ciò. Vede solo le scarpe infangate di colui che gli
cammina davanti. E sente i passi che risuonano cupamente.
Ora sono rimasti in sei. Hanno svoltato su una piazza. La
piazza è vuota. Davanti a loro s’innalza la cattedrale e, a
sinistra, nel mezzo della piazza, un monumento. Sul
piedistallo si erge un personaggio che leva il braccio destro
in alto, verso la cattedrale o verso il cielo. Ora passano in
una strada laterale, sulla sinistra. L’uomo cammina
zoppicando, a testa bassa. Ora svoltano (sono rimasti in tre
o quattro) accanto a un pozzo. Si sente qualcuno smettere
di colpo di girare la manovella della pompa e il getto
d’acqua estinguersi lentamente. Poi svoltano di nuovo.
(Ora, sembra, è solo, i passi dell’altro si sono spenti: si
sente cigolare una porta). L’uomo avanza solo, dapprima
lungo un muro giallo da cui spuntano dei mattoni, poi lungo
una stecconata. Gli sembra di vedere a una finestra agitarsi
una tenda bianca, simile a garza. Quasi nello stesso istante,
sente la ruota di ferro della pompa rimettersi in moto con
un cigolio regolare e il getto d’acqua zampillare
nuovamente.
Ora è giunto a una porta di legno e posa la vanga a
terra, con la lama rivolta in basso. Con la mano destra, da
cui pendono svolazzando le bende, stringe la maniglia, poi
apre la porta, quel tanto che occorre per potersi infilare
dentro di fianco, ma non può impedire che i cardini
cigolino. Alle finestre alla sua sinistra già brilla una luce.
L’uomo percorre in punta di piedi i pochi metri occupati
dalle finestre. Alla fine, sembra sentirsi fuori pericolo,
perché il suo passo si fa più sicuro, benché continui a
zoppicare. Lascia la vanga accanto a una porta di legno dai
grandi cardini, chiusa con un lucchetto, e si mette ad
armeggiare intorno a questo lucchetto quasi volesse
staccarlo. Poi lo tiene per un po’ nella palma della mano
ferita, impotente, come a chiedersi che fare. L’uomo scosta
infine la mascherina arrugginita del lucchetto, poi tira fuori
dalla tasca un mazzo di chiavi che cerca di infilare, una
dopo l’altra, nella serratura, ma inutilmente. Disperato, si
prende la testa fra le mani e resta così per un certo tempo.
Forse un’ora, forse due, forse anche più a lungo.
INTERROGATORIO DEL TESTE (II)
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Cerchi di ricordare.
Facevamo un argine. L’ho già detto.
Che cosa accadde quel giorno?
Mi fermai un attimo per sistemarmi le bende alle mani.
In realtà, non erano bende, ma due fazzoletti. Ofner mi
aiutava a legarli.
Chi è Ofner?
Un ingegnere. L’avevo conosciuto nella squadra di
lavoro.
Aveva compiuto quel giorno la norma di lavoro prevista?
Sì. Credo di sì.
Che cosa accadde poi?
Io ero come accecato, perché le lenti dei miei occhiali
erano ricoperte di fango secco.
Continui.
A un certo momento, mi parve di vedere, o di sentire,
che stava succedendo qualcosa. Come se il cigolio del
barroccio fosse cessato e le sagome che distinguevo fossero
di colpo scomparse. Mentre mi chiedevo che cosa stesse
succedendo, qualcosa mi colpì alla testa.
Continui.
Cominciò a girarmi la testa. Poi, sotto i colpi, capii che
anche Ofner era per terra.
Continui.
Ero in ginocchio e cercavo di proteggermi la testa con le
mani. Un momento dopo sentii, attraverso le grida di coloro
che ci battevano, che il barroccio cigolava di nuovo,
vicinissimo adesso, quasi contro la mia testa. Capii anche
che la fasciatura era di nuovo a posto, perché il mio viso
poggiava sugli stracci. Sentivo l’odore dell’argilla
incrostata sui fazzoletti.
Continui.
Poi, di colpo, tutto cessò. Rimasi un certo tempo
ripiegato su me stesso, pensando che non sarei riuscito a
rialzarmi. Per un po’, cercai a tastoni i miei occhiali.
Finalmente li trovai. Una lente era sbriciolata. È tutto.
Continui.
È tutto.
Che cosa cercava quel giorno nella cantina della casa di
via Bem 21?
Non ricordo di essere stato in quella cantina.
Lei tentò di aprire il lucchetto con un grimaldello.
Mi servii solo delle mie chiavi. Credo che la mia
intenzione fosse di nascondermi. Per passare la notte. Non
volevo presentarmi ai miei in quello stato, senza la
mascella superiore e senza gli occhiali.
Perché scelse proprio quella cantina?
Non so. In quella cantina, due anni fa, si impiccò una
vecchia.
Voleva, dunque, impiccarsi?
Non so. Forse.
In una sua precedente dichiarazione, ha detto che
desiderava farla finita.
Forse l’ho detto.
Perché rinunciò a questa idea?
Forse perché non riuscii ad aprire il lucchetto. Non so.
In una sua precedente dichiarazione, rilasciata a Baksa,
ha detto che solo Ofner era stato picchiato.
Mi riferivo a un’altra circostanza. Quella volta, Ofner,
per aver fatto un’osservazione, fu colpito con un nerbo di
bue.
Perché ha passato sotto silenzio l’episodio che
riguardava lei?
Non so. Comunque, desidero dimenticarlo prima
possibile.
Quanto si trattenne davanti alla porta della cantina?
Non so. Forse un’ora, forse due, forse anche più a lungo.
Da chi era andato prima?
In quelle condizioni, non potevo presentarmi a nessuno.
In un punto, lei ha dichiarato (cito): « Ho solo detto a
Netika, prima della sua partenza per Budapest, di chiedere
ai suoi figli di lasciarci in pace, perché se qualcuno di loro
osava toccare... », ecc.
Sì, è possibile che l’abbia detto. Volevo soltanto...
Chi è Neti?
Mia sorella.
Che cosa andava a fare a Budapest?
A richiedere dei certificati. Per quanto ne so.
Che certificati?
Un certificato di cittadinanza, che riguardava anche
nostro padre e nostro nonno, e un attestato comprovante
che essi, cioè nostro padre e nostro nonno, avevano
regolarmente pagato la tassa comunale tra il 1870 e il
1880. È possibile che, con la stessa richiesta, volesse anche
ottenere certi documenti relativi alla vendita del bosco di
nostro padre e agli affari della ditta Weiss & Egel.
Si spieghi.
Jakob Weiss arrivò ad Agram1 intorno al milleottocento,
con sua moglie Franciska, nata Pollak, originaria di
Nagykanizsa. Perciò, commerciava soprattutto con Kanizsa
e dintorni, ricorrendo in primo luogo ai parenti di sua
moglie.
In che cosa commerciava?
All’inizio, vendeva frutta del Sud, uva secca, tabac co e
acquavite di prugne, ma più tardi, verso il mil
leottocentodieci, aveva già un commercio di merceria,
Schnittwarenhandlung.
Continui.
Dopo una serie di successi commerciali, accompa gnati
da vari casi giudiziari, Weiss riesce a estendere la sua rete
commerciale su gran parte dell’Ungheria, mentre
l’assortimento dei suoi articoli si fa più vasto: oltre ai
prodotti già menzionati, ora vende anche aceto di vino,
miele e cereali. Intorno al milleottocentoquindici, stipula un
contratto con un commerciante di potassa di Zagabria, un
certo Martin Egel, e ben presto i due ottengono la
concessione per lo sfruttamento della potassa nei boschi
dell’Ungheria. In questo affare, hanno come soci un certo
Schlesinger e Pinkas Pollak, fratello della moglie di Weiss,
Franciska.
Continui.
Questa ditta, con lo stesso nome, stipulò un contrai to
per la produzione della potassa anche con nostro nonno,
benché in quel momento la direzione fosse nel le mani della
vedova di Weiss, Franciska, e di suo fratello Pinkas. Dopo la
morte di nostro nonno, il contratto fu rinnovato senza il mio
consenso e i proventi dei boschi bruciati vennero ripartiti
dalle mie sorelle tra di loro.
Continui.
Più tardi, la ditta fu liquidata e i creditori, tra i quali le
mie sorelle, rimasero a mani vuote. Di questo affare
restarono solo alcuni ettari di bosco bruciato.
Dov’era lei due giorni fa?
Sono andato a ritirare la roba che ho spedito da Novi
Sad: due armadi pieni di biancheria da letto e di stoviglie.
Descriva gli armadi.
Due armadi antichi in noce a un’anta, un tempo di una
magnifica lucentezza, con l’anta sormontata da una volta
formata da due archi carenati e decorati da rose di legno
stilizzate, più precisamente un mazzo di rose, al cui centro
figura una voluta a forma di chiocciola, simile a quella di un
contrabbasso.
Chi l’ha portato a Lenti?
Un certo Martin, un carrettiere.
Di che cosa avete parlato in viaggio?
Dell’aglio, rimedio efficace per scaldare il sangue e
regolare la digestione, dell’aumento dei prezzi, della
penuria di certi articoli, dell’acquavite di pesca.
Questo Martin l’aveva già portato sul suo barroccio in
precedenza?
Più volte. Nel 1909, mi portò dalla stazione di Lenti al
villaggio, e due giorni dopo dal villaggio alla stazione; nel
1914, di nuovo sullo stesso percorso, meno di un mese fa
sul tratto Lenti-Kerkabarabás, l’altro ieri sul tratto Barabás-
Lenti-Sziget, e oggi su quello Barabás-Csesztreg.
Che cosa è andato a fare a Sziget?
Sono andato dai Rosenberg.
Questo Rosenberg è la stessa persona che ha già
menzionato una volta?
No. Quello era Isaac Rosenberg, mugnaio e grossista di
Baksa, questo è Jakob Rosenberg, suo fratello minore,
commerciante anche lui.
Che cosa voleva da Rosenberg?
Un prestito. In realtà, andando da lui, l’ho messo davanti
al fatto compiuto, perché sapevo che non avrebbe potuto
respingere la mia preghiera: per dimostrargli in che
difficile situazione mi trovavo, gli ho fatto vedere dalla
finestra il barroccio su cui erano caricati i miei due armadi.
Gli ho confessato che ero partito senza un soldo bucato e
che non ero in grado di pagare nemmeno il carrettiere che
mi stava aspettando pazientemente.
Quanto le ha dato Rosenberg?
Trenta pengő.
Perché si è trattenuto da lui?
È stato lui a trattenermi. Mi ha proposto di passare la
notte in casa sua, trattenendo o rimandando via il
carrettiere, perché l’indomani poteva prestarmi il suo
calesse. Io ho preferito la prima soluzione, che cioè Martin
rimanesse con me a Sziget, perché sapevo che a casa non
c’era nessuno per aiutarlo a scaricare i miei armadi. E su
Martin non si può fare gran conto: quando ci si rivolge a
lui, si fa affidamento soprattutto sull’intelligenza dei suoi
cavalli. Martin non riesce a smaltire le sbornie che si
prende regolarmente e dorme per quasi tutto il viaggio.
Che cosa ha fatto dai Rosenberg?
Stanco com’ero, sono andato a dormire presto. Ma. non
riuscendo a prender sonno, ho cercato di finire la lettera
che sto scrivendo a mia sorella Olga di Szentadorián. È la
minuta di questa lettera che mi trascino dietro da tanto
tempo.
Da quando conosce Rosenberg?
Dai tempi dell’attività della ditta Weiss & Poliak. Questa
ditta aveva stipulato a suo tempo un contratto col vecchio
Rosenberg, il padre di Isaac, e il defunto Max, cioè mio
padre, entrò in rapporti di affari con la ditta Weiss & Poliak
proprio per suggerimento e con la garanzia del vecchio
Rosenberg. Più tardi, i figli ricavarono buoni profitti dal
commercio della potassa e investirono il capitale restante
nella produzione del vetro, affidando la cosa a maestri
vetrai di Boemia.
Continui.
La moglie di Weiss, Franciska, si rimaritò più tardi con
Rosenberg padre e continuò a dirigere i loro affari,
associandosi con un parente di Rosenberg, un certo
Schreiner, che era maestro vetraio di professione. Sotto il
suo controllo lavoravano un notevole numero di aiutanti e
di apprendisti, nonché una decina di operai che
producevano la potassa necessaria per la lavorazione del
vetro.
Che ne è stato di Schreiner?
Schreiner prendeva denaro a prestito e lo investiva in
boschi, spesso anche in boschi novelli e macchie, ma a un
certo momento si ritrovò senza un soldo, e con i creditori
sull’uscio. Prima, un incendio di boschi dovuto a negligenza
distrusse gran parte dei suoi beni immobili, poi il vetro di
Boemia e d’Italia, meno caro e di migliore qualità, rovinò
gli affari della ditta Weiss & Poliak, e Schreiner abbandonò
tutto, fuggendo di nascosto a Pest, poi a Zagabria e infine a
Weissenbach. Al momento della liquidazione della ditta, i
boschi erano bruciati e per la vendita all’asta restavano
solo cinque forni per il vetro, l’edificio in cui era situata la
fabbrica, i locali d’abitazione dei maestri vetrai, degli
apprendisti e degli operai, un forno da pane a parte e una
scuderia capace di accogliere da otto a dieci cavalli. Il
valore complessivo, secondo la valutazione che ne fu data,
ammontava a circa duemila fiorini di allora. Lo stesso
giorno, fu fatto anche l’inventario degli altri oggetti di
vetro, del quarzo di prima e seconda scelta, e della potassa,
per un valore complessivo di poco più di trecento fiorini,
mentre la mobilia, le altre opere dei maestri e
l’attrezzatura, tutto questo fu stimato valere circa
duecentocinquanta fiorini. Bisogna dire che i vari prodotti
di vetro, bicchieri normali, bottiglie per l’aceto o per la
birra, ecc., erano piuttosto mediocri: si lavorava in maniera
assolutamente primitiva.
I Rosenberg posseggono ancora una parte di boschi?
Per quanto ne so io, no. Credo che avessero rinunciato
per tempo a occuparsi di potassa e che avessero venduto
poi i boschi ricresciuti nel frattempo alla famiglia del conte
Eszterházy.
Isaac Rosenberg va a caccia?
Non lo so.
Quali sono i rapporti tra Rosenberg e suo nipote
Georges?
Georges si riforniva da lui di articoli di vetro. Erano le
rimanenze della paccottiglia che i Rosenberg custodivano
in cantina, o merce di qualità simile che ricevevano da Pest
o da Kanizsa.
Quali sono i rapporti tra Rosenberg e la signora Fischer
di Novi Sad?
Rosenberg fa collezione di servizi di vetro e di cristalli di
Boemia. Possiede pure una pregevole raccolta di oggetti
rituali, vasi per il culto e candelabri. Dato che il defunto
Fischer era shohet e anche lui collezionista di oggetti sacri,
è logico che Rosenberg si interessasse di ciò che questi
aveva lasciato. Per quanto ne so, Rosenberg ha acquistato
buona parte di questi oggetti dalla signora Fischer. Per i
cinque o sei pezzi rimasti non ha dimostrato interesse, e
comunque la signora Fischer mi ha detto una volta che non
se ne separerebbe nemmeno se stesse morendo di fame.
Personalmente, penso che Rosenberg cerchi di fare il furbo
quando sottovaluta il valore e l’antichità di quegli oggetti,
perché anche l’ultima volta che ci siamo visti mi ha chiesto
se la Fischer custodiva sempre nel suo museo personale
(cito) « quelle sciocchezze che considera veri e propri
tesori ».
Lei, quindi, ha fatto da intermediario tra Rosenberg e la
signora Fischer.
Sì, ma in un’occasione precedente, intorno al
millenovecentotrentacinque. A quel tempo, siccome Fischer
era rimasto senza lavoro e non aveva ancora ottenuto il
posto di shohet, mi ero offerto di trovare qualcuno disposto
ad acquistare a condizioni vantaggiose una parte della sua
collezione, ma lui non aveva voluto nemmeno sentirne
parlare. Perciò, già allora, se ricordo bene, Rosenberg era
passato da loro a vedere quegli oggetti. Se comprasse
qualcosa, questo non lo so.
Quante volte ha fatto da intermediario tra di loro?
Una sola volta. In seguito, Rosenberg era solito andare
piuttosto spesso a Novi Sad e regolava personalmente i
suoi affari. A quel tempo, poteva ancora spostarsi.
Ha detto: « a quel tempo, poteva ancora spostarsi ».
Sì. Sono ormai tre anni che è immobilizzato. Voglio dire:
inchiodato su una sedia a rotelle. Deve trattarsi di una
paralisi progressiva o di qualcosa del genere.
Prima, cioè quando poteva ancora muoversi, faceva
visita ai Mayer?
Non lo so.
Quale altro hobby ha Rosenberg, oltre a quello di far
collezione di oggetti di vetro?
Penso che un tempo facesse anche collezione di
francobolli, ma ultimamente non me ne ha fatto parola. A
suo tempo, mi chiese di mettergli da parte i migliori
francobolli di provenienza estera. Una volta, si era
particolarmente interessato a certi francobolli del
Montenegro dell’epoca del re Nicola e mi aveva pregato di
procurarglieli, ma io mi ammalai e non potei venirgli
incontro.
Si occupa forse, da dilettante, di radiotelegrafia?
Per quanto ne so io, no.
Non le ha comunicato qualche notizia affermando di
averla saputa da fonte sicura?
No.
Ci pensi bene.
Mi disse soltanto di ritenere che l’ingiunzione di
presentare quei documenti, cioè il certificato di
cittadinanza e l’attestato comprovante l’avvenuto
pagamento della tassa comunale, fosse l’ultima misura
presa dalle autorità nei nostri confronti. Ma non mi disse
che si trattava di una informazione avuta da fonte sicura.
Che rapporti vi sono tra i Mayer e i Rosenberg?
Oltre ai rapporti di affari, di commercio, per un certo
tempo Rosenberg e uno dei figli di Mayer, quello che si
occupava di ricerche archeologiche, hanno avuto, per così
dire, rapporti scientifici. Rosenberg cercava di indurre
Mayer a studiare, nel corso delle sue ricerche, la parte
dell’archeologia e paleografìa semitiche negli scavi
pannonici.
Si sono incontrati di recente?
Non lo so.
Chi c’è ancora in casa Rosenberg?
Sua moglie Silvia, che dirige il commercio da quando
Rosenberg è immobilizzato, e la servitù: uno stalliere, un
giardiniere e una domestica che si occupa del malato.
Chi è lo stalliere?
È un uomo sui sessant'anni, tutto il ritratto di Martin il
carrettiere. Aiutava Martin a staccare i cavalli e non era
difficile accorgersi che erano tutti e due ubriachi. Anche
Rosenberg mi ha detto che il suo stalliere e servitore è
sempre sbronzo.
Il giardiniere?
Un certo Boris Avramovič Struve, originario di Riga.
Arrivò ad Abbazia come prigioniero di guerra russo nel
millenovecentosedici. Qui, dopo la prima guerra mondiale,
aprì in un primo momento un negozio di barbiere, poi una
legatoria e infine una sartoria. Per qualche tempo tenne
una piccola serra, dove faceva esperimenti con frutti
meridionali e fiori esotici, di cui acquistava i semi dai
marinai. So che è stato per un certo periodo giardiniere e
ascensorista in un albergo di Abbazia, e qui ha conosciuto
Rosenberg. Ancor oggi rade Rosenberg, ogni mattina alle
otto, e gli prepara un bagno speciale, mentre del giardino
si occupa di sfuggita e si direbbe ormai controvoglia.
La domestica e infermiera?
È una zitella sui cinquant’anni. Tiranneggia Rosenberg e
sua moglie. Mentre stavamo parlando, di sera, entrò in
camera senza bussare e spinse via la carrozzella con
Rosenberg, che si limitò a sorridere stringendosi nelle
spalle per farmi capire che non c’era niente da fare. Si
chiama Rosalia. Rosenberg l’ha portata pure lei da Abbazia,
dove faceva la cameriera. Credo che all’inizio ci fosse una
certa simpatia reciproca tra lei e Boris Avramovič, ma ora
non si sopportano più. Me l’ha detto la signora Rosenberg.
Quali sono le ragioni del contrasto?
Rosalia è venuta a sapere che Boris è in rapporti
epistolari con una signora di Riga, cioè che lo era fino a tre
o quattro anni fa. Pare che questa signora di Riga abbia
vissuto con Boris more uxorio, avendone un figlio. Rosalia,
a quarantun anni compiuti, ha sentito questa relazione
come una terribile infedeltà e ha tentato il suicidio: ha
ingerito i tranquillanti di Rosenberg, ma in quantità
insufficiente a uccidere la sua sventura.
Boris Struve è in corrispondenza con questa signora o
col figlio?
Sono scomparsi entrambi intorno al millenovecento-
quaranta. Il figlio fu accusato di alto tradimento, perché
avrebbe di proposito curato erroneamente e avvelenato
certi politici di Riga, e fu condannato a morte. La pena fu
poi commutata nei lavori forzati in Siberia, e qui è
probabilmente morto. Sua madre, che era infermiera in un
ospedale, finì anche lei in Siberia, dove è scomparsa senza
lasciar traccia di sé.
Struve è in corrispondenza con qualcun altro all’estero?
Per un certo tempo ha scritto a un suo parente a Parigi,
ma dopo la notizia della morte di sua moglie e di suo figlio,
della cui sorte seppe pure attraverso Parigi, ha smesso di
scrivere a chicchessia. È stato Rosenberg stesso a dirmelo.
Quando ha conosciuto Struve?
In occasione della mia prima visita ai Rosenberg, intorno
al millenovecentoventisette o ventotto. A quel tempo,
Struve lavorava da loro come giardiniere e stava appunto
sistemando il grande giardino dei Rosenberg. Toglieva i
Gartenzwerge e strappava i modesti garofani per piantare
al loro posto rose francesi. Mi insegnò molte cose in questo
campo, che purtroppo non ho avuto né l’occasione né la
possibilità di mettere in pratica.
Ha avuto nel frattempo rapporti epistolari con Struve?
Mi ha scritto una sola volta, intorno al
millenovecentotrentadue, pregandomi di acquistargli e
spedirgli un libro sui tulipani olandesi. Non gli ho mai
risposto, perché il mio stato di salute me l’ha impedito.
Perché era andato quell’anno dai Rosenberg a
Csesztreg?
C’ero andato per sistemare la faccenda dei boschi. Dato
che, secondo le mie sorelle, la maggior pane del ricavato di
quei boschi bruciati era andato ai Rosenberg, mi ero recato
da loro per chiarire alcune cose. Tomai a casa a mani vuote
e senza aver risolto nulla. I Rosenberg se ne lavarono
semplicemente le mani, affermando che la cosa era
legalmente del tutto corretta e che loro non si sentivano né
colpevoli né responsabili del fatto che il loro defunto padre
avesse consigliato al mio di affidare i suoi boschi alla ditta
Weiss & Pollak.
In questa occasione, le diedero del denaro, magari a
titolo di indennizzo?
Sì, la somma assolutamente simbolica di duecento
pengó'.
Considera anche il prestito che attualmente cerca di
ottenere dai Rosenberg come parte del loro debito nei suoi
confronti?
In un certo senso, sì.
Faceva altre cose Struve oltre a quelle menzionate?
Per quanto ne so io, no.
In una sua precedente dichiarazione, lei ha detto: «
Struve mi pregò di portargli da Novi Sad certe parti di
radio ».
Sì. Una valvola per una radio marca Orione.
E gliela portò?
No. Alcuni avvenimenti imprevisti mi impedirono di
pensare a queste cose.
Che cosa intende per « avvenimenti imprevisti »?
Il crollo della casa in cui abitavo e le conseguenze di
questo crollo.
In una sua precedente dichiarazione, lei ha detto (cito):
« Sono profondamente convinto che a provocare il crollo
della casa sia stato un ratto». Conferma tale dichiarazione?
Sì.
Torniamo a Struve. Le diede qualche altro messaggio
prima della sua partenza per Novi Sad?
Mi pregò di procurargli un buon pennello da barba, «per
il signore», come si espresse. Dato che nemmeno io avevo
un pennello decente, gli dissi che avrei cercato di trovarlo.
Purtroppo, non lo trovai, né per me né per lui.
Se uno è capace di sostituire una valvola alla radio, non
le sembra che debba intendersi anche di radio-tecnica?
Non necessariamente. Questo tipo di riparazione, o più
esattamente di sostituzione di pezzi, è alla portata di ogni
dilettante.
Sa se il detto Struve era maestro armatolo?
L’ho sentito dire.
Ha visto un’officina nella casa dei Rosenberg?
No.
In quali locali è stato lei?
Nell’ingresso, nel salotto e in una delle due camere da
letto. Per la verità, era una stanza con un divano che
Rosenberg mi offrì per la notte.
Sentì qualche rumore sospetto?
Non sentii nessun rumore. Prima di andare a dormire,
avevo bevuto col padrone di casa un buon litro di vino e,
stanco com’ero per il viaggio, mi addormentai come un
ghiro.
Struve era con voi in quel momento? Voglio dire mentre
bevevate?
No.
Dov’era?
Credo che fosse andato a sistemare il carro e a
occuparsi di Martin. Lo vidi solo a cena. Era abbattuto e si
lamentava di avere un forte mal di testa.
In che rapporti erano Struve e Poltarackij?
Una volta gli chiesi, al signor Struve voglio dire, che
cosa pensasse di Poltarackij (è stato due o tre anni fa) e lui
mi rispose che, per quanto lo riguardava personalmente, gli
avrebbe volentieri cacciato una pallottola in testa. Questa
affermazione mi lasciò sbigottito, perché il signor Boris,
cioè Struve, è un uomo calmo e controllato e quindi una
dichiarazione del genere da lui non me la sarei mai
aspettata. Sapevo che avevano vissuto un certo tempo a
Novi Sad come fratelli, dividendo il male e il bene, e che i
conoscenti li consideravano come due cospiratori o
massoni. A quel tempo, Struve sembrava essere
l’attendente del signor Poltarackij, voglio dire che
rappresentava davanti a tutti questa parte che gli era stata
assegnata. Penso che ci fossero anche degli intrighi
amorosi intorno a Sof'ja Nikolaevna, la moglie di
Poltarackij. Si diceva che questo triangolo, cioè Struve-
Sof’ja Nikolaevna-Poltarackij, vivesse in perfetta armonia.
Perciò, la dichiarazione del signor Struve, che assai
volentieri avrebbe sparato una revolverata in fronte a
Poltarackij, non poteva essere ispirata dalla gelosia. Questo
mi parve subito chiaro. Boris stesso mi confermò nella mia
supposizione, spiegandomi i motivi della sua collera:
Poltarackij era entrato in rapporto con i trockisti. Credo
che fosse questo il motivo della loro rottura.
Secondo lei, quindi, Boris Struve non poteva lavorare
per i Soviet, nonostante certi fatti.
Ne sono assolutamente convinto.
Come potrebbe provarlo?
Tutto fa ritenere che Struve, all’epoca in cui strinse
amicizia con Poltarackij, con la sua attività o le sue
convinzioni operava di già contro i Soviet. Dopo la notizia
dell’arresto e della scomparsa di suo figlio e di sua moglie,
il suo atteggiamento cambiò di colpo, sia nei confronti dei
Soviet sia nei confronti di Poltarackij, benché a quel tempo
le loro fossero posizioni opposte: lasciò perdere tutto. Il suo
stato psichico attuale è anch’esso una conseguenza di tale
atteggiamento. Rosenberg affermava di aver notato in lui,
cioè in Boris, i sintomi di un serio turbamento psichico. Il
mal di testa di cui si lamentava quel giorno era solo una
scusa. Attualmente, si è dato tutto alla teosofia e, a quanto
sembra, frequenta un circolo spiritistico, di cui è membro
attivo anche la sua vecchia amica Rosalia. Struve sembra
cercare, come dice Rosenberg, di vivere fuori di questo
mondo. Proprio così mi ha detto: fuori di questo mondo.
Torniamo a Rosenberg. Lei ha detto che il suo unico
figlio è scomparso.
Per la verità, non ho potuto sapere esattamente come
stia la faccenda. Mia sorella mi aveva raccomandato di non
far parola con Rosenberg di suo figlio e la stessa cosa mi
disse sull’uscio la sgarbata signorina Rosalia, la domestica.
Lei lo conosceva personalmente?
L’ho visto una sola volta. A quell’epoca, lavorava a Novi
Sad come praticante nella farmacia La Croce Bianca, di cui
era titolare un certo Zsigmond Lukács. Più tardi, lavorò per
qualche tempo come collaboratore nella farmacia di János
Grossinger. Questo due anni fa.
Chi è Zsigmond Lukàcs?
Un mio vecchio conoscente. Aveva una farmacia in via
Louis Barthou. Fu rinchiuso per un certo tempo a
Pétervárad, da dove venne poi trasferito a Belgrado. Ho
sentito dire che è morto sotto le percosse. Mentre lo
battevano, aveva la bocca riempita di stracci sporchi. Me
l’ha raccontato Grossinger.
Chi è Grossinger?
Un farmacista anche lui. Incarcerato per qualche tempo
a Pétervárad, fu più tardi fucilato come ostaggio. Lessi il
suo nome sul tabellone degli annunci, fra i nomi degli altri
ostaggi fucilati.
Torniamo a Rosenberg figlio. Che cosa ha saputo della
sua sorte?
Secondo la versione di mia sorella Olga, si sarebbe
nascosto per un certo tempo a Novi Sad, in un ospedale,
lavorandovi come anestesista. Qualcuno, a quanto pare, lo
tradì e lui allora ingerì una forte dose di morfina, ma,
grazie al rapido intervento di un medico, si salvò. Trasferito
a Pest, ebbe una grave crisi di nervi e si uccise.
Continui.
In un attacco di follia, si strappò i denti e si fracassò il
cranio, sbattendo la testa contro il muro della cella.
Sembra che fosse sotto l’effetto di un narcotico.
Lei lascia spesso il suo domicilio?
Solo in caso di bisogno e con l’autorizzazione delle
autorità.
Durante le sue passeggiate nel bosco, ha visto qual· che
persona sospetta?
Finora, come ho già dichiarato in precedenza, ho avuto
solo due incontri con persone nel bosco:. quello con mio
nipote Georges e quello con i cacciatori tra i quali si
trovava un certo Tóth, per nulla ben disposto verso di me.
Quando è partito da Sziget?
Il giorno dopo, quindi il nove.
Rosenberg ha cercato di trattenerla?
Gli ho detto che avevo fretta di tornare a casa e gliene
ho spiegato il motivo: entro il quattordici al più tardi
dovevo essere di nuovo a Novi Sad, secondo la
comunicazione ufficiale che ho ricevuto dalla sezione
incaricata del controllo degli stranieri.
Ha i documenti richiesti?
Mia sorella Neti è andata a Pest proprio per questo
motivo. Una parte dei documenti, l’attestato comprovante il
pagamento della tassa comunale e il certificato di
cittadinanza dei nostri genitori, li ritirerà anche per me.
Così almeno siamo rimasti intesi prima della sua partenza.
Prima di andar via dai Rosenberg, ha rivisto Struve?
Non l’ho rivisto fino al momento di salire sul barroccio.
A quel punto, è apparso per un attimo dietro la tenda e mi è
sembrato che mi facesse un segno di saluto con la mano.
Si è fermato da qualche parte durante il percorso?
A Baksa abbiamo bevuto, Martin e io, un quartino
d’acquavite a testa per riscaldarci.
Ha attaccato discorso con qualcuno al caffè?
All’infuori di noi due, in quel momento nel caffè non
c’era nessuno. A parte la signora Klara, naturalmente.
Di che cosa ha parlato con lei?
Del tempo, dei prezzi, dell’aumento della tassa sull’alcol.
Le ha pagato i debiti?
Non ero in grado di farlo.
Ha fatto qualche allusione?
Non capisco.
Cerchi di ricordare.
Non ne ho fatte, a meno che lei non consideri allusione
la frase con cui ho rivolto un complimento galante alla
signora Klara.
Che frase?
Ho detto all’incirca che avrei voluto rivederla, la signora
Klara, in primavera. Se sarò ancora qui. Volevo dire che...
Che cosa significa: se sarò ancora qui?
Se sarò vivo. Questo volevo dire.
Che cosa si nasconde sotto l’espressione in cifra scarpe
e pennello da barba?
Si tratta di normalissime scarpe e di un banalissimo
pennello da barba. Me li aveva promessi mia sorella Olga
quando sono stato da lei per una settimana circa.
Di chi erano queste scarpe?
Appartenevano al suo defunto marito Moritz.
Le ha viste lei?
Sì. Erano in un ripostiglio, su un palchetto, in mezzo a
una decina di paia di scarpe da donna, calosce e stivali.
Descriva queste scarpe.
Sono stanco.
Le descriva.
Sono scarpe grigie di finta pelle d’antilope, così almeno
mi è parso, a contrafforti duri e punte rotonde, numero
quarantaquattro o quarantacinque; comunque mi stanno
strette, perché le ho provate in fretta, senza farmi vedere
da Olga. Mettendole un po’ in forma, potrei forse portarle
lo stesso, tanto più che hanno una suola doppia, benché io
sia convinto che una delle due sia di cartone. Quanto
all’aspetto, non mi piacciono per niente, perché hanno dei
forellini decorativi a forma di cristalli di neve su tutti e due
i lati, sotto l’allacciatura e sulla punta.
È andato da qualche altra parte, oltre che nel caffè di
Baksa? Sì o no?
No. Può confermarlo anche Martin, se si ricorda di
qualcosa.
Quando è arrivato a casa?
Verso le cinque del pomeriggio.
Chi l’ha aiutato a scaricare?
Abbiamo spinto gli armadi nella neve, il cocchiere e io,
come fossero slitte. È stata una mia idea.
L’ha aiutato qualcun altro?
No.
Dov’erano sua moglie e i suoi figli?
Quando ho aperto la porta ho capito subito che avevano
lasciato la casa in tutta fretta.
In base a che cosa ha concluso che l’avevano fatto in
tutta fretta?
Ho visto subito i libri e le cartelle di cartone con le
cinghie. Era tutto buttato nel massimo disordine sul tavolo
di cucina e sulla cassa di legno sotto la finestra.
I libri erano aperti, l’astuccio delle penne rovesciato.
Il letto non era rifatto, la parte del muro che doveva
essere imbiancata durante la mia assenza era sempre come
prima e il secchio col pennello stava accanto al muro, sul
quale si vedevano chiaramente due o tre colpi di pennello
interrotti bruscamente.
Si è rivolto ai suoi parenti?
No. Ho chiesto al signor Hermann, il vicino le cui
finestre danno sul nostro cortile, se per caso aveva visto
quando mia moglie e i miei figli avevano lasciato la casa.
Chi è Hermann?
Un calzolaio. Ci ha fatto più volte dei piaceri,
prestandoci patate, farina di granturco, sale.
Che cosa le ha detto?
Che aveva visto verso le dieci di mattina dei gendarmi
probabilmente venuti a cercarmi e, subito dopo che se
n’erano andati, aveva visto mia moglie lasciare la casa con i
figli in tutta fretta. Quando gli ho chiesto se sapeva in che
direzione era andata, mi ha fatto un gesto vago della mano
verso il bosco.
Ha chiesto a qualcun altro?
Vicino al ponte sul fiume, ho incontrato una certa
signora Fanny, una «sorella del terzo ordine», come si
definisce lei. Quando mi ha visto avvicinarmi, ha afferrato
la corda che porta sotto la gonna ed è scappata come una
lepre.
Come spiega questo fatto?
Credo che abbia qualche rotella fuori posto.
Ha chiesto a qualcun altro?
Per via, ho incontrato il postino che mi ha detto che gli
pareva di averli visti dirigersi di fretta verso la via Romana.
Allora ho capito che la cosa migliore da fare era aspettarli a
casa, perché, se fossero tornati, poteva verificarsi un nuovo
malinteso. Inoltre, ero stanco e la gamba mi faceva male.
Sono tornati solo col buio.
Perché non si è rivolto ai suoi parenti?
Pensavo che avrebbero potuto informarmi da soli di una
cosa tanto importante. Tanto più che ero convinto che mi
stessero osservando da dietro la tenda.
Dove sono stati in quelle ore sua moglie e i suoi figli?
Si sono nascosti in un boschetto al di là del fiume, in una
casupola di pastore. Sono tornati a casa intirizziti e in
preda al panico.
Perché non ha risposto subito alla convocazione che le
hanno lasciato i gendarmi?
Visto che non ero in grado, per la stanchezza e per la
gamba malata, di partire subito, sono andato dal signor
Fehér, capo del villaggio, per chiedergli consiglio. Mi ha
detto di non potermi dare consigli in una questione così
delicata ma che, in caso di bisogno, era disposto a
testimoniare che quella sera ero stato da lui.
Aveva parlato in precedenza col signor Fehér, capo del
villaggio?
L’ho visto la prima volta quando siamo arrivati al
villaggio. In quell’occasione, mi disse che avrebbe preferito
che non dipendessi da lui perché non voleva aver niente a
che fare con la polizia. Una seconda volta l’ho visto quando
mi ha convocato, intervenendo a proposito di una lite, forse
un po’ troppo aspra, con mio nipote Georges. Chissà che
cosa gli avrà raccontato mio nipote.
Che cosa ha alla gamba?
Quando ci fu quell’incidente al lavoro coatto, sembra
che uno dei ragazzi dell’inquadramento mi abbia leso la
tibia, colpendomi con lo scarpone. Per fortuna, non fino a
procurarmi una frattura.
Ha un certificato medico che attesti quanto dice?
No.
Da chi è stato curato?
Dal signor Jakob Herzog.
Dove e quando ha conosciuto Herzog?
Herzog arrivò a Kovin alla vigilia della mia seconda
partenza. E vi rimase per un certo tempo come medico
praticante. Lo rividi poi nella squadra di lavoro impegnata
nella fabbrica di mattoni.
Continui.
Dato che l’indomani dell’incidente zoppicavo
visibilmente, il dottor Herzog mi si avvicinò al ritorno
dicendomi che sarebbe stato bene che fossi andato da lui a
farmi esaminare la gamba. Tanto più che lamentavo dolori
insopportabili, lividi e un grosso gonfiore. Abitava in via
della Scuola Greca. Ci andai quello stesso giorno e lui mi
esaminò la gamba. Disse che avevo bisogno di riposo, ma
che l’osso non sembrava leso, così almeno credeva. Solo
una radiografia avrebbe potuto fornire un quadro esatto
della situazione.
Continui.
È tutto.
Quando scomparve Herzog dalla squadra di lavoro?
Qualche giorno dopo questo fatto. Al mattino, non era
presente all’appello. Quel giorno, i ragazzi
dell’inquadramento erano particolarmente brutali.
Sa che ne è stato di lui?
Si nascose da qualche parte a Pest sotto falso nome
insieme con sua moglie. Nell’istante in cui la polizia bussò
alla porta del suo appartamento, ingerirono tutti e due una
pastiglia di cianuro.
Chi le ha raccontato i particolari della morte di Herzog?
L’ottico Filip Uhlmann.
Chi è Filip Uhlmann?
Uhlmann aveva un negozio in via San Saba che di
recente è stato chiuso. Abita con la moglie nel cortile dello
stesso fabbricato. Dopo l’incidente, lo pregai di fare
qualcosa per me, ma mi disse che aveva tutti gli strumenti
e il materiale sigillati nel negozio e che aspettava
l'autorizzazione delle autorità per ricominciare a lavorare.
Mi indirizzò allora da Jovan Benedek, Lungodanubio 8, che
mi sostituì la lente facendomi un forte sconto.
Chi è Jovan Benedek?
La madre di Benedek è una cattolica originaria di
Sopron e Benedek stesso è sposato con una cattolica, una
certa Julija Almasi, di Subotica. Dopo due settimane di
carcere preventivo, era stato rimesso in libertà. Grazie
all’intervento di certi influenti amici di sua madre, il
negozio gli fu reso e l’autorizzazione a lavorare prolungata.
Conosceva già prima Benedek?
No.
I suoi parenti, in particolare Gyula-Georges Boroska,
hanno dichiarato ai gendarmi che lei era partito per
Budapest.
Penso davvero di andare a Pest in questi giorni, ma loro
dovevano sapere che non ero ancora partito.
Che cosa deve fare a Pest?
Cercherò di fare pressione, tramite il ministero dei
Trasporti, sulla commissione che, secondo me in maniera
ingiusta e illegale, ha ridotto la mia pensione di invalido.
È questa l’unica ragione del suo viaggio?
La dentiera che mi ha applicato Lobi mi fa molto male.
Perciò penso di andare da un certo Barna, di cui ho visto la
pubblicità sui giornali: « Dentiere a prezzi moderati,
garanzia ventennale».
Chi è Lobi?
Lobi era con me nella squadra di lavoro, ma scomparve
all'improvviso. Più tardi ho saputo da Herzog, che era stato
con lui nel carcere preventivo, che Lobi era stato
condannato a morte e impiccato. Lo portarono alla forca
che era già mezzo morto. A seguito dei colpi ricevuti, la
pianta di uno dei suoi piedi era tutta suppurata e su uno
stinco si apriva una profonda ferita che lasciava scorgere
l’osso.
SCENE DI VIAGGIO (IV)
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Kerkabarabás, 5.4.1942