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Nel cortile c’era….

Quelli della rocca


© Favignana (TP) Agosto 1993
© Edizione 2001
Premessa
Quelli della Rocca rappresenta un gruppo di artisti che, in un clima di grande
amicizia (o meglio amistà) e per un certo periodo, sono stati in grado di
creare arte insieme, ognuno a suo modo, in uno spirito di “comunione” unico
ed irripetibile.

Espressione di quel periodo e il lavoro qui riproposto, quasi un divertissement


didattico, partendo da un’unica premessa realizzata a 5 teste vede cinque
evoluzioni e finali diversi.

Ai cinque racconti scaturiti dal momento iniziale, si è aggiunta poi una sesta
evoluzione che definirei “empatica”, e che ci piace ugualmente presentare
perché perfettamente in linea e con gli intenti e con i sentimenti che uniscono
tutti i racconti.

Alcuni sono stati parzialmente rivisitati, com’è d’obbligo a distanza di anni,


ma non è stata comunque snaturato lo spirito che ne ha visto la creazione.

Nel cortile c’era…


in ordine alfabetico: Pino D’Angelo, Gaspare De Stefano, Incant, Antonella
Ruggirello, Dina Strazzera.

Ombra d’attimo miliare: Pino D’Angelo


Meriggio d’attesa: Gaspare De Stefano
Che sei tornato a fare?: Incant
L’Isola Ritrovata: Antonella Ruggirello
L’Attesa: Dina Strazzera
Prove di un matrimonio 1954: Gios Strazzera.

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Prologo

Nel cortile c’era un arbusto la cui ombra si deponeva lungo il


selciato sino a spezzarsi contro la facciata bianca della casa.

Una porta si schiuse e, ciondolante, il vecchio cane uscì al sole e


si diresse lentamente verso la ciotola ricolma d’acqua accanto al
pozzo.

Lucia affacciata alla finestra osservava la scena e l’incredibile


calma del caldo pomeriggio rese immobili i suoi pensieri, fissati
sull’ansimare del cane come se in quel movimento ritmico
finisse ogni sua volontà.

Lungo il viottolo che portava alla vecchia casa, Lucia vedeva


avvicinarsi una figura in lontananza. Il passo era veloce e la
postura eretta; indossava un vestito bianco e un cappello di
paglia a falde larghe.

La vista del gelso maestoso, a sinistra del selciato, rallentò il suo


passo: la casa del nonno si ergeva imponente.

I brividi di un vento incipiente che sgusciava tra i rami intonando


gli archi e le trombe di un’orchestra fantasma, attraversarono
l’immobilità del cortile, con l’enfasi angosciosa dell’antico
presagio che si addensa in divenire fino a trasfigurarsi in realtà…

Ombra d’attimo Meriggio d’attesa Che sei tornato a fare?


miliare

L’Isola ritrovata. L’attesa. Prove di un matrimonio 1954.

Note

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Ombra d’attimo miliare Pino
D’Angelo

Una improvvisa folata d’etere, come in simbiosi con l’ansimare


sempre più nervoso del cane, sembrò profondere nell’aria un sordo
e quasi inavvertibile guaito, in sospensione fra lo sciamare di crune
d’aghi di pino e i distesi tendaggi delle finestre aperte, attraversando
con sussulti rabbiosi l’incannucciato logoro che sembrava dissipare il
suo naturale ondeggiamento, nella forra bruna d’un pergolato
digradante fin sulle dischiuse persiane.

Gli occhi che prima osservavano il ristagno inverosimile di quella


pace quasi immaginifica, erano scomparsi.

Lucia era scomparsa alla vista col sopraggiungere dell’uomo, e il


vento, penetrato nelle camere, sembrava creare sul volto di lei una
piega di indefinibile tensione, come quasi un corruccio malcelato che
trovava un oscuro consenso nel rigonfiarsi dei tendaggi che ora
lambivano, come animati da un respiro di remota origine, gli antichi
mobili della camera.

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E con l’incurvarsi del meriggio che faceva assumere al contrasto
delle ombre e dei volumi una luminosità di vitrea emanazione (quasi
si consumasse, coll’approssimarsi della serale dissoluzione del dì,
l’avvicendarsi naturale dell’Essere e della sua naturale negazione),
sembrò perpetuarsi il rito d’una celebrazione onirica,
quotidianamente officiato. E in esso l’osmosi dei giorni batteva
sovente la sua lingua tatuata.

Stavolta però qualcosa di diverso si addensava nella trasparenza


dell’etra meridiana. L’incandescenza possente e fulminea di un
barbaglio di luce accecante che parve baluginare come nelle
rappresentazioni cinematografiche per evidenziare il manifestarsi di
un teofanico avvenimento, fece assumere alla vista l’irrealità di ciò
che, immaginato, non trova riscontro in immediata realtà tangibile.

Era il giorno del consenso.

Cento anni prima il nonno aveva posto in quell’attimo la prima


pietra che avrebbe avviato l’edificazione della grande casa.

Cinquanta anni prima, nello stesso mese, nell’identico giorno, nel


medesimo istante, Lucia, su quella pietra miliare, in quella casa
miliare, aveva trovato la via della luce attraversando quell’articolato
tunnel ipogeo che dall’assordante silenzio inanimato dei mondi litici
conduce all’attrito con le superfici fluttuanti dei venti.

Era emersa in corposa effervescenza d’umane forme,


dall’anecumene del pensiero irrivelato, sino al più elevato crinale
dell’ecumene vissuto. Venuta al mondo come tutti dal niente, per
una combustione di corpi.
L’ombra irrequieta di passi risoluti pareva rallentare l’andatura
dell’uomo dal grande cappello bianco, e ora avanzava lentamente,
modellando le sue forme allungate lungo un ghirigori di siepi e di
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tronchi. Il cappello sembrava assumere un aspetto marziale nella
nerezza del suo ampio disegno dentro il quale la bordura della stessa
ombra sembravano gravitare in modo estraneo. Ancora piccoli passi
sospesi verso quell’ampio fronte bianco di tufi e calce.

Poi l’ombra del sole entrò nell’ombra, nell’ombra dileguandosi in


consenso prossimo all’amalgama. Il vento più non cantò.
Verbigerava consensi di segreta inquietudine.

La polvere d’una pioggia atavica frammista a resti di disgregante


scomposizione, scese ad irrorare teneramente le aiole, il selciato
antistante la porta d’ingresso, l’impiantito della grande veranda,
l’eterna penombra dei corridoi, gli algidi chiarori dei bagni,
aspergendo i profumi forti del ristagno di cucina, lo stantío dei
riposti, le screpolature delle volte e dei davanzali, le intercapedini
delle travature e degli archi, e allentando i drappeggi delle pareti, i
tendaggi ingialliti dal troppo passato e gli stessi abbarbicati, bulicanti
silenzi.

Con l’afflosciarsi sgraziato di riloghe e mantovane, fino a


comprimere l’aria irrespirabile dei calcinacci, ora si mescolavano i
capelli brizzolati di Lucia, semisepolti e ingabbiati fra i cassetti ove si
fermarono, ancorandosi, anche le rigide mani imprigionate
nell’ammassarsi scomposto degli oggetti, mentre fra i suoi denti
digrignati, si addensava la ruggine dei lampadari, come fosse quella
di un’antica ansia irrisolta.

Allora la cenere d’uno sconquasso di remota ineluttabilità dilagò in


apocalittico travolgimento, la pioggia assunse la tumultuosa
assordanza del tuono dal rombo pantocratore e tutte le nuvole
dell’etere conobbero il punto di sutura ove l’ecumene torna a
sprofondare in anecumene, il cielo riebbe la terra sua compagna, la
superficie degli astri coincise con quella del pianeta d’acqua e la

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pietra miliare guizzando dal fondo delle fondazioni, riscoperse la sua
vera identità di pietra libera, propiziatrice del grande amalgama.

In quel preciso istante il vagito di un neonato interruppe la stasi


interiore. Una voce chiamò concitatamente l’uomo dal grande
cappello bianco. Nell’affrettare il passo lungo le scale che
conducevano alle camere, egli aprì la valigetta e ne trasse oggetti
misteriosamente sottili rilucenti della freddezza del ghiaccio.

Ma ormai era tardi.

Il grande evento dell’inesplicabile attimo che crea la luce era già


straordinariamente compiuto. Era la storia del tempo che fugge
girando in tondo, inseguito dalla corsa degli anni, con chiasso di
usbergo trafitto.

Con lo sguardo disperso per l’etra cilestrina del cortile assolato ove
si ergeva un arbusto la cui ombra si deponeva lungo il selciato sino a
spezzarsi contro la facciata bianca dell’edificio, Lucia osservava la
scena d’un uomo avvicinarsi nell’accecante barbaglio meridiano
dell’attimo. Fu rassicurata da un pianto di bimbo e da un rantolo
pigro a lei noto.

Presso la ciotola ricolma d’acqua, accanto al pozzo, sbadigliava il


vecchio cane, rotolandosi nell’erba ispida, evaporando e ansimando,
annegato nella rovente pozzanghera della canicola solare.
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Meriggio d’attesa G. De Stefano

Il candore quasi irreale del vestito dello sconosciuto ridestò i


pensieri sopiti di Lucia; ad ogni passo una domanda nella sua
mente cercava una risposta e, per il sopravvenire di una
immediata certezza, capì che tutto era improbabile: improbabile
l’uomo, il vestito, il cappello, forse, gli stessi suoi pensieri che,
senza la sua volontà, si arresero ad una sensazione mai
provata che altalenava tra speranza e timore.

Un sordo, continuo cicaleggio si diffondeva nell’aria e


contrappuntava freneticamente gli attimi di una memoria
recente che, seguendo l’onda rumorosa, si annullavano, come
ombre dileguate da un sole al tramonto, nella continuità
immota di quel suono.

L’ambigua incertezza di Lucia non riuscì a fermare i passi


decisi dell’uomo che, giunto fino al muretto di pietra della casa,
a poco a poco, per il digradare del terreno, fu nascosto alla
vista.

L’attenzione di Lucia si spostò verso l’ingresso del cortile, in


una attesa che le sembrò lunghissima e che la tenne col fiato
sospeso come chi, per timore, vuole che tutto rimanga inerte.
Attese invano un’ombra lambire le lastre di pietra poste sotto
l’arco d’ingresso e poco dopo, come in una rappresentazione
onirica le cui figurazioni si alterano per assenza di ragione, una
figura esile, saltellante di gioco, cominciò a muovere i suoi passi
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dentro il cortile. Il cane, con un guaito, le corse incontro
abbandonando il suo torpore che adesso assumeva il significato
della malinconia e dell’attesa.

Gridò Lucia, con forza gridò, mentre l’ansimare del petto


confondeva i suoi sensi.

Rivide, come in un sogno, l’ineluttabile forza che poco tempo


prima si era fatta padrona del gioco, degli anni, delle grida e del
respiro del fratello.

Quando raccolse le forze per guardare ancora nel cortile vide


soltanto l’ombra del cane che abbandonava l’uscita.

Gridò ancora, Lucia, gridò con forza e alle sue grida fece eco un
lungo latrato ormai lontano.
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Che sei tornato a fare? Incant
- “Porco Giuda”,
la voce proveniva dall’attrezzeria distraendo Lucia
dall’immobilità dei suoi pensieri.

Era Mario, suo marito, che come al solito si era fatto


male lavorando, stava completando la sala da pranzo in
legno intagliato cominciata l’anno prima del
matrimonio, erano già passati due anni dal giorno del
fatidico sì, due anni tre mesi sei giorni e cinque ore.

Qualcosa si mosse nel suo ventre ricordandole il piacere


di essere incinta. Era ormai all’ottavo mese, e la sua
pancia ormai le ricordava una mongolfiera, un po’
ovalizzata, per la verità, tanto che le comari dicevano
che l’erede sarebbe stato un maschio.

Temeva questa eventualità, perché non avrebbe saputo


che nome dargli, ma forse sarebbe stato peggio se fosse
stata femmina, sua madre si chiamava Carmela, la
madre di Mario, Concetta….

Quando Lucia girò nuovamente lo sguardo la figura


bianco-vestita era sulla soglia del cortile.

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Silenziosa, il passo era diventato più incerto, la testa
contornata da riccioli canuti si volgeva a destra e a
manca ad inseguire con lo sguardo remoti ricordi.

Il vecchio cane si accorse finalmente di quella presenza


si rizzò in piedi e, lì dove stava, latrò. Un latrato stanco,
afono, come il vento di quel pomeriggio che sembrò
improvvisamente torrido.

Mario si affacciò stancamente alla porta ed in un misto


di meraviglia e stupore esclamò, quasi urlando, con
rabbia: - “Tu!? Che cosa sei tornato a fare?”.

La figura bianco-vestita rispose seccamente:


- “A morire! Sono tornato a casa per morire!”

La laconicità di quelle parole tolse in Mario ogni volontà


di replica, anche se non lo decise ad andare incontro a
quella figura che, improvvisamente, si accasciò in
ginocchio, strabuzzò gli occhi e cadde in avanti, a pochi
passi da lui mostrando la schiena puntellata di piccole
macchie di sangue.

Il cappello di paglia rotolò via, inseguito dal cane che


sembrava essersi ripreso improvvisamente da una
malattia, mentre Lucia non riusciva a distogliere lo
sguardo inorridito, senza per questo riuscire a
pronunziare parola.

- “Mario, torna al lavoro!”

Le parole erano state pronunziate da sua suocera, la


moglie di Luca (la figura bianco-vestita).

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Pronunziate col tono che si addice ad una Capostipite di
una famiglia matriarcale, Concetta continuò:
- “Tuo padre era stato avvisato. L’avevo avvisato
venticinque anni fa, quando se ne andò lasciandomi con
te piccolo.”

Si avvicinò al corpo immobile, a terra e guardandolo con


lo sguardo di chi si non si è reso conto pienamente della
propria azione continuò il suo eloquio solitario:

- “Ti avevo avvisato! Se torni t’ammazzo!”

E mentre pronunziava l’ultima frase lasciò cadere la


lupara ancora fumante…

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L’isola ritrovata A.
Ruggirello

I sentimenti del tempo perduto aleggiavano


nella vecchia casa.

Lucia sfaccendava come ogni giorno ma nei


suoi occhi una luce diversa si intravvedeva
ogni qual volta si fermava a guardare dalla
grande finestra del soggiorno. Spesso
immaginava il ritorno dei cugini che non
vedeva da vent’anni. Quei momenti di
sospensione della realtà le facevano rivivere
la spensieratezza dell’infanzia.

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Un forestiero si avvicinava alla casa e
l’apparente fierezza dell’uomo svaniva alla
vista dell’immobilità di quel luogo.
Il ritorno alla casa del nonno, dopo anni di
assenza era come gustare un gelato al
gelsomino in una giornata di scirocco afoso.

Egli si avvicinava a lenti passi osservando con


sguardo carezzevole, a volte perso nel vuoto,
gli antichi alberi segnati sui tronchi, il colore
variegato della campagna; tutto ciò
risvegliava in lui ricordi fanciulli quando
insieme a Lucia si rotolavano sull’erba fresca
di rugiada e si rincorrevano a perdifiato.
Correvano nel cortile, poi correvano in casa e
si nascondevano tra i divani e sotto le tende,
e poi rubavano le arance, che la nonna
nascondeva in un cesto sotto il letto, e non
capivano perché lo facesse. Lo avrebbero
capito, quando, il giorno della festa, tutta la
grande famiglia si riuniva e la nonna usciva
trionfante con il cesto di frutta e lo poggiava
sulla lunga tavola imbandita a festa: era un
tripudio di risate e di gioia, ma anche di
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rimproveri, perché non sempre i frutti si
conservavano bene.

Ma era chiaro che alla nonna non importava:


quello che contava veramente era il rito della
comparsa con il dono.

Abbandonati i ricordi, egli d’un tratto si


ritrovò di fronte alla grande casa.
Sentiva il cuore in gola quando vide Lucia: i
loro sguardi s’incrociarono intensi, nessuna
parola riuscirono a pronunciare ma i loro visi
erano segnati da espressioni di profonda
tensione; era gioia, disagio, imbarazzo o
cos’altro?

Attilio quasi con pudore entrò in casa, era in


lui la paura che tutto fosse un sogno, invece
oggetti, odori, sapori… erano ancora lì.

Dal grande specchio, posto all’ingresso della


casa, si vedeva la sala da pranzo con i vecchi
mobili un po’ consumati dai gesti quotidiani,
e da lì vide il volto di Lucia dallo sguardo
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assente, perso nel nulla, o forse perso nel
tempo della memoria a ritrovare quel volto:
Attilio.

I due si avvicinarono, si toccarono le mani,


poi le braccia, come se avessero paura che
tutto non fosse vero, ma il lungo abbraccio
diede consistenza alle immagini e ai pensieri;
cercarono nel contatto fisico, attraverso i
segni che il tempo aveva lasciato sui loro
corpi, quell’anima di fanciulli che il tempo
aveva solo consumato, privato di quella
spontaneità che aveva accompagnato i loro
giochi di bimbi.
Il tempo era trascorso, ma in loro il tempo era
ritrovato……..
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L’attesa D. Strazzera

Imperfette melodie, che si mescolavano a voci di


bimbi maldestri e felici, risuonavano come l’eco di
lontane memorie e nella mente di Marco
assumevano sempre più l’aspetto della nostalgia.

Il sopraggiungere di un nuovo refolo gli attraversò i


pensieri e lo destò. Volse lo sguardo verso la casa e
vide che il bianco colore del prospetto scrostato
contrastava con la tappezzeria floreale che lo
ricopriva.

Il passo divenne più deciso e lo scalpiccío sul


selciato attirò l’attenzione del vecchio Lillo, che alla
sua vista emise un verso tra il guaíre e il mugolare:
scodinzolante, poi, gli andò incontro con la
deferenza di chi accoglie un ospite atteso da tempo.

Lucia ora li vedeva entrambi accostarsi verso


l’ingresso, ma li anticipò nonostante il suo
claudicare.

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A un passo da Marco, cinse il nipote in un tenero
abbraccio: aveva atteso il ragazzo come l’ultima
presenza importante.

Il cane guaì ancora e ritornò a bere gli ultimi sorsi


d’acqua.

Come un sipario calò il silenzio nel cortile.

Nella tarda serata, le esequie del nonno, erano già


avvenute.
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Prove di un
matrimonio 1954

G. Strazzera

Ma il vento decise per la pazienza di un calmo pomeriggio e


trasformò la sua musica in una lontana eco del silenzio.

Solo più tardi, a dispetto delle speranze della messa in piega


delle donne, e solo per l’accanimento dei più superstiziosi il
cielo, regalata una nuvola, avrebbe pianto.

Le sarte avevano lavorato di sciabola e scudi, perché


occorreva la celerità maschile di un guizzo rapido che,
trasformato nella sapienza delle mani delle donne, avrebbe
ondulato e piegato, a farfalla e a ventaglio, il tulle bianco e
teso dall’amido.

Un bastone reggeva una mano appena tremula, che negli


ultimi mesi aveva cominciato a ballare, nell’aria ferma
dell’Aprile.

Era l’anno che il ventinove Aprile avrebbe regalato la pioggia


alle spose, e quando Lucia la chiamò, comparve, bella nella
piega dei suoi capelli castani, Rosa del martirio negato, Tea
dai più morbidi petali. Farfalle pendule le circondavano le
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gambe e, sguardo rivolto a terra, solo un piccolo lembo di
pelle ad arco tondo interrompeva il bianco attorno a lei,
onda ferma tra i tulipani dell’impiantito che sposavano
mimose mai viste sistemate alla finestra.

Corolla candida portata dai suoi stami verso l’alto si


chiudeva con un piccolo cerchio aderente, sulla vita sottile,
base del trapezio perfetto che ultimava con archi d’amore
poggiati su un seno nascosto, pensati solo per via dei ricami
che risaltavano sulla pelle del petto e del collo castigato alla
coreana, trasparso da fitto ricamo con trame di piccoli
rombi.

Le cugine farfugliavano, facevano il verso alle cigne del lago,


nelle stanze d’intorno e a passi troppo larghi s’insediarono
nella grande sala e la videro, finalmente, dal fondo opaco di
un occhiale di vetro spesso, da un collo distratto e
commosso e non ancor pronto alla festa, dal folto di una
permanente.

Intanto la mano e il bastone decisero il movimento perpetuo


ed urgente, sospeso verso l’alto della volta con cenno di
severa preghiera, sostituito prontamente dal sorriso di una
testa canuta e calva, fiduciosa nell’incertezza di un cappello,
del padre, Pietro mio nonno, occhi normanni, a richiesta dei
calzari neri e rigidi lucidati a catrame.

Giammai fu il silenzio il linguaggio delle spose, e la


commozione bevve le sue lacrime in fretta nel sibilo di un
“figghia mia” zia Camilla d’un rapido sospiro parlò.

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Il grammofono eruttò le suo note, funzionerà il
grammofono? E le prove riuscirono, dedicate a lei sola, cara
ai parenti e al padre, incanto di una rosa profumata e
deliziosa.

Col tocco già quasi ballerino, col pensier d’un subito regalato
per sempre ad un dio giovane e felice che aveva sacrificato i
più recenti giorni all’imminenza di cento pieghe dei capelli
ed alla stiratura, sue proprie mani, dei pantaloni da figurino
mogliettina.

Le nozze furono di gala, e Palermo non ebbe mai colori così


belli.

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NOTE

Viviamo in un epoca in cui il mecenatismo è ormai finito, e gli


artisti o sono essi stessi dei mercanti oppure sono destinati
all’oblio.
Al tempo stesso i nuovi mezzi tecnologici, internet anzitutto,
offrono nuove possibilità di espressione fino a ieri
inimmaginabili, ma sempre con scarse probabilità di
sopravvivenza.
Per poter continuare a fare arte allora non resta che lavorare in
altri campi ed è quello che fanno gli uomini e le donne di questo
gruppo:

Pino D’Angelo, lavora presso l’azienda autonoma soggiorno e


turismo di Erice;
Gaspare De Stefano, lavora presso l’Ufficio unico delle imposte
a Trapani;
Incant, pseudoacronimo di Antonello Incagnone, fa il bancario a
Trapani presso un gruppo di interesse nazionale;
Antonella Ruggirello, Dina Strazzera, Gios Strazzera, sono
insegnanti di scuole pubbliche a Trapani.

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INDICE

PREMESSA 2

PROLOGO 3

OMBRA D’ATTIMO MILIARE PINO D’ANGELO 4

MERIGGIO D’ATTESA G. DE STEFANO 8

CHE SEI TORNATO A FARE? INCANT 10

L’ISOLA RITROVATA A. RUGGIRELLO 13

L’ATTESA D. STRAZZERA 17

PROVE DI UN MATRIMONIO 1954 G. STRAZZERA 19

NOTE 22

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