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In copertina: © Shutterstock
Grafica Meccano Floreal
Grafici e tabelle di pp. 13, 21, 25, 31, 57, 75, 76, 77, 84, 86, 90, 91, 92, 94, 95, 99, 100, 106, 107,
113, 127, 135, 143, 154, 157, 175, 186, 206: Computerkartographie Carrle/Manfred Spitzer.
Immagini di pp. 41, 44, 49, 53, 58, 188: Manfred Spitzer.
ISBN 978-88-6700-555-0
Prima edizione digitale settembre 2018
Immaginate che nel vostro paese esista una malattia che si manifesta
sempre più spesso e che provoca dolori cronici. Una malattia contagiosa,
ancora poco studiata dalla medicina, che si propaga più rapidamente di
quanto il nostro organismo riesca a sviluppare un’immunità specifica contro
di essa, e che è inserita tra le cause di morte più frequenti del civilizzato
mondo occidentale. Una malattia che favorisce il manifestarsi di altre
patologie, dal raffreddore alla depressione, dalla demenza all’infarto,
dall’ictus al cancro e che rappresenterebbe dunque un fattore di rischio
significativo per altre frequenti malattie mortali. Una malattia peraltro
insidiosa, perché molte persone che ne sono affette non sanno di esserlo.
Questa malattia esiste davvero. Si chiama solitudine.
La solitudine è un disturbo noto da tempo alla psichiatria – il mio ambito
di specializzazione medica – ed è stata generalmente definita come sintomo
di altri disturbi psichici. Gli ultimi sviluppi dell’epidemiologia, della
psicologia, della sociologia empirica e della ricerca sul cervello, e non da
ultimo anche della psichiatria, mostrano però che questo disturbo può essere
esaminato come manifestazione autonoma. In poche parole: la solitudine
non è «solo» un sintomo, vale a dire il segnale di una patologia in corso, ma
è essa stessa una malattia.
Solo esaminando la solitudine come esperienza di un isolamento sociale
insorto per le ragioni più disparate, che sviluppa una dinamica specifica (si
parla anche di circolo vizioso) per poi diventare essa stessa il problema
principale, è possibile ottenere un quadro differenziato del fenomeno. Come
si mostrerà in questo libro, una più approfondita comprensione delle cause e
degli effetti della solitudine produce conseguenze nuove e importanti. Essa
si raggiunge sulla base di acquisizioni scientifiche derivanti da studi di
osservazione ed esperimenti, che vanno dalla ricerca di base alla medicina
applicata e alla psicologia.
Come sempre nei miei libri, anche in questo offrirò al lettore dettagli di
ogni tipo. Quel che mi preme, tuttavia, non è solo fornire un resoconto delle
ultime acquisizioni scientifiche. Intendo anche spiegare come e perché esse
sono state raggiunte. Solo così, infatti, è possibile valutare e classificare gli
esiti della ricerca all’interno di una cornice più ampia; solo attraverso una
comprensione più profonda diventa possibile, nell’«epoca della post
verità», distinguere i fatti reali dai «fatti alternativi».1
Una volta fatta chiarezza, lo sguardo si orienta, nitido e non viziato, alla
soluzione di problemi derivanti da circostanze reali. Quando il lettore sarà
giunto agli ultimi capitoli del libro, sarà per lui evidente che non stiamo
parlando di una qualche «ricetta pronta» o dei «sette buoni consigli» contro
i cuori di pietra. Perché se è vero che la solitudine – come una polmonite o
come molte altre malattie – fa male, è contagiosa e potenzialmente letale, è
anche vero che essa è parte integrante dell’essere umano, proprio come
l’invecchiamento. Ogni persona a un certo punto della vita prende
coscienza della propria finitezza, su un piano del tutto «teorico» durante la
gioventù, in maniera sempre più «concreta» con il passare degli anni.
Per questo la solitudine non riguarda solo il mio campo di
specializzazione medica, ma anche me stesso. Come accade (quasi) a tutti,
anch’io di tanto in tanto sono solo. Per tutta la mia vita sono stato parte di
una famiglia: prima il terzo di cinque figli, che insieme ai genitori e a due
nonne viveva in una piccola comunità di nove persone sotto un unico tetto.
All’epoca era naturale che intorno a me ci fosse sempre qualcuno. Vivevo
in un piccolo paese chiamato Lengfeld im Odenwald, la mia patria naturale,
il luogo in cui sapevo orientarmi e dove avevo i miei amici. A venticinque
anni ho creato io stesso la mia nuova famiglia, di nuovo cinque figli e di
nuovo tutto normale: ero ancora una volta il membro di una (per gli
standard attuali) grande famiglia. Il fatto che tali famiglie non siano
un’invenzione della modernità, ma che costituiscano da secoli in Europa il
«nucleo» delle comunità umane, ci è noto dalle tante tombe in cui, già
svariati secoli fa, sono stati sepolti quanti oggi, con le moderne tecniche di
rilevazione scientifica, siamo in grado di identificare come padre, madre e
figli.2 La famiglia non è un «costrutto»: esiste realmente!
Adesso i miei figli hanno preso la loro strada e io ormai vivo da solo.
Pertanto sono «toccato», almeno in parte, da questa problematica e mi
chiedo come poter affrontare la situazione per «il resto dei miei giorni», o la
«terza età», o «gli anni d’oro», a seconda di come vogliamo chiamare
questa nuova fase della vita. Scrivendo il libro mi sono reso conto che la
questione è stringente e che non c’è da menare troppo il can per l’aia.
È sempre valida la regola per cui l’applicazione di conoscenze generali a
casi singoli non è oggetto della scienza (che invece ha un approccio
universalistico). Dalla fisica (generale) non si deduce come costruire una
casa (anche se essa non può essere costruita contro le leggi della fisica). La
casa concreta sottostà alla fisica ma a essa si deve aggiungere l’arte
dell’architetto. La medicina si comporta allo stesso modo. Le conoscenze
mediche sono generali (altrimenti non sarebbe possibile insegnarle e
apprenderle), mentre la loro applicazione al «caso singolo» non è scienza,
ma si definisce giustamente «arte medica».
Proprio per tale ragione, se le conoscenze scientifiche che ho raccolto in
questo libro possono essere di grande aiuto per riflettere sulla mia
solitudine, esse non risolvono «magicamente» il mio problema. Ciò vale
chiaramente anche per il lettore. Così come tutto il sapere medico del
mondo non ci dona automaticamente la salute, ciò che sappiamo sulla
solitudine, e che il lettore trova riassunto qui, non cancellerà
automaticamente la sua solitudine. Vero è, però, che senza conoscenze
mediche faremmo una bella fatica a guarire. E per chi di tanto in tanto si
sente solo e vorrebbe modificare questa condizione della propria vita, il mio
libro è senz’altro un buon inizio proprio perché non fornisce facili ricette o
consigli. Per intenderci: la frase «se sei malato prendi l’aspirina» è
sicuramente giusta in alcuni casi, ma di certo non è un buon consiglio
medico. La soluzione varia, appunto, da caso a caso!
Una malattia va riconosciuta nel suo complesso e compresa nelle sue
singole manifestazioni concrete. Solo allora si possono trarre le giuste
conclusioni per ciascun caso reale. Questo volume pertanto riduce di molto
il lavoro dei lettori, giacché il pregio di alcuni libri è commisurato al
numero di testi che non è più necessario leggere dopo la loro consultazione.
Connessi e isolati può far risparmiare al lettore lo studio di centinaia di
pubblicazioni scientifiche, ma non può certo sostituire la riflessione che ne
consegue in merito alla situazione concretamente vissuta da ciascuno di noi,
cosa bisogna fare qui e ora. Però può alleggerire sensibilmente il compito,
per questo l’ho scritto.
Megatrend e malattia
Da soli in vecchiaia
Nel corso degli ultimi decenni è diminuita l’importanza attribuita al
matrimonio e alla famiglia, mentre è aumentata la solitudine degli individui.
A ciò si aggiunga che ci sono sempre più anziani e che la speranza di vita si
è allungata. Poiché gli uomini muoiono in media 6 anni prima delle donne
(e in genere il marito ha uno o due anni più della moglie), si registra un
numero particolarmente alto di donne anziane sole. È un fenomeno che
conosciamo fin dall’epoca della Seconda guerra mondiale (si parla di
«vedove di guerra»). La tendenza a una «femminizzazione della vecchiaia»
cresce però anche a più di settant’anni dalla guerra. «Attualmente, il 60
percento delle persone di 60 anni o più sono donne, e la percentuale
aumenta quanto più cresce l’età», si legge in un manuale tedesco di
informazioni e indicatori statistici relativi agli anziani (Handbuch
Sozialplanung für Senioren).7
Se la forma abitativa più frequente per gli anziani resta ancora quella di
un nucleo familiare composto da due persone (50 percento dei casi), il
manuale sopra citato afferma anche: «Sempre più persone vivono da sole
durante la vecchiaia. Ciò riguarda circa il 40 percento della popolazione
tedesca sopra i 65 anni e le cifre aumentano nelle grandi città. Di queste
persone, l’85 percento è costituito da donne. Uno dei motivi di questa alta
percentuale femminile va individuato nel più alto tasso di mortalità tra gli
uomini; tuttavia oggi la ‘singolarizzazione’ della vecchiaia è determinata in
misura sempre maggiore anche dall’invecchiamento di persone singole (non
sposate, separate o divorziate), e queste sono più frequentemente uomini». I
(pochi) uomini anziani seguono dunque il modello delle donne e sempre più
spesso conoscono isolamento e solitudine. Se intervistati sul perché del loro
vivere da soli, uomini e donne forniscono risposte parzialmente differenti. Il
28,7 percento degli uomini dice: «Sono troppo timido e conosco poche
persone» (solo il 16,1 percento delle donne dà questa motivazione). Il 30,2
percento delle donne indica invece come motivo principale «Le mie
aspettative circa un partner sono troppo alte» (contro il 25,5 percento degli
uomini). Sono quasi il doppio rispetto agli uomini (9,5 contro 5,9 percento)
le donne che si ritengono troppo anziane, e più del doppio (12,4 percento
contro 5,9 percento di uomini) le donne che sostengono di intimidire l’altro.
Le differenze di genere sono invece pressoché nulle rispetto alla
necessità di indipendenza («Non sono ancora pronta a rinunciare alla mia
indipendenza: 27,7 percento di uomini e 26,6 percento di donne), a una
delusione amorosa («Sono infelicemente innamorata»: 10,7 percento di
uomini e 10,4 percento di donne) o all’importanza della professione («Al
momento il mio lavoro è più importante»: 15,4 percento di uomini e 15,6
percento di donne).8 Secondo questa statistica, nella metà dei casi la vita da
single degli anziani sembra essere una scelta autonoma.
Chi dovesse dedurre dai dati presentati che la singolarizzazione sia un
trend che interessa solo le persone anziane si sbaglia. Se è vero che i numeri
sono più alti tra gli anziani piuttosto che tra i giovani, la tendenza è tuttavia
molto più sviluppata tra questi ultimi: in questo caso il trend cresce molto
più rapidamente.
Da soli in gioventù
La ragione è correlata ad altri due grandi trend: l’urbanizzazione e la
mediatizzazione delle nostre vite. Nel 1900, il 13 percento della
popolazione mondiale viveva in città, oggi siamo arrivati a circa il 50
percento e nel 2050 si toccherà il 70 percento. La crescente urbanizzazione
comporta una forte riduzione delle nascite, soprattutto nei paesi in via di
sviluppo. A Addis Abeba, in Etiopia, o in molte città del Vietnam il tasso di
fertilità è 1,4, cioè addirittura al di sotto del tasso di fertilità medio della
(molto sviluppata) Germania (1,5), il cui valore è notoriamente basso. Nella
capitale iraniana Teheran il numero medio di figli per donna è ancora più
basso: 1,3. Nel nostro mondo occidentale, urbanizzazione significa
soprattutto più anonimato e isolamento: una correlazione che sicuramente
«non ci ha ordinato il medico».
Il secondo trend, la crescente mediatizzazione di tutti gli ambiti della
nostra vita, interessa principalmente i più giovani. A differenza di quanto si
sostiene, infatti, la digitalizzazione non favorisce il contatto tra le persone,
ma fa crescere insoddisfazione, depressione e solitudine. Questo vale
soprattutto per i social network come Facebook, Twitter, WhatsApp,
YouTube, Instagram o Snapchat. L’obiettivo principale e dichiarato di
questi social è di mettere in contatto le persone, ma la loro reale funzione è
la pubblicità: è il loro modello commerciale! L’influsso dei social sulla
soddisfazione sociale è visibilmente negativo, mentre quello sulla
demografia della società (più coppie o più separazioni?) non è stato ancora
sufficientemente studiato e chiarito.
Da uno studio pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine,
condotto all’inizio del 2017 su un campione rappresentativo per gli Stati
Uniti di 1787 giovani adulti, è risultata una chiara correlazione tra
l’esperienza di solitudine e l’utilizzo dei social network. A mettere in risalto
la rilevanza dei risultati abbiamo il seguente dato: solo il 3,2 percento dei
partecipanti non usava alcun tipo di social.
Accanto ai nuovi media ce n’è uno vecchio, la televisione, che alimenta
la solitudine delle persone. La correlazione tra consumo televisivo e
solitudine è nota da tempo.9 A ciò si aggiunga che i contenuti televisivi
vanno tutti verso una precisa direzione. Nei numerosi talk show, reality
show, casting show ecc., il punto è sempre lo stesso: distinguersi, essere il
migliore, il più bello, il più pazzo o il più repellente, e diventare famoso per
questo. La televisione, che fornisce modelli sociali, incoraggia fortemente
la tendenza all’egocentrismo. Ormai in tv è raro vedere attori famosi,
cantanti, o addirittura ricercatori e scienziati: a essere protagoniste sono di
solito «persone come me e te», che per qualche motivo ritengono di essere
speciali. Molte delle celebrity di oggi non sono famose perché sanno o
sanno fare qualcosa; sono famose per il loro essere famose (famous for
being famous; si parla anche di «effetto Paris Hilton»).10
Ancor prima che i bambini possano essere influenzati dalla televisione e
da internet, sono i genitori, in alcuni casi, a preparare il terreno fertile per lo
sviluppo della solitudine con il loro stile educativo «permissivo»,
indulgente o addirittura trascurato: qualsiasi cosa facciano i loro figli, sono
sempre «i migliori». Il risultato di tutto ciò è stato scientificamente
studiato:11 giovani adulti narcisisti, poco interessati al benessere degli altri,
che senza alcun impegno particolare credono di essere destinati a un lavoro
di prima classe e a diventare ricchi per poter vivere nelle migliori
condizioni possibili.
Soprattutto negli Stati Uniti, fino a qualche anno fa il narcisismo e il
conseguente materialismo erano incoraggiati anche dalla facilità con cui le
banche fornivano crediti. La quarta colonna di questo strabordante
narcisismo – insieme a genitori permissivi, televisione e
smartphone/internet12 – è stata spazzata via nel 2008 con la crisi finanziaria
statunitense, in seguito alla quale si è registrata empiricamente una leggera
riduzione dell’approccio materialista (si partiva comunque da un livello
molto alto). Tuttavia, il trend crescente del narcisismo – e con esso anche la
maggiore solitudine e il ridotto orientamento sociale – non è stato interrotto
una volta per tutte dalla recessione americana. Bisogna aggiungere, da una
prospettiva europea, che solitamente i trend americani si registrano nei
nostri paesi con circa dieci, quindici anni di ritardo e generalmente un po’
attenuati. La crisi finanziaria del 2008 ha colpito anche l’Europa, ma non
con la stessa intensità con cui ha travolto gli Stati Uniti.
Generazione Io
Da appartenente alla generazione dei babyboomer (i nati tra la metà degli
anni Quaranta e la metà degli anni Sessanta del secolo scorso), avevo
condiviso i valori della cultura giovanile dell’epoca: la spinta verso libertà e
autonomia, il rifiuto di valori ritenuti «fuori moda», la critica al «sistema»
ecc. (i miei coetanei sanno di cosa parlo). A quanti erano più grandi di noi,
il nostro comportamento sarà sembrato egocentrico e poco empatico. Noi
però ci muovevamo sempre in gruppo: andavamo insieme alle
manifestazioni (per solidarietà con gli operai, contro la guerra del Vietnam
ecc., cioè generalmente per gli interessi degli altri) e organizzavamo
seminari di gruppo per ritrovare se stessi. A nessuno sembrava un
paradosso. Per intere notti si discutevano problemi che riguardavano
soprattutto la vita in comunità. Si studiava, si abitava e si viveva insieme.
Era questo l’importante.
Alla generazione dei babyboomer è seguita la generazione X, in
concomitanza, nel mondo occidentale, con la «rivoluzione della pillola» e il
conseguente, significativo calo demografico dovuto alla diffusione dei
contraccettivi ormonali.13 È giunta poi l’ora della generazione Y, detta
anche dei millennials (i nati tra l’inizio degli anni Ottanta e l’inizio del terzo
millennio). Rispetto alla generazione X, quella dei millennials è più
consistente, perché negli anni Ottanta e Novanta si è conosciuto un nuovo e
sensibile incremento delle nascite.
La generazione dei millennials viene talvolta paragonata a quella dei
babyboomer. Quarant’anni fa, infatti, i giovani babyboomer erano chiamati
«generazione Io», grazie all’«inaspettato sviluppo da loro conosciuto dopo
la Seconda guerra mondiale e al lusso – di cui milioni di persone del tutto
normali godevano – di occuparsi solo di se stesse», come lo descrisse nel
1976 lo scrittore americano Tom Wolfe. Per dirla con le parole della
pubblicitaria americana Shirley Polykoff: «Se ho una sola vita, lasciatemela
vivere da bionda!»
In realtà per i millennials le cose sono completamente diverse. Un conto
è, infatti, mettere in discussione il già noto, sviluppare nuovi modi di
pensare o addirittura di mettere in atto una nuova invenzione del sé.
Tutt’altra cosa è nascere in un mondo che è completamente diverso. Tutto è
già pronto, e del tutto nuovo. La differenza più grande è l’onnipresenza
delle tecnologie d’informazione digitale, attraverso cui l’attenzione, la
comunicazione, i valori, i comportamenti e soprattutto il normale agire
quotidiano vengono trasformati radicalmente. Già nel 2013 la parola
«selfie» è stata nominata «parola dell’anno» dall’Oxford-English
Dictionary. I giovani giudicano se stessi e gli altri in base al numero di
amici su Facebook o al numero di like e follower su Twitter. Ecco dunque
che anche per la generazione dei millennials è stata recuperata la
definizione di «Generation Me»,14 conosciuta anche come «Generation
Look at Me»15 o «Generation Me MeMe».16
Il pubblicista americano Christopher Orlet ha commentato criticamente:
«Non ho fatto parte della generazione dei millennials, cresciuta in
un’overdose di sopravvalutazione del sé e tecnologia per l’autopromozione,
una miscela perfetta per scatenare una valanga di narcisismi».17 Stando alle
sue affermazioni, nel 2007 i due terzi degli studenti di college
manifestavano sintomi di self-adulation superiori alla media, con un
aumento del 30 percento rispetto a venticinque anni prima. L’autore
dell’articolo lamenta che, se è vero che i millennials sono più ottimisti, più
sicuri di sé e perdutamente innamorati di se stessi, non hanno in realtà alcun
motivo per tutta quest’autostima; egli si riferisce esplicitamente al ridotto
livello d’istruzione, alla spiccata superficialità, alla «riprovevole
meschinità» (letteralmente!) e alla scarsa maturità emotiva.
Siamo forse di fronte a un semplice pessimismo culturale
romanticamente trasfigurato? O è forse vero che negli ultimi decenni i
giovani e la loro cultura sono stati sempre più caratterizzati da un elevato
grado di solitudine? Non poche persone, per lo più anziane, hanno
l’impressione che oggi i giovani siano più egoisti e meno inclini alla
socialità di prima. Qualcuno potrebbe obiettare che in ogni epoca le persone
più anziane sostengono che «ai loro tempi» tutto era meglio e i giovani non
erano così pigri, impertinenti, autoreferenziali e superficiali.
«Non nutro più alcuna speranza per il futuro del nostro popolo, se esso
deve dipendere dalla gioventù superficiale di oggi, perché questa gioventù è
senza dubbio insopportabile, irriguardosa e presuntuosa. Quando ero ancora
giovane, mi sono state insegnate le buone maniere e il rispetto per i
genitori: la gioventù di oggi invece vuole sempre dire la sua ed è sfacciata.»
Questa citazione, che si trova in rete, è attribuita al poeta greco Esiodo, che
ha vissuto più di duemila anni fa (700 a.C.). In rete circola anche un’altra
citazione, molto simile, attribuita a Socrate (469-399 a.C.), che circa
duecento anni dopo scriveva: «La nostra gioventù ama il lusso, è
maleducata, si burla dell’autorità e non ha alcun rispetto degli anziani. I
bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano quando un vecchio entra in
una stanza, rispondono male ai genitori, in una parola, sono cattivi».
Le due citazioni sembrano dimostrare che da sempre i «vecchi» si
lamentano dei «giovani», senza che questo abbia mai portato con sé
conseguenze catastrofiche. Si può quindi giustamente obiettare: è proprio
vero che un eccessivo egocentrismo e un interesse ridotto per la comunità
sono oggi più frequenti che in passato?
Per alcuni non c’è dubbio: «Prima il senso di comunità era più forte».
«Prima ci si incontrava molto più spesso, anche solo per scambiare due
chiacchiere.» «Prima coesione sociale e solidarietà tra gli uomini erano più
spiccate.» «Prima le persone non erano così innamorate di sé come oggi.»
Altri ribattono: «Ma che cosa dici?! Non è che prima le cose andassero
meglio. La pensi così solo perché guardi le cose con le lenti rosa del
passato». «I soliti vecchi brontoloni con i loro vuoti di memoria.» Chi ha
ragione? Come possiamo uscire da questa impasse?
Tabella 1.1: Misura dell’isolamento sociale sulla base di cinque domande. Il punteggio totale
da 0 a 5 registra il grado di isolamento sociale.29
N. Item
Tabella 1.2: Tre quesiti sulla solitudine (Three-Item Loneliness Scale),32 riportati anche in
testo originale. All’inizio del test si leggono alla persona interessata un’introduzione e i
singoli quesiti. «Le seguenti domande hanno lo scopo di definire come si sente rispetto ad
alcuni aspetti della sua vita. La prego di dirmi, per ciascuna sensazione descritta, quanto
spesso le capita di provarla». Per ciascuna delle tre domande si danno tre possibilità di
risposta («mai», «a volte», «spesso»). Attribuendo a ciascuna risposta rispettivamente il
valore di 0, 1 o 2, si otterrà un punteggio totale da 0 (mai solo) a 6 (molto solo).
1 First, how often do you feel that you lack Quanto spesso sente la mancanza di
companionship? compagnia?
2 How often do you feel left out? Quanto spesso si sente
abbandonato/a?
3 How often do you feel isolated from Quanto spesso si sente isolato/a
others? dagli altri?
Riassumiamo
Buona parte della popolazione del mondo «occidentale» soffre sempre più
di solitudine. Da decenni si vive in nuclei familiari sempre più piccoli e non
si dà alla comunità lo stesso valore di prima. I bambini vengono educati
sempre meno alla socializzazione, mentre si stimola sempre più un
egocentrismo smisurato: fenomeni diffusi sono lo you are so very special
all’asilo, le teenager-star nei vari media, che sono famose per essere
famose, e la valanga di selfie che i giovani pubblicano ogni giorno su
internet. Il soggetto più fotografato da bambini e adolescenti è: me stesso
(68 percento delle foto).57 A mettere a disposizione dei più giovani la
tecnica per l’apprendimento e lo sfogo del proprio narcisismo siamo noi
stessi, visto che il narcisismo è ormai parte integrante della cultura attuale.
E vi rientra anche il soddisfacimento a poco prezzo del proprio egoismo
materiale. Il consumo avviene in genere in solitudine: ci si «spara un
hamburger, o un film», e la cena o le attività in famiglia (senza schermi
all’orizzonte che danno l’illusione di socialità) sono diventate una rarità. La
solitudine è di moda! Nel contempo però non riflettiamo su cosa comporti
tutto questo sul lungo periodo per il singolo individuo e per la nostra
comunità.
Negli ultimi decenni sono stati fatti sostanziali passi avanti nella ricerca
medica e psicologica in merito al chiarimento di cause, effetti, meccanismi
e conseguenze della solitudine: dai principi fisici e soprattutto
neurobiologici fino alle applicazioni cliniche. I risultati sono dirompenti,
seppure fino a oggi poco noti. Ciò dipende, tra le altre cose, dal fatto che i
contributi sull’argomento sono stati pubblicati in maniera disordinata in un
panorama scientifico di ampie dimensioni, su riviste specializzate di
immunologia, epidemiologia, psicosomatica, scienze economiche,
architettura, urbanistica, medicina sociale, genetica o geriatria (per citare
solo alcuni degli ambiti in cui vengono discusse la problematica e la
patologia della solitudine). È dunque molto difficile mantenere un quadro
d’insieme o, ancora peggio, ricostruirlo.
Nondimeno, dobbiamo dedicare alla solitudine un’attenzione maggiore
di quanto siamo abituati a fare, perché per il singolo individuo è molto più
pericolosa di altre malattie mortali. È infatti vero che per aumentare la
propria speranza di vita nulla è più sano della partecipazione attiva a una
comunità di persone. La solitudine può riguardare ognuno di noi – in
maggiore o in minor misura – e non dovremmo liquidare il problema con
leggerezza come fosse marginale. Può interessare giovani e anziani, donne e
uomini, poveri e ricchi. E alla lunga ci uccide!
La somma di tutti questi eremiti o narcisisti non produce una comunità.
Dalla prospettiva di una comunità funzionante sarà dunque di vitale
importanza ogni singolo aspetto in grado di promuovere l’interazione e la
cooperazione tra le persone.
Capitolo 2
La solitudine fa male
Riassumiamo
Numerosi modi di dire sul dolore provato, sulla separazione e sulla vita
solitaria dimostrano che gli aspetti appena descritti erano già ben radicati
nella «saggezza popolare».
Se fino a pochi anni fa si pensava che nei proverbi la parola «dolore»
non fosse da intendersi letteralmente, ma solo metaforicamente – nel senso
di «sensazione spiacevole»94 – adesso ci è chiaro che la lingua dà
semplicemente voce al nostro vissuto. Se a segnalare solitudine e dolore è il
medesimo modulo cerebrale, è inevitabile che vi siano delle
sovrapposizioni tra i due aspetti. Funziona come per la sovrapposizione dei
ricettori della lingua: lo stesso ricettore è responsabile del «caldo» e del
«piccante», per cui non dobbiamo meravigliarci se quando mangiamo
piccante desideriamo bere qualcosa di fresco e se gli inglesi definiscono i
cibi piccanti hot: hanno perfettamente ragione.
È bello quando la neurobiologia conferma non solo la saggezza popolare
ma anche quella dei nostri pazienti. Questo ci ricorda che il mondo è molto
più complesso di quanto talvolta siamo portati a credere. E ci mostra che
una concezione scientifica del mondo eccessivamente semplificata può
essere superata soltanto attraverso una ricerca instancabile e un’estrema
precisione di analisi.
Capitolo 3
Contagio sociale
Immedesimazione automatica
Tutti conosciamo persone che «guastano l’umore» oppure «che fanno
sempre ridere». Già venticinque anni fa, la psicologa americana Elaine
Hatfield, che vive e lavora alle Hawaii, ha descritto dettagliatamente il
fenomeno insieme a due colleghi, indagando i meccanismi del suo
funzionamento.109 Gli autori definiscono il contagio emotivo come la
«tendenza a imitare automaticamente l’espressione, il linguaggio, la
gestualità e la mimica di un’altra persona, a sincronizzarsi con l’altro per
creare una vicinanza emotiva».110
Non dobbiamo immaginarci tutto ciò come un atto di emulazione
consapevole. Quando si imita consapevolmente una persona, l’impressione
che si suscita è quella di finzione, falsità e straniamento. Non a caso
diciamo che una persona scimmiotta l’altra. Quando parliamo di contagio
sociale non ci riferiamo a questa forma di emulazione. Dobbiamo
immaginarlo piuttosto come un’improvvisazione collettiva, proprio come i
musicisti jazz, che improvvisano insieme contemporaneamente. Non c’è un
«capo» che esprime una frase musicale cui tutti gli altri re-agiscono, ma ci
si accorda prima su quale sarà il tema, per poi agire tutti allo stesso tempo.
Nessuno re-agisce! Sappiamo tutto ciò perché il fenomeno
dell’improvvisazione è stato studiato approfonditamente.111 È stato anche
riscontrato che quando i jazzisti improvvisano vi è una riduzione
dell’attività delle zone cerebrali che regolano le azioni consapevoli,
controllate e governate.112
Le espressioni emotive del viso umano sono state studiate con molta
precisione, in termini di tempi di reazione, registrando l’attività elettrica di
ciascun muscolo facciale responsabile, per esempio, delle espressioni di
gioia o rabbia: nella risata sono coinvolti i muscoli che tirano su gli angoli
della bocca, nella rabbia quelli che tirano su le sopracciglia e le avvicinano.
Questo metodo di misurazione dell’attività elettrica dei muscoli è chiamato
elettromiografia (elektro, «elettricità»; myo, «che riguarda i muscoli»;
graphein, «scrittura»), abbreviato solitamente in EMG.
È cosa ormai risaputa che le espressioni emotive facciali sono universali.
Tutti gli uomini, non importa a quale cultura appartengano, sono in grado di
riconoscere una persona felice (che ride) o triste (che piange), oltre a
tantissime altre emozioni.113 Stando ai test condotti, se un soggetto vede un
volto con una precisa espressione emotiva (gioia, paura, rabbia, collera
ecc.), anche il suo viso assume la stessa espressione. Tale reazione si
verifica dopo circa mezzo secondo e non è soltanto visibile, ma anche
misurabile tramite EMG.114 A tal scopo, i diversi volti vengono mostrati
sullo schermo di un computer, così che il tempo di reazione possa essere
misurato al millesimo di secondo.
Quando due persone sono immerse in un dialogo appassionato e una
delle due manifesta una precisa emozione, l’EMG ci mostra che il suo
interlocutore attiva gli stessi muscoli con un ritardo di soli 20 millesimi di
secondo.115 È un tempo troppo breve per poter parlare di reazione, perché
per una reazione ci vogliono circa 500 millesimi di secondo. Non sono però
solo i muscoli di viso e occhi a essere troppo veloci perché la loro attività in
un dialogo possa essere definita come reazione: la lingua è altrettanto
rapida!
Riassumiamo
La solitudine può essere contagiosa, così come lo sono anche altre
emozioni, pensieri o comportamenti. Ciò presuppone che la solitudine non
sia la stessa cosa dell’isolamento sociale, anche se può provocarlo,
riducendo in tal modo il rischio di contagio. Attraverso questo meccanismo
l’incontrollata diffusione della solitudine subisce un freno.
Ma in ogni caso, il contagio è un fenomeno che andrebbe preso sul serio,
perché può avvenire tramite terzi o altri gradi maggiori di una rete sociale.
Le donne sono più contagiose degli uomini, i vicini di casa sono più
contagiosi dei parenti. E quanto più si vive lontani, tanto meno contagiosa è
la solitudine.
Capitolo 4
Gli effetti del cortisolo possono durare da alcune ore ad alcuni giorni.136
Sono trasmessi da due differenti recettori, la cui azione è in parte
contrastante. Inoltre, in uno dei recettori (il cosiddetto ricettore per
mineralcorticoidi) l’ormone si accumula in quantità maggiori che nell’altro
(il recettore per glucocorticoidi), e i due recettori sono distribuiti
diversamente nei vari tessuti e organi del nostro corpo. Infine, il livello
ematico del cortisolo – indipendentemente dallo stress – segue un ritmo
giornaliero del tutto autonomo: mezz’ora prima del sonno raggiunge i livelli
minimi e al risveglio è ai livelli massimi.137
Senza il cortisolo molte funzioni del corpo non vengono attivate o non
procedono correttamente. Per questo, è necessaria una certa quantità di
cortisolo nel sangue soprattutto al mattino, mentre la sera, quando il corpo
dovrebbe riposare, la concentrazione di cortisolo scende ai livelli minimi.
Se la concentrazione resta molto alta non è sana e fa sì che numerose
funzioni fisiologiche vadano fuori controllo: se è vero che non possiamo
stare senza cortisolo, anche un eccesso dell’ormone provoca danni. Per
questo si dice che la correlazione tra la concentrazione di cortisolo nel
sangue e le funzioni fisiologiche segue l’andamento di una «U» rovesciata
(grafico 4.2).138
4.2: La correlazione tra la concentrazione di cortisolo nel sangue e le funzioni fisiologiche
segue l’andamento di una «U» rovesciata: concentrazioni molto alte o molto basse di
cortisolo non fanno bene all’organismo, mentre una concentrazione media ha effetti
fisiologici vantaggiosi.
Se manca il controllo
Le cause principali dello stress cronico non sono le avversità che la vita ci
riserva. Lo stress cronico è legato alla sensazione di essere in balia delle
cose o dell’ambiente che ci circondano e di non avere alcun controllo sul
proprio destino.141 Non ci riferiamo qui a una specifica situazione di
emergenza acuta (per esempio perdere il controllo dell’auto mentre
guidiamo su una strada ghiacciata), ma alla sensazione ovattata di non avere
in pugno la propria vita e di dover assistere impotenti agli avvenimenti. Lo
stress cronico è questa sensazione di mancato controllo sulla propria vita.
Ciò è stato dimostrato già da decenni tramite esperimenti sugli animali:
due cavie tenute in laboratorio in due gabbie distinte vengono sottoposte
alle stesse, dolorose scosse elettriche, inviate in parallelo alla grata delle
gabbie tramite un piccolo apparecchio. In una delle due gabbie ci sono una
lampadina e un pulsante, e il tutto è programmato in modo tale che la
lampadina si accenda poco prima della scossa elettrica. Se la cavia preme il
tasto subito dopo l’accensione della lampadina, blocca la scossa e dunque
evita il dolore sia per sé che per l’altra cavia. Lo scarto di tempo tra il
segnale (accensione della lampadina) e la scossa (dolore) è programmato in
modo che l’animale riesca nella maggior parte dei casi a premere in tempo
il tasto per evitare il dolore; solo qualche volta è troppo lento, e allora
entrambi gli animali ricevono la dolorosa scossa elettrica. Si fa proseguire
l’esperimento per un tempo breve, e si misurano i livelli di cortisolo nel
sangue. Oppure si fa proseguire l’esperimento per qualche giorno, o
addirittura per settimane, e si definiscono gli effetti dello stress, che si
manifestano tra l’altro con ulcere allo stomaco e infezioni.
La cosa interessante è che lo stress (alti livelli di cortisolo nel sangue) e i
suoi effetti non si manifestano in egual misura in entrambi gli animali.
Quale delle due cavie sarà allora «stressata»? Ho posto spesso questa
domanda al pubblico durante le mie conferenze, ricevendo quasi sempre la
stessa risposta: l’animale stressato dovrebbe essere quello con la lampadina
e il tasto nella gabbia, perché deve stare attento, non può distrarsi –
quantomeno non dall’accensione della lampadina – e deve premere
velocemente il tasto. L’altro animale invece non ha nulla da fare, quindi non
è nemmeno sottoposto a stress.
Sbagliato!142 Proviamo a immaginare come le cavie vivano questa
situazione: per l’animale con la lampadina e il tasto all’interno della gabbia,
il mondo funziona in maniera piuttosto regolare. Talvolta si accende la luce
e lui sa che deve premere rapidamente il tasto affinché non gli accada nulla
di male. Talvolta è troppo lento e sa che proverà dolore. Per l’altro animale
la situazione è completamente diversa: ogni tanto prova dolore, ma non ha
alcun controllo sulla cosa e su quando ciò accade, se accade. Esattamente
questo è lo stress. Infatti, nella seconda cavia si riscontrano un livello più
alto di cortisolo nel sangue e, sul lungo periodo, le ripercussioni negative
dello stress sulla salute.
Si consideri che entrambi gli animali sono esposti alle stesse scosse
elettriche, nello stesso momento, ma che solo quello che non ha il controllo
della situazione prova stress. Ne deriva quindi che lo stress non è provocato
dal numero di avversità che viviamo (in questo caso la scossa dolorosa), ma
dalla percezione soggettiva di non avere alcun controllo su ciò che accade.
A provocare stress dunque è l’incertezza rispetto a una data situazione e
non la negatività della situazione stessa (grafico 4.3).
4.3: Correlazione tra insicurezza o controllo e livello di stress.
4.7: Cosa accade quando il capo lascia soli i suoi collaboratori? Il grafico mostra la quantità
di sintomi accusati in relazione al supporto ricevuto dal capo: la percentuale degli impiegati
sani (che accusano pochi sintomi o nessuno) diminuisce quanto più si riduce il sostegno del
capo. Contemporaneamente aumenta la percentuale di collaboratori malati (più di sei
sintomi).153
4.8: Correlazione tra sostegno sociale e stress: quanto più sostegno viene percepito, tanto
minore è l’aumento dell’ormone dello stress cortisolo al Trierer Stresstest. Questo aumento
(livello di cortisolo dopo il test meno livello di cortisolo prima del test, diviso per il livello di
cortisolo prima del test – il punteggio grezzo è stato precedentemente trasformato) viene
definito anche reattività.159
Trauma infantile e stress duraturo
Lo stress degli adulti nella vita lavorativa è piuttosto nocivo, soprattutto se
sperimentano per un lungo periodo una condizione di solitudine e
impotenza. Effetti ancora più negativi dello stress duraturo sul lavoro
sembrano derivare però da esperienze di solitudine nell’infanzia, che
compromettono sin dalla giovane età la sensibilità dell’intero «sistema
stress». E questo per tutta la vita.
Da trent’anni, il gruppo di ricerca guidato dal famoso scienziato
canadese Michael Meaney studia gli effetti delle cure materne sui cuccioli
di alcune specie di animali. Quando si impedisce alla madre di accudire e
leccare i cuccioli di ratto, negando cure e contatto fisico, si imprimono
cambiamenti permanenti nel loro cervello. In una prima fase di studi si è
scoperto, infatti, che gli animali reagiscono con maggiore intensità allo
stress e sul lungo periodo presentano alte concentrazioni di ormoni dello
stress, mentre test specifici condotti in età adulta rivelano una ridotta
capacità di osservazione.160 In un secondo studio si è cercato di risalire alle
cause di questi effetti e sono stati riscontrati dei cosiddetti cambiamenti
epigenetici. Questi non riguardano il codice genetico, che rimane invariato,
ma la sua lettura nelle singole cellule e dunque la decodifica della sua
funzione. Se nei cuccioli si provoca stress a causa del mancato contatto con
la madre, si producono cambiamenti permanenti nel loro cervello che
portano a un intensificarsi della reazione di stress e, dopo una certa fase, a
una maggiore concentrazione di ormoni dello stress nel sangue. Attraverso
questo meccanismo, la solitudine nella prima infanzia provoca un maggiore
stress nel corso di tutta la vita.161
Ciò accade perché nei cuccioli trascurati dalle madri i geni per i recettori
del cortisolo presenti nelle cellule nervose dell’ippocampo non vengono
letti e dunque se ne riduce l’addestramento. L’ippocampo è collocato al di
sopra della cascata di ormoni responsabile dell’attivazione della reazione di
stress e la mitiga (grafico 4.9). Il minor numero di recettori del cortisolo
riduce invece tale effetto di smorzamento. Risulta chiaro dunque perché
esperienze traumatiche vissute durante l’infanzia portino alla lunga a un più
alto livello di stress: esse riducono l’effetto di smorzamento e provocano
quindi un’attività più intensa di tutto il sistema stress.
4.9: L’ippocampo è collocato «al di sopra» del meccanismo di rilascio degli ormoni dello
stress e ne attenua il funzionamento. Questo procedimento è indicato nel grafico con il
segno (-). Con il segno (+) sono indicati invece gli effetti eccitanti. Un numero ridotto di
recettori del cortisolo nell’ippocampo riduce la sensibilità delle cellule al cortisolo, e ciò
produce a sua volta un effetto negativo sull’attività dell’ippocampo. In questo modo, infatti,
si ostacola il processo di attenuazione del rilascio e ciò porta a una modifica dell’intero
sistema e a un maggior livello di stress nel corso di tutta la vita.
A questo proposito si parla anche di «riprogrammazione» epigenetica,
che provoca un aumento dello stress per tutta la vita.162 Ormai sono stati
scoperti anche altri meccanismi di riprogrammazione duratura delle
funzioni cerebrali, provocati da esperienze di stress nella prima infanzia e
che interessano non solo l’ippocampo, ma anche l’amigdala e la corteccia
prefrontale.163 Tramite questi meccanismi si può spiegare, tra le altre cose,
quali ripercussioni può avere la mancanza di cure in età infantile sullo
sviluppo del cervello.164
Tutto ciò è dimostrabile attraverso esperimenti nei quali siamo in grado
di controllare molto bene le condizioni ambientali delle cavie e di studiare i
cervelli con tutti i moderni metodi della biochimica e della genetica. Nel
corso degli ultimi dieci anni, le ricerche sono state rivolte anche allo studio
delle stesse correlazioni sull’uomo. La domanda di fondo è in che modo e
in che misura l’abbandono e la solitudine vissuti in età infantile, nonché lo
stress a essi collegato, possono provocare l’insorgere di malattie anche in
età adulta. Approfondiremo questo argomento nel capitolo 6.
Riassumiamo
A produrre stress, ribadisco, non sono tanto le esperienze spiacevoli, quanto
il sentimento di impotenza. Quando ci rendiamo conto di non aver alcun
controllo sulla nostra vita, soffriamo di stress cronico (proprio come le
cavie degli esperimenti descritti in questo capitolo). Gli stessi cambiamenti
fisiologici motivati in caso di stress acuto – la regolazione della pressione,
della glicemia e della circolazione e il blocco di funzioni fisiologiche
temporaneamente meno rilevanti (crescita, nutrizione, difese immunitarie) –
portano in caso di stress cronico all’insorgere di malattie. Tali malattie sono
le più frequenti nel nostro mondo occidentale «civilizzato».
Possiamo ridurre lo stress cronico attraverso l’interazione con il nostro
prossimo. Se al contrario conduciamo una vita ritirata e viviamo una
perenne condizione di solitudine, il nostro stato – come vedremo nelle
prossime pagine – ci porterà a sviluppare patologie croniche (capitolo 6) e a
un consistente aumento del rischio di mortalità (capitolo 7). Sul lavoro,
molto dipende dai nostri superiori. Ciascun capo è responsabile almeno in
parte dello stato di salute (o di malattia) dei propri collaboratori.
Com’è stato dettagliatamente spiegato in questo capitolo, la solitudine
nella prima infanzia e l’abbandono da parte dei genitori possono avere
come conseguenza una programmazione sfavorevole per un cervello in via
di sviluppo e avere ripercussioni fin nell’età adulta.
Capitolo 5
Insieme online?
Per via dei tanti tavoli di diverse dimensioni che avete visto nella vostra
vita e che sono registrati nella vostra memoria visiva, in questo caso vedete
due tavoli di misure differenti. Le immagini salvate nella vostra memoria
vengono utilizzate automaticamente per analizzare i «dati» che si
presentano davanti ai vostri occhi, perché nel cervello – detto in modo
superficiale – la registrazione e l’elaborazione delle informazioni sono
effettuate dallo stesso hardware. Per questo «correggete» la visione del
tavolo da cucina e del tavolo da salotto. Di tutto ciò si occupa il vostro
sistema visivo: non siete «voi» a farlo consapevolmente. L’effetto è
prodotto attraverso dei processi interni inconsci.167
Si tratta degli stessi processi che ci consentono di completare, senza
fatica e sulla base delle nostre preconoscenze, immagini incomplete o
discorsi acusticamente disturbati (figura 5.2).
Poiché tutto ciò avviene senza alcun intoppo, non ci accorgiamo della
nostra «partecipazione attiva» alla produzione delle percezioni. Tale
partecipazione aumenta quando si tratta di situazioni complesse come, per
esempio, il comportamento sociale: attribuiamo all’altro scopi, intenzioni,
desideri, pensieri, preconcetti, stati umorali duraturi ed emozioni
temporanee, e non ci rendiamo conto che si tratta di un’operazione che
facciamo noi stessi. E ne siamo capaci proprio come siamo capaci di
camminare o parlare perché – proprio come il camminare e il parlare – lo
abbiamo appreso durante la nostra infanzia e giovinezza.
Depressione da Facebook...
Il social network Facebook è stato fondato nel 2004 e nella primavera del
2017 contava circa 2 miliardi di utenti. Twitter è stato fondato nel marzo
2006 e nella primavera del 2017 aveva 300 milioni di utenti.
Tabella 5.1: I più importanti social network e il numero degli utenti nel 2017 (fonte: Statista)
Facebook 2047
YouTube 1500
WhatsApp 1200
Instagram 700
Tumblr 357
Twitter 328
Skype 300
Snapchat 255
Pinterest 175
LinkedIn 106
Quando i social media hanno fatto il loro ingresso nelle nostre vite, in un
primo momento sono stati utilizzati – come poteva andare diversamente? –
soprattutto da chi aveva già un grande interesse per i contatti sociali. Queste
persone, socialmente molto attive, utilizzavano un ulteriore mezzo digitale
per rimanere in contatto con gli altri e curare le proprie relazioni. E difatti, i
primi studi sulle ripercussioni dei social media registravano una ricaduta
positiva sul benessere sociale.179 In fondo, anche i primi guidatori di
automobili erano persone sportive, amanti della velocità e della meccanica,
informati e competenti. E il primo corso online aperto su ampia scala
(Massive Open Online Course, oggi si parla di MOOC) alla Stanford
University nel 2011 è stato un grande successo quanto a numero di
partecipanti e a risultati nell’apprendimento. Non c’è da meravigliarsi:
ancora una volta, erano i più curiosi e desiderosi di apprendere a volersi
confrontare con questa nuova modalità didattica e a ritenere un privilegio
poter partecipare alle lezioni di studiosi noti a livello mondiale.
Oggi, però, dopo diverse di queste esperienze, sappiamo che i cosiddetti
early adopters (coloro che sperimentano per primi nuove tecniche o nuovi
trend) non sono affatto rappresentativi di quanti cominciano a seguire una
moda solo perché «tutti lo fanno». Diversamente dall’utente comune, i
pionieri della tecnica sono più istruiti, socialmente meglio integrati e
presentano una maggiore capacità di empatia e predisposizione al rischio.180
Consideriamo gli esempi appena citati: il guidatore di oggi non possiede
alcuna competenza meccanica e non è particolarmente sportivo. Le cose
non sono diverse nel caso di una persona che usa computer e internet e che
segue corsi online: ormai i MOOC registrano – a seconda della
preparazione degli studenti – un tasso di abbandono che va dal 92 percento
(buona preparazione) al 98 percento (scarsa preparazione).181 Sono quindi
tra gli esperimenti più frustranti mai condotti in ambito didattico. Chi mai
prenderebbe in considerazione un insegnamento, un percorso di studi o una
qualsiasi possibilità di formazione, sapendo che di 100 partecipanti
termineranno il corso con successo soltanto dalle 2 e alle 8 persone? Per
questo, in tutto il mondo, i MOOC vengono smantellati; e vengono buttati
al vento ingenti investimenti da parte di istituzioni rinomate come Harvard,
Sandford, Berkeley o il Massachussetts Institute of Technology.
Non diversamente dagli automobilisti e dagli iscritti ai corsi online, le
differenze tra i primi utenti e gli utenti comuni dei social media sono
sensibili. I primi utenti Facebook erano persone socialmente molto attive
che usavano la nuova proposta online per gestire meglio i loro numerosi
contatti. Oggi quasi tutti i ragazzi usano numerosi social media, e lo fanno
con una frequenza tale da compromettere in maniera chiara, e misurabile, la
loro vita sociale.
Per dimostrarlo non bisogna però limitarsi a chiedere a qualcuno se usa o
meno Facebook e qual è il suo stato d’animo.182 Perché, per esempio, esiste
una particolare forma d’ansia, l’ansia da Facebook, che ne limita l’uso. In
questi soggetti si riscontra una correlazione tra «più uso di Facebook» e
«meno ansia».183 Bisogna dunque adottare un estremo rigore metodologico
per descrivere con precisione cause ed effetti. Solo così le correlazioni
statistiche possono condurci a risultati validi che, a loro volta, possono
rappresentare la base per una più chiara interpretazione di altre correlazioni
statistiche.
Ormai sono tanti gli studi scientifici che hanno dimostrato che l’uso dei
social media rende depressi.
In una ricerca che ha coinvolto 82 ragazzi e ragazze di appena 20 anni è
stata approfondita, con la strategia del time sampling, la relazione tra l’uso
di Facebook e lo stato d’animo soggettivo.184 I soggetti coinvolti nel test
venivano contattati tramite sms cinque volte al giorno per 2 settimane, a
orari non prestabiliti, affinché riferissero circa il loro stato d’animo nel
momento dato e il livello di soddisfazione nella vita in generale. Inoltre si
chiedeva loro quante volte avessero utilizzato Facebook dal momento
dell’ultimo sms. Si è riscontrato un diretto influsso negativo di Facebook
sullo stato d’animo immediatamente successivo al suo utilizzo (grafico 5.3).
Non è stato riscontrato invece l’influsso inverso, ossia che una situazione di
benessere ridotto portasse a un maggiore uso di Facebook.
5.3: L’uso di Facebook fa peggiorare l’umore e riduce il senso di soddisfazione nella vita.
Riassumiamo
Due miliardi di utenti in tutto il mondo trascorrono milioni di ore al giorno
su Facebook. Usano questo e altri social network molto probabilmente
perché vi vedono la promessa di una migliore vita sociale. In fondo la
comunicazione, i legami e la comunità sono per l’uomo tra le fonti
principali di benessere. Contrariamente alle aspettative, l’uso di Facebook e
di altri social media porta tuttavia a un livello più basso di soddisfazione
nella vita; la fiducia reciproca svanisce, mentre crescono la depressione e la
solitudine. Inoltre, i social network intossicano le relazioni di coppia
provocando talora separazioni e divorzi. L’incrinarsi (interferenza) delle
relazioni di coppia a causa delle tecnologie dell’informazione ricorre oggi
così spesso che gli si è dato un nome specifico: technoferenza. Perché?
I social media stanno ai rapporti interpersonali reali come i popcorn
stanno alla sana alimentazione: ci si aspetta di provare gioia tra amici, e ciò
che si ottiene in verità è solo aria fritta.
Il mondo reale è im-mediato: ognuno può verificarlo provando a passare
attraverso una porta chiusa, a mangiare una mela marcia o a tuffarsi
nell’acqua gelida. La realtà oppone resistenza. La differenza tra il mondo
reale e il mondo virtuale è ancora più evidente nella sfera sociale: tra i
contatti virtuali e un approccio diretto alle altre persone – senza schermi e
casse acustiche – c’è una differenza colossale. Quanto sia significativa la
differenza tra la presenza diretta e la presenza virtuale ce lo dimostra un
esempio pratico tratto dalla vita lavorativa delle multinazionali: nulla può
sostituire il contatto diretto con un collaboratore, con il rappresentante di
un’azienda partner o con il cliente.
Quel che vale per l’economia, e che può avere costose conseguenze di
cui occorre essere consapevoli, vale a maggior ragione per i contatti privati.
Chi, per motivi di «efficienza», trascorre il proprio tempo sui social
network invece di incontrare le persone «dal vivo», deve sapere che in
questo modo sta mettendo a rischio la propria soddisfazione e, in ultima
istanza, la felicità. È lo stesso rischio che corre chi, per «motivi di
efficienza», si perde il sorriso del barista mentre beve il suo caffè, perché
non ha tempo per alzare lo sguardo. I tanti, piccoli incontri reali con
persone spesso assolutamente sconosciute sono il collante che tiene insieme
non solo la nostra vita, ma anche la nostra società. Perché allora così tante
persone accedono al loro account e sprecano il tempo con un’attività che
loro stesse (se glielo si chiede) descrivono come inutile? In fin dei conti
perché spesso non sanno cosa fa loro bene e cosa li rende felici. Credono
che staranno meglio quando si saranno loggate in un social network. In
verità stanno peggio. In particolare, e contro ogni aspettativa, i social
network non aumentano la quantità e qualità dei nostri contatti, ma ci
rendono più soli. È un fatto dimostrato.
Capitolo 6
Pressione alta
La pressione alta (ipertensione arteriosa) è una malattia strana, perché
inizialmente non provoca sintomi significativi. Perfino quando ci alziamo di
scatto dal letto o da una posizione accovacciata, non ci gira la testa e non ci
si oscura la vista. Con il passare degli anni però la pressione alta porta a
patologie vascolari e disturbi della circolazione, che possono avere
ripercussioni negative su quasi tutte le aree del nostro corpo: dalla vista ai
reni. Più frequenti sono comunque i disturbi circolatori nel cuore e nel
cervello, per cui una pressione troppo alta è causa del 20 percento circa dei
decessi (dati degli Stati Uniti).
La correlazione statistica tra solitudine e pressione alta è stata dimostrata
più di dieci anni fa con uno studio su 229 persone di età compresa tra i 50 e
i 68 anni.220 Quanto più sola era la persona, tanto più alta era la pressione
arteriosa misurata,221 laddove tale correlazione non era riconducibile a
fattori demografici come età, sesso, etnia, reddito, istruzione e nemmeno ad
altri fattori di rischio (consumo di alcol e/o tabacco, peso, assunzione di
determinati medicinali). Sappiamo che la solitudine è strettamente legata
all’esperienza di depressione, stress, ambiente ostile e ridotto sostegno
sociale: per questo è significativo che, una volta registrati questi fattori, si
sia riscontrato che la solitudine ha un effetto ulteriore, indipendente da essi.
I pazienti dello studio sono stati seguiti e analizzati per un periodo di
osservazione complessivo di quattro anni. Attraverso specifiche procedure
di analisi delle serie storiche contestualmente rilevate, si è potuto
dimostrare che a partire dai casi di solitudine registrati all’inizio dello
studio si era in grado di predire un aumento della pressione arteriosa nel
corso dell’esperimento.222 Anche se in un primo momento gli effetti
sembrano essere minimi – l’aumento della pressione era di pochi millimetri
di mercurio223 –, essi si vanno ad assommare nel corso degli anni.
Che tali effetti siano di fatto rilevanti dal punto di vista clinico, lo
suggeriscono le seguenti considerazioni: mantenendo statisticamente
costanti l’età e altre variabili accessorie, un aumento di 10 punti (che
corrisponde a una deviazione standard) sulla scala della solitudine (60 punti
totali) corrispondeva a un aumento della pressione sistolica di 5 mmHg. Se
si tiene conto che tra il ventesimo e il sessantesimo anno la pressione
arteriosa aumenta in media di 1 mmHg ogni due anni,224 5 mmHg
corrisponderanno a un «invecchiamento precoce» (per quanto riguarda la
pressione) di dieci anni.
Quanto siano importanti queste scoperte rispetto alla correlazione tra
solitudine e pressione è mostrato anche dalla seguente considerazione: le
persone che, sulla scala della solitudine, si collocavano nell’ultimo terzo,
avevano una pressione arteriosa da 10 a 30 mmHg più alta rispetto alle
persone che non lamentavano un sentimento di solitudine. Se si calcola che
una differenza nella pressione di 20 mmHg comporta un raddoppiamento
del rischio di infarto o ictus (come ha mostrato la metanalisi sul decorso
della malattia con circa un milione di pazienti),225 l’effetto di una solitudine
manifesta (ultimo terzo) sulla pressione arteriosa si inserisce appieno nel
quadro di tali patologie. E poiché le conseguenze dell’ipertensione
mostrano un incremento lineare, anche effetti minimi hanno un’ampia
rilevanza sul piano sociale. Per dirla in altre parole: anche delle piccole
variazioni nella solitudine di ciascun individuo hanno ripercussioni
importanti se moltiplicate per milioni di persone.
Infarto e ictus
L’infarto cardiaco e l’ictus sono classificati come malattie cardiovascolari.
Cambiamenti nelle pareti delle arterie (ovvero dei vasi sanguigni che
trasportano ai vari organi sangue ricco di ossigeno e sostanze nutritive)
provocano irrigidimenti e ostruzioni che possono condurre a un
malfunzionamento della circolazione. Si parla in questo caso di
arteriosclerosi (dal greco skleros, «rigido»). Quando i disturbi della
circolazione diventano acuti e colpiscono i vasi che riforniscono il muscolo
cardiaco, si parla di infarto. Quando interessano i vasi che riforniscono il
cervello, parliamo di ictus.
Diverse ricerche hanno come tema la correlazione tra solitudine o
isolamento sociale da un lato e fenomeni cardiovascolari dall’altro.
Valutandole nel loro insieme otterremo una metanalisi.
Questo è stato fatto selezionando 23 ricerche (condotte in Europa, Stati
Uniti, Giappone e Australia), che hanno permesso di valutare un totale di
4628 casi di infarto e 3002 casi di ictus. Tutti i partecipanti avevano
risposto a domande sulla frequenza e sulla qualità delle loro attività sociali
e dei loro contatti sociali, nonché sul sentimento di solitudine, e sono stati
poi seguiti per un periodo di tempo oscillante dai tre ai ventuno anni, per
controllare se avessero subito un infarto o un ictus, o se ne erano addirittura
morti.226 Contatti sociali ridotti (poor social relationships) si sono rivelati
un fattore di rischio sia per l’infarto (incremento del rischio del 29
percento) sia per l’ictus (incremento del rischio del 32 percento), senza
distinzione di genere. I dati sull’incremento del rischio di infarti e ictus a
causa della solitudine corrispondono all’incremento del rischio provocato
da fumo, ansia e stress lavorativo. La solitudine è un fattore di rischio
addirittura più grande dell’obesità, e questo vale nuovamente sia per gli
uomini sia per le donne.
Come ha dimostrato l’analisi dei dati ricavati da uno degli studi più noti
e di maggiore durata sullo sviluppo umano, anche bambini e ragazzi soli
manifestano, quando diventano giovani adulti, un rischio maggiore di
malattie cardiovascolari (aumento di peso corporeo, pressione e
colesterolo). Nell’ambito di uno studio longitudinale neozelandese sono
stati registrati in una città tutti i nati tra l’autunno del 1972 e la primavera
del 1973 (1037 neonati). Per i successivi ventisette anni, queste stesse
persone sono state contattate, intervistate e in parte anche sottoposte ad
analisi a intervalli di alcuni anni,227 per stabilire il loro stato di salute e come
evolvesse la loro vita. Lo studio ha come titolo Socially isolated children 20
years later,228 e attraverso di esso è stato dimostrato che i bambini e i
giovani soli presentano un incremento del 37 percento del rischio di
sviluppare malattie cardiovascolari, indipendentemente da altri fattori di
rischio noti, come lo stress dovuto a episodi di vita sfortunati, povertà, QI
basso, sovrappeso fin da bambini, mancanza di movimento e consumo di
alcol e tabacco.
La solitudine ha dimostrato un effetto sorprendentemente negativo sui
giovani adulti anche rispetto allo stato di salute complessivo, registrato per
un periodo di osservazione di oltre trent’anni: il rischio di malattia
(qualsiasi malattia) cresceva del 158 percento rispetto ai partecipanti che
nell’infanzia e nella giovinezza non avevano sofferto di solitudine.
Cancro
Come è stato recentemente dimostrato attraverso una serie di ricerche, la
solitudine ha un effetto negativo sul sistema immunitario e quindi anche
sull’insorgenza e sul decorso del cancro. Da un’ampia metanalisi che ha
selezionato in tutto 87 studi sulla correlazione tra sostegno sociale percepito
(l’opposto della solitudine) e forme tumorali è risultato un incremento del
25 percento del rischio di morire di cancro in chi soffre di solitudine. Una
rete sociale più ampia riduce lo stesso rischio del 20 percento e lo stato di
famiglia «sposato/a» del 12 percento. Questo, in linea di principio, riguarda
qualsiasi forma di tumore.229 Inoltre, lo stato di famiglia «separato/a» o
«vedovo/a» si è dimostrato più favorevole rispetto a quello di «mai
sposato/a» (never married) e le correlazioni tra rete sociale e morte per
cancro sono più forti nel caso di giovani pazienti. Particolarmente evidente
è la correlazione nel caso di pazienti affetti da leucemia (cancro del sangue)
e linfomi (cancro alle ghiandole linfatiche).
L’ampiezza della rete sociale ha mostrato un effetto particolarmente
positivo nei pazienti leucemici. Poiché, inoltre, l’ormone dello stress
cortisolo è un fattore importante nello sviluppo delle ghiandole mammarie
delle donne, è sembrato ovvio procedere ad analizzare lo sviluppo del
cancro al seno, al fine di caratterizzare con più precisione l’influsso dello
stress cronico sulla malattia. D’altronde, il cancro al seno è la tipologia di
tumore più frequente nelle donne e questo è uno dei motivi per cui è
maggiormente studiato: una più approfondita comprensione della malattia
ha una grandissima rilevanza per la salute di molte persone.
Già nel 2003, grazie a un ampio studio epidemiologico condotto in
Finlandia230 cui hanno partecipato 10.808 donne, sono state evidenziate
correlazioni tra esperienze di vita traumatiche e l’insorgenza di un tumore:
una separazione o un divorzio raddoppiano la probabilità di insorgenza (di
2,26 volte), e lo stesso vale per la morte del partner (esattamente 2 volte),
mentre la morte di un amico caro o di un parente stretto fa crescere la
probabilità del 35 percento, indipendentemente dal numero complessivo di
esperienze traumatiche. Studi ulteriori hanno prodotto risultati simili,231
mentre altri non sono riusciti a confermare tali dati,232 per cui continua a
esserci incertezza sulle effettive ripercussioni di eventi traumatici e luttuosi
sulla salute. Revisioni della letteratura scientifica sull’argomento
evidenziano che perdite gravi (la morte del partner o di un figlio) hanno un
effetto maggiore a confronto dello stress lavorativo o a quello di allevare un
figlio.233
In un lavoro del 2016 che richiama il titolo di una nota canzone dei
Beatles, Breast Cancer and Social Environment: Getting by With a Little
Help From Our Friends,234 vengono discussi analiticamente i meccanismi e
i fattori responsabili della mortalità per cancro in condizione di solitudine.
Per molto tempo si è creduto che pazienti soli malati di cancro morissero
prima perché ricevevano meno aiuti «strumentali» e dunque la loro terapia
non funzionava bene: non avevano nessuno che li accompagnasse dal
medico, che procurasse loro delle medicine o che controllasse che le
assumessero, tutti motivi pratici, insomma...
Ma gli esperimenti sull’isolamento sociale condotti su ratti e topi tenuti
in gabbia da soli o in gruppo hanno fornito le migliori prove del fatto che la
solitudine agisce molto più in profondità rispetto a queste riflessioni sulla
mancanza di aiuti pratici: l’isolamento sociale provoca in queste cavie un
aumento della crescita tumorale e una maggiore malignità del tumore.235
Invece non cresce la probabilità di sviluppare un tumore. Solo nel momento
in cui si sviluppa un tumore, si assiste a una crescita maggiore e a uno
sviluppo della malattia orientato verso una maggiore malignità e produzione
di metastasi.
Nel marzo 2017 è stato pubblicato un ampio studio sulla correlazione tra
cancro e isolamento sociale che raccoglie dati di 16.044 persone intervistate
tra il 1988 e il 1994 (e che nel 1988 avevano almeno 17 anni) e osservate
per i successivi diciassette-ventitré anni.236 In questo lasso di tempo, 1133
persone erano morte di cancro: poiché si trattava di un campione
rappresentativo, lo studio ha permesso di elaborare considerazioni valide
per tutti gli Stati Uniti. Il risultato più importante dello studio è stato, ancora
una volta, scoprire che l’isolamento sociale ha come conseguenza un
aumento del 25 percento della probabilità di morire di cancro. Tale risultato
si accorda molto bene con quanto esposto sopra riguardo la metanalisi. Sia
l’effettivo isolamento sociale sia le esperienze soggettive di solitudine
incrementano la probabilità di morire di cancro.
Malattie psichiche
Ovunque, la solitudine è il problema per eccellenza dei soggetti affetti da
malattie psichiche, anche perché malattie psichiche e solitudine
costituiscono spesso un circolo vizioso e si rafforzano a vicenda (figura
6.2): da un lato, la malattia provoca un sentimento di solitudine, dall’altro,
le esperienze di solitudine possono concorrere all’insorgere della malattia o
a intensificarne gli effetti.
6.2: Malattie psichiche e solitudine costituiscono spesso un circolo vizioso.
Riassumiamo
La percezione soggettiva della solitudine fa aumentare il rischio di contrarre
una serie di malattie: dal semplice raffreddore ad altre patologie infettive,
ma soprattutto i disturbi tipici della nostra epoca come pressione alta,
infarto cardiaco o ictus, cancro. Le analisi effettuate hanno il merito di non
essersi fatte fuorviare da elementi di casualità o effetti banali («chi si sente
male, si sente anche solo»). Proprio a causa del rigore metodologico usato, i
risultati sono di particolare importanza e non possono essere ignorati.
Nel campo della psichiatria la solitudine occupa un posto particolare,
perché spesso è possibile tracciare un circolo vizioso che collega la
solitudine all’ulteriore avanzamento della malattia. Dipendenze,
depressione, nonché alcune forme di demenza e molte psicosi sono
acutizzate dalla solitudine e la favoriscono a loro volta. Per questo,
partecipazione sociale e vita di comunità sono elementi importanti della
prevenzione e della terapia psichiatrica.
Capitolo 7
Mortalità: cos’è?
Prima di procedere, chiariamo con un esempio l’oggetto della questione.
Immaginatevi di voler sapere quanto è sano fumare. Sappiamo da tempo
che il fumo provoca il cancro, e sappiamo anche perché (il fumo delle
sigarette contiene sostanze cancerogene). Possiamo dunque per prima cosa
chiedere a un campione di individui se sono fumatori o non fumatori, poi
aspettare e infine contare quanti sono, per ciascuno dei due gruppi, le
persone che muoiono di cancro. In questo modo sapremo in che misura il
fumo influisce sul cancro ai polmoni e sulla probabilità di morirne.
L’acquisizione in sé di questi dati ci aiuta ben poco a valutare le
conseguenze del fumo sulla salute. Il fumo infatti provoca anche il cancro
alla vescica, poiché molte delle sostanze cancerogene assorbite tramite i
polmoni vengono espulse attraverso l’urina, che si raccoglie nella vescica.
Il fumo però non provoca solo cancro ai polmoni e alla vescica, ictus e
infarto cardiaco ma, notoriamente, anche dodici tipologie di cancro, sei
diverse patologie cardiovascolari, il diabete, patologie polmonari croniche e
polmoniti nonché grave influenza virale.247 Se si vuole sapere in che misura
il fumo nuoccia realmente alla salute, bisognerebbe studiarne gli effetti su
tutte queste patologie. Anche così, però, il lavoro non sarebbe terminato,
perché potrebbe sempre darsi la possibilità che certe correlazioni non siano
ancora note e vengano dunque ignorate.
Questo è quanto vale per il fumo, come ha dimostrato uno studio che ha
coinvolto 421.378 uomini e 532.651 donne di almeno 55 anni. I partecipanti
sono stati osservati dal 2000 al 2011. Nel periodo dato si sono verificati in
totale 181.377 casi di morte, di questi 16.475 erano di fumatori.
Suddividendo i partecipanti in due gruppi, fumatori e non fumatori, ne è
risultato che nel gruppo dei fumatori il numero di decessi era di 2,8 volte
superiore a quello del gruppo dei non fumatori. Dai dati rilevati si è potuto
calcolare che il 17 percento circa dei decessi in più non poteva essere
attribuito alle malattie legate al fumo sopra elencate.248 Con lo studio sono
state scoperte quindi nuove patologie che possono essere causate dal fumo
come cancro alla prostata e al seno, disturbi vascolari nell’intestino (infarto
intestinale), e altre ancora. Tra i fumatori, rispetto ai non fumatori, si è
regitrato un più alto tasso di suicidi (di 4,4 volte maggiore nelle donne e di
3,2 volte maggiore negli uomini) e un più alto tasso di incidenti (circa il 50
percento in più in uomini e donne). Il più alto tasso di suicidi era stato già
precedentemente descritto in una metanalisi di 2395 casi su una base di
1.369.807 soggetti che erano stati coinvolti in un totale di 15 studi;
l’incremento del tasso di incidenti invece non era ancora stato valutato.249
Detto tutto ciò, non possiamo dire di conoscere davvero tutte le
conseguenze del fumo. Come fare quindi a descrivere tutte le conseguenze
nocive di un fenomeno già di per sé molto più difficile da misurare, come la
solitudine? La procedura corrisponde essenzialmente a quella di alcuni
degli studi sul fumo finora descritti: si chiede a tantissime persone quanto
sono sole (così come descritto nel capitolo 1), si distingue tra isolamento
sociale (oggettivo) e solitudine (soggettiva), si aspettano alcuni anni e si
contano i morti.
Nella prassi, si utilizzano dati già acquisiti da ricerche mediche e li si
confronta con i registri di mortalità o con dati di altri studi, al fine di
raccogliere un numero quanto più alto di persone di cui si sa 1) se (e magari
anche quanto) hanno fumato e 2) se (e quando, e magari anche perché) sono
morti. La cosa richiede molto lavoro e molti calcoli. Soprattutto se teniamo
conto del fatto che i dati affidabili possono essere acquisiti solo quando non
si osserva il passato (in maniera retrospettiva), ma si guarda –
prospettivamente – il futuro.
Riassumiamo
Sia l’isolamento sociale oggettivamente esistente sia il sentimento
soggettivo di solitudine sono legati a un aumento della mortalità. In
confronto ad altri fattori di rischio quali inquinamento atmosferico,
mancanza di movimento, malnutrizione, obesità, fumo e ampio consumo
d’alcol, gli effetti negativi di solitudine e isolamento sociale sulla nostra
salute e sulla speranza di vita sono ancora più importanti.
Il metodo usato per desumere i fattori di rischio da grandi quantità di dati
relativi alla malattia e alla morte di un vasto numero di persone è
complicato. La statistica infatti non ci dice nulla su cause ed effetti,
stabilisce soltanto correlazioni e nel definirne la portata ci mette al sicuro
dagli errori. Al fine di vedere con maggior chiarezza i fatti, è dunque
estremamente importante collegare i risultati delle ricerche epidemiologiche
e della psicologia della salute con i risultati delle ricerche fisiologiche sugli
effetti biologici dello stress. Solo quando si combinano chiari effetti
statistici e comprensione dei meccanismi (cause e conseguenze) si
raggiunge una conoscenza sicura dei fatti, che è quella che ci fornisce la
scienza.
Questa consapevolezza, ormai confermata a più livelli, è presa in scarsa
considerazione; per questo siamo molto lontani dalla definizione di misure
coerenti per contrastare il problema. Ci sono leggi e campagne contro il
fumo, iniziative per promuovere un’alimentazione sana e l’attività fisica
necessaria al nostro corpo ecc. Vengono investite risorse pubbliche per
combattere o ridurre i rischi per la salute della popolazione. Ma tutto ciò
non accade (ancora) per i fenomeni di solitudine e isolamento sociale. Gli
studiosi cui dobbiamo queste nuove conoscenze ci invitano esplicitamente a
ripensare il nostro modo di vedere le cose. Perché solitudine e isolamento
sociale – come altri fattori di rischio – possono essere evitati.
Capitolo 8
Nel considerare gli effetti positivi che i contatti sociali hanno sull’uomo,
non bisogna dimenticare che essi non esauriscono lo spettro di possibilità
che ci vengono offerte dalle interazioni di tutti i giorni. Questo vale
soprattutto per la vita di coppia.
Se gli studi scientifici ci indicano ripetutamente che la vita da single è il
«Killer numero 1» e che chi è sposato vive più a lungo di chi non lo è,265 le
cose in verità non sono così semplici come sembrano. Non è detto che
l’effetto positivo di una relazione di coppia duratura o di un matrimonio sia
dovuto alla bontà del rapporto: si potrebbe trattare anche di un effetto di
selezione: le persone sane si sposano con maggiore probabilità di quelle
malate ed è per questo che le persone sposate sono più sane. È banale.
Potrebbe anche essere che le persone sposate dispongono di maggiori
risorse perché, rispetto a una vita da single, il matrimonio offre vantaggi
economici, psicosociali e sociali. Anche questo (casa migliore, cibo
migliore) potrebbe essere un motivo per cui le persone sposate vivono più a
lungo, e ancora una volta non si tratterebbe dell’effetto prodotto da un
grado minore di solitudine.
8.1: Numero delle pubblicazioni sul tema «matrimonio e famiglia», dal 1955 al 2015 (dati
ottenuti da una ricerca su PubMed inserendo le chiavi «marriage» e «health»; consultato il
15 aprile 2017).
Che fare?
Terapia
Se per le malattie si parla di «terapia», per i casi non clinici su cui si intende
agire si parla di «metodi di intervento» (dal latino inter, «tra» e venire,
«venire»). Quali metodi esistono per «mettersi tra sé e il problema»?
Funzionano? E se sì, perché? Cosa ci dice la scienza?
Sono molti i metodi di intervento che nel tempo sono stati proposti e
testati sul problema della solitudine e dell’isolamento sociale. Kimberley
Anderson e i suoi collaboratori della Queen Mary University of London, si
sono occupati per esempio della solitudine di malati psichici e dei metodi
per ridurla.307 Delle 29.079 pubblicazioni e revisioni (!) individuate, la
stragrande maggioranza (29.038) tuttavia non è stata presa in
considerazione a causa di insufficienza di contenuti e vizi metodologici. I
restanti 36 lavori sono stati considerati nella loro interezza e da questi si è
arrivati a selezionarne 5 (provenienti da Italia, Irlanda, Olanda, Israele e
Spagna) che soddisfacevano i requisiti di scientificità richiesti. I due criteri
più importanti sono l’esistenza di un gruppo di controllo e la
randomizzazione, ovvero l’attribuzione casuale dei soggetti coinvolti al
gruppo di intervento o al gruppo di controllo. Tutti i cinque lavori sono stati
realizzati negli ultimi dieci anni, il che dimostra che l’interesse per una
ricerca scientifica è relativamente giovane. Dei 5 studi, 4 hanno riportato un
risultato positivo, hanno cioè dimostrato che l’intervento suggerito e/o
analizzato ha prodotto un effetto misurabile sull’ampliamento della rete
sociale del partecipante. Dunque qualcosa si può fare: lo spettro delle
possibilità spazia dal sostegno da parte di altre persone al training di
competenze sociali. È comprovato che quando questi sforzi sono
accompagnati da una figura professionale – un medico o uno psicologo – le
possibilità di riuscita sono maggiori. Ma cosa fanno le persone normali?
Cosa si può o cosa si deve fare?
Un esame complessivo dei dati non permette ancora di trarre conclusioni
definitive. Si è provato quasi tutto: terapie individuali, terapie di gruppo e
misure di sostegno sociale all’interno della comunità; sempre basandosi su
un’interpretazione generale del concetto di solitudine. Da questa concezione
deriva anche il tentativo – molto comprensibile – di creare possibilità di
contatto per le persone sole. In questo caso possono però insorgere
problemi, perché la persona sola può essere molto sensibile e vulnerabile;
vivendo le situazioni sociali come una minaccia, anche alla più gentile
offerta di dialogo o di relazione può reagire con una chiusura o addirittura
con un rifiuto. Non bisogna mai dimenticare che per una persona che non
soffre di solitudine non è sempre facile immaginare cosa pensi o provi chi
ne soffre, e soprattutto in che termini. Per questo molti tentativi, benché
fatti con buone intenzioni, possono cadere nel vuoto.
Una metanalisi sui diversi metodi di intervento per ridurre il livello di
solitudine ha dimostrato quanto segue: molti studi partivano da buone
intenzioni ma erano realizzati male; più erano perfezionati dal punto di vista
del rigore metodologico, minore era l’effetto registrato. Gli studi che
realizzavano un confronto semplice di due gruppi (senza randomizzazione)
riportavano in media un effetto maggiore (–0,459), mentre gli studi in cui si
effettuavano misurazioni prima e dopo l’intervento (solo in un gruppo)
registravano un effetto inferiore (–0,367). Infine, negli studi controllati
randomizzati si aveva l’effetto minore in assoluto (–0,198).308
I diversi interventi messi in atto si possono suddividere in quattro
categorie:
Dare
«Vi è più gioia nel dare che nel ricevere»: tutti conoscono questa frase
dell’apostolo Paolo (Atti 20; 35), ma la maggior parte delle persone la
ritengono falsa: se do qualcosa, vuol dire che non la posseggo più; a
perderci sono io, mentre l’altra persona ci guadagna. Questo schema
mentale fa parte della nostra cultura occidentale, nonché della filosofia
politica codificata da Thomas Hobbes (1588-1679): gli uomini sono esseri
egoisti e, per non scontrarsi di continuo, devono accordarsi volontariamente
per creare uno Stato cui trasferire tutto il potere, perché li protegga da se
stessi.311 Ancora oggi, soprattutto tra i rappresentanti del wild-west-
capitalism, l’egoismo del singolo è un dato assolutamente normale, nel
senso che si considerata come norma il fatto che il singolo abbia un
interesse centrato su di sé.312
Non solo: anche le scienze, dalla biologia alla psicologia all’economia
che hanno per oggetto di ricerca l’uomo com’è e non come dovrebbe essere,
presuppongono che gli uomini agiscano per motivi egoistici. Basti pensare
alla teoria sulla definizione del prezzo di una merce: ognuno bada a sé così
si bada a tutti, al resto ci pensano domanda, offerta e le «invisibili mani del
mercato». Questa idea viene ascritta allo scozzese Adam Smith (1723-
1790), il fondatore dell’economia politica, che negli ultimi decenni ha avuto
un grande revival. Già più di quindici anni fa l’economista tedesco Armin
Falk diceva: «La politica e la coscienza pubblica sono condizionate sempre
più da teorie e proposte di azione legate all’economia. Non esiste modello
di conoscenza e di azione che vi abbia maggiore influenza rispetto al
concetto di homo oeconomicus».313 Con questo concetto si intende un
soggetto che agisce – in senso economico – in maniera razionale ed
egoistica.
È interessante che siano stati proprio degli economisti a notare negli
ultimi trentacinque anni le criticità di questa teoria. In molte situazioni
infatti l’uomo non si comporta in maniera razionale ed egoistica, cioè non si
comporta come prescriverebbe la dottrina economica. A questo risultato
sono pervenuti numerosi esperimenti che hanno preso le mosse dagli studi
della teoria dei giochi314 degli anni Quaranta e che sono stati condotti a
partire dagli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, iniziando a Bonn
e diffondendosi poi in tutto il mondo.315 Sono dati importanti per
comprendere la validità generale degli esiti e/o le dimensioni della
trasformazione culturale di alcuni esiti.316 La maggior parte delle persone
non si comporta in realtà né in maniera razionale né egoistica: circa il 70
percento delle persone vorrebbe un trattamento equo, e in un primo
momento così si comporta anche con gli altri. Se però viene illuso o deluso
dagli altri, allora entra in gioco la massima «occhio per occhio...»
Vediamo un esempio: lo sperimentatore dà una certa somma a due
soggetti del test e uno dei due deve decidere come tale somma debba essere
ripartita. Questo gioco si chiama gioco del dittatore, perché il secondo
partecipante non può contestare la decisione del primo. Sebbene il primo
non sia costretto a consegnare dei soldi al secondo, la maggior parte dei
soggetti coinvolti divide la somma a disposizione in maniera più o meno
equa. In un altro gioco, il secondo partecipante ha diritto di parola e, come
seconda regola, può accettare o no la proposta del primo giocatore: in caso
di assenso i soldi vengono distribuiti così come suggerito dal giocatore
numero 1, in caso di dissenso nessuno riceve nulla. Per questo si chiama
gioco dell’ultimatum. In questo caso, la maggior parte dei giocatori offre
all’altro partecipante il 40-50 percento della somma e in genere il secondo
giocatore accetta questa ripartizione. Le offerte sotto il 30 percento vengono
invece rifiutate dalla maggior parte dei soggetti. Entrambi sono
comportamenti irrazionali, perché al primo giocatore basterebbe offrire una
somma minima, mentre il secondo giocatore dovrebbe accettare ogni tipo di
offerta, visto che in fondo sta ricevendo in regalo qualcosa!
In entrambi i giochi si riconosce (senza differenze culturali) il bisogno
dell’uomo di uguaglianza ed equità. Ampi studi condotti in tutto il mondo
hanno tendenzialmente dimostrato che l’uomo è nel complesso migliore
della sua nomea: la maggior parte degli adulti vuole essere trattata in
maniera equa e di conseguenza tratta gli altri equamente.317 Perché?
Nel 2008 sulla rivista Science è stato pubblicato uno studio sull’effetto
positivo che produce lo spendere dei soldi per qualcuno su chi li spende.318
Sono stati intervistati 632 americani (287 uomini), a cui è stato chiesto
come prima cosa: «In generale si ritiene felice?» La risposta poteva essere,
in una scala da 1 a 5: 1 (mai), 2 (raramente), 3 (talvolta), 4 (spesso), 5 (sì).
In seguito, si chiedeva a tutti di elencare le spese mensili per il pagamento
di bollette, per se stessi, per gli altri e per sostenere obiettivi comuni
(beneficenza). Dai primi due valori si è calcolato un indice per le spese
personali (per sé), mentre dalle altre cifre si è ricavato un indice per le spese
prosociali (per gli altri). Il valore medio di tali spese mensili era
rispettivamente di 1714 dollari (per sé) e di 146 dollari (per gli altri).
Attraverso un procedimento statistico è stata esaminata la correlazione tra
questi valori e il grado di felicità riferito dagli intervistati. Non si è
riscontrata alcuna correlazione tra le spese per sé e la felicità individuale,
mentre si è registrata una correlazione positiva significativa tra le spese per
gli altri e la felicità individuale.
Ora, potrebbe essere che chi guadagna bene fa anche più beneficenza ed
è più felice a causa dei soldi. Per questo nell’analisi è stato inserito anche il
dato riguardante il reddito, e si è registrato un effetto sulla felicità in
relazione al reddito e in relazione alla spesa per gli altri. Entrambi gli effetti
avevano più o meno le stesse dimensioni ed erano indipendenti l’uno
dall’altro. Anche in questa analisi non si sono individuate correlazioni tra le
spese personali e la felicità individuale.
Un secondo studio ha coinvolto 16 impiegati di un’azienda di Boston (13
uomini). Diversamente dal primo che era uno studio trasversale, si tratta di
uno studio longitudinale. Tutti i soggetti del test hanno ricevuto dalla loro
azienda un bonus di un valore medio di 4919 dollari. Un mese prima del
bonus, e poi uno o massimo due mesi dopo, i partecipanti hanno dovuto
indicare il loro grado di felicità; un mese prima è stato chiesto loro anche il
reddito, mentre dopo hanno dovuto indicare quale percentuale del bonus
avessero speso per sé e quale percentuale avessero speso per gli altri o per
motivi prosociali. L’analisi statistica ha dimostrato nuovamente che solo le
spese per gli altri influenzavano il grado di felicità. Gli autori commentano
così: «È risultato dunque che gli impiegati che avevano utilizzato il bonus
per spese prosociali vivevano un grado più alto di felicità individuale dopo
aver ricevuto il bonus: pertanto il modo in cui il bonus veniva speso influiva
sul grado di felicità di chi lo riceveva in misura maggiore dell’entità del
bonus stesso».319
Per poter chiarire cause e conseguenze di tali correlazioni statistiche, gli
autori hanno eseguito, in un terzo momento, un esperimento con 46
studenti. Dopo aver comunicato alla mattina il loro grado di felicità
percepita, costoro ricevevano una busta contenente 5 o 20 dollari, insieme
alla consegna di spendere quei soldi per sé o per altri (regali o
beneficienza). Nel pomeriggio, ricevevano poi una telefonata, in cui si
chiedeva nuovamente quale fosse il loro grado di felicità. Si è evidenziato
che solo chi aveva speso i suoi soldi per gli altri era più felice. L’entità della
somma di denaro invece non aveva alcun influsso sulla felicità.
Se tutto questo è vero, perché le persone non sono più generose? In un
quarto studio, meno ampio ma ugualmente interessante, sono state elencate
ai 109 studenti partecipanti le quattro variabili dell’esperimento precedente
(5 dollari per sé, 5 dollari per gli altri, 20 dollari per sé, 20 dollari per gli
altri). Gli studenti dovevano stimare quale degli opposti (per sé vs per gli
altri; 5 vs 20) favoriva di più la felicità individuale. Il risultato è mostrato
dal grafico 9.1: una maggioranza significativa dei soggetti coinvolti
riteneva che spendere per sé rendesse più felici che spendere per altri. Quasi
tutti hanno pensato che più soldi vogliono dire anche più felicità. Tuttavia,
come hanno mostrato gli studi, nessuna delle due cose è vera. «I
partecipanti hanno sbagliato dunque per ben due volte circa l’effetto dei
soldi sulla felicità» hanno commentato gli autori.320
9.1: A sinistra: stima dell’effetto che una spesa per sé (bianco) o per gli altri (nero) ha sulla
felicità individuale; a destra: stima di quanto l’entità della somma agisce sulla felicità
individuale. In entrambi i casi si è chiesto cosa rendesse più felici. Le differenze (con un
coefficiente p < 0,01 o p < 0,0005) sono molto o estremamente significative.321
Uno studio comparato pubblicato due anni dopo, e che ha coinvolto 136
paesi, ha dimostrato che è un dato comune su scala mondiale che le persone
siano felici quando possono offrire un aiuto economico agli altri.322 Questa
scoperta è importante se si comprende che gli esperimenti psicologici si
pongono spesso l’obiettivo di dire qualcosa «sull’uomo» in generale, anche
quando la maggior parte di essi coinvolge giovani studenti americani.
Anche altri esperimenti condotti in due paesi tra loro molto diversi –
Canada e Uganda – hanno mostrato la stessa correlazione causale: dare
rende felici.
Felicità e comunità
Non fraintendetemi: non sto dicendo che la felicità possa essere impiegata
come rimedio contro lo sfortunato destino di una vita in solitudine. Se così
fosse, potremmo consigliare a una persona che soffre di solitudine di andare
in una sala giochi, visto che lì ogni tanto potrebbe rallegrarsi per una vincita
e sentirsi un po’ meglio.
Quel che qui interessa sottolineare è che comportamenti genuinamente
prosociali – come dare qualcosa a qualcuno – provocano una sensazione di
felicità, diversamente da quanto siamo spesso portati (erroneamente) a
credere. Crediamo che spendere per noi stessi ci renda felici, tanto più felici
quanti più soldi spendiamo, e invece ci sbagliamo. L’egoismo non rende
felici. Questo dato è tanto più rilevante se lo affianchiamo all’aumento
registrato ogni giorno delle tendenze egoistiche. Se dunque il soggetto (a
causa della pubblicità, della pressione sociale o per altri motivi) si pone
sempre più al centro del proprio agire e si impegna meno per gli altri, il suo
comportamento lo renderà meno felice e più solo. Non solo l’isolamento
sociale oggettivo ma anche la percezione soggettiva di solitudine bloccano
l’agire prosociale e dunque ostacolano le esperienze di felicità.
Possiamo anche dire così: poiché l’uomo è un essere sociale, la
solitudine gli provoca stress e la comunità ingenera gioia. Per questo,
qualsiasi azione che si risolva in un intensificarsi del rapporto con la
comunità non può che portare a un maggiore benessere.
E come funziona? Per rispondere a questa domanda esistono ormai
diverse ricerche. Nelle pagine seguenti ne presenteremo brevemente tre.
Un gruppo di lavoro giapponese ha utilizzato il modello del gioco
virtuale con la palla, con cui erano stati misurati gli effetti dell’abbandono
acuto sull’attività cerebrale (capitolo 2). Il gioco è stato però modificato in
modo tale che 1) a tutti i giocatori venisse lanciata la palla con la stessa
frequenza, oppure 2) a uno dei giocatori – quello dentro il tomografo per
RM – la palla venisse lanciata più spesso.323 Si è scoperto che in questo
secondo caso si attivava il sistema di ricompensa del giocatore (il nucleus
accumbens). Nel contempo, il maggiore coinvolgimento nel gioco veniva
vissuto in maniera molto positiva. Il livello di attivazione del nucleus
accumbens nell’individuo è correlato alla sua prosocialità, vale a dire al suo
impegno nel giocare insieme agli altri. Da questo fatto gli autori dello
studio deducono un nuovo e basilare aspetto: «La ricompensa ricevuta dal
comune agire sociale (interazione sociale) basta già da sola ad accrescere la
motivazione a un agire per la comunità».324
Anche un gruppo di ricerca olandese ha utilizzato il modello del gioco
virtuale con la palla. Il gioco è stato modificato facendo giocare non tre ma
quattro persone, e aggiungendo nel corso del gioco non soltanto
l’esclusione (abbandono) di uno dei giocatori, ma anche la possibilità di
introdurre comportamenti prosociali compensatori: due giocatori
escludevano un terzo (cioè smettevano di lanciargli la palla) ma il quarto
giocatore, osservando la situazione, lanciava la palla al giocatore escluso.
Questo quarto giocatore si trovava nel tubo del tomografo per RM in modo
che si potesse misurare la sua attività cerebrale. Notando l’esclusione
sociale del terzo giocatore, si attivava un’area del cervello chiamata insula e
che, come sappiamo da altri studi, reagisce anche alla percezione di dolore
sociale (come accade per l’isolamento acuto o l’abbandono).
In uno studio ulteriore strutturato in maniera analoga si è potuto
dimostrare che il comportamento prosociale (il lancio della palla al
giocatore appena escluso) attiva il sistema di ricompensa (nucleus
accumbens) del quarto giocatore.325 Sul piano comportamentale, accadeva
che il quarto giocatore lanciasse effettivamente più spesso la palla al terzo
(rispetto allo schema di gioco che non prevede l’esclusione). In breve:
anche i risultati neurologici ci dicono chiaramente che la solitudine di una
terza persona provoca dolore in un’altra (che sia un giocatore, un
compagno, un amico...) e favorisce in lei un comportamento prosociale,
attivando il sistema di ricompensa e dunque la percezione di emozioni
positive.
Il terzo studio326 ha analizzato l’azione del ricevere e quella del dare
sostegno sociale in un confronto diretto, per mezzo di procedimenti
psicologici e neurobiologici (RMF). Ciascuno dei 36 partecipanti coinvolti
(di circa 22 anni, metà donne) doveva svolgere tre compiti in RMF: uno
stress test (calcolare a mente, mentre si riceve un feedback negativo sulla
propria prestazione), un compito sul legame sociale (osservare foto di due
persone vicine e foto di due persone estranee) e infine un compito che
metteva in campo l’agire prosociale (i soggetti del test potevano
guadagnarsi dei biglietti della lotteria, la cui eventuale vincita di 300 dollari
sarebbe andata a una persona in ristrettezze economiche da loro indicata).
Inoltre, i partecipanti sono stati interrogati sulla loro situazione psicosociale
e sul livello si sostegno sociale che ricevevano dagli altri o che davano agli
altri.
Ne è risultato che in ciascun partecipante sia dare, sia ricevere sostegno
sociale sono correlati con una situazione psicosociale complessivamente
positiva. È stato interessante riscontrare, nella risonanza magnetica
funzionale, che solo l’azione del prestare aiuto (e non quella del riceverlo)
era correlata in caso di stress con una ridotta attivazione delle aree cerebrali
associate allo stress e, in caso di percezione di un legame sociale più stretto
(parte destra del nucleus accumbens) o in caso di azione prosociale
(entrambi i lati del nucleus accumbens) con una maggiore attivazione del
sistema di ricompensa.327
Il modello dell’attivazione cerebrale durante i tre diversi compiti svolti
in RMF ha mostrato dunque che – per dirla in sintesi – maggiore è il
sostegno sociale dato dai partecipanti minore è lo stress e maggiori sono le
emozioni positive. Questa correlazione invece non si registra nel caso in cui
i partecipanti ricevano sostegno sociale.
Perfino nei bambini di età inferiore ai 2 anni si è potuto osservare che
provano più gioia nel vedere che altri bambini ricevono dei dolci rispetto a
quando sono loro stessi a riceverli. Ai bambini piace davvero dare e
condividere quel che hanno. Questa tendenza cresce nel corso della vita.
Alcuni dati tratti da esperimenti di psicologia dell’età evolutiva con
bambini e ragazzi dagli 8 ai 16 anni ci dicono che in questa fascia d’età si
hanno comportamenti più solidali rispetto a quanto non avvenga nei giovani
adulti.328Inoltre, nella stessa fascia d’età, grazie al processo di
apprendimento da modello si acquisiscono con grande rapidità
comportamenti prosociali.329 I giovani adulti invece sono concentrati sulla
procreazione o sui propri figli e per questo motivo, in tale fase della vita, i
loro sforzi verso gli estranei sono minori.
Quanto più gli adulti invecchiano, tanto più torna a presentarsi un
comportamento prosociale, come è stato dimostrato per esempio in uno
studio giapponese con 408 cittadini di Tokyo, di età compresa tra i 20 e i 59
anni. Nello studio sono state impiegate cinque differenti situazioni di gioco
economico (gioco del dittatore, gioco dell’ultimatum e altri tre modelli
simili).330
Sin da piccoli abbiamo una tendenza al dare, che viene incoraggiata dalla
vita in comunità. I bambini sono felici di dare e in questo modo rafforzano
il loro agire sociale. Ne risulta un circolo virtuoso di gioia e senso di
comunità. Allo stesso modo, solitudine, insicurezza, crisi depressive e
ripiegamento sociale avviano una spirale negativa di sofferenza e
isolamento sociale. «Solo con la testa» – vale a dire con molta forza di
volontà e molti sforzi – è possibile spezzare una simile spirale, ma la
prospettiva di successo è minima. Per questo le piccole azioni della
quotidianità hanno un’enorme importanza. Da tante di queste piccole azioni
si può ottenere un indebolimento della spirale negativa e una spinta
all’attivazione del circolo virtuoso. Dare è una di queste piccole azioni.
Un’azione ancora più efficace, perché legata generalmente al contatto con
l’altro, è aiutare.
Aiutare
Pochissimi sanno che in Germania i vigili del fuoco di professione si
trovano soltanto in alcune metropoli. Quando c’è bisogno dei pompieri in
tutti gli altri luoghi, questo «servizio» – cui nessuno vuole dedicarsi e di cui
tutti hanno bisogno – viene svolto da volontari. Se volessimo (o dovessimo)
sostituire tutti i pompieri volontari con pompieri professionisti, la comunità
si troverebbe a dover sostenere ingenti spese. Questo vale per molte altre
attività. In realtà in Germania il volontariato è molto diffuso, basti pensare
che nel 2016, il 47 percento dei tedeschi era impegnato in una qualche
forma di volontariato destinata ai profughi.
Uno dei tratti distintivi dell’uomo è la sua tendenza ad aiutare non solo i
parenti più stretti o il compagno di una vita (questo accade anche tra altre
specie animali), ma anche gli estranei. Secondo un’ampia rilevazione
statistica condotta tra il 2012 e il 2013, quasi un europeo su quattro si
dedica almeno una volta ogni sei mesi a una qualche attività di
volontariato.331 Negli Stati Uniti 63 milioni di cittadini (di nuovo, quindi,
circa il 25 percento della popolazione) svolgono servizio volontario almeno
una volta all’anno.332
Chi aiuta gli altri si sente meglio. Questo è un dato che abbiamo
acquisito da tempo,333ma in anni più recenti è stato dimostrato con ricerche
di particolare interesse.
Stephanie Brown e i suoi collaboratori dell’Istituto per la ricerca sociale
dell’Università del Michigan hanno studiato gli effetti del dare e del
ricevere sostegno strumentale (aiuto) ed emotivo (ascolto), servendosi di
uno studio prospettico sui cambiamenti nella vita di 423 coppie anziane.334
Dopo un periodo di osservazione di cinque anni, 134 delle 846 persone
coinvolte erano morte. L’analisi dei dati ha innanzitutto confermato la tesi
secondo la quale i contatti sociali portano a una riduzione significativa della
mortalità del 21 percento. Osservando i dati con più attenzione, si è notato
che la mortalità aumentava leggermente nel caso in cui si fosse ricevuto una
qualche forma di sostegno sociale, mentre si riduceva significativamente
dell’85 percento nel caso in cui era stato offerto sostegno sociale, e che gli
effetti dei contatti sociali erano da ricondurre in ultima istanza all’atto di
dare sostegno.
Si potrebbe ovviamente supporre che i partecipanti che godevano sin
dall’inizio di migliori condizioni di salute fossero maggiormente in grado di
aiutare, e che l’effetto si tracciasse dunque nella direzione opposta: le
persone sane aiutano (e non: le persone che aiutano sono sane). Per definire
tutto ciò in termini statistici, sono stati inclusi nell’analisi i dati registrati
all’inizio dello studio sulla salute fisica e psichica nonché su comportamenti
rilevanti per lo stato di salute. In questo modo, seppure scesa al 56 percento
(una cifra ancora statisticamente significativa), la correlazione tra aiuto e
mortalità continuava comunque a sussistere. Controllando anche gli effetti
di eventuali influssi come reddito, istruzione, stress, predisposizione alla
malattia e variabili caratteriali, si continuava a registrare un incremento
della mortalità del 23 percento nel caso di aiuto ricevuto (valore non
significativo) e una riduzione significativa della mortalità del 54 percento
nel caso di aiuto offerto.
In uno studio internazionale, alcuni ricercatori belgi hanno analizzato la
correlazione tra aiuto volontario e stato di salute su un totale di 42.926
persone, 10.358 delle quali (24 percento) hanno dichiarato di svolgere
servizio di volontariato (in genere nell’ambito di un’associazione).335
Nell’analisi si sono riscontrate nette differenze tra i paesi: mentre in
Germania, Olanda e Norvegia la quota di attività volontaria si attestava al
40 percento, in Bulgaria, Ungheria e Lituania scendeva sotto il 10
percento.336
I volontari sono o si sentono337 decisamente più sani (circa il 10 percento
di una deviazione standard) rispetto a chi non svolge attività di
volontariato.338 L’analisi multivariata dei dati ha prodotto un effetto diretto,
nonché un effetto indiretto trasmesso dal reddito. L’effetto diretto
rappresentava circa l’80 percento dell’effetto totale e pertanto l’effetto del
volontariato non può essere ricondotto a un più alto reddito del volontario.
L’effetto di un volontariato sullo stato di salute è significativo e viene
commentato così dagli autori: «La correlazione complessiva è
considerevole: essa corrisponde allo stato di salute di una persona di cinque
anni più giovane».339 In breve: chi fa volontariato può vantare mediamente
uno stato di salute uguale a chi è di cinque anni più giovane ma non svolge
attività di volontariato!
9.2: Effetto della coordinazione del passo sul successivo stato d’animo e sul
comportamento cooperativo.346
Riassumiamo
Al lettore attento non sarà sfuggito che siamo tornati al nostro amato «coro
parrocchiale» di cui si parlava all’inizio. Con la precisazione che manca
ancora l’elemento spirituale (si veda il prossimo capitolo) e che, inoltre, non
stiamo parlando qui di semplici consigli, bensì di conoscenze acquisite e
utili per cominciare ad affrontare il problema della solitudine con tutte le
sue ricadute psicofisiche non solo individuali ma anche sociali. Non si tratta
di dare ricette per la felicità né di imporre a tutti i costi la creazione di una
comunità, bensì di sottolineare il carattere sociale degli uomini nonché
l’importanza di riconoscerlo e di rafforzarlo, anche attraverso attività
culturali che sembrano ormai scomparse. Dare, aiutare («col cuore» e non
perché si deve), fare musica, cantare, ballare sono pratiche che si ritrovano
in ogni cultura. Per il semplice motivo che le culture che non hanno
coltivato tali attività non sono sopravvissute.
In altre parole: nel caso delle prime due azioni – dare e ricevere – si
tratta di atti di cooperazione, mentre le altre tre attività (musica, canto e
danza) sono atti di coordinazione che, come è comprovato, favoriscono la
cooperazione. Alcuni studiosi avevano ipotizzato già da tempo la presenza
di questi meccanismi, che tuttavia sono stati dimostrati soltanto in questi
ultimi anni.
Alla luce di tali scoperte, è un peccato che oggi negli asili e nelle scuole
si canti e si suoni meno di prima, come è un peccato che nella maggior
parte delle società sviluppate i «balli di gruppo» (figura 9.3) abbiano perso
il valore che avevano nelle società semplici (primitive), o infine che
l’egoismo sia diventato per molti una norma di comportamento del tutto
naturale.
9.3: La danza di gruppo è un’importante componente della quotidianità per il popolo San, un
popolo di cacciatori e raccoglitori che vive nella zona nord-orientale della Namibia (quasi)
allo stesso modo in cui viveva nell’età della pietra migliaia di anni fa.352
2009366 Olanda 345.143 spazi verdi nei maggiore il numero, minori i casi di
pressi depressione e ansia
dell’abitazione
2010371 Danimarca 11.238 vivere a più di aumento dello stress del 42% (self-
1 km di report); livello più basso di salute
distanza da fisica e psichica, vitalità; più sintomi
alberi di dolore
Il «bagno di foresta»
Se si osservano con più attenzione gli studi riportati nella tabella 10.1, si
nota innanzitutto che, seppur differenti, gli effetti elencati mostrano delle
sovrapposizioni. Queste ci indicano chiaramente che la natura ha la capacità
di ridurre lo stress. È quanto alcuni scienziati giapponesi hanno verificato,
studiando gli effetti positivi del trascorrere del tempo – seduti o
camminando – nella foresta.376 Per iniziativa del ministero per l’Agricoltura
e l’economia forestale e della pesca, dal 1982 in Giappone si parla di
«bagno nella foresta» (Shinrin-yoku: un po’ come i nostri «bagni di sole»).
Nella foresta, infatti, ci si immerge «con tutti e cinque i sensi».377
Per comprendere cosa accade precisamente, è stato chiesto a 12 studenti
maschi di circa 21 anni di camminare o sedere per 15 minuti nella foresta.
L’esperimento è stato ripetuto 24 volte in diverse aree forestali del paese,
per escludere che gli effetti registrati fossero quelli di una specifica foresta.
L’intento era quello di appurare in che modo la foresta agisce sul nostro
corpo e la nostra mente e, a tal scopo, sono stati misurati, sia prima che
dopo, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa (sistolica e diastolica), la
variabilità della frequenza cardiaca e il livello di cortisolo nella saliva.
Inoltre, è stato registrato l’umore di ciascun soggetto con l’aiuto di trenta
aggettivi, per ciascuno dei quali bisognava indicare quanto, su una scala da
0 a 4, rispondesse all’umore del momento. In questo modo sono state
definite sei dimensioni statistiche: ansia e tensione (A), depressione e
abbattimento (D), rabbia e aggressività (W), stanchezza (F), confusione (C)
e vitalità (V). Nel complesso lo studio ha dimostrato che il bagno nella
foresta riduce la concentrazione di cortisolo nel sangue (l’ormone dello
stress), la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. Al contempo le
persone si sentono meglio e più equilibrate.
Non tutti, però, vivono nelle vicinanze di una foresta. Per questo è
importante riscontrare che anche cambiamenti apparentemente minimi
nell’ambiente circostante possono avere effetti misurabili sulla salute e il
benessere della persona.
In un ampio studio condotto nei Paesi Bassi378 è stata misurata la
percentuale di superficie verde nel raggio di 1 o di 3 chilometri
dall’appartamento dei soggetti coinvolti nel test. Per lo studio sono stati
utilizzati i dati su 24 malattie frequenti, raccolti su una base di 345.143
pazienti di 96 studi medici. In un’area contenente una superficie verde che
superava il valore medio del 10 percento, si riduceva il rischio di contrarre
15 delle 24 malattie. Se si considerava un’area più ampia (3 km), gli effetti
erano praticamente nulli. Per la salute degli abitanti è decisiva dunque la
vicinanza al verde!
La cosa risultava particolarmente evidente se si confrontavano persone
che avevano il 10 percento di verde nelle vicinanze (raggio di 1 km), con
persone che nel proprio circondario avevano il 90 percento di verde: con
meno verde, la probabilità di soffrire di depressione era più alta del 25
percento e la probabilità di soffrire di disturbi d’ansia era più alta del 30
percento. In generale, la correlazione tra la quantità di verde nelle vicinanze
e la morbilità del paziente stimata dal medico era all’incirca pari alla
correlazione tra età anagrafica e morbilità. «L’1 percento di verde in più ha
sullo stato di salute lo stesso effetto di un anno in meno di età» commentano
gli autori.379 È stato inoltre accertato che la correlazione tra quantità di
verde nelle immediate vicinanze dell’alloggio, da un lato, e presenza di
malattie, dall’altro, raggiunge la grandezza massima in quei soggetti che
effettivamente riteniamo più «a rischio»: i bambini e le persone
appartenenti a ceti sociali svantaggiati. Può quindi essere d’aiuto trasferirsi
in una zona più verde, con più alberi sui lati della strada, più giardini privati
e parchi pubblici?
Da un punto di vista scientifico possiamo rispondere affermativamente
alla domanda, perché è proprio quello che è stato approfondito in uno studio
longitudinale.380 È stato scoperto che un tale cambiamento delle condizioni
abitative rende le persone più felici e più soddisfatte della vita, almeno per i
tre anni successivi al trasloco. L’effetto non è risultato particolarmente
grande se, ai fini del raggiungimento della felicità personale, il
trasferimento in un’area più verde comportava per il soggetto solo un
decimo dell’importanza rivestita dal posto di lavoro, o un terzo
dell’importanza rivestita dalla relazione di coppia (due fattori ampiamente
studiati, che influiscono in maniera significativa sulla felicità e la
soddisfazione duratura di una persona).381 Invece, rispetto a un altro
indicatore noto per la felicità percepita – il tasso di criminalità nella propria
zona abitativa – l’effetto prodotto da una zona con maggiore quantità di
verde era maggiore. Nel complesso lo studio mostra che il trasferimento in
una zona più verde ha ripercussioni positive sulla salute dell’individuo.
Alla luce di quanto detto fin qui, non meraviglia tra l’altro che un legame
duraturo con la natura sia correlato con la felicità, come ha riportato una
metanalisi di 30 studi su un totale di 8523 persone.382 L’esperienza della
natura provoca felicità, soddisfazione e salute.383 Rispetto all’argomento di
questo libro è tuttavia della massima importanza il fatto che l’esperienza
della natura si ripercuote positivamente anche sulla coesione sociale. I suoi
membri diventano «persone migliori» quando sono nella natura; non solo
riescono a pensare in maniera più chiara e creativa, hanno un umore
migliore e sul lungo periodo sono più sane, ma anche dal punto di vista
morale si comportano più umanamente, nel senso che si preoccupano un
po’ meno di se stessi e un po’ di più degli altri. Nella natura, valori come
comunità e affetto diventano più importanti dei valori materiali. Ne
consegue che l’esperienza della natura porta, come è comprovato, a una
riduzione dell’aggressività, della violenza e della criminalità.384 Ma perché?
Venerazione ed empatia
«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova
e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse:
il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me». Così Immanuel Kant
(1724-1804), il filosofo più famoso dell’illuminismo tedesco conclude la
sua Critica della ragion pratica.385
Già da un punto di vista formale, cioè per la lingua utilizzata, questo
brano suona singolare. Anche dal punto di vista del contenuto però è
difficile per l’uomo contemporaneo comprendere in che modo siano legati il
cielo stellato da una parte (fenomeno della natura e/o della fisica), e l’uomo
come essere sociale dall’altra (osservato dal punto di vista dell’agire morale
e dunque dell’etica). Come intendeva Kant questo legame? E in generale,
cosa vuole dirci?
Se ci soffermiamo con attenzione, si comprende più precisamente a cosa
egli si riferisca. Innanzitutto, alla sensibilità dell’immediato esperire: vedo
le stelle davanti ai miei occhi; non si tratta quindi semplicemente di pensieri
e supposizioni, ma dell’esperienza della natura. In questa esperienza si ha
contemporaneamente una duplice percezione: quella della grandezza386 e
quella della piccolezza. Chi non l’ha già sperimentato, alzando gli occhi al
cielo in una serena notte di stelle? E se si possiedono un minimo di
conoscenze scientifiche di base, si sa che quei puntini luminosi non sono
dei buchi in una parete scura che di notte copre il sole, ma giganteschi soli a
distanze inimmaginabili nello spazio, con eccezione dei pochi pianeti e dei
molti satelliti che ruotano loro intorno. A questa vista ci si sente
infinitamente piccoli.387 Nell’esperienza della grandezza, dell’«infinitezza»
(quantomeno percepita) la propria piccolezza e finitezza diventano
chiarissime.
Anche nella sfera della morale grandezza e piccolezza vengono esperite
contemporaneamente, però nell’ordine inverso, perché l’esperienza muove
dalla propria piccolezza. Se penso me stesso come soggetto che con il suo
agire interviene negli avvenimenti mondiali, percepisco innanzitutto la mia
limitatezza («chi sono io in confronto a tutti gli altri?»); subito dopo però
penso anche all’ampiezza della società e al suo mutare nel futuro. E così,
invece che partire dall’universo, dal grande, per arrivare al piccolo, parto
dal piccolo del qui e dell’ora per arrivare all’infinito spaziale e temporale.388
Guardando la natura – il cielo stellato, la foresta, le cascate, il mare, le
ampie pianure, le montagne, le valli – ci percepiamo come parte di un tutto
più grande. Nel fare ciò diventiamo consapevoli di quanto siamo piccoli e
nel contempo giganteschi (come parte del tutto cui apparteniamo). Kant
ipotizzava che questa sensazione ci portasse anche a comportarci in maniera
più solidale verso il prossimo. La legge morale di cui parla Kant è di
fondamentale importanza per l’esistenza stessa di una società, che può
funzionare solo e soltanto sulla base di norme generali da rispettare e di
valori che non dipendono da leggi naturali, ma che siamo noi stessi a darci.
Potremmo limitarci a queste riflessioni sullo stretto legame tra
esperienza della natura e agire morale, se non fosse che entrambi i termini
di questo legame conoscono oggi una profonda crisi e profondi deficit.
1) Deficit nell’esperienza della natura. L’uomo di città (i tre quarti della
popolazione mondiale, con tendenza crescente) ha perso quasi totalmente il
contatto con la natura: in primavera fioriscono le piante del giardino, in
estate si sopporta il caldo e si innaffia il prato, in autunno si raccoglie il
fogliame e forse si fa anche una passeggiata nel bosco per ammirare il
foliage. Ma in inverno si maledicono il nevischio, il ghiaccio e altri
«capricci» della natura. Tutt’al più ci si consola del paesaggio innevato
durante la settimana bianca.
Soprattutto i più giovani non comprendono perché dovrebbero andare
nella natura: Perché uscire, se abbiamo un iPhone?, titolava già quattro
anni fa la rivista Economist, riferendosi al crollo del numero di visitatori dei
parchi nazionali americani.389 In Germania, le cose non sono molto diverse:
la mia generazione, durante l’infanzia e la giovinezza, trascorreva all’aperto
una parte consistente del tempo libero. Era del tutto naturale, perché in giro
accadeva sempre qualcosa di interessante, mentre a casa non c’era nulla da
vedere. Oggi i giovani trascorrono in media dalle 5 alle 7 ore al giorno di
fronte a uno schermo (tv, consolle di gioco, video, computer, tablet,
smartphone) – e dallo schermo non si apprendono empatia e solidarietà.390
2) Deficit empatici e morali. Nel gennaio 2015 i giornali riportarono la
notizia che un giovane di 32 anni era morto in un internet-caffè di Taiwan
dopo aver giocato per tre giorni di seguito ai videogiochi. La causa di morte
era stata un arresto cardiaco; probabilmente era subentrato uno stato di
disidratazione e il giovane soffriva già di una malattia cardiaca. Si trattava
già del secondo caso del genere: il primo gennaio dello stesso anno, un
uomo di 38 anni era collassato dopo aver giocato per cinque giorni ai
videogame. L’articolo di giornale chiudeva con questa frase: «Secondo
quanto riferito dalla polizia, in entrambi i casi gli altri giocatori hanno
reagito con indifferenza. Alcuni hanno addirittura continuato a giocare,
mentre la Scientifica bloccava i tavoli per il rilevamento delle prove».
Dunque, una persona muore in un internet-caffè affollato, e tutt’intorno si
continua serenamente a giocare.
Chi pensa che si tratta di casi isolati, verificatisi peraltro lontano da noi,
in Asia orientale, e quindi per noi non rilevanti, si sbaglia. Secondo una
notizia dell’emittente tedesca WDR del primo febbraio 2015, un
automobilista distratto che viaggiava a velocità superiore ai limiti
sull’autostrada A2 nei pressi di Magdeburgo si è schiantato tamponando
una coda di auto. L’auto si è rovesciata e ci sono stati sei feriti. Nell’articolo
che dava la notizia si leggeva quanto segue: «Secondo quanto riportato
dalla polizia, numerosi automobilisti sono passati accanto al luogo
dell’incidente senza fermarsi ad aiutare; alcuni hanno addirittura scattato
foto. [...]»
Infine, nell’autunno 2017 un motociclista è morto dopo un grave
incidente ed è stato filmato con uno smartphone. Siamo evidentemente
circondati da persone la cui empatia per la sofferenza del prossimo è
limitata o del tutto ormai assente.
Vogliamo vivere in una società che non è più in grado né di provare reale
empatia e sensibilità morale né tantomeno di agire in modo etico ed
empatico? Sono profondamente convinto che solo pochissime persone
sceglierebbero un mondo simile, la maggior parte di noi aspira senza
dubbio a una comunità di uomini solidali.
I deficit dell’uomo contemporaneo rispetto all’esperienza della natura e
all’empatia sono evidenti, chiunque cammini per strada con lo sguardo
attento può osservarli. Dal mio punto di vista, ritengo sia importante essere
arrivati a sapere che non solo è possibile supporre una correlazione
sistematica tra l’esperienza della natura e il comportamento sociale, ma che
tale correlazione si può anche dimostrare empiricamente.
Se, detto tutto ciò, siamo intenzionati a spendere dei soldi per contrastare
la solitudine (si parla di «shopping-terapia») dovremmo tenere presenti tre
cose:
1) Solo quando si spendono soldi per gli altri si lavora per il proprio
benessere.399
2) Non è una questione di quantità.
3) Meglio non spendere soldi per oggetti, ma per esperienze.400 Gli oggetti
si accumulano e occupano spazio; bisogna riordinarli, curarli, e
comunque si impolverano, arrugginiscono o si rompono. Le esperienze
rimangono nella nostra memoria, non hanno bisogno di spazio e di cure e
con il tempo diventano sempre più «rosee», perché le «lenti rosa» della
memoria trasformano ogni vacanza, anche se non sempre da sogno, in
una storia fantastica da raccontare al rientro.401
Riassumiamo
Quando trascorriamo del tempo nella natura con un sentimento di
abbandono, sentiamo che il nostro umore migliora, sentiamo di essere più
padroni delle nostre emozioni, di essere di nuovo in grado di concentrarci,
ci sentiamo meno stressati e più vicini ai nostri simili. La nostra
partecipazione emotiva cresce e siamo più generosi. Chi si sente in sintonia
con la natura riesce a immedesimarsi meglio in un’altra persona e ha un
atteggiamento più benevolo verso gli altri. Volendo riassumere brevemente
le conoscenze acquisite tramite metodi scientifici, potremmo dire che
l’esperienza della natura ci rende più sani, più felici, più creativi, più acuti e
(da un punto di vista morale) migliori. Il contatto con la natura riduce il
rimuginio, l’ansia e lo stress.
Già questo sarebbe sufficiente a consigliare una camminata nel verde a
quanti si sentono soli. Ma c’è dell’altro, difficile da esprimere e ancora più
difficile da descrivere con metodi quantitativi: la sensazione di essere più
vicini alle altre persone perché ci si sente parte di qualcosa di molto grande,
percependosi nel contempo come molto piccoli. Lo si potrebbe descrivere
con parole come «venerazione» e «spiritualità», se non si corresse il rischio
di essere tacciati di esoterismo. Invece non vi è nulla di esoterico in tutto
ciò. Per questo mi sono impegnato a riportare nel mio libro le migliori fonti
della ricerca scientifica, pubblicate soprattutto in anni recenti. In linea di
principio le idee presentate sono molto antiche e ci derivano anche dalle
diverse religioni. Spesso però vengono scartate con leggerezza in nome di
un approccio materialistico (un po’ come il discorso sul coro della chiesa
contro la solitudine!).
I soldi rendono soli, soprattutto quando si spendono in modo sbagliato
(molti soldi per acquistare cose per sé). Chi investe in esperienze comuni
combatte invece la propria solitudine in maniera efficace e duratura, perché
tali esperienze rimangono impresse nella memoria.
È senz’altro vero che, quando ci sentiamo sfiniti e stressati dopo
un’intensa giornata di lavoro, dovremmo ricercare fiduciosi un po’ di
solitudine. Adesso sappiamo non solo dove cercarla, ma anche quanto sia
sano trascorrere del tempo da soli nella natura e – tra l’altro – quanto ci
aiuta a combattere la solitudine!
Ringraziamenti
Questo libro è dedicato ai miei migliori amici, tra cui Thomas Kammer e
Georg Grön, con i quali discuto ogni giorno sulle cose che mi appassionano.
E benché ormai conoscano i miei pensieri così bene che a volte li
saprebbero mettere sulla carta meglio di me, leggono pazientemente ciò che
scrivo e, soprattutto, non mi lesinano le critiche: in tal modo rendono
migliori i miei saggi e rendono me più felice. Grazie mille!
Ringrazio Julia Ferreau e Birgit Sommer, che mi sono state accanto e mi
hanno aiutato, con tanto caffè, tanti libri e, soprattutto, tanta pazienza.
Ringrazio Thomas Tilcher per la revisione sempre attenta e puntuale dei
testi che, con il suo contributo, diventano più comprensibili. Il suo aiuto è
stato prezioso per dipanare la matassa dei miei pensieri.
Grazie a Markus Röleke della casa editrice Droemer per i grafici. Io
utilizzo ancora una versione di FreeHand non aggiornata. Ma una volta che
ci si abitua a uno strumento che può fare tutto ciò che serve, si fa fatica a
passare a un altro più aggiornato che potrebbe fare molto di più.
Ringrazio Margit Ketterle, editor della saggistica, e tutto il team della
casa editrice, per il loro sostegno e la loro professionalità.
La maggior parte del libro è stata scritta durante l’estate del 2017 in una
piccola isola del Baltico. Non c’era molto oltre a tanto verde – verde e
azzurro – e questa è stata una fortuna... e poiché i miei figli e gli amici sono
venuti spesso a trovarmi, il mio lavoro non ha sofferto di solitudine.
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Indice analitico
Abusi sessuali
ACTH (ormone adrenocorticotropo)
Adrenalina
Aggressività
Agire in sincrono
Aiutare
– con e senza stress
–, effetto negativo dell’
Aiuto volontario
Alcol
Alzheimer, sindrome di
Amenorrea
American Academy of Matrimonial Lawyers (AAML)
Americans’ Changing Lives (ACL)
Amicizia
Amigdala
Anderson, Dorothy
Anderson, Kimberley
Antidolorifici
Antropocene
Area tegmentale ventrale
Aristotele
Arteriosclerosi
associazioni
Attenzione, disturbi della
Autodisciplina
Autoreferenzialità
Autoregolazione, capacità di
Autostima
Danzare
Dare
Darwin, Charles
Demenza
Denaro
– donare
– e la felicità
Depressione
–, infiammazione e
–, social media/rete e
Diabete
Dialogo
Dibben, Chris
Digestione, disturbi di
Digitalizzazione
Dittatore, gioco del
Divorzio
Dolori fantasma
Dugan, Elizabeth
Early adopters
Egoismo, materiale
Egoismo
Ehlers, Diane
Ehrenreich, Samuel
Elettroencefalogramma (EEG)
Elettromiografia (EMG)
Embolia polmonare
Embolia polmonare
Empatia
–, cognitiva
–, emotiva
–, narcisismo invece di
Empatia/Capacità di immedesimazione
Emulazione comportamentale
Epidemia
ERP (Event Related Potential)
Esclusione sociale
Esiodo
Esperienza
Esperienze pregresse
Espressione emotiva
Estroversione
Evoluzione
Facebook
–, contagio emotivo attraverso
– e depressione
– e gioia di vivere
–, paura di
Falk, Armin
Famiglia individuale
Felicità
– e comunità
– e il denaro
– e il donare denaro
Fiducia
Fight or flight response
Fox, Jesse
Framingham Heart Study
Fredrickson, Laura
Frustrazione
Fumare
Funzioni esecutive
Generazione Io
Gioia di vivere
Gioventù
Glucocorticoidi, recettore
Google Ngram
Google+
Hatfield, Elaine
Heath, Chip
Hillyard, Steven
Hobbes, Thomas
Homo oeconomicus
House, James
Hughes, Mary Elizabeth
Ictus
Illusioni ottiche
Immediatezza
Immunitario, sistema
Impotenza
–, appresa
Improvvisazione
Incidente
Individualismo
Infarto
Infedeltà
Infezione
Inquinamento atmosferico
Instagram
Integrazione sociale
Internet
Intervento, metodi di
Ipertensione
Ipofisi
Ipotalamo
Ippocampo
Isolamento sociale
–, esperienza di
– e mortalità
– misurazione
– o esperienza di solitudine
– terapia contro la
Isteria di massa
Jazz
Kahneman, Daniel
Kant, Immanuel
Kramer, Adam
Kutas, Martha
Landis, Karl
Le Bon, Gustave
Leucemia
Leucemia
Libido, calo della
Linfoma
Lingua madre
LinkedIn
MacKay, Charles
Magnetismo animale
Mal di denti
Malattie cardiache
Malattie cardiovascolari-
Malattie causate dal metabolismo dello zucchero, vedi Diabete
Malattie polmonari
Malattie psichiche
Malattie respiratorie
Massive Open Online Course (MOOC)
Materialismo
– vs. Spiritualità
Matrimonio, vedi Coppia, relazioni di
Meaney, Michael
Mediatizzazione
Medicina della solitudine
Mesmerismo
Metabolismo, disturbi dei
Millennials
Mineralocorticoidi, recettore
Ministero tedesco del lavoro e delle politiche sociali
Mobbing
Morale
Morbilità
Moreland, Jennifer
Mortalità
– come conseguenza della solitudine
– definizione
Motivi, intrinsisci vs. estrinseci
Movimento
Muscolare, affaticamento (miopatie)
Musica, fare
Namibia
Nanismo
Narcisismo
– batte l’empatia
Narciso
Natura
– e salute
Natura umana
Neurofeedback
Neuroimaging funzionale
Nongqawuse
Noradrenalina
Nucleus accumbens
Obesità
Occhi spalancati (paura)
Office for National Statistics
Orfanotrofio
Orlet, Christopher
Osteoporosi
Ovidio
Pallone, giocare a
Panico di massa
Paracetamolo
Paragonarsi ad altri
Paris Hilton, effetto
Paura
–, contagiosa
– e social media/rete
– di Facebook
Peires, Jeff
Percezione
Personalità, disturbi della, vedi Narcisismo
Pielite
Pinterest
Polykoff, Shirley
Profughi
Prosocialità
Prostata, cancro alla
Psiche, disturbi della
Psicosi di massa
Raffreddore
Raffreddore
Realtà
Reattività
Reazione di emergenza
Reni, disturbi ai
Resurrezione dei morti
Rete sociale
Rifiuto
Rimuginio
Riprogrammazione epigenetica
Risonanza magnetica (RM)
Risonanza magnetica funzionale (RMF)
Saggezza popolare
Schizofrenia
Scout
Sentimenti che fanno ammalare
Sessualità
Shannon, Claude
Simpatia
Sindacati
Sistema nervoso
Skype
Slatcher, Richard
Smartphone
– e crisi di fiducia
Smith, Adam
Snapchat
Social brain
Socialmedia
Sociometro
Socrate
Sogni a occhi aperti
Solitudine
– come fattore di rischio nell’insorgere di malattie
–, come fattore scatenante di stress
–, contagiosa
– definizione
– e dolori
– e social media
–, esperienza della
–, farmaci contro
– in Germania
– metodi di intervento
– misurazione della
–, mortalità causata dalla
– negli adulti
– nella mente
– nella terza età
– nell’infanzia
– nei giovani
– ricerca della
– spiegazione
– terapia
– vs. isolamento sociale
Sonno, disturbi del
Sovvenzioni statali
Spiritualità vs. Materialismo
Sport
Stalking
Stress
–, acuto
–, causa principale dello
–, cronico
– definizione
– e sostegno sociale
– nella prima infanzia 98 sg.
– nelle relazioni di coppia
–, relazioni che comportano
– sul lavoro
Stress da iperconnessione
Stressreport Deutschland
Suicidio
Superstizione
Svenimento
Sviluppo linguistico
Tasso di natalità
Tecnologia dell’informazione (IT)
Telefonare
Televisione
Theory of Mind
Three-Item Loneliness Scale
Tomografia a emissione di positroni (PET)
Tubercolosi
Tumblr
Tumore ai polmoni
Turkle, Sherry
Twitter
– e divorzio
Uccelli migratori
UCLA Loneliness Scale
Ulcera
Ulcera gastrica
Ultimatum, gioco dell’
Umberson, Debra
Underwood, Marion
Urbanizzazione
Valentin, Karl
Vascolari, disturbi
–, infarto intestinale
Vecchiaia, prevalenza femminile nella
Venerazione
Videogame
Vigili del fuoco, volontari
Vine
Vita, soggettività della, vs. realtà oggettiva
Volontariato
WhatsApp
Wiltermuth, Scott
Wittgenstein, Ludwig
Wolfe, Tom
World Values Survey
YouTube
Zevi, Shabbetai
Zuccheri, aumento degli (iperglicemia)
Note
Premessa
2. Spitzer M. (2011) Die soziale Struktur des Menschen, in Zeitschrift für Nervenheilkunde
30: 373-376.
Capitolo 1. Megatrend e malattia
6. Statista 2017a.
8. Statista 2017b.
10. Questa forma esagerata di prestigio è parte del nostro comportamento sociale (Henrich
2016, pp. 5, 126 ss.).
11. Sull’argomento si vedano gli studi presentati alle pp. 17-20; 30-33.
13. In Germania la generazione X è conosciuta anche con il termine «bambini con la chiave»
(Schlüsselkinder): è la generazione di quanti erano bambini al tempo in cui le donne
avevano cominciato a contribuire al sostentamento della famiglia. I bambini, tornando a
casa da scuola, non trovavano nessuno in casa e avevano la chiave per aprire. Un’altra
espressione per definire questa generazione, che più di tutte le precedenti ha vissuto
divorzi tra i genitori e problemi economici in famiglia, è «generazione Mtv», dal nome
del famoso canale musicale seguitissimo all’epoca.
17. La citazione inglese completa è: «I wasn’t part of that millennial generation raised on an
overdose of self-esteem and self-promoting technology that have combined to create a
perfect storm of narcissism. Nor was I surprised to read that a study led by San Diego
State University psychologists finds that about two-thirds of college students have above
average scores in self-adulation. That’s thirty percent more than when I was in college in
1982. These millennials make Narcissus look like a self-hating Greek» (Orlet 2007, p. 1).
36. Sui topi cfr. Langford et al. 2006; sui ratti cfr. Ben-Ami Bartal et al. 2011; cfr. anche
Mogil 2012.
38. Seed et al. 2007, Weir et al. 2002, Bird & Emery 2009.
39. Seed et al. 2007, Romero et al. 2010, Rosenkrantz Lindegaard et al. 2017.
40. Anche l’analoga concezione che la natura – gli animali – sia essenzialmente buona
mentre l’uomo è essenzialmente cattivo è di fatto errata: come sappiamo grazie alle
osservazioni dell’etologa britannica Jane Goodall, anche gli scimpanzé fanno la guerra e
uccidono, come gruppo, i membri di altri gruppi. Recenti scoperte ci dicono inoltre che
quando ciò accade viene rilasciato il cosiddetto «ormone dell’amore», l’ossitocina
(Samuni et al. 2017), che potrebbe essere definito anche «ormone della guerra».
41. Fujisawa et al. 2006, Kato-Shimizu et al. 2013, Warneken & Tomasello 2009.
42. La notizia circolò su tutti i giornali, per esempio sulla Bild del 20 ottobre 2016: Weuster
K. (2016), Keiner half – jetzt ist dieser Rentner (82) tot!
43. Cfr., per un esempio concreto, il paragrafo Venerazione ed empatia del capitolo 10, Alla
ricerca della solitudine, p. 198.
47. Questo aspetto viene ampiamente trattato nel libro di Twenge & Campbell (2009).
49. Nelle scienze la parola fu introdotta negli anni Ottanta del xix secolo dallo psicologo
francese Alfred Binet, famoso per i suoi studi sull’intelligenza. Poco dopo fu ripresa da
psicoterapisti suoi contemporanei e divenne talmente inflazionata che alla fine nessuno
sapeva più di cosa si stesse realmente parlando. Per questo non meraviglia che per
decenni si sia discusso di forme sane e malate di narcisismo, di narcisismo primario e
secondario, positivo e negativo –come forma strutturale e/o come stadio dello sviluppo –
della persona, dell’istanza intrapsichica o di un meccanismo, senza che queste
discussioni abbiano portato a una qualche forma di chiarimento, tantomeno della sua
frequenza (da «estremamente raro» a «interessa chiunque») e della tipologia di
correlazione con i disturbi psichici messi in relazione a esso, come depressione, tendenza
suicida, aggressività, autoaggressività, iperattività, dissociazione e tutte le tipologie di
disfunzioni e perversioni sessuali. A rimanere invariato è soltanto il vecchio significato
di duemila anni fa: ci sono individui che tendono (in misura maggiore o minore) a
vedere e preferire soprattutto se stessi.
63. Kammer & Spitzer (2012); Schönfeldt-Lecuona et al. 2003, 2004, 2005, 2006.
64. Legate a questo metodo ci sono numerose esperienze di ricerca per la terapia di diversi
disturbi neuropsichiatrici; cfr. Thornton & Carmody 2005; Trudeau 2005; Walker &
Kozlowski 2005; Ros et al. 2013.
67. Per una panoramica e per leggere resoconti di interi congressi sull’argomento, cfr.
DeCharms 2008, Cramer et al. 2011, Chapin et al. 2012, Haller et al. 2013; Sulzer et al.
2013.
69. Harmelech et al. 2015; Scharnowski et al. 2014; Scheinost D., et al. (2013).
70. Greer et al. 2014; MacInnes et al. 2016; Zotev et al. 2011.
72. Cfr. Eisenberger & Lieberman 2004; Eisenberger et al. 2006; MacDonald & Leary 2005;
Herman & Panksepp 1978; Panksepp 2003.
75. Secondo lo storiografo Plutarco Archimede aveva gridato «Eureka», ho trovato!, dopo
aver scoperto il famoso principio fisico che prende il suo nome, il principio della spinta
idrostatica.
92. Eisenberger et al. 2007; Onoda et al. 2009; Krill & Platek 2009; Bernstein et al. 2010.
94. Si dice per esempio: «A guardare il mio estratto conto mi viene mal di pancia». Non è
solo una espressione metaforica: è stato scientificamente dimostrato, infatti, che anche la
mancanza di soldi può attivare la nostra area cerebrale del dolore.
Capitolo 3. Contagio sociale
95. Kerckhoff & Back 1968, Olkinuora, 1984. Famosa per esempio è l’«epidemia della
risata» diffusasi in Tanzania e Uganda, per la quale nel giro di pochi giorni più di 1000
persone – soprattutto ragazze e giovani donne – non riuscivano a smettere di ridere, tanto
che si dovettero chiudere le scuole. Gli attacchi di riso, spesso accompagnati da pianti e
grida, duravano da pochi minuti fino ad alcune ore e spesso ricominciavano dopo una
pausa. Non di rado erano accompagnati da ansia, dolori, senso di svenimento o problemi
respiratori e ci furono anche manifestazioni di violenza. Non si verificarono casi di
morte (Rankin & Philip 1963, Sebastian 2003, Hempelmann 2007, Pringle 2015).
97. L’espressione fu utilizzata per la prima volta nel 1997 in relazione alla crisi monetaria in
Thailandia, che in pochi mesi si diffuse anche nelle vicine Indonesia, Filippine, Malesia,
Corea del Sud e Hong Kong, fino a raggiungere in seguito anche Russia e Brasile. Le
ripercussioni economiche della crisi si fecero sentire anche in Europa e Nord America. Il
fenomeno comunque è più vecchio del suo nome: la prima crisi finanziaria
internazionale si verificò all’inizio degli anni Venti del XIX secolo, seguita dalla grande
depressione del 1929 (Bordo & Murshid 2000; Dornbusch et al. 2000, De Gregorio &
Valdés 2001, Peckham 2013).
104. In un rapporto del 2010 di Amnesty International Germania sulla situazione della
Repubblica Centraficana si legge quanto segue: «Oggi come in passato continua a
prevalere la credenza che gli individui possano portare sfortuna a chi sta loro vicino e
possano addirittura causarne la morte. Le persone sospettate di stregoneria sono state
spesso torturate, sottoposte a terribili trattamenti mortificanti o disumani e in alcuni casi
uccise. Il governo e le forze di sicurezza hanno tollerato le accuse e i maltrattamenti in
silenzio, senza fare nulla per proteggere le vittime o chiedere ragione ai responsabili
delle loro azioni violente». Si riporta, tra l’altro, il caso seguente: «Nel luglio 2009 un
ufficiale carcerario della città di Mobaye (provincia di Basse-Kotto), credeva che la
figlia quindicenne avesse provocato la morte della moglie, ordinò agli altri carcerati di
versare del petrolio sulle braccia della ragazza e di darle fuoco. La ragazza ha riportato
gravi ustioni. Era stata arrestata nel dicembre 2008, accusata di aver provocato
l’annegamento di un bambino di dodici anni. Al momento della cattura fu brutalmente
percossa da più persone che volevano spingerla a denunciare i suoi presunti complici. La
gente pensava che questi si fossero trasformati in serpenti e avessero fatto sprofondare il
ragazzo in acqua, facendolo annegare. Sotto tortura, la ragazza avrebbe fatto il nome di
due dei suoi presunti complici, che furono arrestati».
107. ...e anche più precisa in termini di tempo; cfr. Roberts et al. 2017.
113. Ancora oggi si discute su quante siano le emozioni e come si possano definire o
riconoscere. Ma la risposta a queste domande non è rilevante in questo contesto (Ekman
1992, Eibl-Eibesfeld 1987).
114. Dimberg, che torna su questo punto in molte delle sue pubblicazioni.
115. Questo dato si è potuto accertare perché in entrambi i partner del dialogo la EMG era
registrata in sincrono (Hatfield et al. 1993a,b).
123. Nel calcolo delle probabilità vi è la consuetudine di non indicare solo il migliore valore
stimato, ma anche il margine entro il quale con ogni probabilità la stima è esatta: tale
margine è chiamato intervallo di confidenza, o Confidence Intervall (CI). Nella stima si
indica anche cosa si intende per «estremamente probabile»: generalmente si opta per una
probabilità del 95 percento, il che significa che se si assume che un valore sia compreso
entro un certo margine, nel 95 percento dei casi la stima sarà esatta e nel 5 percento dei
casi sarà errata. Un esempio: se la probabilità di un evento cresce del 50 percento, ci sarà
una grande differenza se l’intervallo di confidenza al 95 percento si colloca tra il 45 e il
55 percento, o tra il 15 e l’85 percento. Nel primo caso infatti la stima al 50 percento è
affidabile, nel secondo caso non lo è. Spesso le probabilità non vengono indicate con la
percentuale di aumento, ma come valori assoluti, senza il calcolo in centesimi. Nel
nostro esempio l’indicazione dei margini è come segue: probabilità 1,5; 95 percento CI:
1,45-1,55.
130. Il termine pandemia viene dal greco: pan, «tutto»; demos, «popolo». Ci si riferisce al
numero di persone colpite da una malattia. Con pandemia si intende che la diffusione di
una malattia supera i confini di un intero paese, o addirittura di un continente, mentre nel
caso di epidemia la malattia si trasmette in un’area comunque circoscritta.
133. Maggiori dettagli verranno forniti nei capitoli 6 e 7. Per il momento si tratta solo di
presentare un meccanismo e un ambito in cui scoperte di questo tipo hanno importanti
ricadute pratiche: il mondo del lavoro. Nel capitolo 8 vedremo le ripercussioni sulle
relazioni interpersonali.
134. Nella letteratura scientifica si trovano molte risposte a questa domanda. Alcuni parlano
di stress «buono» e stress «cattivo» (eustress e distress), altri parlano di allostasi, altri
ancora vanno a scandagliare la biochimica per poi concludere con frasi del tipo: «È tutto
molto, molto complicato». La conoscenza è un’altra cosa! Mi rifaccio alle teorie
psicologiche, approfondite per la prima volta alcuni decenni fa con uno studio sui cani e
riassunte sotto il concetto di «impotenza appresa» (Seligman 1967). Ormai esistono
molte pubblicazioni su questo modello, che è stato applicato su api, roditori, cavalli e
uomini perché ha un alto grado di plausibilità (cfr. Schöner et al. 2017).
135. Per una discussione delle radici evoluzionistiche della reazione di stress si veda Nesse et
al. 2010; una panoramica esaustiva e aggiornata è fornita da Sapolsky 2017.
139. Quasi tutti gli stressori stimolano la sintesi di prostaglandine (PGE2) e postacicline
(PGI2), che a loro volta bloccano la secrezione del succo gastrico (Moshonov et al.
2010).
140. La correlazione tra stress e ulcere allo stomaco è stata descritta già due secoli fa e
studiata in maniera sperimentale dal «padre della ricerca sullo stress», Hans Seye, che
pubblicò i suoi risultati in un lavoro comparso su Nature nel 1936. Con la scoperta, da
parte di alcuni scienziati australiani (Marshall & Warren 1984), che molte ulcere dello
stomaco sono causate da un’infezione batterica provocata dall’helicobacterpylori
(scoperta che è valsa agli scienziati il premio Nobel nel 2005), la correlazione tra stress e
ulcere allo stomaco è stata analizzata da un nuovo punto di vista. Dopo una prima fase di
«bianco o nero», in cui il pendolo oscillava dalla psicologia (stress) alla biologia
(infezione), negli ultimi anni si è tornati a una maggiore oggettività. Circa la metà della
popolazione mondiale è infetta da helicobacterpylori, ma di questa metà solo il 10
percento soffre di ulcere allo stomaco. Invece, nel 30 percento dei casi di ulcere allo
stomaco non si riscontra un’infezione del batterio (Fink 2017). Dunque l’infezione da
sola non spiega nulla, o molto poco. Ampi studi mostrano invece chiaramente che,
indipendentemente da un’infezione dell’helicobacterpylori, lo stress aumenta il rischio
di insorgenza di ulcere allo stomaco (Levenstein et al. 2015).
141. Steptoe 2010.
142. Nel corso di numerosissime conferenze sul tema (per un totale di decine di migliaia di
spettatori), la risposta alla mia domanda è stata quasi sempre la stessa: la cavia nella
gabbia con lampadina e interruttore è stressata, l’animale passivo invece no (il rapporto è
di circa 80 a 20, e comunque mai sotto il 50 e 50).
144. Secondo dati tratti da TKK Report 2016. Si può confrontare questo grafico con quello
del mio libro Solitudine digitale, dove sono riportati i dati del 2013. Le risposte
«raramente», e «mai» sono diventate sempre meno frequenti, mentre aumenta il numero
di persone che risponde con «spesso» e «talvolta».
150. La quota di persone che in Germania hanno dichiarato di essere coinvolti sempre o
spesso nella definizione dei loro obiettivi è, con il 38 percento, più bassa della media
dell’Unione Europea (EU-27, 47 percento).
155. Nello Stressreport Deutschland viene inserito un altro punto: se un’azienda subisce una
riorganizzazione, il numero di sintomi aumenta, non importa di quali sintomi si tratti. La
causa è evidente: i dirigenti tedeschi evidentemente non sono in grado di riorganizzare,
perché «riorganizzare» vuol dire soprattutto apprendere, e questo non ha mai fatto
ammalare nessuno. Amano nascondersi dietro slogan vuoti come change process e senza
volerlo instillano ansia nei collaboratori: «Perché sta parlando di change process?»
«Perché non ci dice semplicemente cosa sta per accadere, in modo che tutti possiamo
capire?» «C’è una brutta aria, perché non sappiamo cosa succederà.» I collaboratori
sperimentano una perdita di controllo quando sentono parole come «riorganizzazione» o
change process – ed è proprio questo a provocare lo stress e le conseguenti malattie.
Inoltre, l’ansia è una cattiva maestra perché ostacola la creatività e introduce a un circolo
vizioso che sul medio periodo pregiudica la salute del collaboratore (e dell’azienda). «In
genere per i collaboratori le misure di riorganizzazione sono legate a un intensificarsi del
lavoro, a un maggiore carico psicologico e spesso, sul medio termine, anche a un
peggioramento dello stato di salute», si può leggere sullo Stressreport Deutschland (p.
143). I manager dovrebbero sapere che la riorganizzazione aziendale fa ammalare i
collaboratori perché di solito non è messa in atto in modo appropriato e genera dunque
insicurezza, e questo è tanto più vero, quanto meno (o peggio) si esplicitano i
cambiamenti in questione. Per salvaguardare la salute dei collaboratori, sarebbe
opportuno assicurare trasparenza, comunicazioni chiare e coinvolgimento dei
collaboratori in tutte le misure per il cambiamento, tanto più che in questo modo
vengono favoriti i processi creativi. Nessuno vuole consapevolmente rovinare la salute e
la creatività dei propri sottoposti, ma i superiori dovrebbero possedere sufficienti
conoscenze per evitare che ciò accada.
161. Curley & Champagne 2016, Fagundes et al. 2013, King et al. 2016, Ménard et al. 2017,
Turecki& Meaney 2016.
162. Diorio& Meaney 2007, Francis et al 1999, Liu et al. 1997, McGowan et al. 2008, 2009,
Meaney 2001, Weaver et al. 2004.
165. Mi sono occupato dell’argomento in tre libri: Vorsicht Bildschirm! (2005), Digitale
Demenz (2012, trad. it. Demenza Digitale, Corbaccio, Milano 2013) e Cyberkrank!
(2015, trad. it. Solitudine digitale, Corbaccio, Milano 2016). I miei libri sono stati
duramente criticati e dall’uscita del secondo libro nell’estate del 2012 so – purtroppo –
che cos’è uno shit storm. Il motivo è semplice: i media digitali sono comodi e danno
dipendenza. E fa parte della natura della dipendenza che chi ne soffre faccia di tutto per
evitare di non avere più accesso alla sostanza. Si aggiunga poi il lavoro di una lobby
decisamente più potente di quella del tabacco o dell’alcol: Apple, Google, Microsoft,
Amazon, Facebook e Samsung sono sei delle aziende più ricche del pianeta.
166. Bisognerebbe parlare in realtà – come fanno gli inglesi – di illusioni visive, perché non è
l’ottica a provocare l’illusione, ma il sistema visivo del nostro cervello.
167. Ho raccolto questo e molti altri esempi in uno studio sui processi inconsci, che consiglio
ai lettori interessati: Automatik im Kopf – wie das Unbewusste arbeitet (Spitzer 2010).
172. Sull’argomento si veda Spitzer 2012, dove si trova anche altra bibliografia.
173. Kuhl et al. 2003; Meltzoff et al. 2009, Zimmerman et al. 2007.
183. Chi però ne deduce che Facebook riduce l’ansia, non ha capito niente!
186. Office for National Statistics (2015) Insights into children’s mental health and well-
being.
193. Doughty 2015; Anonymus (2017) Facebook Has Become a Leading Cause in Divorce
Cases. Hg.org Legal Resources (https://www.hg.org/article.asp?id=27803; consultato il 6
settembre 2017).
195. Nella letteratura di lingua inglese si parla di physical cheating e emotional cheating.
196. Per chiarezza riportiamo le parole originali degli autori: «The results indicate that a high
level of Facebook usage is associated with negative relationship outcomes, and that
these relationships are indeed mediated by Facebook-related conflict» (Clayton et al.
2013, p. 717).
199. Alone Together, Basic Books, New York 2011 (trad. it. Insieme ma soli, Codice, Torino
2012).
201. A tal scopo è stata usata la scala PROMIS (Patient-Reported Outcome Measurement
Information System; cfr. Johnston et al. 2016), composta di quattro item.
208. C’è un contributo che mostra che l’ansia da Facebook è correlata con un ridotto uso di
Facebook. Si tratta di un’osservazione banale, che non dovrebbe portare alla conclusione
che un incremento dell’uso di Facebook porti a una riduzione dell’ansia. Infatti gli autori
scrivono: «With the exception of 1 study showing a significant negative association
between Facebook-specific social anxiety and the frequency of SNS use [80], no studies
supported an association between the frequent use of SNSs and a lower level of anxiety
or depressive symptoms» (Seabrook et al. 2016).
209. «SNSs represent a novel, unobtrusive, real-time way to observe and leverage mental
health and well-being information in a natural setting, with the ultimate potential to
positively influence mental health» (Seabrook et al. 2016).
210. Kramer et al. 2014. Gli autori dello studio parlano di «contagio».
212. Kushlev & Pouix 2016, p. 6. La citazione originale è: «Organisms tend to seek the
easiest way to achieve the greatest outcome. This Principle of Least Effort has been
identified as one of the main principles guiding information seeking behavior. Just as
information technology continues to make our lives easier, our findings highlight the
possible unforeseen social costs of instant, ubiquitous information access: By turning to
convenient electronic devices, people may be forgoing opportunities to foster trust – the
social lubricant of society».
Capitolo 6. La solitudine come fattore di rischio
217. Si ha una correlazione spuria tra due variabili ogni qualvolta entrambe sono determinate
da una terza variabile mentre fra loro non hanno un nesso causale. L’esempio forse più
famoso è la correlazione tra la taglia di scarpe e reddito: quanto più grandi sono le
scarpe, tanto più alto è il reddito. In realtà la correlazione nasce dal fatto che i piedi delle
donne sono più piccoli e (purtroppo ancora oggi, talvolta anche a parità di lavoro) le
donne guadagnano in media meno degli uomini. Se si osservano separatamente i due
sessi, la correlazione non sussiste. Essa è condizionata da una «variabile nascosta» (ridde
variable). Poiché, nella prassi, è molto difficile escludere tali variabili nascoste, la
comprensione di una relazione-causa-effetto attraverso un preciso meccanismo è di
straordinaria importanza per l’acquisizione di conoscenze certe, e dunque per la scienza.
221. Per essere precisi: se nelle misurazioni il livello solitudine era più alto di una deviazione
standard, si riscontrava un innalzamento della pressione sistolica di 5 mmHg.
223. La pressione arteriosa, come prima la pressione atmosferica, viene misurata oggi in
millimetri di mercurio: in una colonnina di vetro in cui si trova del mercurio si verifica di
quanti millimetri la pressione (atmosferica) all’interno di un manicotto, che è sufficiente
a bloccare la circolazione del sangue nell’arteria del braccio, fa salire il pesante mercurio
nella colonnina. Poiché il peso specifico del mercurio è di circa 13,5 g/cm3, mentre
quello dell’acqua è di 1 g/cm3, una pressione arteriosa sistolica di 150 mmHg
corrisponde a una colonna d’acqua di circa 2 metri d’altezza. Questo paragone ci dà
un’idea di quanto effettivamente il sangue di un’arteria possa «schizzare» (il peso
specifico del sangue supera di poco 1 g/cm3).
227. Lo studio continua ancora oggi e quasi ogni anno ci fornisce nuovi dati sui fattori che
influenzano lo sviluppo umano.
231. Antonova et al. 2011, Lin et al. 2013, Kocic et al. 2015.
234. Lo studio è stato condotto da alcuni scienziati americani dell’Ohio (Hinzey et al. 2016).
238. Seligman & Maier 1967, Seligman 1975, Pryce et al. 2011.
240. Akerlind & Hornquist 1992; Page & Cole 1991; Choi & Dinitto 2011. Probabilmente
hanno più rilevanza la qualità e la diversità della rete sociale che la sua dimensione; cfr.
Mowbray et al. 2014, Kim et al. 2016.
247. Pirie et al. 2013, Thun et al. 2013, Carter et al. 2015.
248. «Approximately 17% of this excess mortality was due to associations with causes that
have not been formally established as attributable to smoking» (Carter et al. 2015, p.
636).
249. Poiché suicidi e incidenti hanno spesso le stesse cause (maggiore aggressività e
impulsività), non meraviglia la correlazione proposta dall’esperto psichiatra.
Sull’argomento cfr. Li et al. 2012, Sareen et al. 2015, Evins et al. 2017.
251. Per tali correlazioni spurie (come quella tra numero di scarpe e reddito) cfr. capitolo 6,
nota 5.
254. La probabilità di ottenere un sei è di 1/6, la probabilità di non ottenere un sei è di 5/6.
Nel caso di dieci dadi (o dieci lanci) la probabilità di non ottenere un sei è (5/6)10, cioè
circa 0,16.
257. La citazione originale è: «Consistent with this perspective, intervention attempts to alter
the signal (e.g., hunger, loneliness) without regard to the actual behavior (e.g., eating,
social connection) and vice versa would likely be ineffective» (Holt-Lunstad et al. 2015,
p. 234).
259. Holt-Lunstad et al. p. 14; Le «fonti classiche» sul tema restano 1945 e Bowlby 1951.
266. Il titolo originale è «You make me sick: Marital quality and health over the life course»
(Umberson et al. 2006).
283. «Quel che più ci sorprende è che negli uomini un matrimonio percepito come infelice
corrisponde a un minore rischio di ammalarsi di diabete, mentre aumentano le possibilità
di sopravvivenza alla malattia dopo averla contratta» (Liu et al. 2016, p. 1077).
284. «In verità bisogna ammettere che questo dato tipico del sesso maschile si ritrova da
tempo nella letteratura specifica sulle differenze di genere in relazione al controllo
sociale e a comportamenti legati alla salute. [...] Rispetto ai mariti, le mogli tendono
molto di più a modificare quei comportamenti del coniuge che hanno un impatto sulla
loro salute, a maggior ragione quando il marito è diabetico o soffre di altre malattie
croniche» (Liu et al. 2016, p. 1077s.).
287. Gli stessi autori lo affermano chiaramente: «Quanto risulta dallo studio, ovvero che una
maggiore frequenza di esperienze negative nella vita coniugale nella data di riferimento
1 è correlata con un minore incremento delle difficoltà cognitive negli anni successivi,
non è in accordo con l’ipotesi che un matrimonio problematico peggiori la salute.
Tuttavia era proprio questo il dato che era stato riscontrato da studi precedenti» (Xu et al.
2016, p. 173).
289. Xu et al. 2016, p. 173. Con «funzioni esecutive» si intendono le facoltà mentali che
determinano il nostro agire pratico, come per esempio la forza di volontà, la capacità di
resistenza, il perseguire obiettivi e nel contempo la flessibilità e l’apertura al nuovo.
296. Carr et al. 2016. Questo risultato concorda con il dato che i costi sanitari delle donne
anziane sono sensibilmente più elevati rispetto agli uomini. Per semplificare: le donne si
sentono malate e vanno dal medico. Gli uomini invece non vanno dal medico e a un
certo punto si ammalano e muoiono.
300. Intanto è stato rilevato anche che in caso di depressione di uno dei coniugi cresce la
probabilità che anche l’altro coniuge assuma antidepressivi (Monden et al. 2015, p. 1).
301. Alviar et al. 2014, Dupre et al. 2015, Sbarra & Law 2011, Shor et al. 2012.
306. Alcuni psicologi della University of Kentucky e della University of North Carolina,
Wilmington, hanno condotto due ricerche sperimentali sull’argomento. Nel primo
esperimento con 203 studenti (140 donne, età media intorno ai 20 anni) è stata procurata
alla metà dei soggetti un’esperienza di esclusione sociale attraverso il gioco della palla
(cfr. capitolo 2), esperienza che conduceva a sensazioni dolorose. Queste a loro volta
erano connesse a un più forte desiderio di appartenenza: «Quanto più intenso era il
dolore per il respingimento, tanto maggiore era il desiderio di ricostruire il legame
sociale. Questo risultato dimostra che il dolore provocato dal respingimento muove le
persone verso le altre persone», commentano gli autori (Chester et al. 2016). In un
secondo esperimento con 28 partecipanti con un’età media di 19 anni (17 donne) si è
potuto dimostrare addirittura, per mezzo di una risonanza magnetica funzionale (RMF),
che l’attività delle regioni cerebrali responsabili del dolore è direttamente correlata con
un comportamento di avvicinamento del soggetto alla persona che lo ha respinto.
308. Masi et al. 2011. La dimensione dell’effetto è indicata ogni volta con un valore negativo:
questo vuol dire che l’effetto consiste in una riduzione della solitudine.
309. Ciò non vuol dire che tali misure non siano efficaci in casi speciali (per esempio in
soggetti affetti da disturbi psichici). Ci indica solo che i dati di cui eravamo in possesso
finora rispetto a questi tentativi non ci consentono di fare alcuna affermazione positiva.
310. Da psichiatra, non posso far altro che cercare di incoraggiare quanti vogliono iniziare un
percorso di aiuto psicologico: è un modo per prendere sul serio se stessi e i propri
problemi, cosa che non di rado rappresenta il primo – e più importante – passo.
Nondimeno, la psicoterapia non è una passeggiata e non tutti sono disposti a percorrere
questa strada. Il tasso di abbandono della terapia non è irrilevante (fino al 50 percento),
perché tutto ciò che produce effetti positivi porta con sé anche effetti collaterali.
311. È l’idea alla base del Leviatano, l’opera più famosa di Hobbes, del 1651.
316. Heinrich et al. 2010, 2010. Ulteriori fonti sulla neuroeconomia e sul gioco
dell’ultimatum.
Solo una piccola parte si comporta diversamente – secondo un recente studio il 7
317. percento (Yamagishi et al. 2014) – ovvero in maniera egoistica. Tali persone vengono
definite psicopatiche e si caratterizzano per il fatto di «passare sul cadavere dell’altro»,
per non avere alcuna compassione e agire in maniera egoistica, sfruttando il prossimo
(cfr. Spitzer 2015b).
324. Riportiamo la citazione anche nell’originale inglese: «Social reward aroused by social
interaction per se might increase motivation to interact with others» (Kawamichi et al.
2016, p. 7, evidenziato nell’originale).
327. Si accorda bene con questa osservazione la scoperta che la connettività (cioè la quantità
di connessioni nervose) dello striato (il nucleus accumbens è parte di questa zona
cerebrale) è correlata con l’aspetto caratteriale della cooperatività (Lei et al. 2016).
331. European Social Survey, ESS6. La rilevazione è stata condotta in 29 paesi europei. Di
questi, la maggior parte sono membri dell’Unione, cui si aggiungono i paesi extra UE
Albania, Islanda, Israele, Kosovo, Norvegia e Svizzera.
334. Brown et al. 2003; i dati si rifanno allo studio di Carr et al. 2000.
336. Il confronto tra paesi è problematico da un punto di vista metodologico. Basti pensare al
fatto, a tutti noto, che noi europei paghiamo in media più tasse degli americani; gli
americani sono invece più generosi in caso di sostegno di progetti di beneficenza e di
aiuto tra vicini (Harbaugh et al. 2007).
337. Il grado di salute percepito, registrato mediante self-rating, non corrisponde al 100
percento allo stato di salute effettivo. D’altro canto, non si è del tutto in errore quando
semplicemente si chiede ai soggetti coinvolti in uno studio di riferire il proprio stato di
salute.
338. Tra quanti fanno volontariato e quanti non lo fanno si è riscontrata una serie di differenze
minori ma pur sempre significative (alla luce dell’alto numero di persone coinvolte):
coloro che svolgono attività di volontariato sono più spesso uomini, hanno un grado
d’istruzione piuttosto alto, guadagnano di più, sono solitamente credenti, in media più
giovani di un anno rispetto alle donne e solitamente non immigrati. Poiché i ricercatori
erano interessati a registrare lo stato di salute, in fase di elaborazione statistica si sono
dovute necessariamente inserire le variabili appena elencate, perché un più alto reddito o
l’appartenenza a una confessione religiosa sono in correlazione con la salute
dell’individuo. Una volta rilevate queste variabili, il loro effetto può essere «eliminato»
dal calcolo.
341. Does a Helping Hand Mean an Heavy Heart? (Poulin et al. 2010).
343. Ablitt et al. 2009, Brown & Brown 2014, Crocker et al. 2017, Pinquart & Sörensen 2011,
Poulin et al. 2010.
344. Si discute ancora oggi se gli animali (primati e non primati) posseggano o no una
cultura. Se la risposta è affermativa, allora i canti degli uccelli canori e delle megattere –
imparati rispettivamente da individui più anziani della stessa specie – ne sarebbero uno
straordinario esempio (accanto all’utilizzo di utensili da parte di cornacchie e di alcuni
primati non umani; Ablitt et al. 2009, Brown & Brown 2014, Crocker et al. 2017,
Pinquart & Sörensen 2011, Poulin et al. 2010).
345. Come gli altri giochi già nominati, quello qui utilizzato e chiamato Weak-Link Game è
stato pensato dagli economisti, che intendevano definire quelle situazioni decisionali in
cui l’efficacia del gruppo dipendeva dall’efficacia del membro più debole. «Ogni catena
possiede la forza del suo componente più debole»: un modo di dire non a caso molto
comune in Germania. Esistono infatti tanti esempi di queste situazioni: mantenere un
segreto; cominciare a mangiare solo quando tutti si sono seduti a tavola; scrivere il
capitolo di un libro che potrà essere mandato alle stampe solo quando tutti i capitoli
saranno stati scritti (cfr. Weber et al. 2004).
347. Si trattava in questo caso del Public-Goods Game, in cui si gioca investendo i propri
beni in modo che tutti stiano meglio. Chi non investe approfitta degli investimenti degli
altri: è il «problema del free rider» (free rider problem), presente in ogni comunità.
Quando però investono tutti e quattro i partecipanti, raggiungono tutti il massimo livello
di benessere.
352. Per perforare dei piccoli pezzi rotondi di uova di struzzo, impiegati per la realizzazione
di gioielli (proprio come facevano 75.000 anni fa; cfr. Henshilwood et al. 2004),
utilizzano delle punte di acciaio («la pietra si rompe prima» hanno precisato quando li ho
intervistati). A eccezione degli oggetti necessari a stabilire il contatto con persone del
mondo occidentale (soldi per l’acquisto di merci da loro stessi prodotte), durante la mia
visita al San Living Museum non ho trovato alcuna traccia di civiltà occidentale.
Capitolo 10. Alla ricerca della solitudine
359. Blanchette et al. 2005; Gondola 1986, 1987; Kuo& Yeh 2016; Steinberg et al. 1997.
381. «L’effetto è maggiore nei quartieri più poveri. I ricchi sono comunque più sani» ha
affermato lo psicologo sociale e dell’ambiente Mathew White della University of Exeter,
Gran Bretagna, in una delle revisioni pubblicate recentemente sulla rivista Nature
(Gilbert 2016, p. 57).
383. Oltre agli studi sugli effetti sani della natura, vi sono anche prove dirette degli effetti
nocivi che la città ha sulla salute. Una metanalisi del 2010 che raccoglie i dati di 20 studi
basati sulla popolazione e pubblicati dopo il 1985, ha dimostrato per esempio che gli
abitanti della città, rispetto agli abitanti della campagna, hanno una probabilità maggiore
del 20 percento di soffrire di disturbi d’ansia e una probabilità maggiore di quasi il 40
percento di soffrire di disturbi affettivi (Peen et al. 2010). Il rischio di ammalarsi di
schizofrenia è doppio nelle persone che nascono e crescono in città (Lederbogen et al.
2011). La distanza media, poi, che gli abitanti percorrono per arrivare all’area verde più
vicina, varia da città a città. Il valore medio ricavato da quattro città analizzate è + di 180
metri (Smith et al. 2017). La natura è un fattore importante soprattutto per i bambini e
per una crescita sana. Se manca la natura, si parla di Nature Deficit Disorder (Louv
2005), un’espressione che non appartiene al gergo clinico, ma che descrive molto bene il
problema.
385. Kant, la celeberrima Conclusione della Critica della ragion pratica (ed. UTET, 2014, a
cura di P. Chiodi).
386. Citiamo direttamente Kant: «Il primo [il cielo stellato] comincia dal luogo che io occupo
nel mondo sensibile esterno ed estende la connessione in cui mi trovo nell’infinitamente
grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, nei tempi illimitati del loro
movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità».
387. Ancora con Kant: «Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire
annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai
pianeti la materia da cui è sorta [...]».
388. Sempre con le parole di Kant: «La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la
personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere
solo l’intelletto, e con il quale [...] io non mi riconosco, come là, in una connessione
puramente accidentale, ma in una necessaria e universale».
389. Anon 2013.
390. Ho presentato e discusso nel dettaglio la letteratura sull’argomento nei miei libri
Demenza digitale e Solitudine digitale.
395. Aknin et al. 2013, Kasser et al. 2014, Vohs et al. 2006, Wierzbicki & Zawadzka 2016.
408. Lo dimostrano molto chiaramente gli studi scientifici; cfr. Kasser et al. 2014, Kasser
2016.
Indice
Presentazione
Frontespizio
Pagina di copyright
Premessa
Da soli in vecchiaia
Da soli in gioventù
Generazione Io
Riassumiamo
Riassumiamo
Immedesimazione automatica
Riassumiamo
Se manca il controllo
Riassumiamo
Depressione da Facebook...
Riassumiamo
Pressione alta
Infarto e ictus
Cancro
Malattie psichiche
Riassumiamo
Riassumiamo
Terapia
Dare
Felicità e comunità
Aiutare
Riassumiamo
Il «bagno di foresta»
Venerazione ed empatia
Riassumiamo
Ringraziamenti
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