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Presentazione

La solitudine del terzo millennio è una situazione di isolamento che è tanto


più dannosa quanto meno evidente perché mascherata spesso da quella che
ne è anche la causa principale: l’abbondanza di relazioni virtuali che
soprattutto nei giovani sostituiscono in modo improprio le relazioni sociali,
atrofizzando la capacità a istituirne di autentiche. Con conseguenze dannose
per l’equilibrio psicofisico degli individui e con ricadute a lungo termine
sull’intera società. Chi è solo si ammala più facilmente: la solitudine è
abbinata a una percentuale più elevata di disturbi cardiaci, forme tumorali,
ictus, depressione e forme di demenza. Ma la solitudine è anche contagiosa
e si diffonde come un’epidemia che non riguarda necessariamente chi è
single o vive da solo, ma anche coppie, persone sposate o che vivono in
famiglia. Nei paesi occidentali è diventata direttamente o indirettamente la
prima causa di mortalità. La tesi di Manfred Spitzer è suffragata da migliaia
di studi scientifici condotti in tutto il mondo occidentale. L’importante è
capirlo al più presto, prima che diventi un processo irreversibile.
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Titolo originale: Einsamkeit. Die unerkannte Krankheit: schmerzhaft,


ansteckend, tödlich

Traduzione dall’originale tedesco di Claudia Tatasciore

In copertina: © Shutterstock
Grafica Meccano Floreal

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

© 2018 Manfred Spitzer


© 2018 Droemer Verlag.
An Imprint of Verlagsgruppe Droemer Knaur GmbH & Co. KG, Munchen
through Giuliana Bernardi Literary Agency

Grafici e tabelle di pp. 13, 21, 25, 31, 57, 75, 76, 77, 84, 86, 90, 91, 92, 94, 95, 99, 100, 106, 107,
113, 127, 135, 143, 154, 157, 175, 186, 206: Computerkartographie Carrle/Manfred Spitzer.

Immagini di pp. 41, 44, 49, 53, 58, 188: Manfred Spitzer.

Casa Editrice Corbaccio è un marchio di Garzanti S.r.l.

© 2018 Garzanti S.r.l., Milano


Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-6700-555-0
Prima edizione digitale settembre 2018

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Ai miei buoni amici
Premessa

Immaginate che nel vostro paese esista una malattia che si manifesta
sempre più spesso e che provoca dolori cronici. Una malattia contagiosa,
ancora poco studiata dalla medicina, che si propaga più rapidamente di
quanto il nostro organismo riesca a sviluppare un’immunità specifica contro
di essa, e che è inserita tra le cause di morte più frequenti del civilizzato
mondo occidentale. Una malattia che favorisce il manifestarsi di altre
patologie, dal raffreddore alla depressione, dalla demenza all’infarto,
dall’ictus al cancro e che rappresenterebbe dunque un fattore di rischio
significativo per altre frequenti malattie mortali. Una malattia peraltro
insidiosa, perché molte persone che ne sono affette non sanno di esserlo.
Questa malattia esiste davvero. Si chiama solitudine.
La solitudine è un disturbo noto da tempo alla psichiatria – il mio ambito
di specializzazione medica – ed è stata generalmente definita come sintomo
di altri disturbi psichici. Gli ultimi sviluppi dell’epidemiologia, della
psicologia, della sociologia empirica e della ricerca sul cervello, e non da
ultimo anche della psichiatria, mostrano però che questo disturbo può essere
esaminato come manifestazione autonoma. In poche parole: la solitudine
non è «solo» un sintomo, vale a dire il segnale di una patologia in corso, ma
è essa stessa una malattia.
Solo esaminando la solitudine come esperienza di un isolamento sociale
insorto per le ragioni più disparate, che sviluppa una dinamica specifica (si
parla anche di circolo vizioso) per poi diventare essa stessa il problema
principale, è possibile ottenere un quadro differenziato del fenomeno. Come
si mostrerà in questo libro, una più approfondita comprensione delle cause e
degli effetti della solitudine produce conseguenze nuove e importanti. Essa
si raggiunge sulla base di acquisizioni scientifiche derivanti da studi di
osservazione ed esperimenti, che vanno dalla ricerca di base alla medicina
applicata e alla psicologia.
Come sempre nei miei libri, anche in questo offrirò al lettore dettagli di
ogni tipo. Quel che mi preme, tuttavia, non è solo fornire un resoconto delle
ultime acquisizioni scientifiche. Intendo anche spiegare come e perché esse
sono state raggiunte. Solo così, infatti, è possibile valutare e classificare gli
esiti della ricerca all’interno di una cornice più ampia; solo attraverso una
comprensione più profonda diventa possibile, nell’«epoca della post
verità», distinguere i fatti reali dai «fatti alternativi».1
Una volta fatta chiarezza, lo sguardo si orienta, nitido e non viziato, alla
soluzione di problemi derivanti da circostanze reali. Quando il lettore sarà
giunto agli ultimi capitoli del libro, sarà per lui evidente che non stiamo
parlando di una qualche «ricetta pronta» o dei «sette buoni consigli» contro
i cuori di pietra. Perché se è vero che la solitudine – come una polmonite o
come molte altre malattie – fa male, è contagiosa e potenzialmente letale, è
anche vero che essa è parte integrante dell’essere umano, proprio come
l’invecchiamento. Ogni persona a un certo punto della vita prende
coscienza della propria finitezza, su un piano del tutto «teorico» durante la
gioventù, in maniera sempre più «concreta» con il passare degli anni.
Per questo la solitudine non riguarda solo il mio campo di
specializzazione medica, ma anche me stesso. Come accade (quasi) a tutti,
anch’io di tanto in tanto sono solo. Per tutta la mia vita sono stato parte di
una famiglia: prima il terzo di cinque figli, che insieme ai genitori e a due
nonne viveva in una piccola comunità di nove persone sotto un unico tetto.
All’epoca era naturale che intorno a me ci fosse sempre qualcuno. Vivevo
in un piccolo paese chiamato Lengfeld im Odenwald, la mia patria naturale,
il luogo in cui sapevo orientarmi e dove avevo i miei amici. A venticinque
anni ho creato io stesso la mia nuova famiglia, di nuovo cinque figli e di
nuovo tutto normale: ero ancora una volta il membro di una (per gli
standard attuali) grande famiglia. Il fatto che tali famiglie non siano
un’invenzione della modernità, ma che costituiscano da secoli in Europa il
«nucleo» delle comunità umane, ci è noto dalle tante tombe in cui, già
svariati secoli fa, sono stati sepolti quanti oggi, con le moderne tecniche di
rilevazione scientifica, siamo in grado di identificare come padre, madre e
figli.2 La famiglia non è un «costrutto»: esiste realmente!
Adesso i miei figli hanno preso la loro strada e io ormai vivo da solo.
Pertanto sono «toccato», almeno in parte, da questa problematica e mi
chiedo come poter affrontare la situazione per «il resto dei miei giorni», o la
«terza età», o «gli anni d’oro», a seconda di come vogliamo chiamare
questa nuova fase della vita. Scrivendo il libro mi sono reso conto che la
questione è stringente e che non c’è da menare troppo il can per l’aia.
È sempre valida la regola per cui l’applicazione di conoscenze generali a
casi singoli non è oggetto della scienza (che invece ha un approccio
universalistico). Dalla fisica (generale) non si deduce come costruire una
casa (anche se essa non può essere costruita contro le leggi della fisica). La
casa concreta sottostà alla fisica ma a essa si deve aggiungere l’arte
dell’architetto. La medicina si comporta allo stesso modo. Le conoscenze
mediche sono generali (altrimenti non sarebbe possibile insegnarle e
apprenderle), mentre la loro applicazione al «caso singolo» non è scienza,
ma si definisce giustamente «arte medica».
Proprio per tale ragione, se le conoscenze scientifiche che ho raccolto in
questo libro possono essere di grande aiuto per riflettere sulla mia
solitudine, esse non risolvono «magicamente» il mio problema. Ciò vale
chiaramente anche per il lettore. Così come tutto il sapere medico del
mondo non ci dona automaticamente la salute, ciò che sappiamo sulla
solitudine, e che il lettore trova riassunto qui, non cancellerà
automaticamente la sua solitudine. Vero è, però, che senza conoscenze
mediche faremmo una bella fatica a guarire. E per chi di tanto in tanto si
sente solo e vorrebbe modificare questa condizione della propria vita, il mio
libro è senz’altro un buon inizio proprio perché non fornisce facili ricette o
consigli. Per intenderci: la frase «se sei malato prendi l’aspirina» è
sicuramente giusta in alcuni casi, ma di certo non è un buon consiglio
medico. La soluzione varia, appunto, da caso a caso!
Una malattia va riconosciuta nel suo complesso e compresa nelle sue
singole manifestazioni concrete. Solo allora si possono trarre le giuste
conclusioni per ciascun caso reale. Questo volume pertanto riduce di molto
il lavoro dei lettori, giacché il pregio di alcuni libri è commisurato al
numero di testi che non è più necessario leggere dopo la loro consultazione.
Connessi e isolati può far risparmiare al lettore lo studio di centinaia di
pubblicazioni scientifiche, ma non può certo sostituire la riflessione che ne
consegue in merito alla situazione concretamente vissuta da ciascuno di noi,
cosa bisogna fare qui e ora. Però può alleggerire sensibilmente il compito,
per questo l’ho scritto.

Ulm, nel giorno della Riforma e di Ognissanti


Manfred Spitzer
Capitolo 1

Megatrend e malattia

L’uomo rientra nella tipologia di mammiferi la cui vita si fonda sulla


comunità. Non a caso, già Aristotele lo definiva «animale sociale» (zoon
politikon) e, come mostrano le ricerche del Nobel per l’economia Daniel
Kahneman, ancora oggi trascorriamo l’80 percento del nostro tempo di
veglia insieme agli altri:3 l’animale uomo preferisce stare in compagnia
piuttosto che da solo.
Data questa premessa, ci appare curiosa l’attuale tendenza a una vita al
singolare (come singoli individui), tanto più che essa raggiunge come un
filo rosso tutti gli ambiti della nostra vita: gli alimenti sono venduti in
confezioni sempre più piccole, perché sempre più persone cucinano e
mangiano da sole; le nostre famiglie rimpiccioliscono e con esse anche gli
appartamenti, che ormai tendono al monolocale; prima, chi voleva distrarsi
andava al bar, oggi ci si siede – in genere da soli – davanti alla televisione.
La tendenza a stare da soli non si limita all’industria alimentare o edile o
alberghiera, ma è arrivata a penetrare la nostra psiche. Per questo interessa
anche la psichiatria, una branca della medicina. Un trend che riguarda
contemporaneamente il settore immobiliare, quello alimentare, la
comunicazione, la medicina e dunque la nostra salute può essere a buon
diritto definito un megatrend.
Chi crede che riguardi soltanto una manciata di paesi sviluppati si
sbaglia. Alcuni psicologi dell’Arizona State University hanno studiato,
negli ultimi cinquant’anni, pratiche e valori individualisti in 78 paesi.4 Nella
stragrande maggioranza si è riscontrato un aumento dell’individualismo –
sia nella prassi quotidiana sia nel sistema di valori – che si può ricondurre
almeno in parte allo sviluppo socioeconomico: quanto più migliorano le
condizioni economiche, tanto più aumenta il grado di autonomia e dunque
di individualismo nelle persone. In pochi, tuttavia, sono consapevoli del
fatto che in questo modo aumenta anche il rischio di solitudine.
Solitudine in Germania
In Germania sono anni che questo trend non conosce battute d’arresto. Nel
2015 il numero di nuclei familiari si attestava intorno ai 41 milioni, di cui
circa 17 composti da una singola persona (grafico 1.1). Se è vero che oggi il
50 percento della popolazione tedesca vive ancora all’interno di una
famiglia classica (genitori con uno o più figli), in passato le percentuali
erano più alte e diminuiscono da decenni. Il numero di nuclei familiari
cresce più del numero di abitanti, il che vuol dire che il numero di persone
per nucleo familiare diminuisce.
1.1: In Germania l’aumento, tra il 2000 e il 2015, del numero di nuclei familiari composti da
persone singole e la contemporanea diminuzione dei nuclei familiari composti da tre o più
persone (cioè famiglie) rende evidente la tendenza a un’esistenza da single. Il numero di
nuclei familiari composti da due persone è cresciuto leggermente, da 12.720.000 nel 2000 a
13.956.000 nel 2015. La dimensione media di un nucleo familiare è attualmente di 2
persone.5

Aggiungiamo, inoltre, che la legislazione e le politiche sociali tedesche


consentono alle coppie di non sposarsi o di divorziare con maggiore facilità
rispetto al passato: nel 1950 divorziava un decimo dei coniugi, oggi la quota
è salita a un terzo. Poiché sono sempre più frequenti i divorzi tra coppie con
figli, aumenta il numero di figli che cresce con un genitore e che quindi sin
dall’infanzia si abitua a un modello di vita da single. Infine, le famiglie con
un figlio unico – si calcolano in media 1,5 bambini per donna –
costituiscono la normalità.
È da notare anche che, nel corso della vita di un individuo, la solitudine
non si presenta sempre in egual misura. Ci sono due fasi in cui è più
frequente – in gioventù e in vecchiaia –, ciascuna con cause e conseguenze
differenti.6

Da soli in vecchiaia
Nel corso degli ultimi decenni è diminuita l’importanza attribuita al
matrimonio e alla famiglia, mentre è aumentata la solitudine degli individui.
A ciò si aggiunga che ci sono sempre più anziani e che la speranza di vita si
è allungata. Poiché gli uomini muoiono in media 6 anni prima delle donne
(e in genere il marito ha uno o due anni più della moglie), si registra un
numero particolarmente alto di donne anziane sole. È un fenomeno che
conosciamo fin dall’epoca della Seconda guerra mondiale (si parla di
«vedove di guerra»). La tendenza a una «femminizzazione della vecchiaia»
cresce però anche a più di settant’anni dalla guerra. «Attualmente, il 60
percento delle persone di 60 anni o più sono donne, e la percentuale
aumenta quanto più cresce l’età», si legge in un manuale tedesco di
informazioni e indicatori statistici relativi agli anziani (Handbuch
Sozialplanung für Senioren).7
Se la forma abitativa più frequente per gli anziani resta ancora quella di
un nucleo familiare composto da due persone (50 percento dei casi), il
manuale sopra citato afferma anche: «Sempre più persone vivono da sole
durante la vecchiaia. Ciò riguarda circa il 40 percento della popolazione
tedesca sopra i 65 anni e le cifre aumentano nelle grandi città. Di queste
persone, l’85 percento è costituito da donne. Uno dei motivi di questa alta
percentuale femminile va individuato nel più alto tasso di mortalità tra gli
uomini; tuttavia oggi la ‘singolarizzazione’ della vecchiaia è determinata in
misura sempre maggiore anche dall’invecchiamento di persone singole (non
sposate, separate o divorziate), e queste sono più frequentemente uomini». I
(pochi) uomini anziani seguono dunque il modello delle donne e sempre più
spesso conoscono isolamento e solitudine. Se intervistati sul perché del loro
vivere da soli, uomini e donne forniscono risposte parzialmente differenti. Il
28,7 percento degli uomini dice: «Sono troppo timido e conosco poche
persone» (solo il 16,1 percento delle donne dà questa motivazione). Il 30,2
percento delle donne indica invece come motivo principale «Le mie
aspettative circa un partner sono troppo alte» (contro il 25,5 percento degli
uomini). Sono quasi il doppio rispetto agli uomini (9,5 contro 5,9 percento)
le donne che si ritengono troppo anziane, e più del doppio (12,4 percento
contro 5,9 percento di uomini) le donne che sostengono di intimidire l’altro.
Le differenze di genere sono invece pressoché nulle rispetto alla
necessità di indipendenza («Non sono ancora pronta a rinunciare alla mia
indipendenza: 27,7 percento di uomini e 26,6 percento di donne), a una
delusione amorosa («Sono infelicemente innamorata»: 10,7 percento di
uomini e 10,4 percento di donne) o all’importanza della professione («Al
momento il mio lavoro è più importante»: 15,4 percento di uomini e 15,6
percento di donne).8 Secondo questa statistica, nella metà dei casi la vita da
single degli anziani sembra essere una scelta autonoma.
Chi dovesse dedurre dai dati presentati che la singolarizzazione sia un
trend che interessa solo le persone anziane si sbaglia. Se è vero che i numeri
sono più alti tra gli anziani piuttosto che tra i giovani, la tendenza è tuttavia
molto più sviluppata tra questi ultimi: in questo caso il trend cresce molto
più rapidamente.

Da soli in gioventù
La ragione è correlata ad altri due grandi trend: l’urbanizzazione e la
mediatizzazione delle nostre vite. Nel 1900, il 13 percento della
popolazione mondiale viveva in città, oggi siamo arrivati a circa il 50
percento e nel 2050 si toccherà il 70 percento. La crescente urbanizzazione
comporta una forte riduzione delle nascite, soprattutto nei paesi in via di
sviluppo. A Addis Abeba, in Etiopia, o in molte città del Vietnam il tasso di
fertilità è 1,4, cioè addirittura al di sotto del tasso di fertilità medio della
(molto sviluppata) Germania (1,5), il cui valore è notoriamente basso. Nella
capitale iraniana Teheran il numero medio di figli per donna è ancora più
basso: 1,3. Nel nostro mondo occidentale, urbanizzazione significa
soprattutto più anonimato e isolamento: una correlazione che sicuramente
«non ci ha ordinato il medico».
Il secondo trend, la crescente mediatizzazione di tutti gli ambiti della
nostra vita, interessa principalmente i più giovani. A differenza di quanto si
sostiene, infatti, la digitalizzazione non favorisce il contatto tra le persone,
ma fa crescere insoddisfazione, depressione e solitudine. Questo vale
soprattutto per i social network come Facebook, Twitter, WhatsApp,
YouTube, Instagram o Snapchat. L’obiettivo principale e dichiarato di
questi social è di mettere in contatto le persone, ma la loro reale funzione è
la pubblicità: è il loro modello commerciale! L’influsso dei social sulla
soddisfazione sociale è visibilmente negativo, mentre quello sulla
demografia della società (più coppie o più separazioni?) non è stato ancora
sufficientemente studiato e chiarito.
Da uno studio pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine,
condotto all’inizio del 2017 su un campione rappresentativo per gli Stati
Uniti di 1787 giovani adulti, è risultata una chiara correlazione tra
l’esperienza di solitudine e l’utilizzo dei social network. A mettere in risalto
la rilevanza dei risultati abbiamo il seguente dato: solo il 3,2 percento dei
partecipanti non usava alcun tipo di social.
Accanto ai nuovi media ce n’è uno vecchio, la televisione, che alimenta
la solitudine delle persone. La correlazione tra consumo televisivo e
solitudine è nota da tempo.9 A ciò si aggiunga che i contenuti televisivi
vanno tutti verso una precisa direzione. Nei numerosi talk show, reality
show, casting show ecc., il punto è sempre lo stesso: distinguersi, essere il
migliore, il più bello, il più pazzo o il più repellente, e diventare famoso per
questo. La televisione, che fornisce modelli sociali, incoraggia fortemente
la tendenza all’egocentrismo. Ormai in tv è raro vedere attori famosi,
cantanti, o addirittura ricercatori e scienziati: a essere protagoniste sono di
solito «persone come me e te», che per qualche motivo ritengono di essere
speciali. Molte delle celebrity di oggi non sono famose perché sanno o
sanno fare qualcosa; sono famose per il loro essere famose (famous for
being famous; si parla anche di «effetto Paris Hilton»).10
Ancor prima che i bambini possano essere influenzati dalla televisione e
da internet, sono i genitori, in alcuni casi, a preparare il terreno fertile per lo
sviluppo della solitudine con il loro stile educativo «permissivo»,
indulgente o addirittura trascurato: qualsiasi cosa facciano i loro figli, sono
sempre «i migliori». Il risultato di tutto ciò è stato scientificamente
studiato:11 giovani adulti narcisisti, poco interessati al benessere degli altri,
che senza alcun impegno particolare credono di essere destinati a un lavoro
di prima classe e a diventare ricchi per poter vivere nelle migliori
condizioni possibili.
Soprattutto negli Stati Uniti, fino a qualche anno fa il narcisismo e il
conseguente materialismo erano incoraggiati anche dalla facilità con cui le
banche fornivano crediti. La quarta colonna di questo strabordante
narcisismo – insieme a genitori permissivi, televisione e
smartphone/internet12 – è stata spazzata via nel 2008 con la crisi finanziaria
statunitense, in seguito alla quale si è registrata empiricamente una leggera
riduzione dell’approccio materialista (si partiva comunque da un livello
molto alto). Tuttavia, il trend crescente del narcisismo – e con esso anche la
maggiore solitudine e il ridotto orientamento sociale – non è stato interrotto
una volta per tutte dalla recessione americana. Bisogna aggiungere, da una
prospettiva europea, che solitamente i trend americani si registrano nei
nostri paesi con circa dieci, quindici anni di ritardo e generalmente un po’
attenuati. La crisi finanziaria del 2008 ha colpito anche l’Europa, ma non
con la stessa intensità con cui ha travolto gli Stati Uniti.

Generazione Io
Da appartenente alla generazione dei babyboomer (i nati tra la metà degli
anni Quaranta e la metà degli anni Sessanta del secolo scorso), avevo
condiviso i valori della cultura giovanile dell’epoca: la spinta verso libertà e
autonomia, il rifiuto di valori ritenuti «fuori moda», la critica al «sistema»
ecc. (i miei coetanei sanno di cosa parlo). A quanti erano più grandi di noi,
il nostro comportamento sarà sembrato egocentrico e poco empatico. Noi
però ci muovevamo sempre in gruppo: andavamo insieme alle
manifestazioni (per solidarietà con gli operai, contro la guerra del Vietnam
ecc., cioè generalmente per gli interessi degli altri) e organizzavamo
seminari di gruppo per ritrovare se stessi. A nessuno sembrava un
paradosso. Per intere notti si discutevano problemi che riguardavano
soprattutto la vita in comunità. Si studiava, si abitava e si viveva insieme.
Era questo l’importante.
Alla generazione dei babyboomer è seguita la generazione X, in
concomitanza, nel mondo occidentale, con la «rivoluzione della pillola» e il
conseguente, significativo calo demografico dovuto alla diffusione dei
contraccettivi ormonali.13 È giunta poi l’ora della generazione Y, detta
anche dei millennials (i nati tra l’inizio degli anni Ottanta e l’inizio del terzo
millennio). Rispetto alla generazione X, quella dei millennials è più
consistente, perché negli anni Ottanta e Novanta si è conosciuto un nuovo e
sensibile incremento delle nascite.
La generazione dei millennials viene talvolta paragonata a quella dei
babyboomer. Quarant’anni fa, infatti, i giovani babyboomer erano chiamati
«generazione Io», grazie all’«inaspettato sviluppo da loro conosciuto dopo
la Seconda guerra mondiale e al lusso – di cui milioni di persone del tutto
normali godevano – di occuparsi solo di se stesse», come lo descrisse nel
1976 lo scrittore americano Tom Wolfe. Per dirla con le parole della
pubblicitaria americana Shirley Polykoff: «Se ho una sola vita, lasciatemela
vivere da bionda!»
In realtà per i millennials le cose sono completamente diverse. Un conto
è, infatti, mettere in discussione il già noto, sviluppare nuovi modi di
pensare o addirittura di mettere in atto una nuova invenzione del sé.
Tutt’altra cosa è nascere in un mondo che è completamente diverso. Tutto è
già pronto, e del tutto nuovo. La differenza più grande è l’onnipresenza
delle tecnologie d’informazione digitale, attraverso cui l’attenzione, la
comunicazione, i valori, i comportamenti e soprattutto il normale agire
quotidiano vengono trasformati radicalmente. Già nel 2013 la parola
«selfie» è stata nominata «parola dell’anno» dall’Oxford-English
Dictionary. I giovani giudicano se stessi e gli altri in base al numero di
amici su Facebook o al numero di like e follower su Twitter. Ecco dunque
che anche per la generazione dei millennials è stata recuperata la
definizione di «Generation Me»,14 conosciuta anche come «Generation
Look at Me»15 o «Generation Me MeMe».16
Il pubblicista americano Christopher Orlet ha commentato criticamente:
«Non ho fatto parte della generazione dei millennials, cresciuta in
un’overdose di sopravvalutazione del sé e tecnologia per l’autopromozione,
una miscela perfetta per scatenare una valanga di narcisismi».17 Stando alle
sue affermazioni, nel 2007 i due terzi degli studenti di college
manifestavano sintomi di self-adulation superiori alla media, con un
aumento del 30 percento rispetto a venticinque anni prima. L’autore
dell’articolo lamenta che, se è vero che i millennials sono più ottimisti, più
sicuri di sé e perdutamente innamorati di se stessi, non hanno in realtà alcun
motivo per tutta quest’autostima; egli si riferisce esplicitamente al ridotto
livello d’istruzione, alla spiccata superficialità, alla «riprovevole
meschinità» (letteralmente!) e alla scarsa maturità emotiva.
Siamo forse di fronte a un semplice pessimismo culturale
romanticamente trasfigurato? O è forse vero che negli ultimi decenni i
giovani e la loro cultura sono stati sempre più caratterizzati da un elevato
grado di solitudine? Non poche persone, per lo più anziane, hanno
l’impressione che oggi i giovani siano più egoisti e meno inclini alla
socialità di prima. Qualcuno potrebbe obiettare che in ogni epoca le persone
più anziane sostengono che «ai loro tempi» tutto era meglio e i giovani non
erano così pigri, impertinenti, autoreferenziali e superficiali.
«Non nutro più alcuna speranza per il futuro del nostro popolo, se esso
deve dipendere dalla gioventù superficiale di oggi, perché questa gioventù è
senza dubbio insopportabile, irriguardosa e presuntuosa. Quando ero ancora
giovane, mi sono state insegnate le buone maniere e il rispetto per i
genitori: la gioventù di oggi invece vuole sempre dire la sua ed è sfacciata.»
Questa citazione, che si trova in rete, è attribuita al poeta greco Esiodo, che
ha vissuto più di duemila anni fa (700 a.C.). In rete circola anche un’altra
citazione, molto simile, attribuita a Socrate (469-399 a.C.), che circa
duecento anni dopo scriveva: «La nostra gioventù ama il lusso, è
maleducata, si burla dell’autorità e non ha alcun rispetto degli anziani. I
bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano quando un vecchio entra in
una stanza, rispondono male ai genitori, in una parola, sono cattivi».
Le due citazioni sembrano dimostrare che da sempre i «vecchi» si
lamentano dei «giovani», senza che questo abbia mai portato con sé
conseguenze catastrofiche. Si può quindi giustamente obiettare: è proprio
vero che un eccessivo egocentrismo e un interesse ridotto per la comunità
sono oggi più frequenti che in passato?
Per alcuni non c’è dubbio: «Prima il senso di comunità era più forte».
«Prima ci si incontrava molto più spesso, anche solo per scambiare due
chiacchiere.» «Prima coesione sociale e solidarietà tra gli uomini erano più
spiccate.» «Prima le persone non erano così innamorate di sé come oggi.»
Altri ribattono: «Ma che cosa dici?! Non è che prima le cose andassero
meglio. La pensi così solo perché guardi le cose con le lenti rosa del
passato». «I soliti vecchi brontoloni con i loro vuoti di memoria.» Chi ha
ragione? Come possiamo uscire da questa impasse?

Soggettività dell’esperienza e oggettività dei fatti


Solitudine e isolamento sociale non sono la stessa cosa: la prima è l’aspetto
psicologico del secondo. Con il termine solitudine si indica un’esperienza
soggettiva – ci si sente soli – mentre l’isolamento sociale può essere
misurato in maniera oggettiva (quanto si è soli?). Chi vive da solo (in un
nucleo familiare costituito da una sola persona), ha pochi contatti o
mantiene soltanto una ristretta rete di relazioni, dimostra un maggiore
isolamento sociale rispetto a chi ha molti amici e conoscenti e vive con altre
persone. Non è detto tuttavia che questa persona si senta sola. Una persona
malata di depressione può vivere in una famiglia integra, avere molti amici
e conoscenti, eppure sentirsi sola. A volte gli individui ricercano
volutamente la solitudine (di solito solo per un periodo limitato; si veda
l’ultimo capitolo di questo libro) e la vivono molto bene. Dunque i nessi
non sono affatto semplici, bensì assai complessi e articolati!
La solitudine percepita e il reale isolamento sociale non sono la stessa
cosa. E nemmeno sono in una relazione così stretta come si potrebbe
pensare (grafico 1.2). In uno studio su 11.825 persone Caitlin Coyle ed
Elizabeth Duga18 hanno riscontrato un indice di correlazione tra solitudine e
reale isolamento sociale pari a 0,2.
1.2: Solitudine e isolamento sociale non sono la stessa cosa: ci si può sentire soli senza
essere socialmente isolati. Al contrario, si può essere socialmente isolati senza sentirsi soli.
Secondo studi scientifici, il numero di persone in cui si verificano contemporaneamente
entrambe le condizioni è molto più basso di quanto ci si potrebbe aspettare.

Da un punto di vista metodologico, solitudine e isolamento sociale sono


descritti con scale differenti.19 Nel definire tali scale, il modo di procedere è
estremamente importante: analizzare concretamente e da più punti di vista il
sostegno sociale di cui gode una persona porta a descrivere la sua solitudine
con più precisione rispetto a quando si pone un’unica domanda.20
Lo stesso vale per l’isolamento sociale. Ci si può limitare a chiedere se si
vive da soli o no, ma si può anche descrivere con estrema precisione il
contesto sociale, distinguendo generalmente tra la cerchia di migliori amici,
la cerchia dei buoni amici e la cerchia dei conoscenti (grafico 1.3).21 In
media abbiamo soltanto una manciata di migliori amici (secondo la
definizione, coloro cui possiamo e vogliamo chiedere aiuto in caso di
necessità), abbiamo tra i 12 e i 15 buoni amici (secondo la definizione,
coloro la cui morte ci toccherebbe profondamente) e circa 150 conoscenti.
1.3: Costruzione della rete sociale di un individuo.22 Il grafico riflette l’uso linguistico: ognuno
di noi ha una «cerchia di migliori amici», una «cerchia di buoni amici» e una «cerchia di
conoscenti», ciascuna di dimensioni differenti e inserite una nell’altra. Le dimensioni (e
quindi il numero di amici e conoscenti) variano considerevolmente da soggetto a soggetto.

Le dimensioni di tali reti sociali si influenzano a vicenda: chi ha molti


migliori amici avrà anche molti buoni amici e molti conoscenti. Poiché le
donne possiedono notoriamente una maggiore competenza sociale rispetto
agli uomini (questa differenza tra i generi è tra le poche veramente
rilevanti), hanno in media anche una rete sociale più ampia. Sappiamo
anche che tali reti sociali sono costituite da un numero maggiore di persone
dello stesso sesso (gli uomini hanno più amici, le donne più amiche) e che
ciascun soggetto si differenzia sensibilmente dagli altri quanto a dimensioni
della rete sociale. La maggior parte delle persone è sorpresa dal fatto che
tali differenze siano in parte ereditarie.23
Alcuni aspetti della personalità, per esempio la timidezza o la curiosità,
hanno un effetto sostanzialmente irrilevante sulla dimensione delle reti
sociali di un individuo.24 Altri aspetti invece sono decisamente rilevanti: ad
avere un particolare influsso sulle reti sociali sono soprattutto la capacità di
immedesimazione e il narcisismo. Inoltre, vi è un altro elemento che spesso
viene dimenticato: chi ha una memoria migliore ha un numero maggiore di
buoni amici. Chi invece ha una maggiore capacità di immedesimazione, ha
un numero maggiore di migliori amici!25 La cosa non sorprende: in genere i
buoni amici sono in numero superiore ai migliori amici, dunque il numero
di buoni amici dipende dalla nostra capacità di ricordare le cose. Il numero
dei migliori amici invece è ristretto, per cui la memoria non gioca alcun
ruolo.
I soggetti dotati di una spiccata partecipazione emotivanei confronti
delle altre persone hanno un numero maggiore di migliori amici di quanto
non accada a chi dà un’impressione di maggiore freddezza o egoismo. Si
tratta di un aspetto importante, perché il numero di migliori amici è
strettamente legato al sentimento di solitudine. Poiché però le dimensioni
delle cerchie sono tra loro correlate, i soggetti con un più spiccato senso di
socialità non avranno soltanto un numero più alto di migliori amici, ma
anche un numero maggiore di buoni amici e conoscenti.
Più importante della quantità delle nostre relazioni sociali è la loro
qualità: un amico con cui si è in profonda sintonia è più importante di 500
conoscenti virtuali in un social network. È evidente.
Accanto agli amici e ai conoscenti, anche la famiglia riveste un ruolo
rilevante in tema di quantità e qualità dei contatti sociali. Dal punto di vista
della qualità esiste di tutto: da fratelli, genitori e figli che non vanno
d’accordo e non si frequentano più, a legami che durano anche per diverse
generazioni, grazie ai quali i singoli membri si sentono più protetti in
famiglia che altrove. Un altro fattore dirimente è lo scambio di effusioni
con il proprio partner nell’intimità: un contatto fisico più o meno regolare
(«affidabile») riduce da un lato ansia e stress, dall’altro influisce
sensibilmente e in maniera positiva sul benessere dell’individuo.26

Come si misurano isolamento sociale e solitudine?


Tutto ciò è importante se si vuole definire quanto un individuo si senta solo
e quanto sia invece socialmente isolato. Alcune persone vivono da sole
(nucleo familiare costituito da un singolo) ma sono sempre in compagnia di
amici, altre vivono in coppia ma in guerra perenne e hanno pochissimi
contatti con altre persone.27Alla luce di tali elementi, si è ormai consolidato,
nella prassi scientifica, l’uso di brevi questionari utilizzati per individuare
l’isolamento sociale e la solitudine. Alla base di tale procedimento vi è
sempre il compromesso tra durata (o brevità) e significatività. Ponendo la
singola domanda «vive da solo/a?» si raggiunge una minore precisione che
attraverso una serie di domande, le cui risposte vanno poi riassunte in un
punteggio totale, anche se nel farlo si calcolano insieme mele, pere e arance
e ci si deve chiedere con che diritto. Ma così come la risposta alla domanda
posta da un nutrizionista a un paziente «quanta frutta mangia?» sarà più
esatta se si vanno a indagare i singoli tipi di frutta per poi sommare i
risultati, anche la somma di zii, nipoti e migliori amici può essere sensata,
non da ultimo perché la solitudine, come l’alimentazione, ha un effetto
diretto sulla salute. Dunque, è necessario basarsi su dati affidabili.
Se volete sapere qual è il vostro grado di isolamento sociale, esaminate i
cinque item della tabella 1.1 e attribuitevi un punto per ogni risposta
affermativa. Se il punteggio finale andrà da 0 a 1, gli autori del questionario
vi classificherebbero come poco o mediamente isolati. Se il risultato
raggiunge o supera i 2 punti verreste invece classificati come molto isolati.28

Tabella 1.1: Misura dell’isolamento sociale sulla base di cinque domande. Il punteggio totale
da 0 a 5 registra il grado di isolamento sociale.29

N. Item

1 non sposato/ nessun rapporto sessuale

2 contatti* con i bambini meno di una volta al mese

3 contatti* con altri membri familiari meno di una volta al mese


4 contatti* con gli amici meno di una volta al mese

5 Nessuna associazione a club, nessuna partecipazione ad associazioni di quartiere,


religiose o di volontariato (commitees)

* Personali («face to face»), telefonici, epistolari o via mail.

Con i questionari non si indicano soltanto i dati oggettivi, ma anche le


sensazioni soggettive. Dal 1980, la solitudine viene descritta in moltissimi
studi tramite un questionario sviluppato da alcuni studiosi della University
of California Los Angeles (UCLA). La cosiddetta UCLA Loneliness Scale si
compone di venti domande, ciascuna delle quali ha quattro possibilità di
risposta («mai», «raramente», «a volte», «spesso»).30 Se a tali risposte si
attribuisce un punteggio da 1 a 4, si otterrà da un minimo di 20 a un
massimo di 80 punti. Il grado di solitudine degli intervistati varierà dunque
su questa scala di valori. Più praticabile (perché più breve) e dunque ancora
oggi più spesso utilizzata, è la Three Item Loneliness Scale (tabella 1.2),
elaborata nel 2004 dal gruppo di ricerca della psicologa sociale americana
Mary Elizabeth Hughes.
Se volete conoscere il vostro grado di solitudine, leggete i quesiti nella
tabella 1.2 e per ciascuno rispondete «spesso» (2 punti), «a volte» (1 punto)
o «mai» (0 punti). Se il risultato è compreso tra 0 e 2 punti, gli autori del
questionario vi definirebbero poco o mediamente soli, se la somma
raggiunge o supera i 3 punti, sarete definiti molto soli.31

Tabella 1.2: Tre quesiti sulla solitudine (Three-Item Loneliness Scale),32 riportati anche in
testo originale. All’inizio del test si leggono alla persona interessata un’introduzione e i
singoli quesiti. «Le seguenti domande hanno lo scopo di definire come si sente rispetto ad
alcuni aspetti della sua vita. La prego di dirmi, per ciascuna sensazione descritta, quanto
spesso le capita di provarla». Per ciascuna delle tre domande si danno tre possibilità di
risposta («mai», «a volte», «spesso»). Attribuendo a ciascuna risposta rispettivamente il
valore di 0, 1 o 2, si otterrà un punteggio totale da 0 (mai solo) a 6 (molto solo).

Nr. Item Item

1 First, how often do you feel that you lack Quanto spesso sente la mancanza di
companionship? compagnia?
2 How often do you feel left out? Quanto spesso si sente
abbandonato/a?

3 How often do you feel isolated from Quanto spesso si sente isolato/a
others? dagli altri?

Attraverso questa tipologia di questionario si è scoperto per esempio che,


osservate nell’arco della loro intera vita, le persone tendono a provare una
sensazione di solitudine in misura differente al variare dell’età. Come
abbiamo già descritto all’inizio del capitolo, sono soprattutto giovani e
anziani a provare solitudine, mentre uomini e donne tra i 25 e i 55 anni vi
sono meno soggetti. Rispetto al sesso, esiste una correlazione con lo stato di
famiglia: i più soli sono gli uomini non sposati, seguiti dalle donne non
sposate e, a una certa distanza, dalle donne sposate. I meno soli sono gli
uomini sposati.33

Insieme contro la solitudine: partecipazione emotiva


La partecipazione emotiva è una facoltà multistrato, che si è sviluppata
nell’uomo nel corso dell’evoluzione34 e che va distinta in modo netto dal
contagio sociale ed emotivo, un automatismo che si riscontra invece anche
nel regno animale:35 un uccello grida agitato e l’intero stormo si leva in
volo; una persona vede che l’altra ha dolore e prova automaticamente una
sensazione di disagio. Questo fenomeno è denominato simpatia o risposta
simpatetica (dal greco syn, «con», e pathein, «patire»). Letteralmente,
simpatia vuol dire «patire con», ma la parola nel corso del tempo ha
conosciuto un mutamento semantico. Tale forma di risposta affettiva è
automatica e non si registra solo nell’uomo, ma anche per esempio nei
ratti.36 Già Charles Darwin aveva notato che «molti animali partecipano
affettivamente delle difficoltà e dei pericoli vissuti dai loro simili».37
Quando al cinema gli spettatori si coprono gli occhi di fronte a scene
cruente, è perché vogliono evitare di provare essi stessi le sofferenze
mostrate sullo schermo. Si tratta infatti di una reazione automatica, più o
meno intensa. Gli uomini hanno sensibilità differenti e conoscono diverse
manifestazioni di condivisione affettiva. In riferimento alla forma
automatica di risposta appena descritta si parla anche, nella letteratura
scientifica, di «empatia emotiva» (emotional empathy).
Oggi il termine empatia ha per lo più un altro significato. Siamo
empatici quando ci preoccupiamo per una persona, in considerazione delle
particolari circostanze in cui essa si trova. È una forma di inclinazione
attiva e consapevole, e non il «contagio» della stessa sensazione da parte di
un altro individuo. Ci preoccupiamo per una persona che soffre e il nostro
agire è guidato dal desiderio di alleviare le sue sofferenze. Ciò presuppone
innanzitutto che le «condizioni» (il contesto) possano essere riconosciute e
stimate come tali e, inoltre, che le proprie emozioni possano essere distinte
da quelle dell’altra persona. Si tratta, per entrambi i presupposti, di
esperienze cognitive complesse – differentemente dalla semplice
partecipazione simpatetica. Per questo si parla anche di «empatia cognitiva»
(cognitive empathy; un’altra definizione sarebbe empathic concern).
Questa forma di partecipazione affettiva si esprime per esempio in
manifestazioni di conforto, abbracci e carezze rivolte a un compagno che è
stato appena sconfitto o ferito in battaglia. Se prima si pensava che solo gli
esseri umani fossero capaci di tali affetti complessi, oggi è dimostrato che
anche le scimmie antropomorfe (sia in cattività che libere) sono in grado di
manifestare conforto. Mentre tale comportamento si riscontra solo
raramente, o addirittura mai, in altre specie di scimmie, esso è osservabile
nei delfini, negli elefanti e in alcune specie di uccelli (corvi e cornacchie,
che talvolta superano gli scimpanzé per intelligenza).38 Si tratta di specie
animali che vivono in gruppo e sono capaci di «più elevate» prestazioni
cognitive (come l’utilizzo di utensili e il riconoscimento della propria
immagine riflessa). Chi lo avrebbe mai detto, vent’anni fa, che le
cornacchie possono dispensare conforto, che gli scimpanzé lo fanno molto
spesso e che sotto quest’aspetto gli uomini si comportano, in caso di rapina,
esattamente come i primati umanoidi di fronte ad azioni aggressive: i
soggetti non coinvolti si avvicinano alla vittima e la confortano.39
Una forma ancora più complessa di empatia è la capacità di
immedesimarsi in un’altra persona, assumere la sua prospettiva e aiutarla
dunque con efficacia (empathic perspective taking). In psicologia si parla di
Theory of Mind, intendendo con questa espressione la capacità di «mettersi
nei panni» di un’altra persona per vedere il mondo «con i suoi occhi». Le
scimmie antropomorfe riescono a farlo fino a un certo grado, mentre negli
uomini la capacità di assumere la prospettiva di un altro individuo è
maggiormente differenziata ed essenzialmente più spiccata che in tutti gli
altri esseri viventi. L’essere umano formula spesso pensieri complessi
(«Cosa accadrebbe se Hans pensasse che Lisa pensa che io sia amico di
Lucy?»), che a seconda del contesto (Chi ama chi? Chi è l’«io» in
questione?) suscitano emozioni e comportamenti del tutto differenti.
Una tale concezione dell’empatia come fenomeno complesso e
stratificato reca con sé alcune conseguenze. Tra queste, vale la pena
menzionarne tre:

1) Le forme più complesse di empatia funzionano soltanto «sulle spalle» di


quelle più semplici: se assumo la prospettiva del mio nemico per poterlo
uccidere con più agilità (dunque senza compatirlo) non parliamo di
empatia.
2) La prospettiva evolutiva rende evidente che nel caso dell’empatia non
siamo di fronte a una capacità appresa culturalmente (come potrebbe
essere mangiare con coltello e forchetta), ma si tratta di una funzione
profondamente radicata nella biologia umana (come possono essere
l’assunzione di cibo o l’evacuazione). Come quasi tutti gli elementi che
determinano la natura umana, o come quasi tutto ciò che l’uomo fa,
anche la nostra biologia è molto influenzata, plasmata o caratterizzata
dalla cultura (utilizziamo le posate e la toilette). Questo tuttavia non deve
distrarci dal fatto che le funzioni primarie stesse non sono parte della
nostra cultura, ma della nostra biologia. È importante sottolineare tale
aspetto a questo punto del nostro discorso, perché molto spesso si dice
che l’«essenza» umana è cattiva. Il filosofo inglese Thomas Hobbes ha
coniato il motto homo homini lupus, la formula con la quale si dà per
assunto che l’agire umano sia essenzialmente determinato da una
tendenza, biologicamente innata, all’egoismo, al narcisismo e
all’aggressività. Se n’è dedotto, e non è raro che se ne deduca ancora
oggi, che soltanto attraverso drastici interventi culturali – a seconda della
convinzione ideologica: educazione, addestramento, istruzione,
apprendimento di modelli, comprensione – la nostra «natura cattiva» può
e deve essere «addomesticata» e che solo in questo modo è possibile per
l’uomo una convivenza sociale. Ma è una visione fin troppo semplice.40
Da un punto di vista biologico, l’uomo non è né buono né cattivo, ma
contiene in sé entrambe le possibilità. Lo sviluppo di tali possibilità nel
corso della vita di un individuo non è prestabilito ed è fortemente
influenzato dall’ambiente culturale. Nessuno si educa da solo. Diventa
dunque evidente come lo sviluppo della partecipazione affettiva nel
bambino dipenda strettamente dalla cultura in cui il bambino cresce.
3) Il bambino in età evolutiva è un buon modello per comprendere come la
partecipazione affettiva sia definita dalla sovrapposizione di diversi piani
che non si offrono tutti nello stesso momento. Se i neonati sono già
soggetti al contagio emotivo – gridano quando un altro neonato grida – è
tra i 14 e i 18 mesi che i bambini cominciano ad aiutare in maniera mirata
e a 3 anni sono già in grado di confortare e di acquisire comportamenti di
reciprocità, cioè di trattare le altre persone in base a come vengono
trattati da loro. L’aiuto, il conforto e la mediazione dei conflitti si
rafforzano notevolmente tra i 5 e i 6 anni.41 A questa età i bambini sono
già in grado di comprendere se un soggetto A sta aiutando un soggetto B
e, dopo aver osservato tale interazione, si comportano anch’essi in
maniera solidale nei confronti di A (si parla in questi casi di reciprocità
indiretta). Crescendo, i bambini apprendono comportamenti sociali
sempre più differenziati e rispondenti alla situazione data. Tali
comportamenti si trasmettono attraverso la convivenza sociale da loro
vissuta, secondo le regole dell’ambiente culturale di riferimento.

Se la cultura di una società dà rilievo all’egocentrismo, all’egoismo e al


materialismo, è molto probabile che i più giovani svilupperanno
comportamenti analoghi. Nel contempo si ridurranno le possibilità di
sviluppare un comportamento prosociale e aumenterà il rischio di
solitudine.
Si torna dunque alla domanda: le cose stanno davvero così, o le vecchie
generazioni si lamentano sempre delle più giovani?

Il narcisismo batte l’empatia


Nell’autunno 2016, in una filiale della Deutsche Bank nella Ruhr, un
pensionato di 82 anni era svenuto davanti a uno sportello bancomat. Quattro
persone si limitarono a scavalcarlo per poi ritirare i soldi e andarsene, senza
aiutarlo. Solo il quinto cliente della banca prestò aiuto all’anziano signore,
che tuttavia morì poco dopo.42 «Le risse sono sempre esistite», dicono i
poliziotti, «ma oggi ci si accanisce anche quando l’altra persona è già stesa
per terra priva di conoscenza.» Da alcuni anni sui giornali si legge di
incidenti stradali con feriti che invece di ricevere aiuto vengono
prontamente fotografati con gli smartphone.43
Tali episodi non fanno che confermare quanto è ormai dimostrato da dati
concreti: la partecipazione emotiva dell’uomo sta diminuendo. Da una
metanalisi di 72 sondaggi condotti nel corso di tre decenni (1979-2009), per
un totale di 13.737 studenti coinvolti, risulta un sensibile calo dell’empatia
(empathic concern) e della capacità di assumere la prospettiva dell’altro
(perspective taking). Altri aspetti del carattere, parimenti analizzati nei
questionari (come per esempio la capacità di immaginazione o i problemi
nella convivenza con altre persone), sono invece rimasti costanti nel
periodo di indagine. La riduzione dell’empatia e dell’assunzione di
prospettiva è particolarmente spiccata dal 2000 (grafico 1.4).
1.4: Somma dei valori delle capacità di empatia e assunzione di prospettiva nel corso di tre
decenni. Anche il calo di tali capacità prese singolarmente è significativo: capacità di
empatia (p < 0,002) e assunzione di prospettiva (p < 0,03).44

Per comprendere questo calo di empatia, gli autori dello studio


rimandano ad alcuni trend paralleli osservabili tra i giovani: si riscontra per
esempio un crescente approccio materialista.45 In un sondaggio condotto nel
2006, l’81 percento degli intervistati tra i 18 e i 25 anni ha affermato che
«diventare ricchi» è uno degli obiettivi principali della propria generazione;
per il 64 percento dei giovani è l’obiettivo principale e solo il 30 percento
degli intervistati ha indicato come obiettivo principale quello di «aiutare chi
ha bisogno».46
Moltissimi altri studi dimostrano che i tratti narcisistici della personalità
sono sensibilmente aumentati negli ultimi decenni.47 Un esempio: all’inizio
degli anni Cinquanta, all’asserzione «sono una persona importante»
rispondeva affermativamente il 12 percento dei giovani tra i 14 e i 16 anni,
mentre alla fine degli anni Ottanta rispondeva affermativamente il 77
percento delle ragazze e l’80 percento dei ragazzi della stessa età.48
Qualche parola per chiarire i concetti: con narcisismo si intende un
aspetto caratteriale di assoluto riferimento all’io, che può crescere fino a
diventare autoinnamoramento. Il termine si riferisce al mito greco del
giovane Narciso, tramandatoci nella sua versione più bella dal poeta latino
Ovidio (43 a.C.-17 d.C.) nelle sue Metamorfosi. Poiché Narciso non
corrispondeva l’amore di nessuno, fu punito con un inguaribile
autoinnamoramento. Fissando senza sosta la propria immagine riflessa
nell’acqua cadde nell’acqua e finì per trasformarsi nell’omonimo fiore.
Ancora oggi, il termine narcisismo è utilizzato per riferirsi in maniera
critica a un aspetto della personalità.49 Si distingue in questo caso tra il
narcisismo come tratto della personalità, presente in minore o maggiore
misura in ciascuno di noi e misurabile attraverso appositi test (i cosiddetti
inventari di personalità), e il narcisismo inteso come disturbo della
personalità e dunque come una precisa diagnosi in campo psichiatrico.
Grandi quantità di dati acquisiti nel corso di decenni da studi scientifici
condotti in luoghi differenti ci mostrano come i tratti narcisistici si
presentino sempre più frequentemente negli ultimi decenni, mentre nello
stesso periodo è triplicata anche la frequenza (prevalenza) del disturbo
narcisistico di personalità.50
Altri studi dimostrano inoltre che rispetto al passato si è ridotto il
numero di giovani che fanno beneficenza (già non erano molti data la scarsa
disponibilità finanziaria, ma prima si avevano anche meno soldi, e si faceva
più beneficenza). I giovani si comportano in maniera più egoistica, sono
meno empatici e hanno un approccio più materialista, mentono più
facilmente, è più raro che abbiano una relazione stabile, si sottopongono
con più frequenza alla chirurgia estetica e tendono più facilmente ad
assumere comportamenti aggressivi.
Per questo alcuni scienziati si riferiscono al crescente narcisismo come a
un’epidemia: «Tenendo conto dei risultati, e in particolare del triplicarsi
della prevalenza del disturbo narcisistico di personalità nel corso della vita,
riteniamo non sia esagerato utilizzare il termine epidemia». Gli autori dello
studio citano il Webster’s Dictionary (in corsivo nella citazione seguente) e
proseguono: «Questo vale soprattutto se si considera la definizione di
epidemia come malattia che interessa un numero straordinariamente alto di
individui in una popolazione».51
La discussione riguardo la presenza e la natura di un cambiamento della
«gioventù» rispetto a egoismo e solidarietà è arrivata dunque a toccare
anche le scienze seppure, non senza controversie: se alcuni ritenevano che
fosse riscontrabile un sensibile aumento del narcisismo,52 altri sventolavano
dati che sembravano contestare tale posizione. In tali dati sono state tuttavia
riscontrate falle metodologiche e ormai ci sono prove sufficienti per
affermare che l’egocentrismo è cresciuto a discapito del senso di comunità.
Inoltre, anche se Socrate avesse detto che i giovani mangiavano troppi
dolci 2500 anni fa, ciò non vuol dire che oggi l’affermazione sia
necessariamente falsa. Nessuno considererebbe tale coincidenza come un
serio argomento contro la comprovata diffusione epidemica dell’obesità tra
i giovani. È bastato infatti registrare il peso di un alto numero di bambini di
età diverse, a più riprese, in svariati momenti e in più paesi, per poter
dimostrare scientificamente che oggi i bambini soffrono di obesità con una
frequenza relativa più alta rispetto al passato.
Quanto alle due citazioni di Socrate ed Esiodo c’è infine da aggiungere
che non mi è stato possibile individuarne le fonti. Il fatto stesso che di
queste citazioni spesso ricorrenti nel web non venga mai fornita la fonte e
che il testo sia per giunta sempre lo stesso (se si fosse trattato di una
traduzione dall’originale, si riscontrerebbero differenze almeno minime tra
una versione e l’altra) dimostra che – come spesso accade nell’era della
post verità – esse sono state inventate di sana pianta.53
Quando si parla di comportamenti psicologici come il narcisismo, si
attribuisce grande rilevanza allo stesso argomento che nel caso
dell’alimentazione abbiamo rifiutato. Non da ultimo perché sono in tanti a
ritenersi psicologi «di natura» e scarseggiano invece quanti sanno che la
psicologia funziona come una scienza. Anche in psicologia si fanno
misurazioni e confronti, si costruiscono valori medi e qualsiasi deviazione
da essi viene individuata, definita e interpretata.
Per i lettori più scettici ritengo opportuno presentare a questo punto un
altro esperimento che, con un metodo completamente diverso, giunge alle
medesime conclusioni: più «io» e meno «voi» nella mente delle persone.
Perché non ricercare, in un corpus di qualche centinaio di migliaia di
libri risalenti a diverse epoche, la frequenza delle parole «io» e «noi» e
verificare, sulla base dei risultati, se nel tempo vi è stata una variazione
nell’uso di tali parole? Se il significato di una parola consiste in fondo nel
suo uso, come ha intelligentemente teorizzato il filosofo Ludwig
Wittgenstein, il significato di una parola dovrebbe dipendere anche dalla
frequenza con cui viene utilizzata.
Rientra tra le benedizioni della moderna società informatizzata il fatto
che oggi siano possibili studi scientifici fino a pochi anni fa assolutamente
impensabili. La funzione Ngram della maschera di ricerca Google permette
di eseguire tali esami statistici su una quantità di testi che un singolo
individuo non riuscirebbe mai a leggere da solo, e rende così possibile una
forma del tutto nuova di scienze culturali quantitative. Attraverso tale
procedimento, alcuni scienziati americani hanno analizzato l’uso delle
parole «io» (insieme a «mio», «me») e «noi» (insieme a «nostro») in un
corpus di più mezzo milione di libri americani (766.513 per la precisione)
pubblicati tra il 1960 e il 2008. Dall’analisi sono risultati complessivamente
un calo del 10 percento della presenza della parola «noi» e un aumento del
42 percento della parola «io».54
Chi demolisce queste ricerche affermando che «le parole sono solo
fumo» non ha capito qual è il nocciolo della questione: se si interrogano
singoli individui sulle loro posizioni, si potrà ugualmente registrare un
aumento dell’egocentrismo e una diminuzione della partecipazione
emotiva. Ma la gente dice sempre la verità? E che valore hanno questi
sondaggi, se oggi ognuno li conduce perseguendo i propri interessi e
obiettivi e formulando domande in modo da ottenere esattamente i risultati
che desidera? (Avete mai sentito dire che una fondazione vicina ai sindacati
abbia scoperto che i lavoratori stanno fin troppo bene? La Bertelsmann
Stiftung ha mai annunciato la scoperta che i media digitali sono dannosi per
i bambini?) I dati ricavati da più di mezzo milione di libri non solo sono più
eloquenti, ma sono anche più affidabili di quelli ricavati dai sondaggi.

Il capitale sociale nell’antropocene


Rispetto a tali tematiche, in area angloamericana si parla spesso di «capitale
sociale», o meglio della sua perdita. La parola «capitale» tuttavia è
fuorviante, perché non stiamo parlando delle risorse finanziarie di un
individuo, ma della sua rete sociale. Si tratta di un concetto «elastico», cui
vengono attribuite definizioni differenti, a seconda dell’ambito o della
disciplina di ricerca in cui viene utilizzato.55 Con «capitale sociale» si
intende l’insieme di solidarietà, altruismo, fiducia, comunità, coesione, e
dunque il «collante» che tiene insieme una società e ne permette il
funzionamento. Dal punto di vista medico, è noto che un grande capitale
sociale nei membri di una società è strettamente legato a un più alto livello
di salute, un minore tasso di criminalità e un più efficiente governo delle
persone. Per questo, ha una rilevanza non trascurabile la scoperta che negli
ultimi anni in alcune società (come quella statunitense) il capitale sociale si
è ridotto. Si può assumere un’analoga evidenza – forse in forma meno acuta
– anche in Germania.
La specie umana ha avuto un tale successo da dominare con la sua
presenza l’intero pianeta, che come sappiamo è sempre più in sofferenza.
Non sorprende perciò che l’era in cui viviamo sia definita antropocene (dal
greco anthropos, «uomo», e kainos, «nuovo»): l’uomo è diventato uno dei
fattori di influenza più importanti nei processi biologici, geologici e
atmosferici della Terra.
Ha infatti lasciato dietro di sé un vastissimo e durevole deposito di
materiali che solo lui era in grado di produrre attraverso la tecnica, da cui la
denominazione di «tecnofossili». Con questo termine non ci si riferisce a
frigoriferi, automobili o centrali nucleari, ma a tracce che (in caso di futuri
scavi) si ritroverebbero ovunque sulla Terra: per esempio cemento, plastica
e alluminio primario. Anche i materiali radioattivi provenienti dai test delle
armi nucleari, azoto e fosforo prodotti negli stabilimenti di fertilizzanti, o le
particelle di carbonio rilasciate dalla combustione di combustibili fossili
hanno lasciato tracce caratteristiche nelle sedimentazioni geologiche.56 Da
millenni l’uomo è coinvolto in maniera decisiva nell’estinzione di molte
specie animali, e con le sue attività influenza oggi, senza dubbio alcuno,
anche il clima.
Sono temi ampiamente noti e su cui il dibattito è acceso, ma
dimentichiamo spesso che gli esseri umani, presi singolarmente, sono
essenzialmente piccoli e deboli. È solo per la sua capacità di cooperare in
grandi comunità che la specie umana – più di ogni altra – riesce a
raggiungere traguardi incredibili: costruire edifici alti più di 700 metri, navi
lunghe più di 300 metri, e da circa cinquant’anni arrivare sulla Luna e
tornare, con missili alti più di 100 metri.
L’uomo possiede inoltre la cultura: dispone cioè di un tesoro di
conoscenze e competenze che fa sì che nessuno debba ricominciare da zero.
Oggi si discute se siamo i soli a possedere questa caratteristica, o non esista
anche nel regno animale una forma di cultura, come può essere per esempio
il canto delle balene e degli uccelli canori, o l’utilizzo di utensili da parte di
scimpanzé e cornacchie. È incontestabile a ogni modo che la cultura
dell’uomo si presenta in una misura che non ha pari nel regno animale.
Altrettanto vero è, conseguentemente, che l’aspetto più importante per
l’uomo è dato dai suoi simili.
Se riconsideriamo alcuni dei cambiamenti radicali che il mondo ha
conosciuto negli ultimi dieci o vent’anni, è evidente che ci sono stati, e
continueranno a esserci anche in futuro, progressi e passi indietro, effetti
principali ed effetti collaterali, un’ampia produzione ma anche tanti scarti,
molta pace o pacificazione ma anche terrore e guerra. Affinché le cose
migliorino è necessario cooperare, su tutti i livelli organizzativi della nostra
convivenza tra singoli individui, Stati o alleanze di Stati. Una regressione
sociale non è la soluzione, né per l’individuo né per gli Stati (che sempre
più manifestano una svolta nazionalista). Il megatrend della
singolarizzazione deve destare la nostra preoccupazione e indurci a
riflettere.

Riassumiamo
Buona parte della popolazione del mondo «occidentale» soffre sempre più
di solitudine. Da decenni si vive in nuclei familiari sempre più piccoli e non
si dà alla comunità lo stesso valore di prima. I bambini vengono educati
sempre meno alla socializzazione, mentre si stimola sempre più un
egocentrismo smisurato: fenomeni diffusi sono lo you are so very special
all’asilo, le teenager-star nei vari media, che sono famose per essere
famose, e la valanga di selfie che i giovani pubblicano ogni giorno su
internet. Il soggetto più fotografato da bambini e adolescenti è: me stesso
(68 percento delle foto).57 A mettere a disposizione dei più giovani la
tecnica per l’apprendimento e lo sfogo del proprio narcisismo siamo noi
stessi, visto che il narcisismo è ormai parte integrante della cultura attuale.
E vi rientra anche il soddisfacimento a poco prezzo del proprio egoismo
materiale. Il consumo avviene in genere in solitudine: ci si «spara un
hamburger, o un film», e la cena o le attività in famiglia (senza schermi
all’orizzonte che danno l’illusione di socialità) sono diventate una rarità. La
solitudine è di moda! Nel contempo però non riflettiamo su cosa comporti
tutto questo sul lungo periodo per il singolo individuo e per la nostra
comunità.
Negli ultimi decenni sono stati fatti sostanziali passi avanti nella ricerca
medica e psicologica in merito al chiarimento di cause, effetti, meccanismi
e conseguenze della solitudine: dai principi fisici e soprattutto
neurobiologici fino alle applicazioni cliniche. I risultati sono dirompenti,
seppure fino a oggi poco noti. Ciò dipende, tra le altre cose, dal fatto che i
contributi sull’argomento sono stati pubblicati in maniera disordinata in un
panorama scientifico di ampie dimensioni, su riviste specializzate di
immunologia, epidemiologia, psicosomatica, scienze economiche,
architettura, urbanistica, medicina sociale, genetica o geriatria (per citare
solo alcuni degli ambiti in cui vengono discusse la problematica e la
patologia della solitudine). È dunque molto difficile mantenere un quadro
d’insieme o, ancora peggio, ricostruirlo.
Nondimeno, dobbiamo dedicare alla solitudine un’attenzione maggiore
di quanto siamo abituati a fare, perché per il singolo individuo è molto più
pericolosa di altre malattie mortali. È infatti vero che per aumentare la
propria speranza di vita nulla è più sano della partecipazione attiva a una
comunità di persone. La solitudine può riguardare ognuno di noi – in
maggiore o in minor misura – e non dovremmo liquidare il problema con
leggerezza come fosse marginale. Può interessare giovani e anziani, donne e
uomini, poveri e ricchi. E alla lunga ci uccide!
La somma di tutti questi eremiti o narcisisti non produce una comunità.
Dalla prospettiva di una comunità funzionante sarà dunque di vitale
importanza ogni singolo aspetto in grado di promuovere l’interazione e la
cooperazione tra le persone.
Capitolo 2

La solitudine fa male

Stare insieme è divertente, essere respinti fa male. Lo si può osservare


facilmente in strada: tre bambini giocano con la palla e sono contenti;
all’improvviso, per qualche motivo futile, i bambini litigano e a giocare
rimangono solo in due. Il terzo resta in disparte, arrabbiato. Si sente
cacciato dal gruppo, abbandonato, rifiutato e solo. Che cosa accade nella
sua testa?

Giocare a palla in uno scanner


Per rispondere a questa domanda, già quindici anni fa alcuni scienziati
americani hanno trasferito questa situazione quotidiana all’interno di un
tomografo per risonanza magnetica (RM; figura 2.1).58 All’epoca l’idea era
nuova e decisamente insolita, e non soltanto perché nello stretto tubo in cui
il paziente deve stendersi per l’imaging del cervello non c’è assolutamente
spazio per una palla, figuriamoci per giocarci. L’idea era rivoluzionaria
soprattutto perché per mezzo delle immagini di un cervello funzionante si è
potuto studiare il comportamento sociale, ossia l’interazione tra più
persone. Nei dieci anni precedenti erano state già realizzate immagini di
funzioni cerebrali come la vista, l’udito, la parola, diverse sensazioni,
nonché la facoltà di valutare e decidere. Questi studi si erano tuttavia
sempre riferiti a una singola persona che, concentrata su se stessa, reagiva a
determinati impulsi esterni.
2.1: Nel tomografo per risonanza magnetica (RM) vengono generate immagini della
struttura e della funzione del cervello. A tal scopo, l’oggetto dell’osservazione – il ginocchio,
l’addome, il petto o il cranio di un uomo vivo – deve essere condotto in un campo magnetico
molto forte. Tale campo magnetico può essere realizzato solo facendo passare la corrente
in una bobina che viene raffreddata con dell’elio liquido, così da essere superconduttiva.
Per questo l’elemento distintivo di un tomografo per RM è il tubo in cui la persona (o il suo
addome, il ginocchio o la testa) deve essere inserita.

Lo studio del comportamento di gruppo sembrava essere fuori dalla


portata di questo metodo, giacché nel tubo del tomografo per RM anche una
sola persona ci sta molto stretta. Come fare allora per studiare attraverso
una RM il gioco a palla di tre bambini? Si gioca virtualmente, per mezzo di
uno schermo e di un controller, un gioco in cui tre giocatori si lanciano una
palla virtuale in un campo virtuale rappresentato sullo schermo. Si può
chiedere ai soggetti coinvolti nel test di esercitarsi con questo videogioco
prima di iniziare la risonanza, per poi spiegare loro che si desidera
comprendere cosa accade nel cervello quando si gioca con la palla.
Nello studio in questione, in un primo momento è stato comunicato a
ogni partecipante (13 in tutto, ciascuno dei quali era stato pagato 25 dollari
per la collaborazione) che poteva giocare direttamente nel tomografo per
RM con altre due persone che si trovavano fuori dal laboratorio. Nel
momento in cui il soggetto si trovava nel tubo, gli è stato comunicato che
c’erano ancora alcuni problemi tecnici di collegamento con gli altri
giocatori, ma che questi ultimi avevano già cominciato a giocare per conto
loro. I soggetti del test si trovavano quindi nel tubo e vedevano sullo
schermo due figure virtuali che rappresentavano gli altri due giocatori che si
lanciavano la palla.
Poiché non erano ancora collegati, non potevano fare altro che guardare.
Poi all’improvviso il collegamento si attivava (fase 2 dell’esperimento) e il
terzo giocatore poteva unirsi agli altri due: riceveva la palla e poteva
lanciarla a un altro. Dopo un po’ di tempo però accadeva quanto segue (fase
3): i due giocatori esterni cominciavano d’un tratto a lanciarsi la palla
soltanto tra loro, senza coinvolgere il giocatore nel tomografo per RM, che
quindi non poteva fare altro che, come all’inizio dell’esperimento (fase 1),
rimanere nel tubo e guardarli giocare. C’era però una piccola differenza tra
le due situazioni (vale a dire tra lo stato del soggetto nella fase 1 e il suo
stato nella fase 3). La differenza consisteva nel coinvolgimento emotivo del
giocatore: nella fase 3 si sentiva messo da parte, perché la sua condizione di
semplice spettatore era causata dalla scelta degli altri due giocatori di non
giocare più con lui (e non da semplici problemi tecnici). Il soggetto del test
quindi si sentiva improvvisamente solo, profondamente isolato, perché gli
altri due partecipanti lo avevano escluso dal gioco.
Ed era esattamente questo l’obiettivo dell’esperimento! Perché il punto
non era affatto capire cosa succedesse nel cervello quando si giocava a
palla, ma scoprire cosa accadeva quando qualcuno veniva improvvisamente
escluso dal gruppo. In breve: osservare la solitudine nel cervello.
Va da sé che il problema tecnico all’inizio dell’esperimento non c’era:
gli altri due giocatori partecipavano solo alla seconda fase. Durante tutta la
prima fase dell’esperimento era stato attivato un programma di simulazione
da parte del computer. Nella terza fase si tornava all’utilizzo dello stesso
programma. Si giocava davvero solo nella seconda fase, con tre giocatori.
La cover-story (il gioco con la palla, il problema tecnico all’inizio, il reale
gioco a tre e poi l’interruzione) aveva raggiunto l’obiettivo sperato, come
dimostrano le interviste fatte ai soggetti del test a conclusione
dell’esperimento: si sentivano esclusi dagli altri due giocatori, cosa che – in
misura differente a seconda del temperamento – procurava loro la
spiacevole sensazione di essere stati abbandonati ed essere quindi soli.
La localizzazione nel cervello di tale esperienza di solitudine acuta è
avvenuta confrontando le immagini dell’attività cerebrale ottenute nella
fase 1 con quelle ottenute nella fase 3. La cosa importante in questo
confronto è che da esso non risultano visibili gli effetti di quanto si fingeva
di osservare (il gioco con la palla) sul funzionamento del cervello. Infatti, a
prescindere dall’esperienza di solitudine sopraggiunta nella fase 3, la fase 1
e la fase 3 erano assolutamente identiche: il soggetto del test osservava il
gioco, senza fare altro. Nella fase 3 però il soggetto è «stato abbandonato».
Confrontando fase 3 e fase 1 e verificando dunque se l’esperienza di
solitudine produce un incremento dell’attività cerebrale, si ottiene una
fotografia di quali sono le regioni cerebrali la cui attività è connessa
all’esperienza di solitudine. A essere rappresentata è dunque una funzione
cerebrale (esperienza di solitudine), motivo per cui in tali casi si parla anche
di risonanza magnetica funzionale (RMF). La figura 2.2 ci mostra i risultati
dell’esperimento.
2.2.: Un incremento dell’attività cerebrale provocato dalla sensazione di abbandono da
parte degli altri si riscontra tra l’altro nella corteccia cingolata anteriore (ACC), qui
evidenziata in bianco.

È stata registrata un’attivazione di due zone del cervello, indicate come


la corteccia cingolata anteriore (ACC, Anterior Cingulate Cortex)59 e la
corteccia prefrontale ventrale destra. Queste due zone lavorano di più
quando la solitudine viene percepita come un doloroso rifiuto.

Solo una montatura?


Si potrebbe obiettare che non fa differenza in che punto «si accenda» il
cervello quando ci si sente soli. Un’obiezione sollevata spesso da persone
che non si intendono per nulla, o molto poco, di neuroscienze e che suona
più precisamente così: «Da qualche parte nel cervello succederà pur
qualcosa, quando uno ha un pensiero o prova un sentimento. Ma questo non
ci dice nulla sul tipo di pensiero o sentimento. E se si vuole sapere se una
persona sta pensando o provando qualcosa di specifico, be’, glielo si può
anche chiedere direttamente. Tra l’altro costa molto meno che una risonanza
magnetica. Tutte quelle macchie colorate nel cervello non sono altro che
una montatura dei neurologi!»
In un primo momento quest’argomentazione, che contiene tre punti
fondamentali – ovvero che chiedere è 1) meno costoso, 2) più immediato
che fare una risonanza magnetica, la quale comunque 3) non ci dice nulla –
può sembrare plausibile. In effetti, a tutt’oggi chiedere resta sicuramente
meno costoso che fare una risonanza magnetica (per quanto i costi della
RM si siano ridotti).
Quanto al secondo punto, fino a pochi anni fa anche la maggior parte dei
neuroscienziati era convinta che attraverso le domande si potessero
descrivere le sensazioni e le esperienze di un individuo meglio che per
mezzo di una risonanza magnetica. In più occasioni però si è riscontrato che
le persone non sono molto brave a «leggere» i propri stati cerebrali. In altre
parole: è stato dimostrato più volte che, rispetto ai più disparati modi di
esperire e alle più diverse funzioni cerebrali, una risonanza magnetica è
molto più precisa e affidabile del racconto delle proprie emozioni. Per tutti
coloro che si sono occupati in maniera intensiva dell’esperire umano (me
compreso), questa è stata certo una delle maggiori sorprese degli ultimi anni
nel campo delle neuroscienze. Le prove sono ormai schiaccianti.

I dolori esistono? Mal di denti e realtà


È possibile sostenere che «in verità» i dolori non esistono. Perché a
«esistere», in senso stretto e secondo la nostra concezione scientifica del
mondo, sono solo la materia e l’energia, nello spazio e nel tempo. La fisica
riesce a descriverne matematicamente gli stati con tanta precisione che
siamo già riusciti a mandare sonde intorno a corpi celesti e abbiamo già
fatto un giro sulla Luna e su Marte: sulla Luna con una capsula biposto e su
Marte con un piccolo veicolo telecomandato senza equipaggio. Abbiamo
perfino acquisito immagini dettagliate del lontano Plutone, così piccolo che
nei dieci anni che la sonda con camera integrata ha impiegato per
raggiungerlo gli avevamo negato lo status di «pianeta».
In una simile concezione scientifica del mondo, che ha reso possibile
questo e molto altro – automobili, frigoriferi, medicine, viaggi a lunghe
distanze – i dolori non sono previsti. Sono «pure esperienze private», come
si è soliti definirli, relativizzando così il loro stato di realtà. Anche
l’«immaginazione» è «esperienza privata», così come lo sono le idee
paranoiche e le allucinazioni. Anzi esse sono definite proprio dal fatto di
«non avere un corrispettivo nella realtà»: se una persona afferma che sta
immaginando un elefante, sta dicendo contemporaneamente che
quell’elefante non c’è.
Eppure, anche il più strenuo difensore di una concezione scientifica del
mondo ammetterà di provare molto fastidio quando ha mal di denti,
sebbene si tratti di una «pura esperienza privata». Il dente malato
ovviamente esiste e il dentista può – si spera – guarirlo o estrarlo. Ma il mal
di denti è solo percepito. Si racconta che il noto cabarettista tedesco Karl
Valentin abbia detto una volta: «Quando si ha mal di denti, si dovrebbe
andare da un filosofo». Si riferiva ai sostenitori di una concezione
materialistica del mondo estremamente riduzionista. Perché in tale
concezione «obiettiva» non vi è spazio per sensazioni, pensieri e altre
esperienze private, compreso il mal di denti.
Con Karl Valentin si potrebbe affermare che perfino il filosofo Cartesio,
quando qualche secolo fa rifletteva su se stesso, avrebbe potuto dire «ho
mal di denti, dunque sono» se le sue meditazioni sull’io, su Dio e il mondo
fossero state accompagnate da un dente cariato.
Per farla breve: non appena si percepisce un dolore, esso diventa reale.
Ognuno di noi ha imparato a pensare a una realtà che esiste del tutto
indipendentemente dal fatto che noi esistiamo. Dire però che questa realtà-
oggetto-della-fisica sia la «sola e vera» va ben oltre l’obiettivo della
conoscenza. La realtà viene anche esperita, non solo pensata. Per esempio
1) come resistenza (sa di cosa parlo chi ha già sbattuto contro una porta di
vetro perché non ne aveva notato l’esistenza); 2) come qualità sensoriale
(nessun fisico sa spiegare con i mezzi della fisica la sensazione di «aspro»,
«rosso», «terza minore» o «disgusto»); 3) come disposizione d’animo; 4)
come sensazione corporea. A questo elenco appartengono anche i dolori. È
capitato addirittura che una persona provasse dolore al braccio sinistro che
gli era stato amputato. Questi dolori fantasma sono addirittura più difficili
da trattare: come fare, infatti, ad applicare una pomata lenitiva in questo
caso?
Alcuni pazienti in cura psichiatrica, che per esempio non sanno chi sono
e cosa vogliono, si provocano dolori per sentire il proprio corpo. Questo ci
suggerisce che perfino il nostro senso di realtà è legato ai dolori. Una
ricerca su alcuni studenti senza alcun disturbo psicofisico ha evidenziato
che molti di essi preferirebbero infliggersi una sofferenza fisica piuttosto
che annoiarsi.60 Il dolore ha evidentemente per noi una particolare
immediatezza, che nella maggior parte dei casi ci provoca molto fastidio,
ma talvolta ci spinge a procurarcelo da noi stessi.
Ripetiamo: una realtà del tutto scollegata dalle nostre esperienze
possiamo soltanto pensarla, ed è una cosa che facciamo spesso e sempre
per lo stesso motivo: la semplificazione. È più facile fare i calcoli con un
centro di massa che con un grigio elefante puzzolente, qualora se ne voglia
calcolare la traiettoria per spedirlo, per esempio, sulla Luna. Si utilizzano
modelli che sono stati elaborati solitamente tramite semplificazioni. Esse
hanno una loro praticità: pensiamo a un proboscidato come a un centro di
massa senza altre qualità e ne calcoliamo la traiettoria. Per quanto questo
modello di pensiero semplificatorio, che prescinde dall’esperienza
personale, ci abbia portato a grandi risultati soprattutto negli ultimi secoli,
non ha molto senso farsi abbagliare da tali risultati e credere che non
esistano altro che centri di massa e che il «resto» sia «puramente
soggettivo», vale a dire non reale. È questa l’idea che Cartesio e Valentin –
ognuno a modo suo – volevano esprimere.

Dolori nel cervello


Già vent’anni fa è stato studiato cosa accade nel cervello quando si prova
dolore.61 Nello studio sono stati coinvolti soggetti sani, che venivano
sistemati in un apparecchio per lo screening del cervello (all’epoca si
utilizzava ancora la tomografia a emissione di positroni, PET, Positron
Emission Tomography) per poi procurare loro dolore alla mano destra per
mezzo di una termosonda. Nella pelle umana, la soglia del dolore è di circa
47 ºC; a partire da questa temperatura non sentiamo più solo il calore, ma
anche il dolore. Bastano pochi gradi Celsius in più per provocare forti
dolori, senza che – in caso di breve esposizione alla fonte di calore – si
generino scottature.
Poiché ovunque nel cervello sono sempre attive le cellule nervose, non è
facile misurare l’attività cerebrale provocata dal dolore. Come già detto, per
definire in quali punti esatti la solitudine provoca un’attivazione delle zone
cerebrali l’attività cerebrale senza esperienza di solitudine deve essere
sottratta all’attività cerebrale con esperienza di solitudine. La differenza di
attività è il punto nodale del neuroimaging funzionale, il procedimento per
realizzare fotografie dell’incremento di attività nelle aree del cervello
quando quest’ultimo esplica determinate funzioni.
Durante lo studio, l’attività cerebrale era stata misurata prima senza
dolore, poi con il dolore. In questo secondo caso erano state effettuate due
misurazioni, una con dolore più lieve, l’altra con dolore più intenso. Per
produrre le immagini, l’attività senza dolore era stata sottratta all’attività
con dolore, punto per punto, in ogni zona del cervello. A tal scopo, il
cervello era stato scansionato in minuscoli cubetti detti voxel le cui
sfumature di colore variano in caso di riposo e in condizione di dolore.
Tutto ciò è stato fatto da un computer che al termine della scansione ha
mostrato i risultati di migliaia di confronti. Le aree del cervello in cui
l’attività si è fatta più intensa in caso di dolore erano nettamente colorate.
Questo è il modo in cui si producono le famose immagini grigie del cervello
con macchie colorate, che chiunque si interessi di neuroscienze ha già visto
almeno una volta.
Come mostra la figura 2.3, nel cervello del soggetto che prova dolore si
attiva una serie di zone che oggi vengono definite «rete del dolore». Ad
esse appartiene la corteccia somatosensoriale, o area sensitiva primaria
(anche abbreviata in area S1), che si attiva ogni qualvolta arrivano al
cervello segnali dalla superficie cutanea. Quest’area cerebrale disegna una
cartografia della nostra superficie corporea; ogni pezzettino di pelle vi è
dunque rappresentato con un pezzettino di cervello. Se ci fa male la mano
destra, si attiverà la zona del cervello responsabile delle sensazioni della
mano destra. Sapendo ciò è più facile comprendere come funzionano i
dolori fantasma: la cartografia del cervello contiene ancora il punto relativo
al braccio destro, anche se questo è stato amputato a seguito di un incidente.
E se per qualche motivo tale punto viene attivato, la sensazione di dolore
viene percepita nettamente.
2.3: Attività del cervello in caso di dolore lieve (sinistra) o intenso (destra), misurata tramite
PET. L’attivazione della zona della corteccia somatosensoriale (S1) corrispondente alla
mano destra è sostanzialmente invariata, indipendentemente dall’intensità del dolore. In
maniera del tutto diversa si comporta l’ACC: con un leggero dolore, l’attivazione è minima
(immagine a destra, sullo sfondo) mentre i dolori forti si abbinano a un’intensa attivazione
dell’ACC (sezione a sinistra, in primo piano).62

La mappa dell’area S1 ci indica dove si localizzano stimoli sensitivi.


Cosa siano esattamente questi stimoli non viene definito. In quest’area del
cervello non si registrano infatti differenze di attività al variare
dell’intensità del dolore. È come se per questa zona del cervello l’intensità
del dolore sia irrilevante. L’attività tracciata ci dice soltanto: sta accadendo
qualcosa alla mano destra. Cosa esattamente sta accadendo ci viene detto da
un’altra area del cervello, la corteccia cingolata anteriore (ACC).
Quest’ultima è molto più attiva in caso di dolori intensi che in caso di dolori
più lievi.
Confrontando le figure 2.2 e 2.3 si vede che due esperienze differenti –
dolore e solitudine – provocano nel nostro cervello l’attivazione della stessa
area, l’ACC. Prima di approfondire ulteriormente tale aspetto, desidero
spiegare brevemente che importanza ha, per le neuroscienze, l’associazione
tra una determinata area cerebrale e una determinata funzione cerebrale.

Neurofeedback: terapia con risonanza magnetica


Sapendo dove è localizzata nel cervello una precisa funzione – vista, udito,
parola, calcolo, pianificazione, volontà ecc. – si può agire su di essa in
svariati modi. Oggi per esempio è possibile, tramite l’utilizzo di campi
magnetici, procedere dall’esterno all’attivazione o disattivazione mirata di
precise zone cerebrali, a seconda di quali sono gli obiettivi della terapia
medica.63
Ancora oltre va il tentativo di mostrare dal vivo al paziente l’attivazione
della propria area del dolore chiedendogli di provare «in qualche modo» a
ridurla. Può sembrare pura fantascienza, ma si tratta di un esperimento che
è stato già condotto con successo. Il procedimento è simile a quello del
biofeedback, in cui si restituisce il battito cardiaco sotto forma di segnale
acustico o visivo, così che per il paziente sia più facile concentrarsi su di
esso e provare a modificarlo attraverso la sola concentrazione. Si parla di
neurofeedback quando il segnale trasmesso e restituito direttamente al
paziente proviene dal cervello. Da tempo siamo in grado per esempio di far
arrivare le onde cerebrali sul cuoio capelluto (elettroencefalogramma, EEG)
e mostrarle al paziente «in tempo reale» (più o meno «filtrate» o modificate
per una più semplice lettura delle immagini). Il paziente può quindi provare
a influenzare volontariamente il segnale.
Si possono rappresentare con colori le frequenze delle onde cerebrali e
chiedere al paziente di riprodurre un preciso colore. Oppure si può chiedere
al paziente di «pilotare» un oggetto rappresentato sullo schermo (come un
razzo) attraverso le frequenze dell’elettroencefalogramma (basse frequenze:
spostamento a sinistra; alte frequenze: spostamento a destra), affinché il
paziente impari a produrre determinate frequenze per condurre il razzo
direttamente all’obiettivo.64 È straordinario che tutto ciò funzioni
veramente, perché sembrerebbe voler dire che siamo in grado di influenzare
il nostro cervello anche senza aiuti tecnici, semplicemente chiudendo gli
occhi e concentrandoci su noi stessi. In fondo il pensiero è libero, e poiché
possiamo pensare quel che vogliamo e la nostra attività cerebrale
accompagna tali pensieri, possiamo anche attivare il cervello a nostro
piacimento. In linea di principio le cose funzionano realmente così, ma con
un feedback mirato è tutto molto più semplice.
Se n’è avuta la riprova in particolare quando per il neurofeedback si è
smesso di utilizzare le onde cerebrali dell’EEG e si è passati a usare
l’attivazione cerebrale della RM. Ciò è stato possibile unicamente grazie
allo sviluppo di computer sempre più performanti e veloci. I segnali della
risonanza magnetica si basano sulle differenze nell’irrorazione sanguigna,
che a sua volta reagisce all’attivazione delle cellule nervose. Questa
reazione (chiamata risposta emodinamica) dura dai 3 ai 4 secondi, per cui
anche i computer più veloci possono visualizzarla con un tempo non
inferiore a questo (nella prassi hanno bisogno di un altro secondo per
l’elaborazione dei dati).
I dati possono essere rielaborati in maniera tale da far corrispondere
all’attivazione delle aree cerebrali macchie colorate localizzate nel o sul
cervello. Si possono quindi mostrare le immagini ottenute al paziente, che
sarà collocato all’interno di uno scanner di risonanza magnetica (magari
con l’aiuto di occhiali monitor). Questi vedrà dunque (quasi in simultanea)
la temporanea attivazione del proprio cervello. Ricordo ancora molto bene
quando, ormai dieci anni fa, a Ulm avevamo provato una RM «in real-
time»: ero steso dentro l’apparecchio e potevo vedere il mio cervello che si
attivava nella parte opposta alla mano che muovevo. È stata un’esperienza
molto emozionante!
Immaginatevi di trovarvi nel tubo, dove siete sottoposti a degli stimoli
dolorosi. Vi viene detto che nei primi 60 secondi vi dovrete concentrare sui
dolori e, nei 60 secondi successivi, dovrete invece distrarvi da essi «a
comando».65 Non è per nulla facile. Il compito è molto più semplice se
l’attività della vostra area del dolore (ACC) vi viene mostrata su uno
schermo sotto forma di falò e vi viene chiesto di provare per un minuto a
ingrandire il fuoco e poi, nel minuto successivo, a ridurlo. Questa tecnica è
effettivamente molto più semplice e i soggetti del test sono riusciti ad
apprendere come fare in tre sedute di training della durata di 15 minuti
ciascuna.
La particolarità dell’esperimento è che il training ha avuto come ulteriore
effetto il fatto che i soggetti del test giudicavano meno intensi i propri
dolori. Attraverso il training si poteva influire evidentemente anche sulla
percezione del dolore (grafico 2.4). Ciò ha spinto gli autori dello studio a
fare la stessa prova con pazienti che soffrono di dolori cronici. La prova ha
avuto successo: con un breve training il dolore nei pazienti veniva attutito
fino al 70 percento. Ormai ci sono molti studi che conducono
essenzialmente al medesimo risultato.66 Inoltre, lo stesso metodo è stato
applicato, con risultati differenti, per il trattamento di altri quadri clinici
(disturbi d’ansia, disturbi dell’attenzione, depressione, dipendenze ecc.).67
Nel complesso si è dimostrato sempre più chiaramente che tale
procedimento possiede un grande potenziale e che non si sta inseguendo un
epifenomeno.68 Anche la corteccia motoria, la corteccia somato-sensoriale,
la corteccia visiva, la prefrontale e la parietale possono essere allenate con
lo stesso metodo.69 Perfino il comportamento delle strutture subcorticali,
collocate ben sotto la corteccia cerebrale e responsabili dell’elaborazione
delle emozioni (amigdala, nucleus accumbens, area tegmentale ventrale),
può essere modificato attraverso questo particolare tipo di training.70
2.4: Riduzione dell’attività dell’area del dolore grazie al neurofeedback-training dopo la
prima, la seconda e la terza sessione e dopo un test condotto alla fine del training. Nella
figura si vedono rappresentate, oltre alla localizzazione dell’area (sezioni schematiche sui
tre assi), le variazioni percentuali dell’attività in seguito ai comandi «aumento del segnale» e
«diminuzione del segnale». I soggetti del test possono quindi imparare a controllare sempre
meglio l’attivazione di quest’area. L’incremento del controllo nella terza sessione di training
e nel test finale è statisticamente significativo. In basso a sinistra si vede come l’intensità
del dolore provata dal soggetto corrisponde all’attività dell’area del dolore.71

Dolore e solitudine: così diversi eppure così uguali


Osservate di nuovo la figura 2.3. Il modello di attivazione rappresentato ci
porta a conoscere un aspetto del dolore che possiamo riassumere come
segue: se tagliando la cipolla ci feriamo un dito, sentiamo il dito nella
corteccia somatosensoriale, mentre percepiamo il dolore nella corteccia
cingolata anteriore. La sensazione sgradevole del dolore viene rappresentata
nel cervello esattamente nel punto in cui viene rappresentata la sensazione
spiacevole del rifiuto.
In un primo momento possiamo rimanere sorpresi: perché il nostro
cervello è fatto in maniera così singolare da elaborare nella stessa zona due
esperienze tanto diverse come il dolore e la solitudine?
Da un punto di vista evolutivo72 possiamo dire che i dolori non esistono
per darci noia o tormentarci, ma svolgono una funzione molto importante
per la sopravvivenza: proteggono la nostra integrità fisica. Se poso la mano
sul fornello rovente e non me ne accorgo perdo la mano. Sapevate che
esistono malattie i cui sintomi consistono nel non riuscire a provare dolore?
«Una malattia simile piacerebbe anche a me!» penseranno molti lettori.
Niente di più sbagliato: le persone che non riescono a sentire il dolore
muoiono in genere prima dei trent’anni.
Gli animali che vivono in gruppo hanno bisogno per sopravvivere non
solo di un corpo integro, ma anche di una comunità funzionante. Quando,
decine di migliaia di anni fa, la comunità allontanava uno dei membri,
questo significava per lui una condanna a morte, perché l’uomo è in grado
di cacciare animali di grande taglia o di allontanare gli animali feroci
soltanto in gruppo. Anche la quotidianità e l’allevamento della progenie
avvengono sempre in gruppo. Non discendiamo certo dagli eremiti.
Da questo punto di vista, non desta meraviglia il fatto che nell’uomo
un’unica area cerebrale sia responsabile dell’integrità fisica e di quella
sociale. Si aggiunga anche che nel processo evolutivo l’elemento nuovo si
produce generalmente attraverso l’assunzione di una nuova funzione da
parte di strutture già presenti. Per esempio, le braccia dei dinosauri sono
diventate le ali degli uccelli o le pinne dei mammiferi marini; dall’osso
mascellare dei pesci si sono sviluppati gli ossicini dell’orecchio degli
animali terrestri. Possiamo immaginare l’evoluzione come una sorta di
artigiano che, per quanto gli è possibile, crea dal materiale a disposizione
(la ACC per registrare la compromissione dell’integrità fisica) qualcosa di
nuovo (la ACC per registrare la compromissione dell’integrità sociale).
Ribadiamo questo aspetto: la coesione sociale svolge un ruolo chiave per
la sopravvivenza dell’uomo. Si può quindi supporre che i sistemi che
governano le interazioni sociali rappresentino delle propaggini dei sistemi
fisiologici, un prodotto della nostra storia evolutiva che serve a regolare e
assicurare l’integrità fisica.73 La ferita che si apre in un rapporto profondo
non è dunque molto dissimile dalla ferita a una mano.
Dal punto di vista neurologico si può aggiungere che la ACC rappresenta
ormai per gli scienziati una componente fissa di un più ampio insieme di
moduli del sistema nervoso centrale. Tale insieme è conosciuto con il nome
di «social brain»74 proprio come, cinquant’anni fa, era stato definito
«sistema limbico» l’insieme delle zone cerebrali responsabili delle
emozioni.

Medicina della solitudine


Dal punto di vista medico-clinico, la scoperta che solitudine e dolore
vengono elaborati nella stessa area cerebrale permette di comprendere
meglio molti altri fenomeni a noi noti. Quanti soffrono di depressione si
ritraggono spesso nell’isolamento sociale o provano solitudine: allo stesso
tempo provano spesso vari dolori. Conseguentemente, nelle persone che
soffrono di disturbi depressivi cronici si riscontra spesso un abuso di
antidolorifici. È riscontrato inoltre che chi soffre di dolori cronici e, per
ipotesi, perde il proprio partner, ha bisogno di una terapia del dolore più
forte. Al contrario, ogni medico ha conosciuto casi in cui ci si meraviglia
della capacità di sopportazione del paziente o della paziente. Si tratta
generalmente di situazioni in cui la cerchia più stretta delle relazioni sociali
funziona bene: la famiglia è coinvolta ed è sempre presente.
Ogni nuovo elemento che la scienza ci permette di conoscere non ci
aiuta solo a comprendere meglio ciò che già sappiamo, ma ci induce a
nuove domande cui non saremmo mai giunti se non fossimo stati stimolati
da nuove informazioni: in questi casi si parla di valore euristico di una
scoperta scientifica.75 Quanto alle nuove domande e risposte cui la scienza è
pervenuta in virtù della scoperta che dolore e solitudine sono elaborati nella
stessa area del cervello, possiamo dire, in breve, che oggi comprendiamo
meglio sia la solitudine sia il dolore.
Se dolore e solitudine sono così strettamente collegati nel cervello, vuol
dire che l’opposto della solitudine – l’esperienza di comunità e inserimento
sociale – dovrebbe aiutare ad alleviare il dolore.
Per dimostrare ciò è stato condotto un esperimento in cui gli scienziati
mostravano ai soggetti del test una fotografia del partner, o una fotografia di
uno sconosciuto o di semplici oggetti, mentre procuravano loro uno stimolo
doloroso. Si chiedeva al soggetto di descriverne l’intensità.76 La vista della
fotografia del partner riduceva sensibilmente la percezione del dolore,
mentre le foto di sconosciuti o di oggetti non provocavano variazioni nella
percezione o addirittura la accrescevano leggermente (grafico 2.5).
2.5: L’esperienza di comunità allevia il dolore: l’immagine mostra la percezione del dolore,
procurato attraverso una procedura standard, alla vista di fotografie 1) del partner, 2) di
sconosciuti), 3) di oggetti. La mitigazione del dolore alla vista della fotografia del partner è
statisticamente significativa.77

Se osservare una foto che ci rimanda all’interazione con gli altri ci


permette di alleviare il dolore, sorge spontaneo chiedersi se si verifichi
contemporaneamente una riduzione dell’attività dell’ACC. Si potrebbe
trattare infatti solo di una distrazione: non si pensa più tanto al proprio
dolore, o lo si descrive in maniera diversa, sebbene il dolore «ci sia»
ancora. Pertanto è importante indagare tale aspetto. Per fare ciò si mostrano
delle immagini mentre il soggetto sta eseguendo una RM (come sopra), si
induce uno stimolo doloroso, si chiede di riferirne l’intensità e
contemporaneamente si misura l’attività dell’ACC. Tramite questa
procedura si è potuto dimostrare che la vista di una persona cara non riduce
solo il dolore sperimentalmente indotto, ma anche l’attività dell’ACC,
l’«area del dolore» (figura 2.6).
2.6: L’effetto prodotto dalla vista del partner sull’attività cerebrale mentre si prova dolore.78
L’attività cerebrale (in condizione di dolore) mentre si osservava l’immagine della persona
amata è stata confrontata con l’attività cerebrale (in condizione di dolore) mentre si
osservava la foto di una persona attraente e conosciuta (ma non amata) e mentre si
svolgeva un compito distraente.

All’inizio della mia esperienza in ospedale mi stupivo del fatto che


spesso sul comodino del letto del paziente non ci fosse la fotografia di un
attore, un’attrice, o di qualche altro personaggio famoso, un calciatore o un
paesaggio mozzafiato, ma quasi sempre del partner o dell’intera famiglia.
Come dimostrano le ricerche sul dolore condotte dalla psicologia e dalle
neuroscienze i pazienti, del tutto intuitivamente, riescono in tal modo a
ridurre attivamente il dolore.
Il valore euristico della stretta correlazione tra solitudine e dolore non si
limita affatto agli effetti psichici sul dolore fisico. Si riscontrano anche
ripercussioni nella direzione opposta, vale a dire effetti fisici sull’esperienza
psichica di solitudine.79
Se, per esempio, in un soggetto sano si produce artificialmente una
reazione infiammatoria attraverso la somministrazione della cosiddetta
endotossina, ne risulta anche un’intensificazione del sentimento di
solitudine. Un effetto che ben si integra all’interno della lunga discussione,
nel campo della psico-neuro-endocrinologia, sulla correlazione tra
infiammazione e depressione, capovolgendone nel contempo l’assunto
teorico: finora si partiva dall’infiammazione come causa diretta della
depressione. Dalle scoperte qui presentate il percorso passa tuttavia per
l’attivazione dell’ACC e per la conseguente sensazione di isolamento
sociale. Poiché depressione e isolamento sociale sono stati studiati
isolatamente, un’analisi dei dati ha mostrato che il livello di isolamento
sociale poteva spiegare da un punto di vista prettamente statistico il livello
di depressione. È pensabile quindi che i dolori (prodotti dall’endotossina)
producano la sensazione di solitudine e che questa a sua volta produca lo
stato depressivo e non che, come si credeva finora, l’infiammazione
provochi la depressione e dunque anche (indirettamente) il senso di
solitudine.
La deduzione più insolita che si può trarre dalla correlazione tra
solitudine e dolore è sicuramente che – se è tutto vero quel che abbiamo
detto fin qui – gli antidolorifici dovrebbero aiutare a combattere la
solitudine. Ciò è stato realmente dimostrato nell’ambito di due studi
randomizzati in doppio cieco, controllati con placebo.80 Al primo studio
hanno partecipato 62 soggetti, che per un lasso di tempo di tre settimane
hanno dovuto assumere mattina e sera o 500 mg di paracetamolo in
compresse o un placebo, e che ogni sera dovevano compilare un
questionario riferito alle sensazioni dolorose provate nella giornata. Del
questionario sappiamo che è incentrato essenzialmente sulle esperienze di
rifiuto sociale. Inoltre, i soggetti del test dovevano compilare un secondo
questionario sulle emozioni positive, per chiarire se il paracetamolo aveva
un influsso su di esse. Ne è risultato che nel corso dei ventuno giorni
dell’esperimento il paracetamolo ha portato a una riduzione significativa
della sofferenza, riduzione che non può essere ricondotta a una maggiore
frequenza di sentimenti positivi. L’antidolorifico non ha dunque soltanto
migliorato l’umore, ma ha anche alleviato la percezione della solitudine.
Il secondo studio è stato condotto con 25 soggetti che, come nel primo
caso, hanno dovuto assumere ogni giorno per tre settimane 1000 mg di
paracetamolo o di placebo e alla fine del periodo hanno giocato, durante
una RM, al gioco della palla descritto all’inizio, per provare artificialmente
un sentimento di solitudine. L’ipotesi di partenza era che il segnale
dell’attivazione dell’ACC mentre si viveva l’esclusione sociale sarebbe
stato attutito dall’antidolorifico. Ed è proprio quel che è accaduto.
Gli autori riassumono così i risultati di entrambi gli studi: «La presente
ricerca mostra nuove acquisizioni in merito alla stretta correlazione tra
dolore sociale e dolore fisico, andando a verificare le sorprendenti
conseguenze dell’ipotesi che questi abbiano un comune fondamento
neurobiologico. Per la prima volta abbiamo mostrato come l’antidolorifico
paracetamolo, spesso utilizzato per il trattamento di dolori fisici e in libero
commercio, riduce anche il dolore provocato dal rifiuto sociale. Ciò accade
sia dal punto di vista neurobiologico, sia dal punto di vista della percezione
da parte del soggetto interessato».81
Altri studi hanno dimostrato che una semplice espressione facciale di
disprezzo82 o una parola di rifiuto (per esempio: «Mi stai annoiando»)83
sono sufficienti ad attivare l’ACC e a provocare un sentimento di rifiuto
sociale. Anche osservare la foto di una persona cui fino a poco tempo prima
si era affettivamente legati84 o perfino la percezione di un trattamento
scorretto in un gioco provocano l’attivazione dell’ACC.85 Per questo, l’area
cerebrale è stata già definita «sociometro»: essa ci segnala quando qualcosa
non va all’interno del gruppo o della nostra comunità.86 Analogamente, il
sentimento di solido legame a una data persona riduce la reazione dell’ACC
all’isolamento.87 È stato anche dimostrato che una bassa autostima accentua
tale reazione, mentre un’alta autostima la riduce.88
Le più recenti scoperte della neurobiologia dello sviluppo mostrano
inoltre che questo «termometro» sociale nelle nostre teste ha origine da uno
sviluppo interessante: nel corso dell’adolescenza acquistano sempre più
importanza i rapporti con i coetanei – cioè con il cosiddetto peer group.
Tale aspetto implica però anche che, a mano a mano che crescono, i giovani
reagiscono con maggiore intensità all’esclusione sociale, sia per quanto
riguarda i comportamenti sia per quanto riguarda l’attivazione dell’ACC,
come è stato dimostrato in una ricerca condotta su soggetti di età compresa
tra i 7 e i 17 anni.89
Anche negli adulti sono state rintracciate reazioni legate all’età. Nel caso
dell’esclusione sociale provocata artificialmente con il gioco della palla,
giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 25 anni hanno riferito di un
sentimento di solitudine più intenso rispetto a soggetti più anziani (25-50
anni e 51-86 anni).90
Questi risultati dimostrano che esiste una fase della vita in cui siamo
particolarmente sensibili all’esclusione sociale e alla solitudine: l’età
giovanile.
Il contatto con gli amici sembra avere un effetto di protezione contro il
dolore sociale.91 Il tempo trascorso con gli amici in un dato momento è
inversamente legato all’intensità di attivazione dell’ACC in una situazione
di esclusione che si verifica due anni dopo. Nel complesso, si moltiplicano
le prove a conferma del fatto che sostegno sociale e appartenenza al gruppo
riducono le ripercussioni neurobiologiche e psicologiche del dolore sociale,
ovvero della solitudine,92 ma anche del dolore fisico.93
Un tempo i medici pensavano che i pazienti che soffrivano di solitudine
cronica, anziani e spesso un po’ depressi, usassero gli antidolorifici
semplicemente per «stordirsi» o perché avevano sviluppato una
«dipendenza» da medicinali. Oggi sappiamo che in realtà essi mettono in
atto una vera e propria terapia. Di certo non è una terapia a prova di effetti
collaterali e per di più è meno efficace di altre medicine contro la
depressione, per cui non è sicuramente consigliabile da un punto di vista
medico. Però è altrettanto vero che dobbiamo riconsiderare quella che era la
consueta reazione dei medici in questi casi: «Interrompa immediatamente
l’uso di questi farmaci, tanto non servono a nulla!»

Riassumiamo
Numerosi modi di dire sul dolore provato, sulla separazione e sulla vita
solitaria dimostrano che gli aspetti appena descritti erano già ben radicati
nella «saggezza popolare».
Se fino a pochi anni fa si pensava che nei proverbi la parola «dolore»
non fosse da intendersi letteralmente, ma solo metaforicamente – nel senso
di «sensazione spiacevole»94 – adesso ci è chiaro che la lingua dà
semplicemente voce al nostro vissuto. Se a segnalare solitudine e dolore è il
medesimo modulo cerebrale, è inevitabile che vi siano delle
sovrapposizioni tra i due aspetti. Funziona come per la sovrapposizione dei
ricettori della lingua: lo stesso ricettore è responsabile del «caldo» e del
«piccante», per cui non dobbiamo meravigliarci se quando mangiamo
piccante desideriamo bere qualcosa di fresco e se gli inglesi definiscono i
cibi piccanti hot: hanno perfettamente ragione.
È bello quando la neurobiologia conferma non solo la saggezza popolare
ma anche quella dei nostri pazienti. Questo ci ricorda che il mondo è molto
più complesso di quanto talvolta siamo portati a credere. E ci mostra che
una concezione scientifica del mondo eccessivamente semplificata può
essere superata soltanto attraverso una ricerca instancabile e un’estrema
precisione di analisi.
Capitolo 3

Contagio sociale

Quando si parla di «contagio», pensiamo in genere a batteri, virus e altri


agenti patogeni. In questi casi parliamo di infezione. Essa non dipende
soltanto dal tipo di agente che l’ha provocata, ma anche dal sistema
immunitario del soggetto contagiato, giacché non tutte le trasmissioni di
agenti patogeni portano all’insorgere di un’infezione. Inoltre possono essere
trasmessi anche agenti del tutto innocui, come i germi presenti nella pelle,
nella bocca o nell’intestino. Al contrario, un disturbo si può trasmettere ad
altre persone anche senza agenti patogeni. Quando ci riferiamo a questa
trasmissione senza specificare il meccanismo con cui essa avviene,
parliamo di contagiosità. Essa misura la probabilità che, attraverso il
contatto, avvenga la trasmissione di una malattia (di qualunque tipo) a
un’altra persona.
Del fenomeno del contagio sociale si occupano da tempo soprattutto
discipline come la sociologia, la psicologia, la medicina, l’economia e, più
recentemente, l’informatica. Nei casi estremi si parla di isteria di massa,
quando si presentano determinati sintomi di una malattia, il cui insorgere è
dovuto al contagio sociale. Alcune di queste epidemie isteriche sono note e
ben descritte nella letteratura medica.95
A una prima analisi, sembra un controsenso affermare che la solitudine
possa essere contagiosa. Come si fa a essere contagiati da una persona che
sta da sola? Se però con solitudine si intende la percezione di isolamento
sociale (e non l’isolamento sociale di per sé, che non è necessario ci sia),
non è contraddittorio pensare che tale percezione si possa trasmettere ad
altri attraverso l’interazione sociale. Anche i comportamenti possono essere
contagiosi, come grattarsi quando si ha prurito, o sbadigliare.96 Si parla in
questi casi di contagio del comportamento (behavioral contagion), mentre
per le sensazioni come l’ilarità contagiosa o il malumore contagioso si parla
di contagio emotivo (emotional contagion). Nel mondo della finanza si
parla di financial contagion,97 intendendo il pericolo insidioso delle crisi
finanziarie, quando tutti sentono e fanno le stesse cose andando a provocare
proprio per questo la crisi: se tutti prelevano contanti perché temono che si
possa verificare una mancanza di liquidità, si arriva al disastro a causa di un
contagio emotivo (la paura degli altri diventa la mia paura) e di
comportamento (gli altri vanno in banca, quindi ci vado anch’io). Infatti, è
solo il contagio a far sì che la paura e il comportamento messo in atto siano
realmente giustificati: se tutti hanno paura per i propri soldi e li prelevano
dal conto, allora sì che i liquidi scarseggeranno!

Contagio di comportamenti, pensieri e sensazioni


Una parte non trascurabile della popolazione mondiale crede nella
resurrezione dei morti. Per un cristiano non superstizioso si tratta di una
convinzione del tutto innocua, ma non è stato sempre così. Prendiamo come
esempio un fatto accaduto nella primavera del 1856 in Sudafrica. Una
ragazza di nome Nongqawuse si recò a un torrente per prendere dell’acqua.
Al suo ritorno raccontò allo zio che sulla riva aveva visto tre spiriti che le
avevano affidato il compito di dire alla gente del villaggio che i morti
sarebbero risorti se la tribù (oltre 100.000 persone) avesse ucciso tutto il
bestiame (più di 400.000 animali). All’inizio nessuno le credette, ma solo
un giorno dopo lo zio ebbe un’apparizione simile e la raccontò ai capi e ai
membri della tribù. Allora furono effettivamente uccisi tutti i 400.000
animali, scelta che portò a una carestia e alla morte di più di 80.000 persone
(oltre i tre quarti dell’intera tribù).
Questa storia è tanto assurda che non può che essere vera: chi potrebbe
mai inventarsi una cosa del genere? E in effetti è realmente accaduta, come
viene descritto nel libro dello storico sudafricano Jeff Peires dal titolo The
Dead Will Arise.98 Esiste anche una foto di Nongqawuse, scattata dopo che
la ragazza fu arrestata dalle autorità della potenza coloniale britannica.
Dopo il suo rilascio, visse altri quarant’anni in una fattoria in Sudafrica e
morì nel 1898.
Ancora oggi il caso è controverso ed è oggetto di discussioni, non da
ultimo perché i comandanti britannici dell’epoca non fornirono alcun –
come diremmo oggi – aiuto umanitario e rimasero a guardare la morte di
decine di migliaia di persone senza intervenire.99 A cercarli, accadimenti del
genere si ritrovano dappertutto: fra altri la Ghost dance degli indiani
d’America del 1888, che doveva renderli forti e che produsse violenze e
conflitti.100 Ancora oggi, più di 100.000 persone sono seguaci di Sabbatai
Zevi, definito il Nuovo Messia e fondatore del sabbatianesimo nel XVII
secolo. Eppure per questo culto i suoi seguaci sono stati vittime di
numerose atrocità.101 Con la caccia alle streghe nella prima età moderna
(1450-1750) sono morte, secondo le stime più recenti, tra le 40.000 e le
60.000 persone, di cui tre quarti donne. La superstizione degli alchimisti
(dall’antichità a oggi), le case degli spiriti e i castelli di fantasmi, come
anche il magnetismo animale (mesmerismo), sono altri esempi noti di
contagio sociale. Nel 1841 il giornalista scozzese Charles MacKay
descrisse dettagliatamente questi fenomeni nella sua opera su superstizione
e psicosi di massa, riferendosi anche alla cosiddetta bolla dei tulipani,
scoppiata in Olanda a metà del XVII secolo. Si tratta della prima bolla dei
mercati con tanto di crollo finanziario,102 come ormai ne abbiamo
conosciute tante, dalla crisi economica mondiale degli anni Venti del secolo
scorso, alla bolla delle dot-com all’inizio del nuovo millennio, fino alla crisi
immobiliare e finanziaria degli anni 2007-2008.
Un testo classico sul contagio sociale è Psicologia delle masse del
medico e psicologo sociale francese Gustave Le Bon (1841-1931). Lo
studioso vi descrive il diffondersi delle emozioni in maniera analoga a come
si propagano gli agenti patogeni, delineando inoltre le conseguenze che si
producono all’interno di raggruppamenti di persone relativamente grandi e
oggetto di contagio reciproco: l’aumento dell’ansia e la riduzione della
facoltà critica. Stando a quanto descrive Le Bon, l’isteria di massa può
diffondersi attraverso il contagio sociale ed emotivo. Il suo libro è ancora
oggi (anzi, oggi più che mai!) attuale. Infatti, quanti ritengono che nel XXI
secolo siamo ormai immuni dalle «superstizioni medievali» devono
ricredersi: nell’era della post verità, la superstizione sta prendendo
nuovamente piede nel mondo occidentale,103 mentre in altri luoghi (per
esempio in Africa) viene addirittura praticata la caccia alle streghe.104

Il contagio di ansia e paura


Alcune persone hanno paura dei ragni, altre degli ascensori. Esiste qualcosa
che fa paura a ognuno di noi? Basterebbe chiedere a chi produce film gialli
o horror per avere una risposta chiara: gli occhi spalancati di una persona
spaventano tutti (figura 3.3). Questo dato è stato confermato anche dal
punto di vista neurologico nel 2004, quando alcuni scienziati americani
hanno potuto dimostrare che i soggetti sani sottoposti all’esperimento
reagivano con l’attivazione dell’amigdala alla vista di occhi spalancati.105
Bisogna immaginarsi l’amigdala come una sorta di allarme installato nel
nostro corpo, che scatta ogni qualvolta accade qualcosa di insolito e
potenzialmente pericoloso. Soggettivamente percepiamo tale attivazione
sotto forma di agitazione e paura.
Un anno dopo l’esperimento degli occhi, nel 2005, è stato mostrato
anche cosa accade quando questo sistema d’allarme non è integro: le
persone che hanno subito un danno attorno alla zona dell’amigdala non
manifestano una reazione di paura alla vista di occhi spalancati.106
L’attivazione dell’amigdala non modifica soltanto la nostra percezione,
con il connesso aumento della frequenza cardiaca, della pressione e della
tensione muscolare. Influenza anche il nostro modo di pensare: chi ha paura
pensa in maniera acuta107 e finalizzata; questo vuol dire anche che con la
paura si diventa più precisi e, per esempio, si individuano più refusi
all’interno di un testo da correggere. Il rovescio della medaglia di questa
precisione è un’ampiezza ridotta del campo visivo; sotto effetto della paura
non si pensa «lateralmente», ad ampio respiro, o addirittura «fuori dagli
schemi», in una parola: creativamente. La creatività è stimolata, al
contrario, da emozioni positive.108 A tale proposito si parla anche di un
cambiamento dello stile cognitivo dettato dalle emozioni. Lo sa ogni
dirigente capace che vuole lasciar sprigionare la creatività dei propri
impiegati: durante un brainstorming deve essere garantita un’atmosfera
serena, in cui ciascuno possa esprimere liberamente la propria opinione
mentre devono essere vietate le critiche perché trasmettono ansia. Se a
regnare è un’atmosfera tesa, il cervello si blocca e questo diventa un
problema nel momento in cui bisogna risolvere problemi. È il motivo per
cui la paura è un’emozione tanto insidiosa: blocca la nostra facoltà di
pensiero. Le probabilità di trovare una soluzione quando si ha paura si
riducono e questo provoca ancora più paura: un circolo vizioso.
L’attivazione dell’amigdala è automatica in caso di emergenza e dunque
è anche repentina, molto più rapida della razionale consapevolezza di una
situazione. Come vedremo, si tratta di un dato che ha ripercussioni
patologiche soprattutto quando sono in atto contemporaneamente più
processi che interagiscono tra loro.

Immedesimazione automatica
Tutti conosciamo persone che «guastano l’umore» oppure «che fanno
sempre ridere». Già venticinque anni fa, la psicologa americana Elaine
Hatfield, che vive e lavora alle Hawaii, ha descritto dettagliatamente il
fenomeno insieme a due colleghi, indagando i meccanismi del suo
funzionamento.109 Gli autori definiscono il contagio emotivo come la
«tendenza a imitare automaticamente l’espressione, il linguaggio, la
gestualità e la mimica di un’altra persona, a sincronizzarsi con l’altro per
creare una vicinanza emotiva».110
Non dobbiamo immaginarci tutto ciò come un atto di emulazione
consapevole. Quando si imita consapevolmente una persona, l’impressione
che si suscita è quella di finzione, falsità e straniamento. Non a caso
diciamo che una persona scimmiotta l’altra. Quando parliamo di contagio
sociale non ci riferiamo a questa forma di emulazione. Dobbiamo
immaginarlo piuttosto come un’improvvisazione collettiva, proprio come i
musicisti jazz, che improvvisano insieme contemporaneamente. Non c’è un
«capo» che esprime una frase musicale cui tutti gli altri re-agiscono, ma ci
si accorda prima su quale sarà il tema, per poi agire tutti allo stesso tempo.
Nessuno re-agisce! Sappiamo tutto ciò perché il fenomeno
dell’improvvisazione è stato studiato approfonditamente.111 È stato anche
riscontrato che quando i jazzisti improvvisano vi è una riduzione
dell’attività delle zone cerebrali che regolano le azioni consapevoli,
controllate e governate.112
Le espressioni emotive del viso umano sono state studiate con molta
precisione, in termini di tempi di reazione, registrando l’attività elettrica di
ciascun muscolo facciale responsabile, per esempio, delle espressioni di
gioia o rabbia: nella risata sono coinvolti i muscoli che tirano su gli angoli
della bocca, nella rabbia quelli che tirano su le sopracciglia e le avvicinano.
Questo metodo di misurazione dell’attività elettrica dei muscoli è chiamato
elettromiografia (elektro, «elettricità»; myo, «che riguarda i muscoli»;
graphein, «scrittura»), abbreviato solitamente in EMG.
È cosa ormai risaputa che le espressioni emotive facciali sono universali.
Tutti gli uomini, non importa a quale cultura appartengano, sono in grado di
riconoscere una persona felice (che ride) o triste (che piange), oltre a
tantissime altre emozioni.113 Stando ai test condotti, se un soggetto vede un
volto con una precisa espressione emotiva (gioia, paura, rabbia, collera
ecc.), anche il suo viso assume la stessa espressione. Tale reazione si
verifica dopo circa mezzo secondo e non è soltanto visibile, ma anche
misurabile tramite EMG.114 A tal scopo, i diversi volti vengono mostrati
sullo schermo di un computer, così che il tempo di reazione possa essere
misurato al millesimo di secondo.
Quando due persone sono immerse in un dialogo appassionato e una
delle due manifesta una precisa emozione, l’EMG ci mostra che il suo
interlocutore attiva gli stessi muscoli con un ritardo di soli 20 millesimi di
secondo.115 È un tempo troppo breve per poter parlare di reazione, perché
per una reazione ci vogliono circa 500 millesimi di secondo. Non sono però
solo i muscoli di viso e occhi a essere troppo veloci perché la loro attività in
un dialogo possa essere definita come reazione: la lingua è altrettanto
rapida!

Come funziona il «dialogo»?


Anche i dialoghi si possono studiare, registrandoli in modo da poter
misurare esattamente il timing delle parole. Con tali misurazioni si verifica
quanto è già implicito in alcuni modi di dire riguardo alla comunicazione
dialogica come diamo sulla voce al nostro interlocutore o ci strappiamo le
parole di bocca. Dialogando, la mente umana fa cose straordinarie. Se per
pronunciare una frase (anche breve) impieghiamo almeno 600 millesimi di
secondo,116 nello scambio di battute tra due interlocutori le pause di dialogo
sono in media di 200 millesimi di secondo.117
In base alle descrizioni fatte della letteratura antropologica, si era
inizialmente ipotizzata la presenza di differenze culturali sostanziali circa la
lunghezza delle pause di dialogo. Per esempio, si dice che le persone
nordiche siano particolarmente lente nei dialoghi. Lo testimonia anche una
barzelletta. Due finlandesi la mattina vanno al lavoro. Uno dice: «È qui che
ho perso il mio coltello». La sera, tornando dal lavoro, l’altro chiede: «Il tuo
coltello, hai detto?»118
Dal confronto delle pause di dialogo in dieci lingue molto differenti tra
loro è risultato invece che tali differenze non sono affatto così grandi come
si pensava: i danesi, con i 469 millesimi di secondo di durata media delle
pause, sono i più lenti, ma anche gli italiani fanno, sorprendentemente,
pause piuttosto lunghe (310 millesimi di secondo). Più veloci sono gli
inglesi (236 millesimi di secondo) e gli olandesi (109 millesimi di secondo),
mentre sono velocissimi i messicani (67 millesimi di secondo) e i
giapponesi (7 millesimi di secondo).119 Negli altri casi, come si è detto, la
differenza è di pochi millesimi di secondo, e non di secondi, minuti o –
come suggerisce la barzelletta sui finlandesi – addirittura ore! Se però ci
vogliono 600 millesimi di secondo per pronunciare una frase, o anche solo
una parola, allora il «dar sulla voce» o lo «strapparsi le parole di bocca»
non dovrebbe verificarsi affatto – di certo non in Danimarca.
Anche le ricerche sulla comprensione linguistica rivelano questa
criticità: si osserva qualcosa che non dovrebbe esistere. Immaginatevi di
leggere (su uno schermo) le seguenti parole, una dopo l’altra: «La – pizza –
era – troppo – calda – per – essere – volata». Circa 400 millesimi di
secondo dopo la lettura della parola «volata» si sarà generato un potenziale
elettrico negativo più o meno nel centro del vostro cranio, che per mezzo di
un cavo (elettrodo) può essere trasmesso sul cuoio capelluto e così
misurato.
La sigla internazionale per questo metodo è ERP, perché misura la
risposta a uno stimolo, ovvero il potenziale elettrico evento-correlato (Event
Related Potential). La tecnologia richiesta è molto complessa, ma quello
che ci interessa è il principio. Si tratta di formulare tantissime frasi,
registrarne l’attività e calcolare i valori medi. L’esperimento richiede
numerosi partecipanti, per ciascuno dei quali bisogna calcolare la media dei
dati registrati affinché si possa ottenere un segnale chiaro.
Il potenziale provocato dopo le parole a fine di frase si chiama N400,
perché è negativo e si manifesta 400 millesimi di secondo dopo la parola-
stimolo. È stato descritto per la prima volta nel 1980 dagli scienziati
americani Martha Kutas e Steven Hillyard sulla rivista Science e ancora
oggi viene studiato nell’analisi dei processi che si verificano nel cervello
dal momento della ricezione di un segnale linguistico a quello della
comprensione del suo significato.120 Se infatti aveste letto le seguenti parole
«La – pizza – era – troppo – calda – per – essere – mangiata», non ci
sarebbe stato alcun N400. E se aveste letto «La – pizza – era – troppo –
calda – per – essere – bevuta», si sarebbe registrato con un po’ di fortuna un
piccolo N400, perché il potenziale è tanto più grande quanto meno la parola
si addice alla frase, e il «bere» ha a che fare, almeno un po’, con il
mangiare.
Solo con l’aiuto dell’N400 si è riusciti a misurare dall’esterno i processi
mentali linguistici nel cervello, e dunque a studiarli più approfonditamente.
Come abbiamo mostrato già da anni nel nostro team di ricerca, perfino il
pensiero disturbato di pazienti schizofrenici si comprende meglio attraverso
la misurazione di questo potenziale.121 La cosa più interessante, a ogni
modo, è la scoperta inaspettata di quanto tempo ci occorre, rispetto al
significato di una parola, per arrivare alla giusta soluzione: ben mezzo
secondo!
Questi dati sembrano proprio non andare d’accordo con lo svolgimento
molto più rapido della nostra comunicazione, verbale e non verbale.
Bisogna dedurne che la comunicazione tra le persone in dialogo non
funziona nel modo che tutti gli studenti – che siano di pedagogia, di fisica,
di storia dell’arte, di informatica o di lettere – imparano, ovvero secondo il
modello di emittente, canale e destinatario elaborato dall’informatico
Claude Shannon (1916-2001) nella sua opera La teoria matematica delle
comunicazioni (1948). Quando le persone interagiscono, l’invio, la
ricezione e la reazione a un messaggio non seguono questo schema. O per
meglio dire: questo modello non descrive in maniera adeguata quello che
fanno. Non per questo è una teoria sbagliata. Semplicemente non è
applicabile alla situazione del dialogo, così come la teoria elettromagnetica
della luce come onda non è applicabile all’effetto fotoelettrico o all’arte di
Picasso.
Quando dialogano, le persone si comportano semmai come una band di
jazzisti o una squadra di calcio: si suona o si gioca insieme. Non a caso,
osservati dall’esterno, i musicisti o i calciatori non sembrano agire
singolarmente, ma come una sorta di superorganismo. Si parla, infatti, di
spirito di squadra, e squadra è un sostantivo singolare.
Dunque, stabiliamo i seguenti punti: emozioni come la paura o
comportamenti come lo sbadiglio sono automatici, e per molti aspetti lo
sono anche le nostre interazioni. Quando ci riferiamo all’agire sociale
pensiamo generalmente al guidare e all’essere guidati (basti pensare ai tanti
seminari sulla leadership, sul management, sulle forme e i metodi di
comunicazione ecc.), ma nella quotidianità le cose funzionano in modo
completamente diverso: quando parliamo con altre persone o facciamo
qualcosa insieme ad altri, l’interazione riesce al meglio se non c’è nessuno
che guida e nessuno che viene guidato. I partecipanti pianificano e agiscono
contemporaneamente e sono in grado quindi di sincronizzare le loro azioni
al millesimo di secondo, cosa che non sarebbe possibile con il semplice
modello di azione e reazione. Il vantaggio è evidente e consiste in una
maggiore efficienza del gruppo: non solo si è più rapidi nell’interazione
(che si tratti di lavoro, risorse, alimentazione, affetto o sesso) ma si agisce
anche in maniera più efficace, che si stia costruendo una casa, cacciando,
raccogliendo la frutta, facendo la guerra o procreando.
Questa capacità automatica di reciproca sincronizzazione di sensazioni,
pensieri e azioni, che si svolge in maniera repentina e senza una guida
consapevole, comporta il rischio che il meccanismo sfugga al controllo e
provochi l’attivazione contemporanea di moltissime persone in uno spazio
ristretto: la «sincronizzazione» diventa «contagio». In questo caso non
accade nulla di radicalmente diverso, semplicemente i processi automatici
di emozioni e interazioni si rafforzano a vicenda e sfociano nella patologia:
il contagio della paura porta al panico di massa e il contagio della solitudine
porta a un sentimento ancora più intenso di solitudine.
Il contagio patologico è favorito quando lo stato emotivo è intenso o/e il
pensiero è indebolito. Una massa di alcolizzati è più aggressiva e meno
prevedibile di un gruppo di persone sobrie; la droga riduce notoriamente la
facoltà di pensiero critico: lo stesso succede a una massa di persone
terrorizzate.

Reti sociali nel microcosmo di una piccola città


Che la solitudine sia realmente contagiosa lo ha dimostrato un’analisi molto
acuta condotta su dati riguardanti le reti sociali. Tali dati erano stati
acquisiti nell’ambito del Framingham Heart Study, uno studio
sull’epidemiologia delle malattie.122
Si tratta di uno studio osservazionale iniziato nel 1948 e protrattosi per
un lungo periodo. All’epoca erano stati coinvolti quasi tutti gli adulti (nella
prima coorte erano 5209) che vivevano nella cittadina americana di
Framingham (Massachusetts). Nel 1971 furono sottoposti a lunga
osservazione i figli della prima coorte e i rispettivi partner (seconda coorte,
5124 persone) e nel 2002 i figli di questi con i rispettivi partner (terza
coorte, 4095 persone). Nel 1994 lo studio proseguì con una quarta coorte,
costituita da 508 persone immigrate, di appartenenza etnica molto diversa le
une dalle altre.
I partecipanti della prima coorte furono visitati ogni due anni da alcuni
medici assunti appositamente per quel compito, mentre nelle altre coorti le
visite avvennero ogni quattro anni. La singolarità dello studio sta nel fatto
che, nonostante i consueti ostacoli che la vita presenta, quasi tutti i
partecipanti riuscirono a prendere parte continuativamente allo studio per
un lungo periodo. In tal modo, si è potuto osservare attentamente un piccolo
microcosmo di persone che erano o sono tra loro in rapporti di parentela,
amicizia, vicinato o lavoro e che semplicemente vivono la loro vita.
I membri della seconda coorte furono scelti come nodi della rete sociale
e fu condotta un’indagine sui membri di tutte le coorti rispetto alle possibili
relazioni con questi nodi. A partire dai dati a disposizione sulle relazioni
sociali della seconda coorte fu intrecciata così una rete. Furono definiti
«amicizie» i casi in cui il partecipante A indicava il partecipante B come
amico, o viceversa. Fu controllato, inoltre, dove viveva ciascun
partecipante, in modo da poter ottenere informazioni sulle relazioni di
vicinato e sulla distanza spaziale di ciascun partecipante dagli altri. È stato
ricostruito così il microcosmo di una cittadina americana con una precisione
senza pari nella letteratura scientifica.
A essere misurati con precisione non sono stati però soltanto relazioni e
legami sociali. In ciascuna rilevazione è stato registrato anche il sentimento
di solitudine provato da ogni partecipante nel corso del tempo. In questo
modo è stato possibile condurre analisi longitudinali circa le oggettive
connessioni sociali (o l’isolamento sociale) e la percezione soggettiva di
solitudine.
Nel corso dello studio è stato accertato per la prima volta che la
solitudine è contagiosa. La solitudine non si trasmette soltanto all’amico più
vicino, ma anche agli amici degli amici e addirittura agli amici di questi
ultimi: il contagio arriva fino a tre gradi di relazione (grafico 3.1). A
ciascun grado si riduce l’effetto: da una probabilità del 52 percento di essere
soli se l’amico è solo (95 percento CI:123 40-65 percento), al 25 percento
(CI: 14-36 percento) nel caso in cui la persona che soffre di solitudine sia
l’amico di un amico (che non soffre di solitudine), fino al 15 percento (CI:
6-16 percento) nel caso in cui a soffrire di solitudine sia un amico di un
amico (non solo) di un amico (non solo). Soltanto al quarto grado, con il 2
percento di probabilità registrata, l’effetto non è statisticamente assicurato
(9% CI: 5-10 percento). La contagiosità della solitudine dipende quindi
«dalla dose»: si trasmette in maniera più intensa quanto più si è vicini alla
persona sola. Il contagio funziona anche a distanza di più nodi della rete e
può essere trasmesso anche tra persone che non si conoscono. Inoltre, si è
riscontrato che il contagio è più marcato quando la relazione tra i due
soggetti esiste in entrambe le direzioni, ossia quando i partecipanti A e B si
sono definiti reciprocamente amici.
È interessante osservare che la regola «dell’influenza sui tre gradi di
relazione» scoperta attraverso questo studio è valida anche in altri ambiti di
ricerca, come l’obesità,124 il fumo125 e la felicità.126 A essere contagiosa
dunque non è solo la solitudine: lo sono anche una quantità di altri
comportamenti ed esperienze emotive.
3.1: La solitudine è contagiosa. Il grafico illustra l’incremento relativo della probabilità che
un partecipante zero (index-person) sarà affetto da solitudine alla successiva misurazione,
in relazione alla solitudine di un soggetto all’interno della sua cerchia sociale e in relazione
alla distanza sociale da tale soggetto (valori medi e intervallo di confidenza al 95 percento):
la distanza sociale viene indicata con 1 se si tratta di un amico (relazione diretta), con 2 se
si tratta dell’amico di un amico, con 3 se si tratta dell’amico dell’amico di un amico ecc.127

I dati hanno dimostrato chiaramente che per vicinanza non si intende


soltanto la distanza sociale, ma anche quella spaziale (grafico 3.2). Un buon
amico (amicizia reciproca) che vive a meno di un miglio di distanza e soffre
di solitudine fa aumentare del 41 percento la probabilità che alla
misurazione successiva anche l’altro si senta solo. Un amico in un’amicizia
non del tutto reciproca provoca un aumento più contenuto del 29 percento,
mentre un amico che vive a una distanza di 5 miglia (circa 8 chilometri) la
fa aumentare solo del 13 percento (quantità non più significativa). Un
amico che soffre di solitudine e che vive a una distanza di 25 miglia non ha
praticamente nessuna influenza sull’altra persona (8 percento, non
significativa).
3.2: Incremento relativo della probabilità che un partecipante zero (index-person) soffra di
solitudine alla misurazione successiva. La probabilità è calcolata in relazione alla vicinanza
spaziale dell’amico che soffre di solitudine.128

La solitudine è dunque realmente contagiosa e, proprio come altre


malattie infettive, la probabilità di contagio è tanto più alta quanto più si
vive vicini. Questo vale anche per i vicini di casa, da cui è più facile
contrarre il contagio che da qualcuno che vive semplicemente nella stessa
strada. Fratelli e sorelle non sono contagiosi, anche quando vivono nelle
vicinanze; è interessante notare come il partner che vive nella stessa casa
sia molto meno contagioso di quanto si potrebbe credere (grafico 3.3),
mentre il partner che non vive nella stessa casa non è per nulla contagioso.
3.3: Incremento relativo della probabilità che un partecipante zero (index-person) soffra di
solitudine alla misurazione successiva. La probabilità è calcolata in relazione alla solitudine
di partner, fratelli, vicini di casa e persone che abitano nella stessa strada.129

Chi contagia chi, e quanto?


Lo sanno tutti: chi ha più amici è meno solo. Ma questo studio ha
dimostrato per la prima volta le dimensioni di questo effetto. Ogni amico in
più riduce di 0,04 giorni a settimana la frequenza con cui si manifestano
sentimenti di solitudine. Può sembrare poco, ma se pensiamo che un anno è
composto di 52 settimane, si tratterà di circa 2 giorni all’anno. Poiché i
partecipanti allo studio dichiaravano di sentirsi soli in media 48 giorni
all’anno, ne consegue che un paio di amici in più riducono la solitudine di
circa il 10 percento. Con lo stesso metodo si possono calcolare le
dimensioni dell’effetto da parte dei membri della famiglia. Il risultato è
interessante: zero.
Se si analizza lo stesso set di dati suddividendolo per genere, ne risulta
che la solitudine è più contagiosa tra le donne che tra gli uomini. Ciò
potrebbe dipendere dal fatto che le donne dimostrano notoriamente una
maggiore capacità di immedesimazione e pertanto le loro «antenne» per la
vicinanza sociale – e quindi anche per la sua mancanza – sono «più
sensibili». Nel caso di contatto con un amico che soffre di solitudine o con
un vicino di casa che soffre di solitudine, il contagio è più probabile tra le
donne che tra gli uomini.
Inoltre, la solitudine di una donna è, per gli altri individui della sua rete
sociale, più contagiosa della solitudine di un uomo. Questo vuol dire che le
«antenne» delle donne non sono soltanto «più ricettive» rispetto alla
solitudine, ma che hanno anche una maggiore «potenza di trasmissione».
Infine è stata inserita nell’analisi la possibilità che anche lo stato
depressivo possa influire sul contagio. L’introduzione di questo elemento
non ha modificato i risultati. Se ne deduce chiaramente che a far sentire
solo un mio amico non è tanto il mio stato depressivo, quanto la mia
solitudine.
Ora, se la solitudine è contagiosa, ne dovrebbe conseguire che, sul breve
o sul lungo periodo, tutti i membri di una comunità finiscano per sentirsi
soli. Ciò evidentemente non accade. Perché? Ci sono studi epidemiologici
che hanno dimostrato che in linea di principio un’epidemia non diventa una
pandemia,130 perché entro date condizioni essa si autodelimita. Prendiamo il
caso estremo: se in seguito a un’epidemia rimangono pochissime persone
sulla Terra, la probabilità di contagio si riduce drasticamente.
La stessa cosa vale per la solitudine. Anche se contagiosa, non cresce in
modo smisurato fino a colpire tutti, perché le persone sole col passare del
tempo vivranno sempre più isolate dagli altri, come se fossero in
quarantena. I dati del Framingham Heart Study hanno dimostrato questo:
chi si sentiva solo alla misurazione numero 1 aveva meno amici alla
misurazione successiva. È stato dimostrato concretamente che rispetto a una
persona che non si sente mai sola, una persona che si sente sola perde, nel
giro di quattro anni, in media l’8 percento degli amici. Gli autori dello
studio descrivono così questo fenomeno: «Le persone sole vengono più
raramente definite amiche da altre persone, e più raramente definiscono se
stesse come amiche. Ciò vuol dire che la solitudine è sia una causa sia una
conseguenza dell’isolamento sociale. I risultati dimostrano che le nostre
sensazioni e le reti sociali si rafforzano vicendevolmente e mettono in moto
un meccanismo per cui ‘chi ha, riceve’: un meccanismo che favorisce
quanti hanno molti amici. Le persone con pochi amici invece tendono col
tempo a diventare sempre più sole. Per questo, è meno probabile che esse
attirino nuovi amici o che stringano nuovi legami».131
Alla fine, la persona sola si trova sola tra la folla. Questo peraltro non
vale solo per le comunità umane, ma anche per gruppi di altri primati.
«Negli uomini e in altri primati, il rifiuto collettivo di individui socialmente
isolati sembra avere la funzione di mantenimento dell’integrità del gruppo»
spiegano gli autori nella discussione dei loro risultati.132 Tutto ciò accade
più facilmente nelle reti sociali che ci scegliamo, mentre non succede nella
rete sociale in cui siamo nati. Tra parenti la solitudine è decisamente meno
contagiosa che tra amici.

Riassumiamo
La solitudine può essere contagiosa, così come lo sono anche altre
emozioni, pensieri o comportamenti. Ciò presuppone che la solitudine non
sia la stessa cosa dell’isolamento sociale, anche se può provocarlo,
riducendo in tal modo il rischio di contagio. Attraverso questo meccanismo
l’incontrollata diffusione della solitudine subisce un freno.
Ma in ogni caso, il contagio è un fenomeno che andrebbe preso sul serio,
perché può avvenire tramite terzi o altri gradi maggiori di una rete sociale.
Le donne sono più contagiose degli uomini, i vicini di casa sono più
contagiosi dei parenti. E quanto più si vive lontani, tanto meno contagiosa è
la solitudine.
Capitolo 4

La solitudine provoca stress

Le ripercussioni fisiche dei danni psichici provocati da stress, nervosismo,


esclusione, ostilità o isolamento sociale sono scientificamente acclarate
nell’ambito della psicologia della salute. Già nel XIX secolo se ne discuteva
seppure al di fuori dell’ambito dell’analisi medico-scientifica. Tuttavia,
quando tesi e ipotesi formulate in quell’epoca furono sottoposte alla prova
dei fatti, si rivelarono molto spesso sbagliate. Soltanto con le possibilità
offerte dalla ricerca biomedica di base – sempre più efficiente da un punto
di vista metodologico – negli ultimi decenni si è raggiunto un grado di
conoscenza affidabile in merito a una precisa domanda: pensieri ed
emozioni possono farci ammalare?
Una volta chiarito che il nesso causa-effetto esiste, ci si può chiedere
come ciò accada. La vera domanda dovrebbe essere quindi: quali sono i
meccanismi attraverso cui i fenomeni psichici si ripercuotono sul piano
biologico?
Il punto di partenza delle riflessioni che verranno presentate in questo
capitolo è la scoperta133 che lo stress cronico è legato a una maggiore
probabilità di insorgenza di malattie, le quali sul lungo periodo possono
rivelarsi letali. È definita morbilità (dal latino morbus, «malattia») la
probabilità dell’insorgenza di una malattia. La probabilità di morire a causa
di una malattia è definita invece mortalità. Due esempi: il raffreddore è una
malattia con un’alta morbilità e una mortalità molto bassa; si presenta molto
frequentemente, ma non è mortale. Per malattie come la rabbia o il tetano
vale il contrario: hanno una bassa morbilità, perché fortunatamente la
maggior parte delle persone sono vaccinate contro il tetano, mentre nei
paesi occidentali è quasi scomparsa la rabbia. Se però qualcuno contrae il
tetano o la rabbia e non viene subito curato, bisogna tenere a mente che
ancora oggi il tetano porta alla morte nel 25 percento dei casi, mentre la
rabbia è quasi sempre mortale. Dunque la mortalità di entrambe le malattie
infettive è molto alta.
Se ci riferiamo allo stress cronico, vediamo non soltanto che si tratta di
una vera e propria malattia, ma che provoca altre patologie di varia natura:
malattie alle vie respiratorie, malattie cardiovascolari, malattie infettive e
tumori. Inoltre può rallentare la guarigione di una ferita provocata da un
incidente o da un’operazione chirurgica. Com’è possibile? E che cos’è
realmente lo stress134

Dall’emergenza alla normalità


Ci sono persone che pensano sia stressante fare le scale quando l’ascensore
è guasto. Niente di più sbagliato! Stress non significa fatica fisica, anzi, è
proprio il contrario. Quando ci si stanca fisicamente e si suda, si smaltisce
lo stress. Lo stress è qualcosa di totalmente diverso, è cioè la reazione acuta
a una situazione di emergenza, reazione che può salvarci la vita, ma che nel
contempo ha degli effetti collaterali.
Immaginatevi che un animale feroce vi stia inseguendo, o che la foresta
intorno a voi vada a fuoco e dovete scappare per salvarvi la vita; oppure che
state correndo su un lago ghiacciato, il ghiaccio si rompe, voi sprofondate
nell’acqua gelida e dovete immediatamente uscirne per non morire
assiderati. In tali situazioni di emergenza, il nostro corpo reagisce in una
maniera molto precisa, vale a dire con lo stress acuto, un programma che
funziona sempre allo stesso modo. Aumenta la frequenza cardiaca, e cuore
e cervello si organizzano in modo da impiegare l’energia in maniera
ottimale. Nel contempo, il programma d’emergenza blocca tutte le funzioni
che consumano energia e che possono essere temporaneamente rimandate:
digestione, crescita, difese immunitarie e riproduzione. Tutte queste
funzioni hanno bisogno infatti di quell’energia che, in casi estremi, ciascun
essere vivente deve impiegare molto più urgentemente per la pura
sopravvivenza. Se vi imbattete nella proverbiale tigre dai denti a sciabola,
non è proprio il caso che il vostro corpo si occupi di digestione, crescita,
sistema immunitario o addirittura di riproduzione. Infatti non lo fa, perché
tutte queste funzioni vengono temporaneamente messe in stand by dal
programma d’emergenza «stress acuto».135
Tale programma viene avviato attraverso il rilascio di ormoni da parte
della corteccia surrenale (cortisolo, il cui nome viene dal latino cortex,
«corteccia») e del midollo surrenale (adrenalina e noradrenalina; dal latino
adren, «accanto ai reni»). Cortisolo, adrenalina e noradrenalina sono
definiti anche ormoni dello stress. Mobilitano le forze per ottenere il
massimo rendimento e superare la situazione di emergenza. Adrenalina e
noradrenalina provocano un rapido aumento del volume sistolico di ciascun
battito cardiaco e della frequenza al minuto. In questo modo nel corpo viene
pompato più sangue. Nel contempo si ha una dilatazione dei vasi sanguigni
nei muscoli e una restrizione dei vasi sanguigni della pelle e dell’intestino.
Così, muscoli e cervello sono meglio irrorati. L’adrenalina inoltre fa
produrre più rapidamente gli zuccheri al fegato. La pressione e il tasso
glicemico crescono, mentre i muscoli si tendono ancora di più. Adrenalina e
noradrenalina non arrivano al cervello, perché non riescono a oltrepassare la
cosiddetta barriera emato-encefalica. Per questo, durante una reazione di
stress, è il cervello stesso a produrre e diffondere noradrenalina. Lucidità ed
eccitazione crescono repentinamente, mentre si restringe il fuoco
dell’attenzione. Gli effetti di adrenalina e noradrenalina svaniscono nel
raggio di pochi secondi e sono parte di ciò che negli uomini e in molti
animali è definito reazione fight or flight response: combatti o fuggi, per
essere pronto ad agire in caso di emergenza.
La produzione dell’ormone dello stress cortisolo raggiunge invece il
picco massimo dopo circa venticinque minuti. Veicolato dal sangue, il
cortisolo raggiunge le cellule di tutto il corpo e arriva anche nel cervello,
giacché tale ormone è in grado di superare la barriera emato-encefalica. Nel
cervello, il cortisolo funziona come una sorta di feedback negativo, che
mitiga il suo stesso rilascio. Proprio come il termostato di un impianto di
riscaldamento fa abbassare la temperatura quando la temperatura desiderata
è stata raggiunta, il cortisolo provvede alla riduzione del suo stesso rilascio
(grafico 4.1).
4.1: Il rilascio di cortisolo dalla corteccia surrenale è governato dal cervello. Collocato in un
punto piuttosto interno vi è l’ipotalamo, che riceve segnali da due porzioni cerebrali
importanti per emozioni e memoria: l’amigdala e l’ippocampo (non indicati nel grafico).
Quando queste due aree segnalano una situazione di emergenza, l’ipotalamo libera CRH
(Corticotropin-Releasing Hormone), che raggiunge la vicina ipofisi e attiva a sua volta il
rilascio di ACTH (ormone adrenocorticotropo, in inglese chiamato anche corticotropin).
L’ACTH viene trasportato dal sangue nella corteccia surrenale e provoca il rilascio di
cortisolo. Non appena il cortisolo arriva al cervello, riduce il suo stesso rilascio. In questo
modo ci si assicura che la reazione acuta da stress si autoregoli e non sfugga
completamente al controllo.

Gli effetti del cortisolo possono durare da alcune ore ad alcuni giorni.136
Sono trasmessi da due differenti recettori, la cui azione è in parte
contrastante. Inoltre, in uno dei recettori (il cosiddetto ricettore per
mineralcorticoidi) l’ormone si accumula in quantità maggiori che nell’altro
(il recettore per glucocorticoidi), e i due recettori sono distribuiti
diversamente nei vari tessuti e organi del nostro corpo. Infine, il livello
ematico del cortisolo – indipendentemente dallo stress – segue un ritmo
giornaliero del tutto autonomo: mezz’ora prima del sonno raggiunge i livelli
minimi e al risveglio è ai livelli massimi.137
Senza il cortisolo molte funzioni del corpo non vengono attivate o non
procedono correttamente. Per questo, è necessaria una certa quantità di
cortisolo nel sangue soprattutto al mattino, mentre la sera, quando il corpo
dovrebbe riposare, la concentrazione di cortisolo scende ai livelli minimi.
Se la concentrazione resta molto alta non è sana e fa sì che numerose
funzioni fisiologiche vadano fuori controllo: se è vero che non possiamo
stare senza cortisolo, anche un eccesso dell’ormone provoca danni. Per
questo si dice che la correlazione tra la concentrazione di cortisolo nel
sangue e le funzioni fisiologiche segue l’andamento di una «U» rovesciata
(grafico 4.2).138
4.2: La correlazione tra la concentrazione di cortisolo nel sangue e le funzioni fisiologiche
segue l’andamento di una «U» rovesciata: concentrazioni molto alte o molto basse di
cortisolo non fanno bene all’organismo, mentre una concentrazione media ha effetti
fisiologici vantaggiosi.

Stress cronico, malattia e morte


In una situazione di emergenza, la reazione acuta da stress ci salva la vita.
Allo stesso tempo, porta alla malattia e alla morte quando diventa
prolungata, quando dunque lo stato d’allarme diventa cronico, diventa
normalità. In questo caso si ha un incremento della produzione di zuccheri,
in parte dovuto alla demolizione delle proteine dei muscoli, che comporta
un più alto tasso glicemico (iperglicemia) e debolezza muscolare
(miopatia). Il tutto viene percepito come stanchezza e perdita di tonicità. A
lungo andare, un sistema cardiovascolare eccessivamente sollecitato
provoca pressione alta (si parla di ipertensione da stress). Se le cellule
nervose sono iperstimolate per un periodo di tempo prolungato, la ricaduta
su di esse sarà dannosa. Si parla in questo caso di una tossicità da
sovraeccitazione che fa aumentare la morte di cellule nervose. Secondo
studi recenti, il cortisolo può bloccare la capacità di generare nuovi neuroni
(neurogenesi), cosa che accade realmente in alcune aree del cervello.
Anche l’interruzione delle funzioni fisiologiche sopra descritta,139 che
nel breve periodo risponde a un determinato scopo, alla lunga ha
conseguenze negative. Il blocco permanente della digestione causato da
stress cronico provoca ulcere nello stomaco.140 Il blocco della crescita in età
giovanile porta al nanismo, mentre negli adulti, con il blocco della crescita
ossea, si ha l’insorgere dell’osteoporosi, ossia la riduzione della massa
ossea e dunque della durezza dell’osso. Questo a sua volta è causa frequente
di fratture in età avanzata (particolarmente interessato è il femore), con
conseguenze talora drammatiche che possono culminare con la formazione
di trombi e all’embolia polmonare.
Se il funzionamento del sistema immunitario viene bloccato per un lungo
periodo, è maggiore la probabilità di insorgenza di malattie infettive e di
forme tumorali. A volte ci si chiede con meraviglia perché un normalissimo
brufolo si sviluppi in un grosso foruncolo purulento proprio in un preciso
momento, o perché proprio in una data fase della vita si sviluppi una
polmonite o una pielite, o un tumore. E questo desiderio del tutto comune
nell’uomo di ricercare le cause deve aprirsi anche all’accettazione del fatto
che lo stress cronico abbia delle ripercussioni reali sulla nostra salute.
Mia madre, per esempio, è sempre stata una donna dalla salute di ferro.
Quando però mia sorella maggiore si è sposata (cosa che le ha comportato
«stress e notti insonni»), le è spuntato improvvisamente un grosso foruncolo
sulla schiena. Un mio amico era molto «stressato» in vista dell’apertura di
un centro di ricerca di cui era stato nominato direttore. Poco dopo si è
ammalato e ha rischiato quasi di morire, perché i medici non riuscivano a
trovare nulla in quel paziente apparentemente sano. Finalmente gli è stato
diagnosticato un brutto ascesso epatico – estremamente improbabile in
«casi normali» –, che è stato curato con successo. Anche quando la carriera
di un personaggio politico o di un attore di successo crolla all’improvviso e
dopo poco, «come un fulmine a ciel sereno», la persona in questione si
ammala di cancro e muore, si può supporre che nella malattia sia coinvolto
anche lo «stress» subito.
Infine, il blocco cronico della riproduzione può portare all’impotenza
negli uomini e all’amenorrea nelle donne. In entrambi i sessi può essere
compromesso il desiderio sessuale, fino alla perdita di piacere.

Se manca il controllo
Le cause principali dello stress cronico non sono le avversità che la vita ci
riserva. Lo stress cronico è legato alla sensazione di essere in balia delle
cose o dell’ambiente che ci circondano e di non avere alcun controllo sul
proprio destino.141 Non ci riferiamo qui a una specifica situazione di
emergenza acuta (per esempio perdere il controllo dell’auto mentre
guidiamo su una strada ghiacciata), ma alla sensazione ovattata di non avere
in pugno la propria vita e di dover assistere impotenti agli avvenimenti. Lo
stress cronico è questa sensazione di mancato controllo sulla propria vita.
Ciò è stato dimostrato già da decenni tramite esperimenti sugli animali:
due cavie tenute in laboratorio in due gabbie distinte vengono sottoposte
alle stesse, dolorose scosse elettriche, inviate in parallelo alla grata delle
gabbie tramite un piccolo apparecchio. In una delle due gabbie ci sono una
lampadina e un pulsante, e il tutto è programmato in modo tale che la
lampadina si accenda poco prima della scossa elettrica. Se la cavia preme il
tasto subito dopo l’accensione della lampadina, blocca la scossa e dunque
evita il dolore sia per sé che per l’altra cavia. Lo scarto di tempo tra il
segnale (accensione della lampadina) e la scossa (dolore) è programmato in
modo che l’animale riesca nella maggior parte dei casi a premere in tempo
il tasto per evitare il dolore; solo qualche volta è troppo lento, e allora
entrambi gli animali ricevono la dolorosa scossa elettrica. Si fa proseguire
l’esperimento per un tempo breve, e si misurano i livelli di cortisolo nel
sangue. Oppure si fa proseguire l’esperimento per qualche giorno, o
addirittura per settimane, e si definiscono gli effetti dello stress, che si
manifestano tra l’altro con ulcere allo stomaco e infezioni.
La cosa interessante è che lo stress (alti livelli di cortisolo nel sangue) e i
suoi effetti non si manifestano in egual misura in entrambi gli animali.
Quale delle due cavie sarà allora «stressata»? Ho posto spesso questa
domanda al pubblico durante le mie conferenze, ricevendo quasi sempre la
stessa risposta: l’animale stressato dovrebbe essere quello con la lampadina
e il tasto nella gabbia, perché deve stare attento, non può distrarsi –
quantomeno non dall’accensione della lampadina – e deve premere
velocemente il tasto. L’altro animale invece non ha nulla da fare, quindi non
è nemmeno sottoposto a stress.
Sbagliato!142 Proviamo a immaginare come le cavie vivano questa
situazione: per l’animale con la lampadina e il tasto all’interno della gabbia,
il mondo funziona in maniera piuttosto regolare. Talvolta si accende la luce
e lui sa che deve premere rapidamente il tasto affinché non gli accada nulla
di male. Talvolta è troppo lento e sa che proverà dolore. Per l’altro animale
la situazione è completamente diversa: ogni tanto prova dolore, ma non ha
alcun controllo sulla cosa e su quando ciò accade, se accade. Esattamente
questo è lo stress. Infatti, nella seconda cavia si riscontrano un livello più
alto di cortisolo nel sangue e, sul lungo periodo, le ripercussioni negative
dello stress sulla salute.
Si consideri che entrambi gli animali sono esposti alle stesse scosse
elettriche, nello stesso momento, ma che solo quello che non ha il controllo
della situazione prova stress. Ne deriva quindi che lo stress non è provocato
dal numero di avversità che viviamo (in questo caso la scossa dolorosa), ma
dalla percezione soggettiva di non avere alcun controllo su ciò che accade.
A provocare stress dunque è l’incertezza rispetto a una data situazione e
non la negatività della situazione stessa (grafico 4.3).
4.3: Correlazione tra insicurezza o controllo e livello di stress.

Ora, nella vita quotidiana non siamo esposti a scosse elettriche, ma a


molte difficoltà: per esempio un partner emotivamente instabile che passa
da uno stato di euforia alla tristezza senza un reale motivo. Vivere con una
persona simile provoca stress e riduce persino di alcuni anni la speranza di
vita. Sì, un partner il cui umore cambia come il tempo – prima buono, poi
cattivo, senza che ci si possa far nulla – può essere alla lunga davvero
mortale. L’effetto di una donna emotivamente instabile sul suo compagno è
più forte dell’effetto di uomini emotivamente instabili sulle loro compagne.
Per la sua rilevanza (e per l’apparente opposizione allo «stress da
solitudine») dedicheremo a questo tipo di «stress da relazione» nella vita
privata l’intero ottavo capitolo.
Nelle pagine seguenti ci occuperemo invece dello stress sul lavoro, il
secondo ambito della nostra vita, in cui spesso, se non consideriamo le ore
di sonno, trascorriamo più tempo che nella vita privata.

Stress sul lavoro


Lo stress sul luogo di lavoro è un problema diffuso. Nel 2016, il 60
percento dei lavoratori ha dichiarato di sentirsi stressato spesso o almeno
qualche volta (grafico 4.4). La percentuale è più alta rispetto ad alcuni anni
prima (57 percento) e in effetti il 67 percento degli intervistati nel 2016 ha
riferito di percepire un maggiore fattore di stress rispetto a tre anni prima.143
Abbiamo visto che il fattore di stress dipende da quanto siamo in grado di
controllare il nostro ambiente di lavoro. Prendiamo un esempio banale,
tratto dalla vita di tutti i giorni: se il capo si mostra a volte aggressivo, a
volte gentile, senza che si conosca il motivo di questi suoi cambiamenti
d’umore, la situazione genera stress. Sapere che il capo arriverà in ufficio
sempre di cattivo umore non provoca stress.
4.4: Livello di stress della popolazione tedesca: percentuale di persone con più di 18 anni
che provano stress con diversa frequenza.144

Anche le altre persone con cui lavoriamo hanno un influsso non


indifferente sulla nostra percezione dello stress. Nello Stressreport
Deutschland,145 un report pubblicato nel 2012 e definito dal ministero
tedesco del Lavoro e delle politiche sociali «la più completa banca dati sul
tema»,146 viene illustrato egregiamente come tali congiunture siano molto
diffuse. Alla base dello studio vi è un sondaggio sul carico di lavoro,
condotto su un totale di 17.562 impiegati, lavoratori dipendenti (54
percento uomini) in età compresa tra i 15 e i 77 anni (età media 42 anni),
con un impiego retribuito di almeno dieci ore la settimana.
Indagini analoghe condotte in anni più recenti hanno coinvolto un
numero significativamente ridotto di persone. Il più recente report di questo
tipo è stato compilato dall’istituto di ricerca demoscopica Porsa, che su
incarico della Techniker Krankenkasse ha intervistato tra giugno e luglio
2016 1200 persone di lingua tedesca di età maggiore di 18 anni.147 Nel
2016, il 61 percento degli intervistati si sentivano stressati «spesso» o «a
volte»; nel 2013 erano il 57 percento. Quando all’impegno lavorativo si
aggiunge quello dei figli, lo stress è maggiore nelle persone di età compresa
tra i 30 e i 39 anni, seguite dalla fascia d’età compresa tra 50 e 59 anni (76
percento) e quelle comprese tra i 18-29 anni e i 40-49 anni (66 percento).
Da un confronto tra i vari Länder tedeschi risulta che la regione in cui si
lamenta maggiormente lo stress è il Baden-Würrtenberg (68 percento),
mentre le meno colpite sono Schleswig-Holstein e Mecklenburg-
Vorpommern (54 percento).
La correlazione tra le effettive condizioni di lavoro e il carico (giudizio
soggettivo) è complessa e ciascuna attività produce un quadro differente
(grafico 4.5): particolarmente pesante è lavorare al limite delle proprie
capacità produttive. Questa richiesta non è molto frequente (solo il 16
percento degli intervistati), ma viene percepita come gravosa dal 74
percento dei lavoratori, come mostra la terza colonna da destra del grafico.
4.5: Condizioni di lavoro (frequenza espressa in percentuale: colonne bianche) e carico
percepito in relazione a esse (colonne nere), calcolato su un totale di 17.562 lavoratori
nell’anno 2012.148

Moltissimi impiegati si lamentano della monotonia e della noia, ma


pochi la percepiscono come una condizione pesante.149 Il motivo è
semplice: non è una condizione divertente, ma non provoca stress. Lo stress
si presenta quando non si ricevono informazioni su decisioni e cambiamenti
nel luogo di lavoro o su concrete mansioni da svolgere. Quando i
collaboratori non sono messi al corrente e si percepiscono solo come
«stupidi assistenti» del capo, allora parliamo di stress.150 È chiaro pertanto
che il modo in cui il capo interagisce con i suoi sottoposti ha un effetto
decisivo sulla salute dei dipendenti.

Quando il capo ci lascia soli


Si potrebbe pensare che il capo «ci fa venire l’ulcera» solo quando è
presente e sbraita senza motivo. Questo tuttavia è solo uno degli aspetti di
quanto avviene sul luogo di lavoro. L’altro riguarda direttamente la
solitudine provata dal lavoratore quando viene abbandonato in ufficio con i
suoi problemi.
Questa situazione è molto frequente proprio in Germania: se si chiede a
un impiegato quanto spesso viene aiutato dal suo superiore quando si
presentano delle difficoltà, stando alla media europea (EU-27) il 60
percento dei lavoratori risponde «sempre o quasi sempre». In Germania a
dare questa risposta è solo il 47 percento degli intervistati. In due paesi
dell’Unione, i valori superano l’80 percento. Non ricevere aiuto corrisponde
alla percezione di impotenza o perdita di controllo ed è quindi sinonimo di
stress. Dai dati qui presentati, in Germania abbiamo – come si dice? – un
discreto margine di miglioramento (grafico 4.6).
4.6: Paesi europei in cui il superiore lascia da soli i suoi collaboratori. Percentuale degli
impiegati che dichiarano di ricevere sempre o quasi sempre supporto dal loro capo in caso
di necessità, in un confronto tra paesi europei.151 I valori più alti sono quelli di Irlanda e
Cipro, con l’80 percento degli intervistati che ricevono «sempre o quasi sempre» supporto
dal loro capo. La Germania si posiziona molto più in basso.

Un buon capo assicura il sostegno sociale, coinvolge i propri


collaboratori nelle decisioni (cogestione, partecipazione) e mostra loro
apprezzamento e stima. Un capo che si lamenta del fatto che i suoi
collaboratori si ammalano troppo spesso dovrebbe in primo luogo chiedersi
se non è in parte responsabile delle malattie dei suoi dipendenti. Se gli
impiegati di un’azienda sono abbandonati ai loro problemi, se non vengono
consultati quando si introducono cambiamenti e non vengono dunque presi
sul serio come persone, lo stress sale e li fa ammalare.152
Il modo in cui sono trattati i collaboratori è in stretta correlazione con la
loro salute psicofisica. Quanti ricevono spesso sostegno dal loro diretto
superiore accusano meno disturbi di salute rispetto a quanti ricevono un
sostegno dal capo solo raramente o mai (grafico 4.7).

4.7: Cosa accade quando il capo lascia soli i suoi collaboratori? Il grafico mostra la quantità
di sintomi accusati in relazione al supporto ricevuto dal capo: la percentuale degli impiegati
sani (che accusano pochi sintomi o nessuno) diminuisce quanto più si riduce il sostegno del
capo. Contemporaneamente aumenta la percentuale di collaboratori malati (più di sei
sintomi).153

Lo Stressreport Deutschland commenta i dati presentati come segue:


«Date queste premesse, è evidente che il comportamento dei superiori è un
importante elemento su cui intervenire se si vogliono migliorare le
condizioni di salute di un’azienda. La ricerca ci fornisce conoscenze
fondate su come i dirigenti possano favorire la buona condizione di salute
degli impiegati e/o evitarne peggioramenti».154 Riassumendo, in tutta
schiettezza: se gli impiegati sono stressati, il loro responsabile ha bisogno di
un corso di aggiornamento! Il problema è che pochissimi dirigenti (e
persone in generale) sono consapevoli di agire in modo sbagliato. Quanti
hanno responsabilità dirigenziali devono dunque conoscere e riconoscere
queste implicazioni e metterle in pratica, se vogliono fare meglio il proprio
lavoro.
L’aspetto interessante della congiuntura «solitudine, lavoro e stress» è
che include anche questa variante: lo stress si presenta quando il capo ci
lascia in pace. Eppure è proprio ciò che accade e che scopriamo se andiamo
a esaminare più nel dettaglio le situazioni di stress in ambito lavorativo.155

Insieme contro lo stress


Chi è immerso nella vita lavorativa ed è spesso a contatto con le persone,
magari nel weekend desidera staccare la spina, «disconnettersi» e distrarsi.
Non vuole vedere nessuno. A chi cerca la solitudine per sfuggire allo stress
non verrà certo in mente che lo stress e la solitudine sono strettamente
connessi.
Nel secondo capitolo ho descritto lo stretto rapporto tra stress e dolore.
Tuttavia, la prospettiva evoluzionistica che descrive l’uomo come essere
sociale e su cui si basa tale rapporto va ben oltre la constatazione del
semplice «mi fa male». Essa chiarisce infatti anche perché, nell’età della
pietra, l’uomo percepisse la propria comunità come elemento che riduceva
lo stress, giacché la comunità rappresentava a quel tempo la fonte di ogni
benessere. Senza gli altri non ci si poteva difendere contro gli animali
feroci; c’era poco o niente da mangiare e nessuno aiutava in caso di
bisogno: da una parola consolatoria per la perdita di una persona cara (cosa
frequente) fino al calore quando ci si addormentava nelle notti fredde
(ancora più frequente). È chiaro che l’isolamento acuto può provocare
stress, perché nel corso dell’evoluzione umana ha sempre rappresentato la
situazione di massima emergenza. L’uomo, come animale sociale, non è in
grado di sopravvivere da solo, pertanto è ovvio che la vita in comunità
riduca il livello di stress.
Anche se da circa 10.000 anni l’uomo vive in comunità sempre più
grandi, la reazione d’emergenza risalente al tempo delle caverne ci è
rimasta impressa geneticamente. Questo dato è stato dimostrato
sperimentalmente nel 2007. Per misurare il sostegno sociale di cui gode una
persona, gli scienziati hanno utilizzato un computer tascabile programmato
per emettere un bip due o tre volte al giorno. A ogni bip, le persone
coinvolte nell’esperimento dovevano ricordarsi della persona con cui
avevano avuto l’ultimo contatto e valutare su una scala da 1 a 7 quanto,
dall’esperienza fatta, la ritenessero una persona di supporto. Attenzione:
non si chiedeva se la persona fosse stata particolarmente di sostegno
nell’ultimo contatto avuto, ma se, in generale, essa rientrava nella cerchia di
quelle che il soggetto del test avrebbe contattato in caso di bisogno. Dopo
aver ripetuto questa verifica per un totale di 25 volte nell’arco di 10 giorni,
è emerso un quadro piuttosto affidabile della rete sociale del soggetto del
test, ovvero del grado di sostegno percepito da parte delle persone con cui il
soggetto aveva a che fare nella quotidianità.
Ogni singolo soggetto coinvolto è stato sottoposto inoltre al cosiddetto
Trierer Stresstest.156 Si tratta di un test strutturato in modo da procurare
stress in qualunque persona vi venga sottoposta, senza che la si debba
mettere di fronte a una tigre dai denti a sciabola, farla sprofondare
nell’acqua ghiacciata o procurarle dolore. Il test è in verità del tutto
innocuo, perché l’unica cosa che si rischia è una figuraccia di fronte ad altre
persone: funziona così bene proprio perché l’uomo è un animale
incredibilmente sociale.
Immaginatevi di dover tenere un discorso di cinque minuti presentando
le ragioni per cui sareste l’assistente ideale in un ufficio. Terrete il discorso
di fronte a due studentesse e sapete che sarete registrati e il video verrà
mostrato e valutato sia da altri candidati, sia da un gruppo di esperti. Ciò
che non vi viene detto è che le due studentesse sono due tutor
precedentemente istruite a reagire al discorso in maniera annoiata o
infastidita. Il vostro «pubblico» quindi non vi accoglie in maniera
collaborativa, vi guarda annoiato e un po’ scontento e sembra non essere
interessato alla vostra presentazione o a voi come persona. Dopo la
presentazione, le cose peggiorano perché vi viene chiesto di fare dei calcoli
a mente. Dovete sottrarre al numero 2083 il numero 13, poi al risultato
ancora una volta 13 e così via. Vi viene chiesto di dire ogni volta ad alta
voce il risultato e di eseguire i calcoli nel più breve tempo possibile. Se fate
un errore, dovete ricominciare da capo. A cadenza regolare di un minuto, le
due presunte «colleghe» vi chiedono di essere più veloce nei calcoli. Il
vostro pubblico è nuovamente disinteressato e scontroso. Inevitabilmente vi
sentirete stressati. Questo test, elaborato dai ricercatori dell’Università di
Trier, continua a ricevere conferme.157
A tutte le persone coinvolte nell’esperimento è stata misurata la
concentrazione di cortisolo circa 40 minuti prima e 10 minuti dopo il test.
La misurazione avveniva con un bastoncino d’ovatta che i partecipanti
dovevano passare sulla mucosa orale per circa 2 minuti. Il risultato più
importante dell’esperimento è che si è riscontrata una correlazione tra il
livello di sostegno sociale percepito da una persona (misurazione sui dieci
giorni) e il livello di cortisolo rilasciato in conseguenza della situazione di
stress sociale (grafico 4.8). Quanto più i soggetti del test si sentono integrati
nella loro rete sociale, tantomeno cortisolo viene rilasciato in reazione allo
stress.158

4.8: Correlazione tra sostegno sociale e stress: quanto più sostegno viene percepito, tanto
minore è l’aumento dell’ormone dello stress cortisolo al Trierer Stresstest. Questo aumento
(livello di cortisolo dopo il test meno livello di cortisolo prima del test, diviso per il livello di
cortisolo prima del test – il punteggio grezzo è stato precedentemente trasformato) viene
definito anche reattività.159
Trauma infantile e stress duraturo
Lo stress degli adulti nella vita lavorativa è piuttosto nocivo, soprattutto se
sperimentano per un lungo periodo una condizione di solitudine e
impotenza. Effetti ancora più negativi dello stress duraturo sul lavoro
sembrano derivare però da esperienze di solitudine nell’infanzia, che
compromettono sin dalla giovane età la sensibilità dell’intero «sistema
stress». E questo per tutta la vita.
Da trent’anni, il gruppo di ricerca guidato dal famoso scienziato
canadese Michael Meaney studia gli effetti delle cure materne sui cuccioli
di alcune specie di animali. Quando si impedisce alla madre di accudire e
leccare i cuccioli di ratto, negando cure e contatto fisico, si imprimono
cambiamenti permanenti nel loro cervello. In una prima fase di studi si è
scoperto, infatti, che gli animali reagiscono con maggiore intensità allo
stress e sul lungo periodo presentano alte concentrazioni di ormoni dello
stress, mentre test specifici condotti in età adulta rivelano una ridotta
capacità di osservazione.160 In un secondo studio si è cercato di risalire alle
cause di questi effetti e sono stati riscontrati dei cosiddetti cambiamenti
epigenetici. Questi non riguardano il codice genetico, che rimane invariato,
ma la sua lettura nelle singole cellule e dunque la decodifica della sua
funzione. Se nei cuccioli si provoca stress a causa del mancato contatto con
la madre, si producono cambiamenti permanenti nel loro cervello che
portano a un intensificarsi della reazione di stress e, dopo una certa fase, a
una maggiore concentrazione di ormoni dello stress nel sangue. Attraverso
questo meccanismo, la solitudine nella prima infanzia provoca un maggiore
stress nel corso di tutta la vita.161
Ciò accade perché nei cuccioli trascurati dalle madri i geni per i recettori
del cortisolo presenti nelle cellule nervose dell’ippocampo non vengono
letti e dunque se ne riduce l’addestramento. L’ippocampo è collocato al di
sopra della cascata di ormoni responsabile dell’attivazione della reazione di
stress e la mitiga (grafico 4.9). Il minor numero di recettori del cortisolo
riduce invece tale effetto di smorzamento. Risulta chiaro dunque perché
esperienze traumatiche vissute durante l’infanzia portino alla lunga a un più
alto livello di stress: esse riducono l’effetto di smorzamento e provocano
quindi un’attività più intensa di tutto il sistema stress.
4.9: L’ippocampo è collocato «al di sopra» del meccanismo di rilascio degli ormoni dello
stress e ne attenua il funzionamento. Questo procedimento è indicato nel grafico con il
segno (-). Con il segno (+) sono indicati invece gli effetti eccitanti. Un numero ridotto di
recettori del cortisolo nell’ippocampo riduce la sensibilità delle cellule al cortisolo, e ciò
produce a sua volta un effetto negativo sull’attività dell’ippocampo. In questo modo, infatti,
si ostacola il processo di attenuazione del rilascio e ciò porta a una modifica dell’intero
sistema e a un maggior livello di stress nel corso di tutta la vita.
A questo proposito si parla anche di «riprogrammazione» epigenetica,
che provoca un aumento dello stress per tutta la vita.162 Ormai sono stati
scoperti anche altri meccanismi di riprogrammazione duratura delle
funzioni cerebrali, provocati da esperienze di stress nella prima infanzia e
che interessano non solo l’ippocampo, ma anche l’amigdala e la corteccia
prefrontale.163 Tramite questi meccanismi si può spiegare, tra le altre cose,
quali ripercussioni può avere la mancanza di cure in età infantile sullo
sviluppo del cervello.164
Tutto ciò è dimostrabile attraverso esperimenti nei quali siamo in grado
di controllare molto bene le condizioni ambientali delle cavie e di studiare i
cervelli con tutti i moderni metodi della biochimica e della genetica. Nel
corso degli ultimi dieci anni, le ricerche sono state rivolte anche allo studio
delle stesse correlazioni sull’uomo. La domanda di fondo è in che modo e
in che misura l’abbandono e la solitudine vissuti in età infantile, nonché lo
stress a essi collegato, possono provocare l’insorgere di malattie anche in
età adulta. Approfondiremo questo argomento nel capitolo 6.

Riassumiamo
A produrre stress, ribadisco, non sono tanto le esperienze spiacevoli, quanto
il sentimento di impotenza. Quando ci rendiamo conto di non aver alcun
controllo sulla nostra vita, soffriamo di stress cronico (proprio come le
cavie degli esperimenti descritti in questo capitolo). Gli stessi cambiamenti
fisiologici motivati in caso di stress acuto – la regolazione della pressione,
della glicemia e della circolazione e il blocco di funzioni fisiologiche
temporaneamente meno rilevanti (crescita, nutrizione, difese immunitarie) –
portano in caso di stress cronico all’insorgere di malattie. Tali malattie sono
le più frequenti nel nostro mondo occidentale «civilizzato».
Possiamo ridurre lo stress cronico attraverso l’interazione con il nostro
prossimo. Se al contrario conduciamo una vita ritirata e viviamo una
perenne condizione di solitudine, il nostro stato – come vedremo nelle
prossime pagine – ci porterà a sviluppare patologie croniche (capitolo 6) e a
un consistente aumento del rischio di mortalità (capitolo 7). Sul lavoro,
molto dipende dai nostri superiori. Ciascun capo è responsabile almeno in
parte dello stato di salute (o di malattia) dei propri collaboratori.
Com’è stato dettagliatamente spiegato in questo capitolo, la solitudine
nella prima infanzia e l’abbandono da parte dei genitori possono avere
come conseguenza una programmazione sfavorevole per un cervello in via
di sviluppo e avere ripercussioni fin nell’età adulta.
Capitolo 5

Insieme online?

Internet e il World Wide Web vengono considerati da molti la tecnologia


per eccellenza contro la solitudine: essere sempre online e dunque sempre
connessi con gli altri, in ogni momento e in ogni luogo, sembra
rappresentare l’elemento chiave per il progresso sociale di una società
digitalizzata. In particolare, il fatto che miliardi di persone utilizzino social
media come Facebook e Twitter è collegato per molti alla speranza che ciò
porti alla scomparsa definitiva del sentimento di solitudine.
Del resto, come potrebbe essere diversamente? Da decenni il computer e
internet servono alla comunicazione: sono uno dei pilastri del vivere
sociale! Quando, negli anni Ottanta del secolo scorso, fu inventato il
personal computer e fece il suo ingresso negli uffici, venne impiegato
inizialmente come macchina da scrivere. Da un giorno all’altro, le lettere
erano impaginate meglio e più pulite, perché in ogni momento si potevano
correggere gli errori, ristamparle e infine spedirle per posta. Con l’arrivo
delle e-mail, circa dieci anni più tardi, le cose sono cambiate ancora. La
parallela diffusione di una semplice piattaforma grafica ha permesso
l’installazione di sempre nuovi sistemi applicativi e, con la fine degli anni
Novanta, si incominciarono a elaborare non solo i testi, ma anche immagini,
suoni e molto altro. Quando poi, con l’arrivo del nuovo millennio, internet
ha assunto per tutti i comuni utenti la forma del World Wide Web,
semplicissimo da usare, e quando nel 2007 l’introduzione degli smartphone
ha rivoluzionato la telefonia, la tecnologia dell’informazione (IT) non è
stata più un mezzo di comunicazione tra tanti, ma è divenuta il mezzo di
comunicazione per eccellenza. Ormai è quasi del tutto irrilevante che anche
i «vecchi» mezzi di comunicazione come televisione e telefono funzionino
per mezzo dell’IT. Tutto è accaduto molto in fretta, senza che abbiamo
avuto il tempo di riflettere sugli effetti e le conseguenze di questi
cambiamenti. Il «technology assessment» è ancora oggi un’espressione
sconosciuta nel mondo della digitalizzazione.165
Mediato o immediato?
Chi passa molto tempo da solo con il proprio cellulare, sempre pronto a
nuovi click per rimanere sempre «aggiornato», vive evidentemente
nell’illusione che il suo comportamento abbia a che fare con l’acquisizione
di conoscenze o addirittura con la propria istruzione, con la comunicazione
o perfino con l’interazione sociale. In verità, gli sfugge che in tutti gli
aspetti della quotidianità si è insediata una tecnologia che si frappone tra
noi e gli altri: medium vuol dire «tramite», ed è esattamente il contrario di
«im-mediatezza». È un aspetto che spesso si trascura quando si parla di
media; la differenza però è enorme ed è peraltro anche costosa, come
mostra l’esempio che segue.
Non molto tempo fa, sono stato invitato a tenere una conferenza da
un’azienda tedesca dell’high-tech situata in Baviera, la regione dell’high-
tech e degli Spätzle. Giacché mi trovavo lì, hanno colto l’occasione per
illustrarmi le ultime creazioni nel mondo della comunicazione globale: uno
spazio organizzato in maniera semplice ed elegante, con un bel tavolo ovale
di legno con tre sedie allineate su un lato. Sull’altro lato c’erano tre schermi
molto grandi. «Così possiamo parlare contemporaneamente con i nostri
partner di Hong Kong, San Francisco e Honolulu, come se fossero
realmente qui» mi ha spiegato orgogliosa la mia guida. Ero impressionato, e
dopo una piccola pausa ho chiesto: «Davvero?»
Ne è nata una lunga conversazione che si può riassumere così: tutto
funziona alla perfezione quando ci si conosce già di persona, mentre questa
tecnologia non è adatta per conoscersi. Il primo contatto deve avvenire
sempre di persona, magari prendendo un aereo per Hanoi per andare a
incontrare de visu il nuovo partner o cliente vietnamita.
Pensiamo solo a delle semplici telefonate. Se si telefona al proprio
compagno, non c’è bisogno della videochiamata (che scomodo: doversi
pettinare o truccare prima di una telefonata!). Perché durante una telefonata
con una persona che conosciamo bene, nella nostra mente vediamo scorrere
delle immagini: se ne sentiamo la risata, con il nostro occhio mentale ne
vediamo anche la mimica e la gestualità. Comprendiamo immediatamente
dal tono della voce le emozioni che vi si celano, perché proiettiamo l’altra
persona di fronte a noi. Ciò funziona tanto meglio, quanto più intimi siamo
con lei. Arriviamo addirittura a percepirne l’odore, o l’umore. Per questo le
coppie sposate da tempo non hanno bisogno di una videochiamata. A
produrre il video sono i loro cervelli, automaticamente e in tempo reale.
Se non ci si conosce, il meccanismo non funziona. E se da una parte le
immagini possono dire più di mille parole, dall’altra possono anche
ingannare, molto più di una persona fisicamente presente. Quindi le aziende
– nonostante le più moderne tecnologie di comunicazione – per un primo
approccio, ritengono utile un incontro di persona.
L’utilità delle cosiddette preconoscenze si può dimostrare attraverso
questo esempio sulle illusioni ottiche.166 I tavoli illustrati nella figura 5.1, un
tavolo da salotto quadrato, a sinistra, e un tavolo lungo da cucina, a destra,
hanno la stessa superficie. Il piano del tavolo di destra sembra però lungo e
stretto, mentre quello quadrato sembra più corto e più ampio. Chi non crede
che siano delle stesse dimensioni, può posare un foglio trasparente su uno
dei due piani nel disegno, ricopiarne il perimetro, poi tagliarlo e posarlo,
leggermente girato, sull’altro tavolo: combacia perfettamente.

5.1: Due tavoli molto diversi?

Per via dei tanti tavoli di diverse dimensioni che avete visto nella vostra
vita e che sono registrati nella vostra memoria visiva, in questo caso vedete
due tavoli di misure differenti. Le immagini salvate nella vostra memoria
vengono utilizzate automaticamente per analizzare i «dati» che si
presentano davanti ai vostri occhi, perché nel cervello – detto in modo
superficiale – la registrazione e l’elaborazione delle informazioni sono
effettuate dallo stesso hardware. Per questo «correggete» la visione del
tavolo da cucina e del tavolo da salotto. Di tutto ciò si occupa il vostro
sistema visivo: non siete «voi» a farlo consapevolmente. L’effetto è
prodotto attraverso dei processi interni inconsci.167
Si tratta degli stessi processi che ci consentono di completare, senza
fatica e sulla base delle nostre preconoscenze, immagini incomplete o
discorsi acusticamente disturbati (figura 5.2).

5.2: Esempi del nostro processo di completamento della percezione visiva.168

Poiché tutto ciò avviene senza alcun intoppo, non ci accorgiamo della
nostra «partecipazione attiva» alla produzione delle percezioni. Tale
partecipazione aumenta quando si tratta di situazioni complesse come, per
esempio, il comportamento sociale: attribuiamo all’altro scopi, intenzioni,
desideri, pensieri, preconcetti, stati umorali duraturi ed emozioni
temporanee, e non ci rendiamo conto che si tratta di un’operazione che
facciamo noi stessi. E ne siamo capaci proprio come siamo capaci di
camminare o parlare perché – proprio come il camminare e il parlare – lo
abbiamo appreso durante la nostra infanzia e giovinezza.

Apprendere la partecipazione emotiva


Da più di un secolo sappiamo che nel nostro cervello sono presenti centri
per la vista, l’udito, la motricità e il linguaggio. Solo negli ultimi vent’anni,
invece, sono stati studiati i centri responsabili del comportamento sociale:
the social brain, come spesso si usa dire. E, come sempre accade nel
cervello, anche questi centri sono interessati da un processo di
apprendimento permanente. Ed esattamente come nell’apprendimento del
linguaggio, che avviene tramite l’ascolto di milioni di parole, l’elaborazione
e poi (dopo un inizio un po’ stentato) la loro produzione, impariamo a
comprendere le persone, a «leggere nei loro pensieri», a provare empatia
solo attraverso il contatto.
Proprio per questo, gli studi scientifici che dimostrano in che misura la
moderna tecnologia dell’informazione sostituisce i contatti sociali reali nei
bambini e nei giovani lanciano un serio campanello d’allarme. Da un
esperimento condotto su 3461 bambine di età compresa tra gli 8 e i 12 anni
è risultato che trascorrono circa 2 ore al giorno a contatto diretto con le altre
bambine, e 6/9 ore al giorno di fronte a schermi digitali.169 Se ne deduce che
l’utilizzo di social media come Facebook, che comportano meno contatti
reali, produca anche un calo della partecipazione emotiva. Ciò è stato
dimostrato da studi longitudinali, nei quali si mostra che l’empatia dei
giovani verso genitori e amici è tanto più bassa, quanto più tempo essi
trascorrono ogni giorno davanti a uno schermo.170 Oggi esistono perfino
metanalisi che evidenziano la correlazione tra l’uso di media digitali, da una
parte e la riduzione dello stato di benessere con insorgenza di forme
depressive dall’altra.171
A corroborare queste acquisizioni facendo luce sulle cause ci sono le più
recenti scoperte della ricerca neurologica. Studi condotti su cavie animali e
sugli uomini hanno potuto mostrare che la densità delle zone cerebrali
aumenta quando l’apprendimento è molto intenso. Nell’ambito di
esperimenti condotti sui babbuini, è stato scoperto che la densità di alcune
aree del cervello sociale aumenta quanto più gli animali trascorrono
l’infanzia e la giovinezza insieme nella gabbia. Anche nell’uomo è stato
ormai dimostrato che una precisa zona del cervello sociale (la corteccia
orbitofrontale) è tanto più densa, quanti più amici e conoscenti ha il
soggetto in questione.172 Rientra in questo discorso anche il fatto che –
come è stato dimostrato da studi recenti – la lingua madre non si può
imparare davanti a un computer.173 Al contrario, sono necessari dialoghi
reali con le persone nella quotidianità. A maggior ragione non si può
imparare la partecipazione emotiva se non di fronte a una persona in carne e
ossa.
Per i bambini piccoli non c’è nulla di più interessante delle persone.
Perfino nel grembo materno il bambino sposta la testa seguendo lo stimolo
visivo, proiettato attraverso la parete addominale, quando tale stimolo ha
l’aspetto di un viso.174 E prima della nascita i bambini imparano i primi
suoni della loro lingua madre.175
Quanto prima i genitori cominciano a parlare con il neonato, tanto più
sviluppate saranno le sue capacità comunicative all’età di 18 mesi.176 Se nel
primo anno di vita la madre o il padre tengono in braccio il bambino e gli
parlano, questi osserverà con estrema attenzione la loro bocca per imparare
a riconoscere ancora meglio i suoni: quando le labbra si chiudono e poi si
riaprono immediatamente, si sente una p, quando la voce vibra, sarà una b –
e così si apprendono le differenze sia acustiche sia visive dei suoni. È
interessante notare che il neonato smette di osservare la bocca di chi parla a
circa otto mesi, a meno che non cresca bilingue. In questo caso ci saranno
più suoni da apprendere e il bambino guarderà le labbra fino all’età di un
anno circa.177
Negli Stati Uniti hanno condotto un’indagine basata sulla suddivisione in
due fasce sociali: una fascia svantaggiata (i cui genitori ricevono
sovvenzioni statali) e una avvantaggiata. Un bambino avvantaggiato sente
circa 1500 parole all’ora in più di quello della fascia svantaggiata. Se
estendiamo il calcolo a un anno, risultano 3 milioni di parole della fascia
svantaggiata a fronte di 11 milioni di parole di quella avvantaggiata.
Estendendo questo complesso studio fino all’età scolare, gli autori hanno
calcolato una differenza di 30 milioni di parole. Non stupisce che tale
vantaggio sia determinante sin dal primo giorno di scuola.
Una limitazione importante nello sviluppo linguistico del bambino è
rappresentata dalla televisione, anche quando l’apparecchio è acceso solo in
sottofondo, senza che nessuno segua veramente la trasmissione in onda.
Le conseguenze della presenza costante della televisione sulla crescita
dei bambini sono state analizzate con una metodologia molto complessa in
un ampio studio condotto negli Stati Uniti con la partecipazione di 329
bambini di età compresa tra i 2 mesi e i 4 anni.178 Ogni bambino indossava
un registratore acustico che registrava la sua intera giornata (12-16 ore). Per
mezzo di un software di riconoscimento vocale tali registrazioni sono state
analizzate automaticamente, segnalando se a parlare fosse un uomo adulto,
una donna adulta, il bambino oggetto dello studio oppure altri bambini. Il
software riconosceva anche le voci sovrapposte, i rumori, il silenzio e la
televisione accesa. I bambini sono stati selezionati in modo da rispecchiare
la popolazione americana relativamente alla tipologia e al grado di
istruzione delle madri. Sono stati esclusi dallo studio bambini con problemi
nello sviluppo del linguaggio e bambini di lingua madre non inglese.
L’analisi statistica dei dati ha mostrato che per ogni ora in più di televisione
accesa sullo sfondo durante la registrazione, la quantità e la durata delle
produzioni spontanee del bambino si riducevano sensibilmente. Questo
valeva anche per il numero di dialoghi.
Ma come si fa ad apprendere la partecipazione emotiva, se non in un
contesto di dialogo? Sviluppo linguistico vuol dire sviluppo sociale. Ed è
dimostrato che entrambi vengono disturbati dai media.

Depressione da Facebook...
Il social network Facebook è stato fondato nel 2004 e nella primavera del
2017 contava circa 2 miliardi di utenti. Twitter è stato fondato nel marzo
2006 e nella primavera del 2017 aveva 300 milioni di utenti.

Tabella 5.1: I più importanti social network e il numero degli utenti nel 2017 (fonte: Statista)

Socialnetwork Utenti (in milioni)

Facebook 2047

YouTube 1500

WhatsApp 1200

Facebook Messenger 1200

Instagram 700

Tumblr 357

Twitter 328

Skype 300

Snapchat 255
Pinterest 175

LinkedIn 106

Quando i social media hanno fatto il loro ingresso nelle nostre vite, in un
primo momento sono stati utilizzati – come poteva andare diversamente? –
soprattutto da chi aveva già un grande interesse per i contatti sociali. Queste
persone, socialmente molto attive, utilizzavano un ulteriore mezzo digitale
per rimanere in contatto con gli altri e curare le proprie relazioni. E difatti, i
primi studi sulle ripercussioni dei social media registravano una ricaduta
positiva sul benessere sociale.179 In fondo, anche i primi guidatori di
automobili erano persone sportive, amanti della velocità e della meccanica,
informati e competenti. E il primo corso online aperto su ampia scala
(Massive Open Online Course, oggi si parla di MOOC) alla Stanford
University nel 2011 è stato un grande successo quanto a numero di
partecipanti e a risultati nell’apprendimento. Non c’è da meravigliarsi:
ancora una volta, erano i più curiosi e desiderosi di apprendere a volersi
confrontare con questa nuova modalità didattica e a ritenere un privilegio
poter partecipare alle lezioni di studiosi noti a livello mondiale.
Oggi, però, dopo diverse di queste esperienze, sappiamo che i cosiddetti
early adopters (coloro che sperimentano per primi nuove tecniche o nuovi
trend) non sono affatto rappresentativi di quanti cominciano a seguire una
moda solo perché «tutti lo fanno». Diversamente dall’utente comune, i
pionieri della tecnica sono più istruiti, socialmente meglio integrati e
presentano una maggiore capacità di empatia e predisposizione al rischio.180
Consideriamo gli esempi appena citati: il guidatore di oggi non possiede
alcuna competenza meccanica e non è particolarmente sportivo. Le cose
non sono diverse nel caso di una persona che usa computer e internet e che
segue corsi online: ormai i MOOC registrano – a seconda della
preparazione degli studenti – un tasso di abbandono che va dal 92 percento
(buona preparazione) al 98 percento (scarsa preparazione).181 Sono quindi
tra gli esperimenti più frustranti mai condotti in ambito didattico. Chi mai
prenderebbe in considerazione un insegnamento, un percorso di studi o una
qualsiasi possibilità di formazione, sapendo che di 100 partecipanti
termineranno il corso con successo soltanto dalle 2 e alle 8 persone? Per
questo, in tutto il mondo, i MOOC vengono smantellati; e vengono buttati
al vento ingenti investimenti da parte di istituzioni rinomate come Harvard,
Sandford, Berkeley o il Massachussetts Institute of Technology.
Non diversamente dagli automobilisti e dagli iscritti ai corsi online, le
differenze tra i primi utenti e gli utenti comuni dei social media sono
sensibili. I primi utenti Facebook erano persone socialmente molto attive
che usavano la nuova proposta online per gestire meglio i loro numerosi
contatti. Oggi quasi tutti i ragazzi usano numerosi social media, e lo fanno
con una frequenza tale da compromettere in maniera chiara, e misurabile, la
loro vita sociale.
Per dimostrarlo non bisogna però limitarsi a chiedere a qualcuno se usa o
meno Facebook e qual è il suo stato d’animo.182 Perché, per esempio, esiste
una particolare forma d’ansia, l’ansia da Facebook, che ne limita l’uso. In
questi soggetti si riscontra una correlazione tra «più uso di Facebook» e
«meno ansia».183 Bisogna dunque adottare un estremo rigore metodologico
per descrivere con precisione cause ed effetti. Solo così le correlazioni
statistiche possono condurci a risultati validi che, a loro volta, possono
rappresentare la base per una più chiara interpretazione di altre correlazioni
statistiche.
Ormai sono tanti gli studi scientifici che hanno dimostrato che l’uso dei
social media rende depressi.
In una ricerca che ha coinvolto 82 ragazzi e ragazze di appena 20 anni è
stata approfondita, con la strategia del time sampling, la relazione tra l’uso
di Facebook e lo stato d’animo soggettivo.184 I soggetti coinvolti nel test
venivano contattati tramite sms cinque volte al giorno per 2 settimane, a
orari non prestabiliti, affinché riferissero circa il loro stato d’animo nel
momento dato e il livello di soddisfazione nella vita in generale. Inoltre si
chiedeva loro quante volte avessero utilizzato Facebook dal momento
dell’ultimo sms. Si è riscontrato un diretto influsso negativo di Facebook
sullo stato d’animo immediatamente successivo al suo utilizzo (grafico 5.3).
Non è stato riscontrato invece l’influsso inverso, ossia che una situazione di
benessere ridotto portasse a un maggiore uso di Facebook.
5.3: L’uso di Facebook fa peggiorare l’umore e riduce il senso di soddisfazione nella vita.

Anche da uno studio condotto in Belgio su 910 giovani è stata registrata


una correlazione tra l’uso di Facebook e la depressione, ma solo tra le
ragazze.185 Sono loro peraltro a utilizzare maggiormente i social media
(mentre i ragazzi giocano più a videogiochi violenti). Anche uno studio
britannico dell’Office for National Statistics mostra che, soprattutto nei
bambini e negli adolescenti che in un normale giorno di scuola trascorrono
circa 3 ore sui social network, si riscontra un rischio sensibilmente
maggiore di sviluppare una depressione rispetto ai bambini e agli
adolescenti che non usano i social media.186 Allo stesso risultato è pervenuto
uno studio canadese che ha coinvolto 753 alunni con un’età media di 14
anni.187
Alle stesse conclusioni sono giunti gli studi tedeschi che hanno indagato
gli effetti negativi dell’uso di Facebook. Tutti terminano con la stessa
domanda: perché, nonostante tutto, questo social network continua a essere
usato così tanto? In un primo studio, che ha coinvolto 123 studenti tedeschi
(71 adulti maschi, età media 22 anni), si è scoperto che un uso intensivo di
Facebook fa peggiorare l’umore. Un secondo studio con 263 partecipanti di
lingua inglese (163 donne, età media 34 anni) ha dimostrato che Facebook è
realmente la causa di tale effetto negativo, legato alla sensazione di aver
sprecato il proprio tempo con un’attività in fondo insignificante.
Quest’ultimo punto è stato confermato da un terzo studio condotto su 101
soggetti (53 uomini, età media 31 anni). Sebbene i partecipanti allo studio si
sentano peggio dopo aver usato Facebook e abbiano la sensazione di aver
sprecato il proprio tempo in un’attività futile, continuano comunque a
usarlo. Il motivo? Fraintendono la valutazione degli effetti di Facebook sul
proprio umore. Se si chiede loro, prima dell’utilizzo di Facebook, come
pensano che si sentiranno dopo averlo usato, rispondono che si sentiranno
meglio. In realtà si sentono peggio. Commettono dunque un errore di
previsione rispetto al loro stato d’animo (affective forecasting error).188
In un ampio studio longitudinale rappresentativo per gli Stati Uniti,
strutturato in tre momenti di indagine (2013, 2014 e 2015) e condotto su
5206 soggetti, si è scoperto che l’uso di Facebook è legato a un calo del
benessere soggettivo. Rispetto allo scarto tipo (o deviazione standard) fra
tutti i partecipanti, chi mette più like presenta una salute psichica inferiore
del 5-8 percento. Al contrario, incontri sociali reali producono un
miglioramento della salute psichica o nessuna variazione. Sappiamo da
tempo (cfr. capitolo 1) che le persone si sentono meglio quando sono in
compagnia rispetto a quando sono sole. Sarebbe quindi dimostrato che l’uso
di Facebook ha un effetto doppiamente negativo sulla nostra salute
psichica!189
Nel 2015 lo psicologo Jesse Fox e la pediatra Jennifer Moreland,
entrambi dell’Ohio, hanno pubblicato uno studio basato su interviste a
utenti di Facebook.190 È emerso che tutti gli intervistati avevano già avuto
esperienze negative con il social network: dipendenza, mancanza di privacy,
problemi di coppia, gelosia, esposizione a contenuti offensivi e continua
necessità di misurarsi con gli altri utenti. Dentro Facebook siamo molto
esposti come individui (non ci muoviamo nell’anonimato, come accade in
altri luoghi della rete), e non riceviamo solo like, ma anche critiche; è
difficile cancellare i contenuti, che vengono diffusi anche da altri utenti.
Esperienze del recente e recentissimo passato ci hanno mostrato che
Facebook è il social network più utilizzato per fare mobbing o stalking.
Pochissimi utenti se ne rendono conto, ma alla lunga questo utilizzo ha
ripercussioni negative sull’umore e sulle relazioni di coppia.
In un lavoro pubblicato di recente con il titolo The power and the pain of
adolescents’ digital communication, gli psicologi Marion Underwood e
Samuel Ehrenreich, della University of Texas di Dallas, riassumono così la
problematica dei social network: «Gli psicologi devono comprendere
meglio i rischi sottili e potenzialmente gravi che i giovani corrono: l’agonia
cui sono sottoposti quando cadono vittima anche di un solo attacco di
cyberbullismo, la dolorosa esclusione sociale e gli assillanti paragoni, che
vengono alimentati dalla lettura pressoché infinita di post sui social
network. Vedono gli amici che fanno determinate cose senza di loro e
confrontano la propria esperienza emotiva con quella di una vita
all’apparenza meravigliosa raccontata da altri in messaggi che generalmente
edulcorano la realtà».191
In un ampio esperimento condotto in Danimarca, 1092 partecipanti sono
stati divisi con criterio casuale in due gruppi, uno dei quali doveva
rinunciare completamente a Facebook per una settimana. Alla luce di
quanto detto finora, non ci meraviglia che il risultato dell’esperimento sia
stato che i partecipanti che avevano rinunciato a Facebook abbiano
presentato un consistente miglioramento dell’umore, del livello di
soddisfazione nella vita e perfino del livello di soddisfazione rispetto ai
propri rapporti sociali.192

...e divorzio da Twitter


I social media possono mettere a rischio le relazioni di coppia ed essere
quindi i responsabili diretti della solitudine. Questa triste verità è stata resa
nota per la prima volta nel 2012, nell’ambito di un sondaggio condotto con
dei divorzisti britannici:193 in un divorzio su tre, un ruolo importante era
stato svolto da contrasti e litigi sui social media. Facebook e Twitter
servivano come strumento di controllo, i post del partner venivano messi in
discussione, per non parlare di quando si trovavano immagini
compromettenti. Già nel 2010 un sondaggio condotto con divorzisti
americani (American Academy of Matrimonial Lawyers; AAML) aveva
rivelato che l’80 percento degli avvocati utilizzavano dati tratti dai social
media, primo fra tutti Facebook, come prove per le cause di divorzio.
Nel 2011 in un’indagine condotta negli Stati Uniti, sono stati interrogati
205 utenti di Facebook194 maggiorenni sulle loro abitudini di utilizzo e sulla
qualità della loro relazione di coppia. I partecipanti hanno dovuto
rispondere a domande specifiche rispetto a tradimenti (reali o desiderati),195
rottura della relazione e divorzi. Il risultato: più aumenta l’uso di Facebook,
più frequenti sono tradimenti e separazioni.196
Tale risultato riguarda in particolare relazioni che durano da meno di tre
anni ed è provocato da conflitti generati dall’uso di Facebook. Non tutte le
coppie hanno Facebook e non tutte le coppie che hanno Facebook sono
infedeli. Ma Facebook può ricoprire un ruolo significativo nelle dinamiche
di coppia, tradimenti inclusi.197
Lo stesso vale per Twitter.198 In uno studio dal titolo significativo The
thirdwheel: the impact of Twitter use on relationship infidelity and divorce,
sono stati intervistati 581 utenti di Twitter di età compresa tra i 18 e i 67
anni circa la qualità della loro relazione di coppia. Quanto più spesso
usavano Twitter, tanto più alto era il numero di conflitti, cosa che a sua
volta portava a un maggior numero di tradimenti, separazioni e divorzi.

Social media: insieme ma soli


Insieme ma soli è il titolo di un libro pubblicato dalla sociologa Sherry
Turkle, del Massachusetts Institute of Technology.199 Con questo libro
Turkle già da anni ha puntato l’attenzione su un paradosso: la connettività
digitale non è direttamente proporzionale a un incremento della percezione
di connessione sociale. Al contrario: l’autrice ha intervistato giovani uomini
e donne sulle loro abitudini di socializzazione digitale, arrivando già nel
2010 alla conclusione che i giovani dedicano più tempo agli amici nel
mondo virtuale che agli amici «veri» nel mondo reale. È facile dedurre
quali possano essere le ricadute di questa tendenza, se si pensa a quanto
abbiamo detto nei primi due capitoli.
Come è stato spiegato nel capitolo 1, l’uomo è un animale estremamente
sociale, e fa parte della sua natura avere bisogno della comunità. Nel
capitolo 2 abbiamo invece sottolineato che l’uomo reagisce con dolore alla
condizione di solitudine. Se i media si frappongono concretamente tra gli
uomini e impediscono i contatti reali – producendo a loro volta solitudine –
la cosa potrebbe ripercuotersi, nel lungo periodo, sullo stato di salute degli
individui. Le più recenti scoperte scientifiche dimostrano esattamente
questo: i social media provocano solitudine, ansia e depressione. Questa
constatazione è significativa e preoccupante allo stesso tempo, perché oggi i
social network occupano un posto rilevante nell’articolazione della
quotidianità dei giovani.
In uno studio pubblicato all’inizio del 2017 sull’American Journal of
Preventive Medicine, sulla base di un sondaggio a campione che ha
coinvolto 1787 adulti di età compresa tra i 19 e i 32 anni, gli autori hanno
analizzato la correlazione tra il sentimento di solitudine e l’utilizzo dei
social media.200 Sono stati misurati sia la frequenza di accesso a un totale di
undici social media – Facebook, Twitter, Google+, YouTube, LinkedIn,
Instagram, Pinterest, Tumblr, Vine, Snapchat e Reddit – sia il tempo
trascorso su di essi. Nel contempo, tramite alcune domande, veniva
misurato il sentimento di solitudine.201 I partecipanti sono stati quindi divisi
in tre gruppi, costituiti in base alla solitudine percepita: poco soli (42
percento), mediamente soli (31 percento) e molto soli (27 percento). In
media, i soggetti usavano i social trenta volte alla settimana; nell’ambito
dello studio, 61 minuti al giorno circa. Solo 58 persone (3,2 percento) non
usavano alcun social media.
Se si osservano queste due variabili (solitudine percepita e uso di social
network) ne risulta una chiara correlazione: quanti usano i social media più
di 2 ore al giorno presentano una probabilità doppia di sentirsi soli rispetto a
quanti li usano per meno di mezz’ora al giorno. Si è pervenuti allo stesso
risultato non solo tenendo conto della durata di utilizzo, ma anche
considerando il numero di accessi: quanti accedono ai social network più
spesso di 58 volte alla settimana presentano una probabilità triplicata
(fattore 3,4) di sentirsi soli rispetto a coloro che vi accedono meno di nove
volte. Anche includendo nell’analisi i dati relativi a istruzione, età e sesso
dei partecipanti, rimane netto e chiaro il legame, statisticamente
significativo, tra l’uso dei social network e la percezione di solitudine.
Le correlazioni statistiche di per sé non ci dicono nulla su causa ed
effetto. Può essere che le persone sole tendano a optare per i social network.
Ma può essere vero anche il contrario. Da un lato, a causa dell’utilizzo dei
social network si ha meno tempo per i contatti reali; dall’altro, può maturare
un senso d’invidia per le persone con tanti amici sui social, nonché di
frustrazione quando ci si paragona a loro (dimenticando che quanto viene
pubblicato sui social non sempre è conforme a verità).202 Le foto, poi,
amplificano a dismisura questi effetti. Se una foto parla veramente più di
mille parole, gli effetti dei social media saranno allora tanto più forti quanto
più i social sono incentrati sulle foto. E in effetti, se si leggono con
attenzione i pochi studi sull’argomento, sembra che le cose vadano proprio
così. Un’indagine online condotta su 117 giovani di età compresa tra i 18 e i
29 anni ha rivelato l’esistenza di una correlazione tra l’utilizzo di Instagram
e la presenza di sintomi depressivi, correlata a sua volta anche con il
numero di contatti Instagram con persone sconosciute.203
Il continuo confronto con gli altri, l’orientamento sociale «verso l’alto» e
l’insicurezza sono elementi caratteriali che rendono il soggetto
maggiormente incline agli effetti negativi dei social media sullo stato di
salute psichica.204
Oggigiorno si parla anche di uso problematico dei social media,
probabilmente per sottolineare che esiste anche un uso non problematico,
che non deve destare preoccupazione. Che è un po’ come dire «non c’è
bisogno di preoccuparsi del consumo di alcol tra i giovani, ma solo del suo
consumo problematico». Questa affermazione non ha senso perché l’alcol è
di base nocivo per bambini e ragazzi e perché un presunto consumo non
nocivo si trasforma spesso in un consumo nocivo.205
È interessante vedere quanto impegno profondano alcuni autori nel
riportare le loro scoperte sugli effetti nocivi dei social media, senza riuscire
a spiegarsi in un linguaggio comprensibile a tutti: parlano di «modelli di
equazioni strutturali» che «mostrano una correlazione tra uso di Facebook e
benessere», senza spiegare che tutto ciò è negativo.206
Lo stesso linguaggio criptico si trova in un’analisi della letteratura
scientifica relativa a social network, depressione e ansia.207 Dei ventidue
articoli considerati su ansia e depressione e su possibili moderatori
dell’interazione, otto descrivono una correlazione significativa tra uso di
social media e depressione, tre una correlazione tra uso di social media e
ansia. Quasi il doppio di questi studi mostra le stesse correlazioni, ma solo
da un punto di vista numerico, ovvero senza indicarne la significatività
statistica. Non si trovano studi che descrivano una correlazione tra un uso
maggiore di social media e un minore livello d’ansia.208 Il risultato dovrebbe
essere chiaro: i social media nuocciono alla salute psichica. E cosa scrivono
gli autori nella discussione conclusiva della loro analisi? L’esatto contrario:
«I social network rappresentano una nuova e discreta via per osservare e
influenzare in tempo reale la salute psichica e le informazioni sul benessere
di una persona in un contesto naturale; essi posseggono in fondo il
potenziale per avere effetti positivi sulla salute psichica».209 Una
discussione critica dei dati dovrebbe esprimere tutt’altro!

Contagio emotivo tramite Facebook


Dall’avvento dei social network come Facebook o Twitter, è tornato a
crescere l’interesse per il fenomeno del contagio sociale (cfr. capitolo 3).
Infatti, attraverso la valutazione e soprattutto la manipolazione di grandi
quantità di dati, il contagio sociale può essere non solo descritto da un
punto di vista statistico, ma anche studiato con metodi sperimentali. La
caratteristica degli esperimenti è che consentono di pronunciarsi su cause ed
effetti, sono cioè immuni alla critica che spesso viene rivolta alla statistica
di essere una disciplina con cui si può «dimostrare tutto».
Da questo punto di vista, acquista una particolare rilevanza uno
straordinario esperimento condotto su un totale di 689.003 utenti di
Facebook da Adam Kramer, uno scienziato del Core Data Science Team di
Facebook, in collaborazione con i ricercatori della Cornell University, nello
Stato di New York. Per una settimana, agli utenti coinvolti nell’esperimento
sono state mostrate delle bacheche manipolate, contenenti status modificati
degli amici. Una parte degli utenti vedeva principalmente status positivi,
l’altra principalmente negativi. Questo vuol dire che non solo sono state
spiate quasi 700.000 persone ignare, ma che sono state anche manipolate
emotivamente. Per sapere se la manipolazione funzionava davvero, è stato
registrato per ciascun utente l’uso di parole che esprimevano contenuti
emotivi. Il risultato: l’esperimento ha funzionato; attraverso i social media
ci lasciamo effettivamente contagiare dall’umore degli altri.210

Crisi di fiducia da smartphone


La fiducia è una delle colonne portanti della soddisfazione, della felicità e
della salute di un individuo, nonché di una comunità funzionante dal punto
di vista economico e sociale, come viene sottolineato dalle scienze umane:
sociologia, filosofia, economia, medicina... La fiducia nasce
dall’interazione funzionante tra persone estranee: chiedere indicazioni,
comprare un caffè o un gelato sono tutti mattoncini su cui si costruisce il
nostro vivere insieme. Milioni di piccole azioni di questo tipo, compiute
ogni giorno, sono il terreno fertile su cui cresce una generale fiducia, che
può avere livelli più o meno elevati. In Norvegia, per esempio, non solo la
vita è perfettamente organizzata, ma anche il livello di fiducia reciproca è
molto alto. Il sistema funziona però soltanto quando ciascuno di noi si
attiene alle regole del gioco. È molto facile minare la fiducia, molto difficile
ricostruirla. Per questo è importante conoscere bene la natura di questo
collante sociale. Senza fiducia molte cose non funzionano o richiedono uno
sforzo di gran lunga maggiore.
Se in una società la fiducia reciproca è costruita sulle interazioni felici,
ogni conquista tecnica che riduce la frequenza di tali contatti va a scalfire
questo fondamento. È proprio a questo punto che entra in gioco lo
smartphone, perché attraverso un’elaborazione di informazioni possibile
sempre e ovunque (nelle aree di lingua inglese si parla di ubiquitous
computing) si riduce il numero di contatti tra persone, contatti che ogni
giorno ci ricordano e ci fanno sperimentare l’interdipendenza dei membri di
una comunità. Prima facevamo acquisti nei negozi, andavamo in banca e
per strada chiedevamo indicazioni a uno sconosciuto. L’online-shopping,
l’online-banking, l’orientamento tramite GPS sono strumenti che oggi ci
permettono di fare acquisti e orientarci senza entrare in contatto con altre
persone. A ciò si aggiungono le chat, i post, gli sms e le mail, tutti a
sostituire la comunicazione diretta e il tempo libero passato con altre
persone, sempre più sostituito dai media. Ne deriva una riduzione delle
relazioni interpersonali che, in una società sana, portano all’esperienza di
appartenenza e condivisione,211 facilitano la costruzione di fiducia e
contribuiscono così alla salute futura di una società.
Per mezzo dei dati relativi a 2187 partecipanti alla sesta World Values
Survey (età media 46 anni), gli scienziati degli Stati Uniti e del Canada
hanno provato a verificare i trend in atto. Ai partecipanti è stato chiesto
quanto spesso consultassero le fonti di informazione a disposizione
(telefono, giornali e riviste, telegiornale, radio, mail, internet, conoscenti e
amici): 1) quotidianamente, 2) settimanalmente, 3) mensilmente, 4) meno di
una volta al mese, 5) mai. Inoltre, è stato chiesto loro quanta fiducia
riponessero nei diversi gruppi della società (la propria famiglia, i propri
vicini di casa, i conoscenti, le persone che incontravano per la prima volta,
le persone di altra appartenenza religiosa e le persone di altra nazionalità: 1)
fiducia totale, 2) fiducia parziale, 3) scarsa fiducia, 4) nessuna fiducia. Sono
stati registrati infine i dati demografici (età, sesso, istruzione ecc.). Ne è
risultata una correlazione tra l’uso degli smartphone e una più scarsa fiducia
verso i vicini, gli estranei e le persone di altra religione o nazionalità. Non
vi è alcuna correlazione invece con la fiducia nei confronti di conoscenti e
amici.
Ora, si potrebbe pensare che anche le persone che si informano tramite
televisione, radio, giornali o internet (generalmente si tratta di brutte notizie
su crimini, guerra e terrorismo) tendano ad avere meno fiducia nei confronti
degli sconosciuti. Ma questo studio ci dice che non è così! Al contrario: chi
si informa attraverso i canali elencati ha più fiducia negli sconosciuti.
Variabili demografiche come età, sesso e istruzione non influiscono sul
risultato. Anche la provenienza (dalla città o da zone rurali) non spiega
l’effetto-smartphone sulla fiducia. Allo stesso modo, si è potuto escludere
un rapporto inverso di causa-effetto (chi ha meno fiducia negli estranei usa
preferibilmente lo smartphone per informarsi).
Concludiamo con le parole degli autori: «Tutti gli esseri viventi provano
a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Il principio dello
sforzo minimo si è affermato come uno dei principi comportamentali
cardine nella ricerca di informazioni. Nella misura in cui le moderne
tecnologie d’informazione ci rendono la vita sempre più facile, le nostre
scoperte ci mostrano i possibili costi imprevisti di questo accesso alle
informazioni sempre e ovunque: orientandosi all’utilizzo di comodi
apparecchi elettronici, le persone rischiano nel contempo di rinunciare alle
possibilità di consolidamento della fiducia, il lubrificante della nostra
società».212
Chi ha meno fiducia negli altri è più solo. Anche in questo modo – oltre
che con una diretta riduzione dei contatti sociali, un aumento dei casi di
depressione e di crisi nelle relazioni di coppia – l’uso degli smartphone
potrebbe portare a una maggiore solitudine.

Riassumiamo
Due miliardi di utenti in tutto il mondo trascorrono milioni di ore al giorno
su Facebook. Usano questo e altri social network molto probabilmente
perché vi vedono la promessa di una migliore vita sociale. In fondo la
comunicazione, i legami e la comunità sono per l’uomo tra le fonti
principali di benessere. Contrariamente alle aspettative, l’uso di Facebook e
di altri social media porta tuttavia a un livello più basso di soddisfazione
nella vita; la fiducia reciproca svanisce, mentre crescono la depressione e la
solitudine. Inoltre, i social network intossicano le relazioni di coppia
provocando talora separazioni e divorzi. L’incrinarsi (interferenza) delle
relazioni di coppia a causa delle tecnologie dell’informazione ricorre oggi
così spesso che gli si è dato un nome specifico: technoferenza. Perché?
I social media stanno ai rapporti interpersonali reali come i popcorn
stanno alla sana alimentazione: ci si aspetta di provare gioia tra amici, e ciò
che si ottiene in verità è solo aria fritta.
Il mondo reale è im-mediato: ognuno può verificarlo provando a passare
attraverso una porta chiusa, a mangiare una mela marcia o a tuffarsi
nell’acqua gelida. La realtà oppone resistenza. La differenza tra il mondo
reale e il mondo virtuale è ancora più evidente nella sfera sociale: tra i
contatti virtuali e un approccio diretto alle altre persone – senza schermi e
casse acustiche – c’è una differenza colossale. Quanto sia significativa la
differenza tra la presenza diretta e la presenza virtuale ce lo dimostra un
esempio pratico tratto dalla vita lavorativa delle multinazionali: nulla può
sostituire il contatto diretto con un collaboratore, con il rappresentante di
un’azienda partner o con il cliente.
Quel che vale per l’economia, e che può avere costose conseguenze di
cui occorre essere consapevoli, vale a maggior ragione per i contatti privati.
Chi, per motivi di «efficienza», trascorre il proprio tempo sui social
network invece di incontrare le persone «dal vivo», deve sapere che in
questo modo sta mettendo a rischio la propria soddisfazione e, in ultima
istanza, la felicità. È lo stesso rischio che corre chi, per «motivi di
efficienza», si perde il sorriso del barista mentre beve il suo caffè, perché
non ha tempo per alzare lo sguardo. I tanti, piccoli incontri reali con
persone spesso assolutamente sconosciute sono il collante che tiene insieme
non solo la nostra vita, ma anche la nostra società. Perché allora così tante
persone accedono al loro account e sprecano il tempo con un’attività che
loro stesse (se glielo si chiede) descrivono come inutile? In fin dei conti
perché spesso non sanno cosa fa loro bene e cosa li rende felici. Credono
che staranno meglio quando si saranno loggate in un social network. In
verità stanno peggio. In particolare, e contro ogni aspettativa, i social
network non aumentano la quantità e qualità dei nostri contatti, ma ci
rendono più soli. È un fatto dimostrato.
Capitolo 6

La solitudine come fattore di rischio

La solitudine fa ammalare. Questa affermazione sorprenderà molti lettori


ma, dopo quanto ho esposto nel capitolo 4, è assolutamente evidente. La
solitudine infatti provoca stress, che sua volta si accompagna a una serie di
malattie frequenti, croniche e che sul lungo periodo possono rivelarsi
mortali. Ciò è ormai dimostrato anche da numerosi progetti di ricerca, che
studiano da un lato la solitudine, dall’altro le malattie o i loro sintomi.
La solitudine comporta una maggiore probabilità che si soffra di
pressione alta (ipertensione), disturbi del metabolismo (obesità, diabete) e
disturbi vascolari (ictus, coronaropatie e infarto), ma anche di disturbi del
sonno, depressione, patologie polmonari e malattie infettive.213 Il problema
della solitudine, peraltro, non è affatto appannaggio esclusivo dei paesi
occidentali. In Cina, per esempio, milioni di lavoratori agricoli sono
impiegati in città nel settore dei servizi. La solitudine rappresenta per loro
un problema scottante, la cui rilevanza dal punto di vista delle politiche
sanitarie non è stata ancora sufficientemente compresa e riconosciuta.214

La solitudine fa venire il raffreddore?


Se la solitudine provoca stress, e lo stress a sua volta indebolisce il sistema
immunitario, ne consegue che la solitudine dovrebbe favorire l’insorgenza
di malattie infettive. La connessione è stata ipotizzata già negli anni
Novanta, e in effetti è proprio così.215 Un esperimento ha studiato la
correlazione tra solitudine e predisposizione a contrarre un’influenza
virale.216 I lettori si sorprenderanno nel vedere con quali procedimenti i
ricercatori cercano di ottenere dati reali, cioè di escludere la presenza di
correlazioni spurie217 o di errori casuali.
In questo studio sperimentale, che ha coinvolto 276 soggetti sani (151
donne) di età compresa tra i 18 e i 55 anni, si è cercato di capire se la
solitudine comporti una maggiore predisposizione al raffreddore. Ogni
soggetto ha ricevuto 800 dollari per la sua partecipazione (vedremo subito
perché) e in una prima fase ha risposto a domande sulla sua rete sociale,
articolata in dodici differenti tipi di relazioni: 1) partner, 2) genitori,
3) suoceri, 4) figli, 5) altri parenti stretti, 6) vicini di casa, 7) amici,
8) colleghi di lavoro, 9) compagni di classe, 10) colleghi nell’ambito di
attività di volontariato, 11) membri di associazioni o organizzazioni
lavorative, 12) membri di comunità religiose. Se il soggetto del test aveva
parlato nelle ultime due settimane con un’altra persona appartenente a una
delle dodici categorie (contatto personale o telefonico), otteneva un punto,
per un massimo di 12.
Oltre a questo dato utilizzato per misurare la diversificazione della rete
sociale è stato registrato anche il numero di persone per ciascun tipo di
relazione (per esempio due genitori, tre figli, un vicino e cinque amici) e
dunque la dimensione della rete sociale di ciascun soggetto. Ogni soggetto è
stato quindi messo in quarantena per una settimana e, dopo un altro giorno
di osservazione, dopo essersi accertati che non vi fosse già in corso un
raffreddore e una volta espletate altre procedure medico-diagnostiche, è
stato infettato (ecco perché gli 800 dollari...) con uno dei due diversi tipi di
virus del raffreddore comune, attraverso delle gocce nasali. Una volta
contagiato, il soggetto ha dovuto riferire le sue percezioni relative al
raffreddore, che venivano poi verificate dai medici.
Si è delineata una chiara correlazione tra la diversificazione dei contatti
sociali di una persona e la probabilità di contrarre un raffreddore (grafico
6.1). Il numero di persone che vanno a costituire la rete sociale non ha
mostrato invece alcun effetto specifico. Anche altre variabili di controllo
non hanno spiegato, o lo hanno fatto solo in minima parte, gli effetti delle
relazioni sociali sull’insorgenza del raffreddore. Al contrario: la
correlazione tra rete sociale e raffreddore si è dimostrata ancora più forte
con l’introduzione di variabili di controllo.
6.1: Chi è più socievole starnutisce meno! Il grafico mostra la frequenza dell’insorgere di un
raffreddore dopo aver infettato i soggetti del test con un virus del raffreddore (valori medi ed
errori standard). L’effetto della diversificazione della rete sociale – nel grafico i soggetti sono
stati raggruppati per numero delle diverse relazioni sociali: basso (1-3), medio (-4-5), alto (=
6) – è significativo (p < 0,01).218

L’effetto qui osservato potrebbe essere stato trasmesso dal sistema


immunitario anche in un altro modo: quanto più diversi sono i contatti
sociali di una persona, tanto maggiore è la probabilità che il suo sistema
immunitario sia entrato in contatto con un virus del raffreddore e si sia
dunque già generata un’immunità. Il fatto che il fattore caratteriale
«estroversione» (quanto più è spiccato, tanto minore è la frequenza di
raffreddori) abbia mostrato lo stesso effetto della diversificazione della rete
potrebbe rinforzare questa ipotesi. Tuttavia, le due variabili sono correlate
(le persone estroverse hanno contatti sociali più diversificati) e inoltre il
fattore caratteriale estroversione, nelle rispettive analisi statistiche, non
spiega la correlazione tra la diversificazione della rete e l’insorgenza di un
raffreddore.
Si è potuta escludere tale ipotesi analizzando il siero di tutti i soggetti del
test per osservarne gli anticorpi contro il virus somministrato (si parla di
stato sierologico). Non si sono riscontrate differenze nella suddivisione
patologica di soggetti sieropositivi o sieronegativi. Anche il tipo di virus
non aveva alcun influsso. Gli autori dell’esperimento evidenziano con
chiarezza l’importanza di questa scoperta: «Di particolare interesse per
l’interpretazione dei nostri dati è il fatto che la diversificazione della rete e i
tassi di infezione del raffreddore sono distribuiti allo stesso modo in
relazione ai due tipi di virus e ai soggetti sieropositivi e sieronegativi (dato
rilevato prima della somministrazione del virus)».219 Le differenze dunque
non dipendevano da una diversa immunità dei soggetti, vale a dire dal fatto
che le persone sole abbiano meno contatti con gli altri e siano perciò meno
immunizzate. I risultati mostrano invece che la casualità si sviluppa nella
direzione prevista in linea teorica: dalla solitudine alla maggiore frequenza
di infezioni.
All’inizio dello studio era stata misurata anche la concentrazione di
adrenalina e di noradrenalina nel sangue. Quando l’intero gruppo di
partecipanti è stato suddiviso in due sottogruppi (valori sopra la media e
valori sotto la media), per entrambi gli ormoni di stress è risultato che, nei
soggetti con concentrazioni sopra la media, il rischio di contrarre un
raffreddore era maggiore. Anche questo risultato conferma l’interpretazione
dei dati. Poiché inoltre nel 99 percento dei soggetti del test è stata
riscontrata un’infezione (non in tutte le persone infette si presenta il
raffreddore), non ci sono altre spiegazioni possibili (soprattutto per il
gruppo di soggetti risultati sieronegativi al virus usato). Ripetiamo: la
solitudine provoca stress e innalza in maniera comprovata il rischio di
prendersi un raffreddore o di contrarre altre malattie infettive.

Pressione alta
La pressione alta (ipertensione arteriosa) è una malattia strana, perché
inizialmente non provoca sintomi significativi. Perfino quando ci alziamo di
scatto dal letto o da una posizione accovacciata, non ci gira la testa e non ci
si oscura la vista. Con il passare degli anni però la pressione alta porta a
patologie vascolari e disturbi della circolazione, che possono avere
ripercussioni negative su quasi tutte le aree del nostro corpo: dalla vista ai
reni. Più frequenti sono comunque i disturbi circolatori nel cuore e nel
cervello, per cui una pressione troppo alta è causa del 20 percento circa dei
decessi (dati degli Stati Uniti).
La correlazione statistica tra solitudine e pressione alta è stata dimostrata
più di dieci anni fa con uno studio su 229 persone di età compresa tra i 50 e
i 68 anni.220 Quanto più sola era la persona, tanto più alta era la pressione
arteriosa misurata,221 laddove tale correlazione non era riconducibile a
fattori demografici come età, sesso, etnia, reddito, istruzione e nemmeno ad
altri fattori di rischio (consumo di alcol e/o tabacco, peso, assunzione di
determinati medicinali). Sappiamo che la solitudine è strettamente legata
all’esperienza di depressione, stress, ambiente ostile e ridotto sostegno
sociale: per questo è significativo che, una volta registrati questi fattori, si
sia riscontrato che la solitudine ha un effetto ulteriore, indipendente da essi.
I pazienti dello studio sono stati seguiti e analizzati per un periodo di
osservazione complessivo di quattro anni. Attraverso specifiche procedure
di analisi delle serie storiche contestualmente rilevate, si è potuto
dimostrare che a partire dai casi di solitudine registrati all’inizio dello
studio si era in grado di predire un aumento della pressione arteriosa nel
corso dell’esperimento.222 Anche se in un primo momento gli effetti
sembrano essere minimi – l’aumento della pressione era di pochi millimetri
di mercurio223 –, essi si vanno ad assommare nel corso degli anni.
Che tali effetti siano di fatto rilevanti dal punto di vista clinico, lo
suggeriscono le seguenti considerazioni: mantenendo statisticamente
costanti l’età e altre variabili accessorie, un aumento di 10 punti (che
corrisponde a una deviazione standard) sulla scala della solitudine (60 punti
totali) corrispondeva a un aumento della pressione sistolica di 5 mmHg. Se
si tiene conto che tra il ventesimo e il sessantesimo anno la pressione
arteriosa aumenta in media di 1 mmHg ogni due anni,224 5 mmHg
corrisponderanno a un «invecchiamento precoce» (per quanto riguarda la
pressione) di dieci anni.
Quanto siano importanti queste scoperte rispetto alla correlazione tra
solitudine e pressione è mostrato anche dalla seguente considerazione: le
persone che, sulla scala della solitudine, si collocavano nell’ultimo terzo,
avevano una pressione arteriosa da 10 a 30 mmHg più alta rispetto alle
persone che non lamentavano un sentimento di solitudine. Se si calcola che
una differenza nella pressione di 20 mmHg comporta un raddoppiamento
del rischio di infarto o ictus (come ha mostrato la metanalisi sul decorso
della malattia con circa un milione di pazienti),225 l’effetto di una solitudine
manifesta (ultimo terzo) sulla pressione arteriosa si inserisce appieno nel
quadro di tali patologie. E poiché le conseguenze dell’ipertensione
mostrano un incremento lineare, anche effetti minimi hanno un’ampia
rilevanza sul piano sociale. Per dirla in altre parole: anche delle piccole
variazioni nella solitudine di ciascun individuo hanno ripercussioni
importanti se moltiplicate per milioni di persone.

Infarto e ictus
L’infarto cardiaco e l’ictus sono classificati come malattie cardiovascolari.
Cambiamenti nelle pareti delle arterie (ovvero dei vasi sanguigni che
trasportano ai vari organi sangue ricco di ossigeno e sostanze nutritive)
provocano irrigidimenti e ostruzioni che possono condurre a un
malfunzionamento della circolazione. Si parla in questo caso di
arteriosclerosi (dal greco skleros, «rigido»). Quando i disturbi della
circolazione diventano acuti e colpiscono i vasi che riforniscono il muscolo
cardiaco, si parla di infarto. Quando interessano i vasi che riforniscono il
cervello, parliamo di ictus.
Diverse ricerche hanno come tema la correlazione tra solitudine o
isolamento sociale da un lato e fenomeni cardiovascolari dall’altro.
Valutandole nel loro insieme otterremo una metanalisi.
Questo è stato fatto selezionando 23 ricerche (condotte in Europa, Stati
Uniti, Giappone e Australia), che hanno permesso di valutare un totale di
4628 casi di infarto e 3002 casi di ictus. Tutti i partecipanti avevano
risposto a domande sulla frequenza e sulla qualità delle loro attività sociali
e dei loro contatti sociali, nonché sul sentimento di solitudine, e sono stati
poi seguiti per un periodo di tempo oscillante dai tre ai ventuno anni, per
controllare se avessero subito un infarto o un ictus, o se ne erano addirittura
morti.226 Contatti sociali ridotti (poor social relationships) si sono rivelati
un fattore di rischio sia per l’infarto (incremento del rischio del 29
percento) sia per l’ictus (incremento del rischio del 32 percento), senza
distinzione di genere. I dati sull’incremento del rischio di infarti e ictus a
causa della solitudine corrispondono all’incremento del rischio provocato
da fumo, ansia e stress lavorativo. La solitudine è un fattore di rischio
addirittura più grande dell’obesità, e questo vale nuovamente sia per gli
uomini sia per le donne.
Come ha dimostrato l’analisi dei dati ricavati da uno degli studi più noti
e di maggiore durata sullo sviluppo umano, anche bambini e ragazzi soli
manifestano, quando diventano giovani adulti, un rischio maggiore di
malattie cardiovascolari (aumento di peso corporeo, pressione e
colesterolo). Nell’ambito di uno studio longitudinale neozelandese sono
stati registrati in una città tutti i nati tra l’autunno del 1972 e la primavera
del 1973 (1037 neonati). Per i successivi ventisette anni, queste stesse
persone sono state contattate, intervistate e in parte anche sottoposte ad
analisi a intervalli di alcuni anni,227 per stabilire il loro stato di salute e come
evolvesse la loro vita. Lo studio ha come titolo Socially isolated children 20
years later,228 e attraverso di esso è stato dimostrato che i bambini e i
giovani soli presentano un incremento del 37 percento del rischio di
sviluppare malattie cardiovascolari, indipendentemente da altri fattori di
rischio noti, come lo stress dovuto a episodi di vita sfortunati, povertà, QI
basso, sovrappeso fin da bambini, mancanza di movimento e consumo di
alcol e tabacco.
La solitudine ha dimostrato un effetto sorprendentemente negativo sui
giovani adulti anche rispetto allo stato di salute complessivo, registrato per
un periodo di osservazione di oltre trent’anni: il rischio di malattia
(qualsiasi malattia) cresceva del 158 percento rispetto ai partecipanti che
nell’infanzia e nella giovinezza non avevano sofferto di solitudine.

Cancro
Come è stato recentemente dimostrato attraverso una serie di ricerche, la
solitudine ha un effetto negativo sul sistema immunitario e quindi anche
sull’insorgenza e sul decorso del cancro. Da un’ampia metanalisi che ha
selezionato in tutto 87 studi sulla correlazione tra sostegno sociale percepito
(l’opposto della solitudine) e forme tumorali è risultato un incremento del
25 percento del rischio di morire di cancro in chi soffre di solitudine. Una
rete sociale più ampia riduce lo stesso rischio del 20 percento e lo stato di
famiglia «sposato/a» del 12 percento. Questo, in linea di principio, riguarda
qualsiasi forma di tumore.229 Inoltre, lo stato di famiglia «separato/a» o
«vedovo/a» si è dimostrato più favorevole rispetto a quello di «mai
sposato/a» (never married) e le correlazioni tra rete sociale e morte per
cancro sono più forti nel caso di giovani pazienti. Particolarmente evidente
è la correlazione nel caso di pazienti affetti da leucemia (cancro del sangue)
e linfomi (cancro alle ghiandole linfatiche).
L’ampiezza della rete sociale ha mostrato un effetto particolarmente
positivo nei pazienti leucemici. Poiché, inoltre, l’ormone dello stress
cortisolo è un fattore importante nello sviluppo delle ghiandole mammarie
delle donne, è sembrato ovvio procedere ad analizzare lo sviluppo del
cancro al seno, al fine di caratterizzare con più precisione l’influsso dello
stress cronico sulla malattia. D’altronde, il cancro al seno è la tipologia di
tumore più frequente nelle donne e questo è uno dei motivi per cui è
maggiormente studiato: una più approfondita comprensione della malattia
ha una grandissima rilevanza per la salute di molte persone.
Già nel 2003, grazie a un ampio studio epidemiologico condotto in
Finlandia230 cui hanno partecipato 10.808 donne, sono state evidenziate
correlazioni tra esperienze di vita traumatiche e l’insorgenza di un tumore:
una separazione o un divorzio raddoppiano la probabilità di insorgenza (di
2,26 volte), e lo stesso vale per la morte del partner (esattamente 2 volte),
mentre la morte di un amico caro o di un parente stretto fa crescere la
probabilità del 35 percento, indipendentemente dal numero complessivo di
esperienze traumatiche. Studi ulteriori hanno prodotto risultati simili,231
mentre altri non sono riusciti a confermare tali dati,232 per cui continua a
esserci incertezza sulle effettive ripercussioni di eventi traumatici e luttuosi
sulla salute. Revisioni della letteratura scientifica sull’argomento
evidenziano che perdite gravi (la morte del partner o di un figlio) hanno un
effetto maggiore a confronto dello stress lavorativo o a quello di allevare un
figlio.233
In un lavoro del 2016 che richiama il titolo di una nota canzone dei
Beatles, Breast Cancer and Social Environment: Getting by With a Little
Help From Our Friends,234 vengono discussi analiticamente i meccanismi e
i fattori responsabili della mortalità per cancro in condizione di solitudine.
Per molto tempo si è creduto che pazienti soli malati di cancro morissero
prima perché ricevevano meno aiuti «strumentali» e dunque la loro terapia
non funzionava bene: non avevano nessuno che li accompagnasse dal
medico, che procurasse loro delle medicine o che controllasse che le
assumessero, tutti motivi pratici, insomma...
Ma gli esperimenti sull’isolamento sociale condotti su ratti e topi tenuti
in gabbia da soli o in gruppo hanno fornito le migliori prove del fatto che la
solitudine agisce molto più in profondità rispetto a queste riflessioni sulla
mancanza di aiuti pratici: l’isolamento sociale provoca in queste cavie un
aumento della crescita tumorale e una maggiore malignità del tumore.235
Invece non cresce la probabilità di sviluppare un tumore. Solo nel momento
in cui si sviluppa un tumore, si assiste a una crescita maggiore e a uno
sviluppo della malattia orientato verso una maggiore malignità e produzione
di metastasi.
Nel marzo 2017 è stato pubblicato un ampio studio sulla correlazione tra
cancro e isolamento sociale che raccoglie dati di 16.044 persone intervistate
tra il 1988 e il 1994 (e che nel 1988 avevano almeno 17 anni) e osservate
per i successivi diciassette-ventitré anni.236 In questo lasso di tempo, 1133
persone erano morte di cancro: poiché si trattava di un campione
rappresentativo, lo studio ha permesso di elaborare considerazioni valide
per tutti gli Stati Uniti. Il risultato più importante dello studio è stato, ancora
una volta, scoprire che l’isolamento sociale ha come conseguenza un
aumento del 25 percento della probabilità di morire di cancro. Tale risultato
si accorda molto bene con quanto esposto sopra riguardo la metanalisi. Sia
l’effettivo isolamento sociale sia le esperienze soggettive di solitudine
incrementano la probabilità di morire di cancro.

Malattie psichiche
Ovunque, la solitudine è il problema per eccellenza dei soggetti affetti da
malattie psichiche, anche perché malattie psichiche e solitudine
costituiscono spesso un circolo vizioso e si rafforzano a vicenda (figura
6.2): da un lato, la malattia provoca un sentimento di solitudine, dall’altro,
le esperienze di solitudine possono concorrere all’insorgere della malattia o
a intensificarne gli effetti.
6.2: Malattie psichiche e solitudine costituiscono spesso un circolo vizioso.

A ciò si aggiunga che le malattie psichiche possono contribuire alla


condizione oggettiva di isolamento sociale in duplice maniera: chi è
depresso, chi soffre di manie di persecuzione o soffre di una qualche
dipendenza (per fare solo alcuni esempi) tende a isolarsi, evita le relazioni
con gli altri e prova fastidio o addirittura paura, al contatto con altre
persone. Allo stesso tempo, come già Immanuel Kant sottolineava, la
perdita del senso di comunità (sensus communis) è un tratto essenziale dei
disturbi psichici. Le persone che ne soffrono appaiono meno «socievoli» e
per questo gli altri si allontanano. L’isolamento sociale dei soggetti che
soffrono di malattie psichiche è provocato da entrambe le parti in gioco: dal
malato (che a causa della sua malattia non vuole avere a che fare con le
persone sane) e dal soggetto sano, cui il malato appare «sulle difensive»,
«strano» o addirittura «aggressivo».
Non c’è da meravigliarsi quindi che una rete sociale (troppo) limitata,
pochi contatti sociali e l’esperienza di solitudine rientrino tra i problemi più
comuni affrontati in psichiatria. La solitudine è un sintomo cardinale in
pazienti che soffrono di depressione, schizofrenia, disturbi paranoidi,
disturbi della personalità e dipendenze. E rappresenta, tra i giovani e non
solo, un importante fattore di rischio suicidio.237
Il circolo vizioso in cui si inseguono solitudine e depressione è stato già
trattato indirettamente nel capitolo 5: i social media favoriscono entrambe,
complicando ulteriormente le cose. Elemento essenziale di un circolo
vizioso è che, non importa come ci si finisce dentro, una volta entrati non se
ne esce più. Ci sono persone che tendono alla depressione, magari per
ragioni genetiche. Nel loro caso, può accadere che nel corso della vita
arrivino a soffrire di depressione senza che vi sia un fattore scatenante
preciso. Nel momento in cui si trovano nel peggior stato depressivo, a esso
si aggiunge la solitudine. Al contrario, ci sono persone che nella loro vita
non sarebbero mai cadute in depressione se non avessero vissuto perdite
gravi o altri elementi scatenanti. Si pensi alle due cavie nella gabbia
descritte nel capitolo sullo stress: uno dei due animali apprende, nel corso
del tempo, che non è padrone di cambiare il proprio destino, ed è questo
stato di impotenza appresa a provocare i sintomi della malattia. Questo
modello viene impiegato ormai da circa mezzo secolo anche per spiegare
l’insorgere di stati depressivi.238 E, tramite gli esperimenti sugli animali, è
possibile anche cercare medicinali efficaci contro la depressione.239
Se pensiamo al funzionamento del circolo vizioso, ha poco senso
chiedersi se sono computer, internet, smartphone o Facebook a rendere soli
e quindi depressi, o se è vero il contrario. Da un punto di vista pratico è
importante piuttosto osservare i rapporti reciproci e valutare correttamente i
rischi.
Lo stesso si può dire di altri disturbi psichici: chi soffre di schizofrenia
appare nel migliore dei casi strano, nel peggiore dei casi confuso e
aggressivo. Ciò non semplifica la vita e porta all’isolamento. Diversamente,
in psichiatria è noto che la solitudine, che si accompagna spesso alla perdita
dell’udito (e dunque anche della comunicazione linguistica), può portare
allo sviluppo di paranoie (ossia alla percezione, non ovviabile, di minacce,
persecuzioni o danni subiti). Ancora una volta, alla base ci sono processi
patologici biologici oppure esperienze psichiche che si rafforzano a vicenda
e producono solitudine. A certe persone basta finire in un posto in cui
nessuno parla la loro lingua per impazzire!
Tutto questo è pane quotidiano per gli psichiatri, come lo è anche la
proverbiale correlazione tra solitudine e consumo di alcol: soprattutto le
donne giovani e gli uomini anziani si danno all’alcol quando si sentono
soli.240 «Bere in compagnia» è socialmente tollerato entro certi limiti, ma
bisogna essere consapevoli che, se nell’immediato l’alcol fa superare le
barriere e può alleviare il senso di tristezza o solitudine, sul lungo periodo
produce effetti opposti. Lo dimostrano gli esperimenti sugli animali: come è
stato spiegato in uno studio pubblicato nel 2012 sulla rivista Science, i
moscerini della frutta maschi cui si impedisce di avere rapporti sessuali
finiscono per consumare più alcol.241
Più controversa, allo stato attuale degli studi, la correlazione tra
solitudine e consumo di tabacco, sebbene secondo le analisi più recenti ci
sarebbero tutti gli indizi per ipotizzarla.242 Le scoperte più recenti ci dicono
che in qualunque caso di dipendenza è opportuno verificare, ed
eventualmente tenere in considerazione per la terapia, se il paziente soffre
l’isolamento sociale e la solitudine.243
È noto che le vittime di violenza sessuale soffrono maggiormente di
solitudine. Meno nota è invece la correlazione tra solitudine del colpevole e
abuso infantile.244
Anche la riduzione delle facoltà mentali in vecchiaia o a causa di gravi
malattie cerebrali (come microictus multipli o l’Alzheimer) subisce
un’accelerazione a causa della solitudine che inoltre, in caso di demenza, ne
provoca il rapido avanzamento. Per quanto riguarda l’Alzheimer, poiché
con la solitudine si riducono gli stimoli al cervello, alla lunga se ne
riducono anche le capacità. Alla demenza provocata da microictus multipli
(demenza multinfartuale) sopraggiunge un intensificarsi dei disturbi
vascolari provocati dalla solitudine. Non a caso, la partecipazione attiva
viene ormai promossa come la misura preventiva per eccellenza contro il
decadimento cognitivo.245 Inoltre, non di rado la crescente solitudine di un
individuo costituisce il motivo di un ricovero in una casa di riposo o in una
casa di cura.246

Riassumiamo
La percezione soggettiva della solitudine fa aumentare il rischio di contrarre
una serie di malattie: dal semplice raffreddore ad altre patologie infettive,
ma soprattutto i disturbi tipici della nostra epoca come pressione alta,
infarto cardiaco o ictus, cancro. Le analisi effettuate hanno il merito di non
essersi fatte fuorviare da elementi di casualità o effetti banali («chi si sente
male, si sente anche solo»). Proprio a causa del rigore metodologico usato, i
risultati sono di particolare importanza e non possono essere ignorati.
Nel campo della psichiatria la solitudine occupa un posto particolare,
perché spesso è possibile tracciare un circolo vizioso che collega la
solitudine all’ulteriore avanzamento della malattia. Dipendenze,
depressione, nonché alcune forme di demenza e molte psicosi sono
acutizzate dalla solitudine e la favoriscono a loro volta. Per questo,
partecipazione sociale e vita di comunità sono elementi importanti della
prevenzione e della terapia psichiatrica.
Capitolo 7

La causa di morte numero uno

Nel precedente capitolo ci siamo focalizzati sulla morbilità della solitudine,


cioè sul fatto che la solitudine può provocare malattie. In questo capitolo ci
dedicheremo invece al concetto di mortalità in relazione alla solitudine. In
un primo momento il lettore rimarrà stupito: morire di solitudine? Com’è
possibile?

Mortalità: cos’è?
Prima di procedere, chiariamo con un esempio l’oggetto della questione.
Immaginatevi di voler sapere quanto è sano fumare. Sappiamo da tempo
che il fumo provoca il cancro, e sappiamo anche perché (il fumo delle
sigarette contiene sostanze cancerogene). Possiamo dunque per prima cosa
chiedere a un campione di individui se sono fumatori o non fumatori, poi
aspettare e infine contare quanti sono, per ciascuno dei due gruppi, le
persone che muoiono di cancro. In questo modo sapremo in che misura il
fumo influisce sul cancro ai polmoni e sulla probabilità di morirne.
L’acquisizione in sé di questi dati ci aiuta ben poco a valutare le
conseguenze del fumo sulla salute. Il fumo infatti provoca anche il cancro
alla vescica, poiché molte delle sostanze cancerogene assorbite tramite i
polmoni vengono espulse attraverso l’urina, che si raccoglie nella vescica.
Il fumo però non provoca solo cancro ai polmoni e alla vescica, ictus e
infarto cardiaco ma, notoriamente, anche dodici tipologie di cancro, sei
diverse patologie cardiovascolari, il diabete, patologie polmonari croniche e
polmoniti nonché grave influenza virale.247 Se si vuole sapere in che misura
il fumo nuoccia realmente alla salute, bisognerebbe studiarne gli effetti su
tutte queste patologie. Anche così, però, il lavoro non sarebbe terminato,
perché potrebbe sempre darsi la possibilità che certe correlazioni non siano
ancora note e vengano dunque ignorate.
Questo è quanto vale per il fumo, come ha dimostrato uno studio che ha
coinvolto 421.378 uomini e 532.651 donne di almeno 55 anni. I partecipanti
sono stati osservati dal 2000 al 2011. Nel periodo dato si sono verificati in
totale 181.377 casi di morte, di questi 16.475 erano di fumatori.
Suddividendo i partecipanti in due gruppi, fumatori e non fumatori, ne è
risultato che nel gruppo dei fumatori il numero di decessi era di 2,8 volte
superiore a quello del gruppo dei non fumatori. Dai dati rilevati si è potuto
calcolare che il 17 percento circa dei decessi in più non poteva essere
attribuito alle malattie legate al fumo sopra elencate.248 Con lo studio sono
state scoperte quindi nuove patologie che possono essere causate dal fumo
come cancro alla prostata e al seno, disturbi vascolari nell’intestino (infarto
intestinale), e altre ancora. Tra i fumatori, rispetto ai non fumatori, si è
regitrato un più alto tasso di suicidi (di 4,4 volte maggiore nelle donne e di
3,2 volte maggiore negli uomini) e un più alto tasso di incidenti (circa il 50
percento in più in uomini e donne). Il più alto tasso di suicidi era stato già
precedentemente descritto in una metanalisi di 2395 casi su una base di
1.369.807 soggetti che erano stati coinvolti in un totale di 15 studi;
l’incremento del tasso di incidenti invece non era ancora stato valutato.249
Detto tutto ciò, non possiamo dire di conoscere davvero tutte le
conseguenze del fumo. Come fare quindi a descrivere tutte le conseguenze
nocive di un fenomeno già di per sé molto più difficile da misurare, come la
solitudine? La procedura corrisponde essenzialmente a quella di alcuni
degli studi sul fumo finora descritti: si chiede a tantissime persone quanto
sono sole (così come descritto nel capitolo 1), si distingue tra isolamento
sociale (oggettivo) e solitudine (soggettiva), si aspettano alcuni anni e si
contano i morti.
Nella prassi, si utilizzano dati già acquisiti da ricerche mediche e li si
confronta con i registri di mortalità o con dati di altri studi, al fine di
raccogliere un numero quanto più alto di persone di cui si sa 1) se (e magari
anche quanto) hanno fumato e 2) se (e quando, e magari anche perché) sono
morti. La cosa richiede molto lavoro e molti calcoli. Soprattutto se teniamo
conto del fatto che i dati affidabili possono essere acquisiti solo quando non
si osserva il passato (in maniera retrospettiva), ma si guarda –
prospettivamente – il futuro.

La mortalità della solitudine


I primi a interrogarsi sulla correlazione tra solitudine e mortalità e ad
assumersi il difficile compito di dare una risposta alla domanda, sono stati i
sociologi americani James House e Karl Landis, dell’Università del
Michigan, e la sociologa Debra Umberson, dell’Università del Texas. Il loro
articolo rivoluzionario, dal titolo Social Relationships and Health, fu
pubblicato trent’anni fa sulla rivista Science.250 Già allora era noto da tempo
che le persone sole tendono più facilmente al suicidio e che le persone
sposate vivono più a lungo di quelle non sposate, mentre queste ultime – al
tempo della ricerca – si ammalavano più spesso di tubercolosi e di malattie
psichiche come la schizofrenia oltre a essere più soggette a incidenti. Il
rapporto di causa-effetto tuttavia non era chiaro: è a causa della loro
condizione che le persone malate non sono in grado di occuparsi degli altri
e per questo sono più sole, oppure è l’isolamento sociale (o addirittura il
sentimento di solitudine) a far ammalare? O, ancora, esiste un terzo fattore
che agisce su entrambi gli aspetti e dunque suggerisce una correlazione
laddove in realtà non ve ne sono251 È ciò che in linea di principio può
accadere negli studi retrospettivi (in cui si analizzano dati del passato),
quando i dati realmente affidabili possono essere ricavati solo da studi
prospettici, che misurano l’isolamento sociale e aspettano anni o decenni,
finché non si avrà un numero sufficiente di decessi, per poi verificare
quante delle persone morte soffrivano di isolamento sociale e quante no.
Gli scienziati hanno confrontato per il loro lavoro 5 studi prospettici, 3
americani comprendenti 9588 partecipanti, 1 studio svedese (17.433
partecipanti) e 1 studio finlandese (13.301 partecipanti). Il risultato è
chiaro: anche se la mortalità raggiungeva tassi diversi nei vari studi – a
seconda dell’età dei partecipanti, del loro stato di salute all’inizio dello
studio, o del tempo di attesa – in tutti i casi sussisteva una correlazione tra
isolamento sociale e mortalità. Chi vive prevalentemente isolato corre un
rischio due o tre volte superiore di morire entro un dato lasso di tempo (per
esempio entro cinque o dieci anni) rispetto a persone con un’ampia rete
sociale.
Il lavoro dei tre studiosi ha dato il via ad altri studi prospettici sulla
correlazione tra relazioni sociali (o loro mancanza) e mortalità. L’interesse
dell’opinione pubblica – comprese le grandi organizzazioni della sanità –
non si è tuttavia particolarmente ridestato. Ciò può dipendere dal fatto che il
proliferare della letteratura scientifica sull’argomento l’ha resa di difficile
consultazione, ma può essere legato anche alla difficoltà di definire e
misurare le «connessioni sociali». Per questo, è encomiabile che altri
scienziati, ancora una volta americani, si siano impegnati a valutare i dati
desunti da ben 148 studi, per un totale di 308.849 partecipanti che erano
stati seguiti per un periodo medio di sette anni e mezzo.252 Metanalisi di
questa portata permettono di osservare e considerare il fenomeno anche a
volo d’uccello: se è vero che non si vedono più i singoli dettagli, è vero
anche che con un numero elevatissimo di dati acquisiti è più facile
estrapolare verità generali da lontano piuttosto che osservando i dati al
microscopio.
Dall’analisi di tutti gli studi, gli autori hanno registrato un aumento del
50 percento della probabilità di sopravvivenza in presenza di integrazione
sociale. L’effetto risulta indipendente da età, sesso, causa di morte, durata
del periodo di osservazione e malattie preesistenti. Confrontandolo con altri
fattori di rischio noti per provocare l’aumento della mortalità – come
obesità, pressione alta o fumo – l’effetto risulta essere «grande» (grafico
7.1).
7.1: Solitudine: il killer n.1. Variazione della mortalità causata dalla cura o dalla cessazione
di varie malattie o altri disturbi della salute (a essere indicato è il logaritmo naturale del
rapporto di mortalità, per esempio – a sinistra – in caso di inquinamento permanente o in
caso di vita all’aria pura). I valori assoluti sono difficili da interpretare, comunque non sono
quelli che ci interessano in questo grafico, in cui importante è il confronto con gli altri fattori
di rischio. Da tale confronto si ricava chiarissima l’importanza dell’integrazione sociale per
allungare la speranza di vita.253

Possiamo quindi affermare che l’interazione con gli altri e la


partecipazione attiva alla vita sociale allungano la speranza di vita. E
viceversa: chi vive in solitudine corre un rischio nettamente maggiore
(monitorato nei cinque o dieci anni successivi) di morire rispetto a chi non
vive in solitudine.
«Ma la causa del decesso non è la solitudine!» obietterà qualche lettore.
«La causa è l’infarto, l’ictus o il cancro.» Questa obiezione è sensata tanto
quanto quella riferita ai pericoli del fumo: «Non si muore certo per una
nuvoletta di fumo, ma per il cancro ai polmoni». Sottolineiamo ancora una
volta cosa ci dicono questi risultati e cosa non dicono: anzitutto non ci
permettono di dire nulla sui singoli individui. Se un accanito fumatore si
ammala di cancro ai polmoni, ciò non significa che il cancro è stato causato
dal fumo. Perché le cause sono tante e nei casi singoli è difficile decidere
quale di esse sia entrata in gioco e in che modo.
La solitudine funziona come tutti gli altri fattori di rischio: cambiano le
probabilità. Quando lancio due dadi invece che uno, la probabilità che esca
un sei raddoppia, triplica se ne uso tre ma resta invariata in relazione al
singolo lancio. Ma può anche essere che lanciando dieci dadi
contemporaneamente non esca alcun sei!254
I dati ottenuti dallo studio chiariscono inoltre che è meglio misurare con
precisione e più volte la condizione di un soggetto, piuttosto che
interrogarlo solo una volta chiedendogli se vive da solo o in compagnia.
Con misurazioni precise, la dimensione dell’effetto dei legami sociali (o
della loro mancanza) cresce. Se si misurano le differenze in due modi
diversi, e con uno dei due modi il divario è più netto, tale misurazione sarà
più accurata (giacché gli errori di misurazione provocherebbero nel
complesso una riduzione delle differenze registrate).

Isolamento sociale reale o solitudine percepita?


A cinque anni dalla pubblicazione dello studio sopra descritto, la sua prima
autrice ha pubblicato un’altra metanalisi della letteratura scientifica sugli
effetti negativi di solitudine e isolamento sociale. La metanalisi
comprendeva lavori pubblicati tra il gennaio 1980 e il febbraio 2014, e che
riguardavano un numero di soggetti dieci volte superiore a quello dello
studio precedente.255 Il suo interesse principale era verificare se è possibile
distinguere in maniera empirica gli effetti della percezione soggettiva della
solitudine da quelli dell’isolamento sociale misurato oggettivamente.
Degli oltre mille lavori registrati in fase preliminare, ne sono stati
analizzati nella loro interezza 154. Di questi sono stati infine inseriti nella
metanalisi 70 studi prospettici indipendenti (che coinvolgevano un totale di
3.407.134 partecipanti) con un periodo di osservazione medio di sette anni.
L’indagine era pensata in modo da valutare singolarmente gli effetti, sulla
mortalità, delle variabili «isolamento sociale», «vita da single» e
«solitudine».
Osservando i singoli fenomeni, si è ottenuta una dimensione dell’effetto
rispettivamente di 1,83, 1,51 e 1,49. La mortalità aumentava quindi
rispettivamente dell’83 percento, del 51 percento e del 49 percento. Questa
indagine conferma, su scala ben maggiore, quelle precedenti. E anche in
questo caso si è visto che una cattiva misurazione dell’isolamento sociale
(rispondendo alla sola domanda «vive da solo/a?») riduce l’effetto rispetto
alla rilevazione differenziata dei contatti sociali di ciascun individuo.
Grazie alla strutturazione dello studio e alla quantità di dati, l’indagine
ha permesso anche di eliminare gli effetti di fattori di mortalità noti e a loro
volta connessi a solitudine e/o isolamento sociale (fumo, pratica dello sport,
depressione, ansia). Si è proceduto per via statistica, mantenendo costante
per esempio la variabile del fumo su alcuni dati e chiedendosi se,
conseguentemente, la solitudine e l’isolamento sociale continuassero ad
avere un effetto. Si è cercato cioè di rispondere alla domanda: qual è
l’effetto residuale se si escludono i fattori di rischio già noti?
La risposta è che l’influsso dei tre fattori scendeva al 29 percento
(isolamento sociale), al 32 percento (vita da single) e al 26 percento
(solitudine). Non sono certo valori bassi: si guardi il grafico 7.1. Gli effetti
di inquinamento atmosferico, ipertensione, obesità e mancanza di
movimento – tutti fattori di rischio noti – sono in questo studio comunque
minori dei valori «arrotondati per difetto» relativi alla vita da single e alla
solitudine rilevati nello studio di follow-up.
Da un punto di vista statistico, inoltre, non si sono potuti separare gli
effetti della percezione soggettiva (solitudine) da quelli della condizione
oggettiva (isolamento sociale, vita da single). Secondo gli autori dello
studio, questo significa, tra le altre cose, che in caso di intervento bisogna
considerare entrambi gli aspetti. Non bisogna cioè intervenire o sulla
percezione soggettiva, o sul numero oggettivo di contatti sociali, ma su
comportamento e percezione.
Così scrivono gli autori: «[...] aumentare semplicemente il numero dei
contatti sociali non riduce necessariamente la solitudine. Né il solo
cambiamento delle sensazioni soggettive in quanti soffrono di un reale
isolamento sociale è in grado di ridurre il rischio che esse comportano».256
Tutto ciò è significativo soprattutto se si pensa all’uomo in termini
evoluzionistici, come animale genuinamente sociale. La solitudine (al pari
della fame) è concepita come la percezione di un mancato soddisfacimento
di un importante bisogno di contatti sociali (al pari del cibo), che porta a
una modifica del comportamento (da una parte creare contatti sociali;
dall’altra mangiare). «Da questo punto di vista, gli interventi che vanno a
modificare solo il segnale (fame; solitudine) senza tener conto del
comportamento (mangiare; creare contatti sociali) – e viceversa – sono
inefficaci» sottolineano gli autori.257
Diversamente dalla metanalisi del 2010, lo studio del 2015 ha registrato
l’effetto della solitudine in relazione alle condizioni di salute preesistenti:
l’effetto era minore in caso di soggetti sani. Anche nelle persone più
anziane l’effetto era minore che nei più giovani: gli adulti sotto i 65 anni
sembrano essere dunque maggiormente a rischio – relativamente alla
mortalità legata all’isolamento sociale – rispetto agli adulti tra i 65 e i 75
anni; questi a loro volta sono più a rischio rispetto agli adulti sopra i 75
anni. Si tratta di un risultato interessante, perché a un primo sguardo sembra
essere in contraddizione con quanto è stato detto sulla frequenza con cui
ricorrono isolamento sociale e solitudine nell’arco della vita: in termini di
frequenza, la solitudine è un problema che riguarda i più giovani e i più
anziani, ma non i soggetti di mezza età.
Bisogna tuttavia contestualizzare tale affermazione nell’ampia metanalisi
appena presentata: la solitudine è meno frequente nelle persone in età
lavorativa sotto i 65 anni che non nei soggetti con più di 65 anni; la
possibilità che insorga la malattia e la conseguente mortalità, invece, sono
maggiori nei più giovani. Chi dunque non è ancora in età pensionabile, ma
già soffre di solitudine o è socialmente isolato, è una persona a rischio. Il
motivo è molto semplice ed è stato discusso già nel capitolo 4: quanto più a
lungo si soffre di stress cronico, tanto più tempo questo avrà per
ripercuotersi negativamente sulla salute. L’aumento della glicemia o della
pressione arteriosa sono poco nocivi se si presentano in un settantanovenne.
Non c’è tempo perché provochino conseguenze durature. Un cinquantenne
ha, invece, secondo la media statistica della popolazione tedesca, altri
trent’anni per sviluppare le conseguenze di cui poi si legge nei manuali di
medicina.
Una terza metanalisi è stata realizzata nel 2013 includendo 178 studi
sulla correlazione tra sostegno sociale e mortalità (con più di 100.000
persone coinvolte). Da essa è risultato un effetto ridotto, dell’11 percento.258
Gli autori riconducono il risultato soprattutto ai loro sforzi per identificare
variabili di controllo ed escluderne gli effetti. Perché una cosa è chiara:
quanto più si esclude, tantomeno rimane. Ma ciò non giustifica un cessato
allarme, perché i meccanismi descritti di fatto esistono ed è possibile che
metodologicamente si stia «escludendo» troppo.
Prendiamo ancora una volta l’esempio della pressione arteriosa: la
solitudine, per lo stress correlato, può portare a un aumento della pressione.
Si tratta di un meccanismo attraverso cui la solitudine, sul lungo periodo,
può rivelarsi mortale. Se l’influsso della pressione alta viene sottratto
all’effetto della solitudine, si sottovaluterà la mortalità di quest’ultima. Ciò
vale anche per le altre ripercussioni dello stress esposte nel capitolo 4 e per
quelle delle malattie di cui si è parlato nel capitolo 6. È proprio così infatti
che la solitudine si rivela tanto dannosa per la salute. Eliminare dal calcolo
una serie di malattie è quindi insensato tanto quanto non considerare la
mortalità del cancro ai polmoni nell’analisi delle conseguenze negative del
fumo sulla salute. Il fumo avrebbe comunque un effetto sulla mortalità
(perché porta anche al cancro alla vescica, e aumenta il rischio di ictus e
infarto), ma la mortalità del fumo sarebbe decisamente più bassa se si
eliminassero i dati relativi al cancro ai polmoni. Questa operazione è
parzialmente giustificata perché, come si è già detto, non tutti i casi di
cancro al polmone sono dovuti al fumo.
Allo stesso modo, la pressione alta non è mortale solo per la
concatenazione «solitudine – stress – pressione alta – ictus/infarto», ma
anche, per esempio, per la concatenazione di «stenosi dell’arteria renale –
pressione alta – ictus/infarto». Ciò vale, mutatis mutandis, anche per le altre
concatenazioni provocate dallo stress. Se queste vengono eliminate
complessivamente dal calcolo, gli effetti della vita da single sulla mortalità
verranno sensibilmente sottovalutati, se invece non si eliminano, gli effetti
saranno sopravvalutati, ma forse non così sensibilmente. La «verità» è,
come spesso accade, nel mezzo. Anzi, «da qualche parte» nel mezzo,
perché in base ai dati attualmente a nostra disposizione non ritengo sia
possibile indicare dove esattamente stia il mezzo.

La solitudine dei bambini, degli adulti e degli anziani


Gli effetti dell’isolamento sociale sulla mortalità sono stati riconosciuti e
combattuti già decine di anni addietro da una parte della popolazione: i
bambini. In passato era difficile capire perché negli orfanotrofi i bambini
morissero anche se ci si preoccupava di nutrirli e lavarli.259 Si scoprì che
sentivano la mancanza di contatti sociali. «La professione medica rimase
sconvolta quando dovette prendere atto che i bambini privi di contatti
sociali potevano letteralmente morire» scrissero gli autori della prima
grande metanalisi di cui abbiamo parlato: «Questa scoperta, per quanto a
posteriori possa sembrare banale, è stata responsabile di cambiamenti
significativi nella politica e nella prassi degli orfanotrofi, dove oggi la
mortalità è sensibilmente ridotta. Anche la medicina attuale potrebbe trarre
vantaggio dall’accettare il fatto che le relazioni sociali hanno un evidente
influsso sulla salute, anche negli adulti».260
In entrambe le metanalisi si dimostra che non bisogna limitarsi a
scegliere un’alimentazione sana, a fare attività fisica e a controllare il peso
(oltre a mettere in guardia dal consumo di alcol, nicotina e altre sostanze
che generano dipendenza). Questo riguarda sia la salute dei giovani sia
quella degli adulti. Da tempo sappiamo che non va bene che i nostri figli
consumino cibi poco sani (piatti pronti, non freschi), che facciano una vita
sempre più sedentaria, né che stiano aumentando i casi di obesità tra
bambini e ragazzi.261 Secondo il Robert Koch-Institut, oggi in Germania la
percentuale di bambini e ragazzi in sovrappeso raggiunge il 15 percento:262
un dato che ci era stato già pronosticato una ventina di anni fa e di cui
l’opinione pubblica ha preso atto anche grazie a opportune campagne
mediatiche, probabilmente un po’ tardive.
La situazione è analoga quanto ai prevedibili effetti della solitudine sulla
salute degli adulti. Confrontati con gli effetti dell’obesità (negli adulti –
nonostante le campagne di informazione – ancora più frequente che nei
bambini), quelli dovuti a isolamento sociale e solitudine sono ancora
maggiori. C’è un’escalation di disagio che può avere esito nefasto e che si
manifesta dapprima con i piccoli inconvenienti della vita quotidiana: le
persone sole svolgono meno attività e di conseguenza si verifica un
crescente deficit di movimento fisico, come rende noto uno studio
estremamente informativo.263
In conclusione, come scrivono gli autori della metanalisi: «Medici,
specialisti della salute, pedagoghi e media prendono sul serio fattori di
rischio come fumo, dieta e movimento. I nostri dati ci portano a concludere
che a questo elenco dovrebbe essere aggiunto anche il fattore ‘relazioni
sociali’».264

Riassumiamo
Sia l’isolamento sociale oggettivamente esistente sia il sentimento
soggettivo di solitudine sono legati a un aumento della mortalità. In
confronto ad altri fattori di rischio quali inquinamento atmosferico,
mancanza di movimento, malnutrizione, obesità, fumo e ampio consumo
d’alcol, gli effetti negativi di solitudine e isolamento sociale sulla nostra
salute e sulla speranza di vita sono ancora più importanti.
Il metodo usato per desumere i fattori di rischio da grandi quantità di dati
relativi alla malattia e alla morte di un vasto numero di persone è
complicato. La statistica infatti non ci dice nulla su cause ed effetti,
stabilisce soltanto correlazioni e nel definirne la portata ci mette al sicuro
dagli errori. Al fine di vedere con maggior chiarezza i fatti, è dunque
estremamente importante collegare i risultati delle ricerche epidemiologiche
e della psicologia della salute con i risultati delle ricerche fisiologiche sugli
effetti biologici dello stress. Solo quando si combinano chiari effetti
statistici e comprensione dei meccanismi (cause e conseguenze) si
raggiunge una conoscenza sicura dei fatti, che è quella che ci fornisce la
scienza.
Questa consapevolezza, ormai confermata a più livelli, è presa in scarsa
considerazione; per questo siamo molto lontani dalla definizione di misure
coerenti per contrastare il problema. Ci sono leggi e campagne contro il
fumo, iniziative per promuovere un’alimentazione sana e l’attività fisica
necessaria al nostro corpo ecc. Vengono investite risorse pubbliche per
combattere o ridurre i rischi per la salute della popolazione. Ma tutto ciò
non accade (ancora) per i fenomeni di solitudine e isolamento sociale. Gli
studiosi cui dobbiamo queste nuove conoscenze ci invitano esplicitamente a
ripensare il nostro modo di vedere le cose. Perché solitudine e isolamento
sociale – come altri fattori di rischio – possono essere evitati.
Capitolo 8

«Mi rovini la salute!»

Nel considerare gli effetti positivi che i contatti sociali hanno sull’uomo,
non bisogna dimenticare che essi non esauriscono lo spettro di possibilità
che ci vengono offerte dalle interazioni di tutti i giorni. Questo vale
soprattutto per la vita di coppia.
Se gli studi scientifici ci indicano ripetutamente che la vita da single è il
«Killer numero 1» e che chi è sposato vive più a lungo di chi non lo è,265 le
cose in verità non sono così semplici come sembrano. Non è detto che
l’effetto positivo di una relazione di coppia duratura o di un matrimonio sia
dovuto alla bontà del rapporto: si potrebbe trattare anche di un effetto di
selezione: le persone sane si sposano con maggiore probabilità di quelle
malate ed è per questo che le persone sposate sono più sane. È banale.
Potrebbe anche essere che le persone sposate dispongono di maggiori
risorse perché, rispetto a una vita da single, il matrimonio offre vantaggi
economici, psicosociali e sociali. Anche questo (casa migliore, cibo
migliore) potrebbe essere un motivo per cui le persone sposate vivono più a
lungo, e ancora una volta non si tratterebbe dell’effetto prodotto da un
grado minore di solitudine.

Non tutte le relazioni sono sane


A questi due effetti sicuramente presenti (selezione e risorse) si aggiunge
tuttavia sempre la relazione interpersonale, l’aspetto più importante in ogni
rapporto di coppia. Chi non conosce coppie che stanno insieme con effetti
che definiremmo a dir poco «nocivi» per la salute? In uno studio intitolato
come il nostro capitolo, gli autori mettono in chiaro sin dall’inizio: «Se i
soggetti sposati sono in generale più sani di quelli non sposati, non in tutti i
casi il matrimonio è più salutare di una vita vissuta da soli».266
«Mi rovini la salute»: una frase che sicuramente qualche lettore avrà
sentito pronunciare dal proprio partner o dalla propria partner.
Probabilmente solo una piccola minoranza di persone con esperienze di
coppia felice può dire di non averla mai sentita, che sia stata detta
impulsivamente durante un litigio acceso, o, a ragion veduta, alla fine di
una storia.
Dopo più di trent’anni di esperienza come psichiatra, so molto bene che
le relazioni possono essere vissute come «un inferno», e questo tanto più,
quanto più sono, o sono state, intense. I casi estremi – dalle felici nozze di
platino all’omicidio del partner dopo anni e anni di incubo – non ci dicono
nulla sulla realtà delle cose, rappresentano solo l’ampio spettro del
possibile, e purtroppo talvolta anche del reale. Cosa sappiamo però sulla
correlazione tra la qualità di una relazione o di un matrimonio e la salute dei
due partner?
La domanda è tanto facile da porre, quanto è difficile rispondere senza
correre il rischio di arrivare a conclusioni affrettate ed errate. Nel caso di
osservazioni sul lungo periodo o di confronto tra studi vecchi e nuovi,
bisogna infatti tener conto dei significativi cambiamenti che hanno
interessato l’istituzione del matrimonio negli ultimi decenni e che possono
essere riassunti col termine «deistituzionalizzazione»:267 i matrimoni sono
diminuiti, mentre è aumentato il numero dei divorzi; ci si sposa più tardi –
adesso anche tra persone dello stesso sesso – e per motivi diversi da prima
(autorealizzazione invece che dedizione alla vita di coppia). Anche le
condizioni sociali ed economiche dei partner sono cambiate, così come il
valore culturale del matrimonio stesso, come si può dedurre da espressioni
tipo «vita di coppia a tempo» e «unione civile», inesistenti fino ad alcune
decine di anni fa. Si aggiunga che a modificarsi nel tempo non è solo
l’istituzione del matrimonio, ma anche ogni relazione: le emozioni positive
diventano più rare e sono più frequenti le emozioni negative – almeno così
accade in media (che ci piaccia o no, bisogna prenderne atto).
Nonostante queste difficoltà metodologiche per le ricerche a lungo
termine sul tema «matrimonio e vita di coppia», bisogna tenere a mente che
esistono anche aspetti che sopravvivono nel tempo: una coppia sposata
condivide qualcosa di più che amici e conto in banca, condivide i pasti, il
sonno, i più stretti spazi vitali («tavolo e letto»), molte attività e molti
doveri, come per esempio quelli legati ai figli. Tutto ciò costituisce terreno
fertile sia per reciproco aiuto e sostegno sia per conflitti e litigi.
Date queste premesse, è sorprendente che gli psicologi sociali, che da
tempo ormai si dedicano all’importanza dei contatti sociali per la salute
dell’uomo, abbiano dedicato poca attenzione alla relazione sociale più
importante, quella di coppia.268 In medicina le cose sono un po’ diverse:
come si può evincere facendo una breve ricerca su PubMed, il tema è
nell’orizzonte degli studi medici sin dal 1894. Solo nel 1963 però il numero
delle pubblicazioni ha raggiunto le due cifre (in quell’anno erano 11), per
poi crescere, con grandi oscillazioni, fino ad arrivare a 499 nel 2015
(tendenza in aumento, grafico 8.1).

8.1: Numero delle pubblicazioni sul tema «matrimonio e famiglia», dal 1955 al 2015 (dati
ottenuti da una ricerca su PubMed inserendo le chiavi «marriage» e «health»; consultato il
15 aprile 2017).

Relazione di coppia e salute


Che cosa sappiamo dunque sull’influenza di una relazione duratura o di un
matrimonio sulla nostra salute? Indagini passate hanno dimostrato che le
donne, per la loro più spiccata tendenza ai rapporti interpersonali e/o a una
dipendenza dalla relazione (in quanto elemento della coppia generalmente
più debole da un punto di vista fisico ed economico), vivono la relazione
stessa con maggiore intensità rispetto gli uomini. Per questo, come è stato
dimostrato da più studi,269 nel caso di una relazione non felice sono loro a
soffrire di più. L’ipotesi di una partecipazione più intensa al matrimonio da
parte delle donne è corroborata dal fatto che negli studi con alta
partecipazione femminile gli effetti della relazione di coppia sulla salute
risultano essere più marcati.
Le donne però non solo partecipano più intensamente a una relazione,
ma vivono e giudicano la loro relazione di coppia in maniera generalmente
più negativa degli uomini. Questo è vero soprattutto con il passare degli
anni, mentre gli uomini sembrano godere maggiormente dell’effetto
positivo che il matrimonio ha sulla salute.270 In un secondo momento, lo
stato della ricerca è stato riassunto così: «A prescindere da come si
definisca per esempio la qualità del matrimonio, non si trovano studi in cui
gli uomini giudichino più negativamente delle donne lo stato o l’evolversi
della loro relazione».271
Uno degli studi più esaustivi sulla correlazione tra qualità del
matrimonio e salute dei due partner è stato pubblicato nel 2014 da alcuni
studiosi americani che hanno condotto una metanalisi su 126 studi realizzati
negli ultimi cinquant’anni per un totale di 72.674 soggetti coinvolti. Sono
stati analizzati malattie, decessi, dati personali sulla salute e ulteriori valori
oggettivi come la pressione arteriosa. Nella metanalisi, a una migliore
qualità del matrimonio corrispondono generalmente una migliore salute e a
una ridotta mortalità. Una relazione di coppia funzionante aveva dunque un
effetto positivo su morbilità e mortalità.272
Il coefficiente di correlazione era compreso tra 0,07 e 0,21 – secondo
l’oggetto specifico di analisi: pressione alta, demenza, depressione, diabete,
ictus, problemi di cicatrizzazione o, in casi estremi, decessi. Se si considera
che la correlazione è intesa come misura della relazione di due variabili da
un minimo di 0 (nessuna correlazione) a un massimo di 1 (correlazione
massima), a un primo sguardo i valori ottenuti possono sembrare bassi.
Tuttavia, anche piccole correlazioni possono avere conseguenze importanti,
quando l’effetto interessa molte persone.273
E dal momento che sono molte le persone che vivono in una relazione di
coppia, le correlazioni descritte si riferiscono alla maggioranza della
popolazione nel suo complesso. Se si pensa inoltre che gli effetti di altri
comportamenti per migliorare lo stato di salute generale – praticare più
sport, mangiare più sano ecc. – hanno pressoché lo stesso ordine di
grandezza (in genere sotto lo 0,2), risulterà chiara l’importanza del
matrimonio, o di una relazione duratura, per la nostra salute.274
Perché? O, riformulando la domanda: quali meccanismi attivano questo
effetto osservato in numerose analisi? Cercando una risposta alla domanda
gli studiosi si sono resi conto che non è sufficiente descrivere la qualità di
una relazione di coppia in maniera unidimensionale, nella variazione tra
«buona» e «cattiva». Inizialmente si pensava che una «buona relazione»
fosse equivalente a una relazione «raramente cattiva»; in seguito si è
scoperto che i due aspetti – buona o cattiva – non sono correlati tra loro in
maniera così forte come (intuitivamente) si potrebbe credere.275 Al
contrario, esistono relazioni fatte di molte esperienze positive e di molte
esperienze negative, e relazioni con poche esperienze positive e poche
negative. Poiché viviamo il «positivo» in maniera del tutto diversa dal
«negativo» – l’uno non è semplicemente la mancanza dell’altro – i due
aspetti vanno osservati distintamente.
Per questo, nella ricerca, si è passati ad analizzare gli aspetti positivi e
quelli negativi in maniera indipendente. A questo scopo è stato concepito
per esempio il modello dei punti di forza e di tensione (Strength and Strain
Model) dello psicologo americano Richard Slatcher (grafico 8.2).
8.2: Questo modello, che illustra ciò che rafforza e ciò che mina la qualità di una relazione
di coppia,276 è stato concepito per riordinare e sistematizzare le idee sul tema «relazione di
coppia e salute». In seguito a nuove riflessioni, al modello sono stati aggiunti gli influssi
della personalità su tali punti di forza e tensione, nonché la reciproca correlazione tra questi
ultimi (frecce tratteggiate).277

Secondo questo modello, i punti di forza e quelli di tensione presenti


all’interno di ogni relazione influiscono sulla salute dei partner in maniera
indipendente fra loro. Agiscono inoltre su altri stressori esterni, come le
condizioni di lavoro o i problemi di salute che possono presentarsi nel corso
del tempo. I punti di forza attutiscono lo stress proveniente dall’esterno,
mentre nuove difficoltà lo intensificano.
Esaminiamo uno dei pochi studi condotti finora sul modo in cui le
caratteristiche della personalità influenzano gli effetti generati da una
relazione sulla salute. Per esempio, negli uomini con predisposizione
genetica alla dipendenza da nicotina, un rapporto di coppia funzionante
riduce in misura sensibile il rischio che essi sviluppino effettivamente tale
dipendenza. Lo stesso effetto non è riscontrabile nelle donne.278
Vediamo un altro esempio: la capacità di immedesimazione di ciascun
partner è messa in relazione con il benessere e la salute, perché premura,
comprensione e stima creano sul lungo periodo una sensazione di
protezione e sicurezza nella coppia. Se la capacità di immedesimazione di
uno dei partner oscilla molto o non è spontanea, se rimane solo sul piano
verbale e viene messa in atto solo se esplicitamente richiesto, insorgono
insicurezze e ansie.
Quando un partner si comporta in maniera poco premurosa, mostrando
poca comprensione e poca stima, l’altro si ritrae dalla relazione. Una
capacità di immedesimazione altalenante viene vissuta dunque in maniera
diversa, e ha differenti conseguenze sul partner, rispetto a una scarsa
capacità di immedesimazione.
Sia l’ansia sia il ritrarsi dalla coppia (e dunque la solitudine) provocano
peraltro stress cronico, con tutto ciò di negativo che ne consegue per la
salute. Nel capitolo 4 è stata già descritta la funzione dell’azione di stress
come programma di emergenza contro un pericolo imminente. Se però una
relazione disfunzionale trasforma l’emergenza in norma e dunque in uno
stato cronico, è facile dedurre quali malattie potranno insorgere sul lungo
periodo:

• diabete e ipertensione (entrambi riconosciuti fattori di rischio per infarti


cardiaci e ictus, le cause di morte più frequenti in Germania),
• indebolimento del sistema immunitario (maggiore rischio di cancro e
malattie infettive, la seconda causa di morte),
• disturbi nella digestione, ulcera peptica o intestinale,
• nanismo o (negli adulti) osteoporosi (maggiore rischio di fratture ossee),
• disturbi cronici della sessualità.

Fissiamo allora alcuni punti: l’emergenza duratura data da una relazione di


coppia disfunzionale produce stress cronico, con tutte le sue conseguenze
nel tempo. Il fatto poi che alla fine si muoia di infarto o ictus, di tumore, di
un’infiammazione trascurata ai polmoni, alla vescica o ai reni, oppure di
un’embolia polmonare in seguito alla frattura del femore, dipende dalla
predisposizione, o dal caso.
Che una relazione disfunzionale e causa di stress cronico possa avere
conseguenze drammatiche è stato dimostrato ormai da una serie di studi
specifici. Su un totale di 1078 persone sposate o che vivevano in una
relazione di coppia (51,9 percento donne), i partner di persone con un’alta
capacità di immedesimazione (rispetto ai partner di persone con una scarsa
capacità di immedesimazione) hanno mostrato una riduzione maggiore
della concentrazione di cortisolo nel corso della giornata. Gli autori dello
studio hanno interpretato il risultato come segno di un effetto positivo di
questo aspetto caratteriale sulla salute del partner.279 Peraltro, un legame
felice e solido incrementa il rilascio di oxitocina, a sua volta una delle
sostanze che riduce con più efficacia la concentrazione di cortisolo.280
Dalla metanalisi degli studiosi americani sulla correlazione tra qualità
del matrimonio e salute dei coniugi è risultata una chiara indicazione: nelle
ripercussioni negative della qualità della relazione sulla salute è coinvolto
anche il sistema nervoso simpatico. La correlazione che dovremmo
aspettarci tra qualità del matrimonio e livello di cortisolo, come l’abbiamo
appena descritta, non è stata tuttavia ancora confermata empiricamente,
perché, secondo gli autori, la maggior parte degli studi non osserva
isolatamente gli effetti dei punti di tensione e dunque non riesce nemmeno a
risalire alla correlazione.

Diabete, demenza e pressione alta


Fortunatamente gli studi più recenti tengono conto di tali vizi metodologici,
registrando e analizzando separatamente i punti di forza e di tensione nelle
relazioni di coppia. È quanto è stato fatto per esempio in uno studio
longitudinale che voleva indagare gli effetti della qualità del matrimonio sul
decorso del diabete in uno dei partner.281 Nella stragrande maggioranza dei
casi, il diabete contratto in età adulta è di tipo 2 (95 percento). Nello studio
sono state intervistate 1228 persone sposate da tempo, due volte a distanza
di cinque anni (2005/2006 e 2010/2011). Al secondo incontro 289 si erano
ammalate di diabete. Nelle donne è emerso che gli aspetti positivi del
matrimonio avevano ridotto il rischio di sviluppo di un diabete nell’arco dei
cinque anni successivi. Negli uomini, al contrario – e sorprendentemente –
la riduzione della probabilità di contrarre il diabete sembrava legata agli
aspetti negativi della vita coniugale.
Gli autori discutono i risultati evidenziando che le donne (a confronto
degli uomini) sono più sensibili agli aspetti della relazione e dunque
reagiscono con più intensità a quelli positivi. Se, infatti, la maggiore
sensibilità delle donne comporta che il loro stato di salute sia influenzato
dagli aspetti negativi della relazione,282 nel caso di questo studio si
evidenzia l’effetto benefico degli aspetti positivi. In breve: è meno
probabile che diventino diabetiche le donne felicemente sposate.
Il secondo risultato – le esperienze negative nel matrimonio proteggono
gli uomini dal diabete – era inaspettato per gli autori ed è molto interessante
il modo in cui viene argomentato.283
Prima tesi: si potrebbe trattare di un generale effetto di selezione. Gli
uomini egocentrici, quindi più concentrati su di sé, si concentrano più
facilmente sulle esperienze negative della relazione. Seconda tesi: magari le
esperienze negative si riferiscono non tanto ai confitti, quanto ai ripetuti
tentativi della moglie di regolare o influenzare il comportamento del marito
(anche rispetto alla salute). È noto che le donne tendono più degli uomini a
controllare il proprio partner.284 Il meccanismo è articolato: le donne
premono per la salute dei mariti; questi a loro volta percepiscono il loro
interessamento come un fastidio e dunque come un aspetto negativo; alla
lunga, gli uomini danno un giudizio peggiore del matrimonio, ma
conducono una vita più sana e dunque anche più longeva. Se quindi un
marito diabetico risponde alle insistenze della moglie con un «Mi rovini la
salute!», in realtà ha torto e sta descrivendo soltanto una percezione
emotiva soggettiva. Dovrebbe viceversa essere riconoscente a sua moglie.
La correlazione tra qualità del matrimonio e salute del partner può essere
infinitamente complessa. Nella letteratura angloamericana285 si parla di dual
effect: la qualità della relazione è peggiore, ma la salute migliore (o
viceversa). Si potrebbero definire questi processi un’arma a doppio taglio,
che si presenta nell’analisi di tutti i dati, non soltanto rispetto al diabete.
Lo stesso processo si riscontra infatti in uno studio sulla correlazione tra
qualità della relazione in coppie anziane e insorgenza di deficit cognitivi,
come quelli che si presentano nel primo stadio di una demenza.286 Come
abbiamo già spiegato, lo stress duraturo provocato da una relazione
disfunzionale può portare anche alla morte delle cellule neuronali, mentre
una relazione felice ha un effetto protettivo e dovrebbe dunque impedire il
crollo delle capacità cognitive nella vecchiaia. Alcuni scienziati americani
dell’Università di Austin, nel Texas, hanno coinvolto 841 persone sposate
(486 donne e 355 uomini, che all’inizio della ricerca avevano almeno 60
anni) in uno studio longitudinale (Americans’ Changing Lives, ACL),
realizzando interviste negli anni 1986, 1989, 1994 e 2001/2002. In ciascuno
dei quattro momenti sono state poste domande distinte sulla salute e sulla
qualità del matrimonio. Inoltre è stata rilevata una serie di variabili di
controllo (età, sesso, istruzione, reddito ecc.). Contro ogni aspettativa, lo
studio ha dimostrato che un numero maggiore di esperienze negative nella
vita coniugale tende a proteggere da un rilassamento delle capacità
cognitive.287 Gli autori hanno discusso in maniera approfondita questi
risultati, ipotizzando che le esperienze negative fossero nel complesso
inferiori rispetto a quelle positive, oppure che la lunga durata della
relazione avesse permesso ai partner di sviluppare strategie per affrontare le
esperienze negative. Potrebbe esserci infine un «sostegno invisibile», che dà
qualcosa al partner senza che questi se ne accorga.
Il meccanismo potrebbe essere anche quello descritto sopra per lo studio
sul diabete: il partner critica i comportamenti dannosi per la salute e questo
può avere effetti preventivi anche sul piano cognitivo. Gli autori ritengono
tuttavia poco plausibile questa spiegazione, perché se fosse così dovrebbe
riscontrarsi una differenza di effetto tra uomini e donne (le donne «criticano
di più»),288 che invece non è stata rilevata empiricamente. La correlazione
tra percezione di una relazione problematica e miglior salute mentale non
sembra nemmeno essere influenzata da comportamenti rilevanti per la
salute, come fumo, consumo di alcol, attività sportiva. Comportamenti che,
prevedibilmente, mettono in atto meccanismi di controllo di un coniuge
sull’altro.
La spiegazione più probabile, secondo gli autori, è che un litigio
occasionale nella coppia può funzionare come training per le capacità
cognitive: «È possibile che gli anziani che si trovano spesso in situazioni
complesse (come per esempio una lite) mantengano attive le loro facoltà
cognitive proprio grazie a tali situazioni (si parla di use it or lose it), perché
in un conflitto si richiede di attivare il pensiero, l’attenzione, le facoltà
linguistiche e le funzioni esecutive, favorendone così lo sviluppo».289
Una guerra permanente tra marito e moglie come profilassi contro la
demenza? Gli autori della ricerca non vogliono spingersi tanto lontano e
discutono anche la possibilità di una correlazione nella direzione inversa:
che le perdite cognitive possano condurre a un indebolimento della facoltà
di critica o della percezione di critiche. «Potrebbe essere che le persone che
vedono le loro capacità cognitive già fortemente compromesse dimostrino
anche una più scarsa attenzione ai loro problemi coniugali. In questo caso, i
soggetti che non hanno problemi cognitivi vivrebbero il matrimonio con
maggiore difficoltà» scrivono gli autori.290 Tale interpretazione viene però
rifiutata dagli autori stessi sulla base dei dati raccolti, che non dimostrano in
alcun modo una valutazione migliore della vita di coppia da parte dei
coniugi con problemi cognitivi.
Nel 2016 è stato condotto anche uno studio su 1356 coppie (sposate o
conviventi da molti anni) in merito agli effetti della relazione di coppia sulla
pressione arteriosa.291 La qualità della relazione di coppia era stata misurata
nel 2006, mentre cinque anni dopo sono state registrate le variazioni nella
pressione arteriosa. I risultati sono stati tutt’altro che chiari e semplici da
interpretare: in generale, lo stress trasmesso dal partner non provoca un
aumento della pressione. Tuttavia, i mariti con mogli più stressate hanno
una pressione più alta. Inoltre, è stata riscontrata anche la seguente
correlazione: i mariti più stressati presentavano una pressione più bassa
quando le loro mogli erano poco stressate, mentre le mogli più stressate
avevano una pressione più bassa quando i mariti erano più stressati.
«Sembra che i mariti si stressino di più per via dello stress delle mogli, ma
che valga meno il contrario. E, cosa interessante, lo stress delle mogli è
attutito da un maggiore livello di stress dei mariti» fanno notare gli autori.292
Anche la qualità della relazione di volta in volta percepita non ha
rivelato alcun influsso sulla pressione. Se però entrambi i partner
descrivevano la relazione come problematica, la pressione di entrambi era
più alta. L’effetto era uguale sia negli uomini sia nelle donne. Considerando
contemporaneamente il livello di stress e la qualità della relazione
percepita, ne è risultato che la percezione della qualità della relazione
influenza negativamente l’effetto di stress del partner e dunque ha una
ricaduta negativa sulla propria pressione arteriosa. Se il partner trasmette
stress e in più la persona considera la relazione problematica, la pressione
sale. Se invece il giudizio negativo sulla relazione è solo minimo, lo stress
del partner non ha alcun effetto sulla pressione. Come ha mostrato un’altra
analisi, questo effetto interessava soprattutto gli uomini: «Nei mariti che
percepiscono negativamente la loro relazione coniugale, lo stress delle
mogli fa aumentare in loro il rischio di soffrire di pressione alta» scrivono
gli autori.293 Lo stesso non vale per le donne.
Lo studio mostra che esistono differenze legate al genere nella
percezione della relazione di coppia. Esse sono tuttavia piuttosto complesse
e pertanto non sono osservabili nell’ambito di un confronto tra valori medi.
Inoltre le reali situazioni vissute nella coppia possono essere descritte solo
con modelli che garantiscono una complessità pari almeno a quella del
modello rappresentato nel grafico 8.1. In breve: le relazioni tra uomini e
donne non sono semplici. La scienza moderna conferma così, ancora una
volta, ciò che già sapevamo. Ma una interazione triadica significativa (si
chiama così in gergo la correlazione discussa in questo paragrafo) ha un
altro valore conoscitivo rispetto a una spiacevole sensazione di pancia,
soprattutto nell’era della post-verità!
Gli uomini hanno bisogno di maggiore sostegno
rispetto alle donne
Come mostrano i dati, anche – anzi proprio – nell’epoca delle relazioni
paritarie tra uomo e donna, l’uomo ha bisogno di sostegno da parte della
donna più di quanto non valga il contrario. Questo soprattutto nella terza
età. Le donne hanno notoriamente una competenza sociale più spiccata,
dispongono di reti sociali più ampie rispetto agli uomini,294 dunque
traggono il sostegno necessario da altre fonti, quando non lo ottengono
dagli uomini. Le donne parlano delle relazioni più volentieri, mentre gli
uomini sono più riservati. Questi «discorsi sulla relazione» sono legati per
le donne a una maggiore soddisfazione nella coppia, mentre lo stesso non
accade per gli uomini. «Ne risulta che gli uomini hanno una pressione più
bassa quando le loro compagne sono meno stressate e possono dunque dare
più sostegno ai loro uomini. Le donne invece approfittano maggiormente
dello stress del partner, perché amano confrontarsi con loro sullo stress
stesso e sulle relazioni» osservano gli autori.295
Si comprende così in che misura siamo ancora legati ai «vecchi»
stereotipi sui ruoli: gli uomini sono forti, le donne sono di supporto.
Conformemente a questa classificazione, ci si aspetta dagli uomini che
abbiano in pugno le proprie emozioni, mentre le donne sono più estroverse
ed emotive. È chiaro così perché gli uomini reagiscono ai problemi – stress
provocato da situazioni esterne o dalla relazione – con un aumento della
pressione, mentre ciò non accade alle donne.
A risultati molto simili è pervenuto uno studio del 2016 imperniato sulla
qualità delle relazioni e il complessivo benessere fisico. Lo studio è stato
condotto con 361 coppie anziane, in cui almeno uno dei partner aveva più
di 60 anni. In un primo momento sono emersi «vecchi» stereotipi (cosa che
non meraviglia, visto che oggetto dello studio erano coppie sposate in
media da 38,5 anni): le mogli tendono maggiormente alla depressione
rispetto ai mariti, che a loro volta giudicano la relazione più positivamente
delle mogli. Rispetto alle mogli, i mariti avvertono un maggiore sostegno da
parte del partner e un numero inferiore di criticità. Sebbene le mogli siano
più giovani e sia più raro quindi che abbiano disturbi gravi, si sentono meno
sane degli uomini.296
Per entrambi i sessi, le difficoltà nella relazione prevalgono sui punti di
forza, il che risponde bene a quanto sappiamo da tempo: bad is stronger
than good (le esperienze negative ci toccano più di quelle positive).297 La
cosa interessante tuttavia è che rispetto alle coppie più giovani, quelle più
anziane riportano un numero di esperienze positive più alto di quelle
negative, ragione per cui le (poche) esperienze negative acquistano un
valore più forte.
Ulteriori differenze di genere si possono riassumere come segue: nelle
mogli, la percezione negativa rispetto a una relazione provoca frustrazione e
depressione, gli uomini invece vivono il sostegno da parte delle mogli come
la concreta possibilità di alleviare le proprie preoccupazioni. Le donne
reagiscono di più alle esperienze negative vissute con i loro partner – in
maniera negativa – mentre gli uomini reagiscono di più alle esperienze
positive vissute con le loro partner – in maniera positiva.
Quando uno dei partner soffre di depressione, le cose funzionano
diversamente: una donna depressa genererà una depressione anche nel
marito, mentre lo stesso effetto non si osserva nel caso di una donna con il
marito depresso.298 Queste scoperte ben si integrano con i risultati del
Framington Heart Study sul contagio sociale delle emozioni, descritti nel
capitolo 3.299 La depressione delle donne è più contagiosa di quella degli
uomini. Questo dato potrebbe manifestarsi anche al di fuori del matrimonio
e ha probabilmente una validità generale: la contagiosità emotiva è più
spiccata nelle donne che negli uomini.300

Separarsi non è la soluzione!


Per tutti coloro che – tenendo conto della complessa situazione fin qui
descritta e della propria realtà vissuta, forse ancora più complessa e
(dis)funzionale –, stanno sognando già una vita da eremiti, riportiamo in
conclusione quanto finora si sa sulle conseguenze per la salute di una
separazione. Comunque la si giri: un divorzio si accompagna a maggiori
rischi per la salute e molte analisi dimostrano che la mortalità aumenta
sensibilmente.301
Secondo un recente studio svedese, la mortalità in seguito a un divorzio,
se confrontata con quella di persone sposate, è più alta del 46 percento negli
uomini e del 27 percento nelle donne.302 Lo stesso effetto si riscontra anche
se si vanno a verificare le singole malattie. Rispetto ai single, le persone
divorziate hanno una maggiore predisposizione alle malattie
cardiovascolari, minore invece nelle persone sposate.303 Anche le malattie
infettive diventano più frequenti in seguito a un divorzio.304
Pertanto, una separazione non è la soluzione giusta per la nostra salute.
Le difficoltà di coppia sono un problema difficile e complesso, impossibile
da risolvere una volta per tutte, ma che deve essere vissuto ogni giorno in
maniera nuova, possibilmente con il sostegno reciproco.
Capitolo 9

Che fare?

Considerando le ripercussioni di solitudine e isolamento sociale su


morbilità e mortalità – si contrae una malattia e si muore per quella malattia
– c’è da meravigliarsi che si faccia così poco per cambiare le cose. La
solitudine può colpire chiunque, anche personaggi del cinema e della
televisione, dello sport o delle istituzioni. Chi soffre di solitudine non può
limitarsi ad aspettare che questo tema venga preso finalmente in
considerazione dall’opinione pubblica e dalla politica. E anche se un giorno
in Germania ci dovessero essere campagne pubbliche sull’argomento –
come ne esistono già in Danimarca, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti305
– non sarebbe certo troppo presto.

Il primo passo: prendere coscienza


Il primo passo per risolvere un problema è riconoscerlo e valutarne l’entità.
Il fatto che, care lettrici e cari lettori, siate arrivati al penultimo capitolo di
questo libro, dimostra che prendete sul serio la questione, che essa vi
riguardi personalmente, che riguardi una persona a voi vicina o che più in
generale siate preoccupati del crescente isolamento che colpisce un alto
numero di persone. Dal precedente capitolo avete potuto apprendere che ci
troviamo effettivamente di fronte a un problema, un problema serio e che
acquista sempre più rilevanza all’interno della nostra società.
La solitudine funziona come un dolore fisico: in un primo stadio ha un
senso perché ci avverte di un errore nel funzionamento del nostro
organismo, su cui dobbiamo intervenire; però può diventare un dolore
cronico, ovvero trasformarsi nel problema stesso, ed essere curato. Il
sentimento di solitudine, nello «stadio acuto» del rifiuto sociale, ci induce a
preoccuparci eccessivamente della nostra faticosa vita sociale, come è stato
ormai dimostrato attraverso metodi psicologici e neurologici.306 Così la
solitudine fa male anche perché tali dolori provocano una – sensata –
modifica del nostro comportamento, come è stato ampiamente descritto nel
capitolo 2.
Le soluzioni «prefabbricate» non mancano, eppure centri di ascolto,
associazioni, club, progetti di cohousing intergenerazionale o persino inviti
da parte di persone vicine aiutano ben poco a liberare una persona dal suo
profondo senso di solitudine. Dire a una persona che soffre di solitudine –
magari collegata a un lutto – di «provare con il coro della chiesa» può
essere un gesto pieno delle migliori intenzioni, ma potrebbe essere
percepito come un’affermazione cinica dalla persona interessata, la quale sa
perfettamente che le cose non sono così facili. Spesso però il problema è
ben più profondo e non si supera con un semplice consiglio. Cosa si può
fare allora? Come possono affrontare questo problema le persone isolate o
che si sentono sole?

Terapia
Se per le malattie si parla di «terapia», per i casi non clinici su cui si intende
agire si parla di «metodi di intervento» (dal latino inter, «tra» e venire,
«venire»). Quali metodi esistono per «mettersi tra sé e il problema»?
Funzionano? E se sì, perché? Cosa ci dice la scienza?
Sono molti i metodi di intervento che nel tempo sono stati proposti e
testati sul problema della solitudine e dell’isolamento sociale. Kimberley
Anderson e i suoi collaboratori della Queen Mary University of London, si
sono occupati per esempio della solitudine di malati psichici e dei metodi
per ridurla.307 Delle 29.079 pubblicazioni e revisioni (!) individuate, la
stragrande maggioranza (29.038) tuttavia non è stata presa in
considerazione a causa di insufficienza di contenuti e vizi metodologici. I
restanti 36 lavori sono stati considerati nella loro interezza e da questi si è
arrivati a selezionarne 5 (provenienti da Italia, Irlanda, Olanda, Israele e
Spagna) che soddisfacevano i requisiti di scientificità richiesti. I due criteri
più importanti sono l’esistenza di un gruppo di controllo e la
randomizzazione, ovvero l’attribuzione casuale dei soggetti coinvolti al
gruppo di intervento o al gruppo di controllo. Tutti i cinque lavori sono stati
realizzati negli ultimi dieci anni, il che dimostra che l’interesse per una
ricerca scientifica è relativamente giovane. Dei 5 studi, 4 hanno riportato un
risultato positivo, hanno cioè dimostrato che l’intervento suggerito e/o
analizzato ha prodotto un effetto misurabile sull’ampliamento della rete
sociale del partecipante. Dunque qualcosa si può fare: lo spettro delle
possibilità spazia dal sostegno da parte di altre persone al training di
competenze sociali. È comprovato che quando questi sforzi sono
accompagnati da una figura professionale – un medico o uno psicologo – le
possibilità di riuscita sono maggiori. Ma cosa fanno le persone normali?
Cosa si può o cosa si deve fare?
Un esame complessivo dei dati non permette ancora di trarre conclusioni
definitive. Si è provato quasi tutto: terapie individuali, terapie di gruppo e
misure di sostegno sociale all’interno della comunità; sempre basandosi su
un’interpretazione generale del concetto di solitudine. Da questa concezione
deriva anche il tentativo – molto comprensibile – di creare possibilità di
contatto per le persone sole. In questo caso possono però insorgere
problemi, perché la persona sola può essere molto sensibile e vulnerabile;
vivendo le situazioni sociali come una minaccia, anche alla più gentile
offerta di dialogo o di relazione può reagire con una chiusura o addirittura
con un rifiuto. Non bisogna mai dimenticare che per una persona che non
soffre di solitudine non è sempre facile immaginare cosa pensi o provi chi
ne soffre, e soprattutto in che termini. Per questo molti tentativi, benché
fatti con buone intenzioni, possono cadere nel vuoto.
Una metanalisi sui diversi metodi di intervento per ridurre il livello di
solitudine ha dimostrato quanto segue: molti studi partivano da buone
intenzioni ma erano realizzati male; più erano perfezionati dal punto di vista
del rigore metodologico, minore era l’effetto registrato. Gli studi che
realizzavano un confronto semplice di due gruppi (senza randomizzazione)
riportavano in media un effetto maggiore (–0,459), mentre gli studi in cui si
effettuavano misurazioni prima e dopo l’intervento (solo in un gruppo)
registravano un effetto inferiore (–0,367). Infine, negli studi controllati
randomizzati si aveva l’effetto minore in assoluto (–0,198).308
I diversi interventi messi in atto si possono suddividere in quattro
categorie:

1) moltiplicazione delle possibilità di contatto;


2) sostegno sociale;
3) training delle competenze sociali;
4) terapia cognitivo-comportamentale, per apprendere nuovi pensieri.
Osservando le tipologie di intervento, la terapia cognitivo-comportamentale
produce l’effetto maggiore (–0,598). Se si pensa alle considerazioni
precedenti sulle possibili reazioni degli individui soli ai contatti sociali, tale
risultato non sorprende: chi pensa cose negative degli altri rimane solo, non
importa quali possibilità gli si offrano.
Anche il sostegno sociale ha un effetto positivo, riduce cioè la solitudine,
laddove la grandezza media dell’effetto (–0,162) è statisticamente
significativa ma non molto marcata. La moltiplicazione delle possibilità di
contatto (grandezza media dell’effetto: –0,062) e l’apprendimento delle
competenze sociali (grandezza media dell’effetto: –0,017 non hanno
mostrato alcun effetto significativo sulla percezione di solitudine.309
Secondo questi studi, la chiave per aprire la barriera invisibile che
ingabbia le persone sole sta nell’intervenire sul processo di elaborazione
automatica di pensieri negativi sugli altri, nonché sul contatto con gli altri.
Nessuno diventa volontariamente solo, questo va sottolineato. Si tratta
piuttosto di qualcosa che accade nostro malgrado, che si subisce
passivamente, anche se non di rado c’è una «componente di responsabilità».
Comportamenti, atteggiamenti, approcci, sensazioni «si insinuano» dentro
di noi, proprio come fanno le cattive abitudini alimentari, uno stile di vita
sedentario o una dipendenza «digitale». Nessuno vuole condurre una vita
poco sana, ma in molti lo fanno! Lo stesso vale per la solitudine.
Inizialmente non si avverte il passaggio a questa condizione, finché la
solitudine non si autoalimenta e ci trascina in una spirale verso il basso.
Molte analisi concludono che l’unico modo per combattere la solitudine
sia la psicoterapia mirata al problema.310 Tuttavia, vagliando la letteratura
scientifica, si scopre che le cose non stanno proprio così.

Dare
«Vi è più gioia nel dare che nel ricevere»: tutti conoscono questa frase
dell’apostolo Paolo (Atti 20; 35), ma la maggior parte delle persone la
ritengono falsa: se do qualcosa, vuol dire che non la posseggo più; a
perderci sono io, mentre l’altra persona ci guadagna. Questo schema
mentale fa parte della nostra cultura occidentale, nonché della filosofia
politica codificata da Thomas Hobbes (1588-1679): gli uomini sono esseri
egoisti e, per non scontrarsi di continuo, devono accordarsi volontariamente
per creare uno Stato cui trasferire tutto il potere, perché li protegga da se
stessi.311 Ancora oggi, soprattutto tra i rappresentanti del wild-west-
capitalism, l’egoismo del singolo è un dato assolutamente normale, nel
senso che si considerata come norma il fatto che il singolo abbia un
interesse centrato su di sé.312
Non solo: anche le scienze, dalla biologia alla psicologia all’economia
che hanno per oggetto di ricerca l’uomo com’è e non come dovrebbe essere,
presuppongono che gli uomini agiscano per motivi egoistici. Basti pensare
alla teoria sulla definizione del prezzo di una merce: ognuno bada a sé così
si bada a tutti, al resto ci pensano domanda, offerta e le «invisibili mani del
mercato». Questa idea viene ascritta allo scozzese Adam Smith (1723-
1790), il fondatore dell’economia politica, che negli ultimi decenni ha avuto
un grande revival. Già più di quindici anni fa l’economista tedesco Armin
Falk diceva: «La politica e la coscienza pubblica sono condizionate sempre
più da teorie e proposte di azione legate all’economia. Non esiste modello
di conoscenza e di azione che vi abbia maggiore influenza rispetto al
concetto di homo oeconomicus».313 Con questo concetto si intende un
soggetto che agisce – in senso economico – in maniera razionale ed
egoistica.
È interessante che siano stati proprio degli economisti a notare negli
ultimi trentacinque anni le criticità di questa teoria. In molte situazioni
infatti l’uomo non si comporta in maniera razionale ed egoistica, cioè non si
comporta come prescriverebbe la dottrina economica. A questo risultato
sono pervenuti numerosi esperimenti che hanno preso le mosse dagli studi
della teoria dei giochi314 degli anni Quaranta e che sono stati condotti a
partire dagli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, iniziando a Bonn
e diffondendosi poi in tutto il mondo.315 Sono dati importanti per
comprendere la validità generale degli esiti e/o le dimensioni della
trasformazione culturale di alcuni esiti.316 La maggior parte delle persone
non si comporta in realtà né in maniera razionale né egoistica: circa il 70
percento delle persone vorrebbe un trattamento equo, e in un primo
momento così si comporta anche con gli altri. Se però viene illuso o deluso
dagli altri, allora entra in gioco la massima «occhio per occhio...»
Vediamo un esempio: lo sperimentatore dà una certa somma a due
soggetti del test e uno dei due deve decidere come tale somma debba essere
ripartita. Questo gioco si chiama gioco del dittatore, perché il secondo
partecipante non può contestare la decisione del primo. Sebbene il primo
non sia costretto a consegnare dei soldi al secondo, la maggior parte dei
soggetti coinvolti divide la somma a disposizione in maniera più o meno
equa. In un altro gioco, il secondo partecipante ha diritto di parola e, come
seconda regola, può accettare o no la proposta del primo giocatore: in caso
di assenso i soldi vengono distribuiti così come suggerito dal giocatore
numero 1, in caso di dissenso nessuno riceve nulla. Per questo si chiama
gioco dell’ultimatum. In questo caso, la maggior parte dei giocatori offre
all’altro partecipante il 40-50 percento della somma e in genere il secondo
giocatore accetta questa ripartizione. Le offerte sotto il 30 percento vengono
invece rifiutate dalla maggior parte dei soggetti. Entrambi sono
comportamenti irrazionali, perché al primo giocatore basterebbe offrire una
somma minima, mentre il secondo giocatore dovrebbe accettare ogni tipo di
offerta, visto che in fondo sta ricevendo in regalo qualcosa!
In entrambi i giochi si riconosce (senza differenze culturali) il bisogno
dell’uomo di uguaglianza ed equità. Ampi studi condotti in tutto il mondo
hanno tendenzialmente dimostrato che l’uomo è nel complesso migliore
della sua nomea: la maggior parte degli adulti vuole essere trattata in
maniera equa e di conseguenza tratta gli altri equamente.317 Perché?
Nel 2008 sulla rivista Science è stato pubblicato uno studio sull’effetto
positivo che produce lo spendere dei soldi per qualcuno su chi li spende.318
Sono stati intervistati 632 americani (287 uomini), a cui è stato chiesto
come prima cosa: «In generale si ritiene felice?» La risposta poteva essere,
in una scala da 1 a 5: 1 (mai), 2 (raramente), 3 (talvolta), 4 (spesso), 5 (sì).
In seguito, si chiedeva a tutti di elencare le spese mensili per il pagamento
di bollette, per se stessi, per gli altri e per sostenere obiettivi comuni
(beneficenza). Dai primi due valori si è calcolato un indice per le spese
personali (per sé), mentre dalle altre cifre si è ricavato un indice per le spese
prosociali (per gli altri). Il valore medio di tali spese mensili era
rispettivamente di 1714 dollari (per sé) e di 146 dollari (per gli altri).
Attraverso un procedimento statistico è stata esaminata la correlazione tra
questi valori e il grado di felicità riferito dagli intervistati. Non si è
riscontrata alcuna correlazione tra le spese per sé e la felicità individuale,
mentre si è registrata una correlazione positiva significativa tra le spese per
gli altri e la felicità individuale.
Ora, potrebbe essere che chi guadagna bene fa anche più beneficenza ed
è più felice a causa dei soldi. Per questo nell’analisi è stato inserito anche il
dato riguardante il reddito, e si è registrato un effetto sulla felicità in
relazione al reddito e in relazione alla spesa per gli altri. Entrambi gli effetti
avevano più o meno le stesse dimensioni ed erano indipendenti l’uno
dall’altro. Anche in questa analisi non si sono individuate correlazioni tra le
spese personali e la felicità individuale.
Un secondo studio ha coinvolto 16 impiegati di un’azienda di Boston (13
uomini). Diversamente dal primo che era uno studio trasversale, si tratta di
uno studio longitudinale. Tutti i soggetti del test hanno ricevuto dalla loro
azienda un bonus di un valore medio di 4919 dollari. Un mese prima del
bonus, e poi uno o massimo due mesi dopo, i partecipanti hanno dovuto
indicare il loro grado di felicità; un mese prima è stato chiesto loro anche il
reddito, mentre dopo hanno dovuto indicare quale percentuale del bonus
avessero speso per sé e quale percentuale avessero speso per gli altri o per
motivi prosociali. L’analisi statistica ha dimostrato nuovamente che solo le
spese per gli altri influenzavano il grado di felicità. Gli autori commentano
così: «È risultato dunque che gli impiegati che avevano utilizzato il bonus
per spese prosociali vivevano un grado più alto di felicità individuale dopo
aver ricevuto il bonus: pertanto il modo in cui il bonus veniva speso influiva
sul grado di felicità di chi lo riceveva in misura maggiore dell’entità del
bonus stesso».319
Per poter chiarire cause e conseguenze di tali correlazioni statistiche, gli
autori hanno eseguito, in un terzo momento, un esperimento con 46
studenti. Dopo aver comunicato alla mattina il loro grado di felicità
percepita, costoro ricevevano una busta contenente 5 o 20 dollari, insieme
alla consegna di spendere quei soldi per sé o per altri (regali o
beneficienza). Nel pomeriggio, ricevevano poi una telefonata, in cui si
chiedeva nuovamente quale fosse il loro grado di felicità. Si è evidenziato
che solo chi aveva speso i suoi soldi per gli altri era più felice. L’entità della
somma di denaro invece non aveva alcun influsso sulla felicità.
Se tutto questo è vero, perché le persone non sono più generose? In un
quarto studio, meno ampio ma ugualmente interessante, sono state elencate
ai 109 studenti partecipanti le quattro variabili dell’esperimento precedente
(5 dollari per sé, 5 dollari per gli altri, 20 dollari per sé, 20 dollari per gli
altri). Gli studenti dovevano stimare quale degli opposti (per sé vs per gli
altri; 5 vs 20) favoriva di più la felicità individuale. Il risultato è mostrato
dal grafico 9.1: una maggioranza significativa dei soggetti coinvolti
riteneva che spendere per sé rendesse più felici che spendere per altri. Quasi
tutti hanno pensato che più soldi vogliono dire anche più felicità. Tuttavia,
come hanno mostrato gli studi, nessuna delle due cose è vera. «I
partecipanti hanno sbagliato dunque per ben due volte circa l’effetto dei
soldi sulla felicità» hanno commentato gli autori.320

9.1: A sinistra: stima dell’effetto che una spesa per sé (bianco) o per gli altri (nero) ha sulla
felicità individuale; a destra: stima di quanto l’entità della somma agisce sulla felicità
individuale. In entrambi i casi si è chiesto cosa rendesse più felici. Le differenze (con un
coefficiente p < 0,01 o p < 0,0005) sono molto o estremamente significative.321

Uno studio comparato pubblicato due anni dopo, e che ha coinvolto 136
paesi, ha dimostrato che è un dato comune su scala mondiale che le persone
siano felici quando possono offrire un aiuto economico agli altri.322 Questa
scoperta è importante se si comprende che gli esperimenti psicologici si
pongono spesso l’obiettivo di dire qualcosa «sull’uomo» in generale, anche
quando la maggior parte di essi coinvolge giovani studenti americani.
Anche altri esperimenti condotti in due paesi tra loro molto diversi –
Canada e Uganda – hanno mostrato la stessa correlazione causale: dare
rende felici.

Felicità e comunità
Non fraintendetemi: non sto dicendo che la felicità possa essere impiegata
come rimedio contro lo sfortunato destino di una vita in solitudine. Se così
fosse, potremmo consigliare a una persona che soffre di solitudine di andare
in una sala giochi, visto che lì ogni tanto potrebbe rallegrarsi per una vincita
e sentirsi un po’ meglio.
Quel che qui interessa sottolineare è che comportamenti genuinamente
prosociali – come dare qualcosa a qualcuno – provocano una sensazione di
felicità, diversamente da quanto siamo spesso portati (erroneamente) a
credere. Crediamo che spendere per noi stessi ci renda felici, tanto più felici
quanti più soldi spendiamo, e invece ci sbagliamo. L’egoismo non rende
felici. Questo dato è tanto più rilevante se lo affianchiamo all’aumento
registrato ogni giorno delle tendenze egoistiche. Se dunque il soggetto (a
causa della pubblicità, della pressione sociale o per altri motivi) si pone
sempre più al centro del proprio agire e si impegna meno per gli altri, il suo
comportamento lo renderà meno felice e più solo. Non solo l’isolamento
sociale oggettivo ma anche la percezione soggettiva di solitudine bloccano
l’agire prosociale e dunque ostacolano le esperienze di felicità.
Possiamo anche dire così: poiché l’uomo è un essere sociale, la
solitudine gli provoca stress e la comunità ingenera gioia. Per questo,
qualsiasi azione che si risolva in un intensificarsi del rapporto con la
comunità non può che portare a un maggiore benessere.
E come funziona? Per rispondere a questa domanda esistono ormai
diverse ricerche. Nelle pagine seguenti ne presenteremo brevemente tre.
Un gruppo di lavoro giapponese ha utilizzato il modello del gioco
virtuale con la palla, con cui erano stati misurati gli effetti dell’abbandono
acuto sull’attività cerebrale (capitolo 2). Il gioco è stato però modificato in
modo tale che 1) a tutti i giocatori venisse lanciata la palla con la stessa
frequenza, oppure 2) a uno dei giocatori – quello dentro il tomografo per
RM – la palla venisse lanciata più spesso.323 Si è scoperto che in questo
secondo caso si attivava il sistema di ricompensa del giocatore (il nucleus
accumbens). Nel contempo, il maggiore coinvolgimento nel gioco veniva
vissuto in maniera molto positiva. Il livello di attivazione del nucleus
accumbens nell’individuo è correlato alla sua prosocialità, vale a dire al suo
impegno nel giocare insieme agli altri. Da questo fatto gli autori dello
studio deducono un nuovo e basilare aspetto: «La ricompensa ricevuta dal
comune agire sociale (interazione sociale) basta già da sola ad accrescere la
motivazione a un agire per la comunità».324
Anche un gruppo di ricerca olandese ha utilizzato il modello del gioco
virtuale con la palla. Il gioco è stato modificato facendo giocare non tre ma
quattro persone, e aggiungendo nel corso del gioco non soltanto
l’esclusione (abbandono) di uno dei giocatori, ma anche la possibilità di
introdurre comportamenti prosociali compensatori: due giocatori
escludevano un terzo (cioè smettevano di lanciargli la palla) ma il quarto
giocatore, osservando la situazione, lanciava la palla al giocatore escluso.
Questo quarto giocatore si trovava nel tubo del tomografo per RM in modo
che si potesse misurare la sua attività cerebrale. Notando l’esclusione
sociale del terzo giocatore, si attivava un’area del cervello chiamata insula e
che, come sappiamo da altri studi, reagisce anche alla percezione di dolore
sociale (come accade per l’isolamento acuto o l’abbandono).
In uno studio ulteriore strutturato in maniera analoga si è potuto
dimostrare che il comportamento prosociale (il lancio della palla al
giocatore appena escluso) attiva il sistema di ricompensa (nucleus
accumbens) del quarto giocatore.325 Sul piano comportamentale, accadeva
che il quarto giocatore lanciasse effettivamente più spesso la palla al terzo
(rispetto allo schema di gioco che non prevede l’esclusione). In breve:
anche i risultati neurologici ci dicono chiaramente che la solitudine di una
terza persona provoca dolore in un’altra (che sia un giocatore, un
compagno, un amico...) e favorisce in lei un comportamento prosociale,
attivando il sistema di ricompensa e dunque la percezione di emozioni
positive.
Il terzo studio326 ha analizzato l’azione del ricevere e quella del dare
sostegno sociale in un confronto diretto, per mezzo di procedimenti
psicologici e neurobiologici (RMF). Ciascuno dei 36 partecipanti coinvolti
(di circa 22 anni, metà donne) doveva svolgere tre compiti in RMF: uno
stress test (calcolare a mente, mentre si riceve un feedback negativo sulla
propria prestazione), un compito sul legame sociale (osservare foto di due
persone vicine e foto di due persone estranee) e infine un compito che
metteva in campo l’agire prosociale (i soggetti del test potevano
guadagnarsi dei biglietti della lotteria, la cui eventuale vincita di 300 dollari
sarebbe andata a una persona in ristrettezze economiche da loro indicata).
Inoltre, i partecipanti sono stati interrogati sulla loro situazione psicosociale
e sul livello si sostegno sociale che ricevevano dagli altri o che davano agli
altri.
Ne è risultato che in ciascun partecipante sia dare, sia ricevere sostegno
sociale sono correlati con una situazione psicosociale complessivamente
positiva. È stato interessante riscontrare, nella risonanza magnetica
funzionale, che solo l’azione del prestare aiuto (e non quella del riceverlo)
era correlata in caso di stress con una ridotta attivazione delle aree cerebrali
associate allo stress e, in caso di percezione di un legame sociale più stretto
(parte destra del nucleus accumbens) o in caso di azione prosociale
(entrambi i lati del nucleus accumbens) con una maggiore attivazione del
sistema di ricompensa.327
Il modello dell’attivazione cerebrale durante i tre diversi compiti svolti
in RMF ha mostrato dunque che – per dirla in sintesi – maggiore è il
sostegno sociale dato dai partecipanti minore è lo stress e maggiori sono le
emozioni positive. Questa correlazione invece non si registra nel caso in cui
i partecipanti ricevano sostegno sociale.
Perfino nei bambini di età inferiore ai 2 anni si è potuto osservare che
provano più gioia nel vedere che altri bambini ricevono dei dolci rispetto a
quando sono loro stessi a riceverli. Ai bambini piace davvero dare e
condividere quel che hanno. Questa tendenza cresce nel corso della vita.
Alcuni dati tratti da esperimenti di psicologia dell’età evolutiva con
bambini e ragazzi dagli 8 ai 16 anni ci dicono che in questa fascia d’età si
hanno comportamenti più solidali rispetto a quanto non avvenga nei giovani
adulti.328Inoltre, nella stessa fascia d’età, grazie al processo di
apprendimento da modello si acquisiscono con grande rapidità
comportamenti prosociali.329 I giovani adulti invece sono concentrati sulla
procreazione o sui propri figli e per questo motivo, in tale fase della vita, i
loro sforzi verso gli estranei sono minori.
Quanto più gli adulti invecchiano, tanto più torna a presentarsi un
comportamento prosociale, come è stato dimostrato per esempio in uno
studio giapponese con 408 cittadini di Tokyo, di età compresa tra i 20 e i 59
anni. Nello studio sono state impiegate cinque differenti situazioni di gioco
economico (gioco del dittatore, gioco dell’ultimatum e altri tre modelli
simili).330
Sin da piccoli abbiamo una tendenza al dare, che viene incoraggiata dalla
vita in comunità. I bambini sono felici di dare e in questo modo rafforzano
il loro agire sociale. Ne risulta un circolo virtuoso di gioia e senso di
comunità. Allo stesso modo, solitudine, insicurezza, crisi depressive e
ripiegamento sociale avviano una spirale negativa di sofferenza e
isolamento sociale. «Solo con la testa» – vale a dire con molta forza di
volontà e molti sforzi – è possibile spezzare una simile spirale, ma la
prospettiva di successo è minima. Per questo le piccole azioni della
quotidianità hanno un’enorme importanza. Da tante di queste piccole azioni
si può ottenere un indebolimento della spirale negativa e una spinta
all’attivazione del circolo virtuoso. Dare è una di queste piccole azioni.
Un’azione ancora più efficace, perché legata generalmente al contatto con
l’altro, è aiutare.

Aiutare
Pochissimi sanno che in Germania i vigili del fuoco di professione si
trovano soltanto in alcune metropoli. Quando c’è bisogno dei pompieri in
tutti gli altri luoghi, questo «servizio» – cui nessuno vuole dedicarsi e di cui
tutti hanno bisogno – viene svolto da volontari. Se volessimo (o dovessimo)
sostituire tutti i pompieri volontari con pompieri professionisti, la comunità
si troverebbe a dover sostenere ingenti spese. Questo vale per molte altre
attività. In realtà in Germania il volontariato è molto diffuso, basti pensare
che nel 2016, il 47 percento dei tedeschi era impegnato in una qualche
forma di volontariato destinata ai profughi.
Uno dei tratti distintivi dell’uomo è la sua tendenza ad aiutare non solo i
parenti più stretti o il compagno di una vita (questo accade anche tra altre
specie animali), ma anche gli estranei. Secondo un’ampia rilevazione
statistica condotta tra il 2012 e il 2013, quasi un europeo su quattro si
dedica almeno una volta ogni sei mesi a una qualche attività di
volontariato.331 Negli Stati Uniti 63 milioni di cittadini (di nuovo, quindi,
circa il 25 percento della popolazione) svolgono servizio volontario almeno
una volta all’anno.332
Chi aiuta gli altri si sente meglio. Questo è un dato che abbiamo
acquisito da tempo,333ma in anni più recenti è stato dimostrato con ricerche
di particolare interesse.
Stephanie Brown e i suoi collaboratori dell’Istituto per la ricerca sociale
dell’Università del Michigan hanno studiato gli effetti del dare e del
ricevere sostegno strumentale (aiuto) ed emotivo (ascolto), servendosi di
uno studio prospettico sui cambiamenti nella vita di 423 coppie anziane.334
Dopo un periodo di osservazione di cinque anni, 134 delle 846 persone
coinvolte erano morte. L’analisi dei dati ha innanzitutto confermato la tesi
secondo la quale i contatti sociali portano a una riduzione significativa della
mortalità del 21 percento. Osservando i dati con più attenzione, si è notato
che la mortalità aumentava leggermente nel caso in cui si fosse ricevuto una
qualche forma di sostegno sociale, mentre si riduceva significativamente
dell’85 percento nel caso in cui era stato offerto sostegno sociale, e che gli
effetti dei contatti sociali erano da ricondurre in ultima istanza all’atto di
dare sostegno.
Si potrebbe ovviamente supporre che i partecipanti che godevano sin
dall’inizio di migliori condizioni di salute fossero maggiormente in grado di
aiutare, e che l’effetto si tracciasse dunque nella direzione opposta: le
persone sane aiutano (e non: le persone che aiutano sono sane). Per definire
tutto ciò in termini statistici, sono stati inclusi nell’analisi i dati registrati
all’inizio dello studio sulla salute fisica e psichica nonché su comportamenti
rilevanti per lo stato di salute. In questo modo, seppure scesa al 56 percento
(una cifra ancora statisticamente significativa), la correlazione tra aiuto e
mortalità continuava comunque a sussistere. Controllando anche gli effetti
di eventuali influssi come reddito, istruzione, stress, predisposizione alla
malattia e variabili caratteriali, si continuava a registrare un incremento
della mortalità del 23 percento nel caso di aiuto ricevuto (valore non
significativo) e una riduzione significativa della mortalità del 54 percento
nel caso di aiuto offerto.
In uno studio internazionale, alcuni ricercatori belgi hanno analizzato la
correlazione tra aiuto volontario e stato di salute su un totale di 42.926
persone, 10.358 delle quali (24 percento) hanno dichiarato di svolgere
servizio di volontariato (in genere nell’ambito di un’associazione).335
Nell’analisi si sono riscontrate nette differenze tra i paesi: mentre in
Germania, Olanda e Norvegia la quota di attività volontaria si attestava al
40 percento, in Bulgaria, Ungheria e Lituania scendeva sotto il 10
percento.336
I volontari sono o si sentono337 decisamente più sani (circa il 10 percento
di una deviazione standard) rispetto a chi non svolge attività di
volontariato.338 L’analisi multivariata dei dati ha prodotto un effetto diretto,
nonché un effetto indiretto trasmesso dal reddito. L’effetto diretto
rappresentava circa l’80 percento dell’effetto totale e pertanto l’effetto del
volontariato non può essere ricondotto a un più alto reddito del volontario.
L’effetto di un volontariato sullo stato di salute è significativo e viene
commentato così dagli autori: «La correlazione complessiva è
considerevole: essa corrisponde allo stato di salute di una persona di cinque
anni più giovane».339 In breve: chi fa volontariato può vantare mediamente
uno stato di salute uguale a chi è di cinque anni più giovane ma non svolge
attività di volontariato!

Aiutare con e senza stress


Non ogni offerta di aiuto si ripercuote positivamente sulla persona che
aiuta. Se così fosse, infermieri e assistenti geriatrici dovrebbero essere le
persone più felici del mondo. Le cose purtroppo non stanno così; al
contrario, ampi studi hanno mostrato che molte persone che si preoccupano
dell’assistenza agli altri per lavoro o per un lungo periodo di tempo nella
sfera privata, soffrono e si ammalano.340
D’altro canto, gli studi menzionati fin qui non possono essere cancellati
con un colpo di spugna. La domanda su «chi ha ragione» è evidentemente
mal posta. Si tratta piuttosto di capire in quali circostanze l’aiuto si
ripercuote positivamente sulla salute delle persone, e in quali casi ha invece
conseguenze negative.
Sul tema esistono ormai varie conoscenze solide. In un lavoro cui è stato
dato il bel titolo di Does a Helping Hand Mean an Heavy Heart?341 sono
state osservate 73 persone che assistevano, per un periodo di tempo
illimitato, un partner malato o disabile. Sono state registrate le emozioni
positive e negative, assieme alle singole fatiche della quotidianità, alla
gravità della malattia/disabilità e alla qualità della relazione di coppia. Ne
sono risultati effetti attesi ed effetti inattesi. Secondo le aspettative, la
gravità della malattia e la quantità di tempo in cui ci si mette «a
disposizione» del malato si ripercuotono negativamente sulla persona che
assiste. Se tali fattori vengono però controllati, si riscontra un effetto
positivo, soprattutto quando entrambi i partner sentono di formare una
comunità in cui ognuno dipende dall’altro. «Quando si aiuta una persona
stimata o amata, se ne trae generalmente un vantaggio per la propria salute»
deducono gli autori dai loro dati.342
In diversi lavori di sintesi, sono indicati come cause di effetti negativi i
seguenti aspetti:343

1) La cura di un parente è associata spesso a piccoli fastidi, che con il


tempo si assommano e diventano gravosi indipendentemente dal fatto che
si stia prestando aiuto. Negli studi che hanno descritto dettagliatamente
tali piccoli fastidi e che permettono di «eliminarli» dai dati, non è raro
che il risultato finale sia quello di un effetto positivo.
2) Non tutti si sentono attivi e competenti nell’assistenza al malato. Chi sta
facendo troppa fatica nello svolgere un compito (indipendentemente dal
fatto che il sovraccarico sia legato alla cura di una persona malata) si
sente abbandonato al proprio destino. E questo vuol dire esattamente
essere stressato (capitolo 4), con tutte le conseguenze del caso.
3) Se una persona è intrinsecamente motivata alla cura dell’altro, percepisce
il suo compito molto più positivamente che in caso di motivazioni
estrinseche. Questo non riguarda necessariamente chi lo fa per lavoro, ma
anche quanti agiscono per puro senso di responsabilità, pressione sociale
o esagerato senso del dovere che consente di accantonare le proprie
necessità.
4) La cura di un parente può condurre all’isolamento sociale della persona,
perché il tempo dedicato alle necessità del malato viene sottratto a quello
trascorso con gli altri. Ne può risultare un senso di solitudine e si può
attivare un circolo vizioso.
5) Spesso la persona che cura il proprio partner deve assistere anche al suo
progressivo indebolimento, alla sofferenza e – soprattutto nei casi di
demenza – a una progressiva «assenza». Questa esperienza è di per sé
molto gravosa, indipendentemente dalla cura.
6) Conseguentemente, la qualità della relazione peggiora. Da un reciproco
dare e ricevere si passa col tempo a un dare univoco. La comunicazione,
l’intimità e la normale vita di coppia si riducono, aumenta invece il
«peso» della cura.
Come mostra questo piccolo elenco, aiutare non è un’azione «semplice».
Perché intervengono varie altre circostanze, dalle quali si può estrapolare un
fattore particolarmente importante che è stato ampiamente discusso nel
capitolo 4: il controllo sulle proprie condizioni di vita. Chi si considera
abbandonato al flusso degli eventi (al «destino», come spesso si dice), vive
una condizione di stress e si ritrova in una spirale negativa. Chi invece aiuta
gli altri come volontario, vive l’esperienza contraria: autodeterminazione!
«Posso fare qualcosa. Per gli altri. Non siamo abbandonati al nostro destino.
Ce la facciamo.» Pensieri di questo tipo riducono lo stress e favoriscono
uno spirito di autonomia ed emozioni positive. Sfociano inoltre in un
maggiore senso di comunità e in tutte le esperienze e conseguenze positive
che esso porta con sé.

Fare musica, suonare, ballare


L’uomo è l’unico primate che fa musica, canta e balla. E sono attività che
non svolge solo di rado, nelle sale buie e piene di ormoni delle discoteche,
ma in ogni momento della vita, e ovunque nel mondo. Per gli stessi
antropologi cui si deve questa affermazione, è stata una meravigliosa
sorpresa: non esiste cultura in cui manchi la musica.344 Come dimostrano
recentissime ricerche, ciò dipende tra le altre cose dal fatto che azioni e
movimenti coordinati e fatti in gruppo – come è il caso delle attività di cui
parliamo – portano a una maggiore cooperazione e dunque a un maggior
senso di comunità.
Non manca tuttavia chi mette in dubbio questa tesi. Il mio amico
Thomas – musicista con molta esperienza in orchestra – mi ha detto,
parlando di musica e prosocialità: «Se sapessi quanto poco collegiali sono i
comportamenti di alcuni membri delle orchestre, non crederesti a queste
teorie». Ma studi empirici dimostrano che vale la pena crederci.
Gli psicologi Scott Wiltermuth e Chip Heath della Stanford University
hanno pubblicato i risultati di alcuni esperimenti sapientemente strutturati
allo scopo di comprendere non soltanto gli effetti prosociali provocati dal
canto insieme ma anche gli effetti ulteriori provocati dalla danza.
Nel primo esperimento condotto con 30 studenti (età media 20 anni, 18
donne), lo sperimentatore accompagnava in una passeggiata nel campus
universitario un gruppo di tre persone, chiedendo loro di tenere lo stesso
passo o, in altri casi, di non camminare allo stesso passo. In seguito, gli
studenti dovevano riempire un questionario. Nella fase successiva il gruppo
veniva affidato a un secondo sperimentatore, che faceva svolgere un test –
dal punto di vista degli studenti non connesso alla passeggiata – volto a
misurare il grado di fiducia di ciascun membro del gruppo rispetto agli altri
due.345
Il risultato dell’esperimento era inequivocabile (grafico 9.2): quanti
avevano camminato allo stesso passo si sentivano molto più legati tra loro e
si fidavano di più delle altre persone; lo dimostravano anche con il loro
comportamento nel test, confrontato di volta in volta con quello di chi
aveva fatto una passeggiata senza «marciare a passo» (come si usa dire in
gergo militaresco). Non si è registrata invece alcuna differenza nel
sentimento di felicità provato in relazione ai due comportamenti
«camminata a sincrono» e «camminata fuori sincrono».

9.2: Effetto della coordinazione del passo sul successivo stato d’animo e sul
comportamento cooperativo.346

Il secondo esperimento con 96 partecipanti (54 donne, età media 21


anni) aveva pure per oggetto l’azione sincronizzata, nello specifico
attraverso il canto d’insieme, con e senza movimenti coordinati. In entrambi
i casi si è registrata una maggiore cooperazione rispetto all’esperienza di
canto e movimento non sincronizzato o rispetto al semplice stare seduti
(senza cantare e senza muoversi). Il movimento si è dimostrato addirittura
superfluo, giacché il solo canto d’insieme basta a generare più
cooperazione. In un terzo esperimento l’osservazione è stata nuovamente
confermata e anzi si è riscontrato che gli effetti positivi persistevano per
cinque turni di un gioco basato sulla fiducia condotto dopo la prova.347 Gli
autori commentano così la ricerca: «Dai dati ottenuti risulta che le pratiche
culturali che prevedono azioni sincronizzate (come musica, danza o marcia)
aiutano il gruppo a ridurre il problema del battitore libero (chi non
contribuisce al gruppo ma approfitta di esso) ed eventualmente a coordinare
attività sociali più complesse. I riti legati alla sincronizzazione possono aver
rappresentato un vantaggio nell’evoluzione sociale di alcuni gruppi
culturali, portando conseguentemente alla loro sopravvivenza, mentre altri
gruppi hanno fallito».
Che la danza di gruppo abbia effetti prosociali è stato dimostrato da
Diane Ehlers e dai suoi colleghi nell’ambito di un esperimento condotto su
69 adulti. La quantità di stress e solitudine si riduceva in maniera
significativa.348
Oggi esistono numerosi studi di questo tipo.349 Da una metanalisi di 60
esperimenti sugli effetti dell’agire in sincrono, sono stati registrati un
aumento del 49 percento della disposizione prosociale e un aumento del 45
percento dell’azione prosociale.350 L’effetto prosociale della musica
d’insieme o del coro si riscontra già nei bambini di 4 anni.351

Riassumiamo
Al lettore attento non sarà sfuggito che siamo tornati al nostro amato «coro
parrocchiale» di cui si parlava all’inizio. Con la precisazione che manca
ancora l’elemento spirituale (si veda il prossimo capitolo) e che, inoltre, non
stiamo parlando qui di semplici consigli, bensì di conoscenze acquisite e
utili per cominciare ad affrontare il problema della solitudine con tutte le
sue ricadute psicofisiche non solo individuali ma anche sociali. Non si tratta
di dare ricette per la felicità né di imporre a tutti i costi la creazione di una
comunità, bensì di sottolineare il carattere sociale degli uomini nonché
l’importanza di riconoscerlo e di rafforzarlo, anche attraverso attività
culturali che sembrano ormai scomparse. Dare, aiutare («col cuore» e non
perché si deve), fare musica, cantare, ballare sono pratiche che si ritrovano
in ogni cultura. Per il semplice motivo che le culture che non hanno
coltivato tali attività non sono sopravvissute.
In altre parole: nel caso delle prime due azioni – dare e ricevere – si
tratta di atti di cooperazione, mentre le altre tre attività (musica, canto e
danza) sono atti di coordinazione che, come è comprovato, favoriscono la
cooperazione. Alcuni studiosi avevano ipotizzato già da tempo la presenza
di questi meccanismi, che tuttavia sono stati dimostrati soltanto in questi
ultimi anni.
Alla luce di tali scoperte, è un peccato che oggi negli asili e nelle scuole
si canti e si suoni meno di prima, come è un peccato che nella maggior
parte delle società sviluppate i «balli di gruppo» (figura 9.3) abbiano perso
il valore che avevano nelle società semplici (primitive), o infine che
l’egoismo sia diventato per molti una norma di comportamento del tutto
naturale.
9.3: La danza di gruppo è un’importante componente della quotidianità per il popolo San, un
popolo di cacciatori e raccoglitori che vive nella zona nord-orientale della Namibia (quasi)
allo stesso modo in cui viveva nell’età della pietra migliaia di anni fa.352

Da un punto di vista economico, dare e ricevere costituiscono una


perdita di tempo e denaro. Tuttavia, proprio negli ultimi decenni è stato
dimostrato – con gli strumenti dell’economia comportamentale e ormai
anche della neuroeconomia – che gli individui attribuiscono valore a
giustizia ed equità. Pagano addirittura per averle, se ne hanno la possibilità.
Chi parte dal presupposto che l’uomo sia «di base» (o addirittura «per sua
natura») egoista, non è in grado di spiegare questo comportamento! Tale
supposizione non si accorda nemmeno con la scoperta che felicità e salute
sono strettamente legate alla presenza di una comunità funzionante, e
dunque alla presenza di giustizia ed equità.
Tutte le azioni che ci fanno avvicinare gli uni agli altri operano contro la
solitudine: dare qualcosa a chi ne ha bisogno, aiutare, muoversi in maniera
coordinata (e contemporaneamente produrre suoni gradevoli). La solitudine
non è un destino che colpisce il singolo o la società. Ogni individuo può
occuparsi di più degli altri, mentre la nostra società può dare più spazio ai
suoi membri e provvedere a creare un contesto più «adeguato alla nostra
specie», più umano e maggiormente orientato alla socialità.
Capitolo 10

Alla ricerca della solitudine

Ciascuno di noi, magari dopo una dura giornata di lavoro, conosce la


sensazione di averne abbastanza di tutto e di tutti nonché l’aspirazione a
una vita da stilita. Da questo punto di vista non vi sono differenze tra donne
e uomini: desideriamo un po’ di tranquillità, non vogliamo vedere nessuno
né parlare con nessuno. Nella testa un unico pensiero: solitudine... il
paradiso terrestre!
Alla luce di quanto è stato detto e spiegato nei precedenti capitoli, tutto
ciò potrebbe apparire paradossale. Eppure, in questi casi è effettivamente
molto ragionevole fare proprio quel che si desidera: cercare la solitudine.
Basta sapere dove! Il che vuol dire: non cercare distrazioni, non accendere
la televisione e non passare «giusto un paio d’ore» su internet. Perché sul
breve periodo, tutte queste azioni ci inducono a disperderci ancora di più,
invece di aiutarci a trovare un momento di raccoglimento; sul medio
periodo ci lasciano un senso di vuoto e alla lunga nuocciono alla salute.
Come e dove cercare allora la solitudine?
La risposta è molto semplice: in maniera attiva, all’aperto! Non
abbandonatevi passivamente alla solitudine, perché i sogni a occhi aperti
alla lunga finiscono per deprimere. È il risultato di una serie di esperimenti
pubblicati sulla rivista Science dagli psicologi di Harvard.353 Dalla
medesima università sono stati prodotti anche altri dieci esperimenti
pubblicati sempre su Science, con i quali si dimostra che si tende a
percepire lo stare da soli con i propri pensieri come qualcosa di spiacevole,
così tanto che non pochi dei soggetti coinvolti negli esperimenti hanno
preferito provocarsi degli stimoli dolorosi (attraverso una forma di
elettroshock) piuttosto che rimanere da soli a pensare.354 Dunque, se volete
fare un’esperienza di solitudine, cercatela attivamente – meglio ancora se
all’aperto, nella natura.
Natura
Se cercate la solitudine, andate nel verde o nell’azzurro! È un consiglio
apparentemente banale, ma che è il risultato di una serie di accurate ricerche
scientifiche. In generale, si osserva che moltissime persone amano stare in
mezzo alla natura o almeno portarsi, nei limiti delle proprie possibilità, un
pezzo di natura dentro casa. Appendiamo quadri di paesaggi alle pareti,
sistemiamo piante nelle stanze e siamo contenti se riceviamo dei fiori. Sono
diversi i motivi per cui l’uomo gode del contatto con la natura: ci sentiamo
meglio, più sani, più tranquilli, più carichi e siamo meno stressati.
In un esperimento, i partecipanti hanno assistito a un film che
approfondiva la tematica degli incidenti sul lavoro, argomento che
notoriamente provoca stress. In seguito, i partecipanti sono stati assegnati
con criterio casuale a tre gruppi differenti (relax, osservazione della natura,
osservazione di altre immagini) e gli sperimentatori hanno misurato, tra le
altre cose, i parametri fisici della reazione di stress. Ne è risultato che
l’osservazione della natura era l’attività che più mitigava lo stress provocato
dal film, perché conduceva all’attivazione del sistema nervoso
parasimpatico, la parte del sistema nervoso vegetativo responsabile della
conservazione e della rigenerazione del nostro corpo (diversamente dal
sistema nervoso simpatico, che viene attivato in caso di stress).355
Gli scienziati della californiana Stanford University hanno fatto
passeggiare per 50 minuti i 60 partecipanti al loro studio in città o in mezzo
alla natura. Ciascun soggetto, sia prima sia dopo la passeggiata, è stato
sottoposto a una serie di test psicologici. Nel confronto tra il prima e il
dopo, i test hanno dimostrato che stare nella natura (diversamente che in
ambiente urbano) portava a una riduzione di ansia, tendenza a rimuginare e
cattivo umore. Anche la facoltà di pensiero, misurata attraverso un test di
matematica e memoria, risultava migliorata dopo l’immersione nella
natura.356
Una passeggiata di 90 minuti nel verde riduce in particolare la tendenza
a rimuginare, ovvero la ripetizione quasi ossessiva di pensieri negativi sul
sé, che spesso tormenta le persone che soffrono di depressione. Una
passeggiata in città non produce lo stesso effetto. Bisogna sottolineare che
nell’esperimento l’assegnazione del soggetto alla natura o alla città avviene
in maniera casuale. Poiché per mezzo di una risonanza magnetica
funzionale (RMF) viene già misurata l’attività cerebrale che accompagna il
rimuginio nei pazienti depressi, gli sperimentatori sono stati naturalmente
portati a farlo anche prima e dopo la passeggiata. In questo modo si è visto
effettivamente che l’attività di una precisa area cerebrale – la corteccia
prefrontale subgenuale – si riduceva dopo la passeggiata nella natura ma
non dopo la passeggiata in città.357 Poiché il rimuginio è un comportamento
che con il tempo può trasformarsi in depressione, gli autori degli
esperimenti attribuiscono all’esperienza nella natura un effetto profilattico.
Anche la creatività cresce se si trascorre del tempo nella natura, come
dimostrano alcuni scienziati britannici in un lavoro dal titolo suggestivo
Creativity in the Wild. Gli scienziati hanno utilizzato test di creatività in cui,
per tre parole date, bisognava trovarne una quarta in qualche modo attinente
alle tre precedenti. Poteva trattarsi di un sinonimo, di una parola che unita
alle altre formava composti di senso compiuto, o di un’associazione.
A 24 partecipanti del test sono stati assegnati dieci quesiti creativi
standardizzati prima di partire per un’escursione di quattro giorni nella
natura («senza connessione con tecnologie e apparecchi multimediali»,
come sottolineano gli autori stessi)358; ad altri 32 partecipanti i quesiti sono
stati assegnati invece dopo l’escursione. Un miglioramento della creatività è
stato riscontrato nel gruppo che ha effettuato il test dopo l’escursione, con
un incremento del 50 percento rispetto al gruppo che ha effettuato il test
prima dell’escursione.
Un altro studio ha cercato di capire se l’aumento della creatività dipenda
dalla passeggiata o dalla natura. Infatti, sono stati riscontrati effetti positivi
sulla creatività sia come conseguenza dell’attività fisica359 sia come
conseguenza del contatto con la natura.360 Per il loro esperimento, gli
scienziati stessi hanno messo in gioco la propria creatività ideando due
nuove condizioni di controllo: hanno messo a confronto lo stare seduti alla
scrivania, una passeggiata nella natura, una camminata sul tapis roulant e –
la condizione più importante per l’esperimento – l’essere accompagnati
nella natura su una sedia a rotelle. Si è dimostrato che sia l’elemento
motorio sia l’immersione nel contesto naturale avevano un effetto positivo
sulla creatività. Se si vuole essere più creativi, dunque, non c’è niente di
meglio che fare jogging nel parco!
Gli effetti immediati riscontrati in questo esperimento vanno distinti
dagli effetti duraturi sulla salute. Trascorrere del tempo nella natura riduce
lo stress e ha effetti positivi sulla salute fisica e psichica (tabella 10.1). È
stato inoltre rilevato che un ambiente più vicino alla natura agisce sulla
nostra salute in maniera positiva. Concretamente ci riferiqamo a piante
(prato, cespugli, alberi) e acqua, motivo per cui nella letteratura di lingua
inglese si parla di Green Space e Blue Space. Quanto più verdi sono i
quartieri di Monaco, tanto più bassa è la pressione arteriosa dei bambini di
10 anni che vi abitano.361 La salute degli inglesi che vivono sul mare è più
robusta rispetto alla salute dei connazionali che vivono distanti.362 In questo
modo le scienze, e soprattutto la medicina, hanno confermato quello che
molte persone semplicemente intuiscono: la natura ci fa bene.

Tabella 10.1: Gli effetti della natura sulla nostra salute.

Anno Paese Numero Cosa? Effetto


delle
persone
coinvolte

2014363 Gran 1.064 trasferimento migliore salute psichica


Bretagna in una zona
più vicina alla
natura

2014364 Stati Uniti 2.479 numero di maggiore il numero, migliore la


alberi nel salute psichica
quartiere

2015365 Stati Uniti 4.338 indici di minore insorgenza di depressioni


vegetazione

2009366 Olanda 345.143 spazi verdi nei maggiore il numero, minori i casi di
pressi depressione e ansia
dell’abitazione

2014367 Germania 2.078 aree verdi minore la percentuale, più alta la


nella zona pressione arteriosa di bambini
residenziale dell’età di 10 anni
cittadina (%)

2013368 Nuova (nessun aree verdi maggiore la percentuale, minori i


Zelanda dato) nella zona (%) casi di disturbi d’ansia e disturbi
affettivi

2010369 Giappone 280 15 minuti di riduzione del livello di cortisolo,


tempo in un abbassamento della frequenza
bosco cardiaca e della pressione
arteriosa
2013370 Scozia 106 aree verdi maggiore la percentuale, minore il
nella zona livello di cortisolo nella saliva
residenziale
(%)

2010371 Danimarca 11.238 vivere a più di aumento dello stress del 42% (self-
1 km di report); livello più basso di salute
distanza da fisica e psichica, vitalità; più sintomi
alberi di dolore

2013372 Gran 12.360 vita nelle migliore stato di salute fisica e


Bretagna vicinanze psichica
della costa

Uno studio condotto in Gran Bretagna373 è riuscito nell’impresa di


sistemare, con distribuzione casuale, 169 famiglie in condizioni
svantaggiate con figli di età compresa tra i 7 e i 12 anni (91 maschi e 78
femmine) in case popolari situate in dodici differenti isolati e non tutte a
egual distanza da aree verdi: alcune case erano circondate da asfalto,
cemento e muri, altre da prato e/o alberi. A venire misurata è stata la
capacità di autoregolazione e autodisciplina dei bambini, vale a dire la
capacità di concentrazione e di controllare gli impulsi nonché la
gratificazione differita. Per tutte e tre le variabili, le femmine hanno rivelato
un effetto chiaro e statisticamente significativo: se vivevano nel verde, la
loro capacità di autoregolazione era maggiore; erano più concentrate e
dominavano meglio se stesse e soprattutto le loro emozioni. Nei maschi non
si è registrato alcun effetto.
Ancora dalla Gran Bretagna abbiamo un altro studio che utilizza
creativamente le possibilità delle tecnologie digitali (smartphone) per
misurare gli effetti dell’ambiente circostante sulle condizioni individuali.374
A 20.000 persone è stato richiesto di comunicare la loro condizione
attraverso lo smartphone, rispondendo ad alcune domande che comparivano
sullo schermo del dispositivo a intervalli di tempo del tutto casuali. Intanto,
il sistema di navigazione satellitare (GPS) nello smartphone registrava il
punto esatto in cui la persona si trovava mentre rispondeva ai quesiti. I dati
sulla posizione sono stati utilizzati per misurare, per ogni individuo, i
cambiamenti della sua condizione in rapporto alla quantità di verde presente
nell’area immediatamente circostante. Per non cadere in errore, sono state
contemporaneamente registrate anche le condizioni meteorologiche, l’ora e
le attività che il soggetto stava svolgendo, nonché l’eventuale compagnia. I
dati raccolti hanno mostrato molto chiaramente che le persone si sentono
meglio e sono più felici quando si trovano all’aperto, nella natura, rispetto a
quando sono nel «grigio ostile alle forme di vita»375 fatto di cemento e
asfalto.

Il «bagno di foresta»
Se si osservano con più attenzione gli studi riportati nella tabella 10.1, si
nota innanzitutto che, seppur differenti, gli effetti elencati mostrano delle
sovrapposizioni. Queste ci indicano chiaramente che la natura ha la capacità
di ridurre lo stress. È quanto alcuni scienziati giapponesi hanno verificato,
studiando gli effetti positivi del trascorrere del tempo – seduti o
camminando – nella foresta.376 Per iniziativa del ministero per l’Agricoltura
e l’economia forestale e della pesca, dal 1982 in Giappone si parla di
«bagno nella foresta» (Shinrin-yoku: un po’ come i nostri «bagni di sole»).
Nella foresta, infatti, ci si immerge «con tutti e cinque i sensi».377
Per comprendere cosa accade precisamente, è stato chiesto a 12 studenti
maschi di circa 21 anni di camminare o sedere per 15 minuti nella foresta.
L’esperimento è stato ripetuto 24 volte in diverse aree forestali del paese,
per escludere che gli effetti registrati fossero quelli di una specifica foresta.
L’intento era quello di appurare in che modo la foresta agisce sul nostro
corpo e la nostra mente e, a tal scopo, sono stati misurati, sia prima che
dopo, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa (sistolica e diastolica), la
variabilità della frequenza cardiaca e il livello di cortisolo nella saliva.
Inoltre, è stato registrato l’umore di ciascun soggetto con l’aiuto di trenta
aggettivi, per ciascuno dei quali bisognava indicare quanto, su una scala da
0 a 4, rispondesse all’umore del momento. In questo modo sono state
definite sei dimensioni statistiche: ansia e tensione (A), depressione e
abbattimento (D), rabbia e aggressività (W), stanchezza (F), confusione (C)
e vitalità (V). Nel complesso lo studio ha dimostrato che il bagno nella
foresta riduce la concentrazione di cortisolo nel sangue (l’ormone dello
stress), la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. Al contempo le
persone si sentono meglio e più equilibrate.
Non tutti, però, vivono nelle vicinanze di una foresta. Per questo è
importante riscontrare che anche cambiamenti apparentemente minimi
nell’ambiente circostante possono avere effetti misurabili sulla salute e il
benessere della persona.
In un ampio studio condotto nei Paesi Bassi378 è stata misurata la
percentuale di superficie verde nel raggio di 1 o di 3 chilometri
dall’appartamento dei soggetti coinvolti nel test. Per lo studio sono stati
utilizzati i dati su 24 malattie frequenti, raccolti su una base di 345.143
pazienti di 96 studi medici. In un’area contenente una superficie verde che
superava il valore medio del 10 percento, si riduceva il rischio di contrarre
15 delle 24 malattie. Se si considerava un’area più ampia (3 km), gli effetti
erano praticamente nulli. Per la salute degli abitanti è decisiva dunque la
vicinanza al verde!
La cosa risultava particolarmente evidente se si confrontavano persone
che avevano il 10 percento di verde nelle vicinanze (raggio di 1 km), con
persone che nel proprio circondario avevano il 90 percento di verde: con
meno verde, la probabilità di soffrire di depressione era più alta del 25
percento e la probabilità di soffrire di disturbi d’ansia era più alta del 30
percento. In generale, la correlazione tra la quantità di verde nelle vicinanze
e la morbilità del paziente stimata dal medico era all’incirca pari alla
correlazione tra età anagrafica e morbilità. «L’1 percento di verde in più ha
sullo stato di salute lo stesso effetto di un anno in meno di età» commentano
gli autori.379 È stato inoltre accertato che la correlazione tra quantità di
verde nelle immediate vicinanze dell’alloggio, da un lato, e presenza di
malattie, dall’altro, raggiunge la grandezza massima in quei soggetti che
effettivamente riteniamo più «a rischio»: i bambini e le persone
appartenenti a ceti sociali svantaggiati. Può quindi essere d’aiuto trasferirsi
in una zona più verde, con più alberi sui lati della strada, più giardini privati
e parchi pubblici?
Da un punto di vista scientifico possiamo rispondere affermativamente
alla domanda, perché è proprio quello che è stato approfondito in uno studio
longitudinale.380 È stato scoperto che un tale cambiamento delle condizioni
abitative rende le persone più felici e più soddisfatte della vita, almeno per i
tre anni successivi al trasloco. L’effetto non è risultato particolarmente
grande se, ai fini del raggiungimento della felicità personale, il
trasferimento in un’area più verde comportava per il soggetto solo un
decimo dell’importanza rivestita dal posto di lavoro, o un terzo
dell’importanza rivestita dalla relazione di coppia (due fattori ampiamente
studiati, che influiscono in maniera significativa sulla felicità e la
soddisfazione duratura di una persona).381 Invece, rispetto a un altro
indicatore noto per la felicità percepita – il tasso di criminalità nella propria
zona abitativa – l’effetto prodotto da una zona con maggiore quantità di
verde era maggiore. Nel complesso lo studio mostra che il trasferimento in
una zona più verde ha ripercussioni positive sulla salute dell’individuo.
Alla luce di quanto detto fin qui, non meraviglia tra l’altro che un legame
duraturo con la natura sia correlato con la felicità, come ha riportato una
metanalisi di 30 studi su un totale di 8523 persone.382 L’esperienza della
natura provoca felicità, soddisfazione e salute.383 Rispetto all’argomento di
questo libro è tuttavia della massima importanza il fatto che l’esperienza
della natura si ripercuote positivamente anche sulla coesione sociale. I suoi
membri diventano «persone migliori» quando sono nella natura; non solo
riescono a pensare in maniera più chiara e creativa, hanno un umore
migliore e sul lungo periodo sono più sane, ma anche dal punto di vista
morale si comportano più umanamente, nel senso che si preoccupano un
po’ meno di se stessi e un po’ di più degli altri. Nella natura, valori come
comunità e affetto diventano più importanti dei valori materiali. Ne
consegue che l’esperienza della natura porta, come è comprovato, a una
riduzione dell’aggressività, della violenza e della criminalità.384 Ma perché?

Venerazione ed empatia
«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova
e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse:
il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me». Così Immanuel Kant
(1724-1804), il filosofo più famoso dell’illuminismo tedesco conclude la
sua Critica della ragion pratica.385
Già da un punto di vista formale, cioè per la lingua utilizzata, questo
brano suona singolare. Anche dal punto di vista del contenuto però è
difficile per l’uomo contemporaneo comprendere in che modo siano legati il
cielo stellato da una parte (fenomeno della natura e/o della fisica), e l’uomo
come essere sociale dall’altra (osservato dal punto di vista dell’agire morale
e dunque dell’etica). Come intendeva Kant questo legame? E in generale,
cosa vuole dirci?
Se ci soffermiamo con attenzione, si comprende più precisamente a cosa
egli si riferisca. Innanzitutto, alla sensibilità dell’immediato esperire: vedo
le stelle davanti ai miei occhi; non si tratta quindi semplicemente di pensieri
e supposizioni, ma dell’esperienza della natura. In questa esperienza si ha
contemporaneamente una duplice percezione: quella della grandezza386 e
quella della piccolezza. Chi non l’ha già sperimentato, alzando gli occhi al
cielo in una serena notte di stelle? E se si possiedono un minimo di
conoscenze scientifiche di base, si sa che quei puntini luminosi non sono
dei buchi in una parete scura che di notte copre il sole, ma giganteschi soli a
distanze inimmaginabili nello spazio, con eccezione dei pochi pianeti e dei
molti satelliti che ruotano loro intorno. A questa vista ci si sente
infinitamente piccoli.387 Nell’esperienza della grandezza, dell’«infinitezza»
(quantomeno percepita) la propria piccolezza e finitezza diventano
chiarissime.
Anche nella sfera della morale grandezza e piccolezza vengono esperite
contemporaneamente, però nell’ordine inverso, perché l’esperienza muove
dalla propria piccolezza. Se penso me stesso come soggetto che con il suo
agire interviene negli avvenimenti mondiali, percepisco innanzitutto la mia
limitatezza («chi sono io in confronto a tutti gli altri?»); subito dopo però
penso anche all’ampiezza della società e al suo mutare nel futuro. E così,
invece che partire dall’universo, dal grande, per arrivare al piccolo, parto
dal piccolo del qui e dell’ora per arrivare all’infinito spaziale e temporale.388
Guardando la natura – il cielo stellato, la foresta, le cascate, il mare, le
ampie pianure, le montagne, le valli – ci percepiamo come parte di un tutto
più grande. Nel fare ciò diventiamo consapevoli di quanto siamo piccoli e
nel contempo giganteschi (come parte del tutto cui apparteniamo). Kant
ipotizzava che questa sensazione ci portasse anche a comportarci in maniera
più solidale verso il prossimo. La legge morale di cui parla Kant è di
fondamentale importanza per l’esistenza stessa di una società, che può
funzionare solo e soltanto sulla base di norme generali da rispettare e di
valori che non dipendono da leggi naturali, ma che siamo noi stessi a darci.
Potremmo limitarci a queste riflessioni sullo stretto legame tra
esperienza della natura e agire morale, se non fosse che entrambi i termini
di questo legame conoscono oggi una profonda crisi e profondi deficit.
1) Deficit nell’esperienza della natura. L’uomo di città (i tre quarti della
popolazione mondiale, con tendenza crescente) ha perso quasi totalmente il
contatto con la natura: in primavera fioriscono le piante del giardino, in
estate si sopporta il caldo e si innaffia il prato, in autunno si raccoglie il
fogliame e forse si fa anche una passeggiata nel bosco per ammirare il
foliage. Ma in inverno si maledicono il nevischio, il ghiaccio e altri
«capricci» della natura. Tutt’al più ci si consola del paesaggio innevato
durante la settimana bianca.
Soprattutto i più giovani non comprendono perché dovrebbero andare
nella natura: Perché uscire, se abbiamo un iPhone?, titolava già quattro
anni fa la rivista Economist, riferendosi al crollo del numero di visitatori dei
parchi nazionali americani.389 In Germania, le cose non sono molto diverse:
la mia generazione, durante l’infanzia e la giovinezza, trascorreva all’aperto
una parte consistente del tempo libero. Era del tutto naturale, perché in giro
accadeva sempre qualcosa di interessante, mentre a casa non c’era nulla da
vedere. Oggi i giovani trascorrono in media dalle 5 alle 7 ore al giorno di
fronte a uno schermo (tv, consolle di gioco, video, computer, tablet,
smartphone) – e dallo schermo non si apprendono empatia e solidarietà.390
2) Deficit empatici e morali. Nel gennaio 2015 i giornali riportarono la
notizia che un giovane di 32 anni era morto in un internet-caffè di Taiwan
dopo aver giocato per tre giorni di seguito ai videogiochi. La causa di morte
era stata un arresto cardiaco; probabilmente era subentrato uno stato di
disidratazione e il giovane soffriva già di una malattia cardiaca. Si trattava
già del secondo caso del genere: il primo gennaio dello stesso anno, un
uomo di 38 anni era collassato dopo aver giocato per cinque giorni ai
videogame. L’articolo di giornale chiudeva con questa frase: «Secondo
quanto riferito dalla polizia, in entrambi i casi gli altri giocatori hanno
reagito con indifferenza. Alcuni hanno addirittura continuato a giocare,
mentre la Scientifica bloccava i tavoli per il rilevamento delle prove».
Dunque, una persona muore in un internet-caffè affollato, e tutt’intorno si
continua serenamente a giocare.
Chi pensa che si tratta di casi isolati, verificatisi peraltro lontano da noi,
in Asia orientale, e quindi per noi non rilevanti, si sbaglia. Secondo una
notizia dell’emittente tedesca WDR del primo febbraio 2015, un
automobilista distratto che viaggiava a velocità superiore ai limiti
sull’autostrada A2 nei pressi di Magdeburgo si è schiantato tamponando
una coda di auto. L’auto si è rovesciata e ci sono stati sei feriti. Nell’articolo
che dava la notizia si leggeva quanto segue: «Secondo quanto riportato
dalla polizia, numerosi automobilisti sono passati accanto al luogo
dell’incidente senza fermarsi ad aiutare; alcuni hanno addirittura scattato
foto. [...]»
Infine, nell’autunno 2017 un motociclista è morto dopo un grave
incidente ed è stato filmato con uno smartphone. Siamo evidentemente
circondati da persone la cui empatia per la sofferenza del prossimo è
limitata o del tutto ormai assente.
Vogliamo vivere in una società che non è più in grado né di provare reale
empatia e sensibilità morale né tantomeno di agire in modo etico ed
empatico? Sono profondamente convinto che solo pochissime persone
sceglierebbero un mondo simile, la maggior parte di noi aspira senza
dubbio a una comunità di uomini solidali.
I deficit dell’uomo contemporaneo rispetto all’esperienza della natura e
all’empatia sono evidenti, chiunque cammini per strada con lo sguardo
attento può osservarli. Dal mio punto di vista, ritengo sia importante essere
arrivati a sapere che non solo è possibile supporre una correlazione
sistematica tra l’esperienza della natura e il comportamento sociale, ma che
tale correlazione si può anche dimostrare empiricamente.

Motivi intrinseci versus motivi estrinseci


Alcuni psicologi americani dell’Università di Rochester hanno voluto
verificare come l’esperienza della natura si ripercuota sulla disposizione
dell’uomo nei confronti del suo prossimo. Per farlo, hanno individuato
innanzitutto due forme di spinte nella vita: quella intrinseca e quella
estrinseca. I motivi intrinseci riguardano direttamente i nostri bisogni innati,
come il bisogno di comunità, di intimità e di crescita personale. I motivi
estrinseci invece riguardano cose che non hanno un valore in sé, ma che ne
acquisiscono perché tutti le desiderano. Esempi di questo tipo sono i soldi,
o la buona fama.
Essenzialmente i motivi intrinseci si riferiscono alla comunità, mentre i
motivi estrinseci si riferiscono all’io. È interessante osservare che la felicità
personale dipende fortemente dal nostro orientamento verso la comunità o
verso noi stessi: se per esempio spendiamo soldi per gli altri, accresciamo la
felicità personale; se spendiamo soldi per noi stessi, la felicità personale
non aumenta.391
E poiché la natura ci fa sentire parte di un contesto più ampio e parte di
una comunità fatta di altre persone, mentre gli ambienti chiusi e artificiali
rimandano a limiti e barriere e – in ultima istanza – a sentimenti egoistici,
tali effetti dovrebbero essere anche dimostrabili.
Siamo soliti associare un contesto artificiale alla vita quotidiana e allo
stress che ne deriva: pressione, fretta, interessi e conflitti, traffico
automobilistico e consumo, dipendenze e difficoltà. È la vita in città.
L’esperienza della natura ci dona invece pace, sollievo dallo stress,
autonomia e libertà. Gli autori si esprimono così: «Da un punto di vista
fenomenologico, l’autonomia viene vissuta come legame con se stessi,
ovvero come la sensazione di accordo col proprio io e di padronanza del
nostro essere, liberi da pressioni esterne e interne [...]. In particolare, la
natura può rinforzare direttamente la nostra autonomia fornendoci
sensazioni stimolanti che soddisfano la nostra personalità e ci orientano al
presente, nonché la possibilità di integrare queste esperienze con
un’introspezione rinfrancante e con un senso coerente del sé. La natura ci
offre inoltre un’alternativa alla vita di tutti i giorni».392
Per verificare empiricamente tali considerazioni, gli autori hanno
condotto 4 semplici esperimenti. In primo luogo, in tutti e quattro i test i
partecipanti sono stati distribuiti con criterio casuale nel gruppo «natura» o
nel gruppo «non natura». Quindi, veniva chiesto loro di riempire una serie
di questionari in cui erano inserite, in ordine sparso, domande relative ai
motivi intrinseci ed estrinseci. Il primo esperimento consisteva
nell’osservare alcune fotografie indossando degli auricolari in cui una voce,
con precise indicazioni, invitava alla meditazione. Al termine
dell’osservazione bisognava nuovamente compilare dei questionari sui
motivi intrinseci ed estrinseci, nonché sul grado di immersione nei paesaggi
osservati e sulla presenza di emozioni positive come pace e felicità.
Nel primo esperimento, i 98 soggetti coinvolti hanno osservato per 2
minuti quattro fotografie: o quattro paesaggi (naturali), oppure quattro
immagini di città, cioè di ambienti costruiti dall’uomo. Intanto, nelle cuffie
si sentiva il seguente testo: «Immaginatevi di trovarvi in questo luogo
[pausa]. Concentratevi sui colori [pausa]. Notate le strutture. Immaginatevi
di respirare l’aria del posto e concentratevi sugli odori [pausa].
Immaginatevi i rumori che potreste sentire [pausa]. Assorbite
profondamente in voi tutti gli aspetti di questo paesaggio.»
Le domande poste in seguito all’immersione nell’immagine erano: «Con
che intensità erano presenti tutti e cinque i vostri sensi?» «In che misura
percepivate realmente di trovarvi nel luogo che vedevate?» «In che misura
gli aspetti visivi dell’ambiente vi hanno colpito?» Alle domande si
rispondeva con una scala che andava da 0 (per nulla) a 5 (molto). Altre
domande riguardavano i motivi intrinseci (relazioni sociali e collettività,
come per esempio «avere una relazione profonda e duratura» o «lavorare
per il miglioramento della società») ed estrinseci (soldi e fama, del tipo
«avere successo economico» o «essere ammirato dalle altre persone»).
L’esperienza di natura portava, nell’esperimento, a una accresciuta
motivazione intrinseca e a una maggiore autonomia personale (con frasi
come «mi sento libero e ho la possibilità di decidere come vivere la mia
vita» o «in questo momento sento di poter essere me stesso»).
Un secondo esperimento con altre immagini ha avuto lo stesso esito.
Questa volta però non era legato a immagini di luoghi specifici, ma a
generici paesaggi naturali. Si è potuto constatare inoltre che gli effetti
dell’immersione nella natura (diversamente dall’immersione nella città)
sono determinati dall’intensità del legame con la natura e dal grado di
autonomia percepita.
Un terzo esperimento con 85 partecipanti ha dimostrato che l’esperienza
della natura ha un effetto diretto sulla generosità verso gli altri. «Quanto più
i soggetti si immergevano in immagini della natura, tanto più probabilmente
compivano scelte generose; e quanto più si immergevano in immagini di
paesaggi artificiali, tanto meno generosi e più avari si dimostravano i
soggetti coinvolti».393
In un quarto esperimento con 72 partecipanti gli autori sono infine
tornati a chiedersi se tali effetti erano riscontrabili anche con la natura
«reale» oltre che con le immagini. La risposta è stata affermativa.
È comprovato dunque che l’esperienza della natura riduce il nostro
livello di egoismo, quasi il nostro ego diventasse più piccolo di fronte a
monti, valli, alberi e fiumi (come hanno potuto dimostrare altri studi).394
Pertanto, non è indifferente in quale luogo ci rechiamo alla ricerca di
solitudine; e di certo non è una decisione irrilevante quella di costruire un
parco cittadino.
Facciamo parlare ancora una volta gli autori: «I nostri risultati
dimostrano complessivamente che il contatto con la natura ha su di noi
effetti legati al nostro essere uomini, rafforza il nostro grado di autenticità e
comunione, che a sua volta porta a un maggiore orientamento verso gli altri
piuttosto che verso se stessi. Esso conduce a stima dell’altro e generosità
verso l’altro. [...] I nostri dati dimostrano che, nella misura in cui perdiamo
il nostro legame con la natura, perdiamo anche il legame con le altre
persone». Ciò vuol dire, in conclusione, che quando cerchiamo la solitudine
nella natura ci liberiamo anche della nostra solitudine!
Spiritualità versus materialismo
Che i soldi rendano soli è stato ampiamente dimostrato in numerosi studi.395
Chi pensa ai soldi è meno pronto ad aiutare e tende a chiedere meno aiuto
agli altri; si allontana dagli altri e preferisce stare da solo. Il pensiero dei
soldi attiva nella nostra mente l’esatto opposto del senso di comunità:
tornaconto personale ed egoismo. I soldi favoriscono in noi la convinzione
di «bastare a noi stessi» e uno studio dimostra che già solo pensare ai soldi
è sufficiente per collocare gli uomini all’interno di un sistema di riferimento
individualista (per non dire: autoreferenziale ed egoistico).396 Questi dati
ben si accordano con uno studio condotto tra il 1996 e il 2000 sugli obiettivi
nella vita di 1854 studenti provenienti da 15 paesi.397 Tali obiettivi si
possono ricondurre statisticamente a due dimensioni: intrinseci vs estrinseci
e spirituali vs fisici/materiali. Si può costruire così una rappresentazione
bidimensionale in cui «comunità» e «successo economico» si collocano agli
antipodi (figura 10.1).
10.1: Rappresentazione bidimensionale di quattro obiettivi, selezionati a titolo di esempio
dallo studio sugli obiettivi di vita dei giovani.398 Gli obiettivi di «comunità» e «successo
economico» sono diametralmente opposti. Abbiamo aggiunto altri due obiettivi per rendere
più chiaro il «sistema di valori».

Se, detto tutto ciò, siamo intenzionati a spendere dei soldi per contrastare
la solitudine (si parla di «shopping-terapia») dovremmo tenere presenti tre
cose:

1) Solo quando si spendono soldi per gli altri si lavora per il proprio
benessere.399
2) Non è una questione di quantità.
3) Meglio non spendere soldi per oggetti, ma per esperienze.400 Gli oggetti
si accumulano e occupano spazio; bisogna riordinarli, curarli, e
comunque si impolverano, arrugginiscono o si rompono. Le esperienze
rimangono nella nostra memoria, non hanno bisogno di spazio e di cure e
con il tempo diventano sempre più «rosee», perché le «lenti rosa» della
memoria trasformano ogni vacanza, anche se non sempre da sogno, in
una storia fantastica da raccontare al rientro.401

Esperienze piene di soddisfazioni si fanno soprattutto con le altre persone e


all’aperto, nella natura. «Alzando lo sguardo verso una cascata, o facendolo
scorrere giù per una vallata dalla cima di una montagna, si prova una
particolarissima sensazione di gioia, distensione e soddisfazione che in
alcune persone arriva a tramutarsi in sentimento religioso» scrivevano le
psicologhe americane Laura Fredrickson e Dorothy Anderson già nel 1999.
Con due gruppi di donne (12 in totale), avevano condotto due escursioni
nella natura (5 nella Boundary Waters Canoe Area Wilderness, nel
Minnesota settentrionale, e 7 nel Grand Canyon, in Arizona) e alle
partecipanti avevano chiesto di tenere un diario delle loro impressioni.
Queste testimonianze erano state completate da interviste finalizzate ad
acquisire un quadro chiaro e approfondito delle esperienze di tutte le
persone coinvolte. Era risultato che le esperienze fatte insieme, come
gruppo, avevano per la maggior parte delle partecipanti un carattere
spirituale.402
Non è un caso che movimenti come lo scoutismo e i Wandervögel
(letteralmente «uccelli migratori», organizzazione giovanile tedesca di
inizio secolo) siano stati inventati più di cento anni fa da giovani uomini
profondamente legati alla natura e si siano diffusi in tutto il mondo nel giro
di pochi anni. Se non esistessero, bisognerebbe inventarli! Recenti studi
mostrano gli effetti positivi che l’esperienza collettiva nella natura ha
sull’uomo: negli Stati Uniti, nell’ambito di un sondaggio della Gallup, sono
stati intervistati 134 eagle-scout (il livello più elevato di boy-scout), 853
boy-scout e 1502 persone comuni. Si è registrato innanzitutto il numero di
anni trascorsi dai partecipanti negli scout prima dei 18 anni (da «0» a «5 o
più»). Poi sono state registrate la capacità di prefissarsi obiettivi e di
pianificare, nonché la rete sociale e l’inserimento in gruppi. Per mezzo di
procedimenti standardizzati sono stati registrati dati anche sul
comportamento nel tempo libero e sulle abitudini relative alla salute,
nonché sul benessere soggettivo. Inoltre, è stato chiesto a ciascun
partecipante di indicare dodici attività che svolgeva all’aperto nel tempo
libero (per esempio escursioni, canottaggio, pesca, campeggio, sport
invernali) e altre quattro attività di tipo diverso (teatro, concerti,
partecipazione a eventi di formazione o aggiornamento, suonare uno
strumento, leggere libri...). Si sono acquisite informazioni sulle attività
sportive registrando il numero di giorni a settimana (da 0 a 7) in cui il
soggetto del test praticava almeno mezz’ora di sport. Il benessere soggettivo
è stato suddiviso in benessere sociale, benessere emotivo e benessere fisico
e i tre indicatori sono stati compilati singolarmente. Infine sono state poste
domande su età, stato di famiglia, stato socioeconomico (SES), cioè reddito
(in migliaia di US-$/anno), istruzione (negli anni della formazione) e
disoccupazione (sì/no), religiosità (partecipazione attiva), provenienza
etnica («white/non white») e origine (Northeast, Midwest, South, West).
La registrazione di tali variabili di controllo era importante perché esse
generano una serie di correlazioni: gli uomini sposati e i credenti sono più
sani e si sentono meglio degli uomini non sposati e dei non credenti. Lo
stesso vale, negli Stati Uniti, per la popolazione bianca in confronto a
persone di altra origine. Anche istruzione, reddito e occupazione (status
socioeconomico) hanno un’influenza rilevante sul benessere.
Il risultato più importante dello studio, però, è stato che il numero di anni
giovanili trascorsi negli scout è legato in positivo a tutti e tre gli indicatori
di benessere in età adulta (sociale, emotivo e fisico). La partecipazione a un
gruppo scout continua ad avere effetti positivi misurabili sulla vita delle
persone anche a distanza di trent’anni: un risultato notevole! Gli autori
riassumono così i loro dati: «I nostri risultati dimostrano che il senso di
inclusione diffuso negli scout era collegato positivamente al capitale umano
e sociale, nonché a sane abitudini nel tempo libero da adulti, elementi che a
loro volta sono legati positivamente al benessere soggettivo».403
Un dato in particolare: non sono solo le sane abitudini nel tempo libero a
influire positivamente sul benessere fisico (un risultato in effetti atteso):
anche la capacità di prefissarsi obiettivi (appresa con gli scout) influisce
positivamente sulla salute del nostro corpo. Negli scout, evidentemente, si
apprendono quelle che oggi vengono definite funzioni esecutive. Di queste è
stato approfonditamente studiato l’effetto positivo sulla salute e la
felicità.404
In altre parole: il tempo trascorso negli scout non ha un effetto positivo
diretto sul benessere dopo trent’anni, ma incoraggia un migliore sviluppo di
caratteristiche (della personalità) come la capacità di pianificazione e di
prefigurarsi obiettivi, nonché di sane abitudini sociali e comportamenti
collegati positivamente alla salute.
Vale la pena riportare quel che gli autori sottolineano in conclusione:
«Sin dai suoi inizi, il movimento scout ha educato bambini, adolescenti e
adulti a crescere come membri sani della società americana, in grado di
offrire un contributo attivo alla comunità. Nonostante la sua lunga storia (il
movimento è stato registrato nel 1910) e l’alto numero di iscritti in tutto il
paese (più di 2,7 milioni di giovani e giovani adulti di età comprese tra i 7 e
i 21 anni), non è stato fatto alcuno sforzo per analizzare il contributo che il
movimento ha dato alla gioventù e alla società americana. Il presente studio
rappresenta il primo passo in questa direzione».405
Fortunatamente non è rimasto l’unico. Sul numero dell’autunno 2016 del
Journal of Epidemiology and Community Health, un gruppo di ricercatori
britannici guidati da Chris Dibben ha citato uno studio prospettico sulla
coorte dei nati nel 1958.406 Lo studio rientrava nel National Child
Development Study e analizzava la correlazione tra appartenenza al
movimento scout in gioventù e salute psichica all’età di cinquant’anni.
Nello studio erano stati registrati tutti i nati in una settimana del 1958, circa
17.500 persone. Nel 2008 sono state condotte interviste con 9790 di loro
(che nel frattempo avevano raggiunti i 50 anni), per registrare la loro salute
psichica (mental health) tramite uno strumento di rilevazione
standardizzato. Di tutte le persone intervistate, il 28 percento aveva fatto
parte degli scout. L’appartenenza al gruppo non dipendeva tanto dalla
posizione sociale, quanto dalla regione di provenienza: la percentuale di
scout in Galles era più bassa che in Scozia.
Ecco il risultato più importante dello studio: chi in giovane età (nel caso
specifico negli anni Settanta) era stato membro degli scout riportava un
migliore stato di salute psichica all’età di 50 anni (quasi quarant’anni
dopo!). Tali effetti sono stati riscontrati in egual misura nelle ragazze e nei
ragazzi.
È importante sottolineare, anche, che l’appartenenza agli scout appiana
le differenze socioeconomiche: quanti non sono stati membri scout in
gioventù hanno ravvisato una forte probabilità di soffrire, in età adulta, di
disturbi psichici legati alla condizione socioeconomica dei genitori. In
breve: la povertà si ripercuoteva negativamente sulle loro vite. Ciò non si
verificava negli scout.
Come confermato dallo studio americano, l’effetto dipendeva «dalla
dose»: più tempo trascorso negli scout produceva effetti positivi più
marcati. Questo dato confuta l’ipotesi di un effetto di selezione, ovvero che
i risultati si spieghino anche in virtù della selezione delle persone (chi sarà
scout e chi no?). Nel complesso, lo studio britannico, per qualità
metodologica e numero di soggetti coinvolti, fornisce quella che a oggi è la
prova più solida degli effetti positivi del movimento scout sullo sviluppo di
bambini e adolescenti in adulti sani. I risultati confermano e completano
quelli dello studio americano.
In merito al movimento dei Wandervögel (in cui ha parte predominante
l’esperienza corale), si può aggiungere che un numero ancora più alto di
studi documenta che fare musica (cantare, suonare strumenti) ha un effetto
positivo sullo sviluppo psichico e sociale dei giovani.407
Poiché questi movimenti esistono da tempo, non c’è bisogno di
inventarli. Bisognerebbe però garantire un maggiore sostegno sul piano
istituzionale! Infatti, la quantità di risorse necessarie a incentivare
programmi già esistenti e, laddove siano scomparsi, a ricrearli, è
relativamente bassa.
Gli assistenti sociali nei centri per la gioventù forniscono oggi un
sostengo differenziato. Per questo tali attività non dovrebbero essere a
rischio, ma dovrebbero ottenere incentivi duraturi per mezzo della
partecipazione attiva di gruppi, con il sostegno di adulti volontari. Perché il
lavoro degli assistenti sociali funziona come la medicina: più economica,
più efficace e meno dolorosa per il paziente non è la terapia, ma la
profilassi! Abbiamo a disposizione tantissimi metodi per ridurre tendenze e
valori che sul lungo periodo rendono le persone infelici e sole,408 nonché per
favorire valori intrinseci: comunità, fiducia, orientamento verso valori non
materiali. Attività fisica (escursioni, arrampicata), musica e canto, teatro,
nonché «progetti manuali» (costruire una ruota idraulica o una casa
sull’albero, raccogliere pietre, funghi o foglie, dipingere ecc.)... tutte attività
all’aperto e in gruppo.
Se le cose stanno così, sorge spontaneo chiedersi perché, conoscendo gli
effetti positivi della natura sul corpo e sullo spirito, gli uomini non
trascorrano più tempo all’aperto. La risposta ci viene fornita da una piccola
ricerca, nell’ambito della quale è stata messa in luce la tendenza a
commettere un errore sistematico di valutazione nel definire la correlazione
tra la natura e lo stato di salute.
È stato chiesto a 150 studenti di valutare come si sentissero e che effetto
avrebbe avuto su di loro una passeggiata in un luogo chiuso, oppure
all’aperto, nel bosco. Alla fine dell’intervista la passeggiata veniva fatta
davvero, e poi si chiedeva nuovamente agli studenti di indicare come si
sentissero. Ne è risultato che nella previsione sulla passeggiata gli studenti
indicavano solo un relativo miglioramento del loro stato di benessere,
mentre dopo la passeggiata si sentivano sensibilmente meglio.
L’esperimento è stato ripetuto con un altro gruppo di 80 studenti che
dovevano fare una passeggiata (al chiuso o all’aperto) seguendo altri
percorsi, facendo una previsione della loro esperienza e riportando poi le
loro sensazioni: si è arrivati agli stessi risultati. Dunque basta fare una
camminata all’aperto, anche quando si pensa che questo non aiuti, o aiuti
ben poco.
I genitori del resto avranno vissuto la stessa esperienza con i loro figli:
«Ragazzi, facciamo una passeggiata dopo pranzo» avranno detto spesso
dopo il dolce della domenica, per ricevere solo risposte annoiate come:
«Dobbiamo proprio?» «Che noia, di nuovo?» «Pure la passeggiata? Vorrei
starmene un po’ per conto mio!» Ma se i genitori si impongono (cosa che
accade raramente), i figli dovranno poi ammettere quanto si fossero
sbagliati sugli effetti della passeggiata. Perché dopo sono contenti, loquaci,
pieni di nuove esperienze e hanno addirittura di nuovo voglia di un pasto
decente (e non di patatine e merendine). Davvero! Basta farlo: «Fuori, nella
natura! Ora!»

Riassumiamo
Quando trascorriamo del tempo nella natura con un sentimento di
abbandono, sentiamo che il nostro umore migliora, sentiamo di essere più
padroni delle nostre emozioni, di essere di nuovo in grado di concentrarci,
ci sentiamo meno stressati e più vicini ai nostri simili. La nostra
partecipazione emotiva cresce e siamo più generosi. Chi si sente in sintonia
con la natura riesce a immedesimarsi meglio in un’altra persona e ha un
atteggiamento più benevolo verso gli altri. Volendo riassumere brevemente
le conoscenze acquisite tramite metodi scientifici, potremmo dire che
l’esperienza della natura ci rende più sani, più felici, più creativi, più acuti e
(da un punto di vista morale) migliori. Il contatto con la natura riduce il
rimuginio, l’ansia e lo stress.
Già questo sarebbe sufficiente a consigliare una camminata nel verde a
quanti si sentono soli. Ma c’è dell’altro, difficile da esprimere e ancora più
difficile da descrivere con metodi quantitativi: la sensazione di essere più
vicini alle altre persone perché ci si sente parte di qualcosa di molto grande,
percependosi nel contempo come molto piccoli. Lo si potrebbe descrivere
con parole come «venerazione» e «spiritualità», se non si corresse il rischio
di essere tacciati di esoterismo. Invece non vi è nulla di esoterico in tutto
ciò. Per questo mi sono impegnato a riportare nel mio libro le migliori fonti
della ricerca scientifica, pubblicate soprattutto in anni recenti. In linea di
principio le idee presentate sono molto antiche e ci derivano anche dalle
diverse religioni. Spesso però vengono scartate con leggerezza in nome di
un approccio materialistico (un po’ come il discorso sul coro della chiesa
contro la solitudine!).
I soldi rendono soli, soprattutto quando si spendono in modo sbagliato
(molti soldi per acquistare cose per sé). Chi investe in esperienze comuni
combatte invece la propria solitudine in maniera efficace e duratura, perché
tali esperienze rimangono impresse nella memoria.
È senz’altro vero che, quando ci sentiamo sfiniti e stressati dopo
un’intensa giornata di lavoro, dovremmo ricercare fiduciosi un po’ di
solitudine. Adesso sappiamo non solo dove cercarla, ma anche quanto sia
sano trascorrere del tempo da soli nella natura e – tra l’altro – quanto ci
aiuta a combattere la solitudine!
Ringraziamenti

Questo libro è dedicato ai miei migliori amici, tra cui Thomas Kammer e
Georg Grön, con i quali discuto ogni giorno sulle cose che mi appassionano.
E benché ormai conoscano i miei pensieri così bene che a volte li
saprebbero mettere sulla carta meglio di me, leggono pazientemente ciò che
scrivo e, soprattutto, non mi lesinano le critiche: in tal modo rendono
migliori i miei saggi e rendono me più felice. Grazie mille!
Ringrazio Julia Ferreau e Birgit Sommer, che mi sono state accanto e mi
hanno aiutato, con tanto caffè, tanti libri e, soprattutto, tanta pazienza.
Ringrazio Thomas Tilcher per la revisione sempre attenta e puntuale dei
testi che, con il suo contributo, diventano più comprensibili. Il suo aiuto è
stato prezioso per dipanare la matassa dei miei pensieri.
Grazie a Markus Röleke della casa editrice Droemer per i grafici. Io
utilizzo ancora una versione di FreeHand non aggiornata. Ma una volta che
ci si abitua a uno strumento che può fare tutto ciò che serve, si fa fatica a
passare a un altro più aggiornato che potrebbe fare molto di più.
Ringrazio Margit Ketterle, editor della saggistica, e tutto il team della
casa editrice, per il loro sostegno e la loro professionalità.
La maggior parte del libro è stata scritta durante l’estate del 2017 in una
piccola isola del Baltico. Non c’era molto oltre a tanto verde – verde e
azzurro – e questa è stata una fortuna... e poiché i miei figli e gli amici sono
venuti spesso a trovarmi, il mio lavoro non ha sofferto di solitudine.
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Indice analitico

Abusi sessuali
ACTH (ormone adrenocorticotropo)
Adrenalina
Aggressività
Agire in sincrono
Aiutare
– con e senza stress
–, effetto negativo dell’
Aiuto volontario
Alcol
Alzheimer, sindrome di
Amenorrea
American Academy of Matrimonial Lawyers (AAML)
Americans’ Changing Lives (ACL)
Amicizia
Amigdala
Anderson, Dorothy
Anderson, Kimberley
Antidolorifici
Antropocene
Area tegmentale ventrale
Aristotele
Arteriosclerosi
associazioni
Attenzione, disturbi della
Autodisciplina
Autoreferenzialità
Autoregolazione, capacità di
Autostima

Bagno nella foresta


Barriera emato-encefalica
Biofeedback
Brainstorming
Brown, Stephanie

Caccia alle streghe


Cambio di prospettiva
Cancro
Cancro al seno
Cantare
Capitale sociale
Capo, sostegno da parte del
Cartesio, Renato
Città
Compassione
Comportamento sociale
Comunicazione
Comunità -
– e la felicità
Conforto, offerta di
Contagio
– di comportamenti
– di pensieri
– di sentimenti
–, emotivo
–, patologico
–, sociale
– tramite Facebook
Contagiosità
Controllo, perdita di
Coppia, relazioni di
– cura
– e salute
– e stress
–, qualità delle
– separazioni delle
– sostegno alle
Corteccia
–, cingolata anteriore (ACC)
–, motoria
–, orbitofrontale
–, parietale
–, prefrontale
–, prefrontale ventrale
–, somatosensoriale (S1)
–, visiva
Corteccia surrenale
Cortisolo
Coyle, Caitlin
Creatività
CRH (Corticotropin-Releasing Hormone)
Criminalità
Crisi economica mondiale
Crisi finanziaria
Crisi immobiliare
Cultura
Cure materne

Danzare
Dare
Darwin, Charles
Demenza
Denaro
– donare
– e la felicità
Depressione
–, infiammazione e
–, social media/rete e
Diabete
Dialogo
Dibben, Chris
Digestione, disturbi di
Digitalizzazione
Dittatore, gioco del
Divorzio
Dolori fantasma
Dugan, Elizabeth

Early adopters
Egoismo, materiale
Egoismo
Ehlers, Diane
Ehrenreich, Samuel
Elettroencefalogramma (EEG)
Elettromiografia (EMG)
Embolia polmonare
Embolia polmonare
Empatia
–, cognitiva
–, emotiva
–, narcisismo invece di
Empatia/Capacità di immedesimazione
Emulazione comportamentale
Epidemia
ERP (Event Related Potential)
Esclusione sociale
Esiodo
Esperienza
Esperienze pregresse
Espressione emotiva
Estroversione
Evoluzione

Facebook
–, contagio emotivo attraverso
– e depressione
– e gioia di vivere
–, paura di
Falk, Armin
Famiglia individuale
Felicità
– e comunità
– e il denaro
– e il donare denaro
Fiducia
Fight or flight response
Fox, Jesse
Framingham Heart Study
Fredrickson, Laura
Frustrazione
Fumare
Funzioni esecutive

Generazione Io
Gioia di vivere
Gioventù
Glucocorticoidi, recettore
Google Ngram
Google+

Hatfield, Elaine
Heath, Chip
Hillyard, Steven
Hobbes, Thomas
Homo oeconomicus
House, James
Hughes, Mary Elizabeth

Ictus
Illusioni ottiche
Immediatezza
Immunitario, sistema
Impotenza
–, appresa
Improvvisazione
Incidente
Individualismo
Infarto
Infedeltà
Infezione
Inquinamento atmosferico
Instagram
Integrazione sociale
Internet
Intervento, metodi di
Ipertensione
Ipofisi
Ipotalamo
Ippocampo
Isolamento sociale
–, esperienza di
– e mortalità
– misurazione
– o esperienza di solitudine
– terapia contro la
Isteria di massa

Jazz

Kahneman, Daniel
Kant, Immanuel
Kramer, Adam
Kutas, Martha

Landis, Karl
Le Bon, Gustave
Leucemia
Leucemia
Libido, calo della
Linfoma
Lingua madre
LinkedIn

MacKay, Charles
Magnetismo animale
Mal di denti
Malattie cardiache
Malattie cardiovascolari-
Malattie causate dal metabolismo dello zucchero, vedi Diabete
Malattie polmonari
Malattie psichiche
Malattie respiratorie
Massive Open Online Course (MOOC)
Materialismo
– vs. Spiritualità
Matrimonio, vedi Coppia, relazioni di
Meaney, Michael
Mediatizzazione
Medicina della solitudine
Mesmerismo
Metabolismo, disturbi dei
Millennials
Mineralocorticoidi, recettore
Ministero tedesco del lavoro e delle politiche sociali
Mobbing
Morale
Morbilità
Moreland, Jennifer
Mortalità
– come conseguenza della solitudine
– definizione
Motivi, intrinsisci vs. estrinseci
Movimento
Muscolare, affaticamento (miopatie)
Musica, fare

Namibia
Nanismo
Narcisismo
– batte l’empatia
Narciso
Natura
– e salute
Natura umana
Neurofeedback
Neuroimaging funzionale
Nongqawuse
Noradrenalina
Nucleus accumbens

Obesità
Occhi spalancati (paura)
Office for National Statistics
Orfanotrofio
Orlet, Christopher
Osteoporosi
Ovidio

Pallone, giocare a
Panico di massa
Paracetamolo
Paragonarsi ad altri
Paris Hilton, effetto
Paura
–, contagiosa
– e social media/rete
– di Facebook
Peires, Jeff
Percezione
Personalità, disturbi della, vedi Narcisismo
Pielite
Pinterest
Polykoff, Shirley
Profughi
Prosocialità
Prostata, cancro alla
Psiche, disturbi della
Psicosi di massa

Raffreddore
Raffreddore
Realtà
Reattività
Reazione di emergenza
Reni, disturbi ai
Resurrezione dei morti
Rete sociale
Rifiuto
Rimuginio
Riprogrammazione epigenetica
Risonanza magnetica (RM)
Risonanza magnetica funzionale (RMF)

Saggezza popolare
Schizofrenia
Scout
Sentimenti che fanno ammalare
Sessualità
Shannon, Claude
Simpatia
Sindacati
Sistema nervoso
Skype
Slatcher, Richard
Smartphone
– e crisi di fiducia
Smith, Adam
Snapchat
Social brain
Socialmedia
Sociometro
Socrate
Sogni a occhi aperti
Solitudine
– come fattore di rischio nell’insorgere di malattie
–, come fattore scatenante di stress
–, contagiosa
– definizione
– e dolori
– e social media
–, esperienza della
–, farmaci contro
– in Germania
– metodi di intervento
– misurazione della
–, mortalità causata dalla
– negli adulti
– nella mente
– nella terza età
– nell’infanzia
– nei giovani
– ricerca della
– spiegazione
– terapia
– vs. isolamento sociale
Sonno, disturbi del
Sovvenzioni statali
Spiritualità vs. Materialismo
Sport
Stalking
Stress
–, acuto
–, causa principale dello
–, cronico
– definizione
– e sostegno sociale
– nella prima infanzia 98 sg.
– nelle relazioni di coppia
–, relazioni che comportano
– sul lavoro
Stress da iperconnessione
Stressreport Deutschland
Suicidio
Superstizione
Svenimento
Sviluppo linguistico

Tasso di natalità
Tecnologia dell’informazione (IT)
Telefonare
Televisione
Theory of Mind
Three-Item Loneliness Scale
Tomografia a emissione di positroni (PET)
Tubercolosi
Tumblr
Tumore ai polmoni
Turkle, Sherry
Twitter
– e divorzio

Uccelli migratori
UCLA Loneliness Scale
Ulcera
Ulcera gastrica
Ultimatum, gioco dell’
Umberson, Debra
Underwood, Marion
Urbanizzazione

Valentin, Karl
Vascolari, disturbi
–, infarto intestinale
Vecchiaia, prevalenza femminile nella
Venerazione
Videogame
Vigili del fuoco, volontari
Vine
Vita, soggettività della, vs. realtà oggettiva
Volontariato

WhatsApp
Wiltermuth, Scott
Wittgenstein, Ludwig
Wolfe, Tom
World Values Survey

YouTube

Zevi, Shabbetai
Zuccheri, aumento degli (iperglicemia)
Note
Premessa

1. Cfr. Spitzer M. (2017) Postfaktisch. Intellektuelle Verwahrlosung – Ursachen und


Auswirkungen, in Zeitschrift für Nervenheilkunde 36: 113-117.

2. Spitzer M. (2011) Die soziale Struktur des Menschen, in Zeitschrift für Nervenheilkunde
30: 373-376.
Capitolo 1. Megatrend e malattia

3. Kahnemann et al. 2004.

4. Santos et al. 2017.

5. Si veda sotto, pp. 12-15.

6. Statista 2017a.

7. Wähnke et al. 2017.

8. Statista 2017b.

9. Moore & Schultz 1983.

10. Questa forma esagerata di prestigio è parte del nostro comportamento sociale (Henrich
2016, pp. 5, 126 ss.).

11. Sull’argomento si vedano gli studi presentati alle pp. 17-20; 30-33.

12. Cfr. Twenge & Campbell 2009.

13. In Germania la generazione X è conosciuta anche con il termine «bambini con la chiave»
(Schlüsselkinder): è la generazione di quanti erano bambini al tempo in cui le donne
avevano cominciato a contribuire al sostentamento della famiglia. I bambini, tornando a
casa da scuola, non trovavano nessuno in casa e avevano la chiave per aprire. Un’altra
espressione per definire questa generazione, che più di tutte le precedenti ha vissuto
divorzi tra i genitori e problemi economici in famiglia, è «generazione Mtv», dal nome
del famoso canale musicale seguitissimo all’epoca.

14. Twenge 2006.

15. Mallan 2009, Orlet 2007.

16. Stein 2013.

17. La citazione inglese completa è: «I wasn’t part of that millennial generation raised on an
overdose of self-esteem and self-promoting technology that have combined to create a
perfect storm of narcissism. Nor was I surprised to read that a study led by San Diego
State University psychologists finds that about two-thirds of college students have above
average scores in self-adulation. That’s thirty percent more than when I was in college in
1982. These millennials make Narcissus look like a self-hating Greek» (Orlet 2007, p. 1).

18. Coyle & Dugan 2012.


19. Si tratta di questionari costruiti seguendo determinati principi della psicologia e della
statistica, attraverso cui si possono misurare precisi aspetti del carattere (intelligenza,
aggressività, curiosità, narcisismo). Un semplice foglio con un lungo elenco di domande
non è una scala. Quando però si va ad analizzare se le domande sono formulate con
chiarezza, se vengono comprese correttamente, quanto le risposte siano adatte a
estrapolare informazioni ritenute rilevanti, quanto siano affidabili tali risposte e in che
misura le domande sono in relazione tra loro, allora, nel caso in cui il questionario
prodotto funziona anche per un secondo utilizzo, esso può essere considerato una scala.

20. Eisenberger et al. 2007.

21. Dunbar & Spors 1995.

22. In Spitzer 2012, p. 118.

23. Fowler et al. 2009.

24. Roberts et al. 2008.

25. Stiller & Dunbar 2007.

26. Meltzer et al. 2017.

27. Perissinotto & Covinsky 2014.

28. Steptoe et al. 2013, p. 5800.

29. Cit. da Steptoe et al. 2013, p. 5800.

30. Russel et al. 1980.

31. Steptoe et al. 2013, p. 5800.

32. Cit. da Hughes et al. 2004, tabella 1.2.

33. Andersson 1998.

34. Per i temi trattati in questo paragrafo cfr. de Waal 2008.

35. Cfr. anche il capitolo 3.

36. Sui topi cfr. Langford et al. 2006; sui ratti cfr. Ben-Ami Bartal et al. 2011; cfr. anche
Mogil 2012.

37. Darwin 1871, cit. da de Waal 2008, p. 283.

38. Seed et al. 2007, Weir et al. 2002, Bird & Emery 2009.

39. Seed et al. 2007, Romero et al. 2010, Rosenkrantz Lindegaard et al. 2017.

40. Anche l’analoga concezione che la natura – gli animali – sia essenzialmente buona
mentre l’uomo è essenzialmente cattivo è di fatto errata: come sappiamo grazie alle
osservazioni dell’etologa britannica Jane Goodall, anche gli scimpanzé fanno la guerra e
uccidono, come gruppo, i membri di altri gruppi. Recenti scoperte ci dicono inoltre che
quando ciò accade viene rilasciato il cosiddetto «ormone dell’amore», l’ossitocina
(Samuni et al. 2017), che potrebbe essere definito anche «ormone della guerra».

41. Fujisawa et al. 2006, Kato-Shimizu et al. 2013, Warneken & Tomasello 2009.

42. La notizia circolò su tutti i giornali, per esempio sulla Bild del 20 ottobre 2016: Weuster
K. (2016), Keiner half – jetzt ist dieser Rentner (82) tot!

43. Cfr., per un esempio concreto, il paragrafo Venerazione ed empatia del capitolo 10, Alla
ricerca della solitudine, p. 198.

44. Secondo i dati tratti da Konrath et al. 2011.

45. Twenge & Kasser 2013.

46. Pew Research Center 2007

47. Questo aspetto viene ampiamente trattato nel libro di Twenge & Campbell (2009).

48. Newsom et al. 2003, p. 80.

49. Nelle scienze la parola fu introdotta negli anni Ottanta del xix secolo dallo psicologo
francese Alfred Binet, famoso per i suoi studi sull’intelligenza. Poco dopo fu ripresa da
psicoterapisti suoi contemporanei e divenne talmente inflazionata che alla fine nessuno
sapeva più di cosa si stesse realmente parlando. Per questo non meraviglia che per
decenni si sia discusso di forme sane e malate di narcisismo, di narcisismo primario e
secondario, positivo e negativo –come forma strutturale e/o come stadio dello sviluppo –
della persona, dell’istanza intrapsichica o di un meccanismo, senza che queste
discussioni abbiano portato a una qualche forma di chiarimento, tantomeno della sua
frequenza (da «estremamente raro» a «interessa chiunque») e della tipologia di
correlazione con i disturbi psichici messi in relazione a esso, come depressione, tendenza
suicida, aggressività, autoaggressività, iperattività, dissociazione e tutte le tipologie di
disfunzioni e perversioni sessuali. A rimanere invariato è soltanto il vecchio significato
di duemila anni fa: ci sono individui che tendono (in misura maggiore o minore) a
vedere e preferire soprattutto se stessi.

50. Stinson et al. 2008.

51. Twenge et al. 2014, p. 227.

52. Twenge & Campbell 2009.

53. Su questo aspetto mi sono intestardito e ho condotto ricerche approfondite, terminate


peraltro in un nulla di fatto. Per questo ho chiesto aiuto al mio esperto mentore, il prof.
Friedrich Uehlein. Nemmeno lui è riuscito a localizzare le fonti (si è preso addirittura la
briga di rileggere tutto Esiodo).

54. Twenge et al. 2012a.

55. Adler & Kwon 2002.


56. Waters et al. 2016.

57. Anonimo 2016.


Capitolo 2. La solitudine fa male

58. Eisenberger et al. 2003.

59. Cit. da Eisenberger et al. 2003.

60. Wilson et al. 2014.

61. Rainville et al. 1997.

62. Cit. da Rainville et al. 1997, cfr. anche Spitzer 2006.

63. Kammer & Spitzer (2012); Schönfeldt-Lecuona et al. 2003, 2004, 2005, 2006.

64. Legate a questo metodo ci sono numerose esperienze di ricerca per la terapia di diversi
disturbi neuropsichiatrici; cfr. Thornton & Carmody 2005; Trudeau 2005; Walker &
Kozlowski 2005; Ros et al. 2013.

65. DeCharms RC et al. 2005.

66. Guan et al. 2015; Hassan et al. 2015.

67. Per una panoramica e per leggere resoconti di interi congressi sull’argomento, cfr.
DeCharms 2008, Cramer et al. 2011, Chapin et al. 2012, Haller et al. 2013; Sulzer et al.
2013.

68. Caria 2016.

69. Harmelech et al. 2015; Scharnowski et al. 2014; Scheinost D., et al. (2013).

70. Greer et al. 2014; MacInnes et al. 2016; Zotev et al. 2011.

71. Tratto da DeCharms et al. 2005, fig. 2, 3.

72. Cfr. Eisenberger & Lieberman 2004; Eisenberger et al. 2006; MacDonald & Leary 2005;
Herman & Panksepp 1978; Panksepp 2003.

73. Panksepp 1998.

74. Cfr. Spitzer 2013.

75. Secondo lo storiografo Plutarco Archimede aveva gridato «Eureka», ho trovato!, dopo
aver scoperto il famoso principio fisico che prende il suo nome, il principio della spinta
idrostatica.

76. Master et al. 2009.


77. Cit. da Master et al. 2009.

78. Da Younger et al. 2010; per gentile concessione di PLoS One.

79. Eisenberger et al. 2010.

80. DeWall et al. 2010.

81. DeWall et al. 2010, p. 936.

82. Burklund et al. 2007.

83. Eisenberger et al. 2011.

84. Kross et al. 2011.

85. Sanfey et al. 2003.

86. Eisenberger et al. 2011.

87. Karremans et al. 2011.

88. Onoda et al. 2010.

89. Bolling et al. 2011.

90. Hawkley et al. 2010.

91. Masten et al. 2012.

92. Eisenberger et al. 2007; Onoda et al. 2009; Krill & Platek 2009; Bernstein et al. 2010.

93. Brown et al. 2003, Master et al. 2009.

94. Si dice per esempio: «A guardare il mio estratto conto mi viene mal di pancia». Non è
solo una espressione metaforica: è stato scientificamente dimostrato, infatti, che anche la
mancanza di soldi può attivare la nostra area cerebrale del dolore.
Capitolo 3. Contagio sociale

95. Kerckhoff & Back 1968, Olkinuora, 1984. Famosa per esempio è l’«epidemia della
risata» diffusasi in Tanzania e Uganda, per la quale nel giro di pochi giorni più di 1000
persone – soprattutto ragazze e giovani donne – non riuscivano a smettere di ridere, tanto
che si dovettero chiudere le scuole. Gli attacchi di riso, spesso accompagnati da pianti e
grida, duravano da pochi minuti fino ad alcune ore e spesso ricominciavano dopo una
pausa. Non di rado erano accompagnati da ansia, dolori, senso di svenimento o problemi
respiratori e ci furono anche manifestazioni di violenza. Non si verificarono casi di
morte (Rankin & Philip 1963, Sebastian 2003, Hempelmann 2007, Pringle 2015).

96. Kapitány & Nielsen 2017.

97. L’espressione fu utilizzata per la prima volta nel 1997 in relazione alla crisi monetaria in
Thailandia, che in pochi mesi si diffuse anche nelle vicine Indonesia, Filippine, Malesia,
Corea del Sud e Hong Kong, fino a raggiungere in seguito anche Russia e Brasile. Le
ripercussioni economiche della crisi si fecero sentire anche in Europa e Nord America. Il
fenomeno comunque è più vecchio del suo nome: la prima crisi finanziaria
internazionale si verificò all’inizio degli anni Venti del XIX secolo, seguita dalla grande
depressione del 1929 (Bordo & Murshid 2000; Dornbusch et al. 2000, De Gregorio &
Valdés 2001, Peckham 2013).

98. Peires 1989/2003.

99. Stapleton 1991, 1993.

100. McArthur 2005.

101. Scholem 2007.

102. Garber 2000.

103. Spitzer 2017.

104. In un rapporto del 2010 di Amnesty International Germania sulla situazione della
Repubblica Centraficana si legge quanto segue: «Oggi come in passato continua a
prevalere la credenza che gli individui possano portare sfortuna a chi sta loro vicino e
possano addirittura causarne la morte. Le persone sospettate di stregoneria sono state
spesso torturate, sottoposte a terribili trattamenti mortificanti o disumani e in alcuni casi
uccise. Il governo e le forze di sicurezza hanno tollerato le accuse e i maltrattamenti in
silenzio, senza fare nulla per proteggere le vittime o chiedere ragione ai responsabili
delle loro azioni violente». Si riporta, tra l’altro, il caso seguente: «Nel luglio 2009 un
ufficiale carcerario della città di Mobaye (provincia di Basse-Kotto), credeva che la
figlia quindicenne avesse provocato la morte della moglie, ordinò agli altri carcerati di
versare del petrolio sulle braccia della ragazza e di darle fuoco. La ragazza ha riportato
gravi ustioni. Era stata arrestata nel dicembre 2008, accusata di aver provocato
l’annegamento di un bambino di dodici anni. Al momento della cattura fu brutalmente
percossa da più persone che volevano spingerla a denunciare i suoi presunti complici. La
gente pensava che questi si fossero trasformati in serpenti e avessero fatto sprofondare il
ragazzo in acqua, facendolo annegare. Sotto tortura, la ragazza avrebbe fatto il nome di
due dei suoi presunti complici, che furono arrestati».

105. Whalen et al. 2004.

106. Adolphs et al. 2005.

107. ...e anche più precisa in termini di tempo; cfr. Roberts et al. 2017.

108. Ritter& Ferguson 2017.

109. Hatfield et al. 1992, 1993a,b.

110. Hatfield et al. 1992, p. 153-154.

111. Noy et al. 2011.

112. Limb& Brown 2008.

113. Ancora oggi si discute su quante siano le emozioni e come si possano definire o
riconoscere. Ma la risposta a queste domande non è rilevante in questo contesto (Ekman
1992, Eibl-Eibesfeld 1987).

114. Dimberg, che torna su questo punto in molte delle sue pubblicazioni.

115. Questo dato si è potuto accertare perché in entrambi i partner del dialogo la EMG era
registrata in sincrono (Hatfield et al. 1993a,b).

116. Indefrey&Levelt 2004.

117. Holler et al. 2016.

118. Da Stivers et al 2009.

119. Stivers et al 2009.

120. Kutas& Hillyard 1984, 1989, Kutas&Federmeier 2000, 2011.

121. Spitzer et al. 1997; Weisbrod et al. 1997a,b.

122. Cacioppo et al. 2009b.

123. Nel calcolo delle probabilità vi è la consuetudine di non indicare solo il migliore valore
stimato, ma anche il margine entro il quale con ogni probabilità la stima è esatta: tale
margine è chiamato intervallo di confidenza, o Confidence Intervall (CI). Nella stima si
indica anche cosa si intende per «estremamente probabile»: generalmente si opta per una
probabilità del 95 percento, il che significa che se si assume che un valore sia compreso
entro un certo margine, nel 95 percento dei casi la stima sarà esatta e nel 5 percento dei
casi sarà errata. Un esempio: se la probabilità di un evento cresce del 50 percento, ci sarà
una grande differenza se l’intervallo di confidenza al 95 percento si colloca tra il 45 e il
55 percento, o tra il 15 e l’85 percento. Nel primo caso infatti la stima al 50 percento è
affidabile, nel secondo caso non lo è. Spesso le probabilità non vengono indicate con la
percentuale di aumento, ma come valori assoluti, senza il calcolo in centesimi. Nel
nostro esempio l’indicazione dei margini è come segue: probabilità 1,5; 95 percento CI:
1,45-1,55.

124. Christakis & Fowler 2007.

125. Christakis & Fowler 2008.

126. Fowler & Christakis 2008.

127. Dati tratti da Cacioppo et al. 2009b.

128. Dati tratti da Cacioppo et al. 2009b.

129. Dati tratti da Cacioppo et al. 2009b.

130. Il termine pandemia viene dal greco: pan, «tutto»; demos, «popolo». Ci si riferisce al
numero di persone colpite da una malattia. Con pandemia si intende che la diffusione di
una malattia supera i confini di un intero paese, o addirittura di un continente, mentre nel
caso di epidemia la malattia si trasmette in un’area comunque circoscritta.

131. Cacioppo et al. 2009b, p. 983.

132. Cacioppo et al. 2009b, p. 985.


Capitolo 4. La solitudine provoca stress

133. Maggiori dettagli verranno forniti nei capitoli 6 e 7. Per il momento si tratta solo di
presentare un meccanismo e un ambito in cui scoperte di questo tipo hanno importanti
ricadute pratiche: il mondo del lavoro. Nel capitolo 8 vedremo le ripercussioni sulle
relazioni interpersonali.

134. Nella letteratura scientifica si trovano molte risposte a questa domanda. Alcuni parlano
di stress «buono» e stress «cattivo» (eustress e distress), altri parlano di allostasi, altri
ancora vanno a scandagliare la biochimica per poi concludere con frasi del tipo: «È tutto
molto, molto complicato». La conoscenza è un’altra cosa! Mi rifaccio alle teorie
psicologiche, approfondite per la prima volta alcuni decenni fa con uno studio sui cani e
riassunte sotto il concetto di «impotenza appresa» (Seligman 1967). Ormai esistono
molte pubblicazioni su questo modello, che è stato applicato su api, roditori, cavalli e
uomini perché ha un alto grado di plausibilità (cfr. Schöner et al. 2017).

135. Per una discussione delle radici evoluzionistiche della reazione di stress si veda Nesse et
al. 2010; una panoramica esaustiva e aggiornata è fornita da Sapolsky 2017.

136. Cfr. Fink 2010, Romeo 2010.

137. McEwen et al. 2015.

138. Sapolsky 2015.

139. Quasi tutti gli stressori stimolano la sintesi di prostaglandine (PGE2) e postacicline
(PGI2), che a loro volta bloccano la secrezione del succo gastrico (Moshonov et al.
2010).

140. La correlazione tra stress e ulcere allo stomaco è stata descritta già due secoli fa e
studiata in maniera sperimentale dal «padre della ricerca sullo stress», Hans Seye, che
pubblicò i suoi risultati in un lavoro comparso su Nature nel 1936. Con la scoperta, da
parte di alcuni scienziati australiani (Marshall & Warren 1984), che molte ulcere dello
stomaco sono causate da un’infezione batterica provocata dall’helicobacterpylori
(scoperta che è valsa agli scienziati il premio Nobel nel 2005), la correlazione tra stress e
ulcere allo stomaco è stata analizzata da un nuovo punto di vista. Dopo una prima fase di
«bianco o nero», in cui il pendolo oscillava dalla psicologia (stress) alla biologia
(infezione), negli ultimi anni si è tornati a una maggiore oggettività. Circa la metà della
popolazione mondiale è infetta da helicobacterpylori, ma di questa metà solo il 10
percento soffre di ulcere allo stomaco. Invece, nel 30 percento dei casi di ulcere allo
stomaco non si riscontra un’infezione del batterio (Fink 2017). Dunque l’infezione da
sola non spiega nulla, o molto poco. Ampi studi mostrano invece chiaramente che,
indipendentemente da un’infezione dell’helicobacterpylori, lo stress aumenta il rischio
di insorgenza di ulcere allo stomaco (Levenstein et al. 2015).
141. Steptoe 2010.

142. Nel corso di numerosissime conferenze sul tema (per un totale di decine di migliaia di
spettatori), la risposta alla mia domanda è stata quasi sempre la stessa: la cavia nella
gabbia con lampadina e interruttore è stressata, l’animale passivo invece no (il rapporto è
di circa 80 a 20, e comunque mai sotto il 50 e 50).

143. TKK Report 2016.

144. Secondo dati tratti da TKK Report 2016. Si può confrontare questo grafico con quello
del mio libro Solitudine digitale, dove sono riportati i dati del 2013. Le risposte
«raramente», e «mai» sono diventate sempre meno frequenti, mentre aumenta il numero
di persone che risponde con «spesso» e «talvolta».

145. Lohmann-Haislah 2013.

146. Von der Leyen et al. 2012.

147. Techniker Krankenkasse (2016) Gesundheitsreport 2016. Gesundheit zwischen Beruf


und Familie. Hamburg: Techniker Krankenkasse.

148. Cit. da Lohmann-Haislah 2013, p. 35.

149. Lohmann-Haislah 2013, p. 35.

150. La quota di persone che in Germania hanno dichiarato di essere coinvolti sempre o
spesso nella definizione dei loro obiettivi è, con il 38 percento, più bassa della media
dell’Unione Europea (EU-27, 47 percento).

151. Eurofond 2011; Lohmann-Haislah 2013, p. 78.

152. Badura et al. 2011;Gregersen et al. 2011.

153. Lohmann-Haislah 2013, p. 124.

154. Lohmann-Haislah 2013, p. 124.

155. Nello Stressreport Deutschland viene inserito un altro punto: se un’azienda subisce una
riorganizzazione, il numero di sintomi aumenta, non importa di quali sintomi si tratti. La
causa è evidente: i dirigenti tedeschi evidentemente non sono in grado di riorganizzare,
perché «riorganizzare» vuol dire soprattutto apprendere, e questo non ha mai fatto
ammalare nessuno. Amano nascondersi dietro slogan vuoti come change process e senza
volerlo instillano ansia nei collaboratori: «Perché sta parlando di change process?»
«Perché non ci dice semplicemente cosa sta per accadere, in modo che tutti possiamo
capire?» «C’è una brutta aria, perché non sappiamo cosa succederà.» I collaboratori
sperimentano una perdita di controllo quando sentono parole come «riorganizzazione» o
change process – ed è proprio questo a provocare lo stress e le conseguenti malattie.
Inoltre, l’ansia è una cattiva maestra perché ostacola la creatività e introduce a un circolo
vizioso che sul medio periodo pregiudica la salute del collaboratore (e dell’azienda). «In
genere per i collaboratori le misure di riorganizzazione sono legate a un intensificarsi del
lavoro, a un maggiore carico psicologico e spesso, sul medio termine, anche a un
peggioramento dello stato di salute», si può leggere sullo Stressreport Deutschland (p.
143). I manager dovrebbero sapere che la riorganizzazione aziendale fa ammalare i
collaboratori perché di solito non è messa in atto in modo appropriato e genera dunque
insicurezza, e questo è tanto più vero, quanto meno (o peggio) si esplicitano i
cambiamenti in questione. Per salvaguardare la salute dei collaboratori, sarebbe
opportuno assicurare trasparenza, comunicazioni chiare e coinvolgimento dei
collaboratori in tutte le misure per il cambiamento, tanto più che in questo modo
vengono favoriti i processi creativi. Nessuno vuole consapevolmente rovinare la salute e
la creatività dei propri sottoposti, ma i superiori dovrebbero possedere sufficienti
conoscenze per evitare che ciò accada.

156. Kirschbaum et al. 1993.

157. Dickerson &Kemeny 2004, Allen et al. 2017.

158. Eisenberger et al. 2007.

159. Eisenberger et al. 2007, p. 1606.

160. Meaney et al. 1988.

161. Curley & Champagne 2016, Fagundes et al. 2013, King et al. 2016, Ménard et al. 2017,
Turecki& Meaney 2016.

162. Diorio& Meaney 2007, Francis et al 1999, Liu et al. 1997, McGowan et al. 2008, 2009,
Meaney 2001, Weaver et al. 2004.

163. McEwen et al. 2015.

164. Curley & Champagne 2016, Turecki& Meaney 2016.


Capitolo 5. Insieme online?

165. Mi sono occupato dell’argomento in tre libri: Vorsicht Bildschirm! (2005), Digitale
Demenz (2012, trad. it. Demenza Digitale, Corbaccio, Milano 2013) e Cyberkrank!
(2015, trad. it. Solitudine digitale, Corbaccio, Milano 2016). I miei libri sono stati
duramente criticati e dall’uscita del secondo libro nell’estate del 2012 so – purtroppo –
che cos’è uno shit storm. Il motivo è semplice: i media digitali sono comodi e danno
dipendenza. E fa parte della natura della dipendenza che chi ne soffre faccia di tutto per
evitare di non avere più accesso alla sostanza. Si aggiunga poi il lavoro di una lobby
decisamente più potente di quella del tabacco o dell’alcol: Apple, Google, Microsoft,
Amazon, Facebook e Samsung sono sei delle aziende più ricche del pianeta.

166. Bisognerebbe parlare in realtà – come fanno gli inglesi – di illusioni visive, perché non è
l’ottica a provocare l’illusione, ma il sistema visivo del nostro cervello.

167. Ho raccolto questo e molti altri esempi in uno studio sui processi inconsci, che consiglio
ai lettori interessati: Automatik im Kopf – wie das Unbewusste arbeitet (Spitzer 2010).

168. Da Spitzer 1996.

169. Pea et al. 2012.

170. Richards et al. 2010.

171. Huang 2010.

172. Sull’argomento si veda Spitzer 2012, dove si trova anche altra bibliografia.

173. Kuhl et al. 2003; Meltzoff et al. 2009, Zimmerman et al. 2007.

174. Reid et al. 2017.

175. Dehaene-Lambertz et al. 2002.

176. Caskey et al. 2014.

177. Pons et al. 2015.

178. Christakis et al. 2009.

179. Ellison et al. 2007, Steinfield et al. 2008.

180. Schenk 2007, pp. 417ss.

181. Kizilcec et al. 2017.


182. A rigor di logica, queste affermazioni non valgono solo per Facebook ma anche per altri
Social Network Sites (SNS).

183. Chi però ne deduce che Facebook riduce l’ansia, non ha capito niente!

184. Kross et al. 2013.

185. Frison & Eggermont 2016.

186. Office for National Statistics (2015) Insights into children’s mental health and well-
being.

187. Sampasa-Kanyinga & Lewis 2015.

188. Sagioglou & Greitemeyer 2014.

189. Shakya & Christakis 2017.

190. Fox & Moreland 2015.

191. Underwood & Ehrenreich 2017.

192. Tromholt 2016.

193. Doughty 2015; Anonymus (2017) Facebook Has Become a Leading Cause in Divorce
Cases. Hg.org Legal Resources (https://www.hg.org/article.asp?id=27803; consultato il 6
settembre 2017).

194. Clayton et al. 2013.

195. Nella letteratura di lingua inglese si parla di physical cheating e emotional cheating.

196. Per chiarezza riportiamo le parole originali degli autori: «The results indicate that a high
level of Facebook usage is associated with negative relationship outcomes, and that
these relationships are indeed mediated by Facebook-related conflict» (Clayton et al.
2013, p. 717).

197. McDaniel et al. 2017, Rahaman 2015.

198. Clayton 2014.

199. Alone Together, Basic Books, New York 2011 (trad. it. Insieme ma soli, Codice, Torino
2012).

200. Primack et al. 2017.

201. A tal scopo è stata usata la scala PROMIS (Patient-Reported Outcome Measurement
Information System; cfr. Johnston et al. 2016), composta di quattro item.

202. Primack et al. 2017.

203. Lup et al. 2015.


204. Wang et al. 2017, Yang 2016.

205. Sulla dipendenza da Facebook rimando al mio libro Solitudine Digitale.

206. Wang et al. 2017.

207. Seabrook et al. 2016.

208. C’è un contributo che mostra che l’ansia da Facebook è correlata con un ridotto uso di
Facebook. Si tratta di un’osservazione banale, che non dovrebbe portare alla conclusione
che un incremento dell’uso di Facebook porti a una riduzione dell’ansia. Infatti gli autori
scrivono: «With the exception of 1 study showing a significant negative association
between Facebook-specific social anxiety and the frequency of SNS use [80], no studies
supported an association between the frequent use of SNSs and a lower level of anxiety
or depressive symptoms» (Seabrook et al. 2016).

209. «SNSs represent a novel, unobtrusive, real-time way to observe and leverage mental
health and well-being information in a natural setting, with the ultimate potential to
positively influence mental health» (Seabrook et al. 2016).

210. Kramer et al. 2014. Gli autori dello studio parlano di «contagio».

211. Sandstrom & Dunn 2014ab.

212. Kushlev & Pouix 2016, p. 6. La citazione originale è: «Organisms tend to seek the
easiest way to achieve the greatest outcome. This Principle of Least Effort has been
identified as one of the main principles guiding information seeking behavior. Just as
information technology continues to make our lives easier, our findings highlight the
possible unforeseen social costs of instant, ubiquitous information access: By turning to
convenient electronic devices, people may be forgoing opportunities to foster trust – the
social lubricant of society».
Capitolo 6. La solitudine come fattore di rischio

213. Hawkley et al. 2010, Petitte et al. 2015.

214. Zhong et al. 2016.

215. Cohen et al. 1991.

216. Cohen et al. 1997.

217. Si ha una correlazione spuria tra due variabili ogni qualvolta entrambe sono determinate
da una terza variabile mentre fra loro non hanno un nesso causale. L’esempio forse più
famoso è la correlazione tra la taglia di scarpe e reddito: quanto più grandi sono le
scarpe, tanto più alto è il reddito. In realtà la correlazione nasce dal fatto che i piedi delle
donne sono più piccoli e (purtroppo ancora oggi, talvolta anche a parità di lavoro) le
donne guadagnano in media meno degli uomini. Se si osservano separatamente i due
sessi, la correlazione non sussiste. Essa è condizionata da una «variabile nascosta» (ridde
variable). Poiché, nella prassi, è molto difficile escludere tali variabili nascoste, la
comprensione di una relazione-causa-effetto attraverso un preciso meccanismo è di
straordinaria importanza per l’acquisizione di conoscenze certe, e dunque per la scienza.

218. Dati tratti da Cohen et al. 1997, p. 1943.

219. Cohen et al. 1997, p. 1942.

220. Hawkley et al. 2006.

221. Per essere precisi: se nelle misurazioni il livello solitudine era più alto di una deviazione
standard, si riscontrava un innalzamento della pressione sistolica di 5 mmHg.

222. Hawkley et al. 2010.

223. La pressione arteriosa, come prima la pressione atmosferica, viene misurata oggi in
millimetri di mercurio: in una colonnina di vetro in cui si trova del mercurio si verifica di
quanti millimetri la pressione (atmosferica) all’interno di un manicotto, che è sufficiente
a bloccare la circolazione del sangue nell’arteria del braccio, fa salire il pesante mercurio
nella colonnina. Poiché il peso specifico del mercurio è di circa 13,5 g/cm3, mentre
quello dell’acqua è di 1 g/cm3, una pressione arteriosa sistolica di 150 mmHg
corrisponde a una colonna d’acqua di circa 2 metri d’altezza. Questo paragone ci dà
un’idea di quanto effettivamente il sangue di un’arteria possa «schizzare» (il peso
specifico del sangue supera di poco 1 g/cm3).

224. Staessen et al. 2003.

225. Lewington et al. 2002.


226. Valtorta et al. 2016.

227. Lo studio continua ancora oggi e quasi ogni anno ci fornisce nuovi dati sui fattori che
influenzano lo sviluppo umano.

228. Caspi et al. 2006.

229. Pinquart & Duberstein 2010.

230. Lillberg et al. 2003.

231. Antonova et al. 2011, Lin et al. 2013, Kocic et al. 2015.

232. Schoemaker et al. 2016.

233. Antonova et al. 2011, Lin et al. 2013.

234. Lo studio è stato condotto da alcuni scienziati americani dell’Ohio (Hinzey et al. 2016).

235. Hermes et al 2009, Williams et al. 2009.

236. Fleisch Marcus et al. 2017.

237. Rudatsikira at al. 2007.

238. Seligman & Maier 1967, Seligman 1975, Pryce et al. 2011.

239. Caldarone et al. 2015.

240. Akerlind & Hornquist 1992; Page & Cole 1991; Choi & Dinitto 2011. Probabilmente
hanno più rilevanza la qualità e la diversità della rete sociale che la sua dimensione; cfr.
Mowbray et al. 2014, Kim et al. 2016.

241. Shohat-Ophir et al. 2012.

242. Dyal& Valente 2015.

243. Hosseinbor et al. 2014.

244. Mushtaq et al. 2014.

245. Una revisione si trova in Spitzer 2012.

246. Russel et al. 1997.


Capitolo 7. La causa di morte numero uno

247. Pirie et al. 2013, Thun et al. 2013, Carter et al. 2015.

248. «Approximately 17% of this excess mortality was due to associations with causes that
have not been formally established as attributable to smoking» (Carter et al. 2015, p.
636).

249. Poiché suicidi e incidenti hanno spesso le stesse cause (maggiore aggressività e
impulsività), non meraviglia la correlazione proposta dall’esperto psichiatra.
Sull’argomento cfr. Li et al. 2012, Sareen et al. 2015, Evins et al. 2017.

250. House et al. 1988.

251. Per tali correlazioni spurie (come quella tra numero di scarpe e reddito) cfr. capitolo 6,
nota 5.

252. Holt-Lunstad et al. 2010.

253. Dati tatti da Holt-Lunstad et al. 2010, p. 14.

254. La probabilità di ottenere un sei è di 1/6, la probabilità di non ottenere un sei è di 5/6.
Nel caso di dieci dadi (o dieci lanci) la probabilità di non ottenere un sei è (5/6)10, cioè
circa 0,16.

255. Holt-Lunstad et al. 2015.

256. Holt-Lunstad et al. 2015, p. 234.

257. La citazione originale è: «Consistent with this perspective, intervention attempts to alter
the signal (e.g., hunger, loneliness) without regard to the actual behavior (e.g., eating,
social connection) and vice versa would likely be ineffective» (Holt-Lunstad et al. 2015,
p. 234).

258. Shor et al. 2013.

259. Holt-Lunstad et al. p. 14; Le «fonti classiche» sul tema restano 1945 e Bowlby 1951.

260. Holt-Lunstad et al. 2010, p. 14.

261. Dietz&Gortmaker 1985; sul tema cfr. anche Spitzer 2005.

262. KiGGS-Studie, Robert Koch-Institut 2008.

263. Perissinotto et al. 2012.


264. Holt-Lunstad et al. 2010, p. 14.
Capitolo 8. «Mi rovini la salute!»

265. Lindström 2009.

266. Il titolo originale è «You make me sick: Marital quality and health over the life course»
(Umberson et al. 2006).

267. Cherlin 2004.

268. Slatcher&Selcuk 2017.

269. Kiecolt-Glaser & Newton 2001; Wanic & Kulik 2011.

270. Umberson 1992.

271. Umberson & Williams 2005, p. 99.

272. Robles et al. 2014.

273. Rosenthal 1986, 1990.

274. Robles et al. 2014.

275. Umberson et al. 2006, Galinsky & Waite 2014.

276. Perry 2016.

277. Leggermente modificato da Slatcher 2010, p. 457.

278. Slatcher & Selcuk 2017.

279. Slatcher et al. 2015.

280. Neumann 2002.

281. Liu et al. 2016.

282. Liu & Waite 2014; Zhang & Hayward 2006.

283. «Quel che più ci sorprende è che negli uomini un matrimonio percepito come infelice
corrisponde a un minore rischio di ammalarsi di diabete, mentre aumentano le possibilità
di sopravvivenza alla malattia dopo averla contratta» (Liu et al. 2016, p. 1077).

284. «In verità bisogna ammettere che questo dato tipico del sesso maschile si ritrova da
tempo nella letteratura specifica sulle differenze di genere in relazione al controllo
sociale e a comportamenti legati alla salute. [...] Rispetto ai mariti, le mogli tendono
molto di più a modificare quei comportamenti del coniuge che hanno un impatto sulla
loro salute, a maggior ragione quando il marito è diabetico o soffre di altre malattie
croniche» (Liu et al. 2016, p. 1077s.).

285. Per esempio Liu et al. 2016.

286. Xu et al. 2016.

287. Gli stessi autori lo affermano chiaramente: «Quanto risulta dallo studio, ovvero che una
maggiore frequenza di esperienze negative nella vita coniugale nella data di riferimento
1 è correlata con un minore incremento delle difficoltà cognitive negli anni successivi,
non è in accordo con l’ipotesi che un matrimonio problematico peggiori la salute.
Tuttavia era proprio questo il dato che era stato riscontrato da studi precedenti» (Xu et al.
2016, p. 173).

288. Cfr. Umberson 1996.

289. Xu et al. 2016, p. 173. Con «funzioni esecutive» si intendono le facoltà mentali che
determinano il nostro agire pratico, come per esempio la forza di volontà, la capacità di
resistenza, il perseguire obiettivi e nel contempo la flessibilità e l’apertura al nuovo.

290. Xu et al. 2016, p. 173.

291. Birditt et al. 2016.

292. Birditt et al. 2016, p. 780.

293. Birditt et al. 2016, p. 781.

294. Dunbar & Spoors 1995.

295. Birditt et al. 2016, p. 782.

296. Carr et al. 2016. Questo risultato concorda con il dato che i costi sanitari delle donne
anziane sono sensibilmente più elevati rispetto agli uomini. Per semplificare: le donne si
sentono malate e vanno dal medico. Gli uomini invece non vanno dal medico e a un
certo punto si ammalano e muoiono.

297. Baumeister et al. 2001.

298. Thomeer et al. 2013, p. 15.

299. Rosenquist et al. 2011.

300. Intanto è stato rilevato anche che in caso di depressione di uno dei coniugi cresce la
probabilità che anche l’altro coniuge assuma antidepressivi (Monden et al. 2015, p. 1).

301. Alviar et al. 2014, Dupre et al. 2015, Sbarra & Law 2011, Shor et al. 2012.

302. Donrovich et al. 2014.

303. Alviar et al. 2014.

304. Nielsen et al. 2014.


Capitolo 9. Che fare?

305. Cacioppo et al. 2015.

306. Alcuni psicologi della University of Kentucky e della University of North Carolina,
Wilmington, hanno condotto due ricerche sperimentali sull’argomento. Nel primo
esperimento con 203 studenti (140 donne, età media intorno ai 20 anni) è stata procurata
alla metà dei soggetti un’esperienza di esclusione sociale attraverso il gioco della palla
(cfr. capitolo 2), esperienza che conduceva a sensazioni dolorose. Queste a loro volta
erano connesse a un più forte desiderio di appartenenza: «Quanto più intenso era il
dolore per il respingimento, tanto maggiore era il desiderio di ricostruire il legame
sociale. Questo risultato dimostra che il dolore provocato dal respingimento muove le
persone verso le altre persone», commentano gli autori (Chester et al. 2016). In un
secondo esperimento con 28 partecipanti con un’età media di 19 anni (17 donne) si è
potuto dimostrare addirittura, per mezzo di una risonanza magnetica funzionale (RMF),
che l’attività delle regioni cerebrali responsabili del dolore è direttamente correlata con
un comportamento di avvicinamento del soggetto alla persona che lo ha respinto.

307. Anderson et al. 2015.

308. Masi et al. 2011. La dimensione dell’effetto è indicata ogni volta con un valore negativo:
questo vuol dire che l’effetto consiste in una riduzione della solitudine.

309. Ciò non vuol dire che tali misure non siano efficaci in casi speciali (per esempio in
soggetti affetti da disturbi psichici). Ci indica solo che i dati di cui eravamo in possesso
finora rispetto a questi tentativi non ci consentono di fare alcuna affermazione positiva.

310. Da psichiatra, non posso far altro che cercare di incoraggiare quanti vogliono iniziare un
percorso di aiuto psicologico: è un modo per prendere sul serio se stessi e i propri
problemi, cosa che non di rado rappresenta il primo – e più importante – passo.
Nondimeno, la psicoterapia non è una passeggiata e non tutti sono disposti a percorrere
questa strada. Il tasso di abbandono della terapia non è irrilevante (fino al 50 percento),
perché tutto ciò che produce effetti positivi porta con sé anche effetti collaterali.

311. È l’idea alla base del Leviatano, l’opera più famosa di Hobbes, del 1651.

312. Miller 1999.

313. Falk 2001, p. 1 (corsivo dell’autore).

314. Cfr. von Neumann & Morgenstern 1944.

315. Güth et al. 1982

316. Heinrich et al. 2010, 2010. Ulteriori fonti sulla neuroeconomia e sul gioco
dell’ultimatum.
Solo una piccola parte si comporta diversamente – secondo un recente studio il 7
317. percento (Yamagishi et al. 2014) – ovvero in maniera egoistica. Tali persone vengono
definite psicopatiche e si caratterizzano per il fatto di «passare sul cadavere dell’altro»,
per non avere alcuna compassione e agire in maniera egoistica, sfruttando il prossimo
(cfr. Spitzer 2015b).

318. Dunn et al. 2008.

319. Dunn et al. p. 1688.

320. Dunn et al. p. 1688.

321. Dati tratti da Dunn et al. 2008.

322. Aknin et al. 2010.

323. Kawamichi et al. 2016.

324. Riportiamo la citazione anche nell’originale inglese: «Social reward aroused by social
interaction per se might increase motivation to interact with others» (Kawamichi et al.
2016, p. 7, evidenziato nell’originale).

325. Van der Meulen et al. 2016.

326. Inagaki 2016.

327. Si accorda bene con questa osservazione la scoperta che la connettività (cioè la quantità
di connessioni nervose) dello striato (il nucleus accumbens è parte di questa zona
cerebrale) è correlata con l’aspetto caratteriale della cooperatività (Lei et al. 2016).

328. Kwak & Huettel 2016.

329. Layous et al. 2012.

330. Matsumoto et al. 2016.

331. European Social Survey, ESS6. La rilevazione è stata condotta in 29 paesi europei. Di
questi, la maggior parte sono membri dell’Unione, cui si aggiungono i paesi extra UE
Albania, Islanda, Israele, Kosovo, Norvegia e Svizzera.

332. Crocker et al. 2017.

333. Midlarsky 1991; Batson 1998; Wilson & Musnik 1999.

334. Brown et al. 2003; i dati si rifanno allo studio di Carr et al. 2000.

335. Detollenaere et al. 2017.

336. Il confronto tra paesi è problematico da un punto di vista metodologico. Basti pensare al
fatto, a tutti noto, che noi europei paghiamo in media più tasse degli americani; gli
americani sono invece più generosi in caso di sostegno di progetti di beneficenza e di
aiuto tra vicini (Harbaugh et al. 2007).
337. Il grado di salute percepito, registrato mediante self-rating, non corrisponde al 100
percento allo stato di salute effettivo. D’altro canto, non si è del tutto in errore quando
semplicemente si chiede ai soggetti coinvolti in uno studio di riferire il proprio stato di
salute.

338. Tra quanti fanno volontariato e quanti non lo fanno si è riscontrata una serie di differenze
minori ma pur sempre significative (alla luce dell’alto numero di persone coinvolte):
coloro che svolgono attività di volontariato sono più spesso uomini, hanno un grado
d’istruzione piuttosto alto, guadagnano di più, sono solitamente credenti, in media più
giovani di un anno rispetto alle donne e solitamente non immigrati. Poiché i ricercatori
erano interessati a registrare lo stato di salute, in fase di elaborazione statistica si sono
dovute necessariamente inserire le variabili appena elencate, perché un più alto reddito o
l’appartenenza a una confessione religiosa sono in correlazione con la salute
dell’individuo. Una volta rilevate queste variabili, il loro effetto può essere «eliminato»
dal calcolo.

339. Detollenaere et al. 2017, p. 9.

340. Pinquart & Sörensen 2003a,b.

341. Does a Helping Hand Mean an Heavy Heart? (Poulin et al. 2010).

342. Poulin et al. 2010, p. 108.

343. Ablitt et al. 2009, Brown & Brown 2014, Crocker et al. 2017, Pinquart & Sörensen 2011,
Poulin et al. 2010.

344. Si discute ancora oggi se gli animali (primati e non primati) posseggano o no una
cultura. Se la risposta è affermativa, allora i canti degli uccelli canori e delle megattere –
imparati rispettivamente da individui più anziani della stessa specie – ne sarebbero uno
straordinario esempio (accanto all’utilizzo di utensili da parte di cornacchie e di alcuni
primati non umani; Ablitt et al. 2009, Brown & Brown 2014, Crocker et al. 2017,
Pinquart & Sörensen 2011, Poulin et al. 2010).

345. Come gli altri giochi già nominati, quello qui utilizzato e chiamato Weak-Link Game è
stato pensato dagli economisti, che intendevano definire quelle situazioni decisionali in
cui l’efficacia del gruppo dipendeva dall’efficacia del membro più debole. «Ogni catena
possiede la forza del suo componente più debole»: un modo di dire non a caso molto
comune in Germania. Esistono infatti tanti esempi di queste situazioni: mantenere un
segreto; cominciare a mangiare solo quando tutti si sono seduti a tavola; scrivere il
capitolo di un libro che potrà essere mandato alle stampe solo quando tutti i capitoli
saranno stati scritti (cfr. Weber et al. 2004).

346. Dati tratti da Wiltermuth & Heath 2009, p. 2.

347. Si trattava in questo caso del Public-Goods Game, in cui si gioca investendo i propri
beni in modo che tutti stiano meglio. Chi non investe approfitta degli investimenti degli
altri: è il «problema del free rider» (free rider problem), presente in ogni comunità.
Quando però investono tutti e quattro i partecipanti, raggiungono tutti il massimo livello
di benessere.

348. Ehlers et al. 2017.


Vicary et al. 2017; Kniffin et al. 2017, Cross et al. 2017, Pearce et al. 2016.
349.
350. Rennung & Göritz.

351. Kirschner & Tomasello 2009, 2010.

352. Per perforare dei piccoli pezzi rotondi di uova di struzzo, impiegati per la realizzazione
di gioielli (proprio come facevano 75.000 anni fa; cfr. Henshilwood et al. 2004),
utilizzano delle punte di acciaio («la pietra si rompe prima» hanno precisato quando li ho
intervistati). A eccezione degli oggetti necessari a stabilire il contatto con persone del
mondo occidentale (soldi per l’acquisto di merci da loro stessi prodotte), durante la mia
visita al San Living Museum non ho trovato alcuna traccia di civiltà occidentale.
Capitolo 10. Alla ricerca della solitudine

353. Killingsworth & Gilbert 2010.

354. Wilson et al. 2014.

355. Tarrant 1996.

356. Bratman et al. 2015a.

357. Bratman et al. 2015b.

358. Atchley et al. 2012.

359. Blanchette et al. 2005; Gondola 1986, 1987; Kuo& Yeh 2016; Steinberg et al. 1997.

360. Atchley et al. 2012;Oppezzo& Schwartz 2014.

361. Markevych et al. 2014.

362. White et al. 2013.

363. Alcock et al.

364. Beyer et al.

365. Cohen-Cline et al.

366. Maas et al.

367. Markevych et al.

368. Nutsford et al.

369. Park et al.

370. Roe et al.

371. Stigsdotter et al.

372. White et al.

373. Faber Taylor et al. 2002.

374. MacKerron & Mourato 2013.

375. Logan (2015) parla di, ,dysbiotic grey space«.


Park et al. 2010.
376.
377. «The term Shinrin-yoku (taking in the forest atmosphere or forest bathing) was coined by
the Japanese Ministry of Agriculture, Forestry, and Fisheries in 1982» (Park et al. 2010,
p. 18).

378. Maas et al. 2009.

379. Maas et al. 2009, p. 970.

380. Alcock et al. 2014.

381. «L’effetto è maggiore nei quartieri più poveri. I ricchi sono comunque più sani» ha
affermato lo psicologo sociale e dell’ambiente Mathew White della University of Exeter,
Gran Bretagna, in una delle revisioni pubblicate recentemente sulla rivista Nature
(Gilbert 2016, p. 57).

382. Capaldi et al. 2014.

383. Oltre agli studi sugli effetti sani della natura, vi sono anche prove dirette degli effetti
nocivi che la città ha sulla salute. Una metanalisi del 2010 che raccoglie i dati di 20 studi
basati sulla popolazione e pubblicati dopo il 1985, ha dimostrato per esempio che gli
abitanti della città, rispetto agli abitanti della campagna, hanno una probabilità maggiore
del 20 percento di soffrire di disturbi d’ansia e una probabilità maggiore di quasi il 40
percento di soffrire di disturbi affettivi (Peen et al. 2010). Il rischio di ammalarsi di
schizofrenia è doppio nelle persone che nascono e crescono in città (Lederbogen et al.
2011). La distanza media, poi, che gli abitanti percorrono per arrivare all’area verde più
vicina, varia da città a città. Il valore medio ricavato da quattro città analizzate è + di 180
metri (Smith et al. 2017). La natura è un fattore importante soprattutto per i bambini e
per una crescita sana. Se manca la natura, si parla di Nature Deficit Disorder (Louv
2005), un’espressione che non appartiene al gergo clinico, ma che descrive molto bene il
problema.

384. Beyer et al. 2014.

385. Kant, la celeberrima Conclusione della Critica della ragion pratica (ed. UTET, 2014, a
cura di P. Chiodi).

386. Citiamo direttamente Kant: «Il primo [il cielo stellato] comincia dal luogo che io occupo
nel mondo sensibile esterno ed estende la connessione in cui mi trovo nell’infinitamente
grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, nei tempi illimitati del loro
movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità».

387. Ancora con Kant: «Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire
annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai
pianeti la materia da cui è sorta [...]».

388. Sempre con le parole di Kant: «La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la
personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere
solo l’intelletto, e con il quale [...] io non mi riconosco, come là, in una connessione
puramente accidentale, ma in una necessaria e universale».
389. Anon 2013.

390. Ho presentato e discusso nel dettaglio la letteratura sull’argomento nei miei libri
Demenza digitale e Solitudine digitale.

391. Dunn et al. 2008.

392. Weinstein et al. 2009, p. 1316.

393. Weinstein et al. 2009, p. 1324.

394. Frantz et al. 2005.

395. Aknin et al. 2013, Kasser et al. 2014, Vohs et al. 2006, Wierzbicki & Zawadzka 2016.

396. Burgoyne & Lea 2006.

397. Grouzet et al. 2005.

398. Grouzet et al. 2005, p. 808.

399. Dunn et al. 2008.

400. Dunn et al. 2011, Gilovich & Kumar 2014.

401. Mitchell et al. 1997.

402. Fredrickson & Anderson 1999.

403. Jang et al. 2014, p. 254.

404. Mischel et al. 1989, Moffitt et al. 2011.

405. Jang et al. 2014, p. 239.

406. Dibben et al. 2016.

407. Sull’argomento si veda la descrizione della correlazione tra coordinazione e


cooperazione nel capitolo 9.

408. Lo dimostrano molto chiaramente gli studi scientifici; cfr. Kasser et al. 2014, Kasser
2016.
Indice

Presentazione

Frontespizio

Pagina di copyright

Premessa

Capitolo 1. Megatrend e malattia


Solitudine in Germania

Da soli in vecchiaia

Da soli in gioventù

Generazione Io

Soggettività dell’esperienza e oggettività dei fatti

Come si misurano isolamento sociale e solitudine?

Insieme contro la solitudine: partecipazione emotiva

Il narcisismo batte l’empatia

Il capitale sociale nell’antropocene

Riassumiamo

Capitolo 2. La solitudine fa male


Giocare a palla in uno scanner

Solo una montatura?

I dolori esistono? Mal di denti e realtà

Dolori nel cervello

Neurofeedback: terapia con risonanza magnetica

Dolore e solitudine: così diversi eppure così uguali


Medicina della solitudine

Riassumiamo

Capitolo 3. Contagio sociale


Contagio di comportamenti, pensieri e sensazioni

Il contagio di ansia e paura

Immedesimazione automatica

Come funziona il «dialogo»?

Reti sociali nel microcosmo di una piccola città

Chi contagia chi, e quanto?

Riassumiamo

Capitolo 4. La solitudine provoca stress


Dall’emergenza alla normalità

Stress cronico, malattia e morte

Se manca il controllo

Stress sul lavoro

Quando il capo ci lascia soli

Insieme contro lo stress

Trauma infantile e stress duraturo

Riassumiamo

Capitolo 5. Insieme online?


Mediato o immediato?

Apprendere la partecipazione emotiva

Depressione da Facebook...

...e divorzio da Twitter

Social media: insieme ma soli

Contagio emotivo tramite Facebook


Crisi di fiducia da smartphone

Riassumiamo

Capitolo 6. La solitudine come fattore di rischio


La solitudine fa venire il raffreddore?

Pressione alta

Infarto e ictus

Cancro

Malattie psichiche

Riassumiamo

Capitolo 7. La causa di morte numero uno


Mortalità: cos’è?

La mortalità della solitudine

Isolamento sociale reale o solitudine percepita?

La solitudine dei bambini, degli adulti e degli anziani

Riassumiamo

Capitolo 8. «Mi rovini la salute!»


Non tutte le relazioni sono sane

Relazione di coppia e salute

Diabete, demenza e pressione alta

Gli uomini hanno bisogno di maggiore sostegno rispetto alle donne

Separarsi non è la soluzione!

Capitolo 9. Che fare?


Il primo passo: prendere coscienza

Terapia

Dare

Felicità e comunità
Aiutare

Aiutare con e senza stress

Fare musica, suonare, ballare

Riassumiamo

Capitolo 10. Alla ricerca della solitudine


Natura

Il «bagno di foresta»

Venerazione ed empatia

Motivi intrinseci versus motivi estrinseci

Spiritualità versus materialismo

Riassumiamo

Ringraziamenti

Bibliografia scelta

Indice analitico

Note
Premessa

Capitolo 1. Megatrend e malattia

Capitolo 2. La solitudine fa male

Capitolo 3. Contagio sociale

Capitolo 4. La solitudine provoca stress

Capitolo 5. Insieme online?

Capitolo 6. La solitudine come fattore di rischio

Capitolo 7. La causa di morte numero uno

Capitolo 8. «Mi rovini la salute!»

Capitolo 9. Che fare?


Capitolo 10. Alla ricerca della solitudine

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