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XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Citazioni:
Si 35, 15-17.20-22: www.clerus.org/bibliaclerusonline/it/9arcmtbc.htm
2Tim 4,6-8: www.clerus.org/bibliaclerusonline/it/9ajjdfd.htm
Lc 18,9-14: www.clerus.org/bibliaclerusonline/it/9an35wr.htm

Anche in questa liturgia domenicale, la Parola di Dio ritorna sul tema della preghiera, nonché
dell’accoglienza di essa presso Dio. La preghiera è il legame che ci unisce a Dio, ci pone in
comunione con Lui permettendoci di ascoltare la sua voce.
Non basta avere una fiducia piena nella benevolenza del Padre ed essere perseveranti nel chiedere
senza stancarsi - aspetti, questi, su cui abbiamo meditato domenica scorsa -, c’è un’altra
caratteristica che è determinante per pregare in modo gradito al Padre e che davvero possa cambiare
il cuore: l’umiltà.
Questa virtù è sicuramente il passaporto per essere ammessi al regno di Dio. L’umile riconosce che
Dio è tutto e lui nulla. Riconosce che quanto egli ha e fa di buono è dono di Dio, più che sua
conquista. Si riconosce imperfetto, ma desideroso di percorrere il cammino di un progressivo
perfezionamento, operato in lui dalla grazia, per compiere il quale riconosce la propria debolezza,
l’incapacità a superare gli ostacoli che vi si frappongono, ostacoli che sono fuori di lui, ma anche in
lui. Ecco allora che si rivolge a Dio, esprimendo nella preghiera tutta la sua piccolezza.
Nell'odierno brano evangelico, il Signore Gesù impartisce questo insegnamento e lo fa attraverso
una delle parabole più conosciute del Vangelo: quella del fariseo e del pubblicano. Questo testo, in
realtà, è da considerarsi più che una parabola; è una storia esemplare e significativa per il cristiano.
Il brano lucano gioca non tanto sul contrasto tra i poveri e i loro oppressori, quanto sulla
contrapposizione esistente tra soggetti di diverso spessore religioso e sociale: farisei e pubblicani. I
primi costituivano una delle categorie più attive al tempo di Gesù, molto stimata e influente; i
secondi erano esattori delle imposte, che per il loro servizio a favore dei Romani, erano invisi al
popolo, ritenuti pubblici peccatori e considerati persino traditori della patria.
Un fariseo ed un pubblicano sono i due personaggi che Gesù prende ad esempio, per mettere in
risalto diversi atteggiamenti nei confronti di Dio.
Il fariseo si fa avanti, si mette ben in vista e prega in modo tale da intessere, più che un dialogo con
Dio, un soliloquio, essendo egli convinto non solo di essere perfettamente in regola con le norme
della legge, ma di fare finanche di più dello stretto necessario. Dunque, egli non ha nulla da
chiedere al Signore. La sua preghiera è nulla più di una lista di meriti che non acquista alcun merito
presso Dio, rilevando soltanto l'arroganza dell'orante.
Di segno opposto è l’atteggiamento del pubblicano, che Gesù descrive con evidente approvazione.
Anch'egli sale al tempio, ma vi entra con discrezione, fermandosi a distanza, quasi a non voler
profanare quel luogo con la sua presenza, in quanto è consapevole della propria situazione di
peccato. Non osa alzare nemmeno gli occhi al cielo, perché ritiene di non aver nulla da presentare a
Dio.
Il suo umile atteggiamento e la supplica che rivolge a Dio denotano un cuore lacerato dal dolore per
averlo offeso, motivo per cui implora il perdono divino. Un perdono che Gesù assicura, dato che il
pubblicano “tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si
umilia sarà esaltato” (Lc 18, 14).
Ecco il significato pieno della parabola, il cui insegnamento definisce le condizioni affinché la
nostra preghiera sia accetta a Dio e da Lui esaudita.
Già nell’Antico Testamento, come riportato nella prima lettura, l’umiltà veniva richiesta come
condizione necessaria per una preghiera efficace. Dio ascolta con particolare premura “la preghiera
dell’oppresso e non trascura la supplica dell’orfano né della vedova” perché “la preghiera del
povero attraversa le nubi”.
La preghiera è l’energia necessaria per affrontare quella battaglia della fede di cui parla S. Paolo
nella seconda lettera a Timoteo. L'Apostolo attesta di attendere il premio del suo combattimento
dando impressione di esaltarsi, mentre è stato detto che occorre umiliarsi. Ma l’esaltazione del
fariseo e il gloriarsi di Paolo sono ben diversi. Il giusto orgoglio di Paolo è il compiacimento non
tanto per le proprie azioni, quanto per ciò che Dio ha operato in lui e attraverso di lui; da Dio, nella
preghiera, gli è venuta la forza per combattere e da Dio gli verrà il premio della vittoria.

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