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Institut für Allgemeine und Vergleichende Literaturwissenschaft

Ludwig-Maximilians Universität München


Masterarbeit

Concepire l´altra
Analisi di L´amica geniale di Elena Ferrante

Giulia Riccardi
Matrikelnummer 11385954
Görresstraße 9, Zimmer 401
80798 München
Email: Giulia.Riccardi@campus.lmu.de
Tel.: O176 20193820

Dr. Dr. habil. Judith Kasper


Institut für Romanische Philologie der Universität München
Schellingstr. 3, Vordergebäude
80799 München
Raum: 519
E-Mail: judith.kasper@romanistik.uni-muenchen.de
Indice

1. Introduzione……………………………………………………………………..3
2. Quello che sappiamo su Elena Ferrante
2.1 Scrivere fuori di lui………………………………………………………..9
2.2 Genio, genere femminile…………………………………………………15
3. Verso una narrativa dell’Io – Donna
3.1 La radice ontologica della narrazione……………………………………27
3.2 L’incarnazione: rapporto dialettico tra parola e carne…………………...36
4. L’amica geniale: storia di un’amicizia
4.1 All’inizio fu il Verbo…………………………………………………...44
4.2 La parola dell’altra……………………………………………………...56
4.3 La contemplazione della decostruzione dell’altra in immagine………..66
5. Conclusione…………………………………………………………………….75

Bibliografia

! 2!
1. Introduzione
Sicché non saprei riconoscere me stessa senza lotte di donne, letteratura di donne,
saggistica di donne: esse mi hanno resa adulta. La mia esperienza di narratrice, sia quella
inedita che quella pubblicata, si è compiuta dopo i vent’anni, totalmente nel tentativo di
raccontare con una scrittura adeguata il mio sesso e la sua differenza. Ma penso da tempo
che se dobbiamo coltivare la nostra tradizione narrativa, non dobbiamo mai rinunciare
all’intero bagaglio di tecniche che abbiamo alle spalle. Dobbiamo dimostrare, proprio
perché femmine, di saper costruire mondi ampi e potenti e ricchi quanto e più di quelli
disegnati dai narratori. 1

Il 21 gennaio 2013 appare su The New Yorker un articolo di James Wood che descrive
Elena Ferrante come una delle più popolari scrittrici d’Italia tra quelle meno
conosciute2. Sarà questo articolo ad affermarne la fama sullo scenario americano e ad
attirare le attenzioni di pubblico e critica internazionali. Nelle vetrine oltreoceano i libri
sono esposti con una scritta a neon che recita Ferrante fever. L’autrice è diventata nel
giro di pochi anni un caso letterario e editoriale. La sua carriera inizia nel 1992 con la
pubblicazione in Italia di L’amore molesto. Da allora ha pubblicato otto altri romanzi
guadagnandosi nel 2014 un posto nella Top 100 dei leading global thinkers compilata
da Foreign Policy3. Nonostante ciò la critica letteraria italiana è rimasta per lungo
tempo indifferente, se non addirittura scettica, alle opere di Ferrante limitandola per lo
più al genere basso del feuilleton senza particolari meriti narrativi o linguistici degni di
nota4.
Ciò che ha suscitato fortemente l’interesse del pubblico e ha portato alla cosiddetta
Ferrante fever, è soprattutto il mistero legato alla sua identità. Elena Ferrante è un nome
d’autore ancora senza volto. Dietro questa rinuncia di patrocinio dell’opera (non di
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1
La citazione è parte di una lunga conversazione tra Elena Ferrante e Sandra Ozzola, Sandro Ferri ed Eva
Ferri, suoi editori. Essa viene pubblicata in forma più curata e tradotta in lingua inglese nella primavera
del 2015 su The Paris Review (USA), con il titolo „Elena Ferrante, Art of Fiction No. 228“. La versione
qui riportata si trova in: Donne che scrivono. Risposte alle domande di Sandra, Sandro ed Eva, in:
Ferrante, E., La Frantumaglia, Roma, edizioni e/o, 2016, pag. 257.
2
„Elena Ferrante, or „Elena Ferrante”, is one of Italy’s best-known least-known contemporary writers.“
cit. Wood, J.: Women on the Verge. The Fiction of Elena Ferrante, in <<The New Yorker>>, 21 Gennaio
2013, http://www.newyorker.com/magazine/2013/01/21/women-on-the-verge (ultimo accesso 12 Giugno
2017), in: Santovetti, O.: Lettura, scrittura e autoriflessione nel ciclo di L’amica geniale di Elena Ferrante,
in: Elena Ferrante, L’amica geniale, a cura di Tiziana Rogatis, allegoria73, pag. 179-192.
3
Per una più dettagliata ricostruzione della risonanza mediatica di Elena Ferrante vedere Benedetti, L.,
Elena Ferrante in America, in: Elena Ferrante, L’amica geniale, a cura di Tiziana Rogatis, allegoria73,
pag. 111-117.
4
Le critiche si trovano in versione integrale in: Ricci, L.: Il fenomeno Ferrante visto dai critici, in <<Il
Messaggero>>, 19 Marzo 2015,
http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/libri/elena_ferrante_opinione_critici-930631.html (ultimo accesso
12 Giugno 2017), in: Benedetti, L., Elena Ferrante in America, in: Elena Ferrante, L’amica geniale, a
cura di Tiziana Rogatis, allegoria73, pag. 111-117.

! 3!
anonimato come spesso viene denominato. L’opera è, infatti, firmata e riconosciuta) si
legge non solo l’intenzione di Ferrante di astenersi dall’usuale promozione commerciale
di un libro ma anche di affermare una precisa dichiarazione poetica. In una lettera datata
21 settembre 1991 la scrittrice scrive all’editrice, Sandra Ozzola:
Interverrò solo attraverso la scrittura. […] Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno
degli autori, una volta che siano stati scritti. Se hanno qualcosa da raccontare, troveranno
presto o tardi lettori; se no, no. 5
Sottrarre l’autore all’opera consente di accentuare l’attenzione sulla scrittura. Togliendo
l’identità fisica dello scrittore, al lettore non rimane altro che cercarla come cercherebbe
quella di una figura letteraria. Può solo basarsi sulle parole, su ciò che è stato costruito
attraverso espedienti narrativi. L’identità va ricercata letteralmente tra le righe del libro.
Questo tema è fondamentale per Ferrante. Le sue storie narrano sempre di donne, prese
nella loro quotidianità, donne ordinarie, che cercano di capirsi e scrivono per farlo.

Le quattro protagoniste (Delia, Olga, Leda, Elena) sono immaginate non come prime, ma
come terze persone che o hanno lasciato o stanno lasciando una testimonianza scritta di ciò
che hanno vissuto. Succede spessissimo a noi donne, nei momenti di crisi, di cercare di
calmarci scrivendo. È una scrittura privata volta a governare un malessere, buttiamo giù
lettere, diari. Io sono partita scrivendo da questo assunto, donne che scrivono di sé per
capirsi. L’assunto diventa esplicito, anzi parte essenziale dello sviluppo narrativo, solo
nell’Amica geniale.6
La tetralogia ha come protagoniste due amiche, Lila ed Elena, e racconta la storia della
loro amicizia dall’infanzia fino alla vecchiaia, dal 1950 fino al 2010. Il racconto è
narrato dal punto di vista di Elena, che di mestiere fa la scrittrice. Gran parte del
romanzo è ambientato a Napoli, nel rione dove le due donne nascono e crescono. Altre
città fanno da sfondo alla storia, tutte legate all’evoluzione di Elena: Pisa, dove ella
porta avanti i suoi studi universitari; Milano, dove ha sede la sua casa editrice; Torino,
dove si trasferisce in vecchiaia. Nonostante ciò Napoli e il rione giocano sempre un
ruolo intenso nelle vite di entrambe. Gli intrighi, i pettegolezzi, le faide interpersonali,
le dinamiche della piccola comunità fanno parte dell’ambiente in cui crescono e si
formano. L’immedesimazione con la storia di Lila ed Elena è assicurata dalla narrazione
quotidiana e ordinaria degli eventi. Inoltre i romanzi raccolgono sessant’anni della
Storia italiana: dal dopoguerra all’avvento delle prime fabbriche, dalla criminalità
organizzata nel Sud Italia all’omicidio di Aldo Moro, dai discorsi di Pier Paolo Pasolini
alle rivolte del ’68 e ai movimenti studenteschi. Ma la Storia è sempre vissuta ed

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5
Ferrante, E., La Frantumaglia, pag. 11-12.
6
Ivi, pag. 275.

! 4!
esperita tramite gli occhi della persona comune e diventa così frutto di una finzione
romanzesca. “Avevo scritto un romanzo”7, esclama Elena letteraria nel terzo volume,
non un saggio di impegno politico. Per questo motivo L’amica geniale non è
pienamente ascrivibile al genere del romanzo storico. Il contesto storiografico serve per
approfondire e dare spessore all’individuo. È un elemento sociologico, così come anche
Napoli. Elena tende a voler porre una distanza con la città natia trovandosi
irrimediabilmente a farci ritorno. Lila, al contrario, non lascia mai i confini della città.
La lingua napoletana, le strade, la gente e la cultura del posto segnano entrambe tanto
fortemente da venir integrate nella loro persona. Napoli è una città formativa, viva, e
violenta, che va a determinare il loro modo d‘essere: “La sua voce, il suo sguardo, i suoi
gesti, la sua cattiveria e la sua generosità, lo stesso dialetto erano intimamente connessi
al nostro luogo di nascita.”8
Il rapporto con Napoli è significativo perché mette in luce, quanto Elena e Lila siano
tanto intimamente legate l’una all’altra, quanto profondamente diverse e in lotta.
L’affetto convive con una costante invidia che funziona da stimolo. L’amicizia di Elena
e Lila si fonda fin dall’infanzia su una complicità indirizzata al fare insieme. Si fonda
cioè su una sorta di promessa di solidarietà femminile, che viene puntualmente infranta.
Questo crea, soprattutto in Elena, un sentimento d’inferiorità rispetto all’altra. In una
dinamica d’inclusione ed esclusione le due donne crescono seguendo strade
diametralmente opposte. Elena studia, diventa scrittrice, si trasferisce fuori Napoli.
Elena è quella disciplinata, dalle forme femminili, una lettrice lenta. È quella tra le due
che vuole durare, sopravvivere al passare del tempo. Lila è quella cattiva, dalla
“prontezza mentale che sapeva di sibilo, di guizzo, di morso letale, dagli occhi grandi e
vivissimi, che sapevano diventare fessure dietro cui […] c’era uno sguardo che pareva
non solo poco infantile, ma forse non umano”9. Lila si sposa sedicenne, è scarpara,
artista, arredatrice, operaia, programmatrice. Lila non si ama, desidera cancellare sé e il
suo nome. Così infatti inizia la tetralogia: Lila, ormai donna sessantenne, è scomparsa
senza lasciare traccia di sé.
La competizione tra le due è legata alla realizzazione personale. L’una vuole avere più
storia dell’altra. Per Elena il motivo della rivalità si concretizza nella paura di un
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7
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 267.
8
Ivi, pag. 255.
9
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 34.

! 5!
ipotetico romanzo di Lila. La capacità dell’amica di giocare con le parole e di suscitare
nell’immaginazione altrui immagini forti, vive è sempre stata fonte d’invidia per Elena.
Per questo l’idea che Lila possa dar vita a un romanzo che dimostri nero su bianco la
sua bravura, la terrorizza. Elena vede nella sua carriera di scrittrice una possibilità di
riscatto costantemente minacciata/stimolata dall’influenza dell’altra.
In quel caso il suo libro sarebbe diventato – anche solo per me – la prova del mio fallimento
e leggendolo avrei capito come avrei dovuto scrivere ma non ero stata in grado di farlo.
[…] La mia immagine di scrittrice venuta da un luogo degradato ma approdata a un esito
diffusamente stimato avrebbe svelto la propria inconsistenza. […] L’intera mia vita si
sarebbe ridotta soltanto a una battaglia meschina per cambiare classe sociale.10
Elena dedica la sua vita alla scrittura con lo scopo di guadagnarsi la sua identità.
“Dovevo scrivere e pubblicare con regolarità, dovevo consolidare la mia fisionomia di
autrice”11 La carriera di scrittrice è inizialmente un qualcosa, che le permette di darsi
un volto in cui riconoscersi.
Sotto certi aspetti la tetralogia è ascrivibile al genere del romanzo di formazione.
Rimane comunque difficile attribuirle un genere narrativo identificativo, che descriva
appieno la struttura dell’opera. Elena Ferrante utilizza una lingua semplice, uno stile
neutro e medio. I dialoghi in dialetto sono tradotti in italiano, ad eccezione di alcuni
appellativi o insulti in napoletano inseriti disparatamente. La tetralogia inizia come
thriller, suggerisce la forma di un romanzo di formazione, ruba dal genere storico e
inserisce tecniche narrative tipiche del genere popolare, quali la sospensione del
racconto, i corposi intrecci amorosi e non, gli effetti a sorpresa, l’emozionalità. Eppure
non si lascia ascrivere pienamente a nessuna di queste forme letterarie. In riferimento
alla citazione iniziale, leggendo la tetralogia di L’Amica geniale si ha effettivamente
l’impressione che “il bagaglio di tecniche” dei narratori sia stato adoperato per ricreare
quei “mondi ampi, potenti e ricchi” e infine asservito allo scopo di raccontare due
donne.
Nel racconto di L’amica geniale Ferrante insiste sul corpo. Non solo le fasi di crescita
di Lila ed Elena sono segnate da cambiamenti fisiognomici, quali il primo mestruo, il
periodo dell’adolescenza, il passaggio all’età adulta o la gravidanza, ma la corporeità di
persone e cose è un elemento incarnato nella lingua stessa. Questa insistenza sul corpo e
sui confini della materialità sottintende una loro valenza narrativa, che è più della mera

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10
Ferrante, E.: Storia della bambina perduta, pag. 439.
11
Ivi, pag. 211.

! 6!
ricercatezza stilistica. Attraverso il corpo Ferrante costruisce una lingua carica nella sua
espressività visiva che si nutre di invocazioni d’immagini, volte ad adempiere a una
funzione ermeneutica-ontologica. Verrà approfondito nei seguenti capitoli come l’atto
della scrittura per Ferrante abbia a che fare con una riproduzione della vita, un
concepimento paragonabile alla maternità della donna.
Dalla concezione della lingua trattata nel romanzo si evince il perché del titolo di questo
saggio: Concepire l’altra. Il verbo concepire deve qui essere inteso nell’ambiguità delle
sue molteplici accezioni. Concepire, dal latino concĭpĕre, assume due significati diversi
a seconda che sia indirizzato a un soggetto femminile e usato nel suo significato
letterale, o che sia usato nel suo significato figurativo. Nella sua accezione di verbo
femminile significa generare, procreare, essere incinta. Nella sua accezione figurativa
può essere inteso come sentire, provare, per esempio un desiderio; o come atto
conoscitivo, quindi comprendere, intendere. Infine può anche essere inteso come un atto
dell’intelletto, ideare, progettare, per esempio un romanzo. Il titolo Concepire l’altra è
quindi riassuntivo della tesi principale qui sostenuta: raccontare la storia di una vita è un
processo di concepimento ontologico sorto da un desiderio, che non solo prevede la
presenza dell’altro, ma, nel caso di una storia di una Donna da parte di una Donna,
incorpora nella lingua la necessità di un nuovo ordine linguistico-simbolico volto a dar
forma a una genesi di una scrittura, “creata ad immagine e somiglianza” della Donna,
che la possa raccontare – una lingua che la concepisca.
Le allusioni al lessico teologico si giustificano in riferimento a un’affermazione di
Ferrante, in cui definisce la sua idea di scrittura e che verrà riportata in seguito. Tale
affermazione verrà approfondita attraverso la lettura che Anne Claire Mulder in Divine
Flesh, Embodied Word propone delle teorie di Luce Irigaray. La filosofa francese
dichiara la necessità femminile di avere una propria immagine discorsiva di Dio, che
permetta alle donne di avere una propria rappresentazione del divino e quindi una
possibilità di raccontarsi. Come per Ferrante, la parola e la carne sono due concetti
fondamentali per Mulder, i quali sono presi in considerazione come termini per il
processo dell’Incarnazione, concetto chiave per l’interpretazione del suo saggio e –
come sarà dimostrato in seguito – per la narrativa di Ferrante.
Oggetto di studio di questo saggio è in primo luogo l’analisi della posizione temporale
dell’istanza narrativa nel romanzo. In secondo luogo verranno individuate le figure

! 7!
narrative costitutive della scrittura ferrantiana, le quali verranno prese in considerazione
in quanto espressione della riaffabulazione di un sé che è altro da sé. La relazione tra
narrazione e racconto, tra racconto e storia e tra narrazione e storia sarà un punto
centrale dello studio. La terminologia qui proposta si basa sulla differenziazione del
significato di “racconto” proposta da Gérard Genette in Figures III, il quale sarà qui
applicato come base teorica per l’analisi12.
Un aspetto rilevante dell’analisi è inoltre il rapporto tra lingua e carne nella scrittura
ferrantiana. Verrà quindi presa in considerazione una nozione di identità che considera
il corpo femminile come elemento normativo e costitutivo del sé. A questo proposito le
teorie di Christine Battesby in The phenomenal Woman hanno offerto un’importante
base teorica per la definizione di un sé femminile intrinseco alla sua corporeità. Di
Battersby verrà proposta inoltre la sua analisi del concetto di Genio per dimostrare in
che modo un’estetica femminile possa emergere dalla subalternità al maschile.
La domanda ontologica è legata infine a una domanda narrativa. Nella pratica
dell’auto/biografia13 il raccontar(si) è una forma di indagine e di percezione del sé.
Specificatamente nel caso delle auto/biografie femminili il discorso parte da una presa
di coscienza del proprio essere sessuato e incarnato. La relazione con l’altro è, come
dimostrato da Adriana Cavarero in Tu che mi guardi tu che mi racconti, un elemento
imprescindibile di tale pratica. L’atto del racconto di una vita presuppone cioè
un’interazione con una seconda parte in gioco.
Partendo dalla forma auto/biografica di L’amica geniale verranno quindi ricercate le
strutture narrative che portano a una costruzione di una soggettività e di un’identità
femminili e a una decostruzione dell’immagine di stampo patriarcale della donna in
nome di una nascita di un sé che si riconosca in quanto chi e non in quanto cosa.

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12
I saggi di Figures III di Gérard Genette espongono una teoria generale delle forme letterarie volta in
Discurs du récit a delineare una tipologia d’analisi analitica del discorso narrativo. Il saggio si apre con
un’esemplificazione dell’ambiguità della parola racconto, che Genette tripartisce in racconto, narrazione e
storia. La storia è “le signifié ou contenu narratif”, la narrazione è invece “l’acte narratif producteur et,
par extension, l’ensemble de la situation réelle ou fictive dans laquelle il prend place” e il racconto è
infine “le signifiant, énoncé, discours ou texte narratif lui-même”. L’analisi del discorso narrativo,
secondo Genette, si costituisce quindi sulla relazione tra racconto e storia, tra racconto e narrazione e la
storia e narrazione, in : Genette, G., Discours du Récit, in: G.G : Figures III, Paris, éditions du Seuil,
1972, pag.74.
13
Il termine verrà chiarito nel capitolo seguente ed è utilizzato da Liz Stanley in: Stanley, L., The
auto/bioghaphical I, Manchester University press, 1992.

! 8!
2. Quello che sappiamo su Elena Ferrante

2.1 Scrivere fuori di lui

D’altronde – credo – deve pur venire il momento in cui riusciremo a scrivere davvero fuori di
lui, non per pretesa ideologica ma perché davvero, come le anime platoniche, ci ricorderemo
di noi senza doverci, per comodità, per consuetudine, per prendere le distanze da noi stesse,
rappresentare in lui. Le sarte delle madri mi immagino che stiano studiando da tempo. Presto
o tardi impareremo tutte a non infagottare, a non infagottarci.14
Oggetto del seguente capitolo è la delineazione della poetologia di Elena Ferrante. I
tratti della scrittura ferrantiana permettono non solo di contestualizzare più
approfonditamente i punti teorici trattati in seguito, ma anche di offrire un orientamento
per la parte di analisi del testo. Tra Elena letteraria ed Elena reale intercorrono
somiglianze e punti di contatto che possono incoraggiare le fantasie dei lettori a
riconoscere nelle opere tracce autobiografiche dell’autrice: la città di Napoli, gli studi
umanistici, la professione di scrittrice, l’interesse per il personaggio di Didone15, ecc.
L’assenza di una biografia concreta di Ferrante è sicuramente la prima fonte di stimolo
di tale tesi, così come anche la forte componente metanarrativa dei romanzi. È giusto
quindi puntualizzare, onde evitare ambiguità, che non è d’interesse di questo capitolo
individuare gli elementi di L’Amica geniale ricollegabili alla fisionomia dell’autrice
reale, piuttosto indicare come l’assenza dell’autrice crei un’idea di Autorschaft, che apre
uno spazio creativo sperimentale16 per una linea estetica che mina il concetto di Genio
secondo l’accezione comune del termine. Quando in seguito quindi si tratterà degli
elementi auto/biografici del romanzo si farà riferimento solo ed unicamente alla
scrittrice Elena Greco.
In prima battuta si cercherà di definire la scrittura secondo Elena Ferrante17. Essa non
deve “mai mentire”18. Racconta il “difficile da dire”19. È “nitida, onesta e tratta di fatti
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14
La citazione è parte di una lettera del 1995 non spedita, in risposta alle domande di Goffredo Fofi, in:
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 59.
15
Sul suo rapporto con il personaggio di Didone Elena Ferrante si dilunga in diverse occasioni. Il primo
riferimento a Didone è contenuto in un’intervista con Stefania Scateni, uscita sull’Unità dell’8 settembre
2002 con il titolo Elena Ferrante, la scrittura e la carne. L’interesse per il personaggio è ripreso e
approfondito in un articolo in risposta a una lettera dell’editrice Sandra Ozzola (11 aprile 2003) contente
domande da parte di Giuliana Oliviero e Camilla Valletti. Data la forma quasi saggistica del testo della
Ferrante, non fu possibile pubblicare le risposte. I testi integrali sono contenuti in: Ferrante, E.,
Frantumaglia, pag. 77 - 78 e pag. 138 -142.
16
Con sperimentale non si intende un’intenzione di sperimentazione stilistica e linguistica quanto un
intervento pioneristico nella scoperta delle possibilità espressive portate dall’assenza strutturale
dell’Autore.
17
Frantumaglia, una raccolta d’interviste di Elena Ferrante dal 1991 al 2016, è il testo di orientamento
principale per la delineazione delle caratteristiche della scrittura dell’autrice qui riportate.

! 9!
della vita comune”20. L’atto della scrittura è legato a un effetto di verità e autenticità
letteraria, concetti ben diversi dalla verosimiglianza. Quest’ultima si basa sull’abilità
tecnica dello scrittore di imitare la voce del personaggio, sia questo maschile o
femminile. Come sarà dimostrato più chiaramente in analisi, i romanzi di Ferrante non
corrispondono a un esempio classico di narrazione mimetica, anzi la scrittrice
rappresenta a questo proposito un paradosso. Ella non scrive per rendere verosimile
un’esperienza di vita tramite elaborazioni e tecnicismi narrativi, bensì ricerca la verità
letteraria, una forma di autenticità che “spazza via trucchi ed effetti. Il vero travolge il
similvero e questo spesso disorienta. Preferiamo l’effetto di verità piuttosto che
l’irruzione nella sfera simbolica dell’autentico” 21 . Questa necessità per una “sfera
simbolica dell’autentico” è particolarmente significativa nel contesto della scrittura
“immaginifica” 22 ferrantiana, dove il riferimento al reale non è un mero dato di
registrazione empirica bensì una struttura narrativa votata alla rappresentazione
autentica della voce femminile. La difficoltà della sua rappresentazione autentica è il
“difficile da dire” con il quale la scrittura si deve confrontare. L’autenticità trapela dalla
storia e dalla resa dei personaggi. Premessa per tale risultato è però un lavoro
d’introspezione - prima - e di annullamento - dopo - dell’Autore, il quale si deve porre
la domanda: “questa è la storia giusta per afferrare ciò che giace silenzioso sul fondo di
me, quella cosa viva che, se catturata si spande per tutte le pagine e dà loro anima?”23.
In questo senso l’Autore rimane vivo nel libro: Ferrante descrive la scrittura “come una
lunga estenuante piacevole seduzione” 24 , una forma d’indagine di quel magma
silenzioso e inconfessabile sepolto sotto le nostre inibizioni convenzionali. È questo
magma, nella sua forma ancora irrisolta, che sopravvive nelle pagine e che si traduce in
finzione letteraria. Il realismo delle opere non deriva dalla riscrittura di avvenimenti veri
in sé, vissuti in prima persona dalla scrittrice: “Se avessi voluto raccontare i fatti miei,

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18
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 75.
19
Ivi, pag. 135.
20
Ivi, pag. 226.
21
La citazione è presa da un’intervista del 20 luglio 2015 con la giornalista turca Yasemin Congar
apparsa sul giornale online T24, qui riportata nella versione in lingua originale contenuta in: Ferrante, E.,
Frantumaglia, pag. 297.
22
“In quanto narratrice mi sentivo in dovere di essere immaginifica”, in: Ferrante, E., Storia della
bambina perduta, pag. 74.
23
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 68.
24!Ibidem.!

! 10!
avrei stabilito un altro tipo di patto con il lettore”25, precisa Ferrante. Le somiglianze tra
protagonista e autrice piuttosto sono un effetto della rilavorazione di cose, persone, fatti
reali al fine della finzione letteraria. La firma autoriale pesa sul testo, nel senso che
l’autore inevitabilmente ne è al suo interno. La sua vita, o meglio il suo senso della vita,
entra nell’opera per poi uscirne e lasciarla ai lettori26. Ferrante riconosce il ruolo
superfluo dell’autore, mette in risalto il testo come opera del lettore ed è vicina all’idea
proustiana contro il biografismo positivista27: in arte conta la vita che rimane tra le
pagine del libro.
La sincerità letteraria ferrantiana lavora per ottenere “un io femminile che nel lessico,
nella struttura delle frasi, nell’oscillazione dei registri espressivi, mostrasse solidità
d’intenti, un sincero pensare e sentire, e contemporaneamente avesse pensieri,
sentimenti e azioni riprovevoli”28. Lo scopo non è quindi ottenere un realismo storico e
fattuale – si noti a tale proposito la predominanza della lingua italiana contro quella
napoletana, elemento che avrebbe reso il contesto culturale e popolare predominante -
bensì lavorare sull’autenticità della parola, cruccio che accomuna Elena reale a Elena
letteraria. Così come Elena Greco vede nell’immaginario romanzo di Lila una prova di
come avrebbe dovuto scrivere29, allo stesso modo Ferrante riconosce nell’esclamazione
del Bergotte di Proust “Così avrei dovuto scrivere”30 una sintesi dello sforzo verso il
raggiungimento di un’autenticità della parola per una piena espressione narrativa,
potenzialmente mai raggiungibile. La difficoltà di tale procedimento è dovuta in parte a
quella riprovevolezza di pensieri, sentimenti e azioni propri dell’Io. Scontrandosi con le
parti più recondite dell’inconscio e dell’inconfessato la scrittura sfiora materia viva e
violenta, e per questo difficile da dire. La scrittura è “come macella[re] anguille”31,
un’operazione sgradevole che racconta ciò che si torce, sia a livello psicologico, sia a
livello sociologico. Il peso che certe tradizioni culturali, sociali o letterarie esercitano su
determinati aspetti della nostra quotidianità, ne impedisce un discorso autentico, qui
intenso in senso ferrantiano; l’idea di maternità e di femminilità prima fra tutte:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
25
Ivi, pag. 341.
26
“Non credo che l’arte possa prescindere dall’artefice. Credo anzi che chi scrive finisca, che lo voglia o
no, interamente nella sua scrittura. L’autore c’è sempre ed è nel testo, che perciò ha tutto il necessario per
risolvere gli enigmi che contano.“, in: Ferrante, E., Frantumaglia, Pag. 198.
27
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 171.
28
Ivi, pag. 275.
29
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 439.
30
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 252.
31
Ivi, pag. 217.

! 11!
Mi sembra molto significativo quel “nessuno va a pensare”. Vuol dire che l’informe è così
potente, nel condizionare la parola “madre”, che il pensiero di figli e figlie, quando pensa il
corpo a cui la parola dovrebbe rimandare, non riesce a dargli le forme che gli spettano se
non con repulsione. Non ci riescono nemmeno le sarte delle madri, che pure sono femmine,
figlie, madri. Esse anzi, per abitudine, in modo, irriflessivo, tagliano addosso alla madre,
panni che cancellano la donna. […] L’espressione è: “tagliare i panni addosso”. Mi
immaginavo che nascondesse un significato malvagio: un’ aggressione maliziosa, una
violenza che rovina i vestiti e mette scabrosamente a nudo; o, peggio ancora, un’ arte
magica capace di sagomarti il corpo fino all’oscenità. Oggi quel significato non mi sembra
più malvagio, né scabroso. Anzi mi appassiona il nesso tra tagliare, vestire, dire.32
La femminilità e la maternità fanno parte dell’Io femminile. Parlarne rientra nei
parametri di ricerca per una forma d’espressione attraverso strutture narrative e
linguistiche appropriate. Nella parola “forma” Ferrante trova un’affascinazione
particolare. L’informità delle donne è una figura di Elsa Morante, scrittrice a cui
Ferrante si sente vicina. L’abito camuffa e infagotta la forma della donna fino a
sfigurarla in uno stato d’informità. Esso è una metafora della denaturalizzazione del
femminile ad opera del maschile. La citazione in apertura a questo capitolo racconta del
ruolo delle sarte delle madri nell’identificazione di una forma di rappresentazione fuori
di lui. I vestiti non sono solo elementi ricorrenti nel ciclo di L’amica geniale, ma
costituiscono anche un campo semantico inscritto nella lingua del romanzo come
strategia metanarrativa per raccontare di Lei fuori di Lui. Si noti che trovare una
rappresentazione “fuori di Lui” non significa “senza di Lui”.
Per Ferrante l’atto del cucire assomiglia a quello dello scrivere. La scrittura è, in parte,
come la stoffa delle sarte: un dar forma alle cose e alle persone. Questa è la posizione di
Elena Greco nella tetralogia: “Non mi scoraggiare. Io per mestiere devo incollare un
fatto all’altro con le parole e alla fine tutto deve sembrare coerente anche se non lo è.
[…] Per mettere ordine”33. A un’idea di scrittura che dà forma se ne affianca una
opposta che taglia e lacera, si affianca cioè Lila. La difficoltà delle sarte è tagliare i
panni su misura della donna, allo stesso modo la scrittura deve trovare un equilibrio
nell’informità e dargli parola. Le donne di Ferrante sono sempre donne in crisi nelle
loro convinzioni e nel loro modo d’essere. Nel momento in cui tutto ciò in cui avevano
creduto fino a quel momento, non basta a sostenere quel magma inconfessabile e a
proteggerle, elle crollano e irrompe la frattura. In L’amica geniale la storia oscilla su un
equilibrio precario tra marginarsi e smarginarsi. Due verbi corrispettivi delle
protagoniste Lila ed Elena e specchio di un ordine narrativo e stilistico ricollegabile
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
32
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 15 – 16.
33
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 246.

! 12!
all’idea che Ferrante ha del processo creativo: “[l]’autodisciplina dell’una che si rompe
di continuo e bruscamente contro l’estro disordinato dell’altra”34. Tale processo parte
dall’assunto che la pratica narrativa sia femminile. Le donne scrivono per capirsi e per
rappresentare quello stato che Ferrante battezza con il nome di “frantumaglia”, cioè:
[…] La parte di noi che sfugge alla riduzione in parole o ad altre forme e che nei momenti
di crisi riduce a se stessa, dissolve, l’intero ordine dentro cui ci pareva di essere stabilmente
inseriti. Ogni interiorità al fondo, è un magma che urta contro l’autocontrollo, ed è quel
magma che bisogna provare a raccontare, se vogliamo che la pagina abbia energia.35
La “frantumaglia” è il disordine della storia senza il racconto che le dia una forma, una
sensazione dolorosa d’instabilità. Senza la parola giusta non si arriva alla sincerità
letteraria, la quale secondo Ferrante è costruita sulla “qualità grafica”36 dell’effetto di
trasmissione a potenziamento della scrittura. La riscrittura del reale ha una base
sensoriale: si basa cioè non su ciò che è accaduto ma su ciò che si prova e si sente nella
realtà e che viene poi trasformato in parola. L’amica geniale è costruita su un ordine
strutturale tra le impressioni e le fantasie di Elena e quelle evocate nella sua testa da
Lila. Si è già fatto riferimento al rapporto tra lingua e carne nell’introduzione di questo
studio. Questa radice carnale della parola ha origine da una violenza intrinseca al
linguaggio. L’italiano, soprattutto, e ancora di più il napoletano, sono lingue concrete
con forti rimandi al corpo37. Dai romanzi di Ferrante si evince un’attenzione all’aspetto
psichico che viene trasmesso attraverso descrizioni materiali. Il corpo sottintende una
connotazione psicologica-espressiva, soprattutto nel caso delle donne: la gamba
sghemba della madre e poi di Elena è simbolo del loro rapporto madre-figlia, i corpi
deformati e piegati dalla maternità delle donne del rione sono il segno dell’ordine
sociale patriarcale, gli occhi a fessura di Lila sono un preavviso del suo bisogno di
stravolgimento, la paura diventa uno stato di metamorfosi in cui i “lineamenti erano
storpiati dall’angoscia”38, l’ira è la presenza di “una me scollata da me”39, il dolore è un
qualcosa “che si spezza nel cuore e nella pancia”40, ecc.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
34
Ferrante, E., Frantuamglia, pag. 247.
35
Ivi, pag. 302.
36
Ivi, pag. 81.
37
In diverse interviste la Ferrante fa riferimento alla materialità della lingua italiana citando ad esempio
espressioni come “io non ci sto” per esprimere disaccordo, sottolineando la propria non presenza fisica.
Oppure “tagliare i panni addosso”, espressione che sottintende una violenza taciuta nel rimodellare il
corpo della persona. In: Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 147 e pag. 329.
38
Ferrante, E., Storia bambina perduta, pag. 160.
39
Ivi, pag. 85.
40
Ivi, pag. 96.

! 13!
La particolarità della scrittura ferrantiana va ricercata nelle immagini evocative delle
parole, in quella sfera simbolica dell’autentico a cui ambisce Elena Ferrante come Elena
Greco. Se Elena è la scrittrice ordinata e ordinatrice, Lila crea appunto disordine, mette
in dubbio, crea voragini. È lei a ricordare a Elena che “la faccia schifosa delle cose non
bastava a scrivere un romanzo. Senza fantasia non pareva una faccia vera, ma una
maschera”41. Un’idea di scrittura che si avvicina alla definizione di Ferrante:
Sicuramente nella mia esperienza la parola è sempre carnale. […] Col passare degli anni,
devo ammettere, mi sento sempre più vicina all’idea che la scrittura vera sia quella che nasce
dall’uscita da sé, da una condizione estatica. Ma spesso scopro che ci si immagina l’estasi
come una disincarnazione. L’estasi dello scrivere non è sentire il soffio della parola che si
libera dalla carne, ma la carne che fa tutt’uno col soffio delle parole.42
La frammentarietà e l’instabilità che trapelano dai romanzi di Ferrante sono frutto di
una forma di rilettura delle cose e delle persone. Da un lato, rimangono parti di vita di
un Autore che traduce in parola la cosa vera, la carne. Sono quindi frutto di una
ricostruzione mnemonica di frammenti e impressioni di un Io che nel trascriverli in
racconto si annulla e lascia la “fatica piacere” 43 della scrittura a un personaggio
letterario, nel caso specifico Elena. Dall’altro lato, è una scrittura che attraverso il
racconto problematizza il concetto di unità. Extra-diegeticamente parlando, l’assenza di
Elena Ferrante testimonia un’unità tra testo e Autore, per la quale il lettore è
autosufficiente. A livello diegetico, invece, i personaggi dei romanzi sono personaggi
che cercano una loro unità, fallendo ogni volta e riconoscendosi “smarginati”, legati
all’altro/a: “Non ce la facevo più a sentirmi Lila addosso e dentro”44; “Più viaggiavo
verso Milano, più scoprivo che, accantonata a Lila, non sapevo darmi compattezza se
non modellandomi su Nino. Ero incapace di essere io il modello di me stessa”45. In
questo senso narrare di un’amicizia tra donne all’interno di una società patriarcale come
quella napoletana è efficace. La subalternità delle donne è ciò che è descritto nel
romanzo, il loro “senso di redenzione”46 per ciò che non hanno capito e non hanno
avuto la capacità di vedere è una consapevolezza della mano dell’Autore, la messa in

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
41
Ferrante, E., Storia di fugge e di chi resta, pag. 278.
42
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 216.
43
Ivi, pag. 54.
44
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 18.
45
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 89.
46
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 211.

! 14!
scena è quella dell’ ”attraversamento doloroso […] della stoffa […] con cui persino noi
stesse, le figlie delle sarte, infagottiamo il corpo delle madri”47.
In conclusione a questo capitolo si prenderà in esame in che modo l’assenza strutturale
dell’Autore non solo riveda l’idea di Autorschaft ma invochi una rilettura della genialità
comprensiva della Donna.

2.2 Genio, genere femminile


Nell’esperienza che ho, la fatica-piacere di scrivere tocca ogni punto del corpo. Quando il
libro è finito, è come se si fosse stati frugati con eccesiva intimità e non si desidera altro che
riguadagnare distanza, ritornare integri. […] I vecchi miti sull’ispirazione forse dicevano
almeno una verità: quando si fa un lavoro creativo si è abitati da altro, in qualche misura si
diventa altro.48
L’esigenza di dare una voce propria alla donna nasce in seguito a una tradizione
letteraria, in cui la voce femminile è stata solo verosimile e mai vera, imitata da scrittori
maschili che si sono imposti a tal punto da far sembrare “inautentica la verità delle
scritture femminili”49. A questa critica Ferrante aggiunge un problema di classificazione
del merito. Ella denuncia la volontaria inconsiderazione rispetto a grandi esempi di
scritture femminili quali Jane Austen, Virginia Woolf, Elsa Morante, Clarice Lispector,
Alice Munro, il cui valore letterario viene elogiato e riconosciuto solo tra donne.
Ferrante critica il modello per cui una scrittrice può essere più brava di altre ma non più
brava di altri scrittori. Così come raramente scrittori di fama dichiarano di avere come
modello un’autrice. La scrittura femminile è per consuetudine ristretta a determinati
generi e a determinati modi di scrittura, dai quali difficilmente riesce a slegarsi e a
imporsi come forma autentica in grado, nella sua cosiddetta “debolezza”, di imitare la
forza maschile. Scrivere è anche un mezzo e un criterio di discriminazione. Tale
atteggiamento è caratterizzante di un ambiente come quello napoletano, dove lo sfottò e
la violenza – anche e soprattutto verbali - sono parte della quotidianità. Si pensi alla
descrizione di Donato Sarratore che di mestiere faceva il poeta: “[T]utti i maschi della
palazzina, mio padre in testa, lo consideravano un uomo a cui piaceva fare la femmina,
tanto più che scriveva poesie e leggeva volentieri a chiunque”50.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
47
Ibidem.
48
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 54.
49
Ivi, pag. 296.
50
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 35.

! 15!
Le donne sono condizionate dalla letteratura maschile. Elle si formano sulle spalle dei
grandi autori e della loro scrittura, che diventa un modello di imitazione fin
dall’infanzia. In L’amica geniale questa influenza del genio maschile è ricorrente. Si fa
spesso riferimento nel romanzo allo sforzo di Elena di parlare come i maschi e di
interessarsi politicamente e socialmente per quelle tematiche a loro care. Seguire questa
logica significava legittimare la sua bravura e il suo diritto di essere una scrittrice51. Fin
dall’infanzia il modo di parlare determina l’appartenenza sociale, una sorta di biglietto
da visita, che Elena vuole plagiare per nascondere le sue origini. Si prenda in esempio la
sequenza nella quale Elena confronta la raffinatezza della maestra del liceo con
l’aspetto trascurato e sciupato della madre notando la differenza del linguaggio:
Provai una doppia umiliazione: mi vergognai perché non ero stata in grado di essere brava
come alle elementari, e mi vergognai per la differenza tra la figura armoniosa,
dignitosamente abbigliata della professoressa, tra il suo italiano che assomigliava un poco a
quello dell’Illiade, e la figura storta di mia madre, le scarpe vecchie, i capelli senza luce, il
dialetto piegato a un italiano sgrammaticato.52
Elena Ferrante ha avuto per lungo tempo modelli di scrittura maschile, che cercava di
imitare e raggiungere: “Mi pareva che tutti gli scrittori di gran livello fossero di sesso
maschile e che quindi bisognasse scrivere da vero uomo”53. Con il tempo si avvicina
alla letteratura femminista, per poi infine abbandonare ogni ambizione ideologica e/o
tecnica e affidarsi, in un certo senso, alla scrittura. La tradizione letteraria passata fa
parte di quel bottino culturale che spartisce all’interno delle sue opere e di cui si sente
parte come “un tassello di intelligenza collettiva […] un frammento, insomma di una
lunghissima storia che riduce di molto la nostra funzione di autori come la intendiamo
oggi”54. Tra le diverse tecniche narrative adottate si annoverano, come già accennato,
quelle tipiche del fotoromanzo. Ferrante racconta di quanto, fin dall’adolescenza, i
fotoromanzi l’abbiamo divertita. Da loro deriva quella voglia di emozionare che
s’inscrive nelle sue opere ma che all’inizio della sua carriera respingeva. Se ne
vergognava per via della loro reputazione di letteratura bassa, di serie B. Oggi eventuali

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
51
“Quanto soffrivo nei casi in cui all’improvviso mi veniva tolto il consenso: perdevo fiducia in me
stessa, mi sentivo trascinata giù in fondo alle mie origini, mi sentivo politicamente incapace, mi sentivo
femmina che avrebbe fatto bene a non metter bocca.” oppure „ <<Tu sei bravissima>> mi disse una sera
<<ma lui ha un modo di parlare che mi piace veramente; mette la scrittura dentro la voce, ma non parla
come un libro stampato>>. <<E io sì?>> chiesi per gioco. << Un poco >>. << Ancora?>>. << Sì>>“, in:
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 77 e pag. 250.
52
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 89.
53
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 77.
54
Ivi, p. 278.

! 16!
paragoni e confronti con autori come Delly55 non la disturbano più, anzi le procurano
piacere. Ferrante si appropria tecnicamente parlando di stratagemmi e strutture narrative
che risaltano quella parte emozionale e sentimentale della lettura, perché di quei
“libracci” si sono appassionate ragazze e donne di generazioni. Non si tratta di
rivalutare il genere del romanzo rosa quanto di razionalizzare gusti e valori della
letteratura da e per donne.
In creative writing a woman has always the problem of aligning Romantic notions of art as
an instinctive, non-rational activity against her need to assess (rationally and consciously)
the likely reactions to a female voice.56
Con questo non si vuole argomentare la tesi, sostenuta da alcuni critici57, che Ferrante
fondi o invochi una écriture féminine nel sento inteso da Cixous, Irigaray, Kristeva –
autrici che Ferrante conosce e apprezza ma di cui non riprende la spinta ideologico-
politica 58 . Nella scrittura ferrantiana emerge un senso di appartenenza al contesto
culturale e storico, che diventa parte del romanzo in quanto elemento formativo: più che
una scrittura che lotta per superare vecchi stilemi di stampo maschile imitandone
tecniche e strutture per mostrare la propria diversità e il proprio essere altro, è piuttosto
una scrittura che riconosce la sua base di origine, ne accetta l’appartenenza e cerca una
forma di “svelamento dell’assoluto”59, un inclusione dell’Io femminile in modelli e in
sistemi che vogliono essere anti-patriarcali e anti-femministi.
Bisogna raccontare, una volta, cosa significa scrivere da donne, cosa significa fare i conti
sul serio non solo col maschile, ma con quel femminile dei maschi che ci appartiene e ci
abita. Non è il nostro rapporto con il maschile che oggi è preminente, ma quello ben più
complesso col maschil-femminile o col femminil-maschile.60
A questo punto si sono sollevate due questioni che meritano un maggior
approfondimento. Da una parte è opportuno definire e contestualizzare l’idea autoriale
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
55
Delly è uno pseudonimo collettivo, adottato da Jeanne-Marie Petitjean de la Rosière e suo fratello
Frédéric Petitjean de la Rosière. I romanzi di Delly furono in voga fra gli anni dieci e gli anni cinquanta
del 1900. Sono considerati un prototipo del romanzo popolare, soprattutto del romanzo rosa. Elena
Ferrante fa riferimento a Delly in un’intervista di Marina Terragni e Luisa Muraro, apparsa il 27 gennaio
2007 su Io Donna: “Il gusto di avvincere i lettori. Il fotoromanzo è stato uno dei miei primi piaceri di
lettrice in erba. […] Una volta avevo grandissime ambizioni letterarie e mi vergognavo di questa spinta
verso tecniche da romanzo popolare. Oggi mi fa piacere se qualcuno dice che ho scritto un racconto
avvincente – per esempio – come quelli di Delly”, in: Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 217.
56
Battersby, C., Gender and Genius, pag. 104.
57
Tra i critici sostenitori della tesi che la Ferrante partecipi con i suoi romanzi alla causa della lotta
femminista si annovera James Wood, già citato in precedenza in riferimento al suo articolo apparso su
The New Yorker, il quale sancì la fama della Ferrante. In: Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 299.
58
“L’attraversamento delle culture femministe è parte indispensabile della mia esperienza, del mio modo
di stare al mondo, ma per me narrare non significa fare del mio racconto il tassello di una battaglia
politico- culturale, foss’anche giusta. “, in: Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 299.
59
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 150.
60
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 217.

! 17!
ferrantiana. Dall’altra, a tale definizione si associa un discorso sul concetto di Genio e
sulla sua “maschilizzazione” nella tradizione artistico-letteraria.
L’annullamento del corpo di chi scrive, l’autosufficienza del testo e la sua appartenenza
al lettore, la nascita simultanea di testo e autore, l’idea di testo come un “tissu de
citations, issues des mille foyers de la culture“61 sono concetti chiave che riassumono la
posizione autoriale di Ferrante in maniera parzialmente esaustiva e che sembrano
avvicinarla alle teorie postmoderne di Roland Barthes in La mort de l’auteur (1968).
L’assenza dell’Autore assume però nel caso di Ferrante un aspetto problematico. La
letteratura è per lei un atto di fede. Così come il credente sa bene che su Gesù
all’anagrafe non troverà traccia, ma si affida alle sue parole per trovare ciò che per lui
conta, allo stesso modo l’amante della letteratura troverà nel testo le risposte di cui ha
bisogno anche senza una biografia del suo scrittore62. L’assenza dell’autore crea uno
spazio creativo in cui egli può sperimentare un modo di presentazione personale nel suo
volontario annullamento. Posto quindi che l’Autrice Elena Ferrante sia “morta”, rimane
l’idea di una parola scritta che dura e che racconta l’identità dell’Autore. È il testo a
definire la fisionomia di chi scrive, il quale a sua volta fa fluire da sé stesso la
frantumaglia di suoni, parole, odori nell’ordine della frase. La scrittura è una risposta a
un’urgenza personale, pur escludendo il sé dal racconto. Secondo uno schema
d’inclusione ed esclusione, l’Autore inteso come “le passé de son propre livre” 63
scompare come elemento di determinazione dell’opera, come argomentato anche da
Barthes, ma riappare sotto forma di scrittura che trova la sua pienezza nel qui e nell’ora
dell’espressione. L’Autore sopravvive all’opera non in rapporto alla fama o al successo
che esso gli procura, ma nel senso che esso diventa una testimonianza della sua
esistenza, della quale ciò che importa è ciò che lascia la parola.
Onde evitare che il paragone religioso/cattolico sopracitato confondi le linee del
discorso qui proposto, è necessario specificare che Barthes come anche Ferrante non
presentano un testo vero in senso teologico, portatore cioè di verità. La frammentarietà e
la (s)marginalità della scrittura riflettono l’irraggiungibilità di un senso definitivo e
pieno.
L’espace de l’écriture est à parcourir; il n’est pas à percer; l’écriture pose sans cesse du sens
mais c’est toujours pour l’évaporer; elle procédé à une exemption systématique du sens. Par
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
61
Barthes, R., La mort de l’auteur, pag. 65.
62
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 192.
63
Barthes, R., La mort de l’auteur, pag. 64.

! 18!
la même, la littérature en refusant d’assigner au texte (et au monde comme texte) un
<<secret>>, c’est-à-dire un sens ultime, libère une activité que l’on pourrait appeler contre-
théologique, proprement révolutionnaire.64
Nel dichiarare la nascita del lettore e la morte dell’Autore, Barthes riconosce che
l’opera letteraria sia creata da un singolo autore. Allo stesso tempo però riduce il valore
di nozioni quali individualità, autonomia e creatività artistica definendo un testo come
un “Gewebe von Zitaten”. Qui si trova il punto di rottura tra Ferrante e Barthes.
Entrambi concordi sul fatto che scrivere voglia dire fare parte di una tradizione,
divergono però sulle conseguenze di tale caratteristica. Ferrante sfrutta questo elemento
per introdursi, per “testimoniare che sono vissuta e che ho cercato una misura per me e
per gli altri”65. La morte dell’autore postmoderna è applicata come una tecnica per
ridimensionare il proprio io autoriale in modo tale da lasciare alla parola il significato
portante dell’opera. L’assenza dell’Autore crea uno spazio creativo in cui Ferrante può
sperimentare attraverso la scrittura e lasciare così che sia quest’ultima a raccontare di
Lei. “È la scrittura che dà alla luce una storia, che soffia vita nei materiali inerti
custoditi nella memoria e li tira fuori dall’oblio”66. Si legga quest’ultima citazione come
una definizione di scrittura femminile che ripercorre la storia per “tirare fuori
dall’oblio” nomi di donne mai riconosciuti per il loro valore e che concepisce l’Autrice
all’interno di quella tradizione letteraria-culturale, quel “tissu du citations”, dalla quale è
stata esclusa a discapito dell’eccellenza maschile. Si concorda quindi con l’obiezione
sostenuta da Christine Batterbsy: “But for an author to die, he must first have lived”67.
Un discorso di Autorschaft femminile si inserisce in un più generale problema storico
del ruolo femminile nella concezione artistica.
Prima di procedere con la trattazione della relazione tra postmodernismo e autrice, si
consideri l’affermazione di Michel Foucault in Qu’est-ce qu’un auteur? (1969): “Et si,
par suite d’un accident ou d’une volonté explicite de l’auteur, il nous parvient dans
l’anonymat, le jeu est aussitôt de retrouver l’auteur”68. La necessità di attribuzione di
un’opera a un autore è una conseguenza dell’idea autoriale sviluppata e legittimata a
partire da fine diciottesimo secolo, inizio diciannovesimo secolo tramite l’introduzione
del diritto d’autore. L’autore è un’invenzione moderna che costruisce un preciso
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
64
Barthes, R., La mort de l’auteur, pag. 66.
65
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 370.
66
Ivi, pag. 230.
67
Battersby, C., Gender and Genius, pag. 146.
68
Foucault, M., Qu’est-ce qu’un auteur?, pag. 800.

! 19!
approccio con il testo rispetto a colui che scrive. Questo concetto, già argomentato da
Roland Barthes, viene ripreso da Foucault, anche se non esplicitamente, per dichiarare a
sua volta la morte dell’autore. In aggiunta a tale tesi Foucault argomenta che i contro-
termini proposti in alternativa alla presenza dell’autore, cioè opera e scrittura,
impongano diverse caratteristiche e sfaccettature alla definizione di autore, che
approfondisce nel suo discorso. Non basta, secondo Foucault, rinunciare allo scrittore e
all’autore per sostenere l’autosufficienza dell’analisi dell’opera in sé. Il concetto di testo
sottintende un’unità che è di per sé problematica e ambigua. Le fratture e le scissioni,
così come i segni dell’autore all’interno del testo fanno parte delle caratteristiche della
funzione autoriale. La presenza dell’autore si inscrive in snodi grammaticali: nei
pronomi personali, negli avverbi di tempo e luogo, nelle coniugazioni verbali.
Emblematica è la funzione dell’autore in romanzi che inscenano la presenza di un
narratore interno, come nel caso di L’amica geniale. In questo caso la funzione
dell’autore diventa più complessa e dinamica. Il pronome personale in prima persona, il
presente indicativo, le indicazioni temporali o spaziali fanno riferimento a un alter ego,
la cui distanza dallo scrittore può assumere diverse dimensioni e variare per tutta la
durata del racconto. La funzione autoriale si adempie proprio in questa frattura, in
questa distanza tra chi scrive veramente, l’atto di scrittura e chi scrive “per finta”. In
L’amica geniale persiste una pluralità del punto di vista che rinforza la tesi sostenuta da
Foucault. Verrà argomentato meglio in analisi come questa decostruzione del punto di
vista sia autoriflessiva dell’atto di scrittura e coincida con una forma di riempimento di
quel vuoto lasciato dalla morte dell’Autore.
Se c’è un vuoto – nei riti sociali, in quelli mediatici, - che per convenzione chiamo Elena
Ferrante, io, Elena Ferrante, posso e devo adoperarmi […] perché quel vuoto si colmi.
Come? Fornendo al lettore gli elementi perché mi distingua dall’io narrante che chiamo
Elena Greco e tuttavia mi avverta vera e presente proprio in ciò che di Elena e di Lila riesco
a raccontare, proprio nei modi secondo cui combino parole perché loro siano vive e
autentiche. L’autrice, che fuori dal testo non c’è, dentro il testo si offre, si aggiunge
consapevolmente alla storia.69
Si riprenda ora in considerazione il problema logico di argomentare la morte
dell’autrice, quando questa deve ancora nascere. A questo proposito si seguiranno le
argomentazioni trattate da Christine Battersby in Gender and Genius70. Secondo la
filosofa le teorie postmoderne sull’Autorschaft sì teorizzano l’indipendenza del testo e
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
69
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 264.
70
Le teorie qui riassunte si ritrovano ai capitoli “15. Post-Modernism and the female author” e “16.
Forward via Female Past”, in: Battersby, C., Gender and Genius, pag. 146 -161.

! 20!
quindi un’idea di letteratura teoricamente gender-free, ma riprendono anche i canoni del
“grande testo” e del “grande autore” tipici del Modernismo, il quale, a sua volta, è
radicato nel Romanticismo. Una delle tesi principali di Batterby sostiene che sulla
concezione romantica di Genio si siano consolidati criteri tuttora attuali per stabilire il
grado di eccellenza artistica, i quali però denigrano il Genio femminile, o meglio non lo
riconoscono. La donna cioè non possiede il Genio in quanto non è in grado di creare. In
conformità a queste idee, ancora oggi, vengono associati al grande artista una
personalità e dei ruoli sociali tipicamente maschili. L’atto creativo della donna deve
quindi attenersi a un’estetica antifemminile. Questa è la maggiore difficoltà per la
creazione femminile.
È opportuno precisare che la denigrazione delle donne nella pratica artistica non nasce
con il Romanticismo. Questo eredita e rivede concetti del Rinascimento, che a sua volta
si basa sulla cultura greca e romana. Storicamente parlando il consolidamento della
cultura misogina ha origini lontane e complesse. Ciò che ha portato Batterbsy a segnare
il Romanticismo come conio culturale valido ancora oggi è la caratterizzazione del
Genio imposta dai romantici. Le donne nel diciannovesimo secolo continuarono a
essere considerate inferiori e “non geniali”, anche se, in seguito a cambiamenti nella
teoria estetica, il Genio si appropria di caratteristiche tipiche del femminile, prima
considerate degradanti. Viene cioè ripensato il Genio come colui che detiene
emozionalità, sensitività e immaginazione, mentre fino al diciottesimo secolo
primeggiava la filosofia aristotelica per la quale la ragione era la caratteristica distintiva
tra l’uomo e l’animale. Questa idea è stata ripresa anche dalla religione cristiana fino al
1800, quando subentrò la svolta romantica. L’uomo smette di essere descritto (solo)
come essere razionale e si consolida l’idea di genialità, definita secondo le
caratteristiche sopracitate, come contrassegno dell’uomo. Il concetto di Genio assume
alla fine del diciottesimo secolo un significato sempre più simile alla creatività umana.
Il Genio era cioè quella caratteristica che non solo differenziava l’uomo dall’animale,
ma anche quella che ne esaltava il potere creativo e quindi lo avvicinava a Dio. Il Genio
è un “spark of divinity […] confined to some few individuals”71. La cultura europea del
diciottesimo e del diciannovesimo secolo si fonda su questo potere rivoluzionario e
creativo, incarnato nel corpo di un élite di uomini, immaginari, emozionali, intuitivi,

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
71
Battersby, C., Gender and Genius, pag. 2.

! 21!
sensibili, rasenti la follia, uomini cioè che risembravano la psicologia femminile, pur
bandendo il femminile dall’idea di genialità.
Battersby critica il Postmodernismo come pensiero che mina o rifiuta la possibilità di un
progresso, di un’innovazione e di un cambiamento artistici. I postmodernisti non
riconoscono nell’artista un possibile precursore e iniziatore di nuove idee e forme.
Autori e testi della tradizione letteraria vengono scomposti e ridimensionati attraverso
un processo di rilettura, interpretazione e parodia che frammenta sia l’opera che la
tradizione in un composto discontinuo. La filosofia postmoderna sfata la soggettività
dell’autore e le possibilità oggettive per una verità e grandezza letteraria. Di
conseguenza il Postmodernismo sterilizza l’arte, nel senso che nessun nuovo autore e
nessuna nuova tradizione può formarsi. A tale filosofia sopravvivono i parametri della
tradizione patriarcale, per cui le donne di successo in arte sono un’eccezione alla regola
o il secondo termine di paragone rispetto al maschio. Seppure ci siano stati tentativi di
includere la donna in un discorso di critica letteraria non è per ora riuscita una riscrittura
inclusiva del femminile. Battersby sostiene che rileggere la storia e mostrare quell’altro
che era rimasto ai margini non sia risolutivo. A dimostrazione di tale tesi cita il pensiero
femminista degli anni ’70 e degli anni ’80, la seconda generazione femminista, la quale
presenta un’idea di arte femminile, secondo lei, anacronistica. L’idea prevedeva cioè un
riconoscimento, anche a livello linguistico, dell’inclusione della donna nel maschio
come rivendicazione di uguaglianza. L’inclusione del femminile in un sistema nel quale
il femminile era però escluso è contraddittorio in sé. Tali parametri si scontrano con il
contesto regolato da un élite maschile. Per questo anche l’idea di ripensare la storia
reintegrando l’altro è fallimentare nel considerare la donna. Tale analisi non mette in
luce come il concetto di genialità e di immaginazione siano stati fortemente
“maschilizzati” seguendo un discorso misogino fondato su un processo di privazione ed
esclusione della donna nel campo creativo-produttivo. Rimane quindi un modo di
vedere e pensare che vuole essere lungimirante ma che continua ad essere sottoposto al
patrocinio della mentalità patriarcale, consolidata generazione dopo generazione.
Rimane una posizione indecisa tra una teoria aperta all’essere altro delle donne e una
pratica che ignora l’essere alto delle donne.
Questo modello assomiglia alla caratterizzazione contradditoria del Genio del periodo
Romantico sopra trattato. Battersby trova nel contesto storico un parallelo tra le due

! 22!
situazioni. Negli anni in cui il Romanticismo iniziò a prendere forma, vigeva un
contesto storico in cambiamento, in rivoluzione: l’era industriale stava emergendo e
così anche una nuova filosofia, una nuova idea di società, di estetica e di arte. Allo
stesso modo, l’avanzamento tecnico e la fase industriale postmoderni hanno portato ad
assimilare concetti nuovi come frammentarietà, marginalità, ed estraneità (qui da
intendere come “essere altro”) e a rivalutarli come qualità del Genio maschile. Il
discorso sulla morte dell’autore si inserisce in questo contesto e si lega ad una
problematizzazione del rapporto tra linguaggio e soggetto: il soggetto dell'enunciato non
è più la sua origine unica e assoluta, ma una funzione scissa, frammentata tra una
pluralità di individui.
Battersby prosegue sostenendo che le donne possono creare solo con uno sguardo
doppio su stesse, con una doppia perspettiva. Con questo non vuole presentare un Io
estraniato da sé, celebrato, in simil modo, dai romantici, dai lacaniani e da altri
postmodernisti. È necessario che la scrittura femminile racconti le fratture dell’Ego e
dell’oeuvres come atteggiamento critico rispetto alla tradizione passata. Al maschio è
riconosciuto il Genio – e quindi un Ego in grado di esserne consapevole – alla donna no.
Le immagini con cui la donna si rappresenta socialmente appartengono a una sua
versione altra e sono quindi inconsistenti e insufficienti per raggiungere una sintesi. Con
l’insorgere della seconda generazione del femminismo si denunciò la necessità di una
rappresentazione della donna che ne esaltasse e raccontasse la sua individualità. A tale
pratica si aggiunse una riscoperta di nomi di donne del passato che avevano dato un
contributo a livello artistico-culturale. Contemporaneamente però si consolidarono le
teorie postmoderne di stampo francese che minavano i concetti di Autoschaft e
individualità, negando così un discorso teorico-costruttivo contrario. Un problema di
tempistiche sbagliate secondo Battersby. Roland Barthes, da una parte, postula la morte
dell’Autore ed elimina completamente l’esistenza di un sé unico. Dall’altra parte,
Michel Foucault sottolinea la difficoltà di definizione e caratterizzazione del sé
autoriale. Battersby riconosce nuovamente una costrizione del modo di pensare e
parlare secondo termini maschili, che si scontrano con le necessità femminili. Per
questo la filosofa sostiene che un’estetica femminile non dovrebbe essere
semplicemente post-patriarcale bensì anti-patriarcale. Deve cioè nascere in tutt’uno con
il maschile: una visione omogeneizzante, che si opponga al contrasto uno-maschile e

! 23!
altra-femminile. Per fondare una pratica femminile si deve trattare il femminile-
maschile o il femminile-maschile. Il focus della ricerca non deve essere il rappresentare,
il parlare, il pensare come una donna ma da donna.
A feminist aesthetics cannot simply be an openness to Otherness; feminists have to concern
themselves with what is involved in writing or creating as a female – as subject positioned
within the social and historical networks of power. It is, therefore, premature to announce
the death of the female author.72
Nella tesi autoriale di Foucault Battersby individua una possibilità plausibile per il
femminismo di trovare una base di lavoro per un’estetica nuova. La frammentazione e
le fratture postmoderne non implicano infatti che non ci sia una modo per rappresentarle
all’interno di un insieme, di un gruppo globale di appartenenza e proporre così una
personalità dell’autore che emerge da un’intelligenza collettiva fondata su una
tradizione comune. In questo schema rimane il problema che l’artista-donna non fa
parte della tradizione allo stesso modo dell’uomo. Si deve sdoppiare ancora una volta
esercitando un doppio sguardo su sé stessa: comprendere sia il femminile che il
femminile-maschile.
Perché un’estetica femminista possa avanzare è necessario che ci si chieda in primo
luogo cosa le donne della nostra società chiedono all’arte, e se i parametri artistici
riflettono i loro gusti e valori. La lotta femminista ha ottenuto risultati importanti. Dal
diciottesimo secolo sono registrati casi di produzione femminile degna di nota. I lavori
di donne sono cioè valutati e riconosciuti. Il problema è, secondo Battersby, che
rimangono casi elogiati nel contesto del loro specifico periodo storico. Sono legati cioè
al tempo e allo spazio di produzione. La svolta oggi non è quella di lottare per il
riconoscimento contemporaneo del valore delle opere di donne bensì per il
riconoscimento di quali opere diventeranno memorabili, tramandate ad esempio di
grande scrittura da parte di una grande autrice. Il passo successivo è cioè conquistare
una dimensione storica femminile. L’estetica femminista deve quindi adoperarsi per
smuovere la visione tradizionale consolidata nel tempo e presentare le donne né come
l’altro né come essere monchi-inadatti, ma come esseri umani dotati di una propria
individualità. E questo prevede di appropriarsi di un vocabolario per fini femminili.
Since we can’t stop journalism or popular historians from using the word genius – or from
recycling the concept through fuzzy notions of “creativity”, “originality”, or simply artistic

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
72
Battersby, C., Gender and Genius, pag. 148.

! 24!
“greatness” – we have to join in, and project our own artistic values by picking out female
“geniuses”.73
L’uso del termine Genio deve quindi essere capito e studiato attentamente per non
cadere nella trappola di esclusione già avvenuta durante il romanticismo o il
postmodernismo. L’estetica femminista deve cioè trovare tra le diverse definizioni di
Genio formatesi nei secoli quella che le permette un discorso produttivo, di rottura.
Battersby identifica cinque tipi diversi di Genio. Le prime tre idee di Genio sono legate
l’una all’altra, riunite sotto un’unica matrice di pensiero (pre)romantico. Il Genio viene
definito in base ai suoi modi, alla sua energia o al suo tipo di personalità. In ogni caso
queste tre idee soffrono dell’influenza patriarcale e per cui non possono essere materiale
fertile per la nascita di un Genio al femminile. Il quarto tipo di Genio è quello
predominante nel diciottesimo secolo e che viene ripreso nelle teorie scientifiche
moderne, le quali quantificano la creatività e il talento tramite dati statistici. Il Genio è
cioè trattato come un ”potential for eminence”74. Il quinto tipo di Genio definisce la
persona come colei che segna un punto di svolta tra il vecchio e il nuovo all’interno
della tradizione e ha un valore che è degno di essere ricordato.
Su quest’ultima nozione di Genio Battersby identifica una base di lavoro su cui fondare
la nascita del Genio femminile, il quale non è considerato come una sorta di essere
elitario, diverso dalla donna ordinaria o dotato di un “potential for eminence”. Il Genio
al femminile è secondo Battersby una donna in grado di occupare una posizione
strategica nella tradizione patriarcale e matriarcale esercitando un impatto a livello
culturale. Non solo nel senso che il genio femminile debba avere un’influenza su altre
artiste e altri artisti, ma anche nel senso che la sua opera, nella sua unicità, possa esser
riconosciuta come parte di una tradizione collettiva. Negare quindi che la scrittura della
donna emerga da un passato, nel quale il suo ruolo deve ancora essere approfondito e
sviscerato, non porta a una reintegrazione legittima del Lei nel complesso tradizionale e
culturale. Ciò che Battersby proclama è la nascita di un genio femminile, che permetta
di rileggere la figura della donna nel passato e di creare un corpo di valori che sia
orientato al futuro.
Women creator still have to struggle (both socially and inwardly) against dispersing into the
kind of Otherness now endorsed as feminine by many of those who look to l’écriture
feminine. To be seen as an individual – with an oeuvre that persists (coherently) through
the fragments (apparently incoherently) that make it up - a woman creator has to be
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
73
Battersby, C., Gender and Genius, pag. 156.
74
Ibidem.

! 25!
positioned within male and female traditions of art. But female traditions of art will not
emerge via a revaluation of supposedly “feminine” characteristics of mind and body.
Indeed, such traditions will remain concealed by those whose language (an textual
practices) blur the distinctions between writing like a women and writing as a woman.
Being a female […] is a matter of being consigned – on the basis of the way one’s body is
perceived – to a (non privileged) position in a social nexus of power. 75
Dalla banale considerazione del titolo del ciclo romanzesco L’amica geniale si evince
un’attenzione per il concetto di Genio ricollegabile alle teorie esposte. Attraverso il
secondo termine „l’amica“ si deduce la necessità di un consenso sociale o quanto meno
di un riconoscimento da parte di un altro per poter guadagnare l’appellativo di Genio. Il
titolo non solo mette in luce il carattere inter-soggettivo76 della genialità, ma anche la
sua matrice maschile o, al più, neutra del termine. Il genere femminile dell’aggettivo
“geniale” è stabilito solo in rapporto al nome di riferimento. Si vedrà in analisi, come il
rapporto con l’amica sia fondamentale per la costruzione dell’identità e della
soggettività femminili e come quest’ultimo influisca in particolar modo sulla
focalizzazione all’interno del testo.
La tetralogia è una storia di una scrittura insufficiente e insoddisfatta di sé. Elena lavora
costantemente al raggiungimento di un testo che contenesse quella potenza di
espressione della quale riteneva capace Lila: “Se il genio che Lila aveva espresso da
bambina con la Fata blu, turbando la maestra Oliviero, adesso in vecchiaia, sta
manifestando tutta la sua potenza?”77. Fino alle ultime pagine del romanzo rimane forte
la domanda di legittimazione della parola e il dubbio di non aver scritto qualcosa di
memorabile. Nel caso della scrittura femminile tale desiderio ha a che fare con una
voglia di entrare nella tradizione culturale di un’epoca e di farne parte; di creare
insomma un precedente che non abbia a criterio di paragone il maschile. Non si vuole
dimostrare con questo che Ferrante voglia imporre la superiorità di una scrittura
femminile, semmai vuole denunciare la necessità di una scrittura assoluta, autentica e
inclusiva che sia proiettata al futuro. In Storia della bambina perduta sarà demotivante
e mortificante il confronto con le figlie:
Oh, loro appartengono ormai ad altri luoghi ed altre lingue. […] La sua voce metteva
abilmente in rilievo difetti, eccessi, toni troppo esclamativi, la vecchiaia di ideologie che
avevo sostenuto come indiscutibili verità. Soprattutto si soffermava divertita sul lessico,
ripeteva due o tre volte parole che da tempo erano passate di moda, suonavano insensate. A
cosa stavo assistendo?78
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
75
Battersby, C., Gender and Genius, pag. 145.
76
Ivi, pag. 125.
77
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 437.
78
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 437.

! 26!
La scrittura femminile punta a diventare qualcosa che possa porsi come un tassello di
quell’intelligenza collettiva di cui Elena (Ferrante e Greco) si sente parte ed esclusa allo
stesso tempo. Un rapporto di inclusione ed esclusione che si riflette nell’atto di scrittura,
nel rapporto di Elena con Lila e con Napoli. Per tale prospettiva futura non basta il
successo e il riconoscimento del pubblico: “la mia immagine di scrittrice venuta da un
luogo degradato ma approdata a un esito diffusamente stimato avrebbe svelato la
propria inconsistenza”79. Ma una più decisiva intrusione nella tradizione e una rilettura
dell’idea di Genio che crei una pratica inclusiva nel collettivo e una riappropriazione di
un lessico secondo fini e valori femminili: “Comincio quindi con un leggere scrivendo.
E questo leggere scrivendo è bello”. Dalla scrittura ferrantiana si percepisce la ricerca
del giusto accostamento di parole per adempiere al dovere della verità letteraria. L’Io
narrante dei romanzi non ha un ruolo di biografo, di reporter poliziesco. La verità della
finzione non è nell’esattezza della fattualità della storia ma in quella della “parola ben
utilizzata”80.

3. Verso una narrativa dell’Io – Donna

3.1 La radice ontologica dell’auto/biografia


Ogni volta che emerge una parte di te non coerente col femminile canonico, senti che quella
parte causa disagio a te e agli altri, che ti conviene farla sparire in fretta. O, se hai una
natura combattiva come quella di Amalia, come quella di Lila, se non sei una che si
acquieta, se ti rifiuti di essere piegata, subentra la violenza. La violenza ha un suo
linguaggio che è significativo, almeno in italiano: rompere la faccia, cambiare i connotati.
Vedi? Sono espressioni che rimandano alla manipolazione forzata dell’identità, alla sua
cancellazione. O sei come dico io, o ti cambio a suon di botte fino a ucciderti. 81
Con il termine auto/biografia Liz Stanley denomina qualsiasi forma di scrittura che
racconti una vita82. Tali pratiche narrative possiedono una forte componente ontologico-
ermeneutica, la quale diventa un elemento caratterizzante e una forma di legame
interno, comune a tutte le opera del genere. Il termine auto/biografia viene qui utilizzato
per definire L’amica geniale allo scopo di evidenziare l’ambiguità e la difficoltà di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
79
Ivi, pag. 437.
80
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 252.
81
La citazione è parte di una conversazione tra Elena Ferrante e Sandra Ozzola, Sandro Ferri ed Eva
Ferri, suoi editori. Essa viene pubblicata in forma più curata e tradotta in lingua inglese nella primavera
del 2015 su The Paris Review (USA), con il titolo „Elena Ferrante, Art of Fiction No. 228“. La versione
qui riportata si trova in: Donne che scrivono. Risposte alle domande di Sandra, Sandro ed Eva. in:
Ferrante, E., La Frantumaglia, Roma, edizioni e/o, 2016, pag. 268.
82
Stanley, L., The auto/biographical I, pag. 3.

! 27!
classificazione del ciclo romanzesco. La tesi sostenuta è che esso sia una forma mista. Il
racconto in prima persona di un’amicizia tra donne, per le quali il raccontarsi ha sempre
una connotazione personale e privata83, instaura un confine sottile tra autobiografia e
biografia. Sia l’autobiografia che la biografia trattano la ricostruzione di un sé tramite la
scrittura. Nella pratica auto/biografica l’Io narrante nel momento della scrittura ha “an
active and coherent “self” that the text invokes, constructs and drives towards”84.
Trasformare il bios in graphein è parte della costruzione del sé attraverso il confronto
con l’altra. Il valore retrospettivo dell’auto/biografia è quindi determinante. La
peculiarità della narrazione auto/biografica di L’amica geniale è che nel seguire
l’evoluzione di Lila ed Elena questa evidenzia sia un desiderio di costruzione del sé
femminile sia di una lingua narrativa per farlo. La radice ontologica non si riflette solo
sulla storia dell’Io femminile ma anche sul racconto, sulla scrittura stessa. È una
scrittura che si interroga e si mette in dubbio.
In questo paradigma Stanley evidenzia il ruolo di “expert”85 del narratore. Evidente
soprattutto nel caso della biografia, il racconto di una vita prevede una scelta
epistemologica degli elementi che permettono il ritratto personale e sociale della
persona. Il contesto storico-sociale è infatti un elemento imprescindibile per il racconto
del sé. Esso lo contestualizza in una realtà a contatto con l’altro. È già stato fatto
riferimento nell’introduzione al ruolo della città di Napoli e degli anni in cui vivono
Elena e Lila. Questi elementi nel romanzo sono spesso fonti conoscitive e chiave
interpretativa dei fatti, là dove manca la spiegazione orale. Si prenda per esempio in
considerazione la seguente sequenza:
Lila s’era ritratta nell’inconfessabile, ogni mia curiosità non poteva più diventare discorso,
mi avrebbe detto: che ti viene in mente, sei pazza, Michele, la dipendenza, Soccavo, ma che
dici? Tuttora mentre scrivo, mi rendo conto di non avere elementi sufficienti per passare a
86
Lila andò, Lila fece, Lila incontrò, Lila pianificò.

Il racconto di una vita ha una pretesa di riproduzione dei fatti. Il valore dell’amicizia tra
Elena e Lila è stabilito però, come verrà dimostrato in analisi, nel riconoscimento del
valore della parola altrui. In questo modo la pratica del racconto è identificabile come
un processo salvifico del sé. Questo elemento è importante per lo studio della tetralogia
partenopea, che inaugura una visione dell’amicizia femminile in letteratura, che
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
83
Ivi, pag. 93.
84
Ivi, pag. 61.
85
Ivi, pag. 7.
86
Ferrante, E., Storia di chi fugge e di chi resta, pag. 315.

! 28!
scardina la concezione moderna, per cui con l’età adulta il rapporto di amicizia viene
soppiantato dalla famiglia e dal matrimonio87, e propone un rapporto vigile88 fondato su
una dipendenza ontologica dall’altra.
Nella lettura che Andriana Cavarero in Tu che mi guardi tu che mi racconti offre del
pensiero di Hannah Arendt vengono affrontati punti importanti per la definizione di una
teoria narrativa che è sia auto/biografica, che ontologica, che femminile. Questa lettura
è altrettanto importante per stabilire le basi per un’analisi della scrittura ferrantiana, che
è appunto di e per donne in lotta contro la violenza di una lingua denaturalizzante del sé.
Dalla citazione di Elena Ferrante, riportata in apertura del capitolo, si evince un legame
stretto tra lingua, corpo e identità che verrà ora meglio approfondito.
In primo luogo è necessario stabilire la natura del rapporto tra narrazione e identità. La
tesi sostenuta da Cavarero è che tra le due ci sia un rapporto di desiderio89; il desiderio
cioè di un sé che attraverso la sua storia ricostruisce chi è. Alla base si riconosce una
concezione del sé che scardina la visione moderna secondo la quale il soggetto sarebbe
l’origine del movimento prospettico sul mondo. La concezione qui esposta è quella di
un sé che si riconosce in quanto tale solo nello sguardo e nel racconto dell’altro. È un sé
quindi relazionale ed espressivo che si percepisce come narrabile proprio perché si
espone attraverso il suo agire che lo rende unico. L’esposizione all’altro è per cui in un
primo stadio fondamentale per la costituzione stessa del sé e della sua unicità.
In secondo luogo, al carattere narrativo ed espositivo del sé si aggiunge la spontanea
struttura narrante della memoria, che permette al sé di percepirsi come storia in atto.
Ogni individuo si riconosce, infatti, come sé narrabile “immerso nell’autonarrazione

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
87
Stanley, L., The auto/biographical I, pag. 218.
88
Il termine “vigile” è qui usato secondo l’accezione offerta da Elena Ferrante: “Donne che sorvegliano
su se stesse. La parola sorveglianza è stata malamente segnata da suoi usi polizieschi, ma non è una brutta
parola. Ha dentro il contrario del corpo ottuso dal sonno, è metafora ostile all’opacità, alla morte. Esibisce
invece la veglia, l’essere vigile, ma senza appellarsi allo sguardo, bensì al gusto di sentirsi viva. […] La
sorveglianza se ben intesa è una disposizione affettiva di tutto il corpo, un suo distendersi e germogliare
sopra e intorno.[…] Il corpo femminile ha appreso la necessità di vigilarsi, di curare la propria
espansione, il proprio vigore. Si, vigore. È un sostantivo che oggi ci sembra adeguato solo al corpo
maschile. Ma sospetto che all’inizio fosse soprattutto virtù femminile, che il vigore delle donne fosse
come quello delle piante, vita invasiva, vita rampicante o vigenza”. Con “rapporto vigile” si intende
quindi la predisposizione delle Donne a sorvegliarsi a vicenda, un’azione garante di vita. In: Ferrante, E.,
Frantumaglia, pag. 98 - 99.
89
Il termine desiderio viene utilizzato da Adriana Cavarero nel suo significato più ampio e banale, senza
voler far alcuna allusione al desiderio di natura sessuale. In: Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi
racconti, pag. 26.

! 29!
spontanea della sua memoria”90. Questa condizione è tipica di ogni individuo in quanto
esistente umano. Ognuno cioè ha una storia alle sue spalle. L’incontro con l’altro viene
per cui inconsapevolmente percepito come familiare, in quanto viene riconosciuta una
comune esperienza di un sé narrabile. L’unicità dell’individuo non è solo nella sua
tangibile corporeità ma anche nella sua storia, sia che questa sia nota all’altro o che
rimanga solo percepita. Riassumendo, l’unicità dell’essere è narrabile, incarnata e
irripetibile.
Hannah Arendt ha dunque ragione nell’affermare che le storie di vita non hanno mai un
autore. Biografiche o autobiografiche, esse risultano da un’esistenza che appartiene al
mondo nella forma relazionale e contestuale dell’esporsi agli altri. La storia di vita che la
memoria racconta a ognuno, con il suo tipico e poco affidabile procedimento, è così sempre
la storia che ciascun esistente si è lasciato dietro e che tuttavia continua a permeare nel
sapore familiare di esser qui.91

Se l’unicità del sé è costitutiva della sua narrabilità, ciò che fomenta il desiderio di
narrazione è invece la categoria di unità del sé. Legate da una stessa radice etimologica,
l’unità e l’unicità sono due categorie di stampo arendtiano fondamentali per la
definizione del sé. L’unità è una caratteristica ascrivibile solo al “miracolo
dell’inizio”92. Cavarero identifica il neonato come sé unico e unito. Il bambino che
nasce viene percepito come tale nella sua materiale apparizione. L’avanzare del tempo
scioglie la coincidenza tra le due categorie e assoggetta il sé narrabile, in quanto
possessore di una storia che si lascia alle spalle, all’azione postuma della memoria. Sin
dall’inizio la realtà elementare dell’esistente conferisce alla categoria dell’unicità una
promessa di unità a cui il sé aspira costantemente e che il racconto eredita. Perché ciò
sia possibile il racconto deve essere affidato all’altro. La narrazione è il mezzo tangibile
per cercare di ricreare l’unità di un sé attraverso la riaffabulazione di un racconto altrui,
attraverso l’azione di memoria di un altro. Anche nel caso del racconto autobiografico
dell’infanzia, per esempio, questo è affidato a un sé adulto che racconta ciò che un
occhio-altro ha esperito e che viene riportato solo dopo che la memoria ha approntato il
suo procedimento di revisione, eliminazione e selezione degli eventi.
La memoria di ogni essere umano è infatti caratterizzata da questo abbaglio strutturale che
la rende infida. Essa si sdoppia nell’occhio dell’altro e pretende di aver visto il daimon,
ossia l’identità di chi si mostra senza che l’agente medesimo possa appunto né vedere né
conoscere né padroneggiare chi si sta esponendo agli occhi altrui. […] Come in un
impossibile gioco di specchi, il sé è qui l’attore e lo spettatore in una sola persona. È il

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
90
Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi racconti, pag. 48.
91
Ivi, pag. 52.
92
Ivi, pag. 55.

! 30!
protagonista di un gioco che celebra il sé come altro. […] Esponibile e insieme narrabile,
l’esistente si costituisce infatti sempre nella relazione con l’altro.93
La relazione con l’altro, sia nel caso dell’autobiografia sia nel caso della biografia, è un
elemento portante per la narrazione del sé perché quest’ultimo nel momento dell’azione
non sa chi è o chi espone. L’atto del raccontar(si) è quindi sempre un farsi altro per
raggiungere l’unità promessa dal “miracolo dell’inizio”. Il sé è spinto dal desiderio di
rispondere alla domanda del “chi sono io?”, la quale gli è inevitabilmente preclusa.
L’altro è colui che permette al sé di riconoscersi in quanto tale, in quanto cioè essere
relazionale e appartenente a uno spazio pubblico.
Il rapporto di desiderio tra narrazione e identità e l’affidamento di quest’ultima all’altro
acquistano un risvolto particolare se applicate alla relazione tra donne. Il rapporto di
amicizia tra Lila ed Elena è a tale proposito emblematico, pur celando contraddizioni e
ambiguità, che verranno approfonditi in analisi. Di difficile interpretazione è, infatti,
l’asimmetria tra un unico soggetto narrante e un doppio oggetto narrato. Se Elena, da
parte sua, scrive per dare una forma a Lila, questa contrariamente cerca l’annullamento,
la cancellazione del suo nome e della sua identità, rifiuta che si venga scritto di lei. Si
tratta comunque di una relazione fondata sul (non) dirsi. L’atto del racconto è
tipicamente ascritto alla figura femminile. Il raccontarsi delle donne ha un carattere che
è più del semplice essere relazionale e costitutivo del sé. È cioè esistenziale. Attraverso
lo scambio orale o scritto delle proprie esperienze la donna cerca di determinarsi come
un sé slegato dalla sua esistenza empirica e dallo spazio domestico, personale, al quale
viene ascritta. Attraverso il racconto ella cerca di conquistare il suo spazio politico. Il
termine di stampo arendtiano segnala “il fenomeno per cui molte donne non fanno
esperienza di uno spazio plurale e interattivo di esibizione che è il solo a meritare il
nome di politica”94. La narrazione serve quasi a supplemento di questa mancanza.
L’esistenza e l’unicità femminili si configurano quindi con la narrabilità che desidera
materializzarsi in un racconto.
La mancanza di uno spazio d’interazione in cui la donna possa esprimere la sua unicità
si accompagna a un’altra condizione storico-sociale tipica della figura femminile: la
donna è estranea “alle rappresentazioni del soggetto che regna nell’ordine simbolico

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
93
Ivi, pag. 55.
94
Ivi, pag. 77.

! 31!
patriarcale”95. La donna cioè è limitata sia nella categoria dell’unicità, siccome non ha
uno spazio politico d’interazione, sia nella categoria della qualità. È una condizione di
“doppia impotenza”96. La categoria della qualità definisce il sé in base al suo ruolo
sociale. Essendo la donna costretta in un regime di padronanza dell’ordine simbolico
patriarcale/fallocentrico, questa è definita in quanto madre, moglie, casalinga… Il suo
ruolo sociale, il suo cosa è, è comunque dato, imposto e non esposto come unico.
A questo punto diventa chiaro il ruolo esistenziale dell’altra. Il desiderio del sé
femminile trova nella relazione una possibilità di espressione della sua unicità, in
quanto trova uno spazio comune di interazione, e di liberazione dalla categoria
fallocentrica di qualità. Si è detto infatti che il racconto contiene una promessa di ritorno
all’unità del sé attraverso la ricostruzione di una storia di vita in cui l’io riconosce chi è
- non cosa è. Questa altra che salva la donna dall’oggettivazione empirica e qualitativa
del sé si identifica secondo Cavarero nell’amica. Il rapporto di amicizia tra donne viene
riconosciuto come il rapporto massimo di relazione in cui la narrabilità del sé trova il
suo spazio esibitivo.
Solo la forma narrata può rendere tangibile il desiderio d’identità femminile che è di
duplice natura: da una parte il desiderio di “esporre attivamente il proprio sé, dall’altra il
desiderio di trovare le parole per tradurre in forma narrativa tale esposizione” 97 .
Attraverso lo scambio reciproco delle loro vite le donne si riconoscono come sguardo-
altro sul mondo, esseri unici e diversi. La domanda esistenziale diventa allo stesso
tempo anche una domanda di genere. La domanda del chi, che riconduce alle categorie
di unicità e unità del sé neo-nato, non può non essere inevitabilmente legata al fatto che
il sé nasce come essere incarnato e sessuato.
In the history of western metaphysics “woman” is phenomenal in a double sense. She is
something wonderful, amazing, astonishing, peculiar. But she is also just a surface
deviation; mere “appearance”; unrepresentative of that distinctive, underlying “essence” of
humanity that philosophers have associated with “Truth”.98
Ripensare la donna a partire dal suo corpo – da ciò che nell’ordine patriarcale è stato
sottoposto a una visione oggettivante e asservente della femminilità – permette di
ripensare la sua immagine e la sua identità. Christine Battersby ridefinisce la donna
proprio a partire da ciò che la rende diversa e seconda. La filosa identifica nel mancato
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
95
Ivi, pag. 78.
96
Ivi, pag. 79.
97
Ivi, pag. 80.
98
Battersby, C., The phenomenal Woman, pag. 1.

! 32!
riconoscimento dello statuto ontologico della nascita una pecca della nostra cultura. La
natalità è unicamente riconducibile al corpo femminile. Ripensare questo elemento
come categoria femminile in senso astratto permette di considerarla in termini positivi,
in termini non più solo riproduttivi ma produttivi. Riconoscere il fatto di essere nati
permette non solo di prendere in considerazione il sé come essere singolo ma anche
come dipendente dall’altro99. Battersby descrive la relazione tra feto e madre come una
relazione di dipendenza e disuguaglianza fondata su giochi di potere. Dire “sono nato”
vuol dire anche “sono stato dipendente” e “sono stato altro da”. Da questa
considerazione bisogna partire, per rivedere l’essere madre, il concepire e l’essere nati
come parte integrante dell’essere umano. Tutte queste categorie sotto la visione
maschilista limitavano la donna. Lo scopo di Christine Battersby è di riaffermare la
fenomenalità della donna, la sua immanenza, considerata come un sé legato al corpo in
senso produttivo e fondare così “a metaphysics of becoming” 100 propria di un
“Transformative self”101.
Tali concetti vanno contestualizzati nel processo di ridefinizione del soggetto femminile
a partire da un revisione del senso comune proposta da Battersby. Ella trova le basi
teoriche per approfondire il suo discorso non nella filosofia femminista bensì in quella
kierkegaardiana. Egli ripensa il sé “from the perspective of one whose “I” was fractured
into discontinuities – and who needed to reconcile temporal persistence with the “others
within” ”102. In tale definizione del sé si riflettono caratteristiche determinanti per e del
femminile, che Battersby raggruppa in cinque categorie e che argomenta in concordanza
con la definizione del sé proposta da Kierkegaard.
La prima categoria è quella della natalità, la quale è esemplificativa di una definizione
del sé non stabile, non permanente, non integro. Secondo questa logica, il divenire del
sé, l’interazione con l’altro e la costruzione della sua identità emergono da un
movimento, da un cambiamento intrinseco, non estraneo all’Io, per il quale il diventare
è un privilegio dell’essere. La singolarità dell’individuo si costituisce quindi come
frammentata, contrassegnata da una pluralità di movimenti. Questa idea di natalità e di
Io è vicina a quella di Ferrante: “Parlo del sentirsi madre a prezzo di espellere un

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
99
Ivi, pag. 7.
100
Ivi, pag. 11.
101
Ivi, pag. 200.
102
Ivi, pag. 200.

! 33!
frammento vivo del proprio corpo; parlo di un sentirsi figlia come frammento di un
corpo intero e ineguagliabile”103.
La seconda categoria è quella dell’inuguaglianza tra individui, già introdotta in
riferimento al rapporto madre-feto nel paragrafo precedente. Attraverso la rilettura
kierkergaardiana di tale categoria è possibile aggiungere il carattere seduttivo,
consapevole della sottomissione o dipendenza all’altro. Si ricordi a questo proposito
l’idea che Ferrante ha della scrittura: una seduzione, durante la quale si è abitati da altro
e si diventa altro. La singolarità del sé non necessita – o comunque non sarebbero
sufficienti per la sua determinazione – qualità come autonomia, autodeterminazione e
scelta individuale. La relazione con l’altro, intrinseco ed estrinseco, comporta una
costruzione del sé che avviene solo con la sua assimilazione e integrazione. Lila ed
Elena sono sé in lotta per una loro autonomia e singolarità, ma il rapporto di amicizia
che le lega, rende chiaro che non è nell’unità del sé, per altro mai raggiunta, che si
concretizza una possibilità di terminare il racconto, bensì nel realizzare che “a self
simply is a complex grouping of singularities, so that “otherness” is within – as well as
without”104.
La terza categoria prende in considerazione l’origine dell’emergere dell’altro nel sé
incarnato. La linea di confine tra sé e altro è messa in discussione alla luce delle
caratteristiche finora elencate, ma con questo Battersby non vuole indicare una
dissolvenza del sé nel niente. La pluralità dell’Io trova una forma espositiva di unione
nel corpo. A questo proposito l’annullamento fisico di Lila assume un aspetto
interessante, il cui significato acquista spessore tramite la trascrizione di tale atto.
Riprendendo la tesi che la radice ontologica di L’amica geniale indaga non solo
l’identità di due sé ma anche l’identità della scrittura stessa - “così avrei dovuto
scrivere” - il cruccio di Elena di voler scrivere qualcosa di memorabile, crea un
parallelo tra la frammentarietà del sé e la frammentarietà del racconto: scrivere è un
“dar vita” a una storia, la quale diventa altro nel momento in cui incontra il lettore.
La quarta categoria descrive la consuetudine sociale e culturale per cui la femminilità è
legata al corpo, alla fisicità. Battersby propone un’identità assoggettata a una filosofia
del divenire, per cui non è unicamente la mente ad imporsi sulla materia. Questa
categoria si lega alla prima, alla natalità della donna. Essendo il corpo la fonte della
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103
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 216.
104
Battersby, C., The phenomenal Woman, pag. 201.

! 34!
percezione dell’(essere) altro, questo diventa anche una principale componente
identificativa della psiche femminile. Ferrante concorda con Battersby che sia
necessario un discorso costruttivo per rivedere la fisicità e la natalità della donna sotto
una nuova prospettiva:
Il punto è come ci raccontiamo la maternità e la cura dei figli. […] Il compito di una donna
che scrive, oggi, non è fermarsi ai piaceri del corpo gravido, del parto, della cura dei figli,
ma andare con verità fino al fondo più buio.105
La quinta categoria è quella della “mostruosità”106 della Donna, con la quale si intende
la fenomenalità del femminile, denominata “mostruosa” secondo i criteri riduttivi del
maschile. Battersby invoca la necessità di ripensare la donna partendo dalle categorie
ora elencate. Soprattutto di ripensarla a partire dalla natalità perché in questa categoria
Battersby trova un concetto chiave per dimostrare e argomentare l’esistenza
indiscutibile di dipendenze e giochi di potere. Il sé che ne deriva non è quindi
meramente un sé determinato dall’altro, bensì emerge in tutt’uno con l’altro attraverso il
contatto e la relazione. Il sé di cui si interessa Battersby è un sé dinamico in continua
definizione tramite movimenti, rituali e confronti che continuano nel tempo. In questo
senso Battersby definisce l’identità come un risultato del divenire. In conseguenza a tale
modello, il sé emerge dall’altro, e l’uguaglianza tra i due è tratteggiata da differenze.
Identificare l’essere come precondizione del divenire corrisponde a un modello
narrativo classico novecentesco consolidato da autori maschili, secondo il quale a un
inizio segue una fine. Battersby, si è già visto nel capitolo precedente, è una sostenitrice
di una filosofia femminile inclusiva del passato e integrativa di quel “others within”. A
un modello narrativo novecentesco abbina quindi una visione del sé frammentata e
disunita. Similmente lavora Ferrante. L’amica geniale fissa un inizio e termina con
l’adempimento del motivo del racconto: raccontare tutto ciò che Elena si ricordava della
vita, sua e di Lila. Allo stesso tempo però non presenta un sé unito, un finale risolutivo
o un narratore onnicomprensivo, bensì un sé e una scrittura che si costituiscono secondo
quel processo di relazione con l’altro, con la storia, con la città ecc.
Sono sempre io quest’altra così furiosa? Io qui, a Napoli, in questa casa lurida, io che se
potessi ucciderei quest’uomo gli ficcherei con tutte le mie forze un coltello nel cuore? Devo
trattenere quest’ombra – mia madre, tutte le nostre antenate -, o devo scatenarla?107

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105
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 340.
106
Battersby, C., The phenomenal Woman, pag. 11.
107
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 85.

! 35!
L’essere madri e mogli nella tetralogia ha un legame forte con i corpi: corpi di donne
che si dissolvono, scompaiono perché non riconoscono nel loro nome – Mamma,
Signora Carracci, Signora Airota ecc. – la loro unicità. Sono figlie di donne, che come
loro, prima di loro, hanno sacrificato la loro identità a un ordine sociale che non le
rappresentava, sintomo della “smaterializzazione del corpo della madre ad opera del
maschio meridionale”108.
Le categorie del sé qui riassunte hanno un’utilità pragmatica che si riflette sull’atto del
raccontare dell’opera ferrantiana. La scrittura auto/biografica femminile è una risposta
al desiderio d’identità che non vuole legarsi unicamente al corpo empirico del sé. È
relazionale. Dipende cioè dal rapporto amicale con l’altra che permette al sé di esperirsi
unico, in quanto incarnato e sessuato. È esistenziale perché attraverso l’introduzione del
bios nella storia, la donna esalta un sé libero dalle pressioni sociali fallocentriche. È
nato, perché si normalizza del divenire, non nell’essere. È “smarginato” perché la
narrazione auto/biografica è costruita su strutture che minano i concetti di frontiere, di
margini e di unità.

3.2 L’incarnazione: rapporto dialettico tra parola e carne

Concepire, sformarsi, sentirsi abitata da qualcosa di sempre più vivo che ti fa star male e ti
da benessere, ti esalta e ti minaccia, è un’esperienza che ha a che fare con il tremendo, quel
sentimento antichissimo dei mortali quando si manifestava loro un dio, lo stesso sentimento
che deve aver provato Maria, immersa nella lettura, quando le è apparso l’angelo. Quanto
alla scrittura per me c’era prima dei figli, era una passione molto forte, ed è entrata spesso
in conflitto con l’amore per loro, soprattutto con gli obblighi e i piaceri della cura. Del resto
anche scrivere ha a che fare con la riproduzione della vita e con emozioni contraddittorie e
travolgenti.109
Per concludere il discorso teorico di questo saggio si analizzerà ora più
approfonditamente il ruolo del corpo – inteso come materia viva e carne informe – nella
narrativa di Ferrante. Dalla citazione sopra riportata si evince un rapporto di
similitudine tra il corpo gravido della madre, la manifestazione del divino a Maria
(immersa nella lettura) e la produzione letteraria. I tre elementi hanno in comune un
sentimento del tremendo, sintesi di poli opposti, e la capacità di creare. L’episodio
biblico citato da Ferrante fa riferimento all’Annunciazione di Maria, la quale segna il
momento dell’Incarnazione: quando la parola divenne carne. Il legame tra concepire

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108
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 14.
109
Ivi, pag. 242.

! 36!
una vita umana e un romanzo rilegge però l’accezione teologica dell’Incarnazione in
senso opposto: la carne diventa parola. Nel ciclo L’amica geniale si fa spesso
riferimento a episodi biblici110 o a storie popolari di Santi e Madonne111. Tali riferimenti
fanno parte del folclore e della cultura italiana, consolidata su una lunga tradizione
cattolica, ancora più sentita nel Meridione. Sono quindi da annoverare come ulteriori
elementi sociolinguistici, non come influenza di un autore credente. Napoli è una città
in cui la religione e la tradizione locale risentono dell’influenza di altre culture,
precedentemente occupanti il territorio, per esempio quella greco-romana. Rimane un
substrato inconsapevole nella mentalità delle persone indecise tra un’idea del divino
monoteistica e politeistica, salvifica e temibile:

Mi voleva reintegrare a pieno titolo nel rione, chiedevano che affiancassi Lila in qualità di
nume tutelare, premevano perché agissimo da divinità, a volte d’accordo, a volte in lizza,
ma comunque attente ai loro guai.112
La tesi sostenuta è che il concetto d’Incarnazione, nella sua duplice accezione qui
esposta, si possa adattare come chiave ermeneutica per l’analisi della narrativa di
Ferrante. Si è trattato del rapporto tra carne e parola nel capitolo riguardante la poetica
dell’autrice. Per proseguire con tale discorso si farà riferimento alla rilettura in chiave
femminista del termine “Incarnazione” proposta da Anne Claire Mulder in Divine
Flesh, Embodied Word, la cui base teorico-filosofica si appoggia sul pensiero di Luce
Irigaray. Sui dati raccolti si cercherà infine di definire i termini di relazione tra carne e
parola in Ferrante, i quali si riflettono nel rapporto tra l’Io e l’altro e tra il soggetto e il
genere femminile.
La metamorfosi espressa dal termine “Incarnazione” trasmette un’idea che ha a che fare
con l’immaginazione secondo Mulder. Sottintende una promessa e una previsione futura
che il divino, il trascendentale possa diventare manifesto, incarnato e immanente. Allo
stesso tempo delinea un possibilità per il divenire dell’uomo, che nella parola e nell’atto
può incarnare la figura di Dio. Secondo la visione cristiana Gesù Cristo è il Verbo, è
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110
“Quindi si rivolse a me e a Nino parlandoci con trasporto della virtus che aveva pervaso i discepoli, e
citò il profeta Gioele: io spanderò il mio spirito sopra ogni carne, e disse che lo Spirito Santo era un
simbolo indispensabile per riflettere su come le moltitudini trovano il modo di confrontarsi e di
organizzarsi in comunità.”, in: Ferrante, E., Storia di chi fugge e di chi resta, pag. 344.
111
“Il mio vecchio compagno di compagno di banco, cui capelli sciolti, la veste elegante, era la copia di
Lila. […] La sua tendenza ad assomigliarle, che avevo notato da tempo, si era bruscamente definita, e
forse in quel momento era anche più bello, più bella di lei, un maschio-femmina di quelli che avevo
raccontato nel mio libro, pronto, pronta, a incamminarsi per la strada che porta alla Madonna nera di
Montevergine”, in: Ferrante, E., Storia di una bambina perduta, pag. 151.
112
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 198.

! 37!
cioè l’unica variabile della funzione e l’unico prodotto del processo. Nella visione
teologica la donna deve accettare una connotazione del termine legata unicamente
all’Incarnazione di Gesù Cristo e identificare così il corpo maschile come modello per
l’umanità. Inoltre viene fondata una concezione che riconosce nel maschile il soggetto
per eccellenza. “Incarnazione” è un termine utilizzato anche nel ramo degli studi
culturali per definire appunto il soggetto umano come soggetto incarnato, la cui identità
si costruisce, come già illustrato nel capitolo precedente, attraverso relazioni e contatti
con l’altro.
Mulder propone una definizione di Incarnazione che permette un’evoluzione verso un
discorso femminista. La ripensa cioè come un’apertura al cambiamento e al futuro,
definibile come una trasformazione potenzialmente multiforme. Lega inoltre tale
definizione a un discorso culturale per cui la costituzione dell’identità e della
soggettività necessita un attraversamento della sfera simbolica. Sulla base di tali
premesse fonda la sua lettura della teoria di Luce Irigaray, secondo la quale le donne
necessitano un Dio. Secondo Mulder con tale affermazione si deve intendere la
necessità della donna di avere una propria immagine discorsiva e rappresentativa del
divino, che le permetta di raccontarsi e di riconoscersi in divenire.
Mulder riconosce nella carne la radice dell’essere113. Seguendo il ragionamento di Luce
Irigaray concorda con quest’ultima che la lingua, il linguaggio siano stati costruiti
secondo un processo che ha eliminato il sensibile dall’intellegibile e il materno dal
paterno. Così l’identità e la soggettività sono stati ristretti alla sfera dell’incorporeo. La
controproposta a tale visione mette al centro la carne - sensibile, tangibile e libidinale-
nella definizione personale del soggetto. Questo comporta alcune implicazioni che
Mulder sintetizza in tre punti principali. In primo luogo, rivoluziona la concezione del
processo conoscitivo dell’individuo identificando l’esperienza sensibile come
precondizione per l’intelligibilità, per la parola. In secondo luogo, tale idea rivaluta il
ruolo dei sensi e della percezione del mondo come strumento di conoscenza. In terzo
luogo, scardina la gerarchia secondo la quale l’individuo ha una posizione dominante
rispetto alla materia. Allo stesso tempo però Mulder non vuole postulare la supremazia
della materia sul sé. Ciò che viene proposta è una relazione tra parola e carne, tra

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113
Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 118 -119.

! 38!
sensibile e intellegibile, per la quale i due parametri “la carne divenne parola” e “la
parola divenne carne” convivono in un rapporto dialettico tra loro.
Mulder interpreta tale relazione come un processo in cui la carne diventa parola
stimolando immagini che sono tradotte in discorso, in parole114. La parola a sua volta è
quindi in grado di lasciare impressioni sensoriali, che agiscono sulla carne suscitando
immagini in un continuo processo che si ripete in un orizzonte in divenire, mai stabile e
mai unito. Pensare e immaginare perdono quindi la loro connotazione di atti immateriali
e incorporei. Bisogna però precisare che Mulder non stabilisce un’unione tra parola e
carne. Riconosce infatti nella parola una sua indipendenza e una sua differenza rispetto
alla carne. La valutazione del rapporto dialettico tra parola e carne consiste proprio in
questo legame fondato su due elementi diversi tra loro, non complementari, non
supplementari, non antitetici, bensì inter-relazionali. Inoltre applicando questa relazione
dialettica tra carne e parola alla questione della differenza dei sessi, viene messo in
risalto un concetto già sostenuto e illustrato nelle teorie di Cavarero e di Battersby:
l’elemento base in questo orizzonte filosofico non è più il sé ma il sé e l’altro, non è più
uno ma due, relazionali e diversi115. Perché una soggettività e un’identità femminili
possano nascere, si deve creare quindi un orizzonte simbolico e culturale secondo
Mulder che esprima, o meglio, che sia espressione della doppia natura del corpo umano.
Fissare la carne come elemento di partenza per un discorso fondatore di una nuova linea
di pensiero scardina la visione dualistica della relazione tra carne e parola. La carne in
questo modello acquista due caratteristiche fondamentali: è viva e produttrice. Nella
filosofia teologica medievale-patriarcale, ancora oggi influente, la carne era dipinta
come un qualcosa di sterile e inerte senza la Parola a conferirgli una forma di potere.
Con Parola è qui inteso un’influenza esterna alla materia, un agire di Dio o dello Spirito
Santo che illumina l’uomo e dona vita al suo corpo. Invece la carne viva e produttrice
designa un qualcosa di attivo, in movimento e in divenire, appartenente a un processo
che è orientato al sé. Le qualità di produrre e di generare vita sono quindi ora immanenti
alla carne. Inoltre essa ordina e incanala il caos esterno, la moltitudine di sensazioni ed
esperienze sensibili in un’immagine coesa e compatta, il corpo, che dirige a sua volta la
formazione di un senso del sé, di una propria identità.

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114
Ivi, pag. 199.
115
Ibidem.

! 39!
Riassumendo, la carne, la cosa fisica e materiale è il punto di partenza, è il referente
originario del segno e il fondamento ontologico dell’essere. Dio è invece un orizzonte,
una proiezione, un nome in definizione. Mulder definisce Dio in conformità alle teorie
di Irigaray, secondo la quale Egli è collegato alla nozione di objective116. Dio è una
funzione. Rappresenta l’assoluto e in quanto tale un’idea, un presentimento di
perfezione per e in le donne. La sua funzione è stimolare il divenire della donna: essere
la direzione e l’obiettivo del processo del divenire. Tale concezione non si limita alla
sfera trascendentale della soggettività ma include anche l’arte, la religione, e la filosofia.
Riguarda cioè tutti gli aspetti della vita secondo Luce Irigaray: dalla sfera personale, a
quella politica, a quella culturale ed economica. La religione viene intesa come un
sistema culturale, composto da simboli che producono messaggi, modi di pensare e di
comportamento in una comunità. Similmente a quanto già sostenuto da Battersby,
l’oggetto dell’orizzonte del genere femminile è un sistema culturale per e delle donne,
un “house of language”117 o un ordine simbolico collettivo.
In questo punto diventa chiaro il ruolo della parola. L’idea di Dio al maschile è iscritta
nella lingua e nella grammatica e segna il predominio di Lui a sfavore di Lei118. Nella
visione di Mulder la donna necessita un “God-She”119 che conferisca al femminile uno
statuto di trascendentalità e di universalità, necessarie per costruire una discorsività
femminile e per avere un orizzonte a cui aspirare senza rinunciare alla parte materiale e
sensibile, alla carne. È un’idea di Dio che permette alle donne di concepirsi in divenire
in parola e in pensiero ed è funzionale alla formazione di una loro soggettività e
identità.
Per arrivare a tale risultato è necessario un lavoro sull’immaginario, sull’insieme di
immagini proprie della cultura e dell’inconscio dell’individuo. Pur precisando, che

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116
Con il termine objective si fa riferimento alle realtà esterne del pensiero soggettivo. Perché queste
realtà possano entrare a far parte del regno oggettivo devono trascendere la sfera personale e raggiungere
una sfera pubblica. Con objective si intende, seguendo la filosofia hegeliana, l’ambito legale, storico,
etico e istituzionale che ordina uno stato, una famiglia o un gruppo. Per Irigaray tale nozione riguarda
anche gli ambiti dell’arte, della religione e della filosofia. L’objective è un sedimento di una visione di
vedere le cose nelle istituzioni culturali, in: Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 165- 171.
117!La! definizione! di! Dio! come! un! “house! of! language“! è! un! concetto! chiave! ricorrente! per! tutto! il!

saggio! di! Mulder.! Una! prima! contestualizzazione! del! termine! viene! trattata! nell’Introduzione! del!
saggio,!in:!Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 11.!
118
Un maggior approfondimento sul ruolo della lingua nella differenziazione dei sessi è esposto in
Morphology: corporeal, immaginary, linguistic differences between sexes, in: Mulder, A.C., Divine
Flesh, Embodied Word, pag. 120- 151.
119
Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 165.!

! 40!
avere una propria immagine e una propria denominazione di Dio non comporta un
distanziamento dalla tradizione e dalla cultura precedente:
When Luce Irigaray writes that women have to look wherever there might be traces of
fragments of an identity and to use these to construct an identity, she suggests that giving
oneself representations is a conscious and critical act, that women can choose (between) the
image(s) wherewith to construct an identity. This interpretation elucidates that giving
oneself representations to construct an identity within discourse is not in first instance a
creatio ex nihilo, but the careful reflection upon and shifting though the multitude of
predicates and qualities that pass for the divine in and for women in this culture.120
Questa pratica analitica è prima di tutto un lavoro sulla lingua. La prima fase prevede di
riesaminare le diverse connotazioni di un’immagine o di un simbolo, dimenticate o
andate perse, per liberare la parola a loro corrispondente dal suo contesto semantico,
così che la donna possa inserirsi al suo interno e utilizzarla per costruire la sua identità.
La parte analitica si basa quindi su un processo di decostruzione delle immagini
esistenti, mentre la costruzione dell’identità e della soggettività femminile necessita
secondo Mulder di una sintesi di questi frammenti entro un contesto coeso.
L’immaginazione è l’elemento finale di questo processo, senza la quale non potrebbe
compiersi. Essa è definita come uno spazio mediano tra inconscio e conscio. È sia la
parte consapevole dell’Io di poter evocare e creare immagini nella propria mente, sia la
parte inconsapevole dominata da fantasie, sogni, costruzioni mentali frutto del flusso di
pensieri irrazionali. Quindi quando una donna rielabora un’immagine già esistente
lavora con un frammento della tradizione, che le permette di costruire una sua “identity
121
in anticipation” , di svelare immagini prima sedimentate solo nella sfera
dell’inconscio e di proiettarsi verso un orizzonte futuro.
In questo processo di costruzione dell’identità femminile intercorre un pericolo di
paralisi122. Concepire un’identità femminile deve saper offrire un orizzonte coeso e
comune ma non deve precludere o limitare il diventare donna delle donne, non deve
cioè annullare le differenze tra loro. Si è detto che il divenire è fondato su un lavoro
critico dell’immagine. Il processo però non si estingue con la ripresa dell’immagine e la
sua appropriazione ma si struttura secondo la seguente formula: “to take up, drop and
take them up again”123. Si è detto finora che le donne necessitano un Dio, o un “God-
She” secondo la definizione di Mulder. Si è anche detto, in apertura a questo capitolo,

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120
Mulder, A.C., Divine Flesh, Emdodied Word, pag. 185.
121
Ivi, pag. 187.
122
Ivi, pag. 189.
123
Mulder usa qui parole di Luce Irigaray, in: Mulder, A.C., Divine Flesh, Emdodied Word, pag. 189.

! 41!
che il termine Incarnazione è riletto in questo contesto come un’apertura al futuro
potenzialmente multiforme. L’orizzonte o l’obiettivo di cui Dio si fa simbolo non è
unico o singolo. Il divenire si frattura in molteplici immagini, molteplici direzioni e
molteplici fini. Le immagini diventano quindi secondo Mulder “stepping-stones” in an
in-finite process of becoming, constituting a bridge between former identities and future
ones”124. Ciò significa che l’immagine di Dio non è il fine ultimo, ma solo un mezzo per
il fine. Per evitare la paralisi quindi è fondamentale che le donne si specchino in
un’immagine che non solo rimane aperta al futuro ma che detiene una certa polivalenza,
così che possa stimolare il loro divenire. È una relazione fondata sul continuo e
inappagabile confronto con qualcos’altro o qualcun’altro. Secondo Mulder le donne non
necessitano tanto di un God-She, quanto di un modo e di un’etica per pensare e parlare
di Lei.
Si è già trattato del ruolo dell’altro nei precedenti capitoli. Verrà ora brevemente ripresa
la nozione in riferimento alle teorie di Mulder per evidenziare come il rapporto
dialettico con l’altro si fondi su un rapporto dialogico volto a svelare l’identità e quindi
la diversità dell’altro e, per effetto contrario, dell’Io. Secondo Luce Irigaray il confronto
con l’altro può rappresentare a “mortal danger”125 per il soggetto. Tra i due soggetti in
gioco subentra una “competizione” per essere riconosciuti e rispettati. Tale
competizione comporta come in un rapporto servo-padrone la morte della libertà di uno.
Secondo Mulder nel descrivere questa conflittualità con l’altro, Irigaray pensava a una
mentalità maschile, predominante nel regolare il rapporto maschio-femmina. Per
superare questo rapporto servo-padrone Irigaray propone una trasformazione radicale.
L’altro smette di essere una presenza ostile che deve essere confrontata e superata e
diventa un’entità nuova, straordinaria, rara. La negatività del confronto si instaura
nell’impossibilità di espansione del soggetto nell’oggetto della sua contemplazione e
rimane così una “passion of wonder”126. Tale rapporto di dialettica non è strutturato
secondo la definizione hegeliana per cui a un’antitesi succede una sintesi. Irigaray
propone un’idea di dialettica definibile come un dialogo tra un “Io” e un “Tu” o tra un
soggetto e un altro irriducibile. Il movimento dialettico è diviso tra due soggetti e non

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124
Ivi, pag. 190.
125
Ivi, pag. 224.
126
Ivi, pag. 228.

! 42!
approda a una sintesi. Esso segue i parametri del rapporto tra carne e parola citati in
precedenza; non complementari o antitetici o supplementari ma inter-relazionali:
The fruit of the dialog must rather be sought in the “co-creation of a word”, in the
generation of an inter-subjective “we”, in the becoming or re-birth of the subjects involved
127
in the inter-subjective dialogue.
In questo rapporto dialettico, inter-relazionale si può intendere, parzialmente, anche
l’amicizia di Elena e Lila. Si è specificato parzialmente perché in L’amica geniale non è
rappresentata nessuna soluzione definitiva o rivoluzione radicale. Non si vuole cioè
dimostrare che la tetralogia sia la storia di un’amicizia tra donne che ha già conquistato
e che mette in atto una lingua morfologicamente conscia della sua immanenza
femminile. O che i rapporti messi in scena nel romanzo coinvolgano un Io che riconosce
l’altro - sia questo città, oggetto o persona, femminile o maschile - non più come ostile
ma come un esemplare raro ed eccezionale. Le due situazioni convivono e lottano per
emergere. Questa lotta si riflette nell’idea e nel rapporto con la lingua. La violenza della
lingua del rione è visceralmente legata a Elena, una sorta di eredità famigliare, nella
quale il maschile primeggia, e dalla quale Elena fugge e si ritira. Il rigetto della lingua
del rione ha origine in un sentimento di subalternità di Elena, che non intacca solo l’atto
comunicativo ma coinvolge ogni aspetto del suo essere, fino ad influenzare la sfera
dell’immaginazione e a evocare immagini materiali, carnali, fisiche:

E mi accorsi che mi stava aumentando la cadenza dialettale per il nervoso, che alcune
parola mi venivano nel napoletano del rione, che il rione [...] mi stava imponendo la sua
lingua, il modo di agire e reagire, le sue figure, quelle che a Firenze sembravano immagini
128
sbiadite e qui invece erano in carne e ossa

La lingua è espressione del genere. Il rapporto con gli uomini è legato a un timore di
annullamento, di incorporazione dell’identità femminile: “L’uomo vero la donna te la
rimette a posto”129. Questo punto verrà meglio approfondito nel capitolo di analisi La
contemplazione della decostruzione dell’altra in immagine. Anche il rapporto con Lila,
emblema del rapporto con l’altra, è radicato in un conflitto legato alla lingua. Esso
oscilla tra le modalità del confronto in negativo, del servo-padrone, e del confronto
dialettico come atto creativo. È Elena narrante ad essere cosciente che “quel pungolo,
oggi che scrivo, mi è ancora più necessario”130 e che attraverso il confronto con la

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127
Mulder A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 228.
128
Ferrante, E., Storia di chi fugge e di chi resta, pag. 299.
129
Ivi, pag. 150.
130
Ivi, pag. 91.

! 43!
scrittura/lettura della loro storia instaura un discorso, un dialogo volto a svelare il sé, la
parola e l’altra: in questo senso Dio in L’amica geniale si pone come orizzonte in
divenire.

La sua [di Lila] vita si affaccia di continuo alla mia, nelle parole che ho pronunciato, dentro
le quali c’è spesso un eco delle sue, in quel gesto determinato che è un riadattamento di un
suo gesto, in quel mio di meno che è tale per un suo di più, in quel mio di più che è la
forzatura di un suo di meno. 131

4. L’amica geniale
Storia di un’amicizia

4.1 All’inizio fu il verbo


Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato.
Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso a
sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle.
Mi sono sentita molto arrabbiata.
Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a
scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente.132
Il prologo del ciclo romanzesco introduce il lettore nella cornice narrativa della storia.
Elena è narratrice, coprotagonista e autrice del racconto. Tre istanze narrative racchiuse
in un’unica persona. L’atto di scrittura deriva dal desiderio di colmare l’assenza di Lila,
di fissarla nello spazio e farla durare nel tempo. L’amore di Elena per l’amica la spinge
ad auto-investirsi del ruolo di narratrice delle loro vite. La citazione faustiana del primo
volume suggerisce fin dall’inizio la presenza di due elementi, l’uno indispensabile
all’altro, perché l’uomo per natura “presto si invaghisce del riposo assoluto”133. Stabilire
chi tra le due sia l’amica geniale risulta però difficile. Lila è quella che vuole annullarsi,
“scancellarsi”, azione che rimanda al “riposo assoluto” faustiano. Al lettore è sempre
presentata come il pungolo, come colei che “è tenut[a] a fare la parte del diavolo”. È
anche colei che per prima nomina Elena con l’appellativo di amica geniale: “tu sei la
mia amica geniale. Devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine”134. Con
questo non si può teorizzare che Elena racconti la loro vita per presentare come lei

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
131
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 337.
132
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 18-19.
133
La citazione integrale riportata in apertura a L’amica geniale, volume primo, recita: “Il signore: Ma sì,
fatti vedere quando vuoi; non ho mai odiato i tuoi simili, di tutti gli spiriti che dicono di no, il Beffardo è
quello che mi dà meno fastidio. L’agire dell’uomo si sgonfia fin troppo facilmente, egli presto si
invaghisce del riposo assoluto. Perciò gli do volentieri un compagno che lo pungoli e che sia tenuto a fare
la parte del diavolo. (J.W. Goethe, Faust)“, in: Ferrante, E., L’amica geniale.
134
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 309.

! 44!
stessa sia diventata l’amica geniale di Lila. Fino all’ultima pagina Elena si interroga,
dubita di sé stessa e di quello che scrive. La relazione con Lila è sempre indispensabile
perché lei capisca di essere nella direzione giusta o sbagliata. Dal punto di vista di Elena
è Lila l’amica geniale, colei che merita die essere ricordata e che è in grado di cambiare
il rione, di porsi tra il vecchio e il nuovo. L’assenza di un pronome possessivo nel titolo
contrapposto all’uso dell’articolo determinativo conferisce all’appellativo “L’amica
geniale” un valore quasi universale. Nell’ambiguità della determinazione si trova la
valenza del termine che riconduce alla necessità di un doppio per ottenere un singolo.
L’essere geniale è inter-soggettivo, definibile nelle differenze e dipendenze con l’altro.
Il racconto auto/biografico di un legame d’amicizia tra donne tematizza tale rapporto su
più livelli. L’atto di raccontare una vita è il gesto di un sé che si sa costituto nell’altro135.
Se Lila cancella la sua storia, cancella anche parte di quella di Elena, siccome l’identità
personale postula sempre come necessario l’altro136. In un gioco di rivalità e invidie in
cui il confine tra nemica e amica è spesso labile, le due protagoniste sono donne in cerca
della loro emancipazione. Un’emancipazione che viene riconosciuta solo nel finale, nel
momento delle restituzione delle bambole, perse quando erano bambine nello scantinato
di Don Achille:
Per tutta la vita aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia
esistenza. O forse no. Forse quelle due bambole che avevano attraversato mezzo secolo ed
erano venute fino a Torino, significavano solo che lei stava bene e mi voleva bene, che aveva
rotto gli argini e finalmente intendeva girare il mondo ormai non meno piccolo del suo,
vivendo in vecchiaia, secondo una nuova verità, la via che in gioventù le avevano vietato e si
era vietata. […] Ho pensato: ora che Lila si è fatta vedere così nitidamente, devo rassegnarmi
a non vederla più.137
Nel momento in cui Elena trova Tina e Nu viene problematizzato l’intero ciclo
romanzesco. L’episodio delle bambole nel primo volume segna l’inizio della storia, la
prima immagine evocata dalla memoria in risposta all’esigenza di non lasciar cancellare
Lila. Il nome della bambola Tina sarà il soprannome della figlia scomparsa di Lila.
Elena romanzerà su questo dettaglio, trasformandolo in un elemento intrigante per uno
dei suoi libri, mentre Lila precisa che non ci sia nessun nesso intenzionale tra il nome
della bambina e quello della bambola. Le bambole sono una sorta di reliquia a
testimonianza di come tutto sia iniziato e di quanto sia cambiato ma anche un
corrispettivo dell’azione del ricordare. Creano associazioni in nome di un evento
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
135
Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi racconti, pag. 108-109.
136
Ivi, pag. 31.
137
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 451.

! 45!
passato, riemergono inaspettatamente dall’inconscio, aprono il flusso auto-narrativo del
sé, assumono significati diversi in momenti diversi a secondo del tempo e del luogo
della rievocazione, incarnano il contrasto tra la realtà delle cose, rozza nella sua
materialità vera, e la loro ingannevole bellezza se raccontate o ricordate138.
Nelle frasi conclusive del romanzo sopra riportate vengono riassunti alcuni punti chiave
del racconto. Prima di tutto viene introdotto il tema dello sguardo come un esporsi
all’altro, il quale postula l’essenza di un Io metafisico incarnato e, si può aggiungere,
sessuato, la cui conoscenza e percezione del mondo sono di tipo empirico. Il sé è
esposto, relazionale e contestuale perché la sua storia di vita è intrecciata con molte
altre. In secondo luogo viene presentata la storia come un riscatto vissuto attraverso il
corpo. Allargando la misura del discorso, Elena letteraria sottintende un riscatto più
radicale di quello di Tina e Nu: quello cioè di due sé, incarnati e in lotta, non eguali, che
cercano di affermarsi come identità disincarnate e sovrane del proprio essere donne. La
lotta viene vinta solo nel momento in cui viene tenuta fede a un patto, stretto anni
prima, ancora nell’inconsapevolezza dell’infanzia:
La volta che Lila e io decidemmo di salire per le scale buie che portavano, gradino dietro
gradino, rampa dietro rampa, fino alla porta dell’appartamento di don Achille, cominciò la
nostra amicizia. […]
Alla quarta rampa Lila si comportò in modo inatteso. Si fermò ad aspettarmi e quando la
raggiunsi mi diede la mano.
Questo gesto cambiò tutto tra noi per sempre.139
Come già citato in precedenza, la nascita del sé narrabile contiene una promessa di unità
che la storia eredita e che restituisce al sé in forma di racconto, il cui autore è
necessariamente l’altro. Il sé narrabile mette in atto il carattere narrativo tipico della
memoria e affida alla narrazione il senso della propria esistenza. Nel romanzo l’inizio
coincide non solo con il momento del riconoscimento del ruolo esistenziale dell’altra
ma anche con il momento della stretta di mano. Secondo Irigaray il contatto fisico con
l’altro mette in risalto prima di tutto il ruolo del tatto per ogni essere vivente ed
esistente. La carne, elemento comune del corpo e del mondo, è costituita dall’essere
toccata e dall’essere tangibile. Secondariamente al tatto, in questa visione, è
riconosciuta una precedenza sugli altri sensi. L’individuo è consapevole infatti
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
138
„Ho esaminato le bambole con cura, ne ho sentito l’odore di muffa, le ho disposte contro i dorsi dei
miei libri. Nel constatare che erano povere e brutte mi sono sentita confusa. A differenza che nei racconti,
la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità.”, In Ferrante, E., Storia
della bambina perduta, pag. 451.
139
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 23 - 25.

! 46!
attraverso il tatto della presenza dell’altro e originariamente della madre, prima ancora
di poterla/o vedere. Il tocco è considerato un movimento in e della materia,
indipendente dalla vista, quindi invisibile e percepibile solo attraverso l’interazione con
l’altro140.
Attraverso il gesto della stretta di mano viene sugellato inoltre un patto di solidarietà
femminile che trova la sua ragione d’essere nella pratica del racconto. Tale patto
ridimensiona le condizioni del patto autobiografico teorizzato da Leujeune secondo il
quale l’io non racconta la verità sulla sua vita, in quanto forma di introspezione
personale del soggetto, ma dice di farlo per una esigenza di veridicità141. Il patto di
Elena e Lila è diegeticamente parte del ciclo romanzesco. Si ripropone una citazione di
Ferrante già menzionata nel capitolo precedente: “Se avessi voluto raccontare i fatti
miei avrei stretto un altro tipo di patto con il lettore” 142. L’autrice include il patto
letterario nella menzogna, nella finzione romanzesca. Con la scrittura Ferrante vuole
trovare una voce autentica dell’io femminile, non tanto a livello di trama, di gesti e di
azioni, quanto a livello d’espressione. Il patto auto/biografico tra Lila ed Elena bambine
ed Elena adulta non è inserito come garanzia che la riproduzione dei fatti sia veritiera.
Quella promessa è già infranta nel momento in cui Elena dichiara di raccontare ciò che
le è rimasto in mente nonostante lo scorrere del tempo, ciò che riesce a ricordare: “dieci
giorni, un mese, chi lo sa, ignoravamo tutto del tempo, allora”143. Elena doveva essere
più brava di tutti, di maschi e di femmine. Ella vive la rivalità con l’amica come un
richiesta sempre più esigente di scrivere all’altezza di come riteneva capace l’altra. Il
patto è un concepimento dell’altra attraverso la parola. Le bambole sugellano il
momento della stretta di mano così come l’ultima apparizione di Lila, sia pur nella sua
assenza. Tina e Nu nella loro concretezza sono un pegno di amicizia, mentre la loro
versione romanzata segna un riconoscimento, una legittimazione del testo di Elena. Ciò
che rimane di Lila è ciò che è riuscita a trasmettere a Elena negli anni e che è stato ora
scritto nero su bianco.
Raccontar(si) significa sdoppiarsi144. Il desiderio del racconto di Elena è diretto verso un
desiderio di sentire in vita la propria storia, sua e di Lila. Elena scrive per riscattare la
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
140
Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 108 – 109.
141
Lejeune, P., Il patto autobiografico, pag. 33.
142
Ferrante, E., La Frantumaglia, pag. 341.
143
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 25.
144
Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi racconti, pag. 109.

! 47!
sua identità, inizialmente anche e soprattutto da Lila. L’atto di rilettura del romanzo ha
la funzione di “rintracciare la prova che Lila è entrata nel mio testo e ha deciso di
contribuire a scriverlo. Ma ho dovuto prendere atto che tutte queste pagine sono solo
mie.” 145 L’unicità del sé si rileva solo nella sua frammentarietà, nel suo essere
dipendente e divisa con l’altra. Spesso nel romanzo viene fatto riferimento al desiderio
di Elena di vedere Lila morta146. Morire per Ferrante assume una connotazione simile a
rinascere.
Uso morire nel senso di cancellare per sempre da sé qualcosa. Azione che può avere
almeno due esiti: mutilarsi, sfregiarsi irreparabilmente; o estirparsi una parte viva ma
malata e perciò provare subito benessere. […] il processo della frantumazione in un corpo
di donna mi interessa molto dal punto di vista narrativo. Per me significa raccontare oggi,
un io femminile che all’improvviso si percepisce in destrutturazione, smarrisce il tempo,
non si sente più in ordine, si avverte come un vortice di detriti, un turbinio di pensieri-
parole. Per poi fermarsi bruscamente e ricominciare da un nuovo equilibrio.147
Si ricordi la necessità di appropriarsi di un lessico per fini femminili in prospettiva
futura di un possibile raggiungimento di un’estetica conforme alla Donna geniale.
“Morire” può essere annoverato come un esempio di tale rilettura lessicale. La
destrutturazione del corpo di Lila è una mutilazione irrimediabile e anche
un’estirpazione di una parte malata: la testa matta di Lila intacca il suo corpo, “Ma ero
veramente malata, avevo veramente il soffio al cuore? No. L’unico problema è sempre
stata solo l’agitazione della testa”148. Il desiderio di Elena di vedere morta Lila è legato
al bisogno di ricominciare da un nuovo equilibrio. Elena durante il romanzo si dibatte
tra ottenere una sua identità unica, libera dall’altra, individuale e includere Lila per
tenerla con sé. Riscoprire la necessità dell’altra comporta una costruzione dell’Io. Elena
non vuole riscattare la propria personalità eliminando Lila bensì appropriandosi del
ruolo di scrivere di lei, perché lei non poteva o non voleva farlo. L’amica geniale è Lila
che entra in Elena, è Elena che la espelle come un frammento vivo nelle pagine del suo
libro per scrivere qualcosa di memorabile.
Per stabilire come questa conquista dell’io femminile sia (ri)costruita tramite la
narrazione è necessaria un’analisi volta ad identificare il punto di vista del racconto e le

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
145
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 447.
146
“Da allora, per anni, non ci vedemmo più, ci sentimmo solo per telefono. Diventammo l’una per l’altra
frammenti di voce, senza mai, nessuna verifica dello sguardo. Ma il desiderio che morisse restò in un
angolo, lo cacciavo e non se ne andava”. Oppure: “Per esempio, io non potevo confessarle che una parte
buia di me aveva temuto che mi facesse malefici a distanza, che quella parte tuttora sperava che fosse
malata e morisse.”, in: Ferrante, E., Storia di chi fugge e di chi resta, pag. 204 e pag. 236.
147
Ferrante, E., Frantumaglia, pag. 215.
148
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 163.

! 48!
modalità della rappresentazione narrativa. Trattandosi di una narrazione in prima
persona, dichiaratamente retrospettiva, a una domanda modale si unisce una domanda di
tempo. L’analisi dell’ordine temporale di L’amica geniale permette di confrontare
l’ordine di disposizione degli avvenimenti all’interno del discorso narrativo e l’ordine di
successione che gli stessi avvenimenti temporali hanno nella storia. Tale analisi mette in
luce la presenza di anacronie narrative, possibili grazie alla dualità temporale costitutiva
del racconto stesso, le quali presuppongono la presenza di un grado zero, definibile
come lo stato di “parfaite coïncidence temporelle entre récit et histoire”149.
Il prologo e l’epilogo di L’amica geniale sono essenziali per la ricostruzione lineare
dell’ordine temporale del ciclo romanzesco. Grazie a tale analisi sarà quindi possibile
stabilire le basi per rintracciare le anacronie narrative e determinare la posizione
dell’istanza narrativa nelle successive sequenze di analisi. Il prologo si presenta, infatti,
in forma prolettica. L’elemento interessante del prologo, però, non è tanto la funzione
prolettica quanto la focalizzazione e la posizione dell’istanza narrativa al suo interno,
generatrice di tale prolessi.
Il prologo informa il lettore fin dall’inizio sul destino della protagonista. C’è quindi un
certo “poids de prédestination”150. Il prologo è, secondo la definizione proposta da
Genette, una prolessi esterna. Ha cioè una funzione d’epilogo, guida le linee del
discorso fino al termine dell’azione, anche se “ce terme est postérieur au jour où le
héros décide de quitter le monde et de se retirer dans son oeuvre”151. In L’amica geniale
invece il termine logico è proprio il giorno in cui la protagonista inizia l’opera, facendo
coincidere quindi il momento del concepimento di quest’ultima con la fine logica
dell’azione. All’interno del prologo sono presenti inoltre numerose prolessi minori, le
quali hanno la funzione di preannunciare avvenimenti che verranno poi svelati dalla
storia e troveranno solo dopo il loro significato. Esempi di questo tipo di prolessi
sono152: “non ha mai sonno, entra, esce, fa quello che le pare”; “sua madre non era mai
uscita da Napoli”; “Si è reso conto che non c’era niente, nemmeno uno dei vestiti di sua
madre, né estivi, né invernali, solo vecchie grucce”; “Sparito il computer, anche i vecchi
dischetti che si usavano una volta, tutto, ogni cosa della sua esperienza di strega

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
149
Genette, G., Discours de récit, in: G.G: Figures III, pag. 79.
150
Ivi, pag. 106.
151
Ivi, pag. 107.
152
Le citazioni qui riportate sono tratte da Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 15-18.

! 49!
elettronica che aveva cominciato a destreggiarsi coi calcolatori già sul finire degli anni
Sessanta, all’epoca delle schede perforate”; “S’è tagliata via da tutte le foto” ecc. Tutte
queste prolessi, come verrà spiegato di seguito, si riveleranno essere non solo
preannunci narrativi ma anche codici interpretativi per l’opera.
Si osservi ora il tempo del racconto del prologo. Esso si apre con una precisa
indicazione temporale:
Stamattina mi ha telefonato Rino, ho creduto che volesse ancora soldi e mi sono preparata a
negarglieli. Invece il motivo della telefonata era un altro: sua madre non si trovava più.153
L’ordine della narrazione sembra inizialmente inequivocabile. Il complemento
temporale “stamattina” indica sì una narrazione postuma ma collocata in un futuro
prossimo, precisamente la sera stessa della telefonata. La trasposizione indiretta del
dialogo con Rino informa il lettore attraverso il significato iterativo espresso da “ho
creduto che volesse ancora soldi”, che si tratta di una relazione di vecchia data.
L’attenzione si concentra quindi sulla frase culminante del dialogo: “sua madre non si
trovava più”. La posizione temporale della voce è qui ambigua. Il dialogo non è più
indiretto bensì riportato, riformulato. Se la voce narrante stesse raccontando
l’avvenimento effettivamente la sera stessa, se cioè il narratore fosse il personaggio,
sarebbe più spontaneo scrivere: sua madre non si trova più, una condizione presente.
Altri spostamenti nel tempo del verbo vengono ripetuti per tutto il prologo. Dall’iniziale
tempo passato prossimo o imperfetto la narrazione slitta al trapassato prossimo.

Il tono gli dev’essere sembrato ostile, anche se non ero arrabbiata né indignata, c’era solo
un filo di sarcasmo. Ha provato a ribattere ma l’ha fatto confusamente, in imbarazzo, un po’
in dialetto un po’ in italiano. […]
Comunque alla fine si era preoccupato. Aveva chiesto a tutti, aveva fatto il giro degli
ospedali, si era rivolto persino alla polizia.154
L’alterazione tra i due passati non è in concordanza con l’iniziale indicazione temporale
“stamattina” e rende evidente che si tratta di un narratore che sa più del personaggio e
ne prende solo il punto di vista.
Nel secondo capitolo del prologo la narrazione prosegue al presente. Il lettore crede
quindi che ora si sviluppi una narrazione di tipo simultaneo. La narrazione segue lo
scorrere degli eventi e risolve il mistero della scomparsa di Lila Cerullo. Ma il terzo
capitolo ingarbuglia nuovamente l’ordine temporale e tradisce le aspettative del lettore.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
153
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 15.
154
Ivi, pag. 15.

! 50!
Vengono aggiunte, infatti, ulteriori indicazioni temporali: “Sono passati i giorni”155 o
“mi ha chiamata il giorno dopo”156. La voce narrante mantiene comunque il tempo
passato del verbo. Il tempo del racconto e il tempo della storia non combaciano come i
complementi temporali lasciano intendere, presupponendo una riaffabulazione di un
narratore altro, postumo all’azione narrata. L’”imbroglio narrativo” diventa chiaro
leggendo l’epilogo. Quest’ultimo svela, che il prologo è in realtà un inizio in medias
res. Solo nell’epilogo si raggiunge il grado zero della narrazione concentrato nella breve
sequenza:

A che sono servite dunque tutte queste pagine. Puntavo ad afferrarla, a riaverla accanto a
me, e morirò senza sapere se ci sono riuscita. A volte mi chiedo dove s’è dissolta. In fondo
al mare. Dentro un crepaccio o in un cunicolo sotterraneo di cui lei sola conosce l’esistenza.
In una vecchia vasca da bagno colma di acido potente. […]
Tornerà?
Torneranno insieme, Lila vecchia, Tina donna matura? Questa mattina, seduta sul
balconcino che affaccia sul Po, sto aspettando.157
Fino agli ultimi capitoli non si hanno elementi per stabilire in quanto tempo Elena abbia
scritto il racconto, che sembra essere frutto di una risposta istantanea all’urgenza di non
lasciar cancellare Lila. Solo alla fine è esplicitato che l’atto di scrittura è durato “mesi e
mesi e mesi”158. Il tempo della narrazione è quindi postumo al prologo. O meglio, il
prologo è un artificio della Elena che ha già ritrovato le bambole e che riconosce
l’importanza del momento in cui il sé protagonista “ha lasciato il mondo e si è chiuso
nella sua opera”:

Ieri, rientrando, ho trovato sopra la mia cassetta della posta un pacchetto mal confezionato
con carta di giornale. L’ho preso perplessa […] Ho aperto con cautela un lato del cartoccio ed
è bastato. Tina e Nu sono schizzate fuori dalla memoria ancora prima che le liberassi del tutto
dalla carta di giornale.”159.
La focalizzazione quindi è triplicata: la Elena che riceve la chiamata, la Elena della
storia e la Elena che ha finito di scrivere e “sta aspettando”.
Il riconoscimento dell’inizio nel patto narrativo ha portato, secondo una struttura
circolare, a riconoscere a posteriori il momento del concepimento dell’atto di scrittura.
L’assunzione della tesi che il prologo sia stato scritto da un Narratore postumo, getta
una nuova luce sulle prolissi inserite nel testo. Queste infatti non solo preannunciano
avvenimenti ma introducono anche un ordine linguistico-discorsivo che caratterizza le
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
155
Ivi, pag. 17.
156
Ivi, pag. 18.
157
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, Pag. 450.
158
Ivi, pag. 444.
159
Ivi, pag. 450.

! 51!
evocazioni mnemoniche in immagini dell’Io Narrante. Le prolissi introducono cioè un
registro simbolico-linguistico: i vestiti, le foto cancellate, la madre che non si trova più,
sono figure visive proprie dell’Io Narrante.
Le determinazioni temporali giocano un ruolo importante nell’analisi del ciclo perché
chiariscono la posizione dell’istanza narrativa rispetto alla storia. Nel caso di L’amica
geniale la narrazione in prima persona è frutto di una ricostruzione mnemonica della
vita passata della narratrice. Se è vero che la disposizione cronologica dei sessant’anni
di vita viene tendenzialmente rispettata, è anche vero che il racconto è colmo di prolessi,
analessi ed ellissi. Tali anacronie temporali ed alterazioni della durata narrativa sono
legittimate dalla narrazione in prima persona. Il narratore è autorizzato a giocare con il
tempo della storia, in quanto è colui che organizza e genera il discorso narrativo. I
sessant’anni di storia che Elena si appresta a raccontare delineano una distanza
temporale tra un prima e un dopo, che è ciò che anima e costituisce il racconto stesso. Il
richiamo di uno stesso avvenimento nel racconto permette di interpretarlo sotto una
nuova luce o sotto una nuova perspettiva. È possibile quindi attribuirgli un nuovo
significato o rimetterlo in dubbio. Mentre le anticipazioni indicano la presenza di un
narratore presente, un narratore cioè che ricostruisce un percorso di cui sa già la fine ed
è, per cui, in grado di ordinare i fili della storia, ma è non per questo di porsi come
chiave interpretativa dei fatti. In questo elemento si costruisce la verità della scrittura
ferrantiana: autentica perché insicura. È sempre una questione di punto di vista ciò che
gioca un ruolo fondamentale nel romanzo di L’amica geniale. Da una parte esso
attribuisce al ricordo un valore assoluto e attuale, convalidato dal racconto del passato.
Dall’altra parte mette in luce un’insicurezza testuale-linguistica nel rappresentare
avvenimenti, dei quali una non sa cosa pensa l’altra. Lila è nota per chiudersi
nell’inconfessabile. In questo modo priva Elena dei suoi pensieri, senza i quali ella non
sa dare spessore e significati autentici alle cose e soprattutto non ha idee, non sa creare.
Lila non telefonò mai, per mesi, doveva essere molto impegnata. Anch’io non la cercai, pur
sentendone il bisogno. Per attenuare l’impressione di vuoto provai a stringere ancora più il
legame con Mariarosa, ma gli ostacoli erano parecchi. […] Detestavo quei momenti. Io
cercavo stimoli, non conflitti, non ipotesi di ricerca, non dogmi.160

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
160
Mariarosa è la sorella di Pietro Airota, marito di Elena, e professoressa di Storia dell’Arte a Milano.
Simpatizzante del movimento femminista e comunista, organizzava nel suo appartamento ritrovi di donne
e intellettuali per un libero confronto e scambio di opinioni. In: Ferrante, E., Storia di chi fugge e di chi
resta, pag. 320 - 321.

! 52!
A questo proposito è importante citare il romanzo “inventato” all’interno della storia:
Un’amicizia161. Prima della scomparsa di Lila Elena scrive un romanzo riassuntivo, che
“con tutti i travestimenti del caso”162, racconta la loro amicizia. Diegeticamente quindi
viene presentata una prima stesura della storia di Un’amica geniale, che può essere
considerata un adattamento successivo di quel primo romanzo, una sua estensione. Non
avendo a disposizione il testo di Un’amicizia è impossibile confrontare le due opere per
cercare elementi che avvalorino la tesi, che nella prima stesura “con tutti i travestimenti
del caso”, Elena non abbia appagato il desiderio ontologico del racconto. Con
Un’amicizia raggiunge probabilmente un bello stile, una trama fitta e interessante
raccontando appunto di Tina, la bambola e la bambina perdute, ma non raggiunge
l’autenticità della parola. Questa è invece raggiunta, o comunque tematizzata e
problematizzata, in L’amica geniale, che, a riconferma, è scritta da un Io auto/biografico
in dubbio e in costante crisi. Alla luce della radice ontologica della scrittura
auto/biografica e trattandosi di una storia di emancipazione al femminile, è quindi
ipotizzabile che la narrazione stessa abbia permesso di stabilire il processo di aderenza
del sé con sé stesso partendo dalla lingua, dalla scrittura stessa. Tale processo sfocia nel
riconoscimento del sé come contestuale e relazionale e per cui tendenzialmente sempre
incompleto, riferito al passato, legato al presente, volto al futuro.
Il racconto termina nel momento in cui Lila esce definitivamente dalla vita della
protagonista, cioè nel momento in cui la stesura del racconto finisce. Se è vero che ogni
racconto è in realtà l’espansione di un verbo163, si potrebbe quindi riassumere L’amica
geniale con: Elena diventa scrittrice, per la quale il morfema femminile della parola
gioca un ruolo fondamentale. Il diventare non è solo l’oggetto della narrazione, ma offre
anche una coniazione femminile del desiderio di narrazione. La parola della Donna è
votata a trattare il sé femminile come un sé in divenire che cerca di ritrovare la sua
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
161
Il romanzo Un’amicizia viene menzionato negli ultimi capitoli del quarto volume. Il romanzo viene
scritto “in uno stato dolcemente sfinito, a Napoli, in una settimana di pioggia”. Una volta pubblicato,
Elena fu “travolta da un consenso che non (s)i sentiv(a) addosso da anni”. Dai riferimenti a Lila e dall’uso
del tempo verbale al passato è evidente che si tratti di una sequenza narrativa antecedente la stesura del
romanzo L’amica geniale, al quale viene invece fatto riferimento nelle ultime righe del capitolo 53. “Io
che ho scritto mesi e mesi e mesi per darle una forma che non si smargini, e batterla, e calmarla, e così a
mia volta calmarmi”. Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 440 – 444.
162
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 443.
163
„Puisque tout récit est une production linguistique assumant la relation d’un ou plusieurs
événement(s), il est peut-être légitime de le traiter comme le développement, aussi monstrueux qu’on
voudra, donné à une forme verbale, au sens grammatical du terme: l’expansion d’un verbe. “, in : Genette,
G., Discours du récit, in: G.G: Figures III, pag. 75.

! 53!
unicità liberandosi delle sue qualità empiriche. Non essere quindi madre, moglie,
casalinga - tutte categorie che rispondono alla domanda cosa è? – bensì conquistare il
diritto di rispondere alla domanda chi è?.
Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata, ma me ne accorsi per la prima
volta solo in quella circostanza. Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa.
Ed ero diventata, questo era certo, ma senza oggetto, senza una vera passione, senza
un’ambizione determinata. Ero voluta diventare qualcosa per paura che Lila diventasse
chissà chi e io restassi indietro. Il mio diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo
ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di lei.164
L’io narrante di L’amica geniale si può definire come un esempio di autore onnisciente
che racconta la storia a focalizzazione variabile tra un io narratore e un io narrato, tra un
sé e un sé che si fa altro. È cioè un narratore omodiegetico – extradiegetico, un narratore
di primo grado che racconta la sua storia. Tra la Elena che scrive e la Elena che cresce
c’è una distanza d’età e di esperienze che permette alla prima di osservare la seconda
con occhio analitico, critico e interpretativo. L’onniscienza del narratore gli permette di
guidare la progressione degli eventi ma non di raccontarli con una consapevolezza
assoluta e totale. Nel momento in cui Elena apre il pacco e le bambole schizzano fuori
dalla memoria, ella riconosce il momento dell’inizio della storia e, quindi, dell’origine
dell’atto di scrittura. L’Io Narrante riconosce in quel momento il valore della “mémoire
et de la vocation esthétique” 165 . Allo stesso tempo si chiede con quale grado di
indipendenza e libertà sia stata il (solo) genio creativo della narrazione. È una sorta di
rivelazione finale: un’incarnazione in forma di bambola del potere narrativo della
memoria a sostenimento della radice ontologica del racconto e del ruolo esistenziale
dell’altra. In questa rivelazione finale, con la quale termina anche il racconto, si trova un
segno di quei rimandi teologici propri di Ferrante: scrivere come atto di fede e come
riproduzione di vita simile alla madre gravida e a Maria alla vista dell’Angelo. Elena ha
sempre vissuto il giudizio di Lila per i suoi testi o per la sua carriera come una sorta id
punizione per cui lei doveva far penitenza.

C’entriamo sempre e soltanto noi due: lei che vuole che io dia ciò che la sua natura e le
circostanze le hanno impedito di dare, io che non riesco a dare ciò che lei pretende; lei che
si arrabbia per la mia insufficienza e per ripicca vuole ridurmi a niente come ha fatto con se
stessa, io che ho scritto per mesi e mesi e mesi per darlo una forma che non si smargini, e
batterla, e calmarla, e così a mia volta calmarmi.166

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
164
Ferrante, E., Storia di chi fugge e di chi resta, pag. 316.
165
Genette, G., Discours du récit, in: G.G.: Figures III, pag. 260.
166
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 444.

! 54!
Per questo motivo L’amica geniale si allontana dal romanzo di formazione e si avvicina
invece alle forme della letteratura religiosa:

Le narrateur n’en sait pas seulement, et tout empiriquement, davantage que le héros; il sait,
dans l’absolu, il connait la Vérité – une vérité dont le héros ne s’approche pas par un
mouvement progressif et continu, mais qui, bien au contraire, et malgré les présages et
annonces dont elle s’est fait çà et là précéder, fond sur lui au moment où il s’en trouve
d’une certaine manière plus éloigné que jamais.167
Si tratta di una verità che “sbuca fuori dalla memoria” solo alla fine del racconto. Il sé si
riconosce come un risultato dei contatti e delle relazioni dell’altro. L’episodio delle
bambole scatenerà tutti i movimenti e i meccanismi del romanzo: Lila ed Elena
andranno da Don Achille per riavere le bambole, dal quale riceveranno invece dei soldi,
con i quali compreranno Piccole Donne; da quel romanzo si genererà il Genio di Lila
con La Fata Blu; il confronto con quelle pagine infantili influirà su Elena fino a farla
diventare la scrittrice e la persona che è alla fine della storia. Attraverso le bambole è
riconosciuto ciò che dell’altro è rimasto nel sé e ciò che invece non le appartiene, un
flusso continuo tra interno ed esterno che fa emergere un composto incarnato nella
singolarità del corpo e allo stesso smarginato e senza frontiere. L’annullamento di Lila è
il motivo dell’atto di scrittura: un annullamento del corpo sostituito dalla materialità del
testo. La narrabilità del sé però prescinde il testo. Il sé possiede una storia sia che questa
sia raccontata, per scritto o per via orale, oppure no168. La necessità di fissare Lila nelle
parole della storia è propria di Elena, del Narratore. La conquista dell’Io nella pratica
narrativa femminile coincide con il concepimento della necessità dell’altra per la
creazione personale. Di Lila si ha un ritratto alla fine del romanzo che è frammentario, e
incerto. L’incertezza dell’interpretazione dei pensieri e delle azioni di Lila viene
annunciata fin dal prologo:

E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il
modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte.169
Al contrario la mappatura della crescita psicologica di Elena è precisa. Lo sdoppiamento
della voce narrante su più piani temporali mette in risalto il valore ermeneutico del
racconto. Questa è la peculiarità dell’amicizia tra donne, nella quale il raccontarsi è una
pratica quotidiana, costitutiva e relazionale. La pratica del racconto ha una matrice
femminile: “le donne raccontano storie, e c’è sempre una donna all’origine del potete
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
167
Genette, G., Discours du récit, in: G.G.: Figures III, pag. 260.
168
Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi racconti, pag. 49.
169
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 17.

! 55!
incantatore di ogni storia” 170 . Attraverso il racconto dell’altra è stato possibile il
riconoscimento dell’atto di scrittura in sé e infine l’accettazione della presenza dell’altra
nel sé.
Gli esseri umani si raccontano le loro storie e riportano storie che hanno sentito raccontare, in
una pratica narrativa a intreccio che risale forse alla notte dei tempi. La scena costitutiva del
racconto contempla appunto un sé narrabile che vuole la relazione e appartiene a un contesto
reale dove gli esseri umani si raccontano storie.171

4.2 La parola dell’altra


Il primo volume, da cui è tratta una delle seguenti sequenze d’analisi, racconta gli anni
dell’infanzia alle scuole elementari fino all’adolescenza. I percorsi di vita di Elena e
Lila iniziano a prendere due strade diverse in quinta elementare. Elena sostiene l’esame
di ammissione alle scuole medie, mentre Lila, ostacolata dalla famiglia, inizia a lavorare
per il padre ciabattino. La proibizione a continuare gli studi la segna fortemente.
L’intelligenza vivace di Lila bambina diventa un’intelligenza scontenta, si trasforma in
“testa matta”, mentre la bravura di Elena viene allenata e disciplinata. Elena è quella che
dà forma e ricostruisce il disordine. Lila quella che deve sempre “fare, rifare, coprire,
scoprire e spaccare”172. Nella prima parte del volume Infanzia. Storia di Don Achille
sono raccontati i momenti significativi che hanno consolidato l’amicizia tra Elena e
Lila, per esempio l’episodio delle bambole, la richiesta di restituzione da parte di Don
Achille, la lettura di Piccole Donne, l’ideazione di La fata blu o la fuga al mare. Tanti
piccoli tasselli che costruiscono la storia e aiutano il lettore a conoscere i due
personaggi. Nel racconto dell’infanzia diventa palese il rapporto di dipendenza tra le
due e l’inevitabilità dei loro destini diversi.
Il primo capitolo della seconda parte Adolescenza. Storia delle scarpe introduce il
concetto di smarginatura, la cui definizione verrà ora presa in analisi. Oggetto specifico
di quest’ultima sarà la modalità di rappresentazione narrativa del significato del
neologismo ferrantiano.
Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il termine non è
mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in
quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose. Quando
quella notte, in cima al terrazzo dove stavamo festeggiando l’arrivo del 1959, fu investita
bruscamente da una sensazione di quel tipo, si spaventò e si tenne la cosa per sé, ancora
incapace di nominarla. Solo anni dopo, una sera del novembre 1980 – avevamo entrambe
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
170
Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi racconti, pag. 158.
171
Ivi, pag. 163.
172
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 163.

! 56!
trentasei anni, ormai, eravamo sposate, con figli -, mi raccontò minutamente cosa le era
accaduto in quella circostanza, cosa ancora le accadeva, e ricorse per la prima volta a quel
vocabolo.173
L’inizio della seconda parte del primo volume è una prolissi che opera su due livelli:
prima di tutto racconta in anticipo rispetto all’ordine lineare degli avvenimenti la scena
della notte di capodanno del 1958174, svela così la chiave di lettura di una scena postuma
spiegando il significato della parola “smarginatura”; e secondariamente preannuncia il
momento in cui per la prima volta Lila dà un nome a quel suo stato d’animo o, si
potrebbe dire, d’essere. Il fatto che Elena narrante apra l’inizio di quella fase della
crescita in cui l’individuo subisce non solo una maturazione personale ma anche, e
soprattutto, fisica è significativo. Con l’adolescenza la percezione del tempo diventa più
precisa: “Avevamo dieci anni, a momenti ne avremmo fatti undici”175. Elena adulta
riosserva quel momento della storia dopo che ha già compreso e assimilato il significato
della parola “smarginatura” e dota il lettore della stessa quantità d’informazione.
L’introduzione della definizione del termine “smarginatura” segue inoltre, secondo un
modello paragonabile al ruolo delle bambole nella sequenza precedente, una sorta di
processo mnemonico dell’Io narrante. La smarginatura è un’immagine della memoria
rimasta viva nel tempo, che permette a Elena di raccontare e interpretare fatti con le
parole e con lo sguardo di Lila. La prima parte del volume termina con una lite tra Lila e
il padre Fernando, il quale cieco di rabbia scaraventa la bambina dalla finestra
rompendole il braccio 176 . Raccontare quell’episodio evoca associazioni nel filo di
pensieri di Elena narrante, la quale ricorda che nel 1980, durante il dialogo con Lila, ella
le confessa che il sentimento della smarginatura non le era nuovo. Dall’infanzia aveva
l’impressione che i margini non tenessero. Ad esempio cita appunto la lite con il padre:
Per esempio, aveva già avuto spesso la sensazione di trasferirsi per poche frazioni di
secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni. E il
giorno che suo padre l’aveva buttata dalla finestra si era sentita assolutamente certa, proprio
mentre volava verso l’asfalto, che piccoli animali rossastri, molto amichevoli, stessero
dissolvendo la composizione della strada trasformandola in una materia liscia e morbida.177
La prolessi ha una sorta di funzione di raccordo tra la prima e la seconda parte.
L’evocazione della prima smarginatura rimanda inoltre a un problema di frequenza
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
173
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 85.
174
Seguendo l’ordine cronologico degli avvenimenti, il racconto della notte di capodanno del 1958 è
riproposto nel capitolo 22 della seconda parte del volume, in: Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 168 –
173.
175
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 78.
176
Ibidem.
177
Ivi, pag. 87.

! 57!
narrativa. Tale prolessi ha un valore iterativo: “cosa le era accaduto in quella
circostanza, cosa ancora le accadeva”. Preannuncia quindi una sorta di iniziazione, un
primo episodio origine di altri avvenimenti simili. Si tratta di una prolessi
generalizzante178, che non assume nel romanzo un valore nostalgico, né tanto meno è
segno di un’impazienza del narratore di voler raccontare di più. Il ricordo della prima
smarginatura vuole dichiarare la presenza del narratore che cerca di afferrare l’amica
riportando le tracce che ha lasciato. L’infanzia, è il periodo in cui Lila ed Elena sono più
unite, accumunate dalle stesse esperienze. Con l’inizio dell’adolescenza, dopo l’esame
di quinta elementare, il rapporto tra le due si modifica, assumendo sempre più
marcatamente quel meccanismo di esclusione e d’inclusione che le seguirà per tutta la
vita. Di quei primi anni dell’adolescenza Elena riceverà da Lila una sorta di diario, che
le permetterà di entrare nei ragionamenti più intimi dell’amica, di comprenderla come in
seguito sempre più di rado le riuscirà di fare. Più la narrazione prosegue più si accosta
un desiderio di riscatto di Elena, indecisa tra il far morire Lila e il trattenerla. Sottoporre
al controllo della rilettura il testo finito a testimonianza del fatto che “le pagine sono
solo mie (di Elena)”179 vuole essere una conferma del completo patrocinio dell’opera,
rafforzata dall’affermazione “il termine non è mio” riferito alla definizione di
smarginatura. Il tempo presente del verbo è indicativo dell’istanza del narratore
presente. Si è detto che il concepimento dell’altra avviene nel momento finale della
rivelazione delle bambole. Esporre il termine di Lila è un segno di un Narratore che si
vuole porre come sé singolo, distinto dall’altra e in grado di sgarbugliare i fili della
storia. Il riferimento alla rilettura delle pagine è inserito nell’epilogo, il quale contiene
anche la scena del ritrovamento delle bambole, episodio avvenuto dopo la rilettura ma
prima della sua trascrizione nel romanzo. Si notino i tempi verbali indicativi di
un’istanza narrativa presente che racconta un’azione passata: “Non riesco a cederci io
stessa. Ho finito questo racconto che mi pareva non dovesse finire mai” 180 .
L’indicazione temporale riferita al ritrovamento delle bambole è invece antecedente:
“Ieri, rientrando, ho trovato sopra la mia cassetta della posta un pacchetto mal

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
178
Il termine è una traduzione della definizione proposta Gérard Genette in: Genette, G., Discours du
récit, pag. 110.
179
Ferrate, E., Storia della bambina perduta, pag. 447.
180
Ibidem.

! 58!
confezionato con carta di giornale”181. Alla constatazione del patrocinio delle pagine si
affianca quindi un dubbio di patrocinio del carattere geniale:

Lila non è in queste parole. C’è solo ciò che io sono stata capace di fissare. A meno che, a
forza di immaginarmi cosa avrebbe scritto e come, io non sia più in grado di distinguere il
mio e il suo.182
La smarginatura definisce lo scollarsi delle cose e delle persone e nega una concezione
dell’esistente riassumibile in forme permanenti. Elena, in quanto scrittrice che cerca di
mettere ordine, non si ritrova in tale definizione, fatica a concepirla. Essa assume
significato solo se applicata a Lila. Nel rifiutare il possesso della parola, Elena –
Narratore vuole sottintendere che il valore della prolissi non risiede solo nel suo ruolo
interpretativo della storia, o nel significato in sé della parola, ma anche nel come ne è
venuta a conoscenza.
A sostenimento di questa tesi verrà analizzata la focalizzazione del narratore in ogni
scena in cui è raccontata la notte di capodanno del 1958. Essa viene raccontata tre volte:
la prima volta, come appena riportato, in forma prolettica nel primo volume; la seconda
volta seguendo l’ordine cronologico della storia sempre nel primo volume; la terza volta
in forma analettica nel quarto volume 183 . Si prenda in prima analisi la sequenza
cronologicamente esatta. La focalizzazione oscilla costantemente tra Elena diegetica e
Elena narrante. Per esempio:
Lila non so, era muta, presa dallo spettacolo come da un enigma.
Le stava accadendo la cosa a cui ho già fatto cenno e che lei in seguito chiamerà
smarginatura. […]
Vero è che nel tumulto di esplosioni e colori le badai poco. Mi colpì credo la sua espressione
sempre più spaurita. […] Pareva che ne fosse, lei che in genere non temeva nulla, spaventata.
Ma furono impressioni a cui ripensai solo in seguito. In quel momento non ci feci caso, mi
sentivo vicina a Carmela, a Ada, più che a lei.184
Il cambio di focalizzazione è repentino nella sequenza qui riportata. Si narra di un
enigma già svelato, a cui la voce narrante prontamente rimanda rendendo il cambio di
focalizzazione esplicito. Espressioni come “non so”, “credo”, “pareva”, “non ci feci
caso” indicano l’istanza narrativa di Elena Narratore che ricostruisce cosa e come la
Elena undicenne abbia vissuto quell’episodio. La focalizzazione non è totalmente di
Elena della storia ma solo ricostruita, per mettere in risalto la necessità dell’altra. La
storia non avrebbe il suo significato e la sua rilevanza senza il racconto di Lila.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
181
Ivi, pag. 450.
182
Ivi, pag. 447.
183
Si fa qui riferimento al capitolo 52 in: Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 163 – 164.
184
Ivi, pag. 172.

! 59!
Raccontare la notte di capodanno infatti non segna il raggiungimento del grado zero
rispetto alla prolissi di apertura della parte seconda del volume. All’interno della
sequenza del capitolo 22 viene riproposta la trasposizione in discorso indiretto del
dialogo avuto con Lila nel 1980:
Fu – mi disse – come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di
temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del
cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia
insensata. Lila immaginò, vide, sentì – come se fosse vero – suo fratello che si rompeva. […]
Ogni secondo di quella notte di festa le fece orrore. […] Faticò a mantenere il controllo ma ci
riuscì, poco o niente della sua angoscia si manifestò all’esterno.185
A questo punto è utile ricordare la rivoluzione arendtiana della concezione del sé, dalla
quale Adriana Cavarero parte per teorizzare la centralità del desiderio di unità del sé nel
discorso narrativo186. Il movimento ermeneutico-ontologico che si sposta dall’esterno
all’interno, tipico della concezione moderna, viene rivisitato, postulando una concezione
del sé come relazionale ed esposto, costituito nell’altro e – aggiunge la Cavarero – nel
desiderio del racconto. Interessante è che Elena ragazzina guarda Lila, ne percepisce la
paura, ma non la capisce, non la vede. Riprodurre il punto di vista del personaggio
permette quindi di evidenziare il processo mnemonico del sé posteriore
all’avvenimento. Elena può ripensare le impressioni empiriche di quel momento solo
dopo che l’azione è passata attraverso il racconto dell’altra e, successivamente,
attraverso il processo narrativo della memoria. L’esporsi all’altro genera cioè una storia
di vita che la memoria personale rievoca secondo un procedimento sì inaffidabile, ma
garante dello statuto di narrabilità del sé. Quindi, non c’è pratica del racconto che non
sia sostenuta dall’esporsi all’altro così come l’esporsi all’altro sta alla base della
concezione ontologica del sé.
Nelle tre versioni di quel 31 Dicembre, Lila non parla mai in prima persona in discorso
diretto. Le sue parole sono sempre ricostruite in forma indiretta. Il grado di mimesis
dovrebbe essere alto. Non fosse che la “Mimesis non crea, imita una pratica narrativa
realmente operante nelle relazioni umane, dove il discorso indiretto è già una pratica del
narratore che si intreccia alle altre”187. Il lettore ha l’illusione di leggere parole di Lila,
ma la voce del narratore è sempre dichiaratamente predominante. Questo elemento
segnala l’imitazione della riaffabulazione in tutte e tre le sequenze, la quale si evince se
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
185
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 172
186
Si riveda a questo proposito il concetto di rivoluzione copernicana del sé secondo Hannah Arendt
esposta nel capitolo precedente, “La radice ontologica della narrazione”, alla pagina 29.
187
Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi racconti, pag. 163.

! 60!
si osservano i preannunci inseriti nei diversi capitoli, per esempio “come poi
racconterò”188, o le analessi, come “Le stava accadendo la cosa a cui ho già fatto cenno”
189
, o le forme miste come “Nell’occasione in cui mi fece quel racconto”190.
Quest’ultima è definita forma mista perché, come già chiarito, il capitolo 1. di
Adolescenza. Storie delle scarpe è in sé un blocco prolettico, che opera però su due
livelli temporali diversi e racconta allo stesso tempo di avvenimenti (notte di capodanno
1958) e di parole (episodio nel 1980). Al suo interno per cui sono inserite sia prolessi
sia analessi, che si mescolano mettendo in risalto un certo grado di onniscienza della
voce narrante. È chiaro infatti che il racconto della prima smarginatura ha senso solo se
raccontato in forma analettica rispetto alla sequenza del 1980. Il racconto primo quindi è
quello dell’origine della parola. La riproduzione dei fatti permette a Elena di governare
l’intreccio narrativo. Ciò che la spinge a riproporre per tre volte lo stesso episodio è
l’applicazione delle parole di Lila ai fatti. Padroneggiare il concetto di smarginatura
vuol dire sentire l’esterno, vederlo e percepirlo come farebbe Lila, e quindi mettere in
risalto due diverse concezioni di vedere e percepire il mondo: quella di Elena e quella di
Lila. Questa particolarità mette in discussione lo schema classico per cui la mimesi si
definisce mediante un massimo d’informazione e un minimo d’informatore, mentre la
diegesi mediante il procedimento opposto 191 . Il lettore infatti è sovraccaricato di
informazioni, addirittura ripetute per tre volte, ma l’informatore non ha un ruolo
minimo, anzi, dichiara esplicitamente la sua presenza e il suo patrocinio delle parole: “e
qui riassumo a parole mie di adesso”192. L’amica geniale costituisce quindi a questo
proposito un paradosso.
Si prenda ora in esame la sequenza del quarto volume contenuta nei capitoli 51 - 52. Nel
1980 Lila ed Elena hanno entrambe trentasei anni. Elena ha avviato la sua carriera di
scrittrice. Lila si è lanciata nel nuovo campo della programmazione elettronica, dopo il
periodo presso la fabbrica Soccavo. Elena ha sposato Pietro Airota, un professore figlio
di una famiglia prestigiosa nell’ambito accademico e letterario, da cui in seguito si
separerà. Ha due figlie coniugali, Dede ed Elsa, ed è in attesa della terza, figlia di Nino

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
188
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 85.
189
Ivi, pag. 172.
190
Ivi, pag. 86.
191
Sto qui traducendo liberamente le parole di Gérard Genette, in: Genette, G., Discours du récit, pag.
187 - 188.
192
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 162.

! 61!
Sarratore, suo amante per alcuni anni e motivo del suo ritorno a Napoli. Lila, dopo aver
interrotto il matrimonio con Stefano Carracci e dopo essere stata a sua volta amante
segreta di Nino Sarratore, costruisce una vita con Enzo Scanno, da cui aspetta una figlia.
Nel 1980 Elena è tornata a Napoli da poco. Deve quindi rientrare nelle dinamiche della
città e del rione, dalle quali si era allontana. Il rapporto tra Lila ed Elena non è aperto e
sincero. Elena ha solo stracci di informazione e fatica a capire cosa abbia in testa
l’amica, invischiata in oscuri rapporti familiari e camorristici. A smuovere il tutto è il
terremoto del 23 novembre 1980, durante il quale Lila usa appunto per la prima volta la
parola smarginatura.
Gridò ansimando che l’auto s’era smarginata, anche Marcello al volante si stava
smarginando, la cosa e la persona zampillavano da loro stesse mescolando liquido e carne.
Usò proprio smarginare. Fu in quell’occasione che ricorse per la prima volta a quel verbo, si
affannò a esplicitarne il senso, voleva che capissi bene cos’era la smarginatura e quanto
l’atterriva. Mi strinse ancora più forte la mano, annaspando. Disse che i contorni di cose e
persone erano delicati, che si spezzavano come il filo di cotone. Mormorò che per lei era così
da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie
eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto faticare per convincersi
che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così – non era
affatto così -, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. […]
Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos’è il
mondo vero, Lenù, l’abbiamo visto adesso, niente di niente di cui si possa dire
definitivamente è così.193
Sia che il dialogo con Lila sia riscritto in forma indiretta secondo la pratica mimetica,
sia che la presenza del narratore sia esplicita, come nella sequenza introdotta da “e qui
riassumo a parole mie di adesso”, risulta evidente non solo che il Narratore è colui che
organizza il discorso ma anche colui che si fa produttore d’immagini. Stabilire se le
immagini evocate siano di Lila o di Elena è impossibile, visto che non abbiamo a
disposizione una produzione in discorso diretto del dialogo. Sappiamo ciò che Elena ci
riferisce e ricorda. Più della storia e del dialogo in sé sono significative le tracce rimaste
impresse nella memoria, espresse attraverso immagini. L’origine della parola
smarginatura è per questo motivo rilevante: è l’origine di una parola, nata per definire
l’inconsistenza di cose e persone. Secondo le regole dell’imitazione per il racconto di
avvenimenti, il riferimento al reale è il massimo connotatore di mimesi194, segno che il
Narratore si affida alla realtà e abdica alla sua funzione di organizzazione e generazione
del discorso. Non è questo ovviamente il caso di L’amica geniale, per cui le immagini e
il riferimento al reale sono indice della riaffabulazione del Narratore. Ancora una volta

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
193
Ibidem.
194
Genette, G., Discurs de récit, pag. 186.

! 62!
si crea un paradosso che scardina le regole classiche del racconto. La trascrizione
dell’azione non-verbale in verbale riscrive attraverso immagini fisiche e sinestetiche,
nelle quali “un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in
olfattiva”.
Nella scrittura di L’amica geniale i riferimenti alla materia, al mondo circostante, sono
frutto di un sé, che dichiara la sua funzione di sviluppo e ordine della storia. È un sé che
attraverso l’esposizione all’altro e all’esterno percepisce chi è e cerca di darsi una
forma. I riferimenti alla materia, all’ambiente circostante, sono artificio della
soggettività del sé. Quindi, l’azione “appena uscimmo in cortile Lila vomitò, io lottai
con la nausea che mi stringeva lo stomaco”195 diventa in forma prolettica una riscrittura
figurativa che descrive un malessere fisico che intacca anche le facoltà linguistiche della
persona:
Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l’impressione che
qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e a intorno a tutti e a tutto da
sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e cose
rivelandosi. […] Le era montata la nausea e il dialetto aveva perso ogni consuetudine, le era
diventato insopportabile il modo secondo cui le nostre gole umide bagnavano le parole nel
liquido della saliva. 196
Gli spari durante la notte di Capodanno sono descritti come “una specie di detonazione
[…] come un soffio d’ala”197. Dalle sensazioni provate sulla terrazza di casa Carracci
nel 1958 “troppo fumo, troppo mal odore, troppo lampeggiare di fuochi nel cielo” si
raggiunge una versione che unisce odori, stelle e sapori:

Ci sentivo un sapore di uovo marcio col tuorlo gialloverdognolo chiuso dentro l’albume e
dentro il guscio, un uovo sodo che si spacca. Avevo in bocca stelle – uova avvelenate, la loro
luce era di una consistenza bianca, gommosa, si attaccava ai denti insieme alla nerezza
gelatinosa del cielo, la tritavo con disgusto, sentivo uno scricchiolio di granuli.
Come si evince dalle trasformazioni linguistiche nelle diverse versioni della notte di
capodanno 1958 si può descrivere la lingua di L’amica geniale come estremamente
sensoriale. Il ricordo sia di avvenimenti sia di parole imprime nella memoria immagini
che rianimano la realtà sotto forma di una lingua che è carnale e materiale. Il corpo è
una sorta di interfaccia che mette in contatto l’esterno con l’interno e viceversa, e fonda
una conoscenza del tutto empirica.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
195
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 158.
196
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 85 – 86.
197
Ivi, pag. 86.

! 63!
Nel termine smarginatura Elena riassume l’essenza di Lila, colei “sempre nello stesso
luogo, sempre fuori luogo” 198 con “il fascino di quel suo modo di governare e
sgovernare a piacimento, con pochissime parole, l’immaginazione altrui” 199 . Nel
capitolo precedente il terremoto del 1980 viene narrato l’episodio di Alfonso, ex
compagno di scuola di Elena omosessuale200. In un negozio prémaman Alfonso si prova
un vestito per Lila, si scioglie i capelli e rivela la sua somiglianza con l’amica. Lila
modifica la sua forma, il suo corpo fino a farlo diventare una copia di lei. Quando Lila
suggerisce a Elena che Michele, suo spasimante da lungo tempo, la voleva fino a
riconcorrere persino “l’ombra della sua ombra”201, la porta a pensare che dietro alle sue
allusioni ci sia una traccia di verità. In quell’episodio Elena si rende conto della
debolezza dei suoi romanzi precedenti e di dover imparare a scrivere come parlava Lila,
smettere di scrivere quello che sapeva e “lasciare invece voragini, costruire ponti e non
finirli, costringere il lettore a seguire la corrente” 202 . Tale riflessione riflette
metanarrativamente la struttura del ciclo L’amica geniale, nel quale la focalizzazione
frammentata su più piani temporali e la riaffabulazione del Narratore presente mettono
in risalto da una parte il desiderio ordinatore della voce narrante e dall’altra parte la sua
parziale ignoranza sui fatti, rendendo così sempre necessaria la presenza e la voce
dell’altra per completare e definire o, al contrario, per disordinare.
Il fatto che Elena non lasci mai la parola a Lila per spiegare la smarginatura sembra
dipendere dal fatto che nel momento in cui Lila le rivela il significato della parola, ella
diventa altro da sé, le sue parole smettono di avere la potenza di sempre e vengono
inglobate dal sentimento della smarginatura:
In quei secondi di terremoto si era spogliata della donna che era stata fino a un minuto
prima - quella che sapeva calibrare con precisione pensieri, parole, gesti, tattiche, strategie
– quasi che le ritenesse un’armatura inutile. Adesso era un’altra. […] Io non avrei mai
saputo subire una metamorfosi così brusca […] Si torceva, tremava, si accarezzava la
pancia, pareva non credere più a nessi stabili. E ripeteva in continuazione aggettivi e
sostantivi del tutto incongrui con la situazione in cui ci trovavamo, articolava frasi prive di
senso e tuttavia le pronunciava con convinzione, strattonandomi.203
Lila si è spogliata della donna che era. La stessa donna che è stata in grado di sentire
che “il filo di cotone che lo [Alfonso] teneva insieme stava per rompersi” e di capire che
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
198
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 449.
199
Ivi, pag. 155.
200
L’episodio è contenuto nei capitoli 46 – 48, in: Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 148 –
156.
201
Ivi, pag. 153.
202
Ivi, pag. 155.
203
Ivi, pag. 160.

! 64!
per piegare Michele, “per spezzare il suo cotone” bastava “trovare la linea di cotone e
tirare”: “l’ho ingarbugliato con quello di Alfonso, materia di maschio dentro materia di
maschio”204. Si noti in questa sequenza l’insistenza sul vocabolario che rimanda alla
sarta e alla stoffa come camuffamento del corpo e dell’identità del sé. È Lila a utilizzare
espressioni come “filo di cotone” o “ingarbugliare la materia”. Il dialogo è riportato da
Elena ma attraverso strutture come l’invocazione: “Non regge niente Lenù, anche nella
pancia la creatura sembra che duri e invece no”205 si rivela essere la voce di Lina a
parlare, a cui Elena da una forma, mette ordine. L’episodio di Alfonso così come anche
il campo semantico utilizzato da Lila per descrivere la destrutturazione della materia
maschile sono entrati in Elena come un flusso fino a determinare la sua scrittura e a
portarla a scrivere: “si era spogliata della donna che era”. Non è chiaro se Elena sia
conscia del debito linguistico nei confronti dell’amica. Durante il terremoto riconosce
che per lei una tale metamorfosi non sarebbe possibile. Privare Lila della parola nel
momento in cui si descrive il concetto che la differenzia e la caratterizza mette in luce
Elena come il suo doppio, quello che mette ordine dove l’altra vede il caos. Allo stesso
tempo carica di maggior significato la parola in sé, che sembra essersi a sua volta ritratta
nell’inconfessabile, e per cui Elena tenta di rappresentarla appieno cercando di
riconoscersi nel termine e di raccontarlo a parole sue, ma questa azione è fallimentare.
Le tre versioni della storia mettono in luce quanto Elena sia diversa da Lila, eppure
dipendente da lei.
Attraverso la rievocazione del dialogo con Lila nel 1980, Elena ha riconosciuto il potere
creativo della scrittura, la quale incarna le differenze dell’essere, radicate nella materia e
nella carne, o meglio, nella percezione sensibile che ne ha l’individuo. È solo grazie al
ricordare e al trascrivere che concepisce la diversità con l’amica in positivo.
Nell’amicizia femminile riconoscere la diversità dall’altra porta a un movimento
circolare per cui il sé riconosce sé stesso come essere unico. L’Io Narrante si rende
conto di essere parte di un gioco di specchi in cui il raccontare la storia della loro vita
prevede una sua doppia funzionalità, quella di attore e di spettatore. La memoria
personale si specchia nell’occhio dell’altro per potersi riconoscere. Lo sviluppo della
narrazione postula la necessità dell’altro come altro da sé. L’altra necessaria di Elena è
lei stessa. Lila è colei che la rende consapevole della sua essenza di sé in quanto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
204
Le citazioni qui riportate si trovano in: Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 162.
205
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 164.!

! 65!
esposto, relazionale e diverso. Il racconto della smarginatura è fondamentale perché in
quel momento Elena percepisce la loro diversità in termini positivi, produttivi. Fa parte
di un processo che culminerà con la realizzazione temporanea di essere quella tra le due
che poteva essere, o meglio poteva diventare, scrittrice e mettere ordine, raccontando il
caos e il disordine costitutivi di Lila, di Napoli, della materia del sé.
Ma io, anche adesso che ci rifletto sull’onda delle parole sconvolte di Lila, sentivo che in me
lo spavento non riusciva a mettere radici, e perfino la lava igneo dentro il globo terrestre,
tutta la paura che mi metteva, si sistemavano nella mente in frasi ordinate, in immagini,
armoniche, diventava un lastricato di pietre nere come le strade di Napoli, un lastricato di cui
io ero sempre e comunque il centro.
Mi davo peso, insomma, qualsiasi cosa accadesse alle bambine, Nino, il terremoto – sarebbe
passato e io – qualsiasi io tra quelli che ero andata sommando – io, sarei rimasta ferma, ero la
punta del compasso e che è sempre fissa mentre la mina corre intorno tracciando cerchi. Lila
invece – ora mi pareva chiaro, e mi insuperbì, mi calmò, m’intenerì – faticava a sentirsi
stabile. Non ci riusciva, non ci credeva.206
Il sentimento di continuità-discontinuità con l’altra/o perdura come si evince dal tempo
dell’istanza narrativa: “Ma io, anche adesso [...], sentivo”. In questa ultima sequenza
viene tematizzata l’importanza del parlare(si) e del pensar(si) come gesto ermeneutico-
ontologico, in grado di iniziare quel processo dialettico rigeneratore della soggettività e
dell’identità del sé. Tale rigenerazione fa parte di un ciclo infinto, “qualsiasi io tra quelli
che ero andata sommando”, ed è legata a una domanda linguistica-letteraria, la quale in
quanto “atto di fede”, riprendendo la definizione di Ferrante, cerca di incarnare nella
parola la carne secondo parametri femminili. L’intero ciclo è un divenire fondato su
un’invocazione che si manifesta in un’immagine aperta, polivalente:

Esclamò: Oh Madonna, espressione che non le avevo mai sentito dire.207

4.3 La contemplazione della decostruzione dell’altra in immagine

Passammo gli ultimi giorni di settembre chiuse nel negozio, noi due e tre operai. Furono ore
magnifiche di gioco, di invenzione, di libertà, che non ci capitavano a quel modo, insieme,
forse dall’infanzia. Lila mi trascinò dentro la sua frenesia. Comprammo colla, vernici,
pennelli. [...] Lila era sempre stata brava con le linee e i colori, mal ì fece qualcosa in più
che, anche se non avrei saputo dire cos’era, di ora in ora mi travolse.208
Nel secondo volume della tetralogia Lila ed Elena hanno sedici anni e sono intente a
trovare un loro modo di affermarsi e di realizzarsi. Elena al liceo è una studentessa
modello lodata dai professori, ma è comunque scontenta e inappagata. Lila ha iniziato la

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
206
Ferrante, E.: Storia della bambina perduta, pag. 165.
207
Ivi, pag. 161.
208
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 121.

! 66!
sua vita matrimoniale, gode della sicurezza economica del marito, si occupa della
salumeria e dell’apertura del nuovo negozio di scarpe con il marchio Cerullo ma si sente
in trappola. Tutto ciò conduce alla sequenza d’analisi qui trattata209. Lila sente di aver
sacrificato sé stessa accettando il ruolo di moglie di Stefano Carracci e di socia in affari
dei Solara: “Si sono serviti di me, per loro non sono una persona ma una cosa. […] Se
mio marito ha scelto di vendersi ai Solara secondo te può vendere anche me?”210.
L’esasperazione la porta a un momento di stravolgimento, a una liberazione dal
rapporto di asservimento al maschile. Lila deforma la sua foto da sposa, incorniciata ed
esibita nel negozio di scarpe pronto per l’inaugurazione.
Prima di iniziare l’analisi vera e propria si osservi la lettura di Mulder del pensiero di
Irigaray riguardante la contemplazione dell’arte e i suoi effetti sul diventare donna delle
donne211. Come oggetto d’analisi sono proposte due forme specifiche d’arte: il dipinto e
il testo letterario. La contemplazione dell’opera d’arte, soprattutto se di dipinti, riflette il
rapporto dialettico tra il soggetto femminile e l’orizzonte del proprio genere. Il dipinto è
secondo Irigaray la forma per eccellenza per la rigenerazione del soggetto in quanto
massima espressione della carne viva, del sangue e della materia tramite i colori.
Mulder descrive l’opera d’arte come un’incarnazione dell’orizzonte di un genere. È cioè
un’espressione materiale della visione del mondo di un soggetto, o una trasformazione
soggettiva di impressioni e intuizioni, le quali sono radicate in e suscitate dalla carne.
L’opera d’arte diventa parte del regno dell’objective212 nel momento in qui trascende la
sfera privata ed entra in quella pubblica attraverso l’esposizione o la pubblicazione. In
quanto parte del regno oggettivo essa esprime una visione di un collettivo, e quindi una
concezione di Dio. L’opera d’arte ha la stessa funzione della religione: dà una forma,
una direzione e un valore all’esperienza umana e stimola così il divenire della donna.
Ci sono due modi in cui un’opera d’arte secondo Irigaray può influire sull’osservatore.
Il primo modo prevede una continuità tra soggetto e opera. Essa offre un momento di
gioia o di sollievo all’osservatrice, che riconosce un qualcosa altro da sé eppure con un
tratto di identificazione e di somiglianza. Il soggetto riconosce cioè una continuità tra la
sua visione del mondo e quella espressa dall’opera. Il secondo modo è invece di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
209
La sequenza d’analisi comprende i capitoli 25 – 26 del volume. Ferrante, E., Storia del nuovo
cognome, pag. 114 – 125.
210
Ivi, pag. 114 - 115.
211
Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 238 – 272.
212
La definizione del termine è riportata nella nota 114 di questo saggio.

! 67!
discontinuità e segna un momento catartico. L’opera d’arte istiga nel soggetto un
sentimento di incongruenza con ciò che vede e porta al concepimento di una nuova idea
o di una nuova direzione come risultato dell’atto di riordinare il caos suscitato dalla
discontinuità tra soggetto e opera.
L’aspetto dialogico è predominante in entrambi in casi: la contemplazione è un
confronto, una comunicazione tra l’Io femminile e l’opera d’arte, qui nella parte
dell’altro, del Tu. Su quest’ultimo aspetto si costruisce il grado di trascendenza
dell’opera d’arte e di conseguenza dell’orizzonte del genere. Le opere d’arte, così come
i miti, le immagini o i simboli costituiscono l’orizzonte del genere (femminile). Essi non
sono quindi ristretti alla sfera individuale ma sono mediatori di valori e di idee che
rispecchiano ciò che una donna considera la perfezione per e del suo genere. Sono cioè
un orizzonte universale, un contesto coeso e mediatore che crea un argomento di
conversazione comune e proprio delle donne. Quest’ultima dimensione per l’orizzonte
del genere femminile diventa un oggetto di scambio, il quale fomenta una discorsività
non più solo duale, tra un Io e un Tu, ma inserisce un terzo termine. Il soggetto
femminile è ora in grado di percepirsi come altro dall’altro, sia questo maschile o
femminile, e dall’oggetto del discorso. Attraverso questa estraneità il terzo termine,
l’orizzonte, acquista una dimensione trascendentale in riferimento al soggetto,
all’enunciato e al destinatario213. L’opera d’arte è trascendente il soggetto perché è
l’universale del suo genere e quindi permette un confronto non solo tra Lei e l’oggetto
artistico ma anche tra Lei e le differenze del suo genere. Inoltre il confronto mette in
luce non solo differenze nel modo di pensare e vedere il mondo ma anche, in ultima
istanza, diverse concezioni di Dio e del divino214.
Nel caso della lettura di un’opera tale rapporto dialettico tra continuità e discontinuità,
tra uguaglianza e disuguaglianza rende particolarmente evidente la necessità della
lettrice di lavorare con un testo, con un “house of language”, con cui si possa
riconoscere, pur percependo che una completa immedesimazione non è possibile.
Questo rapporto dialettico quindi crea le basi per l’atto creativo, generatore di nuove
idee, nuove immagini e nuovi significati. Anche la contemplazione/lettura dell’opera
d’arte si fonda, come nella relazione con l’altro, sulla nozione di passion of wonder,

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
213
Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 244.
214
Ivi, pag. 246.

! 68!
forza motrice della mobilità, della crescita e del cambiamento dell’individuo215. Questa
passione crea inoltre uno spazio tra l’Io e l’opera d’arte, che diventa il vero luogo di
espressione del rapporto dialettico tra i due elementi. È il luogo cioè dove i due si
percepiscono distanti e non uguali ma uniti tramite l’agire dell’introspezione e della
riflessione che dall’Io fluisce nell’opera e che dall’opera fluisce nell’Io.
L’estraneità dell’opera d’arte causa inoltre un movimento nel soggetto simile alla spinta
ontologica trattata nella relazione con l’altro nel capitolo precedente. La
contemplazione/lettura porta il soggetto a porsi la domanda “who art Thou?”216, porta
cioè ad interrogarsi non solo sull’essere dell’opera ma anche sull’identità del sé:
Wonder moves the subject to a re-consideration of who she is, because when she is moved
by surprise by a work of art this surprise not only applies to the work of art but also the
herself, to her reactions, associations and other responses to the work of art. […] In all these
responses of the subject to the work of art, though, this work of art gives form, direction,
and value at her experiences. It enables her to articulate the unarticulated and thus to find
another coherence in the many aspects which constitute her identity – catharsis and new life
or regeneration of the fragmentary nature of daily life.217
La sequenza d’analisi qui trattata permette di tematizzare il parallelo tra soggetto/altro e
soggetto/opera d’arte (immagine e testo letterario) e di osservare l’effetto a livello
narrativo della cosiddetta passion of wonder: “E intanto incollavamo cartone,
distribuivamo colore. Ma cosa stavamo facendo davvero, in che cosa la stavo
aiutando?” 218 . Oggetto di questo capitolo sarà appunto l’interpretazione della
contemplazione della “propria autodistruzione in immagine”219 attraverso gli occhi di
chi già sa attribuire un significato ultimo e finale al gesto dell’altra. Il tempo passato del
verbo segnala che Elena racconta l’episodio con una focalizzazione futura, pur
rispettando l’ordine cronologico degli eventi avvenuti dall’inizio della frenesia di Lila
prima dell’inaugurazione fino alla finalizzazione del lavoro sull’immagine. La
narrazione si focalizza quindi sui suoi pensieri, sul suo interrogarsi sul perché dei
comportamenti dell’amica o sulle intenzioni celate nelle sue frasi. Durante la
preparazione Elena osserva Lila lamentarsi, fare e organizzare in maniera compulsiva,
infine osserva il suo corpo, descrive gli occhi febbrili contornati da cerchi viola, gli
zigomi sporgenti, il sorriso tirato. Il contatto visivo porta Elena a trarre conclusioni
diverse da quello che le dice l’amica: “Ma non mi convinse. Mi sembrò che dietro
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
215
Ivi, pag. 248 – 249.
216
Ivi, pag. 249.
217
Ibidem.
218
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 124.
219
Ivi, pag. 122.

! 69!
l’attivismo rissoso ci fosse una persona estenuata alla ricerca di una via d’’uscita”220.
Oppure la sfrontatezza di Lila nei confronti del marito, che nel suo stato di gravidanza
non avrebbe osato farle del male, istiga in Elena il dubbio che “[volesse] provocarli al
punto che l’aiutassero con le mazzate a schiacciare l’insofferenza, il dolore, la cosa viva
che aveva nella pancia. La mia ipotesi si consolidò la sera in cui fu inaugurata la
salumeria” 221 . L’ordine dell’intreccio mette in risalto la funzione interrogativa e
interpretativa del Narratore, attento a svolgere la narrazione nel modo più lineare
possibile per lasciare che il lettore cerchi di capire insieme a lui e si affidi più alle sue
supposizioni che alle parole dei personaggi. Subito dopo la serata d’inaugurazione in
salumeria, Elena racconta della litigata tra Stefano e Lila:
Il marito, quando si ritirarono a casa stremati, le fece una scenata e Lila le provò tutte per
scatenarne la furia. Gli gridò che se voleva una che gli obbedisse e basta era capitato male, lei
non era né sua madre né tanto meno sua sorella, gli avrebbe dato sempre filo da torcere.222
La trascrizione delle parole di Lila al marito è così precisa perché, come svelato poco
dopo, “Lila, il giorno dopo”, mi [a Elena] raccontò com’era andata”223, non perché
Elena fosse stata presente durante l’avvenimento. Risulta impossibile stabilire con
sicurezza se siano quindi parole riportate o se siano una ri-creazione di Elena.
L’espressione “dare del filo da torcere” rimanda al campo semantico della sarta e ha a
che fare con la definizione della forma della donna. Il fatto che non sia definibile se
siano parole di Lila o una ricostruzione soggettiva dell’Io Narrante in una sequenza
dove l’affermazione personale viene tematizzata al massimo, è emblematico di un
rapporto dialettico tra l’Io e il Tu, distinti e diversi, uniti nella ricerca di “una via
d’uscita”. Il racconto della serata, una volta svelata la sua fonte dialogica, prosegue in
discorso diretto accentuando l’attenzione sulla domanda culminante:
<< Il tiretto della cassa è già pieno. Per merito mio. Gli porto ricchezza, un figlio. Cos’altro
vuole?>>
<< Cos’altro vuoi tu?>> le chiesi con una punta di rabbia che mi stupì, tanto che le sorrisi
subito nella speranza che non se ne fosse accorta.
Mi ricordo che fece un’aria smarrita, si toccò la fronte con le dita. Forse non lo sapeva
neanche lei cosa voleva. Sapeva solo che non riusciva a trovare pace.224
Dietro alla domanda “cos’altro vuoi tu?” si può leggere un desiderio ontologico, ancora
intrappolato nella mentalità maschilista, per cui una donna per essere (appagata,

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
220
Ivi, pag. 114.
221
Ivi, pag. 115.
222
Ivi, pag. 115.
223
Ivi, pag. 116.
224
Ivi, pag. 116.

! 70!
completa) doveva avere un marito, che le potesse garantire una buona sicurezza
economica, e dei figli. Rimane una mentalità ancora legata alla materialità sterile
dell’essere definibile entro la categoria della qualità arendtiana. L’atto creativo-
decostruttivo dell’immagine da sposa di Lila permette in questo senso una rigenerazione
del soggetto e una ““co-creation of a word”, in the generation of an inter-subjective
“we”, in the becoming or re-birth of the subjects involved in the inter-subjective
dialogue” 225:
E tuttora penso che molto del piacere di quei giorni sia derivato proprio dall’azzeramento
della sua, della nostra condizione di vita, da quella capacità di sollevarci sopra noi stesse, di
isolarci nella pura e semplice realizzazione di quella sorta di sintesi visiva. Il gioco
dell’invenzione affiatata.226
Tale atto mette in risalto inoltre la doppia natura della carne come radice dell’essere. Si
è detto nel capitolo precedente, che la carne è definita come produttiva e generatrice.
Essa respira perché è viva. In conclusione al suo studio Mulder aggiunge un’ulteriore
caratteristica essenziale e contraria a quest’ultime: la carne è distruttiva227. Nelle teorie
femministe la capacità produttiva è tendenzialmente legata al femminile, mentre la
capacità distruttiva al maschile. Mulder presenta la necessità di ripensare entrambe le
caratteristiche non più in un sistema duale, ma immanenti alla carne e in un rapporto
dialettico tra loro. Un’idea che Lila incarna ma che è trascendentale solo attraverso la
parola dell’altra. Lila mostra il suo bisogno di autodistruggersi. È l’altra però a
descriverla come una donna che cerca una via d’uscita (da Lui) e “di prendere fiato”228.
È cioè solo tramite l’esposizione della sua autodistruzione che essa può diventare un
argomento di pensiero e di discorso in grado di elevare il soggetto femminile. La
capacità distruttiva di Mulder viene riletta similmente alla ridefinizione del verbo
“morire” per Ferrante: eliminare una parte malata, rinascere. O all’utilizzo del verbo
“scancellarsi” nella sequenza qui analizzata:
Presto mi tornò in mente il verbo usato da Michele: scancellarsi. […] Lila era felice, e mi
stava trascinando sempre più nella sua felicità feroce, soprattutto perché aveva trovato di
colpo, forse senza nemmeno rendersene conto, un’occasione che le permettesse di
rappresentarsi la furia contro se stessa, l’insorgere, forse per la prima volta nella sua vita,
del bisogno – e qui il verbo usato da Michele era appropriato – di cancellarsi.
Oggi, alla luce di tanti fatti che sono successi in seguito, sono abbastanza certa che le cose
andarono proprio così. Con i cartoncini neri, coi cerchi verdi e violacei che Lila tracciava
intorno a certe parti del suo corpo, con le linee rosso sangue con cui si trinciava e diceva di

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
225
Mulder A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 228.
226
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 122.
227
Mulder A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 352 – 358.
228
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 116.

! 71!
trinciarla, realizzò la propria autodistruzione in immagini, la offrì agli occhi di tutti nello
spazio comprato dai Solara per esporre le sue scarpe.
È probabile che sia stata lei stessa a suggerirmi quell’impressione, a motivarla. 229
Elena narratrice di oggi, nel ricordare e rievocare l’immagine di Lila sposa e
l’affiatamento tra loro di quei giorni, ancora non è sicura di quello che Lila aveva nella
testa. Pur riportando per esperienza diretta un avvenimento rimane un’insicurezza e
un’impossibilità di stabilire per certo cosa stesse accadendo, che valore avesse l’atto di
Lila e con quale grado di consapevolezza fosse stato intentato. Anche il dubbio che
fosse stata Lila stessa ad insinuarle il pensiero che avesse voluto volontariamente
mettere in scena quello che poi anni dopo portò a termine, è speculativo. Elena
sedicenne, convinta che Lila volesse di più di quello già che aveva, non comprende
appieno il gesto a livello razionale. Vive il momento tramite le impressioni sensibili che
le permettono di “starle accanto, scivolare dentro le sue intenzioni, arrivare ad
anticiparle”230. Nel ricostruire la focalizzazione di Elena sedicenne sono utilizzati infatti
verbi legati alla sfera sensoriale, percettiva: “avvertii il pericolo”231, “Mi bastò lanciare
un sguardo a Lila per accorgermi” 232 , “Sentii i minuti” 233 , ecc. La vista della
decostruzione della foto la colpì: “Io invece fui così assorbita dalla parte alta del
pannello, dove la testa di Lila non c’era più, che non riuscii a vedere l’insieme”234. Solo
oggi, solo la narratrice presente, concretizza l’atto di Lila e dà un nome a ciò che era
rimasto una conoscenza frutto dell’immaginazione, a metà tra la sfera dell’inconscio e
del conscio. È il dialogo con Lila nel negozio che mette in moto un processo di
rigenerazione del soggetto e che segna un’incarnazione della parola nella carne: “Fu
allora che comincia a vedere nel pannello le tracce di ciò che diceva”235. Ma solo la
scrittura degli avvenimenti anni dopo permetterà un confronto con il sé, con l’altra e con
l’immagine, segnando il procedimento opposto: la carne diventa parola. Elena a quel
punto percepisce l’estraneità dei tre termini rispetto alla sé stessa presente e genera una
sfera creativa operante nello spazio della frattura e in grado di concepire l’essere
incarnato in movimento. Si prendano ora in esame le parole di Lila per approfondire il
discorso:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
229
Ivi, pag. 122.
230
Ivi, pag. 119.
231
Ivi, pag. 118.
232
Ibidem.
233
Ibidem.
234
Ivi, pag. 124.
235
Ibidem.

! 72!
Noi ragazze si sa, quando ci innamoravamo, per prima cosa provavamo a vedere come
suonava il nostro nome associato al cognome dell’amato. […] Ma non era quello che
intendeva Lila. […] E anche la formula della sua nuova designazione, disse, in principio
l’aveva colpita poco: Raffaella Cerullo in Carracci. […] Cos’era, un complemento di moto
a luogo? Significava che risiedeva non più dai genitori ma presso Stefano? […] Significava
che da Raffaella Cerullo in Caracci presto sarebbe sparito, negli usi di ogni giorno, Cerullo
in e lei stessa si sarebbe definita, si sarebbe firmata soltanto Raffaella Carracci, e i figli
avrebbero dovuto fare uno sforzo di memoria per ricordarsi il cognome della madre, e i
nipoti avrebbero ignorato del tutto il cognome della nonna? Si, una consuetudine. Tutto
nella norma, quindi. […] Mentre lavoravamo con pennelli e vernici, mi raccontò che aveva
cominciato a vedere in quella formula un complemento di moto a luogo, come se Cerullo in
Caracci fosse una specie di Cerullo va in Carracci, vi precipita, ne è assorbita, vi si
dissolve.
[…]Raffaella Cerullo, sopraffatta, aveva perso forma e si era sciolta dentro il profilo di
Stefano, diventandone un’emanazione subalterna: la signora Caracci. Fu allora che
cominciai a vedere nel pannello le tracce di ciò che diceva. <<È una cosa ancora in
atto>>.236
Questa sequenza è particolarmente significativa per sottolineare come la subalternità
della donna non si rispecchi solo a livello istituzionale o sociale, bensì riguardi prima di
tutto un’eliminazione linguistica. A questo proposito le teorie di Irigaray offrono ancora
una volta una base di partenza per argomentare i punti d’analisi qui trattati. Ella
stabilisce che il nostro ordine sociale sia fondato originariamente sul matricidio.
“Origine” è qui inteso in senso heideggeriano. Non viene cioè definito un momento, un
evento iniziale di apertura di un processo. L’origine segna una formazione discorsiva
che perdura, continuamente reinterpretata e re-inscritta 237. L’origine segna un’idea
consolidata nel subconscio di un individuo, che si inscrive nella produzione orale,
testuale ed artistica. Segnare l’omicidio della madre come origine implica una
formazione discorsiva costruita su parametri che aprono una linea di pensiero
comprensiva dell’ordine patriarcale ed esclusiva di una soggettività femminile. Tale
condizione porta la donna a uno stato di isteria e di follia238, che Mulder interpreta come
una difficoltà della donna di articolare la sua differenza, intrappolata in un ordine
discorsivo che non la rappresenta, e come un segno di resistenza o un’indicazione di un
desiderio che ancora non si sa esprimere autonomamente. Lila, più di tutte, rispecchia i
tratti della donna folle, isterica: “<<Va bene>> dissi, << ma prometti di non fare la
pazza>>”239. Tale idea invoca anche la possibilità di un’Incarnazione della carne nella
parola nel momento in cui le parole e le immagini proprie del femminile verranno
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
236
Ivi, pag. 123 – 124.
237
Il termine origine qui applicato è ripreso dalla definizione proposta da Joanna Hodge, che a sua volte
interpreta la filosofia heideggeriana come chiave interpretativa per lo studio di Luce Irigaray, in: Mulder,
A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 15.
238
Mulder, A.C., Divine Flesh, Embodied Word, pag. 67 – 100.
239
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 117.

! 73!
trovate. L’isteria diventa quindi una forma di enunciazione di quel dolore represso e
somatizzato dal corpo.
La riflessione sul nome “Raffaella Cerullo in Caracci” si può rileggere in questi termini.
Segna in prima istanza una subalternità a livello sociale e istituzionale, una condizione
di stato in luogo. Designa un’unione matrimoniale tra marito e moglie che rimanda ai
parametri della lotta per il riconoscimento della propria libertà descritta nel modello del
servo-padrone. In tale confronto la donna è il soggetto debole, destinato a soccombere
all’altro. Ma le parole di Lila si spingono oltre: portano il discorso a mettere in luce non
più solo una condizione di stasi ma di movimento, inscritta nella carne e incarnata nella
lingua. Il corpo crudelmente trinciato del dipinto, l’eliminazione della pancia e del volto
sono espressioni della somatizzazione corporale del dolore della donna. La
focalizzazione del Narratore è determinante perché mette in luce il processo di
riconoscimento della propria differenza, altrimenti neutralizzato da un ordine patriarcale
ancora vigente e superiore. Se il Narratore non si fosse posto come funzione
interpretativa sarebbero rimaste solo le intuizioni sensoriali di Elena sedicenne e le
parole di Michele240 che descrivono l’atto creativo-distruttivo di Lila come una strategia
per mettere in risalto la coscia e le scarpe. La riscrittura dell’avvenimento problematizza
la percezione delle differenze dei e nei generi, radicate nella carne e desiderose di un
“house of language” in grado di generare un’immagine discorsiva del divino, del
divenire delle donne.
Ma pensai: non è vero, ti sto mentendo. C’era qualcosa di malvagio, nella disuguaglianza, e
adesso lo sapevo. Agiva in profondità, scavava oltre il denaro.
Su cose e persone troneggiava il pannello con la foto di Lila. C’era chi si fermava a
guardarlo con interesse, chi gettava uno sguardo scettico o addirittura rideva. Io non
riuscivo a staccare gli occhi. Lila non era più riconoscibile. Restava una forma seducente e
tremenda, un’immagine di una dea monocola che spingeva i suoi piedi ben calzati al centro
della sala.241

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
240
<<A me piace signò. Ti sei scancellata apposta e ho capito perché: per far vedere bene la coscia, per
far vedere come sta bene una coscia di femmina con queste scarpe. Brava. Sei una rompicazzo, ma
quando fai una cosa la fai a regola d’arte>>, in: Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 120.
241
Ferrante, E., Storia del nuovo cognome, pag. 126.

! 74!
5. Conclusione
Ma lo sforzo di trovare una forma mi aveva coinvolta. E il coinvolgimento era diventato
quel libro, un oggetto che mi conteneva. Ora io ero lì, esposta, e vedermi mi dava in petto
colpi violenti. Sentivo che non solo nel mio libro, ma in genere nei romanzi, c’era qualcosa
che davvero mi agitava, un cuore nudo e palpitante, lo stesso che mi era schizzato fuori dal
nell’attimo lontano in cui Lila aveva proposto di scrivere insieme una storia. Era toccato a
me farlo sul serio. Ma era ciò che volevo? Scrivere, scrivere non per caso, scrivere meglio
di come avevo già fatto? E studiare i racconti del passato e del presente per capire come
funzionavano, e imparare, imparare tutto sul mondo col solo fine di costruire cuori
vivissimi, che nessuno avrebbe mai messo a punto meglio di me, nemmeno Lila se ne
avesse avuto l’opportunità?242
La riflessione metanarrativa e metalinguistica inserita nel ciclo romanzesco di L’amica
geniale adempie a un desiderio ontologico che si rispecchia sull’opera stessa e sull’Io
narrante. L’inscrizione delle figure simboliche, quali il campo semantico religioso o
quello della sarta, così come la base sensoriale della scrittura ferrantiana sottolineano un
valore autoriflessivo, il quale si realizza tramite la focalizzazione multipla e
pluritemporale della voce narrante. Il racconto retrospettivo è significativo perché risalta
l’asimmetria tra l’Io Narratore e l’oggetto della narrazione: “[I]o, io e Lila, noi due con
quella capacità che insieme - solo insieme - avevamo di prendere la massa di colori, di
rumori, di cose e persone, e raccontarcela e darle forza” 243 . Inoltre risalta la
frammentarietà della soggettività e dell’identità del sé costituite nell’altro.
L’amicizia di Elena e Lila non mette solo in risalto la relazionalità del sé, o la necessità
dell’altra, ma anche il carattere dialogico del processo conoscitivo. La diversità delle
due amiche si stabilisce in base alle loro tendenze di comportamento e di pensiero: una
che mette ordine, l’altra che smargina. La forza della storia della loro amicizia, e quindi
della scrittura, scaturisce dal rapporto dialettico che si instaura e che si costituisce nella
parola: “e raccontarcela e darle forza”. Nel verbo “raccontarcela” si può leggere il
riconoscimento della radice femminile del racconto, lo statuto dialogico del rapporto
amicale e la capacità creativa inscritta nell’atto. Allo stesso tempo però quel
“raccontarcela” abbandona la sfera privata ed entra in quella pubblica, quella universale,
grazie alla pubblicazione. Elena è scrittrice, scrive per essere pubblicata, esposta e così
uscire dalle sue origini. Origine può qui essere inteso in senso heideggeriano: una
perdurante formazione discorsiva contenuta a livello istituzionale, artistico e linguistico.
Al contrario Lila aveva fatto promettere a Elena di non scrivere mai di lei, perché non
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
242
Ferrante, E., Storia di chi fugge e di chi resta, pag. 42 - 43.
243
Ferrante, E., L’amica geniale, pag. 134.!

! 75!
voleva essere ricordata: “Mi resi conto in un lampo che la memoria era già
letteratura”244. L’amica geniale è la storia di Elena e Lila che si raccontano. Elena
diventa scrittrice narrando e problematizzando la parola dell’altra. È evidente
dall’analisi testuale che il racconto di avvenimenti nel ciclo romanzesco si rivela essere
infine un racconto di parole. La parola nella poetica di Ferrante è carnale. Raccontarla
ha a che fare anche con la riproduzione delle intuizioni sensibili esperite attraverso la
carne dell’altra. Il rapporto dialettico tra parola e carne è dichiarato già nel prologo
nell’intenzione di Elena di voler scrivere tutto ciò che le è rimasto in mente della loro
storia. La scrittura rievoca immagini, che “schizzano” fuori dalla memoria,
trasformandole in parole, che hanno a loro volta una matrice materiale. La
focalizzazione è, anche in questo caso, determinante per mettere in risalto la radice
sensoriale-empirica della costruzione del sé e la dialettica alla base del processo
creativo. Espone così le differenze tra il soggetto e l’altro e tra il soggetto e il genere
femminile.
L’insoddisfazione della scrittura di Elena dipende non solo dall’inconfessabilità
dell’amica ma anche dall’impossibilità di legarla a una forma stabile, che non si
smargini.

Ma poi punta sul viso, assunse il tono del medico e disse con una gravità artificiosa che se
volevamo bene a Lila dovevamo […] aiutarla a concentrarsi su qualcosa che le desse
soddisfazione, altrimenti con il suo cervello ballerino […] avrebbe messo nei guai sé stessa e
chi le stava attorno.245
Nel ciclo romanzesco è rappresentata l’inquietudine dell’intellettuale desideroso di
verità che non raggiungerà. La verità per Ferrante riguarda prima di tutto l’autenticità
della parola. Questa è a sua volta legata alla carne. A Elena che cerca la parola giusta
per trattenere l’altra, si affianca quindi Lila che denuncia l’informità delle cose e delle
persone, creando una struttura narrativa autoriflessiva fondata su due elementi inter-
relazionali e inter-soggettivi.
Questo saggio è un primo approccio analitico al ciclo de L’amica geniale. Si è trattato
principalmente del rapporto di amicizia tra le due protagoniste in quanto perno portante
della narrazione. Napoli, il rapporto con gli uomini, le madri e le figlie sono però
ulteriori elementi d’analisi che permetterebbero una comprensione più precisa
dell’opera ferrantiana e una contestualizzazione più accurata del soggetto come risultato
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
244
Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 292.
245!Ferrante, E., Storia della bambina perduta, pag. 202.!

! 76!
del contatto con l’esterno. Per motivi di spazio non è stato possibile approfondire i
seguenti punti, che meriterebbero ulteriori riflessioni in una futura sede d’analisi.
Concludendo, questa ricerca della verità della parola si inserisce nel problema della
classificazione del genere del ciclo. Oltre ai debiti con la tradizione della letteratura di
consumo, Olivia Santovetti riconosce affinità con il genere dell’autofiction
contemporanea e nostrana, per esempio di Siti e Covacich, con la scrittura
autobiografica di Knausgaard o con quella metariflessiva tipica dell’antinovel 246 .
Ancora una volta viene problematizzato il concetto di unità per la quale la tradizione
letteraria viene ripresa nel suo insieme pur ridimensionando denominazioni e categorie
e trovando in questa frammentazione una forma di espressione in grado di concepire
una forma di scrittura del femminile e del femminile-maschile.
Attraverso l’irrompere della frattura generata dal confronto e dal dialogo con l’altro/a la
struttura narrativa prosegue in un processo continuo costituito da rotture e da nuovi
equilibri, e non è mai conclusiva. L’atteggiamento del Narratore vuole essere
interpretativo e risulta invece interrogativo. Il lettore segue la storia fino alla fine, la
quale riapre voragini e rievoca ricordi senza chiudersi in un’evoluzione circolare ma
aprendosi a un orizzonte futuro smarginato e incarnato nell’immagine di Elena che sta
aspettando.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
246
Santovetti, O., Lettura, scrittura e autoriflessione nel ciclo de L’amica geniale di Elena Ferrante, in:
Elena Ferrante, L’amica geniale, a cura di Tiziana de Rogatis, pag. 19 1 – 192.

! 77!
Bibliografia

Barthes, Roland: La mort de l’auteur, in: Le bruissement de la langue, Paris, Éd. du Seuil, 1984,
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1989.

Battersby, Christine: The Phenomenal Woman. Feminist Metaphysics and the Patters of identity,
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Cavarero, Adriana: Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Milano, Feltrinelli, 2001.

De Rogatis, Tiziana (a cura di): Elena Ferrante: L’Amica geniale, Allegoria 73, G.B. Palumbo, Palermo,
Gennaio/Giugno 2016.

Ferrante, Elena: L´amica geniale, Roma, edizioni e/o, 2016.

Ferrante, Elena: Storia del nuovo cognome, Roma, edizioni e/o, 2016.

Ferrante, Elena: Storia della bambina perduta, Roma, edizioni e/o, 2016.

Ferrante, Elena: Storia di chi fugge e di chi resta, Roma, edizioni e/o, 2016.

Ferrante, Elena: La Frantumaglia, Roma, edizioni e/o, 2016.

Foucault, Michel: Qu’est-ce qu’un auteur?, in: ders.: Dits et écrits I. Paris: Gallimanrd 1994, pag. 789-
821.

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Genette, Gérard: Figures III, Paris, Editions du Seuil, 1972.

Lejeune, Philippe: Le pacte autobiographique, Paris, Ed. du Seuil, 1994.

Lejeune, Philippe: Il patto autobiografico, Bologna, il Mulino, 1986.

Mulder, Anne Claire: Divine Flesh, Embodied Word. The incarnation as a hermeneutical key to a fiminist
theologian’s reading of Luce Irigaray’s work, Utrecht, De Meers, 2000.

Stanley, Liz: The auto/biographical I. The theory and practice of feminist auto/biography, New York,
Manchester University Press, 1992.

! 78!
Erklärung über die eigenständige Erstellung der Masterarbeit

Hiermit versichere ich, dass ich die vorliegende Hausarbeit selbstständig verfasst und
keine anderen als die angegebenen Hilfsmittel benutzt habe. Alle
wörtlich oder sinngemäß den Schriften anderer entnommenen Stellen habe ich
unter Angabe der Quellen kenntlich gemacht.

Mir ist bewusst, dass ich mich im Falle einer unbeabsichtigten oder vorsätzlichen
Missachtung durch den fehlerhaften Umgang mit Quellen unter Umständen strafbar
mache und die vorliegende Arbeit mit „nicht ausreichend“ bewertet wird.

München, den 14.08.2017 Signatur…………………………..

Dichiarazione di antiplagio della tesi di laurea magistrale

Per quanto è di mia conoscenza e in tutta onestà, questo elaborato scritto è frutto del
mio personale lavoro, tutte le fonti impiegate sono state citate in modo corretto e
l’elaborato non contiene alcun elemento di plagio.
Non ho mai consegnato questo lavoro né alcuna sua parte o in altra versione per
ottenere alcun tipo di valutazione in altri corsi o per altri esami.

Dichiaro inoltre di essere a conoscenza delle conseguenze in caso di plagio.

Monaco di Baviera, 14.08.2017 Firma......................................

! 79!
CURRICULUM VITAE- GIULIA RICCARDI

Profil
Geburt: 23.07.1993

Ort: Piacenza (IT)

Staatsangehörigkeit: Italienerin

Erfahrung
Trainee, internationales Dokumentarfilmfestival ( DOK.fest), Community Management:
München, 15.03.2017 - 15.05.2017
Kommunikation, Zielgruppe, Telefonakquise, Kontakte mit Partner.

Praktikum / Werkstudentin, scrivo Public Relations: München, 01.11.2017 - 10.03.2017


Verfassung von Pressemitteilungen, Vorbereitung von Clipping Mappen, PR Aktionen
und –Konzepte, Recherchearbeit

Praktikum, DENKmal-Film Verhaag; München - 08.2016 - 10.2016


Film Produktion, Medien und Kommunikation, Dienstleistung ( Versand der
Filmexemplaren)

Praktikum bei COR- Università degli studi di Pavia, administratives Sekretariat,


Fachschaft Wirtschaft und Marketing, 10.01.2015 - 30.07.2015
Allgem. Bürotätigkeiten und Büroservice, Kontakte mit Studenten / innen

Editor, ClubMagellano; Sordio (LO) — 10.2013 - 04.2014

Betreuung der Spalten über deutsche Kultur und Tradition.

http://www.clubmagellano.it

http://www.oktoberfest.net/author/giulia/

Event Managerin, Sun Rock Festival, Musikfestival: Sarmato (PC), 2010 - bisher
Organisation u. Administration

Bildung
Università degli Studie di Pavia, BA Facoltà Lingue e Culture moderne; 2012-2015.
Abschlußnote: 109/110

Extra Aktivitäten: Teilnahme an dem Theater-Workshop T.I.L.T., Projektleitung Dr.


Donatella Mazza.

! 80!
Ruprecht-Karls Universität Heidelberg, Erasmus; 2013-2014.

Ludwig-Maximilians Universität München, MA Allgemeine und Vergleichende


Literaturwissenschaft, Profilbereich Theaterwissenschaft und Buchwissenschaft; 2015-
bisher.
Extra Aktivitäten: Event Managerin bei „Festival des erzählten Falls“ ( http://www.der-
erzaehlte-fall.de ) und Betreuung der Autorin Ina Jung (http://www.droemer-
knaur.de/autoren/7787216/ina-jung); Projektleitung Dr. Johanna Büchel.

Teilnahme an dem Workshop „Geschäftsplanung“, Projektleitung Dr. Robert Redweik.

Sprachkenntnisse
Italienisch: Muttersprache

Englisch: C1 (IELTS)

Deutsch: C1/C2 (Test Daaf und DSH3 )

Spanisch: B2

Französich: B1

! 81!

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