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L’anima degli scrittori: l’ultima indagine di padre Castelli (Avvenire, 15-1-

2014)
Ernst Bloch inizia il suo saggio Il principio speranza con queste domande: «Chi siamo? Da dove
veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta?».

Ai nostri giorni queste domande si pongono con maggiore insistenza perché l’uomo si è scoperto nudo e
solo: nudo per il tramonto delle ideologie e dei miti, presentati come apportatori di luce e di salvezza; solo
per la consapevolezza di essere «un atomo irrisorio, sperduto nel cosmo».

Ma di nudità e di solitudine non si può vivere, e le domande di ieri si ripresentano, magari avvertite sotto
varie vibrazioni. Indichiamone alcune, oggi particolarmente testimoniate dalla letteratura.

«La strada è la mia vita», urlava Jack Kerouac, vissuto letteralmente on the road, sulla strada, alla ricerca
dell’eldorado. Il poeta Giorgio Caproni, aggirandosi per la sua Genova e osservando il monumento di
Enea, vede nell’eroe troiano, che avanza portando sulle spalle il padre e trascinando il figlio per mano, il
simbolo dell’uomo che fugge dalla devastazione in cerca di un’altra dimora. Ma dove? Non esistono terre
felici dove porre stabile dimora; esiste soltanto questo nostro bisogno di evadere.

Suggestivo è, sull’argomento, un recente romanzo di Giuseppe Lupo dal titolo Viaggiatori di nuvole
(Marsilio 2013). Si dice che i Re Magi, lasciata Betlemme, ripresero il viaggio e approdarono a un’isola
sconosciuta. «Qui posero fine al loro straordinario girovagare, senza più i doni portati alla grotta, ma
carichi di un libro che ciascuno di essi aveva trovato lungo il cammino: re Gaspare il Vangelo, re
Melchiorre la Torah, re Baldassarre il Corano. In questo luogo decisero di costruire una chiesa, una
sinagoga e una moschea (...). Dopodiché ripartirono (...) Intorno ai tre edifici nacque una città le cui mura
di cinta erano colme delle lettere di tutti gli alfabeti che si parlavano sulla faccia della terra. Chiamarono la
città nuovo mondo».

Il significato della leggenda è suggestivo: siamo “viaggiatori di nuvole”, inseguiamo sogni e chimere che
appaghino le nostre aspirazioni radicali. In realtà, siamo tutti cercatori di un nuovo mondo, di un Eden
perduto. In parole più chiare, siamo tutti cercatori di Dio, anche senza saperlo.

Un’altra vibrazione, molto avvertita nell’odierna letteratura, si riferisce al silenzio di Dio. Perché egli tace
quando le sue creature, nella morsa del dolore, lo invocano? Elie Wiesel, reduce da Auschwitz, denuncia
questo silenzio in un splendido oratorio. Immagina che Abramo, Isacco e Giacobbe abbiano avuto
dall’Altissimo il compito di percorrere le strade del mondo e raccogliere gli echi della sofferenza degli ebrei,
e poi riferirli lassù. A missione compiuta, i tre patriarchi riferiscono. Il tribunale celeste resta in silenzio. Gli
interrogativi incalzano.

«Abramo parla, e Dio tace, Isacco ricorda, e Dio tace, Giacobbe s’interroga, e Dio tace. Dio tace, / Dio
guarda, / Dio è, è sguardo». Allora i tre «posero a Dio la domanda più umana e più terrificante anche:
Perché? Perché, Signore? Perché, Padre?» Nessuna risposta. Elie Wiesel non nega Dio, lo interroga, e si
rifugia nel martirio della fede. Così avviene anche per Joseph Roth, Shusaku Endo, padre Turoldo e per
molti altri scrittori.

La loro vibrazione varia secondo la forza, la debolezza e la carenza della loro fede. Particolarmente
intensa è quella fatta risuonare da Mariapia Veladiano nel romanzo Il tempo è un dio breve (Einaudi
2012). Anche se storditi, gli scrittori credenti nel silenzio di Dio percepiscono un appello all’amore che
salva. Dio parla col silenzio.

Dinanzi alla produzione letteraria del nostro tempo, si ha talvolta l’impressione di trovarsi in una società
nella quale Dio è sconosciuto, estraneo, ricordo scialbo. In realtà, oggi come sempre, il Dio sconosciuto ed
estraneo si fa sentire in diverse maniere: inquietudine, senso di vuoto e di smarrimento, bisogno di senso
e di perdono. Sull’argomento, lo scrittore Ferruccio Parazzoli, nel volume Il posto delle cornacchie. Nuovi
appunti dal cuore della notte (Ares 2010), ha pagine illuminanti. Alla domanda: Dio è lontano da noi?
Risponde: «E se ci fosse invece incredibilmente vicino, addosso perfino, da non poterlo distinguere? E se
fosse invece in quella nostalgia che abbiamo di Lui senza di Lui?». Il rifiuto di Dio è spesso rifiuto di una
maschera, di un dio da noi costruito. Negare questo dio è un atto di onestà, anzi religioso.

Éric-Emmanuel Schmitt ha composto un dramma nel quale porta sulla scena Freud e uno sconosciuto,
che poi si rivela essere Dio. Il colloquio tra l’ateo Freud e lo sconosciuto (Dio) è una sequenza di
affermazioni e intuizioni che fanno molto riflettere. Alla fine dell’incontro, lo sconosciuto (Dio) saluta Freud:
«Me ne vado, Freud. Non ho padre, né madre, né sesso, né inconscio (...). – Mi lascia? – Non ti ho mai
lasciato. – Non la vedrò più? – Tutte le volte che vorrà, ma non con gli occhi. – E come? – Ero qui Freud,
sono sempre stato qui, nascosto. E tu non mi hai trovato. E non mi hai mai smarrito. E quando ti sentivo
dire che non credevi in Dio, sembravi un usignolo che si lamenta di non sapere la musica». L’idea di fondo
di questo testo si può così sintetizzare: Dio è inestirpabile dalla nostra mente e dal nostro cuore perché ne
é il creatore, siamo sua immagine, anche se sporca e monca.

Una forte vibrazione della presenza di Dio ci viene dall’incontro con la bellezza. In merito, molto
significativo è un testo di Charles Baudelaire nel suo saggio Art romantique: «È esso, è questo istinto del
bello che ci fa considerare il mondo e tutte le sue bellezze come un riflesso, come una corrispondenza del
cielo. La sete inestinguibile di tutto ciò che è al di là, e che ci rivela la vita, è la prova più viva della nostra
immortalità.

Con la poesia e insieme attraverso la poesia, con la musica e attraverso la musica, l’anima intuisce la luce
che splende al di là della tomba; e quando una poesia perfetta fa nascere le lacrime agli occhi, queste
lacrime non sono segno di eccessiva gioia, ma piuttosto indice di una malinconia esasperata, di una
esigenza nervosa, di una natura esiliata nell’imperfetto che bramerebbe possedere subito, in questo
mondo, un paradiso rivelato».

Emil M. Cioran si è professato ateo e nichilista. Nel suo libro Lacrime e santi (Adelphi 1990) si leggono
queste affermazioni: «Essa (la musica) è nata dal “rimpianto del paradiso”, trasmette il brivido interiore di
Dio». Riferendosi a Bach, da lui molto amato, scrive: «Dopo un oratorio, una cantata o una Passione, Dio
deve esistere. Altrimenti, tutta la sua opera non sarebbe che un’illusione lacerante». Dicevamo di
vibrazioni che ci mettono sui sentieri di Dio, non di prove. Queste ci vengono dalla Rivelazione e dalla
fede.
Ferdinando Castelli

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