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Animali untori

29/02/2020MATTEO MESCHIARI

In Armi, acciaio, malattie (Einaudi 1998), Jared Diamond dedica un capitolo al «dono fatale del
bestiame». Recuperando e rilanciando una narrazione divenuta celebre, Diamond spiega che la
cosiddetta rivoluzione neolitica, la domesticazione di alcuni animali, la promiscuità tra bestiame e
umani e la nuova densità demografica generata dall’economia agricola furono all’origine di epidemie e
pandemie nella nostra specie, condizioni che prima non esistevano. Nel Paleolitico dei selvatici e
spensierati cacciatori-raccoglitori, infatti, non mancavano certo gli agenti patogeni, ma in un’Europa
dove viveva al massimo mezzo milione di umani il contagio aveva vita difficile. Ciò non toglie che
maiali, topi, polli, conigli, pulci, zanzare e ovviamente anche cani e gatti possano trasmetterci malattie.
Si chiama zoonosi. Nel caso del Covid-19 la ricerca dell’animale untore sembra ancora in alto mare. Si
è parlato di pipistrelli, molluschi, rettili ma solo da pochi giorni qualcuno sta stringendo il cerchio
attorno al pangolino. Si è riscontrata infatti una corrispondenza al 90% tra un virus ospitato da questi
squamati mangiatori di formiche e il virus del momento. Tuttavia, nonostante la pubblicazione di ben
tre articoli scientifici, il mistero resta fitto perché i dati non sono concordi e la percentuale non è
sufficiente per riconoscere nel povero pangolino il vero colpevole. Il virus, prima di passare all’uomo,
potrebbe infatti aver transitato in un intermediario, che per ora non è stato individuato. In attesa di una
verità inequivocabile, dunque, non ci resta che abbozzare un altro tipo di riflessione.

Tra il 2002 e il 2003 era di moda un altro coronavirus, quello della SARS, e nel 2004 il governo cinese
ordinò l’esecuzione tramite scarica elettrica o annegamento di 10.000 zibetti in quanto identificati dai
ricercatori come vettori intermediari del virus. La mattanza ebbe luogo nonostante gli avvertimenti
dell’Ordine Mondiale della Sanità e delle Nazioni Unite, che ammonirono i Cinesi del rischio di
distruggere informazioni necessarie per profilare meglio il genoma del virus e addirittura, in assenza di
reali precauzioni sanitarie, di rinfocolare il contagio. Il problema, però, come fecero notare medici e
associazioni animaliste, non erano gli animali selvatici in sé ma il fatto che l’uomo interagisce con loro
in contesti innaturali, manipolandoli e mangiandoli. Una cosa analoga è avvenuta nel 2016 quando
250.000 renne sono state abbattute in Siberia per prevenire la diffusione del batterio dell’antrace.
Questo non riappariva nella regione dei Nenet da almeno 70 anni e pare che avesse viaggiato nella
carcassa decongelata di una renna restituita dal permafrost. Aneddoti, forse, ma che vanno letti in
filigrana con un più ampio fenomeno, quello che con parola controversa definiamo Antropocene. La
dissoluzione ambientale non è infatti slegata da queste storie di contagio, perché la deforestazione e il
riscaldamento globale modificano gli habitat e spingono gli animali selvatici a muoversi, facendoli
entrare in contatto con noi e generando nella nostra mente dei nuovi bestiari immaginari.

Ora, i fattori di interesse culturale sono due. La ritualizzazione in chiave contemporanea del capro
espiatorio e il confine sempre precario della relazione uomo-animale tra varie culture. Da un lato il
processo ad animali rei di qualche delitto, come i maiali condannati al rogo o i coleotteri scomunicati
da un tribunale ecclesiastico nel Medioevo. Dall’altro la fascia problematica del commestibile/non-
commestibile o del domestico/selvatico come precisi marcatori etnici. In entrambi i casi abbiamo due
modelli di animismo in atto. L’animale come catalizzatore non-umano di proiezioni di colpe umane e
l’animale come spirito guardiano dei confini identitari. In queste ore, sebbene la cosa sia passata in
ultima posizione, si sono moltiplicate note e comunicati che rassicuravano la gente sul fatto che
i pet non trasmettono il contagio. Forse un modo per contenere il deragliamento psicologico nella
caccia all’untore, già avviata con la ricerca mediatica un po’ forcaiola del «paziente zero», o forse un
semplice tentativo di esorcismo contro l’ansia. Ma la riflessione può spingersi oltre, smarcandosi tanto
dalle paure biopolitiche di Agamben quanto dalle preoccupazioni di Nancy sulle interconnesioni
tecniche. L’esperimento sociale o psicologico di questa “prova generale di contagio” sembra dirci
infatti che la ricerca dell’untore, sia esso in senso proprio o simbolico un animale reietto oppure un
famigerato soggetto politico oppure ancora un impalpabile ghost in the machine, non aiuta più molto la
riflessione. Anzi, anche l’intellettuale occidentale sembra incapace di smarcarsi dalla diade
veterotestamentaria “contaminazione-colpa”.

Certo, non esistono ricette pronte nell’emergenza. Basterebbe però un piccolo shiftcognitivo per
generare straniamento e per uscire dal calderone narrativo di queste ore troppo confuse. Una prova di
deantropizzazione, per cominciare, magari raccontando la prospettiva dell’animale, del virus, dei
paesaggi contemporanei come agenti interessati. E non per fare zoofiction della zoonosi, ma per
sottrarsi a uno scenario mentale da quarantena. Detto altrimenti, il materialismo dialettico sta
all’iperoggetto Antropocene come un antibiotico sta al virus. Non serve. Servirebbe molto di più farsi
un viaggio intellettuale nelle ontologie indigene di cui parla ad esempio Eduardo Viveiros de Castro.
Gli strumenti vanno insomma ripensati, le categorie filosofiche, politiche e antropologiche vanno
risintonizzate, l’ascolto degli attori del collasso deve includere in modo risoluto l’orizzonte dei non-
umani. Che ne sarà allora dei pangolini cinesi?
A fine gennaio, nei primi giorni di paura del contagio da Covid-19, ero a Firenze e si vedevano girare
le prime mascherine antibatteriche. Ero davanti a un chiosco che vendeva lampredotto e la donna che
lo pescava nella pentola fumante, lo tagliuzzava e lo conciava nel panino francese brontolava a bassa
voce contro tutti i passanti con gli occhi a mandorla. «Si mangiano i pipistrelli, questi qui, i pipistrelli,
bisognerebbe insegnargli le buone maniere, che certe schifezze non si mangiano, no, io questi li
farei… devono farsi civili. Ma mi dica, il lampredotto come lo vuole? Semplice con il pepe o salsa
piccante?». La memoria è sempre etnica, ideologica, identitaria, soprattutto quando si svuota o si
spegne. E la paura del contagio, anche quella di non saperne parlare, ci fa ricadere nel gioco dialettico
delle posizioni. Pangolini o mucca pazza? No. Zibetti, aragoste, tilacini.

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