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Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto, 8 febbraio 1888– Milano, 1º giugno 1970) è stato
un poeta, scrittore, traduttore e giornalista italiano.
È stato uno dei principali poeti della letteratura italiana del XX secolo. Inizialmente influenzato
dal simbolismo francese, la sua poesia fu caratterizzata nei primi tempi da componimenti brevissimi,
costituiti da poche parole essenziali e da analogie a volte ardite, compresi principalmente nella
raccolta L'allegria (1919): L’Allegria è una raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti pubblicata nel 1916
con il titolo Il porto sepolto, nel 1919 con il titolo Allegria di naufragi e in seguito, con il suo titolo finale
L’Allegria, nel 1931. Vi sarà una successiva edizione dell'opera nel 1936[1]; l'edizione definitiva, dopo
ulteriori rimaneggiamenti, è del 1942[2]. La maggior parte dei testi poetici, scritti tra il 1914 e il 1919,
esprime soprattutto i sentimenti nati dall'esperienza della prima guerra mondiale, come dolore ma
anche come scoperta dei valori più autentici di fratellanza ed umanità. Il titolo porta all'idea di
un'esultanza che si presenta nei momenti più terribili del conflitto contro la morte ma che incitano il
poeta a continuare il viaggio con maggiore ottimismo. Passò poi a lavori più complessi e articolati dal
contenuto concettualmente difficile. Una terza fase della sua evoluzione poetica, segnata dal dolore per
la perdita prematura del figlio, ha compreso opere meditative dall'intensa riflessione sul destino umano.
Negli ultimi anni le sue poesie furono specchio della saggezza, ma anche del distacco e della tristezza
dell'età avanzata. È stato inoltre considerato da alcuni critici come anticipatore dell'ermetismo, una
corrente, affermatasi negli anni Venti, che tanta parte ha avuto sulla produzione poetica successiva e
che afferma un nuovo modo di fare poesia, frutto di un lungo lavoro di ricerca e di sperimentazione, ma
anche di un rifiuto generalizzato dei maestri precedenti, compresi i Crepuscolari, di cui viene
abbandonata la discorsività, in favore della musicalità e di una essenzialità della parola, sempre
connotata dal gioco analogico
I fiumi (L’allegria)
Schema metrico: quindici strofe di versi liberi (una rima perfetta lega però i versi 65 e 67: “pare :
traspare”). La sesta e le ultime sei sono animate dall’anafora dei deittici questo/a/i (i deittici sono
quelle forme linguistiche – verbi, avverbi, pronomi – per lo più dell’ambito spazio-temporale, che
possono essere interpretate ed esplicitate solo facendo riferimento al contesto, alla situazione in cui
sono prodotti). Sullo schema di questa poesia ha scritto Montale: «Oggi il verso è spesso un’illusione
ottica […]. I fiumi di Ungaretti non sono comprensibili senza lo stillicidio verticale delle sillabe. Gran
parte della poesia moderna può essere ascoltata solo da chi l’abbia veduta».
Così invece Ungaretti: «Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta d’identità: i segni che mi
serviranno a riconoscermi […] sono fiumi, sono i fiumi che mi hanno formato. Questa è […] la poesia
dove so finalmente in un modo preciso che sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai limiti
del deserto e lungo il Nilo. E son anche che se non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto parola; e so
anche che se non ci fosse stato l’Isonzo non avrei avuto parola originale».
La poesia di Ungaretti è come un grandissimo ricordo, un ripercorrere la sua vita dall’inizio fino al momento
in cui il poeta sta scrivendo. Nascita, infanzia, adolescenza e, infine, la guerra: quattro sono i fiumi che il
poeta associa a queste quattro fasi della sua vita. L’ultimo, l’Isonzo, è quello che associa alla guerra e che
tutti gli altri sembra portare con/in sé.
I fiumi è una poesia circolare, divisibile in quattro parti: Nella prima parte il poeta è seduto durante la notte,
si riposa e fissa la luce della luna; in questo momento romantico scaturisce la riflessione sulla sua vita.
Nella seconda parte della poesia il poeta si classifica come solo e unico superstite, sentendosi come fosse
una reliquia, un oggetto antico conservato in un’urna d’acqua.
Ungaretti si immerge così nel fiume (c’è qui anche una rievocazione al momento del battesimo, invocato
come una sorta di rinascita) e i suoi movimenti per uscire dall’acqua sono fragili e precari come quelli di un
acrobata. Tornando poi vicino ai suoi vestiti, che definisce “sudici di guerra”, si scopre come un abitante del
deserto, un beduino, anela il sole e si prostra per riceverlo. Di tutti i fiumi è proprio l’Isonzo quello in cui il
poeta si riconosce fino in fondo e quello che gli fa capire come sia una piccola parte del tutto e
dell’immenso universo. L’esperienza della guerra consente all’uomo di comprendere la propria incredibile
piccolezza e gli permette di raggiungere una maggiore consapevolezza di sé.
Nella terza parte della poesia il poeta ripercorre le fasi del suo passato prima della guerra, utilizzando quei
fiumi che le rappresentano così come l’Isonzo rappresenta la sua vita in guerra. Così il Serchio (in provincia
di Lucca) rappresenta le sue origini, i posti dove i genitori abitavano prima di andare via per questioni
lavorative, così come fecero molti altri italiani all’epoca; il Nilo, invece, parla dell’infanzia e della prima
giovinezza dell’autore, di quell’età in cui aveva molti sogni ma un sentiero ancora non tracciato; la Senna
rappresenta Parigi, la città dove Ungaretti ha studiato e ha compreso che sarebbe diventato poeta; l’Isonzo,
infine, che riporta al presente e all’autore che, pur se in guerra, riesce immergendosi a vivere un attimo di
felicità. Nell’ultima parte della poesia, la quarta, Ungaretti torna al presente pieno di nostalgia e tristezza,
paragonando la sua vita alla corolla di un fiore, resa precaria dall’idea della morte che può sempre
affacciarsi, soprattutto vivendo in guerra.
Come le altre poesie di Allegria, I fiumi è caratterizzata da alcuni elementi tipici della produzione
ungarettiana risalente a questa fase storica: anzitutto, il poeta indica il luogo e la data di composizione del
testo, per ancorarlo alla situazione contingente da cui prende vita; la poesia ha un forte contenuto
autobiografico; la sintassi è frammentata in unità minime (i "versicoli").
In memoria (il porto sepolto: Il porto sepolto è la prima raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti,
pubblicata per la prima volta a Udine nel 1916.)
Schema metrico: otto strofe di versi liberi, slegati cioè da ogni schema metrico tradizionale. Anche in Saba
abbiamo riscontrato versi liberi da uno schema prefissato, ma nel primo Ungaretti l’uso è cospicuo e
strutturale. Meglio dunque usare l’espressione «metrica libera» che, secondo lo studioso Pier Vincenzo
Mengaldo, si manifesta al riscontro di questi elementi: la «perdita della regolarità e della funzione
strutturale delle rime», la «libera mescolanza di versi canonici e non canonici» e la
«mancanza dell’isostrofismo», cioè la misura regolare delle strofe (e di ogni legame fonico-lessicale fra di
esse).
In memoria nelle prime edizioni della raccolta Il porto sepolto appare isolata, all'inizio, come se si trattasse
di una dedica. Viene poi integrata nell’Allegria, il cui tema centrale è rappresentato dalla guerra. Ed è
proprio nella poesia di Ungaretti che la Prima Guerra Mondiale trova la sua interpretazione più
memorabile.
In questo componimento, il poeta rievoca la tragica esistenza dell'egiziano Moammed Sceab, suo amico e
compagno di stanza a Parigi all'albergo in rue des Carmes.
È questa una poesia fortemente autobiografica, come tutta la produzione del poeta, che identificava il
proprio compito nello "scrivere una bella biografia", cioè sapere esprimere attraverso la poesia una vita
pienamente vissuta. Moammed Sceab è un esule e immigrato in un Paese straniero, a cui tenta con tutte le
sue forze di adattarsi, cambiando anche il nome e perdendo così la sua identità. Questa perdita segna
profondamente la sua figura, sospesa tra le sue tradizioni natie e il nuovo mondo in cui si trova a vivere, che
non riesce a interiorizzare.
Moammed Sceab è la controfigura, il doppio di Ungaretti. Nelle prime edizioni de Il porto sepolto, questa
poesia figura come isolata, all’inizio, come se fosse una sorta di dedica dell’intero libro e quindi,
considerando che Il porto sepolto è in nucleo dell’intera poesia di Ungaretti, finisce per essere la sigla di
tutta la sua opera poetica. Moammed Sceab è quell’Ungaretti che non ce l’ha fatta, quell’Ungaretti
sommerso che sta di contro all’Ungaretti salvato, che canta, che sa sciogliere il canto del suo abbandono, a
differenza di Moammed; tuttavia in quella Parigi, in quella bohème del 1912-1913 (Sceab si suicida
effettivamente nel 1913), Moammed vive le contraddizioni dello stesso Ungaretti: esule, emigrato, privo di
identità, privo della propria lingua, incapace di identificarsi nel Paese in cui tenta con tutte le sue forze di
innestarsi sino a cambiare nome, sino a parlare la lingua dell’altra nazione.
La perdita della propria identità, l’incapacità di vivere nella tenda dei suoi, nella tenda del Corano, segna
profondamente questa figura. La differenza di Ungaretti rispetto a Moammed è il canto: quello che segna il
destino di Moammed Sceab è che questo suo abbondono, questa sua incapacità di vivere, questa sua
estraneità dal mondo di origine, ma anche questa sua estraneità nel mondo in cui cerca di integrarsi, non
trova una sigla di canto, non trova una nota di canto. Ungaretti è Sceab con in più la capacità di cantare e,
sin dall’inizio del suo percorso poetico, identifica il proprio dovere poetico nel cantare chi non può più farlo,
nel cantare chi non è rimasto in vita a sciogliere il canto del proprio abbandono. La poesia di Ungaretti è
una poesia fortemente autobiografica. Tutta la sua opera sarà raccolta in Vita d’un uomo, ma già a cavallo
tra gli anni ’30 e gli anni ’40 è scandita in vari volumi in cui, con il suo nuovo editore Mondadori, Ungaretti
pubblica i suoi versi; già il titolo Vita d’un uomo allude a questa forte componente autobiografica; in fondo,
nelle note conclusive della sua esistenza, Ungaretti diceva che “un poeta non deve far altro che scrivere una
bella biografia”, dove “scrivere una bella biografia” significa vivere una bella vita, una vita piena di eventi e
di esperienza (e non c’è dubbio che Ungaretti l’abbia vissuta), ma significa anche tradurla in un canto, in
una formula, in una sigla poetica e musicale che la trasfiguri, che la riscatti, che la redimi; tutto ciò che
Moammed non era stato capace di fare nell’appassito vicolo in discesa di Rue des Carmes, luogo parigino in
cui è ambientata la poesia. La poesia inaugura Il porto sepolto, cioè il primo libro di Ungaretti, il libro che si
cala profondamente nella situazione. Un’altra grande novità della poesia di Ungaretti è questo essere calata
nei luoghi e nei tempi in cui l’esistenza si è sviluppata, a partire dall’indicazione iniziale, "Locvizza il 30
settembre 1916", che è il luogo dove Ungaretti effettivamente ha composto questo componimento. È un
luogo evidentemente segnato dalla situazione che sta vivendo: la prima guerra mondiale, la Grande Guerra,
di cui L’Allegria, che sarà la versione completa e integrata de Il porto sepolto, è il grande libro non solo
italiano, ma forse europeo. Quello sconvolgimento, quel trauma generazionale che i ventenni di tutto il
mondo massacrò a centinaia di migliaia sul fronte occidentale, trova nella poesia di Ungaretti la sua
interpretazione più memorabile, proprio perché capace di sciogliere i traumi, le ferite dell’esistenza,
soggettiva e individuale come nel caso di Moammed, ma anche collettiva, politica e sociale come nel caso
del popolo in armi, del popolo italiano buttato nel carnaio del Carso; tutto questo si deve sciogliere in una
formula musicale: questa è la grande intuizione di Ungaretti e la grande novità del suo linguaggio che, dal
punto di vista metrico e sintattico, è all’insegna dello spezzato. Nella musica del suo tempo, nella musica
dei grandi autori del primo Novecento, non c’è più il flusso continuo della musica romantica e decadente,
non c’è più la forza e l’impeto di un Wagner. La musica del primo Novecento è una musica di interruzioni, di
intervalli che diventerà anche musica seriale, tonale. È musica di distacchi precisi. È quello che fa Ungaretti
nei confronti della tradizione metrica italiana. I famosi versicoli, versi brevi, fatti di una sola parola (“patria”,
“suicida”, “riposa”) sono versi che non seguono evidentemente la metrica tradizionale del nostro repertorio
letterario, ma spezzettano questi stessi metri, queste stesse cadenze, questi stessi suoni in unità e segmenti
molto più contratti. Il mondo della dispersione di Moammed Sceab, che è anche il mondo della distruzione
e devastazione della guerra, trova una sua traduzione, una sua sigla e composizione musicale in questo
canto ritmato e spezzato, in questa sorta di canto disgregato, sfracellato così come è disgregata e
sfracellata la natura del Carso.
Per quanto riguarda le figure retoriche:
Enjambements = vv. 1-2; 3-4;
Ripetizione = "di emiri di nomadi" (v. 4)."non era francese / e non sapeva più vivere" (vv. 11-12).
Metafora = "cantilena / del Corano" (v. 15). Deriva dal fatto che Corano significa in arabo recitare ad alta
voce. "sciogliere / il canto del suo abbandono" (vv. 19-20). "l'ho accompagnato / insieme alla padrona
dell'albergo / dove abitavamo" (vv. 22-24). Allude al cimitero. "una / decomposta fiera" (vv. 33-34). Allude
alla condizione di morte del protagonista.
Ellissi = "di emiri di nomadi suicida" (vv. 4-5). Soppressione del verbo.
Questa poesia è stata scritta il 1° agosto 1916, nel pieno della stagione estiva. Nell'arido pomeriggio carsico,
in piena guerra, il poeta, osserva l'improvviso cambiamento del colle di Bosco cappuccio lasciandosi
trasportare in un primo momento dall'immaginazione e poi dai ricordi.
Egli non vede più l'arido paesaggio intorno a sé, bensì un terreno in pendenza (un declivio), ricoperto di
erba verde, morbida e folta, come il velluto, che gli richiama alla mente la comodità di una riposante
poltrona.
E quando il poeta pensa alla poltrona, egli fisicamente si trova nel paese straziato dalla guerra (il Carso),
invece spiritualmente si trova a Parigi, in un caffè remoto e appartato, in cui gli sarebbe piaciuto appisolarsi
alla luce di una lampada a bassa luminosità, come il chiaore della luna che imbianca Bosco Cappuccio.
Non si tratta della speranza di poter rivivere questi momenti bensì di riviverli attraverso il dolce ricordo del
passato: prima che partisse per la guerra, il poeta viveva a Parigi ed era un assiduo frequentatore di caffè,
dove incontrava i suoi amici letterati e artisti. Tra questi vi era anche l'amico egiziano Moammed Sceab a
cui ha dedicato il componimento "In memoria". Per questo il titolo della lirica è "C'era una volta": l’inizio
consueto di tutte le favole.
Per quanto riguarda le figure retoriche:
Similitudine = "come una dolce poltrona" (vv. 4-5). "come questa di questa luna" (vv. 10-11).
Enjambements = vv. 1-2; 2-3; 3-4; 4-5; 6-7; 8-9; 9-10; 10-11.
Pellegrinaggio (l’allegria)
Schema metrico: versi liberi, ma con prevalenza di quaternari e quinari. Ungaretti: «Di solito, a quei tempi,
ero breve, spesso brevissimo, laconico: alcuni vocaboli deposti nel silenzio come un lampo nella notte, un
gruppo fulmineo di immagini, mi bastavano a evocare il paesaggio sorto d’improvviso a incontrarne tanti
altri nella memoria».
In agguato
in queste budella di macerie
ore e ore
ho strascicato la mia carcassa usata dal fango come una suola
o come un seme di spinalba
Ungaretti uomo di pena
ti basta un’illusione per farti coraggio
Un riflettore di là
mette un mare nella nebbia
Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916
Sin dalle prime composizioni del Porto sepolto, nate - come questa - nel fango delle trincee, si rivela la
natura rivoluzionaria della nuova poesia: ecco i “versicoli” privi di rime, gli spazi bianchi, l’assenza di
punteggiatura, l’aderenza delle immagini alle sensazioni, ispirata agli haiku giapponesi, alla poesia “pura” di
Mallarmé e a quella “cubista” di Apollinaire. Il pellegrinaggio attraverso il mistero e il dolore dell’esistenza
trova nell’illusione il coraggio della fede e della speranza. Ma nel fulmineo procedere dall’immersione nel
paesaggio alla ‘presa diretta’ di sé e al ‘dolce naufragare’ della chiusa si avverte quella fedeltà agli
amatissimi Petrarca e Leopardi che attraverso successive fasi del suo lungo percorso poetico porterà
Ungaretti fino ad accensioni barocche.
L’immagine che caratterizza la poesia di Ungaretti, � quella del fante che trascina la sua carcassa nel
fango dei camminamenti e si paragona a un oggetto come una suola consumata, ma anche a un seme di
biancospino, che, da quello stesso fango, saper portar fuori l’energia per fiorire e consolare il mondo
attraverso la poesia. Il Pellegrinaggio, di cui parla il poeta, non altro che una ricerca della sua identità,
sollecitato dalle difficoltà di una trincea dove non c’è differenza tra la vita e la morte. Ma il poeta capisce
che non tutto è perduto nella trincea e quindi in agguato in queste budella e di macerie. Parte importante
della poesia è sempre il contrasto tra angoscia e speranza, tra sofferenza e amore per la vita, quell’amore
per la vita che permette all’uomo di pena di sollevarsi dalla disperazione e di continuare il cammino.
Figure retoriche:
Budella di macerie:
metafora per indicare i passaggi stretti come budella che si sono formati per il crollo delle case.
Carcassa:
Il poeta utilizza questa metonimia per suggerire un’immagine macabra e potente di come fossero le sue
condizioni durante la guerra. Qualificando il suo stesso corpo con l’immagine di una carcassa, Ungaretti
vuole sottolineare come la sua condizione in trincea sia al limite, completamente stremata, quasi vicina al
cedimento.
Seme di spinalba:
La similitudine con il seme di spinalba conferisce all’immagine una connotazione positiva in quanto il seme
è simbolo di vita e rappresenta un nuovo inizio, una rinascita in un ambiente devastato dalla guerra e dalla
morte.
Ungaretti:
apostrofe. Il poeta si rivolge a se stesso per descrivere la propria condizione esistenziale autonominandosi
per cognome, così come avveniva nell’esercito e per sottolineare quanto l’esperienza della guerra lo ha
portato ad una perdita di identità.
Riflettore…mette un mare nella nebbia:
Con questa metafora Ungaretti descrive il bagliore di una luce che illumina la nebbia facendola sembrare un
tratto di mare per alludere alla tendenza ad intravedere sempre una speranza, che è illusoria ma che è
anche l’unico stimolo ad avere coraggio in una situazione di simile disperazione come la trincea.
Attilio Bertolucci
Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000) è stato un poeta
italiano. La poesia di Bertolucci è a suo modo semplice e complessa. La sua vocazione alla descrizione e al
racconto lo ha naturalmente condotto a evitare l'intensa liricità della poesia pura ed ermetica per rivolgersi
piuttosto a una lingua poetica intelligibile e alla narrativa in versi. La produzione, che comincia nel 1929,
comprende raccolte poetiche, un romanzo familiare in versi, prose, traduzioni di autori inglesi e francesi.
Ha insegnato storia dell'arte e poi ha svolto una intensa attività pubblicistica e di consulente editoriale. Ha
diretto Nuovi argomenti. La sua produzione poetica è quasi tutta compresa nei due libri Capanna indiana e
Viaggio d'inverno, pure preceduti da un esordio dall'accento inconfondibile come Sirio. L'elemento elegiaco
ritorna nel già citato romanzo in versi La camera da letto: frutto di una lunga elaborazione, questo
"romanzo famigliare" in versi è stato uno degli esiti più significativi della ricerca letteraria di Bertolucci. Il
libro, svolgendo in forma poetica una materia squisitamente narrativa (la storia della famiglia B. e delle sue
origini appenninico-padane), conferma non solo la sostanziale estraneità di B. alla tradizione della lirica
pura, ma anche l'assoluta rilevanza del suo autonomo percorso nel panorama della poesia novecentesca.
Dopo aver raccolto la sua produzione in un volume (Le poesie, 1990; 2ª ed. ampliata 1998), B. ha
pubblicato, riunendo testi recenti e liriche di antica data, due nuovi libri di poesia, Verso le sorgenti del
Cinghio (1993) e La lucertola di Casarola (1997), dai titoli suggestivamente evocativi di luoghi e paesaggi
dell'infanzia
La poesia descrive un interno tranquillo, ove non accade nulla, tranne il passare del tempo, rappresentato
dal movimento del sole. Il cane che riposa e il cappello di paglia della moglie connotano l’home, intesa
come intimità domestica, di affetti e abitudini familiari. L’oggettività del passare del tempo della prima
strofa diventa soggettività nella seconda. La presenza del sole, la parola chiave, investe tutta la poesia: mite
calore, l’ora meridiana, il mattone tiepido, il cappello di paglia (che rinvia all’estate), spenta dall’ombra
dell’ultimo verso.
Da La camera da letto, vol. I, 1984 (sezione Romanzo famigliare) Capitolo XI, Il bambino che va a scuola, a
sei anni
Schema metrico: 35 versi liberi, tra cui prevalgono gli endecasillabi (ma troviamo anche ottonari, novenari,
e versi di dieci, dodici e tredici sillabe: fino al verso finale, di sedici sillabe). La camera da letto è un
«romanzo in versi», che racconta in due libri le vicende familiari (dagli antenati ai genitori) e
autobiografiche fino al 1951 (quando Bertolucci si trasferisce a Roma) diviso in sei sezioni, ciascuna
composta di un numero variabile di capitoli (in tutto sono quarantasei), che sono sempre titolati e
numerati. Ogni capitolo è a sua volta suddiviso in parti (o segmenti) semplicemente separate da spazi
bianchi. Il testo che leggiamo è il primo segmento dell’ultimo capitolo della prima sezione. Le vicende qui
narrate si riferiscono alla fine dell’anno 1917, quando il poeta inizia quel processo non facile di
allontanamento e separazione dalla madre e dall’ambiente familiare del podere di Antognano, vicino Parma
(causato dall’inizio della frequenza della scuola elementare, poi proseguita presso il “Convitto Maria Luigia”
della città emiliana).
Il bambino che va a scuola, a sei anni muta sempre un uomo freddoloso e assonnato o una
profondamente la sua vita, donna svelta nelle sue
si ferisce di continuo e guarisce da solo, i ginocchi faccende che non vedono soste
e i polsi, prima intatti, fioriscono di croste che e animano anche un’ora così incerta. Ma se il
l’aria dei mattini d’inverno lustra come rubini o piccolo pellegrino comincia a sentire più caldo,
come quelle non è
bacche per cui la siepe è ancora viva casa e soltanto l’esercizio del viaggio sul punto di
dispensa al passero e ai suoi figli. Se l’anima gli si conchiudersi, è il sole che alle nove, liberatosi dal
lacera, si cura nascondendosi agli altri e più a chi basso orizzonte di bruma e fumo misti tocca tutte
sino ad oggi gli ha dato gioie e affanni. Il tempo le cose visibili
freddo e asciutto ha indurito la strada e a lui che tingendole d’un rossore che inebria mentre voci e
cammina rivela nella distanza dei coltivi inerti rumori diversi s’accrescono e confondono,
case non conosciute prima perché perse a lungo esterno e interno uniti in una comunione
nell’inganno delle foglie: vivace sino a che la porta della scuola si chiude.
il gelo ne scopre e fissa la presenza umile a cui
s’aggira intorno
Il tema centrale è il rapporto tra la madre e il figlio. Il testo si apre con la donna, Maria, e il bambino, Attilio,
che siedono a tavola, rimasti soli dopo la partenza degli altri familiari e in bilico tra la memoria del passato e
il desiderio di vivere il futuro. Anche la notte si presenta ambivalente e tiene uniti la madre e il bambino,
per restare insieme adesso che hanno perduto gli altri familiari. Alla partenza del padre e del fratello si è
però aggiunta per il bambino anche la dolorosa separazione dalla madre per l’ingresso a scuola che viene
narrato nella seconda parte del testo, dove vi si racconta il primo giorno di scuola e la fuga di Attilio, la
ricerca angosciata di Maria, infine il ritrovamento. Le vicende raccontate in “camera da letto” sono
autobiografiche. Bertolucci racconta la storia della propria famiglia senza alterare nomi o dati. Il bambino di
questi versi è dunque lo stesso poeta a sei anni, rimasto da solo con la madre dopo la partenza del padre e
del fratello maggiore. E’ proprio questa la particolarità dell’opera di Bertolucci: l’associazione del poema
narrativo con l’autobiografia.
Questi versi sono caratterizzati da una scelta particolare: la narrazione è infatti condotta alla terza persona
(nei confronti della madre Maria) e alla seconda persona (nei confronti del bambino). In un certo senso è
come se il narratore volesse mostrare, attraverso questa tecnica narrativa, di avere un rapporto speciale, di
vicinanza affettiva, con il bambino, così che anche il lettore abbia un’impressione di maggiore familiarità
con il personaggio. Ma trattandosi di un testo autobiografico, questa scelta può essere letta anche in
maniera opposta: usare la seconda persona (anziché la prima) per parlare di sé è un modo per allontanarsi
dalle proprie vicende autobiografiche, osservarle dall’esterno e così oggettivarle in un racconto.
Giorgio Caproni
Giorgio Caproni (Livorno 1912-Roma 1990) a dieci anni si trasferì a Genova con la famiglia. Qui seguì studi
classici e musicali, in modo irregolare. Lavorò poi come violinista, come impiegato e come maestro
elementare, prima in val Trompia, nel bresciano, poi a Roma. Partecipò come soldato semplice alla seconda
guerra mondiale e poi alla resistenza. Tornato a Roma, nel 1946, continuò a insegnare, fece il giornalista e
collaborò con varie riviste letterarie come critico, autore di racconti, traduttore. Tra le sue opere ricordiamo
Come un'allegoria (1936) e Ballo a Fontanigorda (1938). Nel 1983 tutte le sue raccolte di poesia furono
riunite sotto un unico titolo: Tutte le poesie. Tre sono i nuclei tematici intorno ai quali si sviluppa la poesia
di Giorgio Caproni: la città, la madre, il viaggio. Si tratta di motivi autobiografici e, insieme, metaforici;
Genova e la madre, oltre che un amore concreto, ben vivo nella storia personale del poeta, rappresentano
l'impossibile ritorno al passato, la nostalgia e il rimpianto per una dimensione di vita dalla quale egli si sente
esiliato. Il tema del viaggio è allegorico per eccellenza: è il viaggio a ritroso nel passate ma è anche quello
verso la fine della vita. Questi temi, oltre a caratterizzare diverse fasi della poesia di Caproni ne
determinano le scelte espressive. Un recupero dei metri tradizionali antichi, il sonetto, la ballata, la canzone
costituisce la caratteristica più evidente di questi testi, insieme con una musicalità così orecchiabile da far
pensare subito alla sua attività di violinista.
Da Il passaggio di Enea (È una sezione di testi che riflettono il dramma della seconda guerra mondiale, che
comunicano l'orrore e la morte di quegli anni.) Sirena
Schema metrico: sonetto di endecasillabi a rima ABAB, ABAB; CDD, DCC. Datato 1952, il componimento è
pubblicato l’anno dopo, ed entra poi in Il passaggio di Enea (1956).
La mia città dagli amori in salita, Genova mia di che sui tasti mi dolgono?... Oh il carbone a Di
mare tutta scale e, su dal porto, risucchi di vita Negro celeste! oh la sirena marittima, la notte
viva fino a raggiungere il crinale quando appena
di lamiera dei tetti, ora con quale spinta nel l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena del futuro
petto, qui dove è finita in piombo ogni parola, s’è aperta col bandone scosso di soprassalto da
iodio e sale rivibra sulla punta delle dita un portone
Il sonetto fa parte della raccolta Il passaggio d’Enea e risale al 1952, l’anno delle Stanze della funicolare, che
secondo il poeta “sono un poco il simbolo, o l’allegoria, della vita umana, vista come inarrestabile viaggio
verso la morte”. I temi della città prediletta e della giovinezza fiduciosamente amorosa s’incrociano con
quello del passato, che si riallaccia alla pena del futuro, nelle raffinate rime di uno tra i migliori poeti italiani
del Novecento. Nelle piccole cose quotidiane troviamo, come nei sogni, le più profonde risonanze di un
mondo magico e spettrale, in cui l’armonia si fa dolcemente straziante. In questi versi di Sirena non c’è nulla
di spirituale. La verticalità di cui parla è concreta.
1-2 La mia città … scale: in un'intervista del 1988 Caproni chiariva con esattezza il senso dell'immagine: «Un
verso mio che è diventato quasi un ritornello, "La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta
scale…" […], lungi dall'essere metaforico o "spirituale", è proprio realistico, anzi cronachistico. Ai miei tempi
6 bisognava trovare una crosa deserta per appartarsi con una ragazza. Ma quelle stradicciole erano ripide e
perciò, con una certa fatica, si faceva letteralmente "l'amore in salita"»; cfr. Poesie disperse, Su cartolina,
14: «Oh mia città dagli amori in salita!». 3-4 vita / viva: cfr. Pascoli, Myricae, Il giorno dei morti, 84: «la
vita viva delle vostre vite!». 4 il crinale: cfr. in questa antologia Litania, 101-102: «Genova mio pettorale. /
Mio falsetto. Crinale». 6-7 è finita / in piombo: «è stata scritta [composta con i caratteri di piombo]»; ma
nell'immagine vi anche è un'idea di pesantezza e oppressione. 8 rivibrare: cfr. Gozzano: Via del rifugio, In
morte di Giulio Verne, 5 («il Nautilo rivibri / e s’inabissi»), Farfalle, Della cavolaia, 24 («antenne rivibranti»)
e Macroglossa stellatarum, 22,122,132-133 («ali rivibranti», «in noi rivibra», «rivibra / la grande volontà
dell’Universo»), Poesie sparse , Ah! Difettivi sillogismi!, 41 («L’essenza che rivibra in noi»). 8-9 sulla punta
delle dita / che sui tasti mi dolgono: cfr. Poesie inedite, La neve chi la coloriva, 11-13: «nel suono / […] d'un
mandolino a tramontana / che le dita ferisce». 9-10 Oh […] oh: le interiezioni esclamative sono tipiche di
Caproni, dove interrompono spesso la trama grammaticale della frase: cfr. Il passaggio d’Enea, Le biciclette,
IV, 1-3: «E ahi rinnovate biciclette all'alba! / Ahi fughe con le ali! ahi la nutrita / spinta di giovinezza», Stanze
della funicolare, Versi, III, 8-9: «al sole / ahi quale orchestra», e Il passaggio d'Enea, Versi, II, 13-14: «oh le
leghe / lunghe»; cfr. anche Betocchi, Il tempo ci rapisce, 11-12: «siamo i profondi / cieli dell’esistenza, ahi
come intera». 9-10 il carbone / a Di Negro celeste: la salita verso la villetta del marchese Di Negro, presso
la zona portuale, dove si scaricava il carbone; cfr. Il passaggio d'Enea, Epilogo, 58-60: «dal carbone, / che già
azzurro di brina / brillava»; e Poesie disperse, Ai genitori, 6-8: «al fischio dei vapori / […] nella Villa / di
Negro». 13 col bandone: cfr. Il passaggio d’Enea, Stanze della funicolare, Versi, VI, 5-6 «sul bandone /
ondulato». 14 scosso [...] portone: cfr. Il passaggio d’Enea, All alone, Versi, 2, 12 «il colpo del portone»; e I
lamenti IV, 2-3 «Nel cupo colpo d’un portone / sbattuto».
Per lei voglio rime chiare, usuali: in -are. le tinte delle sue collanine. Rime che a distanza
Rime magari vietate, ma aperte: ventilate. (Annina era così schietta) conservino l’eleganza
Rime coi suoni fini povera, ma altrettanto netta. Rime che non siano
(di mare) dei suoi orecchini. O che abbiano, labili, anche se orecchiabili.
coralline, Rime non crepuscolari, ma verdi, elementari.
Per la madre il poeta decide di inaugurare una poesia nuova fatta di parole semplici, comprensibili,
musicate e limpide come lo sguardo e il sorriso di lei. Nelle strofe scandite di Per lei, Caproni fa rivivere la
madre Annina nella semplicità familiare dei suoi gesti e nella spontaneità dei suoi atteggiamenti. Per farlo si
affida a una vera e propria orchestra di parole. Innanzitutto alle rime in - ARE che richiamano all’idea di
sconfinata apertura e vastità con il loro timbro aperto. In questi suoni rivive la spontaneità gioiosa e la
socievolezza di Annina. In seguito l’uso reiterato della vocale - I rimanda al suono onomatopeico tintinnante
degli orecchini e delle collanine che la donna era solita indossare. Anche qui ritorna l’idea di infinità con il
riferimento al mare: Annina sembra essere una presenza incontenibile che, pure nella sua assenza, pervade
tutte le cose. Il suono dei suoi gesti rievoca l’immensa distesa marina, lo sciabordio delle onde, la vastità.
Segue l’uso della vocale - O che sembra tesa a suscitare un senso di meraviglia, spalancando la bocca in
un’espressione di stupore: “coralline”, “collanine”, “orecchiabili”.Le parole scelte dal poeta dunque non
trasmettono rassegnazione, ma vivacità, leggerezza e una ventata di vitalità. L’orchestrazione verbale di
Giorgio Caproni è perfetta: le rime non sono labili, ma destinate a durare e attraverso i loro suoni fini e
orecchiabili ricompongono il ritratto di una donna che ancora ci appare viva e sorridente attraverso il
tempo. Anziché scrivere un componimento sconsolato, dolente, intriso di nostalgia, Caproni ha scelto di
ridare vita alla madre immaginandola come se lei gli fosse ancora davanti, e ancora gli sorridesse. Non
poteva che scegliere per farlo “parole verdi, elementari”, intrise di purezza e genuinità. Per lei non è una
semplice poesia, è un canto eterno che si legge con le labbra dischiuse nel sorriso, è un sortilegio in versi
che ci restituisce ancora integra l’immagine di lei, Annina, che era così schietta.
Anima mia, fa’ in fretta. Ti presto la bicicletta, ma per uno guarda chi esce da ogni portone, e
corri. E con la gente (ti prego, sii prudente) non ti aspetta (mentre odora di pesce
fermare a parlare smettendo di pedalare. e di notte il selciato) la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.
Arriverai a Livorno vedrai, prima di giorno. Non ci
sarà nessuno ancora, ma uno
Io so che non potrà tardare oltre quel primo ho scordato il portone)
albeggiare. Pedala, vola. E bada
da un capo all’altro la via,
(un nulla potrebbe bastare) di non lasciarti sviare da Cors’Amedeo al Cisternone.
da un’altra, sulla stessa strada.
Mandare l’anima in congedo significa che la poesia successiva non ha più un interlocutore. Qui è come se
raccomandasse ancora, ma tutto è stato già narrato, la leggenda è finita. Terzultima strofa: non c’è più
leggerezza, piombo. Qui il pianto è inconsolabile. Il pianto è un piombo che fa affondare il cuore. Non c’è
più la leggerezza di Cavalcanti, è sparita. L’io, vecchio, non si riconosce più nell’anima, giovane. Pianto,
vecchiaia, rimorso: abbiamo perso la leggerezza di Cavalcanti. A questo punto l’anima può anche andarsene
in congedo.
Guido Gozzano
Guido Gozzano (1883-1916) è stato un poeta e scrittore italiano. Morto a soli 32 anni di tubercolosi
polmonare, è stato associato al post-decadentismo e al crepuscolarismo per la sua poesia intimistica,
attenta alle "buone cose di pessimo gusto". Tuttavia, Gozzano è esempio di quanto spesso sia complesso e
rischioso incastonare un autore in una corrente letteraria. La sua immagine riservata, aristocratica, gentile e
sorridente, mai sguaiata, entra in realtà in conflitto con alcuni episodi della sua vita, così come la sua
conformità al crepuscolarismo non parte dal rifiuto di D’Annunzio, ma da una sua iniziale imitazione e dal
suo consapevole superamento successivo, dovuto in parte alla scoperta di Pascoli.
La triste e precoce consapevolezza della propria morte trapela molto presto nelle poesie di Gozzano, ma è
sempre filtrata con distacco ironico. Con questa certezza dolorosa, unita al senso della malattia e alle
delusioni amorose è costretto a scontrarsi un altro elemento tipico della produzione del poeta: il suo
romantico desiderio di amore e felicità, raggiungibili nelle "cose piccole", quotidiane e serene.
La sua poesia scorre così costantemente su un doppio binario in cui aulico e prosastico si intrecciano,
"facendo scintille" (come dirà Montale). Per i temi trattati Gozzano è stato assimilato alla poetica
crepuscolare, intessuta di piccolo e quotidiano e caratterizzata dall’impossibilità di vivere una vita attiva e
dalla necessità di allontanarsi dalla società. Pur condividendo questi elementi, la poesia di Gozzano si
differenzia dalla produzione crepuscolare per il tono sempre ironico e distaccato.
Il rifiuto dell’altisonante poetica dannunziana, altro elemento crepuscolare tipico, in Gozzano viene
piuttosto visto come segno di un superamento e di una rielaborazione del modello sublime, senza rifiutarlo
a priori. La sua prima raccolta, che riunisce una selezione attenta dei componimenti precedenti, viene
pubblicata nel 1907 e si intitola La via del rifugio. Qui il poeta, di salute cagionevole, dichiara che - con una
"posa" dandy, caratteristica tipicamente gozzaniana - l’unico rifugio possibile è la letteratura.
I colloqui (1911) è la seconda, e più importante e celebre, raccolta di poesie di Guido Gozzano (1883-1916),
l’opera che lo consacrò al pubblico ed al panorama letterario italiano dell’epoca.
mi piange nel cuore disfatto la voce: «Che male t’ho fatto o Guido per farmi così?»
“Un rimorso” porta la data del 16 marzo 1907. I portici di Palazzo Madama, in Piazza Castello sono un punto
di incontro per i torinesi: “Un piacevole luogo di convegno solitario, ben difeso dalla pioggia, dal sole, dalla
curiosità. Sotto la mole vasta, passeggiando dall’androne medioevale al porticato settecentesco si può
attendere una signora – mamma, sorella, amica, amante – e la mezz’ora di ritardo che ogni donna si crede
serenamente in diritto di prelevare sulla pazienza maschile, è meno grave che altrove” ironizza lo stesso
Gozzano nell’«Altare del passato». Transitandovi, ricorda una donna da lui amata – con l’amore inaridito di
cui è in grado – somigliante a Emma Gramatica, attrice di prosa molto in voga allora. Nulla accadde, nulla è
delineato: solo quella passeggiata in cui la donna si lamenta del male che il poeta, per questa sua incapacità
di amare, le ha fatto. Resta di lei quel rimorso, un segno vivo e pungente nello sterile sentimento, una
consapevolezza di essere ancora in grado di soffrire.
Le due strade (La via del rifugio, 1907; poi, con numerose varianti, ne I colloqui da cui si cita; lettura e
commento).
Schema metrico: Distici di doppi settenari a rima interna (a)B(b)A, sul modello dei versi martelliani del
melodramma (dramma per musica), a loro volta derivanti dall’alessandrino francese. Per evitare il rischio di
estrema ripetitività che questo schema comporta (lo avvertirete dalla lettura di alcuni passaggi), Gozzano
ricorre a una serie di tecniche di variatio: la prima, e più ovvia, è la non coincidenza metrico sintattica, cioè
l’enjambement fra i due versi del distico e soprattutto la caduta della cesura di metà verso (il punto che
separa i due settenari) nel mezzo di un sintagma, che viene così separato.
Ci venne incontro: scese: «Signora: sono Grazia!» Ed io godevo, senza parlare, con l’aroma degli
Sorrise nella grazia dell’abito scozzese. abeti l’aroma di quell’adolescenza.
«Tu? Grazia? la bambina?» – «Mi riconosce – O via della salute, o vergine apparita, o via tutta
ancora?» fiorita di gioie non mietute,
«Ma certo!» E la Signora baciò la Signorina.
forse la buona via saresti al mio passaggio, un
dolce beveraggio alla malinconia!
«La bimba Graziella! Diciott’anni? Di già? La
mamma come sta? E ti sei fatta bella! O bimba nelle palme tu chiudi la mia sorte;
discendere alla Morte come per rive calme,
La bimba Graziella: così cattiva e ingorda!...»
«Signora, si ricorda quelli anni?» – «E così bella discendere al Niente pel mio sentiere umano, ma
avere te per mano, o dolcesorridente!
Così dicevo senza parola. E l’altra intanto vedevo:
vai senza cavalieri in bicicletta? ...» – «Vede...» triste accanto a quell’adolescenza!
«Ci segui un tratto a piede?» – «Signora,
volentieri...» Da troppo tempo bella, non più bella tra poco
colei che vide al gioco la bimba Graziella.
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco, «Verrò, Signora; grazie!» Dalle mie mani, in
colei che vide al gioco la bimba Graziella fretta, tolse la bicicletta. E non mi disse grazie.
– O mio cuore che valse la luce mattutina Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio; la
raggiante sulla china tutte le strade false? macchina il fruscìo ebbe d’un piede scalzo,
Cuore che non fioristi, è vano che t’affretti verso d’un batter d’ali ignote, come seguita a lato da un
miraggi schietti in orti meno tristi; non so che d’alato volgente con le rote.
tu senti che non giova all’uomo soffermarsi, Restammo alle sue spalle. La strada, come un
gettare i sogni sparsi per una vita nuova. nastro sottile d’alabastro, scendeva nella valle.
«Signora!... Arrivederla!...» gridò di lungi, ai venti.
Discenderai al Niente pel tuo sentiere umano e Di lungi ebbero i denti un balenio di perla.
non avrai per mano la dolcesorridente,
Tra la verzura folta disparve, apparve ancora.
ma l’altro beveraggio23 avrai fino alla morte: il Ancor s’udì: «... Signora!...» E fu l’ultima volta.
tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio.
Grazia è scomparsa. Vola – dove? – la bicicletta...
Queste pensavo cose, guidando nell’ascesa la «Amica, e non m’ha detta una parola sola!»
bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose.
Guido ed una attempata signora camminano in una strada alpina (“tra bande verdigialle di innumeri
ginestre”), quand’ecco che li raggiunge, su una bicicletta, una ragazza diciottenne, che è stata a balia dalla
vecchia. Mentre le due donne chiacchierano, Guido si gode la bellezza di sta gran figliola e non può fare a
meno di constatare che preferirebbe invecchiare (“discendere alla Morte come per rive calme”) con a
fianco la “dolcesorridente”, che di fatto si chiama Graziella (forse una premonizione sulle future e
diffusissime biciclette? Non lo sapremo mai), e non lo caga di striscio. Mentre segna sul suo taccuino
mentale tutti i pro e contro di un potenziale cambio di femmina, citando senza edulcorazioni i segni del
declino della vecchia con cui scampagnava, viene assalito dalla prepotente irruzione della realtà, e cioè “..e
non avrai per mano, la dolcesorridente”. Ergo, una volta capito che non c’è (né ci sarà) trippa per gatti, il
Guido attende che l’indifferenza verso di lui si sciolga, e, una volta interpellato dalla sua vecchia, la stupisce
con un ribaltamento di reazione emotiva, che levati.
L’amica di nonna Speranza (La via del rifugio, 1907; poi, con varianti, ne I colloqui, 1911, da cui si cita;
lettura e commento).
Schema metrico: distici di versi doppi otto/novenari, con frequente anisosillabismo (variazione della
lunghezza dei versi interni). Anche qui sono frequenti gli elementi di variatio, soprattutto l’uso di rime
insolite, come le rime interne in “tmesi”, quel fenomeno metrico-sintattico per cui una parola è
immaginariamente divisa in due parti (non vediamo segni grafici sul testo): e una conclude un verso, e
l’altra inizia quello successivo (vedremo un esempio). In questo componimento fa la sua comparsa (ma non
la incontreremo tra i passi scelti) anche una delle tante rime imperfette di Gozzano, la rima difficile (quasi
una rima per l’orecchio, di cui vedremo un esempio più chiaro nel componimento successivo) “deserte :
Werther”, che gioca sull’assonanza fra le due parole (contengono cioè le stesse vocali a cominciare da
quella accentata fino alla fine, mentre le consonanti sono diverse, ma per lo più di suono simile.
28 giugno 1850 pessimo gusto,
«... alla sua Speranza la sua Carlotta...»
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a
(dall’album: dedica d’una fotografia) damasco chèrmisi... rinasco, rinasco del mille
I ottocento cinquanta!
Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di
Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di […] V
pessimo gusto), Carlotta! nome non fine, ma dolce che come
l’essenze resusciti le diligenze, lo scialle, la
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza crinoline...
confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane
di vetro, Amica di Nonna, conosco le aiole per ove leggesti
i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo
cocco, pugno la data: ventotto di giugno del mille
ottocentocinquanta.
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo
scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti profondo e l’indice al labbro, secondo
d’anemoni arcaici, l’atteggiamento romantico.
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa,
per farti – novissima cosa! – ritrarre in
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità, fotografia...
Il punto di partenza è una vecchia fotografia, ritrovata in un polveroso album di famiglia. La foto porta la
data del 28 giugno 1850 e ha una dedica scritta di pugno da Carlotta, un'amica della nonna del poeta: la
nonna Speranza, appunto. A quell'epoca le due donne erano diciassettenni, appena uscite dal collegio.
Mentre gli adulti conversano del più e del meno, Speranza e Carlotta giocano al volano e intanto sfogliano
margherite per sortilegio sui teneri versi del Prati, scambiandosi confidenze segrete e le loro tenere pene
d'amore. Nasce da qui, nel poeta, il sogno, il desiderio di rinascere nel 1850. Con gli strumenti della poesia e
della memoria, egli ridà vita per un momento al salotto di nonna Speranza; qui inscena il dialogo tra le due
amiche adolescenti, come un sogno sempre sull'orlo di infrangersi.
La scena si ambienta in un interno borghese di mezzo secolo prima, con le sue suppelletti (le buone cose di
pessimo gusto), con le chiacchiere da salotto dei giorni della festa ecc.
Qui riprendono vita la mentalità, le abitudini, i protagonisti dell'età risorgimentale: Giuseppe Verdi con i
suoi melodrammi (sia tragici, sia comici: rispettivamente l'Ernani e il Rigoletto) e poi i poeti romantici,
stranieri (Goethe e Byron) e italiani (Foscolo, Prati).
Protagonista del componimento è Carlotta, l'amica di nonna Speranza: spirito sognante, ama un poeta, un
patriota amico di Mazzini e frequentatore del salotto della contessa Maffei. E' lui che le ha donato una
copia di I dolori del giovane Werther, il celebre romanzo di Goethe, la cui protagonista si chiama appunto
Carlotta. Tutto il fascino del personaggio di Carlotta sta nel suo magico universo di adolescente, accarezzato
nelle trepide atmosfere romantiche, dove il sole tramonta nell'oro e la luna nasce vestita d'argento.
Il poeta prova, insieme, attrazione e ripulsa per le buone cose di pessimo gusto. Gozzano sa che il suo sogno
è nulla più che un'illusione. Egli ridesta cose, volti, gesti che appartengono a un mondo ormai estinto. Tra
l'altro il mondo di oggetti del poemetto non vive di per sé, ma è osservato a partire da una fotografia, che
retrocede la realtà a fantasma del passato.
Il dagherottipo rende possibile una magica sospensione del presente, una fuga nel passato che si vela però
di ironia. La perplessità corrode il romantico mondo di Carlotta e Speranza; la conclusione (forse) rende
esplicita l'inconsistenza di questi esseri solo di carta, su cui pesa un inevitabile destino di morte e
cancellazione.
E' il messaggio finale del testo, al di là del suo trono teneramente svagato.
Sul piano stilistico, l'autore ricorre a un'originale poesia di tipo narrativo, che fa spazio sia alle battute di
dialogo sia alle descrizioni. Entrano nei versi anche squarci di prosa, di conversazione parlata.
I dialoghi riproducono le esitazioni, le banalità, le frasi lasciate in sospeso del parlare quotidiano (Ma bene...
ma bene... ma bene...; mah!). Espressioni colte e letterarie s'intrecciavano a voci tecniche e scientifiche e
alle forme dimesse del parlato d'ogni giorno. Su tutto aleggia l'ironia del poeta, viva specie nella terza parte
(quella centrale) del poemetto. Gozzano parodizza le banalità della chiacchiere da salotto, in cui si
mescolano la cronaca mondana, accenni politici, pettegolezzi di moda. L'ironia è, del resto, una delle grandi
armi di Gozzano per respingere la tentazione della nostalgia o del patetismo.
La stessa adozione, sul piano metrico, di un ritmo da ballata romantica, da romanza in versi di sapore
ottocentesco, è una scelta che conferma l'ironia gozzaniana.
– la donna fatale chiede all’uomo di dimostrarle tutto il proprio coraggio, per amore;
– in questo caso, però, l’uomo acconsente solo inizialmente;
– alla fine la lascia sola a volteggiare sul ghiacciò pericolante per un po;
– Il desiderio di vivere prevale («la voluttà di vivere infinita»);
– le si accompagna il pensiero della morte, intravista nella propria immagine riflessa nel ghiaccio;
Alla fine la donna colpisce con una stilettata il compagno, «sibilando: vile!»;
– questo aggettivo ha ancora funzione antidannunziana:
– è il polemico rifiuto di Gozzano di far indossare al proprio protagonista la maschera del superuomo;
Un aspetto importante è quello fonico:
– l’onomatopea Dantesca, rallentata dai puntini di sospensione, occupa tutto il primo emistichio del
verso, ed è ripresa da «l’incrinatura»;
– la stessa onomatopea si ripete tre volte (vv. 17-18, 24) in una climax, collocata in posizione finale
dei versi: «più tetro», «più sordo», «più forte»;
– nella terza strofa ci sono delle rime petrose: spetro/tetro, accordo/sordo;
– Queste parole convergono tutte verso la parola «Morte», e ciò esaspera il contrasto al centro della
poesia, cioè quello tra:
– l’atmosfera «gaietta» e spensierata della brigata giovanile;
– lo spettro della morte, che si manifesta nell’immagine del poeta riflessa nel ghiaccio.
Eugenio Montale
Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 da una famiglia della media borghesia. Si accosta alla poesia
relativamente tardi, intorno ai vent’anni, dopo aver conseguito il diploma di ragioniere. Tornato a Genova
dopo la guerra, frequenta gli ambienti letterari e conosce fra gli altri Italo Svevo, di cui apprezza lo stile. Nel
1925 pubblica il suo primo libro di versi, “Ossi di seppia”, e si trasferisce a Firenze, dove collabora a
importanti riviste letterarie e conosce la sua futura moglie Drusilla Tanzi. Nel 1929 è nominato direttore del
Gabinetto scientifico-letterario Visseux di Firenze, incarico che terrà fino al 1938. La sua seconda raccolta,
pubblicata nel 1939 col titolo “Le occasioni”, lo conferma un’importante esponente della nuova poesia
italiana. Dopo la guerra, Montale si dedica al giornalismo, collaborando al Corriere della Sera. Nel 1956
pubblica “La bufera e altro” e le prose di “Farfalla di Dinard ”. Nel 1975 riceve il premio Nobel per la
letteratura. Muore a Milano nel 1981.
Quella di Eugenio Montale è una figura emblematica della letteratura italiana del Novecento, così come lo
sono la sua poetica e il suo pensiero. Spesso erroneamente presentato come esponente dell’ermetismo,
Montale ne prese pubblicamente le distanze e la sua poesia, che pur può condividere con l’ermetismo
alcune caratteristiche, non è del tutto riconducibile al movimento letterario. La poesia per Montale è in
realtà uno strumento che egli stesso utilizza per effettuare una vera e propria indagine sull’esistenza
dell’uomo nella società contemporanea, sempre alla ricerca di qualcosa che non è conoscibile. La sua
poesia non ha quindi un ruolo di elevazione spirituale: il poeta non ha a disposizione una verità da fornire
all’uomo, gli spetta solo il compito di dire "ciò che non siamo" (come scrive in Non chiederci la parola).
Questo accade perché in fondo l’uomo del Novecento è dilaniato dai fatti e dagli accadimenti storici:
Montale nei suoi scritti apre alla riflessione sull’uomo moderno, a cui è difficile dare un’identità. L’individuo,
ormai scisso dal mondo, è vittima di una solitudine e di una frustrazione esistenziali e dominato dal male di
vivere (Spesso il male di vivere ho incontrato)
A questo male, il poeta, in quanto uomo, non può avere una soluzione (il poeta di Montale è ben diverso
dal poeta-vate dannunziano). Tuttavia, la poesia è strumento di indagine: esiste qualcosa di altro e
irraggiungibile, che pure ogni tanto riesce a schiudersi, a essere visto da lontano — il mare o i limoni di Ossi
di seppia, Clizia nelle Occasioni sono alcuni lampi di salvezza, i miracoli che schiudono il senso reale
dell’esistenza. La poesia è inoltre per l’autore un’espressione della ricerca di dignità, un modo per
comunicare fra gli uomini. Le sue opere sono caratterizzate da un’esigenza di moralità (da non confondere
con le intenzioni moralistiche): fragilità, incompiutezza e debolezza fanno parte dell’essere umano. Da
questa consapevolezza deriva la sfiducia generalizzata verso "leggi immutabili e fisse", siano esse
filosofiche, religiose o ideologiche.
Fondamentali nella sua produzione poetica sono i simboli. Montale sfrutta il correlativo oggettivo teorizzato
da T.S. Eliot nel saggio Il bosco sacro: i dati sensibili della realtà diventano testimonianza materiale di una
condizione esistenziale. Gli oggetti che compaiono, più o meno ricorrentemente, nelle sue raccolte sono
simboli della condizione umana: lo sono, in negativo, il muro che chiude Meriggiare pallido e assorto o il
rivo strozzato che apre Spesso il male di vivere ho incontrato, ma anche, in positivo, i limoni de I limoni.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato e l’ombra sua non cura che la canicola stampa
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco sopra uno scalcinato muro!
lo dichiari e risplenda come un croco perduto in Non domandarci la formula che mondi possa
mezzo a un polveroso prato. [aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un
Ah l’uomo che se ne va sicuro agli altri ed a se ramo.
stesso amico, Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
“Non chiederci la parola” è uno dei componimenti più significativi della produzione poetica di Eugenio
Montale e anche uno dei più conosciuti. Scritto nel 1923 e inserito nella raccolta Ossi di seppia, il testo è
incentrato su uno dei capisaldi della poetica montaliana, ovvero quello che concerne il compito del poeta e
il ruolo della poesia nella società. Impossibilitata a dare certezze, nel periodo convulso e carico di presagi
negativi di inizio XX secolo, in cui tanti antichi valori e ideali crollano, essa può solo limitarsi a raccontare la
realtà. Spogliata di qualsiasi funzione salvifica, alla poesia non resta che il compito di mettere nero su
bianco ciò che l’uomo non è e non vuole. Non chiederci la parola è, essenzialmente, un’enunciazione di
poetica, una dichiarazione su come l’autore intendeva il ruolo del poeta e della poesia nella società a lui
coeva.
Con ferma lucidità e profonda convinzione, Montale afferma che non è più tempo di grandi verità svelate,
di formule certe e di messaggi edificanti, ma solo di "qualche storta sillaba e secca come un ramo", uno dei
versi più esplicativi e illuminanti dell’incrollabile e assoluto male di vivere che ne pervade l’animo e, di
conseguenza, la produzione letteraria. La poesia non ha, per lui, alcuna funzione salvifica o consolatoria,
potendo solo limitarsi a constatare la realtà che ci circonda. Questa consapevolezza negativa supera in
pessimismo persino Giacomo Leopardi, che pure nella poesia vedeva quel "fiore del deserto", come
chiaramente espresso ne La ginestra, capace di rischiarare l’animo e proteggere dalle brutture del mondo.
Qual è il compito del poeta per Montale? Cosa resta da fare dunque, al poeta moderno? Qual è il suo
compito? Non più vate e dissipatore di dubbi attraverso la capacità di saper affermare grandi verità, egli
ormai può solo definire una condizione negativa dell’esistenza e della volontà. Montale ammette di non
avere certezze di alcun genere, né politiche né religiose, sente forte il senso di precarietà della condizione
umana e avverte come qualcosa di totalmente estraneo da sé l’atteggiamento opposto di chi,
probabilmente troppo rozzo e superficiale per rendersene conto, è privo di inquietudini e smarrimenti.
Non chiederci la parola è un testo di notevole suggestione, un manifesto di poetica che non riguarda solo
l’autore ma un’intera generazione di poeti, precisamente quella a cavallo delle due guerre mondiali,
consapevole della povertà di ideali e dei pericoli insiti in un’epoca che, di lì a poco, sarebbe sfociata in
eventi altamente drammatici.
Non chiederci la parola si compone di tre quartine di versi di diversa lunghezza variamente rimati.
Numerose sono le figure retoriche: apostrofe (l’iniziale Non chiederci) metafore (lettere di fuoco, polveroso
prato, scalcinato muro) similitudini (risplenda come un croco e secca come un ramo) antitesi (squadri e
informe, croco e ramo) diverse allitterazioni (della r, della p e della s)
anafora (il non che si ripete ai versi 1 e 9) diversi enjambement - l’ultimo verso "Codesto solo oggi possiamo
dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" è un epifonema, ovvero un motto sentenzioso che in genere
si usa per chiudere un discorso in modo piuttosto enfatico. Per quanto riguarda lo stile, il verso scarno e
arido dà al componimento un andamento quasi prosastico.
Forse un mattino andando in un’aria di vetro, Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il alberi case colli per l’inganno consueto.
nulla alle mie spalle, il vuoto dietro Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
di me, con un terrore di ubriaco. tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Questa poesia, scritta nel luglio 1923, appartiene agli “Ossi di seppia”. Anche qui il tema fondamentale è il
male di vivere, che ricorre come aspetto centrale nel primo libro di Montale. In questo caso però troviamo
la tematica del miracolo, cioè della rivelazione del nulla dietro alla fenomenologia del reale. Il poeta viene
ispirato proprio da questa epifania negativa, anche se a tutto ciò non succede un lamento e un’elegiaca
tristezza, ma un attestato di accettazione, virile e solitaria, della propria condizione esistenziale di essere
sofferente nell'universo.
Per quanto riguarda le figure retoriche, si noti la sinestesia presente ai vv. 1-2 (aria di vetro, / arida): il
«terrore di ubriaco» è una metafora per indicare il disorientamento provocato dalla rivelazione del vuoto
del reale mentre al v. 5 la similitudine «come s’uno schermo s’accamperanno» rimanda all’ambito
cinematografico; al v. 6 l’asindeto privo di punteggiatura («alberi case colli») dà il senso di una realtà che si
ripropone in maniera rapida e casuale. L’intero testo è caratterizzato dall’allitterazione della /r/. Si
segnalano inoltre due enjambement (vv. 3-4, 6-7).
Tu non ricordi la casa dei doganieri (A) sul rialzo a Libeccio sferza da anni le vecchie mura (D) e il
strapiombo sulla scogliera: (B) desolata t’attende suono del tuo riso non è più lieto: (C)
dalla sera (B) la bussola va impazzita all’avventura (D) e il
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri (A) e vi calcolo dei dadi più non torna. (E)
sostò irrequieto. (c)
Tu non ricordi; altro tempo frastorna (E) la tua
memoria; un filo s’addipana. (F) Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende (I) rara la
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana (F) la luce della petroliera! (B)
casa e in cima al tetto la banderuola (G) Il varco è qui? (Ripullula il frangente (I) ancora
affumicata gira senza pietà. (H) sulla balza che scoscende…) (I) Tu non ricordi la
Ne tengo un capo; ma tu resti sola (G) né qui casa di questa (H)
respiri nell’oscurità. (H) mia sera. Ed io non so chi va e chi resta. (H)
La casa dei doganieri è la più perfetta rappresentazione della memoria: un cronotopo, un luogo del ricordo,
in cui tempo e spazio si fondono in un’unica entità. La poesia fu scritta da Eugenio Montale nel 1930 e
pubblicata per la prima volta sul periodico Italia letteraria. Costituisce il nucleo primigenio della raccolta Le
occasioni (Torino, Einaudi, 1939) e contiene una domanda centrale, imprescindibile per comprendere
l’intera produzione poetica montaliana.
La casa dei doganieri sembra muoversi al contempo su due piani temporali: il passato e il presente. Questa
dimora desolata, abbarbicata sulla scogliera ligure sferzata dalle potenti raffiche di libeccio, li contiene
entrambi tra le sue mura. A scandire i versi della poesia è non a caso la parola “ricordi”, come un ultimo
soffio della memoria, un alito di vento che già se ne va.
Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione Il 20 Novembre 1967 Montale mette in poesia il
[di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni senso di smarrimento e di mancanza provato per
gradino. la perdita della moglie, Drusilla Tanzi,
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. affettuosamente soprannominata Mosca,
Il mio dura tutt’ora, né più mi occorrono le deceduta nel 1963. La poesia fa parte della
coincidenze, le prenotazioni, sezione Xenia II della raccolta Satura che esce
le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia dopo un periodo di quasi completo silenzio
quella che si vede. poetico e che segna una nuova stagione della
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio. poetica montaliana. Gli Xenia: Xenia I e Xenia II,
Non già perché con quattr’occhi forse si vede di raccolgono 28 brevi componimenti poetici, tutti
più. dedicati alla moglie morta. Xenia è un termine
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due latino che indica i doni inviati ad un amico che è
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, stato nostro ospite; in questo caso allude al dono
erano le tue. mandato dal poeta alla donna che era stata
“ospite” della sua vita.
Il poeta si rivolge alla moglie e ricorda che insieme hanno sceso, nel viaggio della vita, milioni di scale e le
confessa che ora che lei non c’è più la sensazione di vuoto e lo sgomento lo pervade nel continuare la
propria vita senza di lei. Ora la vita del poeta continua e le incombenze pratiche, le prenotazioni, le
coincidenze, le insidie e gli smacchi, perdono importanza perché legate ad una realtà che si esaurisce nel
mondo visibile.
Scendere le scale dandosi il braccio significa imparare per il poeta a cogliere la vera arte di vedere
trasmessa dalla moglie che tra loro due era quella che, nonostante la vista miope, non si arrestava alla
superficie della realtà visibile ma guardava in profondità sotto di essa. E’ una poesia d’amore in cui il poeta
vive una condizione di infelicità in quanto è venuta a mancare la moglie alla quale il poeta vuole rendere un
omaggio postumo rivolgendosi direttamente ad ella con delicata affettuosità, in una conversazione
funebre.
Nelle raccolte precedenti di Montale la figura della moglie era stata quasi completamente assente dalla sua
poesia; le muse ispiratrici erano state altre donne della sua vita.
La poesia è strutturata in due strofe: Nella prima strofa Montale inizia la poesia ricordando il percorrere
insieme alla moglie le scale, metafora della vita vissuta insieme, in cui la direzione discendente è
significativa del carattere anti-eroico del viaggio intrapreso. La prima strofa si chiude quindi sulla tematica
della vuota inconsistenza di quel reale fatto di consuetudini (“le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli
scorni”). Nella seconda strofa il poeta ribadisce, in maniera simmetrica con il primo verso della poesia, il
concetto della lunga durata della vita vissuta insieme, in reciproco sostegno, rivelando nei versi conclusivi
(10-12), con effetto di sorpresa, la superiore capacità della moglie di penetrare la realtà rispetto al poeta, di
vedere oltre le apparenze e quindi di essere lei, nella coppia, a rappresentare la vera guida nel loro lungo
viaggio. Con la morte della moglie, il sostegno e la guida della vita di Montale vengono a mancare perché
egli riconosce nella moglie, e nella donna in generale, la vera capacità di cogliere ciò che sta al di là della
realtà ordinaria. Emerge la tematica dello sguardo della donna amata che risale allo stilnovismo ed a
Petrarca (sguardo della donna-angelo) e che Montale più volte ha già affrontato nelle sue liriche
precedenti, appartenenti a raccolte come le Occasioni e la Bufera ed altro. Lo sguardo di Mosca, pur
offuscato dalla miopia, guida il poeta alla scoperta di una realtà che va al di là del visibile che porta, a
percepire ed accettare la nullità dell’esistenza. Questa capacità di vedere oltre, questa chiaroveggenza che
Montale attribuisce alle donne differisce in Mosca rispetto a quella riscontrata in Clizia, altra donna amata
da Montale e cantata nelle precedenti liriche. Per Mosca si tratta di una saggezza più modesta e umile,
dettata dall’istinto, quasi innata rispetto a quella intellettuale, cerebrale e spirituale di Clizia.
Umberto Saba
Umberto Saba, nome di penna di Umberto Poli, nasce a Trieste nel 1883 dal matrimonio tra Felicita Rachele
Cohen, di confessione ebraica, e Edoardo Poli. Nonostante le nozze tra i due si fossero svolte nel 1882, già
al momento della nascita del piccolo Umberto, l’anno successivo, il padre si dilegua, abbandonando moglie
e nascituro. Sicuramente la scelta del Poli d’ignorare le sue responsabilità di marito e di padre ha
contribuito a far sì che Umberto scegliesse sin da subito uno pseudonimo per firmare il proprio lavoro,
rigettando il cognome paterno: il termine saba in ebraico significa "nonno". Inoltre la balia adorata da
Umberto, con cui il poeta trascorse i primi tre anni della sua vita e che egli considerava come una madre, si
chiamava Peppa Sabaz.
La poesia di Umberto Saba è fortemente autobiografica. Il poeta parte sempre da un dato dalla sua vita, ma
ciò non significa che abbia un carattere individualista o astratto. Piuttosto, la parola poetica si confronta
sempre con la realtà concreta. Nei suoi componimenti ritornano le abitudini quotidiane, Trieste e i luoghi in
cui ha vissuto, le persone della sua vita (la moglie, la figlia) e anche gli animali. La voce del poeta ha un
ruolo centrale in questo universo, portando le cose al livello di simboli di una condizione esistenziale.
L’essenza dell’umanità corrisponde infatti alla ripetizione di esperienze già vissute nel passato, non solo
dallo stesso soggetto, ma da tutti gli esseri umani in forme archetipiche.
Saba ricorre a una lingua che mescola quella quotidiana con quella letteraria proveniente dalla tradizione,
mantenendosi sempre chiara e semplice. È distante invece dall’oscurità e dalla difficoltà proprie
dell’ermetismo. Al contrario, la struttura sintattica è ben definita e la parola non allude o evoca, ma indica
con precisione le cose. Dal punto di vista metrico, Saba visse isolato rispetto agli ambienti culturali
dell’epoca e anche la sua poesia è estranea alle sperimentazioni del periodo. La sua poetica è stata infatti
definita antinovecentista, perché rifiuta le innovazioni più estreme della poesia del Novecento. Ricorre
piuttosto alle forme del passato, usa una metrica regolare e i versi hanno una rima. Anche la sua poesia,
comunque, conosce delle evoluzioni. Mantenendosi sempre fedele alle caratteristiche di fondo, Saba adotta
anche il verso libero ungarettiano oppure uno stile polifonico, che aggiungono drammatizzazione ai suoi
versi. Negli ultimi anni, il ricordo e la memoria lo portano inoltre a toni evocativi, che però danno sempre
voce a un bisogno di conoscenza e partecipazione.
La semplicità dello stile non deve indurre a pensare che Saba ignori la complessità e l’ambiguità
dell’esistenza. Al contrario, non si ferma mai agli aspetti superficiali del reale, ma scava verso i sensi
nascosti delle cose. Saba non si ferma neanche quando incontra gli aspetti negativi, sgradevoli e violenti
della realtà. Influenzato dai grandi filosofi pessimisti della contemporaneità, e in particolare il Nietzsche
attento osservatore dell’animo umano. Inoltre, se da un lato i versi di Saba sono un tentativo di superare
l’individualismo, dall’altro c’è sempre, parallela, la ricerca di un luogo in cui isolarsi. Anche l’apertura delle
sue poesia conserva quindi traccia dell’angoscia e della solitudine. Il desiderio di tuffarsi nella collettività è
un preludio per l’esclusione dell’individuo. Ma l’ambiguità riguarda anche altri aspetti. La gioia, per esempio
per un amore, può essere seguita dall’angoscia e dal dolore. Allo stesso tempo, la solidarietà rappresenta
una via di fuga dall’orrore dell’esistenza. Gioia e dolore, in ultima analisi, sono gli elementi che
costituiscono l’essenza della realtà e della vita collettiva. La poesia di Saba parla quindi di una «serena
disperazione» e «della vita il doloroso amore».
Saba vede la poesia come una confessione, una risposta all’esigenza intima di raccontare e raccontarsi. La
stessa struttura del Canzoniere è aperta e ogni parte trova il suo significato nel tutto dell’opera. Il racconto
avviene per blocchi tematici, fasi della sua vita: ogni componimento non ha senso in sé, ma inserito nel
quadro complessivo. Da qui scaturisce anche la decisione di non eliminare dalla raccolta i brani meno
riusciti. La poesia non è infatti un’illuminazione o una rivelazione, ma sono pezzi di una confessione e anche
i componimenti meno riusciti rispondono a questa intima esigenza.
da Casa e campagna sezione de Il Canzoniere l'opera complessiva e più celebre di Saba che raccoglie ben
437 poesie scritte tra il 1900 e il 1954. L'idea di riunire l'intera produzione in un unico lavoro risale al 1913,
ma la prima edizione esce solo nel 1921. (1909-1910) A mia moglie
Schema metrico: sei strofe di complessivi 87 versi di varia misura, con ampia prevalenza di settenari. Le
rime, fittissime, sono liberamente disposte, non seguono cioè uno schema fisso come erano quelli
incontrati in Gozzano (ad esempio rima baciata, rima incrociata, rima alternata). Le strofe si aprono tutte
anaforicamente con una similitudine basata su un animale (Tu sei come…), con un richiamo al Cantico dei
cantici, secondo Giancarlo Pontiggia («Alla puledra del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia»). Le
iterazioni proseguono all’interno di ciascuna strofa, come in una preghiera (lo stesso Saba ha parlato di
«poesia religiosa», in Storia e cronistoria del Canzoniere). Il primo verso di ciascuna strofa, tranne la terza,
termina con parola sdrucciola, accentata cioè sulla terzultima sillaba.
Proveniente dalla raccolta Poesie, il testo entra nella sezione Casa e campagna della prima edizione del
Canzoniere. È nota l’importanza attribuita da Saba a questa lirica: «Se di questo poeta si dovesse
conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa. […] La poesia fa pensare […] ad un improvviso
ritorno all’infanzia. […] Il poeta, come il fanciullo, ama gli animali, che […] ben più degli uomini […]
avvicinano a Dio».
la sua carne.
Tu sei come una giovane, una bianca pollastra. Se l’incontri e muggire l’odi, tanto è quel suono
Le si arruffano al vento le piume, il collo china per lamentoso, che l’erba
bere, e in terra raspa; strappi, per farle un dono.
ma, nell’andare, ha il lento tuo passo di regina, È così che il mio dono
ed incede sull’erba pettoruta e superba. t’offro quando sei triste.
È migliore del maschio.
È come sono tutte le femmine di tutti i sereni
animali Tu sei come una lunga cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi, e ferocia nel cuore.
che avvicinano a Dio. Ai tuoi piedi una santa sembra, che d’un fervore
Così se l’occhio, se il giudizio mio indomabile arda,
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali, e in e così ti riguarda
nessun’altra donna.
Quando la sera assonna le gallinelle, come il suo Dio e Signore. Quando in casa o per
mettono voci che ricordan quelle, dolcissime, via segue, a chi solo tenti avvicinarsi, i denti
onde a volte dei tuoi mali ti quereli, e non sai candidissimi scopre.
che la tua voce ha la soave e triste musica dei Ed il suo amore soffre di gelosia.
pollai.
Tu sei come la pavida coniglia. Entro l’angusta
Tu sei come una gravida giovenca; gabbia ritta al vederti s’alza,
libera ancora e senza gravezza, anzi festosa; che, e verso te gli orecchi alti protende e fermi;
se la lisci, il collo volge, ove tinge un rosa tenero che la crusca e i radicchi tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia, cerca gli angoli bui. questo che a me, che mi sentiva ed era vecchio,
Chi potrebbe quel cibo ritoglierle? chi il pelo che annunciavi un’altra primavera.
si strappa di dosso, per aggiungerlo al nido dove
poi partorire? Tu sei come la provvida formica. Di lei, quando
Chi mai farti soffrire? escono alla campagna, parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia ti ritrovo, ed in tutte le
Tu sei come la rondine che torna in primavera. femmine di tutti
Ma in autunno riparte; e tu non hai quest’arte. i sereni animali
Tu questo hai della rondine: le movenze leggere; che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna
A mia moglie è un testo poetico contenuto nella sezione Casa e campagna all’interno della prima edizione
del Canzoniere di Umberto Saba, apparsa nel 1921. La lirica fu pubblicata per la prima volta nella prima
raccolta di Saba (1911), intitolata Poesie. Sin dalla sua opera prima è possibile definire alcuni caratteri
peculiari della poetica sabiana: la scelta di una parola «onesta»¹, veicolata da un linguaggio piano e di
immediata comunicatività; il riutilizzo di forme metriche tradizionali; le tematiche degli affetti, della vita
quotidiana, dell’intimità e dei sentimenti più semplici, descritti nei loro tratti più realistici. In Poesie è
particolarmente evidente la compresenza di toni aulici, frutto dell’eredità sette-ottocentesca e di scelte
consapevolmente “inattuali” (si pensi a Foscolo, Leopardi, Carducci, ma anche Heine)², insieme ad una
«celebrazione del quotidiano, nella sua dignità elementare…e nel suo naturale decoro»³.
La poesia A mia moglie, che è naturalmente dedicata alla moglie del poeta Lina, riprende nel contempo il
modello della canzone ottocentesca e la struttura di una preghiera, com’è stato evidenziato dallo stesso
Saba⁴. Il testo risulta infatti costituito da sei strofe di misura irregolare, accomunate fra loro da una fitta
rete di parallelismi metrici e sintattici nonché da frequenti figure di ripetizione (rime, assonanze, anafore,
allitterazioni, etc.). Questi elementi formali desunti dalla tradizione letteraria convivono con un lessico
prevalentemente umile e colloquiale e, soprattutto, con una trattazione decisamente rivoluzionaria della
tematica principale. Pur partendo da uno dei motivi tipici della lirica di tutti i tempi, quello dell’ode alla
donna amata, Saba lo presenta in una prospettiva completamente rovesciata: anziché mostrare una visione
idealizzata, sublime ed eterea del personaggio femminile (come avviene in molti classici della letteratura
italiana, dalla scuola siciliana allo stilnovo, da Dante a Petrarca), il poeta descrive la propria donna
attraverso una lunga serie di paragoni con il mondo animale. Ciascuna strofa, ad eccezione dell’ultima, è
dedicata ad un animale in particolare e si apre con l’anafora «Tu sei come…», che introduce una
similitudine fra l’animale e la moglie. Ciascuna similitudine viene poi approfondita mediante
un’argomentazione, spesso costituita da un elenco di azioni e attributi che immergono la figura femminile
nella dimensione umile e iperrealistica della campagna, dello spazio domestico e degli eventi minimi di ogni
giorno. Il fine è quello di svelare al lettore la presenza non di una creatura sublime ma di una persona vera,
con i suoi pregi e difetti, una persona che il poeta ama in tutta la sua concretezza terrena. Nella prima strofa
(vv. 1-24) la moglie è paragonata a una gallina poiché, sebbene chini il collo per bere e raspi il terreno per
nutrirsi, ha un passo lento e superbo, simile a quello di una regina. Per Saba tutti gli animali, e le femmine in
particolare, sono più vicine alle leggi segrete della natura rispetto agli uomini: non essendo costretti a
rispettare le convenzioni sociali, gli animali sono liberi di vivere secondo i propri istinti rivelando la verità al
fondo delle cose, secondo un principio vitalistico e panistico (=la compartecipazione di tutti gli esseri viventi
all’energia vitale della natura e l’identificazione della divinità con la natura) che rimanda al pensiero di
filosofi come Nietzsche e Schopenhauer. Inoltre le «gallinelle» – un diminutivo di ascendenza leopardiana⁵
– ricordano al poeta la moglie per via della «soave e triste/ musica dei pollai», paragonata agli sconsolati
lamenti della donna. Anziché menzionare il canto degli uccelli tradizionalmente “sublimi” come l’usignolo o
il passero, le cui melodie risuonano dagli alberi ispirando tanti poeti, Saba sceglie dunque un termine di
paragone insolito per evocare l’amata con una dolcezza tanto tangibile quanto sincera.
Nella seconda strofa (vv. 25-37) leggiamo la similitudine fra la donna e «una gravida/giovenca», dove il
lessico aulico e arcaico nobilita l’immagine della mucca incinta, simbolo di fertilità e di lussuria. La mucca,
libera e gioiosa nonostante la gravidanza, è fortemente ancorata alla dimensione fisica: viene descritta
attraverso dettagli come il collo, la «carne» di un rosa «tenero» e il muggito triste, coniugando diverse sfere
sensoriali (visiva, tattile e uditiva). Come nella strofa precedente, anche quest’altro suono lamentoso
rimanda al temperamento malinconico della donna, che il poeta cerca di consolare con regali affettuosi.
Nella terza strofa (vv. 38-52) il paragone è ancor più stupefacente: la moglie è assimilata a una cagna,
animale dalle connotazioni generalmente negative, associato alla sessualità e, secondo la morale cristiana,
alla seduzione demoniaca. Saba decide, al contrario, di focalizzare l’attenzione su quelle caratteristiche
peculiari che generano un legame inscindibile fra l’animale e il padrone o la padrona: la cagna è fedele,
dolce, gelosa fino alla possessività. La stessa Lina ha una cagnetta, che si allunga ai suoi piedi, la osserva
colma di tenerezza e la difende con tenacia alla sola vista di estranei. Qui la gelosia non è descritta con
rabbia, ma con empatia verso chi ama e soffre per un eccesso patologico di protezione; emergono quindi,
come in molti altri testi, la spiccata sensibilità psicologica e la tendenza all’introspezione di Saba.
Nella quarta strofa (vv.53.68) la donna è paragonata a una coniglia impaurita, un altro animale domestico
tipico della campagna, che dalla gabbia tende le orecchie in attesa di cibo e teme di continuo di restarne
priva o che le venga sottratto. La coniglia viene poi colta in un’immagine di estrema dolcezza, quando si
strappa il pelo di dosso per costruire una piccola tana in cui partorire e accogliere i propri cuccioli, per
tenerli al sicuro. Il riferimento al «nido», con forte connotazione intima e familiare come in Pascoli, pone
ulteriormente in evidenza le connotazioni materne dell’animale. La coniglia, come pure la mucca nella
seconda strofa, è moglie e madre nel contempo; la definizione di una tale figura lascia emergere ancora una
volta i più oscuri fantasmi psichici del poeta: il riferimento va al suo rapporto tormentato con la madre e
con la figura femminile in generale, alla sua frequente confusione (anche in età adulta) fra amore erotico e
amore materno, quindi al ruolo del freudiano complesso di Edipo nella sua vicenda biografica.
Nella quinta strofa (vv. 69-76), la più breve, l’animale al quale la moglie è paragonata è la rondine, annuncio
della primavera e simbolo del potere rigenerante della natura e, di conseguenza, della donna. La rondine è
però sfuggente, priva di un approdo stabile, ritorna in primavera per poi ripartire in autunno. D’altro canto,
la donna non solo ha portato una rinnovata gioventù nella vita del poeta ormai vecchio, ma, soprattutto, gli
ha fatto dono di un amore duraturo, che la investe agli occhi di Saba di un valore aggiunto.
La sesta e ultima strofa (vv. 77-87) è l’unica dedicata a due animali, la formica e l’ape, entrambi
appartenenti al regno degli insetti. La formica è simbolo di previdenza, dunque della tradizionale virtù
domestica di gestione della famiglia e della casa; non a caso è una nonna a parlarne a un bambino durante
una passeggiata in campagna. L’ape è invece simbolo di operosità e ingegno. Così si conclude, con
un’immersione finale nelle meraviglie del microscopico e del rasoterra, questo lungo percorso d’amore e
tenerezza attraverso il mondo animale: dagli insetti, con un improvviso movimento ascendente, si ritorna a
Dio, attraverso la ripresa in chiave quasi liturgica di un brano della prima strofa.
Come già accennato, in A mia moglie il lessico attesta una compresenza di termini umili e quotidiani (i nomi
degli animali e i luoghi tipici della campagna, lessemi come “pollai”, “erba”, “radicchi”) e termini
visibilmente aulici o arcaici (come “superba”, “fervore”, “pavida”). La sintassi è caratterizzata da un’ampia
presenza di iperbati e anastrofi, insieme a strutture frasali che creano parallelismi fra una strofa e l’altra. Da
un punto di vista metrico e ritmico, la catena fonica stabilita dalle frequenti figure di ripetizione genera
l’andamento cantabile tipico della preghiera, spezzato tuttavia dagli altrettanto frequenti enjambements,
instaurando quello che Sergio Solmi definì un «sottile duello tra ritmo e senso⁶».
Anastrofe Questa voce sentiva, v.9 – l’inversione tra verbo (sentiva) e complemento oggetto (questa voce)
mette in evidenza il termine voce e richiama il tema del dolore.
Chiasmo ha una voce…/…voce sentiva, vv.8-9 – verbo + sostantivo / sostantivo + verbo;
Metafora capra dal viso semita, v.11 – allusione al popolo ebraico.
La poesia Trieste di Umberto Saba, contenuta nella sezione Trieste e una donna del Canzoniere, quella che
raccoglie i testi composti tra il 1910 e il 1912, incarna il rapporto intenso e il legame inscindibile che l'autore
vive con la sua città natale, cui si sovrappone l'amore per Carolina Wölfler, che sposa Saba nel 1909 e che
verrà appunto trasfigurata nella "Lina" che ricorre in molte sue poesie.
Come spesso accade in Saba, lo spunto poetico deriva da un'occasione quotidiana, tradotta in versi in uno
stile apparentemente semplice e comunicativo, ma in realtà complesso e sfumato. Un passeggiata cittadina
attraverso Trieste(un po' come avveniva in Città vecchia) verso "un'erta" (v. 2) e un "cantuccio" (v. 5)
solitari, diventano - nel passaggio tra la prima e la seconda sezione della poesia - occasione per una vera e
propria dichiarazione d'amore. "Trieste" (termine collocato in posizione "forte", in apertura del v. 8) diventa
un elemento e un interlocutore dinamico nella poetica di Saba, che canta la sua città come se questa fosse
dotata di vita propria. La "scontrosa | grazia" triestina (vv. 8-9) è sottolineata dal netto enjambement, e la
personificazione prosegue nei versi successivi. Trieste (di cui il poeta, ai vv. 15-22, abbraccia con lo sguardo
tutte le parti e tutti i quartieri) diventa un "ragazzaccio aspro e vorace" (v. 10); l' "amore | con gelosia" tra il
poeta e la sua città è reso appunto dalla ricorrenza delle opposizioni (talvolta, nella forma di veri e propri
ossimori) presenti in questa seconda sezione. Ed anche nella Storia e cronistoria del Canzoniere Saba
preciserà che in questa lirica Trieste (e, dietro di lei, la figura di Lina) sono amate "per quello che hanno di
proprio e inconfondibile". Trieste diventa dunque sia musa ispiratrice dei versi sabiani che realtà a sé
stante, con cui il poeta arriva sottilmente ad identificarsi e in cui proiettarsi:
Oltre alla personificazione relativa alla città, le figure retoriche più rilevanti sono i numerosi enjambement
(si vedano i vv. 5-6; 8-9; 11-12; 15-16), il chiasmo al v. 3 («popolosa in principio, in là deserta»), il poliptoto
dei vv. 6-7 (termina / termini), l’ossimoro dei vv. 8-9 («scontrosa / grazia»), la similitudine al v. 10 («come
un ragazzaccio») e al v. 13 («come un amore»), l’anastrofe ai vv. 15-16 («Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua
via / scopro»), l’iperbato ai vv. 19-20 («Intorno / circola ad ogni cosa»), la ripetizione ai vv. 21-22 («un’aria…
un’aria…l’aria») e l’ipallage ai vv. 24-25 («alla mia vita / pensosa e schiva»).
Spesso, per ritornare alla mia casa prendo siede alla bottega
un’oscura via di città vecchia. del friggitore,
Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche la tumultuante giovane impazzita d’amore,
fanale, e affollata è la strada. sono tutte creature della vita e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui tra la gente che viene che va dall’osteria alla
casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il
detrito di un gran porto di mare, Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero
io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. farsi
Qui prostituta e marinaio, il vecchio che più puro dove più turpe è la via
bestemmia, la femmina che bega, il dragone che
Il poeta torna a casa percorrendo le vie più antiche e malfamate della sua città (Trieste), affollate di ogni
genere di persone, una umanità umile ma più libera e istintiva. In questi personaggi popolari, il vecchio, la
donna, il soldato e la ragazza pazza d'amore, vi è un’adesione più schietta alle pulsioni della vita, fatta di
bestemmie, litigi e scene di gelosia, manifestazioni che rappresentano per il poeta la purezza originaria
delle pulsioni, quella autenticità vitale che agita anche lui e dove egli sente il suo pensiero diventare più
puro e libero. Il tema fondamentale è la purezza degli uomini umili, che il poeta sente molto simili a lui
nell’approcciarsi alla vita in maniera autentica.
Città vecchia è una lirica scritta intorno al 1910, in pieno periodo dominato dall’estetismo dannunziano.
Città vecchia rappresenta un esempio di poesia bassa che si richiama alle cose di ogni giorno, le piccole cose
di Saba ed è quindi in netta contrapposizione con la concezione aristocratica e sublime della poesia, di cui
D’Annunzio è stato uno dei massimi rappresentanti.
La poesia, che per Saba è lo strumento attraverso cui il poeta esprime onestamente la verità che sta nelle
cose, non può che essere una poesia che si richiama ai valori elementari del vivere dati dalla naturalezza
istintiva con cui gli uomini semplici affrontano la vita, che solo il giudizio morale dell’ipocrisia borghese
giudica turpe. Saba si focalizza sulle piccole cose della quotidianità perché proprio quelle piccole cose
rivelano significati elevati e un’alta spiritualità. Nelle cose più umili si possono riconoscere le cose più
elevate: l’infinito e Dio, ma il riferimento a Dio non è da intendersi in Saba in senso religioso ma come
riferimento ad un livello profondo dell’esistenza e ad una intima spiritualità.
La poesia Città vecchia è carica di allusioni e di elementi oscuri. Poesia impressionista esprime tante
impressioni legate tra loro che rivelano una realtà e una riflessione esistenziale. L’impressionismo emerge
anche dagli aspetti cromatici della descrizione, dove l’oscura via viene illuminata dal giallo del lampione.
Il poeta descrive un’umanità di serie B, uomini appartenenti ai ceti sociali più bassi e umili ma è un’umanità
degradata che è libera dai freni inibitori di una borghesia ipocrita. Saba trova l’umanità nell’umiltà, gli umili
che popolano la vita turpe, che aderiscono alle pulsioni, hanno autenticità vitale ed egli si sente vicino a
loro perché come lui sentono la vita in maniera più libera e istintiva, in loro vi è la purezza originaria.
Saba descrive le strade di un quartiere popolare ed ambienta la poesia in una zona malfamata della città,
abitata da un’umanità umile ed emarginata, perché sente di avere in comune con le persone che la
popolano l’approccio libero e istintivo verso la vita che rende autentica l’esistenza.
Anafora Qui…qui…qui, vv.5-11-20 – la ripetizione dell’avverbio qui sottolinea la contrapposizione tra la città
vecchia rispetto ad altri luoghi dove le ipocrisie della società dominano sugli istinti. Dal punto di vista
ritmico dà un’intonazione cantilenante;
Anastrofe affollata è la strada, v.4 – sta per: la strada è affollata; s'agita in esse, come in me, il Signore, v.19
– sta per: il Signore si agita in esse; dove più turpe è la via, v.22 – sta per: dove la via è più turpe.
Iperbato Giallo in qualche pozzanghera si specchia / qualche fanale, vv.3-4 – l’aggettivo giallo molto
distaccato dal sostantivo fanale crea un’atmosfera di sospensione; Qui degli umili sento in compagnia / il
mio pensiero farsi / più puro, vv.20-21-22.
Metafora uomini il detrito / di un gran porto di mare, vv.7-8 – si riferisce al ceto sociale più basso.
Metonimia l’infinito nell’umiltà, vv.9-10 – sta per l’infinito negli umili, l’astratto (infinito) per il concreto
(persone umili).
Ossimoro l’infinito nell’umiltà, vv.9-10 – l’infinito contrasta con umiltà in quanto il primo rimanda ad una
cosa senza fine, indeterminata mentre il concetto di umiltà rimanda ad una cosa piccola e determinata;
il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via, vv.21-22 – aggettivi puro e turpe hanno significati
opposti.
Nella poesia, fortemente autobiografica, Saba racconta il primo incontro con il padre avvenuto attorno ai
vent’anni. Ugo Edoardo Poli, ricco commerciante veneziano di nobile famiglia, aveva infatti abbandonato la
moglie poco prima della nascita di Umberto.
Nel primo verso, dall’incipit folgorante, Saba definisce il padre come un’espressione che quasi trasuda odio:
“assassino”. Appare chiaro in seguito che quella definizione gli era stata ripetuta dalla madre durante tutta
la sua infanzia. La parola “assassino”, nel parlato popolare triestino può essere accostata anche a
malandrino o mascalzone, non designa realmente un criminale.
Il poeta dunque durante l’infanzia ebbe modo di conoscere la figura paterna solo attraverso i racconti della
madre che non erano certo lusinghieri. Agli occhi di Rachele Cohen, del resto, il marito doveva davvero
essere un assassino, colui che aveva ucciso impunemente tutti i suoi sogni di gioventù lasciandola sola con
la responsabilità di un figlio da crescere.
Il sonetto segue l’evoluzione del rapporto di Saba con la figura paterna dividendolo in tre momenti tra loro
successivi. Nell’infanzia il padre è l’“assassino” descritto dalla madre; in seguito, durante l’adolescenza, quel
padre ribelle divenne nell’immaginario di Umberto Saba un simbolo di libertà e, infine, una volta adulto il
poeta sembra perdonare al padre le sue colpe e riconoscersi persino in quel suo carattere indipendente e
irrequieto In particolare nella poesia l’autore sottolinea l’antitesi tra la figura materna e quella paterna: la
madre personifica l’autorità e l’intransigenza, colei che sente sulle sue spalle tutti i pesi della vita, mentre il
padre riflette la libertà e la leggerezza. Con una metafora calzante il poeta descrive il padre che sfugge dalle
mani della madre come un palloncino. Una volta cresciuto Saba incontra il padre e scopre che i racconti
pieni di rancore e odio che avevano costituito il ritornello costante della sua infanzia non corrispondevano a
verità.
Il ritratto negativo del padre, definito “assassino” nel primo verso, si scompone quindi a poco a poco
lasciando intravedere al lettore il volto di un essere umano. Saba parte dal particolare più evidente: gli
occhi azzurri che sono uguali ai suoi e nei quali sembra riconoscere “il dono” che il padre gli ha dato alla
nascita. In seguito l’analisi del poeta si fa più profonda e passa ad indagare l’animo del padre che è inquieto
ed errabondo, incapace di veri legami. Nella conclusione Saba addirittura si riflette nell’immagine del padre,
riconoscendo le similitudini tra i loro caratteri. Ricordando l’ammonimento più volte ripetuto dalla madre
“Non somigliare a tuo padre”, il poeta, ormai adulto e più esperto dei rapporti umani, conclude che i
genitori non avrebbero mai potuto essere felici insieme perché troppo diversi.
Li definisce “due razze in antica tenzone”, due razze inconciliabili, in perenne disaccordo. E riconosce che
quelle due personalità così opposte, della madre e del padre, sono le stesse pulsioni che lui sente agitarsi in
perenne conflitto dentro il suo cuore.
Nella poesia troviamo un’analisi matura e filosofica del rapporto padre-figlio, ma anche delle relazioni figli-
genitori. Una volta divenuto adulto il poeta sembra capace di riconoscere e perdonare alla madre e al padre
le rispettive colpe. Saba vede finalmente i genitori come esseri umani, con i propri pregi e le proprie
debolezze, ed è capace - con il distacco dato dall’esperienza delle cose della vita - di comprendere le ragioni
di entrambi. Quel padre demonizzato nell’infanzia, definito assassino, non è in fondo che un uomo
immaturo e forse mai cresciuto che non era pronto alla responsabilità di un figlio. Nella chiusa della poesia
Saba sembra perdonare il padre delle sue colpe e tentare, al contempo, una riappacificazione con se stesso
e la sua difficile infanzia.
In questa poesia Saba, una delle ultime poesie di PAROLE, ricorda la giovinezza della donna da lui amata e
ha un modo di pensare tenero verso di lei anche per i segni del tempo ancora presenti ed incisi sul suo
volto. Tempo che però, nel suo trascorrere inesorabile, avvicina sempre di più chi davvero si vuol bene e si
ama. Il poeta si sente entrato in una condizione esistenziale nuova, quella della vecchiaia, e quindi vede le
cose da un angolo diverso. Saba riprende il tema della fanciulla leggera e sensuale, ma scontrosa, e ricorre
ad una similitudine classica è pungevi come una mora di macchia�. Davanti al poeta non c’è più la
fanciulla ma una donna ancor più bella come la ragazza di un tempo; ma a causa del tempo trascorso con la
conseguenza di una vita più dolorosa, la donna non si difende dal poeta con le schermaglie di una volta che
gli creavano problemi. Adesso la donna sembra più vicina e più disponibile e Saba più dichiarare che le
stranezze della donna non gli fanno più paura. Si nota la riduzione del lessico, la semplificazione della
sintassi, la frammentazione del ritmo.
Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore,
la più antica difficile del mondo.
Contenuta nella sezione Mediterranee del Canzoniere, la breve lirica Amai è in effetti uno dei testi più noti
e più importanti dell'intera produzione dello scrittore triestino. La poesia può essere innanzitutto
considerata il manifesto poetico sabiano; l'autore, prendendo esplicitamente parola in prima persona nella
quartina di apertura, spiega in maniera consapevole il fine delle sue scelte poetiche. Le "trite parole” (e cioè
già utilizzate da molti, nel corso della tradizione poetica italiana) sono sia una scelta di stile che di
contenuto: la rima "fiore | amore" (vv. 2-3), è - come Saba affermerà anche nella sua raccolta di prose
Scorciatoie - la più banale cui si possa pensare, e per questo la più difficile da personalizzare e rendere
originale. Ed è proprio questa la sfida di Saba, che reagisce contro la continua ricerca di nuove tecniche
espressive, affermando come la vera scommessa sia quella di avvalersi della tradizione per esprimere
concetti e verità nuove.
La verità ("che giace al fondo", v. 5) è secondo l'autore il fine ultimo della poesia, unico mezzo di cui l'uomo
può avvalersi per scoprire i più reconditi segreti del cuore umano. E proprio questa verità deve essere
espressa dal poeta nel modo più semplice e immediato possibile, senza nascondersi dietro a tecnicismi e
scelte stilistiche eccessivamente sperimentalistiche. Con questa visione espressa chiaramente, Saba si pone
decisamente controcorrente rispetto alle tendenze poetiche a lui contemporanea.
Nell'ultima strofa - un distico - Saba compie il passaggio dal passato remoto “amai”, che caratterizza la
prima parte del componimento, al presente “amo”, creando un senso di continuità e di coerenza. Si così
rivolge al lettore, e gli esprime ammirazione e stima per il tentativo di appropriarsi della verità, spesso
dolorosa come l'amore.
I critici leggono in Amai una dichiarazione di poetica di Umberto Saba. Il componimento tuttavia può essere
anche letto come l’espressione più profonda del pensiero e della psicologia dell’autore.
In sole tre strofe Saba esprime gli ideali che hanno guidato tutta la sua vita: l’ostinata ricerca della verità e
la passione del cuore che si esprime attraverso gesti e parole semplici. In pochi versi esprime tutto l’amore
e il dolore che fanno parte dell’esistenza e si intrecciano ad essa in un connubio inscindibile. Saba parla
dell’affannata ricerca di consapevolezza dell’anima umana e del suo perenne struggimento.
Persino in quella rima banale “fiore/amore”, ritornello della sua poetica, l’autore riesce a condensare un
concetto dal valore inesprimibile: l’essenza della vita si esprime in quelle emozioni semplici, dal significato
individuale eppure collettivo, che accomunano tutta l’umanità.
figure retoriche
Anafora con polittoto: Amai...Amai ripetizione del verbo a breve distanza
Iperbole: Amai/M’incantò (vv.1-2)
Enjambement: scandisce il ritmo e l’andamento dei versi vv. 1-2, 3-4, 6-7, 9-10.
Metafora: che il dolore riscopre amica (vv. 6-7).
Personificazione: la verità (v.5) - il cuore (v.7).
Similitudine: come un sogno obliato (v.6)
Latinismo: l’uso del termine arcaico “obliato” per dire dimenticato (v.6)