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“In guerra si tratta di uccidere”: queste parole apparentemente ovvie di Elias Canetti sono forse le

più oneste e risolutive mai dette sull’argomento. Di questo tema - nel senso musicale del termine - il
libro presenta una serie di variazioni, senza aggiungervi nulla e senza illudersi di poterne dare uno
sviluppo conclusivo.
Si è voluto fermamente evitare la banalizzazione moralistica: siamo cattivi, violenti, portatori di
“aggressività”, siamo manipolati e ingannati dal potere... Così non riusciamo più a vedere quello
che c’è di follemente e assurdamente grande nella guerra.
La guerra è l’enorme illusione di poter vincere la morte, di poterla uccidere. E quest’illusione rende
forse più di ogni altra la misura tragica e abissale della condizione umana.
Ma è ormai giunta, quest’illusione, alla svolta decisiva. Con l’arma atomica, la guerra non può più
essere ciò che era. Proprio nel momento in cui è diventata tecnicamente possibile la guerra assoluta
e totale, la guerra che uccide tutti e tutto distrugge, è venuta meno radicalmente la sua capacità di
dare senso. Siamo al bivio tra fine della guerra e fine dell’umanità, ed entrambe le cose sono
ugualmente possibili. In questo bivio è invitato a collocarsi il lettore: per quanto può, senza
abbassare lo sguardo.

In copertina: Λ soldier takes aim through a M42 Duster gun sight at Fort Bliss, Texas (July 1982).
www.wikimedia.org

Luigi Alfieri è professore ordinario di Antropologia politico-culturale nella Facoltà di Sociologia


dell’università di Urbino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere Canetti. Massa e potere
cinquant'anni dopo (c.d. con A. De Simone, 2011); La spada e il pastorale. L'unità del potere
sovrano nella teologia politica di Hobbes, in La filosofia politica di Hobbes (2009); Da che parte
sta Dio? Rileggendo “Con quale comunismo” di Italo Mancini, in Religione, secolarizzazione,
politica. Studi in onore di Piergiorgio Grassi (2009).

Scansione,ocr e conversione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche

Biblioteca di Cultura Morlacchi


diretta da Antonio De Simone
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Morlacchi Editore

Luigi Alfieri

La stanchezza di Marte
Variazioni sul tema della guerra
Seconda edizione accresciuta

Morlacchi Editore

Prima edizione: 2008


Seconda edizione accresciuta: 2012
///
ISBN/EAN: 978-88-6074-471-5
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copyright © 2012 by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione,
anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica, non autorizzata.
editore@morlacchilibri.com - www.morlacchilibri.com. Finito di stampare nel mese di marzo 2012
da Digital Print-Service, Segrate (Milano)

A mia figlia Letizia


piccola guerriera
che vincerà

Introduzione
Questo libro è nato senza una mia precisa intenzione. Potrei dire che si è fatto da sé. Molte volte in
questi anni, in convegni o seminari di vario genere, mi sono trovato a parlare della guerra, dei suoi
fondamenti antropologici, delle sue trasformazioni in atto. Un convegno tende a generare l’altro,
così ho finito per mettere insieme parecchie pagine sull’argomento. L’idea di raccoglierle, magari di
rifonderle in una vera e propria monografia, l’avevo da un po’. Non so se l’avrei mai concretata
senza una casuale conversazione con l’amico Antonio De Simone, da cui è inopinatamente nato un
preciso progetto editoriale, con precise scadenze: fattore determinante, queste ultime. Ed ecco il
libro, quale che sia il suo valore, che non tendo ad esagerare.
Ho rinunciato subito a dargli un taglio monografico: mi sarebbe sembrato di barare un po’. O, più
esattamente, di mancare di rispetto all’argomento. La guerra è un culmine, il culmine direi anzi,
dell’esperienza umana. Come il lettore vedrà, le pagine che seguono collegano le trasformazioni
della guerra nel mondo contemporaneo addirittura ad un’idea di fine dell’uomo, non solo nel senso
tragicamente ovvio della sua possibile autodistruzione nucleare, ma anche in quello, forse meno
ovvio ma ugualmente tragico, di un suo possibile autosuperamento. Pensare di poter racchiudere
tutto ciò in una teoria articolata e argomentata, unitaria, logicamente sviluppata e, a questo punto,
con inevitabili pretese di compiutezza, sarebbe stato non solo azzardato, ma in qualche modo anche
poco onesto. Io sulla guerra ho dei pensieri, bene o male, ma certo non ho un pensiero. E tra i
pensieri che ho sulla guerra, c’è soprattutto quello che ci sia un abisso incolmabile tra la guerra
come esperienza - come esperienza estrema ed ultima, esperienza di morte, propria ed altrui - e
qualsiasi possibile teoria della guerra, e che anzi le teorie della guerra non siano mai innocenti
riguardo a quell’esperienza e siano sempre in qualche modo complici dei suoi periodici
scatenamenti, non eccettuando affatto le teorie pacifiste della guerra, che sono forse quelle che la
mascherano, la occultano di più. La pretesa stessa che una teoria della guerra possa anche solo
parzialmente esplicitarne la verità mi pare già una menzogna, e nessuna menzogna è innocente,
soprattutto su questo tema.
Non essendo il silenzio una buona alternativa, specie sotto il profilo dell’innocenza, s’imponeva un
compromesso: una sorta di minimalismo teorico, una teorizzazione rapsodica ed
autosmascherantesi, che continuamente rinvìi al nucleo rovente di verità di quell’esperienza e
continuamente ne ricordi l’indicibilità, l’intraducibilità in linguaggio. Che cioè rinvìi
continuamente, appunto, alla morte. “In guerra si tratta di uccidere”: queste parole semplicissime e
apparentemente ovvie di Elias Canetti mi sembrano le più oneste e risolutive mai dette
sull’argomento. Di questo tema - nel senso musicale del termine - questo libro presenta una serie di
variazioni, senza aggiungervi nulla e senza minimamente illudersi di poterne dare uno sviluppo
conclusivo. La continua ripetizione del tema, il continuo rifiuto di eluderlo o di farlo tacere, è stato
anzi il mio obiettivo principale. L’ho assunto come una sorta di dovere: dobbiamo saperlo,
dobbiamo dircelo, non dobbiamo mai dimenticare che in guerra si tratta di uccidere - e
assolutamente di nient'altro.
Ma qui sorge subito un altro dovere, quello di non tradire questa consapevolezza morale
riducendola a banalità moralistica: siamo cattivi, siamo violenti, siamo portatori di “aggressività”,
siamo manipolati e ingannati dal potere... No, così non ha più senso, così non si capisce più niente.
Così non riusciamo più a vedere quello che c’è di indiscutibilmente grande nella guerra: la capacità
del più inerme perché più consapevole tra tutti gli esseri viventi di trasformare l’oggetto
onnipresente e ossessivo del suo continuo terrore - la morte, appunto - nel più potente e seduttivo
oggetto di desiderio. Gli uomini fanno la guerra perché la amano, molto semplicemente. E la amano
perché nulla più di questa totale offerta di sé alla morte li libera dalla paura di morire. La guerra è
l’enorme illusione di poter vincere la morte, di poterla uccidere. E quest’illusione - che è una delle
più poetiche e metafisiche di tutte, ci si sforzi di capirlo - rende forse più di ogni altra la misura
tragica e abissale della condizione umana, mostrando allo stesso tempo che l’uomo può essere
all’altezza della propria tragedia. Chi scrive non ama la guerra - e per questo si pagano dei prezzi,
non è una cosa ovvia e innocua, neanche una cosa “buona” - ma si sforza di non negare il proprio
rispetto a chi nei millenni ha vissuto quest’amore. In cui c’è più verità umana di quanta ce ne sia in
molto cosiddetto pacifismo. Verso il quale chi scrive sente una nausea piuttosto intensa e che non ha
nessuna intenzione di nascondere, come peraltro nei confronti della maggior parte delle virtù. Tanto
peggio per chi non lo capirà.
Se questo è in qualche modo il basso continuo che sostiene l’intero testo - ma non ho abbastanza
competenze musicali per insistere troppo sulla metafora - l’idea principale però non va nel segno
della continuità. Anzi, si tratta proprio dell’idea che una costante umana sia da pochissimo
cambiata. E che quindi l’uomo stesso non sia più ciò che era, tanto da non potersi più propriamente
definire uomo. Proprio perché la guerra non può più essere ciò che era: non è più possibile volerla
apertamente, amarla, non è più possibile addirittura nominarla. Proprio nel momento in cui è
diventata tecnicamente possibile la guerra assoluta e totale, la guerra che uccide tutti e tutto
distrugge, è venuta meno radicalmente la sua capacità di dare senso. In qualche modo la guerra è
finita: c’è ancora, certo, qualcosa che le assomiglia, che ne ha preso il posto, che ha con lei in
qualche modo un rapporto ereditario, ma non è più la stessa cosa e quasi sempre ne rifiuta anche il
nome.
Questa è un’altra ragione per cui non potevo scrivere una monografia. Si parla in questo libro di un
evento nuovo e larghissimamente incompiuto, che ha appena cominciato a produrre le sue
conseguenze ed ha aperto un campo di totale imprevedibilità. Mai probabilmente il futuro
dell’uomo è stato tanto aperto, e mai è stato più difficile parlarne. Il ventaglio delle possibilità è
aperto tra i due estremi: o tutto - l’uomo che si supera, che diviene altro da sé è inizia una storia
nuova nel senso più forte che il termine abbia mai avuto - o nulla - l’autodistruzione nucleare,
probabilmente neanche voluta, puramente casuale, un incidente tecnico, un computer che va in tilt o
qualcosa del genere. Soffermarsi di fronte a quest’immensa e agghiacciante apertura cercando di
non abbassare lo sguardo è tutto ciò che sia possibile fare, e non mi è sembrato poco, e mi è costato
fatica. Fingere false compiutezze e avventurarmi in una teoria del tutto o nulla sarebbe andato
troppo contro il mio senso del ridicolo.
Inoltre, mi è sembrato giusto lasciar traccia del fatto che i pensieri, quando non vogliono diventare
un pensiero, cambiano. Cambiano tornando su di sé, ripercorrendosi, ritrovando le proprie ragioni
ed accumulando ogni volta degli scarti rispetto al percorso già compiuto. Per questo ho voluto
accettare il rischio della ripetitività. So benissimo che tutta la seconda parte del volume, soprattutto,
è ripetitiva. Per tre volte si dicono quasi le stesse cose. Quasi: ogni volta qualcosa cambia un po’.
Ogni volta aumenta la paura, ogni volta cresce il dubbio. Si comincia da una sorta di proclama di
vittoria della guerra su se stessa, per approfondire sempre di più il dubbio che la logica
dell’“impossibilità” della guerra possa essere rovesciata da quella dimensione assolutamente
mistica che è il Terrore. Musicalmente parlando, la ripetizione qui è un crescendo. Ma la musica
non è lieta.
Peraltro, il libro non è pessimista, nell’insieme. L’epilogo anzi è ottimista al massimo grado. A
modo mio. Pensavo di essermi lasciato alle spalle da molto tempo i miei giovanili amori
nietzschiani. Mi sono accorto solo dopo che il capitolo su natura e tecnica è il testo più nietzschiano
che io abbia mai scritto. Risolutamente in direzione dell’oltreumano. Senza illudersi che sia una
direzione facile e comoda, sapendo che ci saranno dei passi terribili da compiere, ma nella fiducia
che in qualche modo sapremo essere all’altezza delle nostre tragedie future come lo siamo stati
delle nostre tragedie passate. Mi è anche venuto il dubbio di aver scritto in questo capitolo il mio
lavoro più cristiano. Giuro che non l’ho fatto apposta; comunque non mi dispiacerebbe per niente.
Nella sua frammentarietà, che rivendico, il libro ha però, credo, una sua coerenza, un suo
riconoscibile sviluppo. Un prologo, la costruzione dell’identità mediante il conflitto delle
differenze; due sviluppi, uno più generale, il legame tra violenza e sovranità, ed uno più specifico,
le trasformazioni della guerra nel mondo contemporaneo; un epilogo, l’alternativa radicale tra
distruzione totale e totale trasformazione. L’appendice è una sorta di narcisistico omaggio al mio
passato, la ripresa di un vecchissimo testo risalente addirittura agli anni in cui tentavo di fare il
giurista e da giurista m’interrogavo sull’esplicita autocontraddittorietà del diritto proprio nei testi
più fondativi, quelli costituzionali, quando il diritto prevede la propria violazione e costruisce forme
giuridiche dell’antigiuridico, addirittura normando la guerra. E' l’unico testo che, senza stravolgerlo,
ho in buona parte dovuto riscrivere rispetto alla stesura originaria, che già riprendeva inediti molto
precedenti. Mi è sembrato che, senza attribuirgli alcuna particolare importanza, non fosse del tutto
superfluo di fronte all’insopportabile superficialità della corrente letteratura giuridica sulla guerra, e
specialmente sulla guerra nella Costituzione italiana.
///
Antonio De Simone si è assunto un’altra dura responsabilità verso il genere umano: mi ha convinto
a preparare una seconda edizione del volume, ormai quasi esaurito, aggiungendovi altri miei due
lavori più o meno pertinenti. Li inserisco come capitoli III e V. Si tratta di un tentativo di scrostare
da Hobbes un po’ di polvere secolare e alcuni equivoci novecenteschi e di un confronto tra Schmitt
e Canetti molto antipatizzante nei confronti del primo.
Nell’insieme danno alla parte teorica del volume una certa preponderanza su quella, diciamo così,
empirica, e danno alla seconda edizione una tonalità un po’ più filosofica rispetto alla prima. Ho
qualche dubbio che sia un miglioramento, forse crea uno squilibrio. Dovrò farmi venire qualche
buona idea sulla guerra come esperienza e sui suoi cambiamenti, che naturalmente continuano a un
ritmo parecchio accelerato. Incombe il rischio di una terza edizione.
///
Naturalmente, tutti i miei amici e interlocutori abituali hanno avuto qualche parte nella gestazione
di questo scritto e nella sua ulteriore maturazione in questi anni, molti senza saperlo. Ho già
ricordato il ruolo decisivo di Antonio De Simone; diverso ma altrettanto decisivo quello di Roberto
Escobar, senza i cui pensieri non saprei più pensare i miei. Ricordo anche con gratitudine Cristiano
Bellei e Sergio Scalzo, grazie ai quali non penso mai da solo. Rivolgo un pensiero particolarmente
affettuoso a Luigi Francesco Agnati, medico umanista di vecchia scuola ma anche scienziato
d’avanguardia: averlo incontrato è stata una delle esperienze intellettuali e umane più arricchenti di
questi anni.
Ma non voglio trascurare i colleghi dell’Università “Carlo Bo” di Urbino, che nominerei uno per
uno se non fosse troppo lungo e noioso per il lettore, ai quali devo che un lavoro sempre meno
gratificante e sempre più impiegatizio sia spesso illuminato dal sorriso dell’ironia e dell’amicizia.
Ne voglio però nominare almeno alcuni, che in questi ultimi anni hanno raggiunto la pensione
(comincio un po’ a invidiarli, cosa che non mi sarei aspettato fino a qualche tempo fa): Marcello
Dei, Piergiorgio Grassi, Hans Peter Kammerer, Gastone Mosci. Uno, che ho molto stimato senza
mai frequentarlo, voglio salutarlo qui a pochi giorni dalla sua scomparsa: Maurizio Del Ninno.
Ciao, Maurizio. Adesso sai se c’è qualcosa da sapere.
Un pensiero affettuoso, infine, a mia figlia Letizia, che mi ha dato alcune idee, ha provato a
smontarne alcune altre, e che è spesso la vera destinataria dei miei pensieri, anche quando molto
giustamente non le interessano. Il volume resta dedicato a lei, con una dedica diversa, in un diverso
momento della sua esperienza, sicuramente migliore pur se difficile come sempre è la vita. Il
mondo è come è, ma tieni duro, bimba mia. Non gliela daremo vinta.
///
Urbino, 1 agosto 2008 - 14 luglio 2011

PROLOGO. NOI E NON-NOI

Capitolo I. Irrazionalità e identità collettive1


SOMMARIO: 1. Dire la “verità” - 2. Noi siamo Noi - 3. Noi siamo differenti - 4. Noi siamo differenti
dalla differenza (quindi uguali) - 5. Noi siamo il nostro non-noi - 6. Noi, gli assassini - 7. Noi, gli
assassini di Dio -8. Noi siamo la Vita (ovvero la Morte buona contro la Morte cattiva) -9. L’ultimo
totem.

1. Dire la “verità”
L' irrazionalità di cui parlo - e non è casuale che questa sia la prima parola in un libro sulla guerra -
non è assenza di ragione, a-razionalità, e neppure ostilità alla ragione, antirazionalità (sarebbe
troppo semplice, e semplice purtroppo non è). Si tratta invece di una dimensione esistenziale
autonoma, distinta dalla ragione, ma con essa eventualmente compatibile. Ci sono modi
razionalissimi di essere irrazionali, ed anzi senza irrazionalità la ragione non avrebbe nulla da
mordere, annasperebbe nel vuoto. La dimensione dell’“irrazionale”, come qui la s’intende, è
addirittura ciò che fonda lo spazio della politica, quindi anche i suoi sviluppi più ragionevoli e
ragionati.
Non merita alcuna indulgenza lo sciocco snobismo irrazionalista che ha connotato certi aspetti della
teoria politica, e nani raímente e ben di più anche della prassi. Ma, d’altra parte, non si va lontano
neppure con il feticismo della ragione, con la sua reificazione essenzialista. La ragione non è una
“facoltà”, e tanto meno è la sostanza dell’uomo. Una simile concezione dev’essere perdonata ai
filosofi del passato, che di una sostanza spirituale come fondamento universale di verità avevano un
disperato bisogno, non poco condizionato da motivazioni religiose; ma oggi un tale modo di
pensare appare una curiosa superstizione.
Del resto, non si tratta di essere “moderni” a tutti i costi: si tratta semmai proprio di essere antichi,
di risalire alle radici. Al logos, che assolutamente non è “ragione”2. E' discorso, linguaggio,
comunicazione. E' il discorso coerentemente e rigorosamente sviluppato secondo regole
chiaramente precisate e condivise da tutti gli interlocutori: il discorso che procede mantenendo la
consapevolezza del suo cammino, che colpisce dritto il bersaglio, essendo fermamente controllato,
in ogni momento del suo farsi, da un codice comunicativo sul cui rispetto ogni interlocutore vigila
attentamente. Logico è il discorso in cui ogni parola mantiene sempre il suo significato, che è lo
stesso per tutti, il discorso senza sbavature ed ambiguità, senza spazi indefiniti che consentano
l’irruzione di elementi esterni al codice prestabilito (come passioni, emozioni, interessi). E' quindi il
discorso impersonale, in cui ognuno dice solo ciò che deve essere detto, ciò che in base alle regole
assunte in certo modo si dice da sé, tanto che ogni interlocutore potrebbe scambiarsi le parti con
altri, perché non è il singolo soggetto a parlare, ma la comunità stessa che ha prodotto quelle regole
(o piuttosto, la comunità che da quelle regole è stata prodotta).
Logico è essenzialmente il discorso pubblico, in un senso molto forte del termine. Non il discorso
che avviene in pubblico, o secondo un linguaggio pubblicamente riconosciuto: ciò sarebbe vero per
ogni discorso a cui si possa attribuire un senso, e saremmo nell’ambito non della logica (della
“ragione”), ma genericamente della cultura, nel senso antropologico del termine 3. Si tratta piuttosto
di un discorso corale, in cui tutti, insieme, dicono le stesse cose, di un discorso in cui, una volta reso
comune il punto di partenza, non emergono mai differenze (se emergessero, dovrebbero essere
riconosciute come errori da quelli stessi che le hanno prodotte, i quali altrimenti sarebbero espulsi
dalla comunità dei parlanti). Che un discorso con queste caratteristiche sia “vero” nel senso di
“conforme ad una realtà esterna oggettiva” è ovviamente una mera superstizione, peraltro difficile
da superare, perché un’“oggettività” si produce davvero quando tutti siamo d’accordo che si dice
così e così, e nessuno di noi è capace di immaginare, o disposto a tollerare, che si dica
diversamente. E questo basta ampiamente perché si diano solidissime “verità”.
Il grande sforzo, fallito, della “razionalità” antica è proprio quello di costruire in questo modo il
discorso politico. E' precisamente per questo che il mondo antico, sebbene abbia prodotto una prassi
democratica, ed anzi abbia inventato la democrazia come prassi, non ha mai prodotto una vera
teoria democratica4. La democrazia appunto, secondo la visione antica, non può essere teoria:
ognuno dice cose diverse, ognuno dice quello che gli conviene, il coro non c’è o è stonato, la parola
unica e cogente non riesce ad essere detta. Per questo tutti i filosofi antichi hanno lasciato con
sdegno l’assemblea, cercando altrove, senza mai trovarlo malgrado molte illusioni, il “luogo” per
questa parola. Sono riusciti benissimo, invece, a creare il modello imperituro del discorso logico-
matematico (geometrico, più precisamente), e quindi del discorso scientifico. Un po’ meno bene gli
è andata proprio col discorso filosofico: nel frattempo è intervenuta appunto la reificazione della
ragione, e la verità è divenuta una cosa che non parla, ma semplicemente è. E non bisogna attribuire
troppe colpe in proposito al cristianesimo (che quando è fedele a se stesso è fedele proprio alla
concezione del Logos come parola), perché già ben prima quest’evidente illusione è stata la
consolazione dei filosofi di fronte all’insopprimibile cacofonia delle voci fuori del coro, che parlano
senza ordine, regola e consenso, che parlano confliggendo. Che la parola da tutti taciuta, almeno, sia
una parola che è. Alla fine, resta per forza proprio la parola Essere. E molte cose ne sono nate,
buone e cattive.

2. Noi siamo Noi


Ci è necessario però andare ancora più lontano, ciò che non è certamente facile né prudente. Infatti,
proprio perché la politica non è il “luogo” del “discorso vero”, non possiamo cercare la sua origine
ed il suo senso all’interno di questo discorso. Dobbiamo risalire ad una storia diversa, molto più
antica, più fondativa e dunque anche più difficile da afferrare. Anzi, saranno inevitabili ipotesi
sfuggenti, scivolose, indimostrabili. Ma non si tratta più, appunto, di parlare il linguaggio della
logica, che per fortuna non è l’unico linguaggio della filosofia.
Da qualche punto bisogna partire: proviamo a partire dal concetto d'identità5. Cos’è l’identità
politicai Dove e come si forma? Non si forma come identità del singolo, chiaramente. Se
immaginiamo il singolo come tale, cioè da solo, non possiamo evidentemente attribuirgli nessuna
politicità, se le parole hanno ancora un senso. Va da sé che non possiamo immaginare il singolo
come assolutamente singolo: come potrebbe esistere? Di fatto, possiamo sempre e soltanto
immaginare gruppi, comunque strutturati. Nella vecchia e ormai noiosa contrapposizione tra
individuo e società c’è un equivoco di fondo, perché nessuno dei due termini esiste senza l’altro.
L’individuo non è un a priori', da qualcosa deve pur essere venuto fuori. Ma nemmeno la società è
un a priori', da qualcuno deve pur essere composta.
Si può provare ad uscire da questo circolo vizioso appunto ragionando sulle identità collettive, che
sono individui plurimi artificiali. Non esistono in natura: in natura esistono solo organismi
biologici. Nella specie umana, una condizione naturale sarebbe una contradictio in adiecto6.
L’uomo esiste come tale solo all’interno di un orizzonte comunicativo costruito con i suoi simili. Un
orizzonte che, chiaramente, non possiamo immaginare come costruito mediante una convenzione:
spiegheremmo la comunicazione come prodotta da un atto comunicativo, l’artificiale come prodotto
mediante un artificio. In un simile regressus in infinitum annaspano tutti i contrattualismi, antichi e
recenti. Dobbiamo piuttosto pensare ad un’aggregazione spontanea, irriflessa ma non istintuale7, in
qualche modo casuale, intorno ad un centro che da quel momento viene riconosciuto da tutti, un
centro da cui all’improvviso, in maniera imprevista e imprevedibile, s’irradiano riconoscibilità
reciproca, strutture d’ordine, senso.
Qualunque cosa possa essere, il centro naturalmente è simbolico: sta per altro, rinvia ad altro. Ma
non rinvia a qualcosa di specifico, non ha un preciso “significato” che possa essere “scoperto” e
dichiarato. Il centro rinvia all’intero orizzonte dei sensi possibili, quindi ad un orizzonte immenso e
illimitatamente mutevole, non traducibile né riducibile. Non si potrebbe mettere al suo posto un
concetto, o un interesse, o un calcolo razionale. Il solo “significato” che è possibile attribuirgli è
tautologico: il centro è quella cosa che ci consente di riconoscerci come Noi. E qualunque cosa ci
sforziamo di dirne, stiamo sempre e solo ripetendo: “Noi”. Questa tautologia però non è
pleonastica, ma rafforzativa. Ci dice implicitamente ed efficacemente, senza parole e dunque con
tutte le parole possibili: “Noi siamo noi; è bene che noi siamo noi; è garantito che noi siamo e
saremo noi”.
Come concetto sarebbe, oltre che tautologico, arbitrario e infondabile. Ma non è un concetto: è
qualcosa che potremmo chiamare un sentimento, o meglio ancora un' emozione condivisa. È in
questo senso che possiamo dire di essere nella dimensione dell’irrazionale. Ma dovrebbe essere già
chiaro che solo riuscendo a “sentire”, e quindi in qualche modo a “dire”, a rappresentare questo Noi
possiamo costruire le basi per un discorso comune, e dunque anche per il logos. E' dal centro
simbolico, appunto, che s’irradia un orizzonte comunicativo il cui punto di partenza necessario è
una clamorosa non-verità: “noi, in quanto siamo Noi, siamo tutti uguali, perché siamo tutti la stessa
cosa, che nessun altro è al di fuori di noi”. In questo senso, il centro è il simbolo primario
dell’identità.

3. Noi siamo differenti


Cos’è un simbolo d’identità? E' necessariamente una differenza. Una differenza che tutti notano e
riconoscono, essendone irresistibilmente attratti. Qualcosa improvvisamente si distacca
dall’ambiente, emerge dalla policromia e polimorfía insignificante. Qualcosa è là, ineludibile: non
può sottrarsi agli sguardi, gli sguardi non possono sottrarvisi. È un’ emergenza, una sporgenza, una
punta del reale. Preme, urge, punge, non lascia quieti. Non si può passare oltre. Ci si sofferma, si
gira intorno sorpresi, attratti, probabilmente anche spaventati. Ci si raduna. Radunandosi, ci si
guarda. Si è lì, un cerchio, una comunità. Si è coloro che girano intorno alla stessa cosa, che hanno
un centro in comune.
Da quel momento, se si ha un linguaggio, si ha anche un nome. Un nome, appunto, che dichiara il
centro, lo riconosce in quanto comune, ed è perciò un nome comune. Solo a partire da quello si avrà
anche un nome proprio, scindendosi in sottogruppi sempre più piccoli, sino agli atomi-individui,
che debbono comunque essere individui di qualcosa e in qualcosa. E saranno individui se ed in
quanto riconosciuti come tali dagli altri e riconoscenti gli altri come tali: cosa inconcepibile al di
fuori del cerchio che ruota intorno al centro. È davvero una curiosa superstizione quella
dell’individuo come inizio. All’inizio, la scena è vuota. C’è solo natura muta, ambiente privo di
senso, pulsioni indistinte, caos. Dalla differenza primaria nascono l’ordine ed il senso, dunque la
socialità, dunque la cultura; e ne nasce anche la capacità di distinguere e riconoscere l’io nel noi. La
complessa rete di atti di mutuo riconoscimento stratificati nel tempo determinerà il continuo
arricchirsi di un codice comunicativo che inizialmente ha solo tre elementi: noi / differenza / non-
noi. Dove il termine medio è quello originario, che genera contemporaneamente, in direzioni
opposte, gli altri due.
Alla fine, si avrà un quadro molto ricco delle molteplici condizioni necessarie per essere
riconosciuto come uno che è “noi”, ma in un suo modo specifico e ulteriormente differenziato, e
dunque si riconosceranno molti, moltissimi modi di essere “noi”. Cerchi più piccoli nel grande
cerchio, più cerchi concentrici che girano insieme e sono dunque contemporaneamente uniti e
distinti. Tribù, clan, lignaggi, stirpi, famiglie. Qualche volta (e bisogna proprio non sapere niente di
antropologia culturale per considerarlo un dato universale) persino individui, atomi della grande
molecola sociale. Ma sono pur sempre le condizioni dell'appartenenza al tutto che determinano il
senso, i contenuti, i limiti di riconoscibilità dell'identità individuale: tenendo sempre fermo il
principio che al di fuori del “noi”, più o meno allargato, un “noi” di qualche decina o un “noi” di
molti milioni, non c’è comunque nulla che abbia senso. Il “non-noi” è il nulla del valore, è
l’esistenza caotica e perturbante. Ammesso che “noi” ci riconosciamo reciprocamente come
individui, sicuramente non lo facciamo con chi non è dei nostri. L’individualità è pur sempre un
contenuto (eventuale) del “noi”.

4. Noi siamo differenti dalla differenza (quindi uguali)


Ma cos’è il centro, la differenza originaria? Può essere qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa che ci dica,
con forza ed evidenza emozionante, che noi non siamo, appunto, quella cosa lì. Tutti noi siamo
differenti da quella cosa lì. Tutti noi abbiamo in comune il non-essere quella cosa lì. Proprio questo
è il punto essenziale: che il centro è differenza, è ciò che sicuramente non siamo. Solo la
condivisione di un non-essere, non un’impossibile e assurda uguaglianza in ciò che si è, può
unificarci e fare di noi una comunità8.
E' appunto per il fatto che ciascuno di noi ha la stessa distanza rispetto al centro che possiamo
affermare d’essere uguali e quindi di essere noi. Non potremmo mai affermare di essere uguali a
partire da qualcosa che invece tutti ugualmente siamo. Non tanto perché questo qualcosa
assolutamente non esista, quanto perché non avremmo originariamente alcun modo di saperlo. Se
vogliamo costruire un modello teorico di comunità originaria dobbiamo sforzarci, infatti, di evitare
il quasi inevitabile errore di introdurre surrettiziamente nell’origine ipotizzata un elemento che
invece la presuppone. In particolare, non possiamo introdurvi un principio di riconoscimento
(neppure di autoriconoscimento) stabilito e condiviso. All’origine, per definizione, noi non
sappiamo chi siamo e non abbiamo neanche parole per dire chi siamo. Nessuno potrebbe essere per
gli altri un punto di riferimento per misurare somiglianze e differenze, perché in origine ognuno è
nulla anche per se stesso. È soprattutto per questo che è insensato spiegare l’origine della comunità
con un accordo tra individui uguali: non perché non ci sono individui “uguali” (possono benissimo
esserci, una volta che sia stato stabilito e accettato un principio di uguaglianza), ma perché non
possono esserci originariamente, non essendoci originariamente neanche gli individui.
All’origine occorre il ganz Anderes, il “totalmente Altro”9. Occorre una differenza emergente che
s’impone, che ci afferra, a cui non possiamo assolutamente sottrarci. Un’eterogeneità inconfondibile
persino in assenza di una dimensione culturale, quando ancora mancano per definizione codici
comunicativi e schemi classificatori condivisi. Il manifestarsi come differenza è essenziale alla
differenza medesima. Deve trattarsi di una differenza “in sé”, non dobbiamo essere noi a porla come
differenza. La differenza deve avere tutta la durezza e insormontabilità di un confine assoluto. Deve
cioè essere trascendente: senza con questo affatto appartenere ad un’eterea dimensione
extrasensoriale (anche se è molto probabile che tale dimensione venga successivamente pensata
come origine, fondamento ed essenza della differenza medesima, essendo questo il modo più
semplice e “primitivo” per spiegarla).
La differenza originaria è come la fiamma intorno a cui svolazzano le falene: un attrattore
irresistibile, un centro d’energia emotiva che ci cattura e ci costringe a ruotare senza posa, dandoci
ordine, regole, reciproca visibilità e riconoscibilità, rendendoci distinti dagli altri organismi
comunitari che ruotano intorno ad altri attrattori, conferendoci dunque un’identità condivisa, e
perciò un’uguaglianza. Va da sé che questo centro non può essere un uomo, essendo precisamente il
fondamento a partire dal quale potrà essere costruito il concetto di uomo 10. Un concetto che
all’inizio, finché i codici comunicativi non saranno abbastanza complessi da riuscire a esprimere
anche le astrazioni e le impossibilità, significherà semplicemente uno di noi, quindi uno come noi,
uguale a noi nel girare attorno al nostro centro11.
Il centro, dunque, è anzitutto un confine. Non ancora un confine esterno, ma proprio quel confine
interno che è anche il perno che ci unifica: ciò che tutti noi non siamo, e appunto per questo ci
permette di essere insieme. Se violassimo il confine interno e ci confondessimo col centro
(ammesso che ciò sia fisicamente possibile) avremmo eliminato precisamente il principio che ci fa
esistere e torneremmo a disperderci nel caos. La prima regola comunitaria sarà dunque
verosimilmente proprio quella che ci proibisce di confonderci col centro, la regola che lo costituisce
come inaccessibile, intoccabile, privilegiato, impuro, sacro12. In questo senso, potremmo dire che il
centro, inteso come confine interno, è necessariamente una ierofania13. Ma il confine esterno è già
implicito in ciò, ed anzi non c’è vera differenza tra confine interno ed esterno fino ad un grado
elevato di complessità sociale. Chiunque non è stretto insieme con noi intorno al nostro non-noi, è a
propria volta un non-noi. Ma un non-noi non nostro. Non deve avvicinarsi: aprirebbe il centro, ne
rivelerebbe il contenuto, cioè il vuoto fondatore intorno a cui ruotiamo, renderebbe evidente il
costitutivo non-essere del Noi. Farebbe disordine, farebbe paura, farebbe morte.

5. Noi siamo il nostro non-noi


Il paradosso è che il non-noi può diventare addirittura il nome del noi. Ma si può capire. Chi siamo
noi? Noi siamo quelli che hanno compreso d’essere ugualmente e comunitariamente diversi da
altro. Non c’è autoreferenzialità: cosa potremmo dire d’essere, senza l'altro che ci ha uniti? Di
colpo, niente più strutture d’ordine. Tutto è risucchiato dall’ambiente, tutto è sfondo, niente risalta
più, tutto è caos, non c’è più parola.
Nell’uomo, l’istinto è muto. La voce nasce dal simbolo, dove non c’è simbolica c’è afasia. Dunque,
diremo d’essere quelli che hanno un non-noi comune. Un qualunque possibile non-noi, una
qualunque dimensione del non-umano. Sarà spesso una dimensione animale. Chi siamo noi? Siamo
i Parrocchetti14. O gli Opossum. O i Lupi, i Leoni, i Gattopardi. Oppure, il non-noi fondativo sarà
un elemento vistoso e sorprendente del nostro ambiente vitale: noi siamo quelli del Grande Albero,
siamo quelli della Roccia Rossa. Oppure ancora, sarà uno dei grandi e impressionanti fenomeni
naturali che condizionano l’esistenza, ne scandiscono le fasi e quindi la rappresentano nella sua
dimensione periodica, ciclica, di durata nel cambiamento: siamo quelli del Giorno, siamo quelli
della Notte, siamo i figli del Sole, i figli delle Stelle, i figli dei Fiori. Infine, con un potenziamento
estremo della trascendenza del centro, questo diventa astratto, metafisico, invisibile, un vuoto
rappresentativo che opera una proiezione ad infinitum del senso: noi siamo i figli di Dio.
Sto parlando, è chiaro, di ciò che solitamente viene definito totemismo: una categoria che
probabilmente è nata da un equivoco15. L’equivoco è anzi sicuro se si pensa che il “totemismo” sia
una religione; ma anche se si pensa che sia un sistema di parentela, o una forma d’organizzazione
sociale. Ha a che fare con tutte queste cose, ma non vi s’identifica, non ne è la forma “primitiva”. È
qualcosa di ancora più originario e fondativo: la radice dell’aggregazione primordiale, il passaggio
dalla socialità istintuale degli animali alla socialità simbolico-rappresentativa ed istituzionale degli
umani. In questo senso, è certamente anche la radice della religione e della politica. Non solo della
loro forma primitiva, ma della religione e della politica in quanto tali. Il totemismo dunque ci
appartiene ancora, e non in una forma più avanzata e sofisticata, più “moderna”: appunto in quanto
si tratta della dimensione originaria e fondativa, il nostro totemismo è identico a quello
“primitivo”16.

6. Noi, gli assassini


Secondo René Girard, noi dovremmo dire (ma, sempre secondo Girard, noi non possiamo dire):
siamo gli Assassini. Infatti, ci siamo originariamente riuniti in cerchio intorno a un cadavere 17. Non
un singolo cadavere: un cadavere seriale. Il cerchio non sta fermo: gira. Si allontana, ritorna, si
spezza, si ricompone. Per attrarlo, occorre che il Centro periodicamente si rinvigorisca: occorrono
cadaveri freschi.
La prima volta che ci siamo guardati negli occhi e ci siamo riconosciuti, avevamo appena ucciso.
Insieme. Tutti uccisori, tutti non-morti: è in questo modo, per Girard, che siamo usciti dal caos
indifferenziato che segue al venir meno della socialità animale, producendo la differenza primaria,
quella tra i molti vivi e l’unico morto, che è la base del riconoscimento d’uguaglianza costitutivo
della comunità18. Non ci sono più, in questa fase, le differenze istintuali che costituiscono i
dominance patterns della socialità animale, mentre non ci sono ancora le differenze istituzionali
tipiche della dimensione umana19. Nella conflittualità generalizzata e distruttiva che ne consegue,
emerge improvvisamente una qualsiasi differenza, fisica o comportamentale, che distingue un
singolo e lo separa dalla massa indifferenziata in conflitto. Questa differenza casuale polarizza la
violenza di tutti su un unico oggetto, modificandone la struttura da disgiuntiva e centrifuga in
congiuntiva e centripeta20. Tutti gli uguali uccidono l’unico diverso, stabilendo così la differenza
suprema e originaria che diverrà il fondamento dell’ordine e darà luogo alle prime istituzioni: la
differenza tra la Vita e la Morte, tra gli uccisori che vivono perché hanno gettato la propria morte
addosso a un altro e l’ucciso che porta la morte via con sé, perché è lui la Morte. Come
rappresentarsi la Morte, infatti, se non identificandola con un cadavere? Se no, la morte non c’è, è
nulla: solo ambiente, solo sfondo, solo caos.
In ogni uccisione, dunque, noi uccidiamo la Morte. Uccidendo, eliminiamo l’essere distruttivo che
creava confusione, angoscia e conflitto. Non abbiamo dubbi né sensi di colpa: abbiamo fatto bene a
uccidere, così vivremo. Abbiamo trasformato un principio di morte in principio vitale, abbiamo
fatto dell’essere malefico che causava disordine un essere benefico a partire dal quale l'ordine si
ricostituisce21. Per questo uccideremo ancora, uccideremo sempre. La prima istituzione sociale, che
per lungo tempo rimane l’unica base possibile della convivenza, restandone peraltro anche dopo,
anche ora, il fondamento latente, è il sacrificio umano22.

7. Noi, gli assassini di Dio


Per smascherare questo meccanismo distruttivo, la vittima, che è il centro della comunità, dovrebbe
ribellarsi. Rifiutare di concedersi agli uccisori, respingerli, gridare. Gridare d’essere innocente,
gridare che la Morte siamo noi, che la Morte c’è perché noi uccidiamo.
Ma questo è impossibile. Il centro non parla, è muto, abbiamo soffocato la sua voce. Oppure, se
parla, ci dà ragione: perché questa è la sua ultima possibilità di comunicare con noi, di dirci che è
uno dei nostri, che anche lui è con noi nell’eliminare il non-noi che abbiamo visto in lui stesso 23. La
vittima è sempre innocente, ma non dice la sua innocenza. È muta o complice. Nel cerchio della
violenza, il linguaggio dell’innocenza non può esistere. La verità perenne che noi siamo assassini, e
lo siamo appunto in quanto noi e per poter essere noi, rimane definitivamente invisibile. Può
accadere che rappresentazioni artistiche o religiose (la tragedia greca, per esempio) giungano assai
vicino a questa verità interdetta24. Ma non ne scorgono mai la realtà storica, riconducendola invece
a raffigurazioni mitologiche in cui l’innocenza della vittima è solo uno dei due poli di un
continuum: la vittima è innocente, benefica, in quanto accetta di volgere a principio d’ordine e
pacificazione la propria originaria trasgressività distruttiva. L’innocenza della vittima, cioè, sta tutta
nell’accettare la propria uccisione. Per poter essere buona, la vittima dev’essere morta. Dunque, in
quanto buona, vuole essere uccisa, si dona ai propri uccisori. L’innocenza della vittima può essere
riconosciuta solo in quanto si rifletta sugli uccisori rendendoli a propria volta innocenti 25. Sono
sempre gli uccisori, alla fine, a parlare per la vittima, ed essendo questo silenzio della vittima la
dimensione costitutiva dell’umano, nessuna forza umana è in grado d’uscirne.
Dunque, se la vittima riesce a dire la propria innocenza, questo linguaggio deve venire da fuori:
manifesta il sovrannaturale e il sovrumano. La vittima innocente, che si rivela come tale, è Dio. Il
cristianesimo è la sola possibile parola contro la violenza, dunque la sola parola vera26.
Girard non nasconde la convinzione di essere stato il primo, in duemila anni, a capire in cosa
propriamente consiste la verità del cristianesimo, giungendo addirittura a provarne scientificamente
l’origine sovrannaturale. Non si accorge che il cerchio gira ancora, esattamente come prima. Il
cerchio ha sempre “detto” di girare intorno alla differenza assoluta. Ganz Anderes: Morte, Senso,
Dio. Abbiamo sempre detto d’aver ucciso Dio, e ne siamo sempre stati molto fieri. Abbiamo sempre
detto che Dio era d’accordo, che appunto questo, l’essere uccisi all’interno di un cerchio, significa
essere Dio.
Anche per Girard, del resto, Dio stesso vuole essere ucciso. Solo che in questo modo vuole dirci che
uccidere è male, che non avremmo dovuto farlo, che non dobbiamo farlo più. Ma siccome questo
può dircelo solo lasciandosi uccidere da noi, viceversa ucciderlo è stato bene, e se possiamo e
dobbiamo non farlo più è solo perché abbiamo gli occhi fissi per sempre su quel cadavere,
Sull’Eterno Morto, sulla Morte Eterna Dio. La via d’uscita girardiana è solo apparente: conferma,
assolutizza ed eternizza la logica del sacrificio. Piuttosto che affermare, come vorrebbe, la realtà
storica della violenza fondatrice, ne fa un mito onnipervasivo, ossessivo, labirintico. Circulus
vitiosus Deus. Siamo uccisori in eterno.

8. Noi siamo la Vita (ovvero la Morte buona contro la Morte cattiva)


Elias Canetti la vede in un altro modo. Al centro stanno i vivi. Radunati, spesso, intorno ad un vivo
che lo è più degli altri, quindi lo è anche per gli altri, un Sopravvissuto. I morti sono intorno, in giro,
sono il cerchio. La Morte è il cerchio. La Morte ci circondava, ci premeva, ci assediava. Ma Noi
abbiamo vinto. L’immagine della Morte sconfitta sono i morti tutt’intorno. Più i morti crescono, più
la vita è in noi, più Noi siamo la Vita.
Secondo questo modello, il centro non viene ucciso ma uccide. È il luogo cruciale in cui si verifica
uno sdoppiamento della morte. C’è la Morte cattiva, esterna, che ci assedia: l’Altro, il Nemico, tutto
ciò che, da fuori, si presenta come non-Noi e per il solo fatto di manifestarsi smentisce
l’indiscutibilità e insostituibilità del nostro modo d’essere. Chiunque esiste senza essere Noi, vuole
ucciderci27. Ecco allora che corriamo al centro, ci rifugiamo in esso. Il centro è ancora la Morte, ma
la Morte interna, la Morte buona, che ci protegge. Per proteggerci, uccide coloro che ci volevano
uccidere, e si serve come strumento di uccisione di noi stessi, esponendo dunque davvero parecchi
di noi alla Morte esterna. E' il tragico paradosso dell’obbedienza, il rischio estremo che viene corso
da chi cerca la definitiva sicurezza: per non essere uccisi si uccide, ma per poter uccidere bisogna
essere uccisi28. È così che intorno al centro si accumulano i morti, e per chi sta al centro non
importa distinguere i morti altrui e quelli propri 29. Tutti i morti sono suoi, tutti lo rafforzano, lo
innalzano, moltiplicano la sua capacità di diffondere intorno morte e obbedienza, e dunque ancora
morte. In questa sopravvivenza, in questo vivere grazie ai morti e letteralmente sopra i morti,
Canetti vede la sostanza del potere30.
Anche Canetti, naturalmente, sa che il cerchio può schiacciare il proprio centro 31. La Morte è
dentro, la Morte è fuori: il confine è sempre doppio; e la Morte interna, molto spesso, uccide ben di
più di quella esterna. Quando il potente supera la soglia, per lui stesso invisibile, oltre la quale viene
percepito come fonte di distruzione e insicurezza peggiore di ogni possibile aggressione esterna, il
cerchio all’improvviso gli si stringe intorno, collassa su di lui, per poi ricostituirsi fondandosi su un
nuovo principio: sull’uccisione di colui che uccideva32. Torniamo così a un cerchio di tipo
girardiano. Ma possiamo continuare a dire che la vittima è innocente?

9. L’ultimo totem
Canetti e Girard hanno entrambi ragione. Ma non separatamente: hanno ragione solo insieme. La
Morte è dentro, la Morte è fuori. Il Non-noi è dentro e fuori: noi siamo Noi girando in tondo. Il
Non-noi ci colpisce: è sempre troppo forte, non possiamo mai sconfiggerlo del tutto. Ma
continuiamo a cacciarlo fuori, o a schiacciarlo dentro, espellendo o comprimendo quella parte di noi
che ne è stata vittima, che ne è stata infettata, che è diventata Morte. Il cerchio è una macchina da
espulsioni: riceve caos e lo ricaccia fuori, dalla periferia permeabile o dal buco nero centrale, e così
continua a girare. Macinando caos produce senso, cioè energia per girare ancora. Moto perpetuo: è
la macchina ideale33.
Non c’è neanche così bisogno che si uccida, in realtà 34. Uccidiamo moltissimo, s’intende. Ma non
uccidiamo sempre. Facciamo tante altre cose. Anzitutto, ci costruiamo. Identità collettive. Noi
siamo i Parrocchetti. Noi siamo i Figli del Sole. Noi siamo i Figli di Dio. Noi siamo la Grande
Nazione. Noi siamo i Difensori della Libertà. Noi siamo i Veri Democratici. Il cerchio gira, produce
senso, ne produce sempre di più. Può anche rallentare le uccisioni, a volte. O renderle virtuali. Tutte
le uccisioni possibili, tutte in una volta. Ma non per davvero. Non in atto. Solo come possibilità,
continuamente rinviata.
La Bomba: il nuovo centro intorno a cui giriamo. La Morte in persona, come sempre, più di sempre.
Ma virtuale, appunto. La Bomba, nessuno vuole che scoppi. Ci abbiamo chiuso dentro la Morte,
rendendola contemporaneamente potentissima e prigioniera. Non perché ci siamo educati alla bontà
e all’amore, non perché abbiamo conquistato la virtù e la saggezza, ma perché abbiamo continuato
con estremo rigore e coerenza - vorrei dire con ottusità geniale, con eroica stupidità - a fare quel che
sempre abbiamo fatto, cioè fondare l’ordine sulla paura, cercare rifugio nel terrore, trasformare la
morte in principio costruttivo, abbiamo raggiunto il punto di non ritorno da cui nasce una svolta
radicale. La guerra l’abbiamo sempre fatta. Ma adesso, o la guerra finisce, o finiamo noi 35.
La tecnica, con tutta la sua infinita possibilità distruttiva, è il nuovo principio dell’ordine mondiale.
Non c’è dubbio che sia un male, come tutti dicono. Il punto è che, come sempre, il male ha due
facce. Potenziandone al massimo la distruttività, cresce all’estremo anche la sua dimensione
costruttiva e salvifica. Solo quando un singolo gesto di un singolo uomo è sufficiente a distruggere
il mondo, il potere perde completamente la capacità di ingannarci, di farsi credere vita e non morte.
Il potere assoluto, tanto assoluto quanto mai in passato era stato possibile immaginarlo, coincide
con l’assoluta impotenza e si paralizza da solo. Il gesto dell’onnipotenza, infine, non sarebbe che un
suicidio.
Naturalmente, nulla garantisce che questo suicidio non ci sarà: non è da sperare che il maneggiare
l’arma assoluta conferisca di per sé al potere quella saggezza e prudenza che gli sono
originariamente, istituzionalmente estranee. La sola novità incoraggiante, piuttosto, è che proprio la
costitutiva follia del potere viene inceppata da questo meccanismo. Se il potere, come Canetti lo
intende, è una continua fuga dalla morte nella morte, ora questa fuga è definitivamente impossibile.
Non c’è più rifugio dalla propria morte nella morte altrui. Per la prima volta, non è possibile
uccidere altri senza uccidere se stessi. La morte non è più eludibile, non si può più scansarla
deviandola su altri. La sola possibilità di vincere su di lei è vigilarla, custodirla, lasciarla immobile
al centro, paralizzata. Paralizzando con ciò anche il potere nella sua dimensione essenziale.
Potrebbe non essere peggio del cristianesimo cadaverico di Girard. Dopo tutto, la Morte intorno a
cui in questo modo giriamo è solo la Tecnica, non è Dio. Del resto, non ci è data alcuna scelta. La
grande novità, appunto, è che tutte le vie di fuga sono chiuse. Il meccanismo fondante non è mai
stato così chiaro, così nudo sotto gli occhi di tutti. Così definitivo. Così definitivamente
insormontabile: la Bomba non verrà mai “disinventata”. Nello stesso tempo, però, l’essenza
fondativa del potere non è mai stata così inerte, così disarmata, così povera d’orpelli e d’attrattive,
così meschina e miserabile, così senza gloria. Non c’è mai stato un simile spazio per imparare a dire
noi senza dire morte.
Intanto, siamo sempre lì. Il cerchio gira. Noi siamo gli Animali Simbolici. Noi siamo i Costruttori
del Senso. La Morte è dentro, la Morte è fuori. Noi la teniamo dentro, noi la teniamo fuori. Tutto
sommato, ci riusciamo bene. L’ambiente non ci ha ancora risucchiato, il caos non ha ancora vinto.
Ormai sappiamo di che si tratta: di controllare la morte, di non lasciarle l’ultima parola, di garantirci
sempre un’eccedenza di senso, un surplus di vita che consenta di continuare a girare. Ed ora che lo
sappiamo, forse non abbiamo motivo di disperarci. Non sottovalutiamo le nostre capacità. Se
abbiamo raggiunto l’onnipotenza nell’uccidere, cosa potremo fare quando a uccidere avremo
definitivamente rinunciato? Non dimentichiamo da quale originario non senso siamo partiti, quanto
a lungo nei confronti della Morte non abbiamo potuto permetterci altro se non di giocare a
nascondino.
Il cerchio gira da un bel po’. Sarebbe un peccato che si fermasse proprio ora. Ora che, per la prima
volta, Noi potrebbe significare: tutti. Ora che il linguaggio simbolico delle identità collettive ha
assunto un’ampiezza, una complessità, una drammaticità, una tensione, una potenza creativo-
distruttiva tali da aprire la strada per un nuovo logos. O per il silenzio ultimo, come sola alternativa.
Nell’ipotesi che proprio questa debba essere la nostra fine, peraltro, sul piano della cosmodicea ci
sarebbe poco da ridire. Se di fronte a una morte definitivamente smascherata non sapremo fare nulla
di meno stupido che ammazzarci tutti, ce lo saremo proprio meritato.

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1. Originariamente pubblicato in AA. VV., L'irrazionale e la politica. Profili di simbolica politico-
giuridica, a cura di C. Bonvecchio, Ed. Università di Trieste, Trieste 2001.
2. Anche in omaggio all’origine di questo scritto, rinvio in proposito alle illuminanti e condivisibili
considerazioni di Giovanni Fiaschi, nel volume che ne ha ospitato la prima stesura. Cfr. G. Fiaschi,
Il desiderio del Leviatano, in AA. VV., Id irrazionale e la politica. Profili di simbolica politico-
giuridica, cit., Edizioni Università di Trieste, Trieste 2001, pp. 148-65.
3. Cfr. p. es. C. Geertz, Verso una teoria interpretativa della cultura, in Id., interpretazione di
culture, trad, di E. Bona, Il Mulino, Bologna 1989 (rist.), sp. pp. 47-51.
4. Per alcune sommarie considerazioni a questo proposito, rinvio al mio Libertà senza verità:
filosofia, simboli e democrazia, in AA. VV., Filosofia e democrazia (Atti del II Seminario di
filosofia politica, Certosa di Pontignano, 22-24 novembre 1990), a cura di D. Fiorot, Giappichelli,
Torino 1992, pp. 211-3. 5. Per una più ampia riflessione sul tema, rinvio al mio saggio Identità e
differenza nelle soggettività collettive, in AA. VV, Il soggetto politico, tra identità e differenza (Atti
del IV Seminario di filosofia politica, Certosa di Pontignano, 27-29 aprile 1995), a cura di D.
Fiorot, Giappichelli, Torino 1998, pp. 193-201.
6. Cfr. A. Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, introduzione di K.-S. Rehberg,
trad, di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1990 (rist.), sp. pp. 35-73; cfr. anche C. Geertz, L'impatto
del concetto di cultura sul concetto di uomo, in Id., Interpretazione di culture, cit., pp. 75-9. Ma
debbo rinviare pure al capitolo IX di questo volume.
7. Il concetto d’istinto, almeno nelle sue accezioni correnti, è talmente vago ed ambiguo da non
avere praticamente alcun senso euristico. A parte ciò, è logicamente impossibile utilizzarlo per
spiegare proprio un atto fondativo, quindi nuovo per definizione, difforme dagli schemi
comportamentali precedenti. Non a caso, tutti i più importanti tentativi contemporanei di costruire
un’ipotesi sull’origine della socialità umana presuppongono proprio una rottura con la dimensione
istintuale del comportamento animale. Cfr. A. (ìehlen, Duomo. La sua natura e il suo posto nel
mondo, cit., pp. 50-8; cfr. anche R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo,
trad, di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983, sp. pp. 121-7.
8. Su basi alquanto diverse, giungo alla stessa conclusione di Roberto Esposito. Cfr. R. Esposito,
Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, sp. Introduzione, pp. IX-
XXXVI.
9. È la celebre definizione del “sacro” proposta da Rudolph Otto. Cfr. R. Otto, Il sacro, trad, di E.
Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 1966.
10. Cfr. A Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 360-1.
11. Cfr. U. Fabietti, L'identità etnica, Carocci, Roma 19982, pp. 16-8.
12. Su questa dimensione complessa ed ambivalente rinvio al mio saggio Il Terzo che deve morire,
in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e simboli dell'ordine violento. Percorsi fra
antropologia e filosofia politica, Giappichelli, Torino 2003, pp. 81-6.
13. Sul concetto di ierofania, cfr. Μ. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad, di V. Vacca,
Boringhieri, Torino 19722, pp. 3-41.
14. È l’esempio classico del “totemismo”. Cfr. A Gehlen, L' uomo. La sua natura e il suo posto nel
mondo, cit., p. 361, e C. Geertz, La religione come sistema culturale, in Id., Interpretazione di
culture, cit., pp. 179-80.
15. Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale. L esperienza e l'interpretazione, Laterza, Roma-Bari
1999, pp. 249-50.
16. Di grandissimo interesse sono, a questo proposito, le considerazioni di Elias Canetti sul
simbolismo di massa e di nazionalità. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, trad, di E Jesi, Adelphi,
Milano 1981, pp. 90-108 e 201-13.
17. Cfr. p. es. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 41-8.
18. Cfr. p. es. ivi, pp. 41-2; cfr. anche il mio saggio Dal conflitto dei doppi alla trascendenza
giudiziaria. Il problema politico e giuridico in René Girard, in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo,
Ligure e simboli dell'ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit., pp. 30-3.
19. Cfr. ivi, pp. 26-9, e R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 116-
21.
20. Cfr. p. es. R. Girard, La violenza e il sacro, trad, di O Fatica ed E. Czerkl, Adelphi, Milano
19862, pp. 109-22.
21. C£r. p. es. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 68-71.
22. Cfr. sp. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 123-60.
23. Cfr. p. es. R. Girard, L'antica via degli empi, trad, di C. Giardino, Adelphi, Milano 1994, pp.
141-8.
24. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., sp. pp. 112-22; cfr. anche Id., L’antica via degli empi,
cit., pp. 56-65.
25. C£r. p. es. R. Girard, Il capro espiatorio, trad, di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987,
pp. 74-7.
26. Cfr. sp. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 235-83; cfr.
anche Id., Il capro espiatorio, cit., pp. 305-25.
27. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 80-7.
28. Cfr. R. Escobar, Il campanile di Marcellinara. Ipotesi sull'obbedienza, in G. Μ. Chiodi (a cura
di), L'immaginario e il potere, Giappichelli, Torino 1992, pp. 183-209. Cfr. anche infra, cap. VI.
29. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 273-9.
30. Cfr. ivi, pp. 279-82.
31. Cfr. ivi, pp. 58-62.
32. Cfr. ivi, pp. 69-73.
33. Cfr. il mio saggio II Terzo che deve morire, in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e
simboli dell'ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit., pp. 94-7.
34. Cfr. ivi, pp. 102-9.
35. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 569-71. Ma rinvio anche al cap. VI di questo volume.
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PARTE I. LA VIOLENZA SOVRANA

CAPITOLO II. Sovranità, morte e politica1


SOMMARIO: 1. Per una Realpolitik della sovranità - 2. Sovranità dei guerrieri e sovranità dei poliziotti
- 3. Non c’è sovrano senza sudditi, ma ci sono sudditi senza sovrano - 4. Violenza anarchica e
violenza monarchica -5. In marcia, uccisori - 6. Miti di guerra e di pace - 7. Il Leviatano
involontario e la libertà.

1. Per una Realpolitik della sovranità


Un passaggio ineludibile nella tematizzazione della guerra è il concetto di sovranità, sul quale
vorrei tentare una riflessione radicale, al di là delle nozioni giuridiche correnti, che, come spesso
accade, rischiano di addormentare i problemi.
Ammettiamo pure, anzitutto, che la sovranità abbia a che fare col decidere in ultima istanza, o col
non riconoscere un superiore2. Ma cosa significa questo realmente, cioè al di là delle forme
istituzionali, delle definizioni normative e di tutto ciò che ci dà la gradevole illusione che qui si stia
parlando di un ordine razionale della convivenza?
Se una volontà, non importa di chi, si pone come sovrana, nel rapportarsi alle volontà altrui
sicuramente e per definizione non le riconoscerà come superiori. Va dunque ovviamente escluso che
una volontà sovrana possa essere una volontà obbediente3. Sarà certamente una volontà imperante,
quando incontra volontà ritenute inferiori. Sarà invece una volontà configgente, nel caso in cui
incontri volontà che la contrastano, ma appartengono a soggetti riconosciuti come del medesimo
rango. Chi non riconosce superiori può certamente riconoscere pari, ma, tra volontà pari, o si
delimitano i rispettivi campi di competenza (e in questo caso le volontà non s’incontrano, in quanto
reciprocamente si escludono dalle rispettive sfere d’attribuzione - si saranno forse incontrate in
precedenza, per delimitarsi consensualmente), oppure, se non ci sono delimitazioni riconosciute,
ogni volontà si presenta all’altra come totale, e in questo caso il contrasto si risolve solo con un atto
di forza che elimini o sottometta una delle volontà confliggenti. Dunque, una volontà sovrana può
ammettere di fronte a sé solo volontà obbedienti o volontà consenzienti. Di fronte a volontà
disobbedienti o dissenzienti, o la volontà sovrana si ritrae, cessando con ciò stesso di essere
sovrana, almeno sovrana in quella sfera, oppure può affermarsi unicamente come forza coercitiva,
punitiva o distruttiva. Ma come forza sostenuta dal diritto di essere coercitiva, punitiva o
distruttiva; dunque (per usare un’espressione che bisognerà chiarire) come forza legittima.

2. Sovranità dei guerrieri e sovranità dei poliziotti


È soprattutto a questo livello che emerge una differenza tra sovranità interna e sovranità esterna.
La sovranità interna non può riconoscere pari, altrimenti si nega in quanto sovranità: ogni contrasto
di volontà, ogni disobbedienza implica il disconoscimento della sovranità, e quindi una lotta per
essa. La volontà sovrana, all’interno, si afferma come l’unica volontà legittima: le eventuali volontà
in contrasto sono per ciò stesso volontà colpevoli, indegne d’esistere, meritevoli di distruzione. Se il
contrasto di volontà dovesse risolversi in contrasto di forze, una sola di esse, quella che si pretende
sovrana, avrebbe diritto d’esserci (e se non riuscisse a schiacciare le altre, verrebbe dunque
rovesciata e distrutta in quanto sovrana, o dovrebbe almeno cedere alle altre uno dei suoi spazi di
sovranità, come può accadere ad esempio quando un territorio appartenente ad uno Stato riesce ad
affermare la propria indipendenza, o quando un’autorità rinuncia a vincolare la fede religiosa o il
pensiero).
La sovranità esterna, invece, si esercita tra pari, e pari è chiunque le resista e riesca a mantenersi in
questa resistenza: chiunque possa lottare per mantenere la propria volontà e riesca a non essere
sconfitto, o a non esserlo totalmente. Cioè, detto in termini più concreti, sovrano è in questo caso
chiunque riesca a fare la guerra senza perderla, o, pur perdendola, riesca a convincere l’avversario
che il rispetto della propria esistenza come soggetto sovrano è preferibile al tentativo di
sottometterlo o distruggerlo. Nell’ambito della sovranità esterna (non dirò del diritto internazionale,
perché i concetti giuridici sono maschere, e non dirò neppure dei rapporti tra Stati, perché qui
stiamo parlando di qualcosa di più antico e universale dello Stato) la guerra ha una funzione
costitutiva: è precisamente essa a determinare chi sia sovrano. Nell’ambito della sovranità esterna,
per andare alla sostanza della cosa, sovrano è chi vince la guerra (o almeno, non la perde del tutto).
S’intende che questa funzione costitutiva non è circoscritta in un unico momento originario, ma è
continua nel tempo. La sovranità esterna, infatti, non è mai conquistata una volta per tutte. Non è
mai garantita, neppure da eventuali accordi, che valgono soltanto finché la forza di ciascun
contraente è tale da indurre gli altri a rispettarli. Chiunque possa fare la guerra ha il diritto di
contestare l’altrui sovranità, perché questa sovranità non si fonda in nessun caso su un titolo di
legittimità che non sia la guerra. È sempre la guerra a decidere chi resta sovrano, chi lo diventa, chi
cessa di esserlo. E la guerra ha tempo, la guerra non ha fretta. Non tolgono dunque nulla a questa
verità i lunghi o anche lunghissimi periodi di pace, neanche quelli tanto lunghi da far accettare
come nozione di senso comune che la sovranità esterna si fondi sugli accordi, sul reciproco
riconoscimento. Il reciproco riconoscimento non consiste in altro che nell’essere venuti ugualmente
a capo di una guerra, restando ancora in piedi.
In ciascun momento storico, i soggetti sovrani costituiscono la comunità, sempre provvisoria, dei
sopravvissuti alla guerra4. E la sovranità continua finché dura la capacità di sopravvivere alla
guerra, o la convinzione degli altri soggetti che questa capacità ci sia e non convenga sfidarla. E
quando sorgeranno dubbi, quando la sovranità inizierà a scricchiolare, il solo possibile modo di
confermarla sarà metterla a rischio nella guerra.
Non sembra che ci siamo ancora accorti, stranamente, che da poco più di sessant'anni in tutto questo
c’è stato un mutamento straordinario, forse l’unico mutamento vero e radicale da quando esiste
l’uomo. L’arma nucleare, naturalmente. Mi risulta che i manuali di diritto internazionale riescano
spesso a non menzionarla neppure. Eppure, essa ha completamente ridefinito, dopo millenni,
l’ambito della sovranità esterna. In maniera molto chiara e logica. Nessuno può resistere a chi
possiede le armi atomiche, se non chi à propria volte le possiede.
Dunque, solo chi ha le bombe atomiche è sovrano, e può riconoscere come sovrani solo gli altri
possessori di bombe5.
La sovranità esterna, se vogliamo dare alle parole il loro senso, oggi appartiene soltanto alle potenze
nucleari: tutto il resto è colonia o protettorato. Ci possono essere anche protettorati riottosi, che
riescono in qualche modo a ritagliarsi un proprio spazio, ponendo le potenze protettrici
nell’alternativa di tentare di sottometterli con una guerra convenzionale lunga, costosa e incerta, o
di ricorrere appunto all’arma nucleare per un motivo sproporzionato e con conseguenze
difficilmente prevedibili. Ma anche in questo caso, è pur sempre la presenza di altre potenze
nucleari ad essere il fattore determinante, da cui può derivare l’illusione che la sovranità esterna sia
più pluralistica e meglio distribuita di quanto in realtà non sia. La guerra del Vietnam ne è un
esempio chiaro. Non si è trattato di una sconfitta militare degli Stati Uniti (nessuna potenza nucleare
può essere davvero sconfitta da una potenza non nucleare, e la cosa è ovvia), ma della decisione di
abbandonare una guerra non veramente necessaria, che poteva essere vinta solo a un costo molto
alto, mentre l’uso dell’arma atomica, che sarebbe stato risolutivo sul terreno, avrebbe provocato il
rischio di un conflitto nucleare generalizzato. Senza l’Unione Sovietica e la Cina, sarebbe bastata
anche solo la credibile minaccia dell’uso dell’arma atomica per porre fine alla guerra
immediatamente.
Qui possiamo scorgere l’altra innovazione fondamentale propria dell’era atomica (una definizione
in passato usuale, ora stranamente desueta: come se questa non restasse, e non fosse destinata a
restare per sempre, una svolta nei destini umani almeno altrettanto importante dell’uso del fuoco, e
sicuramente d’importanza enormemente maggiore rispetto alla caduta dell’impero romano o alla
scoperta dell’America). Chi non possiede armi atomiche, semplicemente non esiste come soggetto
sovrano (ciò non toglie che si possa esistere comodamente, ed anche dignitosamente, come
protettorati, se la potenza protettrice non ha troppe pretese). Ma chi le possiede, deve rinunciare a
priori a mettere in discussione che tutte le altre potenze nucleari (almeno al di sopra di una certa
soglia di capacità distruttiva) siano definitivamente sue pari. Non c’è più la pressione selettiva della
guerra sulla sovranità. Chi ha la bomba, è sovrano per sempre, o per meglio dire è sovrano finché ce
l’ha: a dispetto di ogni insuccesso competitivo, di ogni crisi interna, di ogni spinta centrifuga, di
ogni perdita d’identità (il caso della Russia è evidente ed esemplare). Gli imperi non crollano più:
chi ha la bomba è condannato a essere immortale. E quindi, tra potenze nucleari non ci sono più
vincitori e vinti. Non c’è più sopravvivenza. Siamo davvero, oggi, oltre la guerra6.
Ci siamo accorti che la parola “guerra” non si usa quasi più? Non è solo un’ipocrisia, ed anche se lo
fosse sarebbe ugualmente significativa. Una guerra che non si vuole o non si può nominare è
davvero cosa diversa rispetto alla guerra il cui nome era addirittura invocato con orgoglio e
speranza. Ma non è, appunto, solo questione di nomi. Certamente non è finita la violenza,
certamente non è finita la capacità e la volontà di uccidere su larga o larghissima scala. E' finita
precisamente la possibilità che ciò decida della sovranità. I pari restano pari, anche se alcuni sono
ricchissimi ed altri poverissimi, alcuni democrazie ed altri dittature, alcuni solidi ed altri instabili,
alcuni in espansione ed altri in arretramento. Non possono più sfidarsi, non possono più
disconoscersi, perché perderebbero tutti.
Ma se finisce la lotta per la sovranità, se finisce la guerra, finisce propriamente l’intera dimensione
esterna della sovranità. Il mondo è un condominio di potenze nucleari, che se sono in conflitto
dovranno accuratamente delimitare gli spazi che il conflitto non dovrà mai varcare, e dunque non
potranno mai essere veramente in conflitto (lo abbiamo davvero capito, quant’è stato paradossale il
concetto di guerra fredda.?)7.
È questa la vera globalizzazione, di cui ogni altro aspetto è una conseguenza. In qualche modo, lo
Stato mondiale sognato dagli illuministi esiste già, per quanto poco entusiasmante possa apparire la
sua realtà rispetto ai sogni: esiste come confederazione (sia pure disordinata e litigiosa) di potenze
nucleari che gestiscono i propri rispettivi clienti in un contesto di reciproca compatibilità, e in cui
l’esercizio della violenza (per nulla meno frequente o meno cruento di prima) non può assumere la
forma della guerra vera e propria (cioè del conflitto per la vita e la morte tra soggetti sovrani), ma
piuttosto quella dell’azione di polizia o dell’applicazione della pena. Cioè le forme proprie della
sovranità interna8.
È ovvio che questo alimenti il terrorismo. Si tratta dello stesso effetto proprio di una sovranità
interna contrastata da rivendicazioni radicali e irriducibili, ma che non riescono né possono riuscire
a rovesciarla o riformarla. Il dissenziente che non si accontenta d’essere criminale, ma che non ha la
forza per fare con successo una rivoluzione, non può che diventare terrorista. Il terrorismo è
l’illusione di poter fare la guerra senza essere soggetti sovrani, cioè senza essere davvero capaci di
uccidere. Il terrorista può uccidere ogni singolo individuo, ma non può “colpire al cuore lo Stato”.
Probabilmente perché un cuore dello Stato oggi non c’è, in ogni caso perché qualsiasi cosa possa
approssimarsi a questo romantico e ingenuo concetto è troppo al di fuori della sua portata. Cosa
importa chi governa o sgoverna alla periferia dell’impero? Qualsiasi cosa cambi a quel livello, nulla
cambia davvero. E se davvero c’è un cuore della sovranità, questo non può che identificarsi appunto
con la sua essenza, la sua capacità cioè di dare morte, che è invulnerabile rispetto ad ogni forza che
non sia dello stesso rango. L’impero ha un cuore nucleare, scudi nucleari, spade nucleari. Con
pistole o tritolo, non si va lontano.
Per il terrorismo internazionale, la situazione non è realmente diversa. Anzitutto, non c’è più alcuna
vera “internazionalità”. E poi, a questi livelli di asimmetria delle capacità distruttive non può esserci
vera guerra, cioè reale possibilità di vincere distruggendo l’avversario 9. Il terrorista s’illude di poter
compensare la sproporzione di forze rendendosi invisibile e onnipresente, ma una reale invisibilità
comporterebbe dispersione e debolezza, mentre ogni significativa concentrazione di forze implica il
diventare bersaglio. E sarebbe del resto quasi impossibile concentrare le forze senza la protezione di
uno Stato o l’identificazione con uno Stato. Che, se è una potenza nucleare, si servirà dei terroristi
che protegge solo fino a che ciò non gli fa rischiare il conflitto generalizzato che lo distruggerebbe
insieme con ogni altra cosa; e se è un protettorato, potrà agire solo nei limiti che le potenze
protettrici (tutte le potenze protettrici nel loro insieme) sono disposte a concedergli.
Diverso sarebbe il discorso se il terrorista potesse avere abbastanza armi nucleari (o equivalenti) da
rappresentare una minaccia non estirpabile senza un conflitto nucleare completamente distruttivo.
Allora però sarebbe diventato un soggetto sovrano: non solo uno Stato, ma molto di più di quello
che la maggior parte degli Stati oggi sono. A quel punto, però, le sue armi non le potrebbe più usare,
perché non ci sarebbe nessuno scopo, nessun vantaggio, nessun cambiamento, nessun evento: solo
la fine di tutto, che appunto non può che essere nulla. Ciò è lungi dall’essere impossibile,
purtroppo10. Ma qui saremmo oltre i limiti d’ogni riflessione e d’ogni attribuzione di senso, nel
pieno mistero del male.

3. Non c’è sovrano senza sudditi, ma ci sono sudditi senza sovrano


Se tutto questo è vero, la sovranità interna rappresenta oggi non più solo una parte, ma il tutto della
sovranità. Per capirlo bene, però, dobbiamo anzitutto considerarne la forma classica, la forma di
quando c’era ancora un esterno.
Dunque: un soggetto sovrano di tipo classico si rapporta all’esterno con propri pari (in quanto non
ha potuto “ucciderli”), e all’interno solo con inferiori e subordinati (altrimenti li “ucciderebbe” 11).
All’esterno, la sovranità coincide interamente con la capacità di uccidere e non ha nessun altro reale
fondamento (a parte le sofisticherie metafisico - giuridiche). All’interno, invece, interviene un altro
singolare elemento, denominato in genere legittimità. È un elemento molto sfuggente, ma non è una
mera sofisticheria. E non lo è per due motivi almeno. Anzitutto, perché nessun soggetto sovrano
allega mai, nei rapporti interni, la semplice forza come fondamento ultimo della propria esistenza
(mentre all’esterno è così: non ha alcun senso ed alcun effetto pratico negare legittimità a chi ha
abbastanza forza da resistere a questa negazione, e chi ha la forza non ha veramente bisogno di
nient’altro), e se ai sudditi si opponesse la mera forza del sovrano ciò sarebbe unanimemente
definito tirannide (non esistono invece “tiranni” all’esterno, perché tutti lo sono ugualmente). Ma,
principalmente, ciò accade perché la stessa volontà sovrana non ha alcuna reale autonomia né
alcuna reale superiorità di forza rispetto alle volontà dei sudditi, da cui è interamente costituita (e
che le conferiscono anche la possibilità di aspirare alla sovranità esterna).
Da Hobbes in poi, non può destare più alcuna sorpresa l’idea che siano i sudditi a fare il sovrano 12.
E poco o nulla si potrebbe mutare o aggiungere a questo supremo svelamento del mistero della
sovranità. Sotto questo profilo, la sovranità è il consenso, e non cambia molto se il consenso è
argomentato e ragionevole, o convinto ed entusiastico, o indiretto e passivo. Per questo la volontà
sovrana (che è davvero in qualche modo definibile come volontà generale) non può riconoscere
altre volontà accanto a se stessa: fuori del tutto c’è niente, magari un niente vorace, aggressivo,
nemico, da cancellare. E qui risiede tutta la differenza tra la ribellione (che è “criminale”) e la
rivoluzione (che è legittima, anzi fonte di legittimità, perché è un cambiamento della volontà
sovrana). Finché la maggioranza (non solo numerica: per usare un concetto molto generico, di cui
forse possiamo qui accontentarci, si tratta piuttosto di una maggioranza di “forze sociali”, da
intendere assai variamente nelle diverse epoche e situazioni) sostiene o accetta l’autorità, questa è
comunque sovrana. E legittimità è non tanto il fatto del consenso, quanto la convinzione, più o
meno intensa e consapevole, che il consenso sia dovuto o necessario, perché non risulta pensabile
che di quella forma d’autorità si possa fare a meno.
Per questo il princeps è legibus solutus: proprio perché è legittimo, cioè sostenuto da questo tipo di
consenso, e quindi non vincolabile da altro, neppure dalla sua propria volontà. La volontà del
sovrano è la risultante delle volontà, nell’essenziale convergenti, dei sudditi. Non possono entrare in
gioco forze diverse da queste, e il sovrano che dovesse riconoscere altri limiti diverrebbe
paradossalmente illegittimo. Il sovrano può sempre fare ciò che i sudditi gli fanno fare (sia nel
senso che lo obbligano a fare, sia nel senso che gli permettono di fare). Se riconoscesse vincoli
diversi, si negherebbe in radice come soggetto sovrano, cioè negherebbe il costitutivo rapporto che
lo lega al consenso.
S’intende che è del tutto possibile, però, che non ci sia alcun sovrano. Anche qui il diritto
rappresenta solo un ostacolo alla comprensione dell’essenziale. La sovranità non è la stessa cosa
della statualità, né è necessariamente implicata dall’esistenza di una qualsiasi autorità di governo.
Ci sono, e sono anzi numerosissime, delle forme d’organizzazione sociale che della sovranità fanno
tranquillamente a meno, utilizzando altri princìpi ordinatori ugualmente efficaci. Per questo il
concetto di sovranità della legge è insensato, senza che questo comporti come necessaria
conseguenza l’acquiescenza a forme assolute o totalitarie di sovranità. Sovranità della legge è solo
un modo suggestivo e iperbolico, e altamente fuorviante, per designare un sistema in cui non c’è
autorità sovrana, ma una rete complessa di forze sufficientemente convergenti da potersi presentare
e rappresentare (anzitutto a se stesse) come un tutto. E la stessa cosa si può dire per il concetto
(diverso anche se non necessariamente confliggente) di “sovranità del popolo”. Un’espressione che
se presa alla lettera è solo un’evidente falsità (e sarebbe inutile insistere su un punto che nella
scienza politica contemporanea è definitivamente assodato), ma può essere un modo sensato e
simbolicamente efficace di esprimere, con una connotazione di valore positiva e forti risonanze
immaginali, appunto l’assenza di sovranità.

4. Violenza anarchica e violenza monarchica


Qui, però, il modello hobbesiano cessa di assisterci. E' ovviamente inconcepibile, secondo questo
modello, che la sovranità possa mancare senza che manchi l’ordine. Mentre è un fatto che, in molte
società premoderne ma probabilmente anche nelle società contemporanee, proprio nelle nostre
società, la sovranità non c’è13. E la ragione per cui Hobbes scambia il tutto dell’ordine con una sua
parte pur importante, appunto la sovranità, è probabilmente la stessa ragione per cui è insufficiente
a chiarire sino in fondo cosa è legittimità.
Mi ritengo dispensato dal compito di riassumere Hobbes 14. Si può andare direttamente
all’essenziale: il modello del consenso razionale espresso nel pactum e motivato dalla paura e dal
bisogno di sicurezza. Certamente, non c’è niente di nuovo nel rilevare l’intima contraddizione di un
bisogno di sicurezza che si soddisfa personificando la paura e consegnandosi ad essa senza limiti e
senza riserve. Ci sarebbe un modo molto più semplice di realizzare la sicurezza senza la sovranità,
ed è proprio ciò che Hobbes ha invece individuato come l’essenza del disordine e il cuore stesso
della paura: l’uguaglianza degli uomini sotto il profilo della pari e reciproca uccidibilità15. Perché
mai il consegnarsi inermi ad un monopolista dell’uccidere darebbe più sicurezza della possibilità di
uccidere ogni potenziale uccisore? La pari uccidibilità non è necessariamente bellum. Anzi, tutte le
guerre sono prodotte da uno squilibrio di forze (o, spessissimo, dall’illusione che questo squilibrio
ci sia e sia a proprio vantaggio). Nessuno (sempre che non sia aggredito, e forse neanche allora) fa
la guerra, se non pensa di poterla vincere, o almeno di poterle sopravvivere. In un contesto
d’uccidibilità realmente pari, la guerra non si fa. Se davvero tutti possono uccidere tutti, dunque, il
sovrano è assolutamente superfluo. È esattamente quello che c’insegna, sotto un altro profilo,
l’equilibrio del terrore atomico. Che è terrore, ma equilibrio, ordine, in qualche strano modo pace, e
persino unificazione del mondo.
C’è in Hobbes, oserei dire, una dimensione democratica latente, nonostante le note invettive
tucididee contro la democrazia da lui pronunciate16. E consiste precisamente nell’uguaglianza degli
uomini per natura, perché nessuno è per natura esente dal rischio di essere ucciso, in quanto nessuno
è tanto forte da essere al riparo dall’ingegnosità o dalla capacità di coalizzarsi dei più deboli.
Specialmente se si hanno armi la cui efficacia sia indipendente dalla forza fisica o dal coraggio o da
particolari abilità di chi le usa (com’è evidentemente il caso delle armi da fuoco). Immaginiamo un
sistema politico in cui tutti i cittadini siano armati, o possano armarsi con facilità. Ne risulterà che
nessuna disuguaglianza sociale potrebbe risolversi in un diritto dei più favoriti di togliere
impunemente la vita ai meno favoriti, e che nessun’autorità potrebbe prevaricare al punto di mettere
arbitrariamente a rischio la vita dei cittadini. Altrimenti si comincerebbe a sparare, e questo non
conviene a nessuno.
Non è un esempio del tutto teorico. Noi europei non capiamo quasi niente degli Stati Uniti perché
pensiamo che si tratti della stessa cosa dell’Europa, solo in forma un po’ più barbara. In particolare,
pensiamo che parlare di democrazia in America e in Europa sia in sostanza la stessa cosa. E invece
no. In Europa, democrazia significa poter andare a votare. In America, può significare poter andare
a sparare. L’attaccamento degli americani alle armi da fuoco non sarà encomiabile, ma non è un
incomprensibile e irragionevole feticismo della violenza. Cittadino è chi può difendere con le armi
la propria libertà. E questa libertà consiste precisamente nell’essenza della sovranità classicamente
intesà, cioè nel poter uccidere. In realtà, il concetto di “popolo sovrano” ha probabilmente un senso
proprio, e non vagamente metaforico, solo così. Tutti possono uccidere chi viola i loro spazi vitali,
dunque tutti sono sovrani, dunque un sovrano non c’è. E' un ordine fortemente violento, ma è un
ordine, e non si vede proprio come si possa ritenere meno violento l’ordine della sovranità
hobbesiana, in cui uno solo, col consenso di tutti, può uccidere chiunque. Nell’Ottocento queste
cose si sarebbero comprese meglio: ci siamo dimenticati quanto fosse importante, per il movimento
costituzionalista, la rivendicazione della Guardia Nazionale, da contrapporre come presidio delle
libertà civili alle forze mercenarie al servizio della monarchia, o quanto nel Risorgimento, tra i
mazziniani e i garibaldini, l’idea d’indipendenza nazionale fosse legata a quella d'esercito di
popolo17.
E' un’idea molto chiara e molto lucida: non è possibile che sia sovrano chi non ha gli strumenti per
uccidere. Ma il principale di questi strumenti è, lo abbiamo già visto, il consenso, che si
autointerpreta come “legittimità”. E qui resta il nucleo, ancora parzialmente inesplorato e
misterioso, della sovranità. Perché il vero problema non è quello hobbesiano del passaggio dal
disordine senza sovranità all’ordine sovrano. Il vero problema è come e perché si passa, da una
forma in qualche modo naturale di “democrazia” basata sulla reciproca uccidibilità che costringe ad
una delimitazione consensuale dei rispettivi spazi vitali, ad una forma monarchico-oligarchica, ad
una forma comunque concentrata, monopolizzatrice. Che vantaggio offre la sovranità concentrata
rispetto alla sovranità diffusa? Per Hobbes, dovrebbe essere un vantaggio di sicurezza. Ma questo è
fattualmente falso. Tutta la storia dimostra ad abundantiam, con quello che si potrebbe chiamare un
vero scialo di morte™, che la sovranità concentrata uccide infinitamente di più di quella diffusa.
Nelle società “segmentarle” o “acefale” di cui parla l’antropologia culturale, la violenza è
certamente endemica, ma è soggetta a meccanismi di controllo e limitazione molto efficaci: il fatto
stesso di non poter mai essere davvero soverchiante di fronte alle forze in gioco, all’incirca paritarie
e comunque mai inermi, ne provoca presto o tardi il blocco o almeno una canalizzazione
socialmente tollerabile19. Ed anche rispetto alle democrazie contemporanee sarebbe possibile notare
qualcosa di simile. Certo, salvo forme parziali ed in qualche modo folcloristiche (come quelle
americane), non abbiamo qui la pari uccidibilità, ma abbiamo pur sempre un pluralismo pressoché
illimitato (e dispersivo) delle forze sociali, che ne rende difficile una convergenza talmente rapida,
intensa, determinata e concentrata da poter esprimere una violenza altamente distruttiva nei
confronti di forze dissenzienti. Si dice spesso che le democrazie non fanno la guerra, e questo
sicuramente non è vero, ma non è neppure falso del tutto, e in qualche modo coglie comunque un
carattere distintivo di grande importanza. Se invece parliamo di monarchie assolute, di dittature, di
sistemi totalitari, di forme in qualsiasi modo accentrate e concentrate di potere, con un vertice ben
chiaro e riconosciuto che sfocia nella preminenza di un individuo, di un gruppo sociale, di
un’istituzione, cioè se parliamo di tutti i casi in cui, comunque lo si definisca, esiste un sovrano
(non importa se re, vicario di un dio, capo carismatico, dittatore, condottiero, classe dominante,
partito unico o quel che si vuole), allora è difficile avere dubbi su quel che succede sotto il profilo
della violenza. Guerre di conquista e di sterminio, persecuzioni, inquisizioni, esecuzioni, massacri,
lager, gulag: si può davvero credere che il sovrano pacifichi?
Ma se non pacifica, allora, perché lo si vuole? Perché si crede, illusi o ingannati, che pacifichi? O
proprio perché non pacifica, proprio perché apre la strada a una violenza che altrimenti sarebbe
limitata, bloccata, frustrata?

5. In marcia, uccisori
Le due ipotesi appena enunciate non si escludono a vicenda. Anzi, potremmo dire che si
completano. Per volere o accettare un sovrano, bisogna credere che pacificherà. Grande, immensa
anzi, è sempre la forza del disordine, del caos che preme ai confini, della paura, radicata nel cuore
dell’esistenza e mai realmente superabile. Bisogna credere che qualcuno possa allontanare il male o
limitarlo, aprendoci uno spazio di sicurezza e di pace. Non c’è solo servilismo nella volontà di avere
un sovrano, sebbene il servilismo non sia mai raro nella storia degli uomini. C’è anzitutto la volontà
di un principio unificatore, di qualcuno o qualcosa che garantisca la possibilità dell’incontro, della
convergenza d’intenti, dello scambio pacifico e concorde.
Per questo non ci basterebbe l’essere semplicemente liberi. Una torre dalle solide mura o un buon
fucile possono bastare, per essere liberi. Ma questo, di per sé, non ci dà un senso. Un termine vago,
che conviene prendere in un’accezione molto concreta e specifica: senso è anzitutto direzione. In un
contesto, per così dire, di libertà originaria, di pari uccidibilità hobbesiana, si sta fermi o ci si muove
nella propria breve cerchia. Non si ha un cammino da compiere. Non si ha un compito. Non si ha un
destino. Anzi, ci si paralizza a vicenda: nessuno potrebbe muoversi (in senso reale o figurato) al di
fuori dello spazio che è riuscito a delimitare come proprio senza invadere o impedire lo spazio di un
altro. Si sta in pace e in sicurezza solo se si sta tutti fermi. Ciò è terribilmente angosciante: perché
non abbiamo abbastanza tempo da poter apprezzare a lungo la sicurezza. Tutte le torri prima o poi
crollano, e nessun fucile può sparare alla morte. È questo il limite invalicabile dell’esperienza
individuale, ma anche il limite decisivo dell’individualismo come teoria, come forma di pensiero.
L’indipendenza reciproca (la pari uccidibilità) può darci sicurezza meglio di quanto farebbe
qualunque sovrano. Ma ci lascia soli con la nostra morte. E non è tanto della morte che abbiamo
paura, quanto dell’essere soli con lei: del non poter avere ima storia che, collegandoci insieme, ci
apra un futuro indeterminato, ci consenta di pensare a noi, al noi anzi, come qualcosa che non
muore, rendendoci così perfettamente tollerabile (o desiderabile, addirittura) che muoia l’io. Per
questo crediamo così facilmente alla promessa del sovrano (o aspirante tale) di darci la pace: quella
pace che in realtà abbiamo già, per conto nostro, ma per conto nostro non ha appunto senso.
Il sovrano mente, nella sua promessa? Può darsi, ma non è così ovvio come si potrebbe pensare.
Anzi, è tutto sommato piuttosto improbabile. L’idea del sovrano (o, più semplicemente e
genericamente, del capo, del potente, del leader) che come un truffatore qualsiasi inganna
coscientemente e spudoratamente i suoi seguaci per ricavarne vantaggi personali, ha una
verosimiglianza storica e psicologica davvero scarsa. O meglio: spesso il “capo” mentirà senza
ritegno in moltissime cose, magari anche per i vantaggi personali più abietti, ma quasi mai mentirà
coscientemente riguardo a ciò che rappresenta l’essenza della sua promessa, del consenso che gode,
la base della sua legittimità, e cioè proprio l’indicazione di un senso, di una direzione di marcia, la
costruzione di un piano, di un progetto di convergenza ed unificazione delle volontà e dei destini.
Se il capo non crede nel suo senso, che capo è? Se lui per primo si sa illegittimo, com’è possibile
che il suo potere si consolidi, che gli altri credano a lungo nella sua legittimità? Può darsi che il
capo menta; ma per avere efficacia politica apprezzabile ed essere qualcosa di più che il
protagonista di una breve tragicommedia, deve allora saper mentire anzitutto a se stesso.
Si può forse tentare, ora, un passo avanti nella comprensione di ciò che è legittimità. È anzitutto
consenso, lo si è già visto. Ma in un’accezione etimologica molto precisa: con-senso, senso
condiviso, senso comune. Consenso è ciò che ci fa procedere insieme, che ci fa marciare insieme,
che ci dà una direzione, una strada, un obiettivo. Che ci dà un nemico. Che traspone la nostra
distruttività dalla dimensione disgiuntiva dell’essere parimenti uccidibili a quella congiuntiva
dell’essere consensualmente uccisori20.
E' a questo che serve realmente il sovrano hobbesiano. Non a darci la pace, che avremmo già, ma a
darci la guerra. Non per sadismo, malvagità o “aggressività” (un mito pseudoscientifico,
quest’ultima, che non dovrebbe entrare in un discorso serio). Ma perché è il modo più semplice
d’inserirci in una direzione, di costruire una storia comune, di perseguire un progetto che ci
consenta di proiettare la nostra esistenza fino a un tempo al di là di noi, sia nel passato sia nel
futuro. Il consenso legittima anzitutto se stesso: ogni senso comune è garantito, è indiscutibile, è
certo, è continuamente confermato dal “sì” di tutti, realizza con una facilità altrimenti impensabile
l’unità di linguaggi. Il sovrano è la via più breve (non l’unica, in verità) per giungere al “noi”. Non è
un fine, è uno strumento. Viene usato da quelli stessi che usa. Viene usato anzitutto per potersi
rappresentare in un’immagine potente, solenne, chiara, mostruosamente grandiosa e grandiosamente
mostruosa, leviatanica, l’immenso sollievo del passaggio dalla dimensione dell’essere uccidibili a
quella dell’essere uccisori.
Per questo la seconda risposta alla domanda sulla funzione del sovrano non è per niente in contrasto
con la prima, ma ne è un logico sviluppo. Vogliamo il sovrano per avere una protezione non contro
il bellum hobbesiano, ma contro la solitudine del non-senso, contro la gratuità di un’esistenza che,
in quanto isolata e fuori di un senso comune, non ha altro luogo verso cui procedere che non sia la
morte, la morte come mero nulla, come indicibilità e silenzio, come fine d’ogni possibile
linguaggio. Noi stessi, ciascuno di noi, non siamo dicibili se non riusciamo a dirci sulla nostra
morte qualcosa che abbia senso, cioè ci metta in cammino con altri. Abbiamo tutti bisogno di
salvarci nel linguaggio, in parole definitive, in parole che fondino, consolidino, formino il nostro
esistere all’interno di una promessa comune: “voi sarete, voi vivrete, voi marcerete insieme: il
vostro essere non morirà, ma percorrerà tutto il tempo tra passato e futuro, da una generazione
all’altra, perché voi siete un noi”. Questo richiede, in maniera difficilmente eludibile, ima
rappresentazione proiettiva del non-senso da cui si vuole evadere in uno spazio esterno che possa
essere individuato, delimitato e colpito.
Perché siamo carenti d’essere? Perché siamo effimeri e casuali? Perché non riusciamo a consistere
in noi stessi, ad appagarci di noi? Perché c’è la morte? La risposta più facile è: perché c’è un
nemico. Perché abbiamo un nemico. Perché qualcuno ci ruba vita, «sottrae identità, «interdice il
nostro destino, ci ostacola nel nostro marciare. Stiamo già dicendo noi, così: è difficile dirlo in altro
modo. È probabilmente così che abbiamo cominciato a dirlo, in epoche abissalmente remote 21. Ed è
così che la nostra vicenda diventa appunto nostra: comune, consensuale, dicibile in un linguaggio
condiviso e compreso, racchiudibile in una narrazione compiuta, in un mito.
È sempre lo stesso mito, ma non ce ne stanchiamo mai. Ci sono i buoni: “autentici”, retti, giusti,
liberi, conformi alla natura delle cose, destinati. Noi. E ci sono i cattivi: finti, malfidi, abietti,
deviami dal giusto ordine, innaturali e contorti. Loro. 1 buoni avrebbero la pace e la felicità che
meritano, avrebbero vita, se non fosse per i cattivi, che nella loro disperata mostruosità vogliono
corromperli, asservirli, distruggerli. Ma i buoni marceranno eroicamente, insieme, e dopo molte
tragiche vicissitudini, ulteriormente purificati, giustificati, legittimati, consensualizzati dal pericolo
e dal dolore condivisi, vinceranno, aprendosi così un certo, luminoso, beato avvenire, convissuto in
un noi finalmente senza morte22.
Ma ogni mito deve avere un narratore autorizzato, che ne garantisca la “verità”, la stabilità nel
tempo, la capacità fondativa. E il mito del Noi ha bisogno di un narratore particolare: un definitore
d’identità, un promettitore di futuro, uno scovatore di nemici, uno smascheratore di tradimenti e
inganni, un semplificatore ed uniformatore, un costruttore, ancora una volta, di con-senso. Una
proiezione del noi in un singolo io o in un gruppo, un noi più piccolo e più facilmente percettibile,
che in quanto rappresentante dell’unità dei molti possa fungere da simbolo leviatanico e così
guidare, sovranamente, la marcia. La marcia degli uccisori. La marcia degli uccisori della Morte.
Naturalmente, vince sempre lei. Questa stessa marcia è una sua vittoria. E sicuramente ci sarebbe
meno morte se restassimo trincerati, liberi e guardinghi, dentro la nostra pari uccidibilità originaria.
Però ci dev’essere un vantaggio, se così facilmente e volenterosamente preferiamo metterci in
marcia, sacrificando all’uccidere tutto, spesso anche la nostra vita. Il vantaggio, evidentemente non
piccolo, di non morire da soli23.

6. Miti di guerra e di pace


Non rendiamoci le cose troppo facili. Non ci sono qui inganni da smascherare, tirannidi da
abbattere, colpevoli da punire. Ragionando così, continueremmo a raccontarci esattamente lo stesso
mito, magari nella versione, tutt’altro che nuova, secondo cui il nemico è il Potere ed il bene si
consegue rovesciando il Sovrano. Il grande mito dei Noi buoni e dei Loro cattivi ha tutte le varianti
immaginabili, “di destra” e “di sinistra”: può essere tutto quello che si vuole, nazionalista, razzista,
fondamentalista, conservatore, progressista, passatista, futurista, reazionario, rivoluzionario, persino
anarchico. E quando il grande mito capita in mano ad un artista, un poeta della politica, riesce
sempre a farci battere il cuore, anche al più saggio, disincantato, razionalista o nichilista di noi.
Sarebbe troppo facile e poco onesto pensare che si abbia qui a che fare soltanto con inganni per
gonzi, propaganda per le masse sprovvedute, bieche imposizioni di fanatici senza intelletto. Lo
“squillar di fanfare” e il “coraggio che assalti” ci faranno sempre tremare d’emozione, di
commozione e di speranza24. Non si esce dal mito: non c’è nulla fuori.
Non si parla se non insieme, non c’è senso senza con-senso23. D’altra parte, nemici e tiranni
possono esistere davvero, pur se probabilmente nel loro esistere c’è sempre una parte di colpa anche
di chi contrasterà quei nemici e si ribellerà a quei tiranni. Per quanto pacifisti e non-violenti si
voglia essere, il rifiuto assoluto dell’inimicizia e della violenza, in politica, appare una posizione
poco plausibile e che solo un partito preso da fanatici consentirebbe di sostenere sino in fondo (pace
anche con Hitler? Non violenza anche verso gli assassini? E con le vittime, come la mettiamo?) 26. E
quand’anche, staremmo solo raccontando una nuova versione del mito, quella in cui Noi siamo i
“pacifisti” e Loro sono i “guerrafondai”, e bisogna fare “guerra alla guerra”: non sembra che cambi
molto.
Dopo tutto, un pensiero maturo deve pur fare i conti col fatto che esistono problemi senza
soluzione, e che il problema più insolubile è proprio l’uomo, l’unico essere vivente che non è mai
dato a se stesso una volta per tutte, che deve continuamente prendere posizione su di sé 27. Un
problema che sarebbe “risolto” solo se tornassimo animali, diventassimo macchine o ci
trasformassimo in esseri divini immortali e invulnerabili. Il nostro orizzonte intrascendibile è quello
del senso come consenso, che richiede l’espulsione dei sensi non compatibili, dei dis-sensi, e la
costituzione dell’Altro come nemico (almeno potenziale). In questa nostra problematicità che ci
costringe al mito, continueremo a sentire come intollerabilmente angoscioso restare ad aspettare la
morte trincerati nella nostra libera solitudine: che ogni tanto qualcuno ci chiami, ci evochi, ci raduni
in schiera e ci scateni come uccisori in caccia della morte, resterà verosimilmente un sollievo che
dovremo continuare a concederci; e bisognerebbe essere molto moralisti e molto inconsapevoli di
ciò che siamo per pensare che questo sia sempre e soltanto un Male cui contrapporre il Bene (che è
poi ancora una volta il solito mito).
Con i problemi insolubili dobbiamo imparare a convivere. E siccome è bene prendere sul serio le
parole e non trascurare, dietro i loro significati convenzionali, dimensioni più profonde, non
facciamoci sfuggire che con-vivere è il contrario di conmorire. Convivere con un problema significa
impedire che ci uccida, o almeno limitare e contenere la sua capacità di farlo.
Non si esce dal mito, non si evade dal “luogo comune”, dal con-senso; ma si possono avere molti
miti anziché uno soltanto28. Più precisamente: si può comprendere che tutti i miti sono provvisorie
configurazioni di senso, che cambiano sempre, che sono sempre cambiati, e che, senza mai essere
meri inganni, allo stesso modo non sono mai “verità”. E si può comprendere che tutti hanno un
proprio mito, che può lecitamente non piacerci, ma che altrettanto lecitamente ad altri piace e non
deve essere fatto tacere. Bisogna relativizzare i racconti, oltre che moltiplicarli. Può essere
giustificato persino morire per il nostro mito, ma non è mai giustificato uccidere, solo per questo
motivo, chi ha un mito diverso dal nostro. Per quanto un mito ci “afferri” (e come vivere, se nessun
mito ci afferra?)29, dobbiamo sforzarci di lasciare in noi stessi uno spazio aperto al suo
cambiamento o alla sua sostituzione, senza spaventarci o vergognarci del nostro “tradimento”. Dei
nemici certamente li avremo, ma ci sono tanti modi di averne, e ci vuole poca fantasia per pensare
solo a inimicizie mortali. Bisogna cercare di non semplificare la figura del nemico, di non
mostrificarla, di riconoscere in essa la nostra stessa molteplicità e variabilità. Possiamo riconoscere
che il nostro nemico ha tanto diritto d’essere nostro nemico quanto noi ne abbiamo d’essere nemici
suoi: hostis sì, ma iustus; possiamo creare amity lines dietro le quali chi sotto altri profili è nostro
nemico possa tranquillamente trattare e collaborare con noi 30. Possiamo cercare di rafforzare e
diffondere quella forma di guerra senza morti che è la competizione democratica31. E questo
significa anche che, pur senza ripristinare la pari uccidibilità originaria, che è essa stessa soltanto un
mito (o, se si preferisce, un “tipo ideale”) necessario per pensare con maggior chiarezza,
contrastivamente, ima realtà effettuale che è sempre stata di con-senso, dobbiamo “limitare” la
sovranità. Che è poi una contraddizione, in base a ciò che è stato detto all’inizio. Di fatto, il sovrano
“limitato” è un non-sovrano. Ma forse dovremmo piuttosto dire che non è un sovrano, bensì una
dimensione simbolica di sovranità, un’allusione, una rappresentazione non eccessivamente presa sul
serio d’unità, un centro impersonale occupabile, a turno, da una pluralità di soggetti, uno spazio di
con-senso provvisorio, parziale e non costrittivo, da cui si può a tempo e luogo entrare e uscire,
senza rinunciare, all’occorrenza, a trincerarsi in una libera e coraggiosa solitudine (quando è proprio
necessario, anche sparando)32.
Non è la soluzione. Una soluzione non c’è. C’è una gamma vastissima di soluzioni tutte possibili e
tutte provvisorie, tra cui naturalmente non possiamo scegliere in astratto. Scelgono il tempo, le
circostanze, il caso, la configurazione del nostro io e del nostro noi che in ciascun momento riesce a
concretarsi.
L’importante è non perdere mai di vista che si tratta appunto di scelte, senza altro fondamento che la
nostra capacità di raccontarcele e, sperabilmente, la bellezza del nostro racconto.

7. Il Leviatano involontario e la libertà


Queste considerazioni debbono essere rapportate, per dare al discorso quel minimo d’attendibilità
che può avere, alla realtà contemporanea, alla crisi della sovranità esterna di cui prima si parlava.
Non è più possibile, con l’arma atomica, la lotta per la sopravvivenza tra sovrani, e dunque non è
possibile un vero rapporto internazionale tra amici e nemici. I sovrani residui sono in una
condizione di pari uccidibilità perfetta, da assumere alla lettera: nessuno potrebbe “uccidere” l’altro
senza esserne ucciso. Le volontà sovrane debbono necessariamente convergere, almeno sulle
questioni essenziali, e quindi sono sostanzialmente unificate. Possiamo considerare compiuto il
passaggio dagli Stati nazionali ad un unico impero mondiale, che ha la particolarità di essere una
sorta d’impero condominiale, in cui neanche la potenza chiaramente preminente (gli Stati Uniti,
forse ancora per poco) può agire senza il consenso almeno implicito delle altre potenze nucleari, in
un contesto in cui è interesse comune che non vi siano dissensi radicali e in cui quindi la
disponibilità a compromessi anche pesanti e svantaggiosi è abbastanza diffusa da parte di tutti
(compresi i più forti).
I protettorati (cioè gli Stati non nucleari) sono tutti soggetti a questo condominio imperiale, con
alcune ripartizioni territoriali abbastanza imprecise e molto variabili, senza dunque che si possa
parlare di vera e propria spartizione del mondo (che implicherebbe una pluralità d’imperi, finita col
chiudersi della guerra fredda). Questo ha implicazioni non soltanto negative, anzi per certi versi
sicuramente benefiche: basti pensare a quanto si sia allontanato (anche se non potrà mai del tutto
svanire) lo spettro dell’apocalisse nucleare 33. Ci sono però conseguenze complesse e irrisolte
proprio riguardo alla struttura attuale della sovranità, in particolare riguardo agli spazi di libertà che
possono esserle sottratti.
Che la sovranità interna debba essere limitata e relativizzata, che debba essere per quanto possibile
una sovranità senza sovrano, è un valore da tempo ampiamente condiviso, anche se solo un
superficiale ottimismo potrebbe farlo credere definitivamente conseguito. Il problema, però, è che,
come prima si diceva, oggi la sovranità è solo “interna”, ma è una sovranità imperiale. Mondiale,
“globalizzata”, onnipresente sebbene sia lungi dall’essere onnipotente (e sia anzi spesso paralizzata
dalla sua stessa complessità), senza confini, senza alternative.
Come in ogni impero in senso proprio, non c’è più un altrove: i confini assenti sono i soli confini
assoluti, invalicabili. Come in ogni impero, c’è dunque una fondamentale costrittività, che non
consiste in una precisa volontà coercitiva, tanto meno in imposizioni esplicite, quanto piuttosto in
una sorta di “necessità” onnipervasiva, che assomiglia più a ima legge di natura che al classico
comando del sovrano. C’è un ordine di possibilità molto ampio, vario e pluralistico, in cui però
alcune (tose sono radicalmente impossibili: non tanto in quanto proibite, ma piuttosto in quanto, alla
lettera, fuori del mondo, non compatibili con la realtà. Una sorta di vaga e distratta tirannide, se così
vogliamo dire, o piuttosto una specie di blando totalitarismo, involontario e inconsapevole, lento,
complicato e inefficiente, spessissimo condannato allo scacco e all’insuccesso, ma nella sua
sostanza invincibile perché senza alternative accettabili: le alternative, infatti, o sono chiaramente
impossibili o sono chiaramente peggiori. Il mondo può essere solo com’è: non è affatto chiaro come
sia, nessuna volontà è propriamente intenzionata a determinarlo o capace di farlo, non si può
proprio dire che esista un governo mondiale di qualsiasi tipo che imponga precisi comandi o precisi
divieti, tutto si può affermare tranne che esista un pensiero unico. Semplicemente, non si può fare
nulla che sia radicalmente diverso da ciò che già si fa (alla lettera: il mondo è qualcosa che si fa da
solo, senza che nessuno sappia o decida come). Ogni tanto s’incontrano dei muri, invisibili,
trasparenti: nessuno ammette d’aver costruito muri, però in qualche modo ci sono, perché proprio
non si riesce ad andare da un’altra parte. Ed ogni sforzo di pensare un ordine alternativo deve presto
o tardi riconoscere la propria futilità: non senza sensi di colpa, spesso, se si è onesti, perché quasi
sempre si tratta di vaghe e impotenti nostalgie di mondi passati innegabilmente peggiori. Parlare di
“fine della storia” è inutilmente e scioccamente enfatico; però, in un certo senso, è proprio di questo
che si tratta.
La situazione complessiva è tutt’altro che sgradevole, per essere sinceri, se si appartiene agli strati
privilegiati dell’umanità: come sempre una piccola minoranza rispetto alla totalità, ma sicuramente
una minoranza ampia e diffusa, come mai prima d’ora era accaduto. Ma c’è una caratteristica nuova
e difficile, con cui dobbiamo ancora fare bene i conti e che probabilmente non abbiamo ancora
veramente pensato, e ha insieme aspetti molto buoni e aspetti molto cattivi: in questa situazione di
sovranità mondiale imperial-condominiale diffusa e amorfa, non sono possibili né vero consenso, né
vero dissenso. La sovranità mondiale, pur non essendo per nulla inesistente, è larghissimamente
inefficace. Il sovrano non ha vera volontà, non esercita vero governo, non ha veri nemici, non fa più
la guerra (ogni tanto, un po’ a caso, manda truppe, bombarda, punisce, per calmare le cose nelle
aree di disordine eccessivo). Difficile decidere se uccide tanto o uccide poco: forse uccide
tantissimo, ma nella maniera impersonale e “naturale” di un’epidemia, come facevano gli dèi nei
buoni vecchi tempi, non nelle forme “gloriose” dei grandi assassini che riempiono i nostri libri di
storia. Più che uccidere, fa, o lascia, morire34. Non può esserci con-senso: nessuno ci chiama a
marciare in una precisa direzione, a uccidere sempre di nuovo la Morte secondo un preciso
progetto, una precisa narrazione; non c’è più un mito che ci dia un destino.
Ma, d’altra parte, come dis-sentire? Ogni tentativo di miti alternativi si perde per strada, naufraga
nella futilità, magari dando luogo a qualche piccolo grottesco massacro: sforzarsi di riportare in vita
nazionalismi o tribalismi nell’epoca del primo vero impero globale fa l’effetto di una tragedia
recitata da guitti, di una pur cruenta carnevalata. E ciò raddoppia la difficoltà del dissenso, appunto
perché ogni volta ci si scontra immancabilmente con alternative non solo impraticabili, ma quasi
sempre decisamente peggiori.
Un altro problema insolubile. Ma i problemi insolubili non debbono necessariamente farci paura.
Bisogna imparare a goderseli. Visti sotto un altro aspetto, i problemi insolubili sono punti fermi.
Un’espressione ambigua, come la realtà cui si riferisce. I punti fermi sono limiti, certo, ma sono
anche conquiste. Basi solide su cui costruire. Molti dei nostri odierni punti fermi, di cui ci
permettiamo il lusso di lamentarci, sono stati vissuti per secoli come vertiginose utopie. Ora che
hanno il torto, ai nostri occhi viziati, d’essere diventati banali realtà, invece di distogliere lo sguardo
delusi cerchiamo di usarli come balconi su utopie future.
Dunque atteniamoci ai punti fermi, per cominciare. Ci sono almeno due forze, due tensioni tra loro
divergenti che cercano di toglierli di mezzo. Anzitutto, il tentativo, oggi particolarmente visibile, di
riportare l’imperialità globale entro lo schema tradizionale della sovranità esterna: di trovare un
nuovo nemico, di fare di nuovo la guerra, magari nell’illusione che si possa in tal modo fondare un
effettivo, univoco dominio mondiale35. Il sonnolento e impersonale sovrano globale coltiva a volte
incubi totalitari. Non bisogna permetterglielo, ed è assai meno difficile di quel che potrebbe
sembrare. Basta non mettersi in marcia, basta negare con-senso. Le sue guerricciole le fa lo stesso, e
nessuno può spingersi troppo oltre nello sforzo d’impedirglielo. Possiamo però ostacolarle,
stancarle, esaurirle a furia di piccoli dis-sensi, che per fortuna ci sono e ci saranno. Possiamo
isolarle e sterilizzarle come un episodio patologico che non cambia la situazione complessiva, e
probabilmente è proprio questo che accadrà. Quel che è da temere, infatti, non è tanto la reazione
violenta che singoli episodi di stupidità bellicista possono provocare, quanto la ricostituzione di
schemi da guerra fredda, una nuova suddivisione del mondo in imperi nemici che ci riporterebbe in
pieno in un rinnovato terrore nucleare. La sola cosa che può derivare dallo sforzo di essere un forte,
compatto, invincibile Impero del Bene, è riportare in vita una qualche forma d’Impero del Male. La
sovranità esterna di tipo classico, che può suscitare qualche nostalgia in astratti dottrinari che
magari si credono fini politici, è comunque sparita dall’orizzonte storico, e non ha senso perseguire
una dimensione leviatanica che si risolverebbe in una nuova suddivisione del mondo tra nemici
parimenti uccidibili. “Rassegniamoci” piuttosto al fatto che, nell’orizzonte politico mondiale, sta
probabilmente sparendo la possibilità, la pensabilità stessa di un con-senso mitico d’uccisori. E' una
dimensione scomoda, perché radicalmente innovativa, ma cerchiamo di partire da qui, e vediamo
che succede.
L’altra tendenza da contrastare è quella opposta: anziché spingere verso un rafforzamento
potenzialmente totalitario dell’ordine mondiale, spezzare quest’ordine e ripristinare le vecchie
identità locali. Come se non avessero dato nei secoli già prova di sé, come se non sapessimo l’unico
risultato che possono produrre le vecchie intolleranze con in mano le nuove tecnologie. Del resto,
non si tratta di rifiutare virtuosamente qualcosa di malvagio. Si tratta semplicemente di
comprendere che le vecchie identità non esistono comunque più, che non si può essere, oggi,
nazionalisti, etnicisti, fondamentalisti, razzisti, ma neanche, ahimè, rivoluzionari, come nei bei
tempi andati, in cui ci si poteva entusiasticamente massacrare solo perché si pensava che il mondo
fosse tutto lì, e dunque il massacrarsi cambiasse il mondo. Prima che dalla probabile reazione di un
ordine mondiale infastidito (qualche bomba un po’ a caso, finché la situazione si calma), questi
tentativi di risemplificare il mondo in nome della Vera Religione, dell’identità Nazionale, del
Proletariato Mondiale o di qualche altra forma archeologica del Bene politico, sono vanificati dal
loro stesso ridicolo provincialismo, che può far presa solo su disperati o analfabeti. Se questi
movimenti del tutto reazionari (anche e soprattutto quando invocano la Rivoluzione) davvero
vincessero, la loro stessa vittoria li porterebbe presto all’evidenza della loro nullità.
Dunque, il punto fermo principale è che il mondo è uno e una e l’umanità. Non è un brutto mito,
oltre tutto: anzi, è stato per secoli una delle utopie più audaci e più epiche. Cerchiamo di spolverarlo
un po’, di liberarlo dall’impressione di noiosa banalità che ci suscita ciò che ormai appare
meramente necessario. Cerchiamo di considerarlo, com’è, una vittoria, una conquista.
Un secondo punto fermo non è ancora così fermo e richiede un forte impegno a consolidarlo: è che,
pur uno, il mondo è complesso, e pur urta, l’umanità è varia, e così dev’essere anche in futuro. Il
mondo non è più una dimensione d’incontro-scontro tra sovranità esterne, ma non diventi per
questo un interno murato e soffocante: sia piuttosto un insieme di cerchi mobili in vario modo
intersecantisi, ruotanti intorno a un centro sempre approssimativo. Con molti piccoli dis-sensi, che
però non escludano un con-senso di fondo, opportunamente generico e vago. Che ognuno di questi
due punti sia base e limite dell’altro, anziché un mero opposto. Che l’unità non divenga mai
uniformità, omologazione totalitaria alla volontà del più forte; ma che il rifiuto del consenso totale
non si trasformi in esplosione anarchica.
Ancora una volta, molti miti, non troppo cogenti, non troppo “veri”, capaci di confliggere con
distruttività contenuta, in uno spazio mitopoietico comune. Grande ormai quanto il mondo. Senza
un sovrano, ma con una dimensione mobilmente ordinatrice di sovranità. Un’imperialità senza
imperatore, in qualche modo. Vogliamo provare a chiamarla democrazia globale?
Insomma, la vecchia storia è senza dubbio finita, e ci vorrebbe un bel coraggio per rimpiangerla.
Ma non è finita la storia. E non c’è mai stato un uditorio più vasto, per chi voglia ancora cimentarsi
nel narrare miti che ingannino la Morte.

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1. Questo lavoro è stato originariamente pubblicato, in una versione molto più breve, in AA. VV.,
Politica della vita, a cura di L. Bazzicalupo e R. Esposito, Laterza, Roma-Bari 2003, che raccoglie
gli Atti del convegno svoltosi a Napoli il 14-15 giugno 2002 presso l’Istituto di Sudi filosofici.
L’attuale stesura è una modifica di quella pubblicata, col medesimo titolo, in AA. VV., Diritto,
giustizia e logiche del dominio, a cura di A. De Simone, Morlacchi, Perugia 2007, pp. 217-45.
2. Per limitarsi ai due vertici contrapposti della riflessione giuridica sul tema, cfr. H. Kelsen,
Lineamenti di dottrina pura del diritto, trad, e prefazione di R. Treves, Einaudi, Torino 1967, pp.
140-69; Id., Essenza e valore della democrazia, trad, di G. Melloni, in La democrazia, a cura di Μ.
Barberis, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 127-40; C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla
dottrina della sovranità, trad, di P. Schiera, in Id., Le categorie del 'politico', a cura di G. Miglio e P.
Schiera, Il Mulino, Bologna 1988 (rist.), pp. 27-86; Id., Il nomos della terra nel diritto
internazionale dello “jus publicum europaeum”, trad, di E. Castrucci, a cura di F Volpi, Adelphi,
Milano 1991, pp. 141-7 e 168-73.
3. E' forse meno ovvio che non potrà essere obbediente neppure nei confronti della legge, neppure
nei confronti della costituzione. Il sovrano è legibus solutus, o non è. E se la sovranità è della legge,
questo può significare soltanto che non c’è un sovrano, cosa peraltro possibilissima, anzi
probabilmente auspicabile. Ma su questo bisognerà tornare.
4. Precisamente nel senso che sopravvivenza ha in Canetti. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp.
273-336.
5. Cfr. in proposito infra, cap. VIII.
6. Cfr. infra capp. VI e VII.
7. Cfr. R. Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 19-30.
8. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra cit., pp. 429-31. L’intervento angloamericano in Iraq (con
“volenterosi” clientes al seguito) ne è una prova inequivocabile, peraltro tra tante. Nell’attuale
situazione libica (estate 2011), poi, la cosa diventa addirittura sfacciata.
9. Ma cfr. infra, cap. VIII.
10. A distanza di parecchi anni dall’originaria stesura di questo testo, ciò mi pare più probabile di
allora.
11. Non necessariamente in senso letterale, ma spessissimo sì.
12. Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile,
trad, di A. Lupoli, Μ. V. Predaval, R. Rebecchi, a cura di A. Pacchi e A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari
2006, parte II, cap. XVII, pp. 139-44. Cfr. anche infra, cap. III.
13. Cfr. T. C. Lewellen, Antropologia politica, trad, di C. Rossetti, Il Mulino, Bologna 1992 (rist.),
pp. 33-53.
14. Per qualcosa di più in questo senso, cfr. comunque infra, cap. III.
15. Cfr. Th. Hobbes, Leviatano cit., parte I, cap. XIII, pp. 99-104.
16. Mi riferisco alla senile autobiografia in versi latini: Th. Hobbes Malmesburiensis Vita, scripta
anno MDCLXXII, in Opera philosophica quae latine scripsit omnia, 5 voll. London 1839-45 (rist.
fotostatica, Aachen 1961), vol. I, p. LXXXVIII.
17. Cfr. infra, cap. X.
18. Penso qui al compianto Italo Mancini, del cui linguaggio filosofico questa è un’espressione
caratteristica. Cfr. p. es. I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Mondadori, Milano
1982, p. 12. Sugli argomenti qui trattati, merita però particolarmente d’essere letto, di questo libro,
l’intero cap. III, pp. 115-73.
19. Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale. L'esperienza e l’interpretazione, cit., pp. 132-7 e 180-7.
20. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 97-160. Questo è il tema centrale del volume mio
e dei miei allievi e collaboratori: L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e simboli dell’ordine
violento, cit.
21. Cfr. C. Μ. Bellei, Violenza e ordine nella genesi del politico. Una critica a René Girard, Ed.
Goliardiche, Trieste 1999, pp. 41-57.
22. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il coraggio di Shahrazàd, Il Mulino, Bologna
2001, pp. 7-11 e 31-49. Tutto il capitolo si può considerare un commento a questo libro.
23. Cír. R. Escobar, Il campanile di Marcellinara. Ipotesi sull’obbedienza, cit., pp. 183-209.
24. Sono celebri espressioni nietzschiane. Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte III, cap.
La visione e l'enigma, trad, di Μ. Montinari, in Opere, a cura di G. Colli e Μ. Montinari, vol. VI,
tomo I, Adelphi, Milanol9732, pp. 190-1.
25. Su questo punto debbo dissentire da un testo che pure apprezzo molto: R. Esposito,
Communitas. Origine e destino della comunità, cit., sp. Introduzione, pp. XXVI-XXXII. Assai più
che un’“insidia”, la “deriva mitica” che Esposito denuncia mi pare un’inevitabile caratteristica
antropologica, di cui è importante essere consapevoli e i cui probabili effetti nefasti è bene per
quanto possibile cercare di prevenire, ma che non ha alternative all’interno della dimensione umana.
26. Cfr. I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, cit., pp. 325-53.
27. Cfr. A. Gehlen, L' uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 35-47.
28. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori cit., pp. 142-62.
29. Sull’“afferramento” da parte del mito, cfr. K. Kerényi, Introduzione: origine e fondazione nella
mitologia, in C. G. Jung, K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad, di A.
Brelich, prefazione di Μ. Trevi, Boringhieri, Torino 1972, pp. 38-43.
30. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra cit., pp. 88-103, 133-40,163-266.
31. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 224-7. Cfr. infra, cap. V.
32. Rinvio in proposito ai miei saggi Libertà senza verità. Filosofia, simboli e democrazia, in AA.
VV., Filosofia e democrazia, cit., pp. 203-14, e Il fuoco e la Bestia. Commento filosofico politico al
"Signore delle Mosche” di Golding, in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e simboli
dell'ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit.
33. Oggi lo spettro sembra di nuovo più vicino: rinvio in proposito al cap. Vili. È ancora impossibile
dire, però, se la nascita a quanto pare imminente di nuovi sovrani, cioè di nuove potenze nucleari,
non possa essere piuttosto un fattore di stabilizzazione in aree altrimenti consegnate a una
conflittualità infinita, come (con un po’ di ottimismo) è teoricamente possibile.
34. Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, sp. pp.
161-72.
35. Questo è stato scritto nell’era Bush. Mi sarebbe piaciuto toglierlo nell’era Obama, ma temo che
non sia ancora possibile.
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CAPITOLO III. La spada e il pastorale. L'unità del potere sovrano nella teologia
politica di Hobbes1
SOMMARIO: 1. Teologia o alcologia politica? - 2. Dal monte del diavolo -3. Natura senza legge e legge
di natura - 4. Il duplice vicario - 5. Lo Stato-Chiesa e la pace religiosa

1. Teologia o ateologia politica?


La tesi fondamentale di questo lavoro potrebbe essere riassunta nei seguenti termini: la teologia
politica di Hobbes va presa sul serio. Dovrebbe essere un dato acquisito da molto tempo, ormai
ovvio. Invece si tratta tuttora di una via relativamente poco battuta, lontana dall’immagine vulgata
di quest’autore, che è quella di un profeta della modernità e della secolarizzazione, desacralizzatore
e disincantatore del politico, freddo e spietato analista del potere come mera tecnica dell’ordine,
unico possibile valore che possa attecchire in una terra ormai per sempre senza cielo. In sostanza,
Hobbes sarebbe il teorico di una radicale ateologia politica. Peccato che per ragionare così bisogni
fingere che non esistano la terza parte del De Cive e tutta la seconda metà del Leviatano, e che si
debba anche amputare una mano alla celebre immagine del gigante coronato nel frontespizio del
Leviatano stesso. Gli si lascia solo la mano con la spada; ma veramente ci sarebbe anche la mano
col pastorale vescovile. Proporrei di vedere che succede se si prova a lasciare Hobbes intero. Perché
mi pare che qualcosa succeda. Sotto molti aspetti probabilmente secondari, ma anche sotto almeno
un aspetto assolutamente centrale. Che è proprio il notissimo snodo aporetico della scintilla
razionale che porta inopinatamente e quasi miracolosamente, nel pieno della violenza e della paura,
alla nascita del “Dio mortale”. “Contraddizione!”, gridano tutti gli interpreti, antichi e recenti.
Forse. Ma se qui la ragione avesse un fondamento sovrumano? Se proprio in questo snodo il
meramente umano fosse toccato da qualcos’altro che ne cambia il destino e lo introduce in un
nuovo orizzonte? Perché a determinare la scintilla sono sì i dictamina rectae rationis, però questi,
com’è noto a tutti ma da quasi tutti trascurato, sono esattamente la stessa cosa della lex naturalis,
che è esattamente la stessa cosa della lex divina. Ma andiamo per ordine.

2. Dal monte del diavolo


Che per capire Hobbes bisogni in qualche modo leggerlo dalla fine, l’hanno pensato in molti. Il vero
problema che Hobbes affronta, quel problema di cui sia il De Cive che il Leviatano tentano la
soluzione, viene presentato direttamente solo nella sua ultima opera, Behemoth, ed è proprio il
problema che tormentò la sua vita prima ancora che il suo pensiero: la guerra civile. È opinione
comune, anzi, che la guerra civile inglese rappresenti l’evento storico reale su cui è esemplata la
concezione dello status naturae. Questo mi convince solo in parte. Sullo status naturae torneremo.
Qui si può anticipare che una guerra civile, quella guerra civile soprattutto, non può essere una
cruenta ricaduta nell’inizio assoluto (ammesso che si tratti davvero di un inizio, e non di un modello
concettuale, ma su questo dopo). Non nasce, infatti, la guerra civile, dalle passioni elementari
dell’uomo naturale. Nasce dal pervertimento e dalla dissoluzione di un ordine politico già costituito.
È storia, non natura. Il suo disordine cruento resta caratterizzato da quelle che erano le strutture
dell’ordine precedente, che vengono abbattute mentre si cercava di riformarle e perfezionarle. La
sovranità c’era già e il suo principio resta: è su chi ne sia il titolare legittimo e se abbia dei limiti e
quali che si confligge. E c’era già anche la Chiesa ed una verità religiosa riconosciuta: è per
decidere chi ne sia legittimo depositario e interprete che si lotta. La guerra civile non è
l’azzeramento dell’ordine e la riproduzione del disordine primigenio: è il crollo di un edificio
provocato da quelli stessi che cercavano di restaurarlo, è l’ordine ridotto in macerie, ma ancora
visibile in quelle macerie, con le quali dunque si potrà ricostruire. Ma leggiamo, proprio all’inizio
del Behemoth, questo brano drammaticamente efficace:
@
A. Se per il tempo come per lo spazio si potesse parlare di alto e basso, credo davvero che la parte
più alta del tempo sarebbe quella compresa tra il 1640 ed il 1660. Chi, infatti, da quegli anni, come
dalla montagna del diavolo, avesse guardato il mondo, ed osservato le azioni degli uomini,
specialmente in Inghilterra, avrebbe potuto avere un panorama d’ogni specie d’ingiustizia e d’ogni
specie di follia che il mondo era capace di offrire, e constatare com’esse erano prodotte dalle loro
madri, ipocrisia e presunzione2.
@@@
Ipocrisia e presunzione non sono passioni elementari. Non sono passioni proprie dell’uomo
naturale. Sono vizi radicati nella vita civile. Sono perversioni dell’ordine civile, e ancor più
dell’ordine spirituale. E proprio questo fa della guerra civile ima preziosa per quanto scomoda
occasione di conoscenza, perché è proprio osservando che cosa uccide l’ordine che si capisce
meglio che cosa lo tiene in vita. Ma vediamo di quale ipocrisia e presunzione si tratta:
@
A. Varie le specie di seduttori. Una era costituita da ministri, ministri di Cristo, come si
chiamavano, e, talvolta, nei sermoni al popolo, ambasciatori di Dio; e da Dio pretendevano di avere
il diritto di governare ciascuno la sua parrocchia, e la loro assemblea l’intera nazione 3.
@@@
Questi sono i presbiteriani. Poi ci sono i cattolici:
@
In secondo luogo, c’era un numero considerevole di persone (non paragonabile però al primo) che,
malgrado il potere del papa in Inghilterra, sia temporale, sia ecclesiastico, fosse stato abolito con
atto di parlamento, continuavano a credere che noi dovremmo essere governati dal papa, e
pretendevano che questi fosse il vicario di Cristo, e, per diritto derivante da Cristo, il capo di tutto il
popolo cristiano4.
@@@
Poi ci sono i vari tipi di settari, accomunati dall’idea che ci possa essere «una certa libertà di
religione»5. Poi ancora ci sono gli intellettuali d’avanguardia, che in questo caso sono gli
ammiratori degli antichi, dei quali pretendono addirittura di poter riportare in vita la democrazia:
@
In quarto luogo, c’era un numero eccezionalmente grande di uomini di più elevata condizione, i
quali avevano ricevuto un’educazione che li aveva fatti invaghire delle forme di governo dei greci e
dei romani: da giovani, infatti, avevano letto i libri scritti dagli uomini famosi della Grecia e di
Roma sull’ordinamento politico e sulle grandi gesta di quelle antiche repubbliche; in questi libri il
governo popolare era esaltato col nome glorioso di libertà, mentre la monarchia era resa odiosa col
nome di tirannide. Da questi uomini era costituita la maggior parte della Camera dei Comuni; o, se
anche non erano la maggioranza, erano sempre capaci di trascinar con sé il resto, favoriti dalla loro
eloquenza6.
@@@
Hobbes non è un ingenuo idealista, e vede benissimo che ci sono di mezzo anche altre cose, tra cui
gli interessi dei mercanti di Londra; ma, siccome non è neppure un materialista ingenuo, coglie che
nella sua dimensione fondamentale la guerra civile è una guerra di religione. Più precisamente, una
guerra combattuta per la verità: quale sia, chi la possa determinare, fino a che punto si possa
imporre, quale forma di convivenza civile vi si possa fondare. Anzi, in definitiva la guerra civile è il
frutto di due errori principali: l’errore dei giuristi che quella inglese sia una monarchia mista e sia
dunque un abuso tirannico del re pretendere di esercitare un potere assoluto, e l’errore dei teologi
che la verità religiosa possa essere liberamente colta da ciascuno nel profondo della propria
coscienza, autorizzando così ciascuno a farsi giudice in nome di Dio dei poteri dello Stato. In
entrambi i casi, ciò che non viene compreso è cosa sia per essenza la sovranità, e che solo in essa
ordine secolare e ordine spirituale possono congiungersi e sostenersi vicendevolmente. La guerra
civile nasce dalla pretesa inaudita che il singolo come tale possa farsi libero e che in quanto tale
possa giudicare della verità, in un’assurda congiunzione di democrazia politica e democrazia
spirituale da cui lo Stato può soltanto essere dissolto. Leggiamo ancora, un po’ più oltre:
@
una gran quantità di gentiluomini [...] desideravano nello stato un governo popolare, non meno di
quanto questi ministri lo desiderassero nella chiesa. E come gli uni dal pulpito attiravano il popolo
verso le proprie opinioni, e lo inducevano ad avversare il governo episcopale della chiesa, i canoni,
ed il Libro di preghiera comune, così gli altri facevano amare al popolo la democrazia, con le
arringhe che pronunciavano in parlamento, coi discorsi e la corrispondenza che tenevano con gli
abitanti delle province, continuamente esaltando la libertà, scagliandosi contro la tirannide, e
lasciando che il popolo traesse da sé la conclusione che questa tirannide era la forma vigente di
governo dello stato7.
@@@
Il punto è chiarissimo. Nella guerra civile inglese non esiste una dimensione politica “pura”. La
pretesa devastante della libertà come sovranità del singolo si congiunge inestricabilmente con la
pretesa altrettanto devastante di un possesso singolare della verità di fede. La democrazia
individualistica nello Stato va di pari passo con la democrazia individualistica nella Chiesa. E
questo può soltanto dissolvere il nodo fondamentale dell’ordine, che è la legittimità. È la crisi della
legittimità a uccidere il “Dio mortale”. E su questo punto fallisce necessariamente la rivoluzione
(chiamiamola pure così): ciò che è nato dalla crisi della legittimità non riesce facilmente a
ricostituire una legittimità propria. Se, nel nome della libertà e nel nome di Dio, si può tagliare la
testa al re, quale testa è ancora sicura? E quale testa potrebbe osare di portare di nuovo la corona
che è caduta? Dissolta la legittimità, al potere non resta che la nuda forza. Cromwell governa solo
perché è abile e controlla l’esercito. E il Lungo Parlamento può conservare il proprio potere solo
rifiutando arbitrariamente di sottoporsi a quello stesso voto popolare da cui pure ha tratto la propria
autorità. Finché Cromwell muore, il Lungo Parlamento muore anche prima di lui, e sono gli stessi
capi del governo rivoluzionario (e dell’esercito, soprattutto) a richiamare dall’esilio l’erede del
vecchio padrone.
Se questo è il problema, la soluzione deve corrispondervi. Se il problema è che la pretesa a una
democrazia nello stesso tempo secolare e spirituale dissolve il nodo che tiene insieme lo Stato, per
riannodarlo occorrono tanto fifi temporali che fili spirituali. Il sovrano hobbesiano ha la spada e il
pastorale, è tanto re quanto vescovo. Perché allora vediamo quasi soltanto la spada?
Non credo inutile una breve considerazione sulla fortuna di Hobbes. Tutti sappiamo che dopo una
damnatio memoriae di oltre due secoli è stato il pensiero politico del Novecento a riscoprirlo.
Questo però, peraltro assai comprensibilmente, crea una distorsione molto grave: la perdita di
profondità storica e la dissoluzione del contesto. Si finisce per ragionare quasi come se Thomas
Hobbes fosse uno pseudonimo di Carl Schmitt (o viceversa?), senza riuscire più a vedere nella sua
teologia politica nient’altro, se non ciò che Carl Schmitt ne ha enucleato per potersi autorizzare ad
essere nazista pur essendo cristiano. Ma il problema di Hobbes, abbastanza ovviamente, non è per
niente questo. Ricollochiamolo, per favore, nel Seicento. Cioè in un’epoca in cui si versa del
sangue, e proprio tanto, non soltanto per decidere se il papa è o no il vicario di Cristo, ma anche per
questioni assai più piccole ai nostri occhi: se ci possano essere vescovi nelle chiese riformate, se lo
Stato possa imporre o no un unico libro di preghiere, se e quanto gli edifici ecclesiastici possano
essere ricchi e adorni, e così via. Un’epoca in cui, per quanto ci si scanni su mille altri punti, tutti
quelli che scannano e che vengono scannati (e i due ruoli sono facilmente intercambiabili) sono
perfettamente d’accordo su una verità politico- religiosa assolutamente evidente per tutti: la verità
che Cristo è Re.

3. Natura senza legge e legge di natura


Hobbes è un pensatore cristiano8. Probabilmente non è un pensatore che sia un buon cristiano, o che
sia un cristiano profondo. Certamente non è un pensatore cristiano edificante. Altrettanto certamente
(e meno male!) non è un pensatore cristiano sentimentale. È un pensatore cristiano ferocemente
razionalista, e addirittura materialista a oltranza, fino a negare che Dio sia spirito. Ma non solo non
è un ateo, sebbene ne abbia sempre avuto fama: non è neppure “laico” nel senso che intendiamo
noi. Naturalmente non è questione di sapere che cosa Mr Hobbes pensasse della religione quando
era solo con se stesso, e se pensasse eventualmente cose diverse da quelle che poteva scrivere.
Questo un problema altrettanto insolubile quanto irrilevante. Quel che ci importa è cosa Mr Hobbes
ha scritto, spingendosi certamente molto oltre verso i limiti di ciò che in quell’epoca poteva essere
scritto, e quindi probabilmente senza neanche mentire troppo. E quel che ha scritto non è solo una
teoria dello Stato. È una teoria dello Stato cristiano, che è quindi altrettanto una teoria
dell’organizzazione ecclesiale, perché si tratta precisamente della stessa cosa. Non c’è altra Chiesa
che lo Stato, e se non ogni Stato è una Chiesa, lo è necessariamente qualsiasi Stato cristiano. E non
ci sono del resto Stati “laici”: ci sono semmai, oltre agli Stati cristiani, Stati mussulmani o pagani.
Dunque ogni Stato è strettamente unito a una dimensione religiosa: dimensione che solo nello Stato
può concretarsi, uscire dall’isolamento delle coscienze individuali per diventare spazio pubblico. Lo
Stato è prima di tutto la messa in comune della Verità.
Questo cristianesimo assolutamente non mistico e neanche spirituale (parola senza senso per
Hobbes), qualunque ruolo abbia avuto nella coscienza del nostro autore, ha un ruolo
importantissimo nel suo sistema. Questo è un altro aspetto ovvio ed evidente di cui frequentemente
ci dimentichiamo. Hobbes non è solo un filosofo politico. È un filosofo sistematico non meno di
quanto lo sia Hegel. Il sistema, certo, culmina nella teoria politica, di cui è interamente al servizio e
di cui rappresenta l’ampio fondamento. Purtroppo non è possibile occuparsene a fondo qui, ma non
dovremmo trascurare che il pensiero politico hobbesiano nasce da un’ontologia, un’antropologia,
una gnoseologia perfettamente coerenti e convergenti in un unico principio. Cosicché, ad esempio,
prima che la filosofia politica stessa è la filosofia del linguaggio hobbesiana a negare la possibilità
della libertà individuale nello Stato, addirittura anticipando in questo la neolingua orwelliana.
Libertà significa solo assenza d’impedimenti e ostacoli materiali, non indica diritti o valori. Si può
affermare che un cane è libero da pulci, dice Orwell, ma non che un suddito è libero, dice Hobbes 9.
Ed è ancora la sua filosofia del linguaggio a presentarci un’affermazione apparentemente innocua,
ma che ha conseguenze di grande peso: che “i nomi uomo e razionale sono di pari estensione e si
comprendono reciprocamente”10. Può essere uno dei percorsi, e ce ne sono tanti, magari anche più
tortuosi di questo, che possono aiutare a comprendere il ruolo sistematico del cristianesimo - o della
religione, se si vuole usare un termine più generico - nel pensiero di Hobbes.
Infatti, se dicendo uomo abbiamo già detto razionale, non c’è un momento in cui l’uomo comincia
ad essere razionale, non c’è un momento in cui la ragione si attua, non ci sono fasi o condizioni in
cui l’uomo sia più o meno razionale che in altre: e allora, che ne è dello status naturae?
Sullo status naturae, dovremmo riscontrare - apparentemente - un’aporia persino peggiore di quella
ben nota della scintilla di razionalità che si accende nel pieno delle passioni (scintilla che peraltro a
questo punto non c’è, perché l’uomo è razionale da sempre). Lo stato di natura, cioè, sarebbe
precisamente quello stato in cui non vige la legge di natura. L’uomo in condizioni naturali non vive
secondo natura. L’uomo naturale è separato dalla sua propria natura. La legge naturale si attua nella
legge civile, è lo Stato che costringe l’uomo a vivere secondo la sua natura (razionale), ed è dunque
uscendo dalla natura che si entra nella natura. Dovrebbe suonare un po’ strano, no?
Il ragionamento degli interpreti di Hobbes, e apparentemente di Hobbes stesso, sembra semplice e
chiaro. La legge naturale è vincolante solo nel foro interno: mancando di coercizione, non è di per
sé efficace. Soltanto la legge civile può costringere gli uomini a convivere pacificamente, dunque
col pactum la lex naturalis è messa da parte, nasce il “Dio mortale” eccetera. Dunque la lex
naturalis è trascurabile. Dopo tutto, è come se non ci fosse: si passa dall’uguaglianza infernale della
paura e della pari uccidibilità alla sana disuguaglianza “immunitaria” della vita civile sotto la
vigilanza armata del sovrano. La legge naturale non è propriamente legge e non è mai attuata, la
legge civile è veramente legge e finché lo Stato esiste è applicata efficacemente. In definitiva, la
legge naturale non è, la legge civile è, e via così. Questo implicherebbe una conseguenza piuttosto
pesante, che viene peraltro maneggiata dalla stragrande maggioranza degli interpreti con invidiabile
disinvoltura: e cioè che nell’uomo è irrilevante la ragione, e nel mondo è irrilevante Dio.
Dovremmo dunque pensare che l’uomo vive secondo ragione solo nello Stato (donde la nota aporia
eccetera) e che Dio stesso manifesta la propria volontà soltanto nelle leggi del principe: avremmo
qualcosa di peggio di un Dio abolito per decreto, avremmo un Dio istituito per decreto. E si capisce
bene che a questo punto si conclude che allora la religione è irrilevante, che si tratta di un
inevitabile ma vacuo tributo reso alla cultura dell’epoca, che la lex naturalis-lex divina può essere
lasciata cadere senza danno (nessuno però ha il coraggio di lasciar cadere anche la ratio, che a
questo punto, certo, resta appesa nel vuoto e non si spiega), e insomma tutto comincia col sovrano e
finisce col sovrano, esattamente come vuole la vulgata hobbesiana.
Mi sembrerebbe invece piuttosto chiaro che il ragionamento va invertito. Perché parte da un
presupposto completamente falso: che la lex naturalis sia sempre inefficace. È - del tutto
esplicitamente - vero il contrario. La lex naturalis è efficace sempre e, in qualunque contesto umano
passato o presente ci sia noto, è sempre e da sempre già compiutamente attuata. Perché l’unico
comandamento fondamentale della lex naturalis, di cui i numerosi altri sono semplici corollari, è
precisamente che bisogna istituire lo Stato. Dunque, ogni Stato esistente è attuativo della lex
naturalis, mentre - eccezion fatta forse per i selvaggi americani o per i pirati, a cui Hobbes fa
qualche riferimento - non sembrano esistere storicamente forme di convivenza umana che non la
rispettino. È ovvio a questo punto che, consistendo la lex naturalis nel comandamento di istituire lo
Stato, questa legge non è adempiuta finché lo Stato non è istituito, e quindi nello status naturae
sarebbe inefficace, ma appunto per questo dallo status naturae siamo già da sempre usciti! La
condizione normale dell uomo non è per nulla quella dell’inadempimento, ma precisamente quella
dell’adempimento della legge. Non sono certamente il primo, del resto, a pensare che in Hobbes lo
status naturae non sia una fase o condizione reale dell’uomo, di cui costituirebbe l’origine storica o
preistorica, ma una dimostrazione a contrario della necessità razionale (e morale, e teologica) dello
Stato.
E la teologia qui non è un riempitivo. E' precisamente tunica ragione per cui la legge è legge. I
precetti razionali, di per sé, non lo sarebbero. La legge naturale è tale, come ogni legge, perché è
promulgata da un sovrano. Infatti, la legge naturale è promulgata da Dio. Dal De cive:
@
Quelle che chiamiamo leggi di natura, non sono altro che delle conclusioni, conosciute mediante la
ragione, intorno alle cose da fare o da omettere. Ma la legge, parlando propriamente e con
precisione, è il discorso di chi con diritto comanda ad altri di fare o di non fare una cosa; quindi,
esse non sono propriamente parlando delle leggi, in quanto procedono dalla natura. Tuttavia, in
quanto sono state promulgate da Dio nelle Sacre scritture [...] sono chiamate del tutto propriamente
con il nome di leggi. Infatti, la Sacra scrittura è il discorso di Dio, che comanda su tutte le cose con
il diritto più alto11.
@@@
E subito dopo:
@
La legge detta naturale e morale suole anche essere chiamata legge divina. Non a torto, sia perché
la ragione, che è la stessa legge di natura, viene data a ciascuno immediatamente da Dio, come
regola delle sue azioni; sia perché i precetti di vita che ne derivano sono gli stessi che sono stati
promulgati dalla Maestà divina, come leggi del regno celeste, per mezzo del nostro signore Gesù
Cristo, dei santi profeti e degli apostoli12.
@@@
Non è il “Dio mortale”, ma proprio il Dio immortale, il primo sovrano e legislatore. E lo è a tutti i
livelli dell’esistenza umana. E' lui a dare all’uomo la sua natura razionale; è lui a dare all’uomo la
coscienza morale; è lui a dare all’uomo lo stesso ordine politico, che prima di essere regno terreno è
regno celeste. Livelli antropologici diversi, ma convergenti ed anzi sovrapposti nel punto
essenziale, nell’unico vero comandamento che vincola l’uomo nella sua esistenza terrena: che vi sia
pace, che si abbandoni la ferinità, che, per obbedire a Dio, si obbedisca alla legge civile. Ancora dal
De cive:
@
La prima e fondamentale legge di natura è che si deve cercare la pace, quando la si può avere, e
quando non si può, si devono cercare aiuti per la guerra. [...] Questa legge è la prima, perché le
altre derivano da essa, e prescrivono i modi in cui procurare la pace e la difesa13.
@@@
Un brano notissimo, ovviamente. Caratterizzato almeno in superficie dalla ruvidezza deidealizzante
che è l’elemento più vistoso e riconoscibile dello stile di pensiero di Hobbes. La conservazione
della vita è per ciascuno il valore supremo, anzi a rigore l’unico valore. Per questo, se si può,
bisogna cercare la pace. E siccome l’imperfezione umana è tale che non da tutti ci si può aspettare
un’effettiva volontà di pace, si tratta di fatto sempre di cercare aiuti per la guerra. Cioè di creare
aggregati che siano stabili e pacifici al proprio interno per poter sostenere con buone speranze la
costante e insuperabile situazione di guerra verso l’esterno. Così nascono gli Stati, il cui principio
istitutivo è esattamente quello qui esposto da Hobbes; e cioè il principio istitutivo primo dello Stato
non è il patto, ma l’esigenza di consensazione della vita. Il patto è la modalità di realizzazione di
quest’esigenza, che peraltro vi è già implicitamente contenuta. La ricerca di pace o di alleanze
contiene logicamente, infatti, l’esigenza di ima limitazione reciproca e consensuale dei diritti.
Donde appunto la legge naturale derivata analiticamente da questa prima e propriamente unica:
@
Una delle leggi naturali derivate da quella fondamentale è che il diritto a tutto non deve essere
conservato, ma che certi diritti devono essere trasferiti o abbandonati. Se infatti ciascuno
conservasse il proprio diritto a tutto, ne seguirebbe di necessità che alcuni con diritto
attaccherebbero, e altri terrebbero loro testa (ciascuno per necessità naturale infatti si sforza di
difendere il proprio corpo, e quanto è necessario per averne cura). Ne seguirebbe dunque la guerra.
Perciò chi non recede dal suo diritto a tutto agisce contro le ragioni della pace, cioè contro la legge
naturale14.
@@@
Due cose (almeno) mi sembrano notevoli in questo brano. La prima è la coerenza rigorosa con cui si
dimostra che il patto è già implicato nella legge di natura. C’è già dentro, non vi si aggiunge da
fuori, non è una realtà altra che la attua. E' proprio il suo contenuto. La legge naturale è: vi sia pace,
dunque vi siano patti, dunque vi sia Stato, dunque vi sia sovrano. E non si tratta di una progressione
di princìpi concatenati tra loro, ma di un principio unico e compatto che, per usare in un senso
molto diverso un’immagine affine a quella schmittiana del “cristallo di Hobbes”, come un prisma
riflette con colori diversi un unico raggio di luce 15. La seconda cosa notevole è che persino lo
status naturae e lo status societatis non sono due realtà eterogenee e contrapposte: anche qui si
tratta di esplicazioni di un unico, identico principio, che è quello del valore assoluto della vita. Chi
vuole tutto per sé pone la sua vita al di sopra di qualsiasi cosa, e in ciò non sbaglia affatto, perché
appunto questo la natura impone, appunto questo è un diritto, anzi il diritto, non tanto quello
supremo quanto l’unico. Ma volendo tutto per sé non si ottiene null’altro che la guerra, e dunque
non si ottiene nulla. La pace è la convergenza dei diritti assoluti di ciascuno, che possono attuarsi
soltanto trasformandosi nel diritto assoluto di tutti, creando appunto dalla moltitudine un’unica
persona. Lo Stato c’è già nella legge di natura. Non è qualcosa che viene dopo e sta da un’altra
parte. E qual è la ragione ultima del fatto che la vita è al di sopra di tutto ed ogni diritto la
presuppone e ne deriva, se non che la ruvidezza utilitaristica di Hobbes ha a suo modo un forte
contenuto teologico-morale? La vita vale perché è di Dio, la sua conservazione è voluta da Dio.
Dio, creando la natura umana, ha già istituito (almeno in potenza, ma forse proprio in atto), lo
status civitatis precisamente come l’unica possibile condizione in cui l’uomo vive secondo la
propria natura.
Un brano celebre del Leviatano, utilizzato come uno dei cardini della vulgata hobbesiana, mi
sembra smentirla in uno dei punti essenziali, chiarendo che la contrapposizione tra status naturae e
status societatis rende assai malamente ima profonda unità di principio. Nella natura umana c’è uno
ius individuale alla vita che non ha di per sé limiti, ma può essere vissuto efficacemente e
stabilmente soltanto all’interno di una lex che lo renda compatibile con l’analogo ius di ciascun
altro. Vediamo il testo:
@
Una LEGGE DI NATURA (Lex Naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla
ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i
mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla. Sebbene, infatti,
]us e Lex, diritto e legge, vengano generalmente confusi da chi parla di questo argomento, essi
devono invece essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare,
mentre la LEGGE determina e obbliga a una delle due cose. Perciò la legge e il diritto differiscono
tra loro come l’obbligazione e la libertà, che sono incompatibili nella stessa situazione.
E poiché la condizione dell’uomo [...] è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro, e in
questo caso ciascuno è governato dalla propria ragione e non esiste niente di cui egli sia in grado di
servirsi, che non possa essergli di aiuto nel preservare la propria vita contro i nemici, ne segue che
in una condizione di questo genere ciascuno ha diritto a tutto, anche al corpo di un altro. Perciò,
finché dura questo diritto naturale di ciascuno a tutto, nessuno può avere la sicurezza, per quanto
forte o saggio sia, di vivere per tutto il tempo che la natura permette solitamente di vivere agli
uomini. Di conseguenza, è un precetto, o una regola generale della ragione, che ciascuno debba
cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è in grado di ottenerla, gli sia
lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola
contiene la prima e fondamentale legge di natura che è cercare e perseguire la pace. La seconda
contiene l’essenziale del diritto di natura che è difendersi con tutti i mezzi di cui si dispone16.
@@@
Come si vede (o si dovrebbe vedere) lo ius omnium in omnia non si contrappone affatto alla lex che,
imponendo la pace e le alleanze, fonda lo Stato. La lex è il solo modo coerente ed efficace di
realizzare tale ius. La guerra di tutti contro tutti sarebbe lo ius senza lex, ma lo ius non è mai senza
lex, perché senza lex non avrebbe nessuna possibilità di attuarsi. Solo nella lex lo ius di ciascuno
può attuarsi, perché solo la lex crea le condizioni per cui gli altri possano e debbano riconoscerlo.
Lo Stato stesso in un certo modo è realtà di natura; non nel senso aristotelico di una naturale
socialità, ma proprio in quello di una naturale insocievolezza che crea una dipendenza razionale
reciproca come unico mezzo possibile per conservare la vita. È appunto ciò che impone la
“seconda” legge di natura, che è soltanto un’esplicazione analitica della prima e unica. Che è poi, e
a questo punto non dovrebbe essere sorprendente, secondo Hobbes precisamente “la legge del
Vangelo: ‘qualunque cosa tu pretenda che gli altri facciano per te, falla tu per loro’” 17. Possiamo
dubitare quanto ci pare che Hobbes ci credesse, ma non possiamo dubitare che Hobbes lo abbia
scritto. E quindi dobbiamo fare i conti col fatto che, con buona pace della vulgata, Hobbes ci dice
che il suo terribile Stato assoluto, che tanti si ostinano a confondere col totalitarismo, è fondato
precisamente sul Vangelo.

4. Il duplice vicario
Se le cose stanno così, se cioè l’istituzione dello Stato è imposta dalla legge di Dio, il ruolo del
patto e della legge civile che ne trae il proprio fondamento è piuttosto diverso da quello
comunemente ammesso. Il patto non tanto fonda lo Stato, quanto determina che tipo di Stato si sta
fondando. L’istituzione dello Stato in generale è legge di natura e quindi legge di Dio (e senza la
promulgazione divina non sarebbe legge di natura), ma la ragione, la natura, Dio (che sono una
specie di Trinità in Hobbes) non decidono se deve trattarsi di una repubblica o di una monarchia, e
che tipo di repubblica o di monarchia. Questo lo decide soltanto il consenso degli uomini, i quali
saranno vincolati al rispetto della loro stessa decisione in forza del patto e non in forza della natura.
La natura impone che vi sia un sovrano, il consenso degli uomini decide che tipo di sovrano istituire
e a quale gruppo o individuo conferire la sovranità, e se a tempo o perpetua, se ereditaria o elettiva.
Sotto il profilo della lex naturalis ogni sovrano è ugualmente legittimo, e la personale preferenza di
Hobbes per la sovranità in forma monarchica ereditaria si basa solo su considerazioni di opportunità
e di efficienza, non su questioni di principio.
E qui indubbiamente s’incontra quello che meno ci si aspetta in Hobbes: una dimensione di libertà.
Suddito libero è un non senso, ma finché non si è deciso chi è il sovrano e che tipo di sovrano è non
ci sono ancora sudditi. Certamente si deve notare che il solo atto veramente libero che Hobbes
riconosca è un atto di rinuncia alla libertà, ma il contenuto di questa rinuncia, cioè l’indicazione di
colui o coloro a favore dei quali si rinuncia e delle condizioni eventuali della rinuncia, non incontra
alcun vincolo ed è dunque una decisione sovrana. E' stato molto giustamente osservato da tanti
interpreti che in Rousseau resta moltissimo di Hobbes; assai meno diffusa è la considerazione che
pure ne sarebbe la logica conseguenza, che dunque in Hobbes c’è già parecchio di Rousseau. E non
sarebbe così difficile arrivarci, visto che Hobbes stesso lo dice. Dice, cioè, che per quanto la
democrazia non sia una buona forma di governo (essendo comunque, beninteso, una forma
legittima), il fondamento di ogni possibile forma di governo è inevitabilmente democratico. Dal De
cive:
@
Quelli che si riuniscono per erigere uno Stato sono, quasi per il fatto stesso di essersi riuniti, una
democrazia. Poiché infatti si sono riuniti volontariamente, si intendono obbligati a ciò che verrà
deciso con il consenso della maggioranza. Questo, finché l’assemblea dura, o viene rinviata a date e
luoghi determinati, è una democrazia. Infatti, questa assemblea, la cui volontà è volontà di tutti i
cittadini, detiene il potere supremo; [...]18.
@@@
La decisione di istituire una monarchia, e perciò di non istituire una democrazia, è una decisione
democratica, e non potrebbe essere altro. Solo il popolo istituisce lo Stato, istituendo con lo stesso
atto se stesso come popolo (se no sarebbe “moltitudine”). E se non delega il potere a un individuo o
ad un gruppo determinato, s’intende che lo trattiene per sé. E se ha deciso di delegarlo a tempo, per
poi tornare a riunirsi in un luogo e un momento prefissati, alla scadenza prevista riprende per intero
il suo potere. E il fondamento di questo potere, che appunto perciò è assoluto, è la legge naturale.
Lo Stato in quanto tale è di legge naturale, cioè di diritto divino. Ed essendo l’atto fondativo dello
Stato necessariamente una decisione democratica, la democrazia, per quanto poco piaccia ad
Hobbes, è per Hobbes stesso l’unica forma politica che sia immediatamente di diritto divino. Il
comandamento razional-naturale-divino “Vi sia pace, e perciò vi sia Stato”, ha come necessario
principio di attuazione la conseguenza, peraltro assai coerente: “Vi sia popolo, e perciò potere
popolare sovrano”. E se solo Dio è Re nel senso supremo, il popolo è necessariamente il suo primo
vicario.
La monarchia invece non è come tale di diritto divino, ed è questo (non il preteso fondamento
“laico” del potere, che qualsiasi cosa sia non è Hobbes) a distinguere il nostro autore dai monarchici
tradizionalisti e legittimisti (con cui non volle mai essere confuso: in fondo gli sarebbe andato bene
anche un Cromwell re). La monarchia è di diritto popolare, come peraltro anche l’aristocrazia.
Ancora il De Cive:
@
Come l’aristocrazia, così anche la monarchia deriva dalla potestà del popolo, che trasferisce il suo
diritto, cioè il potere supremo, ad un solo uomo. Anche a questo riguardo si deve pensare che sia
proposto un uomo, distinto da tutti gli altri per fama, o per un altro tratto, e che gli venga trasferito a
maggioranza di voti ogni diritto del popolo, così che l’eletto possa legittimamente fare tutto quello
che il popolo poteva fare prima di eleggerlo. Ciò fatto, il popolo non è più una persona unica, ma
una moltitudine dispersa, perché era persona unica solo in virtù del potere supremo, che ormai ha
trasferito in quell’uomo19.
@@@
La sola vera differenza con Rousseau è che per Hobbes il popolo sovrano può spogliarsi della
propria sovranità, ed anzi è bene che lo faccia, ed una volta che se ne sia spogliato non può più
recuperarla in maniera legittima. Ma non c’è dubbio che il popolo è l’unica espressione immediata
della sovranità, mentre il potere sovrano del re è solo eventuale e mediato: c’è solo se il popolo ha
originariamente deciso così, e solo perché il popolo si è originariamente vincolato in tal senso il
potere del primo re può passare ai suoi successori. E tuttavia, sia pure in un modo che lui stesso
riconosce paradossale, anche nel potere monarchico per Hobbes si può ancora vedere il potere
popolare:
@
Il popolo regna in ogni Stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo
vuole attraverso la volontà di un solo uomo. La moltitudine invece sono i cittadini, cioè i sudditi.
Nella democrazia e nell' aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la curia è il popolo. E nella
monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo 20.
@@@
Popolo e sovrano, dunque, sono sinonimi. Popolo è chiunque, gruppo o persino individuo, eserciti il
potere supremo. In questo senso, ogni forma di governo è una democrazia. Per converso, neppure in
una democrazia in senso stretto il potere è sempre e costantemente dell’insieme dei cittadini, che lo
detengono solo quando sono formalmente riuniti in assemblea e lo perdono quando tornano a
sciogliersi, fino all’assemblea successiva. Nel frattempo, il potere sovrano del popolo è esercitato
tutto intero da appositi magistrati. In questo senso, le differenze tra le varie forme di governo sono
abbastanza superficiali. Il principio supremo di legittimità è uguale in tutti i casi, e si tratta appunto
dell’identificazione di popolo, sovrano e Stato sulla base della legge di natura e in vista della pace
pubblica. Ed ogni sovranità è in quanto tale voluta da Dio.
Una sola conferma di tutto ciò (tra le tante possibili) dal Leviatano:
@
La FUNZIONE del sovrano (monarca o assemblea che sia) consiste nel fine per il quale gli è stato
affidato il potere sovrano, cioè il procurare la sicurezza del popolo; a ciò è obbligato dalla legge di
natura, e di ciò deve rendere conto a Dio, autore di quella legge, e a nessun altro fuorché lui 21.
@@@
Una dichiarazione tra le più esplicite e chiare che si trovino in tutta l’opera di Hobbes sul fatto che
lo Stato (e non il re in quanto tale) è legittimato dalla lex divina ed orientato ad un compito voluto
da Dio, e quindi soggetto al giudizio divino, e a nessun altro giudice, appunto perché Dio e nessun
altro è al di sopra dello Stato. In questo le varie forme di Stato non sono diverse. Mentre la specifica
figura di sovrano scelta all’origine dello Stato è legittimata solo dal consenso e dal vincolo che
questo istituisce anche per le generazioni future. Ma, una volta creato il sovrano, quale che ne sia la
forma, su di lui incombe il dovere (ed è l' unico dovere che abbia) di compiere ciò che la legge
naturale impone, cioè mantenere la pace. Questo stesso dovere, peraltro, viene a costituire un
ulteriore, più alto livello di legittimazione. Il Dio mortale regna sotto il Dio immortale, dice un
brano notissimo22. E appunto per questo, a meno che non si decida che per interpretare Hobbes di
Hobbes stesso si può fare a meno, è del tutto impossibile negare alla sovranità hobbesiana un
fondamento teologico e alla figura del sovrano una funzione direttamente voluta da Dio, e dunque
una funzione vicariale nei confronti di Dio.
È importante, per non confondere Hobbes con i teorici premoderni della sovranità, non perdere di
vista i vari livelli di mediazione con cui il potere sovrano discende dall’alto: dalla legge naturale al
pactum, cioè all’assemblea popolare in cui ogni singolo membro s’impegna con tutti gli altri a
delegare i propri diritti al sovrano, e contestualmente (concordo con la tesi secondo cui non occorre
distinguere un pactum unionis e un pactum subiectionis) determina insieme a tutti gli altri chi debba
essere il sovrano; quindi il sovrano stesso, che precisamente dal pactum (di cui ovviamente non è
parte e quindi non lo vincola) trae l’autorizzazione a restare nello stato di natura, cioè sotto il solo
vincolo della legge naturale, dunque sotto la sola autorità di Dio. Dio impone che il popolo scelga il
suo vicario. Il popolo è vicario di Dio nello scegliere il vicario di Dio. In uno schema ancora
tradizionale nasce un principio moderno. Il sovrano per grazia di Dio è scelto dal consenso del
popolo, a cui comunque spetta l’atto sovrano per eccellenza, appunto l’istituzione del potere
sovrano. Appunto perciò in definitiva il sovrano, chiunque sia, è il popolo. Ma non si può escludere
da questo schema la legittimazione divina del potere sovrano senza uscire dalla filosofia di Hobbes
(e da tutto il suo mondo) per andare da un’altra parte. E facciamolo pure, perché no? Basta sapere
che non stiamo interpretando Hobbes, ma estrapolando da lui alcuni concetti, che appunto perciò
non sono più suoi concetti. Mi pare un elementare e doveroso atto di rispetto nei confronti di un
grande pensatore non trattarlo come se fosse stato lui a teorizzare il Führerprinzip.

5. Lo Stato-Chiesa e la pace religiosa


La funzione vicariale del sovrano è definitivamente confermata precisamente dal fatto che egli è
tenuto all’adempimento della legge di Dio che impone la pace anche (e persino soprattutto) sotto il
profilo spirituale. Questo non potrebbe essere distinto da quello secolare senza creare già una
divisione e perciò un conflitto. Che è poi per eccellenza il conflitto proprio dell’epoca di Hobbes,
quello che tormentò la sua coscienza e la sua vita: chi può decidere della Verità? Un celebre passo
del Leviatano:
@
Il pretesto più frequente di disordini e di guerra civile negli Stati cristiani deriva, da molto tempo,
dalla difficoltà, non ancora risolta in modo soddisfacente, di obbedire a un tempo a Dio e all’uomo
quando i loro dettami si contraddicono. È molto evidente che quando un uomo riceve due ordini
contrari, e sa che uno dei due viene da Dio, deve obbedire a questo, e non all’altro, anche qualora
quest’ultimo fosse addirittura l’ordine del suo legittimo sovrano (si tratti di un monarca o di
un’assemblea sovrana) o di suo padre. La difficoltà consiste dunque in questo: gli uomini, quando
ricevono un ordine impartito nel nome di Dio, non sanno, in più di un caso, se l’ordine proviene da
Dio o se colui che l’impartisce non fa che abusare del nome di Dio per un suo fine particolare 23.
@@@
Una soluzione astrattamente teologica di questo problema non esiste. Non ci sono più miracoli e
profeti, Dio non parla più direttamente agli uomini (o, quanto meno, non lo fa in maniera
inequivocabile). Sono sempre degli uomini a dire secondo la loro opinione cosa Dio comanda, e a
questo punto il conflitto delle opinioni è insolubile, dunque diventa impossibile la pace religiosa (e
perciò la pace in generale). D’altra parte (cosa non colta da molti interpreti di Hobbes, il che
sorprende non poco), neppure una soluzione strettamente e astrattamente politica del problema
potrebbe funzionare: mettere da parte il problema della verità religiosa per sostituirlo sic et
simpliciter con quello dell’autorità politica, equivarrebbe a sostenere che il cristiano può, o
addirittura deve, disobbedire a Dio, o, ed è persino peggio, che non deve neppure porsi il problema.
La soluzione di Hobbes è un’altra, ed è forse la soluzione più logica in quell’epoca e in quelle
circostanze: è appunto obbedendo al sovrano legittimo che si obbedisce a Dio. Il che peraltro non
avrebbe alcun senso se il sovrano legittimo non fosse tale perché appunto istituito da Dio: senza la
sua teologia politica, tutto il pensiero di Hobbes sarebbe ridotto all’incoerenza più arbitraria.
Del resto, Hobbes è esplicito nell’affermare che il pactum contiene di necessità anche la delega al
potere sovrano dei diritti spirituali dei singoli. Dal De cive:
@
Riguardo alle leggi sacre, si deve considerare [...] che i singoli cittadini hanno trasferito a colui o
coloro che hanno il potere supremo dello Stato, tutto il diritto che potevano trasferire. Ma potevano
trasferire il diritto di decidere del modo in cui si debba onorare Dio; quindi lo hanno trasferito. [...] I
cittadini possono trasferire a colui o a coloro che hanno il potere supremo dello Stato il diritto di
decidere del modo di rendere culto a Dio; anzi, devono farlo: altrimenti tutte le opinioni assurde
circa la natura di Dio, e le cerimonie stravaganti che s’incontrano nelle diverse genti, si troveranno
tutte insieme nello stesso Stato; con la conseguenza che ciascuno crederà che tutti gli altri insultano
Dio. Così, non si potrà dire di nessuno, con proprietà, che rende culto a Dio: nessuno rende culto a
Dio, ovvero lo onora esteriormente, se non compie delle azioni per cui agli altri risulti evidente che
gli rende onore. Dunque si può concludere che nel regno di Dio per sola natura, l'interpretazione
delle leggi naturali sacre e secolari dipende dall’autorità dello Stato, cioè di quell’uomo o quella
curia cui è stato affidato il potere supremo dello Stato; e che Dio comanda per loro voce tutto quello
che comanda. Per converso, quello che viene comandato da costoro, riguardo il modo di onorare
Dio, come riguardo alle cose secolari, viene comandato da Dio24.
@@@
Come si vede, la soluzione hobbesiana al problema del rapporto tra potere secolare e potere
spirituale è ben lungi dall’essere “laica”. E' esplicitamente teocratica. E naturalmente implica la
radicale negazione della libertà di culto. La libertà di culto comporterebbe che siano liberi tutti
quegli atti che soggettivamente sono di culto, anche quelli che agli occhi di altri sono inefficaci o
immorali o sacrileghi, quindi lo Stato verrebbe a tollerare o addirittura a tutelare comportamenti che
ad una parte dei cittadini appaiono immorali o sacrileghi. Cioè lo Stato, lungi dal mantenere la pace,
verrebbe a creare situazioni di conflitto irriducibile, contraddicendo così lo stesso principio che lo
fonda. Tutto ciò è poco simpatico alle nostre orecchie, ma è innegabile la coerenza d'el
ragionamento, come pure l’efficacia storica del principio qui affermato da Hobbes, che è
esattamente il principio westfaliano che pose termine alle guerre di religione in Europa: cuius regio
eius religio.
Un’implicazione a questo punto persino ovvia del principio affermato è che, non solo non può
esserci supremazia della Chiesa sullo Stato, ma neppure può esserci differenza tra Stato e Chiesa. Il
sovrano, come suprema autorità religiosa dello Stato, è di necessità il capo della Chiesa del suo
Stato. Quindi non c’è una Chiesa universale: dall’unità dottrinale, anche qualora vi fosse, non
discenderebbe un’unità istituzionale. La Chiesa non è l’unità astratta dei battezzati o dei credenti in
Cristo, ma la loro unificazione formale in un’unica persona realizzata mediante uno specifico atto di
convocazione dell’autorità. Quindi la Chiesa coincide con l’unione dei sudditi cristiani di uno Stato,
e il suo capo è il sovrano cristiano dello Stato. E ci sono tante Chiese quanti Stati, tutte ugualmente
legittime e senza alcuna gerarchia tra di loro. Ancora il De rive:
@
Da quanto già detto, segue per conseguenza necessaria che uno Stato di cristiani e una Chiesa degli
stessi cristiani sono del tutto la stessa cosa, chiamata con due nomi per due cause. Infatti, la materia
dello Stato e della Chiesa è la stessa, cioè gli stessi cristiani. La forma, che consiste nella potestà
legittima di convocarli, è anch’essa la stessa: è chiaro infatti che i cittadini sono obbligati ad andare
dove sono convocati dallo Stato. Ma quello che si chiama Stato, in quanto consta di uomini, viene
detto Chiesa, in quanto consta di cristiani.
@@@
La sgradevolezza del discorso per orecchie di oggi, credenti o “laiche” che siano, è insuperabile: in
queste cose Hobbes resiste irriducibilmente ad ogni interpretazione attualizzante. Però va
considerato che il potere secolare e spirituale ugualmente assoluto che viene attribuito al sovrano ha
un limite intrinseco nella sua stessa natura, cioè nel principio di diritto naturale che lo fonda:
l’esigenza di mantenere la pace. Non si spinge oltre, e dunque vincola solo i rapporti esterni tra i
cittadini, non l’interiorità di ciascuno. Il sovrano impone il culto e non la fede: della propria fede
ciascuno è unico giudice, e la dimensione della fede è totalmente libera. Nessuno può essere
obbligato a credere o impedito nel credere, e nessuna autorità può infliggere punizioni spirituali.
Dal Leviatano:
@
l’ufficio dei ministri di Cristo in questo mondo è di far sì che gli uomini credano e abbiano fede in
Cristo. Ma non esiste relazione, né dipendenza alcuna, tra fede, costrizione e comando; la fede si
fonda unicamente sulla certezza o sulla probabilità di argomenti tratti dalla ragione o da qualcosa in
cui gli uomini già credono.
Perciò in questo mondo i ministri di Cristo non hanno, in quanto tali, il potere di punire qualcuno
perché non crede o contraddice ciò che essi dicono26.
@@@
Dal che si potrebbe ricavare che la teologia politica di Hobbes è ancora più vicina di quanto
comunemente si dica alla teologia politica di Spinoza: sebbene non ci sia nessuna libertà e nessun
pluralismo religioso sotto il profilo dei comportamenti esterni, la libertà interiore è affermata
altrettanto pienamente. A noi giustamente non basta, ma per l’epoca era davvero tanto.
Specialmente se si considera che, salva restando la libertà del sovrano di legiferare come gli pare in
materia religiosa col solo vincolo della ragione naturale (che peraltro come sappiamo è lex divina),
quel che si chiede ad un cristiano per la salvezza è semplicemente di riconoscere, come viene
continuamente ribadito in innumerevoli passi, che Gesù è il Cristo. Il che non è poi così poco, date
le implicazioni che Hobbes identifica nell’apparente semplicità del principio 27. Ed ha soprattutto
l’implicazione parecchio interessante che i cristiani ai fini della salvezza, e perciò agli occhi di
Cristo, sono tutti ugualmente cristiani. Il che non sarebbe tanto poco neppure oggi, ma all’epoca era
una rivoluzione: ad una cosa così enorme si riuscì a dare solo il nome di ateismo. Proprio a noi,
oggi, credo che possa spettare il compito di ridarle il nome di cristianesimo. E nulla più di questo
mi convince a tener fermo il paradosso (che tale peraltro a me non pare) che Hobbes, a modo suo
ma più di tanti altri, è un pensatore eminentemente cristiano.

%
1. Originariamente pubblicato in G. Μ. Chiodi, R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Hobbes,
FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 125-41.
2. T. Hobbes, Behemoth, ovvero il Lungo Parlamento, Dialogo I, a cura di O. Nicastro, Laterza,
Roma-Bari 1979, p. 5.
3. Ivi, pp. 6-7.
4. Ivi, p. 7.
5. Ibidem.
6. Ivi, pp. 7-8.
7. Ivi, pp. 28-9.
8. Avendo appena preso le distanze da Schmitt (ed ampliandole ancora parecchio più oltre: cfr.
infra, cap. V), mi sembra equo riconoscere che sotto questo profilo sono grandemente debitore
proprio dell’interpretazione schmittiana. C£r. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (Testo del 1932),
trad, di P. Schiera, in Id. Le categorie del 'politico', cit., pp. 150-2.
9. Cfr. T. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile,
cit., parte I, cap. V, pp. 36-7.
10. Ivi, parte I, cap. IV, p. 27.
11. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma
1979 (rist. 2005), parte I, cap. III, § 33, p. 55.
12. Ivi, parte I, cap. IV, § 1, ρ. 56.
13. Ivi, parte I, cap. II, § 2, pp. 30-1.
14. Ivi, parte I, cap. II, § 3, p. 31.
15. Sul “cristallo di Hobbes”, cfr. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (Testo del 1932), cit.,pp. 151-
2.
16. T. Hobbes, Leviatano cit., parte I, cap. XIV, pp. 105-6.
17. Ivi, p. 106. Si tratta di Matteo, VII, 12.
18. T. Hobbes, De cive cit., parte II, cap. VII, § 5, p. 90.
19. Ivi, parte II, cap. VII, § 11, p. 93.
20. Ivi, parte II, cap. XII, § 8, p. 134.
21. T. Hobbes, Leviatano cit., parte II, cap. XXX, p. 273.
22. Cfr. ivi, parte II, cap. XVII, p. 143.
23. Ivi, parte III, cap. XLIII, p. 473.
24. T. Hobbes, De cive cit., parte III, cap. XV, § 17, pp. 180-1.
25. Ivi, parte III, cap. XVII, § 21, p. 219.
26. T. Hobbes, Leviatano cit., parte III, cap. XLII, p. 404.
27. Cfr. p. es. T. Hobbes, De cive cit., parte III, cap. XVIII, §§ 1-14, pp. 233-48.
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CAPITOLO IV. Consenso di morte. Il male politico e il punto di vista dei


persecutori1
SOMMARIO: 1. Il massacro invisibile - 2. Non solo i morti tacciono - 3. Ad Auschwitz, ci siamo ancora
- 4. Uccidere per non morire (per non essere morti) - 5. La guerra senza fine - 6. Perché gli ebrei? -
7. Noi, buoni nazisti

1. Il massacro invisibile
C'è un terribile “perché?” che segna come una ferita non rimarginata la storia del XX secolo (che è
ancora la nostra). Perché un popolo civile, colto, economicamente avanzato, con una rispettabile
anche se non lunghissima tradizione di democrazia parlamentare, con profonde radici cristiane,
decide di colpo, senza alcuna plausibile motivazione, di sterminare una minoranza da tempo
perfettamente integrata a tutti i livelli della vita nazionale e che sotto nessun punto di vista sensato
poteva rappresentare una minaccia? E perché una simile enormità non suscita nessuna rivolta
morale dei molti che sono chiamati a contribuire in qualche modo alla sua esecuzione e dei
moltissimi che ne sono almeno in parte a conoscenza? Perché nessuno o quasi dice “no!”? Perché il
massimo cui riescono ad arrivare i più giusti o i più audaci è il voltare pudicamente gli occhi da
un’altra parte, mentre gli ebrei vengono massacrati? È sempre più chiaro, infatti, che non sapeva
soltanto (o quasi) chi non voleva sapere: non molto si faceva per tenere nascosta la “soluzione
finale”, né del resto sarebbe stato facile riuscirci, date le sue proporzioni. È come se quest’immensa
oscenità fosse stata invisibile agli occhi stessi di coloro che n’erano autori o complici, come se un
velo grigio di “normalità” l’avesse coperta. Sei milioni d’innocenti uccisi da assassini ciechi, che
neppure sapevano d’essere assassini e si sono meravigliati moltissimo quando, a guerra finita, i
vincitori li hanno bollati come tali. E l’orrore più grande è forse proprio questo sincero stupore di
carnefici che pensavano d’essere soldati valorosi, solerti funzionari, buoni patrioti, scienziati severi.

2. Non solo i morti tacciono


Di sofito, si scrive della Shoah dal punto di vista delle vittime, e questo, paradossalmente, occulta
parte della sua mostruosità. La vittima è innocente, è ragionevole, è sincera: vede le cose come
stanno, le chiama col loro nome, urla di fronte a ciò che fa urlare. È facile identificarsi con lei, è
facile sentirla come una sorta di nostro rappresentante, di noi come normali e decenti esseri umani,
che pensa come noi pensiamo, agisce come noi avremmo agito (a parte forse un sovrappiù
d’acquiescenza che a volte ci turba; pensiamo volentieri, infatti, che noi ci saremmo ribellati), e
testimonia per noi, giustificandoci. La vittima è un essere umano, come noi: gli uomini sono, gli
uomini siamo, così. Normali e decenti, normalmente e decentemente giusti; e l’abiezione della
paura e dell’estrema sofferenza non toglie nulla a quest’umanità, ce la mostra sporcata e ferita, ma
non distrutta. Anche perché le vittime che testimoniano per noi sono ovviamente quelle che si sono
salvate, o almeno quelle che si erano salvate sino al momento in cui hanno reso testimonianza (è il
caso ad esempio di Anna Frank), e questo ci dà come la sensazione di un sia pur doloroso “lieto
fine”. Alla fine, l’innocenza ha vinto, l’umanità, la nostra umanità, è riemersa dall’orrore. Ci manca
il punto di vista dei morti, che sarebbe il più vero; e un testimone lucido e duro come Primo Levi è
stato infine annientato da questa consapevolezza: chi si è salvato è quasi un complice involontario,
proprio perché non può testimoniare sino in fondo la verità, avendo assaporato la fatica, il dolore, la
paura, l’umiliazione, ma non la morte2. Solo i morti ci direbbero tutto l’orrore, l’orrore che ha vinto,
e ha vinto per sempre (a meno che non ci siano nella morte un riscatto e una salvezza che possiamo
sperare, ma di cui nulla sappiamo, e che di fronte a tali morti non abbiamo il diritto di presumere
alla leggera: sarebbe una consolazione vile). Non possono parlare per i morti, le vittime
sopravvissute; e non possono parlare neanche per i carnefici. Questi sono visti (e come sarebbe
possibile altrimenti?) attraverso le lenti dell’odio, della paura e del disprezzo; ciò li allontana da noi
e insieme in qualche modo li ingigantisce. Sono mostri: se non di vera e propria crudeltà,
d’insensibilità, di ottusità; tronfi nelle loro divise e dietro le loro armi, come incapaci di linguaggio
umano nel loro abbaiare comandi. Non sono come noi, non ci riconosciamo in loro, e questo ci dà
sollievo. Ma un sollievo cui forse non abbiamo diritto.
Chi potesse darci il punto di vista dei carnefici, ci consentirebbe un grande acquisto di verità, l’altra
metà del vero, accanto al silenzio dei morti. Ma come riuscirci? Di fatto, ciò che abbiamo è, accanto
al silenzio dei morti, il silenzio altrettanto profondo degli assassini 3. Non che questi non abbiano
parlato: mai nella storia, anzi, degli assassini hanno sentito un simile bisogno di documentare
scrupolosamente, con precisione da contabile, i loro omicidi; le testimonianze degli assassini sono
di gran lunga più numerose di quelle delle vittime, e si capisce perché. La ragione di fondo, la
ragione insormontabile per cui si tratta comunque di un silenzio, è che gli assassini non si sono mai
percepiti come tali, e non hanno quindi nulla da dire sul proprio essere assassini. Mentre
uccidevano, si autorappresentavano come soldati che fanno il loro dovere, professionisti che fanno
il loro lavoro, gente normale che fa una cosa in quel momento normale: è anzi probabile che proprio
quelli tra loro che potremmo considerare umanamente migliori, quelli che soffrivano e
s’interrogavano, si rappresentassero a se stessi addirittura come eroi che si sacrificavano, vittime del
dovere, martiri del Bene. E i pochi che a posteriori si sono sinceramente pentiti, si sono ovviamente
visti nella luce dell’espiazione e del riscatto. L’atroce paradosso è questo: che il più orrendo
assassinio di massa della storia umana non è stato commesso da assassini. E del resto, non è
improbabile, e proprio qui ne potremmo trovare la prova definitiva, che in natura non esista
qualcosa come “gli assassini”.
3. Ad Auschwitz, ci siamo ancora
Per procedere oltre, bisogna esporsi a un fraintendimento particolarmente sgradevole. Si tratta,
infatti, di mettere in discussione la tesi dell’unicità della Shoah. Ciò è scomodo, perché rischia di
sembrare una sottovalutazione di questa tragedia, se non addirittura un approssimarsi a quella
posizione particolarmente infame che è il negazionismo.
Naturalmente, non si tratta di questo. Da un certo punto di vista, l’unicità della Shoah è anzi
indiscutibile. Nessun popolo è stato perseguitato più lungamente, più duramente, più tragicamente
degli ebrei. Questo è un fatto. C’è invece da discutere quando la Shoah viene in qualche modo
isolata dalla storia stessa e viene considerata come una singolarità, qualcosa che non è mai accaduto
prima e non è mai accaduto dopo, un abisso di nequizia non paragonabile a nient’altro e non
rapportabile a nessun principio di spiegazione che comprenda anche altri fatti storici.
In questo modo, la Shoah diventa propriamente inspiegabile, cessa addirittura d’essere un evento
storico per assurgere ad accadimento metafisico, ad una sorta di tragica rivelazione della
trascendenza: una manifestazione di Dio o una manifestazione dell’assenza di Dio. C’è senza
dubbio nella Shoah un problema teologico immenso, il vero grande problema teologico dei nostri
tempi, e ciascun credente, sia questi ebreo o cristiano o di qualunque altra religione, non può non
interrogarsi su dov’era Dio ad Auschwitz, come tanti si sono interrogati 4. Il punto è che
quest’aspetto, per quanto d’enorme importanza, e non soltanto per i credenti, sposta il fuoco
dell’attenzione in una maniera che può essere fuorviarne. La tesi che sottolinea, peraltro
giustamente, l’abissalità del fenomeno Auschwitz rischia anzi di avere esiti paradossalmente e
indebitamente consolatori. Non è mai successo prima, non è mai successo dopo, non succederà mai
più: in ogni caso noi non c’entriamo, in ogni caso noi siamo innocenti. Se partiamo dal punto di
vista che noi siamo innocenti, credo che abbiamo già perso ogni possibilità di capire di cosa
davvero si tratta.
Ho avuto, diverso tempo fa, la fortunata occasione di conoscere Tom Wright, allora professore
nell’Università Ryukoku di Kyoto, studioso celebre del buddhismo zen ed egli stesso monaco zen
regolarmente ordinato della scuola Soto. Ma prima di diventare uno studioso ed un praticante del
buddhismo zen, Wright è stato imo dei più stretti collaboratori di Martin Luther King, uno tra i
pochi bianchi, nonché un combattente di primo piano per i diritti civili negli Stati Uniti. Wright era
stato poco prima in Polonia, dove era andato precisamente per studiare la Shoah e aveva visitato
quello che resta dei campi di sterminio. Lo sentii parlare in particolare di una sua esperienza a
Majdanek. Qui aveva visto un grande capannone, pieno fino al soffitto di scarpe. Ottocentomila
paia di scarpe, scarpe di bambini, donne, uomini: le scarpe dei morti, rubate ai morti, perché i morti
e tutte le loro cose non erano che materia prima, in questa gigantesca industria della distruzione.
Come accadrebbe a chiunque, Wright sentì montare in sé una rabbia incontenibile ed un
incontenibile odio. C’era con lui sua moglie (i monaci del Soto zen possono sposarsi, a determinate
condizioni), una giapponese, che a un certo punto uscì, senza proseguire la visita. Si ritrovarono
dopo, e lui le descrisse questa rabbia, quest’odio che sentiva verso i carnefici, e si chiese: “come
degli uomini hanno potuto fare questo?”. Lei gli rispose: “io ho pensato un’altra cosa; ho pensato:
come io ho potuto fare questo?”5.
Credo che appunto ciò sia necessario. Chiedersi come noi abbiamo potuto fare questo. Ed è
essenziale che questo noi non sia assunto in un senso troppo generico e astratto: “noi genere
umano”, che significherebbe in fondo “noi quegli altri, noi loro”. Bisogna avere il coraggio di
pensare proprio a noi, a ciascuno di noi individualmente inteso, non come sarebbe stato se fosse
vissuto allora, ma esattamente come in effetti è qui ed ora. Siamo noi che lo abbiamo fatto. Certo,
non in un senso troppo letterale: innegabilmente, non c’eravamo. Ma il punto è che se pensiamo che
coloro che l’hanno fatto non fossero esattamente come noi, abbiamo già sbagliato tutto. Da questo
punto di vista, la Shoah non può essere una singolarità: altrimenti, non sarebbe stata opera di
uomini come noi, e noi saremmo davvero innocenti. Ed allora non avremmo neanche un gran
bisogno d’occuparcene: sarebbe ima cosa da noi talmente lontana! Ma invece no: noi non siamo
innocenti.
È sin troppo ovvio, in questo contesto, ma ugualmente necessario richiamarsi al libro famosissimo,
bellissimo e spaventoso che Hannah Arendt ha dedicato al processo Eichmann 6. È sicuramente uno
dei libri più importanti che siano stati scritti sulla Shoah e il più importante che sia stato scritto sui
carnefici della Shoah, non solo su Eichmann, che non fu tanto uno dei peggiori, quanto uno dei più
tipici, quasi il modello di quei carnefici. Come tutti sanno, Arendt sostiene che Eichmann non era
per niente un mostro, in qualche modo grandioso e sovrumano nella sua disumanità. Ma nessuno
dei carnefici lo era. Tra di loro c’erano sicuramente dei veri e propri criminali, che avrebbero in
ogni caso commesso omicidi o altri delitti, c’erano degli psicopatici, c’erano dei sadici. Ma non si
può spiegare un evento di queste dimensioni come un trionfo del crimine, della follia e del sadismo.
No: con rare e poco rilevanti eccezioni, i carnefici erano in tutto e per tutto uomini come noi. Oggi,
come noi e tra noi, deplorerebbero quest’evento unico e si chiederebbero come degli uomini hanno
potuto fare questo.
Il male è banale, grigio, “normale” come lo era Eichmann. Lui stesso si è descritto come un
semplice funzionario impegnato in pratiche amministrative. Spediva ebrei. Li spediva a morire, ma
questo non era affar suo, era il lavoro di altri. Lui non c’entrava: organizzava solo il viaggio. Non
aveva mai ucciso nessuno, lui7. Può darsi benissimo che ciò sia vero: nel processo non si riuscì a
dimostrare il contrario. Ma ciò non impedisce che Eichmann sia colpevole della morte di milioni
d’innocenti, che ha mandato a morire sapendo che andavano a morire, ed è esattamente come se li
avesse uccisi lui, personalmente, uno per uno. Ma di questo lui non poteva e non voleva rendersi
conto, appunto per poter restare com’era. Uno assolutamente normale. Uno di noi.
Eichmann è stato uno dei carnefici peggiori perché aveva un ruolo di comando in uno degli snodi
decisivi dello sterminio, ma come lui, qualche gradino più in basso, ce n’erano migliaia, e, a livelli
ancora più bassi di complicità, milioni di altri. Ha avuto una forte risonanza polemica, anni fa, una
ricostruzione storica accusata di colpevolizzare l’intero popolo tedesco 8; ma la probabile verità non
è comunque molto diversa. Certo, non proprio tutti i tedeschi di allora furono colpevoli; però tutti i
tedeschi di allora in qualche modo sapevano che qualcosa stava succedendo, e, con rarissime
eccezioni, hanno lasciato che succedesse. Certo, relativamente pochi erano al corrente dello
sterminio, delle sue dimensioni, delle sue modalità, e di questi solo una minoranza relativamente
piccola vi partecipava direttamente. Ma tutti sapevano che gli ebrei erano discriminati, tutti
sapevano che gli ebrei venivano deportati, tutti sapevano che era in atto una persecuzione. E tutti i
tedeschi hanno lasciato che la persecuzione accadesse. Ma non solo i tedeschi. È questa in realtà la
sola obiezione sensata contro la criminalizzazione di un intero popolo: non che i tedeschi fossero
innocenti, ma che non erano colpevoli in quanto tedeschi, bensì in quanto persecutori, insieme a
molti altri che tedeschi non erano. Non c’è nessuna specificità nazionale nella colpa, e per questo il
non essere tedeschi non ci assolve in alcun modo. La colpa è anzi assolutamente generale.
Innumerevoli furono i complici stranieri dei tedeschi, a livello di governi, forze armate, organismi
di partito, semplici cittadini. Moltissimo dovrebbero vergognarsi i rumeni, i polacchi, i francesi, gli
ungheresi, non poco anche gli italiani. E non c’è neppure un legame strettamente necessario tra
colpa e ideologia. Certo, nazisti non antisemiti non era possibile che ve ne fossero, ma fascisti (nel
senso ampio del termine), alleati o simpatizzanti della Germania hitleriana, eppure apertamente e
coraggiosamente avversi al massacro ve ne furono, sia individui sia governi 9. Per un altro verso,
invece, la colpa si estende anche ai nemici della Germania: ormai è del tutto dimostrato che gli
Alleati erano al corrente della Shoah praticamente dai suoi inizi, e con ampiezza di dettagli. Eppure,
non vi fu nessuna azione militare volta a ostacolare la macchina dello sterminio, e la propaganda di
guerra, pur denunciandolo, non ne fece mai un tema centrale.
Questi dati, notissimi e incontestabili, sembrano compromettere irrimediabilmente la tesi
dell’unicità della Shoah. Mentre confermano la constatazione arendtiana della banalità del male. Ma
su questo occorre essere più precisi.
4. Uccidere per non morire (per non essere morti)
Certamente, la Shoah non è solo uno dei tanti massacri della storia e il popolo ebraico non è solo
una vittima tra tante. Non solo gli ebrei sono stati vittime dello sterminio, è vero: zingari,
omosessuali, comunisti, malati di mente furono massacrati allo stesso modo. Era in progetto, del
resto, l’estensione della “soluzione finale” ad altre categorie di Unmenschen, come i polacchi o i
russi; e certamente i morti sono tutti uguali. Ma è innegabile che tra le diverse categorie di vittime
gli ebrei hanno avuto un’assoluta centralità e che nessun’altra categoria ha alle spalle una più lunga
e continua storia di persecuzioni. In questo senso, c’è una tragica unicità degli ebrei come vittime.
Sicuramente non c’è, invece, un’unicità dei carnefici. Questi non hanno proprio nessuna peculiarità.
Nell’essenziale, cioè nel loro consenso di morte, nell’essere uniti, accomunati dall’atto di uccidere,
non sono distinti né da appartenenze nazionali, né da posizioni ideologiche: non importa se stanno
massacrando ebrei o zingari, comunisti o anticomunisti. Tutti gli uomini, anzi, sono potenzialmente
dei carnefici (compresi quelli che in certe epoche e circostanze sono stati vittime: questo purtroppo
non dà nessun’immunità). Ma si potrebbe andare anche oltre. Si potrebbe sostenere, e forse persino
dimostrare, se fosse necessario, che tutti gli uomini sono in atto dei carnefici, direttamente o no, che
stanno comunque vivendo a spese di qualcuno, “sopravvivendo” a qualcuno 10. Il male, appunto, è
banale. Forse la cosa più banale che c’è.
Ma perché il male è banale? Perché può essere compiuto da uomini banali, e trova anzi
prevalentemente in loro i suoi autori? Perché il male è così normale nella storia dell’uomo?
Bisogna rifiutare subito la risposta apparentemente più ovvia, che è invece solo la risposta più
stupida: perché gli uomini sono cattivi. Una simile generalizzazione non ha senso, e soprattutto il
problema non è questo. Se gli uomini fossero cattivi, se fossero capaci di amare il male in quanto
tale, di volerlo per il puro gusto della trasgressione, della prevaricazione e della violenza, il male
non sarebbe banale. Saremmo tutti dei mostri, dei diavoli, cosa sorprendente, orripilante e
interessantissima, se non fosse un’evidente falsità. No: il problema è proprio che il male è banale in
quanto è compiuto da uomini “buoni”. Occorre insistere su questo: non solo da uomini normali,
mediocri, grigi, proprio da uomini buoni, che appunto in quanto tali si sentono obbligati, autorizzati,
giustificati a compierlo. Non dimentichiamo che per i nazisti i “cattivi” erano gli ebrei, non loro
stessi. Loro erano i “buoni”, che appunto perché tali dovevano eliminare i “cattivi”, magari
soffrendone pure, e sentendosi per questo ancora più buoni, ancora più legittimati a essere assassini.
Se ragioniamo in termini di “buoni” e “cattivi”, non usciamo da Auschwitz, anzi necessariamente la
riproduciamo.
Dobbiamo prendere sul serio la banalità del male. Gli uomini compiono banalmente il male non
perché sono cattivi, ma perché banalmente hanno paura. Non una paura determinata, di qualcosa di
specifico, vero o falso che sia. Ma una paura del tutto generica: anche e soprattutto nel senso che è
una paura del genere umano. Come genitivo soggettivo e oggettivo insieme. È la paura che l’uomo
ha della sua genericità, di ciò che gli è più proprio in quanto genere.
In altri termini: gli uomini sono mortali, cosa banale se mai ve ne furono. Ma non nel senso che tutti
moriremo e sappiamo che moriremo, il che non è ciò che conta in questa triste faccenda. Non è una
paura del futuro, legata a una mera previsione, per quanto certa essa sia. Il problema è piuttosto
quello che Garcia Lorca ha colto nel suo celebre Llanto, descrivendo il torero Ignacio Sanchez
Meijas che scende nell’arena “con tutta la sua morte addosso”. C’è l’ha già addosso, la sua morte,
prima ancora di morire. Esattamente come ognuno di noi. La possibilità della morte non è futura: è
presente. Dunque è costante. Dovunque siamo, portiamo con noi la nostra morte. Di cui non
abbiamo una semplice e normale paura, quella che sorge quando improvvisamente appare davanti a
noi un pericolo. No, questa paura è un sottofondo sordo e costante della nostra esistenza, è qualcosa
che neppure percepiamo direttamente come paura, perché è il basso continuo che ci accompagna
sempre. Non ce ne liberiamo mai, quindi: non è qualcosa che in certi momenti sentiamo e in certi
altri no. Potremmo addirittura dire che è qualcosa che sempre non sentiamo, che sfugge, proprio per
la sua costanza e onnipresenza, a una percezione distinta. Questa non percezione, non
consapevolezza, non paura è la base del nostro stesso esistere, e si riverbera sulla nostra vita a tutti i
livelli, è presente in ogni nostro comportamento. Qualsiasi cosa facciamo, noi stiamo,
implicitamente, cercando di scrollarci la morte di dosso. Spesso ci riusciamo. Non in maniera
definitiva, è ovvio, ma con un grado rilevante d’efficacia istantanea, e per di più spesso col
vantaggio della reiterabilità11.
Uno di questi comportamenti è particolarmente efficace, anzi è quello che funziona meglio.
Uccidere. È appunto per questo che Ignacio Sanchez Meijas scende nell’arena: per uccidere davanti
a noi, per noi, la morte (o per esserne ucciso davanti a noi, per noi, al nostro posto; per quanto ci
riguarda, va sempre bene). Possiamo uccidere la nostra morte, se la proiettiamo, la scarichiamo
addosso a qualcun altro. Chi uccide, sicuramente non è morto. Anzi usa, maneggia, signoreggia la
morte: grazie a lei è più forte di lei. La sensazione più intensa d’essere vivi si coglie
nell’immediatezza del contrapporsi ai morti. E questa sensazione diventa enormemente più forte se
è vissuta mentre si sta uccidendo.

5. La guerra senza fine


Questa è una delle tesi principali di quel libro grandissimo e illuminante che è Massa e potere di
Elias Canetti12. Non a caso, un ebreo. Gli ebrei sono specialisti di ciò di cui Canetti parla.
Specialisti in quanto vittime. È proprio perché sono quelli che più a lungo e più sistematicamente
sono stati uccisi, che possono decifrare il fenomeno della sopravvivenza (Überlebung)13.
“Sopravvivenza” non è il mero fatto di continuare a vivere, ma il fatto di continuare a vivere mentre
altri muoiono. Anzi, di continuare a vivere perché altri muoiono. Sopravvivenza è appunto la
sensazione intensissima di conservare, e anzi rafforzare, ciò che altri in quel momento stanno
perdendo o che ad altri in quel momento stiamo togliendo: la vita, appunto.
Un percorso concettuale per certi versi convergente è quello proposto da René Girard. Questi
individua come base di ogni ordine sociale, che è necessariamente ordine di differenze riconosciute
e reciprocamente delimitate, la differenza per eccellenza, quella su cui tutte le altre si costruiscono:
la differenza tra chi è vivo e chi è morto, o meglio tra chi uccide e chi viene ucciso 14.
Entrambi i punti di vista contribuiscono a chiarire quella che nella specie umana è da sempre la
forma fondamentale della violenza: la guerra. Perché gli uomini fanno la guerra? Non c’è una causa
abbastanza nobile, se ci si pensa, da poter giustificare che per essa si metta a rischio la vita. Per ogni
essere umano la vita è un assoluto, mentre ogni possibile causa è relativa. Nessuno è tanto stupido
da sacrificare l’assoluto a un relativo, neppure i più fanatici. La ragione per cui si rischia di morire
in guerra è piuttosto che la guerra ci offre l’inestimabile occasione di uccidere senza colpa, e nessun
essere umano si lascia facilmente sfuggire un’occasione del genere 15. È proprio questa l’occasione
in cui è consentito di esperire sino in fondo la sopravvivenza, senza sensi di colpa, senza sentire la
propria violenza come criminale, ma anzi in un’atmosfera in qualche modo nobile. Si è autorizzati a
uccidere, perché si rischia la vita. Bisogna rischiare la vita, per essere autorizzati a uccidere senza
colpa. E non è detto che questa “nobiltà” sia del tutto illusoria. Il gioco, in effetti, è abbastanza
leale. Si uccide rischiando di morire, si uccide esponendosi a essere uccisi: la cosa mantiene un suo
pur terribile equilibrio.
E' molto peggio quando si spezza l’equilibrio, disumanizzando l’avversario. Questa non è una
caratteristica di ogni guerra, ma di un tipo particolare di guerra: di quella che potremmo chiamare la
guerra assoluta. Se ogni guerra, come Canetti insegna, è fatta per uccidere 16, tuttavia l’uccidere è
generalmente condizionato da un obiettivo dichiarato che lo giustifica e insieme lo limita. Si uccide
per conquistare un certo territorio, o portare sul trono una certa dinastia, o affermare una certa
ideologia, ecc. La verità è piuttosto il contrario: si conquista, si sostiene la dinastia, si afferma
l’ideologia per uccidere, ma questo ha relativa importanza; è più importante che fin dall’inizio alla
morte è indicato un obiettivo, all’uccidere è posto un freno. Ottenuto quel che si voleva, o
riconosciuto che non lo si può ottenere, non si potrebbe continuare a uccidere senza colpa. Ben
diverso è quando l’obiettivo è appunto assoluto: il Bene, la Felicità Universale, la Nuova Umanità.
Quando si combatte per un simile obiettivo, la conseguenza è ovvia. Se stiamo combattendo per
l’umanità nuova, il nostro nemico mortale è l’umanità vecchia (compresi noi stessi, al limite), e
dunque la guerra, in linea di principio, non può aver fine. A meno che non abbia fine il nemico, che
è di per sé, per essenza, il male che impedisce il raggiungimento del bene. Noi siamo i buoni, noi
vogliamo che gli uomini siano buoni, noi vogliamo che trionfi il bene: di conseguenza, tutti gli altri
sono il male. Che cosa deve fare il bene quando combatte contro il male? Deve ovviamente
annientare il male, deve sterminarlo.
A questo punto, il fenomeno della sopravvivenza cambia radicalmente aspetto, perde appunto quella
dimensione di equilibrio nell’orrore. L’essere contemporaneamente carnefice e vittima salva in
qualche modo qualcosa che potremmo chiamare dignità umana. Ma in questo nuovo quadro l’orrore
deve essere a senso unico. È intollerabile che il male possa resistere ai buoni. Il nemico assoluto è
malvagio già nel suo mero difendersi, è portatore di male già semplicemente perché non vorrebbe
morire. I buoni dovrebbero poter essere soltanto carnefici. Il nemico non è più un nostro pari, con
cui confrontarsi in una violenza equilibrata ed in qualche strano modo ancora ragionevole, ma,
essendo portatore di male assoluto, deve subire il male assoluto. È lui l’ostacolo che impedisce agli
uomini di essere tutti buoni, tutti felici, tutti belli, tutti nobili, tutti grandi, tutti immortali: dunque
non basta combatterlo e sconfiggerlo, bisogna annientarlo. Perciò la forma “ideale” e paradigmatica
di una “guerra” di questo genere è quella in cui il nemico non si può difendere, quella della caccia
all’uomo.
Tutte le volte che un conflitto (non solo in guerra) viene impostato nei termini “bene contro male”,
questo viene a significare in qualche modo “la vita contro la morte”. E gli uomini vogliono uccidere
la morte: è questa la più grande di tutte le utopie, e anche la più disastrosa, perché naturalmente non
si può uccidere la morte, la sola cosa che si può fare è ammucchiare cadaveri. In mucchi sempre più
alti, perché la morte è infinita, la morte non può mai essere esaurita, e dunque per eliminare la
morte dalla terra bisogna uccidere, uccidere, uccidere ancora. Il solo modo di uccidere la morte è
uccidere l’uomo, e in fondo ogni politica di sterminio tende inconsapevolmente a questo: alla fine lo
stesso carnefice è travolto dalla sua opera di distruzione, ogni sterminio è in qualche modo suicida.

6. Perché gli ebrei?


Alla base di questa tragedia, non stanno il fanatismo e il pregiudizio. Né il fanatismo né il
pregiudizio sono cause dello sterminio. Sono strumenti. Il fanatismo e il pregiudizio vengono
assunti, vengono indossati come un abito o una maschera per dare un senso apparente a qualcosa il
cui senso trascende ogni possibilità" di comprensione da parte degli stessi assassini. In fondo, si
vorrebbe uccidere la morte, e invece si può solo assassinare qualcuno. Dunque bisogna inventarsi
che quel qualcuno è colpevole, dunque bisogna avere un pregiudizio, ma il pregiudizio non è il
movente, è l’arma.
Proprio gli ebrei più d’ogni altro sono stati la prova vivente, anzi purtroppo per lo più la prova
morente, di ciò che si è appena detto. Sono sempre stati vittime, sin dagli inizi della loro storia, ed è
questo l’innegabile aspetto di unicità della Shoah, in quanto essa rappresenta non tanto un episodio
per quanto orribile, quanto piuttosto la costante della storia di un popolo. Ma sono stati vittime, nei
diversi momenti storici, per i motivi più diversi. Le motivazioni per cui gli ebrei sono stati
massacrati durante le Crociate o per cui sono stati cacciati dalla Spagna non sono le stesse per cui
sono stati sterminati ad Auschwitz. Orto, il motivo immediato è sempre stato: “sono ebrei”; ma
questo non significava la stessa cosa nei diversi momenti. La ragione per cui un crociato massacra
gli ebrei non è la stessa per cui lo fa un nazista. Il crociato lo fa perché gli ebrei sono gli assassini di
Cristo, o più in generale perché sono coloro che più ostinatamente rifiutano d’abbracciare la vera
religione. Il nazista lo fa perché sono razza inferiore, corrotta e contaminante, capace d’avvelenare
il sangue della stirpe ariana. In tutti i casi, gli ebrei sono identificati come portatori del male, ma su
basi completamente differenti. L’essenziale, però, è appunto poter identificare gli ebrei come
portatori del male, quindi perseguitabili e uccidibili. I motivi di quest’identificazione sono
secondari, e sono sempre falsi. Sono motivi inventati, costruiti nei modi più inverosimili, motivi a
cui non è possibile credere veramente. Non esistono basi teologiche (né giuste, né sbagliate) per
dire che gli ebrei sono, in quanto tali, gli assassini di Cristo: non si può dire che la logica del
cristianesimo, sia pure mal applicata, possa portare a questo. Anzi, per giungere a questo bisogna
uscire dalla logica del cristianesimo: cosa che peraltro i cristiani hanno fatto e fanno spesso e
volentieri. Allo stesso modo, la tesi dell’inferiorità razziale degli ebrei non è una tesi scientifica,
neppure una tesi scientifica sbagliata. È una tesi che si dà per scientifica senza esserlo: anzi, per
sostenerla bisogna uscire dalla logica della scienza, cosa che naturalmente gli scienziati hanno fatto
e fanno spesso e volentieri. Queste motivazioni apparenti non sono che delle scuse per poter fare
qualcosa che si è deciso di fare comunque. Siccome bisogna uccidere gli ebrei, bisogna trovare un
motivo per farlo. Come dice Musil, in un contesto meno tragico, solo i criminali osano nuocere al
prossimo senza una filosofia: dunque ci vuole una filosofia per poter nuocere al prossimo senza
sentirsi criminali17. Si potrebbe nuocere a un prossimo qualunque: per perseguitare gli ebrei non c’è
una ragione migliore che per perseguitare gli svizzeri o i congolesi 18. Semplicemente, gli ebrei sono
già da millenni portatori riconoscibili e riconosciuti di una diversità stigmatizzata, e questa diversità
può essere fatta valere come pseudomotivazione persecutoria da parte delle più varie collettività di
sterminatori. La diversità di cui sono portatori può essere travestita come si vuole, può esserle fatta
indossare qualunque possibile maschera del male. Possono essere gli assassini di Gesù, gli
avvelenatori di pozzi e sorgenti, i diffusori della peste, i massacratori e divoratori di bambini, i
profanatori di ostie, la razza inferiore. Possono essere qualunque cosa, in quanto sono ebrei. Ma non
per un’effettiva specificità dell’essere ebrei, per qualche reale, intrinseca differenza, mal tollerata o
non compresa. No: soltanto perché l’essere ebrei li etichetta come diversi riconoscibili. Se noi non
siamo ebrei, è sicuro che gli ebrei non sono dei nostri; e se, per le nostre faccende, abbiamo bisogno
di ammazzare, se ammazziamo ebrei sappiamo che non ci stiamo ammazzando tra di noi, e dunque
possiamo farlo insieme.
A nessun “antisemita”, a nessun persecutore di ebrei (l'“antisemitismo” è già un equivoco, è già il
travestimento pseudoteorico del massacro), è mai venuto in mente di chiedersi cosa gli ebrei sono
davvero, per poi odiarli, sia pure a torto, per qualcosa che davvero sono. No: ha sempre deciso lui
che cosa gli ebrei debbono essere per poter essere degni d’odio. Nessun persecutore è mai
veramente andato a guardare cosa ci fosse sotto l’etichetta dell’essere ebreo. Avrebbe scoperto, se
no, che non c’è nessuna differenza. Sul piano religioso, l’ebraismo ha in comune tutte le dottrine
essenziali col cristianesimo e con l’Islam (per il buon motivo che ha dato origine a entrambi). Sul
piano razziale, ci sono più differenze tra ebrei di quante ce ne siano tra ebrei e non ebrei, e
comunque non si tratta per niente di “razza”, concetto insensato quando si parla di esseri umani. E
se certamente ci sono delle specificità dell’essere ebreo, sono legate a un’identità religiosa e storico-
culturale estremamente complessa e con cambiamenti radicali da un’epoca all’altra, che proprio non
si presta a nessuno degli stereotipi propri dell’“antisemitismo”. Ma gli antisemiti non si pongono di
questi problemi. Perseguitano l’ebreo non secondo quello che lui è, ma secondo quello che loro
sono o credono d’essere. Lo perseguitano costituendolo come il loro opposto, il loro doppio
mostruoso19. Ogni sistema di esclusione esclude sulla base del proprio sistema d’inclusione.
L’ebreo è il non-noi, l’anti-noi. Se per noi l’essenziale è essere cristiani, l’ebreo è assassino di
Cristo. Se l’essenziale è la purezza razziale, l’ebreo è razza inferiore e Unmensch. In tutti i casi, la
differenza che gli è attribuita è quella di volta in volta buona per ucciderlo. Per ucciderlo
lecitamente. Potrà trattarsi di un motivo pseudoreligioso o di un motivo pseudobiologico: in tutti i
casi è uno pseudomotivo. La ragione fondamentale per cui si uccidono gli ebrei è che è possibile
distinguerli dai non ebrei secondo criteri relativamente certi (renderli certi, per quanto arbitrari
possano essere, è il primo atto di ogni persecuzione), e che per moltissimo tempo gli ebrei non
hanno potuto difendersi e non sono stati difesi da nessuno. La vittima è individuabile, la vittima è
uccidibile: i persecutori non corrono nessun rischio, il successo della loro impresa è garantito in
partenza. Non c’è nessun altro motivo per uccidere20.
Questo collaudato meccanismo è entrato in crisi con la creazione dello Stato d’Israele. Ciò ha
radicalmente e definitivamente cambiato la figura dell’ebreo. L’ebreo ha cessato di essere una
vittima non vendicabile: è diventato capace di fare paura. Non la paura in fondo metafisica che ha
giustificato tutti gli stermini: è chiaro che si uccide soltanto chi fa paura, perché si proietta su di lui
la paura che già comunque si ha. Qui si passa, per fortuna, ad una paura molto più banale: la paura
che ispira chi ha un buon esercito e dei servizi segreti che non si fanno troppi scrupoli, ed ha ottime
possibilità di uccidere chi volesse riprovarci. Abbiamo perso la nostra vittima preferita, e questo
potrebbe aiutarci molto a riflettere sul nostro essere carnefici.

7. Noi, buoni nazisti


Purtroppo non possiamo fermarci qui, come se si trattasse di una specie di lieto fine, con la vittima
ormai giunta al sicuro. Anche se gli ebrei erano la vittima perfetta, un surrogato si può sempre
trovare. Ci vuol altro per bloccare il meccanismo. E non basta certo collocarsi politicamente e
ideologicamente da un’altra parte. La struttura della persecuzione è sempre la stessa, nulla la lega a
una parte politica a preferenza delle altre. Anche per quanto riguarda la persecuzione degli ebrei,
questa non è esclusiva del totalitarismo di destra. Solo la morte di Stalin ha impedito lo scatenarsi di
una persecuzione antisemita anche in Unione Sovietica, e del resto la politica “antisionista” che
l’Unione Sovietica intraprese già fin dagli anni Cinquanta rappresenta il più importante fenomeno
persecutorio sviluppatosi dopo la Seconda Guerra Mondiale (così come oggi l’antisionismo “di
sinistra” rappresenta l’ultima forma “lecita” di antisemitismo) 21. Non è un caso che, non appena
hanno potuto, centinaia di migliaia di ebrei ex sovietici siano emigrati in Israele, il che rappresenta
la più massiccia espulsione di ebrei della storia recente, paragonabile solo (certo, per fortuna in un
contesto assai meno drammatico) alla cacciata dalla Spagna o alle stesse persecuzioni naziste. Prova
decisiva che l’ideologia è uno strumento e non una motivazione.
Per bloccare o scoraggiare la persecuzione, occorrono meccanismi a-ideologici. Occorrono
istituzioni. Che i perseguitati abbiano uno Stato è fondamentale, perché li rende vendicabili,
privandoli così di uno dei requisiti fondamentali della vittimizzazione. Un ulteriore fondamentale
passo avanti, già intrapreso per quanto in forma ancora debole e sottoposta a condizionamenti
d’ogni sorta, è la creazione di un vendicatore imparziale e indipendente. Un giudice, un Tribunale
penale internazionale. Già il tribunale di Norimberga, che pure fu solo un episodio, era il tentativo
di dar vita, sia pure con tutte le distorsioni derivanti dal fatto che erano i vincitori a giudicare i vinti,
a un’istanza penale internazionale in grado di giudicare i comportamenti non giudicabili sulla base
dei diritti nazionali. L’idea che al di sopra del diritto dei singoli Stati ci sia un’istanza superiore, non
importa se giustificata in base al diritto naturale, al diritto internazionale o a princìpi etici,
rappresenta, nonostante tutte le evidenti debolezze teoriche, un’innovazione di enorme importanza.
Anch’essa infatti, e in misura assai più efficace, conferisce alla vittima la vendicabilità. Se la
persecuzione diventa un crimine, il persecutore diventa un delinquente e il perseguitato diventa
portatore di un’identità riconosciuta e di diritti. Mentre la persecuzione non è mai stata finora un
crimine agli occhi dei persecutori: è stata un comportamento lodevole e buono, in cui è possibile
riconoscersi reciprocamente come i Buoni, consentire in un compito di morte vissuto come
perfettamente innocente, anzi doveroso e nobile. Solo se togliamo al carnefice la buona coscienza lo
disarmiamo radicalmente.
Un’ultima riflessione è doverosa. Proprio perché stiamo parlando di un male banale, proprio perché
abbiamo cercato di comprendere che in qualche modo anche noi siamo colpevoli, non possiamo
illuderci che qui si tratti di una tragedia passata. Molte cose sono cambiate e alcuni aspetti del
fenomeno persecutorio non potrebbero più riprodursi in quella forma. Ma il nazismo delle brave
persone non è morto con Hitler (c’è un nazismo dei folli e un nazismo delle brave persone:
purtroppo non c’è un nazismo dei cattivi, solo i “buoni” possono essere nazisti). E proprio noi
italiani, che abbiamo mandato al potere forze politiche tra cui ci sono componenti dichiaratamente e
orgogliosamente razziste, che usano in maniera assolutamente tipica il linguaggio della
persecuzione (e non importa se gli “ebrei” di turno sono altri), dovremmo meno d’ogni altro sentirci
innocenti.

%
1. Originariamente pubblicato in AA. VV., Sul male: a partire da Hannah Arendt, a cura di E.
Donaggio e D. S. Scalzo, Meltemi, Roma 2003.
2. Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991.
3. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il Coraggio di Shahrazàd, cit.
4. Cfr. p. es. P. De Benedetti, Quale Dio? A proposito di alcuni autori, in “Hermenéutica”, nuova
serie, 1994, pp. 99-113; cfr. anche A. Aguti, Male radicale e silenzio di Dio. La teologia dopo
Auschwitz, in in AA. VV., Sul male: a partire da Hannah Arendt, cit., pp. 99-120.
5. Riferisco qui una testimonianza orale. Dall’esperienza in Polonia T. Wright ha ricavato il saggio
Looking at the Poles and Jews in Terms of Reconciliation, in “The Ryukoku Journal of Humanities
and Sciences”, vol. XXI, 1999, n. 1, pp. 59-84.
6. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad, di P. Bernardini, Feltrinelli,
Milano 2003.
7. Cfr. ivi, ρρ. 44-63.
8. D. J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, trad, di E. Basaglia, Mondadori, Milano 1998.
9. Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., pp. 191-4.
10. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 273-334.
11. Cfr. ivi, pp. 17-28; cfr. anche R. Escobar, Metamorfosi della paura, cit., pp. 85-95.
12. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., sp. pp. 273-9.
13. Cfr. ivi, pp. 273-4.
14. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 73-96.
15. Cfr. infra, cap. IV; cfr. anche R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il coraggio di
Shahrazàd, cit., pp. 51-69.
16. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 80-7.
17. Cfr. R. Musil, L’uomo senza qualità, trad, di A. Rho, vol. I., Einaudi, Torinol9827, p. 185.
18. O i rom, che rubano perché non possono fare quasi nient’altro, dunque in buona sostanza
vengono costretti a rubare (esattamente come gli ebrei, che facevano spesso gli usurai perché gli era
proibito quasi tutto il resto) e rapiscono bambini esattamente quanto gli ebrei sacrificano bambini,
cioè per niente: mai un solo caso giudiziariamente accertato, in tutto il mondo. Ma bisogna che
uccidiamo qualcuno, evidentemente, e gli ebrei non vanno più bene...
19. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 190-221.
20. Cfr. ivi. pp. 26-9.
21. È sorprendente con quanto entusiasmo umanitario certa cosiddetta sinistra possa auspicare la
distruzione dello Stato d’Israele. Come se questo non significasse auspicare la morte di milioni di
uomini, donne, bambini (come si distrugge uno Stato, se no?), come se questo non significasse
esattamente rifare Auschwitz... Anzi no, mi correggo: non è per nulla sorprendente.
%%%
CAPITOLO V. Guerra, politica e democrazia in Carl Schmitt ed Elias Canetti 1
SOMMARIO:1. Freund und Feind - 2. Il bellum senza Leviatano - 3. Dinanzi alle mura e in cantina - 4.
La massa doppia della guerra - 5. La guerra senza morti

1. Freund und Feind


In un passo famoso del saggio Il concetto di 'politico', Carl Schmitt propone la sua definizione
dicotomica e polemologica del “politico” nel quadro di una complessiva dicotomicità della realtà
umana, assunta come un dato autoevidente, tale da fornire un modello universale.
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Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico,
bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio. Il problema è
allora se esiste come semplice criterio del ‘politico’, e dove risiede, una distinzione specifica, anche
se non dello stesso tipo delle precedenti distinzioni, anzi indipendente da esse, autonoma e valida di
per sé.
La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la
distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). [...] Nella misura in cui non è derivabile da altri
criteri, essa corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre
contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via 2.
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L’argomentazione non appare irresistibile, anzi a ben guardare è singolarmente fragile. Riguardo
alla morale, l’impostazione dicotomica è lungi dall’essere ovvia. A un pensatore esperto di teologia 3
e certo non ignaro del dibattito sulla teodicea non dovrebbe sfuggire che è di vitale importanza per
tutta l’etica cristiana che bene e male non stiano sullo stesso piano, che il male non abbia la stessa
consistenza ontologica del bene e che anzi possa essere riassorbito concettualmente in esso
(privatio boni), per non parlare dell’assenza di una simile contrapposizione nell’etica kantiana, dove
il bene in quanto dovere è definito del tutto indipendentemente dal male, che non ha come tale
alcuna autonomia concettuale, o dello sforzo di superarla da parte di un pensatore ben noto a
Schmitt come Nietzsche. Si potrebbe dire che quella di cui parla Schmitt è una sorta di etica
popolare, di non grande spessore filosofico. Peggio ancora stanno le cose riguardo alle altre
dicotomie: sarebbe davvero difficile identificare un teorico di estetica che fondi l’arte sul contrasto
tra bello e brutto e forse addirittura impossibile trovare un economista che fondi la sua scienza
sull’opposizione tra utile e dannoso o su concetti chiaramente relativi e privi di senso al di fuori di
una misurazione numerica come redditizio e non redditizio. Anche in questi casi sembra di trovarsi
in una dimensione banalizzante e non molto articolata, quella del “mi piace/non mi piace” o del “mi
conviene/non mi conviene”. Si può pensare che un’impostazione così semplicistica possa fornire
una valida analisi del concetto di “politico”?
Sembra piuttosto che l’argomentazione debba essere rovesciata. Non dall’universale dicotomicità
delle sfere in cui si divide l’esistenza umana si deve dedurre l’esigenza di un’analoga struttura
definitoria del concetto di “politico”, ma dall’esigenza, non scientificamente asettica, di una
riconduzione del politico alle categorie della guerra deriva l’assunzione, indimostrata e
indimostrabile pur se viene data per assodata, che in tutti i piani dell’agire umano si proceda per
contrapposizioni di stampo polemologico. La guerra è il punto di partenza, è la guerra che deve
essere fondata come atto politico per eccellenza e posta come essenziale e imprescindibile. E a
questo punto si direbbe che Schmitt si lasci travolgere senza soverchia resistenza da una
suggestione eraclitea e trovi molto agevole il passaggio vertiginoso a una visione dell’intero campo
dell’attività umana sub specie belli4.
Ma c’è di peggio. La petizione di principio polemologica carica di una tensione insostenibile lo
stesso concetto di “politico” e determina un suo avvitamento aporetico. Schmitt, infatti, assume
correttamente il principio, storicamente e sociologicamente inevitabile, della non riducibilità della
nozione di politico a quella di Stato, e si trova però a doverlo mantenere in costante rapporto con
una dimensione nell’era moderna insuperabilmente statuale, come appunto quella della guerra.
La distinzione concettuale fra Stato e “politico” è proprio lo spunto originario da cui muove il
saggio: lo Stato è definito dal “politico” e non lo definisce, dunque il concetto di politico va
costruito separatamente da quello di Stato, che ne deriva.
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Il concetto di Stato presuppone quello di ‘politico’. Per il linguaggio odierno, Stato è lo Status
politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso.
Ma in tal modo viene data solo una prima descrizione, e non una definizione concettuale dello
Stato: di essa non vi è neppure bisogno qui, dove ci occupiamo dell’essenza del ‘politico’. Possiamo
lasciare in sospeso quale sia l’essenza dello Stato: una macchina o un organismo, una persona o
un’istituzione, una società o una comunità, un’azienda o un alveare o forse una “serie fondamentale
di procedure”. Tutte queste definizioni e modelli anticipano troppo l’interpretazione, l’attribuzione
di significato, l’illustrazione e la costruzione del concetto e non possono perciò costituire il punto di
partenza più adatto per una trattazione semplice ed elementare. [...]
A questo punto non è possibile dir di più. Tutti i caratteri di questa definizione - status e popolo -
acquistano il loro significato solo grazie all’ulteriore carattere del ‘politico’ e divengono
incomprensibili se viene fraintesa l’essenza di quest’ultimo5.
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Se il “politico” fonda lo Stato, lo precede logicamente e cronologicamente e sussiste anche prima e
senza di esso. Coerentemente, Schmitt polemizza infatti contro le definizioni del “politico” che lo
deducono, esplicitamente o implicitamente, dalla statualità o da aspetti di essa 6. Ci si aspetterebbe
però che il concetto di statualità, in quanto fondato da quello di “politico”, non possa poi
prescinderne e non possa dunque esistere qualcosa come uno “Stato non politico”. Ma proprio qui
dobbiamo constatare una prima incidenza destabilizzante della definizione polemologica del
“politico”. Se il “politico” coincide con la dicotomia amico/nemico, dove lo Stato agisce in maniera
irriducibile alla dicotomia agisce al di fuori del politico, dunque può sussistere una statualità non
politica, e quindi uno Stato non fondato sul fondamento della statualità, che evidentemente, se non
si vuole riconoscere che il fondamento non è fondante, deve essere assunto come uno Stato
infondato e perciò come una sorta di apparenza senza sostanza, un presunto Stato che non è uno
Stato o è un anti-Stato. Il punto chiama in causa, non casualmente, lo Stato democratico,
significativamente assunto come Stato totale. Lo Stato democratico si occupa di troppe cose che
esulano dalla diade amico/nemico, si occupa della società nel suo insieme, tende addirittura a
identificarsi con essa. Lungi dal ricavarne un dubbio sull’esaustività della diade riguardo al politico,
Schmitt ne ricava un'implícita certezza sull’impoliticità e non-statualità della democrazia.
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Invece l’equiparazione di ‘statale’ e ‘politico’ è scorretta ed erronea nella stessa misura in cui Stato
e società si compenetrano a vicenda e tutti gli affari fino allora statali diventano sociali e viceversa
tutti gli affari fino allora “solo” sociali diventano statali, come accade necessariamente in una
comunità organizzata in modo democratico. Allora tutti i settori fino a quel momento “neutrali” -
religione, cultura, educazione, economia - cessano di essere “neutrali” nel senso di non-statali e
non-politici. Come concetto polemicamente contrapposto a tali neutralizzazioni e spoliticizzazioni
di settori importanti della realtà compare lo Stato totale proprio dell’identità tra Stato e società, mai
disinteressato di fronte a nessun settore della realtà e potenzialmente comprensivo di tutti. Di
conseguenza, in esso, tutto è politico, almeno virtualmente, e il riferimento allo Stato non basta più
a fondare un carattere distintivo specifico del ‘politico’7.
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E' un brano sottilmente ambiguo, che potrebbe essere letto in vari modi anche contrapposti tra loro.
In se stesso - e se la struttura complessiva del saggio lo consentisse - potrebbe essere letto persino
come un elogio della democrazia in quanto superamento dei limiti originari del “politico”, fino alla
completa politicizzazione del sociale. Potrebbe essere letto come un accostamento del concetto di
democrazia a quello - già all’epoca presente in riferimento al fascismo italiano 8 - di totalitarismo,
preparando il terreno alla possibilità di vedere in esso la forma compiuta della democrazia, al di là
delle categorie obsolete della democrazia liberale. Potrebbe essere letto infine - e ritengo che questa
sia la lettura più conforme alla logica interna del saggio e soprattutto ai suoi orientamenti e
condizionamenti impliciti - come negazione della natura tanto politica quanto statale della
democrazia. Se tutto è politico, nulla lo è in senso specifico e caratterizzante, se lo Stato si occupa
di tutto, non resta nulla che sia peculiare dello Stato, infine e soprattutto se l’estensione del campo
della politica viene a coincidere con quella dell’economia, questa fagocita e annulla l’essenza stessa
della politica e dello Stato9. In tutti i casi, l’elemento concettualmente destabilizzante resta
l’assunzione dell’esistenza di uno Stato non politico o non specificamente tale - quale che sia poi la
valutazione che se ne dà - e quindi di un modo di intendere la “politica” che non sia riconducibile
alla purezza concettuale del “politico”10. Con la conseguenza inevitabile che la purezza concettuale
del “politico” non definisce, o non definisce sempre, la “politica”. Questo, a rigore, ne imporrebbe il
ridimensionamento da categoria universale a variabile storico-sociale: il “politico” sarebbe una
politica, propria di una forma storica dello Stato. Cambierebbe così tutto il quadro della questione e
diverrebbe insostenibile l’assunto di fondo di Schmitt. Il quale è consapevole della difficoltà e tenta
variamente di risolverla nello sviluppo del suo ragionamento, non senza aggravarla
progressivamente. Uno spunto poco appariscente ma assai rivelatore in proposito è presente già
nella breve digressione storica che segue l'a presentazione dello Stato democratico come Stato totale
impolitico, nella quale si tenta un recupero del “politico” all’interno dell’impoliticità: in fondo lo
Stato liberale con le sue “neutralizzazioni”, contrapponendo il “religioso”, il “culturale”,
l’“economico”, il “giuridico”, lo “scientifico” al “politico” riprenderebbe esso stesso la diade logica
amico/nemico, mentre a propria volta lo Stato totale sarebbe la “negazione polemica [...] dello Stato
neutrale”11. Così però la struttura polemica del politico viene ad avere un’interpretazione
meramente metaforica, che è esattamente quello che in seguito Schmitt nega con grande forza.
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I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non
come metafore e simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche,
morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato, come
espressione psicologica di sentimenti e tendenze private. Non sono contrapposizioni normative o
“puramente spirituali”. [...]
Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato
che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte
almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro
raggruppamento umano dello stesso genere12.
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Quanto concreta sia la diade polemica, Schmitt lo chiarisce poco oltre, quando precisa che il
politico ha costitutivamente a che fare con l' uccidere.
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Nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una lotta. Questo termine va
impiegato prescindendo da tutti i mutamenti casuali o dipendenti dallo sviluppo storico della tecnica
militare e delle armi. La guerra è lotta armata fra unità politiche organizzate, la guerra civile è lotta
armata all’interno di un’unità organizzata (che proprio perciò sta diventando problematica).
L’essenza del concetto di arma sta nel fatto che essa è uno strumento di uccisione fisica di uomini.
Come il termine di nemico anche il termine di lotta dev’essere qui inteso nel senso di
un’originarietà assoluta. Esso non significa concorrenza, non la lotta “puramente spirituale” della
discussione, non il simbolico “lottare” che alla fine ogni uomo in qualche modo compie sempre,
poiché in realtà l’intera vita umana è una “lotta” ed ogni uomo un “combattente”. I concetti di
amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo
specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica13.
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Senza dubbio, questa è una buona definizione della guerra: seria, onesta, non edulcorata da pudori
“umanitari”. Ed è importante per gli sviluppi del ragionamento che qui si propone che Schmitt
insista nel fondare la guerra sulla possibilità reale dell’uccisione, mettendo da parte ogni
mascheramento idealistico della concretezza fisica e cruenta della lotta armata. Il problema è che
questa definizione della guerra dovrebbe valere senza residui come definizione del “politico”,
escludendo ogni distanza tra due concetti che a questo punto non sono più due. Il “politico” è la
guerra, o almeno la concreta possibilità di essa e il decidere in vista di questa possibilità. Non certo
nel senso che sia atto politico soltanto fare la guerra, ma nel senso che decisione propriamente
politica è solo la decisione circa la guerra, anche semplicemente la decisione di prepararsi a questa
eventualità o addirittura la decisione di non farla, mentre tutti gli altri possibili usi del termine
“politica” sono meramente derivati e “parassitari”14.
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La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di
quotidiano o di normale, e neppure di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa
deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo
significato.
Tutto ciò non vuol però assolutamente dire che l’essenza del ‘politico’ non sia altro che guerra
sanguinosa e che ogni trattativa politica debba essere una battaglia militare, né che ogni popolo sia
ininterrottamente posto, di fronte ad ogni altro, nell’alternativa di amico o nemico, e che la corretta
scelta politica non possa consistere proprio nell’evitare la guerra15.
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La guerra segna l’orizzonte di possibilità del politico, che senza guerra non esisterebbe. Questo non
comporta però la costanza della guerra, la sua onnipresenza o anche la sua frequenza, e neppure
comporta che il decisore politico debba mirare in ultima istanza a fare la guerra non appena i
rapporti di forza saranno favorevoli.
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La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto
sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione
dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico16.
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Si potrebbe dire che decisione politica è propriamente quella che interviene in un contesto
intrinsecamente conflittuale e che tiene conto nel suo farsi di tutte le complesse interrelazioni
possibili riguardo a questo contesto: la decisione di fare la guerra come quella di non farla, la
decisione di stipulare alleanze come quella di rifiutare un certo possibile alleato, facendone per ciò
stesso un eventuale possibile nemico, la decisione di rispettare un trattato come quella di
infrangerlo, la decisione di armarsi o anche quella di limitare gli armamenti, ecc. E questo senza
dubbio identifica credibilmente come “politico” lo spazio del rapporto esterno fra Stati sovrani. Ma
come si configura allora il rapporto dello Stato con i propri cittadini e il rapporto dei cittadini fra
loro?
2. Il bellum senza Leviatano
Nella comunità degli Stati manca un’istanza super partes che prevenga o regoli il conflitto, dunque
il conflitto è la sola possibile soluzione di se stesso. Non esiste neppure lo spazio concettuale per la
pace: essa stessa, se assunta in senso radicale come valore, è soltanto un prendere una posizione
necessariamente conflittuale riguardo al conflitto, un voler fare “guerra contro la guerra” 17. Per
questo la natura del “politico” non viene mutata dall’affermarsi della concezione della guerra come
disvalore, dalla crescente difficoltà di volerla apertamente e dall’assunzione come luogo comune
che la sola politica giusta sia una politica di pace. Anche questo è un prender posizione riguardo alla
guerra che ne presuppone la permanente possibilità, anzi contribuisce a creare questa stessa
possibilità. La decisione di opporsi strenuamente alla guerra è la più polemica di tutte le decisioni:
facendo della guerra il nemico assoluto si classifica dentro la categoria del nemico chiunque non
condivida la propria posizione riguardo alla pace, e in tal modo lo si sospinge verso il più radicale
disconoscimento, verso una condizione di costitutiva disumanità e perciò di uccidibilità illimitata.
La “guerra contro la guerra” è la peggiore di tutte:
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Se la volontà di impedire la guerra è tanto forte da non temere più neppure la guerra stessa, allora
essa è diventata un motivo politico, essa cioè conferma la guerra, anche se solo come eventualità
estrema, e quindi il senso della guerra. Attualmente questo sembra essere un modo particolarmente
promettente di giustificazione della guerra. La guerra si svolge allora nella forma di “ultima guerra
finale dell’umanità”. Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché,
superando il 'politico', squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri
profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere
definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi
confini. Dalla possibilità di tali guerre appare in tutta chiarezza che la guerra come possibilità reale
sussiste ancor oggi, il che è importante per la distinzione di amico e nemico e per la comprensione
del ‘politico’18.
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Anche lo sforzo di superare le categorie del “politico” rifiutando radicalmente la nozione di
“nemico” conferma l’insuperabilità di tale orizzonte, che anzi viene solo estremizzato: non si vuole
che esistano più nemici, dunque non si vuole che chiunque potrebbe essere nemico esista più. E per
converso, ogni possibile guerra viene giustificata dal preventivo rifiuto di riconoscere legittimità
politica alla controparte. Schmitt è qui tragicamente acuto nel comprendere che la più “umanitaria”
e benintenzionata di tutte le guerre, la prima guerra mondiale, lungi dall’espellere la guerra
dall’orizzonte del politico, aveva posto le basi per la definitiva disumanizzazione della guerra,
consegnandola all’orizzonte tecnologico dello sterminio di massa. Ma non si tratta solo di
riconoscere che qui Schmitt, partendo dall’esperienza della prima guerra mondiale, “profetizza” la
seconda, peraltro senza che questa “profezia” riesca a erigere un qualche argine morale o giuridico
contro quello che stava per accadere e di cui la presa di potere di Hitler avrebbe creato i presupposti
solo pochi mesi dopo la pubblicazione del saggio. Si tratta anche di riconoscere che il nostro stesso
orizzonte storico non è cambiato sotto questo profilo, che tuttora non siamo capaci di rifiutare la
guerra senza portarne all’estremo la logica. La critica schmittiana alla Società delle Nazioni
potrebbe essere riproposta nei confronti dell’ONU ed essere assunta come una valutazione in presa
diretta degli eventi a noi contemporanei19:
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La Società delle Nazioni di Ginevra non elimina la possibilità di guerre, così come non elimina gli
Stati. Essa anzi introduce nuove possibilità di guerre, permette le guerre, stimola guerre di
coalizione ed accantona una serie di ostacoli alla guerra nella misura in cui legittima e sanziona
alcune guerre e non altre20.
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L’orizzonte della politica estera resta definitivamente hobbesiano: nell’assenza e forse
nell’impossibilità di un Leviatano sovrastatale, la comunità degli Stati non esce dallo status naturae
della guerra virtualmente infinita. Solo che - assai poco hobbesianamente - questo status naturae
viene definito come il “politico”, e come tale viene a coincidere anche con la sfera della sovranità
interna degli Stati. Che è dunque una singolare sovranità, che non ordina, non pacifica, non unifica,
bensì divide e mobilita, anche in questo caso, in vista di ima possibile esplosione conflittuale. La
dimensione propriamente politica della vita interna degli Stati è quella della virtuale permanente
possibilità della rivoluzione21 e della guerra civile:
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Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti “i” contrasti politici
tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della “politica interna”, cioè
diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amiconemico di politica estera,
bensì quelli interni allo Stato. La possibilità reale della lotta che dev’essere sempre presente
affinché si possa parlare di politica, si riferisce allora conseguentemente, in presenza di un simile
“primato della politica interna”, non più alla guerra fra unità nazionali organizzate (Stati o Imperi),
bensì alla guerra civile22.
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Appunto la dimensione della guerra civile è quella decisiva per comprendere che in Schmitt la sfera
del “politico” è ben lungi dal coincidere con quella dello Stato. Al proprio interno, lo Stato è solo
uno degli attori del conflitto politico, e non necessariamente il principale. La natura politica di un
raggruppamento umano coincide senza residui con la sua capacità di distinguere amici e nemici e di
essere parte di un conflitto che ha costantemente la possibilità di trasformarsi in guerra civile.
Quindi anche associazioni originariamente di altra natura diventano politiche non appena assumono
questa capacità, che le colloca sullo stesso piano dello Stato e le “autorizza” a tentarne il
rovesciamento o la conquista. E' senza dubbio la forza, almeno virtualmente armata, a conferire qui
l’unica possibile legittimità, e non sussiste una superiore o anche solo diversa legittimazione dello
Stato.
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Una comunità religiosa che, come tale, porta guerra, sia contro gli appartenenti ad altre comunità
religiose, sia in altro modo, è, oltre ad una comunità religiosa, una unità politica. Essa è un’entità
politica anche se ha una possibilità di incidenza su quel processo decisivo solo in senso negativo, se
cioè è nella condizione di impedire, con un divieto, la guerra ai suoi membri, cioè di negare in
modo decisivo la qualità di nemico di un avversario. Lo stesso vale per un’associazione di uomini a
fondamento economico, ad esempio per un trust industriale o un sindacato. Anche una “classe” in
senso marxista cessa di essere qualcosa di puramente economico e diventa un’entità politica se
giunge a questo punto decisivo, se cioè prende sul serio la lotta di classe e tratta l’avversario di
classe come nemico reale e lo combatte, sia come Stato contro Stato, sia nella guerra civile
all’interno di uno Stato23.
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È dunque radicalmente impossibile una condizione permanente di pace, tanto all’esterno quanto
all’interno dello Stato. Anzi, tale condizione è addirittura impensabile entro l’orizzonte del politico.
Un popolo che decidesse di rendersi totalmente inerme e di non fare mai la guerra, contro nessuno e
in nessun caso, non riuscirebbe certo a pacificare la politica internazionale: l’unico risultato sarebbe
che “scompare semplicemente un popolo debole” 24. Allo stesso modo però perderebbe la propria
natura politica, e metterebbe in crisi la natura politica del proprio Stato, e perciò la stessa
sussistenza di questo, una forza politica interna che rifiutasse radicalmente tanto la guerra esterna
quanto la guerra civile.
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Se la forza politica di una classe o di un gruppo [...] si estende all’interno di uno Stato, tanto da
poter impedire ogni guerra all’esterno, senza però avere la capacità o la volontà di impadronirsi del
potere statale, di porsi cioè come criterio di distinzione fra amici e nemici e di condurre la guerra in
caso di necessità, in tal caso l’unità politica è distrutta25.
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Ne risulta una situazione alquanto paradossale relativamente al mantenimento dell’ordine e
dell’unità del corpo politico. La guerra esterna, almeno come concreta e imminente possibilità,
rappresenta la condizione ideale per il rafforzamento e la durata dello Stato, in quanto crea una
mobilitazione unitaria e coesa di tutte le forze sociali interne ad esso. La guerra esterna è il miglior
antidoto alla guerra civile e alla rivoluzione. Per converso, le forze interne allo Stato acquistano
natura politica soltanto in quanto mirino ad orientarlo verso la guerra esterna o in quanto mirino alla
conquista, all’occorrenza anche violenta, del potere interno. Neppure la politica interna esiste come
politica se non in vista della guerra, col risultato alquanto paradossale che la politica estera unifica
lo Stato mentre la politica interna lo divide, la politica estera lo rafforza e la politica interna lo
indebolisce, e quindi la politica interna mette lo Stato nelle condizioni peggiori possibili per
svolgere un’attività efficace di politica estera. La politica estera è status naturae, in maniera
perfettamente hobbesiana; ma, in maniera assolutamente non hobbesiana, neppure nella politica
interna troviamo propriamente lo status civitatis. Il cittadino è tale solo in quanto sia potenzialmente
combattente, ed è indifferente se lo sia per lo Stato o contro lo Stato, perché lo Stato è nella guerra
civile e non al di sopra di essa, ed anzi si potrebbe concludere che una politica interna pienamente
pacificata non sarebbe affatto una politica e che quindi uno Stato pienamente coeso e concorde non
sarebbe neppure uno Stato perché sarebbe composto unicamente da elementi non politici (a meno
che questa coesione interna non trovi espressione nella guerra esterna). Il Leviatano è assente, il
bellum omnium contra omnes non è la condizione da cui la politica fa uscire, ma è la politica
stessa. E' assai rivelatore in quest’ottica che il più diretto ed enfatico riferimento a Hobbes presente
nel saggio lo esalti non come teorico della sovranità in quanto fondamento dello status civitatis, ma
precisamente come teorico del bellum omnium contra omnes:
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In Hobbes, un pensatore davvero grande e sistematico, la concezione “pessimistica” dell’uomo, la
sua esatta comprensione che proprio la convinzione, presente nelle due parti antagoniste, di essere
nel buono, nel giusto e nel vero provoca le ostilità più violente, e alla fine addirittura il bellum di
tutti contro tutti, devono essere intese non come parti di una fantasia paurosa e sconvolta, e neanche
solo come filosofia di una società borghese fondata sulla libera “concorrenza” (Tönnies), ma come i
presupposti elementari di un sistema di pensiero specificamente politico26.
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Dove è da considerare che viene denotato come “specificamente politico” precisamente quello che
in Hobbes è l’impolitico, l’insostenibile dimensione prestatuale dello status naturae da cui tanto la
ragione quanto la legge divina impongono di uscire. Come pure è da considerare che per Hobbes
nello status naturae non ci sono affatto “due parti antagoniste” (che sarebbero ciascuna al proprio
interno ordinate e dirette da una guida politica, tanto da potersi fare la guerra, e non sarebbero
quindi nello status naturae al proprio interno ma solo all’esterno, esattamente come gli Stati, e
quindi sarebbero degli Stati), ma non esiste, al contrario, nessuna possibilità di raggruppamento
stabile e istituzionale e perciò nessuna possibile dimensione di ordine condiviso. Il bellum è tutto, in
Hobbes, tranne che guerra in senso politico: non c’è amico e nemico, ma soltanto nemici
reciproci27. Davvero singolare è dunque che Schmitt passi per essere - anche per lui stesso - il più
importante pensatore hobbesiano della contemporaneità, quando è piuttosto un radicale anti-
hobbesiano28.
In questa dirompente confusione concettuale ha un ruolo decisivo, evidentemente, proprio la celebre
concezione schmittiana della sovranità come decisione sullo stato d’eccezione, e quindi come
concetto limite, nel senso che riguarda l’estremo 2’. Questa concezione è esplicitamente ripresa nel
saggio sul concetto di “politico”:
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In ogni caso è sempre politico il raggruppamento orientato al caso critico. Esso è perciò sempre il
raggruppamento umano decisivo, e di conseguenza l’unità politica, tutte le volte che esiste, è l’unità
decisiva e “sovrana” nel senso che la decisione sul caso decisivo, anche se questo è il caso
d’eccezione, per necessità logica deve spettare sempre ad essa30.
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Qui la nozione di sovranità e la nozione di “politico” vengono addirittura a coincidere. E il terreno
in cui si incontrano e si sovrappongono è ancora una volta la guerra. Sovrano è chi ha la forza di
decidere circa la guerra (non necessariamente, è ormai chiaro, di decidere per la guerra). E questa
decisione sovrana è anche la sola decisione propriamente politica. E non importa quale soggetto la
compia: chiunque ne sia in grado è il sovrano. Quindi lo Stato non è Punico sovrano, anzi
addirittura non necessariamente è sovrano, perché non necessariamente lo Stato ha forza e volontà
sufficienti per tali decisioni. S’intende che in tal caso si dissolve, o si sottomette ad altri Stati più
forti conservando la qualità di Stato solo in apparenza e per altrui concessione 31. Mentre qualunque
forza interna allo Stato, anche originariamente non politica, diventa politica, e perciò sovrana, nel
momento in cui, evidentemente anche contro lo Stato esistente, riesce a creare il raggruppamento
amico/nemico e a costituirsi come parte di una lotta, in grado di sostenerla ed eventualmente di
vincerla. Il sovrano è parte, non è super partes. Non unifica, divide. Non impone la pace, ma la
lotta.
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Ciò che importa è sempre solo il caso di conflitto. Se le controforze economiche, culturali o
religiose sono così forti da determinare da sé sole la decisione sul caso critico, ciò significa che esse
sono divenute la nuova sostanza dell’unità politica. [...] Comunque vadano le cose, l’orientamento
al possibile caso critico della lotta effettiva contro un nemico effettivo fa sì che l’unità politica sia
necessariamente l’unità decisiva per il raggruppamento amico-nemico - ed allora è unità sovrana in
tal senso (e non in qualsiasi senso assolutistico) - oppure che essa non esista per niente32.
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È quindi del tutto evidente, ormai, che muovendo da questi presupposti esiste un’unica possibilità di
ricondurre il “politico” e lo Stato entro la prospettiva effettivamente hobbesiana della pacificazione
leviatanica, cioè di riconoscere alla decisione sovrana un’efficacia unificatrice in politica interna.
Riguardo alla dimensione interna dello Stato, Schmitt inverte, si potrebbe dire, l’ironico concetto di
“guerra per la pace” in un concetto di “pace per la guerra”, o meglio di pace nella guerra. Se la
guerra esterna produce l’esistenziale unità dei cittadini nel comune sforzo di lotta, c’è un solo modo
di estendere quest’effetto alla dimensione interna dello Stato, ed è che lo Stato come tale ricerchi,
identifichi e proclami un nemico interno contro cui radunare in una solida coalizione tutte le altre
forze sociali presenti in esso, cioè che lo Stato stesso si faccia promotore della guerra civile.
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Il compito di uno Stato normale consiste [...] soprattutto nell’assicurare all’interno dello Stato e del
suo territorio una pace stabile, nello stabilire “tranquillità, sicurezza e ordine” e di procurare in tal
modo la situazione normale che funge da presupposto perché le norme giuridiche possano aver
vigore, poiché ogni norma presuppone una situazione normale e non vi è norma che possa aver
valore per una situazione completamente abnorme nei suoi confronti. Questa necessità di
pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto che lo Stato, in quanto unità politica,
determina da sé, finché esiste, anche il “nemico interno”33.
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A questo punto, Schmitt dichiara lealmente, senza infingimenti, la strutturale instabilità concettuale
del proprio ragionamento. Il politico può solo oscillare tra i due poli della guerra esterna e della
guerra civile, lo Stato unifica e stabilizza solo in quanto chiama di volta in volta alle armi contro un
nemico esterno o contro un nemico interno. Ma in questo secondo caso - Schmitt è esplicito - lo
Stato si autodissolve nell’attesa della decisione del conflitto che nuovamente lo fonderà,
riunificandolo e proiettandolo nuovamente, finché l’unità regge, verso la guerra esterna: non
esistono altre possibilità. La guerra civile, infatti, è il “superamento dello Stato come unità politica
organizzata, pacificata al suo interno, chiusa territorialmente e impenetrabile ai nemici. Il
successivo destino di questa unità sarà poi deciso dalla guerra civile” 34. Ma dov’è allora la stabilità,
la sicurezza, l’ordine interno? Dove si può ravvisare la situazione normale che consente l’esistenza
della norma? Dove, quando e come si esce dall’abnorme? Gli interpreti schmittiani di Schmitt 35 non
trovano nulla su cui interrogarsi in questa vertigine?
In realtà il principio d’ordine c’è e Schmitt lo vede, lo identifica e lo nomina. Solo che centrando
coerentemente su di esso il proprio ragionamento, Schmitt dovrebbe rivedere la propria concezione
della guerra stessa. Dovrebbe cioè riconoscere che esistono due forme della violenza politica, non
riconducibili a un unico principio e non in grado dunque di produrre un concetto unitario di
“politico”. E non si tratta tanto della dualità tra guerra esterna e guerra civile - quest’ultima è guerra
a pieno titolo, e potrebbe essere condotta esattamente come lo è la guerra esterna - quanto della
dualità irriducibile di figure contrapposte del nemico. Il nemico interno non è tale allo stesso titolo
del nemico esterno. Il nemico esterno è un pari: è un altro Stato o comunque un’altra unità politica
sovrana. Nei suoi confronti non si può vantare nessuna forma di superiorità morale, religiosa o di
altro tipo. Nulla gli si può imputare di diverso da ciò che viene legittimamente fatto contro di lui.
Ma il nemico interno non è un pari. Sebbene Schmitt parli di guerra civile, questa terminologia è del
tutto impropria secondo la sua stessa concezione della guerra. Perché l’atto con cui si dichiara
guerra in questo caso è un bando. Si tratta cioè di “forme più o meno acute, automatiche o efficaci
solo in base a leggi speciali, manifeste o celate in prescrizioni generali, di bando, di proscrizione, di
estromissione dalla comunità di pace, di collocazione hors la loi, in una parola di dichiarazione di
ostilità interna allo Stato”36. La dichiarazione di guerra, in questo caso, è un atto di
criminalizzazione. Che ha come struttura portante l’unilateralità e univocità dell’applicazione di
forza, non la reciprocità bellica. È un conflitto asimmetrico: una sola delle due parti ha il potere di
identificare l’altra come nemica, una sola delle due parti ha il potere di dichiarare la guerra, la forza
non è equamente distribuita, e proprio questo squilibrio di forze è condizione imprescindibile per
l’unificazione dei più forti contro il più debole. Tra pari ci si dichiara la guerra, ma solo il più forte
può bandire o proscrivere il più debole, e non è probabile che si bandisca o proscriva qualcuno da
cui si potrebbe effettivamente essere sconfitti. La guerra può essere vinta o persa, ma il conflitto
contro il nemico interno è vinto in partenza, se no non avrebbe senso, se no sarebbe un gratuito
suicidio dello Stato. La guerra civile, qui, è una maschera ideologica, ed è difficile pensare che
Schmitt non ne fosse ben consapevole. Non si tratta di amico/nemico: si tratta di tutti contro uno,
cioè della struttura tipica della violenza persecutoria 37. E questo spiega come possa trattarsi di un
procedimento di unificazione e pacificazione, cosa che la guerra civile evidentemente non sarebbe.
È qui che effettivamente in Schmitt appare il Leviatano: non come sovrano hobbesiano che
garantisce l’ordine con un’equa e legale applicazione di violenza e paura distribuita tra tutti i
sudditi, ma come meccanismo di consenso che unifica e orienta i sudditi mobilitandoli contro un
nemico che non può vincere.
A questo punto, è chiaro qual è la forma del “politico” che viene definita dalle categorie
schmittiane, tra i due poli della guerra e della persecuzione. Non certo lo Stato di diritto, non certo
la democrazia, ma neppure lo Stato assoluto di ispirazione hobbesiana. Si tratta inequivocabilmente
dello Stato totalitario. Esattamente come c’era già in Italia e in Russia 38, esattamente come di lì a
pochi mesi ci sarebbe stato in Germania. Non si può certo banalizzare un pensatore della statura di
Schmitt facendone semplicemente un nazista: si può anzi dare per scontato che, nonostante le sue
dirette compromissioni col regime, non lo sia stato mai. Ma non si può per questo non vedere che le
condizioni di pensabilità del nazismo sotto lo specifico profilo politico-giuridico siano state fissate
da Schmitt più nettamente che da ogni altro: e coincidono esattamente col suo concetto di
“politico”.

3. Dinanzi alle mura e in cantina


Elias Canetti utilizza materiale concettuale molto simile a quello di Schmitt - e probabilmente non
per caso39 - ma con esiti nettamente contrapposti. Ciò che può rendere interessante e non gratuito
l’accostamento di due autori così complessivamente lontani, è che Canetti sembra effettivamente
risolvere alcuni problemi che in Schmitt rimangono prigionieri di tensioni aporetiche.
Anzitutto, Canetti sa dare un nome a quell’ “estremo grado di intensità di un’unione o di una
separazione, di un’associazione o di una dissociazione” 40 che Schmitt riferisce costantemente al
“politico” senza però riuscire a coglierlo nella sua specificità: lo chiama massa.
@
Fenomeno enigmatico quanto universale è la massa che d’improvviso c’è là dove prima non c’era
nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si
preannunciava, nulla era atteso. D’improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono
altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos’è accaduto, non sanno
rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza. Nel
loro movimento c’è una determinazione che ben si distingue da un’espressione di semplice
curiosità. Si direbbe che il movimento degli uni si comunichi agli altri, ma non si tratta solo di
questo: tutti hanno una meta. La meta esiste prima che le abbiano trovato un nome ed è là dove il
nero è più nero - il luogo dove la maggioranza si è radunata41.
@@@
Pur essendo il fondamento di ogni forma di raggruppamento umano, e perciò anche della politica,
quella di massa non è in Canetti una nozione che abbia una valenza politica immediata. Essa
raggiunge anzi profondità esistenziali tali da essere prossima alla dimensione della vita in quanto
tale. Lungi dall’essere un fenomeno moderno, legato all’industrializzazione e alle metropoli, la
massa è per Canetti un fenomeno perenne, antico quanto l’uomo, anzi in alcune sue forme - la
massa aizzata e la massa in fuga - più antico dell’uomo stesso, radicato nel mondo animale 42. A
caratterizzare la massa nella sua forma originaria, cioè la massa aperta o naturale, è l’estremo senso
di sicurezza e unità che si realizza cercando rifugio gli uni negli altri, nella pluralità indistinta che
tutti accomuna: un’esperienza che Canetti definisce come “capovolgimento del timore di essere
toccati”43. E questo radunarsi securizzante trova il suo culmine in quella completa fusione emotiva
che viene denominata scarica (Entladung), che nell’istante senza durata in cui trova la massima
intensità realizza pienamente quel profondo senso di uguaglianza nel superamento di tutte le
distanze sociali che è la vera ragion d’essere della massa aperta.
@
All’istante della scarica i componenti della massa si liberano delle loro differenze e ri sentono
uguali.
In particolare, dobbiamo intendere le differenze imposte dal di fuori: differenze di rango, di
condizione, di proprietà. Gli uomini, in quanto singoli, sono sempre coscienti di queste differenze,
che pesano su di loro e li spingono con forza a staccarsi gli uni dagli altri. Ciascun uomo ha un suo
posto preciso nel quale si sente sicuro, e con i gesti esprime efficacemente il suo diritto di tener
lontano da sé tutto ciò che gli si avvicina. Egli sta come un mulino a vento in un’immensa pianura,
pieno d’espressione e mobile: non c’è nulla fino al prossimo mulino. La vita intera, come egli la
conosce, è impostata su distanze; la casa in cui egli rinserra se stesso e la sua proprietà, l’incarico
che riveste, il rango cui aspira - tutti servono a creare, consolidare, ingrandire distacchi. [...]
Solo tutti insieme gli uomini possono liberarsi dalle loro distanze. È precisamente ciò che avviene
nella massa. Nella scarica si gettano le divisioni e tutti si sentono uguali. In quella densità, in cui i
corpi si accalcano e fra essi quasi non c’è spazio, ciascuno è vicino all’altro come a se stesso.
Enorme è il sollievo che ne deriva. È in virtù di questo istante di felicità, in cui nessuno è di più,
nessuno è meglio di un altro, che gli uomini diventano massa44.
@@@
Si comprende bene perché qui non siamo ancora nell’ambito del politico. Il concetto canettiano di
massa aperta esprime precisamente l’unica forma del sociale in cui non vi siano distanze e
gerarchie, quindi neppure potere, quindi neppure legge, quindi neppure applicazioni istituzionali di
violenza. Non per questo si tratta di un concetto irenico o di una felice utopia: è precisamente la
paura universale, il “timore di essere toccati” a spingere verso la massa come in una fuga, la massa
può - anche se non necessariamente deve - esercitare forme estreme di violenza contro chiunque
sembri portare in sé anche un vago sentore esterno minaccioso da cui si cerca rifugio gli uni negli
altri, e Canetti non tace né sull’impulso di distruzione né sul senso di persecuzione della massa 45.
Ma c’è una ragione fondamentale per cui in Canetti, con una movenza molto hobbesiana 46, la massa
naturale è una sorta di status naturae da cui exeundum est. Non è però una ragione hobbesiana: non
c’è nessun bellum all’interno della massa, non ci sono conflitti tra individui perché non ci sono
individui, la massa respinge la violenza e la paura fuori di sé e preme con tutta la propria forza
contro questo margine esterno, come in uno sforzo disperato ma tutt’altro che impotente di forzare
fino l’ultima barriera, quella stessa della morte. Semplicemente, questo sforzo non può durare. La
massa sorge per caso, non ha nessun controllo sulle sue condizioni di esistenza, è legata ad uno
stato di intensa compenetrazione emotiva che è destinato a cedere presto di fronte alle necessarie
esigenze differenziatrici legate alla stessa sopravvivenza individuale. Ben prèsto ognuno deve
tornare in se stesso, a casa sua, nel suo rango e nel suo ruolo, nella sua solitudine perennemente
minacciata47. Ma dalla massa aperta si può uscire anche verso un’altra direzione, appunto
hobbesianamente: dalla massa naturale verso la massa artificiale, o meglio istituzionale. La massa
che non ha più la scarica e l’uguaglianza, ma acquista in compenso capacità di durare, che diviene
un aggregato capace di resistere alle periodiche inevitabili ricadute nelle solitudini individuali, ed
anche alle morti individuali dei suoi componenti. La massa che ora diviene appunto entità politico-
giuridica, al cui interno si creano forme di potere condiviso, leggi, prescrizioni, orientamenti
programmati dell’azione collettiva. La massa che diviene istituzione: la massa chiusa.
@
La massa chiusa rinuncia alla crescita e si preoccupa soprattutto della durata. Di essa spicca
innanzitutto il confine. La massa chiusa si insedia. Nell’atto in cui si confina, crea la propria sede;
lo spazio che riempirà le è stato assegnato, e può paragonarsi a un vaso in cui si versa del liquido e
di cui si conosce la capienza. Gli accessi a tale spazio sono contati; non vi si può penetrare in un
modo qualunque. Il confine viene rispettato: può essere di pietra, di solida muraglia. Forse è
necessaria una cerimonia particolare per essere accolti; forse bisogna versare una certa tassa
d’ingresso. Quando lo spazio è stato sufficientemente riempito, non può più entrare nessuno. [...]
Il confine impedisce un incremento sregolato, ma in compenso ostacola e ritarda il deflusso. La
massa guadagna in durata ciò che sacrifica in possibilità di crescita. Essa è difesa da influenze
esterne che potrebbero esserle ostili e pericolose. In particolare però essa conta sulla ripetizione. È
sempre nella prospettiva di ricostituirsi che la massa accetta, illudendosi, la propria dispersione.
L’edificio la aspetta, è lì per lei, e fintanto che esiste i componenti della massa vi si raduneranno
come sempre. Lo spazio appartiene loro anche quando subisce il riflusso e nel suo vuoto ricorda il
tempo dell’alta marea48.
@@@
Due sono dunque gli elementi costitutivi della massa chiusa: il confine e la ripetizione. Il primo è
contemporaneamente un ostacolo e una garanzia: rallenta e limita allo stesso modo sia il flusso sia il
riflusso. Non tutti e non sempre possono entrare nella massa: c’è un limite, una soglia. Potrà essere
una barriera fisica, un muro; potrà essere una barriera politico-giuridica, la frontiera di uno Stato;
potrà essere una barriera rituale, una cerimonia di ammissione o iniziazione; potrà essere una
barriera amministrativa, l’accertamento da parte di un’autorità di determinati requisiti; potrà essere
una barriera economica, un biglietto d’ingresso da pagare. In tutti i casi, c’è un punto preciso in cui
termina il fuori e inizia il dentro, un controllore che si colloca sul limite e custodisce il passaggio ed
una procedura istituzionalizzata che regola il superamento del confine. La massa non potrà crescere
velocemente e indiscriminatamente, quindi non potrà raggiungere la soglia critica della scarica, ma
in compenso anche la sua disgregazione viene controllata e limitata. Anche per uscire ci saranno
controlli o cerimonie, in qualche caso uscire potrà essere più difficile che entrare o sarà addirittura
proibito, praticamente sempre l’uscita sarà comunque parziale, temperata da una sorta di
obbligo/promessa: si esce, ma per ritornare, si esce, ma il luogo fisico o simbolico dell’adunanza c’è
sempre e si continua ad appartenervi, si mantiene una presenza virtuale al suo interno. Tutti coloro
che vi hanno titolo potranno/dovranno ritornarvi indefinitamente, certe appartenenze, “spirituali” o
ereditarie, potranno addirittura essere eterne. L’aver varcato una volta la soglia per entrare lascia
qualcosa addosso, come una sorta di cambiamento di natura: appunto il diritto/promessa del ritorno,
della ripetizione. Si ritorna a casa propria, ma in attesa. Si sarà riconvocati, l’alta marea tornerà, si
riempirà di nuovo il luogo destinato, verrà il tempo di celebrare nuovamente l’unione. Si torna a
casa, ma la massa è per sempre.
Questa però, dice Canetti, è un’illusione. Con la promessa del ritorno, la massa accetta di
disperdersi, si fa artefice della propria dissoluzione, e quando si riunirà non otterrà che una nuova
dissoluzione, con la promessa di riunirsi per dissolversi di nuovo. Per questo la durata della massa
chiusa, che pure può essere millenaria, si accompagna sempre ad una dimensione di debolezza e
delusione, come ad un eterno non ancora. E per questo occorre un puntello esterno del limite che
gli dia forza e faccia crescere il livello energetico dell’esservi dentro, incrementando il senso
dell’appartenenza e il significato dell’appartenere. Ed è precisamente qui che in Canetti riappare
Schmitt:
@
[...] la massa non si sente mai sazia. [...] C’è una qualche impotenza nel suo sforzo di durare. A
questo fine, l’unica via promettente è la formazione di doppie masse: processo, in cui l’una massa si
commisura sull’altra. Quanto più sono vicine in forza e intensità, ambedue commisurandosi durano
in vita49.
@@@
Per la comprensione di questo passaggio decisivo, è importante considerare che la dimensione della
massa doppia è una conseguenza del tutto coerente della struttura stessa della massa chiusa. È cioè
una conseguenza del suo confinarsi. Il confine genera un dentro e un fuori. Anche per la massa
aperta c’è un fuori, ma è diverso, perché non c’è confine. C’è solo una provvisoria incompiutezza:
non si è ancora esaurito il processo che, se potesse durare indefinitamente e non fosse contrastato
dall’indebolimento della coesione interna della massa che è prodotto dalla sua stessa espansione e
termina necessariamente con la disgregazione completa, porterebbe alla massa assoluta e universale
che ingloba tutti50. Per la massa aperta, l’impossibilità di inondare totalmente il fuori segna il suo
fallimento; per la massa chiusa, la definitività di un fuori rispetto al quale chiudersi è condizione di
esistenza. Non c’è chiusura senza confine: la massa chiusa è fondata dal proprio confine. Che è
ambiguo, perché la definisce, ma per ciò stesso la nega, è la sua condizione di possibilità, ma anche
la minaccia che su di essa continuamente incombe. E il confine è anche doppio, perché non c’è solo
quello che divide chi appartiene alla massa e chi non vi appartiene: c’è anche un confine che taglia
trasversalmente l’appartenenza alla massa, anzi ogni singolo appartenente a essa, ed è precisamente
l’impossibilità di appartenere totalmente, di essere esauriti dall’appartenenza. C’è sempre
un’irriducibilità dell’io al noi, c’è sempre un punto di fuga dalla massa verso l’individualità
singolare e irrelata. Al di là del confine esterno c’è il nemico, almeno potenziale; al di là del confine
interno, e perciò dentro la massa, c’è la peggiore delle minacce, il potenziale traditore che ognuno
è. La minaccia esterna rafforza, la minaccia interna è quella realmente pericolosa, da cui la massa è
presto o tardi disgregata.
@
L’aggressione esterna alla massa può solo renderla più forte. [...] L’aggressione dall'interno, invece,
è veramente pericolosa. [...] L’aggressione dall’interno si appella a voglie individuali. Essa è
considerata dalla massa un ricatto, un’azione “immorale”, poiché contrasta con la sua convinzione
di fondo chiara e pulita. Chiunque appartiene a tale massa porta in sé un piccolo traditore, che vuole
mangiare, bere, amare e starsene tranquillo. [...] La massa è sempre una sorta di fortezza assediata,
ma assediata in senso duplice: essa ha il nemico dinanzi alle mura, e ha il nemico in cantina 51.
@@@
Qui la dimensione schmittiana è evidente. Come il politico in Schmitt, la massa chiusa esiste in una
costante tensione conflittuale verso un esterno almeno potenzialmente ostile, e in una costante
mobilitazione contro i fattori di dissoluzione interni. Nemico esterno e nemico interno dunque?
Decisione circa la guerra esterna o decisione circa la guerra civile? Senza dubbio tutto questo è
presente in Canetti, ma, a differenza che in Schmitt, in cui la conflittualità è esaustiva del politico,
nella massa chiusa canettiana si tratta di un caso particolare, estremo e finale di un fenomeno più
generale. La contrapposizione fondamentale non è amico/nemico, ma uguale/diverso, interno/
esterno, noi/loro. A far funzionare il sistema è la differenza, non la guerra, sebbene anche in Canetti
la differenza possa generare guerra (o persecuzione). Quella che conta è la solidità del confine, da
intendere soprattutto come capacità di generare identità e senso. E' quando la differenza dentro cui
cerchiamo di chiuderci non è abbastanza chiara, quando non è capace di dirci chi siamo e dove
stiamo andando, quando la promessa della ripetizione è diventata stanca routine e cominciamo a
sentirci delusi dalla nostra appartenenza di massa, che una forte pressione esterna sul confine, reale
o immaginaria che sia, riesce a dare nuova vitalità e nuova durata alla nostra identità collettiva. Per
questo la massa doppia è la forma più chiusa della massa chiusa, in cui le due componenti ostili tra
loro si tengono in vita a vicenda.

4. La massa doppia della guerra


E' importante considerare che una massa doppia non è la stessa cosa di due masse. Si tratta piuttosto
di una massa sola divisa in due, o, come anche afferma Canetti, di due masse che costituiscono però
un unico sistema52. La contrapposizione più o meno ostile è anche, anzi è fondamentalmente, una
complementarità. Il premere dell’una massa sull’altra raddoppia il confine, lo consolida per
entrambe, è un reciproco dono di durata. Anzi, è il vero e proprio conferimento di identità dell’una
all’altra. Ciascuna massa dice all’altra, presentandosi come elemento di contrasto, che cosa ciascuna
massa è. L’una è condizione dell’altra: condizione di esistenza e condizione di pensabilità. Senza
una massa, l’altra non potrebbe neppure essere nominata. Uomini e donne, vivi e morti, amici e
nemici53. Amici e nemici sono un caso di massa doppia, certamente importante, ma non unico.
Potremmo dire che sono la variante ostile della complementarità. Tenendo conto che anche dove la
complementarità è più forte - uomini e donne - non manca la tensione ostile 54, così come d’altra
parte neppure la radicale ostilità della guerra esclude la complementarità.
@
Per la massa la più sicura e spesso la sola possibilità di conservarsi consiste nell’esistenza di una
seconda massa cui riferirsi. Può darsi che si affrontino e si misurino nel gioco; può darsi che si
minaccino gravemente l’un l’altra; l’aspetto o l’immagine intensa di una seconda massa non
permettono alla prima di disgregarsi. Mentre in una schiera le gambe stanno accostate alle gambe,
gli occhi fissano altri occhi di fronte. Mentre le braccia si muovono in cadenza comune, le orecchie
si tendono in attesa del grido che giungerà dalla schiera opposta. [...] Tutto ciò che fanno gli uni è
condizionato dall’azione o dall’intenzione degli altri. L’opposizione incide sulla contiguità. Il
confronto che provoca in ambedue una particolare attenzione modifica il tipo di concentrazione
all’interno di ciascun gruppo. Per un gruppo è necessario restare insieme finché i membri del
secondo gruppo non si siano separati gli uni dagli altri. La tensione fra i due gruppi determina una
pressione sulla propria gente. [...]
L’una massa tiene in vita l’altra [...]55.
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Amico/nemico. Freund und Feind56. È esattamente la dicotomia schmittiana, ed è difficile dubitare
che derivi proprio da Schmitt. Come pure schmittiano è il punto centrale nella concezione
canettiana della guerra: niente metafore, niente idealismi edulcoranti, tutta la concretezza possibile,
il più spietato realismo nella delineazione della violenza radicale. “In guerra si tratta di uccidere” 57,
proprio come in Schmitt. Però l’assonanza è meno decisiva di quel che sembrerebbe, il contesto è
completamente diverso. Per Schmitt, la guerra è l’essenza del politico, ed è dunque il momento per
eccellenza istituzionale, quello dell’unificazione di tutte le forze sociali sotto un’unica guida e in
vista di un unico scopo, il momento in cui trionfa la sovranità, l’apoteosi non molto hobbesiana del
Leviatano. In Canetti si tratta sempre di massa, e se è vero che la massa chiusa è la forma
istituzionale della massa, come Canetti la definisce esplicitamente 58, quindi ha natura politico-
giuridica, sebbene Canetti si tenga accuratamente lontano dall’utilizzazione esplicita di queste
categorie59, è anche vero però che la massa doppia della guerra è una massa “scoppiata”, esplosa,
cioè tornata da chiusa aperta60. Quindi la guerra come tale non appartiene in Canetti al “politico” -
alla chiusura istituzionale della massa -ma al prepolitico/impolitico, all’immediatezza esistenziale
della vita minacciata dalla morte.
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La minaccia consiste nel fatto che qualcuno si riconosca il diritto di uccidere. Ogni individuo di un
gruppo sottosta alla medesima minaccia; rivolgendosi contro ognuno, la minaccia rende tutti uguali.
Da un determinato momento che è lo stesso per tutti, e cioè dall’istante della dichiarazione di
guerra, la medesima cosa può accadere a ognuno. L’annientamento fisico, contro il quale si è
altrimenti difesi dalla vita nella propria società, si fa vicinissimo proprio a causa di quella società,
dell’appartenenza a essa. Su tutti coloro che costituiscono un determinato popolo sembra quasi
pendere la più terribile delle minacce. Migliaia di persone, a ciascuna delle quali è stato detto nel
medesimo istante: “Tu dovrai morire”, si riuniscono fra loro per allontanare il pericolo di morte.
Esse cercano di attrarre rapidamente tutti coloro che potrebbero cadere sotto la medesima minaccia;
si radunano in grandi concentrazioni e, per la difesa, si sottomettono a una direzione comune delle
operazioni61.
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In Canetti sono distinti, e persino contrapposti, due momenti che in Schmitt costituiscono invece un
continuum. Per Schmitt, appartengono a pari titolo al “politico” tanto la guerra effettivamente
combattuta quanto la guerra virtuale, in quanto oggetto di una decisione estrema e perciò sovrana
che potrebbe essere benissimo quella di non farla. Per Canetti, la guerra effettivamente combattuta e
quella meramente virtuale, a cui ci si prepara e su cui si decide in una condizione che è ancora
quella di pace, sono due fenomeni diversi. Due nazioni tradizionalmente ostili la cui politica
consiste nel prevenire l'una le minacce dell’altra tenendosi costantemente pronte alla guerra sono
senza dubbio una massa doppia amico/nemico perfettamente schmittiana, ma non sono ancora la
guerra. La loro costante preparazione alla guerra, che in quanto tale è però ancora al di qua della
guerra, ha una precisa manifestazione istituzionale: gli eserciti. E gli eserciti non sono masse, sono
“cristalli di massa”62: strutture chiuse, rigidamente gerarchiche e perciò individualizzanti, lunghe
catene di comando in cui ogni anello sta dietro un altro e prima di un altro, in un posto preciso che è
solo suo e acquista senso e vitalità precisamente quando il comando lo raggiunge 63.
Paradossalmente, dunque, in Canetti non sono gli eserciti a fare la guerra. Gli eserciti sono il
catalizzatore che in caso di guerra unifica, consolida e indirizza quelle masse chiuse che sono le
nazioni64, portandole ad un grado di intensità che sconfina nella massa aperta. Sono due masse
nazionali a combattersi, non semplicemente due eserciti, ma appunto nel combattersi le due masse
chiuse “scoppiano” insieme, fino a costituire un’unica cruenta massa:
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Lo scoppio di una guerra è innanzitutto lo scoppio di due masse. Una volta costituita, ciascuna di
tali masse si preoccupa essenzialmente di durare nell’atteggiamento e nell’azione, il cui abbandono
significherebbe una rinuncia alla vita stessa. La massa bellica agisce sempre come se tutto
all'esterno di essa fosse morte..]65.
@@@
All’esterno della massa bellica tutto è morte, in un duplice senso: i nemici che assalgono e
minacciano incarnano il rischio imminente di essere uccisi, e nello stesso tempo rappresentano dei
morti potenziali, sono coloro che bisognerà uccidere per non esserne uccisi, che bisognerà uccidere
prima di esserne uccisi. Ciascun combattente è per il suo nemico un vivo che dovrebbe essere morto
per non morire al suo posto, e in questo modo tutto si confonde in un unico amalgama di
provvisoriamente vivi che sono potenzialmente morti:
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Se si considerano insieme ambedue le parti combattenti, la guerra offre l’immagine di due masse
doppiamente intrecciate. L’esercito più grande possibile tende a determinare il più grande gruppo
possibile di nemici morti. Esattamente lo stesso si può dire per la parte opposta. L'intreccio deriva
dal fatto che ogni partecipante a una guerra appartiene sempre, simultaneamente, a due masse: per
la propria gente, egli appartiene al numero dei guerrieri viventi, per l’avversario al numero dei morti
potenziali e augurabili66.
@@@
In Canetti si scindono i due momenti, esistenziale e politico, che in Schmitt sono invece in
continuità, anzi coincidenti. Decidere la guerra o preparare la guerra è atto politico, avviene
all’interno della massa chiusa, istituzionale. Fare la guerra è atto esistenziale, impolitico: avviene
entro una peculiare massa aperta, doppiamente intrecciata, in cui è questione del confronto con la
morte e dello sforzo di non morire, a spese di qualcun altro 67. La decisione politica di fare la guerra
è la decisione di uscire dalla politica, di lasciarsi risucchiare da una dimensione profonda e terribile
che ha tutte le connotazioni del bellum hobbesiano - a cominciare dall’impoliticità - tranne una: non
ha a che fare con gli individui. Nel rinviarsi l’un l’altro la morte, ognuno rifiuta la propria
individualità tanto quanto quella dell’altro, precisamente perché rifugge dall’essenza
dell’individualità, il guardare in faccia, da soli, la propria morte.
@
La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev’essere proclamata come condanna
collettiva perché ci si possa opporre ad essa attivamente. Ci sono, per così dire, dichiarati tempi di
morte durante i quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto arbitrariamente.
“Ora si va contro tutti i francesi”, oppure “Ora si va contro tutti i tedeschi”. L’entusiasmo con cui
gli uomini accolgono una dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo
dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. E' già più facile in due, quando
due nemici eseguono per così dire la reciproca condanna; e non è più affatto la medesima morte
quando migliaia la affrontano insieme. Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra - e cioè
morire insieme -, risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto68.
@@@
In questa dimensione esistenziale profonda, la massa e il potere vengono a coincidere proprio nella
loro impoliticità più radicale. Nel senso specificamente canettiano, infatti, il potere non è decisione,
comando, capacità normativa, guida politica, ma sopravvivenza.
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L’istante del sopravvivere [Überleben] è l’istante della potenza. Il terrore suscitato dalla vista di un
morto si risolve poi in soddisfazione, poiché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il
sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato
ucciso dal sopravvissuto. Nell’atto di sopravvivere l’uno è nemico dell’altro; e ogni dolore è poca
cosa se lo si confronta con questo elementare trionfo69.
@@@
Il fatto che la guerra metta a disposizione di chiunque, in una situazione di piena uguaglianza, la
sostanza stessa del potere, è probabilmente ragione non ultima dell’incredibile facilità con cui la
guerra ottiene consenso, della sua intensissima seduttività70. Nella morte dell’altro - di cui non si è
comunque considerati colpevoli neppure quando la si è direttamente provocata, trattandosi di una
morte “buona”, innocente - si riceve indietro per un attimo la propria individualità, rafforzata,
legittimata, consolidata dalla beata sensazione di unicità invulnerabile che è la gioia del
sopravvivere, pronta per essere giocata sino in fondo subito dopo, nuovamente dissolta nella massa
cruenta per affondare tra i morti o riemergere ancora, trionfante, in una nuova realizzazione di
potere71. E a segnare l’impoliticità di questo momento, vale soprattutto la considerazione che si
sopravvive a tutti i morti, non solo a quelli nemici. Anche la morte dei propri compagni è una
vittoria, per quanto dolorosa:
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Di fronte a questi mucchi di caduti, il sopravvissuto è il privilegiato, il favorito dalla sorte. E'
portentoso che egli conservi la sua vita, mentre altri che un istante prima erano con lui l’hanno
perduta. I morti giacciono inermi; egli si erge fra di essi, e pare quasi che la battaglia sia stata
combattuta affinché egli sopravvivesse. Ha stornato da sé, sugli altri, la morte. Non che egli abbia
sfuggito il pericolo. In mezzo ai suoi compagni, egli ha affrontato la morte. Essi sono caduti. Egli
vive e trionfa.
Chiunque sia stato in guerra conosce questa sensazione di superiorità sui morti. Magari può essere
mascherata sotto l’afflizione per i compagni caduti; ma i compagni sono pochi, i morti sempre
molti. La sensazione di forza che scaturisce dal sopravvivere è fondamentalmente più forte di ogni
afflizione: è la sensazione di essere eletti fra molti che hanno un comune destino72.
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È in questo modo, dunque, che Canetti scioglie la contraddizione da lui stesso notata, che poi è il
paradosso fondamentale di tutta la concezione moderna, post-hobbesiana, della politica. Si fa parte
di una società per cercarvi sicurezza, ma proprio quest’appartenenza espone a un rischio più grande,
quello di essere uccisi soltanto per quest’appartenenza73. Lo stesso principio fonda l’ordine e il
disordine, la ricerca della sicurezza è quanto di più insicuro vi sia. Canetti distingue i due momenti,
secondo una logica certo assai più hobbesiana che schmittiana. Il bellum è impolitico, l’ordine
politico, finché esiste, esclude la guerra. Non l’eventualità della guerra, non la preparazione della
guerra, neppure la decisione circa la guerra: il normale rapporto fra le nazioni è una massa doppia
amico/nemico perfettamente schmittiana. Ma la guerra fonda l’ordine in quanto eventualità, in
potenza e non in atto. Finché funge da confine fra due masse che ne determina la reciproca
chiusura, e quindi conferisce solidità e durata. Quando scoppia, le masse scoppiano con lei e si
intrecciano insieme in un’unica, cruenta massa aperta, in cui tutti, amici e nemici, collaborano
alacremente a uno stesso compito, la produzione di morti e di sopravvissuti in una piena, perfetta
condivisione di potere. La guerra dunque non è il politico, ma il suo limite e il suo scacco,
l’ennesimo fallimento della massa chiusa, la rivelazione della sua intrinseca fragilità. E certo
l’universo dell’impolitico è molto più forte, radicato, esistenzialmente “autentico” rispetto a quello
del politico, che è un debole, deludente e provvisorio tentativo di uscirne senza potersene mai
lasciare alle spalle il nucleo esistenzialmente dolente e rovente, l’inaccettabilità del dover morire.
Però il politico canettiano, ben differentemente da quello schmittiano, non ingloba la guerra, non
coincide con la guerra, non si risolve nella legittimazione sostanzialmente incondizionata 74 della
guerra. Dalla guerra non si separa mai, ma la tiene al limite, la confina nel proprio confine, e se il
confine viene meno, anche il politico scompare. La guerra - non solo quella civile - nell’ottica
canettiana è la morte del “Dio mortale” di Hobbes.

5. La guerra senza morti


Lo conferma, con eleganza geometrica, l’unica trattazione specifica che Canetti riservi alla
dimensione interna della politica, il paragrafo di Massa e potere dedicato al sistema
parlamentare75. Per Schmitt, come si è visto sopra, neppure la politica interna di uno Stato può
prescindere dalla guerra: o è guerra civile o non è politica, col paradosso inevitabile che l’ordine - la
sovranità stessa - esiste soltanto nel suo mettersi in gioco, solo nel rischio estremo e mortale.
Canetti è perfettamente d’accordo: anche la politica interna è guerra e nient’altro che guerra. Però,
appunto, quella forma della guerra che riesce a restare al di qua della violenza, ancora all’interno
della massa chiusa, senza provocarne lo scoppio, che sarebbe la fine della massa chiusa e perciò
anche del “politico”. Anzi, proprio la politica interna, nell’epoca moderna, offre una preziosa,
inedita possibilità. La guerra non ha bisogno di restare virtuale, può accadere, anzi deve farlo:
l’essenza del sistema parlamentare consiste precisamente in una guerra senza fine, che è del tutto
compatibile con l’ordine istituzionale, anzi ne assicura direttamente la durata. Non occorre in questo
caso confinare la guerra al limite della massa doppia: la guerra anzi viene al centro, è il perno
intorno a cui ruota il sistema. È sufficiente - ma è anche essenziale alla sopravvivenza del sistema -
che venga confinata la morte. Il sistema parlamentare è una guerra senza morti76. Non per questo -
e sembrerebbe che Canetti voglia prevenire precisamente un’obiezione di tipo schmittiano - è una
guerra per modo di dire, puramente metaforica. È una guerra a pieno titolo, che dispiega sino in
fondo la sua logica specifica, tranne in un unico punto, però essenziale: non si tratta più di uccidere.
Ma precisamente questo fa della democrazia parlamentare la forma “perfetta” della guerra civile:
quella a cui ci si può abbandonare in piena tranquillità di coscienza, a cui si può consentire senza
avvertire alcun contrasto con l’appartenenza comune e senza mettere in discussione la solidità e
durata della massa chiusa.
@
Il sistema bi-partitico del parlamento moderno si avvale della struttura psicologica di eserciti in
battaglia. Questi ultimi nella guerra civile sono davvero presenti, seppure con riluttanza. Non si
uccide volentieri la propria gente: un senso della stirpe agisce sempre contro le guerre civili cruente
e di solito le conduce alla fine in pochi anni o ancor prima. Ma i due partiti del parlamento possono
misurarsi più ampiamente. Essi combattono rinunciando ad uccidere77.
@@@
È un punto da sottolineare: il conflitto parlamentare non è una forma attenuata, simbolica, meno
autentica di guerra civile: anzi, è guerra civile pienamente dispiegata, portata sino in fondo. Forse
non è così storicamente né psicologicamente vero che le guerre civili sono più brevi delle altre
guerre o che in esse è più difficile e doloroso uccidere il nemico, ma senza dubbio una guerra civile
troppo lunga e devastante metterebbe in serio pericolo l’unità nazionale. Nel sistema parlamentare
la guerra civile può essere perenne senza che l'unità nazionale sia minimamente in questione. Né
bisogna pensare che l’intensità del conflitto in questo caso sia più tenue o addirittura che non ci sia
vero conflitto. Proprio nel momento della decisione, quello in cui si determina chi è il vincitore e
chi è il vinto, la tensione è massima e giunge a una dimensione esplicita di violenza. Ma ci si
trattiene al di qua dell’uccidere, e non per spirito di pace, ma perché c’è un modo più preciso e
inequivocabile dell’uccidere per determinare chi è il più forte. Nella guerra cruenta può restare
lungamente incerto chi abbia il sopravvento, nella guerra parlamentare non c’è nessun dubbio, basta
contare i voti.
@
In una votazione parlamentare non c’è altro da fare che verificare sul posto la forza di ambedue i
gruppi. Non è sufficiente conoscerla a priori. Un partito può avere 360 deputati, l’altro solo 240: la
votazione rimane determinante come il momento in cui davvero ci si misura. È una sopravvivenza
dello scontro cruento, che si compie in molteplici modi: con la minaccia, l’oltraggio, l’eccitazione
fisica, la quale può perfino spingere a picchiare o a lanciare oggetti. Ma il conteggio dei voti segna
la fine della battaglia. Si deve riconoscere che 360 uomini hanno vinto su 240. La massa dei morti
resta interamente fuori del gioco. All’interno del parlamento non ci devono essere morti 78.
@@@
Non esiste una visione più schmittiana di questa coerente riconduzione alla guerra del conflitto
parlamentare. È da sottolineare, sotto questo profilo, che Canetti evita accuratamente di usare la
parola democrazia, sebbene indubbiamente parli di una forma del “politico” a cui da secoli si
attribuisce pacificamente - eventualmente con qualche riserva o qualche precisazione - appunto tale
nome. Vuole evitare qualunque impressione che si parli qui di qualcosa come consenso, dialogo,
deliberazione razionale. Il sistema parlamentare è uno strumento efficacissimo per la misurazione
della forza, e non misura assolutamente nient’altro. In particolare, non determina affatto chi abbia
ragione, precisamente come non lo fa la guerra.
@
Nessuno ha mai creduto davvero che l’opinione del numero maggiore in una votazione sia, per la
preponderanza [Übergewicht)79 di quello, anche la più saggia. Volontà sta contro volontà, come in
guerra; a ciascuna delle due volontà s’accompagna la convinzione del proprio maggiore diritto e
della propria ragionevolezza; tale convinzione è facile da trovare, si trova da sola. La funzione di un
partito consiste propriamente nel conservare vive quella volontà e quella convinzione 80.
@@@
Si potrebbe forse dire che qui Canetti, grazie proprio ad una logica rigorosamente schmittiana,
risolve uno dei problemi classici della teoria democratica: perché la minoranza deve accettare di
essere vincolata dalla maggioranza? Perché è la stessa cosa della guerra, risponde Canetti. Non c’è
nessun bisogno del consenso del vinto per determinare chi sia il vincitore: lo determina, del tutto
oggettivamente, la maggior forza di quest'ultimo. Ma non per questo il vinto deve cambiare
opinione e volontà, non per questo deve dare ragione al vincitore. La vittoria non dimostra nulla al
di fuori di se stessa, non è una misura di verità, di giustizia, di diritto. Il vinto non deve obbedire a
nulla o consentire a nulla, semplicemente deve riconoscere che non è lui il più forte, e questo
proprio non lo potrebbe negare. Ma potrà essere lui il più forte un’altra volta, perché c’è sempre
un’altra volta. Anche sotto questo profilo il conflitto parlamentare è una sorta di guerra perfetta,
perché non finisce mai, non ha nessun bisogno di finire. Si vincono o si perdono solo battaglie,
nessuno vince o perde definitivamente la guerra, e nessuno mai ne è escluso una volta per tutte: non
ci sono morti. E quindi la vittoria conferma la forza del più forte, ma non diminuisce la forza del più
debole, non gli preclude nessuna prospettiva futura: lo lascia esattamente come era. Il vinto non
ubbidisce al vincitore: continua semplicemente a combattere, l’unica misura di consenso che gli è
strutturalmente richiesta è precisamente quella indispensabile perché la lotta continui, perché il
sistema di massa doppia possa durare. Solo se uscisse dal gioco il vinto si arrenderebbe. Nel
riconoscere chi è oggettivamente il più forte, il vinto rimette in discussione la vittoria
dell’avversario nello stesso momento in cui la ammette. Resta intatto, invulnerabile, in un certo
senso invitto. Purché non vi sia morte.
@
L’avversario, battuto nella votazione, non si rassegna affatto, poiché ora improvvisamente non crede
più nel suo diritto; egli si limita piuttosto a dichiararsi sconfitto. Non gli è difficile dichiararsi
sconfitto, giacché non gli accade nulla di male. In nessun modo è punito per il suo precedente
atteggiamento ostile. Se davvero temesse un pericolo di vita, reagirebbe ben diversamente. Egli
conta piuttosto sulle future battaglie. Al suo numero non è imposto alcun limite; nessuno dei suoi è
stato ucciso81.
@@@
È chiaro però che questa vittoria della logica schmittiana la ribalta. Il “politico” può davvero
coincidere con la guerra, la guerra con il “politico”. Ma solo a condizione di non giungere
all’estremo, alla decisione ultima. Solo a condizione che non vi sia il sovrano. Non c’è nessun
sovrano nel sistema parlamentare. Certamente non lo è il “popolo”, ma neppure lo è il parlamento,
ma neppure lo è la maggioranza. Nessuno decide in ultima istanza: non esiste l’ultima istanza. Non
esiste neppure propriamente la decisione, se non come atto contingente che deve comunque sempre
mantenersi compatibile con l’equilibrio del sistema, e non può quindi portarlo mai all’estremo. E
questo consente una visione coerente del rapporto tra guerra e politica che mantiene la continuità tra
la politica esterna e la politica interna. Nella politica esterna, esiste la decisione estrema, appunto
quella di fare la guerra, ed esiste anche il sovrano, colui che può decidere di farla. Ma questa
decisione estrema è anche ultima: è la decisione di far scoppiare la massa doppia, di dissolvere il
sistema precipitando nell’esistenziale prepolitico dell’uccidere e del sopravvivere (che sono
esattamente la stessa cosa), in cui non esiste più il sovrano, ma solo il sopravvissuto. Nella politica
interna, nell’ambito del sistema parlamentare la decisione estrema non esiste, non esiste la
sovranità, perché la morte è esclusa dal sistema. La morte non serve a decidere, il sistema non ne ha
bisogno; e se la morte vi tornasse dentro, il sistema crollerebbe. Per questo, osserva Canetti, l’atto di
votare, il deporre la scheda nell’urna, ha un valore sacrale. Lo ha in un senso molto preciso, direi
tecnico: è un rituale. Più precisamente ancora: è un rito esoreistico, un rito di espulsione della
morte.
@
L’elettore può passare dall’una all’altra battaglia elettorale; le loro mutevoli sorti hanno per lui, se è
politicamente orientato, la massima attrattiva. Ma il momento in cui egli effettivamente vota ha poi
qualcosa di sacro; sacre sono le urne sigillate che contengono le schede; sacra l’operazione di
conteggio.
La solennità di tutte queste operazioni deriva dalla rinuncia alla morte come strumento di decisione.
Con ogni singola scheda la morte è per così dire spazzata via. Ma ciò che l'avrebbe provocata, la
forza dell’avversario, è registrato scrupolosamente in un numero. Ma chi si prende gioco di quei
numeri, chi li confonde, li falsifica, lascia nuovamente spazio alla morte e non se ne accorge.
Entusiastici amanti della guerra, che si beffano volentieri della scheda elettorale, manifestano così
solo le loro intenzioni sanguinose. Schede elettorali e trattati sono per loro unicamente miseri pezzi
di carta. Che essi non siano bagnati di sangue appare loro spregevole; valgono per loro solo
decisioni che esigono sangue82.
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E' questa, dunque, per Canetti, la condizione di esistenza del “politico” in quanto tale. Che il
confine resti solido e non venga mai varcato. Che la massa chiusa non scoppi. Che la guerra venga
istituzionalizzata, e perciò diventi fondamento dell’ordine e non elemento di dissoluzione del
sistema. Che la morte vi resti prigioniera, confinata in una virtualità inespressa. Che non vi siano
mai quelle decisioni estreme e sovrane “che esigono sangue”. Che i trattati siano osservati e le
schede elettorali rimangano inviolate. Che ci si trattenga al di qua dell’estremo. La logica di Hobbes
- tenuto conto delle ovvie differenze di linguaggio e di contesto - non mi sembra lontana, quella di
Schmitt sì, e molto. La differenza non è piccola, e mi pare non consentire neutralità. Molto
schmittianamente, qui si è chiamati a una decisione. E una sola decisione mi pare possibile. Quale, a
questo punto non dovrebbe essere dubbio.

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1. Questo testo è al momento inedito. Stesure preliminari appariranno in raccolte di atti
congressuali. 2. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico" (testo del 1932), in Id., Le categorie del
‘politico’, cit., p. 108. È noto che quest’edizione italiana, strettamente seguita dall’autore per quanto
riguarda la scelta e l’adattamento dei testi che vi sono compresi, potrebbe essere considerata quasi
un’opera autonoma nella bibliografia schmittiana. Andrebbero anche considerati due profili, che
meriterebbero entrambi un approfondimento scientifico che neppure si tenterà in questa sede:
quanto questo adattamento abbia avuto una portata attualizzante, ma appunto per questo
“denazificante” e assolutoria riguardo alla figura di Schmitt, e il ruolo non solo scientifico ma
“militante” che quest’opera ha ricoperto nel fornire legittimazione ideologica alla svolta
“decisionista” della politica italiana negli anni successivi. Non stiamo parlando, in nessun senso, di
un libro innocuo.
3. Il miglior testo a me noto sulla dimensione teologica di Schmitt (e non soltanto), è Μ. Nicoletti,
Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990.
4. Mi riferisco naturalmente al celebre frammento 53 Diels-Kranz: “Il conflitto (potemos) è padre di
tutte le cose e di tutte è re: e gli uni fece dei, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri liberi”. Cito da
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Fondazione Lorenzo Valla -
Arnoldo Mondadori Editore, s. 1. (ma Milano) 1980, p. 13 (per il testo greco, p. 12). Nell'ed. Diano
il frammento reca il numero 14.
5. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’ (testo del 1932), in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 101.
6. Cfr. ivi, pp. 101-5.
7. Ivi, pp. 105-6.
8. Cfr. D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, La Nuova Italia Scientifica, Roma
1987, pp. 14-5. Come Fisichella documenta, l’aggettivo “totalitario” viene usato per la prima volta
da Giovanni Amendola nel 1923, il sostantivo “totalitarismo” da Lelio Basso nel 1925, sempre in
riferimento al fascismo, che si appropria di questi termini facendone delle autodefinizioni elogiative
(nel 1925 lo stesso Mussolini, nel 1928 Giovanni Gentile).
9. Cfr. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (testo del 1932), in Id., Le categorie del 'politico', cit., pp.
107-8.
10. In seguito, a conferma di questa difficoltà di collocare nel concetto di “politico” la democrazia,
le forze democratiche sono definite come “essenzialmente politiche”, in quanto però siano
polemicamente “dirette verso lo Stato totale”: ivi, p. 156.
11. Cfr. ivi, pp. 106-7.
12. Ivi, pp. 110-1.
13. Ivi, pp. 115-6.

14. Cfr. ivi, pp. 112-3.


15. Ivi, p. 116.
16. Ivi, p. 117.
17. Cfr. ivi, p. 119.
18. Ivi, pp. 119-20.
19. Scrivo nel maggio-giugno 2011. Sul paradosso della “guerra per la pace” e sui fondamenti
costituzionali di questo paradosso, e contro la singolare mitologia giuridica secondo cui la nostra
Costituzione “vieta” la guerra, cfr. infra, cap. X.
20. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico" (testo del 1932), in Id., Le categorie del ‘politico", cit., p.
141.
21. Cfr. ivi, p. 113.
22. Ivi, p. 115.
23. Ivi, pp. 120-1.
24. Ivi, p. 137.
25. Ivi, p. 121; cfr. anche ivi, p. 122.
26. Ivi, pp. 149-50.
27. Per un’esposizione più generale del pensiero di Hobbes, cfr. supra cap. III.
28. Può darsi però che quest’incongruenza di Schmitt metta in evidenza una nascosta
contraddizione di Hobbes stesso: la tensione irrisolta tra la violenza costitutiva del sovrano e
l’esigenza che il sovrano pacifichi la vita interna dello Stato. Cfr. in proposito supra, cap. IL
29. Cfr. C. Schmitt, Definizione della sovranità, in Id., Le categorie del 'politico', cit., pp. 33-41.
30. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (testo del 1932), in Id., Le categorie del 'politico', cit., p. 122.
31. C£r. ivi, p. 129. Per un’applicazione di questo criterio schmittiano all’era nucleare, da cui
derivano però esiti assai poco schmittiani circa il rapporto tra politica e guerra, cf. supra, cap. I, e
infra, cap. VI.
32. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (testo del 1932), in Id., Le categorie del 'politico', cit., pp.
122-3.
33. Ivi, pp. 129-30.
34. Ivi, pp. 130-1.
35. Non intendo evidentemente gli specialisti di Schmitt, ma i suoi esaltatoti acritici o poco critici,
che sono stati e sono ancora oggi una (piccola) legione, abbastanza equamente divisa tra “destra” e
“sinistra”.
36. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico' (testo del 1932), cit., p. 130.
37. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 113-22. Sulla funzione ordinatrice della violenza
persecutoria in Girard, rinvio al mio Dal conflitto dei doppi alla trascendenza giudiziaria. Il
problema politico e giuridico in René Girard, in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e
simboli dell'ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit., pp. 17-51.
38. Non è un caso che Schmitt difenda, contro il liberalismo, la natura politica (precisamente nel
suo senso) del socialismo e dello Stato socialista: c£r. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’ (testo del
1932), cit., pp. 120-1 e 160-1. Con questo non si vuole negare che la polemica schmittiana contro il
liberalismo abbia delle ottime ragioni: cfr. sp. ivi, pp. 132-3.
39. Schmitt non compare nella pur vastissima bibliografia di Massa e potere, ma quest’assenza non
è indicativa di una mancata conoscenza: è più probabile che, come in altre assenze clamorose,
soprattutto quella di Freud, vi si debba leggere un rifiuto polemico. Le assonanze concettuali sono
talmente prossime che penso si debba dar per scontata una conoscenza, per quanto parziale o
indiretta, dell’opera di Schmitt da parte di Canetti. Oltre agli spunti analizzati in questo saggio,
ritengo da segnalare anche il valore simbolico-identitario che Canetti attribuisce al mare in
riferimento all’Inghilterra, con una movenza di pensiero che sembra difficile non mettere in
rapporto alla visione schmittiana del conflitto fra le potenze “terragne” - Γ “Orso” - e quelle
marittime - la “Balena”. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 204-5; C. Schmitt, Terra e mare.
Una considerazione sulla storia del mondo, a cura di Λ. Bolaffi, Giuffrè, Milano 1986, sp. pp. 71-8;
C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, cit., sp.
pp. 214-24.
40. C. Schmitt, Il concetto di 'politico’ (testo del 1932), cit., p. 109.
41. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 19.
42. Cfr. ivi, pp. 58-65. Per una più completa trattazione della massa "aperta” in Canetti, anche in
rapporto alla sua origine animale, rinvio al mio saggio La morte felice. Osservazioni sulla dinamica
della massa aperta, in AA. VV., Leggere Canetti. "Massa e potere" cinquantanni dopo, a cura di L.
Alfieri e A. De Simone, Morlacchi, Perugia 2011, pp. 115-48.
43. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 17-9. Su questo concetto fondativo di tutto il discorso
canettiano sulla massa, cfr. L. Alfieri, La morte felice. Osservazioni sulla dinamica della massa
aperta, cit., pp. 115-22.
44. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 20-2.
45. Cfr. ivi, pp, 22-4 e 27-8.
46. Per un celebre elogio che Canetti rivolge a Hobbes, misurando però accuratamente la propria
distanza da lui, cfr. E. Canetti, La provincia dell'uomo, trad, di E Jesi, Adelphi, Milano 1978, p. 158.
Da questo brano Roberto Esposito prende le mosse per la sua intelligente interpretazione di Hobbes;
cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, cit, pp. 3-5.
Il rapporto tra massa aperta e massa chiusa in Canetti non è comunque sovrapponibile a quello tra
status naturae e status civitatis in Hobbes. La differenza non è tra helium e pace sotto l’autorità del
sovrano, ma tra scarica e durata; e soprattutto non c’è nessuna superiorità razionale o morale della
massa chiusa sulla massa aperta, anzi la massa chiusa è una massa depotenziata e in qualche modo
mancata, che può però ritornare alla piena espansività della massa aperta tramite il fenomeno dello
scoppio (Ausbruch). Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 24-7.
47. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 22.
48. Ivi, p. 20.
49. Ivi, pp. 26-7.
50. Questa sorta di irrealizzabile utopia della massa aperta può trovare espressione solo in
proiezioni simboliche, soprattutto quella del mare, che racchiude in sé qualunque cosa vi cada o vi
confluisca senza subire mai alcun detrimento e senza incontrare alcun rischio di dissoluzione. Cfr.
ivi, pp. 96-8.
51. Ivi, pp. 27-8.
52. Cfr. ivi, pp. 75-6.
53. Cfr. ivi, 75-87.
54. Cfr. ivi, pp. 76-8.
55. Ivi, p. 15.
56. Cfr. ivi, p. 76. Per il testo tedesco, cfr. E. Canetti, Masse und Macht, Carl Hanser Verlag,
München-Wien, s. a. (ma 1994, rist. 2010), p. 72. Si tratta del vol. III dei Werke. Da notare che Jesi
traduce al plurale (“amici e nemici”), ma Canetti usa il singolare, esattamente come Schmitt.
57. E.. Canetti, Massa e potere, cit., p. 80.
58. Cfr. ivi, pp. 24-5.
59. In Massa e potere appaiono pochissime volte il sostantivo “politica” o l’aggettivo “politico”;
non si parla quasi mai di “diritto” e di “giuridico”.
60. Cfr. ivi, p. 26 e p. 86.
61. Ivi, p. 86.
62. Cfr. ivi, pp. 88-90.
63. Cfr. ivi, pp. 88-90.
64. Sulle nazioni come masse chiuse (in una maniera peculiare che richiederebbe un lungo discorso,
e che Canetti assimila alle religioni), cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 201-4
65. Ivi, p. 86.
66. Ivi, pp. 84-5.
67. Sulla reciproca irriducibilità dei due momenti, cfr. infra, capp. VI VII.
68. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 86-7.
69. Ivi, p. 273. Per il testo tedesco, cfr. E. Canetti, Masse und Macht, cit., p. 267.
70. Sul punto, cfr. infra, cap. VII.
71. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 273-5.
72. Ivi, p. 274.
73. Cfr. supra, p. 148 e nota 61.

74. Solo formalmente condizionata quindi, come è chiarissimo in Schmitt.


75. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 224-7. Nelle pagine che seguono sono largamente
debitore del bel saggio di R. Escobar, Decidere senza uccidere, in in AA. W., Leggere Canetti.
“Massa e potere” cinquantanni dopo, cit., pp. 97-114.
76. È il caso più importante e più specificamente studiato da Canetti, ma non è l’unico. In
conclusione della sua opera, Canetti dedica una breve riflessione a un analogo cambiamento in atto
proprio nei conflitti esterni, nella guerra tra le nazioni, che tende ad assumere forme incruente ma
non per questo impolitiche, come nelle competizioni sportive o nei conflitti economici, Cfr. E.
Canetti, Massa e potere, cit., pp. 566-8.
77. Ivi, p. 264.
78. Ivi, pp. 224-5.
79. Recepisco qui una correzione alla traduzione italiana proposta da R, Escobar, Decidere senza
uccidere, cit., pp. 104-5 e n. 20.
80. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 225.
81. Ibidem.
82. Ivi, pp. 226-7. Appunto questa sacralità che Canetti riconosce alle operazioni elettorali mi rende
difficile aderire all’interpretazione di Escobar, secondo cui quella di Canetti è una concezione
squisitamente proceduralistica della democrazia: cfr. R. Escobar, Decidere senza uccidere, cit., pp.
107-8. Mi sembrerebbe piuttosto che appunto in quanto le procedure sono riti - tutt’altro che
puramente simbolici e formali - di espulsione della morte, Canetti attribuisca alle procedure
medesime un valore sostantivo estremamente forte. La differenza tra uccidere e non uccidere non è
formale.
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PARTE II. LA GUERRA IMPOSSIBILE

CAPITOLO VI. La guerra impossibile: dalla deterrenza alla pace? 1


SOMMARIO: 1. Due elusioni della guerra - 2. Morire per Danzica? - 3. La Morte e il guerriero - 4.
L’animale più coraggioso - 5. I signori della morte - 6. Una prospettiva non pacifista sulla pace.
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«Voi dite che la buona causa santifica persino la guerra? Io vi dico: è la buona guerra che santifica
ogni causa.»
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte I, cap. Della guerra e dei guerrieri.
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1. Due elusioni della guerra


In guerra si uccide, in guerra ci si espone alla morte. La morte è la sostanza della guerra.
Questa è un’ovvietà, e sembrerebbe non esserci alcun particolare bisogno di ribadirla; se non fosse
che quest’ovvietà, appunto perché tale, non viene quasi mai presa in seria considerazione, col
rischio che proprio l’aspetto essenziale ed evidente della guerra sfugga all’indagine.
Ci sono due modi, entrambi ampiamente praticati, di eludere il rapporto tra guerra e morte. Il primo
appunto quello di considerarlo troppo scontato, quindi non significativo. Ne deriva una concezione
asettica della guerra, quasi che fosse un fenomeno prima di tutto intellettuale: una contrapposizione
tra visioni strategiche e ideologie politiche, da cui emergono delle freccette colorate sulle carte
geografiche e delle tabelle statistiche tra cui quella delle “perdite”, cioè dei morti divenuti numeri,
che così non sanguinano, non puzzano e non turbano l’ordine razionale). Si scrivono libri interi,
anzi intere biblioteche di storia e teoria della guerra come se in guerra non si morisse, ma si
eseguissero operazioni logiche. Una variante di questa forma di elusione è quella estetico - retorica:
i morti trasformati in “caduti per la patria”, cioè in statue bronzee o marmoree corredate di epigrafi
altisonanti. Le due cose vanno benissimo insieme, anzi insieme portano a compimento un’immagine
della guerra come nobile espressione dell’intelletto e del sentimento, opera d’arte, opera di pensiero,
categoria dello spirito. Ma i morti ci sono, e se una concezione della guerra non li vede, vuol dire
che serve davvero a poco, se non a mascherare il vero problema.
Il secondo modo di eludere il rapporto tra guerra e morte è quello di porre la questione in forma
moralistica e patetica, quasi che il fatto che in guerra si uccida e si muoia fosse di per sè sufficiente
a condannarla come male assoluto, e ciò fosse, appunto, cosa ovvia. E' l’elusione tipica del
pacifismo, inteso come specifica ideologia, ed implica un ragionamento singolare. Il ragionamento,
cioè, che siccome la guerra in quanto tale è male, il sano intelletto ed il sano sentimento non
possano mai condurre ad essa: se la guerra c’è, è solo perché il potere inganna e manipola le
coscienze. Basta allora smascherare il potere e svelare agli ingannati che la guerra è brutta e cattiva,
che ci si fa male, che si muore, addirittura, e d’incanto gli uomini “prendono coscienza” e in guerra
non ci vanno più. Credo che le anime belle chiamino questa faccenda “educazione alla pace”.
Inutile dire che le anime belle non sono mai sfiorate dal soffio di un pensiero; neppure dal pensiero
davvero elementare che dopo svariati millenni di guerra gli uomini lo abbiano capito benissimo che
in guerra si uccide e si muore, e ci vadano appunto per questo.
Certo, immaginare un assalto e andare all’assalto sono due cose assai diverse, e cose ancor più
diverse sono pensare di poter “cadere” in battaglia ed avere davvero un proiettile nelle budella. Può
darsi benissimo che chi credeva di poter sostenere il peso emotivo del pericolo e della violenza si
accorga, una volta messo alla prova, che la realtà è molto peggio dell’immaginazione e scopra di
non farcela. Ma nessuno va in guerra senza aspettarsi di dover uccidere e rischiare di morire. Il
problema è appunto questo: perché allora ci va?

2. Morire per Danzica?


Conviene suddividere questo problema nelle sue principali componenti. Una cosa sono le
motivazioni per cui un decisore politico a ciò legittimato sceglie la guerra come mezzo per
raggiungere un certo obiettivo, e un’altra cosa sono le motivazioni per cui un cittadino accetta che
quella decisione lo vincoli e in guerra effettivamente ci va. Si può decidere una guerra per Danzica,
e anche per molto meno, ma morire per Danzica davvero non si può. L’obiettivo politico per cui un
governo decide la guerra non può mai avere per il singolo un peso superiore a quello della propria
vita. Certo, la propaganda fa molto, ed ai governi chiaramente conviene dire che si fa la guerra per
la libertà anziché per il petrolio. Ma almeno una buona parte di quelli che vengono mandati a morire
per la libertà sanno di andare a morire per il petrolio, e ci vanno lo stesso. D’altra parte, morire per
la libertà non è poi molto più facile che morire per Danzica o per il petrolio. A rigore, di motivi
buoni per morire non ce n’è neanche uno; salvo che di morire si abbia proprio voglia, e in questo
caso non occorrono motivi. Certamente però nessuno può pensare che in guerra vadano solo i
suicidi. Ci vanno per lo più proprio quelli che vogliono vivere e che sperano di tornare. E dunque,
ancora una volta, perché ci vanno?
Di fronte all’evidenza che per ciascuno lui stesso è l’assoluto e la propria scomparsa è il nulla, che
ci si possa volontariamente esporre alla perdita di sé, cioè alla perdita di tutto, è davvero una cosa
difficile da spiegare. Eppure, senza questa sorprendente proclività a sacrificare l’assoluto al relativo,
tutto al nulla, la guerra non esisterebbe. E dunque, perché esiste?
Anzitutto, bisogna sgombrare il campo dalle false spiegazioni. La propaganda può fare molto, ma
non può fare tutto, e nessuno è mai tanto stupido quanto credono certi psicologi o sociologi, specie
quando si tratta della propria vita. Se certi “inganni del potere” riescono, è perché danno alla gente
una buona scusa per fare ciò che comunque farebbe. Simili inganni non hanno vittime, ma solo
complici. Chi manda gli altri a morire per il petrolio e chi a morire per il petrolio ci va, hanno
entrambi interesse a dire che lottano per la libertà. Se l’inganno fosse veramente tale, emergerebbe
subito e provocherebbe una ribellione immediata. Non è facile mettere un fucile in mano alla gente
e poi ingannarla: i fucili potrebbero mettersi a sparare dalla parte sbagliata.
Ancor più inconcludente è l’idea che la gente vada in guerra perché viene costretta. Costretta da
chi? Chi ha più potenza di fuoco, i politici e i generali o la truppa? È difficile armare qualcuno e poi
costringerlo a fare qualcosa, tanto più addirittura costringerlo ad andare a morire. Si può mandare la
gente a morire minacciandola di morte? Il grado di plausibilità di una simile ipotesi non sembra
elevato. Certo, un singolo potenziale ribelle o disertore potrebbe essere costretto o punito dai propri
compagni che vogliono obbedire, ma la costrizione del singolo presuppone appunto il consenso
della massa, che non è costretta da nulla perché non c’è nulla che possa costringerla. Come mai
allora generalmente la disobbedienza è di singoli e l’obbedienza è di massa e non il contrario, come
sembrerebbe logico che fosse?2
Se però non emergono motivi che possano credibilmente spiegare come mai gli uomini accettino
così facilmente di uccidere e di morire, perché sono tutti motivi relativi che dovrebbero spiegare un
assoluto, la conclusione inevitabile è che la guerra propriamente non ha motivi. Cioè, la guerra non
è concepibile, dal punto di vista di chi la fa e non di chi manda gli altri a farla, come mezzo per un
fine. Non si può morire per Danzica, appunto, dunque Danzica, ogni possibile Danzica, non è la
ragione per cui si muore. La guerra, in quanto accettazione di dover uccidere e rischiare di morire,
non può che appartenere essa stessa all’ordine dei fini. “E' la buona guerra che santifica ogni
causa”, dice Nietzsche3. Lo dice, è vero, in senso metaforico, non parla della guerra guerreggiata.
Ma la metafora può funzionare appunto perché ciò è anzitutto vero per la guerra guerreggiata. La
guerra è il fine, la presunta causa è solo il mezzo per poterla fare. Nessuno uccide o muore per
Danzica, e nemmeno per la libertà, e nemmeno, del resto, per il petrolio. Gli uomini uccidono per
uccidere, evidentemente: davvero possiamo non accorgerci, dopo millenni, che è una delle cose che
fanno più volentieri? Però gli uomini non muoiono per morire, specialmente in guerra. Il guerriero
non è un suicida: vuole vincere, e morire è una sconfitta. Ancora una volta, invece, gli uomini
muoiono per uccidere. Ed è questo l'unico fine per cui si fa la guerra: ogni altra cosa è pretesto.

3. La Morte e il guerriero
Con questo non si vuole dire che gli uomini sono cattivi. Sarebbe una grossa sciocchezza, ed anzi la
sola sciocchezza paragonabile sarebbe dire che gli uomini sono buoni. Non è per cattiveria che si
uccide; anzi, la maggior parte degli uomini non potrebbe uccidere se, uccidendo, non si sentisse
buona. Appunto per questo il fine di uccidere richiede il mezzo di una buona causa. Il vero guerriero
non è un sadico. Uccide, e se è sincero con se stesso sa anche che ama farlo. Ma non ama infliggere
sofferenza e terrore. E non ama neanche le uccisioni di massa, quelle che si producono spingendo
un bottone o timbrando delle carte. Bombardamenti atomici o campi di sterminio sono roba da
tecnici o da burocrati, non da guerrieri. 1 milioni di morti non si vedono, o almeno non si vedono
morire, mentre il guerriero vuole veder morire, e per un motivo assai più profondo e tragico della
crudeltà. Per un motivo, se vogliamo, metafisico.
Il guerriero vuole che la Morte gli venga incontro, armi alla mano. Vuole vederla avvicinarsi,
mirando proprio a lui, occhi negli occhi. Ed ecco che la Morte sbaglia il colpo, la Morte stessa è
colpita, la Morte cade. La Morte muore, nell’aspetto del nemico. Il guerriero, uccidendo il nemico,
trionfa sulla Morte. Non esiste un trionfo più grande, non esiste una ragione di vita più forte. Il
guerriero ama la vita: per questo uccide tanto volentieri.

4. L’animale più coraggioso


Ovvietà per ovvietà: gli uomini sono mortali. Il che non significa che ogni uomo un giorno o l’altro
morirà. Significa di più: che ogni uomo può morire in ogni minuto della sua vita, e in ogni minuto
della sua vita lo sa.
Non ne deriva la paura della morte. La vera e propria paura della morte è rara tra gli uomini; forse,
in condizioni non patologiche, addirittura assente. La vera paura della morte sarebbe propria di un
essere che può morire come non morire, un essere per cui la morte non sia necessità onnipresente,
ma un caso disgraziato che potrebbe non presentarsi, almeno per un lunghissimo tempo. Un tale
essere non saprebbe fronteggiare la morte e fuggirebbe davanti al più piccolo rischio. E non si tratta
di un essere immaginario, se è vero (come possiamo solo ipotizzare) che per l’animale sofferenza e
pericolo sono circoscritti nell’istante e non danno luogo ad una consapevolezza di mortalità costante
nel tempo. L’animale ha paura perché può credere che la fuga sia salvezza. L’uomo no.
L’uomo non può fuggire la morte: l’ha sempre con sé. E non può neanche temerla: una continua
paura impotente lo farebbe impazzire. L’uomo è troppo debole e troppo schiacciato dalla morte per
permettersi il lusso di averne paura. L’uomo è il più coraggioso degli animali, dice Nietzsche; e dice
anche che è di tutti gli animali il più sofferente 4. Perché è il più debole di tutti, debole fino
all’impossibilità: per questo Arnold Gehlen sostiene che l’uomo non è un animale. E' un’altra cosa:
un’impossibilità che si è resa possibile, appunto, cioè un essere che è completamente uscito
dall’ordine della natura e della necessità5.
Un essere di questo genere la morte non la teme: la sfida. La sfida come il suo più proprio limite,
che non può mai essere superato, ma può sempre essere spinto più in là, allargando continuamente
lo spazio, pur sempre in assoluto ristretto, in cui la necessità non esiste più. Così l’uomo può vivere
nel suo mondo, che è quello del gratuito e dell’artificiale.
S’intende che la morte non si sfida per vincerla. Vincerebbe sempre lei. La si sfida per ingannarla,
per deviarla, per catturarla e servirsene, facendo della sua forza schiacciante la propria forza. E'
probabile che il primo gesto umano dell’uomo sia stato quello di servirsi di un artificio, di uno
strumento, per uccidere.
Una scimmia incompleta, mal riuscita, preda inerme per centinaia di migliaia di anni, sopravvissuta
come specie forse solo per un’incredibile catena di casi fortunati, sempre immersa in una paura
sorda e opaca. Poi, a poco a poco, la paura senza zanne e artigli e senza zampe veloci riesce a darsi
un cervello, sempre più grande. Finché il cervello, comincia a secernere armi. Il primo uomo, e
forse il più grande di tutti gli uomini, potrebbe essere stato la prima scimmia nuda che riuscì ad
appuntire un bastone, a indurirlo al fuoco e a trafiggere un leopardo, imparando che si può uccidere
la paura. E che per poter vivere sempre di nuovo questa liberazione e questo trionfo bisogna
continuare per sempre a darle la caccia.
Nessun animale, neanche il più coraggioso, affronta volentieri il pericolo, e nessuno lo fa senza
motivo. Possiamo forse renderci conto delle ere di terrore da cui veniamo, se pensiamo al sollievo
che proviamo nel poter sfidare il terrore. Nessuna cosa al mondo ci attrae di più. Noi costruiamo
soltanto edifici che possono crollare, mezzi di trasporto che possono affondare, esplodere o
precipitare, macchine che ci possono afferrare e stritolare. Trutta la nostra quotidianità è terrore
solidificato, tutto ciò che ogni giorno adoperiamo è rischio provvisoriamente dominato e
trasformato in un propulsore che scaglia la nostra precarietà contro un rischio ancora più grande.
Noi non cerchiamo la sicurezza: non abbiamo mai avuto tane abbastanza profonde e calde da averne
esperienza. Alle innumerevoli zanne del mondo abbiamo solo potuto opporre zanne più aguzze e
laceranti di ogni cosa che esiste in natura: fino a dominare il fuoco, che morde e lacera più di tutto.
Non abbiamo mai imparato altro rimedio contro la morte che non sia il dare la morte: uccidendo,
scaviamo nella morte la nostra tana.

5. I signori della morte


Appunto in questo consiste, per Elias Canetti, la struttura fondamentale del potere, in un senso ben
diverso da quello abi tualmente usato in politica. Il potere è sopravvivenza, da intendere in
un’accezione forte e attiva del termine: non durare in vita, ma acquisire un senso più intenso ed
acuto del proprio vivere ponendosi di fronte all'altrui morire. Il potente non sopravvive in quanto
riesce a non morire: sopravvive uccidendo o facendo uccidere6.
Contrariamente a quel che sembrerebbe ovvio, dunque, si sopravvive tanto più quanto più ci si
espone al rischio di morire. Proprio la guerra, dunque, è per eccellenza la dimensione del
sopravvivere: per questo gli uomini l’hanno sempre intensamente amata. Ed è sempre per questo
che sono fortemente attratti, e per nulla affatto respinti, da coloro che seminano morte e terrore. E'
vero che, in un certo senso, si obbedisce per paura, ma non si tratta della paura che il potente ci
incute (e che non potrebbe incuterci se noi stessi non lo volessimo), bensì di quella che,
obbedendogli, noi possiamo incutere ad altri, condividendo la sua soprannaturale signoria sulla
morte. In questo senso, la paura è la preziosa ricompensa dell’ubbidire. La paura che suscita il
potente si riverbera su tutti coloro che lo seguono, rendendoli potenti di riflesso, partecipi del più
grande di tutti i domini.
S’intende che tramite l’ubbidienza non si sfugge affatto al pericolo: lo si moltiplica, anche in grado
estremo. Ma non è per sfuggire al pericolo che tanto volentieri ubbidiamo. Che accostarci al potente
sia un pericolo, è proprio quello che desideriamo. Se non fosse una minaccia mortale anche per i
suoi seguaci e non solo per i suoi nemici, il potente si esporrebbe al disprezzo e quindi, proprio
allora, alla disubbidienza, perché ubbidirgli non ci consentirebbe più di condividere la sua
sopravvivenza. I grandi uccisori, per quanto atroce possa sembrarci, vivono circondati dall’amore
delle loro vittime future: finché, come in un modo o nell’altro succede sempre, incontrano qualcuno
che riuscirà a sopravvivere persino a loro.
6. Una prospettiva non pacifista sulla pace
Dovremmo dunque pensare che la pace sia costitutivamente impossibile, che si possa definire tale
soltanto la pausa più o meno lunga tra una guerra e l’altra. E senza dubbio la pace sinora non è
storicamente esistita in altro modo. Ma da non molto qualcosa è cambiato, tanto da poter dire che la
pace oggi è davvero possibile, ed è la prima volta nella storia. Solo che non si tratta affatto,
purtroppo, della pace come la vorrebbero i pacifisti.
Il problema, con i pacifisti, non è che abbiano torto, ma che hanno ragione per un motivo molto
diverso da quel che credono loro. E non si riuscirà mai a comprendere le reali possibilità della pace,
finché non si capirà come mai gli uomini hanno sempre avuto bisogno della guerra. Finché, cioè,
non si smetterà di parlare di pace con un sentimentalismo bolso da ebeti. I veri pacifisti non sono
quelli che acchiappano farfalle sui prati della bontà, ma i cuori miti che, come Canetti, sanno
guardare il mondo con occhi di ghiaccio.
Se vogliamo cominciare a elaborare un pensiero adulto sulla pace, la prima cosa da comprendere è
che se oggi viviamo in una condizione che possiamo chiamare pace senza che ciò significhi soltanto
che ci stiamo riposando di una guerra e ne stiamo preparando un’altra, è appunto alla guerra che lo
dobbiamo. La guerra ha fatto un immenso salto qualitativo e ci ha catapultato in una nuova epoca:
quella in cui appunto la sopravvivenza è diventata impossibile7. Abbiamo a tal punto desiderato di
appropriarci del potere della morte che adesso lo abbiamo fatto nostro totalmente: possiamo
distruggere il mondo. E ci siamo abituati a tal punto, in pochi anni, a quest’evento sovrumano, che
riusciamo a dirlo senza tremare. In questa parte sia pur piccola dell'universo, la Morte non è più
sopra di noi: la Morte siamo noi.
Ma, a questo punto, non possiamo più uccidere senza ucciderci. Nell’usare il totale potere di morte
che è ormai nostro, ce ne spoglieremmo interamente per restituirlo alla Morte stessa, che una volta
per sempre trionferebbe su di noi. Siamo arrivati, per la prima volta nella storia, a far coincidere la
guerra e la sconfitta. Perciò non hanno più senso le virtuose balordaggini su quanto la guerra è
brutta, sporca e cattiva. Servono solo a distoglierci dalla piena coscienza dell’opera grandiosa che
abbiamo Compiuto: spingendo la guerra al di là di ogni limite, l’abbiamo resa impossibile. Con
questo, è cominciata una nuova storia.
Naturalmente non è detto che la nuova storia sarà in tutto diversa dall’antica, e neppure che sarà
migliore. L’impossibilità della grande guerra non rende affatto impossibili le piccole guerre
meschine e inconcludenti. E neppure è detto che la nuova storia non debba finire presto nel
peggiore dei modi. La guerra è diventata impossibile secondo la logica del guerriero, che non c’è
più (e la sua scomparsa la dovremmo forse accogliere non solo con sollievo, ma anche con rispetto,
e persino con una punta di nostalgia). Ma la logica del tecnico o del burocrate è diversa, e non ci
pone al riparo dal rischio di una fine del mondo per nulla tragica, ma semplicemente idiota. Se poi
la nuova storia continuerà abbastanza a lungo, non sarà certo comoda e tranquilla. La nostra tana è
sempre scavata nella morte, ora più che mai: è la morte atomica l’unica fonte della nostra
“sicurezza”.
Ma il cambiamento grande e irreversibile è proprio che il solo vero nemico che abbiamo di fronte,
ormai, è la Morte stessa: che non può più ingannarci e che non possiamo più ingannare. Dobbiamo
imparare non solo a deviare su altri il suo potere, come sappiamo fare benissimo da millenni, ma,
per la prima volta, a fermarlo. La lotta è più diretta di quanto sia mai stata: siamo al corpo a corpo
finale. Non possiamo più sopravvivere ai morti: possiamo sopravvivere solo alla Morte stessa,
appropriandoci del suo immenso potere proprio nel non usarlo mai. Ed è contro la guerra stessa,
dunque, che dovremmo ritrovare lo sguardo del guerriero, che fissa i suoi occhi, freddi e sereni,
negli occhi della Morte che viene.
%
1. Questo testo, in forma leggermente diversa, è stato originariamente pubblicato in AA. VV. Il
nuovo volto di Ares, o il simbolico nella guerra postmoderna. Profili di simbolica politico-
giuridica, a cura di C. Bonvecchio, CEDAM, Padova 1999. Sono grato al generale Fabio Mini per
aver voluto dialogare, in un suo bel libro, con questo mio lavoro, giungendo, con ben altre
competenze, ad una sostanziale consonanza d’idee. Cfr. F. Mini, Elogio del guerriero, in La guerra
dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale, Einaudi, Torino 2003,
pp. 136-65.
2. Di decisiva importanza in proposito è R. Escobar, Il campanile di Marcellinara. Ipotesi
sull’obbedienza, cit., pp. 183-209. Il tema è stato poi ripreso
ed ampliato in Id., Metamorfosi della paura, cit., sp. pp. 10-4 e 31-48.
3. E Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit., parte I, cap. Della
guerra e dei guerrieri, p. 52.
4. C£r. ivi, parte III, cap. La visione e l'enigma, § 1, pp. 190-1; cfr. anche Id., Genealogia della
morale, III Dissertazione, Che significano gli ideali ascetici?, § 28, in Opere, cit., vol. VI, tomo II,
Adelphi, Milano 19722, pp. 366-7. La trad, è di F. Masini.
5. Cfr. A Gehlen, Cuomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., sp. pp. 58-67.
6. Questo si può dire di entrambe le forme di “sopravvissuto” che Canetti distingue: l’“eroe” e il
“potente paranoico”. Il primo sfida apertamente la morte, il secondo cerca di interporre tra sé e la
propria morte il morire d’innumerevoli altri, ma così crea da sé i nemici che davvero minacceranno
la sua vita. Il potente paranoico è una specie di eroe vigliacco, che finisce per sfidare la morte tanto
più quanto più cerca di sfuggirle. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., sp. pp. 273-82.
7. Canetti ha in proposito pagine geniali e anticipatrici: cfr. ivi, pp. 565-71.
%%%

CAPITOLO VII. La stanchezza di Marte. Prospettive sulla guerra globale1


SOMMARIO:1. Statue e cadaveri - 2. Il crimine senza nome - 3. Fine della guerra e fine della sovranità
- 4. Bombe intelligenti e martiri folli - 5. Il ritorno del sopravvissuto - 6. Uscire dal mondo, verso il
mondo.

1. Statue e cadaveri
Esistono due modi di considerare la guerra: quello di chi la pensa o la racconta, e quello di chi la fa.
Il primo modo, contrariamente a quel che pretende, non spiega per niente il secondo.
Dal punto di vista degli storici, dei teorici, degli strateghi, la guerra è un comportamento politico
che si pone obiettivi precisi e razionali, seguendo procedure tecniche molto complesse e inserendosi
in una lunga catena di cause ed effetti variamente interpretabile, ma suscettibile di analisi
abbastanza precise. E' in definitiva un atto del pensiero, un’intensa applicazione d’energie spirituali
in un certo contesto territoriale, adeguatamente rappresentato dalle freccine colorate tracciate sulle
mappe dei generali e degli storici militari. È perfettamente possibile descriverla e spiegarla senza
parlare neanche una volta di gente che muore. Si parlerà semmai di “perdite”, ma le perdite non
sono cadaveri, sono numeri, così come gli eserciti sono vettori di forze. Il tutto oscilla tra la
matematica e la metafisica, a volte con incursioni nella psicologia. Ci possono essere anche
manifestazioni estetiche, dall’oratoria celebrativa alla poesia epica ai monumenti ai “caduti” (cioè le
“perdite” trasformate in statue, apparentemente senza bisogno di passare attraverso lo stadio di
cadavere). Il pensiero di politici e generali produce energie che determinano mutamenti di valori,
simboli e immagini in un ambito territoriale significativamente descritto come “teatro di guerra”,
dove si svolge una sorta di sacra rappresentazione intensamente mistica, di cui le statue degli “eroi”
(che raramente saranno al di sotto del grado di generale, con la generica eccezione dei “caduti”)
risulteranno infine l’unica durevole concretizzazione.
Poi c’è la guerra come la vedono i combattenti (dal grado di capitano in giù, generalmente); e da
questo punto di vista il fascino della cosa diminuisce drasticamente, mentre cresce la monotonia.
Praticamente nient’altro che fango, sudore, fame, fatica, paura, insonnia, esplosioni, sangue e
cadaveri (tanti, tanti, tanti: ci si vive in mezzo, a volte proprio sopra, sono la presenza più costante e
familiare, e l’unico odore che si ha nelle narici, oltre a quello degli esplosivi e della propria
sporcizia, è il loro). Finché, per qualche ragione che di solito è nota solo dal grado di colonnello in
su, ci si ritira o si avanza, il nemico avanza o si ritira, e finalmente qualcuno viene fuori a dire con
alate parole che la guerra è gloriosamente vinta o gloriosamente perduta, comunque gloriosamente
finita, è dà ufficialmente inizio alla trasformazione alchemica dei cadaveri in perdite, caduti e statue
d’eroi.
Il rischio che si corre in qualunque tentativo di produrre una teoria della guerra è di collaborare a
questo strano procedimento magico-rituale, mistico e mistificante, riconducendo la guerra al
pensiero, allo spirito, alle idee e peggio ancora agli ideali. E' quasi inevitabile: si tratta di
concettualizzare, e già questo ci allontana infinitamente dalle trincee e da quello che per lo più vi si
vede e vi si fa. Dunque, qualunque teoria della guerra parla d’altro e non della guerra, o parla della
guerra riconducendola ad altro. E dunque non la spiega nella sua immediatezza fenomenologica,
nella sua concretezza esistenziale. C’è un abisso tra i cadaveri e i concetti, dunque con i concetti
non solo non si spiegano i cadaveri, ma non se ne percepisce neppure la realtà. La realtà sono le
motivazioni che hanno spinto un sovrano a concludere un’alleanza, i calcoli e le intuizioni grazie a
cui un generale ha predisposto un piano di battaglia, i valori sociali, culturali, religiosi oggetto del
conflitto. Sembra già un’estrema audacia materialistica parlare d’interessi economici, forze
produttive, livello di sviluppo industriale, tecnologia degli armamenti, sebbene anche queste
risultino entità piuttosto metafisiche se considerate a partire dal puzzo di cadavere. Che è
precisamente l’oggetto che una teoria della guerra dovrebbe spiegare, visto che in definitiva la
fenomenologia della guerra è in gran parte fatta di questo: cadaveri parecchio scomposti e poco
belli da vedere.
Per cercare una ragionevole approssimazione alla comprensione di questo dato, ben vistoso
nell’esperienza ma ostinatamente irriducibile a idea, sembra opportuno dunque ricorrere a una
teoria minimale, che si sforzi di restare il più possibile aderente al punto di vista di chi vive tra i
cadaveri, produce cadaveri, è sempre sul punto di trasformarsi in cadavere.
La migliore teoria fenomenologica della guerra mi sembra quella di Elias Canetti, basata sul dato
solo apparentemente banale che “in guerra si tratta di uccidere” 2. L’affermazione è da prendere in
un senso radicale: la guerra serve per uccidere, questo è il suo vero obiettivo, mentre ogni altra cosa
è aspetto secondario o pretesto. La guerra si fonda sulla costruzione di un nemico visto come una
sorta di personificazione collettiva della morte, la cui uccisione rappresenta dunque una liberazione
dalla morte stessa, sia pure al prezzo paradossale della propria accentuata esposizione al rischio di
morire.
@
La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev’essere proclamata come condanna
collettiva perché ci si possa opporre ad essa attivamente. Ci sono, per così dire, dichiarati tempi di
morte durante i quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto arbitrariamente.
‘Ora si va contro tutti i francesi”, oppure “Ora si va contro tutti i tedeschi”. L’entusiasmo con cui gli
uomini accolgono una dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo
dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. È già più facile in due, quando
due nemici eseguono per così dire la reciproca condanna; e non è più affatto la medesima morte
quando migliaia la affrontano insieme. Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra - e cioè
morire insieme, risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto.
Ma essi non pensano nemmeno che quel peggio possa accadere. Vedono la possibilità di allontanare
e di trasferire su altri la condanna che è stata pronunciata contro di loro. Il loro para-morte
[Todableiter] è il nemico, e devono quindi preoccuparsi soltanto di precederlo. Si deve soltanto
essere veloci e non esitare un istante nel somministrare la morte. Il nemico giunge come se fosse
chiamato; egli ha pronunciato la condanna, egli per primo ha detto: “Morite! ”. Ciò che egli ha
rivolto contro gli altri, ricade su di lui3.
@@@
E' evidente che qui non c’è spazio per la comoda illusione consolatoria che gli uomini vadano in
guerra perché minacciati o ingannati dal potere. Costringere gli uomini alla guerra non è mai stato
necessario e non sarebbe neanche possibile, e se c’è un inganno, si tratta di un autoinganno
perfettamente condiviso da chi la guerra la decide e da chi la guerra la fa 4. La funzione del potere in
guerra è un’altra. E' una funzione seduttiva. In guerra il potere si apre, si offre, si rende disponibile a
chiunque partecipi. Nell’allontanare da sé la morte uccidendo, anche l’ultimo dei combattenti
partecipa intensamente all’essenza del potere stesso, in quanto “sopravvivenza” (Uberlebung)5.

2. Il crimine senza nome


Ciò richiede delle condizioni molto precise: non può accadere a capriccio, e neppure a comando.
Occorre un accumulo progressivo di tensione, conflitti e sofferenze, che faccia sentire a una
popolazione (nella guerra moderna, una nazione) di essere esposta a una minaccia di morte
abnorme, angosciante, intollerabile e ingiusta, e l’identificazione di questa minaccia con un nemico
che può essere colpito. Quando queste condizioni si presentano, la guerra è un comportamento
normale, una vera costante storica. Su questa costante, intervengono continuamente delle variabili
d’ogni genere: politiche, economiche, tecnologiche, religiose, culturali.
Nel mondo contemporaneo, in particolare, intervengono due novità d’eccezionale importanza, che
modificano profondamente, e almeno in parte irreversibilmente, la struttura della guerra e il suo
campo di significati.
Anzitutto, l’orrore indicibile delle due guerre mondiali ha inflitto un colpo durissimo alla seduttività
dell’uccidere, imponendo, nella politica e nel diritto internazionali come nell’opinione pubblica, la
criminalizzazione della guerra e l’affermazione della pace come valore: attualmente un luogo
comune persino stantio, ma rispetto al passato anche recente un cambiamento radicale 6.
Un cambiamento ancora più grande e decisivo è l’introduzione dell’arma nucleare, e più in generale
l’estremo sviluppo tecnologico dei mezzi di distruzione, con la prospettiva concretissima
dell’estinzione dell’umanità a causa della guerra. Ciò disarticola completamente il fenomeno della
“sopravvivenza” canettiana, privando la guerra del suo principale fondamento esistenziale, come
pure d’ogni logica politica. Non ci sono sopravvissuti, ma solo morti, non ci sono vincitori, ma solo
vinti7. La guerra nucleare non appartiene tanto al novero delle decisioni umane, ma costituisce una
sorta di trionfo della natura nell’ambito della tecnica. Ritorna potentemente il caso, l’evento
incontrollabile che travalica la volontà, la ragione, la potenza dell’uomo. Può accadere un errore
tecnico, può esservi un atto di follia individuale o collettiva. In tutti i casi, la guerra nucleare
sarebbe un cataclisma, la cui possibilità potrà essere limitata ma non eliminata e graverà su tutto il
futuro prevedibile dell’umanità. Ma non è pensabile che la guerra nucleare possa essere il frutto di
un processo decisionale razionale, legittimo e condiviso. In questo senso, può essere sensato parlare
di una sopraggiunta “impossibilità” della guerra8.
A prima vista, questi cambiamenti sono irrelati tra loro in maniera addirittura assurda. La guerra è
un crimine orrendo: ma proprio nell’epoca e all’interno del processo storico che conduce a
qualificarla come tale, s’innesca consapevolmente e programmaticamente, con un immenso
investimento di risorse, un processo tecnologico volto a renderla ancora più orrenda, fino al
reciproco annientamento degli avversari, anzi fino all’annientamento dell’umanità stessa.
Riflettendo meglio, però, quest’apparente assurdità rivela una coerenza stringente. Se la guerra è un
crimine, che cosa può impedirla più efficacemente, se non strumenti tecnologici che garantiscano
l’impossibilità della sopravvivenza, e dunque disinneschino sul nascere la ragione fondamentale per
cui la guerra si fa: uccidere, nel nemico, la propria morte? Non è certamente un pensiero gradevole,
eppure bisogna constatare che l’effetto deterrente dell’arma nucleare ha perfettamente funzionato
nel conflitto pluridecennale tra Usa e Urss, e con tinua a mostrarsi efficace dovunque potenze legate
tra loro da conflittualità storicamente radicate giungano a dotarsi d’armi atomiche, come nel caso
dell’India e del Pakistan. Con la conseguenza non lieta che esiste una pressione dei fatti a favore
della proliferazione nucleare: accrescendo il rischio del cataclisma finale, si ottiene però la
stabilizzazione di situazioni conflittuali che hanno già portato, e verosimilmente porterebbero
ancora, a guerre sanguinose.
L’“impossibilità” della guerra nucleare si riverbera dunque sulla guerra in generale. Non certo
perché ne implichi la fine, il trionfo della pace universale, ma perché ne implica una trasformazione
radicale: nella struttura e nel nome stesso. La guerra “impossibile” è una guerra innominabile. Ogni
sforzo deve essere compiuto per poterla chiamare diversamente. Ma una guerra non nominabile
come tale, è davvero una guerra radicalmente diversa.

3. Fine della guerra e fine della sovranità


Tra i principali esiti storici di questo cambiamento, dobbiamo anzitutto annoverare l’effettiva
sparizione della guerra tra grandi potenze, e anche la vistosa rarefazione delle guerre tra Stati
sovrani. Per due motivi evidenti: perché chi iniziasse una guerra sarebbe un criminale per la
comunità internazionale (e pure per una buona parte dei propri cittadini), e perché tutte le grandi
potenze sono dotate d’armamento nucleare e quasi tutti gli Stati sono alleati o protettorati de facto
(in alcuni casi non sarebbe eccessivo parlare di colonie) di potenze nucleari, e dunque il rischio
della distruzione totale sarebbe troppo forte.
Questo non significa che la guerra non si fa più: significa che la si fa in altro modo e con altri nomi.
Con strumenti economici, commerciali, valutari, persino sportivi (le Olimpiadi sono guerre
mondiali simboliche)9. Con la stessa corsa agli armamenti, che produce vincitori e vinti senza che
gli armamenti debbano essere usati (è esemplare il caso degli “euromissili”, il cui schieramento
bastò da solo ad eliminare l'unico vantaggio strategico dell’Unione Sovietica sugli Stati Uniti,
contribuendo fortemente alla sua crisi finale). Con la propaganda. Con i servizi segreti e vari tipi
d’operazioni occulte (compresi omicidi e stragi). Con l’interposizione di Stati minori, i cui conflitti,
guidati e controllati, se non provocati, dalle grandi potenze, consentono loro di combattersi in
maniera indiretta e con rischio limitato. Con l’interposizione di movimenti rivoluzionari o
controrivoluzionari, e rispettive guerriglie.
Quando poi le grandi potenze ritengono di dover intervenire direttamente e con le proprie regolari
forze armate, allora la guerra cambia nome. Si tratta di proteggere un alleato da un’ingiusta
aggressione. O di difendere un governo legittimo contro insorti o ribelli criminali. O di aiutare una
giusta rivoluzione contro un governo tirannico. O di sedare un conflitto portando con le armi pace e
speranza. O di proteggere con le armi interventi umanitari. O di esportare la democrazia, ecc.
Ciò ha un presupposto tutt’altro che tacito: la negazione della sovranità degli Stati che non siano
grandi potenze, e dunque il sostanziale rifiuto della qualifica di Stato al proprio avversario, se
questo non è potenza nucleare. Con ciò, la guerra è deinternazionalizzata. Diventa una questione
interna della grande potenza coinvolta, precisamente una questione di polizia (nel senso ampio e
classico del termine). In proposito, non ci sono state significative differenze tra la “dottrina
Breznev” e la “dottrina Bush”. Tutto ciò che, dal punto di vista di una superpotenza, minaccia i
fondamenti del suo ordine ne giustifica l’intervento, dovunque tale minaccia si verifichi.
L’avversario non ha mai la natura di justus hostis, anzi non ha in generale lo status di nemico: non
ci possono essere nemici, perché la guerra come tale non si può fare. Estremamente rivelatrice è in
proposito la completa scomparsa di un istituto plurimillenario del diritto delle genti, la dichiarazione
di guerra. La guerra è criminale, dunque dichiararla è riconoscersi autori di un crimine. Dunque
deve essere criminale l’avversario, per poterlo combattere senza dichiarargli guerra. Ma allora
bisogna anche disconoscerlo completamente come soggetto politico, e questo equivale ad attribuirsi
una sovranità universale, tale da poter decidere sulla soggettività politica di chiunque altro.
Una parvenza d’internazionalità è stata mantenuta finché sussisteva una pluralità di superpotenze,
con la divisione del mondo in due blocchi. Essendo rimasta una sola superpotenza militare, e finché
le altre grandi potenze, segnatamente l’Unione Europea, ma anche la Cina e il Giappone, saranno
tali solo sotto il profilo economico, questa parvenza non può che scomparire, arrivando così alla
teoria, e alla prassi, della guerra preventiva, a cui è vano contrapporre un’ottica internazionalistica
superata dai fatti. La teoria della guerra preventiva presuppone proprio che il diritto internazionale
non ci sia più, e non ci siano più neppure Stati sovrani, tranne uno solo, che possedendo una
legittima sovranità, diretta o indiretta, sul mondo intero, può e deve usare la forza contro chiunque
turbi l’ordine mondiale in quanto ordine interno dell’unico vero Stato. E' questa, ci piaccia o no, la
situazione attuale: la guerra impossibile porta con sé l'impossibilità degli Stati 10. E non resta altra
alternativa se non quella tra un governo mondiale (chiaramente utopico) e la legge del più forte, per
quanto benintenzionato questi possa essere, che è la situazione per ora reale.

4. Bombe intelligenti e martiri folli


Tutto questo ha un rapporto molto complesso col terrorismo: lo si potrebbe definire un rapporto di
reciproca implicazione.
Da una parte, il terrorismo costituisce la legittimazione principale del monopolio su scala mondiale
della forza: il mondo intero deve essere protetto dalla minaccia d’organizzazioni fanatiche e
criminali, Tunica superpotenza rimasta è la sola in grado di farlo, dunque deve farlo e ha il diritto di
farlo. Tutto questo può essere usato in talune circostanze come consapevole strumento
propagandistico e manipolatorio, ma è essenziale comprendere che nella sostanza corrisponde a una
convinzione perfettamente sincera di possedere una missione storica indiscutibile ed ineludibile.
Dall’altra parte, bordine mondiale attualmente consolidato (e forse alla vigilia di cambiamenti
radicali, ancora però non manifesti) delegittima in partenza ogni identità e ogni storia che non siano
radicate nel libero mercato, nella democrazia parlamentare, nei valori della tecnica, nella cultura
anglosasso ne e nella lingua inglese. Questo determina, in tutti i portatori d’identità altre, la
sensazione angosciosa di stare subendo un processo d’esclusione dal mondo, e la convinzione di
avere il diritto e il dovere (anche religioso) di resistervi ad ogni costo.
Questa contrapposizione non è riconducibile alla tradizionale guerra tra Stati: non solo perché
troppo grande sarebbe la sproporzione di forze e le probabilità di vittoria sarebbero inesistenti, ma
anche perché il fatto stesso di muovere guerra in quanto Stato qualificherebbe come aggressori e
confermerebbe il punto di vista dell’avversario11. Per molto tempo, la resistenza alla
globalizzazione unilaterale ha potuto esprimersi efficace mente sotto forma di movimenti
rivoluzionari di stampo più o meno vagamente “marxista” 12. I loro successi militari e politici non
sono però stati in grado di costruire alternative sostenibili, sfociando quasi sempre in fallimenti
economici e molto spesso in tirannidi atroci e tragicomiche 13. Nella mancanza di reali alternative
politico-culturali, non resta quindi che la disperazione: la disperazione come forza, come arma. E'
una disperazione identitaria, non una disperazione economica: non si tratta per niente di poveri che
lottano contro i ricchi, ma di diversi che lottano per non diventare uguali. I poveri non lottano
contro i ricchi, muoiono e basta.
Che la diversità irriducibile si chiami, per lo più, Islam, non deve fuorviare. Non è questione di
religione: è perfettamente possibile, ed anzi esiste di fatto, un Islam del tutto compatibile con i
“valori occidentali” e lo stile occidentale di vita. Anzi, la civiltà islamica stessa ha contribuito in una
misura rilevante e misconosciuta a creare quell’entità piuttosto vaga che chiamiamo Occidente,
nelle grandi come nelle piccole cose, dal principio di tolleranza religiosa, che per l’Islam è
originario e costitutivo, all’uso di bere caffè14.
“Islam”, in questo caso, non è un universo religioso (troppo antico, ampio e multiforme per
prestarsi a riduzioni fanatiche), ma un simbolo identitario che evoca tantissime cose, in buona parte
estranee alla religione come tale: tradizioni tribali e abitudini quotidiane, modi di vestire, di parlare,
di mangiare, di vivere, di morire, rapporti tra adulti e giovani e tra uomini e donne, versi d’antichi
poeti e maledizioni di moderni mullah, notti stellate sui deserti o sulle montagne, nostalgia
struggente di quando si era a casa propria in un proprio mondo, che naturalmente, come tutti i
mondi sognati, non è mai veramente esistito, eppure sembra l’unico in cui si può esistere. Ci sono
ottimi motivi per rimproverare ai mussulmani di essere rimasti estranei al processo mondiale di
modernizzazione: moltissimi tra i mussulmani stessi lo fanno15. E non è certo corretto imputare solo
a oppressioni e prevaricazioni straniere quello che è in gran parte frutto di una crisi interna durata
per secoli. Questo però non attenua in nulla il trauma di trovarsi esposti a un processo di
modernizzazione che, nelle forme in cui si presenta, appare neo-coloniale, abusivo e profanante 16.
Quando poi, per estirpare il terrorismo, l’unica superpotenza del mondo globalizzato usa le sue armi
“intelligenti”, naturalmente il terrorismo esplode17. E, per uguagliare la potenza di quelle armi, deve
essere estremo, deve essere feroce, deve essere folle, deve essere autodistruttivo, in un circolo
sfrenato di morte, in cui bombe intelligenti e martiri folli si rincorrono senza fine.

5. Il ritorno del sopravvissuto


Ciò ha un’implicazione ancora più terribile: in questo modo si apre la possibilità di tornare a
uccidere, dopo che le guerre mondiali e l’arma atomica avevano impedito di continuare a farlo nella
maniera tradizionale. Ma, a questo punto, si tratta davvero solo di uccidere, senza obiettivi
sostitutivi, senza simbolizzazioni mitigatrici, senza la possibilità d’identificare una comune ragion
politica che ponga all’uccidere dei limiti e dunque anche una fine.
Con i terroristi non si tratta, in nessun possibile senso. Proprio non li si tratta: non come
interlocutori, non come prigionieri di guerra, neppure propriamente come nemici o criminali. Non
sono uomini, vanno semplicemente uccisi, o quanto meno ingabbiati come belve (non imprigionati:
Guantanamo non è un campo di detenzione, è uno zoo). E neanche i terroristi vogliono
propriamente trattare (se non come momentaneo espediente tattico), perché col loro avversario non
vogliono in nessun modo convivere: è proprio per evitare questa convivenza che combattono.
Vogliono ucciderlo, l’avversario, vogliono cancellarlo dal mondo, quanto meno dalla loro parte di
mondo. E non c’è soluzione, e non c’è fine, e se la tecnica metterà a disposizione mezzi ancor più
distruttivi, siano bombe ancor più intelligenti e “chirurgiche” o atomiche “sporche”, questo mezzo
verrà usato.
Anche in questo caso però, purtroppo in tutt’altro senso, si tratterebbe pur sempre di guerra
“impossibile”. Sarebbe una guerra tendenzialmente d’annientamento, senza però la possibilità
tecnica di portare l’annientamento a termine. La sola cosa da cui un movimento terroristico può
essere distrutto è il venir meno del consenso, e quindi delle capacità di finanziamento c
reclutamento: finché tali possibilità sussistono, eliminare terroristi, pochi o molti che siano, non
sposta nulla, tanto più che in questo caso l’avversario non cerca neppure la sopravvivenza. Questa è
sostituita da una rappresentazione escatologica o da una proiezione identitaria di un’intensità per
noi ignota e incomprensibile, che riusciamo solo a definire “fanatismo”. Se morire è martirio, e dà
inizio ad un’altra vita, nell’al di là o nell’identificazione estrema con il proprio popolo, la
“sopravvivenza” è comunque garantita: è una condizione analoga all’invulnerabilità, e il pensiero
più agghiacciante è che partendo da simili rappresentazioni sarebbe possibile scatenare, avendone le
capacità tecniche, anche la guerra nucleare. Dall’altra parte, però, per quanto grandi s’immaginino
le forze distruttive a disposizione di un movimento terrorista, queste non potrebbero mai portare alla
disfatta militare di una superpotenza. Anche qui, soltanto una crisi identitaria potrebbe innescare
una sconfitta risolutiva, e ciò è altamente improbabile, e sarebbe reso ancor più improbabile
dall’intensità stessa della minaccia terroristica. Una superpotenza non rinuncia a se stessa e al
proprio ruolo storico per qualche migliaio di morti: subire duri colpi la indurrà soltanto a risposte
sempre più dure, ed anche in questo caso il ricorso all’arma nucleare, per stroncare il terrore con un
terrore senza eguali, sarebbe un’opzione tutt’altro che impossibile.
In una simile logica, nell’ipotesi più ottimistica, la guerra potrebbe cessare solo per pura e semplice
stanchezza, per sazietà e nausea dell’uccidere e dell’essere uccisi. E certo, prima o poi
l’esaurimento psicofisico dei contendenti porterebbe ad una qualche forma di pace. L’umanità è
stanca di guerra ormai da più di un secolo, e l’entusiasmo per la guerra è sempre meno convinto e
convincente ed ha sempre di più il sapore dell’idiozia. La guerra (terroristica) al terrorismo potrebbe
davvero essere l’ultima, prima che a Marte cada di mano la spada. Ma in quanto tempo, a quale
prezzo, con quali possibilità residue di un futuro accettabile?

6. Uscire dal mondo, verso il mondo


Se ne può uscire? In teoria sì, ma in un solo modo: appunto uscendone. Rifiutando la logica dello
schierarsi con una delle due identità, ugualmente esclusive perché entrambe, pur in modo diverso,
prevaricanti e omologatrici. Rifiutando la logica dell’unicità (sia quella dell’Unica Vera Fede che
quella dell’Unica Vera Democrazia o dell’Unico Vero Mercato), attenendosi a quella, non utopica,
ma reale, esistente, delle pluralità indefinite e agglutinantisi, delle identità mobili e aperte, delle
convivenze proposte e non imposte, dei vincoli laschi ed elastici, delle mille possibilità di
incontrarsi e di dividersi, cambiandosi reciprocamente un poco ad ogni incontro.
Il nostro modo di concepire la globalizzazione è ancora sorprendentemente provinciale. Ci
comportiamo come se dipendesse da noi, come se noi l’avessimo decisa, come se si trattasse né più
né meno della nostra conquista del mondo. Tutto il mondo diventa come noi, dobbiamo solo
aspettarlo fermi dove già siamo. E invece no, è proprio il contrario, è il mondo che ci conquista, che
ci travolge in un processo in cui abbiamo un ruolo, ma che non siamo in grado di signoreggiare. La
nostra cultura è una cultura, il nostro liberalismo e la nostra democrazia non sono il terreno neutro e
universalistico in cui l’incontro tra le culture riceve regola e forma secondo principi in sé giusti, ma
sono precisamente una delle forze che s’incontrano in uno spazio che non è il nostro e deve prima di
tutto essere creato. E' indispensabile fare lo sforzo di capire che il nostro attuale atteggiarci verso la
globalizzazione sembra neocolonialistico a tutto il resto del mondo: semplicemente una nuova
versione del “fardello dell’uomo bianco”, con l’aggravante dell’umanitarismo ipocrita e del finto
universalismo. Quando dicevamo di voler civilizzare i selvaggi, in fondo, eravamo più onesti.
Il fatto che siamo una delle componenti della globalizzazione, e non la meta predestinata di questa,
non significa che siamo la componente peggiore, né che dobbiamo lasciarci assorbire senza residui.
Ci sono valori, risorse, stili di vita, a cui non potremmo rinunciare senza sentire di non essere più
noi stessi, e questo nessuno ha il diritto di pretenderlo da noi; e d’altra parte, anche chi ci odia e ci
combatte non può fare a meno di assomigliarci. Non c’è movimento di liberazione o rivoluzione del
Terzo Mondo che non abbia introdotto elementi di “modernizzazione” di stampo occidentale, e il
marxismo stesso (il “marxismo” terzomondista, di cui Marx nulla sapeva) lo ha fatto in grado
eminente. Ma bisogna proporsi e lasciarsi scegliere, non imporsi. E non tutto è proponibile.
Possiamo proporre all’Islam di “laicizzarsi”, quando il problema è proprio l’opposto, che è talmente
“laico”, fin dalla sua origine, che non potrebbe mai accettare di “non essere di questo mondo”, o di
essere un atteggiamento interiore senza conseguenze pratiche, come gran parte di ciò che oggi
chiamiamo cristianesimo? Possiamo pretendere l’individualismo da chi non ha neanche una parola
per dire individuo, e che se capisse cos’è potrebbe solo ritenerlo una mostruosità inaudita?
Possiamo e dobbiamo imporre rischio e competizione a culture della solidarietà e della reciprocità?
Possiamo sostenere che i “valori occidentali” richiedono che gli interessi economici delle società
farmaceuti che abbiano la prevalenza sulle vite dei malati, perché curare i malati ha senso solo in
quanto produce profitti e se non ne produce abbastanza se ne può fare a meno? Possiamo aspettarci
che il mondo esulti e tripudi di fronte all’idea di non essere null’altro se non un immenso mercato?
Purtroppo per noi (ma forse, alla fine, per nostra immeritata fortuna) il mondo è assai più
complicato di così. Dovremo avere molta pazienza, ed anche molta modestia e molta disponibilità a
imparare. Lungo la via della globalizzazione, incontreremo molti che ci diranno che il mondo è di
Dio, e non potremo accontentarci di dirgli che sono liberissimi di pensarlo, perché tanto non è
quello il punto, bensì il mercato. Una simile idea comporta, infatti, proprio l’impossibilità di
accontentarsi di uno spazio interiore, comporta il volere il mondo per Dio. Proporre il mercato non
basterà, bisognerà aggiungere qualcosa. E molti, molti, molti, ci diranno che non si sentono per
nulla esaltati dall’idea d’essere produttori e consumatori in un mondo di merci. Bisognerà proporgli
qualcosa di più intelligente delle bombe.
Il fatto che attualmente la globalizzazione abbia assunto una dimensione conquistatrice e guerriera
certamente non aiuta. Senza rinunciare a giuste e ragionevoli procedure di difesa, bisogna invertire
questa logica. Non per idealismo e moralità, ma semplicemente perché non si fa nessuna
globalizzazione mettendosi contro il mondo, e perché un’altra cosa che con le baionette è
impossibile fare, oltre che sedercisi sopra, è dialogare. Sarebbe augurabile avere un nemico
all’altezza (e purtroppo non se ne vede traccia), perché un buon nemico è un grande educatore. Alza
il livello dello scontro, chiama a esprimere il meglio delle nostre possibilità, e questo porta infine a
non accontentarsi della forza bruta. Un buon nemico, un grande nemico, riesce a presentarcisi con
un volto che non è quello della Morte, ma quello del mutamento che porta vita nuova.
Gandhi ha distrutto l’impero britannico, ma non con le armi: non ci sarebbe mai riuscito. Una
semplice rivolta gli inglesi l’avrebbero domata, come fecero a metà Ottocento con quella dei
Cipays. Ma per venire a capo del movimento di Gandhi, avrebbero dovuto fare strage d’inermi.
Avrebbero cioè dovuto tradire se stessi, rinunciare a qualunque rispetto e orgoglio di sé, alla loro
identità di grande democrazia appena emersa vittoriosa dalla lotta contro il totalitarismo. E' meglio
perdere un impero che perdere se stessi: in questo Gandhi capiva il suo nemico, perché lo rispettava.
Non avrebbe mai potuto vincere contro Hitler. Contro gli inglesi sì, perché li poneva di fronte alla
scelta se essere se stessi o essere come Hitler. Di fronte a una simile scelta, la sconfitta è la sola
vittoria possibile. Così l’impero britannico è caduto, ma è caduto in un certo modo, lasciandosi
dietro kilt e cornamuse dal Pakistan fino a Hong Kong: che non è solo folklore un po’ ridicolo, ma il
segno di un legame profondo che il conflitto non ha interrotto, e da cui effettivamente è nato, in
molte piccole cose, ma forse anche in alcune grandi, uno spazio comune.
E' un modo molto imperiale di por fine ad un impero, questo, e potrebbe essere un buon modello
per il compito che abbiamo davanti. Perché la logica della globalizzazione è abbastanza simile a
quella di un impero, ma senza imperialismo, senza prevaricazioni, senza imposizioni, senza
coercizioni identitarie, senza scambi di morte. Tutto sommato, l’attuale conflitto è solo una lotta tra
opposti provincialismi.
Varrebbe la pena di rifletterci: dalla pax romana alla pax britannica all’Unione Europea (per quello
che vale, e vale sicura mente più di quanto pensino i perfezionisti), gli imperi, nel le loro strutture
profonde e storicamente durevoli, non sono opera dei conquistatori e dei profeti (anche se quasi
sempre conquista o profezia ne saranno l’origine ufficialmente riconosciuta), ma dei mercanti, degli
opportunisti, dei curiosi, dei trasgressivi, degli avventurosi, dei devianti, della gente con poca
identità e poco onore, dei mediatori di qualsiasi tipo. Per questo, se non vogliamo la guerra,
dobbiamo definitivamente smetterla di pensarci come conquistatori o liberatori del mon do, e
pensarci piuttosto come viaggiatori che, per arrivare in un mondo nuovo, debbono prima di tutto
accettare di lasciarsi alle spalle quello che ora è riconosciuto come mondo: accettare che non ci sia
continuità, che non ci sia ritorno. Il mondo futuro, se ci sarà, sarà nuovo anche per noi.

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1. Originariamente pubblicato in “La società degli individui”, n. 1, 2005.
2. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 80.
3. Ivi, pp. 86-7.
4. Cfr. supra, cap. VI.
5. Cfr. E. Canetti; Massa e potere, cit., sp. pp. 273-5.
6. Coglie perfettamente questo punto, com’è noto, C. Schmitt, che peraltro non vi scorge affatto un
progresso, ma una grave decadenza rispetto alla regolamentazione mitigatrice della guerra (che ne
implica peraltro la piena legittimazione giuridica) nello jus publicum europaeum. Cfr. C. Schmitt, Il
nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, cit., pp. 335-67.
7. Sono d’estremo interesse a questo proposito le geniali intuizioni, in piena guerra fredda, di E.
Canetti. Cfr. Massa e potere, cit., pp. 569-71.
8. Cfr. supra, cap. VI.
9. Sulla valenza “bellica” dello sport, cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 567.
10. Cfr. supra, cap. II.
11. Si potrebbe sostenere che l’errore fondamentale di Saddam Hussein, quello che l’ha perduto, sia
stato l'essersi illuso di poter agire ancora come un capo di Stato vecchio stile, e di poter quindi
essere guerriero, conquistatore ed eroe. Di tiranni simili a lui o di lui peggiori ce ne sono tanti: non
questo lo ha portato alla rovina, ma piuttosto il suo atavismo politico, il suo sogno di poter essere un
nuovo sultano o un nuovo califfo, mentre avrebbe dovuti» accontentarsi di essere un condottiero
mercenario posto a capo di un pro tettorato euro-americano. Abbastanza simile sembra la situazione
attuale di Gheddafi (luglio 2011), il cui atavismo peraltro sembra più solido e più fortemente
condiviso almeno da una parte consistente del suo popolo.
12. Molto ci sarebbe da dire sul “marxismo” come strumento di rivendicazioni nazionalistiche e
identitarie nei cui confronti un globalizzatore ante litteram come Marx avrebbe nutrito la massima
incomprensione e il più totale disprezzo. Purtroppo l’equivoco è difficile da demolire, nonostante la
sua intrinseca inconsistenza, perché per decenni vi hanno fatto leva sia i sedicenti marxisti, sia i loro
avversari, sino all’assurdo di considerare “marxista” un Pol Pot o un Kim Il Sung.
13. Il caso cinese è tutto particolare e sfugge alle categorie consolidate dell’analisi politica. Più che
applicare un concetto generico e poco coerente come “capitalismo di Stato”, sarebbe forse più utile
pensare ad una lenta e graduale riplasmazione del marxismo secondo categorie cinesi, già iniziata
dallo stesso Mao Zedong, tale da sfociare alla fine in una “modernizzazione” e quindi in una
reviviscenza di quelle stesse categorie: sostanzialmente, in un neo-confucianesimo tanto
efficientista quanto autoritario.
14. E' urgente comprendere finalmente che l’Islam è un fenomeno storicoculturale perfettamente
interno all’Occidente, sotto qualsiasi possibile punto di vista (compreso quello strettamente
geografico: il Marocco è più a ovest di qualsiasi paese europeo). Ha in comune con l’Occidente
cristiano tutte le radici principali, dal monoteismo d’origine ebraica alla filosofia greca ai
fondamenti delle scienze: non è affatto, né è mai stato, una civiltà “altra”, tanto meno una civiltà
“orientale”.
Non è questo il luogo per parlarne, ma non è lecito trascurare che l’Islam si colloca, fin dal testo
coranico, esplicitamente all’interno di un processo storico di rivelazione di cui sono parte autentica
e legittima tutte le religioni monoteistiche, e non contrasta con ciò il fatto che si attribuisca in
quest’ambito un ruolo privilegiato. Si consideri solo un dato elementare: per i cristiani Maometto è
il fondatore di una falsa religione, mentre per i mussulmani Gesù è il più grande profeta prima di
Maometto.
15. Per un punto di vista islamico, autorevole e sofferto, su questi problemi, cfr. K. F. Allam, L'
Islam globale, Rizzoli, Milano 2002, e Lettera a un kamikaze, Rizzoli, Milano 2004. Oggi sembra
proprio che questo gap storico si avvìi ad essere colmato: anche se le rivoluzioni in corso dovessero
fallire, qualcosa di molto importante sarà cambiato per sempre.
16. È questo un punto decisivo e molto difficile da superare: nell’ottica islamica, la
modernizzazione weberianamente intesa come “disincantamento del mondo” appare radicalmente
inaccettabile: il regno di Dio per l’Islam è di questo mondo, e non c’è spazio per quella limitazione
della religione alla sfera interiore che per il cristianesimo corrisponde in buona misura a una
vocazione originaria. Nell’ottica islamica, è di fatto irrinunciabile una risacralizzazione della
modernità. Cosa che però non esclude per nulla la prospettiva della modernizzazione.
17. Si potrebbe discutere all’infinito su chi è, qui, l’aggressore, e su qual è l’esatta differenza tra
resistenza e terrorismo. Ma non bisognerebbe mai perdere di vista almeno due cose: che ognuna
delle parti in causa ha buoni argomenti per accusare l’altra d’aggressione, e che si spinge ogni
forma di resistenza verso il terrorismo quando non la si accetta come interlocutore.
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CAPITOLO VIII. La guerra indicibile e il terrore1


SOMMARIO: 1. La criminalizzazione della guerra e la fine dello Stato - 2. “Impossibilità” della guerra -
3. La pace sotto la Bomba - 4. La Bomba e i kamikaze - 5. Giganti impotenti e nani feroci - 6.
L’incubo e la speranza.

1. La criminalizzazione della guerra e la fine dello Stato


Nessun tentativo di riflessione sulla guerra nel mondo contemporaneo può prescindere dal dato che
i due conflitti mondiali hanno cambiato irreversibilmente la struttura stessa del fenomeno. Ciò sotto
due profili, strettamente collegati tra loro.
In primo luogo, il livello di distruttività delle nuove tecnologie belliche ha fatto saltare tutte le
precedenti categorizzazioni della guerra, qualificandola come atto intrinsecamente criminale non
più suscettibile di alcuna legittimazione giuridica e morale, non più rapportabile alle forme di etica
ed estetica della morte comunemente accettate in precedenza. Le trincee del ‘14-48 sono state un
vero e proprio campo di reciproco sterminio, con la stessa mostruosità e in gran parte le stesse
tecniche di Auschwitz. La carne umana illimitatamente esposta ai gas, al filo spinato, alle
mitragliatrici, non è più altro che carne da macello offerta in alimento a un Moloc che non ha nulla
di razionale, che non segue una logica politico-giuridica, per quanto violenta e cinica la si voglia
immaginare. Sebbene oscenamente ipocrita, la criminalizzazione dei vinti operata dai vincitori al
termine della prima guerra mondiale esprimeva un dato indubitabile, c cioè che i responsabili di
simili distruzioni non potevano più essere qualificati come iusti hostes. La cosa certo era a senso
unico, dunque sotto questo profilo eticamente inaccettabile; però mostrava una consapevolezza
rispetto alla quale il tentativo di un Carl Schmitt di “salvare” giuridicamente la guerra dopo la prima
- e persino dopo la seconda - guerra mondiale appare caratterizzato da una sorta di perversa
ottusità2. Con la seconda guerra mondiale, la criminalizzazione dei vinti, malgrado il perdurare
dell’ipocrisia dei vincitori, è divenuta addirittura una delle basi etico-politiche del mondo
contemporaneo: siamo tutti figli di Norimberga.
In secondo luogo, l’apparizione dell’arma nucleare non ha comportato solo un ulteriore immane
aumento della distrutti vita bellica, ma ha determinato una svolta radicale riguardo alla natura stessa
del genere umano. L’uomo è diventato l’unico essere vivente che possa suicidarsi come specie, e
con ciò ha smesso per sempre e senza rimedio di essere una componente del mondo naturale,
entrando in una sorta di preternaturalità che potrebbe essere vista come una soprannaturalità
pervertita3.
Siamo, di fatto, oggi, dei demoni. E la speranza che possiamo diventare dèi o angeli è assai scarsa,
sebbene ormai non esista più, alla lettera, altra via d’uscita concepibile.
S’intende che un evento che cambia la natura della specie cambia, a maggior ragione, le forme
dell’umana convivenza. Lo Stato come lo conoscevamo non esiste più, sebbene i giuristi,
conservatori oggi, per certi versi, più di quanto lo siano mai stati, solitamente rifiutino di prenderne
atto. Certo, possiamo coltivare quanto ci pare la fictio iuris che San Marino sia uno Stato sovrano
esattamente come gli USA, ma questo non può velare l’evidenza fattuale che San Marino è un parco
a tema4 in provincia di Rimini, lontano mille miglia dalla forma-Stato, mentre gli USA ne sono
altrettanto lontani in ben altra direzione, essendo i massimi depositari del potere autodistruttivo
dell’umanità, e perciò - non in maniera esclusiva ma in maniera assolutamente preponderante - i
signori del mondo: non solo molto più di uno Stato, ma addirittura molto più di un impero come
eravamo abituati a intenderlo5.
Sia chiaro che non è questione di estensione territoriale. L’isola di Malta, nel 1565, ha potuto
resistere vittoriosamente a un assedio turco di dimensioni imponenti: non solo era uno Stato, ma era
una media potenza marittima con ambizioni egemoniche su scala locale del tutto sostenibili 6. La
minuscola città-Stato di Ragusa ha potuto resistere, al riparo delle sue mura e dei suoi cannoni oltre
che dei tributi saggiamente pagati ai turchi per secoli, fino a Napoleone, durando qualche anno più
di Venezia: era veramente uno Stato7. Ma oggi non soltanto le mura e i cannoni servono giusto per
le cartoline dei turisti: anche centinaia di carri armati e decine di cacciabombardieri non sono che
giocattoli da parata, per chi non ha la Bomba. E chiunque non abbia la Bomba dipende, per la sua
sopravvivenza, dal benvolere altrui: situazione tecnicamente definibile solo come protettorato. Non
ci sono più veri Stati al mondo, ma solo finti Stati da cartolina, protettorati e superpotenze nucleari:
un concetto nuovo quest’ultimo, perché in qualche modo si è pur dovuto prendere atto che parlare
di Stati, oggi, o è troppo o è troppo poco8.

2. “Impossibilità” della guerra


Ne consegue che la guerra come tale è diventata “impossibile” 9. A livello di finti Stati, la cosa è sin
troppo ovvia: al di sotto di certe dimensioni gli eserciti sono monumenti del passato, resti
archeologici viventi, figuranti in costume che recitano uno spettacolo un po’ patetico per turisti di
bocca buona (e questo anche parecchio più su del livello San Marino). Se parliamo degli Stati
“veri” come sono oggi, cioè di protettorati, la guerra può avvenire solo su autorizzazione o delega
(o per assoluto disinteresse) della potenza protettrice, e quindi non sarà comunque espressione di
sovranità: tanto più che esiste un oligopolio internazionale delle armi che renderebbe difficile se
non impossibile l’approvvigionamento a chi non agisca all’interno dell’ordine mondiale dato
(anzitutto sotto il profilo economico). La guerra come esercizio di sovranità, a questo livello, è
morta e sepolta10. Riguardo alle superpotenze nucleari, poi, la guerra è evidentemente da escludere,
perché il rischio di perdere il controllo della situazione e di arrivare ad un punto in cui o si usa
l’atomica o ci si riconosce sconfitti è tremendamente reale. Le guerre tra superpotenze si fanno,
beninteso, ma sono guerre economiche, diplomatiche, simboliche (per esempio competizioni
sportive), oppure guerre per interposti clientes11. A tutti i livelli, inoltre, agisce la fondamentale e
universale criminalizzazione della guerra, per cui nessuno Stato può riconoscere che la sta facendo
o che la vuole fare - perché si auto-qualificherebbe come aggressore, e perciò come autore di un
crimine - e se la fa deve negare di farla, sostenendo che si tratta di legittime operazioni di
autodifesa, d’interventi umanitari, di operazioni di polizia a tutela dell’ordine internazionale. La
fantasia diplomatica è notevolmente vasta a questo proposito.
Di guerra si parla apertamente, non a caso, solo quando l’avversario è talmente criminalizzato in
partenza da dare alla cosa un intenso sapore morale: si può, si deve, fare guerra al male, al
terrorismo, alla tirannide. Estremamente interessante, a questo proposito, la delineazione di
un’inedita categoria di “Stati canaglia” (rough States), a cui evidentemente non si riconosce
sovranità e nei cui confronti ci si ritiene liberi di fare qualsiasi cosa (o almeno di dire qualsiasi
cosa). In nessun caso si afferma di fare la guerra a una nazione, a un popolo; anzi, s’invade e si
bombarda sempre per il bene degli invasi e bombardati, che avranno in ricompensa libertà e
democrazia. Va da sé che la dichiarazione di guerra è completamente scomparsa: un’istituzione
plurimillenaria di diritto delle genti, risalente quanto meno all’Età del Ferro, è stata del tutto
estirpata senza che la cosa abbia suscitato opposizione, e neanche particolare meraviglia.
Fatta la debita tara della nauseante ipocrisia di tutto ciò, resta che il cambiamento è reale ed enorme.
E comprende almeno i seguenti punti fermi: a) l’assunzione della guerra come valore in sé (che ha
dominato dalla protostoria al " 14-" 18 compreso) è ormai del tutto impossibile 12; b) la stessa parola
"guerra” è diventata un nomen criminis che non deve essere usato se non in senso generico e
astratto o in sede storica, e mai per designare ciò che il proprio Stato sta effettivamente facendo (se
non in contesti del tipo ""guerra al terrore”); ma allora, c) la guerra si fa davvero in maniera diversa
rispetto al passato: deve durare poco, deve costare poco, deve fare poche vittime (almeno tra i
""nostri”, dei ""loro” non importa), non dev’essere troppo appariscente, non può essere troppo a
lungo la prima notizia del telegiornale. Se va male, bisogna chiuderla alla svelta in qualche modo, e
il vantaggio di una guerra ""indicibile” è che la si può anche perdere senza riconoscerlo: se non c’è
guerra non c’è sconfitta. Ma il punto fermo di gran lunga più importante è: d) niente guerra tra
potenze nucleari, perché nessuno ha dubbi sul fatto che si perde comunque. Qui il non-detto non
basta, ci vuole proprio il non-fatto, anche per quanto riguarda la guerra ""convenzionale”. Ci si
potrà andare più o meno vicino: minacciarla (sempre secondo la retorica dell’indicibilità,
naturalmente, a maggior ragione in questo caso), prepararla, farla fare a un proprio cliente contro un
cliente dell’avversario, finanziare qualche movimento guerrigliero rivoluzionario o separatista, ecc.
Ma il tabù supremo non dev’essere mai violato.

3. La pace sotto la Bomba


A questo punto, però, la Bomba è diventata il vero e proprio fondamento dell’ordine internazionale,
e persino l’unico strumento per assicurare qualcosa che, essendo una non-guerra, è più o meno una
pace. Non l’Onu: la Bomba, ed è chiaro che senza la Bomba anche l’Onu avrebbe fatto la stessa fine
ingloriosa della Società delle Nazioni.
Questo però la rende spaventosamente necessaria. E' impensabile che chi ce l’ha se ne privi, perché
questo lo declasserebbe da superpotenza a protettorato, e creerebbe anche reali rischi per la
sicurezza (col consenso delle superpotenze rimaste tali, si potrebbe essere candidati a subire il
prossimo “intervento umanitario”). C’è una fortissima convenienza ad averla, perché si passa al
grado superiore, si acquista l’unica forma di sovranità che oggi sopravviva, ci si libera dalla
dipendenza dal benvolere altrui, e questo può essere l’unico modo di sopravvivere per governi che
non possono o non vogliono appoggiarsi a una potenza protettrice e sono quindi per questo solo
fatto esposti a un intervento umanitario concentrico (com’è accaduto alla Serbia e alla Libia di
Gheddafi, come l’Iran e altri non vogliono - e francamente non si capisce perché ciò sarebbe folle e
irrazionale come quasi sempre si dice - che accada anche a loro).
Una facile previsione, a questo punto, è che il mondo futuro sarà fatto tutto di potenze nucleari, o di
confederazioni di Stati alcuni dei quali sono potenze nucleari (tale si può considerare l’Unione
europea) - più un buon numero di piccole o grandi Repubbliche di San Marino, che avranno
venduto la propria sovranità al miglior offerente, e ci sono casi in cui non si può fare niente di più
saggio. La guerra sarà allora impossibile non solo come parola, ma anche come fatto: il che però
non sarà molto allegro, perché il prezzo da pagare sarà la progressiva intensificazione del rischio di
una catastrofe nucleare scatenata da un incidente tecnico o da un occasionale atto di stupidità o
follia, eventualità che, in un tempo sufficientemente lungo, diviene praticamente certezza. Ma la
guerra come atto politico, come decisione più o meno razionale, sarà davvero definitivamente
scomparsa, e non si vede perché ciò non dovrebbe essere visto come un’importante conquista. Ad
essere straordinariamente, stravagantemente ottimisti, si potrebbe addirittura ipotizzare che, alla
lunga, la disabitudine alla guerra porti al non saperla più concepire come possibilità, e allora forse la
Bomba potrebbe diventare un pezzo da museo.
4. La Bomba e i kamikaze
Sennonché, c’è un fatto nuovo che mette seriamente in crisi questo scenario: ed è il terrorismo, nella
forma suicida che ormai è divenuta abituale.
Il suicidio ha un forte rapporto con la Bomba, e non solo nel senso che l’uso della Bomba sarebbe
appunto il suicidio dell’umanità. C’è un rapporto più sottile tra le due cose, e questo proprio
riguardo al primo (e per ora unico) caso di uso bellico della Bomba. La strategia del Giappone negli
ultimi mesi di guerra è appunto consapevolmente suicida, e non per follia o fanatismo, ma come
scelta a suo modo “razionale”. Il contendente più debole, ormai avviato a sconfitta certa, ha un solo
modo di evitarla: renderla troppo costosa per l’avversario, accettando da parte sua di pagare
qualsiasi prezzo. Si possono subire perdite spaventose, affrontare le più terribili devastazioni, sop
portare le sofferenze più atroci, purché questo possa condurre l’avversario oltre il punto a cui può
permettersi di arrivare. Si dà per certo, infatti, che l’avversario possa accettare solo perdite,
devastazioni e sofferenze notevolmente inferiori, sia perché la sua mentalità, la sua cultura, la sua
religione non contemplano certi livelli di sacrificio di sé, sia perché il suo sistema è pluralistico e
l’unità del volere politico s’infrangerebbe di fronte a una prospettiva di distruzione troppo vasta. Il
calcolo era spietato, ma perfettamente sensato: gli americani non avrebbero potuto sopportare
un’Iwo Jima moltiplicata per mille, come sarebbe stata l’invasione del Giappone. A quel punto,
avrebbero dovuto accettare una pace di compromesso, che il Giappone avrebbe potuto iscrivere
nella propria storia come una sostanziale, an che se sofferta, vittoria. Solo che fuori del calcolo era
rimasta la Bomba, di cui i giapponesi non sapevano nulla. Ed ecco che la carta del suicidio
controllato strategico si rivolta contro di loro. Rifiutare la sconfitta e continuare la guerra significa
essere distrutti, non esistere più come nazione: sarebbe un suicidio in senso pieno, senza poter
infliggere all’avversario nessuna anche piccola ritorsione. La Bomba vince sul suicidio, perché lo
priva di senso strategico e di onore.
Però l’idea del suicidio come arma, nata allora, non è più davvero morta. Resta un’idea
potenzialmente vincente, un altro aspetto centrale del panorama di guerra-non guerra in cui
viviamo. La Bomba può sconfiggere la strategia del suicidio, ma, appunto, ci vuole la Bomba. In un
teatro di operazioni in cui la Bomba non è adoperabile, il suicidio torna a essere la condotta bellica
più “conveniente”: chi si uccide trasformandosi in arma, colpendo tramite la propria stessa morte, è
tecnicamente invincibile. Certo, non potrà realizzare una forza d’urto tale da poter sconfiggere
l’esercito nemico in campo aperto, ma può creargli intorno un clima d’insicurezza, paura e
frustrazione tale da metterlo in condizione di assedio permanente. Dal punto di vista strategico, il
terrorismo suicida ricostituisce appunto la struttura della guerra di assedio: diventa decisivo il
fattore tempo, vince chi resiste di più, chi sopporta più a lungo una situazione di privazioni e
sofferenze. Ma i due avversari non sono comunque sullo stesso piano: è chiaro che chi fin
dall’inizio è disposto a volere la propria morte parte avvantaggiato. E' sufficiente avere alle spalle
una collettività sufficientemente disperata e fanatizzata - la prima cosa rende estremamente facile la
seconda - da produrre con regolarità un numero di “martiri” che consenta di non dar tregua
all’avversario per un lasso di tempo abbastanza lungo da spezzare la sua volontà di combattere. E in
un tempo sufficientemente lungo, non c’è il minimo dubbio su chi vince tra un esercito di suicidi ed
uno di non suicidi. Il calcolo “giapponese” è perfettamente giusto, senza la Bomba. E ha fatto
scuola (non dimentichiamo che c’è stato un contatto storico tra terrorismo giapponese di estrema
sinistra - antiamericano e antioccidentale, e in questo in perfetta continuità con la generazione della
guerra - e terrorismo nazionalista palestinese, una sorta d’ideale passaggio di testimone).
E qui assistiamo a una delle tante ciniche ironie della storia. E' come se il Giappone vinto avesse
lasciato un’eredità di vendetta a un popolo che gli è sotto ogni profilo lontano, ma ha accumulato
nel tempo un’analoga carica di frustrazioni, arretratezze e ansie di riscatto. Oggi non è certo a
giapponesi che si pensa, quando si usa la parola kamikaze... 13.
E questa volta la strategia del suicidio rischia di essere vincente, perché la Bomba non c’è. E'
un’arma scomoda, la Bomba: troppo ingombrante, troppo mastodontica, troppo a misura di
superpotenza. E qui incontriamo un altro interessante e disperante paradosso. Sulla scala che le è
propria, quella appunto delle superpotenze, la Bomba incontra un’altra Bomba uguale e contraria e
ne è come annullata, se non si vuole la distruzione totale reciproca: è un’arma paralizzata,
immobilizzata, che non serve a fare la guerra, ma a fare la pace. Dove dall’altra parte non incontra
un’altra Bomba, ma incontra il Terrore suicida, la Bomba è ugualmente impotente. Distruggerebbe
troppo, non saprebbe distinguere tra amici e nemici, anzi rischierebbe di distruggere tutti tranne
appunto i nemici: i gangli vitali della loro organizzazione sono altrove, magari nelle capitali di Stati
amici e alleati, o in qualche paradiso fiscale o banca svizzera. Il suo uso risponderebbe al terrorismo
suicida con un terrorismo omicida che darebbe all’avversario la vittoria morale e farebbe crollare
qualsiasi base di consenso.

5. Giganti impotenti e nani feroci


Di questo è urgente prendere atto: il terrorismo suicida non è una forma di astratto furore fanatico o
un’espressione di bar barie. E' una spietata, ma lucida ed efficace scelta strategica: è la sola arma
che possa essere opposta con successo a chi possiede la Bomba, l'unica che possa ridurre
all’impotenza chi è onnipotente. Altra decisiva conferma che nel panorama politico internazionale
attuale esiste di tutto, tranne che Stati: megaimperi sempre più simili a giganti incatenati e
organizzazioni piccole ma transnazionali, simili a nani disperati e feroci, mobili, mimetici e
pressoché invisibili. In questa guerra tra giganti e nani, il vantaggio è chiaramente di questi ultimi,
purché siano disposti a lasciarsi schiacciare in gran numero, mentre i giganti sopportano male anche
le più piccole ferite e, non sentendosi realmente in pericolo di essere annientati, tendono a
risparmiare le forze e a non impegnarsi a fondo. Per sottrarsi al morso dei nani, in effetti, piuttosto
che insistere fino a ucciderli tutti, è più facile andarsene e lasciarli stare, magari gettando nella lotta
al proprio posto dei nani amici contro i nani nemici.
Ma anche questa è una scelta razionale e non perdente, ed è un problema per i nani. In effetti, il
gigante può essere facilmente ferito, e grida forte anche per le ferite più piccole. Ma appunto, non è
possibile infliggergli che ferite piccole: lo si può forse far scappare, ma ucciderlo è del tutto
impossibile. E non basta farlo scappare, perché il gigante, anche fuggendo a casa sua, continua a
dominare l'economia mondiale e a monopolizzare lo spazio comunicativo. Anche se i nani feroci
avessero la possibilità di istituire la loro repubblichetta pura e dura, islamica o no che la si chiami,
non potrebbero resistere a lungo alla forza di attrazione mimetica del loro avversario, alla sua
capacità di affermarsi come modello in forza di una supremazia economica e di un’opulenza di stile
di vita che ancora a lungo non avranno uguali 14. In un sistema di comunicazione globalizzata, una
società pluralista, che offre almeno in linea di principio uguaglianza di fronte alla legge, possibilità
di orientare autonomamente la propria vita e opportunità di successo e autorealizzazione, senza
gerarchie sociali immutabili e regole di costume soffocanti, non può che esercitare una potentissima
forza d’attrazione sui propri stessi avversari, una volta che sia stato superato o attenuato l’odio
vissuto durante la lotta. La capacità di “corruzione” del “grande Satana” è immensa: le cittadelle del
Bene assoluto, della purezza, della virtù, dell’autenticità, della giustizia perfetta sotto l’occhio
onniveggente di non importa quale Dio, non reggono a lungo all’evidenza che essere ricchi è meglio
che essere poveri, poter scegliere è meglio che dover obbedire, poter cambiare è meglio che dover
restare identici, realizzare i desideri è meglio che essere costretti a reprimerli. Per un po’, la
propaganda sull’ingiustizia e sull’immoralità ipocrita dell’avversario funziona, anche perché ha un
discreto fondamento nei fatti, finché è vivo il ricordo dei colpi alla cieca inferti dal gigante e delle
distruzioni da lui provocate, spesso per pura goffaggine; ma alla lunga, la sproporzione tra l’altrui
rutilante inferno di vizi e il proprio squallido e desertico paradiso di virtù sarà schiacciante. La
guerra fredda lo insegna: la vittoria finale avviene sul fronte del desiderio. E l’Occidentc dovrebbe
capire di essere odiato non tanto per le sue molte e realissime colpe storiche, quanto per il suo
evidentissimo monopolio del futuro, per il fatto che a tutti gli sguardi ostili esso appare come
l’unica forma di vita che potrà allignare nel mondo di domani, quando tutte le tradizioni ataviche, le
identità eroiche, le virtù millenarie, gli esclusivismi tribali, le parentele claniche, le immolazioni
sacrificali a leggi divine ed eterne veri tà saranno ridotte in polvere - o a cartoline per turisti. Si odia
nell’avversario il fatto che un giorno si dovrà essere come lui, perché non ci sarà altro modo di
essere. Per questo non basta vincere, mettere in fuga il gigante, come è perfettamente possibile ed è
realmente successo (in Vietnam per esempio): no, il gigante dovrebbe morire, se no comunque
vincerà lui.
Ma come possono i nani uccidere il gigante? Non posso no, evidentemente: però, purtroppo,
possono trovare un valido surrogato della sua morte - precisamente nella morte propria.

6. L’incubo e la speranza
Nessuno potrebbe sconfiggere un nemico invulnerabile. Ma non ci sono nemici invulnerabili. Per
questo gli uomini sono per natura uguali, insegna Hobbes: perché tutti possono ugualmente
uccidere ed essere uccisi15. Perciò ogni guerra è incerta, malgrado ogni pur grande sproporzione di
forze: nessuno può sapere prima che non verrà ucciso, nessuno può dare per sicuro che vincerà. E'
proprio questa la ragione per cui in generale è preferibile la pace, e per cui la pace, almeno la non-
guerra, si afferma necessariamente in una situazione in cui tutti sono ugualmente certi che sarebbero
uccisi, che non ci sarebbero vincitori. Donde l’attuale paralisi nucleare della guerra. Ma che
accadrebbe se scendesse in lizza appunto un invulnerabile, un immortale?
Sembra facile respingere questa terrorizzante prospettiva: per fortuna siamo mortali, e non sembra
che abbiamo motivo di preoccuparci di quel che farebbe in guerra un immortale, di cosa mai
potrebbe trattenerlo dall’uccidere tutti i mortali...16. Ma qui purtroppo non conta il fatto della morte:
conta la sua anticipazione conoscitiva. Non siamo mortali perché moriremo, ma perché lo sappiamo
e ci pensiamo sempre. Come ci comporteremmo, però, se non lo sapessimo? Se rifiutassimo il
concetto stesso di morte, e pensassimo che quello che gli altri chiamano morte è invece ancora vita,
vita migliore, vita beata, vita pura, vita eterna? Se pensassimo non alla tomba, ma al paradiso?
Di fatto, la guerra stessa, in tutte le sue forme, è tecnicamente possibile solo grazie alla facilità, alla
frequenza, all’intensità, alla diffusione di rappresentazioni culturali che depotenziano il morire. Si
potrebbe persino scrivere una storia della guerra sotto questo particolare angolo di visuale. Non si
muore davvero, perché c’è la Gloria, perché si è cantati dai poeti e commemorati dai concittadini,
perché la propria morte alimenta la vita dei discendenti, perché si raggiungono gli antenati, perché
si ascende al Walhalla, perché si merita il paradiso, o semplicemente perché si era perso già da
prima il senso di esistere come individui, immergendosi sino ad annegarvi in un “noi” che vivrà
tanto più intensamente quanti più “io” vi muoiono dentro 17. E c’è, a depotenziare il sentimento del
morire, soprattutto l’enorme senso di potere che dà la pubblica autorizzazione a uccidere
impunemente, innocentemente, gloriosamente18. La guerra finisce quando i sopravvissuti
reimparano di essere mortali, quando si convincono che moriranno davvero, che non diventeranno
statue, ma cadaveri19. È dai morti che s’impara cosa significa morire. Bisogna vederne tanti, troppi,
riempirsene gli occhi, le narici, introiettarli, quasi mangiarli, finché a poco a poco rinasce il salutare
sentimento dell’orrore, della ripulsa verso il cadavere che si diventerà, e s’impara a fuggire
dall’immagine della propria morte verso il rifugio della pace, con la sua promessa modesta,
ingloriosa, fatta quasi sottovoce: “se smetti di uccidere, per adesso non morirai”20.
Ma per questo, per ricondurre verso la pace, la guerra ha bisogno di tempo. Finché non ne è passato
abbastanza, finché non abbastanza cadaveri sono scorsi giù nella clessidra, il van taggio è tutto dei
meno mortali, degli uccisori più entusiasti, dei morituri più suicidi. Non c’è che fare: il kamikaze è
il guerriero perfetto. Tanto che per fargli paura non occorre nulla di meno che una morte iperbolica,
ipertrofica, assurdamente totale, oscenamente assoluta, trionfante e priapesca: il fungo di
Hiroshima. Ma se fosse il kamikaze ad avere la Bomba? Non è questo l’incubo che incontriamo
ogni notte?
La Bomba paralizza la guerra perché, e finché, anche la semplice eventualità del suo uso basta a
ricordarci di essere mortali, senza bisogno di vedere il nostro cadavere nei cadaveri degli altri. Non
possiamo immaginarci trionfanti dopo la guerra, perché non c’è nessun dopo. Non possiamo
immaginarci vittoriosi sui nemici uccisi, perché non c’è vittoria, non ci sono vincitori, non c’è
sopravvivenza21. Almeno nel luogo d’impatto della Bomba, e per un ampio spazio intorno, non ci
sarebbero neppure cadaveri da vedere, sarebbero vaporizzati, e in una guerra nucleare fatta sul
serio, del resto, non ci sarebbe più nessuno che possa andare a contare i cadaveri.
Ma che accadrebbe, se ottenessimo il perverso “successo” di consentire alla morte atomica la
rappresentazione di un dopo? Attenuandola, riportandola alla misura del tecnicamente controllabile,
restituendole l’idea di un limite, di un confine tra morti e non morti: non la Bomba, ma una piccola
graziosa Bombetta che non fa tanto rumore e tanto danno, che elimina “chirurgicamente” i cattivi
insieme a una quantità accettabile di buoni e consente di pensare alla guerra nucleare come a una
guerra “normale”, che finisce con le statue ai caduti e le medaglie ai generali, proprio come si
conviene. Esistono già, in tante versioni diverse, queste bombette atomiche “intelligenti”, magari le
bombe a neutroni, che ammazzano le persone senza distruggere le cose, realizzando un’apoteosi
della Merce che non dovrebbe dispiacere ai tanti sacerdoti del Dio Mercato. E questo sarebbe lo
scacciamosche perfetto che consente al gigante incatenato di sbarazzarsi una volta per tutte dei nani
molesti e ringhiosi che lo mordicchiano. Aspettiamoci che venga usato, questo scacciamosche:
avverrà nell’istante preciso in cui l’idea consolante della Bombetta buona riuscirà a esorcizzare il
fantasma della Morte totale e ci avrà convinti di nuovo che possiamo uccidere senza morire, che
dobbiamo uccidere per non morire.
Ma la Bombetta esiste - almeno come idea - anche in una comoda versione mignon per nani: la
bomba “sporca” di cui tutti da qualche anno aspettiamo l’esplosione in una qualsiasi delle nostre
grandi città. Un bel botto, e poi forse diecimila, ventimila, centomila morti: non tantissimi, in
passato si è fatto assai di meglio con fucili e baionette, però il morso farebbe davvero male, il
gigante griderebbe proprio forte... E dopo? Scapperebbe? Si arrenderebbe? Si convertirebbe?
Pagherebbe il tributo al nuovo califfo trionfante sotto verdi bandiere? Speriamo che non siano in
troppi a pensarlo, perché non andrebbe così. Il gigante darebbe di piglio allo scacciamosche, e puff!
Via un paio di “Stati canaglia”, via un po’ di “aree tribali”, via qualche governicchio
doppiogiochista. La faccenda andrebbe avanti per un certo tempo, tra ritorsioni e controritorsioni,
ma probabilmente non ci vorrebbe molto per far cambiare idea a tutti i protettori, finanziatori, ospiti
più o meno conniventi di nani feroci. E allora, tra molte cerimonie, molti discorsi, moltissime
statue, medaglie e bandiere, proclameremmo di avere vinto l’ultima guerra, la guerra che mette fine
a tutte le guerre, la guerra al Terrore. Cerchiamo di non distogliere lo sguardo da questo scenario: è
di gran lunga il più probabile. E non il peggiore.
Finché i nuovi kamikaze sono nani, il pericolo è grave ma limitato: si può sperare di non rischiare la
distruzione totale - e questa stessa speranza è un rischio non da poco, dovremmo saperlo ma i nani
potrebbero crescere di statura, e la Bombetta di dimensioni. La Bomba conviene averla, lo
sappiamo già, è un calcolo del tutto razionale. Finché non la si usa, finché si pensa di non poterla
usare. Finché la si vuole proprio per non usarla, come tutte le potenze nucleari finora. Ma se
nascessero potenze nucleari di nuovo tipo, capaci di volere la Bomba per usarla, e non perché
pensano di non poter essere distrutte, ma perché sono del tutto indifferenti alla propria distruzione,
o addirittura la cercano? Una cosa del genere sembrava tanto inverosimile, sino a poco tempo fa,
che nessuno ci aveva seriamente pensato. Ma ora la cosa è diventata tragicamente pensabile, è
diventata il nuovo volto del Terrore atomico. Perché l’Iran non dovrebbe avere la Bomba, ora che ce
l’ha persino il Pakistan? Non c’è purtroppo nessuna buona ragione da opporre. C’è solo una ragione
decisamente “cattiva”: che cioè questa prospettiva ci fa più paura, perché l’attuale regime iraniano è
il solo al mondo da cui si possa temere la riproposizione della strategia del suicidio sino al punto di
sussumervi la guerra nucleare stessa. Perché non è detto che l’obiettivo di una guerra debba essere
per forza la vittoria. La vittoria intesa come sopravvivenza del vincitore al vinto. Se per sconfiggere
la guerra bisogna rovesciare la logica della sopravvivenza 22, il pericolo massimo potrebbe però
essere quello di abbandonarla del tutto: la guerra fatta per non sopravvivere, perché la vittoria non è
mediante la morte ma nella morte, perché la vittoria è il martirio, perché solo morendo si
sopravvive davvero. Se ci sono religioni della guerra, l’eventualità più spaventevole e che esse
possano sovrapporsi alle religioni del lamento23, fino a fare del lutto, del rito funebre l’autentica
celebrazione della vittoria. Se nulla è più glorioso che morire santamente nella guerra per Dio, se
non c’è vita più autentica che l’eternità nel paradiso dei martiri, se il compianto funebre diventa
persino elemento indispensabile della beatitudine nell’al di là 24, perché non cercare proprio nella
Bomba il martirio perfetto? Morire tutti, un popolo intero, dopo aver distrutto Israele (o qualche
altra rappresentazione del male assoluto che una qualsiasi nazione o tribù di buoni e giusti destinati
al paradiso nel frattempo costruirà). Nulla di peggio è possibile: demoni postnucleari che fanno
politica con una stupidità tutta umana. Dovremmo deciderci a capire in fretta che se continua così
non esiste alcun dubbio su come andrà a finire.
Non resta che sperare che nella nostra età demonica siano sopravvissute altre qualità umane, a parte
la stupidità. Non resta che sperare che sia rimasto abbastanza, nel post-uomo d’oggi, di quella che
era l’infinita complessità dell’umano. Sperare perciò nell’incoerenza di tutte le fedi. Nella pluralità
nascosta dietro gli unanimismi obbligatori. Nell’amore delle donne per la vita, nell’amore delle
donne per l’amore, anche quando si deve indossare il chador. Nel buon senso un po’ cinico che i
preti hanno sempre saputo opporre ai santi. Nel fatto che tutte le folle prima o poi si stancano di
acclamare. Nell’inerzia che la pesante complessità della vita oppone alla semplicità pura, rigorosa,
risolutiva del morire. Negli sprazzi di dialogo che ogni tanto spezzano la continuità del delirio. Nel
fatto che governi e popoli tendono a mantenere un fondo di ragionevolezza anche quando
l’ideologia ufficiale e il depositario ufficiale del potere sono puri e duri e suicidi. E nel buon senso
degli elettori, là dove col voto si può scegliere davvero. Purché non sia già tardi.
Ma certo, ora che persino la pace sotto la Bomba scricchiola, è di vitale urgenza fare ancora un
passo oltre in quella tabuizzazione della guerra che abbiamo costruito inopinatamente dopo millenni
che la adoravamo: ancora debole, cinica, ipocrita, ma salutare, rivoluzionaria, potenzialmente
redentrice. Tornare ad avere paura, non sentirci più sicuri, potrebbe essere un buon segno: potrebbe
darci la spinta per procedere dalla guerra che non può essere detta alla guerra che, per non essere
fatta, non deve più neppure essere pensata. Non è probabile, ma chissà...

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1. Originariamente pubblicato in “Cosmopolis”, n. 2, 2007; ripubblicato con leggere differenze in
AA. VV., La guerra e la sua immagine. Prospettive a confronto, a cura di C. E. Gentilucci, Μ.
Giovagnoli, B. Marucci, Μ. P Paterno, Satura Editrice, Napoli 2008.
2. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, cit.,
sp. pp. 335-67. Schmitt nota comunque che i nuovi mezzi di distruzione di massa modificano la
natura della guerra: cfr. ivi, pp 410-31.
3. Il punto di riferimento classico sul tema della scomparsa dell'uomo dopo Auschwitz e Hiroshima
è G. Anders, L'uomo è antiquato, a cura di C. Preve, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Anders però non vede l'aspetto “positivo” di tale scomparsa, e cioè che potrebbe essere il primo
atroce gradino di un processo di autosuperamento. Si tratta in ogni caso di un punto di non ritorno,
dopo il quale non resta che l'annientamento o la nascita di una nuova specie. Certo è ormai
diventata risibile la prospettazione di una “natura umana”, specie quando si nutre la pia intenzione
di invocare tale “natura" come argomento a favore della virtù e contro il vizio, come accade sin
troppo spesso di questi tempi. Ma su questo cfr. infra, cap. IX.
4. Pregherei di prendere tale affermazione alla lettera e di non considerarla un paradosso. Si tratta
precisamente di una struttura turistica, molto ben amministrata, la cui dimensione “politica” è parte
essenziale dell’offerta turistica medesima: il medioevo per turisti, le libertà comunali per turisti, la
città-Stato per turisti. Non è l’unico caso al mondo, e forse varrebbe la pena di elaborare una
categoria giuridica apposita. Turistizzazione della sovranità?
5. Il concetto d’Impero è ritornato prepotentemente nel pensiero politico contemporaneo. Per un
testo che ha avuto grande fortuna, cfr. Μ. Hardt - A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione, a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2002 2, testo la cui originalità è inficiata
peraltro dall’applicazione di categorie marxiste-leniniste del tutto inadeguate al problema.
6. Cfr. E. Bradford, The Great Siege. Malta 1565, Penguin Books, London 1964 (risi).
7. Ragusa (odierna Dubrovnik) perde la propria indipendenza nel 1808, la sua grande rivale e antica
dominatrice Venezia nel 1797.
8. Cfr. supra, cap. II.
9. Cfr. supra, cap. VI.
10. Cfr. supra, cap. II.
11. La simbolizzazione della guerra nel mondo contemporaneo, nel contesto della “guerra fredda”, è
colta genialmente da Canetti in conclusione del suo capolavoro. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit.,
pp. 566-7.
12. Sul radicamento delle “categorie per la guerra” in tutta la storia del pensiero occidentale, cfr. I.
Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, cit., pp. 115-73.
13. Cfr. K. F. Allam, Lettera a un kamikaze, cit..
14. Sul successo “mimetico” della democrazia occidentale, americana in specie, cfr. R. Girard,
Quando queste cose cominceranno. Conversazioni con Michel Treguer, a cura di A. Beretta
Anguissola, Bulzoni, Roma 2005, pp. 117-22.
15. C£r. Th. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile,
cit., cap. XIII, pp. 99-104.
16. È accaduto per pochi anni che vi fosse al mondo un soggetto politico “immortale”, nel breve
periodo in cui gli USA furono gli unici a possedere Parma nucleare. Non averne immediatamente
approfittato è probabilmente il loro massimo titolo di gloria storico. Ma ci si può chiedere cosa
sarebbe accaduto durante la guerra di Corea, se anche l’URSS nel frattempo non avesse fabbricato
la Bomba...
17. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il coraggio di Shahrazàd, cit., sp. pp. 91-6.
18. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 85-7; cfr. anche supra, cap. VII
19. Cfr. ibidem.
20. Canetti nota come la “massa aizzata” possa esaurire di colpo la sua furia omicida e disgregarsi
velocemente di fronte al nemico appena ucciso, perché il suo cadavere, o la sua testa recisa,
riportano ciascuno alla coscienza della propria mortalità. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp.
61-2.
21. Sulla “sopravvivenza”, cfr. ivi, sp. pp. 273-5.
22. Cfr. ivi, sp. pp. 569-71.
23. Su questi due aspetti dell’Islam - che possono benissimo allignare in altri contesti - cfr. ivi, pp.
171-86.
24. Come accade appunto nell’Islam sciita: cfr. ivi, pp. 178-9.
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EPILOGO. UN TERRIBILE OTTIMISMO

CAPITOLO IX. Natura umana, tecnica e istituzioni1


SOMMARIO: 1. Una natura metanaturale - 2. Potere sul corpo, potere del corpo - 3. La vita senza
biologia - 4. Microfisica del biopotere - 5. La natura come morte, la tecnica come oltremorte e
supermorte - 6. La fine tecnica del mondo - 7. Vie in avanti.
@
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas
velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo
mondo inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente
esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli
altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra
per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che
nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di
malattie.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno2
@@@

1. Una natura metanaturale


Se esordissi con un’affermazione del tipo: “La tecnica stravolge la natura dell’uomo, lo allontana
dai fondamenti del suo esistere e ne mette in pericolo la sopravvivenza” 3, avrei probabilmente oggi
un consenso quasi universale. E' quel che pensano e dicono praticamente tutti; al massimo mi
verrebbe rimproverata la banalità della tesi. Sembra una porta aperta: anche io stesso, sentendo
quest’affermazione da un altro, dovrei fare un grande sforzo di attenzione critica per reprimere un
istintivo consenso. Eppure no: a ben guardare questa tesi è complessivamente falsa, anzi persino
assurda, e per riconoscervi una dimensione di verità bisognerebbe riformularla completamente. E'
quello che qui si tenterà.
Non è il caso di affrontare in astratto il problema di definire la natura umana. E' un tema immenso e
inseparabile da mille altri problemi. Ma si può procedere più empiricamente, chiedendosi da quando
e a partire da cosa si riconosce un uomo, si riconosce la presenza umana nel mondo.
Esistono numerosi ritrovamenti paleontologici di esseri simili all’uomo e probabilmente inseriti
nella sua linea evolutiva; ma la loro appartenenza al genus homo è sostanzialmente indecidibile.
L’australopiteco (la celebre Lucy, per intenderci) è già un uomo, o è ancora una scimmia?
Sicuramente è simile all’uomo, gli è prossimo, ma non c’è modo di accertare se lo sia già, se ne sia
un antenato o, come alcuni sostengono, sia piuttosto un primate che si è estinto senza lasciare
discendenza e non rientri dunque affatto nel phylum evolutivo che porta a noi. La prima volta che si
può parlare con certezza di homo, si tratta dell'homo habilis. E la ragione di questa certezza non ha
nulla a che fare con le sue caratteristiche anatomiche, che sono perfettamente scimmiesche. Il punto
è che è il primo essere di cui è documentata la capacità di fabbricare strumenti di pietra.
Non lo definisce come homo la struttura del suo scheletro, ma il suo comprovato possesso di una
tecnica4.
Anche gli animali sono capaci di tecniche e possono usare strumenti, s’intende, e non soltanto
imparandolo dall’uomo. Ma c’è un limite ben chiaro. Alcuni animali (gorilla e scimpanzé, per
esempio) sanno usare bastoni per difendersi o aggredire, o per far cadere frutta dagli alberi, o per
sostenersi mentre guadano un corso d’acqua, come è stato recentemente documentato; ma non
saprebbero usare una pietra tagliente per staccare da un albero un ramo da utilizzare per uno di
questi scopi. Non sono capaci dello “strumento di secondo grado”, cioè dello strumento che serve a
produrre un altro strumento e non per un’utilità immediata 5. Un gorilla è molto simile a un uomo:
ha persino capacità di linguaggio straordinarie. C’è chi propone addirittura di inserire le scimmie
antropoidi nel genus homo. Una delle poche ragioni solide per non farlo, è che solo l’uomo è capace
di tecniche astratte da uno scopo specifico e immediato, di tecniche che servono soltanto ad aprire
delle possibilità.
Ancora. Non esistono animali capaci di usare il fuoco, ma non esistono uomini incapaci di usarlo. E'
un confine chiaro e netto, noto da sempre. Tutte le mitologie primitive identificano con molta
chiarezza nell’uso del fuoco il momento del distacco dell’uomo dalla natura animale 6. Secondo
un’etimologia assai suggestiva anche se purtroppo improbabile, la stessa parola anthropos
significherebbe “volto di brace”. Cioè, interpreterei, volto illuminato dal fuoco accanto a cui siede
con gli altri, che riconoscono a vicenda, attraverso il fuoco e grazie al fuoco, i propri volti come
volti umani7. E' probabilmente questa l’origine più chiara e il più chiaro confine: l’uomo comincia a
partire dal fuoco. Cioè da una tecnica. E cioè non da una natura pretecnologica, su cui la tecnica
possa incidere dall’esterno.
Naturalmente ci sono mille altre cose che denotano la natura umana. E' noto quell’aneddoto su non
so quale filosofo greco che, avendo fatto naufragio e trovando disegnate sulla spiaggia delle figure
geometriche, avrebbe esortato i suoi compagni a rallegrarsi per quella traccia inequivocabile di
presenza umana colta e civile. La scienza, il pensiero, le astrazioni logiche, l’arte, il diritto, la
religione... Ma tutto ciò sta su un altro versante rispetto alla tecnica? Non bisogna cadere in un
astratto mentalismo, quasi che si potessero tracciare figure geometriche usando il pensiero anziché
usando le mani. Non c’è scienza, pensiero, logica, e neppure arte, diritto, religione, senza le mani.
Senza una connessione tra la capacità intellettiva e rappresentativa e la capacità espressiva: la
capacità di far “venir fuori” il pensiero, di esteriorizzarlo e oggettivarlo, di renderlo cosa. Il mondo
umano è mondo di cose pensate e di pensieri realizzati. Mi sembrerebbe molto reazionario (ed
anche un po’ idiota) distinguere e gerarchizzare l' homo cogitans e l'homo faber, come se le due cose
fossero possibili separatamente.
Da ciò, si può osare di proporre una definizione dell’uomo come quell’essere che emerge dal
mondo meramente naturale, dal mondo come sarebbe senza di lui 8, e, ponendosi dunque alla lettera
fuori del mondo, da questo fuori lo pensa, lo manipola, lo fa. Come quell’essere che non accetta
mai, anzi neppure con cepisce, la natura come datità immediata, ma s’impegna sempre in un
raddoppiamento del mondo, in una produzione del proprio ambiente vitale. Cioè quell’essere la cui
natura consiste nell’uscire dalla natura. A cominciare dal proprio corpo, che nessun essere umano si
tiene così com’è, ma che dev’essere ornato, disciplinato, curato, vestito, rafforzato, indebolito,
represso, esaltato... insomma trasformato in cultura, mediante tecniche della corporeità. Il corpo è il
primo strumento, a partire dal quale si fabbricano tutti gli altri. E ciò non sarebbe possibile se il
corpo umano non fosse già artificiale.

2. Potere sul corpo, potere del corpo


Il corpo, infatti, non è mai dato dalla natura, o meglio, non va mai bene per come è dato dalla
natura. Tutte le aggregazioni umane, senza eccezione alcuna, lo trasformano. Lo vestono, anzitutto,
il più delle volte, e la cosa non dipende mai solo dal clima. Dipende molto di più dalla morale
sessuale e dai rapporti di potere. Il corpo viene sezionato da regole etiche, che decidono cosa è puro
e cosa è impuro, cosa è richiamo sessuale e cosa no, chi può mostrare cosa a chi. E questo richiede
una distinzione tra maschio e femmina (distinzione assai meno semplice di quel che sembrerebbe, e
mai dipendente esclusivamente dall’anatomofisiologia degli organi genitali), tra adulto e bambino
(anche questa una distinzione con molte varianti), tra schiavo e libero, tra superiore e inferiore. Ma
neppure le culture che non vestono il corpo, o quasi, lo prendono per come è. Bisogna sempre
cambiargli qualcosa, “ornarlo”, prenderne possesso, trasformarlo in veicolo di comunicazione. Il
corpo di un maori è il racconto della sua vita: i tatuaggi ci dicono chi è, di dov’è, a che rango
appartiene, quanti figli ha, quanti nemici ha ucciso 9. Gioielli, pitture, piume, scarificazioni,
deformazioni, mutilazioni plasmano di volta in volta il corpo per adeguarlo al modello di ciò che
quel corpo deve rappresentare.
Non c’è cultura per cui il corpo stesso non sia un vestito, una maschera, un testo (un documento, un
racconto). Nessuna cultura, soprattutto, lascia in pace i genitali. Si coprono, si nascondono, si finge
che non ci siano, idealmente si eliminano, trasformandoli in un segreto che può essere svelato solo
dopo appositi rituali iniziatici (a cui generalmente viene dato il nome di matrimonio); oppure si
enfatizzano, si esagerano, si cerca di farli notare più di tutto il resto (non necessariamente per usarli
di più o più liberamente), oppure si trasferiscono in un’altra parte del corpo, genitalizzando in
qualche modo organi diversi (a noi, per esempio, sembra del tutto normale la genitalizzazione delle
labbra femminili).
Il corpo da solo non significa niente: bisogna costringerlo a dire qualcosa, bisogna renderlo
comunicativo, insegnargli un linguaggio, che è il più ricco, complesso e artificiale di tutti. Ma, a
partire da ciò, il corpo stesso diviene non solo oggetto, ma anche soggetto di potere. Il suo
linguaggio racconta, insegna, ammonisce, minaccia, seduce, respinge, promette, terrorizza. Il potere
non è mai incorporeo, la gestione del corpo è incorporazione di potere. E tutti gli strumenti di potere
sono protesi, prolungamenti del corpo: le armi, lo scettro, i doni, il denaro, fino agli strumenti di
amplificazione della voce o di esaltazione della visibilità che sono i nostri mezzi di comunicazione
di massa10.
Sarebbe dunque un’arbitraria semplificazione porre la vita, il corpo, l’uomo come oggetti inerti su
cui il potere esercita le sue molteplici funzioni. L’uomo è autopoietico, costruttore di se stesso, della
sua stessa vita, corporeità, umanità. Non c’è vita, e soprattutto non c’è vita umana, senza l’atto di
potere creativo che la ritaglia e la illumina, facendola risaltare da uno sfondo buio e indicibile. E
l’atto che segna e delimita la vita, la vita umana, segna anche spazi e confini della non vita, quindi
della morte.

3. La vita senza biologia


L’uomo non ha un corpo naturale. In un certo senso, non ha una biologia. Basti pensare che per
averla deve fare scienza: cioè istituire un sistema classificatorio che consenta interpretazioni e
definizioni condivise all’interno di un certo sistema comunicativo. Anche solo per riconoscere la
vita come tale, occorre un punto di vista culturale, e perciò una decisione sociale. Non c’è una
priorità (né cronologica né logica) della vita rispetto alla cultura (cioè alla rappresentazione, alla
simbolizzazione, alla costruzione di senso, alla comunicazione). Vita è ciò che viene deciso esserlo,
vita è ciò che si sa come tale. E non è un dato oggettivo, universale, eterno. Ogni cultura, ogni
epoca, decide cos’è vita, e ci sono tanti modi di deciderlo. Le civiltà arcaiche tendono a far
coincidere il concetto di vita col concetto stesso di realtà (visibile e invisibile): sono vita le
montagne, le stelle; sono vita gli spiriti, sono vita persino i morti. Noi in proposito siamo assai più
restrittivi, e pensiamo che il confine tra vita e non vita sia segnato dalla chimica del carbonio. Non è
un pensiero eccezionalmente intelligente, come dimostrano i tanti disastri ambientali che derivano
dal fatto che non consideriamo vivente il pianeta Terra: trattandolo come cosa morta, ovviamente lo
uccidiamo.
A partire dal concetto di vita, stringendo molto i confini, elaboriamo il concetto di vita umana. Non
è affatto una cosa ovvia, anche qui ci sono scelte difficili da fare, con esiti che appariranno assai
strani a chi ha scelto diversamente. Per alcune culture, possono essere “uomini” anche certi animali
e certe piante, mentre magari non lo sono gli abitanti del villaggio vicino 11. La biologia umana non
è un dato di natura: è una costruzione del pensiero medico, anzitutto, ma naturalmente anche di
molte altre dimensioni del pensiero, senza escludere affatto quella religiosa. La quale sarebbe pura
idolatria (e forse a volte rischia di diventarlo) se attribuisse valore sacrale a un dato di natura. La
religione, semmai, attribuisce valore naturale a una rappresentazione del sacro. Raddoppia il mondo
anch’essa, anzi lo molti plica, letteralmente all’infinito. E all’uomo stesso conferisce la capacità di
sentirsi infinito, sino alla rappresentazione più anti biologica di tutte: quella della vita eterna, della
vita immortale. senza corpo, o con un corpo che risorge. Un aspetto del cristianesimo (o meglio, del
monoteismo occidentale), quest’ultimo, che non sarà mai sottolineato abbastanza come espressione
suprema di una concezione dell’uomo che lo considera come essenzialmente corporeo
(l’immortalità dell’anima non basta, un’anima non è ancora un uomo), e allo stesso tempo
conferisce al corpo la dimensione che meno sembrerebbe adattarglisi, quella della trascendenza.
Quella cioè dell’esistenza al di là di tutte le condizioni naturali: la materia al di là della fisica, la vita
al di là della biologia. Mors stupebit et natura, cum resurget creatura...
È mai possibile un’evidenza più chiara del fatto che la “natura dell’uomo” è metanaturale,
soprannaturale se si vuole, comunque innaturale?

4. Microfisica del biopotere


A questo punto, emerge un problema inquietante. Se la vita per noi (indipendentemente dalle nostre
idee religiose o filosofiche) è una dimensione metafisica, questo porta con sé una metafisica
(meglio, una metabiologia) della morte stessa. E il legame tra loro si chiama, ancora una volta,
potere.
C’è un errore ottico in cui cadiamo di frequente, e da cui an che la filosofia e le scienze umane in
genere non sono immuni: le cose che vediamo per la prima volta ci sembrano cose nuove.
Spessissimo invece sono cose vecchie, sono i nostri occhi che sono cambiati. Certe cose erano lì da
sempre, ma ci sembravano ovvie, non le vedevamo. Poi succede qualcosa, di solito qualcosa di
traumatico, ed ecco che i nostri occhi si aprono. Questo riguarda anche, appunto, il rapporto tra
potere e corporeità, la tematica del biopotere.
Il potere, da quando esiste, cioè da quando esiste l’uomo e forse pure da prima, ha essenzialmente
una funzione selettiva sui viventi. Non tutti possono vivere, non ce n’è abbastanza per tutti (di cibo,
di possibilità riproduttive, di opportunità di ascesa sociale). Qualcuno (o qualcosa) deve scegliere.
Sarà quell’incognita che chiamiamo “istinto” (una parola a cui ancora nessuno è riuscito a dare un
senso credibile), saranno i meccanismi impersonali del conflitto sociale, sarà la tradizione, sarà una
decisione collettiva, sarà il comando di un capo, ma c’è sempre qualcuno o qualcosa che decide chi
vive e chi muore. Tra i Piaroa dell’Alto Orinoco, sono le ragazze in età da marito 12. Un giovane che
viene rifiutato da tutte le ragazze del gruppo, si uccide. Deve uccidersi, tutti se lo aspettano, non c’è
più posto per lui, non ha più uno spazio dove esistere. Siamo troppo abituati a collegare il potere
con la spada, i supplizi, le guerre. Una sentenza di morte può consistere in uno sguardo luminoso
che si abbassa, che si distoglie, in una testolina che fa un cenno di diniego, magari con un sorriso
timido e dolce.
Non è mai esistita al mondo una cultura (meno che mai la nostra) che consideri ugualmente uomini
tutti gli uomini, e quindi ugualmente degna ogni vita umana. C’è sempre qualcuno che, essendo
meno uomo di noi o non-uomo rispetto a noi, può essere lasciato morire (o lasciato vivere, anche,
ma senza che la vita sia per lui un diritto, bensì una concessione non dovuta). L’atto originario del
biopotere è quello che scinde umano e non umano, o umano e meno umano. Spesso è una scissione
implicita, non formalizzata, e non di rado la cultura ufficiale negherà strenuamente che esista (non
necessariamente in mala fede). Però questa scissione esiste sempre, ed è facile verificarlo: basta
controllare chi muore di più.
Non c’è bisogno, per questo, dello Stato. Lo Stato è un’altra cosa dal potere. E' solo una delle sue
forme, e proprio per niente la più importante. Una delle sue funzioni principali, quando e dove
esiste, è quella di assumersi la responsabilità delle decisioni di morte, liberandone così la
collettività. Da questo nasce l’errore ottico di vedere la scelta tra la vita e la morte solo nelle mani
dello Stato. Lo Stato uccide i nemici e i colpevoli, la sovranità consiste essenzialmente nello ius
gladii e nello ius in bellum, e sembra che fuori dei supplizi e della guerra non ci sia più morte. E
invece c’è, decentrata, diffusa, insopprimibilmente democratica. Il re serve a far credere che solo lui
uccide, in modo che tutti gli altri possano uccidere senza essere visti, senza vedersi,
innocentemente13. E non è il re che uccide di più. Sono i padri, e più spesso le madri, che scelgono
amorosamente tra i loro figli chi deve vivere e chi no, sono i ricchi, che decidono chi tra i poveri
può mangiare e chi no, sono i sacerdoti (o i magistrati, o i medici, o i giornalisti...) che discriminano
tra puri (che vivranno) e impuri (che si troverà il modo di far morire, limitando le loro possibilità di
nutrirsi, proibendo di prendersene cura, togliendogli i loro figli ecc.). C’è sempre stato, il biopotere.
Ma non nei luoghi e nelle forme in cui siamo abituati a cercare il potere. Solo quando la silente e
nascosta selezione tra i corpi ha assunto livelli e ritmi industriali e ha dovuto tecnicizzarsi e
centralizzarsi, finendo per essere “nazionalizzata” e ricadendo così nelle mani dello Stato,
l’abbiamo finalmente vista e le abbiamo dato un nome, credendo che non ci fosse mai stata prima.

5. La natura come morte, la tecnica come oltremorte e supermorte


Probabilmente, proprio questo, che il potere consista essenzialmente nel prendere decisioni circa la
morte, e sia anzi pressoché impossibile decidere e agire senza che qualcuno debba morire, ci pone il
problema di una dimensione propriamente “naturale” dell’uomo, cioè il problema del limite. La
natura, infatti, a noi non è data come realtà, ma appunto come limite. C’è un fuori di noi, perché noi
non dominiamo le nostre condizioni di esistenza, non possiamo darci tutta la vita che vorremmo.
Per avere la nostra vita, dobbiamo negare vita, togliere vita, a qualcun altro. Nessuno l’ha detto
meglio di Eraclito: Noi viviamo la morte degli altri, noi moriamo la vita degli altri 14. Non possiamo
riconoscere la vita come un diritto di tutti i viventi, perché non ne resterebbe abbastanza per noi. E
abbiamo troppo poca vita anche per riconoscere l’umanità stessa come diritto di tutti gli uomini. La
natura ci è data in questa sola forma: come necessità imprescindibile di distribuire morte per vivere,
e quindi come coscienza essenziale della nostra stessa mortalità. E' soprattutto per questo, infatti,
che sappiamo di essere mortali: perché per poter vivere uccidiamo.
Qui ci accostiamo alla ragione fondamentale per cui siamo usciti dalla natura sin dal nostro inizio,
ed essendone fuori siamo poi andati sempre più fuori, sino al punto estremo in cui siamo. Se ciò è
accaduto - irreversibilmente: già dal primo passo in questa direzione non c’è più stato ritorno - non
è perché noi siamo cattivi o malati mentre la natura è buona e sana, ma per l’esatto contrario. Vorrei
che la smettessimo con l’adorazione inconsulta della natura che è oggi senso comune. La natura non
è armonica, la natura non è saggia: consiglierei energicamente una sana rilettura di Leopardi 15. La
natura è la normalità della morte, la sua onnipresenza. E questo, un essere che abbia coscienza della
morte non può assolutamente sopportarlo.
L’animale sa - in qualche non chiaro modo - di poter morire, altrimenti non avrebbe mai paura; ma
non sa - verosimilmente - di dover morire, altrimenti avrebbe paura sempre. Noi lo sappiamo: solo
noi lo sappiamo. Dunque la paura della morte è la nostra dimensione esistenziale, è propriamente il
nostro mondo. Ma non possiamo permetterci una paura di queste pro porzioni e di
quest’onnipresenza. Dobbiamo trasformarla in qualcos’altro. Ecco, fin dal nostro inizio, le tecniche.
Tecniche di differimento della morte: produzione e conservazione del cibo, riparo, protezione (il
fuoco in primissimo luogo). Tecniche di elusione della morte: costruzione di spazi e tempi simbolici
securizzati in cui si possano vivere esperienze d’immortalità (la festa, l’ebbrezza, il rito,
principalmente quello sacrificale). Tecniche di negazione della morte: eternizzazione del cadavere
(mummificazione) o di suoi sostituti simbolici (steli, statue), rappresentazioni di al di là, di forme di
“vita eterna”. Tecniche di uccisione della morte: tutto ciò che consente di distruggere quel che
simbolicamente o realmente ci minaccia, dai grandi carnivori, di cui siamo stati prede inermi per
molte decine di migliaia di anni, ai nemici, di cui abbiamo paura e di cui abbiamo bisogno, perché
uccidere chi ci vuole uccidere è la forma più efficace di trionfo sulla morte di cui siamo capaci, ed
anche la più intensa esperienza d’immortalità (pregherei di non considerarla una finzione: se lo
fosse non funzionerebbe) che ci sia possibile16. E quindi il potenziamento della morte, la sua
artificiale ipertrofia, finisce per essere il modo più efficace per non averne troppa paura. Se uccido
non muoio, se la morte sono io la morte nom mi colpirà: Thanatos athanatos.

6. La fine tecnica del mondo


Noi abbiamo bisogno di un mondo artificiale, perché solo un mondo artificiale può essere senza
morte. Ma il solo materiale che abbiamo a disposizione per costruire quest’artificio è la nostra
mortalità e la nostra capacità di uccidere: due dimensioni interdipendenti. E' uccidendo che
impariamo di essere mortali, è essendo mortali che abbiamo bisogno di uccidere. L’artificio -
l’immenso complesso di artifici - con cui ci difendiamo dalla nostra mortalità è tutt’altro che
innocuo.
Appunto per questo la tecnica è - indiscutibilmente - pericolosa, distruttiva, violenta. Tutti
scorgiamo l’evidenza di ciò, ed anzi ci viviamo proprio in mezzo, tra inquinamento e riscaldamento
globale e, soprattutto, sotto la minaccia costante della morte nucleare. Quello stupendo film che è
2001: Odissea nello spazio di Kubrick ci pone questo nesso sotto gli occhi con insuperabile
chiarezza, proprio nella sequenza iniziale: uno scimmione preistorico impara a uccidere usando uno
strumento, e perciò i suoi discendenti costruiranno astronavi. E ovviamente anche missili nucleari,
dobbiamo aggiungere. Se la natura è terribile, se la natura è essenzialmente morte, la tecnica non
può essere da meno, se no non servirebbe al suo scopo. E questo ha un prezzo. Il più caro di tutti.
Se il fuoco è l’origine tecnica dell’uomo, le bombe atomiche ne sono la fine probabile, anzi alla
lunga potremmo dire certa, perché è impossibile che, in un tempo sufficientemente lungo, se
continuano a esistere, non vengano usate, per volontà deliberata o per errore. Ma in un certo senso,
anzi, sono la fine dell’uomo già prima di essere usate e persino se non venissero usate mai, cioè lo
sono già adesso, cioè l’uomo è già finito, cioè noi stessi non siamo più propriamente uomini: è
esattamente con questo che bisogna fare i conti. Con l’arma nucleare, e già solo con le possibilità
che essa apre per il mero fatto di esserci, si compie, infatti, un ulteriore e decisivo salto “fuori del
mondo”, e questa volta in un senso spaventosamente letterale. L’uomo è il solo essere capace di
usare il fuoco: prima tappa. L’uomo è il solo essere capace di autodistruggersi come specie, capace
di volere, pensare e fare i mezzi delle propria autodistruzione: ultima tappa. L’uomo è il solo essere
capace di volere e progettare con grandissima cura e straordinaria genialità la propria morte, non
come individuo ma come specie, brandendo contro se stes so un fulmine assai più potente di quello
di Zeus.
Non occorre dunque che per cessare di esistere l’uomo consumi di fatto la propria autodistruzione:
ne basta la possibilità Già la possibilità è un autotrascendimento, un vero salto di specie. Non
possiamo più dirci uomini, dovremmo darci un altro nome, per esempio quello di demoni 17. Nel
senso greco del ter mine, ma anche un po’ in quello cristiano, certamente. Non ho voluto dire dèi,
perché la cosa avrebbe una connotazione positiva che è del tutto fuor di luogo e suonerebbe come
una volgarissima sbruffoneria. E soprattutto per un motivo evidente: che non si può essere dèi
finché si è mortali, tanto mortali anzi da aver costruito e immagazzinato la propria morte, le morti di
tut ti quanti. Da qualche parte qualcuno tiene conservata la nostra morte, di ciascuno di noi. E noi,
tutti noi, glielo abbiamo per messo e continuiamo a permetterlo: dunque non ci sono innocenti. E
siccome non possiamo pensare che una cosa di queste proporzioni sia un incidente di percorso, una
singolare sventatezza, uno stupido errore che avremmo potuto evitare, bisogna capire la logica
profonda che rende questo passo estremo in qualche modo necessario. Perfino “eroico”, in un certo
senso: titanico, prometeico. O meglio, faustiano. Prometeo ha rubato il fuoco agli dèi per donare
agli uomini la vita, noi abbiamo ottenuto il potere supremo, cioè il fuoco nucleare, cedendo la
nostra anima alla Morte. Potremmo perfino dire che la bomba atomica è terribilmente (nel senso
proprio) romantica, che appartiene alla dimensione del sublime (che non è affatto il bello, che non è
affatto il bene).
Bisogna resistere alla tentazione del moralismo più facile di tutti, del virtuoso stupore e della
virtuosa indignazione per quanto siamo cattivi e per quanto siamo irrazionali. Niente affatto: qui
siamo di fronte proprio al trionfo della ragione, alla più conseguente delle logiche.
Se posso uccidere infinitamente, nessuno più può uccidermi. Ma per uccidere infinitamente, la
morte dev’essere onnipotente, dev’essere un assoluto. Se mi consegno ad una morte onnipotente,
sono definitivamente al sicuro. Se sono già morto non morirò. L’arma nucleare è la realizzazione
perfetta dell’essere-già-morto, e dunque del non-dover-più-morire. E' l’immortalità nella morte e
mediante la morte. E', anzi, l’immortalità della morte: la morte assoluta, vista dalla parte di chi
uccide e non dalla parte di chi muore. A condizione di non usarla mai, però, perché questo uccidere
assoluto ci ripara dalla morte solo finché resta nella dimensione della potenzialità: se no diventa un
banale suicidio.
Ne deriva una conseguenza importantissima, e cioè la paralisi della guerra: un tema che è
continuamente ritornato in queste pagine. Paradossalmente ma altrettanto evidentemente, l’arma
nucleare è il più efficace strumento di mantenimento della pace che sia mai esistito: l’onnipotenza
della morte toglie al potere la sua dimensione essenziale, quella del sopravvivere (alla morte degli
altri)18.
Ci potrebbero essere persino dei motivi - pur strani e inquietanti - di ottimismo in ciò, se non fosse
che abbiamo davanti un tempo indefinito, e che in un tempo indefinito non ci sono cose
propriamente impossibili, anzi tutto ciò che può accadere finirà per accadere. La logica a suo modo
ferrea della distruzione nucleare, che porta alla paralisi di questa stessa distruzione, col tempo
subirà inevitabili scacchi e fallimenti. E' impossibile volere razionalmente la guerra nucleare, ma
che meravigliose prospettive essa apre alla follia! E per quanto la magnificenza tecnologica che ha
prodotto le armi nucleari abbia prodotto anche la solidissima gabbia in cui custodiamo il mostro,
nessuno ancora ha mai costruito gabbie eterne. Dunque, se restiamo dove siamo spariremo. Per
questo dobbiamo andare da un’altra parte.

7. Vie in avanti
Andare dove? Certamente non indietro. Non ci sono rimedi non tecnologici, pretecnologici o
antitecnologici all’avvitamento autodistruttivo della tecnologia, non c’è da nessuna parte una natura
sana e buona che dobbiamo recuperare. Possiamo solo andare avanti. Cioè renderci ancora più
definitivamente innaturali (non solo con le tecniche delle mani e delle macchine, sia chiaro, ma
anche con quelle del pensiero e dell’immaginazione e dell’emozione, anche con lo “spirito”, che
tutto è fuorché natura). Cioè, se siamo demoni, non ci resta che provare a diventare dèi, o angeli, o
santi, o superuomini, lo si dica come si vuole. Non da soli, non nella nostra interiorità, in cui
potremmo solo cercare di sviarci dal problema mediante sogni impotenti. Il problema è globale,
richiede soluzioni globali, e perciò una capacità globale di organizzazione e decisione. Dunque il
problema è politico, come sempre: non semplicemente etico, se non nel senso in cui l’etica postula,
hegelianamente, una dimensione istituzionale.
Una dimensione istituzionale che non può essere lo Stato. Lo Stato non è una soluzione, anzi è parte
sostanziale del problema. Lo Stato nazionale come lo conosciamo è figlio della guerra, appartiene
pienamente alla dimensione della sopravvi venza, è una tecnica di controllo della morte mediante la
sua espulsione dal “noi” verso il “non-noi”19. Occorre puntare con estrema decisione
all’unificazione politico-giuridica, economico-gestionale, etico-culturale, del mondo, in qualsiasi
forma ciò possa avvenire. Dobbiamo fare in modo che non esista più il “non-noi”, che non ci siano
più nemici. Qualsiasi cosa che unisca è meglio di qualsiasi cosa che divida. Ci sono segni chiari che
il percorso in tal senso è da tempo iniziato; è ben lontano dall’essere concluso, nulla garantisce che
si concluderà. Ma solo in quell'ambito disporremo di capacità decisionali che possano controllare le
conseguenze non volute di una tecnologia che non conosce più in linea di principio l’impossibile, e
non è dunque in grado all’interno della propria logica strutturale di rifiutare l’assurdo. Come
riuscirci è per ora impossibile dirlo. Come non riuscirci è già del tutto evidente: imponendo uno
Stato sugli altri, un sistema economico sugli altri, una visione religiosa sulle altre, una scelta di
valori sulle altre scelte di valore. Così si va solo incontro allo “scontro di civiltà” che tanti falsi
profeti ci presentano come inevitabile e persino benefico per il trionfo appunto della civiltà, la
nostra civiltà contro l’altrui barbarie, secondo un tribalismo in versione neanche troppo aggiornata
che non possiamo più permetterci, con la morte nucleare che ci pende sulla testa. Resistiamo a
questi richiami demoniaci, specie quando scimmiottano il linguaggio della purezza e della santità. E
cerchiamo di salvarci tutti insieme, diventando qualcosa che meriti di essere salvo. Qualcosa per
cui, e a questo dovremo abituarci, non possiamo ancora trovare un nome.
Se poi, come è auspicabile, non ci va bene il nostro modo attuale di esercitare potere sui corpi e col
corpo, se non vogliamo più difenderci dalla morte solo sottomettendoci a lei e conferendole la
signoria assoluta sul mondo, questo ci chiama a un nuovo atto creativo/distruttivo di decisione (in
senso etimologico) del corpo e sul corpo, della vita e sulla vita. E vorrei che fosse chiaro, una buona
volta, che non è possibile mettere da una parte la tecnica (dalla parte di ciò che è volgare, brutto,
ignobile, bassamente materiale) e dall’altra le nobili vette della cultura come “spirito” (arte,
religione, filosofia...): tecnica e “spirito” stanno esattamente dalla stessa parte, cioè dalla parte della
metanaturalità, della contronaturalità direi, se la cosa non sembrasse troppo forte, cioè dalla parte
della cultura, che è -peraltro assai ovviamente - l’unica “natura” attribuibile all’uomo 20. E se
qualcuno pensasse che ciò sia “materialismo”, lo pregherei di stare più attento, perché semmai si
tratta proprio di “idealismo”, e aggiungerei che con ciò non si nega affatto un “sopramondo”, lo
“spirito”, piuttosto si nega proprio il “mondo”, si nega una realtà che sia data all’uomo e non fatta-
pensata dall’uomo. Anche la religione è una tecnica, anzitutto proprio una tecnica del corpo. Basti
pensare al significato originario della parola “ascesi”: lo stile di vita degli atleti.
Una nuova ascesi la stiamo già praticando: la velocissima crescita della vita media e della speranza
di vita alla nascita è sicuramente, anche se non ce ne siamo ancora accorti sino in fondo, una delle
più grandi trasformazioni nella storia dell’umanità. Anche, potenzialmente, una delle più terribili,
certo. Abbiamo già imparato a creare la morte assoluta e a mantenerne - provvisoriamente! - il
controllo. Stiamo imparando a controllare l’origine e il mantenimento della vita. Stiamo imparando
cioè a svincolare ulteriormente la vita dalla biologia. Chiunque ne abbia paura ha mille ragioni. Ma
non si torna indietro e non ci sono alternative. Questa strada prima non c’era ed era inconcepibile:
ora c’è. Quindi non ce ne sono più altre21.
Biologicamente, la vita di un individuo serve, direttamente o indirettamente, alla riproduzione, che
serve all'evoluzione. La sopravvivenza di un individuo oltre l’età riproduttiva è biologicamente uno
spreco, ma può avere un’utilità biologica indiretta, in quanto la presenza di anziani possa
stabilizzare l’ordine sociale e garantire la trasmissione di conoscenze utili per la sopravvivenza del
gruppo. Adesso non c’è più nessuna specifica utilità sociale degli anziani, ma in effetti non è il
raggiungimento della vecchiaia che si vuole. Si vuole la vita senza più alcun limite proprio della
biologia. Si vuole la vita per sé, non per darla ad altri, si vuole l’immortalità del singolo, che è
antibiologica, non più quella della specie, che biologicamente c’è già da sempre, ed anzi è la
biologia. I cristiani che polemizzano contro ciò ci riflettano: sono stati loro a cominciare. Sono stati
loro a dare l’immortalità agli uomini (dopo gli ebrei, certo, ma ben più efficacemente di loro),
eguagliandoli al divino, facendoli figli e fratelli di Dio. Prometeo può andare a nascondersi: di
fronte a ciò fa solo ridere. La nostra tecnica non è prometeica, è faustiana, quindi assolutamente
cristiana, e non fa che seguire la metafisica e la teologia, rispetto a cui anzi è ancora
vergognosamente indietro. Non siamo stati ancora capaci di realizzare un progetto che da millenni
esiste già: quello dell’uomo immortale. Ma ci stiamo lavorando, e non potremmo fare altro, perché
da tantissimo tempo non abbiamo alcun altro progetto dell’umano, nessun’altra possibilità di
pensarlo: l’uomo è l’essere che realizza pienamente se stesso proiettandosi infinitamente oltre di sé,
l’essere che è solo fuori di sé, fuori dei propri limiti.
L’uomo è dunque progettato - da noi sicuramente, forse da qualcun altro tramite noi, un’ipotesi che
i credenti non avrebbero il diritto di trascurare - come colui che per essenza deve deporre se stesso,
deve oltrepassarsi nella più radicale alterazione di sé. O Dio o nulla: Cesare non ci basta 22. E' del
tutto coerente che questo progetto non possa essere solo metafisico: dobbiamo farci ciò che
pensiamo di essere. Ed è evidente ormai che abbiamo raggiunto una nuova soglia. Siamo ormai
vicinissimi a un potere di controllo e manipolazione quasi totale sulle origini della vita;
intravediamo possibilità concrete e imminenti di giungere a un buon potere di controllo sulla durata
della vita. E con ciò ci avviamo ad essere la sola specie vivente che abbia nelle proprie mani le
proprie condizioni di esistenza.
E' terribile, certo. Si può già immaginare quanta sofferenza e quanto terrore possono derivarne, e
nulla nella nostra storia antica e recente ci autorizza in proposito all’ottimismo. Ma, avendo già
raggiunto da tempo il potere assoluto sulla nostra morte come specie, tenendo già adesso nelle
nostre mani la nostra morte come specie, e in questo senso essendo già una specie morta, non
possiamo fermarci né tornare indietro. Siamo abi tanti di nessun luogo, non abbiamo alcun terreno
sotto i piedi, stiamo già precipitando, come sapeva benissimo Nietzsche 23. Non abbiamo come né
dove fermarci, e non avendo un luogo non abbiamo neppure una via di ritorno. Possiamo solo
trasformare il nostro cadere in un volo. Senza alcuna garanzia in proposito. Mai.
Sono due, dunque, le strade che assai vagamente mi pare di vedere, incertissime e nebulosissime
entrambe. La prima, politico-istituzionale e socio-economica, è il superamento di tutti i
particolarismi, e anzitutto dello Stato-nazione, in grandi organismi multiculturali, multietnici,
plurivaloriali, sorretti da una trama fittissima d’interdipendenze economiche irreversibili. La
globalizzazione, insomma, e su questa strada siamo già tanto avanti che l’idea è diventata banale.
Meno banale, forse, è identificare l’obiettivo, che troppo pochi finora hanno visto chiaramente:
rendere impensabile la dicotomia noi/loro, abolire la figura concettuale del nemico.
L’altra strada, scientifico-filosofico-psicologica, tecnico-metafisica, biologico-religiosa (ebbene sì!)
è quella di modificare radicalmente la nostra percezione emotiva della vita e della morte
modificando proprio le nostre condizioni vitali, mirando, in remota prospettiva, alla minimizzazione
in quest’ambito della casualità, alla massimizzazione del controllo razionale e, diciamolo chiaro,
alla definitiva sottomissione del corpo e della biologia al pensiero e all’immaginazione, fino a
divenire signori della nostra vita come già lo siamo della nostra morte. E' una via assai più nebulosa
e sicuramente assai meno avanzata della precedente, ma il poco che vediamo è probabilmente
sufficiente a far comprendere - a chi vuole comprendere - che non c’è altro da tentare.
Che lo vogliamo o no, siamo già alla “grande politica” immaginata - peraltro con troppo
trionfalistico e inquietante compiacimento - dall’ultimo Nietzsche, profeta folle 24. Cioè, potremmo
dire, alla tecno-politica: ma possibile che non si riesca a comprendere che questa è anche la più
grande avventura metafisica mai tentata e una meravigliosa occasione creativa per le grandi
religioni, se solo queste si decideranno ad avere fede e smetteranno di avere paura? In che altro
modo un Dio potrebbe salvarci?
Un grande poeta, che era anche un grande scienziato, ha capito già due secoli fa quel che i secoli
precedenti non avevano potuto capire: che Faust può salvarsi. Senza per questo doversi pentire e
tornare indietro. Può salvarsi progettando in grande l’umanità - e l' oltreumanità. È possibilissimo,
naturalmente, che Goethe si sia sbagliato, ma dobbiamo scommettere su questo. Perché la sola via
di pentimento e di ritorno è quella dell’uomo ammalato di Svevo: un’esplosione enorme che
nessuno udrà.

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1. Originariamente pubblicato in "Hermenéutica”, nuova serie, 2008.
2. Devo la segnalazione di quest’impressionante brano “profetico” a mia figlia Letizia,
interlocutrice assai critica durante la redazione di questo scritto. Tengo molto a ringraziarla. Si
potrebbe osservare però che simili profezie, dopo la prima guerra mondiale, non erano poi così
difficili e rare; e oggi, dopo la seconda guerra mondiale, le Twin Towers e quant’altro, sarebbe
piuttosto difficile immaginare uno scenario diverso per il nostro futuro. A meno che... Cito da I.
Svevo, Romanzi, a cura di P. Sarzana, introd. di E Gavazzeni, Mondadori, Milano 19974, p. 1117.
3. Mia figlia sostiene che non è così e che questo oggi non lo può pen sare nessuno. Ma mia figlia
ha mentalità scientifica, e non so quanto abbia coscienza di far parte di una piccola minoranza
esposta a non pochi rischi di emarginazione e persecuzione. Che la scienza e la tecnica siano
“contro natura” è probabilmente opinione largamente maggioritaria a livello mondiale, c
quest’opinione rischierebbe di diventare addirittura una “verità” obbligatoria se non fosse per un
potente e non innocente alleato, che si chiama economia
4. Cfr. L. e F. Cavalli Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1993.
5. Cfr. A. Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., sp. pp. 182-91.
6. Cfr. J. G. Frazer, Miti sull’origine del fuoco, presentazione di C. Bermani, trad, di V. Cucchi,
Xenia, Milano 1993, sp. pp. 263-94.
7. Rinvio in proposito al mio Luoghi simbolici del potere, in AA. VV., Studi in memoria di Enzo
Sciacca, vol. II, a cura di F. Sciacca, Giuffrè, Milano
2008, pp. 261-72.
8. Il mondo come sarebbe senza l’uomo, all’uomo ovviamente non è dato. L’uomo nasce senza
mondo, e l’esistenza di un mondo prima di lui è una costruzione metafisica. E forse dovremmo
avere il coraggio di dire: un mito d’origine. L’uomo non ha un prima, il suo mondo nasce con lui,
con la sua capacità di rappresentarlo, anzitutto a se stesso. A questo proposito, Gehlen riprende da
Novalis la suggestiva e precisissima espressione di “mondo esterno interno”. Cfr. L'uomo. La sua
natura e il suo posto nel mondo, cit., pp, 230-2,297-9,389-91.
9. Cfr. L. Fercioni Gnecchi, Tatuaggi. La scrittura del corpo, Mursia, Milano 1994, p. 50 sgg.
10. Per una suggestiva e dettagliata esposizione degli strumenti di potere come duplicazione ed
estensione del corpo (della mano e della bocca, principalmente), cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit.,
pp. 243-69.
11. Cfr. J. Jahn, Muntu. La civiltà africana moderna, trad, di G. Glaesser, Einaudi, Torino 19763.
12. Su quest’interessante popolazione amerindia scoperta relativamente da poco, cfr. G. Costanzo, I
Piaroa, Pacini, Pisa 1977.
13. Cfr. C. Μ. Bellei, Violenza e ordine nella genesi del politico. Una critica a René Girard, cit., sp.
pp. 152-75.
14. È il frammento 22B62 Diels-Kranz. Per una diversa traduzione, cfr. G. Colli, La sapienza
greca, vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano 1980, p. 55. Nell'ed. Colli il frammento è numerato 14 [A
43].
15. Cfr. sp. il celeberrimo Dialogo della Natura e di un Islandese, in Operette morali, introduzione
e cura di A. Prete, Feltrinelli, Milano 20036, pp. 117-23.
16. È d’inestimabile importanza a questo riguardo la concezione canettiana del potere come
sopravvivenza. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp 273-336.
17. Cfr. supra, cap. VIII.
18. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 569-71.
19. Cfr. supra, capp. I e II.
20. Cfr. C. Geertz, L'impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo, in Id., Interpretazione di
culture, cit., pp. 73-99.
21. La questione se esistano limiti naturali - dunque insuperabili e definitivi - alla tecnica è difficile
e dibattuta. In buona misura anche insolubile, perché per identificare limiti assoluti dovremmo poter
uscire dalla nostra contingenza, dunque in qualche modo essere Dio. Mi pare però che
un’esperienza ormai millenaria consenta di dire che i limiti assoluti - o presumibilmente tali - alla
tecnica sono appunto limiti tecnici: cioè riguardano il come, non il che cosa. Il volo umano è stato
impossibile finché si è cercato di far volare gli uomini come gli uccelli; quando si è abbandonata
l’idea di imitare la natura e si è scelta risolutamente la via dell’artificialità, di modi di far volare
l’uomo se ne sono inventati sempre di più, dalla mongolfiera al jet al deltaplano all’astro nave.
Tutto ciò che si vuole fare, in linea di principio sarà possibile farlo in qualche modo, anche se non
in qualsiasi modo. E se una certa cosa è possibile farla, prima o poi qualcuno vorrà farla, quindi
qualcuno la farà. Non abbiamo nessuna garanzia assoluta contro noi stessi, il limite si sposta
sempre, e sinora non è mai stato trovato un punto da cui non possa più spostarsi. Quando troveremo
il modo di creare la vita, lo faremo. Quando troveremo il modo di renderci fisicamente immortali, lo
faremo. Se non ci distruggeremo prima, s’intende, il che è probabilissimo, perché il modo
l’abbiamo già trovato. 22. Mi riferisco al noto motto di Cesare Borgia: Aut Caesar aut nihil.
23. Cfr. il celebre aforisma 125 de La gaia scienza: “Ma come abbiamo fatto? Come potemmo
vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero
orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si
muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E
all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse
vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?”. Cfr. E Nietzsche,
La gaia scienza, trad, di F. Masini, in Opere, a cura di G. Colli e Μ. Montinari, vol. V, tomo II,
nuova ed. riveduta da Μ. Carpitella, Adelphi, Milano 1991, p. 151.
24. Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, trad, di S. Giametta, in Opere, cit., vol. VIII,
tomo III, Adelphi, Milano 1974, pp. 407-16. Cfr. in proposito L. Alfieri, Cristianesimo e “grande
politica”, in L. Alfieri, D. Corredini, Abissi. Meditazioni su Nietzsche, Giuffrè, Milano 1992, pp.
183-232.
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APPENDICE. LA GUERRA PER LA PACE

CAPITOLO X. Modelli di difesa nella Costituzione1


SOMMARIO: 1. Costituzione e forze armate - 2. La difesa della patria - 3. La difesa della pace - 4.
Dall’esercito di popolo all’esercito professionale.

1. Costituzione e forze armate


Sono relativamente numerosi gli articoli della Costituzione che riguardano le forze armate e quello
che, nonostante il mutare dei tempi, resta il loro compito fondamentale, la guerra o la sua
preparazione. E già questo dato elementare potrebbe sollevare qualche problema rispetto
all’abituale (e di solito banale e fuorviarne) interpretazione pacifista della Costituzione. Avere un
esercito significa di per sé prepararsi per la guerra, se l’esercito serve a qualcosa e non è solo (come
spesso è) un apparato rituale per simboleggiare una sovranità di fatto inesistente o perduta. Si può
avere un esercito per fare la pace? Ci si può preparare alla guerra per fare la pace? Al di là
dell’ovvia retorica che in proposito possiamo riscontrare già in epoche remote (si vis pacem para
bellum...), è comunque evidente che si tratta di una pace assai poco “pacifista”, che già solleva
diversi interrogativi circa il luogo comune secondo cui la nostra Costituzione vieta la guerra.
La Costituzione contiene diverse disposizioni d’interesse militare, prevalentemente sui rapporti tra
le forze armate e i poteri dello Stato, ma anche su aspetti intrinseci della funzione militare. Ci sono
inoltre importanti disposizioni circa i compiti degli organi costituzionali in caso di guerra (che è
dunque costituzionalmente prevista e normata, ben lungi dall'essere “vietata”).
L’art. 60, comma II, stabilisce che “la durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non
per legge e soltanto in caso di guerra”. L’art. 78 dichiara che “le Camere deliberano lo stato di
guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. L’art. 87, comma IX, attribuisce al Presidente
della Repubblica il comando delle forze armate, la presidenza del Consiglio supremo di difesa e il
potere di dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle Camere. L’art. 103, comma III, definisce la
giurisdizione dei tribunali militari in tempo di pace e in tempo di guerra. L’art. III, comma II,
prevede la deroga alla ricorribilità in Cassazione per le sentenze dei tribunali militari in tempo di
guerra. La VI disposizione transitoria eccettua i tribunali militari dalla revisione delle giurisdizioni
speciali e prevede il riordino del Tribunale supremo militare. Dunque, stato di guerra, tempo di
guerra, dichiarazione di guerra, poteri di guerra, tribunali di guerra... Non si ha per nulla
l’impressione che la guerra sia stata esclusa dall’ordinamento costituzionale.
Ma gli articoli più importanti, gli unici interamente dedicati alla funzione militare e alla guerra
come tale, sono gli artt. 11 e 52. Il primo si occupa proprio delle scelte fondamentali dell’Italia circa
la guerra e la pace, mentre il secondo riguarda la struttura delle forze armate e i diritti e doveri del
cittadino nel loro ambito. Si ritiene generalmente che questi due articoli rappresentino un insieme
armonico, orientando l’organizzazione militare alla tutela della pace e della democrazia in quanto
supremi valori riconosciuti dalla Repubblica. Altrettanto generalmente si ammette che l’attuazione
di questi articoli sia stata carente, ma non si dubita che appunto la loro attuazione debba essere
perseguita, considerando in sé del tutto soddisfacente la normativa costituzionale.
Se però s’interpretano queste disposizioni alla luce dei loro presupposti storici e ideologici, è
probabile che l’impressione di armonicità debba dissolversi. In queste norme come in parecchie
altre, è infatti ravvisabile un conflitto tra vecchio e nuovo, conflitto che la ricerca di un
compromesso ha più mascherato che risolto. E questo potrebbe spiegare le difficoltà che tante volte
sono emerse proprio nel fondare su queste norme una politica di difesa coerente e condivisa.
Ad uno sguardo critico, gli artt. 11 e 52 Cost, non appaiono momenti complementari di una coerente
scelta della pace e della democrazia. Appaiono asincroni, come se appartenessero a due epoche
storiche differenti. Riflettono due distinte concezioni della funzione militare, l’una aperta alle novità
del presente, l’altra legata nostalgicamente ad un passato “eroico” in gran parte immaginario. Lungi
dal confluire in un unico modello di difesa fondato sui valori della democrazia e della pace,
propongono due modelli di cui è assai dubbia la conciliabilità: la difesa della patria e la difesa della
pace. Quest’incoerenza essenziale ha pesato fortemente sulla politica militare italiana, che non a
caso è inestricabilmente aggrovigliata nella contraddizione tra il riconoscimento unanime della pace
come valore fondativo e addirittura identitario della Repubblica e il ripetuto e tuttora in atto
coinvolgimento delle nostre forze armate in operazioni di guerra ampie e di lunga durata nelle più
disparate regioni del mondo.

2. La difesa della patria


Conviene analizzare per primo l’art. 52, quello che presenta significativi elementi di arcaismo. Dice
il testo:
@
La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non
pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.
L’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica.
@@@
La prima considerazione da fare riguarda l’aggettivo “sacro”. In tutta la Costituzione, esso compare
soltanto qui; ed è singolare trovarlo in un testo normativo, perché, almeno negli ordinamenti
contemporanei, è davvero difficile attribuirgli un significato giuridico. Tutto il comma, d’altra parte,
è arduo da interpretare in termini di stretto diritto. Non è semplice comprendere quali
comportamenti integrino la difesa della patria (anzi della Patria: anche la maiuscola dovrà pur avere
un senso); tanto più che questo dovere è tenuto distinto da quello di prestare servizio militare, che
non possiede analoga sacralità, ed infatti è soggetto a “limiti e modi”. E la Patria stessa,
giuridicamente cos’è? Si può identificare con lo Stato, o con l’ordinamento, o con la nazione? O col
territorio come sede storica della nazione? O con l’interesse nazionale? Verosimilmente ha a che
fare con tutto questo insieme e con molto altro ancora, ed il senso principale di questo termine
potrebbe consistere proprio nell’impossibilità di dargli un senso univoco e preciso, nella sua vasta e
indistinta portata evocativa. “Sacro” e “Patria”: due termini ricchi di risonanze profonde, ma come
circondati da un alone di mistica nebulosità, di fatto non riconducibili alla necessaria tecnicità del
linguaggio giuridico. Eppure, qui si tratta del dovere per eccellenza, quasi per antonomasia, del
cittadino: nessun’altra dimensione di dovere è sottolineata con pari enfasi nel testo costituzionale.
Dovremmo addirittura dire che il cittadino appare in qualche modo costituito come tale da questo
dovere: ma, appunto, dovere di che? A quale comportamento concreto il cittadino è qui sacralmente
vincolato?
Una facile (troppo facile) soluzione sarebbe considerare questo testo non come una disposizione
giuridica, ma come un richiamo morale: potrebbe non essere l’unico caso nella Costi tuzione. Ma
questa soluzione trascura proprio la specificità del problema. Un’attribuzione di sacralità, se non ha
un significato giuridico, non ne ha neppure uno morale. E' la religione che parla il linguaggio del
sacro. La Costituzione impone qui un dovere propriamente religioso, cioè un culto della Patria. La
Patria stessa è sacra, se sacro è il dovere di difenderla. E non c’è un dovere sacro, nei confronti di
sacre entità, che non sia un dovere di compiere sacrifici. Da questo significato religioso discende il
solo possibile significato giuridico della disposizione: l’affievolimento del diritto alla vita e il
conferimento dell' autorizzazione ad uccidere. L’obbligo è quello di sacrificare altri, ed
eventualmente di sacrificarsi, quando lo richieda lo Stato, sacralmente trasfigurato in Patria. Ci sono
risonanze molto profonde e molto oscure, in questo testo. E non dovrebbe essere difficile
accorgersi, se si è maturata una qualche sensibilità al suo linguaggio, che in questo testo è la Guerra
stessa a parlare.
S’intende che ogni possibile sistema di difesa comporta l’eventualità di dover mettere a rischio la
vita, propria ed altrui, e non è seriamente pensabile che nel mondo contemporaneo uno Stato di
proporzioni territoriali ed economiche non irrilevanti possa rinunciare ad un sistema di difesa. Non
è il caso di perdere tempo con le utopie: persino un sistema di difesa non violenta, basato sulla
resistenza passiva nei confronti di un eventuale aggressore, potrebbe fare a meno
dell’autorizzazione ad uccidere, ma non dell’obbligo di esporsi alla morte, ed anzi ne avrebbe ancor
più bisogno. Soltanto la generale disponibilità dei cittadini a lasciarsi uccidere pur di non
sottomettersi potrebbe rendere efficace questo sistema, ed è appunto l’evidente implausibilità della
cosa che lo rende improponibile seriamente. La questione preoccupante non è che la difesa venga
prevista come dovere, ma il modo in cui lo è, il linguaggio usato, che è appunto quello proprio di
epoche in cui la guerra era assunta come valore, come mistico adempimento di un destino collettivo
aperto a valenze sovrumane.
Non bisogna credere che l’aver imposto come dovere non la guerra come tale, ma la difesa della
Patria, sposti molto il problema. Non è seriamente sostenibile che qui la legittimità della guerra
venga limitata ai casi di guerra difensiva. Ogni guerra, anche d’aggressione, mette in pericolo la
Patria e fa sorgere l’esigenza di difenderla dalla reazione dell’aggredito. E' l’art. 11, non il 52, a
ripudiare la guerra d’aggressione, ma i due articoli, contrariamente alle apparenze, non fanno
sistema. Anche se fosse intrapresa dall’Italia una guerra d’aggressione in violazione dell’art. 11
(come è sostenibile che sia più volte successo), sorgerebbe ugualmente a carico del cittadino il
dovere di cui all’art. 52, appunto perché è un dovere sacro. “Right or wrong, my country”: lo
spirito è esattamente questo. Del resto, nel nostro ordinamento costituzionale come praticamente in
ogni altro, le sole autorità abilitate ad accertare il carattere difensivo o aggressivo di un’eventuale
guerra sono le stesse autorità che hanno il potere di deciderla: non esiste un terzo imparziale, né una
tutela dell’eventuale dissenso del cittadino.
Inoltre, è illusorio pensare che una guerra possa essere condotta oggi secondo quanto la
Costituzione prevede: deliberazione parlamentare, conferimento al governo di poteri eccezionali e
dichiarazione di guerra da parte del Presidente. Lo abbiamo già visto, la guerra oggi non si dichiara,
anzi non si nomina neppure. Del resto la problematicità della procedura prevista non sfuggì ai
costituenti, come dimostra il dibattito sull’art. 78, che prevede la deliberazione dello stato di guerra
da parte delle Camere. Si convenne che, di fatto, la deliberazione parlamentare e la dichiarazione
presidenziale avrebbero seguito, e non preceduto, l’inizio della guerra. Si pensava, certo, a
un’aggressione straniera che il Governo avrebbe fronteggiato in un primo tempo con i suoi poteri
ordinari in attesa dei provvedimenti spettanti a Camere e Presidente. Ma non si dubitava che a
decidere le operazioni militari sarebbe stato comunque il Governo. E in un ordinamento
internazionale in cui la dichiarazione di guerra è di fatto abolita (ed anzi potrebbe costituire di per
sé un illecito), è impensabile che queste disposizioni costituzionali, pur formalmente vigenti,
abbiano ancora un qualche peso. In un mondo in cui la guerra è operazione di polizia o addirittura
intervento umanitario, essa è ormai di strettissima pertinenza dei governi. Certo è teoricamente
concepibile che il Parlamento possa ribellarsi ad eventuali prevaricazioni da parte del Governo
riguardo alla guerra e provocarne la caduta, ma la guerra intanto ci sarebbe e la sua fine
dipenderebbe soprattutto dalla buona volontà del nemico. Non esiste nessun sistema credibile di
controllo preventivo, ed una volta che la guerra sia in atto sorge comunque il dovere di difendere la
Patria. Anche nel caso di una guerra condotta in clamorosa violazione dell’art. 11, il cittadino
chiamato alle armi non avrebbe alcun diritto di rifiutare obbedienza. Potrebbe solo, nelle prime
elezioni utili, contribuire a rovesciare col suo voto una maggioranza parlamentare che non si sia
opposta alla politica aggressiva del Governo, ma questo potrebbe accadere chiaramente solo a cose
fatte, e probabilmente a guerra conclusa.
I costituenti non ebbero comunque nessuna intenzione di predisporre un’organizzazione militare
esclusivamente difensiva. Respinsero, infatti, la proposta di dichiarare la neutralità perpetua
dell’Italia, e la neutralità è sicuramente l’unica garanzia giuridica efficace a sostegno della rinuncia
alla guerra d’aggressione (senza rappresentare ovviamente una garanzia contro il rischio di essere
aggrediti). Ma è ancora più importante che i costituenti non vollero escludere l’impiego delle forze
armate fuori dei confini nazionali e per fini diversi da quelli di respingere un’aggressione. Nella
discussione sull’art. 87, a proposito del potere presidenziale di dichiarare la guerra, fu respinto un
emendamento che condizionava la dichiarazione di guerra all’esigenza di difendere l’indipendenza
e l’integrità territoriale del paese. L’emendamento avrebbe consentito un’interpretazione restrittiva
del dovere di difendere la Patria, ma appunto questo non si volle. In vista dell’adesione all’Onu, si
volle lasciare aperta la possibilità che l’Italia partecipasse ad interventi militari decisi in
quest’ambito. Questo avvenne del resto quasi subito, con l’invio di un reparto militare di sanità
durante la guerra di Corea, ma, stando all’interpretazione che i costituenti stessi ne davano, la
Costituzione non avrebbe impedito - come non ha impedito in seguito - l’invio di reparti
combattenti.
Naturalmente nessuno aveva l’intenzione di consentire guerre d’aggressione; ma si volle
consapevolmente adottare un concetto generico ed elastico di difesa della Patria, non identificabile
con la difesa dell’indipendenza e dell’integrità territoriale. Se ne può desumere che per i costituenti
stessi il dovere di difendere la Patria sussiste in ogni caso di guerra, anche in guerre non
propriamente difensive.
Se poi si considera il II comma dell’art. 52, che stabilisce l’obbligatorietà del servizio militare,
risulta più chiaro a quale concezione i costituenti si ispirassero. L’ideologia della sacralità della
Patria richiede infatti un necessario supporto istituzionale: l’esercito come nazione in armi. Per
l’Italia si tratta di un’ideologia soprattutto risorgimentale, ma naturalmente non è stato il
Risorgimento italiano a darle origine. Se si tralascia l’antichità classica, in cui il culto della Patria è
religioso in senso pieno perché la patria stessa è una divinità e in cui i doveri militari sono essenziali
alla condizione stessa di cittadino, la sacralizzazione della patria come fondamento dei doveri
militari dei cittadini può essere fatta risalire alla Rivoluzione francese. Prima della battaglia di
Valmy, le guerre europee sono combattute da eserciti di professionisti. Anche se a volte si fa ricorso
(specialmente in marina) a forme coercitive di coscrizione, la norma è che il soldato sia un
mercenario che spesso combatte per un paese diverso dal proprio, ed occasionalmente addirittura
contro il proprio paese (senza per questo essere considerato un traditore). Gli eserciti non hanno a
che fare con le nazioni, ma con gli interessi dinastici e la ragion di Stato. Con la Rivoluzione,
l’esercito diventa invece espressione di quella stessa sovranità popolare che, pur tra conflitti
sanguinosi, si afferma come nuovo fondamento di legittimità delle istituzioni politiche. Ma il
patriottismo del cittadino-soldato non è solo nazionalismo. La patria è sacra, in questo caso, proprio
perché incarna ideali transnazionali di liberazione universale, in qualche modo ereditati anche
dall’esercito napoleonico, che fu sia pure per breve tempo un esercito propriamente europeo.
L’ideologia della nazione in armi, però, si affermerà stabilmente solo in seguito ad un processo di
spoliticizzazione: con la separazione del patriottismo da ogni progetto di libertà politica e sovranità
popolare, come avverrà in Prussia nel quadro del nazionalismo romantico e delle guerre
antinapoleoniche del 1813-15. Non mancherà al rinnovato esercito prussiano un relativo carattere
“democratico” rispetto alle tradizionali armate dinastiche, ma il compito affidato al popolo in armi
non sarà complementare al ruolo di cittadini partecipi della sovranità, ma di patrioti devoti e
obbedienti, chiamati a difendere un destino nazionale che legittima su basi diverse le istituzioni
politiche preesistenti. La nazionalizzazione del potere prenderà il posto della democratizzazione che
ne era stata tentata in Francia. Supremo dovere del soldato sarà l’obbedienza assoluta all’autorità
costituita, e scopo supremo dell’organizzazione militare sarà rispondere alla mistica vocazione della
patria alla potenza.
C’è dunque nell’ideologia della nazione in armi una profonda ambiguità politica, che acquista
particolare evidenza proprio nella storia militare italiana. La sinistra risorgimentale (Mazzini,
Pisacane, Garibaldi) auspica come strumento di liberazione nazionale un esercito popolare
rivoluzionario. Le correnti moderate e quelle federaliste auspicano invece l’alleanza contro
l’Austria dei principi italiani, dunque l’impiego a scopo patriottico delle strutture militari nate dalla
Restaurazione (e ben presto potranno contare soltanto sull’esercito piemontese). Le due tendenze si
sviluppano parallelamente, spesso coordinandosi grazie a compromessi, ma conservando sempre un
tendenziale antagonismo, quasi una latente possibilità di guerra civile. Nel ’48-’49, si assiste a due
guerre distinte sotto ogni aspetto, nella struttura organizzativa, nelle finalità politiche, nei teatri
d’operazione: la guerra regia nella pianura lombarda, la guerra di popolo a Milano, Roma, Venezia.
Un dualismo militare che durerà a lungo. Dopo il fallimento della soluzione federativa, l’esercito
regolare nato dall’ampliamento delle forze armate piemontesi conserverà uno spiccato carattere
dinastico, identificando l’ideale patriottico con la fedeltà a Casa Savoia e proponendosi come sicuro
sostegno dell’ordine costituito. D’altra parte, nonostante la sconfitta, già nel ’49, di ogni speranza in
una guerra rivoluzionaria, le correnti radicali non rinunceranno a una propria distinta espressione
militare: gli eserciti volontari di Garibaldi (e l’episodio di Aspromonte farà venire allo scoperto,
momentaneamente, le potenzialità di guerra civile insite in tale dualismo).
Certo, anche l’esercito regolare si presenta come espressione della nazione, e mediante la
coscrizione obbligatoria tenta di realizzare l’equazione tra cittadino e soldato; ma il suo tenace
attaccamento alle tradizioni piemontesi, la sua struttura di comando, i suoi legami politici, i suoi
frequenti impieghi repressivi vanificano ogni sforzo in questa direzione. Per di più, la stessa
coscrizione obbligatoria è alterata da meccanismi di esenzione che privilegiano borghesi e operai:
quello italiano resta molto a lungo (in parte addirittura fino alla Seconda guerra mondiale compresa)
un esercito di contadini comandato da nobili: una struttura di classe che probabilmente soltanto le
forze armate della Russia zarista presentano in maniera più marcata. Solo la Prima guerra mondiale
suscita per breve tempo (nell’entusiasmo popolare subito frustrato del ’15, e poi nel clima d’intenso
patriottismo prodotto dalla resistenza al Piave) l’illusione di un’identificazione tra esercito e
nazione; tuttavia anche allora non mancano manifestazioni dualistiche che testimoniano proprio
l’incompiutezza di quest’identificazione: corpi speciali fortemente politicizzati ed eredi di una
tradizione garibaldina stravolta in nazionalismo estremo (gli Arditi), o reparti a reclutamento locale
caratterizzati da un fortissimo senso di solidarietà tra compaesani che prevale sui vincoli gerarchici
e da un orgoglio localistico che solo a fatica può essere ricondotto all’ideale nazionale (gli Alpini, la
Brigata Sassari).
Un ulteriore fenomeno di dualismo militare è la Milizia fascista (tutta la struttura dello Stato
fascista è del resto dualistica, culminando nella diarchia di Re e Duce). Il fascismo mantiene una
distinta organizzazione militare di partito appunto perché non riesce ad assumere il pieno controllo
ideologico dell’esercito: un fenomeno importante che non deve però essere frainteso, come se
l’esercito fosse stato almeno latentemente antifascista. L’esercito rimase piuttosto un corpo
separato, e dunque apolitico, esattamente come nel Risorgimento. Non avversò in nessun modo il
fascismo, fino a quando la diarchia non fu rotta, ma conservò la sua tradizionale separazione dalla
vita nazionale, costituendosi quasi come un universo sociale a parte. Anche nella guerra di
liberazione, infine, a cui pure le truppe regolari diedero un dignitoso contributo, fu evidente
l’incapacità di ravvisare nella lotta di liberazione stessa un orizzonte ideale che implicasse il
riconoscimento dei valori democratici e di rinnovamento sociale: si trattò sempre essenzialmente di
fedeltà dinastica, di onore militare o semplicemente di disciplina. In ciò fu fortissimo il contrasto
con le formazioni partigiane, comprese quelle monarchiche.
L’ideologia della nazione in armi è dunque sostanzialmente fallita in Italia. Il nostro paese non ha
mai conosciuto un esercito di citoyens; ma neppure ha saputo conformarsi al modello prussiano, che
presuppone un forte senso di unità nazionale e una sorta di rappresentatività sociale dell’esercito
(ovviamente da non scambiare per spirito democratico), aperto ai ceti borghesi almeno nei ranghi
degli ufficiali inferiori, con una forte componente operaia nella truppa e tra i sottufficiali, con un
livello d’istruzione elevato ed una forte capacità di fungere da simbolo d’identificazione nazionale.
La nostra organizzazione militare, nel complesso, non ha trovato un’identità storica se non in un
formalismo legittimista molto ancien régime, ed è stata sostanzialmente inadeguata ai propri
compiti proprio a causa di una chiara incapacità di mobilitazione sociale. Appunto per questo ha
dovuto essere frequentemente integrata da formazioni irregolari o da reparti speciali dotati di una
propria spiccata identità: possibili germi, almeno in alcuni casi, di un vero esercito di popolo, che,
contrastati o strumentalizzati dalle gerarchie militari ufficiali, non sono riusciti ad essere nulla più
che eserciti di parte, o persino eserciti personali (i garibaldini ne sono l’esempio più importante e
più chiaro, ma non l’unico).
Questo avrebbe dovuto invitare ad un atteggiamento più cauto e problematico, nel momento di
consacrare nel testo costituzionale il culto della patria. Bisogna pur riconoscere, peraltro, che c’è
stata davvero una riflessione molto più intensa che in passato. Si potrebbe anzi ritenere che l’art. 52
esprima il più serio tentativo di realizzare un esercito di popolo che ci sia mai stato in Italia,
all’interno del più serio tentativo di realizzare una democrazia compiuta. Un’apprezzabile
sensibilità sociale e il desiderio di creare tra esercito e nazione un’unità di fini e d’ideali si possono
ravvisare nella tutela della posizione di lavoro e dei diritti politici del cittadino che presta servizio
militare, di cui al II comma, e soprattutto nell’obbligo per le forze armate di informarsi allo spirito
democratico della Repubblica, di cui al III comma. Non vanno inoltre trascurati momenti del
dibattito in Commissione e in Assemblea che, pur non dando vita a norme costituzionali, espressero
orientamenti politici significativi. Fu così respinto un emendamento volto a specificare che gli
obblighi militari riguardano solo i cittadini maschi, e il legislatore ordinario fu lasciato libero di
prevedere un servizio militare obbligatorio anche femminile (che però nelle intenzioni dei
costituenti avrebbe dovuto escludere l’impiego delle donne in combattimento). Le scelte legislative
poi furono diverse e all’ingresso più o meno paritario delle donne nelle forze armate si è arrivati
solo con l’abbandono della leva obbligatoria. Si deve però notare che i costituenti diedero prova,
oltre che di una notevole apertura mentale per l’epoca, di una comprensione profonda del modello
militare a cui l’art. 52 s’ispira. Se il cittadino è in quanto tale obbligato alla difesa della Patria,
l’esclusione delle donne da quest’obbligo equivale a limitare la loro cittadinanza. Un esercito di
popolo in una democrazia che ripudia le discriminazioni di genere dovrebbe necessariamente essere
un esercito di uomini e donne. La scelta coraggiosa del servizio militare obbligatorio anche per le
donne sarebbe stato il comportamento più coerente; si può comunque apprezzare che questa
possibilità sia almeno stata lasciata aperta per il legislatore ordinario, il quale come sempre fu poi
molto più conservatore dei costituenti. Coerente col modello di riferimento fu anche un’altra scelta,
a prima vista assai meno aperta: il rifiuto di concedere tutela costituzionale all’obiezione di
coscienza. Anche questa materia fu lasciata al legislatore ordinario, che, sia pure faticosamente e
ambiguamente, introdusse quest’istituto nell’ordinamento. Una scelta certamente da apprezzare
sotto il profilo morale e umanitario, ma si deve notare anche in questo caso l’alterazione di un
modello di cui i costituenti ebbero senza dubbio una visione più coerente. Se l’esercito dev’essere la
nazione in armi, il cittadino non può essere sollevato dai suoi obblighi militari precisamente per lo
stesso motivo che impedisce di privarlo dei diritti politici: perché gli uni e gli altri ineriscono alla
sovranità popolare.
La coerenza dei costituenti è però venuta meno proprio nel punto decisivo: la democraticità
dell’ordinamento militare. Non solo il III comma dell’art. 52 è stato quasi del tutto ignorato dal
legislatore ordinario, ma già gli stessi costituenti ne avevano dato un’interpretazione tanto riduttiva
da privarlo di ogni potenzialità d’innovazione. Nella discussione generale in Assemblea, la
Commissione difese questo comma sostenendo che con esso non si voleva politicizzare l’esercito:
ma un esercito di popolo non politicizzato può essere soltanto un esercito di tipo prussiano, quindi
non democratico. La democrazia è una scelta politica, e l’esercito di una democrazia non può essere
politicamente agnostico - né tanto meno considerare la politica in quanto tale come un attentato alla
sua purezza ideale - ma dev’essere unito alla nazione dalla piena condivisione dei valori politici
fondamentali. Si può anche ammettere che la democraticità di un esercito deve darsi forme
compatibili con la disciplina e non può spingersi, ad esempio, sino all’istituzione di strutture di
comando elettive e responsabili verso la truppa (anche se le argomentazioni in contrario
assomigliano in maniera preoccupante alle critiche che i pensatori reazionari hanno sempre rivolto
alla democrazia in generale). E' comunque difficile sentirsi soddisfatti di quel che ritennero i
costituenti: che la democraticità delle forze armate dovesse consistere unicamente nell’essere fedeli
allo Stato democratico e nel rispettare al proprio interno la dignità umana. Con ciò s’imponeva alle
forze armate un obbligo di lealtà che è del tutto ovvio e non ha nulla a che fare con la democrazia:
salvo che si consideri democratico qualsiasi esercito che si limiti a eseguire correttamente i propri
obblighi istituzionali, quasi che fosse democrazia tutto ciò che non è dittatura militare. Si imponeva
inoltre alle forze armate un obbligo di civiltà rispetto a cui la democrazia dovrebbe essere un
momento ulteriore e assai più caratterizzato. La sovranità popolare e la partecipazione politica sono
qualcosa di molto più specifico del riconoscimento della dignità umana; altrimenti sarebbe
democratica qualsiasi istituzione che non sia brutalmente tirannica. Non è certo con queste prudenti
dichiarazioni di principio che si crea un esercito di citoyens: anche un feldmaresciallo prussiano
avrebbe potuto ritenerle condivisibili, ed anzi scontate.
Il modello della nazione in armi, se ci si accontenta della sacralità della patria e della coscrizione
obbligatoria, evocando lo spirito democratico solo per esorcizzarlo immediatamente, resta
perfettamente suscettibile sia di utilizzazioni aggressive all’esterno che di strumentalizzazioni
reazionarie all’interno, come la storia militare italiana ben dimostra. E se nel complesso questa
storia non è particolarmente gloriosa, non è solo ad astrazioni improbabili come il “carattere
nazionale” che bisogna imputarlo. La questione è un’altra: quel che avrebbe dovuto essere un
esercito di popolo è sempre stato in mano di chi considerava il popolo, se non il peggior nemico,
almeno un pericolo grave. Da quest’incoerenza autodistruttiva, profondamente radicata nello stesso
processo di unificazione nazionale, l’art. 52 Cost. si distacca più nelle buone intenzioni che nei fatti.
A parte qualche correttivo marginale, tutto è rimasto come prima, semplicemente con una formula
liturgica in più: al tributo retorico reso alla patria si aggiunge un nuovo tributo retorico reso alla
democrazia.
La questione si può considerare superata - in tutt’altra direzione - in conseguenza dell’abolizione
del servizio militare di leva. Sarebbe un’affermazione forte che in conseguenza di
quest’innovazione l’art. 52 abbia subito un’abrogazione di fatto, tanto più che il testo costituzionale
tiene distinti difesa della patria e servizio militare, e quindi, in una maniera mai chiarita, la Patria
dovrebbe essere difesa anche dalla grandissima maggioranza di cittadini che non fanno parte delle
forze armate. Quel che comunque è scomparso è il modello dell’esercito di popolo, e con ciò le
contraddizioni nell’assunzione del modello nel testo costituzionale hanno ormai un interesse
soltanto storico.
Può non essere del tutto ozioso, però, chiedersi come avrebbe potuto essere strutturato un esercito di
popolo effettivamente democratico e con finalità esclusivamente difensive. Il principio
fondamentale dovrebbe essere chiaro: non basta che i cittadini diventino soldati, occorre che i
soldati restino cittadini. A questo fine non basterebbero apprezzabili ma astratte previsioni
normative, e neppure controlli esterni all’organizzazione militare stessa, che peraltro la Costituzione
non prevede in maniera specifica. Per assicurare al modello della nazione in armi un carattere
difensivo e democratico occorrerebbero strutture militari appropriate, in un contesto istituzionale
complessivo coerente. La sola efficace garanzia contro utilizzazioni aggressive di un esercito di
popolo, sarebbe stata la neutralità. La neutralità implica, infatti, un tipo di organizzazione militare
strutturalmente inidoneo a guerre d’aggressione, centrato sul coinvolgimento della popolazione e il
controllo del territorio. Come insegna il modello svizzero (l’unico dimostratosi efficace e duraturo),
dovrebbe trattarsi di un esercito a ferma breve ma con frequenti richiami, riducendo così al minimo
il distacco tra vita militare e vita civile; un esercito con una funzione prevalentemente addestrativa e
privo in tempo di pace di reparti operativi stabili, con un numero ridotto di ufficiali di carriera e una
forte prevalenza di ufficiali di complemento, in modo da prevenire la formazione di una mentalità di
casta; un esercito attrezzato per la guerriglia, quindi con una dotazione limitata di sistemi d’arma
tecnicamente sofisticati e poco condizionato dagli interessi dell’industria bellica. L’orientamento
rigorosamente difensivo si presta bene, in un simile modello, a garantire di per sé un legame forte
con la complessiva struttura democratica dello Stato, senza per questo dover necessariamente
adottare al proprio interno le forme di rappresentatività proprie della democrazia (anche se bisogna
sottolineare che su questo punto mancano clamorosamente sia una seria riflessione teorica, sia
esperienze pratiche apprezzabili, e non è forse scontato che istituzioni militari dotate di proprie
forme di democrazia interna - e non di mera sindacalizzazione - non sarebbero affidabili e
funzionali). La vera forza di questo tipo di esercito sta, infatti, tutta nella volontà dei cittadini di
combattere per la propria libertà: non c’è bisogno di patriottismo retorico, non c’è bisogno di
un’ideologia della sottomissione e del sacrificio. Un esercito di questo tipo sarebbe l'
organizzazione sociale dell'autodifesa, e come tale non sarebbe un corpo separato e non avrebbe
fini, ideali e valori che non corrispondano a quelli generali della società. Non era diverso da questo,
nella sostanza, il modello di nazione in armi sognato dalla sinistra risorgimentale.
Avrebbe poco senso rimproverare ai costituenti di non aver fatto una simile scelta. Essa era
teoricamente possibile, e solo in quel momento storico è stata possibile. Ma avrebbe creato
lacerazioni interne e difficoltà di politica estera troppo gravi perché il paese potesse affrontarle.
Questo non giustifica però il troppo grande tributo pagato alla tradizione, lasciando sopravvivere le
vecchie strutture militari monarchico-fasciste, consacrando a livello costituzionale la loro retorica
patriottica, chiedendo sì democrazia, ma con l’esplicita intenzione di accontentarsi dell' apoliticità.
Tanto più che i costituenti avevano intuito la possibilità, ed anche la maggiore attualità storica, di un
altro modello di difesa, al quale dedicarono una specifica normativa. Il punto è che non capirono a
sufficienza che si trattava di un altro modello.

3. La difesa della pace


L’art. 11 Cost. è uno dei più innovativi e, sebbene appaia particolarmente carico d’idealità, è anche
tra i più aderenti al mutare della realtà storica:
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L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
@@@
Si tratta della rinuncia alla guerra come compito normale dello Stato, del rifiuto della sua
doverosità tutte le volte che essa possa soddisfare un interesse nazionale. E' una svolta storica di
enorme portata, e in questo caso i costituenti non si sono limitati ad una dichiarazione di principio.
Sono state accolte le necessarie conseguenze politico-giuridiche: la disponibilità a limitare la
sovranità e l’impegno a favorire le organizzazioni internazionali volte alla tutela della pace. Con ciò
si è assunta una prospettiva che muove inequivocabilmente verso il superamento dello Stato-
nazione come supremo orizzonte della politica.
Non sono state accolte, però, le necessarie conseguenze militari. Quale può essere il compito di
forze armate nazionali in questa prospettiva internazionalistica, che attribuisce il primo posto nella
scala dei valori alla pace e alla giustizia tra i popoli? Non certo quello di difendere la Patria. La
grande novità di quest’articolo consiste, infatti, nel prevedere - implicitamente ma chiaramente -
che anche una guerra realmente difensiva potrebbe essere ingiusta. Lo sarebbe, ad esempio, qualora
l’Italia rispondesse con le armi ad un’aggressione straniera sebbene l’aggressore si dichiari
disponibile a trattare o a sottoporre le sue pretese ad organismi internazionali di cui l’Italia sia parte.
Anche situazioni che tradizionalmente costituirebbero un indiscutibile casus belli non bastano più a
giustificare la guerra, finché resta possibile una soluzione pacifica della controversia: persino se
tale soluzione risultasse svantaggiosa per l'Italia. Se la pace e la giustizia fra le Nazioni richiedono
limitazioni di sovranità, possono richiedere senza dubbio il sacrificio dell’interesse nazionale, ed
eventualmente - al limite - persino quello dell’integrità territoriale, purché sia salvo il principio di
parità.
Ma se persino una guerra difensiva può essere ingiusta, appare ancora più grave l’assolutezza
sacrale che l’art. 52 attribuisce al dovere di difendere la Patria. Stando all’art. 11, questo dovere
potrebbe sussistere, infatti, solo quando non contrasti con quello di difendere la pace e la giustizia
fra le Nazioni e la libertà degli altri popoli; occorre dunque qualcosa di più che la lesione di un
interesse italiano o una minaccia all’integrità territoriale. Bisogna difendere la patria non in quanto
tale, ma in quanto membro pacifico, giusto e libero della comunità internazionale. Ma ciò equivale a
dire che il dovere di difendere la patria non sussiste propriamente mai, perché quando sussiste
coincide con un altro dovere che basterebbe anche da solo. Ed anzi, sulla base dell’art. 11 si
potrebbe addirittura configurare un dovere di difendere la comunità internazionale contro la patria,
quando questa agisca ingiustamente a danno della pace e della libertà. Andare in guerra per
obbedire al legittimo governo nazionale sarebbe sempre un dovere per l’art. 52; potrebbe essere un
illecito per l’art. 11. Non si vede come sia possibile rispettare contemporaneamente la lettera - e più
ancora lo spirito - di entrambi gli articoli.
Ma se per un verso l’art. 11 limita persino la guerra difensiva, per un altro verso consente guerre che
difensive non sono per nulla. Almeno questo non è sfuggito ai costituenti, che appunto perciò
rifiutarono l’interpretazione restrittiva della difesa della patria, consentendo così l’impiego delle
forze armate al di fuori dei confini e per interessi diversi da quelli nazionali. Se l’Italia, in nome
della pace, può accettare limitazioni di sovranità, può anche accettare infatti che un organismo
internazionale di cui sia parte disponga l’impiego di reparti militari italiani in situazioni in cui
nessuna esigenza patriottica è coinvolta, ma sussiste l’esigenza di eliminare una turbativa alla pace
e alla giustizia internazionale. Sarebbe sostenibile addirittura che un rifiuto opposto in tal caso - per
i rispettivi compiti - dal Governo, dalle Camere o dal Presidente della Repubblica, costituirebbe un
illecito costituzionale.
Anche questa è una circostanza nuova. Se è vero che ogni alleanza militare impone l’obbligo di
assistere il proprio alleato anche contro un nemico da cui non si è direttamente minacciati, qui il
problema è diverso: si tratta di favorire la trasformazione di organizzazioni internazionali in poteri
sovranazionali, cedendo ad essi, in prospettiva, persino la decisione circa la pace e la guerra, che
costituisce da sempre il nucleo rovente della sovranità. Del resto le grandi alleanze militari del
mondo contemporaneo hanno esse stesse dato vita ad organizzazioni almeno teoricamente
sovranazionali - sia pure come maschera del predominio di una nazione sulle altre - e non
semplicemente ad un sistema d’impegni reciproci tra Stati sovrani.
Ne consegue che l’art. 11, se da una parte riduce i rischi di guerra restringendo drasticamente i
possibili casus belli, crea dall’altra parte rischi di guerra che la tradizionale esigenza patriottica non
potrebbe mai di per sé fare sorgere. E ciò, senza alcuna tutela per i diritti del cittadino.
Che il problema non sia meramente teorico, è sotto gli occhi di tutti da molti anni. L’Italia non è mai
stata, in tutta la sua storia, talmente impegnata in operazioni militari all’estero come in questi ultimi
decenni; con pochi uomini e mezzi, di solito, ma tenendo conto del gran numero di operazioni a cui
si è voluta o dovuta decidere una partecipazione almeno simbolica, il livello complessivo di
proiezione militare oltre i confini è paragonabile se non superiore a quello delle guerre coloniali: un
precedente che dovrebbe far riflettere. La presentazione di queste attività come iniziative umanitarie
è in molti casi del tutto risibile, e in almeno tre casi - la prima guerra del Golfo sicuramente, e
malgrado grossolane ipocrisie anche l’infelicissima spedizione in Somalia e il coinvolgimento nei
bombardamenti della Serbia durante la crisi del Kosovo - si è trattato di guerra esplicita ed aperta,
anche con aspetti - specie nel caso somalo - di vergognosa brutalità. Ma dovrebbe allarmare già
anche semplicemente la lunghezza dell’elenco delle iniziative militari a cui l’Italia partecipa o ha
partecipato. È difficilissimo, ormai, ricordarle tutte: non dovrebbe farci paura questo dato così
elementare? E' un triste paradosso, forse non del tutto sorprendente: proprio l’assunzione della pace
e della giustizia fra le nazioni come valore costituzionale ha riaperto la strada, dopo decenni di
sonnolenta difesa dei confini, a preoccupanti ambizioni di una parte della classe politica e delle
gerarchie militari, ridando fiato ad atteggiamenti da grande potenza di memoria certamente non
fausta. Il succedersi di forze e ideologie di governo non sembra aver comportato reali differenze, e
se si può sostenere che la Costituzione è stata strumentalizzata, è difficilmente sostenibile che sia
stata violata. Né le Camere né il Presidente della Repubblica hanno mai ritenuto di dover ostacolare
l’iniziativa dei governi. Quanto al popolo, non c’è stata proprio nessunissima forma di
coinvolgimento democratico, ma non c’è stata neanche, piccole minoranze a parte, nessuna
significativa manifestazione di protesta, o anche solo d’interesse per il problema.
Non si tratta, beninteso, di condannare genericamente la guerra in quanto tale. La nostra, come si è
cercato di dimostrare in queste pagine, non è affatto una costituzione pacifista, ed è molto triste ma
anche molto vero che la guerra può essere uno strumento politico necessario, specialmente proprio
se, come con ottime ragioni hanno ritenuto i costituenti, la pace non è separabile dalla giustizia e
dalla libertà. Almeno in alcuni dei casi recenti di impiego bellico all’estero di truppe italiane, è del
tutto sostenibile che, magari accanto a moventi assai meno nobili e persino ridicoli, fosse davvero, e
magari ancora sia, questione di libertà degli altri popoli, di pace e di giustizia fra le Nazioni. Il
punto è un altro: qual è, a questo punto, il fondamento costituzionale della funzione militare, e che
cosa si può pretendere dal cittadino a questo riguardo? Possono i cittadini essere obbligati a
partecipare ad una guerra, quando non è per la patria che si combatte? Il dovere di difendere la pace
può avere la stessa estensione di quello di difendere la patria?
La base giuridica e morale del dovere patriottico sta nella condizione stessa di cittadino, titolare del
diritto supremo, la sovranità democratica, e appunto in quanto sovrano titolare anche del supremo
dovere, quello di provvedere al bene comune. Ma non esistono ancora cittadini del mondo. Per
quanto nobile sia l’ideale cosmopolita, esso non può creare doveri finché non crea i corrispondenti
diritti: finché non rende il cittadino partecipe di una sovranità transnazionale. La stessa limitazione
della sovranità statuale interna dell’Italia, prevista dall’art. 11, troverebbe piena giustificazione solo
in una tale estensione della sovranità popolare. Ma questo accade, anche se in maniera ancora
limitata e insoddisfacente, solo nelle istituzioni europee. Finché gli altri organismi internazionali,
l’ONU soprattutto, non saranno espressione dei popoli anziché degli Stati, la limitazione della
sovranità statuale colpisce anche il ruolo del cittadino, provocando una riduzione delle garanzie
democratiche. Fino all’ipotesi estrema di obbligare il cittadino a partecipare ad una guerra decisa da
organi non rappresentativi della sua volontà, organi di cui lo Stato italiano sarebbe solo una
componente tra molte altre, e non certo, malgrado il principio di parità, una delle più influenti.

4. Dall’esercito di popolo all’esercito professionale


Per molti anni nel secondo dopoguerra il ruolo internazionale dell’Italia è stato del tutto secondario,
e non ha comportato altri impegni militari se non una partecipazione in tono minore alla Nato. Il
solo impiego bellico prevedibile per le nostre truppe era la difesa della “soglia di Gorizia”, e ciò
rientrava nel tradizionalissimo compito di garantire la sicurezza dei confini. Pur nell’assenza di
valide misure di tutela della democraticità delle forze armate, il modello della difesa della patria
come giustificazione del servizio militare obbligatorio poteva reggere, e il contrasto di fondo fra
l’art. 11 e l’art. 52 era trascurabile ai fini pratici.
Gli ultimi decenni hanno visto però il completo sovvertimento di questo quadro. Uscita - forse solo
provvisoriamente - dalla sua tradizionale povertà e assunta inopinatamente tra le grandi potenze
economiche mondiali, l’Italia ha finito per assumere, in parte per scelta più o meno ragionata, in
parte perché trascinata dagli eventi, un ruolo politico e militare di assai maggior impegno, non più
riconducibile ai tradizionali limiti difensivi. Si può tornare a parlare, ormai, di politica di potenza,
buona o cattiva che sia questa politica. Il punto estremo - non ancora adeguatamente considerato in
sede storica - è stato probabilmente raggiunto con il ruolo svolto durante la crisi degli “euromissili”,
in cui l’Italia ha addirittura giocato un ruolo da potenza nucleare senza esserlo veramente.
Consentendo agli Stati Uniti l’apertura di basi missilistiche atomiche, l’Italia è andata ben oltre gli
obblighi derivanti da un’alleanza difensiva, cercando, al prezzo della propria sicurezza, una
partnership nella gestione di un’operazione estremamente rischiosa anche se fortunata: mettere in
crisi l’Unione Sovietica sottoponendola ad una pressione militare insostenibile per la sua economia.
La crisi del ruolo imperiale dell’Urss, il suo ripiegamento sui propri problemi interni ed infine il suo
crollo, che quest’operazione ha senza dubbio fortemente accelerato, hanno reso molto improbabile
lo scoppio di una guerra generalizzata in Europa, facendo venir meno lo scopo su cui tutta la nostra
organizzazione militare era stata costruita. In una situazione di sostanziale assenza di minacce
militari ai confini nazionali, un esercito di popolo ex art. 52 diviene del tutto inutile, e quindi
sproporzionatamente costoso. In un modo o nell’altro, bisognava sostituirlo con qualcos’altro.
Ci sarebbero state almeno due possibilità, la prima con due varianti molto differenziate tra loro.
La prima soluzione avrebbe potuto essere il ridimensionamento dell’esercito di leva e il suo
ridispiegamento sul territorio nazionale, accostandosi al modello simbolico-identitario di tipo
svizzero, eventualmente costituendo corpi speciali da integrare in strutture militari internazionali.
Oppure, variante più semplice, meno costosa e purtroppo assai più conforme alla tradizione
nazionale, ripensare l’esercito di leva in termini di tutela dell’ordine pubblico in ausilio alle forze di
polizia. Di entrambe le varianti, soprattutto della seconda, ci sono stati abbozzi e conati, ed il
ripensamento della difesa della patria in termini di difesa dell’ordine e sostanzialmente di difesa del
governo - o della sua ideologia e propaganda - è chiaramente un problema tutt’altro che superato.
Ma la soluzione che è prevalsa è un’altra: l’abolizione dell’esercito di leva e la sua sostituzione con
un esercito di professionisti, e quindi, di fatto - sia detto senza volerne fare scandalo - di mercenari,
com’è stato per secoli. Questo ha trasformato l’art- 52 in un mero appello retorico senza alcun
contenuto pratico: non si può parlare di abrogazione di fatto solo perché il ritorno all’esercito di
leva è sempre possibile, e in caso di fallimento dell’attuale modello s’imporrebbe di necessità, in
maniera del tutto legittima costituzionalmente. L’art. 52 attualmente è una sorta di possibile linea di
ripiegamento nel caso che si debba ripensare radicalmente la funzione delle forze armate. Che
attualmente è solo ed esclusivamente - almeno in linea di principio - quella prevista dall’art. 11. Il
che è meno bello di quel che sembrerebbe nel leggere le nobili parole dell’articolo. Significa, infatti,
che la funzione delle forze armate non è più difensiva, che il nesso con la sovranità popolare è
spezzato, che lo spirito democratico della Repubblica, nel loro ambito, è definitivamente
esorcizzato.
Questo ha risolto bene un problema, quello già considerato di sollevare il cittadino da doveri
militari che la mutata funzione delle forze armate renderebbe ingiustificabili, e sotto questo profilo
è socialmente apprezzabile. Ne deriva però un’organizzazione militare che - a parte le smanie
ricorrenti di mandare i soldati per strada a fare non si sa bene cosa - non potendo più essere definita
difensiva, deve necessariamente essere considerata offensiva. Ufficialmente al servizio di una
politica di pace, certo. Ma anche le legioni romane eseguivano una politica di pace, a modo loro. E
dove finisce la politica di pace e comincia una politica di potenza? E fino a che punto il carattere
professionale delle forze armate è ancora compatibile con un ruolo pubblico di rilievo
costituzionale, e da che punto in poi assume un carattere privatistico, contrattuale, come del resto
avveniva negli eserciti dinastici ancien régime, che conoscevano addirittura battaglioni e reggimenti
di proprietà privata?
La storia è ambigua e i testi normativi per forza di cose lo sono pure, specialmente quelli
costituzionali. L’art. 11 supera l’art. 52? Certo: si tratta di un modello molto più moderno, molto più
compatibile con la transizione in atto - bene o male - dalla dimensione nazionale - assolutamente da
non rimpiangere in quanto tale - a quella sovranazionale. In questo superamento, però, sparisce il
fondamento democratico della funzione militare, tramonta la figura del soldato citoyen. Resta il
professionista della pace armata, che naturalmente essendo armata è guerra, al servizio di governi
verso cui non si pone come cittadino membro del popolo sovrano, ma come dipendente retribuito.
Un modello che potrà anche avere delle buone utilizzazioni, ma non è in sé un buon modello.
Pensare che la Costituzione possa risolvere un problema che ha molto contribuito a creare non pare
particolarmente ragionevole, salvo che la si voglia leggere come una Costituzione che “vieta” la
guerra, il che equivale a inventare una Costituzione che non c’è. Questo problema la Costituzione lo
coglie, lo manifesta, lo rende straordinariamente chiaro proprio nel suo tentativo, nobilmente
incongruo, di far coesistere in qualche modo le Camicie Rosse con i Caschi Blu. Ma il problema
resta intatto, ed anzi si aggrava, nel momento in cui non esistono più le Camicie Rosse, e non si sa
bene chi siano, di chi siano e cosa debbano fare - e perché lo debbano fare - i Caschi Blu.
Il futuro di questo problema coincide con quello del rapporto fra nazioni ed enti sovranazionali. Se
si faranno passi avanti verso la sovranazionalità, anche gli eserciti avranno questo carattere. Si
chiameranno forze di pace, ma saranno eserciti imperiali. Non c’è ragione di pensare che si tratti
necessariamente di una brutta cosa. Gli imperi non sono per nulla qualcosa di peggio degli Stati
nazionali, che sono stati storicamente, per lo più, una cosa pessima. Oppure, se ci saranno battute
d’arresto del processo (una vera e propria inversione di tendenza è improbabile, e sarebbe
comunque catastrofica) in qualche modo necessariamente si ricadrà nel sacro dovere di difendere la
Patria, sperabilmente solo con eserciti da parata. Varrebbe la pena di tentare una soluzione di
compromesso: forze armate se non sovranazionali almeno transnazionali, in riferimento ad una
patria europea. Non è facile, ma nulla è stato facile nella costruzione dell’Europa unita, eppure
(bene o male) c’è.
Quanto alla pace vera, al definitivo superamento della guerra, alla non violenza, all’abolizione degli
eserciti, si tratta chiaramente di un’utopia. Ma un’utopia relativa, come tutto ciò che è umano.
Un’improbabilità tutt’altro che impossibile: anche l’abolizione della schiavitù è stata un’utopia per
millenni. Ed anzi, la paura nucleare l’ha resa un’improbabilità molto più possibile, come mai prima
nella storia. Ma prima ci debbono essere ancora molti passaggi intermedi. Se tutto va bene - e
naturalmente non è detto - ci penseranno i nostri pronipoti. I quali forse vedranno nelle nostre
incongruità e contraddizioni delle enormi e decisive conquiste. Compresa, forse, l’idea in effetti
piuttosto stravagante che si debbano avere eserciti per fare la pace.

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1. Originariamente pubblicato in AA. VV., Costituzione e realtà attuale: 1948-1988, a cura di L.
Lippolis, Giuffrè, Milano 1990, pp. 209-32; ripubblicato con modifiche in “Studi Urbinati”, sez. B,
Scienze Umane e Sociali, n. LXIII, 1990. Questo testo, il più antico del volume, è stato più volte
modificato e aggiornato, senza doverne mai cambiare l’assunto di fondo. Rinuncio ai nuovi
aggiornamenti che sarebbero richiesti dai sempre nuovi casi di “guerra per la pace” in cui il nostro
paese continua a essere coinvolto: non fanno che confermare, fino alla noia, quanto qui sostenuto.
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Bibliografia

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Indice dei nomi

Agnati, Luigi Francesco: 16


Agutí, Andrea: 101 n.
Alfieri, Letizia: 5, 16, 213 n., 214 n.
Alfieri, Luigi: 28 n., 31 n., 36 n., 57 n., 63 n., 136 n., 139 n., 233 n.
Allam, Khaled Fouad: 186 n., 202 n.
Amendola, Giovanni: 122 n.
Anders, Günther: 194 n.
Arendt, Hannah: 97 n., 101 n., 102 e n., 103, 104 n.
Ares (ο Marte): 163 n., 175, 189
Basso, Lelio: 122 n.
Bellei, Cristiano Maria: 16, 28 n., 31 n., 36 n., 57 n., 59 n., 63 n., 136 n., 222 n.
Bo, Carlo: 16
Borgia, Cesare: 232 n.
Bradford, Ernle: 195 n.
Breznev, Leonid Il’ìc: 182
Bush, George W.: 67 n., 182
Canetti, Elias: 12, 15, 30 n., 34 e n., 35 e n., 36 n., 37, 44 n., 63 n., 105 n, 108 e n., 109 e n, 117, 137
e n., 138 e n, 139 e n, 140 e n., 141 n, 143, 145, 147 e n., 148,149 e n, 150, 151 n., 152, 153 e n.,
154 e n., 156 e n., 158, 159 e n., 170, 171 n, 172 e n., 177 e n, 178 n., 180 n, 181 n, 197 n., 206 n.,
218 n, 224 n, 227 n.
Cavalli Sforza, Luca e Francesco: 215 n.
Cesare: 232
Colli, Giorgio: 223 n.
Corradini H. Broussard, Domenico: 233 n.
Costanzo, Giorgio: 221 n.
Cromwell, Oliver: 76, 88
De Benedetti, Paolo: 101 n.
Dei, Marcello: 16
Del Ninno, Maurizio: 16
De Simone, Antonio: 11, 15, 16
Dio: 30,32,33,34,36,37, 72,74,75,76, 77,79, 80, 81, 82, 84, 86, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 101 e n., 153,
186 n., 191, 204, 207, 209, 231, 232,233
Eichmann, Adolf: 102 e n., 103, 104 n.
Eliade, Mircea: 28 n.
Eraclito: 119 n., 223 e n.
Escobar, Roberto: 16,35 n., 46 n., 59 n., 60 n., 62 n., 99 n., 107 n., 109 n., 153 n., 156 n., 159 n.,
166 n., 206 n.
Esposito, Roberto: 26 n., 61 n., 67 n., 140 n.
Fabietti, Ugo: 28 n., 30 n., 54 n.
Faust: 234
Fiaschi, Giovanni: 20 n.
Fisichella, Domenico, 122 n.
Frank, Anna: 98
Frazer, James George: 215 n.
Fercioni Gnecchi, Luisa: 217 n.
Gandhi, Mohandas K., detto Mahatma: 191, 192
Garcia Lorca, Federico: 106
Garibaldi, Giuseppe: 245, 246
Geertz, Clifford: 21 n., 23 n., 29 n., 230 n.
Gehlen, Arnold: 23 n., 28 n., 29 n., 61 n., 169 e n., 215 n., 216 n.
Gentile, Giovanni: 122 n.
Gesù (o Cristo): 73, 74, 77, 93, 94, 95, 111, 112,113, 186 n.
Gheddafi, Mu'ammar: 184, 199
Girard, René: 23 n., 30 e n., 31 e n., 32 n., 33 e n., 35, 37, 57 n., 59 n., 108 e n., 113 n, 136 n., 203
n., 222 n.
Goethe, Johann Wolfgang: 234
Goldhagen, David J.: 103 n.
Golding, William: 63 n.
Grassi, Piergiorgio: 16
Hardt, Michael: 195 n.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich: 78
Hitler, Adolf: 61, 103 n, 116, 127, 192
Hobbes, Thomas: 15,49 e n, 51, 52 e n., 71 e n., 72, 73 n., 74,76,77, 78, 79 e n., 80, 81 e n., 82, 83 e
n., 84, 85 e n., 86, 87 e n., 88, 89 e n., 90, 91, 92, 93 e n., 94, 95 e n., 131, 132 e n., 140 n., 153,
159, 205 e n.
Hussein, Saddam: 184 n.
Jahn, Jahnheinz: 219 n.
Jung, Cari Gustav: 62 n.
Kammerer, Hans Peter: 16
Kelsen, Hans: 41 n.
Kerényi, Kàroly: 62 n.
Kim Il Sung: 185 n.
King, Martin Luther: 101
Kubrick, Stanley: 225
Leopardi, Giacomo: 224
Levi, Primo: 99 e n.
Lewellen, Ted C.: 51 n.
Mancini, Italo: 54 n., 61 n., 198 n.
Matteo (evangelista): 85
Mazzini, Giuseppe: 245
Maometto: 186 n.
Mao Zedong: 185 n.
Marx, Karl: 185 n., 190
Mini, Fabio: 163 n.
Moloc: 193
Mosci, Gastone: 16
Musil, Robert: 112 e n.
Mussolini, Benito: 122 n.
Napoleone I: 196
Negri, Antonio: 195 n.
Nicoletti, Michele: 118 n.
Nietzsche, Friedrich Wilhelm: 60 n., 118, 163, 167 e n., 169 e n., 232 e n., 233 e n.
Novalis, Georg Philipp Friedrich von Hardenberg detto: 216 n.
Obama, Barack Hussein: 67 n.
Orwell, George (pseudonimo di Eric Arthur Blair): 78
Otto, Rudolph: 27 n.
Pisacane, Carlo: 245
Pol Pot: 185 n.
Prometeo: 226, 231
Rousseau, Jean-Jacques: 87, 88
Sanchez Meijas, Ignacio: 107
Satana: 204
Scalzo, Domenico Sergio: 16, 28 n., 31 n., 36 n., 57 n., 63 n., 136 n.
Schmitt, Carl: 15,41 n, 47 n., 63 n, 76, 77 n., 83 n, 117,118 e n, 119, 120 e n., 121, 122 n, 123, 124,
127, 128 n, 129, 132 e n, 133 n., 134, 135 e n., 136 e n, 137 e n., 138 e n., 143, 145, 147 e n, 148,
150,153 e n., 159, 179 n., 194 e n.
Sciacca, Enzo, 215 n.
Shahrazàd (personaggio letterario): 59 n., 99 n., 109 n., 206 n.
Spinoza, Baruch: 95
Stalin, Josif Dzugasvili detto: 115
Svevo, Italo (pseudonimo di Aaron Ettore Schmitz): 213 e n., 234
Tönnies, Rudolf Ferdinand: 131
Treguer, Michel: 203 n.
Wright, Tom: 101, 102 e n.
Zarathustra: 60 n., 163, 167 n.
Zeus: 226

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* Sono omessi i nomi dei traduttori e dei curatori di testi, che vengono comunque indicati nella
Bibliografia.
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