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più oneste e risolutive mai dette sull’argomento. Di questo tema - nel senso musicale del termine - il
libro presenta una serie di variazioni, senza aggiungervi nulla e senza illudersi di poterne dare uno
sviluppo conclusivo.
Si è voluto fermamente evitare la banalizzazione moralistica: siamo cattivi, violenti, portatori di
“aggressività”, siamo manipolati e ingannati dal potere... Così non riusciamo più a vedere quello
che c’è di follemente e assurdamente grande nella guerra.
La guerra è l’enorme illusione di poter vincere la morte, di poterla uccidere. E quest’illusione rende
forse più di ogni altra la misura tragica e abissale della condizione umana.
Ma è ormai giunta, quest’illusione, alla svolta decisiva. Con l’arma atomica, la guerra non può più
essere ciò che era. Proprio nel momento in cui è diventata tecnicamente possibile la guerra assoluta
e totale, la guerra che uccide tutti e tutto distrugge, è venuta meno radicalmente la sua capacità di
dare senso. Siamo al bivio tra fine della guerra e fine dell’umanità, ed entrambe le cose sono
ugualmente possibili. In questo bivio è invitato a collocarsi il lettore: per quanto può, senza
abbassare lo sguardo.
In copertina: Λ soldier takes aim through a M42 Duster gun sight at Fort Bliss, Texas (July 1982).
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Ladri di Biblioteche
Luigi Alfieri
La stanchezza di Marte
Variazioni sul tema della guerra
Seconda edizione accresciuta
Morlacchi Editore
Introduzione
Questo libro è nato senza una mia precisa intenzione. Potrei dire che si è fatto da sé. Molte volte in
questi anni, in convegni o seminari di vario genere, mi sono trovato a parlare della guerra, dei suoi
fondamenti antropologici, delle sue trasformazioni in atto. Un convegno tende a generare l’altro,
così ho finito per mettere insieme parecchie pagine sull’argomento. L’idea di raccoglierle, magari di
rifonderle in una vera e propria monografia, l’avevo da un po’. Non so se l’avrei mai concretata
senza una casuale conversazione con l’amico Antonio De Simone, da cui è inopinatamente nato un
preciso progetto editoriale, con precise scadenze: fattore determinante, queste ultime. Ed ecco il
libro, quale che sia il suo valore, che non tendo ad esagerare.
Ho rinunciato subito a dargli un taglio monografico: mi sarebbe sembrato di barare un po’. O, più
esattamente, di mancare di rispetto all’argomento. La guerra è un culmine, il culmine direi anzi,
dell’esperienza umana. Come il lettore vedrà, le pagine che seguono collegano le trasformazioni
della guerra nel mondo contemporaneo addirittura ad un’idea di fine dell’uomo, non solo nel senso
tragicamente ovvio della sua possibile autodistruzione nucleare, ma anche in quello, forse meno
ovvio ma ugualmente tragico, di un suo possibile autosuperamento. Pensare di poter racchiudere
tutto ciò in una teoria articolata e argomentata, unitaria, logicamente sviluppata e, a questo punto,
con inevitabili pretese di compiutezza, sarebbe stato non solo azzardato, ma in qualche modo anche
poco onesto. Io sulla guerra ho dei pensieri, bene o male, ma certo non ho un pensiero. E tra i
pensieri che ho sulla guerra, c’è soprattutto quello che ci sia un abisso incolmabile tra la guerra
come esperienza - come esperienza estrema ed ultima, esperienza di morte, propria ed altrui - e
qualsiasi possibile teoria della guerra, e che anzi le teorie della guerra non siano mai innocenti
riguardo a quell’esperienza e siano sempre in qualche modo complici dei suoi periodici
scatenamenti, non eccettuando affatto le teorie pacifiste della guerra, che sono forse quelle che la
mascherano, la occultano di più. La pretesa stessa che una teoria della guerra possa anche solo
parzialmente esplicitarne la verità mi pare già una menzogna, e nessuna menzogna è innocente,
soprattutto su questo tema.
Non essendo il silenzio una buona alternativa, specie sotto il profilo dell’innocenza, s’imponeva un
compromesso: una sorta di minimalismo teorico, una teorizzazione rapsodica ed
autosmascherantesi, che continuamente rinvìi al nucleo rovente di verità di quell’esperienza e
continuamente ne ricordi l’indicibilità, l’intraducibilità in linguaggio. Che cioè rinvìi
continuamente, appunto, alla morte. “In guerra si tratta di uccidere”: queste parole semplicissime e
apparentemente ovvie di Elias Canetti mi sembrano le più oneste e risolutive mai dette
sull’argomento. Di questo tema - nel senso musicale del termine - questo libro presenta una serie di
variazioni, senza aggiungervi nulla e senza minimamente illudersi di poterne dare uno sviluppo
conclusivo. La continua ripetizione del tema, il continuo rifiuto di eluderlo o di farlo tacere, è stato
anzi il mio obiettivo principale. L’ho assunto come una sorta di dovere: dobbiamo saperlo,
dobbiamo dircelo, non dobbiamo mai dimenticare che in guerra si tratta di uccidere - e
assolutamente di nient'altro.
Ma qui sorge subito un altro dovere, quello di non tradire questa consapevolezza morale
riducendola a banalità moralistica: siamo cattivi, siamo violenti, siamo portatori di “aggressività”,
siamo manipolati e ingannati dal potere... No, così non ha più senso, così non si capisce più niente.
Così non riusciamo più a vedere quello che c’è di indiscutibilmente grande nella guerra: la capacità
del più inerme perché più consapevole tra tutti gli esseri viventi di trasformare l’oggetto
onnipresente e ossessivo del suo continuo terrore - la morte, appunto - nel più potente e seduttivo
oggetto di desiderio. Gli uomini fanno la guerra perché la amano, molto semplicemente. E la amano
perché nulla più di questa totale offerta di sé alla morte li libera dalla paura di morire. La guerra è
l’enorme illusione di poter vincere la morte, di poterla uccidere. E quest’illusione - che è una delle
più poetiche e metafisiche di tutte, ci si sforzi di capirlo - rende forse più di ogni altra la misura
tragica e abissale della condizione umana, mostrando allo stesso tempo che l’uomo può essere
all’altezza della propria tragedia. Chi scrive non ama la guerra - e per questo si pagano dei prezzi,
non è una cosa ovvia e innocua, neanche una cosa “buona” - ma si sforza di non negare il proprio
rispetto a chi nei millenni ha vissuto quest’amore. In cui c’è più verità umana di quanta ce ne sia in
molto cosiddetto pacifismo. Verso il quale chi scrive sente una nausea piuttosto intensa e che non ha
nessuna intenzione di nascondere, come peraltro nei confronti della maggior parte delle virtù. Tanto
peggio per chi non lo capirà.
Se questo è in qualche modo il basso continuo che sostiene l’intero testo - ma non ho abbastanza
competenze musicali per insistere troppo sulla metafora - l’idea principale però non va nel segno
della continuità. Anzi, si tratta proprio dell’idea che una costante umana sia da pochissimo
cambiata. E che quindi l’uomo stesso non sia più ciò che era, tanto da non potersi più propriamente
definire uomo. Proprio perché la guerra non può più essere ciò che era: non è più possibile volerla
apertamente, amarla, non è più possibile addirittura nominarla. Proprio nel momento in cui è
diventata tecnicamente possibile la guerra assoluta e totale, la guerra che uccide tutti e tutto
distrugge, è venuta meno radicalmente la sua capacità di dare senso. In qualche modo la guerra è
finita: c’è ancora, certo, qualcosa che le assomiglia, che ne ha preso il posto, che ha con lei in
qualche modo un rapporto ereditario, ma non è più la stessa cosa e quasi sempre ne rifiuta anche il
nome.
Questa è un’altra ragione per cui non potevo scrivere una monografia. Si parla in questo libro di un
evento nuovo e larghissimamente incompiuto, che ha appena cominciato a produrre le sue
conseguenze ed ha aperto un campo di totale imprevedibilità. Mai probabilmente il futuro
dell’uomo è stato tanto aperto, e mai è stato più difficile parlarne. Il ventaglio delle possibilità è
aperto tra i due estremi: o tutto - l’uomo che si supera, che diviene altro da sé è inizia una storia
nuova nel senso più forte che il termine abbia mai avuto - o nulla - l’autodistruzione nucleare,
probabilmente neanche voluta, puramente casuale, un incidente tecnico, un computer che va in tilt o
qualcosa del genere. Soffermarsi di fronte a quest’immensa e agghiacciante apertura cercando di
non abbassare lo sguardo è tutto ciò che sia possibile fare, e non mi è sembrato poco, e mi è costato
fatica. Fingere false compiutezze e avventurarmi in una teoria del tutto o nulla sarebbe andato
troppo contro il mio senso del ridicolo.
Inoltre, mi è sembrato giusto lasciar traccia del fatto che i pensieri, quando non vogliono diventare
un pensiero, cambiano. Cambiano tornando su di sé, ripercorrendosi, ritrovando le proprie ragioni
ed accumulando ogni volta degli scarti rispetto al percorso già compiuto. Per questo ho voluto
accettare il rischio della ripetitività. So benissimo che tutta la seconda parte del volume, soprattutto,
è ripetitiva. Per tre volte si dicono quasi le stesse cose. Quasi: ogni volta qualcosa cambia un po’.
Ogni volta aumenta la paura, ogni volta cresce il dubbio. Si comincia da una sorta di proclama di
vittoria della guerra su se stessa, per approfondire sempre di più il dubbio che la logica
dell’“impossibilità” della guerra possa essere rovesciata da quella dimensione assolutamente
mistica che è il Terrore. Musicalmente parlando, la ripetizione qui è un crescendo. Ma la musica
non è lieta.
Peraltro, il libro non è pessimista, nell’insieme. L’epilogo anzi è ottimista al massimo grado. A
modo mio. Pensavo di essermi lasciato alle spalle da molto tempo i miei giovanili amori
nietzschiani. Mi sono accorto solo dopo che il capitolo su natura e tecnica è il testo più nietzschiano
che io abbia mai scritto. Risolutamente in direzione dell’oltreumano. Senza illudersi che sia una
direzione facile e comoda, sapendo che ci saranno dei passi terribili da compiere, ma nella fiducia
che in qualche modo sapremo essere all’altezza delle nostre tragedie future come lo siamo stati
delle nostre tragedie passate. Mi è anche venuto il dubbio di aver scritto in questo capitolo il mio
lavoro più cristiano. Giuro che non l’ho fatto apposta; comunque non mi dispiacerebbe per niente.
Nella sua frammentarietà, che rivendico, il libro ha però, credo, una sua coerenza, un suo
riconoscibile sviluppo. Un prologo, la costruzione dell’identità mediante il conflitto delle
differenze; due sviluppi, uno più generale, il legame tra violenza e sovranità, ed uno più specifico,
le trasformazioni della guerra nel mondo contemporaneo; un epilogo, l’alternativa radicale tra
distruzione totale e totale trasformazione. L’appendice è una sorta di narcisistico omaggio al mio
passato, la ripresa di un vecchissimo testo risalente addirittura agli anni in cui tentavo di fare il
giurista e da giurista m’interrogavo sull’esplicita autocontraddittorietà del diritto proprio nei testi
più fondativi, quelli costituzionali, quando il diritto prevede la propria violazione e costruisce forme
giuridiche dell’antigiuridico, addirittura normando la guerra. E' l’unico testo che, senza stravolgerlo,
ho in buona parte dovuto riscrivere rispetto alla stesura originaria, che già riprendeva inediti molto
precedenti. Mi è sembrato che, senza attribuirgli alcuna particolare importanza, non fosse del tutto
superfluo di fronte all’insopportabile superficialità della corrente letteratura giuridica sulla guerra, e
specialmente sulla guerra nella Costituzione italiana.
///
Antonio De Simone si è assunto un’altra dura responsabilità verso il genere umano: mi ha convinto
a preparare una seconda edizione del volume, ormai quasi esaurito, aggiungendovi altri miei due
lavori più o meno pertinenti. Li inserisco come capitoli III e V. Si tratta di un tentativo di scrostare
da Hobbes un po’ di polvere secolare e alcuni equivoci novecenteschi e di un confronto tra Schmitt
e Canetti molto antipatizzante nei confronti del primo.
Nell’insieme danno alla parte teorica del volume una certa preponderanza su quella, diciamo così,
empirica, e danno alla seconda edizione una tonalità un po’ più filosofica rispetto alla prima. Ho
qualche dubbio che sia un miglioramento, forse crea uno squilibrio. Dovrò farmi venire qualche
buona idea sulla guerra come esperienza e sui suoi cambiamenti, che naturalmente continuano a un
ritmo parecchio accelerato. Incombe il rischio di una terza edizione.
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Naturalmente, tutti i miei amici e interlocutori abituali hanno avuto qualche parte nella gestazione
di questo scritto e nella sua ulteriore maturazione in questi anni, molti senza saperlo. Ho già
ricordato il ruolo decisivo di Antonio De Simone; diverso ma altrettanto decisivo quello di Roberto
Escobar, senza i cui pensieri non saprei più pensare i miei. Ricordo anche con gratitudine Cristiano
Bellei e Sergio Scalzo, grazie ai quali non penso mai da solo. Rivolgo un pensiero particolarmente
affettuoso a Luigi Francesco Agnati, medico umanista di vecchia scuola ma anche scienziato
d’avanguardia: averlo incontrato è stata una delle esperienze intellettuali e umane più arricchenti di
questi anni.
Ma non voglio trascurare i colleghi dell’Università “Carlo Bo” di Urbino, che nominerei uno per
uno se non fosse troppo lungo e noioso per il lettore, ai quali devo che un lavoro sempre meno
gratificante e sempre più impiegatizio sia spesso illuminato dal sorriso dell’ironia e dell’amicizia.
Ne voglio però nominare almeno alcuni, che in questi ultimi anni hanno raggiunto la pensione
(comincio un po’ a invidiarli, cosa che non mi sarei aspettato fino a qualche tempo fa): Marcello
Dei, Piergiorgio Grassi, Hans Peter Kammerer, Gastone Mosci. Uno, che ho molto stimato senza
mai frequentarlo, voglio salutarlo qui a pochi giorni dalla sua scomparsa: Maurizio Del Ninno.
Ciao, Maurizio. Adesso sai se c’è qualcosa da sapere.
Un pensiero affettuoso, infine, a mia figlia Letizia, che mi ha dato alcune idee, ha provato a
smontarne alcune altre, e che è spesso la vera destinataria dei miei pensieri, anche quando molto
giustamente non le interessano. Il volume resta dedicato a lei, con una dedica diversa, in un diverso
momento della sua esperienza, sicuramente migliore pur se difficile come sempre è la vita. Il
mondo è come è, ma tieni duro, bimba mia. Non gliela daremo vinta.
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Urbino, 1 agosto 2008 - 14 luglio 2011
1. Dire la “verità”
L' irrazionalità di cui parlo - e non è casuale che questa sia la prima parola in un libro sulla guerra -
non è assenza di ragione, a-razionalità, e neppure ostilità alla ragione, antirazionalità (sarebbe
troppo semplice, e semplice purtroppo non è). Si tratta invece di una dimensione esistenziale
autonoma, distinta dalla ragione, ma con essa eventualmente compatibile. Ci sono modi
razionalissimi di essere irrazionali, ed anzi senza irrazionalità la ragione non avrebbe nulla da
mordere, annasperebbe nel vuoto. La dimensione dell’“irrazionale”, come qui la s’intende, è
addirittura ciò che fonda lo spazio della politica, quindi anche i suoi sviluppi più ragionevoli e
ragionati.
Non merita alcuna indulgenza lo sciocco snobismo irrazionalista che ha connotato certi aspetti della
teoria politica, e nani raímente e ben di più anche della prassi. Ma, d’altra parte, non si va lontano
neppure con il feticismo della ragione, con la sua reificazione essenzialista. La ragione non è una
“facoltà”, e tanto meno è la sostanza dell’uomo. Una simile concezione dev’essere perdonata ai
filosofi del passato, che di una sostanza spirituale come fondamento universale di verità avevano un
disperato bisogno, non poco condizionato da motivazioni religiose; ma oggi un tale modo di
pensare appare una curiosa superstizione.
Del resto, non si tratta di essere “moderni” a tutti i costi: si tratta semmai proprio di essere antichi,
di risalire alle radici. Al logos, che assolutamente non è “ragione”2. E' discorso, linguaggio,
comunicazione. E' il discorso coerentemente e rigorosamente sviluppato secondo regole
chiaramente precisate e condivise da tutti gli interlocutori: il discorso che procede mantenendo la
consapevolezza del suo cammino, che colpisce dritto il bersaglio, essendo fermamente controllato,
in ogni momento del suo farsi, da un codice comunicativo sul cui rispetto ogni interlocutore vigila
attentamente. Logico è il discorso in cui ogni parola mantiene sempre il suo significato, che è lo
stesso per tutti, il discorso senza sbavature ed ambiguità, senza spazi indefiniti che consentano
l’irruzione di elementi esterni al codice prestabilito (come passioni, emozioni, interessi). E' quindi il
discorso impersonale, in cui ognuno dice solo ciò che deve essere detto, ciò che in base alle regole
assunte in certo modo si dice da sé, tanto che ogni interlocutore potrebbe scambiarsi le parti con
altri, perché non è il singolo soggetto a parlare, ma la comunità stessa che ha prodotto quelle regole
(o piuttosto, la comunità che da quelle regole è stata prodotta).
Logico è essenzialmente il discorso pubblico, in un senso molto forte del termine. Non il discorso
che avviene in pubblico, o secondo un linguaggio pubblicamente riconosciuto: ciò sarebbe vero per
ogni discorso a cui si possa attribuire un senso, e saremmo nell’ambito non della logica (della
“ragione”), ma genericamente della cultura, nel senso antropologico del termine 3. Si tratta piuttosto
di un discorso corale, in cui tutti, insieme, dicono le stesse cose, di un discorso in cui, una volta reso
comune il punto di partenza, non emergono mai differenze (se emergessero, dovrebbero essere
riconosciute come errori da quelli stessi che le hanno prodotte, i quali altrimenti sarebbero espulsi
dalla comunità dei parlanti). Che un discorso con queste caratteristiche sia “vero” nel senso di
“conforme ad una realtà esterna oggettiva” è ovviamente una mera superstizione, peraltro difficile
da superare, perché un’“oggettività” si produce davvero quando tutti siamo d’accordo che si dice
così e così, e nessuno di noi è capace di immaginare, o disposto a tollerare, che si dica
diversamente. E questo basta ampiamente perché si diano solidissime “verità”.
Il grande sforzo, fallito, della “razionalità” antica è proprio quello di costruire in questo modo il
discorso politico. E' precisamente per questo che il mondo antico, sebbene abbia prodotto una prassi
democratica, ed anzi abbia inventato la democrazia come prassi, non ha mai prodotto una vera
teoria democratica4. La democrazia appunto, secondo la visione antica, non può essere teoria:
ognuno dice cose diverse, ognuno dice quello che gli conviene, il coro non c’è o è stonato, la parola
unica e cogente non riesce ad essere detta. Per questo tutti i filosofi antichi hanno lasciato con
sdegno l’assemblea, cercando altrove, senza mai trovarlo malgrado molte illusioni, il “luogo” per
questa parola. Sono riusciti benissimo, invece, a creare il modello imperituro del discorso logico-
matematico (geometrico, più precisamente), e quindi del discorso scientifico. Un po’ meno bene gli
è andata proprio col discorso filosofico: nel frattempo è intervenuta appunto la reificazione della
ragione, e la verità è divenuta una cosa che non parla, ma semplicemente è. E non bisogna attribuire
troppe colpe in proposito al cristianesimo (che quando è fedele a se stesso è fedele proprio alla
concezione del Logos come parola), perché già ben prima quest’evidente illusione è stata la
consolazione dei filosofi di fronte all’insopprimibile cacofonia delle voci fuori del coro, che parlano
senza ordine, regola e consenso, che parlano confliggendo. Che la parola da tutti taciuta, almeno, sia
una parola che è. Alla fine, resta per forza proprio la parola Essere. E molte cose ne sono nate,
buone e cattive.
9. L’ultimo totem
Canetti e Girard hanno entrambi ragione. Ma non separatamente: hanno ragione solo insieme. La
Morte è dentro, la Morte è fuori. Il Non-noi è dentro e fuori: noi siamo Noi girando in tondo. Il
Non-noi ci colpisce: è sempre troppo forte, non possiamo mai sconfiggerlo del tutto. Ma
continuiamo a cacciarlo fuori, o a schiacciarlo dentro, espellendo o comprimendo quella parte di noi
che ne è stata vittima, che ne è stata infettata, che è diventata Morte. Il cerchio è una macchina da
espulsioni: riceve caos e lo ricaccia fuori, dalla periferia permeabile o dal buco nero centrale, e così
continua a girare. Macinando caos produce senso, cioè energia per girare ancora. Moto perpetuo: è
la macchina ideale33.
Non c’è neanche così bisogno che si uccida, in realtà 34. Uccidiamo moltissimo, s’intende. Ma non
uccidiamo sempre. Facciamo tante altre cose. Anzitutto, ci costruiamo. Identità collettive. Noi
siamo i Parrocchetti. Noi siamo i Figli del Sole. Noi siamo i Figli di Dio. Noi siamo la Grande
Nazione. Noi siamo i Difensori della Libertà. Noi siamo i Veri Democratici. Il cerchio gira, produce
senso, ne produce sempre di più. Può anche rallentare le uccisioni, a volte. O renderle virtuali. Tutte
le uccisioni possibili, tutte in una volta. Ma non per davvero. Non in atto. Solo come possibilità,
continuamente rinviata.
La Bomba: il nuovo centro intorno a cui giriamo. La Morte in persona, come sempre, più di sempre.
Ma virtuale, appunto. La Bomba, nessuno vuole che scoppi. Ci abbiamo chiuso dentro la Morte,
rendendola contemporaneamente potentissima e prigioniera. Non perché ci siamo educati alla bontà
e all’amore, non perché abbiamo conquistato la virtù e la saggezza, ma perché abbiamo continuato
con estremo rigore e coerenza - vorrei dire con ottusità geniale, con eroica stupidità - a fare quel che
sempre abbiamo fatto, cioè fondare l’ordine sulla paura, cercare rifugio nel terrore, trasformare la
morte in principio costruttivo, abbiamo raggiunto il punto di non ritorno da cui nasce una svolta
radicale. La guerra l’abbiamo sempre fatta. Ma adesso, o la guerra finisce, o finiamo noi 35.
La tecnica, con tutta la sua infinita possibilità distruttiva, è il nuovo principio dell’ordine mondiale.
Non c’è dubbio che sia un male, come tutti dicono. Il punto è che, come sempre, il male ha due
facce. Potenziandone al massimo la distruttività, cresce all’estremo anche la sua dimensione
costruttiva e salvifica. Solo quando un singolo gesto di un singolo uomo è sufficiente a distruggere
il mondo, il potere perde completamente la capacità di ingannarci, di farsi credere vita e non morte.
Il potere assoluto, tanto assoluto quanto mai in passato era stato possibile immaginarlo, coincide
con l’assoluta impotenza e si paralizza da solo. Il gesto dell’onnipotenza, infine, non sarebbe che un
suicidio.
Naturalmente, nulla garantisce che questo suicidio non ci sarà: non è da sperare che il maneggiare
l’arma assoluta conferisca di per sé al potere quella saggezza e prudenza che gli sono
originariamente, istituzionalmente estranee. La sola novità incoraggiante, piuttosto, è che proprio la
costitutiva follia del potere viene inceppata da questo meccanismo. Se il potere, come Canetti lo
intende, è una continua fuga dalla morte nella morte, ora questa fuga è definitivamente impossibile.
Non c’è più rifugio dalla propria morte nella morte altrui. Per la prima volta, non è possibile
uccidere altri senza uccidere se stessi. La morte non è più eludibile, non si può più scansarla
deviandola su altri. La sola possibilità di vincere su di lei è vigilarla, custodirla, lasciarla immobile
al centro, paralizzata. Paralizzando con ciò anche il potere nella sua dimensione essenziale.
Potrebbe non essere peggio del cristianesimo cadaverico di Girard. Dopo tutto, la Morte intorno a
cui in questo modo giriamo è solo la Tecnica, non è Dio. Del resto, non ci è data alcuna scelta. La
grande novità, appunto, è che tutte le vie di fuga sono chiuse. Il meccanismo fondante non è mai
stato così chiaro, così nudo sotto gli occhi di tutti. Così definitivo. Così definitivamente
insormontabile: la Bomba non verrà mai “disinventata”. Nello stesso tempo, però, l’essenza
fondativa del potere non è mai stata così inerte, così disarmata, così povera d’orpelli e d’attrattive,
così meschina e miserabile, così senza gloria. Non c’è mai stato un simile spazio per imparare a dire
noi senza dire morte.
Intanto, siamo sempre lì. Il cerchio gira. Noi siamo gli Animali Simbolici. Noi siamo i Costruttori
del Senso. La Morte è dentro, la Morte è fuori. Noi la teniamo dentro, noi la teniamo fuori. Tutto
sommato, ci riusciamo bene. L’ambiente non ci ha ancora risucchiato, il caos non ha ancora vinto.
Ormai sappiamo di che si tratta: di controllare la morte, di non lasciarle l’ultima parola, di garantirci
sempre un’eccedenza di senso, un surplus di vita che consenta di continuare a girare. Ed ora che lo
sappiamo, forse non abbiamo motivo di disperarci. Non sottovalutiamo le nostre capacità. Se
abbiamo raggiunto l’onnipotenza nell’uccidere, cosa potremo fare quando a uccidere avremo
definitivamente rinunciato? Non dimentichiamo da quale originario non senso siamo partiti, quanto
a lungo nei confronti della Morte non abbiamo potuto permetterci altro se non di giocare a
nascondino.
Il cerchio gira da un bel po’. Sarebbe un peccato che si fermasse proprio ora. Ora che, per la prima
volta, Noi potrebbe significare: tutti. Ora che il linguaggio simbolico delle identità collettive ha
assunto un’ampiezza, una complessità, una drammaticità, una tensione, una potenza creativo-
distruttiva tali da aprire la strada per un nuovo logos. O per il silenzio ultimo, come sola alternativa.
Nell’ipotesi che proprio questa debba essere la nostra fine, peraltro, sul piano della cosmodicea ci
sarebbe poco da ridire. Se di fronte a una morte definitivamente smascherata non sapremo fare nulla
di meno stupido che ammazzarci tutti, ce lo saremo proprio meritato.
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1. Originariamente pubblicato in AA. VV., L'irrazionale e la politica. Profili di simbolica politico-
giuridica, a cura di C. Bonvecchio, Ed. Università di Trieste, Trieste 2001.
2. Anche in omaggio all’origine di questo scritto, rinvio in proposito alle illuminanti e condivisibili
considerazioni di Giovanni Fiaschi, nel volume che ne ha ospitato la prima stesura. Cfr. G. Fiaschi,
Il desiderio del Leviatano, in AA. VV., Id irrazionale e la politica. Profili di simbolica politico-
giuridica, cit., Edizioni Università di Trieste, Trieste 2001, pp. 148-65.
3. Cfr. p. es. C. Geertz, Verso una teoria interpretativa della cultura, in Id., interpretazione di
culture, trad, di E. Bona, Il Mulino, Bologna 1989 (rist.), sp. pp. 47-51.
4. Per alcune sommarie considerazioni a questo proposito, rinvio al mio Libertà senza verità:
filosofia, simboli e democrazia, in AA. VV., Filosofia e democrazia (Atti del II Seminario di
filosofia politica, Certosa di Pontignano, 22-24 novembre 1990), a cura di D. Fiorot, Giappichelli,
Torino 1992, pp. 211-3. 5. Per una più ampia riflessione sul tema, rinvio al mio saggio Identità e
differenza nelle soggettività collettive, in AA. VV, Il soggetto politico, tra identità e differenza (Atti
del IV Seminario di filosofia politica, Certosa di Pontignano, 27-29 aprile 1995), a cura di D.
Fiorot, Giappichelli, Torino 1998, pp. 193-201.
6. Cfr. A. Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, introduzione di K.-S. Rehberg,
trad, di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1990 (rist.), sp. pp. 35-73; cfr. anche C. Geertz, L'impatto
del concetto di cultura sul concetto di uomo, in Id., Interpretazione di culture, cit., pp. 75-9. Ma
debbo rinviare pure al capitolo IX di questo volume.
7. Il concetto d’istinto, almeno nelle sue accezioni correnti, è talmente vago ed ambiguo da non
avere praticamente alcun senso euristico. A parte ciò, è logicamente impossibile utilizzarlo per
spiegare proprio un atto fondativo, quindi nuovo per definizione, difforme dagli schemi
comportamentali precedenti. Non a caso, tutti i più importanti tentativi contemporanei di costruire
un’ipotesi sull’origine della socialità umana presuppongono proprio una rottura con la dimensione
istintuale del comportamento animale. Cfr. A. (ìehlen, Duomo. La sua natura e il suo posto nel
mondo, cit., pp. 50-8; cfr. anche R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo,
trad, di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983, sp. pp. 121-7.
8. Su basi alquanto diverse, giungo alla stessa conclusione di Roberto Esposito. Cfr. R. Esposito,
Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, sp. Introduzione, pp. IX-
XXXVI.
9. È la celebre definizione del “sacro” proposta da Rudolph Otto. Cfr. R. Otto, Il sacro, trad, di E.
Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 1966.
10. Cfr. A Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 360-1.
11. Cfr. U. Fabietti, L'identità etnica, Carocci, Roma 19982, pp. 16-8.
12. Su questa dimensione complessa ed ambivalente rinvio al mio saggio Il Terzo che deve morire,
in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e simboli dell'ordine violento. Percorsi fra
antropologia e filosofia politica, Giappichelli, Torino 2003, pp. 81-6.
13. Sul concetto di ierofania, cfr. Μ. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad, di V. Vacca,
Boringhieri, Torino 19722, pp. 3-41.
14. È l’esempio classico del “totemismo”. Cfr. A Gehlen, L' uomo. La sua natura e il suo posto nel
mondo, cit., p. 361, e C. Geertz, La religione come sistema culturale, in Id., Interpretazione di
culture, cit., pp. 179-80.
15. Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale. L esperienza e l'interpretazione, Laterza, Roma-Bari
1999, pp. 249-50.
16. Di grandissimo interesse sono, a questo proposito, le considerazioni di Elias Canetti sul
simbolismo di massa e di nazionalità. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, trad, di E Jesi, Adelphi,
Milano 1981, pp. 90-108 e 201-13.
17. Cfr. p. es. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 41-8.
18. Cfr. p. es. ivi, pp. 41-2; cfr. anche il mio saggio Dal conflitto dei doppi alla trascendenza
giudiziaria. Il problema politico e giuridico in René Girard, in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo,
Ligure e simboli dell'ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit., pp. 30-3.
19. Cfr. ivi, pp. 26-9, e R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 116-
21.
20. Cfr. p. es. R. Girard, La violenza e il sacro, trad, di O Fatica ed E. Czerkl, Adelphi, Milano
19862, pp. 109-22.
21. C£r. p. es. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 68-71.
22. Cfr. sp. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 123-60.
23. Cfr. p. es. R. Girard, L'antica via degli empi, trad, di C. Giardino, Adelphi, Milano 1994, pp.
141-8.
24. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., sp. pp. 112-22; cfr. anche Id., L’antica via degli empi,
cit., pp. 56-65.
25. C£r. p. es. R. Girard, Il capro espiatorio, trad, di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987,
pp. 74-7.
26. Cfr. sp. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 235-83; cfr.
anche Id., Il capro espiatorio, cit., pp. 305-25.
27. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 80-7.
28. Cfr. R. Escobar, Il campanile di Marcellinara. Ipotesi sull'obbedienza, in G. Μ. Chiodi (a cura
di), L'immaginario e il potere, Giappichelli, Torino 1992, pp. 183-209. Cfr. anche infra, cap. VI.
29. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 273-9.
30. Cfr. ivi, pp. 279-82.
31. Cfr. ivi, pp. 58-62.
32. Cfr. ivi, pp. 69-73.
33. Cfr. il mio saggio II Terzo che deve morire, in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e
simboli dell'ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit., pp. 94-7.
34. Cfr. ivi, pp. 102-9.
35. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 569-71. Ma rinvio anche al cap. VI di questo volume.
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5. In marcia, uccisori
Le due ipotesi appena enunciate non si escludono a vicenda. Anzi, potremmo dire che si
completano. Per volere o accettare un sovrano, bisogna credere che pacificherà. Grande, immensa
anzi, è sempre la forza del disordine, del caos che preme ai confini, della paura, radicata nel cuore
dell’esistenza e mai realmente superabile. Bisogna credere che qualcuno possa allontanare il male o
limitarlo, aprendoci uno spazio di sicurezza e di pace. Non c’è solo servilismo nella volontà di avere
un sovrano, sebbene il servilismo non sia mai raro nella storia degli uomini. C’è anzitutto la volontà
di un principio unificatore, di qualcuno o qualcosa che garantisca la possibilità dell’incontro, della
convergenza d’intenti, dello scambio pacifico e concorde.
Per questo non ci basterebbe l’essere semplicemente liberi. Una torre dalle solide mura o un buon
fucile possono bastare, per essere liberi. Ma questo, di per sé, non ci dà un senso. Un termine vago,
che conviene prendere in un’accezione molto concreta e specifica: senso è anzitutto direzione. In un
contesto, per così dire, di libertà originaria, di pari uccidibilità hobbesiana, si sta fermi o ci si muove
nella propria breve cerchia. Non si ha un cammino da compiere. Non si ha un compito. Non si ha un
destino. Anzi, ci si paralizza a vicenda: nessuno potrebbe muoversi (in senso reale o figurato) al di
fuori dello spazio che è riuscito a delimitare come proprio senza invadere o impedire lo spazio di un
altro. Si sta in pace e in sicurezza solo se si sta tutti fermi. Ciò è terribilmente angosciante: perché
non abbiamo abbastanza tempo da poter apprezzare a lungo la sicurezza. Tutte le torri prima o poi
crollano, e nessun fucile può sparare alla morte. È questo il limite invalicabile dell’esperienza
individuale, ma anche il limite decisivo dell’individualismo come teoria, come forma di pensiero.
L’indipendenza reciproca (la pari uccidibilità) può darci sicurezza meglio di quanto farebbe
qualunque sovrano. Ma ci lascia soli con la nostra morte. E non è tanto della morte che abbiamo
paura, quanto dell’essere soli con lei: del non poter avere ima storia che, collegandoci insieme, ci
apra un futuro indeterminato, ci consenta di pensare a noi, al noi anzi, come qualcosa che non
muore, rendendoci così perfettamente tollerabile (o desiderabile, addirittura) che muoia l’io. Per
questo crediamo così facilmente alla promessa del sovrano (o aspirante tale) di darci la pace: quella
pace che in realtà abbiamo già, per conto nostro, ma per conto nostro non ha appunto senso.
Il sovrano mente, nella sua promessa? Può darsi, ma non è così ovvio come si potrebbe pensare.
Anzi, è tutto sommato piuttosto improbabile. L’idea del sovrano (o, più semplicemente e
genericamente, del capo, del potente, del leader) che come un truffatore qualsiasi inganna
coscientemente e spudoratamente i suoi seguaci per ricavarne vantaggi personali, ha una
verosimiglianza storica e psicologica davvero scarsa. O meglio: spesso il “capo” mentirà senza
ritegno in moltissime cose, magari anche per i vantaggi personali più abietti, ma quasi mai mentirà
coscientemente riguardo a ciò che rappresenta l’essenza della sua promessa, del consenso che gode,
la base della sua legittimità, e cioè proprio l’indicazione di un senso, di una direzione di marcia, la
costruzione di un piano, di un progetto di convergenza ed unificazione delle volontà e dei destini.
Se il capo non crede nel suo senso, che capo è? Se lui per primo si sa illegittimo, com’è possibile
che il suo potere si consolidi, che gli altri credano a lungo nella sua legittimità? Può darsi che il
capo menta; ma per avere efficacia politica apprezzabile ed essere qualcosa di più che il
protagonista di una breve tragicommedia, deve allora saper mentire anzitutto a se stesso.
Si può forse tentare, ora, un passo avanti nella comprensione di ciò che è legittimità. È anzitutto
consenso, lo si è già visto. Ma in un’accezione etimologica molto precisa: con-senso, senso
condiviso, senso comune. Consenso è ciò che ci fa procedere insieme, che ci fa marciare insieme,
che ci dà una direzione, una strada, un obiettivo. Che ci dà un nemico. Che traspone la nostra
distruttività dalla dimensione disgiuntiva dell’essere parimenti uccidibili a quella congiuntiva
dell’essere consensualmente uccisori20.
E' a questo che serve realmente il sovrano hobbesiano. Non a darci la pace, che avremmo già, ma a
darci la guerra. Non per sadismo, malvagità o “aggressività” (un mito pseudoscientifico,
quest’ultima, che non dovrebbe entrare in un discorso serio). Ma perché è il modo più semplice
d’inserirci in una direzione, di costruire una storia comune, di perseguire un progetto che ci
consenta di proiettare la nostra esistenza fino a un tempo al di là di noi, sia nel passato sia nel
futuro. Il consenso legittima anzitutto se stesso: ogni senso comune è garantito, è indiscutibile, è
certo, è continuamente confermato dal “sì” di tutti, realizza con una facilità altrimenti impensabile
l’unità di linguaggi. Il sovrano è la via più breve (non l’unica, in verità) per giungere al “noi”. Non è
un fine, è uno strumento. Viene usato da quelli stessi che usa. Viene usato anzitutto per potersi
rappresentare in un’immagine potente, solenne, chiara, mostruosamente grandiosa e grandiosamente
mostruosa, leviatanica, l’immenso sollievo del passaggio dalla dimensione dell’essere uccidibili a
quella dell’essere uccisori.
Per questo la seconda risposta alla domanda sulla funzione del sovrano non è per niente in contrasto
con la prima, ma ne è un logico sviluppo. Vogliamo il sovrano per avere una protezione non contro
il bellum hobbesiano, ma contro la solitudine del non-senso, contro la gratuità di un’esistenza che,
in quanto isolata e fuori di un senso comune, non ha altro luogo verso cui procedere che non sia la
morte, la morte come mero nulla, come indicibilità e silenzio, come fine d’ogni possibile
linguaggio. Noi stessi, ciascuno di noi, non siamo dicibili se non riusciamo a dirci sulla nostra
morte qualcosa che abbia senso, cioè ci metta in cammino con altri. Abbiamo tutti bisogno di
salvarci nel linguaggio, in parole definitive, in parole che fondino, consolidino, formino il nostro
esistere all’interno di una promessa comune: “voi sarete, voi vivrete, voi marcerete insieme: il
vostro essere non morirà, ma percorrerà tutto il tempo tra passato e futuro, da una generazione
all’altra, perché voi siete un noi”. Questo richiede, in maniera difficilmente eludibile, ima
rappresentazione proiettiva del non-senso da cui si vuole evadere in uno spazio esterno che possa
essere individuato, delimitato e colpito.
Perché siamo carenti d’essere? Perché siamo effimeri e casuali? Perché non riusciamo a consistere
in noi stessi, ad appagarci di noi? Perché c’è la morte? La risposta più facile è: perché c’è un
nemico. Perché abbiamo un nemico. Perché qualcuno ci ruba vita, «sottrae identità, «interdice il
nostro destino, ci ostacola nel nostro marciare. Stiamo già dicendo noi, così: è difficile dirlo in altro
modo. È probabilmente così che abbiamo cominciato a dirlo, in epoche abissalmente remote 21. Ed è
così che la nostra vicenda diventa appunto nostra: comune, consensuale, dicibile in un linguaggio
condiviso e compreso, racchiudibile in una narrazione compiuta, in un mito.
È sempre lo stesso mito, ma non ce ne stanchiamo mai. Ci sono i buoni: “autentici”, retti, giusti,
liberi, conformi alla natura delle cose, destinati. Noi. E ci sono i cattivi: finti, malfidi, abietti,
deviami dal giusto ordine, innaturali e contorti. Loro. 1 buoni avrebbero la pace e la felicità che
meritano, avrebbero vita, se non fosse per i cattivi, che nella loro disperata mostruosità vogliono
corromperli, asservirli, distruggerli. Ma i buoni marceranno eroicamente, insieme, e dopo molte
tragiche vicissitudini, ulteriormente purificati, giustificati, legittimati, consensualizzati dal pericolo
e dal dolore condivisi, vinceranno, aprendosi così un certo, luminoso, beato avvenire, convissuto in
un noi finalmente senza morte22.
Ma ogni mito deve avere un narratore autorizzato, che ne garantisca la “verità”, la stabilità nel
tempo, la capacità fondativa. E il mito del Noi ha bisogno di un narratore particolare: un definitore
d’identità, un promettitore di futuro, uno scovatore di nemici, uno smascheratore di tradimenti e
inganni, un semplificatore ed uniformatore, un costruttore, ancora una volta, di con-senso. Una
proiezione del noi in un singolo io o in un gruppo, un noi più piccolo e più facilmente percettibile,
che in quanto rappresentante dell’unità dei molti possa fungere da simbolo leviatanico e così
guidare, sovranamente, la marcia. La marcia degli uccisori. La marcia degli uccisori della Morte.
Naturalmente, vince sempre lei. Questa stessa marcia è una sua vittoria. E sicuramente ci sarebbe
meno morte se restassimo trincerati, liberi e guardinghi, dentro la nostra pari uccidibilità originaria.
Però ci dev’essere un vantaggio, se così facilmente e volenterosamente preferiamo metterci in
marcia, sacrificando all’uccidere tutto, spesso anche la nostra vita. Il vantaggio, evidentemente non
piccolo, di non morire da soli23.
%
1. Questo lavoro è stato originariamente pubblicato, in una versione molto più breve, in AA. VV.,
Politica della vita, a cura di L. Bazzicalupo e R. Esposito, Laterza, Roma-Bari 2003, che raccoglie
gli Atti del convegno svoltosi a Napoli il 14-15 giugno 2002 presso l’Istituto di Sudi filosofici.
L’attuale stesura è una modifica di quella pubblicata, col medesimo titolo, in AA. VV., Diritto,
giustizia e logiche del dominio, a cura di A. De Simone, Morlacchi, Perugia 2007, pp. 217-45.
2. Per limitarsi ai due vertici contrapposti della riflessione giuridica sul tema, cfr. H. Kelsen,
Lineamenti di dottrina pura del diritto, trad, e prefazione di R. Treves, Einaudi, Torino 1967, pp.
140-69; Id., Essenza e valore della democrazia, trad, di G. Melloni, in La democrazia, a cura di Μ.
Barberis, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 127-40; C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla
dottrina della sovranità, trad, di P. Schiera, in Id., Le categorie del 'politico', a cura di G. Miglio e P.
Schiera, Il Mulino, Bologna 1988 (rist.), pp. 27-86; Id., Il nomos della terra nel diritto
internazionale dello “jus publicum europaeum”, trad, di E. Castrucci, a cura di F Volpi, Adelphi,
Milano 1991, pp. 141-7 e 168-73.
3. E' forse meno ovvio che non potrà essere obbediente neppure nei confronti della legge, neppure
nei confronti della costituzione. Il sovrano è legibus solutus, o non è. E se la sovranità è della legge,
questo può significare soltanto che non c’è un sovrano, cosa peraltro possibilissima, anzi
probabilmente auspicabile. Ma su questo bisognerà tornare.
4. Precisamente nel senso che sopravvivenza ha in Canetti. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp.
273-336.
5. Cfr. in proposito infra, cap. VIII.
6. Cfr. infra capp. VI e VII.
7. Cfr. R. Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 19-30.
8. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra cit., pp. 429-31. L’intervento angloamericano in Iraq (con
“volenterosi” clientes al seguito) ne è una prova inequivocabile, peraltro tra tante. Nell’attuale
situazione libica (estate 2011), poi, la cosa diventa addirittura sfacciata.
9. Ma cfr. infra, cap. VIII.
10. A distanza di parecchi anni dall’originaria stesura di questo testo, ciò mi pare più probabile di
allora.
11. Non necessariamente in senso letterale, ma spessissimo sì.
12. Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile,
trad, di A. Lupoli, Μ. V. Predaval, R. Rebecchi, a cura di A. Pacchi e A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari
2006, parte II, cap. XVII, pp. 139-44. Cfr. anche infra, cap. III.
13. Cfr. T. C. Lewellen, Antropologia politica, trad, di C. Rossetti, Il Mulino, Bologna 1992 (rist.),
pp. 33-53.
14. Per qualcosa di più in questo senso, cfr. comunque infra, cap. III.
15. Cfr. Th. Hobbes, Leviatano cit., parte I, cap. XIII, pp. 99-104.
16. Mi riferisco alla senile autobiografia in versi latini: Th. Hobbes Malmesburiensis Vita, scripta
anno MDCLXXII, in Opera philosophica quae latine scripsit omnia, 5 voll. London 1839-45 (rist.
fotostatica, Aachen 1961), vol. I, p. LXXXVIII.
17. Cfr. infra, cap. X.
18. Penso qui al compianto Italo Mancini, del cui linguaggio filosofico questa è un’espressione
caratteristica. Cfr. p. es. I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Mondadori, Milano
1982, p. 12. Sugli argomenti qui trattati, merita però particolarmente d’essere letto, di questo libro,
l’intero cap. III, pp. 115-73.
19. Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale. L'esperienza e l’interpretazione, cit., pp. 132-7 e 180-7.
20. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 97-160. Questo è il tema centrale del volume mio
e dei miei allievi e collaboratori: L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e simboli dell’ordine
violento, cit.
21. Cfr. C. Μ. Bellei, Violenza e ordine nella genesi del politico. Una critica a René Girard, Ed.
Goliardiche, Trieste 1999, pp. 41-57.
22. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il coraggio di Shahrazàd, Il Mulino, Bologna
2001, pp. 7-11 e 31-49. Tutto il capitolo si può considerare un commento a questo libro.
23. Cír. R. Escobar, Il campanile di Marcellinara. Ipotesi sull’obbedienza, cit., pp. 183-209.
24. Sono celebri espressioni nietzschiane. Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte III, cap.
La visione e l'enigma, trad, di Μ. Montinari, in Opere, a cura di G. Colli e Μ. Montinari, vol. VI,
tomo I, Adelphi, Milanol9732, pp. 190-1.
25. Su questo punto debbo dissentire da un testo che pure apprezzo molto: R. Esposito,
Communitas. Origine e destino della comunità, cit., sp. Introduzione, pp. XXVI-XXXII. Assai più
che un’“insidia”, la “deriva mitica” che Esposito denuncia mi pare un’inevitabile caratteristica
antropologica, di cui è importante essere consapevoli e i cui probabili effetti nefasti è bene per
quanto possibile cercare di prevenire, ma che non ha alternative all’interno della dimensione umana.
26. Cfr. I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, cit., pp. 325-53.
27. Cfr. A. Gehlen, L' uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 35-47.
28. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori cit., pp. 142-62.
29. Sull’“afferramento” da parte del mito, cfr. K. Kerényi, Introduzione: origine e fondazione nella
mitologia, in C. G. Jung, K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad, di A.
Brelich, prefazione di Μ. Trevi, Boringhieri, Torino 1972, pp. 38-43.
30. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra cit., pp. 88-103, 133-40,163-266.
31. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 224-7. Cfr. infra, cap. V.
32. Rinvio in proposito ai miei saggi Libertà senza verità. Filosofia, simboli e democrazia, in AA.
VV., Filosofia e democrazia, cit., pp. 203-14, e Il fuoco e la Bestia. Commento filosofico politico al
"Signore delle Mosche” di Golding, in L. Alfieri, C. Μ. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e simboli
dell'ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit.
33. Oggi lo spettro sembra di nuovo più vicino: rinvio in proposito al cap. Vili. È ancora impossibile
dire, però, se la nascita a quanto pare imminente di nuovi sovrani, cioè di nuove potenze nucleari,
non possa essere piuttosto un fattore di stabilizzazione in aree altrimenti consegnate a una
conflittualità infinita, come (con un po’ di ottimismo) è teoricamente possibile.
34. Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, sp. pp.
161-72.
35. Questo è stato scritto nell’era Bush. Mi sarebbe piaciuto toglierlo nell’era Obama, ma temo che
non sia ancora possibile.
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CAPITOLO III. La spada e il pastorale. L'unità del potere sovrano nella teologia
politica di Hobbes1
SOMMARIO: 1. Teologia o alcologia politica? - 2. Dal monte del diavolo -3. Natura senza legge e legge
di natura - 4. Il duplice vicario - 5. Lo Stato-Chiesa e la pace religiosa
4. Il duplice vicario
Se le cose stanno così, se cioè l’istituzione dello Stato è imposta dalla legge di Dio, il ruolo del
patto e della legge civile che ne trae il proprio fondamento è piuttosto diverso da quello
comunemente ammesso. Il patto non tanto fonda lo Stato, quanto determina che tipo di Stato si sta
fondando. L’istituzione dello Stato in generale è legge di natura e quindi legge di Dio (e senza la
promulgazione divina non sarebbe legge di natura), ma la ragione, la natura, Dio (che sono una
specie di Trinità in Hobbes) non decidono se deve trattarsi di una repubblica o di una monarchia, e
che tipo di repubblica o di monarchia. Questo lo decide soltanto il consenso degli uomini, i quali
saranno vincolati al rispetto della loro stessa decisione in forza del patto e non in forza della natura.
La natura impone che vi sia un sovrano, il consenso degli uomini decide che tipo di sovrano istituire
e a quale gruppo o individuo conferire la sovranità, e se a tempo o perpetua, se ereditaria o elettiva.
Sotto il profilo della lex naturalis ogni sovrano è ugualmente legittimo, e la personale preferenza di
Hobbes per la sovranità in forma monarchica ereditaria si basa solo su considerazioni di opportunità
e di efficienza, non su questioni di principio.
E qui indubbiamente s’incontra quello che meno ci si aspetta in Hobbes: una dimensione di libertà.
Suddito libero è un non senso, ma finché non si è deciso chi è il sovrano e che tipo di sovrano è non
ci sono ancora sudditi. Certamente si deve notare che il solo atto veramente libero che Hobbes
riconosca è un atto di rinuncia alla libertà, ma il contenuto di questa rinuncia, cioè l’indicazione di
colui o coloro a favore dei quali si rinuncia e delle condizioni eventuali della rinuncia, non incontra
alcun vincolo ed è dunque una decisione sovrana. E' stato molto giustamente osservato da tanti
interpreti che in Rousseau resta moltissimo di Hobbes; assai meno diffusa è la considerazione che
pure ne sarebbe la logica conseguenza, che dunque in Hobbes c’è già parecchio di Rousseau. E non
sarebbe così difficile arrivarci, visto che Hobbes stesso lo dice. Dice, cioè, che per quanto la
democrazia non sia una buona forma di governo (essendo comunque, beninteso, una forma
legittima), il fondamento di ogni possibile forma di governo è inevitabilmente democratico. Dal De
cive:
@
Quelli che si riuniscono per erigere uno Stato sono, quasi per il fatto stesso di essersi riuniti, una
democrazia. Poiché infatti si sono riuniti volontariamente, si intendono obbligati a ciò che verrà
deciso con il consenso della maggioranza. Questo, finché l’assemblea dura, o viene rinviata a date e
luoghi determinati, è una democrazia. Infatti, questa assemblea, la cui volontà è volontà di tutti i
cittadini, detiene il potere supremo; [...]18.
@@@
La decisione di istituire una monarchia, e perciò di non istituire una democrazia, è una decisione
democratica, e non potrebbe essere altro. Solo il popolo istituisce lo Stato, istituendo con lo stesso
atto se stesso come popolo (se no sarebbe “moltitudine”). E se non delega il potere a un individuo o
ad un gruppo determinato, s’intende che lo trattiene per sé. E se ha deciso di delegarlo a tempo, per
poi tornare a riunirsi in un luogo e un momento prefissati, alla scadenza prevista riprende per intero
il suo potere. E il fondamento di questo potere, che appunto perciò è assoluto, è la legge naturale.
Lo Stato in quanto tale è di legge naturale, cioè di diritto divino. Ed essendo l’atto fondativo dello
Stato necessariamente una decisione democratica, la democrazia, per quanto poco piaccia ad
Hobbes, è per Hobbes stesso l’unica forma politica che sia immediatamente di diritto divino. Il
comandamento razional-naturale-divino “Vi sia pace, e perciò vi sia Stato”, ha come necessario
principio di attuazione la conseguenza, peraltro assai coerente: “Vi sia popolo, e perciò potere
popolare sovrano”. E se solo Dio è Re nel senso supremo, il popolo è necessariamente il suo primo
vicario.
La monarchia invece non è come tale di diritto divino, ed è questo (non il preteso fondamento
“laico” del potere, che qualsiasi cosa sia non è Hobbes) a distinguere il nostro autore dai monarchici
tradizionalisti e legittimisti (con cui non volle mai essere confuso: in fondo gli sarebbe andato bene
anche un Cromwell re). La monarchia è di diritto popolare, come peraltro anche l’aristocrazia.
Ancora il De Cive:
@
Come l’aristocrazia, così anche la monarchia deriva dalla potestà del popolo, che trasferisce il suo
diritto, cioè il potere supremo, ad un solo uomo. Anche a questo riguardo si deve pensare che sia
proposto un uomo, distinto da tutti gli altri per fama, o per un altro tratto, e che gli venga trasferito a
maggioranza di voti ogni diritto del popolo, così che l’eletto possa legittimamente fare tutto quello
che il popolo poteva fare prima di eleggerlo. Ciò fatto, il popolo non è più una persona unica, ma
una moltitudine dispersa, perché era persona unica solo in virtù del potere supremo, che ormai ha
trasferito in quell’uomo19.
@@@
La sola vera differenza con Rousseau è che per Hobbes il popolo sovrano può spogliarsi della
propria sovranità, ed anzi è bene che lo faccia, ed una volta che se ne sia spogliato non può più
recuperarla in maniera legittima. Ma non c’è dubbio che il popolo è l’unica espressione immediata
della sovranità, mentre il potere sovrano del re è solo eventuale e mediato: c’è solo se il popolo ha
originariamente deciso così, e solo perché il popolo si è originariamente vincolato in tal senso il
potere del primo re può passare ai suoi successori. E tuttavia, sia pure in un modo che lui stesso
riconosce paradossale, anche nel potere monarchico per Hobbes si può ancora vedere il potere
popolare:
@
Il popolo regna in ogni Stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo
vuole attraverso la volontà di un solo uomo. La moltitudine invece sono i cittadini, cioè i sudditi.
Nella democrazia e nell' aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la curia è il popolo. E nella
monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo 20.
@@@
Popolo e sovrano, dunque, sono sinonimi. Popolo è chiunque, gruppo o persino individuo, eserciti il
potere supremo. In questo senso, ogni forma di governo è una democrazia. Per converso, neppure in
una democrazia in senso stretto il potere è sempre e costantemente dell’insieme dei cittadini, che lo
detengono solo quando sono formalmente riuniti in assemblea e lo perdono quando tornano a
sciogliersi, fino all’assemblea successiva. Nel frattempo, il potere sovrano del popolo è esercitato
tutto intero da appositi magistrati. In questo senso, le differenze tra le varie forme di governo sono
abbastanza superficiali. Il principio supremo di legittimità è uguale in tutti i casi, e si tratta appunto
dell’identificazione di popolo, sovrano e Stato sulla base della legge di natura e in vista della pace
pubblica. Ed ogni sovranità è in quanto tale voluta da Dio.
Una sola conferma di tutto ciò (tra le tante possibili) dal Leviatano:
@
La FUNZIONE del sovrano (monarca o assemblea che sia) consiste nel fine per il quale gli è stato
affidato il potere sovrano, cioè il procurare la sicurezza del popolo; a ciò è obbligato dalla legge di
natura, e di ciò deve rendere conto a Dio, autore di quella legge, e a nessun altro fuorché lui 21.
@@@
Una dichiarazione tra le più esplicite e chiare che si trovino in tutta l’opera di Hobbes sul fatto che
lo Stato (e non il re in quanto tale) è legittimato dalla lex divina ed orientato ad un compito voluto
da Dio, e quindi soggetto al giudizio divino, e a nessun altro giudice, appunto perché Dio e nessun
altro è al di sopra dello Stato. In questo le varie forme di Stato non sono diverse. Mentre la specifica
figura di sovrano scelta all’origine dello Stato è legittimata solo dal consenso e dal vincolo che
questo istituisce anche per le generazioni future. Ma, una volta creato il sovrano, quale che ne sia la
forma, su di lui incombe il dovere (ed è l' unico dovere che abbia) di compiere ciò che la legge
naturale impone, cioè mantenere la pace. Questo stesso dovere, peraltro, viene a costituire un
ulteriore, più alto livello di legittimazione. Il Dio mortale regna sotto il Dio immortale, dice un
brano notissimo22. E appunto per questo, a meno che non si decida che per interpretare Hobbes di
Hobbes stesso si può fare a meno, è del tutto impossibile negare alla sovranità hobbesiana un
fondamento teologico e alla figura del sovrano una funzione direttamente voluta da Dio, e dunque
una funzione vicariale nei confronti di Dio.
È importante, per non confondere Hobbes con i teorici premoderni della sovranità, non perdere di
vista i vari livelli di mediazione con cui il potere sovrano discende dall’alto: dalla legge naturale al
pactum, cioè all’assemblea popolare in cui ogni singolo membro s’impegna con tutti gli altri a
delegare i propri diritti al sovrano, e contestualmente (concordo con la tesi secondo cui non occorre
distinguere un pactum unionis e un pactum subiectionis) determina insieme a tutti gli altri chi debba
essere il sovrano; quindi il sovrano stesso, che precisamente dal pactum (di cui ovviamente non è
parte e quindi non lo vincola) trae l’autorizzazione a restare nello stato di natura, cioè sotto il solo
vincolo della legge naturale, dunque sotto la sola autorità di Dio. Dio impone che il popolo scelga il
suo vicario. Il popolo è vicario di Dio nello scegliere il vicario di Dio. In uno schema ancora
tradizionale nasce un principio moderno. Il sovrano per grazia di Dio è scelto dal consenso del
popolo, a cui comunque spetta l’atto sovrano per eccellenza, appunto l’istituzione del potere
sovrano. Appunto perciò in definitiva il sovrano, chiunque sia, è il popolo. Ma non si può escludere
da questo schema la legittimazione divina del potere sovrano senza uscire dalla filosofia di Hobbes
(e da tutto il suo mondo) per andare da un’altra parte. E facciamolo pure, perché no? Basta sapere
che non stiamo interpretando Hobbes, ma estrapolando da lui alcuni concetti, che appunto perciò
non sono più suoi concetti. Mi pare un elementare e doveroso atto di rispetto nei confronti di un
grande pensatore non trattarlo come se fosse stato lui a teorizzare il Führerprinzip.
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1. Originariamente pubblicato in G. Μ. Chiodi, R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Hobbes,
FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 125-41.
2. T. Hobbes, Behemoth, ovvero il Lungo Parlamento, Dialogo I, a cura di O. Nicastro, Laterza,
Roma-Bari 1979, p. 5.
3. Ivi, pp. 6-7.
4. Ivi, p. 7.
5. Ibidem.
6. Ivi, pp. 7-8.
7. Ivi, pp. 28-9.
8. Avendo appena preso le distanze da Schmitt (ed ampliandole ancora parecchio più oltre: cfr.
infra, cap. V), mi sembra equo riconoscere che sotto questo profilo sono grandemente debitore
proprio dell’interpretazione schmittiana. C£r. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (Testo del 1932),
trad, di P. Schiera, in Id. Le categorie del 'politico', cit., pp. 150-2.
9. Cfr. T. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile,
cit., parte I, cap. V, pp. 36-7.
10. Ivi, parte I, cap. IV, p. 27.
11. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma
1979 (rist. 2005), parte I, cap. III, § 33, p. 55.
12. Ivi, parte I, cap. IV, § 1, ρ. 56.
13. Ivi, parte I, cap. II, § 2, pp. 30-1.
14. Ivi, parte I, cap. II, § 3, p. 31.
15. Sul “cristallo di Hobbes”, cfr. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (Testo del 1932), cit.,pp. 151-
2.
16. T. Hobbes, Leviatano cit., parte I, cap. XIV, pp. 105-6.
17. Ivi, p. 106. Si tratta di Matteo, VII, 12.
18. T. Hobbes, De cive cit., parte II, cap. VII, § 5, p. 90.
19. Ivi, parte II, cap. VII, § 11, p. 93.
20. Ivi, parte II, cap. XII, § 8, p. 134.
21. T. Hobbes, Leviatano cit., parte II, cap. XXX, p. 273.
22. Cfr. ivi, parte II, cap. XVII, p. 143.
23. Ivi, parte III, cap. XLIII, p. 473.
24. T. Hobbes, De cive cit., parte III, cap. XV, § 17, pp. 180-1.
25. Ivi, parte III, cap. XVII, § 21, p. 219.
26. T. Hobbes, Leviatano cit., parte III, cap. XLII, p. 404.
27. Cfr. p. es. T. Hobbes, De cive cit., parte III, cap. XVIII, §§ 1-14, pp. 233-48.
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1. Il massacro invisibile
C'è un terribile “perché?” che segna come una ferita non rimarginata la storia del XX secolo (che è
ancora la nostra). Perché un popolo civile, colto, economicamente avanzato, con una rispettabile
anche se non lunghissima tradizione di democrazia parlamentare, con profonde radici cristiane,
decide di colpo, senza alcuna plausibile motivazione, di sterminare una minoranza da tempo
perfettamente integrata a tutti i livelli della vita nazionale e che sotto nessun punto di vista sensato
poteva rappresentare una minaccia? E perché una simile enormità non suscita nessuna rivolta
morale dei molti che sono chiamati a contribuire in qualche modo alla sua esecuzione e dei
moltissimi che ne sono almeno in parte a conoscenza? Perché nessuno o quasi dice “no!”? Perché il
massimo cui riescono ad arrivare i più giusti o i più audaci è il voltare pudicamente gli occhi da
un’altra parte, mentre gli ebrei vengono massacrati? È sempre più chiaro, infatti, che non sapeva
soltanto (o quasi) chi non voleva sapere: non molto si faceva per tenere nascosta la “soluzione
finale”, né del resto sarebbe stato facile riuscirci, date le sue proporzioni. È come se quest’immensa
oscenità fosse stata invisibile agli occhi stessi di coloro che n’erano autori o complici, come se un
velo grigio di “normalità” l’avesse coperta. Sei milioni d’innocenti uccisi da assassini ciechi, che
neppure sapevano d’essere assassini e si sono meravigliati moltissimo quando, a guerra finita, i
vincitori li hanno bollati come tali. E l’orrore più grande è forse proprio questo sincero stupore di
carnefici che pensavano d’essere soldati valorosi, solerti funzionari, buoni patrioti, scienziati severi.
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1. Originariamente pubblicato in AA. VV., Sul male: a partire da Hannah Arendt, a cura di E.
Donaggio e D. S. Scalzo, Meltemi, Roma 2003.
2. Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991.
3. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il Coraggio di Shahrazàd, cit.
4. Cfr. p. es. P. De Benedetti, Quale Dio? A proposito di alcuni autori, in “Hermenéutica”, nuova
serie, 1994, pp. 99-113; cfr. anche A. Aguti, Male radicale e silenzio di Dio. La teologia dopo
Auschwitz, in in AA. VV., Sul male: a partire da Hannah Arendt, cit., pp. 99-120.
5. Riferisco qui una testimonianza orale. Dall’esperienza in Polonia T. Wright ha ricavato il saggio
Looking at the Poles and Jews in Terms of Reconciliation, in “The Ryukoku Journal of Humanities
and Sciences”, vol. XXI, 1999, n. 1, pp. 59-84.
6. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad, di P. Bernardini, Feltrinelli,
Milano 2003.
7. Cfr. ivi, ρρ. 44-63.
8. D. J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, trad, di E. Basaglia, Mondadori, Milano 1998.
9. Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., pp. 191-4.
10. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 273-334.
11. Cfr. ivi, pp. 17-28; cfr. anche R. Escobar, Metamorfosi della paura, cit., pp. 85-95.
12. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., sp. pp. 273-9.
13. Cfr. ivi, pp. 273-4.
14. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 73-96.
15. Cfr. infra, cap. IV; cfr. anche R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il coraggio di
Shahrazàd, cit., pp. 51-69.
16. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 80-7.
17. Cfr. R. Musil, L’uomo senza qualità, trad, di A. Rho, vol. I., Einaudi, Torinol9827, p. 185.
18. O i rom, che rubano perché non possono fare quasi nient’altro, dunque in buona sostanza
vengono costretti a rubare (esattamente come gli ebrei, che facevano spesso gli usurai perché gli era
proibito quasi tutto il resto) e rapiscono bambini esattamente quanto gli ebrei sacrificano bambini,
cioè per niente: mai un solo caso giudiziariamente accertato, in tutto il mondo. Ma bisogna che
uccidiamo qualcuno, evidentemente, e gli ebrei non vanno più bene...
19. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 190-221.
20. Cfr. ivi. pp. 26-9.
21. È sorprendente con quanto entusiasmo umanitario certa cosiddetta sinistra possa auspicare la
distruzione dello Stato d’Israele. Come se questo non significasse auspicare la morte di milioni di
uomini, donne, bambini (come si distrugge uno Stato, se no?), come se questo non significasse
esattamente rifare Auschwitz... Anzi no, mi correggo: non è per nulla sorprendente.
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CAPITOLO V. Guerra, politica e democrazia in Carl Schmitt ed Elias Canetti 1
SOMMARIO:1. Freund und Feind - 2. Il bellum senza Leviatano - 3. Dinanzi alle mura e in cantina - 4.
La massa doppia della guerra - 5. La guerra senza morti
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1. Questo testo è al momento inedito. Stesure preliminari appariranno in raccolte di atti
congressuali. 2. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico" (testo del 1932), in Id., Le categorie del
‘politico’, cit., p. 108. È noto che quest’edizione italiana, strettamente seguita dall’autore per quanto
riguarda la scelta e l’adattamento dei testi che vi sono compresi, potrebbe essere considerata quasi
un’opera autonoma nella bibliografia schmittiana. Andrebbero anche considerati due profili, che
meriterebbero entrambi un approfondimento scientifico che neppure si tenterà in questa sede:
quanto questo adattamento abbia avuto una portata attualizzante, ma appunto per questo
“denazificante” e assolutoria riguardo alla figura di Schmitt, e il ruolo non solo scientifico ma
“militante” che quest’opera ha ricoperto nel fornire legittimazione ideologica alla svolta
“decisionista” della politica italiana negli anni successivi. Non stiamo parlando, in nessun senso, di
un libro innocuo.
3. Il miglior testo a me noto sulla dimensione teologica di Schmitt (e non soltanto), è Μ. Nicoletti,
Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990.
4. Mi riferisco naturalmente al celebre frammento 53 Diels-Kranz: “Il conflitto (potemos) è padre di
tutte le cose e di tutte è re: e gli uni fece dei, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri liberi”. Cito da
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Fondazione Lorenzo Valla -
Arnoldo Mondadori Editore, s. 1. (ma Milano) 1980, p. 13 (per il testo greco, p. 12). Nell'ed. Diano
il frammento reca il numero 14.
5. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’ (testo del 1932), in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 101.
6. Cfr. ivi, pp. 101-5.
7. Ivi, pp. 105-6.
8. Cfr. D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, La Nuova Italia Scientifica, Roma
1987, pp. 14-5. Come Fisichella documenta, l’aggettivo “totalitario” viene usato per la prima volta
da Giovanni Amendola nel 1923, il sostantivo “totalitarismo” da Lelio Basso nel 1925, sempre in
riferimento al fascismo, che si appropria di questi termini facendone delle autodefinizioni elogiative
(nel 1925 lo stesso Mussolini, nel 1928 Giovanni Gentile).
9. Cfr. C. Schmitt, Il concetto di 'politico' (testo del 1932), in Id., Le categorie del 'politico', cit., pp.
107-8.
10. In seguito, a conferma di questa difficoltà di collocare nel concetto di “politico” la democrazia,
le forze democratiche sono definite come “essenzialmente politiche”, in quanto però siano
polemicamente “dirette verso lo Stato totale”: ivi, p. 156.
11. Cfr. ivi, pp. 106-7.
12. Ivi, pp. 110-1.
13. Ivi, pp. 115-6.
3. La Morte e il guerriero
Con questo non si vuole dire che gli uomini sono cattivi. Sarebbe una grossa sciocchezza, ed anzi la
sola sciocchezza paragonabile sarebbe dire che gli uomini sono buoni. Non è per cattiveria che si
uccide; anzi, la maggior parte degli uomini non potrebbe uccidere se, uccidendo, non si sentisse
buona. Appunto per questo il fine di uccidere richiede il mezzo di una buona causa. Il vero guerriero
non è un sadico. Uccide, e se è sincero con se stesso sa anche che ama farlo. Ma non ama infliggere
sofferenza e terrore. E non ama neanche le uccisioni di massa, quelle che si producono spingendo
un bottone o timbrando delle carte. Bombardamenti atomici o campi di sterminio sono roba da
tecnici o da burocrati, non da guerrieri. 1 milioni di morti non si vedono, o almeno non si vedono
morire, mentre il guerriero vuole veder morire, e per un motivo assai più profondo e tragico della
crudeltà. Per un motivo, se vogliamo, metafisico.
Il guerriero vuole che la Morte gli venga incontro, armi alla mano. Vuole vederla avvicinarsi,
mirando proprio a lui, occhi negli occhi. Ed ecco che la Morte sbaglia il colpo, la Morte stessa è
colpita, la Morte cade. La Morte muore, nell’aspetto del nemico. Il guerriero, uccidendo il nemico,
trionfa sulla Morte. Non esiste un trionfo più grande, non esiste una ragione di vita più forte. Il
guerriero ama la vita: per questo uccide tanto volentieri.
1. Statue e cadaveri
Esistono due modi di considerare la guerra: quello di chi la pensa o la racconta, e quello di chi la fa.
Il primo modo, contrariamente a quel che pretende, non spiega per niente il secondo.
Dal punto di vista degli storici, dei teorici, degli strateghi, la guerra è un comportamento politico
che si pone obiettivi precisi e razionali, seguendo procedure tecniche molto complesse e inserendosi
in una lunga catena di cause ed effetti variamente interpretabile, ma suscettibile di analisi
abbastanza precise. E' in definitiva un atto del pensiero, un’intensa applicazione d’energie spirituali
in un certo contesto territoriale, adeguatamente rappresentato dalle freccine colorate tracciate sulle
mappe dei generali e degli storici militari. È perfettamente possibile descriverla e spiegarla senza
parlare neanche una volta di gente che muore. Si parlerà semmai di “perdite”, ma le perdite non
sono cadaveri, sono numeri, così come gli eserciti sono vettori di forze. Il tutto oscilla tra la
matematica e la metafisica, a volte con incursioni nella psicologia. Ci possono essere anche
manifestazioni estetiche, dall’oratoria celebrativa alla poesia epica ai monumenti ai “caduti” (cioè le
“perdite” trasformate in statue, apparentemente senza bisogno di passare attraverso lo stadio di
cadavere). Il pensiero di politici e generali produce energie che determinano mutamenti di valori,
simboli e immagini in un ambito territoriale significativamente descritto come “teatro di guerra”,
dove si svolge una sorta di sacra rappresentazione intensamente mistica, di cui le statue degli “eroi”
(che raramente saranno al di sotto del grado di generale, con la generica eccezione dei “caduti”)
risulteranno infine l’unica durevole concretizzazione.
Poi c’è la guerra come la vedono i combattenti (dal grado di capitano in giù, generalmente); e da
questo punto di vista il fascino della cosa diminuisce drasticamente, mentre cresce la monotonia.
Praticamente nient’altro che fango, sudore, fame, fatica, paura, insonnia, esplosioni, sangue e
cadaveri (tanti, tanti, tanti: ci si vive in mezzo, a volte proprio sopra, sono la presenza più costante e
familiare, e l’unico odore che si ha nelle narici, oltre a quello degli esplosivi e della propria
sporcizia, è il loro). Finché, per qualche ragione che di solito è nota solo dal grado di colonnello in
su, ci si ritira o si avanza, il nemico avanza o si ritira, e finalmente qualcuno viene fuori a dire con
alate parole che la guerra è gloriosamente vinta o gloriosamente perduta, comunque gloriosamente
finita, è dà ufficialmente inizio alla trasformazione alchemica dei cadaveri in perdite, caduti e statue
d’eroi.
Il rischio che si corre in qualunque tentativo di produrre una teoria della guerra è di collaborare a
questo strano procedimento magico-rituale, mistico e mistificante, riconducendo la guerra al
pensiero, allo spirito, alle idee e peggio ancora agli ideali. E' quasi inevitabile: si tratta di
concettualizzare, e già questo ci allontana infinitamente dalle trincee e da quello che per lo più vi si
vede e vi si fa. Dunque, qualunque teoria della guerra parla d’altro e non della guerra, o parla della
guerra riconducendola ad altro. E dunque non la spiega nella sua immediatezza fenomenologica,
nella sua concretezza esistenziale. C’è un abisso tra i cadaveri e i concetti, dunque con i concetti
non solo non si spiegano i cadaveri, ma non se ne percepisce neppure la realtà. La realtà sono le
motivazioni che hanno spinto un sovrano a concludere un’alleanza, i calcoli e le intuizioni grazie a
cui un generale ha predisposto un piano di battaglia, i valori sociali, culturali, religiosi oggetto del
conflitto. Sembra già un’estrema audacia materialistica parlare d’interessi economici, forze
produttive, livello di sviluppo industriale, tecnologia degli armamenti, sebbene anche queste
risultino entità piuttosto metafisiche se considerate a partire dal puzzo di cadavere. Che è
precisamente l’oggetto che una teoria della guerra dovrebbe spiegare, visto che in definitiva la
fenomenologia della guerra è in gran parte fatta di questo: cadaveri parecchio scomposti e poco
belli da vedere.
Per cercare una ragionevole approssimazione alla comprensione di questo dato, ben vistoso
nell’esperienza ma ostinatamente irriducibile a idea, sembra opportuno dunque ricorrere a una
teoria minimale, che si sforzi di restare il più possibile aderente al punto di vista di chi vive tra i
cadaveri, produce cadaveri, è sempre sul punto di trasformarsi in cadavere.
La migliore teoria fenomenologica della guerra mi sembra quella di Elias Canetti, basata sul dato
solo apparentemente banale che “in guerra si tratta di uccidere” 2. L’affermazione è da prendere in
un senso radicale: la guerra serve per uccidere, questo è il suo vero obiettivo, mentre ogni altra cosa
è aspetto secondario o pretesto. La guerra si fonda sulla costruzione di un nemico visto come una
sorta di personificazione collettiva della morte, la cui uccisione rappresenta dunque una liberazione
dalla morte stessa, sia pure al prezzo paradossale della propria accentuata esposizione al rischio di
morire.
@
La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev’essere proclamata come condanna
collettiva perché ci si possa opporre ad essa attivamente. Ci sono, per così dire, dichiarati tempi di
morte durante i quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto arbitrariamente.
‘Ora si va contro tutti i francesi”, oppure “Ora si va contro tutti i tedeschi”. L’entusiasmo con cui gli
uomini accolgono una dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo
dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. È già più facile in due, quando
due nemici eseguono per così dire la reciproca condanna; e non è più affatto la medesima morte
quando migliaia la affrontano insieme. Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra - e cioè
morire insieme, risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto.
Ma essi non pensano nemmeno che quel peggio possa accadere. Vedono la possibilità di allontanare
e di trasferire su altri la condanna che è stata pronunciata contro di loro. Il loro para-morte
[Todableiter] è il nemico, e devono quindi preoccuparsi soltanto di precederlo. Si deve soltanto
essere veloci e non esitare un istante nel somministrare la morte. Il nemico giunge come se fosse
chiamato; egli ha pronunciato la condanna, egli per primo ha detto: “Morite! ”. Ciò che egli ha
rivolto contro gli altri, ricade su di lui3.
@@@
E' evidente che qui non c’è spazio per la comoda illusione consolatoria che gli uomini vadano in
guerra perché minacciati o ingannati dal potere. Costringere gli uomini alla guerra non è mai stato
necessario e non sarebbe neanche possibile, e se c’è un inganno, si tratta di un autoinganno
perfettamente condiviso da chi la guerra la decide e da chi la guerra la fa 4. La funzione del potere in
guerra è un’altra. E' una funzione seduttiva. In guerra il potere si apre, si offre, si rende disponibile a
chiunque partecipi. Nell’allontanare da sé la morte uccidendo, anche l’ultimo dei combattenti
partecipa intensamente all’essenza del potere stesso, in quanto “sopravvivenza” (Uberlebung)5.
%
1. Originariamente pubblicato in “La società degli individui”, n. 1, 2005.
2. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 80.
3. Ivi, pp. 86-7.
4. Cfr. supra, cap. VI.
5. Cfr. E. Canetti; Massa e potere, cit., sp. pp. 273-5.
6. Coglie perfettamente questo punto, com’è noto, C. Schmitt, che peraltro non vi scorge affatto un
progresso, ma una grave decadenza rispetto alla regolamentazione mitigatrice della guerra (che ne
implica peraltro la piena legittimazione giuridica) nello jus publicum europaeum. Cfr. C. Schmitt, Il
nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, cit., pp. 335-67.
7. Sono d’estremo interesse a questo proposito le geniali intuizioni, in piena guerra fredda, di E.
Canetti. Cfr. Massa e potere, cit., pp. 569-71.
8. Cfr. supra, cap. VI.
9. Sulla valenza “bellica” dello sport, cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 567.
10. Cfr. supra, cap. II.
11. Si potrebbe sostenere che l’errore fondamentale di Saddam Hussein, quello che l’ha perduto, sia
stato l'essersi illuso di poter agire ancora come un capo di Stato vecchio stile, e di poter quindi
essere guerriero, conquistatore ed eroe. Di tiranni simili a lui o di lui peggiori ce ne sono tanti: non
questo lo ha portato alla rovina, ma piuttosto il suo atavismo politico, il suo sogno di poter essere un
nuovo sultano o un nuovo califfo, mentre avrebbe dovuti» accontentarsi di essere un condottiero
mercenario posto a capo di un pro tettorato euro-americano. Abbastanza simile sembra la situazione
attuale di Gheddafi (luglio 2011), il cui atavismo peraltro sembra più solido e più fortemente
condiviso almeno da una parte consistente del suo popolo.
12. Molto ci sarebbe da dire sul “marxismo” come strumento di rivendicazioni nazionalistiche e
identitarie nei cui confronti un globalizzatore ante litteram come Marx avrebbe nutrito la massima
incomprensione e il più totale disprezzo. Purtroppo l’equivoco è difficile da demolire, nonostante la
sua intrinseca inconsistenza, perché per decenni vi hanno fatto leva sia i sedicenti marxisti, sia i loro
avversari, sino all’assurdo di considerare “marxista” un Pol Pot o un Kim Il Sung.
13. Il caso cinese è tutto particolare e sfugge alle categorie consolidate dell’analisi politica. Più che
applicare un concetto generico e poco coerente come “capitalismo di Stato”, sarebbe forse più utile
pensare ad una lenta e graduale riplasmazione del marxismo secondo categorie cinesi, già iniziata
dallo stesso Mao Zedong, tale da sfociare alla fine in una “modernizzazione” e quindi in una
reviviscenza di quelle stesse categorie: sostanzialmente, in un neo-confucianesimo tanto
efficientista quanto autoritario.
14. E' urgente comprendere finalmente che l’Islam è un fenomeno storicoculturale perfettamente
interno all’Occidente, sotto qualsiasi possibile punto di vista (compreso quello strettamente
geografico: il Marocco è più a ovest di qualsiasi paese europeo). Ha in comune con l’Occidente
cristiano tutte le radici principali, dal monoteismo d’origine ebraica alla filosofia greca ai
fondamenti delle scienze: non è affatto, né è mai stato, una civiltà “altra”, tanto meno una civiltà
“orientale”.
Non è questo il luogo per parlarne, ma non è lecito trascurare che l’Islam si colloca, fin dal testo
coranico, esplicitamente all’interno di un processo storico di rivelazione di cui sono parte autentica
e legittima tutte le religioni monoteistiche, e non contrasta con ciò il fatto che si attribuisca in
quest’ambito un ruolo privilegiato. Si consideri solo un dato elementare: per i cristiani Maometto è
il fondatore di una falsa religione, mentre per i mussulmani Gesù è il più grande profeta prima di
Maometto.
15. Per un punto di vista islamico, autorevole e sofferto, su questi problemi, cfr. K. F. Allam, L'
Islam globale, Rizzoli, Milano 2002, e Lettera a un kamikaze, Rizzoli, Milano 2004. Oggi sembra
proprio che questo gap storico si avvìi ad essere colmato: anche se le rivoluzioni in corso dovessero
fallire, qualcosa di molto importante sarà cambiato per sempre.
16. È questo un punto decisivo e molto difficile da superare: nell’ottica islamica, la
modernizzazione weberianamente intesa come “disincantamento del mondo” appare radicalmente
inaccettabile: il regno di Dio per l’Islam è di questo mondo, e non c’è spazio per quella limitazione
della religione alla sfera interiore che per il cristianesimo corrisponde in buona misura a una
vocazione originaria. Nell’ottica islamica, è di fatto irrinunciabile una risacralizzazione della
modernità. Cosa che però non esclude per nulla la prospettiva della modernizzazione.
17. Si potrebbe discutere all’infinito su chi è, qui, l’aggressore, e su qual è l’esatta differenza tra
resistenza e terrorismo. Ma non bisognerebbe mai perdere di vista almeno due cose: che ognuna
delle parti in causa ha buoni argomenti per accusare l’altra d’aggressione, e che si spinge ogni
forma di resistenza verso il terrorismo quando non la si accetta come interlocutore.
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6. L’incubo e la speranza
Nessuno potrebbe sconfiggere un nemico invulnerabile. Ma non ci sono nemici invulnerabili. Per
questo gli uomini sono per natura uguali, insegna Hobbes: perché tutti possono ugualmente
uccidere ed essere uccisi15. Perciò ogni guerra è incerta, malgrado ogni pur grande sproporzione di
forze: nessuno può sapere prima che non verrà ucciso, nessuno può dare per sicuro che vincerà. E'
proprio questa la ragione per cui in generale è preferibile la pace, e per cui la pace, almeno la non-
guerra, si afferma necessariamente in una situazione in cui tutti sono ugualmente certi che sarebbero
uccisi, che non ci sarebbero vincitori. Donde l’attuale paralisi nucleare della guerra. Ma che
accadrebbe se scendesse in lizza appunto un invulnerabile, un immortale?
Sembra facile respingere questa terrorizzante prospettiva: per fortuna siamo mortali, e non sembra
che abbiamo motivo di preoccuparci di quel che farebbe in guerra un immortale, di cosa mai
potrebbe trattenerlo dall’uccidere tutti i mortali...16. Ma qui purtroppo non conta il fatto della morte:
conta la sua anticipazione conoscitiva. Non siamo mortali perché moriremo, ma perché lo sappiamo
e ci pensiamo sempre. Come ci comporteremmo, però, se non lo sapessimo? Se rifiutassimo il
concetto stesso di morte, e pensassimo che quello che gli altri chiamano morte è invece ancora vita,
vita migliore, vita beata, vita pura, vita eterna? Se pensassimo non alla tomba, ma al paradiso?
Di fatto, la guerra stessa, in tutte le sue forme, è tecnicamente possibile solo grazie alla facilità, alla
frequenza, all’intensità, alla diffusione di rappresentazioni culturali che depotenziano il morire. Si
potrebbe persino scrivere una storia della guerra sotto questo particolare angolo di visuale. Non si
muore davvero, perché c’è la Gloria, perché si è cantati dai poeti e commemorati dai concittadini,
perché la propria morte alimenta la vita dei discendenti, perché si raggiungono gli antenati, perché
si ascende al Walhalla, perché si merita il paradiso, o semplicemente perché si era perso già da
prima il senso di esistere come individui, immergendosi sino ad annegarvi in un “noi” che vivrà
tanto più intensamente quanti più “io” vi muoiono dentro 17. E c’è, a depotenziare il sentimento del
morire, soprattutto l’enorme senso di potere che dà la pubblica autorizzazione a uccidere
impunemente, innocentemente, gloriosamente18. La guerra finisce quando i sopravvissuti
reimparano di essere mortali, quando si convincono che moriranno davvero, che non diventeranno
statue, ma cadaveri19. È dai morti che s’impara cosa significa morire. Bisogna vederne tanti, troppi,
riempirsene gli occhi, le narici, introiettarli, quasi mangiarli, finché a poco a poco rinasce il salutare
sentimento dell’orrore, della ripulsa verso il cadavere che si diventerà, e s’impara a fuggire
dall’immagine della propria morte verso il rifugio della pace, con la sua promessa modesta,
ingloriosa, fatta quasi sottovoce: “se smetti di uccidere, per adesso non morirai”20.
Ma per questo, per ricondurre verso la pace, la guerra ha bisogno di tempo. Finché non ne è passato
abbastanza, finché non abbastanza cadaveri sono scorsi giù nella clessidra, il van taggio è tutto dei
meno mortali, degli uccisori più entusiasti, dei morituri più suicidi. Non c’è che fare: il kamikaze è
il guerriero perfetto. Tanto che per fargli paura non occorre nulla di meno che una morte iperbolica,
ipertrofica, assurdamente totale, oscenamente assoluta, trionfante e priapesca: il fungo di
Hiroshima. Ma se fosse il kamikaze ad avere la Bomba? Non è questo l’incubo che incontriamo
ogni notte?
La Bomba paralizza la guerra perché, e finché, anche la semplice eventualità del suo uso basta a
ricordarci di essere mortali, senza bisogno di vedere il nostro cadavere nei cadaveri degli altri. Non
possiamo immaginarci trionfanti dopo la guerra, perché non c’è nessun dopo. Non possiamo
immaginarci vittoriosi sui nemici uccisi, perché non c’è vittoria, non ci sono vincitori, non c’è
sopravvivenza21. Almeno nel luogo d’impatto della Bomba, e per un ampio spazio intorno, non ci
sarebbero neppure cadaveri da vedere, sarebbero vaporizzati, e in una guerra nucleare fatta sul
serio, del resto, non ci sarebbe più nessuno che possa andare a contare i cadaveri.
Ma che accadrebbe, se ottenessimo il perverso “successo” di consentire alla morte atomica la
rappresentazione di un dopo? Attenuandola, riportandola alla misura del tecnicamente controllabile,
restituendole l’idea di un limite, di un confine tra morti e non morti: non la Bomba, ma una piccola
graziosa Bombetta che non fa tanto rumore e tanto danno, che elimina “chirurgicamente” i cattivi
insieme a una quantità accettabile di buoni e consente di pensare alla guerra nucleare come a una
guerra “normale”, che finisce con le statue ai caduti e le medaglie ai generali, proprio come si
conviene. Esistono già, in tante versioni diverse, queste bombette atomiche “intelligenti”, magari le
bombe a neutroni, che ammazzano le persone senza distruggere le cose, realizzando un’apoteosi
della Merce che non dovrebbe dispiacere ai tanti sacerdoti del Dio Mercato. E questo sarebbe lo
scacciamosche perfetto che consente al gigante incatenato di sbarazzarsi una volta per tutte dei nani
molesti e ringhiosi che lo mordicchiano. Aspettiamoci che venga usato, questo scacciamosche:
avverrà nell’istante preciso in cui l’idea consolante della Bombetta buona riuscirà a esorcizzare il
fantasma della Morte totale e ci avrà convinti di nuovo che possiamo uccidere senza morire, che
dobbiamo uccidere per non morire.
Ma la Bombetta esiste - almeno come idea - anche in una comoda versione mignon per nani: la
bomba “sporca” di cui tutti da qualche anno aspettiamo l’esplosione in una qualsiasi delle nostre
grandi città. Un bel botto, e poi forse diecimila, ventimila, centomila morti: non tantissimi, in
passato si è fatto assai di meglio con fucili e baionette, però il morso farebbe davvero male, il
gigante griderebbe proprio forte... E dopo? Scapperebbe? Si arrenderebbe? Si convertirebbe?
Pagherebbe il tributo al nuovo califfo trionfante sotto verdi bandiere? Speriamo che non siano in
troppi a pensarlo, perché non andrebbe così. Il gigante darebbe di piglio allo scacciamosche, e puff!
Via un paio di “Stati canaglia”, via un po’ di “aree tribali”, via qualche governicchio
doppiogiochista. La faccenda andrebbe avanti per un certo tempo, tra ritorsioni e controritorsioni,
ma probabilmente non ci vorrebbe molto per far cambiare idea a tutti i protettori, finanziatori, ospiti
più o meno conniventi di nani feroci. E allora, tra molte cerimonie, molti discorsi, moltissime
statue, medaglie e bandiere, proclameremmo di avere vinto l’ultima guerra, la guerra che mette fine
a tutte le guerre, la guerra al Terrore. Cerchiamo di non distogliere lo sguardo da questo scenario: è
di gran lunga il più probabile. E non il peggiore.
Finché i nuovi kamikaze sono nani, il pericolo è grave ma limitato: si può sperare di non rischiare la
distruzione totale - e questa stessa speranza è un rischio non da poco, dovremmo saperlo ma i nani
potrebbero crescere di statura, e la Bombetta di dimensioni. La Bomba conviene averla, lo
sappiamo già, è un calcolo del tutto razionale. Finché non la si usa, finché si pensa di non poterla
usare. Finché la si vuole proprio per non usarla, come tutte le potenze nucleari finora. Ma se
nascessero potenze nucleari di nuovo tipo, capaci di volere la Bomba per usarla, e non perché
pensano di non poter essere distrutte, ma perché sono del tutto indifferenti alla propria distruzione,
o addirittura la cercano? Una cosa del genere sembrava tanto inverosimile, sino a poco tempo fa,
che nessuno ci aveva seriamente pensato. Ma ora la cosa è diventata tragicamente pensabile, è
diventata il nuovo volto del Terrore atomico. Perché l’Iran non dovrebbe avere la Bomba, ora che ce
l’ha persino il Pakistan? Non c’è purtroppo nessuna buona ragione da opporre. C’è solo una ragione
decisamente “cattiva”: che cioè questa prospettiva ci fa più paura, perché l’attuale regime iraniano è
il solo al mondo da cui si possa temere la riproposizione della strategia del suicidio sino al punto di
sussumervi la guerra nucleare stessa. Perché non è detto che l’obiettivo di una guerra debba essere
per forza la vittoria. La vittoria intesa come sopravvivenza del vincitore al vinto. Se per sconfiggere
la guerra bisogna rovesciare la logica della sopravvivenza 22, il pericolo massimo potrebbe però
essere quello di abbandonarla del tutto: la guerra fatta per non sopravvivere, perché la vittoria non è
mediante la morte ma nella morte, perché la vittoria è il martirio, perché solo morendo si
sopravvive davvero. Se ci sono religioni della guerra, l’eventualità più spaventevole e che esse
possano sovrapporsi alle religioni del lamento23, fino a fare del lutto, del rito funebre l’autentica
celebrazione della vittoria. Se nulla è più glorioso che morire santamente nella guerra per Dio, se
non c’è vita più autentica che l’eternità nel paradiso dei martiri, se il compianto funebre diventa
persino elemento indispensabile della beatitudine nell’al di là 24, perché non cercare proprio nella
Bomba il martirio perfetto? Morire tutti, un popolo intero, dopo aver distrutto Israele (o qualche
altra rappresentazione del male assoluto che una qualsiasi nazione o tribù di buoni e giusti destinati
al paradiso nel frattempo costruirà). Nulla di peggio è possibile: demoni postnucleari che fanno
politica con una stupidità tutta umana. Dovremmo deciderci a capire in fretta che se continua così
non esiste alcun dubbio su come andrà a finire.
Non resta che sperare che nella nostra età demonica siano sopravvissute altre qualità umane, a parte
la stupidità. Non resta che sperare che sia rimasto abbastanza, nel post-uomo d’oggi, di quella che
era l’infinita complessità dell’umano. Sperare perciò nell’incoerenza di tutte le fedi. Nella pluralità
nascosta dietro gli unanimismi obbligatori. Nell’amore delle donne per la vita, nell’amore delle
donne per l’amore, anche quando si deve indossare il chador. Nel buon senso un po’ cinico che i
preti hanno sempre saputo opporre ai santi. Nel fatto che tutte le folle prima o poi si stancano di
acclamare. Nell’inerzia che la pesante complessità della vita oppone alla semplicità pura, rigorosa,
risolutiva del morire. Negli sprazzi di dialogo che ogni tanto spezzano la continuità del delirio. Nel
fatto che governi e popoli tendono a mantenere un fondo di ragionevolezza anche quando
l’ideologia ufficiale e il depositario ufficiale del potere sono puri e duri e suicidi. E nel buon senso
degli elettori, là dove col voto si può scegliere davvero. Purché non sia già tardi.
Ma certo, ora che persino la pace sotto la Bomba scricchiola, è di vitale urgenza fare ancora un
passo oltre in quella tabuizzazione della guerra che abbiamo costruito inopinatamente dopo millenni
che la adoravamo: ancora debole, cinica, ipocrita, ma salutare, rivoluzionaria, potenzialmente
redentrice. Tornare ad avere paura, non sentirci più sicuri, potrebbe essere un buon segno: potrebbe
darci la spinta per procedere dalla guerra che non può essere detta alla guerra che, per non essere
fatta, non deve più neppure essere pensata. Non è probabile, ma chissà...
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1. Originariamente pubblicato in “Cosmopolis”, n. 2, 2007; ripubblicato con leggere differenze in
AA. VV., La guerra e la sua immagine. Prospettive a confronto, a cura di C. E. Gentilucci, Μ.
Giovagnoli, B. Marucci, Μ. P Paterno, Satura Editrice, Napoli 2008.
2. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, cit.,
sp. pp. 335-67. Schmitt nota comunque che i nuovi mezzi di distruzione di massa modificano la
natura della guerra: cfr. ivi, pp 410-31.
3. Il punto di riferimento classico sul tema della scomparsa dell'uomo dopo Auschwitz e Hiroshima
è G. Anders, L'uomo è antiquato, a cura di C. Preve, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Anders però non vede l'aspetto “positivo” di tale scomparsa, e cioè che potrebbe essere il primo
atroce gradino di un processo di autosuperamento. Si tratta in ogni caso di un punto di non ritorno,
dopo il quale non resta che l'annientamento o la nascita di una nuova specie. Certo è ormai
diventata risibile la prospettazione di una “natura umana”, specie quando si nutre la pia intenzione
di invocare tale “natura" come argomento a favore della virtù e contro il vizio, come accade sin
troppo spesso di questi tempi. Ma su questo cfr. infra, cap. IX.
4. Pregherei di prendere tale affermazione alla lettera e di non considerarla un paradosso. Si tratta
precisamente di una struttura turistica, molto ben amministrata, la cui dimensione “politica” è parte
essenziale dell’offerta turistica medesima: il medioevo per turisti, le libertà comunali per turisti, la
città-Stato per turisti. Non è l’unico caso al mondo, e forse varrebbe la pena di elaborare una
categoria giuridica apposita. Turistizzazione della sovranità?
5. Il concetto d’Impero è ritornato prepotentemente nel pensiero politico contemporaneo. Per un
testo che ha avuto grande fortuna, cfr. Μ. Hardt - A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione, a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2002 2, testo la cui originalità è inficiata
peraltro dall’applicazione di categorie marxiste-leniniste del tutto inadeguate al problema.
6. Cfr. E. Bradford, The Great Siege. Malta 1565, Penguin Books, London 1964 (risi).
7. Ragusa (odierna Dubrovnik) perde la propria indipendenza nel 1808, la sua grande rivale e antica
dominatrice Venezia nel 1797.
8. Cfr. supra, cap. II.
9. Cfr. supra, cap. VI.
10. Cfr. supra, cap. II.
11. La simbolizzazione della guerra nel mondo contemporaneo, nel contesto della “guerra fredda”, è
colta genialmente da Canetti in conclusione del suo capolavoro. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit.,
pp. 566-7.
12. Sul radicamento delle “categorie per la guerra” in tutta la storia del pensiero occidentale, cfr. I.
Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, cit., pp. 115-73.
13. Cfr. K. F. Allam, Lettera a un kamikaze, cit..
14. Sul successo “mimetico” della democrazia occidentale, americana in specie, cfr. R. Girard,
Quando queste cose cominceranno. Conversazioni con Michel Treguer, a cura di A. Beretta
Anguissola, Bulzoni, Roma 2005, pp. 117-22.
15. C£r. Th. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile,
cit., cap. XIII, pp. 99-104.
16. È accaduto per pochi anni che vi fosse al mondo un soggetto politico “immortale”, nel breve
periodo in cui gli USA furono gli unici a possedere Parma nucleare. Non averne immediatamente
approfittato è probabilmente il loro massimo titolo di gloria storico. Ma ci si può chiedere cosa
sarebbe accaduto durante la guerra di Corea, se anche l’URSS nel frattempo non avesse fabbricato
la Bomba...
17. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il coraggio di Shahrazàd, cit., sp. pp. 91-6.
18. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 85-7; cfr. anche supra, cap. VII
19. Cfr. ibidem.
20. Canetti nota come la “massa aizzata” possa esaurire di colpo la sua furia omicida e disgregarsi
velocemente di fronte al nemico appena ucciso, perché il suo cadavere, o la sua testa recisa,
riportano ciascuno alla coscienza della propria mortalità. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp.
61-2.
21. Sulla “sopravvivenza”, cfr. ivi, sp. pp. 273-5.
22. Cfr. ivi, sp. pp. 569-71.
23. Su questi due aspetti dell’Islam - che possono benissimo allignare in altri contesti - cfr. ivi, pp.
171-86.
24. Come accade appunto nell’Islam sciita: cfr. ivi, pp. 178-9.
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EPILOGO. UN TERRIBILE OTTIMISMO
7. Vie in avanti
Andare dove? Certamente non indietro. Non ci sono rimedi non tecnologici, pretecnologici o
antitecnologici all’avvitamento autodistruttivo della tecnologia, non c’è da nessuna parte una natura
sana e buona che dobbiamo recuperare. Possiamo solo andare avanti. Cioè renderci ancora più
definitivamente innaturali (non solo con le tecniche delle mani e delle macchine, sia chiaro, ma
anche con quelle del pensiero e dell’immaginazione e dell’emozione, anche con lo “spirito”, che
tutto è fuorché natura). Cioè, se siamo demoni, non ci resta che provare a diventare dèi, o angeli, o
santi, o superuomini, lo si dica come si vuole. Non da soli, non nella nostra interiorità, in cui
potremmo solo cercare di sviarci dal problema mediante sogni impotenti. Il problema è globale,
richiede soluzioni globali, e perciò una capacità globale di organizzazione e decisione. Dunque il
problema è politico, come sempre: non semplicemente etico, se non nel senso in cui l’etica postula,
hegelianamente, una dimensione istituzionale.
Una dimensione istituzionale che non può essere lo Stato. Lo Stato non è una soluzione, anzi è parte
sostanziale del problema. Lo Stato nazionale come lo conosciamo è figlio della guerra, appartiene
pienamente alla dimensione della sopravvi venza, è una tecnica di controllo della morte mediante la
sua espulsione dal “noi” verso il “non-noi”19. Occorre puntare con estrema decisione
all’unificazione politico-giuridica, economico-gestionale, etico-culturale, del mondo, in qualsiasi
forma ciò possa avvenire. Dobbiamo fare in modo che non esista più il “non-noi”, che non ci siano
più nemici. Qualsiasi cosa che unisca è meglio di qualsiasi cosa che divida. Ci sono segni chiari che
il percorso in tal senso è da tempo iniziato; è ben lontano dall’essere concluso, nulla garantisce che
si concluderà. Ma solo in quell'ambito disporremo di capacità decisionali che possano controllare le
conseguenze non volute di una tecnologia che non conosce più in linea di principio l’impossibile, e
non è dunque in grado all’interno della propria logica strutturale di rifiutare l’assurdo. Come
riuscirci è per ora impossibile dirlo. Come non riuscirci è già del tutto evidente: imponendo uno
Stato sugli altri, un sistema economico sugli altri, una visione religiosa sulle altre, una scelta di
valori sulle altre scelte di valore. Così si va solo incontro allo “scontro di civiltà” che tanti falsi
profeti ci presentano come inevitabile e persino benefico per il trionfo appunto della civiltà, la
nostra civiltà contro l’altrui barbarie, secondo un tribalismo in versione neanche troppo aggiornata
che non possiamo più permetterci, con la morte nucleare che ci pende sulla testa. Resistiamo a
questi richiami demoniaci, specie quando scimmiottano il linguaggio della purezza e della santità. E
cerchiamo di salvarci tutti insieme, diventando qualcosa che meriti di essere salvo. Qualcosa per
cui, e a questo dovremo abituarci, non possiamo ancora trovare un nome.
Se poi, come è auspicabile, non ci va bene il nostro modo attuale di esercitare potere sui corpi e col
corpo, se non vogliamo più difenderci dalla morte solo sottomettendoci a lei e conferendole la
signoria assoluta sul mondo, questo ci chiama a un nuovo atto creativo/distruttivo di decisione (in
senso etimologico) del corpo e sul corpo, della vita e sulla vita. E vorrei che fosse chiaro, una buona
volta, che non è possibile mettere da una parte la tecnica (dalla parte di ciò che è volgare, brutto,
ignobile, bassamente materiale) e dall’altra le nobili vette della cultura come “spirito” (arte,
religione, filosofia...): tecnica e “spirito” stanno esattamente dalla stessa parte, cioè dalla parte della
metanaturalità, della contronaturalità direi, se la cosa non sembrasse troppo forte, cioè dalla parte
della cultura, che è -peraltro assai ovviamente - l’unica “natura” attribuibile all’uomo 20. E se
qualcuno pensasse che ciò sia “materialismo”, lo pregherei di stare più attento, perché semmai si
tratta proprio di “idealismo”, e aggiungerei che con ciò non si nega affatto un “sopramondo”, lo
“spirito”, piuttosto si nega proprio il “mondo”, si nega una realtà che sia data all’uomo e non fatta-
pensata dall’uomo. Anche la religione è una tecnica, anzitutto proprio una tecnica del corpo. Basti
pensare al significato originario della parola “ascesi”: lo stile di vita degli atleti.
Una nuova ascesi la stiamo già praticando: la velocissima crescita della vita media e della speranza
di vita alla nascita è sicuramente, anche se non ce ne siamo ancora accorti sino in fondo, una delle
più grandi trasformazioni nella storia dell’umanità. Anche, potenzialmente, una delle più terribili,
certo. Abbiamo già imparato a creare la morte assoluta e a mantenerne - provvisoriamente! - il
controllo. Stiamo imparando a controllare l’origine e il mantenimento della vita. Stiamo imparando
cioè a svincolare ulteriormente la vita dalla biologia. Chiunque ne abbia paura ha mille ragioni. Ma
non si torna indietro e non ci sono alternative. Questa strada prima non c’era ed era inconcepibile:
ora c’è. Quindi non ce ne sono più altre21.
Biologicamente, la vita di un individuo serve, direttamente o indirettamente, alla riproduzione, che
serve all'evoluzione. La sopravvivenza di un individuo oltre l’età riproduttiva è biologicamente uno
spreco, ma può avere un’utilità biologica indiretta, in quanto la presenza di anziani possa
stabilizzare l’ordine sociale e garantire la trasmissione di conoscenze utili per la sopravvivenza del
gruppo. Adesso non c’è più nessuna specifica utilità sociale degli anziani, ma in effetti non è il
raggiungimento della vecchiaia che si vuole. Si vuole la vita senza più alcun limite proprio della
biologia. Si vuole la vita per sé, non per darla ad altri, si vuole l’immortalità del singolo, che è
antibiologica, non più quella della specie, che biologicamente c’è già da sempre, ed anzi è la
biologia. I cristiani che polemizzano contro ciò ci riflettano: sono stati loro a cominciare. Sono stati
loro a dare l’immortalità agli uomini (dopo gli ebrei, certo, ma ben più efficacemente di loro),
eguagliandoli al divino, facendoli figli e fratelli di Dio. Prometeo può andare a nascondersi: di
fronte a ciò fa solo ridere. La nostra tecnica non è prometeica, è faustiana, quindi assolutamente
cristiana, e non fa che seguire la metafisica e la teologia, rispetto a cui anzi è ancora
vergognosamente indietro. Non siamo stati ancora capaci di realizzare un progetto che da millenni
esiste già: quello dell’uomo immortale. Ma ci stiamo lavorando, e non potremmo fare altro, perché
da tantissimo tempo non abbiamo alcun altro progetto dell’umano, nessun’altra possibilità di
pensarlo: l’uomo è l’essere che realizza pienamente se stesso proiettandosi infinitamente oltre di sé,
l’essere che è solo fuori di sé, fuori dei propri limiti.
L’uomo è dunque progettato - da noi sicuramente, forse da qualcun altro tramite noi, un’ipotesi che
i credenti non avrebbero il diritto di trascurare - come colui che per essenza deve deporre se stesso,
deve oltrepassarsi nella più radicale alterazione di sé. O Dio o nulla: Cesare non ci basta 22. E' del
tutto coerente che questo progetto non possa essere solo metafisico: dobbiamo farci ciò che
pensiamo di essere. Ed è evidente ormai che abbiamo raggiunto una nuova soglia. Siamo ormai
vicinissimi a un potere di controllo e manipolazione quasi totale sulle origini della vita;
intravediamo possibilità concrete e imminenti di giungere a un buon potere di controllo sulla durata
della vita. E con ciò ci avviamo ad essere la sola specie vivente che abbia nelle proprie mani le
proprie condizioni di esistenza.
E' terribile, certo. Si può già immaginare quanta sofferenza e quanto terrore possono derivarne, e
nulla nella nostra storia antica e recente ci autorizza in proposito all’ottimismo. Ma, avendo già
raggiunto da tempo il potere assoluto sulla nostra morte come specie, tenendo già adesso nelle
nostre mani la nostra morte come specie, e in questo senso essendo già una specie morta, non
possiamo fermarci né tornare indietro. Siamo abi tanti di nessun luogo, non abbiamo alcun terreno
sotto i piedi, stiamo già precipitando, come sapeva benissimo Nietzsche 23. Non abbiamo come né
dove fermarci, e non avendo un luogo non abbiamo neppure una via di ritorno. Possiamo solo
trasformare il nostro cadere in un volo. Senza alcuna garanzia in proposito. Mai.
Sono due, dunque, le strade che assai vagamente mi pare di vedere, incertissime e nebulosissime
entrambe. La prima, politico-istituzionale e socio-economica, è il superamento di tutti i
particolarismi, e anzitutto dello Stato-nazione, in grandi organismi multiculturali, multietnici,
plurivaloriali, sorretti da una trama fittissima d’interdipendenze economiche irreversibili. La
globalizzazione, insomma, e su questa strada siamo già tanto avanti che l’idea è diventata banale.
Meno banale, forse, è identificare l’obiettivo, che troppo pochi finora hanno visto chiaramente:
rendere impensabile la dicotomia noi/loro, abolire la figura concettuale del nemico.
L’altra strada, scientifico-filosofico-psicologica, tecnico-metafisica, biologico-religiosa (ebbene sì!)
è quella di modificare radicalmente la nostra percezione emotiva della vita e della morte
modificando proprio le nostre condizioni vitali, mirando, in remota prospettiva, alla minimizzazione
in quest’ambito della casualità, alla massimizzazione del controllo razionale e, diciamolo chiaro,
alla definitiva sottomissione del corpo e della biologia al pensiero e all’immaginazione, fino a
divenire signori della nostra vita come già lo siamo della nostra morte. E' una via assai più nebulosa
e sicuramente assai meno avanzata della precedente, ma il poco che vediamo è probabilmente
sufficiente a far comprendere - a chi vuole comprendere - che non c’è altro da tentare.
Che lo vogliamo o no, siamo già alla “grande politica” immaginata - peraltro con troppo
trionfalistico e inquietante compiacimento - dall’ultimo Nietzsche, profeta folle 24. Cioè, potremmo
dire, alla tecno-politica: ma possibile che non si riesca a comprendere che questa è anche la più
grande avventura metafisica mai tentata e una meravigliosa occasione creativa per le grandi
religioni, se solo queste si decideranno ad avere fede e smetteranno di avere paura? In che altro
modo un Dio potrebbe salvarci?
Un grande poeta, che era anche un grande scienziato, ha capito già due secoli fa quel che i secoli
precedenti non avevano potuto capire: che Faust può salvarsi. Senza per questo doversi pentire e
tornare indietro. Può salvarsi progettando in grande l’umanità - e l' oltreumanità. È possibilissimo,
naturalmente, che Goethe si sia sbagliato, ma dobbiamo scommettere su questo. Perché la sola via
di pentimento e di ritorno è quella dell’uomo ammalato di Svevo: un’esplosione enorme che
nessuno udrà.
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1. Originariamente pubblicato in "Hermenéutica”, nuova serie, 2008.
2. Devo la segnalazione di quest’impressionante brano “profetico” a mia figlia Letizia,
interlocutrice assai critica durante la redazione di questo scritto. Tengo molto a ringraziarla. Si
potrebbe osservare però che simili profezie, dopo la prima guerra mondiale, non erano poi così
difficili e rare; e oggi, dopo la seconda guerra mondiale, le Twin Towers e quant’altro, sarebbe
piuttosto difficile immaginare uno scenario diverso per il nostro futuro. A meno che... Cito da I.
Svevo, Romanzi, a cura di P. Sarzana, introd. di E Gavazzeni, Mondadori, Milano 19974, p. 1117.
3. Mia figlia sostiene che non è così e che questo oggi non lo può pen sare nessuno. Ma mia figlia
ha mentalità scientifica, e non so quanto abbia coscienza di far parte di una piccola minoranza
esposta a non pochi rischi di emarginazione e persecuzione. Che la scienza e la tecnica siano
“contro natura” è probabilmente opinione largamente maggioritaria a livello mondiale, c
quest’opinione rischierebbe di diventare addirittura una “verità” obbligatoria se non fosse per un
potente e non innocente alleato, che si chiama economia
4. Cfr. L. e F. Cavalli Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1993.
5. Cfr. A. Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., sp. pp. 182-91.
6. Cfr. J. G. Frazer, Miti sull’origine del fuoco, presentazione di C. Bermani, trad, di V. Cucchi,
Xenia, Milano 1993, sp. pp. 263-94.
7. Rinvio in proposito al mio Luoghi simbolici del potere, in AA. VV., Studi in memoria di Enzo
Sciacca, vol. II, a cura di F. Sciacca, Giuffrè, Milano
2008, pp. 261-72.
8. Il mondo come sarebbe senza l’uomo, all’uomo ovviamente non è dato. L’uomo nasce senza
mondo, e l’esistenza di un mondo prima di lui è una costruzione metafisica. E forse dovremmo
avere il coraggio di dire: un mito d’origine. L’uomo non ha un prima, il suo mondo nasce con lui,
con la sua capacità di rappresentarlo, anzitutto a se stesso. A questo proposito, Gehlen riprende da
Novalis la suggestiva e precisissima espressione di “mondo esterno interno”. Cfr. L'uomo. La sua
natura e il suo posto nel mondo, cit., pp, 230-2,297-9,389-91.
9. Cfr. L. Fercioni Gnecchi, Tatuaggi. La scrittura del corpo, Mursia, Milano 1994, p. 50 sgg.
10. Per una suggestiva e dettagliata esposizione degli strumenti di potere come duplicazione ed
estensione del corpo (della mano e della bocca, principalmente), cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit.,
pp. 243-69.
11. Cfr. J. Jahn, Muntu. La civiltà africana moderna, trad, di G. Glaesser, Einaudi, Torino 19763.
12. Su quest’interessante popolazione amerindia scoperta relativamente da poco, cfr. G. Costanzo, I
Piaroa, Pacini, Pisa 1977.
13. Cfr. C. Μ. Bellei, Violenza e ordine nella genesi del politico. Una critica a René Girard, cit., sp.
pp. 152-75.
14. È il frammento 22B62 Diels-Kranz. Per una diversa traduzione, cfr. G. Colli, La sapienza
greca, vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano 1980, p. 55. Nell'ed. Colli il frammento è numerato 14 [A
43].
15. Cfr. sp. il celeberrimo Dialogo della Natura e di un Islandese, in Operette morali, introduzione
e cura di A. Prete, Feltrinelli, Milano 20036, pp. 117-23.
16. È d’inestimabile importanza a questo riguardo la concezione canettiana del potere come
sopravvivenza. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp 273-336.
17. Cfr. supra, cap. VIII.
18. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 569-71.
19. Cfr. supra, capp. I e II.
20. Cfr. C. Geertz, L'impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo, in Id., Interpretazione di
culture, cit., pp. 73-99.
21. La questione se esistano limiti naturali - dunque insuperabili e definitivi - alla tecnica è difficile
e dibattuta. In buona misura anche insolubile, perché per identificare limiti assoluti dovremmo poter
uscire dalla nostra contingenza, dunque in qualche modo essere Dio. Mi pare però che
un’esperienza ormai millenaria consenta di dire che i limiti assoluti - o presumibilmente tali - alla
tecnica sono appunto limiti tecnici: cioè riguardano il come, non il che cosa. Il volo umano è stato
impossibile finché si è cercato di far volare gli uomini come gli uccelli; quando si è abbandonata
l’idea di imitare la natura e si è scelta risolutamente la via dell’artificialità, di modi di far volare
l’uomo se ne sono inventati sempre di più, dalla mongolfiera al jet al deltaplano all’astro nave.
Tutto ciò che si vuole fare, in linea di principio sarà possibile farlo in qualche modo, anche se non
in qualsiasi modo. E se una certa cosa è possibile farla, prima o poi qualcuno vorrà farla, quindi
qualcuno la farà. Non abbiamo nessuna garanzia assoluta contro noi stessi, il limite si sposta
sempre, e sinora non è mai stato trovato un punto da cui non possa più spostarsi. Quando troveremo
il modo di creare la vita, lo faremo. Quando troveremo il modo di renderci fisicamente immortali, lo
faremo. Se non ci distruggeremo prima, s’intende, il che è probabilissimo, perché il modo
l’abbiamo già trovato. 22. Mi riferisco al noto motto di Cesare Borgia: Aut Caesar aut nihil.
23. Cfr. il celebre aforisma 125 de La gaia scienza: “Ma come abbiamo fatto? Come potemmo
vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero
orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si
muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E
all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse
vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?”. Cfr. E Nietzsche,
La gaia scienza, trad, di F. Masini, in Opere, a cura di G. Colli e Μ. Montinari, vol. V, tomo II,
nuova ed. riveduta da Μ. Carpitella, Adelphi, Milano 1991, p. 151.
24. Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, trad, di S. Giametta, in Opere, cit., vol. VIII,
tomo III, Adelphi, Milano 1974, pp. 407-16. Cfr. in proposito L. Alfieri, Cristianesimo e “grande
politica”, in L. Alfieri, D. Corredini, Abissi. Meditazioni su Nietzsche, Giuffrè, Milano 1992, pp.
183-232.
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1. Originariamente pubblicato in AA. VV., Costituzione e realtà attuale: 1948-1988, a cura di L.
Lippolis, Giuffrè, Milano 1990, pp. 209-32; ripubblicato con modifiche in “Studi Urbinati”, sez. B,
Scienze Umane e Sociali, n. LXIII, 1990. Questo testo, il più antico del volume, è stato più volte
modificato e aggiornato, senza doverne mai cambiare l’assunto di fondo. Rinuncio ai nuovi
aggiornamenti che sarebbero richiesti dai sempre nuovi casi di “guerra per la pace” in cui il nostro
paese continua a essere coinvolto: non fanno che confermare, fino alla noia, quanto qui sostenuto.
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