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Demokratìa e Islam

Enrico Ferri

Di nessuno [i Greci] si dichiarano


schiavi, di nessun uomo sudditi
Eschilo, I Persiani

Regno e religione sono gemelli;


la religione è il fondamento ed il
potere è ciò che lo protegge
Al Ghazâlî, Rivivificazione delle
scienze religiose

1
Introduzione ......................................................................................................................................... 3
CAPITOLO PRIMO ............................................................................................................................ 4
1 Occidente – Oriente; democrazia – Islam .................................................................................... 4
1.1 Oriente – Occidente; Europa – Islam. La questione dell’identità ........................................ 4
1.2 Occidente / Oriente: alcune considerazioni sulla genesi di una contrapposizione. ............. 6
1.3 Civiltà occidentale, isonomia, democrazia ........................................................................ 13
1.4 Democrazia e/o Islam? ....................................................................................................... 15
TESTI ................................................................................................................................................. 20
CAPITOLO SECONDO .................................................................................................................... 28
2 Democrazia: principi e caratteri ................................................................................................. 28
2.1 Occidente – comunismo – Islam. ....................................................................................... 28
2.2 Elementi per un confronto tra Islam e democrazia ............................................................ 32
2.3 Democrazie e visione scettica del potere ........................................................................... 34
2.4 Democrazia come affermazione piena della libertà ........................................................... 38
2.5 L’ottimismo antropologico e la fede nel progresso della democrazia ............................... 41
2.6 L’autogoverno democratico ............................................................................................... 46
2.7 Le riforme (metabolai) democratiche ................................................................................ 48
2.8 Uguaglianza d’origine ed equidistanza dal potere ............................................................. 52
2.9 Protagora e la giustificazione teorica dell’uguaglianza democratica ................................. 56
TESTI ................................................................................................................................................. 59
CAPITOLO TERZO .......................................................................................................................... 66
3 L’Islam tra religione e politica ................................................................................................... 66
3.1 Allah, il Corano, l’Inviato, la Umma ................................................................................. 66
3.2 L’islam: origini e principi .................................................................................................. 72
3.3 Sharia e fonti del diritto ..................................................................................................... 73
TESTI ................................................................................................................................................. 79

2
Introduzione

Le dispense del mio corso su Democrazia e Islam, qui presentate, riprendono


molti dei temi trattati nelle lezioni, anche se non ripetono in modo pedissequo le
stesse lezioni. Sono pertanto concepite per offrire, sugli stessi temi discussi nel
corso, argomenti complementari che dovranno servire a completare la conoscenza
della materia. Lezioni e dispense vanno quindi studiate insieme, non possono
considerarsi autonome le une dalle altre. Delle dispense vanno altresì studiati i
testi riprodotti in appendice a ciascun capitolo. Anche questi ultimi sono inseriti
per completare le conoscenze degli studenti su argomenti trattati a lezione e nelle
dispense. Quanto appena detto, naturalmente, vale solo per gli studenti che
dovranno ottenere un numero di crediti che comporta tanto lo studio delle
dispense che un attento ascolto delle lezioni. Spero che la conoscenza di questi
argomenti non sia utile soltanto per acquisire dei crediti formativi, ma anche per
avere una migliore conoscenza di un tema importante ed attuale, che fa parte della
nostra vita e non soltanto degli studi accademici.

3
CAPITOLO PRIMO
1 Occidente – Oriente; democrazia – Islam

1.1 Oriente – Occidente; Europa – Islam. La questione dell’identità


Esistono due modi essenziali per definire l’identità dei singoli, come dei gruppi, degli
insiemi umani più o   meno vasti. Una prima modalità è quella data dalla definizione
positiva, dalla caratterizzazione in positivo, rispetto ad una scala di valori che si
ritengono caratterizzanti un tipo di uomo, in senso più vasto, l’uomo par excellence.
Ad esempio ci si definisce per la buona nascita, come i ben – nati. Oppure per la virtù
guerriera, per la virilità. I valori a cui ci si riferisce quasi sempre caratterizzano tanto
la dimensione fisica – corporea dell’uomo, ad esempio la bellezza, che quella
spirituale, il “carattere”, lo stile di vita, le attitudini esistenziali. Esiste, naturalmente,
una scala gerarchica di valori che varia a seconda dei contesti storici e geografici,
sociali come culturali. Nel Corano, ad esempio, si legge che “il migliore fra gli
uomini è chi più teme Dio” (XLIX, 13). In tal modo si vuole significare il passaggio
da un modo di valutare gli individui per l’appartenenza ad un gruppo umano, ad un
clan, per i legami di sangue e di collocazione tribale, ad un giudizio sul valore
individuale che diventa un tutt’uno con la religiosità del singolo, con il “livello” della
sua fede, con il suo ruolo nella comunità, che nell’Islam si definisce in quanto Umma,
“comunità dei credenti”. Il migliore è quello più credente fra i credenti, quello che
“più teme Dio”. Questo modo di definire il valore umano è doppiamente
significativo, non solo perché sta ad indicare un passaggio di genere nel giudizio,
dall’appartenenza tribale a quella religiosa, ma pure perché connota un particolare
modo, quello tipico dell’Islam, per definire la religiosità. In una prospettiva cristiana,
ad esempio, si direbbe che il migliore degli uomini è chi più ama Dio (ed in modo
consequenziale si comporta). Per la visione del mondo tipica dell’Islam, che alla
lettera significa “sottomettersi a Dio”, la religiosità è indice di assoluta dedizione /
sottomissione a Dio, di assoluta separazione, distanza ontologica tra il “servo di Dio”
e il “Signore dei mondi”.
C’è un altro modo per definirsi, per tracciare i contorni della propria identità. Un
modo per opposizione, “a contrario”: noi siamo “altro”, noi siamo diversi da un tipo
d’uomo nel quale non ci riconosciamo. Possiamo presentare questo concetto in altri
termini: l’individuo radicalmente altro da noi, incarna e rappresenta valori e stili di
vita davanti ai quali noi possiamo definirci solo a partire dalla constatazione che
questi ultimi sono agli antipodi dai nostri. Potremmo dire, hegelianamente, che di
fronte alla negazione di ciò che ci rappresenta, noi, a nostra volta, possiamo
caratterizzarci solo in termini negativi, come altro da questo modo radicalmente
diverso di essere / esistere. Noi, negando la differenza, ciò che ci nega come altro da
noi, non – io, riaffermiamo positivamente noi stessi. Ma in realtà, un individuo, una
comunità, un popolo tendono sempre a definire i valori con i quali giudicano e
“misurano” la vita, a partire da se stessi, finendo spesso con il confondere le proprie

4
categorie, la propria “visione del mondo” con il mondo tout court. Quindi solo in
seconda istanza a definire l’altro come, appunto, ciò che è altro da noi.
Ma la questione dell’identità è come quella del nostro linguaggio, che forse meglio di
ogni altro elemento rappresenta ciò che noi siamo, poiché è la più completa e
complessa rappresentazione della nostra cultura, della nostra provenienza, delle
nostre relazioni ed interazioni. La nostra identità come il nostro linguaggio, poiché è
il risultato della nostra interazione con il mondo umano, continuamente si ridefinisce
e si “aggiusta”. Ognuno ha bisogno di un’identità, di una caratterizzazione forte; di
avere una scala di valori, di principî, dei codici di differenziazione dagli altri che
sono pure sistemi: per leggere, “codificare” ciò che è l’altro da noi. L’identità è pure
una modalità a partire dalla quale è possibile tanto la comunicazione che lo scontro.
Ogni dialogo, ogni comunicazione inizia con una dichiarazione di identità che, in
qualche modo, ne preannuncia gli orientamenti ed i presupposti: “Io sono il signore
Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me”, ad esempio, stabilisce con l’identità
del parlante un rapporto gerarchico di dipendenza.
Dal modo in cui ci si definisce, discende il modo in cui definiamo gli altri. Non a
caso in molte culture, i popoli si sono definiti semplicemente come “il popolo degli
uomini”, quasi a rappresentare se stessi come i veri, i soli rappresentanti in modo
compiuto dell’essere uomo.
Esiste una vasta gamma di identità. Già la superficiale lettura di un documento che
attesta la nostra identità, ci mostra come noi abbiamo “almeno” tre identità. La prima
si riferisce alla nostra specificità individuale, costituita dai nostri dati personali, il cui
insieme fa di noi soggetti unici, assolutamente differenziati. Accanto a questa identità
se ne presenta un’altra, più ampia, data dalla nostra appartenenza ad una determinata
nazione, come ad esempio l’Italia. Infine c’è una terza identità, data
dall’appartenenza all’Unione Europea. Tra queste tre oltre di loro, esistono una serie
di altre identità fatte di luoghi, culture, appartenenze: di tipo regionalistico, ad
esempio, od universalistico.
Una caratterizzazione identitaria è quasi sempre connessa a categorie come il tempo e
lo spazio (i primi dati della nostra carta d’identità sono luogo e data di nascita) entro
le quali ogni esistenza si svolge. Tanto lo spazio che il tempo, in quanto vissuti
dall’uomo, sono anche e soprattutto categorie culturali. Lo spazio, che accoglie la
presenza umana, non solo è plasmato da tale presenza (la storia dell’arte,
dell’architettura e dell’urbanistica è la storia della presenza umana sul territorio) ma
ne diventa simbolo e rappresentazione. Ad esempio, avere una certa nazionalità in
quanto si è nati in un determinato territorio significa appartenere alla storia di quel
territorio e delle persone che su di esso hanno vissuto. Anche il tempo della vita
umana ha forti valenze culturali; quello che infatti noi definiamo “tempo” è solo un
modo per indicare le varie fasi, i vari momenti, dei processi vitali della storia umana.
Il passato ed il futuro indicano un prima e un dopo di una realtà, di un processo che è
percepibile immediatamente e non come rappresentazione solo nel presente.
Quando noi evochiamo un certo spazio, o un certo tempo, il Medio Evo cristiano, ad
esempio, immediatamente rinviamo ad un contesto culturale, perché tutti i processi
umani che si svolgono nello spazio sono sempre processi culturali.
5
A questo punto possiamo porci una domanda centrale ai fini del nostro tema di fondo
(Democrazia e Islam): nel corso del tempo si sono costituite delle realtà che si sono
mantenute e riproposte conservando i loro fondamentali caratteri identitari? E se
esistono una serie di identità / culture / civiltà che si sono conservate e riproposte nel
corso dei secoli, può allo stesso tempo delinearsi uno scontro di identità / civiltà che
nel tempo è divenuto una costante?
La prima questione da definire è se esistono queste realtà, queste identità / civiltà che
si sono riproposte nel corso dei secoli.
Se il XX° secolo è stato caratterizzato per la gran parte della sua durata, per circa
settanta anni, dallo scontro tra ideologie (nazismo, comunismo, democrazia), oggi
sembra emergere un nuovo soggetto che prende il posto del Comunismo, l’Islam, che
è allo stesso tempo un antagonista, l’antagonista storico dell’Europa. L’Islam, con
una certa continuità, ha rappresentato, dal punto di vista della religione, della civiltà e
del costume, per 1400 anni l’alter dell’Europa e, per più versi, il binomio conflittuale
Occidente – Oriente è stato rappresentato dalla storia dell’incontro / scontro Europa –
Islam.

1.2 Occidente / Oriente: alcune considerazioni sulla genesi di una


contrapposizione.

Esiste una identità europea / occidentale?... E se sì, di che natura sono i tratti che la
caratterizzano? Culturali, religiosi, ideologici,” razziali “? Procediamo con ordine. In
che senso è possibile l’identificazione Europa / Occidente che cosa dobbiamo
intendere con questi due termini?

Europa è un nome greco, di un personaggio mitologico, sorella di Cadmo e madre di


Minosse figlio suo e di Zeus, Padre degli Dei. Ma Europa è anche uno spazio
geografico e, sin dalle origini stette ad evocare una serie di valori, un’ “ideologia”
che identifica gli abitanti dell’Europa. Per i Greci il mondo da loro conosciuto (quello
che la loro appariva come il mondo tout court) si componeva di tre diverse realtà:
l’Asia; l’Europa e la Libia (Africa). Tutta la parte orientale, al di là del Bosforo, era
considerata Asia: le terre in gran parte conquistate da Ciro il Grande e poi governate
dai suoi successori della dinastia achemenide, fino alla conquista di Alessandro il
Grande. Una terra sconfinata che andava dall’Egitto e dalle coste dell’attuale Turchia,
al fiume Indo.
L’Africa conosciuta dai Greci, come poi dai Romani, era la parte che va dall’attuale
Marocco alla Somalia, o meglio la fascia costiera ed alcune centinaia di chilometri
dell’entroterra, allora molto più verde e rigogliosa di adesso. L’Europa di cui parlano
i Greci, se si escludono i territori immediatamente al nord e all’ovest della Grecia, era
in gran parte costituita dalla fascia costiera che lambisce a settentrione il
Mediterraneo. Il Mediterraneo occidentale vede, accanto alla presenza etrusca, quella

6
egemone cartaginese, mentre il Mediterraneo orientale è un mare greco. La Sicilia,
isola nella quale sono presenti tanto i Cartaginesi che i Greci, fa da spartiacque tra il
Mediterraneo orientale e quello occidentale.

Quella che in epoca moderna è conosciuta come la contrapposizione Occidente -


Oriente, in realtà nasce come un conflitto Europa-Asia o, per essere più precisi, tra
Occidente ellenico ed Asia persiana. Questa opposizione per un verso ha origini che
si perdono nel mito e per un altro fin dal suo inizio si presenta per più versi come una
stasis cioè come un conflitto intestino, una lotta fratricida. Scrive Santo Mazzarino:
“Asia ed Europa sono i due termini con cui siamo solo di designare l’antitesi Oriente-
Occidente. Erano anche termini con cui quella antitesi era indicata dai Greci stessi.
La storia di Erodoto ‘filo barbaro’, è tuttavia la storia dell’antico conflitto per cui i
Fenici rapirono Io argiva, e poi, per vendetta, certi Greci rapirono Europa fenicia;
indi nuova offesa dei Greci, col rapimento di Medea, e nuova degli Asiatici, col ratto
di Elena e la guerra di Troia, sicché, dopo questa leggendaria preistoria, si inserì il
conflitto di Lidii e Greci, e poi di Ioni ribelli e Persiani, e infine le guerre persiane
stesse, culmine di una mitica e storica vicenda”1.
C’è “una vecchia e famosa opinione” per usare le parole di Mazzarino, secondo la
quale l’Asia si identificherebbe naturalmente con l’Oriente in quanto starebbe ad
indicare in lingua accadica il luogo in cui sorge il sole (asu) mentre l’Europa, di
converso la terra in cui il sole tramonta (erebu), quindi, rispettivamente, Oriente ed
Occidente. In tedesco l’Occidente si definisce come Abendland, alla lettera “la terra
della sera”, del tramonto, appunto. Posta in questi termini la dicotomia Oriente-
Occidente rinvia piuttosto a due realtà complementari in quanto si riferisce a due
momenti, iniziale e finale, di un unico processo: quello del sole che, per più versi, è
lo stesso della vita. Oriente-Asia ed Occidente-Europa sembrano quindi avere un
senso, almeno se ci fermiamo all’etimo, solo di tipo relazionale, si implicano a
vicenda, sembrano essere parti di un tutto, momenti di un processo che le
ricomprende. La “questione” Occidente-Oriente se si osservava con lo sguardo a
ritroso dell’europeo moderno (perché soltanto nella modernità si definisce in questi
termini), si palesa pure come la vicenda dell’Europa ed i suoi nemici, vicenda che si
può variamente declinare come Europa-Asia; Grecia-Persia; Roma-Cartagine;
Cristianità-Islam; Democrazia-Comunismo; Democrazia-Islam. Come insegna
Nietzsche (fra gli altri) oltre che a definirci per quello che siamo, ci definiamo anche
attraverso i nostri nemici. La vicenda di questa contrapposizione ha un inizio che si
colloca nella storia: si comincia a costituire a partire dallo scontro tra Persiani e
Greci. Questa contrapposizione viene a crearsi nel momento in cui i Persiani, con
Ciro il Grande conquistarono l’Anatolia, sottraendola ai Lidi, assoggettando un
territorio che ricomprendeva nella fascia costiera una serie di città greche, prima fra
tutte Mileto, che mal sopportarono il passaggio dal dominio degli ellenizzati sovrani
lidii a quello di una potenza diversa e distante, quale quella persiana, e alla quale
finirono con il ribellarsi, coinvolgendo in questa rivolta la stessa madrepatria, la

1
S. MAZZARINO, Tra Oriente e Occidente, Milano, 1989, p. 45.

7
stessa Atene. E finirono con l’essere schiacciati e Mileto, la città guida degli Ioni, fu
alla fine assediata ed incendiata e tale evento restò una ferita aperta nella stessa
madrepatria, al punto che quando fu in seguito rappresentata la tragedia di Frinico
sulla drammatica presa di Mileto, si ebbero fra gli spettatori scene di panico e
cordoglio collettivo, tanto che si vietò la rappresentazione della tragedia e il suo
autore fu multato2.
La prima invasione della Grecia, voluta da Dario e fermata a Maratona (490 a.C.)
ebbe come giustificazione ideologica da parte della propaganda persiana l’aiuto degli
Ateniesi ai ribelli Ioni, sudditi del Gran Re. Fu presentata come una rappresaglia
contro tale intervento in aiuto dei Greci d’Oriente. Le due guerre mediche del 490 e
del 480 a.C., con le epiche battaglie che le contraddistinguono (Maratona-Termopili-
Salamina-Platea) segnarono la nascita della “coscienza nazionale greca”, insieme
coscienza della propria identità e di una alterità reale, quella persiana, vista allo stesso
tempo come differenza e minaccia. Non più Ελληνεζ χαί βάρβαροί, formula con la
quale prima si indicavano i popoli della terra, come dire Greci e non Greci: coloro
che parlano greco e quanti male lo parlano e male lo capiscono, i “balbuzienti”, gli
stranieri, gli allogeni. Ora i barbari acquistano una loro identità positiva e la loro
alterità appare pure come una alternativa di vite e valori, a partire dall’abbigliamento.
Come accadrà 2000 anni dopo quando i cristiani che dismettevano i loro abiti per
“vestire alla turca”, con quel cambio di veste stavano ad indicare il loro “farsi turco”,
l’abbracciare l’Islam e trasformarsi tanto esteriormente che interiormente3. I Greci
come Temistocle e Alcibiade che trovarono asilo presso il Gran Re quando
cambiarono d’abito, vestendo come i Persiani, stavano ad rappresentare la loro
vicinanza ad uno stile di vita al quale si riconosceva la dignità di una organica
Weltanschauung4. Non fu soltanto l’”oro persiano” ad avere un ascendente nelle
vicende interne della Grecia, ma pure lo stile di vita della civiltà persiana, al punto
che Senofonte nella Ciropedia, prende Ciro come l’esempio più fulgido di
governante, un modello di paideia, di formazione umana, di Bildung.
Allo stesso tempo, però, a partire dalle guerre persiane in Grecia si elabora l’idea
della propria identità come ideologia della libertà contrapposta a quella della non
libertà persiana. In tal modo alla contrapposizione Grecia-Persia viene caratterizzata
come l’alternativa fra la libertà e il dispotismo, dove la libertà viene variamente
declinata: autonomia; non dipendenza; isonomia; uguaglianza. Allo stesso modo il
dispotismo è schiavitù (in Persia solo uno è libero); dipendenza; arbitrio;
diseguaglianza. I principi della libertà e dell’uguaglianza sono intesi in una
prospettiva propria a tutti i Greci, per certi versi panellenica, come libertà
dall’oppressione esterna e capacità-volontà di autodeterminazione, ma pure come
comunanza di lingua, religione, costumi, valori.
Quando ad Atene, nel corso della seconda invasione persiana, giunge una delegazione
macedone per perorare l’alleanza con il Gran Re e, quasi contemporaneamente
un’ambasceria spartana preoccupata per una tale evenienza, gli Ateniesi rispondono
2
ERODOTO, VI, 21.
3
B. e L. BENNASSAR, I cristiani di Allah, Milano, 1991.
4
Si vedano le due biografie elaborate da PLUTARCO ne Le vite parallele.

8
ai primi che “fino a quando il sole seguirà la stessa strada per cui va ora, mai e poi
mai verremo ad un accordo con Serse”5, quasi a significare una fisica impossibilità,
un’eventualità contro natura. E per rassicurare gli Spartani, sull’impossibilità di
un’alleanza con Serse, gli Ateniesi usano queste parole: “Molte e gravi   sono le
ragioni che ci impediscono di fare questo, anche se lo volessimo. Prima di tutte e più
di tutte importanti le immagini e le dimore degli dei incendiate e sconvolte che noi
dobbiamo di necessità vendicare fino all’estremo piuttosto che venire ad accordi con
chi tali misfatti ha compiuto, e poi la grecità, che ha il nostro stesso sangue e la nostra
stessa lingua, e i comuni templi degli dei e i riti sacri e gli analoghi costumi, dei quali
non sarebbe bene che gli Ateniesi divenissero traditori. Sappiate dunque, se non lo
sapevate prima, che finché sopravviva anche solo uno degli Ateniesi, giammai noi ci
accorderemo con Serse”6. Senza enfatizzare troppo questa comunanza di sangue,
lingua e templi, che non impedì a tanti Greci di schierarsi con il Medo, né di
combattersi l’un l’altro prima e dopo le guerre persiane7, occorre convenire se non
sulla nascita, nel periodo delle guerre persiane, di una comune “coscienza nazionale
greca”, come vorrebbe il De Sanctis, almeno sullo sviluppo di un “sentimento
nazionale”, come “corregge” Mazzarino.
Così come nel IV secolo ad Atene si ricostruirà una storia della città che per più versi
coincideva con la storia della democrazia, a partire dalla presunta autoctonia degli
Ateniesi8, soprattutto partire dall’incontro-scontro tra gli Ioni d’Asia e i Persiani, con
la successiva invasione del territorio greco metropolitano da parte di Dario e di Serse,
si ricostruisce l’immagine di due diverse realtà umane, ideologiche, psicologiche,
“razziali”: quella europea-greca e l’altra asiatica-persiana. Due diversi tipi di uomo;
di governo, di valori di riferimento. Si giunge perfino, in un testo attribuito ad
Ippocrate9, a stabilire un nesso, una relazione, tra due diversi tipi di uomo e di sistemi
di vita con i luoghi, le caratteristiche orografiche e climatiche dei territori in cui gli
uni e gli altri vivono. Erodoto racconta che quando Serse mosse da Sardi, la capitale
più occidentale del suo impero, verso la Grecia, giunse a Troia “e dopo averla
contemplata ed essersi informato di tutti i particolari dei fatti li avvenuti, sacrificò ad
Atena Iliaca 1000 vacche e i magi offrirono libagioni agli eroi”10. Serse recandosi a
Troia dove i Greci avevano sconfitto gli Asiatici, sacrifica alle divinità del posto.
Questa divinità era però Atena, la dea da cui aveva preso il nome la città che, prima
di tutte, Serse aveva di mira, Atene, la capitale dell’Attica. Atena, come pure Febo, è
considerata una divinità benefica che affianca Ahura Mazda, (dietro il carro del Dio,
Serse procedeva nella sua marcia verso la Grecia) e non Ahriman, una divinità
“comune” ai Greci come ai Persiani. La stessa stirpe troiana, alla quale esplicitamente
Serse si richiama, che rappresenta gli Asiatici nel primo scontro tra Europa e Asia,

5
TUCIDIDE, Le Storie, VIII, 143.
6
Ivi, VIII, 144.
7
Mardonio, comandante in capo dell’esercito di Serse, stigmatizzò l’incapacità dei Greci, “che sono della stessa
lingua”, di “comporre le loro controversie servendosi di araldi e di ambasciatori e in qualunque maniera piuttosto che in
combattimento”, ERODOTO, VII, 9.
8
Lo stesso ARISTOTELE ne La Costituzione degli Ateniesi riprende questo schema.
9
IPPOCRATE, Sulle arie, sulle acque e sui luoghi.
10
ERODOTO, VII, 43.

9
non ha caratteri molto dissimili da quelli degli Achei che ad essa si contrapposero. I
Troiani sembrano piuttosto avere i tratti di Greci d’Asia, gli antenati di quei Greci che
per primi i Persiani conobbero, quegli Ioni d’Oriente che chiamavano Yauna. Del
resto lo stesso Omero descrive Troia come una città dai costumi ellenici, già a partire
dalla sua struttura urbana con il tempio sull’Acropoli. I Troiani parlano la stessa
lingua dei Greci (nell’Iliade i protagonisti dell’una parte parlano senza interpreti con
quelli dell’altra). E se c’è un eroe che più di altri incarna l’eroe greco, lo stile di vita e
di valori aristocratici, questo è Ettore e non Achille o Ulisse. Per altro verso, come
ricorda Mazzarino, “c’è qualche traccia nella figurazione di Priamo di una regalità del
tipo orientale”, come ad esempio la poligamia del re di Troia. Aspetti secondari, però,
se si considera, per un verso, la libertà sessuale diffusa presso i maschi
dell’aristocrazia greca e la stessa poligamia in voga in un contesto ellenico come
quello macedone.
Sta di fatto che quando gli interpreti moderni vanno alla ricerca di quelli che,
nell’Iliade, possono apparire come tratti distintivi di due diverse culture e civiltà
finiscono immancabilmente per rifarsi ad un passo che troviamo all’esordio del terzo
libro dell’Iliade e che descrive la discesa in campo di Teucri ed Argivi in quella che
sarà la battaglia in cui Paride e Menelao si affronteranno. Da una parte ci sono i
Troiani che schiamazzanti e scomposti muovono a battaglia, dall’altra gli Achei,
calmi, ordinati, silenziosi. Certo non bisogna sottovalutare le gerarchie assiologiche a
cui le differenze dei tratti psicologici rinviano: il lettore di Tucidide, ad esempio, sa
bene con quanta frequenza lo storico descrive la sconfitta in battaglia come il venir
meno dell’ordine, della compattezza delle milizie che combattono e come, in generale
siano poste alla base dello schieramento oplitico la coesione e l’organizzazione della
falange. Ciò nonostante, si può condividere il commento dello Snell, quando sostiene
che “in complesso, però, una differenza tra le parti è appena percettibile”11.
Del resto, da parte persiana come da parte greca, sembra essere diffusa la convinzione
che i due mondi non sono così lontani, anzi per più versi contigui, se non apparentati.
Erodoto riporta un episodio della seconda guerra persiana (seppure sulla veridicità
dello stesso si esprima con qualche riserva) nel quale si racconta di una ambasceria
che Serse inviò alla città di Argo per chiedere ai suoi abitanti di rimanere neutrali
nell’imminente conflitto che avrebbe opposto Persiani e Greci. C’è una presunta
consanguineità alla base di questa richiesta: “Uomini di Argo, il re Serse questo vi
annuncia: Noi crediamo che il nostro progenitore sia Perse nato da Perseo figlio di
Danae e di Andromeda figlia di Cefeo. In tal modo saremo quindi vostri
discendenti”12. In questa prospettiva non è possibile non ricordare una celebre
immagine che Eschilo riporta ne I Persiani (176-214) e nota come “il sogno di
Atossa”, della regina madre di Serse. Dopo la partenza del figlio, Atossa sogna due
donne: “una era abbigliata con vesti persiane, l’altra con vesti doriche”; queste donne
“erano sorelle di sangue, della stessa stirpe: a una era toccato in sorte di abitare la
terra greca, all’altra la terra dei barbari”. “Sorelle di sangue”, ma pure “ostili l’una
all’altra”. Serse cerca di ammansirle e le tratta come due cavalle. Cerca cioè di
11
B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, 1963, p. 219.
12
VII, 150.

10
aggiogarle al suo carro; mentre, però, quella che rappresentava l’Asia “prestava
docile la bocca alla briglia”, la seconda, immagine della Grecia, “recalcitra”, si ribella
al morso, “spezza il giogo a metà”. La donna indocile al morso è la Grecia; refrattaria
ad ogni forma di sudditanza, fa della libertà (Eleutheria) il tratto distintivo della sua
identità. Sempre ne I Persiani, leggiamo, infatti: “di nessuno [i Greci] si dichiarano
schiavi, di nessun uomo sudditi”. Quella fra Greci e Troiani, come poi fra Greci e
Persiani, appare perciò più come una lotta intestina che uno scontro fra popoli diversi
ed estranei l’uno all’altro. Commentando proprio “il sogno della Regina”, Massimo
Cacciari nota: “una stásis è la loro, non un pólemos. Qui addirittura la guerra che per
il greco ha finito con l’essere assunta a modello del pólemos, della guerra contro il
barbaro, viene chiamata col nome di ‘guerra interiore’. Asia ed Europa non soltanto
appaiono entrambe belle e divine, ma realmente ‘sorelle di sangue, della stessa
stirpe’. Abitano terre diverse, ma una ne è l’origine”13.
La stretta vicinanza, la “consanguineità” tra Europa - Grecia ed Asia – Persia a cui fa
riferimento Eschilo, il poeta tragico che combatté a Maratona, ha una controprova
che deriva dall’uso alternativo che nel corso della storia si è fatto di alcune realtà
simboliche come, ad esempio, Troia che nel corso del tempo è stata assunta a
rappresentazione simbolica tanto di Oriente che di Occidente.
Scrive Tucidide che “prima della guerra di Troia non sembra che la Grecia avesse
compiuto qualche impresa comune” 14. Non solo la guerra di Troia è la prima impresa
panellenica15, ma è pure l’unica. Già il lettore di Erodoto sa che neppure di fronte alle
due invasioni persiane i Greci furono compatti. Dietro le insegne persiane non solo
combatterono i Greci d’Asia e gli altri sudditi del Gran Re, ma pure quanti per
rivalità e rancori intestini – il caso più celebre fu quello dei Tebani – a migliaia si
schierarono contro quelli che “parlavano la stessa lingua”16.
Lo stesso può dirsi della spedizione che Alessandro Magno, più di mille anni dopo la
guerra di Troia, compì contro la Persia, adducendo tra le giustificazioni ideologiche
dell’impresa la necessità di vendicare l’invasione persiana della Grecia. L’impresa di
Alessandro non si può definire panellenica, ma piuttosto fatta dai Macedoni e dai loro
alleati greci, che costituirono, almeno nelle fasi iniziali, la componente principale
dell’esercito di Alessandro, assieme ad un nutrito contingente di mercenari.
Un altro motivo sta alla base dell’impresa di Alessandro, che si considera discendente
di Eracle e di Achille, come pure di Dionisio, di compiere, sulle orme dell’eroe
argivo e del dio, un’opera civilizzatrice, di ellenizzazione dell’Asia, come emerge in
modo non equivoco dagli storici antichi della sua impresa come Arriano17 e Curzio
Rufo18, e come Plutarco esplicitamente afferma nelle pagine introduttive della prima
orazione Sulla fortuna o la virtù di Alessandro Magno, quando si riferisce alle
iniziative del macedone grazie alle quali “ebbe ragione del modo di vivere selvaggio
e ferino di quelle genti”. Plutarco qui definisce la differenza tra civiltà e non-civiltà,
13
M. CACCIARI, Geo – filosofia dell’Europa, Milano, 1994, p.18.
14
I, 3.
15
Si ricordi la “turba infinita” delle schiere achee che Omero elenca nel secondo libro dell’Iliade.
16
Sull’elenco delle truppe alleate a Serse di veda il settimo libro delle Storie di Erodoto, in particolare 93 e ss., 184 e ss.
17
II,14.
18
III, X.

11
tra Greci e Barbari, attribuendo ai primi un’opera di codificazione dei rapporti
sessuali (divieto dell’incesto); il rispetto dei legami di parentela, la tutela degli
anziani, i riti funebri che comportavano il seppellimento dei morti, il divieto
dell’antropofagia, attribuita a Sciti e Sogdiani.
Lo stesso Alessandro, però, come è noto, è in modo ricorrente censurato dai suoi
stessi biografi antichi, perché una volta che ebbe vinto Dario III cominciò ad
assumere usanze persiane, “vestire alla meda”, esigere la proskenesis, l’inchino e il
bacio del suo seguito. Sposò Rossane, una battriana ed altre donne asiatiche, secondo
il rito persiano ed un’usanza poligamica che i Macedoni condividevano con i
Persiani, spingendo molti del suo seguito ad imitarlo nell’abito ed a sposare giovani
persiane.
Alessandro nel corso della sua impresa si reca a Troia dove depone una corona sulla
tomba di Achille che considera un suo antenato, ma sacrifica pure a Priamo, “volendo
stornare l’odio di Priamo per la stirpe di Neottolemo, cui gli apparteneva”19.
Con Virgilio e con la sua opera più famosa, che trae il nome da un eroe troiano,
l’Eneide, abbiamo una completa inversione del paradigma classico che vuole
l’identificazione fra Troiani ed Asiani.
In altri termini viene meno il nesso tra collocazione geografica e caratteri culturali e
psicologici, correlazione in realtà mai completamente teorizzata nel pensiero greco
che conosceva l’Asia dei Greci e l’Asia dei Barbari. Inoltre, come è scritto a chiare
lettere in uno scritto del corpus ippocratico, Sulle arie, sulle acque, sui luoghi, le
istituzioni politiche, il nomos, la legge, può modificare in meglio o in peggio le
nature, ad esempio accrescendo o sminuendo l’ardimento in guerra. Per accentuare
questo tratto Virgilio opera un’invenzione, un espediente: descrive il Lazio come la
terra d’origine dei Troiani, “l’antica madre” a cui ritornano20. Sullo scudo di Enea è
descritta la battaglia di Azio21 dove le forze barbariche orientali sono rappresentate da
Antonio e dalla “sposa egiziana”.
I Troiani che tornarono nel Lazio sono appunto reduces, ritornanti; in tal modo gli
asiatici non stanno all’origine della stirpe romana, ma erano stati dei latini all’origine
della gente troiana, gli stessi che ora ritornano alla terra che li “generò per prima”. Lo
ius sanguinis ha la meglio solo ius loci.
Ancora un’inversione della prospettiva viene operata all’indomani della conquista
della “Seconda Roma”, di Costantinopoli, la capitale di un popolo che prima gli
Arabi e poi i Turchi chiamavano Rumi, Romani, un popolo di stirpe e lingua greca.
Così l’umanista Laonico Chalkokoudyles commenta la caduta di Costantinopoli nelle
sue Historiarum demonstrationem. “Sembra che questa catastrofe, la più grande che
si sia verificata nel mondo, abbia superato per il suo orrore tutte le altre, e che sia
stata molto simile a quella di Troia, anzi una vendetta presa dai barbari per
l’uccisione in massa compiuta dei Greci a Troia.. I Bizantini sono convinti che si sia
scatenata sui Greci la vendetta per la distruzione avvenuta un tempo a Troia”22. Nel

19
ARRIANO, Anabasi di Alessandro, 1,11.
20
Eneide, III, 94-98.
21
VIII, 671 e ss.
22
In La caduta di Costantinopoli. L’eco del mondo, a cura di A. Pertusi, Milano, 2003, p. 227.

12
1462, nove anni dopo la conquista di Costantinopoli, Maometto III visitò la Troade e
in un discorso riportato dallo storico bizantino Cristobulo di Imbro, il Conquistatore
di Bisanzio sostenne di aver vendicato i “popoli dell’Asia” per la distruzione di Troia
da parte dei Greci. Giovanni Ricci nota che “L’Idea non era tutta del Sultano.
Certamente al suo seguito si trovava qualche umanista italiano che gli raccontò i
poemi numerici di cui era avido e gli instillò l’idea della sua discendenza dal Teucro.
In Italia, in effetti, lo scambio Turchi / Teucri era usuale dagli inizi del Quattrocento;
né era solo un vezzo letterario, come dimostra la sua presenza sui registri linguistici
differenziati”23.
Come è evidente, già nella sua origine storica la contrapposizione fra Europa / Grecia
/ Occidente ed Asia / Troade / Oriente viene sviluppata con argomenti diversi, di
segno opposto, che a seconda dei casi privilegiano i luoghi, cioè la collocazione nello
spazio, o le culture, cioè le vocazioni spirituali e i caratteri psicologici, come nel casi
di Virgilio, “il poeta di Augusto” che descrive Roma come fondata da autoctoni, da
migranti che ritornano, reduces che il Fato riporta all’”antica madre” per ricostruire
una nuova Troia, Roma, destinata a governare il mondo.

1.3 Civiltà occidentale, isonomia, democrazia

Nell’ultima pagina, nelle conclusioni dei uno studio famoso, Fra Oriente ed
Occidente, Santo Mazzarino identifica “la nascita dell’Occidente” con “l’esigenza
isonomica”,cioè con la democrazia. Isonomia, infatti, sta a significare uguaglianza
davanti alla legge, ma è pure il primo nome con cui si definisce la democrazia che è
la forma di governo fondata sulla libertà e sull’uguaglianza. L’isonomia, il principio
che le stesse leggi valgono per tutti i cittadini, rappresenta una forma d uguaglianza
che assieme ad altre caratterizzano la democrazia.
L’incontro dell’ “esigenza isonomica” con “l’universalismo territoriale del Grande
Re”, universalismo fortemente caratterizzato in senso religioso, “portò alla
formazione, continua il Mazzarino, di quella cultura che è la nostra. E che, grosso
modo, si può dire greca per la politica, orientale per la religione”24.
Questa differenziazione rimarrà una costante nel corso della storia: “Nessuna altra
[non occidentale] civiltà ha dato vita ad una ideologia politica di rilievo. L’occidente,
dal canto suo, non ha mai prodotto una grande religione”25. Se la cultura occidentale è
il risultato della sintesi tra l’elemento ideologico – politico e quello religioso, il
secondo è un prodotto d’importazione.
In Europa la religione che si è imposta, a partire dal III, IV secolo, dapprima al centro
e poi gradualmente nella periferia continentale, è stato il cristianesimo. Per secoli,
praticamente fino ai nostri giorni, in Europa, accanto alle chiese cristiane hanno
convissuto solo minoranze ebree, prima che nel XX secolo flussi migratori di varia
23
G. RICCI, Ossessione turca. Bologna, 2002, p.108.
24
S. MAZZARINO, Fra Oriente e Occidente, cit., p.296, 297.
25
S. P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà, Milano, 2000, p. 65.

13
provenienza facessero dell’Islam la seconda religione dell’Europa. Questo vale pure
per gli Stati Uniti.
Sempre Huntington, nel suo più celebre libro su Lo scontro delle civiltà, sostiene che
“L’espressione politica della civiltà occidentale è la democrazia”26. Possiamo essere
d’accordo con questa sentenziosa considerazione? Sicuramente no se cercassimo di
valutarla con un metro storico, temporale. La democrazia nasce e si diffonde in una
parte della Grecia nel V e nel IV secolo a.C., ma già con Alessandro prima e poi con i
Romani ha fine l’autonomia ed, insieme, l’egemonia della Grecia: con esse pure la
democrazia, se la intendiamo nel suo significato più pregnante, di autogoverno del
popolo.
Bisognerà aspettare 15 secoli per aver la Magna Charta liberatum, un documento
considerato alle origini delle moderne libertà, che fissa una serie di garanzie
individuali, come quella all’art. 29, che stabilisce la necessità di un regolare processo
per procedere alla condanna di un uomo libero, riprendendo in tal modo un principio
della democrazia greca.
E ancora più di un mezzo millennio bisognerà aspettare perché si abbia la
rivoluzione, quella francese del 1789, con la quale dopo più di 2000 anni saranno
riaffermati i principi e di valori della democrazia a partire dal riconoscimento della
sovranità popolare, dalla proclamazione della libertà come principio fondativo dello
Stato e dell’uguaglianza politica e giuridica (davanti alla legge) di tutti i cittadini.
Per potersi parlare di un’Europa democratica bisognerà arrivare al XX secolo, prima
alla sconfitta del nazismo e del fascismo nel 1945 e poi al crollo dell’URSS e degli
altri stati comunisti, nell’ultimo decennio del secolo.
Questi stati si definivano “democrazie popolari”, con una formula tautologica perché
democrazia sta appunto a significare “potere del popolo”, ma che in realtà voleva
esprimere polemicamente una presa di distanza dalle democrazie, ritenute “borghesi”,
cioè anti – popolari degli stati occidentali dell’Europa. Gli stati che si definivano
“democrazie popolari” erano una palese antitesi di molti principi fondativi della
democrazia, primi fra tutti la libertà. Nei regimi comunisti la libertà era negata sotto
molteplici aspetti: come libertà di espressione, di manifestazione del dissenso, come
libertà economica, come libertà di movimento.
Con la fine del comunismo si sono diffusi a livello continentale governi democratici e
c’è stato chi, come Fukuyama, ha parlato di “fine della storia”, nel senso che
sembrava venir meno ogni alternativa e ogni realtà in grado di contrastare il blocco
democratico USA – Europa e l’ideologia democratica, che si erano imposti prima ai
Fascismi e poi al Comunismo. Le cose sono andate diversamente e non sarebbe
potuto accedere altrimenti. Quello che in contesti come l’Afghanistan era stato un
alleato, sostenuto ed armato dall’Occidente, cioè il movimento islamico, è divenuto,
almeno in parte, il principale antagonista dell’Occidente.
Sarebbe però riduttivo e fuorviante rappresentare l’attuale situazione come uno
scontro tra Occidente democratico e Islam totalitario, fra tolleranza ed intolleranza,
libertà e restrizione, progresso e tradizionalismo. L’errore più madornale sarebbe

26
Ibidem.

14
considerare come una realtà omogenea quella dei 57 paesi dove vive la gran parte del
miliardo e duecento milioni di musulmani che oggi popolano il pianeta. Una realtà
complessa e differenziata, dove il nucleo originario dell’Islam, rappresentato dagli
Arabi, racchiude il 20% del totale e che vede l’Indonesia come il più grande paese a
maggioranza islamica. Esistono differenze sostanziali non solo tra sunniti e sciiti, ed
ovviamente al loro interno, ma pure a seconda dei contesti sociali, il grado
d’istruzione,il sesso, l’appartenenza geografica, la conoscenza dell’Occidente, ecc.
Allo stesso modo sarebbe fuorviante presentare l’Europa e gli USA come realtà
omogenee che rappresentano un indifferenziato “mondo democratico”, In realtà,
come ad esempio emerge dall’inchiesta della Gallup a cui J. Esposito e D. Mogahed
nel loro libro ( Tutto quello che dovresti sapere sull’Islam…) fanno riferimento,
inchiesta fatta su un vastissimo campione di musulmani, nel mondo islamico si ha
una diversa percezione dei paesi europei e degli Stati Uniti, non in base a categorie
ideologiche, ma alle politiche che essi attuano nei confronti dei paesi islamici o di
realtà come L’Afghanistan o l’Iraq. In tal modo appare assai differenziato, ad
esempio, il giudizio sugli Stati Uniti e il Regno Unito (fortemente negativo) e quello
su stati come la Francia, la Germania, la Spagna, l’Italia.

1.4 Democrazia e/o Islam?


Spesso nella generica categoria di Occidente, noi ricomprendiamo realtà assai
differenziate, che vanno dalla Bulgaria alla California, dalla Grecia al Giappone
(stato liberal – democratico e per molti aspetti occidentalizzato) e poi, in modo
altrettanto arbitrario, le identifichiamo attraverso uno o più parametri unificanti, come
il sistema democratico ed il libero mercato. Spesso procediamo allo stesso modo con
una realtà come quella dell’Islam ed unifichiamo sotto il termine “islamico” le più
composite realtà (dai contadini de Maghreb ai figli di musulmani turchi di terza
generazione nati in Germania, dalle donne iraniane alle musulmane cinesi dello
Xijang, dagli sciiti libanesi ai black muslim degli USA, e così via) e le accomuniamo
sotto un’unica matrice: una religione con caratteri universalistici, esclusivistici ed
egemoni. Se procediamo con questo metodo semplificante (e semplicista), attraverso
la reductio ad unum di una civiltà che nel corso di 1400 anni ha coinvolto molteplici
popoli e continenti diversi (almeno tre) ed a essa contrapponiamo un’altra realtà
(l’Occidente) vista in modo altrettanto omogeneo ed unificato, non potremmo che
avere dei risultati altrettanto banalizzanti e semplicisti.
Scrive Huntington: “Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo
islamico, ma l’Islam in quanto tale, una civiltà diversa le cui popolazioni sono
convinte della propria cultura e ossessionate dallo scarso potere di cui dispongono. Il
problema dell’Islam non è la CIA o il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ma
l’Occidente, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte del carattere
universale della propria cultura e credono che il maggiore – seppur decrescente –
potere detenuto imponga loro l’obbligo di diffondere quella cultura in tutto il mondo.

15
Sono questi gli ingredienti di base che alimentano la conflittualità tra Islam e
Occidente”27.
Se l’Occidente e l’Islam esprimessero due civiltà con caratteri fissi, ontologicamente
immutabili, determinati una volta per tutte e per sempre, caratteri per giunta
incompatibili, l’unica prospettiva realistica sarebbe il conflitto, lo “scontro di civiltà”.
Per fortuna non è stato così nel passato, non lo è nel presente e dipende in gran parte
dalle scelte dell’uomo contemporaneo che, nel futuro, il conflitto non sia l’opzione
prevalente.
Nessuna civiltà è un tutto omogeneo esclusivo ed escludente, immodificabile, chiuso
in se stesso, che costantemente si riproduce alla stessa maniera. Ogni civiltà è il
risultato di incontri, scontri, “contaminazioni” con altre culture; è una realtà vivente
fatta da uomini che si sviluppano e si modificano. Chiunque, pur senza avere una
particolare formazione storia o religiosa, converrebbe sulla constatazione, ad
esempio, che il cristianesimo medioevale non è lo stesso della Rerum Novarum e del
Concilio Vaticano II. Ma, quando si parla di civiltà cristiana, il cristianesimo sembra
mostrare un’identità unica, al di là della storia e della geografia, del tempo e dello
spazio.
In realtà ogni volta che parliamo di Oriente e di Occidente, di democrazia o di Islam,
dovremmo tener presenti alcuni elementi fondamentali. Innanzitutto che ogni civiltà
(come ogni ideologia e religione, in generale ogni sistema culturale fatto da uomini e
per altri uomini) è soggetta a trasformazioni ed i suoi principi costitutivi possono
essere variamente interpretati, trasformati e a volte cambiati o, addirittura, stravolti.
Ogni civiltà, ogni religione, ogni ideologia, non nasce dal nulla, sin dalle sue origini è
il risultato di influenze e componenti diverse; è sempre il frutto di incontri e sintesi.
In quanto realtà vivente, che vive attraverso gli uomini, subisce le trasformazioni più
varie e non ha mai uno sviluppo dato, determinato in senso deterministico.
Le sue trasformazioni sono il risultato delle scelte degli uomini che la rappresentano,
dei processi culturali, esistenziali, materiali di questi uomini.
Lo stesso problema si pone quando parliamo di democrazia ed Islam. In realtà non
esiste la democrazia, una democrazia al singolare: né dal punto di vista ideologico, né
come modello realizzato storicamente, così, spesso, democrazie diverse adottano
sistemi diversi (elettorali e non) per determinare la formazione e l’espressione della
volontà popolare. Anche i principii democratici sono stati variamente interpretati ed
hanno spesso portato ad esiti in cui sono stati radicalmente messi in discussione.
Pensiamo ad esempio ai due principi simboli della democrazia: libertà ed
eguaglianza. Sono stati confinati solo nella sfera politica e spesso posti
esclusivamente a garanzia dei cittadini. L’uguaglianza democratica non ha impedito
né alle democrazie antiche né a quelle moderne di convivere con la schiavitù; né,
tantomeno, tanto nell’antichità che nel mondo moderno e contemporaneo, democrazie
fondate sulla libertà e sull’uguaglianza si sono astenute da politiche aggressive o
addirittura imperialistiche e colonialiste nei confronti di altri Stati. Senza considerare
che all’interno stesso della cittadinanza si è avuta una distinzione tra uomini e donne

27
S.P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà, cit., p. 319.

16
e, di fatto, fin quasi ai nostri giorni, si sono avuti due status: una cittadinanza piena,
in cui si godevano appieno e attivamente i diritti politici ed una cittadinanza sminuita,
quella femminile, con una metà della popolazione che godeva di diritti limitati. Si
consideri, ad esempio, che in Italia le donne hanno votato per la prima volta nel 1946,
nel referendum che scelse tra monarchia o repubblica. Soltanto negli ultimi decenni, a
livello europeo, si sta colmando, a fatica, in modo incompleto, il gap esistente tra
uomini e donne in quegli ambiti dove si crea ricchezza, si gestisce il potere, si
formano scelte politiche, si sviluppa la ricerca, ecc. Basti pensare alla presenza delle
donne nei parlamenti nazionali europei, presenze che spesso non si avvicina neanche
ad un quinto del totale.
Di questi aspetti dovremmo tenere conto quando parliamo della relazione
Democrazia – Islam. A partire dal modo in cui impostiamo il confronto. Uno di
questi, può essere quello scelto da Renzo Guolo, che da il titolo ad un suo libro:
“L’Islam è compatibile con la democrazia?”. La questione è posta in termini di
compatibilità, di adeguatezza. In tal modo il confronto è, ab initio, messo su un piano
asimmetrico. Da una parte c’è la democrazia, un sistema ideologico ed una forma di
governo ritenuta rappresentare la dimensione più avanzata della civiltà moderna, e da
un’altra parte una religione ed un sistema di vita che si sono espressi e si esprimono
ancora oggi spesso con modalità arcaiche e, per più versi, illiberali, almeno così
sembra porsi il confronto.
Messa la questione in questi termini sembrerebbe che si tratti solo di vedere se e fino
a che punto l’Islam contemporaneo possa democratizzarsi.
Con queste parole Renzo Guolo risponde alla questione “L’Islam è compatibile con
la democrazia?”, questione che fa titolo ad un suo libro: “Ma L’Islam e democrazia
possono diventare compatibili se il primo resta solo fonte di inspirazione etica per
l’azione di individui e gruppi nella società e non atto di sottomissione alla sovranità
divina; se, dunque, le sorti di politica e religione rimangono distinte; se la religione,
in quanto dimensione istituzionale organizzata, lascia maggiore spazio alla religiosità,
all’esperienza soggettiva di senso dell’individuo. Se, invece, l’Islam restasse, come
nel suo mito fondativo, una concezione totale del mondo cui ispirarsi per dare vita a
nuove forme di stato etico, allora la strada verso la democrazia tornerebbe ad essere
accidentata”28.
Dopo aver posto la relazione democrazia – Islam in termini di compatibilità del
secondo con la prima, Guolo vede la soluzione suggerendo, di fatto, lo stesso iter che
ha avuto in Europa la questione Stato – Chiesa. L’Islam dovrebbe diventare
esclusivamente “fonte di ispirazione etica”, lasciare “maggior spazio alla religiosità,
all’esperienza soggettiva dell’individuo”, cessare di rappresentare la dimensione della
“sottomissione alla sovranità divina” e di essere una “concezione totale del mondo”,
separarsi pertanto dalla politica.
In altri termini, l’Islam dovrebbe cessare di essere quello che è stato per 1400 anni, a
partire dal suo significato etimologico; Islam infatti significa “atto di sottomissione
alla sovranità divina” e, nello stesso tempo, come è chiaramente e ripetutamente

28
R. GUOLO, L’islam è compatibile con la democrazia?, Milano, 2007, p. 8

17
sostenuto nel Corano, l’Islam è una regola di vita che detta ai credenti una serie di
precetti comportamentali, che dalla culla alla tomba riguardano tutti gli aspetti della
vita individuale e comunitaria, tant’è che spesso l’Islam è definito più che sul piano
della teologia, su quello della prassi, cioè come un’ortoprassi29.
Non soltanto si nega il principio che “l’Islam è religione e mondo”, ma di fatto si
sostiene la crisi stessa della comunità, perché come lo stesso Guolo riconosce “Nella
visione islamica la fine del legame religioso determina, immediatamente, anche la
fine della comunità, poiché nessun nuovo mito sociale potrebbe ricostruirla”30.
A mio avviso, non è questa una soluzione che troverebbe l’assenso di molti tra il
miliardo e 200 milioni di musulmani oggi al mondo.
Sarebbe come dire loro che per divenire democratici devono cessare di essere
musulmani. La sfida vera, se di sfida vogliamo parlare, è quella di conciliare una
democrazia capace di esprimere e rappresentare in modo compiuto i suoi principi di
libertà, con un Islam capace di attingere ai suoi principi religiosi più che a prassi di
origine mondane, storiche, spesse volte per così dire peggiorative, nei confronti del
dettato coranico. Basti pensare, ad esempio, che in nessun passo coranico è prevista
la pena di morte, neanche per quelle che possono essere consideratele colpe più gravi,
come il tradimento e l’apostasia, mentre un ruolo fondamentale viene attribuito alla
scelta ed alla responsabilità personale.
Anche da parte islamica ci si è posto il problema del rapporto tra “Islam e
democrazia”. E’ questo il titolo di un noto libro, della studiosa marocchina Fatima
Mernissi. Libro interessante perché mette in risalto gli aspetti critici, le questioni
aperte nel rapporto tra Islam e democrazia. A partire dalla parola “democrazia”: “Non
abbiamo una parola araba per la democrazia; usiamo la parola greca, dimuqratiyya”31.
La Mernissi ricorda pure che la democrazia è considerata dai tradizionalisti “estranea
alla cultura islamica”32 perché, democrazia sta a significare “potere al popolo” mentre
per l’Islam il potere appartiene a Dio ed il popolo non ha alcun potere autonomo. La
Mernissi sottolinea pure che il principio che più di ogni altro caratterizza la
democrazia, cioè la libertà, nella civiltà musulmana non ha mai avuto una valenza
positiva: “Al Hurriyya”, “libertà”, ha sempre avuto uno statuto ambiguo nella civiltà
musulmana e non ha mai acquisito una patente di nobiltà, né è diventato un concetto
positivo. Il suo significato rimane connesso all’anarchia della jahiliyya”33. La
Jahiliyya è l’epoca preislamica, in cui vivevano i meccani prima della rivelazione,
Jahiliyya è sinonimo di ignoranza, di barbarie. In tale contesto libertà sta a
rappresentare il disordine, la mancanza di regole, una condizione in cui le neonate
indesiderate erano seppellite vive e innumeri divinità grottesche e sanguinarie
venivano onorate e venerate..
Se l’idea di libertà viene associata alla religione, cioè si evoca la “libertà religiosa”, è
come dire confusione, disordine che rinvia, ancora una volta alla condizione pre-

29
M. CAMPANINI, Ideologia e politica nell’Islam, Bologna, 2008, p.2.
30
R. GUOLO, cit., p.98.
31
F. MERNISSI, Islam e democrazia, Firenze, 2006, p.73.
32
Ivi, p. 74.
33
Ivi, p. 116.

18
islamica in cui ognuno era “libero” di scegliere le divinità che preferiva: “la libertà di
opinione e di religione (…) richiama per i musulmani l’idea di Shirk che dal punto di
vista etimologico significa semplicemente ‘associare’, nonché ‘partecipare’. Ha una
connotazione negativa perché viene utilizzato per descrivere il disordine e la
confusione precedenti l’anno 630, la data della conquista della Mecca, quando il
Profeta rovesciò gli dèi dal loro piedistallo”34.
L’associazione, il mettere qualcuno o qualcosa accanto a Dio, Allah, significa negare
la natura stessa di Dio, la sua unicità, la sua assoluta supremazia, la sua
incomparabilità. E’ la colpa più grave, l’unica veramente imperdonabile. “Non c’è
Dio al di fuori di Dio” questa è l’essenza dell’Islam. La professione di fede recita
pure che “Muhammad è l’inviato di Dio”, seppure è l’ultimo degli inviati ed “il
sigillo della profezia” è posto sullo stesso piano degli alti “inviati”, come Mosè e
Gesù. Il vero, l’unico “dogma” dell’Islam è l’unicità di Dio (Tawid). La libertà
religiosa nega questo dogma.
In questa prospettiva appare assai problematico riconoscere e accettare quella parte
della Dichiarazione Universale dei diritti umani che riguarda, appunto, la libertà
religiosa che all’art. 8 (che la Mernissi definisce “esplosivo”), così recita: “Ogni
persona dovrà avere il diritto della libertà di pensiero, di coscienza e di religione.
Questo diritto include la libertà di adottare una religione o un credo di propria scelta,
sia a livello individuale che in comunione con altri e sia in pubblico che in privato”.
La questione della libertà (dalla libertà di coscienza a quella religiosa, dalla libertà di
autodeterminarsi per le donne alla possibilità di svincolarsi da una ancora oppressiva
tutela maschile) è uno dei principali nodi da sciogliere a livello culturale fra Islam e
democrazia.

34
Ivi, p. 109.

19
TESTI

Alla fine di ogni capitolo vengono presentati una serie di estratti di autori contemporanei o di
classici utili, anzi fondamentali, ai fini della preparazione della materia. Si invitano, pertanto, tutti
gli studenti a leggere con attenzione tale materiale.

20
La rivincita di Dio

In un suo noto libro, Samuel Huntington, riprendendo una formula dello studioso dell’Islam Gille
Kepel, sostiene che “la rivincita di Dio”, cioè la rinascita dell’interesse per la religione si è avuta,
a partire dalla metà del 900, in quei contesti democratici europei che nel corso della storia si sono
caratterizzati per il loro agnosticismo e non hanno mai prodotto, a differenza dell’Oriente, nessuna
religione universalistica.

Ma poiché l’espressione politica della civiltà occidentale è la democrazia,


l’emergente stato universale della civiltà occidentale non è un impero ma piuttosto un
complesso di federazioni, confederazioni e regimi e organizzazioni internazionali.
Le grandi ideologie politiche del XX secolo comprendono il liberalismo, il
socialismo, la socialdemocrazia, il conservatorismo, il nazionalismo, il fascismo, la
democrazia d’ispirazione cristiana. Tutte queste ideologie hanno un elemento in
comune: sono prodotti della civiltà occidentale. Nessun’altra civiltà ha dato vita a
un’ideologia politica di rilievo. L’Occidente, dal canto suo, non ha mai prodotto una
grande religione. Tra le maggiori religioni del mondo nessuna nasce in occidente e
tutte, nella maggior parte dei casi, sono antecedenti a esso. Via via che il mondo esce
dalla sua fase occidentale, le ideologie che hanno caratterizzato l’epoca più recente di
questa civiltà tendono a declinare e il loro posto è preso dalle religioni e da altre
espressioni culturali di identità e di appartenenza. La separazione westfaliana tra
religione e politica internazionale, un prodotto idiosincratico della civiltà occidentale,
si sta ormai avviando alla fine e la religione,come osserva Edward Mortimer,
“penetrerà probabilmente in misura sempre maggiore negli affari internazionali” Lo
scontro di ideologie sviluppatosi nell’ambito della civiltà occidentale sta lasciano il
posto a uno scontro di culture e di religioni tra civiltà diverse.

[…]

Nella prima metà del XX secolo le élite intellettuali hanno di norma creduto che la
modernizzazione economica e sociale dovesse portare alla scomparsa della religione
quale elemento significativo dell’esistenza umana. Tale convinzione era comune
tanto a che l’applaudiva quanto a chi la deplorava. I laicisti modernizzatori
guardavano con soddisfazione al fatto che la scienza, il razionalismo e il pragmatismo
stessero spazzando via le superstizioni, i miti, gli irrazionalismi e i rituali che erano
alla base delle religioni esistenti. La società emergente sarebbe stata tollerante,
razionale, pragmatica, progressista, umanistica e laica. Dal canto loro, i conservatori
mettevano in guardia contro le terribili conseguenze che avrebbero accompagnato la
scomparsa delle credenze e delle istituzioni religiose e della guida morale offerta
dalla religione al comportamento umano individuale e collettivo. Il risultato finale
sarebbe stato anarchia, depravazione, distruzione della vita civile. “Se non avrai Dio
(e Lui è un Dio geloso)”, disse T.S. Eliot, “allora dovrai ossequiare Hitler o Stalin”.
La seconda metà del XX secolo ha dimostrato l’infondatezza di quelle speranze come
di quelle paure. La modernizzazione economica e sociale ha raggiunto dimensioni
21
mondiali, eppure al tempo stesso si è verificata una generale rinascita religiosa.
Questo fenomeno, la revenche de Dieu, come l’ha definita Gille Kepel, ha interessato
tutti i continenti, tutte le civiltà, praticamente tutti i paesi. A metà degli anni Settanta,
osserva Kepel, la tendenza alla secolarizzazione e all’adattamento della religione al
laicismo imperante “invertì la rotta. Venne alla luce un nuovo approccio religioso,
volto non più a un adeguamento ai valori laici, bensì al recupero della sacralità invece
come fondamento dell’organizzazione della società, se necessario anche attraverso un
cambiamento della società stessa. Questa posizione, variamente articolata, invocava il
distacco da un modernismo rivelatosi fallace nel momento in cui aveva voluto
allontanarsi da Dio. Il punto in questione non era più un aggiornamento, ma una
«seconda “evangelizzazione dell’Europa”. L’obiettivo insomma non era più
modernizzare l’Islam ma “islamizzare la modernità”».

S. Huntington Lo scontro delle civiltà

22
L’occidente visto dall’Islam

In Europa siamo abituati, quando parliamo di Oriente ed Occidente, ad indicare due realtà diverse,
tanto dal punto di vista geografico che culturale. Nell’Islam, invece, quando si parla di Occidente
si intende la parte occidentale del mondo islamico; non una realtà altra, ma una dimensione
interna all’Islam. Ciononstante, come sottolinea la Mernissi, nella prospettiva islamica l’Occidente
è sinonimo di “estraneità”.

Gharb, la parola araba che traduce Occidente, indica anche il luogo dell’oscurità e
dell’incomprensibile, che mette sempre paura. Gharb è il territorio di ciò che è
strano, straniero (gharib). Tutto ciò che non capiamo ci fa paura. “Essere estraneo,
straniero” in arabo ha una connotazione spaziale molto forte, essendo gharb il luogo
dove il sole tramonta e dove l’oscurità incombe. E’ un Occidente che la notte addenta
il sole e lo inghiotte; quindi tutte le cose più terrificanti sono possibili. E’ là che la
gharaba (stranezza) ha preso dimora.
Quando mia zia Halima introduceva nei suoi racconti del venerdì sera una persona di
nome Gharib, l’estraneo, mio cugino ‘Aziz mi tirava le trecce e io tiravo quelle di
Mina; improvvisamente facevamo fatica a respirare e smettevamo di masticare i ceci
tostati. Realizzavamo istintivamente che sarebbero accadute delle cose terribili nel
tranquillo salotto della nostra vecchia zia. Nel gharab tutto viene divorato
dall’oscurità. Non si riesce a vedere più nulla; ci si deve fidare degli altri sensi per
intuire cosa si muove, cosa potrebbe essere pericoloso. Il luogo del tramonto è
sempre distante, diverso da dove noi viviamo. E’ anche il territorio della notte. In
arabo, “corvo” si dice giura, e porta sfortuna perché il suo colore annuncia cecità.
Il territorio del tramonto è anche il territorio della lontananza, di ciò che è altrove. Il
Maghreb è il paese del tramonto. Nelle Mille e una notte i maghrebini usavano la
magia e tutto ciò che l’Islam proibisce. Il nome accettato per il Marocco è al-maghrib
al-aqsa, l’estremo Occidente. All’interno della comunità araba, noi maghrebini siamo
percepiti dalla gente di al-mashriq (il luogo dove sorge il sole), come essenzialmente
sospetti; vivendo vicino al mondo cristiano, apparteniamo al territorio di frontiera.

F. Mernissi, Islam e Democrazia

23
La legislazione come strumento di controllo delle donne

In queste pagine di Guolo vengono riassunti e richiamati una serie di problemi aperti, almeno
secondo la prospettiva occidentale, che riguardano il ruolo delle donne nei paesi islamici ed una
serie di questioni di ambito familiare, lavorativo e, più in generale, che concernono la dimensione
della parità tra uomo e donna.

Nella cultura occidentale l’osservanza del’etica religiosa è oggi lasciata all’autonomia


dei singoli.
Nel mondo islamico la legislazione continua, invece, a regolare rigidamente la sfera
privata e delle relazioni interpersonali. I rapporti sessuali extramatrimoniali restano
punibili. Nella cultura olistica tipica delle società musulmane, adulterio e
fornicazione sono considerati una vera e propria rottura di senso che riguarda la
comunità più che i singoli individui o la coppia; anche se, oramai, in molti paesi, le
norme sono applicate solo se un coniuge presenta prove e testimonianze attendibili
sul reato. In taluni stati che invocano la stretta adesione al messaggio coranico, come
l’Arabia Saudita, ma che alcune aree settentrionali della Nigeria – come ricordano i
casi di Safiya e Amina – e, sino al 2001, l’Afghanistan dei Taleban, le donne
“devianti” sono invece sottoposte alle pene corporali previste dalla shari’a: non solo
fustigazione ma, nei casi più gravi, anche lapidazione e flagellazione. Queste misure
hanno la funzione, sottolineata dalla loro esecuzione pubblica, di riaffermare
esemplarmente l’unità del corpo sociale maschile attraverso lo smembramento del
corpo femminile.
Il diritto di famiglia resta la cartina al tornasole dell’emancipazione femminile
negata. Sebbene in materia di matrimonio, ripudio, divorzio, poligamia, età
matrimoniale, adozione della shari’a come base legislativa matrimoniale, matrimoni
misti, la situazione sia diversa da paese a paese, a conferma del differente riferimento
culturale, nessuna legislazione, con l’eccezione della Tunisia, è in qualche modo
equiparabile agli statuti di famiglia tipici delle società occidentali. Con diversi gradi
di intensità e poche eccezioni, ciascuna di esse prevede diversi diritti per l’uomo e la
donna.
La “prigione scritturale” permette ai custodi dell’ortodossia religiosa o ai movimenti
islamisti di condannare e, spesso, ottenere, il blocco di una giurisprudenza innovativa
in materia. Il valore paritario della testimonianza giudiziaria resta un tabù. Nel campo
del lavoro molte professioni sono ancora inibite alle donne perché si svolgono
necessariamente in ambienti misti. L’esempio radicale di questa parossistica
mixofobia di genere è stato l’Afghanistan dei Taleban.
E’ però all’uso del velo, più che alla funzione afflittiva delle pene corporali, che il
modo islamico affida la separazione tra puro e impuro nella società: simbolo dal
significato polisemico, rivendicato in talune situazioni in forma identitaria dalle
donne musulmane in contrapposizione alla “mercificazione dei corpi” veicolata dalla
cultura occidentale, il velo può diventare anche un incubo per le donne. In alcuni
paesi la possibilità di scegliere se indossare o meno il velo non esiste: l’hijab viene
imposto normativamente. E’ il caso dell’Arabia Saudita, dell’Iran, del Sudan,

24
dell’Afghanistan dei Taleban. Laddove la scelta non è dettata da uno stato
tradizionalista o islamista, i movimenti islamisti attivano una forte pressione sociale
per imporre la copertura femminile, almeno nelle città o nelle auree urbane
metropolitane in cui sono in grado di esercitare un forte controllo sociale.

R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?

25
L’Islam e l’Occidente (nella prospettiva dello scontro di civiltà)

Samuel Huntington, nel suo più noto libro, presenta nelle pagine qui riprodotte le relazioni tra
Occidente ed Islam sotto una veste esclusivamente di tipo conflittuale, lasciando da parte ogni
prospettiva diversa. In tal modo vengono cancellati tutti i lunghi periodi di convivenza pacifica,
quando non collaborativa. Tale visione pertanto appare fuorviante in quanto unilaterale. Essa però
è rappresentativa di un modo,abbastanza diffuso in Europa e soprattutto negli Stati Uniti, si
considerare le relazioni con il mondo islamico, tanto nella prospettiva storica che in quella
contemporanea.

Alcuni occidentali, tra cui il presidente americano Bill Clinton, hanno sostenuto che
l’Occidente non ha alcun problema con l’Islam, ma solo con gli estremisti islamici
violenti. Millequattrocento anni di storia dimostrano tuttavia il contrario. I rapporti tra
Islam e cristianesimo, sia ortodosso che occidentale, sono spesso burrascosi. Per
entrambi, la parte opposta ha sempre rappresentato “l’altro”. Il conflitto sorto nel XX
secolo tra democrazia liberale Marxismo – Leninismo non è che un fenomeno storico
fugace e superficiale rispetto all’antico e fortemente conflittuale rapporto tra Islam e
cristianesimo. A volte ha prevalso la coesistenza pacifica; più spesso il rapporto è
stato di intesa rivalità e di guerra calda a diversi livelli. La loro “dinamica storica”,
osserva John Esposito, “… ha spesso visto le due comunità competere e a volte anche
scontrarsi violentemente per la conquista di potere, di terra, di anime”. Nel corso dei
secoli le fortune delle due religioni sono alternate in una sequela di ondate possenti,
con attimi di pausa e di periodi di riflusso.
L’iniziale espansione arabo – islamica protrattasi dall’inizio del VII alla metà del
VIII secolo impose il dominio musulmano in Nord Africa, nella penisola iberica, in
Medio Oriente, in Persia e nell’India settentrionale. Per circa due secoli i confini tra
Islam e cristianesimo vennero quindi a stabilizzarsi fino a che, alla fine dell’XI
secolo, i cristiani non ripresero il controllo del Mediterraneo occidentale,
conquistarono la Sicilia e occuparono Toledo. Nel 1095 il mondo cristiano lanciò le
Crociate e per un secolo e mezzo i potentati cristiani tentarono, con sempre minire
successo, di stabilire il dominio cristiano in Terra Santa e nelle adiacenti aree
mediorientali, finché non persero Acri, loro ultimo bastione in quella zona. Nel 1291.
Nel frattempo erano apparsi sulla scena i turchi ottomani, i quali dapprima
indebolirono Bisanzio e quindi conquistarono gran parte dei Balcani e il Nord Africa,
presero Costantinopoli nel 1453 e cinsero d’assedio Vienna nel 1529. “Per quasi
mille anni”, osserva Bernard Lewis, “dal primo sbarco moresco in Spagna al secondo
assedio turco di Vienna, l’Europa è stata sotto la costante minaccia dell’Islam”.
L’Islam è l’unica civiltà ad aver messo in serio pericolo, e per ben due volte, la
sopravvivenza dell’Occidente.
Nel XV secolo, tuttavia, il vento aveva oramai cominciato a girare. I cristiani
riconquistarono gradualmente la penisola iberica, completando l’impresa nel 1492 a
Granada. Nel frattempo, le innovazioni europee nel campo della navigazione
oceanica consentirono dapprima ai portoghesi e quindi ad altri paesi di aggirare il
cuore dell’area musulmana e di penetrare nell’Oceano Indiano e oltre. Intanto, i russi
mettevano fine a due secoli di dominio tataro. Successivamente, gli ottomani
26
compirono un ultimo tentativo di espansione cingendo nuovamente d’assedio Vienna
nel 1683. Il loro fallimento segnò l’inizio di una lunga ritirata, che comportò la lotta
di liberazione da parte delle popolazioni ortodosse dei Balcani, l’espansione
dell’Impero asburgico e la spettacolare avanzata russa sul Mar Nero e nel Caucaso.
Nel corso di circa un secolo, il “flagello del Cristianesimo” era diventato il “malato
d’Europa”. Al termine della Prima guerra mondiale, Gran Bretagna, Francia e Italia
infersero il colpo di grazia stabilendo il proprio controllo diretto o indiretto su tutte le
restanti terre ottomane a accezione del territorio della Repubblica Turca. Nel 1920
solo quattro paesi musulmani – Turchia, Arabia Saudita, Iran e Afghanistan –
mantenevano la propria indipendenza da qualsivoglia forma di dominio non
musulmano.
La ritirata del colonialismo occidentale iniziò a sua colta negli anni Venti e Trenta,
per poi accelerare bruscamente dopo la Seconda guerra mondiale. Anche il crollo
dell’Unione Sovietica diede l’indipendenza ad altre società musulmane.
Una fonte riferisce che tra il 1757 e il 1919 si ebbero 92 acquisizioni di territorio
musulmano da parte di governi non musulmani. Nel 1995, 69 di questi territori erano
tornati sotto il controllo musulmano, e circa 45 stati indipendenti avevano una
popolazione in grandissima maggioranza musulmana. Si è trattato di mutamenti
violenti: basti pensare che il 50% delle guerre che hanno coinvolto due stati di
religione diversa tra il 1820 e il 1929 ha avuto come protagonisti musulmani e
cristiani.
S. Huntington Lo scontro delle civiltà

27
CAPITOLO SECONDO
2 Democrazia: principi e caratteri

2.1 Occidente – comunismo – Islam.


La questione della relazione e compatibilità tra democrazia ed Islam è vecchia di
almeno due secoli, risale alla nascita della stessa democrazia moderna e l’attuale
dibattito su questo tema è fortemente influenzato e condizionato dai risvolti politici
dello stato delle relazioni dell’Europa e degli Stati Uniti con il mondo islamico, due
realtà assai variegate, ma che tradizionalmente vengono definite come Occidente ed
Islam, la più recente variabile della più antica dicotomia tra Occidente ed Oriente.
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, la vittoria degli Alleati, grazie
soprattutto a due nazioni che si ispiravano ai principi ed ai valori delle democrazie
liberali, Stati Uniti d’America ed Inghilterra, ed all’Unione Sovietica, la super-
potenza che si identificava con il comunismo e la sua storia europea, ha fatto si che la
democrazia apparisse come un modello universalmente valido, come la migliore
forma politica.
Lo stesso conflitto ideologico e culturale tra democrazie liberali e comunismo,
espressione di un più globale confronto e scontro sul piano delle conquiste sociali,
scientifiche e tecnologiche, si svolse per più aspetti come un conflitto non esterno, ma
interno alla democrazia, intesa nel suo significato più antico e più proprio di
“governo del popolo e per il popolo”.
L’analisi storica della modernità propria al comunismo marxiano descrive la
democrazia, nata dalla rivoluzione francese, come una sovrastruttura ideologica che
rappresenta nella sfera politica gli interessi della borghesia, la classe che governa e
domina i rapporti materiali di produzione, l’economia del capitalismo, fondati sulla
proprietà privata dei mezzi di produzione, sul monopolio della ricchezza.
In realtà la critica di Marx non si limita alle forme del politico ma porta all’essenza
stessa del politico, perché, come leggiamo ne La questione ebraica, “[…]
l’emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni
dell’emancipazione umana”. L’oggetto dello scritto di Marx apparso nel 1844, nel
primo ed unico fascicolo dei Deutsch-Französiche Jahrbücher, era la critica alle
posizioni di Bruno Bauer il quale, prendendo spunto dal problema
dell’emancipazione degli ebrei, sosteneva che una piena emancipazione avrebbe
dovuto comportare una definitiva liberazione dalla religione per realizzare una reale
emancipazione politica. Per Marx quest’ultima, fondata su les droit de l’homme,
proclamati dalla rivoluzione francese, è solo l’emancipazione del bourgeois,
dell’”uomo egoista” dei traffici e dei commerci, che ha per base lo sfruttamento della
gran massa degli altri uomini, dei proletari. Ciò nonostante, sempre ne La questione
ebraica, Marx sottolinea: “L’emancipazione politica è certamente un grande passo in
avanti, non è l’ultima forma dell’emancipazione umana in generale, ma è l’ultima
forma dell’emancipazione umana entro l’ordine mondiale attuale”.

28
Sta di fatto che per Marx, ma pure per gli altri socialisti, fino alle più radicali correnti
anarchiche, la rivoluzione francese e l’ideologia democratica dei diritti dell’uomo, di
cui fu espressione e che seppure in modo contraddittorio realizzò, furono “un grande
passo in avanti” nella realizzazione di principi di uguaglianza, libertà e solidarietà.
La rivoluzione francese fu considerata “la Grande rivoluzione”, la rivoluzione per
antonomasia, la fine del vecchio mondo, l’inizio di un “mondo nuovo”, la tappa
fondamentale verso la definitiva e compiuta liberazione dell’uomo dal bisogno
economico, dall’oppressione politica, dall’ignoranza culturale.
Essa aveva proclamato principî nei quali i socialisti si riconoscevano, ma li aveva
realizzati in modo incompiuto e parziale. La libertà era “la libertà dei traffici” del
capitalismo, la libertà politica riservata ad una minoranza, come diritto di
autoperpetuarsi. L’uguaglianza in una ristretta prospettiva politica si traduceva in una
pratica discriminazione della maggioranza degli uomini, il proletariato, escluso dal
godimento della ricchezza e dalla possibilità di decidere il proprio futuro. La
solidarietà, la fraternità, sul piano economico e sociale del tutto inesistente, nel
mondo borghese può e deve realizzarsi solo come unione di tutti i proletari, invito che
sintetizza il progetto di emancipazione del Manifesto del partito comunista: “Proletari
di tutto il mondo unitevi”.
La critica di parzialità e incompiutezza verso le “democrazie borghesi” viene
riformulata nel corso di buona parte della seconda metà della “guerra fredda”, nel
confronto ideologico tra l’Occidente e il comunismo: i Paesi dell’Europa dell’Est,
dell’Oriente comunista. I paesi comunisti si definiscono “Democrazie popolari” in
modo polemico nei confronti delle “Democrazie borghesi”, per sottolineare che solo
attraverso il socialismo (seppure come fase intermedia verso la piena realizzazione
del comunismo con l’abolizione dello Stato e del potere politico) si realizzava il
potere del popolo per il popolo, della stragrande maggioranza a favore del popolo
nella sua totalità. Questo è il senso ultimo della così detta “dittatura del proletariato”.
In tale planetario scontro si è avuto un confronto tra due concezioni che
coinvolgevano estesissimi ambiti delle relazioni umane, per stabilire a chi dovesse
appartenere il primato culturale, ideologico, economico, sociale, tecnologico e via
dicendo. I comunisti volevano mostrare e dimostrare che solo attraverso il
comunismo e nel comunismo l’uomo avrebbe potuto compiutamente sviluppare e
realizzare se stesso, realizzare quello che Hegel aveva chiamato “il regno di Dio in
terra” e che il giovane hegeliano Karl Marx aveva definito come “la soluzione
dell’enigma della storia”, “la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e
l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e
l’essenza […] tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie”. Così nei
Manoscritti economico-filosofici del 1844 si definisce il comunismo.
La storia ha prodotto altri esiti. Le democrazie liberal-democratiche “occidentali”
costruite su economie capitalistiche, sul così detto “libero mercato”, seppure con
interventi di politica sociale ed economica – più o meno accentuati – dello Stato,
hanno vinto. L’Occidente ha vinto proprio sul piano delle realizzazioni, dello
sviluppo, del benessere. È significativo il fatto che il collasso ideologico del
comunismo sovietico sia stato essenzialmente dovuto all’incapacità di sostenere nel
29
tempo la sfida sul piano dello sforzo tecnologico in campo civile e militare. Si sono
imposte le democrazie occidentali guidate dagli Stati Uniti, che si presentavano come
un modello di democrazia tanto sul piano della realizzazione dei principî della stessa,
che in quello dello sviluppo umano: del soddisfacimento dell’essenziale bisogno al
benessere, del “diritto alla felicità”, secondo la formula costituzionale famosa. Le
democrazie occidentali si sono poste come le più capaci, a volte come le sole capaci,
di realizzare un vero sviluppo in campo economico, sociale, culturale, scientifico,
tecnologico.
Il primato in questi due ultimi ambiti, con la sua ripercussione sull’economia civile e
militare, è stato presentato come un riflesso, come l’altra espressione del primato
della Weltanschauung democratica, della sua cultura di fondo, della sua visione
dell’uomo, della sua capacità di valorizzare in tutti gli ambiti le peculiarità e le
potenzialità umane.
Le due più immediate conseguenze della “vittoria” delle democrazie liberali sono
state per un verso la trasformazione degli ex paesi socialisti in democrazie con
economie capitalistiche, per un altro la fine del confronto tra Occidente e comunismo,
per il venir meno del secondo dei contendenti. L’Occidente ha visto autodistruggersi
quello che per un secolo è stato, su più piani, il suo “nemico naturale”. Il comunismo,
infatti, non costituisce più un modello di riferimento, né una realtà politica con forza
propulsiva. Quelli che per certi aspetti appaino come gli ultimi araldi del comunismo,
la Corea del Nord e la Cina, mostrano gli esiti fallimentari della vicenda storica del
comunismo, della sua sconfitta. Visti dalla prospettiva della “scienza” marxista-
leninista appaino come due monstra. La Corea del Nord, diventata una dittatura
ereditaria, è uno Stato governato da un despota che l’ha ricevuto in eredità dal padre,
il primo quasi divinizzato, il secondo trasformato in una condottiero circondato da
un’aura mitica dalla propaganda di regime. Un paese con un’economia di
sopravvivenza, con un regime di polizia assai repressivo all’interno, con un’industria
militare che assorbe considerevoli risorse (un quarto del bilancio dello stato) ma è
incapace, per i suoi limiti nello sviluppo scientifico e tecnologico, di competere sul
piano militare con i “capitalisti”.
La Cina sembra aver accolto e fuso le parti peggiori del capitalismo e del comunismo.
Quella che il “materialismo storico” marxiano definisce come la “struttura”, i “fattori
materiali della produzione”, è ispirata al più selvaggio e sfrenato capitalismo; la
sovrastruttura politica, lo Stato, è retto da un “partito comunista”, un partito unico che
opera essenzialmente per la sua auto-conservazione.
Il primato delle democrazie occidentali sul comunismo ha rafforzato l’idea e la
convinzione, già diffusa nella democrazia antica, della superiorità di questa forma di
governo rispetto a quelle antagoniste. Arnaldo Momigliano ricorda che “Erodoto […]
organizza tutta la sua etnografica in funzione della guerra tra Persia e Grecia e spiega
la vittoria dei Greci come dovuta alla superiorità del loro modo di vita e più
specialmente alla democrazia di Atene”35.

35
A. MOMIGLIANO, La storiografia greca, Torino, 1982, p. 132
30
Esiste, però, tra le altre, una differenza importante tra la democrazia greca e quella
sviluppatasi negli Stati Uniti ed in Europa a partire dal Seicento, attraverso la
rivoluzione inglese, ed infine quella francese del 1789. La democrazia moderna ha
pretese universalistiche grazie alle sue matrici cristiane e razionalistiche che, seppure
spesso confliggenti concordano nella visione di una natura comune a tutti gli uomini
e di un regime, quello democratico che, seppure visto come un prodotto della storia e
delle sue contingenze, esprime e realizza principi e valori universali, “diritti umani
fondamentali” che tutelano e sviluppano integralmente l’uomo, tanto nella sfera
pubblica che privata. Democrazia e civiltà umana, in questa prospettiva, finiscono per
coincidere. Conseguentemente, lo sviluppo e la diffusione della democrazia,
all’interno dei singoli Stati come su scala planetaria, sono visti come la condizione
funzionale allo sviluppo degli Stati ma pure come necessaria per garantire equilibrio
e convivenza pacifica sul piano internazionale.
La prospettiva della democrazia greca è diversa: seppure consideri se stessa la più
alta delle forme politiche, il prodotto del tipo d’uomo più civile, che incarna valori
come la libertà, l’uguaglianza, l’accoglienza, la tolleranza, sembra che, soprattutto se
consideriamo la contrapposizione polemica con i “barbari”, i Greci non ritenessero
tutti gli uomini capaci di democrazia, perché quest’ultima presuppone uomini con
caratteristiche “antropologiche” di libertà ed autonomia proprie essenzialmente
all’uomo greco. Non mancano, però, correnti di pensiero in ambito storiografico,
medico, filosofico, come nella tragedia e in certe tendenze filosofiche e culti religiosi,
che sembrano condividere l’idea di un’unità del genere umano, tanto sul piano fisico
che, per così dire, spirituale. Su questo punto essenziale e controverso tornerò più
avanti.
La vittoria, con il primato che essa ha consacrato, delle democrazie occidentali sul
comunismo, ha fatto parlare alcuni di “fine della storia”, quasi che prima e al di là di
questa contrapposizione siano mancate o potessero mancare occasioni di confronto e
di guerra. In realtà, la pace che non era, del resto, mai veramente iniziata è durata
poco. Un altro soggetto a livello globale sembra emerso a contrastare su piani diversi
il primato dell’occidentale way of life: l’Islam. O almeno la parte più radicale
dell’Islam, quella più distante dall’Europa, dal sistema democratico, dai valori e dai
principi dell’Occidente.
Non tutto l’Islam quindi, solo quello “fondamentalista” che ritroviamo come
ideologia di alcuni Stati – che per alcuni meritano la definizione di “Stati canaglia” –
come dottrina di riferimento di gruppi ed organizzazioni che si contrappongono anche
sul piano militare, in vari contesti geografici, come pure all’interno dei paesi
occidentali, a questi ultimi. I rapporti con l’Islam sono per l’Unione Europea una
questione aperta, tanto sul piano internazionale, che interno, per la presenza in
Europa di un considerevole numero di immigrati di cultura e religione islamiche, che
raggiunge i venti milioni ed ha fatto si che l’Islam sia dopo il Cristianesimo la
religione più diffusa nell’Europa occidentale.
Il dibattito che è in corso sui media, in ambito politico nazionale ed internazionale,
sulla pubblicistica di ampia diffusione, come nella ricerca specialistica, sembra
vertere su una questione fondamentale: la compatibilità dei principi e dei valori
31
dell’Islam, con il conseguente sistema di vita e di relazioni ad esso ispirati, con quelli
occidentali. Sul piano più strettamente politico, tale comparazione si traduce in un
confronto tra sistema democratico, proprio di tutti i paesi occidentali, che ne esprime
per più versi la civiltà giuridica come la cifra politica, e l’Islam.
Questo dibattito finisce per diventare nei paesi occidentali, dal momento che si
discute sul confronto di principi e attitudini di vita dell’Islam, anche un’indagine sulla
natura dell’Islam, come religione e in quanto prassi storica, politica e sociale, che
dalla religione ha preso l’incipit, secondo una relazione di dipendenza che
l’espressione di al-Ghazâlî riportata all’inizio lapidariamente sottolinea. Una
derivazione comunemente riconosciuta, secondo la quale nell’Islam la politica non è
autonoma dalla religione ma su di essa si fonda perché “la funzione principale del
governo è quella di permettere all’individuo musulmano di condurre un buona vita
musulmana”36.

2.2 Elementi per un confronto tra Islam e democrazia


Va almeno accennato al fatto che il dibattito, in Europa ed in particolare in Italia,
sulla natura dell’Islam, anche in quanto dibattito a prevalente diffusione mediatica,
risente di semplificazioni e pregiudizi che, se può consolare, sono un antico retaggio
che risale all’immagine di musulmano che si forma in Europa a partire dall’incontro-
scontro con l’Islam, fin dal settimo secolo37. Ma su questi aspetti tornerò più avanti.
Per entrare in modo più diretto e cruciale nel tema che mi sono proposto di affrontare,
quello delle relazioni e della compatibilità fra Islam e democrazia, è il caso di porsi la
domanda sul metodo dell’analisi: se e a quali condizioni sia possibile confrontare
Islam e democrazia.
L’Islam è innanzitutto e soprattutto una religione rivelata che si definisce come
continuazione e compimento della rivelazione che da Abramo, attraverso una serie di
profeti, di cui Mosè e Gesù (Isa) rappresentano gli antecedenti più significativi, si
compie con Muhammad, “sigillo della profezia”38. La democrazia è una forma di
governo ed una teoria politica fondata sul principio della volontà popolare e della
diretta partecipazione del popolo alla gestione della cosa pubblica secondo principi,
quali la libertà dell’individuo nel formarsi e nell’esprimere la sua scelta in ambito
politico e partitico, che non hanno fondamenti religiosi. La eventuale scelta religiosa
dei cittadini è considerata nelle costituzioni democratiche un fatto che interessa la
sfera privata degli stessi, nel rispetto di una libertà in materia religiosa che lo stesso
Stato legittima e tutela. Esiste un riconoscimento, almeno formale, di una pari
legittimità di tutte le fedi religiose, del loro diritto di essere rispettate, anche

36
B. LEWIS, Il linguaggio politico dell’Islam, Bari, 1996 (tit. or. The Political Language of Islam,
Chicago, 1998), cap. II
37
B. LEWIS, L’Europa e l’Islam, Bari, 1995 (tit. or. Islam and the West, Oxford University Press,
New York, 1993); G. RICCI, Ossessione turca, Bologna, 2002
38

32
attraverso la tutela del loro esercizio, ponendo come soli limiti l’osservanza dei
principi e delle leggi che regolano le relazioni tra i cittadini dello Stato. A differenza
di altre epoche storiche e di diversi regimi, negli Stati democratici non viene
riconosciuta alcuna “religione di Stato”, né si privilegiano, almeno formalmente e su
base costituzionale confessioni religiose su altre39.
D’altra parte, nel corso di una lunga storia i credenti musulmani hanno potuto vivere
sotto diverse latitudini politiche, dal califfato alle democrazie, godendo in queste
ultime, come tutti i cittadini, delle garanzie della libertà in materia religiosa, principio
giustamente rivendicato dai musulmani che vivono in paesi democratici. Un
principio, quello della libertà religiosa che si traduce nel riconoscimento al singolo
individuo del diritto di formarsi autonomamente e liberamente un’opinione in materia
religiosa e di scegliere, eventualmente, un credo religioso a cui aderire. Un principio,
con i diritti che ne conseguono, del tutto estraneo al dettato canonico ed alla prassi
storica dell’Islam40, secondo i quali chi nasce musulmano non può cambiare religione
pena cadere nell’apostasia, considerato uno dei reati più gravi.
Le difficoltà di metodo nel mettere a confronto una forma di governo e una religione,
nella fattispecie democrazia e Islam, non ci vietano di cercare un medium, una misura
comune, che ci permetta di verificare la possibilità di reciproche compatibilità.
Una convivenza, fondata sul reciproco riconoscimento, è possibile solo quando si
condividono comuni principi e valori; pertanto può essere utile una scelta
interpretativa che ponga a confronto quei principi che sono alla base della
convivenza, principi quali la libertà, l’uguaglianza, il rispetto dell’altro, la giustizia e,
naturalmente, la stessa idea di potere. Nell’Islam tali principî, in primis, sono posti e
definiti dalla rivelazione che riporta la parola e la volontà di Dio; in democrazia è la
volontà popolare che li pone e li attua. Nel primo caso tali principi sono legittimati da
un’autorità trascendente, Dio, che ne definisce natura e modalità di attuazione, una
volta per sempre; in democrazia è la maggioranza popolare, “la volontà della
39
Per una chiara messa a punto dei principali ambiti e risvolti della libertà religiosa nello Stato
democratico si veda C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, 1999, cap. II
40
In dar-al-íslam, nei paesi governati dalla sharia, in conformità a quanto prescrive il Corano esiste
solo una religione pienamente lecita e doverosa, l’Islam. Altre religioni, come quella ebraica e
cristiana, sono tollerate perchè ritenute contenenti una parte della rivelazione. In quanto hal-al-
Kitāb, “popoli del libro”, tanto gli ebrei che i cristiani hanno potuto godere del diritto di conservare
e trasmettere la loro fede ai loro figli, seppure con una serie di restrizioni nell’esercizio del loro
culto ed un divieto assoluto di attività proselitistiche, pena conseguenze gravissime. Va pure
ricordato che gli ebrei e cristiani che per secoli avevano vissuto in paesi islamici sono stati
assoggettati allo statuto di dhimmi, dal nome della tassa loro imposta, un segno della condizione di
cittadinanza limitata e sub conditione di cui godevano, attestata da una serie di limiti e divieti in
ambiti come il lavoro, la libertà di espressione, la sfera sociale, le relazioni umane e sentimentali.
Per esempio ad un cristiano, ad un ebreo, come pure a qualsiasi individuo di fede diversa da quella
islamica è fatto divieto sposare una donna musulmana. Se è permesso ad una donna ebrea o
cristiana di sposare un musulmano, ciò avviene anche perché la tradizione (sunna) e la legge
(sharia) stabiliscono che l’uomo è il capo della famiglia e i figli seguono la religione del padre. Il
principio coranico “Non ci sia costrizione nella religione” è stato prevalentemente inteso, nel corso
dei secoli, come un divieto alla conversione forzata all’Islam, non nel senso che un musulmano può
cambiare religione o aderire a concezioni agnostiche o atee.
33
nazione”, che li pone e li attualizza nel tempo secondo le sue mutevoli
manifestazioni, che spesso assecondano i cambiamenti del costume ed in senso più
lato, del sistema di vita individuale e sociale.

2.3 Democrazie e visione scettica del potere


Poiché la democrazia è stata una “invenzione dei Greci” – della città che meglio li
rappresenta, Atene – che furono i primi a costituire governi democratici, ma pure a
fornire una fondamentale analisi e giustificazione teorica della democrazia, dei suoi
principi e dei suoi presupposti “antropologici”, è a questa prassi e teoria politica che
voglio essenzialmente riferirmi.
Una prima descrizione di quelli che sono le regole di sistema, di funzionamento, i
caratteri distintivi della democrazia greca la troviamo in Erodoto41. In pagine celebri
Erodoto riporta il dialogo fra tre nobili persiani sulla forma di governo da adottare
dopo la morte di Cambise e l’uccisione del mago Smerdi, che attraverso una congiura
di palazzo si era proclamato re, spacciandosi per Smerdi/Bardiya figlio di Ciro e
fratello di Cambise, prendendo il posto del vero Smerdi ucciso segretamente da
Cambise42.
Nonostante i forti dubbi sulla veridicità storica dell’episodio43, il confronto retorico
fra Otane, Megabizo e Dario per stabilire quale sia la migliore forma di governo per

41 ERODOTO, III, 81-83


42 Ivi, II, 61 e ss.; P. BRIANT, Historie de l’Empire perse, Paris, 1996, pp. 109-119
43
Il confronto dialettico sulle forme di governo, riportato da Erodoto e attribuito a tre persiani,
cronologicamente collocato nel 522, dopo la morte di Cambise, sembra per più versi inverosimile.
Ancor meno credibile appare la proposta di uno dei tre dialoganti di adottare la democrazia come
forma di governo dell’impero persiano. Dopo un breve periodo di conflitti interni, terminato il 29
settembre 522 a.C. in una fortezza della Media, dove sette nobili persiani assassinano il re Smerdi,
accusato di essere un usurpatore, ascende al potere uno dei sette congiurati con il nome di Dario.
Quest’ultimo, in conformità con la tradizione dei suoi predecessori Cambise e Ciro il Grande,
ribadirà costantemente nei 36 anni del suo regno l’origine divina ed il carattere universale della sua
regalità. Scrive Emile Benveniste nel secondo volume de Le vocabulaire des insitutions indo –
européennes , a proposito della regalità iranica: “L’Iran è un impero e la nozione di sovrano non ha
niente in comune con quella di rex. Essa si enuncia col titolo […] Re dei re; questo titolo designa il
sovrano come colui che è investito dal potere regale del xšay. Ora, un epiteto del re achemenide,
vazzaka, che può significare anche il dio Ahura Mazdà e la terra, rivela che il potere del re è di
essenza mistica”. Qualche pagina più avanti Benveniste precisa che in questa prospettiva il potere e
il regno si identificano e che la nozione di impero che ne deriva “non è solo politica, ma anche
religiosa”. Nell’iscrizione fatta incidere sulla parete rocciosa di Behistun, vero manifesto della
monarchia achemenide, Dario insiste sul suo rapporto privilegiato con Ahura Mazdà posto
all’origine del suo potere: “Il re Dario dichiara: ‘Grazie a Ahura Mazdà, io sono re; Ahura Mazdà
mi ha accordato la regalità’”. Le due formule “Grazie ad Ahura Mazdà” e “Ahura Mazdà mi dette il
suo aiuto”, da sole o di seguito sono ricorrenti nella descrizione delle gesta di Dario (Les incriptions
de la Perse achéménide, a cura di P. Lecoq, Paris, 1997, p. 187 e ss.).
Quella degli Achemenidi si presenta per più versi come una monarchia di diritto divino dove tanto
la guerra che la pace sono sotto il segno di Ahura Mazdà. A partire da Dario, tutte le campagne
34
la Persia, è assai interessante per diversi motivi. Non solo è la prima disputa con
intenti di elaborazione teorica sulle forme di governo che troviamo in un autore
greco, ma pure la sola che ci resta. Il contesto persiano in cui si svolge, fra quelli che
a partire dalle guerre persiane sono considerati i diversi per eccellenza, “i barbari”, e
anche da autori più tardi come Isocrate i nemici naturali (in greco i physei polemioi)
dell’Ellade, può significare che Erodoto consideri monarchia, aristocrazia e
democrazia come forme di governo con caratteri specifici loro propri, di tipo
strutturale, che prescindono dal tempo e dal luogo in cui sono posti in essere. Questo
tipo di ambientazione sembra anche indicare che i Persiani, in quel contesto, erano
chiamati a fare una scelta in base ai risultati, ai valori ed ai diritti che volevano
garantire e non in relazione alla maggiore aderenza della forma di governo con la
tradizione e il “carattere” dei persiani stessi.
La scelta della forma di governo, pertanto, si configura nel testo di Erodoto come una
scelta di valori attraverso un’analisi razionale. In Grecia è diffusa l’idea che i singoli
popoli abbiano caratteri e tradizioni loro proprie che influenzano le scelte di governo,
ma pure che “buone leggi”, formino buoni cittadini e uomini valenti. Questa tesi è
speculare all’altra che considera fondamentale per formazione dell’individuo una
paideia, una educazione del corpo e dello spirito capace di fare del giovane una
persona virtuosa, perché ispirata da valori considerati patrimonio condiviso44.

militari hanno una “palese giustificazione religiosa” (P. BRAUT. Darius, la Perse et l’empire, Paris
1992, p. 26 e ss.), ma pure la pax Achaemenidica è presentata dalla propaganda imperiale come
“quella pace universale che era copia dell’ordine cosmico dei Ahura Mazdà”, J. WIESEHÖFER,
Das Frühe Persien. Geschichte eines antiken Weltreichs, München 1999, cap. 1.
La dimensione religiosa dell’impero achemenide e la prospettiva escatologica che investe la terra e
attraverso l’impero si realizza progressivamente, è appena accennata in Erodoto e poi ben descritta
da Plutarco, seppure con categorie greche, in Iside e Osiride, 47 B.
44
In un piccolo trattato attribuito ad IPPOCRATE, dove è pure presente il dibattito politico del
tempo e la lezione della sofistica, Arie, acque, luoghi, ad un determinismo ambientale che
condiziona certi caratteri “nazionali” si associa un determinismo istituzionale: le condizioni
ambientali influenzano il carattere degli uomini, ma le istituzioni che gli uomini si danno si
ripercuotono, in senso positivo come deletereo, sulle loro attitudini, i loro comportamenti. L’autore
del trattato sostiene che gli asiatici sono molli, indolenti, privi di “ardimento e coraggio” a causa
dell’uniformità del clima, dalla fertilità del territorio che produce copiosamente frutti e permette un
diffuso allevamento del bestiame: “il valore però e la resistenza alla fatica e l’operosità e l’elemento
irascibile direi che in tale natura non si possono trovare” (ivi, cap. 12). Infatti “sono i mutamenti, in
qualsiasi cosa, che tengono sveglia la mente e non le permettono di restare inattiva (ivi, cap. 16).
Qualche pagina più avanti si riprende e si completa questo tipo di giudizio: “La costante uniformità
implica indolenza, mentre il mutamento implica sforzi, per il corpo e per l’anima; dalla tranquillità
e dalla indolenza riceve impulso la viltà, dalla fatica e dai travagli nascono gli atti di valore”. Ma
subito dopo si aggiunge: “Per questo dunque gli abitanti dell’Europa sono più combattivi, e anche
per le istituzioni politiche, visto che non sono soggetti a re come gli asiatici. Dove si è assoggettati
si è necessariamente assai vili […] Gli animi sono ridotti in schiavitù e rifiutano di correre rischi, di
propria iniziativa e spontaneamente, per la potenza di un altro. Chi invece è indipendente (e perciò
affronta i pericoli a proprio vantaggio e non per altri), coraggiosamente di propria volontà va
incontro al pericolo, è lui stesso che riporta il premio della vittoria. È così che le istituzioni politiche
influiscono sul valore in maniera non trascurabile” (ivi, cap. 23). In chiusura dello scritto l’autore
afferma che le istituzioni politiche possono modificare il carattere “agendo sulla natura”. In questa
35
Otane, il personaggio persiano fautore della democrazia, alla maniera greca, si
potrebbe dire, argomenta le sue ragioni: la democrazia è da preferire per i valori che
tutela – uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (isonomia) – ma pure perché
appare come il miglior antidoto, il sistema che meglio può prevenire i guasti della
monarchia, la protervia del monarca.
Otane inizia il suo discorso con l’auspicio che i persiani non abbiano più un monarca,
un tiranno che ripeta le gesta di Cambise e del mago usurpatore, il falso Smerdi.
Cambise viene presentato da diverse fonti antiche come un despota che in più
occasioni si era comportato come un folle, crudele verso gli dei e gli uomini. Questo
giudizio è ripreso da Erodoto che lo descrive come uno squilibrato, seguendo una
vulgata diffusa dagli ambienti dell’aristocrazia persiana, che erano stati ostili a
Cambise e dai quali lo stesso Dario, il nuovo re, proviene. L’usurpatore, a sua volta,
il falso fratello di Cambise, è un imbroglione, arrogante e demagogo. La democrazia
si presenta in questo passo di Erodoto, come poi in tutti i teorici e paladini della
stessa, quale forma di governo più capace di altre di opporsi alla principale
caratteristica negativa del potere: la sua concentrazione ed il suo uso indiscriminato
che ne fa uno strumento di oppressione: un’espressione della hybris, della tracotanza
umana.
La concentrazione di tutto il potere nelle mani di uno solo necessariamente lo
corrompe, fosse anche “il migliore degli uomini”, perché gli conferisce un senso di
onnipotenza e di assenza di limiti: al monarca “è lecito far ciò che vuole senza
doverne rendere conto”45. Concentrazione del potere, uso sfrenato, quindi dispotico
dello stesso, mancata rendicontazione, spiegazione della sua gestione, con
conseguente negazione del valore strumentale del potere, che da un mezzo per
raggiungere obiettivi utili alla comunità politica diventa la proprietà di uno: queste
sono le dinamiche dell’uso autocratico del potere.
In un regime politico dove governa un tiranno i cittadini non possono che essere
schiavi, vittime: “[…] egli sovverte le patrie usanze e violenta le donne e manda a
morte senza giudizio”46.
Nel governo democratico, invece, il potere è diviso, esercitato a turno; le magistrature
sono affidate per sorteggio; il potere è sottoposto a controllo e l’assemblea dei
cittadini (ekklesia) è l’istanza ultima di decisione. La democrazia “ha il nome più
bello”, “uguaglianza davanti alla legge”, isonomia.
È stato notato che nel logos tripolitikos (sorteggio delle cariche, rendicontazione
dell’esercizio delle stesse, trattazione dei pragmata, gli affari di governo, in ambito

ottica il carattere, inteso come capacità di reazione all’ambiente, è determinato dallo stesso
ambiente come pure dalle istituzioni che possono influenzare e modificare il dato naturale.
Si noti che i tratti umani e le attitudini politiche attribuite ai Greci: capacità di reagire ai dati naturali
dell’ambiente, di governare il cambiamento, di darsi da soli le regole che li governano, di essere
liberi ed autonomi, sono alcuni dei segni distintivi dell’uomo democratico, sempre rimarcati dai
fautori della democrazia. La contrapposizione tra il modello culturale, psicologico ed attitudinale
greco ed asiatico è diffusamente visto, sul piano politico, come una contrapposizione fra
democrazia e monarchia autocratica.
45
ERODOTO, III 81-83
46
Ibidem

36
comunitario), “la libertà (eleutheria) non rientra tra gli elementi strutturali della
democrazia a conferma di un dibattito (che Erodoto vuole) ancora acerbo”47.
Nel breve brano di Erodoto, però, anche se non si parla espressamente di libertà, ad
essa si rimanda in modo inequivocabile, almeno ad una sua fondamentale accezione:
libertà come liberazione dall’arbitrio del singolo, dalla hybris del potere: un principio
alla base della democrazia antica e moderna48.
Per bocca di Otane, inoltre, si esprime quella che in un fondamentale studio,
Demokratia. Origini di un’idea, Domenico Musti definisce come “una nozione
tragica del potere”: “La cultura greca avversa il potere, ne ha una nozione tragica o
propriamente demoniaca, e come tale in modi diversi lo esorcizza […] il rapporto
così caratteristicamente negativo, che i Greci hanno con il potere, trova la sua
motivazione nel fatto che la cultura greca è fondamentalmente una cultura della
coscienza. Potere-coscienza è la grande polarità che attraversa la storia delle società
organizzate, una polarità riconducibile in parte alla dicotomia tra ciò che è ufficiale e,
in senso generale, pubblico, e ciò che è sensibilità, reattività, resistenza
individuale”49.
In un’altra invenzione del genio greco, la tragedia, è pure presente la riflessione sulla
natura del potere, sulle sue insidie50, sulla dimensione tragica ad esso latente51, sulla
sua contiguità alla violenza e alla tracotanza (bia e hybris), sulla sua incostanza ed
aleatorietà, sul dissidio tra coscienza personale e pretese egemoniche di un potere che
spesso si presenta senza leggi e senza freni.
Il genere tragico, “per una coincidenza che non può essere attribuita al caso”52, si
sviluppa nel periodo del massimo fulgore dell’Atene democratica, i circa ottanta anni
compresi fra la vittoria di Salamina su Serse e la fine della guerra del Peloponneso
(480 battaglia di Salamina, 472 rappresentazione dei Persiani di Eschilo, 401 morte
di Euripide, 402 morte di Sofocle, 401 resa di Atene e fine della guerra con Sparta).
Dal brano in cui Erodoto riporta la disputa di Otane, Megabizo e Dario, assieme alla
visione tragica del potere emerge pure una valutazione a dir poco scettica delle
possibilità, anche per “il migliore degli uomini” di essere un buon governante, se il
suo dominio è assoluto, non sottoposto a controlli e verifiche. È questo un altro
giudizio diffuso nella democrazia, non solo antica: un regime che pone nelle mani di
uno solo un potere monopolistico e gestito in maniera autocratica, senza limiti e freni
istituzionali, provoca l’infelicità del maggior numero di cittadini.

47
G. CARILLO, Katekein. Uno studio sulla democrazia antica, Napoli 2003, pag. 23, nota 23
48
Sulle dimensioni della violenza nel pensiero greca si veda, F. D’AGOSTINO, Bia, violenza e
giustizia nella filosofia e nella letteratura della Grecia antica, Milano, 1983
49
D. MUSTI, Demokratía. Origini di un’idea, Roma, 2006, p. 93
50
Nella tragedia è ricorrente la situazione per cui un uomo pensa di poter trionfare nel momento in
cui sta per cadere in rovina. Sul tema J. DE ROMILLY, La tragédie grecque, Paris, 1970, cap. III
51
Nota sempre la De Romilly, in conclusione del suo studio appena citato: “Due grandi famiglie di
eroi dominano la tragedia quella dei Atridi e quella dei Labdacidi. Ed entrambe generano una serie
di crimini mostruosi”.
52
Così la de Romilly, nell’introduzione a la La tragédie grecque.
37
Mentre il tipo d’uomo che esercita i suoi diritti politici, in democrazia è ritenuto
determinante per il buon funzionamento del sistema politico53, la monarchia associata
spesso alla tirannide, al suo modello orientale, è considerata, a prescindere dalla
figura del sovrano, un regime istituzionalmente, per sua congenita natura,
prevaricatore54.

2.4 Democrazia come affermazione piena della libertà


Erodoto dice, attraverso Otane, che la democrazia ha “il nome più bello”, isonomia,
uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La democrazia ha un altro nome
bellissimo con il quale si identifica, è sinonimo di libertà. Essa è la condizione per
eccellenza dell’uomo libero che a differenza del servo si governa da solo, è capace di
autonomia ed autodeterminazione.
In un passo dove ritornano temi ed espressioni presenti in Tucidide, Aristotele55,
scrive, riportando un pensiero non suo ma dei difensori della democrazia: “Il
principio basilare della condizione democratica è la libertà, la gente fa continuamente
questa constatazione, osservando che soltanto in questa condizione gli uomini vivono
in libertà; governare ed essere governati a turno è una prova di libertà. Però l’altro
elemento è ‘vivere come uno vuole’, perché questo – essi dicono – è una condizione
della libertà, in quanto è proprio dello schiavo non vivere come vuole. Questa è la
seconda nota distintiva della democrazia, e di qui deriva l’ideale di non essere
governati da nessuno, se possibile, altrimenti di governare ed essere governati almeno
a turno”.
Aristotele riporta la formulazione popolare e corrente della teoria democratica della
democrazia; non il suo modo di classificare la democrazia (“essi dicono”), che viene
esposto nel quarto libro della Politica 56.

53
Si veda, ad esempio, il richiamo di Pericle alla responsabilità ed all’impegno personali degli
Ateniesi nel celebre discorso dopo lo scoppio della pestilenza, riportato in TICIDIDE, II, 60-64.
Protagora, “impegnato a costruire una difesa della democrazia che è l’ultima argomentazione
sistematica a favore di quest’ultima che dall’antichità sia giunta sino a noi” (così E. MEIKSINSI
WOOD, “Schiavitù e lavoro”, p. 623 in I Greci, I, Torino 1996) incentra tutto il suo dialogo con
Socrate, riportataci da PLATONE, Protagora, 323 c e ss., sull’insegnabilità della virtù e dell’arte
politica. DIODORO SICULO, Biblioteca storica, XII, 12, riporta la notizia che a Turi, sarebbe stata
istituita da parte dello stato un’ istruzione pubblica a favore dei bambini di famiglie indigenti,
stipendiando dei maestri (didáskaloi) con denaro pubblico. Per un’introduzione al tema
dell’educazione dei giovani negli anni della democrazia periclea, R. FLACELIÈRE, La vie
quotidienne en Grèce au siècle de Périclès, Paris 1994, cap IV; l’autore ricorda come ad Atene lo
stato si occupasse del mantenimento degli orfani dei caduti in guerra, garantendo la loro educazione
retibuendo maestri privati.
54
Sulla genesi etica e psicologica del tiranno, sul lato oscuro del potere, pagine celebri sono state
scritte anche da filosofi; si ricordi la rappresentazione che Platone dà del tiranno, Repubblica, 565d
– 566a; la parte centrale del V libro della politica di Aristotele ed il presunto dialogo tra Simonide e
Ierone, attraverso cui Senofonte descrive la vita e la psicologia del tiranno. Sul tema, D. LANZA, Il
tiranno e il suo pubblico, Torino, 1977
55
Politica, VI 1317a 40 - 616
56
Ivi, IV 1291 b – 1292 a 30; cfr ivi, IV, 1310 a 28 e sgg.

38
Democrazia e libertà si identificano. La democrazia presuppone uomini che si siano
liberati da ogni potere oppressivo e tirannico, la democrazia si mantiene attraverso
forme di autogoverno, a partecipazione alternata e diffusa, ha per fine la libertà,
“vivere come si vuole”.
Ci sono almeno due piani diversi in cui la questione della libertà si articola: la libertà
come dimensione pubblica e come status privato; la libertà come principio e modalità
della vita democratica, ma pure come valore essenziale, modo di essere e di vivere
dell’uomo greco. Se questi piani si incrociano ne consegue che – almeno per i
sostenitori della democrazia – in quanto regime della libertà la democrazia
quest’ultima appare come espressione privilegiata dell’uomo greco e la forma di
governo a lui più adeguata. Per un altro verso la contrapposizione ideologica tra il
modello di uomo e di vita democratici fondati sulla libertà e quello tirannico –
autocratico, che presuppone sudditi e servi, appare sotto vari aspetti come un
confronto tra i modi di vita dell’uomo greco e quelli dei barbari, seppure di barbari
civilissimi si tratti, a volte addirittura presi a modello o apprezzati come benefattori
presso cui rifugiarsi: i Persiani, ovviamente.57
La contrapposizione che vede da una parte Grecia – democrazia – libertà e dall’altra
Asia – tirannide – servitù58 si accentua e si definisce in modo più articolato a partire
dalle guerre mediche, anche in considerazione del fatto che la “libertà della Grecia”
fu salvata a Salamina, nel 480, grazie alla flotta di Atene e dei suoi alleati, dal più
efficace scudo dell’Ellade: le “mura di legno” di cui aveva parlato il Dio a Delfi, le
agili triremi della flotta greca guidata da Temistocle.
Tanto i fautori che i critici della democrazia videro nella flotta il simbolo e il
fondamento della democrazia ateniese, sul quale si reggerà l’imperialismo della città
che per più versi fu una talassocrazia. Il fattore umano che sta alla base tanto della
democrazia che della talassocrazia ateniese è il demos, perché, come è scritto in un
celebre trattatelo (attribuito a Senofonte, il cui autore è noto pure come “Il vecchio
oligarca”): “è il popolo che fa andare le navi e ha reso forte la città”59. Tanto nella
democrazia che nella flotta è fondamentale il fattore numerico: la forza è il risultato
dell’unione di molti. La flotta che a Salamina si oppose ai Persiani era composta di
378 navi di cui 180 triremi ateniesi, ognuna con un equipaggio di circa 200
componenti per un totale di 36.000 uomini, un numero probabilmente vicino agli
stessi ateniesi cittadini.60

57
inserire
58
Su questo punto L. CANFORA, La Democrazia, Storia di un’ideologia, Roma – Bari, 2006, p. 16 e sgg.
59
Così si legge nell’incipit dell’Athenaion Politeia, La Costituzione degli Ateniesi del “Vecchio
oligarca”
60
Sulle connessioni esistenti tra Atene e il mare, la democrazia e la flotta, esiste un’estesa
riflessione, di cui mi limito a dare un orientamento, per così dire, panoramico. A MOMIGLIANO,
“La potenza navale nel pensiero greco”, in Storia e storiografia antica, Bologna 1987, pp. 127-138;
M. CACCIARI, Geo – filosofia dell’Europa, Milano 1994, cap. II, “Guerra e mare”; K-J.
KÖLKESKAMP, “La guerra e la pace”, in I Greci, 2, II, Torino 1997, pp. 481-539; PLUTARCO,
Vita di Temistocle; ESCHILO, Persiani, 353-471; ERODOTO, VIII, 61 e sgg.; qui Temistocle
accusato dai Corinzi di essere un “uomo senza patria”, perché Atene era stata occupata dai Persiani,
replica che le duecento navi della flotta rappresentavano la patria degli Ateniesi. B. STRAUSS, The
39
Il legame posto nel pensiero greco tra libertà e forma di governo democratica, ma
pure tra libertà e Grecia, ha diverse spiegazioni. Per un verso, lo si è già rimarcato,
l’uomo greco si descrive come insofferente all’autorità, alle sue forme più personali e
dispotiche rappresentate dalla figura del tiranno e del suo dominio autocratico. Essere
liberi significa vivere e morire per il proprio vantaggio, le proprie scelte, i propri
valori, non per quelli di un altro. Il superiore valore militare che il greco rivendica
quando si confronta con i popoli asiatici, sudditi del Gran Re, è spiegato – come
leggiamo in Arie, acque, luoghi, attribuito ad Ippocrate – con il rinvio alla libertà
greca: “Chi invece è indipendente (e perciò affronta i pericoli a proprio vantaggio,
non per altri), coraggiosamente e di propria volontà va incontro al pericolo, è lui
stesso che riporta il premio della vittoria”61.
In un celebre dialogo avvenuto tra Pericle ed Alcibiade, almeno secondo Senofonte62,
il primo concorda nel ritenere che si abbia la “violenza piuttosto che legge” ogni
qualvolta manchi il consenso dei governati, quando chi governa lo fa “non con la
persuasione, ma con la forza”, come avviene con il governo dispotico, a differenza
che in democrazia, dove persuasione e consenso sono fondamentali63.

Battle of Salamis. The naval Encounter that saved Greece and Western Civilization. Simon and
Shuster, 2004. La tradizione greca e la propaganda siracusana posero la battaglia di Imera tra
Gelone e i Cartaginesi, lo stesso giorno della battaglia di Salamina. “…giorno che avrebbe visto il
mondo greco di Atene e di Siracusa trionfare sui barbari d’Oriente e d’Occidente”, così M.GRAS,
“L’Occidente e i suoi conflitti”, in I Greci, cit., pp. 61-85. Sulle conseguenze della vicinanza della
città al mare, PLATONE, Le leggi, libro IV, ARISTOTELE, Politica, cit., VIII, 4, 1327 a 11. La
critica più aspra alla talassocrazia ateniese la troviamo nello pseudo-senofonteo La costituzione
degli ateniesi, già citato.
61
Nel periodo che va dalle guerre mediche all’impresa di Alessandro, è ricorrente in autori greci
un’immagine che ben riassume l’idea che si erano fatti delle capacità militari dei sudditi del Gran
Re: di soldati che vengono spinti ad avanzare e combattere dalla “minaccia della frusta”, per usare
le parole di Senofonte, dalle sferzate, di altri militari che dietro di loro sorvegliano e li spronano.
Per un altro verso lo scontro tra l’arciere persiano che utilizza un’arma subdola, la freccia, che
colpisce da lontano, e l’oplita greco che si serve di armi come la picca, lo scudo e la spada corta,
quasi il prolungamento del suo braccio, utilizzate nel corpo a corpo, in scrittori attici come
Tucidide, Senofonte, Eschilo, diventano espressione di opposte di opposte attitudini spirituali e
civili. Sono simboli dell’imbelle servilismo del suddito e della virile determinazione dell’uomo
libero, del modo di agire del Persiano e del Greco. Anche rispetto ad una tipica arma persiana, la
cavalleria, viene rimarcata spesso la superiorità dello schieramento oplitico: “In una cosa sola i
cavalieri hanno la meglio, nel fuggire”. SENOFONTE, Anabasi, III,2
62
SENOFONTE, Memorabili, I, 2, 40 e sgg.
63
Per tale ragione la democrazia periclea, seppure viene descritta da TUCIDIDE (II, 65, 5 – 8),
come una democrazia solo apparente (“di nome era una democrazia, di fatto però il potere era nelle
mani del primo cittadino”), in realtà restò sempre una democrazia di fatto perché fondata su un
consenso liberamente ottenuto attraverso una persuasione risultato del ragionamento e dell’esempio.
Grazie a tali capacità Pericle fu eletto stratega per 15 anni di seguito. Plutarco, anche se traccia un
ritratto di Pericle pieno di chiaroscuri, nelle Vite parallele riconosce, in conclusione, che “il
carattere benigno e la vita pura e immacolata nell’esercizio del potere” gli valsero meritatamente il
soprannome di Olimpio. Lo stesso Plutarco ammette che Pericle, seppure “acquistò una potenza
superiore a quella di molti re e tiranni […] non accrebbe di una sola dracma il patrimonio lasciatogli
dal padre”. Qui Plutarco sembra rinviare a Temistocle, verso il quale usa considerazioni simili (Vita
di Temistocle, 26) seppure di segno opposto: prima di intraprendere la carriera politica, il
40
2.5 L’ottimismo antropologico e la fede nel progresso della democrazia
Il primato della libertà tanto nella Weltanschauung della democrazia, come, più in
generale, in quella greca, ha pure un fondamento antropologico. E’ poggiato su una
sorta di ottimismo antropologico senza il quale la libertà non avrebbe alcun senso. In
altri termini si può considerare la libertà come un valore solo se si è convinti che
l’uomo lasciato libero, svincolato da condizionamenti e limiti, sia capace di
svilupparsi autonomamente e relazionarsi in modo quasi spontaneo agli altri,
assecondando una vocazione naturale. In caso contrario finiamo nell’ipotesi
hobbesiana. Non a caso il filosofo di Malmesbury intitolata Libertas il primo capitolo
del De Cive, parte in cui si descrive “la condizione degli uomini fuori dalla società
civile (condizione che si può ben chiamare stato di natura), [e che] non è altro che
una guerra di tutti contro tutti”.64
La libertà permette all’uomo, nella condizione originaria, nello “stato di natura”65 di
manifestare senza alcun freno le sue naturali pulsioni, per buona parte egoistiche ed
aggressive, che trasformano le relazioni tra gli uomini in un bellum omnium contra
omnes. La libertà propria a tutti gli uomini allo stato di natura crea un’uguaglianza di
senso negativo: “Sono uguali coloro che possono fare cose uguali l’uno contro
l’altro”66.
Nella polemica con coloro che “suppongono, o pretendono, o postulano, che l’uomo
sia un animale atto per nascita alla società”, Hobbes si riferisce esplicitamente ai
Greci e alla teoria aristotelica67.

patrimonio di Temistocle “non superava i tre talenti” divenuti poi, secondo Teofrasto, ottanta e
cento per Teopompo, come riporta Plutarco. Con una brillante sintesi MUSTI ha descritto
l’originale natura della leadership periclea: “Egli aveva compiuto l’autentico miracolo di affermare
un ruolo personale, senza creare un potere personale extra legem: sfuggendo al fatale processo di
degenerazione verso la tirannide, aveva conseguito storicamente il ruolo di capo del popolo,
riuscendo ad essere un leader senza diventare un tiranno”, Demokratía, cit. p. 181.
Quando Tucidide afferma che Pericle katechei to plethos eleutheros (II, 65, 8), “teneva la
moltitudine frenata liberamente”, allude alla sua capacità di orientamento e di contenimento delle
spinte popolari più impulsive e irrazionali senza ricorrere alla forza, grazie alla sua capacità di
convincere attraverso l’abilità dialettica, fondamentale in quella che C. MOSSÉ ha definito “una
civiltà della parola”, in Périclès. L’inventeur de la démocratie. Su questo tema rimando alle
osservazioni mai banali di CARILLO in Katechein, cit.
64
Così si legge nella “Prefazione ai lettori” aggiunta nella seconda edizione dell’opera.
65
Si veda la prima parte del Leviatan di Hobbes.
66
HOBBES De Cive, I, 3, nel secondo capitolo Auctoritas si analizza il passaggio “per accidente”
allo stato civile, che è condizione di rinuncia ad una considerevole parte di libertà, condizione di
pace e di disuguaglianza, entrambe introdotte dalle leggi civili.
67
Ivi, I, 2. La rinuncia ad una considerevole parte della libertà, di cui l’uomo godeva nella
condizione originaria, in cambio di una sicurezza garantita dal potere dello Stato, frutto di un
pactum tra gli uomini, segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile: dalla guerra alla
pace, dalla libertas all’auctoritas. In modo non dissimile Sigmund Freud ne Il disagio della civiltà
41
Una prospettiva antropologica di segno pessimistico che vede nell’uomo il prevalere
di caratteri egoistici ed aggressivi, postula conseguentemente un’organizzazione
politica con un potere forte ed autoritario, capace di controllare e “frenare” un uomo
siffatto, che se lasciato libero creerebbe conflitto ed instabilità.
Di tutt’altro segno è la visione dell’uomo nella prospettiva della democrazia antica,
come emerge in modo assai netto in quello che è considerato il manifesto della
democrazia greca: l’epitafio funebre tenuto da Pericle, e riportato da Tucidide (II, 36
– 42), al Ceramio, il cimitero pubblico per commemorare i caduti nel primo anno
della guerra del Peloponneso.
Dopo aver fatto riferimento all’autoctonia degli Ateniesi, presente pure
nell’Archeologia e che troviamo anche in Erodoto68, Pericle sottolinea il progressivo
sviluppo della città, grazie agli antenati, ai padri ed ai contemporanei, ed afferma di
voler mostrare” con quali principi […] con quale costituzione e con quale modo di
vivere” l’impero si è costituito ed ingrandito.
I principi ispiratori dell’azione (epitedeusis); l’ordinamento politico (politeia); il
sistema di vita (in questo caso si può tradurre tropoi anche con “stile di vita”,
“attitudini”, “atteggiamenti”), sono strettamente correlati ed interdipendenti, stanno
ad indicare non solo forme e modalità di organizzazione ed espressione della vita
cittadina ma pure i “caratteri profondi”69 della Koinonìa tòn politicòn, “la comunità
dei cittadini” secondo la più tarda definizione di Aristotele, perché come fa dire
Tucidide al suo concittadino Nicia, “uomini costituiscono la città, non mura o navi
vuote di uomini”70. Qui si indica anche un altro motivo fondamentale: in democrazia
non è possibile separare la vita della comunità da quella dei singoli, gli elementi
distintivi dell’ordinamento politico dalle attitudini e dalle aspirazioni dei singoli71.
Nelle considerazioni finali Pericle ribadisce che la potenza di Atene e anche e
soprattutto il risultato dello stile di vita dei suoi cittadini: “Concludo, che tutta la città
è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga
individualmente la propria indipendente personalità ad ogni genere di occupazioni e
con la più grande versatilità accompagnata dal decoro. E che questo non sia ora un
vanto di parole più che una realtà di fatto lo indica la stessa potenza della città,
potenza che ci siamo procurata grazie a questo modo di vivere”72.

spiega il passaggio da una condizione dove i differenti moti pulsionali sono liberi di esprimersi,
senza restrizione alcuna, allo status civile che comporta, tra l’altro, una “rinuncia pulsionale”,
perché la condizione civile “non è il regno della libertà”.
68
ERODOTO, VIII, 44. Tale elemento fa parte della propaganda ateniese, in particolare di quella
democratica, perché legato al tema dell’autonomia e dell’autosufficienza della città, nonché a quello
della provenienza di tutti gli Ateniesi da uno stesso genos, come ha ben mostrato Nicole Loraux.
69
Così L. CANFORA, La storiografia greca, Milano 1999, p. 4
70
TUCIDIDE, VIII, 77
71
“L’orazione funebre trova la sua forza e il suo senso nell’evocazione di qualcosa di più profondo:
un sistema di valori, una forma di vita, un codice culturale. Il ché, espresso nelle parole chiave della
prothesis, suona: la democrazia è insieme politeia e tropoi, situandosi al centro della loro
intersezione”, G. CARILLO, Katechein, cit, p. 67.
72
TUCIDIDE, II, 41
42
Che “la forma politica democratica abbia introdotto elementi di valutazione
ottimistica, nozioni di progresso”73 emerge in modo chiaro nell’epitafio pericleo.
Viene subito stabilito un nesso tra autoctonia – libertà – sviluppo: gli Ateniesi vissero
liberamente da tempo immemore nella loro terra; di generazione in generazione
trasmisero la città libera e più potente, fino al presente, “a noi che abbiamo ingrandito
la nostra città, sì da renderla preparata da ogni punto di vista ed autosufficiente per la
pace e la guerra”74. Un progresso voluto di generazione in generazione e ottenuto
“non senza sforzo”, fino a raggiungere l’autosufficienza, il bastare a se stessi, il non
dipendere da altri.
Una teoria del progresso umano è rintracciabile in Anassagora che fu il filosofo che
più influenzò Pericle. Per Anassagora “l’uomo è il più sapiente dei viventi”75 che
seppure inferiore agli animali, sotto molteplici aspetti, li avrebbe asserviti grazie alla
capacità di fare esperienze, di capitalizzarle con la memoria, di pervenire al sapere, di
apprendere arti e mestieri76.
Per Protagora, anch’egli vicino al leader ateniese, il progresso umano è possibile sul
piano collettivo attraverso la tecnica e la politica, su quello individuale grazie
all’educazione.
L’arte politica, dono di Zeus agli uomini, trasmette loro la giustizia ed il rispetto
reciproco, distribuiti a tutti in modo eguale77. In tal modo diviene possibile la
convivenza ed ha inizio la vita civile. Sul piano individuale grazie all’educazione si
avvia un progresso costante, giorno dopo giorno78; l’insegnamento richiede
“disposizione naturale ed esercizio”79: la prima è presente, seppure in modo diverso
in tutti gli uomini, l’esercizio è tanto più utile quanto più precocemente avviato.
Come ha sottolineato Ludwig Edelstein, secondo Anassagora e Protagora, il
progresso degli uomini dipende dalla loro struttura organica e – o da un istinto
tipicamente umano80.
Tanto che il fattore di progresso sia considerato un dono degli Dei, come nel caso
della techne politiké, a cui fa riferimento Protagora, che sia il risultato di
insegnamenti tratti dall’esperienza sotto lo stimolo della necessità, come crede
Democrito81, o che si delinei nella prospettiva anassagorea, esso presuppone un uomo

73
D. MUSTI, Demokratía,cit. p. 7
74
TUCIDIDE, II, 36 - 2
75
A 102, DIELS - KRANZ
76
Cfr. framm. 21b, DIELS - KRANZ
77
PLATONE, Protagora, 320 e sgg.
78
Ivi, 318 e
79
Framm. 3, DIELS - KRANZ
80
L. EDELSTEIN, The Idea of Progress in Classical Antiquity, Baltimore, 1967, cap. II. Sulle
teorie del progresso nel V secolo, un’utile sintesi si trova in Sofistica e democrazia antica, a cura di
M. Isnardi Parente, Firenze 1977, p. 4 e sgg., p. 42 e sgg. Un’ottimistica visione dell’esistenza,
un’abbozzata teoria della civiltà è presente anche in EURIPIDE, allievo di Protagora, Supplici, vv.
195 - 218
81
In un riferimento tardo che troviamo in DIODORO SICULO, Biblioteca storica, I, 7 – 8,
Democrito delinea l’idea della progressiva ascesa dell’uomo, poi ripresa da Epicuro e Lucrezio che
riproporrà il fortunato schema in celebri pagine del De rerum natura v. 124 e sgg.
43
intelligente, dotato di arti che lo differenziano da altre culture, capace di riflettere, di
fare esperienza, cioè di apprendere da quanto, anche in modo accidentale o sotto la
spinta del bisogno, gli accade. Questo progresso è un frutto del libero svolgimento
dell’uomo e, a sua volta, accresce la libertà dal bisogno e dall’ignoranza. La fiducia
di Pericle nella forma di governo di cui, assieme ai caduti, tesse l’elogio, emerge in
modo netto nella parte centrale dell’epitafio, “…dove tutto è improntato ad un’idea
ottimistica di realizzazione di se, in una società libera e democratica”82.
Una società garante della realizzazione dei singoli, possibile anche grazie alla
fondamentale sviluppo di libere individualità, una società che è insieme il risultato
dei traguardi raggiunti dai suoi cittadini.
Un modello d’uomo con evidenti caratteri aristocratici, attento ad alcuni motivi
polemici antidemocratici, provenienti da ambienti oligarchici, ed insieme depurato da
quelli che sono considerati limiti rintracciabili in certi valori ed in certi stili di alcuni
gruppi oligarchici, come più avanti cercherò di mostrare.
Noi non imitiamo nessuno, dice Pericle, anzi siamo di esempio perché capaci di
creare un modello originale, un modello di città fondato sull’autonomia,
sull’autosufficienza, sulla coscienza che i cittadini hanno di dover “contare solo su se
stessi”. Una città dove il governo è in mano alla maggioranza, dove la decisione
politica non solo tende a coinvolgere l’insieme dei cittadini, perché tutti considerati
capaci di dare un contributo personale alla città, ma pure ad essere presa
all’unanimità, perché deve salvaguardare l’interesse di tutti. Un sistema politico,
quello democratico, che tutela l’isonomia, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla
legge, ed insieme premia il merito, cioè gradua il pubblico riconoscimento delle
capacità individuali in funzione del tipo di contributo che esse danno allo sviluppo
della polis.
Nella vita pubblica, dice Pericle, “… soprattutto la riverenza ci impedisce di violare
le leggi”, in particolare “quelle che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange
una vergogna da tutti riconosciuta”83.
Non è il carattere autoritativo delle leggi a far si che siano rispettate84, ma il fatto che
esse sono il libero risultato di un’autonoma deliberazione (sembrerebbe di poter
leggere senza un’eccessiva forzatura), l’espressione dei patrii costumi o, come nel
caso delle “leggi non scritte”, di principî e prassi da tutto il modo greco riconosciuti85.
Pericle delinea l’immagine di un’Atene ricca e gioiosa, dove la sua floridità richiama
beni da tutte le terre, dove la fatica è alleviata da “giochi e feste tutto l’anno”. E’
l’Atene dei commerci marittimi, delle importanti opere pubbliche, delle Panatenee e
delle Grandi Dionisie, del teatro tragico, che viene evocata.
Pericle continua col dire86 che gli Ateniesi amavano il bello con compostezza, senza
sprechi, si dedicavano al sapere senza che ciò comporti mollezza (malakías), un

82
D. MUSTI, Demokratía, cit., p. 105
83
TUCIDIDE, II, 37, 3
84
Si ricordi l’Auctoritas non veritas facit legem dell’opposta visione hobbesiana
85
Per una brillante ricognizione della problematica, si veda J. DE ROMILLY, La loi dans la pensée
greque, Paris, 2002.
86
TUCIDIDE, II, 40
44
carattere poco virile; che usano la ricchezza per le possibilità di agire che essa
garantisce, non come occasione di vanto.
Il godimento del bello attraverso gli splendidi edifici e monumenti di Atene, come
pure nella sfera privata, nelle “belle case”87, “senza sprechi”, sembra rinviare, per
opposizione, all’ostentazione delle belle forme proprie al lusso ed all’opulenza, come
segni di ricchezza e supremazia ricorrenti nel mondo orientale.
Il rivendicare la ricerca e la fatica di un sapere non autoreferenziale, rinviava all’idea
diffusa che il sapere deve avere un ruolo formativo e finalizzato a fornire strumenti
atti a ben operare, tanto nella sfera privata che in quella pubblica. Una sapere
meramente speculativo, non finalizzato all’azione può guastare gli individui perché
sfocia nell’irrisolutezza, come spiega Callicle nelle prime battute del confronto
dialettico con Socrate, riportato da Platone88.
La ricchezza, nell’Atene democratica, dice Pericle, è apprezzata per il suo carattere
strumentale, per la possibilità che offre, non come il simbolo di uno status da
ostentare89.
La conclusione di Pericle è la nota affermazione che “tutta la città è la scuola della
Grecia” e tale insegnamento ed esempio consiste essenzialmente nel fatto che ad
Atene “ogni singolo cittadino può […] sviluppare autonomamente la sua personalità
nei più diversi campi”90.
Uno sviluppo libero e versatile della personalità individuale è in ultima istanza il
risultato più importante della democrazia ateniese da cui discende l’insegnamento
più significativo per tutta la Grecia. In conclusione, rivolgendosi ai presenti, davanti
ai resti dei primi caduti della guerra contro Sparta, Pericle così li ammonisce: “E voi,
prendendo come esempio costoro e considerando felicità la libertà e libertà il
coraggio, non temete i pericoli della guerra”91. Per chi è abituato a vivere da uomo
libero una “nobile fine”, come quella di chi muore per la libertà sua e della città, è
sicuramente da preferirsi ad una vita da schiavo, tanto più insopportabile per chi ha
sempre vissuto identificando libertà e felicità.

87
Un riferimento alle “abitazioni ben ammobiliate” (Kateskeué è la costruzione ma pure il mobilio)
come esempio di uno status raggiunto si trova pure in SENOFONTE, Ciropedia, VII, 72. Ciro,
però, parla ai Pari e all’aristocrazia militare, dopo la conquista di Babilonia, Pericle allude ai
cittadini ateniesi.
88
PLATONE, Gorgia, XL - XLII
89
“Alla concezione attivistica ateniese è qui contrapposta la nozione aristocratica della ricchezza, di
tipo ampiamente – e talora nobilmente – esibizionistico, e che punta sempre sull’idea di
munificenza, non dell’investimento o dell’attivismo economico”, D MUSTI, Demokratía, cit. p.
118. Per l’uso, per così dire, politico della ricchezza si ricordi “il primo atto politico di
Temistocle”che propose ed ottenne dagli Ateniesi la rinuncia alla spartizione dei proventi delle
miniere d’argento del Laurio, che furono destinati alla costruzione di cento trireme, “ed esse
combatteranno anche contro Serse”, conclude Plutarco, Vita di Temistocle, 4. A metà strada tra
un’elargizione con risvolti sociali ed assistenzialistici ed una munificenza auto – promozionale sta
l’uso che Cimone, (l’avversario del partito oligarchico di Pericle) fece delle sue ricchezze.
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XXVII, 3.
90
TUCIDIDE, II, 41
91
Ivi, II, 43, 4
45
Si può convenire con il Musti, pertanto, quando definisce la “teoria democratica della
democrazia”, esposta da Pericle – Tucidide nel celebre epitafio “… una filosofia del
diritto alla felicità nella libertà”92.
La democrazia è descritta come l’elaborato teorico e la poliedrica prassi di un uomo
con una naturale vocazione alla libertà, che la democrazia rappresenta, valorizza,
conserva e tutela, ponendola come un fine che diventa un tutt’uno con la felicità: e
vivere liberamente significa vivere in sintonia con la propria profonda natura, che
solo in tale condizione può esprimersi e svilupparsi.

2.6 L’autogoverno democratico


Nella democrazia ateniese la libertà non ha solo la funzione di un principio ispiratore
fondamentale o di un valore riconosciuto e difeso fino al sacrificio estremo. La libertà
è uno status da confermare e riaffermare giorno per giorno, attraverso un sistema di
governo, una politeìa modellata sui due principi democratici per eccellenza: la libertà
e l’uguaglianza per tutti i cittadini.
Nel ricordato passo della Politica, Aristotele definisce la democrazia sulla base di due
principi: la libertà e il “vivere come uno vuole” che, in realtà, non è un secondo
principio ma la più evidente manifestazione del primo. Essere libero e, di
conseguenza, vivere assecondando vocazioni ed interessi personali, implicherebbe il
“non essere governati da nessuno”; in alternativa “governare ed essere governati a
turno”93.
Questa seconda condizione appare come quella più prossima alla mancanza di
governo. La formula “governare ed essere governati a turno”, che riassume per
Aristotele la teoria e la prassi della democrazia ateniese, è il risultato di un percorso
storico che ha origine da un mitico padre fondatore, Teseo, il vincitore del Minotauro,
e che si svolge attraverso tappe fondamentali legate ad almeno quattro grandi
riformatori ateniesi: Solone, Clistene, Efialte e Pericle, con una serie di
trasformazioni (metabolai) che creò un sistema di valori e di governo unici ed
originali rispetto alla tradizione politica della Grecia e del mondo antico: la
democrazia, appunto.
Se interpretato alla lettera, il “governare ed essere governati a turno” implicherebbe il
venir meno della distinzione tra governanti e governati, tra elettorato attivo e passivo,
introducendo un ulteriore elemento di crisi del potere, una forma di instabilità
conseguenza di una amministrazione alternata dei pragmata, gli affari di stato gestiti
“a turno” ed insieme “pro tempore”.
Viene meno anche la distinzione, evocata da Pisistrato tra governante che si occupa
degli affari di stato e governati interessati solo alla sfera privata. Con una prima
sintesi potremmo dire che il potere viene ridistribuito tra tutta la comunità cittadina,

92
D. MUSTI, Demokratía, cit., p. 119
93
ARISTOTELE, Politica VI, 1317, 15 - 18
46
con regole che ne impediscono la concentrazione e l’esproprio da parte di un singolo
o di un gruppo.
Scrive bene Jean-Pierre Vernant, in riferimento alla riforma di Clistene: “La polis si
presenta come un universo omogeneo, senza gerarchia, senza stratificazioni, senza
differenziazione. L’archè non è più concentrata su un unico personaggio al vertice
dell’organizzazione sociale. Essa è uniformemente ripartita attraverso tutto il campo
della vita pubblica, in questo spazio comune in cui la città trova il suo centro, il suo
meson. Secondo un ciclo regolato, la sovranità passa da un gruppo ad un altro, da un
individuo ad un altro in modo che il comandare e l’obbedire, invece che opporsi
come due assoluti, diventano i due termini inseparabili di uno stesso rapporto
reversibile. Sotto la legge dell’isonomia, il mondo sociale prende la forma di un
kosmos circolare e centrato, in cui ogni cittadino, essendo simile a tutti gli altri, dovrà
percorrere l’intero circuito, occupando e cedendo successivamente, secondo l’ordine
del tempo, tutte le posizioni simmetriche che compongono lo spazio civico”94.
A partire da Erodoto (VI, 131) la tradizione storiografica definisce come demokratía
la riforma politica di Clistene; quest’ultima, però, è piuttosto il risultato di un
processo che inizia nel mito, con Teseo, il “re democratico”, e prosegue in modo
discontinuo (si pensi alla tirannide di Pisistrato o all’oligarchia dei Trenta tiranni) per
più di tre secoli, tant’è che Aristotele, il maestro di Alessandro, nella Costituzione
degli Ateniesi scrive: “[…] e da essa [l’undicesima riforma costituzionale] si è giunti
all’attuale che concede sempre maggior potere al popolo. Esso infatti si è reso arbitro
di tutto, e tutto si decide mediante decreti e tribunali in cui il popolo predomina”95
Il processo che vede il graduale instaurarsi e consolidarsi di principi e prassi
democratiche può essere colto attraverso l’osservazione della nascita e dello sviluppo
di alcune tipiche istituzioni democratiche, come l’assemblea generale dei cittadini
(ekklesia) ed il consiglio dei cinquecento (bulè); delle trasformazioni di alcuni organi
come il tribunale dell’Areopago, che da istituto tipicamente aristocratico vede
progressivamente ridursi le sue competenze ed accrescersi la presenza dell’elemento
popolare. Il progressivo aumentare del potere del démos si coglie pure dal fatto che
col tempo prevale la scelta dei magistrati attraverso il sorteggio e non più per
elezione e cresce la presenza del popolo minuto, i teti della quarta classe di reddito,
cresce non solo nell’assemblea, nelle magistrature e nei tribunali, ma pure negli
spettacoli pubblici grazie ai sussidi statali. Assistiamo pure al diffondersi di tecniche
militari fondate sulla falange oplitica, dove è fondamentale la presenza dell’elemento
popolare, l’intercambiabilità dei ruoli e la subordinazione del singolo alla disciplina
del gruppo, che ne garantisce la forza d’urto.
Sul piano sociale lo sviluppo della democrazia è parallelo a due importanti fenomeni:
la crescita della popolazione cittadina, attraverso l’urbanizzazione di parte della
popolazione rurale e l’allargamento della cittadinanza, seppure usato con parsimonia
ed in modo selettivo. In seconda istanza la promozione di una politica commerciale e
94
J.P. VERNANT, Les origines de la pensée grecque, Paris 1962, p. 95
95
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XLI, 2; questo passo conclude la rassegna storica
delle dodici riforme costituzionali: da Ione fino alla restaurazione della democrazia dopo il governo
dei Trenta tiranni.
47
militare che privilegia il controllo del mare, favorisce lo sviluppo della flotta e, di
converso, dell’elemento marinaio – popolare.

2.7 Le riforme (metabolai) democratiche


Solone, che nel IV secolo era considerato il padre della democrazia, si vanta nelle sue
poesie di aver stabilito leggi uguali, cioè una prima forma di isonomia, “per il buono
e per il cattivo”, aggettivi che hanno, ovviamente, una valenza sociale e non morale.
Secondo quanto ci tramanda Plutarco96, il primo provvedimento preso da Solone
consistette “nell’abolizione dei debiti esistenti e nella proibizione di prestar denaro in
avvenire assumendo a garanzia la persona dei debitori”, poi riportò ad Atene i
cittadini ridotti in schiavitù per debiti, senza però arrivare ad una redistribuzione delle
terre come richiesto dai più poveri. Solone, inoltre, divide i cittadini in quattro classi
in base al censo, distribuendo le magistrature tra le prime tre classi e dando ai
cittadini della quarta classe solo la possibilità di partecipare all’assemblea, cioè
l’elettorato attivo e il diritto di far parte dei tribunali. Due prerogative di non poco
conto se si considera che i teti erano la componente sociale più numerosa (anche se
non la più attiva politicamente, almeno al tempo di Solone) ed il ruolo che avrebbe
assunto con gli anni l’assemblea quale principale organo deliberante le cui decisioni,
in quanto diretta espressione della città, sarebbero state considerate inappellabili.
Inoltre, la partecipazione del popolo ai tribunali fece si che, grazie al diritto di
appello, il popolo avesse la “massima forza”, fino a diventare “arbitro dello stato”97.
Plutarco ribadisce questo aspetto ricordando che il popolo, con la riforma di Solone,
assunse un ruolo di “grandissima importanza perché la maggior parte dei contrasti
finiva per cadere nelle mani dei giudici” come pure il giudizio d’appello sulle
decisioni dei magistrati98. Affermazioni esagerate se riferite all’epoca di Solone, ma
assai meno negli anni della democrazia del V e IV secolo.
Gli autori di Clistene l’Ateniese notano che con la sua riforma costituzionale
l’Alcmeonide fa si “[…] che il principio territoriale e l’ordine civico hanno la meglio
in modo decisivo sul principio gentilizio”99. Aristotele così riassume la metabolé
clistenica: “Divise il territorio in trenta demi, dieci della città, dieci della costa e dieci
dell’interno. Anche questi chiamò trittie e ne attribuì per sorteggio tre ad ogni tribù,
affinché ognuno comprendesse abitanti di tutte le zone dell’Attica”100. Ciò porta ad
un rimescolamento dei cittadini, ad una loro “fusione”, ad una nuova unità cementata
dall’appartenenza ad Atene101 che diventa uno “spazio civico” il cui ritmo è regolato

96
PLUTARCO, Vita di Solone, 15
97
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, IX, 1
98
PLUTARCO, Vita di Solone, 18
99
P. LÉVÊQUE e P. VIDAL – NAQUET, Clisthene l’Athenien, Besançon, 1964, p.12
100
ARISTOTELE, Costituzione degli Ateniesi, XXI, 4
101
Nella Costituzione degli Ateniesi (XXI, 2) Aristotele sostiene che Clistene “Dapprima divise tutti
i cittadini in dieci tribù anziché in quattro, volendo fonderli affinché partecipassero più numerosi al
48
da un “tempo civico”102, da un calendario segnato da ricorrenze più propriamente
politiche connesse all’attività dell’ekklesia e del consiglio dei cinquecento (Boulé)103
come pure da eventi quali le Panatenee e le Dionisie, i giochi, le tragedie e le
commedie vere espressioni di una civica autocoscienza collettiva104.
La riorganizzazione del corpo dei cittadini, creò con una riforma amministrativa
anche una nuova struttura politica che avrebbe modificato le precedenti istituzioni. Le
tribù furono portate a dieci, per favorire la partecipazione dei cittadini alla vita della
città e venne creato il Consiglio dei cinquecento, dove ogni tribù era rappresentata da
cinquanta cittadini, sorteggiati tra quanti possedevano le caratteristiche richieste e
avevano dato la loro disponibilità, con un mandato di un anno.
La bulè rappresentativa di tutto il popolo, fa da raccordo tra città e campagna ed ha
una serie di funzioni che ne fanno il vero organo esecutivo dell’assemblea, il governo
permanente della città, gestito a turno dai rappresentanti delle varie tribù. E’ stato
osservato che “[…] la bulè dei Cinquecento diverrà il governo della polis solamente
mezzo secolo dopo, quando Efialte le attribuirà le funzioni che erano state del
consiglio dell’Areopago. Ma possiamo già supporre che essa avesse potere di
controllo sui magistrati e che, d’altra parte, potesse convocare l’assemblea dei
cittadini, l’ekklesia di cui Clistene aveva esteso i ranghi e forse la periodicità delle
riunioni105.

governo; ecco perché si diceva di non fare distinzioni fra le tribù a quelli che volevano indagare
sulle famiglie”, poiché i membri di uno stesso génos potevano essere suddivisi tra varie tribù poste
alla base di una solidarietà civica non più legata al clan familiare. “La parola d’ordine della riforma
di Clistene è ‘mescolare’, rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare
ciascuno secondo il demo, che è la cellula vivente dello ‘Stato’ che, attraverso lo strumento
intermedio della tribù (costituita col massimo di astrazione possibile da vincoli familiari e rapporti
di interesse) costituisce il quadro organizzativo fondamentale della nuova pólis”, D. MUSTI, Storia
Greca, Roma – Bari 2002, p. 270.
102
Il primo capitolo del citato Clisthene l’Athenien ha per titolo “lo spazio e il tempo civico di
Clistene”. Su questi aspetti e, più in generale, sulle novità introdotte dalla riforma di Clistene, N.
LORAUX, “Clistene e i nuovi caratteri della lotta politica”, in I Greci, 2, I, cit., pp. 1083 – 1110.
103
All’inizio del V secolo, durante una pritania (un decimo dell’anno in cui una delle dieci tribù
esercitava a turno la presidenza del Consiglio dei cinquecento) c’era di regola un’assemblea. Dopo
la metà del secolo ad un’assemblea principale potevano aggiungersene altre e nel IV secolo si arrivò
fino a quattro assemblee per pritania. Sul calendario politico di Atene e sulle competenze dei vari
organi della democrazia, per un efficace sintesi: D. LOTZE, “Il cittadino e la partecipazione al
governo della ‘polis’, in I Greci, II, 1, cit. pp. 369 – 401; ARISTOTELE La Costituzione degli
Ateniesi, in particolare cap. XX e ss,; D. MUSTI, Demokratía, cit., cap. IV; C. MOSSÉ, Périclès,
cit. capp. IV e V; V. EHRENBERG, Der Staat der Griechen, cap. II; ARISTOTELE, Politica, libro
IV; M. H. HANSEN, Die athenischen Volksversammlung im Zeitalter des Demosthenes, Kostanz
1984; P. J. RHODES , The Athenian Boule, Oxford 1972.
104
E’ stato argutamente sottolineato il carattere di “comunità rituale” che, grazie a questi aspetti,
assume la polis: “La città è quindi anche una comunità rituale: santuari, culti, riti e feste non solo
hanno rapporto con la formazione della polis, ma sono elementi che spesso sottolineano
l’appartenenza ad essa e l’identità collettiva”, C. AMPOLO, “Il sistema della ‘polis’. Elementi
costitutivi e origini della città greca”, in I Greci, II, 1, cit., pp. 297 – 342. Il passo citato è a p. 319.
105
C. MOSSÉ – A. SCHNAPP – GOURBEILLON, Précis d’histoire grecque. Du début du
deuxième millénaire à la bataille d’Actium , cit. p. 209
49
Efialte per più versi completò la riforma di Clistene perché attribuì al Consiglio dei
cinquecento ed ai tribunali popolari molte delle competenze di quella che all’origine
era un’istituzione diretta emanazione delle famiglie aristocratiche, l’Areopago.
Alcuni hanno definito Pericle come il vero “inventore della democrazia”, ciò si
spiega non tanto per le innovazioni di tipo istituzionale che introdusse, ma per una
riforma che rese nei fatti possibile un’estesa partecipazione del popolo ad alcune
importanti istituzioni ateniesi quali la bulè e i tribunali, facendo della democrazia
ateniese un reale governo del popolo, della maggioranza dei cittadini. Mi riferisco,
ovviamente, all’istituzione del misthòs, un’indennità per i giudici che fu poi estesa ad
altre funzioni pubbliche, in particolare a quella di buleta e nel quarto secolo ai
partecipanti all’assemblea106.
La concessione dell’indennità, che equivaleva sommariamente al salario di un giorno,
permise a coloro che vivevano solo di redditi da lavoro di compensarne la perdita che
la partecipazioni a funzioni politiche, soprattutto ai tribunali e al consiglio, avrebbe
comportato. Accrebbe in questi organismi la presenza popolare e fu oggetto delle più
aspre critiche da parte oligarchica, che videro in questa misura, resa possibile anche
grazie ai copiosi tributi degli alleati che finanziarono anche opere pubbliche, giochi e
feste, iniziative che abituarono il popolo alla “vita comoda”, all’assistenzialismo
sociale (almeno secondo i detrattori della democrazia), accrescendo la presenza e il
peso del popolo minuto nelle istituzioni e nell’indirizzo della politica cittadina.107
La libertà alla base della democrazia , riassunta nella formula aristotelica del
“governare ed essere governati a turno”, ha molteplici implicazioni, alcune
sommariamente già ricordate, altre che rinviano e si legano al secondo principio
democratico, l’uguaglianza. Il criterio maggioritario e quello dell’alternanza del
potere presuppongono entrambi – a certe condizioni – l’equivalenza dei cittadini. Il
fatto che l’alternanza nel governo della città sia assicurata dal sistema aleatorio del
sorteggio108, che Aristotele nella Retorica (1365 b 30) definisce l’elemento distintivo
della democrazia, è un ulteriore conferma dei prosupposti egualitari del sistema che

106
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XXVII; ARISTOFANE, Vespe, 14 (69)
107
IL VECCHIO OLIGARCA, La costituzione degli Ateniesi, XXIV; H. C. BALDRY, The Greek
tragic theatre, London, 1971, cap. 4.; PLUTARCO, Vita di Aristide, 24 e ss.; Vita di Pericle, 9 e
ss.; nella Vita di Cimone si dice che quest’ultimo rese gli Ateniesi “signori di chi li pagava”.
108
“La democrazia ateniese preferiva la procedura del sorteggio a quella dell’elezione. Eletti erano
solamente i comandanti militari […] e inoltre una serie di ufficiali civili con incarichi speciali, come
gli ambasciatori e, nella seconda metà del IV secolo, i più importanti ufficiali finanziari. Fino al 487
anche gli arconti venivano eletti […] Per la maggior parte delle cariche civili valeva la procedura
del sorteggio. Questo riguardava i cinquecento membri del consiglio e circa i seicento magistrati.
Ancor più alto era il numero dei giudici, anch’essi estratti a sorte. Per il V secolo è attestato il
numero di seimila”, D. LOTZE, “Il cittadino e la partecipazione al governo della ‘polis’ ”, in I
Greci, 2, II, cit., p. 392 e ss. Aristotele, nel cap. 44 de La costituzione degli Ateniesi, scrive che
“L’epistate dei pritani è tratto a sorte”, riferendosi al “sovrintendente” dell’organo esecutivo del
Consiglio dei cinquecento, equiparabile ad un moderno capo di stato, seppure resta in carica un
giorno ed una notte. E’ stato notato che nel caso dell’epistate dei pritani “C’è un sorteggio ‘al
quadrato’ : sorteggiati i buleuti e i pritani, secondo la distinzione per tribù, sorteggiato il capo dei
pritani”, D. MUSTI, Demokratía, cit. p. 139.
50
ritiene, almeno in potenza, tutti i cittadini capaci di ricoprire gran parte delle
magistrature.
Alla sostanziale uguaglianza dei diritti corrisponde una pari uguaglianza dei doveri: a
partire da quello di partecipare attivamente al governo della città, alla politeia. Essere
cittadino implica a tal punto l’esercizio attivo della cittadinanza, che quanti per
ragioni diversi ne erano impediti non venivano considerati cittadini in senso pieno.
Aristotele, ad esempio, quando all’inizio del terzo libro della Politica discute della
natura del cittadino, sostiene che solo la “partecipazione alle funzioni di giudice ed
alle cariche” definisce il cittadino “in senso assoluto” e che, pertanto, i ragazzi, i
vecchi, e gli “uomini privati dei diritti politici ed esiliati” hanno solo una forma
incompleta di cittadinanza.
Per le stesse ragioni è stato giustamente osservato che le donne, prive pure di
un’autonoma capacità processuale, avevano solo lo status ma non la funzione di
cittadini109.
Secondo Aristotele, Clistene accrebbe il numero delle tribù per fondere i cittadini
“affinché partecipassero più numerosi al governo”, alla politeia110: crescita del
numero dei cittadini, loro integrazione, estensione della loro partecipazione al
governo ed alle magistrature, anche per i meno abbienti, sono costanti del processo
dello sviluppo democratico, a partire dalle sue mitiche origini.111
Pericle elogia gli ateniesi perché capaci di gestire allo stesso tempo gli affari privati e
quelli comunitari, a differenza dei regimi oligarchici e tirannici, potremmo
aggiungere, dove il potere era nella mani di pochi o di uno solo ed al popolo era
richiesto solo di occuparsi dei suoi affari privati.112
Crescita della partecipazione dei cittadini al governo e loro integrazione sono favoriti
anche da quello che può definirsi come il principio giuridico – politico della
democrazia, l’isonomia, l’eguaglianza davanti alla legge, termine che in alcuni
contesti, ad esempio in Erodoto (III, 80 – 83.), viene usato come sinonimo di
109
CANTARELLA
110
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XXI, 2
111
Teseo è descritto da PLUTARCO (Vita di Teseo, 24 – 25) come colui che radunò tutte le genti
dell’Attica e “di un popolo fino ad allora disunito […] fece una sola città” e “Nell’intento di
ingrandire ulteriormente la città, invitò tutti a trasferivisi alle medesime condizioni dei nativi.”
Solone, sempre secondo Plutarco, riporta ad Atene i cittadini ridotti in schiavitù per i loro debiti,
concedendo la cittadinanza anche a coloro che erano stati esiliati a vita da altre città (Vita di Solone,
24 e ss.). Aristotele, dopo aver ricordato che Aristide stabilì il tributo per le città alleate, “due anni
dopo la battaglia di Salamina”, aggiunge che consigliò agli abitanti dell’Attica di “lasciare la
campagna per scendere in città”. Prosegue col dire che, grazie soprattutto ai tributi pagati dagli
alleati, la città poteva “mantenere più di ventimila uomini, fra giudici, magistrati e militari (La
costituzione degli Ateniesi, XXIII – XXIV). Riferendosi a Clistene, Aristotele usa una frase che i
due autori di Clisthene l’Ahtenien definiscono “assai enigmatica”: Clistene “iscrisse nelle tribù
molti stranieri e meteci in condizione di schiavitù” (Politica, III, 1275 b 37).
112
Il tiranno Pisistrato, dopo aver disarmato il popolo lo invitò a “dedicarsi ai loro propri affari,
mentre egli si sarebbe occupato di tutti quelli pubblici”; inoltre favoriva l’agricoltura purché il
popolo rimanesse nelle campagne, “godendo di una modesta agiatezza” in modo che non avesse
tempo né voglia di occuparsi degli affari pubblici, ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi,
XV – XVI.
51
democrazia. Da Solone a Pericle si ha l’evolversi di quelle che Vernant ha definito
come l’”eguaglianza gerarchica”, uguaglianza “geometrica e non aritmetica”, fondata
sulla nozione di “proporzione”, ad un’uguaglianza non verticale ma orizzontale, ad
una situazione in cui seppure permangono differenze anche sostanziali sul piano
sociale, lo stato sociale non è di impedimento all’esercizio di funzioni pubbliche,
anche delle più importanti.113
In altri termini Pericle ridisegna la democrazia “come una politeia in cui l’axiosis (la
concreta dimostrazione della capacità, del valore) non l’axioma (il “rango sociale”, lo
“stato”), diviene il fattore principale114.
Conseguentemente nella democrazia periclea, come per ogni democrazia avanzata, il
criterio selettivo per l’assegnazione delle cariche che richiedono particolari
competenze “è la coppia axiosis – arete (reputazione - merito) non l’axioma (che
equivale a una “rendita di posizione”), cui si ricorre nelle comunità incentrate su
gerarchie prestabilite (antimodello implicito è Sparta).

2.8 Uguaglianza d’origine ed equidistanza dal potere


L’evolversi della “uguaglianza gerarchica”, verticale e geometrica, in eguaglianza
non gerarchica, orizzontale e aritmetica, significa, fra l’altro, riconoscere a tutti i
cittadini la capacità – possibilità di esercitare gran parte delle funzioni politiche della
città, limitando le cariche elettive, fondate su competenze ed abilità specifiche e
riconoscibili (come ad esempio la strategia e tutti gli incarichi militari) ad eccezioni.
Questo comporta che in democrazia, come è espresso mirabilmente da Protagora, si
abbiano almeno due tipi di uguaglianza: la prima che parifica nel senso della
fungibilità nell’esercizio dei diritti / doveri politici, tutti i cittadini, la seconda che
seleziona rispetto al merito ed alle competenze, nel riconoscimento di una differenza
di grado e non di genere, come vedremo meglio più avanti.
Tra i vari significati che può assumere la uguaglianza in democrazia uno dei più
pregnanti è quello che potremmo definire meglio come risultato del’essere posti ad
una uguale distanza dal potere, che simbolicamente è collocato es meson al centro
della comunità dei cittadini: “Dal momento che è messo al centro, il potere non
appartiene più a nessuno; è depersonalizzato, socializzato, laicizzato. L’origine di
questa formula […] deve essere cercata nelle pratiche che la poesia arcaica […] ci
rivela. In particolare il fatto che, in Omero, l’assemblea dei guerrieri, il bottino, i
prezzi dei concorsi, i beni, la devoluzione della proprietà obbediscono ad un certo
numero di regole che traducono la stessa concezione, lo stesso valore pubblico e

113
“Nessuno è impedito dalla oscurità del suo ruolo sociale [axíoma] nell’esercizio di funzioni
pubbliche, ma liberamente amministriamo il politico” (TUCIDIDE, II, 37, 2). Come ha osservato il
Musti, “liberamente” indica la mancanza di impedimenti di ordine sociale che pone i cittadini su un
piano di parità per ciò che concerne l’esercizio dei diritti e delle cariche politiche, Demokratía , p.
14
114
G. CARILLO, Katechein, cit. p. 91.
52
comune di centro. Quando un bottino è stato riunito è messo al centro, in mezzo.
L’armata si mette in cerchio attorno al bottino […] Quando le persone non sono più
sotto le armi, quelli che hanno lo statuto di guerrieri fanno il cerchio allo stesso modo
di quelli che avranno più tardi lo statuto di cittadino”115. Yvon Garlan ha ricordato
che se in origine “l’essere soldato era relativo all’essere cittadino e non viceversa”116,
esiste pure, accanto ad una “vocazione militare del cittadino”, una “vocazione politica
del soldato”: se “Un cittadino è, per definizione, un soldato”, è pure vero il contrario,
“Per definizione, un soldato tende a comportarsi da cittadino” 117.
Con la politica marittima di Atene, tanto commerciale che militare al tempo della
guerra contro i Persiani, l’esigenza di un’ingente mano d’opera di nuovo tipo, alla
quale non si richiede un reddito per provvedere al proprio armamento, ma solo
disciplina, addestramento e forza delle braccia, fa si che una nuova classe sociale ed
insieme militare, la quarta classe di censo, i Teti, i popolani più indigenti, assurga a
pieno titolo alla dignità di cittadini / combattenti, cioè di cittadini in senso completo,
a conferma che nella città / stato greca “il corpo decisionale è il corpo
combattente”118.
Alla base dell’identificazione del guerriero e del cittadino e della sostanziale
uguaglianza che intercorre tra i cittadini, come tra i soldati, sta la diffusa convinzione
che quanti hanno la capacità e il dovere di salvaguardare la città, di combattere per
essa, fino al sacrificio estremo della vita, hanno pari dignità e pari diritti.
L’innovativa tattica di combattimento costituita dalla falange oplitica costituisce uno
degli elementi di crisi della società aristocratica in Grecia. Aristotele ritorna più volte
sul nesso oligarchia – cavalleria e sull’altro democrazia – falange oplitica che, per un
verso discendono e per un altro si oppongono al primo: “Il primo governo succeduto
in Grecia a quello monarchico era composto di guerrieri, e agli inizi, di cavalieri
perché questi costituivano il nerbo dell’esercito e assicuravano il successo. Infatti, la
fanteria senza ordine chiuso è inefficace; e, poiché negli antichi tempi l’esperienza
tattica faceva difetto alle fanterie, tutta la forza dell’esercito stava nella cavalleria.
L’allevamento dei cavalli non può essere fatto che da ricchi”. Da qui il legame tra
cavalleria e oligarchia119.

115
VERNANT, L’orient ancient et nous, cit., p. 218 – 19.
116
Y. GARLAN, L’uomo e la guerra, in L’uomo greco, a cura di J-P. VERNANT, Bari, 1991, p.
65. “Poiché per lungo tempo essere guerriero implicava la disponibilità dei mezzi per provvedere
all’armatura, la nozione di cittadino / guerriero si identificò con quella di possidente”. L.
CANFORA, La democrazia. Storia di un’ideologia., cit., p. 34; cfr. K.J. HÖLKESKAMP, “La
guerra e la pace” in I Greci, II, cit. pp. 481 – 539, p. 512 e ss.
117
Y. GARLAN, “Guerra e società”, cit., p. 90 e ss.
118
L. CANFORA, La Democrazia…, cit., p.35 e ss.
119
Su “La crisi della società aristocratica in Grecia”, si veda il paragrafo, che porta questo titolo, del
capitolo V del libro di C. MOSSÉ e A. SCHNAPP – GOURBEILLON, Précis d’histoire
grecque…, cit.; un commento al citato passo di Aristotele si trova in G. GLOTZ, La cité greque,
Paris, 1948, al cap. 2, “Origine e forme dell’oligarchia”. Sul ruolo della cavalleria ci sono rimaste
due note opere di SENOFONTE, Perì Hippikès, L’arte della cavalleria, dove in dodici capitoli si
parla dell’acquisto, della cura e dell’addestramento del cavallo, ma pure, nel capitolo finale,
dell’armamento del cavaliere per la guerra. Nell’Hipparkikós, Il manuale del comandante della
53
L’adozione di quello che Aristotele definisce “l’ordine chiuso”, cioè di una tattica
militare che fa degli opliti una falange compatta, capace di resistere come in un unico
blocco e con una forza d’urto che è il risultato della coesione del gruppo, sono alla
base di quella che è stata descritta come la “rivoluzione oplitica” e del conseguente
primato della fanteria pesante - dove è presente e predominante l’elemento popolare -
sulla cavalleria, corpo che, per ovvi motivi, è prerogativa dei più ricchi. La
formazione oplitica è fondata su due principi che sono pure fondamentali per
l’esercizio delle funzioni politiche e di gran parte delle cariche in democrazia:
l’uguaglianza e l’intercambiabilità dei suoi membri120
Che sia esistita una stretta correlazione, un rapporto di interdipendenza fra
l’organizzazione sociale dell’Atene democratica ed il suo apparato militare di terra e
di mare mi sembra indubitabile, come pure la loro reciproca influenza.
Pierre Vidal-Naquet ha sostenuto, ricordando alcuni studi di Claude Mossé, che “per
l’esercito e la flotta delle città greche è la polis a fare da modello”. A Salamina, per
esempio, continua l’autore, “non è la flotta che salva la città, ma la città che si installa
sulle navi, al riparo del famoso ‘muro di legno’ di cui parla l’oracolo” 121.
Se fu la città a salvare se stessa a Salamina, ciò avvenne solo perché la città
combattente, fatta non solo di cittadini di tutte le classi, ma pure di meteci e persino
di uomini in condizione servile, abbandonò la città di pietra che, dopo la distruzione,
sarebbe stata ricostruita. A conferma del fatto che, già nel V secolo, cittadinanza ed
iscrizione nei ranghi dell’esercito finiscono per coincidere e significare un identico

cavalleria, si danno una serie di istruzioni e di consigli all’ipparco sulla condotta da tenere in tempo
di pace, come pure sui possibili scenari con relative strategie in caso di conflitto.
120
Sull’organizzazione, l’armamento e la tattica oplitica, M. DEBIDOUR, Les Grecs et la guerre,
Ve e IV e siècle, Monaco 2002, p.23 – 53. Un esempio a cui è d’obbligo riferirsi quando si vuole
evidenziare la prorità che assume, per l’efficacia offensiva e difensiva della falange oplitica,
mantenere la propia posizione sullo stesso valore personale, è la vicenda di “Aristodemo il
fuggiasco”, riferitaci da Erodoto in due diversi passi ( VII, 229-231 e IX, 71). Aristodemo colpito
dalla disistima dei suoi concittadini, perché era stato l’unico dei Lacedemoni a salvarsi dalla morte a
Termopili, nella battaglia di Platea, “volendo ad ogni costo morire (…) come un forsennato uscendo
dallo schieramento aveva dato prova di grande valore”. Per tali ragioni Aristodemo, a differenza di
altri che avevano combattuto valorosamente, non ricevette pubblici onori. Commentando la legge
del gruppo a cui è soggetto l’oplita, scrive Vernant: “E’ l’uomo della battaglia a contatto di gomito,
della lotta spalla a spalla. E’ stato addestrato a tenersi in fila , a marciare in ordine,a lanciarsi contro
il nemico tenendo il passo, a badare, nel pieno della battaglia, di non lasciare il suo posto.[…] La
falange fa dell’oplita, come la città fa del cittadino, un’unità intercambiabile, un elemento simile a
tutti gli altri, la cui aristeia, il valore individuale, non deve mai manifestarsi più se non nel quadro
imposto dalla manovra d’insieme, dalla coesione del gruppo, dall’effetto di massa, nuovi strumenti
della vittoria”; nella seconda parte del cap. IV, “L’universo spirituale della ‘polis’”, del citato Les
origines de la pensée grecque. Il giuramento che gli efebi pronunciavano nel momento in cui
ricevevano le armi , alla presenza dei Cinquecento, cominciava con queste parole: “Non porterò
vergogna alle sacre armi, né abbandonerò il compagno che ho accanto nella mia schiera” Lachete,
nell’omonimo dialogo platonico (190 e ), per dare una prima ed immediata definizione del coraggio,
così si esprime: “quando un soldato resta al suo posto, combatte contro i nemici e non fugge, ecco,
quest’uomo è coraggioso”
121
P. VIDAL-NAQUET, “La tradition de l’hoplite athénien”, in J.-P. VERNANT e P. VIDAL-
NAQUET, La Grèce ancienne 3, pp.64/5
54
dovere-diritto dei cittadini di difendere la città e partecipare alle scelte che ne
garantiscono la vita e lo sviluppo122.
Nella cultura dell’Atene democratica il nesso tra uguaglianza e cittadinanza viene
riproposto da prospettive diverse: sul piano del mito e dei simboli, come della teoria
del cosmo e della filosofia politica. Il mito dell’autoctonia degli Ateniesi, che
continuamente ritorna nel corso della storia greca123, sembra rispondere a due
esigenze principali, come ha ben mostrato Nicole Loraux, che ha richiamato
l’attenzione sul fatto che una “buona” e “comune” nascita fondano un’uguaglianza
politica di tipo aristocratico: un’origine illustre condivisa.
L’uguaglianza di origine (isogonia), in quanto comunanza non vile (eugénia), a
maggior ragione fonda un’uguaglianza politica (isonomia), su presupposti per più
versi naturali: “il richiamo a una buona natura nella Grecia antica è una pratica
aristocratica: dotati di una buona natura che coincide con una buona nascita
(eugénia), gli Ateniesi possono dimenticare (e al tempo stesso tentano di far
dimenticare) che il loro regime democratico è una conquista datata storicamente. La
democrazia? Una questione di famiglia…” 124.
Un luogo simbolico, il focolare domestico, tratto dal mondo privato della casa e posto
al centro della città come rappresentazione dell’unità dei cittadini in quanto legati,
come una famiglia allargata, da vincoli di sangue, è l’Hestia koinè, il focolare
pubblico:” il focolare esprime ormai il centro in quanto denominatore comune di tutte
le case che costituiscono la polis”. Un centro e un legame: “Il centro traduce nello
spazio gli aspetti di omogeneità e di uguaglianza, non più quelli di differenziazione e
di gerarchia”125.
Anche sul piano cosmologico, a partire da Anassimandro, si afferma una “nuova
immagine del mondo”, dove “Nessun elemento o porzione del mondo si trova più
privilegiato a spese di altri, nessuna potenza fisica è più posta nella posizione
dominante di un basileus esercitante la sua dynasteia su tutto126 .Si afferma l’idea di
un ordine egualitario dove “La supremazia appartiene esclusivamente ad una legge di
equilibrio o di costante reciprocità”127.

122
Trasibulo concesse con un decreto, poi annullato, la cittadinanza a quanti avevano combattuto
con i democratici del Pireo, “alcuni dei quali erano manifestamente schiavi”, sottolinea
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XL,2; cfr. ESCHINE, Contro Ctesifonte, III, 195, a
partire dal principio che chi a messo in gioco la sua vita per la democrazia, deve essere riconosciuto
a pieno titolo membro della città democratica.
123
Da ERODOTO a TUCIDIDE, da PLATONE, seppure con risvolti ironici nel Menesseno, a
ISOCRATE, da IPERIDE, Epitafio,7 a EURIPIDE, Ione, 589-592
124
N. LORAUX, Né de la terre, Paris 1996, in particolare cap. II, “I benefici dell’autoctonia”
125
J-P. VERNANT, “Espace et organisation politique en Grèce ancienne”, in J.-P. VERNANT, P.
VIDAL-NAQUET, La Grèce ancienne, 2, pp. 206-7
126
J.-P. VERNANT, Les origines de la pensée grecque, cit., cap. VIII, “La nuova immagine del
mondo”
127
Ibidem
55
2.9 Protagora e la giustificazione teorica dell’uguaglianza democratica

I due principi che caratterizzano, più di altri, la teoria politica democratica sono la
libertà e l’uguaglianza. La libertà per più versi sembra essere il principio fondante:
«base della costituzione democratica è la libertà»128, sostiene Aristotele, e
l’uguaglianza sembra essere la più o meno estesa generalizzazione di tale libertà.
Tutti i liberi sono uguali. Questo è il senso della libertà aristocratica, a partire
dall’idea che sono veramente liberi i ben-nati, i liberi dai condizionamenti e i liberi di
affermare pienamente se stessi.
Nonostante questo primato della libertà non troviamo nella filosofia greca e
nell’ideologia democratica una vera e propria teoria della libertà, che giustifichi il suo
primato.
È universalmente riconosciuto fra i Greci che la libertà sia un valore. Semmai si tratta
di stabilire una scala, una gradazione della libertà. Ci è rimasta un’affermazione,
attribuita a Socrate, che cito a memoria: «Ringrazio gli dei di avermi creato greco e
non barbaro, uomo e non donna, libero e non schiavo».
La condizione di greco, maschio e libero, sono necessarie per essere cittadino, per
avere un’identità civica in senso pieno. E solo il cittadino è l’uomo compiutamente
libero, libero dai dominatori personali, capace di autodeterminarsi.
Se non esiste una teoria della libertà è costante la rivendicazione della libertà come
carattere distintivo di un individuo degno di rappresentare la più alta forma di
umanità, con una serie di conseguenze, di caratteristiche che ne derivano. L’uomo
libero è più valoroso rispetto a chi combatte per un padrone, vive secondo le sue
aspirazioni, “a suo modo”, può esprimere pienamente la sua personalità con la parola,
le azioni, le scelte di vita.
Ogni greco rivendica la libertà come costitutiva della sua identità, dell’identità della
Grecia. Ogni greco assume la libertà come un principio, un valore costitutivo della
propria identità, da affermare e da difendere, al di là di quella che è la sua ideologia
di riferimento.
Tucidide ricorda che gli Spartani iniziarono la guerra del Peloponneso in nome della
libertà della Grecia e Senofonte129 ricorda che quando Atene, alla fine, si arrese e «si
iniziò a demolire le mura con grande entusiasmo al suono dei flauti, si pensò che quel
giorno segnasse l’inizio della libertà greca».
Diversamente che per la libertà, esiste una costante attenzione/discussione sulla
questione dell’uguaglianza. Appare, infatti importante, fondamentale, che
l’uguaglianza per essere apprezzabile debba consistere nella condivisione di un
carattere positivo. Abbiamo visto nelle pagine precedenti che la principale critica
portata dai nemici della democrazia all’uguaglianza è che quest’ultima nel regime
democratico diventa la condivisione di un disvalore: povertà / debolezza / volgarità /
venalità.

128
Aristotele, Politica, 1317, a40.
129
Senofonte, Elleniche, II, 2, 23.

56
Al di là di quella che potremmo definire come la teoria democratica dell’uguaglianza
democratica, che a mio avviso è presente in Protagora, si può derivare, per così dire,
in modo deduttivo dall’analisi del sistema democratico ateniese, una prima teoria
egualitaria. Del resto, occorre ricordare che il dibattito sull’uguaglianza prende quasi
sempre spunto dalla realtà, cioè dal sistema di gestione e amministrazione del potere
nell’Atene democratica.
Ad esempio, il fatto che pressoché tutte le magistrature siano assegnabili a tutti per
sorteggio (fatta eccezione delle cariche militari e di poche altre), sta a significare che
tutti sono ritenuti capaci di svolgere certi incarichi, come quello di giurato nei
tribunali, ad esempio.
Condizione necessaria e sufficiente per il riconoscimento di tale capacità è avere la
cittadinanza.
La teoria di Protagora, che troviamo nell’omonimo libro di Platone130, verte
essenzialmente su due questioni: l’insegnabilità della virtù politica e l’uguaglianza in
quanto condivisione della virtù politica, che è ciò che contraddistingue il cittadino.
Ogni cittadino è tale perché dotato di virtù politica, cioè di capacità politica, di dare
un contributo alla vita politica della città, e in questa comune capacità riconosciuta
per tale si fonda l’uguaglianza democratica.
Andiamo subito al cuore della teoria politica di Protagora e della sua apologia
dell’uguaglianza politica, dell’uguaglianza democratica.
La vita politica, la vita associata, non è resa possibile solo a partire dal bisogno di
aiuto reciproco. Non basta la necessità, l’esigenza di cooperare per difendersi, in una
condizione originaria, dalle bestie e dalle avversità naturali, non basta da sola a
garantire la convivenza, una cooperazione armonica.
La polis, cioè la comunità organizzata ed autonoma, autarchica, si costituisce solo a
partire dalla presenza di due attitudini propriamente politiche: il pudore, inteso come
rispetto reciproco, ed il senso di giustizia, che Aristotele definisce come una virtù
sociale.
Sono due doni di Zeus, per la salvezza, per lo sviluppo civile del genere umano; in tal
modo Protagora fa intervenire la divinità nella vicenda umana che colma una carenza
originaria.
Questo quadro può anche leggersi, per così dire, a ritroso. Se negli uomini viene a
mancare il rispetto reciproco e il senso della giustizia, si ritorna al punto di partenza,
alla crisi della convivenza.
Senza l’intervento degli dei, senza il rispetto del dono di Zeus, l’uomo sembrerebbe
mostrare un carattere originario, una natura sostanzialmente asociale.
Se a questi doni di Zeus si accompagna l’educazione, l’insegnamento, si forma il
cittadino, colui che a partire da una disposizione naturale la sviluppa attraverso
l’esercizio disciplinato, attraverso l’apprendimento. Protagora si ritaglia uno spazio
anche per il suo mestiere di sofista.

130
Platone, Protagora, 217a e ss.

57
La teoria protagorea si definisce meglio proprio in risposta alle critiche degli
avversari: tanto della tesi che vuole la virtù politica insegnabile, come
dell’uguaglianza politica.
Protagora spiega, attraverso un esempio, come l’uguaglianza politica non significhi
identità dei cittadini, ma capacità da parte di ognuno di dare un proprio contributo
alla vita, all’amministrazione, alla difesa della città.
L’esempio a cui si riferisce è quello dei flautisti, di un gruppo di musicisti. Affinché
si possa dire di qualcuno che è un flautista occorre che conosca la musica e sappia
suonare lo strumento musicale. Ci sono differenze di abilità fra vari flautisti, di
padronanza dello strumento, ma il fatto che conoscano le note, l’armonia, che si
sappia utilizzare il flauto permette di definire una persona musicista.
Lo stesso può dirsi per l’uguaglianza nella società democratica: il fatto che ogni
cittadino possa svolgere funzioni utili alla città (ad esempio, potremmo aggiungere
noi, combattere in difesa della città, diritto–dovere di ogni cittadino) sta a significare
che è simile, non identico, agli altri cittadini.
Questa teoria politica è capace di salvaguardare uguaglianza e differenza, cioè tutela
del merito, come specifica capacità riconosciuta ai singoli. In altri termini, il sistema
dell’attribuzione degli incarichi in democrazia, tanto per sorteggio che per elezione.

58
TESTI

59
L’isonomia democratica

Erodoto, per bocca di un fittizio personaggio persiano di nome Otane, ci offre una delle prime
definizioni conosciute dell’isonomia (uguaglianza di fronte alla legge) tipica della visione
democratica.

“Come dunque potrebbe essere una cosa perfetta la monarchia, cui è lecito far ciò che
vuole senza doverne render conto? Perché anche il migliore degli uomini, una volta
salito a tale autorità, il potere monarchico lo allontanerebbe dal suo solito modo di
pensare. Dai beni presenti gli viene infatti l’arroganza, mentre sin dalle origini è
innata in lui l’invidia. E quando ha questi due vizi ha ogni malvagità, perché molte
scelleratezze le compie perché pieno di arroganza, altre per invidia. Eppure un
sovrano dovrebbe essere privo di invidia, dal momento che possiede tutti i beni.
Invece egli si comporta verso i cittadini in modo ben differente, è invidioso che i
migliori siano in vita, e si compiace dei cittadini peggiori ed è prontissimo ad
accogliere le calunnie. Ma la cosa più sconveniente di tutte è questa: se qualcuno lo
onora moderatamente, si sdegna di non esser onorato abbastanza; se invece uno lo
onora molto si sdegna ritenendolo un adulatore. E la cosa più grave vengo ora a dirla:
egli sovverte le patrie usanze e violenta donne e manda a morte senza giudizio. Il
governo popolare invece anzi tutto ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi
alla legge, in secondo luogo niente fa di quanto fa il monarca, perché a sorte esercita
le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo e presenta tutti i decreti
dell’assemblea generale. Io dunque propongo di abbandonare la monarchia e di
elevare il popolo al potere, perché nella massa sta ogni potenza”.
Erodoto, Storie

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La scuola della Grecia

In alcuni celebri capitoli de La guerra del Peloponneso, Tucidide riporta il discorso in cui Pericle,
nell’encomio ai caduti nel primo anno della guerra, definisce un vero manifesto della democrazia
ateniese e dello stile di vita dell’uomo democratico. Un testo che ancora oggi appare come un
documento in cui si fissano, al di là del contesto storico, alcuni aspetti fondamentali della teoria e
della prassi democratiche

“Ma per prima cosa comincerò dagli antenati; è giusto, infatti, e conveniente insieme
che in simile occasione sia dato loro questo onore della prima menzione. Restando
sempre i medesimi abitatori di questa terra, in un seguito ininterrotto di generazioni,
grazie al loro valore, la tramandarono libera fino ai nostri giorni. E se i nostri antenati
sono degni di lode, ancor di più lo sono i nostri padri: non senza fatica aggiunsero
quell’impero che ora è nostro a quello che era stato lasciato loro, e così grande lo
lasciarono a noi ma l’ampliamento dell’impero stesso è opera nostra, di tutti quanti
noi che ci troviamo nell’età matura e che abbiamo ingrandito la nostra città, si da
renderla preparata da ogni punto di vista e autosufficiente per la pace e per la guerra
[…] Ma in virtù di quali principi siamo giunti a questo impero, e con quale
costituzione e con quale modo di vivere tale impero si è ingrandito, questo mi
accingo a mostrare per primo, e quindi a lodare costoro, poiché penso che in questa
situazione non è sconveniente che se ne parli, ed è utile che tutta la folla dei cittadini
e degli stranieri lo ascolti.
Abbiamo una costituzioni che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più
d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili
spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di
fronte alle leggi per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di
parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione
dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo,
non per la provenienza da una classe sociale più che per quello che vale. E per quanto
riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito
dall’oscurità del suo rango sociale. Liberamente noi viviamo nei rapporti con la
comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle
abitudini giornaliere, senza adirarci col vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e
senza infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono
piacevoli ai nostri occhi. Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti
privati e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in
obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni poste a tutela di
chi subisce ingiustizia, e in particolare a quelle che, pur essendo non scritte, portano a
chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta.
E abbiamo dato al nostro spirito moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo
abitualmente giochi e feste per tutto l’anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre
case private, dalle quali giornalmente deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E
per la sua grandezza, alla città giunge ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene
che noi godiamo dei beni degli altri uomini con non minor piacere che dei beni di qui.

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Ma anche nelle esercitazioni della guerra noi differiamo dai nemici per i seguenti
motivi. Offriamo la nostra città in comune a tutti, né avviene che qualche volta con la
cacciata degli stranieri noi impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa
(mentre un nemico che potesse vedere una certa cosa, quando non fosse nascosta, ne
trarrebbe un vantaggio). Ché la nostra fiducia è posta più nell’audacia che mostriamo
verso l’azione (audacia che deriva da noi stessi), che nei preparativi di difesa e negli
inganni. E nell’educazione, gli altri subito fin da fanciulli cercano con fatiche ed
esercizi di raggiungere un carattere virile, mentre noi, pur vivendo con larghezza, non
per questo ci rifiutiamo di affrontare quei pericoli in cui i nostri nemici sono alla
nostra altezza. Eccone una prova: neppure i Lacedemoni invadono la nostra terra da
soli, ma insieme a tutti gli alleati, e quando noi assaliamo da soli i nostri vicini, di
solito non duriamo fatica a vincere in una terra straniera, combattendo con delle gente
che difende i propri beni. Le nostre forze unite per ora nessun nemico le ha
incontrate, perché noi siamo occupati con la flotta, e contemporaneamente per terra
facciamo numerosi invii di truppe nostre, in molte imprese. Se si incontrano con una
piccola parte di noi e la vincono, si gloriano di averci respinti tutti, mentre se sono
vinti si vantano di esserlo stati da tutti noi. Eppure, se siamo disposti ad affrontare
pericoli più col prendere le cose facilmente che con esercizio fondato sulla fatica, e
con un coraggio generato in noi non più dalle leggi che dal nostro modo di agire, da
questo fatto ci deriva il vantaggio di non affaticarci anticipando i dolori che ci
attendono, e di non apparire, quando li affrontiamo, più simili di coloro che sempre si
mettono a dura prova, e per la nostra città il vantaggio di essere degna di
ammirazione per questa e per altre cose.
Amiamo il bello, ma con compostezza, e ci dedichiamo al sapere ma senza
debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire, che essa offre, che
per sciocco vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per
nessuno, mentre lo è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la
cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci
dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi
pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne
interessa, e noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le
varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia
piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione. E di
certo noi possediamo anche questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi
siamo i medesimi e nell’osare e nel ponderare al massimo grado quello che ci
accingiamo a fare, mentre negli altri l’ignoranza produce audacia e il calcolo
incertezza.
[…] Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che
ciascuno uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente
personalità a ogni genere di occupazioni, e con la più grande versatilità accompagnata
al decoro. E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto lo
indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a questo
modo di vivere.”
Tucidide, La Guerra del Peloponneso.
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Il disordine nella città democratica

In un noto passo de La Repubblica, Platone descrive, con tratti ironici, fino ad essere caustici, il
capovolgimento di tutti i “normali” parametri di vita, con interessanti risvolti psicologici, che
avvengono nell’Atene democratica, tracciando un quadro divertente e paradossale dell’Atene del
suo tempo.

“Ora, non nascono in maniera pressappoco identica la democrazia dall’oligarchia e la


tirannide dalla democrazia? – Come? – Quel bene, dissi, che i cittadini si erano
proposti come obiettivo e che comportava l’instaurazione dell’oligarchia, era la
ricchezza eccessiva, non è vero? – Sì. – A rovinare l’oligarchia furono dunque
l’insaziabilità di ricchezza e la noncuranza del resto, provocata dall’avarizia. – È
vero, disse. – Ora, a distruggere anche la democrazia non è pure l’insaziabilità di ciò
che essa definisce un bene? – Secondo te, che cosa definisce così? – La libertà,
risposi. In uno stato democratico sentirai dire che la libertà è il bene migliore e che
soltanto colà dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente libero. – Sì, ammise, è
una frase molto comune. – Ebbene, feci, come or ora stavo per dire, l’insaziabilità di
libertà e la noncuranza del resto non mutano anche questa costituzione e non la
preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide? – Come?, chiese. – Quando, credo,
uno stato democratico, assetato di libertà, è alla mercé di cattivi coppieri e troppo
s’inebria di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai miti e
non concedano grande libertà, li pone in stato d’accusa e li castiga come scellerati e
oligarchici. – Sì, si comporta così, disse. – E coloro, continuai, che obbediscono ai
governanti, li copre d’improperi trattandoli da gente contenta di essere schiava e
buona a nulla, mentre loda e onora privatamente e pubblicamente i governanti che
sono simili ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile
che in uno stato siffatto il principio di libertà si allarghi a tutto? – Come no? – E così,
mio caro, dissi, vi nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore private e si estende fino
alle bestie. – Come possiamo dire una cosa simile?, chiese. – Per esempio, risposi, nel
senso che il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figlioli, e il figlio
simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter essere
libero; e che il meteco si parifica al cittadino e il cittadino al meteco, e così dicasi per
lo straniero. – Sì, avviene così, rispose. – A questo si aggiungono, ripresi, altre
bagattelle, come queste: in un simile ambiente il maestro teme e adula gli scolari, e
gli scolari s’infischiano dei maestri e così pure dei pedagoghi. In genere i giovani si
pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre i
vecchi accondiscendono ai giovani e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non
passare da spiacevoli e dispotici. – Senza dubbio, disse. – Però, mio caro, feci io,
l’estremo della libertà cui la massa può giungere in un simile stato si ha quando
uomini e donne comperati sono liberi tanto quanto gli acquirenti. E quasi ci siamo
scordati di dire quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti
reciproci tra uomini e donne. – Ebbene, fece, con Eschilo non “diremo quel che ora è
venuto alle labbra”? – Senza dubbio, risposi, così dico anch’io. Consideriamo le
bestie soggette agli uomini: nessuno potrà persuadersi, senza farne esperienza, di
quanto siano più libere qui che in un altro stato. Le cagne, per stare al proverbio, sono
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esattamente come le loro padrone; e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare
in piena libertà e solennità, cozzano per le strade contro i passanti, se non si scansano.
E dappertutto c’è questa libertà”.

Platone, La Repubblica

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I deboli e la forza del numero

In un’opera di Platone, che ha per titolo il nome di uno dei maggiori sofisti del suo tempo, Gorgia,
troviamo, per bocca di un personaggio di nome Callicle (di cui è difficile dire se sia veramente
esistito o serva solo ad indicare un certo tipo di sofista antidemocratico), la critica all’uguaglianza
democratica, intesa come l’unico modo possibile ai più deboli di imporsi, appunto attraverso
l’unione su basi egualitarie. In tal modo, moltiplicando le loro forze, creano un nuovo soggetto
politico capace di imporsi anche ai migliori cittadini.

“Per natura è più vergognoso ciò ch’è anche peggiore, il subire torto: per legge invece
il fare torto. Non e degno di un uomo il subire torto, ma di uno schiavo, cui sarebbe
preferibile morire piuttosto che vivere; in questa condizione si trova chi, offeso e
oltraggiato, non è capace di venire in aiuto a se stesso, né ad altri che gli premano.
Ma, io credo, quelli che hanno stabilito le leggi sono gli uomini deboli, i più. Essi
stabiliscono le leggi a loro vantaggio e per il proprio utile, e di conseguenza foggiano
la lode e il biasimo: temendo quelli fra gli uomini che sono i più forti, e capaci di
acquistarsi superiorità, perché non riescano ad acquistarsela, essi sanciscono che
l’aspirare alla superiorità è cosa turpe, e ingiusta, e che in questo consiste ingiustizia,
nel cercare di essere da più degli altri; essi, credo, si contentano dell’uguaglianza,
proprio perché sono da poco. Per questa ragione, secondo la legge, si definisce turpe
e ingiusto l’aspirare alla superiorità sugli altri e si ritiene che questo sia il commettere
ingiustizia.
Ma, credo, se sopravvenga un uomo di natura idonea, che sia capace di scuotere via
da sé tutto questo e di prorompere liberandosi dai lacci, calpestate tutte le nostre leggi
scritte e tutti i nostri sortilegi e incanti, e tutte le leggi contro natura, apparirà,
ergendosi, da servo che era, come nostro padrone, e allora risplenderà il giusto
secondo natura.”
Platone, Gorgia

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CAPITOLO TERZO
3 L’Islam tra religione e politica

3.1 Allah, il Corano, l’Inviato, la Umma


La data esatta della nascita di Muhammad non è conosciuta, si sa, però, che essa
coincise con la spedizione militare che vide un esercito, guidato dal viceré abissino
dello Yemen, marciare contro Mecca. Nella grande armata c’era pure un elefante ed
in quell’anno (“l’anno dell’elefante”) nacque quello che sarebbe diventato il Profeta
dell’Islam. Gli studiosi ritengono che coincidesse col 570 o 571 d.C.
Mecca è una città situata a sud – ovest della penisola arabica, penisola che confinava
a nord – est con l’impero Sasanide, che si estendeva fino all’Indo. Era governato da
un sovrano Cosrore (“Re dei re”) che si riteneva rappresentante in terra di Ahura
Mazda, Dio posto alla base di una religione gnostica ed universalistica, riformata dal
profeta Zarathustra che già la Persia dei Re achemenidi aveva adottato come religione
di un impero che andava dai Balcani all’Indo e che fu poi disintegrato da Alessandro
Magno.
A Nord – ovest della penisola arabica si trovava l’impero bizantino con la sua
capitale, Costantinopoli, che era per gli arabi sinonimo di Cristianità. I cristiani
infatti, venivano chiamati “Rumi”, cioè Romani.
Nel corso di più di mille anni di storia, nel mondo islamico i due termini più diffusi
usati per definire i cristiani sono stati, appunto, Rumi e – a partire dalle Crociate –
Franchi. Da qualche anno a Bisanzio era morto un grande imperatore, Giustiniano,
che aveva governato per 38 anni, dal 527 al 565. Ad occidente della penisola arabica
si trovava un altro regno cristiano governato dal Negus, che diede asilo ad un gruppo
di seguaci di Muhammad quando essi, per sfuggire alle persecuzioni di cui erano
oggetto a Mecca, si rifugiarono nel 615 in Abissinia, in quella che è considerata la
prima emigrazione, la “piccola Egira”, che poi sarà seguita, nel 622, dalla fuga da
Mecca alla città di Yathrib (Medina) nota come Egira (migrazione). Dopo un secolo,
la data dell’Egira (16 luglio 622, iniziò nell’anno lunare) fu adottata come la data di
inizio dell’era islamica.
Le religioni diffuse in Arabia e nel contesto geografico limitrofo sono almeno cinque:
l’ebraismo era presente in tutta la regione, a partire dalla zona meridionale, lo
Yemen; maggioritaria dal punto di vista numerico era la presenza degli ebrei a
Medina, dove accanto a due tribù arabe politeiste dominanti si trovavano tre tribù
ebree. Accanto agli ebrei c’è pure una consistente presenza cristiana, non solo ai
confini bizantini ed abissini ma pure nella penisola araba. La religione più diffusa era
il politeismo il cui centro religioso più importante era Mecca, città sede di un famoso
santuario costituto dalla Kaaba, un cubo con una stanza all’interno che conteneva un
meteorite, una pietra nera. Nelle vicinanze c’era pure una lunga teoria di 360 idoli.

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L’idolo più famoso e venerato era Hubal, idolo siriano chiesto ai Moabiti e portato
all’interno della stessa Kaaba. Si venerano anche e soprattutto tre grandi divinità, “ le
tre dee”: al-Lat, al-Uzza, al-Manat, alle quali si fa riferimento in quei versetti, poi
chiamati diabolici, perché dichiarati ispirati dal diavolo e non da Dio, ed espunti dal
Corano. In quei versetti si riconosceva la natura divina di questi idoli, cosa
assolutamente inammissibile per il rigido monoteismo islamico. Dopo aver, in un
primo momento, dichiarato di aver ricevuto tali versetti come rivelazione, subito
dopo Muhammad ritrattò rendendosi probabilmente conto che il riconoscimento della
natura divina delle “tre dee” avrebbe compromesso tutta la rivelazione poi riposta nel
Corano.
La città di Mecca era anche un luogo di pellegrinaggio dove ogni anno si recavano
migliaia di persone provenienti da tutta l’Arabia per venerare gli idoli lì esposti. Il
politeismo per i Meccani era solo la religione tradizionale dei padri ma pure uno
strumento di guadagno che i pellegrini assicuravano. Con l’idolatria, l’Ebraismo e il
Cristianesimo, esisteva un quarto culto, il sabeismo o culto degli astri, proveniente
dalla Persia e diffuso soprattutto nella parte meridionale della penisola, nello Yemen.
Anche se poco presente in Arabia era culturalmente influente anche la religione
mazdea, che da più di mille anni era la religione ufficiale dell’impero persiano, prima
achemenide e poi, dopo la “parentesi” ellenistica, sasanide.
Nel Corano, infatti, si fa riferimento a queste quattro religioni pre – islamiche:
ebraismo, cristianesimo, sabeismo ed, ovviamente, politeismo. Nel Corano si fa pur
riferimento ad una quarta corrente religiosa, quella degli Hanif. Con questo termine si
intende un credente “ortodosso”, cioè monoteista, anche se non si tratta di un
monoteismo codificato in modo compiuto. Questo monoteismo elementare era
praticato in Arabia da centinaia di anacoreti che spesso si ritiravano a vivere in vita
contemplativa.
Quando Muhammad nasce è già orfano del padre, morto qualche settimana prima,
lasciando alla vedova una magra eredità: una schiava, cinque cammelli ed alcune
pecore. Il neonato fu affidato al nonno che lo manda presso una balia nel deserto, di
nome Halina. A sei anni perde la madre, due anni dopo muore anche il vecchio
nonno. Lo accoglie uno zio materno, un abile commerciante con una discreta
condizione economica. Uno dei figli di Abu Talib è Ali, cugino del futuro profeta di
cui sposerà la figlia prediletta, Fathima. Ali sarà uno dei primi califfi dell’Islam e
principale ispiratore di quella corrente minoritaria dell’Islam nota come sciismo.
La condizione se non di povertà, certo di non agiatezza in cui visse Muhammad
infanzia e gioventù, forse fu all’origine del fatto che rimase celibe fino 25 anni, cioè
più a lungo di quanto era abituale nel suo contesto sociale e culturale. Muhammad
visse fino ad allora nel commercio, guidando le carovane che da Mecca partivano
fino ai confini estremi Arabia. La svolta della sua vita fu rappresentata dall’incontro
con Khadigia, una ricca vedova di quarant’anni che prima lo assunse come una sorta
di sovrintendente e di guida delle sue attività e poi, attraverso una intermediaria, lo
chiese come sposo. Muhammad accettò questa proposta e prese in moglie questa
donna ricca e piacente, più anziana di lui di 15 anni, che gli diede amore e sicurezza
economica, che fu la prima a convertirsi all’Islam e gli diede diverse figlie. Khadigia
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fu, finché rimase in vita, l’unica sposa del Profeta, che poi la ricordò sempre con
affetto, fino a suscitare la gelosia dell’ ”amata dell’amato di Allah”, di Aysha la più
giovane ed amata tra le spose del Profeta. Fino a quarant’anni Muhammad vive nelle
dimensione privata del lavoro e della famiglia, poi prende l’abitudine di ritirarsi per
delle notti intere in una caverna del monte Hira, a pochi chilometri da Mecca, per
meditare, Finché una notte dell’anno 611, mentre Muhammad è sdraiato in una
grotta, avvolto nel suo mantello, gli appare una figura splendente che gli si rivolge
definendolo “rasul Allah”. Gli dice infatti : “Tu sei l’inviato di Dio, il Profeta di
Allah”. Muhammad è sconvolto nel sentire queste parole. Torna a Mecca tremante e
febbricitante ed ha il coraggio di parlare di questa visione solo con la moglie
Khadigia. Le rivelazioni di ripetono ed ogni volta gli procurano uno stato di tensione
e sconvolgimento. Muhammad si convince di essere stato scelto da Dio come suo
profeta, cioè come intermediario fra Dio e gli uomini. Muhammad deve “recitare”
agli uomini ciò che Dio, Allah, attraverso l’angelo Gabriele gli comunica. La
recitazione verbale, solenne, davanti un auditorio, si esprime in arabo con la parola
quran, da cui deriva Corano, il libro sacro che racchiude la rivelazione affidata a
Muhammad e che deve essere recitata. La recitazione implica l’apprendimento,
quindi la conoscenza che se approfondita, implica la completa memorizzazione del
Corano. La recitazione è pure una forma di predicazione, di diffusione della “parola
di Dio”. La rivelazione è in “arabo chiaro”, come è detto nel Corano; pertanto l’arabo
è elevato al rango di lingua sacra. Le preghiere avvengono in arabo e
l’apprendimento dell’arabo da parte di musulmani non arabi è considerato come un
atto devozionale, particolarmente meritorio.
La parola Islam significa “sottomissione alla volontà di Dio”; deriva dal verbo
aslama, “sottomettersi”. Musulmano deriva dal participio di questo verbo e in tal
modo designa il “sottomesso”, colui che si affida a Dio, che si sottomette, obbedisce.
L’Islam, quindi, consiste nel riconoscere che Dio è unico ed assoluto e rappresenta
l’atto di sottomissione q questo Dio unico. La conoscenza della realtà divina è
possibile grazie alla rivelazione, al fatto che Allah, a partire da Adamo, comunica agli
uomini la sua volontà, attraverso una serie di profeti presenti in tutta la storia, fino a
Muhammad che riprende, conferma e conclude tutte le rivelazioni precedenti. La
formula con cui si racchiude l’essenza dell’Islam, la formula della Shahada, la
professione di fede, riprende questi 3 momenti: “Non c’è Dio al di fuori di Dio e
Muhammad è il suo inviato”. Occorre, pertanto, accettare questa realtà e sottomettersi
a Dio (Islam).
Dio è unico, lui stesso ci trasmette la sua realtà e la sua volontà attraverso suoi
inviati; Muhammad rappresenta il compimento di questa rivelazione; una volta che si
è presa coscienza di tale realtà occorre “sottomettersi”, diventare “sottomessi”, cioè
“musulmani”, che è la stessa cosa.
All’inizio la predicazione di Muhammad si rivolge soprattutto ai familiari e agli
amici, a quanti gli sono più vicini. Ma quando comincia ad estendersi al di fuori della
ristretta cerchia privata cominciano anche i dissidi con i suoi concittadini. Gli viene
rimproverata soprattutto la sua ostinazione a rendere il suo Dio, Allah, incompatibile
con le altre divinità adorate a Mecca; gli chiedono inutilmente di “aggiungerlo”, di
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inserirlo nel pantheon degli altri dei. Dottrine come la Resurrezione dei corpi
appaiono assurde ai politeisti meccani, così come quello del Giorno del Giudizio. I
politeisti meccani si ribellano pure a quanto sostiene Muhammad a proposito dei loro
antenati, che cioè sono condannati al fuoco eterno per aver adorato idoli.
Poiché l’avversione nei confronti di Muhammad si traduce presto in persecuzione, i
suoi discepoli nel 615 sono costretti ad abbandonare Mecca e ad andare in esilio in
Abissinia, dove vengono accolti dal Negus cristiano.
La situazione per quanti restano a Mecca si fa, però sempre più difficile segnata
soprattutto da due eventi di segno poopsto che caratterizzeranno la successiva storia
della nuova religione predicata da Muhammad.
Uno dei più fieri Qurayshiti, (tribù da cui discende Muhammad, che nel V secolo
aveva conquistato Mecca) Omar Ibn al-Khattab, che in un primo tempo matura il
progetto di uccidere Muhammad, ma poi, quasi miracolosamente, si converte
all’Islam, dopo aver sentito la sorella leggere alcuni passi del Corano da cui resta
affascinato. L’altro evento che segnerà la nascente comunità è la morte della sposa di
Muhammad, Khadigia, nel 619, all’età di sessantacinque anni. La prima donna che lo
aveva accolto, protetto, nonché incoraggiato nel compiere la sua missione, la prima
persona a convertisti all’Islam.
Due giorni dopo, a quasi novanta anni, muore lo zio Abu Talib che era stato il suo
padre putativo, ma, soprattutto, il suo protettore per il ruolo di capo clan che ricoprì
fino alla morte. Queste due morti segnarono una svolta: con il venir meno di Kadigia,
Muhammad fu privato di un fondamentale appoggio psicologico e morale; con la
morte dello zio e con il passaggio della carica di capoclan al fratello del defunto, Abu
Lahab, Muhammad non perde solo un protettore che fino ad allora sulla base di una
legame di stirpe, lo aveva protetto, ma acquista un nuovo potente nemico, Abu
Lahab, che odiava Muhammad e la sua nuova religione che predicava.
Nell’estate del 620 a Mecca Muhammad incontra sei abitanti di Yathrib, una città
oasi a qualche centinaio di chilometri a nord di Mecca.
Colpiti dalla sua personalità, essi pensano che Muhammad potrebbe risolvere i
numerosi conflitti che sconvolgono le cinque tribù che abitano la loro città. Tornano
in dodici l’anno successivo, si riuniscono presso le montagne di Aqaba e prestano il
cosiddetto “Primo Giuramento di Aqaba”, che si chiama pure “giuramento delle
donne” perché Muhammad chiede di proteggerlo come farebbero con le loro figlie e
le loro donne. E’ la formula tipica per coloro che vogliono far parte di un clan.
In cambio Muhammad si impegna a svolgere la funzione di arbitro, di conciliatore, in
questa antica città di cui si parla già in un testo babilonese del VI secolo a. C. e dove
vivono circa tremila abitanti divisi in cinque tribù, tre ebraiche – i Qorayza, i Nadhir
e i Qaynoqua – che hanno adottato costumi e un dialetto arabo, e due tribù arabe
dominanti, Aws e Khazzag.
Nell’estate del 622 settantacinque pellegrini da Mecca raggiungono Yathrib. Sono i
seguaci di Muhammad che giurano di essere pronti a combattere per lui. Un mese
dopo saranno raggiunti da Muhammad e Abu Bakr, uno dei più fedeli seguaci che
sarà, dopo la morte di Muhammad, il primo Califfo dell’Islam.

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Nel 622 si ha, pertanto, la famosa Egira, l’ “emigrazione”, dalla quale verrà fatta
risalire la data di inizio di una nuova era; l’Islam, appunto. Il 16 luglio 622, data di
inizio dell’anno lunare, segna pure la data di nascita di una nuova era, l’Islam, che
sarà conteggiata secondo il calendario lunare, ed insieme segna la nascita della
Umma, la nuova comunità formata non più sui legami tribali di sangue, ma
sull’appartenenza di tipo spirituale, religioso: una comunità che ha come primo,
essenziale vincolo costitutivo, la fede in un Dio unico (Allah, in arabo) e nel ruolo di
Muhammad, Rasul Allah, Inviato di Dio. In tal modo non solo vengono aboliti i
vincoli tribali e familiari (Corano, IX, 113) ma anche i rapporti privati, matrimoniali,
possono essere fondati solo a partire dalla comunanza di fede. Ad esempio, se un
uomo o una donna si convertono all’Islam devono abbandonare il coniuge se
quest’ultimo resta politeista. In fatto di matrimonio la regola, stabilita dal Corano e
tutt’ora valida, è che un musulmano può sposare solo una musulmana, una ebrea, una
cristiana. Può avere fino a quattro mogli legittime. Una donna musulmana può
sposare solo un uomo musulmano.
La nuova comunità, la Umma, si costituisce, pertanto, su basi religiose, è una
comunità di credenti, non politica, alla quale appartengono tutti quanti abbracciano la
nuova fede, a prescindere dalla comunità tribale di appartenenza, dal sesso e dalla
condizione sociale. Tra i primi convertiti ci furono anche persone di condizione
servile; il più noto è lo schiavo Bilal che poi per la sua voce stentorea fu incaricato di
fare l’appello alla preghiera e divenne il primo muezzin dell’Islam.
La costituzione della comunità islamica avviene pertanto non su basi politiche, non
con un programma politico, ma su basi religiose. Il momento iniziale è dato dalla
rivelazione che comincia, come ricordato, con l’attribuzione a Muhammad del titolo
di “Inviato di Dio”. La rivelazione trasmessa attraverso Muhammad è l’atto fondante
la nuova religione, che in realtà non è una “nuova” religione, ma è l’ultimo atto di
trasmissione del monoteismo, rivelazione / trasmissione iniziata con Abramo e poi
continuata con altri inviati, tra i quali Mosè e Gesù rappresentano i più significativi
prima di Muhammad.
Se l’atto di nascita dell’Islam, in quanto religione, è dato da quel primo incontro sul
monte Hira tra l’angelo Gabriele e Muhammad, evento ricordato nel mese del digiuno
di Ramadan, il momento in cui nasce l’Islam come comunità umana di credenti è data
dall’ “Emigrazione” (Egira) che per un verso segna la rottura di una precedente
realtà, la fine di un mondo e la nascita di una nuova era che si costruisce sulla parola
di Dio trasmessa dall’ultimo dei suoi Inviati, Muhammad, “sigillo della progezia”.
Nella quarta Sura, sura medinese (cioè rivelata quando Muhammad si era trasferito a
Medina) nota come “Sura delle Donne”, si legge: “Chiunque s’allontani dai suoi sulla
via di Dio troverà sulla terra numerosi luoghi di asilo e spazio ampio, e chi esce dalla
sua casa andando verso Dio e il suo Messaggero e lo coglie la morte, Dio s’impegna a
ricompensarlo, che Dio è pietoso, clemente”.
La Umma si costituisce attorno ad un inviato, sulla base di una rivelazione;
Muhammad non ha, all’inizio, né a Mecca né a Yathrib (che poi sarà chiamata
Medina, “la città”) il carattere di un leader politico, ma solo di una guida religiosa,
che si rivolge ad una comunità costituita dagli “emigrati”, i discepoli che hanno
70
seguito il Profeta da Mecca, e agli “ansar”, gli “ausiliari”, quanti a Medina
cominciano a convertirsi all’Islam. A Medina ci sono anche altri due gruppi religiosi,
numericamente maggioritari: i politeisti delle due tribù arabe e gli ebrei delle tre tribù
che vivono con gli arabi. C’è un’altra categoria di “credenti”, per così dire, spesso
evocata nel Corano, sempre in modo critico e con giudizi severi. Si tratta dei munafiq,
gli ipocriti, medinesi che formalmente hanno abbracciato l’Islam per calcolo politico,
ma che si mostrano spesso inaffidabili e pronti a voltare le spalle al Profeta,
soprattutto in occasione dei contrasti e della guerra che oppose la nuova comunità ai
politeisti di Mecca.
Tra la Umma guidata da Muhammad e le altre due comunità (politeista ed ebraica) fu
raggiunto un accordo di carattere strettamente politico, un vero e proprio Rescritto,
noto come “La Costituzione di Medina”. Scrive Claudio Lo Jacono su
quest’iniziativa: “La valenza politica del documento è comunque evidentissima e,
prefigurando una politica assai stretta di alleanze interetniche e interreligiose, si
proponevano con insistenza scenari di guerra imminenti, e inevitabili. Alla fine di
creare quella compattezza necessaria per chi si accinge a tali imprese, si evitava
qualsiasi possibile fonte di polemica e si assicurava perciò la libertà di fede a
chiunque, non soltanto agli ebrei, ma che – fatto assolutamente straordinario che non
verrà mai più reiterato – ai numerosi pagani di Yathrib131”. L’evento che scatenerà il
conflitto tra medinesi e meccani accade nel 624, anno secondo dell’Egira, noto come
la battaglia di Badr. Con trecento uomini Muhammad, per procacciarsi risorse
necessarie alla vita dei suoi seguaci, assale nelle vicinanze del pozzo di Badr una
carovana di mercanti di Mecca, che trasporta più di 50.000 dinari di mercanzia.
Questa battaglia è considerata la prima grande vittoria di Muhammad. Per la prima
volta non si parla più di razzia, ma di Jihad (“sforzo teso ad un determinato scopo”),
impropriamente tradotto come “guerra santa”. I quattordici caduti nelle file
dell’esercito di Muhammad vengono chiamati con il titolo di shahid, martire.
Questo scontro da inizio alle ostilità, alla guerra, che con fasi assai critiche per
Muhammad ed i suoi seguaci, sconfitti nel 625 nella battaglia del monte Uhud e, due
anni dopi, nel 627, vengono assediati da un grande esercito composto da politeisti di
Mecca, che dopo alcune settimane tolgono l’assedio. L’episodio è noto come “la
battaglia del fossato” ed avviene nel 627.
Nell’arco di meno di tre anni Muhammad riesce, pacificamente, prima a tornare a
Mecca in pellegrinaggio con molti suoi seguaci, poi, nel gennaio 630, marcia sulla
città natale con un esercito di diecimila uomini e la conquista quasi senza
spargimento di sangue.
Inizia una nuova fase nella storia dell’Islam: Muhammad ha eliminato o convertito i
suoi nemici interni ed esterni. Nell’arco di otto anni è diventato oltre che guida
religiosa, anche “comandante dei credenti”, cioè condottiero e guida militare ed allo
stesso tempo capo politico di una comunità che, col tempo, si è estesa
ricomprendendo tutti gli abitanti di Medina e di Mecca. Nell’arco di pochi mesi il
Profeta dell’Islam diviene la guida suprema di tutta l’Arabia e nel marzo del 632

131
C. LO JACONO, Maometto. L’inviato di Dio, Roma, 1995, p. 63

71
torna l’ultima volta in pellegrinaggio a Mecca in quello che sarà ricordato come “il
pellegrinaggio dell’addio”, perché di li a qualche settimana, l’8 giugno del 632,
Muhammad morirà.

3.2 L’islam: origini e principi


Fin dall’inizio della sua predicazione, Muhammad non si presenta come un
“innovatore”, ma come uno che viene per confermare le precedenti rivelazioni, quelle
iniziate con Abramo e poi proseguite con una serie di profeti, in gran parte interni alla
tradizione ebraica e cristiana.
Giovanni Battista e Gesù vengono considerati i due più importanti profeti che hanno
preceduto Muhammad il quale è l’ultimo di una catena di inviati che ha avuto inizio
con Abramo e suo figlio Ismaele, considerato dagli arabi come il loro capostipite.
L’Islam, in quanto religione fondata sul monoteismo integrale di cui Abramo, hanif
per eccellenza, è stato il primo rappresentante, non è una religione “nuova”, Lo stesso
ebraismo e il cristianesimo, sono descritti come due espressioni, due momenti storici
della rivelazione monoteistica, cioè islamica. Ebrei e cristiani, infatti, sono
considerati due comunità che hanno ricevuto una rivelazione autentica ed infatti sono
definiti nel Corano “popoli del libro”, in quanto la Torah ed il Vangelo sono
considerati due libri che contengono la rivelazione trasmessa prima attraverso Mosè e
poi grazie a Gesù.
Accanto al riconoscimento del carattere di precursori dell’Islam attribuito agli ebrei
ed ai cristiani ed al valore religioso riconosciuto ai libri sacri di queste due religioni,
nel Corano ci sono una serie di critiche di carattere religioso rivolte tanto agli ebrei
che ai cristiani. Un’accusa rivolta tanto ai primi che ai secondi è quella di aver
alterato i rispettivi libri sacri in quelle parti, in quei passaggi in cui si annunciava la
venuta di Muhammad.
Sostanzialmente diverso, però, l’atteggiamento che troviamo nel Corano nei confronti
degli ebrei e dei cristiani. Dal punto di vista dottrinario non esiste una vera e propria
critica all’ebraismo che è considerata la religione più prossima all’Islam. Infatti, nei
primi anni della predicazione di Muhammad, negli anni che precedono l’emigrazione
a Medina, troviamo un atteggiamento assai conciliante nei confronti degli ebrei.
Vengono adottate alcune usanze dell’ebraismo come la circoncisione e certi divieti
alimentari, ad esempio il consumo di carne di maiale. Allo stesso tempo la preghiera
viene svolta adottando come punto di riferimento la città santa dell’ebraismo,
Gerusalemme.
La qibla, la direzione della preghiera verrà poi cambiata, a Medina, e verrà orientata
verso Mecca. I problemi con gli ebrei iniziano presto: a Medina sono invitati a
convertirsi; non solo non aderiscono alla richiesta, ma ironizzano pure sulle
conoscenze bibliche di Muhammad. Inoltre, gli ebrei sono accusati di infedeltà nei
confronti di Muhammad e di attività a favore dei meccani nemici del Profeta. Dopo la

72
“battaglia del fossato” a Medina non ci saranno più ebrei: o costretti all’esilio o
sterminati.
Diverso l’atteggiamento nei confronti dei cristiani. Nel Corano è presente una serrata
critica dottrinale e teologica al cristianesimo, a partire dalla natura di Gesù.
Quest’ultimo è considerato un profeta; come tutti i profeti ha una natura
esclusivamente umana. Si contesta in modo veemente e ripetuto, nel Corano, che
Gesù possa avere una natura divina, si nega che sia “figlio di Dio”, come pure la
morte per crocifissione, perché considerata una fine ignobile, indegna di un profeta. Il
dogma cristiano della trinità è considerato un’eresia, la negazione stessa del
monoteismo, perché si associano a Dio altri esseri. Secondo i musulmani,tutti questi
elementi non possono far parte dell’originale dottrina trasmessa dal profeta Isa
(Gesù), che è un monoteismo integrale, mentre il cristianesimo ha assunto i caratteri
di una religione politeistica.
I principi della fede islamica sono cinque, i cosi detti arkan, cioè il “pilastri” della
fede.
Il primo è la testimonianza di fede, che è l’attestazione che “non c’è altro Dio che
Allah e che Muhammad è il suo Messaggero di Dio”. Il secondo pilastro è la
preghiera rituale che va fatta cinque volte al giorno, rivolti verso Mecca. Il terzo
consiste nel versare la zakat, una tassa legale versata dai benestanti e distribuita ai
poveri. Il quarto è il digiuno nel mese di Ramadan che ricorda la discesa dalla
rivelazione su Muhammad nel nono mese del calendario lunare. Durante questo
periodo, dall’alba al tramonto, è proibito bere, mangiare, avere rapporti sessuali,
fumare. Il quinto pilastro è il pellegrinaggio alla Casa, per chi ne ha la possibilità,
cioè alla sacra Casa di Dio, la Kaaba che si trova a Mecca. Secondo la tradizione è
stata edificata da Abramo e suo figlio Ismaele. E’ un cubo che contiene all’interno
una stanza con una pietra nera, un meteorite, e rappresenta il simbolo del patto tra
l’uomo e Dio.

3.3 Sharia e fonti del diritto


Scrive Alessandro Busani a proposito della differenza tra la concezione democratica e
quella islamica della legge e del potere: “A diversità di quanto pensavano gli antichi e
noi stessi, che cioè la legge è la norma di diritto sancita dal popolo direttamente o
mediante gli organi che lo rappresentano, è impostata cioè antropocentricamente,
anche per chi, in mediata istanza, riconosca una fonte suprema e divina della Legge,
per il musulmano invece la legge altro non è se non la diretta e personale volontà di
Dio, espressa in chiare lettere al Profeta. Nel concetto musulmano “Dio” sostituisce il
concetto antico di civitas. Si chiama diritti di Dio tutto quanto trascende il privato
interesse. Le fonti della legge sono praticamente le stesse, quindi, che quelle della
Teologia: il Corano, la Sunna, l’igma (Consensus) e infine il (…) ‘ragionamento
analogico’ (qiyas). Il Corano, infatti, (…) contiene in molta parte precetti legali, su
quali cibi sia lecito o non lecito mangiare, sul matrimonio, sull’eredità, su questioni

73
addirittura di buone maniere e di etichetta, ecc. Quanto ai hadith che formano il gran
mare della Sunna, va precisato che ogni hadith so compone di due parti: il testo
(matu) della tradizione e l’isnad (lett. ‘appoggio’, ‘sostegno’) cioè la serie o catena di
testimoni mediante i quali si è trasmesso il racconto (…) fino al teste che per primo
ha veduto o udito il Profeta (…). Il Concetto di igma, ‘consensus’ è sempre da
intendere non tanto in senso democratico, quanto di consenso dei dotti, dei giusperiti.
Più precisamente ancora, il ‘consensus’ che ha maggior valore come fonte di legge è
quella dei compagni del Profeta che convissero con lui e lo videro (…). Infine l’
‘analogia’ non va scambiata per una indiscriminata applicazione del criterio
personale razionale del giurista (per es. quando venne messa in commercio la Coca
Cola, si concluse che essa era lecita dato che non è bevanda inebriante e non rientra
quindi nelle proibizioni coraniche), ma, appunto è una vera e propria analogia, basata
sui casi, del resto numerosissimo, risolvibili con l’aiuto delle tre fonti precedenti.”132
La parola Sharia sta ad indicare il “sentiero o strada che porta all’acqua”, che
conduce quindi alla fonte della vita; nel significato religioso definisce una serie di
indicazioni e precetti che permettono a chi li segue di vivere da buon musulmano ed
ottenere la ricompensa nell’altra vita.: “… fanno parte del concetto di Sharia tanto la
credenza in un Dio unico e l’obbedienza ad esso, quanto i doveri religiosi della
preghiera, del digiuno e via dicendo. Inoltre,tutti gli atti legali e sociali, come pure
tutti gli atti che formano la condotta personale, rientrano nella Sharia in quanto
principio che abbraccia tutta la via della vita”133.
La Sharia, pertanto, sta ad indicare “la via” per ben vivere secondo il disegno divino,
i principi stessi dell’azione a cui occorre riferirsi.
La fonte di questi principi, l’artefice, colui che li detta è Dio (Allah) attraverso la sua
parola trasmessa al suo “inviato” (Rasul) attraverso l’angelo Gabriele (Gibril, in
arabo). La parola di Allah, pronunciata e riportata in “arabo chiaro”, rivelata a
Muhammad ed attraverso di lui all’umanità intera è stata raccolta nel Corano. Il
Corano, pertanto, è la prima e la più importante fonte del diritto e la Sharia sta ad
indicare i principi a cui il musulmano si deve attenere; i precetti che deve rispettare.
Non solo in ambito giuridico, ma in tutte le sfere dell’agire. Non esiste, infatti nella
prospettiva islamica una cesura, una separazione tra religione, morale, diritto, ecc. In
altri termini, i principi religiosi sono anche principi giuridici e, questi ultimi, derivano
dai primi, sono, per così dire, articolazioni della religione nella sfera dell’azione e del
comportamento.
Secondo la tradizione islamica il Corano sarebbe ‘disceso’ sul Profeta, per intero, tra
il 26 e il 27 del nono mese del calendario lunare, cioè nel mese di Ramadan del 610,
in quella che è stata poi chiamata la “notte del destino”.
In altri termini, si sostiene che il Corano sia “disceso”, tutto insieme in una volta sola
sul Profeta nella “notte del destino” e che, inoltre, il Corano quale noi lo conosciamo,
cioè quello rivelato a Mecca e Medina a Muhammad, sia conforme ad un archetipo
celeste esistente dall’eternità e conservato dall’eternità nei cieli. In tal modo si vuol
significare che il Corano non è un prodotto puramente storico, legato ad un preciso
132
A. BAUSANI, L’Islam, Milano, 1999, pp. 37-39.
133
F. RAHMAN, La religione del Corano, Milano, 2003, p. 138

74
contesto temporale, ma esiste ab eterno, come prototipo per eccellenza della parola e
della volontà di Dio. Nello stesso tempo, però, il Corano viene fatto scendere nel
tempo, in un tempo particolare ed in un luogo, su un “prescelto”: tra il 26 e 27 del
mese di Ramadan del 610, in Arabia, su Muhammad. Ciò non toglie che il Corano è
poi rivelato in tutte le sue parti nell’arco di 22 anni, dal 610 al 632, anno della morte
del Profeta.
La raccolta sistematica delle rivelazioni ricevuta da Muhammad cominciò con il
primo califfo Abu Bakr, ma una vera e propria versione ufficiale del Corano avvenne
con Uthman il terzo califfo che, da allora, è l’unica raccolta “ufficiale” e riconosciuta
da tutti i musulmani. Il Corano è diviso in 114 capitoli, detti sure, che sono, a loro
volta, divisi in versetti (in arabo aya, che significa pure “segno”, da cui deriva
ayatollah, guida spirituale nell’Islam sciita). Le sure sono predisposte secondo la loro
lunghezza: dalla più lunga che ha poco meno di trecento versetti (la “Sura della
Vacca”) all’ultima (la “Sura degli Uomini”) di 6 versetti. La “Sura della Vacca” è la
seconda sura, mentre la prima sura è di sette versetti ed è nota come la Sura “aprente”
(Fatiha, in arabo), che così recita: “Nel nome di Dio, clemente, misericordioso! Sia
lode a Dio, il Signore del Creato, il Clemente, il Misericordioso, il Padrone del di del
Giudizio! Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto; guidaci per la retta via, la via
sulla quale hai effuso la tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di
quelli che non vagolano nell’errore!”.
Il primo versetto, “Nel nome di Dio, clemente, misericordioso!”, è una formula
devozionale, nota col nome di Baslama, che si trova come premessa a tutte le sure del
Corano, eccettua la IX. Tutte le sure, oltre ad essere classificate mediante un numero
(la prima, la seconda, ecc.) hanno pure un titolo che, per circa metà delle sure, si
riallaccia ad una delle prime parole del testo134.
Fazhur RAHMAN, nel testo più sopra citato, nota, a proposito della differenza fra
Sharia e Sunna del Profeta: “[la Sharia] nell’uso religioso che ne fu fatto significò,
fin dai primissimi tempi, ‘via maestra della vita buona’, o complesso di valori
religiosi, espressi in termini funzionali e concreti, capaci di guidare la vita dell’uomo.
Differisce dal termine ‘Sunna’ in quanto il soggetto della Sunna ‘apre la strada’ con
l’esempio, e la sua azione è dello stesso genere dell’azione di quanti lo seguono
accettandone l’esempio, mentre il soggetto della Sharia mostra e ordina la via da
prendere e non può essere, quindi, altri che Dio, fonte dei valori religiosi”135.
Dovrebbe essere chiaro, si spera, che la Sharia è “la via” indicata agli uomini da Dio,
mentre la Sunna è l’esempio più significativo di come questa via vada percorsa. La
Sunna del Profeta Muhammad, infatti, altro non è che il migliore esempio di come
vada percorsa “la via” che la Sharia indica, di come vadano seguiti ed applicati i
precetti, gli insegnamenti, che la Sharia indica.
La Sunna del Profeta, infatti, raccoglie (soprattutto attraverso i hadith) la vita di
Muhammad: le sue azioni, le sue parole, il suo insegnamento; in poche parole, il suo
esempio. Esempio che deve essere fonte di ispirazione per ogni credente poiché
134
Su questo aspetto, P. BRANCA, Il Corano, Bologna, 2001, p. 66 e M. COOK, Il Corano, Torino, 2001, per una
sintetica introduzione.
135
F. RAHMAN, La religione del Corano, cit., p. 137

75
Muhammad è “l’inviato di Dio”, “il migliore degli uomini” ispirato direttamente da
Dio. L’esempio del perfetto musulmano, di colui che non solo riporta agli uomini la
parola di Dio, ma meglio di chiunque altro la interpreta.
Ma già al tempo del Profeta dell’Islam, la Sharia derivata dal Corano e l’esempio del
Profeta, per quanto importanti, non sembravano sufficienti, da soli, a regolare la vita
dei credenti, ad offrire materia sufficiente per dirimere i casi, giuridici e non, che si
ponevano all’interno della Umma e nei suoi rapporti pacifici o conflittuali con quanti
vivevano al suo esterno.
In un “hadith sahih”, cioè un hadith “veritiero”, formula con la quale si definiscono i
hadith che sono da tutti riconosciuti come autentici, si dice: “Il Profeta inviò Muhadh
Ibn Jabal nello Yemen a esercitare la funzione di giudice e gli chiese: ‘In base a cosa
giudicherai?’ Rispose: ‘Giudicherò secondo il libro di Dio’. ‘E se non troverai
risposte nel libro di Dio?’. Muhadh rispose: ‘Giudicherò secondo la tua Sunna’. E il
Profeta allora replicò: ‘E se non troverai neanche nella mia Sunna?’ Muhadh rispose:
‘Userò il mio giudizio personale e non risparmierò nessuno sforzo per trovare la
soluzione corretta’. Il Messaggero di Allah ringraziò Dio”.
“Giudizio personale” e “sforzo”, però, non si possono annoverare in senso stretto tra
le fonti del diritto dopo il Corano e la Sunna. Sono piuttosto degli strumenti per
ricavare delle indicazioni, dei precetti. Ma ricavati da dove? .. ed in che modo?
Prima di tentare di rispondere a queste due questioni, torniamo un momento al hadith
appena citato. E’ possibile che né dal Corano, né dalla Sunna, la vita del Profeta,
possano ricavarsi indicazioni capaci di orientare le scelte del credente? E se non si
trovano né nel “libro di Dio” né nella “Sunna del Profeta” dove occorre trovare tali
indicazioni? A partire da quali basi, da quali premesse il credente userà il suo
“giudizio personale” e compirà il suo “sforzo” esegetico?
Nessuno può mettere in dubbio che l’Islam, nella sua interezza e completezza, è una
cosa sola con la Rivelazione e che tale Rivelazione riprende, conferma e completa
tutte le rivelazioni precedenti. Allo stesso tempo l’Islam è tale perché Allah sceglie
come tramite, per inviare la sua Parola, segno della sua misericordia, Muhammad,
che riprende, conferma e completa l’opera di tutti i Profeti che lo hanno preceduto. In
questi due momenti nei quali si condensa tutto l’Islam e che sono rappresentati nella
professione di fede (“Non c’è Dio al di fuori di Dio e Muhammad è il suo Inviato”),
troviamo premesse ed esiti ultimi dell’Islam.
Quando Muhammad chiede a Muhadh Ibn Jabal come si comporterà nella sua attività
di giudice se non troverà risposte né nel libro di Dio, né nella Sunna dello stesso
Muhammad, mi sembra evidente che si riferisca non alla possibile mancanza di
“risposte”, cioè di orientamenti dell’azione nel Corano, che per sua natura non può
essere incompleto, mancante. Né tantomeno, in seconda istanza, Muhammad vuol
dire che l’esempio che deriva dalla sua vita e dalle sue opere, non è sufficiente ad
integrare l’insegnamento del libro di Dio, del Corano, appunto. In realtà non è
corretto parlare di integrazione, piuttosto bisognerebbe dire “chiarificazione”,
“spiegazione” della Parola di Dio. La Sunna di Muhammad non integra la Parola di
Dio, il Corano, quanto, piuttosto, lo spiega, lo rende evidente, ne mette in luce le
applicazioni possibili, quando non appaiono evidenti e scontate.
76
Quindi Muhammad come il suo messo nello Yemen, Muhadh, usa il suo giudizio
personale e si “sforza per trovare la soluzione corretta” ogni volta che questa non
possa ricavarsi in modo semplice ed automatico dalla rivelazione.
In questo “sforzo”, però, Muhammad, a differenza di ogni altro credente, è ispirato
direttamente da Dio e, quindi, la sua esegesi della Parola di Dio, della Rivelazione, è
quella a cui tutti i credenti devono riferirsi.
Dovrebbe comprendersi meglio, almeno lo spero, a partire dalle premesse appena
presentate, perché ed in che senso accanto al Corano ed alla Sunna del Profeta, altre
due radici della legge sono considerate il Consenso (Igma) ed il Ragionamento
analogico. Tanto il primo che il secondo rinviano al giudizio personale ed allo sforzo
interpretativo; entrambi, infatti, intervengono laddove non appare chiara la regola da
rispettare, avendo come unico riferimento il Corano e la Sunna del Profeta.
Ovviamente questo genere di problemi non è esistito, o è esistito solo parzialmente,
finché il Profeta era in vita, poiché lui stesso era un esempio vivente su come agire,
oltre ad essere un tramite tra gli uomini e Dio, tramite che riceveva direttamente da
Dio le indicazione ed i precetti comportamentali.
Per la generazione che seguì quella dei Compagni del Profeta (cioè dei suoi discepoli
più stretti, che vissero con lui e direttamente da lui furono formati), le parole e gli atti
dei Compagni, diventarono, a loro volta, Sunna, in quanto si riteneva che poiché
erano stati più vicini al Profeta ne avevano meglio di tutti compreso il messaggio.
Naturalmente tale vicinanza non è soltanto materiale ma anche spirituale.
Nota Raham: “Le tre categorie di contenuto della Sunna (…) – la Sunna del Profeta,
la tradizione vivente della prima generazione dopo il Profeta e le deduzioni che
furono tratte dalle prime due – formarono tutte insieme, soprattutto grazie
all’interpretazione individuale della legge e del dogma, una massa di dottrina (…)
piena di contrasti interni”136.
In altri termini, la Sunna, cioè la tradizione e con essa l’esempio tratto dalla vita del
Profeta, nelle generazioni successive è associata alla Sunna dei discepoli del Profeta,
nel senso che anche questi diventano, nelle loro opere e nei loro giudizi, un esempio
ed un punto di riferimento.
Queste due sunne e le speculazioni che su di esse furono fatte dalla generazione che
seguì quella dei compagni del Profeta, costituiscono una massa dottrinale abbastanza
composita e contraddittoria, anche perché nell’elaborazione di tale dottrina ha una
funzione importante il ruolo giocato dalle interpretazioni personali. In tale contesto,
soprattutto per contrastare le opinioni e le interpretazioni personali, fu introdotto il
principio del “consenso”,cioè dell’accordo, innanzitutto, dei primi seguaci del Profeta
ed, in seguito, dei sapienti, degli esperti in materia religiosa. Allo stesso tempo, per
gli stessi motivi, come reazione, nel II secolo (VIII) dell’Egira al troppo libero
impiego di una pura opinione personale, si struttura una sistematica dottrina del
“Ragionamento analogico” o analogia (Qiyas). Il fine dell’analogia, del ragionamento
analogico, è quello di operare attraverso la ragione per chiarificare, attraverso il

136
F. RAHMA, La religione del Corano, cit., p. 80, 81

77
riferimento ad un principio comune, un caso ignoto per mezzo di una questione
acclarata in modo evidente.
Scrive Rahaman: “la parola qiyas significa secondo i giuristi musulmani,
ragionamento analogico; esprime cioè quel processo per cui, in forza di un fattore
comune fondamentale che è la “ragione”, si giunge alla conclusione di un
determinato caso concreto che soggiace allo stesso principio contenuto in un caso
precedente o è simile a tale caso precedente”137.
Pertanto, le quattro “radici della legge” sono: il Libro di Dio, cioè il Corano; la Sunna
del Profeta poi estesa alla Sunna dei compagni del Profeta, lo sforzo interpretativo del
singolo credente, sostenuto però dal consenso fondato sulla tradizione e sull’opinione
dei sapienti. Infine, il ricorso all’analogia, il procedimento per cui si riconduce
(risolve) un caso non previsto esplicitamente ad uno noto. Ciò è possibile
individuando un principio comune. Ad esempio, con questo procedimento, si dedusse
che il consumo dell’hashisc era proibito perché era possibile equiparare l’hashisc al
vino, espressamente vietato nel Corano. Il principio comune, al quale era possibile
ricondurre sia il vino che l’hashisc, era il divieto di sostanze che alterano la capacità
di riflessione ed autocontrollo.

137
Ivi, p. 99.

78
TESTI

79
I doveri del sovrano tutore della legge divina

In una pagina di un suo testo sulla civiltà ottomana, Lewis spiega che il sovrano non è l’artefice ma
il custode della legge divina a cui lui, per primo è vincolato. Pertanto disobbedire al sovrano è un
peccato oltre che un crimine.

L’Islam era nato in una piccola città, da una popolazione che era stata nomade fino a
poco prima e che era ancora governata da capi tribali eletti – in realtà un’oligarchia
per prestigio, nascita e ricchezza. Le prime testimonianze politiche parlano di un capo
eletto che governa per consenso secondo il costume tribale. Queste memorie sono
serbate nelle formulazioni classiche dei primi giuristi costituzionali dell’Islam;
tuttavia, ammesso che siamo state messe in pratica, da allora sono rimaste sullo
sfondo delle idee politiche islamiche.
Nella rigorosa teoria dei giuristi musulmani, gli uomini non hanno alcun potere
legislativo. Tutte le leggi promanano da Dio, unica fonte di legislazione e sovranità.
La Legge Santa, promulgata per rivelazione ed elaborata da un’interpretazione
autorizzata, è divina e immutabile. Il sovrano non fa le leggi ma anch’egli è vincolato
alla legge preesistente alla sua carica. Il potere del sovrano è espressione di questa
legge, egli è sostenuto da essa e a sua volta la sostiene, per salvare il mondo dalla
rovina che altrimenti la naturale potenza distruttiva dell’uomo causerebbe. Dal
momento che il sovrano è il tutore della legge divina, obbedirgli è un obbligo
religioso; per cui la disobbedienza è un peccato, oltre che un crimine.
In teoria il sovrano non è veramente assoluto. Egli è obbligato a sostenere la Legge
Santa sotto cui presta servizio e alla quale è soggetto non meno del più umile dei suoi
schiavi. Egli non può abrogare o emendare quella legge, dal momento che solo Dio
può emanare la legge e solo i qualificati interpreti dell’intenzione di Dio, cioè i
teologi – giuristi dell’Islam, possono interpretarla. Se il sovrano ordina una cosa
contraria alla Legge Santa, il dovere dell’obbedienza viene meno poiché, come
affermano i giuristi musulmani, “non c’è obbedienza nel peccato” e “non obbedite a
una creatura contro il suo Creatore”.
Nella realtà, tuttavia, questa restrizione dell’arbitrio del sovrano non veniva osservata
in modo rigoroso. In primo luogo la legge stessa concede al sovrano poteri
virtualmente assoluti. In secondo luogo, poi, la legge e i giuristi non hanno mai
risposto alla questione – o addirittura non l’hanno mai posta – di come controllare la
legalità di un ordine del sovrano, o di come comportarsi con lui nel caso egli agisca
contro la legge. Parlando in generale, la forza di ciò che si può definire opinione
pubblica obbligò i governanti musulmani a rispettare, almeno in apparenza, le
credenze e le pratiche fondamentali della religione musulmana. Nei fatti però, e in
una certa misura persino anche secondo la dottrina, le consuetudini delle persone e la
volontà del sovrano erano accettate come fonti di legge, dotate di propri strumenti di
applicazione.

B. LEWIS, La sublime porta

80
Il Corano e l’Islam

Senza il Corano non ci sarebbe l’Islam, perché il Corano racchiude la Rivelazione, l’ultima parola
di Dio rivolta agli uomini. Per i musulmani nel Corano è ricompresa ogni realtà e verità. Ciò non
toglie che i contenuti del Corano debbano essere interpretati ed adattati al corso della storia.

Alla Mecca i messaggi divini ricevuta da Maometto vengono trasmessi oralmente e


imparati a memoria dai discepoli. A Medina, invece, i seguaci sentono il bisogno di
scrivere le rivelazioni sulle scapole di cammello o sulla pelle. Dopo la morte di
Maometto, nel 632, diventa sempre più pressante l’esigenza di formare un libro,
riunendo i frammenti sparsi, organizzandolo in capitoli chiamati sure. Nel 652 il
califfo Uthman, terzo successore del Profeta, ordina la realizzazione della versione
definitiva del testo coranico.
Il testo del Corano ha provocato numerosi commenti, i cosiddetti tafsir, da parte degli
eruditi del’Islam. Tra questi ricordiamo il persiano Tabari (IX secolo), Zamakhshari
(XII secolo) e Razi (XIII secolo).
La teologia musulmana si è dovuta confrontare con un problema cruciale: il Corano è
cerato o non creato? Molti saggi ritengono che un libro in cui si raccoglie la “parola
di Dio” non possa essere stato creato perché, secondo loro, il messaggio divino è
sempre esistito. Il Corano è dunque “non creato” ed eterno, mentre solo le lettere che
lo rappresentano sono state create. Tuttavia, la maggior parte dei musulmani è
convinta che il Corano sia sacro persino nella sua forma materiale, ovvero come carta
ed inchiostro. Questa convinzione spiega, in parte, perché i musulmani esitino a
lasciare un Corano nelle mani di un non credente oppure perché richiedano
un’estrema purezza per poterlo toccare.
Queste credenze e convinzioni sono difficilmente comprensibili per un occidentale
non musulmano che, in genere, vede nel Corano solo un testo oscuro, disordinato e
privo di logica, la cui lettura risulta spesso deludente. Pochi libri religiosi orientali
respingono il lettore occidentale quanto il Corano. Eppure, per i musulmani il Corano
ha una bellezza letteraria difficilmente traducibile. Il credente che ascolta la
recitazione coranica è in preda ad una emozione estetica molto simile a quella
procurata dalla musica pure. Una recitazione perfetta del testo coranico può provoca
re repentine conversioni all’Islam. E’ stato il caso di Omar ibn al-Khattab.
Per capire l’intima seduzione della magia del verbo coranico bisogna conoscere il
ruolo svolto dal libro sacro nella vita dei musulmani. Imparato a memoria sin
dall’infanzia, influenza la vita del credente dalla culla alla tomba. Lo si recita in ogni
circostanza della vita. I musulmani più istruiti sono persuasi che il Corano contenga
tutte le grandi scoperte del nostro tempo, dalla fisica ondulatoria fino alla fissione
atomica. Anche i musulmani più lontani dalla fede conservano un certo rispetto per il
Corano. Il testo sacro è così legato alle feste familiari, alla moschea, al quartiere, che
sradicarlo è quasi come strapparsi l’anima.

Anne-Marie DELCAMBRE, tratto da, Maometto, il profeta e l’Islam

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La Sunna del Profeta

Forse, al di la delle intenzioni dello stesso Muhammad, soprattutto dopo la sua morte, la sua vita e
le sue azioni furono prese come un esempio, il perfetto esempio di condotta, fonte di ispirazione per
ogni musulmano. La raccolta dei racconti sulla vita del profeta (hadith) costituisce il riferimento
essenziale per quella che presto diventò una vera e propria “imitazione del Profeta”, spesso attenta
anche agli aspetti più banali del comportamento di Muhammad: il modo di vestire, di portare la
barba, di pulirsi i denti, ecc.

La parola di Allah non è la sola fonte dell’Islam. Ve ne è un’altra, non di origine


divina, la sunna del Profeta. In origine la parola sunna designa le tradizioni degli
antenati. Applicata a Maometto significa “l’insieme delle sue parole, opere e dei suoi
comportamenti, il suo modo di mangiare e di bere, di vestirsi, di adempiere i doveri
religiosi e di trattare con gli altri”. Nell’Islam la sunna è quindi la “tradizione”
derivante dal Profeta. Una tradizione che presto costituì per i credenti la fonte di una
vera e propria “imitazione di Maometto”. Grazie alla Sunna il credente sa che
Maometto si fece tagliare i capelli un venerdì: ecco perché un musulmano preferisce
andare dal barbiere il venerdì.
I comportamenti minuti dell’inviato di Allah sono esposti in brevi racconti, gli
hadith. L’insieme degli hadith forma la sunna. Esistono varie raccolte di hadith; la
più celebre è quella di Bukhari.
Ogni hadith è diviso in due parti: nella prima sono menzionati coloro che riferiscono
l’episodio (Z ha detto, avendolo saputo da Y, che è stato informato da X, che l’ha
sentito da W, compagno del Profeta…), la seconda è costituita dal racconto vero e
proprio.
Dato il gran numero di hadith (alcuni dei quali inventati per ragioni politiche), la
buona fede dei narratori è stata accertata da autentici cultori della materia. D’altra
parte, la verosimiglianza dei fatti riportati aveva un’importanza relativa: Maometto
stesso ha sempre affermato di essere un uomo come gli altri e che il vero miracolo
dell’Islam era l’inimitabilità del Corano (igiaz). Ciò non toglie che la sunna, questa
semplice esposizione della vita quotidiana del Profeta, sia diventata una fonte
dell’Islam.

Anne-Marie DELCAMBRE, Maometto, il profeta e l’Islam

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