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Esercizi spirituali al clero

Istruzioni
GIUSEPPE CAFASSO

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Testo originale:

Torino, Istituto-Collegio internazionale della Consolata per le


missioni estere, 1925

- Torino, 1925 -

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Istruzione prima Sopra il Sacerdote. ............................................... 6
Instruzione 2da Disposizioni per riuscire un buon Sacerdote .......... 26
Instruzione 3a Sopra la Modestia................................................... 45
Istruzione quatra. Sopra la fuga del Mondo. .................................. 62
Istruzione quinta. Sopra l’orazione. .............................................. 79
Instruzione Sesta. Sopra la delicatezza di Coscienza. .................... 95
Instruzione Settima Sopra lo Spirito di Religione ........................ 113
Istruzione ottava. Sopra le Conversazioni de’ Sacerdoti .............. 130
Istruzione Nona Sopra i Giuochi, ed i pubblici Spettacoli............ 149
Istruzione decima. Sopra il Zelo dell’Ecclesiastico. .................... 164
Istruzione undecima. Sopra il Buon Esempio del Sacerdote ........ 177
Istruzione duodecima. Sopra la predicazione. ............................. 191
Istruzione decimaterza. Sopra la Confessione in generale. ........... 208
Istruzione decimaquarta.
Sopra la bontà, e scienza del Confessore ..................................... 223
Istruzione decimaquinta. Sopra i Mezzi da usarsi dal Confessore. 239
Istruzione decimosesta Conforti, e consolazioni del Sacerdote. ... 254
Il Sacerdote divoto di Maria Amor a Maria ................................. 270

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Istruzione prima
Sopra il Sacerdote.
Tu quis es? fu questa la dimanda fatta al precursore del
divin Redentore, il Battista, chi sei tu? si faceva gran rumore
di quell’uomo, e andava crescendo ogni di, si raccontavano
grandi portenti, e penitenze; adunati perciò tra loro i capi, i
primi del popolo, qui è necessario, dissero tra loro, sapere
chi sia quest’uomo, convien cercare, conviene conoscere
con chi abbiam da fare; ed a tal fine mandarono, come
sapete, quell’ambasciata. Lo stesso non già per mezzo
d’altri, ma io medesimo, voglio fare con voi, o Ven.di
fratelli, in questa prima volta, che ci vediamo, e dimando a
voi stessi, chi è quell’uomo, che nel mondo vien detto
Eclesiastico, Sacerdote? Chi è questo personaggio, che gli
uni benedicono, ed altri lo imprecano? chi è cotesto
soggetto, di cui se ne dicono, e se ne contano tante nel
mondo, ognuno a suo modo?
Che ognuno definisce a modo suo, ed a proprio
capriccio, chi lo riguarda come un uomo provvidenziale, e
fatto pel pubblico, altri come un uomo infesto, pernicioso e
se non altro di peso a popoli, ed alla società.
Che cosa è questo nome, che risuona in tutti gli angoli, e
su tutte le penne, e le lingue? Noi appunto che abbiamo
lasciato le nostre case, ci siamo recati in questo luogo per
occuparci di quest’uomo, per meditarlo, per studiarlo in
cotesti giorni, noi più che tutti ci deve importare il saperlo;
chi è adunque chi è il sacerdote: se io interpello il mondo,
chi lo mette in Cielo, chi lo brutta di fango. Chi è il
Sacerdote, se lo domando a chi vive nel mondo, ognuno
me lo dice, lo definisce a modo suo: chi un uomo felice, e
fortunato: chi un uomo inutile, ozioso, e pigro, chi un

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uomo duro, tenace, insensibile a’ mali, ai bisogni altrui; altri
invece tutto al contrario, un personaggio sacrificato pel
pubblico bene, mal corrisposto, ed a torto malmenato dal
mondo. Io non do peso a coteste ciarle del mondo, che
non è in caso, ne ha il diritto di giudicare l’Eclesiastico,
epperò dimanderò ancora una volta: che cosa etc. che cosa
è un Sacerdote? e lo dimando a voi, che lo siete; certo che
la risposta dovrà esser giusta, esatta, e compita. Non
crediate, però che sia così facile il darla anche a noi che
abbiam il nome, il carattere, e siamo Eclesiastici; Noi
studieremo quest’uomo per otto giorni continui, di
proposito, continuamente, e fuor d’ogni oggetto, che ci
possa sturbare dalle nostre considerazioni, eppure forse
giunti al fine, ed anche senza forse non ne avremo ancora
che un idea imperfetta, di quest’uomo misterioso, di
quest’uomo che in se racchiude quello che v’ha di più
grande in Cielo, con ciò che ha di più basso la terra,
epperciò forma in se quel complesso, e quel misto di cose,
che lo rende come un mistero, ed un arcano, e voi non
sapete più chiamarlo, ne Dio, né uomo. Ed io non porto
ragioni al mio dubio, perché ciascuno in questo tempo avrà
campo a chiarirsi da se. Che cosa sia un Sacerdote, quale
l’ufficio suo? Saranno questi i due fonti de’ nostri
trattenimenti in codesti giorni. Che cosa sia un Sacerdote,
quali i pericoli, che incontri, quali virtù esigga, quali mezzi
per acquistarle, saranno la prima parte che imprendiamo;
quale il suo ufficio, la sua altezza, importanza; la maniera, i
stimoli di ben compierlo daranno termine al nostro
spirituale ritiro.
Che cosa sia un Sacerdote? io prenderò la distinzione
che fa appunto dell’Eclesiastico il dottor S. Bernardo; noi lo
possiamo considera-re nella sua natura, nella sua vocazione,
e ne’ suoi costumi: Quid in natura, Quid in persona, Qualis in

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moribus? Nella sua natura è un uomo come un altro; nella
sua persona e dignità, è il più grande di quanti uomini vi
siano al mondo; nella Sua condotta, e ne suoi costumi deve
essere un uomo totalmente diverso dal comune degli altri,
come lo è pel Suo grado, e carattere. Ecco i tre punti che
propongo per tema di questa nostra prima considerazione,
e che ci aprirà il campo a studiar quell’uomo, che tutti noi
dobbiam imparare in questi giorni. Cominciamo. È già
assioma antico e fu sempre una Massima inculcata dagli
stessi Gentili, che ognuno studii se stesso, cerchi e preghi in
se medesimo finché arrivi a conoscersi: nosce te ipsum.
Basterebbe questa sola scienza a riformare il mondo, e
sarebbero del pari banditi i disordini, i scandali nel clero,
quando l’Eclesiastico conoscesse se stesso. L’Eclesiastico
traligna da’ suoi doveri, perché non si conosce, l’eclesiastico
col nome, coll’abito e col carattere da sacerdote vive una
vita da secolare, da profano, da mondano, perché non si
conosce; l’eclesiastico infine s’avvilisce, s’espone,
s’arrischia, non si guarda, e cade, perché? perché gli manca
cotesta scienza, non conosce chi egli sia. Ma non basta
ancora; il peggio è che mentre manca ne’ più cotesta
scienza fondamentale, tutti credono d’averla, epperciò non
si curano di proccurarsela; fate la prova a dire ad un
sacerdote qualunque di questa sorta, che apra più gli occhi,
che stia più attento, che non vadi a quel punto, pensi a
quello che è; vi risponderà subito che conosce meglio di voi
lo stato suo, sa abbastanza i suoi doveri, e che perciò non
ha bisogno d’alcun Maestro. Povero Sacerdote che non si
conosce, e fermo qual’è di conoscersi abbastanza, non c’è
mezzo di far si che entri in se medesimo, ed arrivi a farsi
una qualche idea almeno di se, e del suo stato.
L’Eclesiastico al contrario, che comincia a dubitare di se, e
fissa un tantino gli occhi sull’altezza di quello stato, in cui

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Dio lo ha posto, che considera per poco la miseria, i
pericoli di quel mondo in cui vive, voi lo vedete sollecito a
star attento sopra di se, studiar or una parte, or l’altra di
suoi bisogni, e di suoi doveri, felice sempre quando può
sentire da un amico, in un libro, in un trattenimento a
parlare di se, ad illuminarlo sul suo stato, e sopra i suoi
rapporti; ne si ferma, o si stanca, perché questa scienza a
misura che si acquista, più scuopre il bisogno, l’importanza
di progredire in acquistarla, perché siccome nessuno più la
negligenta di colui, che ne è privo, così nessuno se ne cura,
e se ne invoglia maggiormente di chi comincia a possederla.
Mettiamoci anche noi, o fratelli, nel novero di questi ultimi,
e dubitando almeno di noi medesimi, cominciamo
seriamente questo studio in cotesti giorni per continuarlo
sino al fine del nostro vivere: studiamoci bene, e quasi filo
per filo, sicché terminando il nostro ritiro, e partendo di
quà ciascuno possa dire a se stesso; mi pare che in qualche
modo sia arrivato a conoscere me, a conoscere il mio stato:
mi pare che adesso possa dire: so chi sono, so che cosa
sono.
Che cosa adunque è un Sacerdote considerato nella sua
natura; e dicendo Sacerdote, non vado a cercare quello che
sta lungi di qua: io intendo me medesimo, e ciascuno
intenda se stesso. Il Sacerdote è un uomo come un altro:
questo personaggio straordinario ne’ suoi destini, qual’è
l’Eclesiastico Iddio lo poteva scegliere tra il rango di
Creature più nobili, ed anche scegliendolo tra gli uomini
poteva dotarlo di qualche prerogativa, poteva esimerarlo da
qualche comune miseria, che lo rendesse almeno
particolare, ed in qualche modo anche naturalmente
eminente tra gli altri uomini; eppure nò; egli è un uomo
come un altro: Omnis pontifex ex hominibus assumptus nasce,
vive, e muore come un altro qualunque: abbisogna di

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riposo, di cibo, di sollievo, come gli altri; va soggetto alle
stesse miserie, malanni di corpo, e di anima; ora è triste, ora
allegro, or piange, or ride, or teme, or opera, oh!… si è un
uomo e tanto basta; guardate le miserie altrui, sono le stesse
del Sacerdote. Da questo principio, che è chiaro, certissimo,
per cui non occorre trattenerci, ognuno deduce le proprie
conseguenze a modo suo: le deduce il mondo, ed i maligni;
le deducono certi Eclesiastici, che non conoscono se stessi,
e lo stato loro; finalmente le sanno dedurre ma per suo pro’
i buoni, ed i veri sacerdoti. Vediamole un poco.
Le deduce il mondo maligno. E che cosa è il Sacerdote?
è un uomo come sono io, e che pretende perché porta
quell’abito, e quel nome, gode quel posto? e che c’ha fare? è
un uomo come son io, né più né meno: ha la sua partita,
come io ho la mia, ed ognuno ha la sua; del rimanente è un
uomo come un altro; a che lasciarcela imporre, darcela ad
intendere, dover vivere sotto la Sua parola, aprirgli perfino i
secreti più nascosti del mio cuore, quando so, che è un
uomo come io, come me l’ha da imporre, lui faccia il suo
mestiere, io fo il mio, è passalo quel tempo, che questo
nome suonava imperioso alle orechie di semplici etc. Poveri
ciechi non sanno che si dicano. E di qui la mancanza di
rispetto alla persona del Sacerdote, di docilità alle Sue
esortazioni, e Dio non voglia si vada più avanti, alla
mancanza di fede nella Religione. Io lascio stare cocesti,
perché non sono qua, e quand’anche vi fossero, gli Esercizi
non sono per loro, per noi, epperciò andiamo a ciò che ci
torna più a conto.
Sono un uomo come un altro; che stupire adunque se
cado anch’io in certe miserie comuni a tutti gli uomini, (e
badate o fratelli che qui è un Eelesiastico, che parla, e
queste miserie, che nomina, non sono già distrazioni, o sole
impazienze, ma certe turpitudini che fanno ribrezzo). Sono

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un uomo come un altro, e perché non potrò anche darmi
un po’ al bel tempo, prendermi certi sollievi, e divertimenti,
se lo può il secolare, debbo poterlo far anch’io, perché se
mi son fatto Sacerdote, non ho tralasciato d’esser uomo
tanto, come lui. A che dunque far tante meraviglie, e tanto
rumore, perché frequento quella casa, fo quelle partite, mi
porto in quel luogo, vesto, parlo, e scherzo in quel modo;
quanti secolari fanno così, e chi è che li biasimi? dunque…
coraggio… avanti… lasciamolo finire, che con questa
teoria, e con questo principio riuscirà un mostro tale, che
nessun più conoscerà che cosa sia. Ah! caro mio, se potessi
avere a sentirmi uno di questi tali, che pur non mancano nel
Clero, tu meriti più compassione, che correzione: sei più da
piangere, che da sgridare: tu bestemmi perché ignori; tu
sostieni che sei un uomo come un altro, e da ciò tu cerchi
un appoggio a quella vita dissipata, e mondana, ed io fra
poco ti risponderò che non è vero, e che sei un uomo
diverso dagli altri, e che perciò deve essere diversa la tua
condotta; frattanto, noi o fratelli, diamo di passaggio un
occhiata a ciò che a proprio vantaggio sa trarne da questo
stesso principio il prudente e buon sacerdote. Siamo
uomini come gli altri, epperciò soggetti tanto come gli altri
a sbagliare, a fallire, a sdrucciolare, a cadere; dunque all’erta,
nelle viste, attenti su di noi. Siam uomini nel parlare, nel
conversare, nel guardare. Siamo uomini nello stesso nostro
Ministero, all’Altare, nel Confessionale, e tra le opere più
sante; vigilanza, adunque, riserva, gravità, modestia, se non
vogliamo altre prove più funeste, che siam uomini. Anche
vestiti delle divise sacerdotali, anche unti, e consacrati col
Sacro Crisma siamo composti di carne, e di sangue, ed il
Carattere nostro, per santo, e venerando egli sia non ci
garantisce da se solo dagli assalti, ed insidie di cotesto
nemico. Siamo uomini come gli altri: dunque non

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sgomentarci, ne abbatterci, se il Signore permette a
qualcuno certe molestie umilianti, ostinate, e tenaci; fa mai
tosto al soldato l’esser assalito, qualunque sia l’assalto, anzi
piuttosto gli è onorevole, il torto sta nel cederle, ed anche
nel solo temerle. Siamo uomini, epperciò da noi medesimi,
dalle stesse nostre miserie impariamo a trattar, a
maneggiare, a guadagnare gli altri uomini; lo studio, e la
scienza di se medesimo è una gran scuola pel Sacerdote che
ha da curare gli altri; noi in noi medesimi possiam
conoscere ciò che comunemente più affascina l’uomo, il
grado, a cui può giungere, gli ostacoli che ha da superare,
ciò che più lo può ferire, allettare, guadagnare, e qualunque
Eclesiastico che voglia far del bene, non lavorare al vento, e
cagionare invece forse mali maggiori, deve regolarsi in
questo modo, adoperare prima sopra se medesimo quelle
armi stesse, che vuol appuntare al petto altrui per misurarne
la forza, e le conseguenze; quella parola, quell’avviso, quella
sortita, quella correzione, quella predica, quella minaccia,
quell’invettiva fatta a me, in quel tempo, in quel modo, che
effetto farebbe: ecco aperta una grande scuola per me in me
medesimo, scuola che di rado fallisce, perché io sono un
uomo come un altro, e la conseguenza, che in me
produrrebbe forza, fondatamente aspettarmela in un altro.
Siamo uomini finalmente, e come tali soggetti a veri difetti,
imperfezioni per non dire di più; che se qualcuno bramoso
dei nostro meglio, ed impegnato pel nostro profitto ci usa
la carità di avvisarci in qualche cosa, invece di sdegnarci,
averla a male, e pagar cotesta carità col cattivo umore, che
purtroppo è la moneta solita, con cui si corrisponde a
quell’atto di affezione, conosciamo la miseria nostra, la
nostra debolezza, ringraziamo di questo tratto caritatevole,
chi ebbe la bontà di usarcelo, e facciam servire coteste
cadute, e coteste umiliazioni per maggiormente vigilare su

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noi medesimi, e sul nostro andamento. Così fa, e così
pratica l’Eclesiastico, che sa, e vive praticamente persuaso
d’esser uomo come un altro. Sia pur grande la Sua dignità,
alto il suo posto, molta la stima, che gode, fosse anche
tenuto per un Santo, ma si ricorda sempre che è uomo, e
come tale infrena i suoi sensi, comanda alla gola, custodisce
gli occhi, declina i luoghi, e le perso-ne di dissipazione, di
pericolo, fa uso di ciò che solo lo può render forte ne’
cimenti e ne’ pericoli, l’orazione, e la fuga, e buon per lui,
perché basterebbe un momento solo, che si dimenticasse
d’esser uomo per rovinarlo. Facciam caso, o fratelli di
questi riflessi, e qualunque sia lo stato nostro, il grado, e la
costanza nella virtù, che ci crediamo d’avere siamo sempre
uomini, e come tali pensar bassamente di noi, diffidare di
noi, e camminar sempre cauti, vigilanti, e guardinghi. Quid
in natura?
Quid in persona. Venga qui adesso il mondo, ed il
maligno, che mi dice essere il Sacerdote un uomo come un
altro, epperciò lo malmena, lo sprezza, e non lo calcola. Io
mi sbrigherò in poco, perché già tutti lo sappiamo. Chi è il
Sacerdote considerato nella sua persona, nella sua
vocazione, nella sua dignità. Qui sacerdotem dicit, è
l’areopagita che parla, dice il personaggio più augusto, che
vi sia sulla terra, anzi una persona affatto divina; Qui
sacerdotem dicit, augustiorem, prorusque divinum virum, insinuat.
Mol. ed il gran Pontefice Innocenzo 3° parlando del
Sacerdote, e del grado, a cui per ragion del suo stato viene
innalzato, dice che: Esso vien posto tra Dio, e l’uomo,
sotto di Dio, ma sopra l’uomo: Inter Deum et hominem medius
constituitur: citra Deum, sed ultra hominem: minor Deo, sed major
homine. Dio non si può assolutamente chiamare, ma
nemmen uomo puramente, ed è come un terzo essere tra
Dio e l’uomo; ma più vicino, più appartenente a Dio, che

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all’uomo, come chiamava l’Appostolo il suo Timoteo: tu
autem homo Dei ; e qui osservava un Commentatore, mi pare
che l’Appostolo avrebbe dovuto chiamare il suo discepolo
con un altro nome, poiché essendo il Sacerdote stabilito
sulla terra per gli Uomini: o omnis pontifex … pro hominibus
constituitur, avrebbe dovuto chiamarlo piuttosto un uomo
per gli altri uomini, che per Dio; eppure nò; lo dice: homo
Dei, e con ragione, perché un legato è più di chi lo manda,
che di colui, a cui è mandato; il Sacerdote è mandato bensì
per gli uomini, ma ciò non fa che sia uno di loro,
appartenga a loro, esso spetta ed è sempre, di chi lo manda,
un uomo di Dio: homo Dei. Nel mondo fisico il Signore ha
voluto contradistinguere, privilegiare tra gli altri un astro,
un pianeta, l’ha fatto per la Sua luce, per i suoi influssi come
il padrone, ed il Regolatore del mondo, così è riflessione di
Ugo da S. Vittore, nel mondo morale degli uomini ha
voluto contradistinguere un uomo, e l’ha innalzato tant’alto,
e l’ha circondato di tanto splendore, perché ne fosse come
il duce, ed il regolatore di tutti gli altri. Cotesti riflessi ci
bastino per darci un’idea di quello che è un Sacerdote in
persona, ed in dignità. Omnium apex, chiama S. Efrem il
Sacerdozio, la cima di tutti, e di tutte quante le cose, onori,
dignità, titoli, gradi; scorri per ogni verso: omnium apex est
Sacerdos. Io non mi fermo a citarvi ciò che a lungo dicono
egregiamente i due grandi dottori della Chiesa S. Ambrogio,
e S. Giò. Crisostomo sull’altezza, e dignità del sacerdote, vi
dirò piuttosto la necessità, e l’importanza che ha il
Sacerdote d’essere ben penetrato, e persuaso praticamente
dell’alta sua dignità, poiché sarà impossibile che non la
deturpi, non la guasti quando non la stimi, e non può
stimarla se non la conosce. Si vede ogni dì nelle cose
comuni, e familiari: datemi una persona, che indossi una
veste ben preziosa, ma non ne conosca il valore, vive

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indolente, e non se ne cura, e non andrà molto che sarà
imbrattata di polvere, e di fango, e così dite in tante altre
cose, epperciò diceva pur bene il dottore S. Ambrogio,
esser necessario che il Sacerdote prima d’ogni altra cosa
conosca bene la sua dignità sacerdotale, perché possa
quindi conservarla: dignum est ut dignitas Sacerdotalis prius
noscatur a nobis, et sic deinde servetur, e Credete voi che tanti
sacerdoti prostituirebbero la propria grandezza con azioni
indegne, secolaresche, profane; sarebbe possibile che tanti
Eclesiastici mettessero alla berlina il proprio grado sui
mercati, nelle fiere, ne’ caffè, sul giuoco, tra le risate, e
buffonerie, quando fossero proprio persuasi del proprio
grado? Ah! sì che di costoro si può propriamente dire
quello che già disse lo Spirito Santo: homo cum in honore esset,
non intellexit, si sono fatti preti hanno studiato da preti, sono
tanti anni, che fanno il prete, eppur non conoscono ne cosa
sono, né cosa fanno, né dove si trovano; sono alti quasi da
toccare il Cielo, come dice il Criso-stomo: quasi jam in
Coelum translatio. Mol. ed eglino ciechi, ignoranti, non
conoscono, non sanno; si tengono uomini comuni, ed
eccoli tra loro, come loro, come un di loro pel fango di
questo mondo, e mi spiego: ne’ traffichi, ne’ guadagni, nelle
partite, per le contrade, per le case, con gente d’ogni sorta
quasi senza differenza alcuna tra il sacerdote, l’ozioso, il
vagabondo, il mondano, ed alle volte perfin l’irreligioso:
homo cum in honore esset non intellexit: comparatus est insipientibus,
et similis factus et illis. Poveri Eclesiastici, ora fanno piangere
gli altri al vedere come malmenano, come umiliano, come
espongono la loro dignità; un giorno piangeranno Essi
medesimi per averla esposta, ed umiliata, e Dio non voglia,
che abbia a toccar loro di piangerla eternamente. Ma come
si sosterrà, direte voi, codesta dignità in noi Sacerdoti? Le
grandezze mondane si sostengono indistintamente o colla

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Autorità del comando, o col lusso delle vesti, o collo sfarzo
nelle pompe, . La nostra invece vuole una merce un po’ più
preziosa, ed è il corredo di vere, e sode virtù. datemi un
Sacerdote virtuoso, ed io ve lo do sempre grande, augusto,
venerando, quand’anche non abbi entrate, non porti titoli,
non occupi impieghi: anche sconosciuto, anche umiliato dal
mondo, anche lacero nelle vestimenta, voi avrete sempre in
lui l’uomo più grande della terra, e quello che più importa,
una grandezza vera, onorata, fregiata di tutto il suo decoro,
una grandezza, che si fa rispettare, temere da’ buoni, e per
fin da’ cattivi. No, non basta per esser veramente grandi nel
nostro stato esser innalzati a grandi cariche, portar anche
titoli onorifici, vestir riccamente; no, sono miserie queste
che non han che fare, con ciò che veramente è grande in un
Sacerdote, ma uopo è tener l’occhio a’ fatti, ed essere ben
provvisto, e ben rassodato in virtù: actione, potuis, quam
nomine, dice qui S. Ambrogio quod sumus professione,
demonstremus. Mol. ed eccoci con questo, o fratelli al punto
più importante della nostra Considerazione, cioè di quello
che sia, o almen debba essere un Sacerdote ne’ suoi
costumi.
Qualis in moribus. L’Eclesiastico è un uomo come gli altri
considerato nella sua natura: il più grande se si considera
nella sua persona; diverso da tutti gli altri se lo miriamo ne’
suoi costumi. Noi vediamo primo le ragioni, per cui deve
essere un uomo diverso; che cosa debba fare per essere
differente dagli altri, e che ne avvenga quando non lo sia.
Che il Sacerdote debba essere uomo diverso dagli altri,
ossia debba vivere diversamente io non toccherò che due
semplici ragioni, brevi, e chiare. L’Uomo nel suo modo di
vivere deve adattarsi al suo stato, alla sua condizione, al suo
grado: il Gentiluomo viva da gentiluomo, l’artista da artista,
il contadino da contadino, e andiam dicendo; v’è niente di

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più naturale che questo. Dunque l’Eclesiastico viva da
Eclesiastico; ella è questa una conseguenza la più legittima.
Ora io soggiungo: l’Eclesiastico in forza della Sua
Vocazione è stato separato dagli altri, disgiunto, elevato, e
quasi trasformato in un altro uomo: dunque la vita degli
altri non può più essere adattata, e conveniente a lui;
dunque ne’ costumi deve essere un uomo diverso, e deve
vivere diversamente. Altra ragione: Noi, Sacerdoti, lo
sappiamo, che dobbiamo essere la luce del mondo, il sale
delle genti, i Maestri del popolo: e queste qualità non sono
già puri titoli, e nomi vuoti ma sono veri doveri, ed uffizi,
che senza mancare essenzialmente, nessuno di noi le
potrebbe trasandare. adesso datemi un Sacerdote che ne’
suoi costumi sia come gli altri, la sua condotta, la Sua vita
sia come quella di tutti; io dimando dov’è quella luce, che
deve spandere, dove quel sale, che deve spargere, dove le
sue lezioni, quando il secolare, ed un uomo qualunque
dando uno sguardo al sacerdote, potesse dire: io ho, io fo
tutto quello che ha, e che fa il Sacerdote; la mia vita è come
la sua; né suoi costumi è niente più di me: oh! il bel maestro
che sarebbe codesto Eclesiastico, che si lascia eguagliare, se
non superare dal suo scolaro; oh! il bel Sole, che lucica solo,
se non è tenebre come il resto degli uomini; oh! il bel sale
che appena regge al sapore comune. Qualcuno però
potrebbe soggiungere: Quand’anche il Sacerdote non viva
diversamente dagli altri, può benissimo compiere gli
accennati doveri colla scienza, colla dottrina, e illuminare, e
condire, e insegnare, e così pare non abbia gran peso la
suddetta ragione. Signori, nò, perché io rispondo: Colui,
che tiene un dovere da adempiere è obbligato nello stesso
tempo a far uso di tutti que’ mezzi, che possono condurre
ad un tale compimento, se non altro ad appigliarci a quelli,
che più sono valevoli, ed efficaci: cotesta obbligazione è

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innegabile, perché discende dalla prima. Ora tra i mezzi che
più valgono nel popolo ad ottenere i fini accennati, è
certamente l’esempio d’una vita edificante, e virtuosa; anche
questo nessun me lo nega: e tutta la scienza del Sacerdote
d’ordi-nario vale un bel niente quando le Sue prediche, le
sue esortazioni, li suoi consigli non sieno appoggiati, e
sostenuti dalla forza de’ suoi esempi; sta adunque quel, che
diceva, che una vita comune cogli altri non può essere
compatibile col Sacerdote quando voglia compiere a’ suoi
uffizi. Io non mi fermo a dire di più su questo punto,
perché evidente, piuttosto m’appiglio a ciò, che voglia dire,
e si ricerchi perché un Eclesiastico sia un uomo diverso
dagli altri ne’ suoi costumi. due cose si richiedono nel
nostro caso. Purtroppo tra gli uomini vi sono de’ vizi, non
pochi, e vi regna il peccato, ed il Sacerdote ne deve esser
scevro, e lontano 2. Tra gli uomini vi sono anche di buoni,
di virtuosi non pochi, ebbene il Sacerdote li deve superare
in virtù, ed in bontà: con questo è un uomo diverso dagli
altri; epperciò vero sacerdote; senza di ciò è sarà un uomo
grande se volete, ma un uomo comune, e come gli altri,
poiché gli manca la migliore prerogativa, che è la diversità
della vita. La cosa è presto detta, ma non è poi così
facilmente praticata; e per chiarirci un po meglio su questo
gran punto, facciamoci un po’ a girar pel mondo per
esaminare fra tante maniere di vivere, che troveremo, qual
sia quella che convenga al Sacerdote, perché sia quello, che
deve essere. Io non andrò a cercare chi vive abitualmente in
peccato, e si mostra publicamente dato a qualche vizio di
dissolutezze, di irreligione, di eccessi nel mangiare, nel bere;
si sa subito che cotesti generi di vita non convengono al
prete; appigliamoci ad alcuni altri che danno meno
nell’occhio, ma che non tralasciano d’essere cattivi, o per lo
meno pericolosi.

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Quel tale per esemp. secolare non pare che faccia un
gran male, ma fa niente di bene: l’ozio, il sonno, la pigrizia,
gli consuma un giorno, e poi l’altro, e così gli anni, e la vita;
questa perdita di tempo non va, è peccato, dunque non fa
per l’Eclesiastico, che ha essere un uomo diverso. Quel tal
altro non farà alcun male, ma la frequenza in quella casa,
con quelle persone, in quel tempo da sospetti, fa parlare;
quel genere di vita da scandalo, è peccato: l’Eclesiastico
adunque che ha vivere diversamente, in questi casi appena
può sospettare che la sua condotta, sia pur innocente, e
santa, ma che da nell’occhio a qualcuno, deve regolarsi in
altro modo, perché egli è un uomo diverso dagli altri, e si
regola diversamente. Quella persona va benissimo in chiesa,
alle funzioni, ma così divagata, scomposta, annojata, che la
sua presenza certo non edifica: peccato egli è questo,
perché non basta far cose buone, ma bisogna farle bene;
per l’eclesiastico adunque perchè uomo distinto, separato,
vi sarà un altra gravità, altra modestia, altro atteggiamento,
altra compostezza di modo ché al vederlo voi dite subito:
egli è un uomo diverso dagli altri e così andate discorrendo
per mille altre miserie, che si vedono tra gli uomini. Quello
è un prete, perché va cogli occhi bassi etc. Quel
personaggio dice di non portar odio, aver perdonato, ma
frattanto tiene un certo tono, e sussiego, per cui declina alle
volte quel tal altro, se può scanzar un saluto, lo scanza, se è
forzato a darla, chiunque s’accorge che lo fa più per
delicatezza, che affetto: se avesse da trovarsi assieme, non si
trova a corto di perdite, di sacrifizi, e con inventar mille
pretesti: tutto questo non va, da mala edificazione,
mantiene le ciarle in chi vede, ed in chi lo sa; chiunque dice
che v’è ancor fiele nel cuore. Guai all’Eclesiastico, che non
sta all’erta su questo punto, la superbia, l’amor proprio, la
bile, un impegno facilmente si cuopre, e si nasconde; è un

19
momento lasciarsi dominare da queste miserie, ed ecco il
mio Eclesiastico in un subito a divenir un uomo come gli
altri puntiglioso, ostinato, e tenace. Non è più quell’uomo
diverso, che deve essere. Tuttociò però è ancora il meno;
nel mondo vi sono de’ buoni, de’ virtuosi, sicché se
l’eclesiastico vuol tenere il suo posto, non perdere della
propria dignità, e mantenersi quell’uomo grande, che
veramente Egli è, li deve superare, altrimenti si mette da se
medesimo, e colla sua condotta nella massa comune degli
altri, o buoni, o virtuosi, che essi sieno. L’Eclesiastico, dice
qui S. Gregorio Magno, manca a quel che deve, non solo
quando s’accompagna con chi mal vive, ma ancora quando
nel vivere virtuosamente non supera i laici virtuosi, e buoni:
Ejus operatio debet esse singularis. La sua non ha da essere una
virtù compagna, ma deve essere una virtù sola. Nec inter
malos tantum modo quae recta sunt, faciat, sed bene quoque
operantes, sicut honore ordinis superat, ita etiam morum virtute
trascendat. Greg. part. 2. cap. 3. Ma una vita buona non
basterà, non far peccati, se basta per un altro, per un
secolare. Adagio, fratelli miei; un lavoro che si avrà per ben
fatto da un Grammatico, si terrà egualmente buono, e ben
fatto per un Rettorico: basterà al Grammatico schivare i
peccati, cioè gli errori, con quel po’ di virtù, cioè di
ornamento, ed eleganza che resta quasi inseparabile, ma
questo non basta per un Rettorico. Ognuno lavori da pari
suo. Il paragone è materiale, ma spiega. O Sacerdoti etc.

O Sacerdoti Compagni miei, che gran pensiero egli è


questo da doverci stimolare: nel mondo vi sono persone,
che pregano, e pregano molto, eppur noi dobbiamo pregare
di più. Ve ne sono altre che frequentano i Sacramenti, e ne
fanno frutto, e noi dobbiamo avanzarli sì nell’uno, che
nell’altro. Vi sono anime sulla terra che offese, umiliate,

20
censurate, pure non si risentono, soffrono, tacciono,
perdonano, e non sanno voler fare: sia pure, ma il
Sacerdote va ancor più avanti, oltre tutto questo andrà
ancor più avanti, pregherà, farà del bene ancor quanto
potrà per loro. Si trovano certe coscienze così delicate, che
non solo s’astengono da peccati gravi, ma a bella posta, e ad
occhi aperti non farebbero un peccato veniale per
qualunque siasi cosa del mondo; ebbene l’Eclesiastico non
deve starne indietro, anzi sforzarsi a superarle, poiché
altrimenti ne verrebbe che il discepolo sarebbe sopra il
Maestro, e questo non può, e non deve stare: Non est
discipulus super Magistrum. Tant’è l’Eclesiastico deve di tanto
in tanto guardare d’attorno a se, cercare un po se qualcuno
tenta, oppur l’abbi già soperchiato, e non lo deve soffrire:
se nella casa, e nella famiglia, in cui vivo v’è una virtù, la
voglio aver anch’io ed anche maggiore; se in quel posto, in
cui mi trovo, in quel paese, in quella borgata, tra il mio
vicinato, io scorgo persone che fanno progresso nella virtù,
di giorno in giorno vanno aumentando in umiltà, in
mortificazione, in pazienza, in distacco da questa terra,
avviso per me, a correre anch’io, ed a far sì ch’io sia sempre
il primo, perché quello è il mio luogo; del resto cesserei io
Eclesiastico d’essere quell’uomo distinto e diverso che
sono, ed ho il diritto, ed il dovere di mantenermi.
Ma mi pare, che qui si vada un po’ avanti, certuni
possono immaginarsi, e sembra quasi che d’un uomo si
voglia far un Angelo, e che un Sacerdote debba essere
impeccabile, lo che non può essere. Fratelli, non si tratta di
distruggere la natura dell’uomo nel Sacerdote, anzi l’abbiam
detto prima d’ogni altra cosa che lo è; ma si pretende solo
con tutto diritto che egli sia un uomo diverso dagli altri nei
suoi costumi, poiché è diverso, e distinto in dignità. Se gli
altri hanno difetti e molti, e notabili, egli ne abbia meno, e

21
più leggieri; se gli altri ne commettono con tutta avvertenza,
per lui sien più di sorpresa, che di volontà. Se Egli per mala
sorte viene a mancare, proccuri di superare
nell’emendazione gli altri peccatori: invece di dormire nel
peccato, risorga più prontamente, ne abbi un pentimento
più nobile, un orrore più intenso, e profondo, e faccia
servire quella caduta per camminar più guardingo per
l’avvenire, e metter più d’impegno a servire il Signore;
sicché io dirò sempre che in ogni, e qualunque caso, e
rispetto a qualunque siasi persona secolare, il Sacerdote
deve essere superiore. È non è una mia esagerazione; ella è
una conseguenza di ciò che essenzialmente è un Sacerdote;
Egli è sentimento comune de’ padri, e della Chiesa. Io non
voglio citarvi gran cosa, per non tediarvi; nihil in sacerdote
plebejum nihil popolare nihil commune. È S. Ambrogio che lo
dice. Mol. pag. 101. Origene applica a’ Sacerdoti quel testo
di Geremia: solus sedebam, e dice: Quando vita nostra fuerit talis
ut nullus nobis… coequetur, tunc possumus dicere: solus sedebam,
sicut dixit Ieremias Sacerdos. ut sup. e poi lo ripetè chiaramente
il Concilio di Trento con quelle parole: Clerici laicos, in
generale, in vita, sicut in officio praecedant. È inutile trattenermi
più a lungo a citarvi autorità, quando la cosa è chiara; e che
sarà, che succederà quando il Sacerdote non arrivi ad essere
quest’uomo solo, come diceva Origene, o che non abbia
niente di comune agli altri ne’ costumi al dir di Ambrogio,
quest’uomo, in una parola, eminente più che gli altri nella
vita, come si spiega il Concilio di Trento? Ecco l’ultima
cosa che mi resta a dire.
La prima delle tante funeste conseguenze, il primo
danno sarà per noi. I laici ci saranno di confusione, di
rimprovero, di umiliazione e chi sa un giorno di condanna
per noi. Erubescant Sacerdotes si sacratiori vita inveniantur laici.
Sì, che vergogna grande ripete S. Gerolamo, che un

22
Eclesiastico si lasci solo da un laico eguagliare in virtù:
Magna confusi, esse pares; e qual cosa, più sconcia, continua S.
Pier Damiano che un Eclesiastico non si distingua da’ laici
ne’ suoi costumi, come se un gran signore non si
distinguesse nel tratto da un bifolco di campagna? Turpe est,
quem a laicorum turbis separat professionis conditio, si domestica
conversatio laicum esse convincat. Mol. Infatti parlando quà tra
noi, non sarebbe proprio una vergogna, un onta per noi
quando un laico, un secolare si presentasse a qualcun di noi,
ed a quattro occhi, ed all’orecchio ci dicesse: guarda tu sei
Eclesiastico, ed io una povera persona di mondo, tu la
persona più alta, ed io forse la più misera, tu tanto dotto, ed
io ignorante, tu Maestro in una parola, ed io solo scolaro, e
discepolo eppure io fo quanto quanto fai tu, anzi io fo più
di te, la vita mia, è come la tua, anzi migliore della tua: io mi
privo di quei divertimenti, di quelle partite, di quei
passatempi, e tu non sei capace, e par che abbi a morirne,
se avessi a privartene; io non sto su que’ puntigli, su quelle
parole, lascio correre, dissimulo, taccio, e soffro, e tu guai
che ti tocchino, non la finisci più; io tengo in freno gli
occhi, la gola, la lingua più di te; io mi sento in Chiesa, alle
funzioni, usare più modestia, maggior gravità che tu. Io
insomma scolare, tu Maestro, io mi sento di andar in là più
di te, in qualunque virtù, in umiltà, in pazienza, in
mansuetudine, in carità, in purità, qualunque cosa insomma
più ti piaccia; ditemi, fratelli, non sarebbe un tale linguaggio
obbrobrioso per noi, quando un solo ce lo potesse tenere;
eppur quanti ce lo potrebbero fare; e se non ce lo fanno, è
virtù sua, e non merito nostro. Erubescamus, o fratelli, che
n’abbiamo tutto il motivo, e proccuriamo che il nostro
rossore serva a risparmiarci qualche cosa di più terribile sul
fine de’ nostri giorni.

23
Il secondo danno è ancor più funesto, che ne avverrà
quando l’Eclesiastico ne’ suoi costumi non sia un uomo
diverso dagli altri; sarà lo scandalo, e la confusione nel
popolo: e che confusione vi può essere? che confusione:
abbiam detto che il sacerdote nel mondo morale è come il
sole nel mondo fisico; fate che il sole materiale s’ottenebri,
o venga inferiore di Luce ad un altro astro, e poi vedrete
che ne verrà di questa terra, che Babele? e che Confusione?
dite un altrettanto del Sacerdote, che deve risplendere qual
sole ne’ suoi costumi tra il popolo: fate che perda la sua
luce, o s’ottenebri per poco, e vedrete che disordine: e qual
male maggiore in una popolazione, che quando viene a
mancare di lume per vedere, di maestro che gli insegni, e lo
guidi, come sarebbe nel nostro caso: Tumultuabitur puer contro
senem, et ignobilis contra nobilem: lo diede già per segno ben
triste per un paese, per una città il profeta Isaia, lo che si
avvera nel caso quando il Sacerdote non sia migliore degli
altri; e che ubbidire ancora al prete, ascoltare le sue
prediche, andare a confessarsi da lui, sentirci a correggere,
quando io sono come lui, ed egli come sono io; : qualis
aedificatio discipuli, dice S. Gerolamo, si intelligat se Magistro
esse meliorem. pag. 11. se non risplendo io, risplenderà un
altro, epperciò non vi sarà tutto questo male; la virtù degli
altri non diminuisce il torto mio, il male di un Sacerdote fa
anche male, e toglie la luce anche agli altri buoni, perché né
resta infetto tutto il Celo almeno nell’opinione del popolo.
Guai, quando il popolo può dire: il prete è come son io: il
nostro Cappellano, il nostro Maestro, il nostro parroco, il
mio Confessore è poi un uomo come son io. basta ciò solo
per rovinare la Chiesa, grida S. Gerolamo; Hoc vehementer
Christi Ecclesiam destruit laico, esse meliores, quam Clericos. Mol.
ed ecco la terza conseguenza funesta dal far ne’ costumi un
uomo solo e comune del Sacerdote, e del Secolare.

24
La Religione, e la Chiesa per sussistere non ha bisogno
di puntello umano, ma se v’ha una scossa terribile,
tremenda per lei, ella è appunto, quando i Sacerdoti la
villanneggiano ne’ suoi costumi, e che colla loro condotta si
assomigliano a’ Laici, cattivi come loro, o non migliori di
loro. Nullum majus praejudicium, lo sapete come lo diceva il
gran pontefice S. Gregorio Magno parlando al Suo Clero
romano, quam a Sacerdotibus tolerat Deus. Non è mia
intenzione si entrare più a dentro in questa materia
presentemente, perché forse mi verrà l’occasione di
parlarne altra volta, ma basti averla accennata perché
ciascuno si formi un idea di quella confusione, di quella
rovina, che necessariamente ne dovrebbe venire, quando il
Sacerdote ne’ suoi costumi non sia un uomo diverso dagli
altri. Concludiamo adunque colle sempre memorande
parole del Concilio di Trento: sic decet ommino clericos. Il verbo
decet alle volte suona pura convenienza, ma qui vuol dire
stretto dovere: decet ommino, e che? Vitam moresque suos o
componere ut nihil nisi grave moderatum ac religione plenum prae se
ferant, ed eccone la ragione, che da subito: ut eorum actiones
cunctis a ferant venerationem. Adunque ciascun di noi principii
fin d’oggi la Sua riforma; scorsa per tutta la Sua giornata,
per ogni singola azione, e tuttociò che non è grave,
religioso, venerando, tagli, e lasci: quella maniera di vestire,
di parlare, di celebrare: quelle partite, quei giuochi, quella
frequenza, è tutt’altro che veneranda; dunque, si riformi:
perché ognun di noi deve uscir di quà, ed essere nel mondo
un uomo diverso dagli altri, un uomo che in tutto si meriti e
si concilii venerazione e rispetto; ut corum actiones cunctis
afferant venerationem. Così sia.
Voi sapete, Ven. fratelli miei, e l’abbiamo viemeglio
appreso fin da jeri sera nell’Introduzione, e nel
cominciamento di cotesto nostro sacro ritiro, che lo scopo

25
degli esercizi sta nella riforma, e maggiore perfezione di noi
medesimi. A cotesto fine sono dirette indistintamente tutte
le pratiche di questi giorni, ma principalmente le varie, e
serie Considerazioni che ci proporranno in questo tempo in
un colle così dette Istruzioni, ossia Riforme, ed esami
pratici su’ principali doveri, ed obbligazioni del Sacerdote.
Fratelli miei, io abbisogno al pari, e più di voi di cotesta
riforma, epperciò in que’ famigliari trattenimenti, che io
terrò con voi nel corso di queste poche giornate non farò
altro che ripetere a voi quelle medesime verità che direi a
me stesso; epperciò dirò le cose come se le dicessi a me
solo: le dirò con quella schiettezza, e senza ricerca di parole,
che ognuno suole usare con se medesimo quando si mette
d’attorno ad affari della più alta importanza. Le dirò come
le vedo avanti Dio, le dirò insomma come vorrei, come
desidererei averle dette in punto di mia morte pensando
che forse può essere questo, come ci ha già avvisato il
direttor nostro, per preparare il rendiconto a Dio della
nostra vita, e della nostra sacerdotale carriera.
Già io vedo indispensabile prima di dar mano a lavorare
d’attorno ad un Sacerdote per riformarlo, o almeno a
renderlo più compito, e perfetto mettere alcune basi, come
siano come il fondamento della gran fabbrica che spero
innalzeremo in noi medesimi in questi giorni, e per prima
indagare, e conoscere ben bene, che cosa sia un Sacerdote.

Instruzione 2da
Disposizioni per riuscire un buon
Sacerdote
Il Sacerdote adunque, come vedemmo questa mattina,
uomo qual egli è come un altro qualunque, il medesimo

26
nella natura, nelle tendenze, nelle inclinazioni; il medesimo
per le miserie, a cui va soggetto, pe’ difetti in cui può
cadere, pe’ pericoli che lo minacciano, per gli ostacoli, e per
le difficoltà, che deve sormontare; si per tutto ciò un
Sacerdote non si distingue da un altro qual sia, se pur non
lo supera; eppur ciò non ostante Egli deve essere un uom
diverso, non tanto per la dignità, a cui è elevato, pel
carattere, di cui è rivestito, pe’ poteri che gode, pe’ titoli,
che porta; ma quello, che più importa un uomo diverso
dagli altri in ciò, che riguarda le singole sue azioni; diverso
nel modo di sentire, di parlare, di operare; diverso insomma
in tutti i suoi costumi, di modo che altra debba essere la
vita d’un uomo secolare, anche dabbene, altra quella d’un
vero Sacerdote. Non si può negare che un opera sì fatta, un
impresa lo dirò pure così meravigliosa non costi una
qualche fatica, e voglia uno studio speciale; sia pure come si
vuole, ma ella va fatta, e ci siamo radunati in questo luogo
appunto per darvi mente, e per darvi la mano quando ancor
in noi vi manchi : e per riuscirvi primieramente sono
necessarie, e restano indispensabili certe disposizioni nel
Sacerdote, senza cui sarà inutile, e tornerà vano ogni altro
sforzo; bisognerà appigliarci ed esser fermi, e costanti a
praticare que’ mezzi che sono fatti per condurci colà; e non
ostante tutto questo, troveremo ostacoli, intoppi, imbrogli,
difficoltà, pericoli d’ogni genere, che ci attraverseranno la
via, e vorranno impedirci di diventar quegli uomini, che pur
dobbiamo essere, e ci converrà farci forza ajutarci a vincerli,
a superarli. Costi o non costi, costi poco costi molto, uopo
è che io divenga un uomo tale, giacché sono Sacerdote.
Ecco tracciata con questo in gran parte la materia di nostri
trattenimenti, la maniera cioè di formare dell’Ecclesiastico
di un uomo del mondo un uomo diverso dal comune degli
altri. Il fine poi di questo uomo particolare, speciale, ed

27
unico nel suo genere, i mezzi per compierlo ci daranno il
rimanente del mio dire in cotesto nostro ritiro. Venendo
adunque all’argomento, che mi sono proposto in questa
sera, due sono le principali disposizioni, che deve aver
ciascun di noi per arrivar ad essere, e ritornare nel mondo
uomini diversi da que’, che già vi si trovano, cioè concepire
un idea giusta, e vera del nostro stato, e della massima sua
importanza. 2. metterci d’attorno con una volontà franca,
decisa, di riuscire veramente, ed a qualunque costo buoni
sacerdoti. Toglietemi una di queste due qualità da un
Eclesiastico, o che non conosca lo stato suo, od abbi solo
una volontà languida, debole, limitata, è inutile lavorarvi
d’attorno, lasciate pur correre poiché si otterrà mai niente.
La materia, come vedete è troppo importante, o fratelli, per
metterci con impegno a trarne quel profitto, che la
preziosità di questi giorni, e la grandezza dell’opera esigge
da noi. Cominciamo.

Qual idea regna nel mondo dello stato Sacerdotale, e che


se ne pensa, che se ne giudica? Io lo dirò in poche parole: si
ha per una carriera, comoda ed uno stato di quiete, di
riposo quasi da non sapere come spendere i giorni, o al più
occuparli solo in bagatelle, ed inezie più da divertire, che
faticare. Si ha per uno stato se non totalmente di agi, di
gran fortuna, e ricchezze, almeno di mezzo facile, e sicuro
di sussistenza: si tiene finalmente per uno stato di piena, e
totale libertà da poter vivere a nostro genio, ed a nostro
modo. Così la pensano, e ce lo dicono svergognatamente in
faccia per motteggio, per burla ed insulto: guardate que’
preti poltroni da mattino a sera, non sanno che fare di lor
medesimi; vivono, e muojono nell’inerzia. Cosi la pensa
anche per ignoranza, per bonomia molta buona gente, che
non vi sia stato più felice del nostro, perché abbiamo quasi

28
niente da fare. Il male poi peggiore è che se non lo dicono
colle parole, lo provano co’ fatti anche non pochi sacerdoti,
che lo stato nostro sia proprio uno stato d’inedia, e
pigrume. Tutti costoro si sbagliano a gran partito, e con un
tal parlare, ed una simile condotta fanno un gran torto non
solo alle persone, ma allo stato nostro, poiché Egli è ben
diverso da ciò, che se ne pensa. Detto di S. Agostino:
niente di più comodo a chi leggiermente considera dello
stato del Sacerdote, ma niente di più laborioso, e gravoso in
realtà. Il mondo lo tiene per uno stato di riposo, di bel
tempo, ed invece egli è uno stato di stenti, travagli, e
fatiche. Il mondo lo crede uno stato di comodità, di piaceri,
di agi, al contrario egli è una serie, una catena continua di
sacrifizi, e mortificazioni . Il mondo finalmente lo pensa, e
lo giudica una vita di libertà, di capriccio, e di proprio
talento quando egli è di somma soggezione, e piena di
riserve, e riguardi. Fermiamoci un tantino per esaminarlo.
Stato di fatica. Tutto nel Sacerdote ci fa notare un uomo
attivo, operante, e dato all’occupazione, al lavoro. La natura
della sua missione, la quantità e varietà degli uffizi che gli
sono addossati , la precisione con cui si vuole sieno
compiti, il conto che ne terrà un giorno il Signore, i premi,
che promette, i castighi che minaccia, tutto fa vedere
chiaramente, e toccar con mano che è tutt’altra l’intenzione
di quello, che ci ha mandati, che noi facciamo i pigri, e gli
oziosi, e se non vogliamo star solo alle parole, ed alle
sentenze, andiam a guardare qual fù la vita del primo
Sacerdote, qual fù il divin Redentore, finché stette in
Nazaret non fe’ l’ozioso, perché nessuno gli dava del
vagabondo, anzi lo chiamavano un fabro, perché lo
vedevano sempre applicato al lavoro: nel ministero suo poi
evangelico noi sappiamo i stenti, le fatiche da sacrificare
persino riposo, e cibo. Guardiamo gli Appostoli, che si

29
specchiarono nel primo Sacerdote, e ne copiarono la vita
più co’ fatti, che colle parole per mandarlo a noi successori
suoi; così circondati, ed oppressi da occupazioni, ed affari,
che dovettero cercar altri, onde poterli disimpegnare.
Guardiamo tutti quegli Ecclesiastici, che lasciarono buon
nome delle lor persone, e dello stato loro, che stenti, che
fatiche sostenute per tanti anni nel Ministero: guardiamo
tanti buoni Sacerdoti, che vivono sotto i nostri occhi,
attenti, vigilanti, occupati da mattino a sera, certo che non
hanno tempo da perdere: oh! se vi fosse un altra via più
comoda, e si potesse anche essere buon sacerdote senza
lavorare, e senza faticare, la prenderebbero anche costoro;
ma si sbaglia di molto chi crede poter esser tale senza
bisogno di faticare: Dio non vuole che operarii che
lavorino; la Chiesa non vuole che ministri che s’affatichino
pel bisogno, e pel vantaggio di fedeli: niuno sia ordinato, lo
vieta espressamente, se il bisogno, e l’utile della Chiesa non
lo chiama: come dunque oserà vantarsi, e pensare d’esser
buon sacerdote chi non s’occupa, e non lavora. L’uomo
nasce alle fatiche, è condannato a mangiare il pane de’ suoi
sudori, è tenuto a faticare per castigo, per soddisfazione de’
suoi peccati, solo il sacerdote perché chiamato al Santuario
dovrà, e potrà mangiare il pane a tradimento. Eppure sarà
come vuole, ma non può negarsi che una quantità di
sacerdoti faccia ben poco, e forse passeranno molti giorni,
per non dir mesi, ed anche più, senza che ci sappiano dire
quello che hanno fatto. Purtroppo o fratelli che è così in
tanta quantità di Eclesiastici, ma io lo dirò chiaro, e mi
toccherà ripeterlo più volte; altro è quello, che si fa da’
sacerdoti, altro quello che si dovrebbe fare. Guai al
Sacerdote, che ne’ suoi doveri, e nel suo stato comincia a
guardarsi d’attorno, e dice: oh! gli altri fanno così; quel tale,
quel tal altro; sono pur gente ancor di credito: dunque non

30
vi sarà gran male; dunque si potrà andar un po’ più alla
buona; dunque non vi sarà più tanta obbligazione, come si
predica, e si dice: dunque potrò farlo anch’io. Guai ripeto,
quando l’Eclesiastico comincia a tranquillarsi con cotesti
riflessi, ed a formarsi cotesto nuovo Vangelo. Noi lo
diciamo al popolo, che non bisogna guardar agli altri;
ognuno deve pensare per se; ognuno avrà a render conto
dell’anima sua; che non è buon segno andar appresso agli
altri; che l’esempio altrui non scusa, e non può salvare.
Coteste verità le sappiamo dire, ripetere agli altri, eppure
quante volte ce ne vagliamo per noi: quel tal prete, quel tal
altro potrebbe ben andar a confessare, alzarsi più presto,
ajutar a que’ catechismi, a quella tal opera, non va, non lo
fa, e con tutto ciò nessuno gli dice niente; e perché dunque
ho da andar io, e perché non potrà far io lo stesso. Ecco il
ragionamento, che tante volte si fa, o si pensa, e da chi?
dagli Ecclesiastici. Io non mi fermo a confutarlo perché
ognun di noi ne vede l’insussistenza; ripeterò solo perché
troppo importante: chiunque vuol divenire, e vuol vivere da
vero sacerdote tolga gli occhi da tutti, non guardi alcuno,
guardi se stesso, ed i suoi doveri; e poi si regoli e lasci stare
gli altri, ognuno pensi per se.
Lo stato del sacerdote è stato di sacrifizi, e di annegazioni: se
mi date un Sacerdote ozioso, pigro, che faccia niente, ed un
sacerdote solo di abito, e di nome, lo so che sotto un certo
riguardo sarà la sua una vita di comodi, di agi, di piacere
perché non ha più ordinariamente da pensare di che vivere,
e può vivere più o meno comodamente: libero qual egli è
da maneggi, dagli imbrogli del mondo, può condurre una
vita più che qualunque altro a suo gusto, e piacere;
divertirsi, riposarsi sino alla nausea, se mettendo a parte i
grandi onori del suo stato, voglia solo pensare, attendere a
ciò, che solo può piacere di più alle corporali sue

31
soddisfazioni; ma fate che cotesto sacerdote voglia proprio
divenire, formarsi, e vivere da vero Eclesiastico,
corrispondere al grande oggetto, per cui è chiamato, ebbene
io dico che i suoi giorni non possono essere a meno che
una serie continua, un intreccio, una catena di privazioni, di
sacrifizi, e di annegazioni , sia per parte di se medesimo,
come pel mondo, in mezzo a cui vive, sia anche per la
natura e qualità del suo ministero. Privazioni e sacrifizi, per
parte di sé medesimo: io toccherò due cose solamente, e
voglio dire la condotta irreprensibile che deve tenere da
dover schivare l’apparenza perfino, e l’ombra solo del male,
lo spirito del distacco, da ogni cosa del mondo, unito allo
spirito di raccoglimento, di preghiera, e di unione col
Signore, di cui deve vivere il vero sacerdote. Riandate la
giornata d’un sacerdote, che voglia vivere di questa vita, e di
questo spirito, e voi vedrete quante volte in un giorno solo
dovrà contrariare, rinnegare sé medesimo. Cominciate di
buon mattino, e quel tempo che altri e forse anche
Eclesiastici impiegano in sonni quieti, e tranquilli, quel
tempo che forse piacerebbe anche a lui passare in qualche
occupazione amena, e di sollievo, di campagne, di passegi,
di visite eppure no; si ricorda che è Sacerdote, il dover suo,
la gloria del Signore lo sveglia, lo chiama, lo porta in Chiesa,
al Confessionale, allo studio: quante volte nel corso della
giornata si presentano all’Eclesiastico come al secolare
occasioni di prender parte a cose secolaresche, e profane,
negozi, traffici, novelle, divertimenti, adunanze, colloquii,
partite; è uomo come un altro; si sente alle volte come
trascinato tanto più quando alla propria inclinazione, e
miseria si aggiungono gli eccitamenti, le tentazioni di
compagni, parenti, ed amici; eppure no: guai se comincia a
cedere, è un momento ad entrarvi lo spirito del mondo, e
divenire poco per volta leggiero, vuoto, dissipato e

32
mondano; e come credete voi che sien giunti certi Sacerdoti
al punto di essere tanto mondani da occuparsi più del
mondo che di Dio, se non se da questa mancanza d’aver
cessato di vivere di privazioni, e col darsi falsamente a
credere che la vita del Sacerdote potesse esse tale anche
cercando le proprie comodità, e piaceri. Basterebbe questo
punto solo per mantenere l’Eclesiastico in uno stato
continuo di annegazione, perché sempre e continuamente è
attorniato, è lusingato da oggetti mondani, se non cattivi,
almeno secolareschi, e profani e di tutti indistintamente o
deve privarsene affatto, oppur quando il bisogno, e le
convenienza lo voglia, deve usarne in modo, e
circospezione tale da averne sempre libero il cuore, e
mantenersi padrone e superiore ad ogni cosa, lo ché non
può ottenersi senza un continuo sacrifizio. Annegazioni e
sacrifizi per parte del mondo; e qui non occorre trattenerci
gran fatto, perché noi sappiamo i bocconi amari che da ad
inghiottire agli stessi suoi seguaci questo padrone crudele; e
che non farà con noi sacerdoti che ci tiene come realmente
gli siamo, i nemici suoi primari, e diretti; non gli basta
attraversare, consumare le sole nostre opere, vilipendere le
nostre persone in un col nostro ministero, vuol perfino
entrare in noi medesimi, pretendere di scoprire, e di sapere,
ed interpretare a suo modo le nostre stesse intenzioni.
Tant’è lo Spirito S. avvisa tutt’uomo che vuol darsi al
servizio del Signore che si prepari al cimento, a’ sacrifizi,
alla battaglia: fili accedens ad servitutem Dei praepara animam
tuam ad tentationem; che avrà da aspettarsi un sacerdote che
resta come il Capitano di questo arruolamento, e di questi
servi del Signore, di modo ché al porre che fa un piede un
giovane nella carriera Eclesiastica, sarà impossibile fare un
passo senza che il mondo unito al demonio cerchi di
attraversarlo or con persecuzioni e violenze, or con biasimi,

33
e censure, or con motteggi e sarcasmi, or con apparenza
anche di pietà e di religione. Sacrifizi infine per parte del
nostro ministero medesimo: pel tempo ad ogni ora il vero
Sacerdote deve esser pronto di giorno, di notte, di buon
mattino, ad ora tarda, anche già stanchi, non v’è tempo
eccetuato. Per ogni sorta di persone, nojose, grossolane,
rozze, villane, anche nemiche ed avverse. Per ogni genere di
spirituale servizio; io lascio ogni altro ramo, e parlo solo
dell’amministrazione della penitenza; che esercizio di
pazienza, di annegazione non porta cotesto sacramento per
un Sacerdote? Quanta padronanza di se non esigge nel
trattare con tante persone si dispari di sentimenti, di
disposizioni, di affari, e di caratteri. Lo studio, e la scienza
che vi vuole per disimpegnare a dovere cotesta formidabile
obbligazione quanti sacrifizi non esige; uno studio che per
lo più annoja, infastidisce; uno studio che ha un non so che
d’infinito, e si può dire non si tocca mai il termine; uno
studio che va rinfrescato così soventi da riuscire quasi
sempre come una nuova fatica. Tuttociò non servirà
grandemente a far della vita del Sacerdote una vita di
continui sacrifizi, ed annegazione. Da quel poco che
scorrendo abbiamo accennato ciascuno potrà persuadersi
facilmente la vita nostra esser ben diversa da quello che la
giudica il mondo, e che forse anche qualcuno di noi si sarà
falsamente imaginato; e non si sentono alle volte a
lamentarsi molti Sacerdoti anche virtuosi, e di buona
volontà, oh si che mi credeva, e mi aspettava da sacerdote
aver tanti crucci, fastidi, e dispiaceri; mi sarei mai creduto
tali, e tante difficoltà! e perché, queste lagnanze, coteste
meraviglie e sorprese: appunto da ciò, che nell’entrare nel
sacerdozio avremo avuto buone intenzioni sì, ma in fondo
del nostro cuore ci siamo ideati una vita tranquilla, comoda,
e quieta; quando al Contrario ella è, o almeno deve essere di

34
annegazione, e sacrifizi. Vita infine di soggezione, piena di
riserve, di riguardi.
Si vuol fare una gran differenza tra lo stato di Regolari, e
quello degli Eclesiastici secolari, e lasciando a parte altre
considerazioni, mi fo solo ad osservare che lo stato de’
primi si ha per uno stato di somma soggezione, e continua
dipendenza, quello invece degli altri per una posizione, e
per uno stato di totale, ed intiera libertà. Io ammetto
cotesta differenza, fratelli miei, sotto un rapporto, ed avuto
riguardo a certe leggi e disposizioni speciali, ma andiam
adaggio per non prender abbaglio, poiché questa differenza,
è più di nome che di fatti, ed è più apparente che reale, anzi
io dico, e voi converrete meco, che l’Eclesiastico nel
mondo ha più soggezione a prendersi, e deve usare più
riserve, e più riguardi, in conseguenza la sua vita è più
legata, vincolata di quello che sia la vita d’un Religioso nel
proprio chiostro. Lo so che il Clausuale ha molte regole, e
statuti, che non ha il Sacerdote nel mondo; è vero che il
Sacerdote non ha rinunciato alla propria volontà con voto
formale, e solenne di perpetua obedienza, ma ciò che
importa? quando l’obbligo che non s’è assunto con voto
espresso è inerente, intrinseco, inseparabile dal Suo stato, e
dal punto che ha toccato cotesto sacro terreno delle
Eclesiastico milizia, ne ha contratto tutte le obbligazioni, e
legami; obligazioni e legami che non lasciano al povero
Sacerdote sto per dire un momento a sua disposizione, e di
libertà. Prendete pure tutte le regole d’un Monaco, tutti i
statuti della sua Comunità, tutti i voti che può aver fatto,
interpretateli anche con tutto quel rigore che volete, ma
non hanno che fare con quel gran volume di regole, di
precetti, di misure, di canoni che accompagnano sempre
l’Eclesiastico nel mondo.

35
Io non parlo de’ tanti doveri che gli incombono pel suo
uffizio, e ministero; nemmen voglio citarvi le tante
prescrizioni, i tanti canoni della Chiesa che lo riguardano, e
che tutto lo lega, lo incatena, giacché non penso che tra noi
vi sia chi giudichi che coteste Eclesiastiche disposizioni
sieno solamente consigli pel meglio, o cerimonie solo per
salvar l’apparenza, o togliere gli abusi più clamorosi; no non
voglio credere che tra noi regni cotesto pregiudizio, ed abbi
qualcuno nella sua mente cotesto errore grossolano; sieno
pur leggi obbliganti in coscienza, che però non è mia
intenzione di parlarne in cotesto luogo, io intendo bensì di
mettervi sott’occhio per mio scopo quella serie continua, e
mai interrotta di legami, di riguardi, epperciò di precetti, e
di obbligazioni che ci da il nostro vivere sulla terra; la vista,
la comparsa delle nostre persone nel mondo: misure, e
riguardi in casa, fuori casa, per le strade, in chiesa, nelle
funzioni, insomma in ogni, e singolo passo; misure nel
parlare, nel guardare, nel mangiare, nel divertirsi, perfin nel
prendere un po’ di riposo, di modo che può dirsi che tante
sono le regole, i canoni che ci legano, quanti sono gli occhi,
che ci colpiscono: ogni nostro movimento, ogni passo, ogni
parola, ogni sguardo, ogni minima azione, è pesata, è
bilanciata, è interpretata; e sarà questo un vivere libero
indipendente? sarà questo uno stato di piena libertà, e fuori
soggezione, come pare alle volte che ci diamo ad intendere?
Ditemi adesso se un Eclesiastico che nel mondo è
rimarcato da mattino a sera, senza potersi nascondere,
senza speranza che qualcuno gli usi riguardo, o gliela
perdoni sia nel poco, sia nel molto, non sia mille volte più
legato di quello sia un Monaco ristretto nel suo chiostro? a
ciò aggiungete che cotesta immensa quantità di occhi
spalancati tutti sopra di noi, gli uni sono buoni, epperciò
severi e delicati , la menoma cosa li ferisce, li scandalizza; i

36
più sono avversi, prevenuti, maligni epperciò facili a
travedere, ad ingrandire, ad esagerare, onde maggior
cautela, maggiori riserve per non offendere gli uni, e non
dare occasione agli altri. Almeno in casa, e fuori vista del
mondo l’Eclesiastico potrà godere un po’ più di libertà:
anche quà, o cari, apriamo gli occhi, e non fidiamoci; in
sulle prime pare che il sacerdote non abbisogni di tanti
riguardi stando nella propria casa, ed io convengo che ve ne
saranno molto meno, ma non tanto da doverne deporre il
pensiero. Il Sacerdote è in casa, ma per questa casa v’ha chi
entra, e chi sorte, e sortendo, credetelo, si porta sempre via
qualche cosa sul nostro conto; noi non ce ne accorgiamo,
noi non lo sappiamo, eppur è così. L’Eclesiastico sta in
casa, ma qualche persona vi sarà in questa casa, e non fosse
che una basterà questa sola, perché più presto, più tardi, in
una via, o per un’altra, con buona o mala fede si sappia la
vita di casa del Sacerdote; e non dico solo delle azioni
principali, ma le più minute, del dormire, del parlare, del
mangiare, perfino una facezia, ed un sorriso: se fosse d’un
secolare, nessun vi bada, ma perché è d’un sacerdote, è tale
il concetto, l’idea che se ne fanno che tutto trova un valore
in bene, od in male secondo la sua natura. Le case degli
Eclesiastici, come poste in mezzo al mondo, può dirsi che
sono fatte a quel disegno, dice un dotto autore, che volesse
fosse fatta la propria abitazione un antico Romano, del
quale si legge che voleva i suoi muri fossero diafani, e
trasparenti perché ognuno di fuori potesse leggere, e vedere
quello, che si faceva di dentro. Così può dirsi delle nostre
case: quasi non si sa spiegare il come, eppur par proprio che
al di fuori tutti vi veggan dentro: epperciò raccomandava
moltissimo il dottor S. Gerolamo cotesto punto ad un
Eclesiastico del Suo tempo: non credere che in tua
abitazione sia al coperto del mondo, che anzi la tua casa è

37
posta nel mezzo, come uno specchio, e deve essere la
cattedra, e la maestra di virtù: domus tua… quasi in specula
constituta est … Magistra public e disciplinar: là stan fissi gli
occhi di tutti, e tutto ciò che vedono, o sanno farsi da te,
credono poterlo fare anche loro: in te oculi omnium diriguntur;
quidquid feceris, id sibi omnes faciendum putant. Hieron. ad Eliod,
ognuno ritenga detto per se l’avviso del grande dottore:
sicché vita di soggezione, e riguardi fuori casa, ma vita
parimenti di riserve e di misure nella nostra medesima
abitazione, epperciò vita continua dì soggezione e legame.
Oh! etc. Oh! se fosse così, qualcuno può dire, chi potrebbe
ancor vivere; si vive un po’ più alla semplice, si cammina un
po’ più alla franca, ed ognun dica, e pensi come vuole.
Adaggio, Signori miei, io non entro qui a trattarvi
direttamente la questione, di quel che debba fare e di
quello, da cui debba astenersi un sacerdote per non dar
occasione di qualche scandalo, lo che spero poterlo fare
altra volta, ma dirò solo, in generale, che la virtù e la
perfezione, di cui deve esser fornito un Sacerdote: perfectus
sit homo Dei Tim. 2.17, il buon esempio, che deve dare in
tutto senza alcuna eccezione: in omnibus seipsum praebeat
exemplum: quel nome d’irreprensibilità, che l’Appostolo
vuole assolutamente parlando del ceto Eclesiastico: sine
crimine: nullum crimen habentes: irreprehensibiles sint: tutte queste
obbligazioni io dico esiggono necessariamente in tutto e
sempre una somma cautela, e riserva; e guai al sacerdote,
che crede poterne far a meno; è impossibile che non cada,
non urti, non offenda: tanto più come vi diceva, che non si
ricerca né gran tempo, né gran cosa, una mancanza sola di
riguardo nel guardare, nel parlare, nel ridere può bastare,
perché non sia più quell’uomo perfetto, edificante,
irreprensibile, come pretende l’Appostolo.

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Eppure non fanno tutti così: vi sono sacerdoti, e molti, e
buoni, ma non prendono le cose in quel senso, e non le
portano a quel punto; qualche riguardo sì, ma non quella
soggezione, quel legame di cui ci parla; la costumanza de’
più non è tale. Io non voglio decidere qual sia il costume,
ma so anche dirvi che l’Eclesiastico che compreso della
grande idea del suo stato vive attento sopra di se, sta
sempre in seduta, e tiene continuamente un tribunale
aperto sopra di se medesimo: non gli basta un rendiconto
frequente, e giornaliero, ma proccura per quanto può
azione per azione, parola per parola, occhiata per occhiata,
e andiam dicendo, giudicarla, condannarla , punirla, se lo
merita e poi se vi ricordate io ho detto di parlare dello stato,
e non delle persone: altra cosa è lo stato, altro il modo con
cui le persone si diportano in questo stato; altra cosa il
dovere, altra cosa il compierlo: io ho premesso, e lo ripeto
chiaramente: lo stato nostro è stato di fatica, è stato di
sacrifizi, è stato di continuo legame, e soggezione: si creda,
non si creda, si compia, non si compia, si voglia o non si
voglia, la cosa è tale, e lo è per me, lo è per voi, e
l’Eclesiastico che la pensasse in altro modo, si persuada che
non conosce lo stato suo, non sa la strada, che deve battere;
e non conoscendo i suoi doveri, sarà impossibile che li
compia, e non compiendoli come finirà? sia pur dunque
così, ma questo sistema di vita, cotesta severità si continua,
e rigorosa non è fatta per me, non mi sento, è impossibile
mi adatti: ah! caro mio a quest’ora vi pensi, e perché non
badarvi prima? perché abbracciare una strada, uno stato
senza conoscerlo: or non v’è più rimedio: lo stato è eguale
per tutti, non v’è eccezione per alcun Eclesiastico: siamo
sacerdoti, e chi vuol esser tale, chi vuol operare in questo
stato la sua salute non v’è altra condotta a tenere, altra via a
seguire, e quando un sacerdote arrivasse al punto dì dire,

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come purtroppo si sente, oh! faccia chi vuole quella vita;
tanti studii, tante annegazioni, tante cautele, tante riserve,
gli altri ne facciano finché basti, per me, lo dico franco, è
impossibile, non voglio saperne, per viver così, mi sarei
fatto prete; meglio per te, gli si potrebbe tosto ripetere,
meglio per la chiesa, meglio pel mondo, meglio anche per
Dio, se avessi preso altra via; del resto, che rispondere ad
un sacerdote, che parlasse in quel modo: finché trova
pretesti, difficoltà si può persuadere, cercare di sormontarle,
ed appianare la via, ma quando vi dice che non vuole, è un
affar finito, è padrone, è inutile parlare, e non ci resta che
pregare per lui.
L’altra disposizione, che io accennava per giungere ad
essere, e formarci veri e buoni sacerdoti è di destare in noi
una franca, sincera e risoluta volontà di riuscirvi.
Par inutile parlar di questa disposizione a chi è già prete,
poiché se ha abbracciato questo stato, l’avrà fatto di sua
scielta, nessuno certo l’avrà forzato, e se volontariamente si
è dato a cotesta carriera Ecclesiastica, par naturale, e
necessario che abbi volontà di esser tale; eppure io vedo un
importanza massima di chiamar ad esame cotesta nostra
volontà, per analizarla, per valutarla, per saperne che cosa
abbiamo a sperare, poiché con tutte le migliori esortazioni,
faremo mai niente finché non verremo a quella generosa
risoluzione che io vi diceva: epperciò io distinguo tre sorta
di volontà in chi si fece sacerdote. I primi che si fecero
Eclesiastici senza volontà, altri con vera volontà, se volete,
ma limitata, e fino ad un certo punto; quando sia prete
penserò poi io la vita, che avrò da fare, e quello che mi
converrà. I terzi poi decisi, risolti a qualunque costo di
riuscire interamente, compiutamente tali, veri, e santi
Sacerdoti. Comincio a dirvi sulle prime, che pur troppo
speriate niente ne’ da primi, né da secondi; e per cominciare

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da’ primi, come può essere che uno abbi abbracciato lo
stato Eclesiastico senza volontà di esser tale? nessuno l’ha
forzato, forse nessuno l’ha suggerito, si dispose da se
medesimo, come dunque può essere avvenuto? Ecco
spiegato l’arcano: in questi primi io metto tutti quelli che
hanno abbracciato questo stato per fini umani, come un
mezzo di sussistenza, perché non sapeva a che strada, a
quall’arte appigliarsi, perché gli andò a male un altro
tentativo, perché così voleva la posizione della famiglia, il
desiderio de’ parenti, la speranza di qualche risorsa: per
questi od altri simili motivi, abbracciarono, dico, lo stato
Eclesiastico senza curarsi, ne darsi animo, o pensiero di
studiarne lo spirito, ed i doveri: contenti solo dell’abito, e
del carattere per arrivare al suo fine. Un giovane che stava
per essere ordinato si mostrava molto contento, e perché?
perché, andava ripetendo, questa volta avrò un pezzo di
pane, troverò un impiego, e anzi non avrò più da pensare
per vivere. Ecco il caso mio: ecco chi vuol essere
Eclesiastico per essere provvisto temporalmente, e dall’altra
parte non vuol esserlo, perché non si da pensiero di divenir
tale di spirito, e di fatto; già se voi l’interrogate, che cosa
vuol fare da sacerdote: vi risponderà, che sarà sua volontà
di recitare l’Ufficio, celebrare la Messa, e fare quello che fa
un altro prete; ma questo non basta; la materialità di queste
opere non sono quelle che formano il vero Sacerdote, e
valgono tanto quanto ne è lo spirito che le informa, e
mancandovi ne viene col tempo che o si tralasciano perfino
le opere, o si fanno alla peggio: ed infatti invitate, fate la
prova, e dite a qualcuno di cotesti che si prestino a qualche
opera di ministero, che pensino a studiare, a darsi un po’
più al ritiro, in sostanza ad una vita più da Eclesiastici,
rispondano francamente che niente loro importa, altri
facciano come credono, Eglino hanno già quel che

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vogliono, non hanno bisogno di più, e con ciò tutto è finito
per loro: e non è da stupire: si sono fatti sacerdoti per
questo fine, l’hanno raggiunto, e non andate più ad
inquietarli; e qui appunto hanno luogo tutti que’ lamenti de’
SS. padri, che voi sapete. Multi sacerdotes, pauci sacerdotes: multi
nomine re pauci: Ecce mundus sacerdoti fervet, sed tamen in Messe
Dei rarus operator invenitur. Officium sacerdotale suscipimus,
perché questo ci va per venir nel nostro intento, sed opus
officii non implemus perché se ne può far a meno, e non si
pensa.
L’altra classe è di quelli che sono entrati in questo stato
coi fini anche buoni.
Ma che? non persuasi abbastanza dell’importanza, ed
altezza della lor vocazione, non conoscendo appieno lo
spirito, ed i doveri del loro stato si prefiggono un certo
punto di condotta, e di bontà, e se non lo dicono colle
parole, lo fanno conoscere co’ fatti, che a loro basta esser
così, e non occorre riuscire migliori; ed infatti se voi li
eccitate ad avanzarsi, a riempirsi un po’ più di spirito, e
darsi più decisamente alla pratica, all’esercizio della virtù,
della mortificazione per esemp. del distacco dalle cose del
mondo, della ritiratezza, dicon subito. oh! io non mi sento
d’andar tanto avanti, a me ha sempre bastato così, vada
avanti chi vuole; di modo che può dirsi che riescono
sacerdoti a metà, un po’ di Dio, un po’ del mondo; or
occupati di cose di Chiesa, or di cose secolaresche; un
giorno lavorano, l’altro no! un dì lo passeranno in opere di
Ministero l’altro di in partite, in buffonerie; un giorno
hanno la testa a pregare, in un altro pieni di dissipazione, e
divagati; sicché la loro vita non è che un intreccio, un
miscuglio di cose sante, e profane, di eclesiastico, e di
mondano, tal che si potrebbero chiamare uomini anfibii,
come li chiama un pio Autore; se li senti, li osservi, li

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adocchi un momento sembra che sieno ancor buoni
Ecclesiastici; se li osservi in un altro non pajono più quelli,
e che sperare da cotesta classe di Sacerdoti? purtroppo ve
l’ho già detto che non v’è gran cosa, anzi un bel niente; e
perché? eccone la ragione. Noi ci troviamo in uno stato, in
cui non si dà mediocrità. Il Sacerdote vien paragonato alla
Verga di Mosè. Sollevato in aria, opera prodigi; gettato per
terra diviene un serpente, che uccide, avvellena; o che
siamo veri eclesiastici, epperciò grandemente buoni; o che
non lo siamo e pur troppo saremo anche noi grandemente
cattivi, e mediocri, lo ripeto, non possiamo starvi. Si deve
dire di noi quello che si dice d’un tale che abbi un gran
negozio alle mani, tenga pendente una gran lite, o sia
spedito a trattare un affare di massima conseguenza: se va
bene, e lo riesce, resta un uomo distinto, per fama, per
abilità, per richezza: se lo sbaglia, è un uomo perduto, e
rovinato. Così è dell’Eclesiastico: Egli ha a trattare sulla
terra il più grande tra negozi ed affari; Egli hà a sostenere
una lite, una lotta col mondo, e col demonio di tutta
importanza; se la vince, e vi riesce, è un uomo eminente, e
non può a meno che distinguersi fra gli altri: o che lo tratta
da debole, da fiacco, e lo perde, ebbene allora diventa fra
tutti il più vile, il più abietto, il più cattivo; e mi spiego: o
che il Sacerdote anche di poca capacità è veramente buono,
ritirato, edificante, alieno da luoghi di dissipazione, e
profani, dato allo studio, alla pietà, alla mortificazione,
occupato in cose di chiesa e di Dio, oh! un sacerdote tale
ditelo pur un uomo eminente, distinto e grandemente
buono perché lo è, anche di poca abilità, ripeto, anche
senza titoli, senza impieghi, e quasi sconosciuto, pur egli è
una perla, un tesoro di gran valore, pel corredo di quelle
virtù, che lo accompagnano, pel bene che opera colle sue
parole, e buon esempio, per le benedizioni, che ottiene

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colle sue preghiere: fate invece che il sacerdote declini
anche a metà da quella vita, ed eccolo tutto questo
sperperato, e perduto, ed ecco l’uomo più grande della terra
divenuto inutile, dannoso, e cattivo pel bene, che più non
opera, ma molto più pel male che col tempo sarà per
cagionare; e qual sarà adunque la conclusione a dedursi dal
sin qui detto; ella è chiara, ed unica: ed è, chi vuol essere
sacerdote, si risolva, si decida ad esserlo veramente,
compitamente, intieramente: si quaeritis quaerite, diceva già il
profeta Isaia 21.12. E che maniera di dire ella è questa, dice
un Interprete, pare che avrebbe dovuto dire: si non quaeritis,
quaerite: ma no; soggiunge tosto, stava bene il detto del
profeta perché aveva da fare con un popolo che voleva, e
non voleva, tentennava, epperciò lo mise alle strette, ed
orsù decidiamoci, se volete cercare il Signore, servirlo,
cercatelo servitelo veramente, e non sia un apparenza solo:
si quaeritis, quaerite. Lo stesso ripeto io a noi Eclesiastici,
orsù risolviamo una volta, se vogliamo esser preti,
vogliamolo da vero: che vale averne il carattere, portarne
l’abito, per qualche opera da Sacerdote, ma nello stesso
tempo mondani, e dissipati, dati più all’ozio, alle cose
secolaresche che alla pietà, ed al Ministero: finiamola
cotesta alternativa, e giacché siamo sacerdoti, proccuriamo
d’esserlo intieramente: si aggiunga, si tolga, si riformi quel
tanto che occorre nella nostra maniera di vivere; sia poco,
sia molto; costi, o non costi, purché si giunga ad essere un
vero sacerdote: via quell’ozio, quell’inezia, che ci fa perdere
tanto tempo; via da que’ luoghi, da quelle case, da quei
convegni, si lascino quelle partite, quelle comparse a festini,
a fiere, a mercati, e che ha da fare il prete in questi giorni, e
con quelle persone: si studii, si preghi, si lavori, e non andrà
gran tempo che in questo modo ci formeremo veri
Sacerdoti, e con ciò uomini distinti, eminenti se non avanti

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il mondo, avanti Iddio che è quello che importa, uomini da
far gran bene per noi, e gran bene per gli altri: sì, o Cari,
pren- diamola cotesta risoluzione in questi giorni, e
vedremo i passi quasi giganteschi, che noi diremo nella
virtù, e per la strada del paradiso: guardate di che cosa è
capace un uomo quando si mette in testa un punto, e dice
tra se, ad ogni costo voglio farla, voglio riuscirvi; si suol
dire che fa portenti, che fa miracoli, e nessuno si stupisce,
chiunque capisce la ragione, perché ha preso l’impegno di
farla, e l’ha fatta; così nelle scienze, così nelle arti, così ne’
traffici e negozi, e perché non potremo farlo anche noi, e
perché non potrà un Sacerdote prendere quest’impegno e
riuscirvi? Orsù sono sacerdote, e voglio divenir tale, voglio
riuscirvi a qualunque costo; studierò, pregherò, lascierò
ogni altro affare, farò sacrifizi finché basti, ma voglio
arrivar al punto di essere un sacerdote non solo di nome, di
apparenza, ma di opere, di fatti, di spirito, di cuore, un
sacerdote insomma formato, e compito. Tanto più o cari,
che ora siamo ordinati, e Sacerdoti, e indietro non si
ritorna, o esser proprio tali, ed allora sarà certa la nostra
corona; oppur che continueremo nella nostra inerzia, e
languidezza, sacerdoti, e non sacerdoti, secolari, e non
secolari, ed io temo e pavento per un Eclesiastico di questa
fatta: temo pel tempo, temo in vita, pavento in morte,
molto più tremo per l’eternità, e pensiamoci.

Instruzione 3a
Sopra la Modestia
Noi abbiam veduto fin dalla prima volta che
l’eclesiastico benché un uomo come un altro per natura,
pure deve rendersi un uomo speciale, distinto, e non
ordinario per virtù, come lo è già per uffizio, e per

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carattere. Abbiamo quindi accennato le disposizioni, che si
ricercano come base, e fondamento per riuscire, e formare
quest’uomo particolare. Ora per assegnarne i mezzi da
adoperare per inalzare cotesta gran fabbrica, cotesta
grand’opera, qual è un vero, e compito Sacerdote, uopo è
separarlo, e dividerlo quasi in due, nel suo esterno cioè, in
quanto che compare avanti agli uomini, e nell’interno, che
lo caratterizza avanti Dio, e che forma la parte sostanziale, e
come il fondamento anche dell’esterno, che deve portare
avanti gli uomini. Il primo impegno, diceva già un Concilio,
nel sacerdote sia questo di regolare, comporre come si
conviene tutto il suo esterno. Sollicitudo prima ad hoc
rendere debet, ut exteriorem hominem componat sacerdos.
Cenc. Hild. Tronson. Epperciò noi prenderemo questa
mattina cotesto uomo esteriore, e vedremo
qual debba essere, esternamente un Sacerdote, e che
cosa abbi a formarlo? Egli deve essere un raggio, uno
specchio della divinità. Il Dio de’ Cieli è invisibile, ma non
ha voluto privare totalmente gli uomini di questo conforto
di vederlo, di mirarlo, di fissarlo, avvicinarsi a lui, e
parlargli, e che ha fatto? ha scielto un uomo, lo separò dal
resto degli altri, lo rivestì di suoi poteri, e lo elevò tant’alto,
da constituirlo suo ministro, e rappresentante in terra,
sicché l’occhio del credente al vedere, al contemplare un
Sacerdote in tutto il suo esterno dovesse dire tra se: ecco il
mio Dio; e mi spiego; Ecco una persona, che mi ricorda
Dio, che mi rappresenta Dio, mi raffigura, e quasi mi fa
vedere co’ miei occhi Iddio. Ah! che grande pensiero! che
altezza, e che nobiltà di grado per un sacerdote, ma nello
stesso tempo che delicatezza, che incarico immenso da
spaventare un Eclesiastico, che per poco vi pensi. Venga di
nuovo in quest’oggi colui che stenta a persuadersi che lo
stato nostro sia stato di soggezione, e di riguardi, quando

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pensi che ovunque, e sempre deve rappresentare nella sua
persona come un Dio vivente, e dimorante in terra. E che
cosa, andiamo innanzi, avrà da formare questo uomo
esterno del Sacerdote, che ha da essere così regolato da
renderlo come un Dio in terra. Una virtù sola, o per meglio
dire, una virtù, che in se racchiude tutte le altre; quando ella
vi sia, noi abbiam formato in poco quest’opera sì grande,
non occorre cercare, aggiungere altri pregi. Ma se manca,
l’opera è perduta; ben lontano il Sacerdote d’essere in quel
caso un raggio, uno specchio di divina bellezza, non sarà
che uno spettro da rendere più o meno deforme e cattiva
l’idea, la vista del suo Signore. a’ Cotesta virtù, fratelli miei,
ella è la Modestia; la Modestia virtù purtroppo poco
conosciuta, poco stimata, epperciò poco praticata anche da
noi Ecclesiastici. Sia il soggetto del nostro trattenimento, e
vedremo che cosa sia questa Virtù, quanta l’importanza,
quale la pratica, e senza più cominciamo.
S. Tommaso parlando della Modestia, dice che Modestia
dicitur a modo. V’è una modestia, che si potrebbe dir
generale, perché riguarda tutte le virtù, poiché non è virtù,
quella che non osserva modo. Ma v’è una modestia
particolare, che è quella, che comunemente, e più
propriamente si chiama modestia, che è quella, che noi
vogliamo considerare, la quale riguarda corporales motus, et
actiones: ut scilicet decenter, et honeste fiant, tam in his quae serio,
tam in his quae ludo aguntur. Ne crediate con ciò, che ella sia
una dote, e qualità solamente esteriore, e meccanica; essa è
una vera virtù, che tiene il suo fondo, il suo principio, la sua
radice nell’interiore dell’anima, cioè a dire nella perfetta
disposizione, e moderazione delle passioni, ed affetti
dell’animo, e che si manifesta per segni esterni, con cui
modera, aggiusta, e dispone l’esterno in quella forma
medesima che tiene aggiustate e disposte le cose interne

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dell’anima. E da qui ognun veda che la Modestia non è già
una virtù di sola apparenza, piccola, e propria solo di certe
persone, e di certi stati, di donne, di claustrali, di novizi; ella
è virtù vera, virtù grande, virtù comune a tutti, virtù fra
tutte ricca, e preziosa, ed è S. Ambrogio che parla: dives est
modestia: dives apud Deum, apud quem nemo dives: dives est quia
portio Dei est. L. off. 1.14. Gran lode è questa della virtù della
Modestia, e che merita d’essere ben ponderata.
Ouomodo dive? et dives apud Deum, apud quem nemo dive?
Come mai una virtù potrà avere una forza così taumaturga
da render un uomo così miserabile talmente grande, e sì
ricco da potersi chiamar tale anche davanti a Dio, al cui
confronto tutti sono poveri: apud quem nemo dives: eh! non
crediamo che un dottore sì sensato abbi parlato in aria: dives
est modestia e lo disse appoggiato a soda autorità, e persuaso
da buone ragioni.
L’Appostolo S. pietro prima di Lui parlando della vanità
degli ornamenti esterni, raccomandava di non andar dietro
a quelle frascherie esterne, ma bensì far caso, e stima
dell’uomo interno, il quale si manifesta per mezzo d’uno
spirito quieto, e modesto, che è ricco al conspetto del
Signore: …sed qui abscondius est cordis homo in incorruptibilitate
quiete, et modesti spiritus, qui est in conspectu dei locuples 1 Per. 3.3.
Le ragioni poi che determinarono il nostro Santo a chiamar
ricca la virtù della modestia non potrebbero essere più forti.
Ho già detto che cotesta virtù benché esterna, al dire
dell’Angelico tiene la sua radice nell’interno; in quella guisa
che la sanità sta nel perfetto equilibrio, e disposizione
interna, ma si manifesta per segnali esterni di brio, di
vivacità, di colore; nel modo medesimo che la bontà d’un
orologio sta nel perfetto accordo del suo interno
macchinismo, ma lo fa conoscere coll’esatto segnale che sta
all’esterno. Cosi è della Modestia. Quello che noi vediamo

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in quell’Eclesiastico modesto, quello che noi leggiamo da
capo a piè in quel Sacerdote ordinato, e composto, non è
che l’indizio d’un tesoro che sta là dentro come nascosto e
sepolto, e voglio dire è l’effetto e niente più di quella virtù,
di quella forza, di quella padronanza con cui cotesto
sacerdote comanda nella casa sua interna, di quel modo
mirabile, e divino, con cui regola, aggiusta, e dispone tutto
se stesso, epperciò che corredo di virtù, che cumulo di
meriti da farlo ricco avanti al Signore. Ed infatti è
impossibile concepire un uomo ordinato, composto,
modesto senza ché nello stesso tempo tenga imbrigliate
tutte quante le sue passioni; e ditelo voi come potrà essere
modesto il Sacerdote nel suo portamento, nelle sue parole,
ne’ suoi gesti, ne’ suoi sguardi quando non abbia umiltà,
pazienza, mansuetudine, carità, castità, prudenza? come
possedere cotesta virtù quando non abbia un uso, una
pratica, un esercizio continuo, pronto, assoluto di quella
generale virtù, che viene chiamata mortificazione del suo
umore, del suo carattere, e di tutti i suoi sensi; per qualche
volta, ed in qualche caso può fingere, può farsi forza, e
simulare; ma farlo abitualmente, quasi senza pensarvi, con
facilità, con prontezza è impossibile senza una padronanza
grande sopra di se, lo che non si ottiene senza un esercizio
ben lungo, e ben rigoroso di virtù, e di mortificazione.
La Modestia non solo suppone, ed ha per base, e
fondamento tante altre virtù, ma di più le aumenta, le
fortifica, perché le tiene sempre in atto ed esercizio, lo che
forma un altro fonte di meriti, e di richezze app. Dio. La
modestia, se ben si considera, è come una croce, su cui sta
confitto immobile tutto l’uomo giorno e notte, e quando è
solo, e quando è accompagnato, o sia che lavori, o sia che
riposi. Su questa croce non ista confitto solamente di mani,
di piedi, ma in tutte le parti dell’essere suo esteriore: gli

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occhi, le orecchie, la lingua, per fino i cappelli si possono
dire confitti da questa virtù, e su questa croce, e ciò senza
interruzione, senza quiete, senza tregua; ditelo adunque voi
se questa forma di vivere in esercizio continuo di virtù non
sia una sorgente perenne di ricchezza grande di meriti: dives
est igitur Modestia dives apud Deum presso cui non passa senza
merito l’abbassamento di un occhio, e la mortificazione
d’uno sguardo può fruttare più che l’acquisto d’un Regno:
dives apud Deum Modestia: et dives quia portio Dei est. E che cosa
vorrà dire questa gran parola, portio Dei est, io nel saprei, ma
certo che non può essere che una cosa ben grande, o sia
che noi vogliamo intendere che cotesta virtù della modestia
sia un gran dono di Dio, o sia che portando la Modestia
una gran ricchezza di meriti, sortisca in Cielo una special
mercede nel possesso del Signore, o sia come vogliono
molti, che la virtù della Modestia abbia questo di
particolare, che comunichi all’uomo anche nell’apparenza e
forma sua esteriore una cert’aria di divinità, e serve a
meraviglia a spiegar questo pensiero ciò che si legge del
divin Redentore, che era tale, e tanta la sua modestia, che lo
rendevano come un oggetto d’incanto dinanzi agli uomini,
ed agli Angeli; e che in mezzo a tutti i suoi abbassamenti ed
umiliazioni lo facevano riconoscere per un Dio di sovrana
Maestà: Apparuit inter homines modestus dominus Majestatis.
Tronson, o come scrive S. Ambrogio, era tale la
compostezza, e lo splendore della sua persona, che bastava
rimirarlo in faccia per conoscere chi egli fosse. Majestas
divìnitatis occulta exterius lucebat in facie. Cosi anche racconta
Dionisio l’Areopagita della Vergine SS.ma, che vedendola, a
quella singolare modestia, si senti talmente mosso, e rapito,
che l’avrebbe adorata come Dio, se la fede non l’avesse
fermato.

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Conchiudiamo adunque a lode di questa gran virtù, che
dives est Modestia: dìves pel corredo di tante virtù, che porta
seco: dives pei tanti meriti per l’esercizio continuo di
sacrifizi, e mortificazioni; dìves finalmente per la forma che
imprime, che stampa sulla persona, che la possiede da
renderla come una parte, una porzione del medesimo Dio:
dives quia portio Dei est.
Vista la natura, conosciuto il pregio di questa virtù, non
ci resta per impegnarci ad averla, che ponderarne
l’importanza. Tre sono i principali motivi, che ci devono
persuadere cotesta grande virtù, il credito, e la riputazione
nostra, l’edificazione del prossimo, l’onor e la gloria del
nostro Dio. Cominciamo dall’ultimo, perché più nobile, più
sublime, e perché deve esser sempre il primo in tutto e per
tutto per un Eclesiastico, che è già un uomo del Signore:
homo Dei. Vogliamo che questo Dio sia stimato, onorato, e
servito con rispetto, con riverenza, e con amore,
proccuriamo col nostro esteriore, e colla nostra modestia di
farne concepire un idea grande, e dignitosa. Il popolo, il
volgo generalmente parlando si forma l’idea dì Dio, della
sua Religione, e di tutte le sue pratiche, e funzioni, giusta
l’idea, e giudizio che si forma de’ suoi Ministri. La
Modestia, come abbiamo veduto, è quella virtù che rende
venerando quasi come una divinità il Sacerdote, e qual
rispetto, e venerazione, che i fedeli concepiscono
all’Eclesiastico la portano nello stesso tempo al suo
ministero, alle sue funzioni, alla Religione, a Dio medesimo,
perché sanno che è una cosa sola; se vi pensano, ne
parlano, vi si accostano, ogni cosa è sempre misurata colla
stessa stima, e riguardo: fate invece che il sacerdote
scompaja ai loro occhi per mancanza di gravità, e
compostezza, tutto diviene vile, e sprezzevole per loro; vile
il ministro, vile la Religione, vili le pratiche, e le funzioni

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religiose, vile starei per dire perfino Iddio: decet, entra quì a
parlare S. Ambrogio, decet actuum nostrorum testem esse publicam
aestimationem ut qui videt Ministrum congruis ornatum virtutibus,
Dominum praedicet, ac veneretur, qui tales servulos habet. Che
forza ammirabile di questa virtù da padroneggiare perfino
nel popolo l’idea, ed il concetto di Dio medesimo, e della
sua Religione; e non ci stupisca, poiché quest’effetto si vede
tuttodì nel mondo, e l’avremo provato anche noi. Entriamo
in una casa, dove non s’abbia ancora cognizione alcuna de’
suoi abitanti, e del suo padrone; noi al vedere, al
considerare le persone di casa, di famiglia, e di servizio ci
facciamo subito anche senza volerlo un idea, ed un giudizio
del padrone; se noi troviamo persone gravi, composte, ben
in ordine, ed arnese, con modi convenienti, e garbati si
desta naturalmente in noi un cerro rispetto, e riverenza
verso que’ famigliari, e con ciò un idea grande, e dignitosa
di quella casa, e di que’ signori, ed anche noi andremo
ripetendo nel nostro interno: oh! che persone, oh che casa
che ha servi, e famigli di questa fatta; invece se noi al primo
por piede, c’imbattiamo in creature di tutt’altra sorta puerili,
leggiere, dissipate, senza tratto, e senza modi, ci vien a vile e
servitù, e casa, e padroni, quand’anche ci sforzassimo a
pensar il contrario: tant’è vero che la bontà de’ servi e
ministri forma l’onore, e la gloria del suo Signore: decet
itaque,… ripeterò col gran dottore, ut qui videt Ministrum,,,,
Dominum praedicet, ac veneretur qui tales servulos habet.
In occasione che si faceva in publico una funzione
solenne, e che v’era molto clero di diversi gradi, ed anche
semplici Chierici, fra un mucchio di secolari che stavano
guardando, vi fu chi interrogava quai fossero preti, e quali
no, poiché non li conoscevano: un tale rispose per tutti, e
gli mostrò il segnale, e quale fu? forse chi era meglio
vestito, chi pareva più vecchio, chi camminava in posto più

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dignitoso, nò; quello appunto che trattiamo noi; guarda, gli
disse a voce alta, che potè essere sentita da molti, guarda
quelli, che tengono gli occhi bassi, quelli sono preti. Ecco la
logica, e la tessera che ha il volgo per conoscerci, e pesarci e
non già la scienza, il grado, il titolo, la divisa, ma l’esteriore
composto, e modesto; e ciò mi serve a passar al secondo
motivo per impegnarci in cotesta virtù, che è l’edificazione
del prossimo.
Qui non occorre stendersi molto, perché è troppo chiara
la cosa. L’esempio giusta il sentimento di tutti è quello che
più efficacemente, e quasi infallibilmente tocca, commuove,
ed edifica. Le prediche, le ammonizioni, le persuasione
edificano sì, instruiscono, e portano al bene ma non con
quella forza degli esempi. E famoso il detto de’ padri del
Concilio di Trento Sess. 22. Cap. 1. Nihil est, quod alios magis
ad pietatem, et Dei cultum assidue istruat quam eorum vita, et
exemplum, qui se divino ministerio dedicarunt. Vita, e questa è la
virtù, che lo fa buono, e santo. Ciò non basta per edificare;
quand’anche un Sacerdote fosse un oracolo per scienza, un
serafino per amore, finché non da segni, non lo fa
conoscere, non compirà all’altro suo dovere qual’è oltre
d’esser buono edificare gli altri, ed eccitarli alla virtù, e
santità. Exemplum questo necessariamente ci vuole per
l’edificazione de’ prossimi. La virtù fa l’Eclesiastico buono
in se, e per se, l’esempio lo fa buono per gli altri; e
quest’esempio lo fa, lo da appunto colla Modestia, la quale
mette in mostra la bontà, e virtù dell’Eclesiastico, epperciò
propriamente edifica: e come? lo dice il Medesimo Concilio
Quia est perpetuum quoddam praedicandi genus. Ella è questa una
predica continua, ed una maniera di predicare che fa
l’Eclesiastico tutto lingua da capo a’ piedi. Predica cogli
occhi, colle mani, co’ piedi, colle vesti, perfino co’ capelli;
ed è tanto forte, e valevole questa maniera di predicare, che

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va mai senza frutto, perché o guadagna chi vede, o lo
condanna; o l’anima al bene, o lo confonde, e svergogna del
suo male, che è appunto quello che osservò un S. Padre, e
con ciò animava l’Eclesiastico alla pratica costante di questa
virtù. Te qui interioris hominis oculis inspexit, cioè ti mira con
riflesso, instructus est, solo con vederti senza bisogno d’aprir
bocca; nam cum facie ipso foveas puritatem, delinquentes feriato ore
castigas; sì o cari teniamolo ben a mente, quel volto
composto a tranquillità, e quiete, quegli occhi dimessi, quel
sembiante piacevole, e candido, quel capo fermo, e quieto,
quel portamento dignitoso, quel camminare naturale, e
grave, quella maniera di vestire pulita, ma semplice;
credetelo, tuttociò è un colpo, è come una saetta per gli
uomini leggieri, incostanti, mondani, e dati al bel tempo, e
l’aveva già detto fin da’ suoi tempi S. Cipriano: Cum quis
spiritualiter vivit che è la vita, che deve fare l’Eclesiastico, ed
insegnarla agli altri, huius habitus ipse, incessus, et verba, et actus
et omnia prorsus audientibus e voleva dire, videntibus prosunt. Tutto
giova nell’Ecclesiastico modesto, ed a che? a far concepire
dal popolo un’idea grande, e dignitosa di Dio, e della sua
Religione, come già vi diceva; giova ad edificare il nostro
prossimo, ed allettarlo alla sequela di quella virtù, che rende
così amabili, e veste di tante attrattive, chi la prati-ca; giova
in fine a far sì che il mondo ci abbia un tal qual concetto, e
stima, che è il terzo motivo.
Non crediate primieramente che la cura della nostra
stima, e del nostro credito provenga da superbia, e possa
essere vizio, e dispiacere al Signore. Nò, non può essere
quando si faccia col debito fine, anzi è prudenza, è regola di
buon governo, è pratica di carità, è debito di giustizia. Per
quello che concerne il tuo particolare, non ti curare, dice S.
Giò. Crisostomo, d’avere amore, e stima, anzi cerca
piuttosto le umiliazioni, e disprezzi, perché questa è

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materia, e pratica delle più belle virtù, è cumulo di meriti
più ricchi, e preziosi; ma non così, continua il Santo, per
quello che riguarda la salute altrui, poiché sarebbe inutile in
tal caso, anzi dannoso il ministero nostro: cujus vita despicitur
restat ut ejus praedicatio contemnatur, dice S. Gregorio, e che
volete fare d’un Eclesiastico di poco concetto, e di poca
stima, gittatelo pure nella strada che vai più a niente: servum
inutilem mittite in tenebras exteriores a far mucchio colla gente
più oscura, e meschina. E datemi un sacerdote, che non
abbi credito, non goda la stima, la riputazione, la
confidenza del popolo, e che farà? mettetelo all’Altare, e
che sarà di quella Messa? fatelo scendere sopra d’un
pulpito, e che fede si presterà alle sua esortazioni benché
dotte, sane in dottrina, efficaci nell’energia, e piene
d’ardore, e di zelo? si metta a siedere nel Tribunale di
penitenza, vorrei sapere quanti veri penitenti egli possa
calcolare, cui possa esser utile; io non so chi voglia metter
l’anima sua nelle mani di colui, che ognun sa non saper
dirigere, e regolare la propria: mettere in sostanza tra le
mani di costui l’azione, che volete, ma anche l’azione, più
santa, più tremenda che voi vogliate non avrà più credito
nel popolo di quello che n’abbia l’eclesiastico, che la
maneggia. Con ragione perciò etc. ragione perciò gli
Appostoli cercando qualche compagno nell’aiuto del
ministero prima d’ogni altra cosa volevano che fossero
uomini di riputa-zione, e di credito: viros septem beni testimonii.
L’Appostolo instruendo que’ due grandi Eclesiastici
Timoteo, e Tito tra tanti, e gravi precetti, e ricordi, che loro
dava, uno de’ più principali fu, che si diportassero in
maniera, che nessuno a loro soggetto avesse avuto
ardimento di dar segno di poca stima. Io non mi fermo più
a lungo su tal punto, poiché è tanto chiaro, ed evidente; ed
invece dimando: e questa stima, e cotesto concetto così

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necessario nell’Eclesiastico per far bene ne’ prossimi, che
cosa gliel’ha da conciliare; sovra tutto ella è la modestia. È
vero che questo concetto si forma sopra la virtù interna, ma
chi ha da mostrare cotesto virtù al di fuori: appunto la
modestia, che da il conveniente modo all’esteriore
dell’uomo, ed assicura, e fa fede di quel fondo, che non si
vede. Ex visu cognoscitur vir, et amictus corporis enuntiat
de illo, Ecles. 19.27. Il valore dell’oro certo che sta nella
sostanza,… ma ciò che attesta del suo valore, che non si
può vedere, è appunto quello che si vede, si tocca, il colore,
il suono, il peso colle altre qualità, che s’apprendono dà
sensi: Quis sapiens, et disciplinatus inter vos: Ecco la virtù
interna: ostendat ex bona conversatione. E questo è l’esteriore
del portamento. Così parlava S. Giac. Appostolo 3.13.
Basti fin qui l’aver detto dell’importanza della Modestia,
passiamo all’ultima parte, qual’è assegnarne la materia, e la
pratica, e voi lo sapete, che la materia è ampia: guardate
l’eclesiastico da capo a piedi, e li v’è niente di eccetuato; la
modestia lo deve come coprire, e vestire. Portate il
Sacerdote, e consideratelo dove volete in chiesa, fuori
chiesa, in casa, per le strade, al lavoro, od al sollievo,
ovunque voi dovete trovargli cotesto virtù, quando Egli sia
vero Eclesiastico: nessuna parte di se eccetuata, nessuna
circostanza di luogo, di tempo, di affari lo può dispensare.
L’abbiam già sentito fin da principio dal dottor Angelico,
che la modestia ha per iscopo, e per materia sua primaria, e
diretta Corporales motus et actiones, ut scilicet decenter et honeste
fiant tam in his quae serio, tam in his quae ludo aguntur, sicché o
seriamente operi, o scherzi allegramente e giuochi, la
modestia è quella che ha da regolare il tutto; non solo le
azioni, ma ancor le cose che appartengono all’uso, al
comodo, al decoro medesimo delle persone, che il tutto sia
ne’ termini della debita convenienza, ed onestà: ut omnia

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fiant decenter, et honeste. Tutto questo intesero i padri del
Concilio quando prescrissero a tutto l’ordine clericale in
quella si grave forma: sic decet omnino Clericos in sortem Domini
vocatos vitam, moresque suos omnes componere, ut habitu, gestu,
incessu, sermone, aliisque omnibus rebus nihil nisi grave, moderatum,
ac religione plenum prue se ferant. prescrive or in questo or in
quel Concilio la Modestia nell’abito, di qual colore, di qual
taglio, di quale misura. prescrive del gesto delle mani, come
tenerle, come muoverle, quando fermarle, con che
moderazione, con che riguardo, e misura. Prescrive del
camminare qual debba essere il passo del Sacerdote sia in
chiesa, che fuori. Prescrive del parlare, e con ciò quel tanto
che ci vuole al parlar bene, ave un tuono, un modo più che
un altro, questa o quell’altra frase, perché una parola anche
sola può screditare di molto un Eclesiastico. Prescrive poi
universalmente di tutto, aliisque omnibus rebus, e non vuole
che in cosa alcuna, quanto sia possibile apparisca neo, anzi
che in tutto compaja gravità, moderazione, e religione, e
che vuol dire Religione? che in tutto l’Eclesiastico anche
quando mangia, dorme, ride, giuoca, passegia, e si diverte
ha da far conoscere a tutti che Egli è un uomo di chiesa, un
uomo di Dio. E chi dimandasse, perché tante regole,
perché tanto rigore da non farsi replica sic decet omnino etc. è
inutile che dimandiate ragioni; bisogna far così; perché dico
tutto questo? sentiamo lo stesso Concilio: ut eorum actiones
cunctis afferant venerationem perché tutti abbiamo ad avere pel
Sacerdote rispetto, credito, e venerazione; e per ciò niente
di più conducente, e di più efficace che la Modestia, come
osserva S. Giò. Crisostomo: Modestia nihil efficacius.

E non crediate già, che cotesto Spirito, e cotesta


delicatezza della Chiesa abbi cominciato col Concilio di
Trento, perfin già Agostino raccomandava quasi cogli stessi

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termini la medesima cosa a’ chierici de’ suoi tempi: In
incessu, statu, habit, et o omnibus motibus vestris nihil fiat, quod
cuiusquam offendat aspectum. Benché cotesta virtù abbia un
campo così vasto, ed esteso, però io la raccomando
specialmente in Chiesa, in tempo di Sacre funzioni in tutto
quello che riguarda l’esterno della persona, ma
principalmente degli occhi. Se fosse lecito, qualche volta, o
almeno fosse utile, e conveniente accostarsi a qualche
sacerdote in coteste occasione, e dirgli francamente: gli
occhi a terra, o caro, e pensa che con Dio non si burla. Noi
siamo testimoni giornalmente delle irriverenze, degli
scandali, della dissipazione che mostrano molti de’ secolari
ne’ sacri Tempii, e durante le medesime funzioni; noi siamo
soliti incolparne la loro malizia, e mancanza di fede; lo sarà,
ma non temo di dire che anche l’immodestia nostra, la
nostra incompostezza, la non curanza del nostro esteriore
in sì fatti luoghi, ed in sì fatti tempi deve averne una gran
parte; e non si vedono Sacerdoti che in Chiesa, all’Altare, in
Confessionale, anche vestiti de’ sacri paramenti, non dico
solo alzar gli occhi, ma vagarli or da un canto, or da
un’altro, fissarli quasi che volessero studiar la gente, star
così irrequieti, incomposti di capo, di mani, di piedi da far
conoscere che penano, e non possono più reggervi; e come
volete che a questa vista che il popolo s’edifichi, ed impari a
rispettare, e stare con decoro, e compostezza nelle case del
Signore. Un secolare stava in Chiesa pensando se, ed a chi
dovesse presentarsi per fare la sua Confessione, quando
vidde il Confessore, che sbrigato un penitente da una parte,
prima di mettersi all’altra, si fece a scorrere cogli occhi la
Chiesa, e non contento ancora, si cavò un piccolo
cannocchiale per meglio vedere i fatti suoi; il secolare
veduto questo, diè tosto di mano al suo cappello, e disse,
questi Signori Confessori non fanno per me, e prese la

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porta. Ma io fo questo senza pensarvi, e quasi senza
accorgermi? e che importa? il male si fa egualmente, e non
crediate di potere essere scusati, poiché se vi manca
l’avvertenza attuale, vi è l’antecedente, che basta, e lo sapete
bene che avete quel costume, e quel abito, e perché non
v’impegnate ad emendarvi. Oh! … nel mio paese, nel
luogo, dove sono io, ho sempre fatto così, nessuno ha mai
detto niente, nessuno s’è mai scandalizzato per quanto io
sappia, oh! si il modo, con cui stanno in Chiesa tanti, e
quasi tutti in certi luoghi fa vedere purtroppo se abbino
sofferto scandalo, o no, epperciò lo ripeto: ah! se noi
Eclesiastici in Chiesa, in tempo di funzioni, e molto più
parati, fossimo tutti, quali dovressimo pur essere, specchi di
divinità per modestia, composti, gravi, dignitosi, gli occhi
principalmente fermi, e dimessi, io penso che più d’uno
scandalo, e più d’un irriverenza sarebbero di meno nella
Casa del Signore: e come volete che il Sacerdote anche
grossolano, ignorante, o maligno abbi petto, e coraggio di
mostrarsi irriverente quando tenesse abitualmente a fronte
un sacerdote, che colla sua compostezza, e modestia le
ricordasse il luogo ove si trova, l’obbligo che gli corre,
epperciò l’irriverenza, che commette? Ma e quali mezzi
potranno servire ad un Sacerdote per giungervi, e rendersi
tale. Non crediate già che per esser modesto convenga esser
mesto, e malinconico, che anzi un sembiante sereno,
tranquillo, ed allegro è egli l’effetto di questa virtù: vultus
serenus, come dice S. Bernardo, quamdam in facie hilaritatem
praetendens.
I mezzi che io suggerisco sono due, un riflesso cioè etc.
alla mente, ed un opera alla mano. Un riflesso, ed è che
siamo sempre, continuamente sotto gli occhi di Dio; se la
vista, la presenza d’un gran personaggio del mondo ci mette
in tanta soggezione, e cautela da farci misurare, ogni

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movimento, ogni termine per non dare in isconvenienze, e
sgarbatezze, che forza non dovreb-be avere per un credente
cotesto pensiero: Dio mi sente , Dio mi vede , Iddio mi
guarda , in questo momento sta mirando la mia maniera di
stare, di camminare, di ridere, di scherzare. Ma per un
Eclesiastico v’è di più. quel Dio, che mi vede, e che mi
guarda è quegli stesso, che m’incarica di rappresentarlo; se
io parlo è come parlasse Iddio; se guardo è come guardasse
Iddio: se siedo, se cammino, se rido, se mi diverto, in tutto
è come se lo facesse Iddio stesso; io fo le vece sue, sono un
istrumento suo, ogni cosa è più sua, che mia, perché lo fo
per lui, ed a conto suo, sicché in ogni cosa per minima che
sia egli ne guadagna, o ne scapita, ogni cosa può aumentare,
ogni cosa può diminuire l’onore, la gloria sua. Epperciò da
me dipende la figura, la comparsa che in questo momento
fa Dio sulla terra. Ah! un sacerdote che viva di questa fede,
che animo, e che stimolo a contentare, a compiacer questo
Dio, ed a far sì che non abbia a scapitarne nell’onor, e nella
gloria sua. Oltre però cotesto considerazione ci vuole un
fatto, ed un opera di mano, e sarà quella medesima, che si
usa con una pianta, che si stenti a contenere nell’ordine, ed
aggiustata; e prendiamo la vite che fra tutte si può dire una
delle più dissolute, scomposte, e prive di modi: si taglia, si
trincia, si sfronda, si lega, sino al punto da ridurla quasi la
più acconcia, ed a fare la miglior figura. Ecco l’opera di
mano da usar con noi per renderci composti, ordinati,
modesti: quest’occhi, questa lingua, queste mani, in
sostanza tutto assieme l’arnese di questo corpo è
scomposto, scarpigliato, più che qualunque pianta del
mondo, gli occhi di qua, la lingua di là, or uno sguardo
curioso, or un gesto incomposto, or un tratto un po’ libero,
or una parola di troppo, un fare, un dire un diportarsi
irrequieto, incostante, leggiero, dissipato, per cui si vede che

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la persona non è che tessuto, un ammasso di confusione, e
di disordine al par d’una vite, che sia abbandonata a se
stessa: saprò io che cosa fare? sono io il padrone, e tocca a
me a comandare: orsù via quegli sguardi, a casa quegli
occhi, in dietro quella parola, ferme quelle mani, più grave
quel passo, più decente quella maniera di sedere, più
contegno, più decoro insomma in tutta la persona. Farò un
patto non solo cogli occhi, ma con tutto me stesso, e
lingua, e mani, e piedi, fin co’ capelli, che niente si faccia,
niente si muova senza che io vi pensi, lo voglia, e convenga.
Vedrete come in poco tempo questo corpo per scomposto
che sia verrà all’ordine, e non parrà più quel di prima, e la
gente attonita, sorpresa, edificata, andrà chiamando chi è
quel Sacerdote, chi sarà mai quell’Eclesiastico così devoto,
raccolto, modesto. Chi è? non lo conoscete, è tanto tempo
che è qua, l’avrete già veduto tante volte, e non lo
conoscete più? eh!… no, pare che non sia più quello, una
volta non poteva star fermo, aveva sempre gli occhi in aria,
ora pare proprio un altro: oh! è un altro, e lo stesso come
voi volete: lo stesso sempre di persona, ma un altro di
modi, di portamento, e di maniere. Come la vite ben
aggiustata è sempre la stessa, ma diversa dalla forma
primiera. Voi mi direte che cotest’opera sarà difficile, tanto
più a chi non ne ha l’uso. Io rispondo che al sacerdote di
buona volontà, e che, come abbiamo detto jeri, vuole
veramente rendersi un degno Eclesiastico, troverà mezzo, e
forza di farlo. Sarà difficile, eppur lo fanno tanti e tanti
secolari, che non hanno i motivi, e le obbligazioni, che
abbiam noi; sarà difficile, ma questa difficoltà andrà
scemando ogni giorno, e verra tempo, e verrà presto
facendolo che ci costerebbe di più a tralasciare cotesta
mortificazione, che a praticarla; sarà difficile, ma comunque
sia, va fatta, perché sarà mai modesto, ed in conseguenza

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degno rappresentante del Signore sulla terra chi non è
mortificato: sarà difficile, ma riteniamo che Dio terrà conto
d’ogni nostro minimo sforzo; ogni atto di padronanza, che
noi eserciteremo su’ nostri sensi, non fosse che un moto
d’una palpebra, sarà scritto, e ci sarà pagato, e quanti meriti
un Sacerdote si può fare, che si dia a questa pratica,
mettetene che una decina al giorno, che è il meno, è quasi
impossibile star solo a questo numero. Quando
l’Eclesiastico sia uomo di mortificazione, si va a più, ed
anche a centinaja al giorno, ma supponetene solo una
decina, e moltiplicatela per settimane, per mesi, per anni,
per più anni, ah! che vista, che fondo, che fardello, che
corona di meriti al letto di morte, è per entrare nell’eternità:
e tuttociò senza tempo, senza fatica, senza strepito ad
insaputa del mondo, e quasi di noi medesimi; si noi
medesimi saremo stupiti quando circondati da queste opere
sentiremo un dì un coro di tante voci a dirci: opera tua sumus;
ed il mondo più stupito ancor di noi dovrà suo malgrado in
quel gran dì dell’universale Giudizio vedere, confessare, e
rendere omaggio a cotesta virtù secreta, nascosta si, ma
vera, grande, anzi eroica del buon Sacerdote. Così sia.

Istruzione quatra.
Sopra la fuga del Mondo.
Formato l’esterno del Sacerdote, e resolo uno specchio
di virtù col mezzo della mortificazione, e modestia da
rappresentare men degnamente che sia possibile la divinità
sulla terra, ci tocca entrar a dentro per vedere, , per
riformare, per perfezionare la parte più nobile, e più
preziosa, anzi la sola sostanziale, qual è l’interno, il cuor
d’un Sacerdote. Ah! un cuor sacerdotale, che termine
sorprendente! e che parola meravigliosa!! che ricchezza, e

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che tesoro inestimabile! Era già un portento di meraviglia il
tabernacolo antico sia per la natura del suo disegno, come
per la qualità della materia, quanto per la dignità del suo
autore, che era Iddio medesimo: ma e che aveva da fare
quel tabernacolo materiale tuttoché sì ricco, si bello, si
prezioso col tabernacolo vivente, e spirituale, qual è il cuore
d’un Sacerdote, fregiato non già di oro, e di gemme
preziose come l’antico, ma d’ogni sorta di meriti, e di virtù:
destinato non solo a contenere i segnali, i simboli della
divinità sulla tra gli uomini, ma a divenire, e formarne come
la Reggia, ed il Trono di questo Dio dimorante in sulla
terra. Eh! tocca a Dio a formar questo cuore, ad innalzar
cotesto tabernacolo celeste, a perfezionar quest’opera più
divina, che umana; a noi resta nient’altro che dar la mano
come Mosè, ed usar de’ mezzi per eseguire, per terminare
cotesto grande disegno . Il primo senza cui saran inutili tutti
gli altri sarà di allontanare tutto ciò che non è conforme a
questo cuore, si tratta di formare una cosa interna,
spirituale, celeste; via dunque per cotesta impresa quello
che è d’esterno, superficiale, mondano, e terreno; Dio ed il
mondo non stanno assieme; lo Spirito dell’uno è
incompatibile collo Spirito dell’altro; è di tutta necessità che
il Sacerdote si persuada di questo punto: non può essere del
mondo e nello stesso tempo essere di Dio, ne metà
dell’uno, e metà dell’altro: Iddio non viene a queste
partizioni, ne accetta condizione alcuna. L’Eclesiastico che
ha deciso, e vuole veramente esser tale, deve
necessariamente venir a questo taglio, a questo divorzio, a
questa separazione dal mondo. Separazione di cuore col
distacco, e collo sprezzo delle sue follie: separazione di
corpo, e della sua persona per quanto le sarà possibile colla
fuga, col ritiro, e colla solitudine. Ecco il tema, e
l’argomento della presente nostra Considerazione, e

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vedremo in prima la necessità di questa separazione dal
mondo in un Eclesiastico; 2. i vantaggi che ne riporterà e
per se, e negli altri. Finalmente additeremo alcuni mezzi,
che ci ajuteranno a difenderci, e tenerci lontani dal mondo,
e dalla sua dissipazione. Quel Dio, quel divin Redentore
che ripetè tante volte a’ primi Sacerdoti, agli Apostoli: voi
non siete più del mondo, io v’ho scelto, v’ho separato,
ricordatevi adunque che non siete più di lui, a lui più non
appartenete, preghiamolo che ce lo ripeta anche a noi in
questa sera da questa croce, da questo tabernacolo: figlio
mio, tu non sei più del mondo, sappilo, credilo, e tienlo
sempre alla mente: tu non sei del mondo, il mondo non è
più per te: t’ho scelto, t’ho diviso, t’ho separato, e che sorta
di divisione, di separazione fu questa? Ecco la prima cosa a
vedere, ed esaminare tra noi, cominciamo.
Separazione di affetto e di cuore. Ed a che servirebbe la
separazione materiale dal mondo nell’Eclesiastico, quando
vi mancasse quella dell’animo, e del cuore. Che gioverebbe
che un Sacerdote stesse tutto il giorno chiuso in una
camera, e si rendesse come invisibile nel mondo, ma che
frattanto la sua mente, ed il suo capo fosse pieno, occupato
d’idee, e di affari mondani; che pro che non si lasci vedere
col corpo, ma che nel suo interno, e co’ suoi affetti
tendesse, bramasse, sospirasse ciò che il mondo ama, cerca,
e sospira. Chi dice adunque un sacerdote ritirato intenda
primieramente un uomo che non solo di presenza, che è il
meno, fugge, e s’asconde dal mondo, ma che da lui si
separa, si divide nelle idee, ne’ pensieri, negli affetti, e ne’
desideri suoi; non pensa come pensa il mondo, non stima
quello, che il mondo stima e non cerca, non desidera ciò
che il mondo avidamente brama, ed aspira. Qual sia lo
spirito del mondo, le sue tendenze, le sue mire, i suoi
desideri, non occorre dubitarne: Quidquid in mundo est

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concupiscentia carnis est, concupiscentia oculorum et superbia vitae, è
tutto detto: scandagliate finché volete il cuore, ed i pensieri
degli uomini, e voi troverete che tutto è carnalità, desiderio
di piaceri, di roba, fumo, alterigia, e volontà di dominare.
Chi non può arrivarvi col fatto, lo desidera col cuore, e
s’ajuta, si sforza, si sviscera finché vi giunga, se le è
possibile; e quando non le riesca si cruccia, si dispera,
smania, ed alle volte si abbrevia, e si toglie perfin la vita:
dite loro, e ripetete che non sono fatto per questo mondo,
che tutto è fumo, e vanità, che ogni cosa è passeggera,
transitoria, che un altro mondo, un altra patria ci attende, e
più bella immensamente, più grande, ed eterna: oh! è un
linguaggio, che non intende, almeno che non vuol
intendere: durus est hic sermo, oppur col fatto, e soventi anche
colle parole diranno, come già quel Feste all’Apostolo
Paolo: di queste cose ne parleremo, altra volta: de hoc
audiemus te iterum e frattanto godiamo del mondo: ma se non
l’intende, e non vuol capirla il mondano, perché sono tanti
ciechi, perché non sanno che si pensino, e che si vogliono:
caeci sunt… sinite illos, la deve capire, ed intendere il
Sacerdote: non spiritum hujus mundi accepimus, sed spiritum qui
ex Deo est, 1° Cor 2. Noi scielti, e strappati dal mezzo del
secolo, siamo posti nel nostro stato come in una nicchia al
riparo, ed al sicuro di tutti questi lacci, ed inganni, e
volgendo un occhio di dolore, e di compassione, come già
il divin Redentore sulla sventurata Gerusalemme,
dovressimo esclamare anche noi, ah ciechi, e infelici, che
siete: se conosceste la falsità di quel terreno, su cui
camminate, la follia de’ nostri desideri, la pazzia di questo
mondo, la vanità di tutti i suoi piaceri, quanto meglio,
quanto bene per Voi. Noi felici che disingannati per lume
speciale di tutta l’apparenza delle terrene cose, e fatti
superiori per vocazione a tutto questo mondo già gli

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abbiamo voltate le spalle, e ci siamo abbracciati a questo
cuore, a questo Dio. Dominus pars haereditatis meae; io non so
che fare delle stoltezze di questo mondo le prenda chi
vuole, per me io m’abbraccio, io m’appiglio, io scielgo il
mio Dio per mia porzione, per mia parte, per mia haeredità:
dominus pars haereditatis meae: la scielta è fatta, la scielta non
poteva essere migliore, l’abbiamo dunque indovinata, ma
deh! cari non sia questa una scielta di puro nome: abbiam
detto di non volerne più saperne con questo mondo, sia
dunque per noi un fatto, questo passo, e non un mero
suono di parola; prima ancor delle opere sia questa una
realtà de’ nostri sentimenti; il discorso pronunziato dal
divin Redentore là sul monte, le beatitudini, la felicità colà
predicata sono un oggetto di burla, e di risa pel mondo; ma
pel Sacerdote deve essere un punto centrale, e di partenza,
deve averne una piena, e totale persuasione: ognuno entri in
se stesso; pensi bene, e dimandi schiettamente a se
medesimo: sono io persuaso, tengo proprio per certo che
sia beato, felice colui, checché ne dica, e pensi il mondo,
checché vogliano farmi credere i miei sensi, e le mie
passioni, io ma io Sacerdote nel mio interno, e nel mio
cuore ho per fermo che sia proprio una sorte, una fortuna,
una felicità davanti al Signore, e non già apparente, e di
nome, ma vera e reale, di colui che s’attacca per niente alla
roba, a’ comodi di questo mondo, e non li cerca, di chi sa
soffrire, tacere, e sopportare, di chi è vessato, censurato, e
vilipeso dal mondo, di chi piange, per croci e tribolazioni.
Quando in me vi sia questo Spirito, questo concetto, questa
credenza allora potrò esser certo d’avere in me, di
possedere lo Spirito del Signore, allora potrò dire d’essere
diviso, d’essere separato di cuore da questo mondo, poiché
altra è la mia maniera di vedere, di pensare, altra la sua; ne

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v’è speranza di potersi avvicinare, e convenire, poiché la
pensiamo in un modo totalmente opposto.
Ma per non sbagliarla in materia, ed in punto così
importante, ciascuno badi anche a’ segnali, a contrassegni di
questa nostra divisione, e separazione del mondo in materia
di giudizi, e sentimenti, e voglio dire, ciascuno osservi in
pratica, l’importanza, ed il peso che da alle cose del mondo,
il modo, con cui se ne occupa, gli effetti, che in lui produce.
Ditemi, o fratelli, vi sarà a sperare, e potrà dirsi, che sia
staccato, e diviso di cuore dal mondo quell’Eclesiastico che
ne’ suoi discorsi e trattenimenti non ha materia più
frequente, più gradita sulla lingua che cose secolaresche,
profane, speculazioni, viste, maneggi, partite, divertimenti, e
si vede che ne parla con impegno, con brio, con calore, con
possesso da farne un gran caso. Detto di quel secolare: non
parlano d’altro, che di vendemmia, di partite, di bottiglie, e
che so io. Sarà ripieno di questo Spirito un Sacerdote che
ad ogni occasione si presenti, se non va a cercarla, si
mischia, si occupa di faccende temporali, con tratti,
acquisti, vendite, negozi e ciò a fine di lucro, di guadagno, a
forza di calcoli, di speculazioni con discapito del suo
ministero, e di quella quiete, e raccoglimento così
necessario per l’interno d’un Sacerdote. Potrà in fine dirsi
sciolto, e slegato dal mondo, l’Eclesiastico che non sa
vivere in casa e non può passar un giorno senza trovarsi or
quà, or là, in crocchi, in partite, in passatempi, in
conversazioni; ed eccoci alla seconda parte della nostra
separazione, alla fuga cioè dal mondo. È vero che la
divisione dal mondo col cuore è la più necessaria, e
sostanziale, epperciò indispensabile, ma non ne viene che
possa trasandarsi la separazione corporale, e la fuga dal
medesimo; anzi è impossibile che un Sacerdote ottenga, e
giunga alla prima, e sia propriamente separato di Spirito,

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quando sia amico di girare, di vedere, di sapere, di ciarlare, e
divertirsi in mezzo al mondo; impossibile che sia interno, e
di Spirito sacerdotale un tale quando non sappia contenersi
in un conveniente ritiro di casa, e di camera sua.
Dico conveniente, perché parlando della fuga del mondo, e
della vita ritirata, che deve condurre un Eclesiastico, non
voglio che dimentichiamo la discrezione, e mettere in pari
grado il Sacerdote secolare con un Religioso, e Claustrale;
farò solo notare che costerà di più ad un sacerdote nel
mondo a conservare il proprio conveniente ritiro che ad un
Claustrale, perché costui ha porte, ha regole, ha superiori,
che lo guardano, e lo tengono, quando il Sacerdote non ha
che la propria virtù, che le serve di chiostro, di porta, e di
regola, e guai se questa viene a mancare, come un fiume che
ha rotto gli argini, che lo tenevano nel proprio letto, si getta
di quà e di là ovunque le torna conto, o lo porta
l’inclinazione, il capriccio, ed è allora che ci tocca piangere,
e lamentare il disordine, che già lamentava il profeta
Geremia: dispersi sunt lapides sanctuarii in capite omnium
platearum. Hier. 4.1. E chi sono interroga qui S. Gregorio,
coteste pietre del Santuario, che lavorate a bella posta
perché servissero d’ornamento, e decoro alla casa del
Signore, fuori suo luogo si vedono quà e là disperse miste e
confuse con ogni sorta di rottame: personae sacrorum ordinum
risponde gemebondo il Santo, nimirum Sanctuarii lapides
disperi per plateas jacent, cum personae sacrorum ordinum terrenis
actibus inserviunt… terrenis negotiis inhaerent: guardate cotesti
Ecle-siastici or quà, or là, per tutti i luoghi, più aperti, più
frequentati, in faccende, in trattenimenti di puro mondo; e
se volete trovare cotesta sorte di Eclesiastici, non andate a
cercarli in casa, dove vi dormono solo, non curatevi di
cercarli in Chiesa, che vi stanno nemmeno per fare un po’
di preparazione, e ringraziamento alla Messa; si troveran

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forse in qualche compagnia, ed adunanza di compagni
studiosi, divoti a coltivarsi con studii utili, o pratiche di
pietà? oh! siamo ben lungi, siccome non v’è il cuore per
questi luoghi, così non vi sono le persone. Ve lo dirò io, se
volete trovarli, e non mi sbaglio: Circuite civitatem per vicos, et
plateas quaerite. Cant. 3.2. In quelle case, su quegli angoli, in
que’ crocchi, su quelle sedie, in quelle botteghe, a far cosa?
a seder oziosi, scherzare, ridere, sentire e spacciar novelle, a
perdere le giornate intiere disperduntur, et dispersi jacent in capite
omnium platearum, oppur per le campagne, in caccie e partite,
ovvero a far più da agenti, e coltivatori di campagna, che da
uomini di Chiesa: ed ecco avverato appuntino il disordine
già pianto dal profeta: quegli uomini che come tante pietre
furono lavorati per anni ed anni, con fatiche di tanti per
essere poste e collocate nella Chiesa del Signore per
edificarne i popoli, ora perduto ogni suo lustro, e decoro
giacersene quà e là miste e confuse colla terra, e nel fango.
Che compassione, e che crepacuore in questi tempi di tanto
bisogno di veri Eclesiastici vedere Sacerdoti che annojato di
se, e del loro stato sembra veramente che non sappian
vivere se non si trovano nel mondo, se non parlano di
mondo, se non ridono, se non scherzano col mondo: fugite
de medio Babilonis, et salvet unusquisque animam suam. Ier 51.
Ecco l’unico porto di salute che rimane al Sacerdote per
scampare in mezzo al mare di questo mondo: ritiro,
solitudine, e fuga del mondo; e per non andar alle lunghe io
mi fermerò a due soli motivi, che assolutamente vogliono
cotesto nostro ritiro, e separazione dal mondo, la coscienza
cioè, e la riputazione nostra.
Le strade del mondo sono fangose, e molto; chi le
frequenta, e spesso le cammina, e passeggia, è impossibile
che non si lordi, e non si copra di fango: osservate la
differenza nella pulitezza corporale che passa tra una

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persona che stia quasi sempre in casa sua, ad un altra che
vada, e giri pel paese per ogni sorta di tempi, e stagione. Chi
sta a casa si tien più facilmente pulito nelle sue vestimenta,
e se contrae qualche macchia non può esser che leggiera, e
quel che è più la scuopre subito, e facilmente se ne purga; al
contrario chi vaga per le strade, in un po’ di tempo è
imbrattato, e continuando si mette fango sopra fango, ed il
peggio alle volte quasi nemmen s’accorge tanto è distratto,
ed occupato di ciò, che vede, ed incontra: si crederà forse di
fare la miglior figura del mondo, ed intanto si trova in un
bello stato; applicate la cosa, che fa totalmente pel
Sacerdote che sta ritirato, e l’eclesiastico mondano per ciò,
che riguarda lo stato, e la purità di coscienza. Il Sacerdote
che coltiva la cella, dice S. Ambrogio, è come un fiume che
sta tranquillo nel suo letto, e mantiene le sue acque limpide,
e pure; invece chi esce, e va gittandosi di quà, e di là nel
mondo, è come il fiume che straripa, e corre furioso per le
campagne, e che avviene? quell’acqua, che nel suo sito
primiero, e naturale era chiara, bella, e limpida, si fa lorda, e
fangosa, e mena con se ogni sorta di sporcizie, e lordure.
Amnis exundans cito colligit lutum. Oh io so guardarmi,
rispondono subito costoro, io so quello, che mi fo, e
certamente di me non sarà così. Che cosa dire a queste
colonne, che si tengono così ferme da sfidare, da cimentarsi
con ogni sorta di vento? io lascierei tutte le ragioni a parte,
e direi andiamo alle prove: prendiamo due Eclesiastici, uno
differente dall’altro, dedito cioè il primo alla solitudine, a
passare la sua vita per quanto può nel silenzio, e nella quiete
della camera sua, l’altro invece accostumato a consumar
tutta, o quasi tutta la sua giornata fuori casa, e nel mondo,
giuochi, partite, ciarle, buffonerie, novelle, e simili,
paragoniamoli fra loro, confrontiamo la loro condotta, il
loro spirito, la maniera di ciascuno nel disimpegnare i

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propri doveri, predicare, confessare: consideriamo il modo
che tengono questi due nel trovarsi col mondo, parlare,
ridere, ed anche divertirsi, e sono certo che non avrete
bisogno di altre parole, e ragioni per persuadersi chi dei due
abbia più loto e più fango. Necesse est de mundano polvere etiam
religiosa corda sordescere. S. Leo. Se un cuor pio, religioso, e
divoto, in conseguenza ritirato non può a meno che restar
anche insozzato di polvere di questo mondo pensate voi
quanta polvere, o per dir meglio, di quanto fango andrà a
ricoprirsi un cuore, un Sacerdote, che non sa star a casa, e
cammina esposto ad ogni vento, che soffia.
È curioso, e nello stesso tempo instruttivo il dialogo, che
si legge a questo proposito tra due Monaci antichi. Si
trovava tra tanti un certo, che non sapeva star a casa: la
Cella era per lui un carcere il più penoso, onde è che
frequentemente era fuori, e s’andava aggirando meno male
per le campagne, ma non si contentava, s’addentrava ne’
paesi, e città, e quivi come è solito di vagabondi mirava
tutto, guardava tutto, e si tratteneva, e ciarlava con
chiunque fosse. Un altro Monaco compagno, che ne
osservava gli andamenti, e prevedeva le conseguenze, se ne
fece coscienza, ed un giorno presolo in disparte, senti, caro
mio, gli disse: non istà bene, che un Religioso si lasci veder
così spesso in publico, si fermi, parli, e tratti ovunque e con
chiunque senza differenza alcuna: sappi, che la gente
osserva, e si scandalizza: pensa che il mondo è pieno di
lacci, e pericoli, e chi sa che cosa potrà capitarti se non ti
guardi; ricordati pure che a parlar, a trattar colla gente del
mondo il Religioso ne perde, e ne scapita sempre; dunque
prendi il mio consiglio, se vuoi essere più sicuro, lascia il
mondo, e vivi in po’ più ritirato. Udì il Monaco, e che
risposta die, fece frutto dell’avviso? Eh! ben difficile, che un
prete, e lo stesso del frate, che faccia profitto d’una

71
correzione anche fatta, e condita colle maniere più belle, e
più dolci: sono malinconie, rispose l’altro, sono piccolezze,
sono scrupoli, e sta in questo la santità? Bisogna essere
semplice di cuore, aver retta intenzione in tutto, e coscienza
netta, questo piace a Dio benedetto, quel che tu dici, sono
effetti di cuori piccoli, di spiriti angusti: vedete che sublimi
teorie, che sommità di lezioni sanno dare quelli che
praticano pel mondo; e non solo le sapevano dare i Monaci
d’una volta, ma se volessimo far la prova, vedreste come la
ripetono chiaramente anche i sacerdoti de’ nostri giorni, e
forse con maggior forza, e calore: e che bisogno di star
tanto chiusi, e non siamo anche per vivere al mondo, ed alla
società, che male c’è, sappiam bene che il Sacerdote deve
essere virtuoso, e Santo, ma istà forse in questo la virtù, la
santità: sono idee, sono malinconie che passano in capo:
retta intenzione, semplicità in tutto, la coscienza chiara,
questo ci va: il resto sono minchionerie. Ah! Signore,
quell’altro Monaco esclamò, alzando le mani al Cielo, siate
pur benedetto, e lodato per tanta virtù di cotesto mio
confratello! io nel deserto, ristretto in Cella, senza veder
mondo, né trattar con alcuno, ho da faticare tanto, ed a
stento posso mantenermi un cuor buono, retta intenzio-ne
in ogni cosa, e quel che è più una coscienza pulita, e scevra
d’ogni macchia, quando costui anche in mezzo alla
moltitudine, vedendo, e trattando con tutti, cogli occhi, e
colle orecchie piene di scandali, e delle lusinghe del secolo,
pur è arrivato a tanta perfezione, teme un bel niente, niente
le fa pena, niente lo crucia, e sempre, ed ovunque,
protestasi d’aver la coscienza chiara, e netta; si, io direi a
costoro, permettimi un po’ di fare un tantino l’esame di
questa coscienza così franca, e così forte: Coscienza netta, ma
come sì adempiono in mezzo a tanta dissipazione gli uffizi
di Messa, di Breviario, di Sacramenti, come si ha la scienza

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per predicare, per confessare, dirò solo per catechizare
degnamente e con frutto, se si sta sempre fuori casa, e non
si studia: come si cacciano via prontamente tante fancasie,
ed assalti di sensi, se mai la persona vi pensa, e sì esamina:
dove la forza di reggere in tanti cimenti se non si prega?
eppur non ostante si continuerà a dire d’aver la coscienza
chiara, e pulita: Dio non voglia sia come chi temendo
d’aver il vestimento lordo, finge di non accorgersi, non
vederlo, e così tira avanti, quasi fosse l’uomo meglio vestito,
e più addobato del mondo. Commixti sunt inter gentes, et
didicerunt opera eorum, et servierunt sculptilibus eorum. Così capitò
ai Giudei, che per volersi frammischiare, e convivere con
gente straniera, ne contrassero i vizi, le abitudini, ed
arrivarono perfino ad adorare i loro dei, ed essere di
scandalo perfino a que’ medesimi, da cui avevano appreso i
vizi: et factum est illis in scandalum. Ecco il guadagno, che fa il
sacerdote a guisa di que’ Giudei trascurando il ritiro, e la
solitudine. Praticando nel mondo s’imparano le massime, si
prendono affezioni, si riempie la mente di specie tutte
mondane, il cuore s’imbarazza in attacchi, in amicizie, in
genialità, in impegni tutti di mondo: si comincia ad amare,
ad adorare ciò, che il mondo ama, ed adora, la roba, i
giuochi, i divertimenti, i puntigli, le gare con quale cosa di
peggio, ed ecco l’eclesiastico dopo d’aver contratti i vizi, e
gli abiti loro divenire a que’ medesimi un oggetto di
scandalo: commixtus est inter gentes… didicit opera eorum et factum
est illis in scandalum: altro motivo ben forte per coltivare il
ritiro, e fuggire, per non perdere presso il mondo la
riputazione nostra, e con ciò il mezzo di poter loro giovare.
Per un tratto particolare di provvidenza il mondo anche
i maligni si fanno un idea, grande, e quasi divina del
Sacerdote, finché non lo conosce. Siccome sa che è un
personaggio destinato tutto a cose sante, così si finge un

73
uomo proporzionato, e tutto santità, di modo che se opera,
se parla, se guarda, tutti i detti, tutti i fatti sieno limati e
santi. In prova del che si trova perfino qualcuno tra il
popolo basso, ed ignorante che davasi ad intendere, prima
che vedesse, che il Sacerdote avesse nemmen bisogno di
mangiare, di bere per vivere come gli altri, tanto e sì diverso
se lo figuravano in mente: ma lasciamo stare cotesta idea
stravagante di qualche rusticano, il certo è, come diceva,
che il mondo si fa un idea grande di noi da superare di
molto le nostre persone, ed i nostri meriti, e da ciò ne viene
un maggior ascendente, ed una maggior forza ne’ nostri
detti e nelle nostre azioni da poter loro maggiormente
giovare: ma fate che trattino e trattino frequentemente con
noi, tanto più quando il sacerdote non usa riguardi, e
riserve, poco per volta van via conoscendo che siano
uomini come loro, poiché basta esser uomini per aver
difetti, perdono quell’alta idea, che ne avevano,
s’accostumano a guardami come un di loro, ed il nostro
ascendente è perduto. Dunque ho mai da uscire, potrà
dimandare qualcuno.
Io ho già premesso che fo una differenza tra il claustrale,
ed il Sacerdote nel mondo; e più d’una volta potrà,
converrà, anzi sarà in obbligo di uscire, e mettersi in
pubblico, ed un ritiro assoluto materiale ed abituale sarebbe
forse impossibile, e dannoso. Che cosa adunque vorrassi
intendere quando si dice un Eclesiastico ritirato: stiamo
attenti alla definizione, che ne danno: s’intende un uomo
che ama di star ritirato. e che come dice S. Bonaventura:
quantum in se est magis diligit domi latere, quam e domo exire; e
che perciò non esce senza un vero, e conveniente motivo, e
quando per un motivo di questa fatta gli tocca lasciar il
ritiro, si munisce, ed usa le debite cautele, sia per garantire
la sua coscienza, sia per non dare qualche specie di

74
scandalo, anzi edificare i popoli colla sua presenza.
Esaminiamo brevemente cotesto quadro dell’Eclesiastico
ritirato. In primo luogo deve esser amante del ritiro, e
questo è indispensabile, perché altrimenti si disporrà mai a
star a casa: l’amor è un peso, che trascina dietro di se la
persona: amor est pondus, e la persona va sempre dove la
porta l’amore. Non esce senza un conveniente motivo, e
possono esser tanti di affari, di convenienze sociali, di
sanità, e molto più pel nostro Ministero; io vorrei
nemmeno sottilizzare tanto su questi motivi, anzi cerco fare
il generoso e mi contenterei che solo si badasse a non
perdere quell’usanza pur troppo comune: oh! oggi non so
che cosa fare, ho voglia di far niente, dunque usciamo, e
andiam quà, andiam là, oggi ho ancora saputo, sentito
niente, andiamo un po’ a vedere cosa c’è di nuovo, epperciò
in quel crocchio, in quella casa, si quella bottega. Eh! con
questo fare, con codeste usanze è impossibile riuscire un
Eclesiastico di vita ritirata. Finalmente uscendo usar sempre
le debite cautele di tempo, di luogo, di persone secondo le
circostanze ed il fine per cui usciamo; non si stia fuori al di
là del bisogno; si scelgano i siti più adatti, e di minor
dissipazione, si scelga se è possibile qualche compagno da
trattenerci in discorsi buoni ed utili, si condisca l’uscita, il
passeggio con qualche pio riflesso, che non è poi tanto
difficile, quando il sacerdote adopri i mezzi suindicati.
Ritiro adunque, fratelli miei, amor alla Cella dove l’aria dice
S. Bernardo è più pura per l’anima, il Cielo più aperto, il
Signore più vicino, e familiare. Aer purior, Coelum apertius,
familiarior Deus. In questo modo saremo più sicuri e
tranquilli in coscienza, poiché credetelo lo ripeto, il mondo
è maligno, guasto e corrotto, ed è impossibile mantenerci
sani quando si respiri un aria guasta, e corrotta. Avremo
maggior pace, e tranquillità, quanti cruci di meno a star da

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noi, a fuggir il mondo, e quello che è ancor più, saremo in
posizione di far gran bene. La sola presenza, la sola
comparsa d’un sacerdote che coltivi il ritiro, e fugge lo
strepito, la dissipazione, il rumore è già una predica, e fa
gran senso: chi lo vede, l’incontra, molto più se può sentire
una parola da quella bocca si tien fortunato, e n’è contento,
se ne ricorda, lo dice, lo racconta agli altri, e desidera
trovarlo altra volta, e se non può arrivar a tanto, gli basta
già di vederlo: al contrario se è un sacerdote che s’incontri
in ogni angolo, si veda con-tinuamente or qua, or là a
ridere, a scherzare, si fugge, e si desidera perfino di non
incontrarlo, e si prova un mal umore di averlo sempre tra
piedi: di modo tale un Concilio ebbe ad esprimersi che non
aliunde Clericalis ordinis dignitas gravius fuit offensa quam a nimia
laicorum familiaritate. Conc. Aquil. Eppure sia come si vuole,
ma nel mio paese, nella città, nel luogo in cui sono, guai se
mi regolassi in quel modo, se non facessi come fanno gli
altri, chi sa quante me ne direbbero, tanto più che vi sono
altri preti buoni, e non si fanno scrupolo condursi in quel
modo. Eh!… quanta roba da rispondere, ma io dirò solo
che quando cotesto metodo di vita non s’accordasse, e non
fosse compatibile con quel ritiro, che abbiam accennato,
così necessario ed indispensabile per un Sacerdote, dica
quel che vuole il mondo, facciano come credono gli altri
Sacerdoti, ma quella frequenza di case, di luoghi pubblici e
di persone non va; il mondo, di cui non si parla, non è poi
che un pugno di gente scioperata, e da sprezzarsi; il mondo
con tutte le sue lodi, e con tutti i suoi motteggi non ci
cangia, dice S. Gregorio Nazianzieno, e non ci rende né
migliori, né peggiori: nec laudatores nec vituperatores nos
immutabunt, nec enim meliores, nec pejores efficiunt. Tronson. Gli
altri invece saranno edificati, e questi medesimi che nel caso
sarebbero per censurare la condotta ritirata del sacerdote,

76
occorrendo di parlar sul serio sono i primi a farne l’elogio, e
ne danno la prova che quando si trovano in qualche
bisogno del Sacerdote, che preghi, che li consigli, che
provveda alle anime loro, non s’appigliano già a compagni
di partita, e sacerdoti da piazza, ma sanno trovare chi vive
ritirato, e nascosto. Altri Sacerdoti buoni non hanno alcun
scrupolo; io non entro a giudicare se sieno buoni, o cattivi,
dirò che impossibile sia buono un Eclesiastico quando non
sia ritirato nel senso, che abbiam detto, del resto comunque
sia chi vuol essere un vero Sacerdote non deve prendere la
norma dagli altri Sacerdoti; guardiamo il piccolo Samuele:
aveva anche sott’occhio i mali esempi di altri Sacerdoti,
quali erano Ofni e Finees, più vecchi di lui, e di maggior
autorità, perché locati più alto: ma che faceva il buon
giovane: chiudeva l’occhio, calcolava come se non li
vedesse, facessero pure come volevano, Egli divoto, ritirato
attendeva al culto del tempio, ed al servizio del Signore, e
con questo genere di vita, dice la S. Scrittura, 1 Reg. 2 che:
proficiebat atque crescebat, et placebat tam Domino quam hominibus.
Guai per lui se avesse ragionato come ragionano tanti de’
nostri di: altri fanno in quel modo, e più vecchi, più dotti,
più alti di me, oh!… lo posso fare ancor io; invece di
guardar questi tali guardiamo tanti altri Eclesiastici, direi io,
di cui leggiamo le vite, e che ci hanno tracciato la vera vita
sacerdotale, se vagano molto pel mondo; osserviamone
anche tanti, che vivono sotto i nostri occhi, e scorriamo per
la loro giornata se abbino molto tempo da perdere nelle
brighe del mondo: cotesti specchi viventi de’ nostri doveri,
coteste prediche di fatto ci ajuteranno non poco ad
infastidirci anche noi di questo secolo, ed a renderci
vogliosi, ed amanti di ritiro, e solitudine: però questo non
basta, e ci vorrà l’ajuto, e l’uso di qualche mezzo, che io
accennerò di passaggio.

77
Primieramente proccurare di coltivare e trattare soventi
con buoni compagni, con Sacerdoti di spirito interno, e
ritirati; tutto in cotesti sacerdoti ci parla, ci predica, ci
ammaestra, la loro vista, il loro contegno, i loro esempi, i
loro discorsi, e quasi senza accorgerci ci formano come un
di loro, e c’infondono il loro spirito, ed era già un avviso
tanto raccomandato da S. Bernardo, agli Eclesiastici: che tra
tutti dobbiam scegliere, dobbiam amare, dobbiam associarci
a quelli che vediamo, che conosciamo più sprezzanti ed
alieni dal secolo, più seguaci della virtù, e più amanti di
ritiro, di ordine, e di disciplina: Illos suscipe, illos dilige, illis te
associa quos videris contemptores saeculi, sectatores virtutis, amatores
disciplinati. Un altro mezzo, che ci può ajutare grandemente
sarà abituarsi tra noi a pensare, a riflettere, a meditare: oh!
tutti i disordini ne’ sacerdoti, come ne’ secolari nascono
perché non si pensa. Ah! un Eclesiastico che di tanto in
tanto si faccia a riflettere a tanti pesi, e tanti carichi del suo
stato, il conto che ne deve rendere, la mercede che ne può
sperare. Un Ecle-siastico che mediti: che cosa è un
Sacerdote nel mondo, che va incontro ad una sorte fra tutte
la più funesta, se la sbaglia, la più gloriosa, se la vince; la
sorte sua condur seco chi sa quante altre all’eternità; si un
Eclesiastico che per poco vi pensi, sono certo che non
proverà fatica per mettersi al sicuro di un tanto avvenire
con una vita veramente sacerdotale. Il mezzo però
finalmente indispensabile per riuscire un Sacerdote di vita
ritirata, è l’occupazione: supponete pure che si metta di buona
volontà, si faccia forza, e violenza, lasci i compagni, e
compagnie, e stia a casa ma che farà, reggerà molto tempo
se non si dà ad una seria occupazione? Non sai come
occuparti: permettimi che ti dica di passaggio, vero segnale
che non conosci il tuo stato, non sai pregare, e la necessità
di farlo, non conosci lo studio e l’importanza d’attendervi.

78
Non voglio già trattenervi su danni, e sulle conseguenze
dell’ozio, io farò solo un dubio, ed un quesito di Morale: se
chi sospetta cattivo un sacerdote ozioso, sia reo di giudizio
temerario; come vedete è un caso di coscienza, ed io dico
che ordinariamente di no, e penso che anche voi converrete
con me per tante, e tante ragioni. Il Sacerdote in ozio nel
mondo è come la nave senza timone, e senza ancora in
Mare, epperciò possiam sapere come andrà a finire. Ma
stando al mio scopo conchiuderò che il Sacerdote sarà mai
uomo di ritiro se prima non diverrà uomo di fatica, ed
occupazione. Cotesta occupazione sarà come una catena,
che ci lega alla nostra camera, e da questa camera uscirà
quel sacerdote, che sarà un dì la luce del mondo,
l’edificazione de’ popoli, il decoro della chiesa, ed un porto
di salute per tante anime, che seco un giorno condurrà alla
Città celeste, alla gloria del bel paradiso. Cosi sia.

Istruzione quinta.
Sopra l’orazione.
Tra i mezzi, che hanno da concorrere per formare
dell’Eclesiastico quell’uomo speciale nel mondo, uno
specchio della divinità sulla terra, un uomo interno,
spirituale, e separato qual egli è dagli imbrogli del secolo, e
consecrato intieramente agli interessi di Dio, più divino,
che umano, oltre il ritiro vi deve entrare necessariamente
l’orazione. Il divin Redentore, quel Capo, e Maestro di tutti
i Sacerdoti, ogni qualvolta poteva godere qualche momento
di respiro dalle continue fatiche, noi leggiamo nel Vangelo,
che si ritirava, e pregava. Ritiro ed orazione ecco le due ali,
che hanno da sollevare tant’alto il Sacerdote da renderlo
come un Dio in terra. L’orazione l’avvicina, e lo stringe
totalmente che quasi l’incarna con Dio. L’orazione gli

79
mostra a trattare, a conversare con questo Dio, l’orazione
in fine gli ottiene tutti quegli ajuti, lumi e conforti che sono
necessari da Dio. Ritiro ed orazione sono due qualità
inseparabili, una derivante dall’altra, manco male parlo d’un
ritiro pio, e virtuoso, e non già naturale, o capriccioso.
L’uomo ritirato necessariamente è amante della preghiera:
l’uomo che prega, naturalmente declina dallo strepito del
mondo, e cerca la quiete, e la solitudine. Ritiro, ed orazione
sono due virtù che bastano per sé sole, o almeno portano
con se, e suppongono quanto si richiede per formare un
degno, e santo sacerdote. Chi vive ritirato, e prega, è
impossibile non abbi il cuore staccato da questo mondo, e
ripieno dello Spirito del Signore; impossibile che non
s’occupi, non studii, non lavori, e con ciò voi avrete un
Eclesiastico santo per sé, ed utile, e vantaggioso per gli altri,
lo che forma tutto il suo destino. Resta adunque di somma
impor-tanza che noi dopo d’aver considerato
nell’Eclesiastico la necessità, i vantaggi, e la forma del suo
ritiro, entriamo in questa sua affine, e compagna, qual è
l’orazione. Noi non ci fermeremo a cercare che cosa Essa
sia, quando sappiamo che considerata nel suo oggetto non
è che una dimanda, che si fa a Dio, di ciò che
abbisogniamo; oratio est petitio decentium a Deo riguardata nella
sua forma, e maniera, uno slancio, un volo del nostro cuore
là sino sulla soglia, e sulle porte del Cielo: Elevatio mentis in
Deum. Nemmen cercheremo la sua necessità, e qualità in
generale, ci porteremo invece più vicino a noi per cercare, e
vedere queste tre cose, cioè qual sia il bisogno, e la necessità
che un Eclesiastico preghi; 2. Chi tra gli Eclesiastici possa
veramente chiamarsi uomo di orazione, e preghiera; 3.
finalmente quale, e quanto il valore, la forza
dell’Eclesiastico, che prega. Non sentiremo cose nuove, ma
non perciò meno utili, ed importanti. Noi inculchiamo

80
tutto l’anno ai fedeli la necessità, e la maniera di pregare,
dunque ragion vuole che ciascuno pensi bene a se stesso, e
veda se sappia poi veramente Egli medesimo quell’arte, che
gli tocca tuttodì insegnare agli altri. Cominciamo. Dovrà
pregare un Eclesiastico? Per convincerci di questo bisogno,
di questa necessità, di questo dovere basterebbe dimandare:
hanno pregato gli Appostoli, che furono i primi Sacerdoti,
hanno pregato i sacerdoti successori suoi pel corso di tanti
secoli, pregano tanti buoni Eclesiastici, che noi medesimi
vediamo, conosciamo; è fuor di dubio che pregarono, e
pregano tutti quanti; pregarono e pregano molto, e lo
sappiamo senza portarne le prove. Dunque niente di più
legittimo, e necessario che dobbiamo pregare anche noi, se
non vogliamo dirci esenti da questa necessità comune.
Oltre i motivi generali che obbligano tutti quanti alla
preghiera, oltre che il Sacerdote si trova in maggior bisogno
di ajuti speciali per disimpegnare il gran carico, che tiene,
epperciò in maggior necessità di dimandarli con la
preghiera, vi sono due ragioni particolari, che lo legano
talmente da torgli ogni scusa, e pretesto da potersene
scanzare ed è che Egli l’ha per ufficio di pregare, Egli deve fare
da maestro nella preghiera.
Tra i doveri, e gli uffici del Sacerdote può dirsi
francamente che il primo è quello di pregare: omnis
pontifex… pro hominibus constitutus in iis quae sunt ad Deum. Il
mezzo principale, anzi solo che Egli ha di tenere aperta
questa via, questa relazione, cotesta comunicazione con
Dio , il modo con cui ha da compiere a questa grande
missione, ed ambasceria è la preghiera: toglietemi la
preghiera, e voi correte nello stesso tempo ogni commercio
tra il Cielo, e la terra, tra Dio e l’uomo, e torrete perfino il
Sacerdozio medesimo dalla faccia della terra, giacché il
Sacerdozio sta appunto in questo di far le parti degli uomini

81
presso Dio, e rappresentar Dio presso gli uomini, ed è
perciò che noi troviamo un linguaggio comune, concorde, e
totalmente unanime presso i Santi padri e dottori per ciò
che riguarda la preghiera, e l’ufficio del pregare nel
Sacerdote: Sacerdotes die ac notte pro plebe… oportet orare. S.
Ambrogio; e S. Agostino: talem esse oportet Domini Sacerdotem,
ut quod populus pro se apud Dominum non valer, ipse pro populo
mereatur; e l’aveva già detto il Signore degli antichi leviti, che
appunto li aveva scielto per quest’ufficio di pregare: Tuli
levitas pro cunctis primogenitis filiorum Israel… ut serviant mihi…
et orent pro eis. Num. onde ebbe a dire un Concilio della
Chiesa (Coloniense) che l’affare del Sacerdote ha da esser
questo, di pregare il Signore pel bene, e per la prosperità
della Chiesa, e di tutto il popolo: Praesbiterorum officium situm
est in orando Deum pro totius Ecclesiae, et populi christiani
prosperitate. E la cosa è troppo naturale, poiché se le Chiese
medesime sono destinate unicamente, e totalmente per
questo, che vengono chiamate appunto casa d’orazione:
dovranno poi essere diversi, e destinati ad altro chi è il
famigliare di questa casa, padrone, ed abitatore principale,
qual è il sacerdote? E cotesta orazione, cotesto spirito di
preghiera ha da esser talmente proprio, assiduo, ed
incarnato col sacerdote che dicono d’accordo i S. padri
dover essere tutt’uno sacerdoti, e uomini di preghiera, di
modo ché chi non lo fosse potrebbe, e nemmen dovrebbesi
chiamar tale; infatti quel famoso dotto, e pio Arcidiacono di
Pietro Blesense, ad un tale che richiesto a dar mano a
qualche opera del Ministero, e si rifiutava con dire, che non
toccava a lui, ad te non attinet, rispose, e lo sai il perché non
tu dici non tocca a te, tel dirò io: ad te non attinet, quia no oras
et quia non oras sacerdos non es. (Eclesiastico è Colui, soggiunge
S. Gregorio, qui orationis usu, et experimento jam didicit, quod
obtinere a Domino quae poposcerit, possit. Voi tutti sapete il detto

82
del V.P. Avila, che non si creda fatto pel Sacerdozio
chiunque non ha spirito d’orazione, e di preghiera: e prima
di lui lo raccomandava già S. Bernardo ad Eugenio papa,
che si guardasse bene di assumere, e promuovere agli
ordini, e gradi Eclesiastici quelli che non coltivassero la
preghiera, e non ne avessero l’uso. Illos assumito, qui orandi
studium gerant, et usum habeant; procura sempre di cogliere fra
quelli, che in ogni cosa più confidano nell’orazione, che
nella propria industria: illos assumito qui de omni se orationi plus
fidant, quam suae industriae vel labori; quindi è che S. Carlo,
prima d’ordinare un Sacerdote, volesse fosse seriamente
esaminato su questo punto: se capiva, se intendeva che cosa
fosse orazione, il come, il quando, il modo di farlo: quis
orationis modus? quot, quibusve partibus illa constet? Quae
regular… et coetera ejusdem generis? Fosse pur dotto il giovane,
ed anche de’ più rari talenti, ma il Santo sperava un bel
niente, e non l’ordinava quando non potesse aver prova che
fosse per divenire un uomo d’orazione. Egli è adunque
questo l’ufficio del Sacerdote: Egli di più che deve per la
sua professione essere il Maestro di questa grand’arte di
pregare, ed insegnarla continuamente agli altri; e come vi
riuscirà, quando non la sappia compitamente, e l’eserciti
Egli stesso? Avete mai osservato come fa un maestro
qualunque ad insegnar una professione, un arte qualunque
al suo scolaro, e discepolo: comincia spiegargli ben bene i
principi, e la teoria, dargli il perché, la ragione d’ogni cosa,
perché ne conosca il valore, la forza: ma ciò non basta, e
non è contento. Si mette egli stesso il primo a lavorare
come fosse un principiante sotto gli occhi del suo allievo,
quindi glielo rimette, e vuol che lavori alla sua presenza,
perché Egli possa avvisarlo, ajutarlo, avvalorarlo, e così
pezzo per pezzo, parte per parte, un po’ l’uno, un po l’altro,
tra due, ma quasi fosse un solo si proseguisce e si termina il

83
lavoro con soddisfazione, e piacere comune del maestro,
che gode del profitto del suo allievo, e dell’allievo che
s’avanza per bontà del suo padrone. Ecco quello che deve
fare il Sacerdote ne’ popoli nella predicazione, nel
Confessionale, ne’ catechismi, ne’ discorsi domestici e
famigliari, insegnare questa grand’arte di pregare, ma se
vogliamo che i popoli come altrettanti nostri allievi
l’imparino, e faccian profitto, bisogna che imitiamo il
Maestro, di cui v’ho parlato: imprimere, stampare bene in
mente prima d’ogni cosa la teoria, i principii e voglio dire:
che cosa sia quest’arte di pregare, il modo, la facilità, il
bisogno, e la forza; ma le sole ragioni, la sola spiegazione
non basta; intendono, e non intendono, bisogna venir alla
pratica, suggerir loro come hanno a fare nelle proprie
circostanze, metterci noi ne’ suoi panni medesimi, dar loro
perfino le parole sulla lingua, che hanno ad usare, e come
adoperarle, e quanto ripeterle; se si sgomentano, se
s’annojano, se vogliono lasciare, far loro coraggio, animarli,
come fa un maestro con qualunque suo scolaro, additar
loro altre maniere, altri modi più facili, meno pesanti. E
andrà tempo, fatica, pazienza, ma state certi che
guadagneranno, e ne vedremo il profitto: e felici noi, felici
quelli se arriveranno ad imparar bene questa grand’arte. Ma
per far tutto ciò, per riuscire Maestri di questa natura, e di
questa fatta, resta di somma necessità che il sacerdote, la
sappia, la usi, si esercizi, e ne sia in piena cognizione, e
possesso.
Dopo ciò che dire, che rispondere ad un Eclesiastico,
che avesse il coraggio di dire: preghino finché vogliono gli
altri, per me non posso, non ho testa, non ho tempo, e non
so come cavarmene quando mi metto a pregare, tutta altra
occupazione, anche più grave, più pesante, la farò, niente
m’importa, ma per carità non mi si parli di pregare, il solo

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nome mi fa venire la noja, il fastidio, e quasi la bile, tanta è
la ritrosia, e la ripugnanza, che io provo. Che dire, e che
rispondere a tutto questo linguaggio d’un Sacerdote, e
ricordatevi bene, d’un Sacerdote, che ha per primo ed
indispensabile uffizio di pregare, ed insegnare agli altri di
farlo. Può essere e voglio supporre che tutto questo sia solo
una montagna di nebbia, ed una difficoltà immaginaria ed
apparente, che provasse tutta quell’antipatia, aridità, e
nausea della preghiera, ma che intanto pregasse, si facesse
forza, e fosse uomo d’orazione, come andremo a spiegare,
ed allora gli direi francamente, fa coraggio, o caro, e non
inquietarti, che preghi più di quel che credi, e sei un
Sacerdote migliore di quello, che t’immagini: e lo sai bene
che la virtù, il merito non consiste nel gusto, nel dolce, nella
soddisfazione, ma nel cuore, e nella sincera volontà, e
questa non manca quando si supera e si comanda alla noja,
e la cosa si fa egualmente. Ma e che sarebbe quando il
punto stesse diversamente, ed il Sacerdote non pregasse
quanto, e come dovrebbe pregare, e fosse un uomo di
occupazione, se volete, di studio, di scienza, ma non già un
uomo d’orazione. Oh!… forse la mia risposta sarà un po’
dura, e le riuscirebbe ingrata, eppur siamo quà per darcela a
vicenda. Non posso, non ho testa, non ho tempo a pregare. Eh!
quando si tratta d’un affare necessario, che va fatto, non
occorre disputarne, non se ne può prescindere, per amore o
per forza bisogna andar avanti; queste scuse e questi
pretesti non giovano: potrebbero servire quando uno non si
trovasse ancor a quel punto, ma quando c’è, testa o senza
testa, voglia o non voglia, è una cosa che va fatta; e
guardate negli affari temporali, che si trovano scabrosi,
difficili, pesanti, e la persona se le fosse possibile, vorrebbe
schermirsene, si vien subito a questa conclusione, è inutile
pensarvi, bisogna farlo, e se non si può, far tanto che si

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possa. Così io direi all’Eclesiastico in questo caso:
quest’ufficio di pregare, cotesto affare, cotesta occupazione
per un Sacerdote è indispensabile, è tempo perduto tentare
di farne a meno, o pregare, o che cessi perfino d’esser
Sacerdote. Oh! pregherei, se è così, mi sforzerei, farei la
prova, ma non so. Che grave ragione è questa? che scusa da
addurre: un maestro che richiesto ad insegnare risponde
che non sa; la risposta è facile, è naturale, e non ve n’è altra:
non dovevi metterti a far il Maestro; e perché farti
Sacerdote, che sapevi dovevi insegnare agli altri a pregare,
se tu non te n’intendevi; oh! se è così, va da tanti secolari, e
che sapranno insegnarti essi medesimi, quello che non sai
tu; va da tanti buoni fedeli, e ti diranno in che modo, con
che cuore, e di che dovrai pregare; e non sai pregare, entra
qui S. Agostino, ma guarda, mettiti a’ pie’ della Croce,
prostrati davanti a questo Dio e poi fa, dici quello che tu
vuoi, poiché tutto è preghiera, sia che adori, sia che ammiri,
questo Dio, sia che lo lodi, lo ami, lo ringrazi, ti rallegri con
lui, ogni cosa è orazione, è preghiera davanti a lui: adoremus,
admiremus, laudemus amemus gratias illi agamus gratulemur. Che
campo, che spazio di trattar, di conversar col Signore. Ma
in che modo, con che frequenza, fino a che punto ha da
essere, da arrivare la nostra orazione, perché ella sia da
Sacerdote? e vediamolo.
Par inutile insistere tanto sull’orazione dell’Eclesiastico,
che preghi, che è necessario, che è suo uffizio, suo dovere il
pregare, mentre si può dire, che non fa altro, e difatti;
celebra ogni giorno, più volte da mano al breviario nella
giornata, assiste soventi a cori, a funzioni, processioni,
esequie, uffici divini, e tutto questo, non si può negare, è
preghiera; e non sarà sufficiente, ci vorrà di più? In questa
materia, e per questo punto si possono distinguere tre sorta
di Eclesiastici. Gli uni che recitano preghiere, ma non

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pregano, e sono quelli che sono volontariamente distratti,
divagati, e non badano a ciò, che dicono, e di questi non ne
parliamo, poiché sono ben lontani di compiere al proprio
dovere di pregare. Altri, che pregano, perché vi mettono un
attenzione sufficiente, ma si vede che lo fanno a stento, e
scarsamente, ed appena possono dir compita la pura, e
stretta materiale obbligazione, non vi pensan più, e questo
dico che nemmen basta per formare un vero sacerdote,
poiché per esser tale bisogna, e si ricerca un uomo
d’orazione. E che sarà cotest’uomo! credo non sarà tanto
raro, perché nel mondo vi sono tanti sacerdoti, e non si
può essere veramente tale senza essere parimenti un uomo
d’orazione; vuol dire adunque che cotesti uomini, cotesti
personaggi, saran molti, e frequenti; eh!… lo sian pure, e lo
desidero, e perché ognuno lo possa facilmente conoscere,
io dirò chi Egli sia: un uomo d’orazione per dirla
schiettamente, ed in termini chiari vuol dire un uomo del
mestiere, un uomo che sa, che conosce, che ama, che s’è
dato, si è consecrato a quel ramo, a quella partita, e non
solo di nome, ma che di quella ne fa la continua, e
giornaliera sua occupazione; i suoi pensieri almeno
dominanti li suoi discorsi, le operazioni sue tutte sono
dirette a questo scopo, a quel fine; così l’uomo d’armi,
l’uomo di commercio, l’uomo di lettere, l’uomo di
campagna, suona letteralmente, e secondo tutti una
persona, dedicata, consecrata, al maneggio delle armi, degli
affari, coltura di scienze, o di campagna. Ognuno
naturalmente è portato ad amar l’arte sua, e così ne prova
un gusto, un piacere ad occuparsene, e ben lungi di non
lasciarlo conoscere, che anzi brama, desidera che ognun lo
sappia, e contento quando lo trovano sull’arte sua; par che
fatichi, ma non è vero; faticherebbe di più, soffrirebbe
maggiormente se dovesse cessare, e desistere dal lavoro.

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Ecco in poche parole l’idea dell’uomo di preghiera, e di
orazione. Egli è quel sacerdote, che siccome un altro si
consacrò ad altra carriera, s’apprese egli invece, e si
consacrò a cotesta di pregare, ama l’orazione, la gusta
almeno colla volontà, e non sa allontanarsene, e lasciarla.
Osservatelo in casa, in chiesa, per le contrade medesime,
prega continuamente; se studia prega, se lavora prega, se si
diverte prega, se mangia, se dorme prega e come può
essere, è sempre in ginocchio? non è necessario, prega:
perché quel che fa qualunque sia, la fa con quel fine, a
quell’oggetto, per onore, per gloria del suo Dio; prega,
perché di tanto in tanto si ricorda di Dio, o pensa a lui, si
slancia, parla con lui; e non credete che fatichi, che è una
delizia, una gioia più che un peso il pregare per lui; e non
cercate di allontanarlo e farlo desistere, perché Egli
ovunque, in tutto, senza che voi lo sappiate e v’accorgiate,
Egli prega, egli tratta, e conversa col suo Signore: ecco tra
gli Eclesiastici l’uomo di preghiera: se sieno molti, se sieno
pochi, io non lo decido, e dirò solamente: felice il mondo,
fortunata la terra se in ogni sacerdote potesse contare,
potesse calcolare di trovar un uomo tale, un uomo cioè
d’orazione; e chi potrà comprendere e conoscere, il peso, la
forza, l’efficacia, il valore di quest’uomo? Egli è un uomo
portentoso, un uomo sopra gli altri uomini, un uomo
sorprendente e non stupitevi, se dico, un uomo
onnipotente: dimitte me, dimitte me, ut irascatur: lasciami fare
non fermarmi, lasciami andare: dimitte me, ut irascatur furor
meus. Exod 32. E di chi è questa voce? chi è costui che gli si
usa forza, e soffre violenza? chi è mai che dimanda, prega
di non essere fermato, tenuto, perché pare che voglia fare e
non possa. Chi è? Dice S. Gerolamo, è Iddio, tenetelo ben
a mente, quel Dio che non sa trovar resistenza alcuna né in
Cielo, né in terra, ed ogni cosa si piega al suo sguardo non

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che al suo comando; sì questo Dio medesimo in questo
momento par proprio che abbi trovato un braccio più forte
che lo tenga, lo fermi, e non possa superarlo; sicché è
costretto ad esclamare: dimitte me. Sì v’è proprio che le fa
contrasto, ed arriva a fermarlo; È questo personaggio sì
forte, questo uomo così grande, o per dir meglio questo
Dio sopra Dio medesimo, lo sapete chi è. È Mosè, è Mosè
che prega, è un uomo di preghiera che s’abbattè, s’incontrò
con Dio, e lo fermò: cui nam dicitur dimitte me, ostenditur quod
tenendi habeat facultatem. S. Gerol. Certo che Mosè non aveva
altra arma, non poteva tener le mani a Dio, se non colla
forza della preghiera, e quindi nacque tra lui e Dio quel
contrasto, che già era stato altre volte tra l’Angelo e
Giacobbe: dimitte me diceva Dio: non dimittam te rispondeva
Mosè; voglio sterminare cotesta ingrata generazione, è
finita, lasciamo fare insisteva il Signore: nò, io non voglio
continuava sempre Mosè, e non si farà certamente: non
dimittam te e come fini la lotta, chi la vinse? Mosè, ossia
l’orazione. L’orazione è più una maniera di comando, che
una specie di dimanda, e tale compare in quel gran caso, in
cui si trovò Giosuè; si volta al Signore, e senza tante parole,
gli dice francamente: orsù, si fermi la giornata, che io ho
bisogno: sol… ne movearis: e che dice la S. Scrittura, sentite
che parola meravigliosa: stetit sol obediente Deo voci hominis.
Di qui partono appunto tutti que’ titoli, e que’ nomi
portentosi che danno d’accordo i Santi padri all’orazione. S.
Agostino la chiamò chiave del Cielo, e chi la sa maneggiare,
padrone di quanto vi ha là dentro, e porta l’esempio nella
minaccia, e nella preghiera del profeta Elia: lubet Elias, et
clauditur Caelum: orat postmodum, et aperitur; e non credere,
dice S. Giò. Crisostomo sia questo un caso raro, e
particolare, ma ella è una generale dottrina: ut monstraretur
Sanctorum meritum, non solum in terris posse quod voluti, sed et in

89
coelestibus posse impetrare quodcumque petierit. Cotesto impetrare
tutto ciò, che si dimanda, appena si distingue da maniera di
comando in chi prega, come da certa tal quale ubbidienza
in Dio, che esaudisce. Così sente Salviano, commentando
quelle parole del Salmo: oculi Domini super justos et aures eius in
preces eorum e che vuol dire che Dio sta sempre colle
orecchie tese alle preghiere de’ Giusti: in hoc non audientia
tantum sed quaedam quasi obedientia designatur. In tal senso chi
chiama l’orazione ambiziosa, chi ardimentosa, chi impudente, e
chi onnipotente, ma tutto piamente per manifestare la grande,
e mirabile forza, che ella ha avanti il Signore. E S. Pier
Crisologo inerendo alla parola della S. Scrittura, in cui Iddio
disse a Mosè: ecce constitui te Deum Faraonis, dimanda: qual fu
il constitutivo, e la qualità, che faceva Mosè come un Dio in
terra, quasi eguagliandolo coll’onnipotenza divina? Io non
so trovarne altra, risponde il Santo, che l’orazione: per hanc
Moyses fit Deus: et ad triumphos suos militares sibi omnia mandat
elementa, e se ciò è vero per l’orazione in generale, che sarà
di quella preghiera fatta d’ufficio, da persona deputata a
raccomandare, a perorare la causa, e l’oggetto per cui si
presenta. Poneste mai mente alla differenza che passa tra
chi si presenta ad un Sovrano, come semplice suddito, e
privato, a dimandare un favore, una grazia, e chi rivestito di
un potere, e sostenuto dalla sua qualità, e divisa si fa
annunziare e vien ricevuto, e sentito co’ dovuti riguardi,
non prega costui, ma rappresenta, non dimanda, ma
concerta, ed è quasi impossibile che simili rimostranze
ritornan vuote, e fallite. Tale è, fratelli miei, la condizion
nostra sulla terra; finché prega un semplice fedele, è un
privato che supplica, e che dimanda mercé, ma noi allorché
preghiamo tanto più all’altare, ed in ogni occasione, che lo
facciamo d’uffizio, ci presentiamo non già come puri
supplicanti, ma come persone aventi diritto di

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rappresentare, di chiedere, e concertare. Figuratevi un tale
che sia preso a far da mediatore, e da ambe le parti, come
siamo noi; non si limita a pregare, ma piuttosto propone,
consiglia, persuade, e va dicendo: questo va fatto, questo
no; in questo modo andrebbe bene, in un altro no, sicché
facciamolo. Prendete un Ministro d’un Sovrano, ed
osservate come parla, quando va in udienza del suo Re, non
si mette a pregare, al più va via dipingendo, e schierando i
motivi al suo Sovrano, del resto conchiude, Maestà bisogna
che faccia così; ecco in questi due personaggi la figura d’un
Sacerdote, che si metta a pregare, ecco la differenza tra noi
ed il semplice fedele; venga un altro qualunque, anche
buono, e santo, se potrà usare un tal linguaggio col suo
Signore: oh! se un sacerdote fosse penetrato della sua
qualità ed ornato di questa fede quando si mette a pregare;
Signore mi conoscete, io sono il vostro Ministro, sono
proprio colui, cui voi volete affidare la vostra Missione di
rappresentarvi in terra, di impedire i peccati, di salvar
anime, di gua-dagnar peccatori, lasciamo star a parte l’onor,
ed il peso di questo carico ne parleremo altra volta, ora io
sono qua per trattare con voi un affare appunto di questo
ramo: voi lo sapete v’è quello scandalo, v’è quell’anima, che
non vuol saperne; v’è quella catena, che va rotta, e finita v’è
quell’opera di vostra gloria, che non può andar avanti, tante
sono le difficoltà; io ho già fatto quanto poteva per
vincerlo, per indurlo, per impedirlo: è inutile io non basto
più, sicché ho dovuto venir da Voi, perché so che con poco
voi finirete ogni cosa. Adesso dite voi, se Iddio voglia
mandare via colle mani vuote un suo Ministro, che gli parli
in quel modo, e per un tal affare, quando Egli medesimo
l’ha mandato per quel fine, gode, ed ha tutto il desiderio
che lo riesca; è impossibile che il Signore si rifiuti, e può
nemmen concepirsi. Ma, può dirsi, qui trattandosi di altri

91
non è sicuro di ottenere, perché quel tale può opporre
ostacoli, e la colpa in questo caso sarebbe né dì Dio, né del
suo Ministro. Questo sta per poter dire che il prete avrebbe
fatto il suo dovere, sia che l’altro si ravveda, o nò; ma io
non parlo dell’adempimento di sua obbligazione, ma
piuttosto si comprenda sin dove possa giungere la forza
dell’orazione, quando l’Eclesiastico ne sia un buon Maestro,
e la sappia ben maneggiare; anche Mosè aveva già fatto il
suo dovere quando aveva pregato il Signore che perdonasse
al suo popolo, e sentendo che Ei non voleva, poteva
desistere, e se avesse cessato, certo che il castigo sarebbe
piombato: ma che deve fare il sacerdote in questi casi; come
un altro Mosè insistere, pretendere, e non cederla: non
dimittam te. Signore è inutile che mi mandate via, che diciate
non se lo merita, che la vostra collera è giusta, io vado più
alle strette, e per le brevi, e farmela questa grazia, oppur che
non vi lascio: non dimittam te. O darmi quell’anima, far che si
ravveda quel peccatore, si emendi una volta quel penitente,
cessi quello scandalo, si tolga quell’inimicizia, si componga
quella famiglia, o che io sto qua, e non mi parto. È
sorprendente, e divino il tratto, che scrisse S. Bernardo ad
Eugenio papa su questo proposito: dopo una lunga
enumerazione di requisiti, che diceva essere tutti proprio
del Sacerdote, toccando quello dell’orazione, in una sola
parola dice quanto si può dire di più grande in questo
genere. Voi, gli diceva, Sto Padre, per necessità del vostro
uffizio avrete da venir alle mani con certi uomini, che
saranno mostri, non solo iniqui, ma venduti al partito
dell’iniquità; e non mancherà loro potere, e forza per
sostenere la loro difesa. Con uomini di questa sorta vi
bisognerà mostrarvi più che uomo: ubi malitiae juncta est
potentia, aliquid tibi supra hominem praesumendum. Vultus tuus
super facientes mala. Sì lungi dal ritirarvi, o coprirvi la faccia

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per vergogna, o timore, che anzi dovete scoprirvi ancor più
la fronte, balenar cogli occhi e farvi conoscere per quel Vic.
Dio, che siete. Ma come fare, voi mi chiamerete, e dove
tant’animo e tanta forza? chi me l’ha da dare. Non altro, vi
rispondo, che lo spirito d’orazione: Timeat orationem, qui
admonitionem contempsit. Ecco il segno, il punto, a cui deve
giungere l’Eclesiastico, che sia fornito di questo spirito
d’orazione: quando ha da fare con certi ostinati, e protervi;
quando s’incontra in certi cuori duri, e fermi come un
macigno, ed una rocca; quando certe anime non ne
vogliono sapere; invece di gridare, inveire, chiamar fulmini,
e castighi, diamo mano all’orazione, ma con fuoco, con
fede che sia quasi un dirgli, voi non volete saperne, non
volete emendarvi; dunque scegliere, o cedere, e lasciar quel
peccato, quella vita, quella catena, oppur che io pregherò
per voi e darò mano all’orazione: ma sappiate che mi
costringete a dar mano ad una grand’arma, niente meno che
a parlar di voi con Dio, a trattare di voi; vedrete che giuoco,
e quello che saprò fare; mi sbrigherò presto, la finirò in
poco, voi non la volete finire, dirò adunque al Signore che
la finisca Egli per Voi: timeat orationem qui admonitionem
contempsit. Una persona non sapeva risolversi di lasciare e
rompere una relazione cattiva. Il confessore dopo tutti i
tentativi, credé finalmente d’appigliarsi a questo mezzo, e se
è così, non si sente di promettere, almeno mi permetta di
pregare per Lei, la è contenta? Si, rispose l’altra, lo ringrazio
ancora: ma sappia che io prego di cuore, e quando un
Confessore si mette a pregare è una faccenda seria, ed il
Signore non gli dice di nò: ancor meglio soggiunse l’altra,
perché così sono certa che sarà esaudito. Va bene, adunque,
ripigliò il Confessore, stia preparata per tutto quello, che
Iddio sarà per disporre; ma che cosa dimanda, insistè subito
l’altra un po’ sbigottita: siccome finora io ho parlato al

93
vento, ed Ella non vuol saperne di finir una volta cotesta
vita di peccati, conto di dimandare a Dio che la finisca lui.
Oh! va bene, ma come la finirà? allora ripigliò il
Confessore: eh mi pare che è facile a capirlo, e conoscere
quello che Iddio farà; siccome Lei se vive non vuol finirla, e
vuol continuare, il Signore la prenderà, e così sarà finita.
Ah! nò, sog-giunse subito, per carità, non preghi se è così;
dunque, allora conchiuse il Confessore, qui non c’è mezzo,
o emendarsi, o che io prego, non occorre nemmen più la
sua licenza.
Fatto d’altra persona, che ritornò a pregare il Confessore
che desistesse dalle orazioni per lei ecc… Tutto ciò sarà per
gli altri, ma quando si tratti di noi, siamo ancor più sul
sicuro. Io non parlo di cose temporali da domandarsi al
Signore, poiché agli occhi d’un Sacerdote non sono che
miserie ed inezie, e Iddio certo non mancherà di
provvederlo di quanto occorre e difenderlo da quanto sarà
necessario; ma vado al altre cose più importanti, quali sono
le spirituali, e conducenti al nostro profitto, al bene
dell’anima nostra, e del nostro Ministero: qui non occorre
cercar prove, citar testi, addurre ragioni, ella è proposizione
a tutto rigore teologica che trattandosi di noi, e per tali
oggetti, l’orazione est infallibiliter impetratoria quando sia pia, e
costante, sicché un sacerdote, che si presenti a Dio, e
sinceramente dimandi, Signore, sono Sacerdote e come tale,
ho bisogno di umiltà, di mortificazione, di distacco, di
purità, di coraggio, di confidenza; non è già un tentativo,
una prova che facciamo se Iddio voglia esaudirci, ma è
certezza, siamo sicuri, non può fallire, se chiederemo, e
torneremo a chiedere: oratio est infallibiliter impetratoria. Molto
più quando si trattasse di cessar dal peccato, e qual cosa più
necessaria alla salute nostra, che finirla una volta con questo
mostro; ognuno dica adunque in questi giorni, con

94
preghiera e con fede da sacerdote: Signore è tempo che la
rompa una volta, e voglio che sia finita in questi giorni:
peccati mai più; datemi la vostra mano, lasciatemi poggiare
sul vostro braccio, ed in questo punto si stringa fra me e
voi un’alleanza sempiterna. S. Alfonso soleva ripetere che
chi prega si salva, chi non prega si danna. Io ripeterò lo
stesso: il Sacerdote che prega, siate certi che diverrà buono,
virtuoso e si salverà; ma se non prega, sia pur un uomo di
fatica, di studio, e di scienza, ma io temo della sua virtù, e
bontà, e temerò ancor più della sua salute. Pregare, come
abbiam veduto, non basta al Sacerdote, si ricerca di più, sia
uomo di preghiera, e per divenirlo non giovano le molte
parole, non serve né l’arte, né l’industria, ci vuol distacco e
ritiro del mondo, ci vuol l’uso delle pratiche di pietà e di
mortificazioni, ci vuole infine e principalmente l’uso del
riflettere, e meditare, e quando il nostro cuore sia vuoto del
fango di questa terra, quando sia ripieno e caldo delle cose
del Signore, non potrà più vivere in terra, ma soventi,
facilmente, senza sforzo, e fatica si porterà in Cielo a veder
Dio, a salutar Dio, a parlargli, a famigliarizzare, a
conversare con Lui, e con ciò solo saremo uomini di
orazioni e preghiera, uomini meravigliosi, uomini
sorprendenti, uomini onnipotenti, ed anche noi potremo
dire: guardatevi bene di farmi pregare, non costringetemi a
dare mano a quell’arma terribile della preghiera, perché per
poco che facciate, io parlerò di Voi, io pregherò per Voi:
orationem timeat, qui admonitionem contempsit.

Instruzione Sesta.
Sopra la delicatezza di Coscienza.
Ritiro ed orazione sono due gran mezzi egualmente
necessari, ed efficaci per formare dell’Eclesiastico

95
quell’uomo singolare, che andiam delineando in questi
giorni. Tra le qualità, che devono accompagnare e fregiare
quest’uomo, ella è certamente quella che lo renda scevro da
colpa, e faccia si che abbia un cuor mondo, ed una
coscienza pura, candida, e delicata; ed a che servirebbe l’alta
sua dignità, un esteriore ordinato, e composto, vivere
ritirato, e pregare anche molto, se fosse possibile, quando
poi mancasse in lui quella mondezza di cuore, quella purità,
e quella delicatezza di coscienza, che fa dell’anima nostra, e
del nostro cuore come un gioiello agli occhi del Signore, e
che non potrà a meno di renderlo avanti gli uomini un
portento di virtù. Ogni Eclesiastico dovrebbe meritarsi quel
bel panegirico, e quel grande elogio che già fece il Signore
medesimo del servo suo Giobbe: Numquid considerasti servum
meum Iob, qual non sit ci similis in terra: homo simplex et rectus,
timens Deum ac recedens a malo. Iob. Cap 1. Vedete là un
Sacerdote; vi poneste mai ad osservarlo da vicino? Vel dirò
io che tempra, che sorta d’uomo è costui? Uomo giusto e
retto, uomo che si guarda dal male, e che teme d’offender
Dio: homo rectus et timens Deum, ac recedens a malo. Vi saran
uomini più dotti, più facoltosi, più stimati, ed onorati, ma in
materia di coscienza non est ei similis. Tale deve essere lo
stato di Sua coscienza, tale l’elogio e la testimonianza che
deve meritarsi dal mondo. Non sarà certo poca cosa
mantenersi puro, e mondo in mezzo a tante vanità, e
lusinghe, vestito d’una carne di peccato, strascinato da tante
passioni, eppur questo grande personaggio di cui parliamo
oltre un uomo di ritiro, e di preghiera deve ancor essere di
coscienza candida e pura ed ecco la materia, ed il soggetto del
nostro trattenimento, un Sacerdote di coscienza delicata. Sono
poche parole ma gravi, feconde, e pesanti. Noi vedremo
primo che cosa sia, in che cosa consista cotesta purità, e
delicatezza 2. La necessità, e l’importanza, che l’abbi ogni

96
Eclesiastico, e finalmente i mezzi, che ce la possono
proccurare e conservare. Può essere che a qualcuno cotesta
materia paia un po sottile, esigente, e forse portata di
troppo innanzi, ma io rifletto che noi Eclesiastici andiamo
incontro a due giudizi, uno più severo dell’altro, il giudizio
cioè del mondo, che ci giudica senza carità, e senza
misericordia, ed il Giudizio di Dio, che sarà in tutta
giustizia. Io non vedo altro mezzo d’intervenire, e ripararci
da’ colpi di questi tremendi Giudizi, che farne un terzo da
noi medesimi, e prima, e più severo ancor degli altri; entrare
dentro di noi, non perdonarla a cosa alcuna, perché che
vale se Iddio un giorno la scuoprirà, e perfin il mondo vi
arriva; e basterà questo solo a renderci quegli uomini
delicati, e puri che andiamo a considerare. Cominciamo.
Quando si dice un uomo delicato di coscienza secondo
certuni, pare che sia lo stesso che il dire un uomo
scrupoloso, eccessivamente timido, e che tema fuor di
proposito un male, quando non v’è. Ma la cosa è ben
diversa, e vi passa tra l’uno e l’altro una gran differenza,
come tra il mare in calma, ed il mare in tempesta, come tra
il giorno, e la notte, come tra chi vede, e chi travede, come
tra una mente retta ne’ suoi giudizi, ed un altra soprafatta e
sconvolta da torbide apprensioni, ed eccessive paure; così si
distingue l’uomo di coscienza delicata, ed un altro di
coscienza scrupolosa, e si badi bene a questa differenza,
poiché in pratica, e presso i meno buoni, e diciamolo pure
anche tra gli Eclesiastici, si confonde quasi sempre; s’invita
per esemp. quel tale ad una partita, ad un divertimento, ad
una conversazione, e per delicatezza di coscienza si ritira, e
si rifiuta, ecco lo scrupoloso si grida subito; si troverà
quell’Eclesiastico in qualche compagnia, dove si parla con
poca carità, o con qualche libertà, costui si mostra annoiato
per principio, e per tatto delicato di Sua coscienza; state

97
quieti, v’è subito chi dice, perché abbiamo tra noi degli
scrupolosi; adagio miei cari, a regalare questi nomi, a
battezzare per scrupolo cotesta maniera d’agire; è vero che
lo scrupolo non è un peccato, nemmen può dirsi che faccia
un vero torto, ma cotesto parlare non è esatto. Nella
coscienza bisogna osservare ciò che è sostanza, e
definizione, cioè il giudizio che si fa l’uomo dentro di se del
bene, o del male morale; e quando erra in questo giudizio, e
per motivi insussistenti vede male, ove non l’è, lo che si
chiama scrupolo, e lo è veramente. Altro è poi la proprietà,
ossia l’effetto, e conseguenza di questo Giudizio, qual’è
l’odio, e l’avversione al male, che più o meno per veri
motivi si trova, lo che parte da una coscienza retta, e giusta,
e si chiama rigorosamente delicatezza di coscienza; onde
uomo di delicata coscienza sarà tutto quello, che odia, ed
abborre da tutto ciò, che può essere in qualche modo
peccato, ed aggrava la sua coscienza; e sarà più o meno
delicata, a misura che maggiore o minore sarà l’avversione
sua, e l’impegno nell’evitarlo. Noi però per rendere più utile
cotesto argomento, gli daremo un campo più vasto, ed una
materia più ampia con assegnare tre parti: la prima è quella
di guardarsi bene dal contrarre una qualche colpa; 2. star
attenti a non esporsi a ciò che ne può essere un principio,
causa, o disposizione; 3 finalmente quando venga ad
accorgersi d’esser caduto in un qualche fallo rimediarvi
subito, e non soffrire di portarlo con se. Se voi mi togliete
una di queste doti, e proprietà di un Eclesiastico, sarà
ancora, se volete, un Sacerdote buono, se duri poi o non
duri cotesta bontà è un altro affare, e lo vedremo, ma a
rigore non è più un Eclesiastico di timorata, e delicata
coscienza; e prendiamone un paragone materiale: un uomo
che sia delicato nella pulizia, e candore delle sue
vestimento, naturalmente si guarda non solo da ogni, e

98
qualunque macchia, ma da tutto ciò che lo può esporre a
qualche pericolo; che se contro voglia gli capita di contrar
qualche macchia, non la soffre ed il primo pensiero, l’affare
più urgente è quello di torla; e chiunque di noi vedesse un
tale indolente nell’uno, o nell’altro capo, certamente non lo
avrebbe per un uomo delicato, e pulito, ma piuttosto
trascurato, e negligente. Or applichiamo pur la cosa
letteralmente al Sacerdote. Io non parlo d’un Eclesiastico
che viva abitualmente in peccato mortale, o ci cada
facilmente, e soventi, poiché costui ben lontano di dirlo
delicato in coscienza, dovressimo piuttosto dire che l’ha
perduta; ma invece io parlo di chi, quando non si tratti di
mortale apertamente, non si cura gran fatto di astenersene,
oh! è una venialità, una curiosità, una leggiera bugia, una
facezia, una gallanteria, una miseria del mondo e che gran
male? E nemmen senza riflettervi tanto se sia solo veniale, e
possa anche toccar il mortale tira avanti, sia quel che sia,
mortale non lo sarà; parlo di chi conoscendo d’esser stato
caduto ed anche più volte, e forse temendo sia mortale,
pure si sforza a non crederlo tale e così passa i giorni, le
settimane, e forse anche più senza curarsi di pulire il suo
cuore, e rimediarvi. Parlo di colui che in sospetto, ed
avvisato che quella tal cosa può dar nell’occhio, aver
conseguenza, col tempo arrecare qualche pericolo, quelle
frequenze, quel modo di parlare, quella mancanza di
contegno, quella libertà di guardare, spezza cotesti timori,
battezza per malinconie coteste paure, e correzioni, e
continua a far lo stesso. Ora io dico francamente che tutti
costoro non entrano nella sfera degli uomini, degli
Eclesiastici delicati di coscienza; e come volete dirli amanti,
e bramosi di mondezza, e candore di cuore, quando loro
cale così poco e la colpa, il pericolo, o la deformità, che
loro cagiona. E che dire adunque di costoro? che giudizio

99
fare d’un Eclesiastico quando manchi di cotesta delicatezza;
eh!… io lo dirò in poche parola cotesta mancanza è ben
opprobriosa per un Sacerdote, molto pericolosa per lui e
scandalosa per gli altri.
Osservate come nel mondo si tenga in gran stima, e
concetto cotesta delicatezza anche nelle cose temporali;
ognuno si picca, e se non l’è, almeno pretende d’esser
delicato nel suo affare; così l’uomo di arte, l’uomo di
commercio, e l’uomo di leggi, e di toga; che se qualcuno
mostra un sol sospetto in contrario, se ne risente, si mostra
offeso, e vi risponde netto e tondo: che voi non conoscete
la delicatezza sua; è questa una dote su cui può dirsi che
poggia tutto il credito, e la confidenza, e riputazione d’una
persona: si abbi da fare una vendita, una compra, e
conchiudere un negozio, a trattare un affare qualunque, la
prima cosa che vuol sapersi è che sorta di personaggio sia
colui; se si risponde: è un uomo delicato, si chiudono gli
occhi, e si tira avanti, v’è più niente a temere e perché?
perché se è tale, vuol dire che si guarderà dal farmi il
menomo torto, ed ingiustizia; dei due s’esporrà piuttosto
Egli medesimo che esporre l’altra parte contraente; e se
viene ad accorgersi che inavvertemente vi sia succeduto
uno sbaglio, errore qualunque, siete sicuro del vostro e non
tarderà a compensarvi sino allo scrupolo; se al mondo è
così stimata, tenuta in tanto pregio cotesta virtù, e
delicatezza, ed ognuno se ne fa un vanto, una gloria, un
dovere d’esser tenuto per un uomo tale, solo il Sacerdote
avrà da fare, avrà da essere indifferente; qual’è la
professione e partita nostra? quella di essere santi; virtuosi,
e perfetti; questo è il nostro dovere, il nostro scopo, il
nostro fine. Ecco là un Sacerdote: finché voi parlate,
trattate di roba, di sanità, d’impieghi, o d’altre cose
temporali, divertimenti, viaggi etc. non ne fa gran caso, e

100
voi lo trovate arrendevole, condiscendente; ma non toccate
la coscienza, guai se v’è il menomo male, l’ombra del
peccato; ah! in questa materia è delicato assai, e non
transige in alcun conto, questo è delicato assai, questo è
quel tanto, che dovrebbe dirsi d’ogni sacerdote, se non
vogliamo essere al di sotto degli stessi secolari nella loro
sfera; e qual cosa più opprobriosa per un uomo, che fa
professione di virtù, di santità, che vuol dire di odio al
peccato, vederlo contaminato frequentemente del
medesimo, non curarne il pericolo, e coperto anche di
macchie pur vivere allegramente come fosse la coscienza
più pura del mondo? e non sarebbe opprobrioso pel sole,
che è fatto per illuminare, se soventi si mostrasse tinto di
lordure, e di macchie, le quali, benché non gli togliessero
affatto luce, la diminuissero tuttavia, e lo rendessero meno
chiaro, e lucente; non sarebbe d’opprobrio, ed opprobio
ben grande ad un Gentiluomo di corte, se osasse
comparire, trattare e conversare con vestimenta di questa
sorta, se non lacere, e macchiate affatto, pure tinte in
abbondanza di piccole macchie; se si trattasse d’una
persona del volgo, e popolana, che accidentalmente si
presenti al Suo Sovrano, non sarebbe presa male quando si
lasciasse vedere, e comparisse in quella foggia, ma per un
uomo di arte, per un personaggio destinato per uffizio al
servizio del Re, ed al decoro di sua casa, sarebbe
imperdonabile; ed ecco il caso nostro: noi siamo i luminari
del mondo, e che dobbiamo colla nostra luce rischiarire,
illuminare tanti corpi opachi, e tenebrosi quai sono tutti i
mondani, e non sarà una vergogna, un rossor grande per
noi il farci vedere lordi, e tinti anche di sole piccole
macchie, e poco curanti di mantener viva, e splendida la
nostra luce. Noi siamo tra tanti miseri i Gentiluomini nella
casa del Signore, e fra quanti si presentano macchiati, e

101
lordi davanti a questo gran Dio, noi siamo destinati a
sostenerne, a guardarne il decoro colla bellezza delle nostre
vestimenta, cioè colla mondezza del nostro cuore, colla
chiarezza della nostra coscienza.
Tale e tanta deve essere la nostra mondezza, che al dire
del Crisostomo non dovressimo scomparire quand’anche
venissimo presi, e collocati fra la schiera de’ medesimi
Angeli: Sacerdotem oportet sic esse purum, ac si inter coelestes illas
virtutes collocatus medius staret. Che opprobrio trovarci in
questa casa, e davanti a questo Signore poco più poco
meno macchiati e lordi come gli altri? Che confusione
dover dire agli altri che si aggiustino, si puliscano, mentre
noi medesimi portiamo chiare e patenti le nostre macchie.
La professione , adunque, di virtù, e santità, che abbiamo
abbracciato, la santità della casa del Signore, che abitiamo,
la dignità delle funzioni, e ministeri, che dobbiamo trattare,
l’altezza, e la grandezza di quel Dio, che siamo chiamati a
servire così da vicino, tutto in noi richiede cotesta
delicatezza di coscienza, e nitidezza di cuore a meno di
divenire un oggetto di onta, di vitupero, e di opprobrio.
Pericolosa di più, e grandemente, per noi, e per
qualunque Eclesiastico sarebbe la mancanza di cotesta
qualità. È vero che abbiamo supposto di non parlar d’un
Sacerdote abitualmente cattivo, e che viva in peccato
mortale, ma credete voi che vi sia molto lontano
l’eclesiastico, che non sia delicato di coscienza. La S.
Scrittura, la ragione, l’esperienza purtroppo ce lo fa temer
molto, molto vicino. Qui spernit modica, paulatim decidet, ed
osservate che non dice già di chi cade in cose piccole, ma
qui spernit colui che non fa caso, e non da peso alle cose
piccole, lo che fa appunto per l’uomo, che non ha la
delicatezza di cui parliamo. Ecl. 19. E che non possa essere
altrimenti, lo dice la stessa ragione; a misura che

102
l’Eclesiastico non cura queste piccole colpe, vi dorme ancor
sopra, e non si guarda di contrarne altre nuove, è naturale
che in lui va scemando l’orror, l’avversione al peccato, che
forma un gran freno per non cadervi; nello stesso modo
che uno trattando con piccolo animale da cui non ha molto
a temere perde l’orrore anche ad un altro più forte e feroce,
e quindi ne verrà, che non paventandolo quasi senza
accorgersi gli si farà vicino, e resterà sbranato; se in lui
andran aumentandosi, e si faran più gagliarde le passioni; le
vanità, le lusinghe del mondo andran acquistando poco per
volta padronanza, e dominio sopra di lui, dall’altra parte il
Signore andrà restringendo la sua mano e non dico già che
ritiri la Sua grazia, ma certi ajuti speciali che in una
tentazione, in un assalto l’avrebbero tenuto fermo, e
costante, siccome ha da fare con un sacerdote che va
riservato, e non è delicato con lui, sarà difficile che li
conceda, e che ne sarà in fine che avverrà più presto, o più
tardi in un modo od in un altro? dimandiamolo alla
giornaliera esperienza. Dove fini quel sacerdote che ritroso
agli avvisi, ed agli esempi altrui, aveva quasi rossore di farsi
vedere delicato in materia di tratto, di frequenza, e di
conversare; dove andò a terminare quell’altro che in materia
di comparse, di sguardi, e di foggie di vestire non era così
cauto, e riservato. Come terminerà colui che si rideva di chi
mostravasi guardingo, e parco in materia di partite, pranzi, e
divertimenti: non occorre rispondere: le cadute che pur
troppo frequentemente siamo obbligati a piangere, a
deplorare ci danno una prova, ed una spiegazione troppo
certa, e troppo chiara. L’uomo, e molto più l’eclesiastico è
impossibile che di primo slancio passi al mortale, e
qualunque, e per enorme che sia la caduta, se ne andiamo
all’origine, troveremo sempre che il principio fu tante volte
nemmeno una colpa decisa, ma la mancanza di questa

103
delicatezza nello schivarne un pericolo, ed un occasione
anche lontana: un germe di genialità, che al dir di S.
Gerolamo: nequitia elidatur in semine, andava troncato in
sul principio dall’uomo delicato: una piccola affezione, che
doveva tener all’erta un Sacerdote di quella mondezza, la
mancanza d’un riguardo anche nel compiere un dovere di
parentela, di società, di convenienza può aver cagionato un
tanto male; e che cosa è tutto questo? se non mancanza di
delicatezza, quanto adunque può esser fatale, e pericoloso.
Finalmente ella non può essere a meno che scandalosa.
Io ho detto sin dal principio che noi Eclesiastici andiamo
soggetti ad un terribile Giudizio, che è quello del mondo,
giudizio giornaliero, continuo, e di tutti i momenti, di modo
che possiamo chiamarci sempre giudicati, e sempre che
giudicati, perché siamo sempre sotto questo giudizio,
giudizio il più severo, perché fatto per lo più da prevenuti, e
da maligni, oppur da buoni così delicati, che fanno conto in
noi della minima paglia e che ci stanno guardando,
adocchiando con cent’occhi, e guai una parola, un tratto,
uno sguardo men cauto, e ri-servato: sospetti, congetture,
ciarle e non si finisce più. Or datemi un sacerdote che non
sia delicato di coscienza nel senso che io ho esposto; non si
guardi colla massima cautela da ogni colpa, dalla sola
apparenza, e pericolo, e non abbi cura di rimediarvi ben
presto se urta, intoppa in qualche scoglio, datemi un
Eclesiastico che non faccia caso di leggerezze, di certe
libertà, nel parlare, nel vedere, nello schivare, come se la
caverà nel mondo, e potrà a meno di non dar molti
scandali? ne stiamo a ripetere che sono cose piccole, in
conseguenza incapaci di dar qualche scandalo, poiché
sappiamo quel che dice S. Bernardo, che ogni piccolezza in
noi per la qualità nostra divien grande, ed anche massima:
nugae in ore saecularium nugae sunt, in ore sacerdotum blasphaemiae,

104
e lo confermò il S. Concilio di Trento allorché
raccomandando a tutti i Sacerdoti un tenor di vita
irreprensibile, e santo, confermò appunto, ed appoggiò
cotesta raccomandazione e sì fatta ragione, che levia etiam
delicta in ipsis maxima essent. La qualità nostra di Sacerdoti
siccome può fare che sia grave, ciò che sarebbe solamente
leggiero in un secolare, così può rendere illecito in noi ciò
che in un altro non vi sarebbe peccato alcuno. Quae in aliis
non reputantur ad culpam, in iis haberentur illicita. Più d’una volta
il sacerdote sarà invitato da secolari a prender parte ad un
trattenimento, ad un giuoco, ad un pranzo, ad una
conversazione, o simili faccende per se stessi indifferenti,
ed oneste, e potrà dire francamente, andatevene pure, che
haec in vobis non reputantur ad culpam; ma forse per qualche
circostanza di tempo, di luogo, di persone dovrà dire a se
stesso io non vi posso recare, quia haec in me haberentur illicita.
Un uomo che non sia delicato di coscienza, certo non fa
tante distinzioni, non permette tanti riflessi, epperciò chi sa
in quante cose può rovinare da dar vero scandalo. Dunque
per conchiudere questa parte, o fratelli miei, ogni ragione
vuole che noi diveniamo uomini gelosi, cauti, delicati, non
già in gal-lanterie, in etichette, in preminenze; lasciamo pur
stare coteste fracchierie, ma del nostro interno, ed in
coscienza. Pare che in questo mondo vi sia purtroppo
l’usanza che ognuno si formi la sua coscienza dal proprio
stato, e condizione e si regoli secondo quella. Il soldato si fa
una coscienza da soldato, il Marinaro da marinaro, il
bottegaio da bottegaio, il negoziante da negoziante e
siccome in questo caso tornerebbe a nostro prò, seguitiamo
anche noi cotesta usanza, siamo Eclesiastici, facciamoci una
coscienza da Eclesiastici, e regoliamoci secondo questa. Noi
per la nostra posizione siamo quegli uomini già nominati
nell’Eclesiastico 44. ricchi in virtù, amanti e studiosi di

105
spiccare in splendore e bellezza: homines divites in virtute,
pulchritudinis studium habentes e siccome noi non siamo più di
questo mondo, l’amore, e lo studio della bellezza nostra ha
da essere tutt’altra, che quella di quaggiù caduca e
transitoria, ma di altra immensamente più grande, e
preziosa, qual’è la spirituale, interna, che mai verrà meno e
che ci farà uomini gloriosi, e risplendenti non già davanti ad
un mondo ingannatore, e fallace, ma innanzi a Dio,
scrutator de’ cuori e giusto estimatore delle virtù.
Guardiamo nelle persone del mondo quanti studi, quanti
industrie e quanta pazienza per conservare, per aumentare
una bellezza mondana; ella è tanta che quasi si può
chiamare un martirio perché niente scompaia, tutto sia
pulito, in ordine, ed a suo luogo: quanti arnesi, unguenti,
fiori, arriciamenti, e che so io: quanto tempo in adobbare,
comporre, e guernire da infastidire qualunque più paziente
del mondo che non avesse una voglia sì matta di comparire,
eppure il tutto si fa, e volentieri, ed allegramente, perché
nessun li sorpassi, se fosse possibile, in splendore e bellezza
ed in tutto compaia un tutto squisito, un gusto delicato e
fino. Impariamo noi Eclesiastici da questi ciechi mondani
ad usare almeno ugual cura, ed impegno per proccurarci
non già per un volto esteriore di fango, ma nella nostra
coscienza un gusto, una delicatezza tale che non abbi che
fare con le bellezze, e delicatezze mondane, ed io per fine
di questa nostra considerazione assegnerò alcuni fra mezzi
principali, che ci potranno condurre.
Il primo mezzo di mantenerci delicati in coscienza, con
una aversione grande e abbonimento sommo al peccato sia
questo di meditarlo soventi, persuaderci, e penetrarci ben
bene quanto gran male egli sia, quanto scon-venga ad un
Eclesiastico, che serve così da vicino Iddio, parla, tratta, e
conversa continuamente con Lui, andar facendo, e

106
ripetendo ingiurie ad ingiurie anche piccole al Suo Signore.
Finché noi non capiamo a fondo questa gran verità, sarà
difficile, anzi quasi impossibile che noi arriviamo a
concepire quell’odio, e quella ripugnanza alla colpa così
necessaria all’Eclesiastico, che vuol mantenersi puro perché
finché il peccato anche solo veniale entra liberamente nel
nostro cuore, e vi dorme tranquillo, è inutile cercare se
siamo delicati o no; come chi fosse coperto di macchie e di
polvere, e volesse darsi ad intendere che è un uomo pulito.
Un altro mezzo per non cadere facilmente in brutture, e
mantenersi puri, e mondi di coscienza, sarà di privarci di
tanto in tanto colla mortificazione anche del lecito per non
trascorrere nell’illecito; chi in ogni cosa vuol andar tanto al
sottile, e cercare, ed evitare solo ciò che strettamente è
peccato, del resto non vuol saperne, tenetelo già per
caduto. La cosa, la distinzione sta bene in teoria e fino ad
un certo punto, ma in pratica inganna ed è un vero laccio
per farci cadere, sia perché molte volte c’inganniamo tanto
più in coscienza propria e falsamente ci diamo ad intendere
che non sia peccato quello che lo è, sia perché cominciata
una azione, non è così facile arrestarci al punto, che ci
siamo prefisso; le passioni, il mondo, i compagni, la
precipitazione tutto ci trascina, e ci trasporta ove forse noi
non lo credevamo, e a quanti giornalmente capita in questo
modo; sia perché in fine l’estremità del sicuro e già
pericoloso: figuratevi un tale che cammini per una strada
sicura finché volete, ma vicino al precipizio, come è la
strada, che battiamo noi a questo mondo, e voglia sempre
andare fin dove si può, sino alla punta del sicuro, è un
momento a rovinare, ed un giorno o l’altro ci cadrà
purtroppo. Cosi capita in ogni altra cosa: chi vuol nel suo
campo godere nelle estremità fino l’ultimo granello del suo
terreno è impossibile non usurpi qualche cosa d’altrui. Chi

107
vuol sempre a tutto rigore, ed a tutta punta far valere con
chiunque i suoi diritti, gli capiterà forse anche senza volerlo
usar qualche prepotenza, ed ingiustizia. Ecco quello che
capiterà al Sacerdote, che vuol camminare sempre alla
mano colla regola, e colla distinzione del lecito, e
dell’illecito, attenersi al primo e guardarsi solo dal secondo,
e niente di più. Primieramente non può scusarsi da certa
ingratitudine e sgarbatezza cotesta maniera di condursi,
mentre Iddio con noi ha oltrepassato ogni limite, e misura
sino al punto da sfidarci a dire noi medesimi che mai
poteva Egli far di più; e noi per paura far di troppo , stiamo
contando i passi, e numerando le azioni, che facciamo per
lui. Secondariamente anche per punizio-ne di questa nostra
riserva, ed avarizia per lui, Dio permetterà che cadiamo
nell’illecito, ed in peccato: quell’occhiata, quella visita, quel
tratto, quella parola presa isolatamente pare che non possa
dirsi tosto peccato, né contenga vero pericolo; il nostro
Sacerdote dice subito che male c’è, non v’è colpa, andiamo
avanti, si provi, e poi si vedrà. Quella compagnia, quella
lettura, quell’affezione, sarà lo stesso; l’Eclesiastico delicato
che si guarda non sol dal peccato, ma da tutto ciò che lo
può indicar di lontano, tronca, e lascia; ed eccolo al sicuro:
l’altro invece che sa e vuol distinguere, discorre e conchiude
al contrario e vedremo le conseguenze. Dunque ripeto chi
vuol essere uomo delicato da non cadere facilmente
nell’illecito, provi a privarsi anche qualche volta del lecito.
Chi non vuole che la lingua, e la gola trascorra in qualche
eccesso, proccuri di tanto in tanto vi sia qualche parola, e
qualche boccone di meno. Chi desidera tener gli occhi a
casa, ed in freno, li privi soventi anche di curiosità oneste e
lecite. Colui che nel mondo vuol comparir sicuro, e non
perderne allorché le toccherà uscire, provi a star qualche
volta per scielta ritirato e nascosto; in questo modo andrà

108
acquistando padronanza e forza sopra sé, de’ suoi sensi, e
delle sue passioni da potersene valere in qualunque
cimento, ed assalto.
Il terzo mezzo per giungere alla delicatezza, di cui
parliamo, sia il frequente esame della nostra coscienza. Il
negoziante, che vuol esser retto, e delicato nella spedizione
de suoi affari, quante volte andrà pensando tra se, ed
esaminando quello che fa, per non sbagliare, e soventi si
farà a rivedere, a ripassare le sue partite per scuoprire se
ogni cosa corrisponde, e sia conforme ai suoi desideri, alle
sue intenzioni. Cosi deve fare il Sacerdote, se vuol
mantenere in buon ordine lo stato di sua coscienza; e come
volete sia delicato e mondo, passi le giornate intiere, e forse
diverse, e molte senza pensar un momento ne come si
regola, ne che cosa fa, e che cosa ha fatta; abbia buona
volontà finche vuole, ma siamo uomini, è quasi impossibile
non sbagliare in certe cose, e se il sacerdote non si esamina,
e non vi rimedia, un difetto chiamerà un altro, dopo un
leggiero ne verrà un altro più grave, e finirà per trovarsi
imbrattato. Io non voglio dire di interrompere soventi le
nostre azioni, mettersi in ginocchio per fare il nostro esame,
ma bensì di avezzarci lungo il giorno anche in mezzo alle
nostre occupazioni pensar un momento alle azioni nostre
principali come ci siamo diportati, se abbiam niente a
correggere, a pentirci, per esemp. abbiam celebrato, sentito
Confessioni, amministrato altri Sacramenti; ci toccò andar
in quella casa, trattar quell’affare, trovarci con quelle
persone, è un momento senza ché nessun s’ac-corga, da
noi, e senza lasciarvi quel tanto, che abbiam alla mano,
pensar un po, come ci siamo cavati: se abbiam niente, e
pare che il cuore ci riposi tanto nel modo, come nelle
nostre intenzioni, ebbene ne ringraziamo il Signore; se nò,
vi rimedieremo subito, oh! Signore lo vedo adesso quella

109
parola, quella impazienza, quella fretta non c’andava,
perdonatemi, altra volta mi guarderò. Signore m’accorgo,
non sono stato abbastanza riservato, ho parlato molto, mi
sono divagato di troppo; ve ne dimando perdono: e v’andrà
gran tempo, e fatica a far questo, mai più. Ogni giorno poi
alla sera non priviamoci di questa consolazione di passar un
momento ai piedi del Crocefisso per deporre la nostra
giornata: purtroppo che ella sarà lorda di tante macchie, ma
Signore diciamoli francamente tocca a voi a pulirla con una
goccia del vostro Sangue, io la rimetto nelle vostre piaghe,
giudicatela, castigatela, solo che sieno nette tra me e voi le
nostre partite, ed i nostri conti.
Finalmente il mezzo più efficace, ed indispensabile per
tener monda, e pura la coscienza nostra è l’uso conveniente
del Sacramento della Confessione. Mi rincresce non aver
tempo a parlarne più a lungo, ma toccherò le cose
principali. Tre sono i difetti purtroppo dominanti, e comuni
in noi Sacerdoti relativamente a questo Sacramento, e sono
la poca frequenza, la superficialità con cui c’accostiamo, ed
anche purtroppo la mancanza di confidenza nel nostro
Confessore. Io suppongo che tutti i preti si confessino, e
quando ve ne fosse qualcuno che ne facesse a meno, io non
intendo di parlare di quest’uomo singolare; nemmen credo
possa venire in mente che non facendo peccati mortali non
v’è obbligo di Confessarsi, poiché un sacerdote che tenga
non esservi obbligo in questo caso e realmente non si
confessi, non occorrerà perder tempo a far la questione,
perché purtroppo sarà difficile che s’attenga a soli peccati
veniali, e poi sappiamo che quand’anche si volesse
ammettere non esservi obbligo diretto per costui, in pratica
vi sarebbe indirettamente per ragion di scandalo; ma
lasciamo queste questioni a parte, e veniamo al nostro
punto. Con che frequenza si accosteranno i Sacerdoti alla

110
Confessione, oh! certo che non vi sarà la stessa misura per
tutti: comunemente si dividono in coteste categorie, chi
ogni settimana, chi ogni quindici giorni, chi ogni mese, chi
ogni due tre mesi, ed anche chi una volta o due all’anno, ma
si confessano tutti. Fra tutti questi qual sarà il più prudente
e da seguirsi da noi: Voi aspettate nemmeno la risposta da
me. È convenientissimo, è utilissimo che l’Eclesiastico si
confessi ogni settimana: la pratica de’ buoni è tale, la Chiesa
la raccomanda, la premia e noi sap-piamo il privilegio che
gode cotesta frequenza, bastare cioè all’acquisto di tutte
quelle indulgenze, che in un altro vorrebbero la
Confessione attuale , di modo ché la Chiesa calcola, e tiene
come se costui si confessasse ogni giorno; e non ci paia di
troppo cotesta frequenza, perché anche noi
nell’amministrazione della Penitenza difficilmente ci
lasciamo andare a permettere la comunione tanto più
frequente al di là degli otto giorni, quand’anche che sia un
anima buona perché oltre qualche pericolo, che può
nascervi, la riverenza, il rispetto pare che lo esigga. Eh!
andar tanto soventi, non ho poi tanto da dire, e mi sembra
sia ancor tranquillo, e che non abbi peccati almeno gravi.
Eh cari miei, vogliamo aspettare a confessarci quando
siamo caduti. Colui che vuol essere delicato nella mondezza
del corpo, e delle vestimenta, aspetta a pulirsi, a lavarsi
quando sia infangato, mai nò; ad ogni poco di polvere, ad
ogni vestigio di lordura si pulisce, si lava, ed anche senza di
questo di tanto in tanto usa di farlo, perché così vuole la
delicatezza; così faccia dunque l’Eclesiastico che vuol essere
delicato, e mondo, poiché ricordiamoci che io non ho fatto
consistere la delicatezza di coscienza nell’andare esente da
difetti, imperfezioni, ed anche da veri peccati veniali, ma
bensì nel guardarsi molto; siccome però anche guardandoci,
vi cadremo, subito mondarci, e rimediarvi col pentimento, e

111
colla Confessione. Và bene, ma io non posso così soventi
per la difficoltà, per la lontananza, e voglio ammettere
cotesto imbroglio; e che fare adunque: primieramente
qualunque sia l’ostacolo, mai protrarla oltre il mese, si faccia
qualunque sacrificio, costi finché vuole, ma da questo o da
quello nel mese voglio confessarmi. 2. chi non può
confessarsi ogni settimana, ne abbia almeno la buona
volontà, e per mantenere vivo e sincero cotesto desiderio io
suggerirei cotesto mezzo: ognuno risolva di confessarsi
ogni settimana; e siccome prevede, che non potrà, abbia e
proponga un’altra pratica da restituirsi in quella settimana,
che non potrà accostarsi, ed ognuno pensi a quello che le
può essere più utile; direi solo di proccurare chi si senta un
po,’ altrimenti sarà di poco vantaggio, per es. se non è un
digiuno, una mortificazione di gola, una visita più lunga al
SS.mo, privarsi del passeggio, o divertimento molto più se
fosse accostumato a far la partita. Così in qualche modo
potremo anche dire di confessarci ogni settimana.
Superficialità nel confessarci, secondo difetto delle
nostre Confessioni, sia perché non abbiam cose gravi, sia
perché ci confessiamo soventi, sia perché essendo Sacerdoti
Confessori sappiamo queste cose per pratica, come si
direbbe per mestiere; tante volte ci mettiamo a confessarci,
quasi come ci mettiamo a tavola, è tempo di confessarmi
ho il comodo, dunque mi confesso: non voglio dire che
siano confessioni sacrileghe, nò; ma v’è gran pericolo sien
nulle, e di nessun vantaggio, perché anche nelle venialità, ed
in materia libera, si ricerca il dolore almeno d’una parte di
essa, e questo io temo che manchi quando il Sacerdote
s’abitua a confessarsi in quel modo. Finalmente la
mancanza di confidenza, temo sia un difetto per noi
comune nel Confessarci. Parlo nemmeno di chi tace a bella
posta in materia grave, e necessaria, ma piuttosto di chi

112
capitandogli qualche cosa un pò più umiliante, non lo tace
nò, ma si prepara, concerta i termini in modo che il
Confessore quasi stenta a capire , e queste confessioni non
lasciano la persona quieta, e non possono recar quel frutto,
che dovrebbero quando fossero più sincere: parlo di colui
che deposto ciò che è puramente materia di confessione
lascia conoscere più niente al Confessore per propria
direzione; tendenze, inclinazioni, tentazioni, progetti,
andiam dicendo; è vero che non appartiene alla
confessione, e non è peccato alcuno di tacerlo, ma ci
priviamo d’un gran ajuto pel nostro vantaggio, ed anche per
avanzarci, per progredire in quella mondezza, e delicatezza
di cuore, che fù il soggetto del nostro trattenimento. Ecco
in poco i mezzi che ci possono fruttare cotesta bella
prerogativa d’una coscienza buona, monda, e delicata che
l’Appostolo chiamava la gloria del Sacerdote: gloria nostra
haec est, testimonium coscientiae nostrae. 2 Col. Egli è tanto il
sollievo, il conforto, il nutrimento che da la voce d’una tale
coscienza che vien chiamata quasi come una refezione
continua, e pingue: quasi juge convivium. A ciò aggiungete il
guiderdone, la mercede da Dio promessa all’uomo,
all’Eclesiastico delicato e puro di cuore: Beati mundo corde,
quoniam ipsi Deum videbunt. Faccia Iddio che il nostro cuore
sia tale da meritarsi cotesta gloria, e cotesta pace in terra, ed
arrivare un dì in Cielo a vederlo, ad amarlo, a lodarlo in
sempiterno.

Instruzione Settima
Sopra lo Spirito di Religione
La fuga del mondo, l’amor alla solitudine, ed all,
preghiera, la delicatezza di coscienza in un sacerdote non
potranno a meno che generare, e produrre in lui un altra

113
virtù, un altro spirito lore affine e non meno importante,
qual’è lo Spirito di Religione. Se noi interrogassimo un
secolare per dirci se abbia, e possegga cotesto Spirito, forse
ci risponderebbe che non sa nemmeno che cosa sia. Eh! …
sino ad un certo punto sarebbe di scusarsi, e un secolare
che sa più di terra, che di Spirito. Un Sacerdote però che e
maestro in materia di Religione, non può, non deve
ignorarlo: e quando esitasse a rispondere, si potrebbe dire;
Come tu es Magister in Israel et haec ignoras? La Religione,
come voi sapete, e l’esercizio di tutto ciò che tende al culto,
ed all’onore del Signore, e delle cose sue: ciò che costituisce
virtuoso questo Esercizio, e rende virtu la Religione e lo
Spirito cioè l’affetto che la persona nutre a ciò, che forma
l’oggetto materiale di questo culto, la stima che ne fa, il
mode, ed il fine con cui lo presta, di mode che sarà ripieno
di questo Spirito l’eclesiastico, quando ami nel sue cuore, e
stimi quanto può esternamente onorare il Suo Dio, lo
pratichi ed eserciti co’ debiti modi di rispetto, e
venerazione, col fine appunto di dare, e rendere al Signore
il dovuto omaggio, ed onore. Certo che per un Eclesiastico
non può essere cotesto un argomento nuovo e peregrino,
ma il nostro trattenimento se non sarà per istruire, di che
hanno solo bisogno gli ignoranti, sarà per ammonire, per
eccitare a risvegliare sempre più cotesto Spirito, crescerlo,
alimentarlo, e perfezionarlo giusta l’avviso che dava già
l’Appostolo al suo Timoteo: noli negligere gratiam idest
bonum Spiritus Sancti come dice il Cornelio a Lapide.
Epperciò noi vedremo queste tre cose, l’importanza cioè di
questo Spirito nel Sacerdote; In quali cose principalmente
l’abbia a farlo risplendere, e finalmente i danni, i mali che
sovrastino all’Eclesiastico che lo trascuri. Noi entreremo in
cose minute, e giornaliere, perché vi toccherà considerare il
Sacerdote nel corso della sua giornata in chiesa, in casa,

114
nelle sue funzioni, per vedere come in tutto, e un poco
l’Eclesiastico possa far gran bene, oppur esser causa, ed
occasione anche di gran male quando non abbia cotesto
Spirito, di cui parliamo, come andremo a vedere nella
presente nostra considerazione. Cominciamo.
Egli è tanto importante che un Sacerdote abbi questo
Spirito di Religione quanta è l’importanza di Sua vocazione,
ed è inseparabile l’uno dall’altro. Datemi un sacerdote che
non abbi gusto per coteste pratiche di culto del Signore, e
quasi vi si
porti per forza; che trovandovisi non vi mette
quell’impegno, quella gravità, e decoro, che si richieggono
si fatte funzioni, che quando può le fugga, e se non ne ha
un obbligazione più che stretta, le declini, e le fugga, lo che
dimostra una mancanza totale di questo Spirito di
Religione, oh! a dirvelo schiettamente, io temo fortemente
che un sacerdote tale non fosse fatto per la chiesa.
Cotesti Sacerdoti sono come quelle colonne di parata, e
di comporsa, che alle volte si collocano nella costruzione di
grandi edifizi; fanno al di fuori la miglior figura del mondo,
pajono capaci di sostenere colla loro mole qualunque peso,
eppure nò, perché sono vuote, e di pura apparenza, e volete
conoscerle, avvicinatevi, toccatele, il suono vi scuopre
subito il secreto; tali purtroppo sono certi Eclesiastici che in
apparenza pajono colonne le più ferme da sostenere da se
soli, o se non altro d’essere d’un grande appoggio al grande
edificio della Chiesa colla predicazione,
coll’amministrazione de’ Sacramenti, col buon esempio,
coll’esercizio decoroso e grave delle sacre funzioni,
coll’attendere al ritiro, all’orazione, eppure è tutta
apparenza, e niente più, o che non lavorano, o se lavorano,
siccome manca loro l’unzione, lo Spirito proprio del loro
stato, sono lavori materiali, che non producono frutto

115
alcuno, ed il più delle volte sono più di scandalo, che
d’edificazione a’ fedeli, e perché tuttociò? all’apparenza, al
vederli pajono buoni preti, vestono da preti, nelle funzioni
tengono il loro luogo: eh! fratelli miei non stupiamoci: al di
dentro sono vuoti: intrinsecus sunt cavi come li chiama un pio
Autore, sono vuoti di quello Spirito, che da anima, e valore
alle nostre azioni esterne: sono vuoti, e privi di quell’amore,
di quella stima al Suo stato, al Suo ministero, a ciò che in
sostanza concerne, e riguarda quel culto, che pur si dicono
chiamati a prestare; ed infatti osservateli come si diportino
nel disimpegno delle loro attribuzioni di chiesa, e proprie
d’un uomo Eclesiastico; che dissipazione che leggerezza,
che fretta, che scompiglio, che confusione di cose da far
nascere piuttosto sprezzo ed aversione al nostro ministero,
di quello che sia inspirare amore e rispetto: e non potrà
essere altrimenti in un Sacerdote che manchi di questo
Spirito: prendete un servo, ed io apporto questa
similitudine perché è la più espressiva, e significante per noi
Sacerdoti, che siamo realmente altrettanti servi nella casa, e
nella gran famiglia della Chiesa: datemi adunque una
persona che sia al servizio di qualcuno, ma non ne abbia lo
Spirito, e voglio dire, non se ne senta voglia, gusto, ed
inclinazione a questa sua qualità, ma ne senta tutto il peso,
che non faccia caso di ciò che tende al servizio, all’utile del
Suo padrone non lo stimi gran affatto, non le porti affetto,
ed amore, epperciò si curi poco di compiacerlo, e
contentarlo. Che dire d’un servo tale, e qual sarà il suo
servizio è presto indovinato: più d’una volta si rifiuterà, e
non vorra saperne di servirlo con cercare scuse, e pretesti;
quando potrà, e le riesce cercherà di schernirsi, e farsene in
fuori; e quando sarà costretto v’è tutto a temere che lo
faccia così di mal modo, e sgarbatamente da disgustare
piuttosto che servire un padrone: e così dite pure un

116
altrettanto dell’eclesiastico che non abbia lo Spirito del Suo
stato, e di Religione; fate la prova a dire ad uno di costoro
che non celebri con tanta fretta, con più gravità e col debito
apparecchio, e ringraziamento, vi risponderà che il Signore
vuole il cuore, che tanta esteriorità! Ioan. 4; e che non
bisogna abusare della sofferenza del popolo, e tirar tanto
per le lunghe; eh! miei Cari, non maravigliamoci che a
questo tocco suoni così, è una pila, è una colonna vuota, .
Intrinsecus cavi sunt. Continuate a toccarli; e dite che usino
più decenza, più modestia, maggior venerazione, maggior
contegno nell’esercizio delle loro funzioni, eh! che tanti
riguardi, tanti scrupoli, e malinconie quando fan tutti così;
sempre lo stesso suono, perché sono sempre vuoti;
invitateli a lavorare, pregateli a darvi la mano, dicon subito
che non possono, non han tempo, non tocca loro, non
sono obbligati, oppure; che cosa c’è, quanto di onorario,
eh?… purtroppo sono sempre i medesimi, finché non entri,
non sieno ripieni di questo Spirito, è inutile ogni altro
tentativo; ragionateli, persuadeteli finché volete, facciano
anche più volte gli Esercizi, non cangiano, son sempre li
stessi, perché sempre vuoti. Ma come fare, qui è naturale
che si dimandi, quali mezzi usare per avere, per ottenere,
per riempirci di questo Spirito giacché è si importante, e
necessario? Eh! fratelli miei, la doman-da è buona, è
opportuna, ed è l’unica via che ci possa salvare quando in
noi fosse proprio mancante questo Spirito, ed io posso
rispondere in poche parole; perché i mezzi sono già stati
accennati, ed è quel tanto che abbiamo detto finora, e
mezzi efficacissimi di modo che chi si disporrà ad usarli
può esser sicuro dell’esito, e sono che prima d’ogni altra
cosa il Sacerdote si faccia un idea precisa, si proccuri una
nozione esatta di se, e del suo stato; chi Egli è, e deve
essere un uomo diverso dagli altri; che lo Stato in cui si

117
trova, è stato di fatica, di sacrifizi, e di riguardi; fugga il
mondo, ami la solitudine, si dia alla preghiera, e sia certo
che in questo modo verrà, verrà presto, e verrà sicuramente
un Sacerdote ripieno dello Spirito del suo stato, Spirito di
Religione, Spirito di vera verità, virtù, che lo renderà pronto
e spedito a servir il Signore nelle Eclesiastiche funzioni ed
in debito modo. …ut prompte facile ac debite Eclesiastica munera
peragere possit. Ma dove, e quando avrà a spiccar, a
risplendere maggiormente cotesto Spirito, cioè a dire
cotesta prontezza, facilità, e convenienza di diportarsi nel
Sacerdote, ed eccoci a dirlo. I luoghi principali, ove si
esercita, e si dà il debito culto al Signore è la Chiesa, le
principali maniere in cui si vuol dare cotesto culto, ed
omaggio sono le funzioni dalla Chiesa stabilite, e le pratiche
da Essa approvate. Tal’è l’oggetto materiale di quello
Spirito di Religione, che ha da essere così proprio del
Sacerdote: amore e rispetto a’ luoghi sacri, che sono le
chiese; amore e riverenza per le funzioni della Chiesa;
amore e stima alle pratiche di pietà, e di culto da Essa
promosse, raccomandate. Ecco in che cosa consiste, e dove
deve farsi conoscere il nostro Spirito di Religione. Non solo
inutile, ma quasi ingiurioso pare raccomandare ad un
Sacerdote che ami, e che rispetti la Chiesa, mentre la Chiesa
può dirsi che è la casa sua propria. Chi ama davvero un
luogo vi va soventi, e vi sta volentie-ri; guardate quel certo
sito, , quella certa casa, quella campagna, dove si sa che
l’eclesiastico ha tutto il suo cuore perché la si giuoca, si ride,
si scherza; perché là vi sono compagni di piacere, persone
di genio, oggetti che incontrano, come vi va soventi è
difficile che vi passi giorno, e forse più volte nel giorno, e
con che impazienza attende il momento d’andarvi; come le
par breve il tempo che passa; che rincrescimento a sortirne,
e perché tuttociò? perché ama quel luogo: la ragione è

118
chiara, e chiunque l’intende; e per la chiesa, per quel luogo
che dovrebbe formare pel Sacerdote l’oggetto, ed il centro
de’ suoi desideri, affetti, a stento vi va per dir la Messa;
fuori di quell’occasione certo che nessun lo vede, e quando
vi va che svogliatezza, che noia mostra nell’andarvi, nello
starvi, che pare che sia in Purgatorio; calcola i minuti quasi
come le ore, e che segnale sarà cotesto? ditelo voi che già lo
sapete senza che lo dica. Rispetto, ed è naturale che quando
una persona entra, e si ferma in una casa, che sa essere
destinata a grandi cose, abitata da gravi, e grandi persone,
tanto più nel momento, ed in procinto che sia per darsi
mano ad un alto affare sotto gli occhi, ed alla presenza di
personaggi più autorevoli; ditemi chi v’è che non si
presenterebbe e si fermerebbe con tutti i dovuti riguardi,
col massimo rispetto, e riverenza: non occorre saper tanto
di civiltà, e di modi per giungere sino a questo punto, e
qualunque villano
lo conosce, e nel modo suo proprio lo dimostra. E qual
cosa destinata ad oggetti, ed affari più grandi della Chiesa,
non già terreni, e passeggieri, ma divini ed eterni; qual luogo
abitato da personaggi più autorevoli, e maestosi, là persone
della condizione più alta della terra, là uomini di rara bontà,
e virtù specchiata, là anime candide, ed innocenti, là cuori
ardenti ed infiammati di fuoco, e di carità: ma andiam più
alto, là Angeli, là Arcangeli, là serafini, là ogni classe di
Spiriti che scendono dal Cielo, e si fermano, e dimorano, là
infine che viene, che scende, che sta, che vi dimora il Re de’
Re, il gran dominatore de dominanti, il Signore Iddio: Ecce
tabernaculum Dei cum hominibus guardate quel portento, e che
prodigio: Cielo e terra, Dio e l’uomo, Angeli e Santi abitar
assieme conversar assieme, famigliarizzare come in una
casa, in una famiglia sola: ecce tabernaculum Dei cum hominibus,
altro che una terra di delizia, e di piacere; il Cielo medesimo

119
può dirsi che venne a collocarsi, a trapiantarsi in terra: che
riverenza, che rispetto, che moto di timore e quasi di
spavento al sol guardarlo, al toccarlo, all’abitarlo: se una
voce si mise a gridare allorché Mosè ignaro del mistero
s’avvicinava a quel Roveto ardente, e fermati, gli dice, che a
te non lice accostarti a piè calzato, perché cotesto luogo è
Santo; che sarà di chi, che dire per colui che s’avanza, non
più ad un simbolo, ad una figura, ad un segnale, come era
per Mosè, ma al vero figurato che è Dio: pavete ad
Sanctuarium meum era già minacciato a’ sacerdoti antichi Lev.
26. Perché guai chi le venisse a mancare de’ dovuti riguardi.
Noi siamo soliti a lamentare, e deplorare nell’anno le
mancanze, le irriverenze che si commettono in questi
luoghi, la divagazione, la dissipazione che vi regna; diamo
un po un’occhiata al modo con cui v’entrano, e stanno
molti di noi Sacerdoti. Fa compassione al veder come
entrino in Chiesa certi Eclesiastici. Fuor di quel cappello,
che si tolgono dal capo, e che si toglierebbe perfino un
protestante, del resto entra, va e cammina senza il menomo
segno, oppur con un apparenza di genuflessione, e segno di
croce, da farlo scomparire anche in mezzo di mediocri
secolari; la testa qua e là e più svagata di quello che fosse in
un publico passeggio. Saranno pochi, dirà qualcuno di
costoro, io vorrei che non vi fosse alcuno, perché bastano
questi pochi a far perdere la stima, ed il decoro a questi
sacri luoghi. Come vi stia in quel po’ di tempo, come se ne
esca, argomentatelo dalla maniera con cui v’è entrato; come
volete che il popolo rozzo, ignorante, superficiale
concepisca un idea grande delle nostre chiese quando veda
che il Sacerdote lo conta per così poco; è meglio che non
v’andasse, che andandovi regolarsi in quel modo; se non lo
onora, almeno non lo profanerebbe. Oh! io non vi bado, e
lo fo senza pensarvi, si può dire: peggio ancora, perché

120
allora v’è a temere che costui si regoli abitualmente in quel
modo, poiché in pratica domina più l’abito, che l’atto; e che
gran male in questo caso, che scandalo, un Sacerdote
irriverente alla chiesa. Un tale che aveva questi modi
nell’entrare, camminare, ed uscire di chiesa, lo vidde un
secolare e nemmen tanto divoto, e voltatosi agli altri, disse
loro: di costui era meglio farne un soldato, ma mai un
Eclesiastico. Rispetto adunque alle chiese: la nostra maniera
d’entrarvi sia sempre grave, divora, e dignitosa: ingressus ad
Eclesiam sit humilis et devotus Conc. Roth. Entrato, ognuno si
ricordi che là si tratta non più cogli uomini ma con Dio,
epperciò si studii a comporsi in modo da non rendersi
indegno di tanto favore: omnes in templo ita se componant, ut sibi
non cum homine sed cum Deo reca esse intelligant. Conc. Rem.
Fuori di là i colloqui, le chiacchere, le ciarle: colloquia in
Eclesis… interdicta omnes intelligant. Conc. Burd. ;
insomma sappiano gli Eclesiastici, finisce un Concilio di
Milano, di starsene nelle Chiese, non pigri, non sonnolenti, non
oscitantes, non vagis oculis, non indecenti corporis statu. Questa sarà
la miglior maniera di portar rispetto alle Chiese, ed
insegnarlo nello stesso tempo a’ popoli che le
frequentano.Amore e rispetto alle funzioni di chiesa. Fra
queste altre sono onorifiche, e dignitose, altre di nessun
nome e figura nel mondo. Certune portano retribuzioni, e
qualche sorta d’onorario, altre no. Certune sono facili e di
nessun incomodo, altre portano un certo peso e gravame.
Se noi vogliamo conoscere l’eclesiastico che abbi spirito di
Religione, epperciò attaccamento, ed amore all’esercizio
delle sue funzioni, agli atti che ne derivando prestarsi
indistintamente a tutte, 2 disimpegnarle a dovere, osservate
in che modo egli si presti, se noi lo vediamo distinguere tra
l’une e le altre, o prestarsi in diversa maniera in questo, o
quel caso; se v’è qualche cosa a lucrare, se l’amor proprio

121
ne guadagna, se v’è niente che incomoda, voi lo vedete
pronto, facile, ilare, in tutto; del resto, non curarsene, cercar
esenzioni, non farne caso, e difficile si lasci vedere, io dirò
che si ama piuttosto il guadagno, l’onore, il comodo nostro
di quello che sia il culto, e l’onore del Signore; ella è questa
una tessera che non falla: quel Sacerdote che nel corso della
sua giornata non fa distinzione da funzione e funzione, e
per quanto lo stato, e le occupazioni sue lo permettono, si
fa premura d’intervenire tanto ad una, come ad un altra, gli
tocchi o non gli tocchi, sia o no obbligato, difficile che
manchi, dire pure che non può a meno di possedere cotesto
affetto, e cotesto spirito, che lo porta alla virtù di cui
parliamo; e quanta edificazione da questo solo ne sa
prendere il popolo, poiché finché noi celebriamo la Messa,
o interveniamo ad altre funzioni, in cui sanno vi sia qualche
sorta di guadagno, quand’anche fossimo de’ più divoti, non
ne fanno gran caso; al più diranno, che facciamo le cose
bene, ma siccome conoscono v’è qualche quattrino, pare
che questo debba essere tutta la causa della nostra
divozione; che se invece ci vedono nello stesso modo
assidui, e pronti anche quando siamo in pari grado con
loro, sentir la predica, assistere a’ vespri, ricevere
benedizioni, intervenire ad uffizi, a processioni, sien maligni
finché vogliono, ma non potranno a meno che conchiudere
che abbiam fede, che conosciamo la bontà, il valore di
quell’azione, epperciò la facciamo: molto più se ci vedono a
praticare simili esercizi con prontezza, con gravità, con
riverenza, che è l’altra parte che ci resta a vedere. Esercitare
le funzioni di chiesa è già una qualche cosa, ma il più sta nel
modo sia per il merito nostro avanti Dio, sia per
l’edificazione avanti il popolo; e questo rispetto, e riverenza
esteriore vi sarà mai quando l’eclesiastico non abbi lo
spirito di questi esercizi. È naturale che quando noi

122
vogliamo conoscere il peso, e l’importanza che da una
persona a quello che fa, d’osservare il modo, ed il come vi
si adopera d’attorno; e da misura che noi lo vediamo più o
meno impegnato, più o meno occupato, ed attento, noi
deduciamo il conto che ne fa, così fa il popolo che non
conosce il senso, il valore, il merito delle nostre funzioni; le
sta studiando sulla nostra faccia, ne’ nostri occhi, dalla
compostezza, e gravità di tutte le nostre persone; ed a
misura che ci vede gravi, concentrati, composti dice tra sé:
costui fa davvero, è segno che qui non si burla, bisogna
proprio che ci badi anch’io. Che bella Messa, diceva un
secolare, ed un secolare di buon tempo, ai suoi com-pagni
uscendo di Chiesa, un po’ lunghetta, ma niente importa, vi
soddisfa; e voleva proprio alludere alla modestia, e gravità
con cui celebrava quel Sacerdote; age quod agis, si legge de’
sacerdoti pagani che allorquando erano in funzione vera chi
era destinato ad alzar di tanto in tanto questa voce per
ricordar al sacerdote di badar bene a quel che faceva.
Quanto sarebbe opportuno anche a’ giorni nostri potersi
avvicinare a certuni e ripeter le stesse parole: bada bene a
quello che fai: age quod agis. Io non ho tempo a scorrere per
le singole funzioni del Sacerdote, ma ne toccherò qualcuna,
e cominciando dalla sacrestia: quel modo così sgarbato di
vestirsi, e deporre le sacre paramenta, quasi che fossero un
peso di ferro, ridere, scherzare nel medesimo tempo sarà
conveniente all’Eclesiastico, che voglia aver amore, e stima
alle sacre funzioni, mentre vi si prepara in quel modo:
quell’andar e ritornar dall’altare con passi frettolosi
guardando a destra, ed a sinistra, oppur lanciando
destramente certe occhiate, che parlano, sarà un usar il
debito rispetto, e riverenza al luogo sacro, ed alla cosa santa
che ha fatto, o star per fare. E distribuire la S. Comunione
con tanta furia e precipizio, che par che quelle sante

123
particole sien di fuoco, e che scottino: un segno di croce,
che nessun saprebbe qualificarlo, poche parole
ingarbugliate che par quasi che si offra un oggetto di
scheno, e di burla: age quod agis qui sarebbe il caso di alzar la
voce, e bada bene, o Sacerdote, che cosa fai, e come lo
tratti; perché vi sono secolari che piuttosto non si
presentano, che ricevere la Comunione da tali sacerdoti. E
nell’amministrazione del Battesimo, o di altro Sacramento,
che non occorre nominare, non saper frenare gli occhi, e
lasciarli girare, e fissarli su chi non si dovrebbe, non darà
nell’occhio? oh! possibile che si vadin cercando queste
minuzie, e bagatelle: fratelli sì, e lo ripeto, fratelli sì, e dopo
si ride, si burla, si facezia sul nostro conto, o per dir meglio
a spese del Signore, e delle cose sue. Io vorrei dire qualche
cosa di più sulla Messa ma non ho tempo, e per
conseguenza mi ridurrò a pochi punti, che sono: tutte le
Rubriche che riguardano il S. Sacrifizio non sono solamente
direttive, ma precettive, onde chi le omette, le trancia, le
scompone, le confonde non può scusarsi da peccato, e per
legge naturale, e divina tutte coteste cerimonie devono farsi
con bel modo, e gravità, epperciò si ricerca un tal qual
tempo, e voi sapete che non può scusarsi da mortale,
quando fosse al di sotto d’un quarto d’ora, e difficilmente
dal veniale, come dice Benedetto 14 meno di venti minuti,
onde ognuno proccuri almeno di toccarli, come per altro
avviserà a non mai oltrepassar la mezzora come diceva S.
Filippo. Per la stessa legge v’è obbligo di premettere la
debita preparazione, e far seguire il ringraziamento, onde
chi abitualmente non lo compiesse almeno per un quarto
d’ora non saprei come scusarlo da peccato anche grave per
irriverenza al Sacrificio, e per lo scandalo del popolo. Non
occorre che io qui dica che chi è in peccato mortale non
può celebrare senza premettere la confessione, e

124
capitandovi la necessità non basta la mancanza di
confidenza nel Confessore: confidenza o nò, chi vuol
celebrare e si trovi in peccato mortale bisogna che si
confessi potendolo, e quando assolutamente non l’abbia, si
ricordi che si ricerca un bisogno grave di celebrare, un atto
di contrizione perfetta, e corre l’obbligo di confessarsi quam
primum quand’anche non si celebrasse più.
Finalmente lo Spirito di Religione porta amore e stima di
tutte quelle pratiche di Culto e di pietà, che la Chiesa
riconosce, anzi promuove, e raccomanda. Tra queste io
metterò per le prime l’uso de’ Sacramentali, e
principalmente dell’acqua santa, l’esercizio della Via Crucis,
la recita del Rosario, far parte di pie Società, e compagnie,
la recita dell’Angelus, la benedizione di tavola. Eh queste
cose, si vuol dire, sono belle e buone, ma sono fatte pe’
secolari; essi si che hanno bisogno di eccitamento, e di
esteriorità per concentrarsi, un Sacerdote ha altro da fare,
ed ha altre cose più importanti, e sostanziali da occupare il
Suo tempo, tanto più che si può essere un santo Sacerdote
senza tante pratiche, e tante esteriorità. Io comincio a
premettere che l’eclesiastico che ha lo spirito di religione, e
del Suo stato non parla certo in questo modo; non le
praticherà o perché non ha tempo o non crede conveniente
nelle circostanze, in cui si trova, ma non le rimette così in
un fascio; costui distingue tra sacerdoti e secolari, e è Egli
che fa la distinzione; la Chiesa non la fa, le approva per
tutti, accorda privilegi, e favori per tutti, concede
Indulgenze per tutti; perché adunque ripetere che queste
cose sono fatte per i secolari; se non si ha tempo, se vi sono
cose più importanti, se pare non sia conveniente per
qualche circostanza particolare, convengo con loro, del
resto dico che un Sacerdote ne deve far caso, e praticarle. Si
può essere un Sacerdote santo senza tante pratiche, lo

125
accordo in teoria, ma in pratica non lo vedo, anzi si vede
tutto il contrario, ed i sacerdoti buoni, virtuosi, e Santi ne
fanno un gran caso, e vi mettono il massimo impegno, e
diamo un po’ una scorsa alla sfuggita a ciò che si vede nel
mondo: quasi tutti entrando in chiesa vogliono il tocco
nell’acqua santa, anche i meno divoti, in casa e nelle camere
private le persone un po’ pie ne fanno caso, ed uso, ed il
prete? io non voglio dire, che se ne burli, come anche può
capitare, la disapprovi, anzi ammetto che la consigli, e la
lodi, ma e di Lui? Egli crede che per lui sia un inezia, ha
cose più importanti, e ne fa senza; sarebbe meglio l’uno e
l’altro. In tante famiglie si recita la Corona, e si sa e si dice
nel paese, non sarebbe conveniente che tra queste case, che
danno giornalmente cotesto attestato a Maria, vi fosse
anche quella del prete, e mancomale vi si trovi anch’egli,
perché non abbi a succedere quel che capita alle volte, che
il Rosario si dica bensì, ma da’ parenti, o persone di servizio
quando il prete non c’è. Lo stesso potrebbe dirsi della recita
dell’Angelus Domini, nel popolo noi vediamo che è ancor
viva questa fede, e nelle campagne, e per le strade, e nelle
piazze a questo suono una gran parte si desta, e prega, alle
volte lasciano perfino il boccone, che sono per inghiottire
per mandare sul momento questo saluto alla Madonna, e
potrà dirsi che vi sia un egual impegno, e stima ne’
Sacerdoti per questa pratica. Io lascio a parte altre cose per
non farmi minuto di più, e noioso, ma non posso a meno di
dire due parole a quelle opere di pietà, e di culto, a cui
vanno annesse Indulgenze, lo che va compreso sotto questo
nome di Spirito di Religione. Io non voglio supporre che
qualcuno di noi in questa materia la pensi in quel modo,
che già fù condannato dalla Chiesa, nella Bolla Auctorem fidei
cioè che le Indulgenze non sieno altro che uno
scioglimento, e la remissione di quella pena, che un dì da’ S.

126
Canoni veniva imposta a chi mancava, lo ché, come diceva
fit già condannato in Lutero, e confermata la Condanna
nelle proposizioni del Sinodo di Pistoja. Posto adunque per
base che le Indulgenze sono un vero condono della pena
temporale dovuta a Dio per le nostre colpe io osservo che
se vi sono persone poco curanti parlando generalmente di
questo tesoro, che ha la Chiesa, siamo pur troppo noi
Eclesiastici; non parlo degli irreali-giosi che si curano
nemmeno de’ Sacramenti quando noi dovressimo essere
tutto al contrario; perché noi più che il popolo ne
conosciamo il valore, giacché impariamo alla scuola di S.
Tommaso che Indulgentiae tantum valent quantum sonant, e
quando si dice una remissione piena, e totale, lo è anche di
fatto. Noi più che ogni altro ne abbiamo il comodo, e
l’opportunità, perché siamo già uomini di Chiesa, e di
preghiera, e ci basta per lo più aggiungere l’intenzione. Noi
insegniamo agli altri il modo, e la facilità di guadagnarle,
perché trattandosi delle condizioni necessarie per tale
acquisto, quella che può presentare un po’ di difficoltà
sarebbe per l’indulgenza plenaria il non aver affetto al
peccato veniale, ed io lo voglio concedere se si parla d’un
secolare, e d’un uomo di mondo, ma per un eclesiastico mi
pare di nò, anche che cada in qualche venialità, ma è un
momento averne dispiacere, pentirsene; dunque non v’e
affetto. Ma alcuni dicono ve n’è un altra, ed è che la
persona non possa soddisfare altrimenti a Dio, ed è questa
che fa studiare, e rende sempre dubbioso l’acquisto. È vero
che tra Teologi se ne fa una certa questione, ma la Chiesa
l’ha mai messa questa condizione, e siccome proponendo le
Indulgenze opera per vera autorità lasciatagli dal suo
Fondatore divino, così nel prescrivere il modo di
guadagnarle; e se la sbagliasse in questo modo tacendo, ed
omettendo una condizione voluta, ne sarebbero ingannati i

127
fedeli dandosi a credere una cosa per un altra. Ma la Chiesa
tace, può dire qualcuno, e nemmen l’esclude; dal momento
che si fa maestra al modo di guadagnarle, e lo propone a’
fedeli dovrebbe dirlo; però non è pienamente vero che
taccia, che anzi Benedetto 14 la riprova, e chiama cotesta
questione: una novità de’ Teologi. Oh? allora ce ne verrebbero
degli abusi: io non lo vedo, perché altro è dire che una
persona trascuri le opere buone in virtù e colla speranza
delle Indulgenze e di questa ne dubito anch’io, non già
perché si richieda la condizione che ho nominato, ma
perché temo fondatamente che con tali disposizioni
manchino le altre, o almeno meriti che Iddio restringa un
po’ più la mano, altro è quella che trovandosi debitrice di
poco o di molto, cerca di trar profitto in debito modo delle
Indulgenze senza altra vista, e lusinga, e per costei ripeto il
detto di S. Tomma-so: tantum valent quantum sonant, ed un
buon segnale di poterle acquistare sarà già quello di farne
caso, e stimarle.
Ci resta in ultimo a dire due parole su ciò che abbi a
temere l’Eclesiastico quando non abbi, e trascuri cotesto
Spirito di Religione, lo che vuol dire si curi poco dell’onore,
e rispetto de’ luoghi sacri, trascuri la riverenza, e la gravità
nelle funzioni eclesiastiche, e negligenti l’uso delle pratiche
di culto, e di pietà. Che cosa avrà ad aspettarsi un servo che
non abbi cura, e riguardi alla casa di suo padrone, ometta e
faccia male le opere di suo servizio; il meno sarà d’esser
corretto, minacciato, quindi castigato. Iddio fa lo stesso con
noi. Ci avvisa, ci minaccia, e se torneranno inutili coteste
minaccie, ed avviso, darà mano a’ suoi castighi. Quanto
Iddio si tenga offeso dalle irriverenze nelle chiese non
possiamo averne dubio alcuno. Il fatto del Redentore basta
per tutti; eppur non si legge che i profanatori, di cui parla il
Vangelo, fossero Sacerdoti, del resto chi sa come li avrebbe

128
trattati, poiché è certo che le irriverenze nostre sono
maggiori, e saranno castigate più severamente, come lo
sarebbero le irriverenze d’un Cortigiano, e d’un Ministro al
Suo Re in paragone di quelle d’un villano. I castighi
fulminati a’ Sacerdoti antichi per le irriverenze nel Santuario
furono tremendi: il linguaggio del Signore su due Sacerdoti
fratelli Ofni e Finees scandalosi ed irriverenti nel luogo del
Signore, riempie di spavento: li chiama figli del demonio,
dice che il loro peccato era troppo grande: grande nimis,
mentre allontanavano la gente dal culto del Signore, che è
appunto quello, che fanno anche presentemente le nostre
mancanze nella Chiesa: al vederci così divagati, scomposti,
indivoti, e trattar così di mal garbo le funzioni sacre, chi
s’allontana e non viene più, chi viene e sta come noi
indivoto; Colui che avrebbe promosso un opera del
Signore, e di Sua gloria, nel vederla da noi così trattata, si
ritira, e non la fa più, epperciò anche di noi potrà dirsi: filii
Heli, figli Belia… erat ergo peccatum grande nimis… quia
retrahebant homines a sacrificio Domini. 1 Reg. Riguardo alle
funzioni del Santuario fatte in mal modo, e strapazzate, non
parlò men chiaramente: plenus sum… laboravi sustinens non ne
posso più a guardarvi nel modo, in cui mi servite: incensum
abominatio est mihi: fino a dare in una specie di smania, che
gli fe’ dire: ecce ego dispergam super vultum vestrum stercus
solemnitatum vestrarum et maledicam benedictionibus vestris. Mal 2.
In generale poi chi malmena, strappazza, e sconcia un
opera del Signore, qualunque cosa sia, Iddio ha già
pronunziato la sua sentenza, ed è niente meno che la sua
maledizione: maledictus qui facit opus Dei negligenter, e chi va a
rilento, e fa comunque le sue obbligazioni, benché non le
lasci, Dio già lo conta come un trasgressore, ed operario
d’iniquità: declinantes in obbligationes adducet Dominus cum
operantibus iniquitatem. Sicché conchiudiamo, o fratelli, e

129
proccuriamo sia nostro cotesto Spirito di Religione; spirito
che ci faccia rispettare i luoghi sacri, che ci faccia esercitare
degnamente le funzioni nostre, e ci faccia tener in gran
conto e stima tutto ciò che può condurre all’onore, alla
gloria del nostro Dio, sicché il popolo ammirato, e quasi
attonito dalla nostra divozione, gravità, e compostezza non
possa a meno che esclamare per gioia ed allegrezza, oh! che
gran Dio deve essere il nostro, mentre ha ministri così
degni, e così grandi nella terra. Ut qui Ministrum videt
Dominum praedicet ac veneretur qui tales servulos habet. Così sia.

Istruzione ottava.
Sopra le Conversazioni de’ Sacerdoti
Abbiamo già considerato in questi giorni una gran parte
della vita, e de’ doveri dell’Eclesiastico, e così è esaurito una
gran porzione della sua giornata. Egli risoluto, è
determinato di divenire un vero e santo Sacerdote, persuaso
che lo stato suo sia uno stato di fatica, e di sacrifizi, e che
siccome posto più in alto per dignità, e carattere, così è in
obbligo di sorpassare in virtù, e perfezione, deve fuggire
per quanto può il rumore, e lo strepito del mondo, vivere
mortificato, attendere alla preghiera, ed alle opere di pietà e
di Religione. Ora io dimando: ma quest’uomo non potrà
tutti i giorni, od almeno qualche volta prendersi qualche
sollievo, e divertimento, rallentare un po’ le proprie fatiche,
ed occupazioni, per riacquistare nuove forze, e nuova lena,
e ricominciare il primiero suo rigore. È vero, io dico, che
l’eclesiastico è un uomo speciale, distinto, e segregato dagli
altri, e quasi transformato in una nuova creatura tra Dio e
l’uomo; ma con tutto ciò è sempre uomo, come un altro
qualunque, e come tale abbisogna di riposo, e di sollievo:
dunque, ripeto, non potrà l’eclesiastico prevalersene in

130
qualche modo, e goderne: e perché no? e cercate pure, ma
non troverete ne canonista, ne teologo, ne ascetico che lo
proibisca, ed io dico che il riposo, il sollievo, il divertimento
oltre in se d’esser lecito può di più alle volte esser utile, e
necessario. La difficoltà solo sta nel fissare quale, e come
debba essere cotesto sollievo. Per gli uni fu, ed è di trattar
con Dio nell’orazione, conversare, familiarizzare con lui;
questo era il riposo di S. Francesco Saverio, e S. Francesco
di Sales, di S. Francesco Regis, e di tanti altri Santi
eclesiastici; ma per noi forse non basterà. Per altri sarà
sospendere le occupazioni più serie, e gravi, e dar mano a
qualche cosa più leggiera, e superfi-ciale, come sarebbe
qualche lettura, o se volete, un po’ d’esercizio privato, e
secreto di qualche arte meccanica, o liberale; ma forse non
basterà ancora per noi: ad altri servirà di sollievo un po’ di
passeggio in luoghi appartati, o men numerosi, la visita
degli ammaliati, la spedizione e lo sbrigo di qualche affare, e
questo è già piuttosto comune, e fatto per molti, e non
richiede poi tanta virtù, di modo che qualunque vi si
potrebbe addattare facilmente: però per certuni temo non
sia ancor sufficiente, e che cosa c’andrà? Posto che siamo
venuti quà per formare, e compilare la giornata del vero
Sacerdote, diciam tutto e diciamolo subito. Certuni pare
che niente li sollevi, , se non danno un po’ di sfogo alla
lingua, se non si trovano in qualche compagnia, in qualche
crocchio a ciarlare, ridere, e scherzare. Potrà o non potrà un
Sacerdote prendersi cotesta sorta di diporto e sollievo ? Io
non voglio, né posso in un colpo proibirlo, o permetterlo;
tante sono le ragioni, e le circostanze che possono variare la
moralità di questa azione, onde è necessario che vi
discorriamo un po’ sopra, epperciò ne farò argomento in
questa nostra Considerazione. Noi vedremo la natura, i
difetti, ed i pericoli di questo conversare nel mondo, e da

131
ciò il modo, con cui il Sacerdote abbia a diportarsi per non
aggravarsi la coscienza, e perderne nella sua stima, e
riputazione. Cominciamo.
. Per conversazione io non intendo già un andata, una
gita accidentale d’un Sacerdote in casa di secolari, od una
visita fatta per convenienza, od anche insignificante; se in
ciò vi può esser del male, sarà sotto altro rapporto, ma non
per quello che intendo io. Per conversazione io prendo un
convegno, un adunanza di più persone, che più o meno
frequentemente si trovano in un dato sito, o privato, o
pubblico per trattenersi, fermarsi in famigliari, e piacevoli
colloqui. Vi si porta anche il Sacerdote per passar un po di
tempo, e prendere un qualche sollievo, vi saranno riflessi a
fare su tale intervento? Io distinguo tre sorta di queste
conversazioni; le une cattive e pericolose, in conseguenza
da evitarsi dall’Eclesiastico. Le altre lecite, ed oneste, e che
il Sacerdote può usare colle debite cautele; le terze poi utili,
e buone, e da approvarsi pienamente. Le une adunque sono
cattive, pericolose e da fuggirsi, o per parte di ciò che vi si
tratta, e forma il loro oggetto, o per ragione delle persone,
che le frequentano, e vi si trovano; e con queste prima
regola noi cominciamo escludere una grande quantità di
luoghi e di convegni, che non sono fatti per gli Eclesiastici,
e nominiamone qualcheduna, per intenderci meglio: quelle
case, in cui si costuma far l’esame non già della propria
coscienza, ma del vicinato, del ceto, e del paese, e fatto
quasi il palco si fa comparire in scena or questo, or quello,
perché ognuno dica la sua; sì queste case, e queste ore non
sono fatte pel Sacerdote; ne vale il dire sono cose vere,
sono cose publiche, sono persone savie, là si dicono, e là si
lasciano: sono pretesti che non salvano: quando questa cosa
si fa per abito assieme al vero si mette il falso, se non sarà la
sostanza, saranno le circostanze, si aumenta, si esaggera, dal

132
fatto si va alle intenzione, da una cosa all’altra, dal publico
al secreto, da una persona si argomenta dell’altra, in pratica
la scena finisce sempre in questo modo; è già publico? , ma
intanto ci capita qualche incidente che tutto vuole sia
secreto, e si spera di poterlo conservare, , ma che? nel
meglio qualcuno comincia a dare in confidenza qualche
notizia, e come va? Che sapete questa cosa, chi sa se sarà
vero? oh! non ne dubitate si è detto nella tale
conversazione: ecco la secretezza pratica, eppure de’ due è
meglio si parli in questo modo, poiché se non si parla di
quel che capita nel giorno, si parlerebbe di cose peggiori;
eh! cari, finché fossero secolari sarebbero da compatire a
parlar in questo modo, ma noi Sacerdoti sappiamo, e non ci
vuol tanta scienza a saperlo, che è mai lecito un male per
evitarne un altro: eppure è impossibile tener le lingue, e non
si può fare diversamente: sia pure così, ma io conchiudo:
dunque questa conversazione non è fatta per il Sacerdote,
ed il Sacerdote in coscienza non vi può andare. In
quell’altra casa sogliono trovarsi soventi diversi di buon
tempo, ed di tanto in tanto se non sempre si porta anche il
Sacerdote. Egli è parente, è amico, è vicino, è invitato, e
sarebbe una sgarbatezza il non andarvi, e non saprebbe
come passar diversamente il tempo, ha niente che lo sollevi
in casa, non vi sono altri siti, è l’unico nel paese che vi si
possa godere qualche cosa, e passare un ora un
po’sollevato, va tutto bene, ma questo non ha che fare,
sentiamo un po come si parla e che cosa si fa? Si ride, si
scherza, si barzella or in un senso, or in altro, sono giovani,
non sono cattivi, no si va dicendo, ma che vuole, un po’ di
libertà, non si possono contenere come Novizi; si ride, si
burla or sul divoto, or sulla divota, si mette in ridicolo la
loro frequenza alla Chiesa, ai Sacramenti, la loro modestia, e
raccoglimento, e dalle persone andando alle cose, non si

133
negano né le verità dogmatiche, ma certe pratiche, certe
divonzioncelle, certi usi sanno più secondo loro di su-
perstizione, di bigottismo, di materialità che altro; si facezia
e si motteggia d’amori, di amorosi, di intrighi, di relazioni,
di amicizie: or un detto buffonesco, or un anedotto curioso,
or un tratto un po’ libero, or uno sguardo che sa un po’ di
lascivo: eh! lasciam lì che ne abbiamo abbastanza, e non
occorre sentire di più. Ed il prete dov’è? possibile che vi sia
un sacerdote che abbi coraggio di fermarsi tra gente di tale
natura! possibile che il Sacerdote sia venuto così a vile, ed
abbi talmente perduto in dignità e reputazione che si osi in
sua presenza parlare, scherzare in quel modo. Eh!
purtroppo che è così, guardatelo là tra mezzo a far
crocchio, e goder della compagnia; io non voglio supporre
ch’egli parli, e burli in quel modo come gli altri, perché mi
fa orrore il pensarlo, e come, direbbe un S. Bernardo, una
lingua, che hai consecrata al Signore, a bandire la Sua
parola, ad annunziare i Suoi progetti, e tu la adoperi, la
profani, la vituperi in quel modo; e non sai che è un
sacrilegio il più detestabile: Consecrasti os tuum Evangelio…
talibus aperire os tuum illicitum assuescere sacrilegium est. De
Consid. Lib. 2. Ed il Santo parlava nemmeno di materie
tanto serie, e delicate, ma di cose profane, e secolaresche.
Io però non parlo, soggiungono questi sacerdoti, e non mi
mischio; ma che fate, ripeto io, quand’anche non parliate,
sarà impossibile che qualche sorriso, qualche sogghigno
non vi sfugga, e basta questo in un sacerdote per farlo reo
di colpa. Nò nemmen questo, io taccio affatto; ed io stento
a credere, rispondo, si farà una volta, due al più, e poi si
cade, poiché se il Sacerdote si regolasse abitualmente così,
non sarebbe più un sollievo per lui, anzi una penitenza, ed
un gravame, e non v’andrebbe, e gli altri nemmeno lo
soffrirebbero, in bel modo, od anche chiaramente gli

134
farebbero capire che se ne stesse a casa sua. Ma anche
supposto che si regolasse in quel modo, tuttavia io non lo
dico sicuro, e tranquillo in coscienza, perché il silenzio può
bastare per la correzione, e per non esser colpevole di
approvazione, quando ha un vero motivo di trovarvisi, e
trattenervisi, poiché allora chiunque intende che se
interviene è forzato, da bisogno, o decisa convenienza, e
non potendo impedire in altro modo quello che si fa, o si
dice, se ne sta quieto, e tace, e questo basta. Ma non così
quando vi va spontaneo, e solo spinto nella sua voglia, e
curiosità, sia perché in tal caso possono credere che
esternamente non approvi, perché teme, e non osa, ma che
del resto non le dispiaccia, tanto più, diciamo, che se gli
facesse veramente dispiacere, non verrebbe più, ed è vero,
poiché supponete che gli si faccia qualche affronto, e venga
offeso, vedrete che se ne starà tosto lontano, e non
cercherà più di andarvi; invece viene offeso il Signore, e
ripetutamente, e sfacciatamente ridendo, e scherzando con
maggior insulto, ed il Sacerdote potrà starvi presente, e fare
da testimonio anche non vi prenda parte. Noi Sacerdoti pel
nostro carattere siamo relativamente a Dio, come la guardia
d’onore, che sta d’attorno al suo principe. Che direste voi di
questa guardia, che vedendo insultare il Suo Re,
vilipenderlo, ingiuriarlo, percuoterlo se ne stesse ferma, e
muta, anzi andasse ancor a collocarsi ben di presenza per
veder, e sentir bene quasi ne provi un piacere all’apparenza,
benché non fosse vero: ah! soldati vigliacchi, storditi,
chiunque direbbe, che fedeltà, e che valore è il vostro, e che
fate? via su, non è questo il dovere, l’ufficio vostro; e per
verità osserviamo que’ bravi, che stavano alla guardia di
Davidde, quando fu insultato da quel temerario di Semei,
s’accesero subito, e volevano andar a scannarlo, e troncarli
il capo: Quare maledicit canis hic mortuus domino meo: vadam et

135
amputabo caput ejus Reg. 2. Questa è la bravura, la fedeltà che
deve aver l’eclesiastico quando gli tocca vedere, sentire le
offese del Signore, bestemmie, discorsi liberi, indecenti,
osceni, irreligiosi non dico già a batter la gente, a troncar
loro il capo, nò, non è questo il modo di fare la nostra
guardia, e difendere il nostro Re, ma in quell’altro insegnato
già dall’Appostolo al Suo Timoteo: argue, obsecra, increpa in
omni patientia et dottrina; Oh! nel mio caso, dice questo
Sacerdote, è inutile, farebbero peggio: dunque da mano ad
altre anime, giacché la milizia nostra ne abbonda, e voglio
dire, via di là; e se gli uomini non vogliono ascoltare,
lasciarli e va a pregare, e vedrai che cosa otterrai con
quest’arma, quando la sappi maneggiare, ma mai e poi mai
che il Sacerdote abbia da esser presente, quando possa
assentarsi, alle offese del Suo Signore; ben lontano d’esser
questo un sollievo, un passatempo, che anzi le dovrebbe
riuscire un martirio, un agonia, come lo sarebbe per un
figlio qualunque che vedesse strappazzare, dilaniare Suo
padre, e non lo potesse impedire. Non è questo un
consiglio solo che io dia al Sacerdote, egli è un precetto, un
dovere impostogli dalla stessa carità, ma molto più dalla
qualità sua di Sacerdote, ed in tanti anche per giustizia per
ragione del proprio impiego. Que’ buoni soldati di Davidde
certo che fremevano, e gli si rodevano le viscere al veder
l’insulto del Suo Re, quand’anche non l’abbiano potuto
vendicare, ed impedire; tali sono i fremiti, e le torture
interne d’ogni buon Sacerdote che veda peccati, e non
possa troncarli: vidi praevaricantes et tabescebam diceva già il
buon Davidde, e se ne contristava tanto, che ne intisichiva,
e perché? quia eloquia tua non custodebant. Andate adesso a
cercar tutto questo in un Sacerdote che frequenti le
conversazioni, e la gente del mondo, che v’ho detto, e si

136
crede tranquillo con dire: io non vi prendo parte; chiunque
può vederlo quanto sia lontano dal suo dovere.
L’altra ragione per cui una conversazione può disdire
all’eclesiastico è la natura, e la qualità delle persone, che
v’intervengono, ed io le riduco a due sorta, ad uomini
patentemente cattivi, e conosciuti per tali, e donne; e qui
ripetiamo quello che abbiamo detto, altro è trovarsi a caso
con questa gente, o per qualche motivo, e molto più se
fosse per prudente tentativo di poterli guadagnare, altro è
associarvisi, e farseli famigliari, e confidenti con questi
interventi. Io lascio a parte quanto ho già detto, il pericolo
che poco per volta può anche nascervi nel Sacerdote nel
frequentar questa sorta di gente, e dimando solo: che
effetto, e che sensazione possa fare nel pubblico il vedere, il
sapere che il Sacerdote pare che non possa trovar altri
luoghi, altre persone, che le piacciano, le gustino fuorché
que’ tali; il meno che ne possono imaginare sarà che voglia
dir poco da vivere in un modo ed in un altro, giacché
l’eclesiastico ne mostra tanta stima, ed attacco. Ma nel mio
paese se non vo a trattenermi con qualcuno di questa fatta,
non saprei con chi, o che non trovo alcuno, o non sanno
metter assieme due parole, mi tocca approfittarmi di chi ho.
Eh! vi tocca; non è già un dovere, che dobbiamo compire;
nessuna legge v’obbliga a conversare in quel modo, a dar i
segni d’amicizia, anche speciale se volete, ma non già a quel
punto a fare della sua conversazione il vostro sollievo. In
sostanza questi uomini, che voi frequentate in casa, fuori
casa, e passano per i vostri fidi vanno a far pasqua, e come
parlano, e che idea si ha nel paese in materia di purità, e di
religione; oh! per questo lo sanno tutti, che ne hanno poca,
e dite pur niente: ebbene la compagnia, la famigliarità, la
conversazione di questa gente non fa per un Eclesiastico;
pazienza, se non si hanno altri, il prete deve esser

137
mortificato, in conseguenza ne deve fare un sacrifizio, e
cercarsi altro genere di Sollievo. Che compagnia, e che
conversazione aveva il divin Redentore il Capo, il modello
di tutti i sacerdoti: egli era pure la sapienza medesima,
eppur non aveva altri con chi parlare che pochi pescatori
ignoranti, e grossolani; che gusto sarà stato il Suo a parlare,
a conversar con loro, e non leggiamo che ne andasse a
cercar altri; oh! si, particolarmente peccatori patenti, onde
lo possiamo fare anche noi: v’andava a che fine, e con quale
scopo? voi lo sapete: per convertirli, e veramente ogni volta
che andò a casa loro, leggiamo che li convertiva; quando sia
per un fine tale, e vi sia speranza, andiamo pure, e lo
vedremo prima di finire.
L’altra qualità di persone che rendono nocive al
Sacerdote le frequenze, le visite, le conversazioni nel
mondo, sono le donne. Io tacerei affatto di questo punto,
perché penso che deve riuscire tanto doloroso a noi
Sacerdoti parlare, e sentirne discorrere di questa materia,
ma a dir niente, niente, temo sia un vuoto troppo grande,
onde ne farò qualche parola colla maggior brevità, e riserva.
Io non mi fermo ad arrecarvi il numero delle sentenze, e
di sentimenti tanto delle Sacre Carte, come de’ S. Padri, e
dottori, perché l’eclesiastico si guardi, non s’avvicini, e non
si fermi con donne. Tutti gridano, minacciano, piangono
sulla rovina inevitabile del Sacerdote che non si guarda; ne
si stia ad addurre pretesti, scuse, apparenze di parentela,
convenienza, urbanità, buon fine, sante intenzioni; vita
intemerata, condotta irreprensibile, nemmen l’ombra di
pericolo: nessuno li vuol sentire, e non fanno che dire, che
ripetere: guai, guai al Sacerdote che si fida, che non fugge;
egli è perduto: sono cadute le colonne, e le quercie più
sode, le più ferme, e volete che reggano le canne? Ah!
quanti sacerdoti hanno dovuto piangere, e piangono

138
giornalmente per non averlo voluto capire. I giorni che
passano di tristezza, di malinconia, e di dolore, l’oggetto di
scherno, di burla, e di obbrobrio che ne sono divenuti; la
tomba che si accellerano con questo pane di dolore,
saranno tante prove di più al linguaggio di verità, che si
parla, e che si predica da tanti secoli, ma inutilmente,
perché non si vuol capire: il demonio ha sempre un filo, un
pretesto per avviluppare in questa materia un povero
Sacerdote, e sa cuoprirlo talmente con colori così
appariscenti da far credere all’infelice che il caso suo non
sia quello condannato da tante voci, e da un esperienza così
lunga. Donna, e Sacerdote hanno da essere come i due poli
distanti l’un dall’altro se non tanto di persona, almeno di
cuore, e di volontà. In chiesa, al Confessionale, se hanno
bisogna del prete, anche fuori se occorre, ma raramen-te
più che si può, e colle debite cautele, del resto ognuno a
suo luogo, e ciascuno pe’ fatti suoi: Sereno rarus, brevis et
austerus, cioè a dire dignitoso, e grave, S. Bonaventura. Quid
mihi, et tibi Mulier disse già il divin Redentore in altro senso a
Sua Madre; ed un sentimento tale io raccomanderei ad ogni
sacerdote, che abbi a trattare con donne, non già che glielo
dica, ma almen che lo pensi; orsù adesso questa donna
viene da me, ciarla, parla, ma che cosa ho da fare io con
Lei, per qual cosa le posso essere utile, dunque vediamo,
presto, perché quid mihi et tibi. Una donna andava qualche
volta in casa d’un Sacerdote, e non era il caso che si
portasse male, nò, ma poteva farne a meno, e
quell’Eclesiastico pensò fosse meglio che cessasse, e come
fare? cercò di farglielo capire indirettamente, ma era inutile,
e non voleva intenderla; onde gli convenne parlar più
chiaro, e le mandò dire che stesse a casa sua; costei la prese
male, ed un giorno che l’incontrò, fece le sue lagnanze in
presenza di molta altra gente, e lo richiese se quella

139
commissione era d’ordine Suo, sì, rispose l’eclesiastico; e
perché, ripetè colei? Perché deve sapere, che la casa de’
Sacerdoti non è fatta per le donne: restò mutola, e quanti
sentirono, bene, risposero, che vuole saperne di più? Quella
ragione vale per cento. Così viceversa deve dirsi: la casa
delle donne non è fatta pel Sacerdote: vada a dir il suo
Breviario, che non è questo il suo luogo, rispose una donna
ad un Sacerdote che aveva l’apparenza di volerla
corteggiare. Che vadi dietro a coteste pazzie un secolare,
che non ha freno, una turba di gente dissipata, mondana,
che sa ne di Dio, ne di Spirito ma solo di carne, e di fango,
fa compassione, ma non ci reca tanto stupore, e meraviglia,
ma… Un eclesiastico, un uomo allevato alla scuola di
questo Maestro, formato su questo modello; un uomo
separato, e diviso, e che non ha più che fare con questo
mondo; un uomo destinato a rappresentare la divinità in
terra, s’abbassi, si avvilisca, s’infanghi talmente da fissar una
donna; da pensar ad una donna, molto più se le divenisse
frequente, famigliare, geniale, ella è un ignominia, un
opprobrio tale che lo dico schiettamente, io non lo so
spiegare, e quand’anche il sapessi, mi mancherebbe il cuore.
Via adunque da noi, e lontano per quanto si può cotesto
genere di persone, quid tibi et mulier, e che cosa ha da fare la
donna col Sacerdote, gli affari suoi cogli affari nostri, ne
siamo tanto lontani che più non si può; ne vale il dire la
solita ragione, o almeno il pretesto comune, che noi siamo
tranquilli in coscienza, ed abbiamo niente a rimproverarci
avanti Dio; se questo regga in Teologia spero che lo
vedremo altra volta, ora mi limito a dire: sia pur così per ciò
che riguarda il pericolo d’onestà, ma e il sospetto, e le ciarle,
e le dicerie. Si legge nella storia antica pagana che una figlia
schiava, e venduta, era stata posta in cimento della sua virtù
dallo stesso suo compratore, e fù si ferma di volontà, e

140
forte di braccio che arrivò ad uccidere chi più
insolentemente la cimentava. Fù accusata naturalmente, e
tratta in giudizio per questo omicidio, e seppe difendersi
così bene, che non solo fu assolta, ma altamente encomiata.
Insuperbita di tali lodi dimandò d’esser fatta Sacerdotessa.
Ah! questo nò, si rispose, perché benché la tua virtù sia tale,
tuttavia l’esserti trovata con persone , sospette, e molto più
conosciute di quel genere, basta questo solo a darti avanti il
popolo una macchia tale, da escluderti e renderti indegna di
tal grado: ah! sacerdoti fratelli miei, volesse Iddio che ci
entrasse anche una volta in capo anche a noi questo pezzo,
e quest’avviso: non basta esser innocenti tanto più in questa
materia, ma è necessario, indispensabile non dare il
menomo sospetto. Il popolo confonde il fattibile col fatto,
e non guarda quello che si faccia, o siasi fatto, ma bensi
quel che si può, o s’è potuto fare: nescimus quid faciat: sed quid
facere possit, bene scimus. Io non aggiungo altro, o fratelli, anzi
ho già detto fin troppo; perché spero che tutti noi eravamo
già persuasi di si fatta verità, epperò raccomando solo di
andar sempre crescendo in cautele, e misure, onde
custodire si bella virtù, e tener lontano ogni sospetto:
qualunque riguardo, qualunque sacrifizio sarà mai di troppo
quando si tratti di tener salvo il candore, ed il nome d’un
Eclesiastico. S. Gerolamo per guardarsi credè necessario
ritirarsi in una selva, e Benedetto voltolarsi tra le spine, S.
Tommaso d’Aquino dar di mano a tizzoni di fuoco, S.
Filippo a correre precipitoso dalle scale, e vi fu perfino chi
non potendosi altrimenti difendere arrivò perfino a tagliarsi
co’ denti la lingua per gettarla sdegnosamente in faccia
all’assalitore, altri a graffiarsi, e lacerarsi la faccia, e le carni,
come tanti carnefici, e sarà di troppo per noi la modestia,
un po di mortificazione, la fuga della loro compagnia, e
conversazione.

141
Altro genere di conversazioni, che abbiamo dette lecite,
ed oneste, e che il Sacerdote può usarne colle debite
cautele, sono quelle, che vanno esenti dà pericoli, e vizi
accennati, cioè a dire ne per loro natura, ne per le persone
che vi si trovano, presentano male alcuno, od il pericolo di
esso. Ciò è presto detto, ma in pratica sarà difficile trovar
un sito, un crocchio, un adunanza di persone secolari, e chi
sa di quante, e quali condizioni, in cui ciascuno faccia una
legge alla sua lingua, al suo trattare di non trascorrere, e
stare nei limiti, dell’onestà, della carità, della Religione;
d’ordinario le persone che frequentano questi luoghi se non
sono irreligiose, sono ciarliere, e di molta loquela, ed è
impossibile che in mezzo ad una quantità di lingue di
questa natura si stia sempre ne’ limiti del lecito, e
dell’onesto; se è già quasi un miracolo contenerne una sola,
che sarà di più, e di tante; Ma lasciamo stare il punto che
sieno poche o molte coteste conversazioni, che abbiamo
accennato, supponiamo che il Sacerdote sia nel caso
d’averne una, noi diciamo che vi può intervenire colle
dovute riserve ed avvertenze, che io riduco a tre: avverta
pel primo che il tempo, che consuma in questo conversare
non sia eccessivo, e di troppo, lo che è sempre riprovevole,
e non può a meno che aver conseguenze, e quand’anche
non giunga ad esser tale, non abbi altre occupazioni che lo
richieggano. Avverta di regolarsi in modo nel parlare, nel
trattare che niente disdica al Suo posto, al Suo carattere, e
metta in pratica l’avviso di S. Ilario, qual è d’aver sempre in
bocca parole di pace, di purezza, di pietà, di carità:
Nunquam in ore tuo nisi pax, nisi castitas nisi pietas, nisi charitas.
Con tutto ciò sappia, e si ricordi, ecco l’ultima avvertenza,
che da quel sito, e da que’ colloqui coi secolari ritornerà
sempre perdente; ne perderà pel suo interno nella quiete, e
raccoglimento; ne perderà presso il popolo, ed i medesimi

142
famigliari nell’ascendente, e dignità del Suo stato. Parrà un
esagerazione, eppur è così. Quoties inter homines fui minor homo
redii come si legge nel bel libro dell’Imitazione. La
conversazione col mondo non può a meno che scemare, ed
anche arrivare ad estinguere la divozione interna della
nostra mente, che sta in quella nostra quiete, ed unione col
Signore: debilita la voglia, l’impegno d’andar avanti, invoglia
de’ comodi di questo mondo, e fa venire a tedio, e noja
l’orazione, dice S. Bonaventura: Conversatio cum saeculo
devotionem mentis extinguit, studium profitendi debilitat, delicias
docet amare, orationes negligere; ed aggiunge il Santo, che
tuttociò l’avremo provato negli altri, ed in noi medesimi:
saepe experti sumus tam in nobis, quam in aliis; e forse più d’uno
di noi ne potrà far fede; in que’ giorni che ci gettammo
maggiormente nel mondo, e trattammo di più co’ secolari,
la nostra giornata certo che fù tiepida, più fredda, e più
dissipata; e questa fu la ragione, per cui S. Basilio si decise
di ritirarsi, e troncare coteste relazioni col mondo, perché le
trovava sorgente di molti mali, come confessa egli stesso:
Ubi conversationes reliqui velut infinitorum malorum occasiones. Noi
abbiamo già parlato di proposito della vita ritirata, che deve
fare l’eclesiastico, ma non sarà di troppo ripeterne questo
pezzo: non solo ne perderà per se, come dicemmo, ma ne
scapiterà anche nell’idea presso il popolo, epperciò un
mezzo di meno, ed un intoppo di più ad operare tutto quel
bene, che altronde avrebbe operato. La stessa vista e
presenza del Sacerdote ripetuta più volte, la famigliarità, e
certa libertà che si contrae, qualche difettuccio, anche non
colpevole, che sarà impossibile non si scuopri in lui, se non
di costumi, di civiltà, di prudenza, di av-vertenza, di senno,
tutto servirà a farlo perdere di quel concetto, che
possedeva. E come va, interroga qui Tertulliano, che Mosè
uomo così grande qual era, da trattar famigliarmente e

143
visibilmente con Dio, come va, insiste cotesto padre, che il
popolo ebreo osò prendersela con un tal personaggio, che
gli elementi perfin lo rispettavano, convertiva in sangue le
acque, e quando voleva le faceva scaturire da’ sassi
medesimi, divideva i mari, apriva la terra per farne ingoiare i
colpevoli, eppur gli Ebrei arrivarono a tanto da volerlo
perfin lapidare: ne da la ragione, il suddetto padre: Moyses
homo erat, proinde quia videbatur. Mosè si lasciava vedere,
trattava, parlava, famigliarizzava con loro, e certo che si
conduceva in modo irreprensibile, eppur bastò a quel
popolo questa vista, e frequenza per non averle più tutto
quel rispetto, e riverenza che si meritava. Un altro passo
della S. Scrittura ci conferma la stessa cosa: Apparve un
Angelo alla consorte di Manue per annunziarle che avrebbe
avuto un figlio. Giud. 13. Tutta allegra la donna va a darne
nuova al marito con quelle parole: Vir Dei venit ad me habens
vultum Angelicum e mi disse etc. se ritorna, disse Manue,
informati chi Egli sia, e d’onde venga. Ritorna, e subito la
donna al Marito, Manue, Manue, è ritornato, ha parlato:
ebbene chi è? Vir quem ante videram, Vir. Ponete ben mente,
dice quà un Autore, alla differenza delle parole di questa
donna: la prima volta lo chiama un uomo del Signore: Vir
Dei – che ha specie di Angelo: habens vultum angelicum terribilis
nimis: nella seconda comparsa niente più di tutto questo,
non più una parola di quelle tante onorifiche, ma
semplicemente dice Vir, quem videram, e vuol dire, prosegue
il prefato Autore, che vedendolo ripetutamente, parlando
con lui, conversando, non le faceva più quell’impressione di
prima, e già le era sparita quella gran idea, e concetto, che
s’era formata. Lo stesso accade tutto giorno nel mondo: la
prima volta che quel Sacerdote va in quella casa, si presenta
a quelle persone; oh! che sensazione, che festa! Vir Dei c’è il
prete, si tiene per una grande ventura, tutti lo riguardano

144
qual Angelo, le sue parole sono raccolte come manna, e
conservate come un tesoro: l’ha detto il prete. Ma fate che
questo Sacerdote vadi altre volte, continui, e molto più con
frequenza, vedrete dove andrà a finire quell’uomo di Dio:
Vir Dei habens vultum Angelicum a misura che va, va
parimenti scemando l’idea, ed il concetto di lui, finché si
avrà per un uomo comune: sicut coeteri homi-num; c’è il prete,
oh! vi sii, nessuno ne fa più caso, e come fosse un uomo
qualunque, e presto diverrà ancor di peso, e di noia, e tra
loro comincieranno a dire: oh! adesso non la finisce più, è
sempre qua, e pare che non sappia più far altro, e si vien
sino al punto di concertare in casa, in famiglia il modo di
sbrigarsene, e non venga più. Oh! a me non capita di certo
così, perché ci vado mai senza essere invitato, che anzi si
lamentano ancora che vado troppo di rado. Eh! cari miei,
mi pare che dovressimo conoscere a quest’ora il Galateo
del mondo: colle parole, colla lingua c’inviterà se volete, ma
nel cuore avrà tutt’altra voglia, e dirà: pare che a quest’ora
dovrebbe già averla capita, e fare i fatti suoi. Ritenete che
noi Sacerdoti siamo come l’aqua: finché dessa sta nel suo
letto, e non va a disturbar alcuno, tutti l’hanno per una gran
fortuna aver quest’acqua vicino, e lo è realmente, e ciascuno
a suo tempo a gara se ne approfitta, e con che guadagno:
fate che quest’aqua rompa gli argini, e vadi a gettarsi per le
campagne, ed a trovare chi non la cerca, la cosa è subito
tutto al rovescio: tutti la fuggono, e cercano di ripararsi pe’
danni che cagiona, e si tiene per una servitù ben grande:
Applicate la cosa al Sacerdote, ed applicatela pur
letteralmente, che v’è niente da togliere; ed io passo a dir
qualche cosa sull’ultima specie di Conversazioni buone,
lodevoli, e sante, epperò grandemente da stimarsi dal
Sacerdote. E qui è necessario a maggior schiarimento che
noi decliniamo un po’ dalla definizione che abbiamo dato

145
in principio, e sotto questo nome di conversazioni buone, e
sante, di cui voglio parlare io intendo di comprendere tutti
que’ modi, con cui il Sacerdote zelante cerca destramente di
porsi in contatto col popolo, co’ secolari per rendersi utile,
giovar alle anime loro, ed allettarli, e guadagnarli al Signore,
se non altro a confermarli in questo divin servizio, sia che
questo lo faccia, ed eserciti per istrada parlando con loro,
sia che si porti alle case loro, parli, tratti, famigliarizzi, rida,
giuochi anche con loro, niente importa; questa è
conversazione da Santo, Conversazione da Sacerdote,
Conversazione da Appostolo, epperció conversazio ne
buona, lodevole, utilissima, doverosa, ma nello stesso
tempo difficile, ed ecco in poche parole accennate le tre
grandi qualità di questo Appostolato domestico, e
famigliare. Egli è essenziale, e deve esser proprio d’ogni
Sacerdote; egli è difficile, egli è di somma utilità, e
vantaggio.
Il Signore quando mandò gli Appostoli a predicare pel
mondo: euntes… praedicate certo che non intendeva
predicassero solo nelle Chiese, e su’ pulpiti, che ancor non
esistevano, e qualche volta, solo ed in qualche luogo
l’avranno potuto fare nelle sinagoghe degli Ebrei, od in
qualche altra adunanza de’ pagani; il modo principale, che
avranno adoperato per compiere alla loro missione sarà
stato appunto di cercar d’introdursi, e frammischiarsi alla
gente, parlar loro secondo l’opportunità, e l’occasione della
legge del Suo Signore, sicché fù quasi un dire, che fece il D.
Redentore: euntes, et conversamini. (apostolo raccomandava al
suo Timoteo di evangelizzare nello stesso modo: Exemplum
esto fidelium in bona conversatione. Il Sacerdote come sapete è
luce, è il sale della terra, e questa Sua qualità è incarnata con
lui e la porta sempre con se, di modo chè ovunque in
Chiesa, in casa, per istrada, per le campagne deve

146
risplendere, deve condire col buon esempio, colle parole,
con avvisi, con correzioni secondo l’occasione, lo che è
esercizio d’Apostolato: di modo che possa dirsi di ciascun
di noi, e ripetersi il bel elogio che si fa di S. Catterina da
Siena, che niuno a Lei s’accostava senza ché se ne
ritornasse migliore. Nemo ad eam accessit qui non melior
abierit. E se non ne fa sempre profitto, almeno chi tratta
con noi, ci vede, ci parla, abbia un motivo per farsi
migliore. Ed egli è utilissimo sia perché lo può far
continuamente, ed ovunque; chiunque in un modo, od in
un altro ne può godere, quando il Sacerdote lo voglia
esercitare. Le altre maniere di evangelizzare si fanno solo in
certi giorni, ad ore determinate, ne tutti possono
parteciparne; di questa capita tutt’al contrario; ogni
momento, ogni luogo può prestarsi per cotesto predica. E
che predica? molto più utile per l’ordinario di quella che si
sente sul pulpito, perché quella si tiene per una cosa del
mestiere, e si va a sentirla tante volte indisposti, e prevenuti;
che al contrario quest’altra le capita all’improvviso, che non
se l’aspettava, non può fuggirla quand’anche lo volesse, e
capitandole all’impensata non può a meno che ferirlo, e
toccarlo. Apostolato adunque utilissimo, ma di molta
difficoltà, perché richiede molte, e sode virtù. Virtù prima
d’ogni altro di prudenza, di discrezione, di destrezza per
saper cogliere l’opportunità, il modo più destro di
presentarsi, d’intrattenersi, e venir nel nostro intento. La
cosa ha da esser tutta di studio, e d’industria, ma industria
tutta secreta, perché guai se trapella, e la gente s’accorge, il
nostro colpo è fallito, ed ancora dannoso: una parola in
questi casi ne val più che cento in una predica, una parola di
più, o di meno, una parola più che un altra può bastare a
dar la causa vinta, o perduta. Virtù di fortezza per non
badar a’ rispetti umani, e tenerci fermi incontro a’ pericoli,

147
che possiamo incontrare nel mondo: Virtù di pazienza e
sofferenza per non badar a’ nostri comodi, e soffrire chi sa
quante ripulse, e mortificazioni; ma virtù principalmente di
gran Zelo, e carità, che ci faccia studiar i modi, trovar le
maniere per ben riuscirvi, ci tenga sempre all’erta, e
preparati a questa sorta di missione, e predicazione, e dia
impulso, anima, e fuoco a ciò che noi diciamo, poiché non
è il tempo, le ragioni, la gran scienza che abbia a vincere in
questa sorta di assalti, ma una gran carità! E come fare, voi
mi direte, ad avere tutte queste virtù, come renderci abili, ad
esercitare di continuo cotesto Apostolato si proprio del
Sacerdote, e così utile per le anime. Io finirò con additare
un mezzo comune a tutti, facile, e sicuro, ed è, di
conversare prima col Signore prima di conversare cogli
uomini: non habet amaritudinem conversatio illius, nec taedium
convictus illius. Pregare, continuare a pregare, ed esser uomini
di preghiera; in casa, in chiesa, ai piedi di questa croce, e
principalmente davanti al SSmo studiare, meditare lo stato
nostro, le nostre obbligazioni, li nostri doveri; studiare, e
meditare il valore delle anime, il modo, i mezzi di salvarle, il
gran premio di chi le salverà; studiare e meditare gli avvisi, e
gli esempi che ci ha dato questo nostro Capo, e Maestro, e
quando il cuore sia ripieno di queste massime, e di questo
Spirito state certi, che verserà, e verserà da ogni parte, e
verserà ogni momento, e verserà con chicchessia: ogni
parola, ogni tratto, ogni cenno, ogni sguardo sarà uno
sguardo, una parola di pietà, di purezza, di carità; sarà uno
sguardo, ed una parola che toccherà, vincerà, salverà le
anime, sicché il popolo ammirato, stupito non potrà a
meno che dire: questo è certamente un uomo del Signore,
poiché tratta, parla, e conversa in questo modo: ut hi qui
vident stupeant, admirentur, et dicant: hi sunt homines Dei, quorum
talis est conversano. Così sia.

148
Istruzione Nona
Sopra i Giuochi, ed i pubblici Spettacoli.
Un altro genere di Sollievo affine totalmente alle
conversazioni, ed anche comune fra gli Eclesiastici, è il
giuoco, e se vogliamo aggiungerne altro benché più raro,
ma che qualche volta si vede tra Sacerdoti tanto più in
occasione di piccole gitte in paesi e città vicine, in certe
stagioni dell’anno, od in occasione di qualche viaggio è
l’intervento a’ pubblici Spettacoli, il quale come per sollievo
straordinario pare che almea qualche volta possa
permettersi, o almeno non debba condannarsi gravemente.
Noi per ragione del nostro Ministero sappiamo più che
ogni altro i gravi mali, i frequenti inconvenienti, che
producono l’uno e l’altro di questi capi. Le risse, le
discordie, le bestemmie, i scialacqui, i guai delle famiglie che
provengono dal giuoco: la dissipazione, l’immoralità ed
anche l’irreligione che bene spesso nascono da questi
pubblici divertimenti, come li chiama il mondo. Io però
parlando con voi, e tra eclesiastici non porto la cosa a quel
punto; e benché possa capitare anche tra noi, non sono
però casi comuni, epperciò io li lascio a parte, e prenderò la
cosa sotto altro aspetto, cioè se, e sino a che punto possa
tanto l’uno come l’altro approvarsi in un Eclesiastico. Un
gran Santo dava questa regola trattandosi di prendersi la
persona una qualche sorta di sollievo, e respiro, e parlando
di divertimenti in generale, cioè di esaminare sempre prima
questi tre punti, se fosse lecito primieramente, se attese
tutte le circostanze potesse esser conveniente, e se nel
prenderlo vi fosse qualche utile: an liceat, an deceat, an
expediat. Già mi pare che qualcuno a tale annunzio debba
dire: se si prende la cosa in questo modo, mai più si avrà

149
coraggio di giuocare, o di presentarsi in qualche sito. Eh!
cari miei, quando ogni eclesiastico, e tutti noi prendessimo
cotesta risoluzione, io ringrazierei ben il Signore, perché
sono certo che non avressimo a pentirci; ma non crediamo
con ciò ch’io voglia già conchiudere, e pronunziare prima di
esaminare, e di discutere, bisogna andar ben adagio a fare
una legge per altri de’ sentimenti nostri; fu sempre costume
e massima de’ buoni, e de’ Santi esser benigno quanto si
può per gli altri, e rigidi con noi. Io considererò adunque
semplicemente la moralità dell’azione per parte del lecito,
esporrò la teoria, ne faremo assieme l’applicazione al caso
pratico del Sacerdote, perché ognuno veda, e pronunzi da
se medesimo quello che debba riprovarsi in lui, o possa
permettersi, di modo che il nostro trattenimento sarà
piuttosto una conferenza di Morale, e quasi come una
soluzione di casi, per nostra norma ed istruzione. A me
importa poco questa cosa, perché io giuoco mai né mai mi
presento ad alcuna sorta di spettacoli, né punto, né poco:
Meglio per voi, fratelli miei, mi consolo, mi rallegro, e
continuate. Quello che andremo adunque a dire servirà a
ringraziare il Signore, d’avervi tenuto lontani da queste
abitudini per lo più cattive, o pericolose, vi gioverà per
conformarvi in questo buon proposito, e quel tanto che
sentirete potrà servirvi di norma per giudicare, per
provvedere al bene di quelle anime, specialmente di
Sacerdoti, che il Signore sarà per affidare alla vostra carità.
Andiamo dunque a vedere.
Il giuoco, come dicono i Teologi, si può considerare
sotto doppio aspetto, e come contratto e come divertimento.
Noi lo prenderemo in cotesto ultimo senso, e lo
considereremo come un Sollievo qualunque. Quali
adunque, e quante sono le condizioni, che ricercano i
Teologi perché esso sia lecito, ed in coscienza vadi esente

150
da colpa. Sei ne assegnano i Moralisti, cioè: ut ludens
quaestum primario non intendat; 2 ut moderata poecunia exponatur;
3. ut nimium tempus non insumatur. 4. ut ludens non se exponat
pericolo peccandi. 5 ut ludus congruat personae, tempori et loco. 6 ut
ludi genus non sit aliquo jure prohibitum; e qui riteniamo per
maggior certezza, che coteste condizioni non sono già di
qualche Autore isolato, o più rigido; esse sono di tutti, e
non si trova Teologo per benigno, che si voglia, che declini,
o transiga sovra cotesti requisiti, sicché venendo il nostro
divertimento a mancare anche d’una sola di dette qualità, è
certo che è peccato, grave, o leggiero a proporzione della
materia, e conseguenze. Scorriamole brevemente una per
una. La prima che lucrum primario non intendatur. Il giuoco
non può essere lecito se non in quanto è ordinato al
Sollievo, e a ricreazione dell’animo, e solamente sino a quel
punto, che essa ragionevolmente lo vuole, di modo ché
quando esso parte, ed è diretto al fine di far guadagno,
oppur per soddisfare alla pura passione, che proviamo in
quel giuoco, secondo ogni Teologia egli è peccato. Io vorrei
sapere da certi Sacerdoti, che giuocano soventi, e forse
abitualmente qual sia il loro fine, e se la sanità, e le
occupazioni veramente vogliono quel riposo, e quel
sollievo; io temo che sarebbero in grande imbroglio a
rispondermi, se per giudicare occorresse aspettare la loro
risposta; ma i fatti parlano abbastanza chiaro. L’impegno
con cui giuocano, l’ansia, l’inquietudine che ne provano, il
tempo, che vi consumano, l’alterazione, l’abbattimento che
ne nasce quando fallisce, tutto prova ad evidenza qual sia il
loro fine: ben lungi la salute, e l’animo suo abbisognare
d’un tale sollievo, che anzi ne soffre e divien loro un peso,
una fatica, e li occupa di più che qualunque altra opera di
Ministero. Conchiudiamo pur dunque che chi giuoca in
questo modo, quand’anche non potesse rimproverarsi per

151
altri capi, lo che sarà quasi impossibile, è già reo pel fine e
per questo solo il suo giuoco è vizioso.
La seconda che moderata poecunia exponatur. Comincia per
primo a peccare chi espone al giuoco un danaro anche
limitato, quando di questo danaro dovesse per giustizia, per
carità, o per religione farne un altro uso, e ciò ritenga
principalmente chi avesse beneficii, o ritirasse proventi
Eclesiastici; è vero che il Beneficiato può anche prendersi
que’ sollievi, che ragionevolmente abbisogna, lo che è
compreso dentro i limiti d’una congrua sostentazione; ma
io dimando se possa esser tranquillo un Beneficiato, che
potendo sol che voglia supplire al proprio bisogno con altri
sollievi di poca, o nessuna spesa, ciò nondimeno preferisca
di giuocare quando vi vadi un maggior scialaquo di denari;
io rispetterò il sentimento altrui, ma per me non mi sentirei
di lasciarlo tranquillo. In secondo luogo pecca tutta persona
che espone al giuoco una somma notabile, ed eccessiva. La
cosa è certa, solo resta a definirsi quando veramente possa
calcolarsi esservi cotesto eccesso in pratica, tanto più che la
questione può variare secondo la natura del giuoco, la
condizione, e le facoltà delle persone. Comunemente si ha
per lecita una qualche somma, per rendere appunto
dilettevole il nostro giuoco, onde ricavarne quel sollievo,
cui è diretto, ma tutta volta il denaro esposto sorpassa quel
tanto che d’ordinario da persone buone, e non appassionate
suole commettersi in partite accidentali, e di puro piacere,
egli è da calcolarsi di troppo, epperò da condannarsi; tanto
più che quando il denaro è eccessivo, suole cagionare altri
guai, ed altre colpe, che andrem enumerando.
La terza condizione che non s’impieghi troppo tempo. Il
giuoco, come un altro divertimento qualunque deve essere
nella nostra vita, come il sale ne’ cibi: poco basta; altrimenti
guasta ogni cosa; un pizzico e niente più. Non parlo di chi

152
passa le giornate, e le notti intiere sul giuoco, o vi spende le
molte ore, è sicuro che peccano costoro, e si meriterebbero
quella severa riprensione, che fece già S. Pier Damiani ad
un Vescovo de’ suoi tempi, che sapendolo attaccato al
Giuoco, e andatolo a ritrovare lo colse appunto al tavolo
che stava gioucando, oh Monsignore si fe’ a dirgli, e pare
che vadi bene avvilire tra le carte quelle mani, che fra poco
dovranno benedire il popolo, maneggiare i sacri vasi, offrire
sacrifizi, e dispensar sagramenti; sembra che sia onorevole,
e dignitoso occupare in oggetti così bassi mente che è
destinata a trattar cose così alte, e così sublimi, qual è la sua;
e quante volte si vede sacerdoti tali passar dal giuoco
all’altare, dalle carte ai Sacramenti senza il menomo
scrupolo quasi fosse la stessa cosa. Fatto del sacerdote, che
al suono dell’Angelus etc. Io lascio costoro per dimandare
se possa tuta coscientia un Eclesiastico attendere soventi al
giuoco, ed ogni giorno fare la sua partita tanto più alle
carte. Io non voglio condannarla subito a prima vista, ma
nemmen approvarla, perché la vedo piena di pericoli.
Primieramente che il prete abbi nella sua giornata l’ora di
giuocare, come ha l’ora di celebrare, e recitare il suo
Breviario pare che non suoni molto bene; che per caso, ed
accidentalmente un Sacerdote giuochi sembra non debba
fare gran caso nel popolo, ma che si concerti, si prefigga, e
mai si tralasci da divenir come una cosa ordinaria, e quasi
necessaria, questo sa un po’ di mestiere e di professione;
siccome uno che si veda ogni giorno ad applicarsi ad un a
oggetto, se ne giudica adetto , se alla caccia, cacciatore, se al
lavoro, lavorante, se a’ negozi, negoziante, così potrebbe
dirsi facilmente del Sacerdote che giuocando ogni giorno,
debba essere un giuocatore; ed altro è giuocare, altro
rendersi giuocatore; il primo si potrà colle condizioni, che
andiam scorrendo; l’altro mai no: aggiungete il pericolo, che

153
naturalmente vi nasce da cotesta frequenza di giuoco, di
attacco al giuoco medesimo, per cui si perde quello Spirito
interno di quiete, e raccoglimento così necessario, ed
indispensabile per noi Sacerdoti, or si pensa al giuoco
passato di jeri, or si attende il corrente della giornata, or si
calcola su quello di domani; sembrano inezie, e bagatelle
quel tanto, che s’espone, si perde, o si guadagna, ma perché
si fa soventi, e passa come in natura, e ci diviene come
necessario, soventi e nel giorno, e nella notte, e nella messa,
e nel Breviario, e nell’amministrazione de’ sacramenti, sarà
contro nostra voglia, eppur soventi l’abbiamo alla mente; e
tutto questo non sarà un gran inconveniente per un
Sacerdote, e potrà dirsi senza colpa, ed un onesto
divertimento, quando si occupa quasi tutto il giorno.
Dunque sarà meglio pre-scinderne, può dimandare
qualcuno; oh! fratelli miei, quand’anche non si possa una tal
pratica condannarsi, assolutamente in tutti, ed in ogni caso,
tuttavia se mi chiedete il mio sentimento, io risponderò
francamente di sì, che sarà molto meglio, e voi col tempo
ne sarete certamenti contenti; almeno se qualcuno trova
molto grave per sé privarsene affatto, si limiti solo a
qualche giorno della settimana, e niente più; in questo
modo sarà primieramente una mortificazione, ed un atto di
padronanza, che esercita sopra di sé, e servirà moltissimo a
tenerne il cuore staccato, ed allontanare così que’ pericoli,
che abbiamo accennato; e di più sarà un buon esempio pel
popolo; e da queste privazioni parziali, interpolate, ognuno
potrà conoscere, che siamo noi, che comandiamo al giuoco,
e non il giuoco che comanda a noi. Ma io non so che cosa
fare in certi giorni d’estate, in certe sere d’inverno, mi
secco, m’annojo, non so con chi fermarmi, trattenermi. Eh!
miei cari, coteste ragioni mi pajono un po’ frivole, e non mi
danno a pensar molto bene. Eh! un prete che non sa che

154
cosa fare, mi dà sospetto; io comincierei a domandare a
costui se in quel giorno, che per togliersi dalla noja ha
bisogno di giuocare, abbi già studiato un tantino, se la
predica per la domenica sia già preparata, se è molto tempo
che non ha ripassato la Morale; chiamerei ancora se in quel
giorno abbi fatto la Meditazione, una visita anche breve al
Sacramento, e recitato la corona. Ah! un Eclesiastico che
viva di questo Spirito, e sia penetrato dall’importanza di
attendere alla pietà, ed allo studio, oltre tutto ciò, che deve
fare pel Ministero, difficile che abitualmente non sappia,
che si fare. Ma sia pur vero, che si soffra un po’ di noja, e si
senta il peso di cotesto privazione, quanto compenso in
vece non avrà, e quante consolazioni, e vantaggi. La pace
prima del suo cuore, il buon esempio del popolo, la fama di
un sacerdote buono, ritirato e divoto; e quando verrà a
morire si risparmierà un certo panegirico, che - non farà un
gran onore: è morto il tal prete, quel lì giuocava bene, non
so quando ve ne sarà un altro, che lo uguagli: oh! adesso ci
manca uno alla partita, per forza andrà a cessare. È meglio,
se possiamo, proccurare di allontanare si fatti elogi di noi
dopo la nostra morte; eh! sarà meglio che invece si possa
dire: quel prete v’è mai alcuno che l’abbi veduto giuocare; si
può dire che dalle nostre parti è quasi il solo, perché tutti gli
altri giuocavano: eppure se giuocava era un azzardo, ben di
rado, quand’anche sapesse, e n’avesse piacere, com’era
facile il conoscerlo, tuttavia si privava, ad eccezione fosse
quasi forzato. Chiunque di noi, sono certo che preferirebbe
potesse parlarsi di se in questo modo più che nell’altro. Ma
in realtà come si parlerà poi di noi in allora in questa ma-
teria; eh! fratelli miei, in quel modo che si parla adesso sul
nostro conto: se presentemente tutto il paese sa, che
giuochiamo, che facciam sempre la nostra partita, e sa
perfino come ce la prendiamo, quando si vince, o si perde:

155
dirà allora quello che dice già adesso, che eravamo un prete,
che ci piaceva la partita: buono se volete, ancor zelante, ma
c’andava un po’ di giuoco, non poteva vivere senza
mischiare un po’… e che dire: ognuno ha il suo debole,
fuori di questo non c’era male. Così discorrerà il popolo
sulla nostra tomba, e sarà questo l’ultimo frutto che
coglieremo anche morti dal nostro giuoco.
La quarta condizione è che chi giuoca non s’esponga ad
alcun pericolo di peccato, e che pericoli? In gran parte sono
già stati accennati; pericolo di scandalo al popolo, pericolo
per noi di dissipazione, di attacco, pericolo di perder il
tempo, di scialacquar il danaro, di trasandate, o fare
malamente i nostri doveri. Un prete era accostumato a far
la sua partita al dopo pranzo: un giorno mentre la stava
facendo venne chiamato per assistere un moribondo:
rispose di sì, che andava, ma intanto ha voluto terminare la
partita, quindi in tutta fretta v’andò, ma che? nell’entrar
della camera, sentì a dirsi: egli è morto vadi pur tranquillo a
giuocare. Almeno avesse fatto profitto della lezione. Oh! per
me tutti questi pericoli non vi sono, e mi sento di giuocare
e di mantenermi in regola in tutto, e per tutto, e che per
niente ne abbia a soffrire il mio Ministero; eh! se vi sono
Sacerdoti che abbiano tanta virtù di combinar assieme tutte
queste cose, benché non l’approvi, mi asterrò dal
condannarli, però mi fa specie che un Eclesiastico che ha
tanta forza, e virtù da superare tutti questi pericoli, non ne
abbia un tantino per fare il sacrificio almeno di tanto in
tanto d’una misera partita. Ma andiamo alle due ultime
condizione, che sono le principali, cioè che ludus congruat
personae, tempori et loco, nec sit aliquo jure prohibitus. Gratia,
honestae, et necessariae recreationis… loco et tempore congruenti, sarà
lecito il Giuoco, come spiega l’Angelico, o come dice
altrove: congruat personae, et tempori, et loco, et secundum alias

156
circumstantias debite ordinetur. Sia pur dunque per puro
Sollievo che si giuochi, col rimanente che abbiam detto
fin’ora, ma ci resta a sapere di che giuoco si tratta, e quali le
sue circostanze di tempo, di luogo, di persone, che vuol
dire convien osservare, in che tempo, con chi, e dove si
attenda a cotesto giuoco. Noi sappiamo che i giuochi di
pura sorte, ad eccezione di qualcuno di poca entità, che può
dirsi lecito per una certa consuetudine in contrario sono
proibiti severamente a tutti gli Eclesiastici, e potrebbero
addursi mille luoghi del diritto can.co, in cui e pontefici, e
Concilii generali, e particolari hanno proibito d’accordo
coteste maniere di giuocare; a me basta citare il nostro
Sinodo, dove dice: eo ludorum genere… quod fortuna tantum, non
probabilis industria regit, ne in privatis quidem domibus, sive per se,
sive per interpositam personam, aut irrita cum ludentibus societate
ludant… qui in haec decreta deliquerit etc. passa ad accennare
varie pene, con cui il Superiore può, e deve procedere
contro i trasgressori, lo che prova l’importanza della legge.
Pecca adunque chi giuoca, pecca chi assiste, pecca chi
coopera, pecca chi partecipa, perché tutti più o meno
concorrono alla violazione d’una legge. Io non mi mischio
in giuochi proibiti; meno male risponderò, ma di grazia in
che luogo, in che tempo, con quali persone si tengono
cotesti giuochi. I luoghi pubblici, i caffè, i ridotti non sono
fatti pel prete, e basterebbe questa circostanza per
condannarlo: ne chartis lusoriis ludant, ubi publice hi ludi
habentur, è sempre il nostro Sinodo, che parla. Certi luoghi
anche non pubblici, ma che nel paese si hanno quasi per tali
perché convengono ogni sorta di persone, e se ne fa come
una professione, il Sacerdote non vi si deve avvicinare,
perché là non si giuoca per sollievo, per divertimento, ma
per mestiere, ed il denaro, il guadagno forma tutto il fine, e
la causa di quel convegno. In che tempo, non si parla della

157
quantità, che n’abbiam già detto, ma piuttosto quale
circostanza; i giorni di festa, principalmente in tempo delle
funzioni di Chiesa, la sera ad ora tarda, e prolungata non
sarebbe già conveniente che il Sacerdote si sollevi col
giuoco a quell’ora. Con quali persone? Via le donne che
non hanno da fare col prete, via que’ secolari che sono
tenuti fra immorali, irreligiosi e stanno lontani dalla Chiesa,
e da’ sacramenti. E che società è questa veder là al tavolo di
giuoco seder da una parte un Ministro del Signore, e
dall’altra un nemico suo giurato, eppur amici, famigliari,
confidenti, e come pari disputarsi l’un l’altro il denaro?
Se fosse per guadagnarlo al Signore, come usava un S.
Francesco Saverio, direi anch’io, fatelo pure: ma se Iddio ne
guadagni da cotesti giuochi lo sapete anche voi, poiché
conoscendo cotesti maligni il debole di quel povero prete,
lo lasciano partire per ridere, scherzare e motteggiare tanto
sulla sua persona, come del Suo ministero.
Fin ora abbiamo parlato del giuoco in quanto che è
divertimento, e ci siamo limitati ad osservare le pecche, i
difetti, a cui in pratica può andar soggetto, e purtroppo
frequentemente v’intoppa, e non siamo andati più in là,
perché guai se questo giuoco si trasformasse in passione, e
ne padroneggiasse il Sacerdote. Ah! un Eclesiastico dato, e
posseduto dal giuoco. Che brutto sentire, e che fatali
conseguenze; noi sappiamo i guai, i pianti, le rovine delle
famiglie come provengano bene spesso da cotesta
malaugurata passione; così dite pure del Sacerdote, quando
ne sia affascinato: scienza, pietà, divozione, raccoglimento,
ubbidienza, tutto si perde, e rovina ed in po’ di tempo
avrete niente più che un uomo inutile, ignorante,
indisciplinato, sacrilego, e Dio non voglia altre cose di
peggio. Basti però averlo solo accennato questo tratto,
poiché i giuocatori di questa fatta grazie a Dio sono ben rari

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tra sacerdoti, ma io l’ho voluto toccare di passaggio, perché
tutto ci serva di ritegno, di freno a tenerci lontani più che
possiamo da questa sorta di divertimento, qual’è il giuoco; e
quali saranno le conseguenze a dedursi da tuttociò, che
finora abbiam esposto: eccole: chi non è avvezzo a
giuocare, e ne è stato lontano sino al presente, continui,
prenda il mio consiglio, si sollevi in altra maniera, ma lasci
stare il giuoco, che sarà più contento, e più sicuro. Quelli
poi che più o meno ne hanno già un tal qual abito, se non
credono di privarsene affatto, non trascurino di far qualche
mortificazione con astenersene qualche volta, e quando vi
attendono abbino attenzione che niente disdica nel fine, nel
modo, nel tempo, nel luogo, e nelle persone. Ripeterò il
detto di S. Tommaso: Gratia honestae, et necessariae
recreationis… congruat personae, tempori, et loco, et secundum alias
circumstantias debite ordinetur, come rapporta il Medesimo
Alasia.
Ci resta a dire qualche cosa su publici divertimenti, o
spettacoli che vogliam dire, se possa esso goderne. E
perché nò, se egli vive nel mondo, ed è membro come un
altro dell’umana famiglia, e se sente i pesi, e gli incomodi
della civile società, perché non potrà prender parte a ciò
che ha di Sollievo per la vita quaggiù? Tutto bene, fratelli
miei, ma Egli è sacerdote, epperciò un uomo diverso dagli
altri, se vi ricordate di quello, che abbiam detto sin da
principio, un uomo che ha rinunciato a tutto ciò che sa di
profano per vivere, e consecrarsi intieramente, agli interessi
del Suo Dio. Tuttavia non e voglio che li condanniamo
senza sentirli, e senza esaminare. Perdonatemi se mi tocca
declinare qualche nome forse un po’ offensivo delle vostre
orecchie, ma giacché tutti i canoni e le regole di disciplina
pel Clero ne parlano, non mi pare di troppo a dirne anche
due parole tra noi. Noi li ridurremo cotesti spettacoli a due

159
classi, cioè di rappresentazioni, e di danze, molto più
quando fossero aperte al pubblico, e con ciò intendiamo
anche di comprendere quanto può aver relazione a’ due
capi suaccennati e dico che la Religione, la ragione, ed il
tenore di vita voluto, e prescritto al Sacerdote, tutto lo deve
tener lontano. Voi sapete meglio di me il male, che ne
proviene, i peccati che si commettono in questi luoghi, e
come generalmente sieno condannati da tutti i padri, i
Teologi; è vero che per se sono cose indifferenti, e non
peccaminose, ma da cotesto indifferenza oggettiva in
pratica ne siamo molto lontani tanto più in questi tempi;
l’immoralità, l’irreligione è difficile che non v’abbia parte; se
non l’altro la frequenza, e la qualità delle persone, il modo
di vestire, di parlare, il gesto solo tutto è incentivo di
peccato. Io non vi consento, sarà vero, ma dimando a Voi
sarà lecito in Morale esporsi senza motivo ad un occasione,
che ci metta in tentazione, quand’anche la persona speri di
non consentirvi. Signori nò, prendete, consultate qualunque
Autore anche il più benigno: aggiungete che chi così
temerariamente va ad arrischiarsi senza ragione alcuna, v’è
tutto a temere che Iddio lo umilii con qualche vergognosa
caduta; e la mala edificazione, fratelli miei, lo scandalo che
si da a’ seco-lari con quest’assistenza, e con un tale
intervento chi me lo sa dire; oh! vi sono tanti preti, perché
non potrò andarvi, assistervi anch’io, ci sentiamo a
rispondere alle volte in Confessionale. Ma dica di grazia:
fanno bene, o fanno male quei preti: oh! sono anche da
compatire: ma no, favorisca darmi una risposta, giacché me
ne ha parlato, oh!… già che fanno male secondo me:
dunque veda, io non ho più da rispondere, soltanto le dirò:
se avesse da confessarsi per l’ultima volta amerebbe aver
uno di quei preti, oppure un altro. Io però mi sono trovato
più volte, alcuno può soggiungere, ma nessuno vi bada,

160
nessuno da quanto mi pare ne fa le meraviglie. Si trova alle
volte qualche secolare, che ci usa questa carità, e ci dice
franco: senta Signore, se ascolta me, non vi va, que luoghi
non fanno per lui; ma per lo più ci lascian fare; non crediate
però che ce la passin buona, e quante volte verrà in scena il
prete, che hanno veduto con grande scapito del nostro
carattere, e del nostro ministero. Si usa da taluni andar
travestiti in abito secolare, appunto per non dare come
dicono essi, oppur meglio per non essere scoperti, corretti,
e castigati. Orsù in poche parole io vorrei dire, se avessi a
parlare con uno di costoro, dimmi francamente, tu che
credi poterti trovare, assistere indistintamente a que’ festini,
a quelle feste di canti, di danze, di rappresentazioni, o cose
simili, se ti capitasse la morte, un accidente in que’ siti, in
quel tempo la riceveresti egualmente e con pari contentezza
come se ti capitasse in casa, allo studio, in chiesa, od in
tempo di preghiera, o mentre eserciti qualche altro
Ministero: coraggio, parla franco; se mi rispondi di sì, e che
non faresti differenza alcuna, scusami, ma io non credo, la
passione, ed il rispetto umano ti fa parlare contro il tuo
cuore; se mi rispondi di nò, convengo anch’io; ma perché
debbo soggiungerti, essere così imprudente da metterti in
un luogo, in un sito in cui avresti a lamentare se la morte
venisse a chiamarti, chi t’assicura, che quell’ora non suoni
l’ultima per te. E ben con ragione si morrebbe mal
volentieri in que’ luoghi, perché morressimo in fragrante
violazione di legge; quand’anche non si facesse male alcuno,
quand’anche la ragione, la morale non ce lo vietasse, ne vi
fosse per noi pericolo alcuno, noi abbiamo leggi le più
rigorose, che ce lo proibiscono, ed a cui v’è niente ad
eccepire, perché antiche, e nuove, locali e communi,
ricevute, inculcate ovunque, ed a tutti i Sacerdoti; io non mi
fermo a portarvi citazioni, perché sarebbero inutili, a voi

161
che le sapete; ricorderò solo il di-vieto, come ne fa il nostro
Sinodo, e che già venne rinnovato con altre leggi posteriori:
Neque… spectatores intersint (Clerici) theatris, choreis, profanisque
ludis omnibus, quae voluptatem, otium, vanitatem, fovent, ac sapiunt.
La legge fù fatta, la legge continua, la legge non distingue, la
legge per necessità deve obbligare, sicché sono inutili tante
scuse, e pretesti, chi contraviene, chi non l’osserva, pecca
egli è certo: solo si potrà dimandare: che peccato commetta
chi si porta in cotesti luoghi, serventi, di rado, od anche una
volta sola. Io non voglio deciderlo parlando con Voi, che
siete capaci di conoscerlo da voi medesimi solo che
riflettiamo un momento a ciò, che abbiamo studiato nella
Teologia Morale: una legge perché obblighi gravemente, e
faccia reo di peccato mortale chi non l’osserva, ricerca due
condizioni, che il legislatore voglia imporre una grave
obbligazione, e che la materia violata sia notabile, e grave.
Come conoscere l’intenzione di chi ha fatto la legge, e
misurare la gravità della materia? L’intenzione si conosce
dai termini, più o meno severi, con cui è enunciata la legge,
e dalle pene, che minaccia. La gravità della materia poi
dall’inconveniente, che produce la colpa, ed a cui la legge
voleva provvedere. Tale è la teoria comune delle leggi, e
comune parimenti, ed universale presso tutti i Teologi; ora
applicando cotesta regola al caso nostro io fo presente che
le leggi sì comuni, che speciali parlano con termini i più
rigidi, ed incalzanti, e le pene che minacciano non sono
minori, di modo che dell’intenzione per parte di chi ha fatto
la legge, è impossibile dubitarne. Gli inconvenienti poi, a
cui s’è inteso di riparare con queste ordinazioni sono lo
scandalo del popolo, lo sfregio del carattere sacerdotale, ed
il pericolo del medesimo sacerdote; un solo di questi tre che
vi sia in generale a temersi grave, quand’anche in un caso
particolare non avvenga, basta a render sufficiente la

162
materia pel peccato mortale. È inutile andar dicendo che
non è peccato, si fa passion da tanti senza scrupolo, si
tollera, non si da più gran peso a tali cose in questi tempi,
guai se fosse peccato grave, che persone di pietà, di senno,
di studio non condannano almeno gravemente. Io lascio
tutto quello, che dicono costoro, sia vero, non lo sia,
ripeterò sempre che la Teologia è tale, e finché essa durerà,
terrò sempre lo stesso linguaggio.
Forse a qualcuno potrà parere che in cotesta instruzione,
o conferenza, che vogliam dire, mi sia diportato un po da
rigido in materia di divertimenti, e principalmente di
giuochi, e di spettacoli. Distinguete ciò che forma materia
di suggerimento, e di consiglio, lo che ognuno misura dalla
propria convinzione, e sentimento; del resto la parte
obbligatoria, e precettiva io ho proccurato di misurarla
rigorosamente a norma d’ogni Teologia, e mettete pure la
più benigna; e se in qualche cosa, in qualche applicazione
l’avessi sbagliata, vi prego a rimediarvi da voi medesimi;
felice me, se potessi diminuire le obbligazioni, resterebbero
parimenti di meno altrettante occasioni di peccato; però un
rimprovero dovrò farmi più giustamente da me stesso, ed è
d’aver scielto, e trattato in questa sera un argomento che
non era al caso, e necessario per Voi, e me lo fo ben
volentieri cotesto rimprovero, perché Egli è un elogio per
Voi, ed una consolazione per me d’aver a parlare con
Sacerdoti, che conoscono se stessi, e l’altezza del loro stato,
e sanno corrispondere al gran fine della lor vocazione.
Servitevene invece per norma di quanti il Signore manderà
a’ vostri piedi, e porrà sotto la vostra direzione. Servitevene
per crescere sempre più in quello spirito di pietà, e
divozione, che forma il più bel pregio dell’uomo
Eclesiastico; servitevene infine per rendervi vieppiù fedeli
imitatori di questo divin Modello, e ministri degni di

163
rappresentarne la divinità sulla terra. I teatri, i spettacoli, i
divertimenti de’ cristiani hanno da essere i Santuari, le
Basiliche, ed i sepolcri de’ SS. Martiri, diceva fin da’ suoi
tempi Tertulliano, le feste, a cui dobbiamo concorrere, le
funzioni, e le comuni preghiere. Hae voluptates, et
spectacula christianorum, sancta, perpetua, et gratuita. Lo
stesso ripeterò io in questa sera a me, ed a voi: I teatri, i
spettacoli, le sale di festa e di allegria, le ore direi di sollievo,
e di ricreazione per noi Sacerdoti hanno da esser le chiese,
la camera di preghiera, e di studio. I nostri festini
l’amministrazione de’ Sacramenti, le visite agli infermi,
l’esercizio di tutto il nostro Ministero. Lascia a’ secolari
quelle pazzie, ripeteva già il dottor Massimo S. Girolamo ad
un Eclesiastico, i canti, e danze, e suoni, e comparse, e
quanto v’ha di ridicolo: rideri, et ridere saecularibus derelinque e
sappi, che altro contegno, altra riserva conviene alla tua
persona: gravitas tuam decet personam. Lasciamo la leggierezza,
la vanità, i tripudii, le feste rumorose a’ mondani, per noi
scegliamo il ritiro, la quiete, la pietà, e divozione, sicché il
popolo edificato dalla nostra esemplarità, e condotta impari
a staccarsi, e sprezzare le follie, le cose transitorie di questo
mondo, ed a cercare invece e guadagnarsi lassù in Cielo,
quelle gioie, e quelle feste eterne, che finiranno mai più.

Istruzione decima.
Sopra il Zelo dell’Ecclesiastico.
Nell’Eclesiastico, come già abbiamo premesso, si
possono distinguere due sorta di personaggi, l’uno privato,
come un altro qualunque, di cui nella massima parte
parlammo finora, cercando, e spiegando i mezzi, con cui
hassi a formare questo grand’uomo; l’altro publico
consecrato al comune bene e vantaggio, di cui ci resta a

164
discorrere in questi pochi giorni del nostro ritiro. Il fine
certo che corrisponderà alla grand’opera che è il Sacerdote,
e se Iddio lo elevò tant’alto sulla terra, è segno che lo
riservava ad uno scopo per niente men grande. Ella è verità
che Iddio vuol tutti salvi: Deus vult omnes homines salvos fieri.
Ma è verità parimenti incontrastabile che ha messo un
uomo sulla terra, perché gli altri si salvino, e questo uomo è
l’Eclesiastico. Il divin Redentore venne, e visse al mondo
per proccurare l’onore, e la gloria di Suo padre, dilatarla, ed
estenderla sulla terra: ego honorifico Patrem… non quaero gloriam
meam sed ejus qui misit me, e partendo dalla terra affidò questa
missione al Sacerdote: euntes praedicate. Venne il medesimo
Redentore per distruggere il regno del peccato, come
predisse già l’Angelo a Daniele, ut deleatur peccatum e cacciar,
se fosse possibile dalla faccia della terra cotesto nemico
capitale del mondo: et princeps huius mundi ejicietur foras.

Il divin Redentore prima di morire e sulla croce depose


questa sua missione e la sua sete per la gloria di suo padre e
per la salute delle anime nel cuore, e nelle mani di noi
Eclesiastici epperciò è questo, o Cari, il fine, lo scopo ed
oggetto dell’Eclesiastico sulla terra, lottare, e lottare
continuamente, e lottare energicamente contro il peccato:
qui tendono tutti i doveri, le obbligazioni sue di uomo
destinato al pubblico bene; in questa lotta deve impiegarsi,
con tutto il Suo Zelo, ed attività. In questa battaglia deve
consumare tutte le sue forze, e rimanervi sino all’ultimo
respiro di sua vita: ed oh! quante cose si presentano a dire
quando si consideri il Sacerdote in questo campo:
l’importanza di questo suo zelo, e calore, l’obbligo, la
necessità, la convenienza di in un Sacerdote, l’efficacia, il
valore, il merito che seco porta per tacere presentemente
de’ mezzi per ben esercitarlo. Io ridurrò la cosa ad alcuni

165
pensieri, che vado a proporre, e che formeranno la materia
di questa nostra considerazione, nella speranza che questo
modo abbia a riuscire più utile, e più consolante per noi, e
sono: 1° Nel mondo non si conosce il gran male sia il
peccato, epperciò sono in numero sterminato ed i peccati,
che si commettono, e le anime che si perdono. 2° Nessuno
più che l’Eclesiastico è in obbligo, ed ha maggior comodità
del Sacerdote d’impedire questi peccati. 3° Se l’Eclesiastico
vuole può essere certo che più o meno giungerà ad
impedire. 4° impediendo un peccato anche solo farà l’opera
più grande, l’azione più meritoria che possa fare l’uomo
sulla terra. Felice me se otterrò con queste mie parole che
tra tutti s’impedisca un peccato di più al mondo. Questo
tempo, questo momento sarà certo, sarà scritto, sarà
registrato in Cielo per essere un dì ben pagato a me, ben
pagato a voi. Cominciamo.
Fra tutti i mali, tra tutti i guai, e le miserie, che cuoprono
la terra una sola cosa, come voi sapete, è quella, che merita
propriamente il nome di male, perché essa sola attenta, e
cerca di distruggere il vero e solo bene, che vi sia al mondo,
che è Iddio: unum bonum Deus unum malum peccatum: ecco
quel mostro, che un di vuotò quasi il paradiso; per cui fu
creato l’Inferno; che da tanti secoli si piange, e si piangerà
eternamente senza finirla mai più. Ecco il gran male a
fuggirsi a tutta possa, come dice lo Spirito Santo,
nell’Eclesiastico: quasi a facie colubri fuge peccata, e perché?
dentes leonis, dentes ejus interficientes animas hominum 21.2. Quasi
romphea bis acuta omnis iniquitas: plagae illius non est sanitas. Però
se v’è un altro male al mondo, ed in certo modo anche
peggiore, egli è questo, che non si conosca il gran male, che
sia il peccato, e di qui un danno immenso incalcolabile: si
pecca con tutta facilità, e quasi per scherzo: si dorme, e si
tresca tranquillamente nel peccato; s’arriva perfino a farsi

166
una gloria, un vanto d’aver peccato, o di voler peccare.
Date un occhiata al mondo, osservate per po’ la maniera di
vivere, di parlare, e tosto v’accetterete se nel mondo si
conosca, e si faccia caso del peccato. Non parlo già di chi
vive da irreligioso, e libertino, ma anche tra quelli che
passano per buoni, e che s’accostano a’ Sacramenti, quanto
pochi conoscono che cosa sia il peccato, il gran male, la
grande rovina, che seco porti; epperciò necessariamente per
questa grande ignoranza certamente colpevole, in cui
vivono i più degli uomini, ne viene che un numero
sterminato di anime andrà pur troppo a dannarsi, poiché il
peccato non si perdona, se non si detesta: ed è impossibile
detestarlo a dovere quando non si conosca. Ma e che dire
degli Eclesiastici, che vivono in mezza a coteste tenebre, e
nel bujo di una notte, d’un oscurità così fatale. Eh! fratelli
miei, fa pietà, ma spavento assieme il solo pensarvi: finché
l’ammallato non sente, non conosce il proprio male, si può
tollerare e v’è speranza di guarigione; ma se non l’apprende,
non lo conosce e non lo calcola nemmen il Medico che è
posto a curarlo, si può dire che la causa è disperata. Che un
semplice soldato non sappia, ed ignori l’importanza, i
pericoli, le conseguen-ze d’un piano di guerra, e di battaglia
poco male; ma che nemmen lo comprenda, e v’arrivi il
Condottiero, ed il Capitano, non so che cosa abbia a
sperarsi. Tale è la posizione, ben triste, e dolorosa d’un
povero Sacerdote che scielto, formato e mandato a bella
posta sulla terra a curare, a combattere i tanti peccati, che si
commettono al mondo, egli non conoscesse, ne si curasse
di conoscere che cosa sia poi questo peccato, il gran male
sia per parte di Dio, come per parte nostra, sia pel tempo,
sia per l’eternità. Io spero che in questi giorni colla serie, e
coll’ajuto di tante Meditazioni saremo arrivati a conoscerlo,
se non appieno, almeno a sufficienza da saperlo combattere

167
e con rigore, e con forza; ma con tutto ciò non cessiamo
mai di studiarlo, di meditarlo finché avremo vita, poiché a
tutti noi Eclesiastici, ed a ciascuno in particolare senza
eccezione tocca l’obbligo assoluto, indispensabile di
opporci per quanto possiamo, ed impedire con tutte le
nostre forze, perché i peccati non si moltiplicano sulla terra,
anzi se ci fosse possibile, sterminarli tra mezzo agli uomini;
ed eccoti al secondo pensiero, che ho preposto.
Ve mihi si non evangelizavero, ripeteva già atterrito il grande
Appostolo; e non cercate di allontanarmi, di distogliermi,
perché guai a me, la necessità mi costringe e lo vuole:
necessitas mihi incumbit. Iº Cor. 9.16. Guai al Sacerdote, che
non s’adopera, non mira e non fatica a questo fine: Egli è
reo, e dovrà rispondere per ogni colpa, che potendolo non
abbia cercato d’impedire: sanguinem ejus de manu tua requiram.
Quel Sacerdote era in dovere di predicare, e se predicando,
avesse usato maggior diligenza, e fatica, n’avrebbe riportato
maggior frutto, chi sa quanti tocchi, compunti avrebbero
cessato di peccare, od almeno avrebbero peccato di meno,
quando anche un solo non ne avesse riportato profitto, per
sua colpa, ebbene di questo solo peccato, e peccatore ne
risponderà al Signore. Se quell’Ecclesiastico fosse stato un
po’ più assiduo al Confessionale, ed avesse usato maggior
pazienza, e carità, quanti peccati di meno; invece se ne
svegliarono i penitenti, s’accostarono più di rado, furono
sempre li medesimi; e chi ne darà ragione di queste colpe?
Pel primo il Sacerdote. Se egli avesse aperto un po’ più gli
occhi, messo un po’ più di petto, e coraggio, e dato maggior
edificazione al popolo, quante colpe avrebbe certamente
impedito; invece no; dunque si prepari a darne conto. E
non ci paja un esagerazione, che ella è verità. Un figlio è reo
verso il padre delle ingiurie, ed offese, che gli usi, ma anche
di quelle, che permette dagli altri, e potendo non le ripara.

168
Un lavorante, un operaio non solo pecca pe’ guasti, che
cagiona alla vigna del suo padrone, ma anche di quel lavoro,
che omette, e di quel danno, che permette vi si rechi dagli
altri. Un tale, che sia messo a fare gli interessi altrui, non
basta che non scialacqui, ma uopo è che tiri a partito, e
profitto di tutti i guadagni e ripari ogni pericolo di perdite, e
di danni. Così è dell’Eclesiastico: noi indipendentemente
dal nostro impiego, in forza solo del nostro stato, e del
nostro carattere di Sacerdoti siamo tenuti non solo per
carità verso del prossimo, ma per uffizio e dover nostro
intrinseco a cercare, a zelare gli interessi del nostro Iddio, e
tra questi, il primo, il massimo è quello di procurare che
nessun l’oltraggi, lo offenda, e ce lo diceva chiaro
(Appostolo S. Paolo al suo Timoteo Noli negligere
gratiam… quae data est tibi per prophetiam cum
impositione manuum praesbyterii. Ad Tim. 1ª.4,14. Se negli
Eclesiastici vi sia cotesto zelo, e sino a questo punto, io non
lo so; so per altro i lamenti che già faceva il dottor S.
Bernardo a’ suoi tempi, che facendosi a considerare i
Sacerdoti Suoi contemporanei vi trovava zelo bensì a
conservare la propria dignità, a radunar roba: fervet
eclesiasticus zelus pro dignitate tenda, pro divitiis congregandiis, ma
non vi trovo chi se la prenda un po’ con calore a impedir
peccati, a salvar le anime. Eh! fratelli miei, se anche noi ci
mettessimo a cercar Sacerdoti, che abbin zelo, e fuoco per
conservare i propri diritti, per arrivar ad un impiego, per
spuntarla in un affare, per avere un guadagno, credo che ne
troveremo facilmente. Sacerdoti che abbin impegno e zelo
per la propria stima, ed onore, pe’ comodi di casa, pel
decoro della parentela, credo che ve ne sarebbero molti; ma
ve ne saranno egualmente, e si potranno trovare anche
facilmente Sacerdoti che penetrati del gran male sia il
peccato, compresi d’orrore a questo mostro e spinti dal

169
gran dolor, che ne soffrono, non dico già che ne muoiano
di crepacuore, come si legge di tanti uomini apostolici, e
principalmente di S. Gaetano, ma almeno cerchino, e si
sforzino nel loro stato col loro ministero almeno col buon
esempio, e colle loro preghiere di riparare a qualche offesa
del Signore, e d’impedire qualche peccato. Eh! lo fosse
pure, poiché altrimenti non saressimo che simulacri, e
Sacerdoti di comparsa, di apparenza, e niente più; si, fratelli
miei, cotesto fuoco, cotesto impegno, cotesto zelo è
talmente necessario in noi Eclesiastici, che esso forma la
ragion totale, epperciò la midolla, la sostanza del nostro
stato. Altro è in noi Eclesiastici il grado, l’onore, il carattere
di Sacerdote; altro il Sacerdozio vero, pratico, che consiste
nell’appostolato, e nell’esercizio del nostro Ministero al
fine, per cui fù instituito; sicché senza questo spirito di zelo,
e di carità che ci porta ad un tale esercizio, saremo sempre
Sacerdoti, ed Apostoli di puro nome, ma non di fatti, ed in
realtà. Dio e gli uomini sono come due punti estremi ; tra
questi due punti si deve mantenere un certo commercio,
una certa relazione, e corrispondenza, e Iddio scielse
appunto tra questi uomini medesimi una certa classe di
persone, e li fece come mezzani, mediatori tra Lui, e
l’uomo; li costituì sacerdoti, cioè a dire destinati a fare gli
interessi di Dio presso gli uomini, e viceversa gli interessi
degli uomini presso Dio; ed in ciò appunto consiste
l’essenza del nostro stato: che se a noi manca cotesto
Spirito di zelo per cui trascuriamo cotesti interessi, e li
lasciamo andar a male, per quanto sta da noi ci spogliamo
di questa qualità di Sacerdoti, ossia di mezzani tra Iddio, ed
il popolo, e tentiamo di ridurci allo stato degli altri, uomini
cioè comuni, ordinari, come un altro qualunque. E che
sconcerto, che disordine quando il sacerdote cerchi di
allontanarsi dal suo luogo, e non corrisponda più al Suo

170
fine. È un sentimento già detto, ma giova ripeterlo, perché
troppo opportuno.

Che direste della guardia d’un principe, che vedendo


certi sudditi ribeli, e svergognati ad insultare il loro Re, non
se ne curassero, e lasciassero fare, molto più ne ridessero
ancora. Ah! vili, ingrati, sconoscenti, chiunque griderebbe, a
che indossi quelle divise, occupi quel posto, e ricevi quella
paga se non difendi il tuo Re, il tuo Signore. Tale, e con più
ragione sarebbe il rimprovero, che si meriterebbe
l’Eclesiastico che non avesse zelo, e non si curasse
d’impedire per quanto può le offese al suo Signore. Quare
maledicit canis hic mortuus domino men, andavan ripetendo quei
prodi, e sul momento volevano fermarlo, per tosto
impedire siffatto affronto al loro Signore; ma trattenuti dal
farlo per comando dello stesso Davidde, sono certo che
fremevano, e non potevano a meno di sentirsi a rodere le
viscere ad ogni ingiuria, che vomitava quello sciagurato,
tanto era l’amore che portavano al loro Signore, al zelo che
loro ardeva in petto pel Suo onore. Così dovrebbe fare, così
dovrebbe regolarsi ogni Sacerdote allorché vede, allorché
sente, o vien a sapere qualche offesa al Suo Dio; provarne
primieramente un vivo dolore, quindi accesi, e trasportati
da santa bile, e giusto risentimento cercar in ogni modo di
andarne al riparo, ed impedirla, non già con mezzi violenti,
come pensavano di fare que’ valorosi del summentovato
Davidde: vadam et amputabo caput eius. Nò che è tutt’altra la
nostra missione, ma con dolcezza, con carità, con
preghiere, ed anche quando occorre coll’autorità nostra
tentare ogni mezzo per riuscirvi, e quando non ci sia dato
di poterle impedire, fremere anche dentro di noi,
corrucciarci, sospirare, gemere, piangere per l’onta, che
vediamo usata al nostro Dio, e la dura necessità, in cui ci

171
troviamo di doverla vedere senza poterla impedire. Datemi
un Eclesiastico di questa fatta, ripieno di questo Spirito, e di
questo zelo mettetelo in qualunque sito, ed in qualunque
ramo del Ministero, e voi vedrete i prodigi di valore, che sa
operare cotesto prode in difesa del Suo Dio; sia parroco, o
no, cappellano, maestro come volete, in città, in paese,
anche in una borgata: in Confessionale, sul pulpito, nelle
case, d’attorno agli infermi, voi troverete ovunque, prove,
segnali, effetti del suo valore: non avrà gran scienza, non
sarà tanto dotto, eloquente, non avrà tanta sanità, tanto
garbo, e maniere, niente importa: ha zelo, e questo basta;
allora ed in questi casi veramente può dirsi che Iddio, e la
Chiesa hanno uomini per sé, veri soldati, veri Apostoli, vere
guardie di difesa da potervi calcolare in un momento, ed in
uno scontro: toglietemi al contrario nell’Eclesiastico cotesto
zelo, e voi non avrete che sacerdoti, che soldati apparenti
da far mostra, e comparsa, e niente più; non calcolate il loro
numero, non date retta alle loro millanterie: non fate caso
di quelle divise, e di tutta quella bravura esterna, vi manca il
zelo, vi manca la midolla, e la sostanza, e ad un po’ di vento
contrario voi li vedrete a sparire come un fumo, e tra tanti
assieme non sono capaci d’impedire un sol peccato alle
volte, un solo disordine; e tuttociò lo sanno, e lo dicono
perfino i maligni; figuratevi che si cerchi in un sito, in un
paese tentare qualche scelleratezza, qualche abuso, e
disordine, vanno valutando gli ostacoli, che possono
fermarli; e pe’ primi dobbiamo essere noi Sacerdoti, che
siamo le guardie vigili del Signore; eh vi sono diversi
sacerdoti, molti Eclesiastici in quel luogo, s’opporranno,
come fare? Alle volte rispondono da se medesimi, con dire:
niente importa, ve ne fossero anche il doppio, ve ne sono
uno o due che mi danno fastidio, che se non cedono, non
transiggono in queste cose, per tutti gli altri non so che

172
farne, è un momento a sbarazzarcene: se si trattasse di
guadagno, d’impieghi di pranzi, di partire, vi sarebbero per
questo, ma per coteste minchionerie, come dicon loro, non
se la prendono poi tanto a cuore. Ecco come i Secolari
sanno conoscere e distinguere tra sacerdoti, e Sacerdoti,
cioè Sacerdoti veri, di zelo, di virtù capaci ad impedire le
offese al Signore, da’ sacerdoti di nome, di grado e di pura
apparenza. Obligo adunque assoluto, necessario,
indispensabile nell’Eclesiastico di zelare l’onore, e la gloria
di Dio con impedirne principalmente le offese, e quando
veramente lo possegga stia certo, che più o meno andrà ad
impedirne: ecco il terzo pensiero ben consolante per noi.
Ognuno a questo mondo s’industria, s’affatica, lavora
colla mira, e colla speranza di buona riuscita, ma che
soventi va fallita, epperciò si vive sempre colla paura, e
nell’incertezza. Incerto il Negoziante sul suo negozio,
incerto il Contadino ne’ suoi raccolti; incerto il Soldato
nelle sue battaglie, incerto il peregrino ne’ suoi viaggi. Si
brama, si fatica per un impiego, ma non si sa se possa
arrivarvi, si studia per guarire, e per contro si peggiora; si
tenta di vincere una lite, e si perde, sicché quasi tutti, e
pressoché in ogni cosa si vive, si fatica niente più che
sperando. L’Eclestiastico invece nella grand’opera, a cui è
destinato, quando lo voglia, egli è certo d’arrivarvi: ed oh
che bel lavorare, quando si lavora, e si fatica sulla certezza
della riuscita: chi più felice d’un contadino, d’un negoziante
quando fosse sicuro del suo guadagno, e delle sue raccolte.
Questa è adunque la felicità del Sacerdote: egli è sulla terra
per impedire, per risparmiare offese al Signore, e può esser
certo d’ottenerlo quando si metta a far davvero. Io
prescindo dal dire che quand’anche per caso non potesse
riuscirvi, ciò non tornerebbe del menomo suo danno,
poiché avanti il Signore n’avrebbe merito eguale; ma ripeto

173
che sia sicuro che l’otterrà. E impossibile trovarmi un
Sacerdote di Spirito, e di zelo, che lavori per un po’ di
tempo, molto più se per mesi, ed anni, e poi dire che non
abbia prodotto frutto di sorta, e non abbia risparmiato
alcun peccato. Nel prete naturalmente di questa fatta tutto è
diretto a questo fine, e la menoma cosa ha una forza
grandissima per ottenerlo. Non parlo solo della
predicazione, ed amministrazione di Sacramenti, dove a più,
a centinaia, a migliajo anche io penso vanno a diminuirsi le
colpe; ma ogni parola, uno sguardo, la presenza sola d’un
Sacerdote chi sa quanti peccati alle volte serve a torre, ad
impedire. Datemi un Eclesiastico di fama, di virtù, e di
credito, che cammini pel paese, entri in qualche casa senza
che parli, e che sgridi, che predichi, voi toccate con mano la
forza, la possanza della sua presenza. Chi parla male, tace in
un colpo, chi amoreggia si ritira, chi non è modesto si
compone, chi alterca, si quieta, e che cosa c’è; compare il
prete, e tanto basta per impedire peccati. Un Sacerdote
andava frequentando le prigioni, e con quella sorta di gente
possiamo immaginarci che più d’una volta non poteva venir
nel Suo intento. Un vecchio secolare, che lo vedeva, un
giorno lo fermò per dirgli: senta, si faccia animo a venirvi, e
non abbi paura di far niente, e perdere il tempo, la sola
presenza, la sola vista d’un Sacerdote in questi luoghi stia
certo che frutterà qualche cosa. La vista d’un prete nel
mondo tanto più conosciuto, e buono, ha una forza magica
starei per dire, e parla in mille modi al cuore di chi lo vede;
tanto più se si trovasse in peccato. Là c’è il prete: ma…
fossi un po’ io come è quel lì… se avessi fatto quel che
m’ha detto; se facessi come predica; non so dove abbia la
testa a non ascoltarlo; bisogna ben che mi metta davvero,
andiam dicendo, sicché agitazioni di coscienza in simili
incontri, rimorsi più vivi, risoluzioni, pentimento, ed ecco

174
subito peccati di meno. Gli uni per opera del Sacerdote si
convertono veramente, e tengono fermi e costanti per la
buona strada; altri si pentono sinceramente benché
ricadano, tutti poi indistintamente quand’anche non
arrivino ad emendarsi, ne a pentirsi sufficientemente, ma
veduto, sentito il prete, molto più se si sono accostati al
Suo Ministero, state certi che quelle poche parole danno un
gran frutto, e sarà di cader più raramente, più difficilmente
in peccato; dunque tanti peccati di meno. E che
consolazione non deve essere pel Sacerdote poter dire ogni
sera a se stesso spero: in questo giorno che il Signore sarà
contento di me: quand’anche non avessi fatto altro io aveva
di mira nelle mie azioni, nelle mie preghiere, nella mia
comparsa al mondo di impedire si offendesse Dio, e sono
come certo d’avergli risparmiato qualche offesa: venga pur
avanti chiunque della terra per dotto, per grande che egli
sia, e mi dica se abbi fatto tanto quanto questo Sacerdote.
Chi ha lavorato alla campagna, chi ha faticato in una
officina, chi guadagnato in un negozio, gli uni avranno
vinto una gran causa, altri fatto grande risorsa, certi
avranno ottenuto alti impieghi, vi fosse anche chi avesse
guadagnato un Regno, un Impero, ebbene io dico che tra
tutti questi v’è un personaggio che ha fatto ancor più, ha
passato una giornata migliore: e qual è il Sacerdote che ha
impedito, ha risparmiato un peccato, una colpa, un offesa al
Signore; e che han da fare tutti i guadagni, tutte le risorse,
tutti gli impieghi, e le cariche, anche tutti i regni del mondo
in confronto del peccato, del più gran male del mondo che
ha risparmiato il Sacerdote. Non v’è opera più grande, più
nobile, né in Cielo, né in terra di quella del Sacerdote che si
presta per impedire le offese al Signore. Ed ecco l’ultimo
pensiero di eccitamento, e di conforto per noi Eclesiastici.
Andare sino agli ultimi termini della terra, salvare un’anima,

175
e poi morire; ella è sorte degna d’invidia. Era il detto di S.
Francesco Saverio.
Salvi un’anima il Sacerdote, impedisca un peccato, e poi
muoia un Eclesiastico ella è questa la vita più bella, la morte
più dolce del mondo. Io lo dico schiettamente che non ho
termini, non trovo sentimenti sufficienti per spiegarvi la
grandezza, la nobiltà, l’eccellenza di cotest’opera del
Sacerdote; epperciò non mi dilungo, e m’aspetto il paradiso
per poterlo comprendere, tanto più che voi ne siete più che
persuasi. Solo vi chiamo a ponderare questo termine, e
cotesta parola: io ho impedito un peccato, e con ciò ho
salvato l’onore, la gloria, e quasi può dirsi la vita del mio
Dio. Uno che salvi la roba, la fama, la vita d’un altro; che
opera eminente, tanto più se si trattasse d’un personaggio
ben alto in società, per esempio ho salvato la vita del Re!
eppur è un bel niente in confronto. Ho impedito il disastro
d’una famiglia, la rovina d’un paese, d’una città, d’un Regno
intero: gran cosa, certamente, ma non è ancor paragonabile
coll’opera stragrande del Sacerdote. Lasciamo adunque
questo mondo, e andiam nell’altro; quand’anche per ipotesi
impossibile uno avesse tanta forza, e virtù da cavar
un’anima dall’Inferno, che miracolo, che prodigio, che gran
bene per quell’anima perduta! Eppur nemmen questo
sarebbe da tanto da eguagliare il Sacerdote, che risparmia
una colpa, poiché là non si pecca, né s’intacca l’onor, la
gloria di Dio, che anzi vien glorificato nella sua giustizia;
quando nel caso dell’Eclesiastico esso vien oltraggiato: basti
il dire che tutto il paradiso assieme, ne gli Angeli, né i Santi,
ne Maria medesima potrebbero fare un’opera maggiore di
quella che fa il Sacerdote, che s’oppone, ed impedisce il
peccato. Ah felice il Sacerdote, che fù chiamato per
un’impresa si nobile, e sì grande, ma felice oltre modo
quando spenda i suoi giorni, e le sue fatiche per un’opera si

176
bella. Egli solo forma il terrore, lo spavento, la rabbia
dell’Inferno, egli la gioja, la delizia, l’invidia del paradiso. Sì
fratelli miei, se un’anima in Cielo potesse ancora aver una
brama, un desiderio, sarebbe questo certamente di trovarsi
in luogo nostro, aver un giorno, un ora, un momento anche
solo per impedire un offesa al Suo Signore, avere il
conforto in paradiso d’aver ancora per una volta salvato
l’onor, e la gloria del suo Dio. E noi, cari miei che
facciamo, perdere-mo il tempo nelle inezie, e nelle follie di
questo mondo: Detti di S Ignazio - di S. Filippo - del B. Valfrè.
Ah! se tutti i Sacerdoti avessero questo spirito; e questo
zelo quanti peccati di meno al mondo, quanto
maggiormente sarebbe glorificato il Signore. Sia dunque
questa la nostra ferma risoluzione di questi giorni di voler
vivere d’or in avanti unicamente con questo fine, ed a
questo scopo d’impedire peccati sulla terra; quand’anche
non arrivassimo che ad impedire ogni giorno un sol
peccato per ciascuno, sarebbero tante N N. offese
risparmiate giornalmente al nostro Dio, e che consolazione
in vita per un sacerdote sì fatto, che conforto sul suo letto
di morte, e che gloria e felicità in paradiso? Qui ad iustitiam
erudiunt multos… fulgebunt sicut stellae in perpetuas
aeternitates. Dan 12. La Gloria che il buon sacerdote avrà
cercato pel Suo Dio in terra, questo Dio medesimo gliela
ridonerà a mille doppi in Cielo nella futura eternità. Così
sia.

Istruzione undecima.
Sopra il Buon Esempio del Sacerdote
L’eclesiastico adunque è fatto per lottare contro il
peccato; se vive, vive per combattere il peccato; se studia,
se prega, se fatica, tutto tende, ogni cosa deve essere diretta

177
per sterminare, se fosse possibile, cotesto mostro del
peccato. Tra i tanti mezzi, che ha il Sacerdote per
guerreggiare con successo cotesto lotta e battaglia, il primo,
ed indispensabile, senza cui varranno ben poco, ed anche
niente tutti gli altri, è l’irreprensibilità di sua condotta,
l’esemplarità di sua vita. Non v’è argomento che sia più a
proposito, e che convenga di più a parlarne agli eclesiastici
del buon esempio, poiché ella è questa una dote, che in
maniera specialissima conviene a noi Eclesiastici, poiché in
se sola comprende il corredo di tutte le altre virtù.
Conviene talmente a noi che l’esser esemplare, vale tanto
come essere Eclesiastico, di modo che chi non lo fosse,
può dirsi in certo modo che nemmeno più sia Sacerdote;
nella stessa guisa che non potrebbe più dirsi un lume quella
lucerna, che più non risplende, non più sale quello che più
non condisce, non più maestro quella persona, che più non
insegna; ora se la qualità di risplendere forma la sostanza
del lume, quella del gusto nel sale, e l’altra dell’insegnare in
un Maestro, così quella dell’esemplarità nel Sacerdote. Essa
è tutto nel Sacerdote, ed il Sacerdote e tutto con essa. Con
essa risplende, condisce, insegna con essa è umile,
mortificato, modesto; con essa è ritirato, divoto, paziente.
Con essa prega, studia, lavora; con essa ho detto che è
tutto, essa basta per tutto; Egli è esemplare, Egli è
irreprensibile; dunque non si ricerca di più. Epperò tutti ad
una voce raccomandano, inculcano, vogliono
assolutamente cotesta esemplarità nell’Eclesiastico; e Sacre
Lettere, e SS. Padri, e Dottori e quanti hanno parlato, e
parlano del sacerdote. Luceat lux vestra, cominciò a dirlo fin
dal principio il divin Redentore agli Appostoli. In omnibus
teipsum praebe exemplum bonorum operum; lo ripeteva a’ due
discepoli Tito e Timoteo il grande Apostolo: oportet
Episcopum irreprehensibilem esse, e sotto nome di Vescovo

178
s’intende ogni grado d’eclesiastici, come dicono
concordemente interpreti, e Padri. Ogni altra professione, e
carriera può avere una fama, una stima senza questa qualità;
così un letterato, un Capitano, un pittore, uno scultore, un
artista qualunque può esser famoso, aver riputazione e fama
nella sua sfera, anche senza essere esemplare, di condotta.
Ma l’eclesiastico non mai; avrà mai credito, avrà mai fama, e
riputazione di buono, e vero Sacerdote, se non è di
condotta esemplare, ed irreprensibile. Io scelgo adunque
per materia della nostra presente considerazione cotesto
argomento, di tanta necessità. Osserveremo 1º In che cosa
consista cotesta esemplarità, che deve dare il Sacerdote e
quali debba essere. In 2° luogo quanta la sua necessità ed
importanza. Iddio, la Chiesa, i popoli, tutti ci benediranno
se diverremo Sacerdoti tali che nessuno ci possa appuntare
e riprendere, come vedremo. Cominciamo. Due sono le
parti, che deve abbracciare l’esemplarità del Sacerdote, ossia
tale deve esser la condotta dell’Eclesiastico che primo a
nessuno possa dar occasione di peccato, ; 2. che a tutti
serva di sprone, di eccitamento, di stimolo al bene, ed
all’esercizio della virtù; di modo che chi fa quello che fa il
prete, chi parla come parla il prete, chi pensa come pensa il
prete, sia sicuro di andar esente da colpa; anzi di fare una
vita, che piaccia, che contenti il Signore. Il primo dovere
adunque del Sacerdote in questa materia, è di non dare
occasione di peccato, lo che si può fare in di-verse maniere,
e che è necessario noi le scorriamo: 1° col fare una azione
cattiva, da cui il prossimo prenda, o possa almeno prendere
ansa a far lo stesso, col che saressimo veri, e decisi
scandalosi. 2. col fare un azione indifferente, od anche
buona se volete, ma che per qualche circostanza che
l’accompagna gli occhi semplici, e delicati ne restano offesi,
la prendono a male, benché realmente non vi sia male

179
alcuno, ma solo nasca dalla ignoranza altrui, lo che vien
detto Scandalo di pusillo, come voi sapete. Finalmente in
terzo luogo si può dar occasione di peccato coll’attendere
ad un opera, che tanto per se, come nelle sue circostanze
non presenta male alcuno, anzi forse ella è buona, da cui
però il maligno unicamente per sua malizia prende
occasione di peccare, il che vien chiamato Scandalo farisaico.
Io non mi fermo a parlarvi dello scandalo vero, e del
Sacerdote Scandaloso. O fratelli miei cari, il Signore ci liberi
dall’essere Eclesiastici peccatori, ma supposto che lo
fossimo per divenire, ci preservi almeno dall’essere
scandalosi e di andar perduti pel peccato di scandalo. Io
non so se possa immaginarsi una colpa, un peccato, un
disordine più orribile, più fatale dello scandalo in un
Sacerdote, sia che lo consideriate in ordine a Dio, come
riguardo al prossimo, sia in verso all’infelice Sacerdote, che
lo commette. Sarebbe meglio fosse mai nato, avesse mai
sentito parlare di stato Eclesiastico, avesse deposto mille
volte queste divise quando era in tempo, piuttosto che
contaminarsi le mani non dico già del Sangue altrui, ma del
sangue medesimo di questo Dio; trovarsi al letto di morte,
doversi presentare al Tribunal di Dio col conto e colla
responsabilità di anime da noi tradite, di peccati commessi
per causa nostra. O Dio mio, che spavento, ed orrore! I
flagelli che ha da aspettarsi da Dio, i rimorsi che avrà a
provare, i rimproveri, la terribilità di
quella sentenza, che un giorno gli toccherà, vi pensi chi
si trova nel caso. Noi intanto passiamo alla seconda specie
di Scandalo in apparenza men grave, ma sempre funesto
nelle sue conseguenze, e quello che è peggio molto più
comune in noi Eclesiastici. I sacerdoti veramente scandalosi
grazie a Dio sono pochi; eppur come va, io domando che
se ne dicono tante contro di noi, e quasi ogni persona ha la

180
sua di raccontare. Io voglio credere che molte cose sieno
d’invenzione, e che poscia in buona od in mala fede passino
per la bocca di molti; ma temo purtroppo nello stesso
tempo che molte volte provenga appunto da queste specie
di scandalo, da mancanza di riserve, e di riguardi, da
qualche circostanza, come diceva, che dia l’apparenza di
male, senza che realmente vi sia. E quì perdonatemi se
entro in casa nostra, e quasi passo per passo io mi fò a
scorrere la nostra giornata. Noi dobbiamo convivere con
altri, parenti, persone di servizio tanto più se sono dell’altro
sesso; quante volte se non stiamo ben attenti troviamo in
casa coteste occasioni di scandalo; certe preferenze, certi
riguardi, certe gentilezze imprudenti: quell’autorità, quella
dimestichezza, e familiarità; quel parlarne così frequenti, e
con tanta lode, quel risentirsi si vivamente ad ogni cosa, che
tocchi quella persona, quel prenderne sempre le difese, e
con tanto calore, più d’una volta fanno sospettare quello
che non è. Ma sappia che è una persona che ha tutti i
meriti, ed io lo fo’ per buon cuore; sarà vero, ma non tocca
sempre a noi farne il panegirico, ed alle volte anche per
buon cuore, si paga ben caro; poiché la bontà quando è
fuori luogo, non è prudente, ed è eccessiva, è vizio, e non
virtù. Persone di servizio – che età, ecc. come addobbata
ecc. chi è quella persona, quella donna che l’accompagna
etc. A noi Eclesiastici ci danno comunemente la taccia di
avari; io credo che generalmente non sia vero, ma d’onde
proviene? Quel gridar per ogni spesa più per abito, che per
altro, quel tagliar così sottile in ogni piccola spesuccia, la
mancanza d’una mancia, d’una liberalità conveniente, quella
maniera di esigere ogni piccolo diritto, ecco soventi ciò che
da origine a simili dicerie scandalose. Ma io non ho gran
redditi, e bisogna che mi regoli, e se dimando non è più che
roba mia, e dentro i miei diritti. Io compatisco la strettezza

181
d’un povero prete, che alle volte non gli permette di fare
quello che per altro vorrebbe nel Suo cuore, ma un po’ più
d’avvertenza, una maniera diversa si ottiene lo stesso, e
forse di più, ma con altro garbo; e poi ricordiamoci anche
di quello che sta scritto a in Morale, che alle volte vi sarà
anche l’obbligo di soffrir un qualche danno temporale
piuttosto che dar scandalo ad anime deboli; e potrassi
infatti in coscienza ritirare un diritto di poca entità da certa
povera gente, quando sappiamo che il pretenderli fa
bestiammare, e ciarlare per molto. Io non intendo con ciò
di sciogliere il caso pratico. che va soggetto a molte
eccezioni, e riflessi, ma solo di accennare la teoria, che sta
poi noi ad applicarla secondo le singole circostanze. Sì sa
che tra prete e prete vi sono state differenze, e si conserva
un po’ di ruggine, sicché il paese sta adocchiando i passi
d’ambedue; non voglio già dire che vengano a rotture
aperte, si fuggano, si neghino perfin il saluto; ma quel
declinarsi destramente, quel saluto a emtà, quel cercar
pretesti per non aversi a trovare assieme, quell’assetnarsi in
certe epoche, quelle urgente improvvise di trovarsi altrove,
o ‘occupazioni domestiche, per cui si rifuita una favorevole
occasione di dare una prova di sincera affezione, non sarà
scandolo tutto questo? Il popolo lo rileva, chi ne ride, e chi
ne geme per la mala edificazione. Lo so che si suol
rispondere: io non porto già odio, e ne do i segni comuni, e
questo mi basta; ognuno pensi come vuole; adagio miei
cari; non basta non far male, ma bisogna torne l’apparenza,
epperciò non basta portar odio, ma è necessario levarne il
sospetto, e noi sappiamo che soventi non è sufficiente dare
i segni comuni, ma la teologia insegna che v’è obbligo vero
di usare anche i segni speciali, ed è quando l’ommetterli
nelle circostanze sarebbe preso a male., od usandoli v’è
speranza di guadagnare la persona avversa. Non tocca a me; io

182
rispondo che tocca ad ambedue, e pel primo a chi ne ha
l’occasione, poiché l’obbligazione di non dare scandalo
parte dalla stessa legge naturale, obbliga tutti, ed in ogni
tempo senza alcuna eccezione. Vien per casa quella persona
d’altro sessom vi sarà qualche motivo, staremo lontani le
mille miglia dal male, ma il popolo non lo sa, ma quella
frequenza, a quell’età, in quelle ore, e con quella
padronanza fa paralare. La frequenza del prete in quella
casa, dove vi sono donne, dove si sa che giuoca, si parla, si
ride come viene, dove tutti sanno che pochi, o nessun
fanno Pascua, dove l’astinenza è bandita, non fa buon
nome al Sacerdote, si sparla, e si mormora; eppure che mi
tenga con tutti, il SAcedote deve essere amico con tutti; sì,
rispondo, et perché non fate così anche cogli altri, il tempo,
le gentilezze sono tutte per quelle case, e per quelle
persone, e non per altri: alro è tenersi con tutti, ed essere
amico di tutti, altro esser confidenti, e famigliari solo con
certuni, e con certune. Ma dunque non ho più da uscire di
casa, non potrò più prendermi alcun sollievo, non v’è altra
casa, altra famiglia, non saprei con chi fare due parole,
altronde so quello che mi fo, per me non v’è male, né
pericolo alcuno. Io non posso rispondere in coscienza a
tutti questi casi, perché bisogna essere al corrente di tutte le
circostanze, che è impossibile io sappia. Dunque
fermiamoci per nostra istruzione e vantaggio alla teoria, che
ha da servirci di norma in tutti questi incidenti.
Primieramente riteniamo quello che non si può negare, cioè
che si può dare, e realmente si dà vero scandalo, anche
senza far veruna opera cattiva, ma solo coll’apparenza,
epperciò vale un bel niente quella gran scusa, che si suol
addurre anche dagli Eclesiastici: io so come sto in mia
coscienza, e dicano quel che vogliono, non ho a prendermi
soggezione alcuna, noi medesimi avrem combattuto chi sa

183
quante volte cotesta massima negli altri e dal Confessionale,
e dal pulpito; e perché vogliamo trovare un altra morale per
noi. Posto adunque che da una qualche azione nostra ne
venga materia di scandalo per qualche apparente
circostanza, quand’anche sia per debolezza, ignoranza
altrui, se è possibile, dobbiamo render ragione del nostro
operare, e così allontanare quella specie, e quell’apparenza
di male. Che se cotesta ragione non può darsi, o non
basterebbe, ed in conseguenza continuerebbe lo scandalo,
dobbiamo assolutamente astenercene ad eccezione che
n’abbiamo un motivo ben forte, e proporzionato, e ciò
quand’anche lo scandalo nascesse per malizia, e malignità
altrui, poiché è mai lecito, e la carità permette mai di dar
occasione di peccato anche a chi pecca per sua malizia
senza un sufficiente motivo. Cotesta è morale di tutti,
anche di Teologi più benigni, benché possano variare in
qualche caso nella pratica applicazione. Io l’ho questo
motivo? se l’abbiate, e questo motivo sia sufficiente io lo
lascio giudicare a Voi, ma permettete che io faccia un
riflesso: secondo voi avete un motivo ben forte, e quasi vi
pare di non poterne far a meno, ma supponete che in quella
casa, e da quelle persone voi riceveste un affronto, un
ingiuria, che sparlino solo sul nostro conto; io vedo che è
un momento a lasciarli, ad abbandonar tutti, ed ogni cosa,
anche richiesti, e pregati non si vuole più mettere il piede in
quella famiglia. Come va questa mutazione, dove è andato il
motivo di prima. Finché parlava solo la teologia egli v’era;
ora che v’entra l’amor proprio, non c’è più. Eh! fratelli miei
apriamo gli occhi su questo punto, e non illudiamoci: a
misura che il mondo è maligno, e lasso per sé, è severo,
mordace con noi; ci studia da capo a pie, ci adocchia può
dirsi giorno e notte per coglierci, o se non altro per aver un
filo onde avventarsi contro di noi; e l’Eclesiastico che vuol

184
essere sicuro, e tranquillo nella sua coscienza, e non esporre
a ciarle, a beffe, a sarcasmi il Suo cuore, la Sua Missione, il
Suo carattere, e la medesima religione, si guardi ben
d’attorno e si ricordi , che deve vivere in continui riguardi, e
riserve, pauroso sempre di dar ad altri il menomo appiglio
di apparenza di male. Videte, dice qui l’Appostolo Eph.
5.16. quomodo caute ambuletis quondam… dies mali sunt. Se
quella persona, quella famiglia, quella mia maniera di
diportarmi, quel divertimento, quella spesa, andiam
dicendo, fa parlar male, da materia di pensare sinistramente
di me, de’ Sacerdoti, costi finché vuoli, vadi ogni cosa, ma
si tronchi, si cangi e così sia finita ogni maligna
interpretazione; questo è l’esercizio che ci hanno dato tutti i
Santi, e pel primo il grande Apostolo, quando diceva che
mai sarebbe venuto al punto d’inghiottir un boccone di
carne, quando avesse temuto che qualcuno ne prendesse
scandalo; non stette a distinguere casi da casi, se avesse
avuto motivo, o no; ma franco rispose che mai, lo che vuol
dire anche a costo della vita, piuttosto che scandalizzare:
così deve pensare, ed in questa forma deve regolarsi
l’Eclesiastico che vuol vivere sicuro di non dar occasione di
peccato. E quando il Sacerdote arrivi a compiere cotesta
parte di quell’esemplarità, a cui è tenuto, col guardarsi dal
dare il menomo appiglio di colpa, necessariamente
adempirà ancor l’altra di servir a tutti di eccitamento, e di
stimolo al bene, ed all’esercizio della virtù.
È impossibile che un eclesiastico non dia motivo alcuno
di scandalo nella sua condotta, senza che eserciti in modo
non ordinario la virtù. Egli dovrà moderare le ore del Suo
riposo, le spese del vitto, la forma del Suo vestire; dovrà nei
suoi divertimenti usar chi sa quanti riguardi, e privazioni;
più d’una volta rinunciare al suo genio, alle sue tendenze, ed
inclinazioni. Dovrà vivere ritirato, lontano da tumulti, e

185
brighe del Secolo; dovrà essere esattissimo a conservare in
ogni dove, e principalmente nel Ministero gravità e
modestia; insomma dovrà modellare la Sua vita, e la sua
giornata tutta quanta in modo da esser quell’uomo
irreprensibile che vuole l’Appostolo nel Sacerdote: Oportet
Episcopum irreeprehensibilem esse. Oportet, come soggiunge il
Tridentino, non solum Episcopos, sed et praesbyteros et diaconos et
omnes omino Clericos, qui in sortem Domini vocati sunt, vitam
moresque suos omnes sic componere, ut irreprehensibiles sint. E
riteniamo il termine: qui non si tratta di suggerimento, di
consiglio, di maggior perfezione, e di semplice convenienza,
ma di bisogno assoluto, e necessità: oportet.
Tutto vuole cotesta esemplarità dell’Eclesiastico, l’onor
della Chiesa, che deve servire, la Salute de’ prossimi, che ha
a proccurare, la gloria che deve cercare del Suo Dio. La
Chiesa può considerarsi come nostra Madre. Come Madre
ci tiene noi Sacerdoti pe’ figli primogeniti, pe’ figli più
teneri, e più a Lei affezionati. E chi non sa che un figlio
virtuoso, morigerato, irreprensibile, e Santo è la
consolazione più dolce, l’elogio più grande per una madre.
Ogni virtù, ogni applauso, ogni lode di questo figlio, si
calcola come virtù, come un applauso di chi l’ha educato;
quando per contrario un figlio discolo, dissipato, ed
immorigerato forma il dolore più sensibile, ed acuto d’una
povera madre, il disonore, il disdoro della casa, e d’una
intiera famiglia. Ah! fratelli miei, noi viviamo in tempi, in
cui lo sappiamo, quanti figli ingrati, sconoscenti cercano di
squarciar il seno di questa madre, e dopo d’essere stati
allevati col suo proprio latte, la rigettano, la ripudiano, e
forse gioirebbero quando la vedessero a morire affogata in
un mare di dolori; e noi Eclesiastici avremo il coraggio di
aumentarle, colla nostra condotta dolore a dolore, disgusti a
disgusti, mentre ella oppressa da tanta mole crucci ed

186
angosce, stende una mano, verso di noi disgusti, per avere
un po’ di ajuto, e di conforto: Honorem habebis matri tuae
omnibus diebus vitae tuae, ripeteva già il buon Tobia al diletto
suo figlio, epperciò le rammentava soventi quanto ella
avesse fatto e patito per lui.

Lo stesso ripeto a me, a voi, Sacerdoti, fratelli miei,


finché avrem vita, guardiamo di usare ogni riguardo a
questa madre: la Chiesa. Sono immensi e pressoché
incalcolabili i favori, ch’ella ci ha fatto, è indescrivibile
quello che ha sofferto, e che soffre tuttora per la causa
nostra, deh! non amareggiamola maggiormente, che anzi sia
tutto impegno di consolarla, di confortarla, ed esserle in
qualche modo di aiuto e soccorso in mezzo a tante sue
battaglie; e questo non solo colle parole, colle prediche,
cogli scritti, ma molto più coi fatti, co’ nostri costumi, colla
nostra condotta esemplare, ed irreprensibile, sicché
chiunque vede un Sacerdote, dalla bontà, dalla virtù,
dall’esemplarità di questo figlio, abbia ad argomentare, e
credere alla bontà, alla santità della madre, che l’ha allevato,
epperciò la rispetti, la stimi, la onori. E non temiamo, che
questa buona madre, oltre quello, che ha già fatto per noi,
saprà compensarci largamente del nostro amore, ed
interessamento per Lei. Ella ci terrà come sotto le sue ali, ci
sosterrà, ci difenderà ad ogni costo perfino delle sue ferite,
e quando non possa far altro gemerà, piangerà con noi,
cercherà d’esserci d’aiuto, e conforto con suoi gemiti, e
preghiere; finché avrem vita, dimenticherà sé medesima, ma
non porrà in dimenticanza noi Sacerdoti, e quando saremo
in punto di doverla lasciare, ci verrà in ajuto con tutti i suoi
soccorsi e farà sì che non abbia a perdersi un figlio, che
l’abbia amata e così fedelmente servita; e morti che saremo
come madre, che non sa allontanarsi dalla Salma d’un

187
morto suo figlio, dopo averci ricoperto con rito speciale di
tutte le sue benedizioni, vorrà ella stessa ricevere, e
conservare come tenero pegno le nostre ceneri sino
all’ultimo giorno delle sue battaglie.
Vuole cotesto esemplarità il bene delle anime. Ella è
questa una predica continua pel popolo come la chiama il
Concilio di Trento: hoc est perpetuum quoddam praedicandi genus,
Sess. 25 de Ref. perché v’è niente al dire dello stesso
Concilio che spinga, che ecciti i popoli alla pietà, al servizio,
e culto del Signore, che l’esempio del Sacerdote: nihil est
quod alios magis ad pietatem et Dei cultura assidue instruat. Io
ascolto le tante testimonianze de’ SS. Padri a questo
proposito, e vengo alla stessa ragione, ed esperienza.
Primieramente ci vuol un buon petto, come ripeté una
volta un secolare ad un Sacerdote, per dire ad un altro che
faccia, quello che egli non fa. Con che fronte un Sacerdote
dal pulpito, in Confessionale, in un privato colloquio dirà
ad un altro che s’astenga dal giuoco, dal bere, stia ritirato, e
lavori, quando egli è un Sacerdote di partite, di inviti, e
passatempi; con che coraggio inculcar ad un figlio che
rispetti, obbedisca a genitori se egli non cura le leggi, i
canoni, e le disposizioni della Chiesa sua Madre Maestra, e
de’ suoi Superiori; come oserà inculcare la santificazione
della festa, l’intervento alle funzioni, se egli con tutto il
comodo mai vi assiste, ed ama meglio marcire in un ozio
domestico, o sprecar il tempo in follie, e chiacchiere, che
edificar il popolo con unirsi con lui in simili occasioni. Ma
via supponiamo che si faccia forza ed avverta, corregga e
predichi; che frutto farà? Dio buono! fan pietà le prediche,
le correzioni di costoro, ed invece di cavar lacrime e sospiri,
s’attirano le risa. Quel prete venir ad avvisar noi, vi fu chi
sentì a parlar in questo modo un secolare, quel sacerdote lì,
tutt’altro: ma quel lì se la volesse sentire, sapressimo noi

188
fargli la predica a lui medesimo. Un altro Sacerdote, che
purtroppo non era esemplare, un giorno disse che la gente
di una parrocchia, non era più quella d’una volta, e che il
carro non poteva più andare, così s’espresse: e che voleva
guardare di riformarlo; un tale, che era presente, si ritirò in
disparte e sotto voce disse ad un suo amico vicino: sono
con lui, ma ci vorrebbe un’operazione prima di riformare il
carro, sarebbe bene riformar il timone. Guardate che cosa fa
e che frutto ottiene, chi si mette a riprendere gli altri
quando sia riprensibile egli medesimo: Verba movent, exempla
trahunt. Predicate, sgridate, tuonate anche se volete, val più
l’esempio che tutte le ragioni, e la logica del mondo. I
maligni conoscono più che gli altri la forza del buon
esempio in un Sacerdote, epperciò, quando conoscono un
Sacerdote esemplare, vedendo il grande ostacolo che
trovano in un Eclesiastico tale a’ loro progetti, fanno di
tutto per snervarne la forza, negano finché possono le sue
virtù, e quando è inutile il negare, entrano nel cuore, e
dicono che è finzione, ipocrisia, e che ha i suoi fini, non
credere sia poi tutto virtù; del resto in secreto, in casa, nella
sua vita privata chi sa che cosa farà; e quando vogliono far
cadere una persona, vedendo inutili tutte le altre prove,
s’appigliano all’esempio, o vero o falso del prete, perché
sanno che è l’arma più forte. Eh? che storie, che ripugnanza
è cotesta, e non sapete che anche il Sacerdote fa così; e guai
se le riesce di farlo credere, anche solo per metà, la predica
è sua, tanta è la forza che ha presso i popoli questa magica
parola: il prete fa così. Io non la finirei se volessi tener
dietro ad un argomento sì vasto, ed importante; solo vi farò
ancor notare la riconoscenza, la gratitudine che hanno i
popoli, quando il Signore fa loro questa grazia speciale
d’aver un Sacerdote esemplare. Fate che capiti in quel paese
un parroco, V. parroco, Maestro, Cappellano o semplice

189
Sacerdote, che viva una vita totalmente esemplare, attento ,
a’ suoi doveri, ritirato, ed alieno da tutte le brighe del
mondo, affabile, cortese con tutti, occupato unicamente in
ciò che sa di pietà, di chiesa, e pratiche divote, il tutto con
decoro, gravità, e modestia. Chi può calcolare gli elogi
l’ammirazione del popolo, che bravo prete, che fortuna, ci
meritavamo mai più una grazia di quella fatta, sentono i
guai, le mormorazioni degli altri, ed essi van dicendo: ah! il
nostro prete, se lo vedeste, se lo conosceste, il Signore l’ha
proprio scelto, e mandato per noi. Si lo ripeto il popolo
anche più grossolano non può a meno che conoscere che il
Sacerdote esemplare è una persona impagabile al mondo, e
che niente gli può reggere a confronto: non cercatemi la
scienza, la destrezza, la prudenza, la roba, l’esemplarità
sorpassa ogni cosa, anzi quasi essa sola è il tutto, e tutto il
rimanente senza di essa è un bel niente. Sicché, io
conchiudo, fratelli miei, e vi ripeto, che se vogliamo far del
bene nelle anime, che se ci sta a cuore essere di
consolazione, e di decoro alla desolata nostra madre che è
la Chiesa, ecco l’unica via, e sicura, condurre una vita
intemerata, irreprensibile, una vita che sia lontana non solo
da ogni male, ma perfino dalle apparenze. Il mezzo, come
vi diceva, è sicuro ed infallibile, ed insieme il più facile, che
possa trovarsi, perché basta il volerlo; se si ricercasse
scienza, quanti talenti ed esperienza, la sola volontà non
potrebbe bastare, ma per divenire e formarsi sacerdoti
esemplari, edificanti, irreprensibili, basta che il Sacerdote
sinceramente il voglia, e voi l’avrete sul punto: ! sicché si
trovino col bel desiderio del Dottor S. Bernardo, Lib. 4 de
Cons. cap. 1 oh! si viderem in vita mea Eclesiam Dei talibus
innixam columnis. Ah! si videret Sponsam Domini mei tantae fidei
commissam, tantaeque creditam puritari: oh! si talium daretur
vivorum copia! Quid felicius! Quid beatius. Così sia.

190
Istruzione duodecima.
Sopra la predicazione.
Uno de’ mezzi più valevoli per combattere il peccato, ed
il principale uffizio che competa e tocchi all’Eclesiastico,
egli è quello del predicare. Tra le varie funzioni, che
esercitava in terra il divin Redentore, in capo di tutte stava
la predicazione: Evanzelizare misit me: oportet evangelizzare, quia
ideo missus sum. Luc 4.14. Tutto il rimanente era come in
appoggio, e sostegno di questo suo primo incarico, del
predicare. Per la prima diede anche agli Apostoli cotesta
occupazione il divin Redentore: misit illos praedicare Regnum
Dei, e nel partire di questo mondo gliela confermò con
ripeter loro: euntes in mundum universum praedicate Evangelium
omni Creaturae; questi infatti l’eseguirono: illi autem profecti
praedicaverunt ubique; e che questo fosse il primario loro
impiego, lo fecero conoscere nell’occasione di eleggere altri
e nuovi Ministri, che s’impiegassero per la Chiesa, affinché
essi potessero senza altro disturbo attendere al pregare, e
predicare: aequum non est nos derelinquere Verbum Dei, et
ministrare mensis. Questo lo facciano i diaconi: Nos orationi et
ministerio Verbi instantes erimus. Ed è talmente propria, ed
inseparabile cotesta funzione del predicare
dall’Appostolato, che Apostolo, e predicatore sono due
termini sinonimi: benché gli uffizi del prete sieno molti, e
varii, battezzare, celebrare, amministrare altri Sacramenti,
quello però che più le è più proprio, e lo distingue
particolarmente, egli è il predicare; e tra le prime
obbligazioni, che pose il grande Apostolo al suo discepolo
Timoteo, fu quella di predicare: predica verbum, e senza
posa, opportune… importune… acque… obsecra… increpa. Che
vogliam di più per accertarsi di questa nostra obbligazione.

191
Sotto questa parola di predicare s’intende ogni volta che il
Sacerdote fa uso della parola di Dio per istruire, esortare, ed
eccitare i fedeli al servizio di Dio, sia in pubblico, sia in
privato, in Chiesa, fuori Chiesa, sul pulpito, in
Confessionale, ed anche ne’ famigliari colloqui. Preso però
questo termine nel senso più stretto, e più proprio, predicare
vuol dire quell’atto pubblico, che informa più o meno
solenne si pratica nelle Chiese, quando un Vescovo, un
parroco, od altro Sacerdote delegato in luogo, ed abito
distinto si mette ad insegnare, ad instruire un certo numero
di popolo radunato appunto per ascoltarlo; e noi parlando
della predicazione, la prenderemo in questo senso. Noi a’
nostri tempi non abbiamo tanto a lamentare la mancanza di
predicazione, come la sterilità della Medesima, ossia la
scarsità del frutto; e non pare una stravaganza tra tanta
predicazione, eppur tanti peccati, e questi moltiplicarsi ogni
dì. Di chi sarà la colpa? in chi la sente, od in chi
l’amministra; a dirvela schiettamente io penso sia da ambo
le parti, negli uni, e negli altri. Noi lungo l’anno scuopriamo
la colpa che hanno i popoli in questa parte; quest’oggi
cerchiamo la nostra, e vediamo quai sieno le doti, le qualità
d’un Sacerdote Apostolico, ossia d’un predicatore, che
voglia colla sua predicazione far frutto nelle anime; quale la
maniera, i riguardi, le attenzioni, che deve usare
nell’amministrarla. La materia è vasta, e di molta
importanza, onde senza più cominciamo.

Molti sono i requisiti, che devono concorrere per


formare un predicatore non tanto eloquente, quanto utile e
fruttuoso pel bene delle anime. Altri si raggirano sul
predicatore medesimo; diversi stanno nella materia; altri
finalmente nella maniera di spezzarla davanti al popolo.
Noi comincieremo da’ primi perché pel frutto sono i

192
principali, e senza di cui sarebbero in nessun valore tutti gli
altri. Le qualità che deve avere il Sacerdote, che predica
sono quelle medesime, che portava il primo predicatore,
qual fù questo divin Redentore: 1° una retta intenzione nel
cercare puramente la gloria di Dio, e non predicare se
stesso. Ego non quaero gloriam meam.
Cosi questo divino Modello. 2. predicare prima col fatto,
e nella nostra condotta ciò, che andiam a predicare agli altre
colle parole: Coepit Iesus facete et docere 3° Accompagnare colla
forza, e coll’aluto delle nostre azioni orazioni la
predicazione al popolo, ad esempio sempre di cotesto divin
Redentore, di cui si legge tanto soventi, che si ritirava solo a
pregare: secedebat solus orare, e come parimenti facevano i
primi predicatori successori suoi, gli Apostoli: nos orazioni, et
ministerio verbi instante erimus. L’intenzione, il fine in ogni
intrapresa può dirsi che forma il pronostico della qualità, e
natura dell’esito; se egli è buono, e retto, v’è tutto motivo a
sperare che anche il compimento, e lo scopo vi
corrisponda. Se così è anche nelle cose umane, molto
maggiormente deve applicarsi alle divine, e spirituali, ed
ancor più alla predicazione, sia perché essa forma la
midolla, e la sostanza dell’azione, e fa che sia dal Signore
riconosciuta come un opera sua, e da lui benedetta, sia
perché è la prima, per non dire la sola che abbia forza, ed
ascendente sui popoli pel cuore, per lo Spirito, per
quell’unzione, di cui informa l’eclesiastico che parla.
Guardate anche tra il volgo come è notato, valutato
preferito il predicatore, che ha quest’unzione, e mostra
cotesto retta intenzione nel suo parlare; sia il dotto, che
l’ignorante intende questo linguaggio, e nessuno può
negargli il proprio omaggio. Vi manchi anche il rimanente,
si dicessero quasi spropositi, pur voi v’accorgete che quella
parola ha un peso secreto, nascosto, che non potete a meno

193
che sentire. Non capirete alle volte la forza di quella
ragione, ed essa non vi convince, ne vi persuade; in vece
sua vi scuote, vi commuove quell’unzione, quel cuore, che
l’accompagna, ed al cuore, come diceva, non si può negare
l’ossequio. Due secolari parlavano tra di loro di un
Sacerdote; l’un d’essi interrogò l’altro, se quel tale prete
predicava; questi rispose, che si; e come? bene, male o
mediocremente, già una di queste tre sarà stata certamente
la sua risposta: eppur nò; e sentite in che termini la diede:
quel Sacerdote fa la predica in quel modo, che fa il manuale
il suo lavoro, quando voi lo pagate. Ma questo vuol dire;
bene, o male, o mediocremente, io dimando? saprei
nemmen io, e lascio giudicar voi: a me par chiaro che vi
vedesse tutto quello che c’andava del rimanente, ma che vi
mancava il cuore, l’unzione, lo spirito, che sola può dare
una retta intenzione. Se avesse predi-cato errori, o fosse
stato mancante di voce, di garbo, di facondia, l’avrebbe
detto ma no; ha voluto dire che predicava materialmente.
Vi mancava l’anima, e la sua predica era come un corpo
morto, e cadavere, epperciò di niun frutto, e forse di peso,
e di noja. Volete che vi dica: quando vi manca l’unzione, ed
il cuore fa perfin dubitare chi sente, se sia vero, e se noi
stessi prestiam fede a ciò, che loro diciamo. Si vede che
quel sacerdote crede, quello che predica, disse un tale dopo
d’aver sentito un Eclesiastico, che parlava di cuore; dunque
che gli altri non credano? ma… non lo dicono, ma pare che
lo temano. Finché stiamo solo in linea di eloquenza, di
lingua, di stile, di concetti, e di ragione, i mondani ci
superano, e non hanno paura di noi; quello che da a noi la
forza maggiore, e ci rende superiori di gran lunga al suo
dire è l’unzione, ed il cuore; guai se il mondo le potesse
avere, e riuscisse a possederla; ma nò; Egli è questo uno
Spirito, e come un fiato divino e celeste che il Signore

194
comunica alla sua Chiesa, al suo Ministro, alla sua parola, e
che né per arte, né per scienza, né per altro sforzo
qualunque potrà mai il mondo arrivarvi.
L’altra qualità che deve accompagnare, anzi precedere
l’eclesiastico, che si presenta a predicare a’ popoli è
l’esempio, cioè che egli sia un uomo, che pratichi pel primo,
ed innanzi a tutti quello che insegna agli altri. Che cosa
impara il popolo da un predicatore anche il più famoso, ma
non sia esemplare, e si regoli diversamente: impara a parlar
bene, e ad operar male; impara da saper dire tanto a un
quanto ad un altro: quella cosa è peccato, ma con tutto ciò
la voglio fare. Impara, sapete che cosa? impara a parlare
senza vergogna, e da perdere perfino, e sentire nemmen più
quel pudore, che naturalmente si prova, quando uno loda
una cosa, l’esalta, ma che egli intanto non la fa: come
diceva, in questi casi, quando per l’assuefazione non siasi
ancor perduto, si prova come un ritegno alla lingua, ed un
rossore alla faccia a parlare; ma siccome il sacerdote nostro
l’ha perduto, come persona già accostumata a dire, e non
fare, lo fa perdere perfino al popolo: ci vuole una faccia
tosta, una fronte di bronzo a far quella predica, dicevano
secolari ascoltando appunto un predicatore, che non dava
buon esempio di se, se non sapessimo come Egli si regola:
gridar tanto contro gli scandalosi, e chi fa parlar male di se;
e non sa quanto si mormora, e quante se ne dicano contro
di lui per quella persona, e per quella frequenza in quella
certa famiglia. Ed infatti, cari miei, non ci deve far
vergogna, e non dovrebbe farci arrossire noi inculcar a loro
che si guardino dal giuoco, come ivi vi sprechi e tempo, e
danaro, epperciò l’anima, e la coscienza di mezzo, quando
ognun sa perfino la qualità del giuoco, a cui noi siamo
attaccati, il tempo che vi spendiamo, il danaro che abbiamo
guadagnato, o perduto: fa bel gridare contro chi giuoca

195
quando egli sono pochi giorni ha messo in tasca alcune
centinaja di franchi, così scherzava a spese nostre, e del
ministero un crocchio di giovani. E come predicare, e
predicare con frutto agli altri che si voglian bene, che
bisogna tollerare, perdonare, passare sopra alle offese,
quando sanno che tra noi preti v’è sempre quella ruggine, e
nessuno la vuol cedere fino alle volte da doversi
intromettere secolari stessi per cercar di finirla, e almen si
terminasse perché dicesi da loro medesimi, e credo con un
po’ di ragione, che non vi sono persone più tenaci, e restie
ad avvicinarsi che noi sacerdoti, va poi a predicare la pace,
agli altri, la pazienza con questi esempi. Noi predichiamo
agli altri la gravità, la divozione, il silenzio in Chiesa, guai
accostarsi alla Comunione senza gran preparazione, e
partirsene se non dopo un lungo ringraziamento, quando
vedono noi preti così divagati, andar all’altare, e partirsene
dalla Chiesa senza quasi dir due parole a quel buon amico
che venne in casa nostra. Una volta un Eclesiastico di
questa sorta predicava in un certo sito in occasione di
Quarant’ore, e faceva l’enumerazione di tutti i sacrilegi, che
si commettono nell’accostarsi alla Comunione, e tra gli altri
anche questi di non far la dovuta preparazione, e
ringraziamento; non so se li dicesse tutti mortali, ma
siccome li vendeva a buon prezzo non stava a pesarli tanto.
Qualcuno, che ebbe a sentire quella predica, finì con dire: e
che tutti questi sacrilegi stanno solamente nella testa sua;
del resto se sono veri, povero lui, prenderà il fatto suo. E lo
vediamo noi che è un momento al sentir una predica
venirci in mente questa o quella persona, che abbi il vizio, il
difetto di cui sentiamo a parlare; molto più succede, quando
ne sia infetto il predicatore medesimo. Le prediche di
costoro, che non praticano quello che insegnano fanno
pietà a’ buoni, fanno ridere i maligni, e tanto gli uni come

196
gli altri amerebbero che stessero quieti, e sarebbe molto
meglio, poiché vi sarebbe lo scandalo di meno nel popolo,
e si risparmierebbe un peccato di più a chi predica. Come
predica bene quel sacerdote, ripeteva un secolare, se
praticasse, e si regolasse come predica, che buon
Eclesiastico, sarebbe un Santo. Che panegirico più di
confusione che di gloria per un Sacerdote. L’ultima qualità
finalmente nell’Eclesiastico, che vuol predicare con frutto è
sia un uomo di preghiera. La cosa è chiara per se, poiché
non sono le parole, i termini, il bello dell’eloquenza, la forza
delle ragioni, il garbo, e le maniere della persona che hanno
da vincere, e toccare i cuori, ma bensì quella grazia, quel
lume, quella spinta, che viene di lassù, e questa
ordinariamente non s’ottiene quando non si prega; e se voi
al sentir il linguaggio d’un predicatore, v’accorgete che il
vostro cuore ne è tocco, lo sente, conchiudete pure che
quell’Eclesiastico è un uomo, che prega. Io non mi fermo
su questo punto benché interessante primo perché ne
abbiamo già parlato in più occasioni, e sono certo che ne
siamo più che persuasi, sia perché quando il predicatore
habbi retta intenzione, e mostri nel suo dire unzione, e
spirito, è impossibile che tutto questo si compia, e si
continui senza preghiera; piuttosto io raccomando di
considerare questo mezzo non solo come abitualmente
necessario, ma di usarlo come la disposizione più prossima
all’esercizio del nostro Ministero, di modo che prima di
mostrarsi in pubblico, e nell’atto stesso che ci presentiamo
con vive espressioni andar ripetendo: Signore venite voi a
parlare in vece mia, e come volete che un instrumento si
misero sappia parlare degnamente di Voi, e per Voi: exurge
Domine, dà, Signore un po’ del vostro fiato perché non
abbia a scapitarne la causa vostra, ed il bene della vostre
anime. Quando nel Sacerdote, che parla vi concorrano le

197
tre condizioni fin’ora indicate possiamo essere sicuri che
quelle parole non torneranno vuote, e non potrà a meno
che riuscir ben grande il frutto delle sue fatiche; però sarà
sempre maggiore quando vi concorrano alcune altre qualità,
e riguardi tanto nella materia, come nel modo di
annunziarla, che è quello, che diremo.
Naturalmente parlando della materia della nostra
predicazione suppongo che Essa sia parola di Dio; perché
certi argomenti che sanno più di profano che di sacro e
starebbero meglio in una sala, di accademia, ad una tavola
di pranzo che in Chiesa non hanno da entrarvi; oppur certi
punti, che per l’oggetto potrebbero benissimo servire, ed
essere vera materia di pulpito, ma trattati puramente
all’umana, difesi, sostenuti a pura forza di raziocinio; tutto
questo non è parola di Dio, poiché dessa è quella sola, che
per iscritto o per tradizione, ci fù tramandata, e come tale
riconosciuta, e proposta dall’autorità della Chiesa. Per
questo io suggerirei tre riguardi da usarsi nell’annunziarla al
popolo: 1° attenersi a tutto ciò che per dogma, per legge, o
per consenso unanime di padri, o Teologi è certo, lasciando
a parte i punti in questione, e controversi. 2. proccurare di
scegliere fra le materie quelle che sono più adattate alla
popolazione, che ci ascolta, e di cui abbisognano più
frequentemente. 3 dar la preferenza a que’ punti, a quelle
massime, che allargano il cuore, e servono ad impegnar
maggiormente il popolo per la strada della virtù; e per
primo.
Nella nostra predicazione attenersi a ciò che è certo, e
ricevuto, ed ammesso presso tutti, poiché facendo
altrimenti io vedo inconvenienti non piccoli: o che noi
esprimiamo lo stato delle questioni al popolo, oppure che
ne scegliamo una, e secondo questa diamo leggi dal pulpito,
ed intimiamo proibizioni; nel primo caso i fedeli restano

198
più confusi, che instruiti, o che non intendono, o solo per
metà, oppur non sanno che si facciano. Noi sappiamo che
imbroglio, e quante difficoltà importino ad un Moralista, ad
un Confessore coteste questioni, e differenza de’ Teologi;
argomentate adesso nel popolo ignorante, grossolano,
occupato di chi sa quante faccende di mondo, e stenta a
capire, ritenere le verità più schiette, e lampanti; a ciò
aggiungete quella specie di scandalo, che nasce nel popolo,
quando sente che gli uni la vogliono in un modo, altri in un
altro; par quasi loro che la fede, e la religione nostra sia una
cosa, che si formi, e si fabbrichi a capriccio, e secondo il
volere di ciascheduno. Nell’altro caso poi che si tocchi un
opinion sola, e cotesto si dia per legge, io credo che cotesto
maniera di predicare in simili materie venga riprovata da
tutti sia che teniam la massima che ognun è padrone di
agire come vuole in ciò che è libero di pensare come crede,
sia che ciascuno debba in pratica seguire quello che gli
sembra non già sempre più sicuro, ma almeno più
verosimile; poiché secondo i primi ripugna obbligar un
uomo a seguir un opinione, quando noi teniamo che è in
facoltà di seguirla, o nò. A ciò aggiungete i tanti peccati che
si commettono per coscienza erronea quando si predica in
questo modo. Se sia peccato seguitar un altra opinione non
è certo, anzi posso dire di no, poiché né la Scrittura né la
Chiesa, né d’accordo i Teologi me lo dicono, e quando uno
vi s’appigli in buona fede, è certo che non l’è; ma se noi
predichiamo nel modo anzidetto, e benché la cosa sia
opina-bile, noi diam per certo il contrario, chi ci sente,
riceve quest’opinione per legge, e quello che non sarebbe
stato peccato, od almeno in dubio, divien certo presso tutti
per la coscienza che vi forma. Ripugna, come diceva,
cotesto modo di predicare anche agli altri Teologi, che
sostengono ognuno debba abbracciare, e seguire l’opinione

199
più verosimile. Cotesta verosimiglianza si considera ne
soggetti, e varia secondo le persone, onde ciò che a me pare
in un modo, ad un altro può sembrare diversamente, sicché
io in detti casi imponendo un obligo assoluto, distruggo il
mio sistema togliendo il diritto, anzi il dovere secondo me
che Egli ha di seguitare quella sentenza che per propria
persuasione, o per suggerimento di persona perita può
credere tale; di modo che comunque si consideri la cosa, io
crederei mai conveniente in pubblico entrare in simili
dettagli. Eppure come si ha da fare; s’avrà da tacere affatto?
e lasciar il popolo digiuno di tante materie questionabili, e
non potrà capitare che per qualcuno, ed in certi casi per
ragioni particolari sia necessario, ed almeno utile il parlarne.
Io rispondo a tutto questo con prendere una via di mezzo,
premettendo innanzi tutto un avvertenza, ed è che abbiamo
tante obbligazioni certe, tanti doveri a compiersi da
chicchessia, su cui non si può muovere dubio alcuno, e
quello che è peggio, da molti s’ignorano, e da molti di più si
trascurano, epperciò si commettono tante colpe alla
giornata, e perché, io dico, perdere il tempo in metter fuori
questioni, cercar precetti, imporre obbligazioni, che non si
sa se esistono, quando ne abbiam già tanta copia di quelle,
che tuttodì si vilipendono; per esempio, a chi declamare
contro chi in un giorno di digiuno, o di festa, si serve d’un
cibo, o da mano ad un opera, che si controverte se si
opponga, o nò alla legge, quando viviamo in tempi, ed
abbiamo davanti a noi un udienza, che di digiuni, e delle
feste ne fa un vero strapazzo; prendiamo piuttosto il
massiccio, il punto principale cioè, dove sta il vero peccato
che è la violazione franca, e direi sfacciata di queste leggi, e
quando a noi riesca d’impedire cotesti veri, e certi peccati,
ringraziamo pur Iddio che avremo già fatto gran cosa, e pel
rimanenti ci penseremo e come? Ecco il suggerimento, che

200
io propongo a chi predica. Quando si sieno esaurite tutte le
parti certe, e riconosciute da tutti della nostra materia, e ci
resta solo quel tanto d’opinabile, che si trova negli Autori,
allora lasciar il tuono di comando e di leggi, e prender la via
de’ consigli, e farci a suggerire ciò, che pel bene de’ fedeli
noi possiamo vedere di maggior vantaggio, eppur avvisare
chi ci ascolta, che in sìfatte materie ognuno ne parlasse col
proprio Confessore, che sentendo le particolari circostanze,
e disposizioni di ciascuno potrà dirci meglio che un
predicatore ciò che nel caso particolare si debba operare
per esempio parlando de’ giorni festivi invece di mettere
sott’obbligo per tutti certe pratiche dì pietà da fare una
legge così generica, ed incerta in ordine alla loro
santificazione da non sapersi in pratica precisamente né che
cosa basti, né che si voglia per soddisfarla, non sarebbe
motto meglio, e non vi sarebbe a sperare di più, che detto
tutto quello che per obbligo intrinseco, e per circostanze
particolari di scandalo, d’ignoranza, o di proprio pericolo,
limitarsi a suggerire quelle opere, che noi crediamo più
vantaggiose, ed inculcare che ognun concerti la propria
festa coi suo Confessore. In questo modo si rispettano le
opinioni, si risparmiano leggi, e peccati, per quanto si può
al penitente, e si provvede in pari tempo a’ propri bisogni, e
maggiore suo vantaggio.
L’altra avvertenza da usarsi dal predicatore sta nello
scegliere tra tante quelle notorie, che ritornano più utili al
popolo, cui predichiamo, e tra queste mettete per le prime
le Massime eterne. Ah! fratelli miei, battiamo soventi
coteste verità, che fanno per tutti, e ci attendono tutti
quanti senza distinzione alcuna, l’importanza di salvarsi, il
gran male del peccato, la morte, che s’avvicina, quella sorte
che ci si prepara all’eternità, sono cose mai abbastanza
ripetute, ed inculcate, anzi io direi in ogni sorta di

201
predicazione, sia catechismo, istruzione, o spiegazione di
Vangelo, qualunque il nostro assunto, proccuriamo di mai
terminare senza dar un tocco più o meno direttamente a
qualcuna di queste grandi verità; e un intingolo questo,
diceva un grand’uomo, che sta bene in ogni piatto, e
soventi vai più nel popolo un riflesso, un cenno anche
breve a coteste verità, che la predica intiera; per esempio
dopo d’aver fatto una istruzione, e spiegato chi sa quante
obbligazioni, conchiudere con un sentimento di verità
eterna. Che gioverebbe, miei cari, conoscere adesso il
nostro dovere se poi non lo mettesimo in pratica: che
sarebbe se questa predica avesse da servire e per me, e per
voi un giorno di più grave condanna, e di maggior pena
all’Inferno: pensatevi bene, ed andate. Due parole di questa
fatta valgono di più che quanto si è detto. Inoltre
proccurare che le nostre prediche, sien pratiche, e tocchino
il costume, non già in genere, ma bensì di chi ci ascolta con
tutti i riguardi però di non intaccar nemmen di lontano le
persone. Certi assunti alti, e sottili, certe teorie, le virtù
speculative ed astratte sono argomen-ti belli e buoni a
trattarsi, ma per lo più, prescindendo da casi eccezionali,
lasciano digiuna la persona, o non sono intesi, oppure
eccitano più di ammirazione, che di stimolo a praticarla, nè
mostrano la maniera di esercitarla. Lasciamo stare ciò che
mai, o ben di rado può capitare al nostro popolo, ed
appigliamoci più soventi che possiamo alle virtù, ai peccati,
ed ai difetti domestici, e di tutti i giorni, la preghiera, i
Sacramenti, la pace, la sofferenza in famiglia, l’ubbidienza e
la subordinazione a’ maggiori: la fuga dell’ozio, delle partite
e di cattivi compagni, il mal esempio, l’amor proprio, il
rispetto umano; e questi punti trattati in modo adattato, e
pratico, sicché ognuno possa vedere in se stesso il quadro,
che sta facendo il predicatore, conoscere ove stia il male, ed

202
imparare il modo di rimediarvi. Lo so che tutto questo è
presto detto; ma non sarà così facile e per tutti il poterlo
fare; d’accordo benissimo, ma sarà sempre minore il vuoto,
e la mancanza nostra, e per conseguenza maggiore il frutto
della nostra predicazione, quando ci teniamo fissi
sott’occhio cotesto misura, ed avvertenza. Finalmente dar
luogo più soventi nel nostro predicare a que’ punti, a quelle
massime, che possono allettare di più, animare
maggiormente una persona al servizio di Dio, alla fuga del
vizio, alla pratica della virtù. E quali sono? quelle medesime,
che sogliono muovere, e scuotere di più nelle cose umane,
cioè l’utile il guadagno, ed il facile; guardate di persuadere
una persona che l’attendere, oppur l’astenersi da quella data
impresa gli torna di molta utilità, e quando voglia, non solo
può, ma non gli sarebbe gran fatto difficile; non occorre più
che gli facciate un altra predica, un altro discorso per
indurla; è già indotta, e si muove da sé. Altrettanto
guardiamo di far noi nella nostra predicazione; sia sempre
questo il nostro scopo di persuadere, e fare penetrare ne’
cuori de’ fedeli i grandi vantaggi, i molti beni che hanno ad
aspettarsi dall’osservanza della legge del Signore, vantaggi
temporali, vantaggi spirituali, vantaggi in vita, in morte,
all’eternità: la pace del cuore, la consolazione interna, la
concordia domestica, la prosperità della famiglia, il buon
successo de’ negozi, delle campagne, che ha fondatamente a
sperare chi serve il Signore. Ma il mondo fugge, la vita se ne
va come un lampo, ebbene sottentriamo con beni e
vantaggi maggiori, la tranquillità, e franchezza, con cui
muore chi abbia atteso a servir Dio, la cura che di lui avran
in quel giorno finale i Santi, gli Angeli, Maria, ed il Signore
medesimo, finalmente quel bel paradiso che sta aspettando
appunto chi ha sofferto, faticato per Dio in questo mondo;
è impossibile che il nostro cuore sentendo soventi a

203
mettersi sott’occhio un quadro, una serie di tanti guadagni
non si scuota, non si muova, e non si senta come trasci-
nato a partecipare di tanti beni; molto più quando oltre
all’utile si senta in pari tempo a dire che chi li vuole, può
facilmente arrivarvi. Non so da qual cosa provenga, ma noi
predicatori siamo soliti, e propendiamo a parlar più soventi,
e volentieri della parte difficoltosa, che può presentare la
legge del Signore, e far spiccare l’arduità d’osservarla
piuttosto che cercare di spianare quelle, che vi s’incontrano;
non dico già che esageriamo le cose, ma almeno pare la
nostra parte prediletta per la frequenza, e pel modo, con cui
ne parliamo, epperciò difficile osservar i comandamenti,
difficile fare una buona confessione, difficile ricevere bene
la Santa Comunione, difficile perfino sentir una Messa con
divozione, difficile il pregare come si deve, difficile
soprattutto arrivar a salvarsi, ed esser ben pochi quelli che
si salvano. E che ne avviene da tante difficoltà se non
esagerate, ampliate, soventi almeno ripetute? I buoni
s’inquietano, e si scoraggiscono, i cattivi ne perdono la
speranza, e ci pensano quasi nemmen più. Un tale che da
tanto tempo era lontano da’ Sacramenti, eccitato a
confessarsi soleva rispondere che per lui era inutile, e che
per fare un buco nell’acqua, valeva far niente; e sapete il
perché? aveva sentito alla predica che era ben difficile andar
in paradiso, e che quelli che v’arrivano potevano
paragonarsi a quelle poche noci che sfuggono all’occhio di
chi batte quella pianta. Costui adunque si mise a ragionare
tra sé; se è così, appena si salveranno poche persone, che
conosco ben pie, e divote in questo paese, potrò poi
salvarmi io? sarò io uno di questi pochi, io che ho fatto
tanto male, e forse più di tutti? Ecco come il demonio si
serve di questi appigli per tener lontana la gente dal servizio
di Dio, o se non altro per inquietarla. Si lasciano i

204
Sacramenti, oppur si va più di rado per paura di riceverli
malamente; si trascurano le opere di pietà, l’acquisto delle
Indulgenze, perché hanno sentito, che è quasi impossibile il
guadagnarle; perfino si stenta a sperare il paradiso, epperciò
si lavora con freddezza, con languidezza, e quasi per carità,
perché s’è fatto già il conto che sarà difficile arrivarvi. Ma
sarà, o non lo sarà difficile, qualcun può dire, perché se lo è
è inutile dissimularlo, nasconderlo, anzi dannoso.
Primieramente guardiamoci dall’aumentare, dall’ingrandire
coteste difficoltà, quando veramente vi sieno, e non
prendiamo l’esempio di quel predicatore che per provare il
piccol numero degli eletti, cioè secondo lui di quelli che si
salvano, portava come voi sapete il detto comune del
Salvatore: Multi sunt vocati, pauci vero eletti ma che?
traducendolo, forse in buona fede l’ag-gravava molto di più,
poiché invece di esporre che pochi sono gli eletti, sostituiva
un superlativo, e ripeteva pochissimi. Non l’avrà fatto con
malizia, ma che vale? sono innavertenze che il demonio
può volgere facilmente a suo profitto. In secondo luogo
quando noi possiamo far a meno di parlare di ciò, che ha di
difficile il servizio di Dio, facciamo come fa il Medico, che
quando ha da dare al suo ammaliato una medicina un po’
amara, e disgustosa, sa condirla di ragionamenti, ed
intingoli tali da non lasciarne quasi provare l’amaro; così
dobbiamo far noi: dire benissimo la difficoltà, ma vestirla
nello stesso tempo di tali riflessi, e sentimenti, che la
persona non resti scoraggiata, ed abbattuta. Ma sarà, o non
lo sarà difficile, ripeto, non s’è ancor risposto alla questione
principale. Risponderò adunque, con dire che è l’uno, e
l’altro, facile e difficile secondo la qualità, la varietà de’
soggetti: facile per tutti quelli che si mettono di buona
volontà, franchi e decisi di viver bene, e salvarsi; difficile
per chi tentenna, e se la prende languidamente, e par quasi

205
che non sappia come risolversi. Quando la persona sia di
buona volontà Iddio vi concorre largamente, e fa che essa
ben lontano di stentare a camminare, che anzi corre e vola
senza sentire nemmen più il peso del suo viaggio, e
cammino; interroghiamo tanti buoni fedeli, che vivono
bene, risponderanno col riso, e colla compassione a tutte le
difficoltà, che paventano i tiepidi, i cattivi, e colla loro
prontezza, tranquillità, allegria ci convincono non esser
vero, e questo è quel tanto che ci tocca dire, ripetere al
popolo: è difficile, è difficile, adaggio rispondiamo loro,
intendiamoci; questa difficoltà sta più in noi, che nella cosa,
sicché per chi vuole, non è vero, gli ajuti continui e grandi
del Signore, la pace, la contentezza, che si gode vivendo
bene, l’animo, il coraggio che acquista chi si mette a far
davvero, l’abitudine a far bene, tutto rende facile, e piano il
cammino della virtù; e se s’incontra qualche passo un po’
più sforzoso, sono tanti i compensi, che quasi la persona
non lo sente. E che questa difficoltà stia nella mancanza di
buon volere, l’abbiamo nella stessa parabola, dove il divin
Redentore pare abbia voluto alludere al piccol numero di
quelli che si salvano: di chi fu la colpa, se intervennero
pochi a quella cena, del padrone? fu sua alle volte? no; che
egli aveva fatto preparare ogni cosa, perfin le sedie; fu la
difficoltà per andarvi? nemmeno, perché le porte erano
aperte, non c’erano che pochi passi a dare, mandò ad
avvisarli, a chiamarvi; se non v’andarono, e perché non
vollero; così diciamo al popolo, non mettiamoci ad accusare
tante difficoltà; sono i pigri che hanno sempre qualche
pretesto; chi vuole può, e lo potrà facilmente sino al punto
da goderne di più di quello che sia soffrire. Il male
maggiore, che v’è nel mondo, e che noi dovremo
continuamente combattere, è che si suol servire Iddio, ed il
mondo, essere un po’ dell’uno, e dell’altro, ed allora non

206
solo è difficile, ma impossibile, e vivendo in quel modo si
contenta nessuno, si sente il peso del giogo del mondo, e di
quello del Signore, e si perde la paga, e la mercede di
entrambi.
Finalmente per far del bene proccuriamo che la nostra
maniera di predicare abbia queste due qualità, che piaccia e
sia intesa; è una lagnanza generale, comune nel popolo, che
esso non intende, non capisce, epperciò se ne annoia, e la
lascia; sarà in parte colpa sua per ignoranza, ma io temo che
la colpa sia ancor più nostra, perché non ci mettiamo tutta
l’applicazione, ed impegno per farci intendere, perché
andiamo senza essere ben preparati: è vero che non stiamo
quieti, parliamo ma senza ordine, confusi, senza
applicazione o male proposito. E che volete che intenda il
popolo, quando stentiamo ad intenderci noi medesimi, e
forse stentiamo noi stessi dopo la predica a metter assieme
quello, che abbiamo detto: è tante volte ci gloriamo, ancora
con dire: non era preparato, ma tanto mi sono cavato: ah!
povera Chiesa, povere anime se non avesse altri predicatori
che questi. Di più il predicatore deve impegnarsi perché il
suo modo di predicare possa piacere a chi lo sente. Lo so
che diverse qualità per incontrare, per piacere nel nostro
dire non dipendono da noi, ma fino ad un certo punto
possiamo arrivarvi, e primieramente se la nostra
predicazione è chiara, ordinata, pratica, ed intesa, state certi
che più o meno piacerà, e con qualche altro riguardo
finiremo con non disgustare chi ci sente, ed forse anche
piacere, ed è, d’esser piuttosto brevi nel nostro dire, parlare
sempre con rispetto delle persone che sono ad udirci; 2° sia
pure popolo rozzo, e grossolano, far causa comunione con
loro, e che dal nostro modo di parlare predicare conoscano
che parliamo tanto di noi, come di loro, e se è peccato, se
v’è l’inferno per voi, vi è anche per me; 3. finalmente, e sia

207
questa la conclusione, 1º teniamoci fisso in mente il posto
che noi predicando occupiamo e l’affare che noi in quel
punto abbiamo a maneggiare. Un giure consulto che si trovi
alla sbarra d’un Magistrato a difendere le sostanze, la
libertà, e forse anche la vita d’un suo Cliente fa quanto sa e
può onde uscirne vittorioso; noi su quella cattedra di verità
siamo davanti ad una sbarra più grande, mandati a
difendere e sostenere non già affari di terra, e di fango, ma
cause di gran lunga maggiori, la causa cioè del Signore, della
Chiesa, e delle anime. Deh! o fratelli non risparmiamo fiato,
preghiere, sentori, industrie, e fatiche, sicché le nostre
parole, che lascierem di quel luogo sieno come tanti colpi di
morte all’Inferno, ed altrettante vittorie che da noi si
riportino pel bene della Chiesa, alla salute delle anime, ed
all’acquisto del bel paradiso. Così sia.

Istruzione decimaterza.
Sopra la Confessione in generale.
Egli è grande certamente l’ufficio del predicare, egli è
proprio dell’Apostolo, del sacerdote. È questa non può
negarsi l’arma prima, l’arma più forte, e più potente che
abbia dato in mano a noi Eclesiastici il nostro divin
Fondatore: andate, parlate, predicate: Euntes docete; munito
di questo potere, e fornito di questa parola il Sacerdote si
presenta a’ popoli e quasi persona venuta allora dal Cielo a
tutti senza distinzione, senza eccezione tanto a’ ricchi come
a’ poveri, potenti e plebei, giovani e vecchie, fa sentire la
legge del Signore: guai a trasgressori, minaccia l’Inferno,
felici gli osservatori, promette loro il paradiso. E
sorprendente la forza di questa parola tanto più, quando
venga maneggiata da un cuore sacerdotale, da un petto
veramente Apostolico. i cattivi se non si convertono, si

208
spaventano, e la temono, i tiepidi si ravvivano, i buoni ne
godono, e si perfezionano vieppiù: ma si’ gli uni che gli altri
hanno bisogno che questa parola si faccia loro più vicina, e
dappresso; ossia hanno necessità che chi la fece con loro da
predicatore, discenda a far loro da direttore, cioè a dire, a
dar loro la mano, li sorregga, li conduca, li regoli per
camminar sicuri in quella via che loro ha predicato, ed ecco
il Sacerdote che cangiata qualità, da una cattedra di verità va
a sedere in un Tribunal di penitenza, e di misericordia. Egli
è questo un uffizio non meno grande, non men utile, non
meno importante del predicare; anzi io direi: chi tra
Sacerdoti ama di esercitarsi in azioni grandi, e sublimi,
confessi. Chi vuol rendersi utile più che mai a’ prossimi,
confessi chi vuol guadagnarsi molti meriti, confessi. Chi
desidera d’occuparsi Ministero più necessario , confessi. Ecco
le quattro doti principali dell’ufficio del Confessore, che io
intendo svolgere in quest’oggi per animarci a vicenda ad
amministrare con impegno e costanza questo Santo
Sacramento: cioè l’ufficio del Confessore è grande oltre
ogni credere. 2. l’ufficio di Confessore è ai prossimi di un
vantaggio immenso, ed incalcolabile. 3. per chi l’amministra
è una sorgente di meriti. 4. finalmente è il Ministero più
necessario fra quanti il sacerdote abbia avuto la missione
dal divin Redentore. In ultimo risponderemo a diverse
difficoltà che adducono molti Sacerdoti che per indolenza o
soverchio timore si ritirano dall’amministrarlo. Io verrò
diverse volte su questo argomento perché egli è troppo
vasto, ed importante, ed infine è un ministero, in cui quasi
ognuno di noi più o meno avrà da consumare la maggior
parte di sua vita, epperciò di tutta necessità di ben capirlo, e
di ben esaminarlo. Cominciamo.
Primieramente l’ufficio del Confessore, e la facoltà di
perdonare i peccati fra quante ne possa esercitare un uomo

209
in terra, anzi sarei per dire fra quante possono esser
comunicate ad una creatura, la più grande, la più eccelsa;
basti il dire che ella è divina assolutamente e che a Dio solo
compete, come è il creare; privilegio, e facoltà che Iddio
mai comunicò ad alcuno né fra gli Spiriti angelici, ne alle
anime più sante della terra, fuorché al solo Sacerdote.
Esaminiamo alcune particolarità di questa concessione fatta
a noi Sacerdoti. La prima sia quella che ricaviamo dalle
parole medesime della Chiesa in una sua ora-zione. Dom
10. dop. Pent. dove dice: Deus qui omnipotentiam tuam
parcendo maxime, et miserando manifestas. L’opera di perdonare,
di disfare il peccato è come l’apice, ed uno sforzo della sua
onnipotenza. Si può dire a nostro modo d’intendere che
Iddio non si sforzerebbe tanto a crear un altro mondo ed
anche mille, quanto si forza a perdonare un peccato: come
asseriva già S. Agostino: majus opus est iustificatio peccatoris,
quam creare coelum et terram. Comunicando adunque cotesta
facoltà a noi sacerdoti, vuol dire che ci fa parte, e ci
comunica ciò che di più grande, di più portentoso può fare
la Sua onnipotenza. Come ce la da cotesta facoltà?
riteniamo: in una maniera assoluta da poter fare, ed usarne
da noi soli senza di Lui; ce la diede senza riserva di tempo,
di peccati, di persone, anzi con legarsi egli medesimo da
non volerne usare, e perdonare i peccati senza di noi.
Anche altri ottennero facoltà straordinarie, operarono
prodigi, e portenti, un Mosè, un Giosuè , un Elia , un
Eliseo ; ma ciò lo fecero, l’ottennero per mezzo della
preghiera; il Sacerdote invece non domanda, non intercede,
non prega; ma opera da se, come fosse un potere suo
proprio, e non dice che Iddio ti perdoni, ma io, si io ti
assolvo, e perdono. E cotesto facoltà, e giurisdizione è
illimitata: poteva Iddio riservarsi certa classe di persone,
certa specie di peccati, e sol permettere se ne servisse in

210
qualche tempo; ma no, con tutti, sempre e per qualunque
colpa, talmente che, come diceva, ha voluto perfino
spogliare se medesimo per concentrarla in noi soli; come si
spiega il S. Concilio di Trento: Sacerdotes Dominus Iesus
Christus sui ipsius Vicarios reliquit tamquam praesides, ac judices,
ad quos omnia crimina mortalium deferantur. Sess. 19. C.5. Non
passa, non si rimette alcun peccato, se non per questa via,
senza la confessione, od il desiderio di essa, in re aut in voto,
come dicono i Teologi; di modo ché se un peccatore si
presenta a Dio, e con tutto il pentimento in cuore si mette
ad esclamare: Signore perdonatemi, abbiate pietà di me:
Miserere mei Deus dele iniquitatem meam propitius esto mihi
peccatori, Iddio come se non potesse, gli direbbe: scusami, io
ho ceduta, ho rimessa cotesta facoltà ad altri, va, presentati
al Sacerdote, apri il tuo cuore, fa che conosca il tuo dolore,
egli ti perdonerà: vade, ostende te Sacerdoti.
Ma basti dell’eccellenza, e nobiltà di cotesta funzione del
Sacerdote. Che diremo delvantaggio del prossimo, l’utilità
che ne riceve? Io prescindo dall’accennarvi tutti que’ beni
che dal buon uso di questo Sacramento ne vengono alla
società, alle famiglie, e nelle case private. Tralascio la quiete,
la pace, la tranquillità che acquista, e trova il peccatore in
cotesto Tribunale; io vengo direttamente al guadagno
maggiore che è quello dell’anima. L’uomo in peccato è un
uomo perduto, come si sa. Per lui v’è più né paradiso, e
quasi né Dio. Le creature tutte adirate vorrebbero
sterminarlo d’un colpo, ed ei pende per un filo sull’orlo di
quell’abisso tremendo, che attende per ingoiarlo. Fate che
pentito s’accosti al Confessore, e divenuto sì più potente
che un Giosuè, che fermava già il Sole giusta il dire della
Scrittura, comanda agli elementi, che s’acchetino contro di
lui, ed eglino t’ascoltano; si volta all’abisso, e lo chiude, si
rivolge al Cielo, e ne apre le porte. Con una parola perdona

211
a cotesto peccatore, lo reintegra, lo salva, e va che il
paradiso sarà per te. È vero che molti sono i mezzi nella
Chiesa per ridurre l’uomo peccatore allo stato di grazia, e di
salvazione. L’orazione, le prediche, le esortazioni, gli avvisi,
e simili; ma ciò, che propriamente lo salva, è la
Confessione. Finché si sta pregando, avvisando,
minacciando, predicando, non si può dir salvato; salvato
propriamente, e rigorosamente egli è quando si è ben
confessato. Gli altri mezzi dispongono alla salute, cotesto
salva realmente. Gli altri mezzi conducono gli uomini alla
rete, questo lo stringe, lo serra. La Confessione è come uno
steccato, in cui vengono ad azzuffarsi insieme Sacerdote e
peccatore, sono come si dice alle prese, ed alle mani;
quando dopo una lotta di pazienza, di carità, di preghiere,
dando il Confessore come il colpo di morte al nemico, al
demonio finalmente ha vinto, ha strappato come un
peccatore dall’Inferno, un anima di più pel paradiso. Che
consolazione, e che conforto non è per un confessore,
allorché in un giorno, in un mattino anche solo gli riesce di
strapparne una, cavarne una seconda, guadagnarne una
terza, e forse anche più. Ah! che ore, che momenti da
paradiso! che compenso per la pazienza usata, per qui’
studi, per quelle preghiere, con cui s’è preparato; e che
hanno da fare i guadagni, le vincite, e gli acquisti, perfino le
vittorie di tutti gli eserciti del mondo colla vincita, col
guadagno che riporta il Sacerdote in quel campo di
battaglia. È tale, è tanta la preziosità, il valore di questi
guadagni, che in sacerdoti di fede accende desideri sì vivi, sì
ardenti d’amministrar cotesto sacramento, che quasi
l’inchioda come immobili nelle sedi confessionali, scordati
d’ogni altra cosa, e perfino di se stessi. Diceva un gran
servo di Dio, che se egli avesse già avuto un piede in
paradiso, e fosse stato chiamato a confessare, l’avrebbe

212
tosto ritirato per far ancora questo guadagno. Bell’esempio
ci lasciò il gran S. Filippo, il quale penetrato del gran bene
che si operava in cotesto Sacramento, aveva più né tempo,
né pensieri per se, in Chiesa, in sacristia, in camera ovunque
era pronto a sentir Confessioni, e realmente le senti sino al
fine e S. Gio. Crisostomo, come rapporta Baronio per pro-
vare l’antichità della confessione auriculare, predicava,
insisteva presso il suo popolo, perché se alcuno peccasse,
andasse tosto a trovarlo quand’anche l’avesse dovuto
svegliare dal sonno: si quando contigerit ex vobis peccare aliquem,
accedite ad me dormientem. Bar an. 16.
Il guadagno che fa per se il Confessore, che attende ad
amministrare cotesto Sacramento, il merito che aquista non
è minore. Il medesimo S. Filippo vidde in paradiso gran
moltitudine di anime da lui salvate appunto col mezzo della
Confessione: che merito sia cotesto per un Confessore,
giudicatelo da ciò che fece Iddio per un anima, da ciò che
promise a chi avrà usato carità corporale, e poi fate
l’applicazione alla natura, ed agli effetti di quella carità, che
usa il Sacerdote alle anime nel Sacramento della penitenza.
Se Iddio ha fatto tante minaccie contro chi gli ruba, e gli
scandalizza un anima, e come orsa furibonda, a cui sono
mancati i propri patti, s’avventerà contro quello sgraziato,
che avrà fatto prevaricare un anima; argomentate se potete
per la ragion contraria, le finezze, le tenerezze, il premio, il
guiderdone, che terrà riservato a quel Sacerdote che venuto
le tante volte quasi a tenzone col demonio a costo di tanti
incomodi, di pazienza, della sanità, e forse anche della vita,
le avrà salvato tante anime. Qual virtù, ed in conseguenza
qual merito più grande di quello d’un Sacerdote, che
avvampando di zelo per la salvezza delle anime va a
mettersi egli stesso tra tanti pericoli per salvare gli altri; sì
qual altro Apostolo può dire rivolto al Signore entrando in

213
Confessionale: lo so che vo a mettermi in molti rischi, e ma
niente importa, il cuor non mi regge che anime vadino
perdute; sarà per me quello che voi vorrete, ma solo che
arrivi a salvarle: optabam ego ipse anathema esse a Christo pro
fratribus meis. Ah! stiam pur certi, fratelli miei, che fatiche tali
spese per una causa sì nobile e sì santa non potran andar
disgiunte da un premio anche il più grande; attendiamo
adunque, ed attendiamovi alacremente ad un Ministero sì
alto, e sì eccelso; ad un Ministero così vantaggioso pe’
prossimi, così meritorio per noi ; ministero in fine di tanta e
quasi assoluta necessità, ed è facile il capirlo. I peccati non
mancano, e si vanno aumentando ogni giorno. Cotesti
peccati non si possono togliere che per questa via. Dunque
è necessario che i Sacerdoti si mettan davvero ad esercitar
cotesto ministero, e non già per apparenza, ed in qualche
stagione dell’anno solamente, ma assiduamente, e con tutto
l’impegno in qualunque tempo, in qualunque ora lo voglia il
bene delle anime. Eppure, eppure… sentiamo qui le
principali difficoltà che fanno certi Sacerdoti che si tengono
lontano dall’amministrar questo Sacramento.Io non
confesso, oppur ben poco, perché mi pesa, ne soffro e poi
non mi piace a dirla schietta, non posso assuefarmi e vedo che
non è un pane fatto per me; e con ciò se la sbrigano. Io
risponderò parola per parola. Vi pesa, fin qui non v’è male,
sentir il peso, il gravame, la fatica d’un azione non è
peccato, né mancanza di virtù; la colpa sta nel lasciarsi
vincere da questo peso, e tralasciar l’opera stessa. Ne soffrite;
farò due riflessi: come va che questo Sacerdote medesimo
se si mette d’attorno ad altre occupazioni più geniali, o più
lucrose, anche più pesanti che il confessare, vi regge quasi
le giornate intiere; così ne’ giuochi, e nelle partite, in letture
di libri profani, oppur in trattar faccende temporali, e si
sente mai alcun incomodo; soltanto in Confessionale vi

214
stanno tutti i malanni; sono poi reali, od immaginarii; fosse
anche vero che ne soffriste, un po’ di coraggio, o cari, e
quanti Eclesiastici buoni, di poca, anzi pochissima sanità,
eppur si sforzano, e lavorano quasi al pari di altri di
maggior robustezza, ed avrete paura che il Signore non sia
per pagarvi il tutto, e voglia defraudarvi qualche parte de’
vostri patimenti. Ma… da quanto mi asseriscono i periti,
potrei anche esserne vittima, se continuassi a confessare; si
potrebbe dare quella risposta, che già diede S. Francesco di
Sales a chi lo esortava a rallentare le sue fatiche per timore,
che si sarebbe abbreviato la vita: Non è necessario che io
viva, rispose il Santo, ma vivendo è necessario che lavori.
Oh! cari miei, non vorrei farne un obbligazione in questi
casi, ma non so se qualcuno tra noi potrà meritarsi
quest’onere di morir martire e vittima di carità.
Non mi piace. Importa niente che non vi piaccia,
coraggio. Confessate, non è il gusto, l’inclinazione, il
piacere che deve muoverci a lavorare, e quante cose a
questo mondo non piacciono, eppur si fanno, anche
all’ammalato non piacciono le medicine, eppur le prende
così fate voi. Non posso adattarmi: scusatemi e dite meglio,
che non volete, ed è troppo tardi, etc. oh! fratelli miei è
troppo tardi questo linguaggio; bisognava pensarvi prima
d’entrar in cotesto stato, e di vestir coteste divise. Piaccia o
non piaccia, costi o non costi, ora siamo Sacerdoti, e per
necessità dobbiam attendere a’ nostri ministeri. Oh!.. Sappia
a questo proposito, qualcuno può dire, che io non ho cura
d’anime, non sono obbligato per niente ad ascoltare le
confessioni, e se qualche volta lo fo, è totalmente,
unicamente perché io lo voglio, e di puro mio piacere.
Questo punto, giacché se ne sorte, va esaminato un po più
a lungo. V’è quell’obbligo nel Sacerdote di sentir le
confessioni, quando non abbi alcun occupazione, qualche

215
impiego, che voglia cotesto ministero? ecco un quesito di
Morale! Prima di rispondere, io distinguo in due punti, ossia
considero sotto due aspetti la dimanda se cioè l’eclesiastico
sia obbligato ad abilitarsi e proccurarsi la scienza necessaria
per amministrar questo sacramento; 2. se quando l’abbi
acquistata, sia tenuto ad esercitarla. Riguardo alla prima
sorta d’obbligazione io credo che nessuno può dubitarne; e
che è un Sacerdote, quando non sappia rispondere, instruire
i fedeli di ciò che debba praticarsi, od omettere per arrivare
a salvarsi, e ciò forma la scienza del Confessore; datemi un
Eclesiastico che non sappia sufficientemente la Morale,
come volete possa rispondere: quanto si può fare, e questo
no? Labia sacerdotis custodient scientiam et legem requirent ex ore
eius Malach. 2.7. Parlò chiaro il S. Concilio di Trento, dove
parlando de’ sacerdoti decretò: Ad praesbiteratus ordinem
assumantur, qui ad populum docendum… ac ad ministranda
sacramenta… idonei comprobantur; e tra Sacramenti il primo, il
principale ad amministrarsi è appunto quello della
penitenza; sicché se qualche Sacerdote m’interrogasse se
potendo proccurarsi la scienza necessaria per disimpegnare
cotesto ministero, possa in coscienza esser tranquillo a
prescinderne, io risponderei francamente di no. Sarà
dunque obligato ogni Sacerdote a confessare, quando ne
abbia l’abilità sufficiente? ecco la seconda dimanda.
Primieramente io premetto che l’eclesiastico è obbligato
essenzialmente a lavorare, ad adoperarsi in qualche modo
pel bene delle anime; guai se si rifiuta, se sta ozioso e perde
inutilmente il tempo. S’aspetti pure di darne un conto ben
severo, ed è il più rigoroso. Ma vi sarà l’obbligo
d’adoperarsi in questo ramo speciale di sentir le
confessioni? Quest’obbligazione nasce dal bisogno de’
fedeli, e cotesto bisogno si trova, quando essi ragionevolmente
desiderano, domandano d’accostarsi a cotesto Sacramento,

216
e non trovano chi li senta, sicché quando in certe epoche
dell’anno – lascio star a parte certi bisogni più pressanti di
malattie, e di morti, ne’ quali casi, è patente per tutti
l’obbligo di [segue una parola cancellata incomprensibile]
amministrare cotesto Sacramento – una popolazione
desidera di ricevere i Sacramenti, il parroco, il V. parroco
non bastano per tutti, sicché molti sono costretti a
rimanersene privi, qualunque Eclesiastico vi si trovi abile
naturalmente, ha l’obbligo di presentarsi; e chi non si
prestasse mancherebbe contro la carità, la quale vuole, che
si venga in soccorso al nostro prossimo, quando si trova in
qualche necessità molto più spirituale. Eppur tanti non
confessano mai, o ben di rado, e sì che vanno facendo tante
distinzioni. Io non vado a cercare quello, che facciano gli
altri, ne quello che fate voi, io dico quello che è per tutti,
quello che deve fare ogni Sacerdote, quelle che debbo far
io, ed ognun di voi; e se altri potendo non confessano,
verrà tempo che desidererebbero aver confessato; ed io
dimando a voi in punto di morte che cosa desiderereste
aver fatto, aver sentito le confessioni, oppur fuggito. Io ho
mai sentito né letto che alcun Sacerdote in quel punto fosse
pentito e malcontento per aver amministrato questo
Sacramento, come potrei dirvi le angoscie, ed i rimorsi di
non pochi che morirono con questa spina. Finora abbiam
sentito le scuse, i pretesti che sogliono addurre quei tali, che
hanno poca voglia di lavorare; passiamo ad altri riflessi in
apparenza più plausibili, e ragionevoli, ma che in realtà non
sussistono, e sono di quelli Eclesiastici, anche buoni, se
volete, ma che in pratica sono alieni, ripugnano ad
amministrar cotesto Sacramento, s’occupano piuttosto in
tutt’altro anche da prete, ma di confessioni non ne vogliono
sapere; o che confessano mai, oppur ben di rado, qualche
persona soltanto, e quasi sforzati di malavoglia; e perché

217
tutta questa ritrosia e ripugnanza? Tutte le loro ragioni si
possono ridurre a due: che è quasi un perder tempo, li
penitenti sono sempre i medesimi, sempre gli stessi difetti,
e peccati, non si vede frutto alcuno, onde è meglio
appigliarsi ad altro, e lasciarlo ma faccia che faccian chi
vuole l’ufficio di Confessore. Ecco le prime scuse. Un altra
un po più un po meno la stessa, è che l’uffizio è troppo
pericoloso, molto delicato, soggetto a molti sbagli, e con
grandi rischi dell’anima propria, tanto più se la persona
andasse soggetta a certe tentazioni, e miserie, sicché è
meglio far senza, e starne lontano; non mancano altri generi
di lavoro più facile, e più sicuro. Sicché ci resta a dar una
revista, esaminar tutte queste ragioni, se abbiano o nò a
valutarsi, e sino a che punto, perché sta troppo a cuore al
demonio cavar il Sacerdote dal Confessionale, o lasciarlo
entrare più raramente che possa. Io comincio a premettere,
che se valessero queste ragioni, tanto sarebbe per uno,
come per l’altro, e con ciò chi confesserebbe ancora? ma
veniamo più da vicino ed alle strette.
La prima è che confessando si ricava poco, o nessun
profitto, si sentono sempre li stessi peccati, e le stesse miserie.
Fosse anche vero, questo non vuol dir che il Sacerdote
perda tempo, ed abbi da rimaner senza merito, e senza
mercede; Iddio lo pagherà secondo la buona volontà, e
maggiormente ancora, poiché lavorando ha dovuto farsi
maggior violenza, per la poca o nessuna soddisfazione, che
vi provava. Però fratelli miei, guardatevi bene dal dar retta a
cotesto sospetto che in Confessionale si perda tempo; non
parlo di chi confessato con tutti i segnali di vero
pentimento, cessa di vivere, muore, e si salva; non parlo di
quelli che pentiti, perdonati colla Confessione, continuano
costanti, e fermi senza più ricadere, e non sono pochi.
Nemmen di quei tali, che ricaduti in peccati gravi, ritornano

218
pentiti, e risorgono nuovamente. Io credo che si vuol
alludere a quei certi, che ricadono sempre nelle medesime
colpe, e che ostinati, e duri vengono mai al punto d’essere
assolti, e credete voi che con costoro sia tempo perduto?
nò fratelli , nò, e ripeterò sempre di nò, e quand’anche non
avessimo altri penitenti fuor che cotesti, io direi sempre
state in Confessionale, rimanetevi più che potete, e state
certi che farete ottime giornate. E come? esaminate
minutamente quella persona, che voi dite che non fa frutto
alcuno, e ricade nella stessa maniera; esaminatela ne’
pensieri, nelle parole, nelle opere; è impossibile non vi
troviate dopo che fu da voi un peccato di meno, non
arriverà al punto di dover essere assolta, sarà ricaduta, ma
sono certo che in un giorno, in una settimana, in un mese,
avrà risparmiata una qualche caduta; e cotesto risparmio
sarà poca cosa? ed a conto di chi? chi n’avrà il merito, e la
paga? Supponete che non confessasse che venti, o trenta
persone di questa fatta al mese, ebbene sono venti, o trenta
peccati di meno in quel mese. Mi si dica se tutti i Sacerdoti,
che vi sono, abbiano fatto un altrettanto. Andiamo ai
peggiori, e più cattivi, e che sono quello che vengono
indisposti, e nemmeno v’è mezzo di poterli disporre, e
nemmeno speranza di poterli ridurre; anche da questi io
dico un qualche frutto si ottiene: quella dolcezza, e carità,
che ha trovato nel Confessore; quelle poche parole di
salute, e di pentimento messe nelle sue orecchie, e dentro il
suo cuore, state certi, che non tornano vuote; in quel
giorno sarà più restio al male, ne’ giorni consecutivi più
volte senza volerlo gli scendono alla mente, e que’ detti,
que’ tratti, fino qualche volta da ridurlo al pentimento. E di
tutti questi effetti possiamo averne delle prove ben soventi
nello stesso Sacramento. Fate che ritorni un di costoro che
partì da noi l’ultima volta senza volerne sapere;

219
interrogatelo come se l’ha passato, se è rimasto in quel
tempo più tranquillo, e contento; perché è ritornato, e
come vuol farla: vi sentirete rispondere che ben tutt’altro;
maggiori rimorsi, ed inquietudine, non aversi potuto cavar
di capo quel tanto che ha sentito; non poter più vivere,
provar sempre un affanno, e quasi aver pensato di finirla se
si potesse; un po più un po meno rispondono così, anche i
più tristi, e maligni; e tutto questo sarà tempo perduto? Sì
credetelo, la sbaglia di molto, ed a gran partito quel
Confessore che si lascia smovere, raffreddare
dall’amministrare cotesto Sacramento per la paura di perder
tempo, e non fa profitto alcuno. Impariamo dal demonio a
dar la caccia alle anime: circuit quaerens quem devoret, va
cercando, va tentando, e se non riesce oggi, torna domani, e
tante volte finché possa riuscirvi; e noi ci lascieremo cader
le braccia perché non possiam portar tutte le anime di volo
in paradiso. Ottimi desideri sono questi, ma che dobbiam
guardarci che non ci portino a conseguenze precipitose, e
non giuste.
L’altra ragione finalmente è che l’uffizio del Confessore
è pericoloso, e molto delicato, e che contiene molti rischi
dell’anima propria. Che sia delicato, lo concedo, ma che
torni pericoloso, e contenga un vero rischio dell’anima
propria a chi usa le debite cautele, , lo nego affatto. Egli è
delicato cotesto uffizio, epperciò va abbracciato, va
esercitato con una certa paura, e timore; ma intendiamoci
con un timore che metta all’erta il Confessore, e lo renda
cauto, ed attento di quello, che fa; e non già un timore
eccessivo che snervi, disarmi un Eclesiastico e lo renda
come inutile per cotesto Ministero. 2 A me piacciono tanto
i Confessori che temono di cotesto Ministero, perché la
paura loro caccia la paura mia come al contrario mi fanno
temere e mi spaventano quelli che non hanno timore alcun

220
e che vanno a sedere in Confessionale, come andrebbero a
mettersi a sedere ad un tavolo; ma nello stesso tempo
approverò mai un Confessore che si ritiri, e si raffreddi solo
per questo timore. Che si debba avere qualche timore sono
troppe le ragioni; si tratta d’anime, che sono tanti tesori per
ciascuna, e guai a perderne una; eppure una parola di più
una parola di meno può darla salva, o perduta. Bisogna
curar piaghe, le più intricate, le più difficili, epperciò ci vuol
scienza, esperienza, e destrezza non ordinarie; si ha da fare
con tanti caratteri così diversi fra loro, e come trovar
sempre il modo conveniente, adattato per ciascuno d’essi?
Vi sono tanti peccati direi epidemici, attaccaticci, povero
Confessore se non si guarda: tutto vero questo che ho
detto, ma vero altresì che vi sono de’ mezzi per guarentirci,
per assicurarci in ogni incontro; e se noi in cotesto
ministero troviamo difficoltà, e pericoli speciali, state pur
certi che vi sono anche speciali grazie per noi; e volete
supporre che il Signore sia un padrone di quella fatta che
voglia lasciar perire un suo servo, che con buone intenzioni,
debite cautele ed unicamente per salvar le anime va a
mettersi in quel cimento. Ma e come sapere, ripetono
costoro, che io faccia il possibile dal canto mio, che non
isbagli, che usi tutte le cautele, e riguardi; nessuno ha mai
detto, cari miei, nessuno ha mai preteso che il Confessore
sia infallibile, e non soggetto ad errare; si può sbagliare, e si
sbaglia senza peccato; e quando il sentimento de’ nostri
Superiori, il parere, il Consiglio del nostro Direttore ci
dicono d’andar avanti, non temere, che stai ancora esitando,
perdendo le ore, i giorni e forse anche i mesi in coteste
paure; ricordiamoci che mentre noi esitiamo contro il
sentimento di chi ci dirigge, si pecca, e si cade all’Inferno
senza esitazione. Pensiamo che il demonio non esita, va,
viene, ritorna, e cerca ogni via sol che possa riportare una

221
vittoria. Quand’anche il Confessore vadi soggetto a
tentazioni, a miserie in questo Ministero, non tema, e non
s’allarmi; vi sarà un merito ed un premio di più. Ma… e se
cado, se consento; non è vero; voi medesimi se aveste da
giudicar un altro in simile caso, lo salvereste dal peccato, e
con ragione: trattandosi di voi stessi, non osate in causa
propria e fate bene, ma vi salva il vostro Confessore, ed ora
vi salvo io per Lui. Sicché conchiudiamo fratelli miei, con
animarci a vicenda ad amministrar questo Sacramento
persuasi del gran bene, che con esso facciamo a’ nostri
prossimi, alle case, alle famiglie; confortati da’ grandi meriti,
che ci andiamo acquistando per noi sia nostro impegno
d’amministrarlo costantemente sino alla morte senza
distinzione di persona, a tutti, a chiunque si presenta, e più
che possiamo: quanti saranno i penitenti, che abbiamo
confessato, altrettante saranno le persone che un dì in Cielo
avranno obbligazioni verso di noi, e per dir meglio,
altrettante saranno le obbligazioni, che Iddio avrà verso di
noi; si ogni anima che noi confessandola ajutiamo a salvare,
è come una scrittura d’obbligazione che il Signore mette in
nostra mano, in cui si protesta tenuto, ed obbligato verso di
noi, perché ajutiamo, compiamo un opera sua; ed era
sentimento di S. M. Maddalena de’ Pazzi, per cui diceva la
Santa, amava meglio aiutare un anima a salvare, che andare
in estasi, o fare qualche miracolo. Animiamoci a riuscire
buoni, ed abili ministri, degni, o per lo meno indegni
quanto non possiamo di sedere in quel gran Tribunale,
maggiore in un certo modo, ed in un certo senso di quello
di Dio medesimo. Anzi io darei per consiglio che ognun
s’imparasse a far di tutto per riuscire il migliore fra i
confessori che vi sono sulla terra, onde operare il peggior
bene che sia possibile, tanto per Dio, come per le anime. E
non sarà superbia, ed ambizione, voi mi direte, un sì fatto

222
divisamento. Ah! miei cari, e sarebbe superbia che un figlio
cercasse di divenire il Migliore della famiglia; sarebbe
superbia che un servo proccuri di contentare più che ogni
altro il suo padrone, sarebbe superbia, che un soldato
volesse divenire il più prode guerriero per difendere il suo
Re. Quai siano i mezzi ad adoperare per riuscirvi, lo
vedremo, ora proccuriamo solo di eccitare in noi, come già
vi diceva da principio, una ferma, e decisa risoluzione di
darci a cotesto Ministero, e con ciò di renderci veri e degni
Ministri del Signore di modo solo che sul finire dei nostri
giorni possiam meritarci dal nostro comune padrone quel
bell’elogio, ed invito che sta promesso nel Vangelo al
servitore fedele: Euge serve bone, 1º olà, mio caro Ministro
Sacerdote, è venuta l’ora di vederci, d’abbracciarci, di
stringerci assieme: vieni… quia in puaca fui ti fidelis, super
multa te constituam, intra in gaudium Domini tui.

Istruzione decimaquarta.
Sopra la bontà, e scienza del Confessore
Il sentir le confessioni de’ fedeli egli è tra nostri Ministeri
il più sublime come abbiam detto per la sua grandezza, il
più utile per il guadagno, e il più necessario pel bene della
cristianità, e Chiesa di Dio. Epperciò sarebbe cosa ben
desiderabile, che gli Eclesiastici, a’ quali come proprii
Ministri appartiene, dovrebbero ardentemente bramassero
di esercitarlo, e nello stesso tempo proccurassero per
tempo, e con tutto l’impegno tutte quelle doti e qualità, che
sono indispensabili per ben amministrarlo, perché se
cotesto uffizio è grande, utile, e necessario, è forse anche
tra gli altri il più difficile, laborioso, e pericoloso, e sotto
questo aspetto il Sacerdote vi si deve accostare, la deve
abbracciare con una certa paura e timore. Desiderio, e

223
timore sono due affetti assai diversi, anzi contrari. Il
desiderio porta, e spinge le persone verso la cosa desiderata;
il timore al contrario la ferma, la ritira, e la tiene in certo
modo lontana. Desiderio d’amministrare questo
Sacramento, e dall’altra parte temere, e quasi fuggire
d’amministrarlo? come conciliare assieme cotesti due affetti
nella medesima persona, nel medesimo tempo, e circa lo
stesso oggetto? Facciamo come fa un Medico che abbi a
curare un appestato. Desidera egli di curarlo, e guarirlo,
epperciò non vede il momento di mettersi d’attorno onde
restituirgli la sanità; ma nello stesso tempo teme, e teme per
se, e teme per l’infermo e quasi gli rincresce cotesto
incontro. Ma intanto che fa? lo lascia forse, l’abbandona?
mai più; si prepara quanto fa d’uopo pel caso; usa ogni
cautela e riguardo; da mano ad ogni mezzo onde riparare se
stesso dal pericolo, e proccurare quel ben al suo fratello; e
sparito così il timore eccessivo e riacceso vièpiù il primiero
desiderio si mette d’attorno al suo infermo. Faccia
altrettanto l’Eclesiastico: proccuri di provvedersi quanto è
necessario per amministrar bene questo Sacramento, cioè a
dire le doti, le qualità, che si richiedono, si serva nella cura
di tutti que’ modi, e que’ mezzi, che possono garantire il
pericolo suo, ed il bene altrui, e con ciò sarà composta
parimenti ogni cosa: ritenuto quel certo timore salutare, che
rende cauto il Confessore, via quella paura eccessiva che lo
inceppa, operi, e lavori. Noi ci fermeremo in quest’oggi
sulle disposizioni rimote che devono precedere, e fornire
l’Eclesiastico prima che entri in Confessionale, quindi
parleremo altra volta de’ mezzi principali, di cui abbia a
servirsi nell’amministrarlo. Tre volte venir su
quest’argomento, non sarà di troppo. Signori miei, io avrei
potuto in questi giorni prescindere da certe materie, e
sostituirne altre senza voto o scapito alcuno, ma non

224
crederei lo stesso per questa materia, tanto è l’importanza,
che vi vedo, epperciò abbiate pazienza, e fatene un
sacrifizio a Dio, se vi sarà un po’ noioso. Io riduco a due
coteste disposizioni, ossia doti, e qualità del Confessore:
bontà di vita cioè più che comune, ed ordinaria; l’altra
scienza sufficiente , proporzionata. Ecco il comando
indispensabile d’un buon Confessore, e sarà questo il tema
della presente nostra Considerazione. Cominciamo.

Che si ricerchi cotesta bontà nel Confessore egli è


evidente, e non ha bisogno di prova; e come sarà buono un
confessore, quando non abbia cotesto bontà? sarebbe lo
stesso che dire fosse bianca una parete senza bianchezza,
colorita, saporita una cosa, che non abbi colore, o sapore
alcuno. Se noi parlassimo, o volessimo contentarci d’un
Confessore qualunque, potrebbe stare anche senza bontà,
ma volendo, ripeto, un Confessore buono, è impossibile
trovarlo, anzi imaginarcelo senza bontà. Tuttavia per capire
maggiormente la necessità di tale dote, io dico che ella è
necessaria perché gli si possa fidare tale ministero, perché il
Confessore si possa fidar di se stesso, necessaria infine
perché i penitenti si possano fidar di lui.
Cotesto Ministero così geloso, e delicato è affidato alla
sola fede del Ministro. Egli lo esercita senza dipendenza, e
senza che nessuno in terra gli riveda i conti. Avrete mai
veduto, né sentito sia stato chiamato un Confessore a
render ragione di ciò che egli abbia fatto? Dalla sentenza,
che egli pronunzia non v’è appello alcuno: può andar
benissimo da un altro il penitente, rifar la sua confessione,
ma non già per via d’appello dal primo giudizio, poiché in
quell’atto il Confessore non ha superiore in terra.
S’aggiunga che egli opera in secreto senza testimoni fuor
del penitente, onde non ha quelle soggezioni, che porta

225
naturalmente l’operar in pubblico, e sogliono influire
cotanto per far bene un azione. Il Confessore opera da
solo, perciò in tanti e sì svariati bisogni non può giovarsi
dell’ajuto, e della mano altrui. Circostanze tutte che devono
far aprire gli occhi ad un Superiore, ad un Vescovo prima di
affidargli un tanto ministero; è vero che per avere una tale
fiducia si richiedono altri requisiti, ma in capo a tutti vi sta
la bontà, di cui parliamo, e che forma come il fondo di tutti
gli altri. Necessaria la bontà, perché il Confessore
medesimo possa fidarsi di se stesso. Guai al Sacerdote non
buono, che va a porsi in si fatti cimenti; guai a quel Soldato
fiacco ed inesperto, che va a tuffarsi in cotesta mischia
senza il debito valore, e perizia. Io non voglio scorrere per
la serie de’ pericoli, che là va ad incontrare un Sacerdote,
che v’entri senza il dovuto corredo di bontà e virtù; mi
limito solo a notare, che essi sono molti, anzi continui,
varii, improvvisi, gagliardi, sia che noi guardiamo la natura
delle materie, la qualità delle persone, la varietà delle colpe.
A ciò aggiungete la rabbia, il livore che certamente nutre il
demonio contro cotesto Sacramento, e chi l’amministra:
coglierà ogni occasione, s’appiglierà ad ogni filo per trarre
nella prevaricazione l’uno, e far che l’altro si profani; or sarà
accidia, or bile, ed impazienza; or la curiosità, or il rispetto
umano: simpatie, genialità, delicatezze, sensibilità, per
lasciare il resto di peggio, tutto metterà in ordine, ed in
moto per venir all’intento. E che farà, come se la caverà un
sacerdote non buono? oh!… non voglia Dio che un
Tribunal di misericordia, e di salute si trasformi in un
Tribunal di colpe, e di rovine. Necessaria finalmente
cocesta bontà perché i penitenti possan fidarsi del
Confessore, ed accostarsi con franchezza a cotesto
Sacramento. E con che cuore un ammallato si porterà da
un medico quando sappia che egli sia infetto dallo stesso

226
male, e non sappia curarlo in se medesimo. Con che
confidenza un passegiero si farà a demandare la vera strada
ad un tale, che vede e s’accorge che è pronto ad abbracciar
qualunque via, e che egli medesimo cammini sul falso. Tal è
la misera sorte d’un povero fedele che s’accosti ad un
confessore non buono; va a presentar la sua piaga a colui,
che n’è ancor più malato; va a dimandar la strada del Cielo
a chi batte quella dell’Inferno, e della perdizione; si fratelli
miei cari, toglietemi cotesta bontà nel Confessore, ed io vi
dico che v’è da piangere, da tremare per tutti: pianga, e
tremi chi ha affidato un ministero sì santo, e si sacro a
coteste mani indegne; pianga, e deplori chi ha avuto la
disgrazia di capitar si male; ma più di tutti tremi quel
temerario che senza essere fornito di vera, e soda virtù ebbe
l’ardire di sedere in canto Tribunale. E chi sa quanti misteri
d’iniquità si andranno purtroppo un giorno a scuoprire, che
per mancanza di bontà nel Confessore là appunto si
operano, ove per altro doveva andar sbandita ogni sorta di
colpa. Bontà adunque nel Confessore, se ci stanno a cuore
tutti que’ beni, che noi abbiamo accennato da questo santo
Ministero. Tutto la vuole, l’onor del Sacramento, la
tranquillità de’ fedeli, la sicurezza medesima del Sacerdote,
tutto ci ripete che il Confessore sia buono. E che sorta di
bontà! Non è già di carattere, e di un naturale, piacevole,
cortese, civile, affabile, compassionevole; e ben tutt’altra la
bontà, che io intendo, e voglio dire: un fondo, una
previsione, un corredo di virtù non ordinaria; di virtù tale,
che sia capace di produrre, di operare nell’Eclesiastico
cotesti tre effetti, cioè che lo faccia fermo, e sodo davanti al
peccato, sicché in luogo di vincere, non abbia ad esser
vinto, ed atterrato. 2. Io renda autorevole, e venerando
presso i popoli perché abbiano ad ascoltarlo. 3. Io formi
pratico, ed esperto in virtù, onde possa ammaestrarne gli

227
altri; ossia per spiegarmi in altri termini: la bontà del
Confessore deve essere bontà vera, e positiva, che non solo
lo tenga immune, e lontano dalla colpa, ma lo faccia
esercitato in virtù; inoltre bontà notoria, patente, e
conosciuta; ed è inutile transigere su questo punto: se si
vuole proprio un buon Confessore, non se ne può far a
meno; e per andarne convinti, esaminiamo gli
inconvenienti, le conseguenze, ed i pericoli quando vi
manchi.
Datemi un Sacerdote in peccato, e fatelo entrare in quel
Tribunale per combattere, e cercare questo peccato
medesimo, io non so se l’abbia da chiamare una scena da
far ridere, o da piangere. Peccatore con peccatore, demonio
con demonio; che zuffa, che battaglia è questa? si fa
davvero, o si burla: e che vieni a fare, e perché mi molesti,
mi par che adirato, e stordito debba prorompere in quel
punto il nemico? tu, tutt’altro, ma tu? Lo so che il
Sacramento può operare per virtù sua propria senza il
concorso di virtù nel ministro, ma lo sapete voi quanto
pochi in pratica sien quelli, che vengano alle Confessioni
penetrati, e pentiti veramente dal loro male, e come
abbisognano i più dell’opera, e dell’ajuto del Confessore?
Fate adunque che s’accostino ad un Confessore di questa
fatta, e volete che sia capace di far penetrare ad una
persona, ciò, di cui nemmen egli ne è penetrato; di far
concepire ad altri quel pentimento, quell’orrore al peccato,
che egli non ha; ragionarla, persuaderla, convincerla al da
condurla sino al punto: piuttosto morire, che peccare,
quando egli ad ogni urto, ad ogni soffio vi cade, anzi si
tiene tutt’ora la colpa in cuore; non voglio dire che approvi,
o taccia affatto sulla colpa: dirà, parlerà, sgriderà, ma sono
parole, è un suono e niente più: il penitente freddo, il
Confessore ancor più ; il peccato del penitente non si

228
conosce, epperciò non si detesta; il confessore non è capace
di farlo conoscere. La Confessione sarà sincera, lunga forse
al di là del bisogno, ma languida, fredda, e per niente
dolorosa: così si comincia, e così si termina; la confessione
è fatta, ma il peccato non è perdonato: non dico già
confessioni sacrileghe, ma invalide e nulle per mancanza di
vera detestazione, e dolore: così uno, così due, e chi sa
quanti e perché? il più delle volte per mancanza di bontà
nel Confessore. Oh! quanto vale un detto, una parola, un
gemito, un sospiro anche solo, d’un buon Confessore per
penetrare un cuore. S. Paolino narra di S. Ambrogio che
ogni qualvolta un penitente s’accostava a lui per confessarsi,
egli se ne mostrava così penetrato, con gemiti, sospiri, e
lagrime, che il penitente per duro che fosse era costretto a
mettervi le sue: Quotiescumque illi ob percipiendam poenitentiam
lapsus suos aliquis confessus esset, ita flebat ut ille flere compelleret.
Padre, lasci gemere, e so-spirare da me, rispondeva un
penitente al suo Confessore, sono io che ho peccato. Un po
a me, padre, i sentimenti, l’orrore, l’odio che ha lui al
peccato, ripeteva un altro: ecco gli affetti, le risoluzioni che
produce, e genera nel cuore de’ penitenti la bontà del
Confessore, quando veramente sia tale. Non è già un lungo
discorso, i termini sonanti, le grida, le correzioni severe che
hanno da commuovere, da toccare un cuore, ma
quell’unzione, quello Spirito che accompagna i nostri detti,
e che è tutto, e solamente proprio del buon Sacerdote.
Molto più quando questa bontà del Confessore sia notoria,
come diceva, e conosciuta: allora sì che il nostro parlare è
autorevole, e piomba come un fulmine sul cuor de’
penitenti. Perché ogni parola che loro diciamo e sostenuta
da’ fatti, ed il penitente qualunque egli sia non può a meno
che pensare, e dire a se stesso: quest’uomo ha ragione, parla
la verità, ed è quello, che fa egli medesimo. Togliete invece

229
questa bontà conosciuta, e fate che si sospetti solo il
contrario; le confessioni tante volte si cambiano in risate, se
non nell’atto, che si fanno, tra loro penitenti dopo d’averle
fatte. Finora abbiam parlato del male maggiore, quando il
Confessore non sia in grazia, e porti seco il peccato,
passiamo al minore sotto un aspetto sì, ma non meno grave
pel Confessore medesimo, quando egli non sia molto
fermo in virtù, e facile a cadere nelle tentazioni: chi lo terrà
in pie’ a maneggiare, a curare certe piaghe, se non ha un
orrore più che grande alla colpa; se non è avezzo a proteste
franche, e repentine: piuttosto la morte che peccare, se un
abitudine già fatta di slanciarci subito in Dio in simili
frangenti, di richiamar tant’osto alla mente un pensiero di
novissimi, non lo salva in un subito, lo investe, e lo difende.
E se fa tanto di cadere, quanti peccati alle volte in un solo
mattino, quando e come si fermerà? Ecco il perché io
diceva che una bontà comune non bastava, perché altro è
esser buono per amministrare in grazia il Sacramento, altro
esser buono talmente da poterlo amministrare e con frutto,
e senza nostro pericolo. Di più il Confessore sede in quel
Tribunal di penitenza non solo per liberare la gente dal
peccato, ma nello stesso tempo per incamminarli, guidarli
all’esercizio, ed alla pratica della virtù. Ed oh che buon
maestro, e direttore sarebbe egli mai se non sa dar un passo
egli medesimo in ciò che deve insegnare, ed è gran cosa che
non cada in peccato. Mi mostri la maniera di passare bene
questa Novena, prepararmi a quella festa, passar meglio la
mia giornata, praticare qualche mortificazione, esercitare
qualche penitenza etc. Si faccian coteste dimande ad un
Confessore che a stento non sia peccatore; o che tace, o vi
dice due parole nude, e secche, da far conoscere che parla
oltre la sua sfera; o se è furbo si caverà con risposte evasive:
sono cose così facili, le deve sapere da se, per altro se vuole

230
ne parleremo per altra volta. E quante anime semplici, e
buone si trovano nel popolo, e tra penitenti che sarebbero
capaci di far gran passi nella virtù, eppur sono costrette a
star ferme, perché esse non lo sanno, ed ignorano, il
Confessore nemmeno perché non è buono, o almeno non
ha quella bontà che vi diceva. Ma possibile, qualcuno può
dire, che si ricerchi tutta questa bontà per confessare bene,
con frutto, e senza nostro danno? E chi non l’avesse farà
peccato, dovrà cessare, e ritirarsi, o può andar avanti? Io
non pronunzio, ne sentenzio così facilmente tanto più in
generale; i peccati, le obbligazioni bisogna andar adaggio ad
s imporle. Io dico, e ripeto quello che ho già detto: che per
riuscire un buon Confessore da far gran bene negli altri, e
senza suo pericolo, pel primo si ricerca una bontà di vita
non comune, non ordinaria. Che se questa bontà è
mancante in parte, e va diminuendo, io soggiungo che a
misura che si scema la bontà nel Confessore, e si
diminuisce di grado, un altrettanto a proporzione si va
diminuendo il bene, per gli altri, e si va aumentando il
pericolo per lui; che sarà infine? io lo lascio decidere da voi.
L’altra dote, e qualità che deve portare il Sacerdote al
Confessionale, è una scienza e dottrina sufficiente e
proporzionata. Che l’Eclesiastico debba esser dotto, è
innegabile; senza di essa sarà un buon uomo, quieto,
tranquillo, ritirato, caritatevole, divoto e pio; ma mai un
buon Eclesiastico, poiché per esser tale deve esser capace di
adempirne gli obblighi, lo che non può fare chi non è
dotto. Anzi rigorosamente parlando, e stando a’ puri
termini della ragione dovressimo dire che fra tutti i
scienziati i Confessori dovrebbero essere i maggiori. I titoli,
che porta, e le parti che deve sostenere lo danno a
conoscere in un subito. Egli è Giudice. Medico, e Maestro.
Giudice, di che io dimando, e di chi? Di tutte le cause, di

231
tutti i casi in cui, vi possa entrare un po’ di colpa, anzi il
solo sospetto. Di chi? di tutti indistintamente senza
eccezione, e Re, e Magistrati, de’ Confessori medesimi,
perfino i giudizi già fatti, già pronunziati da altri, quando vi
nasce dubio di qualche peccato, di qualche obbligo, deve
esser portato a questo Tribunale. Egli è Medico, di quanti, e
quali infermi? imaginatevi se vi sono malanni d’animo, non
si trova altro perito, altro medico fuor di questo. Non vi
deve essere un genere di malattia nuovo per lui, deve
conoscere, deve curare ogni specie di ferite, di piaghe le più
intricate, e difficili. Egli è Maestro, e può dirsi in ogni arte, e
professione, perché tutti vengono da lui; da lui dimanda
l’artista, il contadino, da lui il negoziante, il militare, da lui il
ricco ed il povero, da lui il laico, ed il Sacerdote, da lui il giu
reconsulto, l’impiegato, da lui insomma ogni sorta, ogni
classe di persone vuol sapere, e chiaramente se possa, o se
non possa, quel che debba, o non debba fare; e basti questo
cenno per convincerci pienamente quanto convenga, e
quanto sia necessario che l’Eclesiastico sappia. E che cosa?
qual è la scienza, che deve possedere, e sino a che punto: io
lascio ogni altro ramo, e mi restringo a parlare di quella che
tocca direttamente il nostro punto: prescindo parimenti da
tante altre cognizioni, che possono essere utilissime ad un
Confessore, ed ajutarlo a far del bene, come sarebbe di
storia principalmente eclesiastica, Canonica, e Sacra
Scrittura: tocco nemmeno le parti di Teologia dogmatica,
speculativa, per concentrarmi unicamente alla pura scienza
della Teologia Morale. Noi vedremo la necessità e
l’importanza di questa scienza in un Confessore, ed i mezzi
di ben impararla. Che importa a me penitente che il mio
Confessore sia il maggior scienziato del mondo in materia
di lingua, di storia, di poesia, di politica, geografia, e che so
io, quando sia debole, e mancante nella parte di Morale? a

232
me non cale saper questo, o quello, ciò che mi sta a cuore è
se abbia o nò peccato, se sia o nò tenuto a quel tanto. Che
ne viene a me che il Confessore sia realmente un buon
Rettorico, buon logico, buon matematico, quando sia un
Moralista da non potermene fidare? Chi di voi andrebbe da
un Medico, da un Giudice per una malattia, od una causa,
quando sapesse che è una cima d’uomo in tutt’altro genere,
ma ne sappia poco di Medicina, o di Legge? Dirò di più.
Che vale che un Confessore sia il miglior Teologo del
paese, e della città, ma che non abbia alle mani la parte
Morale? Saprà confondere, convincere un incredulo, un
eretico, ma non saprà parimenti decidere con egual
franchezza, e perizia quello che sia peccato, o no. Io penso
che converremo tutti nella necessità di cotesta scienza in un
Confessore, come converranno tutti i Sacerdoti della terra;
ma saremo poi anche tutti d’accordo nel farci un idea della
Teologia Morale. Facciam un po’ la prova a dimandar a
certi Eclesiastici, che ne pensino, e che ne dicano di questo
studio, e di questa scienza, ma a que’ tali che l’hanno
studiata in pochi quinterni, ed una volta per sempre; a
quegli altri che si vantano che in tanti anni di Ministero
hanno mai più avuto bisogno di studiare, hanno mai
trovato un caso, che li abbia anche per poco fermati; a
quelli che sono capaci si di censurare qualunque Autore
senza averne studiato neppure uno; ebbene dimandate a
tutti costoro, che loro sembra; vi diranno che questo studio
non è gran cosa, facilmente uno se ne può sbrigare, con un
po’ di criterio, e buon senso ritenendo i principii si può
andar avanti facilmente senza paura; non essere tanto lo
studio, quanto la pratica, che ha da facilitare cotesto
ministero; resta solo a vedere che sorta di pratica, poiché
l’uso, il costume di andar sempre avanti qualunque sia la
difficoltà, e la materia, lo so anch’io che facilita; e che

233
sarebbe facile lo studiarla, capirla, ritenerla, quando bastasse
un occhiata. Io lascio stare tutti costoro, perché per
disingannarli non basta addurre loro ragioni, bisognerebbe
venire alle prove, e far loro toccare con mano la loro
ignoranza; a voi invece dico quello che hanno sempre
detto, e pensato gli uomini che hanno studiato a fondo
coteste materie, e molto più l’hanno esercitata, maneggiata
non già per qualche tempo, ma per tutto intiero il corso
della loro vita. Cioè che lo studio della Teologia Morale è
ben diverso assai da ciò che molti ne pensano tra gli
Eclesiastici; che è vasto, ed ampio assai, difficile, e quasi
interminabile; epperciò abbisognarvi e tempo e fatica, e
pazienza non ordinaria. Per la sua vastità, ed ampiezza io
non starò a porvi sottocchio tutti i Volumi, e Trattati che
essa contiene, mi contenterò di citarvi le parole del Rituale
Romano, che in esso per norma ed avviso del Confessore
stanno registrate: Sacerdos omnem huius Sacramenti cioè della
penitenza, doctrinam recte nosse studebit: et alia ad ejus rectam
administrationem necessaria. Due cose adunque deve
proccurare di saper il Confessore, e non già comunque, ma
bene recte, cioè tuttociò che forma direttamente la materia
attinente a questo Sacramento, e voi sapete quanta: de
natura, de necessitate, de Ministro, de subiecto, de
approbatione, de reservatione, de dotibus, de factibus
Confessarii, contritione, proposito, integritate, sigillo,
satisfactione; ma lasciam li che non occorre qui dar un
esame; et alla ed rectam administrationem necessaria. E che cosa è
questo rimanente, questo di più? Ve lo dirò subito: è tutta la
Morale intiera; sono tutti que’ Volumi, che voi conoscete, e
nessuno lo potrà negare. E osservate che in tutti questi fogli
anche in tanta quantità da metter paura, la Teologia non è
che compendiata ne’ suoi principii, nelle sue teorie, e che
tocca poi al Confessore a dilatarla, ad estenderla, ad appli-

234
carla ne’ singoli casi, di modo che considerata nella sua
applicazione si può dire quasi inesauribile, ed infinita, come
infiniti sono gli aggiunti, e le circostanze che la possono
modificare: qui non occorre più parlare di volumi, di fogli,
di trattati, ella è vasta, ampia ed estesa, anzi illimitabile,
come vasto, ampio, esteso, e senza limite è il cuore, il
pensiero dell’uomo. La Morale è facile, una bagatella, poca
cosa, ebbene come va: che uomini di studio indefesso, e
continuo, uomini di criterio, e d’esperienza, eppure sentono
il peso, e le difficoltà di molti passi, ed anch’essi hanno
bisogno d’altro studio, di tempo, e di esame prima di
sciogliere un quesito, ed assumersi la responsabilità d’una
risposta? Aggiungete che una scienza così vasta ne’ suoi
principii, e molto più così multiforme, e variante nella sua
applicazione, il Confessore deve sempre averla presente
tutto in un colpo, e ad ogni momento; ed il più delle volte è
tale e tanta la stretta, in cui si trova, che ha nemmen il
comodo di pensarvi posatamente, deve decidere, e
rispondere su due piedi. Datemi un giureconsulto, un
Teologo che abbi a difendere, e sostenere una causa, una
proposizione astrusa, e sottile finché vogliate, non è così
impicciato come un povero Confessore, quegli può
studiarla prima, prepararvisi, armarsi quanto può, e vuole di
cognizioni, di prove, onde difendersi; che al contrario
costui entra in Confessionale senza sapere qual sia la parte,
in cui verrà attaccato, come un Soldato in un aperto campo
di battaglia, e quante volte in un sol mattino, ed anche da
una sola persona è obbligato quasi a percorrere tutto questo
gran mare di volo, e come in un colpo; dimande le più
disparate, quesiti i più intricati, materie le più delicate;
capirli abbastanza, proccurarsi i schiarimenti necessari,
saperle confrontare co’ veri principii, e questi applicarli alle
singole circostanze di tempo, di luogo, e principalmente

235
della persona; con che avvertenza, con quale coscienza, e
con quali conseguenze; e tuttociò sarà facile, e basterà uno
studio superficiale, fatto in fretta, ed una volta per sempre.
Io penso che il vuoto maggiore in questa materia sia a
temersi più coll’andare del tempo, che sul principio del
nostro Ministero, poiché per poter esser ammesso a sentir
le confessioni un po’ più un po meno bisogna studiare; che
al contrario dopo non avendo più niente a temere, la
lasciano in abbandono. Costoro fanno della Morale
quell’uso, che farebbero d’un passaporto, che presentato, e
varcata la frontiera, che desideravano, non sanno più che
farne, lo lacerano, e lo conservano sol per incuria. Costoro
si sono proccurati quei pochi libri di Morale, li hanno
percorsi così in fretta; il passaporto è fatto, e par in regola;
andiamo a farne la prova; per buona, o mala sorte sono
ammessi; ecco var-cata la frontiera, che farne ancora di
quest’impiccio, ed di queste carte? se non si vendono, si
conserveranno là per memoria, studiate la Morale!… che
Morale, sono tutti i tempi che ho preso la Confessione, sì
che adesso penso ancora a quelle storie. Si Signori, sono
sacerdoti, che parlano così: diteli voi se Confessori di
questa fatta vi sia sperare che possegano quella scienza
sufficiente, e proporzionata, che per altro è necessaria, ed
indispensabile. Lo so che non occorre tutti i Sacerdoti sieno
profondi, e dottori in cotesto materia, e che i gradi di
scienza necessari vanno misurati da’ luoghi, e dalle persone,
ove si sentono le confessioni; epperciò ritenete che io ho
detto una scienza proporzionata sufficiente, e non eminente;
ma credetemi che per acquistare e conservare cotesto grado
che basti secondo i luoghi, ed i tempi, si ricerca studio
serio, lungo, paziente, e continuo. E se vogliamo che il
nostro studio ci frutti una scienza, che edifichi e non gonfi,
operi la nostra, e l’altrui salute proccuriamo che i nostri

236
studii partano da intenzioni buone, e rette, e tendano a quel
solo fine, a cui deve esser diretta ogni nostra azione, qual è
l’onor, e la gloria di Dio: proccuriamo di unir allo studio la
preghiera, che è quel libro, quell’autore, che ci può
ammaestrare più di tutti; con ciò non voglio dire di
trascurare i mezzi umani, che anzi siamo in dovere di
servircene e sono due principalmente: studiare gli Autori,
conferire con persone perite. Dagli uni impareremo la
teoria, dagli altri la pratica, perché sì l’una che l’altra è
egualmente necessaria. La Teoria senza pratica è una casa
dipinta, designata, e niente più. La pratica senza Teoria è
una casa costrutta si, fabbricata ma senza base, e senza
ordine, e che perciò sarà più di rovina che di riparo. E qui
può nascere un desiderio, una dimanda, tra tanti Autori, e
scrittori, fra tanta differenza di opinioni, e di sentimenti,
quali preferire, a’ quali appigliarsi per riuscire un buon
Confessore. Sarebbe nemmen bisogno che io rispondessi a
cotesto quesito: perché o che il Confessore è fornito di
quella bontà, che ho detto, ed allora qualunque scelga, e
s’attenga farà del bene, poiché a’ uomini si fatti omnia
cooperantur in bonum quella dose di virtù, che seco porta,
supplirà, saprà condire ogni cosa; o che non l’ha, ed è
inutile che parli con costui, perché qualunque sia la scielta,
se non farà gran male, farà certamente poco bene. Ma per
dirne qualche cosa, posto che ne parliamo, io dirò come la
penso, ed ognuno faccia poi come crede davanti a Dio: 1°
Il Confessore deve rispettare tutti gli Autori, 2º Faccia caso,
e secondo le circostanze si serva di tutti: in questo modo è
salva la carità, e si proccura il maggior bene possibile. Sono
gli ignoranti, ed i superbi che disprezzano; l’Eclesiastico
sufficientemente dotto, umile e buono sa quel che dice, e
quello che meritano gli altri, e quando crede più
conveniente seguitare l’uno che l’altro, li rispetta ambidue

237
egualmente. In secondo luogo essere pronto a servirsi di
tutti. Le varie opinioni de’ Teologi, parlo di opinioni
sostenute nelle scuole, e non già di qualche sentimento d’un
Teologo in particolare, le diverse opinioni in Teologia
ripeto devono fare dinanzi a noi la figura che fanno davanti
ad un artigiano i varii instrumenti distribuiti, e collocati
ognuno a suo sito in una grande officina. Il padrone
quando ne abbisogna pel suo lavoro s’appiglia or a questo,
or a quello, e non guarda già chi ne sia l’autore, quale più le
piaccia; esamina solo, e prende quello tra tutti, che è più
adatto, e conveniente al lavoro, che intende. Cosi
dobbiamo far noi in quella grande officina delle anime,
qual’è il Confessionale: noi andiam là dentro per salvarle, e
dinnanzi a noi stanno tutta quella serie di sentimenti, e di
opinioni Teologiche come tanti instrumenti da essere
adoperati in questo grande lavorio; nel scegliere non
guardiamo già l’autore, che la insegni, quello che a noi
piaccia maggiormente, miriamo, scegliamo piuttosto quella,
che nelle circostanze della persona crediamo più adattata
per salvarla. Noi sentiamo le confessioni per impedire il
peccato, ebbene fissiamo l’occhio su quell’opinione, che nel
caso ci può assicurare di più che il nostro penitente non
sarà per peccare; questa è la vera maniera di far gli interessi
del nostro padrone, e di usare la maggior carità che ci sia
possibile alle anime de’ nostri prossimi. Ma e chi non
potesse farsi coscienza ad usare, ed abbracciare
quell’opinione? Io non voglio entrare in polemiche, in
dissertazioni per persuadere, e convincere: direi solo: se nel
caso vi fosse male in quella data sentenza, chi sarebbe il
reo? La Chiesa, che sapendolo la tollera, l’autore che l’ha
insegnata, oppure un povero Confessore che si fa a
seguitarla con buon fine, e salvar un anima. Ognuno preghi,

238
e se non basta, ritorni a pregare, e vedrà, che Iddio
provvederà anche alla sua coscienza.

Istruzione decimaquinta.
Sopra i Mezzi da usarsi dal Confessore.
La bontà, e la scienza sono due doti, due qualità
indispensabili per chi vuol arrivar a far da giudice nel Sacro
Tribunale di penitenza, ed amministrar con frutto quel
santo sacramento. Guai all’imprudente, al presuntuoso, al
temerario che senza il debito corredo di cotesto virtù, e
perizia si fa avanti, s’innoltra, e va ad assumersi una
responsabilità così terribile, e formidabile. Agli uomini non
è lecito entrar là dentro, quel giudizio è intangibile in terra,
un secreto il più profondo, un sigillo il più sacro, ed
inviolabile ricuopre, e nasconde ogni cosa, finché venga
quel dì che il tutto si farà palese a gloria del Confessore
buono, come a ignominia, e condanna dell’indolente, e
cattivo. Io penso che farà stupire l’universo il bene operato
da un buon Sacerdote in cotesto ministero: un uomo che
non compariva, e che quasi nessuno lo calcolava, forse
perché alieno da azioni rumorose; eppure guardate quanto
bene in secreto, e ad insaputa del mondo seppe proccurare:
quante anime per lui salve in paradiso, quante offese
risparmiate al Signore; oh! quante persone, quante case, e
quante famiglie, e forse popolazioni parleranno per lui, chi
sa quanti se hanno avuto salva la fama, la roba, e forse la
vita, lo devono a cotesto buon uomo, e per non andar alle
lunghe è incredibile ripeto, il bene che si scuoprirà operato
da un buon Confessore. Non debbo però tacere del male, e
temo purtroppo che sarà del pari incredibile il vuoto, ed
anche il male, che avrà lasciato, avrà cagionato un Sacerdote
che senza le dovute qualità si sia intromesso in tanto

239
Ministero. Io non mi fermo più a lungo su questa parte,
perché ci deve riuscire di troppa vergogna, e dolore; e passo
invece ad indicare i mezzi, e le cautele, che deve aver
sottocchio il Confessore, quando voglia compiere a dovere,
e senza suo danno cotesto ufficio si grande. Sono molti, e
vari cotesti mezzi, e riguardi, che io riduco a questi due:
vigilanza, cioè sopra di se medesimo, e carità verso il
penitente: vigilanza sulle nostre intenzioni, vigilanza sopra i
nostri sensi, vigilanza in fine sulla nostra condotta. Carità
verso i penitenti, e primo carità nell’accoglierli, carità nel
sentirli, carità nel disporli. Ecco l’argomento, ecco la traccia
della presente nostra Istruzione. La cosa non è meno
importante per noi, come pei fedeli, che verranno ad
accostarci; datemi Confessori buoni, ed io vi do riformata
tutta la chiesa, diceva un grande pontefice, ed io vi ripeto:
un buon confessore in un paese, e se non lo converte
intieramente, non andrà gran tempo, che voi vi vedrete una
gran mutazione, se non altro una frequenza di sacramenti,
che certamente non è poco in una popolazione; onde ci
conviene sommamente impegnarci per riuscirvi.
Cominciamo.

Io non parlo dell’orazione, che è il mezzo de’ mezzi in


ogni cosa, tanto più nell’affare dell’anima. Preghi il
Confessore se vuol vincere in questa lotta, preghi per se,
preghi per i penitenti; preghi avanti, nel decorso, e preghi
dopo aver sentito le Confessioni: armato e difeso da questo
scudo non tema, che tutti i sforzi, tutti i dardi, che lancierà
il demonio, torneranno a suo danno. Oltre l’orazione però,
vi vuole nel Confessore una vigilanza severa, continua,
impreteribile su’ nostri fini, su’ nostri sensi, sul nostro
modo di condurci. Il fine che deve condurci in quel luogo,
quello che deve diriggere ogni nostro detto, ogni nostra

240
operazione, è un solo; la gloria di Dio, la salute delle anime,
sicché via tutto ciò che è umano, che non è diretto, non ha
che fare con questo scopo; via ogni trattenimento, ogni
colloquio inutile; via ogni affetto sensibile, genialità,
simpatia; via ogni sorta di vista mondana; di riputazione, di
stima, di comodo temporale. Siam dei, e non uomini là
dentro, la causa di Dio e sola ha a trattarsi in quel luogo, in
quel tempo; ogni altro affare, ogni altro interesse deve
essere sbandito, sia per attirarci le grazie necessarie, e
benedizioni del Signore, poiché Dio concorrerà mai ad un
opera che vede non è fatta per lui, sia per non inciampar
noi medesimi ne’ scogli, e ne’ pericoli, lo che avressimo a
temere, che lo permetta Iddio, quando noi ci fossimo
esposti pe’ nostri fini, e non già per la causa sua; a me
basterebbe sapere che un Confessore vi va per puro zelo,
per esser sicuro, e tranquillo di lui, e del ministero suo;
come al contrario io temerei ogni cosa quando il Sacerdote
vi andasse solo per abitudine, per genio, per paura di
perdere l’impiego, od esserne rimproverato; e non
contentiamoci di mettere solamente qualche volta, e di rado
cotesta retta intenzione; soventi più che possiamo, ogni
volta che andiamo al Confessionale, nel tempo stesso, che
sentiamo le confessioni, ricordiamoci di fare soventi i nostri
patti con Dio: Signore io vado per Voi, io parlo, io mi
fermo, io m’adopero per Voi. Non vengano a presentarsi
altri fini, che io non voglio saperne, o per Voi, e
unicamente per Voi, altrimenti me n’uscirei di questo luogo.
Ah! che meriti, che felici giornate, che tesori nascosti
quando si lavori con quest’occhio al Signore.
Vigilanza su’ nostri sensi, custodia principalmente de’
nostri occhi, della nostra lingua, ed anche delle nostre
orecchie. Come sta male il veder il Sacerdote che entrando
in Confessionale sta mirando a destra, e sinistra, e fissando

241
quasi studii, e cerchi chi vi sia: pericolo per noi, soggezione
pe’ penitenti, scandalo per tutti. Ed anche in Confessionale,
mentre sente le Confessioni non vi sarà questo bisogno di
tener in freno gli occhi per non convertire in leggerezza, e
curiosità un tempo, ed un luogo si santo, e quello che è più
formarsi uno scoglio di rovina da noi, mentre vogliamo
porgere il rimedio agli altri? Dio non voglia che molti
Sacerdoti ab-biano imparato a proprie spese, ed abbiano
pagata ben cara la mancanza di cotesto vigilanza.
Molti sono gli atti, le parti che deve disimpegnare nel
suo uffizio. Egli deve ascoltare, interrogare, rispondere,
instruire, scuotere, quietare, assolvere, o no i penitenti. Una
parola di più, una parola di meno, un termine più che un
altro in tutte queste parti, nella serie di questi atti può
perdere, o guadagnare la causa, può disgustare, od allettare
un anima, può compungere, od irritare un penitente, lo che
si vede coll’esperienza. Lasciamo stare tutto il rimanente, e
fermiamoci solo all’ascoltare, ed interrogare i penitenti, che
pajono gli atti più facili, e da poco, quanta vigilanza, ed
attenzione non deve usare per non esporre e se, i penitenti
a’ pericoli, il Sacramento ed il luogo santo a cose improprie,
e scandalose. Come convenga misurare i termini, bilanciare
le parole, usare tutta l’attenzione nell’interrogare certa sorta
di persone, in materia principalmente più gelose, e delicate,
tutti lo sappiamo; ma aggiungerò anche qui un riflesso per
ciò che riguarda il semplice ascoltare, la vigilanza, e
l’attenzione del nostro udito. Pare che il Confessore
trattandosi di ascoltar semplicemente, non debba mettervi
tanta cura, eppur ne deve aver molta, e continuamente;
primieramente per non lasciar trattenere il penitente in cose
inutili, estranee, impertinenti all’oggetto, di cui si tratta, ma
principalmente perché non maneggi egli, ed apra una piaga,
che sa ne maneggiare, né aprire senza inconvenienti, e

242
pericoli, e mi spiego: quante volte i penitenti non sanno
spiegarsi in certe materie, e peccati di carne, o nel dimandar
consigli a questo rapporto, epperciò per ignoranza, ed in
certuni anche per mancanza di pudore usano termini, ed
adoperano un linguaggio, che è tutt’altro che da Chiesa, e
Confessionale, con pericolo e confusione tanto di se
medesimi quanto del Confessore; si potrà in questi casi,
tacere, ascoltare. Signori nò, e stiamo attenti su questo
punto, poiché si sente tanto soventi a rispondere da
penitenti: io mi sono sempre spiegato in questo modo, e
nessuno mi ha mai avvisato; forse perché il Confessore
crede, dovendo conoscere chiaramente la cosa, crede di
poter sentire qualunque maniera di parlare, ed ogni sorta di
descrizione. Adagio, miei cari, che ne siamo ben lontani;
altro è che io debba sapere, conoscere sufficientemente ciò
che si tratta, debbo giudicare; ben altro la maniera di
proccurarmi cotesta cognizione. Quando vediamo, ed
appena c’accorgiamo che il penitente non sa cavarsi senza
gli inconvenienti, che abbiamo accennato, tocca a noi a
prender la parola, e dirgli schiettamente che taccia, e tacerà
facilmente, perché gli facciamo una carità, si limiti a
rispondere, e noi in un modo od in un altro destramente, e
decentemente verremo a capo; e ripeto di nuovo di star
attenti su questo punto, che io ho sempre trovato di gran
sollievo, e di gran giovamento alle anime, e d’altra parte lo
vuole la santità del luogo, e di ciò, che trattiamo. Vigilanza
sulla lingua finalmente per non parlare, e ridire ciò che si è
sentito in Confessione. Pare un punto inutile cotesto,
raccomandare il secreto ad un Confessore quando il tutto
sta sepolto sotto un sigillo così sacro; ma che volete? o che
non si sappia, o non vi pensi, il fatto sta che più d’una volta
ci rendiamo riprovevoli in questa materia. Tre sono i casi in
cui secondo ogni Teologia, e tutti gli Autori non si può

243
parlare di ciò che fù materia di Confessione. Io quando v’è
pericolo di diretta, od indiretta rivelazione; e fin qui spero
che c’arriviamo. 2° quando il penitente, od altra persona
anche non sapendolo, ed anche senza pericolo di
scuoprimento, ne venisse a soffrire. Ed anche qua non c’è
male. 3 finalmente ogni volta che parlandone v’è qualche
scandalo, ed è questo il punto in cui manchiamo più
facilmente noi Confessori, poiché v’è sempre cotesto
scandalo tutta volta che i secolari s’accorgano che tra noi, o
con loro sveliamo ciò che abbiam sentito in Confessione,
quand’anche sia antica, o lontana la cosa e non vi sia
pericolo alcuno. Attenti dunque su questo punto, che è
troppo delicato, ed importante. Vigilanza in fine sulla
nostra condotta, cioè a dire sul modo, con cui ci siamo
diportati nel sentire le Confessioni. Cotesta vigilanza
comprende, come vedete ogni parte, ogni dovere, che
incomba al Sacerdote in questo Ministero, e consiste nel
ripensare soventi, nell’esaminare tra noi e noi i vuoti, i
difetti, le mancanze, a cui purtroppo anche un buon
Confessore va soggetto nell’amministrazione di questo
Sacramento, perché il difetto, il vuoto d’una Confessione
non abbia da passar in un altra; epperciò io suggerirei che
nel ringraziare il Signore dopo aver sentite le Confessioni
far un momento d’esame, non dico già percorrere le
materie sentite, che alle volte può essere più dannoso, che
utile, ma una revista piuttosto su’ modi, sulla maniera di
trattare, correggere, instruire il penitente. Gli effetti
ottenuti, o gli scogli trovati potranno servirci di regola per
altri casi. Cotesto esame così transitorio può farsi anche tra
un confessione e l’altra, almeno le principali, senza che
nemmen s’accorgano i penitenti, un pensiero, un riflesso
così di volo può bastare, e metterci un po’ più in guardia
per un altra Confessione.

244
Il campo però più aperto, lo spazio pressocché immenso
in cui ha da spiccare, e risplendere più eminentemente un
Confessore è la Carità, ultima dote, ultimo mezzo, di cui mi
sono riservato a parlare; e tanto propria la carità del
Confessore, che l’ufficio suo si chiama propriamente ufficio
di carità. Ed è tanto vero che i medesimi penitenti anche i
più rozzi, allorché si presentano, per la prima dimandano
carità: padre, mi faccia la carità di sentirmi, di ajutarmi, e
non la sbagliano, poiché se troveranno carità troveranno il
tutto, che possano aver bisogno. Siccome quel povero
ferito lungo la via di Gerico nella carità del Samaritano ebbe
tutto quello che gli bisognava: ebbe vino, ebbe olio, ebbe
fascie, ebbe cavalcatura, ebbe vetturale, ebbe tutta intiera la
cura, in una parola ebbe tutto. Gli altri due, cioè il
Sacerdote, ed il Levita, benché fossero persone più
accredita-te, più civili, più letterate, e forse anche più
denarose, ma perché non avevano carità, per quel meschino
furono come niente; così parimenti può dirsi d’ogni
Confessore, che non abbi viscere di carità. Eh!… sì
l’eclesiastico privo di cotesta bella virtù farà ben poco in
ogni ramo d’occupazione, che sarà per scegliere, ma
principalmente si guardi d’assumersi cotesto carico, poiché
riuscirà un bel niente. Tre sono principalmente i punti, in
cui deve farsi conoscere, lampeggiare la carità del nostro
Sacerdote, nell’accogliere cioè il penitente, nel sentirlo, e nel
disporlo, come vedremo brevemente.
Primieramente la carità lo terrà sempre pronto a sentire
chi lo dimanda; qual servo che sta a padrone sta è sempre
sulle mosse ove lo manda la voce del suo Signore, nessun
tempo, nessun luogo eccettuato, di giorno, di notte, in
chiesa, in camera quando si possa per legge, perfino alla
campagna Egli è a’ cenni di chi lo dimanda. Che pietà non
fanno quo’ poveri penitenti, che sono già ore che

245
attendono, dimandano, e tornano a dimandare, ed il
Sacerdote non compare: lasciamo correre quando si trovi
occupato in altre opere del Signore, ma purtroppo per poca
voglia, per dormire, per scherzare con altri, o per altre
faccende tutt’altro che proprie dell’Eclesiastico; e che
promettersi da un tale Confessore, che mostra da principio
si poca carità: Esempio di chi se ne partì perché vidde il
Sacerdote ecc. saprà poi soffrire, compatire, ragionare,
persuadere con pazienza, e dolcozza: cercar di contentare,
ed obbligarsi un cuore con maniere caritatevoli, insinuanti
fino al punto di guadagnarlo, o almeno concepirne speranza
di ottenerlo un dì; è impossibile, cari miei, e misero quel
penitente, che capita in Confessori di questa fatta: oh se
avessi capitato meglio, diceva piangendo un penitente
moribondo, non avrei commesso tante colpe, non avrei
condotto la vita, che purtroppo ho tenuto tanti anni
addietro, e voleva alludere alle parole un po’ dure con cui
era stato accolto; ed è questo il primo, il principale effetto,
che ha da operare la carità del Confessore nell’accogliere il
penitente, cercar i termini, i modi più benigni per allargare il
cuore alla persona, che si presenta; forse parrà una cosa
facile a praticarsi, ma il farlo sempre senza distinzione con
ogni sorta di persone, quando è uno già stanco, annojato,
colla testa occupata già dichisaquante faccende, quando uno
ha croci, incomodi di salute, non è si facile come si crede, e
quante volte una parola, un tratto meno caritatevole in tali
occasioni, sfuggito ad un povero Confessore può aver
conseguenze funeste, come purtroppo si vede
coll’esperienza; il penitente non ha da sapere la nostra
stanchezza, i nostri fastidii, la nostra innavertenza, epperciò
è un momento a farsi un idea sinistra, o men favorevole
non solo del Confessore, ma della confessione medesima;
aggiungete che il demonio che fa una guerra così accanita a

246
questo Sacramento, perché ne sente le perdite, sa cogliere
tutti i fili, tutte le occasioni per allontanarne quanti ne può.
La carità, di cui vi parlo è fatta per andar al riparo di si fatti
pericolosi, e far sì che chiunque s’accosti abbi a trovare
quello che veramente deve essere un Tribunale di
misericordia, e di carità. Coraggio o caro, che questa volta
la finiremo col demonio: che bel momento con una parola
poter comprare il paradiso. Oh se foste venuto più presto:
ah! se verrete qualche volta, vedrete che giorni tranquilli,
che vivere quieto; sì coraggio, ripeto, per poco che voi
facciate, il resto lo farò io, il più lo metterà il Signore;
guardate quanto v’è di meglio in Cielo ed in terra tutto sarà
per voi, solo che lasciamo la colpa: la quiete, la pace, la
benedizione del Signore, la grazia sua una vita, una morte
santa, finalmente il paradiso, solo che si lasci il peccato: son
questi i sentimenti, con cui sono soliti ad accogliere i
penitenti i Confessori pieni di zelo, e di carità; e tale fù
sempre la pratica de’ Santi, e degli uomini Apostolici, che
fecero tanto bene per mezzo di questo Sacramento. S.
Francesco di Sales etc. S. Francesco Saverio abbracciava, e
bagnava di lacrime di tenerezza i suoi penitenti. S. Filippo
non poteva contenere l’allegrezza, e la gioia quando si
vedeva avanti certi penitenti, che non aveva veduto da
qualche tempo. Lo so che ad accogliere certe persone
bisogna astenersi assolutamente da ogni gentilezza di tratto,
e mostrarsi anche ne’ termini, ma la carità sa trovar modo
di compiere un dovere senza contravvenire ad un altro
maggiore. Può capitare alle volte benissimo che un
Confessore non abbi più tempo e forza a sentire una
persona, ma in questi casi stiam ben all’erta per non far
qualche perdita troppo dolorosa, tanto più che sul finire, e
ad ora tarda soventi si trova chi ha litigato più lungamente
col demonio per venirvi. In queste circostanze riceviamo

247
sempre dolcemente la persona, e per questo non ci vorrà né
gran tempo, né grandi forze; facciamole conoscere il
dispiacere, che vi abbiamo da non poter soddisfarla; ma
intanto per assicurarcela usiamo due mezzi: fissar un
tempo, e pretendere la caparra; in che modo? è presto fatto;
con qualche domanda si cavi una qualche colpa, e tra quelle
che possono pesar di più al penitente, e poi si rilasci,
possiam esser sicuri, che ritornerà. Ecco adunque gli effetti
della carità nell’accogliere i penitenti: accorrervi quanto più
possiamo con prontezza, e facilità; accogliere tutti
egualmente senza distinzione alcuna, ed io darei licenza di
farne una sola preferenza, qual’è, confessar piuttosto gli
uomini che le donne; chi può e vuole farla, la pratichi pure,
che si troverà contento. Una donna altercava, e molto etc.
perché il Confessore dava la preferenza agli uomini.
Interrogata dal Confessore se egli faceva bene, e se
l’avrebbe consigliato a far diversamente: nò, rispose, lui fa
bene, ma io ho la bile. 3. Nel presentarsi i penitenti
proccurar d’usar loro parole d’incoraggiamento, e di
franchezza, e tutto ciò farlo in modo grave sì, ma dolce,
benigno, cordiale, sicché il penitente conosca che prendiam
totalmente a cuore la causa sua.
L’altra parte, che ha da sostenere la carità, è quella di
sentire i penitenti. Gli uni sono ignoranti, rozzi, grossolani,
che non intendono; altri che vogliono saperla, e pajon
venuti più a dettar leggi, che riceverne, e forse ne sanno
meno degli altri. Certuni talmente soprafatti da paure,
inquietudine, affanni, che a nessun conto vogliono
quietarsi. Certi altri duri, ostinati, pertinaci che non la
vogliono cedere. Chi è prolisso, nojoso, minuto nello
spiegarsi quasi da far morire d’inedia chi è talmente parco
che ci vuol tutto a cavarci le parole. Chi si contradice, chi
ripete ; chi è pronto, vivace da prender fuoco ad ogni

248
parola, chi al contrario è languido, quieto, flemmatico che
niente lo scuote: come cavarsela con tutti costoro? La carità
trova modo di farsi tutta a tutti per guadagnarli al Signore:
omnibus omnia factus ut omnes Christo lucri facerem. 1° Cor. 7;
come diceva l’Apostolo. Il Confessore nella sua carità sa
trovar maniere di appagare, di contentare tutti; tace, parla,
dissimula, risponde, pronto, o tardo, pieghevole, e fermo
secondo le circostanze, le disposizioni, ed i caratteri; ma a
tutto questo non v’arriva il Confessore quando non abbi un
buon fondo di carità; perfin alle ingiurie in Confessionale
non si deve apporre altra difesa che la pazienza, la dolcezza,
la carità. Ma si potrà mai parlar con un po’ di tono, di
asprezza, in Confessionale; con gravità, con brevità sempre,
con fermezza, e irremovibile molte volte; con asprezza, con
durezza mai; in quel sito non devono essere conosciute
quelle maniere di trattare, e parlare. Sofferenti, caritatevoli
nel sentire, e quando hanno incomodi, e ributtano, e
quando infermi si trovano tra immondezze, e fetore. Un
Sacerdote si chiuse la strada, e perdé affatto la causa d’un
tale per un solo tratto che usò. Nel presentarsi nel letto
l’infermo cercò di prender la mano al Confessore in segno
di confidenza; quel Confessore gliela porse a malincuore, e
ricordatevi che era un uomo, poiché con donne è un altra
faccenda; s’accorse l’ammallato; di più appena l’ebbe tocca
il predetto Confessore cercò destramente di stroppiciarla
colle lenzuola; bastò questo tratto da non volerne più
sapere. Ma era obbligato il Confessore ad usarle quel segno
speciale di amicizia, e questa stretta di mano, quando vi
fosse stato qualche pericolo; non era il caso; ma anche
supposto, io non fo la questione se fosse obbligato, dico
che un Sacerdote ben fornito di carità piuttosto che
allontanarsi un penitente con disgustarlo, l’avrebbe fatto; e
poi il Signore disponga come vuole della sua vita, conviene

249
anche a lui a con-servare gli Eclesiastici di questo Spirito.
Come resta gravoso a’ penitenti il vedere il Confessore
impaziente, che pena, che soffre a sentire, e lascia quasi
nemmen loro il respiro tanta è la fretta e la premura con cui
pretende che si sbrighino, sino al punto che alle volte essi
medesimi sono costretti a pregar il Confessore: abbi
pazienza, il Signor lo pagherà, ma permetta che le apra il
mio cuore, e le mie pene; ecco lo scolare che si cangia in
maestro; la pazienza, la carità che non ha il Confessore, si
trova nel penitente; naturalmente parlo di que’ casi, in cui vi
sia un bisogno, od un utile a sperare, che parli il penitente;
altrimenti sarebbe una carità mal intesa il soffrirli. Carità nel
dissimulare i loro difetti nel confessarsi che sono molti,
saltano quà, saltano là, quante cose, quante storielle, che
non hanno che fare: siccome per lo più lo fanno per
ignoranza, invece di rimproverarli, sgridarli, che
s’offendono quasi non sapessero confessarsi, come infatti
non sanno, bisogna con carità e destrezza far loro capire il
vero modo, instruirli, ma con cautela, e riguardo che non la
prendano a male. Carità adunque nel sentirli in modo
conveniente, adattato a tutti, e per ciascuno, sicché ognuno
trovi nella sua Confessione un motivo, uno sprone, un
eccitamento a ritornarvi altra volta.
Carità finalmente nel disporli, ecco l’ultimo tratto, e
periodo della carità, e dello zelo del Confessore, ed appunto
perché l’ultimo deve spiccare ancor più. Io distinguo
quattro sorta di penitenti in ordine all’oggetto, di cui
parliamo. Gli uni sono buoni, ovvero pentiti, e pienamente
disposti; altri no, ma si lasciano disporre. I terzi, che non si
riesce, ma abbiam speranza di ridurli altra volta. Gli ultimi
poi, con cui possiamo far niente, e nemmen concepire
speranze in altra occasione. Io non intendo qui di aprire
una scuola, od una conferenza di Morale, e dire se, e

250
quando costoro vadino assolti, che mezzi, che regole loro
prescrivere, che pretendere per assicurarsi; io lascio a parte
tutto questo, e cerco solo qual sia l’uffizio di carità, che il
Confessore ha da compiere con ciascheduna classe di
Suaccennati. Co’ primi l’affare è presto terminato:
rallegrarsi con loro, assicurarli maggiormente, e proccurare
che questa gente non lasci solo il peccato, ma tenda a virtù,
e perfezione, mostrare loro il modo , come già abbiamo
detto una volta, di praticarla nel loro proprio stato, e
vedrete come soventi è fertile cotesto terreno, e con quanti
frutti risponda a quella mano, che ha la carità di coltivarlo.
Andiamo agli altri, che si presentano indisposti, come
regolarci con loro: dire che vadino, si dispongano, e poi
faccian ritorno altra volta; così pare che si usi da tanti; ma
ritorneranno? ed anche ritornando, il tempo avrà dam loro
quelle disposizioni, che non avevano? Sarà difficile; dunque
converrà dir loro nuovamente che vengano la terza volta, e
saranno sempre i medesimi: eppur come fare? come fare?
non vi sarà obbligo nel confessore quando si trova con
penitenti tali cercar ogni mezzo di indurli, di convertirli
prima di rimandarli? Io credo di si, e come volete che la
carità non mi obblighi a parlare, o soccorrere il prossimo,
quando si trova sull’orlo della rovina, e perdizione, ed io lo
posso fare con tutta comodità: se si potesse tacere in questi
casi, non so in quale altro si dovrebbe parlare: ma la
necessità altrui è volontaria, e potrebbe cavarsi, e pentirsi da
se; questo non toglie l’obbligazione in Morale, e voi lo
sapete che v’è obbligo di corregere il prossimo in peccato,
ed il peccato è sempre volontario alla persona. Non so se
m’ascolterà! almeno si faccia la prova, tanto più che la
Confessione quando fosse spontanea sarebbe già un buon
indizio, ed in qualunque caso è la migliore occasione che
possa presentarsi per tentare di guadagnare un nostro

251
fratello. Ma e con che mezzi, per qual via si avrà a prendere
per ridurlo, eh, miei cari quando il Confessore, abbi le
qualità volute, sia buono, sia dotto, e principalmente pieno
di carità, troverà il mezzo acconcio per operare cotesto
tentativo di Salute. Senza stendersi in un discorso, che
finirebbe con annojarlo, un cenno un po’ infuocato sulla
vita infelice, che conduce, sul peso del peccato,
sull’incertezza, che dì per dì lo circonda, sul rimorso, e sul
dolore, che un tempo avrà a provare, sulla facilità
dell’emendarsi, sui beni, sulla pace, tranquillità, e quiete che
verrebbe ad avere, quel contento, quella gloria, quel
paradiso, che potrebbe già contar come suo, un pensiero
l’altro facilmente l’indurrà a risolversi. Che se poi non arriva
a tanto, ma ci lasci speranza di venire a migliori sentimenti,
e che faccia conoscere di presentarsi altre volte da noi, o da
altri, non ci rimarrà che far di tutto onde assicurarci che
ritorni con tutte le promesse le più lusinghiere, ed
allettevoli, saremo sempre da lui, dargli perfino la
preferenza in qualunque ora, che faremo quanto possiamo
a suo riguardo a costo quasi di doverne render conto noi
medesimi, nessune minaccie, anzi promesse di pochi
carichi, e penitenze , e andate dicendo. Ma a che dire, e che
fare quando avessimo a’ piedi certa sorta di gente che non
vuol saperne in alcun conto, e resiste dura, ed ostinata a’
tratti più fini di carità da dirvi perfino che se vanno
all’Inferno, loro niente importa piuttosto che lasciare il
peccato, purché possano godere quel che vogliono. Eh!…
pare che la causa di costoro sia da tenersi come disperata,
se non vi fosse sempre a sperare in quella grande
Misericordia, che vuol tutti salvi, e appunto pazienta, ed
aspetta cotanto, perché non vuol punire. Il Sacerdote che è
posto a far le veci, le parti in terra di questa misericordia sì
grande, faccia un ultimo sforzo, e cerchi nella sua carità un

252
pensiero da dar loro come un ultimo filo di speranza in
questa fatale partenza: figli, come m’accorgo, noi non ci
vedremo più in questo mondo: però ci troveremo un dì
nell’altro: se sei contento, o vivo, o morto pregherò sempre
per te. Figlio, tu sei infelice, perché hai capitato male in
questa mattina; se avessi trovato un confessore migliore di
me, tu a quest’ora saresti pentito, perdonato, saresti salvo;
invece sei sull’orlo dell’Inferno, e chi sa fra domani, cosa
sarà di te; prega Iddio, che mi perdoni, e che presto non
abbi a render conto per te. Figlio, io morrò presto: prega
che io mi salvi, perché giunto in paradiso voglio far tanto
per te, che un giorno abbia a veder anche te ad arrivarvi.
Alle volte un sentimento di questa fatta bastò senz’altro a
formar un penitente, e far cadere una rocca, che pareva
incrollabile: ma supponiamo il peggio che parta, e che ci
lasci senza speranza di sorta, noi non sappiamo quello che
sarà per operare il Signore con quel pensiero; e chi sa che
non voglia coronare uno sforzo così pietoso del Suo
Ministro, e fare che si salvi un anima, per cui s’è lavorato
cotanto; se non altro sarà sempre una prova di più per
giustificare quell’infinita Misericordia in un col suo
ministro, che lo volevan salvare. Che se è perduto, Egli solo
ne è la causa, da se medesimo ha fatto la sua rovina. Ecco
adunque, o fratelli miei cari, i Caratteri del vero Eclesiastico
Confessore: Egli sia buono, e bontà non ordinaria, e
comune; Egli sia fornito a sufficienza di scienza, e di
dottrina; Egli attento e vigilante e sopra di se, e del suo
Ministero. Egli finalmente, e soprattutto pieno di pazienza,
e carità; carità nell’accogliere i penitenti, carità nel sentirli,
carità nel disporli, carità insomma benigna, sollecita,
industriosa, che cerchi, che tenti ogni mezzo per impedire
le offese del Signore, e salvare se fosse possibile tutti quanti
i peccatori. Oh volesse Iddio mandare molti di questi

253
operari nella sua mistica Vigna! Preghiamolo perché voglia
provvederne a tanti poveri popoli che gemono tra tanti
bisogni e pericoli ; e noi, fratelli miei facciam di tutto per
corrispondere a si alto fine sicché come degni Ministri del
Santuario possiamo coll’esercizio del nostro ministero
salvare molte anime, ed assieme a loro entrare un dì a parte
di quelle feste, e trionfi che già là ci attendono ne’ secoli
eterni nel bel paradiso. Così sia.

Istruzione decimosesta
Conforti, e consolazioni del Sacerdote.
Nel corso di cotesti esercizi abbiamo veduto che cosa
sia, che cosa debba essere un Sacerdote nella Chiesa del
Signore. L’altezza del grado, che egli occupa, le virtù, che
devono corrispondervi; gli intoppi, i pericoli, le difficoltà,
che gli tocca superare, e finalmente le obbligazioni e molte,
e grandi che continuamente gli incombono. Tutto ciò può
essere che in qualcun di noi abbi destato un po’ di timore,
di sbigottimento, e di affanno. Chi sa che qualcuno non
abbi pensato, o detto tra sé e sé… ma forse sarebbe stato
meglio che avessi preso un altra strada, se avessi ancor ad
abbracciar cotesto stato vi penserei due volte. Chi sa ancora
come avrà da finire per me. Eppure che farci? ora sono
sacerdote, indietro non si ritorna; andiamo adunque avanti,
e poi sarà quello che sarà! ed è facilissimo che così nasca la
melanconia, la tristezza, la pusillanimità, o si dia in una
specie di non curanza, rilassatezza e dissipazione quasi da
dimenticare un avvenire che ci fa paura. Oh! sì che il nostro
nemico è troppo scaltro per tentar anche codesta assalto;
molto più quando l’eclesiastico avesse avuto la disgrazia di
cader in peccati, ed offender Dio. É vero che in questi di
noi abbiamo cer-cato la maniera di ribattere ogni sorta di

254
tentazioni, l’abbiamo meditato più volte che Iddio ci ha
chiamato quà per salvarci, ma la causa è troppo importante,
per doverci torre ogni dubbio, per sbarazzarci d’ogni
difficoltà, e sforzarsi a guadagnarla a qualunque costo.
Iddio ci ha parlato e continuerà a parlarci in più maniere:
variis et miris modis vocat Deus dice Agostino: vocat tempus
impertiendo, e fù appunto la voce di questi pochi giorni, che
ci concesse in questa solitudine. Vocat per divinam cognitionem
e quanti lumi e nuove e più vive cognizioni ci avrà mandato
in codesta occasione. Vocat per flagellum correctionis.
L’abbiamo sentito più volte, tanto più nelle Meditazioni, i
flagelli, i castighi che purtroppo avrebbe a temerne un
sacerdote peccatore: Vocat per Misericordiam consolationis, ed è
questa la voce che adopera più soventi, perché più gradita e
conforme al suo cuore di padre, più tenera, più sensibile e
perciò anche più forte, ed efficace per noi; ed io voglio
appunto chiudere le mie considerazioni, ed i miei
trattenimenti con questo linguaggio di bontà, e di
consolazione, riandare cioè con Voi i motivi di conforto
che devono animare e sostenere un buon Sacerdote, nella
sua Apostolica carriera. Conforti e consolazioni del
Sacerdozio nostro, ecco l’ultimo argomento da considerare
con Voi. Sia questa come la nostra stretta di mano, il saluto,
l’addio della nostra divisione e partenza, ma addio di pace,
di consolazione; addio di fortezza, di coraggio, a
mantenerci fermi e costanti ne’ nostri doveri finché suoni
per ciascun di noi l’ultima ora della sua mortale carriera.
Cominciamo.

Trattandosi di porvi sott’occhio i motivi di coraggio, e di


consolazione per un sacerdote potrei per primo addurvi
quella pace, quella calma, quella tranquillità che da il
testimonio di una buona coscienza e certo lo accompagnerà

255
in tutti i suoi giorni. Potrei citarvi il contento, il gaudio, la
consolazione che si provano ogni volta che l’eclesiastico
può salvare un anima dal peccato, impedire un offesa del
Suo Dio, o compiere qualunque altra opera del Signore:
consolazione e gioia che faceva dimenticare all’Apostolo
tutti i suoi travagli, e sofferenze, ed era costretto ad
esclamare che il Suo contento era talmente grande da
sorpassare ogni sorta di croci e tribolazioni: repletus sum
consolatione: superabundo gaudio in omni tribulatione nostra.
Oh! sì, fratelli miei, se v’è una goccia di paradiso sparsa
pel mondo, ella è per noi, ella sta riservata al buon
Sacerdote talmente che diceva Agostino: che nihil
laboriosus… si praesbiteri officio sed nihil beatius. Le vite di tutti
gli uomini Apostolici, che ci precedettero, come quelli, che
vivono oggidì possono essere altrettanti argomenti di
cotesta verità. Motivo di gran conforto per un Sacerdote
certamente deve essere il pensiero di quella morte santa,
preziosa e felice, che lo attende: ah! che bel morire, cari
miei, dopo d’aver lavorato pel Signore; ah! che bel termine
di vita io veggo riservato pel Sacerdote che abbi corrisposto
al gran fine di sua vocazione. Potrei ancora annoverare tra
questi conforti la speranza, anzi la certezza, la vista di quella
paga, di quella mercede sovragrande, che ci aspetta lassù in
Cielo; ma per non dilungarmi, io lascio a parte tutto questo
che v’ho accennato, e mi limito a farvi considerare queste
tre cose. 1º cioè che l’Apostolato, il Ministero nostro non è
opera d’uomo, ma di Dio, e che perciò il mondo potrà
cozzare, combatterla, ma vincerla, atterarla, mai. 2. Iddio
avendoci chiamato a cotesto gran Ministero, ed
Appostolato ci ha destinato assieme tutto quel corredo di
grazie, e di ajuti, di cui fossimo per bisognare per riuscirvi,
di modo che niente ci deve paventare, ed atterrire come
superiore e al di là delle nostre forze.

256
Quasi che non bastasse per torci ogni sorta di paura ci
ha promesso chiaramente una special cura, ed assistenza, e
di più ci ha posto sotto la salvaguardia, e ci ha dato per
braccio forte chi dopo di lui resta il più potente, qual è la
stessa sua Madre Maria.
Badate bene, diceva già Gamaliele là al Consiglio de’
Farisei, che se la volevano prendere co’ primi sacerdoti,
cogli Apostoli, badate bene a quello che fate riguardo a
questi uomini: Viri Israelitae attendite vobis super hominibus istis
quid acturi sitis? poiché se quest’opera è da Dio, voi non
potrete disfarla, ed attaccandola ve la prendete con Dio
medesimo: si ex Deo est non poteritis dissolvere illud ne forte et Deo
repugnare inveniamini. Act. Ap. Cap. 6. La scuola è di diciotto
secoli e più, e non si vuol capire. Cotesta grand’opera ha già
affrontato ogni sorta di nemici, ha sostenuto ogni sorta di
battaglie, ha offerto ogni genere di martori, di pene, di
villanie, di ingiurie, ma li ha sempre sbaragliati, mentre tutti
passavano e sparivano, essa sola attraversò i secoli, e vi
restò, e vi resterà a dispetto di tutti i suoi nemici sino al fine
de’ secoli. Dia adunque mano soventi il Sacerdote a questo
specchio, apra più spesso che può cotesto libro, e ravvivi la
fede, pensando che l’opera sua è quella medesima che conta
già tanta serie, e tanti secoli di vittoria, e trionfi. Faccia pure
quello che vuole il mondo, e l’Inferno, ma di questa
grand’opera non si compierà un jota di più o di meno di
quello, che sta registrato lassù.
Qualcuno può dire: tutto questo è vero quando io parli
della Chiesa, e dell’Appostolato in grande, in generale; e
non già in particolare per ciò che riguarda ciascun
Sacerdote. Attenti, o cari, noi sappiamo che sotto nome di
Chiesa s’intende la Congregazione de’ fedeli dispersi sotto il
reggime de’ rispettivi pastori, e questi tra loro uniti, e
dipendenti da un capo visibile, e supremo. L’Appostolato, il

257
Ministero Evangelico non è altro che l’opera di cotesti
Reggitori, ognuno nella propria sfera pel bene spirituale de’
fedeli co’ mezzi da Dio medesimo, oppure dalla Chiesa a
nome suo ordinati; sicché quanto opera ciascun di noi
come Sacerdote, se celebra, se predica, se amministra
Sacramenti, andiam dicendo forma parte di quel tanto, di
quel tutto, di quell’opera insomma che tutti gli sforzi del
mondo non arriveranno a vincere, ad atterrare; e quando il
mondo ci assale non è già la nostra persona che voglia
combattere, e che ne stia di mezzo, sia presa di mira, ma
l’opera di Dio, che si compie per mezzo di noi, come era
nel caso degli Appostoli, e questa potrà esser bersagliata,
mai vinta però. È vero che tutto questo non impedirà che il
Sacerdote abbi a soffrire, come ebbero a soffrire gli
Appostoli. Il mondo fù sempre così, e continuerà ad esserlo
sino al fine, sia rabbia e vendetta per non poterla spuntare,
sia lusinga di riuscirvi una volta, non ci lascia quieti. È
finita; noi gli siamo un oggetto di rimprovero, di
confusione, d’intoppo a’ suoi disegni, epperciò ci farà
sempre guerra; ma niente importa: soffrano pure le
persone, frante le une sottentreranno altre più forti ancora,
perché l’opera di Dio, il Suo Appostolato, la sua Chiesa, il
Ministero nostro trionfi.
Iddio ci ha chiamati a militare sulla terra per codesta
grand’opera e con questa Vocazione ci ha preparato
assieme tutto quel corredo, tutto quel numero di ajuti, di
grazie, ed a quel grado, che sarebbero state necessarie per
ciascun di noi. Secondo conforto, e consolazione pel
Sacerdote.
Vuol mandare Mosè a Faraone? gli compare, e gli ordina
di presentarsi. Mosè teme, e cerca di dispensarsene.
Coraggio, che tante difficoltà, ripete il Signore, io farò per
te; se Faraone è fermo, ed aggraverà la sua mano, io

258
aggraverò la mia più di lui. Coraggio, o profeta, sciogli la
lingua, rinfaccia a Re, ed a popoli le loro scelleraggini, la
mia collera, i miei castighi. Geremia tentennava e diceva:
sono troppo giovane, so quasi nemmeno parlare; sta quieto,
ripete Dio, noli dicere: puer sum et nescio loqui. Io sarò con te, e
ti darò un petto, una voce, davanti cui nessuno oserà
fiattire. Ebbene Iddio ha fatto un’altrettanto con noi, e se
volete con minore strepito, e non tanta nostra sensibile
consolazione, ma non con minore sicurezza. Iddio ha
chiamato ciascun di noi al Sacerdozio, e chiamandolo ha
determinato il Suo campo e la sua strada, ha previsto gli
intoppi, i pericoli, le difficoltà, che doveva incontrare, in
conseguenza il bisogno di scienza, di prudenza, di virtù, di
fortezza che gli sarebbe stata necessaria, ed a tutto questo
ha previsto, ajuti ordinari, straordinari, lumi, inspirazioni,
protezioni, assistenza, tutto fù messo come a parte per noi
e fu lo stesso come se il Signore ci avesse detto: senti, io ho
pensato a te e voglio che mi sii sacerdote sulla terra,
ministro, cooperatore nella salute delle anime, in quel paese,
in quell’impiego, nel tal tempo; non occorre che tu mi dica,
mi osservi questo e quello, io lo so quello, che avrà a
toccarti; sarà impossibile andare avanti senza contrasti e
molti, e grandi; ma non temere io ho pensato per te.
Fortezza, prudenza, sofferenza, ogni cosa insomma avrai a
suo tempo. Dovrai in certe occasioni essere maggiore di te
stesso, andare al di là di ciò, che tu sei, tel dico, l’ho già
fatto con altri, lo rinnoverò nella tua persona; e basta
leggere la vita, le gesta di tanti operai Evangelici, che fecero
sì gran bene per accertarsi di cotesta verità; quanti intoppi,
quante difficoltà, quanto strepito e rumore, eppur vi
riuscirono. Noi stessi nel nostro stato, e nel nostro poco
l’avremo potuto vedere come Iddio ci abbia dato la mano
in certe strette, ed occasioni; que’ lumi, quei pensieri, quelle

259
maniere, quelle sortite che quasi senza pensarvi ci vennero
alla mano e riuscirono sì bene, formavano proprio parte di
quel tanto, che Iddio aveva già preparato per noi. Infatti
non può essere altrimenti; e volete che un padrone incarichi
un servo d’un lavoro, e gli comandi d’eseguirlo senza
fornirlo nello stesso tempo e mettergli tra mano tutti quei
mezzi, che sono necessari per compierlo? Tutti i SS. Padri,
e Teologi vanno d’accordo nel dire, che nel punto
medesimo che Iddio destina una persona per un qualche
stato, mette già a suo conto quanto col tempo, e nelle
singole circostanze gli sarà necessario di grazie, di lumi, e di
soccorsi sovrannaturali; tanto più quando cotesto stato si
inizia col Sacramento, come è nel caso nostro, poiché noi
sappiamo che i Sacramenti, oltre la grazia santificante,
producono ancora un’altra grazia, detta Sacramentale, la
quale consiste nel complesso di tutti quegli ajuti speciali che
servono a ben disimpegnare quanto ci addossiamo con quel
tal Sacramento; e la stessa ragione basta a convincerci di
cotesta verità. La Vocazione è vero, che è gratuita, e senza
alcun nostro merito, ma posto che Iddio ci voglia per pura
sua bontà elevarci tant’alto, noi abbiamo un tal qual diritto,
che Iddio ci aiuti, e ci dia quel tanto che ci fa d’uopo per
sostenerci; di modo che qualunque sia la stretta, in cui avrò
a trovarmi, qualunque la necessità, ed il bisogno in cui sia
per mettermi il mio Ministero, e non già il mio capriccio, io
posso esser certo e pensare che Iddio mi sosterrà senza
riserva di mezzi a costo anche d’un Miracolo, quando così
voglia la gloria sua, e la salute delle anime. Ditemi adunque
se cotesto riflesso non debba essere un gran conforto pel
Sacerdote.
Ma qui rispondiamo, a qualche dubio. Ma… e se io vi
coopero, che vale mi sieno preparati tutti questi aiuti. Oh!
fratelli miei, qui io non ho che dire; tutte le grazie, e quanti

260
aiuti voi potete immaginarvi non ci fanno buoni preti, e
non ci salvano per necessità, di modo che se colpevolmente
li rifiutiamo, non ce ne serviamo, la colpa è nostra, e non
già dello stato; e questo tanto per noi, come per qualunque
altro. Ed è come colui, che avesse a fare un viaggio, tiene le
gambe buone, se non vuol camminare, ci pensi. Questo è
presto capito. Ma… e se io non fossi stato chiamato, e
allora come finirà per me, quando ci fossi entrato senza
Vocazione. Cotesta sortita non si può negare, è un po più
seria, epperciò ci converrà fermarvici un po’ sopra.
Primieramente io parlo tra noi, ed a un ceto di Sacerdoti,
che spero ciascuno avrà in cuore il conforto, ed il
testimonio d’esservi stato chiamato, e con ciò sarebbe
svanita la difficoltà; ma giacché la cosa è di tanta
importanza, parliamo anche pel supposto peggiore, che
qualcuno vi si trovi in questo stato senza Vocazione.
Io comincio a premettere due punti di certezza, anzi di
fede, 1º cioè che non si da peccato irremissibile sulla terra.
2° che nessuno si danna per necessità, e se si perde sarà per
sua colpa, poiché avrebbe potuto salvarsi. Ciò posto può
dirsi che la difficoltà è risolta e cade da sé. Il Sacerdote, di
cui parliamo, si penta del peccato commesso, quando
conscio di non essere chiamato, vi sia entrato, e quindi si
metta a vivere da buon Sacerdote, e stia certo che non si
perderà. Ma e gli ajuti per andar avanti, non essendogli stati
preparati, perché non chiamato dove li avrà. Ecco il nodo,
che però si può facilmente sciogliere. Siccome il Signore
vuole, e con decisa volontà che tutti si salvino, e nessuno
per colpevole che sia si danni, ad eccezione che
ostinatamente voglia dannarsi, da a tutti indistintamente la
grazia di domandargli gli ajuti per scanzar la dannazione, e
salvarsi, e dimandandoli, Iddio per sua misericordia le darà
quanto per una certa giustizia, per un certo debito le

261
avrebbe donato perché voluto dalla sua Vocazione; e tutto
questo, fratelli miei, è certo e teologico da non poterne
dubitare, sicché per conchiudere, chiamati o non chiamati,
chi vuol essere, e vivere da buon sacerdote, può riuscirvi, e
facendolo, sarà salvo.
Ma almeno, sarà più difficile? eh!… io non entro a
definirlo, anzi voglio anche ammettere sia vero, come colui
che ha sviato la strada, ha da faticare di più per rimettersi
che colui, che l’ha solo da battere; ma ciò poco importa;
purché possa, e servirà a scontare il peccato passato, e
proccurarsi maggior materia di merito.
Il terzo conforto, e consolazione pel Sacerdote sta nella
promessa che ci ha fatto ripetutamente il divin Redentore
d’aver di ciascun di noi una special cura ed assistenza, e
d’averci un ajuto così possente nel patrocinio della stessa
sua madre Maria. Io non so immaginarmi un altro tratto,
un’altro pensiero, che debba animare, consolare un
sacerdote più di questo, che stiamo dicendo. Primieramente
non c’era alcun bisogno di dircelo, poteva farlo, lasciarcelo
sperare ma nò; volle che n’avesimo tutta la certezza; e
come? cercò i termini più chiari, le espressioni più sensibili,
e significanti; non si contentò di dirlo una volta sola, ma più
e più perché conoscessimo come noi gli stavamo a cuore;
ce lo volle ripetere nelle occasioni ultime, e più toccanti,
come quelle avanti alla sua passione, ed ascensione al Cielo,
perché sappiamo che le ultime parole sono sempre le più
care. E che cosa ci disse: e qui l’importante:
Non relinquam vos orphanos, non crediate ch’io abbia il
coraggio di lasciarvi soli.. vobiscum sum usque ad
consummationem saeculi, e qui è chiaro, che parlava di noi; ed a
che fare sarebbe rimasto tra noi? Capillus de capite vestro non
peribit; veramente se avessimo da fare con uomo diressimo
che s’è lasciato trasportare, ed abbia usato una frase

262
d’esagerazione: dire che avrebbe tenuto perfin conto de’
nostri capelli. Eppur è così, è Iddio che parla, e non è lecito
a noi di restringere, limitare le sue promesse; e se stentate a
credere, vi dirò di più; chi rocca voi, non solo chi vi
maltratta, chi vi tocca soltanto, tocca me, anzi come venisse
a toccarmi, a ferire la pupilla dell’occhio mio: qui vos spernit,
me spernit; qui tangit vos, tangit pupillam mei. Coraggio,
adunque, avanti, non temete, questo mondo, che forse
tanto vi spauracchia, io l’ho già atterrato, l’ho già vinto per
voi: confidate: ego vici mundum. Io non so che cosa possa
desiderare di più un Sacerdote, quando abbi un po’ di fede,
anzi chi di noi avrebbe osato portare tant’oltre le sue
speranze, se Iddio medesimo non ce l’avesse detto. Datemi
un padre, che tenga cotesto linguaggio con un suo figlio, e
poi ditemi, che cosa posso ancor pretendere, anzi
desiderare di più.
Eppur il divin Redentore trovò maniera pel suo
Ministro, pel caro suo Sacerdote d’andar più avanti, e fate
di più di quello che farebbe un padre terreno per buono
che egli fosse. Era agonizzante sulla Croce, quando si vidde
a’ piedi il Suo Sacerdote nella persona di Gioanni, e tanto lo
inteneri cotesta vista, tanto le strinse il cuore il pensiero del
Suo Appostolo, e del suo Ministro, che non volle morire
senza dargli l’ultima prova, l’attestato estremo di Sua
affezione, e nello stesso tempo proccurargli ancora un
ultimo, e forte appoggio in mezzo al mondo, in cui lo
lasciava: fili, ed osservate che non lo chiama Gioanni, perché
non era tanto per la sua persona quanto per la qualità, che
seco portava: fili, ecce Mater tua, che fù un dirgli: figlio e
sacerdote mio caro, io ti lascio, ma il cuore non mi regge di
lasciarti abbandonato a te solo, ecco a chi t’affido ed in
quali mani io ti consegno: la vedi, ella è la Madre mia; d’or
in avanti sarà ancor la Madre tua: sappi valertene; in ogni

263
occorrenza, in ogni bisogno ricordati di far capo da Lei, e
sta certo che ella sarà per te. Io colgo più che volentieri
codest’occasione per parlarvi di Maria, perché sarebbe un
gran vuoto per noi ed un gran torto, e sgarbatezza, che
useressimo verso questa buona Madre, se dopo che ella ha
fatto quasi può dirsi gli esercizi con noi, stette, e dimorò tra
noi, ci assistè, ci animò, ed ebbe mano in tutti in tutti i
nostri progetti, ed in tutto quello che abbiamo fatto in
questi dì, ci partissimo di qua senza dirle una parola, senza
farle un saluto, e senza indirizzarle tutti d’accordo i nostri
ringraziamenti. Nò, non è una Madre da trattarci in quel
modo.
Molte certamente sono le cose, che noi le dobbiamo, ma
molto maggiori sono quelle senza dubio che noi possiamo
aspettarci dal suo bel cuore. Amor, ed ossequio sono le due
obbligazioni, che in speciale modo corrono al Sacerdote
verso Maria; ajuto, e sovvenzione in ogni nostro bisogno, e
segnatamente nell’esercizio del nostro Ministero egli è
quello che questo buon figlio può ripromettersi da Lei.
L’Amor d’una Madre egli è tanto legittimo, naturale, e
necessario che non occorre raccomandarlo; ella è un
ingiuria per un figlio il solo dubitarne: amare chi ci ha
amato a quel punto, amare chi ci ama cotanto, amare chi ci
attende lassù per stringerci, per abbracciarci, per amarci
ancor più, è impossibile non riamarla. Piuttosto io cercherò,
come, e sino a che punto un Sacerdote, questo figlio
prediletto debba amare Maria? Tra il popolo, e ne’ semplici
fedeli anche rozzi, ignoranti si trovano tante anime buone
che al solo nominarle Maria, al sol riguardarla, col solo
pronunziarla è tale alle volte il trasporto, e piena d’affetti,
che si sveglia nel loro cuore quasi da non poterne più; le
parole, i sospiri, perfino il loro sembiante tutto parla, tutto
da a divedere, a conoscere l’amore, che loro arde nel cuore;

264
Lei m’accorgo, vuol bene a Maria, interrogò una volta un
giovanotto un Sacerdote parlandogli appunto della
Madonna, oh! se sapesse quanto, rispose quella bell’anima,
quanto vi voglio bene; che dovremo dunque dire del
Sacerdote. L’amore porta necessariamente due cose: 1°
guardarsi ben bene dal disgustarla, dall’offenderla anche in
minima cosa: 2. proccurare di compiacerla e contentarla
pienamente in tutto ciò che può essere di Suo gradimento,
e piacere: se in noi vi mancasse o l’una o l’altra di queste
due qualità, è inutile lusingarci, o che non l’amiamo, oppur
che il nostro amore è ben debole, e scarso. Sarebbe una
cosa ridicola dire, protestare di amare una persona e nel
tempo medesimo ci curassimo poco per non offenderla.
Ma… e se si trattasse di cose piccole, peccati leggieri, ed
allora? Fratelli miei chi ama, chi fa professione di amare
trova mai niente di piccolo in ciò che va ad urtare, ad
offendere l’oggetto amato; ed infatti direte voi divoto,
affezionato, e ben amante un figlio verso la propria madre
quando si limitasse a non darle disgusti gravi, e non
cessasse dal darle or in questo or in quello piccoli dispiaceri,
quand’anche sapesse che la riempiono di tristezza, e dolore.
Guardate la delicatezza dell’amore profano: alle volte un
piccolo sgarbo, una parola sfuggita, la mancanza d’un
riguardo, ogni piccola cosa insomma può avere grandi
conseguenze, e può bastare a rompere due cuori, perché la
gravità dell’offesa si calcola sempre dal grado dell’amore
che si porta: un amor comune non ci vedrebbe in
quell’azione che una facezia, una leggerezza, un’inezia quasi
da non farne conto: un amor invece stragrande, intenso, e
delicato vi scorge una reità sua pari, un’improntitudine da
non potersi tollerare. Ognun dunque di noi stia attento
sulla sua condotta, e lungo la sua giornata, e quando il
cuore ci dice: questo io temo non piace, e disgusta Maria,

265
questo purtroppo andrà a ferire il cuore di quella buona
Madre, pronti, fermi asteniamoci, non facciamo tante
distinzioni tra il grave ed il leggiero, altrimenti saremo mai
veri figli amanti di Maria; ma piuttosto figli sì, ma ingrati,
sconoscenti, duri, crudeli, indegni d’aver sortito una Madre
così buona, e fatta per figli migliori. Si vede anche in
peccatori ostinati, quanto sia possente, imperioso il Nome,
il pensiero di Maria. Avviati, pregati a dismettere un oggetto
cattivo, o pericolo, non ne vogliono sapere, ne morte, ne
inferno, ne Paradiso è capace di smoverli, richiesti a farlo
per amor della Madonna, eccitati a non darle questo
disgusto restano mutoli e non osano rifiutarlo; e noi
Sacerdoti ne faremo si poco caso? L’altra cosa che ci tocca
compiere per poter dire veramente d’essere amanti di
Maria, è di compiacerla, e proccurare di contentarla. E
come lo potrà fare un Sacerdote? Lo dirò in poche parole:
Maria allora solo sarà contenta di noi, quando ci vede vere
copie conformi al vero, e primo suo figlio Gesù. Sappiamo
che noi fummo lasciati a Lei in sua vece, quel suo Figlio ci
ha rivestiti sotto i suoi occhi della Sua Missione, ha deposto
nelle nostre mani i suoi poteri, ed uffizi, ci ha incaricati, e ci
ha raccomandato di disimpegnarli a nome, ed in vece sua,
sicché questa Madre non potrà a meno che essere contenta,
e soddisfatta ogniqualvolta, che guardandoci, le parrà
proprio di vedere in persona, e quasi redivivo sulla terra il
Suo figlio, lo stesso zelo, la stessa carità, lo stesso sprezzo
del mondo, delle sua vanità, e follie, lo stesso impegno, le
stesse industrie a cercar peccatori, a salvar le anime, poca o
nessuna cura di noi, della roba degli onori, degli applausi
del mondo, ma unicamente intenti all’onore, alla gloria
dell’eterno divin padre, ah! questo si, mi pare che quasi
stendendo le braccia, ed accarezzandoci debba dire, questo
si è proprio il mio figlio, lo vedo, lo conosco, il cuore, le

266
sue mire, i suoi desideri, progetti, intenzioni sono proprio le
medesime del mio Gesù. Che contento per una Madre, che
consolazione per un figlio, per un Sacerdote buono! ditelo
voi se sia possibile trovarne delle maggiori al mondo.
Finalmente un eclesiastico deve essere un figlio
ossequioso verso Maria, e per essere tale ci vogliono queste
3 cose: 1° far caso, ed avere grande stima di quelle pratiche
che tendono ad onorare Maria. 2° Non solo farne caso, ma
farsene un certo dovere, ed impegno di praticarle esso
medesimo. 3. Procurare nel nostro Ministero d’impegnare
più che possiamo gli altri ad onorarla. Purtroppo che tra
noi Sacerdoti, diciamolo pure a nostra confusione, che si fa
ben poco conto di coteste pratiche che servono ad onorare
Maria, Rosario, coroncine, Scapulari, Medaglie, Novene, pie
Unioni, Compagnie, Visite, preghiere andiam dicendo, ci
pare che siano cose da ragazzi, da donne, da gente rozza,
grossolana, e Dio non voglia che qualche volta si vada più
in là, si rida, si scherzi sopra e quasi si metta in dubio il loro
valore. Lo so che si suol rispondere che la sostanza, e la
vera divozione non consiste in queste cose; lo concedo, ma
Signori miei, se in tutto noi volessimo attenerci solo a ciò
che forma la sostanza della cosa, dove andiamo?
Potressimo anche torre tutti i riti nella Celebrazione della
Messa, ed amministrazione de’ Sacramenti, poiché non
sono di sostanza. Queste cose sono buone, sono utili, e
questo è di fede, la Chiesa le approva, le raccomanda, tutti i
buoni ne fanno gran caso, i più grandi uomini Apostolici le
hanno insinuate, praticate loro pe’ primi, promosse nel
popolo e questo è quel tanto che dobbiamo far noi se
vogliamo essere tra i figli ossequiosi di questa Madre.
Proccurate primieramente di praticarne, se non tutte,
almeno qualcuna di queste divozioni, quindi in tutte le
occasioni che ci verrà fatto, in pulpito, in Confessionale, ne’

267
catechismi, ne’ discorsi famigliari, parlarne al popolo,
mostrar loro il modo di praticarle, la facilità, i vantaggi. Voi
lo sapete, e l’avreste già anche provato, come il popolo
sente tanto volentieri a parlare della Madonna: sarà
annojato di qualunque altra predica, ma se voi lo chiamate a
sentire un fatto, un esempio della Madon-na, se vi fate a
suggerire loro qualche divozione, qualche pratica in
occasione di qualche Novena, di qualche festa, state certi,
che se ne sarà riconoscente e lo mostra nel modo e
coll’attenzione, con cui si fa a sentire. Di più noi Sacerdoti,
e Confessori prender l’usanza di suggerire a’ penitenti di
fare qualche regalo, qualche offerta alla Madonna lungo la
giornata, non già regalo di Moneta, no, ma una parola, uno
sguardo, una curiosità, un dispiacere, un frutto, un piccolo
divertimento secondo le circostanze. Fa mai lei qualche
offerta a Maria, nò, perché non ho niente, ci rispondono. Io
non parlo di denari, ma d’altra roba: io non lo so, me la
mostri. Sta mai alla finestra, sul poggiolo, sulla porta;
qualche volta si, ebbene lasci andare la Madonna per lei etc.
guardate ogni qualvolta ci andranno, ci verrà sempre in
mente e sarà un pensiero molto utile, o che se priveranno, o
che staranno più riservate, o meno tempo. Una donna
interrogata dal Confessore se faceva, o dava qualche cosa
alla Madonna, rispose sì, e qualche volta vi dò un po di
poggiolo, come? dice sì, quando era giovine il Confessore
m’aveva costumato a far questa mortificazione, e cedere alla
Madonna qualche momento che sì mi sarei ancora fermata
alla finestra etc e mi sono mai più dimenticata. Continui,
anzi faccia ancora un patto, che lei continuerà a lasciarla
andare ancora qualche volta sul poggiolo, e che lei la lasci
poi andare in paradiso; osservate il vantaggio di cotesti
suggerimenti e così discorrerete in altre cose.

268
Che cosa avrà ad aspettarsi da Maria un Sacerdote
quando si porti con Lei da buon figlio, amante, ossequioso.
Lo benedirà in vita, l’assisterà in morte, l’accoglierà in
paradiso: ecco tutto detto in poche parole. Le preghiere, le
benedizioni di questa madre lo ricolmeranno di grazie, e
favori sulla terra, renderanno piene di frutto le sue
apostoliche fatiche: oh quanto bene farà un Sacerdote
benedetto, favorito da questa Madre. 1 migliori Appostoli
furono sempre i più devoti di Maria: ah belle azioni, belle
imprese che andranno racchiuse, diceva S. Alfonso tra due
Ave Maria. L’assisterà in morte; io dirò solo che la morte di
cotesti divoti ella è tanto dolce, e consolante che fa venire a
tedio e rende di peso la vita.
Non putabam tam dulce esse mori, è questo più o meno il
termine, la morte dei buoni operari, epperciò divoti questa
Madre. L’accoglierà in paradiso. Sicut qui thesaurizat, ita et qui
honorificat matrem suam Ecl. Cap. 3. Qui elucidant me, vitam
aeternam habebunt. Come Madre che non sa staccarsi dal
proprio figlio tanto più quando si trovasse in qualche sorta
di pericolo, verrà essa stessa , a darle mano, lo presenterà a
Suo Figlio, lo condurrà, lo collocherà sul suo seggio paga e
contenta d’aver un figlio di più in paradiso a cantare in
eterno le Misericordie del Suo Signore.
Eccovi adunque fratelli miei in poche parole i Conforti,
e le nostre consolazioni quaggiù. Noi lavoriamo,
combattiamo per una causa che siamo sicuri di vincere. Noi
abbiamo tutto il paradiso per noi. Iddio per primo che ci ha
chiamati, e ci ha fornito da pari suoi di quanto occorre. Il
divin Redentore che ci ha promesso di stare, e fare una cosa
sola con noi, la Madre nostra, la Regina di tutto il paradiso,
Maria, che è tutta per noi. Aggiungete ancor se volete tutta
quella famiglia di buoni operarii, di anime da loro salvate
che certamente non dimenticheranno i successori suoi, e

269
che pregheranno, che ci ajuteranno nella causa nostra. Che
temere, dunque, che paventare? Coraggio, combattiamo,
lavoriamo, viviamo da buoni e santi Sacerdoti, sinchè arrivi
quel di, suoni quell’ora, che da questo Campo di battaglie, e
di fatiche, ci chiami al riposo, alla corona, alla paga. Così
sia.

Il Sacerdote divoto di Maria


Amor a Maria
Sarebbe un gran vuoto ed insieme una grave mancanza
per una famiglia, se sul punto di dividersi i figli, e separarsi,
non chiamassero tra mezzo a loro la madre, e compresi da
tutto quell’affetto, che egli è proprio d’un figlio ciascun di
loro non si sforzasse di testimoniarle con modi i più sinceri,
il proprio cuore, ed i sensi della più viva e sentita
obbligazione verso di Lei. Tanto sarebbe di noi, se dopo
d’aver formato in questi santi giorni una sola famiglia in un
colla nostra tenera Madre Maria, oggi ce ne partissimo
senza un addio , senza un saluto . Per compiere adunque
questa sera ad un dovere si santo, e sì dolce , io la chiamo,
l’invito a discendere, a fermarsi fra noi, per darci come una
stretta di mano, ed insieme la parola di vederla, di
abbracciarla un dì in quella cara patria del bel paradiso. E
impossibile imaginarsi, e concepire un figlio buono, docile,
ubbidiente e rispettoso; un figlio che sia di decoro, di utile e
di consolazione in una famiglia, quando non sia veramente
affezionato alla propria madre. Lo stesso pare a me di poter
dire, in cotesto caso come l’hanno già ripetuto tanti altri;
non solo è raro, difficile, ma pressoché impossibile figurarsi
un Eclesiastico buono, virtuoso, divoto; un Eclesiastico che
serva Dio, la Chiesa, e le anime senza che abbi affetto, ed
amore a questa nostra tenera Madre Maria; anzi a

270
proporzione che in lui andrà crescendo cotest’affetto, e
cotesta divozione a Maria, crescerà parimenti insomma
tutto il corredo di la virtù sua. Sia disposizione della divina
provvidenza, sia una speciale benedizione, che ci ottenga
questa madre, sia una conseguenza quasi necessaria l’uno
dell’altro, in pratica egli è così, come parimenti lo è nelle
umane famiglie: quando voi sentite che un figlio è tutto
cuore, tutto amore per la sua madre, e sarebbe disposto a
qualunque cosa per compiacerla, senza altre investigazioni,
ed esami, voi conchiudete che deve essere un figlio ben
virtuoso; al contrario voi ne giudicate, e ne pronosticate
ben male, quando egli se non è avverso, si mostrasse solo
indifferente e freddo. Così dite pure d’un Sacerdote,
quando vi avvenga di parlarne, e sentirne parlarne; se ve lo
dicono divoto di Maria, non perdete più tempo, non
cercate più altro, state certi che non può a meno che esser
buono, e forse d’una bontà non comune. Se poi lo
conoscete freddo e poco sensibile alle tenerezze di questa
madre, e allo suono di questo nome, io non spero gran cosa
da un tal Sacerdote. Di qua ognun vede il dovere, la
convenienza, l’importanza la necessità, di parlarne. Io
scielgo adunque per l’ultima volta il più consolante tra gli
argomenti, qual’è Maria, la più tenera delle Madri, l’amica, la
compagna, la maestra, la confidente del Sacerdote. Tra
madre e figli, fra amici ed amici, tra compagni e compagni,
confidenti e confidenti, vi sono relazioni molte, varie e
strette: doveri, diritti, convenienze;

Il tutto compirà il Sacerdote, quando egli sia divoto di


Maria. e per meglio conoscere, e gustare con voi così dolce,
ed importante materia, io la partirò in due punti: nel primo
cercheremo qual sia tra Sacerdoti il vero divoto di Maria.

271
Nel secondo quanto felice, quanto fortunato l’Eclesiastico,
che . sia veramente divoto di Maria.
Io parlo volentieri, anzi con gioia di questa gran Donna,
e qual’è quel figlio, che non gusti e non s’allegri al parlare di
madre; ma ne parlo insieme con una certa pena e paura,
perché son certo che le mie parole non saranno pari a’
meriti, ed al cuore di questa Madre. Supplisca o fratelli
l’amor vostro alla freddezza mia, perché non abbi terminato
a farmi un rimprovero da me stesso d’aver piuttosto
oscurato, che esaltato, ed ampliato l’onor, e la gloria dì una
Madre, a cui mi protesto debitore di quanto ho, e spero
d’ottenere dal Signore in questo mondo, e nell’eternità.
Cominciamo.

È impossibile che una persona porti ad un altra una vera


affezione, e vi sia veramente attaccata, se nello stesso
tempo non ha verso di quella una vera stima, e concetto,
anzi a misura che crescerà nella sua mente cotesto
sentimento di riputazione, e di credito, crescerà parimenti
verso di essa la il suo attaccamento ed affetto. Tale è il
primo passo che deve fare il Sacerdote che vuol divenire
veramente divoto di Maria, aver cioè di questa gran Madre
un idea, un sentimento, ed un concetto il più alto e sublime.
Tra semplici fedeli si trovano molte anime buone che
hanno di Maria un concetto tale, e provano verso di essa un
trasporto, uno slancio tale si grande di divozione e fervore,
che non si potrebbe desiderare di più; per esse Maria è un
oggetto che niente le potrebbe star a paragone, e confronto:
sanno che Iddio è al di sopra di ogni cosa, ma tenendolo
come troppo alto a’ loro sguardi, pongono tutto il loro
occhio in Maria, ed in Lei ripongono quanto di grande, di
bello, di amabile, di santo sanno immaginarsi; quindi quella
onda e quel trasporto di affetti così vivi, ed accesi verso

272
Maria; quella prontezza e confidenza di ricorso in ogni
pena, ed angustia; quindi quella premura, e quella gioia di
partecipare a tutte quelle feste, a quelle pratiche che
ridondino al suo onor, alla sua gloria. Se così è del semplice
fedele che dovrebbe essere del Sacerdote, del primo, del
prediletto tra i figli di Maria. Avrà in questa materia lo
scuolare da saperne, più che il Maestro? dovremo noi
Sacerdoti andar alla scuola de’ secolari? Nò; che anzi ciò
che in loro è frutto di pura fede, e figliale affetto, in noi
deve essere qualche cosa di più, effetto e frutto ancora di
intima, e sincera convinzione, talché a parlar coll’Apostolo,
possiam esser capaci di confermare in cotesta divozione chi
già l’avesse, comunicarla a chi ne fosse privo, ed
occorrendo sostenerla, difenderla, a chi ignorante, o
superbo la sdegnasse, e la mettesse ancora in beffe, ed
ischerno: Una grazia per prima vi dimando o Madre, così
già pregava un gran divoto di Maria, qual era S. lldefonso,
ed è che io senta, io pensi di voi in una maniera che vi
convenga, e non vi abbassi: ut de te vera et digna sapiam;
perché dal pensare ne verrà il parlare; dal parlarne ne
seguirà conforme il mio agire: ut de te vera et digna sapiam: vera
et digna loquar: vera et digna diligam. Questa è la dimanda, il
desiderio, lo studio che deve avanzare e premettere il vero
eclesiastico; formarsi di Maria un’idea; un concetto ben
degno, perché al pensiero, al sentimento ne abbiano poi a
corrispondere i discorsi e le opere sue. Tre sono i capi
principali, che rendono una persona nel mondo onorifica, e
degna di stima, rispetto, e riverenza, l’impiego cioè, il posto,
la carica, od il grado che occupa, 2. le preminenze, i
privilegi di cui gode, e la possanza che vi esercita. 3.
finalmente le qualità, le virtù, i meriti, che veste e porta con
se la persona. Ecco ciò che noi di volo dobbiam toccare per
avere di Maria quell’idea alta e sublime che più s’avvicini

273
alla sua grandezza. La qualità che ebbe Maria in terra, il
posto che ora occupa in Cielo, non ci è dato di capirlo
quaggiù; bisognerebbe conoscere veramente chi sia Iddio,
quali i suoi attributi, quale della la sua gloria per saper ciò,
che in Maria ha fatto questo gran Dio. È un Mistero questa
gran donna, mistero ciò, che in essa, e per essa abbi operato
Iddio. Iddio solo che ne fù l’Autore la può comprendere, e
la potrebbe encomiare convenientemente: Deus solus potest
illam pro mertis laudare qui… mira illa opera fecit in ea. Io dirò
solo: togliete Dio, e poi voi non troverete ne in terra, né in
Cielo, né fra gli uomini, ne fra’ Santi, ne tra gli Angeli, e
serafini una creatura che in grandezza, in possanza, in
prerogative, in virtù e meriti non solo che la superi, ma
l’eguagli, oppur s’avvicini. Ella è tale insomma, che arriva a
dire il Dottore S. Bonaventura, che nemmen Dio avrebbe
potuto andar più in là, e farla più grande. Majorem mundum,
maius Coelum facere potest Deus: majorem Matrem, qua matrem Dei
facere non potest Deus; e ne dà la ragione il Santo: perché
l’esser di Madre è relativo al figlio, e per darsi una madre
maggiore, dovrebbe anche darsi un figlio più grande , lo ché
è assolutamente impossibile, anzi intrinsecamente ripugna,
epperò sicut nec maior inter filios nasci potuit, ita nec maior inter
matres esse potest. Lo stesso ripetè l’Angelico Dottore il più
illuminato, il più severo scrutatore d’ogni men che pesata
espressione: ex hoc quod est Mater Dei habet quamdam infinitam
dignitatem, et ex hoc parte non potest fieri aliquid melius. Di qui
que’ vaticini, e figure con cui di lontano l’hanno adombrata,
e delineata i profeti; di qui tutte quelle lodi ed encomi, con
cui ad una voce l’hanno coperta i padri, e dottori di tutti i
secoli; di qui que’ tanti titoli e denominazioni sì gloriose ed
eminenti, con cui la Chiesa la invoca, e la propone a’ fedeli,
di qui infine que’ tanti attestati, ed omaggi di culto, e di
onore che a gara ovunque ed in tutti i tempi sì danno, e si

274
sono sempre dati a questa gran Madre; tant’è o cari,
siccome non c’è dato di trovare un Nome eguale a quello di
Gesù, così dopo Gesù non ci sia altro nome più venerando
sulla terra che questo di Maria. Il pensiero, la vista, il
ricordo solo di questa madre deve essere per noi dopo Dio
l’oggetto delle nostre meraviglie, e di tutti i nostri affetti, e
di tutta la nostra ammirazione; finché sarem quaggiù non ci
è dato d’arrivar a comprendere l’altezza di Maria, solo in
paradiso dopo Dio vedremo, studieremo, ammireremo per
secoli eterni questo portento, cotesto arcano della divina
possanza, e sapienza , e frattanto finché venga quel dì
alziamo le nostre voci per unirle a quella della nostra madre
a lode e gloria di quel Dio, che così grandemente l’ha voluta
esaltare: Magnificat anima mea Dominum, lo diciamo ogni
giorno, ma ripetiamolo con fede, e con trasporto di gioia:
Magnificat anima mea Dominum, quia respexit humilitatem ancillae
suae fecit mihi magna qui potens est.
Quando l’Eclesiastico sia giunto a formarsi di Maria un
idea, ed un concetto di questa fatta, sarà facile a divenirle
un figlio divoto. Ah! un Eclesiastico che abbi il cuore
ripieno di questa madre, quante cose io spero, io aspetto da
Lui. Furono certamente ben fortunati i primi Sacerdoti, gli
Appostoli, e non può a meno che recarci una certa invidia
la bella sorte che ebbero di vedere, parlare, vivere e pregare
con Maria; il Sacerdote , che le è divoro, che qual altro
Gesù a Lei vive soggetto, dipendente, ed affezionato , non
s’allontana di molto. Con Lei vive, con Lei conserva, con
Lei famigliarìzza; a Lei scuopre i suoi secreti, le sue pene,
come le sue consolazioni; con lei divide i suoi timori, le sue
speranze; con lei concerta le sue imprese, le sue fatiche,
qual figlio insomma, affezionato, e tenero, pare che non vi
sia altro per lui al mondo, che la propria Madre. Vedeste
mai, e non consideraste quello che succede, e capita tutto dì

275
in un ragazzo nel caso nostro: nessun più contento di luì,
nessuno più allegro che quando si trova colla propria
madre; non gli basta ancora, nessun più coraggioso, nessun
più forte che quando egli la può tenere tra le proprie mani:
toglietegliela per poco, allontanatela; appena ci s’accorge ed
adocchiando da ogni parte più non la vede, voi vedrete un
passaggio il più repentino; nessun più triste, e malinconico,
nessuno più timido, e pauroso; senza interrogarlo, voi ne
sapete il perché, gli manca la Madre; non v’è vista, che più
lo consoli, non v’è oggetto, che ami di più, non v’è persona
a cui maggiormente confidi fuori di Lei.
Colla Madre è il figlio più fortunato del mondo, colla
madre egli è come onnipotente. Senza di essa vi dice che
egli è il più infelice, e le pare che ogni pericolo sia per lui.
Che se da questa contentezza, e possanza, che egli crede
d’avere, voi passate ai modi, che tiene colla propria madre,
voi sareste testimoni delle carezze più tenere e benché
semplici e puerili le più espressive e significanti del mondo:
quegli sguardi, quegli slanci, que’ impeti, quegli amplessi
tutto vi parla, tutto vi dice il cuore più amante ed
affezionato. Ogni altro discorso, o non l’intende, o non lo
gusta, ma se voi mettete in campo la madre, al sol
nominarla, se non può colle parole, almeno co’ gesti, o con
sorrisi vi da a conoscere il piacere, la soddisfazione, che ne
prova. Eccovi fratelli miei in questi pochi riflessi il quadro,
il ritratto del Sacerdote divoto di Maria, o per spiegarmi
ancor meglio, ecco l’Eclesiastico divenuto ragazzo di questa
buona madre. Egli vi pensa, egli l’ama; egli confida; egli la
coltiva, ed onora. È naturale quando si ama una persona si
pensi a Lei, se ne parti roventi, e con gusto, e si studii il
modo di vederla, e starvi assieme il più che sia possibile:
inaudita est dilectio, sarebbe ancor un’amor sconosciuto
cotesto, l’amar uno, e schivarne la presenza, e compagnia:

276
inaudita est dilectio, quae amicum diligit, et praesentiam eius non
amat. Il linguaggio poi è l’espressione più patente del cuore.
Datemi una persona posseduta da qualche affetto di roba,
di caccia, di passatempi, di viaggi andate discorrendo; dal
modo con cui parla, la frequenza, il gusto, la scienza, la
perizia che mostra, è un momento a conoscerla. Così dirò
io: se volete sapere se quell’Eclesiastico sia divoto e sino a
qual punto di Maria, badate, se fosse possibile, alla
frequenza, al modo, con cui vi pensa, e ne parla; se nelle
sue preghiere, giaculatorie ed aspirazioni del giorno si porta
soventi a Maria; se nelle sue prediche nel Confessionale, ne’
discorsi famigliari sa prendere le più minute occasioni per
parlar di Maria; e questo si vede che non lo fa con arte, con
sforzo, ma naturalmente quasi senza accorgersi, e vi mostra
un amore, un interessamento, un gusto particolare;
conchiudete pure che egli è un vero figlio di Madre; la
qualità, e la natura del respiro, e del fiato da a conoscere per
lo più lo stato interno di salute di una persona; in pari
modo dalla natura, e qualità del fiato cioè a dire del
linguaggio, che usa un sacerdote voi potete argomentare
con certezza come ci se la passi internamente con questa
Madre: quel parlar freddo, asciutto, e secco non è buon
segno: si diranno cose belle, e stupende, ma vi manca il più,
quel caldo, quella piena di cuore che è proprio di chi ama,
in sostanza non è un parlar da figlio.. guardate: prendete un
figlio che sia affezionato alla propria madre, fatelo parlar di
Lei, e poi mettete queste stesse parole sulla lingua d’un altro
qualunque ; non vi sarà nel materiale differenza alcuna, gli
stessi encomii, le stesse lodi, e forse li stessi termini e se
volete anche migliori, eppur voi medesimi vi troverete una
differenza massima in quel linguaggio: altra forza, altra
unzione, altra impressione, insomma un’altra cosa; e
perché? perché uno è figlio, l’altro nò; uno ama, l’altro forse

277
sarà indifferente; osservate negli scritti, e nelle vite de’ Santi
si antichi, come prossimi a’ nostri tempi. Un S. Gio.
Damasceno, S. Cirillo, S. Bernardo, S. Tommaso, un S.
Filippo, e tra gli ultimi un S. Alfonso; al riandare quel modo
di scrivere, e di parlare di Maria, que’ termini, quelle parole
così infuocate, quello studio, e quella gioia, che vi si scorge
in lodarla, ed esaltarla; occorre dimandare, se quelle anime
erano divote di Maria? chiunque si persuada, ed è convinto
che quel parlare non può partire che da un cuore , che
sente, e da un anima che ama. Lo stesso dite pure di
qualunque Sacerdote, che vi venga di udire; non andrà gran
tempo che voi conoscerete per chi batta quel cuore se egli
sia un vero figlio di Maria, oppur un Sacerdote che solo la
conosca il nome. Ma tutto ciò si otterrà, solo quando il
cuore dell’Eclesiastico sia ripieno di questa madre, la ami
teneramente, anzi abondi talmente, e ribocchi da non
poterlo contenere; allora, come un fonte che gonfio di aque
ne spande e divide d’intorno, , sarà come sforzato a
versarne ne’ cuori altrui: ed è questo il punto più
importante per un figlio, un’obbligazione essenzialissima,
ma dolce e consolante , per lui amare la propria Madre.
Pare debba essere inutile, anzi quasi ingiurioso, ed
offensivo il ricordare, il raccomandare ad un figlio, che ami
la propria madre. Egli è tanto legittimo, naturale, e
necessario cotesto amore, che ci vuol forza, e violenza , per
soffocarlo; tanto più quando oltre alla qualità di madre la
persona portasse con se meriti, e virtù tutte proprie, e
speciali, come eminentemente succede nel nostro caso.
Due cose io vedo indispensabili nel Sacerdote perché
possa dirsi veramente che egli ama Maria. La prima ben
naturale e necessaria, è che proccuri, e si guardi ben bene
dall’offenderla, e disgustarla non solo in cose gravi, e
mortali, lo che è facile a conoscere che non può compatirsi

278
con un amore anche ordinario, e comune, ma anche in cose
meno notabili, e leggiere. Tra due persone, che si amino
solo al punto da non essere nemiche, ed odiarsi, le piccole
offese, e disgusti non si sogliono calcolare gran fatto; ma tra
due cuori, che si amino veramente, tra due che facciano
professione di amare sono un gran male uno scherzo mal
misurato, una parola sfuggita, la mancanza d’una qualche
riserva per dar luogo a guai, a dissapori, a sospetti; se meno
si amasse, meno si calcolerebbe, come men dolorosa
sarebbe la ferita se meno delicata, e sensibile fosse la parte,
che vi si offende. Che direste voi d’un figlio che nella sua
condotta colla propria Madre si limitasse a ciò solo da non
offenderla gravemente, tenesse per poco, o per niente i
dispiaceri comuni, benché frequenti, e giornalieri, che le
arreca, purché non la faccian morire di dolore; ma senti, o
caro, chiunque di noi gli direbbe, tu lo sai, che questo non
piace alla madre; la turba, l’inquieta, l’affligge, e le fa passare
giorni di tristezza, e dolore; e che importa a me? purché
non la trafigga con un pugnale, e muoia; a me basta, e non
occorre di più. Eccovi la figura d’un Sacerdote, a cui poco
importi l’amor di Maria; lo sa quell’Eclesiastico che quegli
scherzi, quella leggerezza, quella libertà, di guardare, di
parlare, quand’anche non arrivi sempre a mortale, tuttavia
non può piacere a questa madre di purezza, e candore; la
disgusta, l’affligge, tanto più da un figlio prediletto, qual è
l’Eclesiastico, eppure non sa astenersene, e star lontano;
anzi si lusinga ancora, e si quieta con pensare, e dire; non è
mortale, non può esser grave, lo che vuol dire, non arriva a
stramazzarla per terra, quasi ad ucciderla, oh che tanti
scrupoli, e riguardi, andiam avanti; ah! fratelli, e compagni
miei cari, se ella fosse così di noi, è inutile darcela ad
intendere; saressimo ben lungi d’esser veri suoi figli, e
divoti . Io darei per regola a tutto Sacerdote, che aspiri a

279
divenire un vero figlio di Maria, d’aver sempre presente
cotesto pensiero, cioè mai far niente che il cuore ci
rimproveri sia per dispiacere a Maria, di più negarle mai
nulla di ciò che ella possa gradire, e desiderare da noi. Quei
sonni così allungati al mattino con discapito della pietà, e
Ministero: quella fretta nella Messa, e funzioni di Chiesa,
quell’avidità di guadagno nell’esercizio del nostro Ministero,
quelle ore perdute in affari inutili, e secolareschi; quella
frequenza con altre persone; quel guardare, sentire,
soffermarsi, a quanto si presenta, si vede, o si sente, non è
tanto da buon Sacerdote, non può piacere certamente a
Maria; dunque non lo fo; si cangi, si riformi la vita, costi o
non costi, voglio contentar questa Madre; qualche
mortificazione, per esempio, uno sguardo, una parola, un
divertimento di meno; un aspirazione una visita, una pratica
di pietà, un altro atto di virtù, lo so che non v’è alcun male,
so che non vi sono obbligato, ma so in pari tempo che fa
piacere a Maria, epperciò la voglio compiacere, la voglio
fare; datemi un Eclesiastico che si prenda per guida della
Sua giornata codesto pensiero, e senza cercar altro io ve lo
do vero divoto, e vero figlio di Maria.
Finalmente l’ultimo mezzo, anzi ma il principale, anzi
l’unico, ed essenziale per piacere a Maria, egli è quello di
renderci vere copie, veri ritratti del nostro Esemplare, il
divino Suo Figlio. Noi fummo consegnati col proprio fiato
di questo divin Redentore alle tenerezze, ed alle cure di
questa Madre; ci lasciò in sua vece, a possedere, ad
occupare il proprio luogo dentro il cuore di questa Madre,
sicché Ella guardandoci, amandoci, adoprandosi per noi,
fosse come se rimirasse, e s’adoperasse per lui Medesimo.
Maria, come era ben naturale, e chiara, conosceva a fondo
lo Spirito, ed il cuore di questo suo figlio; l’allevò tra le sue
braccia, l’ebbe dipenden-te totalmente sino a trent’anni; fu

280
presente molte volte a ciò che operò ne’ tre anni del Suo
Apostolato, l’assisté sino al fine; tutto questo, oltre a quanto
conosceva per altre vie straordinarie, la rendeva conscia,
anzi immedesimata collo stesso suo figlio, sicché ne vedeva
i fini, gli affetti, li desideri, e progetti; conosceva
l’importanza, la natura, e lo scopo della sua Missione; le vie,
i mezzi, lo studio, la pazienza, la carità che si adoperava per
riuscirvi; sapeva la norma, la traccia, le lezioni, e gli esempi
che lasciava per i Successori Suoi Sacerdoti, onde
continuarla. Ciò posto io domando: come volete che Maria
sia paga, e contenta d’un Eclesiastico, che conoscendolo
Ministro, e Successore del divin Suo figlio, che lasciatole e
raccomandatole come un’altro figlio, se lo veda poi
differente, discorde, e difforme: discorde nelle tendenze,
discorde negli affetti, discorde nel fine, e nel modo di
operare. Bella consolazione per una povera Madre, che
perduto un figlio rispettoso, ubbidiente, ed affezionato, le
ne venisse surrogato un altro indocile, freddo e sgarbato;
ogni parola, ogni sguardo non servirebbe che a renderle più
amara la perdita , imo, più doloroso il cambio. Sicché per
conchiudere: qual sarà tra sacerdoti il vero divoto, il vero
figlio di Maria; un solo e non altri, ed è l’Eclesiastico che si
rende conforme a cotesto Originale, l’Eclesiastico che
forma in se stesso una copia un ritratto di questo gran
Figlio di Maria, e voglio dire un Eclesiastico operoso, e
zelante; un Eclesiastico che ritirato, e lontano da tumulti, e
brighe del mondo, non attende che a se, . ed altro non cerca
che l’onore e la gloria del Suo Dio, e la salute delle anime.
Sicché a nostro modo d’intendere ogni qualvolta - Maria di
lassù sì faccia a mirarlo, si possa con verità ripetersi il detto
del divin Suo Figlio: Mulier ecce filius tuus. Madre, eccovi il
vostro figlio perduto, studiatelo, miratelo; voi lo vedrete,
egli è proprio desse, poiché a lui propriamente vi

281
rassomiglia: Egli che pensa, che opera come il vostro Figlio;
Egli come Lui, ritirato, attento, ubbidiente a voi,
affezionato; come Lui applicato unicamente agli interessi
del dell’eter- no suo Padre non cura, non guarda le miserie
di questa terra; in his quae Patris mei sunt oportet me esse, pur
come Lui si porta ogni dove che lo chiami la gloria, ed il
volere del Celeste padre, . Ah! ripeto, si, Egli è proprio
desso, Egli è propriamente il vostro figlio rinato, risorto,
ricopiato; prendetelo, stringetelo, amatelo: Mulier ecce filius
mus. Questi, ripetiamolo, è il vero figlio di Maria, questi che
solo può aspettarsi le speciali grazie di questa Madre, questi
dico, a cui meritamente vennero dirette quelle belle parole :
fili ecce Mater tua: figlio guarda, e consolati; io ti affido, e ti
metto tra le braccia di questa madre. Oh! che momento,
che felice amplesso di madre, e di figlio, in un pericolo, in
un cruccio, insomma in una stretta qualunque di vita, o di
morte, figlio fa cuore, io sono tua Madre. Madre, salvatemi,
io sono vostro figlio.Io non mi sento di porvi sott’occhio, e
farvi un quadro di ciò che sta riservato sulla terra per un
divoto di Maria; è impossibile capire quaggiù, di che cosa
sia capace quel cuore ; solo in paradiso ci sarà dato di
vederne, di misurarne la bontà , e la possanza. Io toccherò
come di volo che l’ajuto, e l’intercessione di Maria, non è
solo una pia credenza, effetto, o trasporto di un eccessiva, e
mal intesa pietà; voi lo sapete, egli è dogma di fede;
l’autorità della Chiesa, il consenso unanime de’ SS. padri, il
linguaggio di tutti i secoli, non lascia il menomo dubbio;
sicché codesti possenti ajuti di Maria non solo si possono
sperare ma vanno calcolati da noi specialmente Eclesiastìci,
come una cosa certa, ed immancabile, quando non vengano
da noi demeritati. Si tocchi il secondo frutto per intiero, e
basta.

282
Ciò posto, io noterò a nostra consolazione, e conforto
tre speciali favori, che noi Sacerdoti possiamo aspettarci da
Maria , lo spirito cioè del nostro Ministero, la benedizione
sulle nostre fatiche, ed una corona in Cielo grande e
proporzionata all’impegno e zelo che noi avremo avuto per
Lei sulla terra.
Occorre anche soventi che un Eclesiastico venga
assalito, e travagliato da cotesto paura di aver sbagliato la
propria Vocazione, tanto più quando il Ministero nostro
per nostra , od altrui colpa fosse inutile, e sterile. Pensiero
terribile egli è questo, non si può negare, ma perciò
appunto lo dirò più volentieri; cacciamo pur via ogni sorta
d’inquietudine, deponiamo ogni paura, se non saremo veri
divoti di Maria, stiamo certi che vi siamo chiamati; egli è
questo uno de’ primi ed essenziali caratteri della Vocazione
Sacerdotale ; lo spirito della Madre, è quello stesso del
figlio; chi a lei appartiene , non può essere lontano dal
figlio. Quand’anche per caso un Sacerdote fosse entrato
senza Vocazione, se si mette davvero e riesca un buon
figlio di Maria, stia certo, ripeto, che questa Madre per
bontà e misericordia le otterrà dal Suo figlio quello , che
non aveva. Sia pur fuori via, si trovi pure agitato in mezzo a
burrascoso mare, ma se s’appiglia a questa Madre egli ha
trovato la via, ha toccato il porto, egli è salvo: Qui me
invenerit inveniet vitam: ego diligentes me, diligo. E che temere
ancora, che paventare per un buon Sacerdote, quando in
ogni cruccio, in ogni pena, in qualsiasi angustia, può dire, e
ripetere tra se : io sono figlio di Maria, egli è Iddio mi ha
posto in quelle mani, Ella m’ha assicurato, e sono certo, che
essa mi salverà.
L’altro frutto speciale della nostra divozione a Maria sarà
la Sua assistenza e benedizione nelle nostre fatiche, e
Ministero; e qual cuore più zelante al mondo di quello di

283
questa Madre: essa che fù presente a quanto operò il divin
Suo piglio pel bene delle anime, , ella che sentì al piè della
croce l’ardore di quella sete che moribondo , lo
infiammava, ah! con che cuore, con che prontezza darà la
mano al figlio, che la richiegga. Voi sapete meglio di me i
portenti, e le meraviglie di zelo che operarono tanti operari
evangelici coll’aiuto di Maria. 1 migliori pescatori di anime,
furono sempre i più divoti di Maria; quanti peccatori noi
troviamo convertiti nelle storie per opera di Maria; e se noi
abbiamo fatto qualche volta un po’ di bene, ed abbiam
guadagnato qualche cuore, per poco che vi pensiamo, sarà
facile lo scorgervi la mano un festa, una predica di Maria,
qualche pratica verso lei esercitata, una grazia ricevuta, alle
volte un solo sguardo d’un immagine pare che l’abbi
invitata e vinta. Ci sarà più volte capitato nel ministero
d’aver perduto il fiato, ed il tempo per strappar dalle mani
di una persona un oggetto o cattivo o pericoloso. Restii ad
ogni ragione, duri ad ogni finezza, quando assaliti
destramente, e richiesti di farne un regalo a Maria, di non
dare un rifiuto a questa madre, hanno ceduto, e si sono resi.
L’eclesiastico se la prenda come socia e la tenga come
compagna , indivisibile in tutto il Suo Ministero; al
Confessionale con Maria, sul pulpito con Maria, ; con Lei in
Chiesa, con Lei fuori di Chiesa, in casa, e fuori casa, coi
sani, cogli ammalati, insomma dia mai il segnale delle sue
battaglie senza l’ajuto, l’invocazione di Maria; una ave
Maria, un aspirazione, un bacio, anche uno sguardo solo a
questa Madre sia sempre il primo colpo, ed il foriere de’
suoi assalti, e poi non tema. Costei che ha già vinto le tante
volte, questa madre che conta già diciotto secoli di vittorie,
e trionfi, lascierà mai che si perda chi in Lei confida.
L’ultimo pensiero a ricordare per chiusa di cotesto ritiro,
egli è che il sacerdote studi sovente ect.

284
Ma ci vuol fede come: Due fatti ect.
Finalmente il Sacerdote divoto di Maria avrà in Cielo
una speciale corona proporzionata a quel tanto che avrà
fatto per Lei in terra: Sicut qui thesauriat, ita et qui honorificat
matrem suam Ecl. c. 3. Se tanto è il merito d’un figlio che
onori la propria madre che vien paragonato dallo Spirito
Santo come a chi va accumulando ricchezze, e tesori; che
sarà, che dovrà dirsi del Sacerdote, di questo figlio di Maria,
quando spenda e consumi la propria vita per l’onor e gloria
sua. Che tesori, che gioie che ricchezze pel Cielo! Ogni
parola, - ogni passo , ogni fatica che avremo sostenuto per
questa Madre, tutto sarà rimunerato, ogni cosa sarà
premiata col bel Paradiso: Qui elucidant me, vitam aeternam
habebunt. Fratelli, e compagni miei cari, noi siamo per
terminare i nostri esercizi, io vi lascio, e mi separo da Voi
con questo consolante pensiero: se volete andar salvi, ed
essere sicuri della vostra sorte, se aspirate ad una grande
corona che non vi manchi mai più, eccone il mezzo: amate,
onorate, Maria: procurate di farla conoscere, amare ed
onorare dagli altri. No; che non perirà un figlio da che abbi
onorata cotesta Madre. Faccia, caso di tutte quelle pratiche,
ed ossequi che la Chiesa approva, e raccomanda ad onore
di Lei; parliamone soventi, e di cuore; mostriamo a
ciascuno il modo di onorarla, sicché ogni cuore in terra ed
ogni lingua abbi un affetto, una parola di lode da tributar a
questa Madre. Felice l’eclesiastico, felici i popoli divoti di
Maria; terminerò colle belle parole del divoto Autore della
Vita Sacerdotale: Beatus ille sacerdos, qui servus est Mariae,
ipsique servos congregar. Beatus populus, qui illam colit.
Vis fili gratia, consequi, et gloriatam… cole Mariam. O
Maria serviant tibi populi: honorent te tribus… det mihi

285
Dominus, ut cultum tuum quocumque dilatare, et hostes
tuos debellare. Amen.

Sarebbe un gran vuoto, ed insieme una grave mancanza


in una famiglia, se sul punto di dividersi i figli, e separarsi
tra loro, non chiamassero tra mezzo la Madre, e compreso
ciascuno da quell’affetto, che egli è proprio d’un figlio, non
si sforzassero a gara di testimoniarle con modi il più sinceri
il proprio cuore, ed i sensi della più viva, e sentita
obbligazione verso di Lei. Durezza di cuore, ingratitudine, e
poco meno che spensieratezza sarebbe considerato cotesto
oblio d’un figlio. Per la madre poi lascio pensare a Voi il
dolore, la puntura, e la piaga che lascierebbe quasi
insanabile in un cuor materno cotesto partenza così recisa,
una condotta così poco delicata del figlio. Tanto sarebbe di
noi, ed in certo modo per cotesto nostra buona Madre
Maria, se dopo d’aver formato in questi santi giorni
assieme, ed attorno a Lei una sola famiglia, oggi ce ne
partissimo senza una parola, senza un addio, senza un
saluto, senza un ringraziamento alle tante nostre
obbligazioni verso di Lei. Per compiere adunque in questa
sera ad un dovere si sacro, e si dolce, io la chiamo a nome
di tutti, l’invito a discendere, a fermarsi tra noi per darci
come una stretta di mano, ed insieme la parola di rivederla
ed abbracciarla un di in quella cara patria del bel paradiso.
È impossibile concepire, imaginarsi un figlio buono, docile,
ubbi-diente, e rispettoso: un figlio che sia di consolazione,
ed ajuto in una casa qualunque, quando non sia veramente
affezionato alla propria Madre. Egli è questo, può dirsi, che
lo caratterizza, e ci dà come in mano la misura delle altre
sue virtù. Se voi sentite che un figlio è tutto cuore, tutto
amore per la Madre sua, disposto a qualunque sacrifizio per
compiacerla, non le farebbe per tutto l’oro del mondo il

286
menomo dispiacere, io sono certo che senza altre ricerche
ed investigazioni, senza più cercare né di questo, né di
quello, voi conchiudete ben tosto che egli non può
mancare, e che deve essere un figlio ben raro, e di virtù. Lo
stesso pare a me di poter dire nel nostro caso, come
l’hanno già ripetuto tanti altri avanti di me; non solo
sarebbe una cosa rara, difficile, ma pressoché impossibile
figurarci un eclesiastico buono, virtuoso, divoto; un
Eclesiastico che serva Dio, la Chiesa, ed alle anime senza
che porti affetto a questa tenera Madre; anzi a misura che
andrà crescendo in lui cotesto amore, e cotesta divozione,
crescerà in pari tempo tutto il corredo delle altre sue virtù,
più staccato dalla terra, zelante, paziente, umile e puro:
epperò quando s’avvenga di parlare, o sentir a parlare d’un
Sacerdote, e ve lo dicono divoro di Maria, non perdete più
tempo, non cercate più altro; state certi che non può a
meno, ch’essere buono, e forse d’una bontà non comune;
che se al contrario lo conoscete freddo, e poco sensibile alle
tenerezze di questa madre, allo suono di questo Nome, io
non spero gran cosa da un sacerdote sì fatto; se non ha un
gran cuore per la Madre, non può avere gran cuore pel
figlio, pe’ suoi interessi, per le anime sue. Di qui ognun
vede il dovere, la convenienza, l’importanza, e la necessità
di parlarne. Io scielgo adunque per l’ultima volta, e per
conclusione de’ nostri esercizi il più dolce, ed il più
consolante Soggetto, qual’è Maria, la più tenera delle Madri,
l’amica, la compagna, la Maestra, la confidente del
Sacerdote. Tra Madre, e figli, tra amici ed amici, tra
compagni, e confidenti, molte e strette sono le relazioni:
doveri, diritti, convenienze e riguardi. Il tutto compirà il
Sacerdote, quando egli sia divoto di Maria. E per meglio
conoscere, e gustare con Voi una si cara, ed importante
materia, la partirò in due punti: nel primo cercheremo qual

287
sia tra sacerdoti il vero divoro di Maria. Secondo quanto
felice, ed avventuroso l’eclesiastico, quando sia divoto di
Maria. Io parlo volentieri di questa gran Donna, e qual’è
quel figlio che non gusti, e non s’allegri al parlare di Madre,
ma temo, anzi sono certo che le mie parole non saranno
pari a’ meriti, ed al cuore di questa Madre. Supplisca o
fratelli il vostro amore, e la vostra pietà, perché terminando
non abbi a farmi un rimprovero d’aver piuttosto oscurato,
che esaltato ed ampliato, l’onore, e la gloria d’una Madre, a
cui mi protesto debitore di quanto ho ricevuto, e spero di
ricevere dal Signore nel tempo e nell’eternità. Cominciamo.
Una condizione essenziale che si richiede e che forma il
primo passo, che deve dare il Sacerdote, per divenire
veramente divoto di Maria, ella è questa, cioè che cerchi, e
studii di concepire, di formarsi di questa Madre un idea, un
sentimento, un concetto il più grande, il più alto, e sublime,
che mai si possa. È impossibile che una persona porti un
grande affetto, e sia veramente attaccata ad un’altra, quando
non abbi per essa cotesto stima, . Tra semplici fedeli si
trovano molte anime buone, che hanno di Maria un idea
tale e provano verso di essa un trasporto, uno slancio sì
fotte di divozione, e fervore, che non potrebbe immaginarsi
il maggiore. Per esse Maria è un oggetto, che niente le
potrebbe stat a paragone, e confronlo: sanno benissimo che
Iddio è al di sopra d’ogni cosa, ma quasi non osando trattar
così alla domestica con Lui, pongono tutto il loro occhio in
Maria, ed in Lei ripongono quanto di grande, di bello, di
amabile, di santo sanno dire, od immaginarsi; quindi
quell’onda, e quel trasporto di affetti così vivi, ed accesi
verso di Lei, quella prontezza, e confidenza dì ricorso in
ogni pena, ed angustia; quindi quella premura, e quella gioia
di partecipare a tutte quelle feste, e quelle pratiche, che
ridondano all’onor, alla gloria sua. Se così è del semplice

288
fedele, che cosa dovrebbe essere del Sacerdote, del primo,
del prediletto tra i figli di Maria? sarà vero che lo scuolare
abbia ad avvantaggiare il Maestro, che l’Eclesiastico abbia
ad imparare da’ secolari, che il primogenito de figli abbi ad
imparare dall’ultimo? Mai nò, o Cari, sarebbe questa una
taccia troppo umiliante, di troppo opprobriosa per un figlio
di cuore, e di carattere, quale deve essere un Sacerdote
verso Maria; che anzi ciò che in un semplice fedele è frutto
di pura fede, e di figliale affetto, in noi Eclesiastici deve
essere qualche cosa di più, effetto cioè, e frutto d’intima e
sincera, convinzione, talché a parlar coll’Apostolo il nostro
concetto, la nostra stima verso Maria sia tale che, non solo
ci renda noi medesimi a lei devoti, ed affezionati, ma ci
ponga in grado di confermare in cotesto amore, e divozione
chi già l’avesse, informarne chi ne fosse ancor privo, ed
occorrendo sostenerla, e difenderla da chi ingnorante, o
superbo la sdegnasse, e la mettesse ancora in beffe, ed
ischerno. Rogo te, domina mea, così pregava quel gran devoto
di Maria, l’arcivescovo S. Ildefonso, te oro, te quaeso, ut de te
vera et digna sapiam. Ecco il primo passo, come già vi diceva,
del Sacerdote verso Maria, sentire altamente, sentire
degnamente di Lei: ut de te vera, et digna sapiam e conforme al
sentire pari sieno le parole, ed i nostri fatti: vera et digna
loquar, vera et digna diligam.
Chi sia Maria, l’altezza della sua Vocazione, la sublimità
del Suo posto, il grado di sue virtù, l’ampiezza di sua gloria,
la possanza del Suo braccio, non ci è dato di capirlo
quaggiù; bisognerebbe conoscere chi sia Iddio, per sapere
ciò, che in Maria abbi operato questo Medesimo Iddio. È
un Mistero questa gran Donna, e Iddio solo che ne fu
l’autore la può comprendere, e la potrebbe encomiare
degnamente: Deus solus potest illam pro meritis laudari, qui mira
fecit in Illa. Io dirò solo, togliete Dio, e non troverete più ne

289
in terra, né in Cielo, ne fra gli uomini, ne fra Santi, ne tra
Angeli, e serafini una Creatura che in grandezza, possanza,
in prerogative, in virtù, e meriti non solo la superi, ma
neppur l’eguagli, o l’avvicini. Ella è tale, che arriva dire il
Dottor S. Bonaventura, che nemmen Dio avrebbe potuto
andare più in là, e farla più grande. Maiorem mundum, maius
Coelum facere potest Deus:. Majorem Matrem… facete non potest; e
ne da la ragione il Santo: perché l’essere di Madre è relativo
alla qualità del figlio; e per darsi una Madre maggiore,
dovrebbe anche darsi un figlio più grande, lo ché non solo
è impossibile, ma intrinsecamente ripugna: epperò sicut nec
Major inter filios nasci potuit, sic nec Major inter Matres esse potest;
e l’Angelico Dottor il più severo scrutatore d’ogni men che
pesata espressione, conferma la stessa verità: ex hoc quod est
Mater Dei habet quamdam infinitam dignitatem, et ex hoc parte non
potest fieri aliquid melius. Di qui, o fratelli, que’ Vaticini, e
figure, con cui di lontano l’hanno adombrata e delineata i
profeti, di qui tutte quelle lodi, ed encomi, con cui ad una
voce l’hanno esaltata, e coperta tutti i padri, e dottori di
secoli; di qui que’ tanti titoli, e denominazioni si eminenti, e
gloriose, con cui la Chiesa, la invoca, e la propone a’ fedeli:
di qui infine que’ tanti arrestati, ed omaggi di culto, ed
onore, che a gara ovunque ed in tutti i tempi si danno, e si
sono sempre dati a questa gran Madre. Solo l’eclesiastico, il
primo tra i figli, avrà da starsene neghittoso in mezzo a
tanto movimento di affetti, e di cuore; solo il Sacerdote
starà guardando indifferente, e freddo cotesta gara, e
frequenza di popoli senza che egli dia un passo, e si muova;
Ah! Signori miei, sarebbe questa una taccia troppo
opprobriosa per un figlio, una ferita troppo dolorosa per
una Madre. Il Nome, la vista, il pensiero solo di questa
Madre deve essere per noi dopo Dio l’oggetto di tutte le
nostre meraviglie, come il punto di tutte le nostre mire.

290
Finché saremo quaggiù non c’è dato d’arrivar a
comprendere l’altezza di Maria, solo in paradiso dopo Dio
vedremo, studieremo, ammireremo per secoli eterni cotesto
portento della divina possanza, cotesto arcano di
quell’infinita Sapienza; e frattanto finché venga quel dì
alziamo le nostre voci assieme a quelle della nostra Madre a
lode, e gloria di quel Dio, che così grandemente l’ha voluta
esaltare: Magnificat anima mea Dominum qui respexit humilitatem
ancillae suae… fecit mihi magna qui potens est. Quando
l’eclesiastico sia giunto a formarsi di Maria un idea, ed un
concetto di questa fatta, sarà facile a divenirle divoto. Ah!
un Eclesiastico, che abbi il cuore ripieno di questa Madre,
quante cose io mi prometto, io spero, io aspetto da Lui. Ah!
che bel vivere quando la vita si spende sotto le cure, e tra le
carezze d’una tenera Madre. Nessuno più contento di
questo figlio, nessun più allegro, nessun più confidente, più
generoso, più amante di Lui. Vedeste mai, e non
consideraste quello che succede, e capita tutto di un
ragazzo nel caso nostro. Come scherza, ride, e festeggia
d’attorno, e molto più tra le braccia della propria Madre.
Chi più giulivo, coraggioso, dirò anche eloquente di Lui
quando tenga sotto gli occhi, o tra le mani la propria
Madre. Fate che per poco che ella si scosti, s’allontani, e
nasconda, appena ci s’accorge, ed adocchiando d’attorno
non le venga più fatto di vederla, cangia, in un subito, triste,
malinconico, pauroso, timido, tutto l’adombra, l’atterrisce,
col sembiante, ed il più delle volte co’ sospiri, co’ gemiti, e
co’ singhiozzi vi dice che egli è infelice, e che niente più lo
contenta, anzi tutto lo affanna, e perché? perché gli manca
la Madre. Che se da questa contentezza, e possanza, che
egli ritrae dalla Madre, voi passate a’ modi, che usa, e tiene
con Lei, voi sarete testimoni delle carezze più tenere, e
tutto ché puerili, le più espressive, e significanti del mondo:

291
quegli sguardi, quegli slanci, quegli impeti, quegli amplessi
tutto vi parla, e tutto vi dice un cuore più amante, ed
affezionato: ogni altro discorso o non lo intende, o non lo
gusta, ma se vien in campo la Madre voi le vedete di certo
se non colle parole co’ gesti almeno, e sorrisi a mostrare la
gioia, ed il piacere, che ne sente. Eccovi fratelli miei, in
questi pochi riflessi il quadro, il ritratto del Sacerdote
divoto di Maria, e per spiegarmi ancor meglio ecco
l’eclesiastico divenuto ragazzo di questa tenera Madre.
Maria dopo Dio è tutto per lui; non ha egli un oggetto che
più lo consoli, lo appaghi, lo incateni, e lo sostenga, e lo
regga di questa Madre.
Furono certamente ben fortunati i primi Sacerdoti gli
Apostoli, e non potrà a meno che recarci una certa lodevole
invidia la bella sorte, che ebbero di vedere, parlare, vivere, e
pregare tra mezzo Maria. Ebbene il nostro Sacerdote divoto
di questa Madre, e che qual altro Gesù a lei vive soggetto,
dipendente, ed affezionato, a dir vero non s’allontana di
motto. Con Lei, può dirsi che vive, conversa, e
famigliarizza; a Lei scuopre i suoi secreti, le pene, come le
sue consolazioni; con Lei divide i timori, e le speranze sue.
Con Lei concerta le sue imprese, e fatiche, qual figlio
insomma tutto di Madre pare che non abbia altra vita fuori
di Lei; se pensa, se parla, se opera tutto è per Lei. È
naturale che quando si ama, si pensi all’oggetto amato, se
ne parli soventi, e con gusto, si studi il modo di vederlo, e
goder di sua presenza per quanto sia possibile. Inaudita est
dilectio, sarebbe un amor ancor sconosciuto cotesto, l’amar
uno, e schivarne nello stesso tempo la compagnia, e
conversazione: inaudita dilectio, qua amicum diligit et praesentiam
ejus non amat. Il linguaggio poi è l’espressione più potente
del cuore. Datemi una persona posseduta da qualche affetto
di roba, di caccia, di passatempi, di viaggi, andate

292
discorrendo dal modo, con cui parla, la frequenza,
l’unzione, la scienza, la perizia che mostra, è un momento a
conoscerla, e scoprirvi la passione, che la domina. Così
volete voi sapere se quell’Eclesiastico sia divoto, motto o
poco di Maria? ponete mente a’ modi, che tiene, alle
sensazioni che mostra, quando la vede, ne parla, o ne sente
a parlare; molto più penetrate, se fosse possibile, in
quell’interno per vedere, e scoprirne gli affetti, le tendenze,
e le mire; se lungo il giorno sa portarsi, e soventi a Maria; se
nelle strette, e vicende di questa vita vi calcola sul suo ajuto;
se nell’esercizio del Suo Ministero, sul pulpito, al
Confessionale, e ne’ discorsi famigliari sa cogliere le
occasioni più minute, e più destre per parlare di questa
Madre; e questo si vede che non lo fa con arte, per isforzo
od apparenza, ma naturalmente con gioia, con trasporto e
con interessamento tutto particolare. Se tanto vi risulta
conchiudete, pure che egli è un vero figlio di Madre; che
invece quel parlar freddo, asciutto, e secco, non è buon
segno, Cari miei; si diranno cose anche belle, e stupende;
ma vi manca il più, cioè quel caldo, quella piena di cuore
che è proprio di chi ama, in sostanza non è un parlar da
figlio. Guardate: figuratevi un figlio, che sia tutto
affezionato alla propria Madre, fate che parli di Lei; e poi
mettete queste stesse parole sulla labbra di un altro
qualunque; non vi sarà nel materiale differenza alcuna, gli
stessi encomi, le stesse lodi, li stessi termini; eppur Voi
medesimi vi troverete una differenza massima in quel
linguaggio: un altra forza, un altra unzione, altra
impressione, in sostanza un’altra cosa; e perché? perché
uno è figlio, l’altro nò; uno ama, l’altro freddo, od
indifferente. Osservate negli scritti, e nelle Vite de’ Santi si
antichi, come prossimi a’ nostri tempi: un S. Gio.
Damasceno, s Cirillo, s Bernardo, s Tommaso, un s Filippo,

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e tra gli ultimi un S Alfonso; al riandare quel modo di
scrivere, e di parlare di Maria, que’ termini, quelle parole
così infuocate, e piene, quello studio, e quella gioia che vi si
scorge in lodarla, in esaltarla occorre dimandare se quelle
anime amavano, ed erano divote di Maria: chiunque è
persuaso, ed è convinto che quel parlare, ed un simile
linguaggio non può partire che da un cuore che sente, da un
anima, che ama. Lo stesso dite pure di qualunque
Sacerdote, che vi venga di trattare, od udire; non andrà gran
tempo che voi conoscerete per chi batta quel cuore, se egli
sia tra Sacerdoti un vero figlio amante di Maria, oppure un
Eclesiastico che solo la conosca per nome. Pare inutile, anzi
quasi ingiurioso ed offensivo il ricordare, il raccomandar ad
un figlio, che ami la propria Madre; egli è tanto legittimo,
naturale, e necessario cotesto amore, che costa e quasi non
s’arriva a soffocarlo. Eh! se io dimandassi a tante anime
buone sulla terra giovani, vecchie, poverelle, e forse rozze,
idiote, volete ben voi, amate Maria? sono certo che con
trasporto, e con impeto quasi impazienti di soddisfarmi, mi
risponderebbero commosse, e perché non volerle bene, e
come possibile non amarla, ah! vorrei sapere che fare, che
dire per amarla di più, che lo farei a qualunque costo. Che
dovrà dirsi adunque del Sacerdote, di questo figlio il primo,
il più vicino al cuore di questa Madre?
Due cose io vedo indispensabili nel Sacerdote perché
possa dirsi che egli veramente ama Maria. La prima ben
naturale, e necessaria è che proccuri, e si guardi ben bene
dall’offenderla, e disgustarla non solo in cose gravi, e
mortali, lo che è facile a conoscere che non può compartirsi
con un amore anche ordinario, e comune, ma anche in cose
meno notabili, e leggiere. Tra due persone, che si amino
solo al punto da non essere nemiche, ed odiarsi, le piccole
offese, e disgusti non si sogliono calcolare gran fatto; ma tra

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due cuori, che si amino veramente, tra due che facciano
professione di amarsi sono un gran male. Uno scherzo alle
volte inopportuno, una parola sfuggita, un tratto mal
misurato, la mancanza d’un qualche riguardo può dar luogo
a guai, a dissapori, a freddure, e sospetti; se meno si amasse,
meno si calcolerebbe, come meno dolorosa sarebbe una
ferita quando meno delicata, e sensibile fosse la parte, che si
offende. Che direste voi d’un figlio, che nella sua condotta
colla propria Madre si limitasse ciò solo da non offenderla
gravemente, e tenesse per niente, o per poco i dispiaceri
comuni, e frequenti, che le arrecasse, perché non la fanno
piangere, e morire dì dolore: Ma senti, o Caro, chiunque di
noi gli direbbe, tu lo sai, che questo non piace alla Madre; la
turba, l’inquieta, l’affligge, e le fa passare giorni di tristezza,
e di Malinconia. Che importa a me, rispondesse il figlio,
purché non la trafigga con un pugnale, e muoja; a me basta
e non occorre di più.

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