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Alibaba

Duncan Clark

Alibaba
La storia di Jack Ma e dell’azienda che ha
cambiato l’economia globale

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO


Titolo originale: Alibaba
Copyright © 2016 by Duncan Clark.
Published by Harper Collins Publishers, 195 Broadway, New York
All rights reserved.

Per l’edizione italiana


Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2017
via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy)
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Tutti i diritti sono riservati a norma di legge


e a norma delle convenzioni internazionali

ISBN EBOOK 978-88-203-7999-5

Traduzione: Ilaria Katerinov


Realizzazione: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali (info@iltrio.it)
Impaginazione e copertina: Sara Taglialegne
Immagine di copertina: Chad Ingraham/Contrasto

Realizzazione digitale: Promedia, Torino


Sommario

Prefazione di Guido Santevecchi


Introduzione

1 Il triangolo di ferro
2 La magia di Jack
3 Da studente a insegnante
4 La «Speranza» e lo sbarco in America
5 La Cina sta arrivando
6 La bolla e la nascita
7 I finanziatori: Goldman e SoftBank
8 Lo scoppio della bolla e il ritorno in Cina
9 La rinascita: Taobao e l’umiliazione di eBay
10 Yahoo! e la scommessa da un miliardo di dollari
11 I dolori della crescita
12 Icona o Icaro?

Ringraziamenti
Note
Informazioni sul Libro
Circa l’autore
Prefazione

Confesso subito che sono di parte. Ho letto questo libro tutto d’un fiato, in
poche ore, perché Jack Ma mi affascina: come imprenditore e come
personaggio. Anzitutto perché pur essendo il profeta dell’ecommerce ha
investito nella vecchia carta stampata, acquistando due anni fa il South China
Morning Post, giornale in lingua inglese di Hong Kong che è un punto di
riferimento per chi vuole cercare di capire la politica cinese. E poi perché
nonostante sia una stella globale, un supermiliardario che dà del tu ai potenti,
ha una cortesia personale e una comunicativa sorprendenti, anche nei
confronti degli sconosciuti. L’ho incontrato nel Grande Palazzo del Popolo di
Pechino. Era seduto in una saletta in attesa di firmare accordi con il governo
italiano, in poltrona, nella penombra. Quando sono entrato è balzato in piedi
con un sorriso, per stringere la mano del cronista indiscreto, tirando fuori
dalla tasca il suo biglietto da visita, quasi che avesse bisogno di presentarsi.
Ma simpatia personale e carisma a parte, c’è un motivo «strategico» per
leggere la storia di prima mano di Duncan Clark su Jack Ma. Quest’uomo,
che si è imposto con le proprie idee e la propria forza, sta spingendo le nostre
abitudini di tutti i giorni verso una nuova frontiera, spostandola sempre di più
nel campo virtuale. Secondo Jack Ma l’e-commerce, che a noi sembra appena
iniziato, sta ormai invecchiando e bisogna rinnovarlo. Per questo le teste
d’uovo di Alibaba stanno integrando i dati ottenuti online dai clienti con
attività offline, cercano modi per unire il piacere dell’acquisto a quello
dell’intrattenimento, utilizzano i media nuovi e quelli tradizionali. Tra le
ultime idee di Jack Ma c’è il Virtual Reality Shopping: basta una maschera
VR (visore per la realtà virtuale) fatta di cartone, da pochi centesimi,
accoppiata a un semplice smartphone e si viene trasportati in negozi e
boutique sparsi nel mondo, dalla Fifth Avenue di New York a Via
Montenapoleone. Si prova, si sceglie e si compera, viaggiando nella realtà
virtuale.
E poi Alibaba, in collaborazione con l’Accademia Statale cinese che
sovrintende al programma missilistico, metterà in orbita già nel 2017 un
satellite per monitorare lo stato delle coltivazioni agricole nel mondo. I dati
saranno utilizzati da Alibaba per ordinare prodotti agricoli e metterli a
disposizione dei clienti sulle sue piattaforme di e-commerce. In Cina stanno
già sperimentando la consegna a domicilio con i droni. Uno sviluppo
interessante anche per l’agricoltura italiana di grande qualità, che Jack Ma
apprezza moltissimo.

Corre sempre Jack Ma: il suo nome mandarino è Ma Yun, che significa
Cavallo Nuvola. Veloce e visionario.
Che cosa vuole fare della sua vita Jack Ma? «Mi ritirerò ancora giovane,
per godermi la vita come Forrest Gump, non voglio morire in ufficio, meglio
morire in spiaggia».

GUIDO SANTEVECCHI
Introduzione

«Alibaba» è un nome insolito per un’azienda cinese. Il suo fondatore, Jack


Ma, un ex insegnante d’inglese, è un capitano d’industria altrettanto insolito.
La sua azienda, tuttavia, è il negozio virtuale più grande del mondo,
destinato a breve a superare Walmart per volume di vendita. L’IPO del
settembre 2014 alla borsa di New York ha raccolto 25 miliardi di dollari,
l’offerta iniziale di maggior successo della storia. Nei mesi successivi il
valore delle azioni di Alibaba è salito alle stelle, facendone una delle dieci
aziende più valutate al mondo con una valutazione di quasi 300 miliardi di
dollari. Nel settore delle imprese che operano su Internet è diventata l’azienda
con la valutazione più elevata al mondo dopo Google: le sue azioni valevano
più di quelle di Amazon e eBay messe insieme. Nove giorni prima dell’IPO
Jack ha festeggiato il suo cinquantesimo compleanno, e la sua quota azionaria
ha fatto di lui l’uomo più ricco dell’Asia.
Ma dopo quel debutto stellare c’è stata qualche battuta d’arresto. Il valore
delle azioni si è dimezzato rispetto al picco raggiunto dopo l’IPO, e per un
breve periodo è calato addirittura al di sotto del prezzo dell’offerta iniziale.
Gli investitori si sono preoccupati ancora di più quando, all’inizio del 2015,
l’azienda è entrata inaspettatamente nel mirino di un’agenzia governativa per
una questione di proprietà intellettuale; i problemi sono stati aggravati dal
rallentamento dell’economia cinese e dalla volatilità dei mercati azionari, che
hanno fatto calare il prezzo delle azioni di Alibaba.
Nonostante gli alti e bassi a Wall Street, con la sua quota dominante nel
mercato dell’e-commerce Alibaba si trova nella posizione ideale per trarre
vantaggio dall’ascesa delle nuove classi consumatrici cinesi. Oltre 400
milioni di persone, più dell’intera popolazione degli Stati Uniti, fanno
acquisti ogni anno sui siti web di Alibaba. Le decine di milioni di pacchi
spediti ogni giorno rappresentano quasi i due terzi del traffico postale in Cina.
Alibaba ha cambiato il modo in cui i cinesi fanno acquisti, dando accesso
a una varietà di prodotti e a un livello qualitativo che le generazioni
precedenti potevano solo sognare. Come Amazon in Occidente, Alibaba offre
a milioni di consumatori la comodità della consegna a domicilio; ma il suo
impatto è molto più profondo. Taobao, il suo sito di shopping online, ha
permesso per la prima volta a molti cinesi di sentirsi davvero apprezzati come
clienti. Alibaba sta svolgendo un ruolo cruciale nella ristrutturazione
dell’economia cinese, aiutando il Paese a emanciparsi da un passato «made in
China» verso un presente all’insegna del «comprato in Cina».
Il modello di crescita della «vecchia Cina» ha resistito per trent’anni.
Intervenendo sui settori della produzione, dell’edilizia e delle esportazioni, ha
affrancato dalla povertà centinaia di milioni di persone ma ha lasciato alla
Cina una spiacevole eredità: eccesso di capacità produttiva, cementificazione
e inquinamento. Oggi sta emergendo un nuovo modello, centrato sulla
risposta alle esigenze di una classe media che nei prossimi dieci anni è
prevista in crescita da 300 a 500 milioni di persone.
Jack, più di chiunque altro, è il volto della nuova Cina. È già una sorta di
eroe popolare in patria, dove si colloca al crocevia dei nuovi culti cinesi: il
consumismo e l’imprenditorialità.
La sua fama si estende ben oltre i confini della Cina. Presidenti, primi
ministri e principi, dirigenti, imprenditori, investitori e star del cinema
farebbero carte false per incontrarlo (e per scattarsi un selfie con lui). Jack
divide regolarmente il palco con illustri personaggi della politica e
dell’imprenditorialità internazionale, e spesso li mette in ombra con la sua
efficacia oratoria. Salire sul palco dopo Jack è una partita persa in partenza.
Contro ogni protocollo, il presidente Obama si è offerto di fare da moderatore
per Jack durante una sessione di domande e risposte al meeting APEC che si
è svolto a Manila nel novembre 2015. Al Forum economico mondiale di
Davos, nel gennaio 2016, Jack ha cenato con Leonardo DiCaprio, Kevin
Spacey e Bono, oltre agli amministratori delegati di Coca-Cola Company,
DHL e JPMorgan Chase. Il fondatore di un’altra internet company cinese ha
commentato: «Il discorso di Obama sembrava quasi scritto dall’ufficio
stampa di Alibaba!»
Il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha sfoggiato i risultati del suo
studio della lingua cinese nei discorsi che ha tenuto a partire dal 2014, il
primo dei quali all’università Tsinghua di Pechino. Ma Jack, che prima di
diventare un tycoon era un insegnante d’inglese, da oltre diciassette anni
entusiasma l’uditorio in entrambe le lingue.

Tom Cruise e Jack Ma a Shanghai, il 6 settembre 2015, alla premiere cinese di Mission Impossible –
Rogue Nation, finanziato in parte da Alibaba Pictures. Alibaba

Ho conosciuto Jack nell’estate del 1999, pochi mesi dopo la fondazione


di Alibaba in un piccolo appartamento di Hangzhou, circa centosessanta
chilometri a sudovest di Shanghai. Durante la mia prima visita ho dedotto il
numero dei cofondatori dell’azienda dal numero degli spazzolini allineati in
una serie di tazze su una mensola del bagno. Oltre a Jack c’erano sua moglie
Cathy e altre sedici persone. Jack e Cathy avevano scommesso sull’azienda
tutti i loro averi, compresa la casa. Già allora, come oggi, Jack era animato da
un’ambizione straordinaria. Dichiarava di voler costruire una internet
company capace di durare ottant’anni, come la vita di un uomo. Qualche
anno dopo ha esteso l’aspettativa di vita di Alibaba a «centodue anni», in
modo da toccare tre secoli a partire dal 1999. Fin dall’inizio si è ripromesso
di aggredire e sconfiggere i giganti della Silicon Valley. Visto dall’interno di
quel modesto appartamento, il suo progetto doveva sembrare una pia
illusione; eppure la sua tenacia incrollabile lo faceva sembrare fattibile.
Sono diventato consulente di Alibaba nei primi anni di vita dell’azienda:
ho aiutato Jack e il suo braccio destro Joe Tsai a perseguire la strategia di
espansione internazionale e ho raccomandato loro alcuni dei primi dipendenti
stranieri. Alibaba mi ha aiutato nelle ricerche per questo libro permettendomi
di intervistare alti dirigenti e offrendomi accesso a varie sedi dell’azienda. Ma
la mia versione dei fatti è del tutto indipendente. Non sono mai stato sul libro
paga dell’azienda e a tutt’oggi non intrattengo con essa rapporti professionali.
Le informazioni di cui dispongo derivano in parte dal breve periodo in cui
sono stato consulente di Alibaba, durante la bolla delle dot-com, e dalla
prossimità che quei primi contatti mi hanno permesso di mantenere in
seguito. Ma nella stesura di questo libro sono stato guidato anche
dall’esperienza personale – vivo in Cina dal 1994 e ho visto arrivare Internet
nel Paese – e dalla mia carriera. Con il sostegno del mio precedente datore di
lavoro, Morgan Stanley,1 nell’estate del 1994 ho fondato BDA China, una
società di consulenza sugli investimenti con sede a Pechino che oggi dà
lavoro a oltre cento professionisti e assiste investitori e aziende cinesi nei
settori della tecnologia e del retail.
Come retribuzione parziale per i miei servizi di consulenza, all’inizio del
2000 Jack e Joe mi hanno concesso di acquistare alcune centinaia di migliaia
di azioni di Alibaba a soli trenta centesimi l’una. Alla scadenza per l’acquisto
delle azioni, all’inizio del 2003, la situazione dell’azienda non appariva rosea.
La bolla delle dot-com era scoppiata e il business originario di Alibaba era in
crisi. Commettendo un errore di proporzioni colossali, ho deciso di non
comprare le azioni. Nelle settimane successive all’IPO dell’azienda, nel 2014,
ho scoperto che il mio errore valeva 30 milioni di dollari.2 Vorrei ringraziarvi
di cuore per aver acquistato questo libro. Scriverlo si è dimostrato (almeno in
parte) catartico, perché mi ha permesso di studiare le storie di chi, come
Goldman Sachs, ha sottovalutato quanto me la tenacia di Jack e ha venduto
troppo presto le sue quote azionarie; e la storia di eBay, che non considerava
Alibaba un rivale ma che nel giro di pochi anni è stata estromessa dal mercato
cinese.
Jack è diverso dagli altri miliardari di Internet. A scuola andava male in
matematica e oggi sfoggia la sua ignoranza tecnologica come un motivo di
vanto. La sua ambizione smisurata e le sue strategie non convenzionali gli
hanno fruttato il soprannome di «Crazy Jack». In questo libro sonderemo il
suo passato e la sua personalità eccentrica per scoprire se c’è del metodo
nella sua follia.
Il mercato dell’e-commerce cinese presenta alcune anomalie rilevanti
rispetto all’economia americana e alle altre economie occidentali: è il frutto
di decenni di pianificazione e risente tuttora del ruolo primario delle imprese
statali. Alibaba ha saputo sfruttare le inefficienze create da questi fattori,
dapprima nell’e-commerce e ora nei media e nella finanza. La sua visione – e
il suo operato filantropico – si estendono ormai a tutte le principali aree di
criticità che la Cina si trova ad affrontare, come la riforma della sanità,
l’istruzione e la tutela dell’ambiente.
Eppure il business principale di Alibaba resta l’e-commerce, un mercato
che questa azienda ha contribuito a creare e in cui attualmente ha una
posizione dominante. Ha ancora margine di crescita? I competitor la
aspettano al varco. E anche il governo la osserva da vicino. Con un potere di
mercato che nessuna azienda privata aveva mai avuto, Jack riuscirà a tenere
lo Stato dalla sua parte?
Benché gran parte delle sue attività si svolga in Cina, Alibaba è
impegnata in un’ambiziosa espansione internazionale. Dichiara il nuovo
presidente Michael Evans: «Ci piace dire che Alibaba è nata in Cina ma è
stata creata per il mondo.»
Prima di ripercorrere la storia di Alibaba e di esaminare i suoi obiettivi
per il futuro, iniziamo da quello che Jack chiama «il triangolo di ferro», i tre
pilastri su cui si basa il successo dell’azienda: l’e-commerce, la logistica e
l’economia.
Il triangolo di ferro

Negli ultimi quindici anni abbiamo cambiato la Cina, nei


prossimi quindici speriamo di cambiare il mondo intero.
–JACK MA

L’11 novembre 2015, a Pechino, nel celebre edificio a forma di bolla –


permeato di luce azzurra e noto con il nomignolo di «Cubo d’acqua» – che
sette anni prima aveva ospitato le gare degli sport acquatici alle Olimpiadi,
non era l’acqua a scorrere, ma fiumi di dati. Per ventiquattr’ore di fila un
enorme schermo digitale ha trasmesso mappe, grafici e notizie, catalogando
in tempo reale gli acquisti completati da milioni di consumatori cinesi sui siti
di Alibaba. Davanti a centinaia di giornalisti che trasmettevano l’evento in
tutta la Cina e nel resto del mondo, il Cubo d’acqua era stato trasformato nel
centro di controllo di una missione rivolta ai cinesi della classe media e ai
rivenditori che facevano affari con loro. Uno speciale televisivo di quattro ore
trasmesso in diretta, l’«11/11 Global Festival Shopping Gala», ha aiutato gli
spettatori a restare svegli fino alla mezzanotte, con la partecipazione di attori
come Kevin Spacey, che è apparso in un filmato preregistrato nei panni del
suo personaggio di House of Cards, il presidente Frank Underwood, per
promuovere Alibaba come il negozio ideale in cui acquistare telefoni cellulari
usa e getta. Il galà è culminato con uno sketch in cui Jack interpretava la
nuova Bond Girl e poi appariva in smoking accanto a Daniel Craig nei panni
di James Bond per introdurre il conto alla rovescia verso la mezzanotte.
Nei primi otto minuti dell’11/11/15, sui siti di Alibaba è stato speso più
un miliardo di dollari. Ed era solo l’inizio. Mentre il registratore di cassa più
grande del mondo calcolava il totale, Jack – seduto accanto all’amico Jet Li,
attore e maestro di arti marziali – non ha saputo resistere alla tentazione di
scattare una foto all’enorme schermo con il suo cellulare. Ventiquattr’ore
dopo, 30 milioni di acquirenti avevano fatto acquisti per oltre 14 miliardi di
dollari,1 il quadruplo della cifra spesa nell’equivalente americano dell’11/11,
il Cyber Monday, che cadeva qualche settimana più tardi, dopo il Black
Friday, la giornata degli sconti successiva alla Festa del Ringraziamento.
L’11 novembre di ogni anno,2 in Cina si tiene una promozione speciale, il
«Singles’ Day.»3 In Occidente questa data commemora i veterani delle
guerre, ma in Cina l’11 novembre è il giorno più importante dell’anno per i
commercianti che si contendono il portafoglio della nuova classe
consumatrice.

Poco dopo la mezzanotte, i media cinesi presentano i risultati di vendita della promozione di Alibaba
per il Singles’ Day, 11 novembre 2015. Duncan Clark

Nel giorno in questione, detto anche «il doppio undici» (shuang shiyi),4 i
cinesi si abbandonano all’edonismo più sfrenato. Jack riassume così l’evento:
«È una giornata unica. Vogliamo che tutti i produttori e i commercianti siano
grati ai consumatori. Vogliamo che i consumatori passino una bellissima
giornata.»5
Nel 2009 parteciparono al Singles’ Day appena ventisette rivenditori;
oggi sono oltre quarantamila commercianti e trentamila brand. Il fatturato
totale del 2015 era in crescita del 60 per cento rispetto ai 9 miliardi di dollari
dell’anno precedente. In quell’occasione, festeggiata al campus di Alibaba
nel Parco lagunare di Hangzhou, il direttore strategico dell’azienda, dottor
Zeng Ming, ha descritto la scena in termini che ricordano il dottor
Frankenstein chino sulla sua creatura, in procinto di risvegliarla dalla morte:
«L’ecosistema è dotato di volontà propria: e vuole crescere.» Il
vicepresidente esecutivo Joe Tsai ha commentato in modo analogo: «State
assistendo al dispiegamento della forza del consumatore cinese.»
Quella forza è rimasta a lungo repressa. Negli Stati Uniti la spesa per
consumi delle famiglie è responsabile di due terzi dell’economia, ma in Cina
rappresenta appena un terzo. Rispetto alle nazioni sviluppate, i cinesi non
consumano abbastanza. Il motivo? Risparmiano troppo e spendono troppo
poco. Per finanziare l’istruzione dei figli, le spese mediche o i piani
pensionistici, molte famiglie nascondono i soldi nel materasso, ovvero
accumulano «risparmi precauzionali». Inoltre, fino a relativamente poco
tempo fa, non avendo a disposizione la stessa varietà e qualità dei prodotti in
vendita in Occidente, i consumatori cinesi erano poco tentati di concedersi
spese voluttuarie.
In un discorso tenuto all’università di Stanford nel settembre 2015, Jack
osservava: «Negli Stati Uniti, quando l’economia rallenta significa che la
gente non ha soldi da spendere.» Ma, proseguiva scherzando: «Voi americani
sapete bene come spendere i soldi di domani, i soldi del futuro o i soldi altrui.
La Cina è rimasta povera per tanti anni; i nostri soldi finiscono in banca.»
Le vecchie abitudini sono dure a morire, ma un’abitudine nuova – gli
acquisti online – sta cambiando il comportamento dei consumatori cinesi.
Alibaba è all’avanguardia di questa trasformazione. Il suo sito più frequentato
è Taobao.com, il terzo sito più visitato della Cina e il dodicesimo al mondo. È
nato un modo di dire: Wanneng de taobao,6 ovvero «Su Taobao si può
trovare tutto». Amazon è stata definita «the Everything Store», il negozio di
tutto, ma anche Taobao vende (quasi) ogni tipo di prodotto e lo spedisce
ovunque. Come Google è ormai sinonimo di ricerca online, così in Cina il
verbo «tao»7 vuol dire ricercare un prodotto online.
Alibaba ha un impatto molto maggiore sul settore del commercio cinese
di quanto Amazon influenzi quello americano. Grazie a Taobao e al suo sito
gemello, Tmall, Alibaba è di fatto il primo retailer cinese. Amazon, invece, è
entrata solo nel 2013 nella top ten dei rivenditori americani.
Alibaba ha lanciato Taobao nel 2003, ma solo cinque anni dopo il sito ha
iniziato davvero a camminare con le sue gambe. Fino ad allora, le
innumerevoli fabbriche cinesi sfornavano prodotti destinati soprattutto ad
acquirenti esteri e a riempire gli scaffali di catene come Walmart e Target.
Ma la crisi finanziaria globale del 2008 ha cambiato tutto. I mercati
tradizionali delle esportazioni cinesi sono piombati in caduta libera, e intanto
Taobao ha spalancato i cancelli delle fabbriche ai consumatori cinesi. La
reazione del governo cinese alla crisi del 2008 è consistita nel rafforzare il
modello della «vecchia Cina»: un’iniezione di denaro nell’economia che ha
stimolato un’enorme bolla immobiliare e ha esacerbato i problemi di
sovracapacità e inquinamento. Quando sono arrivati i conti da pagare, è
apparsa chiara l’urgenza di un riequilibrio dell’economia cinese in direzione
del consumo. E Alibaba ne è stato uno dei beneficiari principali.
A Jack piace pensare che il successo della sua azienda sia stato un colpo
di fortuna: «Alibaba avrebbe potuto chiamarsi “mille e un errore”.» Nei primi
anni elencava i tre motivi per cui l’azienda era sopravvissuta: «Non avevamo
soldi, non avevamo tecnologia, non avevamo un piano.»
Ma oggi tre fattori concreti sono alla base del successo di Alibaba: il
vantaggio competitivo nell’e-commerce, nella logistica e nella finanza, quello
che Jack definisce «il triangolo di ferro» di Alibaba.
I siti di e-commerce del gruppo offrono ai consumatori una varietà
impareggiabile di merci. L’offerta logistica garantisce che quelle merci siano
recapitate in modo rapido e affidabile. E la consociata finanziaria di Alibaba
rende facile e sicuro acquistare online.

Il vantaggio dell’e-commerce
A differenza di Amazon, i siti di Alibaba rivolti ai consumatori – Taobao e
Tmall – non hanno magazzini propri.8 Fungono da piattaforme su cui altri
rivenditori vendono i loro prodotti. Taobao è composto da nove milioni di
negozi gestiti da piccoli commercianti o singoli individui. Attratti
dall’enorme numero di utenti del sito, questi «micro-commercianti» scelgono
di allestire le loro bancarelle su Taobao anche perché non costa nulla: non c’è
una tariffa di iscrizione da pagare. Ma Taobao guadagna – e molto –
vendendo spazi pubblicitari e aiutando nella promozione i commercianti che
vogliono distinguersi dalla concorrenza.
I venditori possono farsi pubblicità attraverso annunci a pagamento o
inserzioni pubblicitarie. Nel modello degli annunci a pagamento, simile a
AdWords di Google, gli inserzionisti pagano le parole chiave che
conferiscono ai loro prodotti una maggiore visibilità su Taobao.
Retribuiscono Alibaba sulla base del numero di clic che i consumatori
effettuano sui loro annunci. Oppure possono usare un modello pubblicitario
più tradizionale, e pagare in base al numero di visualizzazioni delle loro
inserzioni su Taobao.
C’è una vecchia battuta sulla pubblicità: «So che almeno metà del mio
budget pubblicitario funziona… ma non so quale metà.» Ma Taobao
rappresenta un’attrazione irresistibile per i piccoli commercianti, grazie alla
pubblicità «pay-for-performance» e alle centinaia di milioni di consumatori
con cui il sito li mette in contatto.
A mantenere l’ordine sugli scaffali virtuali di Taobao sono i responsabili
del servizio clienti di Alibaba, gli xiaoer.9 Migliaia di xiaoer fungono da
mediatori nelle dispute che sorgono tra clienti e venditori. Questi arbitri,
giovani dipendenti la cui età media è di ventisette anni, hanno orari di lavoro
molto pesanti e spesso inviano messaggi ai venditori fino a tarda sera.
Gli xiaoer hanno grandi poteri esecutivi, compresa la possibilità di
chiudere un negozio. Oltre al bastone, possono offrire ai venditori anche una
carota: la partecipazione a campagne di marketing. Inevitabilmente, alcuni
venditori cercano di corrompere gli xiaoer con offerte in denaro.
Periodicamente Alibaba chiude i negozi dei venditori colti in flagrante, e
un’unità disciplinare interna monitora costantemente il comportamento dei
dipendenti.
Ma gli xiaoer da soli non bastano a spiegare il successo di Taobao. Il sito
funziona perché riesce a dare la priorità al cliente, trapiantando l’energia dei
mercati di strada cinesi nell’esperienza dello shopping online. Gli acquisti
online sono interattivi come quelli nella vita reale. I clienti possono usare
l’applicazione chat di Alibaba10 per contrattare sul prezzo; un venditore può
mostrare il prodotto al cliente tramite la webcam. Gli acquirenti possono
inoltre aspettarsi sconti e spedizioni gratuite. La maggior parte dei pacchi
contiene campioni gratuiti o pupazzetti di peluche, un’usanza a cui
personalmente mi sono così abituato che, quando ricevo pacchi da Amazon
negli Stati Uniti, scuoto invano la scatola per vedere se esce qualcosa. I
venditori di Taobao difendono a spada tratta la propria reputazione, perché la
concorrenza è spietata. Quando un cliente lascia un commento negativo su un
venditore o un prodotto, nel giro di pochi minuti può aspettarsi di ricevere un
messaggio con offerte di rimborso o sostituzione gratuita.
Alibaba ha costruito il suo dominio nell’e-commerce anche attraverso un
altro dei suoi siti, Tmall.11 Se Taobao può essere paragonato a un mercato
pieno di bancarelle, Tmall è un sontuoso centro commerciale. I grandi
rivenditori e persino i brand del lusso vendono i loro prodotti su Tmall e, per
i clienti che non possono ancora permetterseli, costruiscono brand
awareness. A differenza di Taobao, che è gratuito per acquirenti e venditori, i
commercianti versano commissioni ad Alibaba per i prodotti che vendono su
Tmall, per un ammontare che va dal 3 al 6 per cento a seconda della
categoria.12 Oggi Tmall.com è il settimo sito più visitato in Cina.
In cinese si chiama tian mao, ovvero «gatto del cielo». La sua mascotte è
un gatto nero, per distinguerlo dalla bambola aliena di Taobao. Tmall è una
voce sempre più importante nel fatturato di Alibaba: genera 136 miliardi in
volume di vendita lordo,13 avvicinandosi sempre più ai 258 miliardi di
Taobao. Alibaba incassa da questi siti quasi 10 miliardi di dollari l’anno,
quasi l’80 per cento del suo giro d’affari complessivo.
Tmall ospita tre tipi di negozi sulla sua piattaforma: punti vendita flagship
gestiti dal brand stesso, rivenditori autorizzati, ovvero commercianti che
hanno ricevuto dal brand la licenza di vendere i loro prodotti, e negozi
specializzati multimarca, che vendono articoli di diversi brand. I multimarca
rappresentano il 90 per cento dei venditori su Tmall. Oggi sul sito si possono
trovare oltre settantamila brand, cinesi e stranieri.
Nella promozione per il Singles’ Day su Tmall, tra i brand più popolari
comparivano nomi stranieri come Nike, Gap, Uniqlo e L’Oreal, oltre ad
aziende cinesi come i produttori di smartphone Xiaomi e Huawei, e a Haier,
che vende elettronica di consumo ed elettrodomestici.
Su Tmall c’è l’intero alfabeto dei brand, da Apple a Zara. Ci sono anche
marchi del lusso, che però stanno attenti a non cannibalizzare le vendite dei
negozi fisici.14 La presenza di Burberry segnala che Alibaba non vende più
solo paccottiglia.
Su Tmall sono presenti anche aziende americane come Costco e Macy’s,
che Alibaba si impegna a mettere in comunicazione con i clienti cinesi. Il
negozio di Costco su Tmall ha attirato oltre 90 milioni di visitatori nei primi
due mesi.
Persino Amazon è su Tmall, dove dal 2015 vende alimenti
d’importazione, scarpe, giocattoli e articoli per la cucina. Amazon puntava da
tempo al mercato cinese ma ha dovuto accontentarsi di conquistarne il 2 per
cento.
Oltre a Taobao e Tmall, Alibaba gestisce un sito in stile Groupon15
chiamato Juhuasuan.com.16 È il più grande sito cinese di acquisti di gruppo
orientato ai prodotti. Alimentato dall’enorme volume di merci sugli altri siti
di Alibaba, ha oltre 200 milioni di utenti iscritti che ne fanno il sito di
acquisti di gruppo più grande del mondo. Nel loro insieme, Taobao, Tmall e
Juhuasuan ospitano oltre dieci milioni di venditori e offrono oltre un miliardo
di articoli.
I siti di Alibaba sono popolari anche perché, come in Occidente, fare
acquisti online da casa permette di risparmiare tempo e denaro. Oltre il dieci
per cento degli acquisti al dettaglio in Cina avviene online, rispetto al 7 per
cento negli Stati Uniti. Jack ha paragonato l’e-commerce a un «dessert» negli
Stati Uniti e alla «portata principale» in Cina. Perché? In Cina lo shopping
non è mai stato un’esperienza piacevole. Fino all’arrivo delle multinazionali
come Carrefour e Walmart, c’erano pochissime catene al dettaglio e centri
commerciali. La maggior parte dei commercianti cinesi erano in origine
imprese pubbliche. Poiché avevano accesso a finanziamenti dei governi locali
o delle banche statali, tendevano a considerare i clienti un semplice fastidio.
Altri rivenditori sono gestiti da imprese del settore immobiliare, che hanno
più a cuore il valore del terreno su cui sorge il negozio che non i clienti al suo
interno.
Il fardello degli immobili che grava sui retailer tradizionali è un fattore
cruciale del successo dell’e-commerce in Cina. I terreni sono costosi perché
sono una fonte di reddito fondamentale per lo Stato. Le vendite fondiarie
rappresentano un quarto degli introiti fiscali del governo e oltre un terzo a
livello dei governi locali. Un alto dirigente nel settore dell’ecommerce
riassume così la situazione: «Per come è strutturata la nostra economia, è il
governo a stabilire il prezzo dei terreni, a decidere come allocare le risorse,
dove spendere i soldi. L’eccessivo affidamento del governo sugli introiti
provenienti dalle tasse legate alla vendita di terreni minaccia di distruggere il
business del retail in Cina, e ha spostato online gran parte della domanda. Il
governo ha impedito ai rivenditori offline di approfittare dell’aumento della
domanda di consumo, spingendola di fatto verso i rivenditori dell’e-
commerce.» I negozi fisici che riescono a fare buoni affari – dai grandi
magazzini ai ristoranti – sono vittime del loro successo: se attirano molti
clienti possono aspettarsi un sostanzioso aumento del canone di affitto al
momento di rinegoziare il contratto.
Di conseguenza, rispetto all’Occidente, i negozi fisici cinesi hanno
investito molto meno in marketing, customer service, risorse umane e
logistica. Il risultato? Il mercato cinese del retail è frammentato e inefficiente.
Negli Stati Uniti le prime tre catene di generi alimentari totalizzano il 37 per
cento del fatturato complessivo, in Cina solo il 7 per cento. I principali grandi
magazzini americani rappresentano il 44 per cento del fatturato totale di quel
segmento. In Cina? Appena il 6 per cento.
Nonostante i tanti nuovi centri commerciali, supermercati e negozi di
quartiere, la densità dei punti vendita offline è ancora estremamente bassa.
Per ogni persona che abita in Cina ci sono solo sei metri quadrati di spazi
commerciali, meno di un quarto che in America.17
È probabile che la Cina non colmi mai questo divario. E perché
dovrebbe? Il retail tradizionale non è certo un fulgido esempio di efficienza.
Con le spese di gestione e il costo degli affitti, in molte categorie di prodotto i
negozi offline perdono rapidamente terreno contro quelli online.
Oggi in Cina alcuni negozianti sono troppo impegnati a occuparsi dei
clienti online per badare a quelli che entrano fisicamente nel negozio. Molti
di loro hanno detto addio al negozio: perché pagare un affitto salato per uno
spazio che resta aperto non più di dodici ore al giorno, quando su Taobao si
può restare operativi ventiquattr’ore al giorno e sette giorni su sette?
La natura rifugge il vuoto, e in Cina Internet sta riempiendo gli spazi
liberi lasciati dalle imprese pubbliche e dalla pianificazione statale. Ecco
perché in Cina lo shopping online è ancora più diffuso che in Occidente. Jack
riassume così la situazione: «Negli altri Paesi, l’e-commerce è uno dei modi
possibili per fare shopping; in Cina è uno stile di vita.»
Se Taobao ha aperto la porta allo shopping online in Cina, Tmall l’ha
spalancata. Gli early adopter di Taobao erano giovani nativi digitali, ma oggi
anche i loro genitori e nonni comprano online. All’ampliarsi della gamma di
persone che fanno acquisti via Internet, si è arricchita anche la varietà dei
prodotti in offerta. Gli articoli più popolari sui siti di Alibaba sono le
calzature e l’abbigliamento: da calzini e magliette ad abiti da decine di
migliaia di dollari. All’indomani della più importante trasmissione televisiva
del Paese, il Galà del Festival di Primavera trasmesso sulla China Central
Television, gli abiti indossati dalle celebrità – o le imitazioni di quegli abiti –
sono già in vendita sui siti di Alibaba. Molti negozi presentano foto di
persone – compresi gli stessi commercianti – che indossano il capo in una
vasta gamma di taglie per facilitare l’acquisto a distanza. I clienti sanno che
se l’abito è difettoso o non veste bene potranno restituirlo gratuitamente.
I generi alimentari sono un’altra categoria popolare perché, come spiega
Jack, «in Cina i supermercati erano terribili: ecco perché siamo risultati
vincenti.» Oltre il 40 per cento dei consumatori cinesi fa già la spesa online,
contro appena il 10 per cento negli Stati Uniti. Nel 2014 le vendite online di
alimentari in Cina sono cresciute del 50 per cento, quelle offline sono
aumentate solo del 7 per cento. Tmall consegna generi alimentari in oltre 250
città, in tutte tranne sei delle trentadue province della Cina continentale, e
spesso a prezzi inferiori a quelli dei supermercati. Alibaba offre già la
consegna in ventiquattr’ore degli alimenti deperibili in oltre sessanta città e
propone una vasta gamma di alimenti importati. In collaborazione con la
Apple Commission dello Stato di Washington, Alibaba ha ricevuto oltre
ottantaquattromila ordini di mele, che sono state colte, impacchettate e
spedite a clienti cinesi nel giro di settantadue ore, per un totale di 167
tonnellate: un volume equivalente alla capacità di tre Boeing 747.
Le giovani madri sono una fascia di clientela importantissima per
Alibaba. James Chiu, un rappresentante di Friso, un marchio olandese di latte
in polvere che è stato presentato con una promozione speciale su Alibaba per
il Singles’ Day 2015, ha dichiarato che per le giovani madri cinesi «l’e-
commerce non è un semplice canale di distribuzione ma uno stile di vita, un
ecosistema.» Il gruppo ha venduto prodotti per quasi 10 milioni di dollari tra
la mezzanotte e le sei del mattino del Singles’ Day: una cifra superiore alle
vendite totali del 2014.
I computer, i prodotti per la comunicazione e l’elettronica di consumo
sono categorie popolari su Taobao, come anche gli articoli per la casa: dagli
asciugacapelli ai forni a microonde, dai televisori alle lavatrici. Qui l’impatto
sui rivenditori offline è stato particolarmente forte. Durante il Singles’ Day,
le vendite di elettrodomestici su Alibaba superano regolarmente la metà delle
vendite annuali delle catene di elettronica di consumo più grandi del Paese.
Ad agosto 2015 Alibaba ha rilevato il 20 per cento della catena Suning, per
4,6 miliardi di dollari. Suning, che vende elettronica e grandi elettrodomestici
oltre a libri e prodotti per bambini, gestisce più di 1600 negozi in quasi
trecento città. Grazie all’accordo con Alibaba, che rientra nella tendenza in
crescita dell’«omni-channel» o «online to offline» (O2O), anche se un cliente
entra in un negozio Suning solo per provare un prodotto, l’azienda incassa
parte del ricavato quando quel cliente compra il prodotto online.
Alibaba vende anche automobili. Chevrolet e Buick, due brand di General
Motors, hanno aperto negozi su Tmall, dove propongono anche finanziamenti
a tasso zero per l’acquisto di auto, uno strumento competitivo cruciale in un
mercato che è già il più grande per GM. Le automobili sono una categoria
popolare nel Singles’ Day, perché gli acquirenti possono aspettarsi di ricevere
sconti e agevolazioni di pagamento. Un’altra categoria importante è quella
immobiliare: i super ricchi possono sfogliare cataloghi di isole in vendita in
Canada, nelle Fiji o in Grecia.
Taobao è celebre per l’offerta di articoli eccentrici. Una studentessa
universitaria è diventata famosa offrendo orecchini realizzati con zanzare
morte: come gli insetti, ciascun paio è unico. Un altro venditore proponeva
peti imbottigliati.
Taobao non si limita a vendere prodotti ma propone anche servizi. Artisti
e musicisti lo usano per cercare committenti. La straordinaria varietà dei
servizi offerti riflette la rapida evoluzione della società cinese. I giovani
possono noleggiare una finta fidanzata per una serata, o incaricare uno
specialista di troncare una relazione sentimentale al posto loro. Le mogli che
sospettano l’infedeltà del marito possono abbonarsi a un servizio di
counseling che insegna tecniche per liberarsi di un’amante. I giovani
indaffarati che vivono in città possono assumere su Taobao un surrogato che
vada a trovare i loro genitori. Per rispondere a una carenza cronica di
donatori, Juhuasuan, il sito di acquisti di gruppo, ha persino collaborato con
banche dello sperma in sette province per attirare donatori qualificati con
un’offerta di oltre ottocento dollari. È la cifra media corrisposta offline, ma
grazie al potere del marketing online oltre ventiduemila uomini hanno
accettato l’offerta in quarantott’ore.
Anche cosmetici e gioielli sono popolari su Taobao. I venditori sono
attratti da questa categoria perché i margini sono tra i più alti per le vendite
online. Oggi si stima che il 42 per cento dei prodotti per la cura della pelle
venduti in Cina siano acquistati online, anche grazie all’ampia disponibilità di
merci proposte da commercianti che hanno trovato modi per aggirare le
elevate tariffe di importazione.
Le merci contraffatte sono probabilmente il settore illecito più vasto del
mondo, e pare siano più redditizie dello spaccio di droga. Le vendite di beni
piratati su Taobao hanno contribuito alla popolarità del sito e restano tuttora
un pomo della discordia per i proprietari dei brand. I prodotti falsi cinesi sono
spesso di qualità così elevata che neppure i produttori legittimi riescono a
distinguerli dall’originale: provengono da lotti di produzione «extra»
realizzati negli stessi stabilimenti da cui escono i prodotti autentici,
solitamente usando scarti e avanzi di materiale. Essendo la «fabbrica del
mondo», la Cina si colloca al centro problema della pirateria. Ma ora che sta
diventando la base di consumatori più grande del mondo, deve contribuire
anche alla soluzione.
In un intervento tenuto a una fiera di settore dei venditori online a
Guangzhou,18 Jack ha risposto a queste preoccupazioni: «Ci sono prodotti
contraffatti [su Taobao]? Certo che ci sono. La nostra è una società
complicata. Taobao di per sé non sforna prodotti falsi, ma permette di
venderli con una certa comodità. Taobao è una piattaforma digitale.» A
questo punto Jack ha chiesto ai venditori di prodotti originali su Taobao di
coalizzarsi per far rispettare le regole e cacciare i venditori di prodotti non
autentici, dicendo loro: «Sappiamo chi di voi produce e vende falsi. Verrete
puniti.»
Ma l’impegno di Alibaba non basta sempre a rassicurare i proprietari dei
brand. A novembre del 2011, lo stesso mese in cui è stato rimosso Baidu,
Taobao è stato aggiunto alla lista nera della pirateria, la Notorious Markets
List,19 pubblicata dall’Office of the United States Trade Representative
(USTR), il principale negoziatore commerciale americano. L’inclusione nella
lista non ha solo minacciato di danneggiare la reputazione di Alibaba agli
occhi dei venditori, ma ha anche complicato i suoi progetti per l’IPO. In
reazione, l’azienda ha moltiplicato gli sforzi per estirpare da Taobao i
principali rivenditori di beni contraffatti, con azioni che hanno spinto alcuni
di loro a fondare un’«Alleanza anti-Taobao» e a organizzare una
manifestazione di protesta fuori dagli uffici di Alibaba a Hong Kong.
L’azienda ha alzato l’asticella anche per i venditori di Tmall, aumentando le
tariffe di iscrizione e i depositi cauzionali: una decisione che ha fatto infuriare
migliaia di rivenditori, che hanno accusato Taobao di pratiche monopolistiche
e hanno protestato davanti alla sede di Alibaba a Hangzhou.
Per placare l’USTR Alibaba ha anche incrementato l’attività di lobby20 e
alla fine, nel dicembre 2012, Taobao è stato rimosso dalla lista nera; ma un
certo numero di produttori americani di software, abbigliamento e calzature
continua a chiedere di imporre nuove sanzioni contro Taobao.
Come evidenziano le perenni tensioni sulla pirateria, l’enorme volume di
merce in vendita sulle sue piattaforme costringe Alibaba a ricercare un
equilibrio delicato tra la necessità di porsi al servizio dei consumatori e dei
commercianti e l’esigenza di tutelare la propria reputazione.
A legare ancor di più Alibaba a venditori e acquirenti è il secondo lato del
triangolo di ferro: la logistica.

Il vantaggio logistico
Nel Singles’ Day 2015 gli ordini piazzati sui siti di Alibaba hanno generato
467 milioni di pacchi, e per consegnarli sono serviti oltre 1,7 milioni di
corrieri e quattrocentomila veicoli. Oggi la Cina ha un autentico esercito di
corrieri: a piedi, in bicicletta e in bici elettrica, con camion e treni, sono gli
eroi nascosti della rivoluzione dell’e-commerce.
Nel 2014 i consumatori cinesi hanno speso più di 32 miliardi di dollari
per spedire pacchi: un aumento di oltre il 40 per cento in un solo anno. Ma il
volume è destinato a crescere molto di più nei prossimi anni: in media, ogni
cittadino cinese riceve non meno di un pacco al mese.
Senza le spedizioni a basso costo fornite dai corrieri, Alibaba non sarebbe
diventato il gigante che è. Per sopravvivere in un settore così competitivo,
alcuni corrieri hanno adottato metodi ingegnosi per tenere bassi i costi. A
Shanghai, per esempio, i corrieri vanno avanti e indietro in metropolitana e si
scambiano i pacchi da un lato all’altro dei tornelli per non dover comprare
troppi biglietti.
Ma nessuno di questi corrieri è un dipendente di Alibaba. La maggior
parte dei pacchi recapitati in Cina è gestito da corrieri privati. Dove questi
non arrivano, soprattutto in campagna, China Post si occupa del resto.
Nel 2005 Alibaba ha contattato China Post con una proposta di
collaborazione per l’e-commerce. Ma, come ricorda il direttore strategico
Zeng Ming, «gli fu riso in faccia. Hanno detto chiaro e tondo a Jack di non
occuparsi di questioni che non lo riguardavano. Non credevano nella
consegna espressa.» I corrieri cinesi hanno intravisto le stesse opportunità che
avevano spinto aziende come Wells Fargo a lanciare servizi logistici e
bancari durante la Corsa all’oro in California a metà dell’Ottocento, in
reazione all’inefficienza che all’epoca caratterizzava le poste americane. In
Cina, la corsa all’oro dell’e-commerce ha stimolato l’ascesa di oltre ottomila
corrieri privati, tra i quali spiccano venti grandi aziende.
La provincia in cui ha sede Alibaba, lo Zhejiang, ospita anche le
principali imprese di trasporti e logistica dell’intera Cina. Oltre metà del
mercato dei corrieri nel Paese è controllato da sole quattro aziende, dette «le
tre Tong e la Da»: Shentong (STO Express), Yuantong (YTO Express),
Zhongtong (ZTO Express) e Yunda. È interessante notare che provengono
tutti dalla stessa città, Tonglu, non lontano da Hangzhou. Oltre due terzi del
loro giro d’affari deriva da Taobao e Tmall. Insieme ad altri due corrieri più
piccoli sono chiamati la «Gang di Tonglu».
La Gang di Tonglu, e con essa un’azienda di nome SF Express,21 ha
contribuito molto al successo di Taobao. Il cofondatore di ZTO Lai Jianfa ha
descritto così la relazione: «I corrieri sono un propulsore. Siamo la principale
forza motrice dello sviluppo accelerato di Alibaba.»
Alibaba ha investito insieme a queste e altre aziende in un’impresa di
nome China Smart Logistics, o «Cainiao».22 Nel loro insieme, i quindici
partner logistici che compongono Cainiao sviluppano una forza straordinaria.
Trasportano oltre 30 milioni di pacchi al giorno e danno lavoro a più di 1,5
milioni di persone in seicento città.23 Cainiao sta costruendo una piattaforma
informativa proprietaria che riunisce fornitori di logistica, magazzini e centri
di distribuzione in tutto il Paese. Alibaba controlla il 48 per cento di Cainiao,
che, con il coinvolgimento della Gang di Tonglu e di altri imprenditori
miliardari della provincia, rappresenta un’eccellenza locale dello Zhejiang.24
Il miliardario Shen Guojun,25 anch’egli originario di questa zona, è uno dei
principali investitori in Cainiao e ne è stato il primo amministratore delegato.
Fosun, meglio nota all’estero per aver rilevato Club Med, è azionista al 10
per cento. Il presidente di Fosun, Guo Guangchang, è nato nello Zhejiang.
Pare che a dicembre 2015 Guo sia stato arrestato e interrogato dalle autorità
cinesi, per poi essere rilasciato vari giorni dopo senza spiegazioni; il prezzo
delle azioni di Fosun ne ha risentito molto.
Al suo lancio nel 2013, Cainiao ha annunciato di voler investire oltre 16
miliardi di dollari entro il 2020 nello sviluppo del «China Smart Logistics
Network», che comprende tre reti: Peoplenet,26 Groundnet27 e Skynet.
Cainiao non ha fuso i corrieri tra loro: la sua strategia consiste piuttosto
nell’integrazione dei dati generati da ciascuno, concentrandosi sui pacchetti
di dati anziché sui pacchi fisici. L’idea di fondo è che, condividendo gli
ordini, il monitoraggio delle consegne e il feedback dei clienti, ciascun
membro del consorzio possa contribuire a migliorare l’efficienza e la qualità
del servizio, restando però autonomo.
Investendo in Cainiao, Alibaba punta a stringere relazioni cruciali con i
suoi partner della logistica e al contempo a trovare investitori esterni che
finanzino l’espansione delle reti stesse. Cainiao non possiede l’infrastruttura
fisica delle reti, né dà lavoro al personale che effettua le consegne. Queste
risorse sono fornite dai membri e dai partner del consorzio, permettendo ad
Alibaba di perseguire una strategia «assetlight».
Questo approccio ha conseguenze importanti. Il principale competitor di
Alibaba nell’e-commerce, JD.com,28 adotta al contrario una strategia «asset-
heavy», investendo direttamente nella propria infrastruttura logistica. La
mascotte di JD è Joy, un cane metallico grigio, senza dubbio scelto per dare
simbolicamente la caccia al gatto nero di Tmall. Oggi JD è l’azienda cinese di
e-commerce con la maggiore capacità di stoccaggio29 e offre servizi di
consegna rapida tra cui la consegna in giornata30 in quarantatré città. JD.com
opera un autentico sistema endto-end, controllando l’approvvigionamento, la
gestione delle scorte, la distribuzione e i magazzini, e la merce è consegnata
ai clienti da corrieri in divisa su veicoli brandizzati JD.
Con un fatturato annuo superiore agli 11 miliardi di dollari, JD sta
conquistando una fetta sempre più larga del mercato dell’e-commerce nel
ramo consumer. L’azienda è particolarmente forte nelle città di primo livello
come Pechino e in categorie di prodotto come gli elettrodomestici e
l’elettronica.
La decisione di Alibaba di investire nel retailer di elettronica Suning – e
di tenerlo sotto stretta osservazione – testimonia l’entità dei suoi timori. Sia
Alibaba sia JD puntano ad assicurare la consegna in sole due o tre ore in varie
città.
Alibaba sta cercando di costruire un nuovo terreno competitivo attraverso
le tecnologie di raccolta dei dati, compresi i Big Data: la capacità di orientare
le decisioni sulla base dell’analisi degli enormi volumi di informazioni
generate ogni giorno sui siti del gruppo. Durante il Singles’ Day, le rotte di
spedizione della maggior parte dei corrieri nella rete Cainiao sono state
analizzate e deviate in caso di ingorghi. Alibaba giustifica il proprio
investimento in Cainiao sostenendo che altrimenti la domanda avrebbe
superato le capacità logistiche dei corrieri. Questa tesi è avvalorata dal
feedback dei venditori di grandi elettrodomestici, per esempio frigoriferi: in
occasione del Singles’ Day 2015 i venditori hanno riferito che meno del 2 per
cento dei colli spediti con Cainiao è arrivato in ritardo o danneggiato, rispetto
al 15 per cento delle spedizioni gestite da altri corrieri. Dagli attuali 30
milioni circa di pacchi al giorno, Alibaba si aspetta di arrivare ai 100 milioni
entro il 2020.
Si stima che il 30 per cento delle attuali rotte di spedizione siano
inefficienti o antieconomiche. Come Amazon negli Stati Uniti, le aziende che
fanno parte di Cainiao sperimentano le consegne tramite droni: ma la
maggiore densità abitativa della Cina, in particolare nelle aree costiere, non la
rende una priorità altrettanto alta che negli Stati Uniti. Nel 2015 YTO, un
corriere che fa parte della Gang di Tonglu, ha svolto un esperimento di tre
giorni per la consegna di tè allo zenzero via drone a qualche centinaio di
clienti nel raggio di un’ora di volo dai centri di distribuzione Alibaba a
Pechino, Shanghai e Guangzhou. Per ora, in Cina, i droni restano solo un
giocattolo costoso. Le innovazioni nella logistica – come la riduzione dei
tempi di consegna o dei costi – tenderanno probabilmente a procedere in
modo graduale.
Ma con Cainiao Alibaba ha conquistato la risorsa più importante di tutte:
la fiducia. Clienti e venditori sanno che i prodotti arriveranno a destinazione
in orario.

Il vantaggio economico
L’ultimo vantaggio che concorre a formare il triangolo di ferro è quello
economico. Nei servizi finanziari l’arma principale di Alibaba è Alipay, la
sua risposta a PayPal. Di gran lunga lo strumento di pagamento online più
popolare in Cina, Alipay gestisce più di 750 miliardi di dollari all’anno in
transazioni online,31 tre volte il volume di PayPal e un terzo dei 2500 miliardi
di dollari che compongono il mercato globale dei pagamenti online. Durante
il picco dei primi minuti del Singles’ Day 2015, Alipay ha gestito oltre
ottantacinquemila pagamenti al secondo.
Come terza parte garante, Alipay diffonde la fiducia nell’impero
commerciale di Alibaba. I consumatori sanno che, se pagano con Alipay, il
loro conto corrente o carta di credito sarà addebitato solo quando avranno
ricevuto i prodotti e si saranno dichiarati soddisfatti. Solo allora Alipay
“scongela” la somma e la versa al venditore. I clienti che acquistano sui siti
consumer di Alibaba hanno una settimana di tempo per restituire la merce,
purché non danneggiata.
Non più di proprietà di Alibaba,32 Alipay è l’asset più prezioso di
un’azienda che fa capo allo stesso Jack e che un analista ha valutato 45
miliardi di dollari. I siti di Alibaba procurano oltre un terzo del suo fatturato,
ma anche altri siti fanno largo uso di Alipay per gestire i pagamenti online.
La gente usa Alipay per trasferire denaro, per ricaricare il credito telefonico e
per fare acquisti cashless usando codici a barre in negozi e ristoranti come
KFC. Il venti per cento delle transazioni effettuate su Alipay riguarda il
pagamento di utenze, come l’acqua, l’elettricità e il gas. Si può usare anche
per comprare biglietti del treno, pagare multe o sottoscrivere polizze
assicurative. Alipay è quindi di fatto la moneta unica di una Cina sempre più
digitalizzata. Grazie alle commissioni sui pagamenti che gestisce, Alipay, che
è già molto redditizia, dovrebbe arrivare a fatturare entro il 2018 quasi cinque
miliardi di dollari all’anno.33
Grazie alla diffusione degli smartphone in Cina – ormai li usano oltre 830
milioni di persone – il valore di Alipay va ben oltre quello di un semplice
strumento di pagamento. Poiché i consumatori lasciano una parte dei soldi sul
saldo del proprio account, Alipay è diventato un portafoglio virtuale per oltre
300 milioni di persone: uno strumento con cui Alibaba sta cercando di
incunearsi nel mercato cinese dei servizi finanziari.
Come Alibaba ha saputo sfruttare l’inefficienza dei negozi offline, così le
banche offline si sono dimostrate un frutto maturo da cogliere. Come i negozi
di proprietà statale, anche le banche del governo cinese prestavano poca
attenzione alle esigenze dei singoli clienti e delle piccole imprese. Fino a
poco tempo fa quei clienti erano costretti a depositare i propri soldi in banche
che concentravano le proprie energie sulle imprese statali, i cui padroni
politici erano anche i loro.
Le «quattro grandi» banche dello Stato – la Industrial and Commercial
Bank of China (ICBC), la Construction Bank, la Bank of China e la
Agricultural Bank of China – controllano circa il 70 per cento del mercato. Il
disprezzo mostrato da queste banche per i loro clienti ha alimentato battute
ricorrenti, come quella per cui le iniziali di ICBC starebbero per «ai cun bu
cun», ovvero «chi se ne importa se risparmi con noi o no, fa’ come ti pare».
Tradizionalmente, queste e altre banche pubbliche offrivano tassi di interesse
molto bassi, a volte inferiori al tasso di inflazione. Questa «repressione
finanziaria» aveva distorto l’economia cinese, trasferendo la ricchezza dai
consumatori alle imprese pubbliche, che ne hanno dissipato gran parte negli
investimenti errati del modello «vecchia Cina».
Il governo cinese riconosce che c’è bisogno di una riforma e di
un’allocazione più accorta dei capitali. Ma per riuscirci deve contrastare un
forte interesse personale: il proprio. Alibaba è già rimasta invischiata nella
questione. Offrendo interessi molto più alti sui depositi rispetto a quelli
corrisposti dalle banche, il fondo comune online Yu’e Bao di Alibaba si è
dimostrato così popolare, fin dal suo esordio nel 2013, da stimolare un gran
fermento di attività nello stagnante settore dei servizi finanziari. Yu’e Bao, il
cui nome si può tradurre come «tesoro del risparmio», ha un’apparenza del
tutto innocua: un salvadanaio in cui depositare gli spiccioli che avanzano. Ma
quando ha lanciato questo prodotto, Alibaba non ha fissato un tetto massimo
alla cifra che i clienti potevano depositare. Non solo offriva interessi molto
più alti delle banche – fino a due punti percentuali in più – ma permetteva ai
clienti di effettuare prelievi in qualsiasi momento senza pagare penali. Di
conseguenza, singoli clienti hanno trasferito in questo fondo decine o
centinaia di migliaia di dollari. Le banche si sono allarmate di fronte alla
repentina emorragia di denaro: a febbraio del 2014 Yu’e Bao34 aveva attratto
oltre 93 miliardi di dollari da 80 milioni di investitori, più della somma di
tutti gli altri gestori finanziari cinesi. L’afflusso di denaro era così ingente che
in soli dieci mesi Yu’e Bao è stata dichiarata quarto gestore finanziario al
mondo, avvicinandosi a colossi globali del settore come Vanguard, Fidelity e
J.P. Morgan.
Prima di lanciare il fondo Jack ha preso la decisione, insolita per un
imprenditore del settore privato, di scrivere un editoriale sull’organo del
Partito comunista, il People’s Daily, affermando: «Il settore finanziario ha
bisogno di innovatori, di outsider capaci di trasformarlo.» Di lì a poco
l’impero delle imprese pubbliche ha colpito ancora, definendo i gestori dei
fondi di Yu’e Bao «vampiri che succhiano il sangue delle banche.» A partire
da marzo 2014 le banche statali, che nel loro insieme gestiscono oltre
centomila miliardi di dollari, hanno fissato limiti alle cifre che i loro clienti
potevano trasferire su account di terze parti per i pagamenti online. Poco
dopo il governo ha imposto altre restrizioni. Senza mezzi termini, Jack ha
criticato le banche elencandole per nome in un messaggio sui social media e
incolpandole di non aver partecipato alla liberalizzazione finanziaria: «La
decisione su chi vince e chi perde nel mercato non dovrebbe spettare ai
monopoli e alle autorità ma ai clienti.» Di lì a poco ha cancellato il
messaggio, che però è stato ripubblicato ovunque. Alibaba ha continuato a
estendere i confini del coinvolgimento del settore privato nei servizi
finanziari, anche fornendo micro prestiti ai venditori e ai consumatori che
operano sulle sue piattaforme. Ancora relativamente nuovo, nel giro di
qualche anno il servizio di prestiti dovrebbe diventare un business
miliardario. Offrire credito è anche un modo per aumentare la fidelizzazione
della clientela sulle piattaforme di e-commerce di Alibaba.
Avendo accesso all’intera storia degli acquisti effettuati dai suoi clienti,
Alibaba è in grado di stimare il rischio di credito con molta più precisione
rispetto alle banche. Una nuova azienda, Sesame Credit Management, offre a
terze parti una valutazione dell’affidabilità creditizia di consumatori e
venditori.
Tra le altre offerte di servizi finanziari35 ci sono la gestione dei grandi
patrimoni, i prestiti peer-to-peer e le assicurazioni.36 Nel 2015 Jack ha
lanciato una banca che opera solo online, MYbank, eliminando
completamente la necessità di filiali fisiche. MYbank prevede di usare gli
smartphone per verificare l’identità dei clienti.37
Il triangolo di ferro è un fattore cruciale che ha permesso ad Alibaba di
diventare un player dominante nel mercato cinese dell’e-commerce. Ma è
stato il carisma del fondatore – la «magia di Jack» – a radunare le persone e i
capitali capaci di costruire un impero su quelle tre fondamenta.
La magia di Jack

Fatti venire un’idea, assicurati che sia divertente


e infondile una scintilla di vita, affinché non resti
soltanto un’idea. Questa è la magia di Jack.
–JAN VAN DER VEN

La maggior parte delle aziende porta l’impronta del suo fondatore, ma


Alibaba la porta più di tante altre. La smisurata influenza di Jack Ma deriva
dalla sua passione per l’insegnamento. Pur avendo lasciato la professione da
oltre vent’anni, Jack non ha mai smesso davvero di essere un educatore. Una
sua battuta ricorrente era che, nel suo caso, «CEO» stava per «Chief
Education Officer». Quattordici anni dopo aver fondato l’azienda ha
rinunciato al titolo di amministratore delegato per diventare presidente. Ma
questo passaggio di consegne è servito solo a renderlo più autorevole. Il suo
successore alla carica di CEO è riuscito a conservare il posto per soli due
anni.

E.T.
Non c’è alcun dubbio: Jack è il volto di Alibaba. Basso e magro, negli anni è
stato definito «un folletto», «una sagoma minuta con le guance incavate, i
capelli spettinati e un sorrisetto malizioso», somigliante a «un gufo», «una
volpe» o «un elfo». E ha saputo sfruttare appieno il suo aspetto peculiare. In
occasione del lancio di MYbank, che mira a usare soltanto la tecnologia di
riconoscimento facciale per confermare l’identità dei clienti, Alibaba ha
puntato molto sul fatto che Jack «riuscirà finalmente a guadagnarsi da vivere
con la sua faccia.»
Alcuni, in Cina, lo chiamano «E.T.», per una presunta somiglianza con il
personaggio del film di Steven Spielberg. Anche il suo amico Guo
Guangchang,1 un miliardario originario di Zhejiang, ha definito Jack «un
alieno», ma solo per poi liquidare se stesso come «un tizio qualunque […]
Nessuno è intelligente quanto Jack Ma.»
Insomma, Jack non ha l’aspetto tipico di un grande imprenditore.
Possiede tutti gli optional, comprese le case di lusso in giro per il mondo e un
aereo privato Gulfstream, ma per il resto non si comporta neanche come un
tycoon. Su Internet circola una foto che lo ritrae con una cresta da mohicano,
un anello al naso e il rossetto nero. Quella sera, a una celebrazione per il
decimo anniversario di Alibaba che si è tenuta in uno stadio, Jack ha cantato
«Can You Feel the Love Tonight» di Elton John davanti a diciassettemila
dipendenti festanti e altri diecimila spettatori.
Jack unisce la passione per lo spettacolo al desiderio di contrastare gli
stereotipi. Se altri magnati del business amano vantarsi delle loro conoscenze
altolocate o delle loro credenziali accademiche, Jack preferisce minimizzare:
«Non ho un padre ricco e potente, e neppure uno zio.» Non avendo mai
studiato all’estero, gli piace definirsi «made in China al cento per cento.» È
uno dei rari fondatori di aziende in ambito tecnologico che non abbia studiato
discipline tecniche. All’università di Stanford nel 2013 ha confessato:
«Ancora oggi non capisco come lavorino i programmatori, non comprendo
ancora la tecnologia che sta dietro a Internet.»
Jack ha costruito una carriera sul fatto di essere sottovalutato: «Sono una
persona molto semplice, non sono particolarmente intelligente. Tutti pensano
che Jack Ma sia una persona di grande ingegno. Ho una faccia intelligente,
forse: ma il mio cervello è molto stupido.»

Una miscela cinese di adulazione e impertinenza


I suoi successi hanno dimostrato il contrario: ovviamente questo vezzo di
darsi dello stupido è solo una finta. Una volta Jack ha spiegato2 che ama il
protagonista del film Forrest Gump perché «tutti lo credono scemo, ma sa
benissimo quello che fa.» Nei primi eventi per promuovere Alibaba citava
così spesso Forrest Gump che ho iniziato a chiamare «discorso di Gump»
quelle parole che ripeteva sempre. L’azienda ha fatto molta strada da allora,
ma il fascino di Gump è sempre vivo. Il giorno in cui Alibaba è sbarcata in
borsa, Jack è stato intervistato dalla CNBC in diretta dalla sala contrattazioni
di Wall Street. Quando gli hanno chiesto chi l’avesse ispirato di più, ha
risposto senza esitare: «Forrest Gump.» L’intervistatore è rimasto basito per
un momento e poi gli ha chiesto: «Lei sa che è un personaggio immaginario,
vero?»
Il carisma di Jack e le sue doti di persuasione hanno attratto talenti e
capitali verso la sua azienda, oltre a costruire la sua fama personale. Jack
riunisce in sé una miscela tipicamente cinese di adulazione e impertinenza.
Uno dei suoi primi dipendenti stranieri3 ha riassunto le sue qualità
nell’espressione «la magia di Jack.» Sotto questo profilo Jack ha qualcosa in
comune con Steve Jobs, che con il suo fascino personale e la capacità di
averla sempre vinta generava «un campo di distorsione della realtà», nella
celebre definizione coniata da un membro dell’originario team di
progettazione dell’Apple Macintosh.
Al centro del campo di distorsione di Jack ci sono le sue capacità
relazionali. Il suo stile comunicativo è così efficace perché è molto facile
condividere il suo messaggio, ricordarlo e comprenderlo. Le raccolte delle
sue frasi più celebri circolano ampiamente online, non solo in lingua cinese
ma anche in inglese. Si tratta per lo più di slogan concisi che non sarebbero
fuori posto su un poster motivazionale, del tipo: «Credi nel tuo sogno e credi
in te stesso», oppure: «Impara dagli altri le tattiche e le competenze, ma non
cambiare il tuo sogno.» Altre citazioni somigliano più a una favola di Esopo:
«Se ci sono nove conigli e vuoi catturarne uno, concentrati su quello. Cambia
tattica se necessario, ma non cambiare coniglio. […] Catturane prima uno,
mettilo in tasca, e poi cattura gli altri.» C’è persino chi ha inventato false
citazioni attribuite a Jack, sulla falsariga del carpe diem, per giustificare, per
esempio, l’acquisto di un paio di scarpe costose.
Jack parla sempre a braccio. La sua oratoria è così efficace perché fa uso
di un repertorio molto ristretto. Può fare a meno degli appunti perché conosce
già gran parte del suo materiale: una serie di aneddoti ben rodati, quasi
sempre ricordi d’infanzia o dei primi anni di Alibaba. Uno studio più
approfondito dei suoi discorsi rivela che, in buona sostanza, ripete le stesse
cose da diciassette anni. Ma riesce a far sembrare originale ogni discorso
apportando lievi modifiche al messaggio per adattarsi all’umore e alle
aspettative dell’uditorio.
Jack è maestro nell’arte di fare appello alle emozioni altrui, una dote che
non ci aspetteremmo dal fondatore di un’azienda nata con una focalizzazione
sul commercio internazionale. A volte, quando inizia a raccontare un
aneddoto che mi è già familiare, mi giro a guardare i volti degli spettatori e
cerco di capire cosa gli permetta di esercitare un fascino così persistente.
Un elemento importante del suo carisma è l’umorismo. Basta guardare
alcuni suoi discorsi, tra le centinaia disponibili su YouTube, per scoprire che
Jack è molto spiritoso. Nei primi tempi, dopo un evento al quale avevamo
parlato entrambi, scherzavo dicendogli che, se Alibaba non avesse sfondato,
avrebbe potuto riciclarsi con successo come cabarettista.4 Le sue battute
tipiche e gli aneddoti che racconta sempre, e il modo in cui li combina, sono
molto simili agli elementi che compongono gli sketch comici.
Con i suoi racconti su sfide da affrontare e pregiudizi da sfatare, Jack fa
sempre venire le lacrime agli occhi a qualche spettatore, anche ai manager
più ingessati. Dopo aver parlato a un gruppo di studenti in Corea del Sud, lui
stesso è apparso emozionato quando gli hanno chiesto quali fossero i suoi
rimpianti più grandi, e ha risposto che gli dispiaceva di non poter passare più
tempo con la famiglia. Dopo essersi ricomposto ha soggiunto: «Normalmente
sono io a far piangere gli altri.»
I discorsi di Jack, come quello di Seoul, raggiungono un pubblico molto
più vasto rispetto a tanti altri oratori cinesi anche perché è in grado di
pronunciarli in un inglese impeccabile. Altre figure di spicco del mondo
tecnologico cinese parlano bene l’inglese, e molti di loro hanno studiato
all’estero, ma il messaggio di Jack ha una risonanza molto più profonda in
entrambe le lingue. Il suo socio d’affari di lungo corso, Joe Tsai, mi ha detto:
«Jack è ancora uno dei pochi imprenditori di caratura internazionale capaci di
catturare l’attenzione dell’uditorio in inglese e in cinese.»
Per instaurare un legame con un pubblico straniero fa spesso ricorso alla
cultura popolare, compresi film più recenti di Forrest Gump, alcuni dei quali
sono stati finanziati da Alibaba. Ora che l’azienda va espandendo la sua
presenza a Hollywood, Jack arruola regolarmente attori famosi che lo
accompagnano nelle apparizioni pubbliche, come Daniel Craig, Kevin
Spacey e Tom Cruise, il protagonista del franchise Mission: Impossible di
Paramount Pictures: nel 2015 Alibaba ha investito in Rogue Nation,
l’episodio più recente della saga. Quando si rivolge a un pubblico cinese,
Jack ricorre sovente a storie tratte dai suoi romanzi preferiti sulle arti marziali
o dalla storia della nazione. Un collega americano gli ha chiesto una volta
perché parlasse di Mao quando teneva discorsi in Cina. Jack ha spiegato: «Se
volessi motivare te, che sei americano, racconterei la storia di George
Washington e del ciliegio.»

Il mantra di Jack
Forse la lezione più celebre impartita da Jack l’insegnante è quella che ogni
dipendente di Alibaba conosce a memoria: «I clienti al primo posto, i
dipendenti al secondo, gli azionisti al terzo.» Jack definisce questo principio
la filosofia di Alibaba.
I clienti, soprattutto quelli piccoli, hanno la priorità. Quando il giornalista
Charlie Rose gli ha chiesto se si considerasse «un apostolo delle piccole
imprese», Jack ha risposto di sì: «Ne sono fermamente convinto. È la mia
religione.» Molte piccole aziende cinesi non usano i siti di Alibaba solo come
canale di marketing, ma fanno completo affidamento su di essi per
guadagnarsi da vivere. Jack ha sempre insistito per offrire gratuitamente la
maggior parte dei servizi di Alibaba.
I dipendenti vengono dopo i clienti, ma la capacità di motivare il team a
superare gli ostacoli è stata cruciale per il successo di Alibaba. Joe Tsai non
ha esitato a definirli «discepoli», ricordando l’incontro nel 1999 con i primi
dipendenti dell’azienda, alcuni dei quali seguivano Jack già da anni. Jack non
indora la pillola quando illustra ai dipendenti i problemi che dovranno
affrontare. Uno dei messaggi che ripete loro più spesso, nonché una battuta
ricorrente nei suoi «sketch comici», è: «Oggi è un giorno terribile, domani
sarà peggio, ma dopodomani sarà bellissimo. Purtroppo, la maggior parte di
voi morirà domani sera.» Il traguardo di far sopravvivere Alibaba per 102
anni può sembrare strano a chi non conosce l’azienda, ma non lo è affatto per
i dipendenti, in particolare gli Aliren («quelli di Ali») – chi lavora per
l’azienda da più di tre anni – per i quali è parte integrante della cultura
d’impresa.
Gli azionisti sono al terzo posto nella scala delle priorità perché Jack si
rifiuta di lasciarsi distrarre dai suoi traguardi ambiziosi subendo pressioni per
generare profitti a breve termine. In pubblico gli piace prendere in giro gli
azionisti e gli investitori: un modo per consolidare la sua reputazione di
anticonformista agli occhi dei dipendenti e dell’opinione pubblica. Nel 2009,
di fronte alla stagnazione del prezzo delle azioni della prima azienda del
gruppo, alibaba.com, durante la riunione dei dipendenti, affollata come un
concerto rock, Jack ha gridato: «Che gli investitori di Wall Street ci
maledicano, se vogliono!» Non proprio un comportamento tipico per il
massimo dirigente di un’azienda quotata in borsa.
Eppure, nonostante la retorica populista, Jack ha sempre creato
opportunità a intervalli regolari – in media ogni quattro anni – per consentire
ai dipendenti e agli azionisti di lungo corso di trarre profitto dalla vendita
delle loro azioni. Gli investitori che hanno sostenuto Alibaba fin dall’inizio e
sono rimasti con l’azienda per anni sono stati generosamente ricompensati;
molto peggio è andata a quegli investitori pubblici che hanno acquistato i
titoli durante il picco successivo all’IPO.

Il campus e la cultura aziendale


L’impronta di Jack è visibile anche nel progetto del campus principale di
Alibaba, che occupa quasi 25 ettari nei pressi di Hangzhou. Dal cancello
principale, a sud, i visitatori accedono a un complesso sterminato, composto
da futuristici grattacieli in vetro. Alla base dei grattacieli trovano posto una
grande palestra, una caffetteria Starbucks e una bottega di agricoltura
biologica che sembra uscita dalla Silicon Valley. Più a nord si trova un
grande lago artificiale, punteggiato da fiori di loto e circondato da canneti,
affiancato da un gruppetto di eleganti ville bianche dal tetto nero e ricurvo:
un panorama che ricorda i romanzi classici cinesi tanto amati da Jack, come il
quattrocentesco I briganti.
Il lago riflette la nuova passione di Jack per la tutela dell’ambiente.
Quando a Manila il presidente Obama gli ha chiesto cosa avesse influenzato
il suo interesse per l’ecologia, Jack ha raccontato la storia di un lago in cui
aveva nuotato a dodici anni. «Sono andato a nuotare in un lago e ho rischiato
di morire perché l’acqua era molto profonda, molto più di quanto pensassi.
Cinque anni fa ci sono tornato e il lago non c’era più.»
Durante una visita al campus nella primavera del 2015, ho dovuto
camminare con cautela per non schiacciare le ranocchiette che spuntavano dal
lago artificiale e saltavano sulla passerella che porta ai grattacieli di uffici. Mi
sono fermato anche nella grande libreria e biblioteca di Alibaba. Jack è un
lettore accanito, e ama in particolare lo scrittore (Louis) Cha Leung-yung,
autore di testi sulle arti marziali, nato a Hong Kong e conosciuto in Cina con
lo pseudonimo di Jin Yong. I suoi libri sono conservati nella biblioteca
accanto a opere classiche e ai volumi più recenti sulla teoria del management
e su icone della Silicon Valley come Steve Jobs ed Elon Musk.
Ma al di là dell’architettura del campus, è nella cultura aziendale di
Alibaba che si riscontra più chiaramente l’influenza del suo fondatore
principale. Per spostarsi nel complesso i dipendenti usano le biciclette fornite
gratuitamente dall’azienda, senza dubbio ispirate a quelle di Google, che
portano i colori del logo del gigante americano: azzurro, giallo, verde e rosso.
Le bici di Alibaba sono arancioni, e ci sono anche dei tandem: i due sedili
illustrano l’enfasi posta dall’azienda sul lavoro di squadra rispetto ai successi
individuali.
L’idea di anteporre l’interesse del cliente alle proprie esigenze è uno dei
cardini della cultura aziendale di Alibaba. Come Disney chiama «membri del
cast» tutti i suoi dirigenti e dipendenti, così Alibaba insiste molto sul
cameratismo e sull’impegno per il bene comune.
Ogni anno, il 10 maggio, a ridosso dell’annuale «Aliday», un anniversario
che celebra lo spirito di squadra dimostrato dai dipendenti nell’affrancarsi
dallo spettro del virus SARS, Jack presiede come testimone principale a una
cerimonia che commemora i recenti matrimoni dei dipendenti. Alibaba offre
vitto e alloggio alle famiglie dei dipendenti, che invita a partecipare alla
cerimonia. Le foto di oltre cento coppie che celebrano insieme le nozze in
una stessa azienda riporta inevitabilmente alla memoria sette religiose come
la Chiesa dell’Unificazione del reverendo Sun Myung Moon. Ma Alibaba
tiene a precisare che l’evento è solo una festa e non sostituisce la cerimonia di
nozze ufficiale.
Un vantaggio più tangibile per le coppie e gli altri dipendenti di Alibaba è
un prestito a tasso zero, fino a cinquantamila dollari, che finanzia la caparra
per un nuovo appartamento: un benefit sempre più prezioso per i dipendenti
che lavorano in città costose come Hangzhou e Pechino. Migliaia di
dipendenti hanno approfittato di questi prestiti, per un ammontare di varie
centinaia di milioni di dollari.
Alibaba incoraggia una certa informalità nell’ambiente di lavoro. Ogni
dipendente deve scegliersi un soprannome. È una pratica così diffusa che può
creare confusione quando arriva il momento di scoprire il vero nome di un
collega per parlare di lui con persone esterne all’azienda. Inizialmente i
soprannomi erano tratti da personaggi dei romanzi di Jin Yong o da altre
storie di arti marziali ed epoche passate. Al crescere dell’azienda quel
patrimonio di nomi è andato rapidamente a esaurirsi. Firmandosi con i
soprannomi, i dipendenti pubblicano commenti sui prodotti o la cultura
dell’azienda su Aliway, la bacheca virtuale interna. Possono anche lanciare
sondaggi o chiedere il sostegno dei colleghi per contestare valutazioni o
decisioni della dirigenza, e inviare suggerimenti o lamentele direttamente a
Feng Qinyang: così si chiama l’identità online di Jack, lo spadaccino
protagonista di uno dei suoi romanzi preferiti.
Le lamentele sono scoraggiate – è un aspetto su cui Jack insiste molto – e
i dipendenti sono incentivati piuttosto ad assumersi personalmente le
responsabilità, svolgendo o delegando le mansioni anziché aspettare ordini
dall’alto.
In Alibaba si sente spesso parlare il gergo militare. I dipendenti che
ottengono i risultati migliori sono chiamati i Re dei Soldati (bing wang). Il
personaggio immaginario Xu Sanduo è usato a volte per illustrare il
messaggio che la dirigenza intende trasmettere. Nella serie televisiva del
2007 La missione del soldato, Xu, un timido ragazzo di campagna, riesce a
fare carriera nel corpo militare d’élite dell’Esercito di liberazione popolare.

La Spada dello Spirito


I valori della cultura aziendale di Alibaba sono racchiusi nella cosiddetta
«Spada dello Spirito a sei venature». Il termine deriva da un’opera del
romanziere preferito di Jack, Jin Yong. La spada di cui parla non è un’arma,
ma l’arte di costruire la forza interiore per sconfiggere ogni avversario. Nel
caso di Alibaba, le «sei venature» che rappresentano i punti di forza sono
simili ai principi enunciati nella «Mission, visione e valori» del guru
aziendale preferito di Jack: Jack Welch, l’ex Ad di General Electric (GE).
Il libro di Welch Vincere! (2005) raccomanda una cultura aziendale quasi
messianica: «I leader si assicurano che le persone non si limitino a conoscere
la visione, ma che la vivano e la respirino.» Jack (Ma) ha sempre stimato
molto GE.
Le «sei venature» della «Spada dello Spirito» di Alibaba sono: «Il cliente
prima di tutto; lavoro di squadra; accogliere il cambiamento; integrità;
passione; impegno.» Per quanto possano suonare generiche, l’azienda le
prende molto sul serio. Le valutazioni del personale si basano al cinquanta
per cento sull’impegno dimostrato per la «Spada».
«Il cliente prima di tutto» si riflette nel potere dato agli arbitri xiaoer di
Taobao e nella composizione della forza lavoro di Alibaba. Quasi tutti i
dipendenti lavorano nell’area vendite, una percentuale molto più alta che in
aziende dall’approccio più tecnico come Tencent e Baidu. Le visite di
persona sono un elemento fondamentale dei metodi di vendita di Alibaba.5
«Lavoro di squadra» in Alibaba significa organizzare giochi di gruppo a
cadenza regolare, canzoni e uscite collettive. Può essere uno shock culturale
per i nuovi dipendenti che arrivano da aziende della Silicon Valley. Ma per
chi è appena uscito dall’università, il sistema composto da mentori e
apprendisti appare naturale, come anche l’abitudine di indire riunioni
frequenti per «iniziare al mattino e condividere alla sera.» Un ex dipendente
lo riassume così: «Molte aziende si concentrano solo sui risultati: devi portare
a termine un certo numero di ordini. Alibaba adotta l’approccio opposto: se
vuoi portare a termine un certo numero di ordini questo mese, cosa devi fare
ogni giorno? Suddividendo il lavoro in fasi, si può dedicare ogni giorno a uno
dei passi chiave del processo; e alla fine ci si ritroverà non lontani dal
traguardo.» È efficace anche il riconoscimento tributato ai dipendenti dalle
prestazioni più alte con annunci diffusi in tutta l’azienda, e anche i premi
assegnati alle «squadre A» (lao A, un riferimento al gergo militare), che
comprendono portafogli, cinture e scarpe sportive di Louis Vuitton, bonus
mensili di decine di migliaia di yuan e persino un’auto.
La richiesta di «accogliere il cambiamento» si riflette nella frequente
rotazione dei dipendenti, che si spostano regolarmente da un prodotto
all’altro o tra le varie regioni del Paese, a prescindere dalle prestazioni.
Questo sistema crea molte difficoltà, ma Alibaba chiede ai dipendenti di
«accettare le battute d’arresto»: un’idea molto lontana dalla cultura cinese
tradizionale, in cui il fallimento è considerato qualcosa di cui vergognarsi.
L’approccio di Alibaba è in linea con la prassi in uso nella Silicon Valley,
dove gli imprenditori celebrano gli insuccessi passati sfoggiandoli sulle t-
shirt; un modo per riconoscere che – nella guerra dell’Internet cinese, in cui
la linea del fronte si sposta continuamente – alcuni insuccessi sono
inevitabili, se non addirittura auspicabili.
La venatura della Spada definita come «integrità» sottolinea il fatto che la
corruzione è un rischio sempre presente in Alibaba: milioni di venditori sono
alla continua ricerca di nuovi modi per promuovere la loro merce su Taobao,
e a controllarli ci sono poche migliaia di arbitri xiaoer. Il Partito comunista
cinese usa abitualmente la rotazione del personale per evitare la formazione
di centri alternativi di potere, nel tentativo di tenere sotto controllo la
corruzione. David Wei, che è stato amministratore delegato di Alibaba.com,
sapeva ancora prima di entrare in azienda che Jack ha un debole per il metodo
della rotazione. Nei nove mesi trascorsi da quando ha lasciato l’azienda
precedente a quando è entrato in Alibaba, «le mie mansioni e il mio titolo
sono cambiati quattro volte. Prima sarei dovuto diventare direttore di Taobao,
poi direttore di Alipay. Non sapevo cosa avrei fatto davvero fino a un mese
prima del mio ingresso.» Alla fine è stato nominato Ad del business B2B di
Alibaba, e ha scherzato con Jack: «Mi hai cambiato lavoro così spesso, prima
del mio arrivo, che ora non sapresti più da quale altra parte mandarmi.»
Qualunque sia stata la fonte di ispirazione per questa abitudine, Alibaba
lascia molta autonomia ai suoi reparti, nel tentativo di mantenere una
gerarchia di management relativamente orizzontale e ridurre al minimo la
tentazione di scaricare le responsabilità.
Un dipendente riassume così la necessità di dimostrare «passione» nel
lavoro per Alibaba: «Non puoi essere uno spadaccino se non sei una testa
calda.» Rispetto ad altre aziende, «in Alibaba siamo più appassionati al
lavoro, siamo più sinceri e ci impegniamo di più.» L’enfasi di Jack
sull’«impegno» si riflette nella frequente ripetizione dello slogan: «Lavora
con allegria ma vivi con serietà.» L’approccio spensierato che incoraggia in
Alibaba è in netto contrasto, come spiega lui stesso, con la maggior parte
delle aziende, che chiedono di «lavorare con serietà ma vivere in allegria.»
Misurare fino a che punto i dipendenti si attengano ai sei principi della
Spada è compito del reparto risorse umane di Alibaba, che svolge un ruolo
cruciale: in un solo anno ha supervisionato l’assunzione di dodicimila
persone. Relegato in alcune aziende a una funzione puramente
amministrativa, in Alibaba l’ufficio risorse umane esercita grande potere sulle
promozioni e la selezione del personale. Con la sua enfasi costante sulla
cultura e l’ideologia, il reparto HR viene chiamato dai dipendenti «il
commissario politico» (zheng wei). Questo reparto coordina anche una vasta
gamma di attività di formazione, con manuali di oltre mille pagine per i
neoassunti e un sofisticato database che correla le prestazioni alle promozioni
e agli aumenti di stipendio.
La cultura di Alibaba resta viva anche negli ex dipendenti. L’azienda ha
una lunga storia ed è cresciuta in fretta, quindi i veterani sono più di
venticinquemila. Molti di loro si sono riuniti in un’organizzazione non profit
chiamata «Club degli ex Arancioni» (qian cheng hui) per aiutarsi a vicenda
condividendo opportunità di investimento e suggerimenti di carriera. Un
membro, Hu Zhe, che ha lasciato Alibaba nel 2010 dopo averci lavorato per
cinque anni, spiega così la sua decisione di aderire:6 «Gli ex dipendenti di
Alibaba si tengono in stretto contatto, come se ci fosse un legame profondo
che ci unisce. Il club è una piattaforma molto importante che ci permette di
comunicare e scambiarci idee.»
Diversi membri7 hanno fondato altre aziende che producono tecnologia o
veicoli di investimento, che spesso collaborano tra loro, in una gamma di
settori che comprende l’e-commerce la prenotazione di viaggi, i servizi
finanziari, la musica online, la selezione del personale, l’O2O, il venture
capital e la sanità. Una ricerca condotta in una banca dati di startup cinesi
legate a Internet8 rivela che gli ex dipendenti di Alibaba sono stati associati a
317 startup, rispetto alle 294 di Tencent e alle 223 di Baidu. Se è vero che
non tutte queste startup avranno successo, e anzi alcune di esse sono già
fallite, la rete di attività imprenditoriale è importante sia come fonte di
innovazioni future sia perché offre ad Alibaba possibili obiettivi di
acquisizione.
Un elemento ricorrente in molte delle aziende fondate da veterani di
Alibaba è quella che qualcuno ha definito «la cultura della Lunga Marcia»,
un’ambiziosa etica manageriale che richiede sacrificio personale ed enormi
investimenti di personale e tempo. Al contrario gli ex dipendenti dei rivali di
Alibaba, come Tencent, nelle loro nuove aziende si focalizzano soprattutto
sulla riduzione del «time to market», lanciando prodotti da perfezionare in
seguito: un approccio che alcuni chiamano «correre a piccoli passi.»
Alibaba è sempre stata un lavoro di squadra, fin dall’inizio. Jack ha
concesso molta più partecipazione azionaria, e in una fase più precoce,
rispetto ai fondatori di altre Internet company. Ma ha tenuto saldamente il
controllo dell’azienda grazie alle sue abilità comunicative e alla sua grande
ambizione. Novello Don Chisciotte, Jack ama avventarsi contro i mulini a
vento: dal retail alla finanza, dall’intrattenimento alla sanità. Per scoprire se
Alibaba ha qualche chance di conquistare questi nuovi orizzonti, esaminiamo
gli eventi che hanno portato Jack e la sua azienda dove sono oggi.
Da studente a insegnante

In Cina, se sei uno su un milione, ce ne


sono altri milletrecento come te.
–BILL GATES

Un ragazzo semplice
Jack Ma è nato il 10 settembre 1964, nell’anno del Drago, nella città di
Hangzhou, centocinquanta chilometri a sudovest di Shanghai. I genitori
l’hanno chiamato Yun, che vuol dire «nuvola». Il cognome «Ma» è la parola
cinese che significa «cavallo».
La madre di Jack, Cui Wencai, lavorava in fabbrica, il padre, Ma Laifa,
era un fotografo per la Hangzhou Photography Agency. Entrambi sono
appassionati di Pingtan, una forma di teatro folk che affianca il canto di
ballate all’esibizione in siparietti comici accompagnati dal suono di nacchere
di legno. L’esposizione a questa forma d’arte contribuisce forse a spiegare le
capacità comunicative di Jack. Senza dubbio il Pingtan offriva ai suoi
genitori un momento di tregua dalla vita difficile della Cina
postrivoluzionaria: apriva una finestra su un passato più ricco e variopinto.
Futura icona dell’imprenditorialità cinese, Jack è venuto al mondo in un
periodo in cui l’impresa privata era quasi completamente estinta. Il novanta
per cento della produzione industriale era nelle mani dello Stato. La Cina era
sola al mondo e stentava a riprendersi dal Grande balzo in avanti. Milioni di
persone morivano di fame e Mao Zedong era stato costretto all’«autocritica»
e relegato ai margini del potere. Deng Xiaoping era tra le persone incaricate
di rovesciare gli aspetti più dannosi della collettivizzazione, un’anticipazione
del ruolo cruciale che avrebbe svolto nel promuovere il miracolo economico
del Paese che, vent’anni dopo, avrebbe creato le condizioni per la carriera
imprenditoriale di Jack.
Ma quando Jack aveva due anni, Mao tornò al potere e la Cina fu travolta
dalla Rivoluzione culturale. Mao sferrò un attacco contro i «quattro vecchi» –
le vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie tradizioni, le vecchie abitudini –
e le Guardie Rosse distrussero siti archeologici e monumenti, anche a
Hangzhou, dove danneggiarono gravemente la tomba di Yue Fei, un famoso
generale della dinastia Song. Ma neanche le Guardie Rosse erano immuni al
fascino della città, e tra una spedizione punitiva e l’altra facevano giri in
barca sul Lago dell’ovest. Lo stesso Mao nutriva un attaccamento particolare
per Hangzhou, che visitò più di quaranta volte e in cui risiedette anche per
sette mesi di fila. Gli piaceva assistere agli spettacoli di Pingtan. Benché in
privato Mao apprezzasse questa forma d’arte, le vecchie tradizioni come il
Pingtan entrarono nel mirino delle Guardie Rosse, e chi lo praticava veniva
denunciato. La famiglia di Jack rischiava la persecuzione, soprattutto dal
momento che suo nonno era stato un funzionario locale1 sotto il governo
nazionalista del partito Kuomintang. Durante la Rivoluzione culturale Jack
veniva preso in giro dai compagni di scuola, ma fortunatamente la sua
famiglia non venne divisa come tante altre.
A febbraio del 1972 il presidente Nixon giunse a Hangzhou nell’ambito
della sua storica visita in Cina per incontrare Mao. Era accompagnato da
quasi cento giornalisti, tra cui Walter Cronkite, Dan Rather, Ted Koppel e
Barbara Walters, i cui servizi trasmessi in patria generavano sostegno per la
normalizzazione delle relazioni con la Cina, che in seguito avrebbe portato
città come Hangzhou a riaffermarsi come mete del turismo straniero.
Da ragazzo Jack si innamorò della lingua e della letteratura inglese, grazie
in particolare alle letture da Tom Sawyer di Mark Twain che ascoltava sulla
radio a onde corte. In seguito fu l’arrivo dei turisti stranieri in Cina a offrire a
Jack una finestra sul mondo esterno. Alla fine del 1978, quando Jack aveva
quattordici anni, Deng Xiaoping varò la «politica delle porte aperte» per
stimolare il commercio con l’estero e gli investimenti. Dopo un decennio di
difficoltà, il Paese era sull’orlo della bancarotta e aveva disperato bisogno di
denaro.
Nel 1978 solo 728 turisti stranieri visitarono Hangzhou, ma l’anno
successivo erano più di quarantamila. Jack approfittava di ogni occasione per
far pratica con la lingua inglese. Si svegliava prima dell’alba e pedalava per
quaranta minuti per raggiungere l’Hangzhou Hotel e salutare i turisti
stranieri. Ricorda: «Ogni mattina dalle cinque leggevo in inglese davanti
all’albergo. Molti dei turisti venivano dagli Stati Uniti, dall’Europa. Li
accompagnavo in un tour gratuito sul Lago dell’ovest e loro mi insegnavano
a parlare inglese. Ho fatto così per nove anni! E ogni mattina mi esercitavo
con l’inglese, che piovesse o nevicasse.»
Una turista americana il cui padre e marito si chiamavano Jack gli suggerì
quel nome, e da quel giorno Ma Yun divenne noto in inglese come Jack. Lui
dà prova di grande modestia sulle proprie abilità linguistiche: «Riesco a farmi
capire, anche se la mia grammatica è terribile.» Ma non minimizza mai
l’utilità dell’apprendimento di questa lingua: «L’inglese mi aiuta moltissimo.
Mi permette di capire meglio il mondo, mi aiuta a incontrare gli imprenditori
e i leader migliori, mi fa comprendere la distanza tra la Cina e gli altri Paesi.»
Fra i tanti turisti che nel 1980 visitarono Hangzhou c’era una famiglia
australiana, i Morley. Ken Morley, ingegnere elettronico in pensione da poco,
si era iscritto a un tour guidato della Cina offerto dalla sede locale
dell’Australia China Friendship Society. Aveva portato con sé la moglie Judy
e i tre figli, David, Stephen e Susan, per i quali era il primo viaggio all’estero.
Quella visita avrebbe cambiato la vita di Jack.
Oggi David gestisce un centro yoga in Australia, dove sono riuscito a
rintracciarlo. È stato così gentile da condividere con me i suoi ricordi e le foto
del viaggio in Cina con la sua famiglia e della loro amicizia con Jack.
Il primo luglio del 1980 il gruppo di turisti australiani che comprendeva i
Morley arrivò in aereo a Hangzhou da Pechino e fu trasferito in autobus
all’albergo Shangri-La sul Lago dell’ovest, lo stesso hotel (allora si chiamava
Hangzhou Hotel) che otto anni prima aveva ospitato Nixon e il suo
entourage. David ricorda che gli mostrarono la suite in cui avevano alloggiato
il presidente e la first lady, e in cui ora risiedeva la guida del tour: c’erano
«coprisedili del water in morbido velluto rosso, che noi tre bambini
trovammo affascinanti.»
Il giorno dopo, l’itinerario degli australiani comprendeva un giro in barca
sul lago, seguito da una visita alle vicine piantagioni di tè e alla pagoda Liuhe
(Sei Armonie) per poi cenare in albergo alle 18:30. Approfittando della
«serata libera», David e una ragazza di nome Keva – con cui aveva stretto
amicizia durante il viaggio – uscirono di soppiatto dall’albergo,
attraversarono la strada ed entrarono nel parco che costeggiava il lago. Lì si
misero a giocare con i fiammiferi, praticando l’arte dello «schiocco» che
Keva aveva insegnato a David. Il gioco consisteva nel posizionare un
fiammifero a testa in giù, farlo accendere e sbalzarlo in aria con uno schiocco
di dita per poi guardarlo volare «e auspicabilmente spegnersi senza danni»,
racconta David. Per fortuna quel giorno il parco non si incendiò. Ma i giochi
pericolosi di David e Keva attrassero l’attenzione di un quindicenne, Jack
Ma.
Ricorda David: «In quella serata libera, passata a far volare fiammiferi al
parco, fui avvicinato da un ragazzo che voleva far pratica di inglese con me.
Si presentò, ci scambiammo i convenevoli del caso e ci accordammo per
incontrarci di nuovo al parco.»
Il 4 luglio, l’ultimo giorno della loro permanenza a Hangzhou, David
presentò Jack a sua sorella Susan e lo invitò, insieme ad altri ragazzi della
zona, a giocare con un frisbee nel parco. David mi ha raccontato la scena:
avevano delimitato il campo da gioco con scarpe e altri oggetti «e ben presto
eravamo circondati da centinaia di spettatori cinesi.» Il padre di Jack, Ma
Laifa, scattò fotografie dell’incontro.
Il padre di David, Ken Morley, ha detto una volta che la sua prima
impressione di Jack fu «che sembrava un venditore ambulante.» «Voleva
davvero fare pratica con l’inglese, ed era molto cordiale. I nostri figli l’hanno
preso subito in simpatia.»
La famiglia si è tenuta in contatto con Jack, come ricorda David: «Dopo
quell’incontro siamo rimasti amici di penna per qualche anno, finché mio
padre ha deciso che voleva aiutare quel ragazzo.» Jack scriveva regolarmente
a Ken, chiamandolo «papà», e Ken gli chiese di «scrivere le lettere a
spaziatura doppia, lasciando spazio per le correzioni.» Spiega David:
«L’originale con le correzioni veniva allegato, a scopo educativo, alla lettera
di risposta. Penso che questa abitudine abbia aiutato Jack e l’abbia
incoraggiato a proseguire lo studio dell’inglese.»
Armato delle nuove competenze linguistiche e di una conoscenza
approfondita della storia locale, Jack prese ad accompagnare altri turisti
stranieri in visita al lago. Amava le sale da tè di Hangzhou, dove gli abitanti
giocavano a scacchi cinesi e a carte e raccontavano «storie improbabili».
Jack accompagnava spesso sua nonna nei templi buddhisti a bruciare
incenso e venerare gli dèi. Si appassionò al tai chi e al romanzo classico
cinese I briganti, che racconta la storia di 108 eroi: il numero di dipendenti
che in seguito avrebbe fissato come primo obiettivo per Alibaba.

Jack Ma, quindici anni, con il nuovo amico australiano David Morley sulle rive del Lago dell’ovest.
David porta al petto la tessera dell’Australia China Friendship Society. Famiglia Morley

Ma il suo autore preferito è il romanziere di Hong Kong Louis Cha, che


scriveva con lo pseudonimo di Jin Yong. Nato nella provincia di Zhejiang nel
1924, nel 1959 Jin Yong fu cofondatore del quotidiano di Hong Kong Ming
Pao, su cui furono pubblicate le sue prime opere. In totale ha scritto quindici
romanzi, tutti del genere wuxia, che fonde il romanzo storico con racconti di
fantasia sulle arti marziali e i cavalieri. Jin Yong è molto popolare nella
cultura cinese: ha venduto oltre cento milioni di copie in tutto il mondo e ha
dato origine a oltre novanta adattamenti televisivi e cinematografici delle sue
opere.
Ambientati tra il sesto secolo a.C. e il diciottesimo d.C., i romanzi di Jin
Yong contengono forti elementi di patriottismo cinese: mostrano popoli
eroici in lotta contro gli invasori del Nord, come i mongoli e i manciù.
Una delle lettere di Jack all’amico di penna David Morley. Famiglia Morley

Yi Zhongtian, noto scrittore e docente dell’università Xiamen, riassume


così il fascino esercitato dalle storie tradizionali e dalle arti marziali: «Nella
società cinese tradizionale, le persone hanno tre sogni. Il primo è un
imperatore saggio. La gente spera di essere governata da un buon leader per
avere la pace. Il secondo sogno è avere funzionari onesti. Se non è possibile,
allora arriva il terzo sogno, gli eroi cavallereschi. Le persone sperano che gli
eroi le difendano, uccidano i funzionari avidi e riportino la giustizia. Ma se
non ci sono eroi, la gente trova conforto solo nei racconti sulle arti marziali.
Ecco perché a tanti cinesi piacciono i romanzi sul kung fu.»
La prosa di Jin Yong sfrutta molti elementi tradizionali della cultura e
delle arti cinesi, oltre che del buddhismo, del taoismo e del confucianesimo.
Jack ha trovato ispirazione nel leggendario guerriero Feng Qingyang di cui
narra Jin Yong. Feng era un insegnante; nella pratica delle arti marziali le sue
mosse non seguivano mai un ordine prestabilito.
Jack ha preso lezioni di Tai Chi2 da una donna sulla settantina che,
secondo Chan Wei – un ex studente di Jack che oggi è il suo assistente
personale – era così brava da riuscire a difendersi contro due o tre uomini
giovani. Ogni mattina chiudeva gli occhi per meditare prima di praticare il
Tai Chi e «ascoltava sbocciare i fiori.» Oggi Jack viaggia spesso
accompagnato da un maestro personale di Tai Chi.
Queste abilità, tuttavia, non servivano a molto contro uno dei primi
nemici di Jack: la matematica. In Cina, tutti gli studenti del liceo che sperano
di andare all’università devono passare un esame nazionale di ammissione,
detto gaokao, letteralmente «test superiore», che si svolge nell’arco di due o
tre giorni. La matematica, insieme al cinese e a una lingua straniera, è una
materia obbligatoria.
Il gaokao è considerato uno degli esami più difficili al mondo: richiede
moltissimo studio e memorizzazione. Oggi è al centro di molte polemiche per
le sue conseguenze negative sulla psiche dei ragazzi: si verificano anche casi
di depressione e suicidio.
Jack ottenne pessimi risultati al gaokao, totalizzando 1 su 120 in
matematica. Perse ogni speranza e si rassegnò al lavoro manuale: iniziò a
trasportare pesanti pacchi di riviste dalle tipografie alla stazione ferroviaria di
Hangzhou a bordo di un risciò: un impiego trovato solo grazie ai contatti di
suo padre. Fu respinto in vari altri colloqui di lavoro, tra cui quello per un
posto come cameriere in un albergo. Gli dissero che non era abbastanza alto.
Chen Wei riferisce nella sua biografia di Jack, This Is Still Ma Yun, che il
suo datore di lavoro trovò ispirazione nel libro Ren sheng (La vita)
dell’autore cinese Lu Yao. Pubblicato nel 1982 e adattato per il cinema nel
1984, il libro racconta la storia di Gao Jailin. Uomo di talento che vive in un
villaggio, Gao cerca invano di emanciparsi dalla povertà. Jack decise che il
suo destino sarebbe stato diverso e sostenne il gaokao per la seconda volta. Il
risultato in matematica fu leggermente migliore, 19 su 120, ma il punteggio
complessivo calò molto.
Jack tornò a cercarsi un lavoro per arrivare alla fine del mese. Inviò
undici domande di impiego e ricevette undici rifiuti. Gli piace raccontare che
persino il fast food KFC lo scartò: fu l’unico respinto su ventiquattro
candidati.
Imperterrito, iniziò a frequentare ogni domenica la biblioteca
dell’università dello Zhejiang, dove imparò a memoria le formule e le
equazioni necessarie per passare l’esame.
Non fu mai ammesso a un’università prestigiosa a Pechino o Shanghai.
Ma nel 1984, a diciannove anni, ottenne un punteggio sufficiente in
matematica per entrare in un ateneo locale, il College magistrale di
Hangzhou. Al terzo tentativo con il gaokao ottenne un punteggio di 89 in
matematica: vari punti al di sotto del minimo per l’ammissione a un corso di
laurea quadriennale3 in altre università. In condizioni normali sarebbe stato
relegato a una laurea breve,4 ma il College magistrale di Hangzhou aveva
alcuni posti liberi per studenti maschi e Jack riuscì a entrare per il rotto della
cuffia. Non era un college prestigioso: Jack ricorda che «era considerato il
terzo o il quarto della mia città.» Nei suoi discorsi Jack ricorda spesso la
duplice bocciatura al gaokao come un motivo di vanto.

Vita da insegnante
Al secondo anno di università Jack fu eletto presidente del consiglio
studentesco, dove lanciò un concorso per i «dieci migliori cantanti del
campus», e in seguito fu presidente della Federazione degli studenti di
Hangzhou.
Nel 1985 Ken Morley e la sua famiglia lo invitarono nella loro casa di
New Lambton, un sobborgo di Newcastle nel New South Wales, in Australia.
Era la prima volta che Jack usciva dalla Cina. Si trattenne in Australia per un
mese e al ritorno era un uomo diverso.
«In Cina mi avevano insegnato che il nostro era il Paese più ricco del
mondo», raccontò in seguito. «Quando sono arrivato in Australia mi sono
accorto che le cose non stavano affatto così. Ho iniziato a pensare che fosse
necessario usare la propria testa per ragionare e per giudicare.»
Jack non si è mai mostrato timido con gli stranieri. Durante il viaggio in
Australia ha tenuto un’esibizione di Tai Chi in una palestra di periferia,
facendo sfoggio della sua abilità nel kung fu, nello stile della scimmia e in
quello dell’ubriaco. Ricorda Stephen Morley: «Gli chiedevo spesso di darci
una dimostrazione dello stile dell’ubriaco: era uno spettacolo bellissimo.»

Stephen Morley, Jack e Anne Lee, una cugina dei Morley. Louis e Anne Lee

L’amicizia di Jack con i Morley si approfondì. Dopo il viaggio di Jack in


Australia, Ken Morley tornò a Hangzhou con Stephen. Poiché la casa della
famiglia Ma era troppo piccola per accogliere ospiti, Jack trovò loro posto in
un dormitorio studentesco. «Cenavamo a casa dei Ma e poi andavamo al
college in bicicletta», ricorda Stephen. «Jack aiutava sempre a preparare la
cena, ci faceva sempre sentire speciali.»
Durante la vacanza Jack organizzò una gita in campagna per i due amici
australiani, che vissero una serie di avventure interessanti. Come mezzo di
trasporto Jack si era procurato un pickup: lui e l’autista sedevano davanti,
mentre Ken e Stephen avevano due sedie nel vano di carico aperto. Un
giorno, mentre uscivano da Hangzhou, l’autista dovette frenare di colpo per
schivare un ciclista che era caduto dalla bici, e Ken e Stephen furono sbalzati
in avanti contro l’abitacolo. Per fortuna non si fecero male. Quella sera, al
ritorno in città, Jack organizzò un banchetto per gli amici australiani con
alcuni funzionari e personalità locali, in occasione di un festival che si teneva
nella strada lì sotto. Ricorda Stephen: «Non avevo mai visto una strada così
piena di gente. Ho capito che Jack doveva essere molto bravo a crearsi una
rete di contatti: non poteva essere altrimenti, se era riuscito a portarci a cena
con il sindaco.»
Il percorso universitario di Jack a Hangzhou non fu privo di ostacoli. I
problemi economici erano un grattacapo continuo. Ken Morley si fece
nuovamente avanti in suo aiuto. L’iscrizione all’università era gratuita, ma la
famiglia di Jack non poteva permettersi le spese per il dormitorio. «Quando
siamo tornati in Australia ci abbiamo riflettuto», ricorda Morley, «e abbiamo
deciso che potevamo aiutarlo. Non era una cifra alta – cinque o dieci dollari
alla settimana, mi pare – quindi gli mandavo un assegno ogni sei mesi.»

Louis e Anne Lee


Al College magistrale di Hangzhou Jack conobbe e si innamorò di Zhang
Ying, una compagna di studi originaria di Zhejiang che aveva scelto il nome
inglese di Cathy. Tennero segreta la relazione alla famiglia di Jack. Una sera
a Hangzhou, Stephen Morley era a cena con suo padre, Jack e i suoi genitori,
e ricorda: «Mi sfuggì la parola «nü peng you» (fidanzata) e additai Jack. Lo
vidi sbiancare: penso che in quel momento volesse uccidermi. Scoppiò un
acceso dibattito in cinese tra Jack e i suoi genitori. Ancora oggi Jack mi
rinfaccia quella volta che ho rivelato il suo segreto quand’eravamo ragazzi.»
Ma Yin (la sorella di Jack), Stephen Morley, Ken Morley e Jack a Hangzhou. Famiglia Morley

Jack nella cucina del nuovo appartamento che Ken Morley l’ha aiutato a comprare a Hangzhou.
Famiglia Morley

Nonostante l’involontaria rivelazione dell’amico australiano, la relazione


tra Jack e Cathy andò avanti e i due si sposarono poco dopo. I Morley diedero
un’altra dimostrazione di generosità donando alla coppia 22.000 dollari
australiani (circa 15.000 euro) per aiutarli a comprare la prima casa, due
appartamenti agli ultimi piani di un palazzo che vennero uniti per formare
attico e superattico.
Jack ha dichiarato in seguito di non trovare le parole per esprimere ciò
che Ken e Judy Morley avevano fatto per lui.
Ken Morley è morto nel settembre 2004 a settantotto anni. Il suo
necrologio su un giornale locale riferisce che aveva portato «i figli in Cina e a
Cuba e li aveva incoraggiati a studiare, viaggiare e formarsi un’opinione
politica. Questo approccio illuminato e generoso si è esteso anche al di fuori
della famiglia: è risaputo che Ken fosse amico di un ragazzo cinese in
difficoltà economiche. Quel ragazzo è oggi un uomo e dirige un’azienda di
successo in Cina.» Al funerale, un sacerdote ha letto un messaggio di Jack
alla famiglia Morley, in cui rivelava che avrebbe voluto fare un viaggio in
treno sulla Transiberiana con Ken, che definiva il suo «papà australiano e
mentore». Suo figlio David mi ha scritto: «Ormai non è che un sogno, e per
una persona famosa come Jack è difficile viaggiare in incognito, ma un
giorno mi piacerebbe partecipare a quel viaggio al posto di mio padre.»
Il paradosso è che Ken Morley, il cui contributo è stato essenziale per fare
di Jack uno dei capitalisti più ricchi della Cina, era un socialista convinto.
Figlio di un minatore e di una sarta, è stato a lungo attivista politico e
membro del Partito comunista australiano e si era candidato alle elezioni
locali con l’Alleanza socialista. Negli ultimi anni di vita ha potuto assistere ai
primi successi di Jack, e si diceva imbarazzato per il denaro e i ricchi doni di
cui Jack e Cathy lo ricoprivano. La cosa che apprezzava di più, diceva, era
l’onore che Jack e Cathy gli avevano fatto dando il suo nome al loro
primogenito (che si chiama «Kun», in onore di Ken). La Cina ha influenzato
anche gli altri membri della famiglia Morley: Susan ha studiato cinese a
Sydney per vari anni. Le famiglie Ma e Morley restano molto amiche e
continuano ad andare in vacanza insieme.

Jack e un altro insegnante si preparano a presentare un intervento del mentore di Jack, Ken Morley.
Aprile 1991, YMCA di Hangzhou. Famiglia Morley
Jack e Ken Morley bevono una birra insieme. Famiglia Morley

Diventare ricchi è glorioso


Nel 1992 Deng Xiaoping partì per la sua celebre visita della Cina
meridionale, passata alla storia soprattutto per l’affermazione: «Diventare
ricchi è glorioso!»5 Per gli imprenditori cinesi, relegati ai margini della
società, il sostegno di Deng era un chiaro invito a rientrare nell’ovile.
Ma Jack non era ancora un imprenditore. Dopo la laurea in inglese, nel
1988, era diventato docente di inglese e commercio internazionale all’Istituto
di Ingegneria elettronica di Hangzhou. I suoi compagni di corso furono
inviati tutti a insegnare l’inglese alle scuole medie, ma Jack fu l’unico su
cinquecento laureati a venire assegnato a un istituto superiore. Tuttavia aveva
già iniziato a pensare a un futuro diverso dall’insegnamento. Ricordava la
lezione appresa dai comizi di Deng: «Potete diventare ricchi; potete aiutare
altre persone a diventare ricche.» Pur essendo intenzionato a portare a
termine i due anni che mancavano alla scadenza del suo contratto, Jack iniziò
a ricercare opportunità fuori dalla scuola.
Terminato il lavoro all’istituto, di sera insegnava inglese al YMCA di
Hangzhou. Secondo Chen Wei, che seguì i suoi corsi a partire dal 1992, le
lezioni di Jack erano popolari perché dedicava poco tempo all’insegnamento
della grammatica, del vocabolario e della lettura: preferiva scegliere un
argomento e avviare una conversazione. I suoi studenti provenivano dagli
ambienti più diversi: liceali che sognavano di studiare all’estero, studenti
universitari, operai e giovani professionisti. Jack passava spesso del tempo
con loro dopo la lezione, «a bere tè, a giocare a carte, a chiacchierare.»
A Hangzhou c’era un «angolo dell’inglese» frequentato con regolarità: un
gruppo di abitanti si riuniva per fare pratica della lingua ogni domenica
mattina nel parco sulla riva del Lago dell’ovest. Jack portava lì i suoi studenti
della scuola serale, ma quando scoprì che gli studenti avrebbero preferito
incontri più frequenti decise di fondare un proprio «angolo dell’inglese». Gli
incontri si tenevano ogni mercoledì sera, e Jack scoprì che nell’anonimato
garantito dall’oscurità gli studenti si vergognavano meno del loro inglese
imperfetto.
Ma la carriera di Jack come insegnante volgeva al termine. Trascinato
dall’entusiasmo suscitato dalla visita di Deng Xiaoping nel Sud del Paese,
decise di fondare un’azienda prima di compiere trent’anni. Iniziò a lavorarci
nel tempo libero, dopo le lezioni, e pensò che l’avrebbe chiamata «Speranza.»
La «Speranza» e lo sbarco in America

In Cina ci sono un milione di aziende che vogliono


vendere all’estero ma non sanno come fare.
–JACK MA

Nel gennaio 1994, a ventinove anni, Jack fondò la Hangzhou Haibo


Translation Agency. All’inizio aveva solo cinque dipendenti, quasi tutti ex
insegnanti dell’istituto. Prese in affitto due stanze al 27 della via Qingnian,
non lontano dal Lago dell’ovest, in una chiesa sconsacrata che in precedenza
aveva ospitato il YMCA. L’insegna «Speranza Traduzioni» campeggia
tuttora fuori dal portone, e l’agenzia di traduzioni conserva una sala riunioni
accanto a quello che è diventato l’Ostello internazionale della gioventù
YMCA.
Jack convinse alcuni studenti del suo corso serale di inglese a dargli una
mano nella nuova impresa: chiese loro in particolare di aiutarlo a trovare i
primi clienti. Il giorno dell’inaugurazione i suoi studenti andarono in piazza
Wulin con cartelli e striscioni per pubblicizzare l’azienda.
Alcuni di quegli studenti vennero poi assunti a tempo pieno. Uno dei
primi dipendenti fu Zhang Hong, che conobbe Jack nel 1993, quando teneva
un corso avanzato di conversazione inglese al YMCA. Ricorda: «Nessun
altro vedeva opportunità in quel settore […] All’inizio non guadagnavamo
molto, ma [Jack] ha perseverato […] Nutro un grande rispetto per lui, perché
ha la straordinaria capacità di motivare le persone e di infondere speranza.
Riesce a suscitare entusiasmo in chiunque incontri.»
La prima azienda di Jack puntava ad assistere le imprese locali nella
ricerca di clienti all’estero. Jack ha ricordato in seguito: «Durante il giorno
dovevo insegnare e non avevo tempo di aiutare gli altri a tradurre. Ma molti
ex insegnanti stavano a casa senza niente da fare e percepivano una pensione
bassa; così ho pensato di fondare un’agenzia di traduzioni, per propormi
come intermediario.» Focalizzandosi solo sulla traduzione, quella prima
azienda non avrebbe fruttato cospicui guadagni ma permise a Jack di
osservare da vicino la rivoluzione imprenditoriale che stava trasformando lo
Zhejiang e di muovere i primi passi come imprenditore.
La parola cinese che indica la speranza è Haibo, che letteralmente
significa «vasto come il mare.» Al tempo era in voga un’espressione
colloquiale, xia hai, che significava «licenziarsi da un impiego pubblico per
entrare nel settore privato», ovvero letteralmente «tuffarsi nel mare.»
Jack voleva diventare un imprenditore, ma non era ancora pronto a
tuffarsi abbandonando il lavoro di insegnante. Oggi l’imprenditorialità è un
elemento così diffuso nella cultura e nel business cinese che è facile
dimenticare quanto la situazione sia cambiata negli ultimi decenni.
Nel primo periodo delle riforme economiche l’imprenditorialità era
considerata un’attività molto rischiosa, se non proprio illegale. Era ancora
fresco il ricordo della Rivoluzione culturale, durante la quale molte persone
erano finite in prigione o addirittura erano state giustiziate per il crimine di
aver intrapreso attività commerciali.
A partire dal 1978, l’istituzione di un «sistema di responsabilità
familiare» permetteva agli agricoltori di vendere sul mercato aperto le
eccedenze del raccolto. Le prime forme di azienda privata furono le «imprese
di città e di villaggio» (TVE, township and village enterprises), che sulla
carta erano controllate dallo Stato ma all’atto pratico erano imprese rurali a
gestione privata. Per la Cina era scoccata la prima scintilla di una rapida
espansione dell’impiego nel settore privato.
Dai primi anni Ottanta il governo cinese iniziò a dare riconoscimento agli
imprenditori, dapprima i singoli individui e poi le aziende da loro guidate.1
I primi imprenditori, i getihu, non si lasciavano alle spalle un impiego
stabile alle dipendenze del governo: erano persone che non avevano niente da
perdere. Erano in maggioranza braccianti agricoli, la cui condizione sociale
svantaggiata fruttava loro il nome dispregiativo di «venditori ambulanti». Se
le loro imprese riscuotevano successo si attiravano rancori e venivano derisi
in quanto arricchiti e volgari. Uno dei primi getihu si spinse fino a tappezzare
la propria casa di banconote a mo’ di carta da parati.
Alcuni degli uomini d’affari più ricchi della Cina hanno iniziato come
umili getihu, e molti di loro venivano dalla provincia dello Zhejiang. Per
comprendere i motivi del successo di Alibaba è opportuno capire come la
provincia di origine di Jack abbia potuto dare origine a tanta ricchezza.

Lo Zhejiang: il crogiolo dell’imprenditorialità


cinese
La città di Hangzhou, il vicino porto di Ningbo e altri centri industriali che
sorgono nell’area settentrionale della provincia dello Zhejiang e nella parte
meridionale dello Jiangsu costituiscono la grande potenza economica del
delta dello Yangtze (Fiume Azzurro), centrata intorno a Shanghai.
Sede dell’impero di e-commerce di Alibaba, Hangzhou ha una lunga
tradizione come snodo del commercio. Un tempo si trovava all’estremità
meridionale dei 1800 chilometri del Gran Canale, un fiume artificiale il cui
nome completo in cinese è Jing Hang Da Yun He, o Gran Canale Pechino-
Hangzhou. Per oltre mille anni il Canale è rimasto la principale arteria
commerciale tra il Nord e il Sud della Cina, facendo di Hangzhou una delle
città più prospere della nazione.2
Hangzhou e il vicino porto di Ningbo sorgono su un terreno relativamente
pianeggiante, ma gran parte della provincia è occupata da montagne e fiumi
che creano un mosaico di comunità isolate, ognuna con il proprio dialetto. Le
necessità di praticare il commercio e la distanza dal centro politico del Paese
hanno contribuito a fare dello Zhejiang la culla dell’impresa privata cinese.
Oggi molti imprenditori di questa provincia sono ai primi posti nella
classifica dei cinesi più ricchi. Quasi tutti, come Jack, sono partiti da
condizioni difficili.
Zong Qinghou, un uomo che vale più di 11 miliardi di dollari, è il
fondatore di Wahaha, il leader cinese nella produzione di bevande. È
cresciuto a Hangzhou dai quattro anni in poi e in seguito ha lavorato in una
salina su un’isola al largo di Ningbo prima di diplomarsi alle scuole superiori.
Negli anni Ottanta vendeva ghiaccioli in strada per meno di un centesimo
l’uno. Li Shufu, che vale più di due miliardi, è il fondatore di Geely, la prima
casa automobilistica cinese non statale. Ha iniziato assemblando frigoriferi a
partire da pezzi di ricambio, per poi fondare Geely nel 1988. Nel 2010 Geely
ha rilevato la svedese Volvo. Lu Guanqiu, che vale più di 7 miliardi di
dollari, è il fondatore del Wanxiang Group, un produttore di ricambi per auto
con sede a Hangzhou. In precedenza era un agricoltore, poi ha cominciato a
comprare rottami dagli abitanti dei villaggi della zona.
L’amico di Jack Guo Guangchang, un uomo dal valore stimato di 7
miliardi di dollari prima della sua inspiegata sparizione per vari giorni nel
dicembre 2015, è il fondatore della società di investimenti Fosun. È
sopravvissuto alla Rivoluzione culturale mangiando verdure secche e
ammuffite e in seguito ha ottenuto l’ammissione alla prestigiosa università
Fudan di Shanghai, dove si manteneva vendendo pane porta a porta nei
dormitori. Prima della sorprendente assenza del 2015, Fosun era stata definita
dal Financial Times «la Berkshire Hathaway cinese.» Guo è un sostenitore
attivo degli interessi di Alibaba nella logistica e nella finanza.
Come abbiamo visto esaminando il lato logistico del triangolo di ferro, un
gruppo di imprenditori dello Zhejiang ha contribuito al successo di Alibaba:
la Gang di Tonglu, composta dai corrieri di quella città a sudovest di
Hangzhou, è responsabile di oltre la metà dei pacchi recapitati in Cina. Di
Tonglu era originario Nie Tengfei, fondatore del grande corriere Shentong
(STO Express). Nato in povertà, Nie allevava maiali, seminava il grano e
vendeva legna da ardere prima di trasferirsi a Hangzhou per lavorare in una
tipografia. Aveva lavorato in nero, consegnando il pane con un risciò, finché
a vent’anni non aveva intravisto un’opportunità di battere China Post
recapitando moduli doganali al porto di Shanghai per le aziende di
Hangzhou.3 Nie morì in un incidente d’auto nel 1998, ma Shentong ha
continuato a prosperare. Due parenti di Nie e un suo compagno di studi
hanno fondato altri tre grandi corrieri che appartengono alla Gang di Tonglu.4
Hangzhou, la capitale della provincia, e Ningbo, il suo porto principale,
hanno una lunga storia di prosperità derivante dal commercio. Ma altre due
città dello Zhejiang, Wenzhou e Yiwu, benché meno note all’estero, sono
rinomate in Cina per la nuova ricchezza accumulata. Wenzhou ha contribuito
a legittimare il ruolo degli imprenditori nella società, mentre Yiwu ha creato
mercati all’ingrosso che si sono estesi a tutto il Paese e al mondo intero.
Wenzhou e Yiwu hanno fatto per la rivoluzione imprenditoriale cinese quello
che i cotonifici del Lancashire avevano fatto per la rivoluzione industriale in
Inghilterra.
Con il loro dinamismo, Wenzhou e Yiwu hanno ispirato Jack
convincendolo a tentare la carriera imprenditoriale. Le innovazioni compiute
a Wenzhou hanno aperto la strada per le successive attività di Alibaba nei
servizi finanziari, e l’enorme mercato all’ingrosso di Yiwu ha ispirato il
primo modello di business di Alibaba, collegando i venditori cinesi agli
acquirenti di tutto il mondo. Visitiamo rapidamente queste due città.

Wenzhou
Wenzhou sorge duecento miglia a sudest di Hangzhou. Circondata dalle
montagne su un lato e dal Mar Cinese Orientale sull’altro, ha sempre vissuto
di commercio, in particolare con le esportazioni di tè. Ma dopo il 1949 la sua
vicinanza alla nazionalista Taiwan è diventata un ostacolo. A quasi
cinquecento chilometri da Shanghai, la città pativa il suo isolamento.
Weizhou aveva pochi terreni arabili e molti lavoratori agricoli disoccupati
o sotto-occupati. Ma dopo il varo delle riforme economiche di Deng
Xiaoping, nel 1978, il settore privato visse un boom. Gli imprenditori di
Wenzhou, che spesso lavoravano insieme alla famiglia, iniziarono a dedicarsi
alla manifattura leggera. Negli anni Ottanta furono tra i primi rivenditori a
proporre in tutta la Cina le loro merci, che comprendevano anche imitazioni
di brand occidentali. Per molti, gli articoli provenienti da Wenzhou
rappresentavano il primo acquisto di beni non prodotti dallo Stato.
Wenzhou ha svolto un ruolo di primo piano nella legittimizzazione
dell’imprenditorialità cinese. Nel 1984 il governo della città organizzò un
convegno a cui invitò gli imprenditori privati di maggior successo, per
aiutarli a mettere in mostra i risultati ottenuti. Ma molti declinarono l’invito
perché temevano di essere arrestati. Appena due anni prima, alcuni
imprenditori della città erano stati arrestati con l’accusa di speculazione;
erano tuttora in carcere. Degli imprenditori che si presentarono al convegno,
parecchi si portarono dietro lo spazzolino da denti, nel caso venissero
trattenuti. Ma nessuno di quegli imprenditori finì in manette. Dopo aver
rilasciato quelli arrestati due anni prima, il governo di Wenzhou pubblicò sui
giornali locali un annuncio senza precedenti, in cui ammetteva di aver
sbagliato. Come scrive il professor Yasheng Huang del Massachusetts
Institute of Technology: «Molti imprenditori dissero che quei due episodi li
avevano convinti che non correvano rischi personali.»
Per decenni le banche statali cinesi avevano ignorato le imprese private e
i singoli imprenditori, trovando preferibile dal punto di vista politico
concedere prestiti alle imprese pubbliche.5
Avendo necessità di ottenere prestiti, il settore privato di Wenzhou iniziò
a crearsi un mercato parallelo del credito, spesso con modalità illegali. Il
governo locale sosteneva attivamente la creazione di associazioni private di
credito, cooperative e money houses – una tipologia di intermediario
finanziario locale che trae profitto dalla differenza tra i tassi di interesse sui
depositi e i prestiti – creando un sistema che fu definito «modello Wenzhou.»
Wenzhou ha spianato la strada per l’ingresso di Alibaba nel settore bancario.
Quando Alibaba ha ottenuto la licenza per operare come banca, nel 2014, due
degli altri cinque licenziatari erano di Wenzhou.
Lo spirito imprenditoriale, unito all’accesso ai capitali, alimentò
un’esplosione del settore privato, che giunse a dominare l’economia di
Wenzhou fino a emarginare completamente lo Stato. Di fronte alla fortissima
domanda di nuove strade e ponti, gli imprenditori di Wenzhou non
aspettarono fondi o istruzioni da Pechino: se li costruirono da soli, in un
furore edilizio che sfiorava l’anarchia, senza alcun piano regolatore o
coordinamento.
Nel 1990, agendo di propria iniziativa, gli imprenditori finanziarono
persino la costruzione di un aeroporto per la città. Un anno dopo nacquero a
Wenzhou le prime linee aeree private del Paese, le Juneyao Airlines. Nel
1998 Wenzhou costruì la prima ferrovia cinese finanziata con capitali privati.
Oggi, in Cina, Wenzhou è sinonimo di ricchezza. C’è chi critica i suoi
abitanti per la mania dello shopping e l’abitudine di pagare tutto in contanti,
che ha fatto aumentare i prezzi degli appartamenti a Pechino, Shanghai, Hong
Kong, New York e altrove.

Yiwu
Yiwu si trova in una posizione insolita per essere uno degli snodi
internazionali del commercio. Sorge nell’entroterra, lontano da Hangzhou, da
Ningbo e dal Mar Cinese Orientale. Come Wenzhou, era poverissima e aveva
poca terra coltivabile. Non avendo alternative, fin dal Cinquecento gli
agricoltori locali si erano dedicati al commercio. Il loro prodotto principale
era lo zucchero di canna, mescolato allo zenzero e tagliato in blocchi. Lo
scambiavano con penne di gallina, che usavano per realizzare piumini per
spolverare o che tritavano per farne fertilizzante.
D’inverno, quando gli agricoltori avevano poco da fare e il cibo
scarseggiava, gli uomini si mettevano in spalla un bastone a cui appendevano
cesti di bambù e giravano il Paese come venditori ambulanti. Offrivano
zucchero, aghi e fili da cucito, e riportavano a Yiwu le penne di gallina.
Durante il cammino scuotevano un sonaglio per attrarre i clienti. Divennero
noti come «Uomini dello zucchero con il bastone in spalla»: gli antenati dei
milioni di fattorini che oggi lavorano per i corrieri.
Ben presto a Yiwu c’erano così tanti venditori ambulanti da formare un
vero e proprio esercito itinerante. Nel 1700 apparvero in città i primi mercati
all’ingrosso per rifornirli di merci da vendere. Il commercio fiorì per secoli,
fino agli stravolgimenti portati dall’invasione giapponese e dalla rivoluzione
comunista.
Quando entrarono in vigore le riforme di Deng Xiaoping, il mercato
dell’ingrosso uscì dall’ombra. A settembre del 1982 i commercianti di Yiwu
ebbero accesso a un appezzamento di terra – una conca che spianarono
riempiendola di cemento – su cui allestire le loro bancarelle. Con settecento
rivenditori, Yiwu divenne uno dei primi mercati all’ingrosso della Cina post-
rivoluzionaria.
Oggi la città ospita il mercato all’ingrosso più grande del mondo e la sua
popolazione ha superato i due milioni di abitanti. Si stima che ogni giorno
quarantamila persone frequentino il mercato. Le 700 bancarelle sono
diventate 70.000 magazzini, oggi ospitati nel Yiwu International Trade
Center, un colossale edificio di quasi quattromila metri quadri che genera un
fatturato annuo superiore ai sei miliardi di dollari.
Al suo interno sono in vendita 1,7 milioni di prodotti, dai giocattoli ai
fiori finti, dai gioielli alle valigie, dall’abbigliamento agli elettrodomestici:
tutto ciò che è made in China. A nostra insaputa, una larga percentuale di ciò
che consumiamo in Occidente è passato da Yiwu. Persino il Natale è made in
Yiwu: oltre il 60 per cento degli addobbi natalizi venduti in tutto il mondo
viene prodotto in quella città. Benché i rivenditori siano attratti da Yiwu
soprattutto per i prezzi bassi, una parte del suo giro d’affari consiste nella
fornitura di prodotti contraffatti, per esempio borse con marchi che ne
ricordano altri, come «Gussi». Il giornalista del Financial Times James
Kynge ha visitato la città nel 2005 per studiare il problema dei falsi e ha
scoperto che c’erano persino falsi alberghi: ha visto un’insegna che diceva
«Hiyat» anziché «Hyatt».
Yiwu attrae commercianti dai quattro angoli della Terra. È una delle mete
predilette dai venditori mediorientali ed è la comunità islamica in più rapida
crescita in Cina. Si stima che in ogni momento siano presenti in città 35.000
musulmani – cinesi, sud asiatici e arabi – e ci sono decine di ristoranti
musulmani e una moschea da quattro milioni di dollari riccamente decorata
con marmo importato dall’Iran.
Dal 2014 Yiwu è il capolinea della ferrovia per treni merci più lunga del
mondo: tredicimila chilometri che collegano Yiwu a Madrid e richiedono
ventuno giorni di viaggio.
A fare di Yiwu uno snodo così essenziale è il suo ruolo nello smercio dei
prodotti sfornati dagli innumerevoli distretti industriali dello Zhejiang e da
altre zone del delta del Fiume Azzurro. Queste città specializzate in un
singolo prodotto possono rappresentare l’80 per cento o più della produzione,
non solo cinese ma mondiale. Shaoxing è «la città del tessile» e Yongkang è
«la città della ferramenta», che sforna ogni giorno 30.000 porte d’acciaio e
150.000 scooter. Taizhou è nota come «città delle macchine per cucire» e
Shenzhou è «la città delle cravatte.» Haining si fa chiamare «città del cuoio.»
C’è persino una «città degli spazzolini da denti», Hangji, nel caso qualche
imprenditore nervoso venisse convocato dal governo locale.
Yiwu si presenta come «la capitale dei calzini»: ne produce oltre tre
miliardi di paia all’anno per aziende come Walmart e Disney. Ma anche
Datang, nei pressi di Hangzhou, rivendica lo stesso primato e afferma di
produrne otto miliardi di paia all’anno.
A metà degli anni Novanta, quando Jack stava muovendo i primi passi nel
business, lo Zhejiang era già un importante centro imprenditoriale. Ma le
aziende della provincia richiedevano molta manodopera e, in media, le loro
dimensioni erano piuttosto ridotte. Se all’inizio degli anni Ottanta gli
imprenditori non esistevano quasi, nel 1994 lo Zhejiang ne aveva forse
troppi: con una popolazione di 44 milioni di persone, la provincia ospitava
circa dieci milioni di ditte.
Molti produttori faticavano a trovare clienti a sufficienza per generare un
profitto. A differenza delle fabbriche aperte nel Sud della Cina da ricchi
imprenditori di Hong Kong e Taiwan, i piccoli stabilimenti dello Zhejiang
dovevano impegnarsi molto per trovare clienti e finanziamenti.6 Le banche
statali cinesi non concedevano loro credito. Questa carenza cronica di
finanziamenti stimolò innovazioni nella finanza privata, come il «modello
Wenzhou», e condusse all’ascesa di poli industriali che riunivano debitori e
creditori e che elargivano capitali sulla base del profitto che prevedevano di
generare con un certo contratto. Nel 2004, tra le prime cento aziende private
cinesi, la metà proveniva dalla provincia dello Zhejiang.
Jack ha saputo riconoscere fin da subito i punti di forza e le debolezze
dello Zhejiang ed è uno strenuo difensore della sua provincia. Dall’ottobre
2015 è presidente dell’Associazione degli imprenditori dello Zhejiang. Nel
suo discorso inaugurale ha citato i sei milioni di imprenditori dello Zhejiang
che sono tuttora in Cina e gli altri due milioni sparsi per il mondo: «Il totale
di oltre otto milioni di imprenditori originari dello Zhejiang rappresenta forse
l’agglomerato di aziende più grande del mondo. Hanno creato una nuova
entità economica che si sovrappone all’economia locale dello Zhejiang.» I
loro successi, però, sono costati molta fatica. In un discorso tenuto in
precedenza alla Camera di commercio dello Zhejiang, Jack riassumeva così il
dinamismo della sua provincia d’origine: «Come imprenditori dello Zhejiang,
i nostri punti di forza sono la voglia di lavorare, il coraggio e la bravura nel
cogliere le opportunità. Possediamo queste qualità perché non ci è stato dato
niente. Non siamo come altre province che possono contare sulle risorse
naturali, come il carbone e il minerale di ferro. Noi imprenditori dello
Zhejiang abbiamo i mercati. […] Finché ci troveremo in luoghi popolati da
persone, riusciremo sempre a trovare nuove opportunità. Sarà così anche in
futuro.»
Tuttavia, il primo tentativo da parte di Jack di far leva sul fermento
imprenditoriale dello Zhejiang non fu un successo. Nel 1994, la sua ditta
Hope Translation non aveva esordito sotto i migliori auspici. L’affitto
dell’ufficio ammontava a quasi 300 dollari al mese e il fatturato del primo
mese superò di poco i 20 dollari. La speranza è sempre l’ultima a morire ma è
il denaro a far girare il mondo. Jack era nei guai. Iniziò a vendere prodotti
nelle strade di Hangzhou, compresi alcuni che si era procurato a Yiwu.
L’agenzia di traduzioni divenne anche una rivendita. Proponeva articoli da
regalo, fiori, libri e persino rivestimenti in plastica per pavimenti, una varietà
di articoli che sembra anticipare il catalogo di Taobao. Jack ha ricordato in
seguito: «Le abbiamo provate tutte. Quel reddito ha sostenuto l’agenzia di
traduzioni per tre anni, finché non siamo andati in pari. Non abbiamo mai
smesso di credere che l’azienda avesse un futuro.»
Jack iniziava tuttavia a capire che la traduzione non bastava a soddisfare
le sue ambizioni imprenditoriali. Ma un viaggio inaspettato stava per dare
una svolta alla sua vita, anche se all’inizio le cose sembrarono volgere al
peggio.
Jack si era fatto la reputazione di un esperto conoscitore della lingua
inglese, grazie al successo dei suoi corsi serali e all’agenzia Hope, e il
governo della contea di Tonglu – un’ottantina di chilometri a sudovest di
Hangzhou e futura patria dei corrieri della Gang di Tonglu – gli chiese di
contribuire in qualità di interprete alla risoluzione di una vertenza con
un’azienda americana sulla costruzione di un’autostrada.
Nel 1994 l’azienda aveva proposto di investire in una nuova strada tra
Hangzhou e Tonglu, ma dopo un anno di negoziati non si era ancora
raggiunto un accordo e i finanziamenti iniziali promessi dal partner
americano non si erano materializzati. Jack doveva scoprire cosa stesse
succedendo e tentare di sbloccare la situazione.
Anzitutto si recò a Hong Kong, dove gli dissero che i fondi dell’azienda
erano depositati negli Stati Uniti; quindi andò per la prima volta in quel
Paese. Ci restò per un mese. La sua missione per il governo di Tonglu fallì,
ma quel viaggio gli avrebbe permesso di conoscere Internet e avrebbe fatto di
lui un uomo diverso.

Il viaggio in America
La prima visita di Jack in America somiglia più alla trama di un film d’azione
alla Ocean’s Eleven che non al viaggio di lavoro di un interprete, almeno
secondo la versione diffusa cinque anni dopo, durante il boom delle dot-com,
quando i media iniziarono a interessarsi al passato di Jack. Arrivato a Los
Angeles – così narra la storia – Jack incontrò il presidente dell’azienda ex
partner di Tonglu. Capì subito, come racconta l’Economist, che «l’azienda su
cui stava indagando non esisteva, che il suo ospite era un truffatore e che lui
stesso era in serio pericolo.» Jack non ha mai rivelato il nome dell’uomo, in
seguito descritto sui media locali solo come «un energumeno californiano.»
Ma ricorda che, dopo aver rifiutato di intascare una tangente, fu rinchiuso in
una casa sulla spiaggia di Malibu, dove il suo rapitore gli rese noto che aveva
una pistola. Poi lo portarono a Las Vegas, dove lo tennero prigioniero in una
stanza d’albergo all’ultimo piano di un casinò. Da allora Jack non ha più
raccontato i dettagli della vicenda: preferisce non ricordare quell’episodio,
come spiega il suo assistente personale Chen Wei. Qualche anno dopo,
quando Alibaba iniziava a farsi conoscere a livello internazionale, Jack
raccontò una storia analoga a Melinda Liu, la caporedattrice di Newsweek a
Pechino: «Sono andata a Hangzhou per un’intervista esclusiva a Jack, che mi
ha accompagnata a visitare la sede di Alibaba e mi ha parlato a lungo della
sua vita. Ha detto che, durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, un ex
contatto professionale (un americano) l’aveva «sostanzialmente rapito» nel
tentativo di indurlo a lavorare per lui. Me l’ha raccontato in tono piuttosto
freddo, insieme a molti altri aneddoti. In seguito l’ho contattato per chiedergli
altre informazioni: ha detto di non volerci ricamare troppo e si è rifiutato di
comunicarmi altri dettagli.» La bizzarra storia finisce con Jack che evade
dalla stanza d’albergo e vince 600 dollari alle slot machine del casinò.
Abbandona i suoi effetti personali al piano di sopra, fugge dal casinò e
compra un biglietto aereo per Seattle. Una versione meno colorita della storia
è apparsa a settembre 1995 in un articolo sull’Hangzhou Daily,7 secondo cui
il viaggio di Jack sarebbe stato finanziato da quattromila dollari in risparmi e
prestiti della madre di sua moglie Cathy e di suo cognato.
In ogni caso, fu a Seattle che Jack si collegò per la prima volta a Internet.
Ne aveva sentito parlare l’anno precedente da un collega che insegnava
inglese a Hangzhou, Bill Aho. Il genero di Bill lavorava in un’azienda che
operava su Internet. Jack ricordò poi che era stato Bill il primo a parlargli di
Internet, ma che «neanche lui era riuscito a spiegarmi chiaramente di cosa si
trattasse; sembrava qualcosa di molto strano… Non ci avevo capito granché.»
A Seattle Jack fu ospite a casa dei parenti di Bill Aho, Dave e Dolores
Selig.
Lo portarono a visitare i quartieri più ricchi della città, compreso quello di
Queen Anne. Dolores Selig ricordò poi, parlando alla BBC, che Jack era
rimasto impressionato dalle case più grandi della collina: «Indicava varie case
e diceva: “Comprerò quella, quella e quella”, e noi ridevamo, perché erano
case molto costose. Ma è rimasto davvero impressionato.» Ricorda Bill Aho:
«All’epoca Jack non aveva un soldo.»
Jack incontrò il genero di Bill Aho, Stuart Trusty, che aveva fondato
un’agenzia di consulenza Internet chiamata Virtual Broadcast Network
(VBN), con sede nel palazzo della U.S. Bank sulla Fifth Avenue all’altezza di
Pike Street, al centro di Seattle.
«Jack venne a trovarmi e gli mostrai cos’era Internet», ricorda Trusty.
«All’epoca era poco più che un elenco telefonico di governi e aziende, ma
Jack sembrava molto interessato.»
Per Jack la visita a Seattle fu un’esperienza trasformativa: «Era il mio
primo viaggio negli States, la prima volta che toccavo la tastiera di un
computer, la prima volta che mi collegavo a Internet, ed è stato il momento in
cui ho deciso di lasciare l’insegnamento e fondare un’azienda.»
Ricorda così il suo primo esercizio di navigazione online: «Il mio amico
Stuart […] mi ha detto: “Jack, questa è Internet. Ci puoi trovare qualsiasi
cosa.” Davvero? Ho chiesto io. Quindi ho cercato la parola birra. Una parola
molto semplice. Non so perché l’ho scelta. Ma ho trovato birre americane,
tedesche, e nessuna birra cinese. […] Ero curioso, quindi ho cercato China, e
non ho trovato niente: non c’erano informazioni sulla Cina.»
Affascinato, chiese aiuto a Stuart. «Dissi al mio amico: “Perché non
pubblichiamo qualcosa sulla Cina?” E così realizzammo una paginetta,
davvero brutta […] per promuovere la mia agenzia di traduzioni.»
Il sito di Hope Translation non conteneva immagini: solo testo, un
numero di telefono e il listino prezzi.
In seguito Jack ha raccontato al giornalista Charlie Rose: «È stato
scioccante. Abbiamo messo online la pagina alle nove e quaranta del mattino,
e alle dodici e trenta ho ricevuto una telefonata dal mio amico: “Jack, hai
cinque email.” Gli ho chiesto: “Cos’è un’email?”» Tre messaggi venivano
dagli Stati Uniti, uno dal Giappone e uno dalla Germania.
Jack iniziò a formulare un’idea di business – aiutare le aziende cinesi a
trovare canali di esportazione online – e avanzò la proposta di una
partnership con VBN.
Stuart, che aveva tratto da Jack la passione per il Tai Chi – lo pratica
ancora oggi, ad Atlanta – ricorda che Jack era intensamente concentrato sul
lavoro.
«Andavamo in ufficio, svolgevamo il nostro lavoro, poi mangiavamo
qualcosa, tornavamo a casa, praticavamo il Tai Chi… Tutte le giornate
andavano così. Zero tempo libero.»
I rapporti tra Jack e VBN non erano facili. Stuart chiese un anticipo di
200.000 dollari8 per concedere a Jack il diritto esclusivo di realizzare pagine
Web in Cina. Quando Jack spiegò di aver preso soldi in prestito per recarsi
negli Stati Uniti e che ora non aveva un centesimo, Stuart accettò di firmare il
contratto senza anticipo ma a condizione che Jack pagasse appena possibile, e
ingaggiò Bill Aho e sua moglie come garanti. Per tornare a Hangzhou,
secondo un resoconto apparso sui media locali, Jack dovette chiedere un
prestito a uno studente suo concittadino che viveva in America e prendere un
aereo per Shanghai.
Per il suo cliente di Tonglu Jack tornò in Cina a mani vuote, senza un
accordo per finanziare l’autostrada. Ma in valigia aveva un computer con
processore Intel 486: «All’epoca era il più avanzato in Cina.»
Tornato a Hangzhou si preparò a tradurre in pratica la sua idea delle
pagine gialle online. Battezzò l’impresa China Pages. Per questa seconda
avventura imprenditoriale si sarebbe tuffato in mare a capofitto, lasciandosi
alle spalle l’insegnamento.
La Cina sta arrivando

Se l’industria tradizionale e l’e-commerce si fondono


con successo, non ci saranno limiti alla prossima
fase di sviluppo economico della Cina.
–JACK MA

Poco dopo il ritorno a Hangzhou da Seattle, Jack si dimise dall’incarico di


docenza all’Istituto di ingegneria elettronica di Hangzhou. Aveva capito che i
suoi giorni come insegnante volgevano al termine quando aveva incontrato il
rettore in bicicletta, di ritorno dal mercato dov’era stato a comprare le
verdure. Il rettore gli aveva consigliato di continuare a insegnare, ma
osservando la bicicletta e le verdure Jack si era reso conto che, se anche un
giorno fosse diventato lui stesso il rettore, non l’avrebbe considerata una
carriera entusiasmante.
Il suo nuovo sogno non aveva niente a che fare con l’insegnamento né
con la traduzione. Subito dopo la prima esperienza di navigazione su Internet
si era prefisso di indicizzare online, in lingua inglese, le aziende cinesi che
cercavano clienti all’estero.
Come Stuart Trusty aveva notato a Seattle, Jack era animato da una
profonda etica del lavoro. Per compilare le China Pages iniziò a raccogliere
informazioni sulle aziende e a tradurle in inglese per poi inviarle a VBN a
Seattle, corredate di foto, perché venissero pubblicate sul sito.
A marzo del 1995 Jack riunì ventiquattro suoi ex studenti della scuola
serale per presentare loro la sua idea e chiedere suggerimenti, oltre che per
proporre loro di diventare suoi clienti. «Invitai a casa mia le persone più
attive e capaci dei miei corsi. Parlai per circa due ore e loro mi ascoltarono,
visibilmente confusi […] Alla fine la cosa fu messa ai voti. Ventitré di loro
dissero che non poteva funzionare. Solo una persona – che oggi lavora alla
Agricultural Bank of China – mi disse: se ci vuoi provare provaci, ma se non
funziona torna prima possibile.»
Imperterrito, Jack decise di andare avanti. Lanciò China Pages con
l’amico He Yibing, che insegnava informatica nell’istituto da cui Jack si era
appena licenziato. I due si erano conosciuti l’anno prima, quando He Yibing
cercava qualcuno che lo aiutasse a fare pratica con l’inglese in previsione di
un viaggio di studio a Singapore. Lì, He Yibing aveva conosciuto Internet.
Quando Jack tornò da Seattle con il sogno di costruire una Internet company,
i due decisero di collaborare.

China Pages
L’azienda che fondarono, Hangzhou Haibo Network Consulting (HHNC), fu
una delle prime imprese cinesi a operare su Internet. Per finanziare la sua
startup Jack chiese prestiti ai parenti, tra cui la sorella, il cognato e i genitori.
La moglie di Jack, Cathy, fu la prima dipendente.
Ad aprile del 1995 Jack e He Yibing aprirono il primo ufficio di China
Pages, dodici metri quadri in un palazzo al 38 della via Wen’er. Per dare un
tono professionale alle comunicazioni aziendali stamparono varie versioni dei
loro biglietti da visita, ciascuna con un ruolo diverso, che avrebbero usato a
seconda delle persone a cui li avrebbero consegnati.1 Durante il giorno i due
soci andavano in cerca di clienti e di sera tenevano un corso introduttivo sulle
«autostrade dell’informazione.» Quel corso li aiutò a trovare i primi clienti di
China Pages.
Il 10 maggio 1995 registrarono il dominio chinapages.com negli Stati
Uniti. A luglio lanciarono ufficialmente il sito, che conteneva una mappa
dell’Asia incorniciata in rosso, con la Cina evidenziata e il titolo: «China
Business Pages: elenco telefonico online delle aziende cinesi.»
L’home page del sito annunciava che chinapages.com era «trasmesso
attraverso Seattle, USA, da Hangzhou, la Città del Giardino.» Tra le sezioni
del sito: «Che cosa c’è di nuovo!», «Che cosa c’è di interessante!», «Ricerca
in rete», «Elenco online» e un link a Hope, l’agenzia di traduzioni.
China Pages nacque come impresa a conduzione familiare, con il
contributo della moglie di Jack, Cathy, di sua sorella Zhang Jing e della
fidanzata di He Yibing.
Anche gli ex studenti di Jack rappresentavano un pool di talenti a
disposizione di China Pages. Jane Jiang (Jiang Fang), che qualche anno prima
era stata allieva di Jack all’istituto, si incaricò del customer service. Uno dei
primi visitatori del sito fu Cui Luhai, che dirigeva un’azienda di animazione
digitale. Oggi docente alla China Academy of Art, commenta: «Ricordo
ancora la scena che mi trovai davanti entrando nel suo ufficio […] Era uno
spazio quasi vuoto con una sola scrivania al centro. C’era un solo computer,
un pc fisso molto vecchio, circondato da varie persone.» Cui scoprì che Jack
aveva speso gran parte dei suoi averi per fondare l’azienda, e restava ben
poco per i computer e le altre attrezzature tecniche.
China Pages aveva un disperato bisogno di clienti. Cathy trovò uno dei
primi, che versò loro ottomila yuan (960 dollari). Un impulso positivo arrivò
a maggio, quando Hangzhou fu scelta come sede dei campionati mondiali di
motonautica di Formula 1: era la prima volta che quell’evento si teneva in
Cina. L’azienda di Jack vinse l’appalto per realizzare il sito ufficiale della
gara.
Per trovare nuovi clienti, come già aveva fatto con Hope Translation, Jack
chiese agli ex studenti di spargere la voce. Due di loro lo fecero.
He Xiangyang, un ex studente di Jack, lavorava nello studio legale
Qianjiang. Restio a menzionare l’azienda su Internet, diede invece a Jack il
suo numero di telefono personale. Con sua grande sorpresa, iniziò a ricevere
telefonate a ogni ora del giorno da potenziali clienti, molti dei quali
chiamavano dall’estero e dicevano di aver trovato il suo numero su China
Pages. L’avvocato, inizialmente scettico, iniziò a pensare che potesse esserci
un fondo di verità nella storia di Jack.
Un altro ex studente era Zhou Lan, che sarebbe diventato il segretario di
Jack. Zhou lavorava all’albergo Lakeview di Hangzhou, per il quale Jack
realizzò un sito che mostrava i nuovissimi televisori a colori a 14 pollici.
Qualche mese dopo, le Nazioni Unite organizzarono a Pechino la quarta
Conferenza mondiale sulle donne, alla quale parteciparono oltre
diciassettemila persone tra cui la first lady americana Hillary Clinton. Dopo
l’evento alcuni delegati si recarono a Hangzhou, alloggiarono all’albergo
Lakeview e dissero alla dirigenza che era l’unico hotel di Hangzhou che
fossero riusciti a trovare online. La primavera successiva, l’albergo ebbe più
clienti nei primi tre mesi che nell’intera annata precedente: un’altra
dimostrazione del potere di Internet.
Nonostante l’aiuto degli ex studenti di Jack, China Pages aveva bisogno
di altri clienti per sopravvivere. Ma non era facile dimostrarne l’utilità, per un
motivo molto semplice: all’epoca, a Hangzhou era impossibile navigare su
Internet.
Jack ideò quindi un approccio alternativo. Anzitutto sparse la voce tra
amici e contatti, spiegando in che modo Internet poteva essere utile per
incrementare il giro d’affari. Poi chiese alle persone interessate di inviargli
materiali di marketing o di presentare le loro aziende e prodotti. Jack e i suoi
colleghi tradussero i materiali e li inviarono per posta a VBN a Seattle. A
quel punto VBN progettò i siti web e li mise online, stampò le schermate dei
siti e le inviò per posta a Hangzhou. Infine, Jack portò le stampate ai suoi
amici e annunciò che i loro siti erano online, benché non potessero
constatarlo con i loro occhi. Ma senza la possibilità di accedere a Internet da
Hangzhou era arduo anche spiegare ai clienti cosa significasse «online». Non
era semplice chiedere a persone che non avevano mai sentito parlare di
Internet di sborsare in anticipo oltre 20.000 renminbi (2400 dollari) per
creare, progettare e ospitare su un server un sito che non potevano neanche
vedere. Jack temeva che quelle persone lo sospettassero di essere un
truffatore. «Mi considerarono un ciarlatano per almeno tre anni», ricorda.

La prima connessione
Finalmente, nell’autunno del 1995, Zhejiang Telecom iniziò a offrire il
collegamento a Internet ai cittadini di Hangzhou. A fine anno c’erano solo
204 utenti di Internet nell’intera provincia. Ma Jack era uno di loro, e
finalmente riuscì a caricare un sito web di fronte al suo primo cliente, l’hotel
Lakeview, sul computer con processore 486 che aveva riportato da Seattle in
valigia. «Ci vollero tre ore e mezza per scaricare la home page […] Ero così
emozionato.»
In seguito alle riforme di Deng Xiaoping, la Cina visse un’esplosione
imprenditoriale che iniziò a rimpiazzare Marx con il mercato, dando vita a
una nazione socialista «con caratteristiche cinesi.» Ma non per questo il
Partito Comunista intendeva abdicare a uno dei pilastri del suo dominio, il
controllo dell’informazione. La Cina ha una lunga tradizione di controllo
dell’informazione, in particolare sotto il Partito Comunista. È sorprendente,
quindi, il fatto stesso che il Paese si sia collegato a Internet: testimonia il
conflitto interno al governo tra il desiderio di mantenere il controllo e quello
di sfruttare le opportunità economiche.
Senza Internet, il sogno di Jack – collegare gli imprenditori con i mercati
globali – non si sarebbe mai materializzato.
Il 14 settembre 1987, quando Jack studiava ancora all’università, la prima
email dalla Cina fu inviata dal professor Qian Tianbai dell’Università di
Pechino all’Università di Karlsruhe, in quella che era allora la Germania
Ovest. L’email, in inglese e in tedesco, recitava: «Valicando la Grande
Muraglia possiamo raggiungere ogni angolo del mondo.» L’email fu inviata a
300 bit al secondo (bps), una connessione incredibilmente lenta rispetto alla
banda larga di oggi, che viaggia a decine o centinaia di milioni di bps.
Sarebbero passati altri sette anni prima che la Cina si collegasse alla rete
Internet vera e propria.
Mentre il governo cinese decideva il da farsi con Internet – affrontando
questioni legate all’ideologia, al controllo e alle infrastrutture – il governo
americano meditava sull’opportunità di portare online un Paese comunista.
Alla fine, ad assumere il comando non furono i politici ma gli scienziati, su
entrambe le sponde del Pacifico.2 Dopo anni di lavoro, lo Stanford Linear
Accelerator Center (SLAC) a Menlo Park, in California, si collegò all’Istituto
di fisica delle alte energie (IHEP) a Pechino, a 9300 chilometri di distanza. 3
Era solo una connessione tra due istituti, ma altri scienziati volevano
stabilire un contatto. Collegare SLAC-IHEP a Internet era una soluzione
molto più semplice che creare nuove connessioni all’IHEP da altri luoghi
degli Stati Uniti. Come ricorda il dottor Les Cottrell dello SLAC:
«Studiammo il problema e scoprimmo che il Dipartimento della difesa, il
Dipartimento dell’energia e il Dipartimento di Stato erano molto
preoccupati.» Ma alla fine il governo americano diede il permesso: «Ci
dissero: va bene, potete farlo, purché diciate a tutti coloro che sono su
Internet che sta arrivando la Cina.»
Lee non sapeva bene come «dirlo a tutti», ma alla fine si decise di inviare
un’email a una certa lista di distribuzione. Il 17 maggio 1994 fu stabilita la
prima vera connessione a Internet della Cina.
Benché fosse l’IHEP a ospitare le prime pagine web cinesi, ben presto la
rete non fu più un privilegio riservato ai fisici delle particelle.
Mentre veniva stabilita quella prima connessione, la Cina era sull’orlo di
una grande espansione delle sue infrastrutture di comunicazione, una politica
che chiamava «informatizzazione» (xinxinhua). I leader comunisti del Paese
avevano assistito con preoccupazione al collasso dell’Unione Sovietica nel
1990, attribuendolo in parte al profondo divario tecnologico con gli Stati
Uniti. All’inizio del 1994 la Cina aveva solo 27 milioni di linee telefoniche e
640.000 telefoni cellulari a fronte di una popolazione di 1,2 miliardi di
persone. I primi utenti dei cellulari erano funzionari del governo o i gehitu
che potevano permettersi di spendere duemila dollari per comprarne uno,
mentre gli altri si accontentavano dei cercapersone.
Il governo cinese decise di intervenire, perché riteneva che un progresso
nelle telecomunicazioni potesse essere un miglioramento tangibile da
apportare alla vita dei cittadini. Come re Enrico IV di Francia aveva
cementato la propria legittimità mettendo un pollo su ogni tavola la
domenica, con il xinxinhua il Partito Comunista cinese iniziò a offrire a
centinaia di milioni di persone le linee telefoniche fisse, poi i cellulari e in
seguito le connessioni a banda larga.
Nel 1993 il vicepremier Zhu Rongji lanciò il Progetto Ponte d’Oro per
creare una rete informatica che coprisse l’intero Paese. Nel 1994 il governo
pose fine al monopolio sulle telecomunicazioni detenuto dal Ministero delle
Poste. Per iniettare competitività nel mercato fu istituito un secondo
operatore, China Unicorn. Altri Paesi, a iniziare dal Regno Unito, avevano
impiegato capitali privati per finanziare i competitor intenzionati a sfidare gli
operatori statali. La Cina, ossessionata dal controllo delle informazioni, non
riusciva a contemplare quella possibilità – a vent’anni di distanza non ci è
ancora riuscita – e scelse invece di lanciare China Unicorn come nuova
impresa pubblica, finanziata da altri tre ministeri e da varie altre aziende
statali, di fatto opponendo a un dipartimento del governo una coalizione di
altri dipartimenti: un approccio tipicamente cinese alla deregulation delle
telecomunicazioni.
Spronato all’azione dalla perdita del suo monopolio, il nuovo ministro
delle Poste Wu Jichuan reagì con un massiccio investimento nelle
infrastrutture di telecomunicazioni.
Durante una visita a Pechino del Segretario al commercio americano Ron
Brown, poco dopo la creazione della prima connessione Internet SLAC-
IHEP, la Cina firmò un accordo con Sprint per creare un nuovo collegamento
tra Pechino, Shanghai e gli Stati Uniti. Fu l’inizio di «ChinaNet», il provider
che avrebbe permesso ai cittadini cinesi, compreso Jack, di collegarsi per la
prima volta a Internet.

I primi imprenditori cinesi della tecnologia


Quando si sparse la voce che la Cina stava finalmente investendo nelle
infrastrutture di telecomunicazione, salirono alla ribalta i primi imprenditori
del ramo tecnologico. Erano quasi tutti ingegneri che avevano studiato negli
Stati Uniti e che ora fondavano nuove imprese per contribuire alla
costruzione delle reti informatiche cinesi. Uno dei più noti era James Ding
(Ding Jian), laureato in informatica all’Università della California a Los
Angeles. Dopo la soppressione delle proteste filo democratiche in Piazza
Tienanmen nel giugno 1989, lui e molti altri cinesi che avevano studiato in
America appuntarono le loro speranze di un cambiamento politico radicale
sulla fede nel potere della tecnologia di trasformare la Cina. Nel 1993 James
Ding unì le forze con Edward Tian (Tian Suning), che era nato a Pechino e
aveva conseguito un dottorato al Texas Tech, per fondare AsiaInfo. Nel 1995
i due trasferirono l’azienda a Pechino per lavorare alla costruzione delle reti
per le telecom cinesi, tra cui la rete ChinaNet di China Telecom per l’accesso
a Internet tramite linea telefonica. Edward Tian sarebbe poi diventato una
figura di spicco nel mercato delle telecomunicazioni cinesi e lui e James Ding
sarebbero diventati investitori di alto profilo nel settore della tecnologia.
Nel 1995 nacque un’altra influente azienda cinese, la UTStarcom.
Fondata negli Stati Uniti da imprenditori cinesi e taiwanesi, l’azienda avviò
ben presto le attività in Cina, a Hangzhou. UTStarcom avrebbe contribuito
molto a promuovere la crescita del mercato telecom cinese, diffondendo un
sistema di connessione mobile low-cost, Little Smart (xiaolingtong). Il suo
successo aiutò Hangzhou ad affermarsi come polo tecnologico agli occhi
degli investitori.
Uno dei principali investitori in UTStarcom nel 1995 era il nuovo fondo
d’investimento giapponese SoftBank, un’azienda che cinque anni dopo
avrebbe iniziato a svolgere un ruolo di primo piano nel successo di Alibaba.
Fondata dal miliardario giapponese Masayoshi Son, SoftBank rilevò una
quota del 30 per cento in UTStarcom.
UTStarcom era nata dalla fusione di Unitech Industries e Starcom
Network Systems. Il fondatore taiwanese di Unitech, Lu Hongliang, aveva
studiato con Masayoshi Son all’Università della California a Berkeley. Il
cofondatore di Starcom, Chauncey Shey, assunse in seguito la direzione di
SoftBank China Venture Capital, che nel 2000 portò ad Alibaba
l’investimento di Masayoshi Son.
Alla fine del 1995, mentre le telecomunicazioni e Internet iniziavano a
prendere piede in Cina, Jack e i suoi clienti riuscirono finalmente a collegarsi
alla rete da Hangzhou, usando il servizio ChinaNet che era già stato attivato a
Pechino, Shanghai e Guangzhou. Poco dopo Jack tornò negli Stati Uniti con
Li Qi, il suo nuovo direttore tecnico, per visitare VBN a Seattle. Al ritorno in
Cina posero fine alla collaborazione con VBN, allestirono server autonomi e
crearono un nuovo sito per China Pages.
In questo modo riuscirono a ridurre i costi, ma far crescere il fatturato si
dimostrò difficile. Nel 1995 in Cina furono venduti solo un milione e mezzo
di personal computer, soprattutto a utenti aziendali e governativi. Con un
prezzo di circa 1800 dollari, un pc costava una fortuna per il cinese medio
dell’epoca. Il costo dell’installazione di una linea fissa con cui collegarsi in
rete, unito alla scarsa conoscenza della reale natura di Internet, rendeva
difficile per China Pages trovare clienti a sufficienza.
Jack moltiplicò gli sforzi come evangelizzatore di Internet. Reclutò
persino Bill Gates, per così dire. Alla fine del 1995 il libro di Gates The Road
Ahead divenne un bestseller negli Stati Uniti e poco dopo anche in Cina.
Benché il libro menzionasse solo di passaggio il World Wide Web,4 per
convincere i potenziali clienti dell’importanza di Internet Jack iniziò a citare
Gates: «Internet trasformerà ogni aspetto della vita degli esseri umani.» Un
messaggio di marketing utile per China Pages, ma in realtà Jack se l’era
inventato, come confessò poi. «Nel 1995 il mondo iniziava a conoscere Bill
Gates. Ma se io avessi detto: “Jack Ma sostiene che Internet cambierà ogni
aspetto della vita degli esseri umani”, chi ci avrebbe creduto? Comunque ero
convinto che Bill Gates l’avrebbe detto, prima o poi.» (Poco dopo l’uscita del
libro Gates capì l’importanza di Internet, orientò in quella direzione il lavoro
di Microsoft e pubblicò una seconda edizione del libro che trattava più
approfonditamente il tema.)
Nel frattempo a Pechino un’imprenditrice di nome Jasmine Zhang (Zhang
Shuxin) aveva iniziato ad attirare l’attenzione dei media dopo aver fondato,
nel maggio del 1995, una delle prime aziende private cinesi nel ramo dei
servizi Internet. L’impresa si chiamava Yinghaiwei, più o meno l’equivalente
fonetico dell’inglese «Information Highway», autostrada dell’informazione.
Altri imprenditori cinesi la citano come fonte di ispirazione per il proprio
lavoro. Uno di loro mi ha detto: «Un giorno stavo andando al lavoro in
macchina e ho visto uno dei loro cartelloni che diceva: “Quant’è lontana la
Cina dall’autostrada dell’informazione? Un chilometro e mezzo, sempre
dritto”», cioè le indicazioni stradali per raggiungere gli uffici dell’azienda.
Basandosi sulla tradizione delle BBS (bulletin board systems) interne,
popolari nei grandi atenei come le università di Tsinghua e Pechino, l’azienda
iniziò a servire alcune centinaia di utenti desiderosi di provare a usare
Internet, all’epoca dominato dai siti in lingua inglese, e di commentare in
cinese ciò che scoprivano.
A Hangzhou Jack si impegnò per promuovere la sua impresa, e ottenne
un successo quando il governo della provincia dello Zhejiang invitò China
Pages a costruire il suo sito. Il funzionario governativo che gli commissionò
il lavoro, Yang Jianxin, ricordò in seguito i suoi incontri con Jack: «La prima
volta che venne nel mio ufficio mi stupii che fosse così giovane, dato che
avevo sentito parlare di lui come di un guru di Internet.» Jack si lanciò con
entusiasmo in una spiegazione del funzionamento di Internet. «Parlò per due
ore di fila», ricorda Yang. Benché Yang gli avesse fatto presente che il
governo non era in grado di retribuirlo per il progetto, il cui impatto non era
quantificabile a priori, Jack e il suo team costruirono rapidamente il sito,
ospitato sul server di China Pages, in collaborazione con una sezione locale
di Zhejiang Telecom chiamata Hangzhou Dife Communications: una
partnership che ben presto si sarebbe spezzata. Il sito fu uno dei primi
progetti di un’iniziativa nazionale5 per portare online il governo cinese,
generando molta pubblicità per lo Zhejiang. Nel giro di qualche giorno Yang
ricevette email di congratulazioni dall’estero, anche da membri del Congresso
americano.6 Jack divenne famoso anche a livello locale: un quotidiano della
zona7 pubblicò un articolo sulla sua azienda e sulla sua avventura alla prima
visita negli Stati Uniti.
Ma la nuova fama creò anche qualche problema a Jack e al funzionario
che gli aveva commissionato il lavoro. Un collega di Yang lo denunciò al
governo provinciale accusandolo di «socializzare con un gehitu.» Tuonava il
collega: «La diffusione delle informazioni sul governo è una questione seria,
com’è possibile che vengano gestite e pubblicate tramite un gehitu?»
Dopo aver incontrato resistenza a livello locale, Jack iniziò a passare gran
parte del suo tempo a Pechino. Lì conobbe Jasmine Zhang di Yinghaiwei. I
due non andarono subito d’accordo, come raccontò in seguito Jack
ricordando la sua prima impressione: «Mi dissi che, se qualcuno doveva
fallire su Internet, sarebbe fallita prima lei di me. Ero già molto idealista, ma
avevo incontrato una persona ancora più idealista di me.»
Jack e il suo socio He Yibing si impegnarono per far conoscere China
Pages a Pechino. Jack aveva portato con sé alcuni articoli che aveva scritto a
proposito di Internet, e chiese agli amici di aiutarlo a farli pubblicare. A
Pechino, grazie all’intervento di un autista che lavorava per il giornale e che
gli fu presentato da un amico, conobbe Sun Yanjun, vicedirettore del China
Trade News. Sun restò impressionato da China Pages e invitò Jack a tenere
una lezione sul tema di Internet ai suoi colleghi. In seguito pubblicò un
articolo in prima pagina su Jack e la sua azienda.
Jack era bravo a procurarsi visibilità, ma China Pages non aveva ancora
molti clienti, e i suoi tentativi di crearsi nuovi contatti nel governo centrale
fallirono. A luglio 1996 la televisione pubblica cinese, China Central
Television, trasmise un documentario intitolato Ma Yun lo studioso, in cui
Jack veniva respinto da un funzionario governativo. Il documentario era
prodotto da Fan Xinman, la moglie del famoso regista Zhang Jizhong, che ha
adattato per lo schermo molti romanzi di Jin Yong. Anche Fan era originaria
di Hangzhou e aveva a cuore la causa di Jack. Mentre filmava le disavventure
di Jack, iniziò a temere che non sarebbe riuscito nel suo intento: «Non aveva
più la sua base a Hangzhou, e a Pechino non riusciva a farsi valere. Era
rimasto quasi senza soldi.» Nel documentario Jack guarda da una finestra le
strade di Pechino e fa una promessa a se stesso: «Tra qualche anno non mi
tratterete così: tra qualche anno saprete tutti cosa faccio. E non sarò più senza
un soldo a Pechino.»
Il problema di China Pages era che in realtà si trattava solo di un elenco
telefonico. Il sito era piuttosto rudimentale, una semplice lista dei prodotti nel
catalogo di un’azienda. I potenziali clienti non potevano fare acquisti online,
quindi China Pages non poteva chiedere tariffe troppo alte per i suoi servizi.8

Stritolato
China Pages stava finendo i soldi e rischiava di non poter più versare gli
stipendi. Il passaggio della forza vendita a una retribuzione basata su
commissioni alleviò temporaneamente la pressione, come anche un contratto
da diecimila yuan con un cliente del settore tessile. Ma China Pages era
vulnerabile. Tuttavia la situazione stava per peggiorare ancora. L’azienda che
aveva lavorato con China Pages per costruire il sito del governo dello
Zhejiang, Hangzhou Dife Communication, fece un’offerta per rilevare la
ditta. China Pages era una piccola impresa privata, ma Hangzhou Dife era
parte di una potente impresa pubblica, Zhejiang Telecom. A febbraio del
1996 le due avviarono una joint venture, DifeHope. Dife deteneva una quota
del 70 per cento e aveva investito 1,4 milioni di renminbi (170.000 dollari).
Jack sarebbe rimasto direttore generale e China Pages avrebbe conservato il
restante 30 per cento, che era valutato 600.000 renminbi (70.000 dollari).
All’epoca sembrò un risultato notevole per un’azienda minuscola e a corto di
fondi. Zhang Xinjian, all’epoca funzionario di Hangzhou Telecom, la definì
la prima transazione di fusioni e acquisizioni nella storia dell’Internet cinese;
i media locali9 parlarono in termini positivi della joint venture.
Ma la realtà era assai più preoccupante. Jack scoprì che, durante il lavoro
con China Pages sul sito per il governo dello Zhejiang, Dife aveva registrato
il dominio www.chinesepages.com, molto simile a www.chinapages.com, e
aveva costituito una nuova azienda chiamata «China Yellow Pages».
Tuttavia, poiché Dife era una consociata di una potente impresa pubblica,
Jack non poteva opporsi. Fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco e a
rilasciare interviste ai media locali elogiando la nuova joint venture: «La
creazione di Dife-Habo rafforzerà ulteriormente China Pages.» Concludeva
dicendo: «Abbiamo ogni ragione di credere che, con le corrette politiche da
parte del Partito e dello Stato, e con il prezioso sostegno di ogni settore della
società, China Pages potrà riscuotere un grande successo. Il treno ad alta
velocità dell’informatica cinese sfreccerà sempre più rapido!»
Anni dopo, quando Alibaba era già un’azienda di successo, Jack ha
potuto guardarsi indietro e commentare quell’episodio. China Pages era stata
stritolata dal suo nuovo partner, e benché Jack fosse il direttore generale il
suo potere era molto limitato. «La joint venture fu un disastro. Loro avevano
cinque voti nel Cda e noi due. A ogni riunione, qualsiasi idea io presentassi,
se uno solo di loro votava contro gli altri lo imitavano. In cinque o sei
riunioni non passò neppure una delle nostre idee.»
Jack aveva perso il controllo della sua azienda pionieristica: «All’epoca
mi definivo un cieco seduto in groppa a una tigre cieca. Senza sapere niente
di tecnologia o di computer, avevo fondato la mia prima azienda. E dopo anni
di sofferenza l’azienda è fallita.»
L’avventura di China Pages gli impartì alcune lezioni importanti e lo
rifornì di materiale utile per i suoi discorsi, per esempio: «È difficile per un
elefante schiacciare una formica, se la formica è brava a schivarlo»; oppure:
«Con le strategie giuste sopravvivrai sicuramente. Nella mia vita ho capito
una cosa: in futuro non dovrò essere nervoso se avrò davanti un competitor
formidabile.» In seguito si sarebbe ispirato a quell’esperienza al momento di
condurre Alibaba in battaglia contro eBay, nella lotta di Davide contro Golia
che l’avrebbe catapultato sotto i riflettori mondiali.
Jack afferma che China Pages ha influenzato anche il modo di strutturare
le imprese successive: «Da allora in poi sono sempre rimasto convinto di una
cosa: non avrei mai conservato la quota di controllo di un’azienda, perché
altrimenti avrei fatto soffrire coloro che controllavo. Avrei garantito ai livelli
inferiori tutta la comprensione e il sostegno possibile. In Alibaba non ho mai
detenuto la quota dominante. E ne vado fiero. Sono l’Ad dell’azienda perché
la guido con saggezza, coraggio e intraprendenza, non perché possiedo i
capitali.»
Nel novembre 1997 Jack convocò il team di China Pages a Tonglu e
annunciò di voler rinunciare alla sua quota di China Pages e trasferirsi a
Pechino, lasciando come Ad il socio He Yibing.
La citazione inventata da Jack, secondo cui Internet era destinata a
cambiare tutto, era la verità. Il problema era che Jack aveva lanciato l’azienda
troppo presto. Accantonò i suoi sogni e trovò lavoro a Pechino in una sezione
del Ministero del commercio estero e della cooperazione economica. Lì si
sentiva un pesce fuor d’acqua: contava i giorni che lo separavano dal
momento in cui avrebbe potuto tuffarsi di nuovo nel mare dell’imprenditoria
digitale cinese, un mare che stava per diventare molto più vasto.
La bolla e la nascita

Alibaba potrebbe benissimo chiamarsi «Mille


e un errore». Ma tre fattori hanno garantito la
nostra sopravvivenza: non avevamo soldi, non
avevamo tecnologia, non avevamo un piano.
–JACK MA

Al terzo tentativo, Jack fu più fortunato. Dopo le difficoltà incontrate con


Hope Translation e China Pages, e dopo un periodo spiacevole come
dipendente statale a Pechino, all’inizio del 1999 fondò Alibaba. Ma gli ci
vollero due anni per districarsi da China Pages e poi dall’impiego nel
governo. Nel frattempo altri imprenditori cinesi iniziavano ad affermarsi su
Internet. Senza un’azienda a suo nome, Jack correva il rischio di diventare
irrilevante.
Come Jack aveva dovuto cedere il controllo di China Pages al socio, che
era legato a un’azienda pubblica, così a Pechino Jasmine Zhang era stata
estromessa da Yinghaiwei dal principale azionista, che si diceva avesse
legami con il Ministero della sicurezza nazionale. Altri imprenditori,
soprattutto quelli che avevano fondato ISP (internet service providers) per
collegare alla rete gli utenti privati, si trovarono stritolati da grandi imprese
pubbliche come China Telecom. Yun Tao, dell’ISP pechinese Cenpok,
riassumeva così la situazione: «In Cina non è ancora possibile fare soldi su
Internet. […] Ve lo posso assicurare: sono anni che ci provo e mi sono
rovinato.» 1
Se le telecom statali difendevano ferocemente il loro territorio dalle
incursioni del settore privato, le media company pubbliche si dimostrarono
invece incapaci di competere con le aziende che creavano contenuti per
Internet. In Cina stava nascendo una nuova generazione di questi
imprenditori, che si ispiravano a Yahoo!, l’azienda più influente del boom
delle dot-com che stava prendendo slancio negli Stati Uniti.
Sbarcata in borsa nel 1996, nei primi tempi Yahoo! non attirò l’attenzione
degli investitori, che preferivano aziende già affermate e valutabili con unità
di misura tradizionali, come il rapporto prezzo-utili. Ma Yahoo! e le altre
aziende dot-com della sua generazione avevano bisogno di anni per iniziare a
generare profitti. In seguito Joe Nocera di Fortune avrebbe riassunto così il
problema della valutazione: «Non puoi avere un rapporto prezzo/utili se non
hai utili.» La situazione, tuttavia, iniziò a cambiare nell’estate del 1998. Le
azioni di Yahoo! guadagnarono oltre l’80 per cento in sole cinque settimane,
portando la valutazione dell’azienda a 9 miliardi di dollari e trasformando in
miliardari i suoi cofondatori Jerry Yang (Yang Zhiyuan in cinese) e David
Filo, laureati a Stanford. Le dot-com che erano spuntate come funghi nella
Silicon Valley si ritrovarono improvvisamente sotto i riflettori di Wall Street.
Jerry Yang, che era nato a Taiwan, divenne un eroe in Cina. I cinesi
trovavano affascinante che un immigrato fosse diventato miliardario negli
Stati Uniti prima di compiere trent’anni.
Si diffuse l’interesse per il modello di business di Yahoo!: il «portale»
con le sue directory e il motore di ricerca che permetteva di orientarsi tra i
sempre più numerosi contenuti online. Apparvero i primi portali cinesi, detti
men hu (letteralmente «soglia»). Ben presto si delineò un trio di imprenditori
«pionieri dei portali»: Wang Zhidong, Charles Zhang e William Ding. A
differenza di Jack, costoro avevano alle spalle curriculum formativi di tutto
rispetto e solide competenze tecniche. Le aziende da loro fondate erano Sina,
Sohu e NetEase.

I pionieri dei portali


Wang Zhidong, il fondatore di Sina, era già famoso per aver creato varie
applicazioni software in cinese mandarino – BD Win, Chinese Star e
RichWin – che aiutavano gli utenti cinesi a usare il sistema operativo
Microsoft Windows. Nato nel 1967 da genitori poveri ma istruiti nella
provincia meridionale del Guangdong, Wang eccelleva in matematica e
scienze. Fu ammesso all’Università di Pechino, dove studiò radioelettronica.
Nel 1997 fu il primo dei tre pionieri dei portali a raccogliere cospicui
investimenti esterni – quasi sette milioni di dollari – per la sua azienda, Stone
Rich Sight, grazie al successo riscosso come sviluppatore software.
Nell’estate del 1998, in occasione dei Mondiali di calcio in Francia, lanciò un
sito dedicato ai risultati delle partite. Il servizio attirò molto traffico e
l’azienda spostò la propria focalizzazione dal software verso Internet,
fondendosi in seguito con un’altra impresa e prendendo il nome di Sina.
Charles Zhang (Zhang Chaoyang), il fondatore di Sohu, era nato a Xi’an.
Più giovane di Jack di un solo mese, fu ammesso ai corsi di fisica
dell’università di Tsinghua e poi approfondì gli studi al Massachusetts
Institute of Technology (MIT). Dopo aver conseguito un dottorato in fisica si
trattenne in America per gli studi post-dottorali e lavorò per promuovere le
relazioni USA-Cina attraverso il programma Industrial Liaison del MIT.
Ispirandosi al successo di Netscape e Yahoo!, Charles decise di lanciare una
internet company. Il suo progetto originario era di fondarla negli Stati Uniti,
ma essendo immigrato da poco si sentiva escluso dalla cultura americana e
non riusciva ad attrarre l’interesse dei media, al quale teneva molto, a
differenza degli altri due fondatori di portali. «Mi consideravo un outsider.
Per esempio, qui [in Cina] mi chiedono interviste, ma negli Stati Uniti non
sarei mai riuscito a partecipare a un dibattito in televisione. Quindi sono
tornato.»
Charles rientrò a Pechino nel 1996. Fondò l’azienda con
l’incoraggiamento e il sostegno economico di due docenti del MIT, tra cui Ed
Roberts, che all’epoca dell’IPO di Sohu, quattro anni dopo, deteneva una
quota del 5 per cento. Fra i tre pionieri Charles era l’unica «tartaruga di
mare» (haigui), cioè era l’unico ad aver studiato all’estero per poi tornare in
patria. La conoscenza diretta del settore tecnologico americano rappresentò
per lui un vantaggio. A febbraio del 1998 fu il primo dei tre a lanciare un
motore di ricerca in lingua cinese e un sito direttamente ispirato a Yahoo!,
persino nel nome: Sohoo.com, poi modificato in Sohu.com.
William Ding (Ding Lei) era nato a Ningbo sette anni dopo Jack. Aveva
studiato informatica in un politecnico di Chengdu. Dopo essere tornato a
Ningbo per lavorare nella sede locale di China Telecom si trasferì a
Guangzhou, nella Cina meridionale, per lavorare in Sybase, società
americana attiva nel settore delle banche dati, e successivamente in
un’azienda locale di tecnologia. Nel 1997 fondò la sua azienda, il primo
servizio email bilingue e gratuito in Cina. L’azienda iniziò ben presto a
guadagnare concedendo in licenza il software di posta elettronica ad altre
imprese. Nell’estate del 1998 William smise di sviluppare software e passò a
occuparsi di Internet, lanciando NetEase.com. Il sito guadagnò subito
popolarità nella Cina meridionale e di lì a poco nel resto del Paese; alla fine
del 1999 contava 1,4 milioni di utenti.
Mentre Wang Zhidong, Charles e William cavalcavano la nuova e
promettente onda delle dot-com cinesi, Jack languiva sulla polverosa spiaggia
del dot-gov. Era il direttore generale di Infoshare Technology, un’azienda
fondata dal China International Electronic Commerce Center (CIECC),2 che a
sua volta afferiva a un dipartimento del Ministero del commercio
(MOFTEC). Al CIECC Jack diresse la costruzione del sito ufficiale del
ministero, www.moftec.gov.cn, lanciato nel marzo 1998. Poi chiese ad alcuni
colleghi di China Pages di raggiungerlo a Pechino e sviluppò un altro sito per
il MOFTEC, www.chinamarket.com.cn, inaugurato il primo luglio 1998.
Il sito di China Market, che elencava oltre ottomila prodotti divisi in sei
categorie, invitava i visitatori a far incontrare offerta e domanda e ad avviare
«contrattazioni commerciali di natura riservata in “Business Chat Room”
criptate.» Il nuovo sito attrasse gli elogi di vari funzionari governativi, tra cui
il ministro del MOFTEC Shi Guangsheng, che lo definì «un passo importante
per l’ingresso della Cina nell’era dell’ecommerce.» L’agenzia di stampa
ufficiale del governo cinese, Xinhua, elogiò il sito per «l’attendibilità delle
informazioni e il buon funzionamento»: tutti i visitatori erano vagliati dal
governo per assicurarsi che fossero vere aziende.
In realtà, tuttavia, la complessa procedura burocratica richiesta per
registrarsi al sito lo rendeva poco appetibile alle aziende, soprattutto perché la
piattaforma non consentiva di inoltrare ordini o pagamenti. In altri termini,
era solo una versione più estesa di China Pages finanziata dal governo. Jack
credeva fermamente nell’avvento dell’era dell’ecommerce, ma sapeva anche
che il futuro apparteneva agli imprenditori. In seguito commentò: «Era troppo
faticoso occuparsi di e-commerce da dentro il governo. […] Lo stimolo all’e-
commerce dovrebbe partire dalle imprese private.» Al CIECC, Jack era
vincolato dalla complessa gerarchia di funzionari che lo sovrastavano, tra cui
Xing Wei, la sua indomabile superiore diretta.3
La frustrazione di Jack non faceva che aumentare di fronte ai successi
riscossi dai tre pionieri dei portali: «Ero nel ramo di Internet da cinque anni,
ma era un contesto in rapidissima evoluzione. Se fossi rimasto a Pechino non
sarei riuscito a combinare nulla di concreto; come funzionario pubblico non
avrei potuto realizzare i miei sogni.»
Ma l’impiego governativo finì per offrire a Jack un altro colpo di fortuna:
gli fece conoscere Jerry Yang, il cofondatore di Yahoo. Negli anni successivi
il destino di Jack Ma e quello di Jerry Yang si sarebbero intrecciati ancora
più strettamente.
Poiché era il direttore generale di Infoshare, e poiché parlava bene
l’inglese, a Jack fu chiesto di ricevere Jerry Yang e i suoi colleghi, che verso
la fine del 1997 andarono a Pechino in cerca di opportunità commerciali per
Yahoo!. L’esperienza accumulata da Jack come guida turistica autodidatta a
Hangzhou gli tornò utile, perché Jerry viaggiava con il fratello minore Ken e
voleva visitare alcune attrazioni turistiche. Jack gli presentò sua moglie Cathy
e i due accompagnarono Jerry, suo fratello e la vicepresidente di Yahoo!
Heather Killen a visitare il parco Beihai, di fronte alla Città Proibita, e la
Grande Muraglia. Qui scattarono una foto che avrebbe cementato la fama di
Jack differenziandolo dagli altri imprenditori e dimostrando che aveva
conosciuto di persona il re dell’Internet mondiale.
Jack in veste di guida turistica per Jerry alla Grande Muraglia. Heather Killen

Durante la visita Jack portò Jerry e Heather a incontrare il viceministro


del MOFTEC. Il carisma di Jack funzionò: a ottobre 1998 Infoshare fu
nominata agente di vendita esclusivo per Yahoo! in Cina.
Ma Jack stava già studiando un modo per affrancarsi dalle catene del
governo. Organizzò una visita alla Grande Muraglia con alcuni colleghi di
Infoshare: una gita che è rimasta negli annali dell’azienda come atto di
nascita informale di Alibaba. Ma Jack temeva le possibili conseguenze, per sé
e per l’azienda che voleva fondare, se avesse lasciato l’impiego nel governo.
Un amico gli consigliò di fingersi malato, un espediente usato in Cina per
sottrarsi a situazioni del genere.

Jack; la sua superiore, Xing Wei; Jerry Yang e Heather Killen davanti a una foto dell’allora presidente
Jiang Zemin. Heather Killen

Effettivamente qualche mese dopo gli venne l’appendicite, ma a quel


punto era già tornato a Hangzhou e la sua nuova azienda era già nata.

Il significato di un nome
Jack decise di chiamare l’azienda Alibaba, un nome insolito per un’impresa
cinese.
Gli è stato chiesto molte volte perché avesse scelto un nome arabo per la
sua azienda, anziché una parola legata alla sua passione per le arti marziali o
il folclore cinese. Ha risposto che si sentiva attratto dall’idea dell’«Apriti
Sesamo», dal momento che puntava ad aprirsi un varco per raggiungere le
piccole e medie aziende alle quali si rivolgeva. Cercava inoltre un nome che
fosse comprensibile e facile da pronunciare in molte lingue. Gli piaceva
anche il fatto che cominciasse con la A e fosse quindi all’inizio dell’alfabeto:
«Di qualunque argomento si parli, Alibaba è sempre al primo posto.»

Jack e alcuni dei cofondatori di Alibaba alla Grande Muraglia alla fine del 1998. L’azienda sarebbe
stata fondata di lì a qualche mese. Alibaba

All’epoca in Cina c’era una canzone molto amata che si intitolava


Alibaba è un ragazzo felice, ma Jack afferma che l’idea gli venne durante un
viaggio a San Francisco:4 «Stavo pranzando al ristorante, e quando una
cameriera è venuta al mio tavolo le ho chiesto: “Se ti dico Ali Babà, mi sai
dire cosa significa?” Ha risposto di sì. “Cos’è, allora?” le ho domandato. E
lei: “Apriti Sesamo.” Sono uscito dal ristorante e ho fatto la stessa domanda a
una ventina di persone. Tutte conoscevano Alì Babà, i quaranta ladroni e
“Apriti Sesamo.” Ho capito che era il nome giusto.»
Ma c’era un problema. Il dominio alibaba.com era già stato registrato da
un canadese, che chiedeva quattromila dollari per cederlo: una transazione
potenzialmente rischiosa se l’uomo non avesse rispettato la sua parte
dell’accordo. Quindi Jack lanciò il sito con i domini alibabaonline.com e
alibaba-online.com.5 La cofondatrice di Alibaba Lucy Peng ricorda che i
primi membri del team dicevano scherzosamente di lavorare per «AOL», che
non stava per «America Online» ma per «Alibaba On Line.»
Di lì a poco Jack decise di comprare il dominio alibaba.com.6 Il
vicepresidente esecutivo di Alibaba, Joe Tsai, mi ha raccontato in seguito che
Jack era nervoso all’idea di inviare il denaro al proprietario canadese senza
avere la certezza di entrare in possesso del dominio (un problema poi risolto
dalla funzione di intermediario di garanzia svolta da Alipay): «Non aveva
tutti quei soldi, perciò dovette chiederli in giro. Ma Jack è un eccellente uomo
d’affari, ha un istinto infallibile e sa di chi può fidarsi. Tanti altri imprenditori
non si fidano di nessuno.» Jack inviò il bonifico e, poiché il venditore si
dimostrò fedele allo stereotipo sull’onestà dei canadesi, ottenne il controllo di
alibaba.com.
Il fatto che il nome di Alibaba fosse comprensibile in tutto il mondo ha
consentito di risparmiare molto sulle spese di marketing e ha fornito una serie
di immagini già pronte, come i quaranta ladroni e le mille e una notte, che
ancora oggi Jack inserisce spesso nei suoi discorsi.

I Giardini sul lago


Alibaba fu fondata a Hangzhou da un gruppo di amici, sostenitori e colleghi
di Jack, alcuni dei quali avevano già lavorato con lui in China Pages7 e in
Infoshare.
Il 21 febbraio 1999 Jack convocò una riunione nel suo appartamento ai
Giardini sul lago (Hupan Huayuan) a Hangzhou. Fiducioso nelle sue
possibilità di successo, chiese che l’incontro venisse filmato. Tutti i convitati
presero posto intorno a lui in un semicerchio, alcuni con il cappotto per
proteggersi dal freddo umido dell’appartamento, e Jack chiese loro di
meditare su una domanda: «Nei prossimi cinque o dieci anni, cosa diventerà
Alibaba?» Rispose lui stesso: «I nostri competitor non si trovano in Cina, ma
nella Silicon Valley. […] Dobbiamo presentare Alibaba come un sito
internazionale.»
La realtà era che Jack, entrato tardi nel settore dei portali ormai dominato
da Sina, Sohu e NetEase, doveva ritagliarsi una nicchia nel mercato
dell’Internet cinese. I portali puntavano a conquistare i sempre più numerosi
utenti privati che arrivavano online, ma Jack intendeva attenersi a ciò che
conosceva meglio: le piccole aziende. A differenza dei siti americani
business-to-business, che erano focalizzati sulle grandi aziende, Jack decise
di puntare ai «pesci piccoli». Trovò ispirazione nel suo film preferito, Forrest
Gump, in cui il protagonista fa fortuna pescando gamberi dopo una tempesta:
«I siti B2B [business-to-business] americani sono balene. Ma l’85 per cento
dei pesci che vivono in mare sono grandi come gamberetti. Non conosco
nessuno che guadagni con le balene, ma ho visto molte persone guadagnare
con i gamberetti.»

Jack con gli altri cofondatori e sostenitori di Alibaba nell’appartamento ai Giardini sul lago di
Hangzhou, 30 ottobre 1999. Alibaba

Alla nascita di Alibaba, nei primi mesi del 1999, la Cina aveva solo due
milioni di utenti Internet. Ma sarebbero raddoppiati in due mesi, e poi
raddoppiati ancora, arrivando a nove milioni entro la fine dell’anno.
Nell’estate del 2000 erano online 17 milioni di cinesi.
I personal computer costavano ancora molto, 1500 dollari, ma i prezzi
iniziarono a scendere quando nuovi competitor, come Dell, iniziarono a
insidiare le quote di mercato delle aziende locali come Founder, Great Wall e
Legend (poi rinominata Lenovo). Le vendite di nuovi pc, ancora destinati
perlopiù ad aziende o uffici del governo, raggiunsero nel 1999 i cinque
milioni di unità.
La politica dell’«informatizzazione» varata dal governo stava facendo
calare i costi di Internet. Potevano ancora volerci mesi per ottenere una
connessione dalla compagnia telefonica locale, e il costo poteva arrivare a
600 dollari. Ma nel marzo 1999 il governo eliminò la tariffa di installazione
per le seconde linee telefoniche e rese più economica anche la navigazione,
da un prezzo medio di 70 dollari al mese nel 1997 a soli 9 dollari a fine
1999.8
Milioni di persone giovani e istruite si collegavano in rete nelle università
e negli uffici, o nelle migliaia di Internet café che spuntavano come funghi in
tutto il Paese. Il modello di business di Yahoo! negli Stati Uniti sfruttava il
mercato in crescita della pubblicità online. Anche i tre portali cinesi
progettavano di conquistare una fetta della torta sempre più grande della
pubblicità online,9 che dai 3 milioni dell’anno precedente raggiunse i 12
milioni di dollari nel 1999. Ma anche negli Stati Uniti Yahoo! era in perdita,
e in Cina la grande maggioranza degli utenti Internet aveva un reddito
insufficiente per risultare appetibile agli inserzionisti. I potenziali guadagni
per i portali erano di gran lunga inferiori alle spese. Eppure, nella logica
inversa dell’incipiente boom delle dot-com, le perdite erano ritenute non solo
accettabili ma auspicabili: maggiori erano le perdite, più un’azienda era
considerata ambiziosa. Le società di venture capital erano pronte a colmare le
carenze di fondi.
Prima ancora che Alibaba muovesse i primi passi, Sina, Sohu e NetEase
avevano già ottenuto il sostegno del venture capital e si contendevano
aggressivamente i nuovi utenti e gli investimenti.
Sina10 nacque nel dicembre 1998 dalla fusione dell’azienda SRS di Wang
Zhidong con l’americana Sinanet, fondata all’università di Stanford da tre
studenti nati a Taiwan.11 Daniel Mao, uno dei primi investitori in SRS al
Walden International Investment Group, contribuì a mediare l’accordo.
Sina.com fu lanciato ad aprile del 1999 e nel mese successivo raccolse 25
milioni in venture capital da investitori come Goldman Sachs, Walden e la
giapponese SoftBank.
Sohu raccolse 10 milioni di dollari nel 1998 e altri finanziamenti12 l’anno
successivo grazie all’aumento del traffico sul suo motore di ricerca in lingua
cinese. Il fondatore Charles Zhang era ormai una celebrità in Cina, e reclutò
nella dirigenza Viktor Koo, che aveva studiato a Stanford prima di tornare in
patria (e che in seguito lasciò l’azienda per fondare Youku, la risposta cinese
a YouTube). Cercò anche, invano, di assumere Jack come direttore operativo.
NetEase fu l’ultimo dei tre portali a raccogliere finanziamenti in venture
capital, per il semplice motivo che il fondatore William Ding non ne aveva
grande bisogno: poteva contare sugli introiti delle licenze del software di
webmail che aveva sviluppato personalmente. Quando la sua azienda si
quotò, nel 2000, Ding deteneva di gran lunga la quota di proprietà più elevata
tra i fondatori di portali, il 58,5 per cento.
Osservando tutto ciò da bordo campo, Jack capì che doveva lottare per
attirare l’attenzione degli investitori in venture capital e per colmare il
distacco dai pionieri dei portali. Perché Alibaba potesse crescere, Jack doveva
alimentare una forte etica del lavoro e praticare una rottura netta con la
cultura burocratica che lui e alcuni colleghi si erano lasciati alle spalle a
Pechino. Esortò il gruppo, riunito nel suo appartamento, a «lavorare
instancabilmente, come si fa nella Silicon Valley. […] Se andiamo al lavoro
alle otto del mattino e stacchiamo alle cinque del pomeriggio, la nostra non è
un’azienda di tecnologia e non avrà mai successo.»
A Jack piace mettere su un piedistallo le aziende della Silicon Valley, ma
gli piace anche motivare il suo team promettendo che Alibaba riuscirà a
scalzarle dal piedistallo: «Gli americani sono bravi nell’hardware e nei
sistemi, ma nel software e nella gestione delle informazioni i cervelli cinesi
non hanno niente da invidiare a quelli americani. […] Sono convinto che uno
di noi possa valere come dieci di loro.»
Alibaba nacque in un periodo in cui le valutazioni gonfiate delle dotcom
inducevano anche i suoi più accesi sostenitori a temere che la bolla fosse in
procinto di scoppiare. Nel suo appartamento, Jack cercò di rassicurarli:
«Internet ha raggiunto il picco massimo? È troppo tardi per lanciarci
all’inseguimento? […] Non preoccupatevi. Non penso che il sogno di Internet
andrà in fumo. Dovremo faticare moltissimo nei prossimi trecinque anni.
Solo così potremo avere successo in futuro.» Per chiamare a raccolta le
truppe, fissò l’obiettivo di un’IPO entro tre anni. «Quando saremo un’azienda
quotata, ciascuno di noi guadagnerà […] non questo appartamento, ma
cinquanta appartamenti come questo. Stiamo per sferrare il nostro attacco. Lo
spirito di squadra è molto, molto importante. Anche se venissimo sconfitti ci
resterebbe comunque il team. Avremmo l’un l’altro e ci sosterremmo a
vicenda. Di cosa potete mai aver paura?»
Jack e Cathy erano gli azionisti principali, ma Alibaba fu fondata da un
totale di diciotto persone, sei delle quali donne. Nessuno di loro proveniva da
un ambiente privilegiato, aveva studiato in atenei prestigiosi13 o aveva
lavorato in aziende famose. Era un team di «gente comune», tenuto insieme
dall’energia di Jack e dai suoi metodi di management anticonvenzionali. Per
costruire spirito di squadra Jack fece appello al suo amore per i romanzi di
Jin Yong e affibbiò un soprannome a ciascun membro del team. Il suo era
Feng Qinyang. Nel romanzo Lo spadaccino errante di Jin Yong,14 Feng è un
solitario maestro di spada e kung fu che prepara i giovani apprendisti a
diventare eroi. Come ex insegnante, Jack si identificava con Feng e il suo
carattere «imprevedibile ma premuroso.»15

Joe Tsai arriva a Hangzhou


Nel maggio 1999 Jack conobbe Joe Tsai,16 un investitore nato a Taiwan e che
all’epoca viveva a Hong Kong. Joe sarebbe diventato il braccio destro di
Jack: un ruolo che svolge ancora oggi, dopo più di diciassette anni. La loro
partnership è una delle più durature e proficue nella storia del business
cinese.
Jack si vanta di essere «made in China al cento per cento.» Ma a partire
da Joe Tsai varie persone nate a Taiwan hanno offerto un contributo
importante al successo di Alibaba, come è accaduto per molte aziende di
tecnologia nella Silicon Valley.
Ho conosciuto Joe all’inizio della storia di Alibaba, nel 1999, poco dopo
il suo arrivo in azienda. Nella primavera del 2015 sono tornato a Hangzhou
per capire cosa avesse spinto Joe a scommettere su Jack. I due sono nati nello
stesso anno, ma non potrebbero essere più diversi. Joe proveniva da una
famiglia agiata17 e aveva un curriculum accademico e professionale di tutto
rispetto.
A tredici anni, quando non parlava quasi una parola d’inglese, Joe venne
iscritto alla Lawrenceville School, un collegio d’élite nel New Jersey.18 Lì si
distinse per l’eccellenza negli studi e nel lacrosse, al quale attribuisce il
merito di averlo aiutato ad assimilarsi nella cultura americana e a capire
l’importanza del lavoro di squadra: «Quello sport mi ha insegnato a
collaborare e a perseverare. Non sono mai diventato un campione, ma far
parte di quel team è stata l’esperienza più bella della mia vita.»
Joe fu ammesso allo Yale College, dove seguì i corsi di economia e studi
asiatici, e poi si iscrisse alla Yale Law School. Dopo la laurea avviò la
carriera a New York nel prestigioso studio Sullivan & Cromwell e lavorò per
un breve periodo in una società che si occupava di management buyout. Ma
voleva fare esperienza di investimenti in Asia, e si trasferì a Hong Kong per
lavorare in Investor AB, il ramo investimenti della potente famiglia svedese
dei Wallenberg. Quando iniziò a gonfiarsi la bolla delle dot-com, Joe si
guardò intorno in cerca di imprenditori con cui collaborare.
Ho chiesto a Joe come ha conosciuto Jack: «Volevo essere coinvolto più
da vicino nelle startup di tecnologia. Poiché mi occupavo di investimenti per
Investor e sedevo nei Cda delle aziende, percepivo sempre una certa distanza
tra il consiglio di amministrazione e la dirigenza. Mi sono detto: voglio
partecipare alle attività.»
Joe sentì parlare di Jack dall’amico di famiglia Jerry Wu, un uomo
d’affari di Taiwan che dirigeva una startup di comunicazioni. Quando Jerry
tornò da Hangzhou contattò Joe e gli disse: «Devi andare a conoscere Jack
Ma a Hangzhou. È un po’ matto. Ha una visione molto ambiziosa.»
Wu chiese aiuto a Joe, sperando che Alibaba potesse rilevare la sua
startup in difficoltà.
Joe accettò e prese un aereo da Hong Kong a Hangzhou per incontrare
Jack nel suo appartamento ai Giardini sul lago. «Ricordo ancora la prima
volta che ho visto l’appartamento. Mi ha ricordato la casa di mia nonna a
Taipei. Quando entravi nel palazzo c’era una scala vecchia e stretta. Davanti
alla porta dell’appartamento c’erano dieci paia di scarpe. Quel posto puzzava.
Ero in giacca e cravatta. Era maggio, l’aria era opprimente.»
Joe ricorda che Jack gli parlò del suo ambizioso obiettivo per Alibaba:
aiutare milioni di fabbriche cinesi a trovare clienti all’estero. I titolari delle
fabbriche non avevano le capacità per promuovere i loro prodotti e, spiegò
Jack, non avevano altra scelta che venderli attraverso imprese commerciali
statali. Jack proponeva di eliminare l’intermediario, che è sempre un’idea
interessante.
Joe rimase affascinato da Jack, che parlava «seduto al contrario su una
sedia, e gesticolava come un personaggio in un romanzo di kung fu.» Lo
ascoltò parlare con altrettanta scioltezza in cinese e in inglese e restò
impressionato. Questo tizio è interessante, si disse.
L’accento con cui Jack parlava cinese ricordò a Joe suo nonno.19 Joe
aveva avviato la conversazione in cinese mandarino, scusandosi di non
parlare il dialetto di Hangzhou. Pensando che quell’informazione potesse
aiutarlo a stabilire un rapporto, aveva aggiunto: «Però conosco il dialetto di
Shanghai. I miei genitori sono cresciuti lì.» Ripensando a quel primo
incontro, Joe scoppia a ridere. «Non mi ero reso conto che gli abitanti di
Hangzhou odiavano quelli di Shanghai. Li trovano troppo astuti, troppo
venali, troppo attaccati ai soldi. In seguito Jack mi ha detto che ci sono tre
categorie di persone di cui non si fida: quelli di Shanghai, quelli di Taiwan e
quelli di Hong Kong.» Eppure Jack si trovò subito in sintonia con Joe, un
taiwanese che parlava il dialetto di Shanghai e viveva a Hong Kong. «Era
destino che finissimo per collaborare.»
Joe tornò a Hong Kong e condivise con la moglie Clara il suo entusiasmo
su Jack e Alibaba. Ma rinunciare a un impiego ben retribuito a Hong Kong
per entrare in una startup di Hangzhou era un grosso rischio, soprattutto dal
momento che Clara20 aspettava il loro primo figlio. Quindi Clara si offrì di
accompagnare Joe a Hangzhou.
Jack ricorda la loro visita. Clara gli disse che voleva vedere Alibaba
perché a suo marito piaceva moltissimo: «Se sono d’accordo con lui, vuol
dire che sono pazza. Ma se non sono d’accordo, mi odierà per sempre.»
Anche Joe stava riflettendo attentamente per decidere se buttarsi in
quell’avventura. «Sono tornato da Jack una seconda volta perché avevo visto
qualcosa in lui. Non solo la sua grande idea, la scintilla che aveva negli occhi.
Ma anche una squadra di seguaci fedeli che credevano nella sua visione. Mi
sono detto: se devo unirmi a un gruppo di persone, voglio unirmi a quello.
C’è un leader indiscusso, la colla che tiene insieme il tutto. Provavo una
spiccata affinità per Jack. Insomma, chi non la proverebbe?»
Jack gli sembrava molto diverso da altri imprenditori che aveva
conosciuto o di cui aveva sentito parlare. Jack gli aveva detto che per lui «gli
amici sono importanti quanto la famiglia. La sua definizione di amici
comprende i colleghi. Non possiamo paragonarlo a Steve Jobs, per esempio:
sono persone profondamente diverse.»
A Joe piaceva il fatto che Jack fosse sincero sui suoi difetti. «Penso che il
mio arrivo sulla scena rappresentasse una novità. Ero quello che si intendeva
di finanza. Avevo fatto l’avvocato. Potevo aiutarli a costituire un’azienda e a
trovare capitali. Quindi fra noi si è creato un legame fin dal primo giorno.»
Quando ho conosciuto Joe l’ho trovato molto calmo e riservato, per molti
versi l’esatto opposto dell’esuberanza e dell’imprevedibilità di Jack.
Continuando a lavorare con loro ho scoperto che la professionalità di Joe, che
si esprime per esempio nella cura riservata alla formulazione dei termini di un
contratto, erigeva la struttura con cui Alibaba poteva tenere a freno l’energia
e l’entusiasmo di Jack. Un altro fondatore di una internet company cinese con
cui ho parlato si è detto d’accordo: «Soprattutto nei primi tempi, Joe teneva
Jack sotto controllo.»
Joe è modesto nel descrivere il suo ruolo in azienda. Quando gli ho
chiesto se si considerasse il «consigliere» di Jack mi ha detto che preferisce
ritenersi il suo interprete: «Jack è molto intelligente, ma a volte le sue parole
vengono fraintese, quindi intervengo io per chiarire le cose.»
Jack ha solo parole di elogio per Joe e per il rischio che ha corso
scegliendo di entrare in Alibaba nel 1999. Qualche anno fa, in un discorso a
Taipei, ha detto: «Quante persone rinuncerebbero a un impiego ben retribuito
come ha fatto lui? Questo è coraggio. Questa è azione. Questo è il vero
sogno.»
Nel 1999 Joe ha fatto una scommessa, ma non alla cieca. È riuscito ad
aumentare le probabilità di puntare su un cavallo vincente preparando
l’azienda a raccogliere capitali, e poi incaricandosi personalmente di trovare
il primo investitore.
Disse al suo superiore in Investor AB, dove per il momento avrebbe
mantenuto l’impiego,21 che nel tempo libero avrebbe aiutato un imprenditore
che aveva conosciuto in Cina.
Si mise al lavoro sui documenti di Alibaba. Come accade in molte
startup, le carte erano piuttosto in disordine. «Quando sono arrivato a
Hangzhou Jack non aveva neppure un’azienda. Non aveva registrato nulla.
C’era solo un sito Internet.»
Il primo compito di Joe era individuare gli azionisti di Alibaba: «L’ho
chiamato e gli ho detto: “Jack, voglio registrare l’azienda. Chi sono gli
azionisti?” Mi ha faxato una lista di nomi. Sono rimasto a bocca aperta,
perché tutti i ragazzi che avevo visto nell’appartamento erano sulla lista in
qualità di azionisti. Quindi, fin dal primo giorno, Jack ha ceduto una parte
rilevante del capitale.» Ma scorrendo i diciotto nomi sulla lista22 si rese conto
che «ciascuno di loro era un elemento cruciale del team, dai programmatori
agli addetti del customer service.» Ride ricordando il soprannome «Patata»,
che la cofondatrice Lucy Peng usava per rispondere alle email dei clienti
occidentali di Alibaba.
Poi cercò di capire chi fossero i clienti di Alibaba. Chiese al team quanti
ce ne fossero. Ventottomila, gli risposero. «Accidenti, sono tanti!» esclamò
Joe. Ma tutte le informazioni sui clienti venivano schedate manualmente, su
fogli di carta infilati in un libro.
Alibaba non generava un fatturato e aveva urgente bisogno di capitali.
«Ovviamente all’epoca in Cina non c’era disponibilità di capitali. Erano tutti
in America.» Ispirandosi all’esempio di Sina, Sohu e NetEase, Joe costituì
una società offshore,23 staccando personalmente un assegno da ventimila
dollari a uno studio legale, Fenwick & West, per predisporre la struttura
aziendale alla ricezione di futuri investimenti in venture capital. Ora restava
solo da trovare gli investitori. Joe andò con Jack a San Francisco.24
Scesero in un alberghetto economico dalle parti di Union Square e la
mattina dopo andarono a Palo Alto per incontrare alcuni investitori in venture
capital. Gli incontri non andarono bene. Joe ricorda che lo tempestarono di
domande: «Cosa cercate di fare? Qual è il vostro modello di business?» Ma
non avevano neppure preparato una proposta di investimento. «Avevo
provato a buttare giù qualcosa, una specie di business plan.» Ma Jack gli
aveva detto che non voleva un business plan: «Voleva solo incontrare quelle
persone e parlare loro dell’azienda.»
Il viaggio fu un fallimento, ma ci fu un incontro promettente con un
investitore di Singapore, Thomas Ng di Venture TDF. Gli investitori non
erano interessati all’e-commerce B2B, che sembrava noioso rispetto
all’entusiasmo che circondava Yahoo!, e che Sina, Sohu e NetEase avevano
saputo sfruttare. C’erano un paio di esempi di aziende B2B che avevano
raccolto investimenti in venture – Ariba.com e Commerce One – ma erano
aziende statunitensi e servivano un mercato molto più maturo rispetto ad
Alibaba.
Altri soggetti emergenti nell’e-commerce cinese iniziavano a ottenere
qualche finanziamento. Uno di essi era un’impresa di e-commerce di fascia
consumer di nome 8848.net.25 Lanciata ad aprile 1999 con un modello di
business basato su quello di Amazon, 8848 vendeva libri, software,
elettronica e altri prodotti locali, come le tessere telefoniche per il VoIP che
erano popolari all’epoca. Aveva un finanziatore solido, il quarantaseienne
Charles Xue (Xue Biqun), che aveva studiato a Berkeley negli stessi anni del
fondatore di SoftBank Masayoshi Son. Il presidente di 8848, Wang Juntao,
era più famoso di Jack nell’ambiente dei media cinesi. Anche NetEase stava
facendo esperimenti con l’e-commerce consumer e nel luglio 1999 organizzò
una delle prime aste online in Cina, vendendo cento pc per un totale di
150.000 dollari. Un’altra nuova azienda, modellata su eBay, era EachNet, con
sede a Shanghai e diretta da un giovane imprenditore che aveva studiato a
Harvard prima di tornare in patria: Shao Yibo, detto anche Bo Shao.
Jack era convinto che la Cina, il principale fornitore mondiale di beni ad
alta intensità di lavoro, fosse pronta per l’e-commerce B2B. Ma altri
imprenditori erano arrivati alla stessa conclusione. Un’azienda californiana
aveva lanciato un sito B2B chiamato MeetChina.com e si era assicurata il
sostegno della società di venture capital IDG. Nell’anno successivo
MeetChina.com avrebbe raccolto più di 40 milioni di dollari in venture
capital, molto più di Alibaba. Inoltre sarebbe riuscita a ottenere il sostegno
dei governi su entrambe le sponde del Pacifico.
A Pechino, i fondatori di MeetChina.com sostenevano di avere una
relazione privilegiata26 con il potente Ministero dell’industria e della
tecnologia. Al momento del lancio, ad aprile 1999, l’azienda si promosse
come «il primo portale Internet cinese business-to-business sponsorizzato dal
governo.» Il cofondatore Kenneth Leonard si vantava dei suoi contatti a
Washington, affermando di aver fatto affari con Neil Bush, il fratello minore
di George W. e Jeb Bush, e di essersi procurato un invito alla Casa Bianca e
visibilità per le iniziative di e-commerce in Asia siglando un accordo in
Vietnam durante la storica visita presidenziale di Bill e Hillary Clinton in
quel Paese l’anno successivo.
MeetChina era abile nelle pubbliche relazioni anche in Cina. Uno dei
cofondatori, Tom Rosenthal, disse al Wall Street Journal: «Grazie ai servizi
che offriamo, comprare dalla Cina è facile come fare acquisti nella
ferramenta sotto casa.» Nei mesi successivi MeetChina aprì nove sedi e
assunse più di 250 persone in tutta la Cina, siglando partnership prestigiose
con aziende come Dun & Bradstreet e Western Union.
Anche i siti B2B sostenuti dalle agenzie governative cinesi stavano
moltiplicando gli sforzi, tra cui chinamarket.com, che Jack aveva contribuito
a creare. Vedendo il successo che Alibaba iniziava a riscuotere tra le aziende
della provincia dello Zhejiang, la vicina provincia dello Jiangsu decise di
lanciare un suo sito, Made-in-China.com.
Ma essendo appena sfuggito alle grinfie del governo, Jack era convinto
che il suo approccio mirato sul cliente avrebbe avuto la meglio sugli altri siti,
che puntavano soprattutto a conquistare il favore dei funzionari governativi.
Nessuno di quei siti sarebbe diventato il competitor principale di Alibaba.
L’acerrimo rivale di Jack non era neppure un’azienda della «new economy».
Era un editore di riviste specializzate.
Global Sources esisteva da più di trent’anni. L’azienda era ancora diretta
dal fondatore, Merle Hinrichs, un americano solitario che lavorava dal suo
yacht da 50 metri ormeggiato nelle Filippine. Era nato a Hastings, nel
Nebraska, ma viveva in Asia dal 1965. Aveva costruito la sua azienda,
inizialmente chiamata Asian Sources Media Group, pubblicando corposi
cataloghi pieni di inserzioni di produttori asiatici di elettronica, informatica,
orologi, giocattoli e articoli sportivi. Inviata ai buyer di catene come
Walmart, la rivista generava ordini per centinaia di milioni di dollari all’anno.
Non volendo cannibalizzare il suo redditizio business offline, Global
Sources era restia a crearsi una presenza sul web. Hinrichs non credeva nei
siti B2B: «I fornitori e gli acquirenti preferivano trasmettere gli ordini via
fax, un apparecchio poco costoso e semplice da usare.»
Ma al diffondersi dell’accesso a Internet, aziende come Alibaba poterono
presentarsi come il nuovo volto del business asiatico. Se Alibaba faticava a
trovare investitori, iniziava però a riscuotere più successo con i media, grazie
al carisma e alle abilità oratorie di Jack.
Il 17 aprile 1999 l’Economist pubblicò un articolo intitolato «Asia
Online». L’incipit era una profezia: «L’America ha Jeff Bezos, la Cina ha
[Jack] Ma Yun.» Joe lesse quell’articolo in aereo, mentre andava a Hangzhou
per incontrare Jack, e il suo interesse per Alibaba crebbe ulteriormente.
L’articolo era stato scritto da Chris Anderson, che all’epoca viveva a
Hong Kong. Lo contattai per chiedergli cosa l’avesse spinto a scrivere di Jack
in toni così lusinghieri. Dopo oltre dieci anni alla direzione della rivista
Wired, oggi Chris vive a Berkeley, in California, dove è cofondatore e Ad di
3D Robotics, un’azienda produttrice di droni.27 Ricorda così il suo primo
incontro con Jack, all’inizio del 1999 a Hong Kong: «Jack venne a
presentarmi quella che all’epoca era un’idea per Alibaba. Mi sembrò che
fosse un’ottima azienda ma con un pessimo nome. Ovviamente Jack non ha
seguito il mio consiglio, ma da allora siamo rimasti amici.»
Chris mi ha spiegato che in quell’articolo per l’Economist aveva
paragonato Jack a Jeff Bezos perché «sono imprenditori intelligenti che sono
diventati ricchi sfruttando prima degli altri il potenziale di Internet. Ma le
somiglianze finiscono qui.» Ovviamente Jack non sarebbe diventato davvero
ricco ancora per molti anni, ma il fatto che Chris fosse rimasto contagiato dal
suo entusiasmo è uno dei primi esempi del ruolo svolto dalla «magia di Jack»
nell’ascesa di Alibaba.

Chinadotcom
Ma all’insaputa di Jack e Joe, che tornavano a mani vuote dalla Silicon
Valley, la loro vita stava per cambiare grazie a un evento che segnalò l’inizio
della corsa all’oro dell’Internet cinese: l’IPO di China.com al Nasdaq.
China.com, gestito dall’azienda Chinadotcom, parte della China Internet
Corporation (CIC), era diretto da un negoziatore di Hong Kong di nome Peter
Yip. Yip era un imprenditore sui generis nel contesto dell’Internet cinese:
non era nato in Cina ma a Singapore,28 viveva a Hong Kong e aveva circa
dieci anni più di Jack e dei fondatori dei portali: poche persone in Cina
avevano mai sentito nominare lui o il suo sito.
Ma quando negli Stati Uniti gli investimenti nelle dot-com assunsero un
ritmo febbrile, CIC si trovò in mano alcune risorse molto preziose:29 i domini
China.com, HongKong.com e Taiwan.com. Usandoli come garanzia Yip si
assicurò finanziatori influenti, compresi gli improbabili alleati America
Online e Xinhua, l’agenzia di stampa nazionale cinese. Ad AOL Yip offrì i
suoi servizi come intermediario verso il mercato cinese. A Xinhua promise di
costruire uno «spazio protetto» di contenuti, filtrando quelli indesiderabili.
Yip battezzò la sua visione «China Wide Web». In un discorso
all’università di Harvard, affermò che molti contenuti presenti su Internet
erano «irrilevanti per la maggior parte dei cinesi.» Vantandosi dell’appoggio
di Xinhua, affermò30 che il governo cinese aveva elaborato una strategia per
Internet e «mi ha chiesto di aiutarli a creare uno strumento per consentire agli
utenti di partecipare.» La pagina dedicata alle notizie sul sito China.com
conteneva il terrificante titolo: «Navighiamo al posto vostro». Ma gli utenti
cinesi volevano accesso alla totalità di Internet: ed era questo che cercavano
di rendere possibile gli imprenditori locali, come i tre pionieri dei portali.
L’impegno di Yip non diede frutti con gli utenti Internet in Cina. Il suo
approccio «know who», basato sulle relazioni, fu sconfitto dal «know how»
della nuova generazione di imprenditori esperti di tecnologia.
Ma Peter Yip batté i rivali cinesi su un terreno importante: era molto
bravo a raccogliere finanziamenti, e ottenne un investimento di 34 milioni di
dollari in China.com da AOL e poi, nel luglio 1999, un’IPO per l’azienda sul
Nasdaq.
Gli addetti ai lavori del settore Internet in Cina erano molto critici nei
confronti dell’azienda e delle sue affermazioni. Lo ero anch’io, e dissi al New
York Times che China.com «non era al passo con le esigenze degli utenti
Internet in Cina», e che «le aziende che fanno affari con loro si danno la
zappa sui piedi.» A giugno 1999 stesi un rapporto avvertendo che, se
China.com fosse sbarcata in borsa prima dei «veri» portali cinesi, avrebbe
«rappresentato il trionfo della forma sulla sostanza e rovinato il mercato per
le internet company della Cina continentale.» Quanto mi sbagliavo! Anziché
bruciare le opportunità di IPO per le aziende di tecnologia cinesi, China.com
entusiasmò il mercato.
Il 13 luglio 1999 il titolo China.com sbarcò sul Nasdaq. La sigla usata nel
listino era semplice ed efficace come il sito: «CHINA». Partendo da un
prezzo di 20 dollari, quel giorno il titolo chiuse a 67 dollari. Quanta forza può
esercitare un nome? Nel caso di China.com, un’azienda che quasi nessun
cinese aveva mai sentito nominare, la risposta era 84 milioni di dollari:
l’ammontare ottenuto con l’IPO, a cui nel febbraio successivo l’azienda
aggiunse ben 400 milioni, una cifra enorme per l’epoca, con un’offerta
secondaria che la valutava a 5 miliardi. L’azienda raccolse così tanti soldi che
avrebbe impiegato undici anni a fallire.
L’onda d’urto dell’IPO di China.com nel luglio 1999 riverberò in tutta la
nascente comunità tecnologica cinese. Come aveva potuto un uomo con un
sito che nessuno conosceva raccogliere tutto quel denaro dalla sera alla
mattina? L’IPO innescò un’ondata di investimenti e accordi commerciali, e
gli imprenditori cinesi si dissero: «Se c’è riuscita China.com, posso riuscirci
anch’io!»
I finanziatori: Goldman e SoftBank

Internet è come la birra: […] la parte più buona


si trova sul fondo. Senza le bollicine,
la birra è sgasata e nessuno vuole berla.
–JACK MA

Nella prima giornata di contrattazioni al Nasdaq, China.com – un’azienda che


fatturava solo 4 milioni di dollari l’anno, a fronte di perdite per 9 milioni –
concluse gli scambi con una valutazione di 1,6 miliardi di dollari. Peter Yip
aveva messo in vendita un numero limitato di azioni, quindi gli investitori
andarono alla ricerca di altri titoli dell’Internet cinese da comprare. Non ne
trovarono, perché non ce n’erano.
Gli imprenditori e gli investitori in venture capital colsero la palla al balzo
e si misero subito al lavoro. A Hong Kong sorsero dall’oggi al domani varie
fiere di tecnologia, per facilitare incontri-lampo tra giovani imprenditori e gli
investitori che volevano finanziarli. Una delle più grandi si chiamava «I&I»,
che stava per «Internet & Information Asia». L’evento esisteva già da un po’,
e solitamente attirava una manciata di persone che si riunivano intorno a un
tavolo in uno dei minuscoli bar di Lan Kwai Fong, non lontano dal quartiere
finanziario della città. Ma l’IPO di China.com cambiò tutto. All’improvviso
all’I&I si riversarono centinaia di persone, e l’evento si spostò in alberghi a
cinque stelle come il Ritz-Carlton; banche e studi legali sgomitavano per
l’onore di sponsorizzare lo champagne e le tartine. Hong Kong era pronta a
concludere gli accordi, ma il mercato e gli imprenditori necessari per
costruire le aziende erano di là dal confine, nella Cina continentale. D’un
tratto Pechino e Shanghai si riempirono di intermediari. La bolla dell’Internet
cinese era ufficialmente iniziata e le nuove aziende dotcom spuntavano come
funghi. Alibaba avrebbe dovuto lottare per ritagliarsi un posto al sole.

La copertura mediatica
Prima ancora che arrivassero gli investitori in venture capital, i media
stranieri iniziarono a occuparsi dell’Internet cinese. Jack divenne una
presenza fissa alle fiere di tecnologia e alle convention di investitori in tutto il
Paese; le sue dichiarazioni erano così memorabili che il Los Angeles Times lo
definì «una macchina sforna-slogan».
Poco dopo l’IPO di China.com, un articolo di copertina su BusinessWeek
definì Jack uno dei «signori del web cinese». Alibaba non aveva ancora un
fatturato degno di nota, ma BusinessWeek calcolava che investire nell’e-
commerce B2B potesse fruttare di più rispetto a un investimento nei tre
portali cinesi.
Il 31 agosto 1999 un articolo del mio collega Ted Dean apparve sul
principale quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, il South China
Morning Post.1 Ted aveva conosciuto Jack circa un anno prima, quando Jack
lavorava ancora per il governo. Nell’articolo Ted prevedeva che Alibaba
sarebbe potuta diventare «un gigante globale» dell’e-commerce B2B. Jack
enunciava così la sua ambizione: «Non vogliamo essere il numero uno in
Cina. Vogliamo essere il numero uno al mondo.»
Nella nostra piccola società di consulenze sugli investimenti sentivamo
spesso dichiarazioni di quel tenore e stavamo già diventando un po’ cinici sul
boom delle dot-com. Ma dopo averlo intervistato per l’articolo a Hangzhou,
Ted mi disse che in Jack c’era qualcosa di diverso. Capii di doverlo
incontrare.
Quando Jack mi invitò ad andare a trovarlo, presi un treno da Shanghai a
Hangzhou. Tornai allo Shangri-La Hotel, lo stesso albergo dove Jack da
ragazzo aveva chiesto a David Morley di aiutarlo a far pratica con l’inglese.
Da lì presi un taxi per raggiungere l’appartamento ai Giardini sul lago.
Restai subito colpito dall’entusiasmo contagioso di Jack e dal suo
carisma, senza dubbio influenzato dalla passione dei genitori per il Pingtan, il
teatro tradizionale che comprende sketch comici.
Nel suo articolo Ted aveva riportato una citazione di Jack: «Se pianifichi,
perdi. Se non pianifichi, vinci.» Dopo aver lavorato a Pechino, la patria dei
piani quinquennali, trovai rigenerante la spontaneità di Jack. Alcuni
professionisti stranieri iniziarono a entrare nella sua orbita,2 conferendo ad
Alibaba un carattere internazionale già a pochi mesi dalla fondazione.
L’azienda aveva anche molte dirigenti donne,3 ed erano donne un terzo dei
fondatori, a differenza di quanto accadeva in molte aziende della Silicon
Valley.

L’investimento di Goldman
Nel frattempo, a Hong Kong, poco dopo l’insuccesso della spedizione nella
Silicon Valley alla ricerca di finanziatori, Joe aveva avviato negoziati con
Transpac, un fondo con sede a Singapore, circa la possibilità di investire in
Alibaba. Ben presto si erano accordati su un term sheet che avrebbe valutato
Alibaba sette milioni di dollari.4 Ma Transpac insisteva per imporre una
clausola onerosa5 e Joe non voleva concludere l’accordo.
A quel punto telefonò a un’amica in Goldman Sachs. Come Joe, anche
Shirley Lin era nata a Taiwan e aveva studiato negli Stati Uniti. I due si
conoscevano da dieci anni. Per Alibaba si sarebbe dimostrato un incontro
decisivo.
Nell’estate del 2015 ho visto Shirley a New York per parlare del fatidico
investimento di Goldman Sachs in Alibaba nel 1999. Io e Shirley ci
conosciamo da quell’anno. Entrambi eravamo entrati nella banca
d’investimenti Morgan Stanley subito dopo la laurea; io ero rimasto lì,
mentre Shirley era passata in Goldman dopo qualche anno e aveva iniziato a
investire nelle aziende asiatiche di tecnologia e Internet.
Dieci anni prima dell’accordo con Alibaba, Shirley e Joe si erano
conosciuti per caso durante un lungo volo aereo da Taipei a New York. «Io
tornavo a Harvard, lui tornava a Yale. Eravamo seduti uno vicino all’altra.»
Shirley ricorda che per quasi tutto il viaggio Joe aveva letto un libro di diritto
costituzionale. Joe ricorda che Shirley era immersa nella lettura del Wall
Street Journal, dalla prima all’ultima pagina. Dopo un po’ si erano messi a
chiacchierare. Avevano parlato dei libri e degli esami che li attendevano
all’università, «e ci siamo commiserati a vicenda», racconta Shirley.
Come Jack e Joe avevano già scoperto, in Asia non c’erano molte società
di investimenti con lunga esperienza nelle aziende di tecnologia. Nel 1999
Shirley era già impegnata a piazzare scommesse sulle internet company
cinesi,6 e alla fine avrebbe investito in tutti e tre i portali. Goldman investì
direttamente in Sina e NetEase e indirettamente in Sohu.7
Goldman aveva lasciato molta libertà a Shirley e al suo team, purché gli
investimenti non superassero i cinque milioni di dollari. Erano spiccioli per
Goldman, la cui Principal investment area (PIA) avrebbe scommesso un
miliardo su aziende del settore tecnologia tra il 1995 e il 2000, un quarto del
quale su aziende asiatiche.
Vista la scarsità di fondi circolanti in Asia, Shirley era bombardata da
richieste di investimenti dagli ex compagni di università a Harvard e da altri
amici che volevano cavalcare la nuova e ricca onda delle dotcom. La qualità
dei business plan era mediamente bassa: spesso erano semplici copia-incolla
di informazioni. Shirley e il suo team lavoravano giorno e notte per
esaminare le proposte, e Shirley stima che investissero in meno di un’azienda
su mille.
La soluzione più facile sarebbe stata investire in aziende con almeno un
punto di riferimento affidabile – fondatori che fossero suoi amici o ex
compagni di studi – ma per l’Internet cinese Shirley preferì trovare talenti in
loco. «Ero convinta che per investire in Cina bisognasse conoscere il mercato
locale.»
Ma l’analisi delle startup cinesi non era un lavoro semplice. Mentre
percorreva le strade sterrate delle città di provincia, Shirley si sentiva più una
funzionaria addetta ai prestiti per la Asian Development Bank che non
l’agente di una banca di investimenti. Inoltre nessuno la prendeva sul serio:
«I cinesi non conoscevano Goldman. Mi chiedevano: “Lei è la signora
Goldman? È la moglie del titolare di questa ditta?” Pensavano che Goldman e
Sachs fossero i due proprietari dell’azienda, e che io dovessi essere la moglie
di uno dei due.»
Così, quando Joe Tsai le parlò della startup fondata da un imprenditore di
Hangzhou e le disse di voler lavorare per lui, Shirley lo trovò interessante.
Decise di andare a conoscere Jack e, nel settembre 1999, prese un aereo da
Hong Kong a Hangzhou.
Ricorda che Jack era «completamente immerso nella cultura locale.»
«Salii nell’appartamento, dove lavoravano tutti ventiquattr’ore al giorno e
sette giorni su sette […] C’era una gran puzza, lì dentro. Le idee di Jack non
erano molto originali, erano già state sperimentate in altri Paesi. Ma era
fermamente intenzionato a farle funzionare in Cina. Quello che vidi mi colpì
molto.»
Come Joe prima di lei, Shirley restò meno impressionata dall’azienda in
sé che dal team, il vero motivo per cui avrebbe deciso di investire: chi erano
quelle persone? Qual era la loro storia? Conoscere Joe era già un buon punto
di partenza, ma vedere in azione Jack e il suo team fu un altro punto a favore
di Alibaba. «Il vero segreto erano Jack e i suoi collaboratori.» Shirley ricorda
che rimase impressionata dall’impegno che Cathy, la moglie di Jack,
profondeva nel lavoro. Lei e Jack si dedicavano all’azienda «come due
militanti rivoluzionari.»
Alibaba era stata contattata da altri investitori, ma Shirley sapeva che il
sostegno di Goldman avrebbe fatto la differenza per una startup cinese che
nessuno conosceva. Parlarono dell’investimento bevendo un tè. Se Goldman
avesse investito, disse Shirley a Jack e Joe, lei stessa si sarebbe assicurata
personalmente che tutto il mondo scoprisse l’esistenza di Alibaba. Con
competitor nel B2B del calibro di MeetChina, che si impegnavano a fondo
per raccogliere finanziamenti, l’offerta appariva irresistibile. Shirley negoziò
l’acquisizione di una quota di maggioranza in Alibaba per cinque milioni di
dollari. Tornò a Hong Kong, dove i suoi colleghi Paul Yang e Oliver
Weisberg8 approntarono il term sheet preparatorio per l’investimento.
Il weekend successivo Shirley era con la famiglia sulla spiaggia di
Repulse Bay, sulla costa meridionale dell’isola di Hong Kong, quando le
squillò il cellulare. Era Jack. Voleva davvero concludere l’accordo, ma chiese
a Shirley di lasciargli una quota più alta. Se Goldman avesse rilevato una
quota di maggioranza dell’azienda, spiegò, non si sarebbe più sentito un vero
imprenditore. Le disse che aveva riversato tutto se stesso in quell’impresa. «È
la mia vita.» Shirley rispose: «In che senso, è la tua vita? Hai appena
cominciato!» «Ma è già la mia terza azienda», precisò Jack. Alla fine riuscì a
convincerla. Il documento preparatorio era già pronto, ma i numeri erano
scritti tra parentesi e potevano cambiare. Goldman avrebbe investito i cinque
milioni di dollari in cambio di 500.000 azioni, metà dell’azienda, mantenendo
il diritto di veto per le decisioni più importanti.
Appena dopo la fissazione dei nuovi termini, a metà della conversazione
con Jack, Shirley lasciò cadere per errore il cellulare, che finì in mare. Ooops,
pensò. Be’, addio a quei cinque milioni.
Jack era riuscito ad assicurarsi un investitore prestigioso: era un momento
cruciale della storia di Alibaba. Ma in seguito si sarebbe pentito di aver
venduto quella metà dell’azienda, che non avrebbe più recuperato. In realtà
non aveva avuto scelta: era un imprenditore alle prime armi in una città di
provincia della Cina, che negoziava con un gigante della finanza mondiale.
Ma avendo già concesso molta equity ai cofondatori, e ora il 50 per cento agli
investitori, si ritrovò con una quota molto più bassa di quelle che detenevano
alcuni suoi collaboratori. In seguito avrebbe commentato, scherzando solo in
parte: «È stato l’affare peggiore che abbia mai concluso.»
Quando Shirley presentò l’accordo al comitato che supervisionava tutte le
attività del fondo, incontrò un ostacolo imprevisto. Il comitato ribatté che, se
Goldman avesse investito tutti i cinque milioni, il fondo avrebbe dovuto
chiedere l’approvazione dei suoi investitori. «Riduci la percentuale, per
favore», le dissero. Perciò Shirley abbassò la quota di Goldman al 33 per
cento. Ora doveva trovare rapidamente investitori per l’altro 17 per cento.
Oggi fa sorridere l’idea di dover cercare con urgenza acquirenti disposti a
sborsare 1,7 milioni di dollari per il 17 per cento di Alibaba, un’azienda che
vale decine di miliardi. Alla fine Shirley convinse Thomas Ng di Venture
TDF, che quell’estate a Palo Alto aveva conosciuto Jack e Joe, a investire
mezzo milione. Fidelity Growth Partners Asia contribuì con un altro mezzo
milione. Joe aveva già detto al suo datore di lavoro che voleva entrare in una
startup cinese. Quando informò il suo superiore, Galeazzo Scarampi, che
aveva trovato investitori e che voleva andarsene per entrare in Alibaba, anche
Investor AB decise di rilevare una quota. Transpac investì quel che restava
degli 1,7 milioni di dollari da sommare ai 3,3 di Goldman.
Alcuni degli investitori, tra cui Venture TDF e Fidelity, hanno conservato
le loro quote fin dopo l’IPO di Alibaba nel 2014, generando rendimenti per
miliardi di dollari.
Quando il giro di investimenti guidato da Goldman fu ufficializzato, il 27
ottobre 1999, Joe cementò la propria autorità come braccio destro di Jack.
Il giro da cinque milioni capeggiato da Goldman era un inizio, ma erano
spiccioli in confronto al forziere dei tre portali cinesi, che restavano assediati
da investitori impazienti mentre il Nasdaq dava avvio alla sua ascesa
vertiginosa, guadagnando l’80 per cento in otto mesi: all’inizio del 2000 le
aziende che lo componevano furono valutate 6,7 mila miliardi di dollari.
Tutti gli occhi erano puntati sulle aziende che si presentavano come la
Yahoo! cinese, oltre che sulle mosse della vera Yahoo! in Cina. Nel
settembre 1999 Yahoo!, all’epoca valutata 36 miliardi di dollari, annunciò
una partnership con Founder, il maggiore produttore cinese di pc, mirando
alla Cina continentale.9 Nel frattempo Sohu, Sina e NetEase raddoppiavano
gli sforzi per raccogliere finanziamenti.
Sina fu quella che ne raccolse di più, tra cui 60 milioni a novembre 1999
da un gruppo di investitori che comprendeva Goldman Sachs e SoftBank, che
la piazzarono in pole position per un’IPO negli Stati Uniti. Sohu raccolse 30
milioni, e il suo fondatore Charles Zhang descrisse così l’atmosfera di quei
giorni: «È solo un gioco, che consiste nello spendere soldi e nel vedere anche
quanto velocemente riesci a spenderli.» Anche William Ding di NetEase si
arrese e raccolse venti milioni in due giri di investimenti, anche da Goldman
Sachs, ma non senza dirsi frustrato perché «la gente non ti chiede mai dei tuoi
nuovi prodotti […] Vogliono sapere soltanto quando sarà la tua IPO.»
Il 7 ottobre Alibaba cercò di ritagliarsi un posto sulla ribalta con una
conferenza stampa a Hong Kong per annunciare una nuova versione del sito e
svelare che era disposta a valutare un’IPO negli Stati Uniti o sulla nuova
second board della Borsa di Hong Kong, il Growth Enterprise Market.
Travolta dall’entusiasmo di Hong Kong, Alibaba annunciò anche di voler
trasferire lì la propria sede, lasciando Hangzhou. Jack passava sempre più
tempo a Hong Kong, dove lavorava con Joe e alcuni nuovi assunti in una sala
riunioni negli uffici di Goldman. Il grattacielo Citibank Plaza, con la sua vista
mozzafiato sul Victoria Harbor, era un ambiente molto diverso
dall’appartamento al secondo piano dei Giardini sul lago a Hangzhou.
Per promuovere la nuova azienda entrata nel portafoglio di Goldman,
Shirley Lin condusse una serie di interviste con i media di Hong Kong e andò
persino alle televisioni locali per spargere la voce su Alibaba. «All’epoca
parlavo così male il cantonese che dovettero sottotitolarmi», ricorda.
Quando Goldman si trasferì in uffici ancora più lussuosi, agli ultimi piani
del nuovissimo Cheung Kong Center del miliardario Li Ka-shing, Alibaba
firmò un contratto di locazione per i suoi nuovi, impressionanti (e costosi)
spazi, il primo esborso importante per il quale attinse ai cinque milioni di
dollari di Goldman. Ora Alibaba poteva mettersi al lavoro.
Il suo compito era semplice: diventare il principale sito B2B cinese. Per
far incontrare venditori e acquirenti, organizzò le schede dei suoi membri in
ventisette settori merceologici, da «Abbigliamento e moda» a «Elettronica e
materiale elettrico» e «Forniture industriali». Gli utenti potevano iscriversi
gratuitamente per ricevere notifiche sulle offerte in arrivo e cercare proposte
di acquisto o vendita entro un settore o un’area geografica. A ottobre 1999
Alibaba aveva già più di quarantamila utenti. Doveva puntare a trovarne
molti di più, ma non a scapito della qualità dei messaggi affissi sulla sua
bacheca virtuale.
La maggior parte dei venditori erano aziende di export o trading cinesi,
molte delle quali fondate da imprenditori dello Zhejiang. Internet era ancora
una novità per molte di quelle aziende, che però divennero rapidamente
clienti fidelizzati di Alibaba.com. Molte di loro non avevano le dimensioni o
i contatti necessari per competere con le imprese commerciali statali, e alcune
si trovavano in aree isolate che rendevano troppo costoso partecipare alle
fiere di settore come quella di Canton. Essendo cresciuto tra loro e avendole
avute come clienti di Hope Translation e China Pages, Jack capiva bene di
cosa avevano bisogno quelle piccole aziende: «Quasi tutte le piccole e medie
imprese hanno una natura molto dinamica. Oggi vendono magliette, domani
potrebbero vendere prodotti chimici.»
Per attrarre nuovi clienti Alibaba doveva assicurarsi che le inserzioni dei
venditori fossero tradotte correttamente in inglese. Sfruttando il pool di
talenti dei laureati di Hangzhou, l’azienda iniziò ad assumere redattori che
parlavano inglese per accertarsi che i messaggi pubblicati in bacheca fossero
completi, comprensibili e ben categorizzati. Rivolgendosi ai suoi contatti al
MOFTEC di Pechino, Jack assunse anche dipendenti con un know-how
commerciale per rendere il sito attraente agli acquirenti stranieri.
La pubblicazione sul sito era gratuita per venditori e acquirenti, un
principio che Jack avrebbe sempre difeso. Il suo approccio – «Se tu
costruisci, loro arriveranno» – lo aiutò a battere i rivali. Se i visitatori di
Alibaba.com fossero riusciti a trovare clienti, non sarebbero passati alla
concorrenza.
Ma se la pubblicazione gratis era un vantaggio per gli utenti, non era però
un modello di business facile da implementare. Alibaba era vulnerabile a
qualsiasi rallentamento dell’ondata di investimenti in Internet. Inoltre,
all’aumentare del traffico sul sito web, non era semplice mantenere alta la
qualità delle inserzioni. L’azienda doveva procedere con cautela o rischiava
di lasciarsi travolgere. Un altro problema era la concorrenza sempre più
sfrenata per accaparrarsi i talenti migliori. Durante il boom delle dot-com i
dipendenti specializzati passavano spesso da un’azienda all’altra oppure
decidevano di fondare una startup per sfruttare l’abbondante disponibilità di
finanziamenti in venture capital. Il costo dei talenti iniziò a crescere
vertiginosamente, compresi gli sviluppatori di software, i web designer e i
project manager di cui Alibaba aveva bisogno per offrire i suoi servizi.
Qui l’azienda aveva due assi nella manica: Hangzhou e Jack Ma. A
differenza di Pechino e Shanghai, dove il turnover dei dipendenti
specializzati era un grave problema per gli imprenditori, Hangzhou aveva
molti neolaureati e pochissimi datori di lavoro. Inoltre Alibaba si
avvantaggiava del relativo isolamento della città, in cui non c’erano rivali
veri e propri che le sottraessero dipendenti. C’era qualche altra aziende di
tecnologia, come UTStarcom o Eastcom, ma in piena bolla dot-com stavano
ormai diventando imprese della «old economy». Per Alibaba era un
vantaggio anche la distanza tra Hangzhou e Shanghai, all’epoca circa due ore
di viaggio. Per i giovani sviluppatori di talento che vivevano a Hangzhou e
volevano lavorare per una internet company in rapida crescita, Alibaba era il
posto giusto.
Questo aiutava anche a contenere i costi. Per il prezzo di uno sviluppatore
a Pechino o Shanghai, Alibaba poteva assumerne due. Il confronto con la
Silicon Valley era ancora più interessante, come osservò Jack: «Per fare
felice un programmatore [nella Silicon Valley] ci vogliono dai cinquanta ai
centomila dollari. In Cina, con quei soldi posso fare felici dieci persone molto
intelligenti.»
Poiché Hangzhou era una città di «secondo livello» anche gli immobili
erano più economici. Anche dopo il trasferimento in un ufficio da 18.500 mq,
all’inizio del 2000, il costo totale di locazione era di appena 80.000 dollari
l’anno, molto meno di quanto l’azienda avrebbe pagato a Pechino o a
Shanghai. A Jack piaceva essere lontano da Pechino: «Anche se le
infrastrutture non sono efficienti come a Shanghai, è meglio stare più lontano
possibile dal governo centrale.»

La gente di Ali
Per costruire il suo team Jack preferiva assumere persone che fossero uno o
due gradini al di sotto dei primi della classe. L’élite universitaria, spiegò
Jack, non avrebbe saputo affrontare le difficoltà del mondo reale. Per chi
saliva a bordo, lavorare per Alibaba non era una passeggiata. Lo stipendio era
basso: i primi dipendenti guadagnavano appena cinquanta dollari al mese.
Lavoravano sette giorni su sette, spesso per sedici ore al giorno. Jack
richiedeva loro persino di cercarsi casa a non più di dieci minuti dall’ufficio,
per non sprecare tempo prezioso negli spostamenti.
Fin dall’inizio Alibaba ha promosso un’etica del lavoro simile a quella
della Silicon Valley, in cui ogni dipendente riceve opzioni che maturano
nell’arco di quattro anni. È ancora una rarità in Cina, dove tradizionalmente
le aziende private avevano un Ad-imperatore che considerava sacrificabile
ogni dipendente e fissava gli stipendi a propria discrezione.
Al crescere della popolarità di Alibaba.com – una crescita aiutata dalla
gratuità dei servizi offerti – il team di Hangzhou faticava sempre più ad
affrontare il volume di email in arrivo. Il reparto di assistenza clienti doveva
offrire spesso anche supporto tecnico, rispondendo a chi chiedeva come
riavviare un computer. Ma fedele al suo principio, «il cliente prima di tutto»,
Alibaba si prefiggeva di rispondere a ogni email entro due ore.
Il cofondatore Simon Xie ricorda che Jack era «una cultura, un nucleo»
che garantiva la focalizzazione del team. Accoglieva le nuove reclute con una
promessa inquietante,10 declamando uno dei suoi aforismi preferiti: «Oggi è
un giorno terribile, domani sarà peggio, ma dopodomani sarà bellissimo. Ma
la maggior parte della gente morirà domani sera e non vedrà l’alba di
dopodomani. Gli Aliren devono vedere l’alba di dopodomani.»11
La cofondatrice Lucy Peng, dapprima direttrice delle risorse umane e in
seguito «chief people officer», ha svolto un ruolo importante nel processo di
assunzione e nel delineare la cultura aziendale. In un case study su Alibaba
condotto nel 2000 alla Harvard Business School, commentava che «i
dipendenti di Alibaba non hanno bisogno di esperienza. Hanno bisogno di
essere in buona salute, di avere un cuore grande e una testa che funziona.»
All’aumentare del numero di utenti del sito, le aziende cinesi iniziarono a
usare Alibaba per connettersi tra loro oltre che con il mondo esterno,
portando al lancio di un marketplace in lingua cinese12 per i grossisti cinesi
che cercavano contatti commerciali in patria.
Eppure Alibaba faticava ancora a persuadere le aziende dell’utilità
dell’ecommerce. Alcune aziende trovavano eccessivi i costi dell’acquisto di
computer; altre non avevano dipendenti con competenze informatiche
sufficienti. Un ostacolo ancora più insormontabile era la sfiducia diffusa. I
fornitori temevano che quei clienti mai visti in faccia non pagassero ciò che
ordinavano. Gli acquirenti all’estero temevano di ricevere merce contraffatta
o difettosa, o di non ricevere nulla.
Alibaba non poteva scacciare i rischi con una bacchetta magica, come
spiegò Jack ai media: «Siamo solo una piattaforma su cui le aziende si
incontrano, ma non ci assumiamo responsabilità legali.» Alibaba si
concentrava sul suo servizio di bacheca per le aziende. Ma altri, come
MeetChina, affermavano di volersi espandere in aree come la ricerca di
mercato, le verifiche creditizie sui fornitori, le ispezioni di qualità, le
spedizioni, le assicurazioni e i pagamenti.
Jack trovava prematuro tutto ciò: «Le piccole e medie imprese non si
fidano ancora delle transazioni online. E riteniamo che l’attuale sistema
bancario sia sufficiente per le piccole aziende. Finché i nostri iscritti lo
trovano più semplice, preferisco che conducano le transazioni offline.»
Alibaba cercava di definirsi in modi comprensibili agli investitori: «Non
abbiamo ancora un modello di business ben delineato», ammetteva Jack. «Se
considerate Yahoo! un motore di ricerca, Amazon una libreria, eBay una casa
d’aste, allora Alibaba è un mercato elettronico. Yahoo! e Amazon non sono
modelli perfetti, e stiamo ancora cercando di capire cosa sia meglio per noi.»
I fondi di Goldman erano d’aiuto, ma l’impegno a mantenere gratuite le
inserzioni obbligava Alibaba a raccogliere il prima possibile nuovi capitali,
un’incombenza resa ancora più urgente dall’apertura dei nuovi uffici di Hong
Kong e di altri a Shanghai, che dovevano fungere da nuovo quartier generale
per la Cina. Per trovare nuovi clienti Alibaba iniziò a ospitare raduni di
piccole e medie imprese nelle sale da ballo degli alberghi, organizzando i
posti a tavola in modo da raggruppare le aziende per settore.
Nonostante i ritmi frenetici durante la bolla di Internet, e la percezione
sempre più chiara del fatto che presto la bolla sarebbe scoppiata, Jack tradiva
pochi segni di ansia. Visitai Hangzhou varie volte tra il 1999 e il 2000 e vidi
Alibaba espandersi dall’appartamento in riva al lago in una serie di uffici
sempre più grandi.
Non ho mai visto Jack perdere la calma, neppure il giorno in cui
ammaccò il paraurti dell’auto sbattendo su una colonna di cemento mentre
parcheggiavamo davanti a un ristorante in cui mi aveva invitato a pranzo.
Trovavo sempre piacevoli le mie visite a Hangzhou. Passare del tempo con
Jack era sempre divertente. Ne approfittavo per fare il turista: durante una di
quelle visite Cathy, la moglie di Jack, mi portò alle famose piantagioni di tè
Long Jing (Pozzo del drago) e passeggiammo nella foresta di bambù lì
accanto, che dopo Pechino era una boccata d’aria fresca (letteralmente).
Ormai Jack passava molto tempo lontano da Hangzhou, per parlare in
pubblico alle fiere di settore e agli incontri degli investitori. A gennaio 2000
fummo invitati entrambi a intervenire a un evento organizzato dagli studenti
di Harvard.13 Incontrai Jack prima della manifestazione. Mentre
passeggiavamo su un vialetto ghiacciato sulle sponde del fiume Charles, notai
che una sua collaboratrice ci stava riprendendo con una telecamera; in seguito
ho scoperto che lo faceva da anni.
All’evento c’erano molti altri imprenditori dell’Internet cinese, quasi tutti
con curriculum accademici molto più prestigiosi di quello di Jack. Alcuni
erano tornati da poco in Cina, come Shao Yibo di EachNet, che aveva
studiato proprio lì a Harvard. C’era anche Peter Yip di China.com.
Ma Jack si impose subito come la star dell’evento, tanto più quando
confessò al pubblico di non avere la minima idea di quale fosse il modello di
business di Alibaba: «Eppure ho ottenuto un investimento da Goldman
Sachs!»
Jack apprezzava le attenzioni ricevute a Harvard, compreso il soprannome
di «Crazy Jack» affibbiatogli poco dopo dalla rivista Time. Gli piaceva
soprattutto parlare del suo rovescio di fortuna, quand’era stato respinto da
Harvard e poi era stato invitato lì a tenere una conferenza. «Non ho studiato a
Harvard […] Ma ci sono andato a insegnare.»14
Jack ha sempre criticato le business school: «Non è necessario conseguire
un master in gestione d’impresa. La maggior parte dei diplomati ai master
non è utile. […] A meno che non dimentichino ciò che hanno imparato a
scuola: allora sì che si rendono utili. Perché le scuole insegnano la
conoscenza, mentre un’azienda in crescita richiede saggezza. La saggezza si
acquisisce con l’esperienza. La conoscenza si può acquisire lavorando sodo.»

L’investimento di SoftBank
Uno dei motivi per cui Jack era così di buonumore a Harvard era che stava
per annunciare un’altra pietra miliare della storia di Alibaba: 20 milioni di
dollari in nuovi finanziamenti dalla società giapponese SoftBank.
Con quello e con un investimento successivo SoftBank divenne il
principale azionista di Alibaba. L’accordo fu mediato da Goldman Sachs, già
investitore in Alibaba. SoftBank cercava opportunità di investimento nel
settore tecnologico cinese quando Mark Schwartz, allora presidente di
Goldman Sachs Japan, parlò a Masayoshi Son, il fondatore di SoftBank, del
portafoglio di investimenti in tecnologia che Goldman stava costruendo in
Cina.
Nell’ottobre del 1999 Jack fu uno degli imprenditori invitati a conoscere
Masayoshi Son in una serie di «incontri lampo» tra le startup cinesi e il
miliardario giapponese organizzati da Chauncey Shey, presidente di
SoftBank China Venture Capital. I due uomini si videro alla Fuhua Mansion
di Pechino, un palazzo che sembra una torta nuziale. Si rivelò la location
giusta, perché quell’incontro fu l’inizio di un lungo sodalizio che avrebbe
fatto di Son l’uomo più ricco del Giappone. Il sostegno offerto da Son a Jack,
pochi mesi prima del crash delle dot-com, fu la salvezza di Alibaba.

Masayoshi Son
Masayoshi Son, per gli amici «Masa», ha alcune cose in comune con Jack.
Entrambi sono di bassa statura e sono noti per la grande ambizione.
Son è cresciuto in circostanze ancora più difficili di Jack. Nato nella più
meridionale delle isole principali del Giappone, Kyushu, viveva con la
famiglia in una capanna che non aveva neppure un indirizzo vero e proprio.
Suo padre allevava maiali e distillava liquori illegali. Son fu vittima di
bullismo perché di origini coreane e fu costretto a adottare il cognome
giapponese Yasumoto. A sedici anni si trasferì nella California settentrionale
in cerca di un futuro migliore. Alloggiando da amici e parenti frequentò la
Serramonte High School di Daly City, poco a sud di San Francisco, e poi fu
ammesso all’Università della California a Berkeley, dove avviò la carriera
imprenditoriale. Il suo successo più grande fu un traduttore elettronico a
comando vocale da vendere negli aeroporti. Son progettò e realizzò la
tecnologia e poi la cedette in licenza a Sharp Electronics per mezzo milione
di dollari. Negli Stati Uniti Son iniziò a importare i primi modelli delle
console per videogiochi Pac-Man e Space Invaders che iniziavano a
diffondersi all’epoca, noleggiandole a bar e ristoranti, tra cui Yoshi’s, un
sushi bar di North Berkeley (oggi un famoso locale jazz della Bay Area). A
Berkeley conobbe e assunse Lu Hongliang, la cui impresa, Unitech Industries
(rinominata Unitech Telecom nel 1994) sarebbe poi entrata a far parte
dell’azienda di tecnologia UTStarcom, l’impresa di Hangzhou in cui
SoftBank investì nel 1995.
Dopo essere tornato in Giappone nei primi anni Ottanta, Son fondò
un’azienda di distribuzione software. Al lancio, con un gesto che richiamava
l’ottimismo irrefrenabile di Jack, salì su uno scatolone di fronte ai dipendenti
– all’epoca solo due, entrambi part-time – e giurò che la nuova azienda
avrebbe fatturato 50 miliardi di yen (3 miliardi di dollari) entro dieci anni.
Quando conobbe Jack, Son era ormai multimiliardario. Era noto per la
rapidità con cui prendeva le decisioni. Una delle migliori fu il lungimirante
investimento in Yahoo! compiuto nel 1995. Quando Yahoo si quotò nel 1996,
Son portò al 37 per cento la quota di Softbank nel portale, diventandone il
principale investitore. Ottenne anche il diritto per SoftBank di diventare
partner esclusivo di Yahoo! in Giappone, un accordo che gli avrebbe fatto
guadagnare altre decine di miliardi.
Quando conobbe Son, Jack capì di aver incontrato uno spirito affine.
«Non abbiamo parlato di fatturato, e neppure di un modello di business. […]
Abbiamo parlato solo di una visione condivisa. Entrambi prendiamo le
decisioni in fretta», ricorda Jack.
«Quando sono andato da Masayoshi Son non mi sono neanche messo la
cravatta. […] Dopo cinque o sei minuti ho iniziato a stargli simpatico, e lui a
me. […] Chi lo conosce bene dice che io e lui siamo anime gemelle.»
Al loro primo incontro, dopo che Jack ebbe finito di descrivere Alibaba,
che ormai contava circa centomila iscritti, Son spostò subito la conversazione
sull’ammontare del possibile investimento di SoftBank. «Ho ascoltato parlare
Mister Ma per cinque minuti e ho deciso lì per lì che volevo investire in
Alibaba», ha ricordato poi Son. Interruppe la presentazione di Jack per
chiedergli di accettare il denaro di SoftBank, perché doveva «spendere soldi
più in fretta». Nel periodo dell’IPO di Alibaba, nel 2014, a Son è stato chiesto
cosa l’avesse spinto a scommettere su Jack già nel 2000: «Lo sguardo nei
suoi occhi, un “odore animale” […] È andata allo stesso modo quando
abbiamo investito in Yahoo! […] quand’erano ancora solo cinque o sei
persone. Ho investito basandomi sul senso dell’olfatto.»
Questa impulsività era tipica di Son. «Masa è Masa. Ha l’ADD [disturbo
da deficit dell’attenzione] e non riesce a stare seduto fermo. Vuole darti dei
soldi, subito!» commenta un ex socio d’affari.
Poche settimane dopo il loro primo incontro a Pechino, Son invitò Jack a
Tokyo per finalizzare i termini dell’accordo. Joe Tsai lo accompagnò.
Appena entrati nell’ufficio di Son diedero il via ai negoziati. Jack avrebbe
poi arricchito il racconto dell’incontro con metafore tratte dalle arti marziali:
«I maestri della negoziazione ascoltano sempre e non parlano mai. Chi parla
molto non è un bravo negoziatore. Un vero maestro ascolta, e appena muove
la spada sei spacciato.»
Joe, che prima del viaggio aveva incontrato Chauncey Shey di SoftBank
China, mi ha raccontato i dettagli del loro incontro. «Goldman e gli altri fondi
avevano appena investito cinque milioni per metà dell’azienda, valutandola
dieci milioni. Masa aprì la trattativa offrendo venti milioni per il 40 per cento
dell’azienda. In questo modo Alibaba veniva valutata 50 milioni “post-
money” e 30 milioni “pre-money”. In poche settimane l’investimento di
Goldman si era triplicato di valore.»
Joe ricorda che lui e Jack si guardarono pensando: «Evviva, il triplo! Ma
poi ci siamo detti che non volevamo cedere una quota troppo alta. Quindi
Jack disse: “Masa, così non ci sta bene.” Masa aveva in mano una
calcolatrice: stava facendo i calcoli lì su due piedi. Ma Masa voleva il 40 per
cento, quindi propose: “Che ne dite del doppio? Vi do 40 milioni per il 40 per
cento.” Significava 60 milioni pre-money.»
Jack e Joe dissero che ci avrebbero riflettuto. Al ritorno in Cina, Jack
scrisse a Son un’email per rifiutare l’investimento da 40 milioni. Si offrì
invece di accettare 20 milioni per il 30 per cento, e aggiunse: «Se sei
d’accordo facciamo così; se no, pazienza.» In seguito Jack spiegò perché
aveva rifiutato la cifra più alta: «Perché dovevo prendere tutti quei soldi? Non
sapevo come usarli, e di sicuro ci avrebbero creato problemi. Jack non
dovette aspettare a lungo la risposta di Son, che ammontava a una sola
parola: «Procedete.»
Jack è convinto che sia stata la buona sorte a fargli conoscere Son: «È
difficile trovare un investitore come lui.» Commentando le dinamiche della
loro relazione, Jack afferma: «Penso che Masa sia uno degli uomini d’affari
migliori del mondo, con un fiuto infallibile per gli investimenti.» Ma
aggiunge che Son è anche un abile capitano d’industria: «Non è facile passare
dal ruolo d’investitore alla gestione dell’azienda, restando però un bravo
investitore. Quanto a me, sono solo un amministratore. Adoro fare
l’imprenditore. Non sono bravo a investire.»
A Jack piace anche scherzare sul rispettivo aspetto fisico: «La differenza
tra me e lui è che io ho l’aria di una persona molto intelligente, ma in realtà
non lo sono; lui non sembra affatto intelligente e invece è un uomo molto
saggio.»
Uno dei primi dipendenti di Alibaba, Shou Yuan, fa un’osservazione
interessante sulla relazione tra i due fondatori e Ad: «Son ha molta fiducia in
se stesso, è persino altezzoso, ma il suo aspetto dà sempre un’impressione di
modestia. È pazzo, ma anche Ma lo è. Capita spesso che tra pazzi ci si
intenda.»
Al momento di annunciare l’accordo, lo stesso Son tracciò un
parallelismo con il grande successo del suo investimento in Yahoo!.
«Vorremmo fare di Alibaba la prossima Yahoo!. […] Penso che sarà la
prima internet company cinese a diventare un brand globale, un grande
successo in tutto il mondo. Non vedo l’ora che succeda.»
Le due aziende annunciarono anche una joint venture per Alibaba Korea,
che sarebbe stata lanciata a giugno del 2000 per frenare la crescita di un
competitor in quel Paese, e iniziarono a progettare un sito anche per il
Giappone.
L’accordo era palesemente un’ottima notizia per Alibaba. In meno di un
anno dalla fondazione dell’azienda, Jack e Joe avevano raccolto 25 milioni di
dollari da due degli investitori più importanti e prestigiosi al mondo.
Ma c’era un prezzo da pagare: la cessione del 30 per cento di Alibaba a
SoftBank seguiva a ruota la vendita del 50 per cento a Goldman Sachs, il che
comportava una forte diluizione della quota spettante a Jack.
Tuttavia l’investimento di SoftBank aiutò molto Alibaba a migliorare la
sua reputazione in Cina, proprio mentre i tre portali cinesi si preparavano
all’IPO in America. L’accordo forniva ad Alibaba anche una polizza di
assicurazione. Nessuno poteva prevedere con certezza quanto a lungo sarebbe
durato il boom degli investimenti in tecnologia; i 20 milioni di SoftBank
permettevano all’azienda di costruire una «pista» molto più lunga da cui
decollare verso la redditività futura.
Jack voleva farsi notare anche nella Silicon Valley. Poco dopo aver
ottenuto i venti milioni di SoftBank andò a Santa Clara, in California, la
patria di Yahoo!. Ci andò per offrire a John Wu15 – un dirigente di Yahoo!
che aveva conosciuto quando lavorava in China Pages – il ruolo di direttore
tecnologico in Alibaba. Era una proposta ambiziosa. Jack chiedeva a John di
dimezzarsi lo stipendio e lasciare l’azienda più promettente della Silicon
Valley per una rischiosa startup di Hangzhou.
John espresse i suoi dubbi a Jack, come avrebbe ricordato in seguito:
«Yahoo! stava andando bene, i miei genitori stavano immigrando negli Stati
Uniti: non intendevo valutare seriamente quella possibilità.» Teneva
soprattutto a evitare che la sua famiglia dovesse tornare in Cina. A quel punto
Jack gli propose di dirigere il team ricerca e sviluppo di Alibaba da Fremont,
in California. John accettò.
Jack, con i suoi trascorsi da insegnante d’inglese, voleva assicurarsi che la
propria ignoranza in fatto di tecnologia non venisse replicata in Alibaba. «Per
essere un’azienda di prima classe abbiamo bisogno di tecnologia di prima
classe. Quando arriverà John potrò dormire sereno.» L’assunzione di John
Wu diede a Jack anche la possibilità di spargere sulla sua azienda un altro po’
della polverina magica di Yahoo!. Seduto accanto a Jack a una conferenza
stampa, John definì Alibaba una nuova incarnazione di Yahoo!: «Il motore di
ricerca di Yahoo! ha cambiato il modo in cui milioni di persone navigano su
Internet. Ora la piattaforma e-commerce di Alibaba trasformerà radicalmente
il modo di fare business online.» Il Los Angeles Times commentò: «Il fatto
che una startup cinese sia riuscita a sottrarre alla Silicon Valley uno dei suoi
uomini di punta fa sembrare plausibile la pretesa della Cina di presentarsi
come ultima frontiera di Internet per le menti più brillanti del settore.»
John passò da Yahoo! ad Alibaba, come spiegò, perché l’idea di Alibaba
era originale. «Se la paragoniamo alle altre internet company che sono leader
in Cina, quasi tutte copiano modelli di business già esistenti negli Stati
Uniti.» Shirley Lin di Goldman Sachs era stata attratta dalla «natura locale»
di Alibaba. John Wu vedeva gli stessi meriti: «Molte aziende che operano su
Internet sono state fondate da persone che hanno studiato negli Stati Uniti e
poi sono tornate in Cina. […] Jack Ma è diverso. È sempre rimasto in Cina.»
Con nuovi capitali, nuovi dipendenti e oltre 150.000 iscritti al sito in 180
Paesi, il futuro di Alibaba appariva roseo. Ma la bolla stava per scoppiare.
Lo scoppio della bolla e il ritorno in Cina

Sii l’ultimo a rimanere in piedi.


–JACK MA

Nella primavera del 2000 si iscrivevano ad Alibaba più di mille nuovi utenti
al giorno.
Era chiaramente una buona idea mettere in contatto i fornitori cinesi con
gli acquirenti del resto del mondo. Ma altre aziende avevano avuto la stessa
intuizione, e alcune di esse stavano raccogliendo capitali. MeetChina
accumulò altri 11 milioni di dollari, in parte provenienti da un fondo di
SoftBank, e annunciò di puntare a un fatturato di 10 milioni per quell’anno e
di avere in programma un’IPO. Global Sources, lo storico editore di
cataloghi, annunciò di aver assoldato Goldman Sachs per prepararsi a
sbarcare sul Nasdaq e iniziò ad assumere molti nuovi dipendenti in Cina.
Entrarono nella mischia altri concorrenti, tra cui alcuni imprenditori che
passarono a occuparsi di e-commerce B2B dopo aver assistito al successo di
Alibaba nella raccolta di capitali.1
Di fronte a competitor sempre più agguerriti, e avendo a disposizione
ingenti liquidità, Alibaba accelerò l’espansione. Nei mesi successivi
all’investimento di SoftBank, l’azienda andò alla ricerca di dipendenti nella
Cina continentale, a Hong Kong e a Fremont, in California, dove il nuovo
CTO John Wu dirigeva la consociata americana.
Il governo tentenna
Continuavano a rincorrersi le voci su una possibile IPO. Ma le aziende che
avevano più probabilità di quotarsi, i tre portali cinesi, si erano imbattute in
un ostacolo. Il loro successo stava favorendo la diffusione dell’uso di Internet
tra i consumatori, più in fretta di quanto il governo si aspettasse. Quattro
milioni di utenti erano una goccia nell’oceano su una popolazione di 1,3
miliardi. Ma le funzionalità più apprezzate dei portali, in particolare l’email e
le notizie, innervosivano sempre più un governo che faceva del controllo la
sua ragion d’essere.
Nel Partito comunista infuriava un dibattito sulle modalità di gestione di
Internet. I conservatori facevano osservare che Internet era stata inventata da
un’agenzia della Difesa americana. Solo perché era una novità, dicevano, non
c’era motivo di escludere le aziende operanti su Internet dalle stesse
restrizioni che proibivano o limitavano severamente gli investimenti stranieri
nel settore delle telecom e nella stampa, la radio, il cinema e la televisione.
Non esisteva un «Ministero di Internet», ma la rete toccava così tanti settori
che sorsero aspre battaglie territoriali tra le autorità di regolamentazione
esistenti. Le autorità cinesi applicano le normative con severità per fare
sfoggio di potere, come dimostra il «Grande Firewall Cinese», in costruzione
fin da quando Internet è sbarcata in Cina: un filtraggio incessante dei
contenuti considerati pericolosi per il Paese o per il Partito.
Allo stesso tempo, con i suoi grandi investimenti nelle infrastrutture delle
telecomunicazioni, il governo stava di fatto promuovendo l’informatizzazione
(xinxihua) come un elemento essenziale per lo sviluppo dell’economia cinese.
Tra i membri dell’onnipotente Comitato permanente – quasi tutti ingegneri –
c’era consenso sul fatto che la Cina avesse bisogno di un’«economia della
conoscenza».
L’incapacità di adottare le nuove tecnologie poteva condurre al disastro.
La caduta della dinastia Qing è solitamente attribuita, tra gli altri fattori, al
mancato sfruttamento delle moderne tecnologie militari e industriali, che la
lasciò vulnerabile agli attacchi delle potenze occidentali. In Cina c’era anche
chi imputava il crollo dell’Unione Sovietica al mancato adeguamento alle
ondate di progresso tecnologico che venivano dalla Silicon Valley, come i
semiconduttori, i computer e il software.
Tuttavia il governo temeva che Internet potesse aprire la porta all’idea
occidentale di «società dell’informazione», una realtà che avrebbe potuto
mettere a rischio la stessa sopravvivenza del Partito Comunista.
Senza investimenti esteri, come potevano gli imprenditori dell’Internet
cinese finanziare le loro aziende? Costringerli a limitarsi ai canali di
investimento nazionali era impraticabile. Il mercato cinese del venture capital
era agli albori e i mercati azionari erano dominati dalle aziende di Stato. In
ogni caso, la borsa di Shanghai e quella di Shenzhen richiedevano alle
aziende di essere in attività da almeno tre anni e di essere in attivo. Tutte le
internet company cinesi erano appena nate e operavano dichiaratamente in
perdita.
La Cina voleva una Silicon Valley, ma una che obbedisse ai suoi ordini e
si attenesse alle sue condizioni. Tuttavia, la natura distribuita e «dal basso» di
Internet, che era l’aspetto più affascinante per chi iniziava a usarlo, era
antitetica alla tradizione cinese – imperiale e poi leninista – del controllo
autoritario delle informazioni.
Il professor Xu Rongsheng, che aveva contribuito a impostare la prima
connessione tra l’Istituto di fisica delle alte energie di Pechino e l’università
di Stanford, definisce l’impatto di Internet «una bomba dell’informazione»
che stava deflagrando sull’intera Cina. Un’altra definizione che circolava in
quel periodo vedeva in Internet «il dono di Dio ai cinesi»: così lo
consideravano gli investitori, ma anche i dissidenti.2
Non potendo fermare Internet, ma titubante all’idea di agevolarne la
diffusione, come doveva comportarsi il governo cinese?
Come potevano gli imprenditori dell’Internet cinese raccogliere
finanziamenti dall’estero senza che le loro aziende venissero classificate
come imprese straniere e venisse loro proibito di fare affari con altre aziende
cinesi? Per risolvere questa contraddizione, i tre portali tentarono in ogni
modo di ottenere l’approvazione del governo per le loro IPO, affermando di
non essere neppure delle internet company.
Dopo mesi di dibattito si raggiunse finalmente un compromesso: la
«VIE», o variable interest entity, entità a interesse variabile. È una struttura
societaria molto amata dagli avvocati d’affari cinesi, perché la sua grande
complessità genera profumati onorari. In uso ancora oggi, permette al
governo cinese di avere la botte piena e la moglie ubriaca: ovvero di
consentire l’esistenza di un’imprenditoria fiorente su Internet senza però
abdicare al controllo. La VIE è oggetto di grandi controversie tra gli
investitori di Alibaba: fino a che punto li tutela realmente? La struttura lascia
agli investitori stranieri una certa misura di controllo sui proventi generati da
un’azienda cinese (attraverso un complicato incrocio di contratti) che, grazie
al coinvolgimento personale degli imprenditori cinesi, continua a trattare
l’azienda come se fosse cinese.
Il compromesso fu raggiunto con una collaborazione tra Sina (e i suoi
avvocati) e il Ministero dell’Informazione, con la partecipazione di altre
agenzie. Il ministro Wu Jichuan aveva in precedenza obiettato alle IPO dei
portali, ma la VIE riuscì a sbloccare l’impasse. La voce del ministro era
autorevole, perché era l’architetto della spinta all’«informatizzazione», gli
investimenti nelle infrastrutture senza cui il boom dell’Internet cinese non
sarebbe stato possibile. La VIE traeva origine da un’altra complicata struttura
di investimenti3 che qualche anno prima, paradossalmente, Wu aveva
ordinato di smantellare.
Il 13 aprile 2000, finalmente, il primo dei tre portali ottenne la sua IPO:
Sina raccolse 68 milioni di dollari sul Nasdaq. NetEase e Sohu la seguirono a
ruota.
Ma i portali avrebbero trovato molto difficile la nuova vita come aziende
quotate. Perché? Perché la bolla era già scoppiata.

Il picco e lo scoppio
Dopo il picco di marzo 2000 il Nasdaq avviò una stagione negativa che si
protrasse per due anni, bruciando migliaia di miliardi di dollari in
capitalizzazione di mercato e trascinando con sé nel baratro molte aziende di
tecnologia. Le azioni di NetEase persero il 20 per cento nel primo giorno di
contrattazioni dopo l’IPO di giugno. Sohu arrivò faticosamente all’IPO a
luglio, ma da allora in poi e per più di tre anni nessun’altra azienda
dell’Internet cinese si sarebbe quotata in borsa. La porta delle IPO era ormai
chiusa per le altre internet company cinesi, compresa Alibaba, perché gli
investitori erano tornati a interessarsi del fatturato e dei profitti.
Proprio mentre iniziava il crollo, e a margine della fiera «Internet World»
di Pechino, diedi una festa al Capital Club, un’associazione di imprenditori.
La intitolai, con umorismo, «Il Ballo della Bolla.» Come si suol dire, non ti
accorgi mai di essere in una bolla finché non scoppia, ma nella primavera del
2000 la percezione di una catastrofe imminente era sempre più netta.
Per me il momento dell’epifania arrivò qualche settimana dopo la
pubblicazione, il 28 febbraio 2000, di una copertina di Time sul tema del
mercato Internet cinese che recava il titolo «Struggle.com» (lotta punto com).
Il primo capoverso era un aneddoto che avevo raccontato al giornalista di
Time Terry McCarthy a proposito del mio primo incontro con uno dei
pionieri dei portali:

William Ding, fondatore di NetEase, uno dei più grandi portali


cinesi, era a disagio. Era la scorsa estate, Ding era seduto con un
amico in un ristorante di Pechino e qualcosa lo irritava. L’aria
condizionata. Faceva troppo freddo. Senza interrompere la
conversazione, il programmatore autodidatta tirò fuori la sua
agenda elettronica Palm Pilot, mirò con il puntatore a infrarossi
sul condizionatore e modificò la temperatura dall’altro capo della
stanza. L’amico restò a bocca aperta.

A una lussuosa cena organizzata a Shanghai, nel parco di una villa


d’epoca coloniale qualche settimana dopo l’uscita dell’articolo di Time,
un’investitrice venne a presentarsi e mi disse, in tono entusiasta, che il
padrone di casa, un’affermata banchiera d’investimenti, le aveva confidato
che l’«amico» di cui parlava l’articolo era lei, non io. A parte l’ego ferito,
cominciai a capire che, quando i banchieri iniziano a inventare aneddoti
sull’amicizia con gli imprenditori, vuol dire che il boom di Internet ha i giorni
contati.
Il Ballo della Bolla si rivelò un nome più azzeccato di quanto potessi
immaginare. Jack venne alla festa e ballò fino alle ore piccole, insieme a
Charles Zhang di Sohu – con strane movenze che mi ricordavano Elaine
Benes in Seinfeld – William Ding di NetEase e altre quattrocento persone, in
quello che doveva essere l’ultimo grande party di una fugace età dell’oro. La
CNN e l’australiana ABC erano lì per filmare la scena. Rivisti oggi, quei
video sgranati dimostrano la loro età ma testimoniano anche l’esuberanza
sfrenata dell’epoca.
Agli occhi di Jack, lo scoppio della bolla rappresentava una grande
opportunità per Alibaba. «Ho telefonato al nostro team a Hangzhou e ho
chiesto: “Avete saputo la bella notizia sul Nasdaq?” […] Mi sarebbe piaciuto
avere una bottiglia di champagne da stappare. È un bene per il mercato ed è
un gran bene per le aziende come la nostra.»
Era convinto che, ora che la porta delle IPO si era chiusa, gli investitori in
venture capital avrebbero smesso di finanziare i competitor di Alibaba. «Nei
prossimi tre mesi oltre il sessanta per cento delle internet company cinesi
chiuderà i battenti», disse, e aggiunse che Alibaba aveva speso solo cinque
dei venticinque milioni raccolti. «Non abbiamo ancora toccato il secondo giro
di finanziamenti. Abbiamo molta benzina nel serbatoio.»
Ora che il terreno di gioco si allargava, Alibaba iniziò ad assumere più
dipendenti stranieri per diffondere la conoscenza dell’azienda tra gli
acquirenti di altri Paesi. Jack iniziò a viaggiare in tutto il mondo per
partecipare alle fiere di settore e incontrare i funzionari delle camere di
commercio. Ormai conosceva bene gli Stati Uniti. Durante i primi viaggi in
Europa, però, subì qualche shock culturale. All’epoca svolgevo attività di
consulenza per l’espansione europea di Alibaba e caldeggiai l’assunzione di
un mio amico svizzero, Abir Oreibi, che avrebbe supervisionato le attività
europee dell’azienda per gli otto anni successivi. Alla sua prima visita a
Londra i collaboratori di Jack gli avevano prenotato una stanza nel
prestigioso Connaught Hotel, ma Jack non capiva perché dovesse risiedere in
un palazzo così vecchio. A Zurigo Jack e Cathy restarono perplessi perché
tutti i negozi erano chiusi. Abir spiegò che era domenica, e Cathy esclamò:
«Ah, ho capito, oggi fanno tutti il secondo lavoro.» Per chi proveniva dalla
cultura cinese del lavoro incessante, era inconcepibile che un negoziante
potesse prendersi un intero giorno libero alla settimana.
Alibaba aumentò anche gli investimenti pubblicitari. All’improvviso il
logo arancione dell’azienda era su tutti i giornali e le televisioni cinesi e
anche sui portali. Alibaba commissionò un patinato spot pubblicitario da
trasmettere sulla CNBC e sulla CNN, il primo per una startup cinese di
tecnologia. Todd Daum, un dirigente americano che era appena entrato in
Alibaba a Hong Kong, supervisionò la produzione del video, che Jack gli
descrisse scherzosamente come «il mio secondo video preferito dopo Forrest
Gump.»
A parte gli spot televisivi, Jack restava il più efficace strumento di
marketing a disposizione della sua azienda. Nonostante la crisi delle dot-com,
la platea dei suoi interventi era sempre gremita. Quando parlò a Hong Kong
nel maggio 2000, a un evento di I&I (Internet & Information Asia) al Furama
Hotel, lo accolsero oltre cinquecento persone. Stava diventando famoso
anche all’estero: fu invitato a un evento a Barcellona in veste di luminare
informatico globale. Quando Alibaba superò i trecentomila utenti Jack finì in
copertina su Forbes Global, che nominò l’azienda – insieme a Global
Sources – «Migliore del Web» per l’e-commerce B2B. Seguì poi un profilo a
tutta pagina sull’Economist intitolato «L’uomo che volle farsi re.»
Ma mentre il mercato azionario restava in caduta libera, l’entusiasmo per
le internet company di qualsiasi tipologia iniziava a scemare. Ad agosto 2000
le azioni di NetEase scesero al di sotto di un terzo del prezzo dell’IPO, e
quelle di Sohu al di sotto della metà. A fine luglio, solo cinque mesi dopo una
fortunata IPO a Hong Kong, il portale locale Tom.com, finanziato dal
miliardario Li Ka-shing, licenziò ottanta dipendenti. Di lì a poco anche
China.com contrasse l’organico.
Le fiere dedicate a Internet erano sempre più rare. I&I tolse la parola
«Internet» dal nome e poi sparì, insieme a molte delle aziende che aveva
presentato ai suoi eventi. Il dot-com era diventato dot-crash.
A un incontro per investitori in venture capital a Hong Kong,
quell’autunno, Jack fu uno dei relatori principali. Se pochi mesi prima le
platee erano sempre affollate, stavolta Goldman Sachs faticò a riempire la
sala. Sul palco, di fronte a un pubblico scettico – come mi raccontò poi un
investitore – Jack si mise le mani sulle tempie, strizzò gli occhi e dichiarò:
«Riesco a vedere la fine del tunnel.» Ma di fronte a investitori sempre più
cinici verso il settore, la «magia di Jack» non funzionava quasi più.
Nel frattempo, in California, il centro di ricerca e sviluppo che Alibaba
stava costruendo sotto la direzione di John Wu aveva qualche problema. Nel
tentativo di ripensare le diverse piattaforme software che usava, Alibaba
aveva assunto più di trenta sviluppatori per il nuovo ufficio di Fremont; ma
non era facile coordinarsi con i colleghi in Cina attraverso quindici ore di
fuso orario. Costretti a usare l’inglese, a beneficio dei colleghi in California
che non parlavano cinese, i programmatori cinesi di entrambe le sedi
faticavano a comunicare. Il team iniziò a disgregarsi e gli animi si accesero,
mentre Hangzhou spingeva per sviluppare un prodotto e Fremont un altro. A
un certo punto, dopo un aggiornamento delle infrastrutture, l’intero sito
Alibaba.com andò offline. Jack si trovava a Fremont e dovette intervenire
personalmente per promuovere la cooperazione tra i due team e risolvere il
problema. Era chiaro che dividere il team tecnologico sulle sponde opposte
del Pacifico non era stata una tattica vincente. Alibaba iniziò a riportare a
Hangzhou alcuni reparti cruciali. L’azienda stava per imbarcarsi in una nuova
strategia difensiva: il «B2C», ovvero «Back to China», ritorno in Cina.
Jack era sempre più sotto pressione, anche da parte del suo primo
investitore, Goldman Sachs: doveva dimostrare che Alibaba era in grado di
portarsi in attivo. «Alibaba.com ha un piano per guadagnare oggi, domani e
dopodomani», commentò. «Oggi ci concentriamo sugli introiti dei servizi di
marketing online. Domani aggiungeremo la condivisione degli incassi con i
fornitori di servizi di terze parti. E dopodomani i redditi provenienti dalle
transazioni.»
Per rassicurare gli investitori e i dipendenti l’azienda accettò di valutare la
possibilità di offrire servizi di terze parti come credito, trasporti e
assicurazioni. In totale queste attività generavano un fatturato annuo di 300
miliardi di dollari su un giro d’affari globale di 7000 miliardi. Accaparrarsi
anche solo una piccola fetta di quella torta poteva essere molto redditizio.
Era una strategia già impiegata da MeetChina, che affermava di ospitare
sul proprio sito oltre 70.000 fornitori cinesi e 15.000 potenziali acquirenti.
Benché fino a quel momento il sito avesse mediato poche transazioni,
l’azienda rivelò che intendeva richiedere dal 2 al 6 per cento per ogni
transazione. Cavalcando l’onda in discesa degli investimenti, MeetChina
sorprese il mercato con una nuova infusione di venture capital per 30 milioni
di dollari, portando il totale a circa 40 milioni, 15 in più di Alibaba. Il
cofondatore Thomas Rosenthal disse ai giornalisti: «La volatilità del Nasdaq,
paradossalmente, ha reso più facile ottenere finanziamenti privati. C’è una
grande quantità di soldi in circolazione e ci sono meno aziende in cui
investirli.» Il nuovo Ad Len Cordiner voleva che sul sito fosse possibile «non
solo trovare acquirenti ma anche avviare trattative.» Ma MeetChina non
avrebbe mai fatto molta strada in Cina. Parlare in tono entusiasta delle
partnership con terze parti era molto più facile che stringerle davvero e molte
collaborazioni finirono per essere semplici link che rimandavano al sito del
partner. Un ex dipendente4 riassunse in seguito l’esperienza di MeetChina in
questo modo: «Trenta milioni spesi per addestrare le imprese cinesi a usare
Internet.» Alla fine l’azienda spostò la focalizzazione sull’Asia sudorientale,
lanciando MeetPhilippines.com e MeetVietnam.com (alla presenza del
presidente Clinton) e stringendo partnership in India, Indonesia, Corea del
Sud e Tailandia, per poi chiudere i battenti.5
Jack non era mai stato interessato a MeetChina, e quando l’azienda fallì
rivolse la sua attenzione a Global Sources, ormai la principale rivale di
Alibaba, e al suo fondatore Merle Hinrichs. Jack liquidò Global Sources
come «un’azienda della old economy» che aveva frainteso la natura del
commercio online: «È un’azienda che promuove una pubblicazione
cartacea.» Merle Hinrichs a sua volta definì Alibaba «larga un chilometro e
profonda un centimetro.» Benché le azioni di Global Sources (recentemente
sbarcate in borsa)6 fossero crollate insieme al Nasdaq, l’azienda era sostenuta
dagli ingenti profitti generati dal business della stampa offline.
Negli ultimi mesi del 2000 sia Jack sia Hinrichs intervennero come ospiti
d’onore a una fiera su Internet a Hong Kong. Senza mai nominare Hinrichs,
in seguito Jack raccontò di un rivale (che possedeva «un bellissimo yacht»)
che, dopo aver pagato cinquantamila dollari per essere l’oratore principale, si
era infuriato scoprendo che Jack era stato invitato nello stesso ruolo senza
dover sborsare un soldo. Gli organizzatori della fiera spiegarono al rivale –
così raccontava Jack – che «tu vuoi essere l’oratore principale ma il pubblico
vuole ascoltare Jack Ma», al che il rivale aveva tuonato: «Porterò il mio yacht
a Hong Kong, darò una festa e inviterò tutti gli oratori del convegno , tranne
Jack Ma.» L’ufficio di Merle Hinrichs scelse di non commentare lo scontro,
ma Jack, l’Ad filosofo, investì quella rivalità di un significato più profondo:
«Se non riesci a tollerare i tuoi avversari, loro ti batteranno. […] Se li tratti
come nemici, hai già perso prima di iniziare a giocare. Se ti alleni a tirare
freccette alla foto del tuo rivale, imparerai a combattere solo contro di lui e
non contro gli altri. […] La concorrenza è la gioia più grande. Se la
competizione ti fa soffrire, vuol dire che sbagli strategia.»
Ma nella seconda metà del 2000 sembrava che a sbagliare strategia fosse
Alibaba. Pur avendo raccolto 25 milioni di dollari e oltre mezzo milione di
utenti, quell’anno il fatturato non arrivò a toccare il milione di dollari.
Alibaba iniziò a chiedere alcuni contributi – per il servizio con cui aiutava
alcuni utenti a creare e gestire i loro siti web – ma le spese aumentavano
molto più in fretta degli introiti. I nuovi dipendenti assunti creavano più
problemi di quanti ne risolvessero, perché erano arrivati prima che fossero
pronti i sistemi di rendicontazione e bilancio. Anche la dimensione
internazionale del giro d’affari poneva un problema, sia per la comunicazione
con i clienti sia per la gestione delle risorse umane. Non era facile
promuovere un’azienda cinese con un nome arabo a clienti americani ed
europei e Jack ammise che «dirigere una multinazionale è difficile: ci sono
divari linguistici e culturali.»
All’aggravarsi della crisi del settore tecnologico, nel 2001 Jack e Joe
ammisero che qualcosa doveva cambiare. A gennaio 2001 assunsero come
direttore operativo Savio Kwan, un cinquantaduenne veterano di General
Electric7 che annunciò il da farsi senza mezzi termini: «Dobbiamo riportare
Alibaba coi piedi per terra e trasformarla in un business.»

Il ritorno in Cina
L’arrivo di Kwan portò alla nascita di una nuova compagine dirigenziale che
divenne nota internamente come «le quattro O»: Jack come CEO
(amministratore delegato), Joe Tsai come CFO (direttore finanziario), John
Wu come CTO (direttore tecnico) e Savio Kwan come COO (direttore
operativo). Per segnalare all’azienda quanto prendeva sul serio il
cambiamento, Jack divise in due parti il proprio ufficio di Hangzhou,
cedendo l’altra metà a Kwan.
Kwan dimezzò o quasi le spese mensili e accelerò l’implementazione del
progetto «Back to China». Fu abbandonata l’idea di una joint venture in
Corea del Sud e l’organico di Alibaba nella Silicon Valley fu drasticamente
ridotto. Molti dei dipendenti stranieri più pagati furono licenziati. Si
abbandonarono le costose campagne pubblicitarie, sostituendole con il
marketing virale. La riduzione complessiva delle spese permise ad Alibaba di
incrementare le assunzioni in patria, sfruttando l’ampia disponibilità di talenti
a basso costo. L’azienda espanse rapidamente il team delle vendite per
concentrarsi sulla promozione dei servizi a pagamento come TrustPass, che
offriva informazioni creditizie e servizi di autenticazione, e Gold Supplier,
che dava visibilità agli esportatori cinesi sul sito in lingua inglese di Alibaba.
Per 3600 dollari potevano pubblicare il listino prezzi ed essere indicizzati nel
motore di ricerca di Alibaba. Gold Supplier era esplicitamente progettato per
battere sul prezzo Global Sources, che chiedeva 10.000-12.000 dollari l’anno
ai suoi inserzionisti.
Benché i primi proventi da queste nuove fonti di reddito apparissero
promettenti, Alibaba non se la passava affatto bene. Non essendo ancora
un’azienda quotata, la sua impopolarità non si poteva misurare in dollari, a
differenza dei tre portali, le cui azioni valevano ormai pochi centesimi.
Nell’aprile 2001 BusinessWeek pubblicò un articolo intitolato «Il tappeto
magico di Alibaba perde quota», che concludeva: «L’ex professore dovrà
impegnarsi a fondo perché la sua impresa non fallisca.» L’azienda aveva
avviato una ristrutturazione con cui sperava di ribaltare le sue fortune ma
negli anni successivi al crash delle dot-com Alibaba si rassegnò all’incertezza
sul futuro. Jack valutò persino l’idea di mollare tutto, per tornare a insegnare
prima dei quarant’anni.
Nei momenti più bui paragonava le sue difficoltà a quelle di Mao Tse
Tung dopo la Lunga Marcia, auspicando persino una «campagna di rettifica»
per portare Alibaba su una nuova rotta: «Un tempo, famosi manager
americani venivano a fare i vicepresidenti in Alibaba. Ciascuno di loro aveva
le sue opinioni. […] A quei tempi sembrava di essere allo zoo. Alcuni erano
abili oratori, altri erano taciturni. Quindi pensiamo che l’obiettivo più
importante di una campagna di rettifica sia fissare un obiettivo condiviso per
Alibaba e determinare il nostro valore.»
Il rovesciamento era stato drammatico ma non spezzò il legame tra Jack e
Joe Tsai. Ho chiesto a Joe perché sia rimasto in Alibaba quando il futuro
appariva così tetro: «Alibaba era il mio quarto lavoro», mi ha spiegato.
«Volevo che almeno quello funzionasse.» A differenza dei tre portali, Joe
vedeva anche i vantaggi per Alibaba della mancata IPO. «Sapevo che era
tutta una bolla, e che se ci fossimo quotati nel 2000 avremmo dovuto
convivere con le conseguenze, rispondere alle aspettative. Saremmo dovuti
crescere fino a valere quanto la nostra valutazione: erano soldi facili e
rapidi.»
I giorni bui del 2001 e 2002 sarebbero poi entrati a far parte del folclore
di Alibaba. In seguito Jack parlò di quel periodo in uno dei suoi discorsi
motivazionali al team: «All’epoca il mio slogan era: sii l’ultimo a rimanere in
piedi, sii l’ultimo a cadere. Anche quand’ero in ginocchio, dovevo essere
l’ultimo a cadere. Inoltre credevo fermamente che, se io avevo quelle
difficoltà, qualcun altro doveva averne di peggiori; se io soffrivo, i miei
avversari soffrivano ancora di più. Chi riesce a stare in piedi e a sopravvivere
alla fine vince.»
Negli anni successivi al crash delle dot-com, Alibaba tagliò i costi e riuscì
a incrementare il fatturato. Anche se il mercato del venture capital si era
prosciugato completamente, Alibaba riuscì a restare in piedi. E grazie a un
nuovo business lanciato nella primavera del 2003, stava per riscuotere un
successo che neppure Jack avrebbe saputo immaginare.
La rinascita: Taobao e l’umiliazione di eBay

Tra i grandi capitani d’industria cinesi, Ma è noto


per le sue dichiarazioni altisonanti. Usa spesso eBay
come bersaglio per le freccette, e simultaneamente
la definisce una delle aziende che ammira di più.
–SAN FRANCISCO CHRONICLE

«I pionieri si prendono le frecce, i coloni si prendono la terra»: è un proverbio


che rimanda alla conquista del West americano. In Cina si stava aprendo una
nuova frontiera, quella di Internet, e Jack era determinato a colonizzarla. Era
già stato un pioniere con le sue prime esperienze online, a Seattle nel 1995.
Ma con la prima internet company, China Pages, aveva incassato una freccia
dolorosa dal suo socio, un’azienda statale, e non era riuscito a impedire che i
«pionieri dei portali» (Wang Zhidong di Sina, Charles Zhang di Sohu e
William Ding di NetEase) diventassero i coloni, ovvero i primi imprenditori
cinesi a condurre all’IPO le proprie aziende. Per colmare il divario, nel
settembre 2000 Jack invitò i tre fondatori dei portali e Wang Juntao –
presidente dell’impresa di e-commerce consumer 8848 – a una convention a
tema «arti marziali» intitolata «Discussione a fil di spada sulla riva del Lago
dell’Ovest» (xihu lunjian)1 organizzata a Hangzhou. Partecipai anch’io in
veste di moderatore di una tavola rotonda per promuovere la città come
«paradiso del silicio». Jack annunciò che Alibaba avrebbe riportato la sede
cinese da Shanghai a Hangzhou. Senza dubbio la scelta era stata dettata dal
desiderio di compiacere il governatore dello Zhejiang e il sindaco di
Hangzhou, che erano tra i dignitari presenti. Ma compresi presto che
l’evento, e in particolare la partecipazione delle quattro figure di spicco di
Internet in quegli anni, era stato ideato per dimostrare che Alibaba restava un
soggetto di primaria importanza nel settore internet cinese. Benché l’azienda
non avesse ancora condotto un’IPO, Jack voleva restare sotto i riflettori. Ci
riuscì con un’idea intelligente: invitare come ospite d’onore Jin Yong, lo
scrittore di Hong Kong che l’aveva ispirato fin dall’infanzia. Sapeva che Jin
Yong avrebbe attirato anche l’interesse degli altri imprenditori.
Poco dopo l’evento a Hangzhou, due dei quattro pionieri cinesi di Internet
vennero spodestati. Wang Juntao, il presidente di 8848, fu estromesso dagli
investitori, spaventati dall’aumento dei costi sostenuti per superare ostacoli di
liquidità e logistica. Wang Zhidong, il fondatore di Sina, fu deposto da un
golpe di palazzo,2 vittima dei litigi e delle incomprensioni tra gli azionisti.
Ora solo Jack, William Ding e Charles Zhang restavano al timone delle
aziende da loro fondate. Alibaba sopravviveva, ma il modello di e-commerce
B2B si stava dimostrando insostenibile. Negli ultimi mesi del 2002, mentre
Alibaba progrediva lentamente verso la redditività, Jack iniziò a valutare una
nuova direzione per l’azienda: puntare al mercato cinese dell’e-commerce al
dettaglio. Due modelli possibili spiccavano tra gli altri, ed erano entrambi
americani: Amazon ed eBay.
Imitando Amazon, 8848 era già fallita. Ma altri due «e-tailer» cinesi, che
erano nati nel 1999 ed erano riusciti a raccogliere venture capital,3 erano
sopravvissuti vendendo libri e altri prodotti a prezzi fissi:4 Dangdang.com,
diretto dalla cofondatrice Peggy Yu (Yu Yu), che aveva iniziato la carriera
come interprete e segretaria in un’azienda produttrice di caldaie e poi aveva
conseguito un master in gestione d’impresa alla New York University, e
Joyo.com, fondata da Lei Jun di Kingsoft (famoso in seguito per i cellulari
Xiaomi) e diretta da Diane Wang (Wang Shutong).

Shao Yibo
eBay era molto apprezzata dagli investitori fin dall’IPO del settembre 1998 e
a marzo del 2000 la sua valutazione era salita da due a trenta miliardi di
dollari. Numerosi imprenditori cinesi lanciarono aziende che aspiravano a
diventare l’eBay cinese. Il più noto di loro era un carismatico ragazzo
prodigio di Shanghai di nome Shao Yibo, che aveva fondato la sua azienda
EachNet5 dopo essere tornato in Cina, a giugno 1999, dalla Harvard Business
School. EachNet sorpassò rapidamente gli altri cloni cinesi.
Per sferrare il suo attacco nell’e-commerce consumer, Jack scelse la
strada di eBay, mettendosi in rivalità con EachNet. Ma Shao Yibo, per gli
amici Bo, era un avversario alla sua altezza.
Bo aveva origini umili; i suoi genitori erano insegnanti. Il padre aveva
fatto sbocciare in lui l’amore per la matematica usando un mazzo di carte:
«Con cinquantadue carte, e assegnando tredici punti al re e così via, il totale
del mazzo fa trecentosessantaquattro. Mio padre nascondeva una carta e mi
chiedeva di sommare il resto. Dovevo indovinare qual era la carta nascosta.»
Bo si esercitava senza sosta. A dodici anni riusciva a sommare un mazzo
in dodici secondi. Dopo aver vinto una decina di gare di matematica per
liceali in tutto il Paese, divenne uno dei primi studenti della Cina
continentale6 a essere ammesso direttamente all’Harvard College con una
borsa di studio completa. Dopo la laurea lavorò per due anni al Boston
Consulting Group prima di tornare a Harvard e iscriversi alla business school.
Mentre Jack aveva già deciso di dedicarsi all’e-commerce business-to-
business, Bo esaminò una serie di internet company americane che avrebbero
potuto funzionare in Cina e scoprì che «l’unico modello di business che mi
entusiasmasse era quello di eBay.»
Prima di lasciare Boston, Bo mise all’asta (su eBay) gli oggetti personali
che non usava più e nel giugno 1999, a ventisei anni, tornò a Shanghai per
costruire l’eBay cinese.
Prima ancora che il suo aereo atterrasse aveva già raccolto finanziamenti
per quasi mezzo milione di dollari.7 Tuttavia, «i miei genitori mi credevano
pazzo, perché per mettermi in proprio avevo rifiutato offerte di lavoro molto
generose e la possibilità di ottenere la residenza permanente in America»,
ricorda. «Ero molto ingenuo e totalmente impreparato al business in generale
e, in particolare, alla difficile impresa di creare da zero una startup.»
Prese in affitto un modesto appartamento a Shanghai e assunse come
primo dipendente un ex compagno di liceo disoccupato, l’unico collaboratore
che potesse permettersi. Non potendo retribuire sviluppatori costosi, fece
lavorare in nero per lui due dipendenti della Società elettrica di Shanghai, che
avevano un po’ di esperienza nell’IT ma non avevano mai costruito un sito.
Dopo le cinque del pomeriggio, al termine del turno di lavoro all’azienda di
fornitura elettrica, i due raggiungevano l’appartamento in cui aveva sede
EachNet e lavoravano fino all’una di notte. Poi dormivano lì e tornavano al
loro vero lavoro. Ben presto Bo convinse una ex compagna di studi alla
Harvard Business School nata a Shanghai, Tan Haiyin, a salire a bordo come
cofondatrice. Prima della business school Tan era stata una dei primi
dipendenti di McKinsey a Shanghai. Dopo Harvard aveva lavorato in Merrill
Lynch a New York. Era in Cina per un viaggio di lavoro quando Bo le
telefonò per chiederle se voleva diventare sua socia e restare in Cina. Tan
disse di sì.8
Bo attrasse fin da subito l’attenzione dei media stranieri. Il Washington
Post riportò una sua dichiarazione in cui prometteva che EachNet avrebbe
conquistato «un dominio ancor più assoluto in Cina di quello ottenuto da
eBay negli Stati Uniti.» Attirò anche l’interesse degli investitori: l’angel
investment fu seguito a ruota da un giro di venture capital da 6,5 milioni di
dollari.9
Conobbi Bo poco dopo il suo ritorno a Shanghai. Eravamo vicini di casa
sulla via Hengshan, nell’ex concessione francese. Nonostante il suo
curriculum impeccabile Bo faceva una vita spartana e abitava con i genitori,
il che era visto come un segno di umiltà; ma i media locali prestavano più
attenzione al fatto che l’attraente neo-rimpatriato con un master alla Harvard
Business School fosse ancora single.
Pur essendo arrivato abbastanza tardi sulla scena dell’Internet cinese, fece
subito colpo e si impegnò fin dall’inizio per battere i rivali.10 Bo ha modi
spicci e non è una persona paziente. Nel 2000, sul palco di un convegno su
Internet a Shanghai a cui intervenivamo entrambi, demolì un rivale che aveva
appena tenuto una presentazione piena di dati gonfiati sul traffico del suo sito
ed esagerazioni sull’ammontare delle transazioni. In modo calmo e metodico
Bo espose tutti gli errori di calcolo e di logica dell’avversario, distruggendolo
a tal punto che il pubblico si dispiacque quasi per lo sventurato competitor, la
cui azienda non sarebbe sopravvissuta al crollo delle dot-com.
EachNet, invece, superò indenne la crisi e sorprese tutti assicurandosi un
gigantesco investimento da 20,5 milioni di dollari nell’ottobre 2000. Il
finanziatore principale era Bernard Arnault, il barone del lusso francese di
LVMH, tramite il suo veicolo di investimenti dot-com Europatweb. Ma al
crollo del mercato il fondo si spaventò e cercò di tirarsi fuori completamente;
alla fine sborsò cinque milioni. Bo diede prova dei suoi considerevoli poteri
di persuasione mettendo insieme i restanti 15 milioni da investitori esistenti e
da altri soggetti, mentre le borse continuavano a precipitare. La Cina stava
entrando nell’«inverno di Internet», ma EachNet aveva raccolto ampie scorte
di ghiande.
Ma trasformare EachNet in un business redditizio non sarebbe stata una
passeggiata per Bo. Il modello di eBay poteva davvero funzionare in Cina?
Negli Stati Uniti eBay si era affermata offrendo articoli attraverso aste online,
e le transazioni si svolgevano spesso tra gli utenti stessi. In Cina, benché a
tutti piacesse contrattare sul prezzo, la compravendita di beni usati non era
diffusa neppure offline. Solo ultimamente gli acquirenti iniziavano a
esercitare le loro nuove libertà. Poche persone avevano qualcosa da vendere.
Negli Stati Uniti eBay serviva una comunità di oltre 100 milioni di utenti
e poteva contare su un mercato delle carte di credito ben sviluppato e su una
rete di corrieri espresso che copriva con efficienza il territorio nazionale. In
Cina, il presunto mercato consumer online da dieci milioni di utenti era un
miraggio. Nel 2000 era troppo presto per costruire un «triangolo di ferro».
Poche persone erano in grado di effettuare pagamenti online o avevano
accesso a servizi di consegna affidabili. Ma soprattutto mancava totalmente la
fiducia nello shopping online. Le normative bancarie frenavano lo sviluppo
delle carte di credito, che erano lecite solo dal 1999, e il loro uso era riservato
ai clienti che depositavano denaro sul conto in banca. Le carte di debito
iniziavano a diffondersi, ma ciascuna banca emetteva la propria e non c’era
una rete centralizzata con cui i venditori potessero elaborare i pagamenti.
Anche offline usare una carta di credito era scomodo: le casse dei
supermercati erano grovigli di cavi, con mezza dozzina di apparecchi POS. I
pagamenti online non si sarebbero diffusi ancora per anni. Il raggio d’azione
dei corrieri era limitato alla città di appartenenza: non c’era un «mercato
cinese» in senso stretto, ma solo un insieme di mercati locali scollegati tra
loro. L’assenza di fiducia restava comunque l’ostacolo maggiore da superare
per chi volesse operare nell’e-commerce al dettaglio, come ricorda Bo:
«Negli Stati Uniti, se fai un’offerta stipuli un contratto vincolante, e per legge
se vinci l’asta devi pagare. È una situazione molto chiara. Se non ti attieni a
quel contratto possono farti causa. In Cina, alla gente non importa di queste
cose. “Faccio un’offerta, poi cambio idea e non voglio più comprare
l’oggetto… Peggio per te”.»
Stando così le cose, EachNet limitò le prime aste alla città di Shanghai,
dove aveva allestito gazebi nelle strade per mostrare i prodotti ai clienti.
Acquirente e venditore si trovavano online e poi andavano a incontrarsi di
persona per esaminare la merce, temendo sempre di essere truffati, e il
pagamento si svolgeva faccia a faccia. EachNet aveva dovuto noleggiare e
gestire vari gazebi in tutta Shanghai: una strategia palesemente insostenibile
per quella che in teoria era un’azienda operante su Internet. All’inizio del
2001 i gazebi erano già tutti chiusi.
EachNet doveva trovare nuove fonti di reddito; quindi rilevò un
distributore di telefoni cellulari e lanciò piattaforme di aste su NetEase e
Sina. Per allargare il suo pubblico iniziò a vendere francobolli e
abbigliamento per bambini.
Ma senza nuovi finanziamenti in venture capital all’orizzonte, Bo non
aveva altra scelta che trovare un modo per aggirare gli ostacoli allo shopping
online: i problemi del pagamento, della consegna, della qualità dei prodotti,
della fiducia dei consumatori.
Combinare pagamenti e spedizioni era un metodo popolare. Il pagamento
in contanti alla consegna permetteva ai clienti di vedere la merce prima di
pagarla. EachNet approntò un sistema con cui i corrieri agivano da riscossori.
I contanti erano una soluzione provvisoria, ma nel 2002 le carte di credito
stavano finalmente diventando un’opzione di pagamento praticabile. I cinesi
le usavano ancora molto poco, ma le carte di debito si stavano diffondendo a
macchia d’olio. Al lancio di EachNet erano in circolazione 150 milioni di
carte bancarie; alla fine del 2002 erano diventate quasi mezzo miliardo.
Anche i sistemi informatici delle banche iniziarono a parlarsi tra loro, perché
nel 2002 l’autorità nazionale di regolamentazione bancaria varò un sistema di
elaborazione unificato per le carte, China UnionPay (zhongguo yinlian). Il
logo rosso, azzurro e verde di UnionPay è oggi onnipresente sulle vetrine e
sui bancomat di tutto il mondo. UnionPay risolse un grosso grattacapo dei
venditori cinesi, sia online sia offline, permettendo loro di accettare le carte
emesse da tutte le banche del Paese. Ma non accadde da un giorno all’altro:
per anni EachNet incoraggiò i suoi clienti più attivi a richiedere una carta di
credito da una delle quattro grandi banche commerciali per assicurarsi di
poter completare l’acquisto online.
Come aveva fatto osservare Bo, il sistema legale cinese offriva poche
tutele ai venditori, che temevano di non ricevere il pagamento per merci già
spedite ai clienti, e ai clienti, che temevano di non veder mai arrivare la
merce ordinata. Per risolvere il problema, EachNet varò un suo servizio di
deposito a garanzia: riscuoteva il denaro dai clienti e lo trasferiva ai venditori
solo dopo la conferma dell’arrivo del pacco, chiedendo una commissione del
3 per cento. Ma pochi clienti si iscrissero al servizio e EachNet, vedendo il
successo di PayPal negli Stati Uniti, iniziò a progettare un equivalente locale.
Un altro problema spinoso riguardava la qualità dei prodotti. In America
eBay aveva usato per prima un sistema che permetteva ai consumatori di
assegnare un punteggio ai venditori ma, in Cina, alcuni venditori poco
scrupolosi capirono subito di poter truccare il sistema usando moltissimi
account falsi per incrementare i feedback positivi o diluire quelli negativi.
EachNet cercò di limitare il numero di feedback che ciascun utente poteva
pubblicare e creò un team incaricato di indagare sulle accuse di frode
avanzate dai clienti. Ma entrambe le iniziative si dimostrarono subito
impraticabili: era già difficile identificare gli acquirenti e i venditori sulla
piattaforma e comminare sanzioni era praticamente impossibile.
L’approccio di EachNet si inseriva chiaramente in un’ottica di lungo
periodo: l’azienda non prevedeva di registrare profitti prima del 2005. La
prospettiva di ottenere nuovi investimenti in venture capital si faceva sempre
più remota. Bo e i suoi investitori capirono che la loro chance migliore di
diventare l’eBay cinese era vendere a eBay.

eBay sbarca in Cina


Nell’autunno del 2001 l’Ad di eBay Meg Whitman andò a Shanghai per
incontrare Bo. A marzo 2002 EachNet tornò a sorprendere il mercato con un
accordo senza precedenti, annunciando di voler vendere il 33 per cento
dell’azienda a eBay per 30 milioni di dollari.
Nonostante le difficoltà di EachNet, eBay era rimasta impressionata da
ciò che aveva visto. EachNet aveva oltre tre milioni di utenti registrati,
centomila dei quali visitavano il sito ogni giorno. L’azienda si era espansa da
Shanghai a Pechino e Guangzhou. Più di metà del suo giro d’affari
coinvolgeva un soggetto al di fuori di quelle città. Sul sito erano in vendita
più di cinquantamila prodotti, dall’abbigliamento agli immobili, a prezzo
fisso o tramite asta. Le transazioni superavano i due milioni di dollari al
mese.
EachNet era minuscola rispetto a eBay. Ma la Cina era un mercato
cruciale per Whitman, che aveva un disperato bisogno di belle notizie con cui
rassicurare gli investitori dopo aver annunciato, appena un mese prima, la
perdita del mercato giapponese, conquistato da Yahoo! Japan grazie al
finanziamento di SoftBank di Masayoshi Son: un duro colpo per l’ambizione
di Whitman di trasformare eBay in «un vero mercato globale». Dai 750
milioni del 2001 eBay puntava a fatturare 3 miliardi di dollari entro il 2005. Il
Giappone sarebbe stato un importante passo avanti in quella direzione, con
oltre 1,6 miliardi di dollari in transazioni, ma eBay era arrivata tardi in quel
mercato,11 solo a febbraio del 2000, cinque mesi dopo Yahoo! Japan. La
strategia di eBay era sbagliata fin dall’inizio. In Giappone eBay chiedeva il
pagamento di commissioni, a differenza del suo competitor Yahoo! Japan. Le
carte di credito erano ancora una rarità in Giappone, ma eBay richiedeva ai
clienti di usarle per iscriversi al sito. eBay scelse un amministratore delegato
giapponese e un partner locale (NEC) con scarsa esperienza di Internet,
mettendosi così sulla buona strada per l’insuccesso. Nell’estate del 2001
aveva conquistato appena il 3 per cento del mercato. Quando uscì dal
Giappone, a febbraio 2002, aveva appena 25.000 prodotti in vendita, rispetto
ai 3,5 milioni del rivale Yahoo! Japan. Nella terra del Sol Levante il sole era
già tramontato sulle ambizioni di eBay, che licenziò tutti i dipendenti.
Cosa fare? eBay riscuoteva più successo in Corea del Sud12 e a Taiwan,13
ma solo la Cina poteva davvero spostare l’ago della bilancia. Nel 2002 gli
utenti cinesi di Internet erano ormai 27 milioni, la quinta comunità online più
numerosa del mondo.14 Whitman aveva riconosciuto prima di tanti altri nella
Silicon Valley l’importanza della Cina: «Con il numero di abitanti e le
incredibili trasformazioni in corso, la nostra ipotesi è che la Cina possa
diventare uno dei mercati dell’ecommerce più grandi del mondo», dichiarò ai
media, ipotizzando per il 2006 un fatturato di 16 miliardi di dollari.
eBay non aveva compreso le esigenze dei clienti giapponesi, ma Whitman
era determinata a non ripetere l’esperienza in Cina. Decise di sostenere un
soggetto già dominante nel mercato locale: e EachNet era il candidato più
papabile. Il senior vicepresident di eBay Bill Cobb commentò in seguito:
«[Bo] aveva studiato eBay da cima a fondo e aveva cercato di adattare molti
dei suoi principi al mercato cinese.» Ovviamente era d’aiuto il fatto che Bo e
la cofondatrice Tan Haiyin avessero frequentato la Harvard Business School,
dove si era laureata anche Meg Whitman.
Tuttavia, eBay non voleva solo finanziare EachNet: voleva comprarla.
L’accordo iniziale15 assegnava a eBay un terzo dell’azienda ma anche
l’opzione di assumerne il controllo completo, cosa che fece appena quindici
mesi dopo, portando il suo esborso totale a 180 milioni. Ribattezzata eBay
EachNet, l’azienda divenne un veicolo per le aspirazioni di eBay in Cina. La
decisione di rilevare EachNet preparò il terreno per il trionfo di Alibaba e
l’umiliazione di eBay.16
All’inizio le cose sembrarono mettersi bene: con EachNet, eBay ottenne
una quota del 90 per cento nel mercato e-commerce consumer cinese. Ma nel
giro di due anni fu ridotta all’irrilevanza in Cina e costretta a battere in
un’altra imbarazzante ritirata da un mercato asiatico.
Come fece la situazione a precipitare così in fretta? Benché Whitman
avesse concesso a Bo una generosa allocazione di opzioni, la trasformazione
di EachNet in una controllata alterò inevitabilmente le dinamiche tra i
dirigenti di eBay. Poco dopo l’acquisizione, per motivi familiari Bo dovette
trasferirsi in California, e come mi ha raccontato nel 2015, Meg Whitman fu
molto generosa nell’aiutarlo a trasferirsi. Bo restò coinvolto nell’azienda, ma
la distanza tra San Jose e Shanghai iniziava a pesare. Ora che Bo non era più
a Shanghai, il direttore marketing negli Stati Uniti iniziò a dare ordini al
reparto marketing in Cina, e il direttore tecnico fece lo stesso.
Con l’acquisizione eBay aveva intaccato la cultura imprenditoriale di
EachNet. I danni inferti vennero a galla quando arrivò sulla scena un’altra
azienda imprenditoriale: Alibaba. Come non bastasse, Alibaba era finanziata
da SoftBank, responsabile della sconfitta di eBay per mano di Yahoo! Japan.
Uno sviluppatore senior di EachNet, che ha resistito in azienda per vari
anni dopo l’acquisizione, riassume così il problema di fondo: «eBay pensava
che il problema fosse già risolto, ma non era così.» eBay era partita come
leader di mercato, ma il mercato cresceva così in fretta che l’unica cosa che
contasse davvero era conquistare la quota dominante dei milioni di nuovi
acquirenti online. Il segreto del successo era aumentare il numero di utenti,
non difendere la posizione di leader.
Con il business B2B di Alibaba.com, Jack aveva inquadrato nel mirino
Merle Hinrichs di Global Sources. Per il nuovo business di e-commerce
consumer puntò a un bersaglio molto più grande, un’icona della Silicon
Valley: eBay e la sua Ad Meg Whitman.

Lo scontro diretto
Alibaba avviò i preparativi per l’ingresso nel mercato cinese dell’ecommerce
consumer nel 2002, inizialmente come mossa difensiva in reazione
all’ingresso di eBay. Come Jack ha spiegato in seguito: «Dovevo fermare
eBay per proteggere Alibaba.» Benché EachNet puntasse ai consumatori, e
non alle aziende servite da Alibaba, Jack temeva che alcuni dei venditori più
grandi attivi su EachNet potessero invadere il territorio di Alibaba:
«All’epoca c’erano solo due aziende in Cina che capissero a fondo i
marketplace online: eBay e Alibaba. Temevo soprattutto che i power seller di
eBay crescessero fino a competere nel settore B2B.»
Il progetto di Jack di puntare ai consumatori incontrò resistenza
dall’interno di Alibaba. Il business B2B non era ancora in attivo e il mercato
del venture capital restava chiuso per l’immediato futuro. L’azienda poteva
davvero permettersi di aprire un nuovo fronte mentre continuava a
combattere la battaglia per il B2B? Quella di Jack era solo paranoia?
Il Chief technology officer John Wu era fermamente contrario, e andò a
trovare Jack la sera prima del varo del nuovo progetto. Lo avvertì che quella
decisione avrebbe danneggiato Alibaba: «Come pensi di poter lottare contro
eBay?» Jack rispose che il mercato era ancora aperto: «Oggi ci sono cento
milioni di utenti su Internet, ma solo cinque milioni di loro comprano
online.» Gli ambiziosi progetti di Jack per Alibaba gli fornivano anche una
prospettiva diversa: «eBay vuole comprare il mercato cinese, ma noi
vogliamo creare il mercato cinese della compravendita online.»
Grazie all’esperienza diretta accumulata come piccolo imprenditore nello
Zhejiang, Jack era convinto che la minaccia di eBay fosse concreta: «In Cina
ci sono così tante piccole imprese che la gente non distingue chiaramente tra
azienda e consumatore. Il comportamento dei clienti e quello delle piccole
aziende è molto simile: una sola persona prende le decisioni per l’intera
organizzazione.» Jack capiva anche la tentazione di eBay, e in seguito ha
riflettuto: «Abbiamo lanciato Taobao non per fare soldi, ma perché negli Stati
Uniti eBay ricava gran parte del suo fatturato dalle piccole imprese.
Sapevamo che un giorno eBay si sarebbe mossa nella nostra direzione.»
Così fu presa la decisione: Alibaba avrebbe puntato al mercato
dell’ecommerce consumer. Jack si convinse ulteriormente dopo un viaggio a
Tokyo a fine 2002, dove trovò Masayoshi Son di ottimo umore. Yahoo!
Japan aveva appena scacciato eBay dal Paese, alleviando le tensioni di
SoftBank dopo i dolorosi anni di svalutazione delle dot-com. SoftBank si
impegnò con 80 milioni di dollari nel nuovo progetto di Alibaba.17
Sul progetto vigeva uno stretto riserbo: poche persone in Alibaba
sapevano che l’azienda meditava di puntare ai consumatori cinesi, e
tantomeno immaginavano che esistesse un team incaricato di costruire un
nuovo sito. La segretezza – e con essa un po’ di utile folclore aziendale – fu
garantita chiudendo una manciata di dipendenti, tra cui il cofondatore Toto
Sun, nell’originario appartamento ai Giardini sul lago in cui era stata fondata
Alibaba.
Due anni dopo Jack tornò a parlare del giorno in cui aveva invitato nel
suo ufficio una mezza dozzina di dipendenti attentamente selezionati:
«C’eravamo io, il direttore operativo, il direttore finanziario, il vicepresidente
delle risorse umane. Parlammo loro uno a uno: “L’azienda ha deciso di
assegnarti un progetto, ma dovrai lasciare la tua casa e non potrai parlarne
con i tuoi genitori né con il tuo fidanzato/a. Sei d’accordo?”» Segregato nel
piccolo appartamento, il team si mise al lavoro.
Per sferrare l’attacco a eBay, Jack voleva preservare l’elemento della
sorpresa. Illustrò la strategia attingendo al suo repertorio di storie sulle arti
marziali: «Ho visto molte persone gridare: “Abbattiamo il tempio di
Shaolin!” sostando ai piedi del Tempio di Shaolin: è un’assurdità. Tuttavia,
se vengo a sfidarvi davanti a casa vostra vuol dire che sono pressoché sicuro
di potervi battere. In futuro non avrete bisogno di gridare: appena vi vedranno
sul loro zerbino le persone si spaventeranno da sole.»
In tutto il corso del progetto Jack sottolineò che il loro obiettivo non era
EachNet ma la stessa eBay. Una volta che il progetto fu reso pubblico, volle
assicurarsi che la battaglia venisse vista come uno scontro tra Davide e Golia.
Un membro del team18 ricorda così l’atmosfera: «Eravamo solo un gruppetto
di provinciali che si batteva contro eBay.» In seguito Reuters riassunse la
cultura aziendale di Alibaba come «ecommerce in salsa kung fu con un tocco
di melodramma.»
Per tenere alto il morale, il piccolo gruppo di programmatori si prendeva
qualche pausa dal lavoro per giocare ai videogame o fare ginnastica. Jack li
incoraggiava a fare la verticale: spiegò che, da bambino, guardare il mondo
sottosopra gli aveva offerto una prospettiva diversa sulla vita.
Il nuovo business doveva chiamarsi «caccia al tesoro», in cinese
taobao.19 Lo slogan di Taobao.com era: «Non c’è tesoro che non si possa
trovare, non c’è tesoro che non si possa vendere.»
Taobao fu lanciato ufficialmente il 10 maggio 2003, una data
commemorata ogni anno come «Aliday»: un giorno in cui i dipendenti
portano la famiglia in ufficio e si celebrano i famosi matrimoni di gruppo.
L’Aliday rievoca lo spirito di squadra grazie al quale Alibaba è riuscita a
superare un ostacolo imprevisto che ha messo a dura prova i suoi dipendenti.

SARS Attacks
L’epidemia causata dal virus SARS (sindrome acuta respiratoria grave) partì
dalla Cina meridionale nel 2002 per poi propagarsi in tutto il mondo, facendo
ammalare ottomila persone e causando la morte di quasi ottocento. Settemila
delle persone infettate, e quasi tutte quelle che morirono, si trovavano tra la
Cina continentale e Hong Kong.
A Hangzhou, quattrocento dipendenti della sede centrale di Alibaba si
chiusero in casa in isolamento volontario quando una loro collega, Kitty Song
(Song Jie), si ammalò di un sospetto caso di SARS. Era stata a Guangzhou,
l’epicentro dell’epidemia, con un team di Alibaba che aveva partecipato alla
semestrale Fiera di Canton.
La SARS strinse ulteriormente i legami personali in un’azienda già coesa.
Poiché le sue origini e la portata del suo impatto erano sconosciuti, la SARS
fu un’esperienza spaventosa, come ebbi modo di scoprire personalmente,
trovandomi a Pechino in quel periodo. L’epidemia ebbe l’effetto di creare
fratellanza tra le persone.
All’inizio di maggio Jack si legò al viso una mascherina protettiva, come
quelle che l’azienda aveva distribuito a tutti i dipendenti, e varò un piano che
confinava tutti i dipendenti nelle loro case per una settimana. Gli uffici di
Alibaba furono chiusi per evitare il contagio dovuto all’esposizione al caso
sospetto. In una lettera ai dipendenti diffusa quel giorno, Jack sfruttò tutta la
sua abilità di motivare le truppe e di tenerle focalizzate sugli obiettivi: «Ci
preoccupiamo l’uno per l’altro e ci sosteniamo a vicenda. Non dimentichiamo
mai la missione e i doveri di Alibaba, neanche di fronte alla minaccia della
SARS. La tragedia passerà ma la vita andrà avanti. La necessità di lottare
contro la catastrofe non deve impedirci di lottare per l’azienda che amiamo.»
Pur avendo ucciso quasi ottocento persone, l’epidemia ebbe un impatto
stranamente positivo sul settore Internet cinese, compresa Alibaba. La SARS
potenziò la telefonia mobile digitale e l’uso della rete, e così giunse a
rappresentare il momento di svolta in cui Internet si impose in Cina come
autentico mezzo di comunicazione di massa.
Il virus stimolò moltissimo la diffusione degli sms, ampliando il giro
d’affari degli operatori telefonici come China Mobile. Ma aiutò anche i tre
portali Internet cinesi, grazie ad accordi di ripartizione degli introiti con
l’operatore telefonico. Man mano che le azioni di Sina, Sohu e NetEase
iniziavano a rivalutarsi, si riaccese improvvisamente l’interesse degli
investitori per le aziende cinesi di tecnologia. Oltre ai cellulari, anche
l’accesso a Internet su banda larga ricevette una forte spinta, perché milioni
di persone, costrette a casa o in dormitorio per giorni o settimane, cercavano
informazioni e intrattenimento su Internet.
Dopo qualche giorno di confinamento, i dipendenti di Alibaba si fecero
installare connessioni Internet in casa. Le autorità di Hangzhou fornivano
cibo e visite di disinfezione due volte al giorno e i dipendenti continuarono a
lavorare, organizzando teleconferenze online.
Era difficile trovare informazioni attendibili sulla SARS, soprattutto nei
primi mesi dell’epidemia, quando i media ufficiali cinesi restavano muti,
compresa la televisione di Stato, la China Central Television. La gente
ricorreva allora ai cellulari e ai computer per cercare notizie sul virus e sui
modi migliori per difendersi. E soprattutto – l’elemento più importante per
Alibaba – la SARS convinse milioni di persone, troppo spaventate per uscire
di casa, a provare lo shopping online.
Il sospetto caso di SARS in azienda si rivelò non infettato dal virus, e così
per Alibaba la SARS finì per essere una benedizione inaspettata. Poiché il
team segreto di Taobao lavorava nell’appartamento ai Giardini sul lago, non
fu toccato dalla quarantena imposta al resto degli uffici. Jack era ancora
confinato in casa e non riuscì a raggiungere il team Taobao per il lancio del
10 maggio, come ricordò in seguito: «Alcuni di noi si accordarono per parlare
al telefono alle otto di sera, alzammo i calici e dicemmo: “Auguriamo buon
viaggio a Taobao”. Il giorno del lancio di Taobao sul sito c’era scritto:
“Esprimiamo riconoscenza alle persone che si sono impegnate nel lavoro
durante la SARS”.»

Durante l’epidemia di SARS, i dipendenti di Alibaba si misero in quarantena volontaria e lavorarono da


casa. 2003. Alibaba

Taobao
Al momento del lancio, il 10 maggio, gli utenti che visitavano Taobao non
trovavano alcun riferimento ad Alibaba. Taobao faceva una virtù del suo
status di startup, affidandosi al passaparola per il marketing e promuovendosi
con messaggi pubblicati sui tanti forum gratuiti che all’epoca erano popolari
in Cina.
Il legame di Taobao con Alibaba era un segreto così ben custodito che
vari dipendenti di Alibaba espressero alla dirigenza qualche preoccupazione
su un potenziale nuovo rivale sbarcato sulla scena. Ricorda Jack: «Abbiamo
una intranet molto attiva. A fine giugno qualcuno postò un messaggio che
chiedeva all’alta dirigenza di prestare attenzione a un certo sito, che in futuro
sarebbe potuto diventare un nostro competitor.» Ben presto sull’intranet
aziendale si accesero grandi dibattiti su chi potesse nascondersi dietro
Taobao, e contemporaneamente i dipendenti facevano notare la scomparsa di
alcuni loro colleghi. Alla fine, il 10 luglio 2003 Alibaba annunciò che Taobao
faceva parte dell’azienda. «Negli uffici riecheggiarono grida di giubilo»,
ricorda Jack.
Il segreto era svelato e, con tutte le risorse di Alibaba a sua disposizione,
Taobao era pronta a sfidare eBay. Ma Jack voleva che Taobao mantenesse
una cultura innovativa, da startup, e in questo fu aiutato da una mossa
preventiva con cui eBay cercò di chiudere il mercato. eBay firmò contratti
pubblicitari in esclusiva per promuovere il suo sito su tutti i grandi portali
cinesi, impedendo loro di pubblicare inserzioni che pubblicizzassero siti
rivali. Questo costrinse Alibaba a adottare una serie di tecniche di guerrilla
marketing, come rivolgersi a centinaia di siti e community online, piccole ma
in rapida crescita, che eBay aveva considerato irrilevanti.
Con il sostegno di SoftBank, Jack si ispirò a Yahoo! Japan per la mossa
successiva. Nel 1999, quando aveva lanciato il suo business di e-commerce,
l’Ad Masahiro Inoue aveva chiesto ai 120 dipendenti di mettere in vendita
oggetti personali sul nuovo sito per farlo sembrare attivo e popolare. Quattro
anni dopo in Cina Jack fece la stessa cosa: «Avevamo sette, otto persone in
totale [nel team Taobao] e ciascuno doveva trovare quattro oggetti. Frugai nei
cassetti e negli armadi di casa. Non possedevo quasi nulla […] Mettemmo
insieme una trentina di oggetti, io compravo il tuo e tu compravi il mio: iniziò
così […] Misi in vendita persino il mio orologio.»
Jack insistette anche affinché Taobao mantenesse una cultura
spiccatamente locale, compresi i soprannomi tratti dai romanzi di Jin Yong o
da altri racconti celebri.20 Taobao riuscì a sviluppare una cultura specifica e
un forte senso di squadra. Ma non avrebbe guadagnato un soldo per anni.
Fortunatamente Alibaba poté contare anche stavolta sul sostegno di
SoftBank. A febbraio 2004 SoftBank capeggiò un nuovo investimento da 82
milioni per riempire le casse di Alibaba in previsione della lunga battaglia di
Taobao contro eBay.
Questa transazione segnò anche la fine delle relazioni con Goldman
Sachs. Shirley Lin aveva lasciato la banca nel maggio 2003. Senza più
nessuno a supervisionare la quota, Goldman l’aveva svalutata fino a zero.
L’anno successivo, appena prima del nuovo investimento capeggiato da
SoftBank, Goldman vendette tutto il suo 33 per cento. Aveva pagato 3,3
milioni nel 1999 e lo rivendeva dopo cinque anni a oltre sette volte quella
cifra. Sembrò un buon risultato all’epoca, ma nessuno di coloro che si
occuparono di quell’operazione restò in Goldman per prendersene il merito.
Gli investitori che rilevarono la quota la videro rivalutarsi all’istante, appena
SoftBank anticipò nuovi fondi a Taobao. Ma per Goldman il peggio doveva
ancora venire: nel 2014 si chiarì la vera entità dell’errore commesso. La
quota che la banca aveva pagato 3,3 milioni nel 1999 sarebbe arrivata a
valere oltre 12,5 miliardi al momento dell’IPO, se l’avesse conservata.
Peggio ancora, ciascuno dei soci poteva calcolare il proprio mancato
guadagno personale. Alcuni calcolarono di averci rimesso più di 400 milioni
di dollari: parecchie ville negli Hamptons.
Oltre a SoftBank, altri investitori concessero nuovi finanziamenti ad
Alibaba, tra cui Fidelity Investments, Venture TDF e il nuovo investitore
Granite Global Ventures (in seguito GGV Capital), sostenuto dall’affiliata di
Rockefeller Venrock. L’accordo fu annunciato nell’ambito di un’iniziativa di
«espansione aggressiva» per fare di Taobao «il marketplace online più
popolare per i rivenditori cinesi e gli individui che vogliano mettere in
vendita i loro prodotti su Internet.»
Masayoshi Son si schierò pubblicamente a favore della strategia di
Alibaba. Quattro anni dopo l’investimento iniziale di SoftBank in Alibaba, si
dichiarò «estremamente soddisfatto» e si disse convinto che «Alibaba può
diventare un gigante come Yahoo!». Nel frattempo Alibaba rivelò che il
fatturato del suo sito B2B Alibaba.com era triplicato nell’anno precedente,
portando finalmente i conti in attivo.
Nonostante i nuovi finanziamenti di Taobao, eBay non si rendeva ancora
conto della minaccia e continuava a ritenersi molto superiore a
quell’eccentrico rivale locale. Quando BusinessWeek gli chiese dei
concorrenti cinesi, nella primavera del 2004, il senior vicepresident di eBay
Bill Cobb ne menzionò solo uno: 1Pai, una joint venture tra Yahoo! e Sina.
Jack era ben felice di essere ignorato. «Nel primo anno eBay non ci
considerava un suo rivale. Non pensava neppure che potessimo diventarlo.
Pensavano: “Non abbiamo mai sentito parlare di questo Alibaba. Che strano
nome.” Tutti i cinesi sanno cosa vuol dire tao bao, ma gli stranieri no.»
eBay non dubitava che la sua rete globale e la sua vasta esperienza
avrebbero assicurato a EachNet un netto vantaggio sulla concorrenza. Ma la
burocrazia aziendale, aggravata dalle difficoltà di comunicazione tra i livelli
di una gerarchia che si estendeva geograficamente fino a San Jose, era
destinata a soffocare le poche scintille di imprenditorialità che ancora
ardevano in EachNet a Shanghai. L’avventura cinese di eBay, durata dal
2003 al 2006, è oggi un case study su come non gestire un business in un
mercato fisicamente lontano.
Il primo grave errore di eBay fu dire al mercato che la Cina era già un
asso nella manica. Meg Whitman ha il merito di aver riconosciuto il
potenziale della Cina come mercato online prima di molti altri. Il suo precoce
interesse per le opportunità commerciali in Cina fu stimolato da un legame
familiare con il Paese. «Negli anni Settanta mia madre era stata invitata a
partecipare a una visita guidata in Cina con un gruppo di donne capitanato
dall’attrice Shirley MacLaine. C’erano molti motivi per non andare: all’epoca
la Cina era un Paese in via di sviluppo che per molti anni era rimasto
inaccessibile agli stranieri. E mia madre aveva solo dieci giorni per
prepararsi. Ma anziché preoccuparsi per la sua incolumità colse l’occasione
di vivere un’avventura. Nell’arco di un mese il gruppo percorse 3200
chilometri in Cina, quasi tutti in treno, visitando scuole, fattorie e villaggi.»
Whitman ricorda che quel viaggio «cambiò la vita a mia madre e,
indirettamente, anche a me. Negli anni successivi mia madre imparò a parlare
il mandarino e tornò in Cina ottanta volte. E dopo il primo viaggio disse a me
e a mia sorella: “Ho visto donne che facevano cose meravigliose: quindi
sappiate che avete la possibilità di fare tutto ciò che volete e di essere chi
volete.”»
Mary Meeker, all’epoca analista web in Morgan Stanley, dov’era
soprannominata la «Regina di Internet»,21 era uno dei sostenitori più convinti
di Meg Whitman. Il crollo delle dot-com aveva incrinato la reputazione di
quasi tutta la comunità di ricerca tecnologica di Wall Street, ma la Cina
svolse un ruolo importante nella redenzione di Meeker. Ad aprile 2004
Morgan Stanley pubblicò un rapporto di 217 pagine, firmato da lei, che
presentava un profilo del settore Internet cinese. Sarebbe stato ristampato
oltre venticinquemila volte. Meeker aveva fama di bastian contraria: «Uno
dei migliori investimenti degli ultimi decenni è stato il mercato immobiliare
di New York, e gli investitori guadagnavano di più negli anni Settanta e
Ottanta, quando la gente veniva rapinata per le strade […] La lezione da
trarne è che si guadagna di più quando si comprano cose fuori moda.»

Chi vince in Cina vince il mondo


Ora Meeker vedeva la Cina come la successiva grande occasione. Scegliere
l’azienda giusta su cui scommettere non era facile, disse, quindi
raccomandava agli investitori di puntare sulle aziende della Silicon Valley
che erano esposte in Cina: «Sia Yahoo! sia eBay hanno attività interessanti
sul mercato cinese. Quindi il nostro semplicistico punto di vista è che uno dei
modi per operare sul mercato cinese sia possedere Yahoo! o eBay.» Il
rapporto citava Whitman, che alzava la posta in gioco: «Chi vince in Cina
vince il mondo.»
Il sostegno esplicito di Meeker per Whitman, compresi gli elogi alla sua
strategia in Cina, aiutarono le azioni di eBay a guadagnare l’80 per cento nel
2004. Ma la crescita della valutazione non lasciava indovinare le difficoltà
dell’azienda. Una serie di aumenti delle commissioni generò proteste da parte
dei venditori online, che si riunirono a decine di migliaia per denunciare
«FreeBay» o «GreedBay» («la baia dell’avidità»). Le lamentele aumentarono
a febbraio del 2005 quando eBay alzò le commissioni di quasi il 3 per cento
(portandole all’8 per cento). Whitman restava ottimista: «Da sempre la
community di eBay esprime chiaramente le sue opinioni.» Ammise però che i
venditori insoddisfatti «sono forse un po’ più espliciti che in passato.»
La Cina divenne un’utile esca per distrarre gli investitori dai problemi in
patria. E quel che è peggio, prima ancora che l’azienda avesse consolidato la
propria posizione nel nuovo mercato, un ottimismo eccessivo sulle possibilità
di vittoria in Cina, sia in eBay sia nella neoacquisita PayPal, assicurò una
rimozione collettiva anche di fronte ai segnali che le cose non stavano
andando secondo i piani. La Cina era considerata così importante che i
manager, volendo dare buone notizie a Whitman e agli altri alti dirigenti, si
assicuravano che le presentazioni di PowerPoint contenessero solo
informazioni confortanti e sprizzavano ottimismo nelle teleconferenze. Ma a
causa degli errori commessi da eBay, oltre che delle mosse competitive di
Alibaba, quella rappresentazione era sempre più lontana dai fatti.
L’errore più grave di eBay riguardava la cultura aziendale.
L’atteggiamento di superiorità ostentato da eBay demoralizzava il team
originario di EachNet a Shanghai, dove i dirigenti di eBay venivano
paracadutati da San Jose o da altre propaggini dell’impero aziendale. Per
quanto bravi fossero i nuovi arrivati, quasi nessuno di loro parlava il cinese.
Comprendere il mercato locale era una strada in salita per loro. Alcuni
membri di spicco del team EachNet decisero di andarsene, e nei colloqui di
uscita si dissero turbati perché San Jose non li coinvolgeva più nelle decisioni
cruciali. eBay aveva inviato a Shanghai alcuni dirigenti nati in Cina, ma quasi
tutti avevano studiato o lavorato per molti anni negli Stati Uniti, e si crearono
frizioni e malintesi con il team locale. EachNet si ritrovò in netto svantaggio
rispetto a Taobao, il cui staff era cinese al cento per cento.
Questo divario si rifletteva nella grafica dei due siti rivali. eBay iniziò
subito ad allineare il sito di EachNet al suo sito globale, rivedendo la
categorizzazione dei prodotti e alterandone il design e la funzionalità. Quella
novità non solo generò confusione nei clienti ma non piacque neppure ad
alcuni venditori importanti, che si videro cancellare i preziosi nomi utente
legati alla reputazione accumulata sul sito e al feedback, costringendoli a
chiedere nuovi nomi su una piattaforma globale e sconosciuta. Peggio ancora,
il sito cinese non aveva un numero di telefono per il customer service. Il sito,
che imitava pedissequamente quello americano di eBay, appariva esotico agli
utenti locali, che lo trovavano «vuoto» rispetto ai siti cinesi.
Nel design dei siti web la cultura è importante. In Occidente, siti come
Google erano diventati celebri per le linee pulite e l’essenzialità dello «spazio
negativo». Ma al mass market degli utenti web cinesi, abituati ai pop-up e ai
banner pubblicitari semoventi, quei siti sembravano statici e noiosi. Come
potete vedere voi stessi visitando taobao.com, i siti cinesi di successo sono
solitamente ricchi di informazioni e grafica multimediale, e richiedono di
scrollare a lungo per arrivare in fondo alla pagina. Fin dall’inizio Taobao è
sempre stato un sito costruito dai cinesi per i cinesi. E ha funzionato.
Ma non è solo grazie alla grafica che Taobao è riuscita a connettersi ai
consumatori. Il sito era strutturato come un bazar di quartiere, con idee
innovative come un pulsante che gli acquirenti maschi o femmine potevano
cliccare per vedere prodotti più affini ai loro interessi. Il design del sito ne fa
il discendente virtuale del mercato all’ingrosso di Yiwu, da cui Jack e molti
altri imprenditori dello Zhejiang avevano tratto ispirazione. Il fondatore di
un’altra azienda di e-commerce, più di nicchia, spiega: «Se vai a Yiwu puoi
ordinare anche solo tre paia di scarpe. C’è una fabbrica specializzata in suole,
un’altra in tomaie, un’altra ancora – o magari un piccolo villaggio – che
produce solo lacci. Taobao ha fatto leva sulla voglia di guadagnare di quei
piccoli venditori.»
Per aziende come eBay e Amazon, l’esperienza accumulata negli Stati
Uniti e in altri mercati occidentali si dimostrò di scarsa utilità. «L’ecommerce
in Cina è molto strano», prosegue il fondatore dell’azienda rivale. «È iniziato
con il C2C (consumer-to-consumer) e con prodotti non standardizzati. Erano
siti molto diversi da Amazon, molto diversi dall’opinione diffusa secondo cui
si dovrebbe iniziare con prodotti standardizzati, come i libri. Più la supply
chain è standardizzata, più sono alte le barriere per i rivenditori dell’e-
commerce. I piccoli negozi a conduzione familiare che vendono prodotti non
standardizzati sono più elastici, più flessibili nella fornitura della merce. È un
fenomeno che si verifica solo in Cina. La mancanza di catene di
approvvigionamento nazionali ha rimosso le barriere all’ingresso che
esistono in Occidente, permettendo ai singoli individui di guadagnare.22
Iniziando con il C2C, il fattore prezzo diventava molto attraente. I singoli
individui23 erano felici di guadagnare anche solo cinque mao (meno di un
centesimo di dollaro) per ogni vendita.»
Aiutata anche stavolta dalle sue radici nello Zhejiang, Taobao riuscì a
battere eBay perché capiva meglio i venditori cinesi, per i quali l’iscrizione al
sito era sempre stata gratuita. Come la gratuità era un principio fondante per
il B2B su Alibaba.com, così divenne un’arma competitiva importante per
Taobao.com. Gli acquirenti non pagano nulla per iscriversi o completare
transazioni; i venditori non pagano nulla per iscriversi, mettere in vendita i
prodotti e venderli.
EachNet era gratuito all’inizio, ma a fronte di costi sempre più alti
nell’agosto 2001 aveva iniziato a chiedere una tariffa per la messa in vendita,
e un anno dopo aveva implementato commissioni su tutte le transazioni. Ne
risultò una drastica riduzione del numero di aste sul sito ma, data la
situazione dei mercati del venture capital, la dirigenza di EachNet era
convinta di non avere scelta. Proprio la decisione di iniziare a chiedere
pagamenti – cruciale per il modello di eBay – fu paradossalmente l’evento
che la spinse a valutare l’acquisizione di EachNet. Ma una volta assunto il
comando in Cina, eBay iniziò a spingere per la cultura dei pagamenti in
modo molto più aggressivo rispetto a Bo e al suo team. Il vicepresidente del
marketing globale di eBay, Bill Cobb, riassunse così la situazione:24 «Siamo
interessati soprattutto ad accertarci di avere una struttura sostenibile.
Abbiamo riprodotto il formato essenziale di eBay – le tariffe di inserzione, le
tariffe sul prezzo finale, le tariffe sulle funzionalità – ma a un livello
inferiore.»
D’altronde, la decisione di Taobao di non richiedere il pagamento di
tariffe non era esente da rischi, dato che obbligava l’azienda a ricercare altre
fonti di reddito, soprattutto se il sito fosse diventato popolare e i costi
operativi fossero aumentati. Ma rendere gratuito il servizio per venditori e
acquirenti si rivelò il fattore cruciale che avrebbe decretato il trionfo di
Taobao su eBay. Uno studio25 che analizzava i dati sulle transazioni di
Taobao raccolti nell’arco di oltre dieci anni concludeva26 che nella prima fase
della storia dell’azienda attrarre i venditori, che in Cina sono particolarmente
allergici al pagamento di tariffe, era più importante che attrarre gli acquirenti.
La popolarità di Taobao era alimentata da un «circolo virtuoso»: più venditori
e più prodotti in vendita spingevano nuovi acquirenti a iscriversi al sito, i
nuovi clienti attiravano nuovi venditori e così via.
Oltre a richiamare i consumatori, l’offerta di servizi gratuiti permetteva a
Taobao di non lasciarsi distrarre da un problema che aveva afflitto EachNet
fin dall’inizio: come impedire che venditori e acquirenti trovassero modi per
usare il sito semplicemente per incontrarsi, e poi condurre le transazioni
offline o con altri mezzi. Poiché Taobao non chiedeva pagamenti, non era
incentivata a punire quel comportamento. Al contrario, Taobao incoraggiava
attivamente la comunicazione tra le parti, mettendo a disposizione forum e, a
partire da giugno 2004, lanciando una finestra di chat integrata nel sito con
software proprietario, chiamata AliWangwang.27 Gli acquirenti usano il
servizio per contrattare sul prezzo con i venditori, un’usanza tipica nella
vivace cultura dei mercati cinesi. La comunicazione è un elemento
fondamentale del commercio ma gli utenti di eBay faticavano a comunicare
con i venditori.
Progettato con la collaborazione degli utenti di Taobao, AliWangwang è
uno dei primi esempi del tipo di «innovazione trainata dal consumatore» che
oggi caratterizza le aziende di tecnologia cinesi, come il ruolo svolto dal fan
club del produttore di cellulari Xiaomi nel suggerire nuove funzionalità per i
prodotti.
Ancora oggi AliWangwang resta una funzionalità molto usata su Taobao,
permettendo ai consumatori di curare una lista di venditori personali – uno
per i cosmetici, per esempio, e uno per il latte in polvere – che sono a loro
disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro. Il servizio clienti di Taobao è
così efficiente da incutere soggezione. Un acquisto su Taobao è spesso
accompagnato da una serie di messaggi su AliWangwang, con inchini e
ossequi virtuali rivolti dal venditore al cliente, che a volte fatica a porre fine
alla conversazione.
Ma indipendentemente dall’attrazione esercitata da Taobao, una decisione
di eBay nel settembre 2004 avrebbe spinto molti clienti ad allontanarsi da
EachNet. I dirigenti di eBay a San Jose decisero di «migrare» il sito cinese
negli Stati Uniti. Il sito, finora ospitato su server cinesi, fu trasferito
fisicamente negli Stati Uniti. In un’Internet senza confini, il luogo geografico
che ospita un sito non dovrebbe fare alcuna differenza. Ma la Cina non è
un’Internet senza confini. Oggi il governo cinese promuove attivamente la
sua visione della «sovranità online» in tutto il mondo: rifiuta l’idea che i
confini virtuali di uno Stato-nazione debbano essere meno importanti delle
frontiere fisiche. In Cina gli effetti dell’impegno profuso dal governo per
costruire ed estendere il «Grande Firewall Cinese» fanno sì che spesso i siti
ospitati su server esteri si carichino molto più lentamente di quelli
fisicamente localizzati in Cina. Tutto il traffico web che accede a siti ospitati
fuori dalla Cina continentale deve passare attraverso una serie di strozzature
in cui la richiesta viene controllata. Questa procedura serve ad assicurarsi che
un sito straniero non mostri materiale considerato «sensibile» dal governo
cinese, tra cui le «tre T» (Tibet, Taiwan e piazza Tienanmen). Questi e altri
argomenti sensibili, come le proteste nello Xinjiang, sono ritenute il motivo
per cui la Cina ha bloccato alcuni dei siti più visitati al mondo, da Twitter a
YouTube, da Facebook a (sempre di più) Google.
Se l’e-commerce e lo shopping online tendono a non riguardare quei temi
sensibili, tuttavia il Grande Firewall blocca spesso anche attività o richieste
del tutto innocue. Per esempio, quando eBay ebbe trasferito i suoi server
fuori dalla Cina, un utente che avesse un «64» o un «89» nel nome rischiava
di vedersi bloccare l’account o di non poter accedere a Internet: questo perché
entrambi i numeri fanno scattare in automatico la censura con cui il governo
cerca di impedire ogni menzione degli eventi accaduti in piazza Tienanmen il
4 giugno 1989 (6/4/89).
eBay aveva i suoi motivi per volere la migrazione. Al crescere del giro
d’affari in Cina, i programmatori a San Jose temevano che la piattaforma
costruita da una startup di Shanghai potesse non reggere l’aumento del
traffico. Si scoprì che EachNet aveva costruito una tecnologia robusta,
scalabile anche di cento volte. Ma dopo una serie di blackout che avevano
minato la reputazione del sito in patria, eBay era ossessionata dalla stabilità
della piattaforma; perciò decise di effettuare in ogni caso la migrazione. Il
fascino dell’idea di un sito unificato per tutti i mercati globali, con una serie
di funzionalità coerenti, era irresistibile.
Alcuni alti dirigenti di eBay sapevano già che la migrazione sarebbe stata
un errore – l’azienda ne aveva già visto l’impatto negativo a Taiwan – ma
stranamente i manager di San Jose proibirono ai dirigenti di eBay a Taipei di
parlare della loro esperienza con il team di Shanghai.
Come previsto, appena il sito cinese fu migrato e integrato nel sito
globale, l’impatto sul traffico di EachNet fu disastroso: precipitò a ritmi
vertiginosi. I clienti in Cina riscontravano lunghi ritardi e timeout sul sito.
Perché aspettare che si caricasse eBay – un sito che chiedeva il pagamento di
tariffe – quando Taobao era disponibile all’istante e gratuitamente?
La migrazione fu anche costosa per eBay, perché l’azienda era solita
procedere alla manutenzione dei server ogni giovedì alla mezzanotte della
Costa Ovest, prima del picco di traffico del venerdì: ma quell’orario
coincideva con l’ora di punta del traffico cinese, quindici ore avanti rispetto a
San Jose. EachNet cercò di modificare gli orari di manutenzione, ma senza
successo.
Meg Whitman aveva fatto della Cina una priorità assoluta per eBay. Ma
quando la migrazione fece crollare il traffico in Cina, nessuno glielo disse. Lo
scoprì solo un mese dopo, durante una visita a Shanghai, e andò su tutte le
furie.
Nella sede cinese dell’azienda la situazione precipitò rapidamente. Una
volta trasferito il sito negli Stati Uniti, tutte le richieste di modifica inoltrate
dai programmatori in Cina venivano accumulate in quello che l’azienda
chiamava «sistema a treno.» Ogni reparto inviava le sue richieste di
intervento che, come in una catena di montaggio, venivano messe in fila e
aggregate a formare un «treno di esigenze». Per cambiare una parola sul sito
potevano volerci nove settimane. Per cambiare una funzionalità ci voleva un
anno.
Com’era possibile che eBay fosse così inefficiente? Ci sono due
spiegazioni possibili. Anzitutto, il monopolio di fatto di cui eBay godeva
negli Stati Uniti la induceva a sedersi sugli allori. In secondo luogo,
nonostante la vicinanza alla Silicon Valley, eBay non se l’è mai cavata molto
bene con la tecnologia. Sono rimaste celebri le parole di un dirigente che una
volta dichiarò in pubblico: «Anche una scimmia saprebbe dirigere questa
azienda.» Dopo gli imbarazzanti blackout, la stabilità e i processi avevano la
priorità sulla tecnologia.
Quando Taobao apparve sulla scena, il sistema a «treno» di eBay palesò
subito la sua inefficienza. I dirigenti di EachNet cercarono disperatamente di
avvertire San Jose del pericolo, ma invano.
Benché Taobao avesse i suoi meriti, Alibaba non riusciva a credere alla
sua fortuna quando si trovò di fronte l’inefficienza di quell’azienda
teoricamente di caratura mondiale. Jack paragonò le difficoltà di eBay a un
jumbo jet: «Una piattaforma tecnologica globale è una bella idea, in teoria,
come un Boeing 747 in volo. Ma se l’aeroporto è il cortile di una scuola, non
riesci ad atterrare. Anche se vuoi solo modificare un pulsante, devi contattare
quattordici livelli della gerarchia.»
Ricordando il fiasco di otto anni prima nel suo nuovo ruolo come
amministratore delegato di Hewlett-Packard, Meg Whitman si disse
dispiaciuta per gli errori commessi da eBay in Cina. «In quel mercato
servono una serie di prodotti progettati su misura dai cinesi. Non è un
mercato in cui si possa importare un prodotto o un sistema che funziona in
Europa o negli Stati Uniti.»
Whitman ammette anche che la migrazione dei server è stata il colpo di
grazia per le ambizioni cinesi di eBay. «Abbiamo commesso un unico grande
errore. Avremmo dovuto lasciare EachNet sulla sua piattaforma in Cina.
Invece l’abbiamo spostata sulla piattaforma globale di eBay perché aveva
funzionato in tutti gli altri Paesi. Aveva funzionato in Europa occidentale,
ovunque. […] Avevamo comprato tutti quei piccoli eBay e li avevamo
trasferiti su un’unica piattaforma, una procedura che presentava molti
vantaggi. Il primo vantaggio era il costo. Il secondo è la rapidità di arrivo sul
mercato, perché quando introduci la funzione “Compralo subito” la puoi
introdurre simultaneamente in trenta Paesi anziché un Paese alla volta. Ma in
Cina abbiamo fatto un errore.»
Whitman elogia Alibaba per aver progettato Taobao in sintonia con il
mercato locale: «Avevano una piattaforma tarata sulla Cina e inoltre per
molti anni non hanno chiesto alcun pagamento: sono stati più bravi di noi
nell’esecuzione.»
Dopo l’uscita di Bo, eBay stentò a trovare un successore ed ebbe una
serie di amministratori delegati, da James Zheng a un americano nato a
Taiwan, Martin Wu, proveniente da Microsoft China, che restò in carica per
un solo anno.
Oggi Whitman rimpiange l’imprenditore che aveva fondato EachNet:
«Avrei dovuto lasciare Bo Shao al comando, mantenere il 30 per cento che
detenevamo in origine e dargli la possibilità di lavorare a modo suo.»
Vedendo che eBay era in difficoltà sul mercato cinese, Jack si fece avanti.
A una celebrazione durata quindici ore in uno stadio di Hangzhou nel
settembre 2004, organizzata per festeggiare il quinto compleanno di Alibaba,
tenne un discorso davanti a tutti i duemila dipendenti dell’azienda, compreso
il sempre più numeroso team di Taobao, che sventolava bandiere con la
mascotte del sito, una formica operaia. La formica era stata scelta per
simboleggiare come anche le creature più piccole possano averla vinta sui
nemici, a patto però di collaborare. A quel punto tutta la platea si prese per
mano e cantò in coro una canzone intitolata «I veri eroi», che con le parole
«Devi attraversare la tempesta per vedere l’arcobaleno, e non è facile» si
riferiva alla sfida della SARS che avevano superato. Poi cantarono tutti: «Le
formiche coalizzate possono sconfiggere un elefante» e poi andarono tutti in
una discoteca, dove Jack ballò sul bancone del bar fino a tarda notte.
L’elefante da sconfiggere era ovviamente eBay. Fin da quando aveva
ideato Taobao, Jack aveva mantenuto una focalizzazione implacabile
sull’azienda. Con un’analogia che faceva spesso, nel 2005dichiarò a Forbes:
«eBay sarà anche uno squalo nell’oceano, ma io sono un coccodrillo nel
Fiume Giallo. Se combattiamo nell’oceano perdiamo, ma se combattiamo nel
fiume vinciamo.»
Le sorti dello scontro stavano virando a sfavore di eBay. Partendo da una
quota di mercato superiore al 90 per cento nel 2003, l’anno successivo ne
perse la metà e vide erodersi il vantaggio su Taobao.
eBay aveva anche un altro problema: i pagamenti online.
Il 18 ottobre 2003, appena cinque mesi dopo il lancio di Taobao, Alibaba
varò Alipay, la sua soluzione proprietaria per i pagamenti. Pur essendo
rudimentale – ricordava i primordi del registro clienti di Alibaba, tre anni
addietro – piacque subito agli utenti.
Lucy Peng, una dei cofondatori di Alibaba, è oggi amministratore
delegato di Ant Financial, l’affiliata di Alibaba che controlla Alipay. Nel
2012, durante una tavola rotonda da me moderata all’università di Stanford,
rifletteva così sul lancio del servizio: «Il semplice modello [di escrow, cioè
deposito presso terzi vincolato a garanzia] ha creato fiducia nello shopping
online ai suoi albori. Era un modello molto rudimentale. […] Nel primo
periodo di vita di Alipay c’era un reparto che possedeva un fax e, quando i
clienti trasferivano il denaro tramite una banca o un ufficio postale, quel
reparto doveva faxare le ricevute a Taobao. A quel punto controllavamo le
ricevute e davamo la conferma.»
Sarebbero passati tre mesi prima che eBay si rendesse conto della
minaccia rappresentata da Alipay. A gennaio 2004 PayPal assemblò una task
force a San Jose per riprendere il lavoro sul progetto di EachNet di una
soluzione escrow.
Negli Stati Uniti, eBay aveva sborsato 1,4 miliardi di dollari per comprare
PayPal nel 2002. Ma era stata lenta a integrare l’azienda e a estenderne
l’attività alla Cina. A discolpa di PayPal va detto che gli ostacoli posti dalle
autorità di regolamentazione cinesi avevano influito molto sui ritardi: il
settore bancario cinese è attentamente monitorato dal governo. Inoltre la
valuta cinese non è liberamente convertibile, quindi i fornitori esteri di servizi
di pagamento non possono facilitare le transazioni internazionali né offrire
credito. PayPal impiegò del tempo a trovare il modo di aggirare queste
difficoltà, per esempio entrando in partnership con aziende locali.
PayPal era leggendaria negli Stati Uniti per la sua propensione al rischio e
per la spavalderia dei fondatori e dei primi dirigenti, noti come «la mafia di
PayPal»: Peter Thiel, Reid Hoffman (cofondatore di LinkedIn) e, dopo che
PayPal ebbe rilevato la sua azienda di pagamenti, Elon Musk (Tesla Motors,
SpaceX, SolarCity). Ma all’interno di eBay, e lontano da casa, in Cina PayPal
avrebbe sofferto fin dal primo giorno.
I tentativi di trovare una strada percorribile per l’azienda in Cina si
complicarono ulteriormente quando negli Stati Uniti AT&T fece causa a
PayPal per violazione di brevetto, costringendola a interrompere il lavoro
sulle soluzioni escrow. Per portare avanti il tentativo di risolvere il problema
della Cina, il nuovo China Development Center di eBay lanciò una sua
proposta di un prodotto escrow, An Fu Tong (AFT). L’idea era che, mentre
PayPal era indaffarata con la causa legale negli Stati Uniti, AFT si sarebbe
potuto usare come soluzione provvisoria. Alla fine, a dicembre 2004, eBay
riuscì a offrire una risposta ad Alipay e varò AFT in Cina. Ma nel frattempo
PayPal aveva risolto la disputa con AT&T e voleva lanciare la sua soluzione
al posto di AFT. Intanto Alibaba non era rimasta con le mani in mano, e
aveva apportato una lunga serie di miglioramenti ad Alipay, tra cui le
notifiche sms delle transazioni e, in collaborazione con i corrieri cinesi, le
notifiche sulle spedizioni. Il «triangolo di ferro» di Alibaba iniziava a
prendere forma.
Per Alan Tien, un ingegnere laureato a Stanford che dal 2004 lavorava
all’espansione di PayPal in Cina, le lotte intestine tra AFT e PayPal e la
disastrosa migrazione dei server negli Stati Uniti furono l’inizio della fine per
eBay in Cina. In una serie di memorandum interni diretti alla sede centrale,
cercò di richiamare l’attenzione sulla gravità della minaccia rappresentata da
Alibaba e Alipay. Nel gennaio 2005 scrisse: «La situazione attuale non è
rosea. Le sorti della battaglia stanno volgendo al peggio. Per restare in gara
dobbiamo ottenere risultati concreti. Non possiamo più illuderci.»
eBay non riusciva proprio a prendere sul serio Alibaba: metteva in
questione l’attendibilità dei dati sempre più abbondanti secondo cui Taobao
vendeva più merce di eBay in Cina. Ora Taobao aveva più inserzioni ma
eBay si convinse che poiché le inserzioni erano gratuite dovessero essere di
valore inferiore. Jack rispediva al mittente quella tesi: «La sopravvivenza e la
crescita di Taobao non sono dovute alla gratuità del servizio. È gratuito anche
1Pai [la joint venture tra Yahoo! e Sina], ma il suo successo non è
lontanamente paragonabile a quello di Taobao. Taobao è più eBay di eBay
China [perché] Taobao presta più attenzione all’esperienza utente.»
Alan Tien iniziò a venire a patti con la sconfitta: «Il ciclo di sviluppo
prodotti di Taobao è molto più veloce. Jack Ma ha ragione. Non possiamo
competere sul loro territorio.»
Whitman aveva raggiunto la stessa conclusione, e in segreto iniziò a
cercare una via d’uscita dalle sabbie mobili della Cina. La soluzione più
logica era fare un’offerta per l’acquisto di Alibaba, quindi Whitman inviò tre
alti dirigenti28 da San Jose a Hangzhou, dove incontrarono Jack e Joe. La
riunione iniziò male, quando il senior vicepresident di eBay Bill Cobb
minimizzò i risultati ottenuti da Taobao e il direttore finanziario Rajiv Dutta
fece una prima offerta molto bassa per l’acquisto dell’azienda, 150 milioni di
dollari. Quando Jack disse alla delegazione di eBay che il suo lavoro su
Taobao era appena iniziato, Joe rilanciò con un prezzo di vendita di 900
milioni, al che l’incontro terminò.
Non essendo riuscita ad acquisire il rivale, Meg Whitman annunciò29
l’infusione di altri 100 milioni di dollari nelle attività in Cina. Era una scelta
dettata dalla paura di Taobao, ma Whitman la presentò agli investitori come
una svolta positiva: «Il mercato Internet cinese si sta sviluppando più
rapidamente del previsto […] Vediamo opportunità ancora maggiori rispetto
a sei mesi fa.» I cento milioni erano destinati al miglioramento del sistema di
credito, all’assunzione di nuovo personale e a una costosa campagna
pubblicitaria che ben presto tappezzò di cartelloni le principali città della
Cina.
Era musica per le orecchie di Jack, che scherzando disse a Forbes che
eBay aveva «tasche profonde, ma gliele bucheremo». Parlando ai media
cinesi si prese gioco del nuovo investimento: «Quando ho saputo che eBay
voleva spendere cento milioni di dollari per sfondare in questo mercato, mi
sono detto che non hanno alcuna abilità tecnica. Se usi i soldi per risolvere i
problemi, a cosa servono gli uomini d’affari? Gli uomini d’affari capiscono
come usare risorse limitate per espandere un’azienda.» Anche con i
finanziamenti di SoftBank, Jack non aveva le risorse che eBay poteva
sfruttare in Cina. Criticando l’approccio di eBay, dichiarò: «C’è chi dice che
la forza del capitale è enorme. È vero, il capitale è potente. Ma il vero potere
è quello delle persone che controllano il capitale. Il potere delle persone è
enorme. Il potere degli uomini d’affari è inesauribile.»
Dopo averla ignorata a lungo, ora eBay prestava molta attenzione ad
Alibaba. In seguito Jack commentò che gli era sembrato un momento
decisivo: «Nel momento in cui [Meg Whitman] ha deciso di usare il denaro
come strategia abbiamo capito che era destinata a perdere. Prima non ci
consideravano un rivale. Poi ci hanno presi troppo sul serio come rivale.
Nessuna delle due era la strategia giusta. Quando diciamo: “Se non hai
nemici nel cuore sarai invincibile nel mondo”, intendiamo dire che si possono
avere strategie e tattiche diverse. In termini strategici devi prestare
attenzione… Ogni volta che emerge un rivale devi studiare per scoprire se
può diventare tuo rivale e, se sì, devi capire cosa fare. Devi imparare a non
odiare chi è più forte di te. […] Quando prendi troppo sul serio un rivale e
decidi di schiacciarlo, le tue tattiche restano completamente esposte. […]
L’odio fa diventare miopi.»
A maggio 2005 Meg Whitman e vari altri dirigenti di spicco della Silicon
Valley, tra cui Jerry Yang, andarono a Pechino per partecipare al Fortune
Global Forum. Lì Whitman incontrò Jack e Joe. Ma i nuovi negoziati, che
comprendevano la proposta di eBay di investire in Taobao, non diedero frutti.
In PayPal China il morale non era alle stelle. Alan Tien scrisse ai
colleghi: «Mi sembra terrificante che eBay non prenda più sul serio queste
minacce. […] Taobao/Alipay è ormai leader nelle aste e nei pagamenti in
Cina. Ci battono ogni volta. E invece di sviluppare una strategia per
scavalcarli, o quantomeno per raggiungerli, cerchiamo di imitare ogni loro
nuova funzionalità ma con un ritardo di sei-nove mesi.»
Mentre eBay cercava di fare buon viso a cattivo gioco, Whitman era
sempre più frustrata dalle lotte interne tra AFT e PayPal, e avvertì che PayPal
China «sta per arrivare da voi, che vi piaccia o no. Forse non è la soluzione
migliore per il mercato, ma per eBay Inc. è un bene avere due cavalli in
questa gara.»
Anziché scegliere tra AFT e PayPal, eBay aveva deciso di conservarli
entrambi: e così i clienti cinesi avrebbero dovuto orientarsi in due siti diversi
per comprare online.
Com’era prevedibile, la gestione di due sistemi di pagamento paralleli in
Cina si rivelò un disastro.
I clienti si lamentavano: «La mia esperienza su eBay è stata dolorosa.
Non riesco a compilare i dati per l’ordine. Sono un utente con il 100 per
cento di feedback positivo, non ho mai tardato con una spedizione, non ho
mai violato il regolamento. Il sistema di pagamento funzionava molto bene,
prima.» Un altro cliente tuonò: «Non ce la faccio più. Questo sarebbe
customer service, secondo EachNet? Così non faranno che perdere utenti. I
miei due pagamenti per un totale di 5000 [yuan] sono scomparsi? La mia
fiducia in EachNet è stata tradita di nuovo.»
Un cliente riferì addirittura che il suo assegno firmato da PayPal era stato
confiscato dalla Bank of China a Nanchino ai sensi di legge «per impedire ai
criminali stranieri di riciclare il denaro sporco con questo metodo.» A metà
del 2005 Taobao aveva mediato pagamenti online per l’80 per cento dei
prodotti sui suoi siti, mentre eBay arrivava appena al 20 per cento.
In un ultimo disperato tentativo, Meg Whitman e alcuni alti dirigenti si
trasferirono temporaneamente da San Jose a Shanghai per un paio di mesi. I
dipendenti di eBay presero a chiamare la città cinese «Shang Jose». Ma la
Cina sembrava sempre di più una causa persa.
eBay spostò la focalizzazione su nuovi orizzonti, tra cui la storica
acquisizione di Skype nel settembre 2005.30 In Cina le cose andarono di male
in peggio quando Taobao riaffermò il suo impegno per offrire servizi gratuiti
per altri tre anni e per creare un milione di posti di lavoro in Cina. Il direttore
delle pubbliche relazioni di eBay, Henry Gomez, emanò un conciso
comunicato stampa intitolato «Dichiarazione di eBay a proposito della sfida
dei prezzi con Taobao», che era composto dalle seguenti tre frasi:

Gratis non è un modello di business.


Il fatto che Taobao abbia annunciato di non poter chiedere un
pagamento per i suoi prodotti nei prossimi tre anni parla chiaro
sulla forza del business di eBay in Cina.
Siamo molto fieri che eBay stia creando un business sostenibile
in Cina, offrendo ai consumatori e agli imprenditori cinesi la
piattaforma più sicura, professionale ed entusiasmante tra quelle
attualmente disponibili.

Whitman e il suo direttore operativo, Maynard Webb, sapevano già che il


prodotto globale non stava funzionando in Cina, quindi avviarono un nuovo
progetto per lanciare il miglior sito di e-commerce in Cina costruendolo da
zero. Chiamarono l’iniziativa de nuevo (cioè «da capo» o «da zero» in
spagnolo). Dopo aver parlato così a lungo della necessità di essere sensibili
alla cultura locale cinese, la scelta di dare al progetto un nome spagnolo non
ispirava molta fiducia.
A fine 2005 la quota di mercato di eBay era scesa ad appena un terzo,
mentre Taobao si avvicinava al 60 per cento. Appena due mesi dopo aver
difeso a spada tratta il proprio modello di business a pagamento, eBay smise
di applicare tariffe. Dopo aver parlato così bene della Cina ai suoi investitori,
eBay vide calare il valore delle sue azioni in risposta alle difficoltà incontrate
in quel Paese: il prezzo scese dai 46 dollari di inizio 2006 ai 24 di agosto.
Jack non ebbe peli sulla lingua: «In Cina, per loro è finita. […] Hanno
fatto così tanti errori, siamo stati fortunati.»
Non essendo riuscita ad accordarsi con Taobao, Meg Whitman avviò una
trattativa per vendere il business cinese di eBay a Tom Online, finanziato da
Li Ka-Shing: alla fine abbandonò la sfortunata impresa lasciandola nelle mani
di una joint venture collegata, insieme a 40 o 50 milioni di dollari in liquidità.
Come al solito il comunicato stampa cercò di volgere la situazione in
positivo: diceva che la joint venture lasciava eBay «in una posizione ancor
più favorevole per partecipare a questo mercato in crescita. Questo accordo è
un segno del nostro impegno costante per offrire in Cina le migliori
esperienze possibili per la compravendita online.» La nuova azienda ebbe
vita molto breve.31
eBay aveva perso la Cina. Ma con Jack la Cina aveva guadagnato un eroe
popolare. A chi oggi le chieda di quell’esperienza, Whitman non può far altro
che congratularsi con Jack per il suo successo.
«Se osserviamo il Giappone e la Cina, due mercati importanti, è lì che
strategicamente non abbiamo fatto la cosa giusta. Ma sinceramente sul
momento non era facile capirlo. Quindi complimenti a Jack Ma, che ha
costruito un impero molto solido: per certi versi è una combinazione di eBay,
PayPal e Amazon. Ha fatto un lavoro straordinario.»
eBay aveva perso qualche centinaio di milioni nell’avventura cinese. Ma
ben presto ad Alibaba sarebbero sembrati spiccioli, rispetto all’accordo da un
miliardo di dollari che Jack stava per concludere con un altro gigante della
Silicon Valley: Yahoo!.
Yahoo! e la scommessa da un miliardo di
dollari

Nessuno conosce il futuro. Il futuro si può solo creare.


–JACK MA

Alibaba aveva stroncato le ambizioni di eBay in Cina. Ma eBay non era la


prima azienda della Silicon Valley a incontrare problemi in quel Paese, né
sarebbe stata l’ultima. Pur essendo uno dei siti più popolari in Cina tra gli
utenti che si collegavano a Internet per la prima volta, Yahoo! avrebbe
rapidamente perso terreno… finché un accordo miliardario con Alibaba non
avrebbe cambiato tutto.

Jerry Yang
I primi successi di Yahoo! negli Stati Uniti e le origini etniche di Jerry Yang
generarono aspettative alte per l’azienda in Cina. Conosciuto nella Cina
continentale come Yang Zhiyuan (Yang Chih-yuan a Taiwan, dov’era nato),
Jerry e l’azienda da lui co-fondata1 avevano rappresentato un’ispirazione per
i fondatori di Sohu, Sina e NetEase. La sua fama non era limitata alla
comunità tecnologica: i cinesi trovavano straordinario che un giovane
sviluppatore nato a Taiwan avesse fondato un’azienda iconica in America e
fosse diventato così ricco così in fretta.
Nato a Taiwan nel 1968, Yang assunse il nome di Jerry dopo essersi
trasferito negli Stati Uniti nel 1978 con la madre Lily e il fratello minore Ken.
Il padre, nato nella Cina continentale, era morto quando Jerry aveva solo due
anni, stroncato da una malattia ai polmoni. A Taiwan la madre era stata
insegnante di inglese e teatro, e in California si manteneva insegnando
l’inglese ad altri immigrati. La famiglia si stabilì in una modesta casa a un
solo piano nei pressi di Hostetter Road, in un sobborgo di San Jose. Bill Otto,
che è stato a lungo vicino di casa di Jerry, lo ricorda come un ragazzino
«molto simpatico», che giocava in giardino con il suo husky Bogie e si
metteva sulle spalle un grosso zaino per andare alla scuola media Sierramont.
Al suo arrivo negli Stati Uniti Jerry sapeva una sola parola d’inglese:
«shoe», scarpa. «All’inizio ci prendevano tutti in giro. Non sapevo neanche
chi fossero le persone raffigurate sulle banconote.»
Nei primi tempi incontrò qualche difficoltà con l’inglese e per i primi due
anni ebbe un insegnante di sostegno. Ma era bravissimo in matematica e
scienze. Al liceo di Piedmont Hills giocava a tennis nella squadra dei Pirates
e fu eletto presidente del consiglio studentesco. Alla fine dell’ultimo anno era
il primo della scuola e vinse una borsa di studio completa per Harvard.
Membro della classe del 1990, Jerry completò la laurea di primo e secondo
livello in ingegneria elettronica e, tra una partita di golf e l’altra, proseguì gli
studi di dottorato. In uno dei corsi di Stanford il suo assistente era David Filo,
che aveva due anni più di lui. David, un uomo timido e riservato, era arrivato
a Stanford dopo una laurea di primo livello in ingegneria informatica alla
Tulane University di New Orleans. Nato nel Wisconsin, si era trasferito in
Louisiana con la famiglia all’età di sei anni ed era cresciuto in una comune a
Moss Bluff. Jerry e David avevano lavorato nello stesso gruppo di ricerca sul
software per sistemi di automazione e mentre insegnavano nel campus di
Stanford a Kyoto, in Giappone, erano diventati buoni amici: avevano in
comune l’interesse per le gare di sumo.
Tornati a Stanford si ritrovarono vicini di scrivania in una roulotte e da lì
lanciarono il sito che sarebbe diventato Yahoo!, caricandolo su due server:
«Akebono» e «Konishiki», i nomi di due lottatori di sumo delle Hawaii che
avevano riscosso molto successo in Giappone.
Come il disordinato appartamento ai Giardini sul lago di Hangzhou da cui
Jack aveva lanciato Alibaba cinque anni prima, così anche la roulotte da cui
Jerry e David lanciarono Yahoo! non era bella a vedersi. Il primo investitore
dell’azienda, Michael Moritz di Sequoia Capital, ricorda: «Con le tapparelle
abbassate, i server di Sun che arroventavano l’aria, la segreteria telefonica
che trillava ogni due minuti, le mazze da golf appoggiate alle pareti, i cartoni
di pizza e i vestiti sporchi sparsi a terra… era l’incubo di ogni madre con figli
adolescenti.»
Yahoo! nacque come un elenco di altri siti che Jerry e David avevano
salvato nei preferiti del browser Mosaic, lanciato da poco da Marc
Andreessen. Inizialmente chiamata Jerry’s Guide to the World Wide Web, poi
Jerry and David’s Guide to the World Wide Web, la lista era composta da
cento siti classificati manualmente in categorie. All’inizio il traffico sul sito
ammontava a un migliaio di visitatori alla settimana, ma nei primi mesi del
1995 era arrivato a milioni di utenti al giorno. Stanford intimò ai due
sviluppatori di rimuovere il sito dai server dell’ateneo. Jerry e David
dovettero raccogliere fondi per pagarsi i server.
Costituita formalmente con il nome di Yahoo.com a gennaio 1995,
l’azienda fu registrata a marzo e, un mese dopo, Sequoia ci investì due
milioni di dollari, rilevando il 25 per cento dell’azienda. I due programmatori
non terminarono mai gli studi di dottorato. Ricorda Jerry: «Quando dovetti
dire a mia madre cosa stavamo facendo, il modo migliore che trovai per
spiegarglielo fu l’analogia con una biblioteca. E lei mi disse: “Hai studiato
nove anni per diventare bibliotecario?” Era a dir poco scioccata.»
Nell’autunno del 1995 Jerry, David e l’Ad di Yahoo! Tim Koogle
avviarono i negoziati con nuovi investitori, tra cui Eric Hippeau, Ad della
Ziff-Davis Publishing Company, un grande editore di riviste di informatica e
tecnologia. A novembre SoftBank rilevò Ziff-Davis e Hippeau presentò
Masayoshi Son a Jerry e David. Son e un suo collega andarono a trovare i
fondatori di Yahoo! nel loro modesto ufficio di Mountain View, in
California, poco a sud di Palo Alto. Davanti a un pranzo a base di pizza da
asporto e bibite in lattina, Son e i due fondatori andarono subito d’accordo.
Son accettò di investire due milioni di dollari per il cinque per cento di
Yahoo!. A marzo alzò la posta: accettò di pagare più di 100 milioni di dollari
per incrementare la sua quota e si ritrovò in possesso di oltre il 41 per cento
di Yahoo!, più di Jerry e David, che insieme detenevano poco meno del 35
per cento.
Ricorda Jerry: «Quasi tutti lo credevamo pazzo. […] Investire cento
milioni in una startup nel marzo 1996 era una mossa molto aggressiva, ma
non penso che la sua sia stata solo fortuna.»
SoftBank intuì il potenziale di Yahoo! in Giappone e le due aziende
lanciarono una joint venture. Jerry andò in Giappone a gennaio 1996 per
supervisionare i preparativi. Il sito, diretto dal vice di Son, Masahiro Inoue,
aprì tre mesi dopo e fu un successo immediato: accumulò cinque milioni di
pagine viste al giorno entro gennaio 1997 e arrivò a 100 milioni a luglio del
2000.
Il 12 aprile 1996 Yahoo! si quotò sul Nasdaq, raccogliendo 33 milioni di
dollari. Dopo aver guadagnato ben il 154 per cento nella prima giornata di
contrattazioni, fu valutata dagli investitori quasi 850 milioni di dollari.
Yahoo! fatturava appena 1,4 milioni2 con perdite di oltre 600.000 dollari.
Appena un anno dopo la fondazione dell’azienda, Jerry Yang e David Filo
valevano sulla carta più di 165 milioni a testa. Nel giro di tre anni erano
miliardari. Il loro successo spinse SoftBank a quotarsi sul listino principale
della borsa di Tokyo, a gennaio del 1998, trasformando anche Son in un
miliardario.
Yahoo! guadagnò rapidamente terreno in tutto il mondo. Inaugurò siti
localizzati nei Paesi in cui riteneva di poter avere più successo. La Cina non
era tra le priorità, come confermò Jerry durante una visita a Hong Kong nel
1997: «La Cina è forse l’ultimo mercato di cui vogliamo occuparci al
momento. Forse è il più importante, ma è l’ultimo in ordine cronologico.
Sono ancora troppo pochi i cinesi che usano Internet.»
Invece Yahoo! iniziò a espandersi in altre aree dell’Asia, lanciando nel
1997 un sito per Singapore rivolto agli utenti Internet del Sudest asiatico.
L’anno successivo nacquero siti regionali, dapprima rivolti agli utenti cinesi
all’estero e poi alla Cina vera e propria.3 Composto da link a diecimila altri
siti, lo Yahoo! cinese era il tredicesimo «mirror site» del mondo, ospitato su
server negli Stati Uniti e diretto dal quartier generale di Santa Clara in
California. I visitatori potevano scaricare un software gratuito in cinese che
permetteva di usare le diverse serie di ideogrammi. Il sito guadagnò subito
molti utenti nella Cina continentale, con varie centinaia di migliaia di
visitatori al giorno: una cifra impressionante, tenendo conto che all’epoca in
Cina c’erano meno di un milione di persone online.
Man mano che l’uso della rete si andava diffondendo in Cina, Yahoo!
iniziò a valutare una presenza più massiccia nel Paese. Jerry, che parlava
bene il mandarino, non aveva mai visitato la Cina continentale. Nel 1997
ebbe luogo il fatidico incontro con Jack, che gli fece da guida turistica su
richiesta del Ministero del commercio per cui lavorava a Pechino. Oltre agli
incontri di lavoro con il MOFTEC e altre istituzioni, durante quel viaggio
Jerry visitò anche le attrazioni turistiche. Le competenze acquisite da Jack
come guida autodidatta sulle rive del Lago dell’Ovest a Hangzhou gli
tornarono utili quando lui e Cathy accompagnarono Jerry, suo fratello minore
Ken e la vicepresidente di Yahoo! Heather Killen a visitare la Grande
Muraglia fuori Pechino.
L’immagine di Jerry seduto sulla Grande Muraglia è una metafora
azzeccata del dilemma che Yahoo! doveva affrontare in Cina. Il mercato era
in rapida crescita e conteneva ormai milioni – e presto decine di milioni – di
utenti Internet. Yahoo! era già riuscita a diventare uno dei leader di mercato
in Giappone, dunque perché non poteva riuscirci anche in Cina? Ma la Cina
poneva un problema: qual era il modo giusto di relazionarsi con un governo
determinato a esercitare un controllo stringente?
Nel 1996, in un intervento a Singapore, Jerry aveva espresso la sua
opinione: «Il motivo per cui la rete Internet si è espansa così in fretta è che
non è regolamentata.» C’erano limiti al trattamento di favore garantito a
Yahoo! dalle origini cinesi di Jerry. «Il Primo Emendamento tutela la libertà
di parola. Ho ricevuto un’educazione spiccatamente americana.»
Fin dall’inizio Yahoo! si concentrò sui contenuti, il che avrebbe creato un
problema in Cina, dove tutti i media erano severamente regolamentati.
Quando aprì una sede a Hong Kong, a Jerry fu chiesto di commentare la
questione della censura. Rispose che Yahoo! avrebbe «rispettato la legge,
cercando di rimanere più libera possibile.» Rivelò che l’azienda era in
contatto con le autorità cinesi, ma «sinceramente non è molto chiaro quali
siano gli argomenti politicamente sensibili.» Tuttavia erano stati informati
che «purché ci limitiamo a elencare contenuti e non li ospitiamo sui nostri
server, possiamo procedere con serenità.»
Benché inizialmente Yahoo! fosse solo un elenco di link a siti gestiti da
terze parti, anche la scelta di quali collegamenti presentare ai visitatori era
una questione delicata. Inoltre Yahoo! non era più solo una raccolta di link.
Nell’ambito di una partnership con Reuters su Yahoo! apparvero le notizie,
poi le chat room e, in seguito a un’acquisizione, Yahoo! Mail.
L’espansione degli ambiti di attività di Yahoo! attirò l’interesse delle
autorità di regolamentazione nella Cina continentale, che nutrivano riserve
anche sui legami tra l’azienda e Taiwan. Durante una visita all’isola nel 1997,
Jerry era stato trattato come un eroe conquistatore, inseguito ovunque dai
giornalisti e ricevuto dal vicepresidente Lien Chan. Quel viaggio si era svolto
subito dopo un netto raffreddamento delle relazioni tra Taiwan e Pechino.
Come poteva Yahoo! rivolgersi senza imbarazzi agli utenti di entrambi i
territori? Jerry Yang ammise che era difficile: «Forse ci riusciremo, forse no:
perché loro [il governo cinese] possono farci chiudere. […] Il segreto è
assumere un atteggiamento neutrale. Non so se la passeremo liscia. Stiamo
già avendo qualche difficoltà.»
Poteva Yahoo! sbarcare in Cina da sola? O non sarebbe stato meglio
trovare un partner locale, magari rilevando uno dei portali pionieri, per
esempio Sohu di Charles Zhang, il cui nome originario, Sohoo, non lasciava
dubbi sulle sue ambizioni di diventare la «Yahoo! cinese»?
Costruire o comprare? Entrambe le alternative comportavano qualche
problema. Semplicemente, non c’erano precedenti a cui Yahoo! potesse
ispirarsi. Nell’estate del 1999 AOL aveva deciso di investire in China.com,
con sede a Hong Kong. Anche dopo il ritorno alla sovranità cinese nel 1997,
Hong Kong era esentata4 dalle severe restrizioni imposte ai media che
rendevano gli investimenti in Cina così rischiosi per le aziende straniere. Ma
China.com era un pesce molto piccolo in Cina, e anche Steve Case di AOL
ammise che Hong Kong era solo «una logica area di transito verso la Cina.
Vogliamo andare a Hong Kong e stare a vedere cosa succede.» (La
successiva partnership di AOL nella Cina continentale, con il produttore di
computer Legend Holdings, non ebbe mai successo.)
A settembre del 1999 Jerry annunciò a Pechino che Yahoo! sarebbe
sbarcata nella Cina continentale sotto forma di una joint venture con Founder,
un produttore cinese di personal computer e software. La scelta di quel
partner non era particolarmente entusiasmante ma permetteva di andare sul
sicuro: l’azienda era uno spin-off dell’Università di Pechino e manteneva
stretti legami con il governo. Yahoo! era finalmente sbarcata in Cina: poteva
aggiungere l’ambito suffisso «.cn» al dominio e diventare
www.Yahoo.com.cn. Il sito nacque come directory di link a ventimila siti
cinesi, più altri contenuti tradotti dal sito americano, con l’aggiunta di Yahoo!
Mail e un instant messenger. Il direttore operativo Jeffrey Mallett ammise che
la Cina non sarebbe stata una conquista facile: «Stiamo entrando con gli
occhi ben aperti. Il nuovo sito espande in modo significativo le funzionalità
del sito Yahoo! cinese già online, ed è ospitato su server cinesi da Beijing
Telecom, che è di proprietà del governo.»
Il lancio di Yahoo! in Cina coincise con un duro colpo inferto ai portali
pionieri che tentavano di lanciare un’IPO. L’annuncio di Wu Jichuan, il
potente ministro dell’informazione, sembrava vietare tutti gli investimenti
esteri in aziende legate a Internet: «Che si tratti di un ICP [Internet content
provider] o di un ISP [Internet service provider], sono comunque servizi a
valore aggiunto. In Cina l’area dei servizi non è aperta.»
Tuttavia, nell’area grigia in cui operava Internet, la vice del ministro Wu5
salì sul palco con Jerry Yang per il lancio di Yahoo! Cina, e la sua presenza
parve una conferma del tacito benestare di Wu. Ma un funzionario del
ministero definì «offshore» le attività di Yahoo!, affermando che Founder
agiva solo come fiduciaria: «Nessuna nuova azienda è stata costituita entro i
confini cinesi.» Quell’ammissione rivelava che, come spesso accade in Cina,
i negoziati iniziavano solo dopo la firma del contratto.
Dopo la cerimonia di lancio a Pechino, Jerry volò a Shanghai per
partecipare al Fortune Global Forum. Era uno dei sessanta Ad della Fortune
500 – con lui Steve Case di AOL, Jack Welch di GE e Sumner Redstone di
Viacom – insieme ad altri dignitari, tra cui Henry Kissinger, che si
incontrarono nel nuovo polo fieristico internazionale da cento milioni di
dollari costruito nel distretto di Pudong, sulla riva destra del fiume Huangpu,
di fronte all’iconico Bund. Il presidente cinese Jiang Zemin inaugurò così il
Global Forum: «Posate gli occhi sulla Cina. La Cina vi dà il benvenuto. La
modernizzazione della Cina ha bisogno del vostro contributo, e lo sviluppo
economico della Cina vi offrirà grandi opportunità.»
Il moderatore americano dell’evento era Gerald M. «Jerry» Levin, Ad di
Time Warner, l’editore della rivista Fortune. Cementando le sue credenziali
di insider in Cina, Levin accolse sul palco il presidente della nazione
presentandolo come «il mio caro amico Jiang Zemin.» Il forum catalizzò una
serie di accordi con aziende cinesi del settore informatico che ben presto
coinvolsero lo stesso Jerry Levin. Di lì a poco Levin firmò la fusione da 165
miliardi di dollari tra Time Warner e AOL, un accordo che sarebbe rimasto
negli annali come «la peggior fusione della storia.»
A differenza di quell’operazione, la partnership di Yahoo! con Founder in
Cina finì per avere poche conseguenze di rilievo. Founder non era il varco
d’ingresso alla Cina che Jerry Yang aveva sperato. I legami dell’azienda con
il governo cinese, grazie ai quali Yahoo! aveva sperato di mettersi al riparo
dall’incertezza normativa, impedivano anche il radicamento di una cultura
imprenditoriale. I contenuti di Yahoo! China erano noiosi, e gli utenti cinesi
se ne accorgevano: preferivano visitare Sina, NetEase e Sohu. Yahoo! stava
perdendo la battaglia per affermarsi in Cina proprio mentre i cinesi
arrivavano in massa su Internet.
Victor Koo, all’epoca direttore operativo di Sohu,6 ricorda: «Yahoo!
China era inferiore a noi per dimensioni, localizzazione e investimenti. Per
questo ha perso il mercato cinese.» Le loro IPO nel 2000, rese possibili dalla
struttura di investimenti VIE, permisero ai tre portali di sopravvivere al crash
delle dot-com. Nel giro di qualche anno le tre aziende si ritrovarono in attivo
per la prima volta.
Ma a loro insaputa l’era dei portali cinesi stava volgendo al termine,
lasciando il posto alla nuova era dei «Tre Regni» del «BAT»: Baidu, Alibaba
e Tencent.
Le difficoltà di Yahoo! e una serie di finanziamenti, avrebbero aperto ad
Alibaba la porta di quel club esclusivo. Ecco come andò.

Tencent
Tencent cavalcò due tendenze che avrebbero trasformato il settore Internet
cinese: i contenuti per cellulari e i giochi online per computer. Fondata
qualche mese prima di Alibaba, Tencent (Tengxun in cinese) fu lanciata alla
fine del 1998 da due informatici ventisettenni che si erano conosciuti
all’università di Shenzhen. Pony Ma (Ma Huateng) divenne poi presidente e
Amministratore Delegato dell’azienda ed è oggi uno degli uomini più ricchi
della Cina. Benché non sia imparentato con Jack, Pony ha in comune con lui
il cognome, Ma. La scelta di «Pony» come nome inglese è umoristica: in
cinese Ma significa «cavallo».
Come Jack, anche Pony ha origini umili, e pur essendo molto più timido
di Jack anche lui può affermare di essere «Made in China al cento per cento.»
È nato nella città costiera di Shantou, nella provincia del Guangdong. Suo
padre era direttore portuale a Shenzhen, non lontano da Hong Kong.
Dopo la laurea Pony trovò lavoro come sviluppatore di software per
cercapersone, un prezioso varco d’ingresso nel mercato in rapida crescita
delle comunicazioni mobili che avrebbe decretato la sua fortuna. La rivista
Time lo elesse «magnate della telefonia mobile cinese.» Pony chiamò la sua
azienda Tencent perché all’epoca il costo di un sms era di ten cents, dieci
centesimi di yuan (circa 1,2 centesimi di dollaro). Il prodotto che lanciò
Tencent fu un client per instant messenger, OICQ, installato sui computer
fissi, che era in sostanza un clone di ICQ (I seek you, «ti cerco»), sviluppato
dall’azienda israeliana Mirabilis.7 Sotto la minaccia di una causa legale,
Tencent ribattezzò il servizio «QQ», un nome scelto per ricordare la parola
cinese che significa «carino». Con un simpatico pinguino in sciarpa rossa
come mascotte, il servizio si diffuse rapidamente tra i giovani utenti Internet
cinesi, dapprima sui computer e poi sui cellulari. Quando gli operatori
telefonici iniziarono a stringere accordi di ripartizione degli introiti con
aziende che operavano su Internet, il business mobile di Tencent prese piede.
Le partnership, modellate sull’esempio giapponese di iMode di NTT
DoCoMo, fruttavano fino all’85 per cento dei nuovi introiti. Come abbiamo
visto, durante l’epidemia di SARS molti cinesi ricorsero ai messaggi via
cellulare per comunicare e trasmettere informazioni sull’emergenza.
Da allora Tencent è sempre rimasta leader nel mercato dei social network
per dispositivi mobili. Ma i messaggi sui cellulari non bastano a spiegare la
sua folgorante ascesa. Oggi l’attività più redditizia per l’azienda sono i giochi
online.8 Il successo di Tencent nei MMORPG (massively multiplayer online
role playing games) come The Legend of Mir 2 e Lineage, iniziato in Corea
del Sud, rappresenta la principale fonte di reddito nel settore Internet cinese.9
Il successo di Tencent con QQ, con i giochi e più tardi con WeChat avrebbe
incrementato la sua capitalizzazione di mercato fin sopra i 200 miliardi di
dollari nel 2015, sorpassando a tratti Alibaba e generando una miniera d’oro
da decine di miliardi di dollari per la media company sudafricana Naspers.
Nel 2001 Naspers azzeccò uno dei colpi più fortunati nella storia degli
investimenti in Cina, rilevando il 46,5 per cento di Tencent – tre volte la
quota detenuta dal fondatore Pony Ma – per soli 32 milioni di dollari, da un
gruppo di investitori che comprendeva Richard Li, figlio del tycoon di Hong
Kong Li Ka-shing.

Baidu
Baidu fu fondata a Pechino nel 2000 da Robin Li (Li Yanhong) e dall’amico
dottor Eric Xu (Xu Yong). Nato a novembre del 1968, Robin era uno dei
cinque figli di una coppia di operai dello Shanxi, una provincia arretrata della
Cina centrale. La sua intelligenza gli valse l’ingresso all’Università di
Pechino per studiare informatica. Dopo il 4 giugno 1989 non vedeva l’ora di
trasferirsi all’estero: «La Cina era un posto deprimente. […] Mi sembrava che
non ci fosse speranza.»
Rifiutato dalle tre università prestigiose in cui aveva fatto domanda,
Robin vinse nel 1991 una borsa di studio completa per una laurea in
informatica alla State University of New York (SUNY) a Buffalo. Lì entrò in
un laboratorio informatico che progettava tecnologie per l’automazione,
finanziato da una sovvenzione delle Poste americane. Il suo professore,
Sargur N. Srihari, ricorda che Robin «iniziò a occuparsi di reperimento delle
informazioni; qui a Buffalo eravamo all’avanguardia nel riconoscere
l’importanza dei motori di ricerca.»
Dopo la SUNY Robin lavorò per una controllata di Dow Jones a New
York. I visitatori che oggi arrivano al campus da 90.000 metri quadri di
Baidu a Pechino possono ammirare una copia del brevetto registrato da Robin
il 5 febbraio 1997 – quando lavorava ancora per Dow Jones – per un
meccanismo di ricerca che aveva chiamato «hypertext document retrieval»,
che determinava la popolarità di un sito sulla base del numero di altri siti che
lo linkavano. In seguito Robin si trasferì in California per lavorare nella
società di ricerca Infoseek, per poi raccogliere 1,2 milioni di dollari in
finanziamenti per la sua startup, Baidu, che fondò al ritorno in Cina nel
gennaio 2000. All’inizio l’azienda aveva sede in una camera d’albergo nei
pressi dell’Università di Pechino, che Robin aveva frequentato, e operava
come fornitore esterno dei motori di ricerca in lingua cinese ad altri siti.10
Baidu conquistò rapidamente la leadership del mercato, ma i suoi conti erano
ancora in rosso.
Ricorda Robin: «Volevo continuare a perfezionare l’esperienza di ricerca,
ma i portali non volevano pagare. […] È stato allora che ho capito che
dovevamo creare un servizio con il nostro marchio.» Il sito dedicato al
motore di ricerca Baidu fu lanciato nell’ottobre del 2001.
Robin Li è rimasto attivamente coinvolto nello sviluppo tecnologico di
Baidu. Per assicurarsi che il motore di ricerca fosse sempre all’avanguardia, a
fine 2001 lasciò temporaneamente il ruolo di Ad per capitanare un nuovo
progetto di sviluppo, «Project Blitzen», ricordato dai programmatori
dell’azienda come un «grande balzo in avanti». Dormiva spesso in ufficio e
fino al completamento del progetto la frequenza delle riunioni raddoppiò.
Oggi commenta così gli eventi di quel periodo: «Dopo aver capito cosa
devi fare, devi restare concentrato. È quello che abbiamo fatto in quegli anni
difficili, tra il 2000 e il 2002. Molte persone credevano che la ricerca fosse un
problema ormai risolto. Lo trovavano un argomento noioso, pensavano che
non ci fosse più nulla da migliorare in termini di tecnologia e di prodotto; ma
noi eravamo convinti di poter fare di meglio. Abbiamo resistito a tentazioni
di ogni sorta: diventare un portale, diventare un fornitore di servizi SMS, uno
sviluppatore di giochi online… Tutta una serie di progetti che ci avrebbero
fatto guadagnare nel breve periodo. Ci siamo concentrati soltanto sulla
ricerca in lingua cinese. Ecco come siamo arrivati fin qui.»
Nel 2002 i siti indicizzati dal motore di ricerca di Baidu erano una volta e
mezzo più numerosi di quelli del rivale più prossimo. Nel 2003 era diventato
il primo motore di ricerca in Cina. Prima dell’IPO di agosto 2005 al Nasdaq,
persino Google investì cinque milioni di dollari in Baidu. Le azioni di Baidu
guadagnarono oltre il 350 per cento nella prima giornata di contrattazioni.
L’estate successiva, quando divenne chiaro che Baidu era ormai il suo rivale
principale in Cina, Google vendette la sua quota per 60 milioni di dollari.
Baidu sarebbe diventato il motore di ricerca più usato in Cina.11 Pur
valendo circa 70 miliardi di dollari, resta un’azienda molto più piccola di
Alibaba e Tencent: due imprese che – curiosamente – sono in rapporti
migliori tra di loro che non con Baidu.

Yahoo! e «AK47»
Ma nel 2003 l’ascesa del «BAT» non era ancora prevedibile. Yahoo! pensava
di avere ancora una chance di sfondare nel mercato cinese. Per il motore di
ricerca entrò in partnership con Baidu. Per sfidare eBay lanciò un sito di aste
online con Sina. Ma come la partnership con Founder, neanche quegli accordi
bastarono ad appianare i suoi problemi.
Alla ricerca sempre più disperata di una soluzione per il mercato cinese, a
novembre del 2003 Yahoo! annunciò un accordo che sperava fosse risolutivo:
l’acquisto di un’azienda, 3721 Network Software.
Fondata cinque ani prima da un esuberante imprenditore di nome Zhou
Hongyi, 3721 aveva individuato una nicchia nel mercato. I nomi di dominio
su Internet erano disponibili solo in caratteri alfanumerici (ed era uno dei
motivi per cui l’azienda aveva scelto i numeri anziché un nome in caratteri
latini, perché «3721» era un modo di dire che indicava qualcosa di semplice:
«Facile come tre per sette fa ventuno»).
L’azienda 3721 permetteva ai milioni di nuovi utenti che arrivavano
online di effettuare ricerche usando gli ideogrammi cinesi, grazie a una
speciale barra degli strumenti che collegava gli ideogrammi inseriti al sito
web corrispondente. Il software veniva scaricato, a volte all’insaputa
dell’utente, ed era difficile da disinstallare. I competitor criticavano la
tecnologia di 3721, affermando che soppiantava i browser esistenti. Nel 2002
Baidu portò 3721 in tribunale, una delle tante Internet company che
bisticciavano con Zhou Hongyi; dopo vari giri di finanziamenti in venture
capital, nel 2001 l’azienda raggiunse il pareggio operativo. Assemblando una
grande forza vendita per promuovere i nomi cinesi più preziosi nella sua
barra degli strumenti, 3721 iniziò a guadagnare, generando nel 2002 un
fatturato di 17 milioni di dollari.
Nato nel 1970 nella provincia meridionale dell’Hubei, Zhou Hongyi è
cresciuto nella provincia agricola dell’Henan e ha frequentato l’università
Xi’an Jiaotong. Cercò due volte di diventare imprenditore, ma entrambe le
aziende fallirono, quindi andò a lavorare per Founder, la più grande azienda
cinese gestita da un’università. Tre anni dopo lanciò 3721, in partnership con
sua moglie Helen Hu (Hu Huan) e altre quattro persone.
Zhou pensava che i primi insuccessi gli avessero sottratto il ruolo che gli
spettava, quello di un autentico pioniere di Internet, ed era sempre pronto a
battibeccare con i rivali. Gradiva l’esposizione mediatica procuratagli dalle
vicissitudini giudiziarie e dagli alterchi in pubblico con Jack, Robin Li, Pony
Ma, William Ding e Lei Jun (Kingsoft e Xiaomi) e molti altri.
Jerry Yang era noto per il suo carattere affabile e disponibile, ma Zhou
era l’esatto opposto: si presentava come il «cattivo ragazzo» dell’Internet
cinese. Era appassionato di armi da fuoco. Dopo l’acquisizione di 3721 da
parte di Yahoo!, i nuovi colleghi di Zhou a Sunnyvale, in California, si
stupirono di vedere la sua foto nell’archivio interno di Yahoo!:
nell’immagine imbracciava un kalashnikov. I colleghi lo soprannominarono
all’istante «AK-47». Zhou adornava le pareti del suo ufficio con bersagli da
poligono di tiro crivellati di colpi. Il suo investitore principale, Wang
Gongquan di IDG, descrive Zhou come «un idealista fanatico», un
«ragazzino aggressivo e incontrollabile.»
Nonostante le personalità antitetiche, Jerry Yang vide nell’azienda di
Zhou Hongyi uno strumento utile per incrementare il fatturato di Yahoo!
China: nel 2003 Yahoo! China incassò solo qualche milione di dollari,
mentre 3721 ne accumulò circa 25. Era il quarto sito cinese più visitato dopo
Sina, Sohu e NetEase.
A novembre 2003 Yahoo! rilevò 3721 per 120 milioni di dollari (con 50
milioni in un versamento immediato e i 70 a seguire, nei due anni successivi,
sulla base delle prestazioni). L’accordo fece aumentare il personale di Yahoo!
China da 100 a quasi 300 persone. Ma come eBay aveva condotto nel modo
sbagliato l’acquisizione del partner locale EachNet, così i tentativi di Yahoo!
di integrare 3721 fallirono subito.
Lo scontro culturale fu immediato. Sue Decker, ex direttrice finanziaria di
Yahoo!, ricorda: «Ci dissero che Zhou pensava che i dipendenti originari di
Yahoo! fossero strapagati e pigri, mentre il team di Yahoo! si sentiva vittima
di bullismo e pensava che Zhou non fosse abbastanza focalizzato sulle attività
di Yahoo!». Yahoo! aveva curato con molta diplomazia le relazioni con il
governo cinese ma, appena un paio di mesi dopo l’acquisizione di 3721,
Zhou Hongyi fu denunciato dallo stesso governo, la cui agenzia responsabile
dell’assegnazione dei nomi di dominio, il China Internet Network
Information Center (CNNIC), accusò 3721 di aver danneggiato la sua
reputazione.12
A quel punto Zhou scaricò Baidu, alla quale stava per fare causa, come
partner di Yahoo! per la ricerca in Cina e lanciò un suo motore di ricerca.13
Ma non si era consultato con i dirigenti di Yahoo! a Sunnyvale prima di
prendere quella decisione. Ricorda: «Credevo che con un investimento
annuale di pochi milioni di dollari saremmo riusciti a battere Baidu.» Zhou
era frustrato dai dirigenti della sede centrale di Yahoo!: «Non volevano
investire nel futuro dell’azienda. È come l’agricoltura: se ti interessa solo il
raccolto e non la semina e i fertilizzanti, alla fine il terreno diventa sterile.»
La Cina era l’ultima delle preoccupazioni di Yahoo! Negli Stati Uniti
l’azienda era stata ormai quasi eclissata da Google, il cui motore di ricerca
basato sugli algoritmi stava avendo la meglio su quello di Yahoo!, basato
sulle directory. Yahoo! aveva impiegato troppo tempo ad accorgersi della
minaccia rappresentata da Google, anch’essa fondata da due dottorandi di
Stanford. Nel 1997 Yahoo! si era lasciata sfuggire un’occasione di rilevare
Google da Larry Page e Sergey Brin, ma il suo errore più grave fu la
decisione, a giugno del 2000, di entrare in partnership con Google per la
ricerca. Quando il logo di Google apparve sulla home page di Yahoo! milioni
di clienti scoprirono che esisteva un motore di ricerca migliore, che rendeva
Yahoo! sempre più irrilevante.14
A luglio 2005, sei mesi prima del termine del suo earn-out di due anni,
Zhou annunciò l’uscita da Yahoo! China. Nel giro di due mesi fondò una sua
azienda, Qihoo 360 Technology, in cui avrebbe adottato le stesse tattiche
aggressive impiegate in 3721.15
Ben presto Zhou iniziò a criticare Yahoo! sui media, dicendo ai
giornalisti che aver venduto 3721 a Yahoo! era il suo rimpianto più grande,
che la cultura aziendale di Yahoo! soffocava l’innovazione e che l’azienda
era gestita male: «I leader di Yahoo! devono assumersi tutta la responsabilità
del suo declino. Il leader spirituale Jerry Yang e l’ex Ad [Terry] Semel sono
brave persone ma non sono geni. Non possiedono vere qualità di leadership.
Di fronte alla concorrenza di Google e Microsoft non sapevano cosa fare e in
quale direzione muoversi.»
Yahoo! aveva fallito due volte in Cina: prima con Founder, poi con 3721.
Dopo anni di frustrazione, Jerry Yang prese una decisione audace. Consegnò
a Jack un miliardo di dollari e le chiavi del business cinese di Yahoo!, in
cambio del 40 per cento di Alibaba.

Project Pebble
Benché le due aziende ci abbiano messo un po’ di tempo a capirlo,
quell’accordo fu trasformativo per Alibaba e Yahoo! Alibaba guadagnò le
munizioni necessarie per assestare il colpo di grazia a eBay in Cina e per
trasformare Taobao e Alipay nei giganti che sono oggi. Il valore crescente
della sua quota16 metteva Yahoo! in posizione di forza contro i suoi
investitori, sempre più preoccupati per la concorrenza di Google e per la
successiva, controversa decisione di Yahoo! di non lasciarsi comprare da
Microsoft.
L’accordo ebbe origine da un incontro a maggio 200517 tra Jack e Jerry
sul campo da golf di Pebble Beach in California. Prima di una cena a base di
bistecche e pesce con altri luminari della tecnologia statunitense e cinese, i
due fondatori – che avevano un azionista in comune, Masayoshi Son – fecero
una passeggiata fuori dal ristorante.18 Ricorda Jack: «Quel giorno faceva
molto freddo, e dopo dieci minuti non ce la facevo più e sono corso dentro.
Ma in quei dieci minuti ci siamo scambiati un po’ di idee. Gli ho detto
chiaramente che volevo entrare nel business della ricerca, e la mia opinione
era che i motori di ricerca avrebbero svolto un ruolo molto importante nell’e-
commerce del futuro.»
Dopo quel primo dialogo, i termini dell’accordo – che Yahoo! chiamò
Project Pebble – iniziarono a prendere forma due settimane dopo, quando
Jerry19 ebbe altri incontri con Jack e Joe a margine del Fortune Global Forum
che quell’anno si teneva a Pechino.
Yahoo! sapeva da tempo che 3721 non poteva rappresentare la soluzione
ai suoi problemi in Cina. Ma quando si era messa alla ricerca di altre aziende
che potessero aiutarla, non era su Alibaba che aveva pensato di puntare.
L’obiettivo più logico era piuttosto Sina, nata come portale Internet e che ora
si stava posizionando come «leader indiscusso dei media cinesi». Diretta
dall’Ad Terry Semel,20 Yahoo cercava di diventare un’azienda di media e
intrattenimento. Yahoo! e Sina avevano già firmato un documento
preliminare per un investimento di Yahoo! in Sina, che il governo cinese
avrebbe dovuto approvare. Dirigenti e investitori di Sina erano pronti a
stappare lo champagne quando l’Ad di Sina, Wang Yan, andò a incontrare il
capo della propaganda cinese, Li Changchun.21 Ma Li bocciò l’accordo. Sina
non aveva il permesso di allinearsi con un investitore strategico estero.
David Chao, della società di investimenti DCM, riferisce una
conversazione avuta nel 2004 con Hurst Lin, allora direttore operativo di
Sina: «Quando le loro azioni valevano circa tre dollari, Hurst mi chiamò e
disse: “Ho appena conosciuto Jerry e penso che finalmente potrò sbarazzarmi
delle mie azioni. Ci siamo accordati.” Era molto contento. Ma ovviamente,
come sapete, i “poteri alti” non approvavano.»
La seconda scelta di Yahoo per la partnership era Shanda, lo specialista di
giochi online con sede a Shanghai.22 Ma il fondatore e Ad di Shanda,
Timothy Chen (Chen Tianqiao), nato nello Zhejiang, si disse non
interessato.23 Anche Baidu era fuori dai giochi: si stava già preparando
all’IPO.
Alibaba, invece, presentava vari elementi di interesse. Era un’azienda
privata, e quindi l’accordo si sarebbe potuto stringere in fretta. Yahoo! e
Alibaba avevano un azionista in comune: SoftBank possedeva il 42 per cento
di Yahoo! e il 27 per cento di Alibaba.24
Un altro fattore positivo era la sintonia personale. Jerry e Jack si
conoscevano da sette anni, dal primo incontro a Pechino quando Jack aveva
fatto la guida turistica. Non erano rimasti in contatto regolare ma erano in
buoni rapporti.
Per Jerry, avere a che fare con Jack era una boccata d’aria fresca dopo lo
scorbutico Zhou Hongyi. Inoltre Jerry andava d’accordo con Joe Tsai.
Entrambi erano nati a Taiwan e avevano studiato negli Stati Uniti. La
direttrice finanziaria di Yahoo! Sue Decker ricorda che le due aziende
«percepirono subito un forte allineamento culturale.»
Ma la logica di quel sodalizio non era immediatamente evidente. Yahoo!,
un’azienda di consumer content, avrebbe ceduto le sue attività in Cina a
un’azienda che in sostanza si occupava di informazioni B2B con l’aggiunta di
due nuove iniziative, Taobao e Alipay. Taobao stava prendendo piede nell’e-
commerce consumer ma di recente Alibaba si era impegnata a non chiedere il
pagamento di tariffe per tre anni. Come si può quantificare il valore di un
servizio gratuito? Sue Decker ricorda i timori di Yahoo!: «All’epoca
sembrava un grande atto di fede: più di metà del valore dell’accordo – più di
due miliardi di dollari – era attribuito a Taobao e Alipay, ed entrambe
operavano in perdita.» La decisione di cedere il business cinese di Yahoo! fu
coraggiosa, come ricorda Decker: «Ci siamo resi conto che dovevamo essere
disposti a rinunciare a ogni controllo operativo. All’atto pratico significava
rinunciare al nostro desiderio di possedere oltre il 50 per cento delle attività
locali. Significava anche delegare all’azienda partner tutte le questioni
relative all’amministrazione del personale e mettere il nostro codice
informatico in mano a persone che fino a quel momento non avevano alcun
legame con l’azienda. Era spaventoso.»
Dieci anni dopo, Jerry Yang è tornato a riflettere sull’accordo,25
osservando che nel 2005 «il bilancio di Yahoo! ammontava a circa 3 miliardi
di dollari, quindi non avevano grande liquidità.» L’idea di riversare un
miliardo di dollari in Alibaba «dovette suscitare molte perplessità.» Yahoo!
condusse analisi approfondite sull’azienda, ma il carisma di Jack e la sua
visione per Alibaba svolsero un ruolo importante nella decisione, come
ricorda Jerry: «Probabilmente col senno di poi è stata una scommessa
coraggiosa, ma se aveste conosciuto Jack e aveste ascoltato la sua visione
avreste certamente pensato che ne valesse la pena. Jack aveva davvero i
numeri per creare una piattaforma di e-commerce dominante in Cina, e
questo ci confortava molto.» Quando gli hanno chiesto quale delle due
aziende avesse guadagnato di più dalla partnership, ha risposto: «Se
esaminiamo i dieci anni di questa partnership, è chiaro che nel 2005 Alibaba
ha tratto beneficio dalla nostra fiducia, e oggi Yahoo! trae beneficio dal suo
investimento.»
Per Alibaba l’accordo significò incassare subito la liquidità di cui aveva
bisogno per sostenere Taobao, i cui conti erano ancora in rosso, nella lotta
contro eBay. Yahoo! e SoftBank avevano già una relazione redditizia da
quasi dieci anni. L’investimento di Yahoo! in Alibaba aggiunse una nuova
dimensione, creando un «triangolo d’oro» che da dieci anni unisce Jack, Jerry
e Masayoshi Son. Dopo quell’accordo il New York Times incoronò Jack
«nuovo re di Internet in Cina». Jack non resistette alla tentazione di sferrare
un altro affondo contro eBay: «Grazie, eBay. […] Hai reso possibile tutto
ciò.»
Con la vendita, Alibaba riuscì anche a ricompensare i suoi dipendenti, che
poterono incassare un quarto delle loro azioni, e i suoi primi investitori, che
vendettero circa il 40 per cento delle loro quote a Yahoo! con una valutazione
di circa 4 miliardi di dollari. Pur avendo ottenuto un rendimento
impressionante, gli investitori avrebbero poi visto Alibaba vendere una quota
di se stessa a Yahoo! a una valutazione quattro volte superiore.26
In seguito Jack sottolineò che l’impatto della transazione andava oltre i
finanziamenti e la visibilità offerti da Yahoo! Benché Alibaba si fosse
dimostrata capace di costruire startup – Alibaba.com, Taobao e Alipay –
quell’accordo le fornì un utilissimo bagaglio di esperienza nel campo delle
fusioni e acquisizioni, un ambito che in futuro avrebbe assunto un’importanza
sempre maggiore.
La suddivisione definitiva delle quote di proprietà di Alibaba sarebbe
stata: Yahoo! 40 per cento, SoftBank 30 per cento, dirigenza già in carica 30
per cento. Nel 1999 Jack aveva venduto il 50 per cento di Alibaba a Goldman
Sachs e ad altri investitori, e l’aveva definita scherzosamente la decisione
peggiore della sua vita. Era pentito di aver rinunciato a quel quaranta per
cento? Dieci anni dopo è tornato a riflettere sull’accordo: «Ho chiesto un
miliardo di dollari e loro ce l’hanno dato. Pensavo che la guerra tra Taobao
ed eBay sarebbe durata a lungo, quindi avevamo bisogno di soldi per
combatterla.» Alla fine bastò un miliardo per liberarsi dalla minaccia di
eBay.27 «Abbiamo chiesto molto. Ma quando abbiamo incassato quei soldi
non sapevamo che eBay sarebbe scappata via. Quindi [alla fine non li
abbiamo spesi].» Jack afferma che oggi stringerebbe di nuovo quell’accordo,
ma «in modo migliore, più intelligente. Nessuno conosce il futuro. Il futuro si
può solo creare.»
L’accordo lasciò Jack e Joe a capo di Alibaba, nonostante una clausola
che dava a Yahoo! il diritto, a ottobre 2010, di nominare un ulteriore membro
del Cda. Se quel membro si fosse allineato con SoftBank, allora Yahoo!
avrebbe ottenuto la maggioranza e, in teoria, la possibilità di assumere il
controllo di Alibaba.
Una volta decisi i termini fondamentali dell’accordo, Alibaba e Yahoo! si
prepararono a presentarlo ai media. Jerry Yang disse a BusinessWeek che
Alibaba era ormai «l’unica azienda cinese a operare nel commercio, nella
ricerca, nelle comunicazioni e ad avere un fortissimo team dirigenziale locale.
Sarà un franchise molto prezioso in futuro.» La reazione dei media fu
variegata. Andreas Kluth dell’Economist non era convinto: «Yahoo! non può
continuare a essere tutto per tutti. Mi sembra che debba decidere cosa vuol
essere e, di conseguenza, cosa non vuole essere. Pensa di essere un’azienda di
ricerca, di media e di ecommerce? Allora perché non occuparsi anche di
manifatture, vendita al dettaglio, servizi bancari, sanità? Insomma, sono
confuso.»
Yahoo! voleva rassicurare il mercato, e i suoi dipendenti, dimostrando
che Alibaba era un soggetto affidabile a cui delegare la gestione dei suoi
affari in Cina. I dipendenti di Yahoo! China in particolare non erano contenti
del cambio di proprietà. L’ex dipendente Liu Jie, che poco dopo avrebbe
lasciato Yahoo! China per Qihoo, ricorda il drastico cambiamento dello stile
di management sotto Alibaba: «A mezzogiorno nei reparti vendita di Alibaba
si faceva jogging e si cantava tutti insieme. Caddi un po’ in depressione in
quel periodo.»
Nel quartier generale di Yahoo! l’accoglienza fu più positiva. L’ex
vicepresidente esecutivo Rich Riley28 ricorda: «Mercati come la Cina si
erano dimostrati difficili per le aziende occidentali e questa sembrava la
strada giusta da imboccare.»
Ma a parte i ritorni economici, Yahoo! raggiunse gli altri obiettivi che si
era prefissa?
Quando fu annunciato l’accordo, Jerry Yang dichiarò ai media che,
benché Alibaba stesse sostituendo Yahoo! in Cina, questo non significava la
fine del brand Yahoo! nel Paese: «Tutti i prodotti Internet rivolti ai
consumatori saranno a marchio Yahoo!: la ricerca, la mail e ogni nuovo
servizio che decidessero di lanciare. Sono convinti che il brand Yahoo! in
Cina abbia non solo una rilevanza globale ma una forte risonanza.»
Ma nelle mani di Alibaba il brand di Yahoo! sarebbe rapidamente
sbiadito fino a sparire del tutto dalla Cina. Nel giro di un anno dall’accordo i
media locali iniziarono a chiamare Yahoo! China «l’orfanella indesiderata»,
perché Alibaba riservava tutte le attenzioni al suo vero figlio, Taobao. A
maggio 2007 Alibaba cambiò nome all’azienda, da Yahoo! China a China
Yahoo! come per chiarire chi comandava.
Nei primi tempi Alibaba investì pesantemente nel brand Yahoo! China,
spendendo 30 milioni di yuan (oltre 4 milioni di dollari) in spot televisivi per
promuovere Yahoo! Search. Jack non badò a spese per gli spot, entrando in
partnership con gli studi cinematografici Huayi Brothers, in cui avrebbe poi
investito, e assoldando tre dei registi più famosi della Cina: Chen Kaige,
Feng Xiaogang (che nel 2015 avrebbe diretto lo speciale televisivo per il
Singles’ Day di Alibaba) e Zhang Jizhong, noto per gli spettacolari
adattamenti televisivi dei libri di Jin Yong, lo scrittore preferito di Jack.
Ma nell’area cruciale del motore di ricerca, era ormai chiara la superiorità
algoritmica di Google e Baidu. China Yahoo! era nei guai. Dopo l’accordo,
Jack era esasperato dalla lentezza di Yahoo! nel fornire la ricerca e le altre
tecnologie che si era impegnata a procurare. La pressione era così forte che
nel 2006 Jack decise di modificare l’home page di Yahoo!, dandole la grafica
pulita ed essenziale tipica di Google e già imitata da Baidu. Ma Jerry Yang fu
molto scontento della decisione e chiese a Jack di riportare il sito di China
Yahoo! all’originale look and feel di un portale. Jack obbedì. Prevedibilmente
gli utenti di Yahoo! restarono confusi da quei cambiamenti, e la quota di
mercato dell’azienda calò ulteriormente. Dal 21 per cento del fatturato dei
motori di ricerca nel 2005, alimentato soprattutto dalla barra degli strumenti
di 3721, la quota di Yahoo! piombò al 6 per cento nel 2009, mentre quella di
Baidu salì fin quasi a due terzi del mercato, lasciando a Google appena il 29
per cento.

Un’uscita difficile
Ma se Yahoo! avesse tirato avanti senza vendere il suo business cinese ad
Alibaba, avrebbe comunque dovuto affrontare due gravi ostacoli: il fondatore
di 3721 Zhou Hongyi e una catastrofe etica e di pubbliche relazioni che
coinvolse il giornalista cinese Shi Tao.
Quando seppe dell’accordo Yahoo!-Alibaba, Zhou Hongyi annunciò
immediatamente le proprie dimissioni e divenne un ex dipendente rancoroso.
Disse ai giornalisti che avrebbe fondato una sua azienda e iniziò ad assumere
dipendenti sottratti a Yahoo! Negli anni successivi Zhou e la sua nuova
azienda, Qihoo 360, avrebbero dato molti grattacapi ad Alibaba, la nuova
proprietaria di Yahoo! China.29
Ma anche dopo la cessione ad Alibaba delle sue attività cinesi,
l’immagine di Yahoo! sarebbe stata macchiata negli Stati Uniti dalla vicenda
di Shi Tao, il giornalista cinese imprigionato. Fonte di grande sofferenza
personale per Jerry Yang, l’affare avrebbe illustrato i rischi imprevedibili che
attendevano qualsiasi azienda straniera che volesse costruire un business nel
settore Internet cinese.
Shi Tao lavorava per un giornale di Changsha, la capitale della provincia
dell’Hunan, il Contemporary Trade News (Dangdai Shang Bao). Era anche
un utente di Yahoo! Mail. Il 20 aprile 2004 Shi partecipò a una riunione di
redazione, convocata dal vicecaporedattore del quotidiano per parlare di un
documento riservato che era arrivato da Pechino e conteneva istruzioni su
come evitare disordini sociali in vista del quindicesimo anniversario di Piazza
Tienanmen, il 4 giugno. Non furono distribuite copie del documento, ma Shi
Tao prese appunti durante la riunione usando un account email di Yahoo!
China,30 e poi li inviò per email a un sito cinese pro-democrazia con sede a
New York. Due giorni dopo, Yahoo! China ricevette dal governo la richiesta
di comunicare le generalità del titolare dell’account, e le fornì il giorno
stesso.31
Il 23 novembre 2004 Shi fu fermato a Changsha dall’Agenzia per la
sicurezza nazionale. Il 15 dicembre fu arrestato e accusato di aver rivelato
segreti di Stato. Dopo un processo durato due ore, a marzo del 2005 fu
dichiarato colpevole e condannato a dieci anni di carcere.
Il caso di Shi Tao fu rapidamente reso noto all’opinione pubblica da
gruppi di attivisti32 che accusarono Yahoo! di essere «un informatore della
polizia.» Lo scalpore e gli appelli lanciati dai colleghi di Shi e da sua madre
Gao Qinsheng non riuscirono a ribaltare il verdetto. Dopo quella che
Amnesty International definì «una grave persecuzione» da parte del governo
cinese, la moglie di Shi chiese il divorzio.
Per Shi e la sua famiglia fu un incubo. Per Yahoo! fu una batosta. Per
Alibaba, che pure allora gestiva tutte le attività in Cina, la responsabilità
dell’accaduto era di Yahoo! A Jack fu chiesto di commentare il caso, e disse:
«Se un’azienda non può cambiare la legge, deve rispettarla. […] È giusto
rispettare il governo locale. A noi non interessa la politica, ma solo l’e-
commerce.»
Il 10 settembre 2005 partecipai all’Alifest di Alibaba a Hangzhou.
Quell’anno l’atmosfera era ancor più festosa del solito grazie al nuovo
accordo con Yahoo! e alla convinzione sempre più diffusa che Taobao
avrebbe vinto contro eBay. Jerry Yang sarebbe salito sul palco con Jack. La
ciliegina sulla torta era l’ospite d’onore invitato da Jack per quell’anno: l’ex
presidente americano Bill Clinton.
Clinton aveva accettato l’invito a luglio, ma la notizia del coinvolgimento
di Yahoo! nel caso di Shi Tao uscì pochi giorni prima del summit, mettendo
Clinton in una posizione imbarazzante.33 Clinton non parlò del caso di Shi,
ma trattò più in generale il tema dei costi economici della censura e della
necessità di una maggiore tolleranza per il dissenso.
Quando Clinton uscì dalla sala, scortato dai servizi segreti e da uomini del
governo cinese, Jerry Yang salì sul palco per rispondere alle domande dei
giornalisti sull’accordo con Alibaba. Il reporter del Washington Post Peter S.
Goodman chiese esplicitamente a Yang quale fosse stato il ruolo di Yahoo!
nella comunicazione delle informazioni che avevano condotto alla condanna
di Shi Tao.
Yang rispose: «Per fare business in Cina o in qualunque altro Paese del
mondo, dobbiamo rispettare le leggi locali. […] Non sappiamo perché
vogliano quelle informazioni, non ci dicono cosa cercano. Se ci forniscono la
documentazione corretta e gli ordini dei tribunali, noi consegniamo loro il
necessario, nel rispetto della nostra politica sulla privacy e delle normative
locali.» Aggiunse: «Non mi piacciono le conseguenze di questi avvenimenti
[…] ma dobbiamo rispettare la legge.»
Il pubblico, composto perlopiù da dirigenti e investitori dell’Internet
cinese, scoppiò in un applauso fragoroso, una reazione che appariva
inappropriata di fronte alla gravità del caso; ma grazie al Grande Firewall ben
pochi dei presenti avevano sentito nominare Shi Tao. Dopo quel giorno le
cose non fecero che peggiorare per Jerry Yang, che nel 2007 fu convocato al
Congresso a Washington34 per rispondere a domande sull’accaduto. Il
presidente del comitato, il deputato della California Tom Lantos, aprì il
dibattimento presentando la madre di Shi Tao. Jerry Yang, che era in
completo scuro e cravatta, si girò verso la donna, che era seduta dietro di lui e
singhiozzava, e si inchinò solennemente per tre volte. Lantos si scagliò contro
Yahoo! per il suo comportamento «di colpevole negligenza, come minimo, se
non deliberatamente ingannevole» e concluse: «Benché siate giganti della
tecnologia e della finanza, dal punto di vista morale siete pigmei.»
In seguito Yahoo! risolse in sede stragiudiziale una causa intentata dalla
famiglia di Shi, versando una cifra che non è stata rivelata. Shi Tao fu
scarcerato a settembre 2013 dopo otto anni e mezzo di prigione, in seguito a
uno sconto di pena di quindici mesi.
Le difficoltà di Yahoo! dimostrarono che per le aziende produttrici di
contenuti su Internet la Cina era un mercato molto rischioso: come Google
avrebbe poi scoperto direttamente, prima di uscire quasi del tutto dal Paese
nel 2010. Google aveva lanciato il suo motore di ricerca su server ospitati in
Cina (con il dominio google.cn) nel 2006, mantenendo offshore i server di
Gmail e di altri prodotti che trattavano informazioni personali e confidenziali.
Ma all’inizio del 2010, in risposta a un tentativo di hackeraggio dei suoi
sistemi e alle pressioni sempre più forti che le imponevano di censurare i
risultati delle ricerche, Google annunciò il ritiro dalla Cina. A marzo 2010
smise di censurare i risultati delle ricerche in Cina, ridirigendo il traffico al
sito di Hong Kong – dall’altra parte del «Grande Firewall Cinese» – e
segnalando la propria uscita dal mercato.35
eBay, Yahoo! e Google avevano capito che il mercato dell’Internet cinese
era destinato a una crescita fortissima. Ma all’ampliarsi del mercato
crescevano anche gli ostacoli normativi e la concorrenza di aziende
imprenditoriali e ben finanziate come Alibaba, Baidu e Tencent.
In un intervento del 2015, Jerry Yang ha fatto il punto sul mercato
Internet cinese: «Forse nei prossimi dieci anni qualche brand americano o
occidentale avrà successo in Cina. Ma in quella fase, 2000-2010, non c’è
riuscito nessuno.»
Le aziende occidentali che operavano su Internet e hanno cercato di
affermarsi sul mercato cinese hanno sperimentato sulla loro pelle il vecchio
adagio secondo cui in Cina «è meglio fare il mercante che il missionario.» E
Alibaba era il mercante migliore.
I dolori della crescita

Se possiedi il cento per cento di un’azienda che non


può funzionare, possiedi il cento per cento di zero.
–JOE TSAI

Quando eBay uscì dal mercato cinese nel 2006, gli utenti di Taobao erano 30
milioni. Nel giro di tre anni erano saliti a 170 milioni e il fatturato della
piattaforma di Taobao era passato da 2 a 30 miliardi di dollari. Senza un
competitor visibile all’orizzonte, le prospettive di Alibaba apparivano rosee.
L’economia cinese cresceva a un ritmo senza precedenti, oltre il 14 per cento
nel 2007. L’attesa delle Olimpiadi di Pechino del 2008 scatenò una massiccia
ripresa dei mercati finanziari. I capitali occidentali si riversarono in Cina e i
prezzi delle azioni delle principali Internet company cinesi schizzarono alle
stelle. Il titolo di Baidu triplicò di prezzo nel 2007, valutando l’azienda a più
di 13 miliardi. Tencent, con oltre 740 milioni di utenti dell’instant messenger
QQ e un business di videogiochi in crescita, raggiunse i 13,5 miliardi. Molte
altre aziende cinesi legate a Internet si preparavano a quotarsi. Gli sguardi si
spostarono su Alibaba. Quanto mancava alla sua IPO?
Prima di raccogliere nuovi capitali, Alibaba ristrutturò la propria
dirigenza1 per prepararsi a una nuova fase, completando il team con nuovi
manager provenienti da Pepsi, Walmart e KPMG2 e un nuovo direttore
strategico, il dottor Zeng Ming. Assunse poi un dirigente originario di
Shanghai, David Wei (Wei Zhe), che aveva esperienza nella finanza e nel
retail, come Ad del business B2B Alibaba.com. Wei avrebbe ricoperto quel
ruolo per oltre quattro anni,3 supervisionando tra l’altro la prima IPO di
Alibaba.
Taobao era popolarissimo tra i consumatori ma la decisione di mantenere
gratuiti i suoi servizi lo lasciava tuttora in passivo. Quindi Alibaba decise di
quotare solo l’originario business B2B: Alibaba.com.4 Fondate nel 1999,
quelle aziende avevano ormai otto anni di vita. Alibaba.com aveva più di 25
milioni di utenti registrati in Cina e all’estero. Era un business stabile e
redditizio, benché non particolarmente entusiasmante.

L’IPO 1.0
Eppure c’era un tale fermento intorno a Jack che l’IPO di Alibaba.com, a
novembre 2007 a Hong Kong, generò un’ondata di interesse come non se ne
vedeva più dai tempi del boom delle dot-com. Un analista criticò gli
investitori di Hong Kong, che «scambiano azioni come se giocassero a
baccarà.» Era una definizione che si attagliava bene a molte delle persone che
si erano messe in fila per comprare le azioni, come il sessantacinquenne Lai
Ah-yung, che dichiarò alla Associated Press: «Dicono tutti che bisogna
comprare, perciò compro.»
Il business B2B di Alibaba.com era di fatto un’attrazione secondaria, ma
l’entusiasmo per il boom dell’Internet cinese – ormai più di 160 milioni di
utenti – e per la vivacità della sua economia impediva a molte persone di
cogliere la distinzione.
Jack definiva l’ambito di attività di Alibaba con un linguaggio che
toccava le corde giuste a Hong Kong, un mercato ossessionato dalla
speculazione edilizia: «Siamo quasi come un costruttore immobiliare»,
spiegò. «Ci assicuriamo che il terreno sia spianato, che le tubature vengano
posate, che luce e gas funzionino. Altre persone possono venire a costruire
palazzi sul nostro terreno.» Ma il bello doveva ancora venire: se Alibaba
avesse proseguito sulla strada giusta, «possiamo costruire una piattaforma
che può diventare l’ecosistema di Internet per tutta la Cina.»
La gran parte delle azioni fu venduta a investitori istituzionali nel corso di
una spossante tournée mondiale di dieci giorni che culminò a San Francisco.
Le giornate erano così fitte di impegni che David Wei non trovava il tempo
per mangiare. Jack si sottrasse all’ultimo incontro con gli investitori e poco
dopo telefonò a David per invitarlo a un ristorante dell’aeroporto, dove aveva
ordinato tutti gli spaghettini cinesi presenti sul menù.
Quando tornarono a Hong Kong sapevano già, dai risultati della tournée,
che l’offerta pubblica avrebbe riscosso un successo straordinario. La borsa di
Hong Kong aveva già recuperato il 40 per cento nei tre mesi precedenti, ma
per garantire una partenza in quarta Yahoo! si era impegnata ad acquistare5 il
10 per cento dell’offerta, insieme ad altri sette investitori «fondamentali», tra
cui alcuni grandi imprenditori locali del settore immobiliare.6
L’offerta di Alibaba.com, il cui titolo era quotato con il numero
portafortuna «1688», portò alla vendita del 19 per cento dell’azienda per 1,7
miliardi di dollari. Era la più ricca IPO di Internet dai tempi di Google nel
2004 e valutò l’azienda quasi 9 miliardi di dollari.7
La domanda da parte dei singoli investitori, cui era allocato il 25 per
cento del totale, superò l’offerta di 257 a 1. Quelli che ebbero la fortuna di
accaparrarsi un pacchetto di azioni ne videro triplicare il valore entro il primo
giorno, dal prezzo di offerta di 13,5 dollari di Hong Kong ai 39,5 della
chiusura. Il business B2B di Alibaba era valutato 26 miliardi, ovvero 300
volte i suoi ricavi.
Ma gli investitori più fortunati furono quelli che vendettero subito, perché
il giorno dopo il prezzo delle azioni calò del 17 per cento.
L’interesse suscitato da Alibaba era incentrato su Jack e sugli altri
business in rapida crescita come Taobao e Alipay. Ma quegli asset non
facevano parte dell’IPO: anzi, gran parte delle azioni offerte nell’IPO
provenivano dalla casa madre di Alibaba.com, Alibaba Group, che doveva
raccogliere liquidità per sostenerli.
In seguito David Wei commentò così l’IPO: «Taobao stava ancora
bruciando soldi.» Dell’investimento di Yahoo! nel 2005 Alibaba conservava
ancora «circa tre o quattrocento milioni, ma non bastavano. Non sapevamo
ancora come monetizzare Taobao.» Degli 1,7 miliardi raccolti a Hong Kong,
solo 300 milioni furono destinati al business B2B. Alibaba aveva riempito le
casse con i restanti 1,4 miliardi, e ora aveva riserve per quasi 1,8 miliardi.
«Avevamo fondi in abbondanza, e saremmo riusciti a sostenere Taobao molto
a lungo. All’epoca anche Alipay era in perdita.»
L’ex Ad di Alibaba.com aggiunge che l’IPO del 2007 gli permise di
capire due tratti distintivi dell’approccio di Jack. Il primo era un principio che
Jack gli aveva ripetuto spesso: «Raccogli denaro quando non ne abbiamo
bisogno. Quando ce n’è bisogno non andare a cercarlo: è troppo tardi.» La
seconda era che l’IPO permetteva ad Alibaba di prendersi cura dei suoi
dipendenti: «Jack capisce meglio le persone che le aziende. Si intende di
business, ma se mi chiedete di classificare le tre abilità di Jack, tra persone,
business e informatica, l’informatica è all’ultimo posto. Il business al
secondo. Al primo posto ci sono le persone.»

La fama di Jack fu cementata dall’IPO di Alibaba.com: l’amico di penna australiano di Jack, David
Morley, all’aeroporto di Hangzhou nel 2008. David Morley e Grit Kaeding

L’attività B2B di Alibaba aveva otto anni di vita, e Jack sapeva di dover dare
ai suoi dipendenti la possibilità di incassare le loro quote. David ricorda che
Jack disse ai dipendenti: «Dovete comprare una casa. Dovete comprare una
macchina. Non potete aspettare di vendere le azioni per sposarvi, per avere
figli. Se vendete le azioni non significa che non vi piaccia l’azienda. Vi
incoraggio a venderne una parte, a costruirvi una vita, a ricompensare la
vostra famiglia. Perché avete lavorato troppo e siete rimasti lontani dalla
famiglia. Dovete risarcirla in qualche modo.»
Jack non vendette le sue azioni per i primi due anni. Quando le vendette,
per circa 35 milioni di dollari, spiegò ai colleghi che voleva dare alla sua
famiglia «l’impressione di aver ottenuto qualcosa.» Ma non aspettò per
comprarsi una casa da 36 milioni di dollari a Hong Kong.8
Il prospetto dell’IPO dava come indirizzo di Jack il piccolo appartamento
ai Giardini sul lago in cui era iniziato tutto. Ma ora Jack si sarebbe trasferito
in un appartamento di lusso in cima a un grattacielo, nel quartiere Mid-Levels
sulle pendici del celebre Victoria Peak di Hong Kong.
Jack era diventato miliardario (sulla base del valore delle sue azioni), ma
il prospetto dell’IPO rivelava che – grazie ai tre grandi giri di investimenti
guidati da Goldman Sachs, SoftBank e Yahoo! – la sua quota dell’azienda era
molto più piccola di quelle detenute da altri imprenditori. Al momento delle
rispettive IPO, William Ding possedeva il 59 per cento di NetEase e Robin Li
il 25 per cento di Baidu.

La crisi finanziaria globale: un risvolto positivo


Ma si addensavano già le nubi di tempesta che avrebbero fatto precipitare la
quotazione dell’azienda. Alibaba.com faceva affidamento sul commercio con
l’estero ma l’economia americana si andava indebolendo, danneggiando il
giro d’affari degli esportatori cinesi che rappresentavano la colonna portante
del business B2B. Le azioni di Alibaba iniziarono a perdere valore, e a marzo
scesero al di sotto del prezzo dell’IPO. La crisi finanziaria globale accelerò a
settembre 2008, innescando il collasso di Lehman Brothers, e nel mese
successivo le azioni di Alibaba crollarono fino ad appena un terzo del prezzo
dell’IPO. Poche settimane dopo le Olimpiadi di Pechino, il Paese si trovò in
crisi: il volume del commercio globale crollò del 40 per cento.
Il business B2B di Alibaba era vulnerabile. Aveva un numero
impressionante di utenti registrati, 25 milioni, ma solo pochi di loro pagavano
per usare il sito. Appena 22.000 abbonati al servizio Gold Supplier fornivano
il 70 per cento del fatturato totale.9
In quanto Ad di Alibaba.com, David Wei si aspettava che il calo del
prezzo delle azioni inducesse Jack a fargli molte pressioni. Invece, come
ricorda, «Jack non mi telefonava e non veniva mai a parlarmi del prezzo delle
azioni. Neppure una volta. Non ha mai parlato della crescita dei profitti.» Ma
in un’occasione David fu testimone dell’ira di Jack. «L’unica volta che mi
abbia mai telefonato dopo mezzanotte è stato quando il nostro team ha
modificato leggermente il sito. È l’unica volta che l’ho sentito gridare. Non
l’avevo mai sentito così arrabbiato. “Sei impazzito?”» Jack non era infuriato
per il prezzo delle azioni, ma perché era stato reso meno visibile sul sito un
forum di discussione, che esisteva da molto tempo, in cui i venditori
potevano comunicare tra loro. Jack pretese che David rimettesse il forum al
suo posto l’indomani. David ribatté che Alibaba doveva concentrarsi sulle
transazioni, non sulle discussioni, e che lo spazio in home page era molto
prezioso per gli inserzionisti. Ma Jack fu irremovibile: «Siamo un
marketplace B2B. Nessuno viene sul sito ogni giorno per comprare e
vendere. Siamo più importanti come community che come marketplace. Lo
stesso vale per Taobao: nessuno fa acquisti ogni giorno. Se rendi meno
visibile quel forum, vuol dire che ti concentri troppo sui profitti. Rimettilo
dov’era prima: un varco d’accesso alla community delle aziende, che non
genera reddito.»
Nonostante il calo del prezzo delle azioni, Alibaba sarebbe sopravvissuta
alla crisi finanziaria globale. E come con la SARS cinque anni prima, anche
quella crisi offrì all’azienda qualche vantaggio inaspettato.
Anzitutto Jack si rese conto che la crisi gli dava la possibilità di
fidelizzare ancora di più i clienti paganti. Decise di ridurre il prezzo degli
abbonamenti e disse a David: «Dobbiamo comportarci in modo responsabile
nei confronti dei nostri clienti. Pagano cinquantamila yuan; possiamo
restituirne loro trentamila.»
«Il mercato azionario impazzì», ricorda David: gli investitori gli
telefonavano per lamentarsi. «Che succede? State perdendo il sessanta per
cento del fatturato.» Ma c’era del metodo nella follia di Jack. Faceva sul serio
quando diceva di voler dare la priorità assoluta al cliente, ma David sottolinea
che Jack non sposava «l’ideologia del “tutto gratis per tutti”», ma «cercava
sempre di capire come recuperare i soldi in seguito. Semplicemente, non è
così avido da volere i soldi prima di ogni altra cosa.» David conclude che la
decisione di tagliare i prezzi fu tempestiva. «Il fatturato non è calato affatto.
L’aumento della clientela ha compensato appieno il calo dei prezzi. E dopo il
termine della crisi finanziaria non abbiamo rialzato i prezzi. Abbiamo creato
un’opportunità di vendere più servizi a valore aggiunto, un modello più in
sintonia con la natura di Internet. In realtà Jack mi ha detto che meditava già
da tempo di cambiare modello. La crisi gliene ha dato l’occasione.»
Il secondo vantaggio fu che il collasso dei tradizionali mercati di
esportazione costrinse le fabbriche cinesi a dare la priorità ai consumatori in
patria. Sempre di più, i prodotti «Made in China» erano anche «Sold in
China». Taobao si trovava nella posizione perfetta per trarre beneficio da
questa trasformazione. Jonathan Lu, all’epoca presidente di Taobao,
commentò: «Sempre più consumatori arrivano su Internet in cerca di prodotti
a basso prezzo durante la crisi economica, e molti altri scelgono di aprire
negozi online come secondo lavoro.» Alla fine del 2009 la quota di mercato
di Taobao era arrivata quasi all’80 per cento.
Finalmente Taobao iniziò a generare un fatturato interessante, vendendo
spazi pubblicitari ai rivenditori10 per aiutarli a promuovere i loro prodotti ai
sempre più numerosi acquirenti online.11
A settembre 2009 Alibaba andava a gonfie vele. Alla festa per il decimo
anniversario Bill Clinton tornò a Hangzhou come ospite d’onore, ma questa
volta accompagnato da personaggi che esercitavano grande fascino sui
giovani consumatori cinesi, come Kobe Bryant, campione di basket e
testimonial di Nike, e l’Ad di Starbucks Howard Schultz. Alla cerimonia
Alibaba presentò anche la sua nuova controllata per il cloud computing,
Aliyun.
Taobao acquistava sempre più forza e stava diventando la focalizzazione
principale di Alibaba. L’e-commerce consumer stava ottenendo risultati
migliori dell’attività originaria dell’azienda, il business B2B – che in seguito
Alibaba avrebbe rimosso dal listino della Borsa di Hong Kong12 – e il portale
Yahoo! China, che era in crisi.
Dopo l’accordo del 2005, mentre Taobao cresceva, Alibaba e Yahoo!
ebbero una lunga luna di miele, che però finì bruscamente in seguito a un
evento imprevisto all’inizio del 2008. Il 31 gennaio 2008 Microsoft avanzò
un’offerta non sollecitata proponendo di acquistare Yahoo! per 44,6 miliardi
di dollari.13 Jack si rese conto che se l’accordo fosse andato in porto
Microsoft sarebbe diventata il suo azionista principale. Benché fosse in buoni
rapporti con Bill Gates, Jack capiva che in Microsoft avrebbe trovato un
partner molto diverso con cui contendere, un’impresa nota per il
coinvolgimento molto maggiore rispetto a Yahoo! nelle aziende in cui
investiva. C’era poi un altro rischio: il governo cinese aveva contattato
Alibaba per richiedere informazioni sul possibile cambio di proprietà.

Kobe Bryant dona a Jack un paio delle sue scarpe Nike. Hangzhou, settembre 2009. Alibaba

Il problema del controllo


Microsoft e il governo cinese intrattenevano da tempo un’imprevedibile
relazione di odio-amore. Tra i momenti migliori, il tappeto rosso che il
presidente Jiang Zemin stese per Bill Gates alla sua visita in Cina nel 2003 e
l’accoglienza altrettanto positiva da parte di Gates nei confronti del
neopresidente Hu Jintao a una cena nella sua casa di Mercer Island,
Washington, nel 2006. Ma c’erano state anche tensioni: Microsoft aveva
espresso la propria frustrazione per la piaga della pirateria14 dei suoi prodotti
e il governo cinese aveva accusato Microsoft di comportamento
monopolistico.
In pubblico Jack insisteva che Alibaba sarebbe rimasta indipendente
comunque fosse andata la trattativa. «Alibaba è indipendente da nove anni.
[…] Comunque vada faremo a modo nostro.»
Ma in privato iniziava a preoccuparsi. Alibaba voleva invocare la clausola
del «diritto di prelazione» prevista dall’accordo del 2005, che le permetteva
di riprendersi la quota di Yahoo! nel caso di un cambio di proprietà, che
ormai appariva probabile. Alibaba assoldò Deutsche Bank e alcuni consulenti
legali per prepararsi. Ma all’inizio del 2008 l’economia globale si stava
indebolendo, raccogliere finanziamenti si profilava difficile e Alibaba era una
macchina composta da molti ingranaggi. Taobao e Alipay crescevano
rapidamente ma erano ancora in perdita. L’azienda quotata, Alibaba.com,
stava perdendo valore. Ma se Alibaba non fosse riuscita a trovare il denaro o
ad accordarsi su un prezzo a cui rilevare la quota di Yahoo!, l’accordo del
2005 stipulava che il prezzo sarebbe stato fissato tramite arbitrato: un
processo lungo e imprevedibile.
Alla fine, a maggio 2008, Jerry Yang – ora Ad di Yahoo, dopo l’uscita di
Terry Semel l’anno precedente – rifiutò l’offerta di Microsoft. Gli investitori
di Yahoo! erano furiosi, perché la dirigenza aveva detto no a un’offerta che
valutava l’azienda al 70 per cento in più del prezzo di mercato. Il titolo
azionario di Yahoo! bruciò il 20 per cento in un giorno solo. Alcuni
azionisti15 accumularono quote dell’azienda nel tentativo di forzarla ad
accettare l’accordo, ma invano. Quando scoppiò la crisi finanziaria globale,
qualche mese dopo, la decisione di Jerry di rifiutare l’offerta di Microsoft
sembrò follia pura. Gli investitori reclamavano la sua testa. Il 17 novembre
2008 Jerry annunciò le dimissioni da Ad e lasciò il posto a Carol Bartz, l’ex
Ad dell’azienda produttrice di software Autodesk.
La decisione di Yahoo! di rifiutare l’offerta di Microsoft era costata il
posto a Jerry Yang e aveva intaccato il suo orgoglio. Ma Alibaba aveva
schivato una pallottola, l’ingresso di un intruso nella sua relazione con
Yahoo! che, ora in cattivi rapporti con gli investitori, sarebbe rimasta il suo
azionista principale.
Il sollievo evaporò pochi mesi dopo, quando Carol Bartz prese il posto di
Jerry come Ad di Yahoo!.
Per molti versi Bartz era l’esatto opposto di Yang. Jerry era noto come
una persona cortese, affabile, persino deferente. Ma Bartz era famigerata per
lo stile aggressivo e non di rado ricorreva al turpiloquio durante le riunioni.
Quando, a marzo del 2009, Jack e una delegazione di alti dirigenti di
Alibaba andarono al quartier generale di Yahoo! a Sunnyvale, trovarono Jerry
ad attenderli sulla porta.16 Diede loro il benvenuto e poi li accompagnò alla
riunione con Bartz. Ma subito dopo si scusò e uscì dalla stanza: ora c’era
Bartz al timone.
Alibaba aggiornò Yahoo! sui progressi dell’azienda, compresa la rapida
crescita di Taobao. Ma anziché congratularsi con loro, Bartz criticò Alibaba
per aver lasciato calare quota di mercato di Yahoo! in Cina, e a quanto pare
soggiunse: «Devo dire le cose come stanno, perché ne va della mia
reputazione. […] Voglio che togliate il nostro nome da quel sito.» In seguito
Jack disse a un giornalista:17 «Se non riesci a far funzionare il tuo business,
non è con me che devi arrabbiarti.»
I rapporti tra Jack e Bartz divennero istantaneamente gelidi. Per lunghi
periodi i due non ebbero contatti.
Il tentativo di Alibaba di rientrare in possesso della quota detenuta da
Yahoo! si sarebbe svolto sempre più sotto i riflettori, come anche le frequenti
dispute tra le due aziende.
A settembre 2009, mentre Alibaba festeggiava il suo decimo anniversario,
con un voto pubblico di sfiducia Yahoo! vendette18 le azioni che aveva
comprato nell’IPO di Alibaba.com. Poi, a gennaio 2010, mentre Google si
scontrava con il governo cinese sulla censura e gli hacker, Yahoo! si espresse
in sostegno di Google: «Condanniamo ogni tentativo di infiltrazione nelle reti
di un’azienda per carpire informazioni sugli utenti. […] Concordiamo con
Google che questo genere di attacchi è molto preoccupante e siamo convinti
che la violazione della privacy degli utenti sia un male a cui tutti noi, in
quanto pionieri di Internet, dobbiamo opporci.»
Alibaba si infuriò vedendo il suo azionista principale che si scagliava
apertamente contro il governo cinese. Attraverso un portavoce, John Spelich,
Alibaba ribatté: «Alibaba Group ha comunicato a Yahoo! che la sua
dichiarazione di “allineamento” con la posizione assunta da Google la
settimana scorsa è stata imprudente, alla luce della scarsità di fatti a
disposizione. […] Alibaba non condivide tale opinione.»
Ma il peggio doveva ancora venire. A settembre 2010 il direttore di
Yahoo! a Hong Kong affermò di essere alla ricerca di inserzionisti per il sito
nella Cina continentale, mettendo Yahoo! in concorrenza con Alibaba, la
quale reagì annunciando di voler ripensare la propria relazione con Yahoo!.
L’Ad di Alibaba.com David Wei mise pubblicamente in forse il sodalizio
con Yahoo!: «Cosa dovremmo farcene di un investitore finanziario senza
sinergia commerciale o tecnologica? Il principale cambiamento intervenuto è
che Yahoo! ha perso la sua tecnologia per il motore di ricerca. Il motivo
principale che giustificherebbe una partnership non sussiste più.»
La relazione con Alibaba non sarebbe mai migliorata finché fosse rimasta
al timone Carol Bartz, che fu licenziata da Yahoo! a settembre del 2011. Ma
prima di allora Alibaba dovette affrontare due crisi che misero in pericolo la
risorsa più importante per l’azienda: la fiducia.
La prima crisi fu interna: la scoperta di una frode nel business B2B di
Alibaba, che danneggiò la reputazione di Alibaba.com agli occhi dei clienti.
La seconda fu la controversia sul trasferimento di Alipay fuori dalla proprietà
di Alibaba, che danneggiò la reputazione di Alibaba Group agli occhi di
alcuni investitori.
La frode, in cui pare fossero implicati un centinaio di dipendenti della
forza vendita, riguardava 2300 venditori online19 che erano stati certificati
come affidabili dai dipendenti corrotti. I venditori avevano incassato
pagamenti per 2 milioni di dollari per ordini di computer e altri prodotti su
Alibaba.com – prodotti molto ricercati offerti a prezzi molto bassi – che poi
non avevano mai spedito ai clienti all’estero.
Alibaba si autodenunciò, facendo calare dell’8 per cento il prezzo delle
sue azioni, ma Jack era arrabbiato soprattutto per i danni inferti alla fiducia
dei consumatori. I dipendenti furono licenziati e oltre 1200 venditori paganti
furono estromessi dal sito. Un’indagine scagionò l’alta dirigenza, ma poiché
la frode era avvenuta sotto la loro supervisione Jack chiese le dimissioni
dell’Ad David Wei e del direttore operativo.20 Jack disse ai media che
Alibaba «è forse l’unica azienda in Cina» in cui l’alta dirigenza si assuma la
responsabilità delle sue azioni, e Forbes lo definì «una specie rara» in un
Paese «intriso di corruzione». Quando qualcuno lo accusò di aver licenziato
gli alti dirigenti solo per ripulire l’immagine dell’azienda, Jack rispose
piccato: «Non sono stato io a creare il cancro, io sono il medico che lo cura!»
David Wei non si oppose, ma anzi affermò che la decisione aveva
contribuito a innescare un analogo repulisti tra i ranghi di Taobao, poco
tempo dopo. «La gente diceva: “Accidenti, sul serio?” E misure analoghe
sono state prese in altre aziende del gruppo. È iniziato tutto dal B2B, poi si è
passati al ramo consumer. Sono molto fiero di essermi dimesso. Se non
avessimo ripulito l’azienda, l’IPO del 2014 non avrebbe riscosso tutto quel
successo.»
Ma l’altra crisi, i cui effetti avrebbero toccato gli investitori, doveva avere
un impatto più nocivo e duraturo sulla reputazione di Alibaba. Benché
l’azienda insista di non aver fatto nulla di male, una posizione sostenuta
anche da molti investitori, la controversia continua a offrire munizioni ai
critici dell’azienda. Questa crisi si è incentrata sulla proprietà del business
Alipay.

Il grande scandalo
Alipay era un ingranaggio cruciale nella macchina di Taobao: gestiva
transazioni per oltre 700 milioni di dollari al giorno, più della metà del
mercato cinese. Essendo così importante per Alibaba, era difficile attribuirle
un valore; ma un analista stimava che Alipay valesse un miliardo di dollari.
Ma il 10 maggio 2011 si scoprì che l’anno precedente Alipay era stata
disgiunta dall’Alibaba Group e ora apparteneva a un’azienda controllata
personalmente da Jack: Zhejiang Alibaba E-Commerce Company Limited.
Jack ne possedeva l’80 per cento e il resto era a nome del cofondatore di
Alibaba Simon Xie (Xie Shihuang). Gli investitori vennero a sapere del
trasferimento da un messaggio di poche righe, a pagina otto delle note al
rapporto sugli utili trimestrali di Yahoo! che diceva:

Per velocizzare l’ottenimento di un’essenziale licenza dalle


autorità di regolamentazione, la proprietà del business di
pagamenti online di Alibaba Group, Alipay, è stata ristrutturata
in modo tale per cui il cento per cento delle sue azioni circolanti
appartiene a un’azienda cinese la cui maggioranza è detenuta
dall’amministratore delegato di Alibaba Group. È in corso una
trattativa tra la dirigenza di Alibaba Group e i suoi azionisti
principali, Yahoo! e Softbank Corporation, circa i termini della
ristrutturazione e i necessari accordi commerciali legati al
business dei pagamenti online.
Un’azienda dal potenziale valore di un miliardo di dollari era
misteriosamente sparita? Gli investitori si allarmarono. Le azioni di Yahoo!
precipitarono come un sasso – persero il 7 per cento l’11 maggio e il 6 per
cento l’indomani – bruciando tre miliardi di dollari dalla sua capitalizzazione
di mercato. Quella sera, nel tentativo di limitare i danni, Yahoo! annunciò che
né lei né SoftBank avevano saputo del passaggio di consegne se non a cose
fatte.
Ma l’ignoranza non era una linea di difesa efficace. Ai sensi dell’accordo
stipulato nel 2005 per l’investimento di Yahoo!, ogni trasferimento di asset o
controllate di Alibaba Group per un valore superiore ai 10 milioni di dollari
richiedeva l’approvazione del Cda o degli azionisti dell’azienda.
Alla riunione annuale di Alibaba.com a Hong Kong, Jack difese il
trasferimento sostenendo che fosse «legale al cento per cento e trasparente al
cento per cento.» Aggiunse che erano in corso trattative con Yahoo! e
SoftBank «riguardo gli accordi economici più appropriati per Alipay», e
dichiarò: «Se non avessimo sempre lavorato alla luce del sole, non saremmo
dove siamo oggi.»
Alibaba emise anche un comunicato stampa in cui confermava il
trasferimento e spiegava che era stato deciso per attenersi alle
regolamentazioni imposte dalla Banca Popolare Cinese (People’s Bank of
China, PBOC), l’autorità di vigilanza sulle banche. Nello specifico, la PBOC
aveva emanato «misure amministrative per i servizi di pagamento offerti da
istituzioni non finanziarie», che richiedevano – spiegò Alibaba – «che le
quote di controllo delle istituzioni non finanziarie dovessero appartenere a
soggetti cinesi.»
Il 15 maggio, per cercare di calmare le acque dopo giorni di agitazione,
Alibaba e Yahoo! pubblicarono un comunicato stampa congiunto: «Alibaba
Group, e i suoi azionisti di maggioranza Yahoo Inc. e Softbank Corporation,
sono impegnati in negoziati produttivi per risolvere le questioni legate ad
Alipay in modo da tutelare gli interessi di tutti gli azionisti nel più breve
tempo possibile.»
Ma c’era uno scarto tra le dichiarazioni di Yahoo! e quelle di Alibaba, che
sollevava una serie di domande spinose, riassumibili in: chi sapeva cosa? E
quando?
Alibaba dichiarò che il trasferimento di Alipay era già avvenuto, ma
Yahoo! non aveva informato i suoi azionisti per mesi, forse anni. Da quanto
tempo Yahoo! (e SoftBank) sapeva del trasferimento? Alibaba insisteva che
Yahoo! e SoftBank avevano appreso durante una riunione del Cda a luglio
2009 «che la quota di maggioranza di Alipay era stata trasferita a un soggetto
cinese.»21 La rivista di settore cinese Caixin confermò, al termine di
un’inchiesta, che Alipay era stata venduta in due transazioni, a giugno 2009 e
ad agosto 2010, a Zhejiang Alibaba ECommerce Company Limited, l’azienda
controllata da Jack. Il prezzo totale pagato era stato di 330 milioni di yuan
(51 milioni di dollari). I critici accusavano Yahoo! di disonestà oppure di
incompetenza. Se sapeva del trasferimento, perché non l’aveva detto ai suoi
investitori? E, se non lo sapeva, com’era possibile che non lo sapesse?
La crisi sollevò altre domande difficili. Davvero Alibaba non aveva altra
scelta che alienare un asset così importante? Inoltre, il trasferimento doveva
proprio avere come destinazione un’azienda sotto il controllo personale di
Jack? E ora cosa sarebbe successo?
Gli azionisti di Yahoo! erano esasperati, e il direttore di un hedge fund
disse ai giornalisti: «Sembra che la situazione sia degenerata in uno scontro
verbale a mezzo di comunicati stampa. Non si ha l’impressione che il Cda di
Yahoo! fosse al corrente dell’accaduto.»
Fu un gran giorno per coloro che criticavano la struttura VIE e, in
generale, gli investimenti in aziende cinesi. Ma era vero ciò che sosteneva
Alibaba, ovvero che era stata obbligata e compiere il trasferimento?
Dietro le quinte, quando scoppiò la crisi Jerry Yang era inquieto ma
mantenne la calma. Masayoshi Son, invece, andò su tutte le furie. Cos’era
passato per la testa di Jack? Per capire cosa fosse successo, Jerry si offrì di
prendere un aereo per Pechino, dove incontrò un alto funzionario della PBOC
e gli fu detto che era meglio «accettare la situazione.» Quando chiese ulteriori
delucidazioni, fu semplicemente informato che la questione «non era nelle
loro mani.»
Era vero che nel giugno 2010 la PBOC aveva introdotto nuove regole
sulle piattaforme Internet di terze parti per i pagamenti. Le nuove norme
avevano reso più macchinosa la procedura di richiesta per le aziende
finanziate dall’estero rispetto a quelle interamente cinesi. La PBOC aveva
esaminato fin dal 2005 la questione della proprietà estera delle aziende di
pagamenti. Ma le regole non escludevano completamente la proprietà estera.
I suoi difensori sostenevano che Jack aveva semplicemente capito per
primo da che parte stesse soffiando il vento normativo. Racchiudere Alipay
in un’azienda cinese da lui controllata poteva tutelare Alibaba dal rischio che
le nuove licenze emesse dalla PBOC venissero negate alle aziende con
finanziamenti dall’estero. Nel tentativo di chiarire la situazione, nel 2014,
prima dell’IPO, Alibaba giustificò il trasferimento spiegando che «ha
permesso ad Alipay di ottenere una licenza per amministrare pagamenti a
maggio del 2011, senza ritardi e senza conseguenze negative per Alipay né
per i nostri marketplace al dettaglio in Cina.»
In effetti il 26 maggio 2011 Alipay, a quel punto interamente cinese, fu la
prima di ventisette aziende a ottenere una licenza, e ricevette quella con il
numero progressivo 001.22 Ma i critici di Jack controbattono che, poiché la
PBOC aveva concesso licenze anche ad aziende con investitori esteri, come
Tenpay di Tencent, che era il numero due del mercato, l’argomentazione
secondo cui Alibaba era stata costretta a trasferire la proprietà di Alipay per
sottrarla alle mani straniere non reggeva. I difensori di Jack replicano che il
confronto con Tenpay e altre aziende finanziate dall’estero non è valido:
Alipay aveva già una quota così dominante del mercato che non avrebbe
potuto aspettarsi altrettanta clemenza. C’erano migliaia di aziende attive nel
mercato dei pagamenti gestiti da terze parti, ma all’emissione del primo
gruppo di licenze, a maggio, la PBOC fissò anche una scadenza – il primo
settembre 2011 – entro cui tutte le aziende dovevano ottenere una licenza o
fondersi con un’altra impresa che ne possedesse già una. Inevitabilmente quel
nuovo sviluppo generò molte tensioni. Le aziende che avevano operato in
un’area grigia si trovavano ora divise tra bianco e nero, a seconda che
avessero ricevuto investimenti dall’estero e che possedessero o no una
licenza. Chi non aveva ancora ricevuto una licenza rischiava di non poter più
operare, e chi l’aveva ricevuta ma aveva investitori stranieri temeva che la
scelta di Alipay minasse le proprie chance di un’IPO futura, danneggiando la
valutazione della propria azienda e – temevano in molti – minando la
struttura di investimenti VIE su cui tante Internet company facevano
affidamento.
Alcuni rivali di Alipay mi hanno raccontato di un incontro organizzato
dalla PBOC poco dopo la concessione delle licenze, a cui era presente anche
Jack. Molti espressero le loro critiche ad Alibaba, ma Jack restò in silenzio.
Anche senza contare il problema delle licenze, la realtà era che troppe
aziende inseguivano i possibili guadagni del settore dei pagamenti, ma quei
guadagni si rivelarono un miraggio. Con tariffe dell’un per cento o poco più
sulle transazioni, se la trafila delle licenze non fosse bastata a ridurre il
numero degli sfidanti ci avrebbe pensato comunque la concorrenza. Visto in
quest’ottica, il caso Alipay – e il regime di licenze della PBOC che innescò –
non fecero altro che accelerare l’inevitabile: molte aziende di pagamenti si
trovarono sperdute nel deserto, sapendo che di lì a poco sarebbero rimaste a
corto di finanziamenti. Un dirigente mi ha riassunto così la situazione:
«C’erano più aziende di “soluzioni di pagamento” che aziende di e-commerce
consumer. Era come trovarsi in un ristorante con più cuochi che clienti.»
Alla luce di tutto ciò, la decisione di Jack di portare Alipay sotto il
proprio controllo era giustificata? Oppure hanno ragione coloro che, a
tutt’oggi, criticano il trasferimento? Entrambe le fazioni si basavano sulla
propria interpretazione di ciò che il governo cinese, tramite la PBOC, aveva
in mente. Ma le intenzioni della PBOC non erano affatto chiare. L’authority
non aveva mai detto che le aziende con investimenti esteri potessero
possedere piattaforme di pagamento. D’altronde non aveva mai detto neanche
che non potessero possederle. Un influente investitore con cui ho parlato mi
ha riassunto la questione in questi termini: «La PBOC era furiosa. Ma Jack è
stato molto bravo a mettere le diverse fazioni una contro l’altra. Nessuno
poteva farci niente perché le regole della PBOC erano sempre rimaste
vaghe.»
Stava succedendo qualcos’altro che aveva indotto Jack alla rischiosa
decisione di estrarre Alipay da Alibaba? Il deterioramento delle relazioni tra
Yahoo! e Alibaba non aiutava di certo. Sotto la direzione di Carol Bartz i
rapporti si erano fatti così tesi che Bartz e Jack non si rivolgevano neppure la
parola ma comunicavano tramite dichiarazioni e interviste alla stampa.
Otto mesi prima che scoppiasse la crisi di Alipay, Bartz aveva affermato
di non essere interessata a vendere la quota di Yahoo! in Alibaba e che Jack
cercava solo di «riprendersi un po’ delle sue azioni» in vista di un’IPO che le
avrebbe valutate molto di più. Alibaba rispose all’istante, tramite i media,
negando di avere in cantiere un’IPO e sostenendo che erano in corso regolari
negoziati con Yahoo! per l’acquisto della sua quota.23
Restava il fatto che, se a Yahoo! non fosse piaciuto il prezzo che Alibaba
era disposta a pagare, c’era ben poco che Jack potesse farci.
Quella frustrazione ha svolto un ruolo? Oppure la causa è stata un’altra
questione aperta? Erano passati cinque anni dall’investimento di Yahoo!.
Nell’ambito di quell’accordo c’era una clausola, concessa da Alibaba solo
dopo lunghi negoziati, che dava a Yahoo! il diritto di nominare un secondo
membro del Cda di Alibaba nel 2010. Inoltre l’accordo decretava che la
maggioranza del Cda poteva decidere di cambiare la dirigenza di Alibaba. Se
Bartz avesse ottenuto il sostegno di Jerry Yang, che pur non essendo più Ad
sedeva nel Cda di Alibaba, e il sostegno di Masayoshi Son, avrebbe potuto
battere ai voti Jack e Joe, mettendo in pericolo le loro posizioni. Era
improbabile che accadesse, dati i rapporti di Jack con Jerry e Masayoshi Son,
per non parlare della difficoltà per un soggetto straniero di impadronirsi di
un’azienda iconica come Alibaba, ma non era impossibile, soprattutto se
Bartz fosse riuscita a mettersi in una posizione di forza nei negoziati sulla
vendita della quota di Yahoo!. Ma anche solo minacciare un colpo del genere
avrebbe pesantemente danneggiato Yahoo!. «A quel punto il loro
investimento avrebbe perso ogni valore», commenta un altro imprenditore
dell’Internet cinese con cui ho parlato.
In ogni caso, quell’ipotesi estrema non si concretizzò mai.
All’intensificarsi delle critiche sul trasferimento, Alibaba non aveva altra
scelta che trovare un accordo con Yahoo! il più presto possibile. Alcuni
commentatori cinesi erano ancor più severi degli stranieri: ai loro occhi la
disputa minacciava gli interessi degli altri imprenditori cinesi, minando la
fiducia nella struttura VIE e negli investimenti stranieri in generale. Dopo
aver criticato il governo per il processo tortuoso e poco limpido con cui
venivano concesse le licenze, l’autorevole rivista cinese Caixin biasimò lo
stesso Jack per aver «violato i principi del contratto che sostiene l’economia
del mercato.» Jack aveva macchiato la propria reputazione nel business
internazionale e aveva ridotto le prospettive di crescita a lungo termine di
Alibaba, sosteneva Caixin, trasferendo un asset «a un’azienda a suo nome, a
un prezzo troppo basso per essere equo.» Un imprenditore dell’Internet
cinese con cui ho parlato, quattro anni dopo la controversia, mi ha detto che a
suo giudizio, anche se la motivazione fosse stata quella, Jack aveva agito
bene: «Lo capisco perfettamente. Era la cosa giusta da fare? Al posto suo
avrei fatto lo stesso. Se non avesse risolto il problema degli incentivi, oggi
Alibaba non sarebbe quella che è.» Pochi imprenditori cinesi sostennero
pubblicamente quella posizione e più d’uno pubblicò sui social media un link
all’articolo di Caixin.
Poco dopo la pubblicazione dell’articolo Jack si mise in contatto con Hu
Shuli, l’influente direttrice di Caixin, per discutere via sms le obiezioni da lei
sollevate. Il primo scambio di messaggi durò due ore. Jack le scrisse
dicendosi molto deluso che Caixin avesse pubblicato l’articolo senza
conoscere a fondo la situazione. Affermò di «non essere minimamente
interessato alla politica» ma di voler solo «essere me stesso e mostrarmi
responsabile verso me stesso e gli altri.»
Jack scrisse che «la situazione di oggi non è stata creata [da noi], ma
[siamo] costretti ad agire così. La complessità dei processi decisionali degli
azionisti e del Cda è anche un problema che riguarda il futuro della
governance d’impresa.» Aggiunse: «Mi attengo a tre principi: primo, legalità
al cento per cento, secondo, trasparenza al cento per cento e terzo, lasciare
che l’azienda si sviluppi in modo sostenibile e sano.»
È interessante notare che Jack rivelò a Hu che la relazione di Alibaba con
Yahoo! era più stretta, in quel periodo, della relazione con SoftBank: «I
problemi tra me e Yahoo! sono facili da risolvere. Sono problemi di interessi.
Ma i problemi tra me e Masayoshi Son non sono solo problemi di interessi.»
Al di là della disputa su Alipay, all’apice della controversia Jack rivelò24 di
avere disaccordi profondi con Son su una serie di temi riguardanti le risorse
umane, tra cui i programmi di incentivi per i dipendenti e la formazione del
personale:

Lui pensa che i dipendenti si possano sostituire in qualsiasi


momento. Io invece sono convinto che dobbiamo dare
opportunità ai giovani cinesi, condividere il futuro con loro. Lui
è convinto che in Giappone non sia così: ti verso comunque uno
stipendio quindi, se vuoi lavorare, bene, altrimenti ce ne sono
altri come te. Anzitutto non sono convinto che [ciò che accade
in] Giappone sia giusto; e di sicuro è sbagliato in Cina. Penso
che i clienti debbano venire al primo posto e i dipendenti al
secondo. Senza il nostro staff quest’azienda non esisterebbe. Su
questo tema abbiamo idee antitetiche. […] È un problema che
abbiamo sempre avuto.
Jack rivelò che il suo disaccordo con Son durava da tempo, che «da anni
ci scontriamo su questo argomento.» Inoltre Jack paragonò il suo approccio
alla proprietà delle quote azionarie: «Ciascuno dei diciassettemila dipendenti
di Alibaba possiede azioni», spiegò. «Dal giorno della fondazione
dell’azienda fino a oggi, la mia quota non ha fatto che ridursi.» Son, invece,
possedeva una quota di Alibaba «pari al trenta per cento fin dal primo giorno,
e ora è più del trenta per cento.» A rimarcare la tensione tra loro due, Jack
invitò i giornalisti a osservare il modo in cui Son trattava i suoi dipendenti in
SoftBank: «Andate a vedere se ha dato qualcosa ai suoi dipendenti. […] Se
qualcuno gli chiede di rinunciare all’uno per cento [della sua quota], è come
estrarre un dente a una tigre senza anestesia.»
Pur professando la sua ammirazione per le abilità di negoziazione di Son,
disse anche che Son era il «gallo di ferro numero uno» (tie gongji),
un’espressione idiomatica cinese che descrive una persona molto avara:
ovvero, a un gallo di ferro non si può strappare neanche una piuma.
Poiché molti dei fatti erano controversi e la posta in gioco era così alta, i
tentativi di risolvere la disputa si trascinarono per mesi. A metà della crisi,25
Jack definì «molto complicati» i negoziati sull’indennizzo da pagare per il
trasferimento di Alipay, paragonandoli ai «colloqui di pace delle Nazioni
Unite.»
Ma trovare un compromesso stava diventando urgente. A fine luglio le
azioni di Yahoo! erano scese del 22 per cento rispetto all’inizio della disputa.
Qualche settimana prima, l’investitore di alto profilo David Einhorn di
Greenlight Capital vendette la sua intera posizione in Yahoo!, che aveva
accumulato a causa dell’esposizione di Yahoo! in Cina, affermando che la
disputa «non è ciò per cui abbiamo firmato.»
Finalmente, il 29 luglio, si raggiunse un accordo. Il trasferimento degli
asset sarebbe rimasto in essere, ma Yahoo!, che traeva beneficio dalla quota
che ancora deteneva, avrebbe ricevuto un compenso tra i due e i sei miliardi
di dollari dai proventi di una futura IPO di Alipay. Alibaba, Yahoo! e
SoftBank erano pronti a lasciarsi alle spalle la disputa. Ma gli investitori di
Yahoo! non erano soddisfatti, in particolare dal tetto massimo di 6 miliardi,26
e quella notizia fece calare il suo titolo in borsa del 2,6 per cento. Ma in
teleconferenza con gli investitori per spiegare i termini dell’accordo, Joe Tsai
ribatté con forza che il trasferimento era stato fatto per rispettare la volontà
del governo: «Se possiedi il cento per cento di un’azienda che non può
funzionare, possiedi il cento per cento di zero.»
L’episodio di Alipay lasciò l’amaro in bocca, ma l’accordo di
compensazione pose fine a mesi di incertezza. Ora Alibaba poteva
concentrarsi sulla priorità successiva: ricomprare il più possibile della quota
di Yahoo!.
Il 30 settembre 2011 Jack accettò un invito all’università di Stanford per
tenere un discorso introduttivo al convegno «China 2.0», da me fondato
qualche anno prima con Marguerite Gong Hancock. Dopo averlo presentato
sul palco mi sedetti in prima fila per assistere a una classica dimostrazione
della «magia di Jack». Parlando in inglese, Jack iniziò ammettendo i
problemi della relazione tra Alibaba e Yahoo!. Disse di essere molto stanco
dopo gli eventi degli ultimi mesi e poi, alzando la mano destra e guardando la
platea, disse: «Non so ancora cosa sia la VIE, sapete?» Ovviamente Jack
sapeva tutto di quella struttura di investimenti – era stata al centro della
controversia su Alipay – ma fingere ignoranza era il suo modo per
conquistare il favore dell’uditorio, anche se gli avvocati seduti in platea non
riuscivano a trattenere l’incredulità. A quel punto Jack si spostò su un terreno
più sicuro, raccontando alcuni dei suoi aneddoti classici, e poi intervenni io
per moderare le domande dei giornalisti. A chi gli chiese se intendesse
comprare Yahoo!, Jack rispose: «Sì, ci piacerebbe molto.» Quando Kara
Swisher di AllThingsD di Dow Jones gli chiese se volesse comprare solo la
quota di Yahoo! in Alibaba o l’intera Yahoo!, Jack rispose, con una
dichiarazione che fece subito il giro del mondo: «Tutta quanta. Yahoo! China
è già nostra, no?» Infilò in tasca la mano destra e disse: «Ce l’ho già in
tasca!» Concluse affermando che la situazione era complessa e che ci sarebbe
voluto tempo.
Alla fine ci sarebbero voluti nove mesi per concludere un accordo. Il 21
maggio 2012 i termini furono resi pubblici: Alibaba avrebbe versato a
Yahoo! 7,1 miliardi di dollari (6,3 miliardi in contanti e fino a 800 milioni in
azioni privilegiate) in cambio di metà della quota di Yahoo! ovvero il 20 per
cento di Alibaba, fornendo così a Yahoo! una liquidità di cui aveva urgente
bisogno: 4,2 miliardi di dollari al netto delle imposte. Alibaba si impegnò
anche a ricomprare un quarto della quota restante di Yahoo! entro il 2015 o a
lasciare che Yahoo! vendesse la quota in una futura IPO27 di Alibaba Group.
Yahoo! e SoftBank accettarono di limitare al di sotto del 50 per cento i loro
diritti di voto nel Cda di Alibaba. Jack e Joe potevano sentirsi al sicuro sulle
loro poltrone e iniziare a tracciare la rotta per l’IPO 2.0.
Icona o Icaro?

I comunisti ci hanno battuto al gioco del capitalismo!


–JON STEWART

L’IPO 2.0
L’8 settembre 2014 a New York, due giorni prima del cinquantesimo
compleanno di Jack, Alibaba Group Ltd. diede il via alla sua tournée
mondiale.
Quindici anni dopo aver salito la scala di cemento grezzo nel condominio
ai Giardini sul lago, salii i lucidi gradini di marmo dell’hotel Waldorf Astoria
di Manhattan. Ero lì per assistere alla nascita di «BABA».
Intorno all’albergo si assiepavano i Suv neri e i furgoni dei giornalisti con
le antenne satellitari sul tettuccio. Dentro l’hotel Jack, Joe e il resto della
dirigenza si preparavano alla presentazione. La fila degli investitori si
estendeva dalla Quarantanovesima strada fin dentro la hall dell’albergo e fino
agli ascensori dalle porte dorate. Era il grande giorno della Nuova Cina. La
location era perfetta: di lì a poco anche il venerabile Waldorf Astoria sarebbe
stato rilevato, per due miliardi di dollari, da un’azienda cinese.1
Nel salone dei ricevimenti al primo piano, a ogni investitore era assegnato
un braccialetto che stabiliva se avrebbe ascoltato la presentazione dal salone
principale o da una delle salette adiacenti. Un investitore commentò che gli
sembrava di essere al lancio di un nuovo iPhone.
Tutti gli sguardi erano puntati su Jack. Benché il protagonista dell’evento
fosse Jonathan Lu, l’amministratore delegato,2 Jack restava – e resta ancora
oggi – la personificazione di Alibaba. Quando arrivò il suo turno di parlare,
Jack raccontò agli investitori la storia del suo primo e sfortunato viaggio con
Joe negli Stati Uniti per raccogliere finanziamenti, quindici anni addietro. Era
partito sperando di incassare due milioni di dollari in venture capital, disse,
ed era tornato a mani vuote. Ma adesso era di nuovo in America e chiedeva
una cifra un po’ più alta.
In quel primo viaggio Joe aveva cercato invano di convincere Jack a
presentare qualcosa agli investitori. Ma stavolta si erano preparati: ciascuno
degli investitori ricevette un corposo prospetto da trecento pagine. La grafica
da fumetto sulla copertina di un arancione acceso lo faceva somigliare più a
un libro per bambini che a un serio documento finanziario. Ma dietro la
copertina gli investitori trovarono il preoccupante elenco dei «Fattori di
rischio», obbligatorio per ogni offerta pubblica. Occupava trentasette pagine
e dettagliava i rischi «tangibili» e «intangibili»,3 tra cui la dipendenza
dell’azienda da Alipay, un business che non era più di sua proprietà. Jack
affrontò di petto la questione del trasferimento di Alipay, dicendo che non
aveva avuto scelta. Era stata una delle decisioni più difficili della sua vita ma
col senno di poi l’avrebbe presa di nuovo.
Tra i fattori di rischio c’era anche un esame della controversa ma duratura
struttura di investimenti VIE. Tuttavia quell’offerta aggiungeva, al di sopra
della VIE, un altro strato di complessità per gli investitori: la «Alibaba
Partnership». La partnership4 era composta da trenta persone, quasi tutti
dirigenti di Alibaba.5 Sei di loro,6 più Joe Tsai, erano tra i cofondatori
originari dell’azienda. L’obiettivo esplicito della partnership è aiutare l’alta
dirigenza di Alibaba a «collaborare e superare gli ostacoli e le gerarchie
burocratiche» per assicurare «l’eccellenza, l’innovazione e la sostenibilità.»
A dicembre 2015 Alibaba ha nominato quattro nuovi membri della
partnership, portando il totale a trentaquattro.7
Naturalmente la finalità implicita della partnership è l’esercizio del
controllo. Anche dopo essersi quotata, Alibaba voleva assicurarsi che i
fondatori restassero padroni del proprio destino.
Quella decisione aveva già generato una controversia per Alibaba,
spingendo la borsa di Hong Kong e il suo ente di regolamentazione8 a
rifiutare la richiesta di Alibaba di una IPO in quel territorio. Hong Kong
temeva che la concessione di quella struttura potesse segnalare un
indebolimento del suo impegno per il sistema «un azionista, un voto».
Alibaba ribatté che la partnership non poteva essere paragonata alla
concentrazione di potere tipica delle strutture di partecipazione «dual class» o
«high vote» usate da altre tech company negli Stati Uniti, come Google e
Facebook. Proponeva invece una forma di governance nuova e più
sofisticata, che assegnava un voto a ciascun membro di un gruppo più ampio
di dirigenti. Ma la distinzione non bastò a convincere le autorità di Hong
Kong, perciò Alibaba scelse di quotarsi alla borsa di New York.
Dire di no ad Alibaba fu costoso per Hong Kong: privò i banchieri e gli
avvocati della città di un reddito potenzialmente enorme. Joe Tsai non
moderò i termini: «La questione che Hong Kong deve chiarire è se è pronta a
guardare avanti mentre il resto del mondo la sorpassa.»
Così Alibaba si ritrovò a New York. Vendendo il 12 per cento
dell’azienda raccolse 25 miliardi di dollari: la IPO più ricca della storia.
Credit Suisse e Morgan Stanley, due delle sei banche che sovrintendevano
all’operazione, incassarono 49 milioni di dollari ciascuna. L’esercito di
avvocati che aveva contribuito allo sbarco sul listino incassò più di 15
milioni.
A New York l’accordo attrasse l’attenzione di Jon Stewart. Il comico
iniziò il suo monologo scherzando sul modello di business di Alibaba, che
collegava acquirenti e venditori: «È Craigslist con una grafica migliore: è
questo che è, vero?» Poi si prese gioco della complessa struttura proprietaria
di Alibaba: gli investitori dell’IPO compravano azioni di Alibaba Group
Holdings Limited, un’azienda registrata alle isole Cayman e controllata da
una partnership, che non possedeva concretamente gli asset in Cina. «Quindi
ho comprato un’azione di qualcosa che sta su un’isola, ma non la possiedo?»
Proseguiva Stewart: «Ci state vendendo una multiproprietà, vero? La
multiproprietà di un’azienda. E senza neanche offrirci una vacanza gratis per
ascoltare la vostra presentazione?» Infine Stewart osservò che Alibaba si
quotava a New York perché non poteva farlo in Cina: «I comunisti ci hanno
battuto al gioco del capitalismo!» Concludeva fingendo di telefonare al suo
broker per tentare, invano, di mettere le mani su qualche azione di BABA.
Ma a differenza della precedente, questa IPO non riguardava i singoli
investitori: era tutta incentrata sulle grandi istituzioni, alle quali era riservato
il novanta per cento delle azioni.9 Tra i sottoscrittori c’erano millesettecento
investitori istituzionali, e quaranta di loro ordinarono azioni per oltre un
miliardo di dollari. Alla fine la gran parte delle azioni fu allocata a poche
decine di istituzioni.
La magia di Jack, e il fascino esercitato dall’enorme giro d’affari di
Alibaba, avevano funzionato. La domanda di azioni BABA10 superava
l’offerta di quattordici volte. Un esordio record al primo giorno di
contrattazioni era inevitabile. La domanda era così alta che il New York
Stock Exchange impiegò mezz’ora solo per determinare il prezzo di apertura.
Il titolo era fissato a 68 dollari, ma i primi ordini si attestarono poco sotto i
100. BABA chiuse la giornata al 25 per cento in più del prezzo iniziale,
valutando l’azienda a più di 230 miliardi, più di Coca-Cola. Tra le Internet
company Alibaba era seconda solo a Google e superava persino Amazon e
Facebook. Nelle settimane successive le azioni continuarono a salire e la
valutazione sorpassò ampiamente quelle di Walmart e Amazon, sfiorando i
300 miliardi all’inizio di novembre. Se dopo la prima IPO, nel 2007, Jack
aveva comprato un appartamento a Hong Kong dal prezzo record di 36
milioni di dollari, così meno di un anno dopo l’IPO del 2014 comprò un altro
status symbol, stavolta per 190 milioni: una villa a tre piani da mille metri
quadri ancora più in alto sul Victoria Peak di Hong Kong.
Tuttavia, come l’IPO del 2007, anche il BABA-boom ebbe vita breve: le
azioni di Alibaba Group crollarono del 50 per cento prima della fine
dell’estate 2015. A fine agosto scesero per la prima volta al di sotto del
prezzo dell’IPO, 68 dollari. A settembre la valutazione di Alibaba aveva
perso11 quasi 150 miliardi di dollari rispetto al picco di novembre 2014, in
quella che Bloomberg definì «la più grande distruzione di valore di mercato
nella storia.»
Il nuovo Ad Daniel Zhang ricordò ai dipendenti: «I nostri valori non si
lasciano influenzare dalle fluttuazioni del prezzo delle azioni», e che non
stavano solo combattendo una battaglia, ma «una guerra che dura 102 anni.»
Grazie alla prevista IPO futura della casa madre di Alipay, rinominata Ant
Financial,12 Alibaba avrebbe anche portato avanti la prassi di consentire ai
dipendenti di vendere parte delle loro azioni a cadenza regolare. Anche se
l’IPO di Ant Financial (su una borsa cinese) non avverrà probabilmente
prima di un anno o due, Alibaba ha già iniziato a distribuire azioni nel reparto
finanziario.
Perché le azioni di Alibaba hanno perso così tanto valore così in fretta,
dopo i successi dei primi mesi? Il calo più drastico è stato innescato da una
controversia pubblica tra Alibaba e un’agenzia del governo cinese: un evento
che ha sorpreso gli investitori stranieri, convinti che Jack fosse l’insider per
eccellenza, immune a simili problemi.

La lotta alla contraffazione


Il 28 gennaio 2015 l’Amministrazione statale per l’industria e il commercio
(SAIC), l’authority cinese che governa le aziende e le licenze, pubblicò sul
suo sito un rapporto13 in cui elencava i reclami, presentati nel luglio
dell’anno prima, che accusavano Alibaba di vendere merce contraffatta e i
suoi dipendenti di aver incassato tangenti dai venditori per promuovere le
recensioni positive dei loro prodotti. Il rapporto riferiva anche di un’indagine
successiva della SAIC sulla vendita di prodotti contraffatti su sei dei
principali siti di e-commerce, tra cui Taobao e Tmall. La SAIC appurò che
nei suoi acquisti-campione effettuati su Taobao, solo il 37 per cento dei
prodotti era risultato autentico: «Da molto tempo Alibaba non presta
sufficiente attenzione alle operazioni illegali che avvengono sulle sue
piattaforme e non ha agito per contrastare il problema.» Peggio ancora, il
rapporto asseriva: «Alibaba non ha solo di fronte la più grave crisi di
credibilità dalla sua fondazione, ma getta anche una luce negativa su altri
operatori Internet che cercano di restare nella legalità.»
Quando i giornali iniziarono a riferire la notizia, le azioni di Alibaba
persero oltre il 4 per cento.
Alibaba andò su tutte le furie: contestava la metodologia della SAIC e le
sue motivazioni. È interessante notare che sia il rapporto della SAIC sia la
risposta di Alibaba erano pubbliche. In Cina, le discussioni tra il governo e le
aziende vengono solitamente condotte in privato, come era apparso chiaro
dall’opacità delle intenzioni e delle interazioni della PBOC durante la crisi di
Alipay. Ma stavolta una delle aziende più grandi della Cina criticava
apertamente il governo. Un messaggio scritto da un agente del customer
service di Taobao sull’account ufficiale dell’azienda sui social media14
menzionò addirittura per nome e cognome il funzionario della SAIC
coinvolto:15 «Direttore Liu Hongliang! Lei viola le regole, smetta di fare
l’arbitro corrotto! Siamo disposti ad accettare la sua autorità divina, ma non
possiamo tollerare i due pesi e due misure che usate nelle procedure di
campionamento e l’irrazionalità della vostra logica.»
Il post fu cancellato da Alibaba poche ore dopo ma fu sostituito da una
comunicazione ufficiale quasi altrettanto schietta: «Siamo aperti alla
supervisione equa; ci opponiamo all’assenza di supervisione, alla
supervisione errata, alla supervisione che ha secondi fini.» Alibaba affermò
anche di aver avanzato un reclamo contro quel funzionario della SAIC per
l’uso errato delle procedure e l’impiego di metodi sbagliati per ottenere una
«conclusione non obiettiva», e aggiunse: «Crediamo che le procedure
scorrette impiegate dal direttore Liu Hongliang durante il processo di
supervisione e l’impiego di metodologie erronee abbia inflitto danni
irreparabili alle attività di Taobao e alla rete Internet cinese.»
Per Alibaba la disputa arrivava in un momento particolarmente
inopportuno, un giorno prima16 dell’uscita del rendiconto sugli utili
trimestrali. Alibaba riferiva un aumento del fatturato pari al 40 per cento17 ma
gli investitori non si lasciarono convincere da quelle cifre e le azioni persero
un altro 8,8 per cento. La valutazione dell’azienda aveva perso decine di
miliardi di dollari in soli due giorni. Nella teleconferenza con gli investitori
Joe Tsai, ora vicepresidente esecutivo, ribatté: «Noi di Alibaba crediamo
nella giustizia. Siamo favorevoli a una supervisione rigorosa della nostra
azienda ma ci sentiamo anche in dovere di alzare la voce quando veniamo
accusati ingiustamente.»
Lo scontro non era ancora finito. A quel punto la SAIC rivelò di aver
mantenuto privati i dettagli dell’incontro di luglio 2014 «per non interferire
con i preparativi di Alibaba per l’offerta pubblica iniziale.» Quella
dichiarazione era particolarmente dannosa per Alibaba, poco dopo il suo
sbarco in borsa, perché sollevava la spiacevole possibilità che la dirigenza
non avesse rivelato la disputa agli investitori prima dell’IPO, quando invece
avrebbe dovuto far parte della (già lunga) lista dei fattori di rischio nel
prospetto informativo. Ma Alibaba respinse al mittente l’accusa, affermando
di non aver mai saputo dell’esistenza di un white paper né di aver mai chiesto
alla SAIC di posticipare la pubblicazione di un qualsiasi rapporto, e aggiunse
che gli incontri con le authority erano ordinaria amministrazione. Com’era
prevedibile, tutto ciò condusse a una class action contro Alibaba la settimana
successiva.
La campagna di diffamazione non era più tollerabile. La SAIC rimosse il
rapporto dal suo sito. Jack volò a Pechino per incontrare il direttore
dell’authority, Zhang Mao.18 Lì i due uomini, almeno in pubblico,
seppellirono l’ascia di guerra. Jack promise di «collaborare attivamente con il
governo e dedicare più tecnologia e capitali» a sradicare lo smercio di beni
contraffatti. Zhang Mao elogiò Alibaba per gli sforzi compiuti in difesa degli
interessi dei consumatori e disse che la SAIC avrebbe valutato lo sviluppo di
nuovi strumenti per la protezione del settore dell’e-commerce.
Ricordando quell’episodio, un ex alto dirigente di Alibaba mi ha detto
che l’azienda avrebbe fatto meglio a non rispondere affatto all’annuncio della
SAIC: «Alibaba è ancora relativamente giovane, ma agli occhi di alcuni è già
diventata un mostro gigantesco. Neppure il governo sa come gestirla. In
futuro sorgeranno molti conflitti. È naturale che sia così. Perché il governo
non aveva mai dovuto affrontare un’azienda così influente.»
Per Alibaba, come per qualsiasi azienda privata, il governo cinese è
un’idra dalle molte teste, le cui agenzie competono tra loro per la riscossione
delle tariffe di licenza o altri incassi che giustifichino la loro esistenza, e
spesso non hanno un sostegno sufficiente dal governo centrale per finanziare
le proprie attività. Queste agenzie esistono sia al livello nazionale sia a vari
livelli inferiori, fino al livello delle province, delle municipalità e delle contee
rurali.
Jack ripete spesso un motto che descrive le sue relazioni con il governo
cinese: «Puoi innamorarti del governo, ma non sposarlo: rispettalo.» Con così
tanti dipartimenti, se davvero Jack sposasse il governo si ritroverebbe
poligamo. Jack ha rivelato19 che nel solo 2014 Alibaba ha ricevuto oltre
44.000 visite di delegazioni del governo cinese.
Ma anche senza sposarlo, rispettare il governo non è sempre facile. Una
volta Jack ha spiegato a un amico di non essere mai sicuro dei suoi impegni
per l’indomani. Se, per esempio, il segretario del Partito per la provincia dello
Zhejiang gli chiedesse di accompagnarlo in un viaggio di rappresentanza a
Taiwan, non potrebbe esimersi. Possedere un Gulfstram G650 è un grande
privilegio ma, a differenza dei miliardari occidentali, Jack ha sempre
l’impressione di non sapere quale rotta indicare ai piloti.

Jack riceve Xi Jinping, il segretario del Partito Comunista a Shanghai, nella sede di Alibaba a
Hangzhou, 23 luglio 2007. Alibaba

Rispettare il governo richiede anche di coltivare buone relazioni con una


vasta gamma di funzionari, tra cui i futuri leader del Paese che un giorno
potrebbero esercitare un grande potere sull’azienda. Nell’atrio di tutte le
grandi aziende cinesi, statali e private, c’è sempre una parete tappezzata di
foto degli incontri tra il presidente dell’azienda e i vari dignitari del governo.
Alibaba non fa eccezione. All’ingresso della suite VIP per i visitatori è
appesa una foto20 scattata a luglio 2007 che ritrae Jack intento ad accogliere
Xi Jinping nella sede di Alibaba. Oggi, naturalmente, Xi è il presidente della
Cina ma all’epoca era il segretario del Partito a Shanghai.21
Gli imprenditori cinesi non possono mai azzerare il rischio che
l’introduzione di nuove normative danneggi la loro azienda. Possono però
cercare di tutelarsi aiutando il governo a fare il suo lavoro.
Uno dei compiti della SAIC è frenare lo smercio di prodotti contraffatti.22
Online e offline, la lotta alla pirateria non ha mai fine: per ogni nemico
sconfitto ne salta fuori un altro. Per voltare pagina dopo la sua disputa con la
SAIC, Alibaba ha incrementato il numero di dipendenti che si occupa della
lotta alla contraffazione, da 150 a 450 persone, tra cui un team di «acquirenti
in incognito» incaricati di individuare i falsi. Alibaba opera una politica dei
«tre avvisi» per sanzionare i venditori. Vendere per tre volte lo stesso
prodotto contraffatto23 determina l’allontanamento del venditore dalla
piattaforma. Per individuare i venditori che riappaiono in seguito con un altro
nome, Alibaba ha ideato alcune contromisure creative. In analogia con la
tattica usata dalle autorità nei casi di rapimento, l’azienda chiede ai venditori
di dimostrare la loro identità scattandosi una foto con la propria carta
d’identità e un quotidiano o, addirittura, mettendosi nella «posa del giorno».
A una cena a porte chiuse a Londra nell’ottobre 2015, Jack ha riassunto
così il problema: «È possibile che l’un per cento dei venditori della nostra
piattaforma sia disonesto.» Ma con nove milioni di venditori su Taobao, si
parla di novantamila «cattivi». Un investitore presente alla cena, David
Giampaolo, commenta così il messaggio di Jack: «È concentrato sulla
risoluzione del problema. Ma poche persone, soprattutto all’estero, capiscono
quanto l’impresa sia improba.»
A Pechino, al Singles’ Day 2015, Jack si è spinto ancora oltre: «Per ogni
consumatore che compra un oggetto contraffatto sul nostro sito, perdiamo
cinque clienti. Siamo anche noi vittime [della contraffazione]. E non ci piace
affatto. […] Lottiamo da anni, ma dobbiamo lottare contro la natura umana,
contro l’istinto.» Spiegando che la pirateria era endemica da trent’anni nel
settore retail offline cinese, Jack ha aggiunto: «Stiamo combattendo online e
contribuiamo alla battaglia offline. Abbiamo messo al lavoro duemila persone
su questo problema e abbiamo cinquemila settecento volontari. Con alcune
task force speciali, con la tecnologia di cui disponiamo, stiamo facendo
progressi. Penso che riusciremo a unire le forze contro questi ladri. Gestiamo
una piattaforma che ospita più di dieci milioni di aziende. Loro [i pirati] sono
minuscoli e si insinuano ovunque.» Alcuni rivali di Jack comprendono la
difficoltà della sua posizione. Uno di loro mi ha detto: «Quando gestisci una
piattaforma con nove milioni di venditori, è come se governassi un Paese.»
Un elemento cruciale della risposta di Alibaba è l’Internet Security Team,
diretto dall’ex poliziotto Ni Liang. Il team opera un sistema di «notifica e
rimozione» che i venditori possono usare per segnalare prodotti falsi24 in
vendita sui siti di Alibaba. Usando tecniche come l’«analisi dei prezzi», i
proprietari dei brand possono identificare grandi quantità di merce ad alto
margine, come le borse di lusso vendute a prezzi irragionevolmente bassi. Ma
questo metodo non funziona bene per i prodotti a basso margine come il
sapone o lo shampoo, dove può essere difficile distinguere i prodotti veri da
quelli falsi. Quindi Alibaba fa ricorso al potere dei Big Data: nomi delle
aziende, indirizzi, archivio delle transazioni e conti bancari sono tutti dati
utili per individuare le modalità di distribuzione e perseguire i trasgressori. La
possibilità di proibire a costoro l’uso di Alipay come strumento di pagamento
anche su altre piattaforme è un deterrente efficace.
La realtà è che, per la pirateria, l’e-commerce è al contempo una parte del
problema e una parte della soluzione. Internet è più efficiente dei metodi
offline per la distribuzione di prodotti falsi, ma su Internet è anche più facile
identificare e combattere i trasgressori.
Taobao, dominata da piccole aziende a conduzione familiare, è meno
facile da governare rispetto a Tmall. Quindi, per eventi come il Singles’ Day
dell’11 novembre, Alibaba spende più in marketing su Tmall che su Taobao.
Tmall richiede maggiori garanzie ai venditori25 e inoltre richiede il
pagamento di tariffe, quindi spostare venditori da Taobao a Tmall significa
generare più introiti per l’azienda.
Ma non tutti i brand si fidano. Qualche mese dopo la controversia con la
SAIC l’American Apparel & Footwear Association (AAFA), che rappresenta
più di mille brand di abbigliamento e calzature, premeva ancora affinché
Taobao tornasse sulla lista dei «mercati canaglia» dell’USTR; l’associazione
denunciava la «proliferazione incontrollata» dei prodotti falsificati su Taobao
e i «sistemi lenti, macchinosi e complessi» che Alibaba ha implementato per
rimuoverli. Eppure, nonostante l’intervento dell’AAFA, un certo numero di
suoi membri, tra cui Macy’s e Nordstrom, continua a lavorare in stretto
contatto con Alibaba su iniziative tra cui il Singles’ Day, rivelando la
mancanza di consenso sulla strada da intraprendere. A novembre 2015
Juanita Duggan, l’Ad e presidente che aveva capitanato la protesta, si è
dimessa.
Alibaba è oggetto di critiche anche da parte di alcuni brand europei. A
maggio 2015 Kering, il conglomerato del lusso francese, che comprende
Gucci e Yves Saint Laurent, ha fatto causa ad Alibaba per violazione di
marchi di fabbrica e delle leggi antiracket. Una delle accuse sosteneva che,
quando un cliente scrive il nome Gucci nel motore di ricerca di Alibaba,
ottiene link a prodotti falsi con marchio «guchi» o «cucchi.» Alibaba ha
ribattuto che Kering «ha scelto di perdere tempo in tribunale anziché
collaborare in modo costruttivo.» In un’intervista a Bloomberg in occasione
del Singles’ Day 2015, Jack è stato ancor più schietto, rivelando la
frustrazione che gli causano gli avvocati: «Non mandateci gli avvocati. Gli
avvocati non capiscono il business, non capiscono l’e-commerce.» Il mese
successivo Alibaba raddoppiò gli sforzi in difesa della proprietà intellettuale
nominando Matthew J. Bassiur direttore del Global Intellectual Property
Enforcement. Bassiur era stato in precedenza responsabile delle attività anti-
contraffazione per l’azienda farmaceutica Pfizer, dopo vari anni in Apple.
Prima ancora era stato Procuratore Federale al Dipartimento della Giustizia
negli Stati Uniti.
Le merci contraffatte non erano l’unico problema che influenzava il
prezzo delle azioni di Alibaba dopo l’IPO. Alcuni investitori si
preoccupavano anche delle «false spedizioni» o brushing: i venditori che
inviano scatole vuote a clienti fantasma per incrementare il proprio punteggio
in classifica.26 Il problema riguarda soprattutto i brand locali, in particolare
quelli che operano in settori molto competitivi come abbigliamento, cosmesi
ed elettronica. Anziché effettuare personalmente le false spedizioni, di solito
assoldano aziende di click farming per generare i finti acquisti per conto loro.
A volte chiedono alle stesse click farm di scrivere false recensioni positive
dei prodotti al fine di influenzare i veri acquirenti. Secondo una stima, quattro
click farm27 intervistate sostengono di controllare ciascuna almeno cinque
milioni di account di acquirenti su Taobao. Senza dubbio queste aziende
ingigantiscono la propria influenza – per attrarre nuovi clienti – ma nel
complesso le click farm affermano di essere responsabili di oltre il dieci per
cento degli acquisti effettuati nel Singles’ Day 2015. Alibaba e altre aziende
di e-commerce danno la caccia a questi soggetti, monitorando il traffico e le
transazioni per individuare attività sospette. (Benché le click farm affermino
di poter aggirare simili tentativi, sostengono tuttavia che questi metodi non
sono applicati con regolarità.) Come nella battaglia contro la contraffazione,
Alibaba e gli altri siti di e-commerce sono impegnati in un gioco del gatto e
del topo. Come la pirateria, il brushing non si può eliminare interamente, a
meno di abbandonare l’uso degli algoritmi che classificano i venditori sulla
base del volume di vendita. Le aziende di e-commerce possono agire, e
agiscono, per incrementare i costi delle attività illegali. I sistemi «anti-
brushing» di Tmall monitorano i comportamenti per scoprire se un acquirente
è una persona reale, per esempio assicurandosi che durante la sessione clicchi
su una serie di prodotti – lasciando pensare che stia davvero esaminando la
merce in vendita – e passi un tempo sufficiente su ciascuna pagina,
concludendo la sessione con un acquisto e spendendo una cifra ragionevole
per un singolo acquirente. In reazione, le click farm offrono servizi sempre
più sofisticati, chiedendo fino a trenta yuan (4,70 dollari) per ogni falso
ordine, rispetto ai consueti 10-20 yuan (1,56-3,12 dollari), a seconda dei costi
sostenuti, come le commissioni, le tariffe sui pagamenti e la generazione di
false informazioni sulla logistica. Tmall è più vulnerabile al brushing rispetto
a Taobao, perché la concorrenza per accaparrarsi le vendite che fanno salire
in classifica – e generano visibilità – in occasione di promozioni come il
Singles’ Day è molto intensa.
Le piattaforme di e-commerce di Alibaba sono ormai così estese che
diventa sempre più difficile monitorare l’enorme volume di merci e
transazioni. Ma la grandezza è anche la forza di Alibaba. I venditori sui siti di
Alibaba sono sempre più disponibili a spendere per migliorare i loro negozi.
Anche i venditori che preferiscono usare altri siti mantengono una presenza
su Taobao, perché così i clienti si fidano di più.

Competitor pronti all’attacco


Ciò nonostante Alibaba deve affrontare competitor sempre più agguerriti in
varie categorie tra cui l’abbigliamento,28 la cosmesi,29 i libri30 e gli
alimentari.31 Per rafforzare la sua posizione nell’elettronica e nei dispositivi
digitali, Alibaba ha persino iniziato a investire nei retailer tradizionali,
nell’ambito della nuova tendenza, cui accennavamo, dell’«omnichannel» o
«online to offline», abbreviato in «O2O». Ad agosto 2015 Alibaba ha speso
più di 4,5 miliardi di dollari per comprare una quota di Suning,32 un
rivenditore di elettronica ed elettrodomestici. Ma alcuni analisti mettevano in
dubbio l’utilità di acquistare quote di un’azienda con oltre 1600 negozi in
tutto il Paese che, come Best Buy negli Stati Uniti, rischiavano di ridursi a
costosi showroom in cui i clienti avrebbero provato i prodotti per poi
comprarli online. Alibaba ha investito in Suning anche per contrastare il suo
principale concorrente nell’ecommerce, un’azienda ben finanziata di nome
JD.com,33 che si era quotata negli Stati Uniti quattro mesi prima di Alibaba.
JD rappresenta una minaccia per Alibaba anche perché incarna una
competizione tra idee. A differenza di Alibaba, JD è più simile ad Amazon:
acquista e vende direttamente i prodotti. Inoltre, JD possiede e opera una sua
rete logistica. Alibaba sostiene che JD non potrà mai raggiungere le sue
dimensioni a causa dei costi di magazzino e trasporto di prodotti fisici, ma JD
ribatte che il suo modello assicura una maggiore qualità dei prodotti e una
consegna più rapida ai clienti.
È evidente che Jack trova irritante JD. All’inizio del 2015 ha puntato il
dito contro il fondatore di JD, Richard Liu. Parlando con un amico in un
contesto che credeva privato, Jack ha espresso critiche che in seguito sono
state pubblicate sui social media: «JD.com finirà in tragedia, ed è una
tragedia sulla quale ho sempre messo in guardia tutti, fin dal primo giorno.
[…] L’ho detto a tutti in azienda: non avvicinatevi a JD.com.» Poco dopo
Jack ha chiesto scusa e ha scherzato: «La prossima volta che parlo con
qualcuno lo farò in un bagno pubblico.»

I due grandi
Un altro dei motivi per cui Jack ha preso di mira JD è che l’azienda è
finanziata da Tencent, il principale rivale di Alibaba su Internet.34 Man mano
che si estende in nuovi territori al di là dell’e-commerce, sempre più spesso
Alibaba si imbatte in Tencent, la cui valutazione nel 2015 ha sorpassato a
tratti quella di Alibaba. Tencent ricava gran parte dei suoi introiti dai giochi
online, ma rappresenta una minaccia per Alibaba a causa del successo
fenomenale di WeChat,35 l’applicazione per dispositivi mobili che ha lanciato
nel 2011 e che ha accumulato più di 650 milioni di utenti regolari. WeChat è
la piattaforma di mobile messaging più popolare in Cina: trae vantaggio dal
boom degli smartphone nel Paese (e contribuisce ad alimentarlo). WeChat è
stata definita,36 con una citazione dal Signore degli anelli, «un’app per
domarli.» Senza WeChat un cellulare in Cina perde gran parte della sua
utilità. L’app di WeChat ha di fatto reso superflua la rubrica dei contatti. La
maggior parte degli utenti apre l’applicazione almeno dieci volte al giorno.
Ma WeChat non è solo una chat: i consumatori cinesi la usano37 per una
gamma di servizi molto più vasta rispetto agli utenti occidentali (che usano
Messenger di Facebook, WhatsApp o Telegram). La forza innovativa di
Tencent è apparsa chiara nel 2014 con la nuova campagna «pacchetto rosso»
(hong bao) di WeChat per il Capodanno cinese. In soli due giorni gli utenti di
WeChat hanno inviato più di 20 milioni di buste di denaro virtuali.38 Jack ha
paragonato nientemeno che a Pearl Harbor l’impatto psicologico della
campagna di WeChat su Alibaba. Alibaba ha contrattaccato nel 2015 ma, pur
avendo sborsato cento milioni di dollari in promozioni con sconti e coupon, è
riuscita a distribuire solo un quarto dei pacchetti rossi inviati dagli utenti di
WeChat.
WeChat ha messo in luce un punto debole della corazza di Alibaba, che è
corsa ai ripari lanciando una app social per dispositivi mobili, Laiwang. L’ha
promossa con tutte le sue forze e ha persino richiesto a ciascun dipendente di
far iscrivere cento utenti per avere diritto al bonus annuale. Ma Laiwang è
arrivata sul mercato due anni dopo WeChat, e ormai aveva già perso la
battaglia. Oggi persino gli alti dirigenti di Alibaba usano WeChat, e ricorrono
a Laiwang solo per le comunicazioni ufficiali con i colleghi.
Alibaba spende miliardi di dollari in investimenti, acquisizioni e
marketing per sostenere la sua strategia mobile: dagli investimenti nel suo
YunOS39 all’acquisto di quote di Sina Weibo,40 un servizio simile a Twitter,
e Meizu, un produttore di smartphone, e all’acquisizione di UCWeb,
l’azienda leader in Cina nei browser per dispositivi mobili,41 e AutoNavi,
un’azienda leader nelle mappe online, rilevata per potenziare i servizi di
localizzazione di Alibaba. L’azienda ha già spostato sui dispositivi mobili
una parte consistente del suo core business. Metà degli acquisti effettuati sui
siti di Alibaba proviene da dispositivi mobili. Ma Alipay, il fornitore leader
di servizi di pagamento in Cina, è l’asset più prezioso di Alibaba nella sua
rivalità con Tencent per varcare la prossima frontiera: il portafoglio virtuale.
Chi controlla il portafoglio, si pensa, controlla il terreno di gioco per una
vasta gamma di nuove opportunità al di fuori dell’e-commerce, tra cui la più
redditizia è quella dei servizi finanziari. Il grande successo di Alibaba con il
fondo comune Yu’e Bao («tesoro rimasto») ne è un esempio. E un altro è
l’online banking. Alibaba promuove attivamente la sua Mybank. Tencent
contrattacca con WeBank, che ha già iniziato a concedere prestiti ai
consumatori42 in quindici minuti tramite cellulare, per cifre che vanno dai
ventimila ai trecentomila yuan (da 3100 a 31.000 dollari).
Altri fronti si stanno aprendo nella guerra tra Alibaba e Tencent, tra cui le
«battaglie delle deleghe» tra aziende finanziate dalle due imprese. Nel 2014
la gara tra le app per i passaggi in macchina, sul modello di Uber, è stata
definita da un analista «la prima battaglia della guerra mondiale di Internet.»
Alibaba ha finanziato un’azienda di nome Kuaidi Dache,43 mentre Tencent ha
sostenuto la rivale Didi Dache,44 portando a 300 milioni di dollari di
investimenti in marketing. Al culmine della battaglia Kuaidi ha iniziato a
offrire casse di birra ai tassisti che raccomandavano i colleghi. Quando,
all’inizio del 2015, le spese si sono fatte insostenibili per entrambe le fazioni,
è stata dichiarata una tregua: le due aziende di trasporti si sono fuse con una
transazione da 6 miliardi di dollari, per formare Didi Kuaidi, ma hanno
mantenuto due unità operative separate. Con una valutazione di 16 miliardi di
dollari e tre miliardi di nuovi capitali, la nuova entità ha sferrato il suo attacco
a Uber, che si era alleata con Baidu.45 Le «guerre dei taxi» hanno assunto
persino proporzioni internazionali: Alibaba, Tencent e Didi Kuaidi hanno
investito in Lyft, il principale competitor statunitense di Uber.
Nel 2015 Alibaba e Tencent hanno deciso di unire altre due aziende,
Meituan e Dianping (simili a Groupon), in una fusione da 15 miliardi di
dollari in cui qualcuno ha visto un attacco diretto a Baidu e all’analoga
azienda da essa finanziata, Nuomi. Tra l’altro Baidu non ha una presenza
significativa nei pagamenti, a differenza delle dominanti Alipay e Tenpay.
Alibaba e Tencent sono ormai così potenti che si inizia a parlare delle
«Due Grandi» anziché delle «Tre Grandi» (con Baidu). Ma se Alibaba e
Tencent continueranno a collaborare alla creazione di aziende leader di
mercato, i clienti potrebbero allarmarsi se vedessero aumentare le tariffe dei
servizi più popolari, come i passaggi in auto o la consegna a domicilio dai
ristoranti; e il governo cinese potrebbe intervenire per limitare il loro raggio
d’azione.
Consapevole dei rischi, tanto più dopo la disavventura con la SAIC,
Alibaba sembra intenzionata a intrattenere rapporti sempre più cordiali con il
governo. A settembre 2015 l’azienda ha promosso la sede di Pechino a
«secondo quartier generale» insieme a Hangzhou. Il valore simbolico di una
grande azienda della Cina meridionale che annuncia un nuovo «co-quartier
generale» a Pechino è trasparente, benché la capitale non sia soltanto la sede
delle istituzioni politiche ma anche un centro economico di primaria
importanza.46 Il trasferimento è dettato anche da motivazioni pratiche.
Alibaba definisce Pechino come lo «snodo gemello» di Hangzhou: una
strategia tesa a rendere l’azienda più competitiva nelle province settentrionali.
Alla fine del 2015, secondo alcune stime, JD.com aveva sorpassato Tmall,
diventando il leader dell’e-commerce a Pechino.
La promozione della sede di Pechino è importante anche per la selezione
del personale. Pechino ospita già novemila dipendenti e ha un serbatoio più
ampio di talenti a cui l’azienda può attingere. La capitale ha alcune delle
università più prestigiose della nazione e conta circa un milione di studenti.
Nella competizione per accaparrarsi i talenti migliori, offrire la possibilità di
lavorare a Pechino riduce il rischio di perdere i candidati che preferiscono
non trasferirsi a Hangzhou,47 una città molto più piccola e provinciale.
Ma al Singles’ Day 2015 sono emersi anche indizi del fatto che Alibaba
stia cercando sostegno dal governo. Poche ore prima che iniziasse il Singles’
Day, Alibaba ha riferito che l’ufficio del premier cinese Li Keqiang aveva
contattato Jack «per congratularsi e augurare successo all’evento dell’11/11.»
Quel giorno nel Cubo d’Acqua la sezione in alto a destra del maxischermo
che registrava le transazioni su Tmall ospitava una mappa aggiornata in
tempo reale degli acquisti compiuti in Paesi come la Bielorussia e il
Kazakistan, due delle sessantaquattro nazioni e regioni situate lungo la
OBOR (One Belt, One Road),48 detta anche «Cintura economica della Via
della seta», un tassello fondamentale della politica economica ed estera del
presidente Xi Jinping.
Nonostante i rischi, Jack si dice ottimista sul futuro di Alibaba. Se il
governo può contribuire a stimolare le esportazioni e i nuovi investimenti, ha
detto, «i consumi però non dipendono dal governo ma dall’imprenditoria e
dall’economia di mercato. Quindi abbiamo una grande occasione. Ora tocca a
noi, non al governo.»
Alibaba si impegna a fondo per cogliere l’opportunità che è offerta al
settore privato. Negli ultimi anni ha stretto così tanti accordi che un amico
giornalista a Pechino si è lamentato con me perché gli mancava il tempo per
occuparsi di altre aziende, e aveva passato molti dopocena e weekend a
raccontare ai lettori le ultime conquiste di Alibaba. Sono accordi complessi
che coinvolgono quasi sempre una rete di relazioni, comprese quelle legate al
fondo di private equity di Jack, Yunfeng Capital.

Yunfeng: il club degli amici miliardari


Yunfeng è una società di private equity di cui Jack detiene circa il 40 per
cento ed è socio.49 Yunfeng50 è stata lanciata nel 2010 da Jack e dal
cofondatore David Yu51 e da altri soci.52 È una sorta di «club dei miliardari»,
una caratteristica che il fondo presenta come un punto di forza, definendosi
«l’unico fondo di private equity lanciato da imprenditori di successo e
luminari del settore.» A chi critica gli accordi tra Alibaba e Yunfeng, la
società tiene a precisare che Jack non partecipa alle decisioni di investimento
dei suoi vari fondi. Alibaba sottolinea che Jack rinuncia a trarre qualsiasi
guadagno da Yunfeng.
È interessante notare che la maggior parte dei miliardari coinvolti in
Yunfeng è originaria dello Zhejiang o di Shanghai: come le cittadine dello
Zhejiang, anche questi imprenditori sono naturalmente portati a fare squadra.
Nella new economy cinese stanno emergendo «cluster di investimenti», e
Alibaba è il più noto di essi. L’azienda può affermare che, quando rileva
aziende in cui Yunfeng ha investito,53 investe in aziende che Jack conosce
già, e in questo senso il fondo è una sorta di due diligence anticipata.
Ma ogni nuovo accordo tra Alibaba e aziende legate a Yunfeng introduce
ulteriori elementi di complessità,54 rischiando di far passare in secondo piano
la vera natura delle relazioni di Alibaba con le altre imprese.
È così che Alibaba riuscirà a conservare il vantaggio competitivo e la
capacità di innovare? Se le transazioni tra Alibaba e le aziende in cui investe
Yunfeng non saranno trasparenti, e le valutazioni non verranno giustificate in
modo convincente, gli investitori di Alibaba potrebbero non essere
pienamente consapevoli dei rischi impliciti. Questo timore, insieme ad alcune
tensioni tra Yunfeng e il team fusioni & acquisizioni di Alibaba, sembra aver
spinto Jack a rinunciare al ruolo di dirigente55 in Yunfeng, mantenendo solo
un interesse passivo come investitore56 nel fondo.
Durante la tournée per l’IPO, Alibaba ha elencato tre motori principali
della crescita futura: il cloud computing e i Big Data, l’espansione nei
mercati rurali, la globalizzazione e il commercio con l’estero.

I tre motori principali


Il cloud computing è una direzione naturale per Alibaba. Gli investitori di
Amazon attribuiscono grande valore alle fonti di reddito «virtuali» del suo
business Amazon Web Services. Benché per Alibaba i servizi cloud
rappresentino oggi solo il 3 per cento del fatturato, l’azienda sta investendo
oltre un miliardo di dollari per espanderli. Inoltre Alibaba parla spesso di un
passaggio dall’«era della tecnologia delle informazioni» all’«era della
tecnologia dei dati»: «dall’IT al DT». Alibaba pensa che il «DT» possa
aiutarla a raggiungere un altro dei suoi obiettivi: il «C2B», ovvero
«consumer-to-business». È l’idea per cui il DT, anche attraverso i Big Data,
può aiutare i produttori cinesi a migliorare le comunicazioni lungo tutta la
supply chain per prevedere l’andamento della domanda, permettendo
teoricamente di eliminare le scorte di magazzino. Sfruttando il flusso delle
informazioni attraverso le attività di Alibaba nell’ecommerce, nella logistica
e nella finanza – per esempio prevedendo le tendenze di consumo e le
opportunità di investimento – l’azienda spera di poter sfruttare sempre più il
suo «triangolo di ferro». Aliyun, il business di cloud computing di Alibaba,
gestisce data center a Pechino, Hangzhou, Qingdao, Shenzhen, Hong Kong e
nella Silicon Valley, oltre a un nuovo hub internazionale a Singapore. Come
afferma il presidente Simon Hu, l’azienda prevede di «sorpassare Amazon
nel giro di quattro anni, in termini di clienti, tecnologia o operatività su scala
mondiale.»
Nei mercati rurali, Alibaba spera di accaparrarsi nuove fasce di
consumatori e venditori. La Cina ospita oltre 700 milioni di persone che
vivono in campagna, ma solo un quarto di loro è online. All’aumentare della
penetrazione di Internet e dei dispositivi mobili, Alibaba sta aprendo centri
servizi sotto forma di chioschi nelle aree rurali, un’iniziativa in cui sta
investendo più di 1,6 miliardi di dollari.
Il primo progetto pilota per l’iniziativa «Rural Taobao» è a Tonglu, la
stessa contea dello Zhejiang da cui è partita l’avventura americana di Jack e
in cui sono nati i principali corrieri privati. La divisione di ricerca di Alibaba,
AliResearch, prevede che lo shopping online dalle aree rurali raggiunga i 460
miliardi di yuan (72 miliardi di dollari) a fine 2016.
Affermarsi in questo mercato non è facile, a causa dei problemi logistici e
dello scarso livello di istruzione degli abitanti delle campagne.
L’ex Ad di Alibaba.com David Wei ritiene che «diventare rurali» sia più
importante per il gruppo che «diventare globali». «Se Alibaba non si afferma
in India, resta pur sempre Alibaba. Ma se non è presente nelle campagne
cinesi, che ospitano sei-settecento milioni di persone, potrebbe emergere
un’altra Alibaba.» Il rivale JD.com ha già lanciato una sua iniziativa per i
mercati rurali – intitolata «L’incendio di mille contee» – e i suoi core product
come lavatrici e frigoriferi sono tra i più desiderati da chi abita in campagna.
In ogni caso Alibaba non ha scelta: deve «diventare rurale». Il Consiglio
di Stato cinese ha presentato una nuova e ambiziosa iniziativa per
promuovere l’e-commerce nelle campagne – simboleggiata dal progetto
«Internet+» del premier Li Keqiang – e dopo la débâcle con la SAIC Alibaba
non può permettersi di apparire tiepida nel suo sostegno al governo. A luglio
2015 Jack ha capitanato una delegazione di dirigenti di Alibaba che è andata
in visita a Yan’an, nella provincia dello Shaanxi. È un’area rurale che ha un
significato profondo per la Cina, perché si trova al termine del percorso della
Lunga Marcia,57 ed è stata una base importante per la Rivoluzione comunista
tra il 1936 e il 1948. La delegazione di Jack comprendeva oltre trenta alti
dirigenti di Alibaba, tra cui Polo Shao (Shao Xiaofeng), un ex procuratore
che oggi è senior vicepresident e direttore dell’ufficio del presidente in
Alibaba Group; si ritiene che ricopra anche il ruolo di segretario della sezione
del Partito Comunista interna all’azienda.
Di concerto con il segretario di zona del Partito e con altri funzionari del
governo, la delegazione ha proposto iniziative con cui Alibaba potrà
contribuire allo sviluppo economico nell’area: dalla creazione di data center
all’offerta di prestiti a imprenditori locali, fino alla vendita delle mele
coltivate in zona. Ma Jack ha approfittato della visita anche per partecipare a
una conferenza dei funzionari locali del Partito, dopo la quale ha dichiarato di
essere venuto «solo per dare un’occhiata. All’epoca le condizioni a Yan’an
erano estremamente difficili», e voleva scoprire come «il Partito Comunista
sia riuscito a mantenersi fedele al romanticismo e all’eroismo della
rivoluzione in simili circostanze.»
Parole di questo tenore non aiutano a promuovere il terzo dei motori della
crescita di Alibaba, l’espansione sui mercati esteri. Ma in questo modo
Alibaba si attiene all’ingiunzione del governo cinese di «globalizzarsi»: le
aziende cinesi sono incoraggiate a non limitarsi alle esportazioni ma a
estendere la propria influenza e le proprie attività all’estero. Non è certo una
novità per Alibaba, un’azienda nata nel 1999 con un orientamento già
internazionale. Ma con il successo di Taobao, a partire da dieci anni fa la
focalizzazione di Alibaba si è spostata verso l’interno. Nel 2010 ha ripreso a
occuparsi dei mercati internazionali con il lancio di AliExpress, che collega i
venditori cinesi ai consumatori stranieri. All’inizio Alibaba si aspettava che il
mercato principale di AliExpress fossero gli Stati Uniti, ma ha scoperto che
l’America era un mercato con aziende sofisticate, sia online sia offline. Dopo
le prime delusioni, l’allora Ad di Alibaba.com David Wei ha chiesto al suo
team di cercare Paesi con un settore retail meno efficiente.
I primi risultati positivi si sono visti in Russia e in Brasile, grazie
all’aggiunta della lingua russa e portoghese al sito, benché AliExpress non
avesse aperto sedi in quei Paesi. La domanda dal Brasile ha superato a un
certo punto i trecentomila pacchi al giorno, prima che il rallentamento
dell’economia e l’indebolimento del real facessero calare le cifre. La
domanda proveniente dalla Russia, soprattutto di abbigliamento ed elettronica
di consumo, era così forte che a quanto pare AliExpress ha mandato in tilt le
poste russe, causando il licenziamento del direttore. Oggi la Russia è
responsabile di un quinto delle vendite di AliExpress.
La magia di Jack arriva a Downing Street. Jack (a sinistra) intrattiene un pubblico che comprende il
primo ministro britannico David Cameron (secondo da sinistra) e l’autore durante un ricevimento al
numero 10 di Downing Street il 19 ottobre 2015, poco dopo la nomina di Jack a membro del britannico
Business Advisory Group. 10 Downing Street

Nel 2015 Alibaba ha nominato presidente l’ex manager di Goldman


Sachs J. Michael Evans, incaricandolo di guidare lo sviluppo internazionale e
in particolare la presenza sempre più forte in Europa occidentale, dove
Alibaba spera di convincere i brand a rivolgersi ai consumatori cinesi
attraverso i suoi siti.58 A un evento organizzato nell’ottobre 2015 dal primo
ministro britannico David Cameron a Downing Street, Jack è stato nominato
consulente di Cameron per le questioni commerciali.
Alibaba ha annunciato di voler ampliare la sede londinese per farne il
quartier generale europeo, diretto da Amee Chande, ex manager di Walmart,
e sta aprendo anche una rete di «ambasciate di business» in Francia,
Germania e Italia. Quella di Parigi è diretta da Sébastien Badault, che ha
lavorato in Amazon e Google, quella di Milano è diretta da Rodrigo Cipriani
Foresio, che in precedenza lavorava per Buonitalia, un negozio online di
alimentari, e quella di Monaco è diretta da Terry von Bibra, ex dirigente del
grande retailer tedesco Karstadt. L’ampliamento della presenza in Europa
avvicina Alibaba alla sede di molti dei brand più desiderati dai consumatori
cinesi. Ogni nuovo successo nell’impegno per portare i brand europei nel
vivace mercato consumer cinese offrirà senza dubbio anche un’opportunità di
rafforzare la propria posizione contro i critici più agguerriti, come Kering, la
casa madre di Yves Saint Laurent e Gucci.
Anche gli Stati Uniti sono un mercato molto importante per l’espansione
internazionale di Alibaba, soprattutto come destinazione di investimenti.
Alibaba ha riversato centinaia di milioni di dollari in aziende di alto profilo
come Lyft, Snapchat, Zulily e altre più piccole.59 Ma questi investimenti
servono soprattutto ad assorbire nuove tecnologie e know-how da sfruttare in
Cina, piuttosto che a fungere da varchi d’ingresso nel mercato americano.
L’unica iniziativa di Alibaba che fosse esplicitamente diretta agli Stati Uniti,
11Main.com, è stata un chiaro insuccesso.60 La previsione di alcuni analisti,
secondo cui Alibaba sarebbe intenzionata a sferrare un colpo audace in
America – per esempio acquisire eBay o Yahoo! – finora appare infondata.
Alibaba continua a concentrarsi sullo sviluppo del commercio internazionale.
Alibaba si è impegnata per ampliare la propria presenza negli Stati Uniti
aprendo quattro sedi nella West Coast: un ufficio nei pressi di Market Street a
San Francisco, che ospita il team di International Corporate Communications
diretto dall’ex dirigente di PepsiCo Jim Wilkinson,61 un nuovo ufficio di
Alibaba Group a San Mateo, in California, dove lavora Michael Evans, un
ufficio a Pasadena, sempre in California, che è la sede americana di Alibaba
Pictures, e un piccolo ufficio al centro di Seattle, a un solo isolato
dall’edificio della U.S. Bank da cui Jack si è collegato per la prima volta a
Internet nel 1995. Nel 2016 l’azienda ha aperto una nuova sede a New York,
avvicinandosi a brand, catene di retail e agenzie pubblicitarie, e a
Washington, per incrementare le attività di lobbismo e comunicazione: qui il
direttore è Eric Pelletier, ex dirigente di General Electrics e membro dello
staff della Casa Bianca.62
Nonostante la presenza sempre più forte nel Paese, durante una visita a
New York e Chicago nell’estate del 2015 Jack ha smentito l’ipotesi di una
«invasione» dell’America da parte di Alibaba. Ha detto che in molti gli
chiedono: «Quando verrai a invadere l’America? Quando inizierai a
competere con Amazon? Quando competerai con eBay?» Domande a cui
risponde così: «Be’, direi che nutriamo grande rispetto per eBay e Amazon
ma penso che la strategia giusta per noi sia aiutare le piccole aziende
americane a sbarcare in Cina e a vendere i loro prodotti in Cina.»
Durante lo stesso viaggio Jack ha parlato anche delle difficoltà connesse
alla gestione di un’azienda quotata. Ha detto che dopo l’IPO la sua vita è
diventata più difficile, e che «se potessi ricominciare da capo non quoterei la
mia azienda.» Qualcuno a New York si è sorpreso che Jack si dicesse pentito
di aver quotato l’azienda, a così poca distanza dalla fortunata IPO di Alibaba.
Ma questo atteggiamento da bastian contrario è tipico di Jack.

Da filosofo a filantropo
Jack ha già la reputazione di «Ad filosofo» della Cina, e sempre di più quella
di filantropo e ambientalista. Sei mesi prima dell’IPO del 2014 Jack e Joe
hanno promesso di impiegare il 2 per cento di Alibaba Group – dal loro
patrimonio personale – per fondare un nuovo trust per iniziative
filantropiche.63 La promessa si è concretizzata in stock option con un prezzo
di esercizio di 25 dollari (circa 43 dollari al di sotto del prezzo di offerta
iniziale), creando da un giorno all’altro una delle organizzazioni umanitarie
più grandi della Cina. Jack si è inoltre impegnato a devolvere al trust una
percentuale più alta della sua fortuna personale in futuro.64
Il trust si concentrerà soprattutto sui temi dell’ambiente e della sanità: due
questioni su cui Jack si è espresso sempre di più negli ultimi anni. La rapida
industrializzazione e urbanizzazione della Cina hanno danneggiato
l’ambiente e la salute degli abitanti. A un convegno di imprenditori nel
201365 Jack ha pronunciato una chiamata alle armi, ribadita poi in un articolo
uscito sulla Harvard Business Review: «Il cancro – una parola che si sentiva
pronunciare raramente trent’anni fa – è oggi un tema sulla bocca di tutti.»
Jack parla spesso dell’aumento dei casi di tumore tra i suoi dipendenti, gli
amici e le loro famiglie,66 e ha affrontato l’argomento anche durante
l’intervista con il presidente Obama. «Senza un ecosistema sano, non importa
quanti soldi guadagni e quanto sei brillante: sarà un disastro.»
Con il suo attivismo, e con il valore simbolico del lago artificiale che ha
costruito nel campus di Alibaba, Jack sta dimostrando con i fatti che «bisogna
fare qualcosa. […] Il nostro compito è svegliare la gente.»
Jack non esita a criticare il vecchio modello industriale: «I cinesi erano
orgogliosi di essere la fabbrica del mondo. Oggi capiscono tutti cosa ci è
costato diventare quella fabbrica. La nostra acqua non è più potabile, il nostro
cibo è immangiabile, il latte è avvelenato e, quel che è peggio, l’aria delle
nostre città è così inquinata che spesso non riusciamo a vedere il sole.» Nel
suo articolo Jack ha preso di mira anche l’inerzia del governo sui temi
ambientali: «Prima, i privilegiati e i potenti non prestavano ascolto ai nostri
appelli per la pulizia dell’acqua e dell’aria e la sicurezza alimentare. I
privilegiati avevano ancora la loro acqua privilegiata e il loro cibo
privilegiato.67 Ma tutti respiriamo la stessa aria. Non importa quanto tu sia
ricco o potente, se non puoi goderti una giornata di sole non puoi essere
davvero felice.» Come molti altri miliardari cinesi, Jack si è comprato un
pezzetto di paradiso all’estero. Nel 2015, con l’aiuto della Nature
Conservancy, una fondazione ambientalista creata da un ex banchiere di
Goldman Sachs, Jack ha acquistato per 23 milioni di dollari la tenuta di
Brandon Park sui monti Adirondack nello Stato di New York; la tenuta fa
parte di una serie di proprietà un tempo appartenute alla famiglia Rockefeller.
Nella sua intervista con Jack all’APEC a Manila nel novembre 2015, il
presidente Obama ha elogiato Jack per il suo interesse per l’ambiente: «So
che, oltre al tuo lavoro con le no profit, hai anche discusso con Bill Gates
della possibilità di aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo sulle
energie pulite.» Poco dopo, alla vigilia del COP21, la conferenza delle
Nazioni Unite sul cambiamento climatico a Parigi, Jack ha annunciato il suo
sostegno per la «Breakthrough Energy Coalition» capitanata da Bill Gates.
Con Jack c’erano il suo investitore Masayoshi Son e l’ex nemica Meg
Whitman, oltre a Mark Zuckerberg e Jeff Bezos, tra i ventotto investitori che
hanno annunciato di voler sostenere la ricerca sulle nuove tecnologie per
ridurre le emissioni di carbonio.

Salute e felicità
La focalizzazione di Jack sull’ambiente e la sanità non è motivata solo da un
senso di responsabilità aziendale: Alibaba nutre anche aspirazioni
commerciali. Nel 2014 l’azienda ha investito in CITIC 21CN, un data
business farmaceutico quotato a Hong Kong. Gli ha cambiato nome in
Alibaba Health e oggi cerca di sfruttare le inefficienze dei fornitori statali del
settore, per esempio semplificando le procedure per l’erogazione di
prestazioni mediche e agevolando l’accesso di medici e consumatori alle
informazioni sui farmaci e alla possibilità di ordinarli. La sanità è una delle
due aree di investimento a lungo termine che Jack riassume come «le 2 H»:
health (salute) e happiness (felicità).68
Oltre a rendere i cinesi più sani, Jack punta a far sì che «i giovani si
godano la vita e siano ottimisti sul futuro. Nei film cinesi gli eroi muoiono
sempre. Nei film americani gli eroi sopravvivono sempre. Se tutti gli eroi
muoiono, chi vorrà mai essere un eroe?» Perché un’azienda di e-commerce è
così interessata all’intrattenimento?
Fedele alle sue radici di insegnante, Jack parla spesso delle esigenze della
nuova generazione. In un’intervista con Charlie Rose ha dichiarato che in
Cina «molti giovani perdono la speranza, perdono la visione e iniziano a
lamentarsi.» Alibaba è sempre più attiva in aree che Jack spera possano
offrire una risposta: lo sport e l’intrattenimento.
A novembre 2015 Alibaba ha sponsorizzato a Shanghai la prima partita di
basket della stagione Pac-12 Conference (un campionato tra atenei americani)
tra gli Huskies dell’Università del Washington e i Longhorns dell’Università
del Texas, e ha annunciato per l’anno successivo un incontro tra Stanford e
Harvard. Alibaba ha anche iniziato a comprare club sportivi. A giugno 2014
Jack ha investito 200 milioni di dollari nella squadra di calcio dei Guangzhou
Evergrande, un accordo negoziato – come ha rivelato in seguito il
proprietario della squadra69 – mentre Jack era ubriaco. Jack giustifica così
l’investimento: «Non penso sia un problema il fatto che non mi intendo di
calcio. […] Non mi intendevo neppure di retail, di e-commerce o di Internet,
ma questo non mi ha impedito di occuparmene.» Ha detto di non voler
investire nel calcio ma «nell’intrattenimento.»
Alibaba è uno dei principali investitori cinesi nei settori del cinema, della
televisione e del video online. Finora l’esborso più consistente nei media
tradizionali è stato l’investimento da 800 milioni di dollari in uno studio
cinematografico e televisivo di Hong Kong,70 che è stato rinominato Alibaba
Pictures. Nel 2014 Alibaba ha incaricato Zhang Qiang, allora vicepresidente
del potente distributore statale China Film Group, di dirigere le sue attività
nell’intrattenimento in Cina. Alibaba ha anche investito con Tencent71 in
Huayi Brothers, una casa di produzione cinematografica e televisiva di
Pechino, e ha rilevato l’azienda di biglietteria cinematografica Yulekei. Ma i
maggiori investimenti sono stati diretti su Internet, come la partecipazione e
poi l’acquisizione72 di Youku Tudou, un’azienda fondata dall’ex dirigente di
Sohu Victor Koo.73 Oltre 430 milioni di cinesi guardano regolarmente video
online, soprattutto sui dispositivi mobili, e alcuni programmi raggiungono un
pubblico più vasto dei canali televisivi terrestri posseduti dal governo. Il
mercato traboccava di contenuti piratati ma oggi le grandi piattaforme di
video online come Youku si impegnano per diventare l’equivalente cinese di
Netflix, trasmettendo le più popolari telenovele coreane o le più famose
trasmissioni americane come 2 Broke Girls. Il mercato del video online vale
quattro miliardi di dollari – generati soprattutto dalla pubblicità ma in parte
anche dagli abbonamenti – ed è ancora un settore in cui è difficile
guadagnare, a causa dei costi delle licenze per i contenuti. Youku Tudou non
ha mai registrato profitti. Alcuni investitori hanno espresso timori
sull’impatto dell’acquisizione sulla struttura di costo di Alibaba, ma l’azienda
giustifica le spese con la necessità di competere con piattaforme rivali come
quelle di Tencent e Baidu. Inoltre Alibaba ha già annunciato di voler lanciare
un suo servizio di streaming, «Tmall Box Office» o «TBO», in partnership
con la tv via cavo Wasu Media, in cui Jack aveva già investito
personalmente. L’idea alla base di TBO è stravolgere il mercato della
produzione televisiva cinese come Netflix ha fatto negli Stati Uniti. Già quasi
mezzo miliardo di persone74 guarda video online su siti controllati da
Alibaba, Baidu, Tencent e altri. Ma per rimarcare i limiti imposti agli
imprenditori che invadono il suo territorio, a novembre 2015 il governo ha
imposto nuove restrizioni sulla quantità di contenuti d’importazione che
possono offrire sulle loro piattaforme (in precedenza il limite massimo era il
30 per cento). Nel tentativo di promuovere i contenuti cinesi, Alibaba sta
anche valutando nuovi modi per finanziare la produzione di trasmissioni,
anche con il crowdfunding tramite un’azienda che ha acquisito, Yulebao.
Con la nuova sede a Pasadena, in California, Alibaba Pictures nutre
grandi ambizioni. Jack ha dichiarato di voler fare di Alibaba «l’azienda di
intrattenimento più grande del mondo.» A capitanare gli investimenti esteri di
Alibaba nell’intrattenimento c’è Zhang Wei, dal 2015 presidente di Alibaba
Pictures. Diplomata alla Harvard Business School, Zhang ha presentato un
programma di business sulla China Central Television (CCTV) ed è stata
dirigente in CNBC e in Star Television per poi entrare in Alibaba nel 2008.
Alibaba Pictures non ha ancora prodotto film, ma ha già finanziato pellicole
come Mission: Impossible – Rogue Nation. Intervistata dall’Hollywood
Reporter, Zhang ha rivelato che all’inizio le case cinematografiche non
volevano lavorare con Alibaba: «La prima cosa che tutti si chiedono è cosa
possa fare per loro un’azienda di e-commerce. Uno dei grandi problemi dei
produttori è che non sanno mai nel dettaglio chi vada a vedere i loro film.
Anche i registi vorrebbero saperlo. Quanti anni hanno gli spettatori? Da dove
vengono? Hanno figli? Quali altri interessi hanno? Con chi abitano? Che tipo
di persone sono? Parliamo di intrattenimento trainato dalla domanda. Una
sinergia migliore tra le risorse di Internet e il settore dell’intrattenimento
permette di ottenere quelle informazioni.» Zhang spiega che Alibaba può
usare Alipay, con cui molte persone comprano online i biglietti del cinema,
per comprendere meglio chi sono gli spettatori: «In Cina il pubblico dei film
è molto più giovane, perché andare al cinema rappresenta un cambiamento
dello stile di vita. La generazione precedente andava al karaoke. Oggi il
cinema è la fonte principale di intrattenimento.»
Un legame più tangibile tra l’e-commerce e l’intrattenimento è il
merchandising. Spiega Zhang: «Negli Stati Uniti il cinema porta forse il
trenta o il quaranta per cento del fatturato mentre in Cina è di gran lunga la
voce principale del fatturato. C’è ancora molto valore da creare nell’area del
merchandising.» Un esempio sono i tie-in di Mission: Impossible, con la
selezione di venditori qualificati per la produzione di oggetti su licenza:
«Abbiamo individuato una trentina di prodotti con il team di merchandising
di Paramount, inviando loro progetti e prototipi durante tutto il corso del
processo. Ne abbiamo mostrati molti allo stesso Tom Cruise, per assicurarci
che fosse d’accordo con il modo in cui rappresentavano il brand Mission:
Impossible. Questo è il nostro valore: collegare le due parti. In passato, come
poteva un produttore di zaini della provincia dello Zhejiang comunicare con
Paramount e Tom Cruise in modo così efficiente e affidabile? Era
semplicemente impossibile.»
Inevitabilmente, viste le grandi ambizioni di Jack nell’intrattenimento, gli
è stato chiesto se Alibaba abbia intenzione di comprare una casa di
produzione hollywoodiana. Un possibile obiettivo sarebbe Paramount
Pictures, di proprietà di Viacom, che essendo lo studio che ha prodotto
Forrest Gump potrebbe offrire a Jack la posizione di forza che desidera a
Hollywood. Finora Alibaba ha sempre negato di voler acquisire una casa di
produzione: «Be’, non penso che vogliano venderla. È meglio entrare in
partnership. Non si può comprare tutto, nella vita.»
Ma non passa quasi giorno senza che Alibaba, o lo stesso Jack, non sia
elencata tra i potenziali acquirenti di un’azienda da qualche parte nel mondo.
A dicembre 2015 Alibaba ha confermato l’acquisto del South China Morning
Post (SCMP), il principale quotidiano in lingua inglese di Hong Kong. Alcuni
hanno visto l’acquisto del giornale, con i suoi 112 anni di storia, come un
mezzo con cui Jack intende consolidare le sue credenziali di magnate.
D’altronde, due anni prima il fondatore di Amazon Jeff Bezos aveva
personalmente acquisito il Washington Post. Jack lo stava semplicemente
imitando?
Altri sospettavano invece che Jack avesse comprato il quotidiano per
ingraziarsi Pechino. Quasi vent’anni dopo la restituzione da parte del Regno
Unito, nel 1997, a Hong Kong il governo cinese continua ad affrontare
profonde tensioni politiche e sociali. Nel 2014 il territorio è stato paralizzato
dal movimento Occupy Central per la cosiddetta Rivoluzione degli ombrelli,
un movimento studentesco che si batteva per la democrazia e le libertà civili.
Benché la crisi sia stata risolta pacificamente, le tensioni che l’hanno
alimentata restano forti quanto prima. Il SCMP aveva seguito con attenzione
le proteste. I critici ipotizzavano che Jack avesse offerto i suoi servizi per
rimettere in riga il quotidiano o che avesse dovuto obbedire a una direttiva in
tal senso proveniente da Pechino.
Jack ha liquidato così le teorie del complotto: «Sono sempre stato
bersaglio di dicerie. Se dovessi preoccuparmi delle teorie altrui, dove troverei
il tempo di lavorare?» Ha promesso di rispettare l’indipendenza editoriale del
quotidiano: «Hanno una piattaforma indipendente e possono avere le loro
opinioni.»
Per il giornale, poter contare sui finanziamenti e sull’influenza di un
grande gruppo industriale presenta evidenti vantaggi. Come molte
pubblicazioni a stampa, il modello di business del SCMP, basato sugli
abbonamenti, benché ancora redditizio patisce la concorrenza dei contenuti
gratuiti online. In linea con il perenne impegno di offrire servizi gratuiti,
Alibaba rimuoverà il paywall che limita la fruizione dei contenuti del
quotidiano agli abbonati, permettendo una distribuzione più ampia e creando
nuove opportunità commerciali. In un’intervista al giornale, il vicepresidente
esecutivo Joe Tsai ha spiegato: «Vogliamo proporre il SCMP a un pubblico
globale. […] C’è chi dice che il settore dei quotidiani è al tramonto ma noi
non la pensiamo così. La consideriamo un’opportunità di sfruttare le nostre
competenze tecnologiche, le nostre risorse digitali e il nostro know-how per
distribuire le notizie come nessuno aveva mai fatto prima.» In termini
commerciali l’onere dell’acquisto è relativamente limitato e una
ristrutturazione potrebbe fruttare consenso a Jack.
Per Alibaba l’accordo non è impegnativo in termini finanziari: l’azienda
ha pagato poco più di 200 milioni di dollari. Ma date le polemiche che
potrebbe innescare, la transazione non è priva di rischi. Nell’intervista Joe
spiegava che se il SCMP può aiutare il mondo a capire meglio la Cina, ne
trarrà beneficio anche Alibaba, un’azienda che ha sede in Cina ma è quotata
negli Stati Uniti: «La Cina è importante, è un’economia in ascesa. È la
seconda economia del mondo. La gente dovrebbe saperne di più sulla Cina.»
Ma poi, rivelando la sua frustrazione e al contempo fornendo munizioni ai
critici, ha aggiunto: «Le notizie sulla Cina dovrebbero essere date in modo
equilibrato e corretto. Oggi, quando sento i media occidentali parlare della
Cina, mi sembra che la vedano attraverso una lente molto particolare: la lente
per cui la Cina è uno Stato comunista e tutto il resto consegue da quello.
Molti giornalisti che lavorano per i media occidentali non condividono il
sistema di governo cinese, e questo influenza il modo in cui danno le notizie.
Vediamo le cose in modo diverso: crediamo che le situazioni vadano
presentate in modo obiettivo. Presentare i fatti, dire la verità, è il principio in
base al quale intendiamo agire.»
Qualsiasi siano state le motivazioni di Jack per l’acquisizione, diventando
proprietario di un quotidiano di Hong Kong si sta spingendo in acque più
profonde. Ma non si è mai tirato indietro di fronte a una sfida. È diventato
famoso fondando un’azienda cinese che, chissà come, è riuscita a battere la
Silicon Valley: un racconto del filone «Oriente batte Occidente» degno di un
romanzo di Jin Yong. I suoi successi degli ultimi anni, tuttavia, stanno
spostando la narrazione verso il filone «Sud contro Nord»: un’azienda nata
nel cuore imprenditoriale della Cina meridionale che mette alla prova i limiti
imposti dal governo di Pechino.
Da quando Xi Jinping è diventato presidente della Cina, nel 2012, gli
imprenditori di alto profilo si sono trovati soggetti a controlli e sanzioni
sempre più severe da parte del governo. Un grande imprenditore del ramo
immobiliare, Feng Lun di Vantone Holdings, ha persino scritto sul suo blog –
per poi cancellarlo – il seguente messaggio: «Un tycoon dell’impresa privata
ha detto una volta: “Agli occhi di un funzionario del governo, non siamo altro
che scarafaggi. Se vuole ucciderci ci ucciderà. Se vuole lasciarci vivere
vivremo”» La scomparsa temporanea e tuttora inspiegata di Guo
Guangchiang, presidente di Fosun – un tempo chiamato «il Warren Buffett
cinese» – nel dicembre 2015 illustra bene i rischi che corrono queste persone.
Jack è già il portabandiera della rivoluzione dei consumi e
dell’imprenditoria cinese. Ora sta avanzando su nuovi fronti, come la finanza
e i media, che per lungo tempo sono rimasti appannaggio dello Stato.
Forgiato nel crogiolo imprenditoriale dello Zhejiang e alimentato dalla
sua fede nel potere trasformativo di Internet, Jack è un pragmatista radicale.
Dimostrando che la tecnologia può aiutare il governo a rispondere alle nuove
aspettative di un popolo che vuole una vita migliore – dall’ambiente,
l’istruzione e la sanità fino all’accesso a nuove opportunità economiche –
Jack mira a creare le condizioni per realizzare progetti ancora più ambiziosi.
Un noto imprenditore cinese di Internet mi ha detto: «La maggior parte
delle persone pensa che Alibaba sia una storia. Non è solo una storia, è una
strategia.»
Ringraziamenti

A mio padre David Clark e alla mia compagna Robin Wang.


Sono profondamente grato a Amy Tan, Lou De Mattei e tutta la squadra
di Tandema, per l’ispirazione, l’incoraggiamento e l’amicizia.
Vorrei estendere un ringraziamento particolare a Mei Yan, per la sua
amicizia e per aver lavorato così instancabilmente in tutto il corso di questo
progetto, e ai miei ex collaboratori dell’università di Stanford: Marguerite
Gong Hancock, per avermi incoraggiato a scrivere questo libro, e il professor
Bill Miller, per le sue idee sui meccanismi della Silicon Valley.
Molte grazie alla nostra assistente di ricerca Chang Yu all’Università di
Pechino, che sta completando il dottorato a Hong Kong, per il quale le faccio
i miei migliori auguri.
In BDA, Meiqin Fang è stata molto generosa con il suo tempo e il suo
aiuto, come anche Dawson Zhang. Ringrazio inoltre Van Liu e Shi Lei. Sono
profondamente grato a Wilbur Zou per la leadership di cui ha dato prova in
BDA, che mi ha permesso di dedicarmi a questo progetto. La mia assistente
Joyce Zhao mi ha sempre aiutato a tenermi al passo, in qualunque parte del
mondo stessi scrivendo.
Le mappe sono opera dell’artista di Pechino Xiaowei Cui.
Un sincero ringraziamento alle persone che mi hanno fornito un aiuto
inestimabile ma preferiscono restare anonime. Sono molto riconoscente a
David Morley, per aver condiviso con me la storia e le fotografie di famiglia
dei Morley e dei Ma; Heather Killen, per i suoi ricordi e le foto dei primi
tempi di Yahoo China; Alan Tien, per le informazioni sulla storia di eBay e
PayPal in Cina; e il mio amico – e «scimmia» come me – Roger Nyhus, per
la calorosa accoglienza riservatami nella comunità di Seattle.
Sono grato del sostegno ricevuto da tutti i pionieri e veterani di Alibaba
che mi hanno aiutato lungo la strada, del sostegno di Jennifer Kuperman e del
team di San Francisco, e del tempo generosamente concessomi da Joe Tsai e
dai suoi colleghi a Hangzhou.
Grazie alle mie sorelle Terri, Alison e Katie per il loro sostegno, alla mia
editor Gabriella Doob di HarperCollins e al team dell’agenzia letteraria
Sandy Dijkstra.
Alla memoria di mia madre, Pamela Mary Clark, del mio mentore, il
professor Henry S. Rowen dell’Università di Stanford, che ha continuato a
spostarsi in bicicletta nel campus fino al giorno della sua morte, nel
novembre 2015, a novant’anni; e di Miles Frost, un giovane e talentuoso
imprenditore con cui avevo stretto amicizia da poco quando la sua storia si è
interrotta in modo così brusco e tragico, a trentun anni.
Note

Introduzione
1. La società «BDA» è nata come BD Associates. Il nome deriva dalle prime iniziali del mio socio
cinese, il dottor Bohai Zhang, e dal mio nome, Duncan. Il presidente di Morgan Stanley Asia, Jack
Wadsworth, e Theodore S. Liu, ex direttore del team di investment banking cinese, mi hanno
fornito un aiuto prezioso per il lancio della mia attività, anticipandomi un anno di stipendio per
consentirmi di aprire bottega a Pechino.
2. Per trasparenza: non sono più un azionista ma, nell’ambito del programma «friends and family»,
Alibaba mi ha permesso di acquistare alcune azioni all’IPO di Alibaba.com a Hong Kong nel 2007
e all’IPO dell’Alibaba Group a New York nel 2014.

Capitolo 1
1. Il volume di vendita finale va calcolato con una certa approssimazione, perché una parte della
merce venduta può essere stata resa e rimborsata nelle ventiquattr’ore successive (perlopiù per
motivi legittimi, come articoli danneggiati o consumatori che avevano cambiato idea) ma anche
perché alcuni venditori della piattaforma hanno l’abitudine di gonfiare le cifre di vendita per
guadagnare posizioni in classifica pagando soggetti di terze parti (un fenomeno detto
«spazzolamento», di cui parleremo nel capitolo 12).
2. Per il sito B2C di Alibaba, www.tmall.com.
3. Nato come Bachelors’ Day (giorno degli scapoli) nei primi anni Novanta, quando gli studenti single
lanciarono un “anti-San Valentino” e scelsero la data dell’11/11 per simboleggiare le persone sole.
4. Termine protetto da un copyright registrato da Alibaba nel 2012 per distinguere il proprio festival
dal nome usato comunemente in precedenza, «festa delle bacchette» (guanggun jie), scelto perché il
numero 11/11 somiglia a due paia di bacchette per mangiare.
5. In un’intervista televisiva concessa a Emily Chang di Bloomberg West su Bloomberg TV.
6. Variante del proverbio «Wanneng de shangdi», che descrive l’onnipotenza di Dio.
7. Il significato originale dell’ideogramma «tao», setacciare l’oro, è ormai in disuso.
8. Tmall mantiene alcune scorte di magazzino in determinate categorie, come Tmall Supermarket.
9. Una parola antica che vuol dire «servi» e riflette la passione di Jack per le tradizioni cinesi.
10. La chat si chiama Ali wangwang.
11. Nato nel 2008 con il nome di Taobao Mall, in seguito è diventato tmall.com.
12. Anche Tmall richiede il pagamento di una tariffa annuale.
13. Nell’anno fiscale 2015.
14. I brand del lusso offrono una selezione limitata di prodotti, perlopiù nella fascia di prezzo entry-
level.
15. Groupon è sbarcata in Cina nel 2011 ma ha incontrato subito difficoltà e non è riuscita a imporsi.
16. Che significa «Grande affare».
17. Ventisei metri quadrati pro capite negli Stati Uniti, 15 in Germania e 13 nel Regno Unito.
18. Nel 2009.
19. La lista comprende una serie di mercati virtuali accusati di «praticare e agevolare la violazione
sistematica del copyright e la contraffazione di marchi registrati.»
20. Tra l’altro assumendo il suo ex responsabile legale.
21. Fondato a Shenzhen nel 1993 e a volte definito «il FedEx cinese».
22. La parola cainiao proviene da Taiwan e letteralmente significa «uccello verde», ma ha anche una
connotazione militare, «matricola» o «novellino».
23. Tramite 1800 centri di distribuzione e 97.000 stazioni di consegna.
24. L’azienda è registrata a Shenzhen.
25. Shen, amico stretto di Jack Ma, ha costruito la sua fortuna nel China Yintai Group, un’impresa che
si occupa di miniere, vendita al dettaglio e immobili, tra cui i sessantasei piani del grattacielo Yin
Tai a Pechino, dove ha sede l’hotel Park Hyatt, in cui Shen ospita regolarmente Jack per eventi
pubblici. Shen controlla anche una sussidiaria di retail con sede a Hong Kong, InTime Department
Stores, in cui Alibaba ha investito 700 milioni di dollari.
26. Una rete locale di corrieri che operano in città dal primo al terzo livello, affiancata in aree a minore
densità e sviluppo da oltre 20.000 stazioni di «ritiro fai-da-te».
27. Una rete logistica che copre l’intera nazione.
28. JD sta per Jing Dong, in cui Jing significa «città capitale», come in Beijing (Pechino), e Dong è
l’ideogramma che significa «est», ma deriva anche dal nome del fondatore dell’azienda Liu
Qiangdong, noto in inglese come Richard Liu. Liu ha costituito la sua ditta nel 1998 come
produttore di dischi fissi, poi nel 2004 ha lanciato un sito B2C chiamato 360buy.com, che in seguito
ha ribattezzato JD.com.
29. Un milione e mezzo di metri quadri in totale, rispetto al milione di Cainiao.
30. Per gli ordini inoltrati entro le undici del mattino, e l’indomani per gli ordini inoltrati entro le undici
di sera.
31. 778 miliardi di dollari nell’anno fiscale che terminava a giugno 2014.
32. Una storia che racconteremo nel capitolo 11.
33. Nel 2014 ha fatturato 11 miliardi di yuan (1,8 miliardi di dollari).
34. Gestito dalla società di intermediazione Tian Hong Asset Management, recentemente acquisita da
Ant Financial.
35. Tramite Ant Financial.
36. Nel 2013 Jack Ma si è associato con altri due Ma (con cui però non è imparentato): Pony Ma, amico
di Jack e Ad di Tencent, azienda rivale di Alibaba, e Ma Mingzhe, presidente di Ping An Insurance.
Insieme hanno lanciato la prima e più grande compagnia di assicurazioni online in Cina, Zhong An,
che nel giro di un anno ha attirato oltre 150 milioni di clienti.
37. Il sistema confronta il volto dei potenziali clienti con quelli presenti nelle banche dati della polizia,
ma questo metodo ha determinato ritardi nel lancio del servizio a causa di obiezioni sollevate dalle
autorità di regolamentazione.

Capitolo 2
1. Il presidente del Fosun Group nonché proprietario di Club Med.
2. In una conversazione con il giornalista Charlie Rose.
3. Jan «Jens» Van der Ven.
4. Pare che un cabarettista di Shanghai tragga parte del suo materiale dai discorsi di Jack.
5. Rivali come Baidu, invece, fanno più affidamento sulle vendite telefoniche.
6. Al China Daily, 11 maggio 2015.
7. Alcuni esempi: Chen Qi è il fondatore di juandou.com e mogujie.com, è stato product manager in
Taobao e ha lavorato all’UED (user experience design). Tra i quattro membri fondatori del team di
Mogujie, tre provenivano da Taobao. A parte Chen Qi, gli altri due sono il CTO di Mogujie Yue
Xuqiang e il CMO Li Yanzhu. Chen Xi è il fondatore di LavaRadio, una stazione radiofonica di
musica ambient; ha lavorato in Yahoo China fino a circa un anno dopo l’acquisizione da parte di
Alibaba. Cheng Wei è il cofondatore di Didi Dache e ha lavorato nel reparto B2C di Taobao. Gu
Dayu è fondatore e Ad di www.bong.cn, un braccialetto intelligente per sportivi, e ha lavorato nel
reparto International User Experience di Alibaba, in Laiwang e in YunOS. Jiang Haibing è stato il
secondo dipendente assunto in Alipay ed è il fondatore di mabole.com, un servizio di selezione del
personale per venditori online. Lai Jie ha fondato Treebear, un provider di wi-fi commerciale.
Alibaba ha guidato il primo giro di finanziamenti per Treebear nell’agosto 2014, rilevando una
quota del 10 per cento. Lan Lan è fondatore e Ad di 1kf.com, una piattaforma O2O che permette di
ricercare fisioterapisti e massaggiatori, lanciata a marzo del 2015. Li Liheng è cofondatore e Ad di
chemayi.com, una piattaforma localizzata di assistenza per autoveicoli. Li ha lavorato in Alibaba
per otto anni a partire dal 2002. Anche gli altri due cofondatori di chemayi.com sono veterani di
Alibaba: Lin Yan e Fan Qinglin. Li Zhiguo, sviluppatore principale di TrustPass, ha lasciato
Alibaba nel 2004 per fondare koubei.com, un sito di annunci di vendita e una community. Alibaba
ha investito in kooubei.com a ottobre del 2006 e ha rilevato l’azienda nel 2008, fondendola con
Yahoo China. Li, che in Alibaba portava il soprannome di «Bug Li», Li l’insetto, si è trasferito in
AliCloud nel febbraio 2009 prima di lasciare nuovamente Alibaba nel settembre 2010. Poi è
diventato un angel investor e oggi è Ad di wacai.com, una piattaforma online per la gestione
finanziaria. Toto Sun (Sun Tongyu) è l’ex presidente di Taobao e cofondatore di www.hezi.com,
una community di intrattenimento e risorse educative rivolta ai ragazzi dai sei ai quattordici anni e
ai loro genitori. Wang Hao è cofondatore e Ad di xiaom.com, un sito di streaming musicale. Xiaom
è stata rilevata da Alibaba nel 2013, entrando a far parte di AliMusic. David Wei (Wei Zhe) è
cofondatore di Vision Knight Capital. Xu Ji è fondatore e Ad di mangguoyisheng.com, un’app per i
medici che operano nelle comunità. Xu è stato il settantaduesimo dipendente di Alibaba. Wu
Zhixiang è fondatore e Ad di ly.com, un sito di prenotazione viaggi. Wu ha lavorato per un anno nel
reparto vendite di Alibaba, dal 2001 al 2002. Ye Jinwu è fondatore e Ad di yingyinglicai.com,
un’app per l’acquisto di prodotti finanziari, e ha lavorato in Alipay. Zhang Dou è fondatore e Ad di
yinyuetai.com. Zhang Hang è cofondatore di Didi Dache. Zhang Lianglun è cofondatore e Ad di
mizhe.com e fondatore di BeiBei, un sito di e-commerce che offre prodotti per l’infanzia. Zhou
Kaicheng è cofondatore e Ad di Xingkong Qinang (www.xkqh.com), un servizio che offre lezioni
di pianoforte. La società Vision Knight Capital di David Wei ha partecipato alla serie C di
finanziamenti nell’ottobre 2015. Zhu Ning è fondatore di youzan.com, una piattaforma per aprire
negozi WeChat, cofondatore di guang.com, un sito di e-commerce (già chiuso), cofondatore di
cafebeta. com e ha lavorato in Alipay come chief product designer.
8. itjuzi.com.

Capitolo 3
1. Un «baozhang».
2. La disciplina comprende cinque elementi: taolu (movimenti/posizioni con le mani e le armi),
neigong e qigong (esercizi di respirazione, movimento e consapevolezza, meditazione), tuishou
(esercizi di reazione) e sanshou (tecniche di autodifesa).
3. «Benke.»
4. «Zhuanke.»
5. Anche se, probabilmente, aveva coniato quell’espressione molto tempo prima.

Capitolo 4
1. Classificate in getihu (letteralmente «unità corporee singole») o imprese individuali, e siying qiye, o
aziende a proprietà privata.
2. Anticamente chiamata Lin’an, fu la capitale della dinastia meridionale Song dal 1138 al 1276. Si
ritiene che nel XIII secolo, quando l’Europa era ancora nel Medioevo, Hangzhou fosse la città più
popolosa al mondo, con oltre un milione e mezzo di abitanti. Si pensa che l’abbiano visitata Marco
Polo e il famoso avventuriero arabo Ibn Battuta.
3. China Post garantiva la consegna in tre giorni ma gli esportatori avevano bisogno di consegnare i
moduli di spedizione al porto entro ventiquattr’ore. Prendendo il treno che partiva a mezzanotte da
Hangzhou, Nie riusciva a consegnare i moduli in tempo: chiedeva agli esportatori 100 yuan per
ogni modulo ma pagava una volta sola i 30 yuan del biglietto per il treno.
4. Yunda, YTO e ZTO.
5. Poiché il Partito comunista nominava sia gli alti dirigenti delle banche sia quelli delle imprese
pubbliche, non c’era bisogno di valutazioni indipendenti o controlli sull’affidabilità creditizia.
6. Alla fine degli anni Novanta gli imprenditori cinesi di Hong Kong e di altre regioni amministrative
speciali avevano aperto più di 50.000 fabbriche nella provincia del Guangdong, che ha legami con
una diaspora di cinesi all’estero che ammonta a venti milioni di persone. Dopo la visita di Deng
Xiaoping nelle regioni meridionali, che portò alla creazione di alcune zone economiche speciali
come Shenzhen, i cinesi all’estero, tra cui molti ricchi imprenditori, garantivano un flusso
incessante di finanziamenti e mercati per l’esportazione. La posizione del Guangdong, adiacente a
Hong Kong, e le rotte dei commerci più trafficate al mondo davano a quella provincia un vantaggio
ulteriore sullo Zhejiang.
7. A firma del giornalista Zhou Jishan.
8. A quanto riferisce un articolo dell’Hangzhou Daily del settembre 1995.

Capitolo 5
1. Uno dei primi biglietti di Jack lo qualifica come «direttore marketing.»
2. A partire dalla fine degli anni Ottanta, il dottor Walter Toki dello Stanford Linear Accelerator
Center svolse un ruolo di primo piano in questo processo, dopo aver contattato il fisico e premio
Nobel americano di origini cinesi T.D. Lee proponendo di stabilire una connessione Internet con gli
scienziati cinesi.
3. Tramite un uplink satellitare da una stazione di terra di AT&T a Point Reyes, California.
4. Nella prima edizione.
5. Chiamata «Progetto Colomba Dorata».
6. John Nathan Hosteller, deputato repubblicano dell’Indiana, e il senatore democratico Bill Bradley
del New Jersey.
7. Il Qianjiang Evening News.
8. Un esempio di inserzione sul sito ne illustra la natura spartana: «Acido idrofluoridico a diverse
concentrazioni in barili di plastica da 25 chilogrammi», accompagnato dalle informazioni di
contatto della Ningbo Material General Corporation.
9. Tra cui un articolo apparso sull’Hangzhou Daily il 18 ottobre 1996.

Capitolo 6
1. All’Economist.
2. Il CIECC era stato fondato due anni addietro per seguire i progetti di «EDI» (Electronic Data
Interchange) per il MOFTEC (Ministero del commercio con l’estero e della cooperazione
economica).
3. In seguito sarebbe diventata presidente, Ad e segretaria per il Partito Comunista di Putian, azienda
pubblica produttrice di tecnologie per le telecomunicazioni. In quel ruolo avrebbe promosso
attivamente lo standard cinese per la telefonia mobile 3G, chiamato TD-SCDMA, che non riuscì a
imporsi sul mercato.
4. Jasmine Zhang di Yinghaiwei sostiene che Jack scelse quel nome perché suonava simile ad
Ariba.com, un altro famoso sito di e-commerce dell’epoca.
5. Entrambi i domini furono registrati a nome della madre di Jack, Cui Wencai. Il 17 agosto 1999 Cui
trasferì la proprietà ad Alibaba Ltd.
6. Alibaba.com fu lanciato nell’aprile 1999, sostituendo i siti precedenti – alibaba-online.com e
alibabaonline.com – che erano apparsi a gennaio. In seguito l’azienda avrebbe definito quel sito «un
test» e ne avrebbe lanciato una nuova versione, presentata con una solenne cerimonia
d’inaugurazione nell’ottobre di quell’anno.
7. Da China Pages provenivano la moglie di Jack, Cathy, Toto Sun (Sun Tongyu), Wu Yongming,
James Sheng (Sheng Yifei), Ma Changwei, Lou Wengsheng e Simon Xie (Cie Shihuang), che
aveva conosciuto Jack quando lavorava in Dife. Tra gli altri colleghi di Hangzhou che l’avevano
raggiunto a Pechino: Lucy Peng (Peng Lei, che aveva lasciato l’impiego da insegnante a Hangzhou
quando aveva sposato Toto Sun), Han Min, Jane Jiang (Jiang Fang), Trudy Dai (Dai Shan) e Zhou
Yuehong.
8. Per quaranta ore di accesso da ChinaNet.
9. Quasi tutti gli inserzionisti erano aziende del settore tecnologico, come Intel, IBM, Compaq,
Microsoft, Legend e Founder.
10. O «Onda nuova» (xin lang).
11. Jack Hong, Benjamin Tsiang e Hurst Lin. Sinanet aveva alcuni utenti a Taiwan ma faticava a farsi
conoscere in Cina, e a volte veniva bloccata dal governo cinese.
12. Da Dow Jones, Intel e Morningside, un’affiliata dell’immobiliare di Hong Kong Hang Lung, diretta
da Gerald Chen.
13. Solo Raymond Lei aveva studiato all’estero, alla Purdue University nell’Indiana, dove aveva
conseguito una laurea in informatica.
14. Xiao Ao Jiang Hu è il titolo originale.
15. Nelle parole di Chen Xiaoping, un docente dell’Università dello Stato di Washington a Seattle.
16. Cai Chongxin, o Tsai Chung-Hsin nella grafia taiwanese.
17. Suo padre, il dottor Paul Tsai, è il fondatore dello studio legale Tsar & Tsai, fondato nel 1965, uno
degli studi legali in partnership più antichi di Taiwan.
18. Tra gli ex allievi: il commediografo Thornton Wilder (Piccola città), l’ex Ad di Walt Disney
Michael Eisner, il cantante Huey Lewis, l’ex portavoce della Casa Bianca Jay Carney e, più di
recente, Song Andong, il primo giocatore cinese della NHL. Joe è oggi uno degli amministratori
fiduciari della scuola.
19. Il nonno era originario di Huzhou, non lontano da Hangzhou.
20. Nel 1996 Joe aveva sposato Clara Wu, una professionista che aveva studiato a Stanford e Harvard,
nata in Kansas da genitori taiwanesi.
21. Galeazzo Scarampi, Ad di Investor Asia Ltd.
22. Dato che uno degli azionisti, Raymond Lei, aveva lasciato l’azienda, il diciottesimo posto era
disponibile per lui. Il diciotto è un numero fortunato in Cina, ma Joe decise di lasciare vacante il
posto e divenne il dipendente numero 19. «Il diciannove è sempre stato il mio numero fortunato.
Era il numero della mia maglia nella squadra di lacrosse. Sono nato il diciannove gennaio.»
23. Un’azienda registrata alle isole Cayman nel giugno 1999, di nome Alibaba Group Holding Limited.
24. Joel Kellman di Fenwick & West li aiutò a organizzare alcuni incontri.
25. Il nome 8848 è l’altezza in metri del monte Everest.
26. Potevano vantare la prima licenza di conduzione di servizi Internet concessa in Cina a un operatore
straniero.
27. È inoltre autore del fondamentale articolo del 2004, che in seguito divenne un libro, sulla «coda
lunga» applicata alle vendite online.
28. Dopo aver conseguito un master in gestione d’impresa alla Wharton, Yip aveva creato e venduto
un’azienda di integrazione di sistemi negli Stati Uniti, poi si era trasferito a Hong Kong ed era
entrato in CIC.
29. Erano stati registrati da un laureato in informatica alla UCLA, nato a Hong Kong, di nome James
Chu.
30. Nonostante il sostegno di Xinhua, il suo sito China.com fu ripetutamente bloccato in Cina da
agenzie rivali.

Capitolo 7
1. Io e Ted ci alternavamo nella scrittura della rubrica «Beijing Byte» sugli sviluppi della tecnologia in
Cina; avevamo sostituito Kristie Lu Stout, che oggi presenta i notiziari della CNN International a
Hong Kong.
2. La prima ondata di dipendenti stranieri comprendeva un certo numero di giovani avventurieri. Uno
dei primi, il dipendente numero quaranta, era David Oliver, cresciuto in una fattoria sull’Isola del
Sud in Nuova Zelanda, e che lavorava in Cina da alcuni anni. Dopo aver ascoltato un discorso di
Jack a Singapore nel marzo 1999, David restò così impressionato che prese un aereo per Hangzhou
e a settembre iniziò a lavorare per Alibaba. Entrò in azienda con uno stipendio molto basso per gli
standard di Hong Kong, ventimila dollari l’anno. Il belga Jan Van der Ven entrò in azienda dopo
aver costruito vari siti web commerciali a Shenzhen per poi trasferirsi nella città industriale di
Dongguan, nel Guangdong. Un’altra delle prime reclute, il numero cinquantadue, era Brian Wong.
Originario di Palo Alto, in California, Brian è oggi vicepresidente e stretto collaboratore di Jack,
sempre al suo fianco nei frequenti viaggi all’estero. A quel punto Alibaba assunse un gruppo di
persone con master in gestione d’impresa, tra cui Todd Daum e Sanjay Varma. Alibaba organizza
occasionali riunioni dei primi dipendenti, che ricevono cappellini con l’ordine di precedenza
dell’ingresso in azienda (il cappellino di Jack ha il numero #001).
3. La moglie di Jack, Cathy, ha svolto per molti anni un ruolo di primo piano nelle attività
internazionali dell’azienda. Annie Xu, originaria di Shanghai e laureata alla UC Berkeley, è
direttrice generale di Alibaba negli Stati Uniti dal maggio 2000. Abir Oreibi ha diretto il business
europeo dell’azienda per otto anni, a partire dal 2000.
4. «Pre-money», cioè prima dell’investimento.
5. Che prevedeva una «participated preferred feature.»
6. Era membro del team Principal investment area (PIA) della banca, lanciato in Asia da Henry
Cornell. Oltre a cospicui investimenti in Cina, come quello in Ping An Insurance nel 1994, dopo
che la banca aveva compiuto alcuni fortunati investimenti in aziende della Silicon Valley, Shirley
aveva partecipato a piccole scommesse su aziende asiatiche di tecnologia. Era stata promossa a
direttrice operativa della banca l’anno successivo, a trentadue anni.
7. Investendo in un’azienda di nome ChinaRen.com, fondata da tre cinesi che avevano studiato a
Stanford. In seguito ChinaRen fu rilevata da Sohu.
8. Che nel 2015 è diventato condirettore del multimiliardario business di investimenti della famiglia di
Joe Tsai.
9. Un mercato che si sarebbe aggiunto ai siti già esistenti dell’azienda per Taiwan e Hong Kong.
10. Queste parole furono pronunciate al decimo anniversario dell’azienda.
11. In Alibaba sono chiamati Aliren (letteralmente «la gente di Alibaba») i dipendenti che sono in
azienda da più di tre anni.
12. Inizialmente alibaba.com.cn, dal 2010 ha assunto il nome di 1688.com.
13. La Asia Business Conference.
14. In un’intervista del 2003 alla Zhegjiang Satellite TV disse: «Dieci anni fa ho fatto domanda a
Harvard, due volte, e mi hanno respinto. Avevo sempre voluto andare a Harvard a parlare agli
studenti. […] Per il momento non mi curo molto delle credenziali accademiche delle università più
prestigiose al mondo. Penso che il College magistrale di Hangzhou sia abbastanza buono.»
15. Originario di Shanghai, Wu aveva studiato informatica negli Stati Uniti ed era entrato presto in
Yahoo!, nel 1996.

Capitolo 8
1. Uno di essi era Edward Zeng (Zeng Quiang), fondatore di una catena di Internet café. Esperto di
pubbliche relazioni – era riuscito a organizzare una visita della first lady Hillary Clinton – Zeng
affermava di aver costruito «il servizio leader nell’e-commerce in Cina.»
2. Il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo ha definito Internet «il regalo di Dio alla Cina. È lo
strumento con cui il popolo cinese può portare avanti il suo progetto di abolire la schiavitù e lottare
per la libertà.»
3. La struttura «CCF» (China-China-Foreign) era stata creata per consentire investimenti esteri nel
nuovo operatore telecom statale China Unicorn. Ma Wu la considerava una minaccia alla propria
autorità e dichiarò illegali gli 1,4 miliardi di investimenti esteri.
4. Joseph Tong (Tong Jaiwei).
5. Guarda caso, l’ex Ad oggi gestisce un’azienda che si occupa di viaggi in quella regione.
6. L’azienda si era quotata in «backdoor» al Nasdaq ad aprile del 2000.
7. Kwan aveva lavorato per quindici anni in GE Medical Systems.

Capitolo 9
1. L’evento era il primo di una serie di conferenze annuali che Alibaba organizza ancora oggi, e che
chiama «AliFest». Jin Yong fu il primo di una lunga processione di ospiti VIP che in seguito
avrebbe incluso il presidente Bill Clinton, Kobe Bryant, Arnold Schwarzenegger, numerosi Ad,
celebrità, premi Nobel e Pulitzer.
2. Uno sviluppo che per qualche giorno sembrò mettere in pericolo la struttura VIE: Wang perse il
posto nell’azienda di Sina quotata offshore ma conservò le licenze più importanti in Cina, e in
seguito rinunciò anche a quelle.
3. Dangdang, diretta da Peggy Yu e suo marito Li Guoqing, era sostenuta da investitori in VC tra cui
SoftBank. Joyo era diretta da Diane Wang, ma era un’impresa spin-off del produttore di software
Kingsoft, una creazione di Lei Jun, oggi famoso come fondatore e Ad del fortunato produttore
cinese di smartphone Xiaomi.
4. Né Dangdang né Joyo sarebbero diventate la Amazon cinese, ma Joyo sarebbe almeno diventata
Amazon in Cina. Nel 2004 fu rilevata da Amazon per 75 milioni di dollari.
5. In cinese yìqùwang, che può significare «rete per scambi interessanti».
6. Dal 1949.
7. Quattrocentomila dollari in angel backing dai banchieri d’investimenti George Boutros, Bill Brady
e Ethan Topper, che avevano lavorato tutti in Morgan Stanley con il leggendario investitore Frank
Quattrone.
8. Tutti i suoi effetti personali erano a New York, ma non tornò a prenderli: rimasero in un magazzino
per oltre un anno finché EachNet poté permettersi di farli spedire in Cina.
9. Da Whitney, AsiaTech e Orchid.
10. Ce n’erano più di una dozzina, tra cui ClubCiti e Yabuy, fondati da ex dipendenti di Federal
Software che avevano finanziato 8848.
11. In seguito Whitman attribuì quel ritardo al costoso blackout del sito di eBay negli Stati Uniti
l’estate precedente.
12. Con l’acquisto di una quota di controllo di Internet Auction Company.
13. eBay pagò 9,5 milioni per l’operatore taiwanese NeoCom Technology, che gestiva un sito di aste.
14. Dopo Stati Uniti, Giappone, Germania e Regno Unito.
15. eBay si accaparrò due posti nel Cda di EachNet. Bo tenne per sé uno degli altri tre.
16. Il contrasto tra i problemi di eBay in Cina, dove aveva condotto un’acquisizione completa, e il suo
trionfo in America Latina, dove aveva fatto un investimento di minoranza nel 2001 nell’azienda
locale Mercado Libre, era molto marcato. Oggi Mercado Libre è azienda leader nell’e-commerce in
America Latina, vale più di 6 miliardi di dollari e eBay ne possiede più del 18 per cento.
17. Inizialmente attraverso una joint venture con Alibaba in cui SoftBank investì 50 milioni, con un
investimento aggiuntivo di 30 milioni in titoli convertibili che in seguito si sarebbero potute
trasformare in azioni ordinarie.
18. Shou Yuan.
19. «Taobao» non era la prima scelta per il nome del nuovo business. Il primo nome scelto era
«Alimama», in seguito utilizzato per la piattaforma tecnologica del marketing online.
20. Toto Sun era noto come «Il Dio della Ricchezza» («Cai Shen»). I suoi dipendenti lo chiamavano
«Zio della Ricchezza». Sun sperava che il soprannome portasse fortuna a quel nuovo arrivato nella
famiglia di Alibaba. Zhang Yu, vicepresidente operativa, era soprannominata Yu Yan, come una
delle protagoniste del romanzo di Jin Yong Semidei e semidiavoli.
21. Per l’impatto del suo Internet Report pubblicato a cadenza regolare, il cui primo numero uscì nel
1995 alla vigilia della rivoluzionaria IPO di Netscape Communications con Morgan Stanley.
22. Quando cerco di immaginare che aspetto avrebbe negli Stati Uniti un venditore itinerante come
quelli di Yiwu mi viene in mente un film della mia infanzia, Un biglietto in due (1987), con John
Candy e Steve Martin. Candy interpreta Del Griffith, che tenta invano di guadagnarsi da vivere
girando per l’America e vendendo anelli per tende da doccia.
23. Gli acquirenti individuali – e i venditori individuali – che dominavano la piattaforma avevano meno
probabilità di pagare imposte come l’Iva, il che comportava uno svantaggio per i siti business-to-
consumer.
24. Nel 2004.
25. MIT, Sloan Management Review, 2012, Puneet Manchanda (University of Michigan) e Junhong
Chu (National University of Singapore Business School).
26. «Nella fase dell’introduzione, la crescita della piattaforma è stimolata soprattutto dai venditori:
l’aumento del numero di venditori induce nuovi acquirenti a iscriversi, il che a sua volta porta a
nuove iscrizioni di venditori, che incoraggiano altri acquirenti a iscriversi e così via.»
27. Ovvero «Ali prosperità.»
28. Il senior vicepresident Bill Cobb, il direttore finanziario Rajiv Dutta e lo specialista in fusioni e
acquisizioni Bill Barmier.
29. Alla riunione annuale degli analisti dell’azienda, il 20 gennaio 2005.
30. Come l’acquisizione di EachNet, anche questa fu un fallimento: Skype fu rivenduta con una perdita
di 600 milioni nel 2009 a investitori tra cui Silver Lake Partners, Index Ventures e Andreessen
Horowitz. La cosa più imbarazzante per eBay fu che appena diciotto mesi dopo quel gruppo
rivendette Skype a Microsoft per 8,5 miliardi di dollari.
31. Come anche la stessa Tom Online, che di lì a poco uscì dal listino della borsa.

Capitolo 10
1. Con David Filo.
2. Nei primi nove mesi di quell’anno.
3. Lanciando gbchinese.Yahoo.com («GB» stava per guo biao, o standard nazionale) e un altro sito,
chinese.Yahoo.com, con i complessi ideogrammi usati dai parlanti cinesi fuori dalla Cina
continentale.
4. Per cinquant’anni, secondo la Legge fondamentale, nell’ambito della formula «Un Paese, due
sistemi» varata da Deng Xiaoping.
5. Qu Weizhi.
6. In seguito Ad dell’azienda cinese di video online Youku.
7. Acquisita nel 1998 da AOL per 407 milioni di dollari.
8. Un mercato che avrebbe ribaltato le sorti di NetEase e avrebbe permesso l’ascesa di un’altra
azienda specializzata in giochi online con sede a Shanghai, Shanda (Shengda in cinese), che sbarcò
sul Nasdaq nel 2004.
9. Oggi rappresentano 18 miliardi di dollari in fatturato online, più del box office cinematografico
cinese (5 miliardi), e il 13 per cento del fatturato complessivo dell’Internet cinese.
10. Tra cui i grandi portali come Sina, Sohu e Tom.
11. A fine 2009 Baidu aveva conquistato il 63 per cento del mercato dei motori di ricerca in Cina, quasi
il doppio di Google, che aveva il 33 per cento. Da marzo 2010, quando Google decise di uscire dal
mercato cinese tra aspre accuse di hacking e pressioni dalla censura, Baidu avrebbe ottenuto il
dominio incontrastato con oltre il 75 per cento del mercato entro fine anno.
12. Zhou aveva accusato il CNNIC di agire senza fondamento legale.
13. Chiamato Yisou.
14. Per potenziare il suo business pubblicitario, rendendolo più reattivo alle stringhe di ricerca immesse
dagli utenti, nel 2003 Yahoo! acquistò Overture per 1,3 miliardi di dollari.
15. Qihoo 360, che si quotò sul Nasdaq a marzo 2011, sarebbe diventata famosa soprattutto per il suo
antivirus gratuito, che avrebbe scatenato un nuovo conflitto tra Zhou e Baidu e altre aziende,
compresa Yahoo! In Cina, e tra alcuni ex colleghi di Yahoo! negli Stati Uniti, Zhou Hongyi si fece
la reputazione di «padre del malware in Cina», un’etichetta che l’interessato rifiutava
vigorosamente. A dicembre 2015 Zhou ha guidato un consorzio di investitori per riportare Qihoo in
mani private per 9,3 miliardi di dollari, e prevede di togliere l’azienda dal listino del New York
Stock Exchange nella prima metà del 2016.
16. A maggio 2015 Yahoo! ha trasferito i suoi 384 milioni di azioni di Alibaba, per un valore di oltre
33 miliardi di dollari, poco meno della valutazione totale di Yahoo!, in una nuova entità, «SpinCo»,
nel tentativo di evitare il pagamento di oltre 10 miliardi in imposte negli Stati Uniti.
17. L’occasione fu un summit ospitato dalla Hua Yuan Science and Technology Association (HYSTA),
un gruppo di imprenditori e svilluppatori della Silicon Valley quasi tutti provenienti dalla Cina,
prima della loro riunione annuale al Santa Clara Convention Center.
18. La transazione Yahoo!-Alibaba si è dimostrata così efficace che molte persone si sono vantate di
aver fatto incontrare Jack e Jerry a Pebble Beach. Jack ha attribuito il merito, tra gli altri, a Wu
Ying di UTStarcom, Liu Erfei di Merrill Lynch e Deng Zhonghan di Vimicro Corporation. Afferma
Joe Tsai: «Ovviamente, diciotto persone si presero il merito di aver organizzato l’incontro.
Compresi quelli di Hua Yuan, gli organizzatori dell’evento. Tutti. Se vi conoscevate […] eravate
alla stessa convention.»
19. Jerry fu accompagnato a Pechino dall’Ad di Yahoo! Terry Semel, dalla direttrice finanziaria Sue
Decker e dal direttore dello sviluppo aziendale Toby Coppel.
20. Che era rimasto per ventiquattro anni in Warner Bros, diventandone presidente e co-amministratore
delegato.
21. Li, un protetto di Jiang Zemin, era responsabile della propaganda per il Partito comunista, un ruolo
che ricopriva dal 2002 e che avrebbe ricoperto per dieci anni, supervisionando il complesso sistema
della censura di Internet.
22. L’azienda si era quotata l’anno prima e aveva una capitalizzazione di mercato superiore a 2,2
miliardi di dollari, con un fatturato di 165 milioni.
23. Sognava piuttosto di trasformare la sua azienda nella Disney cinese, e qualche mese prima aveva
rilevato una quota del 19,5 per cento di Sina come primo passo verso un takeover ostile (che non
avvenne mai).
24. Dopo aver venduto una parte del suo 40 per cento di Taobao ad Alibaba per 360 milioni di dollari.
25. Durante un intervento al Computer History Museum di Mountain View, in California, organizzato
da HYSTA, alla cui convention l’accordo aveva iniziato a prendere forma.
26. Yahoo! rilevò anche un investimento di SoftBank in Taobao per 360 milioni di dollari, metà dei
quali SoftBank usò poi per comprare altre azioni di Alibaba, oltre a 30 milioni per esercitare titoli
convertibili che aveva acquistato nel 2003.
27. La cifra era così alta che, quando seppe dell’investimento, l’Ad di un’azienda di e-commerce più
piccola pensò «che la notizia fosse falsa: lo pensavamo in molti. Cento milioni di dollari sarebbero
stati una cifra già alta, ma un miliardo? Non avrei mai immaginato una cifra del genere.»
28. Oggi Ad di Shazam.
29. Una volta fondata Qihoo 360, usando i ricavi dell’investimento di Yahoo! Zhou iniziò a costruire
un prodotto pensato per aiutare gli utenti a disinstallare il software da lui sviluppato in 3721, nel
frattempo rinominato Yahoo! Messenger, ma che ora definiva un malware che andava rimosso.
30. huoyan-1989@Yahoo.com.cn.
31. L’Agenzia per la sicurezza nazionale di Pechino emanò un «avviso di raccolta prove» in cui
richiedeva «informazioni sulla registrazione dell’account email huoyan-1989@yahoo.com.cn, tutte
le date e gli orari dei login, gli indirizzi IP corrispondenti e i contenuti rilevanti delle email a partire
dal 22 febbraio 2004», dagli uffici di Yahoo! China a Pechino.
32. Tra cui Human Rights Watch, il Committee to Protect Journalists e Reporter senza frontiere.
33. Clinton era già stato criticato da eBay, il rivale di Alibaba, per aver accettato di partecipare
all’evento.
34. All’House Foreign Affairs Committee.
35. Dopo essere stato sottoposto a un’inchiesta dell’ambasciata americana sui retroscena della decisione
di Google, mi sono ritrovato citato in un cablogramma pubblicato da WikiLeaks. Con mia grande
delusione, nessuno ci ha fatto troppo caso.

Capitolo 11
1. Diversi veterani lasciarono l’azienda, tra cui il cofondatore Toto Sun, il direttore tecnico John Wu e
il direttore operativo Li Qi, con cui Jack aveva iniziato a collaborare in China Pages.
2. Maggie Wu (Wu Wei), che ancora oggi è direttrice finanziaria dell’azienda.
3. Per poi costituire un fondo di private equity, Vision Knight Capital.
4. E il suo sito cinese alibaba.com.cn.
5. E a detenere per due anni.
6. Wharf di Peter Woo, Kerry Properties di Robert Kuok e Sun Hung Kai Properties della famiglia
Kwok.
7. L’offerta assegnò alle azioni di Alibaba un prezzo superiore di oltre 106 volte ai suoi utili previsti
per il 2007, rispetto alle 41 volte di Google e alle 45 volte del vecchio rivale Global Sources.
8. Una casa da 650 mq con cinque camere da letto che pagò oltre 5400 dollari a piede quadrato.
Acquistò l’attico, che comprendeva un giardino privato sul tetto, dall’immobiliarista Kerry
Properties, uno dei principali investitori dell’IPO.
9. L’anno precedente Alibaba.com aveva fatturato 170 milioni di dollari con 28 milioni di profitti
netti.
10. Sulla piattaforma Alimama.
11. A settembre 2008 Alibaba lanciò la prima fase della sua «Grande strategia per Taobao», integrando
Taobao.com e la piattaforma pubblicitaria Alimama per costruire «il più grande ecosistema di e-
commerce al mondo.»
12. Dopo quattro anni e mezzo come azienda quotata, a giugno 2012 Alibaba. com fu riassorbita nella
casa madre Alibaba Group e agli azionisti fu corrisposto lo stesso prezzo dell’IPO del 2007.
13. Valutando le azioni di Yahoo! al 61 per cento in più del prezzo di mercato.
14. Stimata al di sopra del 99 per cento.
15. Tra cui Carl Icahn. Ma i tentativi di Yahoo! di trovare un accordo con Google, rivale di Microsoft,
resero impossibile l’accordo.
16. Jerry era ancora il rappresentante di Yahoo! nel Cda di Alibaba.
17. Gady Epstein di Forbes.
18. La vendita per circa 100 milioni fruttò un guadagno lordo sulla carta di 98 milioni di dollari e mise
a disposizione liquidità di cui Bartz aveva grande bisogno per ottenere il sostegno degli investitori.
19. Nel 2009 e 2010.
20. Elvis Lee.
21. Alibaba disse che la quota era stata trasferita nel 2009 per adeguarsi alle regolamentazioni, per poi
completare il trasferimento dell’intera proprietà nel 2010.
22. La licenza copriva i pagamenti via Internet, i pagamenti tramite cellulari, i servizi legati a carte di
credito, l’emissione e l’accettazione di pagamenti con carte prepagate, il cambio valuta.
23. I negoziati erano stati avviati con Jerry Yang e furono portati avanti dai direttori finanziari delle due
aziende, per poi interrompersi quell’estate.
24. In un’intervista del 7 luglio 2011 alla rivista China Entrepreneur (Zhong-guo Qi Ye Jia).
25. In un’intervista di giugno 2011 alla convention «All Things Digital» del Wall Street Journal in
California.
26. A giugno 2015, quando Alipay è stata valutata da investitori privati a 50 miliardi di dollari, il tetto
massimo di 6 miliardi su una quota che all’epoca valeva più di 18 miliardi sarebbe apparso un
pessimo affare agli investitori in Alibaba come Yahoo!.
27. Tre mesi prima Alibaba aveva annunciato di voler riportare in mani private la sua sussidiaria
Alibaba.com, quotata a Hong Kong, corrispondendo per le azioni lo stesso prezzo del giorno dello
sbarco in borsa nel 2007 (con un premium del 60,4 per cento). Questa decisione spianò la strada per
l’IPO dell’intero Alibaba Group nel 2014.

Capitolo 12
1. Ponendo fine, tra l’altro, alla lunga tradizione di ospitare i presidenti americani in visita a New
York.
2. Un anno prima Jack era diventato presidente di Alibaba e Joe Tsai era passato al ruolo di
vicepresidente esecutivo. Jonathan Lu sarebbe rimasto Ad per soli due anni. Lui e il suo successore,
Daniel Zhang, avrebbero affrontato l’ardua impresa di diventare il nuovo Jack.
3. Tra cui qualsiasi limitazione dello «status di affidabilità dell’ecosistema» o di «cultura, mission e
valori» di Alibaba.
4. I ranghi della Alibaba Partnership possono rinnovarsi ogni anno con l’ingresso di nuovi partner. I
nuovi arrivati hanno solitamente alle spalle più di cinque anni di servizio e la loro elezione è
soggetta all’approvazione del 75 per cento dei partner. Un «comitato di partnership» composto da
cinque persone, tra cui Jack e Joe, amministra la struttura.
5. Provenienti dalle consociate finanziarie e logistiche del gruppo.
6. Jack, Lucy Peng (Peng Lei), Trudy Dai (Dai Shan), Jane Jiang (Jiang Fang), Jin Jianhang e Eddie
Wu (Wu Yongming).
7. I nuovi membri sono: Yongfu Yu, presidente della divisione mobile business di Alibaba e della
piattaforma pubblicitaria Alimama; Junfang Zheng, vicedirettore finanziario di Alibaba Group;
Ying Zhao, vicepresidente di Ant Financial; e Lijun Sun, direttore generale del marketplace rurale
di Taobao. È la prima volta che Alibaba accoglie nuovi membri nella partnership dopo l’IPO di
settembre 2014. Nel prospetto l’azienda affermava che, per essere eleggibile, un aspirante partner
doveva aver erogato «un servizio continuativo per Alibaba Group e/o le aziende collegate o
affiliate, nella maggioranza dei casi per non meno di cinque anni», nel qual caso Yongfu Yu
costituisce un’eccezione. Yu era presidente e Ad di UCWeb, un fornitore di tecnologia e servizi per
Internet in mobilità che Alibaba ha rilevato nel 2014.
8. La Securities and Futures Commission.
9. Nel 2007 a Hong Kong un quarto delle azioni dell’IPO di Alibaba.com erano state acquistate da
singoli investitori.
10. Dopo New York, la tournée globale di Alibaba si spostò a Boston, San Francisco, Hong Kong,
Singapore e Londra. La dirigenza si divise in due gruppi, con a capo Jack e Joe.
11. Mentre si avvicinava il primo anniversario dell’IPO, serpeggiava preoccupazione sulla scadenza del
«lockup»: le azioni che gli investitori principali non avevano il permesso di rivendere per il primo
anno. Ammontavano a 1,6 miliardi su 2,5.
12. A novembre 2013 Zhejiang Alibaba E-Commerce Company Limited fu ristrutturata e diventò
Alibaba Small and Micro Financial Services Group. Jack vide la sua quota ridursi dall’80 a circa l’8
per cento nella nuova azienda, ovvero non più della quota che deteneva in Alibaba Group.
13. Descritto alternativamente come «un white paper» o il semplice verbale di una riunione.
14. Sina Weibo.
15. Il direttore del dipartimento per il commercio online della SAIC.
16. E un giorno dopo l’annuncio di Yahoo! di voler creare una nuova struttura – che sperava servisse a
ridurre il carico fiscale – per lo spin off di una quota del 15 per cento di Alibaba.
17. Il fatturato era cresciuto del 40 per cento, arrivando a 4,22 miliardi di dollari, ma non aveva
raggiunto la stima media di 4,45 miliardi, stando a Thomson Reuters.
18. Zhang è il genero di Gu Mu, ex braccio destro di Deng Xiaoping che l’aveva accompagnato nel suo
giro della Cina meridionale per aprire la porta agli imprenditori.
19. A una cena a Londra nell’ottobre del 2015.
20. Che richiede particolari cure, a causa delle campagne contro la corruzione.
21. Fino a poco tempo prima era stato segretario del Partito per la provincia dello Zhejiang.
22. La Cina ha fama di nutrire scarso rispetto per i diritti di proprietà intellettuale, reputazione che
deriva dalla diffusione della pirateria nel suo mercato. Ma non è a causa di buchi legislativi. Dal suo
ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001, la Cina ha creato un’elaborata
struttura di marchi, brevetti e leggi sul copyright. Un sondaggio condotto nel 2015 dalla Camera di
commercio americana in Cina ha appurato che l’85 per cento degli intervistati riteneva che il
rispetto delle leggi sulla proprietà intellettuale fosse aumentato negli ultimi cinque anni, ma l’80 per
cento di loro era preoccupato per l’inefficace applicazione delle leggi.
23. O vendere una gamma di prodotti falsi in quattro occasioni.
24. Quando un venditore è sospettato di aver commesso un reato penale, Alibaba trasferisce il caso alla
sede locale dell’Amministrazione dell’Industria e del Commercio o alla polizia: nel quartier
generale di Alibaba c’è un poliziotto incaricato di individuare prodotti illeciti in vendita o merci
illegali, come le armi da fuoco.
25. I venditori di Tmall devono fornire più prove di aver ricevuto la licenza dai proprietari dei marchi.
26. Gli algoritmi di ricerca di Taobao e Tmall sono fortemente influenzati dai volumi di vendita
raggiunti in passato.
27. Note come le «Big Four Unions», con sede a Hangzhou e altrove.
28. VIP Shop, Melishuo e Mogujie.
29. Jumei.
30. Dangdang e Amazon.cn.
31. Womai e Yihaodian, in cui ha investito Walmart.
32. Il 19,9 per cento. Suning, spendendo 14 miliardi di yuan – 2,3 miliardi di dollari – è diventata
azionista di Alibaba con l’1,1 per cento.
33. Detta anche Jingdong, e in precedenza 360Buy.
34. Durante i preparativi per l’IPO di JD, il rivale di Alibaba Tencent ha rilevato una quota del 15 per
cento e ha riversato nell’azienda le sue attività di ecommerce in difficoltà.
35. Wei xin (micro messaggio).
36. Da Andreessen Horowitz.
37. La popolarità di WeChat deve molto alla possibilità di personalizzarla per rispondere alle esigenze e
alla mentalità degli utenti cinesi. Ma gli utenti possono decidere quali informazioni condividere con
gli estranei, e a differenza di Weibo, che somiglia a Twitter, il numero totale di follower su WeChat
non può superare i 5000. Ispirandosi al successo di Weibo come piattaforma per celebrità e brand,
WeChat offre anche più di 8,5 milioni di account pubblici.
38. Una versione moderna delle tradizionali offerte di denaro a parenti e amici in occasione della
festività.
39. L’iniziativa ha incontrato qualche difficoltà nel 2012, quando il partner del lancio, l’azienda
taiwanese di hardware Acer, si è tirata indietro, pare in seguito a pressioni esercitate da Google, che
aveva accusato Alibaba di impiegare una versione «incompatibile» di Android.
40. Alibaba ha rilevato il 18 per cento di Sina Weibo nel 2014. Ma a quel punto Weibo aveva già perso
molto terreno contro WeChat.
41. UCWeb.
42. Weilidai («un pezzetto di prestito»).
43. Che significa «Trova rapidamente un taxi».
44. «Bip, bip, chiama un taxi.»
45. Uber fu l’azienda successiva a dedicarsi ai finanziamenti, sborsando una cifra stimata a un miliardo
in Cina nel 2015 per conquistare autisti e clienti, aiutata da una raccolta di fondi per 1,2 miliardi.
46. Alcuni osservatori stranieri commettono l’errore di pensare che «Shanghai sia New York e Pechino
sia Washington», ma questo paragone sottovaluta l’importanza di Pechino come centro economico;
e sottovaluta il fatto che il governo locale di Shanghai influenzi molto più l’economia dell’area
rispetto a Pechino.
47. Anche reclutare talenti da Shanghai per la sede di Hangzhou può essere difficile, perché gli uffici
sono piuttosto lontani dalla stazione ferroviaria della città. Per attrarre e conservare i talenti di
Shanghai, Alibaba offre autobus dedicati da e per Shanghai ogni weekend e i dipendenti restano a
Hangzhou solo quattro notti alla settimana.
48. La sigla indica una duplice strategia che comprende la «Cintura economica della Via della seta»,
una serie di rotte via terra dalla Cina attraverso l’Asia Centrale fino al Medioriente, all’Africa e
all’Europa, e la «Via della seta marittima del ventunesimo secolo», per rafforzare le rotte via mare
esistenti.
49. General partner.
50. Il nome significa «Una nuvola e la lama di una spada.» È la combinazione del vero nome di Jack,
«Yun», e di quello di David Yu, «Feng».
51. Yu è salito agli onori della cronaca nel 2006 con la vendita della sua agenzia pubblicitaria Target
Media alla rivale Focus Media.
52. Tra i soci: Shen Guojun di Intime Investment, Shi Yuzhu dell’azienda di videogiochi Giant
Interactive, Liu Yonghao del New Hope Group, Wang Yusuo dell’ENN Group, Jason Jiang di
Focus Media, Xu Hang di Shenzhen Mindray Medical, Chen Yihong del China Dongxiang Group,
Zhou Xin di e-House, Wang Jianguo di Five Star, Zhou Shaoxiong di Septwolves, Wang Xuning di
Joyong Holdings e Zhang Youcai di Unifront Holdings.
53. Un esempio è l’annuncio a settembre 2015 della fondazione dell’Alibaba Sports Group da parte di
Alibaba, Yunfeng Capital e Sina (casa madre di Sina Weibo, di cui Alibaba è investitore), con
l’obiettivo di «trasformare il settore sportivo cinese attraverso Internet.»
54. Il cofondatore David Yu, per esempio, siede anche nel Cda di Huayi Brothers Media Group, in cui
Alibaba ha investito. Sua madre Wang Yulian è a sua volta socia di Yunfeng ed è la principale
azionista di Ant Financial, dopo Jack e Simon Xie, con una quota che pare ammonti al 4,6 per
cento.
55. General Partner.
56. Limited Partner.
57. La ritirata dell’Armata Rossa che si svolse tra il 1934 e il 1935.
58. Per testimoniare il suo impegno per aumentare le vendite di prodotti importati in Cina, Alibaba ha
ribattezzato il Singles’ Day 2015 «11/11 Global Shopping Festival.» Ma l’azienda ha ancora molta
strada da fare per assicurarsi un catalogo abbastanza vasto di prodotti d’importazione per competere
con i siti stranieri che molti acquirenti cinesi hanno già scoperto.
59. Tra cui l’azienda di ricerca su dispositivi mobili Quixey, il competitor di Amazon Prime
Shoprunner, lo sviluppatore di giochi Kabam e l’app di mobile messaging Tango.
60. Facendo leva sui primi investimenti compiuti negli Stati Uniti, nelle aziende di e-commerce
Auctiva e Vendio, Alibaba ha lanciato un suo sito americano, 11Main.com, nel tentativo di
rivolgersi direttamente ai consumatori americani. Ma il tentativo è fallito, e a giugno 2015 Alibaba
ha venduto la sua quota.
61. Che aveva lavorato anche per la presidenza di George W. Bush, tra l’altro come consulente del
Segretario di Stato Condoleezza Rice sugli affari esteri.
62. Vice assistente del presidente per gli affari legislativi durante la presidenza di George W. Bush.
63. Alibaba donava già lo 0,3 per cento del suo fatturato annuo a una fondazione che fa capo
all’azienda, ma il nuovo trust è molto più grande.
64. Presumibilmente compresi i rendimenti dei suoi investimenti con Yunfeng Capital.
65. Nella città nordorientale di Yabuli.
66. Sui social media cinesi si è discusso molto sullo stato di salute dei suoi familiari, ma Jack non ha
rilasciato dichiarazioni sull’argomento.
67. Il Partito comunista gestisce una serie di fattorie, a cui i cittadini e i media non hanno accesso, per
assicurare la fornitura di alimenti di alta qualità per gli alti funzionari, che hanno anche accesso
privilegiato alle migliori cure mediche, erogate dagli ospedali militari.
68. Così ha spiegato a Emily Chang di Bloomberg TV nel novembre 2015.
69. Il miliardario immobilarista Xu Jiaxin.
70. ChinaVision.
71. 3,6 miliardi di yuan (565 milioni di dollari).
72. In un accordo annunciato a ottobre 2015 che valutava Youku oltre 5 miliardi di dollari.
73. Victor ha fondato Youku dopo essere stato direttore operativo di Sohu. Youku ha rilevato il suo
principale competitor diventando Youku Tudou.
74. 461 milioni di persone a metà 2015, secondo le stime di CNNIC.
Informazioni sul Libro

Un avvincente racconto in presa diretta: come un insegnante ha costruito


una delle aziende di maggior valore al mondo – in grado di rivaleggiare
con Walmart e Amazon – e ha cambiato per sempre l’economia globale.

In soli quindici anni Jack Ma, un insegnante d’inglese di origini modeste, ha


fondato Alibaba e ne ha fatto una delle aziende più grandi del mondo, un
impero dell’ecommerce e un punto di riferimento per centinaia di milioni di
utenti. Nel 2014 I’IPO da 25 miliardi di dollari di Alibaba è stata l’esordio
più travolgente nella storia dei mercati finanziari globali. Un Rockefeller del
suo tempo, corteggiato da Ad e presidenti di tutto il mondo, Jack è un’icona
del nuovo settore privato cinese e il suo sito permette alle aziende di entrare
in contatto con centinaia di milioni di consumatori della classe media.

Duncan Clark ha conosciuto Jack nel 1999, nel piccolo appartamento in cui
aveva fondato Alibaba. Grazie a un accesso senza precedenti a documenti
inediti e interviste esclusive, Clark attinge alla sua esperienza come
consulente di Alibaba e ai vent’anni trascorsi in Cina per ripercorrere con
autorevolezza le tappe dell’ascesa di Alibaba.

Come ha fatto Jack, partendo da zero e dopo i primi fallimenti, a raggiungere


il successo globale con Alibaba? Come ha sconfitto gli imprenditori rivali, in
Cina e nella Silicon Valley? Alibaba riuscirà a difendere la sua quota di
mercato dell’80 per cento? Ora che si espande nella finanza e
nell’intrattenimento, ci sono limiti alle sue ambizioni? Cosa ne pensa il
governo cinese? Alibaba continuerà a guadagnare terreno oltre i confini della
Cina, fino a raggiungere gli Stati Uniti?

Clark inquadra la storia di Alibaba nel contesto delle grandi trasformazioni


socioeconomiche della Cina, puntando i riflettori su un nuovo colosso
dell’industria che nessuno avrebbe saputo prevedere.
Circa l’autore

Duncan Clark

È un ex dipendente della banca di investimenti Morgan Stanley e parla


correntemente il cinese mandarino; vive e lavora in Cina da più di vent’anni.
È a capo di un team di oltre cento persone in BDA China, società di
consulenza sugli investimenti che ha fondato a Pechino nel 1994. Esperto del
settore Internet cinese, Clark è stato Visiting Scholar all’Università di
Stanford, dove ha accolto Jack Ma sul palco come ospite d’onore, insieme ai
leader di altre importanti aziende cinesi come Baidu, Sina e Tencent.

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