Sei sulla pagina 1di 175

BIOCHIMICA DEGLI

ALIMENTI

Prof. Paolo Paoli


AA. 2020/2021
Lezione 1 – 30/09/2020

Esame orale – appelli ufficiali e non – studia dagli appunti e dalle slide (Le basi molecolari della
nutrizione, Arienti, PICCIN) – vengono date per scontate le basi di biochimica

Perché ci sono difficoltà ad analizzare un organismo? Dobbiamo capire che quando si interagisce con gli
alimenti non è facile spiegare i meccanismi che si attivano. Da un punto di vista di complicazione non è
facile estrapolare le informazioni giuste perché le nostre cellule si organizzano in tessuti che formano
apparati e costituiscono l’organismo. Si tratta di un sistema complesso perché il funzionamento delle cellule
si riflette sul funzionamento dei tessuti, degli apparati e dell’organismo. Quindi una mutazione che riguarda
poche cellule può determinare un fenotipo patologico. Tutto questo a fronte del tentativo del nostro
organismo di riuscire a mantenere l’omeostasi. L’omeostasi in questo caso cosa significa? Noi nell’arco di
un giornata non siamo mai all’equilibrio energetico: perché mangiamo? Per ottenere energia! Quando c’è
richiesta di energia noi assumiamo alimenti e nutrienti da metabolizzare. In una condizione di digiuno
(superato la fase di digestione ossia post-prandiale), con una richiesta di 300 kcal, si attivano diversi
meccanismi: durante la fase del pasto sono indotto a mangiare per colmare deficit energetici e ci sono
sensori che indicano che il “serbatoio” è vuoto. Quando mangiamo però non mangiamo per immediata
necessità ma per immagazzinare, perché sennò conclusa la fase digestiva dovremmo assumere
nuovamente cibo e quindi si avrebbe una richiesta continua che ci legherebbe ad un’alimentazione
continua nella giornata. Ma se durante il pasto mangiamo di più, c’è il problema di gestire l’eccesso quindi
dobbiamo pensare a ripartire i vari nutrienti sotto forma di accumuli e riserve in modo da avere un minimo
di autonomia, ossia un periodo in cui possiamo non mangiare, rendendoci possibile svolgere anche altre
attività. L’uomo preistorico ad esempio aveva il problema della sopravvivenza: trovare cibo per l’uomo non
era semplice. Se fossimo in un posto isolato dovremmo cacciare, raccogliere e ingegnarsi o per poter
sopravvivere, come fanno gli animali; non sarebbe una situazione banale poiché ci sarebbero problemi seri:
cacciare è pericoloso (il salto da cacciatore a preda è minimo), la preda deve essere lavorata per ottenere
parti edibili, andrebbe cotto l’alimento (fuoco). Queste cose, ad oggi banali, per l’uomo non lo sono sempre
state nell’evoluzione, infatti nell’antichità quando l’uomo trovava alimenti (preda di grandi dimensioni) si
cibava fino a sazietà il che equivale a dire che accumulava riserve, infatti non era detto che nei 10 giorni
successivi sarebbe riuscito a mangiare. Questo succedeva anche perché il predatore non uccideva più prede
del necessario perché 1) non sapeva conservare 2) non aveva senso sprecare energie per cacciare quando
con 1 sola preda il predatore si sarebbe saziato. Questo meccanismo capitava anche nell’uomo ma negli
ultimi 100 anni questo per l’uomo non vale più perchè noi abbiamo a disposizione cibo facile in grandi
quantità e questo fa sì che l’uomo mangi più di quello che avrebbe bisogno. Negli animali infatti non
esistono esempi di obesità perché si ha regolazione biochimica che non segnala il bisogno di accedere a
nuovi alimenti ma negli ultimi 100 anni nell’uomo questo fenomeno non c’è più molto, tanto che uno dei
maggiori problemi di sanità mondiale è il surplus energetico e quindi l’obesità e le patologie ad essa legate.
Ad esempio, anni fa l’OMS ha dichiarato il diabete una pandemia perché si sta diffondendo globalmente e
questo causa preoccupazioni enormi perché il legame diabete-alimenti è molto stretto. Mantenere
l’equilibrio quindi è stato uno sforzo costante negli anni e nell’evoluzione anche se recentemente (100 anni)
sono sorti problemi che hanno evidenziato la difficoltà di mantenere l’equilibrio quando si innescano certi
processi, che noi analizzeremo.
Perché il sistema è complesso? A livello dei processi nutritivi atti ad accumulare riserve, noi mangiamo
zuccheri semplici e complessi e accumuliamo zuccheri ma non nella forma in cui li assumiamo (es.
assumiamo saccarosio e accumuliamo glicogeno). Quindi l’organismo assume, smonta e ri-monta i nutrienti
in forme più semplici. Anche i trigliceridi sono digeriti, smontati e, all’interno delle cellule intestinali, si
rassembrano in una forma diversa (senza enormi differenze) quindi non sono più quelli originali: questo
perché gli acidi grassi a catena lunga hanno una strada metabolica diversa da quelli a catena corta. Stesso
discorso vale per gli amminoacidi. Il nostro organismo lavora molto per trasformare i nutrienti in qualcosa
di nuovo e di diverso, in questo senso la qualità e il tipo di alimenti influenza le riserve, inoltre è necessario
fare un grande lavoro e consumare energia per fare tutto questo processo e tutto ciò crea una grossa
entropia che è uno dei principi che porta avanti l’Universo.
Come dicevamo, uno dei principali problemi è quello del
mantenimento dell’equilibrio. Si parla di equilibrio
energetico ma non solo, ad esempio le vitamine sono
micronutrienti che non hanno valore energetico ma che
siamo comunque obbligati ad assumere e che sono
importanti poiché nel momento in cui il nostro organismo è
carente si sviluppano patologie (e in molti casi morte).
Quindi l’omeostasi non riguarda solo l’ATP ma tutto il
contesto generale. Oltre al surplus, anche il deficit
oggigiorno è un problema; tale mancanza, che può essere
non voluta o voluta (soggetto che decide di non assumere cibo), causa problemi gravi. Secondo l’eccesso o
la carenza di cibo, la bilancia è opposta, ma in ogni caso si hanno condizioni patologiche. Nella nostra vita
dobbiamo quindi mantenere questo equilibrio, anche se non si ha mai un momento di equilibrio perfetto
della giornata, ma oscilliamo continuamente tra abbondanza e digiuno; questo ce lo indicano i marker
biochimici, ossia i livelli ormonali legati agli alimenti: se l’insulina è alta significa che sono nella fase post-
prandiale mentre se è alto il glucagone significa che sono in fase di digiuno. Dunque, l’equilibrio è un’utopia
e i nostri sistemi biochimici si sono modulati per generare segnali di fame e di sazietà; quando questi
segnali non funzionano più, l’equilibrio continuo tra sazietà e fame viene meno. Oggi abbiamo situazione di
questo tipo, ma cosa la innesca? Gli alimenti influiscono in questo processo?

FABBISOGNO ENERGETICO
Il nostro organismo come usa l’energia? Nel corso delle 24
h l’energia è utilizzata:
- Per il 60-75% dal metabolismo basale
- Per il 10-20% dalla termogenesi indotta dalla dieta
- Per il 15-25% dall’attività fisica
In generale, la mente ci porta a pensare che mangiamo per
compiere sforzi fisici – intendendo come attività fisica
tutte le modalità (es. venire a piedi all’università) – nella
giornata ma in realtà non è questo ciò che richiede la
maggior parte dell’energia (si parla di soggetti standard
perché parlando di atleti professionisti la proporzione
cambia). Infatti, la più grande fetta è quella del
metabolismo basale ossia quei sistemi fisiologici che, senza
compiere attività fisica sono in azione (termoregolazione, sistema nervoso, respirazione). Il metabolismo
basale comprende: controllo della temperatura, movimenti cellulari, meccanismi di trasporto attivo, sintesi
di molecole, duplicazione cellulare, generazione e conduzione, detossificazione, catabolismo.
Questi meccanismi molecolari, nel loro insieme, quanto sono attivi nelle 24h? Sempre, anche la notte! Ecco
perché il metabolismo basale per noi rappresenta una grossa fetta dell’energia consumata, la più
importante.
La seconda quota più alta è quella relativa all’attività fisica mentre l’ultima è la termogenesi indotta dalla
dieta ossia la quota di energia necessaria per metabolizzare gli alimenti. Quando mangiamo facciamo un
grande lavoro per ossidare e metabolizzare gli alimenti e questo richiede l’impiego di energia, in una quota
che è piuttosto rilevante nell’arco delle 24h. Questa percentuale dipende dall’aspetto quantitativo e
qualitativo: il dispendio dovuto alla termogenesi dipende da quanto mangio (se mangio molto la
termogenesi aumenta) e da cosa mangio, infatti cambia in funzione degli alimenti (carboidrati, lipidi,
proteine) e quindi è diversa in funzione del tipo di nutrienti anche all’interno di uno stesso gruppo (es.
cambia tra carboidrati semplici e complessi).
Quindi se si assume il 100% di energia, all’organismo non
arriva il 100% ma devo togliere l’energia necessaria per la
termogenesi indotta dalla dieta: dal 100% si hanno delle
dispersioni inevitabili, legate alla digestione degli alimenti.
L’energia disponibile è quindi il 45%, di cui una parte viene
usata per il metabolismo basale e una per la contrazione
muscolare. Nella contrazione muscolare si ha una parte
sfruttata per il lavoro e una parte trasformata in calore
(20-45%).

Perché è importante il metabolismo basale? Esso


rappresenta una quota enorme del nostro metabolismo
pertanto è necessario conoscere il metabolismo basale
quando si stila un regime alimentare. Inoltre, è
importante saperlo poiché esso varia in base all’individuo
considerato. Ad esempio, l’albumina (protridogramma) viene sintetizzata dal fegato ed è la proteina più
abbondante del siero; la sintesi proteica è un processo complesso che richiede molta energia ed influisce
nel metabolismo basale. Quindi è implicito che il metabolismo basale possa variare poiché ognuno di noi ha
caratteristiche diverse. Il metabolismo basale cambia in base al genere? Ad esempio, le donne in
menopausa rischiano spesso di avere un aumento di peso poiché quando gli ormoni sono presenti (durante
il periodo fertile) innalzano il metabolismo basale e infatti quando gli ormoni scendono scende anche il
metabolismo basale: con la menopausa, il metabolismo basale scende quindi le riserve (la cui forma
principale sono i lipidi) vengono consumati meno e quindi si vede un aumento di peso (ingrasso). Nell’uomo
invece è la muscolatura che riveste un ruolo fondamentale che quindi aumenta fortemente il metabolismo
basale. Questo perché nell’evoluzione ci sono sempre stati dei ruoli biologici che poi hanno generato i
presupposti per delle differenze nel ruolo sociale. Per ciò che deve fare nella vita (partorire e prendersi cura
dei figli), la donna ha un’attività costante ad alti livelli per tutta la vita mentre invece l’uomo ha un’attività
sporadica che però richiede altissimi livelli (caccia e difesa). La donna dunque ha bisogno di una marcia in
più perché ha un’intensità maggiore per tutta la vita fertile; l’uomo invece, anche se in alcuni momenti ha
energia 10 volte superiore alla donna, questi momenti sono sporadici. Ma la costruzione della massa
muscolare è dispendiosa: conviene? Consideriamo ad esempio una frattura con gesso, dopo il periodo di
fermo l’arto è più sottile, questo perché il nostro organismo non ha intenzione di mantenere il muscolo se
non viene usato quindi non è conveniente spendere energia per sviluppare muscoli; inoltre il turn-over
proteico è elevato, specialmente quello muscolare, quindi dobbiamo sprecare energia per costruire i
muscoli. Dunque, per trovare la risposta alla domanda iniziale: ci possono essere delle differenze di genere
nel metabolismo basale, che oltre agli ormoni dipendono principalmente dalla massa muscolare.
Il metabolismo basale è influenzato anche dalle patologie, ad esempio nei tumori si deve stare attenti agli
aumenti dei peso poiché lo sviluppo di una massa tumorale determina alterazioni del metabolismo
(variazioni di questo tipo possono essere legate anche ad altre patologie).
Oltre a questo, è importante conoscere il
metabolismo basale per determinare le kcal
giornaliere necessarie e per valutare
l’impatto della dieta nel soggetto (è più
facile far perdere peso a chi ha
metabolismo basale più alto).

In condizioni di riposo, l’organo che


funziona più di tutti è il cervello. Esso ha
bisogno degli acidi grassi per la formazione
della mielina. Giornalmente noi abbiamo
bisogno di circa di 200g di glucosio, e di
questi il cervello ne consuma 120g! Quindi
abbiamo bisogno di zucchero almeno per tenere attivo il cervello. In generale, l’attività del cervello rimane
costante durante l’arco delle 24h infatti il sistema nervoso lavora per mantenere lo stato di coscienza e la
funzionalità: l’attività del neurone si mantiene costante indipendentemente dall’attività che si sta
svolgendo.

Lezione 2 - 01/10/2020

Il metabolismo basale quindi è molto importante e per questo è un parametro che dobbiamo determinare
se ci occupiamo del metabolismo, data anche l’importanza nelle diete e negli stati patologici. Si possono
dare valori numerici per esprimere il metabolismo basale: il numero esprime la richiesta energetica in kcal
dovuta solo al metabolismo basale. Per fare questo si devono prendere precauzioni:
- Per escludere l’attività fisica è necessario misurare il metabolismo in un soggetto a riposo; il soggetto
deve essere convocato e poi deve attendere in condizioni di riposo almeno 30 minuti prima del test, in
modo che il metabolismo basale si sia resettato. Allo stesso modo il soggetto il giorno prima non deve
aver fatto sforzi eccezionali, ad esempio si eviterà il lunedì poiché nel fine settimana cambiano
solitamente le abitudini.
- Per escludere la termogenesi indotta dalla dieta il soggetto deve essere digiuno da almeno 2 ore.
- Dobbiamo evitare anche la termoregolazione, la quale mette in atto come primo accorgimento i
brividi. Per evitarla mettiamo il soggetto a sedere in una stanza che sia termoregolata, generalmente a
25 gradi.
Considerati questi aspetti si può procedere attraverso varie tecniche. Se queste accortezze non vengono
usate si ha una sovrastima del metabolismo basale quindi si ha un fabbisogno energetico giornaliero troppo
alto. Oltre a questo, si devono considerare i fattori che possono influenzare il metabolismo basale:
• Dimensioni corporee
• Composizione corporea (massa magra e massa grassa)
• Sesso (come abbiamo detto sopra)
• Età. Il massimo del metabolismo basale si ha intorno a 20-25 anni, dopodiché con l’avanzare dell’età
questo tende a diminuire, e di questo ce ne accorgiamo anche da aspetti evidenti come la riduzione
della massa muscolare: la massa muscolare è importare per il metabolismo basale, perderla tende a
ridurre il nostro fabbisogno. Questo fenomeno non accade all’improvviso ma è un declino costante
annuale che comincia intorno ai 30 anni; facendo sport o attività fisica il declino è più lento e meno
evidente ma non si può arrestare.
• Stato fisiologico (crescita, gravidanza, allattamento). Anche l’allattamento è stressante da un punto di
vista metabolico perché si ha la produzione di latte che poi servirà a nutrire il neonato.
• Fattori genetici
• Stato ormonale
• Farmaci (nicotina, caffeina). Ad esempio, gli attivatori del metabolismo, come anche gli energy drink.
Alcune di quesite bevande possono essere anche poco tollerate da alcuni soggetti (come chi non è
tollerante alla caffeina) e le conseguenze sono anche la tachicardia tanto che qualcuno potrebbe
anche non dormire per tutta la notte. Essi poi hanno anche effetti psicotropi quindi poi si combinano in
vario modo.
• Malattie (febbre, tumori, ustioni). Il tumore fa aumentare molto il metabolismo basale ecco perché
spesso si ha un calo ponderale che però è prevalente nella massa magra rispetto alla massa grassa.
Anche uno stato febbrile prolungato nel tempo provoca variazioni nel metabolismo basale, così come
anche le patologie riguardanti gli ormoni tiroidei hanno variazioni: gli ipertiroidei hanno un
metabolismo basale molto alto infatti sono molto secchi pur mangiando “tanto” e anche d’inverno non
sentono freddo; viceversa, gli ipotiroidei tendono a ingrassare rapidamente, spesso lamentano freddo
(soprattutto all’estremità del corpo). Nel caso delle ustioni, specialmente per superfici rilevanti del
nostro corpo, esse tendono a far aumentare molto il metabolismo.
Data la variabilità dei fattori, l’indagine sul soggetto (anamnesi) è necessaria per sapere cosa aspettarci. Ad
esempio, nel diabete, si ha un metabolismo basale alterato, così come è importante sapere se ci sono
malattie cronico degenerative (morbo di Crohn, celiachia, etc…).
Come si può determinare il metabolismo basale? I metodi diretti (in laboratorio) sono i più affidabili anche
se ci sono delle tabelle empiriche, di vario tipo. Un esempio è la tabella seguente: qui ci sono due variabili,
peso ed età, tuttavia non si tiene conto di tutti gli altri fattori, ad esempio per gli atleti queste tabelle non
possono essere usate.

Ci sono anche altri metodi più complicati, per


determinare il metabolismo basale, ad
esempio la spirometria. Questa tecnica si
basa sul fatto che il metabolismo, in quanto
tale, metabolizza nutrienti e si conclude con
la produzione di anidride carbonica e
consumo di ossigeno. Anche se non tutto
l’ossigeno è usato per la respirazione, la
maggior parte è destinato alla respirazione
cellulare, quindi si ha una correlazione tra
consumo di ossigeno e metabolismo: tanto
maggiore è il primo quanto maggiore è
l’altro. Si tratta di una tecnica semplice tuttavia non si ha spesso uno spirometro sotto mano quindi si deve
andare a farla in laboratorio con personale specializzato. Dopo molte esperienze con questa tecnica si è
visto che la determinazione del consumo energetico può essere eseguita anche come segue:

Questa formula però non tiene conto della differenza tra substrati (glicidi, lipidi, proteine) e ciò non rende
questa formula precisa poiché il consumo può variare secondo il tipo di nutriente che si usa perché cambia
il metabolismo secondo il nutriente.

I valori in figura sono stati determinati con esperimenti dove si somministrava ai soggetti un certo tipo di
nutriente e dopo tempi diversi si andava a vedere il contenuto di ossigeno. Gli acidi grassi sono più
ossidabili degli zuccheri e infatti il consumo di ossigeno legato ai lipidi è maggiore di quello legato a zuccheri
e proteine/amminoacidi.
Esistono anche tecniche molto più complicate che sono effettuate solo in laboratori di ricerca. La
determinazione è più precisa in quanto è fatta con isotopi radioattivi; si tratta comunque di tecniche che
non si trovano in tutti i laboratori e che si basano sulla misurazione della quantità di anidride carbonica (C13)
marcata o sulla quantità di urea (N15).

Quando si riesce a misurare il metabolismo basale, si ha già una stima importante del fabbisogno
energetico dell’individuo, anche se non è completa perché manca la termogenesi indotta dalla dieta.
Quest’ultima si misura per differenza: si somministra del cibo e si osserva nel tempo il metabolismo, quindi
si sottrae da questo valore il metabolismo basale e si ricava così la termogenesi indotta dalla dieta.
Pertanto la termogenesi varia anche
secondo l’alimentazione. I nutrienti più
complessi da metabolizzare sono gli
amminoacidi, nella cui digestione
intervengono enzimi come la pepsina,
che effettua una prima digestione
spezzando le proteine e generando
frammenti di peptidi con dimensioni
molto inferiori rispetto a quelle della
proteine di partenza; la pepsina è una
proteasoma acida quindi lavora nello
stomaco e genera una prima divisione.
Dopo la pepsina il lavoro deve essere
finito perché si devono ottenere singoli
amminoacidi e pertanto intervengono
gli enzimi pancreatici (pancreas) come tripsina, carbossipeptidasi, elastasi che sono secreti come zimogeni,
ossia forme enzimatiche inattive, e che sono attivati nell’intestino (ad esempio chimotripsina e proelastasi
si trasformano in tripsina e elastasi); tali enzimi lavorano a pH alcalino nello stomaco e generano singoli
amminoacidi che sono assorbiti dall’intestino. Gli amminoacidi hanno due destini metabolici possibili:
essere degradati (la transaminasi toglie l’azoto e lo scheletro carbonio è ossidato) per generare energia;
formare nuove proteine; ottenere sostanze completamente diverse (ad esempio il GABA è ottenuto a
partire dall’acido glutammico; l’acetilcolina si può ottenere da acetil-CoA che è ottenuto anche da
amminoacidi). Quindi il metabolismo degli amminoacidi è impegnativo e questo spiega perché la
termogenesi indotta dalla dieta delle proteine è circa il 30%.
La termogenesi legata agli zuccheri invece inizia nella bocca con l’amilasi e prosegue nello stomaco con le
amilasi pancreatiche; essa rappresenta circa il 5-10%.
I lipidi hanno una termogenesi ancora inferiore perché sono degradati nell’intestino, sono trasportati grazie
ai chilomicroni e rimangono nelle riserve finché non ci troviamo in uno stato di digiuno che li mobilita. La
termogenesi dei lipidi infatti è circa 0-5%.
Analizzando questa scala energetica le proteine sono quelle più complesse e dispendiose da digerire, ecco
perché non è consigliabile che siano assunte a cena, perché ci vuole un po’ per digerirle.
La termogenesi indotta è influenzata anche da: stato nutrizionale; attività del sistema nervoso autonomo;
resistenza all’insulina; assunzione di macronutrienti; esposizione al freddo; stress; stimoli termogenici
(caffè, fumo di tabacco); farmaci ad effetti termogenico.

Anche l’attività fisica può influenzare molto il fabbisogno energetico quotidiano; nel caso di atleti
professionisti si può anche vedere il raddoppio del fabbisogno energetico rispetto a soggetti normali: gli
atleti olimpionici che si allenano 6-7 ore al giorno hanno un livello di attività fisica pazzesco quindi
ovviamente la loro attività muscolare è ai massimi livelli e quindi hanno un aumentato metabolismo basale
e un aumento della massa muscolare, hanno quindi un fabbisogno maggiore senza però produrre accumuli
perché anche se i pasti sono abbondanti gli accumuli sono dinamici (in relazione al consumo che si verifica
con l’attività fisica).
Oggi l’attività fisica è molto ridotta, infatti buona parte dei problemi di oggi sono legati alla sedentarietà
che è uno dei principali fattori di rischio per patologie cardiovascolari: non è solo una questione di peso ma
rischia di creare problemi irreversibili.
Nella figura seguente si vede che c’è un
certo dinamismo tra la capacità di
assunzione e il consumo degli alimenti;
se questo circolo viene meno si ha la
compromissione dello stato di salute.
Quindi non basta mangiare poco, ma si
deve avere la capacità di mangiare per
fare accumuli e poi consumarli. Quando
questo meccanismo si interrompe si
hanno forti problemi e si determinano
appunto patologie cronico-degenerative
come il diabete e le patologie cardio-vascolari.
Per questo motivo le attività fisiche
vanno mantenute. Ad esempio,
l’elettrostimolazione che si fa da
fermi non ha effetti desiderati e
vedremo perché è necessario un
certo tipo di dinamismo nel
metabolismo. Infatti, è l’attività
fisica che permette di mobilitare le
riserve accumulate nel tessuto
adiposo (ma anche nel tessuto
muscolare): quando si mette in
azione il tessuto muscolare stiamo
facendo qualcosa che ha un risvolto
positivo, tanto che, quando si
hanno problemi di metabolismo, la prima cosa che dovrebbe fare il dottore è consigliare di incrementare
l’attività fisica. Infatti, in molte situazioni rendere l’attività fisica una costante quotidiana ha effetti
pazzeschi, ad esempio nel pre-diabete questo fa regredire quasi completamente la patologia. Altro esempio
si ha nell’ipercolesterolemia, dove l’attività fisica regolare può avere un impatto enorme e salvifico. Quindi
l’attività fisica non è importante in quanto legata al fattore estetico ma è importante poiché è legata
proprio alla salute e ci permette di avere un metabolismo correttamente funzionante.
Per misurare il dispendio energetico durante l’attività fisica si usano delle tecniche di determinazione del
consumo energetico: calorimetria, calcolo del costo energetico delle singole attività, consumo di energia
con gli alimenti assunti. L’attività fisica porta ad incrementare il fabbisogno calorico anche se nei soggetti
normali non cambia in modo drastico; qui la spirometria ci aiuta per determinare il consumo energetico ma
si possono trovare anche altri metodi. Di seguito vediamo gli equivalenti metabolici (EM) che esprimo
quanto una certa attività attivi il metabolismo.
La domanda è: “l’attività X attiva in modo sufficiente il metabolismo?”. Con gli equivalenti metabolici
possiamo rispondere a queste domande, basandoci sulla seguente tabella dove “riposarsi” significa essere a
riposo. Tabelle di questo tipo fanno rendere conto a soggetti normali come dimagrire.

Gli equivalenti metabolici tuttavia sono una sottostima poiché non tengono conto del consumo durante
l’adattamento post-esercizio; infatti durante l’attività si consuma glicogeno muscolare e, quando si smette
l’attività fisica, si ha una fase di ripristino delle riserve di glicogeno che consuma energia: in base
all’intensità dell’esercizio e alla durata dello sforzo si ha circa il 15% della spesa energetica. Questa fase può
durare anche molte ore perché effettivamente si ha anche turnover proteico. Oltre a questo, gli equivalenti
metabolici non considerano nemmeno la TID (termogenesi indotta dalla dieta) necessaria per assumere gli
alimenti per coprire la spesa energetica, e che di solito corrisponde al 10% della spesa energetica.
Ecco perché l’attività fisica è importante, perché non si ha effetto solo nel mentre ma l’effetto è prolungato
nel tempo.
Per questo motivo sono stati studiati i LAF ossia indicatori che
misurano i livelli di attività fisica. Il LAF tiene conto del
consumo extra di ossigeno post-esercizio e la dissipazione di
calore per l’effetto termogenico del cibo consumato in più per
ottenere l’energia necessaria per l’esercizio. Esso quindi è un
parametro più complesso, poiché anche la fase di recupero
dipende dal soggetto.
Questi parametri sono importanti soprattutto nell’ambito degli
atleti per ottimizzare la performance. Infatti, nella prima fase di adattamento dopo uno sforzo importante è
necessario ripristinare prima i glucidi e le proteine si ripristinano successivamente. I consulenti che si
occupano di atleti professionisti ad esempio considerano anche se la temperatura metereologica è bassa o
alta durante l’allenamento.
Tra i fattori che influenzano il LAF troviamo anche l’ETÀ, che è correlata come mostrato nella tabella
successiva.
Oltre all’età, anche il PESO CORPOREO influenza il LAF. Ad esempio, nell’obeso il problema sono gli acidi
grassi accumulati in eccesso, quindi c’è bisogno di attività fisica alta per attivare quel metabolismo e il peso
influenza questo. Infatti, per arrivare a un LAF equivalente, a un maschio di 120 kg basta uno sforzo di 30
min mentre per un maschio di 70 kg l’esercizio deve durare 50 minuti. In quest’ultimo caso la sensazione di
fatica è pazzesca, ma la fatica segnala proprio quando si finisce di consumare zuccheri e si inizi a consumere
acidi grassi, quindi la soglia di fatica non va “assecondata” in questi casi.
Questi valori sono mostrati nella tabella seguente:

Anche L’INTENSITÀ DELLO SFORZO influenza il LAF, come mostrato nella tabella seguente:

Ci sono infinite tabelle, con cui si può arrivare anche a definire la spesa energetica totale. Ma tali tabelle si
possono complicare quanto vogliamo perché i fattori che influenzano il parametro sono moltissimi: sono
tabelle empiriche che non vanno considerate troppo affidabili.
Un esempio di formula per calcolare la spesa energetica totale (TEE) è la seguente:
Grazie a questa formula si possono fare delle stime sulla spesa energetica totale:

I valori ad oggi in media sono circa 1800 kcal al giorno. In alcuni casi, come ad esmepio negli olimpionici, si
arriva fino a 4000-5000 kcal al giorno.

MICRONUTRIENTI
Analizzeremo vitamine e sali minerali: alterazioni di questi micronutrienti sono spesso associate a patologie
che possono essere anche molto gravi tanto da portare alla morte.

VITAMINE
Perché le vitamine sono necessarie per l’uomo? Esse non sono considerati alimenti poiché non sono una
fonte energetica ma sono fondamentali per i ruoli che svolgono:
- Funzionano da coenzimi o per produrre i co-enzimi implicati del metabolismo
- Partecipano al trasporto di protoni ed elettroni
- Contribuiscono a stabilizzare le membrane cellulari
- Hanno azione ormone-simile
- La loro carenza o assoluta mancanza porta a numerose manifestazioni patologiche; è molto facile
andare in condizioni di ipovitaminosi, il problema è che molto spesso tale condizione è correlata a
patologie, secondo il tipo di vitamina di cui si è carenti. Sono pochi i casi in cui la carenza vitaminica
non è associata a patologie.

Le vitamine si possono dividere in due categorie: idrosolubili e liposolubili.


Le vitamine idrosolubili sono principalmente del tipo B:
➢ La tiamina serve per produrre il TPP (tiamin
piropirofosfato) componente della piruvato
deidriogenasi;
➢ La riboflavina serve per produrre XX?;
➢ La niacina serve per produrre NAD;
➢ Il pantotenato serve per produrre CoA;
➢ Il piridossale serve per produrre
piridossalfosfato;
➢ La biotina serve per formare il biotin-enzima;
➢ L’acido folico serve per produrre
tetraidrofolato;
➢ La cobalamina serve per produrre B12;
➢ La vitamina C èusata come tale).
Le vitamine liposolubili hanno un ruolo totalmente
diverso che analizzeremo prossimamente.
Lezione 3 - 07/10/2020

Le popolazioni del mediterraneo hanno il “vanto” di seguire la dieta mediterranea, che per il suo valore –
nel senso di capacità di mantenimento dello stato di salute – è stata considerata patrimonio dell’UNESCO.
Tale regime alimentare si basa soprattutto su frutta e verdura, con un uso moderato della carne. Le
vitamine fondamentalmente derivano dall’alimentazione, noi non siamo in grado di sintetizzarle in quantità
rilevante quindi siamo dipendenti dalle fonti esogene. Gli alimenti naturali sono fonte inesauribile di
vitamine (frutta, verdura, carne), allora perché nella dieta mediterranea, considerata la migliore, si ha una
ipovitaminosi? Il problema non è solo un problema di quantità ma piuttosto di qualità. Le vitamine
idrosolubili noi riusciamo ad assumerle attraverso la fase acquosa degli alimenti; esse rimangono in gioco
principalmente nella componente liquida del nostro organismo (le cellule sono al 60% in peso di acqua),
tuttavia noi abbiamo un ricambio di acqua abbastanza rapido tramite urine, sudore, respirazione infatti il
metabolismo dell’acqua è molto rapido: per mantenere eu-idratazione al giorno dovremmo bere 2 L per
mantenere una corretta idratazione, quindi deduciamo che al giorno perdiamo 2 L. Per questo motivo, le
vitamine idrosolubili le perdiamo con i liquidi che perdiamo; esse hanno quindi il pregio di poter essere
assunte facilmente e il difetto di essere perse velocemente. Questa velocità di acquisizione/perdita ci
spiega perché siamo dipendenti dalla loro assunzione. La possibilità di accumulo di queste è poca, le
troviamo infatti nei liquidi fisiologici ma poco.
Per le vitamine liposolubili il discorso cambia. Esse stanno nella componente lipidica, anche degli alimenti,
quindi negli alimenti ricchi di grassi (es. latte e derivati), e sono resistenti cioè non vengono degradate,
infatti le troviamo anche nei formaggi che hanno subito stagionatura. Ad esempio, avere l’abitudine di
assumere latte (e i suoi derivati) ci aiuta ad assumere una certa quantità giornaliera di vitamine. Nel
momento in cui, per qualche motivo, depleto la componente grassa (es. latte parzialmente scremato
rispetto a intero), smetto anche di assumere vitamine liposolubili. Oggi, con l’eccesso di obesi, si tende ad
eliminare i grassi dalla dieta e con queste anche le vitamine liposolubili.
Anche le abitudini di vita quotidiana influenzano questo, ad esempio vegetariani e vegani devono stare
attenti a non andare in carenza di B12 che è assente in frutta e verdura.

Le vitamine sono prodotti stabili chimicamente? Non tutti, tuttavia spesso la carenza di vitamine nelle
popolazioni dipende dalle abitudini culinarie del popolo in questione.
Con la cottura per bollitura si espone l’alimento per lunghi tempi a contatto con l’acqua e a 100° C, quindi
perde molte vitamine idrosolubili. Tra la bollitura e la cottura a vapore, la cottura a vapore è più breve,
inoltre non raggiunge i 100° C, e infine c’è poca acqua a contatto con gli alimenti quindi le vitamine sono
perse in quantità minori. A fianco a queste tipologie di cottura abbiamo la cottura al forno: se mettiamo un
alimento in forno, come un pezzo di carne, la cottura prevede una temperatura più alta (170-180° C)
tuttavia questa è un cottura per convezione, ossia l’alimento si cuoce dall’esterno verso l’interno. Si ha
differenza tra cottura al forno con o senza preriscaldamento? Si, se mettiamo l’alimento nel forno freddo
(no preriscaldamento) con l’aumento di calore si perde anche acqua; la cottura fatta bene è quella col
preriscaldamento perché all’esterno si forma la “crosticina” che impedisce all’alimento la perdita di molti
liquidi. Quindi paradossalmente, la cottura al forno è migliore.
La frittura è la tecnica peggiore poiché questa tecnica espone gli alimenti per lunghi periodi a temperature
alte (fino a 125° C): friggere, a causa delle temperature e delle tempistiche, è una delle pratiche più
negative; oltre al fatto che la frittura assorbe grandi quantità d’olio pertanto non è consigliabile mangiarlo
tutti i giorni poiché c’è una quantità altissima di acidi grassi.
Gli alimenti precotti e preconfezionati hanno subito molti processi di cottura precedenti a quelli che
effettuiamo a casa, per finire la cottura (ad esempio, le patate fritte congelate sono state precotte e poi
congelate). Questo è valido per molti alimenti, infatti la maggior parte degli alimenti prima di essere
congelati sono pre-cotti, specialmente le verdure che sono cotte a vapore.
Tra congelati e surgelati esiste differenza? Si, la differenza è la velocità con cui si abbatte la temperatura: la
surgelazione prevede un abbattimento molto rapido della temperatura, che è importante poiché nella fase
di congelatura le tempistiche lunghe espongono l’alimento all’ossigeno e quindi aumentano la probabilità
di perdere vitamine. In questo, giocano una differenza rilevante anche i nostri frigoriferi poiché è stato visto
che secondo la temperatura si ha una degradazione più o meno rapida.
Molti prodotti oggi sono inscatolati. Cosa è successo a questi alimenti? O si fa una pastorizzazione a scatola
chiusa (con esposizione al calore), o si fa una pre-cottura e poi si inscatolano in contenitori specifici. le
vitamine liposolubili sono molto meno cagionevoli delle idrosolubili.

Quindi gli italiani mancano di vitamine a causa delle abitudini culinarie, spesso anche perché manca la
consapevolezza delle conseguenze dei metodi di cottura. Inoltre, spesso il problema è la qualità degli
alimenti, e quelli di oggi hanno una qualità scarsa da un punto di vista organolettico. Questo avviene a
causa di passaggi di conservazione e passaggi che possono avvenire anche in casa nostra. Anni di questo
stile di vita ci portano a impoverirci e questo può essere uno dei motivi della carenza di vitamine.
Ad esempio, le banane in inverno non sono reperibili se non dalle zone equatoriali, come è possibile? Ci
sono una serie di tecniche che servono a bloccare la maturazione, come ad esempio l’esposizione al vapore.
In Ecuador quindi ci saranno container frigorifero in cui sono conservate le banane e in tali container ci
possono essere trattamenti chimici anti-maturazione.
Questo poi è unito spesso a caratteristiche particolari che determinano un aumentato fabbisogno (es. in
gravidanza): se il metabolismo basale aumenta, aumentano le richieste quindi dobbiamo avere alimenti
utili a supportare tale richiesta. Ad esempio, chi inizia la gravidanza ha anche il problema della
toxoplasmosi, pertanto si deve evitare di mangiare le cose crude. In gravidanza poi solitamente la frutta
invece si disinfetta, ad esempio la si mette in acqua e bicarbonato (il bicarbonato causa ambiente alcalino
che ha effetto detergente ed elimina i batteri). L’ambiente alcalino può danneggiare le vitamine? Le
vitamine sono sensibili alle variazioni di pH? Si, molto; così infatti è facilitata la degradazione della
componente vitaminica. Anche gli ambienti acidi come cottura con aceto e limone danneggia le vitamine.
Anche il fatto di comprare tanta frutta una sola volta a settimana non è una buona abitudine. La
maturazione della frutta permette la permeabilizzazione della buccia con ingresso di ossigeno che
determina la maturazione ma anche la degradazione delle vitamine.

Lezione 4 - 08/10/2020

Il nostro organismo non è in grado di sintetizzare quantità sufficienti di vitamine, infatti anche se possiamo
sintetizzare alcune vitamine, non sono in quantità sufficienti a soddisfare i bisogni dell’organismo. La sintesi
avviene da parte della flora batterica che risiede nell’intestino, in particolare nella parte terminale
dell’intestino ossia il colon. Il microbioma (popolazione batterica) in questo senso è molto importante, esso
è parte integrante del nostro organismo, poiché senza è impossibile sopravvivere: impossibile anche
produrre animali da laboratorio privi di microbioma poiché la sopravvivenza di queste cavie è limitata a
pochi mesi. La quantità di batteri nel nostro organismo è elevatissima: in termini quantitativi noi abbiamo
più DNA batterico che DNA umano (ci sono più cellule batteriche che umane).
Data l’importanza del microbioma, c’è un dibattito molto acceso sull’utilizzo di alcuni farmaci che possono
avere un impatto sul microbioma ossia gli antibiotici: c’è un allarme globale sul problema della resistenza
agli antibiotici, che stimolano la resistenza batterica agli antibiotici stessi. Nei primi anni del ‘900 la
principale causa di morte erano le infezioni batteriche, quindi la scoperta degli antibiotici ha contribuito ad
aumentare la popolazione mondiale, tuttavia, nonostante ci si possa considerare un paese civilizzato, non
siamo in grado di affrontare i casi di resistenza agli antibiotici e l’unico modo per prevenirla è non usarli in
casi non necessari poiché i batteri la sviluppano sotto selezione. Se noi togliamo l’antibiotico, la pressione
selettiva cessa e quindi i batteri perdono anche la resistenza, ecco perché gli antibiotici non vanno diffusi.
La prima dispersione avviene negli ambienti, da qui la necessità di non disperderli nell’ambiente. Ad
esempio, negli ospedali - dove usiamo molti antibiotici - è più facile si sviluppi la resistenza; anche nella
zootecnia (allevamenti intensivi) si usano molto gli antibiotici perché in queste situazioni le infezioni
batteriche sarebbero deleterie, tali antibiotici però vengono eliminati dagli animali e finiscono nelle fogne e
nelle acqua, diffondendosi nella popolazione.
Un fattore che influenza la dispersione e l’assunzione errata è anche la vendita di prodotti farmaceutici in
scatola (e non in modo numerato) che influisce poiché le pasticche che avanzano sono smaltite in modo
scorretto e quindi finiscono nell’ambiente. Infine, il fatto che le persone assumiamo antibiotici anche
quando non c’è bisogno è sbagliato, questo poiché gli antibiotici non sono selettivi, quindi hanno un grande
impatto sulla flora batterica intestinale.
Tutto ciò ovviamente influenza la sintesi di vitamine: se in un anno solare devo assumere per più volte
antibiotici, avrò una flora batterica intestinale alterata e quindi la sintesi di vitamine ne risentirà. Ad
esempio, in una situazione con dieta che non fornisce un adeguato apporto di vitamine (diete sbilanciate,
diete dei bambini per i quali è difficile mangiare frutta/verdura), l’uso di antibiotici può alterare il
microbiota e quindi mina la produzione di vitamine, dunque favorisce la carenza. Infatti, quando
assumiamo antibiotici molti medici dopo il periodo di cura consigliano di seguire periodi di integrazione per
reintegrare le vitamine e ripristinarne il pool. L’apporto batterico infatti, seppur piccolo, ogni giorno
contribuisce dunque se questo viene meno, il passaggio verso l’ipovitaminosi è più rapido.
L’unica eccezione è la vitamina D, che non viene prodotta dai batteri intestinali ma dal colesterolo: la sintesi
del colesterolo prevede numerosi passaggi che portano alla forma attiva delle vitamine D. La principale
fonte che genera precursori della vitamina D è l’epidermide: quando siamo esposti ai raggi UV si innesca la
prima reazione che è attivata proprio dai raggi UV (non è quindi una reazione enzimatica), e tale reazione
trasforma il colesterolo in un intermedio che poi è il punto di partenza per la vitamina D endogena. Le
categorie a rischio, che hanno più bisogno di vitamina D, sono i bambini e gli anziani (per osteoporosi),
infatti la vitamina D è fondamentale per lo sviluppo osseo: mancanza di vitamina D causa il rachitismo,
l’osteoporosi o l’osteomalacia. Nei bambini per ovviare a questo si consiglia di portarli fuori per esporli agli
UV e fargli sviluppare un minimo di vitamina D; ovviamente questo non significa doversi abbronzare per
incrementare la produzione di vitamina D, infatti la vita all’aperto durante l’estate è sufficiente per portare
alla formazione di vitamina D (un’eventuale esagerata esposizione ai raggi UV avrebbe effetto opposto
poiché sarebbe dannosa). In realtà ad oggi l’abitudine di stare fuori è ridotta, e soprattutto per i bambini
stare in casa è più divertente; anche la sedentarietà è un fattore importante; e ci sono alcuni stili di vita che
sono dannosi in questo senso, ad esempio le donne musulmane che indossano il burqa non si espongono
mai alla luce del sole: questo è rilevante soprattutto in età fertile quando si va incontro ad una gravidanza
che quindi diminuisce ulteriormente il contenuto di vitamina D.

Noi quindi produciamo poche quantità di vitamine e pertanto siamo dipendenti dagli alimenti che sono la
principale fonte di vitamina. Una delle prime funzioni delle vitamine è sintetizzare i coenzimi; la vitamina,
es. tiamina, viene attivata a livello del fegato a tiamina-pirofosfato (TPP) che viene ridistribuito a tutte le
cellule che quindi possono usare il coenzima. Stesso discorso vale per tutte le altre: il processo di
attivazione è un fattore chiave. In alcuni casi l’attivazione avviene a livello delle cellule intestinali, in altri a
livello epatico e questo è un fattore importante che può portare a ipovitaminosi, cioè avere siti in cui
l’attivazione della vitamina a coenzima viene meno (es. patologie epatiche, croniche, degenerative,
steatosi, cirrosi, morbo di Crohn); in questi casi quindi anche con l’alimentazione corretta si ha carenza
dovuta alla mancanza di trasformazione. In altri casi vengono meno i sistemi di trasporto per le vitamine,
pertanto si ha un problema perché sebbene la vitamina sia assunta in quantità sufficiente non viene poi
trasportata e quindi metabolizzata.
Sia per le vitamine liposolubili sia le forme idrosolubili, vengono tutte attivate; l’unica vitamina che non è
trasformata è la vitamina C, che viene usata così come è.
Quindi potremmo riassumete il concetto di biodisponibilità di proteine come mostrato nello schema
seguente:

Le vitamine, in una dieta “perfetta” come quella mediterranea, si trovano negli alimenti. Ad oggi si tende a
risolvere la carenza di vitamine non correggendo la dieta ma assumendo integratori. Ieri è stato attivato
anche un portale a Firenze che si propone di offrire e dare info utili sul consumo degli integratori, esso è
accessibile ai biologi per evitare fake news: la corretta informazione è molto importante e oggi ancora di più
visto che intorno agli integratori c’è un business enorme. Dobbiamo stare attenti a non voler sostituire la
corretta alimentazione con l’integrazione poiché l’alimentazione fornisce anche altri benefici che
l’integrazione non ha; ovviamente, i farmaci sono importanti poiché la corretta alimentazione non può
agire in fase acuta nel progredire di una malattia (gli alimenti non sono farmaci!), tuttavia l’alimentazione
corretta può agire in fase pregressa rispetto alla malattia, aiutandoci aiuta a prevenire situazioni di malattia
(ad es. la corretta alimentazione contribuisce al mantenimento di un sistema immunitario forte e questo
aiuta a prevenire infezioni come polmoniti, etc...). In fase acuta, il 99,9% delle patologie viene curata con i
farmaci; l’alimentazione ci aiuta a mantenere l’equilibrio che ci mantiene in buona salute.
E’ stato dimostrato che alcune sostanze naturali hanno effetto anti-tumorale ma queste sostanze non si
sostituiscono al farmaco, cioè non sono curative. Anche per gli integratori, è bene assumerli in stato di
carenza per ripristinare i livelli corretti e poi inizio corretta alimentazione per mantenermi in salute.

L’assorbimento della vitamine inizia per la maggioranza dei casi nell’intestino, quindi capiamo l’importanza
del corretto funzionamento del nostro intestino e del corretto equilibrio del microbioma intestinale, infatti
le patologie che colpiscono l’intestino possono influenzare l’assorbimento delle vitamine in modo
importante. Come vediamo dallo schema, la maggior parte delle vitamine viene assorbita a livello
dell’intestino prossimale e solo poche vengono assorbite nell’intestino terminale.
I meccanismi di assorbimento sono quelli che conosciamo. Il trasporto passivo è un trasporto in cui la
vitamina riesce a diffondere attraverso spontaneamente le membrane cellulari quindi non ha bisogno di
trasportatori. In molti casi è necessario il trasporto facilitato che prevede un trasportatore (proteina di
membrana) che permette alla vitamina di attraversare la membrana; questo perché la vitamina non riesce
a passare la membrana in modo autonomo. Questo trasporto avviene senza consumo di ATP ma per
gradiente di concentrazione, quindi solo se la concentrazione all’esterno della cellula è maggiore della
concentrazione interna alla cellula questo trasporto ha luogo, dunque solo se assumo molte vitamine esse
riescono a penetrare nelle cellule (da qui l’importanza di assumere alimenti ricchi di vitamine); questo
meccanismo può essere forzato con gli integratori (contengono quantità di vitamine molto superiori a
quelle degli alimenti). Ad esempio, le persone anziane hanno problemi di funzionalità intestinale pertanto i
sistemi di assorbimento peggiorano e questo significa che anche l’assorbimento delle vitamine è minore: in
questi casi anche suggerendo un consumo maggiore di alimenti ricchi in vitamine si incorre in vari problemi
legati alla funzionalità intestinale ridotta (che ad esempio causa problemi nella digestione delle fibre e
quindi si rischia la costipazione), pertanto è preferibile l’integrazione.
Il trasporto attivo è il modo più efficiente poiché permette di trasportare le vitamine anche contro
gradiente grazie al consumo di ATP; quindi si riesce a catturare una vitamina che è poco concentrata nel
lume intestinale anche se la concentrazione intracellulare è maggiore. L’unica pecca è il consumo di
energia.
Noi assumiamo le vitamine tramite l’intestino, che poi vengono assorbite e trasportate. Per essere
trasportate a tutte le cellule dell’organismo, le vitamine devono entrare nel flusso sanguigno che assicura la
distribuzione ai vari tessuti e organi. Dato che il fegato è il responsabile della trasformazione delle vitamine
nella forma attiva, queste dal fegato devono essere trasportate agli organi.

Dunque, una volta assorbite, la principale via di diffusione è il sangue. Per le vitamine idrosolubili questo
non è un problema perché il sangue è acquoso e quindi tali vitamine sono riversate nel sangue senza
limitazioni di trasporto. Le liposolubili invece non possono essere liberamente riversate nel sangue poiché
sono insolubili; per questo motivo le vitamine liposolubili sono trasportate dalle lipoproteine. Le
lipoproteine sono prodotte dal fegato come VLDL che le rilascia nel sangue; durante la migrazione nel
sangue le VLDL prodotte dal fegato diventano IDL e poi LDL. La via opposta, che parte dagli organi e arriva
al fegato, è guidata dai chilomicroni che invece sono generati dalle cellule intestinali. Quindi le lipoproteine
intestinali si preoccupano di trasportare le vitamine al fegato, dove sono incluse in VLDL per essere
trasportate a tutti gli organi.
Quando le cellule si distruggono, le componenti di scarto liposolubili, che possono contenere ancora
vitamine, sono raccolte dalle lipoproteine HDL, che dal circolo tornano al fegato e quindi queste portano al
fegato le molecole avanzate, soprattutto colesterolo, e questo include anche le vitamine.

Le idrosolubili, proprio poiché liposolubili, non possono essere accumulate: tali vitamine si distribuiscono
nei liquidi corporei e seguono il circolo sanguigno, il circolo linfatico e le possiamo eliminare tramite la
funzione renale. Questo è negativo poiché significa che esse vengono perse rapidamente, ma è positivo
poiché abbiamo la possibilità di rinnovare le vitamine che possono andare incontro a modifiche e quindi
non essere più funzionali. Dunque, sarò dipendente dall’assunzione per soddisfare il fabbisogno giornaliero,
ma fornendo un apporto continuo di nuove vitamine sarò in grado di sostenere i fenomeni fisiologici
dell’organismo. Ovviamente questo comporta un rapido consumo e quindi si andrà più rapidamente
incontro a condizioni di ipovitaminosi.
Le liposolubili invece possono accumularsi. L’assunzione di queste è legata alle componenti lipidiche degli
alimenti (formaggi, latte, carne che contiene grassi), in particolare molte vitamine si trovano a livello delle
membrane plasmatiche, quindi per assumerle non è necessario associare alimenti lipidici: mangiando
alimenti fatti da cellule si assumono componenti lipidiche semplicemente digerendo la componente
plasmatica ed estraendo la componente delle vitamine. Ovviamente alcuni organi e alcuni tessuti tendono
ad accumularne in quantità maggiore, ad esempio fegato, tessuto adiposo, tessuto muscolare; anche negli
alimenti vegetali troviamo questa tipologia di vitamine, anche se senz’altro la componente lipidica nei
vegetali è molto minore di quella che troviamo nei tessuti animali. L’unica eccezione è rappresentata dalla
vitamina B12, che tipica delle fonti animali (quindi della carne) e le fonti vegetali sono prive di B12 e questo
è importante considerarlo (ad esempio per chi segue diete vegetariane). La B12 è una vitamina un po’
particolare, essa infatti, pur essendo classificata come vitamina idrosolubile, riesce ad accumularsi come le
liposolubili. In particolare, essa si accumula nel fegato e nel tessuto muscolare, quindi per assumerla devo
ricorrere a fonti animali: il tessuto muscolare ne è ricco ma soprattutto è nel fegato, tanto che un tempo
per integrare B12 veniva somministrato l’olio di fegato di merluzzo. Oltre al fegato anche il tessuto
muscolare ne è ricco, ecco perché la assumiamo con la carne. La B12 che assumiamo si accumula nei nostri
tessuti, nel fegato e nei muscoli, e questo è particolarmente positivo poiché il rischio di andare in deficit di
B12 è minore: anche mangiando poca carne o punta, in funzione del metabolismo e delle abitudini, non
necessariamente rischio di sviluppare forme di carenza di B12 rapidamente poiché ne abbiamo delle buone
riserve nei muscoli e nel fegato. Inoltre, essa comportandosi come le liposolubili, avrà un turnover lento e
pertanto avremo un’autonomia di B12 per molto tempo, la riserva infatti può durare anche anni
(ovviamente secondo lo stile di vita): se si è sedentari la riserva dura moltissimo, se però si ha un
metabolismo basale più attivo (atleta olimpionico, donna in gravidanza, etc...), questa riserva si può
esaurire prima. Questo ha ripercussione anche sul dibattito in corso in questi anni in cui si discute se tutti
“possano” o meno essere vegetariani/vegani: la risposta cambia in base alla persona poiché si basa tutto
sul metabolismo e sul fabbisogno personale di ogni soggetto. Ad esempio, anche la quantità di massa
muscolare può essere un fattore rilevante, poiché qui avviene l’immagazzinamento, ecco perché molti
atleti riescono ad essere vegetariani/vegani.

Quasi tutte le vitamine idrosolubili vengono eliminate tramite urine, mentre le vitamine liposolubili
vengono eliminate quasi tutte con le feci. Questo significa che il turnover cellulare a livello intestinale è una
delle principali fonti di perdita di vitamine liposolubili, cioè a differenza di tutti gli altri tessuti, dove la
distruzione della cellula comporta il recupero delle componenti, nell’intestino le cellule morte vengono
rilasciate e perse con le feci. Come l’epitelio intestinale è in continuo ricambio, perdo buona parte della
membrana delle cellule, quindi questa è una delle principali vie di perdita delle vitamine: le perdo poiché le
cellule dell’epitelio cambiano e quelle vecchie, vitamine comprese, finiscono nel lume intestinale e sono
perse con le feci.

Da un punto di vista diagnostico, come si fa a definire ipovitaminosi? Ad esempio, se ho lo scorbuto, è


probabile che la causa sia un deficit di vitamina C; se ho problemi di dolore diffuso che può derivare da
effetti neurologici, è probabile che sia dovuto a deficit di B12; se ho un’anemia è probabile che ci sia un
deficit di folato; etc... Le manifestazioni guidano il medico verso una diagnosi, anche se non sempre è così
facile poiché le carenze alimentari non sono isolate ad una sola vitamina pertanto le carenze sono difficile
da interpretare. Da biologi potremmo suggerire l’analisi diretta, che permette di individuare la causa diretta
della patologia. I metodi per quantificare le vitamine possono essere effettuati sia nell’organismo che nelle
escrezioni (feci e urine), ad esempio per capire se sono in ipovitaminosi dovuta ad eccessiva escrezione o
metabolismo dovrei andare a ricercare nelle urine i metaboliti derivanti dalla degradazione della vitamina:
questo non è banale però! Oggi ci sono tecniche molto specifiche per farlo, come la spettrometria di massa,
che mi permettono anche di individuare e quantificare i metaboliti; tali tecniche però sono molto costose,
quindi si sfruttano solo in casi particolari. In alternativa, un medico che sospetta ipovitaminosi per
intervenire può somministrare vitamine, e lo può fare anche senza diagnosi poiché si tratta di una cura che
non ha effetti collaterali (eccetto casi particolari) poiché è quasi impossibile accumulare vitamine, solo in
parte accumulo le liposolubili. Proprio per questo ci sono dei livelli definiti NOAEL ossia livelli che non
causano effetti avversi.

In tabella sono riportate le dosi massime di vitamine assumibili che non causano effetti avversi. Per le
vitamine idrosolubile la dose massima che non mi porta effetti avversi è altissima, questo perché il turnover
delle vitamine idrosolubili è rapido quindi non si ha possibilità di accumulo e questo raramente porta a
effetti negativi. Le dosi invece si abbassano molto per le vitamine liposolubili, che invece sono in grado di
accumularsi. Ad esempio, gli integratori che contengono dosi elevate di vitamina D ossia dosi utili a trattare
patologie (come ad es. osteoporosi) vengono somministrate dal medico poiché tali dosi possono avere
effetti tossici mentre gli integratori che compriamo in farmacia hanno dosi di vitamina D molto più basse.
Gli effetti avversi della assunzione esagerata di vitamina D, dato che la vitamina D stimola la calcificazione
ossea, comprendono ad esempio l’ipercalcificazione che comporta la calcificazione delle cartilagini, che
normalmente hanno struttura morbida con funzione di “cuscinetti” quindi la loro calcificazione comporta
danni importanti.
Anche la vitamina K, importante per la coagulazione, viene somministrata ad alte dosi per cura medica
mentre gli integratori con dosi minori si trovano anche in farmacia.
La differenza è che per le vitamine idrosolubili si consiglia l’assunzione giornaliera mentre per le liposolubili,
sebbene sia consigliato un’assunzione giornaliera, c’è un rischio minore se non si assumono giornalmente.
Ovviamente la mancata assunzione cronica è grave in entrambi i casi.

Di fianco riassumiamo i motivi che oggi possono portare


in condizioni di ipovitaminosi. La dieta mediterranea è
una condizione ideale ma comunque possiamo avere
carenza.
Ad esempio, alcune popolazioni non hanno sufficiente
apporto che può essere legato a situazione sociale, a
condizioni etiche, a patologie come l’anoressia.
Il ridotto assorbimento è una condizione non volontaria
in cui si hanno alterazioni intestinali o incapacità nella
deglutizione.
Anche le diete squilibrate sono molto pericolose in
questo senso poiché causano carenze gravi.
L’incremento del fabbisogno si ha ad esempio in
gravidanza in cui il metabolismo cambia molto; anche
negli atleti professionisti questo è un problema da
considerare; e anche gli stress della vita quotidiana (passaggio d’età, cambio lavoro, etc...).
Anche le alterazioni genetiche sono molto rilevanti e pertanto devono essere considerate tra i motivi delle
carenze vitaminiche.

Lezione 5 - 14/10/2020

Le cause che portano a ipovitaminosi sono una somma di fattori che determina:
- Un apporto insufficiente (come succede per le diete moderne, o per anoressia, per alcolismo)
- Un ridotto assorbimento (aspetto che riguarda il tratto gastrointestinale),
- Un incremento del fabbisogno, ad esempio se da uno stile di vita sedentario divento sportivo,
questo richiede una serie di adattamenti metabolici che devono essere supportati, se no portano a
deficit. Qui poi rientrano anche situazioni come gravidanza, allattamento e tutte le situazioni
fisiologiche che ci mettono sotto stress.

Abbiamo già visto che molte vitamine sono degradabili. Il latte, ad esempio, contiene riboflavina, che è
fortemente sensibile alla luce. Ad oggi, la maggior parte del latte è contenuto nel tetrapak (confezione
interna con carta + plastica), ma esistono anche confezioni in bottiglia trasparente e questo comporta il
fatto che, se il latte contiene vitamine sensibili alla luce, la confezione trasparente determina una più rapida
degradazione. Oltre a questo, il latte spesso ha scadenza lunga, sapendo che in 24h si ha una perdita dal
30% di B12 quindi pensiamo a cosa può succedere se il latte rimane nel supermercato per più di 1 giorno: si
ha una carenza di B12 in questo alimento.
Ad oggi, quasi tutti i supermercati hanno molto ridotto la parte di macelleria al taglio. Qui vale lo stesso
concetto poiché non sappiamo per quanti giorni rimarrà lì la carne. Stessa cosa vale anche per le verdure
già confezionate, anche se in alcune buste delle verdure spesso c’è scritto “atmosfera di azoto” per
conservare di più l’alimento, creando atmosfere inerti, contenenti una certa percentuale di azoto.
Inoltre, oggi quasi tutti gli alimenti sono conservati in pellicola trasparente quindi questo fattore di
degradazione è ancora più evidente.

Abbiamo visto i metodi di conservazione che contribuiscono al mantenimento dell’alimento:


o Disidratazione
o Salatura
o Aggiunta di zucchero
o Pastorizzazione e Sterilizzazione
o refrigerazione e surgelazione
o Inscatolamento
o Confezionamento con film plastici
o Irradiazione. In Italia le leggi sono molto stringenti su questo, infatti in Italia non avviene. All’estero
l’irradiazione l’ha “pensata” McDonald, con cui sterilizza gli hamburger (che forse quindi arrivano
dall’America o da chissà dove). Il cibo irradiato, seppur sicuro d a un punto di vista alimentare, è
danneggiato P da un punto di vista nutritivo e vitaminico.

VITAMINE IDROSOLUBILI

VITAMINA B1 o TIAMINA. Viene trasformata nella forma attiva. Il gruppo alcolico lega un pirofosfato con
una transferasi, formando il
tiaminpirofosfato. Esso è coinvolto nella
piruvato deidrogenasi, che attacca il piruvato
e lo decarbossila, e lo troviamo anche in altri
enzimi che portano avanti reazioni di
carbossilazione simili. Quindi carenze di B1
impattano su queste vie metaboliche e i
risultati della carenza vitaminica si esprimono
con alcuni tipi di patologie che hanno
manifestazioni anche diverse da loro (in
carenza di questa vitamina si può arrivare in
condizioni gravi). Ad esempio, nei paesi
orientali c’è un’alimentazione diversa da
quella mediterranea e la popolazione mangia soprattutto il riso; in queste culture il riso brillato, riso a cui
viene tolta la parte esterna che è la più ricca di fibre e vitamine, è l’unico cibo accessibile alle popolazioni
rurali e quindi si hanno carenze gravi. Questo causa la patologia Beri-Beri che causa problemi neurologici,
tanto che i malati non riescono nemmeno a parlare.
Questo coenzima è importante perché la piruvato deidrogenasi trasforma piruvato in acetil-CoA, il quale è
coinvolto nella produzione di neurotrasmettitori come l’acetilcolina, ecco perché le sindromi metaboliche
da questo punto di vista sono rilevanti e si hanno sintomi di natura neurologica. Anche la sindrome di
Wernicke-Korsakoff causa ripercussioni neurologiche.
I sintomi delle carenze lievi sono piuttosto generali per cui anche per un medico è difficile correlarli a
queste patologie. Ma questi sintomi eterogenei sono dovuti al fatto che il ruolo della B1 è coinvolto in più
punti.
L’assunzione di B1 deve essere giornaliera poiché viene consumata molto. La dieta mediterranea è ricca di
B1, soprattutto nei prodotti “integrali”.
VITAMINA B2 o RIBOFLAVINA. Aggiungendo un gruppo fosfato si forma FMN, mentre se aggiungiamo
ulteriormente adenina si ottiene FAD. Queste due molecole sono coinvolte nella catena respiratoria, e
quindi nel metabolismo di aminoacidi, lipidi e anche nella navetta con FAD.
Quindi si penserebbe che la carenza di questa
vitamina sia molto pesante ma
paradossalmente le manifestazioni di carenza
di riboflavina sono disturbi alla vista, effetti
negativi sull’epidermide (è un epitelio in
continua proliferazione, quindi qui la carenza
dipende dal fatto che tali cellule che si
riproducono continuamente hanno
fabbisogno maggiore). Il maggior disturbo
comunque è a carico della vista e si sviluppa
fotofobia poiché la riboflavina fa parte dei
criptocromi, particolari strutture necessarie
per assorbire le lunghezze d’onda visibili:
quando non c’è riboflavina questi sono assenti e i neuroni non ricevono segnale. I criptocromi assorbono
solo certe lunghezze d’onda, quindi sostanzialmente i disturbi che si mostrano sono soprattutto
un’eccessiva sensibilità alla luce, che a volte si percepisce proprio come dolore, e pertanto si tiene molto
spesso gli occhiale da sole. Questo meccanismo, oltre che creare disagio, genera problemi nei ritmi
circadiani, poiché avere maggiore sensibilità alla luce altera il ritmo circadiano normale e si possono avere
anche disturbi del sonno i poiché si ha un impatto anche sui cicli del sonno e sul metabolismo. Quindi oltre
all’uso di occhiali e al mal di testa si hanno disturbi veglia/sonno.
VITAMINA B3 (o PP). Noi usiamo questa vitamina per formare il NAD, nella sua forma attiva che è il
nicotinamide. Questa struttura chimica è molto diversa dalla
nicotina!
Le manifestazioni legate alla carenza di B3 riguardano per la
maggior parte dei casi l’epidermide, quindi desquamazione
della pelle; in particolare questo avviene anche nell’epitelio
intestinale e causa emorragie e fenomeni come la diarrea,
poiché nell’epitelio l’assorbimento dei liquidi è
compromesso. Carenze di questa vitamina sono associate a
pellagra (da questo il nome “PP”), per cui la pelle sembra
“cartonata” cioè la pelle non è morbida né elastica. Questa
è una delle principali patologie legate alla carenza.
VITMINA B5 o PANTOTENATO o ACIDO PANTOTENICO. Essa è contenuta nel coenzima A, che serve come
trasportatore di acili, o anche all’interno della ACP, che partecipa nella sintesi degli acidi grassi (nell’acido
grasso sintetasi). Quindi la funzione è fondamentale e lo ritroviamo in molti step del metabolismo, tuttavia
la sua carenza non è associata ad alcun tipo di patologia (avviene solo per questa vitamina).
Le patologie associate alle vitamine è difficile studiarle poiché è difficile sottoporre un soggetto a carenza
totale di una vitamina; questo infatti è fattibile solo in laboratorio in cui si somministrano diete artificiali.
Negli animali da laboratorio però non ci sono patologie associate a questa mancanza se non sintomi molto
generici. Questo forse è dovuto al fatto che il turnover di B5 è molto lento, quindi per vedere in laboratorio
gli effetti patologici della carenza, l’esperimento dovrebbe essere svolto per un periodo id tempo molto
lungo, e ciò non è possibile con gli normali da laboratorio poiché questi hanno una vita molto breve.
VITAMINA B6. Essa è la piridossina ma
in natura la troviamo sotto varie
forme. Dalla vitamina B6 si genera il
piridossalfosfato (PLP) che serve come
coenzima per la glicogeno fosforilasi e
le transaminasi, essa quindi è coinvolta
nel metabolismo degli amminoacidi,
dell’emoglobina, del glicogeno e di
altre vie metaboliche, come anche il
metabolismo della carnitina e della
metionina.

Quando si parla di patologie associate alla carenza di vitamina B6, la più frequente è l’iperomocisteinemia,
che è una patologia di “sottobosco” e tuttavia è abbastanza diffusa nella popolazione italiana. La cisteina è
prodotta dal nostro organismo a partire dalla metionina, che viene demetilata per formare omocisteina, un
amminoacido non proteinogenico (non usato nelle proteine) che viene usato come intermedio metabolico.
Le vie di conversione dell’omocisteina sono due:
- la prima prevede che questa sia trasformata in metionina (il metilene arriva dal metilen-
tetraidrofolato. La metionina viene usata come donatore di metili per formare SAM che è il
donatore universale die gruppi metili, che può essere usato per generare nuovi nucleotidi. Questo
step quindi è importante.
- L’altra invece prevede che l’omocisteina sia trasformata in cisteina, grazie a due reazioni catalizzate
da due enzimi B6-dipendenti.
Quindi normalmente l’omocisteina è presente, ed essendo solubile si muove nei compartimenti cellulari. La
troviamo all’equilibrio nel sangue (1-8 µM) e nelle cellule. Essa ha concentrazione bassa perché le vie
metaboliche del ricircolo permettono di consumarla.
Quando si va in carenza di B6, la via di sintesi/smaltimento della cisteina si blocca e l’unica cosa che
l’organismo può fare è formare metionina. In questo modo però si forma comunque omocisteina perché la
metionina cede il metile a SAM e, dato che la cisteina non viene prodotta, si accumula omocisteina.
Quando la concentrazione di omocisteina supera i 15 µM, e fino a 50 µM, siamo in patologia e si parla di
low iperomocistemia; nel range 50-100 µM si ha middle iperomocisteinemia; oltre i 100 µM si ha high
iperomocisteinemia. Questo causa disturbi cardio circolatori, ictus, trombosi, infarto, formazione di placca
aterosclerotica molto rapida, etc... Le patologie cardiocircolatorie in Italia sono molte, e tra queste
l’iperomocisteinemia rientra tra le cause.
Anche i folati e la B12 sono importanti in questa patologia, infatti l’iperomocisteinemia può dipendere da
carenza di B6, carenza di B12 o carenza di folati, o ci può essere una concomitanza dei tre fattori. Per capire
quale tra le tre componenti è responsabile di questa patologia, facciamo delle prove. Quella che è meno
coinvolta solitamente è la B12 (per capirlo nell’anamnesi basta chiedere l’alimentazione del soggetto, ad
esempio un carnivoro è meno probabile che sia in carenza di B12).

La carenza di B6 ha anche altri effetti:


- Ritardo nell’accrescimento e anemia: il glutatione prodotto è un antiossidante dei globuli rossi, e
quindi se non è prodotto si ha emolisi. Altra spiegazione è che nel metabolismo della B6 entra la
produzione di SAM, quindi in carenza di B6 si possono avere alterazioni del metabolismo che
determinano rallentamento nella produzione di nucleotidi e così i globuli rossi, che hanno turnover
rapido e quindi necessità di SAM, non sono prodotti e si ha anemia.
- Sintomi neurologici, dovuti al fatto che l’alterazione del metabolismo può portare a scompensi nel
metabolismo coinvolto nella produzione di acetilcolina.

La carenza di B6 è associata anche ad altri tipi di patologie, ad esempio nell’ipertiroidismo si ha carenza di


B6 poiché il fabbisogno è aumentato a causa del metabolismo basale più alto (conseguente ad
un’aumentata funzione della tiroide). Oltre a questo, ci possono essere patologie legate a motivi genetici,
che portano l’iperomocisteinemia a valori superiori a 100 µM; queste mutazioni sono legate principalmente
alla cistationina-β-sintasi, l’enzima che trasforma cistationina in cisteina. Queste situazioni sono
problematiche poiché non possono essere curate, l’unico modo per approcciare questa patologia è curare
gli effetti. Per discriminare una causa genetica da una esterna, ci si basa sul fatto che il difetto genetico si
manifesta fin dall’infanzia, mentre la carenza dovuta ad altro ha manifestazione in età avanzata.
Oltre a questi motivi anche altre situazioni possono causare carenza di B6, ad esempio l’alcolismo causa un
deficit poiché causa un deficit nell’assorbimento; anche alcuni farmaci interferiscono con il metabolismo
della B6 poiché competono per l’assorbimento a livello intestinale.

Da un punto di vista alimentare, per evitare gli accumuli di omocisteina cosa possiamo consigliare?
Dobbiamo considerare che l’omocisteina è prodotta da metionina, che è particolarmente presente nella
carne rossa; quindi in una situazione di iperomocisteinemia che NON è causata da carenza di B12, è
consigliabile non assumere molta carne rossa, in modo da assumere meno metionina e quindi accumulare
meno omocisteina. Accanto a questo possiamo pensare che la causa sia un deficit di B6 e quindi si
somministrano folati, per tentare di aumentare il consumo di omocisteina e abbassarne i livelli ematici.

VITAMINA B8 o BIOTINA o VITAMINA H. Essa entra nel metabolismo di alcuni acidi grassi (es. quelli a
numero dispari di atomi di C), e nel metabolismo della degradazione della Leu.
Essa è sfruttata dalle carbossilasi che
la legano covalentemente:
l’attivazione in questo caso consiste
nel legame covalente tra vitamina ed
enzima. Quindi il gruppo -COO-
reagisce con il gruppo N-terminale
dell’enzima e si forma un legame
ammidico.
Essa è usata in modo particolare, ad esempio per rinforzare le unghie e i capelli, perché rientra in questo
metabolismo.

Una situazione particolare si ha in presenza di avidina poiché l’interazione avidina-biotina ha alta affinità:
quando è presente avidina, essa sequestra tutta la biotina disponibile, che tuttavia è importante per il
metabolismo batterico. Questo è interessante poiché l’avidina la troviamo nella chiara d’uovo, quindi
assumere uovo significa assumere grandi quantità di avidina, che arriva in percentuale nell’intestino, dove
può legare/chelare biotina che non è assorbita dall’intestino. Ovviamente questo è da valutare in base a
quanto uovo mangiamo e a come lo cuociamo: il calore denatura l’avidina e quindi questo problema in
realtà non si pone. Le uova crude però sono mangiate nelle diete iperproteiche che vengono fatte da chi è
in palestra, i “nutrizionisti improvvisati”.

Lezione 6 – 15/10/2020

L’avidina ha affinità molto importate per la biotina: da un punto di vista nutrizionale potrebbero esserci
problemi di assorbimento di biotina nei soggetti che usano molte uova crude (l’avidina si degrada
facilmente con la temperatura, quindi con la cottura). In soggetti che usano in modo rilevante le uova crude
questo è pericoloso, tuttavia ad oggi mangiare uovo crudo è raro poiché per motivi igienici si consiglia di
cuocerlo (il metodo di cottura è non importante). Un tempo era più diffuso nei contadini mangiare uova a
crudo, ora questo avviene solo in categorie di soggetti particolari dove viene raccomandato l’uso di uova a
crudo per favorire l’aumento di massa muscolare: si tratta di una pratica diffusa nelle palestre di chi fa
bodybuilding. Spesso questi atleti, che hanno come obiettivo principale quello di incrementare la massa
muscolare, hanno nella dieta (spesso a colazione) uso di uova a crudo. Per questi soggetti il rischio può
diventare un problema reale poiché la quantità di avidina che arriva nell’intestino diventa alta e quindi il
rischio di deficit di B8 diventa una situazione molto probabile.
La B8 è una vitamina prodotta dai batteri, quindi anche un utilizzo diffuso di antibatterici può portare ad
alterazioni della quota di B8 sintetizzata a livello intestinale: anche se i batteri contribuiscono in parte alla
produzione di B8, eliminare questa parte significa depauperare il compartimento di B8.
La carenza di B8 causa sintomi particolari: cambiamenti di personalità (non sappiamo se ci sono altre cause
che concorrono a questo effetto), mialgia, parestesie localizzate, anoressia con nausea, perdita di capelli. La
carenza è trattabile con la sospensione della dieta ricca in uova crude, anche se a volte non è sufficiente e
dobbiamo usare gli integratori.
ACIDO FOLICO. Esso è usato per generare varie forme attive delle vitamine; funge da trasportatore di vari
gruppi e partecipa a molte reazioni, in particolare è fondamentale per la sintesi amminoacidica e proteica
(anche della Met e quindi
dell’omocisteina) e la sintesi
dei nucleotidi. Di
conseguenza, essa è
particolarmente importante
negli stadi di sviluppo, e
infatti viene spesso usata in
gravidanza o quando si cerca
di rimanere incinta. La
somministrazione non ha
controindicazioni
nell’integrazione.
Allo stesso tempo però, carenza
di questa vitamina si ripercuote
su cellule ad alto tasso di
proliferazione (cellule epiteliali).
Se le carenze di acido folico si
sviluppano durante il periodo del
feto, si hanno difetti del tubo
neurale che comunque
permettono al feto di rimanere
vivo ma hanno effetti patologici
invalidanti e non curabili.
Nell’adulto invece la carenza di
acido folico si manifesta con
anemia macrocitica: colpisce il
tessuto ematopoietico per cui i
globuli rossi diventano pochi e per colmare la carenza si ingrandiscono; le conseguenze sono affaticamento,
sensazione di stanchezza, mal di testa, sangue molto fluido (tutto ciò è diagnosticabile tramite analisi del
sangue). Spesso la carenza è legata a trattamenti farmacologici, infatti dato il ruolo importante nella
proliferazione, sono stati generati farmaci folato-mimetici (metotrexato, amminopterina, trimetoprim) per
bloccare la proliferazione cellulare; alcuni di questi come il metotrexato, sono antitumorali o adiuvanti per
antitumorali oppure trattano l’artrite reumatoide (si blocca l’attivazione anomala del sistema immunitario).
Amminopterina e trimetoprim sono usati come antibiotici quindi vanno a bloccare la proliferazione
batterica, tuttavia questo avrà delle ripercussioni anche sul nostro organismo.
Le cause quindi sono:
− Diete povere in folato;
− Alcolismo cronico, poiché si hanno problemi di
sottoalimentazione (sia di macro- che di micro-
nutrienti);
− Deficit congenito di coniugasi;
− Danni all’intestino, come le enteropatie da
glutine (molto diffusa in Italia);
− Farmaci anticonvulsivanti (fenobarbital) o
antiblastici (metotrexato), trimetoprim
(antibatterico), primetamina (antimalarico);
− Gravidanza e allattamento, che aumentano il
fabbisogno di acido folico;
− Dialisi, poiché essendo idrosolubile viene persa rapidamente con la dialisi.
VITAMINA B12 o COBALAMINA. Essa ha una struttura particolare, che ricorda i citocromi. Noi non siamo in
grado di produrla autonomamente, essa è prodotta prevalentemente dai microrganismi, pertanto è assente
nelle piante mentre è particolarmente presente
negli animali, soprattutto nei ruminanti che
hanno un apparato gastroenterico complesso
all’interno dei quali ci sono microrganismi che
sono in grado di sintetizzarla. Ecco perché gli
animali (anche l’uomo) sono in grado di avere
disponibilità di B12, poiché la produzione è ad
opera dei batteri; in alternativa possiamo
recuperarla dalla dieta, soprattutto dalla carne
rossa (la bianca è molto meno ricca di B12).
Carenza di B12 si può generare soprattutto in
individui vegetariani stretti. Tuttavia, ci sono casi
di vegetariani che non riscontrano problemi.
Come mai questa contraddizione? Il rischio è
legato al turnover, alla capacità di assorbire B12 e
alla capacità di produrla. La principale sede di
perdita è l’epitelio intestinale: la desquamazione
dell’epitelio fa sì che le cellule si stacchino e
passino al lume, in questo modo si perde il
contenuto di B12. Noi non riusciamo a recuperare
i residui della desquamazione intestinale, anche
se una parte è recuperata dai sali biliari, infatti
una parte di B12 si accumula nei sali biliari, che
vengono poi riassorbiti. I sali biliari stanno nella cistifellea, e sono prodotti dal fegato a partire dal
colesterolo; la colecistochina quando mangiamo determina la contrazione della cistifellea che rilascia i sali
biliari nell’intestino, che quindi seguono il percorso intestino prossimale-intestino distale-colon. I sali biliari
però non vengono escreti/persi poiché a livello del colon essi vengono assorbiti per circa il 90%, portandosi
dietro i soluti; dato che i batteri stanno nel colon, i sali biliari prima di essere riassorbiti avranno la
possibilità di includere la B12 al loro interno. Ovviamente problemi intestinali causano problemi anche
nell’assorbimento di B12.
Abbiamo detto che la B12 la assorbiamo anche dalla carne: quando arriva carne nel nostro stomaco viene
processata dalla pepsina (che lavora a pH acido) che libera la B12, la quale è catturata dalla proteina
aptocorrina, prodotta dalle ghiandole salivari, e così B12 e aptocorrina arrivano insieme al bolo nello
stomaco. Le pareti dello stomaco producono il fattore intrinseco, che non è degradato dalla pepsina e così
quando il bolo passa nell’intestino la B12, la aptocorrina e il fattore intrinseco passano nell’intestino; qui
l’aptocorrina rilascia B12 che subito si lega al fattore intrinseco. Il fattore intrinseco è fondamentale poiché
il trasporto di B12 attraverso la parete intestinale non è banale e infatti il fattore intrinseco è l’elemento
discriminante per l’assorbimento di B12.; una volta che la B12 è assorbita dalle cellule, si stacca dal fattore
intrinseco e viene rilasciata nel sangue. Nel sangue la B12 si lega alla transcobalamina che ne permette il
trasporto.
Dunque, la B12 non deve essere trasformata per essere attiva e pertanto il fattore limitante nella sua
assunzione dipende dall’assorbimento: problemi allo stomaco possono causare carenze di B12 poiché
modificano l’assorbimento. Ad esempio, una patologia correlata a carenza di B12 è quella legata al fatto
che le cellule parietali non producono HCl, quindi la pepsina non si attiva e la digestione nello stomaco è
limitata; in questo modo il bolo arriva nell’intestino quasi non digerito, pertanto l’azione degli enzimi
intestinali sarà la prima azione digestiva (nello stomaco non è avvenuto nulla), tuttavia senza le fasi
enzimatiche dello stomaco, la digestione non si conclude in modo corretto poiché gli enzimi intestinali
prima di agire hanno bisogno che gli enzimi gastrici distruggano il bolo. Ovviamente, in tutto ciò anche la
masticazione è molto importante per una corretta digestione dell’alimento poiché questo assicura una
prima distruzione e così la pepsina può agire in profondità sull’alimento.
Oggi l’uomo abitualmente mangia carne cotta e carne che ha subito trattamenti, infatti prima di mangiarla
la carne ha subito frollatura, un processo per cui si lascia la carne 4-5 giorni a 4° C con lo scopo di rendere la
carne più facilmente mangiabile. Questo lo si fa perché il rigor mortis dura 24h, dopodiché gli enzimi
iniziano a degradare le proteine e rendono il tessuto più accessibile e più mangiabile, infatti nella carne
cruda ci sarebbe collageno che ha caratteristiche elastiche ma duri. Dopo la frollatura la carne viene
congelata, quindi si ammorbidisce ulteriormente: con la congelazione l’acqua intracellulare si trasforma in
ghiaccio, che si espande rispetto all’acqua quindi molte cellule si spaccano. In laboratorio si usa il DMSO per
evitare la totale formazione di cristalli di ghiaccio ma al momento dello scongelamento vediamo che
riescono a sopravvivere solo il 60% di cellule. La scoperta del fuoco e della cottura è stata fondamentale
nell’uomo proprio perché dalla carne cruda non riusciamo ad assorbire proteine poiché la carne cruda è
molto difficile da digerire. Anche nei vegetali la struttura è molto resistente e infatti è difficile assorbire le
proteine dai vegetali crudi, motivo per cui spesso vengono cotti. Si pensa che nell’evoluzione la cottura
abbia avuto un impatto enorme che è coinciso con lo sviluppo delle capacità intellettuali umane molto
importanti. NB. La tartare è carne cruda (marinata con aceto/limone) ma è già frollata e macinata quindi
non è realmente “cruda”.
Nel processo digestivo, anche l’HCl è importante poiché il pH acido contribuisce a degradare le proteine,
che quindi perdono la struttura tridimensionale, e così si aiuta l’azione della pepsina che genera frammenti
di proteina: la proteina globulare viene trasformata in catene polipeptidiche. Se HCl non c’è la pepsina
funziona ma non può agire nella parte più interna delle proteine e così la B12, che essendo elettronica è
situata nella parte centrale, non può essere recuperata.
Oltre alle patologie come problemi allo stomaco, bypass gastrico, gastrite, ulcere importanti, l’helicobacter
pilorii possono interferire con il recupero di B12. Oggi, una causa diffusa è anche l’uso massiccio di antiacidi
(es. gaviscon per chi soffre di gastrite) che vengono presi proprio dopo il pasto, e così non permettono
l’estrazione corretta di B12. Gli antiacidi oggi sono molto usati, lo stress e lo stile di vita stressante fanno sì
che molti soffrano di reflusso acido/problemi gastrici dovuti spesso a stress che generano alterazioni della
funzionalità gastrica e quindi carenza di B12.
In caso di carenza di B12 il medico può suggerire di agire in vari modi: con sintomi blandi (stanchezza, etc...)
l’alimentazione può diventare rilevante (l’alimento più ricco è il fegato), con sintomi importanti si procede
con integratori. L’integrazione alimentare o l’integrazione tramite integratori va bene sempre eccetto nelle
situazioni con patologie che determinano il blocco della sintesi/della funzionalità del fattore intrinseco, in
questi casi infatti si fa l’iniezione intramuscolo di B12 poiché solo così è possibile far assorbire B12.
La carenza può dipendere da vari motivi e gli effetti possono ricadere anche sul metabolismo dei causando
mancanze nei comparti lipidici o nel comparto nervoso (la mielina è formata da lipidi), infatti tra gli effetti
dovuti a carenza di B12 si ha: anemia perniciosa o megaloblastica, demielinizzazione delle fibre nervose del
midollo spinale (causa dolori diffusi), altre anomalie del sistema nervoso. Questo può diventare un serio
problema per i bambini in via di sviluppo dove possono crearsi problemi di sviluppo importanti.

VITAMINA C o ACIDO ASCORBICO. La vitamina C è presente nei


vegetali (frutta e verdura) freschi poiché è sensibile all’ossigeno
(ossidabile); essa è sensibile anche al calore pertanto per
assumerla è meglio cibarsi di vegetali crudi. Tra gli alimenti più
ricchi di vitamina C ci sono il limone e il pompelmo: più aspro è
il sapore, più alto è il contenuto in vitamina C.
L’acido ascorbico è utile in molte reazioni ed è importante per il
ferro poiché entra nelle reazioni redox. Esso è presente
nell’aspirina con vitamina C, infatti l’infiammazione causa
radicali liberi e quindi l’acido ascorbico agisce da antiossidante.
Oltre a questo, l’acido ascorbico serve nel metabolismo del
collageno poiché forma idrossiprolina e idrollilisina, infatti le
idrossilasi sono dipendenti dall’acido ascorbico (la formazione
di idrossiprolina e idrollilisina dipende anche dalla
temperatura).
Lo scorbuto è una delle patologie legate alle vitamina C. I nostri tessuti sono tenuti insieme dal collagene, e
se tale matrice viene meno i tessuti perdono elasticità e consistenza. Ad esempio, senza collagene i denti
cadono con una semplice trazione o mentre si mangia. Il collagene fornisce elasticità anche ai vasi sanguigni
quindi se questo aspetto viene meno si va incontro ad emorragie spontanee (le emorragie interne se
coinvolgono arterie importanti causano morti da emorragie spontanee). Lo scorbuto è la patologia dei
navigatori: per arrivare nelle Americhe ci volevano mesi e i marinai che erano imbarcati mangiavano pesce,
carne secca; tutto ciò portava dei problemi poiché questi metodi di conservazione portano via l’acqua
(conservazione sotto sale o affumicazione) e quindi portavano via anche le vitamine idrosolubili. Anche nelle
marmellate lo zucchero viene aggiunto per captare l’acqua ed evitare così la formazione di batteri. I marinai
quindi stavano per mesi in carenza di vitamine idrosolubili; alcune di queste sono eliminate lentamente
mentre altre sono eliminate molto rapidamente, come la vitamina C. La velocità di perdita è relativa al
consumo, noi consumiamo molta vitamina C, quindi andare in carenza ha un effetto devastante. Lo
scorbuto causa la perdita di collagene, e di scorbuto si muore, infatti essa è una patologia molto grave che
si cura in modo molto semplice poiché basta somministrare vitamina C (contenuta in frutta e verdura
fresche di stagione). La vitamina C dunque si degrada facilmente, essa è un antiossidante e quindi è
sensibile all’ossigeno, per questo motivo se ad esempio preparo un’aranciata il contenuto di vitamina C
diminuisce nel tempo. Per rimediare a tale patologie basta assumere più vitamina C.
La vitamina C viene utilizzata moltissimo per trattare situazioni varie: gravidanza, dopo interventi chirurgici,
scottature, stress, lesioni traumatiche, ferite, allattamento, in forme reumatiche, raffreddore, malattie
virali. Essa si perde rapidamente quindi c’è bisogno di apporto continuo; fortunatamente frutta e verdura di
tutte le stagioni danno apporto importante di vitamina C.

Lezione 7 – 21/10/2020
VITAMINE LIPOSOLUBILI
VITAMINA A. Ha una
struttura che presenta un
anello e una catena
alifatica. Quella in figura
è il retinolo, una delle
forme attive che può
essere ulteriormente
modificata. Il retinolo
deriva dai carotenoidi,
molecole che si trovano
in alimenti gialli, rossi,
arancioni ad esempio
carote, peperoni,
pomodori, etc...
Le unità di α, β, e γ carotene sono formate da due molecole di retinolo che, quando sono nell’organismo,
sono scissi e liberano le due molecole di retinolo: il retinolo quindi è un metabolita dei carotenoidi.
I carotenoidi e il retinolo sono sostanze lipofile e quindi una volta assorbiti a livello intestinale sono veicolati
in circolo dalle lipoproteine ossia i chilomicroni, in alternativa anche l’albumina può trasportarli.
Ad esempio, a livello della retina il retinolo viene rilasciato e subisce una trasformazione (ossidazione e
isomerizzazione) a 11-cis-retinale che viene usato come cofattore della proteina opsina che, una volta
legato 11-cis-retinale, si trasforma in rodopsina.

Questo è importante poiché a questo punto quando arriva la radiazione luminosa la rodopsina assume
parte dell’energia fornita dalla luce e cambia conformazione, di conseguenza l’11-cis-retinale si isomerizza a
tutto-trans-retinale. Successivamente, il trans- tende a tornare cis- con un’ulteriore formazione della
rodopsina e questo fenomeno attiva uno stimolo nervoso che raggiunge il cervello: il segnale luminoso
viene trasformato in stimolo nervoso e così si segnala al cervello l’intensità della luce.
La vitamina A ha anche attività
ormono-simile, anche se non è
molto potente. Per agire da
ormone l’11-cis-retinale (aldeide)
viene ossidato ad acido retinoico
(acido), che stimola alcune
tipologie di cellule e altera alcune
tipologie di geni influenzando
l’accrescimento osseo (quindi è
fondamentale per la struttura
scheletrica) e l’accrescimento
degli epiteli.

In commercio la vitamina A viene trovata molto in cosmesi, ad es. in creme antirughe, creme anti-
invecchiamento, creme solari (qui agiscono favorendo la proliferazione dell’epitelio), etc... essa infatti
stimola la produzione di collageno da parte dei fibroblasti e delle cellule dell’epidermide, così richiama
acqua e la pelle diventa più tonica.
In quanto acido retinoico è una sostanza attiva e inoltre tende ad accumularsi (è liposolubile). Essa non ha
effetti tossici esagerati, tuttavia un eccessivo uso può dare reazioni allergiche che possono manifestarsi
come gonfiore e rossore al volto.
Esso inoltre è un agente differenziante e viene usato in combinazione nelle terapie tumorali per far
differenziare le cellule tumorali, esse infatti quando si differenziano smettono di proliferare.

L’acido retinoico lo troviamo in frutta e verdura gialle, arancioni, rosse. Quando mangiamo alimenti ricchi di
questa molecola, come si estraggono i componenti presenti all’interno dell’alimento? Queste sono sostanze
lipofile quindi si l’alimento si presenta come una matrice vegetale (cellulosa) che contiene anche sostanze
lipofile, tuttavia nel nostro organismo la soluzione è prevalentemente acquosa quindi in buona parte gli
alimenti vegetali rimarranno non digeriti pertanto i carotenoidi non vengono estratti facilmente in
soluzione acquosa. Per aumentare l’estrazione dei carotenoidi può essere utile il calore della cottura e
anche la presenza di solventi organici some l’olio, che favorisce il passaggio dei carotenoidi dall’alimento
alla soluzione oleosa.
Esistono alimenti animali che contengono vitamina A? La troviamo nel latte e nei suoi derivati, prodotta
dalla mucca durante la digestione, che trasforma i carotenoidi nella forma attiva; questo vale solo per il
latte intero perché nel latte parzialmente scremato la parte grassa è ridotta e quindi anche la vitamina A.
Tra burro e margarina chi contiene di più la vitamina A? Il burro contiene vitamina A poiché è prodotto a
partire dal latte. La margarina invece è prodotta a partire da oli vegetali e tali oli vengono solidificati
tramite idrogenazione che trasforma gli acidi insaturi (che rendono olio liquido) in acidi saturi;
l’idrogenazione elimina anche i doppi legami della vitamina A (e altre vitamine) quindi nella margarina non
si avrà la vitamina A, mentre nel burro si. Ad oggi, possiamo produrre superfoods ossia cibi che tramite
lavorazione industriale possono essere arricchiti per aumentare i valori nutrizionali (es. la margarina
arricchita di vitamina A).
Anche la carne contiene vitamina A ma in basso quantitativo poiché si tratta della quota che ha assunto
l’animale con la dieta.

Le manifestazioni della carenza della vitamina A sono legate alle funzioni fisiologiche: visione,
differenziamento, glicosilazione, anti-ossidante, attività di protezione dell’epitelio. La carenza determina:
problemi di visione, soprattutto la notte quando la luce è poca; sintomi cutanei; sintomi generali; anemia (è
importante per la sintesi della transferrina e quindi è fondamentale per trasportare il ferro a livello degli
eritrociti).
I livello fisiologici sono normali nel range 400-800 mmg/l e si hanno sintomi di carenza quando i livelli sono
inferiori a 100 mmg/l.

VITAMINA D. Esistono diverse forme della vitamina D, una quota è prodotta dai batteri intestinali come D 2
che non è la forma attiva, infatti deve essere trasformata in D3; in parte la D3 viene attivata e modificata a
partire dal colesterolo (attivazione da
parte dei raggi UV).
In termini quantitativi è la vitamina che
siamo in grado di produrre
maggiormente, infatti la blanda
esposizione giornaliera al sole ci permette
di produrre quantità importanti (anche se
non sufficienti).
Il ruolo importante si ha a livello
intestinale dove la vitamina D favorisce
l’assorbimento di calcio poiché influenza
l’attività di proteine trasportatrici; agisce
anche a livello delle ossa poiché
determina maggiore deposizione di
materiale inorganico; infine agisce a
livello del rene nel riassorbimento del
fosfato e del calcio.
Anche questa vitamina ha attività
ormono-simile perché stimolando gli osteoclasti a calcificare può avere effetti importanti, il risvolto della
medaglia è che un’assunzione eccessiva può portare a ipercalcificazione con aumento del volume osseo e
calcificazione delle cartilagini. Ecco perché i livelli di vitamina D devono essere tenuti sotto controllo; anche
negli integratori e negli alimenti la quantità è dosata in modo che la concentrazione rimanga comunque nel
range fisiologico e l’assunzione giornaliera di integratori non causa problemi di questo tipo. Per scopi
terapeutici si parla invece di dosaggi 100-1000 volte superiori di quelli degli integratori e pertanto questi
possono essere venduti solo sotto prescrizione medica.
Dobbiamo assumere quotidianamente vitamina D poiché il deficit ha conseguenze importanti:
- Rachitismo nei bambini con inadeguata calcificazione
- Osteomalacia negli adulti con diminuzione della componente minerale delle ossa (si può parlare
anche di osteoporosi) che viene valutata con MOC; ad esempio, nelle donne in seguito alla
menopausa si ha squilibrio ormonale con alterazione metabolica e una delle manifestazioni
patologiche è la perdita di massa ossea negli anni, che può diventare importante.
Le cause del deficit possono essere carenze nella dieta nutritiva (se eliminiamo gli alimenti che la
contengono in dosi consistenti come latte, latticini, yogurt – essi sono ricchi anche in calcio quindi con
questi alimenti somministriamo vitamina D e calcio contemporaneamente quindi riesco a controbilanciare
la rarefazione ossea dovuta a carenza di vitamina D; in soggetti obesi o soggetti che non mangiano latticini
bisogna integrare la vitamina D e/o il calcio), diminuzione della sintesi endogena. Si è visto che anche un
eccessivo consumo di fibre chela molti minerali e può quindi portare a carenza. Anche problemi
all’apparato intestinale possono influenzare l’assorbimento: essendo una vitamina liposolubili avrà bisogno
dei sali biliari e delle lipoproteine, se questi non sono presenti si avrà minore assorbimento della vitamina.
Inoltre, i sali biliari e la vitamina D derivano dal colesterolo quindi anche carenza di colesterolo può portare
a deficit di vitamina D.

VITAMINA E. Strutturalmente è composta da un


anello e una catena alifatica. Si tratta di tocoferoli,
una famiglia di composti che ha la principale
funzione di essere tra i più potenti antiossidanti
naturali. L’attività antiossidante è legata alla
presenza di radicali liberi: esso agisce da scavenger e
permette di “disattivare” eventuali radicali liberi che
si formano. In generale i radicali liberi prodotti in
quantità adeguate hanno un ruolo importante e
positivo, tuttavia se i radicali liberi sono presenti in
modo eccessivo portano a stress ossidativo e in questa situazione quindi i radicali hanno connotazione
negativa. Quindi la presenza di radicali liberi deve essere tenuta sotto controllo e proprio qui interviene la
vitamina E: essa agisce da accettore di elettroni e si ossida, annullando i radicali liberi.
Oggi ci sono molte fonti esogene o motivazioni che causano stress ossidativo, come alimentazione
scorretta, stile di vita scorretto, fumo, alcol, droghe, sostanze tossiche, l’esposizione lavorativa a sostanze o
radiazioni (es. astronauti, personale di aereo). Anche l’attività fisica fa aumentare i ROS: un prelievo del
sangue effettuato nella fase di recupero dimostrerà che i ROS hanno causato una risposta infiammatoria e
pertanto avremo più citochine pro-infiammatorie in circolo. Ovviamente l’attività fisica è positiva poiché
“tiene reattivo” il nostro organismo che sarà allenato a reagire ad uno stress infiammatorio di questo
genere.
Non sono noti casi di carenza di vitamina E. La vitamina E può essere usata anche in quelle situazioni
patologiche che determinano un aumento dei ROS: arteriosclerosi, angina pectoris, distrofie muscolari,
tromboflebiti, aborto abituale, protezione tessuto cardiaco nella riperfusione post-infartuale (l’apporto di
O2 nel tessuto infartuato determina produzione alta di ROS pertanto riducendo tale stress molti danni sono
evitati).
La vitamina E è presente nel nostro organismo e va a localizzarsi e accumularsi prevalentemente nelle
membrane (danni di iperossidazione dei lipidi sono gravissimi): un eccesso di vitamine E ossia di agenti
riducenti sposta l’equilibrio verso uno stress riduttivo e si rischia di alterare la fisiologia cellulare.

VITAMINA K. Ha una struttura simile alla


vitamina E, infatti consta di anelli e catene
alifatiche (isoprenoidi). Una delle principali
funzioni è l’azione di coenzima nei confronti di
alcune carbossilasi che aggiungono un gruppo
carbossilico all’acido glutammico formando
l’acido γ-carbossiglutammico. Partecipando a
queste reazioni la vitamina K porta avanti
modificazioni importanti come la modifica
dell’osteocalcina. L’aggiunta di un gruppo
carbossilico (-COO- o -COOH) ha senso perché a
pH fisiologico (pH = 7.0) i residui sono quasi tutti nella forma -COO- (carica negativa) pertanto l’aggiunta di
tale gruppo permette alle molecole di legare meglio il calcio. Questo ad esempio è molto importante nella
coagulazione e difatti il principale difetto della carenza di vitamina K sono i danni coagulativi.

La vitamina K viene prodotta dai batteri intestinali mentre negli alimenti non se ne hanno quantità
altissime, ciò non è grave poiché non ne abbiamo bisogno in grandi quantità. Proprio perché la vitamina K è
prodotta dalla flora intestinale, danni all’assorbimento intestinale causeranno problemi anche alla
produzione (oltre che all’assorbimento) di vitamina K.
I farmaci derivati cumarinici (es. cumarin) sono molto simili alla vitamina K quindi competono per il sito di
legame della vitamina K e le carbossilasi non funzionano. Queste sostanze sono molto potenti tanto che
possono causare emorragie spontanee. Il neonato ha una scarsa capacità di assorbire la vit K, infatti si
tende a somministrarla alle madri per l’allattamento.
La fermentazione fa aumentare la vitamina K, tanto che se le mucche mangiano il trifoglio fermentato
muoiono per emorragia interna.

Lezione 8 – 22/10/2020

SALI MINERALI
Parliamo dei principali sali minerali. I sali minerali di cui abbiamo bisogno sono molti e si ha una grande
differenza in termini quantitativi rispetto al nostro fabbisogno. Ad esempio, parlando di ferro, calcio,
potassio, sodio il fabbisogno è di decine di mg/gg, mentre per altri il fabbisogno diminuisce a frazioni di mg
e in alcuni casi si parla di elementi in tracce. Si parla di macroelementi se il fabbisogno giornaliero è
dell'ordine dei grammi o dei decimi di grammo; si parla di micronutrienti se il fabbisogno giornaliero è
dell'ordine dei 100-1000 microgrammi.
Alcuni sali minerali sono definiti essenziali, altri sono definiti probabilmente essenziali (poiché nel nostro
organismo se ne trovano quantità molto piccole, ai limiti della sensibilità degli strumenti di rivelazione),
altri ancora potenzialmente tossici e sono presenti in tracce quindi anche se tossici qualche ruolo ce
l’hanno ma, dato che la loro quantità è così piccola la loro attività sarà minima quindi essi non hanno un
fabbisogno, anzi l’accumulo è tossico. Ad esempio, nel pesce abbiamo un problema di bio-accumulo del
mercurio, e sono stati fatti degli studi sulla popolazione di Livorno che mettono in evidenza che chi ha
un’alimentazione a base di pesce presenta il 40-45% di mercurio in più rispetto a chi non mangia pesce. Il
piombo è stato tolto anche dalle benzine (era aggiunto come gas detonante) poiché ne venivamo a
contatto. Anche l’arsenico è tossico, anche se un tempo l’unica cura per la sifilide era il trattamento con i
sali di arsenico. Lo stronzio con il disastro di Chernobyl venne rilasciato in grosse quantità nell’atmosfera e
venne respirati e così si fissò nelle ossa. L’alluminio può derivare da contaminazioni per chi lavora a livello
industriale oppure ci sono delle pentole che possono contaminare gli alimenti. Il lito è anch’esso tossico e
deriva principalmente dall’uso di farmaci anti-depressivi a base di sali di litio; allo stesso modo anche per
l’oro, esistono dei trattamenti a base dei sali d’oro per i malati di artrite reumatoide, per lenire i sintomi
tuttavia noi accumuliamo questo oro e causa danni a livello di cuore e di reni.

Il rame è essenziale poiché abbiamo enzimi che sono Cu-dipendenti per esempio è contenuto a livello del
complesso IV (citocromo ossidasi) della catena respiratoria. Allo stesso modo, ci sono anche enzimi Zn-
dipendenti, quindi lo zinco è essenziale. Lo iodio invece è essenziale per la tiroide; in Italia sono molti i
soggetti a carenza di iodio e questa si può risolvere con composti addizionati di iodio (es. sale iodato). Il
cobalto è anch’esso essenziale in quanto presente nella vitamina B12. Il fluoro fa parte della componente
minerale dei denti (la dentina). Il selenio è anch’esso essenziale, tanto che sono in vendita alimenti
fortificati col selenio come la patata selenella (è una patata che bio-accumula selenio), infatti noi abbiamo
un enzima selenio-dipendente, in particolare contiene residui di selenocisteina, un amminoacido
modificato (è una cisteina che nella catena laterale al posto di -S ha -Se). Questo enzima è uno scavenger
per l’accumulo di radicali liberi quindi il selenio è importante poiché ci aiuta a rimuovere i radicali liberi.
Un po’ strano è la presenza del cromo fra gli essenziali, infatti quasi tutte le forme del cromo sono tossiche
(in particolare il cromo esavalente Cr6+ è tossico ed è pro-tumorigenico), eccetto quello che serve al nostro
organismo ossia il cromo trivalente Cr3+ (film Erin Brokovick), che comunque serve in tracce; il cromo
esavalente può venire a contatto con noi poiché esso viene usato come agente passivante, cioè per
rivestire tubature (cromatura) infatti si deposita uno strato di cromo esavalente che ricopre i metalli e
impedisce che il metallo arrugginisca, il problema è che qualche multinazionale l’ha usato nelle tubature
dell’acqua che viene bevuta quindi il problema era che il cromo si scioglieva nell’acqua che veniva bevuta e
si accumulava nell’organismo. Come ci si è accorti che il Cr3+ era fondamentale? Questa scoperta risale alla
produzione e allo sviluppo delle metodiche di alimentazione parenterale, ossia esterna, per tutti gli
individui che non riescono più a mangiare e/o digerire (es. danni all’esofago, danni allo stomaco, danni al
tubo digerente, resezione dello stomaco). Ad esempio, i soggetti che entrano in coma sono alimentati
inizialmente magari con le flebo e successivamente di inseriscono delle cannule direttamente nell’intestino e
attraverso delle pompe si fa entrare nell’organismo cibo sintetico ossia miscele sostitutive dei pasti e si
simula l’alimentazione, per fare rimanere l’intestino attivo (l’assorbimento avviene a livello intestinale), per
non mettere fuori uso la flora batterica. Inizialmente, soggetti alimentati in questo modo usavano
preparazioni in cui nessuno aveva pensato di aggiungere cromo e tali soggetti tendevano a sviluppare
forme di resistenza agli zuccheri (simili al diabete, sviluppavano intolleranza al glucosio); ci si accorse che il
tutto poteva essere evitato se si aggiungeva il Cr3+ in tracce, che quindi è essenziale e serve a prevenire
insorgenza di patologie come l’intolleranza al glucosio. Il cromo si trova in frutta e verdura in piccole
quantità
FERRO
Il ferro è un elemento importante nel nostro organismo ed anche
molto abbondante anche nella litosfera in senso assoluto, tuttavia si
tratta di ferro complessato infatti spesso il ferro si associa a formare
complessi insolubili e quindi non è semplice nemmeno assorbirlo.
Fortunatamente le piante fanno il “lavoro sporco” per noi, poiché dalle
radice le piante liberano siderofori ossia sostanze in grado di chelare il
ferro. Il ferro infatti è essenziale anche per le piante; nell’uomo il ferro
è molto importante specialmente quando si parla di catena di
trasporto degli elettroni.
Noi lo introduciamo con l’alimentazione, mangiando frutta e verdura
(le piante lo accumulano per noi) oppure mangiando carne di animali
che si cibano di vegetali che quindi hanno estratto il ferro da vegetali
(il colore rosso della carne è dovuto alla presenza alla mioglobina – che
è la forma di accumulo dell’ossigeno nelle cellule muscolari).
Il ferro estratto è presente principalmente in due forme ossia Fe2+ o Fe3+ (le altre forme non riusciamo ad
assorbirle), il preferito è il Fe2+ perché il Fe3+ va incontro a ossidoriduzione e di conseguenza se si accumula
può essere fonte di radicali liberi che causano stress ossidativo. Quindi quando assumiamo Fe3+ è bene che
questo venga ridotto a Fe2+, infatti è ciò che avviene nell’emoglobina o nella mioglobina dove è proprio il
tetrapirrolo che permette al ferro di rimanere nella forma ridotta Fe2+. Può capitare che il ferro Fe2+ si ossidi
nell’emoglobina e nella mioglobina a Fe3+ e in questo caso si parla di metaemoglobina e non è più in grado
di legare l’ossigeno. All’interno dei mitocondri il ferro passa ciclicamente da Fe3+ a Fe2+, viene
continuamente rigenerato.

La carenza di ferro è definita sideropenia, essa si manifesta con spossatezza, mal di testa, malessere, scarsa
ossigenazione, incapacità di produrre ATP, di
poter sostenere sforzi rilevanti, quindi questa
carenza è una sindrome pesante che ha un certo
impatto sulla nostra salute e capacità di
interagire e lavorare, questo avviene perché il
ferro ha un ruolo importante nel nostro
metabolismo. Qual è la dose raccomandata? Per
una donna giovane (fertile) si raccomanda
20mg/gg, mentre in gravidanza aumenta;
nell’uomo si hanno indici minori.
Questo è indice del fatto che il fabbisogno cambia
in condizioni fisiologiche.
Quando ci si è accorti che il ferro era importante per la salute dell’uomo? Da quando la medicina è
diventata scienza nel vero senso della parola. Alla fine del 1800, quando si iniziò a popolare le città, si
lavorava 15-18 h al giorno (i non benestanti) e l’alimentazione era scarsa; in particolare, le giovani donne
che rimanevano incinta non potevano permettersi di non lavorare, e quindi si cominciò a mettere in
evidenza questa patologia, la clorosi, ossia un fenomeno di sbiancamento (che avviene anche nelle piante
quando il terreno/concime non contiene ferro) – infatti, ancora oggi i soggetti anemici si presentano pallidi.
Il fatto che venissero descritti
all’epoca vuol dire che era un
fenomeno molto frequente nella
popolazione, non si sapeva che la
causa era legata al ferro, però
somministravano qualcosa che
rinvigoriva, ad esempio vino, cibi a
base di cacao (100 mg di cacao in
polvere contengono circa 14 mg di
ferro): non era noto che questi cibi
contenessero ferro ma l’esperienza
diceva che quando si
somministravano, si avevano
sintomi migliori. Ancora meglio se il
cacao è nella sua forma originale
ossia le fave di cacao non lavorate,
che sono amarissime e sono
ricchissime di magnesio e ferro. Tutto ciò per dire che erano già noti segnali di importanza del ferro anche
se non si era consci.

Lezione 9 – 28/10/2020

FUNZIONI FISIOLOGICHE DEL FERRO


Il ferro ha molte importanti funzioni fisiologiche, come ad esempio il trasporto di O2 tramite emoglobina e
mioglobina. La mioglobina e l’emoglobina contengono un ferro eme: la mioglobina si trova soprattutto nei
muscoli, ed è quella che dà il colore rosso alla carne (nella carne bianca è presente a concentrazioni minori);
l’emoglobina invece la troviamo nel circolo sanguigno.

Il ferro lo troviamo anche in altre proteine ma quello presente all’interno dei globuli rossi può avere un
significato particolare poiché lega ossigeno che è un ossidante. In questa situazione, in condizione
aerobiche (metabolismo aerobio), può capitare che una volta legato all’eme l’ossigeno tenda ad ossidare il
ferro dell’emoglobina Fe2+ che quindi si trasforma in Fe3+ il quale non è in grado di legare ossigeno.
L’emoglobina contenente Fe3+ al posto di Fe2+ è detta metaemoglobina; questa ossidazione fa cambiare
anche lo spettro di assorbimento dell’emoglobina: l’emoglobina è di colore rosso e quando si trasforma in
metaemoglobina diventa bluastra, il sangue quindi diventa cupo, rosso scuro, tanto che i cianotici
diventano blu, per questo motivo, gli manca l’ossigeno. La reazione di ossidazione del ferro avviene poiché
l’ossigeno è un ossidante, fortunatamente nei globuli rossi c’è la metaemoglobina-reduttasi che riduce
questa metaemoglobina. Quando si ha problemi a livello di questo enzima diventa bluastra.

La metaemoglobina è un problema pertanto interviene la metaemoglobina reduttasi che riduce gli atomi di
Fe3+ a Fe2+ ripristinando l’emoglobina normale. Se siamo in condizioni patologiche in cui si hanno mutazioni
a carica della reduttasi, l’enzima è meno efficiente o del tutto inattivo e la percentuale di metaemoglobina
in circolo tende ad aumentare e non può essere eliminata se non con la degradazione dei globuli rossi: i
soggetti portatori di mutazioni inattivanti a carico del gene della reduttasi soffrono di una patologia legata
all’accumulo di metaemoglobina quindi hanno difficoltà di trasporto di O2 ed è come se fossero in carenza
di ossigeno (ipossia) infatti per compensare il battito cardiaco tende ad aumentare; inoltre il sangue tende
a scurirsi e la pelle da rosa tende al bluastro (colorazione blu della pelle – Storicamente il “sangue blu”
significa avere discendenza reale perché probabilmente in passato ci fu una casata in cui le portatrici della
mutazione trasferivano la mutazione ai figli); sono affaticati e incapaci di svolgere incarichi pesanti
(stanchezza).
Non ci sono solo cause genetiche che colpiscono la metaemoglobina reduttasi ma anche cause esterne
come esposizione a sostanze che determinano intossicazione acuta, ad esempio l’anilina (usata
nell’industria di solventi e vernici, ossida il ferro e impedisce di legare l’ossigeno) o l’utilizzo dii farmaci (es.
antipirina, che è un antimalarico, o fenacitina).

La mioglobina e l’emoglobina non sono le uniche a contenere ferro, infatti ci sono anche le proteine Fe-S,
che si trovano nella catena di trasporto di elettroni, o anche i citocromi.
In generale, le emoproteine sono metalloproteine contenenti un gruppo prostetico eme legato
covalentemente o non covalentemente alla proteina. Tra queste troviamo ad esempio i citocromo P450 che
si trovano nel fegato e sono coinvolti nelle reazioni di detossificazione. Inoltre abbiamo:

Altri enzimi invece non contengono gruppi eme ma contengono il ferro, e quindi sono detti non-eme
proteine. Tra questi abbiamo:

La distinzione tra ferro eme e ferro non-eme è importante per il metabolismo.


BIODISPONIBILITÀ DEL FERRO
La biodisponibilità del ferro, ossia la capacità che noi abbiamo di estrarre ferro dalle fonti naturali per poi
usarlo, è molto bassa. Nonostante gli alimenti possano contenere ferro, la maggior parte viene persa
poiché non siamo in grado di estrarlo; solo il 3-10% del ferro ingerito viene assorbito dall’organismo.
I vegetali come gli spinaci contengono il ferro non-eme, nella sua forma complessato con i siderofori, che
trasportano il ferro e impediscono che si ossidi (l’ossidazione creerebbe problemi anche alle piante).
Braccio di Ferro venne commissionato da un commerciante americano di spinaci, che aveva tutto
l’interesse di vendere spinaci in scatola, per marketing. Ma comunque è la fonte migliore di Fe? No, ci sono
fonti vegetali molto più ricchi di ferro, le lenticchie, i ceci, la rucola, i pistacchi, prima di arrivare agli spinaci
ce ne sono molti altri. Nelle tabelle seguenti vediamo la quantità di ferro contenuta negli alimenti (la prima
tabella indica fonti animali, la seconda fonti vegetali):
In generale c’è un’ampia variabilità sia nella carne che nei vegetali, anche se nella carne il contenuto è
LEGGERMENTE più alto (solo se si va nel dettaglio possiamo dire che la carne più ricca è il manzo,
specialmente il fegato). Ma il ferro è ugualmente biodisponibile in carne (ferro eme) e verdura (ferro non-
eme)? No, perché il ferro non-eme è molto meno biodisponibile del ferro eme. Questo perché i vegetali
hanno cellule contenenti la cellulosa (rientra nelle cosiddette fibre), che noi possiamo distruggere solo
grazie al microbioma: quindi in generale è più difficile estrarre il contenuto delle cellule. Le cellule animali
invece sono più facili da digerire: la loro ultrastruttura viene degradata dagli enzimi, e questo permette una
più facile liberazione sia del ferro non-eme (dalla degradazione delle eme-proteine) e anche una facilità
maggiore nel reperire ferro; ad esempio, nelle proteine Fe-S il ferro è legato a residui di Cys, quindi quando
gli enzimi proteolitici degradano la proteina, il ferro non-eme è liberato. Quindi la carne ha migliore
biodisponibilità di ferro.
Per aumentare la biodisponibilità degli alimenti ci sono alcuni accorgimenti culinari ossia condire carne e
verdure con limone o aceto, ossia con acidi. Questo funziona perché l’acidità svolge la sua azione di liberare
il ferro: il ferro complessato nelle proteine non è semplice da liberare e abbassare il pH aiuta a liberarlo. Ad
esempio, nelle proteine Fe-S le Cys coordinano il ferro, in questa situazione se abbasso il pH le Cys tendono
a protonarsi quindi il gruppo laterale da -S- diventa -SH quindi il ferro non ha più possibilità di legarsi e si
libera. Un esempio pratico è quello della ruggine (idrossido di ferro) che è insolubile in acqua, tuttavia in
ambiente acido essa scompare poiché il ferro entra in soluzione. Anche le piante usano questo principio,
esse infatti estraggono il ferro dal terreno tramite il rilascio di acidi organici che acidificano il terreno e il
successivo rilascio di chelanti del ferro che impedisce al ferro di formare nuovi complessi e così può essere
catturato dalla pianta. L’acidificazione quindi è importante per aumentare l’assorbimento del ferro.
Oggi moltissime ricette prevedono la marinatura, che di solito si fa in un ambiente riducente; si fa con acidi
ed anche riducenti molto più blandi, lo zucchero (che sotto certe quantità è anche conservante), il glucosio
(l’agrodolce). L’abitudine di mangiare con il limone, anche la tartare o nel pesce, abbassa la carica batterica,
conserva maggiormente e rende più biodisponibili i minerali.
Parallelamente, per favorire l’assorbimento non dobbiamo assumere il ferro insieme a ioni che possono
complessarsi ad esso, ad esempio il calcio (es. evitare di condire verdure con il formaggio). In questo caso,
una volta ingeriti il ferro e il calcio, il bolo arriva nello stomaco dove si ha pH =1 (acido) e il ferro è rilasciato,
tuttavia quando il bolo passa nell’intestino il pH torna a valore 7 (alcalino) e così il calcio si complessa al
ferro e non lo rende disponibile.

Il cibo passa dallo stomaco e grazie all’acidità fisiologica dello stomaco è possibile estrarre il ferro. Il pH
acido (circa 1.5) funziona da agente antibatterico, inoltre denatura le proteine (facilitando l’intervento della
pepsina).
Si può avere anche la riduzione di Fe3+ a Fe2+ e questo è importante poiché il Fe2+ non forma molti complessi
quindi è la forma più biodisponibile; questo quindi è un modo per rendere il ferro più biodisponibile.
Se andiamo ad impattare la funzionalità dello stomaco ovviamente queste situazioni sono compromesse.
Ad esempio, se non produciamo acido cloridrico HCl a causa di mutazioni delle cellule parietali (patologia
definita acloridia), o se ci sono problemi di esportazione dello stomaco, o patologie a carico dello stomaco,
o se usiamo farmaci che bloccano la produzione di HCl, o se abusiamo di antiacidi.

MODALITÀ DI ASSORBIMENTO DEL FERRO


L’assorbimento avviene a livello intestinale, in particolare nel duodeno, dove sono presenti villi intestinali
costituiti dagli enterociti, i quali hanno una parte apicale che presenta microvilli ossia la parte dove avviene
l’assorbimento del ferro. L’assorbimento del ferro non è un processo semplice perché il ferro è carico (Fe2+)
quindi non riesce a passare a meno che non ci siano trasportatori. La diffusione semplice degli ioni carichi
avviene con trasporto passivo o attivo.
Nell’intestino si assorbe solo Fe2+, mentre il Fe3+ non passa la membrana, perché esiste un trasportatore di
metalli bivalenti che riesce a trasportare solo Fe2+. Il Fe3+ o non viene assorbito o viene trasformato in Fe2+
grazie alla ferrireduttasi intestinale presente sulla membrana che riduce Fe3+ a Fe2+.
Il Fe2+ può penetrare nella cellula grazia al trasporto di metalli bivalenti in cotrasporto con protoni. Il ferro
quindi entra nel citoplasma della cellula, dove non può stare libero (poiché potrebbe ossidarsi e dare
origine a produzione di radicali liberi) quindi o viene utilizzato per la costruzione delle proteine o viene
depositato. Il deposito avviene grazie alla ferritina, una proteina che assume una struttura quaternaria
particolare che la rende adatta ad agire da deposito intracellulare del ferro, evitando che il ferro sia libero
nel citoplasma. La ferritina è molto particolare poiché è una sfera cava che può riempirsi di atomi di ferro,
fino a 4000 atomi di ferro.

La ferritina tuttavia è un deposito dinamico e non statico: quando il ferro è abbondante la ferritina ne
accumula molto; quando la concentrazione di ferro intracellulare scende, la ferritina rilascia il ferro.
Altro aspetto interessante è che la ferritina accumula ferro Fe3+, infatti il ferro viene ossidato quando entra
nella ferritina e questo è importante perché se nella cellula c’è Fe3+ la ferritina lo cattura subito per tenere
basso il livello intracellulare della forma più tossica di ferro.
Una volta assorbito, il ferro deve uscire dalle cellule intestinali.
Il ferro per uscire dalla cellula ha bisogno della ferroportina, una proteina canale che è specifica per il ferro
e che permette la liberazione del ferro che quindi si dirige nel sangue. Tuttavia, il ferro non può circolare
libero nel sangue perché se rilasciato come libero rischia di essere ossidato (il sangue è ricco di ossigeno e
quindi è un ambiente ossidante). Per questo motivo il ferro rilasciato viene legato dalla transferrina, che si
trova nel sangue, che è la proteina responsabile del trasporto di ferro nel sangue.
Quindi possiamo dire che la capacità di assorbire eme dipende: dalla quantità di ferro assorbito (dipende da
quanto ne ingeriamo), dalla capacità di entrare nelle cellule (dipende dal trasportatore di ioni bivalenti) e
dalla capacità di uscire dalle cellula per entrare nel sangue (dipende dalla presenza di ferroportina).
Quindi è molto importante regolare la ferroportina.

Esiste una proteina detta epcidina che regola l’attività della ferroportina. L’epcidina ha un significato
inibitorio per il trasporto del ferro poiché essa si lega alla ferroportina e così determina l’internalizzazione
del trasportatore (endocitosi) da parte della cellula e in questo modo il ferro non può essere espulso. La
degradazione dell’epcidina riporta la transferrina a livello della membrana e così il ferro può uscire
dall’enterocita.

Quindi il ferro esce dalla cellula e passa nel sangue come ferro Fe2+; esso va incontro alla reazione di
ossidazione grazie all’efestina (proteina della membrana basale degli enterociti) o alla ceruloplasmina
(enzima circolante presente nel sangue) che formano Fe3+; questo passaggio è necessario poiché la
transferrina lega solo Fe3+. Il fatto che la transferrina leghi Fe3+ è importante perché il sangue è un ambiente
ossidante quindi può capitare che il ferro libero (derivato ad es. da processi di degradazione) si trasformi in
Fe3+ che è molto pericoloso, in questo modo la transferrina lo lega e contribuisce a tenere basso il suo
livello nel sangue (la transferrina agisce da scavenger del ferro).
Il carbonato viene prodotto perché l’anidrasi carbonica trasforma il CO2 prodotto dalla respirazione
cellulare. Che fine fa la transferrina una volta legato Fe3+? Il destino della transferrina è legato al ciclo della
tansferrina.

Sulla parete di tutte le cellule del nostro organismo troviamo il recettore per la transferrina, che quando
lega la transferrina circolante forma l’endosoma. Nell’endosoma vengono riversati i lisosomi che acidificano
il pH dell’endolisosoma, e così determinano la dissociazione del ferro dalla transferrina con formazione di
apo-transferrina (ossia transferrina senza Fe3+) e il distacco della transferrina dal proprio recettore. Sulla
parete dell’endosoma c’è il trasportatore di metalli bivalenti DMT1 che permette la liberazione di Fe2+ nella
cellula; una volta nella cellula, il ferro o viene usato dalle proteine o viene internalizzato nella ferritina o
fuoriesce dalla cellula. L’apo-transferrina e il recettore per la transferrina sono riciclati: quando il ferro è
fuoriuscito dall’endosoma, la vescicola si fonde alla membrana e così rilascia l’apo-transferrina in circolo e i
recettori sono nuovamente esposti sulla membrana.
Il ferro eme deve essere sbloccato. Le cellule dell’epitelio intestinale possiedono un recettore per l’eme e
quindi sono in grado di catturare il gruppo eme con altissima affinità, questo significa che nel lume
intestinale il fenomeno di recupero degli eme è molto alto. Questa differenza tra i due metabolismi ferro
eme e ferro non-eme è fondamentale: il trasportatore bivalente che abbiamo visto nel ferro non-eme va
secondo gradiente quindi il ferro entra nella cellula solo se la concentrazione esterna è molto alta e solo se il
ferro nel lume intestinale non è chelato; invece, il ferro-eme viene assorbito sempre, ecco perché per noi è
più facile assumere ferro-eme. Quindi i vegani sono a rischio deficit? No. Abbiamo visto che dipende dalla
quantità relativa di ferro che noi assumiamo e dalla capacità individuale di assorbirlo. Ovviamente, se
l’alimentazione è scarsa può essere rilevante il tipo di ferro che si ingerisce (in questo caso è da preferire il
ferro-eme); ad esempio, nei momenti di carestia e difficoltà, molte fasce di popolazione non avevano cibo e
quando le persone si ammalavano la situazione era ancora peggiore: in queste situazioni il dottore
“prescriveva” di cibarsi di carne poiché la disponibilità di ferro era molto più rapida.
Una volta che l’eme si lega al recettore, si ha l’internalizzazione del complesso con formazione di endosoma
che si fonde ai lisosomi che determinano acidificazione; qui sono rilasciati enzimi particolari poiché per
liberare ferro si
devono liberare
eme-ossigenasi
ossia enzimi che
rompono la
struttura
dell’eme grazie a
redox: il
tetrapirrolo si
apre e così il
ferro è liberato.
Il Fe3+ liberato in questa reazione è trasformato dall’acidità dell’endosoma a Fe2+ che esce grazie al
trasportatore degli ioni bivalenti. Se questo non succede, quando l’endosoma si fonde alla parete libera il
Fe3+ in circolo. Quando invece il Fe2+ è liberato nel citoplasma esso fuoriesce grazie alla ferroportina e o è
impiegato nelle proteine o viene accumulato dalla ferritina.

IL CICLO DEL FERRO


Il ferro è importante per il ciclo del ferro che spiega come viene usato il ferro.

Se facciamo una “mappa” per capire dove sta il ferro, scopriamo che i 2/3 del ferro totale stanno nei globuli
rossi.

Quindi il principale meccanismo attraverso il quale noi possiamo perdere ferro sono le emorragie, poiché la
principale riserva di ferro sta nel sangue; alcune emorragie hanno ruolo fisiologico (es. periodo mestruale)
mentre altre sono dovute a lesioni tissutali che possono causare emorragie più o meno intense.

Lezione 10 – 29/10/2020

Il nostro organismo fa un grande sforzo per recuperare il ferro interno ai globuli rossi durante il processo di
emocateresi, che è principalmente a carico della milza. Se tale processo determinasse la dispersione del
ferro sarebbe un problema, ma questo non avviene perché noi siamo in grado di recuperare ferro e
ridistribuirlo al resto dell’organismo.

Durante la fase di eritropoiesi si deve portare il ferro nella protoporfirina IX per formare l’eme. I globuli
rossi per maturare devono produrre emoglobina, sintetizzando la parte proteica e l’eme. L’ultimo step nella
formazione dell’eme è catalizzato dalla ferrochelatasi che lega il ferro; se questo passaggio non avviene,
non si forma l’eme e si ha un accumulo di intermedi. Questo succede in situazioni patologiche dove il gene
della ferrochelatasi è mutato: non sintetizzando l’eme, il ferro rimane in circolo e si accumulano intermedi,
compresa la protoporfirina IX. Inoltre, in caso di mancata produzione del gruppo eme, si ha un difetto nel
trasporto dell’ossigeno e quindi il nostro organismo libera ormoni che stimolano eritropoiesi, ossia
l’eritropoietina, che stimola la sintesi di nuovi globuli rossi; tuttavia, se la ferrochelatasi non funziona l’eme
comunque non si forma e quindi questo stimola ancora di più l’accumulo degli intermedi.
Gli intermedi si accumulano e vanno anche a livello dell’epidermide; queste molecole hanno una
caratteristica particolare perché quando si accumulano possono assorbire l’energia dei raggi UV e la
riemettono formando radicali liberi. Quindi mutazioni nel gene della ferrochelatasi causano problemi
enormi: in seguito all’esposizione al sole, a livello della pelle si hanno danni simili a ustioni, che
danneggiano la pelle in modo devastante. Chi soffre di questo problema non può mai stare al sole,
nemmeno dalla finestra. Oltre a questo, tali soggetti soffriranno anche di anemia.
Quindi abbiamo: stanchezza, ipossia, accumulo di ferro, carenza di eme, anemia, impossibilità di
esposizione al sole (causa bolle sulla pelle). La cura migliore sarebbe assumere gruppo eme, quindi è
necessario fare trasfusioni, tuttavia questa non è una soluzione perché il gruppo eme viene internalizzato
attraverso un recettore e nell’endosoma può essere degradato (endocateresi, che spesso è talmente
elevata che può portare a splenomegalia), quindi non possiamo sostituire il gruppo eme assumendo l’eme.
Tuttavia, l’assunzione può aiutare la formazione di nuovi globuli rossi e ciò può giovare un certo sollievo. Il
gruppo eme oltre alle trasfusioni lo recuperiamo anche dalla carne rossa. È probabile che tale patologia,
detta porfiria eritropoietica, abbia suggerito alcuni atteggiamenti che ritroviamo anche nel mondo
cinematografico (“Dracula”).
Da un punto di vista pratico la terapia genica per questi soggetti funziona. Il gene però viene inserito in una
regione diversa da quella originale quindi manca la regolazione a cui sottostà il gene originale, pertanto si
avrebbe lo stesso un problema, a causa di una produzione eccessiva di gruppo eme.

Per la sintesi dei globuli rossi quindi è necessario produrre il gruppo eme e di conseguenza è necessario il
ferro, che poi deve essere recuperato quando i globuli rossi sono degradati. I globuli rossi sono degradati
tramite i macrofagi che assorbono e distruggono il globulo rosso, recuperando il ferro che poi può
accumularsi nei macrofagi o può essere liberato. Solitamente si recupera circa il 90% del ferro contenuto
nei globuli rossi.
Il sistema deputato alla distruzione dei globuli rossi è il sistema reticolo endoteliale, costituito da monociti e
macrofagi, milza, fegato e midollo osseo. I globuli rossi hanno una vita media di circa 120 giorni e ogni
giorno vengono riciclati circa 21 mg di ferro, pertanto abbiamo un efficienza del riciclo di circa il 90%.
Quindi se non ci sono emorragie importanti noi abbiamo delle riserve di ferro importanti: il nostro
organismo in totale può disporre di circa 3,5 g di ferro; giornalmente ne perdiamo 1,2 mg, ad esempio nella
desquamazione dell’epitelio intestinale, o la desquamazione dell’epidermide.

Dato che la disponibilità è circa il 10% noi abbiamo bisogno di circa 20 mg al giorno, in modo che
effettivamente si assorbano circa 2 mg, così andiamo a bilanciare le perdite giornaliere.

REGOLAZIONE DELL’OMEOSTASI DEL FERRO


Se la richiesta di ferro aumenta, che succede? E se invece ho troppo ferro in circolo, che succede?
Per incrementare/inibire l’assorbimento e il trasporto del ferro si agisce a livello post-trascrizionale,
andando a regolare l’mRNA del recettore per la transferrina e l’mRNA della ferritina.
La regolazione dell’espressione di questi mRNA avviene in modo non banale. A livello del 5’-UTR e 3’-UTR si
formano delle forcine dette IREs che sono importanti poiché rappresentano zone regolatrici con diverso
significato: le IREs al 5’-UTR hanno una funzione inibitoria poiché bloccano la sintesi e quindi inibiscono la
traduzione dell’mRNA; le IREs al 3’-UTR stabilizzano l’mRNA e così aumentano la traduzione e la sintesi
della proteina. I due mRNA, quello per la ferritina e quello del recettore per la transferrina, presentano IREs
in posizioni diverse:

Questo ci dice quindi che i due geni sono controllati in modo diverso, probabilmente in modo opposto.
Questo è possibile poiché le forcine, sono il punto di ancoraggio per le proteine IREBP1 e IREBP2. Tali
proteine sono coinvolte nella regolazione post-trascrizionale di numerosi geni: ferritina, amino-levulinato
sintasi (sintesi eme), ferroportina, recettore per la transferrina, DMT1. Tali proteine sono in grado di legarsi
alle forcine che si trovano in tutti i geni sopracitati – tutti coinvolti nella regolazione del ferro.

La proteina IREBP1 è una proteina Fe-S che può legare ferro; essa funziona secondo la concentrazione
intracellulare di ferro: se il ferro è molto abbondante, IREBP1 lega il ferro e diventa un’aconitasi (trasforma
citrato in isocitrato); se il ferro diminuisce, esso non si lega più a IREBP1 che quindi non funziona da
aconitasi ed è in grado di legare i gruppi IREs presenti negli mRNA.
La proteina IREBP2 non è una proteina Fe-S: essa in assenza di ferro lega le IREs all’estremità 3’-UTR,
stimolando la traduzione degli mRNA; viceversa se il ferro aumenta la proteina è degradata. Quindi questa
proteina lavora solo quando il ferro è presente a basse concentrazioni.

Pertanto, in carenza di ferro entrambe IREBP1 e IREBP2 possono legare le regioni UTR dell’mRNA:

Quindi quando c’è poco ferro il recettore della transferrina è espresso di più mentre la ferritina viene
espressa meno. Il recettore della transferrina serve a catturare la transferrina legata al ferro e portarla
dentro, quindi in condizioni di poco ferro si ha la necessità di catturare più transferrina e questo permette
alle cellule di tamponare la momentanea carenza di ferro (che è legato dalla transferrina perché è nel
circolo sanguigno). Nella cellula esiste anche la forma transitoria di accumulo di ferro che è la ferritina,
quindi se dobbiamo riversare più ferro nel sangue, la ferritina deve essere “svuotata” e il miglior modo per
farlo è ridurre l’espressione della ferritina stessa in modo che il ferro possa essere riversato nel sangue.
Quando invece la concentrazione di ferro aumenta si deve evitare che esso sia riversato ulteriormente nel
sangue quindi si aumenta l’espressione della ferritina e inoltre. Quindi quando c’è molto ferro né IREBP1 né
IREBP2 lavorano: non si inibisce la ferritina mentre si destabilizza il gene per il recettore della transferrina.

Quando c’è molto sangue dobbiamo evitare che le cellule si sovraccarichino di ferro quindi downregolo il
recettore della transferrina, al contrario il gene della ferritina viene tradotto e così aumentano i depositi
intracellulari e si evita che il ferro sia riversato nel sangue.
La regolazione può avvenire anche grazie al controllo a livello degli enterociti e questo è importante poiché
gli eritrociti sono il punto di entrata del ferro. Dato che la ferroportina è regolata dall’epcidina, anche
quest’ultima è importante nella regolazione. L’epcidina è sintetizzata dal fegato e quando si lega alla
ferroportina la internalizza e quindi ne stimola la degradazione. Quando si ha eccesso di ferro, l’epcidina si
lega alla ferroportina e impedisce al ferro di uscire dalla cellula ed entrare nel sangue, incrementando gli
accumuli intracellulari. Viceversa, in condizioni di carenza di ferro si blocca la sintesi dell’epcidina, così la
ferroportina si posiziona sulla membrana e permette l’uscita di ferro dalla cellula che quindi entra in
circolo.

Ad esempio, in condizioni di ipossia l’organismo stimola la produzione di globuli rossi; tuttavia,


l’eritropoietina non solo stimola l’eritropoiesi ma interagisce anche a livello del fegato dove inibisce la
sintesi dell’epcidina. Se invece abbiamo molta ferritina, evidentemente abbiamo molto ferro e quindi
dobbiamo evitare che esso si accumuli nel sangue: l’aumento della ferritina è un segnale per andare a
produrre più epcidina che in questo modo interagisce con molte cellule, ad esempio nell’apparato gastrico
blocca l’assorbimento, oppure si lega ai macrofagi impedendo di liberare il ferro derivato dalla
degradazione dei globuli rossi; oltre a questo l’epcidina blocca il rilascio di ferro nel fegato.
Quindi possiamo schematizzare la regolazione della sintesi epatica dell’epcidina come segue:
Come si può andare in carenza di ferro? Ci sono senz’altro fattori che possono limitare l’assorbimento di
ferro:
- Eccessivo transito intestinale, come la diarrea ce non dà il tempo di assorbire il ferro
- Uso di lassativi
- Patologie croniche a carico dell’intestino (achilia gastrica)
- Interventi chirurgici come il bypass gastrico
- Sindromi da malassorbimento, ossia patologie che danneggiano l’epitelio intestinale
- Uso eccessivo di antiacidi (preparazioni farmaceutiche usate da antiacidi)
- Uso eccessivo di fibre (fitati, fosfati), che legano gli ioni e non li rendono disponibili, tra questi ioni
c’è anche il ferro
- Presenza di tannini negli alimenti (tè e caffè) che legano con alta efficienza il ferro

Non si parla quasi mai di eccesso di ferro poiché solo in casi rarissimi può avvenire o per difetti genetici o
per altri fattori. Si può avere una somministrazione acuta (più rara per via orale più probabile per
endovena, PER ERRORE), che causa vomito, diarrea, disturbi a carico del sistema nervoso centrale, fegato e
reni. Le cause genetiche possono determinare emosiderosi o emocromatosi, in cui si ha accumulo di ferro
con conseguenti fibrosi al fegato, danni epatici, si parla di danni cronici che possono causare anche la
morte. Il problema dell’eccesso di ferro nei casi legati a motivi genetici possiamo migliorarlo togliendo i cibi
ricchi di ferro (carne rossa, legumi) e gli alimenti ricchi di ferro, questo però potrebbe provocare problemi
poiché togliendo questi alimenti si rischia di andare incontro ad altri problemi.

CALCIO
Si tratta di un elemento molto importante, è un metallo alcalino-terroso abbondante sulla crosta terrestre
(è quinto elemento, e rappresenta circa il 4,6% degli elementi terrestri). Ci sono molte forme di accumulo
di calcio; esso forma sali insolubili in acqua (calcare, gesso, fluorite) ma tende a solubilizzarsi in ambiente
acido (nel nostro organismo l’ambiente acido lo genera lo stomaco). Il calcio viene assorbito dai vegetali e
la concentrazione nei vegetali dipende dai sali di calcio presenti nel terreno.
Si considera uno ione molto attivo poiché svolge tante funzioni. Esso è presente nel fluido extracellulare e
nelle cellule ma la sua importanza risiede nell’attività di calcificazione esso infatti forma la componente
minerale dell’osso (e dei denti) sotto forma di idrossiapatite del calcio: ossa e denti contengono il 99% di
tutto il calcio organico.

Esso si presenta nelle ossa ma anche come componente di proteine ossee come l’osseina, che dà origine
alla componente elastica dell’osso (chei contiene anche collagene).

Il calcio libero è presente molto poco, circa l’1%, infatti all’interno delle cellule il calcio è legato alle
proteine o sequestrato all’interno di particolari vescicole. In particolare, nel muscolo il calcio è contenuto
nel reticolo sarcoplasmatico e tale accumulo viene favorito anche dalla presenza di pompe Ca-ATPasi che
concentrano il calcio nel reticolo sarcoplasmatico. Questo è importante poiché il calcio è attivo e quindi
deve essere raccolto ed “eliminato” dal citoplasma in modo che non si leghi ad altre molecole.
Oltre che nella costituzione ossea, il calcio ha altre funzioni importanti, coinvolte in:
- Potenziale di membrana
- trasmissione sinaptica
- Contrazione muscolare
- Esocitosi
- Coagulazione
- Modulazione delle attività enzimatiche plasmatiche
- regolazione dell’espressione genica
- Secondo messaggero

A livello intestinale, l’assorbimento del calcio avviene a livello dell’ileo:


Una volta che il calcio entra nella cellula, viene legato da molecole, come la calbindina, che lo sequestrano
per abbassare la concentrazione nel citoplasma della cellula. La vitamina D, che è strettamente legata al
metabolismo di calcio, stimola la sintesi di calbindina pertanto possiamo dire che la vitamina D stimola
l’assorbimento e l’accumulo di calcio.
Oltre che il legame al recettore del calcio, il calcio ha anche una modalità di assorbimento detta
assorbimento paracellulare, che avviene attraverso le giunzioni cellulari. Infatti, la permeabilità delle tight
junction può essere modulata (la vitamina D può aumentare la permeabilità) e il calcio può essere
assorbito, questo è importante soprattutto a livello intestinale.

Oltre a questo, la vitamina D stimola anche la sintesi si un’altra pompa coinvolta nel metabolismo del
calcio, la pompa PMCA:
L’assorbimento di calcio comunque varia in funzione della concentrazione di calcio e in base alle zone in cui
avviene l’assorbimento. Inoltre, anche la quantità relativa di calcio che proviene dall’alimentazione influisce
sul processo utilizzato per l’assorbimento. Tuttavia, nonostante tutti questi meccanismi, la biodisponibilità
del calcio è molto bassa, intorno al 3% del totale del calcio ingerito.

Lezione 11 – 04/11/2020 – APPUNTI SARA


In natura non si ha il calcio libero ma il calcio è complessato; in particolare esso è solubilizzato in ambiente
acido così come il ferro. Il calcio è uno ione molto attivo nel nostro metabolismo, per esempio nella
calcificazione (ruolo principale), oppure agendo da secondo messaggero può regolare la contrazione, il
potenziale d’azione, il rilascio di vescicole; la principale forma di riserva sono le ossa e i denti. Nelle ossa si
trova sottoforma di sale: le ossa hanno una componente organica ed una componente minerale infatti se
osserviamo un osso antico, si vede che all’interno è poroso perché ha lo spazio per contenere la componente
cellulare. All’interno dell’osso è presente l’osseina, una proteina elastica e una della principali componenti
dell’osso, inoltre è presente anche collagene, quindi si ha un mix di componente organica e inorganica. Di
solito il calcio non sta libero ma viene stoccato oppure è complessato a formare complessi sia con proteine
sia con altri elementi; esso viene liberato solo in seguito a stimoli precisi.

L’assorbimento del calcio avviene nell’intestino. La principale zona di assorbimento è l’intestino (diviso in
duodeno e digiuno) si vede che la modalità di assorbimento varia con la concentrazione e con le porzioni di
intestino interessate.
Una volta che il calcio è entrato nelle cellule non può essere lasciato libero e infatti ci sono proteine che lo
legano, come la calbindina che sequestra calcio e ne abbassa la concentrazione plasmatica; in questo modo
si bloccano tutti i signaling cellulari regolati dal calcio. La vitamina D, che ha un metabolismo legato a quello
del calcio, stimola l’espressione della calbindina.
Il calcio ha una modalità di assorbimento particolare, attraverso le tight junction, e pertanto è detto
assorbimento paracellulare; la permeabilità di queste giunzioni è regolata sempre della vitamina D, la quale
inoltre, influenza anche l’espressione di pompe che consentono alle cellule di assumere calcio (le troviamo
espresse per esempio nelle cellule intestinali e nell’epitelio renale). Esistono vari sistemi di trasporto che
coinvolgono il calcio, alcuni sono esposti sulla membrana plasmatica ed altri su membrane interne, tipo sul
RE. Un esempio è la PMCA (pompa calcica) oppure SERCA.
Spesso quando si hanno carenze di calcio, si assume il calcio insieme alla vitamina D per favorire questa
sinergia. Le carenze sono dovute o a diete estremamente povere di calcio (in questo caso il soggetto ha livelli
di vitamina D) quindi si integra con una dieta alimentare adeguata oppure integratori. Quali sono le persone
che hanno carenze di calcio e di vitamina D? Per esempio, gli anziani che hanno una funzionalità intestinale
meno efficiente, camminano meno, si espongono meno all’ambiente esterno, l’alimentazione magari non è
più tanto corretta; anche nelle donne in menopausa, in cui si rischia di depletare le ossa di calcio, quindi
devono assumere vitamina D e calcio.

Quanto calcio si deve assumere? Per mantenere l’equilibrio si deve sapere i flussi del calcio, noi si ha
un’ampia riserva di calcio anche se è un termine un po’ improprio (i grassi, i trigliceridi sono accumulati e
degradati quando c’è n’è bisogno ) per il calcio non è così, perché il calcio dà la robustezza delle ossa, però lo
utilizziamo anche come riserva mobilizzai le di calcio, quando c’è n’è bisogno, ci sono cellule che rimuovono
calcio solubilizzandolo e cellule che accumulano calcio nelle ossa.

Nell’immagine si vede che a livello dell’osso si ha un flusso di circa 500 mg/d e un pari accumulo: questa non
è una perdita, poiché il calcio entra ed esce. Come forma di escrezione si hanno feci, urine e sudore: molto
ingente è il calcio che si perde a livello del rene (vengono persi con le urine), 184 mg/d che se si sommano
alla perdita legata al sudore (16 mg/d) si arriva a circa 200 mg/d. A livello delle feci si può raggiungere una
perdita di 600 mg/d, la cifra è così alta perchè non è detto che il calcio venga assorbito tutto, o che venga
assorbito in modo efficiente (ad esempio ci sono composti che chelano il calcio, come quando si associano di
verdure e parmigiano); inoltre una parte di calcio perso è dovuto al tasso di proliferazione elevato a livello
intestinale, poiché le cellule hanno un turn-over alto.
Se si sommano tutte le perdite si arriva intorno a 800mg/d, quindi si dovranno incamerare almeno 800 mg di
calcio, che non vengono assorbiti tutti, perché come abbiamo detto che ci sono delle difficoltà
nell’assorbimento, a livello delle feci, a livello delle urina etc; infatti se si fanno dei calcoli, di 800 mg ingeriti
ne assorbiamo circa 300 mg dunque siamo al 65% di calcio non è assorbito. Quindi le uscite sono costanti ma
le entrate no, sono variabili, quello che accade è che se non assumo calcio a livelli consoni il tessuto osseo è
in grado di sostenere anche per periodi molto lunghi la carenza, fino a quando non si cominciano ad
accusare dolori: questa decalcificazione ossea porta ad una perdita di rigidità dell’osso, si parla di micro-
movimenti ossei, che non si avvertono a livello visivo, ma a livello delle vertebre questi micro-movimenti
portano ad una compressione del nervo e si percepisce.

Salendo ad un livello successivo, ci possono essere di carenze an livello alimentare, consumo etc, ma si parla
di carenze di calcio anche per disfunzione ormonali. Ad esempio, le ghiandole paratiroidee hanno un ruolo
fondamentale, infatti qui viene secreto il paratormone che va ad agire modulando l’assorbimento del calcio a
livello delle ossa, ma anche a livello renale ed intestinale. Dall’altro lato invece c’è la calcitonina che va
mediare l’abbassamento dei livelli di calcio.
Vediamo quali sono le fonti alimentari di calcio:

La prima scelta sono i formaggi, in particolare quelli stagionati, perché molte proteine del latte legano il
calcio, quindi il latte come fonte generale di formaggio permette di creare un alimento così ricco. I formaggi
freschi sono meno concentrati in calcio perché hanno più acqua, viceversa quelli stagionati hanno meno
lattosio e sono più concentrati: i batteri che fermentano vanno a utilizzare il lattosio che lega acqua quindi
una volta usato questo media la fermentazione.

Ci sono fattori molto importanti che determinano l’assorbimento del calcio:


- Tra i fattori che stimolano l’assorbimento del calcio abbiamo:
o Vitamina D
o Gravidanza
o Lattosio
- Tra i fattori che riducono l’assorbimento del calcio invece abbiamo:
o Fibre
o Fitato
o Ac. Uronici
o Ossalato
o Fosfato

A livello renale viene escreto il calcio che non viene assorbito a causa dalla saturazione delle pompe. Il rene
filtra circa 9,6 g di calcio ogni giorno, una quantità molto grande, quindi se si avesse una perdita maggiore
dell’1-2% si avrebbe una perdita enorme, sarebbe un problema riassorbirlo. Per fortuna la quantità di calcio
riassorbita a livello renale
è alta (quasi tutto viene
riassorbito), quindi per
fortuna il nostro rene è
molto efficiente sennò
sarebbe un disastro. Ci
sono molti ormoni che
vanno ad agire
sull’assorbimento del
calcio a livello renale,
quelli stimolanti sono
l’ormone paratiroideo il
calcitriolo, il paratormone,
la prolattina; mentre la
calcitonina ha un effetto
inibitorio
sull’assorbimento di
calcio.

Come cambia il fabbisogno in funzione dell’età:

Può dipendere da vari fattori, metabolismo, attività fisica, patologie, fabbisogno, predisposizione genetica,
struttura, quindi si ha spazio di variabilità e si arriva anche a 1500 mg/d che è quasi il doppio. Comunque, per
un individuo medio fra i 30-40 anni sono quelli che si è detto in precedenza (800 mg/d).
Abbiamo detto che in casi di carenza il primo a risentirne è il tessuto osseo, oppure si ha un blocco della
contrazione, ossia il muscolo che si contrae e rimane contratto. Infatti il calcio è molto importante nella
contrazione muscolare, anche del muscolo cardiaco, quindi carenze di calcio possono causare anche aritmia.
La manifestazione più diffusa comunque è la fragilità ossea, che infatti è il principale sintomo di un alterato
metabolismo del calcio.
Quindi i soggetti intolleranti al lattosio possono avere problemi di carenza di calcio? Gli intolleranti al lattosio
hanno poca lattasi, ed i batteri producono calcio solo se c’è il lattosio (così anche noi) dunque induciamo la
lattasi solo quando ne abbiamo bisogno. In particolare, subito dopo la nascita i livelli di lattasi sono massimi:
l’enzima viene espresso e viene digerito il lattosio. Fisiologicamente, dopo il primo anno di età comincia a
diminuire la quantità espressa di questo enzima, perché non sarebbe più necessario fisiologicamente (in
natura dopo la nascita non si usa più il latte) anche se l’uomo è l’unico animale che lo usa come alimento in
modo continuo e questo spiega perché ognuno di noi dopo lo svezzamento può essere più o meno
intollerante al lattosio. Se il latte non viene digerito, prosegue nel nostro intestino, che è osmoticamente
attivo, quindi richiama acqua e determina problemi di stomaco. Nell’ultima parte dell’intestino ci sono tanti
batteri, che metabolizzano il lattosio, quindi si ha produzione di gas con conseguenti dolori e gonfiori
intestinali. La risposta allergica al lattosio è un’altra cosa non va confusa. QUINDI si hanno problemi? Ci si
rivolge verso i formaggi molto stagionati, c’è molto meno lattosio; oggi comunque è disponibile il latte e i
derivati del latte a basso contenuto di lattosio, si aggiunge la lattasi al latte, così si produce il latte a basso
contenuto di lattosio. Non si ottengono tutti i prodotti così, perché il lattosio è sfruttato nella fermentazione,
la principale è la fermentazione lattica.

Lezione 12 - 05/11/2020

SODIO
Il sodio è importante per il nostro organismo e infatti è uno degli ioni più presenti. Esso infatti ha la
funzione fondamentale nel mantenimento del potenziale di membrana e infatti è abbondante fuori dalla
cellula e ha concentrazione bassa dentro
la cellula. Se consideriamo un individuo
standard di 60-70 kg la quantità di sodio
presente è rilevante si parla di decine di
grammi, nel nostro esempio circa 92 g di
sodio nel nostro organismo. Questo sodio
è suddiviso come costituente della
struttura dell’osso (vari tipi di sali che fora
con componente inorganiche) poi si trova
nei fluidi extracellulari (è uno degli
elementi dosato nel plasma per valutare
l’equilibrio osmolitico), nelle cellule invece
è poco presente.
Per quanto riguarda il metabolismo, lo troviamo in molti alimenti (alimenti contenenti sali minerali) infatti
essendo presente nell’ambiente sia cellulare che extracellulare lo troviamo quando degradiamo gli
alimenti, in alternativa può derivare da fonti principali come l’acqua (noi assumiamo grandi quantità
d’acqua al giorno e quindi assumiamo anche sodio) o anche da alimenti come il sale da cucina che viene
addizionato a vari alimenti. Il concetto dell’equilibrio salino – legato all’uso di condimenti per pietanze,
come il sale – diventa importante per una buona parte della popolazione italiana (e volendo anche
mondiale) infatti, uno dei problemi più importanti legati all’eccessivo uso di sale è l’ipertensione legata ad
uno squilibrio della concentrazione salina nel nostro organismo; questa rappresenta una patologia
importante che spesso si associa ad altri fattori come l’obesità, il diabete, etc... L’uso del sale da cucina
(cloruro di sodio) è comune nelle preparazioni industriali perché contribuisce a modificare il sapore degli
alimenti: la sapidità (sensazione di salato) è uno degli aspetti più importanti delle tecnologie alimentari
perché gli alimenti privi di sale sono “senza sapore” (come anche gli alimenti con troppo sale sono
immangiabili). Questo avviene perché dal cibo noi non cerchiamo solo apporto nutritivo ma anche sapore,
gusto e questo è importante, tanto che le industrie di alimenti ci dedicano delle attenzioni poiché sono
consapevoli che questo poi influisce sulla vendibilità del prodotto. Il risultato è che noi troviamo il sale in
alimenti “inaspettati”, come ad esempio il gelato: alcuni studi hanno dimostrato che se il gelato non stimola
tutti i gusti viene comprato meno. Quindi l’idea è che il gelato deve stimolare tutti i gusti sensoriali,
compresa la sensazione del salato. QUINDI come si fa ad evitare danni in casi di ipertensione? Si deve
evitare il sale, in particolare il sale sodico (quelli contenenti sodio) non a caso la pubblicità della acqua
oligominerali focalizza l’attenzione sul sodio (“a basso tenore di sodio”) proprio perché l’acqua è uno dei
principali veicoli da cui assorbiamo il sodio. Quindi da un punto di vista pratico rischiamo lo squilibrio
perché non si fa caso al sale contenuto negli alimenti già lavorati, come ad esempio i piselli in scatola, il
gelato, la pizza, una bevanda tipo Coca Cola; tali alimenti spesso contengono mg o decine di mg di sale e
quindi questa quantità può diventare rilevante. In questo modo rischiamo di andare ad assumere più sale di
quello che sarebbe il contenuto fisiologico in sale dell’alimento stesso. Ad esempio, gli spinaci che
compriamo crudi hanno un loro contenuto di sodio, e con la cottura il sodio viene disperso nell’ambiente di
cottura (acqua o altro), quindi questo senz’altro fa diminuire il contenuto in sodio dell’alimento; tuttavia, le
industrie alimentari proprio perché sono consapevoli di questa perdita di sale e di “sapore” ri-addizionano il
sale post-cottura (come facciamo anche noi in ambiente domestico).
Si definisce sale occulto la quota di sale che noi assorbiamo inconsciamente e può arrivare anche a qualche
centinaio di mg. A lungo termine questo contenuto va a sbilanciare l’equilibrio osmotico.

L’assorbimento del sodio necessita di trasportatori (il sodio infatti è uno ione carico positivamente) e
avviene a livello intestinale: a
livello dell’intestino esistono vari
tipi di trasportatori per il sodio.
Questi trasportatori sono di vario
tipo e sono posizionati sulla parte
apicale o basale delle cellule
intestinali; è interessante vedere
che uno dei principali
trasportatori intestinali del sodio
in realtà lavora in cotrasporto con
il glucosio. Questo trasportatore
sodio/glucosio è molto
importante poiché lascia aperte
alcune valutazioni sulla modalità
di assorbimento di glucosio e
sodio a livello intestinale.
Ad esempio, le bevande
energetiche e gli integratori salini oltre al sodio contengono anche glucosio proprio perché l’assorbimento
di sodio a livello intestinale è possibile solo se è presente anche glucosio. Da qui possiamo fare alcune
implicazioni come ad esempio considerare che quando assumiamo un integratore di questo tipo
assumiamo anche glucosio che per un’ampia fascia della popolazione italiana può essere non
indicato/raccomandato e da qui ritorna la questione del “cosa bere?”.
Il sodio una volta assorbito entra nelle cellule intestinali e successivamente, attraverso lo scambiatore
sodio/potassio mediante trasporto attivo, viene espulso dalla cellula per mantenere l’equilibrio. L’equilibrio
si mantiene attraverso la filtrazione
glomerulare a livello renale che
avviene nel glomerulo: il sangue passa
e il glomerulo trattiene le componenti
proteiche e cellulari e rilascia le altre
all’interno del tubulo renale,
dopodiché nelle varie anse del tubulo
renale avviene il riassorbimento del
sodio e di molti altri elementi tra cui
glucosio e acqua.
In figura seguente si vede il riassorbimento del sodio. Quindi nel glomerulo avviene lo scambio tra il circolo
sanguigno e il circolo renale. Il sangue attraverso il tubulo renale estrude il 100% del sodio ematico, quindi
quando il sangue arriva a livello del nefrone tutto il sodio presente esce e viene riversato nel tubulo renale.
Noi non possiamo perdere sodio in quantità ingenti poiché questo creerebbe uno squilibrio osmotico
importante, ecco perché nel tubulo renale avviene il riassorbimento del sodio (con modalità decrescente
dal tubulo prossimale al tubulo distale).
Il primo tratto in cui sfocia il filtrato glomerulare è il tubulo prossimale e già in questa zona si ha il
riassorbimento di una importante quota di sodio, circa il 65% del sodio filtrato. Un altro 25% viene
recuperato nell’ansa e infine l’8-9% nel tubulo distale. Il risultato è che in condizioni standard circa l’1% di
sodio è eliminato.

Il rene è un organo fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio idrico-salino e sappiamo che molti
farmaci (ad esempio quelli per l’ipertensione) agiscono per limitare il riassorbimento del sodio e quindi
incrementano la quota di sodio rilasciata a livello del tubulo renale.

Vediamo quali sono le dosi raccomandate per la popolazione standard (individui in salute). In realtà, nel
caso del sodio non si parla di dosi raccomandate ma di necessità, che corrisponde a circa 500-600 mg/die.
La necessità dipende dal nostro organismo cioè dipende dalla quantità che perdiamo e che pertanto
dobbiamo reintegrare, ricordandoci però che la quantità assunta non sempre corrisponde a quella assorbita
(in generale si deve ingerire una quota maggiore per garantire l’assorbimento necessario a mantenere
l’equilibrio).
La perdita di sodio avviene attraverso le urine e il sudore. Dato che il sodio è uno tra gli ioni più abbondanti
nei liquidi extracellulari, il sudore riflette la concentrazione plasmatica degli ioni e di conseguenza nel
nostro sudore il sodio è uno degli elementi più abbondanti. Il sodio è una soluzione salina a concentrazione
bassa che quindi ha una concentrazione in sodio diversa da quella plasmatica. Il volume di acqua persa
attraverso la sudorazione può aumentare moltissimo secondo le condizioni, ad esempio nella sauna si
elimina acqua attraverso l’organismo e quindi si estrude anche il sodio; un altro esempio è praticare la
corsa ad agosto piuttosto che in inverso, il sudore è molto maggiore in estate tanto che si può perdere 500-
600 volte in più di acqua quando fa caldo rispetto a quando fa freddo. Si può parlare quindi di perdite
ingenti, fino a 8-10 g di sodio giornalieri e non solo tra gli atleti ma ad esempio questo vale anche per chi è
esposto a climi molto caldi (es. chi vive a latitudini vicine all’equatore) o anche a situazioni lavorative
particolari (es. fornaio, chi lavora in alto forno, chi lavora in miniera) che sottopongono a stress termico i
soggetti. Gli atleti sudano
moltissimo quindi non
perdono solo acqua ma
anche sodio.
Perdite importanti di sodio si
verificano anche in chi fa uso
di diuretici, come chi soffre di
ipertensione, i cardiopatici.
Ad esempio, nei cardiopatici
l’insufficienza cardiaca
solitamente si manifesta con
degli edemi intorno al cuore
e a livello polmonare. Questo
avviene perché la capacità
dell’organismo di filtraggio a
livello renale dipende dalla pressione e quindi dal cuore pertanto con insufficienza cardiaca il cuore non
pompa e il rene non filtra; per compensare la mancata pressione il cuore aumenta i battiti ma dato che la
contrazione non è efficace si ha solo un affaticamento cardiaco. L’acqua che non viene filtrata a causa della
mancanza di pressione rimane negli spazi extracellulari e quindi tutti gli spazi extracellulari sono pieni
d’acqua e infatti ci soffre di insufficienza cardiaca ha ritenzione idrica ed è gonfio. Quindi chi ha questi
accumuli viene trattato con diuretici per svuotare questi spazi extracellulari eliminando acqua a livello
renale; eliminando acqua si elimina sodio e quindi l’acqua si accumula nelle cellule, diminuisce il volume del
sangue e la pressione scende. Quindi chi soffre di cardiopatie, deve assumere diuretici per eliminare l’acqua
accumulata ama contemporaneamente deve bere anche molto per reintegrare acqua. Queste situazioni
possono causare deficit di sodio, specialmente se si elimina acqua con le urine e l’acqua è invece povera di
sodio.

Nella figura a pagina seguente si vede la concentrazione di sodio negli alimenti e nelle acque. Si parte
ovviamente dal sale da cucina, per cui 100 g di sale da cucina contengono circa 40 g di sodio (la rimanente
parte è il cloro e alcune impurezze). Scendendo, anche i dadi per il brodo contengono moltissimo sodio, 1
dado vale qualche grammo, quindi il sodio è molto concentrato; possiamo supporre che in un dado da 10 g
si possono trovare 1,6 g di sodio, una quantità molto alta. Poi troviamo la salsa di soia, che anch’essa è
molto ricca di sodio. Anche tutto ciò che è conservato sotto sale (es. aringhe sotto sale) sono molto ricche
di sodio, e anche gli affettati e gli alimenti in busta (es. patatine).
Anche la pizza ha un contenuto rilevante di sodio, anche perché quelle in tabella sono pizze classiche, poi se
si aggiungono i condimenti e ci beviamo nello stesso pasto una bevanda tipo Coca Cola (1 g di sodio) si può
arrivare ad assumere fino a 1-2,5 g di sodio in un pasto, saturando già così la richiesta di sodio giornaliera.
Nell’ultima colonna della tabella troviamo le acque, Uliveto, Ferrarelle, etc... Vediamo che queste
contengono molto più sale rispetto alle acque oligominerali che sono le ultimissime della tabella e che
proprio per il basso contenuto in sale sono dette oligominerali.
Come abbiamo già detto il sodio è
osmoticamente attivo quindi la variazione
della sua concentrazione ha un effetto
importante sulla struttura cellulare. Infatti,
se la concentrazione extracellulare si
abbassa troppo, l’acqua entra nelle cellule
viceversa se la concentrazione
extracellulare di sodio si alza troppo,
l’acqua esce dalle cellule e finisce nel
plasma, di conseguenza le cellule si
raggrinziscono.
Come abbiamo detto prima possiamo arrivare ad uno squilibrio del sodio che può causa problemi
importanti. Un’alta concentrazione di sodio richiama liquidi extracellulari e così si accumula acqua
nell’ambiente extracellulare, di
conseguenza si può avere una
condizione di edema. L’edema
inoltre può essere causato non solo
dall’aumento della concentrazione di
sodio ma anche dal mal
funzionamento dei reni.
La condizione di edema può essere
responsabile di importanti
ripercussioni al nostro organismo
come l’edema polmonare o l’edema
cerebrale; tutto questo inoltre può
causare squilibri anche a livello
ormonale (ci sono ormoni che
regolano l’azione di questi ioni).
Si capisce quindi che è importante monitorare la concentrazione di sodio e mantenerla entro i range
fisiologici. Generalmente il monitoraggio si fa in modo indiretto ossia attraverso la valutazione della
pressione sanguigna: uno squilibrio nel metabolismo del sodio (un’eccessiva ritenzione di sodio) determina
un aumento del volume del sangue poiché l’acqua è richiamata dai tessuti, e l’aumento del volume del
sangue fa aumentare la pressione sanguigna. A livello pratico quindi si va a misurare la pressione sanguigna,
che è indice di uno squilibrio osmotico; questo squilibrio può avere più cause, come ad esempio un
malfunzionamento renale
In alternativa, ci sono analisi più specifiche che misurano il sodio nel sangue, il sodio nelle urine, la capacità
del rene di funzionare, i livelli di molti ormoni coinvolti nella regolazione del metabolismo del sodio, come
ad esempio l’aldosterone.

La carenza di sodio è difficile che sia un problema, se non in condizioni particolari come la disidratazione
eccessiva. Quando si perde sodio l’acqua tende ad entrare nelle cellule quindi il volume di sangue
diminuisce e di conseguenza anche la pressione sanguigna cala (ipovolemia), determinando sensazione di
stanchezza, affaticamento, debolezza muscolare (l’equilibrio salino alterato non permette di svolgere le
normali funzioni muscolari). Viceversa, l’eccesso di sodio porta ad un aumento del volume di sangue poiché
viene richiamata acqua dai tessuti, e in questo modo aumenta la pressione sanguigna determinando
ipertensione.

A fronte di una necessità di circa 500-600 mg/die per mantenere l’equilibrio l’assunzione giornaliera
raccomandata è 575-3500 mg/die, varia secondo l’efficienza che ognuno di noi ha nell’accumulare sodio. Il
calcolo di questo sodio comprende anche il sale occulto che possiamo trovare negli alimenti.

POTASSIO
Il potassio è un altro elemento importante, presente in quantità inferiori rispetto al sodio ma comunque
ben rappresentato. La potassiemia (concentrazione nel plasma di potassio) è molto bassa mentre è molto
alta all’interno della cellula. Come per il sodio, anche per il potassio è importante il mantenimento
dell’equilibrio (basti pensare al ruolo che il potassio ha nell’eccitabilità delle cellula). Come per il sodio,
anche il potassio viene perso in quantità rilevanti e questo avviene principalmente a causa delle urine che
determinano una perdita di potassio di circa 1,5-3 g/die; considerando che in un uomo di 70 kg abbiamo
circa 13 g di potassio, la perdita con le urine rappresenta il 10-15% del potassio contenuto nel nostro corpo.
Le quote eliminate con feci e sudore invece sono molto inferiori poiché negli ambienti extracellulari il
potassio è poco rappresentato; solo a livello delle urine, dove avviene la filtrazione e il recupero è minore,
la concentrazione può aumentare.
Sommando tutte le perdite che si hanno quotidianamente possiamo calcolare la perdita totale e di
conseguenza il fabbisogno giornaliero che è circa 2-3 g/die.

Per coloro che soffrono di ipertensione generalmente è sconsigliato assumere sale di sodio ma si consiglia
sale da cucina contenente potassio, povero in sodio. Il problema è che i ostri recettori per il salato sono
molto più sensibili al sodio rispetto al potassio, quindi mentre il sale ricco in sodio dà una sensazione di
salato molto forte il potassio no; un soggetto iperteso (generalmente gli piacciono i sapori salati) per avere
la stessa sapidità che dà il sale di sodio userà moltissimo sale di potassio e questo richiede attenzione
poiché si rischia di superare i livelli di potassio raccomandati ossia 3-6 g/die. Infatti, il potassio è tossico
poiché causa un danno alla funzionalità cardiaca.

Gli alimenti che contengono potassio sono riassunti nella tabella seguente dalla quale notiamo che il
potassio è presente in grandi quantità in frutta e verdura.

Con la cottura in acqua degli alimenti si estraggono anche i sali e quindi anche il potassio, pertanto si perde
buona parte di potassio. Da un punto di vista pratico, per perdere la minore quantità possibile di potassio
durante a cottura, il miglior metodo è la cottura a vapore.

In termini di assorbimento anche il potassio viene assorbito a livello intestinale; esso è più permeabile del
sodio e questo in parte compensa la sua minor presenza negli alimenti. L’assorbimento del potassio può
essere stimolato dall’attivazione della pompa (il trasporto del potassio è attivo); inoltre ci sono canali del
potassio che intervengono in situazioni particolare. Ad esempio, nelle cellule β del pancreas il canale del
potassio ha un ruolo per la secrezione dell’insulina; l’insulina stessa, legandosi al proprio recettore stimola
l’assorbimento del potassio, questo perché c’è bisogno di potassio per sintetizzare il glicogeno. Quindi
quando inietto insulina la potassiemia crolla poiché i muscoli e il fegato fanno inetta di potassio per
formare glicogeno. Questo può avere delle ripercussioni, infatti sappiamo che il potassio è importante per
la contrazione cardiaca e quindi riducendo la contrazione di potassio nel sangue si rischia di danneggiare il
cuore. Uno dei modi in cui può accadere questo, è il caso dei diabetici; i diabetici possono far uso di diversi
tipi di insulina, in particolare le insuline sono suddivise in rapide, normali, lente, molto lente secondo la
rapidità di azione. Le insuline molto lente sono quelle rilasciate lentamente dopo la somministrazione e
agiscono per molte ore che
quindi hanno il vantaggio di
mantenere i livelli di
glicemia standard per lunghi
tempi. Queste insuline
molto lente sono anche in grado di portare via il potassio dal sangue facendolo entrare nelle cellule, in
particolare nelle cellule che sintetizzano glicogeno (cellule epatiche e cellule muscolari). Queste cellule
possono contribuire ad una riduzione della potassiemia? La massa muscolare del nostro organismo
corrisponde a circa il 40-50%, il fegato invece non ha un peso enorme (in un soggetto di 70 kg il fegato pesa
circa 1,5-1,7 kg), tuttavia questi due organi insieme possono abbassare il potassio nel sangue. Se
consideriamo che nel sangue i livelli di potassio sono già bassi, se l’insulina stimola l’up-take di potassio da
parte delle cellule muscolari ed epatiche si rischia di ridurre moltissimo i livelli di potassio nel sangue e
l’organo che risente per primo questo è proprio il cuore, e quindi si rischia di causare insufficienza cardiaca.

In figura inoltre notiamo che si ha un meccanismo a feedback: l’aumento di potassio stimola la produzione
e secrezione di insulina che quindi determina riduzione ematica di potassio. Quindi se sbilanciamo questo
meccanismo si ha uno sbilanciamento della concentrazione di potassio, ad esempio se iniettiamo insulina
esogena la via che porta all’assorbimento del potassio viene potenziata e il potassio nel sangue diminuisce
causando problemi.
L’eccesso di potassio nel sangue è più raro; esso può essere causato da situazioni particolari come acidosi o
chetoacidosi. Condizioni di
chetoacidosi si hanno nei
soggetti diabetici in cui si ha
iperglicemia con carenza di
insulina che causa aumento di
potassiemia. Inoltre, anche se
nei soggetti normali l’insulina si
mantiene costante anche in
situazioni estreme (es. digiuno
di tre settimane), nei diabetici
sbilanciati si può andare in
chetoacidosi grave, che può
portare alla morte, dovuta alle
complicazioni gravi come
ipoglicemia (che può colpire il
cervello), iper-potassiemia
dovuta al fatto che la
chetoacidosi permette la fuoriuscita di potassio dalle cellule che quindi va a danneggiare i muscoli e quindi
anche il cuore.
L’abbassamento dei livelli di potassio può essere determinato da vari tipi di sindromi e l’abbassamento del
potassio poi può riflettersi sui livelli ormonali. Tra le patologie troviamo anche il diabete poiché causa
un’eccessiva perdita di liquidi, e questo è
lo stesso motivo per cui anche vomito e
diarrea rientrano tra le cause.
Anche digiuno prolungato e tisane
diuretiche possono causare questo tipo di
alterazione; in particolare, le tisane
diuretiche sono di “moda” poiché
vengono usate per dimagrire
velocemente dato che fanno perdere
liquidi e quindi peso (ma non grassi!).
Tra le altre cause poi ci sono situazioni
che possono portare alla perdita di
potassio, ad esempio le ustioni –
specialmente se riguardano ampie parti
del corpo – possono portare a problemi
poiché alterano la funzionalità del
sistema linfatico e sigillano i vasi
sanguigni: il calore distrugge la parte più profonda dei tessuti e chiude e i vasi causando alterazione del
sistema circolatorio e linfatico, infatti quando si hanno ampie parti del corpo ustionate si perdono molti
liquidi.

Ad oggi si dà molta attenzione non tanto alla quantità di sodio e potassio che assumiamo, piuttosto è
rilevante il rapporto fondamentale tra consumo di potassio e consumo di ossigeno. Quindi anche se le
quantità di potassio e sodio assorbite sono alterate l’importante è che si mantenga un certo rapporto tra
i due elementi. Quindi la scienza alimentare moderna non considera il contenuto di alimenti come sodio e
potassio in modo distinto ma valutano il rapporto K/Na. All’ultimo posto troviamo la pizza, che quindi
conterrà quasi solo sodio.

tra le manifestazioni legate all’alterazione del potassio troviamo aritmia e debolezza muscolare (o paralisi).
Mentre le manifestazioni di un eccesso di potassio sono nausea e vomito (se ingerito), blocco della
funzionalità cardiaca (iniezione endovena) o alterazioni della sua funzionalità come aritmie e arresto
cardiaco.

Lezione 13 - 11/11/2020

ALIMENTI FUNZIONALI O COMPONENTI FUNZIONALI DEGLI


ALIMENTI
Ad oggi sempre più sembra che le sostanze somministrate con gli alimenti abbiano effetti “miracolosi”, si
parla di protezione dal Coronavirus o di impedire l’infezione se si assumono certi alimenti, questo sembra
miracoloso.
Sappiamo che negli alimenti sono presenti molte sostanze che NON hanno valore nutrizionale ma possono
avere un valore positivo per l’organismo. Ma cosa significa effetto positivo? In questo c’è molta confusione
e si sente dire di alimenti capaci di curare i tumori o di alimenti in grado di curare le infezioni, per non
parlare degli effetti come quello afrodisiaco di alcune sostanze. Quindi: che tipo di effetti hanno le
sostanze degli alimenti sull’organismo? E nel caso ci siano questi effetti quali conseguenze ha il consumo
di tali alimenti?

Facciamo però una premessa. Perché siamo arrivati a questo tipo di concetto ossia all’idea che gli alimenti
determinino conseguenze positive? Questo in realtà risale all’antichità, infatti già tra i Romani e i Greci si
era capito che l’alimentazione era derimente per la salute umana, infatti se l’alimentazione non era
adeguata, poteva portare a patologie oppure un’alimentazione adeguata aiutava il mantenimento della
salute.
Tuttavia, questo pensiero non era mai stato ridotto ad un concetto scientifico vero e proprio ma era
rimasto a livello di tradizioni popolari.
In realtà c’erano già alimenti o componenti vegetali ed animali contenenti sostanze importanti per il
mantenimento della salute umana. Questo concetto deriva dal fatto che la medicina tradizionale (non
quella moderna che invece è basata sui farmaci) era basata sull’utilizzo di preparazioni ottenibili a partire
da animali e/o vegetali, questo indica che il mondo naturale è ricco di sostanze che possono dare un effetto
positivo alla nostra salute. Per migliaia di anni la medicina tradizionale era l’unico rimedio alle patologie,
anche se la possibilità di curare patologie importanti era molto limitata poiché adesso sappiamo che non si
somministra mai un prodotto farmacologicamente attivo allo stato puro (dosi limitate) e anche perché
all’interno di un “ingrediente” naturale ci possono essere migliaia di altri elementi, oltre a quello curativo,
che possono interferire con gli effetti positivi. Quindi sappiamo che la medicina tradizionale può aiutare ma
ovviamente la farmacologia moderna è stata una scoperta di altri livelli, che risale a gli inizi del secolo; lo
sviluppo della farmacologia moderna viene identificato con lo sviluppo degli antibiotici. Infatti, agli inizi del
1900 la mortalità era molto elevata, tanto
che la mortalità infantile prevedeva che il
60-70% dei neonati morisse negli anni
successivi al parto; la vita media in Italia e
nel mondo era intorno ai 45-50 anni, questo
perché la principale causa di morte erano le
infezioni batteriche (anche a partire da
banalità come graffi, influenza che potevano
causare complicazioni). Con la scoperta degli
antibiotici tutto è cambiato basti pensare
che tale scoperta, avvenuta a cavallo tra la
Prima e la Seconda guerra mondiale, nella
Prima guerra mondiale ci sono stati più
morti in trincea per le infezioni che non
morti per le pallottole.
Ad oggi, morire di infezione batterica è molto raro; al momento la vita media è di 79 anni per gli uomini e
82-83 anni per le donne, e ad oggi non si muore più per cause batteriche ma per altre cause, come
possiamo vedere nella figura a pagina precedente. Per queste patologie gli antibiotici non sono efficaci
quindi si pone il problema di come affrontare e combattere tali patologie cronico-degenerative.

Intorno agli anni ’50-’60 a fronte di queste domande importanti, alcuni medici cominciarono a porsi il
problema di contrastare tali patologie e quindi iniziarono i primi studi per capire le variabili e i fattori di
rischio. In America partì in quel periodo uno studio, durato poi circa 20 anni, che ha riguardato più
continenti in cui si eseguiva un monitoraggio sulle patologie cronico-degenerative per capire quali fossero i
fattori di rischio. In figura vediamo come varia nelle varie popolazione (ogni pallino è una Nazione) e si
mette in relazione l’incidenza
delle morti per malattie
cardiovascolari (asse y, quante
morti ci sono per malattie
cardiovascolari su 100'000
abitanti) nei confronti dei livelli
di colesterolo (asse x). Vediamo
che questo grafico ci dice che c’è
una correlazione lineare diretta
tra livelli di colesterolo e
incidenza delle malattie cardio-
vascolari quindi il colesterolo è
sicuramente uno dei fattori di
rischio. Tuttavia, ciò che è
sembrato strano era il
comportamento di Francia e
Finlandia poiché questi due
Paesi hanno un valore di
colesterolo assunto molto simile, tuttavia le morti a causa di problemi cardiovascolari sono almeno 5 volte
maggiori in Finlandia rispetto alla Francia. Questo comportamento/andamento ha fatto riflettere poiché
significa che, sebbene il colesterolo (e gli acidi grassi saturi) abbia un impatto negativo, esso non è l’unico
fattore che influisce.
Parallelamente, possiamo analizzare un altro aspetto estremamente importante ossia l’incidenza dei
tumori. I tumori son ouna patologia cronica molto importante e analizzandoli cosa deduciamo? Negli anni
’70-’80 venne fuori la teoria genetica poiché furono scoperti gli oncogeni e quindi si pensò di aver
individuato le cause che portavano allo sviluppo di tumori. Tali cause, secondo la teoria genetica, erano
riconducibili all’attivazione di un oncogene, ossia un gene che codifica proteine importanti (ciclo cellulare,
divisione, proliferazione, differenziamento) e che, se mutato o se cambiata la sua regolazione, causa
modifiche rilevanti nella cellula, che può portare allo sviluppo di tumori.
Il primo oncogene fu quello del virus trasportato dal sarcoma di Rous (retrovirus), infatti nei polli (non
nell’uomo) fu visto che l’infezione con questo virus, che trasportava un frammento di un gene umano,
infettava gli animali e all’interno delle cellule il virus si innestava all’interno del genoma animale, il gene
umano veniva espresso in modo anomalo e questo portava al tumore nel pollo.
Quindi inizialmente le cause del tumore erano attribuite tutte agli oncogeni. Qual è stato il problema?
Senz’altro c’è stato un problema tecnico legato al fatto che all’inizio si è individuato un oncogene solo, ma
ad oggi se ne conoscono circa 200: con un numero limitato è semplice individuarli nella popolazione ma con
200 oncogeni è più difficile poiché con questi numeri sale moltissimo la probabilità che un oncogene sia
attivato e quindi che l’individuo sia più esposto a sviluppare tumori. Inoltre, la presenza di oncogene
attivato non porta sempre allo sviluppo di tumore, infatti i dati statistici ci dicono che il gene detto BRACA è
importante per tumori al seno ma non tutte le donne che hanno questo gene mutato sviluppano il tumore;
quindi certi oncogeni sono ricorrenti in molti tumori ma non in tutti quindi ci sono soggetti che portano
mutazioni a livello dell’oncogene ma non hanno il tumore. Quindi i tumori hanno una base genetica che
però non è condizione sine qua non per l’insorgenza del tumore.
Questo è stato confermato anche
da altre indicazioni: studiando le
popolazioni mondiali scopriamo che
il genoma dell’uomo è identico per
il 99,1%: esiste una piccolissima
differenza tra le varie etnie. Da un
punto di vista genetica siamo quasi
identici, tuttavia se analizziamo
l’incidenza del tumore nelle varie
popolazioni vediamo che essa
cambia nei vari casi.
Come vediamo in figura, in America
e Europa alcuni tumori sono molto
più diffusi, mentre in India sono più
diffusi i tumori al collo, alla testa e
alla cervice uterina, mentre in
Giappone sono più diffusi i tumori allo stomaco. Questo significa che evidentemente, visto che abbiamo un
genoma identico, abbiamo la stessa probabilità di sviluppare certe mutazioni: allora perché alcuni tumori
avvengono soprattutto in certe popolazioni? Alcune evidenze sembrano esserci sui fattori che possono
influenzare questo meccanismo. Ad esempio, in Giappone l’incidenza di tumore allo stomaco è alta ed è
probabile che questo sia legato allo stile di vita dei giapponesi: come buona parte delle popolazioni
asiatiche, i giapponesi fanno un largo uso di tè, ma in particolare i giapponesi hanno l’abitudine di bere il tè
caldissimo e bollente. Dunque, il tè arriva a livello dell’apparato gastro-intestinale ad alte temperature e
quindi lo stomaco è soggetto ad uno stress continuo quindi si pensa che questa abitudine possa avere ruolo
rilevante nello sviluppo di tumori allo stomaco in Giappone. Questi studi sono stati fatti confrontando
l’abitudine dei giapponesi con altre popolazioni che bevono molto tè ma non bollente; anche se questa
ipotesi non è certa, è molto probabile. Questo suggerisce che lo stile di vita e le abitudini possono avere un
tolo importantissimo sullo sviluppo dei tumori, rendendo il quadro delle cause tumorali ancora più
complesso.
Questo studio ha ispirato molte altre ricerche. Gli studi successivi a questo hanno concentrato l’attenzione
sullo stile di vita e quindi anche sull’alimentazione. Noi ci occuperemo dell’alimentazione ma lo stile di vita
è noto come fattore di rischio, ad
esempio il fumo di sigaretta,
l’obesità, la sedentarietà, etc...
sappiamo che sono fattori di
rischio importanti.
L’alimentazione ricopre il primo
gradino per importanza nello stile
di vita. Studi retrospettivi,
analizzando i risultati delle analisi
epidemiologiche, hanno permessi
di evidenziare che l’assunzione
regolare di frutta e verdura
permette di ridurre il rischio di
molte patologie degenerative,
come ad esempio i tumori.
Queste evidenze sono chiare, non
si parla di effetti farmacologici, quindi indipendentemente dal meccanismo d’azione, gli studi
epidemiologici ci dicono che chi consuma frutta e verdura ha in media una minore probabilità di sviluppare
tumori nell’arco della vita. Quindi non è che NON sviluppa tumori ma HA MENO PROBABILITÀ di svilupparli
nell’arco della vita. Infatti, solitamente le patologie cronico-degenerative diventano importanti soprattutto
in tarda età, quindi aumentando l’età aumenta la probabilità di sviluppare tali malattie; tuttavia,
l’insorgenza di queste malattie non è un dato certo poiché tali patologie necessitano decine di anni per
svilupparsi, quindi tutto dipende da quando inizia la malattia, che può esordire a 20 anni o a 70-80 anni: se
l’esordio è a 20 anni, per l’aspettativa di vita che abbiamo oggi, ci sono almeno 40-50 anni di tempo per
sviluppare la patologia, quindi il rischio di morire per tale patologia è elevato; se l’insorgenza della patologia
è a 75 anni, la patologia può avere effetto per pochi anni e quindi è molto probabile che non si muoia per
quella patologia ma piuttosto di vecchiaia.
Quando si parla di riduzione del rischio di cosa si parla? Qual è l’impatto della riduzione del rischio? Una
riduzione del rischio del 5% non apporta
grandi cambiamenti mentre se il rischio può
essere ridotto del 30-40%, chiunque vorrà
impegnarsi per farlo. In figura vediamo
proprio questo, infatti il grafico fornisce una
stima della riduzione del rischio di fronte ad
alcuni tipi di tumori. Notiamo che la mortalità
nei soggetti malati è correlata alla frequenza
di consumo di certi tipi di vegetali, ovvero i
vegetali di colore verde/giallo); la barra
arancione indica chi non li assume, quella
viola indica chi li assume occasionalmente e
quella verde indica chi li assume
quotidianamente.
In questi casi, il rischio di mortalità per queste patologie, si riduce nettamente per chi fa uso quotidiano di
questi tipi di alimenti mentre il rischio è molto più alto per chi non lo usa. Interessante è notare che anche il
consumo occasionale determina una riduzione significativa.
Questo impatto è importante poiché si va da una riduzione del 20-40% del rischio di morte per queste
patologie. Quindi nei tumori, patologie con impatto sociale ed economico importante, si può avere
riduzione con il consumo di un certo tipo di alimenti.

In figura notiamo un grafico che ci mostra come l’assunzione di frutta e verdura permette una riduzione di
circa il 30% dell’incidenza del tumore, quindi qui non guardiamo la mortalità ma si analizza il concetto di
prevenzione. Ovvero si va a
quantificare quanto può essere
ridotta l’incidenza del tumore al
colon con il controllo della dieta
(mangiare frutta e verdura), lo
svolgimento di attività fisica e il
non fumare. Prendendo in
considerazione questi tre fattori
vediamo che questo stile di vita
permette di ridurre il tumore al
colon del 30%; tale patologia, in
Italia (e nei paesi industrializzati)
colpisce milioni di persone,
pertanto ridurre del 30%
l’incidenza del tumore significa
parlare di numeri enormi. Quindi si
sta parlando di aumentare la sopravvivenza dei pazienti ma anche di ridurre enormemente le spese, infatti i
soggetti affetti dalle patologie cronico-degenerative sono un costo enorme per il nostro Servizio Sanitario
Nazionale. Da questo punto di vista gli americani si sono fatti promotori di questi studi poiché in America la
sanità non è pubblica e i privati fanno pagare un’assicurazione per poi elargire cure mediche: l’aumento dei
pazienti affetti da patologie cronico-degenerative è un problema poiché il privato vede ridursi
enormemente il guadagno (a meno che non si aumenti il costo dell’alimentazione).
In generale, se non si dà un cambio allo stile di vita, tra 20 anni lo Stato non sarà in grado di provvedere alle
cure per tutti i pazienti malati di patologie cronico-degenerative poiché il loro costo è caro. Quindi si tratta
di capire come attuare strategie di prevenzione.
Il grafico a pagina precedente ci dice che posso ridurre il rischio di sviluppare tumore al colon del 70%
(infatti sulle ordinate leggiamo “percent available” ossia quello che possiamo evitare), il rischio di
sviluppare l’infarto del 70%, il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari dell’80%, e infine posso ridurre
il rischio di sviluppare diabete di quasi il 90%. Questa riduzione è pazzesca e può essere possibile cambiare
lo stile di vita, da questi dati infatti vediamo che lo stile di vita ha un impatto enorme. Ovviamente non
abbiamo la certezza che cambiando lo stile di vita la malattia non si sviluppi, infatti la predisposizione
genetica può comunque portare allo sviluppo del tumore in un soggetto con uno stile di vita adeguato;
tuttavia, questi dati ci informano che in base allo stile di vita il tumore potrà insorgere prima o dopo nel
tempo: con uno stile di vita scorretto la patologia si manifesterà più rapidamente mentre se lo stile di vita è
corretto rischio che la patologia possa svilupparti nell’arco della vita poiché tenderebbe ad essere ritardata
per molti anni oppure manifestarsi solo quando il percorso di vita tende ad esaurirsi spontaneamente.

In termini di stile di vita si consiglia di non fumare, di fare attività fisica, di non bere troppo alcol, ma in
particolare si punta sulla corretta alimentazione. si è avuto anche un cambiamento nel concetto di
alimentazione, infatti prima si usava il termine di “corretta alimentazione” per riferirsi ad un’alimentazione
che fornisce nutrienti, favorisce la crescita, e contrasta patologie legate all’alimentazione.
Oggi invece si parla di alimentazione
ottimale ed è una differenza
importante.
In questo caso intanto si tratta di un
concetto relativo poiché ognuno di noi
può avere un’alimentazione ottimale
quindi non esiste più la
raccomandazione oggettiva ma
dipende dal soggetto, dal suo stile di
vita e dal suo fabbisogno. Quindi il
concetto di alimentazione cambia,
tanto che oggi si parla di dieta
personalizzata, così come si parla di
terapia farmacologica personalizzata,
quindi questo concetto non è solo degli alimenti ma comincia ad essere evidente che ognuno di noi ha delle
peculiarità, quindi anche in termini di alimentazione l’idea che si possa fare una dieta che va bene per tutti
è sbagliato. Quindi l’alimentazione ottimale è l’assunzione di nutrienti che serve ai singoli individui per
portare avanti il fabbisogno energetico e la crescita, per il benessere psicofisico e per ridurre l’insorgenza di
malattie. Mentre “contrastare” significa curare – e non è vero che è possibile curarsi con l’alimentazione –
“ridurre l’insorgenza” significa prevenire: gli alimenti possono agire solo in fase di prevenzione (ad esempio
abbiamo visto che mangiando frutta e verdura possiamo ridurre del 70% il rischio di sviluppare tumore al
colon). Il farmaco è una sostanza somministrata dal medico per lenire gli effetti o curare una patologia. Gli
alimenti si somministrano per mantenere un corretto
equilibrio nell’organismo, e questo poi ci aiuta a
combattere la patologia.
Questa funzione preventiva deve dipendere dal fatto che
gli alimenti contengono sostanze che hanno un effetto
preventivo sulla salute. Ma allora un alimento è un
farmaco? NO! E allora che termine possiamo usare per
descriverli? Nel 1990 si decise di coniare un nuovo termie
che indica sostanze contenute negli alimenti che si
comportano da nutraceutici.
Il termine deriva dall’unione di “nutrizionale” poiché si
tratta di nutrimento, e “farmaceutico”. Quindi i
nutraceutici sono sostanze che hanno un’attività farmacologica molto blanda che, viste le dosi presenti
nell’alimento di tale sostanza, può esercitare un debole effetto “farmacologico” positivo. In fase acuta della
patologia l’effetto è praticamente nullo, ma se il nutraceutico viene usato prima che la patologia si
manifesti, esso può avere un impatto enorme. Sorge spontanea una domanda: se stiamo bene, perché è
necessario assumere queste sostanze? Questo è un concetto difficile poiché non è facile definire qual è un
soggetto sano, poiché può avere migliaia di sfumature; senza considerare che non stiamo considerando il
nostro asset genetico, quindi magari un soggetto sano è comunque predisposto a sviluppare una certa
patologia. Quindi in un soggetto sano ci possono essere alterazioni quotidiane minimi e di cui il paziente
non si accorge ma che saranno tali da far sviluppate a quel soggetto una certa patologia tra 20 anni.
Se in questa fase assumo sostanze che hanno un effetto positivo, sebbene non si riesca a bloccare questo
processo di “preparazione alla patologia”, tali sostanze possono rallentarlo e contrastano questa
transizione tra lo stato di benessere e la patologia. Quindi con un lavoro “impercettibile” ma fondamentale
possiamo rallentare (o addirittura bloccare, ancora non si sa) l’insorgenza della patologia.

Andiamo quindi a parlare di queste sostanze bioattive, ossia i nutraceutici. Ad oggi sono stati classificati
circa 5000 composti potenzialmente attivi e potenzialmente in gradi di influenzare positivamente lo stato di
salute e possiamo classificarli in categorie generali: carotenoidi, acidi grassi, flavonoidi, fitosteroli, prebiotici
e probiotici, tannini. All’interno di ciascuna di queste categorie ci sono centinaia di composti.
La maggioranza di questi composti sono presenti
nei vegetali (frutta e verdura), ma questo non vuol
dire che non siano presenti in nessun animale
infatti li ritroviamo in alcuni animali, soprattutto in
quelli che si cibano di vegetali. Le piante li
producono per le proprie necessità e il proprio
fabbisogno, tali sostanze infatti servono per
funzioni specifiche che la pianta deve affrontare
quotidianamente: cicatrizzazione, protezione da
infezioni fungine, protezione da raggi UV,
colorazione di fiori e piante, chelazione di metalli.
Nel momento in cui queste sostanze sono
considerate sostanze bioattive nelle piante, è
strano pensare che quando le assumiamo noi, esse
non abbiano nessun effetto e in realtà è proprio
così: sono sostanze attive in senso generale, sono
attive nelle piante e quindi mantengono attività
anche nell’uomo. Tali sostanze hanno effetti
positivi ma possono portare anche a conseguenze
negative; ovviamente l’uomo e gli animali hanno
imparato a non assumere sostanze che possono
causare danni o la morte, infatti noi usiamo solo
frutta e verdura che non sono tossici.
Caratterizzare queste sostanze è un grande
problema perché all’interno del concetto di
alimento è difficile discriminare l’azione di un
composto rispetto ad un altro: quando assumiamo
un alimento noi assumiamo decine/centinaia di composti bioattivi, quindi sostenere che un alimento ha
effetti positivi perché contiene una singola sostanza è difficile da capire (chi dice che le altre sostanze non
abbiano effetto?). Quindi quando parliamo di queste sostanze bioattive viene da chiedersi quali sono i
composti attivi? Qual è il loro meccanismo d’azione? Qual è il dosaggio da utilizzare (dose minima per avere
effetto positivo)? In quali alimenti li troviamo? Quando e come li dobbiamo assumere?
Tanto per avere un’idea, nella tabella seguente sono elencati composti naturali che contengono un mix di
sostanze. Dentro ciascun alimento ci sono decine di sostanze inattive che sono definite tali poiché sono
state analizzate ed è stato visto che ciascuna di queste può dare un effetto positivo. Considerando che ogni
alimento contiene decine e decine di queste sostanze, questo spiega gli effetti che abbiamo descritto finora
ovvero gli effetti preventivi in termini di nutrizione. Quindi noi non assumiamo solo un composto bioattvo
quando assumiamo i vegetali, ma ne assumiamo decine.

Apples Quercetin, epicatechin, chlorogenic acid, p-coumaric acid, phloridzin


Citrus fruits Narigenin ,hesperetin, hesperetin, eriocitrin, naringin, meoreiocitrin, natrituin,
p-coumaric aceid, caffeic acid, ferulic acid
Grapes Tannic acid, quercetin, procyanidines, other phenolics
Onion Quercetin, myricetin
Carrots Lignin, carotene
Tomato Quercetin, lycopene, rutin, prunin
Garlic S-allylcysteine, S-allylmercaptocysteine
Horseradish Singrin
Azuki beans Procyanidin dimers
Oilseeds and oil crops
Cocoa Catechin, epicatechin, chlorogenic acid
Soybean Genistein, daidzein, glycitein, phenolic acids, tocopherols, amino acids, peptides

Noi vedremo degli esempi per capire il meccanismo d’azione e sfatare alcuni miti che oggi si hanno nella
popolazione.

PROBIOTICI E PREBIOTICI

Sono sostanze di cui sentiamo continuamente parlare. Molti alimenti contengono intrinsecamente una
flora batterica, sappiamo infatti che molti alimenti hanno una scadenza poiché dopo un certo tempo
degenerano proprio perché contengono batteri che crescono e quindi nel tempo tendono a modificare
l’alimento, l’esempio più tipico sono i prodotti come latte e suoi derivati in cui i batteri fanno la
fermentazione; questo processo è alla base ad esempio della produzione dello yogurt.
Molti alimenti vegetali e animali contengono batteri e noi li assumiamo quando mangiamo l’alimento e
questa frazione batterica (che può contenere anche funghi e lieviti) è detta probiotico.
I prebiotici invece sono la parte che non riusciamo a digerire e che arriva al nostro apparato intestinale fino
alla parte dove sono contenuti i batteri ovvero l’intestino distale, che è molto ricco di batteri: tali sostanze
sono substrato per i batteri che metabolizzano le sostanze per il proprio sostentamento.
Lo scopo dei probiotici e dei prebiotici è mantenere un corretto equilibrio della flora batterica intestinale
ossia del microbioma umano. Questo è importante poiché se la flora batterica viene azzerata noi moriamo
in tempi molto brevi quindi significa che non possiamo sopravvivere senza la flora batterica, che esercita
un’influenza fondamentale sulla nostra salute: ci permette di mantenere uno stato di buona salute.

La flora batterica non è statica poiché il microbioma è un’entità dinamica che può cambiare e questo per
noi può essere positivo o negativo. Il fatto che la flora batterica sia dinamica suggerisce delle evidenze. Ad
esempio, al momento della nascita la nostra flora batterica non è presente, infatti abbiamo dei batteri ma
la flora è molto scarsa; da lì a pochi
mesi la flora batterica aumenta
rapidamente e tali batteri derivano
dalla madre (contatto con il seno e
lattazione) che condivide i batteri
esterni che colonizzano l’intestino del
neonato e danno effetti positivi; anche
il latte contiene batteri che sono
trasmessi al neonato. Tuttavia, questi
batteri non sono quelli che troveremo
nella fase adulta poiché nella fase dello
svezzamento, quando il neonato smette
di assumere latte e comincia ad
assumere alimenti diversi, assume
anche batteri diversi e l’equilibrio
nell’intestino cambia. Attraverso gli
alimenti e le pratiche dell’alimentazione (es. stoviglie, piatti, etc...) noi assumiamo batteri che colonizzano
l’intestino; tali batteri sopravvivono grazie all’arrivo nell’intestino di sostanze che noi non siamo in grado di
digerire. Dunque, possiamo dire che l’alimentazione può influenzare la flora batterica intestinale.

Lezione 14 - 12/11/2020
Il cambiamento della nostra flora batterica può determinare una situazione patologica; noi proveremo a
capire da cosa può essere causata una tale modifica. Ovviamente non siamo in grado di dare tutte le
risposte, c’è chi sostiene che buona parte delle nostre patologie siano associabili ad alterazioni del
microbioma, anche se dipende da che ruolo ha il microbioma cioè se è la causa della patologia, è l’effetto o
magari è una con-causa della patologia. Ad esempio, consideriamo il fatto che i soggetti obesi hanno
microbiota diverso da un soggetto non obeso, riguardo a questa situazione ci sono tre approcci diversi:
- C’è chi sostiene che l’obesità è stata causata da un’alterazione del microbioma quindi il microbiota è
visto come causa scatenante;
- Contrapposto a ciò, c’è chi sostiene che obesità e alterazione del microbioma son due fenomeni
paralleli che si influenzano a vicenda cioè un cambiamento dell’alterazione altera il microbioma che
quindi può favorire un aumento di peso;
- Infine, c’è chi sostiene che l’obesità sia la causa dell’alterazione del microbioma intestinale, questo
perché il microbiota ha una certa resilienza e non è propenso a cambiare. In questo terzo caso il
microbioma cambia a seguito di una situazione di obesità che si prolunga nel tempo.
Non sappiamo quale dei tre approcci sia quello corretto, noi sappiamo solo che in soggetti con patologie
avanzate si trova quasi sempre il microbiota alterato.
Anche affermare che il microbiota è cambiato è complesso, poiché ci sono moltissimi batteri quindi
affermare che una differenza corrisponda ad una variazione del microbiota non è scontato. Tuttavia, queste
rimangono teorie da dimostrare.
In letteratura ci sono studi che supportano l’ipotesi che patologie come la schizofrenia o certe patologie
neurologiche importanti (es. autismo) siano originate da uno squilibrio del microbiota intestinale. Queste
sono teorie estreme, alla base delle quali probabilmente c’è un fondamento scientifico.

Adesso andremo ad analizzare una serie di evidenze che cercano di dimostrare il ruolo del microbiota
intestinale.

Nel tempo è stato osservato che il microbioma ha un ruolo importante perché contribuiscono a mantenere
l’intestino in una corretta funzionalità. L’intestino è una barriera che impedisce ai derivati del cibo di
penetrare direttamente nell’organismo e quindi rappresenta una sorta di filtro tra noi ed il cibo. Il fatto che
sia una barriera dipende dal fatto che impedisce agli xenobiotici e alle sostanze esogene di penetrare.
Quindi l’integrità della barriera intestinale è
fondamentale e il microbiota contribuisce a
questo, come? alcuni batteri sono adesi alla
parete e quindi loro stessi aderiscono alle
pareti, impedendo ad altri batteri di
danneggiare la parete intestinale. Molti
batteri stimolano le cellule della mucosa a
produrre mucina, una proteina poca solubile
che forma un film, una mucillagine che copre
la barriera intestinale e impedisce alle cellule
di essere danneggiate. Questi batteri poi
sono in competizione tra loro e questa si
manifesta poiché i batteri rilasciano sostanze nell’ambiente esterno e molte di queste sostanze hanno
attività antibiotico-simile quindi impediscono/favoriscono la proliferazione di vari batteri. Quindi
nell’intestino si assiste a “guerre batteriche chimiche” tra ceppi batterici diversi, che “lottano” per la
sopravvivenza all’interno dell’intestino. Ad oggi sappiamo che i batteri buoni non causano patologie e
liberando queste sostanze impediscono la proliferazione di altri batteri che per noi sarebbero patogeni.
I batteri inoltre metabolizzano sostanze nell’intestino, anche quelle potenzialmente tossiche, oppure
trasformano sostanze in prodotti a noi utili, ad esempio le fibre sono metabolizzate dai batteri che
rilasciano come prodotto di scarto acidi grassi a catena corta (butirrato, idrossibutirrato), sostanze
importanti che noi assorbiamo e che possono modulare l’espressione di geni e la loro regolazione come ad
esempio la metilazione del DNA. Nel momento in cui prevalgono i batteri che per noi hanno un effetto
positivo, l’aiuto di questi per noi è importante e ci permette di mantenerci in condizioni ottimali di salute.
Le attività batteriche che sono portate avanti nell’intestino sono varie:
- Utilizzo di carboidrati non digeribili;
- Produzione di acidi grassi a catena corta per fermentazione;
- Produzione di glicoconiugati (mucina);
- Deconiugazione e deidrossilazione degli acidi biliari;
- Riduzione del colesterolo (coprostanolo);
- Biosintesi di vitamina K e delle vitamine del gruppo B;
- Biosintesi di isoprenoidi;
- Metabolismo degli amminoacidi;
- Metabolismo degli xenobiotici.

Dove troviamo eventuali probiotici? Ovviamente non tutti gli alimenti li contengono. Abbiamo già detto che
molti degli alimenti che mangiamo non sono sterili, tuttavia questa non significa che tali alimenti
contengono probiotici. Ci sono però alimenti che vengono consigliati per rimodulare la carica batterica
intestinale nei casi in cui essa abbia perso il suo equilibrio.
Sappiamo che il latte e gli altri
alimenti derivati contengono
un’elevata carica batterica e
in particolare contengono
batteri come lactobacilli, etc...
che per noi sono
fondamentali. Molti di noi lo
sanno poiché hanno assunto i
fermenti lattici, ad esempio
dopo il trattamento
antibiotico o
contemporaneamente agli
antibiotici. Oggi infatti gli
antibiotici sono la più comune
causa di alterazione del
microbioma intestinale e ce ne accorgiamo poiché spesso gli antibiotici causano problemi di digestione,
diarrea, flatulenza, dolori intestinali. Ecco perché i dottori spesso somministrano fermenti lattici assieme
agli antibiotici, e in questo caso i fermenti lattici assumono il ruolo di integratori di batteri, proprio perché
contengono miliardi di batteri per fialetta.
Per quanto riguarda i prebiotici sappiamo che sono alimenti non digeribili (molti appartengono alla famiglia
delle fibre) ma sono in grado di stimolare selettivamente la crescita di particolari ceppi di microrganismi,
che sfruttano i prebiotici per nutrirsi. Solitamente si tratta di sostanze gastro-resistenti, fermentabili dai
batteri intestinali e in grado di stimolare l’attività o la crescita dei batteri stessi.

I prebiotici sono il cibo dei batteri, quindi è fondamentale che essi giungano all’intestino. Questo quindi
suggerisce che un’alterazione della dieta (contenuto e qualità di prebiotici) si riflette sul microbioma.
Quindi cambiando cibo possiamo indurre cambiamenti repentini (qualche mese) che possono causare
problemi, soprattutto a lungo termine.
Sono stati fatti degli studi tra cui uno portato avanti dal Meyer, che hanno studiato il microbiota di
popolazioni africane rurali (vivono nella Savana) che hanno diete povere in carne e ricche in fibre e si è visto
che, i bambini che si spostavano in città per istruirsi (6-7 mesi all’anno) avevano un microbiota intestinale
diverso. Questo dipende dal fatto che quando arrivano in città cambiano totalmente alimentazione, infatti
quella in città è più ricca in proteine, grassi, zuccheri. La cosa interessante è che quando questi ragazzi
tornano a casa per Il periodo estivo, il microbioma cambia nuovamente e si riadatta ad un ambiente più
rurale. Inoltre, i bambini che si spostano nelle città tendono ad avere i problemi tipici delle città
industrializzate, infatti aumentano di peso e si hanno anche casi con problemi di obesità e patologie ad essa
correlate. Quindi l’alimentazione è uno dei principali fattori che può alterare il microbioma e di
conseguenza la funzionalità
del nostro organismo.

Come si vede nella figura a


fianco, l’alterazione
dell’alimentazione può
portare ad uno squilibrio del
microbiota intestinale;
quando prevalgono le specie
patogene si alterano le
tipologie di metaboliti che noi
assorbiamo e questo può
portare ad un’alterazione
dello stato di salute.
In figura seguente vediamo alcuni esempi di prebiotici e dove li possiamo trovare, quindi quali sono le fonti
alimentari.

Gli alimenti più comuni che ci possono apportare prebiotici sono latte, banane, aglio, carciofo, grano,
asparagi.

Proviamo a razionalizzare tutto ciò che abbiamo visto finora e facciamo degli esempi sull’impatto sulla
salute umana. Analizziamo quindi la situazione seguente.
Nel momento in cui si porta
avanti una dieta equilibrata
e ottimale (es. dieta
mediterranea) si ha un
mantenimento
dell’equilibrio intestinale e
del microbiota, quindi
l’epitelio funziona
correttamente e l’azione di
barriera funziona come
dovrebbe. L’effetto della
barriera è importante
poiché nell’intestino i
batteri sono moltissimi e nel
lume si ha anche il rilascio di
molte proteine batteriche
(batteri muoiono), la
maggior parte delle quali
sono immunogeniche (n grado di scatenare una risposta immunitaria se penetrano nel nostro organismo),
tuttavia se la barriera intestinale funziona correttamente l’ingresso delle molecole è controllato e infatti
entrano fondamentalmente i metaboliti
ma il resto non riesce a passare.
Vediamo cosa succede quando la dieta
cambia. In figura è evidente che la dieta
non è più corretta ed è ricca di grassi e
bassi livelli di fibre (es. merendine e
snack).
In questo caso a lungo termine il
cambio di alimentazione determina
alterazione del microbiota e cambia
l’equilibrio tra popolazione batteriche;
di conseguenza le pareti intestinali
vengono a contatto con batteri di
specie diversi che alterano la funzione
della membrana in peggio. Ad esempio
spesso l’alterazione del microbioma
aumenta la permeabilità intestinale e
quindi altera la compattezza e la
funzionalità dell’epitelio intestinale, con il risultato di permettere assorbimento e penetrazione di più
metaboliti, questo può avere effetti positivi ma il problema è che nell’intestino ci sono molte proteine
batteriche e lipopolisaccaridi (frammenti di pareti batteriche che sono immunogenici) quindi può succedere
che, tramite la maggior possibilità di penetrazione di peptidi batterici o lipopolisaccaridi, in circolo
aumentano le sostanze immunogeniche che sonno catturate dai macrofagi, i quali le espongono e così si
attiva una risposta immunitaria determinando una risposta infiammatoria che non è localizzata poiché
grazie ai mediatori dell’infiammazione può diventare sistemica. I cambiamenti a livello del microbioma
hanno effetti che si manifestano in tempi medio-lunghi e inoltre non sono acuti, quindi ci possiamo
accorgere dei cambiamenti poiché cambia flatulenza, oppure cambiano le abitudini intestinali, oppure
dolori a livelli intestinale; un sintomo acuto può essere anche l’appendicite. Molti possono pensare che
questi segnali non siano importanti e quindi non capiscono che possono essere dei sintomi: non è facile
intuire e comprendere questi segnali.
Abbiamo detto però che tutto questo può portare ad un processo infiammatorio, di cui spesso non ci
accorgiamo tanto che viene definito fenomeno infiammatorio sottosoglia. Infatti noi solitamente ci
accorgiamo delle infiammazioni poiché il numero di mediatori liberati (prostaglandine, leucotrieni, etc...) è
alto; in questo caso però non si raggiungono questi livelli di soglia, tuttavia facendo un’analisi si
troverebbero i principali marcatori dell’infiammazione a livelli aumentati (anche di molto) rispetto ai valori
normali. Questi valori alterati, nel breve periodo
sono innocui, ma un aumento di valori prolungato
nel tempo, fino anche a decenni, quali effetti può
avere? Come vediamo dalla figura, l’infiammazione
sottosoglia nel lungo termine può portare a danni ad
organi importanti come fegato, tessuto adiposo e
tessuto muscolare. Questi tre distretti sono
fondamentali per il metabolismo e questo significa
che un fenomeno infiammatorio che impatta su
questi tre organi può avere conseguenze importanti,
che riguardano tutte le attività che tali organi
portano avanti. Tutto ciò può portare a problemi
metabolici tali da causare il diabete (problemi del
metabolismo glicidico), o problemi cardiovascolari
(problemi del metabolismo lipidico come
aterosclerosi, iperlipidemia), o problemi
neurodegenerativi (problemi a carico del sistema
nervoso).
Una delle principali conseguenze della low-grade inflammation è l’obesità, che poi causa patologie molto
più gravi, tipiche dei tempi attuali.

Proprio il fatto che tale processo duri molti anni ci permette di intervenire e abbiamo già detto che
probabilmente le cause alla base riguardano proprio l’alimentazione. Quindi ognuno di noi potrebbe
cambiare la propria alimentazione per evitare tutto questo. L’accorgimento necessario è assumere
costantemente prebiotici e probiotici, infatti il microbiota è resiliente quindi a seguito di un’alterazione
negativa del microbiota, è necessario tempo, costanza e pazienza per ripristinare un microbiota corretto.
Se interrompiamo la dieta sana, l’equilibrio tende piano piano a spostarsi verso una condizione non
favorevole; ecco perché è necessario un apporto costante per tutta la vita.

POLIFENOLI
I polifenoli sono sostanze molto numerosa che nell’immaginario comune hanno un’accezione positiva. Di
seguito sono elencate alcune sottofamiglie, che possono far parte della categoria dei flavonoidi o dei non-
flavonoidi. Ad esempio, il resveratrolo è contenuto nel vino rosso e se ne è molto parlato negli ultimi anni.
Di seguito poi vediamo alcune delle strutture di polifenoli, per avere un’idea di ciò di cui stiamo parlando.
Si tratta quindi di molecole con anelli aromatici, molti gruppi idrossilici, che quindi hanno la forma più
disparata; questi sono i più semplici. La quercetina è famosa è presente nella buccia della mela; le catechine
sono abbondanti nel tè; la ginesteina è presente in grande quantità nella soia.
Quindi i polifenoli sono strutture aromatiche con gruppi ossidrilici e possono raggiungere anche strutture
molto complesse, polimeriche, come quelle mostrate in figura.
Troviamo i polifenoli ovunque, e infatti di seguito ci sono le fonti alimentari: vino, broccoli, buccia delle
mele, etc...

Le attività di questa famiglia id composti sono incredibili, infatti le proprietà dei polifenoli sono:
- Antinfiammatoria
- Antiallergica
- Antivirale
- Antiaterogena
- Antiaritmica
- Antitumorale
- Antiepatotossica
- Immunostimolante
- Ipolipemizzante
- Stimolante le funzioni cognitive
- Modulazione dell’attività
- Estrogenica
Gli studi effettuati fino ad oggi hanno un’ampia gamma di attività benefiche. Tuttavia, in un soggetto con
patologie già manifeste, questi effetti non agiscono come cura della patologia. Questo è importante perché
oggi ci sono molte “notizie miracolose” sugli alimenti e le loro componenti in particolare i polifenoli, che
adescano spesso le persone malate di mali incurabili. Quindi è bene fare chiarezza.

Spesso e volentieri facendo riferimento agli alimenti, i polifenoli sono di origine vegetale, tuttavia non
hanno una distribuzione omogenea e possono essere modificati dai metodi di preparazione (es. cottura) o
dalle modalità di conservazione. Tuttavia, dobbiamo essere coscienti che queste sostanze sono presenti in
strutture particolari e quindi dobbiamo sapere dove trovarli. Ad esempio, nel riso i polifenoli si trovano
nella parte che eliminiamo ossia nella parte più esterna che noi eliminiamo (poiché noi mangiamo il riso
bianco), ecco perché noi dovremmo mangiare il riso integrale; come anche dovremo mangiare le mele con
la buccia. Anche il pane integrale è ricco di polifenoli, che in questo caso sono contenuti nella crusca.
Inoltre, dobbiamo tener di conto del fatto che questi possono essere modificati e danneggiati attraverso le
tecniche di cottura e di conservazione; sicuramente il prodotto crudo ne contiene di più ma questo non
significa che si riesca ad assorbirne sempre quantità maggiori poiché il crudo può essere anche più difficile
da digerire quindi non sempre è così banale.

Si discute molto sull’azione di questi polifenoli che per espletare le azioni devono essere assunti con la dieta
e assorbiti dall’organismo quindi noi dobbiamo capire quanti di questi composti noi giornalmente
assorbiamo. Da alcuni studi si è visto che noi riusciamo, con una dieta equilibrata, ad apportare fino a 1 g di
polifenoli. Tuttavia, questo non significa che in circolo si trovi proprio 1 g, perché i polifenoli devono essere
assorbiti, in parte saranno modificati, alcuni poi saranno metabolizzati o eliminati, con il risultato che la
concentrazione plasmatica di flavonoidi (sottofamiglia) è molto molto bassa.
Questo in parte è dovuto al fatto che la barriera intestinale impedisce ai polifenoli di passare liberamente
all’interno, e in parte è dovuto al fatto che le stesse cellule intestinali, dopo aver assorbito queste sostanze,
tendono ad eliminarle; quindi tali sostanze sono trattate come xenobiotici, sostanze da eliminare. Questo si
evince anche dal fatto che le cellule intestinali hanno enzimi che trasformano gran parte dei polifenoli a cui
ad esempio vengono legati zuccheri, glutatione, etc... per formare addotti tra polifenoli e altri sostanze in
modo da rendere i polifenoli più solubili al fine di eliminarli. Questa evidenza ci suggerisce che il nostro
organismo sente queste sostanze come xenobiotici e quindi devono essere eliminati. Ecco perché, anche se
si assume una quantità significativa, i polifenoli hanno una concentrazione plasmatica minima; di
conseguenza, dobbiamo sperare che tale concentrazione sia sufficiente ad innescare degli effetti. Questo
rappresenta un problema perché le proprietà dei polifenoli sono ricavati da esperimenti su cellule o animali
e in questi studi si usano quantità elevate della sostanza: le quantità usate per la sperimentazione in
laboratorio sono le stesse che noi assorbiamo dalla dieta (1 µM)? No, in laboratorio si usano dosi 10-100
volte superiori a quelle che noi assorbiamo, tanto che se in laboratorio usiamo dosi minori non si
manifestano quegli effetti positivi stimolati dall’uso di dosi superiori; pertanto non è detto che in vivo si
abbiano queste proprietà positive. Inoltre, in realtà il metabolismo delle cellule umane contribuisce a
modificare nuovamente queste sostanze: ad esempio, le sostanze che assorbiamo da una mela magari in
parte vanno al fegato, ma le cellule epatiche trattano tali sostanze come xenobiotici e le metabolizzano o le
modificano ulteriormente per eliminarle, infatti la vita media di queste sostanze è bassa (1-1,30 ore).
Detto questo, è impossibile pensare che tali sostanze abbiano effetti positivi, a causa della bassa
concentrazione o della bassa persistenza nel nostro organismo. Tuttavia, all’inizio abbiamo citato studi sulla
popolazione in cui l’assunzione di frutta e verdura riduce del 70% la probabilità di sviluppare tumori al
colon; questo è un dato appurato, indipendentemente del meccanismo d’azione delle sostanze. Quindi
cadiamo in contraddizione, poiché
gli effetti sulla popolazioni sono
certi, tuttavia abbiamo detto che
assumiamo quantità tali per cui è
impossibile che tali sostanze
abbiano un effetto. Come
risolviamo?

Nell’immagine a fianco vediamo il


metabolismo dei polifenoli per cui,
quando io penso di assumere certe
sostanze, nelle cellule poi si
trovano tutti i metaboliti. Di
conseguenza saranno attive le
sostanze di partenza o i metaboliti?
Anche questo è un altro
interrogativo non ancora chiarito.

Proviamo quindi a cercare spiegazioni agli effetti paradossali che osserviamo. Perché i polifenoli sono così
efficaci in termini di prevenzione ma non lo sono in fase acuta? Ad esempio, un paziente con un tumore
potrebbe essere trattato con alte dosi di un polifenolo e migliorare, tuttavia con l’alimentazione queste
dosi alte non sono mai raggiunte, quindi quando la malattia è in fase acuta queste sostanze non sono in
grado di avere effetti positivi. Tuttavia, se nei 20 anni precedenti, il paziente mangia frutta e verdura il
tumore probabilmente non salterà mai fuori. Quindi sicuramente questi non sono farmaci ma visto che in
fase di prevenzione sono molto efficaci, qualche effetto dovranno pure averlo. Tali effetti sono dovuti a
meccanismi d’azione indiretti, analizziamo quindi lo schema seguente.
Noi assumiamo/assorbiamo tutti i giorni sostanze xenobiotiche (per noi hanno quasi sempre connotazione
negativa) tramite respirazione, alimentazione, bevande, farmaci, ma abbiamo sistemi di difesa che ci
proteggono, come i sistemi di detossificazione – particolarmente abbondanti nel fegato. Infatti, esistono
alcuni enzimi come quelli appartenenti alla famiglia dei citocromo P450, essi catalizzano reazioni che
prevedono la modifica chimica delle sostanze xenobiotiche che, una volta modificate, diventano più solubili
e possono essere facilmente eliminate a livello renale. Quindi questi meccanismi favoriscono l’espulsione
delle sostanze tossiche, tali enzimi quindi sono la prima linea di difesa da sostanze estranee.
Tali reazioni però sono molte e infatti ci possono essere migliaia di xenobiotici che possono essere
metabolizzati in modo diverso. Per alcune di queste sostanze xenobiotiche, è stato osservato che si hanno
situazioni paradossali come nel caso del fumo di sigaretta e tutti i prodotti di combustione (smog,
carburante delle auto, etc...): questi prodotti di combustione contengono benzopirene (reazione di
combustione), una sostanza tossica e pericolosa con una struttura policiclica aromatica e quindi
chimicamente molto stabile. Tutti i processi di combustione portano alla liberazione del benzopirene, in
particolare per noi è molto dannoso il fumo di sigaretta poiché lo respiriamo direttamente; a livello
polmonare il benzopirene si scioglie nei liquidi ed entra nel circolo sanguigno che lo porta al fegato. Nel
fegato le cellule epatiche si accorgono di questa molecola estranea e cercano di modificarla tramite il
citocromo P450 per eliminarla; il problema è che la trasformazione catalizzata da tali enzimi è una reazione
di ossidazione che produce epossido di benzopirene, che è molto più tossico del benzopirene stesso quindi
involontariamente gli enzimi deputati alla detossificazione sono responsabili dell’attivazione della sostanza
tossica (prendono una sostanza tossica e la trasformano in una sostanza ancora più tossica) – ovviamente
questo è un effetto non voluto. L’epossido di benzopirene è un cancerogeno molto più potente del
benzopirene e infatti è stato dimostrato che esso può reagire con proteine organiche lipidi, proteine e
soprattutto con i nucleotidi, e quindi con il DNA, inducendo mutagenesi.
In questa situazione, quali sono gli effetti positivi dei polifenoli? Essi hanno come effetto positivo
l’inibizione della carcinogenesi ovvero interrompono il lento processo che porta alla trasformazione di una
cellula da normale e tumorale. Per fare questo inibiscono l’attività dei citocromi P450 che in questo causo
sono la causa stessa dell’attivazione dei processi che portano al tumore. Quindi paradossalmente,
bloccando l’azione di P450 – che di per sé sarebbe un enzima che ci difende dagli xenobiotici – blocco il
processo di mutagenesi, cosa che di per sé, ad esempio nel tumore al fumo è la principale causa che porta
al tumore al polmone. Tali effetti sono totalmente inattesi e non diretti.
Lezione 15 – 18/11/2020

Il meccanismo dei polifenoli è paradossale essi infatti hanno attività protettiva nei confronti delle sostanze
cancerogene. Come è possibile che i polifenoli possano proteggere da sostanze tossiche come
benzopirene? Esso è un composto policiclico aromatico che noi assorbiamo dall’inquinamento o dal fumo di
sigaretta; una volta assorbito arriva nel sangue dove si scioglie e può essere assorbito dalle cellule. Quando
esso arriva al fegato, il fegato ha ruolo di detossificare gli xenobiotici, a la capacità di detossificare è affidata
alla famiglia di enzimi di P450 che modificano chimicamente le sostanze esterne legandovi sostanze come
zuccheri, glutatione, solfato, per rendere solubile la molecola favorendone l’espulsione soprattutto
attraverso le urine. Quando il benzopirene arriva a livello delle cellule epatiche iniziano reazioni per
modificare benzopirene il problema è che alcuni degli enzimi trasformano il benzopirene in epossido di
benzopirene che è molto più tossico del benzopirene stesso quindi involontariamente gli enzimi epatici
attivano il benzopirene e lo rendono biologicamente attivo. Questo è un problema poiché quando gli
enzimi epatici agiscono, il prodotto danneggia proteine, lipidi, nucleotidi e induce mutagenesi. Quindi in
questa situazione questi enzimi sono dannosi.
L’effetto dei polifenoli è quello di bloccare il citocromo P450 agendo da inibitori. Questo sembra sbagliato
poiché blocchiamo enzimi che ci difendono dagli xenobiotici; tuttavia, nel caso del benzopirene sono
proprio questi enzimi a far danno. Quindi i polifenoli bloccando il P450 impediscono al benzopirene di
trasformarsi in qualcosa di più tossico. I polifenoli quindi regolano gli enzimi di fase I impedendo
l’attivazione di sostanze in xenobiotici.

Spesso si sente dire che i polifenoli sono antiossidanti. Questo è vero ma non è banale spiegarlo. Noi
sappiamo che il nostro organismo
produce molecole tossiche come i radicali
liberi (specie reattive dell’ossigeno) che
reagiscono con le molecole organiche,
danneggiandole. I ROS però funzionano
anche come secondi messaggeri, tanto
che eliminandoli completamente le
cellule muoiono quindi evidentemente i
ROS hanno un ruolo positivo; tuttavia, se
la loro concentrazione aumenta
eccessivamente si passa da un effetto
positivo necessario ad un effetto negativo
tossico. Si pensa che la produzione di ROS
in valori leggermente sovrasoglia per lo
stress ossidativo sia uno dei principali
fenomeni cronici alla base di alcune
patologie cronico-degenerative, come ad
esempio diabete di tipo II, ateroscletosi,
tumori. Quindi limitare lo stress ossidativo
è un fenomeno chiave per mantenere lo
stato di salute, ecco perché il fatto che i
polifenoli abbiano attività antiossidante è
un bene. Come fanno i polifenoli ad agire
da antiossidanti?
Noi abbiamo diversi modi per eliminare i
ROS e controllarne la concentrazione
intracellulare. Le nostre cellule hanno a
disposizione molti enzimi che funzionano
da scavenger, ovvero enzimi che
trasformano i radicali in sostanze non
tossiche. Ad esempio, lo ione superossido
viene trasformato dalla superossido dismutasi (SOD) in acqua ossigenata, la quale viene trasformata dalla
catalasi in acqua e ossigeno molecolare; anche la GPX riesce ad eliminare l’acqua ossigenata. Un primo
modo per difenderci dai ROS è esprimere enzimi con attività contro i ROS, mentre un altro modo per
eliminare i ROS è per attività diretta. Assistiamo alla modalità diretta quando, ad esempio, un flavonoide
reagisce con il radicale e il radicale è ridotto e inattivato mentre il flavonoide diventa uno ione radicale;
questa reazione è importante poiché due ioni radicali flavonoidi possono reagire tra loro per formare un
dimero, oppure un flavonoide radicale reagisce con il glutatione e viene eliminato. Quest’azione diretta dei
flavonoidi con i radicali liberi è importante per l’eliminazione dei ROS.

Noi sappiamo che nelle cellule ci sono altri agenti che si comportando da agenti riducenti come vitamina C
e vitamina E, potenti antiossidanti; i flavonoidi/i polifenoli aiutano queste azioni, già presenti, agendo da
antiossidanti e ci aiutano contro i ROS.
I polifenoli, che arrivano dagli alimenti, entrano in circolo possono raggiungere le varie cellule e quindi
possono aggiungersi agli antiossidanti già presenti nelle cellule. Sommando tra loro le quantità di
antiossidanti già presenti nell’organismo si arriva ad una concentrazione di circa 1 mM; pertanto, se
vogliamo sostenere che i
polifenoli agiscono da
antiossidanti importanti, allora
ci aspettiamo che essi siano
abbastanza da fare la
differenza rispetto a 1 mM già
presente: se la quota di
antiossidanti provenienti dalla
dieta è minima, non è
sostenibile l’idea che i
polifenoli ci aiutino in questo
processo.
Inoltre, dopo aver mangiato
frutta e verdura vediamo che
la concentrazione di polifenoli
è molto bassa, questo perché
a livello intestinale sono filtrati
dalle cellule e, all’interno delle
stesse cellule intestinali, i polifenoli (più del 90% di quelli assorbiti) sono modificati per essere eliminati più
rapidamente. Quindi la quota che entra in circolo è una frazione minima del totale assorbito e pertanto
non riesce a spostare l’equilibrio dunque non incrementa la quantità di agenti antiossidanti presenti nel
sangue.
L’intestino li assorbe all’1% e anche il fegato li elimina, infatti quando arrivano al fegato, sono modificati in
modo da esser eliminati più facilmente. Quindi possiamo dire che il nostro organismo, individua queste
sostanze come xenobiotici tanto che dopo poche ore dal pasto la concentrazione di questi è tornata a livelli
basali. Su questi presupposti è possibile pensare che i polifenoli diano un contributo rilevante nella
detossificazione da parte dei ROS? Noi non possiamo escludere che possano avere qualche azione però
senz’altro non portano un contributo importante. Quindi l’azione di antiossidante diretta, che è quella più
“famosa” è praticamente impossibile a causa della bassissima concentrazione e del breve periodo di tempo
in cui sono eliminati.

Quindi l’effetto principale dei polifenoli è quello che hanno sugli enzimi. Gli esperimenti fatti su cellule
dimostrano, senza eccezioni, che quando queste sostanze penetrano nelle cellule, scatenano una risposta
che incrementa la produzione di ROS. Quindi i polifenoli funzionano da OSSIDANTI! Il polifenolo entra
nell’ambiente cellulare, che è un ambiente riducente, e davanti ad un ambiente così riducente il polifenolo
deve considerarsi “meno potente come riducente” quindi rispetto all’ambiente intracellulare il polifenolo si
comporta da ossidante. Quindi in primo acchito i polifenoli sono ossidanti e portano ad un piccolo (poiché i
polifenoli sono pochi) incremento di ROS, che determina la reazione della cellula che quindi aumenta la
trascrizione e l’espressione degli enzimi antiossidanti. Quindi, se la cellula subisce un insulto ossidativo, si
aumenta l’espressione di enzimi antiossidanti che eliminano i ROS prodotti.
Possiamo quindi dire che i polifenoli agiscono attivando vie di difesa tipiche della difesa da stress ossidativo
e che portano all’espressione degli enzimi deputati alla difesa degli ossidanti, rendendo le cellule più pronte
ad eventuali stimoli ossidanti. Ad esempio, se mangiamo una mela al giorno le cellule sono abituate a
produrre enzimi antiossidanti e quindi la cellula sarà più pronta alla protezione da stress ossidativo (ad es.
esposizione ai raggi UV). Quindi i polifenoli hanno un’azione diretta ossidante ma un’azione indiretta
ANTIOSSIDANTE. Pertanto, nel complesso i polifenoli hanno effetto benefico.

I polifenoli sono “famosi” anche per avere attività antinfiammatoria. In effetti l’infiammazione (low rate
inflammation) è pericolosa, quindi avere sostanze antinfiammatorie può contribuire alla salute.
Anche qui sono stati descritti numerosi meccanismi d’azione. Innanzitutto, i polifenoli vanno ad inibire
l’attività delle molecole pro-infiammatorie e uno dei meccanismi con cui operano è regolare l’espressione
delle molecole infiammatorie. Questo è proprio il primo meccanismo dei polifenoli poiché bloccano
l’espressione di molecole pro-infiammatorie e stimolano l’espressione di molecole anti-infiammatorie.

Ridurre l’infiammazione è importante poiché essa è alla base di molte patologie cronico-degenerative. I
polifenoli, con attività antinfiammatoria, possono agire bloccando le fasi iniziali della tumorigenesi (quando
non si ha ancora tumore conclamato); infatti il processo di tumorigenesi è molto lungo e i processi
infiammatori possono influire e contribuire al tumore, quindi i polifenoli riescono a bloccare le fasi iniziali
della trasformazione cellulare. Il loro effetto nelle fasi avanzate è minore, ecco perché si parla di
prevenzione perché i polifenoli sono atti ad impedire la trasformazione cellulare.
Anche questo è un effetto paradossale poiché parliamo di attività citotossica: i polifenoli possono bloccare
il ciclo cellulare o possono indurre l’apoptosi. Quindi i polifenoli sono sostanze “tossiche” (infatti abbiamo
già detto che il nostro organismo cerca di eliminarli velocemente) ossia xenobiotici da cui possiamo ricavare
dei vantaggi. Anche se agiscono sull’attività di divisione e proliferazione, l’effetto tossico è minimo poiché la
maggior parte delle nostre cellule non sono in divisione e comunque anche cellule in divisione non
subiscono più di tanto l’effetto dei polifenoli; al massimo, i polifenoli possono rallentare questo processo
ma evidentemente questo non causa conseguenze poiché è da centinaia di anni che mangiamo polifenoli,
quindi l’organismo riesce a tollerare una dose minima.
Una cellula pre-cancerogena, pre-tumorale, che ha alterazioni e anomalie che la fanno essere una cellula
alterata (ma ancora non sono tumorali, possono diventare tumorali o morire), subisce una maggiore azione
dai polifenoli: noi traiamo vantaggi se i polifenoli uccidono le cellule anomale poiché sono già non-sane e
probabilmente i polifenoli hanno un’azione maggiore su di loro. I polifenoli agiscono su cellule pro-tumorali
“spingendole” alla morte, e così rallentano la comparsa del tumore (si può addirittura evitare la comparsa
del tumore).

Lezione 16 – 19/11/2020

Nella slide seguente si vede come alcuni composti naturali possono interferire con il ciclo cellulare, proprio
per questo tali composti sono importanti poiché permettono di prevedere un possibile rallentamento del
ciclo cellulare; questo diventa interessante nelle patologie tumorali dove si ha una proliferazione
incontrollata. Tuttavia, nell’uomo non si hanno evidenze certe sulla possibile attività antitumorale (in fase
acuta) di queste sostanze, i dati però sono stati ottenuti in laboratorio e come adesso vedremo questo
genera confusione.
In laboratorio ovviamente si lavora su modelli animali e quindi non sempre si possono trasferire
conoscenze acquisite sull’uomo; ad esempio gli animali hanno barriera intestinale più permeabile, e quindi
magari risentono meno l’effetto di alcune sostanze tossiche.
Nell’esperimento si
parla di murina, un
polifenolo presente in
molti alimenti.
Somministrando la
morina in giorni diversi
per 7 giorni, la
sopravvivenza
dell’animale è al 100%
quindi per l’animale tale
sostanze non è tossica.
Poi si prendono gli
animali e si inoculano
cellule tumorali in 8
animali; in 4 si inietta
solo il tumore, in 4 si
inietta tumore e
murina. Il trattamento
dura circa 45 giorni, alla
fine dei quali la massa
tumorale con murina è
molto molto inferiore
rispetto alla massa tumorale che troviamo nei topi di controllo. Quindi qui è chiaro l’effetto antitumorale.

La quercetina viene
usata per trattare i topi
e si vede che il
trattamento con
quercetina stabilizza la
massa del topo (con
leggera riduzione della
massa del topo che
potrebbe indicare una
leggera interferenza con
la crescita). Quindi
anche questo sembra
avere attività
antitumorale.
Esperimenti che
combinano
sulforafano e
quercetina (con due
possibili dosi)
determina una
diminuzione della
massa tumorale.

Il tè contiene epigallocatechinagallate (EGCG) al quale sono state attribuite molte attività. Negli
esperimenti, il trattamento con EGCG determina una riduzione della massa tumorale. Vediamo inoltre quali
effetti ha l’EGCG nello schema di seguito a destra.

Quindi c’è un forte contrasto tra gli esperimenti e gli effetti sull’uomo. Tuttavia, da tutti gli esperimenti si
vede che comunque, anche se c’è una forte riduzione, il tumore continua a crescere. Quindi nel topo, dove
abbiamo concentrazioni alte, si ha un effetto evidente anche se il tumore continua a crescere; nell’uomo
invece perdiamo gli effetti, anche perché l’uomo ha una soglia della tossicità più bassa e non è possibile
riprodurre questi dati. Questi dati comunque ci indicano che tali sostanze hanno un effetto positivo,
tuttavia ci fanno capire che non hanno alcun effetto in fase acuta; al contrario sull’uomo gli effetti sono più
marcati in fase di prevenzione, non solo interferendo con le cellule tumorali, ma interferiscono anche con la
formazione del microambiente tumorale.
Tali sostanze possono interferire su molte vie di segnalazione, ecco perché il dubbio è che tali sostanze
siano dannose per noi. Il nostro organismo infatti legge queste sostanze come estranee e li elimina per
questo. Probabilmente queste sostanze in grandi quantità sarebbero realmente dannose. Grazie al nostro
intestino, che detossifica tali xenobiotici, noi possiamo avere dei blandi effetti benefici, ma proprio perché
sono blandi non sono influenti in fase acuta ma solo in prevenzione.

Il resveratrolo non è un
polifenolo ma è una sostanza
leggermente diversa. Questa
sostanza negli anni ’90 è stata
scoperta avere un effetto positivo
nell’organismo. Esso è
particolarmente presente nella
buccia di uva rossa e quindi nel
vino rosso. Ovviamente nel vino ci
sono molte sostanze, quindi
sembra strano pensare che solo il
resveratrolo dia effetti benefici.
Tuttavia, gli studi fatti sul
resveratrolo indicano che esso ha
molti effetti:
- Antiossidante;
- Pro-apoptotico;
- Blocco del ciclo cellulare;
- Antinfiammatorio;
- Inibizione NF-kB;
- Inibizione angiogenesi (inibizione VEGF);
- Inibizione delle PTK;
- Superespressione dei pathway mediati da EGR.
Tuttavia, il vino assunto in grandi quantità provoca diabete, obesità, cirrosi epatica, quindi assumere il
resveratrolo tramite il vino può causare problemi, ecco perché la dose consigliata è 1-2 bicchieri al giorno.
Il resveratrolo insieme ad altre sostanze attiva l’AMPK, che è uno degli enzimi principali; esso favorisce il
catabolismo e blocca l’anabolismo. In basso nella figura sono descritti i fenomeni che media: riduce sintesi
di sterolo, lipidi, proteine, acidi grassi, attiva l’ossidazione acidi grassi, attiva produzione mitocondri, stimola
up-take di glucosio. Quindi questa attivazione è positiva per la regolazione della glicemia, o anche per chi è
obeso (metabolismo lipidico). Quindi attivare questo enzima potrebbe essere un punto chiave per far
dimagrire. Quindi assumere resveratrolo sembra fare bene, tuttavia se noi assumiamo molto resveratrolo
attraverso il vino si hanno effetti opposti poiché si ingrassa.

Anche di tè esistono molti tipi e all’interno si possono individuare molte sostanze:


- Tè bianco (foglie fresche essiccate);
- Tè nero (foglie fresche spezzettate, fermentate ed essiccate);
- Tè verde (foglie fresche riscaldate ed essiccate);
- Tè oolong (foglie fresche leggermente fermentate ed essiccate per riscaldamento).
Bere un tè apporta molte catechine anche se la quantità plasmatica rimane bassa. Anche le catechine
hanno attività antiossidante, e questo potrebbe diminuire le patologie cardiovascolari poiché vanno a
diminuire le LDL e aumentano le HDL. Il risultato è che l’assunzione regolare di catechine attraverso il tè
può aiutare a migliorare il danno cardiovascolare, bloccando aterogenesi e danno aterosclerotico. Le
catechine hanno anche un’attività antinfiammatoria, ad esempio EGCG vanno ad inibire la ciclossigenasi e
la lipossigenasi, enzimi coinvolti nell’infiammazione.
CAROTENOIDI
I carotenoidi sono sostanze
appartenenti ad una famiglia
complessa che comprende anche le
xantofille.
Si possono trovare in vari alimenti, in
tutta la frutta e la verdura con
colorazione gialla, arancione, rossa e
non solo.
Sono sostanze lipofile, quindi si
trovano negli olii vegetali (ad
esempio nell’olio di palma) o negli
alimenti con un contenuto di grassi
rilevante.

Queste sostanze sono antiossidanti. Ad esempio il licopene, nel pomodoro. Essendo sostanze lipofile
stanno a livello delle membrane plasmatiche quindi tendono ad ossidarsi loro piuttosto che far ossidare i
lipidi di membrana. Quindi stabilizzano le membrane, proteggono dalla perossidazione lipidica.

Quando arriva l’ossigeno si ha perossidazione che


causa la rottura del doppio legame; i carotenoidi
vanno ad inserirsi nella membrana cellulare e si
alternano ai fosfolipidi, quando arriva l’ossigeno
tendono ad ossidarsi loro invece che far ossidare i
lipidi, e così si evita il danno alla membrana e quindi
alle cellule. Tali sostanze quindi agiscono
direttamente da scavenger.
Oltre a questo, si è visto che esse tendono a far
aumentare l’espressione di fase I e fase II, in questo
modo proteggono le cellule facendo produrre
enzimi con attività antiossidante, come ad esempio:
- Eme-ossigenasi (HO-1);
- Quinoneossido reduttasi;
- Glutatione-S-transferasi;
- Glutatione Riduttasi
- Epossido idrolasi 1 microsomiale
- UDP glucuronosiltransferasi 1
Queste sostanze in quanto lipofile tendono ad essere accumulate sia a livello del tessuto adiposo, sia in
tutte le membrane cellulari. Lo stress da radicali liberi è presente in particolari categorie, ad esempio i
fumatori. I fumatori hanno danni ai polmoni, soprattutto a causa dei radicali liberi. Dato che uno dei
principali danni dei fumatori è il danno ossidativo, è stato suggerito che questi soggetti potrebbero essere
protetti dai carotenoidi, che abbiamo detto avere attività antiossidante. Queste idee hanno fatto sì che si
procedesse con trial clinici per vedere se i fumatori assumendo carotenoidi possono essere meno soggetti
dall’insorgenza del tumore. Nel 2010
si sono analizzati un certo numero di
fumatori e si è valutato il beneficio
della somministrazione di beta
carotene in termini di sviluppo del
tumore all’interno della categoria di
coloro che fumano e di tutti i
lavoratori che vengono a contatto
con l’absesto. Quindi si è
considerato un certo numero di
soggetti e gli si è somministrata una
certa quantità di beta carotene in
dosi superiori a quelle che si
assumerebbero dalla dieta.
Contrariamente alle aspettative, questa somministrazione ha causato un maggiore rischio non solo di
tumore al polmone ma addirittura tumore gastrico. Quindi la supplementazione con beta carotene non è
raccomandata.
Ovviamente il beta carotene ha un effetto positivo ma non è consigliabile assumerlo in grande dosi. Questo
può dipendere dal fatto che un’adeguata dose permetta di mantenere l’equilibrio, ma un’eccessiva dose
potrebbe danneggiare le membrane cellulari e quindi favorire lo sviluppo di certi tumori.

ACIDI GRASSI
Sappiamo che questi hanno diverse funzioni:
riserva di energia, precursori di altre
molecole, sono i principali costituenti delle
membrane cellulari. Molto importanti sono
gli acidi grassi a catena lunga in particolare i
polinsaturi. Essi sono prodotti da noi fino al
C16, ma non possiamo formare i polinsaturi
(possiamo aggiungere pochi doppi legami)
che quindi vanno assunti dalla dieta, un
esempio sono omega3 e omega6, ecco
perché si parla di acidi grassi essenziali.
Anche nel caso di omega3 sono state
descritte decine di funzioni di tutti i tipi,
quindi dovremmo parlare moltissimo.
Le fonti alimentari di omega3 e omega6
sono i grassi e principalmente gli oli, la
frutta secca, il pesce (in particolare quelli molto grassi come ad es. il pesce dei mari freddi, ossia il pesce
azzurro). I dati che ci dicono che gli omega3 fanno bene si sono avuti negli anni ’60. Infatti, si analizzarono
gli eschimesi, che allora sopravvivevano con la pesca (pesce azzurro) e sebbene questi soggetti avessero
una dieta molto ricca in grassi, in realtà l’incidenza di patologie cardiovascolari era bassissima se comparata
a popolazioni mediterranee. Il pesce azzurro ricco di omega3 e si pensò che questo fosse benefico.
Da quel momento sono stati fatti
molti studi, ad esempio si è
analizzato il rapporto
omega6/omega3 nell’evoluzione:
nel paleolitico si assumeva più
omega3 che omega6; nella
popolazione greca il rapporto è
basso questo popolo infatti assume
pochi grassi saturi (poco burro,
molto olio d’oliva); la popolazione
giapponese il rapporto cresce anche
se è molto basso; in india il rapporto
aumenta; nel nord Europa e in gran
Bretagna, il rapporto sale molto; in
USA sale moltissimo; nelle zone
urbane dell’india si arriva a valori
pazzeschi. Quindi via via che l’uomo
si è evoluto ha favorito l’omega6 rispetto all’omega3.
Nella tabella invece si nota la mortalità per patologie cardiovascolari e si mette in reazione al rapporto
omega6/omega3: quando il rapporto è alto le morti per patologie cardiovascolari, e man mano che scende
il rapporto scende anche la mortalità. Quindi esiste un diretto rapporto tra la quantità di omega3 assunta e
la prevenzione di patologie cardiovascolari. Ma come mai gli omega3 hanno un effetto positivo?
Gli acidi grassi quando sono assorbiti dall’intestino
sono usati per sintetizzare lipidi come trigliceridi o
fosfolipidi, i quali poi vanno a formare
rispettivamente gocce lipidiche di riserva nel
tessuto adiposo e membrane. Se assumiamo
molto omega3 nelle membrane si avrà un
aumento di omega3 e quindi le membrane nel
tempo contengono quantità rilevanti di omega3.
Questo si tratta di un effetto positivo, ma perché?
Le cellule del sistema immunitario si occupa della
risposta infiammatoria e per le cellule del sistema
immunitario l’omega3 è importante, infatti le
cellule quando un organismo estraneo penetra il nostro
organismo liberano citochine pro-infiammatorie o
metaboliti che hanno la capacità di attivare la risposta
infiammatoria; tali metaboliti sono molti. Gli acidi grassi
presenti nelle cellule del SI sono rilasciati nel citoplasma
grazie all’azione di enzimi come fosfolipasi, che taglia il
legame tra acido grasso e glicerolo, rilasciando gli acidi
grassi come gli omega3. Quindi saranno liberate
quantità diverse di omega3 e omega6. Questo è
interessante poiché i precursori dell’infiammazione si
ottengono proprio da omega3 o omega6: nella cascata
di segnalazione sono coinvolti molti enzimi ma l’effetto
finale è generare una serie di metaboliti. Il fatto è che i
prodotti derivate da omega3 e omega6 sono simili ma comunque diversi: si può pensare che nel momento
in cui le cellule del SI sono ricchi di omega6 si generano mediatori che determinano una risposta intensa e
prolungata nel tempo; se invece
le cellule contengono omega3 le
citochine proinfiammatorie sono
differenti, esse generano
comunque un processo
infiammatorio ma meno intenso
e di breve durata. Ovviamente,
fin tanto che si tratta del
raffreddore, non ci
preoccupiamo ma quando si ha
la low rate inflammation avere
nel SI molti omega3 o molti
omega6 può fare la differenza
poivhè in questo caso si tratta di
effetti cronici e prolungati nel
tempo: chi ha omega3 è più
protetto dall’insorgenza di
patologie cronico-degenerative.
Ovviamente questo non è l’unico
effetto degli omega3 ma questo p senz’altro rilevante.

Negli sportivi, il tessuto muscolare è continuamente soggetto a infiammazione. Ecco perché si suggerisce
l’integrazione con gli omega3 poiché in questo modo, l’attività fisica causerà sempre infiammazione ma con
l’omega3 gli effetti della risposta infiammatoria saranno minori; ad esempio chi assume omega3 riuscirà a
recuperare prima post-allenamento molto intenso (ad esempio i dolori WOD durano meno). Ovviamente
questo ha degli effetti solo A LUNGO TERMINE.
FITOESTROGENI
Si trovano nei prodotti della soia, ma non solo poiché essi fanno parte di derivati vegetali, infatti li troviamo
in frutti di bosco, etc...
In generale i fitoestrogeni sono tutte quelle sostanze che mimano la struttura del 17-beta-estradiolo. Esse
sono sostanze con attività ormono-simile, quindi si legano al recettore per gli estrogeni e sono in grado di
attivarlo. Ovviamente hanno un potere ormonale minore degli estrogeni.

Oggi l’utilizzo dei fitoestrogeni è molto aumentato a causa del maggiore uso della soia. Essa infatti viene
anche usata per incrementare il valore nutrizionale di diversi alimenti, dove in realtà non ci si aspetterebbe
di trovarli; ad esempio hot dog, hamburger, salsicce non sarebbero alimenti ricchi da un punto di vista
nutrizionale ecco perché questi alimenti spesso sono arricchiti con le proteine della soia.
Gli effetti positivi dei fitoestrogeni
derivano dallo studio delle
popolazioni orientali, e si è visto che
tali popolazioni hanno dei vantaggi,
legati al basso livello di colesterolo e
nelle donne, questo migliora gli
effetti negativi della menopausa.
Ma ci sono anche effetti negativi?
Ovviamente questo dipende dalle
dosi; negli ultimi anni il consumo di
soia è molto aumentato e questo
può causare anche danni. Ad
esempio, nei neonati l’uso del latte
di soia può determinare la
somministrazione di una dose molto
più alta di quella del latte vaccino o
materno. Da alcuni studi fatti su
bambini, particolarmente per le
femmine, si evince che l’assunzione regolare di cibi ricchi di fitoestrogeni può portare a squilibrio ormonale
negli infanti. L’assunzione esagerata può portare ad uno sviluppo sessuale prematuro, specialmente nelle
bambine.
Dunque, la soia e altri alimenti contenenti
fitoestrogeni fanno male? La soia in realtà è un
alimento importante, bene l’assunzione ma
bisogna stare attenti a chi ha problemi
ormonali e nei bambini (in particolare le
femmine), tanto che le bambine in fase di
sviluppo dovrebbero evitare di prenderla. Le
donne che stanno facendo terapia anti-
estrogenica (es. tumore al seno) o gli uomini
con problemi ormonali devono evitare, allo
stesso modo per cui mamme in allattamento e
in gravidanza devono evitare poiché i
fitoestrogeni potrebbero comunque arrivare ai
neonati. Infatti, i fitoestrogeni sono lipofili,
quindi passano anche al feto.
Per il resto della popolazione, non ci sono problemi anzi in questi casi l’assunzione della soia ha effetti
positivi.

Lezione 17 – 25/11/2020

FITOSTEROLI
Non hanno un attività ormone simile, anche se la loro
struttura ricorda i fitoestrogeni. In realtà la struttura
ricorda molto il colesterolo. Sono sostanze vegetali,
fortemente idrofobe e pertanto si trovano nella
componente lipidica, ecco perché soprattutto i semi sono
particolarmente abbondanti di questi tipi di sostanze
infatti li troviamo negli arachidi, nei semi di girasole, nelle
noci, nella frutta secca, nei legumi (meno
concentrati) e negli oli vegetali.
All’assunzione die fitosteroli sono stati
associati benefici soprattutto a livelli
dell’apparato cardiovascolare. Esse sono
sostanze simili al colesterolo quindi il loro
assorbimento segue al via die lipidi:
nell’intestino sono presenti le lipasi
pancreatiche che insieme ai sali biliari
degradano la componente lipidica del bolo
alimentare, in questo modo le cellule
intestinali possono assorbirli e
successivamente formare lipidi complessi
(trigliceridi e esteri del colesterolo). Con
questi lipidi si costituiscono i chilomicroni
ossia lipoproteine grandi, a bassa densità. In
figura troviamo una lipoproteina LDL (più
piccola dei chilomicroni) la cui superficie è formata da fosfolipidi e proteine mentre al centro si trovano le
molecole più idrofobe ossia i trigliceridi e gli esteri del colesterolo. I chilomicroni in circolo trasportano i
lipidi provenienti dalla dieta e li ridistribuiscono all’interno dell’organismo, per la maggior parte i trigliceridi
sono portati nel tessuto adiposo (il nostro tessuto adiposo è molto diffuso, nelle persone obese esso si
accumula a livello della pancia mentre nelle donne si accumula in fianchi e bacino); anche una parte del
colesterolo è rilasciata poiché il colesterolo nella cellula è importante per la formazione delle membrane
cellulari. Ovviamente non tutto il colesterolo viene rilasciato, mentre i trigliceridi sono rilasciati quasi del
tutto, quindi i chilomicroni circolando si riducono di dimensioni poiché rilasciano i trigliceridi e si
trasformano in chilomicroni residui che hanno perso quasi tutti i trigliceridi e contengono soprattutto
esteri del colesterolo. Il fegato interagisce con la componente proteica dei chilomicroni quindi questi sono
assorbiti e degradati dal fegato, che comunque ricicla le molecole residue.

Sappiamo che con la digestione il colesterolo viene transita momentaneamente a livello dei sali biliari, che
poi lo trasferiscono alle cellule intestinali. I sali biliari sono fondamentali poiché il trasferimento tra
componente lipidica della dieta e cellule intestinali avviene in una fase acquosa e i sali biliari rendono il
trasferimento possibile, fanno da “tramite acquoso”.
I fitosteroli hanno una struttura simile al colesterolo quindi seguono lo stesso percorso del colesterolo. Se
in percentuale si ha più fitosteroli che colesterolo essi ostacolano l’assorbimento del colesterolo a livello
intestinale, che quindi segue il transito intestinale dove viene metabolizzato dai batteri e poi viene
eliminato con le feci. Quindi i fitosteroli rallentano l’assorbimenti a livello intestinale del colesterolo.
Davanti a soggetti con ipercolesterolemia, in funzione delle condizioni del paziente, il medico valuta se
intervenire con farmaci e dieta, assieme ai quali viene consigliata l’attività fisica (aumenta il metabolismo
dei grassi) I farmaci solitamente sono le statine, inibitori che bloccano la mevalonato reduttasi, il principale
enzima chiave della sintesi del colesterolo, quindi le statine bloccano la sintesi del colesterolo; sono farmaci
potenti che portano un’alta riduzione della colesterolemia.
I fitosteroli ovviamente non possono sostituire la terapia farmacologica poiché tutto dipende da quanto
sono attivi e da come funzionano. Abbiamo già detto che essi riducono l’assorbimento del colesterolo a
livello intestinale, ma questo dipende dalla quantità di colesterolo assunta: se il colesterolo è abbondante i
fitosteroli non hanno effetto, quindi i fitosteroli hanno senso se il paziente porta avanti una dieta povera di
colesterolo. Inoltre, è importante capire a quale riduzione portano i fitosteroli, ed è risaputo che
l’assorbimento del colesterolo è ridotto di una piccola percentuale e quindi anche quella del colesterolo
circolante; in particolare, è stato visto che l’assunzione di 1-3 g/die di fitosteroli porta ad una riduzione del
10-11% di LDL circolanti (trasportano colesterolo), sempre che la dieta del soggetto sia a basso contenuto di
colesterolo, questo ci dice però che gli effetti che abbiamo sono poco rilevanti. Quindi oltre al fattore etico
sbagliato, i fitosteroli non hanno lo stesso potere dei farmaci poiché l’effetto che si ottiene non è
assolutamente comparabile.
Comunque sia, i fitosteroli sono utili per ridurre il colesterolo, anche se si tratta di una riduzione lenta
poiché il turnover del colesterolo è lento, il colesterolo infatti è contenuto nelle membrane quindi l’unico
modo per eliminarlo è il turnover cellulare. Per questo motivo la riduzione del colesterolo impiega molti
mesi per arrivare a livelli significativi; viceversa, i livelli di trigliceridi dipendono direttamente dalla dieta
quindi correggendo la dieta il livello di trigliceridi scendono rapidamente (1 mese – 1 mese e mezzo).
Se voglio assumere fitosteroli, per giovare a questa riduzione di colesterolo dovrei assumere i fitosteroli
durante il pasto poiché essi competono con il colesterolo, che si trova con gli alimenti. Quindi non ha senso
assumere fitosteroli lontano dalla dieta poiché essi devono essere assunti quando noi assumiamo
colesterolo, ad esempio la carne
rossa. Un rimedio potrebbe
essere condire gli alimenti ricchi
di colesterolo (ma non in modo
eccessivo) con olio vegetale ad
esempio l’olio di semi. Tuttavia,
la riduzione dell’assorbimento
del colesterolo è minima, questo
significa che a breve termine non
si ottengono risultati pertanto i
fitosteroli vanno assunti per
lunghi periodi per assecondare il
lento turnover del colesterolo.
Ovviamente il trattamento deve
essere a lungo termine, si parla di
periodi superiori a 6 mesi se non
superiori ad 1 anno.
Inoltre, possiamo combinare l’azione dei fitosteroli con i farmaci deputati alla riduzione del colesterolo: i
farmaci bloccano la sintesi, i fitosteroli bloccano l’assorbimento. OVVIAMENTE DI QUESTO SI DEVE PARLARE
CON IL MEDICO CURANTE.

FIBRE ALIMENTARI
Polisaccaridi cellulari e di riserva delle piante che non possono essere idrolizzabili dagli enzimi digestivi
dell’uomo (es. cellulosa). Quando noi li assumiamo, essi arrivano nel tratto intestinale finale, dove i trovano
molti batteri e tali polisaccaridi sono substrato di molti batteri intestinali.
I batteri portano avanti processi fermentativi quindi
tendono a fermentare le sostanze e quindi
degradarle, in modo completo (con produzione di
CO2) o in modo parziale, per cui si hanno prodotti di
scarto di vario tipo; si liberano quindi metaboliti di
vario tipo che possono essere escreti o assorbiti
dalle cellule intestinali. Tra quelli più importanti
troviamo gli acidi grassi a catena corta, che sono
assorbiti dalle cellule intestinali e hanno un effetto
positivo poiché agiscono da regolatori dell’espressione genica (inibiscono la proliferazione delle cellule
tumorali). Secondo i processi fermentativi utilizzati (nell’intestino c’è molto poco ossigeno, quindi ipossia),
si possono produrre gas come metano, idrogeno, anidride carbonica; di conseguenza, se il processo
fermentativo è troppo elevato si
possono avere disturbi legati a
gonfiore e dolori intestinali insieme
a flatulenza. Dunque, un eccesso di
fibra può creare problemi e questo
può essere riscontrato in soggetti
che assumono molte fibre, come
vegetariani e vegani. Ad esempio,
sulla parete di alcuni legumi sono
particolarmente presenti stachiosio
e verbascosio che determinano
aumento della produzione di gas.
Anche l’amido fa parte delle fibre
poiché la digestione dell’amido non
è mai completa infatti noi
assumiamo una parte di amido
digeribile, ma la sua digestione completa richiederebbe tempi lunghi, contro un transito intestinale veloce,
quindi la parte non digerita è detta amido resistente, che poi diventa substrato dei batteri. La quota di
amido resistente è presente in tutti gli alimenti contenenti amido, ma in quantità variabile secondo aspetti
caratteristici, ad esempio la pasta al dente contiene più amido resistente (la cottura degrada meno
l’amido).
La dose giornaliera raccomandata è di 30 g/die
circa (es. piatto di insalata) che ci permette di
rifornire i batteri che così favoriscono la crescita. I
batteri possono usare anche altri substrati oltre
alle fibre, come ad esempio gli zuccheri semplici,
che però determinano cambiamenti del
metabolismo.
Gli effetti positivi si hanno se l’assunzione
giornaliera è continuativa, potenzialmente per
tutta la vita.

La fibra alimentare agisce a diversi livelli poiché le sue proprietà chimico-fisiche riescono a coinvolgere
diversi processi: ha una discreta capacità di trattenere l’acqua e idratandosi tende a rigonfiare, in questo
modo riesce a rendere più denso e viscoso il contenuto intestinale; riesce a legare e rilasciare cationi (ioni
positivi come Fe Ca Mn K). Sulla base di questo la fibra è divista in due categorie: fibra solubile e fibra
insolubile.
La fibra solubile si trova in orzo,
avena, legumi e patate, dove sono
contenute gomme, pectine ed
emicellulose. Questi sono
“addensanti” che quindi
determinano la formazione di una
massa che fa diventare il contenuto
intestinale più viscoso che quindi
rallenta e riesce a “intrappolare”
più nutrienti; il vantaggio inoltre è
quello di avere la sensazione di
sazietà. Altro vantaggio è anche il
rallentamento dello svuotamento
gastrico (es. diarrea). Tuttavia, questa massa non digeribile può intrappolare anche sostanze nutritive
importanti che quindi non possono essere riassorbite ad esempio carboidrati, proteine e lipidi: gli enzimi
fanno fatica ad agire su questa massa e poi i metaboliti possono rimanervi intrappolati e così
l’assorbimento dei metaboliti è ulteriormente rallentato.
La fibra insolubile si trova ad esempio in cereali, crusca e verdure che contengono chitina (anche nei
funghi), emicellulose, inulina,
pectine. Tali sostanze aumentano la
peristalsi e quindi favoriscono il
transito a livello intestinale; i batteri
fermentano circa il 70-80% di questa
fibra determinando produzione di
energia e di SCFA. Il valore
nutrizionale è circa 1,5-2,5 kcal/g –
molto inferiore rispetto a quello di
carboidrati (4 kcal/g) e di lipidi,
proteine (9 kcal/g) – che è un valore
molto basso, quindi un soggetto
vegetariano potrebbe sopravvivere
mangiando solo verdure? Facciamo un calcolo a 2000 kcal/die, considerando che le fibre hanno un
contenuto medio di 2 kcal/g: dovrei assumere 1000 g ossia 1 kg di fibra al giorno che sono ben oltre le dosi
consigliate giornaliere quindi può creare problemi intestinali anche importanti. Assumendo molta fibra
aumentano i batteri a livello intestinale e di conseguenza aumenta anche la massa fecale da eliminare.

Tra i molti benefici, c’è il


rallentamento della digestione di
nutrienti come i carboidrati, che
può essere utile nel casi in cui si
vuole ridurre la glicemia ad
esempio suggerendo di iniziare il
pasto mangiando insalata in modo
che poi la sazietà sia aumentata e
si può controllare l’assunzione
degli alimenti. Allo stesso modo, si
può ridurre l’assorbimento dei
lipidi e quindi del colesterolo. Uno
degli aspetti interessanti di
controllo della colesterolemia
avviene con un meccanismo
particolare, che ora vediamo.
Sappiamo che la fibra si muove
fino all’intestino distale, dove arrivano anche i sali biliari. Il fegato modificando il colesterolo genera i sali
biliari che sono riversati nella colecisti che al momento del pasto viene fatta contrarre per riversare i sali
biliari nell’intestino che mescolandosi ai lipidi alimentari ne favoriscono la digestione. I sali biliari sono
riversati nell’intestino dove raggiungono l’intestino distale: essi non sono eliminati infatti circa il 90% è
riassorbito, rientrano in circolo e tornano al fegato. Quindi il fegato deve reintegrare la quota dei sali biliari
persi, ossia circa il 10%. La fibra intrappola le componenti, compresi i sali biliari, quindi assumendo fibra la
quota di sali biliari eliminata aumenta, e così il fegato è costretto ad utilizzare più colesterolo per
reintegrare sali biliari, a lungo termine questo si trasforma in un maggior consumo di colesterolo endogeno;
questo abbassa le riserve di colesterolo che quindi lentamente tenderà a ridursi. Ovviamente la quantità di
colesterolo necessaria in più è minima, il 3-4% in più, quindi a breve termine non si hanno benefici evidenti
che invece saranno visibili se quest’abitudine perdura per tempi lunghi (2-3 anni); tutto ciò però ha senso
solo se si ha una dieta povera di colesterolo. Quindi le fibre hanno un effetto ipocolesterolemizzante.
Le fibre sono correlate anche nell’assorbimento di
glucidi, infatti assumendo la stessa quantità di
carboidrati tramite pasta o tramite zucchero il picco
glicemico è diverso. Ad esempio, gli spaghetti hanno
una digestione più lenta e inoltre hanno una quantità di
fibre maggiore, mentre lo zucchero ha metabolismo più
veloce; quindi i carboidrati assunti tramite gli spaghetti
sono molto minori, se poi agli spaghetti si abbina un
piatto di verdure, la quantità si abbassa ulteriormente.

Lezione 18 – 26/11/2020

ACQUA
Per calcolare il fabbisogno di acqua si può considerare che noi abbiamo bisogno di 1 g di acqua per ogni kcal
di fabbisogno giornaliero quindi se il fabbisogno giornaliero è di 1800-2200 kcal/die noi abbiamo bisogno di
circa 2 kg/die di acqua. Molti non considerano l’acqua un nutriente poiché non apporta kcal, ma nemmeno
le vitamine lo fanno, quindi questa “scusa” non è valida.
Come mai abbiamo bisogno di molta acqua? Senz’altro per la
composizione del nostro peso corporeo, che è composto da acqua
per circa il 55-85% del peso corporeo contro gli altri nutrienti:
proteine 18%, lipidi 13%, zuccheri 1%, sali minerali 5%, vitamine
(tracce). Ecco perché parlare dell’acqua è fondamentale, essa è
fondamentale.
L’acqua si trova in quantità diverse nei vari organi, il distretto che
ne contiene di più è il sangue, poi diminuisce negli altri organi, fino
ad arrivare allo scheletro e al tessuto adiposo che è quello che ne
contiene meno; in questi ultimi tessuti la componente cellulare è
esigua: nell’osso la componente minerale è maggioritaria mentre
nel tessuto adiposo gli adipociti per il 90% della massa cellulare
sono occupati da una goccia lipidica, e solo il restante 10% è
citoplasma ed è occupato in buona parte dal nucleo.
La quantità di acqua nel nostro organismo è influenzata dalla quantità di massa muscolare: anche se
abbiamo molto tessuto adiposo, abbiamo anche molta massa muscolare che ci permette di avere un
contenuto di acqua di circa il 60%. Ovviamente la percentuale di acqua può cambiare se cambiano i
rapporti tra i tessuti: tessuto muscolare, tessuto osseo, tessuto adiposo.
In funzione delle varie fasi della vita, ci
possono essere variazioni del contenuto
in acqua poiché l’età è un fattore
discriminante per la percentuale di
acqua media: nel feto si sfiora il 100%,
nel neonato si arriva all’80% (ancora
non si è completato lo scheletro),
nell’adulto siamo al 70% e negli anziani
si arriva anche al 50% poiché si può
avere riduzione della massa muscolare
(fisiologicamente questo processo inizia
dai 30 anni) che spesso viene sostituita
o infiltrata dal tessuto adiposo che
costituisce una diminuzione dell’acqua, inoltre gli anziani hanno un cambiamento del metabolismo
dell’acqua che determina minore assorbimento dell’acqua e minore capacità di trattenerla.
L’assorbimento dell’acqua avviene
prevalentemente a livello intestinale e
può avere due origini: fonte alimentare
(circa 1 litro/die), che proviene da
bevande e alimenti; fonti endogene come
saliva (1 litro/die), succhi gastrici (2
litri/die), secrezioni biliari (4 litri/die). Il
riassorbimento di queste fonti, fa sì che
non si vada incontro a disidratazione,
dovuta alla copiosa perdita di acqua che
abbiamo tramite le urine (eliminazione
gruppi ammonio del metabolismo
proteico) e la sudorazione
(mantenimento della temperatura corporea).
L’acqua entra nelle cellule intestinali in parte per diffusione passiva ma principalmente tramite canali
specifici per l’acqua ossia le acquaporine. SI conoscono almeno 7-9 isoforme, distribuite nei tessuti. Tali
proteine agiscono con trasporto facilitato e dato il loro
importante ruolo, queste proteine canale sono regolate sia in
termini di velocità di trasporto sia in termini di espressione
(numero di trasportatori disponibili sulle membrane). Alcuni
ormoni, come quelli prodotti dal rene (tipo ADH), sono in grado
di influenzare il posizionamento e il trasporto sulla membrana
cellulare delle acquaporine; le acquaporine infatti stanno in
vescicole all’interno del citoplasma in modo che quando si ha
bisogno di incrementare il trasporto di acqua, le vescicole
possono muoversi verso la membrana cellulare, aumentando la
quantità di trasportatori presenti sulla membrana. Quando poi la necessità è esaurita, le acquaporine
vengono nuovamente rimosse e organizzate in vescicole.
Nel rene, quando il volume di sangue diminuisce viene prodotto e rilasciato l’ormone ADH e così il volume
delle urine viene ridotto.

Una volta che l’acqua è entrata nell’organismo, che dinamiche ha l’acqua? Si possono identificare diversi
compartimenti: una componente intracellulare ossia l’acqua contenuta nelle cellule, che è circa il 60%
dell’acqua totale; una componente extracellulare che rappresenta il restante 40% ed è rappresentata ad
esempio dal sangue (7-8%), dal tessuto interstiziale (20-28%), dal compartimento transcellulare (2-4%) e nei
liquidi del tessuto connettivo e dell’osso (10%). I movimenti che esistono tra questi compartimenti
dell’acqua sono fondamentali per mantenere l’equilibrio idrico.

Il liquido transcellulare è l’acqua


che si trova in distretti particolari,
ad esempio a livello dell’occhio (il
liquido lacrimale è prodotto per
proteggere l’occhio), il liquido
cerebro-spinale, il liquido pleurico
e il liquido pericardico, etc...
C’è una dinamica continua tra
l’ambiente intra- ed extra- cellulare; la
presenza di acqua che entra nel sangue
genera una pressione che poi permette
all’acqua di attraversare gli endoteli ed
entrare nel liquido interstiziale dei
tessuti e da qui poi arriva alle cellule.
Questa dinamica fa mantenere gli
equilibri idrici e permette il trasporto di
sostanze nutritive e l’eliminazione delle
sostanze di scarto del metabolismo.

Le funzioni fisiologiche dell’acqua sono: trasporto di sostanze nutritive, mantenimento della temperatura
corporea, eliminazione di metaboliti e tossine, capacità di proteggere e lubrificare gli organi (cervello) e le
articolazioni (es. ginocchio). Oltre ad essere fondamentale per l’idratazione è importante poiché permette
le reazioni catalizzate da molti enzimi, per questo è essenziale per la maggior parte delle reazioni
metaboliche.

Senza mangiare possiamo sopravvivere anche 20-30 giorni, mentre senza acqua possiamo sopravvivere 3
giorni: l’uomo è molto più sensibile alla variazione di acqua. Quindi l’acqua rappresenta uno dei nutrienti
principali, sembrerebbe quasi IL
principale. Noi infatti siamo soggetti
ad una rapida disidratazione.
Dato che l’equilibrio idrico è un
bilancio tra entrate ed uscite, la
disidratazione si ha quando
aumentano le uscite senza che
aumentino le entrate oppure
quando diminuisce l’entrata ma
l’uscita rimane costante. La
disidratazione si definisce live,
moderata o severa in base alla
quantità di acqua persa, che può
essere deducibile dalla perdita di
peso corporeo. Facciamo
riferimento a un soggetto standard
di 70 kg:
- Se si ha una disidratazione lieve perdiamo il 3% di peso corporeo, quindi si tratta di circa 2 kg ossia 2
litri di acqua. Questa perdita nel corso della giornata è possibile? Si, infatti per perdere 2 litri di acqua
basta non bere; ovviamente questo significherebbe anche non mangiare poiché nei 2 litri di acqua è
inclusa anche la parte derivata dagli alimenti. Perdere due litri d’acqua può capitare specialmente in
situazioni particolari dove ad esempio si ha una giornata molto calda e si suda molto o in patologie
dove la perdita di acqua è aumentata. Proprio perché perdere 2 litri di acqua è facile, si consiglia di
assumere circa 1,5 litri di acqua al giorno (1,5 l, ESCLUSO L’ACQUA DERIVATA DAGLI ALIMENTI).
- Una disidratazione moderata comporta una perdita del 3-9% di acqua; tale perdita è più difficile da
raggiungere e le conseguenze sono più gravi, fino ad arrivare allo stordimento e ad una sensazione di
affaticamento.
- Se la disidratazione supera il 9%, ossia 6-7 litri, si parla di disidratazione severa.
- Superando la disidratazione severa, ossia per perdite del 10-15%, si possono avere danni che
possono comportare complicazioni gravi, fino alla morte. si tratta di situazioni rare ma comunque
questi livelli sono raggiungibili.
La disidratazione può essere determinata da vari fattori, tuttavia una scarsa assunzione di liquidi comporta
sempre una ridotta elasticità della pelle (poiché il turgore delle cellule diminuisce a causa della riduzione
dell’acqua al loro interno) e questo solitamente coincide con la riduzione del peso corporeo, le urine di un
colore giallo intenso (poiché sono molto concentrate), labbra secche e bocca asciutta.

Si possono avere vari tipi di disidratazione, poiché la perdita di acqua è accompagnata dalla perdita di sali:
si può avere una maggior perdita di sali che acqua, una perdita di più acqua che sali, una perdita di uguali
quantità di acqua e sali.
La disidratazione ipertonica è
quella in cui si perde più acqua
che sali e avviene principalmente
quando fa molto caldo; in questi
casi si perde acqua tramite il
sudore e questo evento è ancora
più importante se l’ambiente è
molto secco, poiché il sudore
tende ad evaporare velocemente.
Anche in condizioni di febbre alta
o in situazioni patologiche la
perdita di acqua è alta, ad
esempio in alcuni casi la diarrea è
dovuta all’assunzione di sostanze
non digeribili che quindi
richiamano acqua nelle feci. Oltre a questi, anche in caso di svenimento può avvenire disidratazione poiché
essendo svenuto tale soggetto non può essere idratato. Un'altra condizione è l’uso sbagliato di lassativi, che
oggigiorno sono spesso usati per dimagrire: prendendo i farmaci subito dopo i pasti l’organismo non fa in
tempo a riassorbire l’acqua ingerita. La perdita di acqua può portare a condizioni negative poiché
determina una riduzione del volume di sangue che quindi porta ad un calo di pressione (proprio su questo
si basa il colpo di sole che molto spesso avviene in spiaggia). In tutti questi casi di disidratazione ipertonica
basta bere acqua per ristabilire l’equilibrio (è sufficiente bere acqua oligominerale).
La disidratazione isotonica è tipica di situazioni più gravi ad esempio in patologie come il colera, in cui si ha
una diarrea incessante a causa della quale perdiamo molti liquidi e di conseguenza molti sali, la terapia
infatti consiste nel somministrare antibiotici e nell’idratare costantemente i soggetti affetti da colera; in
particolare, l’acqua non può essere ingerita poiché nell’intestino c’è il batterio del colera che non permette
l’assunzione dalla parete intestinale, ecco perché deve essere assorbita tramite sangue. Come in questo
caso, anche nelle ustioni abbiamo una disidratazione di questo tipo. In queste situazioni, la terapia non si
basa sull’assunzione di solo acqua ma anche di sali ecco perché i soggetti devono assumere soluzioni
ipertoniche, ossia le bevande piene di sali, come quelle per gli atleti.
La disidratazione ipotonica è quella in cui perdiamo più sali che acqua; si tratta di un caso particolare che
avviene per errori di ri-idratazione della disidratazione isotonica, ossia se invece di integrare acqua e sali si
integra solo acqua si continua ad avere un deficit di sali pur avendo assunto dell’acqua, ed ecco che si ha
tale tipo di disidratazione.
Attraverso il nostro
metabolismo noi
produciamo acqua grazie
alla fosforilazione ossidativa
che porta elettroni
sull’ossigeno per formare
acqua: si produce 0,6 g per
ogni grammo di carboidrato
metabolizzato, 0,4 g per
ogni grammo di proteina
metabolizzata, 1,07 g per
ogni grammo di lipidi
metabolizzati.
Questo però non è
sufficiente, ecco perché è
necessario assumere sempre
acqua.

Il controllo della sete è sotto uno stretto controllo ormonale e tali ormoni agiscono a diversi livelli. Abbiamo
anche altri controlli come ad esempio il controllo della volemia. Quando la volemia si abbassa, i barocettori
lo percepiscono e così si inviano impulsi cerebrali che innescano la sensazione di sete; in questa situazione
si può anche avere la produzione di ADH che determina un maggiore recupero a livello renale.
Oltre a questo, si ha
anche il sistema renina-
angiotensina che
determina un aumento
della pressione e una
ritenzione di acqua.

L’altro sistema di controllo agisce


sull’osmolalità plasmatica: se specifici
ormoni aumentano si ha un aumento della
sensazione di sete per ri-aumentare la
quantità di acqua e ripristinare il
bilanciamento.
Cosa porta una perdita di acqua? Ci sono molti fattori:
- Temperatura e umidità, che determinano sudorazione;
- Aumento del metabolismo, che produce più metaboliti di scarto e quindi si produce più urea;
- Dieta sbilanciata, che non prevede frutta e verdura e quindi si ha un minor assorbimento di acqua;
- Eccessiva attività fisica, specialmente se svolta con temperatura e umidità elevate;
- Patologie in corso, come:
o Diarrea, l’intestino crasso non riesce ad assorbire acqua dagli alimenti digeriti
o Vomito, provoca la perdita di liquidi ed è difficile bere
o Sudorazione, soprattutto in climi caldi e umidi
o Diabete, livelli elevati di zucchero nel sangue causano un aumento della minzione e una perdita
di liquido (poliuria).
o Ustioni, acqua filtrata nella pelle danneggiata e il corpo perde i liquidi
o Febbre alta, l’aumento della temperatura corporea favorisce la perdita di liquidi corporei
soprattutto attraverso la sudorazione
o Terapie farmacologiche, come diuretici (vengono assunti dai cardiopatici) o altri farmaci che
incrementano l’eliminazione di acqua attraverso le urine.

Per quanto riguarda temperatura e umidità è


ovvio che questo causa perdita di acqua.
Osservando la tabella però vediamo quanto
incide l’umidità e ciò dipende dal ruolo della
sudorazione. La sudorazione infatti è un
meccanismo atto a mantenere la temperatura
corporea entro valori standard; se non fossimo
in grado di termoregolare andremmo incontro
a ipertermia che porterebbe alla morte.
L’attività fisica aumenta il metabolismo tramite reazioni di ossidoriduzione che portano alla formazione di
calore e quindi ad un aumento della temperatura corporea ossia ipertermia.

Sotto l’attività fisica la nostra temperatura tende ad aumentare quindi dobbiamo avere meccanismi che
permettano di dissipare questo calore. Per disperdere calore all’esterno, ci sono molti stratagemmi:
- Irradiazione verso l’esterno;
- Conduzione verso l’aria;
- Convezione attraverso i fluidi corporei, per cui il sangue assorbe calore e lo ridistribuisce all’organismo;
- Evaporazione di liquidi tramite sudorazione: le ghiandole sudoripare sono stimolate da un segnale
nervoso e rilasciano il loro contenuto (solitamente acqua) al di fuori. In realtà questo non è sufficiente
a termoregolare, ecco perché è fondamentale la fase successiva che permettere all’acqua di
evaporare: senza evaporazione noi non siamo in grado di termoregolare e ciò può avere conseguenze
devastanti, tanto che la temperatura corporea può aumentare moltissimo (anche di 20°C). L’acqua
evaporando dissipa il calore generato dal nostro organismo in una quantità pari a 580 kcal per ogni
litro di acqua evaporata.
Lezione 19 - 03/12/2020

Il passaggio chiave è l’evaporazione dell’acqua, se questo non avviene non si ha termoregolazione.


L’evaporazione dell’acqua avviene in ambiente secco, ma se l’ambiente è umido è più difficile poiché
l’ambiente è già ricco di acqua e il gradiente di umidità è basso. In questa situazione quindi il sudore non
evapora e noi non termoregoliamo con conseguente incremento della sudorazione e aumento della
temperatura corporea, causando il colpo di calore.
Il sudore contiene anche sali, quini quando perdiamo sudore perdiamo anche sali; ovviamente questo va
valutato sulla base di quanto sudore si perde.

Nella stagione estiva è possibile avere una situazione di


ambiente caldo (40°C) e un’elevata umidità (80-85%) se in
questa situazione si esegue attività fisica si può avere una
situazione con produzione di sudore enorme, di
conseguenza in 40 minuti perdiamo moltissima acqua con
a manifestazione di effetti come spossatezza, fatica,
crampi e ipertermia. In un soggetto che si allena o che fa
una gara può avere perdite importanti nella performance
atletica. Perdendo 3 litri si ha un calo di performance di
cira il 30%.
I top runners hanno impiegato circa 2 ore per completare la gara e questo è stato sufficiente per ricoverare
ben 315 maratoneti. Questo dimostra come la perdita di acqua per motivi fisiologici è molto importante,
tanto da far rischiare la morte.
Per evitare queste situazioni non è sufficiente “bere”, bisogna sapere cosa bere e quanto bere. Ad esempio,
è importante che si assumano sali quando necessario, e per assumere sali è necessaria la presenza di
glucosio poiché il trasportatore che assorbe sodio è quello che co-trasporta glucosio. Inoltre, per bilanciare
la perdita di 1 litro di acqua nel giro di mezz’ora, si deve assumere più acqua di 1 litro poiché noi
assorbiamo circa l’80-90% del liquido, quindi anche bevendo comunque ci disidratiamo e non riusciamo a
mantenere l’euidratazione, specialmente se lo sforzo dura per un lungo periodo di tempo; se beviamo, la
disidratazione è molto più lenta.

Le condizioni di freddo estremo possono portare a disidratazione?


Se in una giornata di freddo rigido
espiriamo vediamo che si formano
“nuvolette” di vapore poiché
l’aria, in contatto con l’ambiente
esterno, tende a raffreddarsi
rapidamente poiché l’umidità che
noi espiriamo tende a condensarsi
e si formano goccioline di acqua
che formano il vapore. Quindi noi
attraverso la respirazione
perdiamo acqua.
Uno scalatore che si trova ad
altezze importanti trova
sicuramente una percentuale di
ossigeno più bassa e quindi
l’organismo aumenta i battiti
cardiaci e la respirazione, di
conseguenza la ventilazione sarà molto forte; in queste condizioni l’aria che noi ispiriamo contiene poca
umidità, è secca, quindi il soggetto inspira aria povera di acqua ed espira aria ricca di acqua, quindi il
soggetto nel tempo perde molta acqua. Il risultato di tutto ciò è che in alta montagna uno dei principali
rischi è quello di disidratarsi poiché per il freddo si ha anche una tendenza minore a bere.
In questa situazione, possiamo consigliare al soggetto di bere la neve ma è una cosa sbagliata poiché la
neve è un’acqua povera di sali ossia quasi distillata e questo è problematico perché siamo in una
disidratazione superiore al 3% quindi si deve assumere anche i sali non solo l’acqua, e quindi mangiare/bere
la neve può portare a iposodemia con conseguente ingrasso di acqua nelle cellule e continua diminuzione
del volume di sangue (poiché il sangue diventa meno concentrato), col rischio di sviluppare edema a livello
dei tessuti.
Quindi la soluzione è portare dietro una borraccia con all’interno soluzioni saline che vengono solubilizzate
grazie alla neve, in modo da creare soluzioni ipertoniche che possono essere bevute. Quindi ci si deve
portare dietro i sali da solubilizzare.

In ambienti molto aridi si ha un’evaporazione attraverso la pelle a causa dell’elevata temperatura, del vento
o della passa umidità, tanto che sono richiesti 7-8 litri di acqua al giorno.

Le gobbe dei cammelli sono ricche


di grasso e in particolare di
palmitato. Il trigliceride più
abbondante è la tripalmitina che
quando viene degradata per
produrre palmitato e in questa
reazione si forma acqua
endogena. Per ogni kg di
tripalmitina ossidata si ottiene
circa 1,4 kg di acqua.
Considerando che i cammelli
hanno meno capacità di
disidratazione e maggiore
produzione di acqua, i cammelli
hanno una particolare capacità di
sopravvivere nel deserto.
Per favorire l’assorbimento si devono assumere piccole quantità, ripetutamente nella giornata piccole
quantità. Si possono bere le acque oligominerali, ancora meglio l’acqua della rete idrica che è sicuramente
più ricca di sali.

Nei casi in cui si perde molta acqua si deve ricorrere a bevande specializzate ovvero le bevande degli atleti
poiché queste hanno un contenuto di sali maggiore, queste bevande nei soggetti normali non atleti queste
bevande non sono utili, ma anzi dannose.
Le bevande hanno una loro “piramide” ossia una regola che stabilisce la corretta frequenza di assunzione.
Alla base della piramide si hanno le bevande che vanno assunte quotidianamente mentre sulla cime si
hanno le bevande che vanno assunte una volta a settimana o comunque raramente.
Ovviamente anche gli alimenti contengono acqua, in particolare frutta e verdura, quindi assumere alimenti
giusti – specialmente nei periodi più caldi – può contribuire in modo importante a mantenere l’idratazione.
Ogni anno si hanno
decine di morti per
“overdose di acqua”,
nella realtà infatti
questa situazione si
può verificare (anche
se è molto rara).

Se aumentiamo il volume dei succhi gastrici il pH


diventa più alcalino e quindi si rallenta la
digestione.

In questi soggetti si consiglia l’assunzione


di bevande specializzate e comunque si
deve considerare che in questi atleti si ha
comunque una minima disidratazione
che può essere recuperata solo dopo la
gara. Quindi il soggetto dopo le gare
deve avere un’assunzione di acqua
costante che gli deve permettere di
recuperare i liquidi persi.
ETANOLO
L’uomo o ha sempre usato ma soprattutto lo usa nelle fermentazioni di substrati contenenti glucosio per
produrre bevande alcoliche, oppure anche per la lievitazione del pane.

Grazie a questo processo si ottengono varie bevande, a partire


da vari substrati.
Le prime quattro bevande sono diverse dal secondo “quartetto”
poiché vodka, rhum, sakè e tequila sono tutti distillati.
La distillazione permette di far evaporare e poi condensare la
componente alcolica che si porta dietro alcuni aromi. Quindi
vino, birra, sidro, idromele non superano il 18% di alcol, mentre i
distillati contengono anche il 40% di alcol.

Tra i consumatori occasionali si hanno i giovani che portano avanti un consumo di alcol principalmente nel
finesettimana. Nei giovani si identifica il fenomeno del binge drinking ossia il consumo di un elevato
quantitativo di alcol in un breve periodo di tempo.
L’etanolo ha un assorbimento tipico. Esso attraversa facilmente le membrane poiché ha una natura neutra
(non è carico elettricamente), quindi l’assorbimento è proporzionale alla quantità ingerita.

I fattori he influenzano l’assorbimento dell’alcol sono:


- Quantità di alcol ingerito;
- Modalità di assunzione (a digiuno, o dopo un pasto);
- Peso dell’individuo (associato alla quantità di acqua corporea poiché l’etanolo è solubile in acqua);
- Sesso (nelle donne il metabolismo è più lento);
- Quantità di acqua corporea;
- Metabolismo dell’alcol;
- Abitudine ad assumere alcol.
Misurando l’alcolemia vediamo che assumendo alcol a stomaco vuoto (linea rossa) si ha assorbimento più
rapido e picco di alcolemia più alto. Se invece assumiamo l’alcol a stomaco pieno (linea blu) si ha
assorbimento più lento e questo è dovuto al fatto che si ha anche il cibo che assorbe alcol e non lo fa
passare attraverso le pareti cellulari; inoltre si raggiunge un picco inferiore. Quindi a parità di dose assunta
il livello di alcolemia è minore se siamo a stomaco pieno. Inoltre, con lo stomaco pieno di ha un
metabolismo più lento poiché il nostro organismo deve metabolizzare contemporaneamente anche il cibo
ingerito.
Ecco perché si consiglia di non assumere alcol a stomaco vuoto, proprio perché in questo modo ne
assorbiamo di più.
Lezione 20 – 02/12/2020
In figura vediamo a sinistra il grafico di assorbimento alcol correlato all’alcolemia, quando si ha un’unica
assunzione di alcol. A destra invece vediamo cosa succede se un soggetto assume più volte alcol: nel corso
di una giornata l’assorbimento
continuo, anche modesto, di alcol
determina un incremento
continuo della concentrazione di
alcol. Questo atteggiamento non
è un atteggiamento assimilabile
all’alcolismo e per alcuni è quasi
standard (es. bicchiere di vino a
pranzo, all’aperitivo e poi a cena
o dopo cena), tuttavia questo
determina un aumento
dell’alcolemia poiché il
metabolismo dell’alcol è lento
quindi si ha un accumulo di alcol
nell’organismo e alla fine della
giornata le assunzioni portano ad
un valore di alcolemia molto alto.
Quindi dato che l’eliminazione di
alcol è lenta, le assunzioni ripetute
possono determinare un graduale
aumento dell’alcolemia. Ecco
perché è importante conoscere la
cinetica del metabolismo dell’alcol,
perché ha ripercussioni sulla
nostra vita, ad esempio il soggetto
in figura a fine serata è a rischio
poiché ha un valore di alcolemia di
1,5 g/l. Questi valori sono tutelati
anche dalla Lege, infatti il valore
soglia che impedisce ad un
soggetto di guidare è 0,5 g/l.
Nella tabella è mostrato il tempo
necessario per smaltire una certa
quantità di unità alcolica; nelle donne 1 U.A.
viene eliminata più lentamente, e salendo con
le unità alcoliche il tempo aumenta sia negli
uomini sia nelle donne.
Sempre in figura è mostrata la capacità di
metabolizzare l’etanolo e quindi deduciamo
che per un soggetto di 70 kg noi siamo in
grado di metabolizzare circa 7 g/h di alcol;
considerando che 1 U.A. sono 12 g di alcol, per
smaltirla ci vuole quasi più di 1h.
Per questo motivo ci sono delle linee guida;
questo è necessario perché l’alcol ha degli
effetti importanti e di diverso tipo sul sistema
nervoso, anche sotto il livello soglia di 0,5
(secondo i soggetti considerati).
VALORE NUTRIZIONALE DELL’ETANOLO
L’etanolo, da un punto di vista biochimico, ha una discreta quantità di calorie che equivale a circa 7 kcal/g;
esso quindi ha un valore superiore a quello di carboidrati e proteine (4 kcal/g) ma inferiore a quello degli
acidi grassi (9 kcal/g). Quindi l’alcol è un alimento calorico che apporta molte kcal, infatti se 1 U.A. sono 12
g essa corrisponde a circa 84 kcal; ecco perché le bevande alcoliche portano valori energetici alti e allo
stesso modo questa è la causa per cui spesso gli etilisti/alcolisti sono obesi e a questo contribuisce anche il
fatto che le bevande alcoliche sono ricche di zuccheri. Ad esempio, la birra contiene malto che non viene
completamente fermentato ma rimane all’interno una certa quantità di malto, questo vuol dire che la birra
contiene sia alcol sia zucchero, ossia maltosio che poi viene scisso dalle maltasi per produrre glucosio.
Anche il vino ha un valore calorico elevato; liquori e superalcolici hanno un valore di zuccheri pari a 0 (a
meno che non siano aggiunti successivamente) ma hanno un contenuto di alcol molto elevato quindi il loro
valore nutrizionale risulta essere molto elevato.

La differenza di apporto nutrizionale è rilevante tra distillati e non distillati. Quando assumiamo una
bevanda non distillata (es. vino, birra) assumiamo, oltre all’alcol, anche altri componenti che hanno un
effetto positivo (es. vitamine, polifenoli, etc...). Al contrario quando assumiamo distillati si assume solo
alcol poiché le altri componenti risultano pressoché assenti.

Questa differenza ha permesso di stabile che certe bevande, come ad esempio il vino, se assunte in modo
moderato durante la giornata, possono avere un impatto positivo sul nostro organismo; questo è possibile
poiché tali bevande, oltre all’alcol, apportano sostanze importanti come i polifenoli. Quindi il valore
nutrizionale è inteso sia come contenuto energetico sia come presenza di sostanze bioattive.
Il fatto che il vino contenga anche sostanze
che hanno un impatto positivo è alla base del
paradosso francese. Nelle lezioni precedenti
abbiamo visto che questo fenomeno è in
realtà uno studio che confronta francesi e
finlandesi in cui si è visto che i francesi
soffrono meno di patologie cardiovascolari
anche se la dieta è ricca di acidi grassi; uno dei
motivi suggeriti per spiegare questo fenomeno
è relativo al fatto che i francesi bevono vino.
Ovviamente, sebbene il vino contenga
polifenoli e sostanze bioattive con effetto
positivo, il consumo esagerato porta ad effetti tossici, ecco perché le bevande alcoliche devono essere
assunte con consumo modesto.
Comunque sia, nessuna bevanda alcolica è indispensabile per soddisfare necessità e fabbisogni del nostro
organismo; infatti il nostro organismo può fare a meno dell’alcol senza andare in contro a squilibri e
carenze: non ci sono evidenze che l’alcol sia necessario per essere in salute, tuttavia l’assunzione di un
bicchiere di vino durante i pasti può avere effetti positivi, come dimostrato dal paradosso francese.
METABOLISMO DELL’ETANOLO
Il metabolismo dell’etanolo è principalmente (circa 85-95% dell’etanolo) a carico del fegato ecco perché
l’eccesso di alcol si ripercuote principalmente sulla funzionalità epatica; la restante parte, una piccola
percentuale (5-15% dell’etanolo), può essere eliminata attraverso vari meccanismi (urine, respirazione,
sudore). Il test del palloncino si basa sulla capacità dello strumento, che è a disposizione delle forze
dell’ordine, di individuare i metaboliti dell’alcol che sono la causa dell’alito pesante tipico di chi beve e sono
prodotti in modo proporzionale alla quantità di alcol ingerito.
Nel fegato, i sistemi enzimatici coinvolti nel metabolismo dell’alcol sono principalmente tre:

L’alcol deidrogenasi è un enzima citoplasmatico; le catalasi si trovano nei perossisomi; il sistema


microsomiale è un insieme di enzimi che si trova all’interno del reticolo endoplasmatico. Tutti e tre i sistemi
hanno come primo obiettivo la trasformazione da etanolo ad acetaldeide, quindi il primo passaggio è
l’ossidazione dell’etanolo; successivamente l’acetaldeide penetra nei mitocondri e viene trasformata in
acetato, che poi è substrato di altre reazioni.

L’alcol deidrogenasi porta avanti


una reazione di ossidoriduzione
dove l’etanolo viene ossidato e il
NAD viene ridotto; quindi si tratta
di un enzima NAD-dipendente.
Questa reazione è importante,
come lo è il coinvolgimento del
NAD poiché questo significa che
in presenza di elevate quantità di
etanolo noi avremmo produzione
di acetaldeide e di NADH.
Il nostro organismo ha a
disposizione isoforme varie e numerose dell’alcol deidrogenasi, che presentano piccole differenze nella
composizione amminoacidica, e sono circa 7 isoforme; questo è legato al fatto che ogni isoforma è espressa
da un tessuto diverso. Le isoforme differiscono tra loro per le proprietà cinetiche (come possiamo vedere
da quello che è scritto nell’immagine seguente) infatti riconosciamo isoforme con affinità alta (ADH1,
ADH2, ADH3), affinità media (ADH4, ADH6, ADH7) e affinità bassa (ADH5). La distribuzione di queste
isoforme porta ad avere a livello del fegato enzimi ad affinità alta e intermedia: questo spiega perché il
metabolismo dell’etanolo sia principalmente epatico, infatti gli enzimi che hanno la maggiore affinità per
l’alcol sono presenti proprio a livello del fegato. Ovviamente anche altri tessuti hanno l’alcol deidrogenasi,
soprattutto l’isoforma ADH5, ossia quella a bassa affinità; ad esempio, l’isoforma ADH5 è presente anche
nel tessuto muscolare (che nel nostro organismo è molto rappresentato e corrisponde a circa il 50% del
peso corporeo) quindi anche se l’isoforma ha bassa affinità, quando si hanno altre quantità di alcol in
circolo, anche il tessuto muscolare può contribuire a metabolizzare l’alcol. Questo spiega come mai a volte
per aumentare la velocità di smaltimento dell’alcol, fare attività fisica aiuta: facendo attività fisica l’alcol
viene smaltito più velocemente.

Questo enzima con le sue isoforme è coinvolto nel processo di tolleranza innata all’alcol. Se analizziamo, ad
esempio, la popolazione italiana possiamo trovare soggetti più o meno tolleranti all’alcol (senza tenere in
considerazione gli alcolisti); questo dipende dal fatto che ogni individuo esprime una quantità diversa di
alcol deidrogenasi. Tale enzima è il primo a partecipare al metabolismo dell’alcol, quindi se un soggetto
esprime naturalmente più enzima, sarà più tollerante all’alcol; viceversa i soggetti che esprimono livelli più
bassi dell’enzima saranno naturalmente meno tolleranti all’alcol.

Il sistema microsomiale per l’ossidazione dell’etanolo (MEOS) è molto importante e questo è legato al
fatto che si tratta di un sistema inducibile. Infatti, il sistema microsomiale generalmente è basso in tutti i
soggetti (quando questi sono ancora non bevitori) ma può essere stimolato nel momento in cui si inizia a
bere e dal momento in cui si inizia a bere ripetutamente e per lunghi periodi: più si beve, più questi enzimi
sono espressi, più si ha tolleranza indotta per l’alcol. Per questo motivo generalmente, i soggetti che sono
più abituati a bere hanno più tolleranza all’alcol: a livello epatico (ma anche in altri tessuti) si ha una
maggiore concentrazione degli enzimi appartenenti al sistema microsomiale; quando poi cala lo stimolo (es.
dopo anni che ho smesso di
bere) cala l’aumentata
espressione di questi enzimi.
Gli enzimi del sistema
microsomiale catalizzano la
reazione mostrata a fianco che è
sempre una reazione di
ossidazione, che stavolta utilizza
NADP e O2; il prodotto della
reazione è sempre lo stesso
ossia acetaldeide.
Fanno parte del sistema microsomiale molti enzimi appartenenti alla famiglia del citocromo P450; a tale
famiglia appartengono molti enzimi che contengono citocromi (ad esempio, CYP2E1, CYP1A2, CYP3A4) e
tutti questi possono partecipare al metabolismo dell’alcol. Questi enzimi però non sono coinvolti solo nel
metabolismo dell’alcol poiché sono enzimi che a livello del fegato metabolizzano xenobiotici, farmaci, etc...
quindi sono enzimi che non hanno un’azione specifica nei confronti dell’etanolo ma hanno il ruolo di
detossificare ed eliminare gli xenobiotici.
Quando si beve la quantità di questi enzimi aumenta molto e quindi si possono avere delle risposte
particolari, poiché essendo questi enzimi coinvolti nel metabolismo dei farmaci si scopre che un etilista ha
una diversa tolleranza nei confronti dei farmaci. Questo accade perché un soggetto alcolista ha molti enzimi
espressi per metabolizzare velocemente l’etanolo e di conseguenza metabolizza più velocemente i farmaci,
che possono essere farmaci legati alle terapie croniche, oppure antibiotici. Quindi in soggetti abituati a bere
alcol frequentemente si ha bisogno di una quantità maggiore di antibiotico poiché questo viene degradato
più rapidamente. Per questo motivo è importante che un dottore sappia se un soggetto è più o meno
abituato a bere alcol, affinché possa somministrare un dosaggio efficace.

Come abbiamo già detto, tali enzimi utilizzano anche l’ossigeno come substrato e infatti sono gli stessi
enzimi coinvolti nei processi di idrossilazione degli acidi grassi che è una reazione simile a quella di
detossificazione degli xenobiotici, e
infatti sono enzimi che riescono ad
utilizzare anche il glutatione. Questi
enzimi di detossificazione infatti
catalizzano reazioni che permettono
di coniugare/legare ad uno
xenobiotico il glutatione poiché in
questo modo la sostanza diventa più
solubile e la sostanza viene
degradata/eliminata più
velocemente.
Il glutatione per il nostro organismo
è molto importante poiché è uno
degli antiossidanti cellulari. Quindi,
in un soggetto alcolista il consumo di glutatione a carico di questi enzimi tenderà ad aumentare e pertanto
– soprattutto a livello epatico – si avrà una forte riduzione della concentrazione di glutatione fino ad
arrivare alla deplezione completa; proprio per il suo effetto antiossidante, la mancanza di glutatione
determina un maggiore stress ossidativo che, soprattutto a livello cronico, può portare a danni ingenti a
livello del fegato, oppure ad attivazione di processi infiammatori che tendono a portare a danni cronici che
sono il tempo possono danneggiare il fegato in modo irreversibile. Uno dei principali effetti negativi, legati
all’assunzione cronica di alcol è la fibrosi epatica, insieme a steatosi e cirrosi, tutte patologie cronico-
degenerative che possono portare anche alla morte.

La catalasi è il terzo meccanismo coinvolto nella detossificazione ed eliminazione dell’etanolo, anche se


questo meccanismo ha un contributo
limitato. La catalasi riduce l’acqua
ossigenata mentre ossida l’etanolo ad
acetaldeide. Quindi in presenza di etanolo
anche l’acqua ossigenata viene consumata,
in modo tale da trasformare etanolo in
acetaldeide. Questo avviene
prevalentemente a livello dei perossisomi dove si trova la catalasi, che aiuta a metabolizzare l’etanolo. La
quota di etanolo metabolizzata attraverso questa via non è molto elevata per il fatto che la catalasi non è
così elevata a livello delle cellule.

EFFETTI METABOLICI ACUTI DELL’ETANOLO


Tutti i sistemi enzimatici lavorano per trasformare l’etanolo in acetaldeide, quindi subito dopo l’assunzione
di alcol la concentrazione di acetaldeide aumenta e lo fa in modo proporzionale all’espressione degli enzimi
espressi, soprattutto quelli del MEOS. L’acetaldeide è un aldeide quindi è una sostanza molto reattiva che
in quanto tale reagisce spontaneamente, soprattutto ad alte concentrazioni, con molte molecole organiche
(come proteine, acidi grassi e zuccheri); il fatto che abbiano luogo molte reazioni innesca processi
soprattutto di natura infiammatoria. L’accumulo di acetaldeide infatti determina gli effetti negativi
dell’alcol che solitamente sono nausea, vomito, tachicardia, arrossamento facciale; in particolare,
l’arrossamento facciale si ha poiché l’alcol genera una vasodilatazione e infatti contemporaneamente si ha
anche una sensazione di calore che è proprio dovuta al fenomeno della vasodilatazione. Situazioni come
nausea, vomito e tachicardia, portano malessere, stanchezza, incapacità di svolgere attività; queste sono
conseguenze a breve-medio termine (ad es. il giorno dopo).
Il fatto che l’acetaldeide abbia effetti negativi è stato sfruttato dalla farmacologia nella terapia del disgusto
che sfrutta l’associazione alcol-malessere per far sì che il soggetto abbia un deterrente per il consumo di
alcol (il soggetto è prudente poiché non vuole risentirsi male): in seguito all’assunzione di alcol, si induce il
malessere forte in una persona per convincerlo a non bere. Si tratta di una soluzione drastica che può
rappresentare l’ultima possibilità di “cura” per gli alcolisti che non riescono a smettere. In partica clinica
questo viene fatto somministrando Disulfiram, un inibitore dell’aldeide deidrogenasi (che è l’enzima che
degrada l’acetaldeide ossia trasforma l’acetaldeide in acetato) e quindi l’acetaldeide verrà accumulata:
incrementando la sensazione negativa si cerca di indurre nel soggetto etilista un feedback negativo che
dovrebbe ridurre/smettere l’assunzione di alcol.

Nei soggetti non bevitori, che bevono occasionalmente alcol, l’enzima che entra prevalentemente in gioco
dopo l’assunzione di alcol è l’alcol deidrogenasi poiché il MEOS non è ancora particolarmente coinvolto,
quindi il metabolismo dell’alcol è prevalentemente a carico dell’alcol deidrogenasi, vediamo quindi gli
effetti metabolici legati all’attivazione di questo enzima.
Abbiamo già detto che l’alcol
deidrogenasi riesce a
trasformare l’etanolo in
acetaldeide e per far questo
deve consumare NAD ossidato;
infatti si tratta di una reazione
di ossidoriduzione in cui si deve
avere un’ossidante che si
riduce e quindi si produce
molto NADH (NAD ridotto).
Quindi nelle cellule di chi beve
occasionalmente, la quantità di
NADH tende rapidamente ad
aumentare e questo determina
chiaramente uno squilibrio
delle concentrazioni di NAD e
NADH poiché se nel fegato la quantità di alcol aumenta rapidamente si avrà la quasi completa deplezione
del NAD ossidato con un accumulo di NAD ridotto. Per l’organismo è necessario rigenerare il NAD ossidato
(altrimenti si ha il blocco della glicolisi, che richiede NAD ossidato nella reazione catalizzata dalla
gliceraldeide-3-fosfato deidrogenasi) e questo è possibile attraverso la fermentazione lattica; nel fegato
infatti è presente la lattato deidrogenasi che è in grado di trasformare piruvato in lattato.
Quindi quando si assume alcol il fegato inizia subito a produrre lattato per rigenerare il NAD ossidato e
portare avanti la glicolisi. Questa sembra una situazione paradossale poiché solitamente il lattato viene
prodotto in situazioni particolari e inoltre solitamente non è il fegato a produrlo, infatti solitamente il
lattato viene prodotto in condizioni di attività fisica intensa e sono i muscoli a produrlo. In questa situazione
quindi il fegato produce lattato, ma non riesce a metabolizzarlo (il fegato solitamente fa la reazione inversa
da lattato a piruvato) e quindi il lattato viene riversato nel sangue e di conseguenza quando beviamo alcol
la prima conseguenza è la presenza di lattato nel sangue e questo fenomeno è detto acidosi lattica e
determina un calo del pH del sangue. Contemporaneamente, nelle cellule epatiche, dove si consuma
piruvato si determina il blocco della gluconeogenesi per mancanza di piruvato; la gluconeogenesi non è
fondamentale in tutti i momenti del giorno ma lo è senz’altro durante i periodi di digiuno: se durante il
digiuno blocco la gluconeogenesi, il glucosio non è più riversato nel sangue e il rischio è quello di non
riuscire a tamponare la glicemia che quindi scenderà fino ad arrivare in condizioni di ipoglicemia.
Quindi il primo effetto a breve termine è un aumento dell’acidosi lattica e parallelamente il blocco della
gluconeogenesi. Anche l’acidosi non è un fenomeno positivo poiché acidificando il sangue si impatta sulla
funzionalità dell’emoglobina: l’emoglobina in condizioni acide rilascia l’ossigeno e lega meno ossigeno,
quindi un soggetto che ha bevuto e si trova in condizioni di acidosi lattica lega meno ossigeno e quindi
andrà in condizioni di carenza di ossigeno (ovviamente non si arriva in condizioni di ipossia) quindi
diminuirà la percentuale di ossigeno trasportata e di conseguenza il battito cardiaco aumenterà insieme
all’aumento del flusso di sangue nel tentativo di compensare la carenza di ossigeno, determinando una
sensazione di affaticamento.
Dunque, in seguito all’assunzione di alcol si ha uno squilibrio dello stato redox intracellulare con accumulo
di NAD ridotto che può
essere usato per produrre
lattato, come abbiamo già
visto, ma può essere
sfruttato anche in altro
modo; infatti, l’ultima
reazione del ciclo di Krebs
(da malato ad
ossalacetato) è reversibile
e la sua direzione dipende
dalla quantità di NAD
ridotto: se il NAD ridotto è
basso il malato viene
trasformato in
ossalacetato, se il NAD
ridotto è alto l’ossalacetato
è trasformato in malato. Se
l’ossalacetato viene consumato in questa reazione, si blocca sia la gluconeogenesi che il ciclo di Krebs.
Questo blocco determina una forte di riduzione di ATP prodotto e questo spiega come mai i soggetti si
sentono molto spossati e affaticati. Per questo motivo non dovremmo assumere alcol nelle seguenti
condizioni:
- Prima di un esercizio fisico: per gli atleti è sconsigliato bere nelle 48h prima di una gara poiché può
ridurre la performance.
- In condizioni di freddo estremo: in un primo momento effettivamente si ha vasodilatazione con
aumento della temperatura ma subito dopo la diminuzione di ATP porta problemi a termoregolare e
quindi porta a sentire ancora più freddo.
- In condizioni di digiuno: durante il digiuno noi ci affidiamo alla gluconeogenesi a livello del fegato per
compensare la glicemia; il blocco della gluconeogenesi porta ad una riduzione della glicemia
proporzionale alla quantità di alcol assunta a digiuno con il rischio di ipoglicemia che può causare
anche la perdita dei sensi (svenimento). Ad esempio, quando andiamo a ballare si fa tardi e quindi
siamo in condizioni di digiuno (poiché è passato molto tempo dalla cena) e dunque in questa
situazione l’assunzione di alcol può causare il blocco della gluconeogenesi e di conseguenza può
portare a svenimento: se siamo alla guida questo è causa incidenti stradali.
Gli effetti acuti però non
finiscono qui infatti lo
squilibrio redox dovuto
all’aumento di NADH
porta un blocco del ciclo
di Krebs poiché si
trasforma ossalacetato in
malato; il NAD ridotto
inoltre è un inibitore di
numerosi enzimi del ciclo
di Krebs. Quindi quando il
ciclo di Krebs si blocca si
ha un aumento dei livelli
di citrato, il quale può
uscire dal mitocondrio ed
entrare nel citoplasma
dove, grazie alla citrato
liasi, è trasformato in acetil-CoA che è usato come substrato per la sintesi di acidi grassi.
Se la sintesi di acidi grassi è fortemente stimolata si ha un accumulo di questi: l’accumulo di acidi grassi nel
fegato è uno stato patologico detto
steatosi epatica: si tratta di un
processo degenerativo molto
difficile da recuperare. Questo
avviene non solo poiché si stimola
la sintesi degli acidi grassi, ma
anche perché l’etanolo inibisce il
fattore di trascrizione PPARα che
stimola la trascrizione di geni
coinvolti nel catabolismo degli acidi
grassi. Quindi se beviamo alcol,
aumenta la sintesi di acidi grassi e
contemporaneamente si blocca il
catabolismo degli acidi grassi, in
questo modo l’accumulo di acidi grassi nel fegato è favorito e può portare all’instaurarsi della steatosi
epatica. Infatti, la steatosi epatica alcolica è la principale patologia degli alcolisti; essa è una patologia molto
grave che causa grandi danni al fegato e può progredire in fibrosi per poi andare in cirrosi con conseguenze
molto gravi per la salute del soggetto. L’etanolo quindi ha effetto molto negativo sul fegato.

EFFETTI METABOLICI LEGATI ALL’ASSUNZIONE CRONICA DI ETANOLO


Stiamo quindi parlando degli effetti dell’etanolo nel medio-lungo
termine conseguenti all’atteggiamento di un soggetto che beve tutti i
giorni per molti anni. In questa situazione entra in gioco anche gli
enzimi del sistema microsomiale, in particolare l’enzima CYP2E1, che
consumano glutatione e questo può innescare un fenomeno di danno
ossidativo a livello del fegato, che si traduce in fenomeni infiammatori e
fenomeni degenerativi (es. fibrosi). La fibrosi è un fenomeno che
generalmente rimane localizzata e colpisce generalmente il fegato,
mentre l’infiammazione non rimane relegata solo al fegato ma può
diventare un fenomeno sistemico.
A livello del fegato, infiammazione e fibrosi sono innescate
dall’acetaldeide, che può reagire e formare addotti covalenti con
proteine, lipidi e acidi nucleici, e in questo modo viene danneggiata la
funzionalità di proteine ed enzimi, sono danneggiati i lipidi di
membrana (generando stress ossidativo a livello dei lipidi di membrana), portare alla perossidazione
lipidica (fenomeno tipico dell’aterosclerosi), o portare al danno degli acidi nucleici il che significa indurre
anche mutazioni/mutagenesi a livello del DNA con conseguenze importanti come l’attivazione della risposta
immunitaria, causare disfunzione macroscopiche a livello del fegato (epatomegalia) oltre a portare ad una
deplezione del glutatione.

Tra i vari metaboliti prodotti dal metabolismo epatico dell’etanolo ci sono le aldeidi: acetaldeide,
malondialdeide e anche 4-idrossi nonenale (4-HNE) che è
prodotto dalla perossidazione lipidica. In particolare, 4-HNE è
importante poiché è considerato uno dei principali marker del
danno da perossidazione lipidica e generalmente è uno dei
marker che viene monitorato – soprattutto negli alcolisti – per
capire a che livello è il danno prodotto dall’assunzione di alcol.
Questa molecole è potenzialmente molto tossica poiché può amplificare il danno prodotto.

Finora abbiamo visto quali possono essere i danni indotto dall’acetaldeide. Andando avanti nel
metabolismo troviamo l’aldeide deidrogenasi che metabolizza l’acetaldeide che quindi viene trasformata in
acetato, il quale a sua volta viene trasformato in acido acetico; l’acido acetico quindi reagisce con il
coenzima A per dare origine all’acetil-CoA. Quindi quando assumiamo alcol noi contribuiamo a produrre
acetil-CoA, il quale può avere diversi destini, tutto dipende dalla condizione fisiologica in cui si trova il
nostro organismo.

Normalmente l’acetil-CoA entrerebbe nel ciclo di Krebs e verrebbe ossidato a CO2; questo avviene se la
quantità di alcol assunta non è elevata e così riusciamo a smaltire rapidamente l’etanolo introdotto.
In realtà, le conseguenze del consumo di alcol possono essere diverse e qui entrano in gioco le varie
condizioni fisiologiche in cui possiamo trovarci assieme alla possibile quantità di alcol consumata.
Se la quantità di alcol è modesta dunque di produce una certa quantità di acetil-CoA che può essere
facilmente smaltita trasformandola in CO2.
Se la quantità di alcol aumenta e siamo in situazione di digiuno cominciano i problemi, poiché l’acetil-CoA,
per essere smaltito nel ciclo di Krebs, ha bisogno di ossalacetato tuttavia in condizioni di digiuno il fegato
usa l’ossalacetato per fare malato quindi ci troviamo in condizioni in cui produciamo grosse quantità di
acetil-CoA (derivate dal
metabolismo dell’etanolo)
ma non si ha sufficiente
ossalacetato per portare
avanti il ciclo di Krebs e
smaltire l’acetil-CoA. In
queste condizioni l’eccesso di
acetil-CoA viene
metabolizzato attivando la
sintesi dei corpi chetonici;
questo avviene proprio nel
fegato poiché il fegato è il
principale organo
chetogenico ossia il
principale organo che
produce corpi chetonici, i
quali poi vengono riversati nel sangue. Dunque le conseguenze medio-lunghe del consumo di alcol a
digiuno è l’accumulo di corpi chetonici nel sangue che portano ad una situazione negativa, infatti abbiamo
chetoacidosi ossia acidosi del sangue che determina la riduzione della capacità dell’emoglobina di legare
ossigeno e di conseguenza ci sarà affaticamento, battito cardiaco accelerato, e inoltre verrà prodotto anche
acetone (è uno dei corpi chetonici) che è volatile e infatti quando arriva a livello dei polmoni viene liberato
con la respirazione: è la chetoacidosi, generata principalmente dalla mancanza di ossalacetato, che produce
acetone, il quale è liberato attraverso la respirazione e determina l’alito pesante nei soggetti che
consumano alcol. La chetoacidosi indotta da alcol diventa ancora più intensa se siamo in una condizione di
totale digiuno; questo può succedere poiché molti alcolisti quando si svegliano al mattino, non si
preoccupano di fare colazione, bensì di bere. Infatti, in molte situazione di coma per eccesso di corpi
chetonici indotti dall’alcol, si manifestano proprio la mattina a digiuno negli etilisti: si ha una chetoacidosi
estrema con blocco della gluconeogenesi che porta al coma per eccesso di corpi chetonici.
Si può avere anche una situazione in cui si
ha un consumo di alcol alto ma si
consumano bevande che contengono
anche molto zucchero (es. birra, aperitivo,
crema di whisky). L’alcol ingerito viene
trasformato in acetil-CoA, mentre gli
zuccheri determinano la liberazione di
insulina che permette l’assorbimento
degli zuccheri stessi quindi in questa
situazione non abbiamo carenza di
ossalacetato anzi, si produce acetato e insulina. L’insulina a livello epatico stimola la sintesi degli acidi grassi
che in questa situazione è favorita anche dalla alta quantità di acetil-CoA prodotto e dall’alta quantità di
ossalacetato prodotta dagli zuccheri, pertanto il ciclo di Krebs si attiverà producendo molto citrato che
quindi fuoriesce dal mitocondrio, entra nel citoplasma e qui viene prodotto acetil-CoA che verrà utilizzato
per la sintesi degli acidi grassi. La produzione di molti acidi grassi è a carico del fegato che li trasforma in
lipidi che poi vengono “scaricati” come VLDL (che poi depositano i trigliceridi nel tessuto adiposo); la
capacità del fegato di smaltire trigliceridi non è infinita quindi se assumiamo molto alcol si avranno due
effetti fondamentali: l’accumulo di acidi grassi nel fegato (che non riesce a smaltirli tutti) e la formazione di
trigliceridi che attraverso le VLDL sono accumulati nel tessuto adiposo. L’accumulo di acidi grassi nel fegato
porta alla steatosi epatica mentre
l’accumulo nel tessuto adiposo fa
ingrassare poiché la massa del
tessuto adiposo porta ad aumentare
con il rischio di obesità. L’obesità a
sua volta può innescare il processo
che porta insulino resistenza,
iperinsulinemia, iperglucagonemia e
quindi diabete di tipo II.

Analizzando la condizione di salute di un alcolista si scopre che spesso gli alcolisti hanno deficienze
soprattutto a carico di micronutrienti importanti poiché l’alcolista si ricorda prima di bere che di mangiare e
inoltre non mangia in modo corretto quindi si hanno carenze vitaminiche. Qualcuno suggerisce che
bevendo alcol (es. birra, vino) si assumano anche componenti importanti ma questo NON è vero poiché per
assumere una quantità sufficiente di vitamine tramite queste bevande si dovrebbe bere una quantità
enorme: il quantitativo necessario a soddisfare le esigenze nutrizionali di un individuo sarebbero 15-20 litri
di birra. Ovviamente l’assunzione di questa quantità porterebbe solo ad effetti negativi poiché la quantità
di alcol assunta sarebbe eccessiva.

Nella figura seguente è riassunto tutto ciò che abbiamo detto finora degli effetti dell’alcol sul nostro
organismo.

Lezione 21 – 09/12/2020

LA REGOLAZIONE METABOLICA CON LA DIETA


Ci sono difficoltà obiettive nel comprendere il metabolismo poiché ci sono fattori che complicano molto i
meccanismi di regolazione. Uno tra i primi fattori che regolano il nostro organismo è il fatto che l’energia
che assumiamo sotto forma di kcal non viene fornita in modo costante e abbiamo degli sbalzi di kcal poiché
quando mangiamo, lo facciamo dopo un periodo di digiuno, e inoltre mangiamo più di quello che sarebbe
necessario per colmare il deficit di quel momento. Quindi, oltre ad attivare i processi di degradazione e
assorbimento, dobbiamo anche gestire l’eccesso di energia introdotta: una parte di questa viene utilizzata
in processi catabolici per ripristinare il deficit che ha indotto il soggetto a mangiare; l’altra parte in eccesso
viene sfruttata da sistemi che sintetizzano molecole complesse che per noi sono riserva energetica e sono
importanti poiché ci permettono di avere
autonomia rispetto all’alimentazione (noi
abbiamo autonomia per 3-4 ore). Nella vita
quotidiana è la notte il periodo più lungo di
digiuno e quindi di deficit energetico,
tuttavia noi abbiamo un sistema di
omeostasi che ci permette di gestire
l’energia anche in queste situazioni; è chiaro
che un’alterazione di questi sistemi può
causare più problemi.
Il nostro organismo come è organizzato per
gestire le riserve? Nel corso dell’evoluzione
l’uomo ha dovuto affrontare anche
un’evoluzione metabolica, considerando che
l’alimentazione dell’uomo primordiale è un’alimentazione semplice e basata principalmente su vegetali e
quindi con pochi zuccheri semplici. Ecco perché si sono evoluti sistemi capaci di accumulare sostanze di
riserva (acidi grassi) in modo semplice e rapido e queste riserve poi sono gestite in tempi lunghi. Gli acidi
grassi sono una forma di riserva importante poiché non accumulano acqua (quindi hanno grande densità) e
inoltre sono molecole ridotte, quindi ossidabili e l’ossidazione permette di ricavare molta energia: la
capacità di metabolizzare velocemente e catabolizzare lentamente gli acidi grassi è un grande vantaggio che
rende il nostro organismo adatto a sopravvivere ai momenti di restrizione calorica ma poco adatto a gestire
un eccesso di calorie o surplus energetico, che infatti oggi causa grandi problemi.

Se analizziamo la popolazione ogni organismo ha


un proprio metabolismo nel quale influiscono molti
fattori:
- Età,
- Sesso,
- Attività lavorativa,
- Condizioni ambientali,
- Stato di salute.
Oltre a questi ci sono altri fattori di complicazione
sono relativi alla nostra organizzazione fisica che
consta di tessuti, organi e apparati con esigenze
metaboliche diverse, motivo per cui i vari apparati
e organi devono comunicare tra loro. In particolare, abbiamo: cuore, cervello, muscolo scheletrico, fegato,
tessuto adiposo; il modo in cui questi comunicano è importante per la gestione del surplus energetico.
In figura seguente infatti vediamo i metaboliti che i diversi organi sfruttano per il proprio fabbisogno: in
termini di metabolismo ci sono grandi differenze e se le comunicazioni tra organi vengono meno si hanno
squilibri importanti con sonseguente insorgenza di patologie.
Per mantenere questi sistemi abbiamo bisogno
di sistemi per mantenere il metabolismo, come
ad esempio:
- Regolare l’assunzione del cibo. Questo
possiamo farlo con i segnali di fame e di
sazietà.
- Favorire l’assorbimento di nutrienti.
Dobbiamo limitare un accumulo eccessivo
che può dare effetti tossici ma allo stesso
tempo dobbiamo favorire l’accumulo per
formare riserve.
- Gestire le condizioni di digiuno. I flussi
metabolici durante il digiuno devono essere
ben definiti e regolati poiché altrimenti si
può incorrere in patologie.
Per fare questo è necessario un controllo, che
è esercitato principalmente da ormoni,
citochine, neuropeptidi e neurotrasmettitori
coinvolti nei metabolismi energetici. Infatti, la
gestione ottimale dell’energia richiede anche il
coinvolgimento del SNC poiché tramite esso
noi siamo in grado di capire il nostro
surplus/deficit energetico e questo sarà in
grado di regolare il nostro comportamento
(mangiare, non mangiare, cacciare per
procurarsi cibo); esistono infatti segnali attivati
dal SNC che arrivano in periferia dove portano
messaggi precisi che determinano il rilascio di
ormoni che a loro volta regolano il
metabolismo mandando un feedback al SNC.
Un danno a questi meccanismi determina l’innesco di circoli viziosi che possono causare molti problemi, ad
esempio se il segnale di sazietà non funziona bene → mangio sempre → continuo a non essere sazio →
continuo a mangiare → si instaura un circolo vizioso che porta a danni gravi e patologie.

Il funzionamento del nostro organismo è influenzato dal mantenimento di un livello costante di glicemia e
questo è uno dei fattori da cui non possiamo prescindere. La normoglicemia è 60-110 mg/dl di glucosio.
Durante la giornata se tutto va bene la nostra glicemia si attesta in questi valori, anche se sono ammesse
delle importanti oscillazione (da 60 a 110 è parecchio!), tuttavia ci sono delle eccezioni: la glicemia può
superare i 110 mg/dl e comunque fino a 250 mg/dl in fase acuta non abbiamo grandi disturbi patologici
(oltre i 200 mg/dl abbiamo qualche effetto ma non esagerati). Se la glicemia sale a 300-400 mg/dl abbiamo
effetti importanti mentre a 500 mg/dl abbiamo effetti come febbre, mal di testa, fino ad arrivare anche alla
morte causata dal cosiddetto coma
iperglicemico. Viceversa, se la
glicemia diminuisce siamo molto
meno tolleranti, infatti già a 45
mg/dl iniziamo ad avere i primi
sintomi ossia le prime
manifestazioni, si tratta quindi di
effetti relativi ad uno sbalzo
minimo; intorno a 40 mg/dl siamo
in condizioni di letargia con
problemi di tipo cognitivo e in cui
non si riesce a reagire agli stimoli
(non riesco a muovermi, non
rispondo a domande tipo “come ti
chiami?” o “che giorno è oggi?”) se
poi la glicemia scende ancora si
hanno danni cerebrali (anche
permanenti) e poi morte.
Il mantenimento della glicemia si sforza soprattutto di evitare che la glicemia scenda sotto i 50 mg/dl e
l’evoluzione ha favorito questo aspetto, permettendo all’uomo di sopravvivere anche 3-4 settimane, un
periodo di tempo piuttosto lungo che permette un approvvigionamento di alimenti (caccia, agricoltura).
Questo è dimostrato dal fatto che in un periodo di digiuno spinto di 3-4 settimane la glicemia scende ma
comunque riesce a mantenersi costante intorno a 50-55 mg/dl, questo grazie al fatto che abbiamo un set di
ormoni e citochine che sono in grado di mantenere la glicemia costante. Queste molecole non sono
distribuite in modo uniforme, infatti, se andiamo a vedere quali sono gli ormoni in grado di gestire il surplus
energetico noi troviamo solo l’insulina: essa determina accumulo dell’eccesso di glucosio, con formazione
di glicogeno; accumulo di acidi grassi con formazione di lipidi che poi sono riversati nel sangue e
accumulate negli adipociti; favorisce l’assorbimento di amminoacidi che poi sono usati per processi
anabolici (formazione proteine, ormoni come adrenalina, serotonina, glicina, GABA) o processi catabolici
(per impedire un surplus di amminoacidi poiché noi non abbiamo una forma di accumulo di AA). In
particolare, troviamo proteine soprattutto nel muscolo scheletrico e quando siamo a digiuno il nostro
organismo attiva la degradazione proteica e le proteine sono sfruttate per il metabolismo, per il
sostentamento; questo ha ovviamente ripercussioni negative poiché si distrugge la massa magra e si blocca
la sintesi proteica. Noi possiamo degradare circa il 50% del nostro organismo dopodiché arriviamo a
distruggere gli organi e quindi non è più una condizione compatibile con la vita.

RUOLO DELL’INSULINA E DEL GLUCAGONE


Nel nostro organismo non si raggiunge mai
l’equilibrio ma oscilliamo continuamente tra
due condizioni: la condizione di sazietà ossia
quella post-prandiale, e la condizione di
digiuno ossia quando sono passate 2-2.30
ore dal pasto. Virtualmente quindi avremo
in circolo rispettivamente insulina o
glucagone, che ovviamente hanno
andamento opposto: la prima è alta dopo i
pasti e scende lontano dai pasti, il secondo è
alto durante il digiuno e scende durante i
pasti. L’andamento della glicemia è
speculare all’andamento dell’insulina ed è
opposto ai livelli di glucagone.
Quasi tutte le cellule hanno recettori per
l’insulina poiché ovviamente l’insulina è un
regolatore importante (regola anche la sintesi proteica) anche se alcuni tessuti come il muscolo scheletrico,
il tessuto epatico e il tessuto adiposo, ne sono particolarmente ricchi; al contrario il glucagone ha recettori
espressi soprattutto in tessuto adiposo e fegato. Già questo ci dice la differenza di azione.
L’insulina viene rilasciata in seguito ad un pasto e il principale stimolo arriva proprio dagli stessi nutrienti: in
figura si vede il meccanismo di rilascio che si attiva nelle cellule β-pancreatiche. Le sostanze
insulinotropiche (insulino-tropiche, che determinano liberazione di insulina) sono molte, ma l’agente
insulinotropico principale è il glucosio. Il glucosio entra nelle cellule β-pancreatiche attraverso il
trasportatore GLUT2, che ha
caratteristiche biochimiche
particolari, infatti esso ha scarsa
affinità per glucosio quindi si
attiva solo quando la
concentrazione di glucosio nel
sangue è elevata. Infatti la KM di
GLUT2 per il glucosio è alta, circa
20 mM: questo valore indica la
concentrazione di glucosio a cui
si ha una velocità di trasporto
pari al 50% della velocità
massima. Allora, in condizioni di
normoglicemia, in cui si ha una
concentrazione di circa 5 mM,
entrerà poco glucosio nelle
cellule pancreatiche. Una volta
che il glucosio entra dentro le
cellule esso viene metabolizzato con i meccanismi di glicolisi, ciclo di Krebs, fosforilazione ossidativa con
formazione di ATP che inibisce i canali del potassio; bloccando il trasporto di potassio si ha una
depolarizzazione della membrana plasmatica che determina l’attivazione deli canali del calcio voltaggio-
dipendenti, quindi il calcio entra nella cellula dove stimola il rilascio di insulina, che è contenuta in
vescicole. Dunque, la quantità di insulina rilasciata è proporzionale alla quantità di glucosio nel sangue.
Dunque, considerando la curva di Michaelis-Menten, GLUT2 lavora nella prima parte della curva, che
sostanzialmente ha un andamento lineare: la velocità di trasporto aumenta in modo più o meno lineare
all’aumento del glucosio. Quindi il GLUT2 è una specie di sensore per il glucosio, che permette l’entrata di
una piccola parte di glucosio anche durante il digiuno, quindi anche durante il digiuno si libera una quantità
MINIMA di insulina, ma non è MAI zero; viceversa dopo un pasto l’insulinemia aumenta. Di quanto
aumenta? Ad esempio, se partiamo da una normoglicemia di 60-110 mg/dl, quando mangiamo due gelati si
ha un aumento di glicemia, di quanto? La glicemia arriva anche a 140-150 mg/dl, e non supera questo
valore poiché l’aumento di glucosio determina aumento di insulina che quindi va a regolare GLUT4,
aumentando ancora di più l’uptake di glucosio nelle cellule e questo contribuisce a non fare aumentare
troppo la glicemia nei periodi successivi ai pasti; se dopo 1.30-2.00 ore la glicemia non è rientrata nei valori
di normoglicemia si hanno problemi patologici, ad esempio il diabete.
Oltre al glucosio, alcuni amminoacidi sono fortemente insulinotropici e quindi stimolano il rilascio di
insulina (ad esempio Arg, Lys) anche se lo fanno con meccanismi diversi da quelli del glucosio: gli
amminoacidi entrano nelle cellule β-pancreatiche e il loro metabolismo determina liberazione di insulina;
tuttavia, gli amminoacidi liberano meno insulina del glucosio e lo fanno in tempi più lunghi poiché il loro
metabolismo è più complesso rispetto a quello del glucosio. Anche gli acidi grassi stimolano il rilascio di
insulina ma lo fanno ancora più lentamente degli amminoacidi poiché, sebbene dagli acidi grassi si possa
ottenere ATP (quindi sfruttare un meccanismo di liberazione dell’insulina come quello del glucosio), il loro
catabolismo è un processo ancora più lungo di quello degli amminoacidi e questo rende gli acidi grassi
ancora meno insulinotropici.
Oltre all’aumento di glicemia ci sono
altri meccanismi che determinano
liberazione di insulina. Il pancreas
infatti è un organo innervato dal
sistema nervoso e questo permette di
far giungere al pancreas stimoli come
quelli visivi o olfattivi (es. vista e odore
del cibo) che determinano il rilascio di
insulina tramite il nervo vago.
Anche la dilatazione delle pareti
dell’intestino può portare ad un
aumento momentaneo della glicemia
poiché viene liberato enteroglucagone
che stimola gluconeogenesi nel fegato:
l’enteroglucagone raggiunge il fegato e
si ha aumento del glucosio che stimola il pancreas a rilasciare insulina.
La dose di insulina liberata dal pancreas in seguito allo stimolo nervoso attiva i sistemi di controllo: nel
talamo abbiamo neuroni sensibili alla concentrazione di glucosio, e quando la glicemia scende i neuroni
fanno partire sistemi nervosi che stimolano la condizione di fame. La capacità del SNC di regolare la
quantità di insulina rilasciata è molto importante, gli stimoli che possono arrivare al pancreas derivano da
segnali che riguardano stimoli percettivi o dalla parte alta del tratto digerente come la masticazione, la
percezione di sapori, la deglutizione.

Lezione 22 – 10/12/2020
La quantità di glucosio assorbita quando esso è iniettato per vena è maggiore rispetto a quella che si
assorbe assumendo la stessa dose di glucosio per bocca e questo avviene perché cambia la liberazione
dell’insulina poiché cambia il controllo a livello del SNC: questo è prova che i passaggi controllati del SNC
sono rilevanti per il metabolismo del glucosio. Ad esempio, quando sentiamo odore/sapore appetitoso o
quando mastichiamo, si ha il rilascio di una piccola quantità di insulina, mentre quando poi ingeriamo
effettivamente il cibo si ha il rilascio di una grande quantità di insulina. A cosa serve il rilascio di una piccola
quantità di insulina che, essendo stimolata da SNC, precede l’arrivo del glucosio nel sangue? L’insulina
viene liberata nella vena porta, che dal pancreas porta il sangue al fegato e questo è importante; il fegato
infatti è l’organo con più recettori dell’insulina rispetto a tutti gli altri tessuti che quindi cattura il 98-99% di
questa insulina precoce. Durante il digiuno il fegato porta avanti glicogenolisi o gluconeogenesi, ossia
rilascia glucosio nel sangue; l’insulina nel fegato attiva come prima cosa il blocco della gluconeogenesi in
modo che il fegato smetta di produrre glucosio quando il SNC percepisce che tra poco mangeremo e quindi
introdurremmo glucosio: questo è fondamentale poiché altrimenti con l’alimentazione si arriverebbe ad un
aumento di glucosio troppo elevato. Lo stimolo nervoso poi continua per tutta la durata del pasto, tuttavia
dopo aver assunto cibo ha un ruolo minore: si ha comunque il segnale di gusto, masticazione, dilatazione di
stomaco e intestino e questi segnali comunque liberano insulina; tuttavia, a questo punto la quasi totalità
dell’insulina liberata deriva dal glucosio che entra in circolo con la digestione.
Cosa succederebbe se lo stimolo nervoso non avesse luogo? Questo è stato descritto nei soggetti affetti da
diabete di tipo II che hanno il problema di non riuscire a bloccare l gluconeogenesi epatica e quindi i fase di
picco la loro glicemia supera i livelli attesi poiché il loro fegato continua a produrre glucosio anche se la
concentrazione di glucosio nel sangue è molto alta: questi soggetti hanno problemi a bloccare la
gluconeogenesi.
L’insulina non ha effetto solo sul fegato ma anche su altri tessuti:

Quindi l’insulina attiva una serie di meccanismi che portano all’abbassamento della glicemia poiché
favorisce l’assorbimento del glucosio. Quando assumiamo glucosio, circa l’80-85% viene assorbito dal
tessuto muscolare che infatti contiene GLUT4, il trasportatore che viene esposto a livello della membrana
quando le cellule ricevono il segnale dell’insulina; oltre alla presenza di GLUT4 dobbiamo ricordare anche
che il muscolo rappresenta il 40-50% della massa del nostro organismo quindi è logico che sia il maggiore
distretto ad assorbire glucosio (i muscoli infatti sono 30-35 kg in un soggetto mentre il fegato è circa 1-1.5
kg). Il fegato accumula circa l’8-10% di glucosio, il 2% viene catturato dal tessuto adiposo e la restante parte
viene accumulata da tutte le altre cellule del nostro organismo. Quindi se abbiamo problemi di
assorbimento di glucosio a livello di fegato e muscoli si avranno problemi anche nel controllo della glicemia
poiché non ci sono tessuti così capaci di accumulare glucosio; non a caso, quando si hanno problemi con
questi meccanismi si vedono le conseguenze a livello di fegato, muscoli, adipe.

Quando mangiamo vediamo aumentare la quantità di glucosio, la concentrazione degli amminoacidi e


monogliceridi (permette l’assorbimento nelle cellule intestinali dove poi si formano i trigliceridi e gli esteri
del colesterolo). I trigliceridi e gli esteri del colesterolo sono poi caricati sui chilomicroni che rappresentano
il sistema di trasporto dei lipidi derivati
dalla dieta; un chilomicrone è costituito da
trigliceridi e colesterolo di origine
alimentare: queste molecole entrano in
circolo e si muovono nella circolazione;
quando arrivano ai vari tessuti periferici, a
livello dei capillari la velocità di flusso
rallenta e i chilomicroni entrano in
contatto con la lipoproteina lipasi,
espressa SULLA SUPERFICE delle cellule
endoteliali, che degrada i trigliceridi
liberando acidi grassi e monoacil-gliceroli i
quali possono essere assorbiti dai nostri
tessuti; attraversano la parete dei vasi ed
entrano nel tessuto sottostante dove si trovano numerosi adipociti e al loro interno poi si riformano i
trigliceridi. Al contrario, nella fase di digiuno, il glucagone attiva una trigliceride lipasi (lipasi ormone
sensibile) che è presente ALL’INTERNO degli adipociti e che libera acidi grassi, che così sono trasferiti ai vari
tessuti per permettere di produrre energia. Quindi durante il digiuno la concentrazione di acidi grassi liberi
(FFA) nel sangue è alta; quanto entra in gioco l’insulina essa si lega al recettore degli adipociti e porta al
blocco della trigliceride lipasi e quindi non saranno liberati più FFA nel sangue e difatti la loro
concentrazione nel sangue successivamente ad un pasto diminuisce: l’insulina è considerato un ormone
anabolico poiché stimola l’accumulo di trigliceridi a livello del tessuto adiposo. Questo è fondamentale
poiché noi siamo in grado di accumulare trigliceridi nel tessuto adiposo che poi saranno sfruttati nella fase
di digiuno. Il tessuto adiposo inoltre presenta GLUT4 che con l’insulina viene esposto e quindi questo
tessuto assorbe anche una parte di glucosio: per cosa è utile questo glucosio? Gli adipociti non
accumulano glucosio quindi perché c’è questo assorbimento? Il glicerolo degli acidi grassi deriva in parte
dai monogliceridi che sono assunti ma occorre anche sintetizzare glicerolo ex novo poiché il tessuto adiposo
assorbirà anche FFA dal sangue: il glicerolo viene sintetizzato attraverso il glucosio che è degradato a
gliceraldeide-3-fosfato, che viene trasformata in diidrossiacetone-3-fosfato, che poi è ridotto a glicerolo-3-
fosfato che serve alla sintesi di trigliceridi. Ovviamente se si hanno problemi a questo livello si avranno
problemi nella sintesi di trigliceridi e l’altro grosso problema è il non-blocco della trigliceride lipasi che
quindi continuerà a degradare trigliceridi e quindi si ha una situazione paradossale poiché gli acidi grassi
che entrano non sono usati per formare trigliceridi e quindi questi acidi grassi usciranno. Questo avviene
nei diabetici dove dopo un pasto si ha aumento dei chilomicroni (questo è normale) ma
contemporaneamente si avranno anche alti livelli di FFA nel plasma, derivati dall’azione della trigliceride
lipasi.

Normalmente il tessuto muscolare assume glucosio e se l’insulina non funziona si ha un primo deficit
nell’assorbimento del glucosio e questo causa problemi poiché il muscolo è il principale tessuto che assorbe
glucosio. L’insulina poi nel muscolo ha il compito di far assorbire amminoacidi e attivare la sintesi proteica,
inoltre essendo un ormone anabolico l’insulina nel muscolo bloccherà la degradazione delle proteine. La
degradazione delle proteine sarà intensa a digiuno o durante l’attività fisica mentre si bloccherà durante un
pasto e in fase post-prandiale. Non a caso una tecnica di doping è l’iniezione di insulina, che essendo un
ormone anabolico permette di fissare le proteine nel muscolo facendo rapidamente aumentare la massa
muscolare. Sappiamo tutti che durante l’attività fisica si sfruttano riserve di glicogeno per produrre ATP,
tuttavia il tessuto muscolare ha una flessibilità metabolica importante poiché è in grado di usare sia
zuccheri (dal glicogeno) che acidi grassi
(che provengono principalmente dal
TESSUTO ADIPOSO in quanto il muscolo
non può accumulare lipidi, o può farlo
solo in piccolissima parte). Il muscolo
sotto sforzo intenso porta avanti un
metabolismo anaerobio con produzione
di lattato e per fare questo serve
glucosio. Se invece si fa un’attività fisica
aerobia, il metabolismo muscolare si basa
principalmente sugli acidi grassi, quindi è
un metabolismo più lento e più efficiente
in termini di produzione di ATP. In
condizioni di riposo, ad esempio nella
notte (a digiuno) il muscolo ha un
metabolismo principalmente basato sugli
acidi grassi e li metabolizza attraverso la
β-ossidazione; infatti a digiuno l’insulina
non è prodotta in grandi quantità quindi il trasportatore GLUT4 è internalizzato e il muscolo non riesce ad
assorbire glucosio. Volendo, una quota di GLUT4 può essere esposta anche con un altro stimolo ossia la
contrazione muscolare; quindi in realtà durante l’attività fisica in condizioni di digiuno il muscolo cattura
glucosio dal sangue proprio perché una quota di GLUT4 è esposta e riesce ad assorbire glucosio dal sangue.
La quota assorbita non è elevatissima in queste situazioni ma non è zero: per questo motivo alcuni medici
suggeriscono ai diabetici di praticare attività fisica regolare poiché questo contribuisce ad abbassare l’indice
glicemico dato che il glucosio è assorbito dal muscolo.
Il cervello durante il digiuno è l’organo che per eccellenza consuma più glucosio poiché durante il digiuno
l’80% del glucosio in circolo è destinato fondamentalmente al cervello. Ecco perché la glicemia a digiuno
deve rimanere costante: noi dobbiamo essere in grado di fornire glucosio il cervello in qualsiasi momento.
Il fegato esprime GLUT2, che non è controllato
dall’insulina ma ha una KM alta e questo
permette al fegato di assorbire glucosio solo
quando il glucosio in circolo è molto alto.
Durante il digiuno il fegato produce glucosio
che deriva dalla degradazione di glicogeno o
dalla gluconeogenesi e la concentrazione di
glucosio epatico diventa più alta di quella
ematica e quindi il glucosio si muoverà per
gradiente e di conseguenza uscirà; dopo il
pasto la concentrazione ematica sarà
maggiore di quella epatica e quindi tramite
GLUT2 il glucosio entrerà nella cellula epatica,
muovendosi secondo gradiente.

Il muscolo è ricco di amminoacidi ramificati e infatti spesso gli atleti assumono preparazioni di amminoacidi
ramificati: questi amminoacidi infatti non sono assorbiti dal fegato e arrivano quasi completamente al
muscolo che quindi li sfrutta per aumentare la massa muscolare. Unendo l’azione dell’insulina agli
amminoacidi ramificati si ottiene un effetto dopante importante.

DIGIUNO
Per distinguere il digiuno breve dal digiuno
prolungato si usano marker per il
metabolismo del glucosio. Durante il digiuno
breve (4-5 ore dopo il pasto) sarà attiva
prevalentemente la degradazione del
glicogeno che viene sfruttato poiché è la fonte
epatica più velocemente degradabile; in
questa situazione la gluconeogenesi non è
particolarmente attiva, tuttavia quando il
glicogeno scarseggia la gluconeogenesi
accorre in aiuto. Le nostre riserve di glicogeno
normalmente sono in grado di garantire
glucosio per 24-36 ore, infatti la notte si
consuma circa il 40-50% delle riserve di
glicogeno. Dunque, nelle prime fasi del
digiuno la glicogenolisi è alta,
successivamente con la diminuzione di glicogeno si ha la diminuzione della glicogenolisi e quindi l’aumento
della gluconeogenesi. Dopo 36 ore di digiuno il fegato libererà sempre la stessa quantità di glucosio ma
questo avrà provenienza dalla gluconeogenesi poiché il glicogeno epatico è stato esaurito.

Il fegato durante il digiuno prolungato è in grado di liberare 2 mg/kg/min sfruttando la gluconeogenesi, di


conseguenza in un individuo di 70 kg si producono circa 200 g/die di glucosio; questa quota è quella che è
necessaria per mantenere costante la glicemia giornalmente e di questa quota, circa 120 g/die sono
catturati dal cervello, mentre il resto va agli altri organi. Oltre al fegato, anche la corticale del surrene porta
avanti la gluconeogenesi e lo fa in modo più intenso del fegato, tuttavia questo organo è più piccolo
(qualche grammo) quindi il suo contributo è irrilevante rispetto a quello epatico.
Nel digiuno queste attività sono stimolate dal glucagone: il glucagone liberato dalle cellula α del pancreas è
sufficiente a produrre glucosio per mantenere costante la glicemia ecco perché è fondamentale l’azione del
glucagone. Nel digiuno tuttavia gioca un ruolo anche l’insulina che agisce in modo autocrino legandosi sulle
cellule α in modo da regolare la produzione di glucagone: l’attivazione dei recettori dell’insulina sulle cellule
α blocca la sintesi di glucagone, e poiché a digiuno la quantità di insulina crolla, è prodotto glucagone in
abbondanza; quindi, quando dopo un
pasto l’insulina sbalza a livelli altissimi,
la sintesi di glucagone si blocca
totalmente. La piccola quantità di
insulina circolante a digiuno continua
a stimolare l’assorbimento di glucosio
a livello di tessuti GLUT-dipendenti
che così possono assorbire glucosio.
Se impediamo all’insulina di regolare
la liberazione di glicogeno e
impediamo all’insulina di regolare
l’assorbimento di glucosio a digiuno,
allora a digiuno si ha un aumento di
glucosio ematico patologico, ecco
perché le analisi per il diabete
vengono fatte a digiuno.
L’alterazione della glicemia a digiuno e
quindi l’alterazione dell’insulina sul
fegato è una delle manifestazioni più frequenti nel diabete. Vedremo le cause e vedremo che ruolo hanno
gli alimenti; scopriremo che il principale organo che portano a questa alterazione è proprio il fegato.

Lezione 23 – 16/12/2020
Dalla tabella, in cui vediamo le principali fonti di riserva energetica, osserviamo che l’esigenza di mantenere
costante la glicemia è importate tuttavia noi non abbiamo grandi riserve di glucosio, e questi fattori sono
piuttosto contraddittorie. Le nostre
riserve di lipidi e proteine sono
molto più ingenti di quelle per gli
zuccheri e si crea una situazione
particolare. Degradando acidi grassi
si produce acetil-CoA ma non siamo
in grado di produrre zuccheri
perché la piruvato deidrogenasi è
irreversibile, quindi non possiamo
produrre piruvato che sarebbe il
precursore nella gluconeogenesi.
Quindi abbiamo molte riserve ma
non ci sono utili per mantenere la
glicemia.
Potremmo usare le proteine, poiché si ottengono intermedi capaci di intervenire nella gluconeogenesi,
tuttavia degradare amminoacidi significa degradare la struttura del nostro organismo e quindi questo ha
una connotazione negativa: ne possiamo usare solo fino a circa il 50% perché oltre si arriva alla morte.
Come risolviamo questo problema? La soluzione è un po’ particolare e si tratta di una risposta
neuroendocrina all’ipoglicemia. Esistono infatti nel nostro organismo moltissimi ormoni con azione
iperglicemizzante, e questo ci fa capire quanto è importante il controllo della glicemia; abbiamo solo un
ormone ipoglicemizzante (insulina) contro un’abbondanza di ormoni iperglicemizzanti. Questo dimostra
che noi siamo attrezzati bene a sostenere la fase di digiuno (quindi a mantenere costante la glicemia)
mentre ci affidiamo solo all’insulina per abbassare la glicemia: se l’evoluzione ha determinato la
sopravvivenza/espressione di molti ormoni iperglicemizzanti, significa che l’uomo nella storia evolutiva ha
avuto il problema di mantenere costante la glicemia e non di abbassarla.
Vediamo che quando la
concentrazione di glucosio scende
sotto gli 80 mg/dl si assiste ad una
immediata riduzione della secrezione
di insulina e questo ne riduce
l’assorbimento da parte dei tessuti.
Se poi il livello scende anche al di
sotto di circa 68 mg/dl le cellule
pancreatiche e la corticale del
surrene rilasciano rispettivamente
glucagone e adrenalina, ormoni
iperglicemizzanti.
Scendendo ancora oltre, anche a 66
mg/dl vediamo che l’ormone GH
(Growth Hormon) viene rilasciato ed
esso va ad agire in termini di
compensare la diminuzione della
glicemia e quindi stimola
gluconeogenesi, aumenta la lipolisi e
blocca la sintesi proteica.
In ultimo, scendendo oltre i 58 mg/dl
troviamo il rilascio di cortisolo, un
altro ormone che conosciamo che ha
livelli molto alti al mattino, quando ci
svegliamo (conferma che la notte
rappresenta un periodo di digiuno
prolungato.
Quando ci svegliamo poi abbiamo un picco circadiano di cortisolo, che aumenta intorno alle 06.30-07.00
AM e rimane alto se non facciamo colazione; il cortisolo infatti è iperglicemizzante e quindi connota con
una situazione di stress per il nostro organismo ovvero noi attiviamo tutti i processi possibili per aumentare
la glicemia. Il cortisolo infatti è un ormone associato a condizioni di stress, e viene liberato in condizioni di
febbre, o in condizioni patologiche, o in condizioni di digiuno prolungato e la sua secrezione viene
rapidamente interrotta quando facciamo un pasto (già la colazione è sufficiente a bloccare l’azione del
cortisolo).
Quindi secondo la glicemia si mettono in atto procedure per minimizzare la riduzione della glicemia.
Nonostante questo però le riserve di glucosio sono molto labili e se il digiuno persiste per 24-36h si
esauriscono le riserve di glicogeno. Dopo una settimana di digiuno completo, la glicemia è sempre circa 60
mg/dl: come è possibile? Perché la glicemia non cala nonostante il digiuno? Le riserve di glicogeno sono
esaurite, quindi la glicogenolisi non ha luogo bensì subentra la gluconeogenesi ed è in grado di produrre
quantità sufficienti di glucosio; tuttavia la gluconeogenesi è costretta ad utilizzare come substrato di
partenza gli scheletri carboniosi che derivano dalla degradazione degli amminoacidi. Di conseguenza, dopo
qualche giorno (48-72 h) il consumo di proteine è molto aumentato: si continua a demolire proteine per
produrre scheletri carboniosi e alimentare la gluconeogenesi. Ad esempio, se degradiamo Ala – grazie alle
transaminasi – ottengo piruvato, mentre dall’aspartato possiamo ottenere ossalacetato, dal glutammato
otteniamo α-chetoglutarato che poi attraverso il ciclo di Krebs va a produrre ossalacetato che può rientrare
nella gluconeogenesi. Il problema è che in questa situazione il consumo di proteine è molto aumentato e il
nostro organismo si trova in difficoltà poiché una degradazione così veloce delle proteine può mettere a
rischio la propria vita: durante digiuno prolungato, una massa muscolare funzionante che mi permetta
(tramite caccia, etc...) di procurarsi del cibo può essere fondamentale per la sopravvivenza. Di conseguenza
scopriamo che l’organismo attiva altri meccanismi per ridurre il consumo di proteine. Ripercorrendo dal
principio in una situazione di digiuno vediamo che inizialmente esauriscono le scorte di glucosio, poi dopo
circa 36 ore si esauriscono ed entra in atto la gluconeogenesi iniziando a degradare le proteine quindi dopo
circa 48 h il consumo di proteine aumenta molto, tuttavia se andiamo avanti vediamo che dopo circa 10
giorni di digiuno completo il consumo di proteine si è ridotto a circa 1/3 rispetto a quello che si aveva dopo
24-72 h. Perché? Cosa è successo? Il consumo di proteine cala perché entra in gioco un altro meccanismo
di compensazione; infatti, durante il digiuno noi degradiamo attivamente anche gli acidi grassi e viene
prodotto molto acetil-CoA che normalmente, con la disponibilità dell’ossalacetato, entrerebbe nel ciclo di
Krebs. Nel fegato, la disponibilità di ossalacetato non è sempre garantita poiché via via che il digiuno
prosegue, l’ossalacetato viene convogliato verso la gluconeogenesi; ma il fegato è anche uno degli organi
che metabolizza gli acidi grassi, i quali sono liberati durante il digiuno dal tessuto adiposo e questi sono
catturati dal fegato che li degrada attraverso la β-ossidazione producendo appunto acetil-CoA, tuttavia
l’acetil-CoA prodotto non può essere utilizzato poiché nel fegato manca ossalacetato. Quindi nel fegato si
ha una situazione paradossale in cui si ha molto acetil-CoA a disposizione ma non può essere sfruttato per
portare avanti il ciclo di Krebs, il quale è completamente bloccato; inoltre, dalla degradazione degli acidi
grassi viene prodotto anche NAD ridotto, che è un inibitore del ciclo di Krebs. Quindi il ciclo di Krebs è
bloccato sia per l’assenza di ossalacetato sia per il blocco metabolico dovuto all’eccesso di NAD ridotto.
In queste condizioni, nel fegato si attiva un’altra via metabolica che è quella che porta alla sintesi di corpi
chetonici: dopo 48-72 h la concentrazione di corpi chetonici nel sangue inizia ad aumentare, andando
avanti nel tempo si vede che la concentrazione di corpi chetonici nel sangue aumenta ulteriormente fino a
5-6 mM e quindi supera la concentrazione di glucosio nel sangue (circa 5 mM). I corpi chetonici che destino
hanno? Essi sono usati come substrato da molte cellule, per produrre energia; essi vengono trasformati in
succinil-CoA e inviati all’interno del ciclo di Krebs. Durante il digiuno prolungato i tessuti che utilizzano i
corpi chetonici sono soprattutto il cervello, il quale li usa poiché i trasportatori del glucosio hanno
un’affinità per i corpi chetonici simile a quella del glucosio quindi, quando la concentrazione di corpi
chetonici supera quella del glucosio, nelle cellule nervose entrano più corpi chetonici che glucosio. Nelle
cellule nervose i corpi chetonici sono trasformati in succinil-CoA che viene sfruttato per alimentare il ciclo di
Krebs e produrre energia. Quini la richiesta di glucosio da parte del cervello si riduce, e poiché il cervello è
uno dei principali consumatori di glucosio, questo risparmio di glucosio da parte del cervello determina
grandi profitti: il consumo giornaliero di glucosio del cervello è circa 120 g/die; durante il digiuno
prolungato il cervello può ridurre di circa il 60% il consumo di glucosio (non arriva mai a 0 g/die) ossia circa
40-50 g/die. Il glucosio che viene risparmiato viene destinato agli altri organi che sfruttano il glucosio: il
tessuto muscolare è uno dei più abbondanti quindi in percentuale il glucosio verrà prevalentemente
catturato dal muscolo. Questo fornisce un vantaggio poiché durante il digiuno il muscolo sfrutta gli acidi
grassi e li degrada ottenendo acetil-CoA, il quale deve entrare nel ciclo di Krebs: il muscolo non fa
gluconeogenesi quindi ha a disposizione ossalacetato che può essere ottenuto – oltre che dagli zuccheri,
che però durante il digiuno non abbiamo – dalla degradazione della proteine (ecco perché il muscolo
degrada tante proteine durante il digiuno prolungato). Quindi il muscolo non ha gli stessi problemi “tecnici”
del fegato poiché ha a disposizione una grande quantità di proteine, quindi durante le prime fasi del
digiuno, il muscolo incrementa il consumo di proteine per assicurare il funzionamento del ciclo di Krebs e
convogliare qui l’acetil-CoA prodotto dalla degradazione degli acidi grassi; questo porta ad un consumo
proteico determinando un problema di riduzione molto rapida della massa muscolare, tanto che in
condizioni di digiuno prolungato noi siamo in grado di degradare 60-70 g/die di massa muscolare. Se questo
ritmo si mantenesse costante, noi sopravviveremmo per un periodo limitato, tuttavia scopriamo che il
consumo proteico dopo pochi giorni si riduce da 75 g/die a circa 20 g/die; come abbiamo già detto, questo
dipende dal fatto che la produzione di corpi chetonici determina una riduzione importante del consumo di
glucosio da parte del cervello e quindi il glucosio può essere trattato dal muscolo che quindi riduce il
consumo di proteine. SI tratta quindi di un meccanismo virtuoso che ci permette di conservare la massa
muscolare e quindi di avere più chance di sopravvivere.

Perché descriviamo tutto questo? Il tessuto adiposo durante il digiuno prolungato libera acidi grassi che
vengono utilizzati da tutte le nostre cellule, ma tessuto muscolare ed epatico sono due tessuti che usano
molto gli acidi grassi e questo è molto importante: durante il digiuno prolungato, il flusso degli acidi grassi
verso fegato e muscolo è molto intenso. Il diverso utilizzo delle riserve è interessante se consideriamo
quello che può succedere nella vita quotidiana, infatti ad oggi nei paesi industrializzati – escluse situazioni
particolari – è difficile morire di fame ed è molto più facile avere casi di surplus calorico, e per dimagrire
possiamo indurre questa situazione ossia l’enorme produzione di corpi chetonici detta anche chetoacidosi.
Ci sono infatti diete particolari che sfruttano questo meccanismo: si può mimare una situazione come
quella descritta ora portando avanti diete che evitano il consumo di glucosio ossia la DIETA CHETOGENICA
(o dieta Dukan). Questa dieta “promette” un rapido dimagrimento e si basa sui principi descritti finora: essa
prevede la rimozione quasi totale dei carboidrati dalla dieta. In questa situazione, anche se smettiamo di
assumere carboidrati (semplici o complessi), non si tratta di una dieta ipocalorica ma generalmente è una
dieta normocalorica in cui si compensano le calorie perse dalla sottrazione dei carboidrati con l’aumento di
lipidi e proteine. Sappiamo che i carboidrati (soprattutto glucosio) sono gli agenti insulino-tropi, in realtà
anche proteine e acidi grassi lo sono ma in misura minore; questo significa che togliendo completamente i
carboidrati dalla dieta si ottiene un effetto macroscopico immediato ossia la riduzione della liberazione di
insulina. Togliendo i carboidrati dalla dieta si mima una situazione di digiuno, il quale, da un punto di vista
ormonale, può essere definito come una situazione caratterizzata da bassi livelli di insulina e alti livelli di
glucagone: i livelli di insulina calano del 10-20% rispetto a quelli in una dieta ricca in carboidrati (che
normalmente rappresentano il 55-60% delle calorie totali) quindi si riduce l’azione dell’insulina. Nel fegato
l’insulina bloccava la gluconeogenesi, la glicogenolisi e attivava la sintesi proteica e la sintesi di glicogeno e
la sintesi di acidi grassi e lipidi, quindi se l’insulina crolla questi fenomeni si invertono e il glicogeno non
viene sintetizzato, come nemmeno proteine, acidi grassi e lipidi mentre si stimola la degradazione di acidi
grassi, glicogeno e si attiva gluconeogenesi; attivare la degradazione degli acidi grassi e la gluconeogenesi
sono le due condizioni fondamentali che portano ad incrementare rapidamente la sintesi di corpi chetonici.
Nel tessuto adiposo invece l’insulina, a breve termine, blocca la degradazione dei lipidi quindi se l’insulina
crolla si stimola la degradazione dei lipidi facendo aumentare la liberazione di acidi grassi nel sangue; quindi
con una dieta chetogenica, il flusso di acidi grassi dal tessuto adiposo aumenta molto e gli acidi grassi
vengono captati da tutte le cellule, in particolare da tessuto muscolare e tessuto epatico.
Vediamo cosa succede durante una dieta chetogenica nel muscolo. Nel muscolo, in mancanza di insulina
non può stimolare GLUT4 quindi non riesce a catturare il glucosio dal flusso sanguigno, quindi ne catturerà
meno e sintetizzerà meno glicogeno, la sintesi proteica rallenterà mentre aumenterà la degradazione del
glicogeno, la degradazione proteica e verrà stimolata la degradazione dei lipidi. Quindi il muscolo shifta il
proprio metabolismo prevalentemente sul consumo degli acidi grassi che verranno degradati ed aumenterà
la degradazione delle proteine: questa situazione descrive una situazione di digiuno prolungato. Si chiama
dieta chetogenica proprio perché stimola fortemente la produzione di corpi chetonici, in che modo? Dal
tessuto adiposo sono liberati acidi grassi che vengono catturati dal fegato che li degrada attraverso la β-
ossidazione producendo una grande quantità di acetil-CoA che non può essere usato nel ciclo di Krebs ma è
convogliato nella sintesi di corpi chetonici i quali vengono rilasciati in circolo e sono usati come già detto.
Quindi la dieta chetogenica mima le condizioni di digiuno prolungato e questo lo si ottiene semplicemente
riducendo al minimo il rilascio di insulina, stimolando il pancreas a rilasciare piccole quantità di insulina
rispetto a quello che avviene normalmente. Perché questa dieta mima il digiuno prolungato? Innanzitutto,
abbiamo forte consumo e mobilitazione degli acidi grassi che fluiscono dal tessuto adiposo al muscolo, al
fegato e agli altri organi. Il cervello non può consumare questi acidi grassi tanto che il tessuto nervoso
manca degli enzimi che regolano la β-ossidazione pertanto il cervello è costretto ad utilizzare glucosio o
corpi chetonici; muscolo e fegato invece possono usare gli acidi grassi, tuttavia abbiamo già detto che
questo nel muscolo comporta un grande consumo di proteine. Dopo qualche settimana in cui portiamo
avanti questa dieta, vediamo il nostro peso calare rapidamente (nei primi 10 giorni si possono perdere
anche 300-400 g/die). Una dieta normalmente ha l’obiettivo di ridurre le riserve di lipidi per dimagrire e
anche la dieta chetogenica raggiunge questo scopo – abbiamo detto che la lipolisi in carenza di insulina è
fortemente stimolata quindi si degradano attivamente gli acidi grassi con calo del tessuto adiposo –
tuttavia, si ha contemporaneamente la degradazione delle proteine che porta ad aumentare la produzione
di urea (per smaltire gruppo amminico) quindi libereremo anche molta più urea la quale per essere
eliminata ha bisogno di grande quantità di acqua (non è solubile) e quindi il volume delle urine aumenterà e
la quantità di acqua nel nostro organismo diminuirà. Quindi in sostanza perderemo senz’altro lipidi, ma
anche amminoacidi e acqua: la grande perdita di peso che vediamo dopo i primi 10 giorni è imputabile non
solo alla perdita di acidi grassi ma anche alla perdita di acidi grassi e acqua.
Abbiamo già detto che il nostro organismo reagisce alla produzione di corpi chetonici incrementando il
consumo di corpi chetonici, riducendo il consumo di zuccheri e il consumo di proteine. Paradossalmente, la
seconda settimana la perdita ponderale di peso diminuisce, e la terza settimana diminuirà ancora di più
quindi magari la prima settimana si perdono 500-600 g/die, la seconda settimana si perdono 300-400 g/die
e successivamente si arriva ad una perdita di non oltre 200 g/die. Questo avviene proprio perché
aumentando i corpi chetonici il consumo di glucosio da parte del cervello si riduce, allora il muscolo cattura
il glucosio “avanzato” e quindi riduce a sua volta il consumo di proteine pertanto la massa muscolare viene
degradata in misura minore e si perde anche meno acqua. Quindi ciò che può accadere è un rapido calo
iniziale che però poi si riduce; psicologicamente questo può creare de problemi poiché si ha la sensazione
che inizialmente la dieta funziona molto bene ma progressivamente i “successi giornalieri” si riducono
sempre più. Già di per sé questa dieta è molto difficile da rispettare poiché la produzione di corpi chetonici
ci mette in difficoltà: l’abbondanza di corpi chetonici determina chetogenesi che porta all’acidificazione del
sangue; l’acidificazione del sangue ha un impatto sulla capacità dell’emoglobina di trasportare ossigeno
quindi in questa situazione con pH del sangue che tende ad acidificare, il trasporto di ossigeno sarà più
difficile e i soggetti saranno più affaticati, il battito cardiaco aumenterà e inoltre in circolo ci saranno grandi
quantità di cortisolo perché la situazione di digiuno prolungato è una situazione di stress per il nostro
organismo, già evidenziata dai corpi chetonici, ma sicuramente anche dagli alti livelli di cortisolo il quale
può portare a disturbi del sonno e ad una sensazione di affaticamento durante il giorno. Inoltre, tra i corpi
chetonici (acetone, acetoacetato e 3-idrossi-butirrato) l’acetone non è un vero e proprio corpo chetonico
poiché non viene usato per produrre energia ma viene eliminato dalla respirazione poiché è un composto
molto volatile; quindi un soggetto che è sotto dieta chetogenica libera anche molto acetone attraverso la
respirazione e questo determina una situazione particolare poiché questi soggetti avranno un alito molto
pesante (simile a quello di un alcolista) che causerà conseguenze anche da un punto di vista sociale. Oltre a
all’alito pesante, i soggetti avranno sensazione di affaticamento (non dormono a causa dei livelli di cortisolo
alti in circolo) quindi mantenere questa dieta non è semplice perché dopo i giorni iniziali i soggetti sentono
disagio che aumenta col passare dei giorni. In questa situazione dobbiamo considerare che stiamo
degradando la massa muscolare, il muscolo non ha più glicogeno poiché nel giro di pochi giorni lo consuma
tutto quindi i soggetti saranno anche molto affaticati: con un lavoro pesante che impegna fisicamente sarà
difficile mantenere i ritmi giornalieri di lavoro, quindi sarà ancora più difficile svolgere attività fisica.
Quindi si ha una situazione in cui il soggetto perde peso, inizialmente rapidamente poi sempre più
lentamente, e si sente a disagio; come sistema di compensazione quando si sottraggono i carboidrati,
intervengono neuroni che si trovano nella zona dell’ipotalamo e che sono sensibili al glucosio: essi ci
spingono a mangiare quando la glicemia scende, e quando si sottrae il glucosio essi determinano in noi il
“desiderio” di mangiare zuccheri quindi ci sarà una situazione conflittuale che aumenta tanto più il soggetto
porta avanti questa dieta. Dunque, nell’insieme questa situazione no è comoda o ideale ma determinerà
disagio crescente con il rischio di non tollerare più questa dieta; la conseguenza è che spesso quando si
interrompe la dieta il soggetto poi non riesce a limitarsi nel cibo (come conseguenza del disagio subito) e
vanifica in tempo breve tutti i risultati raggiunti recuperando i chili persi e spesso prendendone anche di più
(magari con la dieta ne perde 7-8 kg ma poi ne recupera 10-15 kg).
Dunque, gli aspetti positivi di questa dieta sono il dimagrimento abbastanza rapido tuttavia ci sono delle
controindicazioni. Tra le controindicazioni ce ne sono anche altre che dobbiamo tenere presenti.
Ovviamente, il flusso di acidi grassi che si muoverà dal tessuto adiposo alla periferia dipende dalla massa
del tessuto adiposo quindi un soggetto di 90 kg avrà un certo flusso di acidi grassi liberati dal tessuto
adiposo che poi andranno verso i tessuti periferici, mentre in un soggetto obeso di 120 kg il flusso di acidi
grassi sarà molto più intenso: un flusso così intenso può determinare problemi. Infatti, la dieta chetogenica
permette la mobilitazione degli acidi grassi, tuttavia se la massa adiposa è ingente il flusso di acidi grassi
diventa rilevante tanto che fegato e muscolo (i due principali distretti che assorbono gli acidi grassi)
tendono a sovraccaricarsi di acidi grassi. Il fegato ha una certa capacità di liberarsene perché esiste il ciclo
dei trigliceridi che prevede gli acidi grassi, che dal tessuto adiposo si muovono verso il fegato, una volta
giunti al fegato siano in buona parte ossidati (β-ossidazione) e quindi trasformati in acetil-CoA, e la restante
parte (il fegato non riesce a ossidarli tutti) viene ri-esterificata e trasformata in trigliceridi che sono
posizionati sulla VLDL che sono rimesse in circolo; le VLDL avrebbero come obiettivo il trasporto dei
trigliceridi al tessuto adiposo, il problema è che in queste condizioni, la capacità di accumulare trigliceridi
nel tessuto adiposo è minima quindi i trigliceridi delle VLDL, anche se arrivano al tessuto adiposo, sono
rapidamente idrolizzati e gli acidi grassi sono messi nuovamente in circolo. Quindi in questa situazione,
nonostante il fegato riesce a ossidare parte degli acidi grassi e a distribuire la restante parte in circolo, il
fegato si trova in grande difficoltà poiché il flusso vero il fegato sarà intenso e quindi il fegato inizierà ad
accumulare trigliceridi e acidi grassi liberi poiché non riesce a smaltire una tale quantità di acidi grassi
(ovviamente la quantità di acidi grassi che fluiscono sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà la massa
adiposa del soggetto considerato). Questo crea problemi poiché l’accumulo di acidi grassi nel fegato porta
ad una situazione patologica detta steatosi epatica che si caratterizza con l’identificazione nel fegato di
tessuto adiposo, che si accumula sotto forma di masse adipose all’interno del fegato e questo accumulo è
un fenomeno negativo. La steatosi è una patologia grave ed è difficile da recuperare (anche se non è
completamente irreversibile), infatti farla regredire richiede un periodo lungo perché il fenomeno di
regressione è molto lento e il problema è che durante l’accumulo di trigliceridi e acidi grassi nel fegato si
possono avere fenomeni degenerativi nel fegato. Questi fenomeni possono essere di vario grado e di
differente gravità, ad esempio l’accumulo di acidi grassi nel fegato stimola l’insorgenza di insulino-
resistenza epatica ovvero rende il fegato non più sensibile all’insulina; l’insulino-resistenza è un’altra
patologia che si trova generalmente in associazione all’accumulo di acidi grassi nel fegato e che ovviamente
va a peggiorare la situazione poiché la conseguenza dell’insulino-resistenza a livello epatico è l’iperglicemia,
che poi porta al diabete. Quindi si rischia di far progredire una situazione negativa e passare da una
semplice obesità ad una condizione di steatosi epatica, poi ad un’insulino-resistenza e infine al diabete.
Pertanto, quando si suggeriscono queste diete bisogna stare molto attenti, principalmente valutando la
relazione tra la massa del tessuto adiposo con eventuali effetti della dieta chetogenica.
L’altro tessuto che assorbe e percepisce li acidi grassi è il tessuto muscolare. Il tessuto muscolare è più
ampio e diffuso però se il flusso di acidi grassi è ingente anche il tessuto muscolare si sovraccarica di acidi
grassi e si ha un fenomeno simile quindi si possono identificare di acidi grassi e trigliceridi nelle cellule
muscolari; tale accumulo ha una connotazione negativa causando il fenomeno dell’insulino-resistenza
anche a livello del tessuto muscolare.
Dunque, l’accumulo di acidi grassi all’interno del tessuto muscolare e del fegato si può tradurre in danni
irreversibili a livello di questi tessuti, che spesso in un periodo medio-lungo portano allo sviluppo di
patologie come il diabete. Tuttavia, abbiamo detto che il flusso di acidi grassi non si limita solo a fegato e
muscolo ma anche agli altri organi, ad esempio si possono avere depositi di acidi grassi attorno al cuore, a
livello del pancreas e questo porta rispettivamente al danneggiamento della funzionalità cardiaca e al
danneggiamento della funzionalità pancreatica (il pancreas è l’organo che produce insulina quindi un danno
al pancreas equivale ad un danno delle cellule β-pancreatiche che sono le cellule che producono insulina,
ecco perché l’accumulo di acidi grassi nel pancreas è uno dei sintomi che portano poi allo sviluppo del
diabete).
Questa dieta quindi non porta solo ad una perdita di massa grassa ma anche alla perdita di massa
muscolare, per questo motivo chi la consiglia (il nutrizionista) deve tenere sotto controllo il quadro
generale, proprio perché ci sono situazioni in cui è meglio evitare. Ad esempio, gli anziani dovrebbero
evitare questa dieta poiché se hanno problemi di sarcopenia questo regime alimentare porta ad
un’ulteriore riduzione della massa muscolare; anche i bambini in via di sviluppo dovrebbero evitarla poiché
lo sviluppo della massa muscolare in età evolutiva è fondamentale; anche gli atleti devono evitarla, poiché
potrebbe portare ad una diminuzione delle capacità sportive; non è suggeribile alle donne in gravidanza
poiché per lo sviluppo del feto è fondamentale lo sviluppo della massa muscolare; in generale quindi, non è
consigliabile a nessuno poiché la perdita di massa muscolare può determinare numerosi problemi.

Il vantaggio di questa dieta è il dimagrimento in tempi brevi. In realtà possiamo raggiungere gli stessi
risultati ma in tempi più lunghi: l’obiettivo deve essere quello di degradare/diminuire la massa grassa e
quindi il tessuto adiposo. Questo può essere fatto aumentando il metabolismo degli acidi grassi, fenomeno
che avviene fisiologicamente quando si aumenta l’attività fisica oppure se si riduce l’introito calorico della
dieta legato all’assunzione di lipidi e glucidi (diete iperlipidiche e iperglicidiche). Quindi possiamo
aumentare l’attività fisica e parallelamente seguire una dieta normocalorica.
L’attività fisica, se fatta correttamente, porta ad un consumo degli acidi grassi ma richiede anche un
impegno fisico; tuttavia, solitamente chi vuole dimagrire è obeso o iperobeso e per questi soggetti l’attività
fisica è spesso un problema ecco perché questi soggetti non accettano volentieri la dieta standard in cui si
diminuiscono le calorie e si aumenta l’attività fisica, da qui nasce l’alternativa della dieta chetogenica che
invece non prevede lo svolgimento di attività fisica.

SURPLUS ENERGETICO
Il problema di oggi nei paesi industrializzati è l’obesità, da cosa dipende questo? Come mai mangiamo tutti
in eccesso?
Abbiamo già parlato degli effetti che gli alimenti possono avere e sappiamo che se tutto va bene, ad un
certo punto del pasto diventiamo sazi poiché grazie ai meccanismi di controllo ci arrivano segnali di sazietà
che ci spingono a smettere di mangiare. L’obesità è un fenomeno che in natura (negli animali) non esiste
poiché i meccanismi di controllo sulla fame funzionano perfettamente, ma in realtà questi meccanismi
funzionano anche nell’uomo. Ma allora perché l’uomo tende a diventare obeso? Una delle motivazioni
plausibili è lo stress, ma in che modo lo stress porta all’obesità? Sicuramente gli alimenti sani non fanno
attivare il meccanismo di “gratificazione” che invece attivano i junk food, e come mai avviene questo?
Perché questi alimenti rilasciano la serotonina che viene fabbricata a partire dal triptofano (Trp) che è
particolarmente presente in alimenti come cioccolato. Dunque, la ricerca di junk food dipende dal fatto che
essi determinano rilascio di serotonina e quindi una sensazione di benessere: dai cibi noi cerchiamo anche
l’aspetto edonistico. Nella vita moderna siamo tutti un po’ stressati (adesso poi, con il COVID-19 ancora di
più) e ricerchiamo cibi come salatini, dolciumi, alimenti ricchi in grassi o zuccheri ossia i junk food proprio
perché questi alimenti sono quelli che più di altri ci portano gratificazione. Ad esempio, si dice che le
casalinghe siano i soggetti più a rischio di depressione e contemporaneamente più a rischio di obesità.

In realtà i motivi per cui si può arrivare ad un sovraccarico glucidico o lipidico possono derivare dal nostro
stile di vita, dalle nostre abitudini e dalla capacità di accumulare eccessive quantità di zuccheri, lipidi e
proteine. Queste sostanze ovviamente determinano la liberazione di grandi quantità di insulina (opposto
alla dieta chetogenica) e questo determina una forte stimolazione dell’uptake di glucosio che però può
raggiungere solo un certo livello, oltre il quale l’eccesso glicidico viene trasformato in acidi grassi e poi in
lipidi che sono trasportati a livello del tessuto adiposo. Dunque, se portiamo avanti una dieta ricca di
zuccheri e lipidi vedremo aumentare rapidamente la massa del tessuto adiposo; questa situazione induce
fenomeni di glucotossicità e lipotossicità ossia situazioni in cui la dose eccessiva di zuccheri e lipidi porta ad
eventi tossici come ad esempio uno squilibrio del metabolismo glicidico che si può manifestare come:
- Elevati livelli di glucosio a digiuno, ecco perché ci facciamo gli esami del sangue a digiuno (impaired
fasting glycemia);
- Intolleranza al glucosio, che prevede l’incapacità di metabolizzare glucosio in tempi adeguati (impaired
glucose tolerance);
- Insulino resistenza, ossia un fenomeno sistemico che si manifesta in quasi tutti i nostri tessuti e che
evidenzia l’incapacità dell’insulina (che viene prodotta dall’organismo) di attivare una corretta risposta
fisiologica. In questi soggetti dunque l’insulina viene prodotta e ne viene prodotta una quantità
maggiore del solito che però comunque non funziona e non stimola l’uptake di glucosio, la sintesi di
lipidi, l’accumulo di glicogeno, la sintesi proteica.

Lezione 24 – 17/12/2020
Si parla di glucotossicità e lipotossicità quando ci si riferisce ad un sovraccarico energetico: il problema non
riguarda solo un accumulo eccessivo di sostanze e di peso, ma si innescano processi che possono
determinare conseguenze complesse e problemi, ecco perché si parla di tossicità. Vediamo quali sono i
meccanismi molecolari e analizziamo perché assumere troppi zuccheri porta effetti tossici? Gli effetti
descritti, in termini di tossicità, sono moltissimi ma nella vita quotidiana ci sono evidenze che ci colpiscono
direttamente, ad esempio c’è stato un grande dibattito sull’olio di palma che è stato “travisato” infatti esso
fa danni soprattutto ambientali; ovviamente esso è un acido grasso quindi, in quanto tale se assunto in
eccesso porta all’obesità e al diabete, ma questo avviene anche per tutti gli altri acidi grassi.

Da un punto di vista chimico distinguiamo gli zuccheri in aldosi e chetosi, il glucosio – che è lo zucchero pe
eccellenza – è un aldoso ossia un’aldeide. Le aldeidi sono sostanze reattive e la loro reattività è legata alla
capacità di queste molecole di reagire con altre molecole organiche, soprattutto molecole contenenti
gruppi amminici, quindi in ambito biologico sono soprattutto proteine. Quindi, se la concentrazione di
zuccheri diventa eccessiva si possono avere reazioni inattese (anche se la reattività delle aldeidi è bassa, la
velocità di una reazione dipende anche dalla concentrazione dei reagenti) e il glucosio si può legare
covalentemente ai gruppi amminici presenti nelle proteine ossia amminoacidi come Arg, Lys, -NH terminali,
oppure agli imminozuccheri, o alle basi azotate, etc... Formare un legame covalente significa modificare la
struttura di partenza della biomolecola; ad esempio, se una proteine viene modificata biochimicamente da
uno zucchero (si legano una, due, tre molecole di zucchero) c’è da pensare che questo zucchero possa
modificare la funzione della proteina, e lo stesso concetto vale per le proteine enzimatiche. Quindi
aumentare la glicosilazione NON ENZIMATICA delle proteine (essendo non enzimatica non è controllabile e
avviene solo quando la concentrazione degli zuccheri – non solo il glucosio ma ad esempio anche il fruttosio
– aumenta di molto) è un fenomeno negativo che può portare a problemi: processi di glicosilazione non
enzimatici possono determinare reazioni di glicazione che generano prodotti derivati di proteine,
amminoacidi, nucleotidi, tutti prodotti che in generale sono definiti AGEs ossia Advanced Glycation End
products (Prodotti finali della reazione di glicazione). Gli AGEs sono molti poiché moltissime proteine vanno
incontro al processo di glicazione, a partire dal collageno e fino ad arrivare ad esempio all’emoglobina che
viene detta emoglobina glicata. In particolare, l’emoglobina glicata, è un marker importante dei pazienti
diabetici poiché essa si genera in condizioni di iperglicemia, che nei pazienti diabetici si verificano spesso;
l’emoglobina glicata non è l’unica proteina che si trona nei soggetti diabetici ma è stata scelta perché:
1) Essa è semplice da analizzare poiché da un prelievo si recuperano i globuli rossi e si estrae facilmente
tale molecola;
2) L’emoglobina è contenuta nei globuli rossi che sopravvivono per circa 120 giorni (circa 3 mesi), quindi i
valori dei livelli di emoglobina glicata hanno un valore prognostico retrospettivo. Infatti, se è vero che
i globuli rossi sono totalmente sostituiti nel giro di 3 mesi, quando vediamo che i livelli di emoglobina
glicata sono superiori a 5,5 (che è il valore che in condizioni sane non viene superato) allora questo
significa che il paziente è andato incontro a fenomeni di iperglicemia che però può essersi verificata
fino a 3 mesi precedenti all’esame del sangue. In un paziente con valori aumentati possiamo dire che il
soggetto ha avuto almeno un aumento di glicemia importante, anche se non siamo in grado di dire se
gli eventi di iperglicemia sono pochi o molti, ma possiamo dire che nel paziente il controllo glicemico
non è ottimale. Gli AGEs, in particolare l’emoglobina glicata, dunque hanno un valore clinico predittivo
importante.

Le proteine che vengono glicate sono moltissime e vengono dette composti di Amadori e rientrano
nell’insieme di composti organici che all’interno del nostro organismo vanno incontro a glicazione e sono
davvero molti, ad esempio in altri organismi avviene anche a seguito dell’aumento della temperatura come
per il pane che forma la crosta e cambia colore quando cotto proprio per questi processi (il pane contiene
amido e lo zucchero presente nell’amido reagisce con le proteine all’interno del pane per dare origine ai
composti di Amadori che in questo caso hanno valore positivo poiché fanno diventare il pane croccante e
cotto bene). Nell’uomo invece la presenza di AGEs ha un valore prognostico negativo perché non solo
indica valori sballati della glicemia ma indica anche che il soggetto considerato può avere problemi legati a
fatto che la presenza di molecole modificate aumenta la produzione di ROS ossia determina all’interno
delle cellule stress ossidativo; lo stress ossidativo è dovuto anche al fatto che una grande parte di glucosio
viene metabolizzata nel mitocondrio, che è la prima fonte di ROS nel nostro organismo, infatti il
mitocondrio produce ROS in modo costante, tuttavia se i livelli di glucosio aumentano rapidamente, si
assisterà ad un aumento dei ROS prodotti a livello mitocondriale. Quindi indirettamente, ossia attraverso la
produzione di AGEs, oppure direttamente, ossia attraverso il metabolismo del glucosio, quando si
aumentano i livelli di glucosio si osserva anche un aumento dei ROS. Dunque, come abbiamo detto, i ROS
sono normalmente prodotti dalle cellule e hanno un effetto positivo, tuttavia un aumento dei ROS è
negativo per il nostro organismo e causano un danno. Quindi la glucotossicità è un fenomeno legato q eusti
fattori ossia alla modifica chimica delle proteine e alla produzione di ROS.
Oltre a questi due aspetti, ne dobbiamo considerare un terzo altrettanto importante. Infatti, una proteina
glicata ossia modificata chimicamente non è detto sia riconosciuta come self dagli anticorpi e inoltre tale
molecola potrebbe anche innescare una reazione infiammatoria (processo pro-infiammatorio) in modo
anche non mediato dal sistema immunitario. Alcuni studi hanno dimostrato che l’attivazione di un processo
infiammatorio non mediato dal sistema immunitario è possibile, infatti gli AGEs possono andare a legarsi a
determinati recettori, ossia i recettori per gli AGE detti RAGE (Receptors of AGE) che si trovano ad esempio
sui macrofagi, questo perché molte delle proteine glicosilate sono proteine batteriche; quindi i macrofagi
hanno recettori della famiglia TLR che quando legano proteine glicosilate innescano una risposta di tipo
infiammatorio ossia determinano la liberazione, da parte delle cellule del sistema immunitario, di citochine.
Le citochine pro-infiammatorie vanno in circolo e attivano le cellule e in questo modo vanno ad innescare
un processo infiammatorio che non sarà un processo infiammatorio acuto ma piuttosto un processo
infiammatorio sottosoglia che nel lungo termine diventa rilevante.
Quindi uno sbilanciamento della glicemia, che può essere dovuto ad una dieta sbilanciata ossia
un’alimentazione smodata, ricca di zuccheri e che quindi determina un contenuto sbilanciato di zuccheri nel
sangue, innesca un processo infiammatorio sottosoglia che avrà conseguenze poiché le interleuchine
colpiscono molte cellule e vari tessuti con effetti non facilmente prevedibili. Quindi la glucotossicità si può
trasformare in un processo infiammatorio che a medio-lungo termine può innescare processi degenerativi
ancora più importanti.

In figura si vede come le interleuchine possano impattare sul metabolismo degli acidi grassi, sulle cellule
che controllano la glicemia e quindi portando ad una serie di fenomeni che poi si auto-alimentano e che
definiscono processi complessi come l’insorgenza della sindrome metabolica (una serie di fenomeni
contemporanei).

L’eccesso di zuccheri è trasformato in acidi grassi (complice sono l’azione dell’insulina e gli alti livelli di
glucosio): quando abbiamo un eccesso di acetil-CoA, l’insulina attiva la sintesi di acidi grassi che poi sono
trasformati in lipidi che sono caricati su VLDL che sono trasportati al tessuto adiposo. Quindi quando
mangiamo molti zuccheri, dopo 2-3 settima con questa alimentazione si vede ad occhio nudo un aumento
del tessuto adiposo ossia che stiamo ingrassando e il motivo è proprio l’assunzione di zuccheri (quelli
principali della dieta sono glucosio e fruttosio) che causano questo tipo di metabolismo.
Come abbiamo detto, assumere molti zuccheri porta anche un’iperproduzione di insulina da parte del
pancreas (lo zucchero è insulinotropico) quindi contemporaneamente si ha anche un’elevata
concentrazione di insulina nel sangue che andrà a targettare altri organi, in particolare gli adipociti.
L’insulina ha come effetto quello di stimolare l’accumulo di trigliceridi nel tessuto adiposo, essa inoltre si
comporta da agente mitogeno per gli adipociti; gli adipociti sono parte del tessuto adiposo che è un tessuto
resiliente ossia non ha un turnover rapido. Alla nascita noi abbiamo già un tessuto adiposo, formato da
adipociti che si dispongono soprattutto a livello sottocutaneo ma comunque uniformemente distribuiti
nell’organismo; gli adipociti hanno un emivita lunga e un turnover lento, ovviamente il numero di adipociti
può cambiare in modo negativo ossia ridursi fino ad arrivare ad una progressiva perdita degli adipociti (si
tratta ovviamente di un fenomeno patologico noto come lipodistrofia, che determina la perdita del tessuto
adiposo), o in modo positivo ossia determinando una proliferazione delle cellule del tessuto adiposo
determinando un’ipertrofia del
tessuto adiposo. L’insulina
quindi oltre ad essere un
ormone metabolico, quando
presente in grosse quantità
riesce a stimolare la
moltiplicazione degli adipociti e
il differenziamento di alcuni
fibroblasti ad adipociti; questo
significa che nel tempo, se la
dieta è ricca di zuccheri, il
numero degli adipociti
aumenterà ma poiché queste
cellule sono a lento turnover, gli
adipociti rimarranno nel
soggetto per 2-4 anni prima di
essere degradati e questo darà
problemi. Gli adipociti infatti
sono cellule specializzate che
hanno come obiettivo
l’accumulo di trigliceridi e quindi
c’è differenza tra avere a
disposizione più o meno
adipociti poiché si hanno dei
depositi più o meno grandi per i trigliceridi. Se abbiamo molti adipociti “vuoti”, la capacità di accumulo dei
trigliceridi sarà elevata, viceversa se gli adipociti fossero un numero minore e limitato per aumentare lo
“spazio” dovremmo aumentare la grandezza di ogni adipocita. Possiamo quindi dire che una dieta
iperglicidica ha due effetti:
- A breve termine, l’insulina stimola l’accumulo di trigliceridi nel tessuto adiposo. Gli adipociti
accumulano trigliceridi ma quando si sovraccaricano diventano ipertrofici (massa molto grande) e
questo può essere un problema perché un adipocita ipertrofico non funziona più come un adipocita
normale.
- A lungo termine invece l’insulina stimola il differenziamento adipocitario e quindi aumenterà il numero
di adipociti con il rischio di poter accumulare una quantità maggiore di trigliceridi. Questo può creare
dei problemi poiché se per un certo periodo si ha una dieta sbilanciata, il numero di adipociti aumenta
e tali cellule rimangono lì per 2-3 anni: anche se dimagriamo quelle cellule rimangono in vita, quindi se
poi torniamo ad un’alimentazione sbagliata abbiamo già molti adipociti a disposizione; ecco perché chi
è stato obeso in una fase della sua vita e poi è dimagrito, ha una maggiore probabilità di ri-ingrassare
nel tempo. Ovviamente il turnover può subire delle variazioni poiché gli adipociti sono più reattivi in
età giovanile (cioè a questa età il differenziamento adipocitario funziona meglio) per questo motivo i
soggetti più a rischio sono i ragazzi/adolescenti che, se hanno una dieta smodata da giovani, rischiano
di portarsi dietro una serie di problemi legati all’obesità, infatti è stato dimostrato che si ha un’alta
probabilità che i bambini che sono obesi diventino obesi anche in età adulta proprio per questo
motivo.
Quindi alterare la funzionalità e la capacità di duplicazione del tessuto adiposo può essere rischioso e nel
tempo può portare ad una serie di problematiche.
Capiamo perché un adipocita ipertrofico può creare problemi. In figura seguente si vede che un adipocita
ipertrofico comincia a dare problemi perché quando il tessuto adiposo è abbondante si considera tessuto
non funzionante correttamente e infatti se facciamo delle analisi si scopre che tale tessuto è fortemente
infiltrato da molecole pro-infiammatorie come interleuchine, macrofagi, etc... e si vede che la capacità di
secernere interleuchine è aumentata soprattutto nella produzione di citochine pro-infiammatorie, rispetto
ad un tessuto adiposo non ipertrofico. Questo significa che l’obesità di per sé non rappresenta un problema
enorme poiché noi possiamo riempire/svuotare gli adipociti senza problemi, il vero problema è che in
queste fasi in cui il tessuto adiposo diventa ipertrofico succede anche altro ossia il tessuto adiposo la
funzione di ghiandola pro-infiammatoria perché rilascia molte citochine pro-infiammatorie nel sangue. Non
si tratta di un incremento grande di citochine ma rientra nelle variazioni basali ed è per questo che
determina l’insorgenza di un’infiammazione cronica sottosoglia che può avere ulteriori conseguenze.
Le conseguenze si possono intuire: Cosa succede quando il livello di citochine circolanti aumenta ma non
tanto da generare un effetto acuto? Tali molecole non hanno un bersaglio selettivo ma colpiscono un po’
tutte le cellule l’organismo infatti possono colpire le cellule del tessuto adiposo, le cellule muscolari, le
cellule del fegato e l’effetto poi è esteso potenzialmente ai neuroni, al pancreas, i reni, etc... Quando le
citochine infiammatorie colpiscono cellule particolari si hanno conseguenze particolari come ad esempio,
quando le citochine infiammatorie compliscono cellule che possiedono il recettore per l’insulina. I recettori
specifici per le citochine, quando legano il ligando danno il via a pathway di segnalazione specifici; in
particolare, si è visto che quando si attivano le citochine pro-infiammatorie come IL-6 all’interno delle
cellule che presentano il recettore per l’insulina si ha l’attivazione di una serie di meccanismi che, con
mediatori particolari come la proteine SOCS-3 (chinasi attivata da citochine pro-infiammatorie ad esempio
IL-6) che fosforila il recettore dell’insulina sui residui Ser. Questo è importante poiché normalmente il
recettore dell’insulina si attiva e questo si esplicita nell’aumento della fosforilazione dei residui di Tyr: in
pratica normalmente, quando l’insulina si lega, il recettore si attiva poiché alcuni residui di Tyr presenti sul
recettore stesso si fosforilano, quindi la fosforilazione su Tyr è segnale di attivazione del recettore. Nel
nostro caso, la fosforilazione dei residui di Ser del recettore da parte di SOCS-3 è una fosforilazione
inibitoria quindi il recettore per l’insulina viene inattivato (insulina si lega ma non ha conseguenze). Questo
è il fenomeno dell’insulino resistenza per cui l’insulina è presente ma non è in grado di attivare la normale
risposta fisiologica normale.

Questo fenomeno non è mediato solo da SOCS-3 ma è mediato in molti modi. Ad esempio, il TNFα (un’altra
citochina infiammatoria) porta all’inattivazione della via di segnalazione dell’insulina in modo diverso; esso
infatti attiva una via di segnalazione che porta alla fosforilazione su Ser di un substrato a valle del recettore
dell’insulina ossia IRS-1/2 (Insuline Receptor Substrate 1 e Insuline Receptor Substrate 2). Normalmente,
quando il recettore si attiva IRS-1/2 è fosforilato su Tyr e questo avvia il processo di segnalazione; invece,
quando TNFα si attiva IRS-1/2 sono fosforilati su Ser e pertanto non funzionano, di conseguenza la via di
segnalazione dell’insulina non continua. Dunque, anche in questo caso, la fosforilazione su Ser blocca la via
di segnalazione dell’insulina.
Lo stesso meccanismo è innescato dagli acidi grassi liberi o FFA. Dunque, analogamente possiamo dire che
un eccesso di FFA assunti dalla cellula, innesca un processo che porta alla fosforilazione di IRS-1/2 su Ser
bloccando la via di segnalazione dell’insulina. Quindi un eccesso di acidi grassi innesca il processo di
insulino-resistenza, dove però dobbiamo capire cosa significa un eccesso di acidi grassi. Si tratta infatti di
cellule che hanno il recettore per insulina quindi possono essere cellule epatiche e muscolari: il flusso di
acidi grassi va dal tessuto adiposo al tessuto periferico; i tessuti periferici quindi assorbono gli acidi grassi e
li metabolizzano ma se il bilancio tra la velocità di assorbimento e di degradazione è sbilanciato poiché il
flusso di FFA è alto, allora gli acidi grassi non riescono ad essere smaltiti ma si accumulano e questo porta al
fenomeno dell’insulino-resistenza nei tessuti interessati (muscolo, fegato). Quindi se si accumulano acidi
grassi nel fegato si innesca il fenomeno di insulino-resistenza nelle cellule epatiche, mentre se abbiamo un
accumulo nel muscolo si scatena il processo di insulino-resistenza nel muscolo. Come sappiamo, se
blocchiamo l’azione del recettore dell’insulina nelle cellule epatiche si altera il metabolismo degli epatociti:
non si stimola sintesi di glicogeno, non si blocca gluconeogenesi e questo è problematico poiché si continua
a produrre parecchio glucosio anche dopo i pasti, in questo modo il glucosio prodotto si somma a quello
assunto con la dieta, determinando iperglicemia post-prandiale. Se invece il difetto avviene nel muscolo
allora l’accumulo di acidi grassi è nel muscolo; qui l’insulina stimola l’accumulo di una minore quantità di
glicogeno e contemporaneamente non è stimolata l’esposizione di GLUT4 sulla membrana cellulare e
quindi le cellule muscolari assumeranno meno glucosio, ma poiché tali cellule sono la principale via di fuga
del glucosio dal sangue, questo significa che tale via di fuga verrà meno e quindi si avrà iperglicemia post-
prandiale.
Quindi questa situazione, che può nascere da una dieta eccessiva che porta ad aumentare la massa del
tessuto adiposo (quindi con il tempo un tessuto adiposo non funzionante) e con il tempo determina
l’innesco di un processo infiammatorio che si ripercuote sui vari tessuti che svolgono un ruolo importante
per il metabolismo energetico.

Finora abbiamo visto le reazioni di fegato e muscolo ma le interleuchine pro-infiammatorie colpiscono tutti
i tessuti del nostro organismo e paradossalmente possono colpire anche le stesse cellule del tessuto
adiposo; in questo caso si hanno effetti che si distinguono in effetti a breve termine e a lungo termine.

1) BREVE TERMINE. Le cellule del tessuto adiposo possiedono il recettore dell’insulina, la quale nel tessuto
adiposo stimola accumulo di trigliceridi, blocca trigliceride lipasi e ha un ruolo proliferativo stimolando la
proliferazione degli adipociti. Quindi, in analogia a quanto descritto finora vediamo cosa può succedere alla
cellula se questa è adipocitaria: in tal caso si innesca un processo di insulino-resistenza nel tessuto adiposo
e la conseguenza al blocco del recettore dell’insulina è che diminuisce la capacità del tessuto adiposo di
catturare trigliceridi, i quali se non sono catturati nelle lipoproteine che li trasportavano ossia le VLDL che
nel tempo diventano IDL e poi LDL, di conseguenza se il tessuto adiposo non è ricettivo si vede nel tempo
un aumento di queste particelle nel sangue. Le particelle IDL e LDL poi vengono nuovamente catturate nel
fegato e quindi si ha una situazione paradossale in cui il fegato produce trigliceridi, li carica su VLDL che a
causa del processo infiammatorio non possono scaricare il loro contenuto e quindi tornano al fegato: il
fegato si sovraccarica da trigliceridi, di conseguenza aumenta il numero di VLDL, IDL e LDL in circolo con il
rischio che esse scarichino i trigliceridi altrove ossia in altri tessuti che quindi accumulano trigliceridi, ad
esempio questo può avvenire in cuore, fegato, muscoli. Quindi si parla di grasso ectopico ossia un
accumulo di acidi grassi in tessuti che normalmente non li accumulano e questo può portare a conseguenze
negative per la funzionalità di questi tessuti. Inoltre, si deve considerare che le VLDL, le IDL e le LDL sono
lipoproteine quindi sono solubili ma poco, pertanto se i loro livelli nel sangue aumentano esse possono
precipitare nei vasi e tale precipitazione è il punto di partenza per innescare il fenomeno aterosclerotico.
Tornando agli adipociti, abbiamo detto che il deficit di funzione di insulina impedisce l’accumulo di
trigliceridi, ma normalmente negli adipociti quando l’insulina lega il recettore attiva la via di segnalazione
che blocca la trigliceride lipasi dunque se c’è insulino-resistenza nel tessuto adiposo si impedisce il blocco
della trigliceride lipasi: non solo il tessuto adiposo non accumula nuovi trigliceridi ma si avrà una trigliceride
lipasi sempre attiva nelle cellule, e questo determinerà una forte degradazione dei trigliceridi con una
grande liberazione di acidi grassi. Quindi in una situazione di insulino-resistenza si ha una situazione
paradossale poiché nello stesso individuo dopo un pasto si ha un alto livello di VLDL (sarebbe normale)
contemporaneo ad alti livelli di acidi grassi (in situazioni normali non avverrebbe poiché l’insulina post-
prandiale bloccherebbe la trigliceride lipasi); gli acidi grassi si accumulano sotto forma di acidi grassi liberi
(FFA) nei tessuti periferici contribuendo ad innescare il processo di insulino-resistenza.
Quindi l’insulino resistenza ha un impatto enorme sui tessuti che sono deputati a controllare il
metabolismo.
2) LUNGO TERMINE. Abbiamo già detto che l’insulina stimola il turnover degli adipociti: quando un
adipocita muore viene sostituito perché l’insulina ne stimola il rimpiazzo facendo differenziare alcune
cellule o stimolando la duplicazione; se quest’azione trofica dell’insulina cessa, con il tempo si ha la
riduzione di massa del tessuto adiposo ossia si va incontro alla lipodistrofia (distruzione selettiva del
tessuto adiposo) fenomeno che si verifica spesso in soggetti con insulino-resistenza o diabete e che infatti
dipende o dall’assenza di insulina o dal suo non funzionamento (insulino-resistenza). La perdita di tessuto
adiposo è un grosso problema poiché il tessuto adiposo permette di gestire l’eccessi di trigliceridi dopo un
pasto: se mangio trigliceridi, che sono caricati sulle lipoproteine, ma non ho tessuto adiposo per stoccarli
essi rimangono in circolo sotto forma di lipoproteine la cui concentrazione aumenta determinando la
precipitazione delle lipoproteine creando grossi problemi.
Da un punto di vista sperimentale si possono generare animali privi di tessuto adiposo (per capire qual è il
ruolo del tessuto adiposo). Oggi soffriamo in molti di obesità ma l’eliminazione del tessuto adiposo non è
compatibile con la vita, infatti abbiamo detto che la nostra alimentazione non è costante ma porta a degli
sbilanciamenti dei nutrienti quindi dopo un pasto l’eccesso di lipidi deve trovare una collocazione e la
collocazione naturale è proprio il tessuto adiposo. Ma se il tessuto adiposo non è presente o non funziona,
allora i lipidi dell’alimentazione non possono essere stoccati e quindi rimangono in circolo determinando
problemi rilevanti. Gli animali privi di tessuto adiposo muoiono dopo la nascita nel giro di 2-3 mesi, a
dimostrazione del fatto che noi non possiamo fare a meno del tessuto adiposo, e questo spiega anche
perché l’alterazione funzionale del tessuto adiposo ha un impatto enorme sul nostro metabolismo e sul
nostro stato di salute.

I soggetti anoressici hanno un lipodistrofia pronunciata e perdono quasi completamente il tessuto adiposo e
questo determina problematiche a gestire gli alimenti ingeriti; loro mangiano pochissimo quindi avranno
minime necessità di questo tipo, tuttavia il tessuto adiposo ha anche altre funzioni la cui distruzione ha
conseguenze gravi.
In figura è mostrato l’effetto della fosforilazione sulla via di segnalazione innescata normalmente
dall’insulina.
Come abbiamo già detto, una delle prime manifestazioni dell’obesità è l’iperglicemia poiché innescando
insulino-resistenza, gli zuccheri non sono assorbiti correttamente dopo i pasti: li muscolo e gli adipociti non
recepiscono più; il muscolo e il fegato accumulano poco glicogeno. L’iperglicemia può essere a vari livelli e
può comunque causare seri problemi a causa della tossicità del glucosio.

Ma l’insulino-resistenza può avere effetti negativi anche sul pancreas?


Quando parliamo di pancreas parliamo in particolare delle cellule β-pancreatiche che producono insulina.
Se l’insulino-resistenza potesse alterare la funzionalità di queste cellule sarebbe un bel problema poiché
queste cellule producono insulina quindi si creerebbe un circolo vizioso in cui il problema dell’insulino-
resistenza determina l’induzione di iperglicemia la quale fa aumentare la produzione di insulina, poiché se il
glucosio non viene assorbito la glicemia rimane più alta e quindi le cellule pancreatiche sono costrette a
produrre più insulina; questo spiega perché chi soffre di insulino-resistenza passa una prima fase (quella in
cui il processo si innesca) in cui in circolo si ha più insulina di un soggetto normale, proprio perché dopo i
pasti, anche se l’insulina è prodotta, il glucosio non viene assorbito dai tessuti che hanno insulino-resistenza
e quindi il pancreas è stimolato a rilasciare insulina che comunque non funziona.
Oltre a questo, dobbiamo considerare che l’insulino-resistenza può riguardare anche le cellule β-
pancreatiche perché tali cellule possiedono esse stesse il recettore dell’insulina e una piccola parte
dell’insulina liberata agisce in modo autocrino andandosi a legare sulle cellule pancreatiche e in questo
modo si attiva la via di segnalazione dell’insulina anche in queste cellule. Questo meccanismo autocrino a
cosa serve? Sappiamo che l’insulina sulla glicolisi è quello di attivare la glicolisi e questo porta a trasformare
una maggiore quantità di glucosio in piruvato, che poi viene metabolizzato. Dato che il rilascio di insulina è
legato al metabolismo del glucosio, l’azione autocrina dell’insulina sul pancreas ha lo scopo di stimolare la
liberazione di insulina stessa, la quale quando si lega stimola la glicolisi e quindi aumenta la produzione di
ATP che amplifica il segnale. Dunque, la presenza del recettore per l’insulina sulle cellule pancreatiche è un
aiuto poiché nel momento giusto stimola la cellula a liberare più insulina. Grazie anche a questo
meccanismo autocrino, finché la glicemia rimane alta la cellula pancreatica riesce a liberare grandi quantità
di insulina.
Se si ha il blocco del recettore dell’insulina nelle cellule pancreatiche, questo fenomeno di stimolo viene a
mancare: l’insulino-resistenza nelle cellule pancreatiche fa sì che questo fenomeno venga a mancare e
quindi la liberazione di insulina è più lenta e così anche la risposta sarà più lenta. La quantità di insulina che
deve essere liberata è tutta relativa all’iperglicemia quindi se la velocità con cui è rilasciata l’insulina è
minore, essa può non essere adeguata rispetto alle dosi di glucosio presenti in circolo, quindi si potrebbe
manifestare in circolo un’apparente carenza di insulina rispetto alle necessità metaboliche. Tuttavia,
abbiamo già detto che il recettore dell’insulina ha anche un effetto metabolico/trofico sulle cellule e genera
segnali antiapoptotici (come abbiamo detto sopra, il blocco dell’azione dell’insulina nelle cellule adipose, fa
sì che le cellule muoiano e non vengano più rigenerate), di conseguenza se si ha un’insulino-resistenza
duratura nelle cellule β-pancreatiche si ha lo stesso effetto per cui la cellula pancreatica muore e non viene
sostituita: a lungo termine l’insulino-resistenza nel pancreas porta ad una riduzione progressiva del numero
di cellule β-pancreatiche. Allora concludendo: l’insulino-resistenza determina una minore quantità di
insulina; con il tempo inoltre si ha la perdita delle cellule β-pancreatiche che muoiono e non sono
rinnovate; quindi nel tempo un soggetto che soffre di insulino-resistenza (ossia diabete di tipo II) vede
diminuire nel tempo il numero di cellule β-pancreatiche, la produzione di insulina e quindi anche il
fenomeno di iperproduzione di insulina iniziale raggiungerà un apice dopo il quale la quantità di insulina
prodotta inizierà inesorabilmente a ridursi.
Riassumiamo il fenomeno. L’innesco che può derivare dal fenomeno infiammatorio, quindi un obesità che
innesca insulino resistenza può determinare, in una prima fase, un’iperglicemia accompagnata da
un’iperinsulinemia. Paradossalmente questa situazione, seppur anomala, mi permette di compensare
perché ho una glicemia più alta ma produco più insulina quindi il deficit di funzionalità dell’insulina viene
compensato producendo più insulina. Per quanto tempo il pancreas regge un ritmo di questo tipo? Questo
eccesso di lavoro nel pancreas può causare problemi, inoltre l’insulino-resistenza nel pancreas mi porta
rapidamente alla perdita delle cellule β-pancreatiche e possiamo sicuramente aggiungere anche che
l’eccesso di glucosio e lipidi può agire direttamente sul pancreas innescando fenomeni degenerativi. Di
conseguenza questi fenomeni insieme possono portare, nel tempo, ad un danneggiamento delle cellule β-
pancreatiche e progressivamente alla loro scomparsa. Quando le cellule β-pancreatiche sono scomparse e
non si riesce più a produrre quantità di insulina sufficienti, si parla della condizione di diabete conclamato.
Quindi un eccesso di alimento può portare progressivamente ad un danno sempre più rilevante che colpisce
sempre più organi fino a colpire lo stesso pancreas.

Il tessuto adiposo è fondamentale anche perché produce leptina, ossia un ormone importante che ha
un’azione mirata a livello del sistema nervoso; la leptina riesce a penetrare a livello encefalico infatti essa
supera la barriera ematoencefalica, giunge nell’ipotalamo dove si lega ai recettori presenti su determinate
cellule nervose.

Questo ormone è importante poiché a livello del sistema nervoso centrale innesca la sensazione di sazietà
ovvero innesca una via di segnalazione e uno stimolo nervoso che porta alla sazietà, ecco perché la leptina
è detta anche ormone anoressizzante: essa porta a ridurre l’assunzione di cibo quando ci sentiamo saturi.
La leptina viene prodotta dal tessuto adiposo in quantità proporzionali alla massa del tessuto adiposo
dunque più tessuto adiposo abbiamo, più leptina produciamo, maggiore è la sensazione di sazietà. Ma
allora il problema dell’obesità non dovrebbe esistere cioè se la leptina funzionasse sempre in modo
adeguato non si diventerebbe mai obesi poiché ci dovremmo autoregolare. Dunque, deve succedere
qualcosa che fa sì che la leptina non regoli più il meccanismo di sazietà. In relazione a questo, è da
considerare che molti soggetti obesi o diabetici lamentano il fenomeno di iperfagia ossia un meccanismo
per cui si ha la necessità di mangiare continuamente (fuori dagli orari canonici) e ripetutamente durante la
giornata, e mangiare dosi di cibo superiori a quelle attese.

Tutto questo avviene perché il processo


pro-infiammatorio di cui abbiamo parlato
prima colpisce anche il sistema nervoso
innescando lo stesso fenomeno che
abbiamo descritto prima che però
stavolta colpisce il recettore della leptina:
nel sistema nervoso, l’obesità innesca un
processo di leptino-resistenza per cui la
leptina si lega al recettore ma non è in
grado di dare la risposta fisiologica
adeguata ossia la sensazione di sazietà;
questo contribuisce all’alterazione
dell’equilibrio tra processo di fame e
sazietà. Inoltre, questo meccanismo
viene indotto anche dalla stessa insulina
perché l’insulina prodotta dal pancreas,
una volta messa in circolo riesce a
penetrare nell’ipotalamo e si lega a
neuroni ben specifici: a livello dei neuroni
ipotalamici l’insulina ha lo stesso ruolo della leptina ossia induce sazietà.
Ecco perché l’alterazione del fenomeno alimentare e l’iperfagia è un fenomeno che a sua volta è prodotto
dai danni che il fenomeno
infiammatorio può
procurare al sistema
nervoso centrale. Quindi
possiamo dire che, una
volta che il sistema
infiammatorio si è
innescato, si rischia di
innescare un sistema
vizioso poiché mangiando
molto il tessuto adiposo
diventa disfunzionante,
libera citochine pro-
infiammatorie che
alterano la sensazione di
sazietà, spingendo a
mangiare di più e quindi
incrementando la quantità
di tessuto adiposo che
diventa sempre più
disfunzionante e va ad
alimentare questo circolo vizioso dal quale è molto difficile uscire poiché ridurre significativamente una
massa adiposa elevate è difficile, è un processo lungo e ci costa sacrificio questo è il motivo per cui non
tolleriamo diete lunghe ed anche perché i soggetti obesi che si mettono a dieto spesso ricadono nel vizio
del mangiare e tornano ad essere obesi.
Quindi stiamo parlando di un fenomeno che parte dall’alterazione del nostro comportamento alimentare e
che arriva ad un circolo vizioso difficile da interrompere.
Quindi tutto nasce dal fatto che noi per qualche motivo, ad un certo punto nella vita iniziamo a mangiare di
più. Perché nella vita moderna oggi cadiamo spesso in questa trappola? Il problema probabilmente nasce
dall’altro ruolo che hanno gli alimenti ossia la parte edonistica dell’alimentazione: gli alimenti non portano
solo calorie ma innescano anche sensazioni di benessere. Questo perché alcuni alimenti stimolano processi
che portano ad una sensazione positiva del nostro stato di benessere cioè gli alimenti ci fanno stare bene.
Ad esempio, se noi mangiamo cioccolato si assume più triptofano che ci porta a sintetizzare serotonina e
quindi la serotonina dà la sensazione di benessere. Se mangiamo molta cioccolata, che contiene molti
zuccheri, si produce molta insulina la quale raggiunge a livello del cervello dà sensazione di sazietà che però
è transitoria poiché di lì a poco avrò bisogno di molto cioccolato per raggiungere lo stato di benessere e di
sazietà. Tuttavia, dato che la cioccolata è un alimento ad alto indice glicemico questo porta alla liberazione
di grandi quantità di insulina la quale porta alla lipogenesi ossia alla liberazione di più lipidi con aumento di
peso ed ecco che si innescano i processi infiammatori che poi portano ad attivare questi processi in modo
autonomo. Questi fenomeni si innescano per molti motivi come lo stress, la ricerca del benessere, la
depressione, fatti spiacevoli che capitano nella vita. Tuttavia, potremmo anche considerare che noi umani,
in quanto esseri sensienti in grado di ragionare, potremmo anche resistere all’impulso di mangiare cibi che
ci portano queste sensazioni ossia i junk food (ricchi di grassi e zuccheri) che sono particolarmente attivi nel
generare questi meccanismi. Il tipo di ostacolo che si deve contrastare per bloccare questo ciclo non è
semplice e a tal proposito anni fa è stato fatto un esperimento con delle cavie, in cui sono stati presi dei
topolini, sono stati messi nelle gabbie e sono stati analizzati; lo scopo dell’esperimento era vedere se il junk
food poteva indurre dipendenza da cibo ossia iperfagia. Normalmente gli animali da laboratorio sono
alimentati con cibo particolare, costituito prevalentemente da fibre vegetali, che quindi non può essere
definito junk food (infatti ha un contenuto glicemico basso, ha un contenuto basso di lipidi); sono stati presi
un certo numero di animali di controllo e di animali trattati: agli animali di controllo è stato dato solo cibo
per cavie mentre al gruppo sperimentale è stato somministrato alimenti assimilabili a junk food.
Il risultato dell’esperimento è mostrato nel grafico in figura a pagina seguente. Nel grafico sull’asse delle
orinate è riportata la “reward thresholds” ossia la soglia di richiesta di nuovo cibo, ossia quante volte
l’animale richiede cibo dopo aver mangiato; inoltre, la linea nera tratteggiata rappresenta la reward
thresholds degli animali di controllo ossia quelle cavie alle quali viene somministrata la dieta a base di fibre,
tale linea indica che una volta dopo aver mangiato questi animali sono sazi e non richiedono cibo. La linea
rossa, che ha un andamento crescente, rappresenta il numero di volte in cui gli animali del gruppo
sperimentale richiedono cibo; da questa linea si evince che la richiesta di cibo da parte di questi animali
aumenta progressivamente. Quindi tale esperimento ci conferma che la dipendenza da cibo è innescata
proprio da junk food.
Probabilmente, il motivo per cui i
topi richiedono più cibo è sia la
ricerca del piacere (sensazione
positiva legata all’effetto che
possono dare i componenti di
junk food come il triptofano che è
precursore della serotonina) sia a
causa dell’alto indice glicemico.
In particolare, per quanto
riguarda l’indice glicemico
dobbiamo considerare che
normalmente nel nostro
organismo, dopo il pasto, la
glicemia sale (nella figura la linea
tratteggiata è la normoglicemia)
poi ad un certo punto raggiunge il
massimo – poiché entra in gioco l’insulina – dopodiché la
glicemia scende e torna ad una normalità oscillando intoro ai
valori di normoglicemia. Quando mangiamo un junk food la
glicemia sale di più e quando torna in basso torna a livelli
molto più bassi della normoglicemia e questo avviene perché i
junk food determina rilascio di grandi quantità di insulina la
quale, legandosi ai tessuti, stimola fortemente l’uptake di
glucosio e quindi tutta questa insulina rilasciata non porterà ai
livelli basali bensì a livelli di glicemia inferiori a quelli basali
che potremmo definire come una zona di ipoglicemia. In
questa zona la richiesta di cibo è più impellente e si è portati
ad assumere più cibo, e per l’appunto si è portati ad assumere
lo stesso cibo ad alto indice glicemico. Quindi in realtà, gli
alimenti ad alto indice glicemico stimolano molto
rapidamente l’acquisizione di nuovo cibo, proprio perché oltre
ad un’iperglicemia iniziale causano un’ipoglicemia dovuta alla
liberazione di molta insulina; quindi mangiare alimenti con
grande quantità di zuccheri porta ad avere una richiesta di
cibo molto più pressante.
Unendo questi concetti è ovvio che la cavia da laboratorio,
indotto dall’ipoglicemia e dalla ricerca del benessere tenderà
a mangiare con una frequenza molto più alta. Tutto questo eccesso calorico nell’uomo poi viene stipato
negli adipociti e quindi la massa grassa tenderà ad aumentare e da qui partono tutti i processi descritti
prima.
Questo tipo di atteggiamento non è facile da bloccare, infatti nel grafico in alto vediamo che lo stesso tipo
di atteggiamento nei confronti del cibo viene indotto dalla tossicodipendenza da cocaina o eroina. Quindi
quando parliamo di iperfagia e di dipendenza da cibo, si tratta di una vera e propria dipendenza simile alla
dipendenza da droghe; questo ci fa vedere come un’alimentazione alterata può innescare un fenomeno di
dipendenza e quando essa si innesca poi è molto difficile bloccarla e controllarla: bloccare i circoli viziosi
che si sono innescati con l’obesità è molto difficile, ecco perché un soggetto che è stato obeso spesso tende
a ricaderci, poiché sa qual è la sensazione che può offrire il cibo quando esso è presente in grandi quantità.
Inoltre, dobbiamo tenere conto del fatto che, una volta innescato il processo pro-infiammatorio, esso poi si
autoalimenta e va avanti per conto proprio.

Potrebbero piacerti anche