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Il libro

«D a grande vorrei essere come lei, eleganzissima.»

Una piccola ammiratrice mi lusingò con queste


parole inventando, a sua insaputa, il titolo del mio primo recital
teatrale. E dandomi il motivo per scrivere questo libro: onorare ciò
che è indelebile nella mia vita con tutta la tenerezza che ho per me
stessa, sperando di intrattenere e, perché no, di ispirare la mia
giovanissima fan.

Tu non conosci la vergogna racconta i luoghi, gli incontri, i


sentimenti. Appunti di memoria sparpagliati e disordinati.

Ci troverete un’insospettabile nonna spregiudicata, le notti di fuoco


a New York, un amante affettatore di prosciutti, una prozia
sonnambula e libertina, una tigre per amica, il teatro, la musica e
l’amore.

Una vita randagia, emozionata e combattuta. Una vita non male.


Una caccia al tesoro a cui ho giocato con tutto il coraggio che mi è
stato possibile.

Ve la restituisco senza vergogna, con l’intenzione di divertire o di


ispirare, contando su un tenero perdono per la tonalità presuntuosa di
questa speranza, tipica di un’anziana signora forse un po’ vanesia.
L’autrice

Di origine toscana, cantante, attrice e autrice, Drusilla Foer è da tempo


un’icona di stile. Frequenta con successo teatro, televisione, radio e
cinema, ed è una star di culto sul web e sui social network, dove
pubblica video esilaranti. Personaggio irriverente e antiborghese, si
presta spesso al sostegno di cause sociali importanti. È autrice e
interprete di due spettacoli teatrali: Eleganzissima, recital fra musica e
racconto, e Venere Nemica, spettacolo ispirato alla favola di Amore e
Psiche. Nel 2021 è la voce narrante in scena dell’Histoire du Soldat di
Stravinskij al Teatro Olimpico di Vicenza. Al cinema ha recitato tra
l’altro in Magnifica presenza di Ferzan Özpetek e nel recente Sempre
più bello diretto da Claudio Norza. Fra le varie esperienze televisive è
stata giudice di “Strafactor”, talent nel talent di “X Factor”, poi
editorialista a “Matrix Chiambretti” su Canale 5, ospite fissa a “CR4 -
La Repubblica delle Donne” su Rete 4 e in “Ciao Maschio” su Rai 1.
In radio ha preso parte come ospite fissa al programma “Facciamo
finta che…” di Maurizio Costanzo e Carlotta Quadri su R101.

Tu non conosci la vergogna è il suo primo libro.


Drusilla Foer

TU NON CONOSCI LA
VERGOGNA
La mia vita eleganzissima
Tu non conosci la vergogna

Ad Anna Broglia dal Persico


Introduzione

«Io sono una danzatrice.»


Queste sono le prime parole di Memoria di sangue,
l’autobiografia di Martha Graham.
Fui turbata dalla violenza assertiva di quell’affermazione,
con cui la grande artista statunitense esprime con lucidità
incontestabile la visione artistica di sé.
Io, Drusilla Foer, cosa sono?
Non lo so del tutto. Attrice, cantante, autrice, icona di stile.
Mah…
Io tendo a qualificarmi come “anziana soubrette”.
Questa definizione occhieggiante, anche se incompleta, ha
in sé una croccantezza un po’ d’antan e una nuance
malinconica in cui mi riconosco con profonda convinzione.
Vivace ma tormentata. Questi sono i tratti principali della mia
natura, tuttavia in questo scritto voi ne scoprirete anche altri,
che io stessa ignoravo.
Ho accettato la proposta di scrivere un libro di memorie con
l’incoscienza con cui ho spesso affrontato gli atti eroici della
mia vita.
Si scrive con volontà e determinazione, pensando di poter
restituire il valore delle emozioni vissute, certi di essere
padroni dei propri ricordi.
Tuttavia, ho scoperto che la memoria agisce indisturbata
dentro di te, lasciandoti l’illusione di averne il controllo. La
memoria mai si riposa, è sempre pronta a restituirti antiche
emozioni in modo rinnovato e spesso violento.
Essa non è mai sazia di rivelarti il significato delle
esperienze senza chiedere il permesso. E senza pietà.
Accade spesso dopo aver riletto a distanza di qualche ora
ciò che hai scritto, e ogni volta provi uno stupore inaspettato,
come quando vedi la tua immagine riflessa in uno specchio
che non sapevi che fosse lì.
Pur non essendo una scrittrice, pensavo di scollinare questa
esperienza più agilmente.
Posso certamente affermare di essermi sopravvalutata e,
molto spesso, di aver valutato con incompletezza il senso dei
ricordi.
Ciononostante mi sono stupita nello scoprire di avere verso
me stessa più perdono che durezza, più stima che disprezzo,
più pietà che rabbia, più sorrisi che lacrime, tutte espressioni
del sentire che sono figlie della stessa madre.
Ma non sempre dello stesso padre.
Devo a questo libro di memorie l’avermi soprattutto
convinta di aver affrontato la mia vita tutto sommato in modo
simpatico.
Vi narrerò delle mie esperienze, degli incontri, dei luoghi,
cercando di condividere con voi le convinzioni che mi abitano,
che sarò sempre pronta a sfrattare per sostituirle con inquilini
più convincenti.
Ho cercato di guardarmi lealmente, dando ascolto a ogni
parte che mi compone, a ogni essere che mi abita.
Teneramente, ma senza pietà.
Ho passeggiato tra alcuni episodi della mia vita in ordine
sparso, senza sostare su collocazioni temporali troppo precise.
L’unica vanità che mi sono permessa in questo lavoro, che
poco spazio concede al compiacimento di sé.
Con l’intenzione di raccontarvi una fiaba, vi narrerò di me.
«Io sono Drusilla Foer e sono…»
Dietro le quinte.
1
Il mio nome

Livia ha sempre sostenuto che il mio nome fosse un nome da


donnaccia.
In effetti il nome Drusilla, dietro il suo suono acceso e
allegro come un campanellino, cela un passato poco
rispettabile.
Devo dire che da bambina non mi sono mai interrogata sul
mio nome.
Lo trovavo speciale, nessuno si chiamava come me e, tutto
sommato, da adolescente lo consideravo segno di “unicità”.
Mia madre lo trovava un nome “distinto”. La prima volta
che lo sentii definire in questo modo ero così piccola che
fraintesi pensando che distinto significasse “scialbo”, “privo di
tinte”. Non capii che si riferiva alla signorilità del suo suono.
Più tardi mi sono tuttavia convinta che la signorilità è un
valore, nella sua visione borghese, poco convincente.
Livia era la fida domestica della mamma.
Era molto severa con i miei fratelli, ma io percepivo una
simpatia speciale per me.
Era donna di grande personalità e, a suo modo, molto
elegante.
Pratica ed efficiente, non l’ho mai sentita contestare in
nessun modo le disposizioni di mia madre, che spesso erano
grumi di complicanze incomprensibili.
Ogni volere della Signora, cioè mia madre, era per Livia
comprensibile, realizzabile e accettabile.
Tutto, tranne il mio nome.
La passione di Livia per la letteratura e per la storia romana
mai le fece accettare che una bambina di buona famiglia si
potesse chiamare come la sorella di Caligola, il dissoluto e
folle imperatore romano con cui, sembra, ebbe persino un
rapporto incestuoso.
Non sapevo che il mio nome fosse infangato da una storia
così morbosa e, tutto sommato, deliziosa. Poi, durante una
delle mie operazioni di spionaggio domestico, udii la vera
storia di Drusilla dalla domestica Livia, che in cucina erudiva
l’annoiatissimo staff delle cuoche, raccontando la storia di
“Drusilla la mignotta”.
Chissà che cosa avrebbe pensato se avesse saputo, come io
sapevo, che in realtà mi chiamavo come un battello.
Sì, un battello (vedi foto), varato nel cantiere di un ricco
americano, proprietario, tra altre cose, anche di alberghi. Per
essi aveva ordinato dell’olio della nostra fattoria toscana.
Un quantitativo “americano”, come diceva mia nonna Tolo,
per esprimere la volgarità numerica. L’affare venne firmato a
Istanbul, dove il battello si trovava in quel momento. Il tutto si
poteva tranquillamente risolvere con una lettera d’intenti e un
contratto. Ma mia nonna adorava viaggiare e insistette per
accompagnare il nonno, con la scusa che la moglie del ricco
americano, una certa Marie Adelaide, fosse intenzionata a
cambiare il nome dell’olio in qualcosa di dichiaratamente più
lussuoso.
Mio nonno accettò l’imposizione della presenza di mia
nonna, sapendo che nessuna donna sarebbe uscita vincente da
un confronto con lei. A questo giro, però, perse la nonna.
L’olio, che portava il nome della fattoria di mio padre, venne
ribattezzato Excellent. Nome spocchioso quanto idiota, adatto
a un Porto, ma non a un olio (ammesso che gli americani di
allora ne conoscessero la differenza sostanziale).
Il battello Drusilla galleggiava sul Bosforo illuminato a
candele e affollato di invadenti camerieri in guanti bianchi. La
luce calda del tramonto, i minareti, il suono scivoloso delle
preghiere stemperavano la volgarità di quell’invito.
«In fondo era solo funzionale a una firma e a un offensivo
cambio di nome» tuonò mia nonna Tolo.
Il menu era presuntuoso quanto l’altissima qualità del vino
servito.
La nonna, demolita dalla sconfitta sulla questione del nome,
trovò conforto in un ottimo pommard, Borgogna mon amour,
ingannevole e birichino.
«Non ero ubriaca, ero allegra» amava sostenere…
La sua allegria le fece notare un bellissimo cameriere turco
che, particolarmente attento al loro tavolo, subì e alimentò gli
atteggiamenti visibilmente civettuoli di mia nonna, ancora
molto attraente e certamente di grande temperamento. Come è
stata fino alla morte.
Mio nonno, ingelosito, ma anch’egli allegro di pommard,
decise che era il momento di segnare il territorio, raggiungere
l’albergo e divertirsi con la moglie ben predisposta.
«Una notte per la quale valse la pena vivere un lungo e a
tratti noioso matrimonio» mi confessò nonna Tolo quando fui
più adulta.
Da quella notte, imbevuta di passione, gelosia, sesso e
pommard, nacquero i gemelli: mio padre e sua sorella, alla
quale venne dato il nome del battello dove vennero concepiti.
Mia zia Drusilla morì a ventidue anni, al ritorno da un
viaggio in Africa, punta da una zanzara particolarmente
assassina. Fu un lutto feroce per tutta la famiglia, specie per
mio padre. I legami gemellari, si sa, hanno logiche affettive
che sfuggono a chi non ha un gemello. In tarda età i miei
nonni ebbero Dora, la cui nascita, in qualche modo, stemperò
il dolore della perdita di zia Drusilla.
Zia Dora era una donna unica, libera, colta, emancipata,
bellissima. Quando ci trasferimmo all’Avana, venne con noi
nelle Americhe e si stabilì a Los Angeles. Fu amante di un
celebre attore, che non nominerò perché credo sia ancora
vivo… Inizialmente lavorò come mannequin, poi fu
controfigura di Deborah Kerr grazie al suo fisico prorompente
e alla fitta chioma fulva. Quando la diva venne scelta come
modella per la donnina che tiene in mano la fiaccola nella sigla
della Columbia Pictures, mia zia la sostituì in molte delle
faticose pose necessarie per realizzare quell’immagine.
Completamente priva del fuoco della passione attoriale,
venne notata e assunta proprio dalla Columbia Pictures.
Divenne così supervisor per i doppiaggi dei film, che allora
venivano spesso doppiati in loco, e i doppiatori erano quasi
tutti emigranti. A lei il compito di correggere qualche femme
fatale platinata e coperta di satin color ghiaccio affinché non
parlasse con l’accento sardo o calabrese, o evitare che qualche
divo da cappa e spada se ne uscisse con un’“h” aspirata
toscana. Solo un’italiana poteva accorgersi degli accenti
sbagliati. Avendo studiato dalle suore inglesi vicino a Siena, il
suo inglese era perfetto ma ancor di più lo era il suo
americano, e questo fu motivo frequente di lite con mio padre,
che non approvava in nessun modo i suoni sgraziati e
schiacciati dell’inglese oltreoceano.
Nessuno dei due studiò, come era più frequente allora, il
francese.
Mio nonno detestò sempre tutto ciò che in qualche modo
evocava la Francia: la letteratura, la poesia, la pittura, la
musica, la cultura francese in generale. A lungo non seppi il
perché, ma poi mi venne confessato dalla mamma che, da
giovane, nonno Rizieri si era invaghito di una francesina in
vacanza a Siena, dal cognome importante. Troppo importante.
Gli fu negato il fidanzamento con sua altezza reale. Anche
se da secoli la Rivoluzione aveva privato del valore “reale”
qualunque titolo.
Da allora il nonno chiuse con la Francia.
Ciononostante si permise un moderato perdono per vini
ottimi, come il pommard, appunto.
Pochi anni fa seppi della morte di Livia e, sinceramente
dispiaciuta, mi recai nel piccolo cimitero fuori Roma, dove è
sepolta.
Trovai la lapide:
Livia Drusilla Quartullo
Nata il… morta il…
Ecco il perché.
Come spesso accade, le nostre asprezze hanno a che fare
con le ostilità che ci abitano.
Diedi un bacino alla foto ovale che la ritraeva fiera e
sprezzante e appoggiai dei fiorellini sulla lapide.
Cara Livia, riposa in pace, tu e il mio nome.
N.B.: La povera Livia non era abbastanza informata sul nome
Drusilla. Livia Drusilla Claudia, moglie dell’imperatore
Augusto. Donna colta ed emancipata, partecipò in modo attivo
alla vita politica del suo tempo, e fu la prima matrona romana
a cui fu permesso di gestire il proprio patrimonio personale.
Livia Quartullo portava il nome della Livia “giusta”, se
avesse saputo quanto glorioso fosse il suo nome forse avrebbe
detestato meno il mio.
Il menu della cena a bordo del battello “Drusilla”.
2
Il guardaroba

Non ho mai avuto difficoltà a parlare di sesso.


Anche se negli anni la modalità con cui entrare in contatto
con questo tema è mutata. Si potrebbe pensare che, essendo
cresciuta all’Avana, io abbia avuto più facilità a relazionarmi
con questa sfera dell’essere e dell’agire. E, quando va bene,
del sentire.
In realtà devo la mia serena apertura all’argomento
all’educazione non del tutto convenzionale che ho ricevuto dai
miei genitori. Non è così ovvio che a una bambina della mia
generazione fosse, per esempio, permessa la visione della
nudità. A noi sorelle non era censurata la nudità curiosa di mio
fratello maggiore.
Ricordo che trovai in qualche modo emozionante quella
sporgenza che lo differenziava da noi femmine, e quando si è
bambini, in assenza di seni, la si nota ancora di più…
Sono anche grata ai miei genitori perché, sorpresi talvolta
in nudità in modo accidentale, non si sono mai coperti
vergognosamente.
Anzi ricordo di essere stata molto sgridata da mio padre,
completamente nudo davanti a me, perché si bussa nelle
camere dei grandi prima di entrare, mentre la mamma,
uscendo anch’ella nuda dal bagno, lo pregò di non esagerare
con i rimproveri.
Il problema era il rispetto dei luoghi, non certo una
ramanzina adamitica…
Indimenticabili gli interminabili bagni caldi e profumati
con mamma nuda nella vasca a cantare insieme.
Quando chiesi alla nonna Tolo che nome avessero quelle
zone del corpo così speciali, mi rispose in modo salomonico.
«Il nome cambia col tempo… per ora si chiamano Pisello e
Pisella.»
Ricordo discussioni appassionate in campagna a Siena fra
me e Jolanda, la figlia del fattore, una bambina prepotente, la
quale chiamava la sua vagina “la rosellina”.
Rosellina? Bah… io non vedevo niente lì sotto che
assomigliasse alle rose inglesi in giardino che curava la
mamma, ma soprattutto di questa analogia mi disturbava l’idea
delle spine…
Quanto litigammo quel giorno con Jolanda, e se oggi penso
che il nome di quella bambinona bruna e aggressiva è uno dei
modi in cui, in certe regioni d’Italia, si chiama la vagina… be’,
mi fa molta allegria.
Comunque Pisello e Pisella mi piacevano sicuramente di
più. E il fatto che fossero nomi simili escludeva qualsiasi tipo
di competizione fra loro, e soprattutto ha generato in me la
convinzione, tuttora immutata, che non vi sia una prevalenza
di potere, fra questi simpatici organi. Sono strumenti, fisici e
affettivi, equiparabili.
Se dovessimo motivarne estrosamente la differenza,
diciamo che la conformazione del Pisello è più in linea con la
frequente pigrizia introspettiva dell’uomo, che per indole ha
più facilità a relazionarsi con le sporgenze piuttosto che con le
interiorità.
Si sprecano le metafore…
Quando vivevo all’Avana, giocavo sempre nel cortile del
palazzo con i figli dei domestici che abitavano a piano terra,
ma non ricordo di aver mai affrontato con loro l’argomento
“sesso” con la stessa libertà con cui ne parlavo con Jolanda.
Forse non ne parlavano con me che ero la figlia del señor
de la embajada…
In ogni caso, anche se ne avessero parlato segretamente fra
loro, a un certo punto realizzai con chiarezza che per i cubani
il sesso era una necessità, come dormire e mangiare. Niente di
più naturale. E confesso di aver fruito, da adulta, in modo
indimenticabile, di questa loro visione così espansiva e
tranquillizzante.
Il sesso è bello e lo consiglio moltissimo.
Fa bene, è rigenerante e ha una sua intelligenza, trovo.
Ogni sua forma, ogni suo luogo fantasioso, ogni sua
declinazione ha una sua dignità. E una sua purezza. Non riesco
nemmeno a pronunciare la parola “perversione”.
Basta vi sia consensualità, e non vi sia violenza di nessun
tipo. Nessuno.
Ogni violenza che non si desidera è brutta, ma nel sesso è
una violazione particolarmente inaccettabile.
Io, come tutte le donne di casa mia, sono sempre stata una
di temperamento e ho gioito del sesso con grande libertà, che
fosse imbevuto d’amore oppure no.
Del resto, sono convinta fermamente che il sesso abbia una
sua dignità anche quando è occasionale, perché, in fondo, è
un’occasione.
Del sesso ho un buon ricordo, specie di quella acerba e
sincera sensazione di dipendenza che provoca in gioventù.
Quando Pisello e Pisella non sono più una semplice differenza
anatomica.
Il luogo dove ho avuto il primo approccio con Pisello e
Pisella è stato senza dubbio la grande cabina guardaroba della
mamma nella nostra fattoria appena fuori Siena.
Non me ne sono mai potuta permettere una così, ed è la mia
unica idea di lusso, su cui sono irremovibile.
Era una stanza magica, a cui si accedeva da una porticina
senza infissi mimetizzata nella carta da parati en chinoiserie in
camera dei miei.
Lì dentro il paradiso della mamma che tendeva decisamente
all’accumulo, per quanto con un ordine maniacale. Quel luogo
era quasi un archivio storico. Vi erano abiti da ballo suoi, delle
nonne, delle zie, cappelli, cappellini, guanti corti, guanti
lunghi, manteaux, e quanto di più sofisticato si può
immaginare. Conoscevo la storia di ogni centimetro di stoffa
custodito in quella stanza. È lì che ho avuto il primo impatto
con lo chiffon, che mi ha segnata più della scoperta di Pisello e
Pisella.
Lo chiffon vince su tutto. Sempre.
Noi bambini avevamo il permesso di accedere al
guardaroba della mamma per travestirci e giocare al teatro. In
tarda età mi confessò che era l’unico modo per tenerci
tranquilli in casa quando fuori c’era cattivo tempo. Inoltre,
dovendo poi noi bambini riordinare tutto come prima, riteneva
fosse anche un modo per educarci a memorizzare la
collocazione delle cose e riporle al loro posto, sempre.
Dare un posto alle cose… un tema su cui rifletto spesso.
Il gioco cominciava con l’organizzare la platea invitando
tutti i bambini della fattoria, che erano obbligati ad assistere ai
nostri spettacoli. Più raramente a partecipare. Erano sempre un
po’ imbarazzati da tanto onore, meno Jolanda, che, devo
ammettere, aveva un certo talento soprattutto nelle danze che,
anche se sguaiate e disordinate, erano tutto sommato
incantevoli.
Le mie sorelle erano quelle con meno resa. La simmetria
gemellare limitava il loro repertorio e in nessun modo
tendevano a differenziarsi. Quindi insopportabili “due
contadinelle”, “due duchesse”, “due streghine”. Due palle…
Mio fratello non era male come attore e spesso indossava
una cappa di scimmia di Elsa Schiaparelli della nonna per fare
King Kong, un numero che presupponeva anche la
partecipazione dei figli dei contadini, che si offrivano
interpretando seminudi e senza imbarazzi i selvatici abitanti
dell’isola, coperti da sciarpe di velluto imprimé di Fortuny.
Lusso puro.
Già cominciavo a osservare i maschi, e fra loro ve ne erano
un paio che promettevano bene e che poi, divenuti ragazzotti,
mantennero le aspettative.
Io avevo un successo diciamo moderato, ma meritavo
l’ultima uscita dovendo vegliare sulla gestione degli abiti di
ogni attore.
Al principio interpretavo personaggi per lo più
incomprensibili alla platea, che non era certamente composta
da soggetti informati. Quindi ero spesso costretta a
interrompere le mie performance per spiegare che cosa fosse
una “sacerdotessa celtica”, figura certamente meno fruibile
delle marchesine e delle contadinelle. Cedetti quindi
democraticamente a ruoli più comprensibili.
Quanti Piselli e Piselle ho visto in quella cabina durante i
cambi di abito…
Ero più grandicella quando smisi di partecipare alle
esibizioni, cedendo il posto alle cugine piccole. Avevo
comunque il compito del riordino, e una volta cacciati tutti
fuori dal guardaroba cercavo di ricordare dove stava ogni cosa
usata, di ripiegarla e di riporla al suo posto.
In fondo alla stanza vidi appeso in un angolo qualcosa che
non avevo mai notato, quasi celato volontariamente nella
penombra.
Una specie di portabiti azzurro in tessuto grezzo, finemente
decorato con ricami orientali.
Lo aprii sciogliendo i lacci che tenevano chiusa l’apertura
verticale e vidi un abito dorato meraviglioso, come una cappa
da sera, stretto alle spalle e ampio in fondo, con un’apertura
frontale percorsa da bottoncini a forma di sfera in metallo
dorato.
Io quel vestito lo conoscevo. Ma non lo riconoscevo.
Dove l’avevo visto? Quando? Mentre rovistavo fra le
pieghe di ogni ricordo possibile, ne sentii il profumo e
qualcosa mi tornò in mente.
Mio padre ha sempre detestato i viaggi scomodi e, essendo
spesso fuori casa per lavoro, non era nemmeno un viaggiatore
curioso. La mamma, invece, era una vera globetrotter e,
poiché subiva la permanenza forzata all’Avana, ogni tanto si
sentiva in diritto di pretendere un viaggio, col babbo o senza.
Quel viaggio era scomodo per lui, che decise di restare a
casa con le gemelle, troppo bizzose per affrontare un luogo
così esotico.
La mamma si fece convincere da una cugina romana a fare
un’esperienza nel deserto del Ciad, ospiti di una tribù kinnin, il
cui “principe” era un incallito viaggiatore e, ricchissimo,
poteva permettersi di visitare spesso le capitali europee, di
indossare abiti europei e cappelli europei, per poi tornare a
coprirsi di tessuti e turbanti nel deserto.
A Roma conobbe un’eccentrica cugina della mamma,
Maria Letizia, e la invitò ad andare a trovarlo nel suo
elegantissimo accampamento nel deserto. La cugina lo
propose alla mamma, che decise di coinvolgere me e mio
fratello, felicissimi di fare un viaggio con lei senza le orride
sorelline petulanti.
Fu un’esperienza indimenticabile. Forse il viaggio più
emozionante che abbia mai fatto.
So che è un luogo comune, ma credetemi, il deserto è un
luogo che di comune non ha niente.
L’accampamento era selvaggio ma elegante, alcune tende di
misure diverse a strisce orizzontali nelle tonalità dei marroni,
un grande falò centrale e i pochi abitanti che indossavano
tessuti leggeri, spesso azzurri, che ci viziavano con bevande
fresche, cibi deliziosi e musica. Profumo ovunque, essenze
dense e calde.
È difficile immaginarlo, ma anche il deserto ha un suo
profumo, gonfiato durante il giorno dal sole e restituito alla
notte colma di stelle.
Fummo ospiti dei kinnin per quattro giorni, poi arrivò la
grande jeep che ci avrebbe riportati all’aeroporto.
Eravamo tutti malinconici nel preparare i bagagli, e ricordo
mia madre premere con vigore un abito d’oro nella piccola
valigia, che certo non aveva previsto di dover contenere un
dono così ingombrante.
Era il regalo d’addio del bellissimo principe kinnin a tutti
noi, pensai.
Ecco, ora tutto era chiaro, ricordavo dove avevo visto
quell’abito imbevuto di essenza orientale. Ciononostante,
persisteva in me una sensazione di disagio che aveva a che
fare con quel vestito meraviglioso.
Avrei potuto chiedere a Gherardo, mio fratello più grande di
me di quasi dieci anni, che certamente non sarebbe stato
interessato a parlare con una sorellina romantica di un abito
d’oro. E comunque non era importante.
Passò una vita, erano gli anni Ottanta, il mio babbo morì
improvvisamente d’infarto.
Raggiunsi la mamma a Siena, prendendo il primo volo da
New York.
Vorrei andare al punto senza soffermarmi su quanto dolore
sentissi in quel momento. Il babbo mi piaceva tanto.
Dovevo occuparmi di mamma, che era distrutta.
Funerale, un ricevimento privato, e poi casa vuota.
Particolarmente vuota.
La mamma mi chiese di dormire con lei. Accettai con
dolcezza e commozione.
Dopo cena bevemmo un generoso bicchiere di cognac
ciascuna, poi ci avviammo barcollanti in camera, ci infilammo
nel letto e ci prendemmo la mano.
L’ultima volta era accaduto secoli prima, e quel letto mi
sembrava enorme, più alto, diverso. Ma la vista del soffitto
decorato e l’odore di rosa della mamma erano gli stessi.
Quanti ricordi quella stanza en chinoiserie. Quella
porticina, quelle recite…
Parlammo a lungo e ricordammo quel viaggio nel deserto.
Io approfittai di quell’atmosfera confidenziale e paritaria
raccontandole di quando da bambina ritrovai l’abito d’oro del
principe, desiderosa di comprendere quella sensazione opaca
che era per me ancora un mistero.
Mentre stavo cercando il modo per formulare una qualche
domanda, mi balenò in mente un’ipotesi inconfessabile.
La mamma, invece, confessò.
«Ti ricordi com’era bello quel principe? Ero incantata dal
suo aspetto, dal suo odore. Mi fece delle avance quella sera,
ma era sbronzo e fu troppo insistente. Io impaurita reagii
bruscamente e lo rifiutai. Tuo fratello Gherardo assistette a
tutto, mentre tu già sonnecchiavi vicino al grande fuoco. Ti
ricordi com’era bello Gherardo in quegli anni? Mi incantava la
sua struggente bellezza.
«Ecco, il principe del deserto mise gli occhi su tuo fratello e
cominciò a circuirlo. Lo accarezzava, cantava per lui, gli
faceva dei doni. Tuo fratello era visibilmente in difficoltà,
dovetti interrompere quella situazione a tutti i costi. E
richiamai le attenzioni del principe su di me. È l’unico segreto
che ho avuto con tuo padre. Non me ne pento, ma spero che mi
perdoni.»
«E come fu?» le chiesi da donna a donna.
«Bellissimo.»
La nostra fattoria nella campagna senese.
3
Siena

La città dove si nasce è certamente un luogo fondamentale, la


cui appartenenza è inopinabile. È una certezza, e come tale ci
costituisce in modo persistente.
Qualcosa di simile ai genitori, ai fratelli, ai nonni, alle
maestre elementari.
Non si scelgono, sono tuoi, che ti piacciano o no.
Penso ai rapporti genitoriali, che sono un punto di partenza
per sviluppare una propria individualità, che raggiunge il suo
massimo quando si diventa orfani. E allora non si è più figli.
Si è in prima linea con la vita, senza quel senso di protezione,
fisso e costante come il rumore dei vecchi frigoriferi.
Sei certamente adulto da tempo, hai delle convinzioni salde
e delle fragilità certe, ma fino a che l’ultimo dei tuoi genitori
esala il suo ultimo respiro, sei ancora figlio.
Non cambia niente dopo, eppure tutto è diverso. Manca il
rumore del frigo.
Io sono senese, ma in realtà nacqui a Ferrara un certo numero
di anni fa che tendo a non specificare.
Non è esattamente vanità, piuttosto un progetto: confesserò
la mia età solo quando la mia idea di quell’età coinciderà con
la visione di me in quel momento. Non manca molto.
I miei genitori erano in visita a Ferrara da dei lontani cugini il
giorno dello Shavuot, la Pentecoste ebraica, poiché parte della
mia famiglia è di origine ebraica e a Ferrara c’è una grande
comunità. Ho avuto l’occasione un paio di volte di partecipare
con piacere a quel giorno importante. Tuttavia, siccome la mia
famiglia era cattolica, ci innestavamo in quella situazione
densa di significato con un certo senso di intrusione.
Mia madre non prese nemmeno in considerazione il fatto di
essere in prossimità del parto, ma mio padre sì. Portò in valigia
un sacchetto di terra senese della sua contrada.
Arrivammo alla grande casa dei cugini Temin, dove la
cugina Ester, che aveva visto la macchina del babbo in fondo
al grande viale della casa, li attendeva in piedi davanti al
portone.
Pare che mio padre dal finestrino della macchina in corsa le
abbia urlato: «Facciamo un salto in ospedale, partoriamo e
torno».
Così fu. Nacqui senza difficoltà, senza troppo disturbare.
Mi fu raccontato che la mamma si addormentò all’istante.
Mio padre in modo furtivo raggiunse il bagagliaio della
macchina, aprì la valigia e afferrò il sacchetto di terra di Siena,
raggiunse la camera della mamma e gettò la terra sotto il letto
davanti gli occhi dell’ostetrica raccapricciata, che si lamentò
per questioni igieniche, questioni che fu semplice placare con
una busta danarosa già preparata prima di partire.
«L’unica corruzione che abbia mai agito» ammetteva
fieramente il babbo.
Quindi sono nata a Ferrara ma “su terra senese”,
esattamente della contrada a cui mio padre apparteneva, la
Torre, acerrima nemica dell’Oca, contrada aristocraticissima
cui mia nonna materna Tolomei apparteneva.
Solo adesso realizzo che mia nonna aveva il cognome
dinastico di Cleopatra, la regina egizia, ma un titolo
certamente meno antico.
Quando nacquero mio padre e sua sorella, i miei nonni
battezzarono i gemelli lo stesso giorno, ma uno nella chiesa
della contrada di mio nonno e l’altra nella cappella di famiglia
nella contrada di mia nonna.
Siena è un luogo dove torno raramente, ma la considero il mio
luogo iniziale. Invito tutti a vivere l’appartenenza alla città in
cui si nasce come un punto di partenza, per poi raggiungere il
maggior numero di punti d’arrivo.
Sì, il mio luogo iniziale, ma anche lievemente iniziatico.
Perché, in qualche modo, ha ispirato alcune delle mie
convinzioni più solide.
Prima fra tutte, quasi mai ciò che sembra poi lo è per
davvero.
La mia antica città, in apparenza serena e pacata, è irrorata
nella sua anima da fiumi sotterranei di passione violenta.
Questo aspetto ambivalente ha alimentato in me la vorace
curiosità verso ciò che scorre “sotto”, soprattutto nelle
persone. E ovviamente in me.
Siena è bellissima, elegante, curatissima, arrogante e
autoreferenziale.
Apprezzerei che nessuno si azzardasse a trarre conclusioni
da psicologo dell’ultim’ora e a pensare a qualche malcelata
analogia con una visione di me.
Siena si mostra calma, quasi noiosa, celando però una
devozione occulta e potente, pronta a esplodere nei giorni del
Palio, l’antichissima gara equestre durante la quale tutto si
infiamma di una passione incontenibile. Per pochi giorni, il
demone della competizione stravolge ogni singolo volto,
pietra, vicolo, portone. In modo assordante. Un’energia
rumorosa e sprezzante, con la quale ho sempre avuto un
rapporto conflittuale.
Siena mi ha rivelato la mia ostilità alla competizione.
Ho sempre pensato che le classifiche servano a capire a che
punto siamo, ma non chi siamo. E sapere chi si è è l’unica
vittoria per cui valga la pena premiarsi.
La competizione è uno dei sentimenti che meno ho provato
in vita mia.
Specialmente in amore, quella fra donne è in assoluto il
sentimento più insensato che esista.
Trovo che sia sciocco competere quando i parametri della
vittoria sono dettati dal soggetto del desiderio, che alla fine
non premia, ma sceglie semplicemente quello che desidera per
sé. Premia se stesso, non le partecipanti alla gara.
E, se c’è una cosa in cui credo fermamente, è la
meritocrazia.
Con questo pensiero, che ho l’arroganza di riconoscere
come lineare, ho lenito ogni fallimento e al tempo stesso ho
potuto relazionarmi con i miei limiti in modo costruttivo.
In fondo, credo molto al luogo comune: “Non mi vuoi?
Non mi meriti”.
Quanto non credo assolutamente al gettonatissimo: “In
amore vince chi fugge”.
Fuggi pure: io certo non inseguo nessuno. Non c’è niente di
più patetico di assistere a un soggetto in fuga senza nessuno
che lo insegua.
Farsi desiderare è stare, non andare.
Che cosa c’entra tutto ciò con Siena? Temo niente. O forse
c’entra qualcosa.
Vivere la maggior parte della vita lontano dalla mia città
natale mi ha sempre mutata, ispirata e rigenerata. Sostando nei
luoghi, imparando a capirne il linguaggio sotterraneo. Credo
che questo sia stato possibile perché da Siena non sono
fuggita.
Abbiamo vinto entrambe.
Lei con la sua autorevolezza secolare, io con la mia
randagità decennale.
Ci siamo salutate cordialmente come due vecchie signore,
amiche solo per circostanze geografiche. In fondo, anche il
luogo dove nasciamo ha un suo rumorino di vecchio frigo.
Tuttavia desidero ringraziare questa vecchia amica, molto
più vecchia di me. Moltissimo.
A Siena devo la mia tensione al pensiero chiaro e delineato,
come il suo stemma, per metà bianco e per metà nero.
Semplice, inequivocabile, chic. Senza inutili e chiassose
distrazioni cromatiche. Pur contenendo, nei suoi opposti, ogni
nuance di colore.
Senza escluderne nessuno.
Quanto vorrei sentire ancora quel rumorino di frigo, l’altro.
4
Bon ton

Detesto non essere creduta, eppure l’ho detto, ridetto e


stradetto.
Drusilla Foer non è la nobildonna fiorentina, vestale del bon
ton, amica delle celebrità e regina dei salotti internazionali.
Pur sapendo di deludere qualcuno, preferisco essere leale e
demolire questa immagine ingombrante quanto inesatta.
L’attuale percezione che ho di me adesso non mi dispiace, e
vorrei fosse accolta per quello che è, non sulla base di ipotesi
miopi e classiste.
Il classismo mi innervosisce molto e lo disapprovo con
fermezza, come le etichette sociali che ci danno l’illusione di
poter comprendere ciò che ci circonda e, al tempo stesso, ci
illudono di potercene difendere. Se una signora in Chanel
burro entra in un centro sociale, viene quasi sicuramente
considerata una stronza, allo stesso modo un punk che capita
in un salotto principesco viene additato come un disgraziato. Il
classismo è uno dei sentimenti che più scorre a doppio senso.
Quando ci è possibile, andiamo oltre il contesto e l’aspetto. La
vita ci regalerà sorprese meravigliose…
Torniamo all’immagine di me con cui sono spesso tratteggiata.
In primo luogo sono senese e non fiorentina, e su questo
desidero non essere contraddetta. Ma, soprattutto, non sono
aristocratica. Provengo da una famiglia antica, come lo sono
tutte le famiglie, anche quelle prive di stemma.
Ammetto che entrambe le mie nonne erano molto “titolate”;
so che questo farà piacere a coloro che considerano il titolo
nobiliare un valore aggiunto.
Tuttavia i loro mariti non avevano nobili origini, e il titolo
lo porta l’uomo.
Entrambi i nonni erano persone che hanno avuto l’enorme
fortuna di poter mangiare durante la guerra, di studiare e
soprattutto di fare il lavoro che amavano, forse uno dei
privilegi più grandi che si possa avere. Ma niente stemma.
Sono quindi come una di quelle opere concettuali degli anni
Cinquanta: senza titolo.
Non sono nobildonna, e lo dico senza falso snobismo. Se
avessi amato un marchese, mi farei chiamare marchesa da chi
desideri farlo, poiché molto frequentemente poter dire
«Buongiorno duchessa» fa più piacere a chi saluta che alla
duchessa in questione. Detto questo, se avessi sposato un
tassista, mi farei chiamare senza imbarazzi “signora Berna15”.
Il mio ricordo va a Dolfo, portiere di un’amica romana
principessa molto papale, da cui sono stata ospite durante un
triste periodo dopo la morte di mio marito Hervé. Rammento
quei giorni dolorosi in cui donna Elena riuscì ad ammorbidire
il mio dolore con la sua umanità, e non certo facendomi
dormire in un baldacchino settecentesco. Quando si è
addolorati, si è addolorati e basta: il broccato non risolve
affatto.
Dolfo, che era il suo adorato portiere, un giorno mi chiese
come avrebbe dovuto chiamarmi: «Duchessa? Marchesa?
Contessa?».
Risposi che se voleva mi poteva chiamare Drusilla o, se ne
aveva piacere, signora.
«È il titolo più raro, la chiamerò “signora” con enorme
convinzione.»
Forse il complimento più garbato che mi sia stato fatto.
Regina dei salotti internazionali. Semi-errore gravissimo.
C’è del vero nell’asserire che non ho uno spirito stanziale e
che ho vissuto randagia in giro per il mondo, quindi passi
l’“internazionale”. Ma certamente il salotto è l’ultima stanza
della casa che preferisco, il luogo frequentemente delegato a
una rappresentazione del sé spesso mendace e artefatta.
L’unica cosa che approvo dei salotti sono i divani.
La cucina è la stanza senza dubbio più sincera della casa,
fatta eccezione del bagno, che è il luogo più democratico, dove
tutti facciamo le stesse cose e per la stessa necessità.
Quindi, la regina dei salotti abdica in favore dei bidè.
Amici famosi.
Quando si è girato il mondo senza chiusure alle esperienze,
alle persone, ai luoghi, capita di tutto.
Il grande musicista brasiliano Vinícius de Moraes
sosteneva: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”.
Scoprirete nelle prossime pagine quanto la celebrità sia per
me un fattore ininfluente, e quanto sia invece fondamentale il
valore di una persona, indipendentemente da quanto sia nota.
Se vi capiterà di avere a che fare con dei VIP , scoprirete
che, una volta in confidenza, la loro celebrità svanisce quanto
più avrete volontà di conoscere la persona…
Ho conosciuto moltissime celebrità, ma l’unica che ho
sempre avvertito come un essere inarrivabile è Paolo Poli. La
sua sublime intelligenza e la sua assoluta libertà di pensiero mi
hanno fatto sempre sentire inadeguata, pur avvertendo il suo
affetto per me.
Ornella, la mia domestica, e Dionne, la mia amica star,
hanno entrambe un luogo diverso, ma di valore equivalente,
nel mio cuore.
Passiamo al bon ton.
Il bon ton lo rispetto, ma non sempre approvo la logica che
muove queste regole, spesso anacronistica e anaffettiva.
Ve ne sono di valide. Per esempio: se un uomo invita una
donna a cena, è ammesso che entri nel ristorante per primo. Ha
un senso: il galante signore potrà verificare l’adeguatezza del
posto assegnato o il tenore del locale.
Detto questo, siamo nel XXI secolo e non diamo per
scontato che sia sempre un uomo a dover invitare. In ogni caso
il restaurant può essere giusto per lui, ma deve piacere anche a
noi. Il fatto di essere invitate non è sufficiente a costringerci a
restare in un posto di merda…
Quindi, anche la regola dell’“uomo che entra per primo”
non è del tutto sensata, temo. Ma si sa, spesso le vecchie
regole, essendo debilitate dal tempo, sono facilmente
scardinabili.
Io sono esperta di bon ton come un artificiere è esperto di
bombe, e questo mi è stato spesso utile per disinnescare
l’esplosione di comportamenti cretini.
La maggior parte delle regole del bon ton sono indicazioni
utili a chi non sa comportarsi. Comportarsi è molto semplice:
basta affidarsi al bon sens piuttosto che al bon ton, il che
significa essere in ascolto delle situazioni in cui ci si trova e
con naturalezza essere in linea con i codici che si osservano,
purché rientrino nel rispetto di ciò che per noi è civile.
Per esempio: pare che esclamare «buon appetito!» sia una
cosa da non fare. Cazzata.
È preferibile non dire questa frase piacevole dove si pensa
che un augurio così delizioso sia inopportuno. A me piace
molto “buon appetito”, appena posso lo dico. Mi fa allegria.
Probabilmente a un pranzo all’ambasciata non mi verrebbe in
mente di farlo, ma solo per non mettere in imbarazzo coloro
che hanno un problema con quest’esclamazione, tutto
sommato, gentile.
A proposito di ciò che si dice o che non si dice, con piacere vi
racconto un episodio indimenticabile ed esilarante.
Era un noioso pomeriggio al caffè letterario della
Versiliana, quando una nobildonna romana, presentando un
libro sul bon ton, iniziò a tuonare con assertività le sue
aristocraticissime convinzioni: «Non si dice piacere quando si
incontra qualcuno», «Non si dice buon appetito», «Non si dice
permesso prima di entrare in una casa». Fece questo davanti
alla costernazione di un pubblico estivo che considerava quei
gesti solo atti di squisita gentilezza.
Terminata la presentazione le venne portato un mazzo di
fiori da una bambina. «Grazie» disse la nobildonna.
Dall’ultimo tavolino si alzò un omino che le gridò:
«Non si dice “grazie”, si dice “vaffanculo”!»
Abbasso il bon ton, viva il bon sens.
Abbasso i salotti, viva i bidè.
Abbasso i titoli aristocratici, viva i titoli di merito.
E comunque un bel “vaffanculo”, quando serve, si può dire.
Anzi, si deve dire.
5
Titanic

Era bellissima.
Il suo ritratto fotografico era appeso sopra il “posto dei
fiori”: così si chiamava quel tavolino stile impero dove un
vecchio vaso cinese veniva colmato di rose inglesi, orgoglio di
mia mamma e regine indiscusse del giardino della fattoria di
famiglia a Siena.
Rose meravigliose, pallide e fragili. Curate, nutrite ed
esposte con un tale senso del sacro che mia mamma non
consentiva a nessuno di togliere, dal piano di marmo rosa del
Portogallo, i petali che silenziosamente abbandonavano i fiori.
«Mi piacciono quando sono stanche» diceva sempre,
«lasciamole andare.»
Lasciamole andare. Lasciar andare.
Quando glielo sentii sussurrare la prima volta, ricordo che ebbi
una gentile scossa di dolore. Col tempo questo tema ha perso
in me gran parte di quella gentilezza, lasciando spazio al
dolore nel lasciar andare. Le cose, le persone, una visione di
sé.
Dentro la cornice intagliata, da quella preziosa finestra sul
mondo, la fotografia di zia Maddalena sbirciava dietro i fiori
in modo indulgente ciò che accadeva nello studio di mamma,
che era il luogo della casa dove tutti riuscivano a essere più
umani e intimi nella dolcezza e nella crudeltà. Fiori sacri per
un luogo sacro.
Maddalena era la sorella della mia bisnonna, mi venne detto
che morì di febbre spagnola in giovane età.
Restavo per ore incantata da quel volto sereno di donna dai
capelli scuri.
Il ritratto fotografico era in bianco e nero, ma il rosa del
marmo mi faceva immaginare il suo incarnato, e il profumo
delle rose l’odore della sua pelle.
Fantasticavo su di lei. Sarà stata allegra, malinconica,
buona, cattiva…? Mi venne descritta come una donna alta, che
aveva una bellissima voce ed era sposata con un notaio di
Genova, talmente geloso che diede indicazione alla servitù di
nasconderle le scarpe per impedirle di uscire. Aveva il
permesso di indossarle soltanto in casa in presenza del marito
e a letto.
Sì, a letto, perché pare fosse sonnambula. Le vennero
quindi confezionate delle morbide scarpette con una parte
della suola in metallo, tipo quelle da tip tap, in modo tale che il
marito potesse svegliarsi sentendo il rumore dei suoi passi
incerti e ricondurla a letto.
Drilla (come venivo chiamata da bambina) era sospettosa,
curiosa e affascinata dai misteri. Spesso cercavo di svelarli, ma
più frequentemente li proteggevo dall’essere rivelati.
Niente chiesi di lei.
Maddalena era quel poco che sapevo e quel molto che
immaginavo.
Una donna remissiva, punita per la sua bellezza, che
cantava e passeggiava dormendo.
Le estati noiose alla Graiola, la nostra fattoria fuori Siena,
venivano spesso rallegrate dall’arrivo di una cugina della
nonna, la zietta Nerina, donna estrosa e logorroica, che
soffriva di attacchi di isteria. E che si vestiva sempre di bianco
pelle d’uovo, come il colore dell’abito da sposa che indossava
il giorno del suo matrimonio, in cui lo sposo non si presentò
all’altare. Isteria concessa…
Venire alla Graiola la rilassava.
Non tanto per l’atmosfera tranquillizzante della campagna
senese, quanto per ciò che le era permesso fare e che aveva un
effetto terapeutico sull’isteria, che si manifestava con degli
incontenibili attacchi di aggressività sugli oggetti.
Quando ve n’era il sentore, mia mamma andava nel grande
armadio nella stanza dei serviti dei piatti e apriva lo sportello
di zietta Nerina.
Lì erano accatastate in modo disordinato le mezzelune da
insalata, un oggetto mostruoso che si usava accostare ai piatti
di portata per servire le crudité.
Da mia mamma ho ereditato l’ostilità per quelle mezzelune,
di cui eravamo pieni anche dopo averne piazzate a decine nelle
case dei contadini, o dopo averle usate noi bambini per fare
bagnetti disordinati a bambole troppo grandi per quella stupida
dimensione.
Mio nonno ne tenne per sé una, particolarmente grande e
stemmata, che sorreggeva sotto il mento quando Fosco, il
guardiano della fattoria, ma anche abile barbiere, lo radeva.
Quando mia madre percepiva i primi segni d’ira della zietta, le
consegnava dodici mezzelune. Nerina raggiungeva il grande
muro laterale della fattoria e lì, furente, cominciava a
scaraventarle contro il muro con violenza, a volte urlando, a
volte tacendo, a volte ridendo, a volte piangendo.
Un pomeriggio, attratta dai rumori dei cocci, mi nascosi
dietro un orcio per spiarla.
Fu la prima volta che la vidi in azione, perché i miei
genitori ci impedivano di assistere a quelle scene di follia. Ma
in quel momento babbo e mamma erano in città, quindi via
libera…
Pur avendo una spiccata attitudine allo spionaggio, di cui
più avanti vi parlerò, quel giorno non fui abbastanza accorta e
una scheggia di porcellana schizzò in direzione dell’orcio,
ferendomi sul viso in profondità.
È una cicatrice ancora visibile sulla mia faccia. Ci sono
molto affezionata e mi ricorda la volontà di una donna di
liberarsi della propria rabbia, scelta che approvo pur nella
convinzione che esistono metodi più efficaci per liberarsi della
propria rabbia. Sentimento con cui io stessa, lo ammetto, ho un
rapporto molto conflittuale.
Non amo sentirla, non amo esprimerla, quindi mi è difficile
accoglierne il significato.
Scheggia, ferita, sangue a fiumi… Anche se, ovviamente, non
feci scenate, la zietta si accorse della mia presenza e poi degli
zampilli di sangue che imbrattarono il suo immacolato abito di
lino da “non sposa”.
Mortificatissima, mi prese con sé, mi portò in cucina, mi
disinfettò e mi condusse nello studio della mamma. Bevve un
cognac per calmarsi e tentò in modo disordinato di calmare
me.
Quello era il momento. Il momento di sapere. Il momento
di chiedere.
Piagnucolando in modo poco credibile (ancora non ero
un’attrice), le chiesi di raccontarmi della trisnonna Maddalena.
Mi parlò di lei, del marito geloso, del sonnambulismo e di
quella volta che ebbe il permesso di andare alle terme dei
bagni di Lucca scortata dalle sue amiche.
Per una settimana arrivarono al marito letterine quotidiane
tranquillizzanti scritte e imbustate nella carta da lettere
azzurra, con le iniziali della nonna e irrorate dalla sua
bellissima grafia.
Passata la settimana di “acque”, le amiche tornarono, ma
sua nonna no.
Pressate da un violento interrogatorio, le amiche
confessarono che Maddalena non era con loro ai bagni di
Lucca e che non sapevano dove ella fosse.
Le lettere erano state scritte prima dell’ipotetica vacanza,
imbustate e consegnate alle amiche complici, incaricate di
spedirne una al giorno al marito possessivo, da loro stesse
detestato.
Creare un alibi è un’arte raffinatissima di cui nessun uomo
è all’altezza.
Bisogna aver cura dei dettagli, e in questo noi donne siamo
imbattibili.
Tutti si chiesero che fine avesse fatto Maddalena, se sarebbe
tornata, se fosse fuggita, se era viva o morta. Non si seppe
niente per una settimana.
Fino a che, un pomeriggio di giugno, arrivò una lettera
dall’America contenente la lista delle vittime del naufragio del
Titanic. Eccola lì, in una cabina in prima classe col re del
cioccolato francese… altro che spagnola…
Evviva Maddalena, inconsapevole ballerina di tip tap, che
mentiva ad alti livelli, tradiva ad alti livelli e morì ad alti
livelli.

La mia prozia Maddalena.


6
Nonna Gera

Tocca a lei. La mia nonna paterna.


Molto le devo.
Era napoletana e si chiamava Filangera.
Mai nome più antipatico venne dato giustamente.
Vantava una sfilza interminabile di cognomi aristocratici,
ottenuti dopo la morte del nonno e dopo quella dei tre mariti
che mise successivamente sottoterra.
Il cognome del nonno venne punito in ultima fila, perché
privo di titolo.
In tutta onestà, tendeva a non negare di averlo sposato per
un “incidente di percorso”.
Cuisses légères, come veniva chiamata a Napoli, avrebbe
puntato certamente, da subito, più in alto.
Donna intelligente e internazionale, fu punto di riferimento
per la Napoli “bene”, che comunque mai fece caso alla
reputazione delle sue cosce. A lei poco importava, e anzi
vantava quasi con orgoglio l’essere considerata una donna
libera dagli emancipati e immorale dai moralisti.
Non fa una piega, trovo.
Non bella ma di grande charme, alta per la sua generazione,
magra, sempre vestita di scuro, naso importante, grandi occhi
azzurri e capelli bianchi tirati in un complicatissimo
intrecciato chignon immacolato, che certo fu la sua unica
concessione all’“immacolatezza”.
«Non ci sono motivi al mondo perché una donna debba
coprire la sua faccia con onde e ciuffi ridicoli, se non per
distrarre dai propri difetti. Questa è la mia faccia; se non vi
piace, guardatemi le mani.»
In effetti aveva delle mani bellissime, che muoveva con
maestria in gesti rari, sicuri e stilizzati come quelli di una
divinità indiana.
Non aveva nessuna indulgenza per ciò che non fosse una
sua opinione.
La mamma ricordava sempre quando, appena sposata, fece
visita alla suocera, la quale pretese che la giovane nuora si
cambiasse per la cena dopo aver soffermato lo sguardo
disgustato sui pantaloni che indossava, a suo avviso indecorosi
su una signora di rango.
«… Ma siamo solo noi stasera…» replicò candidamente la
mamma.
«Non siamo solo noi, c’è la servitù.»
Nella sua testa non era ragionevole mostrare tolleranza per
qualcosa che disapprovava.
Nemmeno per i camerieri. Un monumento alla coerenza e
alla visione di sé, inarrivabile.
Sobbalzò quando mio padre, giovanotto, le chiese in regalo
per il compleanno dei mocassini di Gucci. Impensabile per lei
che un hidalgo potesse indossare scarpe senza lacci, e per
giunta non fatte a mano. Dopo aver accettato, si recò col babbo
da Gucci come Maria Stuarda al patibolo e, scelte le scarpe
con la scintillante fibbia GG , raggiunse la commessa.
«Prendiamo queste.»
Appoggiando i mocassini sul banco, tirò fuori dalla borsetta
una pennina, un taccuino, scrisse qualcosa, strappò la pagina
con arroganza e la porse alla commessa.
«Queste sono le iniziali di mio figlio da sostituire a quelle
di prova…»
La nonna non prese nemmeno in considerazione che le due
G incrociate di Gucci sarebbero rimaste dov’erano.

Credo una delle cose più sublimi della storia delle cose
sublimi.
Quando Tyrone Power e Linda Christian si sposarono a Roma,
e tutto il mondo ne parlò, nonna Gera venne invitata a una
colazione data in loro onore da una principessa romana.
Parlando inglese perfettamente, venne piazzata accanto
all’attore, la cui già enorme celebrità fu amplificata proprio
dalle nozze romane.
«Lei di che cosa si occupa?» chiese alla star di fama
mondiale. Silenzio.
«Lavoro nel cinema» rispose gentilmente, ma certamente
perplesso, l’attore.
La nonna annuì e guardò in direzione della bellissima
moglie Linda, dalla parte opposta del tavolo, e aggiunse.
«Scommetto anche sua moglie…»
Forse la trovava con troppe onde ineleganti sulla faccia.
Linda Christian era sublime, una delle donne più belle e
gentili che io abbia mai conosciuto, anni fa in Sardegna, sulla
spiaggia di Santa Margherita di Pula.
Vi consegno l’ultima cattiveria, la più garbata e sgarbata che io
abbia mai sentito in vita mia. Invitato un noto antiquario
fiorentino interessato ad acquistare un busto romano della
nonna, il malcapitato chiese a metà colazione:
«Le dispiace se fumo?»
«Non lo so, nessuno l’ha mai fatto.»
Risposta sottintesa che non può non essere intesa.
Prima di stabilire una tregua con la memoria della nonna Gera,
voglio ricordare quanto noi nipoti ne fossimo terrorizzati, tanto
da chiamarla “signora nonna”.
Mio padre, uomo sensibile, ci redarguì teneramente. Mia
nonna si oppose al rimprovero:
«Caro, non darti disturbo, “signora nonna” va
benissimo…»
Per molti anni ammetto di aver pensato che Gera fosse il
diminutivo di “Megera”…
Era una donna a suo modo religiosa, pur ammantando anche la
sua fede con la visione assertiva di se stessa.
Tornando da una messa domenicale, confessò a mia madre
di essersi rivolta alla Madonna per qualche motivo, e che se
non fosse stata accolta la sua preghiera «a me la Madonna non
mi vede più…»
Mi sono sempre chiesta: essendone devota, come pensava
di poterla evitare?
Con quale convinzione?
Andavo spesso con lei a messa quando ci recavamo a
Napoli a trovarla.
Io ero poco più che ventenne, lei ormai anziana, quando
venne in visita da noi a Siena.
La accompagnai alla messa in duomo. Indossava un abito
da giorno scuro, bellissimo, con uno scollo profondo:
un’ostinata richiesta di attenzione.
Un pretino all’ingresso, pensando di essere simpatico, le
disse:
«Nonnina, si copra le nudità.»
Vidi per la prima volta i suoi occhi perdere lo sguardo
solido, e questo mi spiazzò.
Sentii di doverla proteggere da quella richiesta, forse
legittima ma talmente mal formulata da diventare illegittima.
«Non mi pare che il “padrone di casa” abbia problemi con
la nudità» dissi, indicando Cristo nudo sulla croce.
In quel momento accadde qualcosa che non era mai
successo prima: la nonna Gera mi toccò.
Appoggiò la sua bellissima mano sulla mia spalla, si coprì
la scollatura con un foulard e camminando nel silenzio della
navata, mi bisbigliò:
«Tu non conosci la vergogna, brava. Non devi mai
vergognarti di te, mai.»
Da allora ci riconoscemmo e, anche se per poco,
divenimmo alleate.
Da bambina mi aveva dedicato qualche smorfia o qualche
linguaccia, diversamente dai miei fratelli, che trattava con
distacco. Credo che già mi avesse scelto fra noi nipoti e,
ovviamente, non si era sbagliata.
Dopo quell’avvenimento mi sentii in linea con lei.
Mi parlò di sé, mi raccontò del rapporto anaffettivo e
tormentato con suo padre e sua madre, del rapporto
conflittuale con il suo aspetto, di cui in adolescenza non era
affatto fiera. La violenza con cui venne trattata e allontanata
quando disse che aspettava un bambino. Il matrimonio col
nonno, che fu il modo per allontanare tutto quel male e fuggire
via. Ha dovuto difendersi e ricostruirsi come le era possibile
fare, come ha saputo fare. Duramente e non priva di tormenti.
L’ultima volta che la vidi, mi confessò che forse non aveva
mai baciato veramente, e che tutti la volevano ma mai nessuno
del tutto. Si rammaricò di essere stata troppo dura con se
stessa e con gli altri, e che pensava che la dolcezza “non le
fosse dovuta”.
Nessuno gliel’aveva mostrata, o meglio insegnata.
«Non ho mai potuto permettermi la compassione verso me
stessa, ero troppo impegnata a difendermene.»
È miracoloso quando si scopre che qualcuno della tua
famiglia, che pensi di sapere com’è, non è tutto quello che
pensi che sia.
È miracoloso quando scopri in qualcuno la sua individualità
nella sua completezza.
Quando la salutai l’ultima volta, alzò la sua mano invitandomi
a sovrapporvi la mia.
Palmo a palmo.
«Guarda, Drusilla, abbiamo le stesse mani.»
Era la prima volta che lo notavo. Eppure le avevo osservate
a lungo. Com’era potuto sfuggirmi?
Ci abbracciammo e sono quasi certa che lei si commosse, si
girò velocemente prima che la vedessi in faccia e, salutandomi
di spalle, ripeté la prima cosa che mi disse da alleata, e che fu
anche l’ultima: «Tu non conosci la vergogna».
La vergogna di sé è la violenza più immobilizzante che
l’anima possa subire.
Esistono altri luoghi in noi, come il pudore o il segreto, che
possono ospitare una visione di noi che non ci convince del
tutto. Luoghi dolci dove le nostre oscurità sono parcheggiate,
per darci il tempo e la volontà di perdonarle.
La vergogna è una protezione che non protegge.
La vergogna imprigiona e butta via la chiave.
Ma, per fortuna, ognuno di noi ha un duplicato di quella
chiave…
Nonna Filangera quella sera andò, elegantissima, al San Carlo
di Napoli per la prima di un Fidelio. Il pubblico era già
defluito dalla sala quando le maschere la trovarono nel suo
palco sola, seduta, ingioiellata, coiffata. Morta.
Ricevetti in eredità il suo diario, con la sua chiave. Senza
doppione.
Me lo consegnò mio padre nel giorno stesso in cui nonna
morì.
«Eri la sua preferita. Voleva che lo conservassi tu. C’era del
bene fra noi…»
Presi il diario, un libro fasciato in pelle rossa, la sua iniziale in
oro senza affollamenti di cognomi altisonanti. Solo la prima
lettera del suo glorioso nomignolo accanto a quella del
cognome del primo marito, il nonno, un’altra G .
GG , ironia della sorte…
Dentro il diario tutta la sua la sua vita di gioie, dolori,
amori, passioni, tradimenti, delusioni, inganni, avventure, gli
amanti, gli uomini, le donne. E i tanti amici, dagli artisti Milly,
Jean Cocteau, Amália Rodrigues, fino a quella più cara, la sua
governante.
Un fiume segreto e sincero di pensieri liberi, senza
vergogna.
Nell’ultima pagina, una dedica per me.
«Sii te, ciao. Nonna Gera.»

Il diario di nonna Filangera.


7
Ringhiosità

Ho detestato profondamente mia madre solo una volta.


Luglio, pranzo principesco, Firenze.
Io quindicenne, per la prima volta ammessa a una serata
mondana.
Abito vecchio, di casa, bordeaux scuro, sbuffante, orrendo.
Soprattutto, di due taglie inferiori alla mia, appartenuto
chissà a quale scarna prozia.
Sembravo una di quelle trecce di cipolle che abitano le
cucine delle case di campagna.
Ero infelicissima.
Tavola elegantissima su enorme terrazzo con vista su
giardino all’italiana.
Piazzata malissimo, alla mia sinistra un barone “von
Something”, presuntuoso e sudato, che dava per scontato io
parlassi il tedesco. Risposi, fintamente dispiaciuta, che
avremmo potuto parlare in francese. Accettò seccato.
«Non posso credere che una signorina come lei non abbia
avuto una tata tedesca.»
Ribattei: «L’ho avuta, ma era muta».
Italia 6 - Germania 0.
Alla mia destra, un super-rampollo di una super-famiglia
ungherese. Voce nasale, faccia da formichiere.
«Ha un collo bellissimo, Mademoiselle, ma faccia
attenzione… le donne con il collo lungo hanno più distanza tra
cuore e testa.»
Ma che palle, pensai. Le cene dei grandi sono dunque
occasioni dove essere martirizzata dalle polemiche?
Feci cadere il tovagliolo come alternativa a una risposta
scortese.
Strap. L’abito color cipolla cedette alle mie rotondità
adolescenziali.
Ruggero, il fedelissimo maggiordomo di casa Corsini,
celebre per il suo livello di attenzione, si avvicinò fulmineo.
«Signorina, ho l’impressione che lei abbia un po’ freddo.»
Adagiandomi sulle spalle uno scialle di seta rosa ciclamino,
coprì strategicamente lo strappo del vestito all’altezza della
scapola.
Ciclamino e bordeaux. Scicchissimo. Due colori quasi
impossibili da indossare, l’uno senza l’altro.
Il salvifico intervento di Ruggero non placò il rancore verso
mia mamma, e per una settimana non le rivolsi parola.
Alcune mattine dopo, trovai nella borsetta che avevo in
quella serata atroce il cartoncino-menu che era sul tavolo
insieme al nome segnaposto.
«Posso ammettere che tu non mi parli, ma desidero con
tutto il cuore che impari a perdonare.»
Grazie mamma, sei stata brava con me…
Da allora ho allenato il perdono. Spesso goffamente.
Sono abile nel perdonare gli amici, ma solo dopo un
chiarimento che mi dia gli strumenti per comprendere.
Devo ammettere che la tensione alla comprensione è forse
il valore che certamente mi è stato più utile nel corso della mia
vita. Non credo nella saggezza innata, sono una donna
empirica.
Con più fatica ho perdonato gli amori.
I tradimenti, per esempio, li ho perdonati con difficoltà.
Quando si è in grado di perdonarli, è perché c’è un tipo di
comprensione che è autentica solo nell’amicizia.
Il perdono in amore è di una qualità diversa, c’è di mezzo la
paura di essere sostituiti, c’è il desiderio, c’è l’appartenenza.
Brutte bestie, ma allo stesso tempo bellissime.
Eppure anch’io ho tradito. E non ho confessato. Mai.
Troppo facile vuotare il sacco e liberarsi della
responsabilità di qualcosa che può accadere per mille
discriminanti, tutte ammissibili oppure nessuna, ma che vanno
valutate soggettivamente a sacco pieno.
Il mio problema è che, quando ho tradito, ho fatto male alla
capacità di amare che era in me, non all’amore per l’altro.
Ogni mio tradimento è stata una picconata a qualcosa che non
sempre si desidera picconare. Quasi mai confessare è salvifico.
Più utile è capire e decidere se posare il piccone o picconare
del tutto, abbandonando.
L’abbandono è un altro tema che ha certamente toccato tutti
noi.
C’è chi è stato abbandonato, chi ha abbandonato, e infine
una terza categoria, coloro che non sanno abbandonare e fanno
di tutto per farsi abbandonare. I peggiori.
Ecco, in questo momento mi rendo conto di essere
insopportabile… vi distrarrò con un enigma.
Sono decenni che cerco di decifrare il significato di alcune
parole dette da un’amica, molto saggia: «In amore chi ama si
prende la fetta più grossa».
Ve ne affido la lettura.
Io ancora non ne ho compreso il senso, ma so per certo che
il senso è giusto.
Sono stata una donna gelosa. Dignitosamente, ma molto
gelosa.
E mai ho sbagliato a esserlo.
La gelosia è infestante e, come l’edera, si avvinghia. Sono
tuttavia certa che spesso, da qualche parte, abbia radici
oggettive… anche se penso che l’infedeltà e la gelosia siano
“scienze inesatte”, troppo comunicanti tra loro per essere prese
in considerazione separatamente.
Come il bordeaux e il ciclamino…
La prima volta che ebbi contatto con questi temi fu durante il
mio primo matrimonio.
Quando la mia famiglia lasciò Cuba, dopo alcuni traslochi,
ci trasferimmo a Long Island negli Hamptons. Belle case,
gente ricca, cittadina borghese e noiosa come solo gli
americani borghesi e noiosi sanno essere. Ero poco più che
ventiduenne, alla ricerca della mia vera identità, e già allora
sapevo di non appartenere a quella situazione irritante.
La mia migliore amica a Cuba si trasferì con la famiglia a
Dallas, e chiesi ai miei di poter stare un po’ da lei. Loro me lo
permisero, percependomi irrequieta e infelice.
Raggiunsi Sara e rimasi con lei e la sua famiglia per quasi
tre anni. I miei venivano spesso in visita, essendo il padre di
Sara amico del mio babbo e collega in ambasciata. Ho amato
moltissimo stare con la famiglia di Sara, erano persone
sensibili, accoglienti e permissive. Potendo uscire e incontrare
altre persone, fu allora che ebbi per la prima volta la piacevole
sensazione di essere donna e femmina. In azione. Finalmente
potevo togliermi gli abiti sartoriali e indossare un paio di jeans
che mostrassero a tutto il Texas il mio meraviglioso culo.
Conobbi Peter, un rampollo di una famiglia ricca di Rockwall,
produttori di casseforti per interni, che in Texas si vendono
come le mozzarelle a Positano. Aveva una decina d’anni più di
me, puglie, naso rotto, fisico prepotente, abile nei rodei,
simpatico e spaccone, molto sexy. Lo trovavo irresistibile
quanto volgare… forse avevo necessità di “differenziarmi”,
come si usa dire, e di scrollarmi di dosso tutta la compostezza
europea, che allora sottovalutavo.
Con lui feci sesso per la prima volta in modo decente, e
questo mi parve più che sufficiente per considerarlo il primo
vero fidanzato.
I texani si sposano con molta facilità, quindi Peter chiese la
mia mano al babbo, che a quanto pare gli rispose «Excuse
me?!».
Non fu l’accento texano a rendere incomprensibile la
richiesta, ma l’assurdità del soggetto, e di conseguenza della
richiesta.
I miei non si opposero alle nozze, ma mia madre mi
raccomandò di non dimenticarmi che cosa aveva un valore per
me, contando (come mi confessò poi) in un divorzio certo e
veloce.
Il padre di Peter ci regalò un bellissimo appartamento, che
andava arredato. Toccava a me. Peter mi presentò un suo
amico, Alexander, un ridicolo antiquario, mezzo inglese e
mezzo torinese, mix che può essere molto pericoloso.
Rapportarsi con il mio gusto lo gratificava, e per un po’ fece
parte delle nostre vite in modo insistente e penetrante. I soldi a
disposizione erano tanti, come lo erano anche i quadri sul
mercato di Tamara de Lempicka. Alexander riuscì a infestare
la casa con quelle tele insopportabili come la sua presenza,
nonostante mi fossi opposta al loro acquisto e ne avessi
ipotizzato solo uno piccolo, in bagno, immaginandolo presto
vittima dell’umidità…
«Che ne dici, mamma?» chiesi a mia madre in visita, a casa
finita.
«Drusilla, tu sai quanto me che questa casa è spaventosa…»
Certo che lo sapevo. Dio solo sa quanto mi sono battuta per
un bel mobile anni Quaranta piuttosto che un brutto Luigi XV,
della cui falsità mi accorgevo solo io. E mia madre.
Se Peter e Alexander avessero seguito di più i miei consigli,
sarebbe stato meglio…
Furono alleati e prepotenti, in quel progetto che “toccava a
me”. Questo mi insospettì e scatenò in modo incontenibile un
sentimento sconosciuto fino ad allora ma che avevo
cominciato a percepire quando il mio sexy maritino si girava a
ogni bionda, occhieggiava a ogni bionda, flirtava con ogni
bionda.
Come se io fossi stata mora…
Stratificai la gelosia per ogni biondina, mettendo fra le
biondine anche Alexander.
Che era un ragazzone alto e moro, ma di indole certamente
bionda.
E non bionda come il mio elegantissimo biondo cenere. Più
gialla, direi.
Il mio neomarito Peter, dopo un anno di matrimonio, non mi
convinceva più.
La sua esuberanza, il suo sex appeal, il suo naso rotto, la
sua spacconeria, insomma tutto ciò che mi aveva sedotto in
lui, confluì in un delineatissimo senso di pochezza.
Fino a una lite, dovuta all’ennesimo episodio in cui
Alexander si era presentato a casa senza mai avvertire.
Inaccettabile.
«E allora scopaci, col tuo Alexander!»
Lui con noncuranza rispose:
«Già fatto, ma sta cominciando ad annoiarmi, funzionano di
più le bionde…»
Ferita, riferita, straferita. Liberata.
Valige, divorzio, mamma felice.
Io sollevata e stupidamente fiera di “averci visto giusto”.
Di quella storia mi rimase a lungo addosso l’odore pungente
dell’inganno, che era circolato indisturbato in quel rapporto.
Ma, come ogni donna che partorisce e non ricorda il dolore
del parto, me ne dimenticai a breve ed ebbi, poco dopo, di
nuovo contatto con l’infedeltà, subendola ancora una volta.
Decisi così di sperimentare io stessa l’infedeltà, pensando
che sarei riuscita a comprenderne le dinamiche e a togliere
pesantezza a quel sentimento così ingombrante e pericoloso
che era la gelosia.
Fallendo totalmente. Solo allora capii che io non sono
un’infedele di natura.
Ciononostante (o proprio per questo), riesco quasi sempre a
individuare un infedele.
Sia esso circostanziale o sostanziale, cioè per indole.
Per quest’ultima tipologia, ho maggiore capacità di
perdono.
L’indole è un luogo senza possibilità di mutazioni, solo di
integrazioni.
Nessuno può niente contro l’indole infedele, compreso il
soggetto stesso.
Tradisce “per sé”, non contro qualcuno, che è la differenza
sostanziale.
Non ho mai conosciuto nessuno d’indole infedele esserne
consapevole e orgoglioso al tempo stesso. Accade sempre che
proprio loro perdono la fetta della torta più grossa, mossi dalla
propria natura, non dalla loro capacità di amare, anche quando
è molta.
Se non lo siete anche voi, lasciate perdere uomini o donne
di indole infedele.
Questi soggetti stanno bene fra loro e possono generare
felicità. Credo.
Fino a che non trovano una fetta più golosa e tornano a
generare infelicità. Certamente.
Ecco, sta uscendo la mia ringhiosità su questo tema e mi sto
vendicando, sperando che qualcuno legga il libro, e non va
bene.
In fondo io ho avuto la mia fetta meravigliosa di torta,
anche se tardi, in maturità…
Mi ero ripromessa di non parlare di tali argomenti in questi
termini, cioè brandendo consigli colmi di convinzione.
In amore le convinzioni, quando sono rigide, si trasformano
spesso in chiusure, e questo non deve accadere. È la mia
personale esperienza che ringhia. Solo la mia.
Ogni rapporto può avere un suo equilibrio, anche se
generato da dinamiche che non comprendiamo. In ogni
rapporto, quello che non funziona con me può funzionare con
un’altra. Anche se, ringhiando, raramente ho augurato che
accadesse…
Chiudo con un ultimo pensiero impegnativo: siate certi che
partecipiamo sempre, in una certa parte, al fallimento di un
rapporto. Si può solo fare di tutto perché la nostra percentuale
sia minore, e questo è possibile solo se si ha cura dei rapporti,
e anche della fine dei rapporti.
Aiuta moltissimo sia l’abbandonato che l’abbandonante…
Una cosa sento di poter consigliare: non buttiamo via tutto
di un’esperienza d’amore finita. È finita solo quando ci ha
rivelato chiaramente che cosa non vogliamo da una relazione.
Le cose che non desideriamo da un rapporto sono
certamente meno di quelle che pretendiamo.
Per comodità, consiglio di chiarire bene con se stessi i
“non”, di recuperare energie e di ripartire con lievità e audacia,
cercando di non ringhiare.
Ecco, ora mi sento di nuovo ragionevole.
Direi che l’argomento è chiuso.
Le parole di mia madre scritte sul retro del menu “principesco”.
8
Le madri

Le madri soffici, quelle dure.


Le madri “sorriso”, quelle “lamento”.
Le madri “ascolto”, quelle “pulpito”.
Le madri che hanno scelto, quelle che non hanno potuto.
Le madri che hanno atteso l’amore di un uomo per essere
madri.
Le madri che hanno atteso l’amore di una donna per essere
madri.
Le madri “madri” e le madri “amiche”.
Le madri che rivelano, le madri che negano.
Le madri che per urgenza hanno scelto l’uomo, poi omesso.
Le madri all’altezza e quelle inadeguate.
Le madri che sono madri di un figlio non loro.
Le madri che lasciano andare e quelle che trattengono.
Le madri abbandonate, quelle che abbandonano.
Le buone madri e quelle che lo sono come possono.
Tutte le madri sono donne, prima di essere madri.
Ciononostante, le donne che hanno scelto di non essere madri,
o che non hanno potuto esserlo, non sono da considerarsi
donne di serie B.
9
Donare

Pur non volendo alimentare l’immagine di me che mi vede


anziana e presuntuosa dispensatrice di consigli su come si sta
al mondo, desidero rendere più comprensibile la mia militanza
contro il polveroso bon ton, da me molestato con profonda
convinzione.
Vi proporrò una condotta alternativa, totalmente personale,
prendendo in analisi solo un argomento, uno a caso, un tema
che spesso coinvolge tutti noi, alcuni serenamente, altri con
ansietà: come si sceglie un regalo.
Donare è un’occasione molto speciale, e spesso
sottovalutata. È un atto che palesa la volontà di relazionarsi, di
manifestare un sentimento, è un atto di espressione di sé che al
tempo stesso dichiara la visione che si ha dell’altro. In questi
luoghi affettivi alberga la vera generosità e la completezza del
donare.
Se è vero che fare doni mi piace, è altrettanto vero che
molto spesso riceverne mi mette in difficoltà. Non riesco mai a
esprimere con compiutezza la gioia di avere in dono qualcosa
che mi piace e mai riesco a essere totalmente leale quando non
mi piace.
Ma questo temo sia un problema mio, pur essendo certa di
non essere l’unica vittima di questo imbarazzo.
Innanzitutto posso affermare che detesto i regali dovuti in
un’occasione prestabilita, mentre adoro quelli fatti e ricevuti in
modo occasionale, quelli spontanei, quelli che non impongono
una data, come per esempio esige il Natale.
Partirò proprio da questo…

Natale
Per quanto mi riguarda, escludo categoricamente la puntualità
dei regali natalizi, che invece mi piace consegnare in un giorno
qualsiasi, impacchettandoli in una carta visibilmente natalizia,
fosse anche ad agosto. È un mio touch di cui molti sorridono,
ben contenti di ricevere un omaggio inaspettato in un
momento dell’anno che non sia affollato da mille altri regali da
ricevere e da fare.
Nel caso vi fossero ritrovi come i cenoni di famiglia, in cui
può imbarazzare essere l’unica a non avere un dono per tutti,
ho un ottimo consiglio da darvi, la cui origine m’impone di
raccontarvene la storia.
Fin da bambina, essendo noi quattro figli e avendo i miei
genitori una certa attitudine al rigore pur essendo benestanti, io
e i miei fratelli dovevamo osservare una rigidissima regola: si
ricevono regali a Natale e per il compleanno. Stop.
Si festeggiava sempre il Natale in fattoria a Siena, al ritorno
annuale da Cuba, tutti insieme. Noi, i nonni sopravvissuti, zia
Dora, il fratello di mia madre, il fattore e la moglie (una donna
piacente con una buffa risata simile a un singhiozzo
compulsivo). Ci raggiungeva solennemente da Napoli anche
nonna Gera, con la stessa discreta modestia con cui Cleopatra
fece il suo ingresso a Roma.
L’albero di Natale era posizionato al centro del grande
ambiente d’ingresso, che chiamavamo “Siberia”, talmente era
freddo.
La “Siberia” era in realtà il cortile della fattoria, che alla
fine dell’Ottocento era stato coperto da una volta a vetri e
lastricato in pietra serena lungo il perimetro.
Al centro c’era un ampio quadrato di terra viva, sul quale
affondava le radici il Gori, un ulivo secolare. La leggenda
narra che, nei primi del Seicento, un mio avo, intenzionato a
piantare migliaia di ulivi per produrre olio, saggiò il terreno
facendo piantare in quel punto la prima pianta da un
contadino, che si chiamava appunto “il Gori”. Dopo cinque
anni completò la sterminata piantagione e omaggiò il Gori,
l’ulivo capostipite, costruendoci intorno l’intera fattoria.
Durante le festività, il grande albero dal tronco possente e
tormentato diventava il nostro albero di Natale e veniva
decorato da coloratissimi uccellini di vetro soffiato di Murano
e da qualche lanternina di latta.
Alla base del Gori venivano posti alcuni vecchi tappeti, e su
di essi una montagna di regali, la maggior parte dei quali era
destinata ai figli dei contadini della fattoria.
Fra gli altri vi erano i nostri, non particolarmente
identificabili.
Nella mia famiglia c’è sempre stata una certa ostilità al
regalo frettoloso e senza senso.
Si ricorreva quindi a un’usanza molto intelligente, alla
quale devo la mia devozione al regalo ben pensato.
Scrivevamo i nomi di tutti noi su dei fogliolini singoli che
venivano poi buttati in un cestino, dal quale poi ciascuno
estraeva il nome della persona a cui l’anno successivo avrebbe
fatto il regalo di Natale.
Questa tradizione famigliare metteva ognuno di noi nella
condizione di avere un anno di tempo per pensare a un solo
regalo per una sola persona.
Un solo regalo ben ponderato, individuato casualmente o
magari acquistato durante un viaggio… Tutti ne uscivamo con
un regalo molto speciale. Uno solo, ma di valore.
Consiglio questa saggia modalità a tutti: evita stupide corse
ansiogene il pomeriggio del 24 dicembre per acquistare regali
stupidi, spesso stupidamente cari.

Compleanno
Per questo tipo di regalo tendo a non essere puntuale.
Raramente faccio regali di compleanno nel giorno del
festeggiamento.
Spesso acquisto doni durante l’anno, che consegno subito,
senza aspettare la data.
Mi fa tristezza tenere un pacchettino infiocchettato nella
penombra di un armadio.
Quando ho un regalo per qualcuno, tendo a darlo subito.
Bigliettino: “Evviva il giorno in cui nascesti”.

Battesimo
Personalmente evito di fare regali inutili in un’occasione dove
c’è sempre bisogno di molte cose utili. Sconsiglio
categoricamente oggetti raccapriccianti come i cucchiaini
d’argento, i braccialettini o quegli orridi campanellini che
spesso rendono isterici sia il bambino che i genitori. Mia
madre fece fondere tutti i gingilli battesimali e ne fece due
bellissimi bracciali alla schiava, uno d’oro e uno d’argento,
che ancora posseggo.
Il mio ultimo regalo di battesimo fu un’Ape. Non l’insetto,
il veicolo.
La chiesi in prestito a Graziano, un giardiniere molto sexy.
Arrivammo alla colazione battesimale con il suo simpatico
veicolo pieno di utilissimi pannolini, tenuti insieme da un
fiocco enorme.
Fu un vero coup de théâtre, e fui felice di vedere il neopapà
sorpreso alla vista dei numerosi pannolini, ma ancor di più mi
divertì lo sguardo della neomamma incantata dai muscoli di
Graziano.
Doppio regalo. Forse triplo. Il neopapà, dopo cinque anni,
si fidanzò con un giocatore di rugby. Succede…
Ho molto spesso onorato un avvenimento importante come
la nascita affidando ai genitori una lettera chiusa da
consegnare al figlio nel giorno del suo quindicesimo
compleanno, un’età in cui forse i consigli di un’anziana
signora d’esperienza (e nel mio caso molto probabilmente già
morta) possono essere utili.
Regalo a un bambino
Difficile, meglio consultare il genitore.
Di certo non ho mai regalato una Barbie a una bambina: un
modello di femminilità che propone ideali di ricchezza,
biondezza e magrezza e che spesso produce donne banali.
Per un bambino ho sempre evitato armi giocattolo, anche
quando mi sono state chieste esplicitamente. Mai vorrei essere
responsabile del fatto che una creatura, la cui personalità è
ancora malleabile, consideri la guerra un gioco.
Matite, pennarelli: sempre bene. Anche tempere, ma
ricordatevi dei pennelli, cosa di cui ci si dimentica…
Giorgiana, amica indimenticabile, mi diede un consiglio
geniale per arrivare in una casa popolata da molti bambini:
scatole di cerotti. I bambini adorano giocare con i cerotti; li
scartano, li mettono in faccia, li uniscono, li sovrappongono, e
soprattutto il “gioco dei cerotti” sdrammatizza il momento in
cui i cerotti servono davvero.

Regalo a un adolescente
Bisogna prendere in considerazione il tipo di adolescente.
Ho sempre avuto molto successo regalando film.
A qualche birichina musicale, Cabaret; a qualche giovane
con delle pretese di trasgressività, The Rocky Horror Picture
Show, precursore del concetto di fluidità; ai soggetti che
invece tendono all’intellettuale, Barry Lyndon, il film perfetto.
Ai più allegri, Invito a cena con delitto. Ai politicizzati, Il
grande dittatore di Chaplin.
Vi sono cose che i giovani d’oggi devono assolutamente
conoscere e di cui ignorano l’esistenza. Provvedere appena
possibile.
In genere impacchetto il DVD insieme a una confezione di
popcorn da far esplodere nel microonde. Un rumore che mi fa
tanta simpatia.

Regalo di matrimonio
Matrimoni, che palle.
Mai faccio doni per il matrimonio il giorno stesso del
matrimonio.
Scrivo un biglietto il più possibile sentito, in cui spiego che
il regalo arriverà dopo il primo invito a cena. Sarà
un’occasione per capire che cosa serve alla giovane coppia.
Se la coppia è benestante e non necessita di niente, fate una
bella donazione a una ONLUS .
Non dimenticate di festeggiare i divorzi. Se due persone si
lasciano, premio volentieri il doloroso percorso che ha portato
a questa decisione. In genere regalo qualcosa a chi dei due
sento più vicino. Se c’è uno spazio di leggerezza per essere
spiritosi, siatelo.
Per lei, del make-up di qualità per rimettersi sul mercato.
Per lui, un paio di calzini per camminare da solo.

A chi non si conosce bene


Il libro è il dono perfetto. Donare un libro che abbiamo amato
è anche un modo per farsi conoscere, ammesso che si sia
disposti a farsi conoscere… Se non lo si è, cioccolatini: una
volta digeriti, non resterà niente del nostro gesto e di noi.

Riciclare regali
Adoro farlo, ma il riciclo va confessato.
Fatelo con disinvoltura: nessuno si offenderà se è un
oggetto che serve.
«Non ho portato il vino, ma mi hanno regalato un frullatore
che non uso e ho notato che ti manca…»
Posseggo un armadio dell’orrore con i regali non graditi o
inutili. Su ognuno ho attaccato un post-it col nome del latore
del dono, per non correre il rischio di “restituire” il regalo a
chi me lo ha fatto. Attenzione agli errori…
Ricordo ancora quando mia madre ricevette un regalo da
una cugina ferrarese: un vinile con i sublimi Vier letzte Lieder
di Strauss.
Fu molto buffo quando, decisa ad ascoltarli, tirò fuori dalla
busta interna un 33 giri di Dalida… Ugualmente struggente,
ma di tutt’altro genere.
Ascoltateli i Vier letzte Lieder di Strauss, mi raccomando.
A mio avviso le pagine musicali più belle scritte per una voce.
Quelli eseguiti da Gundula Janowitz sono sublimi.

Regalo a se stessi
Un regalo fondamentale.
Una volta una giovane, adorabile ragazza mi scrisse sulla
pagina Facebook che non si apprezzava e che le pareva di non
percepire amore per se stessa. Mi mandò una sua foto,
compresi subito il suo dolore dallo sguardo smarrito. Le
confessai che anche per me quel momento era difficile. La
invitai a recuperare tutta la tenerezza che aveva verso se stessa
guardandosi dall’esterno, così come si guarda una bambina
che vede il suo palloncino fuggire in cielo. Allora decidemmo
insieme che quel pomeriggio, a molti chilometri di distanza,
entrambe saremmo uscite a comprare un piccolo oggetto di
nessun valore economico, a guardarlo e a caricarlo di tutto
l’affetto per quella parte di noi che è indolenzita dalla vita. Poi
donammo quel prezioso oggetto catalizzatore a noi stesse. Lo
facemmo, fu bello. Io scelsi un piccolo pettine di plastica: ogni
volta che lo incontro in casa mi ricordo che esiste in me anche
quella bambina senza palloncino.
Un anno, dopo un mio spettacolo al Teatro Parenti, uscendo
dal camerino, riconobbi fra molti quello sguardo smarrito.
«Sei tu?»
«Sì, Drusilla, sono io.»
Ci abbracciammo alleate e felici, come due bambine che
hanno ritrovato il loro palloncino.

Regalo a chi muore


La morte va onorata, così come la nascita.
Anche quando chi è passato “a miglior vita” non sempre è
stato in linea con la nostra visione della vita.
Fategli un regalo per il suo nuovo viaggio.
Dedicate a una persona che non c’è più un pensiero, delle
parole, siano esse un rimprovero o una preghiera. Parlatele con
lealtà, ricordatele il momento dell’incontro, ringraziatela dei
momenti belli passati insieme e, se ce ne sono, sorridete
dolcemente dei momenti brutti.
Aiutatela ad andarsene con dolcezza.
Il regalo più necessario. Quello che non si deve scartare…
E ora un’ultima raffica:
Per una nuova casa: in Toscana si usa portare, alla fine di un
trasloco, sale e pane. Poetico e simbolico. Un regalo simpatico
può essere anche una scatola da scarpe con spazzole nuove e
cere di qualità. Nessuno ci pensa mai. E tutti hanno delle
scarpe.
Per una laurea: trovo che chi ha avuto la possibilità di studiare
sia privilegiato e ha fatto il suo dovere portando a termine gli
studi. Premiate i genitori che glielo hanno permesso.
Per l’assunzione in un nuovo posto di lavoro: un contenitore di
vetro dove mettere le penne. Anche un bel bicchiere va bene.
Riempitelo simpaticamente con un farmaco contro il mal di
testa. In ufficio è sempre utile, specie dopo una serata
molesta…
Per il successo di una dieta: una di quelle macchinette che
fanno i buchi per le cinture. Le adoro.
A un amico ritrovato: carnet di biglietti e stabilire un giorno
del mese in cui si va al cinema insieme.
A un compagno di viaggio che si è particolarmente occupato
di voi: la mappa della meta successiva.
A chi ci ha ospitati nella propria città: ricambiare l’invito,
aspettare mezzanotte e fargli fare una piccola visita guidata a
piedi nella nostra città deserta.
A un/una amante efficace: se vi siete divertiti insieme, il dono
è già stato fatto da ambedue.
A un/una amante inefficace: Godere di Mary Roach, libro
delizioso.
A chi si ama: esserci, sempre.
10
Hervé

So che devo farlo, lo voglio, ma confesso una lieve sensazione


di ostilità nel farlo. Un senso di violazione, più esattamente.
Parlare di lui non è facile. Scriverne è ancora più difficile.
Quando assisto allo snocciolarsi di parole nere sul bianco
dello schermo, so già che quanto scriverò non sarà mai
all’altezza del sentimento che ho provato e che ancora provo.
Simile a un senso d’incompletezza, come quando mostri a
qualcuno la foto di un tramonto, ben sapendo che mai
restituirà l’eccezionalità di quel momento.
Io lo amo ancora, nello stesso modo, con lo stesso senso di
appartenenza che ho provato quando lui era in vita con me.
Io sono la signora Foer, nessuno mi avrà più, io ho avuto la
mia parte di amore.
Ma non ho la lugubre sensazione della vedovanza, e non
riesco a parlare di “elaborazione del lutto”, che ha certamente
a che fare in gran parte con la mancanza fisica.
Il mio amore per lui sovrasta la sua assenza, fino a renderla
in qualche modo marginale.
È incomprensibile anche a me.
Sta accadendo ora. Penso che ciò che ho appena sostenuto non
è vero, e che darei qualsiasi cosa per averlo qui vicino a me,
anche solo per un minuto.
Ma poi sento l’amore e mi calmo.
Ok, sono calma.
Voglio immaginare che leggerete queste pagine su di lui
con tutta la capacità di accoglienza che avete.
Comincerò dai fatti, poiché, quando è difficile scrivere di
un sentimento, partire dai fatti è l’unica strada percorribile…
Fine anni Novanta.
New York in inverno è detestabile, ma la grande capacità
della cultura americana di imbellettare i suoi limiti durante il
periodo natalizio accende la Grande Mela di una piacevolezza
stucchevole, retorica, prevedibile che, in fondo, ho sempre
perdonato.
Avevo appena chiuso il mio negozio di abiti usati nel
Village.
Quella bellissima esperienza meritava di essere interrotta
prima che la richiesta di mazzette ne deteriorasse il valore.
La mafia è una cosa brutta e violenta.
In quella settimana ero visibilmente scossa, e i miei amici
più cari si occuparono di me come di una bambina smarrita in
un bosco.
Una sera fui invitata a cena da Patrick e Ted, una coppia di
amici, che avevano un bellissimo appartamento vicino al
Lincoln Center, nella Upper West Side.
«Mad, vieni a cena da noi stasera, fatti bella, indosseremo tutti
qualcosa che abbiamo acquistato da te.»
Piuttosto che incontrare qualcuno, mi sarei buttata dal
Rockefeller Center.
Maledii per un istante il dovermi “imbellettare”, ma quando
Ted mi chiamava “Mad” sapevo che non potevo rifiutare. Era
un codice fra di noi.
In molti mi chiamavano “Madame”, e questa cosa non mi
piaceva un granché, ma l’abbreviazione “Mad” poteva andare,
perché in inglese vuol dire “pazza”, e quella visione di me,
allora, era più accettabile. E mi imponeva di accettare.
Mad non poteva rifiutare un invito, un minacciosissimo
cocktail, o tutto quello che in quegli anni a New York era
possibile, e a volte doveroso, fare.
Che era spesso molto divertente, e ancor più spesso non del
tutto sano, o non del tutto legale.
«Fatti bella.» Mad si fece bella.
Svogliatamente indossai un pigiama a palazzo di velluto
color petrolio.
Una botta di rimmel, rossetto rosso.
Minimo sforzo, massima resa e almeno il “fatti bella” era
risolto.
In taxi sperai che alla serata non ci fosse troppa gente, Mad
non avrebbe resistito.
Mad dovette subire anche quello.
Tante persone, una foresta di persone, e una bambina
smarrita nel mezzo.
C’erano tutti, tutti con qualcosa di mio addosso.
L’atmosfera era gentile, nessuno schiamazzo, nessuna richiesta
di forzata allegria, nessun eccesso di musica di sottofondo
(detestabile usanza della Grande Mela).
In fondo ero con la mia famiglia di quegli anni newyorkesi,
e il mio negozio di usato Secondhand Dru era la nostra casa.
Speravo solo di non dover conoscere estranei, ma il dress
code era “Wearing something Dru”.
Però Mad si sbagliava… a una certa ora uscì dall’ascensore
che accedeva direttamente all’interno dell’appartamento un
cappotto di Casentino arancione che mi ricordava qualcosa, e
dentro il cappotto un signore che non mi ricordava nessuno.
La serata scivolò giusta e intima, ma poi giunse il momento
che temevo.
«Mad, ti presento Hervé Foer, è uno studioso belga.»
Che palle… uno studioso e belga. Se mi avessero
presentato un Pierrot bianco sarebbe stato più divertente,
pensai… C’era da fare tutto daccapo.
Chi è, chi non è, studioso di che, come mai è a New York,
Bruxelles è fredda, ecc. ecc…
Mad, datti da fare: prima cominci, prima finisci.
Mi bloccò subito lui.
«Sono certo che non si ricorda di me.»
«Assolutamente vero» risposi seccamente.
«E non è improbabile che non abbia nessuna voglia di
chiedermi chi sono, che cosa studio o perché sono qui, vero?»
Stupita, anzi colpita, risposi: «Vero».
«Che Dio la benedica, io ho raramente voglia di parlare di
me… Facciamo così, Maddalena, io sono qua stasera solo per
farle una domanda e poi sparisco dalla circolazione.»
«Maddalena?» chiesi infastidita.
«“Mad” non è il diminutivo di Maddalena?»
Gli feci notare che aveva già usato l’unica domanda a sua
disposizione.
«Ha ragione. Adesso dovrò chiedere a qualcuno come si
chiama… non ho più domande a disposizione» e rise.
Solo in quel momento mi accorsi che era bellissimo.
Un bel sorriso triangolare con i denti bianchi, ma non
perfettamente in linea, labbra belle, occhi vivi, buoni e maturi
che con il sorriso si socchiudevano al punto di sembrare due
fessure del salvadanaio, pelle attraversata da rughe, fitte e
gentili. Mani belle. Capelli un po’ lunghi davanti, grigi, che
nervosamente riportava all’ordine dietro l’orecchio, quando il
fitto ciuffo gli andava sugli occhi.
Un gesto di mio padre.
Ero talmente presa da me che fino a quel momento non mi
ero accorta della sua voce.
Scura e calda, piacevole come una tazza di cioccolato caldo
quando si ha voglia di cioccolato caldo.
«Mi chiamo Drusilla» dissi sommessamente per impedirgli
di andarsene, cosa che stava facendo, e lui, tornando al suo
posto, deciso, replicò.
«Ok, Drusilla, le faccio la domanda. Che storia ha il
cappotto di Casentino che ho acquistato nel suo negozio?»
Vuoto totale. Ricordavo che l’unico cappotto di Casentino
proveniva da un’amica toscana a cui era morto l’anziano
padre, del quale mi aveva venduto tutto il guardaroba… ma
non ricordavo lui e nemmeno di averglielo venduto.
Fu così che iniziammo a parlare. Mi raccontò che un giorno
aveva visto quel cappotto nella piccola vetrina del negozio
dove in genere mettevo un solo capo, molto convincente. Quel
giorno era entrato in negozio, mentre io poco prima ero uscita
in fretta e avevo chiesto a Ted, che era venuto a trovarmi, il
compito di ricevere i clienti. Ted non sapeva niente di quel
capo europeo così eccentrico, ma lui ed Hervé parlarono a
lungo e divennero amici.
Raccontai a Monsieur Cioccolata Calda che quel cappotto
era stato fatto in Toscana, in lana ritorta molto calda, prodotta
nella valle di Casentino, e che il taglio, un po’ signorile, era
destinato ai fattori o ai proprietari terrieri che volevano essere
visti da lontano. Ecco perché quell’arancione arrogante.
Mi scusai con lui se ero stata sgradevole.
Per farmi perdonare, gli proposi di farmi altre cinque
domande. Accettò.
E io accettai tutte le centinaia di domande che ci facemmo a
vicenda quella sera.
Tornò a trovarmi in negozio spesso e iniziammo a
frequentarci, molto naturalmente, con piacere, senza
aspettative birichine, essendo io convinta che fosse
omosessuale, sbagliandomi. Per pigrizia non avevo ipotizzato
che, anche se era divenuto amico del mio amico omosessuale,
non era consequenziale che anche lui lo fosse… Maledetti
luoghi comuni…
«Sono vedovo da quindici anni.»
Chiarimmo l’equivoco dopo esserci frequentati per tre
settimane.
Ne sorridemmo anche.
«Bene, se non sei gay allora corteggiami» commentai
sciolta e birichina.
Lui si bloccò, e al tempo stesso si illuminò da dentro.
«Io ti sto corteggiando da tre settimane, piuttosto comincia
anche tu a corteggiarmi.»
Mi innamorai in modo cauto e tranquillo.
Quelle tre settimane non inquinate dal tentativo di
seduzione gli permisero di affacciarsi a ciò che sono
veramente, senza l’ansietà di piacere.
Ecco, sento in questo momento una commozione.
Penso a quei mesi insieme a New York, alla chiusura del
negozio, e a quando lo raggiunsi a Bruxelles per un “rodaggio
affettivo”, come lui lo definì.
Passammo il “rodaggio” in sintonia, intensità, desiderio e
lealtà.
Non ho mai attribuito a nessuno dei miei sentimenti
amorosi il dono dell’immortalità, e inizialmente non fui certa
nemmeno che così fosse il mio amore per lui, pur sperando
che fosse l’uomo della mia vita.
Tendo sempre a farlo, credendo di tutelarmi dalla delusione
di un eventuale fallimento. Mi barrico dietro un muro malsano
di fatalismo.
Ma quella volta avvenne un miracolo. Quel muro franò di
botto.
La sera in cui andammo a cena ci fu un attimo a tavola in
cui io sentii un’esplosione inaspettata e libera. Non avevo mai
sentito il rumore di quell’esplosione nella mia vita.
La sentii nascere dal basso fino a raggiungere il cuore e poi,
con più calma, scaldarmi la mente.
Io sentivo di appartenergli.
L’emozione più densa di stupore e verità che abbia mai
vissuto.
Lui percepì quell’esplosione.
«Che cosa ti succede, amore mio, che cosa succede dentro
di te, ora? Dimmelo.»
L’eruzione d’amore di quel vulcano assonnato da secoli era
ancora in corso, e lui fu capace di attendere un po’, poi una
gentile supplica.
«Ti prego, raccontamelo e fidati, perché io sono tuo.»
Ci sposammo, senza farci regali, io con il mio pigiama a
palazzo, lui col suo Casentino.
Mi trasferii nella sua casa di Bruxelles, della quale ancora
oggi conservo la targhetta del campanello che metto al collo
nei momenti in cui supplico il suo aiuto (vedi foto).
Furono pochi gli anni insieme, ma credo di aver avuto un
privilegio che pochi hanno avuto: un amore leale. Libero di
mostrarsi e darsi.
Hervé si ammalò, il male che aveva lo divorò velocemente.
Quei giorni furono assurdamente bellissimi.
Eravamo uno. Di più non so dire di quel tempo insieme.
So solo che Monsieur Foer è il mio uomo, il mio amore.
Ciò che muove i miei pensieri, smorza i miei dolori, motiva
i miei progetti, mi chiede ancora di essere bella per lui e leale
come lo sono stata con lui.
«Sei il mio amore, Drusilla, e sei forte. Non piangere, io non
muoio.
«Me ne vado come una farfalla.»
Sono forte, sì.
Talmente forte che non riesco a dormire senza il tuo
pigiama addosso.
Amore mio.

La targhetta di ottone della casa di Hervé a Bruxelles.


11
Il tappeto

Tutta colpa di un tappeto.


Un tappeto cinese che mio padre ricevette in dono da un
orrendo industriale cubano, in cambio di un permesso. Il mio
babbo si rifiutò di essere pagato, sapendo di aver fatto il suo
dovere assolvendo una richiesta, apparentemente legale,
accettata dall’ambasciata dove lavorava. Ciononostante il
discutibile figuro fece recapitare dopo una settimana a casa
nostra il prezioso dono arrotolato e consegnato da Ramón, un
fattorino creolo che aveva più o meno la mia età, quattordici
anni, e che uscendo mi fece un occhiolino che mai
dimenticherò. Un piccolo cenno complice e colmo di garbata
malizia. La prima volta in cui mi sentii, in qualche modo,
desiderabile.
Il tappeto era bellissimo, di fattura cinese, azzurro con disegni
bianchi, di una seta rasa e fitta.
Mia madre, severa vestale della Dea Integrità, lo sottrasse
all’armonia cromatica del salotto quando seppe che il losco
industriale era finito in galera per spaccio e sfruttamento della
prostituzione minorile, relegando il colpevole oggetto alla
soffitta infestata di tarme. Una morte lenta ma certa.
Quando i miei genitori morirono a distanza di sette mesi
l’uno dall’altra, noi figli vendemmo casa a Siena e ci
spartimmo gli arredi. Il tappeto toccò a me. I miei fratelli lo
cedettero volentieri poiché visibilmente bucato in un angolo.
Era il risultato di una scorpacciata decennale di tarme
fameliche. Il tappeto aveva pagato il suo crimine, e io lo
perdonai.
In fondo, era un oggetto inconsapevole, come del resto tutti
gli oggetti, belli o brutti, appartenuti a gente bella o brutta.
Lo tenni con me in tutte le case in cui ho vissuto, con i suoi
azzurri, con i suoi fiori, con il suo buco.
Fu il pretesto per raccontarne la storia a chiunque notasse la
sorprendente voragine e per spacciarlo come un memento mori
didatticamente morale.
Di portarlo a restaurare non avevo proprio voglia.
Fino a che un raffinato amico che lavora in una casa d’aste
parigina venne a trovarmi dove vivevo allora, a Settignano, per
eseguire un’expertise degli arredi che mi permettesse di
liberarmi di molte cose alle quali tengo moderatamente e che
arredano una casa, grande e insensata che sei mesi fa ho deciso
di lasciare, sotto le pressioni minacciose di Ornella, la mia
domestica.
«Troppo lontana, troppo grande, troppo piena: lei o cambia
casa, o cambia domestica.»
Messa al corner (cosa che, del resto, adoro), mi persuasi
che in una piccola casa sarei stata meglio, magari in un luogo
più movimentato e più comodo per Ornella. Ero stufa degli
ulivi, del canto insistente degli uccelli alle 5 del mattino, dei
venti minuti a piedi per raggiungere il bar, dello sguardo
avvilito delle vecchie coi fiori in borsa, dirette al luogo più
vitale del paese: il cimitero. Mi sentivo felice all’idea di
lasciare quella casa che avevo preso in affitto da un’adorabile
vecchia marchesa, per un prezzo ragionevole, poi divenuto
irragionevole una volta che venne ereditata dai nipoti, i quali
evidentemente mi credono ricca… Quando l’aspetto è un
problema…
Si pose il tema di trovare i soldi per comprare una nuova
casa.
Vendere. Vendere, il più possibile, era la soluzione.
Servito di piatti di Meissen da trentasei, completo quanto
prestigioso? Vendere.
Posate in vermeil, viste in azione due volte in vita mia?
Vendere.
Samovar russo in argento donato alla mia nonna Gera da
una principessa altrettanto russa? Vendere.
Coppia di quadri ottocenteschi “lui e lei” di noto
macchiaiolo, abilissimo nel cogliere l’espressione da stronzi di
entrambi? Vendere.
Orologio impero svettante su una colonna cava di cristallo
che un tempo conteneva un gas misterioso che lo faceva
funzionare? C’è ancora quel gas? No… L’orologio funziona?
No… Quindi, vendere.
Bozzetto in terracotta di cavallo di Marino Marini di grande
valore e poco ingombro? Un caro amico. Per ora, tenere.
Set di tre posate in argento con iniziali GG , ahimè non
appartenute a Gloria Gaynor (le avrei tenute), bensì a
Giuseppe Garibaldi. Oggetti tozzi e sgraziati, anatomicamente
compatibili con l’artrite deformante che non aveva risparmiato
le eroiche mani. Vendere, vendere… un “vendere” a posata.
Ritratto di Vittorio Matteo Corcos di una cugina di mio
padre, da dodicenne. I bambini sono sempre belli, ma lei,
decisamente, non lo era. Vendere.
Copia dello spartito datata 1951 del Rake’s Progress di
Stravinskij e autografato, con appuntati due biglietti per la
prima dell’opera a Venezia, mai usati…. il tutto donato dal
compositore a mio nonno Rizieri, pur di non pagare gli 80 litri
d’olio acquistati nella nostra fattoria a Siena. La tirchieria è
una cosa che non perdono… Quindi vendere.
Arazzo che io credevo fosse una copia ottocentesca e
invece non lo era? Vendere.
Plico settecentesco di Vite del Vasari, lette e rilette, quindi
chissenefrega? Vendere.
Ritrattino di me bambina fatto nel ’48 sulla tovaglietta di un
noto caffè parigino, ricordo di una cioccolata calda tra Picasso,
la nonna Tolo e me? Tenere.
Maledetta bambina maldestra. Si può rovesciare della
cioccolata su un ritrattino estemporaneo di Picasso?
Tappeto cinese azzurro, necessitante di un restauro importante,
ma garanzia di grande valore economico? Vendere.
Ecco, mi toccava restaurarlo… che palle.
Come avrei fatto a trovare un restauratore di tappeti?
Luisa, la mia amica pratese più informata di un archivio
della CIA , mi consigliò un abilissimo artigiano che era in
affitto in un fondo di sua proprietà e che lavorava alle Cure, il
quartiere dove al momento vivevo.
Nome, indirizzo, telefono. Chiamai.
Voce bellissima. Ero pronta a portargli il cinese forato.
«Avrei piacere di vedere il suo tappeto, prima di darle il
disturbo di portarlo qua.»
Cauto e garbato. Mi sarei stupita se fosse stato brutto.
Il signor Human suonò al citofono.
Dal tono della voce di Ornella capii che era piacevole.
Gli andai incontro. Infatti, era bellissimo.
Alto, carnagione scura, magro ma strutturato. Elegante.
Qualche filamento colorato di tappeto sullo spolverino da
lavoro, marrone scurissimo.
Molto chic. Dufy puro.
Mani belle, in ordine, unghie grandi, e rettangolari, polsi
solidi e scuri. Peli lisci da sotto i polsini, sulla prima falange.
Faccia bella, narici lunghe, bocca viola. Occhi lunghi e intensi.
Mi ricordavano qualcuno. Ma non mi veniva in mente.
«È un oggetto strepitoso. Restaurarlo sarà per me un
privilegio.
«Da una vita speravo di guarire un tappeto così.»
“Guarire.”
Avevo sentito bene.
Quasi mi scusai per lo stato in cui era e cercai di sedurre
anche lui con la storia dell’industriale cubano, dei miei
genitori… Mi interruppe.
«Se un tale oggetto è stato trascurato, c’è sicuramente un
valido motivo. Perdoni i suoi genitori.»
Avevo quindi malriposto il mio perdono.
Indagai sul costo dell’operazione, ma lui fu vago.
Stabilimmo però un patto.
«Mi pagherà il lavoro solo dopo che l’avrà venduto. Sono
certo che saprà ricompensarmi in un modo giusto.
«Ma la supplico di venderlo solo se sarà necessario. Lo
lasci per ultimo…»
Accettai la proposta, che in fondo era un ordine.
Human prese il tappeto in braccio come un padre che tiene
in collo un figlio febbricitante.
E uscì. Io e Ornella ci guardammo ma tacemmo per molto,
quel pomeriggio.
Era accaduto qualcosa con l’arrivo di quell’uomo, i cui
occhi mi ricordavano qualcuno.
Ma non ricordavo chi.
Dopo circa un mese ricevetti una telefonata del signor Human.
Il tappeto era pronto e chiedeva «di essere ricevuto».
Mi chiesi dove avesse imparato quel linguaggio così
signorile e poetico.
Il campanello suonò e il padre entrò nella stanza col figlio
in braccio, guarito.
La sua faccia era sicura. Gli occhi fieri. Di chi ha “guarito”.
Srotolò il tappeto.
Un miracolo.
La grossa voragine era richiusa, il disegno ricomposto.
Gli azzurri brillanti, i fiori croccanti.
Mi chiese di toccarlo a occhi chiusi.
Lo feci.
«Lo sente? È come accarezzare un grande felino che
dorme.»
Non riuscii a parlare per un po’. Questo mi imbarazzava.
Quindi, invece di accogliere il silenzio, dissi una cosa
cretina.
«Ma dove ha imparato a restaurare i tappeti?»
«Le racconto, ma seguiti ad accarezzarlo…
«L’unico modo per conoscere a fondo qualcosa è guarirla.»
Di che cosa parlava? Esperienze? Persone? Tappeti?
Una famiglia da cinque secoli restauratori di tappeti in Persia.
I “guaritori” li chiamavano, poiché celebri per i restauri
miracolosi.
Lui era il più giovane di cinque generazioni di quest’arte
miracolosa. Guarire.
Divennero i manutentori dei tappeti del palazzo imperiale e,
colti e raffinati, partecipi della vita a corte.
Vennero “invitati” all’esilio, impedendo loro tristemente di
continuare a guarire. Human aveva dieci anni.
Vissero in Europa: a Parigi, a Londra, ad Anversa, a Trieste
e poi a Venezia.
Rimasto l’unico fratello e vedovo della moglie amatissima,
si trasferì a Firenze.
Adesso molti suoi tratti avevano una spiegazione.
Il suo linguaggio poetico non era più un mistero.
I suoi modi raffinati non erano più un mistero.
Ma i suoi occhi… Quel mistero sopravviveva. Mi
ricordavano qualcuno, ma non sapevo chi.
Dopo aver venduto tutto a cifre che mai avrei creduto, avevo
la somma sufficiente per comprare una casa.
Avevo venduto tutto, ma non il tappeto. Avrei fatto a meno
di altro, ma quel tappeto non l’avrei mai venduto.
Non dovevo correre il rischio di venderlo nemmeno per
necessità estrema.
Quindi decisi di donarlo a Human, certa che solo lui ne
avrebbe avuto cura. Accettò inchinandosi con i palmi delle
mani aperte sui lati delle cosce. La testa china.
Quando rialzò la testa, dopo qualche secondo interminabile,
aveva gli occhi lucidi e fieri di un’aquila.
Sulla porta gli chiesi di consigliarmi dove cercare una
piccola casa.
«Venga alle Cure, io ho scelto quel quartiere per il nome.
«È un posto vivo e pieno di grazia.»
Le Cure. Guarire.
Ho comprato una piccola casa lì.
Quattro stanze bagnate di luce. Si affacciano su un piccolo
giardino.
Sono felice. A Settignano non mi ero mai sentita a casa.
Un giorno passai davanti al negozio del signor Human.
Lo salutai velocemente, perché stava parlando con una
donna.
Insistette perché rimanessi e mi presentò Maria Caterina.
«Questa è la donna che amo. Da poco, ma moltissimo.»
Lei sorrise, mi diede la mano e ci salutò.
Human la seguì con lo sguardo. Uno sguardo maschio e
innamorato.
E poi, un occhiolino. Quell’occhiolino.
Le posate di Garibaldi, dono di nozze a mio padre.
12
Olé

«Drusilla, vieni con me.»


L’avrei seguita in capo al mondo.
È lei che mi ha insegnato a scegliere nella vita, anche
ricorrendo alla fuga.
Lei ha ispirato le mie convinzioni più persistenti: prima fra
tutte, mai vivere all’insaputa di se stessi.
Sara.
Donna unica, irrorata di una femminilità asciutta, franca,
priva di vezzi o strategie seduttive. Non alta, bionda,
proporzioni incantevoli, attaches fini, faccia non perfetta ma
luminosa e viva, il seno più bello che abbia mai visto, grande,
eretto, arrogante. Fino all’ultimo. La creatura più svincolata da
schemi e occlusioni mentali che abbia mai conosciuto. Libera,
fino all’ultimo. E soprattutto adesso.
Mente lucida, intelligenza vivace, consapevole e sincera;
Sara agiva su tutti e senza la minima intenzione, una specie di
incanto.
Nessun uomo, nessuna donna sono mai rimasti indifferenti
alla sua bellezza totalizzante.
È lei che mi ha iniziata alla pretesa della lealtà.
A lei devo la mia ringhiosa ostilità all’inganno.
È lei che mi ha mostrato la mia solidità, la mia capacità di
occuparmi di qualcuno.
Grazie, Sara mia.
È strano il rapporto che ho con la morte.
La sua presenza è più potente della sua assenza. Come per
Hervé…
Ho avuto il privilegio di starle vicina negli ultimi istanti
della sua vita, quando, dopo aver superato un cancro al seno, il
mostro che divora è andato indisturbato a spegnerle la testa.
Che sia maledetto.
Si è preso la vita della persona che più mi ha mostrato il
senso della vita. Vaffanculo.
Sara è stata ed è la mia ispirazione costante nel tempo,
dall’adolescenza cubana alla fuga in Texas, fino ai gloriosi
anni americani.
Era orafa e artista. Ha disegnato i gioielli per importanti
film in costume, ha prodotto oggetti affascinanti e potenti,
come lei.
La Spagna ci è sempre piaciuta. O meglio, ci sono sempre
piaciuti gli spagnoli.
Eravamo due vittime tipiche dello stereotipo dello spagnolo
moraccione allegro, un po’ testa di cazzo. Vittime consapevoli
e voraci, quindi tutto sommato predatrici.
A me piacevano più i pocket size, ometti in scala 8:10 dove
il dieci, ovviamente, dovevo essere io. Lei adorava i metri cubi
di carne. Ho visto maschi oversize possenti e strutturati
sciogliersi in pozze di devozione davanti alla sua naturale
potenza femminile. La vera potenza. Che troneggia senza la
necessità di un trono.
Non priva di tenerezza e fragilità.
Io non ero male, ma certamente meno efficace di Sara.
«Regaliamoci una settimana in Spagna fra ragazze, olé!»
Era giugno, eravamo ambedue trentenni.
Il primo giorno a Madrid facemmo l’ennesimo giro al
Prado, dove Sara appuntò veloce sul suo quadernetto la foggia
di alcuni gioielli rappresentati dalle pennellate sicure di
Velázquez, mentre io ero ipnotizzata dalla follia lucida di
Goya.
Dopo la cultura, servono cibo o sesso.
Andammo a cena in un ristorante simpaticamente lussuoso,
dove trovammo entrambi.
Sara aveva una minigonna e una camicia di seta un po’
aperta e incapace di contenere il suo magnifico seno, che
sembrava non prendere in considerazione il senso di gravità.
Io non ricordo com’ero, ma di certo non ero male. Diciamo
che la mia altezza e la sua prosperosità vennero notate nella
sala affollata.
Velázquez e Goya ci avevano affamate ed erotizzate. Dopo
aver ordinato, notammo l’ingresso di due potenziali prede: un
pocket size e due metri cubi di muscoli, entrambi mori,
entrambi ovvi. Perfetto.
L’ovvietà mi ha spesso convinto più dell’inaspettato.
Dopo aver mangiato, prendemmo il caffè insieme ai due
iberici, facemmo amicizia e, senza dare loro il modo di
scegliere, ci spartimmo le prede con l’intenzione di
divorarcele.
Cibo e sesso, in questa successione. Molto bene.
Noche de fuego. Olé!
Il giorno dopo, Sara e io ci trovammo per la prima colazione in
albergo, ambedue molto gratificate da quell’incontro avvenuto
in modo facile, civile e soddisfacente.
Lei mi raccontò svogliatamente del suo, io altrettanto
distrattamente del mio.
Cosa fatta capo ha!
Potevamo tornare alla cultura, per poi proseguire col cibo,
ecc. ecc…
Prima di uscire, il morettino alla concierge ci bloccò per
consegnarci due mazzi di fiori. Uno per me e uno per lei. Fiori
bianchi per me, fiori rossi per lei.
Come sempre, io ero quella bella, lei quella erotica; che
palle. Anche in questo, però, eravamo in qualche modo
simmetriche: io volevo essere lei e lei me.
Ci liberammo dei mazzi di fiori subito.
«Li regali alla sua fidanzata» disse Sara consegnando i fiori
troppo rossi al morettino dietro il banco.
«E questi a sua madre» aggiunsi io cedendo i miei, troppo
bianchi.
Due stronze.
Scoprimmo i nomi dei nostri amanti sui bigliettini
imbustati. Io certo non me ne sarei ricordata, Sara aveva avuto
l’accortezza di scrivere il nome della sua preda su un foglio
che aveva ovviamente buttato. Non eravamo particolarmente
interessate a un nuovo incontro con loro.
Ma dopo un estenuante giro per la città, sfinite dai coccini
assemblati di Gaudí, decidemmo di offrire ai nostri amichetti
una chance per una cena, senza dare per scontato il dopocena.
Li incontrammo separatamente e ci appassionammo ai loro
casi.
Il mio sexy brevilineo si chiamava Manuel. Fisicato ma non
troppo, muscolatura guizzante e nervosa, occhietti piccoli e
vivaci come quelli di un topino fugace, sorriso mefistofelico,
fitti riccioli neri, polsi pelosi a sezione rettangolare (che sono
sempre una garanzia), mani di maschio gentile, sudore dolce di
biscotto. Irresistibile. Più grande di me di dieci anni e più
basso di me di 15 centimetri. Olé!
Inizialmente mi pentii di aver accettato l’invito. Erano gli anni
in cui il sesso e i sentimenti abitavano spesso in me in due
luoghi diversi. Temetti che troppe chiacchiere avrebbero certo
demolito l’efficacia del mio balocco. Trovo che, soprattutto in
gioventù, si debba poter provare almeno una volta l’esperienza
creativa di proiettare su di un compagno di sesso le nostre
fantasie senza che le parole di troppo demoliscano le nostre
proiezioni. Olé!
A metà cena iniziò a raccontarmi la sua vita, e io
frettolosamente chiesi il conto, certa di offenderlo e di
interrompere la “spiegazione del sé” (come la chiamo io) che,
se non richiesta, pone una coltre di insofferenza su qualsiasi
individuo. In fondo io ero interessata ai suoi baci, non certo
alla sua storia, né tantomeno al suo mondo interiore…
Stavo per gettare la spugna, quando con arroganza mi disse
una cosa assurda:
«Sai, io sono molto ricco.»
In quel momento realizzai che non avevo mai sentito
pronunciare quelle parole così insensate da dire. Eppure ne ho
conosciuta di gente ricca e volgare, ma nessuno aveva avuto
l’esigenza di dichiarare la propria ricchezza, forse perché era
evidente come la loro volgarità. L’eleganza e la ricchezza non
sono minimamente collegabili, ma la ricchezza e la volgarità
sono spesso figlie della stessa madre.
Fui sorpresa da quell’affermazione brusca e inaspettata,
corredata da un sorrisino inspiegabile, che mi incuriosì.
Manuelito mi parlò della sua ricchezza. Una ricchezza
bizzarra.
Di estrazione borghese, scappò dal perbenismo famigliare
fuggendo ancora minorenne da Toledo. Molto giovane e
carino, cominciò a fare compagnia a signore più grandi di lui.
Leale, senza vergogna… Molto bene.
Il fatto che fosse stato una marchetta non era certo un
problema. Mi fece molta simpatia pensare che il suo
eccezionale talento di amante era quindi frutto di duro lavoro
sul campo.
Essendo io un’accesa sostenitrice della meritocrazia,
cominciava ad avermi in pugno.
Lavorava di giorno come lavapiatti per potersi pagare una
specie di apprendistato per imparare la cosa che più amava al
mondo: affettare prosciutti.
Le quotazioni erotiche di Manuel stavano raggiungendo
livelli altissimi…
Aveva studiato per cinque anni presso il suo maestro
affettatore, per lui nuovo padre e col tempo divenne il
cortador de jamónes di jamón ibérico più famoso al mondo.
Guadagnava valanghe di danaro spostandosi in tutti i
continenti, affettando prosciutto per aristocratici inglesi,
presidenti americani, magnati russi, principesse francesi e
italiani di grande potere, tra cui il papa.
Era cortador de jamónes della famiglia reale spagnola e
aveva ricevuto dal re un’onorificenza. Lui stesso si sentiva
ridicolo a ricevere compensi insensati, a viaggiare in auto
scortate, ad alloggiare in residenze di lusso, tutto per affettare
prosciutti!
So che è inverosimile, ma a tutt’oggi i cortadores de
jamónes, quando sono quotati, sono delle vere star. Viaggiano
per il mondo in jet privati con una valigia di coltelli, un
prosciutto e un grembiule pulito, guadagnando milioni di
dollari solo per affettare jamón ibérico per tutta l’élite
mondiale o per fare expertise del celebre prosciutto spagnolo.
Esiste anche una severissima accademia, da cui escono
pochissimi cortadores esperti. A oggi ce ne sono solo quindici
di fama internazionale. Esiste anche un campionato che si
tiene a Moguer in Andalusia… da non credere (documentatevi,
se non mi credete).
Manuel fu uno dei primi a essere considerato una celebrità
nel suo lavoro.
E forse l’uomo più simpaticamente agiato con cui abbia
fatto sesso.
Quella fu l’unica volta in cui sono stata attratta dalla
ricchezza. L’unica.
Forse perché derisa dal ricco stesso.
Certo, a posteriori fa un po’ schifo pensare che la first lady
americana spendesse soldi pubblici per un piatto di affettati.
Suvvia, è decisamente immorale…
Ma in quel momento, confesso che il mio unico pensiero
era di averlo nudo nel letto e mi parve, da lì in poi, che
profumasse anche un po’ di prosciutto dolce.
Fu una settimana di sesso indimenticabile.
La giornata in giro con Sara e la sera a letto con
l’affettatore di prosciutti. La vita perfetta.
Il giorno prima della nostra partenza da Madrid, Manuel mi
guardò con i suoi occhi accesi e mortificato mi disse che
sarebbe dovuto partire per Hong Kong ad affettare prosciutti
chissà per quale politico orrendo. Non ero certo innamorata,
ma ne fui molto dispiaciuta. Quel piccolo uomo mi piaceva
moltissimo ed è stato il miglior amante che abbia avuto.
Anzi, realizzo ora, mentre digito sulla tastiera, che forse fu
l’ultima volta in cui ho vissuto il sesso in modo simpatico.
Almeno l’ultima volta in cui ne ho goduto senza conflittualità
interne, in allegria e facilità.
Il giorno successivo io ero senza amante e Sara rinunciò al
suo, per amor di simmetria. Mi raccontò del suo metrocubo di
muscoli, che scoprimmo essere il proprietario dell’albergo
dove alloggiavamo solo al momento di pagare il conto.
Sara ne fu molto stupita e ammise che forse non gli aveva
dato lo spazio per parlarle di sé, temendo l’effetto “coltre di
insofferenza”.
Salimmo sul taxi e arrivammo all’aeroporto.
«Bene, abbiamo tre ore… let’s go shopping!» squillò Sara.
«Ma Sara, guarda il tabellone. Il volo per Roma è tra
un’ora.»
«Ma noi non andiamo a Roma. Cambio di programma:
andiamo a New York.»
Il biglietto aereo per l’inaspettato cambio di programma.
13
Etta

Tutto sommato sono sempre una donna ragionevole.


Ho sentito spesso definirmi “un po’ matta…”, una visione
di me che tende a innervosirmi.
Le persone che usano questa frase fatta, stupidamente
affettuosa, sono spesso soggetti che non riescono
minimamente a comprendere quanta volontà e lucidità siano
necessarie per fare una scelta fuori dai parametri del buon
senso comune. Il buon senso comune non richiede molto
impegno poiché, in quanto tale, ha sempre l’approvazione
della comunità.
Detto questo: non disapprovo il “buon senso comune” solo
se la comunità in questione ha dei valori che hanno in sé il
“senso del buono”.
Durante il nazismo, in Germania fu considerato buon senso
comune sterminare gli ebrei. Credo che questo sia sufficiente
per chiarire la mia visione.
La ragionevolezza è un valore soggettivo che trovo di gran
lunga più convincente.
A patto che essa, ovviamente, abbia in sé il “senso buono”
del rispetto di sé, e come naturale conseguenza quello altrui.
Confesso di detestarmi quando faccio un po’ la maestrina,
ma su certi temi desidero non essere fraintesa. Io non sono
affatto “un po’ matta”, anzi.
Certamente ho una grande devozione verso tutto ciò che è
inaspettato, un punto di arrivo a cui si giunge solo partendo
dalla consapevolezza di voler andare incontro allo stupore.
Tendo a fuggire l’ovvio che non mi emoziona, come la
scena di guerra in un film di guerra.
In quel momento sentii in modo delineato che volevo farlo,
che ero pronta per farlo.
Intuivo che avrebbe portato a un cambiamento sostanziale,
anche se era solo un cambiamento di rotta aerea. E poi con me
c’era Sara, e quando c’era lei con me la ragionevolezza di cui
mi vanto ha sempre lasciato il posto alla totale fiducia in lei.
Madrid-Siena o Madrid-New York?
Come dover scegliere tra la pomiciata con l’amante un po’
consumato e la prima notte di sesso con un’amante che ancora
si deve scoprire…
Durante il volo fui un po’ agitata. Non so per quale ragione,
ma in aereo si amplificano in me le rabbie, i ricordi, gli
entusiasmi, i dubbi. Forse è l’alta quota.
Sara si accorse del mio sguardo crucciato e me ne chiese il
motivo.
Riuscii, come sempre, a contenere la mia natura tormentata
ridendo del fatto che avevamo un bagaglio funzionale a
qualche giorno spagnolo birichino, non certo a una non ben
quantificata permanenza nella Grande Mela.
«Stai tranquilla Dru, quando ci saremmo annoiate
torneremo a casa. Promesso.»
La promessa più vaga e insensata che potessimo farci.
Ero stata spesso a New York, ed erano anni in cui annoiarsi
in quella città era assai difficile. Ciononostante quella
promessa mi tranquillizzò. In fondo non avevo niente che mi
trattenesse in Italia: non avevo un amore, i miei genitori erano
in salute e si erano trasferiti per tre mesi a Tunisi per riposarsi
dopo la faticosa vendita della fattoria a Siena, vendita che
portò un bel po’ di danaro nelle tasche di tutti noi, me
compresa.
Piacente, ricca, libera. New York. Si può fare…
Trovammo alloggio la prima settimana come ospiti di
un’amica di Sara, Lopa, una DJ di grido, regina incontrastata
dello Studio 54, grazie alla quale si scavalcavano i severissimi
casting all’ingresso nelle discoteche più esclusive di New
York.
Casting che avremmo di certo superato anche senza il suo
aiuto, tenne a precisare Sara.
Eravamo felicissime, instancabili, insaziabili.
L’ultimo periodo assolutamente vitale della mia vita.
«Dobbiamo vivere a New York.»
Pur condividendo in pieno l’entusiasmo di Sara, sentii di
doverlo moderare, immaginando più facilmente una lunga
permanenza che un trasferimento definitivo.
Ragionevolezza…
Sara cominciò a fantasticare sul nostro futuro newyorkese:
«Io mi metto a far gioielli e tu… tu… tu…»
Esitò sulla progettualità che riguardava me.
«Tu… tu… tu…»
Come il suono di una telefonata andata a vuoto.
Vuoto come l’assenza di un’ipotesi.
Eh, io? Che cosa avrei potuto fare in quella città? Non
avevo intenzione di fare la solita rampolla europea cretina che
sosta in una città sculettando in discoteca e niente più.
Chiamai mia madre, a cui parlai del progetto di restare un po’
in America.
«Tesoro, è un’ottima idea, ma trovati subito un lavoro. I
soldi che hai sono gli unici che avrai da noi. Fai quattro
chiacchiere con Etta, è una vecchia amica molto saggia. Ti
consiglierà su come muoverti. Quando la incontrerai, per
cortesia, sii in ordine.»
E quando mia madre diceva “in ordine” significava
adeguata.
Aggettivo nebuloso quanto spietato.
Chiamai Etta, che mi invitò a colazione in un ristorante in
Turtle Bay nella East Side di Midtown, dove mi presentai “in
ordine”.
Chemisier mauve di jersey di seta con cinturina foderata
dello stesso tessuto, scarpa tacco 5 e borsa, tutto testa di moro.
Appuntare: mauve e testa di moro. Facile e infallibile.
Etta Janet Fox era una donna già allora molto anziana,
moglie di un certo Mister Sondheim, un ricco industriale
manifatturiero dal cognome smaccatamente semita. Il figlio di
Etta, Stephen, era ed è un celebre compositore di musical. Chi
ama questo genere metta insieme nome e cognome e uscirà
fuori il genio di Broadway.
Indossava un tailleur beige con una gonna sotto il
ginocchio, capelli raccolti, e camminava lesta ma un po’
zoppicante. Parlammo a lungo, poi dopo un pasto leggero
facemmo due passi, durante i quali incontrammo una sua
amica che portava il cane a spasso.
«May I introduce you Miss Houghton?» Feci un sorriso,
accarezzai il cane e proseguimmo. Quello che avevo potuto
vedere della faccia di Miss Houghton mi era vagamente
familiare, pur essendo camuffata da un enorme foulard di seta
sulla testa, un cappellaccio molto calzato sopra e grandi
occhiali da sole. Restava fuori la bocca. Quella mi diceva
qualcosa…
«Hai visto com’è brutto il cane di Katharine Houghton
Hepburn?»
Proseguimmo la nostra passeggiata. Etta mi consigliò di
vivere la città, di ascoltarla, di capire quale zona mi colpisse,
camminare, camminare, camminare…
«Fidati, le migliori idee vengono camminando. Le decisioni
più importanti della mia vita le ho prese camminando. Sii certa
di te, cara. Hai un aspetto piacevole, hai gusto, parli inglese
con un accento adorabile e soprattutto sei europea. I
newyorkesi sono terribilmente complessati, li avrai in pugno
facilmente.»
Dopo qualche minuto di silenzio, mi chiese:
«Sei capace di fischiare?»
«Certo.»
«Ti va di fischiare a turno una canzone che ci piace per
trenta passi?»
Così facemmo. A turno una contava mentalmente i passi,
l’altra fischiava, tutto questo per circa un’ora. Lei,
nazionalista, eseguì standard di autori americani, come Cole
Porter e Duke Ellington; io la stupii con un repertorio più
variegato: Francia, Italia, Spagna, Brasile.
«Voilà, une vraie cosmopolite…»
Deliziosa stilettata di sarcasmo ebraico, accolta.
Che pomeriggio indimenticabile. Non avevo mai fischiato per
strada a New York con un’ebrea americana, miliardaria, madre
del genio del musical, incontrando Katharine Hepburn e il suo
bruttissimo cane.
Dopo che lei ebbe fischiettato un motivetto allegro e
orecchiabile, ci salutammo davanti al portone di casa sua,
promettendoci di fischiare ancora insieme.
Per molto tempo mi rimase in testa l’ultima canzoncina, di
cui non sapevo il titolo. Peccato non riuscire a fischiare dalle
pagine di un libro, sarebbe adorabile…
Tornata a casa, raccontai a Sara e a Lopa del buffo incontro
con Etta, del cane della Hepburn, dei passi contati, delle
canzoncine fischiettate, ed eseguii loro quella che mi
tormentava da un’ora, cercando di liberarmene. Lopa la
riconobbe.
«È Secondhand Rose, una vecchia canzone che parla di
Rose, una ragazza che ha un negozio di usato…»
Sara si illuminò. Fissò intensamente un angolo della stanza
per qualche interminabile secondo. E come un oracolo tuonò:
«Un negozio di abiti usati! Apriremo un negozio di abiti
usati! Tu venderai cose europee e io i miei gioielli. Sono un
genio!»
Sì, Sara mia, lo sei, e il tuo genio mi manca.

Sara by night in New York.


14
Delete the Drama

Camminare, camminare, camminare.


Camminammo, camminammo, camminammo.
E fantasticammo. Innanzitutto dovevamo trovare un nome
per il nostro negozio che convincesse entrambi, e dopo varie
ipotesi decidemmo di onorare il motivetto di Etta e chiamarlo
“Secondhand Dru”. Sara insistette perché ci mettessi il mio
nome, dando ambedue per scontato che fossi io a metterci i
soldi, che a dire la verità mai furono spesi meglio.
Solo dopo un bel po’ presi coscienza che Secondhand Dru
può anche essere tradotto come “Drusilla, donna di seconda
mano”; una visione di me che, per lealtà, non ho ritenuto mai
di dover smentire.
Il nome c’era, mancava il luogo.
Anche se impressionante, la tonalità presuntuosa dei
quartieri buoni di Manhattan non ci convinceva un granché.
Camminando, camminando, camminando giungemmo nel
Village, il noto quartiere allegro e vitale che mi ha sempre
ricordato la Rive Gauche parigina. Il luogo dove da sempre
scorreva la cultura alternativa di NYC , dove si concentrano
diversi teatri off-Broadway. Il Village fu la fucina di molti
movimenti come la bit generation e nel 1969 fu il punto di
partenza da cui nacque il movimento di liberazione
omosessuale con base allo Stonewall Inn.
Oggi è senza dubbio uno dei quartieri residenziali più
costosi della città, ma allora i prezzi erano avvicinabili. Era la
giusta location per il nostro Secondhand Dru.
Il giorno dopo incontrai Etta, alla quale presentai Sara, per
aggiornarla sulle nostre decisioni. Fu entusiasta delle idee e
lusingata per essere stata la nostra musa ispiratrice.
Camminammo e fischiettammo un po’ anche quel giorno.
Optammo per un repertorio francese, lei prevalentemente
Trenet, io molto Aznavour.
Sara, non sapendo fischiare, ci ascoltava incantata.
Poi, prima di salutarci, la nostra musa disse:
«Certamente abbiamo qualcosa nel Village, indago e ti
saprò dire.»
Infatti “avevano qualcosa”. I Sondheim erano proprietari di
gran parte dei fondi commerciali di quel delizioso quartiere,
tra i quali uno di cui mi comunicò l’indirizzo: 21, Hudson
Street.
Il locale aveva una porta smilza e lunga, a vetro. Gli infissi
di ghisa incorniciavano una piccola vetrina dalle proporzioni
curiose. La stanza in ingresso era di dimensioni ridotte, circa
tre metri per tre. La parete frontale all’ingresso aveva due
piccole aperture gemelle, senza porta, da cui si accedeva a un
enorme magazzino sul retro, illuminato dall’alto da un soffitto
in vetrocemento. Meraviglia pura.
Etta lo considerò il suo regalo di benvenuto nella Grande
Mela, e mai tirai fuori un dollaro per l’affitto.
Cominciammo i lavori di ristrutturazione, che durarono
all’incirca due settimane. Facemmo realizzare una “schiena”
per la vetrina, che divenne una scatola delle meraviglie. Ne
colorammo l’interno di un blu pavone scuro, che avrebbe
valorizzato i gioielli luccicanti di Sara e l’unico capo vincente
che avrei esposto sulla strada. Niente insegna, solo una
presuntuosissima piccola scritta argento sul vetro, spostata
verso la maniglia della porta d’ingresso:
“SECONDHAND DRU – European Secondhand Clothes”.
Spaventate dall’horror vacui del grande deposito sul retro,
comprammo tre divani usati e un grande tavolino centrale
allestendo un salotto, il primo in stile garbage che abbia mai
visto, dove col tempo iniziai ad accumulare gli abiti che mi
facevo mandare dall’Europa dalle mie amiche “nate bene”,
facendo un calcolo approssimativo dell’età degli augusti
genitori per poterne ipotizzare l’avvenuta morte.
Industriali torinesi, principesse romane, nobildonne toscane
fecero a gara per liberarsi in blocco dei guardaroba dei cari
estinti. Allora svuotare gli armadi era considerata solo una
seccatura. Pur dispiaciuta per i lutti oltreoceano, attendevo con
gioia nei mesi i continui arrivi degli enormi scatoloni pieni di
abiti delle Sorelle Fontana, smoking di Caraceni, completi di
Baratta, cappe Schiaparelli e qualche capo un po’ trasgressivo
prodotto da un amico pellettiere di Santa Croce sull’Arno: tute
da motociclista, pantaloni di pelle, giubbotti aggressivi, che
venivano esposti nel corner del magazzino chiamato
“Shocking Dru”, che allora mi rappresentava molto.
Sara produsse dei gioielli strepitosi, che galleggiavano nella
vetrina tenuti a mezz’aria da fili di nylon che il suo amante
pescatore, un ragazzone molto sexy, veniva ad annodare in
modo invisibile a ogni cambio di vetrina.
Dopo un’iniziale diffidenza, divenimmo le star di Hudson
Street, e nello specifico Sara fu il sogno erotico di ogni
maschio che sostava davanti al negozio.
Io avevo un successo meno trasversale, ma sufficiente per
essere nella condizione di poter scegliere. Condizione che
trovo molto pratica.
Ricevevamo i clienti nella prima stanzina, anch’essa blu
pavone, dove avevamo posizionato un tavolino-teca
contenente i gioielli di Sara, qualche guanto di nappa bicolore
e alcune montature di un’antica occhialeria ligure.
Alle pareti vari appendiabiti, su cui era posizionata la nostra
scelta di cappelli.
Le velette, che ho sempre detestato, erano bandite.
Una volta ascoltati i desideri dei potenziali clienti, essi
venivano invitati a varcare le piccole porte gemelle e ad
accedere al nostro sgangherato salotto, dove veniva offerto
loro un bicchiere di vino rosso o del pane con l’olio che mi
facevo mandare dalla “nostra” fattoria che, benché non più
nostra, seguitava a produrre un Chianti (pessimo) e un olio
(modesto) che i newyorkesi, ovviamente, trovavano squisiti.
La clientela crebbe velocemente e, con essa, la nostra fama.
In poco tempo, anche le alte sfere della città mostrarono
curiosità per il negozio delle due europee bizzarre.
Il Chianti, l’olio, l’eccezionalità dei capi in vendita e la
nostra esuberanza scatenarono un passaparola soprattutto fra
gli artisti: musicisti, drammaturghi, scrittori, rockstar e alcuni
dei personaggi più “giusti” della New York “giusta”.
Spero di non deludere nessuno ammettendo che ho
conosciuto molti personaggi celebri non, come si crede, per
l’assurda convinzione tout court che io sia da sempre ben
introdotta, ma perché essi gravitavano intorno a Secondhand
Dru, perché erano clienti o semplici fruitori di un Chianti
pessimo.
Aretha comprò svariate pellicce; Freddie un eccentrico
chiodo di pelle di Santa Croce sull’Arno; Truman giacche di
alta sartoria napoletana ma fuori misura, che lo facevano
sembrare il nanetto Cucciolo di Biancaneve, Dionne non
rinunciava ai vestiti grande soirée di qualche contessa
fiorentina di bassa statura, che sulla scicchissima interprete
nera diventavano dei babydoll, Miss Jones a cui stava tutto
divinamente anche quando era sbagliato, Woody, che veniva a
bere vino e a osservare le nevrosi degli artisti, come se ne
avesse avuto bisogno, e senza mai tirar fuori un dollaro.
Ci si trovava tutti i sabati sul retro del negozio e si
commentava il nuovo disco di Bob Dylan, gli ultimi lavori di
Pollock, il libro appena uscito di Capote. Secondhand Dru
divenne uno dei salotti culturali più ambiti della città. Si pensa
erroneamente che la Grande Mela, alla metà degli anni
Settanta, fosse una città vissuta freneticamente all’esterno.
All’interno, invece, covava numerosi assembramenti domestici
che, a differenza del nostro Secondhand Dru, erano spesso
animati da interessi monotematici. Scrittori che frequentavano
solo scrittori, musicisti che incontravano solo musicisti, o
ancora fashion victim che vedevano solo fashion victim, a mio
parere la categoria più noiosa.
Una ghettizzazione tematica che ha il merito di aver
prodotto correnti artistiche, musicali e letterarie fondamentali
per la cultura di allora e il cui valore ispira ancora oggi le
nuove generazioni. Mi sono sempre chiesta: con tutta la
musica a disposizione, come mai ci sono quindicenni che
ascoltano ancora Bob Dylan?
Da noi no, non è nata nessuna corrente artistica, ma solo un
flusso inarrestabile di confronti vivaci, qualche abito ben
tagliato, pane con l’olio e vino. Forse fu proprio questa
alchimia di elementi, per natura diversi tra loro, a decretare il
successo piacevole e naturale di quel luogo. Certo, si crearono
delle invidie insensate da parte degli altri “clan” culturali.
Seppi che in Factory mi chiamavano la “Duchesse Italienne”,
e mi innervosii molto. Mi stupì l’esigenza piccoloborghese di
darmi un’etichetta da parte di un gruppo di persone che si
vantavano di essere antiborghesi e libere da etichette.
Per di più chiamata come un panino briosciato…
Inaccettabile.
(Ci fu qualche scontro inutile su questo tema. Qualcuno mi
definì snobbish per aver ignorato un mio ipotetico ritratto fatto
da Andy, mai visto, della cui esistenza ho sempre pensato che
fosse una bufala per screditarmi come irriconoscente. Secondo
me non è mai stato realizzato, anche se una mia amica pratese,
molto bionda, sostiene di averlo visto in casa di un russo al
Forte dei Marmi… Se così fosse, ben gli sta.)
I miei rapporti tesi con la Factory non mi impedirono di
stringere buone relazioni con alcuni di loro. Penso a Elsa
Peretti, donna dalla bellezza e dall’intelligenza ipnotiche,
icona che incantò Helmut Newton e non solo.
La rincontrai dopo decenni, nel 2017, quando portai il mio
spettacolo Eleganzissima nel suo teatro Akadèmia a
Barcellona.
Ci riconoscemmo subito, anche se ambedue mutate nel
tempo.
Come se ci fossimo viste il giorno prima, mi consegnò
bruscamente una scatola, forse l’ex confezione di una candela
da tavolo, di cartone blu un po’ ammaccato, contenente
cioccolatini avanzati da scatole diverse, il tutto bloccato
internamente con un foglio di cellophane perché non
ciottolassero fra loro, e un nastro di stoffa stropicciato a
chiudere il tutto. Questa è la mia idea di eleganza.
Un gesto sentito e naturale che solo una persona intima può
permettersi, in nome di scorpacciate di cioccolato avvenute
alcuni decenni prima, sedute sotto le stelle sul tetto di un
grattacielo. Evviva Elsa, forever.
Secondhand Dru è l’esperienza che più ha segnato la mia vita.
Mi ha insegnato il valore dell’impegno quotidiano e
l’impagabile sensazione di far parte di una comunità, mi ha
mostrato la concretezza e la volontà che non pensavo di avere.
E poi mi sono divertita, molto. Moltissimo.
Sono stati anni imbevuti di una libertà totalizzante che mai
più ho sentito scorrere in me. Senza giudizio verso me stessa.
Con ordine, ma in disordine.
Anche se adesso, pensando ai nostri tour delle discoteche…
be’, un lieve imbarazzo verso me stessa anziana lo avverto.
Il culmine di gioia spregiudicata esplodeva nel weekend.
Già allegri di Chianti, indossavamo tutti un capo un po’
eccessivo e verso le nove di sera, non tardi come si usa ora, si
cominciava il giro dei club fino a sfinirci in discoteca. Non si
può immaginare quale paradiso fosse New York in quegli anni
per chi, come me e Sara, sentiva di avere il diritto alla felicità.
Alla lievità.
Non credo di essere entrata mai in una discoteca senza
avere le gambe scoperte fino all’inguine. Forse in qualche caso
eccezionale indossavo una tuta di pelle nera leggerissima e
attillatissima. Peggio che esser nudi. Certamente non ricordo
di essere mai uscita da una discoteca sobria e senza aver
baciato nessuno. Tutto si poteva, tutto si era autorizzati a
provare, dalle cose più illegali alle più immorali, senza
ossessività, dipendenza o prigionie.
«Si può far tutto, basta scegliere di starci dentro.»
Ed è vero, solo stando dentro le cose si capisce veramente
bene quando è il momento di uscirne.
E quel momento arrivò con due avvenimenti ben distinti.
Quella mattina Sara entrò nel salotto della casa dove
vivevamo insieme da tempo, con un’aria turbata. Aveva ancora
i pantaloni del pigiama e una maglietta giallo uovo con una
scritta nera DELETE THE DRAMA .
Ci sedemmo. «Drusilla, devo andare via da New York.»
Mi sentii come un bambino che assiste alla decapitazione di
un unicorno.
«Che succede, Sarina mia?»
«Devo tornare in Europa. Una mia amica ha un brutto male
e desidero starle vicina.»
Sara partì dopo una settimana per raggiungere la misteriosa
amica che mai avevo sentito nominare. Che infatti non
esisteva.
Il mio angelo si era allontanata da me perché non assistessi
alla voracità del cancro che l’avrebbe consumata in pochi
mesi. Era lei la sua amica.
Dopo alcuni giorni trovai in un mio cassetto la maglietta
gialla con la scritta DELETE THE DRAMA , ancora con il suo
profumo.
Un fogliolino fra le pieghe delle maniche con la sua grafia.
“Go on, sist.”
Non desidero sostare oltre su questo distacco. Non saprei
come descriverlo.
Tutto sarebbe infinitamente minore di ciò che provai, di ciò
che provo.
Non andai al lavoro per una settimana, poi mi decisi: basta con
Secondhand Dru, basta!
Questa decisione, che non fu sofferta tanto mi era chiara,
coincise con le prime visite in negozio di un soggetto
dall’aspetto sinistro e minaccioso, come può esserlo solo la
mafia italoamericana newyorkese.
L’ennesimo segnale che quella stanza della mia vita andava
chiusa.
C’ero stata dentro con pienezza, e ora sentivo con
altrettanta pienezza l’esigenza di uscirne. Il giorno del
compleanno di Sara, il 15 ottobre, aprii il negozio e lasciai che
venisse svuotato da chiunque passasse.
Tutti uscivano con un abito, un disco, una lampada, un
cuscino, una sedia… oggetti fortemente voluti e scelti con
Sara.
Fu una giornata inspiegabilmente serena, in cui sentii
costantemente Sara al mio fianco. “Delete the drama, sist. Go
on.”
Così feci, così faccio.
La maglietta di Sara.
15
Fiaba

Era una bambina quando le fu imposto di sposare un uomo


più vecchio di lei.
Quando venne al mondo fu deciso che doveva essere così.
Quella mattina fredda di gennaio del 1600.
Il primo giorno di gennaio a cavallo fra due secoli, uno più
livido dell’altro.
Ma Ella fu per i suoi genitori un raggio di sole, perché la
ebbero in tarda età dopo cinque fratelli maschi.
La nascita di una femmina, dopo una successione al trono
sicura, venne accolta con l’unico sentimento che la nascita di
un figlio pretende. L’amore.
Il giorno in cui incontrò il suo futuro sposo aveva
quattordici anni.
Un vasto abito color piombo illuminato da ricami
d’argento fitti e sottili. Rose e cardi.
I fiori del suo casato. Rose e cardi. Fiori meravigliosi. Con
le spine.
I capelli raccolti biondo cenere abbracciavano un piccolo
diadema d’oro tempestato di cristalli di rocca, ametiste,
topazi. Pietre non preziose, ma simboliche.
Si dice che l’avesse fatto per lei un orafo, ma donna.
La sua nutrice pianse quando terminò di vestirla.
«Sei l’anello fra la terra e il cielo.»
S’incamminò verso la sala centrale del palazzo come a un
martirio.
Il suo promesso sposo aveva venticinque anni più di lei. Ed
era bellissimo.
Vissero nell’amore, un amore vasto e caldo, fino a che Dio
non li separò, dopo soli quindici anni.
Divenne vedova e regina senza la gioia di un figlio,
amputata nel desiderio e logorata dalla solitudine.
Quel dolore fu, per tutta la sua vita, un rumore fisso e
continuo nell’anima, come il fischio afono di chi non sa
fischiare.
Tutta l’aria di quel suono era sottratta al suo respiro.
Portò la corona con fierezza, polso e cuore, e con essi il
lutto.
Fu sovrana amata e rispettata.
Poi si ammalò.
Le ossa si sbriciolavano e i pochi respiri che le rimanevano
divennero preghiere che furono accolte. Stava morendo.
La corte la ritenne folle, quando barcollante apparve
vestita di rosa pallido e aveva sostituito i gioielli del lutto,
scuri e solenni, con altri della stessa foggia, ma chiari e
luminosi come il sole.
Il suo dolore di giovane vedova era divenuto serenità.
Avrebbe incontrato di nuovo il suo Re, l’uomo che l’aveva
resa regina, donna e femmina.
Dopo pochi giorni, l’anello fra la terra e il cielo morì. E
visse in eterno.
Ritratto di Mustafa Sabbagh presente alla mostra “Itinere”.

L’esposizione conteneva miei ritratti fotografici e alcune opere d’oreficeria di Sara,


a cui dedicai questa fiaba nell’introduzione del catalogo.
16
“Fly”

Tendo a non mentire, ma quella volta fu utile farlo.


Non credo essere l’unica a cui Yōko Ono non sta simpatica.
In genere mi piace indagare in modo approfondito su una
persona, ma in questo caso tendo a fidarmi della mia
impressione, senza averla mai incontrata.
Ne avrei anche avuta l’occasione, perché Mrs Lennon
aveva spesso gironzolato come una mosca fastidiosa intorno a
Secondhand Dru, senza mai degnarci di una visita.
Qualcuno del nostro clan sperò in una sua divina irruzione
nel nostro salottaccio sgangherato, ma la maggior parte di noi
ne avrebbe fatto volentieri a meno, me compresa.
Ciononostante, ammetto che, essendo un implacabile
possibilista, mi avrebbe divertito scoprire che fosse una
simpatica mattacchiona e non quella spettrale signora,
presuntuosa e snob. Sul talento avrei da ridire. Non credo
fosse il suo tratto principale, tuttavia mi sono avvicinata
cautamente al suo lavoro, scoprendo che non era del tutto
privo di intuizioni interessanti.
Fu illuminante un libro di un amico, Matteo B. Bianchi, a
farmi comprendere il valore di questa artista così detestata,
regalandomi Dichiarazioni d’amore per una donna circondata
d’odio, una biografia molto interessante che scardinò la mia
percezione di Mrs Lennon come artista insopportabile.
Ammetto però che fino al 2018, data di uscita del libro di
Matteo, per me Yōko Ono era semplicemente una stronza. Ma
con un suo chic.
1971, New York.
David non mi convinceva affatto. Pur essendo attratta dal
suo aspetto, era (spero sia) uno di quei maschi che
sostituiscono il plasma con l’ego. Un ego instancabile,
vanitoso e poco convincente. Certamente de-erotizzante.
Funzionava il contenitore, ma non il contenuto.
Pur sostenendo di non avere un genere fisico maschile che
mi attrae più degli altri e che tutti gli uomini potenzialmente
mi piacciono, sento anche di poter affermare che, affinché un
uomo mi possa piacere, deve essere naturale, e questo depenna
il 97 per cento dell’universo maschile. Non c’è niente di più
sexy di un uomo che non sa di esserlo…
Ciononostante, poiché sono un’“implacabile possibilista”,
decisi di dare a David l’ultima chance e di accettare un ultimo
invito. Che fu letale.
«Ti va di venire con me al MoMA? Yōko Ono farà una
performance…»
Invitare me a una performance di Yōko Ono è come
invitare Dolly Parton a un ritiro spirituale in Cappadocia…
Già prima a rischio di essere defenestrato, in un secondo il
povero David si trovò fuori dalla finestra col culo per terra.
Ciononostante accettai l’invito, così come si accetta un
intervento a cuore aperto, sapendo che il chirurgo è
un’estetista.
Svogliatissima, uscii di casa dirigendomi al MoMA per
assistere al Yōko Ono - One Woman Show.
Camminando, incontrai per strada una vecchia fiamma mai
consumata, uno sgangherato giornalista irlandese, che ammise
di aver avuto, come me, l’intenzione di andare al MoMA, ma
che, spaventato dalla grande folla fuori dal museo, si era
convinto a tornare indietro, incontrando appunto me.
Yōko 0 - Drusilla 3.
Decisi di bere un drink con lui, pensando che non sarebbe
stato grave arrivare in ritardo alla performance: Yōko Ono non
se ne sarebbe di certo accorta e avrei dato un tiepido segnale di
disinteresse al boriosissimo David.
Bevemmo un drink, anzi due. Sono quasi certa che fossero
tre.
Poi il mio irlandese mi baciò davanti a tutti. Finimmo a
casa sua.
Yōko Ono, ciao.
Ricevetti una telefonata di David mentre ero di ritorno a casa
e, in via del tutto eccezionale, decisi di mentire.
«Ma dov’eri, David? Non ti ho visto, c’era una tale quantità di
persone… Yōko è stata straordinaria…»
«È vero, era strepitosa. Ti ho cercata ovunque, Drusilla,
neanch’io ti ho vista. Ha cantato dei pezzi di “Fly”, il suo
ultimo disco, davvero molto interessante.»
In effetti quell’anno era uscito “Fly”, lavoro di Yōko Ono che
trovai, diciamo, “poco godibile”. Pensai che l’avevo scampata
bella non andandoci…
Un po’ pentita dell’inganno, che in fondo nemmeno un
uomo noioso e sciocco come David meritava, andai a cena con
Sara da alcuni amici. Uno di loro aveva assistito alla
performance alla quale non ero andata, e alla quale in realtà
non era andata nemmeno Yōko Ono.
La performance consisteva infatti nel creare un’aspettativa,
negarla non presentandosi e filmare la reazione delusa delle
persone al museo.
Pas mal…
Solo dopo un attimo mi resi conto della brutta figura che
avevo fatto nel sostenere, senza cognizione di causa, che la
presenza di Mrs Lennon fosse stata “straordinaria”, ma
immediatamente realizzai che anche David mi aveva mentito.
Quell’esubero di bugie ebbe come conseguenza la
sparizione di David, che mai più mi cercò. Molto bene.
Fu uno dei pochi casi in cui non mi pentii di aver mentito
per una sciocchezza.
In genere mento per qualcosa di importante, e mai contro
qualcuno.
Le bugie hanno una dignità proporzionale alla posta in
gioco.
Qua la posta in gioco era uno stronzo come lui e una
stronza come me.
Ma mi chiedo, stronzi a parte: quale fu la verità?
Ho delle ipotesi da proporre:
La prima.
David assistette alla performance mentendo sulla presenza
di Yōko Ono, certo che i giornali avrebbero parlato della sua
assenza, facendomi così sentire la stronza predominante.
(Un pensiero troppo fine anche per un narcisista: lo
escluderei…)
La seconda.
Vista la folla, trovando la fila inaccettabile per il suo ego,
nemmeno mise piede al MoMA e se ne andò, ma per
giustificarsi con me inventò la storia di non avermi vista.
(Fosse questo l’accaduto, sorrido pensando a quanto
stronzo si sarà sentito il giorno dopo leggendo i giornali… mai
abbastanza, direi.)
La terza.
Mi aveva invitato al MoMA già deciso a darmi un bidone,
percependo l’evidente rifiuto della sua corte, e uscire così
vincente da quella sconfitta cocente.
(Ipotesi da non escludere, considerando la pochezza del
personaggio.)
Si accettano scommesse…
Se vi sono ipotesi trattabili su come andarono le cose, vi è la
certezza assoluta di quanto fu stronza Yōko Ono, non tanto per
la presunzione della sua performance, quanto per l’invito che
ricevetti dal MoMA per assistervi.
Il flyer ritrae la facciata del museo dove è inquadrata
l’insegna con le scritte Museum of Modern Art, le cui iniziali
formano la parola MoMA. Nella foto appare l’artista
giapponese che ha in mano una busta bianca su cui è stampata
un’enorme “F ”.
La “F” tenuta in mano da Yōko si posiziona esattamente fra
le parole “Modern” e “Art” dell’insegna.
Museum of Modern Fart, cioè “Museo della scorreggia
moderna”.
Yōko Ono. La più stronza di tutti noi.

Invito per la performance di Yōko Ono al MoMA di New York.


17
Tinca

Mi piaceva moltissimo.
L’affetto, la consuetudine alla sua presenza, il senso di
appartenenza hanno certamente avuto la loro parte di
responsabilità nell’amore che ho per lui, ancora oggi.
Ma a me piaceva proprio lui, stare con lui, il suo aspetto, la
sua logica, la sua emotività.
In fondo, il padre non si sceglie.
Il mio babbo mi piaceva come piace una canzone che ti
piace.
Anche il suo nome mi piaceva. Adelindo. Un nome di
origini nordiche, il cui significato può voler dire “scudo” o
“morbido”. Ma ammetto che queste sono informazioni
sbrigative recuperate sul web, di cui tendo a fidarmi
moderatamente e di cui, allo stesso tempo, sono vittima.
Quello che è sicuro è che il mio babbo era un uomo solido e
protettivo come uno scudo, ma dall’animo morbido e
accogliente come il cuscino di cui non si può fare a meno per
addormentarsi.
Che nessuno si permetta di scomodare il complesso di
Elettra.
Non ho mai sentito un prepotente senso di possesso verso il
mio babbo, né tantomeno di competizione con mia mamma.
Sarebbe stata una battaglia persa.
Mamma è sempre stata la sua donna. E mamma era una
femmina imbattibile. Credo.
Il mio ricordo attuale del babbo è quello di un adulto con
cui mi piaceva stare.
Meglio non so spiegarlo.
Un sentimento semplice, non particolarmente morboso e
nemmeno proiettivo.
Azzarderei, talmente sicuro da essere privo di aspettative.
Credo.
Babbo era alto, magro, con una postura un po’ imbarazzata.
Un lungo collo che usciva dalle spalle come quando ci si
sporge per vedere qualcosa oltre un ostacolo, in avanti. Era un
po’ impacciato, inciampava spesso e urtava gli oggetti.
Simpatico.
Mani lunghe, magre. Spesso ferme. Gesti calmi. Sguardo
attento all’accadere delle cose.
La sua faccia era simile alla mia adesso, quando sono
deprivata di tutto ciò che eroicamente il mio truccatore mi
applica sul viso.
Non parlava molto, il babbo, e quindi era molto ascoltato.
Babbo amava pescare. Chi pesca è un predatore calmo che
sa aspettare.
Ero l’unica di noi fratelli che andava con lui al laghetto
all’interno della nostra proprietà a Siena.
A tutti i bambini della tenuta era severamente vietato
andare al laghetto.
«Nel lago ci sono le streghe che divorano i figlioli, non
avvicinatevi mai all’acqua perché poi escono le mani dal lago
e vi tirano giù» tuonava Guglielmina, la moglie del fattore, per
spaventarci e non farci cadere nel lago, dove anni prima le era
annegato il figlio.
Galosce, cestino di paglia, cannina di bambù, panchetto con
una sola zampa da infilare in terra, lago e babbo. Di streghe
nessuna traccia.
E lì succedeva qualcosa di incomprensibile. Quel luogo
liberava il babbo dalla sua riservatezza, accendendo una
scioltezza inaspettata. Ricordi allegri che scatenavano risate
libere, memorie malinconiche che si chiudevano in silenzi
rispettosi.
Il lago fermo e zitto offriva a entrambi spazio alla
narrazione, alla riflessione, alla verbalizzazione dei pensieri.
Alla confessione dei segreti confessabili.
Un patto, silente come il lago, vietava a quelle confessioni
di uscire da quel luogo.
Quel che veniva detto fra noi era solo nostro o,
eventualmente, delle streghe.
Era tutto così naturale e semplice che non mi sentivo
nemmeno privilegiata.
Il ricordo più vivo di quelle ore insieme fu quando mi raccontò
di Brancolo, il suo setter irlandese, fedele cane da riporto con
cui aveva condiviso gli anni da giovanotto cacciatore.
Si chiamava Brancolo perché sembrava esitare e
brancolare, ma poi alla fine riusciva sempre vittorioso dalla
macchia del bosco con la beccaccia in bocca.
«Dopo la morte di Brancolo non ho più avuto un cane, e
mai più ne avrò, ho sofferto troppo…»
I rumori del lago parvero placarsi in un attimo per dare
spazio a un pianto disperato e inaspettato, un pianto di
bambino. Non avevo mai visto un uomo piangere.
Allora pensavo che solo i bimbi e le donne piangessero…
Tirò fuori il suo fazzoletto bianco dalla tasca, si asciugò le
lacrime e ricominciò a fissare la superficie del lago.
Mi raccontò di loro, di quando amava cantare l’opera
durante le passeggiate e Brancolo cantava con lui ululando, mi
descrisse il suo profumo simile a quello della buccia del
salamino e mi confessò che il russare di Brancolo nel sonno lo
faceva dormire con più tranquillità.
Poi, occhi ancora lucidi e silenzio.
Io gli diedi un bacino sulla spalla e gli dissi che esiste un
paradiso dei cani.
Lui sorrise, si girò dandomi le spalle e piegandosi verso
terra raccolse sulla riva un fiore un po’ sporco di fango, che mi
donò. Che tuttora posseggo, bidimensionale, fra le pagine di
un libro.
Che dono incantevole, quanta gentilezza in quel gesto,
adulto e infantile allo stesso tempo. Scudo e cuscino.
Il mio babbo mi piaceva.
I giorni a seguire furono allegri. Le nostre gite al lago delle
streghe s’infittirono di racconti per lo più spensierati, e di
Brancolo non parlammo più.
Poi accadde che Zara, la cagnolina della fattoressa, figliò
cinque cuccioli deliziosi, e io chiesi a mio padre se potevo
averne uno tutto mio.
«No, in nessun modo voglio vederti soffrire. Ed è certo che
arriverà il momento in cui soffrirai, questo non posso
permetterlo.»
Gli promisi che non mi avrebbe vista soffrire, ma lui restò
fermo nella sua scelta.
Che allora, mi par di ricordare, compresi. Credo.
Lo stesso giorno pescai una tinca, la mia prima preda, uno
di quei pesciacci brutti che abitano il fondo melmoso dei laghi.
Entusiasta, gli chiesi se potevo tenerla e metterla nella fontana
di pietra serena della fattoria. Lui accettò, sapendo che l’orrido
pesce non avrebbe avuto lunga vita e io non avrei avuto il
tempo per affezionarmici tanto da soffrirne la morte.
Portammo la mia bruttissima “amica pesce” a casa e decisi
di chiamarla Tinca, che a pensarci bene è un nome che ha un
suo charme tardomedievale. Monna Tinca, funziona…
Ogni giorno andavo al vascone di pietra serena e parlavo
con Tinca. Un giorno, mentre ero lì, si avvicinò la Puntona,
una donnina del borgo chiamata così per la sua altezza
eccezionale e il suo naso adunco.
«Drilla, ma a Tinca vuoi bene?»
«Moltissimo» risposi.
«Sicura? Se le volessi bene non l’avresti strappata ai suoi
affetti in fondo al lago, ai suoi amici tinchi.»
Ora, in questo momento intendo, mi chiedo: ma perché la
gente non si fa i cazzi suoi?
Mi convinsi a riportare Tinca al lago dai “suoi affetti”:
venne trasbordata in un catino di legno, un ultimo saluto e via.
Nei giorni a seguire il babbo, vedendomi ombrosa, si
premurò di informarsi sul mio distacco da Tinca. Io, come
promesso, ostentavo una malcelata serenità. Pur soffrendo
moltissimo.
Ma avevo dato la mia parola e in nessun modo volevo che
soffrisse per me.
Ecco, questo è l’“effetto Tinca”.
Quando nella vita si subisce un distacco da qualcuno a cui
teniamo, in noi si smuovono sentimenti vari e inaspettati.
Quando è finito un rapporto d’amore o d’amicizia (laddove
vi sia una differenza), io spesso agisco l’“effetto Tinca”. Cerco
di non esplodere in esternazioni sguaiate. Trattengo.
In genere l’“effetto Tinca”, che impone nella sua
compostezza un rapporto stretto col dolore, permette a quel
dolore di parlarmi senza che venga sperperato in atteggiamenti
liberatori, che hanno solo una funzione momentanea, ma certo
non ti permettono di comprendere il reale motivo del
fallimento di un rapporto e soprattutto le nostre responsabilità.
Dopo aver compreso, esprimere la rabbia diventa più
efficace e realmente liberatorio.
Ma solo a cose comprese.
Ringrazio la creatura forse più brutta che abita le acque per
avermi insegnato a trattenere per ascoltare. E la ritengo anche
responsabile, nella sua bruttezza, della mia passione per gli
uomini brutti.
Il mio babbo mi piaceva. Ho conosciuto solo un uomo della
sua “qualità”: Hervé Foer, il mio ultimo compagno. Uomo
solido e lieve, scudo e cuscino, sorriso e pensiero.
«Amore, non sto morendo, me ne vado come una
farfalla…»
Credo che con la sua morte si sia chiuso un cerchio.
Ma, mi chiedo, una volta chiuso il cerchio, che ce ne
facciamo di quell’area delineata?
Ci si muove all’interno? No, quella sarebbe una prigionia.
Si sta fuori. E si aprono altri cerchi da chiudere. O si
tracciano linee aperte che dividono il bene dal male, il bello
dal brutto, gli amici dai conoscenti, la superficialità dalla
lievità, le convinzioni dalle convenzioni, le appartenenze dalle
ossessioni, le tinche dagli squali.
Mi raccomando (raccomando a me), linee sempre aperte.
Chi può escludere che un giorno potremmo sentirci più
affini agli squali piuttosto che alle tinche?
E non parlo di aspetto, ovviamente…
Il mio babbo Adelindo.
18
Spiare

Sapere è un diritto.
Essere al corrente delle cose della vita permette di non
vivere all’insaputa di se stessi, ed è senza dubbio il progetto
più ambizioso che un animo possa prendere in considerazione.
Ambizioso e spaventoso, perché il “sapere” presuppone poi
il dovere e la responsabilità della scelta.
Ma, quando si allena questo tipo di ambizione, essa cambia
nome e diventa coraggio. Il coraggio è un valore che tendo ad
approvare.
Molti pensano che la mia infanzia sia stata una bolla di
serenità, privilegio, affetto e sicurezza. In parte è vero.
Essere cresciuta in una città come Cuba, brulicante di
energie dissonanti e contrapposte, ha certamente dato vita a
molte caratteristiche che sono alla base della mia visione
possibilista della vita.
Ero una bambina con una vita privilegiata, avvolta da un
affetto familiare caldo come il clima piacevole dell’Avana.
Clima che può essere anche appiccicoso e soffocante,
accecante come quando il sole negli occhi impedisce di
guardare con nitore le cose che ti circondano.
Non guardare vuol dire non sapere.
Ero una bambina fortunata, ma perseguitata da un costante
disagio a lungo indecifrabile: ero certa che qualcosa mi
venisse celato.
Non sapevo bene che cosa, ma percepivo un persistente
sospetto, che adesso posso descrivere in modo lucido, ma che
allora non ero in grado di comprendere…
Ero carina, avevo bei giocattoli (pochi ma costosi),
indossavo abiti ben tagliati di lino confezionati da Madame
Marie Louise e vivevo in una lussuosa casa piena di persone di
servizio e di finestre. Bellissimo ritratto di un interno, che però
mi era insufficiente, perché era “l’esterno” ciò da cui ero
attratta; le voci, i profumi, i suoni di quella città piena di
contraddizioni come solo può esserlo un luogo dove tutto era
permesso. Il paese dei balocchi di un’America puritana che
certo non rinunciava al traffico di droga, alla prostituzione
minorile, al gioco d’azzardo e alla corruzione. Cuba era, per
gli statunitensi, la soluzione per potersi permettere la
dissolutezza.
Babbo e mamma in tutti i modi cercarono di proteggerci da
tutto questo, impegnandoci in una vita vegliata da governanti
severissime e affollata da insegnanti di spagnolo, francese,
inglese, qualche esuberante maestra di canto e soprattutto don
Rodrigo, il precettore, un bellissimo creolo dalla voce calda.
Un ritmo quotidiano serrato, ma irrorato dalla sensazione
meravigliosa di avere dei genitori affettuosi, autorevoli ma
dolci, ai quali devo un’educazione fortemente
anticonvenzionale.
Si poteva parlare di tutto con loro, ma con calma e
educazione, aspettando il momento di parlare dopo aver
ascoltato e poi pensato. Potevamo chiedere di tutto, a patto di
accettare senza bizze dei rifiuti, non senza che ce ne venisse
spiegato il motivo. Regole ferree delle quali ci sono sempre
state spiegate le ragioni, affinché divenissero convinzioni e
non diktat incomprensibili.
Un’infanzia rigorosa, ma priva della durezza che questo
termine evoca.
Solo a tratti quell’organizzazione scrupolosa assumeva la
fastidiosa nuance del controllo.
Unico momento di vera libertà nella mia giornata erano i
venti minuti in cui potevo scendere a giocare nel cortile, dove
al piano terra vivevano i figli dei domestici del bellissimo
palazzo in Plaza de Armas, per lo più abitato da diplomatici.
Venti minuti, che in realtà Gisela, la nostra tata tedesca,
considerava mezz’ora.
Cinque minuti prima di scendere per le raccomandazioni, i
venti minuti di gioco e gli ultimi cinque minuti finali, prima di
rientrare in casa per riavviarsi i capelli, lavarsi le mani e
tornare a essere presentabili.
Quei venti minuti erano la mia “ora d’aria” e il mio unico
contatto con la realtà, là fuori.
In quei preziosissimi venti minuti capivo che la libertà era
anche inciampare, sbucciarsi le ginocchia, urlare, litigare,
spettinarsi e sporcare quei noiosissimi vestitini immacolati,
che divennero per me come le tute a righe dei carcerati.
Dalle porte che affacciavano sul cortile sentivo discutere in
modo rumoroso e vitale i domestici del palazzo, gli stessi che
poco prima si erano rivolti a me chiamandomi “señorita
Drusilla” con compostezza e pacatezza. Discussioni animate
spesso sulle ingiustizie e le sopraffazioni subite dagli
americani di merda.
Fu allora che sentii pronunciare per la prima volta la parola
“merda”. Fu dai miei amici di cortile che appresi il potere
evocativo e liberatorio delle parolacce, per cui nutro una
passione sfrenata.
Quanto mi erano cari quei venti minuti di verità, viva,
pulsante, leale, sguaiata, prima di tornare a essere señorita
Drusilla.
Señorita Drusilla un cazzo.
Qualcosa non mi tornava. La calma controllata in cui
vivevo strideva troppo con quel “fuori” così energico e
ringhioso da cui ero esclusa e attratta allo stesso tempo. Solo
in età adulta compresi che proprio in quella sensazione
dissonante albergava il mio acerbo disagio.
Mi sentivo come una specie di gazzella nata in cattività in
uno zoo, che non conosceva i pericoli della savana, ma che
certamente era privata dell’emozione di correre libera. Anche
a fronte del pericoloso inseguimento di un leone.
Chiesi goffamente ai miei genitori il perché di quella strana
segregazione domestica. Loro tentarono di spiegarmelo, ma
questo non fu sufficiente a scrollarmi di dosso quel persistente
senso di reclusione che avvertivo.
Ma la Drilla non era tipo da essere reclusa, ancor meno di
quanto lo sia adesso.
Dovevo sapere a tutti i costi i motivi di quella prigionia.
Ma come?
Tutte le mattine noi bambini facevamo la prima colazione in
cucina, con le nostre vestagline cucite dalla solita Madame
Marie Louise, ancora nei pigiami stropicciati, prima di
rientrare nelle nostre stanze e diventare “presentabili”.
Quel giorno un’ancheggiante domestica, Pilar, follemente
gelosa del suo amato, chiedeva alla cuoca Assunta consigli su
come smascherarne i sospettati tradimenti. Nonostante
comprendesse bene il cubano, Assunta parlava solo in
napoletano, e noncurante di essere compresa da parte
dell’interlocutore rispose alla giovane tormentata con un
salomonico: «… Certi ccose se sanno sulo spianno…». (Ci
sono cose che si sanno solo spiando.)
Spiare. Adesso sapevo che cosa dovevo fare per capire.
Ricordo di aver riflettuto per un attimo sul fatto che spiare
mi era stata trasmessa dai miei genitori come un’azione che ha
in sé della slealtà, quindi inaccettabile.
“Pazienza” pensai, “non mi hanno saputo spiegare, io spio.”
È incredibile con quanta determinazione i bambini
pretendono di sapere.
Invito i genitori alla chiarezza, dosata ma il più completa e
leale possibile, nel rispondere ai “perché” dei figli.
Che cosa vuol dire spiare? Apprendere informazioni essendo
invisibili e attenti.
E, soprattutto, senza essere scoperti.
Progetto molto ambizioso per una bambina maldestra quale
io ero…
E poi, come si spia? Appiccicati al buco di una serratura,
col rischio di essere sorpresi da dietro? Poco dignitoso…
Frugare fra le cose altrui? Troppo ansiogeno… per dover
poi riordinare in modo accurato dopo aver frugato? Escluso.
La soluzione giunse da mia madre, che un giorno ebbe una
discussione animata col tappezziere, che aveva confezionato le
tende dello studio del babbo troppo corte.
Trovai eccessiva l’indignazione della mamma per quelle
tende, che toccavano al millimetro il pavimento e che a me
parevano perfette.
Compresi solo allora che le tende non devono toccare il
pavimento, ma che devono essere almeno dieci centimetri più
lunghe dell’altezza dalle mantovane per poter avere
quell’effetto lievemente “inginocchiato”.
Appuntare: dieci centimetri, non di più. Troppo lunghe fa
“patetico albergo di lusso parigino”…
Fu così che intuii che proprio quei tendaggi erano il luogo
perfetto dietro cui celarsi e spiare, essendo essi ampi e
confezionati in tessuti spessi che permettevano di riparare la
casa dall’afa estiva e dal sole accecante che “impedisce di
guardare”…
Le finestre erano enormi e numerose, quattordici per
l’esattezza.
Ogni finestra aveva due tende, la sinistra e la destra.
Quattordici per due fa ventotto.
Ventotto potenziali nascondigli. Magnifico.
Le mie preferite erano quelle del salotto grande, di una
croccante e spessa seta blu Wallis. Un color carta da zucchero
elegante ma vivace, proprio come colei che ne aveva decretato
il successo in arredamento: Wallis Simpson. Poi quelle brune
dello studio del babbo, quelle verde salvia della camera dei
miei e quelle color burro con i papaveri rossi della mia
camera, dove inizialmente pensavo non sarebbe stato
necessario spiare. Poi c’erano le tende più modeste in canapa
beige, delle stanze dei domestici che alloggiavano in casa.
Molto devo a quei tendaggi, che fino ai dieci anni mi hanno
permesso di accedere a spudorate rivelazioni sui grandi temi
della vita: l’amore, la gelosia, l’inganno, la maldicenza, la
bontà, la crudeltà, il desiderio.
Il mio acerbo e spesso violento impatto con questi temi ha
lasciato dentro di me cicatrici emotive importanti. Cicatrici
potenti e persistenti come quelle di un guerriero medioevale.
Grazie mie adorate tende per aver alimentato la mia
attitudine alla curiosità, oltre a una certa competenza in fatto di
tessuti.
Parliamo di tende. E cicatrici.

Drilla (come venivo chiamata in casa da bambina).


19
Lo schiaffo

Per una maliziosa e infantile convinzione mi ero persuasa che


avrei potuto scovare i segreti più scottanti nella vita della
servitù.
Una traccia di classismo perdonabile in una bambina. Di
loro nulla sapevo, e questo mi autorizzava a fantasticare.
Come quando fantastichi sui personaggi di successo, e alla
fine scopri che spesso non hanno niente di speciale se non il
successo. Ammesso che il successo sia un valore…
Tutti amano, tutti soffrono, tutti si lavano, tutti mangiano,
tutti dormono, tutti fanno il bidè e ciò che lo precede.
Nemmeno un talento eccezionale riesce a fare di una persona
una persona eccezionale. Quanta delusione ho provato nel
conoscere grandi artisti, nel sentirli parlare, nel vedere le loro
case, nell’assistere ai loro comportamenti aspettandomi
un’eccezionalità pari al loro talento. Ho, invece, spesso notato
qualche atteggiamento artefatto che solo i grandi artisti non
hanno. C’è un’evidente distinzione fra chi è una persona e chi
è un personaggio. I personaggi sono colmi d’insicurezza e di
un’ansietà di seduzione che spesso esprime un’inadeguatezza
che è in genere tipica di chi talento non ne ha.
Tende di canapa. Stanze di servizio.
Erano le stanze che mi piacevano di più, semplici,
immacolate, prive di decori inutili; le più rigorose, le più
silenziose. Un mondo a parte, casto e sereno.
Un ampio corridoio con una piccola finestra in fondo.
A destra le camere delle governanti.
A sinistra le due porte per le quali si accedeva a una grande
stanza, la lavanderia, dove si lavava e si stirava, dalla quale
usciva un perenne profumo di pulito, di buono, di cura delle
cose.
Eppure fu in una di quelle stanze che ebbi il primo contatto
con la “non cura” delle persone.
Decisi quel giorno di spiare in camera di Maria, una bella
camerierina timida e impacciata, con dei bellissimi capelli
rosso mogano. Mi persuasi che il suo fare così smarrito celasse
segreti morbosissimi.
Quel giorno era il mio turno per stare con lei e imparare a
stirare.
Devo ammettere che, grazie alle sue indicazioni, stirare è
una delle poche cose domestiche in cui sono abile, anche se lo
detesto.
Durante quell’ora di “lezione” Maria aveva uno sguardo
assente, non rispondeva alle domande che le rivolgevo, si
interrompeva spesso guardando fuori della finestra come se
cercasse di scorgere qualcuno… chi?
Scoprirlo divenne il mio obiettivo.
Un attimo prima della fine dell’ora stabilita, chiesi a Maria
se potevo andare in bagno. Lei mi invitò a usare il suo mentre
avrebbe finito di stirare le ultime cose.
«Chiuda la porta di camera mia quando esce, señorita
Drusilla.»
Entrai in camera e mi celai dietro la tenda di canapa color
sabbia.
Maria entrò dopo poco e iniziò a camminare nervosamente.
Le tende erano troppo spesse e maldisposte per poter
guardare, quindi acuii l’udito. Sentii uno spruzzo e il profumo
di un’acqua di colonia.
Sospettosissimo. Mia madre aveva vietato a chiunque di
usarne.
Dopo un po’ avvertii l’incedere di passi grevi, pesanti,
lentissimi.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta come a non voler
essere udito.
«Aquí estoy.»
Riconobbi la voce di Monsieur Escargot, l’autista del
babbo, chiamato così per la sua esasperante lentezza nella
guida.
Cominciarono a parlare ma non compresi niente di quel
cubano stretto, però ne intuii la tonalità inequivocabile di una
liaison, con molta probabilità, dangereuse.
Capii che vi era un conflitto in corso, c’era nella voce di
Maria una durezza che si scontrava col tono supplichevole
delle domande incalzanti di Monsieur Escargot.
Tutto era concitato e in qualche modo drammatico. Ero
impauritissima e sperai che qualcosa interrompesse quella
conversazione che, anche se consumata sottovoce, aveva
qualcosa di minaccioso.
Ci fu un lungo silenzio, poi Maria con voce risoluta scandì
severamente l’unica frase che capii:
«Esta historia ha terminado.»
Un breve silenzio, poi un rumore dal suono secco e
tagliente che non riconobbi.
Monsieur Escargot uscì sbattendo la porta.
Benedissi il rumore misterioso per aver rotto
quell’atmosfera tesa, dopodiché Maria crollò in un pianto
quasi silente.
Immobilizzata dal terrore, mi concentrai su quel suono che
mi era familiare in qualche modo. Lo avevo già sentito.
Ma quando? In che occasione? Lo collegavo a qualcosa di
piacevole, ma non mi era chiaro a che cosa.
Ma certo! È il rumore dell’applauso. La sera prima eravamo
all’opera a sentire una lettura dell’Histoire du soldat di
Stravinskij e il ricordo recente mi aiutò a capire.
Era il rumore di un applauso, ma isolato nel suo unico
singolo suono.
Poco dopo sentii Maria uscire dalla porta.
Di corsa mi precipitai nel corridoio, dove inciampai su mia
madre.
Vedendomi scossa mi obbligò a raccontarle l’accaduto, e io
tentai di descriverle quel misterioso singolo applauso. Ero
certa fosse intenzionata a punirmi per via dello spiare, ma si
piegò verso di me e mi disse: «Tesoro mio, quel rumore che
hai sentito è uno schiaffo».
«Che cos’è uno schiaffo?» Mai ne avevo visto uno.
«Lo schiaffo è questo» rispose lei.
Fece il gesto della mano partendo a distanza, per poi
raggiungere lentamente la mia faccina.
«Ma questa è una carezza…» ribattei.
«È lo stesso gesto, hai ragione, ma è la cosa più opposta a
una carezza che si possa fare» replicò ripetendo con potenza lo
stesso gesto sulla sua guancia, generando quel suono che
riconobbi e percepii in tutta la sua violenza.
«A volte, Drusilla, accade che le persone diventino
aggressive, allora fanno questa brutta cosa. Non permettere
mai che qualcuno lo faccia su di te.»
Ho ricevuto un solo schiaffo in vita mia, da una donna.
Le avevo detto che era una “vera stronza”, avendone ben
motivo. Da quello schiaffo disperato e pieno di rabbia che
ricevetti fu chiaro che anche lei pensava di esserlo. Era
evidente dal suo sguardo. La perdonai.
Ma questa è un’eccezione. E anche se non lo fosse, anche
se dietro un gesto violento si nasconde il dolore e l’incapacità
di gestirlo e di riconoscerlo, e ipotizzando che dietro uno
schiaffo possa esserci l’impossibilità di comunicare un
sentimento come l’amore, vi prego, pur sforzandovi di
comprendere, non permettete mai a nessuno di essere violento
con voi.
Nessuna violenza ha in sé la giustificazione per la violenza
stessa.
La violenza è gonfia di paura, per chi la subisce e per chi
l’agisce.
La violenza fa soffrire chi la subisce e chi l’agisce.
La violenza è un “lusso” che nessuno può permettersi di
agire e, attenzione, un “lusso” che nessuno può permettersi di
subire.
La violenza è un grumo di paura, di sopraffazione, di
dolore, di disperazione da cui bisogna fuggire.
E, quando è necessario, denunciare.
Nota: due anni dopo Maria e Monsieur Escargot si sposarono,
ma dopo sei anni di matrimonio felice morirono entrambi in
un incidente in una strada di campagna fuori l’Avana. Quel
giorno Monsieur Escargot fece uno strappo alla sua
proverbiale lentezza e guidò in modo spericolato, finendo fuori
strada per evitare una mucca. Morirono ambedue sul colpo.
Poiché i miei racconti finiscono spesso con la morte di
qualcuno, sono felice di darvi una buona notizia: la mucca,
dopo un iniziale stordimento, sopravvisse.
L’incidente di Monsieur Escargot con la mucca sopravvissuta.
20
Il buon esempio

Certamente si può considerare birichino lo spionaggio


domestico, ma meno perdonabile è spiare laddove non vi sia
niente di interessante su cui indagare. L’invalicabile noia del
lavoro del babbo ne rendeva altrettanto invalicabile lo studio,
al quale era per noi bambini severamente vietato accedere.
Una stanza di dimensioni modeste, le pareti in boiserie in
legno chiaro, una grande disordinata scrivania, un telefono
testa di moro. Fu lui, il telefono, a ispirare la scelta del colore
delle tende a mia madre, che era una vera patita del lino
Sanderson, col quale aveva infestato molto di ciò che era
tappezzabile in casa, con le tipiche tonalità fresche e floreali
del tessuto inglese. Per lo studio del babbo aveva scelto una
palette di marroni, che si addicono a una stanza maschile. Il
bruno di fondo dei tendaggi era affollato di cervi, motivi
botanici e scene di caccia da arazzo medioevale. Con lo stesso
tessuto fece foderare dei cuscini per il divano Chesterfield di
pelle. Dietro la scrivania la bandiera italiana che conferiva un
po’ di allegria alla virile severità della stanza.
Devo ammettere che non comprendevo bene il lavoro del
babbo, che lavorava all’ambasciata italiana a Cuba, nel
periodo in cui S.E. Guillermo De Blanck y Menocal era
ambasciatore italiano a Cuba. Ho il rammarico di non aver mai
incontrato la figlia Patrizia De Blanck, che trovo molto
simpatica.
Più volte ero andata con la mamma in visita al babbo.
L’ambasciata italiana era in una zona della città chiamata
Playa, dove aveva sede la maggior parte delle ambasciate
accreditate a Cuba e non; come suggerirebbe il nome, vista da
lontano sembrava un’infilzata di stabilimenti balneari.
Per un certo periodo mi sentivo tradita dal babbo quando
sosteneva di recarsi alla Playa. Lo immaginavo sotto un
ombrellone di rafia, disteso su una chaise longue da spiaggia
con una bibita in mano… Invece andava in uno squallidissimo
ufficio dove troneggiava la foto del presidente della
Repubblica italiana Giovanni Gronchi.
Allegria pura.
Un giorno mio padre annunciò durante la colazione che il
pomeriggio sarebbe stato occupato fino a tardi con un certo
politico. Dopo aver preso il caffè, il babbo afferrò la sua
valigetta di documenti e uscì. Io decisi di fare un giro nel suo
studio, dove in realtà andavo spesso a contemplare una foto da
tavolo di sua sorella Drusilla. Mi piaceva guardare quel ritratto
di ragazza elegante, dallo sguardo buono, che portava il mio
stesso nome, morta in giovane età. Mentre ero lì da pochi
minuti, lo sentii tornare. Le tende erano improponibili come
nascondiglio poiché, essendo di lino, la loro trasparenza non
mi avrebbe celato a sufficienza.
Con un balzo mi gettai dietro il divano Chesterfield, che era
posto distanziato dalla parete, e mi accucciai tremante. Il
telefono testa di moro, che era collegato direttamente
all’ambasciata, squillò. Capii dalla conversazione che c’era
una situazione di pericolo e che l’ambasciata invitava mio
padre e la sua famiglia a lasciare l’isola velocemente. Mio
padre si oppose fermamente, sostenendo che proprio in un
momento di pericolo era necessario il suo operato. Che
avrebbe allontanato noi, ma che lui sarebbe rimasto.
Io scoppiai a piangere dietro il divano. Dove mi raggiunse
il babbo.
Fu dolcissimo. Mi calmò assicurandomi che il periodo di
separazione sarebbe stato breve e che ogni fine settimana ci
avrebbe raggiunti. Quando fui più calma mi chiese
amorevolmente perché mi trovassi nel suo studio, e io gli
confessai che ero andata a trovare zia Drusilla. Il suo volto si
accese di una luce buona che mai dimenticherò.
Poi prese il ritratto fotografico di sua sorella gemella, la zia
Drusilla, e me lo consegnò.
«Tienilo tu in camera, così potrai vederla ogni giorno. Ma, mi
raccomando, dalle sempre il buon giorno e la buonanotte da
parte mia, dille che mi manca e che le voglio bene.»
«Potrai farlo anche tu babbo, quando vuoi.»
«Lo farò solo se avrò da te il permesso di venire in camera
tua.»
Touchée, babbo mio.

Zia Drusilla.
21
La gelosia

Il grande salotto di casa era una stanza incantevole.


Le tende blu Wallis dettavano legge, dominando fra gli
azzurri dei divani, il grande tappeto cinese e lo champagne
delle poltrone.
Sulle pareti di un ceruleo pallido, quasi grigio, le incisioni
del Piranesi del nonno, quattro Macchiaioli preziosi quanto
noiosi, monumenti autorevoli alla nostra toscanità.
Un grande mobile Biedermeier di un legno lucido e biondo,
un tavolo di scagliola di famiglia affollato da bottiglie di
alcolici, ritratti fotografici di avi senesi e infine un grande vaso
di Venini, ovviamente azzurro. Qua e là piccoli tavolini
d’appoggio.
Ai lati della grande porta d’ingresso, la collezione di lance
africane del nonno che, scure ed erette, parevano essere i numi
tutelari di quel luogo sacro, il cui sacerdote indiscusso era il
pianoforte posto al centro della stanza davanti alle due enormi
finestre, fra le quali troneggiava un ritratto della trisnonna
dipinto da Corcos. Sotto di esso, appoggiato su una piccola
consolle impero, il ritratto fotografico di Mad, la peccaminosa
ava di cui vi ho narrato le gloriose gesta.
Misi a fuoco le colonne di tessuto inginocchiato blu Wallis
che incorniciavano lateralmente le finestre. Decisi che sarebbe
stato il mio primo luogo di spionaggio, anche perché in quella
stanza avvenivano i fatti meno privati della casa. Pensai che
sarebbe stato meno grave cominciare da lì, dove certamente
non sarebbe accaduto qualcosa di troppo segreto.
Fu così che un giorno, dopo la lezione di storia con don
Rodrigo, il giovane e affascinante precettore creolo dagli occhi
chiari, mia madre lo accompagnò all’uscita e, dopo qualche
risatina goldoniana, sentii chiudersi il portone.
Mi nascosi dietro la tenda.
Capii dai rumori dei passi che mamma stava arrivando, si
sedette sulla sua poltrona preferita e sospirò in modo sognante
come chi si rilassa dopo un’emozione.
Col tempo cominciai a riconoscere i passi di tutti, dal loro
ritmo e dalla pesantezza dell’appoggio sul pavimento.
Qualcuno stava arrivando… era il babbo di certo, che di solito
camminava più pigramente, ma quella volta la frequenza fitta
e nervosa del suo incedere esprimeva una strana tensione.
«Tolomei.» Quando il babbo chiamava la mamma col
cognome della nonna, sfottendone le auguste origini, voleva
dire che c’erano guai in arrivo. «Sono molto infastidito.»
«Da cosa?» rispose mia madre con un candore poco
credibile.
«A te piace quell’uomo, è evidente quanto insopportabile»
e, avvicinandosi alle finestre davanti al ritratto fotografico di
Maddalena, disse: «Non sarai mica come lei, vero?» senza
verbalizzare la colpa della bella Mad, di cui solo anni dopo
seppi i deliziosi reati.
«Caro, non sarai mica geloso?»
«Sì, lo sono.»
(Babbo 3 - mamma 0: un uomo che ammette la sua gelosia
vince sempre…)
«Rodrigo è un uomo attraente e tu sei una donna di
temperamento e bellissima, perciò lo licenzio.»
Mamma tacque, aspettò che babbo se ne andasse e poi,
convinta di essere da sola, sussurrò:
«Peccatho…» concedendosi una “t” aspirata
smaccatamente toscana in solitudine.
“Peccato?”
Quindi la mamma era dispiaciuta che Rodrigo se ne
andasse?
Quindi alla mamma piaceva Rodrigo?
Quindi la mamma non era perfetta?
Quindi la mamma non era una santa?
No, non lo era affatto. Come nessuno lo è.
Ogni padre, ogni madre sono di certo stati attraversati da
un’attrazione esterna al matrimonio, anche se non consumata.
Se siete convinti del contrario, accolgo questa vostra
convinzione non senza tenerezza per la vostra persistente
ingenuità, pur volendo precisare che, a mio avviso, l’ingenuità
in età adulta è spesso soltanto pigrizia nel dover affrontare un
perdono.
Torniamo alla mia mamma di temperamento.
Seppi poi, con certezza, che mai quell’attrazione fu
consumata.
Dopo la morte di mamma, trovai fra le sue cose un
portadocumenti con una foto minuscola. Era un ritratto di
Rodrigo con una dedica dal significato inequivocabile, in
latino, che mia madre parlava perfettamente.
“Id quod maxime volui numquam fieri potuit. R.” (Mai vi
fu desiderio più negato. R.)
Da adulta, quella cicatrice nel mio animo di bambina delusa
dalla condotta della madre fu lenita dall’indulgenza che è
dovuta alla vanità delle signore belle e di temperamento.
Un tipo di perdono che ho agito spesso su me stessa,
ammetto.
Fu così che mio padre scelse l’insegnante successivo.
Una donna francese, nata però a Casablanca, di ottima
famiglia. Mademoiselle Claire.
Mora, non alta, seno arrogante, sguardo rapace, voce
seduttiva, competente.
Il babbo si era vendicato. (Babbo 0 - mamma 3.)
Mamma non fu costretta a licenziarla, pur assistendo alle
evidenti moine con cui Mademoiselle Claire tentava di sedurre
il babbo, che si mostrava virilmente lusingato. Seppi
origliando dietro la tenda di una governante che Mademoiselle
Claire venne garbatamente redarguita da mia madre per i suoi
modi civettuoli e che, pur riconoscendole competenza ed
efficacia come istitutrice, la invitava a contenersi.
Mademoiselle Claire ammise di avere una “simpatia
incontenibile” per il babbo, e che quindi si licenziava.
«Peccatho» rispose mia madre.
Tolomei: cognome da donne di “temperamento”.
Mamma, Maddalena e Cleopatra.
22
Le gemelle

Quanto amavo le mie tende. Fin quando ho potuto, le ho


portate con me nei miei molti traslochi, che si
inginocchiassero o no.
Il colore di fondo era il burro ed era abitato da decine di
papaveri rossi in posizioni diverse. Erano i miei compagni di
stanza. Li conoscevo tutti, tanto da aver dato ad alcuni di loro
un nome: Spampano il più grosso, Rubizzo il più simpatico,
Svirgolo il più dinamico e Clementino il più timido, Joséphine
il più sculettante perché mi ricordava Joséphine Baker nel
celebre numero del gonnellino di banane.
Per un certo periodo dell’infanzia ero molto spaventata dal
buio e dormivo alla luce fioca di un lumino sempre acceso di
notte. Mi addormentavo guardando i papaveri e a volte li
contavo per prendere sonno, trovandoli più efficaci delle solite
pecorelle che invece mi agitavano, sollevando in me il dubbio
di dove cazzo andassero tutte quelle pecore di notte e perché
necessariamente dovessero scavalcare una staccionata invece
di aggirarla. Grazie a Dio ho moderato quel tratto polemico del
mio carattere. Credo.
Per questo stesso tratto non ho mai creduto alla Befana;
anche un cretino, guardando la sezione di un camino,
comprenderebbe che una vecchietta non può passarci.
Avevo qualche tiepido dubbio anche sull’esistenza di
Babbo Natale, sul quale non intesi riflettere troppo: mi bastava
avere un mittente a cui scrivere quali regali volevo. Le prime
tracce di un cinismo latente che mi ha accompagnato tutta la
vita e che preferisco chiamare buon senso. Credo.
I miei amici papaveri tutto sapevano di me: i miei giochi, i
miei abiti preferiti, conoscevano i miei pianti e avevano
assistito ai miei entusiasmi.
Adorati papaveri. Adorate tende. Loro non avrebbero mai
assunto il ruolo meschino del nascondiglio. Erano le mie
tende: perché mai avrei dovuto spiare in camera mia?
Tutto sapevo di me.
Tutto sapevo di me, ma non delle mie sorelle gemelle
Violante e Vittoria, minori di me di sei anni.
Identiche, litigiose con noi due fratelli, non simpatiche e
devo dire neanche belle.
Erano invincibili nel battibecco, di cui, ammetto, fecero per
tutta la vita un’arte, le cui vette sono a oggi inarrivate. Col
tempo imparai a difendermi da questo antipatico
atteggiamento, con difficoltà mi si trascina in sterili
discussioni in cui è evidente l’assenza della volontà di
confronto. In fondo qualcosa devo loro.
Da adulte le loro caratteristiche sgradevoli si acuirono e
quelle potenzialmente gradevoli si atrofizzarono, in questa
morbosa compattezza gemellare che escludeva gli affetti dalle
loro vite. Su una cosa però riuscivano a essere in conflitto fra
loro: gli uomini. Quei pochi soggetti che si interessarono a una
delle due fuggivano spesso dopo aver scoperto che ve n’era
una di riserva.
Avevo all’incirca tredici anni e un giorno le sentii
avvicinarsi alla porta di camera mia.
«La Stambecca non c’è, entriamo.»
La “Stambecca”, come mi chiamavano per la mia
magrezza, si nascose dietro i suoi amici papaveri.
Con stupore compresi quanto detestavano me e mio fratello
Gherardo, quanto fossero invidiose del nostro aspetto e della
simpatia che ci veniva dimostrata da tutti. Noi eravamo più
grandi e certamente con capacità di relazione maggiore; loro
sembravano barricate dietro un unico blocco, in una
respingente alleanza.
«Babbo e mamma li amano più di noi, ma a noi che ce ne
frega, saremo insieme per sempre» si dissero, cementando un
patto di malsana alleanza che sarebbe stato eterno.
Quelle parole colme di dolore mi intenerirono, dandomi la
chiave di lettura dei loro caratteri ostili. Cercai da allora in poi,
non senza difficoltà, di far sentire loro il mio affetto. Senza
successo. L’aridità che alimentavano a vicenda non consentiva
a nessuno di entrare nelle loro vite. Anche quando la maturità
avrebbe potuto allentare la conflittualità del nostro rapporto,
Violante e Vittoria restarono ferocemente determinate
nell’escludermi dalle loro vite, ignorando completamente i
miei tentativi di avvicinamento.
Il culmine fu quando si rifiutarono, una ventina di anni fa,
di partecipare al funerale del babbo, come del resto a ogni
funerale di casa. Anche quello di mamma.
«Siamo troppo sensibili, soffriremmo troppo.»
Ma come, muore il babbo, siamo tutti adulti e anche in
questa occasione negate il fatto di esserci sorelle? Murate nel
loro microcosmo, certamente colmo di dolore, ci negarono il
loro sostegno in quell’occasione che fu per me straziante.
Quando lo zio Vezio ci chiese dove fossero le gemelle
giustificai la loro assenza, forse in modo poco convinto e
convincente, sostenendo che erano troppo sensibili, tanto da
non aver mai partecipato a un funerale in vita loro, ecc. ecc…
«A un funerale dovranno andarci per forza» commentò
seccamente lo zio, grande maestro di sentenze indimenticabili.
Funerali no, matrimoni sì. Entusiaste all’idea di partecipare
al matrimonio di una loro insopportabile amica di Boston,
qualche anno dopo morirono in un incidente aereo
transoceanico, e i loro corpi furono dispersi con l’esplosione
dell’aereo.
Quelle due cocciute riuscirono a non andare nemmeno al
loro funerale.
A oggi ho il rimorso di non essere riuscita a cambiare le cose
fra di noi.
Toccava a me provarci. Avrei potuto confessare loro ciò che
avevo udito dietro i papaveri. Avrei potuto tentare di dissaldare
quella complicità malsana, relazionandomi a ognuna di loro
singolarmente. Realizzo solo adesso che non sono mai riuscita
ad avvicinarne una senza che vi fosse anche l’altra. Chissà se
avrebbero retto la responsabilità di essere degli individui.
Scalzare quella doppiezza ostinata forse sarebbe stato
pericoloso. Ma era una mia responsabilità tentare.
Scusate, papaveri miei, se ho reso vano il vostro celarmi
che mi permise di comprendere.
Perdonatemi, ragazze, per non aver fatto ciò che non ho
saputo fare.
Ciao sorelline.

La mia cameretta nella nostra fattoria.


23
Il tango

Spiare era certamente il mio passatempo preferito,


ciononostante le mie indagini generavano in me una tensione,
un rischio, un’emozione che non sempre avevo voglia di
sostenere. Capitava spesso che facessi giochi meno eccezionali
per una bambina della mia età, come quello vanesio di giocare
alla “star”.
Una delle poche occasioni in cui si usciva era per andare a
casa di un’amica di mamma, Dolores, una messicana molto
ricca che fu in gioventù un’attrice di grande successo e che
aveva dedicato una stanza del suo sterminato appartamento a
sala cinematografica, dove venivano proiettato i film su un
grande schermo. Da lei seppi che spesso alcune grandi
produzioni americane di un ventennio precedente venivano
girate in due edizioni. Una con le grandi star hollywoodiane e
un’altra con star minori, di cui si girava l’edizione per il
mercato messicano: film spesso di genere cappa e spada che in
Sudamerica avevano molto consenso.
Stesso set, ma costumi più modesti e scene ridotte al
minimo necessario perché la narrazione funzionasse.
I grandi divi giravano la scena, mentre il cast di seconda
scelta aspettava in una stanza per poter girare la stessa scena
nel tempo in cui le dive principali si cambiavano costume e si
incipriavano il naso per girare la scena successiva.
Nonostante la tonalità squallida dei racconti di Dolores, essi
erano di grande ispirazione per i miei giochi da diva, e
potendo scegliere certo non ne prendevo una che aveva atteso
nella stanza del cast messicano. Come lo era Dolores, una
famosissima star messicana di serie B.
Così quel giorno entrai in camera di mia madre davanti alla
sua toeletta piena di pallide ciprie, rossetti voluttuosi, profumi
francesi, spazzole d’argento con le iniziali e un cestino
d’argento dove teneva dei limoni che usava tagliare a metà e
strusciarsi sui gomiti, convinta che questa azione cosmetica ne
preservasse la tonicità.
Era un tardo pomeriggio assolato e Drusilla Turner (questo
era il nome che mi ero data, essendo una fan dei tratti
banalmente perfetti di Lana Turner) si sedette per prepararsi
per la scena madre di un film passionale. Una spazzolata ai
capelli, un tocco di rosso alle labbra, poi il momento della
cipria. Impugnare quel piumino profumato era certamente il
momento più evocativo del gioco.
Sentii improvvisamente i passi della mamma, lenti e
signorili, chiusi con fretta la cipria facendone cadere un po’ e
la rimossi con un soffio violento, che finì per distribuirla
sull’interezza del tavolo. La solita pasticciona.
Ipotizzai di nascondermi dentro la stanza guardaroba, ma
quella era l’ora in cui la mamma si cambiava per la cena
(abitudine deliziosa) e mi avrebbe di certo scoperto.
Per la prima volta usai le tende per uno scopo che non era il
loro.
Dovevo nascondermi senza l’urgenza di spiare. Così feci.
Preoccupata dalla cipria sparsa sul tavolino, quella volta
volevo controllare se si fosse accorta del disastro fatto, ed
eccezionalmente decisi di spiare visivamente da un varco della
tenda color salvia.
Vidi la mamma entrare: aveva un abito di organza verde
menta con dei fiorellini bordeaux radi. La mamma lo sfilò e
rimase in sottoveste di seta écru. Poi con calma si mise davanti
allo specchio, si sciolse i capelli, che in genere teneva raccolti
in uno chignon, e cominciò a pettinarsi.
Com’era bella la mamma… era una donna alta per la sua
generazione, un seno grande, eretto, le gambe lunghe e magre,
le caviglie sottili. Era bellissima.
Adesso che ho più dimestichezza con gli aggettivi, la
definirei di una bellezza struggente.
Dopo qualche colpo di spazzola udii i passi del babbo,
marziali e ritmici. Entrò il babbo dopo una giornata di lavoro.
Chiuse la porta con la chiave.
Questo gesto mi terrorizzò.
Si tolse la giacca di lino beige, il panciotto, la camicia e la
cravatta.
Rimase a torso nudo. Non so in che termini, non so con che
tipo di percezione, ma in quel momento mi fu chiaro che mio
padre era bello quanto mia madre, ma in un modo che era
sostanzialmente diverso.
Il babbo cominciò a fissare la mamma alla toilette, senza
rispondere alle domande che mamma gli rivolgeva, incantato
da quella visione.
Poi le si avvicinò in modo felino, le toccò la nuca, il collo,
le braccia, fino a contenere dolcemente il suo seno con le
grandi mani abbronzate come a volerne mostrare la bellezza,
fissandola nello specchio. Smisi di guardare.
Il babbo cominciò a mugolare il tema di un tango,
Nostalgias, e capii dal coincidere del rumore dei passi che
avevano iniziato a ballare insieme, mentre il babbo le
sussurrava all’orecchio i versi della canzone.
Decisi di guardare ancora, spaventata e attratta da ciò che
stava accadendo.
I corpi seminudi saldati, gli sguardi rapiti. Qualcosa di
potente e incomprensibile per una bambina, ma al tempo
stesso la sensazione chiarissima di pura bellezza.
Lo sguardo di mio padre era lo sguardo con cui ogni uomo
dovrebbe guardare una donna, colmo di desiderio e di rispetto.
Quante volte ho desiderato sentire quello sguardo su di me.
La mamma lo fissava sicura, dolce, femmina.
Quante volte ho desiderato che un uomo mi percepisse così.
Dopo aver danzato un po’ si baciarono teneramente, poi si
spostarono entrambi nel grande bagno della camera. Zitti.
Io riuscii a uscire.
Questa immagine indimenticabile è senza dubbio la cicatrice
con cui ho dovuto più spesso fare i conti.
So che quello era un episodio circoscritto a quel momento
fatato, percepito in modo amplificato dallo sguardo incantato
di una bambina, un momento colmo di desiderio e di
appartenenza, il cui ricordo sosta in me in modo indelebile.
Difficile liberarsene.
Quel tango intimo chiuso al mondo l’ho cercato in ogni
rapporto che ho avuto.
Sono stata molto amata e ho molto amato, mi sono sentita
desiderata e voluta, ma mai in modo persistente. Molti mi
hanno voluta, ma mai nessuno del tutto.
Ho più spesso percepito nei rapporti l’ingombrante
sensazione della venerazione, che si può immaginare possa
essere una sensazione piacevole, ma che, al contrario, ti relega
su un piedistallo, che crea una distanza incolmabile con
l’amato.
Ho avuto un bellissimo amore maturo, vibrante di
sentimenti che avevano un’altra tonalità, ma che conducevano
nella stessa direzione. Non è poco, sono stata fortunata.
Ma mai danzai quel tango, con i piedi alla stessa quota, con
i corpi accostati, senza la fatica di dover cercare lo sguardo
dell’amato dall’altezza di un piedistallo. E mi chiedo se ho
qualche responsabilità nell’aver accettato di essere posta in
quel luogo che pone distanza, ma che in fondo protegge dai
rischi di una vera intimità.
Quella fu l’ultima volta che spiai dietro una tenda.
24
Charlot

I gioielli sono sempre belli, anche quando sono brutti.


Quando sono brutti, meglio non indossarli e accoglierli
invece con tutti i sentimenti che suscita il loro aspetto, dalla
tenerezza alla derisione.
Raramente ho ricevuto dei gioielli in dono.
Ricevere regali costosi lo trovo troppo responsabilizzante, e
sono pochi i rapporti in cui si hanno responsabilità da molti
carati.
Se i carati sono pochi, si accetta comunque ed
eventualmente faranno felice qualche figlia di una cara amica
che si laurea.
Devo ammettere che mi è capitato di vedere fra i seni
magistralmente compressi di Liz Taylor oggetti incantevoli, o
gli ancor più efficaci pietroni di Zsa Zsa Gábor, nata ricca e
sposata col ricchissimo Conrad Hilton, da cui venne coperta di
brillanti come quelle Madonne portate in processione, che
hanno tutta la mia simpatia e l’ammirazione per l’inferno che
devono passare durante quei tragitti rumorosi e sgangherati.
Non paga del lusso e donna di grande temperamento, Zsa
Zsa ammise di aver avuto una lunga relazione sessuale col
figlio del marito, nato dalla prima moglie.
Se tutto ciò conferisce una certa “sentita partecipazione”
agli affetti familiari, il paragone con la santa da processione, a
questo punto, si sgretola: escludo che siano esistite sante che
sono tali per la loro attitudine alla promiscuità. Comunque i
suoi brillanti se li è meritati.
Celebre la sua affermazione: «Non ho mai odiato
abbastanza un ex amante da sentire di dover restituire i gioielli
che mi ha donato». Una donna non priva di capacità
affettiva…
Ho saputo da poco che nel 2002 hanno dato il nome di Zsa
Zsa Gábor a un asteroide…
Che dispettosi chiamare una pietra che non vive di luce
propria, in pratica un sasso enorme, con il nome di una star
che dei sassi opachi non sapeva certo che farsene.
In casa mia non c’è mai stato un gran “gioiellume”. La mia
famiglia, tutto sommato, era composta da uomini con poca
attitudine alla decorazione delle mogli, e le mogli contavano
più su un abito ben tagliato e su una determinata tensione
all’essere semplicemente incantevoli. Una presunzione che
approvo, teneramente.
I gioielli distraggono. Come le cravatte con troppe fantasie
simpatiche tolgono attenzione allo sguardo di un uomo e ne
fanno ipotizzare un estro spesso inesistente.
Devo dire che le donne della mia famiglia amavano molto
le perle.
La più impressionante collezione di perle provenne dalla
bisnonna di mia madre, che per un certo periodo visse in
Sicilia e frequentò la famiglia Florio. Il mio bisnonno e
Ignazio Florio si definivano “compari” e i due furono libertini
sfrenati quanto alleati. Donna Franca e la mia bisnonna
Leontina divennero amiche inseparabili, considerate le donne
più belle di Palermo e le più cornute.
«Gli uomini sono bambini, vanno fatti divertire» sosteneva
noncurante la mia bisnonna.
Chilometri di perle per ogni tradimento che pretendeva una
comprensione composta e silente.
Indimenticabile il ritratto di donna Florio di Giovanni
Boldini, in cui la protagonista non è l’elegantissima cornuta,
ma le interminabili perle luccicanti di interminabili colpe.
Era una storia di reputazione, e «la reputazione è qualcosa
di faticoso da costruire e quindi soddisfacente da distruggere.
Soprattutto la propria», sosteneva nonna Leontina.
Donna Franca Florio ebbe la sua rivincita quando Lina
Cavalieri, nota cantante lirica e altrettanto nota amante del
Florio, venne glassata di “buuuuuuuu” da tutto il teatro prima
che cominciasse a far vibrare il suo primo acuto, umiliata dal
pubblico che parteggiava per la Florio, essendo le infedeltà del
marito note in tutta Palermo. Certamente fu la parte più
divertente della serata.
Franca Florio 10 - Lina Cavaleri 0.
Le perle della nonna erano meno lunghe di quelle indossate
dalla Florio, ma il suo collier de chien di perle malesi
necessitava di molte più perle per via del suo lunghissimo
collo.
Ahimè, di tutto quel ben di Dio ho ereditato solo il collo.
Meglio che niente.
Tutto ciò che avevo l’ho venduto, inutile tenere in un
cassetto cose che si usano solo due volte l’anno e spesso a
sproposito. Se vedete addosso a me qualcosa che brilla, è vero
solo se è moderatamente piccolo.
I brillanti grossi mi innervosiscono, mia madre sosteneva
che erano “da moglie del primario”.
Ho sempre ammirato la sua capacità di essere offensiva e
simpatica allo stesso tempo.
Indimenticabile fu il modo con cui si lamentò con un
cameriere di un piatto servito in ritardo:
«Che meraviglia, un filetto alla Bismarck!»
«Ma lo ha ordinato lei, signora?»
«Probabilmente sì, ma non lo ricordo, è passato tanto tempo
da quando l’ho ordinato…»
Tuttavia, confesso che un brillante enorme lo posseggo.
È falso, ma la storia, anche se sembra incredibile, è vera.
Mi venne regalato quando ero una bambina.
I miei fratelli erano in Europa per le vacanze estive e la zia
Dora, che lavorava nel cinema, imbucò mia madre e me
undicenne a un ricevimento pomeridiano da Charlie Chaplin.
Adoravo Charlot, era per me un vero mito, un personaggio
così poetico, la cui miseria sembrava non scalfirne il
buonumore.
Pensate che emozione per una bambina essere portata a
casa del proprio idolo….
Nella baracca di Charlot non ci sarà certo una cucina dove
verrò segregata con la servitù, pensai.
La villa a Beverly Hills era enorme, lussuosa, in orrido neo-
something europeo, una quantità inaccettabile di kenzie, che
detesto, e un’enorme cucina piena di servitù portoricana, dove
venni segregata.
Ma la mia delusione più grossa fu proprio lui, un signore in
un elegante abito di lino color burro, senza baffetti alla Hitler,
privo di bastone e bombetta, immacolati capelli bianchi, con
un enorme brillante fissato su una cravatta mauve. Di
pomeriggio. Molto male…
«Vedi Drusilla, lui è Charlot!» mi disse mia madre quando
venni presentata a Mister Chaplin.
Rimasi con lui pochi secondi, mentre mia zia Dora venne
distratta da una chiassosa amica. Pochi minuti io e Charlot da
soli, giusto il tempo di insultarlo.
«Signor Charlot, lei è un bugiardo… Pensavo che fosse
povero, invece…» fissando il brillante appuntato sulla sua
cravatta mauve.
Lui se lo tolse e me ne fece dono, facendomi promettere
che lo avrei rivelato a mia madre solo quando avessi avuto
diciotto anni, per paura, credo, che altrimenti il dono non
sarebbe stato accettato e contando di essere per allora già
morto.
Io accettai sia il patto sia il brillante. E mantenni la
promessa.
La sera ogni tanto tiravo fuori il mio brillante e lo fissavo
per ore sotto la luce.
A quindici anni, quando in casa mia si era ritenuti
maggiorenni perché in grado di generare figli, raccontai
l’accaduto a mia madre, che commentò come sempre in modo
composto: «… Che simpatico! Sarà certamente falso, Charlie
era notoriamente tirchio…».
Mi piace pensare che Chaplin sia l’unico uomo che mi abbia
regalato un brillante e che lo abbia fatto per farsi perdonare
una menzogna.
Quando ero ragazza, fui trascinata a visitare una cava di
brillanti in Brasile.
Un vero orrore. Per la maggior parte i minatori erano
bambini e giovani uomini, costretti a faticare per metri e metri
sotto terra per ore e ore al giorno. Fu scioccante. Certamente
oggi tutto avviene in modo più civile e certo non intendo
inibire il commercio dell’oreficeria, ma preferisco indossare
bella bigiotteria. Brilla, e per me è più che sufficiente.
Mi piace tutto ciò che brilla: certe orride specchiere di
Murano, le conversazioni che brillano, uno sguardo che brilla,
le stelle. Come sono belle le stelle….
A proposito di stelle, anni fa passai una serata
indimenticabile quanto noiosa a casa di un’amica astrologa,
informata quanto invasata, che presentava en privé il suo
ultimo libro su Saturno.
Il pubblico era composto da gente simpatica e da altra gente
la cui eccentricità innaturale esprimeva un’insopportabile
fiducia nelle stelle.
Ritrovai una mia vecchia conoscente molto più giovane di
me, che mi mostrò con orgoglio un solitario grosso come la
mattonella di un cesso delle stazioni.
«Ma è enorme!» (Spesso dire l’ovvio ci salva dall’essere
sgradevoli.)
«Vero? Me lo ha regalato mio marito quando è diventato
primario.»
Come sono belle le stelle… e gli asteroidi.
25
Le cartine dei cioccolatini

Sono una donna molto golosa.


Se dovessi usare un aggettivo più veritiero, posso certo
sostenere di essere ingorda.
Spesso non ho avuto il controllo necessario per
interrompere il flusso di ciliegie, che una dopo l’altra portano
inevitabilmente al mal di pancia.
Ho cominciato in tarda giovinezza ad avere consuetudine
con l’ingordigia, un’attitudine dal nome così minaccioso ma,
tutto sommato, emozionante.
Proprio delle emozioni sono stata vorace, fino a sentirmi
minacciata dal loro potere e spesso destabilizzata da esse.
Ho imparato col tempo, e molto tempo fa, a diffidare di me
stessa.
Quando una cosa mi piace in modo ossessivo, sia essa
amore, sesso, droga e rock ’n’ roll, ne prendo subito le
distanze con uno strappo, che poi si è sempre trasformato in
moderazione, senza mai sfociare in nessun tipo di dipendenza.
La solita perfettina di merda.
Tuttavia ammetto di essermi arresa alla cosa che più
perseguita la mia capacità di controllo: il cioccolato fondente.
Lo amo tantissimo, specialmente quello aggressivo,
prepotente.
Se ne esistesse uno al settemila per cento sono certa che
sarei in grado di affrontarlo.
Quando abitavo a Bruxelles, dove vivevo con mio marito
Hervé, andavo spesso in una cioccolateria storica, nei cui
locali erano esposte elegantemente scatole di cioccolatini di
varie fogge.
La parete più emozionante era quella di un salottino
appartato, dove i singoli cioccolatini erano appoggiati uno
dopo l’altro su piccoli listelli in una fitta scaffalatura che
occupava un’intera parete retroilluminata.
La palette delle cartine luccicanti dei cioccolatini era
sterminata.
I gialli, i verdi, gli azzurri, i viola, i rosa si succedevano
armoniosamente passandosi il testimone in modo
impercettibile, tale era la ricchezza delle tonalità.
Un impatto cromatico impressionante simile a quello che si
prova entrando la prima volta nella Sainte-Chapelle a Parigi.
Era la mia stanza preferita, il sancta sanctorum di quel
tempio della golosità, di cui mi consideravo la vestale assoluta.
Difficilmente era affollata, vi erano disposti tre piccoli tavoli
con sgabelli thonet di legno.
Ci andavo spesso il mercoledì pomeriggio: quello era il mio
momento di resa all’ingordigia.
Entrai nella Sainte-Chapelle del cioccolato e vi trovai, seduto a
uno dei tavolini, un giovane uomo bellissimo con un
maglioncino chiaro e luminoso, al contrario del suo sguardo
cupo e tormentato.
Faceva una cosa strana, non mangiava i cioccolatini
acquistati, ma dopo averli scartati li deponeva come piccole
salme in una vecchia scatolina di cartone azzurro.
Poi prendeva le cartine che stendeva accuratamente con gli
indici. Poi le ripiegava su se stesse più volte, fino a
raggiungere le dimensioni del tassello di mosaico. Dopo averlo
incontrato per tre mercoledì consecutivi e alla stessa ora,
decisi di presentarmi e di indagare su quella cerimonia così
solenne.
«Ciao, sono Drusilla.»
Interrompendo il suo rito, sollevò la testa e mi guardò con i
grandi occhi accesi da folte ciglia nere e spenti da un evidente
dolore.
«Hai un nome antico» rispose, senza rivelarmi come si
chiamasse.
Non ebbi l’impressione che volesse tenere le distanze, anzi
fissandomi intensamente rimase in attesa che parlassi.
Ci misi un po’ a proferire parola. Venni come ipnotizzata da
quello sguardo colmo di conflitti. Poi andai al punto.
«Sono incantata da ciò che fai e il modo in cui lo fai.»
Non osai chiedere il perché di quel rito, ma lui capì la
domanda sottintesa.
Dopo un lungo silenzio, durante il quale ebbi l’impressione
che cercasse di capire se meritavo la risposta a quella domanda
taciuta, parlò:
«Quando sono solo queste cartine le apro, le stropiccio e le
suono.»
Lo disse alzando i pugni all’altezza delle tempie e agitando
le lunghe dita per simulare il gesto stropicciante. Riuscii a
immaginare il suono delle cartine.
«Che bellezza, mi piacerebbe sentire la loro musica…»
«Mi dispiace» rispose quasi desolato, «io suono solo per
Hélène.»
«Hélène è una donna fortunata.»
«Hélène è la mia amata, non è più su questa terra, ma è
molto golosa, e quando sente il suono delle cartine capisce che
ho dei cioccolatini per lei, scende e torna da me.»
Fui paralizzata dalla commozione. Vi fu un lungo silenzio.
«Non mi credi, vero?»
Gli credevo? Gli credevo. E vedevo.
Vedevo lucidamente quel rinnovato miracoloso incontro fra
i due amanti golosi.
Gli credevo con una fiducia quasi violenta. Mi spaventai.
Lui se ne accorse e tese la sua bellissima faccia verso la
mia, come a volermi rivelare qualcosa in segreto.
«No Drusilla, non entrare nel mio mondo, altrimenti quando
ne uscirai non riconoscerai più niente del tuo.»
Ci si trovava tutti i mercoledì alla cioccolateria, io gli
raccontavo di me e lui di sé.
Mi narrò del suo eterno amore nei confronti di Hélène,
della casa di cura in cui si erano incontrati, dei baci, degli
abbracci segreti e di quella volta in cui Hélène si gettò nel
vuoto.
Il mercoledì successivo andai al nostro appuntamento con
un fiore bianco, entrai nella stanzina ma lui non c’era.
Sul nostro tavolo un giornale piegato. In lontananza la
cameriera, che ci vedeva sempre insieme, mi fissò per un
secondo. Era turbata.
Mi fu chiaro, dal suo sguardo alleato, che quel giornale era
per me.
Lessi che un giovane uomo era stato trovato nudo, davanti
alla finestra chiusa, mentre stropicciava cartine di cioccolatini.
Tornai ogni mercoledì successivo ma lui mai più si fece vedere
alla cioccolateria.
Qualche giorno dopo seppi che era stato rinchiuso di nuovo
nella casa di cura e mi decisi ad andare a trovarlo. Giunsi
all’ingresso del grande edificio fuori Bruxelles con una scatola
di cioccolatini, quelli con le cartine indaco, i suoi preferiti.
L’infermiera, a cui non seppi dire il nome del mio amico,
capì dal mio regalo che era lui che cercavo.
Non era più lì, il giorno prima si era gettato.
Ero arrabbiata. Mi sentii smarrita e sola nel suo mondo, a
cui mi ero affidata.
La follia è spesso colma di una logica così potente da essere
inattaccabile.
Dopo il senso di abbandono da cui fui attraversata,
sopraggiunse la dolcezza.
Quella sera, e altre ancora, suonai le cartine dei cioccolatini
sperando che il mio amico e la sua golosa amata scendessero e
si sedessero vicino a me. Avremmo parlato, avremmo riso,
avremmo mangiato cioccolata…
E suonai, suonai, suonai, suonai, suonai…

Una delle cartine che suonai, suonai, suonai…


26
Taxi

Non ho mai avuto difficoltà a rinunciare a nessun tipo di


privilegio.
Quando non ho avuto domestici, ho pulito casa.
Quando non sono stata invitata, ho pagato il biglietto di uno
spettacolo.
Quando mancava la cuoca, ho cucinato.
E un orlo sono in grado di farlo.
Mia nonna Tolo, che è nata in una condizione di privilegio
impensabile, mi diceva sempre:
«Non è detto che cucinerai. Se non dovrai farlo, devi
comunque sapere come si fa, e se dovrai farlo, è utilissimo che
tu lo sappia fare.»
Aveva ragione. Il lusso è l’unico valore a cui è concesso
credere con scarsa convinzione.
Il mio solo lusso è non voler guidare.
Quando eravamo bambini mia madre, all’Avana, ci
costringeva a stare un’ora al giorno con le persone di servizio
per imparare come si gestisce una casa. Noi femmine eravamo
affidate alle rigide convinzioni di Mercedes, una creola
severissima che deteneva il potere domestico in casa.
Mercedes ci insegnò come si toglie la cera dai candelabri,
come si trattano le macchie d’olio e di vino sulle tovaglie,
come si tiene in ordine un armadio di biancheria.
Durante quelle interminabili ore irrorate di sbadigli e noia,
ho imparato un sacco di cose che poi, tra l’altro, non ho mai
fatto.
Mio fratello Gherardo, invece, veniva affidato a Monsieur
Escargot, l’autista del babbo. Mentre Mercedes redarguiva
duramente la nostra distrazione, ogni tanto, dalla finestra,
osservavo Gherardo affacciato sul motore aperto della
macchina incantato dai racconti di Monsieur Escargot, che con
un francese calmo e caldo parlava di pistoni e trazioni come di
minotauri e unicorni.
Fu allora che ebbi contatto con un sentimento con il quale
ho raramente consuetudine: l’invidia.
Perché? Per quale convenzione assurda una femmina doveva
saper fare una noiosissima mise en place e un maschio
comprendere ciò che fa muovere con potenza chili di ferro, in
velocità…
Solo più tardi ho compreso che pianificare un buon
placement è una storia di potere: saperlo fare può decretare la
piacevolezza di una serata o, se lo si desidera, scatenare
sublimi conflitti conviviali.
La piccola Drilla, acerba femminista (attualmente
“equiparatista”), voleva stare in garage con Monsieur
Escargot. Punto e basta. E mi fu vietato. Punto e basta.
Va bene, vendetta. Non guiderò mai una macchina.
La noia nel dover sostenere l’esame per la patente mi
facilitò nel mantenere fede a quel ringhioso giuramento
adolescenziale.
Quindi, taxi.
I taxi sono il mio fetish. E con essi i tassisti.
I tassisti, visti dal posto dietro a destra, mi piacciono quasi
tutti.
Adoro fare una sintesi fra ciò che vedo: le nuche, le braccia,
le mani e le cosce, che premute sul sedile di un’auto hanno
quasi sempre un loro senso. E sono grata agli specchietti
retrovisori, che isolano la cosa che più mi piace in un uomo, lo
sguardo concentrato.
Devo ammettere che l’attitudine ottimista che mi
caratterizza trasforma quasi sempre pochi dettagli di qualità in
uomini meravigliosi. Fallendo spesso.
Ma uno dei casi in cui le aspettative furono superiori ai
pronostici fu Romeo.
Linda, amica americana sposata con un famoso attore, mi
mandò il suo autista.
E di Linda, mia folle e bellissima amica, mi sono sempre
fidata.
Romeo. Dovreste vedere Romeo. Un’esperienza.
Alto, moro, strutturato, con una bella testa da imperatore
romano, una bella distanza tra le tempie, l’attaccatura a “V”
sulla fronte e una puntina di capelli sulla nuca che indica verso
terra e tutto quello che di gradevole sta in quella traiettoria.
Mani grandi, in ordine, pur escludendo che un uomo come
lui facesse qualcosa perché lo fossero.
E una voce meravigliosa.
Ricordo quando mi disse: «Signó, je posso dì ’na cosa?
Quant’è bbella, signó.»
Una delle otto volte in tutta la mia vita in cui sono arrossita.
La luccicante e spessa fede nuziale brillava sul volante, e
mi diede un’inequivocabile indicazione comportamentale in
un momento in cui ero certamente una donna di
temperamento.
Spostarmi a Roma per anni ha significato per me solo e
soltanto Romeo.
Era diventata un’ossessione.
A cena al consolato francese? Romeo.
Prima di Giulietta degli Spiriti? Romeo.
Compleanno a casa Wertmüller? Romeo.
Fuga notturna al Piper? Romeo.
Da una certa ora in poi si presentava con Luciana, la moglie.
Ragionevolmente gelosa. Di me.
Donna simpatica e maledettamente femmina.
Donna sicura, pratica e accanita lettrice.
Pur frequentando intellettuali evoluti, critici letterari e
professoroni boriosi, è Luciana che mi ha consigliato la
maggior parte dei libri migliori che ho letto negli ultimi
trent’anni.
Preziosi i suoi numeri di telefono di fornitori abilissimi.
Parrucchieri, manicure, lavanderie… tutti ottimi.
Io e Luciana siamo amiche, ottime.
«A Drusì, ricordati che Romeo è robba mia…» mi ha sempre
detto, ferma ma in qualche modo alleata.
Una notte di qualche anno fa sono tornata da Istanbul,
atterrando a Roma a Fiumicino. Ossessione. Romeo.
«Signó» guardandomi come un vecchio amante, «che bella che
è, ancora.»
Ma si può arrossire alla mia età…?
Prendiamo il raccordo per l’autostrada per raggiungere
Firenze.
Neve, strada gelata, bloccati.
«Usciamo dal raccordo, signó, dorma a Fregene, domani se
vede.»
«Certo Romeo, mi porti dove vuole» rispondo usando
quello che resta di femminilità nella mia voce.
«Avverto mi’ moje che famo tardi… A Lucià, semo bloccati
sull’autostrada, esco, mollo ’a signora a Fregene e torno a
casa.»
«Me la passi, Romeo» chiesi desiderosa di salutarla.
«Luciana cara, sono prigioniera della neve e di Romeo.»
«A Drusì, nun ce provà… è robba mia.»
L’appartenenza è un valore che rispetto con convinzione.
È un sentimento commovente. Concederselo e concederlo.
In taxi.
27
Funghi assassini

Devo ammettere che ne sono stata grande nemica.


Ho a lungo pensato che il messaggino telefonico fosse
l’arma più letale consegnata ai nostri tempi così affettivamente
sbrigativi.
Sono fermamente convinta che la maggior parte dei casi in
cui si intende comunicare o ascoltare necessitino di una faccia,
del suono di una voce, di gesti e di silenzi.
Non è escluso che vi sia un tratto generazionale in questa
mia avversità.
Tuttavia, anni prima, trovavo ugualmente insopportabile
l’uso domestico della segreteria telefonica.
«Chiamami quando senti il messaggio…»
Una frase molto antipatica che ho sempre tradotto come:
«Poiché sono educato non insisto nel chiamarti, ma se non
richiami sei una stronza.»
Stabilii un criterio: avrei solo risposto a messaggi che
esprimevano disperazione o estrema urgenza.
Poi arrivò il cellulare, e con esso la perenne reperibilità.
Successivamente tutti noi abbiamo sviluppato una modalità
di comunicazione bulimica che spesso trova il suo campo
d’azione nel messaggino.
Quanto era bello fissare telefonicamente un incontro «il
prossimo giovedì alle 17.30 al bar Torino», senza doversi
risentire. Bisognava prendere in considerazione più seriamente
la volontà e il valore di quell’incontro.
Ora si avverte all’ultimo, si invita all’ultimo, si bidona
all’ultimo, potendo contare sempre su una chiamata,
all’ultimo. A questo atteggiamento non sono riuscita ad
abituarmi, ma ho ammorbidito il mio rapporto conflittuale con
gli SMS , diventandone una moderata sostenitrice. Tuttavia
sento di voler precisare che trovo i messaggi vocali, per quanto
comodi da inviare, insopportabili da ascoltare, quindi tendo a
ignorarli e a non spedirne.
Gli SMS , tutto sommato, li perdono. Hanno in sé due cose
che approvo: la necessità della sintesi e la possibilità di essere
riletti prima di essere inviati, per essere sicuri dell’esattezza
della tonalità e del contenuto. In fondo è una piccola alleanza
con la letteratura, che male non fa.
I messaggi pieni di errori sono mandati spesso da soggetti
sbrigativi e distratti. Quelli con una punteggiatura attenta
provengono da persone che dedicano attenzione a ciò che ti
stanno comunicando.
Queste due attitudini così diverse delineano due grandi
categorie umane; un po’ come per i bambini che fanno i
castelli di sabbia sulla spiaggia e quelli che adorano
distruggerli.
Devo all’esistenza degli SMS uno degli episodi più incantevoli
che mi siano accaduti e che tuttavia mi obbliga a ritrattare la
visione di me, solenne vedova fedele al mio ultimo e unico
amore, Hervé.
Tornata da Bruxelles, ho vissuto in una grande casa sulle
colline di Firenze. Successivamente mi trasferii in un quartiere
delizioso poco distante dal centro, nella casina adorata dove
attualmente vivo. Il mio giardino confina, “all’americana”, con
il giardino del signor Dante, un bellissimo uomo che per molto
tempo ho frequentato volentieri insieme alla moglie, Donata.
Dante è stato certamente in gioventù un uomo mozzafiato, e
le tracce del suo aspetto notevole si potevano intravedere nei
tratti forti incorniciati da una fitta chioma bianca, da un
barbone ottocentesco e in un corpo aitante anche se
appesantito.
Dante lavorava in gioventù all’Opera del Duomo.
L’Opera del Duomo è un’istituzione fondata alla fine del
Duecento e che da allora sovrintende alla manutenzione della
cattedrale di Santa Maria del Fiore e del campanile di Giotto.
A tutt’oggi una delle funzioni principali di questa gloriosa
realtà è il restauro delle pareti esterne del campanile, che viene
effettuato da operatori calati con delle corde dall’alto, che
picchiettando sui marmi controllano se vi sia necessità di un
consolidamento. Quando Dante mi raccontò di essere uno di
questi audaci professionisti mi emozionai, immaginando la sua
possente schiena intrappolata nell’imbracatura bondage,
insieme alle cosce e alle chiappe.
Murata nella mia augusta vedovanza, non accennai a nessun
tipo di seduzione né prima né dopo la morte della moglie
avvenuta tre anni fa, in seguito alla quale Dante sprofondò in
una depressione feroce che supportai volentieri, divenendo una
confidente perfettamente in grado di comprendere l’esperienza
di quella perdita.
Ci si trovava in giardino, separati dalla grata su cui si
arrampica il suo glicine, e si parlava per ore. Un uomo dolce,
intelligente, sensibile, ma solido nel suo dolore. Ammetto di
essermi sentita lievemente sadica nel percepire che tutta quella
sofferenza lo rendeva molto erotico. Decisi di non indagare su
questa mia sensazione, temendo di sentirmi una stronza. In
realtà adesso posso sostenere con serenità che non c’è niente
che più mi seduca di un uomo che mostri i propri conflitti
interni con dignità e presenza.
Per molto tempo ho fatto cucinare il pasto a Ornella in doppia
porzione e gli passavo il piatto dall’inferriata del glicine, come
si porta un dono a una badessa in clausura.
Lui una volta alla settimana mi regalava del brodo che
metteva in una bottiglia di vetro, di quelle col tappo a scatto,
collegato con un ferrino.
Il brodo era l’unica cosa che la moglie gli aveva insegnato a
cucinare.
Il brodo è una di quelle cose di cui fatico a immaginare di
fare a meno.
Dante si decise timidamente a varcare la clausura del
glicine e cominciammo a cenare insieme per poi guardare la
TV .

Non so in che modo, finimmo con l’avvicinarci sempre più.


Veramente, non so come possa essere accaduto.
Io con il mio immutato sentimento per Hervé nel cuore, lui
con il persistente senso di mancanza della sua amata.
Ambedue devoti all’amore da cui eravamo stati amputati,
trovammo l’una nell’altro una specie di soffio di vita tardivo e
coinvolgente, dando al sesso lo spazio che in quel momento ci
fu possibile dare.
Mai violammo la radicata fedeltà ai nostri amati dormendo
insieme, ma conservo ancora i suoi messaggi notturni prima
del sonno e quelli mattinieri del risveglio.
Poi un giorno mi annunciò che sarebbe andato un po’ dal figlio
Lorenzo, che viveva sulle colline pistoiesi e che l’aveva reso
da poco nonno con la nascita di Dalia.
Mi disse sorridente che sarebbe andato a cercar funghi che
avremmo mangiato insieme. Pensiero delizioso…
Ci salutammo teneramente. E mi feci promettere di
mandarmi la foto della nipotina.
Attesi un giorno, due, tre, poi mi decisi a telefonargli. Lo
feci per poche, diradate volte, mandai rarissimi messaggi.
Nessuna risposta e nessuna foto nelle tre successive settimane
al nostro ultimo, sentito abbraccio. Ipotizzai che Dalia non
fosse la nipotina ma forse un bellissimo fiore più fresco di
quanto lo fossi io e, detto fra noi, ci voleva poco.
Molto addolorata, mi imposi di non tentare più un contatto
con lui.
(Vedi “effetto Tinca”.)
Un sabato pomeriggio andai alla presentazione del libro di
un’amica. Ero turbata, quello era il giorno del suo
compleanno, il primo che avremmo potuto passare insieme. La
mia amica notò il mio disagio e io gliene parlai.
«Eccheppalle Drusilla, non gli scrivi da tanto? Mi stai sul
cazzo quando fai la perfettina! Tu e la tua stupida convinzione
che farsi da parte senza lamentarsi sia una scelta di valore.
Eccheccazzo, un uomo non può entrare nella tua vita così e poi
sparire. Scrivigli un messaggio diretto e stronzo, forza,
idiota!»
Non sarò mai abbastanza grata a quel consiglio dato così
ruvidamente, che ebbe come conseguenza una delle cose più
buffe che mi siano capitate.
Pensai quindi di scriverne due, uno morbido e comprensivo
e uno duro e diretto.
«Una calda e una fredda» come si dice in Toscana. Perfetto,
anzi “perfettino”…
Avevo il cellulare nuovo e non trovavo l’applicazione delle
“note” dove poter scrivere la “brutta” del messaggio, non
volendo sbagliare uno spazio, una virgola, una parola.
Pensai che se l’avessi scritto direttamente sul suo contatto
WhatsApp avrei combinato un pasticcio per quanto ero agitata.
Decisi di farlo a casa con calma e chiamai il taxi con
l’applicazione 4242.
Illuminazione! L’applicazione dei taxi! Avrei scritto lì la
bozza dei messaggi recriminatori, tranquillizzata dal fatto che
l’applicazione è gestita da un terminale, per cui quando non
riconosce gli indirizzi delle strade solerte ti comunica:
“Indirizzo errato o incompleto, ridigitare”. Certa che
l’applicazione avrebbe frainteso i miei messaggini per indirizzi
errati, decisi di digitarli lì e, dopo averli corretti, inoltrarli a
Dante.
Primo messaggio:
“Caro Dante, sei riuscito a mettere una distanza fra noi e
forse non è nemmeno la scelta sbagliata. Voglio il tuo bene e
quindi spero che del bene vi sia, in questa tua sparizione.”
La solita perfettina di merda.
Inviai il messaggio all’applicazione dei taxi, che mi avvertì
col tipico suonino “dinn” della risposta che mi aspettavo:
“Richiesta non chiara o incompleta. Specificare meglio
indicando indirizzo e n. civico. Grazie”.
Secondo messaggio:
“Ciononostante desidero tu sappia che non riesco a
sovrapporre l’immagine dell’uomo con cui ho parlato dietro il
glicine con quella dello stronzo che si comporta come ti sei
comportato.”
Tremante per la tonalità non “perfettina”, inviai il messaggio
all’applicazione dei taxi.
Stesso suonino, stessa risposta: “Richiesta non chiara o
incompleta. Specificare meglio indicando indirizzo e n. civico.
Grazie”.
Prima di inoltrare i messaggi a Dante li rilessi, e pensavo
che l’uomo con cui parlavo dietro il glicine fosse sicuramente
sincero, e un uomo così sapeva certamente di essersi
comportato da stronzo. Trovai inutile dirglielo: in fondo lo
stronzo era lui e gli stronzi sono quelli messi peggio… Tornai
all’“effetto Tinca” e decisi di non inviarli e cancellai tutto.
Suonino inaspettato: “dinn!”.
Messaggio dall’applicazione:
“Gentile cliente, SIAMO TUTTI MOLTO DISPIACIUTI per
questa triste storia e certamente lei merita di meglio, ma qui
può trovare solo dei taxi.”
Niente terminale, bensì un’intera stanza di operatori che,
appassionati al mio patetico caso, immaginai raggrupparsi e
decidere insieme che cosa scrivere a quella povera signora
addolorata e delusa…
“… SIAMO TUTTI MOLTO DISPIACIUTI …”
Che delizia assoluta…
Ne sorrido anche adesso che ve lo racconto.
Questo episodio ha in sé tutta la visione tenera, buffa e un
po’ sfigata che ho di me stessa.
In fondo desideravo solo essere ascoltata da qualcuno…
Mi torna in mente la battuta clou del personaggio che
interpretavo nel film Magnifica presenza di Özpetek: «Ho
sempre contato sulla gentilezza degli sconosciuti».
Pochi giorni dopo ricevetti una telefonata dal figlio di Dante,
Lorenzo, in cui mi raccontò che Dante, la mattina presto in cui
arrivò sulle colline pistoiesi, andò a cercar funghi e cadde in
un precipizio. Dopo essere stato in coma, morì.
Il figlio, curiosando nel cellulare del padre, vide le nostre
conversazioni e, rendendosi conto della nostra liaison,
desiderava farmi sapere che il padre mai ebbe la possibilità di
vedere le mie chiamate e di leggere i miei messaggi.
«Sono contento che babbo abbia amato ancora.»
Lo trovai commovente, anche se, pensando adesso a
quell’episodio, prevale l’allegria di: «Gentile cliente, SIAMO
TUTTI MOLTO DISPIACIUTI per questa triste storia…»

Ancora rido…
La schermata dei messaggi per il caro Dante sull’applicazione dei taxi.
28
Teo

L’animale più affascinante che abbia mai conosciuto.


Elegante e intenso come la sua padrona Alexandra White,
un’anziana lady inglese che conobbi a Los Angeles, dove mi
trovavo casualmente per una breve vacanza con un mio
“balocchino” di allora, che viveva a Santa Monica.
Accadde dopo la serata della consegna degli Oscar, a cui fui
vergognosamente fatta imbucare da George, un noto amico
regista, che mi chiese di accompagnarlo al posto della giovane
fidanzata, costretta a casa da una colica renale.
Dopo la roboante quanto interminabile consegna dei
numerosi premi, venni invitata a un ricevimento, certamente
fraintesa per la nuova biondina di turno del mio amico regista.
Demolita dall’atmosfera stagnante di quel party, troppo
affollato di facce sicure di sé, notai degli splendidi orecchini
con due smeraldi cabochon grossi come delle pastiglie Valda,
e solo dopo l’anziana signora dallo sguardo scettico che li
indossava, che mi si avvicinò con fare felino, certa di trovare
un’alleata in quella serata che pareva non decollare.
«La convinzione hollywoodiana è una cosa che non mi ha
mai convinto del tutto.»
Ci presentammo. «Mi chiamo Alexandra White, ma mi
chiami pure Alex.»
«Alex?» risposi divertita. «Adoro i nomi equivocabili.»
«Anch’io li amo moltissimo. Spero ci sia l’occasione per
presentarle Teo.»
Chi sarà mai stato questo Teo? Non esclusi dalla nostra
passione comune per nomi “equivocabili” che fosse una
donna…
Parlammo a lungo, commentammo lo speech della
Bergman che, pur avendo vinto l’Oscar come miglior attrice
non protagonista, ammise pubblicamente al pubblico del
Dorothy Chandler Pavilion che non meritava quel premio,
dovuto invece a Valentina Cortese che, presente al party,
galleggiava elegantemente una spanna sopra tutti gli invitati
facendoli sembrare dei poveretti. Anche la Cortese quell’anno
era candidata come miglior attrice non protagonista per Effetto
notte di Truffaut.
Memorabile la scena delle porte, che invito tutti a cercare
sul web. Charme allo stato puro.
Appuntare: Cortese, Effetto notte, scena delle porte.
Alexandra e io chiacchierammo piacevolmente e bevemmo
litri di pessimo champagne, ammettendo che in fondo eravamo
entrambe intenerite dalla grandeur americana, soprattutto
quando è fallimentare.
Scoprii che Lady Alexandra White, anziana vedova di un
produttore teatrale inglese, aveva da poco acquistato una
proprietà in Maremma per trascorrervi la vecchiaia.
Molto vicine all’essere completamente ubriache,
decidemmo di fermarci prima e rimanere presentable, e ci
salutammo col proposito di incontrarci in Europa.
Qualche mese dopo tornai in Italia, testimone delle nozze di
mio fratello Gherardo con la sua attuale noiosissima moglie,
per giunta belga, che impose una ridicola cerimonia campestre
in una casa di famiglia nelle colline di Castagneto Carducci.
Matrimonio, noia, Maremma. Pensai: “Quasi quasi chiamo
Alex…”.
«Che gioia sentirti! Hai paura degli animali? Ti avverto,
troverai uno zoo…»
Ernesto, un amico maremmano, mi accompagnò in macchina,
non essendo automunita e, non ultimo, senza patente. Ernesto
indagò su chi fosse “questo” Alex, ipotizzando fosse un mio
amante, e io permisi che lo credesse. Mi feci lasciare a metà
viale e vidi da lontano la casa di Lady White.
Non grandissima, molto elegante, che sembrava essere stata
progettata da Frank Lloyd Wright: tutta legno, cemento, pietre
e vetrate. La villa era preclusa al mondo da una fitta foresta di
pini marittimi.
In lontananza Alex mi attendeva sulla porta, con lo sguardo
gioioso di chi è felice di vedere qualcuno. Le corsi incontro e,
nell’abbracciarla, appoggiai il mento sulla sua spalla e lo
sguardo si spostò alle sue spalle.
«Ma quello è un lupo!»
«Sì, lo è. In Maremma ci sono i lupi, sai?»
L’animale, che aveva una zampa fasciata, stava all’interno di
un recinto così ampio da essere invisibile, sollevò la testa da
un fiero pasto e mi puntò. Fu una delle emozioni più potenti
che abbia mai provato.
Non riuscivo a staccare gli occhi dallo sguardo color miele
di quel bellissimo predatore.
«Smetti di fissarlo» mi disse.
«Smetti di fissarlo.» Impossibile…
«Drusilla, abbassa lo sguardo.» Ero paralizzata.
Sentii una botta. Alexandra si tolse una ciabatta, con la
quale mi percosse la nuca, sottraendomi al potere ipnotico del
lupo.
«Scusa, ma non voglio che Rea si innervosisca.»
«Rea… è una lupa?»
«No, un maschio, Andrea, ma io la chiamo Rea perché ha
spesso uno sguardo colpevole…»
Rea, altro nome equivocabile.
«L’ho chiamato come il mio primo amante maremmano.
Che Dio lo benedica.»
Mi parlò di Andrea, uomo di grande vigore, che morì di
infarto mentre faceva sesso con una giovane amante
occasionale che, scossa dall’accaduto, raccontò al medico,
arrivato troppo tardi: «… Ansimava, ansimava, credevo
venisse e invece se ne andava…».
Ridemmo di quella confessione formulata in modo così naïf
e, per giunta, in rima.
Entrai in casa: l’ingresso era arredato da trofei di caccia.
Zanne di elefante che quasi toccavano il soffitto, teste
imbalsamate di antilopi, la pelle di un leone come tappeto, che
esitai a calpestare.
«Sono stata cacciatrice. Tengo queste cose in casa per rendere
onore alla loro morte. Una volta sparai a un elefante sulla
fronte: si inginocchiò sulle zampe anteriori, pianse e morì. Da
allora non ho più partecipato a cacce grosse.»
Inizialmente fui un po’ turbata dalla presenza di quei
complementi di arredo, tuttavia la mia rigidità animalista si
stemperò davanti alla naturalezza con cui Alex mi parlò del
suo rapporto con la caccia, rivelandomi che mai ha giudicato
coloro che cacciano, ammesso che lo facessero nel rispetto
delle questioni faunistiche.
«Adoro le bistecche, purché non siano di giraffa…»
Una sintesi leale e lucida tipica di Alex.
So di diventare bersaglio dei vegetariani, che rispetto e dai
quali pretendo lo stesso rispetto per chi, come me, adora le
bistecche. Purché non siano di giraffa…
Alex fu paladina del cane abbandonato. Era solita rapire i
cani dei cacciatori, reclusi tutto l’anno in capanni freddi e
sporchi prima di essere momentaneamente recuperati,
rinvigoriti, pronti per la stagione della caccia, alla fine della
quale venivano reclusi di nuovo in quei tuguri senza cibo e con
poca luce, fino alla stagione di caccia successiva.
Cesoie alla mano, Alex ne liberava una grande quantità e li
accoglieva, prendendosene cura. Non solo, spesso gli abitanti
di quelle zone abbandonavano al cancello della proprietà i
cuccioli su cui era impossibile lucrare, bastardini troppo
scomodi in prossimità delle vacanze estive, o ancora vecchi
cani malati.
Lei se ne occupava, con la naturalezza di una grande madre.
Invito chiunque a adottare animali abbandonati, specie se
sono vecchi o malati.
Pensate che bella sensazione se qualcuno si occupasse di
noi in vecchiaia…
Non voglio demonizzare gli allevamenti di animali di razza,
ma assicuratevi che siano seri. Vi è un traffico disgustoso di
cuccioli di ogni tipo, allevati a basso costo, impacchettati e
spediti, senza essere nemmeno vaccinati.
Quindi, se proprio avete la smania di possedere l’animale
“giusto”, cercateli in allevamenti che siano “giusti”.
Personalmente disapprovo la banalità di certi soggetti che
ostentano un cane di razza come se fosse un loro valore
aggiunto.
Alex mi invitò a entrare in salotto, arredato col tipico estro
anglosassone, che trovo sempre piacevole. L’enorme stanza
era affacciata sul grande prato verde che gentilmente si
arrampicava su una collinetta, che da lì a pochi metri sarebbe
divenuta duna, spiaggia e poi mare.
Pini secolari, rose ovunque, e il profumo prepotente dei
cespugli di lavanda.
Nella grande stanza molto accogliente troneggiava,
appoggiato sotto l’enorme finestra, un lunghissimo divano
sproporzionato e altri più piccoli ai lati del grande camino di
pietra serena, su cui era appeso un grande quadro ottocentesco
che ritraeva una tigre dall’atteggiamento fiero.
«Che bella questa tigre.» Commentai mentre Alex, di spalle
e ricurva sul vassoio degli alcolici, era intenta a preparare un
drink confuso e minaccioso.
«Bella, vero? Non averne timore, è buona come un
cucciolo.»
Sorrisi tiepidamente per la battuta british.
«Hai ragione, è talmente ben dipinta che mi sembra di
sentirne il ruggi…»
Mi azzittii bruscamente nel girarmi verso la grande finestra
sul giardino.
Terrore puro. Cuore in gola. Non credevo ai miei occhi.
Dall’esterno una tigre enorme era appoggiata con le zampe
anteriori alla finestra.
Per un attimo sperai fosse l’ennesimo trofeo imbalsamato,
subito dopo ipotizzai di avere un’allucinazione dovuta al drink
molesto di Alex, che ancora non avevo toccato.
L’alone dell’alito sulla grande vetrata che dava sul giardino
dell’enorme felino e lo scodinzolare della coda mi tolsero ogni
dubbio: era una tigre viva.
«Ti presento Teo.»
Gelo…
«Ti avevo avvertito che avevo degli animali…»
Anni prima, il Comune di Piombino aveva deciso di
smantellare un vecchio zoo e Alex, per salvare la tigre da un
abbattimento sicuro, l’aveva presa con sé, tenendola libera
nell’enorme proprietà recintata. Erano anni in cui questo tipo
di eccentricità non era illegale.
Teo entrò lentamente nella stanza, muovendo le scapole in
modo sinuoso.
La pelliccia scivolava libera sull’ossatura, le zampe enormi
procedevano senza fare nessun rumore, anzi colmando la
stanza col silenzio assordante del suo arrivo.
Quel miracolo di bellezza ed eleganza raggiunse il grande
divano sproporzionato e, come una regina stanca, si distese sul
suo trono, il divano di Teo. Sbadigliò.
«È un grande gatto e si comporta come un gatto. È totalmente
innocua, se le si dà da mangiare con costanza. Vedrai, fra un
po’ verrà da te a farsi accarezzare…»
“Accarezzarla? Ma anche no!” pensai terrorizzata.
«È maschio?» chiesi, cercando di allentare il terrore.
«Ma noo… la chiamo Teo, ma il suo nome è Teodolinda.»
Un altro nome equivocabile…
Dopo qualche minuto, l’imperiale gattona si alzò e si
diresse verso di me, pretendendo la mia attenzione. Come se in
quel momento non ne avesse abbastanza…
Qualcosa di buono nello sguardo amplificato di quella
creatura sublime mi fece capire che mi potevo fidare, che
potevo toccarla.
Il corpo era caldo, sentivo attraverso la morbida pelliccia il
battito del cuore, il respiro. Percepivo la sua anima potente.
La sua presenza ipnotizzante mi pervase di una calma
strana, di una qualità che non ho più percepito. Avevo ceduto
al suo potere e lei alla mia venerazione.
Divenimmo grandi amiche.
Veniva con me sulla spiaggia, vegliandomi dall’alto delle
dune, intenta a percepire il profumo del mare, mi dava il
buongiorno con una soffice testata sulle cosce, conciliava i
miei pisolini quotidiani sul divano, quello piccolo, mentre lei
russava su quello grande. Quell’assurda confidenza quotidiana
consolidò in me la convinzione, tuttora persistente, che
creature estremamente diverse possono trovare un territorio
comune solo nel rispetto e nella fiducia dell’altro.
Senza giochi di potere.
Una sera Lady White decise di invitare a cena i vicini di
casa inglesi e un loro ospite scozzese, un certo Neil. Io ne fui
felice. Ero un po’ erotizzata dall’incontro con Teo, e non mi
sarebbe dispiaciuto avere un amante estivo. Senza contare che
trovo gli scozzesi, come i livornesi, gli uomini più attraenti del
pianeta. Ho vissuto un anno a Edimburgo e non ho potuto
evitare di appassionarmi al genere scottish. Ossature possenti,
capelli ginger o chiome scure, e pelli lunari costellate di
lentiggini. Pur non essendo particolarmente sedotta dalle
uniformi, ammetto di trovare il kilt piuttosto convincente.
I livornesi hanno un’ironia tagliente e creativa e una
schiettezza virile dalle quali sono sedotta, al punto da
considerare l’aspetto fisico molto spesso ininfluente.
Giunse la coppia dei vicini, un po’ in anticipo. Daniela, la
fida domestica di casa, arrivò con un vassoio con i bicchieri e
il vino freddo e se ne andò portando via con sé l’enorme
vassoio pieno di alcolici. Mi parve strano…
Mi fu anticipato che non sarebbe stato servito vino a tavola
perché Neil, il “mio” scozzese, stava faticosamente tentando di
uscire da una grave dipendenza dall’alcol, e quindi era
preferibile non tentarlo. Cinicamente pensai che era un
peccato, fermamente convinta che gli uomini un po’ brilli
cedono prima, e io tendo a non aver pazienza. Aspettammo un
bel po’: lo scozzese era molto in ritardo, e io, che ho poca
pazienza anche quando ho fame, sussurrai segretamente ad
Alex:
«Sono talmente affamata che mi mangerei Teo.»
«Teo! Non ho avvertito Neil dell’esistenza di Teo!»
esclamò Alex, che si distrasse subito quando la domestica
annunciò che la cena stava per essere servita.
Ci mettemmo a tavola e cominciammo a mangiare,
aspettando lo scozzese, che mai giunse.
Sapemmo il giorno dopo che il mio mancato amante era
arrivato in orario, ma appena parcheggiato sentì dei colpi sordi
sullo sportello della macchina. Teo gli stava dando il
benvenuto. Vista la tigre e convinto di avere un’allucinazione
dovuta all’alcol, spaventato fece retromarcia e fuggì.
Mai più toccò un goccio d’alcol. Brava Teo.
Teo morì anni dopo ingoiando una pallina da tennis rotta,
che le perforò lo stomaco.
Non ci fu modo di capirlo in tempo, e l’ipotesi di fare una
tac in piena Maremma a una tigre era piuttosto impercorribile.
La tigre imperatrice finì i suoi giorni nel letto di Alex, che ne
fece rinforzare la struttura pur di poterle stare vicina giorno e
notte.
Non ho mai conosciuto nessuno che, come Alex, amasse gli
animali con tale naturalezza e senza nessuna traccia di
fanatismo, pur nella sua misteriosa contraddizione che
esprimeva la presenza di quei trofei, testimoni che il passato
va onorato trattenendone le tracce nel presente. Senza giudizio
verso noi stessi.
Evviva Lady Alexandra White.
Conobbi lo scozzese l’estate successiva a una festa di
compleanno. Un gigante ginger molto più attraente di ogni
mia fantasia, dallo sguardo lucido e fiero di chi ha sconfitto
una dipendenza.
Ma un altro ospite catturò la mia attenzione. Un
quarantenne bruttacchiolo dal sorriso birichino, che al tavolo
dei cocktail parlava con il giovane barman con cui pareva
avere una certa confidenza. Dall’accento capii che erano
entrambi livornesi e che il “bruttacchiolo” era cliente abituale
del bar in città, dove lavorava il ragazzo, a cui si rivolse
facendo una delle battute più fini che abbia mai sentito,
ovviamente in dialetto…
«De’ bimbo, beato te che stai tutto il giorno al bar!»
Livorno 10 - Edimburgo 0.
Notte di fuoco indimenticabile.
Io e Teo in Maremma.
29
Loris

Il palcoscenico è sempre stato per me un luogo familiare,


anche molto prima di aver avuto il privilegio di poterlo abitare.
Il mio babbo era un grande amico del direttore del Gran
Teatro dell’Avana, e molto spesso ci era permesso seguire le
prove degli spettacoli, dall’avanzamento degli allestimenti fino
alla sera del debutto. Celati nella penombra del palco,
potevamo assistere allo spettacolo, che sentivamo anche un
po’ “nostro”.
L’energia intorno alla nascita di uno spettacolo era la cosa
che più m’incantava.
Gli sguardi concentrati degli artisti, l’autorevolezza solida
del regista, le indicazioni sicure e inappellabili del direttore
d’orchestra, il brulicare di maestranze, tecnici delle luci,
allestitori.
Energia creativa allo stato puro, che confluisce poi
nell’incanto della rappresentazione, il miracolo corale in cui
ogni rondella è indispensabile perché quel meraviglioso
orologio funzioni.
Un orologio. Che non può permettersi di fermarsi, che non
può indulgere al minimo ritardo, poiché esso produrrebbe un
ritardo ulteriore e inaccettabile.
Il teatro è uno dei luoghi dove, più che in altri, agire e
pretendere il rispetto è fondamentale.
Un luogo di rigore, fatto di note a tempo, di ingressi
puntuali, di luci che devono essere accese al momento giusto,
di sicurezza nel gesto di chi dirige, di scenografie solide che
devono essere costruite con maestria, di braccia potenti che
devono tirare le corde affinché i fondali si sollevino in aria per
scomparire o discendano dal celo per apparire.
Il teatro è un grande atto di civiltà, creatività e fiducia.
Desiderosa di comprendere gli incastri di quella macchina
complessa, mi sentivo come una giovane belva che, con lo
sguardo vigile, è pronta a divorare con gli occhi ogni
movimento nella sua tempestività, ogni sentimento nella sua
sicurezza o fragilità. Assistendo a ogni prova, sapevo che cosa
sarebbe accaduto attimo dopo attimo: ogni attacco
dell’orchestra, ogni ingresso di cantante, ogni chiarore e ogni
buio.
Col tempo, facendo questo lavoro, ho capito quale grande
dono fu per me intuire, già da bambina, il valore della
partecipazione a un progetto comune, specie se irrorato di
creatività. Il teatro è il mio unico luogo di disciplina e mi ha
insegnato anche il rispetto delle gerarchie. Pur essendo
fondamentale l’efficienza di ogni singola maestranza, in teatro
comanda solo una persona: colui che si prende la
responsabilità della restituzione al pubblico dell’idea che
muove un lavoro teatrale.
Ho spesso apprezzato spettacoli brutti, ma con un’idea
precisa, piuttosto che spettacoli non brutti ma resi modesti da
un’idea zoppicante.
Nella visione di uno spettacolo alberga la sua potenza. Ma
sono anche convinta che tale visione non sia sufficiente a se
stessa e che invece necessariamente debba aprirsi al talento e
alla competenza di tutti, per poter essere potente. L’accordo
del pianista può innalzare e il ritardo di una luce può demolire.
Tutto è solido e fragile, come il vetro.
Mai avrei creduto di fare teatro. Mai.
Ho sempre pensato che quella penombra dietro il palco
fosse tutto ciò che mi era dovuto. E non ho mai preteso di più,
se non da spettatrice.
Poi è arrivata la musica, che mi ha dato uno spintone
inaspettato, facendomi trovare di colpo al centro di quel
complotto di talenti che è il palcoscenico.
Ho sempre cantato. Da piccola con mia madre, abile
pianista, passavamo pomeriggi interi a cantare e suonare
canzoni. Quando lei morì, ebbi una specie di lutto vocale.
Poi, facendo un salto di quasi trent’anni, incontrai Loris.
Loris Di Leo.
Quella sera ricevetti un invito a una festa con DJ in casa.
In quel momento non riuscii a immaginare niente di più
terrificante.
Ciononostante decisi di accettare, sentendo di dover essere
riconoscente alla padrona di casa, una ricca commerciante di
Montecatini, alla quale avevo venduto un orrendo Chagall per
una grossa cifra, tra l’altro insensata.
Tutto era molto più atroce di ogni pessimistica previsione.
Casa ricca e mostruosa, gente ricca e rumorosa, un salotto
che credo volesse essere, nelle sue intenzioni, in stile impero,
ma chissà che cosa avevano in testa quando l’hanno realizzato
a Quarrata negli anni Ottanta… Un pianoforte di un bianco
imperdonabile, usato come base d’appoggio per i ritratti
vanitosi della padrona di casa. Quella sequenza di foto
sembrava la documentazione scientifica di un intervento di
chirurgia estetica malriuscito.
La signora L. mi accolse gentilmente, mentre il DJ dietro
una console, credo della Chicco, metteva musica inascoltabile.
Decisi che bere era l’unica soluzione.
Primo gin tonic, niente. Un secondo, un terzo… al quarto
cocktail cominciai a essere lievemente possibilista: c’è un DJ ,
qualcosa accadrà…
Infatti accadde il peggio: il trenino disco samba.
Venni coinvolta contro ogni mia volontà e ballai svogliata,
agitando le braccia con lo stesso entusiasmo di una che fa la
fisioterapia ai gomiti. Poi, nella patetica concitazione della
danza, tra il mix di sudore e profumi volgari, vidi lui. Loris.
Aveva l’aria di un becchino a cui è stata appena comunicata
l’esistenza del farmaco che rende immortali. Alto, elegante,
non brutto (ma neanche bello), occhi intensi, belle mani e lo
sguardo incazzato di chi trova le ganasce alla macchina appena
uscito da un ufficio Equitalia. Probabilmente lo trovai anche
sexy, ma non ne sono certa.
Decisi che i nostri disagi causati da quella serata ripugnante
dovessero allearsi.
«Ciao, sono Drusilla.»
Lui mi guardò con un disgusto francamente eccessivo, e
nemmeno mi rispose.
Optai per l’invadenza e gli rivolsi la domanda in cima alla
top ten delle domande del cazzo: «Di che cosa ti occupi?».
Svogliatamente mi rivelò di essere un pianista, classico.
Che palle.
Contavo su uno di quei musicisti un po’ da pianobar, che
conoscono tutto, da Battisti a Trenet. Effettivamente avrei
dovuto capirlo, non aveva l’aria di essere un mattacchione…
«Sa che ho una bella vocina?» insistetti in modo petulante.
«Perché non andiamo al piano? Lei suona e io canto, diamo
una svolta a questa serata mortificante.»
«Potrebbe andar peggio» ribatté lui fissandomi,
evidentemente privo di fiducia nelle mie doti canore. Non mi
detti per vinta.
«Facciamo una cosa, appena la situazione si placa io vado
in bagno, mi inciprio il naso, e lei va al pianoforte, e al mio
ritorno facciamo della musica.»
«Intanto vada in bagno, glielo consiglio…» Non gentile.
Il suo disgusto non era del tutto immotivato. Il trenino disco
samba mi aveva trasfigurata. Sembravo Bette Davis in Che
fine ha fatto Baby Jane?. Riorganizzai ciò che restava della
mia faccia, dopodiché rientrai nel salone. Di Leo era seduto al
pianoforte con un’espressione rassegnata. La padrona di casa,
intuendo le nostre intenzioni musicali, invitò al silenzio.
«Conosce Life on Mars?» mi chiede Loris.
«Certo! Sa che anni fa, a Londra, conobbi anche David
Bo…»
Mi interruppe disinteressato al mio name dropping,
facendomi sentire una cretina. «Ok, facciamogli il culo a
questi stronzi» sussurrò complice Loris.
Le mani del maestro Di Leo si appoggiarono sulla tastiera.
Il primo accordo, l’inizio di un incanto, del miracolo.
Eseguimmo la bellissima canzone di Bowie in modo calmo
e struggente, con la stessa intenzione, la stessa visione. Poi
cantammo ancora, e ancora.
Quando il DJ afferrò i suoi balocchi andandosene
offesissimo, capimmo che avevamo vinto la nostra crociata
contro la volgarità. L’atmosfera della festa cambiò, divenne
rilassata e amichevole. Gli ospiti orrendi si rivelarono non
essere orrendi, almeno non tutti.
L’espressione della mia ospite si distese e mi parve anche
meno deformata dal botox. Il salotto neoimpero restò brutto.
La musica può molto, ma non tutto.
Fu così che io e Loris iniziammo a frequentarci. Scoprii che
era una persona molto sensibile e tormentata, come me.
Durante le prove, fra una canzone e l’altra, lui parlava spesso
dei suoi amori e io del mio passato. Divenimmo amici.
Gli rivelai che cantare era la cosa che amavo di più, ma che
pensavo che fare musica non mi fosse dovuto, come quando si
pensa di non meritare un grande amore.
«Credo che lei meriti la musica. Decida una scaletta di
canzoni e facciamo un house concert insieme, salviamo il
mondo dal trenino disco samba.»
Così fu. Scelsi delle canzoni che conoscevo, un po’ per
pigrizia di doverne imparare di nuove e un po’ perché sono
convinta che se una canzone la si ricorda vuol dire che ha
significato qualcosa nella nostra vita. Pensai di introdurre
prima di ogni pezzo un piccolo monologo che ne spiegasse la
scelta.
Compatibilmente con i suoi impegni di apprezzato pianista,
preparammo il nostro piccolo show, cercando entrambi di
moderare il più possibile i nostri caratteri prepotenti.
Qualche volta vincevo io, più spesso lui.
Dopo pochi giorni Alessandro Cammilli, un caro amico, mi
propose di debuttare con il nostro show a casa sua, dove
spesso ospitava piccoli concerti di artisti molto bravi.
Accettammo. Fu il primo piccolo grande successo.
Poi arrivò Mr Jingle.

Io, Nico Gori, Franco Godi e Loris Di Leo.


Loris Di Leo che mi impedisce di salire sul piano durante lo show
“Eleganzissima”.
30
Mr Jingle

Tutta colpa di Dimitri.


Dimitri Milopulos è il direttore artistico della Limonaia, un
teatro appena fuori Firenze con una programmazione
interessante e particolarmente attenta alla drammaturgia
contemporanea. Mi stupii quando vidi la sua bella faccia fra
gli ospiti dell’house concert. Io e Loris ci meravigliammo
molto quando Dimitri ci propose di portare il nostro piccolo
show nel suo spazio teatrale, a mio parere troppo autorevole
per uno spettacolo così acerbo. Ciononostante accettammo e ci
mettemmo a lavorare per rendere il nostro show il più
possibile all’altezza della proposta.
Avevamo tre settimane di tempo, e in quelle tre settimane
accadde di tutto.
Poco dopo il nostro “debuttino”, Paolo Nieri, una della
menti più evolute che io abbia mai conosciuto, mi propose di
presenziare all’apertura di un locale rilevato da un giovane
amico. Gli ampi spazi del bar comprendevano anche un’area
polivalente dedicata a mostre, presentazioni di libri, attività
culturali. I giovani vanno aiutati e di Paolo mi sono sempre
fidata, quindi accettai nonostante fosse la prima occasione in
cui mi sarei fatta vedere dal vivo, e ciò un po’ mi spaventava.
La serata consisteva in un’intervista alla quale tutto il
pubblico presente poteva partecipare rivolgendomi delle
domande. Ipotizzai che non vi sarebbe stata troppa affluenza di
pubblico nonostante avessi già una piccola notorietà, reduce
dal mio debutto in televisione con Serena Dandini in “The
show must go off” e dalla partecipazione al film di Ferzan
Özpetek Magnifica presenza. Queste due esperienze mi
aiutarono a uscire dal torpore che ancora sentivo per la morte
di Hervé, quindi mi persuasi che l’unico modo per uscire da
quel tunnel era “fare”.
La mattina stessa di Drusilla contro tutti, l’opening del
locale, caddi per le scale e mi feci male alla schiena. Decisi
comunque di partecipare facendomi accompagnare in
carrozzina da David Drago, il sacerdote indiscusso della
musica indie italiana, con cui già conducevo da tempo una
trasmissione radiofonica con grande soddisfazione.
Arrivammo al locale e la serata cominciò.
I presenti erano moltissimi, oltre ogni aspettativa, la
maggior parte dei quali rimase fuori per strada impossibilitata
a entrare. Mi furono rivolte domande simpatiche, interessanti e
anche molto personali, a cui risposi senza esitazione,
divertendomi molto.
Mai avrei pensato che vi fosse tale curiosità intorno a
Drusilla.
Quella serata mi convinse definitivamente che era il
momento di uscire dalla palude allagata di ricordi in cui mi ero
affossata da mesi.
La settimana stessa ricevetti una telefonata da un’amica che
mi chiedeva di far parte di una giuria per Eroticanzoni, un
concorso per parolieri di canzoni a sfondo erotico tenuto al
Teatro Politeama di Prato. Per pura pigrizia rifiutai
gentilmente.
Mi ero già esposta faticosamente in quel periodo e non
volevo abusare della mia audacia. Per ringraziare la mia
amica, le inviai la registrazione di una canzone che avevo
cantato durante il nostro acerbo show: Preghiera a
sant’Antonio, un pezzo degli anni Quaranta portato al successo
da Milly e che occhieggia in modo civettuolo a temi sessuali.
La canzone racconta di una donna che si rivolge al santo
protettore di Padova chiedendo un uomo per sé, ma che fosse
dei Pesci, segno a lei congeniale, per poi finire col “farsi tutto
il calendario”.
Il direttore artistico della serata, Franco Godi, la sentì e
chiese alla mia amica chi fosse quell’anziana signora che
cantava così bene.
Ricevetti da lui una telefonata, in cui mi propose di
presentare la serata.
Avevo rifiutato di essere in giuria per quell’evento, pur in
compagnia di Renzo Arbore, Simona Marchini, Franco
Miseria e altri autorevoli personaggi.
Giurata no, ma conduttrice sì. Vinse la vanità e accettai.
Così ebbi il primo incontro con il regista, l’autrice e lui,
Franco Godi.
Il nome mi diceva qualcosa, ma non la sua faccia. Pensai
che, se l’avessi conosciuto, un uomo così me lo sarei
certamente ricordato: bellissimo, alto, dai capelli bianchi,
gentile ma dai modi autorevoli.
Parlammo della serata, che prevedeva la presenza di molti
partecipanti al concorso e ospiti tra i quali Patty Pravo.
Scrivemmo il copione, rispolverai due abiti da sera e via,
sul palco.
Non ci salivo dai tempi dell’opera col babbo, e trovai quel
luogo essere ancora familiare. Si riaccesero emozioni e ricordi
vividi e potenti.
Quella sera mi sentivo particolarmente a mio agio, leggera
e attenta. Ebbi un successo personale inaspettato.
Decisa a ringraziare Franco per l’opportunità che mi era
stata data, mi informai prima su chi fosse. Essendo vissuta fino
a pochi mesi prima all’estero, ero disinformata sul panorama
artistico italiano. Scoprii che Franco Godi era noto come Mr
Jingle, poiché ha inventato tutti i jingle più memorabili per le
pubblicità (Bidibodibù, Tanti Baci Perugina, Tuborg e mille
altri) e inoltre è stato il produttore di grandi cantanti di
successo, come i Gemelli DiVersi, Fedez, J-Ax, portando al
successo l’hip hop in Italia, quando questo genere era poco
apprezzato.
Ancora eccitata dal successo della serata, mi decisi a
telefonargli, ma lui, come sempre, mi anticipò.
«Vivo in Toscana ma ho la mia casa di produzione a
Milano. Mi piace molto come canta, che ne direbbe se iniziassi
a seguirla nella sua carriera?»
Carriera? Quale carriera?
Io non ho mai pensato a una carriera, specialmente a questa
età.
Senza contare che la mia natura poco ambiziosa non
prendeva in considerazione una progettualità di questo tipo. La
personalità musicale di Franco, il vederlo muoversi con la
band sul palco e la sua sicurezza mi convinsero che forse era
l’ultima chance che avevo nella mia vita di fare qualcosa che
avesse della progettualità.
«Proviamo per un po’ di tempo, quando non ci divertiamo
più smettiamo.»
Quella frase mi tranquillizzò e mi ricordò le parole di Sara
in volo per New York.
«Stai tranquilla Dru, quando ci saremo annoiate torneremo
a casa. Promesso.»
Accettai timidamente.
«Non è facile avere a che fare con me, Franco» ammisi
titubante.
«Sono certo che sarà molto più semplice di quanto sia avere
a che fare con me» rispose lui.
Così prese in mano il progetto musicale già in porto con
Loris, a cui apportò una consistenza artistica e musicale degna
del debutto alla Limonaia, che sarebbe avvenuto di lì a poco.
Si aggiunse al progetto Nico Gori, un caro amico, musicista
eccezionale che suona il clarinetto e il sax. Strutturammo in
breve lo spettacolo, a cui ancora non avevamo dato un nome.
Ricordai che una follower di appena dodici anni mi aveva
scritto: “Da grande voglio diventare ‘eleganzissima’ come
lei”.
Eleganzissima divenne il nome del recital che poi abbiamo
portato in tutta Italia, in Spagna e in Brasile, con molto
successo.
Lo spettacolo col tempo cambiò aspetto, integrato strada
facendo con nuove canzoni e sviluppato nella parte narrativa.
L’incontro con Franco è uno di quegli incontri voluti dal
destino.
A lui devo tantissimo, se non tutto. Di lui mi fido e ho
imparato a retrocedere nelle mie convinzioni, dando spazio
alla sua competenza piena di gusto e sensibilità.
Certo, aveva ragione, non è un tipo facile: è cocciuto come
me, ostinato come me, determinato come me e instancabile più
di me. Non sempre siamo in linea e a volte bisticciamo,
essendo entrambi facilmente infiammabili e appassionati.
Spesso mi guarda con quegli occhi pungenti e già so che
cosa vuole dire.
A volte brontola, ma ha quasi sempre ragione. E, anche
quando penso che abbia torto, in realtà un po’ di ragione,
anche pochissima, ce l’ha.
Immaginate quanto sia insopportabile per me che sono
sempre stata considerata all’altezza delle situazioni. Ci vuole
nella vita qualcuno che ti sfidi, e Mr Jingle non si accontenta
mai. La soglia va alzata, sempre. Mai fare una cosa che non
abbia un senso, che non abbia dignità artistica, sennò «te la fai
da te».
Quando dice così lo strozzerei.
Il suo approccio ai progetti è identico al suo modo di
mangiare.
Quando arriva un piatto, lo osserva con signorilità, lo
ridispone con la forchetta via via che lo consuma, decide la
precedenza di ogni boccone, il tutto con una lentezza che è
estenuante per una come me per cui mangiare è semplicemente
togliersi la fame. Lui no, con metodo si gusta tutto in modo
ordinato, forchettata dopo forchettata.
Così è il suo modo di lavorare: osservare, valutare,
progettare per poi godere.
Che nervi. Per una divoratrice seriale come me…
Franco mi ha seguita, protetta, consigliata nelle mie scelte
artistiche, cinema, teatro, televisione, ma la nostra vera
alleanza alberga nella musica.
La musica. Quell’amore, che non pensavo di meritare,
adesso è un amore possibile.
Franco Godi è una persona buona che mi vuole bene, credo
quanto gliene voglio io. Conoscerlo è stata una vera grazia.
Grazie Mr Jingle.
Bidibodibù.

Sul palco con Franco Godi.


31
Ora basta!

«Ora basta!» tuonò prepotentemente Ornella, quel pomeriggio.


Ero tornata da Bruxelles da una settimana dopo aver chiuso la
casa dove vivevo con Hervé. Era stata un’esperienza
emotivamente estenuante.
Di quel luogo così pulsante di sentimenti decisi di non
tenere nulla, se non la targhetta di bronzo del campanello e un
busto di Hervé che lo ritrae in età giovanile. Per assurdo
volevo delegare alla memoria il compito di evocare il suo bel
viso di uomo maturo. Quel ritratto era ciò che Hervé era prima
di me.
Pensai che quella bella testa di terracotta non sarebbe
diventata un oggetto devozionale morboso, essendo i tratti di
quel giovane così bello lontani dalla mia visione di lui.
Mi trasferii a Firenze nella casa di Settignano di cui vi ho
raccontato, contando sulla presenza di Giacomo, il figlio
maggiore di mio fratello Gherardo. Giacomo attualmente vive
a Berlino ed è un piercer e un tatuatore di grande successo. Mi
somiglia moltissimo, sia nel carattere sia nei tratti, e con lui ho
sempre avuto un rapporto speciale. Era l’unica persona che
vedevo. Molto spesso veniva a trovarmi, lui leggeva e io
l’ascoltavo. E poco altro. Ero blindata nel mio dolore, in quella
casa fuori Firenze, e in nessun modo intendevo relazionarmi
con ciò che era oltre la mia fortezza. Niente cene, niente
incontri con vecchie amiche d’infanzia, niente rapporti con
quel mondo benestante di cui certamente non mi sentivo parte,
dopo aver vissuto una vita libera dagli stilemi
comportamentali borghesi.
Non avendo un’indole domestica, decisi di assumere una
collaboratrice e mi venne consigliata una certa Ornella.
Una signora molto “in ordine”, dallo sguardo severo e
taciturna. Perfetto.
Mi venne descritta come una donna ruvida ma molto
efficiente. Ancor più perfetto. Mai avrei sopportato di avere in
casa una chiacchierona ossequiosa.
Nel primo periodo che venne a servizio da me, Ornella
tuttavia si dimostrò, attraverso alcuni piccoli gesti colmi di
attenzione, una donna sensibile che ben capiva il mio stato,
non depressivo ma chiuso al mondo.
Aveva capito che era il tempo del ritiro. Ma fu lei a stabilire
quando questo tempo finì. Avevo accettato a fatica un invito a
cena da Dianora, un’amica d’infanzia, insopportabile.
«Che cosa indosserà stasera, signora?»
«Non so, scelga lei, Ornella.»
«Ora basta!» sbottò con fermezza.
Mi stupii di quell’esclamazione potente e assertiva, e la
guardai sbigottita.
«Dovrebbe vergognarsi. Lei è una donna fortunata, ha
avuto la sua fetta d’amore, ha vissuto liberamente, è sana ed è
in vita. Non ammetto che si comporti così. Mi faccia trovare
fra dieci minuti in stireria che cosa indosserà, con le scarpe, la
borsa e i gioielli, altrimenti mi licenzio. Alle 17.00 io e lei
andiamo dal parrucchiere, insieme. Ho i capelli in disordine e
lei più di me. Desidero non essere contraddetta.»
Uno choc. Divenimmo amiche, pur mantenendo i nostri
ruoli.
Spesso la descrivo come un mostro anaffettivo, ma lo
faccio per amore del sorriso che provoco quando ne parlo in
questi termini. La si può definire certamente un mostro nei
modi, ma nei contenuti è senza dubbio la persona che mi ha
salvato.
I suoi tratti dittatoriali si distendono in un’espressione
commovente quando si occupa delle cose. La cura delle cose
ha a che fare con la cura di sé.
Di lei mi fido totalmente, ha una mente acuta e lucida, a
volte con lei discuto delle scelte professionali: con facilità
demolisce personaggi televisivi o la scelta di una canzone ed
ha quasi sempre ragione.
E anche quando penso che abbia torto, un po’ di ragione,
anche pochissimo, ce l’ha.
Sentire il rumore delle sue faccende mi allaga il cuore di
tranquillità, il caffellatte freddo che mi prepara la mattina è
come il propellente di un’astronave, ogni suo microsorriso di
approvazione è un Golden Globe.
«Si vede che sul palco è felice.»
La sua unica concessione dopo la prima volta che vide un
mio spettacolo.
Che stronza adorabile.
Lei è il mio porto sicuro, la mia amica più sincera, colei che
mi impone una disciplina.
Si rifiuta di rifarmi il letto perché esige che io cominci la
giornata con un gesto di cura delle cose. Ornella è un essere
mostruosamente speciale, a cui sono grata.
La gratitudine è un sentimento che mi fa star bene dentro.
Esprimerla ancor di più, quindi dovrete subire questa lista di
nomi, senza cognome. Qualcuno ci si riconoscerà con
certezza, qualcuno penserà di esserci.
Quindi grazie a:
Anna, Marco, Gianfranco, Nicola, Niccolò, Ruben,
Lorenzo, Neri, Giorgiana, Olivella, Nicoletta e Ginevra,
Valentina, Marella, Mustapha, Simone, Leo, Paolo, Serena,
Iacopo, Samuele, Sara, Valentina, Ezechiele, Nencia, Diego,
Fiona, Fiamma, Sabina, Bona, Paolo, Chicca, Ilaria, Massimo,
Rina, Ornella, Riccardo, Maria, Rizieri, Armido, Gianna,
Dianora, Katia, Filippo, Carlotta, Valentina, Stefano,
Giancarlo, Mattia, Luca, Stefano, Chety e Marco, Sandra e
Oliviero, Daniele e Fabio, Alessandro e il suo team, Daniele e
Monica, Vale, Elena, Dolfo, Ilaria, Dimitri, Fabrizio, Massimo,
Rita, Simona, Gisella, Joséphine, Paolo, Nik e Fabio, Ilaria,
Peppino, Alfredo, Alex, Gabriella, Sara, Luigi, Roberto, Rina,
Giacomo, Antonella e Lucrezia, Claudia e Chicca, Dino,
Mariella, Pino, Marco e il suo team, Franco e le sue figlie,
Antonella, Claudia, Martin, Gabriella, Daniele e Michele,
Alessandro, Angelica, Daniela, Flavia, Don, Carlo, Bruno,
Nando, Luca, André, Giancarlo, Marco, Maurizio, Carlotta,
Piero, Iva, Paola, Barbara, Claudia e Nico, Franco e Matilde,
Loris, Francesco, Ale, Ornella, Jacopo, Anna e Paola, Marino,
Allegra, Davide, Andrée Ruth, Roberta ed Elvira, Silvia,
Adelaide, Franca, Pino, Roberto, Dario, Stefano, Kake,
Matteo, Graziano, Guido, Maria Caterina, Nico e il suo
Tentett, Elena, Francesco, Carla, Francesca, Angelino, Etta,
Sabrina e Sara.
Grazie a chi ha realizzato una bambola con i miei tratti, un
risotto col mio nome, un cocktail che si chiama Dru, chi ha
battezzato Foer una rosa bianca, chi mi ha donato una stella,
chi mi ha ritratta, chi ha dato il mio nome a una puledra
indomita, ma soprattutto ringrazio coloro che mi hanno vista
in profondità e accolta.
I doppioni non sono refusi, sono persone.
Chi c’è, c’è.

Da sinistra: la foto con Ornella che fu scattata da Officine fotografiche per il


calendario realizzato nel 2013. Per il mese di febbraio, in un gioco carnevalesco,
decidemmo di invertire i ruoli fra me e Ornella; con mio nipote Giacomo in un
momento di lettura.
Arrivederci

Eccoci arrivati.
È incredibile quanto sia difficile per me salutare prima di
separarsi.
È sempre stato così, dagli “arrivederci” nelle stazioni, ai
“chiamami quando arrivi” negli aeroporti, ai “vediamoci
presto” dopo una serata con gli amici.
Questo persistente imbarazzo nel saluto mi porta spesso ad
attaccare bruscamente al telefono, a essere sbrigativa alla fine
di un incontro.
Il distacco è un tema con cui non ho sviluppato un rapporto
adulto.
Salutarvi alla fine di questo scritto mi è particolarmente
difficile, perché voi non siete i soli che devo salutare.
Scrivere ha per la prima volta scatenato nel mio animo
l’urgenza di separarmi da molte parti di me a cui sono
aggrappata disperatamente.
Lasciar andare una visione di sé senza averne un’altra da
mettere al suo posto crea degli spazi vuoti a disposizione da
riempire con sentimenti nuovi, con visioni più reali e leali.
Forse ho pensato, con troppa convinzione, di essere il
prodotto del mio passato, non prendendo in considerazione
tutto il potere che il futuro ti mette a disposizione per riempire
lo spazio lasciato libero da ciò che non sei più, da ciò che non
c’è più.
Che brutto scherzo mi ha giocato l’esperienza della
scrittura…
Forse una soluzione può essere “riassumere”.
Riassumere. Assumere di nuovo… ci sono cascata ancora.
Facciamo un gioco. Drusilla Foer non c’è più.
Facciamo finta che l’impegno di riempire gli spazi vuoti a
disposizione per il futuro non la riguardi più. Madame Foer
non ha più modo di agire la vita, e a un suo ipotetico funerale
qualcuno leggerà un discorso…

Ciao a tutti.

Vorrei potervi tranquillizzare oggi.

Quel corpo, ammetto piacevole, che ha contenuto la mia anima non è


niente.

È un guanto vuoto che, senza la mano dentro, è incapace di compiere


gesti, di fare una carezza, di afferrare la maniglia di una porta, di
stringere un’altra mano.

Desidero che quell’involucro perda ogni senso d’ora in poi.

Parliamo di ciò che ha fatto muovere quel guanto.

Sono un’anima fortunata. Sono stata amata e ho molto amato.

Ho desiderato forse più di quanto sia stata desiderata, ma sono stata


voluta intensamente, e quantificare è una cosa inutile come recriminare.

Cercate di non farlo mai, a meno che non si tratti di uno sconto su un
prezzo di un paio di scarpe. In quel caso bisogna battersi con le unghie e
coi denti…

Ho avuto una vita randagia, libera, colma. Una vita emozionata.

Ho avuto il privilegio di abitare il palcoscenico, grata sono a ogni


occasione in cui ho potuto dire una parola, cantare una nota.

Sono stata inondata di applausi, a cui sono molto riconoscente, ma


ancor di più lo sono per l’ascolto che mi è stato concesso dal pubblico,
che è il privilegio più grande di chi fa il mio lavoro e il dono più grande
che un’artista possa ricevere.

Ho incontrato gente buona nella mia vita, e anche quella cattiva non
lo era completamente.

Mi sono aperta a tutto, ma ho accolto solo ciò che ho percepito in


linea con me.
Vi invito a non essere qualunquisti, soprattutto dal punto di vista
affettivo.

Comprendere i limiti dell’altro non significa necessariamente


permettergli di farceli subire. E questo valga per noi stessi. Cercate di
conoscervi a fondo, con calma e tenerezza verso i vostri difetti. Siate
teneramente intransigenti.

Se vi capitasse di incontrare nel vostro cammino il sentimento della


vergogna, salutatelo velocemente e ditegli che avete un appuntamento
col pudore.

Tenete la vostra fragilità a braccetto con la vostra forza: l’una senza


l’altra non va da nessuna parte.

Pretendo che vi occupiate di voi stessi senza preoccuparvi.

In questo desidero non essere contraddetta.

Alcune raccomandazioni, prendete appunti.

Allenate la capacità d’ascolto. Del prossimo e di voi stessi.

È difficile, ma è un movimento affettivo che vi restituirà moltissimo.

Alimentate il confronto: solo questo vi permetterà di avere delle


convinzioni sane e vi proteggerà dall’agire e dal subire il pregiudizio.

Provate a chiedere scusa quando avete torto e non brandite mai


l’avere ragione.

Imparate a dare bene, ma anche a chiederne. E ringraziate quando vi


viene dato.

A questo proposito ringrazio la vita, da cui ho ricevuto tanto.

Ma ringrazio particolarmente l’incontro più importante: quello con


la mia volontà. Un’amica non sempre simpatica, ma che fa procedere e
non cedere.

Ringrazio ogni piccola esperienza che ho vissuto, ogni sentimento da


cui mi sono fatta attraversare, e chiedo perdono a quelli da cui mi sono
difesa.

Rendo onore alle molte cazzate che ho fatto in vita mia, e


tempestivamente sottraggo lo stesso onore a quelle che hanno provocato
dolore agli altri.
Non so dove sia adesso la mia anima, sicuramente in un posto
piacevole, siatene certi.

Poco dopo la sua morte, sognai nonna Gera, che mi disse: «Drusilla
come sto bene, se lo sapevo morivo prima». Di lei fidatevi ciecamente…

Non so se rivedrò babbo, mamma, le gemelle, Sara, Ezechiele,


Bernardo, Sabrina, Giorgiana, la nonna Tolo o il mio amato Hervé. Se
non li incontrerò ancora, pazienza.

Ho già avuto l’onore di conoscerli in vita. Chiedere il bis mi sembra


troppo.

Immaginatemi felice e serena, ma soprattutto immaginatemi, pur in


forma d’anima, sempre “in ordine” e con le mie gambe mozzafiato.

Nessuno osi pronunciare le parole «Era tanto buona…».

Io non ero buona, ero figa. Anzi, sono certa di esserlo tuttora, anche
di più.

Infine, vi concedo qualche lacrima di commozione, purché sia


episodica e colma di tenerezza. Trovate dentro di voi un posto per me
che sia dolce. Non ho la minima intenzione di sostare nei vostri ricordi
in modo noioso. Fatelo con determinazione, altrimenti vi tolgo il saluto.

Drusilla

Mi piace. Un bel discorso.


È stata una buona idea scriverlo adesso, una cosa in meno
da fare poi.
Detto questo, sarò viva ancora per un po’ e non vi libererete
di me: seguiterò a perseguitarvi senza tregua, narrandomi.
«Sono Drusilla Foer e sono una narratrice.»
Crediti iconografici

Introduzione

Foto: © Riccardo Bagnoli

Per “Dry Magazine”

Stylist: Michela Guasco

Hairstylist: Pietro Berdicchia

Make up artist: Mikaela Alleyson

Location: Teatro Franco Parenti, Milano

15. Fiaba

Foto: © Mustafa Sabbagh

Make up artist: Angelo Nenna

Jewels: Sara Bencini

Stylist: Simone Valsecchi

26. Taxi

Foto: © Serena Gallorini

Hairstylist: Ezechiele Ercolini

28. Teo

Foto: © Ph Filippo Brunori

29. Loris, 30. Mr Jingle

Foto: © Serena Gallorini

Location: Teatro Manzoni, Milano

31. Ora basta! (a sinistra)

Foto: © Ph Officine fotografiche - Firenze

Leonardo Pasquinelli e Paolo Nesi

Arrivederci

Foto: © Serena Gallorini


Hairstylist: Ezechiele Ercolini

Make up artist: Angelo Nenna

Outfit: Anna Broglia dal Persico

Location: Teatro Politeama Pratese, Prato


Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere
copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in
pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato
specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è
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alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni
incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.
www.librimondadori.it
Tu non conosci la vergogna
di Drusilla Foer
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835712978
COPERTINA || COVER DESIGN: MANUELE SCALIA | FOTO © SERENA GALLORINI
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Tu non conosci la vergogna
Introduzione
1. Il mio nome
2. Il guardaroba
3. Siena
4. Bon ton
5. Titanic
6. Nonna Gera
7. Ringhiosità
8. Le madri
9. Donare
10. Hervé
11. Il tappeto
12. Olé
13. Etta
14. Delete the Drama
15. Fiaba
16. “Fly”
17. Tinca
18. Spiare
19. Lo schiaffo
20. Il buon esempio
21. La gelosia
22. Le gemelle
23. Il tango
24. Charlot
25. Le cartine dei cioccolatini
26. Taxi
27. Funghi assassini
28. Teo
29. Loris
30. Mr Jingle
31. Ora basta!
Arrivederci
Crediti iconografici
Copyright

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