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TU NON CONOSCI LA
VERGOGNA
La mia vita eleganzissima
Tu non conosci la vergogna
Era bellissima.
Il suo ritratto fotografico era appeso sopra il “posto dei
fiori”: così si chiamava quel tavolino stile impero dove un
vecchio vaso cinese veniva colmato di rose inglesi, orgoglio di
mia mamma e regine indiscusse del giardino della fattoria di
famiglia a Siena.
Rose meravigliose, pallide e fragili. Curate, nutrite ed
esposte con un tale senso del sacro che mia mamma non
consentiva a nessuno di togliere, dal piano di marmo rosa del
Portogallo, i petali che silenziosamente abbandonavano i fiori.
«Mi piacciono quando sono stanche» diceva sempre,
«lasciamole andare.»
Lasciamole andare. Lasciar andare.
Quando glielo sentii sussurrare la prima volta, ricordo che ebbi
una gentile scossa di dolore. Col tempo questo tema ha perso
in me gran parte di quella gentilezza, lasciando spazio al
dolore nel lasciar andare. Le cose, le persone, una visione di
sé.
Dentro la cornice intagliata, da quella preziosa finestra sul
mondo, la fotografia di zia Maddalena sbirciava dietro i fiori
in modo indulgente ciò che accadeva nello studio di mamma,
che era il luogo della casa dove tutti riuscivano a essere più
umani e intimi nella dolcezza e nella crudeltà. Fiori sacri per
un luogo sacro.
Maddalena era la sorella della mia bisnonna, mi venne detto
che morì di febbre spagnola in giovane età.
Restavo per ore incantata da quel volto sereno di donna dai
capelli scuri.
Il ritratto fotografico era in bianco e nero, ma il rosa del
marmo mi faceva immaginare il suo incarnato, e il profumo
delle rose l’odore della sua pelle.
Fantasticavo su di lei. Sarà stata allegra, malinconica,
buona, cattiva…? Mi venne descritta come una donna alta, che
aveva una bellissima voce ed era sposata con un notaio di
Genova, talmente geloso che diede indicazione alla servitù di
nasconderle le scarpe per impedirle di uscire. Aveva il
permesso di indossarle soltanto in casa in presenza del marito
e a letto.
Sì, a letto, perché pare fosse sonnambula. Le vennero
quindi confezionate delle morbide scarpette con una parte
della suola in metallo, tipo quelle da tip tap, in modo tale che il
marito potesse svegliarsi sentendo il rumore dei suoi passi
incerti e ricondurla a letto.
Drilla (come venivo chiamata da bambina) era sospettosa,
curiosa e affascinata dai misteri. Spesso cercavo di svelarli, ma
più frequentemente li proteggevo dall’essere rivelati.
Niente chiesi di lei.
Maddalena era quel poco che sapevo e quel molto che
immaginavo.
Una donna remissiva, punita per la sua bellezza, che
cantava e passeggiava dormendo.
Le estati noiose alla Graiola, la nostra fattoria fuori Siena,
venivano spesso rallegrate dall’arrivo di una cugina della
nonna, la zietta Nerina, donna estrosa e logorroica, che
soffriva di attacchi di isteria. E che si vestiva sempre di bianco
pelle d’uovo, come il colore dell’abito da sposa che indossava
il giorno del suo matrimonio, in cui lo sposo non si presentò
all’altare. Isteria concessa…
Venire alla Graiola la rilassava.
Non tanto per l’atmosfera tranquillizzante della campagna
senese, quanto per ciò che le era permesso fare e che aveva un
effetto terapeutico sull’isteria, che si manifestava con degli
incontenibili attacchi di aggressività sugli oggetti.
Quando ve n’era il sentore, mia mamma andava nel grande
armadio nella stanza dei serviti dei piatti e apriva lo sportello
di zietta Nerina.
Lì erano accatastate in modo disordinato le mezzelune da
insalata, un oggetto mostruoso che si usava accostare ai piatti
di portata per servire le crudité.
Da mia mamma ho ereditato l’ostilità per quelle mezzelune,
di cui eravamo pieni anche dopo averne piazzate a decine nelle
case dei contadini, o dopo averle usate noi bambini per fare
bagnetti disordinati a bambole troppo grandi per quella stupida
dimensione.
Mio nonno ne tenne per sé una, particolarmente grande e
stemmata, che sorreggeva sotto il mento quando Fosco, il
guardiano della fattoria, ma anche abile barbiere, lo radeva.
Quando mia madre percepiva i primi segni d’ira della zietta, le
consegnava dodici mezzelune. Nerina raggiungeva il grande
muro laterale della fattoria e lì, furente, cominciava a
scaraventarle contro il muro con violenza, a volte urlando, a
volte tacendo, a volte ridendo, a volte piangendo.
Un pomeriggio, attratta dai rumori dei cocci, mi nascosi
dietro un orcio per spiarla.
Fu la prima volta che la vidi in azione, perché i miei
genitori ci impedivano di assistere a quelle scene di follia. Ma
in quel momento babbo e mamma erano in città, quindi via
libera…
Pur avendo una spiccata attitudine allo spionaggio, di cui
più avanti vi parlerò, quel giorno non fui abbastanza accorta e
una scheggia di porcellana schizzò in direzione dell’orcio,
ferendomi sul viso in profondità.
È una cicatrice ancora visibile sulla mia faccia. Ci sono
molto affezionata e mi ricorda la volontà di una donna di
liberarsi della propria rabbia, scelta che approvo pur nella
convinzione che esistono metodi più efficaci per liberarsi della
propria rabbia. Sentimento con cui io stessa, lo ammetto, ho un
rapporto molto conflittuale.
Non amo sentirla, non amo esprimerla, quindi mi è difficile
accoglierne il significato.
Scheggia, ferita, sangue a fiumi… Anche se, ovviamente, non
feci scenate, la zietta si accorse della mia presenza e poi degli
zampilli di sangue che imbrattarono il suo immacolato abito di
lino da “non sposa”.
Mortificatissima, mi prese con sé, mi portò in cucina, mi
disinfettò e mi condusse nello studio della mamma. Bevve un
cognac per calmarsi e tentò in modo disordinato di calmare
me.
Quello era il momento. Il momento di sapere. Il momento
di chiedere.
Piagnucolando in modo poco credibile (ancora non ero
un’attrice), le chiesi di raccontarmi della trisnonna Maddalena.
Mi parlò di lei, del marito geloso, del sonnambulismo e di
quella volta che ebbe il permesso di andare alle terme dei
bagni di Lucca scortata dalle sue amiche.
Per una settimana arrivarono al marito letterine quotidiane
tranquillizzanti scritte e imbustate nella carta da lettere
azzurra, con le iniziali della nonna e irrorate dalla sua
bellissima grafia.
Passata la settimana di “acque”, le amiche tornarono, ma
sua nonna no.
Pressate da un violento interrogatorio, le amiche
confessarono che Maddalena non era con loro ai bagni di
Lucca e che non sapevano dove ella fosse.
Le lettere erano state scritte prima dell’ipotetica vacanza,
imbustate e consegnate alle amiche complici, incaricate di
spedirne una al giorno al marito possessivo, da loro stesse
detestato.
Creare un alibi è un’arte raffinatissima di cui nessun uomo
è all’altezza.
Bisogna aver cura dei dettagli, e in questo noi donne siamo
imbattibili.
Tutti si chiesero che fine avesse fatto Maddalena, se sarebbe
tornata, se fosse fuggita, se era viva o morta. Non si seppe
niente per una settimana.
Fino a che, un pomeriggio di giugno, arrivò una lettera
dall’America contenente la lista delle vittime del naufragio del
Titanic. Eccola lì, in una cabina in prima classe col re del
cioccolato francese… altro che spagnola…
Evviva Maddalena, inconsapevole ballerina di tip tap, che
mentiva ad alti livelli, tradiva ad alti livelli e morì ad alti
livelli.
Credo una delle cose più sublimi della storia delle cose
sublimi.
Quando Tyrone Power e Linda Christian si sposarono a Roma,
e tutto il mondo ne parlò, nonna Gera venne invitata a una
colazione data in loro onore da una principessa romana.
Parlando inglese perfettamente, venne piazzata accanto
all’attore, la cui già enorme celebrità fu amplificata proprio
dalle nozze romane.
«Lei di che cosa si occupa?» chiese alla star di fama
mondiale. Silenzio.
«Lavoro nel cinema» rispose gentilmente, ma certamente
perplesso, l’attore.
La nonna annuì e guardò in direzione della bellissima
moglie Linda, dalla parte opposta del tavolo, e aggiunse.
«Scommetto anche sua moglie…»
Forse la trovava con troppe onde ineleganti sulla faccia.
Linda Christian era sublime, una delle donne più belle e
gentili che io abbia mai conosciuto, anni fa in Sardegna, sulla
spiaggia di Santa Margherita di Pula.
Vi consegno l’ultima cattiveria, la più garbata e sgarbata che io
abbia mai sentito in vita mia. Invitato un noto antiquario
fiorentino interessato ad acquistare un busto romano della
nonna, il malcapitato chiese a metà colazione:
«Le dispiace se fumo?»
«Non lo so, nessuno l’ha mai fatto.»
Risposta sottintesa che non può non essere intesa.
Prima di stabilire una tregua con la memoria della nonna Gera,
voglio ricordare quanto noi nipoti ne fossimo terrorizzati, tanto
da chiamarla “signora nonna”.
Mio padre, uomo sensibile, ci redarguì teneramente. Mia
nonna si oppose al rimprovero:
«Caro, non darti disturbo, “signora nonna” va
benissimo…»
Per molti anni ammetto di aver pensato che Gera fosse il
diminutivo di “Megera”…
Era una donna a suo modo religiosa, pur ammantando anche la
sua fede con la visione assertiva di se stessa.
Tornando da una messa domenicale, confessò a mia madre
di essersi rivolta alla Madonna per qualche motivo, e che se
non fosse stata accolta la sua preghiera «a me la Madonna non
mi vede più…»
Mi sono sempre chiesta: essendone devota, come pensava
di poterla evitare?
Con quale convinzione?
Andavo spesso con lei a messa quando ci recavamo a
Napoli a trovarla.
Io ero poco più che ventenne, lei ormai anziana, quando
venne in visita da noi a Siena.
La accompagnai alla messa in duomo. Indossava un abito
da giorno scuro, bellissimo, con uno scollo profondo:
un’ostinata richiesta di attenzione.
Un pretino all’ingresso, pensando di essere simpatico, le
disse:
«Nonnina, si copra le nudità.»
Vidi per la prima volta i suoi occhi perdere lo sguardo
solido, e questo mi spiazzò.
Sentii di doverla proteggere da quella richiesta, forse
legittima ma talmente mal formulata da diventare illegittima.
«Non mi pare che il “padrone di casa” abbia problemi con
la nudità» dissi, indicando Cristo nudo sulla croce.
In quel momento accadde qualcosa che non era mai
successo prima: la nonna Gera mi toccò.
Appoggiò la sua bellissima mano sulla mia spalla, si coprì
la scollatura con un foulard e camminando nel silenzio della
navata, mi bisbigliò:
«Tu non conosci la vergogna, brava. Non devi mai
vergognarti di te, mai.»
Da allora ci riconoscemmo e, anche se per poco,
divenimmo alleate.
Da bambina mi aveva dedicato qualche smorfia o qualche
linguaccia, diversamente dai miei fratelli, che trattava con
distacco. Credo che già mi avesse scelto fra noi nipoti e,
ovviamente, non si era sbagliata.
Dopo quell’avvenimento mi sentii in linea con lei.
Mi parlò di sé, mi raccontò del rapporto anaffettivo e
tormentato con suo padre e sua madre, del rapporto
conflittuale con il suo aspetto, di cui in adolescenza non era
affatto fiera. La violenza con cui venne trattata e allontanata
quando disse che aspettava un bambino. Il matrimonio col
nonno, che fu il modo per allontanare tutto quel male e fuggire
via. Ha dovuto difendersi e ricostruirsi come le era possibile
fare, come ha saputo fare. Duramente e non priva di tormenti.
L’ultima volta che la vidi, mi confessò che forse non aveva
mai baciato veramente, e che tutti la volevano ma mai nessuno
del tutto. Si rammaricò di essere stata troppo dura con se
stessa e con gli altri, e che pensava che la dolcezza “non le
fosse dovuta”.
Nessuno gliel’aveva mostrata, o meglio insegnata.
«Non ho mai potuto permettermi la compassione verso me
stessa, ero troppo impegnata a difendermene.»
È miracoloso quando si scopre che qualcuno della tua
famiglia, che pensi di sapere com’è, non è tutto quello che
pensi che sia.
È miracoloso quando scopri in qualcuno la sua individualità
nella sua completezza.
Quando la salutai l’ultima volta, alzò la sua mano invitandomi
a sovrapporvi la mia.
Palmo a palmo.
«Guarda, Drusilla, abbiamo le stesse mani.»
Era la prima volta che lo notavo. Eppure le avevo osservate
a lungo. Com’era potuto sfuggirmi?
Ci abbracciammo e sono quasi certa che lei si commosse, si
girò velocemente prima che la vedessi in faccia e, salutandomi
di spalle, ripeté la prima cosa che mi disse da alleata, e che fu
anche l’ultima: «Tu non conosci la vergogna».
La vergogna di sé è la violenza più immobilizzante che
l’anima possa subire.
Esistono altri luoghi in noi, come il pudore o il segreto, che
possono ospitare una visione di noi che non ci convince del
tutto. Luoghi dolci dove le nostre oscurità sono parcheggiate,
per darci il tempo e la volontà di perdonarle.
La vergogna è una protezione che non protegge.
La vergogna imprigiona e butta via la chiave.
Ma, per fortuna, ognuno di noi ha un duplicato di quella
chiave…
Nonna Filangera quella sera andò, elegantissima, al San Carlo
di Napoli per la prima di un Fidelio. Il pubblico era già
defluito dalla sala quando le maschere la trovarono nel suo
palco sola, seduta, ingioiellata, coiffata. Morta.
Ricevetti in eredità il suo diario, con la sua chiave. Senza
doppione.
Me lo consegnò mio padre nel giorno stesso in cui nonna
morì.
«Eri la sua preferita. Voleva che lo conservassi tu. C’era del
bene fra noi…»
Presi il diario, un libro fasciato in pelle rossa, la sua iniziale in
oro senza affollamenti di cognomi altisonanti. Solo la prima
lettera del suo glorioso nomignolo accanto a quella del
cognome del primo marito, il nonno, un’altra G .
GG , ironia della sorte…
Dentro il diario tutta la sua la sua vita di gioie, dolori,
amori, passioni, tradimenti, delusioni, inganni, avventure, gli
amanti, gli uomini, le donne. E i tanti amici, dagli artisti Milly,
Jean Cocteau, Amália Rodrigues, fino a quella più cara, la sua
governante.
Un fiume segreto e sincero di pensieri liberi, senza
vergogna.
Nell’ultima pagina, una dedica per me.
«Sii te, ciao. Nonna Gera.»
Natale
Per quanto mi riguarda, escludo categoricamente la puntualità
dei regali natalizi, che invece mi piace consegnare in un giorno
qualsiasi, impacchettandoli in una carta visibilmente natalizia,
fosse anche ad agosto. È un mio touch di cui molti sorridono,
ben contenti di ricevere un omaggio inaspettato in un
momento dell’anno che non sia affollato da mille altri regali da
ricevere e da fare.
Nel caso vi fossero ritrovi come i cenoni di famiglia, in cui
può imbarazzare essere l’unica a non avere un dono per tutti,
ho un ottimo consiglio da darvi, la cui origine m’impone di
raccontarvene la storia.
Fin da bambina, essendo noi quattro figli e avendo i miei
genitori una certa attitudine al rigore pur essendo benestanti, io
e i miei fratelli dovevamo osservare una rigidissima regola: si
ricevono regali a Natale e per il compleanno. Stop.
Si festeggiava sempre il Natale in fattoria a Siena, al ritorno
annuale da Cuba, tutti insieme. Noi, i nonni sopravvissuti, zia
Dora, il fratello di mia madre, il fattore e la moglie (una donna
piacente con una buffa risata simile a un singhiozzo
compulsivo). Ci raggiungeva solennemente da Napoli anche
nonna Gera, con la stessa discreta modestia con cui Cleopatra
fece il suo ingresso a Roma.
L’albero di Natale era posizionato al centro del grande
ambiente d’ingresso, che chiamavamo “Siberia”, talmente era
freddo.
La “Siberia” era in realtà il cortile della fattoria, che alla
fine dell’Ottocento era stato coperto da una volta a vetri e
lastricato in pietra serena lungo il perimetro.
Al centro c’era un ampio quadrato di terra viva, sul quale
affondava le radici il Gori, un ulivo secolare. La leggenda
narra che, nei primi del Seicento, un mio avo, intenzionato a
piantare migliaia di ulivi per produrre olio, saggiò il terreno
facendo piantare in quel punto la prima pianta da un
contadino, che si chiamava appunto “il Gori”. Dopo cinque
anni completò la sterminata piantagione e omaggiò il Gori,
l’ulivo capostipite, costruendoci intorno l’intera fattoria.
Durante le festività, il grande albero dal tronco possente e
tormentato diventava il nostro albero di Natale e veniva
decorato da coloratissimi uccellini di vetro soffiato di Murano
e da qualche lanternina di latta.
Alla base del Gori venivano posti alcuni vecchi tappeti, e su
di essi una montagna di regali, la maggior parte dei quali era
destinata ai figli dei contadini della fattoria.
Fra gli altri vi erano i nostri, non particolarmente
identificabili.
Nella mia famiglia c’è sempre stata una certa ostilità al
regalo frettoloso e senza senso.
Si ricorreva quindi a un’usanza molto intelligente, alla
quale devo la mia devozione al regalo ben pensato.
Scrivevamo i nomi di tutti noi su dei fogliolini singoli che
venivano poi buttati in un cestino, dal quale poi ciascuno
estraeva il nome della persona a cui l’anno successivo avrebbe
fatto il regalo di Natale.
Questa tradizione famigliare metteva ognuno di noi nella
condizione di avere un anno di tempo per pensare a un solo
regalo per una sola persona.
Un solo regalo ben ponderato, individuato casualmente o
magari acquistato durante un viaggio… Tutti ne uscivamo con
un regalo molto speciale. Uno solo, ma di valore.
Consiglio questa saggia modalità a tutti: evita stupide corse
ansiogene il pomeriggio del 24 dicembre per acquistare regali
stupidi, spesso stupidamente cari.
Compleanno
Per questo tipo di regalo tendo a non essere puntuale.
Raramente faccio regali di compleanno nel giorno del
festeggiamento.
Spesso acquisto doni durante l’anno, che consegno subito,
senza aspettare la data.
Mi fa tristezza tenere un pacchettino infiocchettato nella
penombra di un armadio.
Quando ho un regalo per qualcuno, tendo a darlo subito.
Bigliettino: “Evviva il giorno in cui nascesti”.
Battesimo
Personalmente evito di fare regali inutili in un’occasione dove
c’è sempre bisogno di molte cose utili. Sconsiglio
categoricamente oggetti raccapriccianti come i cucchiaini
d’argento, i braccialettini o quegli orridi campanellini che
spesso rendono isterici sia il bambino che i genitori. Mia
madre fece fondere tutti i gingilli battesimali e ne fece due
bellissimi bracciali alla schiava, uno d’oro e uno d’argento,
che ancora posseggo.
Il mio ultimo regalo di battesimo fu un’Ape. Non l’insetto,
il veicolo.
La chiesi in prestito a Graziano, un giardiniere molto sexy.
Arrivammo alla colazione battesimale con il suo simpatico
veicolo pieno di utilissimi pannolini, tenuti insieme da un
fiocco enorme.
Fu un vero coup de théâtre, e fui felice di vedere il neopapà
sorpreso alla vista dei numerosi pannolini, ma ancor di più mi
divertì lo sguardo della neomamma incantata dai muscoli di
Graziano.
Doppio regalo. Forse triplo. Il neopapà, dopo cinque anni,
si fidanzò con un giocatore di rugby. Succede…
Ho molto spesso onorato un avvenimento importante come
la nascita affidando ai genitori una lettera chiusa da
consegnare al figlio nel giorno del suo quindicesimo
compleanno, un’età in cui forse i consigli di un’anziana
signora d’esperienza (e nel mio caso molto probabilmente già
morta) possono essere utili.
Regalo a un bambino
Difficile, meglio consultare il genitore.
Di certo non ho mai regalato una Barbie a una bambina: un
modello di femminilità che propone ideali di ricchezza,
biondezza e magrezza e che spesso produce donne banali.
Per un bambino ho sempre evitato armi giocattolo, anche
quando mi sono state chieste esplicitamente. Mai vorrei essere
responsabile del fatto che una creatura, la cui personalità è
ancora malleabile, consideri la guerra un gioco.
Matite, pennarelli: sempre bene. Anche tempere, ma
ricordatevi dei pennelli, cosa di cui ci si dimentica…
Giorgiana, amica indimenticabile, mi diede un consiglio
geniale per arrivare in una casa popolata da molti bambini:
scatole di cerotti. I bambini adorano giocare con i cerotti; li
scartano, li mettono in faccia, li uniscono, li sovrappongono, e
soprattutto il “gioco dei cerotti” sdrammatizza il momento in
cui i cerotti servono davvero.
Regalo a un adolescente
Bisogna prendere in considerazione il tipo di adolescente.
Ho sempre avuto molto successo regalando film.
A qualche birichina musicale, Cabaret; a qualche giovane
con delle pretese di trasgressività, The Rocky Horror Picture
Show, precursore del concetto di fluidità; ai soggetti che
invece tendono all’intellettuale, Barry Lyndon, il film perfetto.
Ai più allegri, Invito a cena con delitto. Ai politicizzati, Il
grande dittatore di Chaplin.
Vi sono cose che i giovani d’oggi devono assolutamente
conoscere e di cui ignorano l’esistenza. Provvedere appena
possibile.
In genere impacchetto il DVD insieme a una confezione di
popcorn da far esplodere nel microonde. Un rumore che mi fa
tanta simpatia.
Regalo di matrimonio
Matrimoni, che palle.
Mai faccio doni per il matrimonio il giorno stesso del
matrimonio.
Scrivo un biglietto il più possibile sentito, in cui spiego che
il regalo arriverà dopo il primo invito a cena. Sarà
un’occasione per capire che cosa serve alla giovane coppia.
Se la coppia è benestante e non necessita di niente, fate una
bella donazione a una ONLUS .
Non dimenticate di festeggiare i divorzi. Se due persone si
lasciano, premio volentieri il doloroso percorso che ha portato
a questa decisione. In genere regalo qualcosa a chi dei due
sento più vicino. Se c’è uno spazio di leggerezza per essere
spiritosi, siatelo.
Per lei, del make-up di qualità per rimettersi sul mercato.
Per lui, un paio di calzini per camminare da solo.
Riciclare regali
Adoro farlo, ma il riciclo va confessato.
Fatelo con disinvoltura: nessuno si offenderà se è un
oggetto che serve.
«Non ho portato il vino, ma mi hanno regalato un frullatore
che non uso e ho notato che ti manca…»
Posseggo un armadio dell’orrore con i regali non graditi o
inutili. Su ognuno ho attaccato un post-it col nome del latore
del dono, per non correre il rischio di “restituire” il regalo a
chi me lo ha fatto. Attenzione agli errori…
Ricordo ancora quando mia madre ricevette un regalo da
una cugina ferrarese: un vinile con i sublimi Vier letzte Lieder
di Strauss.
Fu molto buffo quando, decisa ad ascoltarli, tirò fuori dalla
busta interna un 33 giri di Dalida… Ugualmente struggente,
ma di tutt’altro genere.
Ascoltateli i Vier letzte Lieder di Strauss, mi raccomando.
A mio avviso le pagine musicali più belle scritte per una voce.
Quelli eseguiti da Gundula Janowitz sono sublimi.
Regalo a se stessi
Un regalo fondamentale.
Una volta una giovane, adorabile ragazza mi scrisse sulla
pagina Facebook che non si apprezzava e che le pareva di non
percepire amore per se stessa. Mi mandò una sua foto,
compresi subito il suo dolore dallo sguardo smarrito. Le
confessai che anche per me quel momento era difficile. La
invitai a recuperare tutta la tenerezza che aveva verso se stessa
guardandosi dall’esterno, così come si guarda una bambina
che vede il suo palloncino fuggire in cielo. Allora decidemmo
insieme che quel pomeriggio, a molti chilometri di distanza,
entrambe saremmo uscite a comprare un piccolo oggetto di
nessun valore economico, a guardarlo e a caricarlo di tutto
l’affetto per quella parte di noi che è indolenzita dalla vita. Poi
donammo quel prezioso oggetto catalizzatore a noi stesse. Lo
facemmo, fu bello. Io scelsi un piccolo pettine di plastica: ogni
volta che lo incontro in casa mi ricordo che esiste in me anche
quella bambina senza palloncino.
Un anno, dopo un mio spettacolo al Teatro Parenti, uscendo
dal camerino, riconobbi fra molti quello sguardo smarrito.
«Sei tu?»
«Sì, Drusilla, sono io.»
Ci abbracciammo alleate e felici, come due bambine che
hanno ritrovato il loro palloncino.
Mi piaceva moltissimo.
L’affetto, la consuetudine alla sua presenza, il senso di
appartenenza hanno certamente avuto la loro parte di
responsabilità nell’amore che ho per lui, ancora oggi.
Ma a me piaceva proprio lui, stare con lui, il suo aspetto, la
sua logica, la sua emotività.
In fondo, il padre non si sceglie.
Il mio babbo mi piaceva come piace una canzone che ti
piace.
Anche il suo nome mi piaceva. Adelindo. Un nome di
origini nordiche, il cui significato può voler dire “scudo” o
“morbido”. Ma ammetto che queste sono informazioni
sbrigative recuperate sul web, di cui tendo a fidarmi
moderatamente e di cui, allo stesso tempo, sono vittima.
Quello che è sicuro è che il mio babbo era un uomo solido e
protettivo come uno scudo, ma dall’animo morbido e
accogliente come il cuscino di cui non si può fare a meno per
addormentarsi.
Che nessuno si permetta di scomodare il complesso di
Elettra.
Non ho mai sentito un prepotente senso di possesso verso il
mio babbo, né tantomeno di competizione con mia mamma.
Sarebbe stata una battaglia persa.
Mamma è sempre stata la sua donna. E mamma era una
femmina imbattibile. Credo.
Il mio ricordo attuale del babbo è quello di un adulto con
cui mi piaceva stare.
Meglio non so spiegarlo.
Un sentimento semplice, non particolarmente morboso e
nemmeno proiettivo.
Azzarderei, talmente sicuro da essere privo di aspettative.
Credo.
Babbo era alto, magro, con una postura un po’ imbarazzata.
Un lungo collo che usciva dalle spalle come quando ci si
sporge per vedere qualcosa oltre un ostacolo, in avanti. Era un
po’ impacciato, inciampava spesso e urtava gli oggetti.
Simpatico.
Mani lunghe, magre. Spesso ferme. Gesti calmi. Sguardo
attento all’accadere delle cose.
La sua faccia era simile alla mia adesso, quando sono
deprivata di tutto ciò che eroicamente il mio truccatore mi
applica sul viso.
Non parlava molto, il babbo, e quindi era molto ascoltato.
Babbo amava pescare. Chi pesca è un predatore calmo che
sa aspettare.
Ero l’unica di noi fratelli che andava con lui al laghetto
all’interno della nostra proprietà a Siena.
A tutti i bambini della tenuta era severamente vietato
andare al laghetto.
«Nel lago ci sono le streghe che divorano i figlioli, non
avvicinatevi mai all’acqua perché poi escono le mani dal lago
e vi tirano giù» tuonava Guglielmina, la moglie del fattore, per
spaventarci e non farci cadere nel lago, dove anni prima le era
annegato il figlio.
Galosce, cestino di paglia, cannina di bambù, panchetto con
una sola zampa da infilare in terra, lago e babbo. Di streghe
nessuna traccia.
E lì succedeva qualcosa di incomprensibile. Quel luogo
liberava il babbo dalla sua riservatezza, accendendo una
scioltezza inaspettata. Ricordi allegri che scatenavano risate
libere, memorie malinconiche che si chiudevano in silenzi
rispettosi.
Il lago fermo e zitto offriva a entrambi spazio alla
narrazione, alla riflessione, alla verbalizzazione dei pensieri.
Alla confessione dei segreti confessabili.
Un patto, silente come il lago, vietava a quelle confessioni
di uscire da quel luogo.
Quel che veniva detto fra noi era solo nostro o,
eventualmente, delle streghe.
Era tutto così naturale e semplice che non mi sentivo
nemmeno privilegiata.
Il ricordo più vivo di quelle ore insieme fu quando mi raccontò
di Brancolo, il suo setter irlandese, fedele cane da riporto con
cui aveva condiviso gli anni da giovanotto cacciatore.
Si chiamava Brancolo perché sembrava esitare e
brancolare, ma poi alla fine riusciva sempre vittorioso dalla
macchia del bosco con la beccaccia in bocca.
«Dopo la morte di Brancolo non ho più avuto un cane, e
mai più ne avrò, ho sofferto troppo…»
I rumori del lago parvero placarsi in un attimo per dare
spazio a un pianto disperato e inaspettato, un pianto di
bambino. Non avevo mai visto un uomo piangere.
Allora pensavo che solo i bimbi e le donne piangessero…
Tirò fuori il suo fazzoletto bianco dalla tasca, si asciugò le
lacrime e ricominciò a fissare la superficie del lago.
Mi raccontò di loro, di quando amava cantare l’opera
durante le passeggiate e Brancolo cantava con lui ululando, mi
descrisse il suo profumo simile a quello della buccia del
salamino e mi confessò che il russare di Brancolo nel sonno lo
faceva dormire con più tranquillità.
Poi, occhi ancora lucidi e silenzio.
Io gli diedi un bacino sulla spalla e gli dissi che esiste un
paradiso dei cani.
Lui sorrise, si girò dandomi le spalle e piegandosi verso
terra raccolse sulla riva un fiore un po’ sporco di fango, che mi
donò. Che tuttora posseggo, bidimensionale, fra le pagine di
un libro.
Che dono incantevole, quanta gentilezza in quel gesto,
adulto e infantile allo stesso tempo. Scudo e cuscino.
Il mio babbo mi piaceva.
I giorni a seguire furono allegri. Le nostre gite al lago delle
streghe s’infittirono di racconti per lo più spensierati, e di
Brancolo non parlammo più.
Poi accadde che Zara, la cagnolina della fattoressa, figliò
cinque cuccioli deliziosi, e io chiesi a mio padre se potevo
averne uno tutto mio.
«No, in nessun modo voglio vederti soffrire. Ed è certo che
arriverà il momento in cui soffrirai, questo non posso
permetterlo.»
Gli promisi che non mi avrebbe vista soffrire, ma lui restò
fermo nella sua scelta.
Che allora, mi par di ricordare, compresi. Credo.
Lo stesso giorno pescai una tinca, la mia prima preda, uno
di quei pesciacci brutti che abitano il fondo melmoso dei laghi.
Entusiasta, gli chiesi se potevo tenerla e metterla nella fontana
di pietra serena della fattoria. Lui accettò, sapendo che l’orrido
pesce non avrebbe avuto lunga vita e io non avrei avuto il
tempo per affezionarmici tanto da soffrirne la morte.
Portammo la mia bruttissima “amica pesce” a casa e decisi
di chiamarla Tinca, che a pensarci bene è un nome che ha un
suo charme tardomedievale. Monna Tinca, funziona…
Ogni giorno andavo al vascone di pietra serena e parlavo
con Tinca. Un giorno, mentre ero lì, si avvicinò la Puntona,
una donnina del borgo chiamata così per la sua altezza
eccezionale e il suo naso adunco.
«Drilla, ma a Tinca vuoi bene?»
«Moltissimo» risposi.
«Sicura? Se le volessi bene non l’avresti strappata ai suoi
affetti in fondo al lago, ai suoi amici tinchi.»
Ora, in questo momento intendo, mi chiedo: ma perché la
gente non si fa i cazzi suoi?
Mi convinsi a riportare Tinca al lago dai “suoi affetti”:
venne trasbordata in un catino di legno, un ultimo saluto e via.
Nei giorni a seguire il babbo, vedendomi ombrosa, si
premurò di informarsi sul mio distacco da Tinca. Io, come
promesso, ostentavo una malcelata serenità. Pur soffrendo
moltissimo.
Ma avevo dato la mia parola e in nessun modo volevo che
soffrisse per me.
Ecco, questo è l’“effetto Tinca”.
Quando nella vita si subisce un distacco da qualcuno a cui
teniamo, in noi si smuovono sentimenti vari e inaspettati.
Quando è finito un rapporto d’amore o d’amicizia (laddove
vi sia una differenza), io spesso agisco l’“effetto Tinca”. Cerco
di non esplodere in esternazioni sguaiate. Trattengo.
In genere l’“effetto Tinca”, che impone nella sua
compostezza un rapporto stretto col dolore, permette a quel
dolore di parlarmi senza che venga sperperato in atteggiamenti
liberatori, che hanno solo una funzione momentanea, ma certo
non ti permettono di comprendere il reale motivo del
fallimento di un rapporto e soprattutto le nostre responsabilità.
Dopo aver compreso, esprimere la rabbia diventa più
efficace e realmente liberatorio.
Ma solo a cose comprese.
Ringrazio la creatura forse più brutta che abita le acque per
avermi insegnato a trattenere per ascoltare. E la ritengo anche
responsabile, nella sua bruttezza, della mia passione per gli
uomini brutti.
Il mio babbo mi piaceva. Ho conosciuto solo un uomo della
sua “qualità”: Hervé Foer, il mio ultimo compagno. Uomo
solido e lieve, scudo e cuscino, sorriso e pensiero.
«Amore, non sto morendo, me ne vado come una
farfalla…»
Credo che con la sua morte si sia chiuso un cerchio.
Ma, mi chiedo, una volta chiuso il cerchio, che ce ne
facciamo di quell’area delineata?
Ci si muove all’interno? No, quella sarebbe una prigionia.
Si sta fuori. E si aprono altri cerchi da chiudere. O si
tracciano linee aperte che dividono il bene dal male, il bello
dal brutto, gli amici dai conoscenti, la superficialità dalla
lievità, le convinzioni dalle convenzioni, le appartenenze dalle
ossessioni, le tinche dagli squali.
Mi raccomando (raccomando a me), linee sempre aperte.
Chi può escludere che un giorno potremmo sentirci più
affini agli squali piuttosto che alle tinche?
E non parlo di aspetto, ovviamente…
Il mio babbo Adelindo.
18
Spiare
Sapere è un diritto.
Essere al corrente delle cose della vita permette di non
vivere all’insaputa di se stessi, ed è senza dubbio il progetto
più ambizioso che un animo possa prendere in considerazione.
Ambizioso e spaventoso, perché il “sapere” presuppone poi
il dovere e la responsabilità della scelta.
Ma, quando si allena questo tipo di ambizione, essa cambia
nome e diventa coraggio. Il coraggio è un valore che tendo ad
approvare.
Molti pensano che la mia infanzia sia stata una bolla di
serenità, privilegio, affetto e sicurezza. In parte è vero.
Essere cresciuta in una città come Cuba, brulicante di
energie dissonanti e contrapposte, ha certamente dato vita a
molte caratteristiche che sono alla base della mia visione
possibilista della vita.
Ero una bambina con una vita privilegiata, avvolta da un
affetto familiare caldo come il clima piacevole dell’Avana.
Clima che può essere anche appiccicoso e soffocante,
accecante come quando il sole negli occhi impedisce di
guardare con nitore le cose che ti circondano.
Non guardare vuol dire non sapere.
Ero una bambina fortunata, ma perseguitata da un costante
disagio a lungo indecifrabile: ero certa che qualcosa mi
venisse celato.
Non sapevo bene che cosa, ma percepivo un persistente
sospetto, che adesso posso descrivere in modo lucido, ma che
allora non ero in grado di comprendere…
Ero carina, avevo bei giocattoli (pochi ma costosi),
indossavo abiti ben tagliati di lino confezionati da Madame
Marie Louise e vivevo in una lussuosa casa piena di persone di
servizio e di finestre. Bellissimo ritratto di un interno, che però
mi era insufficiente, perché era “l’esterno” ciò da cui ero
attratta; le voci, i profumi, i suoni di quella città piena di
contraddizioni come solo può esserlo un luogo dove tutto era
permesso. Il paese dei balocchi di un’America puritana che
certo non rinunciava al traffico di droga, alla prostituzione
minorile, al gioco d’azzardo e alla corruzione. Cuba era, per
gli statunitensi, la soluzione per potersi permettere la
dissolutezza.
Babbo e mamma in tutti i modi cercarono di proteggerci da
tutto questo, impegnandoci in una vita vegliata da governanti
severissime e affollata da insegnanti di spagnolo, francese,
inglese, qualche esuberante maestra di canto e soprattutto don
Rodrigo, il precettore, un bellissimo creolo dalla voce calda.
Un ritmo quotidiano serrato, ma irrorato dalla sensazione
meravigliosa di avere dei genitori affettuosi, autorevoli ma
dolci, ai quali devo un’educazione fortemente
anticonvenzionale.
Si poteva parlare di tutto con loro, ma con calma e
educazione, aspettando il momento di parlare dopo aver
ascoltato e poi pensato. Potevamo chiedere di tutto, a patto di
accettare senza bizze dei rifiuti, non senza che ce ne venisse
spiegato il motivo. Regole ferree delle quali ci sono sempre
state spiegate le ragioni, affinché divenissero convinzioni e
non diktat incomprensibili.
Un’infanzia rigorosa, ma priva della durezza che questo
termine evoca.
Solo a tratti quell’organizzazione scrupolosa assumeva la
fastidiosa nuance del controllo.
Unico momento di vera libertà nella mia giornata erano i
venti minuti in cui potevo scendere a giocare nel cortile, dove
al piano terra vivevano i figli dei domestici del bellissimo
palazzo in Plaza de Armas, per lo più abitato da diplomatici.
Venti minuti, che in realtà Gisela, la nostra tata tedesca,
considerava mezz’ora.
Cinque minuti prima di scendere per le raccomandazioni, i
venti minuti di gioco e gli ultimi cinque minuti finali, prima di
rientrare in casa per riavviarsi i capelli, lavarsi le mani e
tornare a essere presentabili.
Quei venti minuti erano la mia “ora d’aria” e il mio unico
contatto con la realtà, là fuori.
In quei preziosissimi venti minuti capivo che la libertà era
anche inciampare, sbucciarsi le ginocchia, urlare, litigare,
spettinarsi e sporcare quei noiosissimi vestitini immacolati,
che divennero per me come le tute a righe dei carcerati.
Dalle porte che affacciavano sul cortile sentivo discutere in
modo rumoroso e vitale i domestici del palazzo, gli stessi che
poco prima si erano rivolti a me chiamandomi “señorita
Drusilla” con compostezza e pacatezza. Discussioni animate
spesso sulle ingiustizie e le sopraffazioni subite dagli
americani di merda.
Fu allora che sentii pronunciare per la prima volta la parola
“merda”. Fu dai miei amici di cortile che appresi il potere
evocativo e liberatorio delle parolacce, per cui nutro una
passione sfrenata.
Quanto mi erano cari quei venti minuti di verità, viva,
pulsante, leale, sguaiata, prima di tornare a essere señorita
Drusilla.
Señorita Drusilla un cazzo.
Qualcosa non mi tornava. La calma controllata in cui
vivevo strideva troppo con quel “fuori” così energico e
ringhioso da cui ero esclusa e attratta allo stesso tempo. Solo
in età adulta compresi che proprio in quella sensazione
dissonante albergava il mio acerbo disagio.
Mi sentivo come una specie di gazzella nata in cattività in
uno zoo, che non conosceva i pericoli della savana, ma che
certamente era privata dell’emozione di correre libera. Anche
a fronte del pericoloso inseguimento di un leone.
Chiesi goffamente ai miei genitori il perché di quella strana
segregazione domestica. Loro tentarono di spiegarmelo, ma
questo non fu sufficiente a scrollarmi di dosso quel persistente
senso di reclusione che avvertivo.
Ma la Drilla non era tipo da essere reclusa, ancor meno di
quanto lo sia adesso.
Dovevo sapere a tutti i costi i motivi di quella prigionia.
Ma come?
Tutte le mattine noi bambini facevamo la prima colazione in
cucina, con le nostre vestagline cucite dalla solita Madame
Marie Louise, ancora nei pigiami stropicciati, prima di
rientrare nelle nostre stanze e diventare “presentabili”.
Quel giorno un’ancheggiante domestica, Pilar, follemente
gelosa del suo amato, chiedeva alla cuoca Assunta consigli su
come smascherarne i sospettati tradimenti. Nonostante
comprendesse bene il cubano, Assunta parlava solo in
napoletano, e noncurante di essere compresa da parte
dell’interlocutore rispose alla giovane tormentata con un
salomonico: «… Certi ccose se sanno sulo spianno…». (Ci
sono cose che si sanno solo spiando.)
Spiare. Adesso sapevo che cosa dovevo fare per capire.
Ricordo di aver riflettuto per un attimo sul fatto che spiare
mi era stata trasmessa dai miei genitori come un’azione che ha
in sé della slealtà, quindi inaccettabile.
“Pazienza” pensai, “non mi hanno saputo spiegare, io spio.”
È incredibile con quanta determinazione i bambini
pretendono di sapere.
Invito i genitori alla chiarezza, dosata ma il più completa e
leale possibile, nel rispondere ai “perché” dei figli.
Che cosa vuol dire spiare? Apprendere informazioni essendo
invisibili e attenti.
E, soprattutto, senza essere scoperti.
Progetto molto ambizioso per una bambina maldestra quale
io ero…
E poi, come si spia? Appiccicati al buco di una serratura,
col rischio di essere sorpresi da dietro? Poco dignitoso…
Frugare fra le cose altrui? Troppo ansiogeno… per dover
poi riordinare in modo accurato dopo aver frugato? Escluso.
La soluzione giunse da mia madre, che un giorno ebbe una
discussione animata col tappezziere, che aveva confezionato le
tende dello studio del babbo troppo corte.
Trovai eccessiva l’indignazione della mamma per quelle
tende, che toccavano al millimetro il pavimento e che a me
parevano perfette.
Compresi solo allora che le tende non devono toccare il
pavimento, ma che devono essere almeno dieci centimetri più
lunghe dell’altezza dalle mantovane per poter avere
quell’effetto lievemente “inginocchiato”.
Appuntare: dieci centimetri, non di più. Troppo lunghe fa
“patetico albergo di lusso parigino”…
Fu così che intuii che proprio quei tendaggi erano il luogo
perfetto dietro cui celarsi e spiare, essendo essi ampi e
confezionati in tessuti spessi che permettevano di riparare la
casa dall’afa estiva e dal sole accecante che “impedisce di
guardare”…
Le finestre erano enormi e numerose, quattordici per
l’esattezza.
Ogni finestra aveva due tende, la sinistra e la destra.
Quattordici per due fa ventotto.
Ventotto potenziali nascondigli. Magnifico.
Le mie preferite erano quelle del salotto grande, di una
croccante e spessa seta blu Wallis. Un color carta da zucchero
elegante ma vivace, proprio come colei che ne aveva decretato
il successo in arredamento: Wallis Simpson. Poi quelle brune
dello studio del babbo, quelle verde salvia della camera dei
miei e quelle color burro con i papaveri rossi della mia
camera, dove inizialmente pensavo non sarebbe stato
necessario spiare. Poi c’erano le tende più modeste in canapa
beige, delle stanze dei domestici che alloggiavano in casa.
Molto devo a quei tendaggi, che fino ai dieci anni mi hanno
permesso di accedere a spudorate rivelazioni sui grandi temi
della vita: l’amore, la gelosia, l’inganno, la maldicenza, la
bontà, la crudeltà, il desiderio.
Il mio acerbo e spesso violento impatto con questi temi ha
lasciato dentro di me cicatrici emotive importanti. Cicatrici
potenti e persistenti come quelle di un guerriero medioevale.
Grazie mie adorate tende per aver alimentato la mia
attitudine alla curiosità, oltre a una certa competenza in fatto di
tessuti.
Parliamo di tende. E cicatrici.
Zia Drusilla.
21
La gelosia
Ancora rido…
La schermata dei messaggi per il caro Dante sull’applicazione dei taxi.
28
Teo
Eccoci arrivati.
È incredibile quanto sia difficile per me salutare prima di
separarsi.
È sempre stato così, dagli “arrivederci” nelle stazioni, ai
“chiamami quando arrivi” negli aeroporti, ai “vediamoci
presto” dopo una serata con gli amici.
Questo persistente imbarazzo nel saluto mi porta spesso ad
attaccare bruscamente al telefono, a essere sbrigativa alla fine
di un incontro.
Il distacco è un tema con cui non ho sviluppato un rapporto
adulto.
Salutarvi alla fine di questo scritto mi è particolarmente
difficile, perché voi non siete i soli che devo salutare.
Scrivere ha per la prima volta scatenato nel mio animo
l’urgenza di separarmi da molte parti di me a cui sono
aggrappata disperatamente.
Lasciar andare una visione di sé senza averne un’altra da
mettere al suo posto crea degli spazi vuoti a disposizione da
riempire con sentimenti nuovi, con visioni più reali e leali.
Forse ho pensato, con troppa convinzione, di essere il
prodotto del mio passato, non prendendo in considerazione
tutto il potere che il futuro ti mette a disposizione per riempire
lo spazio lasciato libero da ciò che non sei più, da ciò che non
c’è più.
Che brutto scherzo mi ha giocato l’esperienza della
scrittura…
Forse una soluzione può essere “riassumere”.
Riassumere. Assumere di nuovo… ci sono cascata ancora.
Facciamo un gioco. Drusilla Foer non c’è più.
Facciamo finta che l’impegno di riempire gli spazi vuoti a
disposizione per il futuro non la riguardi più. Madame Foer
non ha più modo di agire la vita, e a un suo ipotetico funerale
qualcuno leggerà un discorso…
Ciao a tutti.
Cercate di non farlo mai, a meno che non si tratti di uno sconto su un
prezzo di un paio di scarpe. In quel caso bisogna battersi con le unghie e
coi denti…
Ho incontrato gente buona nella mia vita, e anche quella cattiva non
lo era completamente.
Poco dopo la sua morte, sognai nonna Gera, che mi disse: «Drusilla
come sto bene, se lo sapevo morivo prima». Di lei fidatevi ciecamente…
Io non ero buona, ero figa. Anzi, sono certa di esserlo tuttora, anche
di più.
Drusilla
Introduzione
15. Fiaba
26. Taxi
28. Teo
Arrivederci
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Tu non conosci la vergogna
Introduzione
1. Il mio nome
2. Il guardaroba
3. Siena
4. Bon ton
5. Titanic
6. Nonna Gera
7. Ringhiosità
8. Le madri
9. Donare
10. Hervé
11. Il tappeto
12. Olé
13. Etta
14. Delete the Drama
15. Fiaba
16. “Fly”
17. Tinca
18. Spiare
19. Lo schiaffo
20. Il buon esempio
21. La gelosia
22. Le gemelle
23. Il tango
24. Charlot
25. Le cartine dei cioccolatini
26. Taxi
27. Funghi assassini
28. Teo
29. Loris
30. Mr Jingle
31. Ora basta!
Arrivederci
Crediti iconografici
Copyright