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Auden discerne dunque il criptogramma dell'affresco di Tolkien e torce lo sguardo.

Come mai il
gran stuolo di lettori viceversa gode a farsi insinuare nel cuore un messaggio così ostico alla
moderna miseria? Non se ne accorge? O forse se ne accorge, e perciò ama la storia dell'anello, che
parla d'una verità repressa, ma ben nota nel profondo dei cuori, anche a coloro che ripetono come
intontiti le consuete e le stolte negazioni del peccato originale e del suo artefice, anche se voci
macchinali ripeteranno che nessuno è del tutto maligno, che perfino in Lucifero brilla un filo di
bontà. Ma bando al ricordo di menzogne, se il destino propizio concede invece di occuparci
dell'Anello.
Gandalf narra a Frodo come l'anello forgiato col fuoco dell'abisso cadde in mano di Gollum, come
costui in tempi remoti fosse un essere attratto verso le radici, gli inizi, verso le profondità dove
covano i semi delle piante. Era dunque dannato alla conoscenza tutta materiale, incapace di
comprendere come le forme siano l'essenza delle cose, come nella foglia e nella radice si sveli la
verità della pianta, la sua integra figura; i rami nelle nervature, le fronde nei lobi, le radici
nell'attaccatura. Gollum aveva scordato le foglie, le cime, i bocci che si aprono all'aria, cioè la
destinazione delle cose che ne sono il principio, l'entelechia. La forma s'incarna e plasma, non è
sprigionata dalla materia, insegnava ancora Goethe. Gollum è al polo opposto, non immagina
nemmeno più che sia l'imperfetto a rinviate alla perfezione, che il fiore sia l'immanente, invisibile,
dominante destino nel ruvido seme materiale. Benché uomo tutto assorto nelle scienze naturali e
perciò dimentico del primato delle forme sulle sostanze, Gollum ha in sé un cantuccio ancora del
tutto indenne, dove filtra come per una fessura un fioco lume, dalla luce del passato: «as through a
chink in the dark; light out of the past». Non è il servo assoluto del Male. Gollum è troppo
meschino; il destino dell'Anello non può confluire nel suo destino: tende al Male totale. Il fato
dell'Anello s'intreccia si con quello dei suoi detentori, ma, insegna Gandalf, di là da essi vige una
forza maggiore, la Provvidenza, cui si può alludere dicendo che Bilbo e Frodo dovevano
impadronirsi dell'Anello, e non per volontà di chi l'aveva forgiato. Gandalf sa congiungere gli
eventi come perle su un filo, e la luce che glielo consente è la nozione del Male assoluto, incarnato,
operoso. Dinanzi agli ometti che non intendono questa logica egli è ansioso e spazientito. Con
Frodo ha un momento di furia, quando questi gli domanda se tiri a indovinare o veramente sappia, e
gli risponde che non verrà a rendere conto proprio a lui delle proprie azioni. Eppure è reso
immensamente mite dal carico di conoscenza che si è addossato e, quando Frodo esclama che
Gollum meriterebbe la morte, esclama che forse sì la meriterebbe, ma quanti che muoiono
meriterebbero di vivere, e chi non è padrone di rendere la vita ai morenti non presuma di largire la
morte ai vivi, essendo i fini ultimi celati alla vista perfino del più saggio. Anche Gollum è connesso
al destino dell'Anello, il cuore avverte che quel vincolo si rifarà sentire, che Gollum rientrerà nella
vicenda, in modi che non si possono prevedere fausti o deleteri. Frodo parte per distruggere
l'Anello.

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