Sei sulla pagina 1di 4

Daniel Pennac, Diario di scuola di un ex-somaro

Nei brani scelti, Daniel Pennac, scrittore e professore francese, fa dialogare la sua esperienza
di studente dislessico con quella di insegnante, consapevole delle implicazioni emotive e delle
difficoltà scolastiche dovute alla presenza di un disturbo dell’apprendimento nei suoi allievi.
Ai ricordi autobiografici si intrecciano riflessioni sulla pedagogia, ragionamenti sulle
universali disfunzioni della scuola e sul ruolo della famiglia.

Mentre scrivo queste righe entriamo nella stagione delle chiamate d’aiuto. A partire dal
mese di marzo il telefono di casa squilla più sovente del solito: amici sconsolati che cercano
un nuovo istituto per un figlio con difficoltà scolastiche, cugini disperati alla ricerca di un
ennesimo liceo dopo un’ennesima bocciatura, vicini che contestano l’utilità di ripetere
l’anno, sconosciuti, che tuttavia mi conoscono, poiché hanno avuto il mio numero da Tizio...
Sono telefonate serali, generalmente, verso la fine della cena, l’ora dello sconforto.
Chiamate di madri, il più delle volte. Di fatto raramente il padre, il padre viene dopo, se
viene, ma all’inizio, alla prima telefonata, è sempre la madre, e quasi sempre per il figlio
maschio. La figlia sembra più brava. È la madre. È sola in casa, appena finito di cenare, piatti
ancora da lavare, la pagella del ragazzo aperta davanti, il ragazzo chiuso a chiave in camera
sua davanti a un videogioco, oppure già fuori, a zonzo con la sua banda, nonostante un
timido divieto. È sola, la mano sul telefono, titubante.
Spiegare per l’ennesima volta il caso del figlio, fare una volta di più la cronistoria dei
suoi fallimenti, che fatica, mio Dio... E la prospettiva del calvario che l’aspetta: fare anche
quest’anno il porta a porta delle scuole che lo vorranno ammettere... chiedere una giornata
di permesso in ufficio, in negozio... visite ai capi di istituto... sbarramento delle segreterie...
moduli da compilare... attesa della risposta... colloqui... con il figlio, senza il figlio... test...
attesa dei risultati... documentazione... incertezze, questa scuola è migliore dell’altra?
(Poiché, in fatto di scuola, la questione dell’eccellenza si pone al vertice della scala come in
fondo al baratro, la scuola migliore per gli allievi migliori e la migliore per i naufraghi, non si
scappa...) E alla fine chiama. Si scusa di disturbarti, si rende conto di quante persone
probabilmente si rivolgono a te, ma il fatto è che ha un figlio che, davvero, di cui non sa più
come... Professori, fratelli miei, vi supplico, pensate ai vostri colleghi quando nel silenzio
dell’aula docenti scrivete sulle vostre pagelle che “il terzo trimestre sarà decisivo”. […]
E va avanti così fino alla fine di giugno, quando è appurato che il terzo trimestre è
stato davvero determinante, che il figliolo non sarà ammesso alla classe seguente e che
effettivamente è troppo tardi per cercare un'altra scuola, perché tutti si sono mossi prima,
ma cosa vuole, fino all’ultimo abbiamo sperato, ci siamo detti che forse questa volta il
ragazzo avrebbe capito, aveva un po’ recuperato nel terzo trimestre, ma sì, ma sì, glielo
assicuro, si impegnava, molte meno assenze...
C’è la madre a pezzi, logorata dalla deriva del figlio, che accenna ai presunti effetti dei
drammi coniugali: è la nostra separazione che l’ha... da quando è morto suo padre lui non è
più... C’è la madre umiliata dai consigli delle amiche i cui figli invece vanno bene o che,
peggio ancora, evitano l’argomento con una discrezione quasi insultante... C’è la madre
furibonda, convinta che il figlio sia da sempre la vittima innocente di una coalizione di
insegnanti di tutte le materie, è cominciata molto presto, già alla scuola materna, c’era una
maestra che... e alle elementari non è andata meglio, il maestro, questa volta un uomo, era
ancora peggio, e figurati che in terza media il suo professore di lettere gli ha... C’è quella che

1
non ne fa una questione di persone, ma inveisce contro la società che si sgretola, l’istituzione
che va a rotoli, il sistema che è marcio, la realtà, insomma, che non si adatta ai suoi sogni...
C’è la madre furiosa con il proprio figlio: questo ragazzino che ha tutto e non fa
niente, questo ragazzino che non fa niente e vuole tutto, questo ragazzino per cui abbiamo
fatto di tutto e che non c’è verso che... mai una volta... non se ne può più! C’è la madre che
non ha mai visto un solo professore in tutto l’anno e quella che li ha assillati tutti... C’è la
madre che ti telefona semplicemente perché tu la liberi anche quest’anno di un figlio di cui
non vuole più sentire parlare fino all’anno prossimo, stessa data, stessa ora, stessa
telefonata, e che lo dice: “L’anno prossimo si vedrà, intanto troviamogli una scuola per
quest’anno”. C’è la madre che teme la reazione del padre: “Questa volta a mio marito non
andrà giù” {ha nascosto la maggior parte delle pagelle al marito in questione).
C’è la madre che non capisce questo figlio così diverso dall’altro, che si sforza di non
amarlo meno, che fa di tutto per rimanere la stessa madre per entrambi i figli. C’è invece la
madre che non può fare a meno di scegliere questo (“Eppure investo tutte le mie energie su
di lui”), a scapito di fratelli e sorelle, ovviamente, e che ha fatto ricorso invano a tutti i
supporti possibili: sport, psicologia, ortofonia, sofrologia, cure di vitamine, rilassamento,
omeopatia, terapia famigliare o individuale... C’è la madre ferrata in psicologia che dà una
spiegazione a tutto e si stupisce che non si trovi mai una soluzione a nulla, l’unica al mondo a
capire il figlio, la figlia, gli amici del figlio e della figlia, e che nella sua eterna giovinezza di
spirito (“Vero che bisogna saper restare giovani?”) si stupisce che il mondo sia diventato così
vecchio, così incapace di comprendere i giovani. C’è la madre che piange, ti chiama e piange
in silenzio, e si scusa di piangere... un insieme di pena, di preoccupazione e di vergogna...
A dire il vero tutte provano un po’ di vergogna, e tutte sono preoccupate per il futuro
del figlio. “Ma che cosa diventerà?” La maggior parte di loro si fa dell’avvenire una
rappresentazione che è una proiezione del presente sullo schermo angosciante del futuro. Il
futuro come una parete dove sono proiettate le immagini smisuratamente ingrandite di un
presente senza speranza, ecco la grande paura delle madri!
[…]
Nessun avvenire.
Bambini che non diventeranno.
Bambini che fanno cadere le braccia.
Alle elementari, alle medie, poi al liceo, ci credevo anch’io, vero come l’oro, a questa
esistenza senza avvenire.
È addirittura la primissima cosa di cui si convince il ragazzo che va male a scuola.
“Con dei voti del genere, cosa puoi sperare?”
“Credi di poter andare in prima media? (in seconda, in terza, in prima liceo...)
“Quante probabilità hai, secondo te, di essere promosso alla maturità, fammi un favore,
calcola tu stesso le probabilità, su cento, quante?”
O quella preside di scuola media, con un vero e proprio grido di gioia:
“Tu, Pennacchioni, il diploma di terza media? Non l’avrai mai! Hai capito? Mai!”.
Detto fremendo.
In ogni caso non diventerò mai come te, vecchia pazza! Non sarò mai un prof, ragno
invischiato nella sua stessa tela, aguzzino inchiodato alla cattedra fino alla fine dei suoi
giorni. Mai! Noi studenti passiamo, voi invece restate! Noi siamo liberi e voi vi siete beccati
l’ergastolo. A scuola noi andiamo male, ma almeno andiamo da qualche parte! L’aula
scolastica non sarà mai il misero recinto della nostra vita! Disprezzo per disprezzo, mi
aggrappavo a questa pessima consolazione: noi passiamo, i prof restano; è una
conversazione abituale tra quelli dell’ultimo banco. I somari si nutrono di parole.
2
Non sapevo, allora, che anche gli insegnanti ogni tanto la provano, questa sensazione
di carcere a vita: rifriggere all’infinito le stesse lezioni davanti a classi intercambiabili, essere
oppressi dal quotidiano fardello dei compiti da correggere (non è possibile immaginare Sisifo
felice con un pacco di compiti da correggere!), ignoravo che la ripetitività è la prima ragione
addotta dagli insegnanti quando decidono di lasciare il lavoro, non potevo immaginare che
alcuni di loro proprio soffrono a rimanersene seduti lì, mentre gli studenti passano... Non
sapevo che anche gli insegnanti ci pensano, al futuro: prendermi un dottorato, finire la tesi,
reiscrivermi all’università, decollare verso una specializzazione, optare per la ricerca,
andarmene all’estero, dedicarmi alla creazione, mollare finalmente quei brufolosi amorfi e
vendicativi che producono tonnellate di carta, non sapevo che quando gli insegnanti non
pensano al loro avvenire, vuol dire che si occupano di quello dei figli, degli studi superiori
della prole... Non sapevo che la testa degli insegnanti è satura di avvenire. Credevo fossero lì
solo per precludermi il mio.
Divieto di avvenire.
A forza di sentirmelo ripetere, mi ero fatto un'immagine piuttosto precisa di questa
vita senza futuro. Non che il tempo avrebbe smesso di passare, non che il futuro non
esistesse, no, ma io sarei stato identico a quello che ero oggi. Non lo stesso, certo, non come
se il tempo non fosse fuggito via, ma come se gli anni si fossero accumulati senza che in me
nulla fosse cambiato, come se il mio istante futuro minacciasse di essere rigorosamente
identico al mio presente. E di che cosa era fatto il mio presente? Di una sensazione di
inadeguatezza esasperata dalla somma dei miei istanti passati. Ero negato a scuola e non ero
mai stato altro che questo. Il tempo sarebbe passato, certo, e poi la crescita, certo, e i casi
della vita, certo, ma io avrei attraversato l’esistenza senza giungere ad alcun risultato. Era
ben più di una certezza, ero io. Di ciò, alcuni bambini si convincono molto presto e se non
trovano nessuno che li faccia ricredere, siccome non si può vivere senza passione, in
mancanza di meglio sviluppano la passione del fallimento.
[…]
Chi erano, i miei allievi? Alcuni di loro il genere di allievo che ero stato io alla loro età
e che si trova un po’ in tutti gli istituti dove approdano i ragazzi e le ragazze eliminati dai licei
rispettabili. Molti erano ripetenti e avevano scarsa stima di se stessi. Altri si sentivano
semplicemente tagliati fuori, esclusi dal sistema. Alcuni avevano perduto del tutto il senso
dello sforzo, della durata, della costrizione, insomma dell’impegno; lasciavano
semplicemente che la vita se ne andasse, dedicandosi, a partire dagli anni ottanta, a un
consumismo sfrenato, non sapendo avvalersi di loro stessi e affidandosi solo a ciò che era
loro estraneo (la riflessione di Rousseau, trasferita sul piano materiale, non li aveva lasciati
indifferenti).
E tutti, ovviamente, erano casi particolari. Uno, ottimo studente nel suo liceo di
provincia, si era ritrovato ultimo a bordo del transatlantico in partenza per le grandi
università in cui era stato ammesso grazie al suo curriculum; l’esperienza era stata talmente
dolorosa che perdeva i capelli a chiazze: depressione, a quindici anni! Una, un po’ suicida, si
tagliuzzava le vene (“Perché l’hai fatto?” “Tanto per provare!”), un’altra flirtava a turno con
l’anoressia e la bulimia, un altro scappava di casa, un altro ancora, venuto dall’Africa, era
traumatizzato da una rivoluzione sanguinosa, uno era il figlio di una porti-naia infaticabile,
un altro il rampollo linfatico di un diplomatico assente, alcuni erano annientati dai problemi
famigliari, altri ci marciavano spudoratamente, quella vedova gotica con le orbite nere e le
labbra viola aveva giurato di non stupirsi di nulla, mentre il tizio in giubbotto di pelle, ciuffo a
banana e stivaletti, fuggito da un istituto tecnico di Cachan per passare al liceo da noi,
scopriva con incanto la gratuità della cultura.
3
Erano ragazzi e ragazze della loro generazione, bulli di periferia degli anni settanta,
punk o dark degli anni ottanta, neoalternativi degli anni novanta; si beccavano le mode come
uno si becca i microbi: mode vestimentarie, musicali, alimentari, ludiche, elettroniche,
purché si consumasse. Metà degli allievi dei miei esordi, quelli degli anni settanta,
riempivano le classi dette «differenziali» di una scuola superiore di Soissons, classi di cui ci
avevano precisato, con un umorismo alquanto professionale, che più che differenziali erano
“delinquenziali”. Alcuni erano sotto sorveglianza giudiziaria. Gli altri erano figli di mezzadri
portoghesi, di commercianti locali o di quei grandi proprietari terrieri i cui campi coprivano le
immense pianure dell’Est, concimate da tutti i giovani immolati nel suicidio europeo della
Grande Guerra.
I nostri randa condividevano gli stessi locali degli allievi “normali”, la stessa mensa, gli
stessi giochi, e tale felice miscuglio era merito della direzione. Poiché l’analfabetismo di
ritorno non è nato oggi, a quei ragazzi e a quelle ragazze «differenziali» io dovevo, in terza
media o in prima superiore, reinsegnare a leggere e a scrivere. […] Dal 1969 al 1995, tranne
due anni passati in un istituto i cui allievi erano selezionatissimi, la maggior parte dei miei
studenti era composta da bambini e adolescenti, come fui io, con maggiore o minore
difficoltà scolastica. I più gravi presentavano su per giù i miei stessi sintomi alla loro età:
mancanza di fiducia in sé, rinuncia allo sforzo, incapacità di concentrazione, distrazione,
mitomania, creazione di bande, a volte alcol, e anche droghe, leggere a sentir loro, l’occhio
però un po’ liquido, certe mattine...
Erano i miei studenti. (Questo possessivo non indica proprietà, designa un intervallo
di tempo, i nostri anni di insegnamento, in cui la nostra responsabilità di professori è
totalmente investita in quegli studenti lì.) Una parte del mio mestiere consisteva nel
persuadere i miei studenti più abbandonati a loro stessi che la gentilezza più del ceffone
invita alla riflessione, che la vita in comunità ha delle regole, che il giorno e l’ora della
consegna di un compito non sono negoziabili, che un compito malfatto è da rifare per
l’indomani, che questo, che quello ma che mai e poi mai né i miei colleghi né io li avremmo
abbandonati in mezzo al guado. Affinché avessero una possibilità di farcela, occorreva
reinsegnare loro il concetto stesso di sforzo, restituire loro il piacere della solitudine e del
silenzio, e soprattutto il controllo del tempo, quindi della noia.

[D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 2008; riduzione e adattamento dalle pp. 32 – 42; 47-
48; 133-136].

Potrebbero piacerti anche