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John Fante

Lettere

1932-1981

Introduzione di Francesco Durante

A cura di Seamus Cooney

Traduzione di Alessandra Osti


Einaudi
Introduzione a questa edizione

di Francesco Durante

«Vuole sapere se io sono Arturo Bandini, e io le


dico che lo sono»: questa frase la trovate alla pagina
207 di questo libro, in una lettera del 1940 al suo
lettore Keith Baker. Del resto, anche quello che viene
prima e quello che viene dopo questa lettera potrebbe
valere come certificato d’identità tra lo scrittore e il
personaggio. Certo, sappiamo bene che tutto il ciclo
di Bandini e, anzi, l’intera opera di Fante è segnata da
evidentissimi elementi autobiografici, non
classificabili soltanto come spunti od occasioni per
una piú libera costruzione narrativa, ma spesso come
materiali che fondano una vera e propria
«autofiction» (termine che ancora non si usava a quei
tempi). Eppure, è soltanto attraverso le lettere che noi
vediamo quanto certe caratteristiche essenziali del
personaggio-Bandini, ovvero certi suoi tratti molto
marcati, tali da far pensare che per enuclearli si sia
specialmente applicata la fantasia dell’autore,
corrispondano in realtà, e in maniera stupefacente, ai
tratti che il ragazzo Johnny Boy prima, e poi, fino
alla fine, l’uomo John, il piccolo patriarca
californiano imborghesito e divorato dal male negli
ultimi mesi della sua vita, esibivano con maggiore
insistenza e convinzione in ogni situazione pubblica
o privata. Emerge, dalle lettere, la stessa meravigliosa
improntitudine che si ritrova nei romanzi e nei
racconti, la bandiniana sicumera, quel senso
sciagurato di superiorità mai revocabile in dubbio e
quell’orgoglio adamantino, purissimo e futile a un
tempo, che ci rendono caro il personaggio e dunque,
a conti fatti, ancor piú il suo autore.
Questa esibizione di carattere ha inizio
praticamente da subito. È il 14 giugno 1932 e fin qui
Fante, alle prese col piú radicale dei precariati
esistenziali a Los Angeles, si è dato da fare per
trovare occupazione nei settori professionali piú
erratici: impiegato in un’impresa per la produzione di
ghiaccio, operaio in una fabbrica di pesce in scatola,
tuttofare per uno studio professionale, sguattero in
bar e ristoranti. Ma poi, non appena H. L. Mencken
benedice la sua (peraltro assai recente) vocazione
letteraria, eccolo immediatamente darsi arie da
grande, pensoso e integro scrittore giammai
disponibile a compromessi di qualsiasi sorta.
L’editore Knopf gli chiede un romanzo? Bene: «Gli
ho risposto che ne ho in mente uno lungo, e che lo
scriverò quando avrò tempo e denaro. Credo che mi
ci vorrà almeno un anno per scrivere il tipo di
romanzo che desidero sia pubblicato con il mio
nome». Una risposta che avrebbe potuto essere
firmata Arturo Bandini, e far parte de La strada per
Los Angeles.
Andando avanti nel tempo, ecco comunque che
questo Bandini in carne e ossa non resta fermo
dov’era, ma evolve. E in che direzione? Proprio in
quella che Bandini avrebbe sperato: la sicumera si
trasforma in uso di mondo; il giovanile velleitarismo,
grossolano e patetico, fiorisce in una strepitosa
capacità di fare le battute giuste; la predisposizione al
sarcasmo si raffina, e sempre piú va a braccetto con
una bella dose di cattiveria. Tutto questo lo
ritroviamo, per dire, nell’ultima lettera di questo
libro, quella del 25 settembre 1981 indirizzata alla
vecchia zia Dorothy. La scrive – anzi: la detta alla
moglie Joyce – un Fante cieco e senza gambe,
imprigionato su una sedia a rotelle. Eppure non c’è
nemmeno un’ombra di autocommiserazione, e quel
che piú spicca è un attacco folgorante, giacché alla
zia Dorothy, che si è appena trasferita in un posto che
si chiama Paradise, John Fante scrive cosí: «Come
sei arrivata in paradiso? Hai passato molto tempo in
purgatorio? Mi chiedo se tu abbia incontrato mio
padre. Sono certo che ha passato almeno venticinque
anni in purgatorio, e ora potrebbe essere in paradiso».
L’ironia è il fondamento delle lettere di Fante,
come lo è di tutta la sua opera: un’ironia quasi
sempre temperata da una nota sottilmente
sentimentale, non dichiarata ma percepibile, che forse
è eredità della sua formazione religiosa. In ogni caso,
quella di Fante è un’ironia cosí particolare da
risultare talora incomprensibile ai suoi
contemporanei. Ne è prova clamorosa il giudizio che
David Zablodowsky, lettore di manoscritti per
l’editore Viking Press, dà de La strada per Los
Angeles, il primo romanzo di Fante (e il primo di
Bandini), rifiutandolo come del resto avevano o
avrebbero fatto diverse altre case editrici.
Zablodowsky, in buona sostanza, non capisce nulla di
quel libro: ed è credo assai significativo il fatto che
anch’egli cada nella trappola dell’identificazione di
Fante con Bandini, accusando il primo invece che il
secondo di non aver digerito i Nietzsche, gli
Schopenhauer e gli Spengler che in quel romanzo
l’impagabile Arturo cita totalmente a sproposito.
Vedendosi rifiutato quel libro che poi uscirà soltanto
nel 1985, dopo la sua morte, Fante reagisce a sua
volta entrando in Bandini, e precisamente nel Bandini
di Chiedi alla polvere, lettore – perfido nelle
intenzioni e misericordioso nei fatti – dei parti
letterari del povero Sammy. E scrive pertanto a
Zablodowsky un messaggio che quest’ultimo si sarà
rigirato interrogativamente fra le mani chiedendosi se
per caso quello sbarbato impertinente non lo stesse
prendendo per il culo con frasi un po’ enigmatiche
del tipo: «Potrei scrivere cose grandissime se sentissi
che anche solo un uomo, ma della sua capacita e
integrità, le legge». Voi che ne dite?
E di ironia, di tanta ironia è impastato anche
l’importante capitolo del rapporto di Fante con la
politica, uno dei temi che l’epistolario provvede a
spiegare nel modo piú illuminante. A me sembra che
questa sia una questione d’un certo rilievo, benché
sia rimasta generalmente un po’ in ombra. Per quel
che può valere una testimonianza personale, posso
dire che una decina d’anni fa mi accadde di essere,
diciamo cosí, redarguito da un quotidiano di
ispirazione berlusconiana in quanto, come diversi
altri «intellettuali di sinistra» m’ero infatuato di uno
scrittore «di destra» come Fante. Sai che novità, avrei
voluto replicare in prima istanza; ma poi, pensandoci,
preferii rispondere ragionando sul significato di
quella strana idea, dico l’idea che John Fante potesse
essere considerato uno scrittore «di destra».
Ora: Fante era «di destra» come possono esserlo
alcuni milioni di americani che semplicemente sono
cresciuti nell’idea che «comunismo» sia una parola
oscena e impronunciabile. Fante, come alcuni milioni
di americani, era anticomunista e, per questo, anche
un po’ patriottico. Nella vulgata americana fissatasi
all’epoca della caccia alle streghe, i due aggettivi
tendono a coincidere, e difatti il nome del temuto
organismo parlamentare guidato a quel tempo dal
senatore McCarthy era Comitato d’inchiesta sulle
attività antiamericane (House Un-American Activities
Committee); e dal momento che quelle attività erano
le attività dei sospettati di simpatie comuniste, ne
derivava che era possibile stabilire una perfetta
equivalenza tra «comunista» e «antiamericano».
L’unico modo per non essere antiamericano era
dunque essere anticomunista e americanissimo. E chi
piú di un italoamericano di seconda generazione,
sottilmente ossessionato (vedi Chiedi alla polvere)
dal tema razziale, poteva incarnare questo modello?
In tal senso, Fante diventò dunque patriottico; e
dobbiamo pensare che quando se ne rese conto si
fece anche qualche bella risata. Tutto questo non vuol
però dire che, benché si beasse di collaborare al
menckeniano «American Mercury» definendolo
ironicamente «fascista», fosse «di destra». In
America, anche oggi, ci sono fior di anticomunisti
che in Italia sarebbero considerati, con qualche
ragione, persone di estrema sinistra. In qualche modo
era cosí anche Fante, con in piú quella screziatura
anarcoide cosí caratteristica dell’America profonda
da cui veniva, l’America della gente che si spezza la
schiena per emergere contro tutto e contro tutti e
sedimenta un sentimento quasi eroico della propria e
altrui individualità, e per converso un disprezzo
difficile da tenere a bada nei confronti di chiunque
non abbia l’energia per comportarsi allo stesso modo,
e vada magari predicando le ragioni dell’egalitarismo
e del solidarismo: che si chiami, per tenersi al campo
degli intellettuali citati in questo libro, Michael Gold
o Helen Keller, Upton Sinclair o, ancor meglio,
Carey McWilliams, cioè il miglior amico di Fante, e
anche quello che meno gli somigliava, e quello cui
andava tutto l’amore dello scrittore insieme con tutte
le ironie piú bastarde che gli poteva riservare e di cui
l’epistolario offre un vasto assortimento.
Già in questo paradossale rapporto con
McWilliams si potrebbe ravvisare un elemento
distintivo a proposito delle posizioni politiche di
Fante. Ma quello che, al di là dei rapporti privati,
dobbiamo chiederci, è se questa specie di riflesso
pavloviano che scattava al suono della parola
«comunismo» fosse poi in grado di produrre coerenti
prese di posizione di tipo ideologico. Risponderei di
no, e senza esitazioni. Ogni volta che l’esperienza
s’incaricava di mettere alla prova il supposto
conservatorismo o l’animo reazionario di Fante, egli
quasi con matematica precisione s’incaricava di
beffarla. Il caso piú emblematico è quello
dell’atteggiamento da lui tenuto proprio ai tempi
della caccia alle streghe. Si farebbe fatica a trovare
un intellettuale piú di Fante tetragono nel rifiuto
assoluto di sputtanare altre persone, e piú di lui
nauseato dai metodi del comitato del senatore
McCarthy; proprio lui che era l’anticomunista della
compagnia, quello che, a differenza non solo di
McWilliams, ma anche di tanti altri amici conosciuti
a Hollywood, diffidava di qualsiasi buona causa;
quello che non se la beveva, quello politicamente
scorretto. Ecco: quello lí, proprio quello lí che nel
1975 scioglieva un peana alla memoria di Homer
McWilliams, il parente di Carey morto a Kansas City
lasciando tredici milioni di dollari in eredità a
ospedali protestanti che accettavano di curare
soltanto pazienti bianchi, be’, quello lí è anche la
persona che scriveva a Carey McWilliams la lettera
del 17 ottobre 1951 – il vertice assoluto di questa
raccolta – in cui, con mirabile autoironia, lo metteva
in guardia: «Ora ascolta bene, McWilliams, quando
hai a che fare con un uomo come me, non hai a che
fare con una merda qualsiasi», e poi gli spiegava che
dalla sua nuova casa-fortezza di Malibu, sul Pacifico,
«tutte le sere sono là fuori con un binocolo […] a
spiare l’orizzonte per avvistare navi del nemico, e
quando dico nemico non intendo i giapponesi,
McWilliams, ma mi riferisco a un Paese in Asia la
cui capitale comincia con una m». Perché «John T.
Fante […] è la fuori per fermare le orde slave» e
«pronto a morire sul posto per mantenere la gente
come te al lavoro, quello di scrivere la verità,
celebrandola come un faro per guidare il mondo
intero lungo il pericoloso sentiero della libertà
umana».
Questa lunga lettera è veramente un documento
interessantissimo. Dopo quest’avvio cosí
scoppiettante, e cosí francamente ironico (Fante vi fa
la parodia di sé stesso nei panni del bravo borghese
patriota), vira infatti su posizioni queste sí seriamente
anticomuniste, producendo una serie di osservazioni
che tendono ad avallare l’idea che effettivamente ci
fosse un complotto comunista a Hollywood e che
anzi, addirittura, il favore accordato a un film
innocuo come quello tratto dal suo romanzo Full of
Life fosse soltanto una pallida copertura per
dimostrare intenzioni di tutt’altro segno da parte di
persone sospettate di far parte di quel complotto. Il
modo di ragionare di Fante in questa occasione – che
la moglie Joyce, come annota Seamus Cooney,
trovava particolarmente acuto – potrà al contrario
apparire quasi nevrotico; ma in ogni caso lo si può
giudicare coerente con una impostazione che, da
«apolitico» (come lo definiva sempre la moglie
Joyce), gli impediva di vedere nella scelta di campo
filocomunista il benché minimo senso: «Sulla mia
vita, non riesco a capire perché abbiano abbracciato il
comunismo. Dov’è il fascino di quella filosofia?
Dov’è il suo lato umano?» Tutto questo, si badi bene,
scritto a McWilliams, cioè al difensore di due dei piú
prestigiosi fra gli «Hollywood Ten», Dalton Trumbo
e John Howard Lawson.
Al cospetto delle grandi tragedie del Novecento,
Fante seppe peraltro conservare un certo distacco.
Nel maggio 1940, quando la guerra infuriava in
Europa e Mussolini si preparava a scendere in campo
al fianco di Hitler, scriveva all’editor Pascal Covici:
«Possono fare a brandelli questa civiltà
sopravvalutata, possono tenersi il loro fascismo e
nazismo e bolscevismo e democrazia. Scriverò a
macchina con una mano, con le dita dell’altra mi
turerò le narici. Sarà piú lento, meno conveniente, ma
in ogni caso sarà una scrittura grandissima. Hitler.
Blah. Mussolini. Blah. Stupidi. Nessuno dei due ha
letto Il cagnolino rise». Del resto, la sua opinione a
proposito dei dittatori europei viene fuori in maniera
anche piú netta nella corrispondenza coeva con
Mencken: «Aristotele avrebbe sputato in faccia a
Mussolini e si sarebbe preso gioco di Marx»; o,
ancora: «La storia del mondo sembra essere
incominciata con Kerenskij e finita con Hitler.
Vaffanculo». In ogni caso, se servono ulteriori prove
dell’antifascismo di Fante, speculare al suo
anticomunismo, si vada subito a leggere la lettera del
1941 a William Saroyan pubblicata in questo volume
a pagina 389.
Infine, il nodo dell’antifascismo di Fante emerge
in modo drammatico nel momento dell’entrata in
guerra dell’Italia. La prima reazione di Fante – lo
apprendiamo proprio dall’epistolario – sarebbe stata
quella di scrivere un pamphlet intitolato We Have
Been Betrayed («Siamo stati traditi»), che avrebbe
dovuto essere, come Fante scrisse a Covici, «la storia
della reazione dell’italoamericano medio all’entrata
in guerra dell’Italia. Potrei costruire il racconto
intorno a mio padre, che è pro Mussolini, ma
democratico convinto e insaziabilmente americano».
Ecco dunque, un po’ a sorpresa, un altro «patriota»:
papà Nick, posto, come milioni di suoi connazionali
emigrati, davanti alla piú lacerante scelta della sua
vita, e deciso, proprio come quei milioni di
connazionali, a rinunciare all’Italia fascista – il cui
fascino sugli emigrati, bisogna ricordarlo, era stato
anche piú forte di quello esercitato sugli italiani
d’Italia, per ovvie ragioni d’immagine e di orgoglio
ritrovato dopo decenni di disprezzo e
sottovalutazione – in nome della conquistata libertà
americana.
E poi? Be’, poi c’è tutto quello che ci dev’essere
in un epistolario: tutto ciò che sta dietro la scena –
che in questo caso non è solo quella della letteratura,
ma anche quella di Hollywood – e soprattutto la
straordinaria tendenza di Fante a trasformare molte
lettere in veri e propri racconti. Tra i piú belli e
toccanti ci sono senz’altro quelli contenuti in alcune
lettere del 1957 spedite da Napoli alla moglie e ai
figli Jimmy e Vicky; e d’altra parte tutto il blocco
della corrispondenza dall’Europa negli anni 1957-60
si distingue per brillantezza e felicità narrativa,
facilitate dall’incontro con una realtà che sembra
davvero coincidere con l’idea mitica che a Fante
dovevano avere trasmesso i genitori, un mondo –
l’Italia – dove «perfino il contadino piú infimo […] è
in un certo modo nato a una cultura e a una vita
civilizzata che noi non conosciamo».
Ed è quasi una fortuna, verrebbe da dire, il fatto
che Fante sia stato per molti versi un narratore
indeciso e neghittoso, che si sia baloccato a lungo
con progetti che poi non è riuscito a portare a termine
o che poi venivano accantonati per cedere il passo ad
altre piú entusiasmanti idee. Da questo punto di vista,
il «laboratorio» di Fante assomiglia proprio al mondo
del cinema, o, meglio, a un ufficio di sceneggiatori in
continua attività, sulle cui scrivanie approda una
quantità di materiali che soltanto in minima parte
riusciranno a trovare la strada di una compiuta
realizzazione.
Dall’aurorale progetto del romanzo Pater
Doloroso in poi, l’epistolario è una vera miniera di
testi ideati, perduti e a volte ritrovati, anche a
distanza di molti anni. È per esempio il caso de La
confraternita dell’uva, il cui primo abbozzo, ma
meglio sarebbe chiamarlo «soggetto», già molto
perspicuo, ampio e dettagliato, si trova in una lettera
del febbraio 1954, risalente cioè a ventitre anni prima
della pubblicazione in volume. Questo dimostra
quanto lavorio ci fosse dietro ogni impresa letteraria
di Fante, e quanta vera fatica ci sia dietro quelle sue
pagine cosí miracolosamente fresche, sorgive,
spontanee. Dietro quell’apparente semplicità c’è
invece un rovello continuo, e l’epistolario ne dà
conto in modi che a volte paiono addirittura
drammatici. È il caso di tanti progetti non andati in
porto, come quello del romanzo Ah, Poor America!,
di cui pure fino al 1940 Fante sembra convinto,
offrendone abbondanti anticipazioni nelle lettere, per
poi sostituirlo nella sua testa con la lunga ossessione
di The Little Brown Brothers, il romanzo sui
lavoratori filippini in California, la cui prima idea
risale addirittura al 1935. Tra alti e bassi, momenti di
esaltazione e di sconforto, quell’idea avrebbe abitato
la testa di Fante fino al 1946, e ancor oggi rimane il
vero «mistero» della sua bibliografia: un libro che
avrebbe forse potuto fare il paio con Pian della
Tortilla di Steinbeck, con l’aggiunta di una piú decisa
nota comico-grottesca squisitamente fantiana, e che
invece cadde sotto i colpi incrociati dei pareri
editoriali negativi, sospettato di razzismo cosí come
La strada per Los Angeles, a suo tempo, era stato
sospettato di oscenità. Quanto Fante tenesse a questo
progetto risulta in modo evidente dalle lettere
scambiate con Pascal Covici: e, mentre si è portati a
rimpiangere la mancata realizzazione del romanzo,
non si può non restare ammirati dal modo che questi
due soggetti hanno di collaborare, ciascuno a partire
dal proprio ruolo, dalla propria specificità
professionale. Covici ha il compito di vegliare sulla
creatività di Fante, di vigilare su quel calderone
ribollente di idee spesso fuggevoli, e dunque di
mettere ordine, di indirizzarlo nel modo migliore. Lo
fa con probità, competenza e passione; e anche se
probabilmente sbaglia (secondo me, anzi, sbaglia di
sicuro), i suoi argomenti non appaiono mai peregrini,
tutto quel che dice è anzi improntato a un’idea assai
professionale del lavoro letterario, all’interno della
quale l’editor reclama i suoi spazi strategici sul
campo di battaglia creativo, e non esita a bacchettare
l’autore tutte le volte che ciò si renda necessario.
Come avviene, con effetto abbastanza esilarante,
nello scambio dell’estate 1940 a proposito della data
di uscita di Dago Red, allorché Covici, incalzato dal
sarcasmo di Fante («Ovviamente non ho alcun diritto
di rivolgere questa domanda, dal momento che mi
sono solo limitato a scrivere Dago Red, ma, se non è
un allontanamento troppo radicale dalla vostra
politica, mi fareste sapere quando il mio libro
uscirà?»), replica rivendicando in pieno l’autonomia
del proprio lavoro («Nessuno di noi in quest’ufficio,
per quanto ne so, ha mai scritto un libro, ma ne
pubblichiamo una quantità notevole, e giudicando dai
resoconti passati dovremmo intenderci abbastanza di
pubblicazioni e vendite»).
Finalmente, l’epistolario di Fante si può anche
leggere come il tormentato referto di una carriera
nelle lettere che, in fondo, non decolla mai. Come la
prova di una consapevolezza estrema dei propri
mezzi, della propria bravura, ma anche dell’amarezza
che questa coscienza provoca al cospetto di risultati
(di vendite, di critica) sempre inferiori all’attesa.
Fante è molto competitivo e si sente a volte un
incompreso. Si ripromette di scrivere un libro «che
farà sembrare quelli di Steinbeck delle formiche».
Oppure si confronta con James T. Farrell, che gli
sembra riscrivere sempre lo stesso racconto, o ancora
col suo amico William Saroyan, tanto prolifico da
sembrare affetto da una forma di «cacarella»
letteraria, e piú avanti con Saul Bellow, liquidato
come «noioso»...
Dalla sua remota e dorata periferia della
repubblica delle lettere, questo grande provinciale
che patisce un complesso di esclusione mostra
comunque di essere animato da un demone creativo
sempre pronto alla zampata letale. Come Bandini, ha
una fede quasi mistica nei suoi mezzi, e sa che prima
o poi verrà accolto tra gli altri grandi sugli scaffali
delle biblioteche.

FRANCESCO DURANTE
Introduzione all’edizione originale

di Seamus Cooney

Fra coloro che sono nominati nelle lettere raccolte


in questo libro, nessuno sarebbe piú stupito dello
stesso John Fante di vederle stampate. In esse non c’è
traccia di un pensiero o di uno sguardo rivolti al
futuro. Lo scrittore è in totale sintonia con la persona
a cui si rivolge e si concentra sul soggetto che tratta
(di solito, nei primi anni, sé stesso). Nelle sue lettere,
conservate per decenni dai vari destinatari – dalla
madre che lo amava moltissimo, e che deve aver
custodito gelosamente le confidenze del giovane
figlio, le manifestazioni delle sue speranze e dei suoi
sogni; da una giovane cugina che aveva riconosciuto
molto presto in lui la genialità; dalla devota moglie,
convinta che la sua vera vocazione fosse la letteratura
e non lo scrivere sceneggiature; da uno degli editori
che lo sostenevano; e dal suo amico avvocato-
giornalista-scrittore Carey McWilliams, un uomo
abituato ad archiviare tutto sistematicamente – Fante
non si mette in posa per la posterità, ma piuttosto
lascia sgorgare liberamente l’essenza di un uomo per
cui lo scrivere era naturale come respirare.
Chi conosce i libri di Fante dovrebbe leggere
direttamente le lettere (dando forse un’occhiata alle
Note sulla redazione). Per gli altri sarebbe forse
raccomandabile qualche parola di introduzione circa
quanto vi troveranno.
Il volume inizia con lettere vivacissime e brillanti,
dove i luoghi, le cose e la gente vista e conosciuta
sono resi cosí bene da meritare comunque di essere
lette a prescindere da chi le ha scritte. Vi si trovano
rapide descrizioni di personaggi, aneddoti, effusioni
liriche (il peana alla carta per scrivere, del 1940); i
migliori esempi di questo tipo sono comunque i
resoconti lunghi e frequenti spediti alla moglie Joyce
dai tre viaggi che Fante fece in Europa. Qua e là sono
presenti degli accenni a pettegolezzi sulle personalità
del mondo del cinema, fatto che li rende ancora piú
interessanti; queste lettere possiedono la qualità di un
buon reportage e ci tramandano alcune immagini
dell’Europa alla fine degli anni Cinquanta e la
sensibilità di un italoamericano molto percettivo che
finalmente realizza il sogno accarezzato per
trent’anni, ovvero quello di visitare la terra dei suoi
avi.
Poi c’è un interesse biografico: queste lettere –
grazie anche alle annotazioni che le accompagnano, e
all’impagabile contributo di Joyce Fante – aiutano
infatti a tracciare a grandi linee la vita e la carriera
dell’autore, oltre a farci cogliere alcune sfumature
dell’ambiente in cui si muoveva, dalla Los Angeles
dell’èra della Depressione a luoghi piú esotici come
Roma, Berlino e Napoli. Non ne ricaviamo solo
informazioni sui suoi spostamenti, i suoi amici, il suo
lavoro e i suoi guadagni, ma – cosa di altrettanto
valore – un autoritratto indiretto di grande spessore.
Fante ci interessa soprattutto perché i suoi libri sono
vivi; un altro aspetto degno di nota è quindi la parte
critico-letteraria, poiché dalle sue lettere si risale
spesso alle fonti della sua narrativa, ai metodi di
lavoro e ai criteri selettivi. Fante era inoltre un
membro rappresentativo di quel gruppo di scrittori
americani di rilievo che vivevano del tutto, o in parte,
con il denaro guadagnato lavorando per Hollywood;
le lettere forniscono cosí molti dettagli circa il suo
atteggiamento nei confronti di quell’attività e le
insicurezze che gli derivavano dall’essere uno
sceneggiatore.
Le lettere ci offrono molti dettagli su vari periodi
della vita di Fante, inclusi alcuni dei piú pittoreschi.
Piú della metà del libro contiene le lettere scritte dal
1932 al 1936, gli anni cruciali dell’inizio della sua
carriera, durante i quali visse molte delle esperienze
che gli fornirono il materiale per la sua narrativa e
che gli insegnarono a trasformarlo in arte. Per
esempio, i resoconti di alcune scappatelle picaresche
con amici, e varie lettere in cui viene ritratta Marie
Baray, una giovane donna che Fante, come disse alla
madre, ebbe intenzione di sposare e a cui si ispirò per
il personaggio di Camilla in Chiedi alla polvere.
Quali spie dell’ambiente e delle condizioni di lavoro,
queste lettere rendono in maniera vivida la situazione
durante gli anni della Depressione, anni in cui Fante
non aveva un lavoro fisso, nessuna entrata, spesso
nessun posto dove andare – tranne quando si
sistemava dagli amici – e alle volte persino niente
cibo. Nonostante questi ostacoli, la sua energia e il
suo impegno sono resi con notevole forza. Gli anni
successivi sono descritti meno copiosamente: furono
anni di battaglie alle volte scoraggianti con la
creatività, di successo unito alla frustrazione a
Hollywood, di viaggi all’estero e, verso la fine, di
malattia unita a una rinnovata creatività. Le lettere
non sono distribuite uniformemente nel tempo, né per
argomenti trattati: interi decenni sono presenti solo in
piccole parti – specialmente gli anni Sessanta – e
quelle che rivelano direttamente qualcosa delle sue
emozioni o della vita intima della sua famiglia sono
rare (quei soggetti, comunque, sono trattati, anche se
in forma letteraria in Il mio cane Stupido e – visti
dalla sua prospettiva – nei commenti di Joyce Fante
in parecchie parti). In ogni caso le lettere ci
forniscono notizie biografiche in abbondanza e un
autoritratto indiretto di grande interesse.
Sebbene egli sia sotto molti punti di vista uno
scrittore centrato su sé stesso, che attinge al materiale
autobiografico per le sue opere migliori, una qualità
notevolissima delle lettere di Fante – parte dell’io che
ritraggono – è la delicata sintonia in cui egli entra
rivolgendosi alla persona cui sono destinate. Se si
tratta della madre o del fratello, di sua cugina o del
suo caro amico McWilliams, del redattore Pascal
Covici o di sua moglie, è sempre Fante che noi
sentiamo, ma con degli aggiustamenti nel tono e nel
registro a seconda del destinatario. Nel rapporto con
la madre sorprende la completezza del ritratto che
Fante le permette di vedere. Sia che annunci la
propria circoncisione o che descriva il bagno senza
costume che fa con un’amica, o che analizzi le
differenze fra lo scrivere per i film o per sé stesso,
sembra schietto e a suo agio. Si ha un collegamento
diretto, commovente, con le speranze e i sogni di
Fante (per esempio, la fantasia di andare a New York
City per presentare la nuova stesura del suo romanzo,
anticipando senza dubbio la soddisfazione di vincere
lo smacco subito quando avevano rifiutato il primo).
Si nota il cliché impiegato per elencare alla madre i
dettagli delle sue calamità – fame, miseria, mancanza
di un posto fisso dove dormire – aggiungendo però
sempre con coraggio la postilla in cui le dice che non
deve preoccuparsi. Si nota anche l’abitudine a uno
stoico autocontrollo, mentre volta dopo volta le sue
speranze vengono suscitate e calpestate e ai periodi di
grandi guadagni ottenuti collaborando con gli studi
cinematografici si alternano quelli di assoluta
indigenza. Inoltre, ciò che lui crede possa interessare
sua madre rappresenta un complimento nei confronti
di lei: le scrive, per esempio, delle differenze
incontrate quando lavora a delle sceneggiature in
confronto allo scrivere narrativa, e le invia il suo
primo contratto con l’editore perché lei lo legga. O
Fante faceva quanto spesso produce delle buone
lettere – si limitava cioè a scrivere liberamente quello
che gli passava per la testa (e bisognerebbe dire che
fino ai suoi ultimi anni di vita le lettere sono senza
alcuna eccezione scritte a macchina, con pochissimi
errori o aggiunte) – o piú probabilmente sua madre
era una donna eccezionale, che pur non avendo
ricevuto un’educazione regolare riusciva ugualmente
a interessarsi da vicino e con intelligenza ai dettagli
della carriera del figlio. Le lettere a casa sono una
testimonianza di ciò di cui Fante parla con emotività
non filtrata, quasi con sentimentalismo: il suo
profondo amore per lei e per il padre. Dopo essersi
sposato, naturalmente, le lettere divennero meno
frequenti e meno intense (per cominciare, fu sua
moglie a sbrigare la maggior parte della
corrispondenza dando notizie dei bambini). In
seguito però, testimonianze indirette dei suoi
sentimenti si trovano nelle lettere dall’Italia alla
moglie e ai figli. Un altro lato ancora della sua
personalità viene alla luce in una serie di lunghe
lettere scritte ai colleghi, come il romanziere Albert
Halper e in special modo in quelle spedite al suo
carissimo amico Carey McWilliams. Vi si trovano,
sparsi nelle pagine con verve e gusto (forse aiutati
dall’alcol), vivaci pettegolezzi, commenti letterari
non meditati, e validissimi resoconti circa
l’andamento del lavoro. Le lettere di questo tipo sono
meno di quante vorremmo, e ciò è dovuto senza
dubbio al fatto che per gran parte della vita
professionale di Fante la conversazione ne prendeva
il posto.
Per apprezzare la brillantezza e la franchezza del
tono delle lettere non bisogna dare ingenuamente per
scontato che esse rendano «la verità» della
personalità di Fante. Egli mentiva sull’età, tanto per
fare un esempio piccolo, ma significativo, delle
licenze che si prendeva con i fatti. Altre lettere
esaminate in sequenza mostrano delle contraddizioni
e forse delle speranze (come l’aver rassicurato il suo
editore circa il progresso costante del suo romanzo
sul «controllo delle nascite» nel maggio del 1946;
vedi la lettera a A. A. Wyn del 31 maggio 1945), se
non addirittura pure e semplici bugie (come il
sostenere con un possibile editore di avere altre
offerte). Piú interessante della mera analisi dei fatti è
la questione di come interpretare il tono. Quando dice
alla madre che affogherà qualsiasi figlia femmina che
avrà, non può essere «serio», per contro però non sta
solo scherzando. Ovviamente si divertiva a indulgere
in un umore aggressivo: vedi la lettera a uno
sfortunato dottore (2 novembre 1960) il quale gli
aveva scritto esprimendogli la propria ammirazione
con la grafia tipica dei medici. Ma che dire del tono
stupefacente di una lettera del 10 novembre del 1978
a uno dei suoi migliori amici: gli insulti alla scrittura
di Carey McWilliams sono scherzosi o no?
Certamente l’arrogante vanteria nelle lettere alla
Viking Press non è ironica, e la commedia del suo
tentativo all’ultimo minuto di annullare il contratto
stipulato con loro per un romanzo è – proprio come la
millanteria che aveva diagnosticato in sé stesso in
una lettera a McWilliams (non datata; estate del 1933
circa) – un’indicazione di un lato irascibile e irritabile
del carattere di Fante. Va comunque detto che
sebbene vi sia abbondanza di vivacità nelle lettere,
scarseggia invece l’umorismo di tipo
autodenigratorio. Forse, tutto sommato, si resta con
una semplice verità: come ogni uomo o donna
complessi, Fante aveva molte facce, e con nessun
corrispondente – forse bisognerebbe dire in nessuno
scritto – egli racchiuse o fu in grado di racchiudere
completamente il proprio io.
Fante fu principalmente e soprattutto, ai suoi occhi
e ai nostri, uno scrittore di narrativa, e da questo
punto di vista le lettere ci permettono di vedere in
ogni dettaglio quali fossero le condizioni del suo
lavoro – le cose che lui proponeva e che venivano
respinte, i contratti e gli anticipi, le stesure, distrutte e
riscritte, i progetti abbozzati e abbandonati. In esse
abbonda il materiale di interesse critico-letterario. Di
notevole c’è un lungo e meraviglioso racconto
dell’ultima storia d’amore del padre, lo stesso
materiale che in seguito prese forma in La
confraternita dell’uva, qui trattato però in modo
differente. Di uguale interesse sotto un altro punto di
vista è il resoconto del romanzo filippino che
intendeva scrivere, The Little Brown Brothers, che
doveva rivaleggiare con Furore di Steinbeck. Non è
solo la sensibilità liberale di superficie che fa
inorridire, né il titolo: è la sinossi del libro a essere
semplicemente imbarazzante – tratta forse da James
M. Cain o da Harriet Beecher Stowe. Qualche tempo
prima, nell’estate del 1933, in una delle lettere piú
interessanti dal punto di vista della critica a
McWilliams, Fante aveva descritto il proprio modo di
lavorare e di giudicare il proprio operato: con un
occhio alla storia, lasciandosi trasportare e
raccontando la verità, sicuro che il materiale avrebbe
preso forma via via. L’essere arrivato a buon punto
nel pianificare la trama del suo romanzo filippino
probabilmente gli ha impedito di lavorare in modo
intuitivo come era solito fare, ma forse è meglio che
Fante abbia poi abbandonato quel progetto. Per
quanto simpatizzasse con i filippini californiani che
venivano sfruttati e per quante ricerche facesse sul
soggetto, viene il dubbio che non ne sapesse
abbastanza per poter scrivere in modo autentico su di
loro. Con tutte le false partenze – e le lettere
raccontano di moltissime altre – l’impressione
predominante che si ha è tuttavia quella
dell’infaticabile energia di Fante e della serietà del
suo impegno nello scrivere narrativa. Questa
impressione deve essere completata, comunque, dal
racconto di Joyce Fante su come si era comportato
negli anni a seguire, quando non aveva piú bisogno
urgente di denaro e quando sostituí lo scrivere con
l’abitudine quotidiana di andare a giocare a golf.
Fante era anche uno scrittore che guadagnava
soprattutto perché lavorava a Hollywood, e molte
delle lettere ci mostrano le snervanti condizioni di
una vita simile – l’attrazione esercitata dalle
abbaglianti somme di denaro da una parte e il costo
emozionale in termini di perdita di stima in sé stesso
dall’altra. Ciò era dovuto alla poca qualità della
maggior parte di ciò che veniva prodotto, e
all’arbitrarietà, l’imprevedibilità e la capricciosità
degli standard applicati dai datori di lavoro, le
decisioni prese e la fiducia data o tolta. Dal 1932, suo
primo anno come scrittore pubblicato, fino a quando
non gli vennero piú assegnate sceneggiature, cioè
verso la fine degli anni Sessanta, scrivere per il
cinema rappresentò una distrazione negativa per
Fante, anche se permetteva a lui e alla sua crescente
famiglia di sopravvivere. Persino negli anni di
maggior successo, quando Fante era celebrato in tutta
Europa, l’instabilità della sua condizione continuò a
renderlo insicuro, e l’arbitraria cancellazione dei
progetti cui lavorava per ragioni che non avevano
nulla a che vedere con la qualità della sua scrittura
devono averlo sicuramente demoralizzato.
Attraverso Henry Louis Mencken nel 1932 Fante
incontrò persone che come lui collaboravano
all’«American Mercury», quali Carey McWilliams,
un avvocato con spiccati interessi letterari, e Jim
Tully, che già scriveva per Hollywood. Attraverso
McWilliams incontrò poi Jo Pagano, Ross B. Wills
(in seguito capo della sezione scrittori della Metro
Goldwyn Mayer), Frank Fenton, e altri. Nel 1932,
anno delle sue prime pubblicazioni, Fante viveva ai
margini del mondo degli scrittori hollywoodiani,
consapevole della quantità di denaro che vi si poteva
guadagnare, ed era in procinto di proporre un
soggetto alla Mgm. Per un uomo in pessime acque
come era Fante, le opportunità devono essergli
sembrate allettanti, e (seppure non ne veniamo a
sapere molto dalle lettere) c’era ovviamente il fascino
indiscutibile esercitato dal contatto con le star agli
studi cinematografici, anche se non arrivava a
conoscerle. L’articolo di Wills (qui raccolto
nell’Appendice IV) dà una versione pittoresca
dell’entusiasmo di Fante nel vedere Dolores Del Río;
alcune lettere, come quella a sua cugina (6 gennaio
1933), raccontano delle celebrità incontrate alla
Mgm, altre, come quella a McWilliams (27 luglio
1934) sullo status leggendario di amante di
Hollywood, suggeriscono indirettamente quanto quel
mondo vistoso attraesse il giovane outsider. Tuttavia
Fante non si arrese mai e, una volta ottenuto il
contratto con Alfred Abraham Knopf, diede la
priorità alla narrativa fino a quando durarono i soldi,
arrivando a fuggire le distrazioni di Hollywood per
ritirarsi a scrivere nel relativo isolamento di Terminal
Island, località poco alla moda. Comunque, le paghe
mozzafiato di Hollywood continuavano ad
abbagliarlo poiché sembravano offrirgli la speranza
di poter sopravvivere scrivendo narrativa, e nel 1934
passò il primo di molti periodi di scrittura sotto
contratto per uno studio. Guadagnava
duecentocinquanta dollari la settimana (quasi un
terzo di una macchina nuova), in confronto ai
cinquanta dollari al mese della Knopf. Ma il lavoro
non gli piacque sin dall’inizio, sin da quel 24 aprile
1935 in cui scrisse, lamentandosi: «Sono rimasto nel
cinema troppo a lungo». Nella pratica, i due lavori
erano difficili da conciliare, come hanno
sperimentato altri scrittori. L’ambivalenza che durò
tutta la vita è precisamente racchiusa – in modo
molto diretto – in poche frasi di una lettera alla madre
del 14 novembre del 1935:

Per molti motivi vorrei non aver mai lavorato per il cinema.
Tende infatti a rovinare un bravo scrittore – in particolare se non
ha già pubblicato il suo primo romanzo. Adesso non vedo l’ora di
dimenticarmi dei film, dimenticare la bella vita e i salari altissimi
della gente che ci lavora, e vivere solo per il mio libro. Quando
sarà pubblicato il mio valore nel cinema aumenterà cento volte.

Particolarmente interessante è il prezzo emotivo


che viene pagato lavorando per il cinema, o piuttosto
l’equilibrio fra il costo in termini emozionali e il
risarcimento in termini di denaro. Fante si rende
conto a volte con dolore della ripercussione di questo
sulla propria creatività, ed è pateticamente franco
circa l’impossibilità di resistere al fascino esercitato
dalla sicurezza economica. È difficile per noi
giudicare adesso le sue decisioni. Non c’è dubbio che
abbia pagato un prezzo alto in termini di difficoltà e
grande fatica all’inizio della sua carriera di scrittore,
e riuscí comunque a raggiungere un compromesso
ragionevole fra la sicurezza economica e il
continuare a scrivere narrativa, che considerava la
sua vera vocazione. Ma non mancano l’amarezza e le
sfumature di autocommiserazione, cosí familiari,
presenti in molti resoconti fatti da sceneggiatori di
Hollywood. Nei suoi ultimi anni, Fante –
comprensibilmente sulla difensiva circa il lavoro a
Hollywood in una conversazione con un collega
scrittore, suo ammiratore, che era rimasto fedele alla
scrittura in decenni di povertà – disse a Bukowski
che era stato il cattivo consiglio di Mencken a
convincerlo a lavorare per Hollywood. Mencken era
senz’altro d’accordo sul fatto che scrivere per il
cinema poteva benissimo servire a finanziare il
«lavoro che vuoi fare», ma ciò lo aveva detto in
risposta al racconto enfatico che Fante gli aveva fatto
dopo aver cominciato a lavorare su una sceneggiatura
con Frank Fenton. Mencken non l’aveva gettato nelle
braccia della sirena hollywoodiana; aveva solo
risposto in modo gentile a un uomo che sembrava
consapevole e cinicamente protettivo nei confronti di
un lavoro di scarsa soddisfazione. Mencken si limitò
tutt’al piú a sostenere il suo sogno di riuscire a
finanziare la scrittura «vera» con lo scrivere
sceneggiature. Per alcuni anni fu cosí, ma Fante non
era in grado di risparmiare, e a periodi di povertà
seguivano momenti di grande benessere anche dopo
molti anni di matrimonio, quando le entrate della
moglie, unite alla gestione piú sensata delle finanze
familiari, gli dettero stabilità. E ovviamente il
cinismo che inizialmente serve a tutelarsi può
trasformarsi in odio per sé stessi, per non parlare dei
sentimenti di invidia e amarezza che Fante descrive
come provenienti da «alcuni degli scrittori locali che
guadagnano duemila dollari la settimana o nei
confronti di un uomo che di fatto scrive e produce un
buon libro» (23 novembre 1939). Qualunque fosse
l’eziologia dello stato emozionale, in ogni caso Fante
produsse buona narrativa di piccolo impatto
commerciale dal 1940 fino alla fine del 1960, con
l’unica eccezione di Full of Life, un libro incantevole
il cui successo gli garantí la sicurezza di poter
passare l’ultimo decennio della propria vita con il
primo amore, la narrativa. È bello pensare che abbia
vissuto abbastanza per poter assistere alla
rivalutazione e al diffondersi della propria
reputazione, alla ristampa dei suoi libri, prima negli
Stati Uniti e poi in tutto il mondo.

SEAMUS COONEY

Western Michigan University


Nota sulla redazione

di Seamus Cooney

Il caso che ha fatto sí che sopravvivessero solo


alcune lettere ha un’influenza molto grande su quanto
è qui pubblicato. Sappiamo che Fante ha scritto una
gran quantità di lettere, ma non tutte sono rimaste,
nemmeno tutte quelle a Mencken, e molti amici che
intrattenevano una corrispondenza con lui non sono
presenti in questo volume in qualità di destinatari. È
evidente che Fante scrisse con devozione alla madre,
che deve aver conservato gelosamente le lettere del
suo primogenito. Qui è presente una grande parte di
quel tesoro, con omissioni delle notizie riguardanti le
sole questioni familiari e i pettegolezzi, e di alcune
ripetizioni di dettagli. Dopo il matrimonio, il numero
di tali lettere e delle altre, di qualsiasi tipo,
diminuisce notevolmente. Quelle spedite ai suoi
genitori, e tuttora esistenti, contengono notizie dei
bambini che crescono e di altri parenti, materiale
quindi di scarso interesse pubblico. Ho scelto di
pubblicare le lettere e le parti di lettere in cui vi siano
echi della narrativa successiva (come in alcune dove
menziona il problema delle termiti nella casa di
South Van Ness) o che dànno dettagli dei progressi
della carriera di Fante. Di lettere su argomenti piú
letterari, come quelle a Albert Halper o Carey
McWilliams, ho incluso quanto era reperibile.
Il formato delle lettere è stato regolarizzato per
alcuni aspetti: ho messo tutti gli indirizzi e le date in
testa, tutte le cose marginali o i poscritti alla fine. Il
trattino d’unione usato come tratto è stato sostituito
dalla linea lunga. Ho lasciato le firme come sono
state scritte. Gli errori di ortografia e di battitura sono
stati corretti nei pochissimi punti in cui andava fatto.
(Alcuni esempi sono «Facism», «all-right», «once in
awhile», e stranezze come «a exacting editor»). Le
intestazioni sulla carta sono state riportate, ma senza
elaborarle e non per intero, e non quando Fante usava
la carta dove era solo stampato il suo nome. Le
omissioni di redazione in una lettera sono indicate da
«[…]». Tutte le altre ellissi sono di Fante.
Quando il manoscritto era quasi pronto per la
stampa è stato letto da Joyce Fante, figura
indispensabile per la genesi di questo libro, dal
momento che è stata lei ad aver messo insieme con
pazienza gli originali e le copie carbone di Fante.
Oltre ad aver corretto una o due questioni, ha fornito
un grande supporto nelle correzioni e ha dato
informazioni importanti che mancavano per quello
che riguardava gli anni di matrimonio. (Bisogna
anche aggiungere che lei ha richiesto che venisse
cancellata solo una piccola parte – un paragrafo in
cui Fante prendeva in giro con cattiveria sua suocera
perché bigotta, e che si trova in una lettera a Pascal
Covici del luglio 1937. Poiché io credo che i lettori
non abbiano alcun diritto di leggere le lettere private
di altre persone, famose o sconosciute, sono stato
felicissimo di acconsentire. I nostri unici diritti come
lettori sono di ricevere un testo quanto piú possibile
accurato). I contributi di Joyce Fante sono di enorme
valore e arricchiscono il libro di informazioni che
solo lei avrebbe potuto darci, o darci in modo cosí
autorevole. I suoi commenti ci aiutano moltissimo a
completare il racconto della vita di John Fante e della
sua carriera ricostruita indirettamente dalle lettere. Li
ho inseriti nei luoghi opportuni..

SEAMUS COONEY
Lettere

John Fante nacque a Denver l’8 aprile 1909. Nei


primi anni della sua infanzia la famiglia si spostò a
Boulder, dove Fante frequentò la scuola parrocchiale
del luogo. In seguito fu iscritto per quattro anni al
Regis College, una scuola di gesuiti a Denver.
Frequentò per un breve lasso di tempo la University
of Colorado, abbandonandola al primo anno.
Quando suo padre lasciò la madre per un’altra
donna, Fante si trasferí in California, e da allora fu
inscindibilmente legato alla vita e all’ambiente di
Los Angeles.
In seguito anche sua madre andò a vivere in
California, piú vicina ai fratelli, e all’inizio degli
anni Trenta Fante si recò a Wilmington, California,
dovendo mantenere sua madre e i fratelli minori
quasi da solo. Scrisse a Mencken: «Ho fatto un
ottimo lavoro a tenere in vita la mamma e i ragazzi.
Facevo piú di un mestiere, ne facevo ventiquattro, dal
fattorino d’albergo allo stivatore». Si trovò una serie
di occupazioni alla giornata – per le quali non si
richiedeva specializzazione e che venivano pagate
pochissimo – nella zona portuale, e nelle fabbriche
dove si inscatolava il pesce. Questo periodo della sua
vita gli forní parecchio materiale usato in seguito ne
«La strada per Los Angeles».
Quando i suoi genitori tornarono insieme si
spostarono a Roseville, una cittadina in una vallata
della California, vicino a Sacramento, mentre Fante
restò dove si trovava e cominciò a seguire dei corsi al
Long Beach City College, «fino a quando
terminarono i soldi», disse a Mencken, o (come poi
raccontò in modo piú colorito, scrivendo per
«Twentieth Century Authors» nel 1942) fino a
quando venne «buttato fuori per lassismo e per aver
fatto casino». In quel periodo viveva a casa di un
professore a Long Beach, aiutando nei lavori
domestici in cambio di vitto e alloggio.
Seguí un periodo in cui visse con amici e parenti
vari, inclusa la sua fidanzata Helen Purcell, fino a
quando vendette il suo primo racconto,
«Chierichetto», all’«American Mercury» nel 1932.
Nel 1933 si trasferí a Los Angeles e visse a Bunker
Hill all’«Alta Vista Hotel». Un periodo che gli forní
il materiale per «Chiedi alla polvere» (1939) e –
molti anni dopo – per «Sogni di Bunker Hill».
1932

Le prime lettere che ci sono pervenute datano


1932, periodo in cui i genitori e i fratelli di Fante si
erano riuniti e vivevano a Roseville, e Fante,
ventitreenne, mandava a casa dei resoconti della sua
lotta per la sopravvivenza a Los Angeles. Abitava, in
quel momento, con la sua fidanzata, Helen Purcell,
un’insegnante di musica di dieci anni piú grande (e
che sua madre temeva che sposasse). La fame e la
povertà, la speranza e la determinazione – mai però
l’autocommiserazione – riecheggiano nelle lettere di
questi primi anni.
Fante si era già risolto a lasciare un segno nel
mondo come scrittore. Aveva scritto a H. L. Mencken,
editor dell’«American Mercury» dal 1930, e aveva
ottenuto il suo primo successo editoriale nel 1932
quando Mencken aveva accettato due suoi racconti.
Alla fine dell’anno non solo aveva stretto amicizie
importanti che sarebbero durate per tutta la vita – in
particolare con l’avvocato e scrittore Carey
McWilliams (che sarebbe diventato in seguito un
giornalista radicale e un attivista per i diritti civili) e
con un giovane collega scrittore italoamericano, Jo
Pagano, attraverso i quali entrò in contatto con il
mondo degli sceneggiatori di Hollywood – ma sarà
egli stesso sul punto di proporre una sceneggiatura
alla Metro Goldwyn Mayer.
Dall’inizio della corrispondenza che è arrivata
fino a noi, quindi, si avverte come i due poli della
vita letteraria di Fante – scrivere per Hollywood e
scrivere per la propria soddisfazione personale – già
esercitino entrambi la loro pressione.

[Alla madre]
[primavera 1932 circa]

Cara mamma,
la tua lettera mi è piaciuta moltissimo, specialmente la foga che metti
quando parli della «vecchia gallina» che io sono sul punto di «sposare».
Non c’è bisogno che ti preoccupi o che ti agiti, mamma, io non sposerò
nessuna donna di trent’anni né di ventitre, e questo per moltissime ragioni.
Anche se potessi mantenere una moglie non ne vorrei una in giro per casa.
Ho visto troppo della vita matrimoniale per poter cambiare l’idea che ne ho,
ovvero che si tratti di una faccenda estremamente complessa, che non vale
la candela. Peggio ancora, non sono proprio il tipo che si dovrebbe sposare.
Si dà il caso che io sappia di essere troppo simile a papà per poter
veramente apprezzare una moglie e i sacrifici che fa per il marito e i figli.
Dunque non preoccuparti. Non mi sposo.
Non ho trovato lavoro, ma sto aspettando notizie promettenti
dall’impresa del ghiaccio. Con il calore dell’inizio della primavera, il
mercato del ghiaccio aumenta naturalmente, e cosí le mie possibilità di
recuperare il vecchio impiego. Comunque, nel momento stesso in cui
comincerò a lavorare, traslocherò. Alcuni amici mi hanno chiesto di
dividere con loro un appartamento. L’affitto sarebbe solo di 5 dollari al
mese.
Le prospettive per l’estate sono aumentate, ora ammontano a tre:
1. Il vecchio lavoro alla Catalina Company.
2. Una possibilità di lavorare per Merritt, Chapman e Scott, ingegneri
edili, attraverso Gordon Rogers, figlio del dottor Rogers.
3. Un possibile viaggio intorno al mondo con un amico che mi può
trovare lavoro su una nave da crociera.
Al momento è impossibile dire quello che farò. Sono assolutamente
troppo impegnato per pensare all’estate.
Ora voglio raccontare a mia madre alcune notizie personali. La prossima
settimana sarò circonciso! Questa faccenda sanguinolenta doveva essere
fatta quando ero in fasce, ma non importa, sarà fatta la prossima settimana.
Desidero che sia cosí per una serie di ragioni che non ho voglia di elencare
adesso. Comunque, non c’è bisogno di preoccuparsi. L’operazione è
semplice, e non è dolorosa; inoltre non voglio che tu pensi al peggio –
ovvero – sono fisicamente del tutto normale. In me non c’è niente che non
vada. Non ho una malattia venerea. Non sono malato. Non mi ammalerò.
Non sono stato malato.
I tuoi due dollari mi hanno fatto molto comodo. Dio solo sa cosa avrei
fatto senza. Mandamene altri quando puoi – e se puoi.
Charles Ingold è tornato in città, anche se non l’ho visto e non mi
importa un accidente di vederlo.
Mi somiglia questo schizzo? L’ha disegnato oggi un amico, e ho pensato
che ti avrebbe fatto piacere vederlo.
Il mio amore a tutti, tuo figlio,
J. Fante

L’altra è una foto di Jo Campi[g]lia & me, scattata l’autunno scorso.


[Alla madre]
14 aprile 1932

Cara mamma,
ho traslocato da casa Rogers e ora vivo con amici qua e là. Potrei andare
a Wilmington per una settimana o piú con lo zio Paul, anche se tale
risoluzione non mi piace affatto, e non la prenderò in considerazione a
meno che non sia costretto dalla piú nera necessità. Sto cercando un lavoro
con tutte le mie forze. Potrebbe spuntare qualcosa, anche se non è sicuro.
Ho pochissimi soldi – pochi cent, ma ce la farò, e ricomincerò. Non ti
preoccupare. Ho fatto delle conoscenze che promettono bene e c’è la vaga
possibilità di andare a lavorare per il «Long Beach Press Telegram»; forse
anche all’«Examiner» di Los Angeles. Fra un mese tutto andrà di nuovo
bene; nel frattempo la situazione è piuttosto dura. Se ti avanzano dei soldi,
mandali; anche se non voglio privartene. Se Pete lavora, chiedigli da parte
mia se può aiutarmi.
Scrivimi al General Delivery, Long Beach, California.
Non preoccuparti. Tuo figlio sta abbastanza bene, e soprattutto è in grado
di badare a sé stesso. Egli pensa alla sua cara mamma piú che mai in un
momento come questo. Egli ricorda che l’amico piú dolce e piú vero che ha
al mondo è la donna che gli ha dato la vita.
Tuo figlio,
J. Fante
Il mio amore a tutti.

Mencken deve aver accettato «Chierichetto» a


maggio o all’inizio di giugno; il racconto apparve
nel numero del «Mercury» datato agosto 1932,
disponibile a metà luglio. La lettera seguente mostra
come l’editore dell’«American Mercury» non abbia
perso tempo nel prendere contatti con un nuovo
potenziale romanziere.
[Alla madre]
General Delivery,
Long Beach, California
14 giugno 1932

Cara mamma,
niente di memorabile durante il viaggio di ritorno. Sono arrivato venerdí
alle due e trenta. Ho trovato ad aspettarmi una lettera dell’editore, il signor
A. A. Knopf, per il mio racconto. Mi ha chiesto di mettermi in contatto con
lui nel caso io scriva un romanzo, o che abbia in progetto di scriverne uno.
Gli ho risposto che ne ho in mente uno lungo, e che lo scriverò quando avrò
tempo e denaro. Credo che mi ci vorrà almeno un anno per scrivere il tipo
di romanzo che desidero sia pubblicato con il mio nome.
Ho anche scritto al signor Fleming per il lavoro giú al porto. Non ho
ancora ricevuto notizie. Non so proprio cosa aspettarmi. Gli affari vanno
talmente male che sono molto pessimista circa la sua risposta. Ovviamente
ti farò sapere.
Ora vivo all’angolo fra la Nona e Chestnut Street. Ralph [Burdick] e io
siamo qui in casa di un amico che per la prossima settimana non ci sarà
perché è in vacanza. Dove andrò, da qui, non lo so. Mi restano solo sette
dollari.
Manderò i vestiti appena ci riuscirò.
Tanto amore a tutti,
Tuo figlio,
J. Fante

[Alla madre]
30 giugno 1932

Cara mamma,
grazie tante per la tua bella lettera. Grazie tante. E per l’amor del cielo,
smetti di preoccuparti per me. Non vi capisco proprio voi madri; e il vostro
preoccuparvi fino all’esaurimento per dei figli che riescono benissimo a
badare a sé stessi. In ogni caso va bene cosí, e se non vi preoccupaste allora
dovremmo farlo noi figli perché le nostre madri sarebbero cosí sconsiderate
da non stare in ansia e da non agitarsi per il nostro benessere e la nostra
felicità. […]
Sto bene. Non lavoro, se non su quello che scrivo, non ho denaro, ma
sono comunque soddisfatto anche se in ristrettezze. Andrà tutto bene. Ti
scriverò presto.
Con amore,
Johnnie

Fante continuava a scrivere, a proporre, e


rivedere dei racconti per Mencken, e il 26 luglio gli
disse: «Ho scritto centocinquantamila parole negli
ultimi trenta giorni». Il 3 agosto Mencken lo informò
del fatto che anche il secondo racconto veniva
accettato: «Casa, dolce casa» venne infatti stampato
nel numero del «Mercury» di novembre. Fante fu
pagato centoventicinque dollari, centoquindici dei
quali li diede alla madre come contributo alle spese
alimentari. (Si deve moltiplicare almeno per quindici
o venti per sapere a quanto denaro corrisponderebbe
oggi quella somma). Tali contributi – senza dubbio
per la maggior parte non documentati – dovrebbero
essere ricordati quando in seguito lo vedremo
chiedere denaro alla madre.

[Alla madre]
[inizio di settembre 1932 circa]
Cara mamma,
per adesso sono a Los Angeles e aspetto una telefonata da uno scrittore
di Hollywood. Si chiama Jim Tully, e potrei chiedergli lavoro – dipende da
come ci troveremo durante il colloquio.
Non mi sono rimasti molti soldi. Non c’è nemmeno lavoro in vista. Non
c’è tuttavia motivo di preoccuparsi. In qualche modo me la cavo sempre. Se
riesco ad assicurarmi un lavoro a Los Angeles, anche se piccolo, farò subito
venire Pete. Potremmo arrangiarci piuttosto bene.
Vedrò anche un certo Ernest Pagano. Lavora agli studi cinematografici
Rko. Non so proprio cosa potrebbe offrirmi. Forse nulla, ma vale comunque
la pena incontrarlo per dei lavori futuri. Andrò inoltre al «Los Angeles
Examiner» stasera o domani. Ti terrò informata su qualunque cosa accada.
Sono qui con la zia Dorothy, e ci resterò ancora qualche giorno. Non
devi preoccuparti per eventuali discussioni in famiglia, dal momento che
anche lo zio Ralph sa che sono qui.
Non vedo piú la mia ragazza. Abbiamo litigato, e ora per me è
completamente finita. Ti scriverò di nuovo fra un paio di giorni, mamma.
Tutto il mio amore a tutti.
Tuo figlio,
J. Fante

La notizia del suicidio di Paul Bern apparve sui


giornali il 6 settembre 1932. Jim Tully era un
collaboratore del «Mercury».

[Alla madre]
[metà settembre 1932 circa]

Cara mamma,
sono sempre a Los Angeles, a casa di Dorothy, e in attesa di notizie da
Jim Tully, lo scrittore. Ho scritto a Tully, ho avuto un colloquio con lui, ci
ho parlato due volte per telefono, e ora credo che stia cercando di trovarmi
del lavoro in un giornale di Los Angeles o nel cinema. Non so se ci riuscirà.
Jim Tully era il miglior amico di Paul Bern, l’uomo cui venne fatta tanta
pubblicità quando sposò Jean Harlow, e che in seguito (la scorsa settimana)
si è suicidato. Tully mi avrebbe fatto conoscere Paul Bern, ma è successo
che per un giorno sono arrivato troppo tardi. Paul Bern mi avrebbe trovato
un lavoro, ne sono sicuro.
Potrei ottenere una lettera di presentazione per l’editore di un giornale da
Jim Tully. Ma potrei anche non ottenere nulla. I tempi quaggiú sono molto,
molto duri. Non posso dire nulla del futuro. Vorrei poterlo fare. Mi è
rimasto un ultimo dollaro, e sono preoccupatissimo. Ti terrò informata, e
nel momento stesso in cui troverò lavoro, se lo troverò, farò venire Pete. Ma
ricorda che non faccio promesse. Non posso. Non so nulla del futuro. Non
posso prevedere quello che accadrà nelle prossime ventiquattr’ore. Ma non
preoccuparti. Faccio del mio meglio.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

[Alla madre]
[fine settembre 1932 circa]

Cara mamma,
domani parto per andare a Compton, una città a quindici miglia verso
sud-est, dove incontrerò un uomo che dirige una cooperativa per la
disoccupazione che è cresciuta tanto da dar da mangiare e da vestire a
centomila persone nella contea di Los Angeles. Gilbert Brown, il direttore
del «Los Angeles Record», mi ha dato una lettera di presentazione per il
capo della cooperativa a Compton. Avrò un posto dove mangiare e dove
dormire, e la possibilità di lavorare in cambio.
Questa cooperativa è piuttosto grande. Non gira denaro, il cibo e
l’alloggio sono dati interamente in cambio di lavoro, e tutto considerato
sembra essere molto interessante. Non muoio dalla voglia di lavorare solo
per vitto e alloggio, ma è quanto di meglio mi sia stato offerto, e il direttore
del «Record» sembra essere piuttosto interessato a me. Vuole che scriva un
articolo sull’ufficio della cooperativa, e che cerchi di venderlo a una delle
riviste nazionali. Ci proverò. Forse troverò un posto come giornalista per il
«Los Angeles Record», cosí nonostante il fatto che non guadagno nulla,
conoscerò molte persone importanti che quando potranno mi daranno una
mano. Nel momento stesso in cui troverò un’occupazione farò venire Pete.
Non importa di che genere sia, lui può in ogni caso venire qua, vivere con
me e provare a trovare lavoro da solo, o mettersi a studiare, quindi digli di
non scoraggiarsi, e che ho la sensazione che non passerà molto tempo prima
che sia in grado di aiutarlo.
Voglio che mi mandi tutta la posta al General Delivery, Compton,
California. Ti scriverò di nuovo fra un paio di giorni. Ho finito tutti i soldi,
ma non preoccuparti. Conoscerò della gente influente che mi sarà utile nel
futuro, e il mio futuro sarà grande.
Il mio amore a tutti da tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
1º ottobre 1932

Cara mamma,
il lavoro a Compton non si è concretizzato. Non c’era proprio niente da
fare, e me ne sono andato molto deluso. Ora sono a Los Angeles, a casa di
un nuovo amico, che si chiama: Eddie Porter. Ha un appartamento accanto a
quello di Dorothy, e l’ho conosciuto tramite lei. Non vedo molto zia
Dorothy; di fatto la evito deliberatamente per quanto posso senza che ciò
sembri una mancanza di rispetto.
Davvero, mamma, devi smetterla di preoccuparti per me. Sto bene. Sto
talmente bene che sono persino andato in chiesa domenica scorsa! Sí, l’ho
fatto, per Dio. Sai, i Porter – Eddie Porter e sua sorella Esther – sono buoni
cattolici, e quindi mi trovo in cattivissima compagnia per quello che
riguarda l’andare a messa. Devo andarci una volta ogni tanto se no
penseranno che sono un pessimo cattolico. Comunque, e lo dico davanti a
Dio, domenica scorsa non è stato tanto male. In quella chiesa c’era molta
pace. La mia mente si è addormentata per un’ora, e, chissà?, potrei farmi
frate oppure monaca (sai per caso il numero di telefono di qualche suora
bellissima?)
Parlando sul serio, sto bene, ma sono completamente al verde. Davvero,
mi servono soldi, oh, quanto mi servono. Mandami tutto quello che puoi.
Non abbandonarmi ora, per piacere. Devo averne un po’. So come vanno le
cose da te, quindi non fare sforzi. Se non ne hai, va benissimo, ma provaci
lo stesso, perché ho paura che dovrò andare a dormire per strada se non mi
arriva qualche dollaro. Sto cercando di trovare lavoro. Ho spedito un
racconto e da un momento all’altro le cose potrebbero migliorare. Sono
rimasto senza un penny per tre settimane. Se non fosse stato per queste
persone che mi hanno accolto, Dio solo sa quello che sarebbe accaduto.
Questo ti dà l’idea di come stia adesso.
Los Angeles è una città molto dura da conquistare. È troppo grande.
Milioni di persone e nessun amico. Ho un grande lavoro che mi aspetta.
Con qualche aiuto ce la farò. Lo so. Vado avanti meglio che posso, ma il
cammino è arduo. Ho bisogno di tagliarmi i capelli, di vestiti, di scarpe, di
moltissime cose. Un giorno o l’altro avrò i soldi. Ora ho bisogno di un
piccolo aiuto.
Scrivimi presto. Con amore,
Johnnie

[Alla madre]
4 ottobre 1932

Cara mamma,
la tua lettera con il vaglia postale mi ha fatto moltissimo piacere. Non
puoi immaginare quanto mi abbia fatto sentire bene. Qui ero in una
posizione imbarazzante, dal momento che per le ultime tre settimane ho
vissuto con quei Porter, e, anche se non hanno detto nulla, sapevo di
rappresentare una spesa per loro, anche se piccola, perché in questi giorni il
denaro scarseggia. Ogni penny pesa come un macigno.
Passo il mio tempo a scrivere fino a che la situazione prenderà una piega
migliore. È la cosa piú appropriata che posso fare al momento, perché sono
determinato a guadagnarmi da vivere scrivendo, e in nessun altro modo.
Ogni scrittore deve fare la fame per un po’ prima di valere qualcosa. Deve
sperimentare tanto le difficoltà quanto le cose facili, e in questo momento
mi tocca la parte brutta di quest’affare di vivere. Non preoccuparti per me.
In qualche modo me la cavo sempre.
Non esco piú con la mia ragazza. Non l’ho vista per piú di un mese, e
non credo la vedrò piú. Non voglio. Almeno sento cosí, adesso, ma non si
può mai sapere.
Ho spedito un manoscritto, e domani ne mando un altro. Ho la
sensazione che riuscirò a venderne uno. Quest’ultimo che ho scritto è molto
buono, cosí almeno mi sembra. Se lo vendo, dovrei ricevere un assegno di
duecento dollari. […]
Sto facendo del mio meglio per incontrare certe persone che possono
trovarmi da lavorare agli studi cinematografici, ma è un processo delicato e
non sempre riesce. Ho conosciuto Jim Tully, lo sai. Ora è a New York, ma
probabilmente tornerà presto. Voglio andarlo a trovare un’altra volta. Ha
scritto una presentazione alla mia ultima storia per me. […]

[Alla madre]
[345 South Rampart, apt. 15,
Los Angeles, California]
14 novembre 1932

Cara mamma,
sembrerebbe dunque che me la stia cavando. Ho un lavoretto in città che
mi rende la somma di un dollaro al giorno, e inoltre risparmio perché divido
le spese con il ragazzo con cui vivo. Il lavoro all’inizio era suo. Ora ci
alterniamo, un giorno lui, un giorno io.
Ma non è tutto. Sto conoscendo delle persone. Ci sono buone possibilità
di andare a lavorare a Long Beach per il «Press Telegram». Al direttore di
quel giornale sono andato cosí a genio che quando l’ho visto domenica
scorsa a casa sua siamo stati benissimo e ci siamo presi una sbronza con
dell’ottima birra. Mi dice che per ora non c’è lavoro in vista, ma che ogni
tanto c’è qualcosa da fare per qualche giorno, e la paga minima è di cinque
dollari al giorno. Ha il mio indirizzo, e so che posso contare su di lui, se
dovesse esserci del lavoro a Long Beach. […]
Ho scritto a Ernest Pagano circa otto settimane fa. Sai chi intendo. Non
l’ho piú sentito fino a tre giorni fa. Ci siamo dati un appuntamento, ma non
ci sono andato. Giovedí mi ha chiamato. Sono andato al suo ufficio agli
Universal Studios, e abbiamo bevuto qualcosa insieme. Cercherà di
trovarmi un lavoro di qualche tipo. Di fatto, dice che se riesco a scrivere
qualcosa di buono mi pagherà cinquecento dollari. Ora sto cercando di
capire cosa possa andargli bene, e quando avrò scritto un soggetto, glielo
proporrò. Pagano ha circa trentott’anni. Sta guadagnando una enorme
quantità di soldi e gira su una Pierce Arrow. Mi ha trattato come un
gentiluomo, e poi mi ha detto di avere un fratello piú giovane, Joe, che ha
letto i miei racconti e che non vede l’ora di conoscermi. Joe ha ventisei
anni. Ho il suo numero e gli ho telefonato stamattina. Sembra che conosca
un gruppo di gente importante a Hollywood, e mi ha invitato per domani
sera a conoscere delle persone. Ti farò sapere tutto in seguito.
Vorrei che tu mi facessi avere l’indirizzo di Maxim Lieber, il mio agente
di New York. Lo troverai fra le mie carte. Per favore, inviami la lettera che
mi ha spedito con l’ultimo racconto che mi ha rimandato.
Bene, mamma cara. Non mi dilungo. Credo che le cose stiano
mettendosi al meglio per me. Non lo so di certo, e ho imparato a non
aspettarmi troppo, ma ho avuto una tale fortuna in questi ultimi giorni da
farmi pensare che durerà un pochino piú a lungo. E nel momento stesso in
cui sentirò di poter mantenere Pete, lo manderò a chiamare. Digli di tenere
alto l’umore, perché ha un fratello che lo aiuterà, se Dio permette che la
fortuna mi venga incontro. Non dimenticare di mandarmi l’indirizzo di
Lieber.
Tuo figlio,
Johnnie

Il giorno successivo alla lettera seguente, Fante


deve aver ricevuto da H. L. Mencken la notizia che
questi accettava di pubblicare il suo racconto «Prima
comunione» (poi apparso sull’«American Mercury»
del marzo 1933). Quello fu il terzo racconto
accettato dal «Mercury», e Mencken gli disse che era
«la cosa migliore che hai fatto finora». Tutti e tre i
racconti furono poi pubblicati in «Dago Red» e in
seguito ne «La grande fame».

[Alla madre]
25 novembre 1932

Cara mamma,
questa volta ti scriverò brevemente per dirti che in qualche modo me la
cavo sempre, e il mistero di ciò va oltre la mia comprensione. So solo che
va piuttosto bene, di fatto molto bene, tutto considerato.
Ho passato il Ringraziamento con i Pagano. Una cena colossale:
spaghetti, tacchino, la basola (la chiamano cosí), sedano, e tutte le buone
cose che mi piacciono cosí tanto. I Pagano sono gentilissimi con me, e
credo che siano persone molto per bene. Joe in particolare. Io e lui ci siamo
visti quasi tutte le sere per una settimana, e domenica ci rivedremo perché
andiamo a un concerto. Ieri sera siamo partiti in macchina per Long Beach a
trovare la mia ragazza.
Mi ha inoltre presentato al direttore di una banca, un certo signor
Cantello, che potrebbe far spuntare fuori qualche lavoro. Non ce lo faremo
sfuggire. La settimana passata Joe mi ha portato a Hollywood a conoscere
diverse persone, ho incontrato molta gente interessante e piacevole, e sono
stato benissimo. Anche Joe è uno scrittore, e conosce molti altri come noi.
È ancora in forse un eventuale lavoro al «Record». E continuerà a essere
cosí ancora per qualche tempo. Hanno cambiato talmente tanto la linea
editoriale a causa di rivolgimenti politici che il giornale potrebbe fallire di
minuto in minuto. Ti scriverò ancora lunedí.
Il mio amore a tutti,
Johnnie
Il racconto che nella lettera seguente Fante dice
di essere sul punto di inviare era probabilmente la
terza stesura di «Professionista», che mandò a
Mencken il 17 dicembre, e che questi accettò, come
scrisse in una lettera del 28 dicembre. È stato poi
ristampato in «Dago Red» e ne «La grande fame».
«Casa, dolce casa» era apparso sull’«American
Mercury» del novembre 1932.

[Alla madre]
932 South Lake Street,
Los Angeles, Calif.
12 dicembre 1932

Cara mamma,
[…] Finalmente è arrivato l’inverno in California del Sud. La pioggia è
caduta a grandi rovesci durante gli ultimi due giorni e due notti. Ed è
appena cominciata. L’uomo delle previsioni meteorologiche prevede forti
acquazzoni ancora per molto tempo. La pioggia ha portato un vento gelido.
Uscire con questo tempo anche se solo per dieci minuti ti lascia poi
congelato fin nelle midolla.
Mi sono ben sistemato qui nel mio nuovo appartamento. Il riscaldamento
a gas è forte, e ci sono molte coperte extra per il mio letto. È il primo
inverno in tre anni che non devo patire il freddo quando dormo. […]
Immagino che da qualche parte sui giornali tu abbia letto il nome di
Lloyd S. Nix, l’ex assistente pubblico ministero della contea di Los
Angeles. Bene, ho un appuntamento con questo gentiluomo mercoledí
prossimo nel suo ufficio, dove discuteremo di certo materiale per degli
articoli per riviste. Spero che tutto andrà in modo soddisfacente. Se sarà
cosí, per me significherà guadagnare un bel po’ di denaro.
Ho inoltre cominciato a lavorare a dei racconti, e credo che ne spedirò
uno per giovedí o venerdí. Mi sembra buono, e se vende mi frutterà un
discreto assegno. Nella sua lettera Grace mi dice che dai Campiglia hanno
letto il mio racconto Casa, dolce casa. Ed è piaciuto a tutti. […]
Il mio amore a tutti,
Johnnie

Il racconto in lavorazione «sulla morte di Mario»


di cui Fante parla nella lettera successiva è
presumibilmente «Uno di noi», che tratta della morte
di un cugino. Venne pubblicato sull’«Atlantic
Monthly» dell’ottobre 1934, ed è stato ristampato in
«Dago Red» e ne «La grande fame».

[Alla cugina, Jo Campiglia]


932 South Lake Street,
Los Angeles, Calif.
24 dicembre 1932

Cara Jo,
ti ringrazio tantissimo per il tuo biglietto; è molto bello. Quest’anno non
ho ricevuto molti biglietti di auguri per Natale. Il tuo, quello di Grace, e uno
dalla mamma, tutto qui. Comunque non mi sto lamentando. Non pretendo di
essere cosí legato a certe cose.
Dovresti essere piú cauta con la parola «genio». Mi piace, naturalmente,
essere considerato tale, ma per quanto ne so, non lo sono affatto. Sono cosí
consapevole delle mie deficienze come scrittore che lí per lí, dopo aver letto
il tuo biglietto, mi sono chiesto se non ci fosse una leggera presa in giro. Ma
conoscendoti, sento che quello che mi hai detto era sincero. Grazie,
davvero, certamente però non sono un genio.
Che fai della tua mente e del tuo corpo in questi giorni? L’ultima volta
che ti ho visto non eri cambiata molto, ma eri cresciuta di testa. Mi ricordo
di un tempo in cui tu eri scioccata dal naturale processo di vivere.
Comunque, ti ricordo sempre come una bellissima ragazza. Non riesco a
pensare a un paio di gambe piú mozzafiato delle tue. […]
Sto vivendo all’indirizzo qua sotto con Charles Green, un altro scrittore.
Abbiamo un appartamentino con moltissima luce e aria fresca. Questo posto
mi piace ma mi ritroverò lo stomaco a pezzi se non mi procuro del cibo
sano e nutriente. Viviamo come dei bohémien vagabondi. Spessissimo ciò
mi dà la nausea. Fa’ i miei saluti a tua madre, e scrivimi presto.
Sinceramente, tuo cugino,
J. Fante

Sto pensando di scrivere un racconto sulla morte di Mario. Prima di


proporlo al mio agente, vorrei che tua madre lo vedesse per correggerlo e
approvarlo.

[Alla madre]
[fine dicembre 1932 circa]

Cara mamma,
oggi mi affretto a scriverti dopo essere stato malato a letto per piú di una
settimana. Il problema era un raffreddore tremendo, forse l’influenza. Ora
mi sono ripreso in pieno, mi sono alzato, e sono pronto per tutto ciò che
potrebbe arrivare…
Ho buone notizie da darti. Attraverso il «Mercury», ho incontrato Carey
McWilliams, un avvocato, scrittore e amico di Mencken qui a Los Angeles.
Ieri siamo stati a pranzo insieme. Sembra una persona molto per bene.
Credo di piacergli. Mi ha dato delle lettere di presentazione per i suoi amici
di Hollywood, è specialmente per gli studi cinematografici della Mgm. Ci
andrò lunedí e le porterò con me. Ho la sensazione che ne potrebbe venire
fuori qualcosa di buono. È da molto tempo che ho bisogno di grana. […]
Il mio amore a tutti, il tuo
Johnnie
1933

Il 1933 vide Fante dedicarsi definitivamente


all’attività di romanziere, sebbene il suo primo sforzo
– l’opera che (racconta Joyce Fante) aveva in mente
di intitolare «Pater Doloroso» – non sarebbe mai
stato pubblicato. Il suo agente, l’influente Maxim
Lieber di New York, ritenuto da Mencken il migliore
nel suo campo, diede una risposta incoraggiante a
una prima parte del manoscritto. Alfred A. Knopf,
inoltre, l’editore dell’«American Mercury», che
aveva scritto a Fante la prima volta nel giugno 1932
invitandolo a sottoporgli un romanzo, a febbraio gli
offrí un contratto generoso, proponendogli sette mesi
a cinquanta dollari al mese per scrivere il suo libro.
(Con offerte successive Knopf arrivò a proporre
seicento dollari, ma alla fine rifiutò entrambe le
versioni del romanzo). Fante lavorò senza sosta,
rigettando piú volte quanto scritto, fino a quando ciò
che sperava fosse un manoscritto finito venne
mandato a Knopf nell’aprile del 1934.
Nel frattempo, comunque, Fante aveva fatto altre
conoscenze agli studi cinematografici, dove il prezzo
pagato per i soggetti oltrepassava di gran lunga
quanto egli avrebbe potuto guadagnare come
romanziere sconosciuto o scrittore di racconti –
denaro che «mi ha levato il fiato», come scriveva a
gennaio. All’inizio dell’anno aveva due
sceneggiature in ballo con la Mgm, e in dicembre,
dopo un anno passato soprattutto a rivedere il suo
romanzo, mentre i soldi terminavano e la stesura
doveva essere completata, prendeva seriamente in
esame la proposta di lavorare per la Warner Brothers
o per Lewis Milestone.

[Alla madre]
705 Fay Bldg.,
Los Angeles, Cal.
4 gennaio 1933

Cara mamma,
la ragione per cui ho ritardato tanto a scriverti durante le vacanze è stata
che ho avuto un leggero attacco di influenza, e sono dovuto rimanere a
letto. Ci sono restato cinque giorni. Ora va meglio, e l’influenza è sparita.
Quando mi sono sentito male ero a Long Beach, quindi sono rimasto a casa
della mia ragazza, che mi ha curato con grande affetto.
Stamani sono andato agli studi cinematografici della Mgm a Culver City.
Là ho incontrato alcuni dei pezzi grossi del dipartimento delle sceneggiature
che sono stati molto gentili con me e mi hanno fatto una buona offerta per
un soggetto. Vogliono darmi delle indicazioni per una storia che ho in mente
per il grande schermo, e mi daranno suggerimenti su come la dovrò
scrivere. La quantità di denaro che pagano per i racconti mi ha levato il
fiato. Per una buona sceneggiatura mi daranno da cinquecento a duemila
dollari. Ho davvero un’ottima opportunità. Domani lavorerò a un’idea, e per
la prossima settimana sarà finita. Se alla Mgm il soggetto piace e lo
comprano, chi lo ha scritto ottiene un contratto di tre mesi a quindici dollari
la settimana. Alla fine di quel periodo, se il suo lavoro è piaciuto, gli
rinnovano il contratto al doppio del primo salario, o a centocinquanta dollari
alla settimana per sei mesi. In seguito, se il suo lavoro continua a essere
buono, gli raddoppiano ancora la paga, o gli dànno trecento dollari la
settimana per un anno.
Ho anche scritto una lettera a Alfred A. Knopf, che possiede e dirige
«The Mercury». Gli voglio chiedere se mi anticipa le royalty per un libro
che voglio scrivere. Se Knopf mi pagherà abbastanza da permettermi di
vivere comodamente per i prossimi sette mesi potrò tirare fuori un bel libro.
Ti farò sapere di volta in volta i progressi che faccio.
Ho deciso di traslocare da questo indirizzo di Lake Street, ma ancora non
so quale sarà quello futuro. Qui non mi piace. Credo che mi sposterò in un
buon albergo, se non è troppo caro. Ho qualche soldo, anche se è non molto.
Ho venti dollari. Qualcosa verrà fuori prima che finiscano.
Di’ a Peter di non agitarsi. Avrò delle buone notizie per voi molto presto.
O almeno speriamo.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

Louis Adamič, che Fante nomina nella lettera


seguente come un modello da seguire, divenne poi un
amico. Ross Wills, che Fante incontra qui per la
prima volta, divenne un amico intimo e un collega;
Fante dedicò il manoscritto di «Pater Doloroso» a
lui e a Mencken. Wills era totalmente sordo; in una
lettera seguente Fante racconta di aver appreso il
linguaggio dei segni per potergli parlare.
Joyce Fante commenta questa lettera:
«L’atteggiamento di Fante verso le donne, espresso
qui e forse esagerato, rappresentò per lui uno
svantaggio per tutta la vita. In generale infatti non
piaceva alle donne. Negli anni della maturità le
mogli di vari suoi amici lo trovavano cosí sgradevole
da non volerlo in casa loro. Inutile dire che il suo
atteggiamento nei miei confronti deve essere stato
diverso, altrimenti non l’avrei sposato».

[A sua cugina, Jo Campiglia]


6 gennaio 1933

Cara Jo,
vedo che ti sei data al bere, che in un certo senso è una notizia positiva.
Ma ho anche notato nella tua lettera la timida conclusione alla fine del
paragrafo, la frasetta rossa di vergogna: sono sempre un giglio. Oh oh!
Hai ragione per quello che riguarda H. L. Mencken. Molto prima che
stampasse le mie cose io lo ammiravo moltissimo. È un letterato esigente e
un editor che viene contentato solo da pochi scrittori. Due anni fa il mio
sogno era di raggiungere le pagine dell’«American Mercury» al mio
trentesimo anno. Esserci riuscito ora è per me un’immensa soddisfazione.
Sembra che a Mencken la mia roba piaccia parecchio. Tre giorni fa mi ha
fatto sapere che ha comprato il mio nuovo racconto, intitolato
Professionista, la storia di un ragazzo innamorato di una suora che gli è
affezionata perché vuole che quel giovanotto diventi prete. Il ragazzo invece
vuole diventare un giocatore di baseball e partecipare al campionato. Alla
fine, dopo alcune trovate divertenti, la suora capisce che l’affetto del
ragazzo ha in sé delle implicazioni sessuali, cosí gli dice che non deve
parlarle mai piú. Ho cercato di farne un racconto simbolico. Il ragazzo sono
io, ansioso di diventare un grande scrittore, in lotta contro ostacoli di natura
economica, spirituale ed emotiva. Dacci un’occhiata e dimmi cosa ne pensi.
Anche il mio racconto Prima comunione uscirà presto.
Ho una gran voglia di cominciare il mio romanzo. Ne ho parlato per
lettera sia al mio agente che al mio editore, cercando di spremergli un
anticipo sulle royalty. Ora sto aspettando le loro risposte. Il mio primo
romanzo sarà grandioso, di questo sono sicuro. Terrò per un secondo libro
la storia di mia madre.
Se lavorerò sodo avrò realisticamente delle ottime possibilità. Voglio
esplorare il vero ambiente italoamericano, ancora quasi intatto. Scriverò dei
racconti e degli articoli sul soggetto e poi, se avranno successo, farò
domanda per il premio della Guggenheim Foundation per la scrittura
creativa. Che significa tremila dollari per dodici mesi e un anno in Europa.
Louis Adamič – pure lui ha cominciato sul «Mercury», anche se a un’età
piú avanzata (aveva trent’anni) – ha vinto l’ultimo premio. La
responsabilità del suo successo è stata in gran parte di Mencken. Adamič è
slavo, quattro anni fa viveva a San Pedro, poi ne ha passati due a fare la
fame fra Los Angeles e il porto, ma ora ha successo, è sposato, ed è in
Europa a scrivere il suo nuovo libro. Procurati, se puoi, il libro di Adamič
Laughing in the Jungle.
Attraverso le mie conoscenze al «Mercury», la settimana scorsa sono
andato alla Mgm e ho incontrato una gran quantità di personaggi celebri del
cinema. Donald Ogden Stewart, Hedda Hopper, Maureen O’Sullivan, Ross
Wills e molti altri. Wills, che cura le sceneggiature, ne vuole una da me se
sarò in grado di fornirgli ciò di cui ha bisogno ora, ossia un dramma
sofisticato per Joan Crawford, o una commedia per Wm Haines. Ho un’idea
eccellente per un soggetto adatto alla Crawford, e se si manovra dall’interno
potrei riuscire a piazzarlo. Ci sto lavorando.
Mi domandi delle donne. Per quasi diciotto mesi sono stato in
compagnia e sotto l’influenza di una donna. Ha trentatre anni e insegna
musica. È stata sposata due volte, una volta ha divorziato e ora è rimasta
vedova. È irresistibilmente naïf e di estrema bellezza. Il suo tipo, direi, è
slavo. La sua bellezza esteriore è di un genere duro e severo. Zigomi alti,
guance leggermente infossate, labbra sensuali e mento a punta; capelli neri
con la scriminatura nel mezzo divisi in due bande che le ricadono a coprire
le orecchie, piccolissime. Dapprima non mi amava, ma ora, per molti
motivi, invece sí e io, ahimè, io non la amo piú. Non sono mai stato e non
sarò mai interessato se non a donne bellissime, non importa se abbiano
qualsiasi altro fascino; e con il piccolo successo che sto avendo come autore
ne incontro alcune facili da conquistare. A Long Beach ce ne sono alcune
alle quali una volta io non piacevo, ma che ora non aspettano altro se non di
farsi vedere con me. Appaga la loro vanità e, tipico delle donne, sono
possessive. In ogni caso il mio acume e il mio temperamento sono tali che
se si metteranno a scherzare con me saranno loro a portarne i segni.
Ovviamente io non sono mai stato il libertino che ho finto di essere, la mia
esperienza però è di certo uguale a quella di un uomo piú maturo. Cento
volte al giorno io dico: «Dio, grazie per le donne». Sono stato mantenuto da
loro, da loro nutrito, soddisfatto, le ho prese in giro, le ho derubate, le ho
insultate e frequentemente le ho picchiate. Negli ultimi due anni è spesso
accaduto che se non fosse stato per donne stupide dal cuore tenero sarei
morto di fame. Ce n’è una a Long Beach che io ho insultato in modo sottile
molte volte, le ho persino chiesto dei soldi in prestito, eppure lei, sotto molti
punti di vista una donna di scarsa educazione e cultura, ha risposto a tutti i
miei torti e sarcasmi chiedendomi tra le righe di sposarla! Per
predisposizione, e forse è una caratteristica ereditaria, una volta o l’altra ho
sempre fatto soffrire le donne con cui ho avuto a che fare, eppure tutte mi
amano per questo. La prima donna che ho ferito è stata mia madre.
La lettera che mi hai scritto era lunga, però sei stata evasiva sulle cose
che volevo sapere. Dimmi di Ashton Key Durrett. E sí, fammi un favore. Al
«Denver Catholic Register», nella colonna intitolata Listening In su uno dei
numeri dell’agosto 1932 (è un settimanale) si attaccava me invece del mio
Chierichetto, pubblicato nel numero di agosto del «Mercury». So da amici
che il prete che ha scritto l’articolo mi ha dato addosso con una certa
violenza. Dovresti riuscire a trovarlo all’ufficio del «Register». Ti
suggerisco di telefonargli e chiedere di Eddie Day jr. Digli chi sei, e che ti
ho chiesto io di chiamarli.
Non vedo l’ora di tornare a Denver, spero di farlo presto. […] Con un
lavoretto e una camera silenziosa posso finire il mio romanzo in grande
stile. Grazie tantissimo per il regalo. Sei deliziosa.

[Alla madre]
705 Fay Bldg.,
Los Angeles, Calif.
13 gennaio 1933

Cara mamma,
ho traslocato dall’indirizzo di Lake Street, e ora vivo su Temple Street,
piuttosto vicino al quartiere messicano, in un albergo piccolo, pulito e
nuovo. La mia camera è piccola, d’angolo e si affaccia su Broadway. Dalla
mia finestra, a soli due isolati di distanza si vede stagliarsi la torre della City
Hall. Questo posto mi costa dieci dollari al mese. Ci sto benissimo. Ci
resterò fino a quando le cose cominceranno ad andare meglio, e credo che
ormai non mancherà piú molto.
[…]
Aspetto con ansia un’altra lettera domani.
Johnnie

Il racconto su «Touring Topics» per il quale Fante


fu pagato quaranta dollari non è identificato.

[Alla madre]
19 gennaio 1933

Mamma carissima,
non avevo capito che eri preoccupata e che aspettavi una mia lettera,
altrimenti avrei senz’altro risposto subito al tuo ultimo biglietto che ho
ricevuto lunedí, ma pensavo che mi dovevi una lettera, e stavo aspettando
una tua risposta.
No. Non c’è niente che non va. Sto faticando molto sul mio libro, ma a
parte ciò direi che non ho altri pensieri. Mi dispiace tanto leggere che state
tutti attraversando un periodo difficile, e Dio solo sa se vorrei poter essere
di qualche aiuto, ma sono troppo preso da circostanze che non posso
controllare; anche se non avrò problemi a sopravvivere sono molto
preoccupato perché voglio renderti la vita piú facile e piú piacevole al di
sopra di ogni altra cosa al mondo. Dobbiamo fare squadra. L’ho già detto ed
è sempre valido. Giorni migliori – molto, molto migliori – arriveranno per
tutti noi. Ne sono cosí sicuro che con l’immaginazione mi metto quasi
sempre a spendere i denari che avremo. Sogno spesso quanto sarà piacevole
il futuro, e in questi sogni sono incluse le cose che voglio fare per te. Certo
che non posso essere troppo ottimista. Mi sforzo ogni giorno. Qualsiasi cosa
accadrà sarà il risultato della bontà di Dio e della mia capacità, e non sono
sicurissimo né dell’una né dell’altra cosa, anche se ho ottimi motivi per
sperare nel meglio. Vedi, sto diventando molto cauto. Non voglio prendere
impegni, e non voglio fare promesse affrettate. Voglio solo che tu sappia
che sto facendo tutto il possibile. Questo, e sono felice di saperlo, è tutto
quello che tu mi chiedi. Coraggio, mamma cara. Coraggio, forza e
preghiera. Non te l’ho mai detto prima, ma ora voglio farti sapere che la
maggior ispirazione della mia vita viene dal sapere che ogni sera, e spesso
durante il giorno, tu fai una pausa mentre lavori per dire una preghiera per
me. Davvero, la tua dolcezza e la tua fedeltà mi sopraffanno. Mi pare di non
meritare una benedizione tanto meravigliosa come te. Mi dico che devo
lavorare sempre piú duramente altrimenti tu non vedrai esaudirsi le tue
preghiere. Fidati di me. È tutto quello che chiedo. Ricordati che qualsiasi
cosa io faccia, la faccio tenendo nel cuore il tuo amore e il tuo bene.
La settimana scorsa, l’11 e il 12 gennaio, io e il mio amico Ross Wills
abbiamo lasciato Los Angeles e siamo partiti per un viaggio di mille miglia
in macchina fino alla Death Valley e ritorno. Siamo stati magnificamente.
Quella regione mi era completamente sconosciuta, e mi sono goduto ogni
ora del viaggio. Abbiamo guidato quasi tutto il tempo, fermandoci una notte
nel deserto in un motel. Naturalmente avevamo portato con noi un buon
assortimento di ottimi liquori, e li abbiamo bevuti piano, senza ubriacarci,
sentendoci solo caldi ed entusiasti tutto il tempo. Mi ha fatto pensare a una
di quelle spedizioni per andare a pescare che papà intraprendeva a Boulder.
Ti ricordi quando partiva con Jake Githens? Non si portava mai né la canna
né l’equipaggiamento da pesca. Tutto quello che prendeva con sé era un
gallone di vino italiano. Mi ricordo che andava per star bene e passava quasi
tutto il tempo a dormire sotto gli alberi mentre gli altri cercavano di
prendere qualche pesce. E non ho nemmeno scordato la spedizione per
andare a pescare che abbiamo fatto papà e io a Sunset, dove aveva quella
miniera d’oro. Allora io avevo circa nove anni, e vivevamo in quella
vecchia casa sulla Dodicesima Strada. Quel giorno papà e io andammo a
cercare quel tale, quel Munson, che gestiva la miniera, e papà si era portato
la canna e la lenza. Pensai che saremmo andati a pescare in un fiume
vorticoso. Aspettavo trepidante di vedere una gran quantità d’acqua. Invece
si trattava di un ruscello minuscolo, profondo otto pollici, e largo tre piedi.
E là papà si fermò, con un sigaro in bocca, proprio sull’argine. Teneva fra le
mani una canna da pesca lunga sei piedi con un grande amo all’estremità
del filo. Ciò mi sorprese moltissimo. Non capivo perché non metteva le
mani nel ruscello e non tirava direttamente fuori il pesce. L’avrebbe potuto
fare con facilità. A meno di otto pollici di distanza si vedeva una grande
trota nell’acqua. Invece no! Rimaneva là con la sua immensa canna. Quel
giorno pescò tantissimo, ma se avesse usato solo le mani, probabilmente
avrebbe preso tutti i pesci, perché il ruscello bastava appena perché
riuscissero a nuotarci. […]
Aspetta pure di vedere un mio racconto sulla rivista «Westways», ex
«Touring Topics». Ti avrei spedito una parte dell’assegno che mi hanno
dato, ma l’ammontare del denaro era cosí esiguo che non ho trovato il
sistema di farlo. Mi aspettavo duecento dollari, e l’assegno è stato solo di
quaranta. Sono rimasto sorpreso e deluso, naturalmente. Ho cercato di
farmene dare di piú, ma l’editore non li ha voluti tirare fuori. È ricorso a
deboli scuse circa i tempi difficili. So che mi ha imbrogliato perché poi ho
parlato con gente che si intende di queste cose, e mi hanno detto che mi ha
derubato di quel denaro perché sono ancora giovane, uno scrittore che lotta
per emergere. Se avessi una reputazione da difendere, avrei potuto chiedere
e ottenere almeno trecento dollari per quel racconto. Ma date le circostanze,
ho dovuto contentarmi di quello che ho ricevuto. Tutto sarà diverso dopo
l’uscita del mio primo libro. I quaranta dollari sono andati in affitto, tintoria,
conto del ristorante e affitto della macchina da scrivere. Una volta pagato
quello che dovevo, ero ancora in debito per piú di cinquanta dollari, puoi
quindi capire le mie ragioni per non averti mandato nemmeno una parte di
quell’assegnetto.
Oggi ho ricevuto una lettera dal mio agente che accludo perché tu la
legga. È la miglior notizia che ho ricevuto da quando ho firmato il contratto
per il mio libro. Gli ho mandato una parte del romanzo, e nella lettera mi
esprime la sua opinione. Come puoi vedere è molto incoraggiante, in
special modo perché proviene da Lieber, un giudice attento per quello che
riguarda la narrativa. Ha fatto avere al signor Knopf quello che gli avevo
mandato, con l’idea di chiedergli di pubblicare una parte del romanzo
sull’«American Mercury». Non so cosa ne verrà fuori, dal momento che,
come dice lui, anche se il libro è buono non è adatto alle riviste. Fra queste
due cose c’è una gran differenza. Di regola gli editori non amano
pubblicarne solo una piccola parte sotto forma di articolo su una rivista. I
lettori preferiscono un libro tutto intero piuttosto che una parte sola, dal
momento che se gli piace la storia, vogliono poi finire di leggerla subito.
Tutta la mia vita dipende da questo libro. Puoi capire quindi la mia felicità
per la lettera di Lieber.
Con amore da tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
26 gennaio 1933

Cara mamma,
[…] credo mi tocchi un’altra bordata di giorni duri. Sono di nuovo al
verde, e questa volta sono messo proprio male. Comunque non sono
preoccupato. Attraversare questi giorni senza un soldo è roba vecchia per
me. Ci sono talmente abituato che non mi preoccupo piú. Giorno dopo
giorno mi sento sempre piú o meno uguale. In qualche maniera riesco a
procurarmi da mangiare a sazietà, un letto caldo, un posto per scrivere, e
moltissimo tempo per sognare. Che altro si può volere? Speranze. Sí, un
uomo deve avere delle speranze. Be’, chi, in questo mondo di scrittori, non
scambierebbe il suo posto con il mio? Io sono in una condizione invidiabile,
me ne rendo conto e ho intenzione di approfittarne. […]
Il mio amore a tutti,
Johnnie

[Alla madre]
31 gennaio 1933

Cara mamma,
ieri nella posta non c’era nulla per me che contenesse del denaro. Ho
ricevuto però una lettera da Grace, e una da un professore universitario
italiano della Carolina del Sud. […]
La lettera dalla Carolina del Sud è di un italiano che discende dal conte
Andrea, un famoso aristocratico italiano. L’uomo che l’ha scritta dice di
aver letto il mio racconto e vuole che io gli scriva.
Per inciso, ho aspettato di avere un appuntamento con il console italiano
qui a Los Angeles. Voglio parlare con lui e chiedergli del materiale sul
fascismo, ma finora non ho ricevuto risposta. Non c’è dubbio che il console
stia facendo delle indagini su di me, perché so che i fascisti in questo Paese
sono molto interessati agli italoamericani di prima generazione e Mussolini
li considera tutti come se fossero italiani. Sono certo che, se dovessi mai
lasciare questo Paese e mettessi piede sul suolo italiano, sarei
immediatamente arruolato e costretto a passare un periodo di tempo
nell’esercito. Sapevi che Tommy, Pete e io siamo considerati italiani dal
governo di quel Paese e che dovunque andiamo dovremmo appartenere al
Partito fascista e sottometterci a Mussolini, servire nell’esercito per un
breve periodo ogni anno, e promettere obbedienza al fascismo? Sono
venuto a sapere che negli Stati dell’Est, dove ci sono migliaia di italiani,
tutti i giovani devono pagare una tassa di celibato al governo fascista.
Spero che andrai in biblioteca a leggere il mio raccontino intitolato
Prima comunione, che parla della volta in cui mi sono accostato al primo
sacramento e tu eri malata in ospedale. So che questa storiella ti piacerà, e
che piacerà a ogni cattolico. Leggila. Credo che sia molto piú bella di
qualsiasi altra cosa io abbia scritto. La troverai nel numero di febbraio
dell’«American Mercury».
Ieri ho finito un’altra sceneggiatura per la Metro Goldwyn Mayer.
Questo significa che ora ho completato due sceneggiature per loro. Ho
anche dato una sinossi a Knopf, un racconto a Mencken, e due racconti li ha
il mio agente. Con tutte queste possibilità, non credo di essere troppo
ottimista se dico che dovrebbe arrivarmi del denaro. La migliore in assoluto
è la mia opportunità con la Mgm.
Appena metterò le mani su dei quattrini, ti prometto che te ne manderò.
Quindi non preoccuparti per me. Abbi fiducia. Farò la mia parte, e puoi
contarci. Di’ all’assicurazione di aspettare ancora una settimana.
Il tuo fedele figlio,
J. Fante

L’intestazione che Fante usa nella lettera seguente


è collocata al margine superiore destro: «John
Fante, Editorial and Sales Dept».

[Alla madre]
[Intestazione di Jean C. De Kolty,
Manuscript Service, Author’s Agent,
Fay Bldg., Third and Hill,
Los Angeles, California]
2 febbraio 1933

Cara mamma,
[…] Ho vagabondato per le parti piú povere e misere della città e per le
stazioni di polizia, dove sto raccogliendo materiale per un articolo che ho in
mente di scrivere. La polizia mi dice che ogni giorno circa quattrocento
giovani affluiscono a Los Angeles, cento dei quali vengono arrestati,
trattenuti per una notte, e rimandati poi per la loro strada. Arrivano persino
madri con lattanti al seno. Ieri la polizia ha fermato una donna con due
bambini nel cortile della stazione, uno di tre mesi e l’altro di due anni. Che
Dio aiuti questa gente.
[…] Il mio nome nell’intestazione non significa nulla. De Kolty mi ha
chiesto se lo poteva usare, e io gli ho dato il mio consenso. Alle volte lavoro
qui, ma non ci sono affari in corso. In ogni caso posso usare a mio
piacimento questa suite. Ho la chiave, posso venirci quando voglio, e posso
usare la macchina da scrivere, gli articoli di cancelleria e persino i
francobolli. L’ufficio è al settimo piano, al di sopra del rumore del traffico,
e posso riuscire a lavorare. In teoria sono il consigliere di De Kolty.
Il mio amore a tutti,
tuo figlio,
J. Fante

[Alla madre]
10 febbraio 1933

Cara mamma,
sono stato molto occupato, altrimenti ti avrei scritto ieri. Il responso di
Alfred A. Knopf alla sinossi del mio romanzo è stato favorevole. L’ha
accettata e ora sto negoziando con lui per ottenere l’anticipo sulle royalty.
La sua lettera è molto amichevole e vorrebbe incontrarmi, se ci riesce. Gli
ho scritto che voglio settantacinque dollari al mese per i prossimi sette mesi,
il tempo che credo mi sia necessario per scrivere il libro. Ora sto aspettando
la sua risposta. Quale sarà, lo ignoro. Di questi tempi non è comune che un
editore anticipi del denaro prima che un libro venga scritto, e devo
considerarmi molto fortunato ad avere l’attenzione di Knopf. Comunque
sono quasi certo che le mie richieste – settantacinque dollari – non gli
piaceranno, perché non sono abbastanza conosciuto presso il lettore medio.
Il mio libro deve ancora essere scritto, e Knopf sta solamente scommettendo
che sarà un successo. Crede che sia bravo, e ha una buona opinione di me.
Ma se riuscirò a ottenere i settantacinque dollari o no, non posso saperlo,
anche se ne dubito. Mi verrà sicuramente dato qualcosa, ma non sarà molto.
[…]
Tantissimo amore,
Johnnie

[Alla madre]
15 febbraio 1933

Cara mamma,
[…] Ancora nessuna notizia dal mio editore. È però successa una buona
cosa. Ha mandato infatti un suo collaboratore qui per incontrarmi e per
capire che tipo di creatura io sia. Con questo tale signor McKee ci siamo
incontrati sabato sera all’Alexandria Hotel, e abbiamo parlato per tre ore.
Ovviamente non potevamo e non abbiamo preso accordi economici, né
parlato di un contratto perché lui era come se fosse solo l’addetto alle
pubbliche relazioni di Knopf. Mi esaminava, valutandomi per scoprire se
ero affidabile o no. Credo di avergli fatto una buona impressione. Ha detto
che gli piacevo, che aveva fiducia in me, e che avrebbe fatto un buon
rapporto a Knopf. In questo momento sto aspettando una lettera da Knopf.
Sí, e giovedí scorso ho ricevuto un piccolo assegno di quindici dollari dal
mio agente a New York, che ha venduto per me un raccontino. Questi
assegnetti sono cosí piccoli, sfortunatamente, che non riesco proprio a
mandartene nemmeno un pochino, tanto quanto invece desidererei farlo. Ma
ogni mese entrerà un anticipo da parte di Knopf, e sono sicuro che riuscirò a
mandartene una parte sostanziosa tutti i mesi. Non moltissimo, ovviamente,
ma puoi essere certa che qualsiasi somma io possa permettermi di dare via,
sarà tua. Desidero anche che Pete venga qui, e con il primo anticipo gli
manderò del denaro. Do per scontato che l’anticipo arrivi, anche se non lo
so… di certo.
Il mio amore a te e a tutti, mamma, e fai in modo che io riceva
prestissimo tue notizie. Abbi cura di te.
Tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
19 febbraio 1933

Cara mamma,
[…] Accludo una lettera di Alfred Knopf perché so che ti farà piacere
leggerla. In ogni caso, come risposta alla sua offerta, gli ho scritto e gli ho
chiesto settantacinque dollari al mese per i prossimi sette mesi. Sarà sotto
forma di prestito anticipato, e verrà dedotto dalle royalty provenienti dalle
vendite del libro che sto scrivendo. Il mio agente di New York si sta
occupando di concludere questa faccenda per conto mio. Non ho comunque
la minima idea se le mie condizioni siano accettabili o no per Knopf. Questi
sono tempi duri, e gli editori non vogliono correre rischi con le persone
giovani come me. […]
Di’ un po’, mamma. Che ne pensi se tornassi a Denver? Volevo andarci a
scrivere il mio romanzo, e ci ho riflettuto per un po’ di tempo. So che a
Denver potrei scrivere un libro piú bello, per il fatto che la storia si svolge
in Colorado. Come puoi probabilmente immaginare, si riesce a scrivere
meglio di un fatto se ci si trova sul luogo dove questo è avvenuto, e questa è
la sensazione che ho circa il mio romanzo. Fammi sapere cosa ne pensi.
Devo fare sí che questa lettera sia breve e dolce. Ci vediamo…
con amore da tuo figlio.

Rimandami la lettera acclusa.

[Al fratello Tommy]


21 febbraio 1933

Caro Tommy,
grazie mille, piccolo brutto bastardo, per la tua lettera. Di fatto è la
lettera piú schifosa che io abbia mai letto… l’ortografia era pessima e la
punteggiatura ancora peggiore, ma nonostante gli errori, mi ha comunque
fatto molto piacere ricevere tue notizie.
Grazie anche per avermi permesso di vedere la fotografia della tua
ragazza, hai detto che era inclusa, e invece non lo era.
Potrai anche essere alto cinque piedi, la domanda in ogni caso è: quanto
è grande il tuo cervello? Vale anche solo un decimo del mio? Ho paura di
no. Sarà mai un cervello efficiente come il mio? Ho paura di no.
Per il tuo vestito puoi contare su di me. Fra due settimane ti manderò
dieci dollari, che è tutto quello che posso permettermi, e con quelli ti potrai
comprare un abito economico. Di’ alla mamma che Alfred Knopf ha
firmato il contratto. Riceverò cinquanta dollari al mese per i prossimi otto
mesi, e il mio manoscritto dovrà essere a New York per il novembre del
1933. Il mio libro sarà stampato e pubblicato nella primavera del 1934. Puoi
dirlo al tuo professore. Dillo a quanta piú gente puoi. Voglio che si parli
molto del mio romanzo. Ci sono stati degli annunci sui giornali locali, ne
manderò poi alla mamma delle copie. Avverti i giornali locali. Fai il mio
nome, parla dei racconti pubblicati sul «Mercury», e menziona il numero su
cui è apparso ogni racconto. In ogni caso, parlane ai professori. Possono far
sí che notizie del genere viaggino velocissime. Voglio ottenere che se ne
parli tanto quanto si può.
Oggi o domani traslocherò. Di’ alla mamma di aspettare fino a quando
non mi farò vivo dal mio nuovo indirizzo.
Tuo fratello,
J. Fante

[A Carey McWilliams]
[c/o Helen Purcell,
926 East 4 th Street, apt. n.15,
Long Beach, California]
23 febbraio 1933

Caro Carey,
mi dispiace moltissimo, ma sabato non potrò essere a Los Angeles
all’appuntamento. Ho improvvisamente cambiato pascolo e ora il mio
steccato è a Long Beach.
Come puoi immaginare, è perché Knopf ha accettato la mia sinossi e le
mie condizioni, e mi ha mandato un contratto che ho firmato e gli ho
rispedito a una velocità del diavolo.
Ho sette mesi e quattrocentocinquanta verdoni per scrivere il romanzo.
Ritengo che sia fantastico. Ho trovato una specie di soffitta che è ottima per
lavorare, e appena riceverò il mio primo anticipo la prenderò in affitto, mi ci
trasferirò, ci porterò la mia macchina da scrivere e comincerò a scrivere.
Temporaneamente mi trovo a casa della mia ragazza, una gran bella tipa.
Non se ne sono ancora viste di meglio.
Mi domando se verrai in città, in un futuro prossimo o quando sarà. Se
sí, spero proprio che mi cercherai. I nostri brevi incontri nel passato per me
sono stati piacevolissimi e spero che non verranno interrotti solo perché non
sono a Los Angeles. Quando ci verrò farò di certo un salto nel tuo ufficio.
Credo che ci verrò spesso, anche se non ho niente di speciale da farci.
Lascia che ti esorti un’altra volta a passare a trovarmi. Sarebbe bello
organizzare una cenetta qui con la mia signora, tu e tua moglie. Qui di
seguito troverai il mio indirizzo. Mandami due righe.
Sinceramente tuo,
J. Fante

[A Carey McWilliams]
423 Lincoln St,
Roseville, Calif.
22 marzo, 1933

Carey, amico mio,


ho lasciato Los Angeles giovedí scorso alle cinque e un quarto, in
macchina, e sono arrivato a Sacramento venerdí mattina alle dieci. Mi
dispiace di non aver fatto in tempo a passare dal tuo ufficio per salutarti, ma
le cose si sono ammassate all’improvviso, e sono dovuto scappare.
Ho preso un numero di «Prairie Schooner», pubblicato a Lincoln,
Nebraska, edito da Lowry Charles Wimberly. Nella rivista c’era un articolo
dello stesso Wimberly intitolato The New Regionalism. Mi interessava, cosí
mi sono messo a leggerlo. Nel primo paragrafo Wimberly nomina Witter
Bynner, Mary Austin e Carey McWilliams come la cerchia di persone dietro
al new regionalism, e poi procede in modo piuttosto laborioso con una
quantità di ciance noiose, secondo me assurde. E piú andavo avanti piú la
questione peggiorava. Non c’era molto pensiero in quel pezzo e quello che
doveva dire non era nuovo, né valeva la pena che venisse ripetuto sulla
stampa. Credo che il passaggio peggiore sia lí dove afferma: «Il new
regionalism è una tendenza relativamente recente nella letteratura
americana». Non ho mai sentito nulla che abbia meno senso. Se bisogna
credere a quello che dice, allora come si classifica gente tipo James
Fenimore Cooper o Washington Irving? Certamente questi due erano
«nuovi» e «regionali», anche se non rientrano, se non a fatica, nel solco che
traccia Wimberly e forse anche tu. (Non ho letto il tuo libro su questo
argomento). E se Cooper e Washington Irving al loro tempo erano nuovi
regionalisti, cosí lo erano Thoreau e Mark Twain e ogni scrittore, in ordine
di apparizione in qualsiasi storia della letteratura.
Comunque, per prima cosa volevo arrivare a ciò che ho fatto dopo aver
letto l’articolo di Wimberly. Quello che ho fatto è stato scrivergli e dirgli
che era un pazzo per aver scritto tali stupidaggini.
Ma ho preso anche un granchio. Nella mia lettera ho scritto che non
c’era alcun libro o trattato di Carey McWilliams sul soggetto del new
regionalism. Ho imbucato la lettera. Poi ho preso un «Mercury» recente e
là, nelle note dell’autore, c’era un tuo pezzo in cui affermavi di aver scritto
un libro chiamato The New Regionalism.
Capisci quindi in che casino mi trovo. Per un verso, comunque, è colpa
tua, perché nemmeno una volta, di tutte quelle in cui ti ho visto, tu mi hai
mai fatto parola di questo libro. Sono proprio in un casino del diavolo.
Sinceramente tuo,
J. Fante

Il libro di Calverton nominato nella lettera


seguente potrebbe essere «The Newer Spirit: A
Sociological Criticism of Literature», pubblicato nel
1925. «Anna Vickers. Romanzo di una moderna
donna americana» è un romanzo del 1933 di Sinclair
Lewis.

[A Carey McWilliams]
435 Lincoln St,
Roseville, Calif.
29 marzo 1933

Caro Carey,
grazie tantissimo per la tua lettera. Sembra che ti sia dimenticato di
accludere il pamphlet di cui hai parlato. Non c’era da nessuna parte.
I tuoi commenti sul regionalismo sono certamente interessanti, e darò
un’occhiata a quel libro di Calverton quando mi capiterà a tiro. A me
Calverton però non è mai piaciuto. Non mi piacciono le persone che
criticano Mencken con arroganza. Per meglio dire, non mi piacciono le
persone che criticano Mencken in qualsiasi modo, e so che Calverton e
Schmalhausen tendono a scaldarsi e a schiumare quando affrontano
quell’orrendo ceffo di Mencken. Lo so. Per inciso, hai visto la recensione di
Mencken su Anna Vickers? È molto divertente.
Questo libro è una seccatura incredibile da scrivere. Finora sono andato
avanti spasmodicamente e accalorandomi molto, mettendo insieme
trentamila parole. Stamattina ho buttato via tutto e ho ricominciato. Mi pare
che sia molto simile a un incontro di pugilato. Devi scaldarti, essere attento,
badare a come ti muovi. Una volta che abbassi la guardia, o ti ecciti, o ti tiri
i capelli, questa cosa ti attacca e ti stende con un gran boato. Allora ti rialzi
e ricominci tutto da capo.
Non andrò a Denver. Me ne starò qui. Questa città fa vomitare per
viverci, ma tutta la mia gente è intorno a me e mia madre ha una quantità di
cibo a portata di mano, quindi sarebbe una follia andarsene.
Grazie per i tuoi consigli per il libro. Spero proprio di avere l’opportunità
di renderti il piacere. Forse, un giorno, ci riuscirò.
Sinceramente,
J. Fante

McWilliams mandò a Fante una copia del suo


libro, «The New Regionalism in American
Literature» (Seattle, University of Washington Book
Store, 1930). Glenway Wescott si ricorda soprattutto
per il suo romanzo «The Grandmothers» (1927).

[A Carey McWilliams]
423 Lincoln St,
Roseville, California
3 aprile 1933
Caro amico Carey,
molte grazie per il tuo interessantissimo libro. Sono davvero sollevato
sapendo, dopo averlo letto, che non sei affatto un profeta, in nessun senso.
Nella sua interezza è un lavoro molto pulito e conciso e dice esattamente
quello che serve sull’argomento. Grazie ancora, e congratulazioni per il
modo ottimo in cui è scritto.
Sono stato particolarmente contento del breve riferimento a Glenway
Wescott trovato alle pagine 38 e 39. A questo proposito, credo che le righe
seguenti siano particolarmente belle: «Un tale esibizionismo infantile rende
sospettosi, non solo nei confronti del signor Wescott, ma di molti dei suoi
contemporanei che hanno scoperto l’America con un ardore che è, ahimè!,
soprattutto letterario»… Ottimo!
Ogni tanto un uomo incatenato al suo romanzo bucolico, che sprona il
suo cervello fino all’esaurimento e all’incoscienza, ha qualche bella
sorpresa. Chi pensi che mi sia venuto a trovare lo scorso sabato sera?
L’onorevole Ross Wills in persona! Proprio lui. Era andato alla sua miniera
d’oro oltre Oroville, a quarantacinque miglia di distanza da qui, e al ritorno
si è fermato per qualche ora. Naturalmente ci siamo bevuti qualche birra
eccetera, con un bicchiere in piú avrei abbandonato la letteratura e sarei
tornato a Hollywood con lui.
Scrivimi quando non hai nient’altro da fare.
Sinceramente tuo,
J. Fante

Albert Halper era un romanziere proletario e


collaboratore dell’«American Mercury». Il suo
«Union Square» era appena stato pubblicato nel
1933. Lui e Fante avevano già tenuto una
corrispondenza, secondo quanto scritto in una lettera
a Mencken. In nessuna delle lettere tuttora esistenti
scritte da Mencken egli parla di «volgarità», ma in
una dell’8 luglio 1932 Mencken dice di aver rifiutato
un racconto perché «i riferimenti alla sifilide
traumatizzerebbero la maggior parte dei lettori».
In questa lettera per la prima volta Fante parla di
un tema che proverà a trattare per molti anni – i
conflitti all’interno di una famiglia cattolica sulla
questione del controllo delle nascite. Da questo, dal
titolo del libro, e dal fatto che, come disse a sua
madre, è ambientato in Colorado, risulta evidente
che il primo romanzo di Fante non era uno
stereotipato «autoritratto dell’artista come giovane
sensibile», ma ricorda piuttosto quello che in seguito
divenne «Aspetta primavera, Bandini».

[A Albert Halper]
423 Lincoln St,
Roseville, Calif.
3 maggio 1933

Caro Halper,
grazie mille per la copia autografata. Mi sono messo a sedere, ho letto il
volume tutto d’un fiato e mi è piaciuto moltissimo. Devo però dire che hai
scritto cose migliori. Una cosa come My Brothers Who, ma piú lungo,
sarebbe molto meglio. Comunque Union Square è buono, e dimostra una
ottima capacità tecnica.
Non sto affatto cercando di lusingarti né porcherie simili, ma fidati – per
quanto il tuo libro sia buono – puoi tirare fuori un lavoro ancora migliore.
Dio sa se spero che il tuo prossimo libro sia piú simile alle cose brevi che
scrivi e che a me piacciono moltissimo. Qui ovviamente, sto dando voce a
un indubbio pregiudizio. Mi sembra abbastanza fuori luogo paragonare
qualcosa di soggettivo con qualcosa di oggettivo. Non credo che la scrittura
oggettiva abbia l’impatto dell’altra.
Questo mio romanzo è un figlio di puttana. Mi sto confrontando da una
parte con una donna che è ossessionata dal peccato, e dall’altra con le
allettanti controproposte costituite dal pene infallibile del marito. L’idea è
che lei, essendo una donna religiosa, non riesce a tollerare di usare i
contraccettivi, mentre a lui, essendo il tipo del vero maschio, basta agitare il
suo pisello perché la povera figliola si metta a gridare disperata. È un
problema che né lui, né lei, né il papa possono risolvere, e dopo che molto
sangue e budella vengono sparse sul letto la donna mette in valigia la sua
anima e si dirige verso l’aldilà.
Forse sto parlando dei miei personaggi in modo troppo cinico. Ma il fatto
è che sono già esausto per averci avuto a che fare, ed è un sollievo trattarli
come degli scemi in altri contesti. Sto mettendo tutto me stesso nel libro
quanto alle reazioni emotive… e mi stanco molto. Nel mio libro voglio
essere franco, ma non volgare, e la mia tendenza naturale quando sono
franco è di andare a finire dritto dritto nella volgarità. Credo che ciò sia
dovuto al fatto che sono un wop. Mi lascio andare quasi inconsciamente alla
volgarità. Mencken ha rifiutato moltissima roba per questo motivo, e ha
insistito sempre perché ci faccia attenzione. In un mio racconto che ha
comprato, ha tagliato una frase che per me era la migliore. L’ha definita
volgare. Non sembra che io abbia la minima idea dei pro e contro della
volgarità, e credo che sia una pessima cosa. Allo stesso tempo cerco di
mantenere uno standard che si basa sulle critiche di Mencken, e cosí il mio
stile è ostacolato. Vorrei proprio liberarmi della sua influenza.
Fammi sapere di te, Halper, presto, nulla di quello che mi dici sotto
forma di consiglio mi infastidisce. In questa città non c’è altro da fare se
non scrivere, ed è sempre un piacere ricevere notizie da un uomo che ha
sudato piú di me… e credimi, di questi tempi sudo moltissimo.
Saluti,
J. Fante

[A Carey McWilliams]
423 Lincoln St,
Roseville, Calif.
16 maggio 1933

Caro Carey,
non solo ho abbandonato l’idea di cui ti ha parlato Ross, ma ho fatto lo
stesso con cento altre. L’idea di Dio che racconta la storia è assolutamente
troppo per me. La filosofia di base per renderla è necessariamente
deterministica, e l’enormità dei dettagli è troppa per un romanzo. Voglio
accennarti a quello che intendo. Lo faccio in modo personale perché sia di
maggiore effetto. È Dio che parla: «Ecco Carey McWilliams seduto alla sua
scrivania. Ho creato io Carey McWilliams, e io ho creato la scrivania. Carey
McWilliams si alza e attraversa la stanza per andare alla finestra. Ho dato io
l’impulso a Carey McWilliams di alzarsi, e nella mia benevolenza ho fatto
sí che il pavimento restasse solido mentre lui camminava. La finestra
attraverso la quale lui guarda è creazione mia eccetera, eccetera, eccetera».
Vedi bene che tremenda quantità di tiritere apparentemente d’effetto
comporta questa sorta di narrativa. Uno sguardo a un breve paragrafo
tradisce già la monotonia di un libro intero di roba del genere. Per natura e
secondo intelligenza io sono un determinista. Per me tutto nell’universo ha
un motivo, una causa e un effetto. Quale possa essere la fonte originaria,
non lo so. Ma so che c’è un Dio. La mia ragione e la mia natura me lo
dicono. Renderlo antropomorfico è una trovata piuttosto facile e monotona,
e non funzionerebbe in un primo romanzo. Aspetterò e lo farò un’altra
volta, quando l’esperienza mi avrà dato uno stile piú raffinato.
Tony Turano, uno dei tuoi colleghi giureconsulti e collaboratore al
«Mercury» è stato qui con me giovedí e venerdí. È un tipo affascinante. Il
suo background e la vastità delle sue letture sono sconfinati. Quell’uomo ha
qualcosa da dire su ogni cosa e non me ne importa nulla di cosa tu
suggeriresti. Gli ho detto che eravamo in contatto e vorrebbe conoscerti. Gli
ho consigliato di scrivere, ma se lo farà o no dipende dal tempo che ha;
sembra essere un tipo molto occupato. O potrebbe trattarsi di un furore
caratteristico di tutti voi avvocati.
Il tuo interesse mi ha fatto molto piacere, Carey, e cosí il tuo
incoraggiamento. È una spinta enorme quella di sapere che c’è chi, oltre a
me, si interessa a me; l’ego di una persona può bastare, ma ogni tanto si
affloscia veramente, sai, e uno stimolo non può fare altro che dirigerlo di
nuovo verso il cielo.
Con i miei ringraziamenti e i miei sinceri auguri di grande felicità, tuo
J. Fante

Il libro va avanti bene. Ho trovato un’idea piú originale che mai. Sono a
tre quarti della prima stesura. Ne farò ancora due, e questo significa un
lavoro infernale.

La prossima lunga lettera rappresenta uno dei


brani piú estesi di Fante di autocritica letteraria. Si
noti che, confessando una certa disonestà nella
propria voce narrativa presente nella stesura appena
distrutta, egli continua però a recitare in parte il
ruolo che aveva adottato inizialmente con Mencken:
afferma di essere due anni piú giovane di quanto non
sia. Una possibile motivazione viene suggerita in una
lettera a Mencken del 10 novembre 1933, nella quale
parla di «ambizioni che ho costruito e misurato come
un parametro con te… cosí: Mencken a ventun anni,
un volume di poesia; Fante a ventun anni, due
racconti sull’“American Mercury”».

[A Carey McWilliams]
[Roseville, California]
[estate 1933 circa]

Caro Carey,
qui mi sono lasciato andare. Come puoi vedere, per essere una lettera è
piuttosto lunga, ma cosí deve essere. Ho molte cose da dire. L’unica ragione
che posso avere per scrivere a te piuttosto che a qualcun altro, è che credo
tu possa capire meglio. Mettiamola cosí: se conoscessi Mencken (sai quello
che penso di lui) come conosco te, questa lettera la scriverei a lui. Ma se
non ci si può rivolgere a un Mencken, mentre lo si può fare con un
McWilliams, allora all’inferno i Mencken e gloria ai McWilliams. Cosí sia.
Probabilmente hai indovinato. Sto avendo dei problemi con il mio libro.
Oggi ho eliminato circa sessantamila parole, la fatica di tre mesi. Ero
assolutamente stufo. Lo sono tuttora. Vorrei capire bene qual è il problema.
Non riesco a identificarlo. C’è qualcosa che non va – qualcosa in me che sta
cambiando. E non so come chiamarlo, né dove trovarlo. Il lavoro che ho
scartato non era buono. Lo vedevo. Ogni giorno, fin dall’inizio, ero piú
scoraggiato. La sua qualità non sembrava aumentare, e la mia ribellione non
è stata graduale. Ho distrutto quel lavoro in modo assolutamente deliberato.
Era superficiale, artificiale. L’avevo cominciato con uno stile insidioso, l’ho
trovato facile da scrivere, e proseguivo. Macinavo giorno dopo giorno,
limitandomi a tirare fuori parole. Non era roba buona. Lo sapevo che stavo
barando. Non con Knopf né con nessun altro. Ma con me stesso. Ho questa
sensazione sullo scrivere. So quando sono onesto e quando baro. L’idea è
questa: esteriormente, e questo è tipico, dovunque tranne che in ciò che
viene stampato, io sono piú o meno un ciarlatano. Nelle mie relazioni con la
gente intellettualmente inferiore a me in modo evidente, faccio il furbo.
Inutile dire che non cerco di giocare alcun tiro a un tipo come te. Sono
abbastanza intelligente da capire che sei piú intelligente di me. Ma con altri
ci riesco. Non sto alludendo alla disonestà fisica. Non sono un ladro –
piuttosto un furbacchione. Un furbetto. Il ragazzo dai capelli bianchi. Mi
comporto spesso in questo modo privo di senso. E di solito me la cavo.
Incedo impettito in modo anormale. So che è un tipo di gioco stupido e
pericoloso, ma lo faccio lo stesso. Il risultato è che sulla carta stampata sono
brutalmente onesto, proprio l’opposto del furbo nella vita reale (come vedi
mi conosco piuttosto bene). Ora il mio libro lo sta scrivendo il furbo e non il
vero me stesso. Il risultato mi fa inorridire. Ciò che ho scritto è putrido. È il
furbo, il ragazzo dai capelli bianchi, il ragazzo che «ce l’ha fatta» al
«Mercury» a vent’anni e disgustose stupidaggini del genere, ad apparire in
ogni frase di questo primo romanzo, e io preferirei andare in galera
piuttosto che far leggere questo libro alla gente, perché non c’è verità. Non
intendo fatti autobiografici. Intendo qualcos’altro. Non so come lo
chiameresti, ma è diverso dall’autobiografia, eppure ci si avvicina molto. È
il sentimento che si ha quando si comincia a scrivere qualcosa che si ama
davvero, il sentimento di essere in un ruscello e di continuare a galleggiare
senza fermarsi. Non credo di essere riuscito a rendere ciò in modo chiaro,
ma la cosa migliore che posso dire è che quando scrivi e sei in questa vena
di cui parlo, provi una soddisfazione molto intensa per quello che stai
facendo. Non ti preoccupi piú di trame e di sequenze drammatiche.
Vengono naturalmente. Ti limiti a scrivere e scrivere, ed ecco! Perdio, c’è
una storia, ed è una storia meravigliosa. Conosco quel sentimento. Se non lo
provo, scrivo come il ragazzo dai capelli bianchi. Che vada a farsi fottere!
Bene, ho buttato via il lavoro fatto fino a oggi, il romanzo basato sulla
mia vita familiare. Credo di aver fatto un errore nel venire a Roseville a
stare giorno e notte con la mia famiglia. Mia madre è stata qui tutto il
tempo. È stato molto seccante. Ecco una situazione per te. Un uomo siede in
una stanza e scrive un racconto su sua madre. Ci sono degli episodi in quel
racconto che hanno a che fare con gli eventi piú segreti della vita di quella
madre. E nella stanza quel tipo scrive. E nella camera accanto siede la
madre di quel tipo con un rosario nelle mani. E cosa fa se non pregare per il
successo di quel racconto? Gesú Cristo! Se solo sapessi che effetto ha su un
uomo. Gli fa sentire come se le sue interiora fossero esposte a tutti. Ne ho
abbastanza. Torno a Los Angeles.
Ricomincerò. Ma non voglio lavorare giorno e notte a questo libro.
Voglio fare qualcos’altro. Ho ancora circa duecento verdoni che mi
arriveranno da Knopf, e almeno posso ripartire. Però mi piacerebbe
riposarmi per due settimane. Bighellonare. Non fare altro che camminare
per strada. Vedere gente, parlare, prendere da bere, in breve, fare tutto
quello che non si può fare con duecento dollari.
Vedi, Carey, ho lavorato duro. Ho scritto fino a esaurirmi. Mi sono
sforzato, e il risultato non era mai soddisfacente. La non soddisfazione piú
lo sforzo mi hanno trasformato fisicamente in un relitto. Ho quello che si
può definire come un sacco di stupide idee sullo scrivere, ma se mi viene
detto che sono stupide non mi aiuterà. Lo devo scoprire da solo. Nel
frattempo Knopf aspetta il suo romanzo. Sono in un tremendo casino.
Voglio dire, almeno credo di esserlo. Forse lo sto prendendo troppo sul
serio. Alle volte credo di aver sopravvalutato la mia importanza e il mio
significato. Ma davvero non lo so. Forse dovrei andare a scavare fosse. Non
lo so.
Comunque tu prenda questa lettera, spero che proverai a capire che è
sincera. Sono molto contento di avere il privilegio non richiesto di scriverti,
e mi sento come se presto o tardi qualcuno mi dovrà ascoltare. Se mi
impongo con te, bene, almeno posso dire che so come scegliere i bravi
ascoltatori, e se non ti dispiace, apprezzerei moltissimo dei consigli vecchia
maniera, paterni, quando tornerò in città. Devo ammettere che ne ho
tantissimo bisogno, e non so da dove prenderli, e diventando poetico per un
istante, direi che potrei scalare la montagna piú alta pur di ottenerli.
Il mio problema è che negli ultimi tre mesi è stato tutto troppo facile.
Non ho fatto alcuna fatica fisica. Non ho fatto niente di piú se non scrivere
il mio libro. È stato troppo per me. Troppo lusso. Oh, certo che il libro era
lavoro, ma le circostanze erano troppo serene. Sono stato troppo spavaldo.
Ero un romanziere. Ehi! Ehi!
Mi piacerebbe sapere cosa pensi di ciò che ho scritto, e cosa puoi
suggerire. La mia idea è di trovarmi un lavoro quando tornerò al Sud. Non
voglio i soldi, ma la disciplina, e se potessi permettermelo, pagherei per
lavorare; in questo modo la mia giornata troverebbe un equilibrio fra lavoro
e scrittura. Voglio andare a lavorare a Main Street, a lavare piatti. Qualsiasi
maledettissima cosa. Allora scriverò il mio libro lentamente, arrivandoci
fresco ogni giorno. Ci vorrà di piú a scriverlo, ma voglio fare un buon
lavoro. Qualcosa di cui possa essere orgoglioso. Potrei mettermi a sedere e
buttare giú una brutta storia in due settimane, ma non è quella l’idea. E non
sono nemmeno i soldi. Voglio riprovare quel «sentimento». Esito a
chiamarla ispirazione perché l’uomo che adopera la parola ispirazione è
spesso colui che dà voce ad aspirazioni, «Gesú mio, pietà!» eccetera.
I miei piú sentiti ringraziamenti per aver letto questa lettera, Carey.
Spero che riuscirai a farti una tua idea e che tu mi faccia poi sapere come la
pensi. Sono desideroso di ascoltare dei buoni consigli piú di ogni altra cosa
e so riconoscerli. Ti verrò a trovare molto presto quando sarò in città. Ti
telefonerò per sapere quando non sei troppo occupato. Quando questa
lettera ti arriverà sarò già sulla via.
In confidenza,
J. Fante
La fotografia a cui si fa riferimento nella lettera
seguente apparve sul «Los Angeles Examiner» di
lunedí 7 agosto 1933, sopra il titolo «Literary Dish
Juggler».

[Alla madre]
6 agosto 1933

Cara mamma,
ecco, sono quasi le due di mattina. Ho passato l’ultima ora a scrivere il
mio libro. Sto ripartendo bene. La faccenda procede in modo molto
soddisfacente. E sono sollevato. Non puoi capire quanto fossi preoccupato
per questo libro. Cento volte mi sono detto che non ero sufficientemente
esperto per finirlo. Ora capisco che mi sbagliavo. Sto procedendo a un
passo cosí buono che sarò in grado di terminarlo in un paio di mesi.
Allego una mia fotografia scattata dal fotografo dell’«Examiner» sabato
mattina e apparsa sul giornale del mattino di lunedí. Credo che sia molto
divertente. È una buona pubblicità. È stato un suggerimento di De Kolty. Ha
scritto a tutti i giornali dicendo che sono un grande scrittore che ha lavorato
come aiuto cameriere al Marcus Barbecue. Abbiamo pensato che sarebbe
stato un pezzo brevissimo fra gli articoli normali. Invece, con nostra grande
sorpresa, il giornale non solo ha mandato un reporter, ma anche un
fotografo. Ed eccomi qua, che servo una ragazza di mia conoscenza. Mi dà
una grandissima soddisfazione. E ovviamente aiuta molto a far girare il mio
nome e per la pubblicità di cui un giovane scrittore ha bisogno per il suo
primo libro. […]
Tutto il mio amore a te e a tutti,
Johnnie

[Alla madre]
11 agosto 1933
Cara mamma,
sono stato felicissimo e sorpreso nel ricevere il ritaglio di giornale, non
mi sognavo nemmeno che sarebbe stato diffuso dallo «Universal News», e
ciò, ovviamente, significa che è stato stampato su oltre cento giornali in tutti
gli Stati Uniti. Buona pubblicità! Ma sono stato un pochino troppo
frettoloso. Penso che il tutto mi sarebbe stato piú utile se avessi aspettato
fino a che il mio libro fosse terminato. Avrebbe avuto piú valore in quanto
avrebbe potuto aiutare le vendite […].
La fotografia sul giornale mi ha messo in contatto con moltissima gente
diversa. Piú che altro parassiti, gente che crede che io sia un babbeo e vuole
conoscermi solo per vedere quello che può cavarci. Questa mattina la mia
posta consisteva in tre lettere di gente che non ho mai visto né sentito
nominare prima. Tutti mi chiedevano di aiutarli, di mostrargli come si
scrive. Vorrei davvero poterlo fare. Questo lavoro mi piace cosí tanto che
sarebbe un piacere aiutare qualcuno che dimostrasse una certa abilità.
Finora non ho trovato nessuno di quel calibro. Sembrano dimenticare –
queste persone che mi scrivono – sembrano dimenticare che, dopotutto,
anch’io sono solo un principiante. Da quando ho cominciato a scrivere non
è passato abbastanza tempo perché abbia veramente potuto provare la mia
abilità. Il successo che posso aver avuto con l’«American Mercury» non
dovrebbe essere confuso con la genuina capacità di scrivere. Potrei aver
avuto fortuna. Non si può sapere. La grande prova di ciò che veramente
valgo come scrittore sta nel mio libro. Se riesco a far bene quel lavoro,
allora non credo che esiterò a rispondere – quando la gente mi chiederà la
mia professione – che sono uno scrittore.
Stamattina però una lettera è stata piú che interessante. Mi è arrivata da
una ragazza bellissima. Ieri sera è venuta al bar. Lavora per la General
Motors a Los Angeles, e fa lo stesso lavoro che Jo fa a Denver. Vive in un
appartamento a pochi isolati da casa di Louise, e sono stato invitato a cena
per sabato sera. Spero che tutto vada come penso.
Ho passato il pomeriggio e la sera di sabato scorso, fino quasi alle
undici, in un ranch dove c’è anche un agrumeto di proprietà di una donna
danarosa, e piuttosto vecchia, una russa, nata in Russia, un’aristocratica, di
circa quarantacinque anni. L’avevo conosciuta da De Kolty un po’ di tempo
fa, e in quell’occasione avevo saputo che possedeva il ranch, che si trova
piú o meno a quarantacinque miglia da qui, oltre Pasadena. Questa donna
crede di poter scrivere, e di fatto ha scritto un certo numero di racconti, ma
nessuno vale un accidente. Sono stato piuttosto bene nella sua casa di
campagna. C’era sua nipote, abbiamo gironzolato per la campagna per un
paio d’ore, poi siamo andati a nuotare in una riserva. Dopo abbiamo cenato,
siamo rimasti a chiacchierare per quattro ore, poi siamo tornati in macchina
in città. Dopo un po’, con loro mi annoiavo a morte. Hanno una quantità
pazzesca di denaro, e sembrano pensare che a questo mondo non gli si
richieda altro. Sono piuttosto pretenziose, e anche se sono sempre state
gentilissime, mi sono sentito per tutto il tempo fuori posto. Sono stato
contento di andarmene. Credo che questa donna mi darà da lavorare a casa
sua, piú in là quest’anno, se glielo chiederò. Ho pensato di andare a finire il
mio libro lí, nelle due o tre ultime settimane che ci vorranno per terminarlo.
Ma non so se lo farò. Ci penserò a tempo debito, mancano ancora due mesi.
Ieri ho pranzato con il mio amico Carey McWilliams. Siamo andati in un
posto alla moda che si chiama Levy’s, e abbiamo pagato due dollari e
cinquanta in tutto. Io ho ordinato del pesce, e il cameriere me ne ha portato
uno che costava un dollaro e dieci cent a porzione! […]
Oh sí! Ieri sera una ragazza è entrata qui da De Kolty ed era al verde,
affamata, in cerca di un lavoro o di denaro. De Kolty non poteva offrirle né
l’una né l’altra cosa. Mi ha chiesto se avessi qualcosa da darle, e non
l’avevo. Però l’ho portata al piano inferiore del ristorante, e le ho pagato la
cena. Aveva diciannove anni, era piuttosto carina, ma spaventosamente
bugiarda. Negli ultimi anni ha ricevuto una quantità di batoste, e
chiaramente ne ha risentito. Aveva bisogno di cinquanta cent per farsi
scattare una foto per un lavoro come taxi dancer. Credo che stesse
mentendo, ma le ho prestato i cinquanta cent lo stesso. Ha detto che stasera
sarebbe stata in zona per rendermi il denaro. Non si è ancora fatta vedere, e
non mi aspetto che lo faccia. Ti racconto questa storia perché voglio darti
un’idea delle condizioni qua intorno. Nonostante il fatto che i giornali
affermino il contrario, le cose vanno male come sempre, e ci sono centinaia
di casi simili a quello di questa ragazza.
Il mio amore a tutti, tuo figlio
Johnnie
[Alla madre]
30 agosto 1932 [probabilmente 1933]

Cara mamma,
la ragione per cui non ti ho scritto è perché sono stato occupato, non solo
con la mia scrittura, ma anche con un trasloco. Ho lasciato la vecchia
sistemazione accanto all’ufficio di De Kolty e ne ho trovata una migliore a
circa quattro isolati di distanza. Mi piace moltissimo. È piú tranquillo, piú
pulito, e c’è una doccia privata. La mia stanza ha la moquette, e i mobili
sono rivestiti di pelle. C’è una buona ventilazione, e l’hotel è
rispettabilissimo e tranquillo. Per la prima volta da molto tempo riesco a
lavorare per davvero.
Ora ho dei problemi agli occhi. Ho un forte mal di testa dopo l’altro e il
mio occhio sinistro non funziona piú. Sono andato da un dottore, mi ha
detto che ho un assoluto bisogno di occhiali, e devo anche fare delle analisi
per vedere se il problema all’occhio è dovuto a qualche cosa nel sangue. Gli
occhiali e le cure mi costeranno trentacinque dollari. Ma devo farle, a
prescindere dal costo.
In questi giorni non ho fatto praticamente altro se non scrivere e leggere.
Sto quasi sempre a casa. Oh sí! Ti ho detto che Joe Pagano e io siamo stati
arrestati? È andata cosí. Per ubriachezza. Abbiamo passato la notte in
prigione e pagato una multa di sei dollari. Suo fratello Ernest è venuto alla
prigione e ci ha fatto uscire. Questo accadeva circa tre settimane fa, una
domenica sera. Avevamo bevuto birra a The Brass Rail, che è un posto
famoso su Hollywood Boulevard e la polizia ci ha fermato. Ci hanno
prenotato una stanza nella prigione di Hollywood, e piú tardi, di notte, ci
hanno portato a Los Angeles. Alle dieci del mattino dopo siamo apparsi in
tribunale e siamo usciti per mezzogiorno.
Non è stato cosí male come può sembrare. Ci siamo divertiti moltissimo
fino a quando ci hanno messo al fresco. Ma non vorrei proprio essere
pizzicato di nuovo, e puoi star certa che non mi sbronzerò piú. Da quella
notte non ho piú toccato nulla, e per quanto ne so, non lo farò mai piú. […]
Ho anche ricevuto una lettera da una ragazza di Republic, Pennsylvania.
Ha letto i miei racconti sul «Mercury» e ora vuole sapere chi io sia. Si
chiama Eleanore Capuzzi, un’italiana, ovviamente.
Con amore,
Johnnie

Ross Wills, ricordando questi anni, parla di Fante


come di una persona dal cuore tenero, sempre pronto
ad aiutare gente come quella che descrive nella
seguente lettera.

[Alla madre]
Domenica notte [ottobre 1933 circa]

Cara mamma,
la cosa piú difficile di questa lettera sta nel fatto che devo dirti che non
posso mandarti i dieci dollari a meno che tu non ne abbia un assoluto
bisogno. Il mese scorso ho ricevuto il mio ultimo anticipo da parte di
Knopf. Ora ho trenta dollari in contanti. L’affitto è pagato fino alla fine di
novembre, ma devo dare cinque dollari per l’affitto della macchina da
scrivere, e il mio lavoro al bar probabilmente finirà la prossima settimana,
dal momento che vendono il locale a un altro individuo che ha moltissimi
parenti ai quali si suppone debba dare lavoro. Capisci quindi la mia
situazione. Il mio libro è tutt’altro che finito. Non so francamente che cosa
dovrei farne. Ho già scritto a Knopf per chiedergli piú tempo e forse lo
otterrò. Ma di cosa vivrò è un mistero. Non sono ancora preoccupato. Ci
sarà moltissimo tempo per preoccuparsi in seguito. […]
Questa città è piena di parassiti e di gente che ti frega. Conosco una
ragazza che ha un’amica incinta. L’amante della ragazza è sparito dalla
città. Ora c’è un pargolo in arrivo. E niente soldi. Per due settimane questa
ragazza e la sua amica mi hanno telefonato quasi tutti i giorni, cercando di
prendere a prestito dei soldi per pagare il conto del dottore. La situazione è
disperatissima, dal momento che la futura mamma ha il diabete, e i dottori
non vogliono correre il rischio di farla abortire senza soldi. Ma io non posso
farci nulla. La gente crede che io navighi nel denaro solo perché la mia foto
è uscita sul giornale. […]
Tuo figlio,
Johnnie

Il bagno di mezzanotte descritto brevemente nella


lettera seguente è la fonte di un brano di «Chiedi alla
polvere» e del «Prologo a Chiedi alla polvere».

[Alla madre]
[Intestazione di Jean C. De Kolty,
Manuscript Service, Author’s Agent,
Fay Bldg., Third and Hill,
Los Angeles, California]
22 novembre 1933

Cara mamma,
mi dispiace molto di aver tardato nel rispondere alla tua bella lettera, ma
gli ultimi giorni sono stati pienissimi. Oltre al quotidiano martellare sul mio
romanzo, ho anche lavorato a un racconto che ho proposto a una rivista
locale. Mi ci sono voluti due giorni per terminarlo e le probabilità di
venderlo sono cento a una. Ho pensato, però, che mi sarei preso una breve
pausa dal mio romanzo, lunga almeno quanto basta per far uscire il
racconto. Oggi ritornerò al romanzo, e con un punto di vista piú fresco. In
ogni caso sta procedendo piuttosto bene. Credo che lo terminerò verso la
fine di dicembre. Ma questo significa sfacchinare a lungo e senza sosta, e in
realtà non ho lavorato molto duramente da quando sono tornato a Los
Angeles. Il prossimo libro che scriverò lo scriverò a casa. Capisco ora che
lavoro molto meglio e in modo piú consistente quando sono a casa. Il
problema con questo romanzo era che mi serviva una critica esperta per
cominciare. L’ho avuta da Pagano, e ora sono pronto ad andare avanti da
solo con qualsiasi altro libro che mi venga in mente di scrivere. […]
Ho chiesto il permesso di mostrare il mio romanzo alla gente della
Motion Picture, ma il signor Knopf non me l’ha concesso. Dice che una
cosa del genere rappresenterebbe una flagrante violazione del mio contratto
con lui, e stando cosí le cose, la possibilità di vendere il mio libro al cinema
a questo punto è fuori discussione. Ma quando il libro sarà stampato, la
gente del cinema lo potrà vedere. Di fatto, il signor Knopf o il mio agente
glielo sottoporranno personalmente, e quando comprano un libro terminato
e stampato, il prezzo triplica rispetto a quello di un manoscritto non rifinito.
Ad aspettare, quindi, non ci ho perso, ma guadagnato. […]
Sembra che non pioverà affatto qui al Sud. Il sole è stato caldo e giallo
per le ultime tre settimane e non ne posso piú. Le notti sono caldissime. Di
fatto, due settimane fa, sono andato a nuotare a Santa Monica alle due di
mattina. Mi sono divertito da pazzi. Sono andato con un’amica. Abbiamo
fatto il bagno nudi e abbiamo corso per la spiaggia urlando e gridando come
due selvaggi. Mi meraviglio di come non ci abbiano arrestati per oltraggio
alla morale pubblica. Ma non abbiamo fatto nulla di riprovevole e la nostra
condotta non è stata indecente, tranne forse che abbiamo urlato troppo.
Termino questa lettera con tutto il mio amore.
Tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
255 Bunker Hill,
Los Angeles, Calif.
3 dicembre 1933

Cara mamma,
da queste parti si cominciano a vedere i segni del freddo. Spesso le notti
sono gelide. Qui nella mia camera però fa sempre caldo. Ho una stufetta a
gas che tengo sempre accesa, e se non ci fosse probabilmente dovrei
smettere di scrivere perché la mattina ho le dita cosí rigide dal freddo che
non posso nemmeno toccare una macchina da scrivere. Per inciso, ho una
stanza molto carina. È tappezzata di marrone con una quantità di quadri
adattissimi sul muro che la rendono una tipica camera da uomo. Penso che
di tutti i posti in cui ho abitato a Los Angeles questo sia il piú soddisfacente,
e per il tempo che resterò qui rimarrò in questo hotel. Ho quattro grosse
poltrone di cuoio marrone in questa camera, e tre belle lampade. Il
pavimento è ricoperto da un tappeto a trama larga, o meglio – ovviamente –
quando riesco a vederlo, il pavimento. Uno sconosciuto che entrasse qui
dentro penserebbe di certo che il mio tappeto è fatto invece di carta da
macchina da scrivere. È sparpagliata da tutte le parti, e io devo farmici largo
perché mi arriva alle ginocchia. Mi sembra di non trovare mai quello che
cerco quando ne ho bisogno. I libri sono impilati ovunque, e appendo i
vestiti sul letto, sulle maniglie della porta, sopra le sedie, e spesso poi li
butto sul pavimento. Non c’è speranza che io riesca a diventare una persona
ordinata. Il tipo che pulisce la mia camera ti dirà che sono l’ospite piú
disordinato che abbia mai vissuto in questo hotel. Però gli piaccio, e non
sembra che il disordine lo infastidisca. Dice che una persona che tira la roba
in giro come faccio io, spesso è una persona per bene, qualcuno che
probabilmente non farà l’inferno la volta che qualcosa non è perfetto. […]
Con amore,
Johnnie

Annota il nuovo indirizzo – temporaneo, ovviamente.

Il racconto accettato a dicembre da «Touring


Topics» non è stato identificato.

[Alla madre]
255 South Bunker Hill,
Los Angeles, California
11 dic. 1933

Cara mamma,
sono stato contentissimo di ricevere tue notizie e di sapere che a casa
stanno tutti bene. Anch’io me la cavo bene, tutto considerato. Ora sono alla
fase conclusiva del mio libro, e per il primo gennaio spero di averlo finito.
Se è buono oppure no, non sono in grado di dirlo. L’hanno visto in molti, e
nessuno l’ha trovato brutto, ma quel genere di critica, quella che si ottiene
dagli amici, in realtà non ha valore. Un amico esita a fare una critica onesta
perché non vuole mettere a rischio un’amicizia, piuttosto dice una bugia a
fin di bene.
Credo di averti raccontato del romanzo di Joe Pagano. È tornato da
Lieber con un commento devastante. A Lieber non è proprio piaciuto, e in
una lettera che mi ha scritto mi ha parlato della sua franca delusione. La
lettera di Lieber è stata un vero shock per il povero Joe. Aveva lavorato al
suo libro per cinque anni, e che Lieber lo distruggesse con poche brevi frasi
è stato piú, o quasi, di quanto Joe potesse sopportare. […]
Credo di averti detto di una ragazza in Pennsylvania, una italiana, che mi
scrive lettere appassionate. Non solo ho ricevuto due lettere da lei, ma
anche un’immensa scatola di caramelle. Come andrà a finire, Dio solo lo sa.
Ovviamente a me di quella signorina non importa nulla, e faccio molta
attenzione quando le scrivo. E le scrivo lettere brevissime. Ma con le sue
lettere, la sua poesia e le sue caramelle, dove vuole arrivare? Spero solo che
non le venga la pazza idea di fare un viaggio in California. Vi ha accennato
in un paio di lettere. Se mi verrà mai all’orecchio qualcosa del genere, puoi
stare certa che me la batterò. Questo non è il momento per uno scrittore,
specialmente per uno giovane e alla fame, di prendere sul serio le donne.
Per inciso, forse potrebbe interessarti sapere che ho pochissimo a che fare
con le ragazze. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, e in
questo campo sembra che – almeno questo vale per me – se non sono preso
e implicato in un rapporto, seppure inconsistente, il mio lavoro migliora.
Potrebbe sembrare stupido e forse non ha senso, nonostante ciò però è vero.
Il minuto stesso in cui comincio a prendere sul serio una ragazza la mia
scrittura perde qualcosa. Non so cosa sia quel qualcosa, ma non c’è piú.
Sembra prenderlo la ragazza.
Che cosa ho fatto? Oh, nulla. Vero, mi sono ubriacato diverse volte, e
con i migliori liquori, ma a parte ciò, continuo a lavorare. Voglio finire
questo maledetto libro. Per il primo gennaio, se sarà terminato per allora, e
avrò abbastanza soldi per pagarmi il viaggio, voglio portarglielo io in
persona all’editore, ma vedremo. Da qui ad allora possono succedere molte
cose.
Speravo di mandarti un po’ di denaro dal mio assegno di «Touring
Topics», ma sfortunatamente non so quanto mi pagheranno per quel
racconto e, peggio ancora, non lo riceverò prima del 5 gennaio 1934. Ho
preso però in prestito dei soldi, e intendo divertirmi e ubriacarmi la notte di
Natale. Sembra che sarà l’anno nuovo piú promettente di tutti. Speriamo –
per te, per papà, per Pete e Tom e Jo e per me. Riuniamoci e tiriamo la palla
oltre quell’ultima linea fino alla vittoria!
Ovviamente, mamma, tu sai benissimo, e cosí io, che la vita non ha
senso e non c’è nessuna luce a guidarmi senza le tue preghiere. Quindi il
tuo compito è di pregare. Noi faremo il resto, e non ti devi preoccupare.
Con amore da tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
19 dicembre 1933

Cara mamma,
[…] Bene, le cose cominciano a prendere una piega piuttosto buona. La
settimana scorsa ho ricevuto una sorpresa da Benny Medford, un agente per
le sceneggiature a Hollywood. È in rapporti abbastanza stretti con la Warner
Brothers Studio, e da quanto dice, dopo che avrò terminato il mio romanzo,
potrei collaborare con loro per scrivere dei dialoghi. Questo significa
novantacinque dollari la settimana per dieci settimane. Dovrò dare a
Medford il dieci per cento. Ma va bene. Inoltre, non appena mi sarò liberato
di questo libro, ho intenzione di scrivere un soggetto per il cinema. E questa
volta lo venderò. Ora ho dei buoni agganci. Medford è un’ottima persona, e
sta cercando di piazzarmi a ogni studio di Hollywood. Voglio passarci una
settimana a scrivere questa sceneggiatura, e mi piacerebbe scommettere
tutto quello che ho (che è proprio nulla!!) che per marzo o aprile avrò in
tasca quasi tremila dollari in contanti. Però non so. Mi limito a sentire che
sarà cosí. Ogni anno sembra che le cose per me vadano meglio, e l’anno
passato è stato il mio anno migliore. Quest’anno nuovo sarà un successone
per tutti noi, e sono dannatamente sicuro di quello che dico.
Sono d’accordo con te circa la ragazza, questa Eleanore Capuzzi in
Pennsylvania. La situazione sembra sfuggire a ogni controllo. La settimana
scorsa ho ricevuto una sua lettera molto strana, dove mi diceva di essere
pazzamente innamorata di me. Ovviamente, io non sono innamorato di lei
nemmeno un po’. Le sue lettere mi piacciono molto, non per i suoi
sentimenti, ma perché la situazione mi diverte assai. Comunque non voglio
che faccia la sua valigetta e che venga a ovest, e dal tono della lettera invece
è capace di farlo da un minuto all’altro. Se scopro che sta davvero venendo
qui, comincio a correre. Ti mando la sua foto. Come puoi vedere è una
ragazza piuttosto dolce. Ha ventitre o ventiquattro anni, credo. Non le
scriverò spesso. Voglio scoraggiare le sue attenzioni. Rispediscimi la foto,
mi raccomando. […]
C’è un articolo su di me – o meglio, viene fatto il mio nome in un
articolo – sul numero di dicembre di «Writer’s Digest». Si intitola These
Here Highbrows, ed è ristampato da un’altra rivista. Immagino che tu abbia
letto tutto di quel divertente episodio a Baltimore, dove Mencken, Knopf e
altri sono stati immischiati in una rissa. Ti ho già detto di aver venduto un
racconto alla rivista «Touring Topics».
Ho avuto fortuna nel vendere quel racconto. Infatti Phil Hanna, l’editor,
l’aveva già rifiutato una volta. Bene, ho un’amica a Hollywood e, quando le
ho detto che avevo proposto un racconto a «Touring Topics», mi ha risposto
che sua sorella era la segretaria dell’editor, e che Hanna, l’editor, era
follemente innamorato di sua sorella. Dopo di ciò è stato facile. La mia
amica ha chiamato sua sorella, le ha detto chi ero, e la segretaria è andata da
Hanna. Lui ha comprato il racconto. Ecco come funziona. È la prima volta
che sono stato fortunato in quel senso, e sono certo che mi aiuterà
moltissimo con «Touring Topics». Posso dire senza tema di smentite che
potrò vendergli sei o otto racconti l’anno. Solo con questi sarebbero quasi
mille dollari l’anno. Però non si può mai dire. Ormai mi rifiuto di credere a
qualsiasi cosa. Prima devo vedere i fatti. Di questi tempi fanno fede solo i
soldi. Le promesse non significano nulla. In questa città è tutto soldi soldi
soldi. E senza quelli, devi millantare. Non sono interessati a storie di
malasorte. Vogliono persone che siano in grado di fare le cose. Gli altri sono
fuori.
È successo anche qualcos’altro. Questa ragazza è anche amica di Lewis
Milestone, il piú grande regista di Hollywood. Lo dovrei incontrare presto.
Milestone è un uomo importante per davvero. Quello che dice si fa. Se
riuscirò a ottenere qualcosa da lui sono sistemato a vita. Ho detto SE.
Potrebbe non accadere mai. Ma FORSE invece sí.
Non ho visto nessun parente. Né ho intenzione di farlo. Sono quasi tutti
ignoranti, e mi provocano un leggero malessere. Hanno la loro sistemazione
nella vita, e le loro miserabili esistenze mi fanno orrore.
Forse ti interesserà sapere che stasera ho una stenografa. C’è qui una
signorina affascinante, con i capelli rossi, di St Louis, che sta scrivendo
questa lettera mentre io la detto. Chiede di essere scusata per piccoli errori
di battitura. Non avendo lavorato per molto tempo, non è piú allenata, e le
sue dita non sono ancora abituate ai tasti. Ma credo che sarai d’accordo con
me che ha fatto un lavoro piuttosto buono. Certamente molto migliore del
mio.
Il mio amore a tutti voi.
Tuo figlio,
Johnnie
1934

Il 1934 vide Fante sempre piú in crisi per la


necessità di scegliere fra il desiderio di trovare del
tempo per scrivere un romanzo soddisfacente e il
bisogno di guadagnare denaro scrivendo per
Hollywood. All’inizio dell’anno stava sempre
lottando su «Pater Doloroso», e apparentemente non
restò deluso quando, a metà dell’anno, Knopf glielo
restituí perché lo rivedesse. I suoi sforzi per
effettuare la revisione furono comunque interrotti a
causa del lavoro di scarsa soddisfazione intellettuale
fatto per gli studi cinematografici; la vendita di una
sceneggiatura segnò l’inizio di un periodo di tempo,
da luglio a settembre, in cui Fante fu impiegato alla
Warner Brothers riuscendo a guadagnare bene. In
realtà non si impegnò a lavorare sulla revisione del
romanzo fino all’anno seguente inoltrato. Riuscí
comunque a terminare e a pubblicare altri due
racconti. Nel frattempo guadagnava piú soldi di
quanti non avesse mai guadagnato in vita sua, allo
stesso tempo già lamentandosi per il danno ricevuto
dallo scrivere film.

[Alla madre]
1º gennaio 1934

Cara mamma,
sono molto felice che questo, il mio primo scritto dell’anno nuovo, anche
se è solo una lettera, sia diretto a te. Lo reputo un buon inizio. […]
Ieri sera sono andato a una festa con il mio amico Ross Wills, il tipo che
è passato per Roseville l’estate scorsa. Ho incontrato della gente
interessante e importante, fra cui Dolores del Río e la sua segretaria, una
donna che si chiama Herta Ursvieg, polacca, a cui i miei scritti sono piaciuti
moltissimo. Potrebbe venirne fuori qualcosa. In ogni caso uscirò con lei a
cena la prossima settimana. Sembra piuttosto carina, anche se un po’ troppo
altezzosa. È molto influente, ed è per questo motivo che voglio conoscerla.
Ho bevuto alcolici vari tutta la notte, ma alla fine ero sobrio come quando
avevo cominciato. Erano ottimi. C’era una gran caraffa piena di rum
invecchiato ventisei anni. E anche del meraviglioso champagne. Quando
questa gente del cinema si dà al lusso, sa perfettamente come si fa. E ha
anche i soldi per pagarlo; ecco qual è il fatto.
Martedí ho un incontro importante alla Warner Brothers per un soggetto.
Farò loro una sorpresa. Mi dicono che l’unico modo per ottenere qualcosa
là, e l’unico modo per guadagnare un sacco di soldi, è di chiederglieli,
facendogli credere che tu sia bravissimo. Quindi martedí andrò alla Warner,
darò la mano a tutti, e chiederò centocinquanta dollari la settimana per sei
settimane. Non porterò nemmeno un soggetto con me. Gli dirò che ne ho
uno in testa. Se lo vogliono, dovranno pagare per averlo; se no, bene – non
me ne importa un accidente. Con una proposta di questo genere non ho
nulla da perdere. Avrò miglior fortuna quando uscirà il mio romanzo, ma
nel frattempo non mi farà affatto male riuscire a capire come funzionano le
cose e imparare come reagiscono loro.
Un altro mese di duro lavoro e il mio libro sarà terminato. Sono in pieno
travaglio. Tutti quelli che l’hanno visto l’hanno lodato. Devo ancora trovare
una persona che non l’abbia fatto. Spero solo che venda bene come mi
portano a pensare i complimenti che mi fa la gente. Però non si può mai
sapere. Spesso le persone lo fanno per gentilezza. Non vogliono ferire i tuoi
sentimenti. Ecco perché ti dicono che uno scritto è buono quando sanno
dannatamente bene che non è vero.
Prendi Jo Pagano. Sono stato l’unico abbastanza onesto da dirgli che il
suo libro non valeva un fico secco. Lui mi ha risposto che ero pazzo. Altri
gli avevano detto che il suo libro era buono. L’unica cosa da fare, allora, era
di farlo circolare. Pagano l’ha riavuto indietro cosí presto da fargli venire la
nausea, e l’agente gli ha poi detto esattamente quello che gli avevo detto io.
Nel mio caso però è un po’ diverso. La gente mi ha proprio chiesto di
mostrargli il libro. Di regola questo non si fa. Uno scrittore che chiede a un
altro scrittore di dare un’occhiata al suo manoscritto è una cosa tanto
assurda quanto sarebbe per un muratore chiedere al proprio rivale di dare un
giudizio su una parte di muro. Il mio libro quindi deve almeno essere
interessante. Speriamo.
Questa settimana prima o poi dovrei ricevere del denaro. Ora sono al
verde. Giovedí o venerdí però dovrei riscuotere un assegnetto. Mi aiuterà a
tirare avanti fino a quando non avrò finito il libro. Ho anche bisogno di
vestiti, di un paio di scarpe e di un altro paio di pantaloni. Ma proverò, con
quello che ricevo, a mandarti lo stesso qualcosa. Per favore, non aspettarti
troppo perché non ho idea di quanto sarà alto l’assegno. Buon anno nuovo a
tutti,
da tuo figlio, con amore,
Johnnie

La vedova nominata nella lettera seguente era la


sua fidanzata, che era già stata sposata piú volte,
Helen Purcell.
[Alla madre]
40 Westminster Ave.,
Venice, Cal.,
8/2/34

Carissima mamma,
non agitarti cosí tanto per la vedova! Tutti i giovanotti devono essere
sviati almeno da una. Non la sto prendendo come una cosa seria, né credo lo
farei se trovassi una buona ragione per farlo – i soldi, per esempio. Non
significa nulla per me, non ha significato nulla, né significherà nulla.
Non ho denaro e non ho possibilità di averne fino a che il libro non sarà
finito. Vorrei poter fare qualcosa per te, finanziariamente. Tutto quello che
posso dire è che lavorare in maniera cosí seria su questo libro, come sto
facendo, alla fin fine è molto meglio che vendere un racconto qualsiasi. Ho
il presentimento che sarà un successo. Ovviamente non lo so di sicuro. Non
lo sa nessuno. Certe volte i libri interessano moltissimo il pubblico e si
vendono rapidamente. Altre volte, e capita spesso, sono una perdita di
denaro per lo scrittore e per l’editore. Scrivere un libro è una fatica
tremenda, specialmente quando è del genere di quello che sto scrivendo io.
Anche se sto seduto davanti a una macchina da scrivere non significa che io
sia libero. Le ansie mi perseguitano anche quando dormo. Ce l’ho sempre
nella testa, e certe volte non ne posso piú. Sembra che sia un compito senza
fine. Quando ho firmato il contratto pensavo che il romanzo sarebbe stato
lungo circa trecento pagine. Ora scopro che sarò fortunato se riuscirò a dire
tutto quello che voglio in meno di quattrocento. Non posso tagliarlo se non
una parola qua e una là. In generale non posso tagliare un paragrafo. Volevo
un libro breve, forse di duecentosettantacinque pagine. Knopf potrebbe
farlo uscire in formato economico e venderlo a due dollari la copia, e il
pubblico preferisce un buon libro a due dollari piuttosto che un buon libro a
due dollari e cinquanta. Questo almeno durante la Depressione. Ora però il
mio libro dovrà essere venduto a due dollari e cinquanta, cosa che non mi
piace affatto. Certo, la maggior parte dei libri di successo si vende a due
dollari e cinquanta. Il mio potrebbe essere fra quelli. Mi spettano delle
royalty maggiori su un libro a due dollari e cinquanta, ma potrebbe vendere
meno copie. Non so. Vorrei tanto saperlo. E cosí l’editore.
Mi trovo nella posizione – ora che il libro sta per vedere la luce – di
poter fare domanda per partecipare al Guggenheim Award. Significa
millecinquecento dollari piú un anno di ricerca e studio in Europa. È molto
difficile ottenere questa onorificenza, ma proverò lo stesso. Sulla base dei
miei racconti italoamericani, farò richiesta per un anno in Italia, di cui sei
mesi a Roma e sei mesi a Napoli. O meglio ancora, potrei domandare di
passare dodici mesi in Abruzzo, da dove viene la famiglia di papà. L’idea
del Guggenheim Award è che la Guggenheim Foundation dà agli scrittori di
valore e capaci la possibilità di trascorrere un anno intero nel Paese dei loro
antenati, e alla fine dell’anno lo scrittore scrive le sue impressioni in un
libro che viene poi pubblicato. Se mi riuscirà, il prossimo anno riceverai da
me delle lettere con i timbri postali di Roma. Capirai di certo che sono
povero come sempre, e che quello che dico qui, anche se è possibile, si
realizzerà con difficoltà. Però ci proverò. Se ci riuscirò porterò con me
papà. Sarebbe contento di rivedere il Paese dove ha vissuto da ragazzo.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

Nel gennaio del 1934 Fante scrisse una lettera


angosciata a Mencken, parlando del dolore di vedere
il padre diventare sempre piú ossequioso nei suoi
confronti perché lui aveva pubblicato dei racconti:
«Perché non poteva aspettare altri dieci anni?
Perché mi deve dare la responsabilità della sua
idealizzazione e delle sue aspettative? Non lo
sopporto». Mencken rispose: «Quello che ti trovi ad
affrontare è solamente un antico fatto, cioè che
quando gli uomini invecchiano perdono la loro
sicurezza e si rivolgono sempre piú ai giovani». E
aggiunse: «E ha bisogno della tua comprensione.
[…] Il modo di tirarlo su è di essere piú che si può
deferenti nei suoi confronti». La lettera seguente,
scritta dopo che il padre aveva avuto un incidente sul
lavoro, mostra Fante nell’atto di seguire quel
consiglio.

[Al padre]
16 febbraio 1934

Mio caro papà,


sono cosí felice di sapere che ne sei uscito solamente con un polso rotto.
Te la sei cavata per un pelo, e che tu sia vivo in questo momento lo devi alla
tua fortuna e alla tua forte costituzione. I resoconti della tragedia sul
giornale sono stati molto spiacevoli, e avevo quasi pensato al peggio. Solo
la lettera della mamma, scritta il 13 febbraio, mi ha rassicurato.
Naturalmente il sapere che ti sei ferito anche se in modo leggero è molto
angosciante. Quando penso però al destino di quel povero diavolo di
O’Brien, capisco che, tutto sommato, dobbiamo essere grati per tante cose.
Ora prenditela con calma mentre sei convalescente. Sei ancora un
giovinetto, e la tua ottima salute darà buona prova di sé. Predico che sarai in
piedi fra una settimana o giú di lí. Sono cosí contento che tu ti sia preso
cura di te per tutti questi anni. Sei forte come un muro di cemento e, se si
fosse trattato di un uomo di costituzione piú debole, sarebbe accaduto il
peggio.
Sono piuttosto contento che sia successo quello che è successo per molte
ragioni. Non che mi piaccia pensare che tu soffra; assolutamente no. Ma mi
fa capire piú che mai le mie responsabilità, e il mio senso del dovere come
figlio. Mi dà la necessaria ispirazione a lavorare ancora piú duramente, e
credimi, lo farò.
Non ho molto da dire oltre al fatto che sto sempre sgobbando sul mio
libro. Mi sono trasferito da Los Angeles a questa città, Venice, a diciotto
miglia di distanza, dove spero di avere la mia privacy fino a quando non
avrò completato il romanzo. Credo che lo finirò fra tre settimane. Al
termine di questo periodo cercherò di tornare a casa.
Voglio ancora augurarmi che tu sia sulla strada di una pronta guarigione,
e che questa lettera ti troverà in piedi, con una bottiglia di vino in mano, un
sigaro in bocca, e una cassetta piena di calcina davanti a te, pronta a finire
in un muro.
Con amore, sono il tuo fedele figlio,
J. Fante

[Alla madre]
40 Westminster Avenue,
Venice, California
Lunedí [marzo 1934 circa]

Cara mamma,
[…] Sono tornato a Venice a mezzanotte. C’era ad aspettarmi un
telegramma di Helen Purcell, in cui diceva che sarebbe stata qui venerdí
mattina alle undici e mezza. Non avevo lavorato per due giorni, di
conseguenza non ero contentissimo di essere disturbato, ma la volevo
vedere, cosí il giorno dopo ero ad aspettarla alla stazione degli autobus. È
rimasta con me qualche ora, poi sono tornato a Long Beach con lei, e mi
sono fermato a casa sua fino a domenica sera. Si era risposata, lo sai. Ma in
questo momento sta avviando le procedure legali per divorziare dal terzo
marito. Credo che allo scadere di un anno da quando comincia le pratiche
otterrà l’annullamento. Mi piace sempre moltissimo, ma mi rendo conto
molto bene dopo aver passato queste due notti con lei che è troppo vecchia
perché io la sposi. Preferisco dirle che la amo e che sto bene con lei per
quanto posso da uomo libero. Non sono il tipo che si sposa. Anche se avessi
una gran quantità di denaro non mi adatterei mai alla vita da sposato. Non
che abbia qualcosa in contrario al matrimonio e a una vita casalinga. Ma per
uno scrittore è un pessimo ambiente. Gli obblighi sono troppo pesanti. Ho
visto molto della vita matrimoniale e sono convinto che non c’è alcun
piacere in essa. Non importa quello che si dice, ovvero che il matrimonio è
un sacramento, è inevitabile concludere che cambia il punto di vista di un
uomo. Egli cessa di essere libero. Cessa di pensare per sé. Quello che fa da
allora in poi è fatto per due persone e non per una. Aumentano le sue
preoccupazioni, e cosí i suoi debiti. Ingrassa, e le sue ambizioni non sono
piú cosí forti. Sono contrario al matrimonio, per quello che mi riguarda.
Nella nostra famiglia lascerò il matrimonio a Pete, Tommy e Jo. Digli che
possono fare affidamento su di me e che sarò un bravo zio, e se Pete e
Tommy sceglieranno delle mogli meravigliose, farò tutto quello che è in
mio potere per rubargliele per qualche ora nella notte. Poi gliele rendo,
buone come prima, e forse un pochino piú sagge per l’esperienza fatta.
Davvero, se qualcuno dei fratelli è timido e si sente di non essere all’altezza
del compito di deflorare la moglie durante la prima notte di nozze, sarò
felicissimo di sostituirmi a lui. Non ne può venire nessun danno. I bambini
saranno sempre di sangue Fante perché, un fratello o l’altro, siamo tutti
Fante. […]
Con tutto il mio amore,
Johnnie

[Alla madre]
Sabato [aprile 1934 circa]

Carissima mamma,
è questa faccenda del romanzo che mi ha impedito di risponderti fino a
oggi. Mi ha fatto molto piacere ricevere il tuo biglietto di auguri per Pasqua,
e te ne avrei senz’altro mandato uno anch’io, ma non ho piú idea del tempo,
della stagione o della data. […]
Il libro è finito, con l’eccezione delle ultime venti pagine. Giovedí di
questa settimana al massimo l’avrò terminato e mandato. Alla fine l’ho
terminato. Non sai che sollievo sapere che non c’è piú nulla da fare se non
aspettare le bozze. […]
[manca la pagina della chiusa]

Fante mandò «Pater Doloroso» a Knopf l’8


aprile, e scrisse a Mencken lo stesso giorno che: «Il
libro è un fiasco. È caduto a pezzi quando ho cercato
di rimuovere la sovrastruttura. Ho scritto un milione
di parole, e fatto quattro stesure. Da ciò ne ho cavato
duecentoventi pagine di guazzabuglio. E non c’è
niente di nuovo, è una rielaborazione della roba del
“Mercury”». Il suo libro seguente, comunque, «sarà
un affare colossale […] un “Huckleberry Finn”
moderno».

[Alla madre]
Sabato [aprile 1934 circa]

Cara mamma,
sono stato troppo occupato per poterti scrivere e rispondere alla tua
ultima lettera. Il libro è finalmente sulla via di New York City, ma non me
ne sono liberato fino a mercoledí di questa settimana. Sono stato costretto a
fare un cambiamento nell’ultimo capitolo, e di conseguenza con quel
diverso approccio mi ci è voluta un’altra settimana per scriverlo. Ma ora è
tutto concluso – finito – fatto. E sono proprio nervoso. Ho ancora bisogno
del verdetto dell’editore, e per tante ragioni il manoscritto finito non
soddisfa ciò che è specificato nel contratto. È molto piú corto, e la storia è
parecchio cambiata rispetto a quello che si aspetta Knopf. In ogni caso,
queste cose non hanno importanza se il libro gli piacerà cosí come è. Da me
voleva un libro. Non gli importava veramente di che storia si trattasse.
Saprò la cattiva notizia la prossima settimana. Speriamo che gli piaccia
quello che gli ho mandato.
[…] Il mio amico Ross Wills e io stiamo lavorando – o cominceremo
presto a lavorare – su un film. Wills parte bene, perché allo studio
cinematografico lo conoscono, e ha finito di recente di scrivere un pezzo
che è stato molto lodato da David O. Selznick, ovvero il direttore della
produzione alla Metro Goldwyn Mayer. Possiamo vendere un buon
soggetto, e ottenere molto denaro, e cominceremo a lavorarci il prima
possibile. […]
Con tutto il mio amore,
Johnnie

[Alla madre]
207 Fay Bldg., 3 rd and Hill,
Los Angeles
[maggio-giugno 1934]

Cara mamma,
mi dispiace di non averti scritto finora, ma ci sono stati tanti
cambiamenti nelle ultime tre settimane e non ho avuto il tempo di sedermi e
buttare giú una lettera decente per te. Sai che ho finito il mio libro e che
l’ho spedito, e ora ho sentito quello che ne pensa il signor Knopf. Mi ha
mandato delle cattive notizie, da una parte. Perché vuole che ci lavori
ancora, e ciò significa altri sei mesi di schiavitú. Ma non mi importa.
Ovviamente, potrei ottenere che il libro venisse pubblicato cosí com’è, ma
sento che alla fine per me sarebbe un male piuttosto che un bene, quindi
sono prontissimo a sgobbare e a ributtarmici sopra. Probabilmente
significherà altri sei mesi.
Non so esattamente cosa fare ora che è arrivato il commento dell’editore.
Dovrei tornare a Roseville? O dovrei restare a Los Angeles e finire? La
risposta dipende da una lettera che aspetto da qui a poco dal mio agente o
da Knopf. Probabilmente tornerò a Roseville, e questa volta credo che mi
piacerà e lavorerò moltissimo perché ho capito che non importa dove si
cerca di lavorare, se si è seri lo si può fare ovunque; e a Roseville avrò di
sicuro moltissimo da mangiare e da bere – grandi quantità di caffè e
sigarette e vestiti puliti a profusione – quindi potrei venirvi a trovare un
giorno e rimanere fino alla fine del libro.
Ora sono tornato a Los Angeles e vivo con un amico non lontano
dall’ufficio di De Kolty, da dove ti sto scrivendo questa lettera. Ho in mente
di restare qui solo fino a quando riceverò notizie dalla gente di New York. Il
fatto che il mio romanzo mi sia stato rimandato indietro perché ci lavori
ancora non è una pessima notizia, e non voglio che tu la veda sotto questa
luce. Al contrario, è una buona notizia e alla fine ne trarrò profitto.
L’editore sa cosa aspettarsi da me, e se vuole rimandare la pubblicazione del
lavoro che ha letto solo perché sa che posso fare meglio, allora sono
fortunato, ed è un’altra prova della fiducia che l’editore ha in me.
Scrivi presto. Ti scriverò ancora giovedí. Segnati il nuovo indirizzo.
Tutto il mio amore,
Johnnie

Il racconto nominato nella lettera seguente è con


buone probabilità il «racconto piuttosto buono sul
recente terremoto a Long Beach» che – cosí Fante
disse a Mencken – Charles Angoff, il nuovo redattore
del «Mercury», aveva apprezzato, sempre che «un
brutto passo» venisse riscritto. In ogni caso,
apparentemente non venne pubblicato.

[Alla madre]
2316 Clyde Ave,
Los Angeles
14 giugno 1934

Carissima mamma,
mi hanno fatto grande piacere sia i quattro dollari che la poesia, e
sebbene non posso dire che tu sia la piú grande poetessa del mondo, posso
però affermare con certezza che qualsiasi cosa tu scriva va benissimo a
questo lettore, e ancora di piú se in ciò che scrivi parli del tuo amore per
me. I quattro dollari mi hanno fatto moltissimo comodo. Ero cosí al verde
che mi hanno subito sollevato dalla tristezza; un po’ di soldi bastano a
raggiungere questo scopo con sorprendente facilità. In qualche modo perdo
tutta, o quasi, la mia sicurezza quando non ho niente in tasca.
Avrei risposto al tuo espresso immediatamente, solo che sono stato
occupato con il trasloco e il lavoro. Ora vivo accanto a Culver City con
Ross Wills. Sua moglie è in campagna per l’estate, e io e lui ci siamo
impossessati di questo posto. […] Ho ricevuto un biglietto dal nuovo
redattore del «Mercury» che mi chiede un racconto, e questa mattina gliene
ho spedito uno. Sono quasi certo che lo accetterà. […]
Il mio amore a te e a papà,
Johnnie

[Alla madre]
2316 Clyde Ave.,
Los Angeles
15 giugno 1934

Carissima mamma,
grazie moltissimo per la meravigliosa piccola torta e per le sigarette! […]
In questo momento sono ancora al lavoro sul soggetto per gli studi
cinematografici. Anche se per me è un lavoro completamente nuovo,
finalmente sto cominciando a farlo mio, per quanto con lentezza. C’è
proprio una grandissima differenza fra lo scrivere per l’industria
cinematografica e la semplice pubblicazione. Di fatto, un buono scrittore ha
successo solo di rado a Hollywood, ma ci sono molte eccezioni. Quello che
vogliono i produttori è un’idea, e non gli importa di come la presenti, se la
realizzi e la realizzi rapidamente. D’altra parte, quando si scrive un racconto
letterario, bisogna pensare ai valori della scrittura; si può scrivere con piú
calma e si può essere piú sicuri che la storia sia ben fatta, dal momento che
lo scrittore vede il suo lavoro sulla pagina davanti a sé. Scrivere
sceneggiature è diverso perché devi pensare alla macchina da presa, come
se stessi seduto tra il pubblico. Forse tutto ciò non ti è chiaro – non so come
potrebbe esserlo, perché l’ho spiegato malissimo – ma potrebbe darti
un’idea di ciò con cui devo fare i conti per questa sceneggiatura.
Il mio amore a te e a papà,
Johnnie

[Alla madre e al padre]


[senza data – potrebbe essere giugno 1934 circa]

Miei cari mamma e papà,


avendo finito la mia lettera, mi sono appoggiato allo schienale della
sedia e ho ascoltato la radio, e la melodia dell’Ave Maria ha riempito l’aria.
Era cosí meravigliosa, cosí piena di bellissimi ricordi che per un momento
mi ha fatto venire voglia di piangere. E quando la musica è finita, i miei
pensieri sono andati a casa, a mia madre e a mio padre. Non so bene come
dirvelo, ma Dio è il mio giudice e so che testimonierà che nessun uomo è
piú fortunato di me ad avere genitori come voi. Stasera mi sento parecchio
strano. Mi sento colpevole. Sento di dovere tantissimo a entrambi, molto di
piú di quanto possa mai restituirvi. La vita è stata un’impresa molto dura
per voi, eppure avete tenuto alta la testa e avete tirato avanti con coraggio
per i vostri figli – e se volete sapere la verità, i vostri figli non meritano
quell’attenzione, quella preoccupazione e quei sacrifici che avete fatto per
loro. Nessuno di noi merita il vostro amore. Vi abbiamo portato tanti
pensieri e dolori, e cosí poca gioia. Oh, Dio, sono cosí triste per questo; mi
si spezza il cuore. Voglio che lo sappiate. Voglio che capiate di aver fatto
troppo per me, e che io non ho fatto abbastanza per voi. Non avete mai
ostacolato il mio cammino, e non dirò mai che mi avete causato tristezza,
mai, tranne stasera, mentre penso alla mia vita e sono triste perché non ho
fatto abbastanza per nessuno di voi due. Per favore ricordatevi che vi amo
moltissimo. Sono molto orgoglioso di voi. Ringrazio Dio per ogni pollice di
terra sulla quale avete camminato, e chiedo a Dio di essere il figlio che voi
speravate – il primogenito – il primo su cui avete riposto le vostre speranze.
Johnnie

Quella che segue è la prima lettera di Fante come


scrittore stipendiato presso uno studio
cinematografico ed è comprensibilmente ottimistica.
Rivolgendosi a Mencken il 16 giugno 1934, Fante
forní altri dettagli della «brodaglia cinematografica»
su cui lui e il suo amico di vecchia data, il
romanziere e sceneggiatore Frank Fenton, stavano
lavorando: era «basata sulla carriera dell’assassino
Dillinger» ed enfatizzava molto «il trionfo del bene
sul male» in un cinico sforzo di fare presa sui
produttori di Hollywood spaventati dall’agitazione
della National Legion of Decency, cominciata nel
novembre 1933. Il soggetto fu comprato dalla
Warners, ma il film non sembra essere stato prodotto.
Fu in risposta a questo divertente resoconto che
Mencken affermò: «L’impresa cinematografica
appare eccellente. Non vedo ragioni per cui non
dovresti ottenere qualcosa dai magnati del cinema
per finanziare il lavoro che vuoi fare». In età
avanzata, parlando con Charles Bukowski, Fante citò
questo consiglio quando gli fu chiesto perché mai
avevesse cominciato a scrivere per Hollywood.
Fenton continuò a essere uno scrittore di successo
a Hollywood per molti anni, e pubblicò inoltre due
romanzi.

[Alla madre]
[Intestazione della Warner Bros. Pictures, Inc.
West Coast Studios,
Burbank, California]
2316 Clyde Avenue,
Los Angeles
[luglio 1934 circa]

Carissima mamma,
come puoi vedere, sono nel cinema. Ho firmato un contratto con la
Warner Brothers per due settimane a duecentocinquanta dollari la settimana,
e se per qualsiasi ragione il soggetto rimane bloccato, probabilmente resterò
qui sei o otto settimane. Il soggetto che ho venduto è stato anche rivisto da
Frank Fenton, un mio amico, e mi sono accordato con lui, divideremo i
profitti a metà. Siamo rimasti molto sorpresi che Fenton non abbia ricevuto
un contratto, cosí lo faccio lavorare per me a centoventicinque dollari la
settimana, ovvero metà del mio salario. Se il mio lavoro qui sarà
soddisfacente probabilmente rimarrò sei settimane. Dipende. Il cinema è un
mondo incerto. Non appena avrò terminato di lavorare a questo soggetto ne
comincerò subito un altro. Se lo vendo, chiederò cinquecento dollari la
settimana, e probabilmente li otterrò. Tutto dipende da quanto gli piacerà.
Il lavoro qui è facilissimo. Di fatto non ho ancora cominciato. Sono stato
in ufficio a perdere tempo e a dormire per gli ultimi tre giorni. Il lavoro vero
comincerà domani. Ho una segretaria, e anche per lei è molto facile.
Comincio a lavorare alle dieci e trenta la mattina e smetto alle cinque di
pomeriggio, sabato e domenica non lavoro affatto. Il soggetto è per Barbara
Stanwyck, George Brent e Kay Francis. Questa è gente di cinema, e
immagino che tu abbia visto i loro nomi sui giornali piuttosto spesso.
Tommy è con me e credo si stia divertendo. Porta Ross Wills in
macchina alla Metro Goldwyn Mayer a Culver City, poi mi viene a
prendere e mi porta a Burbank. La sera va a riprendere Ross e poi viene da
me. La prossima settimana andrà a Wilmington, e io gli darò abbastanza
soldi perché ci possa sopravvivere. Ho cosí tanti debiti che andrò in pari
difficilmente, nonostante il lavoro, ma ti manderò quello che posso. Forse
non sarà tantissimo, ma sarà quanto di meglio posso fare. So che capirai.
Tutto il mio amore,
Johnnie

Scrivimi all’indirizzo di casa.

[Alla madre]
2316 Clyde Avenue,
Los Angeles
12 luglio 1934
Carissima mamma,
[…] Sto ancora sgobbando alla sceneggiatura per il cinema. Per la verità
non posso dire che questo lavoro mi piaccia granché. Sono molto
impaziente di revisionare il mio libro, secondo i suggerimenti dell’editore.
Scrivere per il cinema è tutt’altra cosa dallo scrivere libri. Non ci vuole
cervello per mettere insieme un film. Lo può fare qualunque idiota, e c’è
una tremenda quantità di scemi che in questa città si arricchisce producendo
robaccia per il cinema.
Credo che il soggetto su cui sto lavorando abbia delle possibilità,
considerate la grande pressione e la censura che sono state fatte dalla Chiesa
cattolica al cinema. Praticamente si è dovuto scartare tutto quello che i
produttori erano sul punto di filmare, quindi ora sono a caccia di roba che
non dia fastidio alla Madre Chiesa. Il mio soggetto tratta di un orfanotrofio
gestito da gesuiti, e non provocherà alcuna censura da parte dei cattolici
dalla mente sporca. […]
Tuo figlio,
Johnnie

Il racconto di cui si parla nella lettera seguente,


appena terminato, è forse «Uno di noi»; Fante dice a
Mencken il 29 luglio che l’«Atlantic Monthly» l’ha
appena comprato. Apparve nel numero dell’ottobre
1934, e venne poi ristampato in «Dago Red» e ne
«La grande fame».

[Alla madre]
2316 Clyde Ave,
Los Angeles
Domenica 22 luglio 1934

Carissima mamma,
[…] Oggi ho finito un racconto e domani lo spedirò. Ho un diluvio di
lavori di tutti i generi da fare e potrei tenermi occupato ogni attimo, ma
questo tempo non si confà a chi lavora con il cervello. Dopo un paio d’ore
al sole sulla spiaggia ci vuole una forza di volontà tremenda per sedersi
davanti a una macchina da scrivere a borbottare e riflettere su un prodotto
letterario. Il nostro soggetto per il film procede bene. Abbiamo dovuto
rivederlo un po’ e pensiamo che questa settimana potremo presentarlo. In
questi giorni spedirò anche un altro racconto. La settimana passata ho
mandato un vecchio racconto che avevo riscritto. Ora ce l’ha il mio agente.
Per inciso, mi ha scritto la settimana scorsa circa la possibilità di vendere un
racconto a una delle grandi riviste femminili del Paese. Pagano benissimo, e
mi farebbe piacere fare breccia nel loro mercato. Sono molto preoccupato
per il mio romanzo. Non ho avuto tempo per rivederlo, e anche se Knopf
non si è mai lamentato, non vorrei farlo aspettare troppo. D’altro canto le
cose per me sono state cosí difficili – i soldi e tutto il resto – che sono stato
costretto a rimandare il lavoro. Non ci perdo nulla, ma sarei felicissimo di
levarmelo di dosso cosí da poter smettere di preoccuparmi e cominciare un
altro libro. […]
Tuo figlio,
J. Fante

L’Angelo Babando nella lettera seguente non è


stato identificato. In questo periodo Ross Wills era a
capo dei lettori del dipartimento sceneggiature alla
Mgm, da qui i piani di Fante per avere il suo aiuto
perché la sceneggiatura venga accettata.

[A Carey McWilliams]
[busta indirizzata a «His Eminence Archbishop
McWilliams,
900 Spring Arcade Building, Los Angeles, California».]
2316 Clyde Avenue,
Los Angeles
27 luglio 1934

Caro amico Carey,


Angelo Babando, il simpatico tipo italiano, è stato con me per quasi tutto
il pomeriggio, e ora ti metto al corrente di quello che è accaduto e che
probabilmente accadrà nel futuro. Mi ha subito mostrato la lettera che gli
hai scritto in cui parli di me, nella quale lasciavi intendere che io fossi il
grande amatore adorato dalle donne di Hollywood e credo che il nostro
amico Angelo sia venuto qui pensando di cogliermi nell’atto di nascondere
la Del Río in bagno, la Harlow sotto il letto e Mae West nell’armadio. Al
deluso Babando deve essersi spezzato il cuore nel trovarmi invece mezzo
nudo, con la barba lunga, sudato, sotto un ammasso di carta da macchina da
scrivere che mi arrivava fino al collo, sparsa in tutta la casa. Bene, come per
quasi tutti gli scribacchini, la maggior parte delle mie scopate avviene sulla
carta, ma ero costernato nel rovinare la voluttuosa leggenda che stava
sorgendo attorno a me, perché ho colto un barlume di mortificazione negli
occhi spaventosamente italiani del signor Babando, e se non fosse che il
mio pisello suscita commenti invidiosi anche fra gli uomini, l’avrei
certamente mostrato, anche solo per provare ad Angelo che anch’io,
dopotutto, HO i miei momenti, e che anche la Del Río senza dubbio ormai sa
della sua esistenza. Il mio pisello, come le chiacchiere, il fuoco nella
prateria o l’ammiraglio Byrd, è andato lontano – ma non tanto quanto ad
Angelo piacerebbe pensare.
Potrei sbagliarmi irrimediabilmente, ma sono convinto che Babando non
è uno scrittore alle prime armi quanto invece un uomo che ha la
benedizione di ammirare i classici e la maledizione di essere
congenitamente incapace a esprimersi per iscritto. È senza dubbio un tipo
molto interessante, piacevole e tenero, gentile come un uccellino. È
affamatissimo di sesso, ovviamente, e come dono di Dio alla Del Río, si
aspettava senz’altro che gli avrei fornito una lettera di presentazione per
portarsi a letto Jean Harlow, che poco tempo fa ho mollato. Ma come sai la
Harlow è sul punto di risposarsi, e sarebbe indiscreto se scrivessi per lui
quella preziosa presentazione.
È brutale da parte mia, ma sento una gran pietà per questo tipo. Mi
domando cosa sarà di lui. Quello che mi è toccato nella vita non è granché,
però per qualche motivo mi infastidisce che lui non sia audace, o dovrei dire
enfatico?, come me. Non è assolutamente in grado di bluffare né di fare lo
spaccone, cose essenziali a meno che tu non sia un Cabell o Rupert Brooke.
Non ho visto nulla del suo lavoro, ma sospetto con rammarico che lui sia a
un universo di distanza sia dall’uno che dall’altro. Mi sono sentito vanitoso
e senza vergogna quando l’ho detto, ma tutto quello che ho saputo fare è
stato dirgli di scrivere, scrivere dannatamente tanto quanto poteva. Spero
davvero di non aver ferito i suoi sentimenti. In ogni caso, non sono
qualificato per dare suggerimenti di tipo letterario. Sono troppo curioso
circa il mio mestiere per poter assumere il pericoloso ruolo di consigliere.
Credo che quel lavoro dovrebbe essere lasciato a uomini piú insensibili,
come i pedanti, gente che si compiace della propria infallibilità. La loro
ristrettezza mentale può far insorgere delle rivolte fra i loro protégés e cosí
nasce l’espressione. Ma per quanto io possa essere millantatore in
superficie, sono piú tenero del cranio di un bambino e il lavoro di dare
consigli a Babando non è tanto difficile quanto impossibile e umiliante per
una persona della mia sensibilità.
Fondamentalmente, però, quello che voleva ancora di piú dei consigli era
il sistema di arrivare a quell’uccellino rosa che nidifica nel grembo delle
donne. La cosa migliore che ho potuto fare è stata quella di offrirgli la mia
volontà di aiutare a catturarlo, ma ho aggiunto poi che anche le mie trappole
erano piazzate. Gli ho dato l’indirizzo di alcune professioniste, ed era un
buon indirizzo, è stato quanto di meglio potessi fare. Inoltre lo farò
incontrare con Frank Cantello, un pezzo grosso italiano del luogo, che viene
dalla stessa provincia di Angelo, il Piedomonte [sic!]
La sceneggiatura che ho scritto in collaborazione con Frank Fenton è
finita. Ieri l’abbiamo data alla Warner Brothers, che per fortuna al momento
ne sta cercando proprio una come la nostra. Questo non significherebbe
nulla, però il soggetto è cosí buono (una sciocchezza cinematografica) che
le possibilità sono molto maggiori adesso di quanto speravo quando
abbiamo cominciato a scrivere. Costringeremo inoltre il rev. Wills a far
passare con procedura urgente il soggetto attraverso il suo dipartimento. In
confidenza, ho fatto ricorso a un trucco per far interessare il rev. vescovo.
Quando ha capito che ero in collaborazione con Fenton, ha mostrato boria e
sprezzo riguardo a tutta la faccenda. (Lui e io a quel tempo stavamo
faticando attorno alla trama per un soggetto sulla Death Valley). Per
risvegliare il suo interesse ho dovuto farlo infuriare, cosa abbastanza facile.
L’altro giorno con indifferenza mi ha domandato come procedeva il nostro
soggetto, allora io gli ho chiesto di parlarne bene nella sua scheda alla
Mgm. Oh, ha detto, ci darò un’occhiata, ma non posso prometterti nulla. Lí
è scattata la trappola. Bene, ho detto, non importa; non potresti farci
comunque niente. E ciò l’ha fatto ardere come un vulcano! Woof! Woof!
Woof! ha ringhiato, e ora [sta] ruggendo come un toro aspettando
l’opportunità di provarmi che può fare qualcosa alla Mgm! Ma non importa;
in ogni caso dividerò con lui il ricavato. Venderlo significherebbe tutto,
perché comporterebbe serenità e mensilità senza intervalli grazie alle quali
potrò lavorare al romanzo.
Cordialmente,
John

[Dal fratello Tommy alla madre]


12 agosto 1934

[…] Se credi che tuo figlio sia in cattiva compagnia, sei matta, perché
non potrebbe trovarsi in una compagnia migliore di quella di Ross Wills.
Lui è sordo come una campana, ma è il tipo piú fantastico che io abbia mai
incontrato. Mi ha già portato alla spiaggia due volte, e gioca a baseball con
me quasi ogni momento libero che abbiamo.
[…]

[Alla madre]
[Intestazione della Warner Bros. Pictures, Inc.
West Coast Studios,
Burbank, California]
2316 Clyde Avenue,
Los Angeles
Mercoledí [agosto 1934 circa]

Carissima mamma,
includo una sorpresina per te sotto forma di cento dollari. Oggi sono
stato pagato, e dal momento che non so con certezza quando verrò scaricato
ho pensato che sarebbe stato meglio mandarti dei soldi adesso approfittando
dell’occasione. […] Qui non durerò molto, e sono sicuro che torneranno i
tempi in cui avrò bisogno di un paio di dollari per pagare l’affitto della
stanza. Ho duecento dollari in banca, e ce ne metterò ancora quanti potrò
perché cosí non appena mi rilasciano potrò iniziare subito a lavorare sul mio
libro. Ho speso un mucchio di soldi in vestiti, avendo comprato due
completi, due paia di scarpe, un giaccone e un soprabito pesante. Ora sono
pronto per un duro inverno, e se riuscirò a depositare altri duecento dollari
in banca la mia posizione sarà ottima. Ho saputo ieri che probabilmente mi
libererò il primo settembre. Non appena avrò finito, farò le valigie e mi
fermerò a casa per molto tempo – probabilmente per sei mesi. […]
Tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
[Intestazione della Warner Bros. Pictures, Inc.
West Coast Studios,
Burbank, California]
2316 Clyde Avenue,
Los Angeles
Lunedí [agosto 1934 circa]

Carissima mamma,
sono spiacentissimo di farti aspettare. Ho tantissime cose da fare. Questa
per me è una settimana importante. Il mio soggetto sarà presentato lunedí
prossimo e non ho tempo per nient’altro. Finora sembra piuttosto buono, ma
non si può mai dire. Non so quanto tempo durerò quaggiú. Ho idea che
questa sarà l’ultima settimana. Non mi importa. Ho mille dollari in contanti
in banca. Ora voglio andarmene e lavorare al mio libro. Ovviamente verrò a
casa. Credo che scriverò là. Non mi piace nessun altro posto. In ogni caso
puoi aspettarmi molto presto. Fra due settimane. […]
Buffo quello che fanno i soldi. Non ho mai avuto tanti cosiddetti amici in
vita mia. Mi hanno stancato. E chiaramente le donne accorrono a frotte
come poiane. Centinaia di donne, tutte in cerca di guadagni facili. Non ho
tempo per tutto ciò. Qua ho troppo da fare.
Il lavoro è molto facile, eppure difficilissimo e mi fa costantemente
preoccupare. Il mio orario è dalle dieci e mezza alle quattro, e ho due ore di
pausa dopo pranzo. Il sabato non devo lavorare.
Non so quale sia la mia posizione qui. Se il mio nuovo soggetto avrà
successo potrò ricevere un salario netto di cinquecento dollari la settimana,
di settimana in settimana, oppure un contratto di sei mesi a trecento dollari
la settimana. Non sono sicuro né dell’uno né dell’altro. Di fatto ho paura
che presto dovrò lasciare la città. Non mi piace lavorare per i film. Sono
molto stupidi e un insulto per l’intelligenza.
Questo soggetto a cui sto lavorando è per Edward G. Robinson.
Racconta di uno scalpellino italiano, e se sarà accettato ne verrà fuori un
film dannatamente bello. Ovviamente non so che cosa ne sarà. È tutto nelle
mani degli dèi. La maggior parte delle idee di questo soggetto derivano [da]
quello che ricordo di papà. […]
Se otterrò un contratto, farò in modo di organizzare un fondo di cento
dollari la settimana per te. Sarà qualcosa su cui poter far conto
all’occorrenza, e alla fine di sei mesi dovrebbe ammontare a cinquemila
dollari.
Ma per favore, mamma, non crearti false speranze. Qui io non sono in
una buona posizione. Domani stesso potrei trovarmi senza lavoro. Sono
molto strani per quello che riguarda queste cose. Non sai mai in che
posizione ti trovi, e a ogni momento puoi aspettarti di venire licenziato. E
non vale solo per me, ma per ogni scrittore al mondo. Vorrei che qui mi
piacesse. Ma non è cosí. Per questa ragione, potrei improvvisamente
scoprire che non mi vogliono.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

Fante ottenne il contratto che sperava: «Non solo


sono riuscito a far ingoiare a quei tipi l’acqua di
sentina, ma sono riuscito a spuntarla ottenendo la
bellezza di millecinquecento dollari, piú
duecentocinquanta la settimana per un periodo
indefinito. Whoops!», cosí esultava in una lettera del
15 agosto a Mencken.

[Alla madre]
[Intestazione della Warner Bros. Pictures, Inc.
West Coast Studios,
Burbank, California]
30 settembre 1934

Carissima mamma,
oggi ho finito il soggetto e questo pomeriggio lo presenterò. Lunedí
mattina saprò la mia situazione e se sarà accettato. […]
Non so proprio cosa farei se venisse fuori che il soggetto non ha avuto
successo. Voglio scrivere quel libro. Per me significa piú di qualsiasi cosa io
possa mai fare nel cinema. Forse mi vedrai presto. Se il soggetto riceverà
un’accoglienza sfavorevole verrò a riposarmi un paio di giorni. Poi andrò da
qualche parte – in qualche cittadina – e scriverò il romanzo. Credo di
potercela fare in tre mesi. […]
Johnnie

In ogni caso, a ottobre Fante rimase senza lavoro


e d’impulso andò a Denver. Durante il suo viaggio a
Denver per vedere vecchi amici e parenti – cosí
ricordano gli amici di Fante – egli si gloriò in modo
stravagante dei suoi contatti a Hollywood e spese
soldi in modo cosí esagerato che dovette tornare a
Los Angeles con l’autostop. Si noti, comunque, che
nella lettera alla madre del primo novembre egli
scredita almeno parte di quelle chiacchiere.
La lettera che segue fa riferimento al partecipe
reportage di McWilliams dell’accesa campagna
elettorale di Upton Sinclair per il governatorato
della California. Sinclair si candidava per i
democratici, come socialista opposto al grande
capitale. Perse.

[A Carey McWilliams]
[Intestazione della Union Pacific System: The Overland
Route]
1537 Marion St,
Denver, Colorado
11/10/34

Caro Carey,
stasera sono andato via impulsivamente da Los Angeles. Arriverò a
Denver sabato mattina per una vacanza di due settimane. Molto bello, il tuo
articolo sul «Mercury» sulla Imperial Valley. Mi meraviglia la tua irreale
abilità nel rendere interessanti i fatti; per tacere del tuo grande talento nel
selezionare le cose.
Comunque, Ross e io crediamo che tu sia impazzito per quello che
riguarda il tuo pezzo su Upton Sinclair per «New Republic». Per me
l’articolo è stato rovinato da un frettoloso e spiccio dogmatismo.
Mentre sarò a Denver ho intenzione di raccogliere altro materiale per
mettere di nuovo mano al mio romanzo. Conosci qualche persona in città
che sia civilizzata? Dopo un’assenza di cinque anni ho ben poco che mi
aspetti oltre agli amari ricordi di un’infanzia infernale.
Con affetto,
J. Fante
[Alla madre]
1º novembre 1934

Carissima mamma,
non ti scriverò una lettera lunga perché presto verrò a casa e ti potrò
raccontare molto meglio quello che ho visto e ho fatto in queste due ultime
settimane. Ho deciso di partire da qui domani – venerdí – e dovrei arrivare a
Roseville domenica. Ti telegraferò mentre sono in viaggio l’orario di arrivo
del treno.
Mi dispiace deluderti con un biglietto cosí, ma se dovessi cominciare una
lettera mi ci vorrebbe tutto il giorno per finirla e non mi sento all’altezza
dell’opera.
Quindi addio – fino a domenica.
Con amore,
Johnnie

[Alla madre]
255 South Bunker Hill,
Los Angeles, California
9 dicembre 1934

Carissima mamma,
sono tornato al mio vecchio indirizzo di Bunker Hill. La camera che ho è
in basso, al pianterreno, sul retro e d’angolo. È piccola e ha due finestre,
una delle quali si affaccia su una collinetta coperta da fitta erba verde. La
vista da quella finestra è superba, perché vedo le lontane montagne della
Sierra e le luci a ovest di Los Angeles e Hollywood. È una bella camera,
una di quelle che mi piaceranno sempre e dove spero di lavorare duramente
e volentieri. Pago un affitto di dieci dollari mensili. Che è molto
ragionevole. Non avrei potuto trovare una stanza migliore a questo prezzo
da nessuna parte in città.
Non ho lavorato molto da quando sono tornato dal mio viaggio all’Est.
Ci sono state troppe cose a impedirmelo. Non mi piaceva vivere con Ross e
trovavo impossibile lavorare là. Quello di cui ho maggiormente bisogno
quando scrivo è la solitudine. E con Ross non l’avevo. È un tipo a posto,
veramente un mio grande amico e un uomo sul quale posso sempre contare,
ma tutte queste qualità sono inutili quando si parla di riuscire a sbrigare del
lavoro. Fortunatamente Ross capisce le circostanze e perciò ora siamo
ottimi amici come prima. Ieri sera era qui. Ci siamo salutati da amici.
L’unico lavoro fatto in queste ultime quattro settimane è stato in
collaborazione con Frank Fenton, quando lui e io abbiamo scritto una
sceneggiatura per il cinema. Non ho idea se avrà successo o no. È possibile
che venga venduto alla Paramount. I nostri agenti lo hanno già consegnato,
siamo in attesa di una risposta dagli impiegati degli studios. Non sarei
troppo deluso se non avesse successo. Non sono molto interessato ai film.
Mi hanno fatto piú danno che altro, anche se mi hanno fruttato una
considerevole somma di denaro. Ma il denaro non è tutto. Di fatto sto
arrivando alla conclusione che forse i soldi sono la cosa meno importante
della vita. Il valore che hanno è molto sopravvalutato. […]
Il vero compito che ho davanti a me è il mio romanzo. Ho intenzione di
mettermi al lavoro fra circa due settimane. Nel frattempo voglio scrivere un
paio di racconti. […]
Il mio amore a tutti,
Johnnie

[Alla madre]
255 South Bunker Hill,
Los Angeles, California
27 dicembre 1934

Carissima mamma,
l’aspetto piú triste di questo Natale è stato che non ho potuto offrire né a
te né agli altri nessun tipo di regalo. So che capisci che l’avrei fatto se
avessi avuto i soldi; per come stanno le cose devo risparmiare quel poco che
ho. E nemmeno c’è rimasto molto. Circa centocinquanta dollari, credo. […]
Per i prossimi due anni ho dei grandi piani. Con la pubblicazione del mio
romanzo arriverà l’opportunità di vincere il Guggenheim Award. Che
significa duemila dollari e un anno in un Paese straniero. Però non voglio
andare in Europa. Sta arrivando la guerra; sento che scoppierà presto e
voglio starne fuori. Spesso mi chiedo che effetto avrà la guerra su di me
quando arriverà.
La prossima settimana porterò un altro soggetto alla Warner Brothers.
Forse riusciremo a venderlo. (Quando dico «riusciremo» intendo dire io e
Frank Fenton). Ma non so. Queste cose non le sa nessuno.
Il mio amore e felice anno nuovo a tutti,
Johnnie
1935

Il 1935 trovò Fante immerso nella scrittura per gli


studi cinematografici. A gennaio era tornato per un
breve periodo alla Warner Brothers con un salario di
duecentocinquanta dollari settimanali e ancora in
attesa di una decisione su un soggetto completo al
quale aveva lavorato in collaborazione con Frank
Fenton. A febbraio lavorò a una sceneggiatura sulla
mafia. Ad aprile cercava in tutti i modi di rimettersi
al lavoro sul romanzo ma era distratto dalla
possibilità di vendere un secondo soggetto che lui e
Fenton avevano proposto agli studi cinematografici.
Una di queste collaborazioni con Fenton venne poi di
fatto prodotta e distribuita nello stesso anno.
Intitolata «Dinky», tratta di una madre (Mary Astor)
ingiustamente accusata di truffa che cerca di non
coinvolgere nello scandalo il figlio iscritto a una
scuola militare (le complessità della scrittura per gli
studi cinematografici sono suggerite dal fatto che nei
titoli si legge: «Scritto da Harry Sauber, basato su
un’idea di John Fante, Frank Fenton e Samuel
Gilson Brown»).
A maggio, sentendosi infelice e insoddisfatto
mentre lottava per trovare il tempo di rivedere il suo
romanzo rifiutato, «Pater Doloroso», si allontanò
dalle distrazioni di Los Angeles per ritirarsi a
Terminal Island, dove – nonostante l’incertezza
dovuta alla vendita di un’altra sceneggiatura alla
Mgm in sospeso – cominciò a lavorare su un altro
romanzo, libro che sarebbe stato pubblicato mezzo
secolo dopo con il titolo «La strada per Los Angeles»
(1985). In autunno tornò ai film: a ottobre lavorò
brevemente al Mascot Studio e a novembre alla
Republic Pictures. I soldi rappresentavano comunque
per lui una fonte costante di preoccupazione.
L’atteggiamento di Fante continuava a essere
ambivalente. Alle volte scrivere per il cinema era
visto come un modo di finanziare lo scrivere
narrativa, mentre altre lo scrivere narrativa era ciò
che avrebbe fatto se non fosse riuscito a vendere al
cinema. Sempre, comunque, scrivere per il cinema
venne considerato come qualcosa di inferiore e di
dannoso per il suo talento.

[Alla madre]
10 gennaio 1935

Cara mamma,
[…] Non ti ho scritto perché sono stato occupatissimo con due film. Uno
ora è finito; finito oggi per proporlo domani, e l’altro sarà finito domenica
notte o lunedí mattina. […]
Insieme a me c’è Frank Fenton a lavorare su questi soggetti, abbiamo già
collaborato su quello che ho venduto alla Warner Brothers. Lavoriamo bene
insieme e Frank ha una gran competenza nello scrivere cose di bassa lega.
Non saprei trovare un partner migliore per questo affare del cinema.
I miei piani, se non riesco a vendere i soggetti, sono di andare alla
spiaggia e di ricominciare con i racconti e con il mio romanzo. Questo
romanzo è molto importante per me. Significa tutto. […]
Ho lasciato la mia vecchia camera al 225 di South Bunker Hill e mi sono
di nuovo trasferito da Ross. L’ho fatto perché sono di nuovo a corto di
denaro e perché voglio essere là mentre lavoro al nuovo soggetto per il
cinema. Appena saprò i risultati allo studio cinematografico farò qualche
sorta di mossa definitiva. […]
Con molto amore,
Johnnie

[Alla madre]
24 gennaio 1935

Mia dolce madre,


spiacentissimo di averti fatto aspettare questa lettera. […]
Sono uno strano tipo, mamma. Sembra che non riesca a cominciare
niente. Voglio dire, certe volte perdo tutta la mia audacia e mi viene voglia
di andare da qualche parte a non fare nulla se non stare seduto, dormire,
leggere, o cose del genere. Questo è molto insolito per me, tu lo sai. Non si
può mai dire, però. Potrebbe esserci qualcosa che non va in me. Voglio dire,
nella mia condizione fisica. Sto diventando orrendamente grasso e le cose
che mangio sono terrificanti. Ingerisco una gran quantità di carne e roba del
genere per un paio di settimane, poi improvvisamente cambio e non faccio
altro per tutto il giorno tranne ingurgitare latte a secchi. Il problema
potrebbe essere che non mangio quello che prepari tu. Sto ingrassando –
certo! Ma non con il giusto tipo di cibo. Intendo dire che vorrei che tu
cucinassi per me. Ingrasserei molto piú volentieri con la tua cucina che con
qualsiasi altra cosa. Tutto il resto non vale niente.
Vorrei anche che tu fossi qui a cucire per me. Sto perdendo tutti i bottoni.
[…]
È talmente tanto tempo che non alzo il gomito da non sapere piú che
sapore abbia l’alcol, quindi non devi pensare che io sia un ubriacone;
lasciamo quella parte della vita al vecchio che, mi pare, è un beone
scandaloso; ma giacché mi trovo a parlare di questo argomento posso anche
aggiungere che tutti i galloni di liquore che quel tipo ha buttato giú, non
sembrano avergli nuociuto.
Non esco piú con le donne. Non mi dicono nulla e fino a quando non
vedrò qualcuna che per lo meno ti somigli mi tengo a grandissima distanza
da loro. Ti ho detto di quella Gene; credo che quando Tommy era qui
l’abbia conosciuta. Ho chiuso per sempre con lei. È una ragazza molto per
bene e cose varie, ma che me ne viene? Voglio dire, che diavolo! Il mondo è
pieno di ragazze «per bene». Mi fanno stare malissimo. Per favore, non
fraintendermi però. Non sto dicendo che preferisco le ragazze incolte e
volgari! Mi piace che siano pulite, ma detesto semplicemente che siano «per
bene». […]
In questo momento vivo in centro in un appartamento che mi costa
quattro dollari la settimana. Non sono soddisfattissimo di dove mi trovo e
probabilmente traslocherò nei prossimi due o tre giorni. Sto lavorando a un
altro film. Voglio fare un ulteriore tentativo con il cinema prima di tornare a
scrivere racconti e romanzi. Ho anche una nuova idea per un libro, e sono
sicuro che sarà un gran successo. Il film che ho terminato poco tempo fa
continua a girare; lo stanno cioè prendendo in esame diversi studi
cinematografici e fino a questo momento non ho avuto nessun commento
negativo. Ti farò sapere non appena succederà qualcosa di buono. […]
Tutto il mio amore,
Johnnie

[Alla madre]
[senza data – forse gennaio 1935 circa]
Poscritto

Ieri mi è successa una cosa divertente, e te la voglio raccontare. Ti


ricordi che papà, quando vivevamo a Boulder, di tanto in tanto sorprendeva
tutta la famiglia radendosi i baffi? Non avevo piú pensato a quei tempi fino
a ieri, quando mi sono guardato allo specchio.
Quello che ho visto mi ha sconcertato. In qualche luogo, in un dato
momento, mi sembrava di aver visto un tipo tale e quale a me. Non riuscivo
a collocarlo. Ma mentre me ne stavo lí a guardare il mio riflesso sono
giunto alla conclusione che – tutto considerato – non ero poi cosí male.
Poi mi sono ricordato di papà senza baffi. Allora ho capito che gli
somigliavo tantissimo. Ma non è che mi abbia fatto piacere. Perché mi sono
ricordato anche di come ridevamo noi bambini quando lo vedevamo senza
baffi. Pensavamo che fosse «un tipo buffo»! Bene, se lui era buffo a vedersi,
Dio solo sa se ho qualcosa di cui essere fiero! Infatti quello che facevo
quindici anni fa, quando ridevo di lui, era ridere di me stesso, perché con il
passare degli anni gli assomiglio sempre di piú, fisicamente.
Sto ingrassando. Deve essere stata la birra che ho bevuto. Comunque,
ora peso quasi centoquarantanove libbre. Odio l’idea di mettere su pancia,
ma è già successo. Sporge infatti come se fossi incinto e sul punto di dare
alla luce un neonato di quattordici libbre. Ho eliminato la birra, bevo
moltissimo succo d’arancia, e quando il sole è caldo vado sulla spiaggia e
mi stendo al sole. Oggi piove, c’è una pioggerella continua e nebbiosa –
quindi non posso farlo. Stare seduti davanti a una macchina da scrivere tutto
il giorno appesantisce sempre. Specialmente nel mio caso. Perché da
ragazzo ero sempre attivo, giocavo a baseball e correvo.

[Alla madre]
Lunedí [febbraio 1935 circa]
Carissima mamma,
ti ho mandato un telegramma perché ho sentito da De Kolty per telefono
che eri preoccupata per non aver ricevuto mie notizie. Non ho ricevuto la
lettera che avevi mandato a De Kolty. Non sono andato laggiú e non ho
avuto l’occasione di prenderla. Adesso sto aspettando che succeda qualcosa
alla Warner Brothers. La settimana scorsa ci ho lavorato e ho guadagnato
duecentocinquanta dollari, ma non so quando mi richiameranno. Forse ho
fatto una cretinata o forse no la settimana scorsa quando ho comprato una
macchina. Ne ho sempre desiderata una e ne avevo un tremendo bisogno,
perché la distanza fra un posto e un altro qui a Los Angeles la rende
necessaria. Comunque, ho investito duecento dollari in una Plymouth
Coupé nuova di zecca. Il prezzo intero è un pochino sotto gli ottocento
dollari, e lo pagherò in diciotto mesi. Ho pochissimi soldi adesso – solo
cento dollari – quindi Dio solo sa come o dove ne troverò altri quando
dovrò pagare le rate. Ma non sono molto preoccupato. Sono sicuro che
succederà qualcosa. Questo soggetto per la Warner è roba che scotta, e
potremmo trovare un accordo questa settimana. Non credo che ci
pagheranno molto. Di fatto, dubito proprio che otterremo piú di cinquecento
dollari circa, da cui devo prelevare la metà che spetta a Frank Fenton.
Resterò con duecentocinquanta dollari. […]
Per ora continuo a vivere in centro. Continuo a fare piani per traslocare,
ma per un motivo o un altro non ci riesco mai. Voglio andare a Hollywood
dove posso essere in stretto contatto con il cinema, ma mi sembra di perdere
tempo e non si conclude nulla. Devo semplicemente spostarmi presto. Pago
solo quattro dollari la settimana per questo posto, ma è schifoso e non giova
alla mia reputazione, e in questa città la reputazione e la quantità di show
che si riesce a mettere su contano molto. […]
Dài il mio amore a tutti,
Johnnie

Il 15 febbraio Fante scrisse a Mencken su carta


intestata della Warner Brothers dicendo che «poco
dopo il mio ritorno [da Denver] sono stato ripreso da
questa gente per scrivere una sceneggiatura italiana
sulla mafia». Collaborò con Joel Sayre, uno
sceneggiatore di grande esperienza da cui apprese
molto.

[Alla madre]
24 aprile 1935

Carissima mamma,
sono stato contentissimo di ricevere la tua lettera. Mi aspettavo una
risposta, ma non cosí in fretta, quindi naturalmente è stata una piacevole
sorpresa.
Bene, non ci sono degli sviluppi sorprendenti sul fronte letterario. Me la
sto passando proprio male a scrivere questo libro. Sembra una cosa
dannatamente difficile da cominciare. Credo di aver cominciato un
centinaio di volte ormai senza la minima soddisfazione. E so perché. La
verità è che sono rimasto nel cinema troppo a lungo. Mi sono esaurito.
Scrivere è come suonare il piano; devi tenerti in forma, e io non lo sono
proprio. Ma poco a poco la vecchia sensazione sta tornando, e tornerà del
tutto. Non posso sapere quando, ma sarà presto. Se ti fermi a pensare al
fatto incredibile che per quasi un anno non ho scritto altro che lettere di
tanto in tanto, hai un’idea della condizione di esaurimento in cui si trova
adesso la mia mente. Certo, quando ero nel cinema si supponeva che io
scrivessi, e infatti ho scritto un po’ di questo e un po’ di quello, ma i film
sono cosí diversi sotto tutti i punti di vista dallo scrivere prosa che sarebbe
stato uguale se non avessi fatto nulla. Rimettersi in forma ora è un processo
di una noia e di un tedio spaventevoli. Immagino che non ci sia nulla che io
possa fare se non sgobbare, e questo farò.
Ma ci sono sempre delle distrazioni. Un soggetto mio e di Frank Fenton
è ora sotto esame alla Warner Brothers e alla Mgm. Pensavamo che
entrambi gli studi cinematografici l’avessero totalmente dimenticato, oggi
invece il mio agente mi ha chiamato per farmi sapere che, con nostra
sorpresa, tutti e due gli studi cinematografici si erano di nuovo mostrati
interessati; ciò significa una possibilità di venderlo. Venerdí a pranzo ho un
appuntamento alla Mgm per discutere un diverso trattamento del soggetto, e
le possibilità di venderlo non sono troppo remote. È certo che voglio
venderlo, ma questa attesa fa malissimo all’altro lavoro perché se lo studio
cinematografico dovesse comprare la sceneggiatura, dovrei mollare tutto e
ricominciare a lavorare da salariato. Francamente preferirei non farlo.
Preferisco di gran lunga finire il romanzo, e lascerei perdere del tutto il
cinema se non fosse che vi circola tanto denaro. Non mi piacciono i film,
non mi sono mai piaciuti e mai mi piaceranno. Invece sí mi piacciono i
salari che vengono dati. Sarebbe piuttosto stupido da parte mia ignorare tutti
quei soldi per un libro che, essendo il primo, con buone probabilità non mi
frutterà nemmeno un decimo di quello che potrei guadagnare scrivendo per
il grande schermo.
Probabilmente ti sorprenderai nel sapere che riporterò la mia automobile
al concessionario da cui l’ho comprata. La ragione è che non posso
preoccuparmi anche di un’automobile. Non mi piace guidare e non mi
piacciono tutte le altre noie che vengono con il possedere una macchina. Mi
pare uno strazio terribile. […]
Tutto il mio amore, cara mamma,
Johnnie

[Alla madre]
27 maggio 1935

Carissima mamma,
questa è l’ultima lettera che riceverai da me spedita da Los Angeles,
almeno per un po’ di tempo. Mercoledí me ne vado da questa città con la
mia macchina da scrivere. Dove andrò? La risposta ti sorprenderà: a
Terminal Island.
Sono stufo di Los Angeles e Hollywood. Voglio allontanarmi dalla
gente, dai letterati, dalle persone che scrivono libri e parlano di libri. Voglio
stare solo. Voglio tornare ai vecchi tempi quando ero in buona salute e
facevo un buon lavoro. Voglio tornare in salute, perdere un po’ di pancia,
schiarirmi la mente, ripulire la mia anima. Sto male mentalmente. Sono
molto infelice e insoddisfatto della mia vita. Il modo in cui vivo ora non mi
porterà da nessuna parte, ecco perché una svolta cosí drastica.
Qui a Los Angeles ci sono troppe tentazioni e io sono debole. La gente
mi telefona. La gente viene a trovarmi. Non mi offrono nulla. Si prendono il
mio tempo e mi infastidiscono con la loro compagnia. Scappo da tutto ciò.
Lascio tutto. Starò via almeno per tre mesi. A Terminal Island me la
prenderò comoda e me ne starò al sole. Mi riposerò, leggerò e lascerò che il
sole bruci tutte le impurità del mio cuore. Giacerò immobile e penserò. Mi
riposerò e leggerò per una settimana. Poi riprenderò il mio romanzo. Questo
è il programma. Ho intenzione di attenermici.
Domani andrò a Terminal Island. Voglio trovare una capanna in riva al
mare, un posto che possa affittare a poco prezzo, e vivere lí. Là è bello.
Quel posto ha colore e fascino. Ha vigore e pace. È un posto sano dove
vivere e un bel posto dove scrivere. La popolazione là, come forse sai, è
quasi tutta giapponese. Vivrò fra loro. Sarà un sollievo non stare fra i
bianchi. Hanno i loro piccoli pescherecci legati ai moli e vivono di pesca. È
gente che si dà da fare. Forse mi ispireranno a lavorare duro. Certamente
non possono recarmi alcun danno.
Quando ripenso all’anno che è passato mi domando se ho fatto il meglio
per la mia vita. Certo, ho guadagnato dei soldi. Ne ho incassati di piú di
qualsiasi altro periodo della mia vita. Mamma, ti dico però che fare i soldi
non è cosí importante come sembra. I soldi vanno benissimo. Sono
necessari. Sono buoni. Ma sono solo una parte della vita di un uomo. Se
diventano tutto non va piú bene. Uccidono la mente. Non penserò piú tanto
al denaro. Penserò soprattutto alla pace. È quello che conta. Se troverò la
pace, i soldi arriveranno con quella. […]
Tutto il mio amore,
Johnnie

[Alla madre]
153 Seaside Avenue,
Terminal Island, California
[senza data – giugno 1935 circa]

Carissima mamma,
il tuo espresso mi è stato recapitato qui a Terminal Island e ti rispondo
subito in modo da tranquillizzarti. Devi aver tratto il peggio dalla mia
lettera, mamma. Non sono poi cosí in pessime acque. Vero, non ho molti
soldi, ma ho abbastanza per vivere in modo confortevole per altri due mesi
circa. Dopo di ciò… be’, non so. Ma ora sto bene. Ho lasciato Los Angeles
perché dovevo farlo. Dovevo allontanarmi dalla gente. Pete ti racconterà
quanto mi disturbavano quando ero là. Mi era diventato impossibile stare in
pace per piú di un’ora. Le telefonate e le visite interrompevano sempre la
mia giornata. Non avevo buttato giú nemmeno una singola riga. C’era solo
una scappatoia, cioè andarsene. Ho scelto Terminal Island perché è
esattamente il tipo di posto che ai miei amici non interessa visitare. È
sporco e rozzo, è un centro dell’industria del pesce e delle spedizioni. Basta
l’odore a tenere lontani i miei amici. Cose di questo genere non mi dànno
fastidio. Di fatto qui mi piace abbastanza. È una città di lavoratori, piena di
vita, fatica, giapponesi e filippini. Ho una stanza comoda in un vecchissimo
edificio, dove lavoro spesso e fino a tardi quanto mi va. Sono qui da tre
giorni. La spiaggia non è lontana. Nel pomeriggio vado a dormire al sole.
Mi sto abbronzando e perdo peso. Leggo molto e mangio meno di prima.
Sono perfettamente contento. Sei stata dolcissima a chiedermi di venire a
casa, e so bene quanta cura ti prenderesti di me se lo facessi, ma Roseville è
lontanissima, e ho voglia di fermarmi.
Come ti ho detto in un’altra lettera, abbiamo un soggetto che sta facendo
furore in uno studio cinematografico, e se lo vendiamo, tornerò a casa per
un po’ di tempo. Ma ora non posso farci conto. […]
Tuo figlio Johnnie

Fante aveva lavorato con i filippini durante il


periodo trascorso in fabbrica (ben ricreato ne «La
strada per Los Angeles»), ma il suo interesse era ora
piú sistematico. Prese appunti su quello che
apprendeva, e per molti anni avrebbe inseguito il
sogno di scrivere un romanzo sui filippini in
California. Arrivò a scriverne un terzo, con il titolo
di «The Little Brown Brothers», prima di
abbandonarlo nel 1944.

[A Carey McWilliams]
[153 Seaside Avenue
Terminal Island, California]
[senza data – giugno 1935 circa]

Caro Carey,
inaciditosi il latte del realismo hollywoodiano, sono fuggito dalla città
per venirmene qui a Terminal Island. Non riesco a capire perché si chiami
cosí, essendo geograficamente non un’isola bensí una penisola. Fa
assolutamente parte della terraferma, e da dove sono io, qui sulla riva del
mare, posso camminare lungo la costa fino a Long Beach senza
impedimenti.
Ho cominciato un altro libro. Questa volta sono prudente con le mie
predizioni. Posso solo dire che ho cominciato proprio bene. Ma a differenza
della mia ultima avventura nello scrivere romanzi, riesco a vedere molte
fasi del libro oltre alla posizione presente. Ovviamente è autobiografico.
Non sto cercando di provare o confutare nulla in esso, ma procede in modo
piuttosto solido, e qua e là volano scintille. Posso dire senza tema di
smentite che una cosa la so per quello che riguarda lo scrivere romanzi:
riconciliati con la routine delle delusioni. Una frase o un paragrafo che
suona in modo eccitante la mattina, può puzzare come una vacca morta la
sera. L’ho scoperto provando un colpo, una serie di colpi. Cosí ho deciso di
stare alla larga dalle riletture per quanto è possibile.
I miei divertimenti qui sono la spiaggia e i filippini. Vado a prendere a
lungo il sole ogni pomeriggio, gli effetti si notano e sono splendidi. La
pancia sta calando, sono stanchissimo e ogni sera mi viene sonno piú o
meno alle undici. Finora è stato un modo di vivere economico e piacevole.
Ma ah! È solo una settimana che mi trovo qui. A meno che non accada
qualcosa alla Mgm, dove un nostro soggetto (di Fenton e mio) è sotto
esame, sono quasi sicuro di rimanere qui fino alla fine della prima stesura
del romanzo. Fino a oggi non ho avuto notizie, ma non significa nulla. Se lo
vendiamo potremmo dover ricominciare a lavorarci.
Uno spettacolo che mi prende moltissimo qui sull’isola è quello dei
filippini. Tempo fa mi interessavano a tal punto che stavo per scrivere
qualcosa su di loro, ma questo accadeva un paio di anni fa, quando la mia
sensibilità come cronista era acuminata come l’insegna di un barbiere, cosí
ho dovuto lasciar perdere con disgusto e sollievo. Non riuscivo a ottenere i
fatti che dovevo avere dai filippini stessi, la loro disorganizzazione era cosí
completa, erano ostili l’un l’altro e sospettosissimi con me e delle mie
domande ottuse, che alla fine ho capito che stavo attaccando il soggetto
dalla parte sbagliata. Ma se avevo il punto di vista sbagliato, qual era quello
giusto? Allora non lo sapevo. Ora lo so.
Sono arrivato alla conclusione che i filippini sono una specie patetica,
disperatamente fuori dalle convenzioni sociali americane. Non ce ne sono
molti, forse non piú di centoventicinquemila negli Stati Uniti, ma la loro
esistenza ai margini, i loro passatempi, fatiche e amori, sono cosí curiosi
che formano una montagna di grotteschi frammenti di vita americana.
Fondamentalmente, è chiaro, non sono migliori o peggiori di nessun altro
popolo, ma una volta che atterrano in California succedono molte cose a
quella condizione di base. Provano ad americanizzarsi con tutte le loro
forze, però nella maniera piú ridicola e piú superficiale. Una volta Frank
Fenton li ha chiamati «piccoli Clark Gable». Che si avvicina abbastanza alla
realtà. Questa povera gente non ha nemmeno l’ombra di una possibilità in
questo Paese, e ciò è dovuto a un centinaio di ragioni. Per esempio, quelli
che hanno maggior «successo» fra loro sono individui che appaiono sulle
pagine sportive: Speedy Dado e Ceferino Garcia. Pugili! E poi c’è quel
meraviglioso folklore che il lavoratore americano ha creato per i filippini.
Nove americani su dieci che lavorano fianco a fianco con i filippini nelle
fabbriche di scatolami e nei campi di lattuga – il cento per cento – pensano
che i filippini siano «checche», che abbiano successo con le donne
americane perché sono dei lecca-passera, perché scialacquano denaro con
loro; di fatto questa è una serie di ragioni false, e non dicono poi nemmeno
una volta che forse alle ragazze americane piacciono i filippini
semplicemente per quello che sono: puliti, primitivi, sensuali, ometti dal
cuore tenero che hanno bisogno di una donna proprio come te e me… tutto
ciò è grandioso, e mentre sono qui butterò giú alcuni appunti.
Con affetto,
John

[Alla madre]
153 North Seaside Avenue,
Terminal Island, Calif.
24 giugno 1935

Carissima mamma,
sono stato sul pontile a pescare tutto il giorno. È stato uno dei giorni piú
veloci e piú felici della mia vita. Ho scordato il tempo e le preoccupazioni
del mio lavoro fino a che improvvisamente si è fatto buio, e stanchissimo ho
contato le mie prede. Avevo venticinque pesci grandi in un sacco di iuta. La
mia ragazza mi verrà a trovare domani e li darò a lei. I suoi sono
poverissimi.
Mercoledí sarà un giorno importante – molto importante. Saprò se la
Metro compra o no il soggetto. Da tutto quello che ne so, credo che le
possibilità siano buone. Ma preferisco parlarne quando la cosa è conclusa.
Non voglio che la delusione mi ferisca.
Se il soggetto si vende, probabilmente verrò a casa per un paio di giorni.
[…]
Con il mio piú sincero amore a tutti.
Johnnie

[Alla madre]
Box 1503,
Hollywood
16 o 17 luglio 1935

Carissima mamma,
non ti ho scritto perché non c’erano buone notizie di cui scrivere. Non
che ve ne fossero di cattive. Ma per l’ultima settimana sono [stato] in attesa
di notizie sulla vendita del nostro soggetto alla Metro, e finora non sono
arrivate. Avevo sperato, con la vendita del soggetto, di venire a casa. Per
quanto ne so, abbiamo ancora una buona possibilità di venderlo, ma gli
eventi si muovono con tale lentezza che alle volte diventa deprimente.
Sono di nuovo tornato a Los Angeles. Questa volta sono ben sistemato in
una meravigliosa dépendance in mezzo a un delizioso giardinetto con palme
e fiori. La costruzione è piccolissima, non piú grande di un bagno normale,
ma ci sono anche un gabinetto e una doccia. Accanto c’è una cucina
minuscola che divido con un altro inquilino, sempre che abbia voglia di
cucinare. Non ne ho, ovviamente; però ieri ho preparato del caffè.
Ora sto lavorando al mio nuovo libro. Procede con lentezza, ma con
successo, secondo me, e lo finirò in due mesi. Oltre a lavorare al mio libro
sto anche scrivendo racconti – tre di questi sono in viaggio verso est, e ne
butterò giú un altro, se ci riesco, in questa settimana. Tutto sommato non
potrei fare di piú. Ogni sera, alle dieci, lavoro con Ross Wills su un soggetto
per un film che pensiamo sia piuttosto buono, e che potrebbe fruttarci molto
denaro. Ma tutto ciò, libro, racconti e cinema è solo un fatto di fortuna, pura
e semplice. Naturalmente l’abilità c’entra anche lei, ma non credo poi
moltissimo. […]
Tutto il mio amore, mamma carissima,
Johnnie

[Alla madre]
Box 1503,
Hollywood
22 luglio 1935

Carissima mamma,
mi ha fatto piacere ricevere finalmente tue notizie. […]
Ho molta carne al fuoco, molte prospettive di denaro, ma sono lente a
sbocciare. Il mio romanzo, che era iniziato con grande impeto, ha
cominciato a rallentare un pochino, ma non sono affatto scoraggiato perché
so cosa fare. Il fatto che i miei primi sforzi di scrivere un romanzo non
abbiano avuto successo mi favorisce in questa nuova avventura. Sono certo
infatti che non farò gli stessi errori, e ogni cattiva esperienza del passato ora
mi è d’aiuto. Spero di finire entro settembre. Per quella data credo che il
nostro soggetto sarà stato venduto alla Metro Goldwyn Mayer, e avrò
abbastanza soldi da poter portare personalmente il libro a New York City. In
ogni caso questo è il mio piano. Si realizzerà con il duro lavoro e con le tue
preghiere perché io riesca a farcela.
Quanto al romanzo, ora sono impegnato a spezzarlo in racconti. Ne ho
già scritti tre e questa settimana finirò il quarto. Da quella massa di
materiale forse possono venirne fuori sei. Tutto considerato non credo che
perderò dei soldi con quel romanzo sfortunato, anche se non ha mai visto la
pubblicazione. Se li venderò, i sei racconti che ne trarrò mi frutteranno circa
ottocento dollari, che uniti ai seicento avuti in anticipo, ammonteranno a un
netto di millequattrocento dollari.
Non sono proprio al verde. La verità è che ho ottantacinque dollari in
contanti. Ma ho talmente tante spese che non vedo come questi soldi
possano bastarmi per piú di un mese. Devo pagare trentacinque dollari per
la macchina e circa dieci dollari per delle riparazioni, sempre alla macchina.
Poi c’è l’affitto: otto dollari al mese. A questo devo sommare i conti della
lavanderia, quello che spendo di solito per mangiare, e altre uscite, che
comprendono un pagamento per la macchina da scrivere di sei dollari (sono
indietro di due rate). Ma non sono preoccupato. Come ultima risorsa posso
sempre chiedere dei soldi in prestito a Ross Wills. Sto anche aspettando una
risposta per due racconti che il mio agente ha con sé a New York. Non mi
importa di essere in ristrettezze. Non ho alcun desiderio di spendere dei
soldi, voglio solo la sicurezza. Quando venderemo il soggetto per il cinema
ti manderò il grosso. Probabilmente ammonterà a un paio di migliaia di
dollari, e ho in mente di mandartene la metà cosí che tu possa affrontare
l’inverno in arrivo senza preoccupazioni finanziarie. Potresti anche andare a
Denver. In ogni caso non parleremo di come spendere il denaro fino a che
non sarà al sicuro nelle nostre tasche. […]
Dài il mio amore a tutti,
Johnnie

[Alla madre]
Box 1503,
Hollywood
Sabato 9 agosto 1935
Carissima mamma,
fa cosí caldo in questi giorni che è praticamente impossibile lavorare.
Ufficialmente la temperatura viene stabilita ogni giorno a circa 95° F, ma il
mio termometro in quest’istante ne segna 105° F – sabato a mezzogiorno, e
al sole sono 125° F. Che è proprio caldo. I marciapiedi si sciolgono sotto
quest’ondata di calore e per la prima volta da quando ho memoria la gente
viene uccisa dal caldo. Ero in centro stamattina, quando ho visto una
vecchia svenire in un negozio. L’hanno fatta rinvenire, poi l’hanno portata
all’ospedale in ambulanza. Sono qui a sedere nella mia capanna cercando di
buttare giú qualcosa, ma si sta cosí male che ho quasi rinunciato all’idea e
aspetterò piú tardi, forse stasera.
Nelle ultime due settimane ho scritto dei racconti. Alcuni sono vecchi e
ci ho rimesso le mani, mentre un paio sono nuovi. Ho cambiato agente a
New York, e questi li ho dati a quello nuovo. Non l’ho ancora sentito, ma
aspetto notizie per la prossima settimana.
Non so quello che accadrà al soggetto per il cinema che ho scritto con
Frank Fenton. All’inizio sembrava che l’avremmo venduto di sicuro, ma ora
la faccenda è cambiata. Allo studio cinematografico non sono piú cosí
entusiasti. Ma c’è ancora speranza. Non si sa mai in questo campo. […]
Tutto il mio amore,
Johnnie

[Alla madre]
Box 1503,
Hollywood
Lunedí sera [settembre 1935 circa]

Carissima mamma,
[…] Dovrò proprio andare via dal posto dove vivo ora. La padrona di
casa ha un parente senza tetto da alloggiare, e mi ha chiesto di andarmene.
Non sono affatto seccato. All’inizio mi sembrava che mi piacesse, ma ora
questo posto mi ha stancato. È troppo piccolo per me. Domani cercherò una
nuova abitazione. Credo che questa volta andrò a stare vicino a Hollywood.
Motivi professionali. Vivere qui, a pochi isolati dal cuore di Los Angeles,
mi costa moltissimo in spese per la macchina quando devo andare a
Hollywood, e ci vado tutti i giorni, o per vedere i miei agenti o per ritirare la
posta. Le spese per la macchina ammontano almeno a venti cent al giorno
da quando sono venuto a stare qui, e alcuni giorni arrivano addirittura a
ottanta cent. Capisco ora che venire a vivere cosí distante da dove ho i miei
contatti di lavoro è stato un grave errore, e ho intenzione da adesso in poi di
cambiare la situazione.
Ancora niente lavoro e nessuna nuova da New York. […]
Il mio libro però va a meraviglia. Oggi l’ho dato a una persona perché lo
leggesse e lo ha trovato semplicemente fantastico. È la migliore notizia che
ho ricevuto da due anni a questa parte. Per qualche ragione avevo dei dubbi
sul libro, ma avendo scoperto che probabilmente mi sbagliavo, ora procedo
con piú vigore e sicurezza di prima.
Immagino che tu voglia sapere come vivo in un momento d’immobilità
come questo, senza lavoro in vista e di conseguenza senza entrate regolari.
Bene, la risposta è semplice. Mi faccio prestare dei soldi. Nelle ultime
settimane li ho chiesti a Ross Wills. Siamo buoni amici, e posso sempre
rivolgermi a lui quando li finisco. Ovviamente annota quello che gli chiedo,
e cosí faccio io, in modo che appena entro in possesso di una somma gli
restituisco quello che ho preso.
Questa è una lettera irregolare. Dovrai passare sopra al fatto che non dico
molto. È a causa del trasloco. Ho preparato metà dei pacchi. Ti farò sapere
gli esiti della mia ricerca di un nuovo alloggio. Scrivimi al solito indirizzo.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

La «questione etiopica» a cui si fa riferimento


nella lettera seguente fu la conseguenza
dell’invasione italiana di Mussolini in Etiopia
(Abissinia), governata dall’imperatore Hailè
Selassiè, il 3 ottobre 1935. L’Italia fu condannata
dalla Società delle nazioni quello stesso mese, ma
proseguí a combattere con successo. La padrona di
casa, devota dell’Aimee McPherson Foursquare
Gospel Church, appare in «Sogni di Bunker Hill».

[Alla madre]
[Intestazione Hotel Mark Twain,
1622 North Wilcox Avenue,
Hollywood, California]
12 ottobre 1935

Carissima mamma,
ho ripreso a lavorare. Ho cominciato pochi giorni fa. Questa volta è al
Mascot Studio. Il salario non è altissimo: solo cento dollari alla settimana,
ma devo prendere quello che trovo.
Ti avrei scritto molto tempo fa ma queste ultime settimane sono state
cosí confuse che non ho avuto tempo per nient’altro. So che sembra
un’esagerazione. Spero però che mi crederai. Per molto tempo ho sperato di
trovare lavoro agli studi Rko. Ho lavorato durissimo cercando di scrivere un
soggetto originale di un certo valore, ma quando alla fine lo proponevo non
ne veniva mai fuori nulla. Allora ho fatto lo stesso con la Warner Brothers.
Ci sono stati dozzine di colloqui, telefonate e incontri. E tutto è sfociato nel
nulla.
Inoltre, sono dovuto andare via da quella casetta di cui ti ho scritto. Non
so perché – ma non credo che la vecchia proprietaria mi stimasse molto. È
una fanatica religiosa, un membro dell’Aimee McPherson Foursquare
Gospel Church. Il fatto che io tenessi la luce accesa per ore andava troppo
oltre la sua comprensione. Questa era solo una delle cose su cui aveva da
ridire. Un’altra volta ha visto una mia amica uscire da casa. Non c’è niente
di orribile se una ragazza fa visita a un uomo – ma la padrona ha pensato
che fosse terribile. E ciò ha solo stimolato il suo desiderio di buttarmi fuori.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso però è stata quando mi sono
imbarcato in una discussione religiosa con lei. Allora non sapevo che fosse
una tale ammiratrice di Aimee. È successo che ho detto qualcosa di Aimee
che l’ha fatta tremare fin nelle midolla. E il giorno dopo mi ha gentilmente
detto di levarmi dai piedi e di non tornare.
Bene – mi è toccato andare via. Mi ero trasferito in una casa non lontana.
Era comoda, ma piccola. La padrona era una ex attrice e maestra di scuola.
Di cinquantacinque anni, piú o meno, e assai noiosa. Dovevo ascoltare per
ore e ore la storia della sua vita. Quella donna mi ha fatto quasi impazzire.
Sarei andato via già dal primo giorno se avessi avuto denaro sufficiente. E
quando alla fine sono andato a lavorare ho chiesto un anticipo sul salario e
mi sono spostato in questo hotel. Finora sono stato cosí occupato che non
ho avuto tempo di cercarmi qualcosa di meglio. Certamente non resterò a
vivere in questo posto. Lo odio. Ma per un po’ andrà bene. L’unico
vantaggio che ha è quello di trovarsi nel cuore di Hollywood e vicino
quanto piú possibile al lavoro.
Quello che faccio ora è miserevole. Devo lavorare come un cane per sei
ore al giorno, e il sabato tutto il giorno. Se pensassi che c’è qualcosa di
permanente in questo maledetto affare non sarei cosí seccato, ma è uno
schifo quando uno scrittore deve lavorare cosí duramente per cento dollari
la settimana. So che sono un sacco di soldi, ma quando pensi ai salari degli
altri scrittori in questa città è uno stipendio vergognosamente basso.
La situazione allo studio cinematografico non è molto promettente. Ho
idea che lavorerò almeno un’altra settimana. Ma non si può mai dire.
Potrebbero lasciarmi andar via domani – sabato. Se sapessi di sicuro quanto
tempo ancora rimarrò, ti direi di mandare Tommy immediatamente.
[…] Come stanno tutti? Immagino che papà sia molto interessato alla
questione etiopica. Anche a me interessa moltissimo. Dio solo sa quando
quel problema sarà risolto. Prima che si concluda, il mondo sarà di nuovo in
guerra. Ci sarà un’alleanza fra Italia e Germania. E con loro saranno Austria
e Ungheria. Questi quattro Paesi sono stati fregati dal trattato di pace alla
fine dell’ultima guerra. Ora vogliono quello che giustamente sentono gli
spetti, e l’unico modo in cui possono ottenerlo è combattendo. Quando ciò
accadrà saremo di nuovo tutti soldati. Per quello che mi riguarda io mi
rifiuto di essere un soldato. L’unica guerra che mi interessa combattere è
quella che comincio io.
Ed ecco perché voglio tantissimo denaro. Perché con i soldi si possono
evitare le terribili conseguenze della guerra. Ci si può trasferire in un Paese
neutrale e restare fuori da questo fetido casino. La guerra sta arrivando; non
ci sono dubbi. E sarà una guerra terribile e raccapricciante. Non voglio
averci parte.
Poveri italiani! Oggi in Italia – come in Etiopia – sono le madri e i padri
dei soldati a soffrire. Non mi dispiace molto per i militari. Sono dei dannati
idioti e si meritano esattamente quello che poi gli arriva. Ma nelle fattorie e
nella campagna italiana ci sono migliaia di persone povere che hanno
sudato e sono state schiavizzate per ottenere una vita decente, cercando di
racimolare quei pochi centesimi che portano a una misera felicità – e dopo
essere state tassate a morte, dopo che hanno loro ingiunto di tacere, e che
sono state continuamente perseguitate dalla Chiesa e dal governo – ora
affrontano la prospettiva di anni di miseria per una guerra che le affamerà,
farà loro orrore, e le ucciderà come ratti in gabbia. E perché? Perché la
razza umana è stupida. Perché gli uomini non imparano mai. Capisci che se
Tommy, Pete e io fossimo nati in Italia in questo momento saremmo in
Africa ad ammazzare un mucchio di stupidi neri e probabilmente verremmo
ammazzati anche noi? L’Italia darà con facilità una batosta all’Etiopia. Ma
non potrà fare altrettanto con gli inglesi e alla fine non le darà a nessuno.
Alla fine tutto diventa miseria e sangue sprecato e una nazione mandata
all’inferno.
Ogni volta che vedo una fotografia di questi tizi italiani che vanno alla
guerra – che vanno come un gregge di pecore, gridando: «Duce!» – mi
viene da ridere. Che massa di pecore! Che patetico mucchio di nullità.
Moriranno come mosche perché hanno il cervello di una mosca. Se fossero
in grado di pensare con la loro testa rimarrebbero a casa. Ma non sanno
come pensare. Mussolini pensa per loro.
Ti scriverò non appena avrò il mio nuovo indirizzo. Nel frattempo – se
mi vuoi scrivere – manda la lettera a John Fante, c/o Ross Wills, 1857
North Wilton Place, Hollywood, Calif.
Tutto il mio amore, mamma carissima.
Johnnie

[Alla madre]
c/o Ross Wills,
1857 North Wilton Place,
Hollywood
3 novembre 1935

Carissima mamma,
sono stato cosí malato la settimana scorsa che sono rimasto al mio hotel
e non sono affatto andato a lavorare. Ricomincerò lunedí. Il problema è il
mio stomaco. […]
Non so cosa sia successo a Art Young. La settimana scorsa però l’ho
visto ai Republic Studios – dove lavoro ora – e forse ha una posizione
sicura là. […] La mia invece non è per niente stabile. Il lavoro è durissimo e
i cambiamenti fra gli scrittori sono improvvisi. Se procediamo bene con il
soggetto potrei trovarmi in un’ottima posizione per combinare qualcosa.
Al momento sto lavorando a una storia sulla legione straniera francese,
un soggetto di cui non so nulla, ed è difficilissimo. Ho lavorato come un
cane e – malato come sono – non mi sembra di fare molto. Spero comunque
per il meglio.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

[Alla madre]
1327 Lemoyne Street,
Los Angeles, California
14 novembre 1935

Carissima mamma,
[…] Ho lavorato per tre settimane ai Republic Studios. Ci hanno dato
una traccia sulla legione straniera francese – un soggetto di cui non so nulla
e ancor meno mi importa. In ogni modo ho lavorato duro; di fatto non ho
mai lavorato cosí in vita mia. Passare otto ore al giorno agli studi
cinematografici era solo l’inizio. Non avevo molto tempo per il pranzo e la
sera ricominciavo, alle volte andavo avanti fino alle due di mattina. Ma a
nulla è valso. Il soggetto non riusciva a entusiasmarmi. Per me era ridicolo,
impossibile. Ero convinto che non l’avrebbero mai realizzato, anche se
fosse stato scritto. Negli incontri con il mio supervisore gli dicevo
francamente che non mi piaceva e che pensavo che lavorarci fosse una
perdita di tempo. Mi sembrava fosse meglio essere perfettamente onesto
sull’intera faccenda. Lui è stato in disaccordo con me dall’inizio. Poi siamo
diventati ostili l’uno verso l’altro. Lui pensava che io fossi un cretino e io
pensavo lo stesso di lui. Il risultato è stato quello che avevo predetto; mi
hanno licenziato. Ma non è niente di strano venire licenziati a Hollywood,
specialmente se sei uno scrittore. Gli scrittori vanno e vengono. Ho saputo
che ce n’erano dieci su quel soggetto prima che arrivassi io sulla scena, e
che lo studio aveva già pagato loro circa cinquantamila dollari in salari.
Erano piuttosto disperati quando l’ho preso in mano io. Volevano grandi
risultati, ma non hanno capito che dall’inizio c’era pochissimo su cui
lavorare.
[…] Per molti motivi vorrei non aver mai lavorato per il cinema. Tende
infatti a rovinare un bravo scrittore – in particolare se non ha già pubblicato
il suo primo romanzo. Adesso non vedo l’ora di dimenticarmi dei film,
dimenticare la bella vita e i salari altissimi della gente che ci lavora, e
vivere solo per il mio libro. Quando sarà pubblicato il mio valore nel
cinema aumenterà cento volte.
C’è una possibilità che io vada a lavorare per la Rko-Pathé. Il mio agente
sta contrattando, e se si concretizzerà qualcosa tornerò a lavorare al mio
vecchio salario di duecentocinquanta la settimana, ma solo per un breve
periodo. Due settimane circa, direi. […]
Tuo figlio sempre,
Johnnie

Il racconto menzionato nella lettera seguente,


comprato dall’«American Mercury», è probabilmente
«Muratore nella neve», che venne pubblicato nel
numero di gennaio del 1936.

[Alla madre]
1327 Lemoyne Street,
Los Angeles, California
28 nov. 1935
Carissima mamma,
ti sto scrivendo e sono quasi le sette, e sta passando un altro
Ringraziamento. Quanto a cibo questo giorno non mi ha portato nulla. Ho
provato con una cena a base di tacchino in un caffè, ma la carne era cosí
secca che ho spostato il piatto e mi sono saziato con un paio di bicchieri di
birra e un pezzo di mince pie. Non che il tacchino non mi piaccia, perché
infatti lo adoro. Ma non so perché non mi sentivo di celebrare questo
giorno. Per tutto il tempo ho sentito che sarebbe stato meglio lavorare –
scrivere il mio romanzo. E poi ho pensato moltissimo a te e alla famiglia a
casa. Volevo essere a casa oggi. Avrei voluto essere con voi e godere del
conforto delle persone che amo. Mi domandavo come avevate celebrato voi
– cosa era stato mangiato e detto. Ho immaginato che non ci fosse tacchino
a casa, e ho immaginato anche che Tommy facesse una smorfia dicendo:
«Oh, diavolo! Che Ringraziamento! Non c’è mai nulla!»
Ma in realtà non sono piú molto in vena di celebrazioni. C’è troppo a cui
pensare e troppo di cui preoccuparsi per festeggiare. Intendo, ovviamente,
un sano modo di preoccuparsi: senza disperazione né tristezza. I problemi
che mi piacciono di piú sono quelli che mi dànno da pensare per del tempo,
e gradualmente, con costanza, preoccupandomene poi arrivo a risolverli.
Ho detto che mi sarebbe piaciuto essere a casa oggi. Ma non intendo
Roseville, esattamente; una chicca preziosa sarebbe – per un giorno solo –
un Ringraziamento in Colorado. Là ora cade la neve, le foglie stanno
diventando rosse, e l’inverno è cominciato. Da piccolo questa stagione
dell’anno significava moltissimo per me. Ti ricordi come noi bambini –
Pete e Tommy e tutti quelli del quartiere – ci riunivamo per strada davanti
alle nostre case e giocavamo a football finché non ci veniva una fame da
lupi? Ah, come amavo tutto ciò! E specialmente durante il giorno del
Ringraziamento, come erano deliziosi quei festini! Ricordo la salsa al
mirtillo che facevi. Ti ricordi come la mangiavo con un cucchiaio? E la
torta di zucca e la mince pie! Ragazzi, erano cose meravigliose. Né ho
scordato quelle lotte per le cosce di tacchino, con tutti che urlavano insieme,
e tutti che alla fine avevano mangiato a sazietà e avanzava sempre molto
per il cane, il gatto e le galline.
Ma ora quei giorni sono un ricordo – un ricordo che resterà con me per
sempre. E di cui, lo so, sono grato in particolar modo. A te e a papà noi
ragazzi dobbiamo davvero molto – e specialmente io. Perché posso
guardare indietro ai giorni del Ringraziamento del passato e posso
veramente dire che erano grandiosi, pieni di gioia, c’era sul serio tanto di
cui essere grati. Eravamo tutti ragazzi sani, in crescita, ed era quello il modo
in cui eravamo stati tirati su. Eravamo liberi, durante la nostra infanzia e
adolescenza – potevamo fare quello che volevamo, e vivere come
volevamo. Alle volte c’era qualcosa di cui lamentarsi, ma non era niente di
importante, ora è tutto dimenticato, e il futuro per tutti noi ha in serbo molte
cose. Credo di poter dire in tutta sincerità che durante l’infanzia non mi è
mancato nulla. Non riesco a pensare a nessuna occasione in cui io non abbia
ricevuto quanto c’era di meglio. E per ciò sono grato a te e a papà. Vi devo
veramente cosí tanto che mi si spezza il cuore quando ci penso, a come sia
impossibile potervi mai ripagare per la sofferenza, la pazienza, la nobiltà, la
decenza, il buon senso di cui entrambi avete dato prova. Non abbiamo
rimpianti, nessuno di noi. Eppure uno io ce l’ho – uno solo. Vorrei avere dei
soldi, abbastanza soldi da riuscire a provvedere a te e a papà fino alla fine
dei vostri giorni. Ma non è un rimpianto vero e proprio; è un desiderio,
perché voi possiate riposarvi, e io lo realizzerò. È mio dovere e mio
privilegio e ti prometto che lo adempirò.
Quello che in questi giorni mi tiene piú occupato è il libro. E sta venendo
bene. La maggior parte della settimana passata ne sono stato lontano perché
mi hanno chiamato allo studio cinematografico per un nuovo lavoro, e mi
aspetto che la stessa cosa capiti pure questa settimana, dal momento che il
mio agente sta provando in tutti i modi a farmi assumere, ma fino a quando
posso continuerò con il libro.
Fino a lunedí scorso ero abbastanza preoccupato per i soldi, finché è
arrivata una lettera con l’annuncio che l’«American Mercury» aveva
comprato un altro mio racconto. Era un pezzo cortissimo e la paga era di
soli cinquanta dollari, ma nonostante tutto sono stati mandati da Dio e mi
evitano il fastidio di andare in cerca dei soldi per l’affitto e per la
lavanderia. Ora sono ben sistemato. L’affitto a questo indirizzo è pagato per
quasi due mesi, i vestiti sono puliti e stirati, e la mia biancheria è in ordine
nel cassettone. Mi manca solo una cosa: un cappotto. Quello che avevo l’ho
perso. Non so cosa ne è stato. E poi la settimana scorsa ho perso da qualche
parte un golf, era molto bello, l’avevo pagato cinque dollari solo un mese
prima, ma ora è andato e io non ho idea di cosa ne ho fatto. Non ho molta
fortuna con i golf – li perdo sempre, proprio come perdo sempre i cappelli.
Ma i cappelli non li metto piú; se li compro li perdo, quindi vado a testa
scoperta, che in ogni caso mi si confà di piú.
Ho ricevuto la bottiglia di Na-Kaw-Na che mi ha mandato papà, e lo
prendo come da prescrizione. Sembra essere roba buona: non posso dire che
sia merito della medicina, ma mi sento certamente molto meglio dell’ultima
volta che ti ho scritto: l’appetito è tornato e il mal di testa se ne è andato del
tutto. Quella medicina sostiene di fare cose straordinarie: promette grandi
risultati nella cura di qualsiasi cosa, dal piede d’atleta ai disturbi femminili,
ma per dire la verità credo che ciò che mi ha risollevato lo spirito sia
l’attività fisica. Vivo accanto a un lago in un grande parco che si trova in
questo quartiere, e tutti i giorni prima di mettermi a lavorare vado a fare una
passeggiata, che unita agli indubitabili effetti della medicina, mi ha fatto un
gran bene.
Mi piacerebbe molto essere a casa quest’anno per Natale. Se succederà
qualcosa nel frattempo stai pur certa che per le vacanze sarò a Roseville.
Dài il mio amore a tutti; a te in particolare offro questo giorno e tutti i
giorni che verranno. Ci sono tante cose per cui devo essere grato – troppe, e
devo tutto a te e a papà e al resto della famiglia. Ma specialmente a te, e a
papà, dico che tutti i giorni della mia vita sono giorni di ringraziamento. E
ringrazia papà per avermi mandato la medicina. È stato carinissimo da parte
di quel tipo…
Tuo figlio,
Johnnie

Nella lettera seguente viene nominata per la


prima volta una nuova ragazza, Marie Baray. Per un
breve periodo Fante avrà l’intenzione di sposarla.

[Alla madre]
30 dic. 1935

Carissima mamma,
ora mi sento molto meglio. Il mio peso è sceso a circa centotrentotto
[libbre], sono ridotto a ossa e muscoli e il risultato tutto sommato è buono.
Sembra che io non abbia piú la vitalità di una volta, ma ciò è dovuto alla
dieta rigorosa che seguo. C’è solo un punto del dettame del medico che ho
piú o meno ignorato, ovvero le sigarette. Ammetto di non aver diminuito
come dovrei, ma il meglio che possa fare è di provarci. Non fumo nemmeno
lontanamente quanto prima. L’ordine è di fumarne sei al giorno. Il mio
giorno migliore è stato dodici; e va già abbastanza bene. Una persona con il
mio temperamento nervoso deve fare qualcosa, limitarmi non è cosí duro
ma me ne dimentico facilmente. Fumo tantissimo senza nemmeno
accorgermene.
L’idea di tornare a casa per un po’ mi tenta sempre moltissimo. Quando
nella tua lettera dici «in qualche modo ci arrangeremo» non è abbastanza.
Dove potresti mettermi? So quanto sia piccola la casa, troppo piccola per
aggiungere un altro letto. E poi dove potrei lavorare? Ovviamente potrei
stare in un hotel a Roseville, o affittare una camera vicino a casa; andrebbe
benissimo, credo.
Nelle ultime ventiquattr’ore ha fatto freddissimo. Ha piovuto un pochino
domenica e anche oggi sembra che debba piovere di nuovo. Prima mi
piacevano questi giorni bui, monotoni e piovosi, ma dal momento che sono
stato malato preferisco il sole e il caldo.
Non ho notizie per quanto riguarda il lavoro. Continuo a macinare
racconti e a mandarli al mio agente a New York, ma i risultati non si sono
ancora visti. Spero che presto la fortuna arrivi. Ho solo dieci dollari e sto
cominciando a essere un po’ impaziente; questa dieta che sto seguendo è
cara, molto piú cara del modo irregolare che avevo di mangiare prima di
ammalarmi. Ma alla fine mi farà benissimo. La mia vita già adesso è piú
tranquilla e la mia esistenza si basa su una pianificazione regolare per tutto,
in particolare per i pasti e per le ore di lavoro. È quel tipo di disciplina che
non ho mai amato, eppure, ora che ci sto piú o meno familiarizzando, la
trovo proficua. Lavoro di piú e la notte dormo meglio.
Non so immaginare quello che farò a Capodanno – cioè domani notte.
Ho una ragazza, sai – si chiama Marie, e mi è stata preziosissima quando
sono stato malato. Quando ci si ammala ci si sente molto soli e si brama la
presenza di un altro, in particolare la notte. Marie è stata con me tutte le
notti, prendendosi cura di me. È stata veramente come una moglie, si è
occupata del bucato, mi ha rammendato i calzini e ha tenuto in ordine i miei
vestiti. Nei mesi scorsi è capitato molte volte che io non avessi soldi, e lei
mi ha aiutato. Vuole sposarsi e io le assicuro che un giorno diventeremo
senz’altro marito e moglie, ma ho paura di non essere sincero quando glielo
dico. Se non glielo dicessi però la ferirei. Dipende da me per molte cose; è
una ragazza molto eccitabile, si spaventa con facilità, ha bisogno di me e
aspetta con ansia i nostri incontri. Ci vediamo costantemente e ci divertiamo
molto.
La notte di Natale volevamo fare qualcosa di diverso, qualcosa di
inusuale. Avevamo solo nove dollari in due, cosí le nostre scelte erano
limitate. Eppure siamo stati bene. Siamo saliti su un treno della linea rossa e
siamo andati a un villaggetto molto solitario di mare, un paese di poche
anime assolutamente morto e isolato, molto piú piccolo di Roseville.
Abbiamo camminato per le strade e lungo la costa fino a quando abbiamo
visto tutto quello che il paese poteva offrire, e poi siamo andati a dormire in
un piccolo hotel. La mattina dopo abbiamo fatto colazione, siamo andati a
messa nella chiesetta del posto, e poi verso mezzogiorno siamo tornati a
Los Angeles – ecco come ho passato il Natale. E sono anche stato bene.
Il mio amore a tutti,
Johnnie
1936

Il 1936 cominciò con una malattia. Come diceva


nella lettera precedente, Fante viveva con Marie
Baray, una modella su cui in parte si basa il
personaggio di Camilla in «Chiedi alla polvere».
Marie si occupò con devozione di lui durante la
convalescenza nei mesi di marzo, aprile e maggio.
Fante scrisse alla madre a gennaio che non era
innamorato di lei e che l’avrebbe lasciata, ma ad
aprile decise invece di sposarla. Il matrimonio
comunque non ebbe luogo, e a maggio lui ritornò a
Roseville a vivere con i suoi genitori, dove rimase
per piú di un anno. L’ultima volta che Marie viene
nominata nelle lettere è quando Fante la «affida» a
Carey McWilliams (24 giugno).
Nonostante le continue distrazioni dovute a
decisioni in sospeso su sceneggiature, Fante continuò
a faticare su «La strada per Los Angeles», ancora
con il titolo di «In M Time», mandandone la prima
parte a Mencken a marzo. Il suo mentore commentò
dicendo che era «lungo quanto a discorsi e corto
quanto a storia». Con il manoscritto finito per
l’estate, il fulcro delle lettere si sposta sulle strategie
per contrattare con gli editori. A settembre, in ogni
caso, sia Knopf che la Vanguard Press avevano
respinto il libro. Indomito, Fante cominciò un nuovo
romanzo, affrontando ancora il tema del controllo
delle nascite (ne aveva parlato per la prima volta
nella lettera a Halper del 3 maggio 1933) in quella
che avrebbe potuto essere una versione molto
precoce del suo primo libro pubblicato, «Aspetta
primavera, Bandini». L’anno finí con la
partecipazione di Fante al Western Writers’ Congress
di San Francisco a novembre, e (a meno che, con
l’aiuto di Carey McWilliams, non fosse riuscito a
ottenere il supporto dalla New Deal Works Project
Administration) fu ancora costretto a lavorare per il
cinema per potersi permettere di scrivere.

[Al padre]
13 gennaio 1936

Caro papà,
Sono rimasto molto male quando ho ricevuto la lettera della mamma in
cui mi raccontava della ferita che ti sei fatto al fianco. Spero che questo
dannato affare non sia grave e che non ti costringa all’immobilità per molto
tempo. Hai lavorato come un cavallo da tiro per tutti questi anni; so cosa
significherebbe per te se dovessi restartene steso senza poter reagire per via
di una ferita. […] Cerca di tirare avanti per un altro po’ cosí il mio libro
sarà finito e mi darà dei soldi con cui potrò rendere la vita un pochino piú
facile a te e alla mamma.
Anch’io sono stato piuttosto malato, ma il mio problema non era
nemmeno lontanamente serio e doloroso come il tuo. Il mio problema era
causato dal cibo cattivo, e dal fatto che non avevo orari. Ma ora penso di
essere guarito. […]
Il libro può aprirmi molte possibilità di guadagnare del denaro. Per prima
cosa potrebbe vendere bene. In secondo luogo, potrebbe crearmi nuovi
contatti con editori di riviste per dei racconti; e punto terzo, c’è il cinema.
Uno scrittore con un libro al suo attivo, un buon libro, vale del denaro in
questa città, e quest’ultima possibilità mi interessa piú dell’altra.
La situazione qui a Los Angeles non è migliore né peggiore del solito.
Ho notato che non si costruisce molto a parte i progetti del governo tipo
riparazioni delle strade e lavori pubblici. La gente si arrangia, tutto qui. La
California del Sud un giorno diventerà la parte piú ricca del mondo, ma
manca ancora molto tempo. Credo che ci vorrà una guerra in Oriente, in
Giappone o in Cina per cambiare le cose, ma arriverà anche questa.
Scoppierà nel giro dei prossimi dieci anni. I giapponesi hanno sconfitto gli
americani in Sudamerica e gli hanno portato via un grande mercato. L’unico
modo in cui gli americani possono riottenere questi mercati è con la forza e
ciò accadrà quando verrà raggiunto un punto in cui la guerra sarà l’unico
modo per tornare alla situazione di prima. […]
Tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
4671 Hollywood Blvd.,
Los Angeles, Calif.
20 gennaio 1936
Carissima mamma,
[…] Ora vivo in un condominio. Il mio appartamento è molto luminoso e
ben ammobiliato, con una cucina, un salotto, un bagno, uno spogliatoio e un
grande sgabuzzino. L’affitto è di venti [dollari] al mese, inclusi il gas, la
luce e l’acqua. L’unica cosa sulla quale ho da ridire è il rumore. È situato su
Hollywood Blvd., a pochi passi di distanza da una strada a due corsie, e il
traffico è terribile. Mi ci sono però abituato, e non è assolutamente cosí
fastidioso come lo è stato le prime notti in cui ci siamo trasferiti qui.
Ho detto «noi» in riferimento a me e alla mia ragazza, Marie. Te l’ho già
nominata in altre lettere che ti ho scritto. Senza di lei non so proprio cosa
avrei fatto quando sono stato malato. Si è occupata di me in tutto e per tutto,
ha cucinato e fatto le pulizie in casa. Inoltre è una cuoca davvero
straordinaria. Costretto a una dieta vegetariana come sono, il cibo diventa
piuttosto monotono. Ma Marie sa come fare. […] In pratica qui mi limito a
fumare, mangiare, dormire, ascoltare la radio e scrivere. Sono
assolutamente al verde, ma Marie pensa anche a quello. Fa la modella per
gli artisti, e il suo lavoro consiste nel posare per i pittori. La pagano due
dollari l’ora, e anche se al giorno lavora dalle due alle quattro ore, è
abbastanza per garantirci la sopravvivenza. Immagino che dovrei
vergognarmi di permettere che una donna vada a lavorare e mi mantenga,
invece non mi vergogno per niente. Anzi, direi che mi piace. Nelle due
ultime settimane non ho guadagnato un penny, ma ciò è dovuto al fatto che
mi concentro sul romanzo. Inoltre a Marie piace lavorare per me. Le donne
sono esseri strani. Se ti amano, fanno qualsiasi cosa per te. Sfortunatamente
non sono innamorato di lei e prima o poi la lascerò, ma non posso farci
nulla. Un sentimento cosí sembra freddo e cattivo, e forse anche tu pensi
che sia un atteggiamento insensibile nei confronti di una donna che mi ama.
Ma come sai, l’amore è una forza strana. Non ci si può fare niente. Colpisce
alcuni e non tocca altri. E finora non mi ha toccato.
[…] Il libro sta procedendo benissimo.
Con amore,
[non firmata]
L’insistenza nella lettera seguente sul fatto che
«“La strada per Los Angeles” non ha niente a che
vedere con la famiglia» e che «non è affatto una
storia su di me né su qualcuno che conosco» è
piuttosto strana. Forse in quel momento il libro era
piú lontano dalla vita di Fante di quanto non lo sia
diventato poi; forse bisogna anche considerare
l’enfasi messa nello scrivere a un membro della
famiglia a ragione preoccupato di trovare qualche
riferimento personale pubblicato in un libro. Ai
lettori di oggi il libro sembra profondamente
autobiografico, ma per la famiglia di Fante la cosa
importante era che molti dettagli fossero inventati.
Solo pochi giorni dopo scrivendo a Mencken e
mandandogli la prima parte del manoscritto, Fante
dice: «Questo libro è tanto autobiografico quanto
vuole il lettore. I fatti però sono molto diversi da ciò
che ho scritto. Ma psicologicamente l’ho reso piú
sincero e autobiografico che potevo». Aggiunge:
«Arturo […] sono io, diciamo, io sono lui. Credo che
sia un ritratto ideale del tipo di giovane che sono».

[Al fratello Tommy]


4671 Hollywood Blvd.,
Los Angeles, Calif.
2 marzo 1936
Caro Tommy,
[…] Quanto a me le cose sono piú o meno ferme mentre mi sobbarco il
lavoraccio che accompagna la scrittura di un romanzo. È un lavoro ingrato,
e per quello che ne so, piuttosto stupido. Il mio libro è bello, ne sono
fermamente convinto. Ci sono delle parti meno riuscite, ma me ne occuperò
quando farò un’altra stesura. Scrivere un romanzo è come costruire una
casa. Se fai un brutto lavoro anche nel dettaglio piú piccolo, basta
quell’errore per rovinare tutto. Dovrei finirlo, se non mi ammalo un’altra
volta, fra tre settimane circa. Dopo ce ne vorranno altre due per metterlo
nella condizione finale da presentare all’editore. Con quest’ultimo avrò dei
problemi perché è un libro esplicito. Ci sono parole dure, e a differenza
delle altre cose che ho scritto, non ha niente a che vedere con la famiglia. È
un pezzo di pura immaginazione e, anche se è in prima persona, non è
affatto una storia su di me né su qualcuno che conosco. Si svolge a
Wilmington e a Los Angeles, e parla di un ragazzo di diciassette anni.
Credo che finora sia un ottimo lavoro, e le persone che l’hanno letto dicono
che è una delle cose piú belle che abbiano mai letto. Tutti questi commenti
sono incoraggianti. Alla fine però è il pubblico che compra il libro, e spero
che la pensi come quelli che l’hanno già letto e a cui è piaciuto.
[…]
Tuo,
Johnnie

Commentando la risoluzione di Fante espressa


nella lettera seguente, cioè di affogare ogni figlia che
gli nasca, Joyce Fante scrive: «Confrontate questo
commento con l’immagine che Fante ha delle donne
espressa in una lettera a sua cugina Jo Campiglia del
6 gennaio 1933: si raggiunge la conclusione che
Fante era misogino».
[Alla madre]
4671 Hollywood Blvd.,
Los Angeles, Calif.
20 marzo 1936

Carissima mamma
[…] Sto seriamente considerando di sposarmi. Marie, la ragazza che vive
con me, mi ama, e sarebbe un’ottima moglie. È carina, capace, molto pulita,
una meravigliosa donna di casa, e una cuoca straordinaria. Sa come tenere
la casa, e mi leva molte preoccupazioni. Un’altra cosa è che sarebbe una
bravissima madre nel caso decidessi di fare dei figli. Forse li vorrò e credo
che dovrei risolvere la questione mentre sono ancora giovane. Anche lei
vuole dei figli, e so che ne farà di sani, sebbene, per qualche strano motivo
che non riesco a capire, sono convinto che se dovessi avere dei bambini con
lei sarebbero tutte femmine. Ne sono sicuro, ma non so perché. Io di
bambine non ne voglio proprio. Se mai mi sposerò e avrò una figlia,
l’affogherò come fanno i cinesi.
Una delle ragioni principali che mi impedisce di sposarmi e di avere dei
bambini è questa curiosa convinzione che saranno femmine. È una
prospettiva molto cupa. Non mi piacerebbe affatto. Ovviamente se dovesse
accadere ne caverei il meglio, ma difficilmente sarei contento. Quando ci
penso mi deprimo.
Un’altra cosa è che se mi sposo dovrei sistemarmi e cominciare a
lavorare per davvero. Di fatto so perfettamente che non ho mai lavorato
duramente nella mia vita, e cosí mi piace, prendermela comoda, lavorando
sulle mie storie quando mi va, e fare come voglio. È una bella vita, tutto
sommato facile per un uomo che finisce sempre senza un soldo, ma essendo
stato malato ho raggiunto la conclusione che la famiglia è una bella cosa, e
ne voglio una. L’anno prossimo si deciderà. Non c’è particolare fretta. C’è
tantissimo tempo per pensarci, e una quantità di donne da sposare. Trovare
una moglie non è difficile: quello che è difficile è trovare il desiderio di
sposarsi. Inoltre non vorrei che mia moglie avesse una vita dura. Vorrei che
fosse ben vestita e che mi rendesse orgoglioso. Se potessi avere dei figli
senza sposarmi lo farei con gioia, ma non vedo come. I bambini devono
avere una madre, lo sai. Credo che Marie ti piacerà. È una ragazza sincera,
seria, e tu e lei andreste d’accordo. È una donna al cento per cento, e
comprensiva.
Questa lettera è vaga e tirata via, mamma, ma è quanto di meglio possa
fare date le circostanze. Nella prossima ti scriverò a lungo di ogni cosa. Dài
il mio amore a tutti.
Con amore da tuo figlio,
Johnnie

[Alla madre]
4671 Hollywood Blvd.,
Los Angeles, Calif.
2 aprile 1936

Carissima mamma,
[…] Tanto vale che ti dica che sono deciso a sposarmi. Volevo che la
cerimonia fosse il giorno del mio compleanno, l’8 aprile, ma credo che
dovrò spostarla piú in là, forse all’inizio dell’estate. Non voglio sposarmi
finché non avrò piú denaro. […]
Marie ti piacerà. Come si vede dalle fotografie, fisicamente è bellissima.
Ma quella è solo una delle sue meravigliose qualità, perché è
coscienziosissima, desiderosa di avere una casa e dei bambini, e mi ama.
Inutile dire che l’amo anch’io, altrimenti l’idea del matrimonio non mi
passerebbe per la mente. Marie ha ventitre anni. È californiana, ma i suoi
erano spagnoli. Il suo passato non è molto importante. È una donna fino in
fondo, e la miglior moglie al mondo. […] Ho pensato bene a questa cosa, e
sento che prima la sposo, meglio è. L’unico ostacolo sono i soldi. […]
Con amore,
Johnnie

[Alla madre]
4671 Hollywood Blvd.,
Los Angeles, Calif.
14 aprile 1936

Carissima mamma,
[…] Speravo di avere delle buone notizie per la sceneggiatura scritta
l’anno scorso, e che ora è sotto esame in un paio di studi cinematografici,
ma non è successo nulla e l’idea di continuare a sforzarmi stando in sospeso
fino a quando non saprò qualcosa è insostenibile. La cosa migliore è di
andare a casa, finire il mio libro, e sperare per il meglio. Sono quasi al
verde, ho solo pochi dollari, e dovrò chiedere un prestito per fare il viaggio.
Mentalmente sono sempre nelle stesse condizioni. Solo che non mi sento
piú come prima. Mi sembra di non riuscire a concentrarmi su niente.
Questa, ovvio, è una condizione naturale che passa con il tempo. Sembra
che sforzarsi non serva a niente. Ho provato senza alcun risultato per giorni
e settimane a mettermi a lavorare, ma proprio non ci riesco. Non che non mi
senta bene fisicamente. Perché sono in ottime condizioni. Sono stato molto
attento al cibo e il risultato è stato un generale miglioramento fisico, ma
mentalmente c’è un grande buco nella mia vita. Immagino che mi passerà
se riesco ad allontanarmi da Los Angeles per un po’. […]
Tutto il mio amore,
Johnnie

[Alla madre]
Giovedí pomeriggio [maggio 1936 circa]

Cara mamma,
ho deciso di venire a casa per i prossimi sei mesi. Non so quando
arriverò a Roseville, ma sarà tra quattro o cinque giorni.
Voglio trovare un buon posto per lavorare, quindi vorrei che tu cercassi
una stanza tranquilla dove possa stare senza essere disturbato.
Addio – ci vediamo tra una settimana circa…
Tuo figlio,
Johnnie

Essendo ora Fante a casa con la famiglia, non si


hanno piú le lettere frequenti e dettagliate che
scriveva alla madre. Le restanti lettere di quest’anno
sono al suo amico, lo scrittore piú anziano e di
maggior successo Carey McWilliams, una scoperta di
Mencken. McWilliams era attivista per i diritti civili e
in politica schierato a sinistra (in seguito divenne
editor del «Nation»).

[A Carey McWilliams]
211 Pleasant St,
Roseville
Lunedí [maggio 1936 circa]

Caro Carey,
sono arrivato mercoledí. La temperatura è piú o meno la stessa. Ho
pranzato un’altra volta con Louis Adamič prima di partire. Sono contento di
poter dire che il mio libro gli è piaciuto molto, ha detto che posso citarlo
liberamente ovunque e dire che è un lavoro di prima categoria. È stato
molto incoraggiante, certo, ma nonostante ciò valuto di piú il tuo giudizio,
non solo personalmente, ma anche da un punto di vista politico. Inoltre
Louis ha detto che quando torna a New York sarebbe felice di aiutarmi a
trovare un editore, ma anche qui sento che tu avresti piú influenza perché so
che le tue sacre esternazioni su quasi tutto hanno molto peso. Ciò detto,
spero che informerai presto Henle che ho un libro. Il fatto è che Poling della
Doubleday sta già scaldandosi molto, e il mio agente mi dice che ho buone
possibilità con la Random House. Ma credo che sarebbe meglio una
proposta tangibile per far partire la cosa, e se la tua eloquenza non si
incepperà per mancanza di argomenti, spero che starai dietro al signor
Henle. Fagli sapere il mio indirizzo a Roseville, e io farò il resto!
Stamattina ho ricevuto un telegramma da Poling che mi chiedeva di poter
vedere il manoscritto, ma voglio aspettare ancora un po’ fino a quando non
ci siano due o tre editori interessati. Poling sembra molto gentile, ma
Adamič dice che la sua azienda non è poi cosí buona, in fin dei conti. Ti
sarò molto grato se mi farai sapere quando scriverai a Henle. Credo di averti
già detto che mi ha contattato per un romanzo un anno fa circa, ma a quel
tempo non avevo nulla da dargli.
Qui da noi fa caldo. Ora che sono arrivato siamo tantissimi, i miei due
fratelli e io dormiamo nello stesso letto. Situazione terribile. Ieri notte mi
sono arreso e mi sono messo a dormire per terra. Alle due di mattina circa,
mio padre, ubriaco fradicio, senza aver bisogno di una luce, ha attraversato
la stanza barcollando verso quella che pensava fosse camera sua, e mi ha
pestato il collo. È inciampato, e ha risolto la questione sedendosi sulla mia
testa. Ed era cosí brillo che non si è accorto di nulla, cosí mi sono alzato,
l’ho avvolto nelle coperte e mi sono infilato accanto a mia madre. Ti lascio
indovinare l’unico motivo per cui ha capito che ero io e non mio padre. Poi,
sospettosissima, ha acceso la luce e mi ha trovato addormentato accanto a
lei. Nel frattempo mio padre si era svegliato, aveva spinto giú dal letto mio
fratello e ci si era infilato lui. All’alba lui e mia madre dormivano nella
stanza dei ragazzi, i miei due fratelli nella loro, e io, ahimè, mi ero ritirato
nella vasca. Ma non è finita lí, perché mio padre è entrato in bagno alle sei
circa, mi ha visto, e ha aperto l’acqua. Mi sono alzato alle sei, mi sono
vestito, e con il corpo rinfrescato, mi sono seduto e ho scritto quarantamila
parole di prosa gloriosa (credici, se vuoi).
Fammi avere tue notizie.
john

[A Carey McWilliams]
211 Pleasant,
Roseville
21 maggio 1936

Caro Carey,
questo deve rimanere strettamente confidenziale perché altrimenti
perderò un buon agente. Credo che dovresti già sapere quanto è trapelato
(ovvero la versione della Nowell) perché nell’ultima lettera mi ha detto che
era prontissima a scriverti.
Non so cosa ho detto a Louis, ma deve essere stato sostanzialmente lo
stesso che ho detto a te; vale a dire, Elizabeth Nowell era un ottimo agente,
ma per quanto riguarda il giudizio sul mio libro è stata piuttosto miope, con
quella storia delle «implicazioni universali». Inoltre ha anche lasciato
intendere che non ne aveva una grande opinione nel suo insieme. Non l’ha
detto proprio a parole, ma con l’atteggiamento, come senz’altro ricorderai
dalla lettera che ti ho mostrato.
Adamič è la persona piú dolce del mondo, e in buona fede ha scritto (a
mia insaputa) alla Nowell lodando il romanzo. Allora la Nowell ha scritto a
me, e furiosa ha affermato che Adamič le aveva scritto una lettera
«d’insulti». Ha stabilito che una lettera del genere da parte di Adamič,
tenendo conto della sua abituale tenerezza per queste faccende, era
«d’insulti».
Le ho risposto chiedendole di dirmi con esattezza cosa le avesse scritto
Adamič. Mi ha risposto ieri, consigliandomi di dimenticare l’intero
accaduto, e aggiungendo che aveva ricevuto un’altra lettera «dolcissima» da
Louis nella quale lui aveva espresso la sua volontà di appoggiare il libro e
di fare tutto quello che poteva quando fosse andato a New York.
Oltre a tutto questo, Elizabeth Nowell mi ha scritto che aveva pensato di
rivolgersi anche a te. Sa che sei ancora con Lieber, quindi non credo che stia
cercando di prenderti come cliente. Nonostante ciò sono certo che questo
sia almeno in parte uno dei suoi intenti. Per il resto, vuole sapere cosa pensi
del mio libro, o di quanto è già trapelato. Come agente, per me è di gran
lunga superiore a Lieber, e se tu mai pensassi di cambiare, prendi in
considerazione prima di tutto lei. Ma quanto a quello che potrebbe scrivere
riguardo a me e al mio libro, non ne ho idea, e non c’è bisogno di dire che
so che farai attenzione trattando con lei. Sembra avere un’energia infernale,
e come una chioccia grossa e impetuosa non esiterà a combattere.
Non so cosa direbbe Louis se sapesse (ma ho in mente di scoprirlo) di un
brutto tiro che gli ho giocato, che però è finito bene. Capisci, avevo ricevuto
delle lettere da Poling della Doubleday su di un libro. Di fatto, lui mi ha
scritto ogni volta che ho pubblicato un racconto. Bene, dopo che tu avevi
letto il libro, e detto a me che l’avresti fatto leggere a Louis, ho scritto a
Poling e gli ho detto che a te era piaciuto. Questo successe il giorno in cui
Adamič andò a San Diego portandosi il libro per leggerlo. Sebbene non
avesse ancora espresso alcuna opinione in proposito, mi sono preso la
libertà di dire a Poling che non solo quel pappone di Los Angeles di Carey
McWilliams aveva letto il libro e gli era piaciuto, ma che cosí era successo
anche con Louis Adamič. Quanto alla reazione di Adamič ho trattenuto il
fiato per tre giorni sperando in bene. Puoi dunque immaginare la mia
soddisfazione quando tornando da San Diego mi ha chiamato per dirmi che
pensava che fino a quel punto stavo andando bene. Non so cosa mi sia
saltato in mente, ma dal momento che tutto ha funzionato immagino di
dovermi considerare molto fortunato. È successo poi che la lettera abbia
esaltato Poling, il quale mi ha chiesto di mandargli il libro, o quello che ho
di esso, immediatamente, con la promessa da parte sua di una veloce lettura.
Forse penserai che tutta questa tiritera avanti e indietro tra editori, agenti
e scrittori sia priva di senso, e che prima dovrei essere uno scrittore e poi,
semmai, un venditore. È dannatamente vero. Ma il fatto è, Carey, che sono a
buon punto con il libro – diecimila parole ancora e lo chiuderò – e come al
solito ho bisogno di denaro. Difatti se non ne trovo un po’ molto presto
dovrò abbandonarlo del tutto per qualche tempo. Non mi sto lamentando; ti
sto solo dicendo com’è la situazione in modo che tu possa capire bene
questa lotta spietata, che, mi pare, è proprio buffa e mi sta divertendo molto.
So per certo che sia tu che Adamič, e anche Ross, siete intelligenti e che
tutti voi dovete considerarmi come un puro e semplice idiota perché faccio
tutta questa confusione e alzo questo polverone senza concludere nulla. Ma
sto facendo quello che posso. Di sicuro né tu né Ross mi prendereste sul
serio se ribattessi dicendo che sono stato malato per sei mesi. Ross ancora
non ci crede, eppure gliel’ho detto mille volte. A te l’ho detto qualche volta
e, come Ross, sei quasi scoppiato a ridere. E invece sono stato malato, e per
quello che mi riguarda, ho sopportato l’assedio con eroismo, lamentandomi
solo una volta ogni tanto. Ovvero non piú di dieci volte al giorno.
Ora però sono di nuovo in piedi e pronto a partire. Da quando sono
arrivato a casa ho scritto un racconto e ho lavorato ancora al libro. Ti ho
detto della borsa di studio della Houghton Mifflin Foundation? Bene, il mio
agente ha mandato alla Hm settanta pagine piú una scheda. Insieme al mio
manoscritto, ne ha inviati altri. I premi dovevano essere annunciati il primo
maggio. Ora siamo quasi a giugno, e non è stata presa nessuna decisione. Il
mio, cosí mi informa l’agente, ha raggiunto lo «Special Consideration
Class», perché, cosí dice, tutti gli altri manoscritti che lei ha mandato alla
Hm tranne il mio sono stati rispediti indietro. Ciò è quasi negativo, per
quanto mi riguarda, perché alla Houghton Mifflin non prenderanno molto
sul serio il mio libro se è vero che la loro reputazione si basa su libri di testo
e pubblicazioni religiose.
Puoi dire a Ross che lo considero un coglione di prima classe per non
aver risposto alla mia ultima lettera. Probabilmente è «molto occupato»,
come dice lui. Ma se non avrò sue notizie entro sabato gli scriverò una
lettera da staccargli la testa.
Ho fatto quella che tu potresti considerare una banalità in quanto a
scoperte, ma nonostante ciò, interessante e di immensa soddisfazione per
me. Per la prima volta sto leggendo i classici greci. I dialoghi di Platone e
Socrate. Dio mio, quella sí che è letteratura! L’Apologia di Socrate è la cosa
piú bella che sia mai stata scritta, e per ogni ideuccia moderna nel mondo,
nel vecchio Socrate trovi cinquanta gemme. La filosofia, l’abilità
drammatica, e lo stile dei Dialoghi rappresentano sempre, dopo duemila
anni, le influenze intellettuali piú belle e piú grandi del mondo civilizzato.
Ogni romanzo moderno, filosofia o credo trova la sua maggiore ispirazione
nei dialoghi.
Grazie molte per aver scritto a Henle. Piú gente se ne interessa, meglio è,
ma per quanto riguarda Henle personalmente a me piace, e vorrei che il
libro lo facesse lui come chiunque altro. Credo di avere con lui le stesse
chance che con gli altri.
Con i migliori saluti,
John

Non dire nulla a Ross di questa storia della Nowell-Fante-Adamič-


McWilliams. È capacissimo di infilarcisi anche lui.

La frase «la tua pagina su “Westways”» nella


lettera seguente si riferisce a una rubrica di due
pagine che McWilliams pubblicava regolarmente su
quella rivista; «tutto ciò che della California –
scrittori, folklore, clima, storia, culti, politica – mi
interessa», la descrisse in seguito McWilliams nella
sua autobiografia, «The Education of Carey
McWilliams». Collaborò alla rivista per sei anni, dal
1933 al 1939.

[A Carey McWilliams]
[211 Pleasant St,
Roseville, Calif.]
24 giugno 1936

Caro Carey,
grazie mille per aver scritto al signor Henle. Il ritardo con cui lo hai fatto
non avrà alcuna conseguenza. Ora che riceverà la lettera sono certo che mi
farà avere notizie, ed è tutto quello che volevo. Forse riuscirò a convincerlo
a darmi un anticipo; se no può essere una buona riserva nel caso in cui il
manoscritto venga bistrattato da altre parti. Il mio agente non ha
un’opinione molto alta della casa editrice di Henle, ma non importa. Da un
paio di lettere che ho ricevuto da lui due anni fa sembrava una persona per
bene, e i meriti relativi agli editori della sua classe non mi interessano.
Il libro è finito, mancano solo quarantamila parole circa che andranno
riviste in questa che è la quarta ed ultima stesura. Speravo che sarebbe stato
un libro molto piú breve, delle dimensioni di S.S. San Pedro o di La
condizione umana di Malraux, ma ora sembra che debba avvicinarmi alla
lunghezza del romanzo tradizionale.
I titoli mi paralizzano sempre. Il migliore che mi è venuto in mente è La
strada per Los Angeles. Cosa ne pensi? Ne ho altri due o tre: Brief Passion,
Harbor Days, The Oddest Fancy eccetera, ma non me ne piace nessuno. La
strada per Los Angeles ha un suono massiccio che mi piace. Voglio un
titolo che venda. Se te ne viene in mente uno, mandamelo assolutamente.
Questa mattina ho parlato con Ross Wills che ha vinto duecentodieci
dollari ai cavalli e che è pronto a partire per una spedizione di pesca in
acque messicane con il suo amico caposcarico Harold Bentler. Bentler è un
singolare tipo di imbecille, ma sa molte cose sulla tradizione della pesca, e
la proposta del loro viaggio suona invitante. Ovviamente Ross mi ha
sfottuto sulle señoritas e le calde notti sotto la luna messicana e assurdità
romantiche del genere, io però gli ho risposto secco: attenzione allo scolo!
Non ho niente di interessante da dire. Ho lavorato costantemente al libro;
in tutta la vita non ho mai lavorato in modo cosí sistematico su qualcosa. La
ragione è di carattere geografico. Detesto essere definito insensibile, ma non
c’è davvero nulla in questa cittadina – nulla. La sua mancanza di donne
affascinanti e belle è agghiacciante. I nativi mi dicono che ciò avviene
perché le ragazze carine si sposano subito. Sarà anche vero, io però non mi
sono mai limitato alle donne strettamente non sposate, d’altronde basta
guardare quelle coniugate per eliminare ogni possibilità di avventura anche
in quel settore. È molto deprimente. L’unica donna elegante e che abbia un
minimo di gusto in città è, fra tutte, una prostituta. Ogni uomo, inclusi i
miei due fratelli, l’uomo del ghiaccio, e innumerevoli persone di passaggio
l’hanno già portata a letto, e di conseguenza l’idea mi lascia freddo.
Ovviamente a Sacramento c’è una discreta quantità di donne, ma ci
vogliono i soldi, e io sono uno scrittore povero, che è una maniera odiosa di
distinguersi in una città di sindacati forti.
Bene! Non mi ha sorpreso sentire che hai pranzato con Marie Baray. Ha
sempre parlato con una certa eleganza di te, e ora, poiché sono buono di
cuore, te la raccomando. In ogni caso spero che non sia venuta fuori con
altre sciocchezze da quattro soldi circa vie legali. L’ultima è stata molto
imbarazzante per me, ed è stato gentile da parte tua liquidarla con tanta
facilità.
Ciò di cui hai bisogno, Carey, e quello di cui ha bisogno tutta la gente
sedentaria, è il golf. Da quando ti conosco, e sono pochi anni, ho notato con
crescente pena l’allargarsi del tuo punto vita. Come convertito al golf,
voglio esortarti perché ti unisca alla congregazione. Non è il punteggio che
conta, è il camminare fra le colline, l’erba ai tuoi piedi e il vasto cielo sopra
di te. Per me ha fatto miracoli. Se a occhio ti sembra un’idea noiosa,
permettimi di aggiungere che i golfisti piú accaniti sono quelli che una volta
erano i piú brontoloni.
Mi dispiace dire che non ho nulla per la tua pagina su «Westways». Ma ti
sbagli di grosso quando dici che quella pagina è una schifezza. Al contrario,
è un lavoro eccellente, e quando penso alle limitazioni con cui devi
confrontarti l’apprezzo ancora di piú.
In questi giorni ho un nuovo interesse, la storia della California. Che mi
ricorda una cosa che ho notato pensando a te, tenendo conto della tua vasta
conoscenza della letteratura californiana. Parlo delle opere di Bancroft.
Ovviamente le conosci benissimo, ma mi azzardo a dire che non hai letto il
suo volume di Miscellaneous Essays (credo sia il volume venticinque) dove
Bancroft scrive esaustivamente di ogni pagina di letteratura e di giornalismo
californiano dal periodo pre messicano. La quantità di materiale è
impressionante, non tralascia nulla, e se hai l’opportunità di lavorare in quel
campo so che quel volume ti sarà molto utile. Non so quale sia l’opinione
generale su Bancroft, io però lo stimo moltissimo. È pedante, ma è un
vecchio spaccone e sa di cosa parla.
Ora che ci penso – dal momento che ho letto un paio di libri su questa
cosa – ci potrebbe essere del materiale per te nel folklore circa la
Spedizione Donner. Finora gli indigeni hanno attribuito a quel gruppo di
persone delle qualità come brio e romanticismo, mentre, come mostra la
Storia, la crisi mette poi in luce la superficialità delle loro anime, rivelandoli
cattivi, crudeli, codardi e traditori. Le testimonianze su di loro parlano delle
peggiori fragilità umane. Forse anch’io sono stato cosí meschino, cosí senza
cuore come la maggior parte di loro. Una leggenda familiare di queste parti
dice che la Spedizione Donner abbia fatto ricorso al gioco delle carte per
determinare chi dovesse essere vittima di cannibalismo. Lo credono tutti.
Tutti credono che questo gruppo di duri pionieri, dal cuore saldo e dai nervi
d’acciaio, si sia riunito attorno al fuoco a giocare a poker per salvarsi la
vita. La verità è che lasciavano morire i piccoli del gruppo mentre gli adulti
mangiavano gli ultimi brandelli di cuoio e il grasso delle scarpe
dell’accampamento.
Se questo materiale ti interessa posso fare ulteriori ricerche, e da questo
momento in poi terrò gli occhi aperti se ci fosse della roba che ti può
servire.
Con affetto,
J. Fante

[A Carey McWilliams]
[211 Pleasant St,
Roseville, Calif.]
14 luglio 1936

Caro Carey,
ho qui una lettera del mio agente che mi dice del tuo generoso
suggerimento a Soskin. Sembra che l’abbia chiamata immediatamente. Lei
crede che sia l’uomo per me. Il suo piano è di sottoporglielo fra i primi. Non
so per che editore lavori. Fammi sapere quando scriverai la prossima volta.
E un miliardo di ringraziamenti per averglielo detto. È stato gentilissimo da
parte tua.
Per l’amor di Dio, guardati da Salpeter! Ho cercato di levarmelo dai
piedi per tre anni, e alla fine ne ho perso le tracce nello zoo di Hollywood.
Non voglio essere sgarbato, e forse adesso quel tipo è cambiato, ma tutto il
tempo che ho passato con lui è stato, be’, uno strazio. Mi piace, certo, sono
stato con lui al Long Beach Junior College, e sono molto triste per lui. Io
ero l’unico amico che aveva, e mi sconvolgeva tanto – è terribilmente
nevrotico e disadattato, oltretutto è malaticcio – da essere sempre molto
gentile con lui. Quel poveretto è stato punito davvero, non solo dalla vita,
ma anche dai libri. Ama scrivere lettere ai grandi autori come V. F.
Calverton, e con qualunque pretesto, anche irrilevante, discute di qualsiasi
cosa sempre da un punto di vista polemico.
Dio non voglia che stia parlando a sproposito, perché vorrei proprio
vedere un sogno di Milton Salpeter che si avvera – anche uno solo. Sarebbe
cosí felice se ciò avvenisse. D’altra parte sento di doverti mettere in guardia
contro la barbarica e selvaggia solitudine di quel povero diavolo. Fa cosí
pena; ma spero di sbagliarmi completamente e che tu lo trovi un tipo
eccitante.
Ho saputo di Ross e della sua confusione messicana. O è piuttosto la
foschia messicana? Una scottatura è qualcosa che lui senz’altro minimizza.
Ma le señoritas metteranno alla prova la sua immaginazione, e tu e io
mieteremo il racconto. Il suo amico Bentler è un rinomato cacciatore di
passera. Se non troveranno donne si può essere certi che Bentler si butterà
su un bel tonno grasso.
Ho dei problemi con la mia dattilografa. Ma La strada per Los Angeles è
finito e, ragazzi!, sono soddisfatto. La soddisfazione però è solo
intermittente. Spesso ho degli attacchi di disperazione. La dattilografa è
indietrissimo. Il libro è finito già da tre giorni. Spero di mandarlo venerdí.
Alcune cose faranno drizzare i capelli. Potrebbe essere troppo forte; ovvero,
mancare di buon gusto. Ma ciò non mi disturba. Se la letteratura ha bisogno
di sangue e dolore il suo appetito verrà saziato da La strada per Los
Angeles. Per inciso, ti piace il titolo? Probabilmente no. Se ne sai uno
migliore, uno che vada bene con la parte del manoscritto che hai già visto,
per favore, fammelo sapere. Mi può servire.
Sto tenendo gli occhi aperti per qualcosa che vada bene per «Westways»,
ma qui non c’è molto. Manderò qualsiasi cosa che sia di valore.
Con affetto,
J. Fante

[A Carey McWilliams]
211 Pleasant St.,
Roseville, Calif.
13 settembre 1936

Caro Carey,
dopo che Knopf ha parlato con la Nowell, si è rifiutato di trattare con lei.
Perciò il romanzo gliel’ho dato io stesso. Knopf l’ha poi rifiutato attraverso
Bernie Smith, che lo sostituiva mentre lui era in vacanza. So che Knopf non
ha letto il libro. Smith non mi ha detto molto nella sua lettera di rifiuto; solo
che era spiacente e amaramente deluso che lo scrittore di racconti brillanti
come quelli apparsi sul «Mercury» faccia un lavoro come quello di quel
particolare romanzo. In seguito, ho saputo, ha detto a Adamič che riteneva
il mio manoscritto «orribile».
Ho scritto a Smith di mandare il manoscritto a Henle, cosa che ha fatto.
Henle mi ha scritto dopo circa una settimana, dicendomi che gli dispiaceva,
ma il libro non era per lui. Ha detto qualcosa del tipo «provocatorio», niente
di piú. La settimana scorsa gli ho scritto di mandarlo alla Story Press. Ora è
là. Inutile dire che sarà rifiutato e non me ne importa un accidente. Sono
però stupefatto – pensare che tu, Ross e Adamič ritenevate tanto buona la
prima parte, e poi ricevere un trattamento cosí freddo. Onestamente ritengo
che l’ultima parte del libro sia superiore alla prima – il che rende le cose
ancora piú confuse. Ciò che mi amareggia è questo: ho scritto quel libro con
un’onestà spaventosa. Ci ho messo candore, non scriverò mai piú con tanta
libertà – e tutto questo serve a dimostrare che non è buona politica quella di
essere onesti e che è molto meglio essere artistici. Certo, potrebbe darsi che
il libro semplicemente non sia buono. In questo caso non ho di che
lamentarmi, se non per la sensazione che qualcuno, incluso me stesso, mi
abbia preso in giro.
Henle è stato gentile con me. È stato rapido e sincero nel suo
rincrescersi. Immagino che lo stesso valga per Smith con Knopf, anche se
attraverso la Nowell ho saputo che ha detto a Adamič che il mio libro era
«orribile» quando nel rifiutarlo a me non ha detto niente di simile.
Nella tua lettera nomini Houghton Mifflin. Il mio libro, o la prima parte,
di fatto loro l’hanno vista. Verso l’inizio dell’anno c’è stato un Fellowship
Contest, e avevano la parte che avevi letto tu. Il mio agente mi dice che il
libro è andato abbastanza avanti nel concorso, perché è passato molto tempo
prima che venisse rifiutato, dal momento che altri manoscritti del suo
ufficio sono stati rispediti rapidamente, mentre il mio è rimasto nelle mani
dei giudici per quasi due mesi. Comunque è stato rifiutato, quindi non credo
che alla Hm sarebbero ancora interessati.
Ho tenuto una corrispondenza con Soskin. Gli ho detto che Knopf non
voleva il libro e poi ho cercato di dargli qualche idea di com’era. È stato
piuttosto franco nel replicare, ovvero ha detto che la possibilità di un suo
acquisto del manoscritto era piuttosto remota. Ha scritto che come capo di
un’azienda editoriale era suo dovere tener conto del potenziale di vendita
della roba che stampava, e che gli era parso che il mio libro non rientrasse
in quella categoria. Comunque mi ha detto di mandare assolutamente il
libro – ma finora non l’ho fatto perché l’idea che tutti se lo passino
formandosi una cattiva opinione del mio lavoro mi repelle. Sento che nel
futuro mi danneggerebbe, quando e se scrivessi un altro libro cercando poi
di venderlo. Mi ricorderebbero infatti come il tipo che scrive porcherie e
avrebbero dei pregiudizi nei miei confronti. Immagino che persone come
William Carlos Williams non vengano lette con la mente sgombra perché è
assodato che la loro qualità è sempre bassa, e anche se scrivessero qualcosa
di buono non gli verrebbe riconosciuto perché sono stati scartati dagli
editori. Forse mi sbaglio, ma non credo. Sono piuttosto certo di aver scritto
un buon libro – non un capolavoro, nulla del genere – ma uno scritto buono
e solido; se Knopf e Henle però la pensano diversamente peggio per me e
non per loro. Non hanno niente da perdere loro, mentre io, se voglio essere
uno scrittore famoso, farò meglio a vedere la letteratura attraverso i loro
occhi e dimenticare quello che penso io.
Se la Story Press rifiuta il libro lo ritirerò e lo brucerò. Il periodo
trascorso da quando l’ho finito a quando ho tentato di farlo pubblicare è
stato scoraggiante, voglio dimenticarlo e mettermi a lavorare su
qualcos’altro.
Ci potrebbe essere una possibilità con Boni, come dici nella tua lettera,
ma dubito che sia buona. Tutti gli editori la pensano nello stesso modo, no?
Per qualche motivo sento che tutto congiura contro di me per quello che
riguarda questo libro. I suoi difetti esasperano il lettore piuttosto che
incuriosirlo, e un editore non può dimenticare che non è John Fante a
scrivere best seller, è Kate Douglas Wiggin. Io sono a un universo di
distanza. Da Faulkner, da Wolfe o da chiunque altro di loro. Apprezzo
molto il tuo interessamento, Carey, peccato che gli editori non la pensino
come te, e in ogni caso non posso ignorare i fatti. Alle volte penso che il
manoscritto ti sia piaciuto perché conoscendomi di persona hai trovato un
nuovo interesse nella scrittura che ti ha fatto credere che si trattasse di un
buon lavoro, e ciò però non ha nulla a che vedere con la qualità letteraria.
Puoi considerarlo come un insulto alla tua capacità critica, ma ti assicuro
che non è affatto quello che intendo. Dimmi piuttosto – credi che io mi
scoraggi prematuramente? O pensi che il libro abbia ricevuto, dopotutto, la
batosta che si meritava?
Omaggi,
J. Fante

La lettera seguente ci informa che Fante ha


cominciato un terzo romanzo, su un tema che aveva
saggiato prima e che avrebbe continuato a utilizzare
a distanza di un decennio. L’inizio di cui si parla
venne abbandonato o si trasformò nel trattamento
del materiale sulla famiglia che avrebbe formato il
tema dominante di «Aspetta primavera, Bandini».
[A Carey McWilliams]
[Roseville, California]
[ottobre 1936 circa]

Caro Carey,
ti manderò questa mia con la posta normale, perché non può comunque
raggiungerti prima di lunedí mattina. Per qualche motivo a me sconosciuto,
le comunicazioni per posta a Roseville sono piú rapide con la spedizione
normale che per via aerea. Spero che tu la riceva per tempo.
Includo due racconti. Usane uno o entrambi, o intervieni pure con la
matita rossa se devi ridurre To Tell the Truth alla dimensione adatta a una
rivista. We Snatch a Frail può andare cosí com’è, ma puoi comunque
giocherellarci in qualsiasi modo ti vada. È un pezzo dannatamente
divertente in ogni caso – una satira sulla scuola di scribacchini di Caldwell
– Hemingway – O’Hara. Ce l’abbiamo messa tutta e mentre lo scrivevamo
siamo letteralmente finiti per terra a rotolarci dalle risate. Una volta «Story»
aveva comprato To Tell the Truth ma poi l’ha rifiutato. Sembra che i
redattori non fossero d’accordo. […]
Sei splendido a offrirmi il viaggio a Frisco. Anche se declino la tua
offerta, non puoi immaginare quanto profondamente apprezzi tale
meravigliosa gentilezza. D’ora in poi, e come sempre, andrò fino all’inferno
per te, se necessario.
Soskin mi ha mandato una strana lettera di rifiuto. Pare che nel mio libro
abbia trovato tante cose che gli piacevano e altrettante che non gli
piacevano. Lo ha irritato e gli è piaciuto. Esita nell’indicare un nuovo
metodo per riscriverlo, perché non mi sembri un gesto presuntuoso. Gli ho
scritto e l’ho supplicato, per l’amor di Dio, di farmi sapere se ha delle
critiche di qualsiasi genere da offrire. Ora sto aspettando una risposta. Ho
cominciato un altro libro, ma è un progetto molto delicato. Racconta di un
ragazzo di quattordici anni che scrive della misteriosa confusione a casa sua
dovuta al conflitto fra suo padre e sua madre circa un eterno problema sul
controllo delle nascite. Tutta la questione, raccontata dal punto di vista del
ragazzino, deve ovviamente essere appena accennata, dal momento che lui
non sa cosa sia il controllo delle nascite. È un soggetto molto grosso che ha
tutta la forza di un conflitto moderno, economico, morale e fisico. Se poi il
ragazzo riesce a renderlo vivo o no è un altro conto. Per la prima volta da
quando faccio lo scrittore evito cose pirotecniche e mi attengo a una
semplice prosa italoamericana. Procede lentamente, ma sembra andare
bene, perché ogni cosa che all’apparenza non ha niente a che fare con il
resto, poi trova il suo posto. Vedremo.
Spero che questa roba ti arrivi in tempo. Farò del mio meglio per riuscire
a partecipare al convegno – almeno l’ultimo giorno. Prima che tu parta,
mandami un biglietto e dimmi dove starai.
I piú cordiali saluti,
J. Fante

Il racconto pubblicato nel numero di novembre del


1936 di «Pacific Weekly Digest» è «We Snatch a
Frail», scritto a quattro mani da Fante e Ross Wills.
Quello menzionato in seguito come venduto alla
«Scribner’s Magazine» deve essere «Charge It»
apparso nel numero di aprile del 1937. Nessuno dei
due è stato ripubblicato.

[A Carey McWilliams]
[Roseville, Calif.]
31 ottobre 1936

Caro amico Carey,


oggi ho ricevuto quattro copie del «Pacific Weekly» su cui era stampato
il nostro racconto. Finalmente ho avuto notizie da Ross. È occupatissimo
allo studio cinematografico oltre a lavorare su un soggetto nuovo. Cosa sai
di Elsa Gidlow? Io conosco sua sorella Ruby (non di persona, ma per
corrispondenza). Che tipo di persona è Elsa? Vedo che collabora
frequentemente al settimanale. La sorella Ruby sembrava molto gentile
nelle sue missive. L’ultima volta che ho avuto sue notizie è stato quando ho
ricevuto una cartolina dal Canada. Saroyan – ora che è nel cinema, Fenton
lo chiama Guglielmo il Conquistato – sembra perdere di qualità. Il suo
pezzo sul settimanale era piuttosto brutto. Ovviamente ho visto la
recensione fatta dalla tua protégée rossa Esther. Cosa ha fatto alla fine del
suo progetto della biografia di Wassermann? È un lavoro che intimorirebbe
persino Lytton Strachey.
Lo scorso fine settimana ero a San Francisco. Non era un buon momento
per trovare le persone a casa. Al nome di Miriam Allen deFord non risulta
un numero di telefono, quindi non l’ho piú cercata dopo aver dato uno
sguardo all’elenco. Ti ho detto della risposta di Soskin al mio romanzo? Gli
è piaciuto e l’ha detestato allo stesso tempo. L’ho supplicato perché mi
facesse sapere se ha dei suggerimenti per una riscrittura; dovrebbero
arrivare presto. Ho spedito qualcosa, e ho ricevuto un po’ di grana tre
settimane fa per un racconto mandato in Inghilterra. Ora mi sono messo su
un altro libro – controllo delle nascite contro la Chiesa cattolica. Scena: una
famiglia italiana povera. Finora tutto bene. Sono quasi guarito dalla
prostituzione del racconto moderno. La competizione in quel campo è
spregevole. Anelo quasi al periodo di buon governo dei comunisti, quando
gli scrittori vengono pubblicati perché hanno qualcosa da dire e non perché
Palmer vuole questo e Gingrich vuole quest’altro. Lo scrittore di racconti
moderno è il pappone degli inserzionisti. Queste probabilmente suonano
come le parole di uno scrittore amareggiato perché non ce la fa ad apparire
sul «Post». Ma non è cosí. Ti assicuro che non ho alcun desiderio di farcela
al «Post». In ultima analisi è il «Post» che fa lo scrittore, come se mi
sforzassi a trovare della reciprocità con una ragazza di facili costumi che mi
si fa, facendomi invece credere che sono stato io a farmela. Non appena
metterò a segno un altro bel colpo a Hollywood credo che diventerò uno dei
rossi. Voglio fare un’ultima e memorabile festa prima che mi buttino sulle
barricate. Almeno in Russia non c’è Hollywood e dal momento che sono
uno scrittore che non ha mai trovato fascino né ispirazione nel sistema
economico, sarei felice in Russia come negli Usa. Se l’America domani
diventasse sovietica continuerei a leggere Nietzsche, anelerei alla bellezza,
cercherei lo scompiglio che portano le donne, e sognerei il piú gran
romanzo mai scritto. Ma come dico, non ci sarebbe Hollywood, non ci
sarebbero tanti finti literati, tante tentazioni decadenti, né Merriam e Farley,
e il governo tollererebbe il fatto che io sia piú bravo a scrivere che non a
scavare fosse. L’idea dell’amore in una società comunista mi affascina. Le
donne dell’America capitalista (intendo la vasta middle-class, dove si
trovano le bellezze) preferiscono gli eroi del football e i lettori
dell’«Esquire» ai poveri diavoli come me, che almeno sono brutalmente
franchi nella loro condizione, e che non vanno in giro in giacche da polo e
DeSoto nuove. Questo spettacolo mi fa infuriare. Ne sono maggiormente
consapevole ora che mi sono trasferito in una tipica cittadina americana.
Che accidente c’è da dire alla ragazza americana moderna che è
un’inconsapevole puttana in cerca di grana consistente nel racket dei
matrimoni? Bene, supponiamo che io non lavori per la Bank of America, e
che una volta ogni tanto pensi che un povero come Van Gogh sia migliore
di quel porco di Giannini? Non c’è risposta. L’unico modo è di sparare a
quel Giannini… anche se probabilmente possiede quasi tutti i Van Gogh.
Eppure, nonostante tutto, qualcun altro dovrebbe ucciderlo. Giannini
potrebbe essere una persona per bene che si interessa dell’oro tanto quanto a
me interessano l’arte, le donne, e il fatto di avere dentro di me un grande
libro che mi tormenta. Oh, be’, forse Salvador Dalí ha l’idea giusta, o il
New Deal, o Sam Goldwyn, o forse addirittura Mencken.
Sempre,
J. Fante

[incluso] 4 novembre

Accidenti al diavolo, Carey, mi sono dimenticato di spedire questa


dannata lettera quindi aggiungo un altro pezzo. Ho ricevuto oggi una lettera
da Ross. È pronto per venire a prendermi qui in macchina giovedí, per
portarmi a San Francisco al convegno degli scrittori. Andrò con quel tipo se
troverò della grana, e ci sono buone possibilità, perché credo di aver
venduto un pezzo a «Scribner’s»; non ne sono certo, ma era cosí bello che
dovrebbe proprio vendere a meno che io non capisca piú nulla e non sappia
piú riconoscere quando qualcosa è bello.
Il mio libro va avanti bene, ho aggiunto altre tremila parole ed è roba
piuttosto buona, non grandiosa, ma buona, adeguata, decente. In questi
giorni sono piú caldo dell’inferno stesso e non serve a nulla sfogare
l’energia sessuale giocando a golf. Avrei voglia di prendere a pugni il muro.
L’unica minaccia che trovo nella povertà è che non posso scopare
abbastanza. Non sono per il capitalismo né per il comunismo, sono per il
clitoridismo.
Ross dice che sei spalle al muro con il «Pacific Weekly», che grava tutto
su di te e che avrai la maggior parte delle responsabilità. Gesú, non lo
sapevo. Cristo, se ce n’è davvero bisogno scriverò delle cose per te,
pensavo che a «Carmel» tu fossi una sorta di consulente per lo staff. Te ne
manderò una copia fra pochi giorni, ho un racconto intitolato Communism
Comes to Hollywood, è un pezzo faceto sul governo e su quello che farò
quando mi eleggeranno commissario di Filmlandia, lo scriverò e te lo
manderò non appena sarò un po’ piú tranquillo con il libro. Forse te lo
spedirò domani.
Le elezioni non mi hanno molto impressionato. Non vedo una gran
differenza fra Landon e Franklin. Franklin ritarderà ancora di un po’
l’esplosione incombente – praticamente tutto qui. La rovina deve ancora
arrivare: potrebbe non essere il comunismo, ma di sicuro significherà guerra
e sopressione della libertà di parola, irreggimentazione, censura e funghi
hitleriani ovunque. L’unica cosa significativa in tutta la campagna era un
prete fanatico che ha visto la fine per Madre Chiesa. È un passo avanti
rispetto agli altri tonacati, e sa che al fuoco si risponde col fuoco. Non
poteva combattere Browder, ma ha sentito odore di sangue marxista e ha
attaccato il sorridente Franklin. Questi sono tempi grandiosi e noi siamo
benedetti perché possiamo leggere il futuro scientificamente, e anche se non
con una completa accuratezza dei fatti, certamente con precisione filosofica.
E alla lunga è ciò che conta di piú. Almeno ci siamo liberati di un’economia
da pulpito e l’abbiamo rimpiazzata con uomini solidi come John Strachey.
Per inciso, sono sorpreso dall’inaccuratezza di Spengler. Ha dedicato alla
Russia solo cinquanta righe ne Il tramonto dell’Occidente. O forse non c’è
ragione di sorprendersi. Dopotutto potrebbe avere ragione. Ho perso il
timone, ma mi piace galleggiare fin tanto che il mare resta calmo. La
tempesta sta arrivando. Cristo solo sa cosa farò allora, ma puoi essere certo
che sarò attentissimo alla salvezza di John Fante. Diventerò anche fascista
se mi lasciano in pace e mi fanno scrivere quello che voglio. E per lo stesso
motivo diventerò rosso. Gli do una possibilità – chi fa la miglior offerta
avrà il mio appoggio. In altre parole, chi fa questo per me, lo farà per tutta
l’umanità, ed è da quella parte che andrò.
Ma questi sono solo discorsi. Non so perché sto scrivendo certe cose.
Ehi, una volta mi hai detto di una buona idea per il cinema, ricordi? Ora
l’ho dimenticata, forse non ce l’hai. Mi ricordo che allora pensai che fosse
buona e di averlo detto a Ross e anche lui era d’accordo. Potrebbe fruttarci
del denaro. Ne parleremo se verrò a Frisco. Fammi sapere cosa hai in mente
su Frisco, e fai in modo di dirmi di Elsa Gidlow, voglio sapere se è carina.
jf.

Confrontare il seguente resoconto delle reazioni di


Fante al Western Writers’ Congress, tenuto a San
Francisco il 13, 14 e 15 novembre, con la descrizione
piú sardonica che ne fa nella lettera del 14 novembre
1936 a Mencken. In quella si beffa del giornalista
comunista Mike Gold in maniera memorabile
descrivendolo come «una banalità che porta la
croce» e parla di Carey McWilliams come di un
«babbeo» sfruttato dai «rossi»: «Dopo tre giorni di
schiavitú per quei capelloni lo hanno fatto redattore
di una dozzina tra vari pamphlet, programmi,
brochure, riviste e giornali. E non solo, ma anche
presidente di cinquanta comitati distinti».
Fante fa riferimento a «membri amareggiati dello
Screen Writers Guild». Questa organizzazione lottò
dal 1936 in poi perché gli scrittori di Hollywood
venissero riconosciuti e protetti. Nell’agosto del 1938
venne riconosciuta dal National Labor Relations
Board come organo rappresentante legale degli
sceneggiatori, ma non fu che nel giugno del 1941 che
i produttori capitolarono e si accordarono per
stipulare un contratto. Per cinque anni di «negoziati
e acrimonia», i produttori «lanciarono sfide,
gridarono minacce, emanarono decreti, si
impegnarono in lunghe e costose manovre di
opposizione. Ci sarebbero voluti poi anni perché
l’amarezza e i sospetti (da entrambe le parti) si
acquietassero».
«Boddy» è Manchester Boddy, redattore del
«Daily News» di Los Angeles.

[A Carey McWilliams]
Box 498,
Roseville
Sabato… [novembre 1936 circa]

Massa Carey,
nonostante gli impostori e gli oratori improvvisati il convegno è stato
veramente utile. Almeno ha indicato la strada e, da quello che ho sentito,
alcune delle conferenze sono state dannatamente interessanti e imbottite di
dinamite vera e propria. Mi dispiace di non aver sentito il tuo discorso:
hanno detto tutti che era fantastico – di prima classe. Forse i comunisti sono
orbi, forse no, ma dobbiamo imparare molto da loro per quello che riguarda
l’uso del minor numero di persone per raggiungere l’obiettivo piú grande.
L’anno prossimo, se ci sarà un altro convegno, potrebbe essere piú selettivo,
eliminando i comizianti di professione e piantando i semi di
un’organizzazione che potrebbe gestire molto potere e – ne sono convinto –
soldi. Qualsiasi movimento nell’America danarosa deve avere quattrini. Ho
qualche idea di cui ti metterò a parte la prossima volta in cui ci ritroveremo
davanti a un whisky e soda. Ma ecco in breve cos’è – il prossimo convegno
degli scrittori dovrebbe tenersi a Los Angeles – dovrebbe funzionare solo
per inviti – e dovrebbe essere diretto ai membri piú o meno amareggiati
dello Screen Writers Guild. Dovrebbe inoltre includere persone dalle idee
chiare come Adamič e Joel Sayre e – se possibile – per aggiungere una nota
di colore – per non parlare poi del supporto finanziario – Mae West, Francis
Lederer, piú una o due altre attrici. Potrebbe essere invitato anche un
opportunista come Boddy. Anche solo per il supporto che fornirebbe il suo
giornale. Il fine giustifica i mezzi. Padre Mike Gold può essere un
comunista e potrebbe andare bene per l’antifascismo. Ma vale qualcosa?
Chi lo prende sul serio? La sua alata oratoria è forse riuscita a colmare i
nostri petti di una potente passione per la giustizia? Noo, noo – ci siamo
appoggiati agli schienali e ci siamo appisolati.
Mi dispiace dover dire che se la Writers Organization avrà successo
dovrà essere esclusa anche gente come me. Non intendo dire esclusa nel
senso che solo chi fa parte del congresso deve essere al corrente dei principî
in cui credo. Piuttosto che, essendo l’America quello che è, gli scrittori
quello che sono, e la gente con i soldi altro ancora, ho difficoltà a offrire
qualcosa che sia alla pari con l’interesse di queste forze. Perché essere
fumosi? Ci vogliono i soldi! Altrimenti il movimento perderà
inevitabilmente la dignità che possiede e sarà senza dubbio destinato
all’esistenza stracciona dei nostri attuali comunisti che, aggirandosi con il
favore delle tenebre lungo gli umidi corridoi di Spring Street, suscitano
divertimento e ridicolo con la loro povertà. L’idea che gli americani non
abbiano scordato la Depressione è assurda. I soldi dettano sempre legge –
attirano i saggi e gli stolti. Dove altro in America si possono trovare artisti
ricchi e desiderosi di avere un’organizzazione potente se non a Los
Angalais? [sic!] Sto pensando a Dolf Winebrenner, quell’anima sincera,
cosí ansioso di parlare, di fare la sua parte. Ma per l’amor di Dio – che può
fare? Paragonalo a quel deficiente di Sam Bischoff, il produttore della
Warner, cosí viscido con i soldi, cosí spaventevolmente repulsivo. Eppure –
un Bischoff (con i suoi soldi) vale diecimila ex studenti di Stanford come
Dolf Winebrenner. Il fine giustifica i mezzi. È una tragedia; di fatto non ha
senso – eppure ne ha. Perché la gente giusta ha i soldi e ci vogliono i soldi
per muoversi. Altrimenti, come per il comunismo americano, il movimento
si impantana in un corridoio puzzolente e non emerge altro se non delle
grida penose per le follie del capitalismo. Sono convinto che lo Screen
Writers Guild abbia fallito perché c’erano troppi scrittori e non abbastanza
organizzatori. Il movimento degli scrittori della costa contro il fascismo può
fallire perché ci sono troppi antifascisti. Mi rendo conto di non essere molto
chiaro, ma credo che tu capisca quello che sto cercando di dire. Tutta la
faccenda deve essere condotta à l’américaine.
L’ironica contraddizione della vita americana è che gli americani
vogliono che il loro diritto a fare i soldi sia protetto senza spendere soldi
perché lo sia. Possiamo parlare d’arte per l’arte finché vogliamo, ma il fatto
che l’artista moderno, lo scrittore, abbia cambiato musica, resta. Può
negarlo, può darti dello sporco bugiardo, ma i soldi però continua a volerli,
e deve averli pur proclamando che può andare avanti anche senza. Alcuni di
loro poi li hanno – e tanti. Dovranno cedere e impegnarsi per quello che
riguarda il denaro. Le eccezioni nella vita americana lo provano, pensa
all’organizzazione dei ferrovieri, è inattaccabile: il ferroviere vive piuttosto
bene, ma deve pagare, deve supportare il suo sindacato – eppure che c’è di
piú tipicamente americano dell’Order of Railway Conductors?
Pensa al piccolo «Pacific Weekly». Ha delle possibilità – sul serio: ma
cosa lo limita? I soldi. Quanto è incomparabilmente migliore, per
dimensione e contenuto, per esempio, dello «Script». Eppure proprio quelli
che leggono lo «Script» dovrebbero leggere il «Pacific Weekly». Ho anche
qualche idea su come far avere maggior successo al «Pacific Weekly». Ma
ci vuole del denaro – non una quantità mostruosa – ma piú di quanto non ce
ne sia ora. Quel coglione di Robert Wagner è un furbetto. Fa credere alle
persone che sia un onore leggere il suo spregevole giornaletto rosa. Se la
West Coast Writers Organization avesse il supporto di un po’ di nomi di
gente danarosa il «Pacific Weekly» potrebbe essere fatto funzionare nello
stesso modo come organo dell’organizzazione. Per come la vedo io anche
un nome come quello di Upton Sinclair segna il destino della Writers
Organization. Perché Upton non è americano; non so cosa sia, ma domanda
a un americano e ti risponderà subito che Sinclair è un Roosian [sic!]
L’odiosa idolatria che gli è stata tributata in Russia è stupefacente – e
pietosa. Serve solo a provare che, dopotutto, forse gli stupidi americani
hanno ragione, e che quell’antropoide vegetariano deve senz’altro essere un
russo.
Per concludere, ripeto che la Writers’ Conference a San Francisco è stata
un successo. È terminata senza che sia accaduto nulla e ci sono stati molti
errori, ma non è ancora finita, i giochi non sono chiusi, e per citare il nostro
venerabile White House Barnum, «sembra che la preda sia nel sacco»
(Gesú! Sto davvero citandolo!)
Mi sto preparando per tornare di nuovo al Sud. Ho sistemato le cose per
vivere alle spalle di Ross fino a quando non ripartirò, quindi credo che vivrò
con lui per qualche settimana, o fino a quando alcune cose che abbiamo al
fuoco finalmente si cuoceranno. Dobbiamo fare il film – c’è anche Fenton
in questo progetto, e ha già cominciato a scrivere la prima stesura; poi c’è la
mia commedia che, con mia grande sorpresa, sembra avere delle buone
possibilità con la sinossi di sedici pagine che ho buttato giú recentemente.
L’ho passata a Ross e lui ha scritto una lettera di plauso ruggente e
inneggiante. Sarà la prima pièce di satira drammatica di successo su
Hollywood finora ad avere un senso e un proposito oltre al puro elemento
parodistico. Questa cosa sta diventando una fissazione: la vedo scena per
scena, con un sottofondo, il piú sarcastico immaginabile; è tutta chiarissima,
ha alcuni colpi potenti – se riusciamo ad avvicinarla al mio ideale.
Poi c’è il nostro perenne soggetto sulla Death Valley. Ho finalmente
organizzato anche quello, dopo averne parlato centinaia di volte con Ross.
Mercoledí scorso gli ho mandato l’abbozzo, e ora aspetto sue notizie. In
breve, sto facendo dei piani per guadagnare denaro. Il mio romanzo – be’ –
devo avere dei soldi per scrivere il mio romanzo – sta lentamente
cominciando a trovare un senso, il vecchio e impulsivo martellamento su
come sopravvivere è finito. Tornerò a Los Angeles fermo nella mia
convinzione che guadagnerò tantissimi soldi, a palate – e cosa strana – sono
convinto che posso riuscirci e che ci riuscirò. Prima conducevo un tipo di
vita idiota – puttane, accompagnatrici, Plymouth, Pontiac e hamburger. L’ho
imparata – è stata una dura lezione – e credo fermamente che non la
scorderò. Ed era ora, perché ho venticinque anni.
Prima che io cominci vorrei però che tu sondassi il Wpa per conto mio.
Ci ho pensato e ho inventato uno schema inusuale: ci sono due possibilità.
Se riesci a contattare questo Harlan del Writers Project, e credo che riuscirai
a trovarlo per telefono, digli semplicemente chi sono, cosa ho scritto,
spiegagli che faccio e ho fatto la fame per mesi, che sono uno scrittore
meritevole a cui farebbe comodo quel centinaio di dollari al mese – e che
non ho chiesto l’aiuto del Wpa prima perché (questo va bene!) perché sono
orgoglioso! Digli che sono sensibilissimo. Non sai dove vivo, mi fermo qua
e là, come un vagabondo nella grande città, senza indirizzo se non quello
del tuo ufficio, dove a buon bisogno mi precipito come un trovatello,
prendo la posta e me la svigno di nuovo, per finire Dio solo sa in quale
vicolo e tugurio… Ti suggerirei di riferire la seguente spiegazione: «Ora
questo tipo si merita un aiuto da parte del progetto. Ha un talento genuino.
Non è un perdigiorno. Ha vissuto a Los Angeles per piú di sette anni; è un
democratico pro Roosevelt, vota nel comune di Los Angeles, e, per quanto
ne so, ha venduto e pubblicato piú roba di tutti quelli che hai nel Progetto»
(e credo che questo sia un fatto!) In ogni caso, l’idea è che tu mi venda a
quelli che aiutano, che è una brutta cosa, perché di fatto anch’io ho diritto a
quella grana se tanti fasulli riescono a ottenerla. Se puoi farmi avere un
colloquio, e la cosa sembra promettere bene (posso anche fare in modo che
Hanna dica qualcosa, se necessario), mandami un telegramma e io arriverò
a Los Angeles il mattino dopo. Quel centinaio al mese eviterà che quei lupi
mi fottano in modo cosí spietato, e almeno potrò pagare una parte
dell’affitto da Rbw. Per marzo dell’anno prossimo dovrei di nuovo essere
ricco. È davvero necessario che tu dica di non sapere dove vivo – limitati a
dire che non lo sai.
So che non è cosa da poco quello che ti sto chiedendo, ma maledizione
va fatto, non ci sono tante altre risorse. Se Harlan del Writers Project è
ostile e non può promettere nulla, allora c’è il progetto Wpw Theatre.
Dando per scontato che tu non abbia fortuna con Harlan, prova con la gente
del teatro. Dovresti poter fare tutto per telefono. Potresti dire al Theatre
Project che io sono associato al teatro per via di alcuni lavori fatti in
precedenza per la Warner e Republic, poi c’è la mia idea per una pièce, che
voglio in ogni caso far produrre a loro. È fatta per loro e so che hanno un
bisogno assoluto di materiale.
Ecco, signore, questa è la vostra possibilità di fare del bene all’arte. Se
avrai successo con il Writers Project o con il Theatre Project, ti prometto
senza riserve che ti darò una parte nella pièce. Ho in mente un ruolo che
potresti interpretare a perfezione; sei Pete Wilson, un cinico sceneggiatore.
Vivi in un appartamento mozzafiato a Beverly Hills, e hai una grande scena
in camera da letto con un’amante un po’ troia che si getta con tutto il suo
delizioso peso fra le tue braccia e mormora: «Al diavolo l’arte, Pete. Non so
niente di cinema. Andiamo a letto, io e te». Ma tu prendi la tua arte molto
sul serio, e non sai pensare ad altro. Poco a poco, però, questa splendida
tentatrice indebolisce pubblicamente i tuoi impulsi estetici e con un lamento
di disperazione fai tre passi verso il retro del palcoscenico, dove si trova un
invitante letto di piume… Ecco, questa è la scena per te. E so che potresti
farla dannatamente bene!
Con stima,
john

Se telegrafi, fallo prima delle 3 postmeridiane al 211 Pleasant St,


Roseville.

Carey, ripensandoci, se contatti quelli del teatro, potrebbe essere una


buona idea che tu dia un’occhiata all’abbozzo della mia pièce, che è
migliore di quella cosa affrettata che ti avevo mostrato a San Francisco.
Chiama Ross e fattela portare. Dopo averla letta sono certo che ti sentirai
meglio all’idea di contattare il gruppo del teatro. Di fatto, se potessero
vederla, non ci sarebbe nessun problema a procedere.
1937-39

Nelle lettere dell’inizio del 1937 compare per la


prima volta il nome di Joyce Smart, una laureata
all’università di Stanford, che allora lavorava come
scrittrice e redattrice a San Francisco, e la cui
famiglia viveva a Roseville. Fante la sposò nel luglio
del 1937. Per la maggior parte del 1937, Fante visse
a Roseville con i suoi genitori. A gennaio era deciso
a non tornare a Hollywood, ma – con la
caratteristica ambivalenza – sarebbe «senz’altro»
tornato se avesse ottenuto un lavoro con il cinema.
Ad agosto era di nuovo a Los Angeles per mantenere
vivi i contatti a Hollywood, e da quel periodo fino
alla fine della sua vita, il lavoro come scrittore a
Hollywood rappresentò la fonte principale dei
guadagni – anche se non della sua personale
soddisfazione – per lui e per la famiglia che andava
aumentando.
Dal 1937 al 1939 però la maggior parte delle sue
energie creative venne impegnata nella letteratura, e
dette frutti. I tre racconti che aveva venduto e di cui
parla a McWilliams nel febbraio del 1937 erano
«Postman Rings and Rings» («The American
Mercury», marzo 1937), «Charge It» («Scribner’s
Magazine», aprile 1937), e «None So Blind»
(«Woman’s Home Companion», aprile 1938). Non
sono stati ristampati. La bassa opinione di Fante
circa il primo di essi risulta chiara dalla seconda
lettera.
La fine del 1937 e l’inizio del 1938 segnano il suo
primo contatto con la Viking Press, cui aveva
mandato attraverso William Soskin della Stackpole
Sons il manoscritto di «La strada per Los Angeles».
La Viking rifiutò il libro, ma con molto tatto,
guadagnandosi la gratitudine di Fante; il rapporto
che ebbe cosí inizio dette i suoi frutti qualche anno
piú tardi.
Nel frattempo finalmente Stackpole accettò e
pubblicò non uno, ma due libri, prima «Aspetta
primavera, Bandini», nell’ottobre del 1938, e poi
«Chiedi alla polvere». Sfortunatamente sopravvivono
solo poche lettere di questo periodo circa la scrittura
dei libri sopracitati.

[A Carey McWilliams]
Box 498,
Roseville, Calif.
2 febbraio 1937

Caro Carey,
come ti vanno le cose? Qui sembra andare meglio. Tre racconti venduti
per quasi novecento verdoni: «The Mercury», «Scribner’s», e «Woman’s
Home Companion», mi pubblicheranno tutti. Sono decisissimo a non
tornare a Los Angeles. Se dovessi tornarci ora sarebbe senza dubbio un
passo indietro. Qui posso lavorare. I paraggi non sono belli, ma a uno
scrittore non serve una scenografia teatrale. Qualsiasi cosa io abbia da dire
può essere detta da qui e con maggior veemenza di quella che potrei
metterci se vivessi a Los Angeles, dove i truffatori, gli impostori, e il troppo
whisky impegnano una parte tanto grande dei nervi di una persona. La mia
sola scusa se ritornassi a Los Angeles sarebbe il denaro. Se piazzo un film
attraverso il mio agente ovviamente tornerò. Ho cominciato a rivedere il
mio sfortunato romanzo, anche se Soskin continua a tenerlo e non mi ha
mandato i suoi suggerimenti. Nel frattempo sto provando con Palmer, che
ha un nuovo schema di pubblicazione in mente e che vuole darmi dei soldi
in anticipo a patto che gli piaccia la prima metà del libro, ovvero quello che
gli mando, piú una sinossi della parte restante. Ho dei progetti per un altro
romanzo e per una pièce, ma dovranno aspettare fino all’estate, perché ho in
mente di andare nella Sierra e vivere in una capanna.
Omaggi, e scrivi!
J. Fante

Ps.: Hai sempre a che fare con il «Pacific Weekly»? Una giovane signora
della zona scrive della poesia che ritengo bella, se ne hai bisogno; non è
però una rivoluzionaria (non che lo sia tu!)
Che fa Hanna? Ha un mio racconto da oltre cinque settimane, che è un
tempo maledettamente lungo, dal momento che è brevissimo e che ci
vogliono meno di cinque minuti per leggerlo. Potresti chiedergliene notizie
se te ne ricordi, la prossima volta che lo vedi, anche se di fatto non è
necessario, perché per tradizione è lento nel rispondere.
La mia digestione è migliorata. Ora finalmente posso definirmi un
bevitore capace e battagliero. Chiunque riesca a tracannare del whisky
liscio, girarselo in bocca per cinque minuti, e poi inghiottirlo è uno tosto –
non sei d’accordo? Bene, signore, ora io sono in grado di farlo. Non lo
faccio sempre; in verità mi esibisco in questo numero solo in occasioni
speciali e davanti a pochi eletti. Risulta particolarmente intrigante se c’è una
ragazza nel pubblico. Se ti interessa adottarlo, ti suggerisco di allenarti
prima con bevande meno forti: la prima settimana prova con Listerine non
diluito; la seconda con Lysol puro, e la terza con acido carbolico. Essendo il
bar di Roseville quello che è, questi preliminari non li ho fatti, ma
l’esperienza mi insegna che sarebbe meglio provare la strada piú lunga
sopra menzionata.

[Alla cugina Jo Campiglia]


[Box 498,
Roseville, Calif.]
18-3-37

Cara Jo,
l’orizzonte finora è privo di ebree, una vista davvero tristissima; perché a
me le ebree piacciono; e non ne ho vista nemmeno una succulenta da
quando ho lasciato quel grande alveare di ebraismo – Hollywood, terra di
puttane e di negozi di cravatte ebrei.
Sono sorpreso che ti sia piaciuto il mio ultimo parto apparso sul
«Mercury»: la storia era scadente e scritta in modo stupido. Ho fatto di
meglio, ma mai di peggio; forse sto attraversando la mia fase di declino.
Tutto quello che so è che è stato comprato e pagato, l’assegno incassato e
debitamente speso, e finalmente il racconto è esploso sulla carta stampata
come a un bambino scoppia il morbillo. Se pagano per quella robaccia io
potrei avere successo, perché ne ho a bizzeffe in questa testa che mi ritrovo.
[…] Mi sono innamorato di una poetessa. La mamma è innamorata di
papà, e papà è innamorato del vino. L’amore fa girare il mondo. Pee.
Amore e baci,
Johnnie

[A Carey McWilliams]
Box 498,
Roseville
16 giugno 1937

Caro Carey,
ho molto apprezzato il ritaglio di giornale. Mi onori piú di quanto non
meriti. La mia arguzia non si avvicina nemmeno a quella di «Life».
Giornatacce. Sto combinando pochissimo. Qualche raccontino
insignificante ogni tanto – qualche stupida stoccata al progetto originale per
un film – pensieri vaghi sul mio romanzo – pensieri precisi sulla mia
pressione alta, e golf tutti i giorni.
Ogni tanto ho notizie di Ross. Sembra essersi ritirato nei lombi della sua
donna. Vecchio Bennett della Metro.
La mia poetessa ha talento. Il «Mercury» ha preso un suo pezzo. Ne
metterò insieme un carico e te lo manderò. Abbiamo progettato di sposarci
immediatamente dopo che sarò diventato ricco. Oh!
Non sono finito, Carey. Non ho nemmeno cominciato. Sentire che si ha
un destino è uno strazio. Non posso uscirne. Sono affogato dalle idee, ma
nello stato in cui mi trovo non sono valide. Devo cambiare. Mi sento poco
in forma.
Sappi che ti manderò delle cose per «Tides West». Questa biblioteca ha
uno splendido assortimento di strani giornali pubblicati in città dimenticate
e fuori dal giro. Gli darò un’occhiata. Hai letto quella roba di Peter Whiffen
su «Forum»? È buona.
Omaggi
J. Fante

[Alla cugina Jo Campiglia]


Box 498,
Roseville, Calif.
19 giugno 1937
Cara Jo,
ho letto con tremebondo orrore la terribile notizia che tua sorella presto
sarà prigioniera di un cupo svedese. Immagino però che dovremo fare buon
viso a cattivo gioco. È umano, quell’affare? O fa chicchirichí come un
gallo? Ha una borsa sul davanti, dove porta i suoi piccoli – come un
canguro? Trattandosi di uno svedese senza dubbio avrà i capelli color miele,
che susciteranno molte aspre oscenità. Sa leggere e scrivere? Che marca di
caffè vende?
In ogni caso di’ a Grace che sono felicissimo che si sia finalmente
sposata e che finalmente ce ne siamo liberati. Dal momento che ha sposato
un nordico qualsiasi, la mia porta per lei sarà chiusa in eterno. Se dovesse
venire a Roseville, sarà la benvenuta – per il vicolo e la porta di servizio.
Potrà lasciare la Cosa al deposito. Parla oppure no?
Il futuro è ovvio: ho guardato nella mia sfera di cristallo e ho visto
grandi sciami di monelli con i capelli color limone che sventolano bandiere
svedesi, mentre altri procedono a quattro zampe sul pavimento facendo dei
buchi nel formaggio. Vedo Grace che fa collane con i chicchi di caffè, e dei
gerani piantati in lattine di caffè. Vedo la Cosa che si muove gonfia
d’orgoglio fra i suoi italosvedesi, e bebè che mormorano ca-ca mentre lui li
guarda attonito, sbalordito di fronte a questa nuova lingua.
Ma qualsiasi cosa accada, hanno entrambi (seriamente) la mia
benedizione, e il mio sincero augurio di felicità. Quel tipo dev’essere in
gamba, altrimenti Grace non l’avrebbe scelto. […]
Con amore,
johnnie

Ps.: Se vuoi davvero un marito, ci penso io. Ma l’idea della nazionalità


mi ha messo in crisi. Che colore vuoi? Ho vaste conoscenze fra uomini soli
e tristi.
Fai attenzione a La strada per l’inferno, il mio nuovo racconto sul
«Mercury» di agosto. L’ho venduto ieri.

Il racconto venduto al «Mercury», «La strada per


l’inferno», apparve sul numero di ottobre del 1937.
Venne ristampato in «Dago Red» e in seguito ne «La
grande fame». A quel tempo il «Mercury» non era
piú sotto la guida di Mencken e politicamente si era
spostato verso destra.
«Ambrose Bierce: A Biography» di McWilliams
venne pubblicato la prima volta nel 1929.

[A Carey McWilliams]
Box 498,
Roseville, Calif.
6 luglio 1937

Caro Carey,
spero che ti ricorderai di John Fante. Lui ha serie difficoltà a ricordare
qualsiasi cosa, per non parlare di sé stesso, con questo caldo.
Piacevolissimo: temperatura media sui 114º F. Condizioni ideali per una
prosodia straordinaria. Ritratto ad absurdum: John Fante scrive prosa alla
temperatura di 114º F. Ritratto ad nauseam: John Fante scrive.
Comunque, sono riuscito a vendere un racconto al «Mercury» il fascista
e a «Scribner’s» l’invertebrato. Questo, piú una storia che apparirà sul
femminile e capitalista «Woman’s Home Companion», rappresentano il
totale da gennaio, senza contare due epopee a «Scribner’s» e al «Mercury».
Cinque racconti venduti: dodici racconti scritti: media di battute – puah! Il
colosso è collassato.
Dal fronte amoroso tutto tace. Sono stanco e pronto a firmare qualsiasi
accordo. Ammetto la sconfitta. Per Natale sarò schiavo e sposato, a meno
che mi metta le gambe in collo e mi dia alla fuga, cosa per cui mi sono fatto
una reputazione (non l’ho creata io: la paternità dell’idea è del freudiano
Wills). Egli, comunque, deve cuocere nel suo brodo freudiano. Picchia
Margaret? Lei sembra tosta per affrontarla in un corpo a corpo, ma io
scommetto sempre sul Grande atleta e amatore troiano. Ho ricevuto, in ogni
caso, una lettera dal Grande Troiano la settimana scorsa. Si annoia a morte
ed è pronto a circumnavigare il globo un fine settimana a bordo della sua
V8.
Una sera prima di cena mi ha fatto un resoconto disastroso del giretto di
mille miglia che ha fatto in Nevada. Ho capito che il suo cavallo da guerra è
stato colpito e ridotto in pezzi, l’acciaio squarciato, ma che lui ovviamente è
rimasto illeso. Il nostro comune amico e demonio della velocità è nato con
cent’anni di anticipo. […]
Questo mese sull’«Atlantic» c’è un pezzo di Follett che si rifà
moltissimo al tuo monumento a Bierce. Immagino che tu l’abbia già visto.
L’articolo è chiaramente rimaneggiato in caratteri super rifiniti per i club
femminili. Non c’è alcuna giustificazione alla sua esistenza. Il tuo libro era
cosí monumentale che un outsider che parla di Bierce sembra sempre un
frivolo. Peccato che Bierce non abbia visto il tuo lavoro – o è possibile che
l’abbia fatto? Ne dubito.
Domanda: se dovessi riscriverlo, lo faresti dalla prospettiva dialettica
contemporanea? Personalmente non credo che cambieresti una riga. Né ha
bisogno di cambiamenti. Ma potresti fare qualcosa di piú rapido su Bierce.
Gesú, che film ne verrebbe fuori! La dissolvenza, lasciata
all’immaginazione dell’autore, un pezzo di meraviglioso melodramma, il
vecchio Bierce, litigioso fino all’ultimo, messo al muro e fucilato dai
banditi di Villa. Lo vedo mentre cita Dizionario del diavolo di fronte a una
quantità di messicani perplessi…
Allego alcune poesie della mia ragazza. Se credi che qualcuna vada bene
a Hanna, lei ne sarà felicissima e cosí io. Ha ricevuto poco tempo fa una
lettera da Untermeyer. A lui le sue cose piacciono e ne ha prese svariate per
il «Mercury». Avrei dovuto mandarle dieci giorni fa. Aspettando una
risposta da te, o che lei ne riceva una da Hanna, o da te, mi scuso.
Omaggi,
jf

John e Joyce Fante si sposarono a Reno il 31


luglio 1937.
[Alla madre e al padre]
8751 Ashcroft Avenue,
West Hollywood, California
[agosto 1937 circa]

Cari mamma e pa’,


sono arrivato stamani dopo un viaggio tranquillo. Al momento vivo con
Frank Fenton qui a casa sua. Finora non ci sono stati sviluppi. Ho passato il
pomeriggio a fare telefonate, e voglio rimettermi in contatto con il mio
vecchio agente, Minna Wallis e con questo Dozier dell’agenzia Berg. Non
so quello che accadrà, dal momento che non ho avuto la possibilità di
parlare con questa gente. Ma mi sembra che vi siano buone possibilità di
lavoro. Dopotutto ho una reputazione come scrittore per riviste che qui è
rispettata.
Oggi ho scritto a Joyce. A parte Fenton, non ho visto nessuno dei miei
vecchi amici, ma ho intenzione di chiamare Ross Wills stasera e penso di
vederlo. Ho cercato di raggiungerlo allo studio poco fa, ma era uscito. Non
so se dovrei chiamare o andare a far visita a qualcuno dei nostri parenti.
Non ho tempo per nulla, e non ho i soldi per darmi da fare. […]
Il mio amore a tutti
Johnnie

Nella seguente lettera non convenzionale di


accompagnamento al manoscritto, scritta alla Viking
Press, per «La strada per Los Angeles», si nota che
ancora una volta Fante si riferisce alla data di
nascita come avvenuta nel 1911. Si noti anche la
costante intenzione di lavorare a un romanzo sul
tema del controllo delle nascite.

[A David Zablodowsky, Viking Press]


8751 Ashcroft Avenue,
West Hollywood, California
David Zablodowsky, Esq.,
Viking Press,
New York City
6 ottobre 1937

Caro signor Zablodowsky,


la signorina Fanya Foss le ha già parlato del mio romanzo che è ora, e
già da qualche tempo, sottoposto all’esame di William Soskin della
Stackpole Sons. Il signor Soskin l’ha definito come un libro che l’ha
«irritato e affascinato al tempo stesso», e non ha formulato altri giudizi fino
a quando potrà leggerlo con piú attenzione e suggerire un piano per una
riscrittura. Sono d’accordo con il signor Soskin, il libro infatti ha bisogno di
ulteriore lavoro, ma immagino che il signor Soskin sia troppo occupato per
fornire quel tipo di analisi critica che vorrebbe fare se avesse molto tempo,
e di conseguenza, seguendo il suggerimento della signorina Foss e, colpito
dall’eccellente presentazione che mi ha fatto di lei, mi sono fatto rispedire il
libro dalla Stackpole e lo mando a lei alla Viking Press.
Colgo quest’occasione per precedere la sua lettura scrivendole qualche
mio giudizio su questo volume. Mi permetta di insistere sul fatto che
necessita assolutamente di altro lavoro; voglio segnalare che cosí com’è io
lo detesto. Voglio anche aggiungere che con il suo incoraggiamento,
ammesso che lei ritenga che la scrittura sia di un certo valore, posso, e ne
sarei felice, completare una riscrittura attenta e accurata. Sarebbe assurdo
che io lodassi il libro in questa sede, perché ora so di cosa ha bisogno, e di
conseguenza insisterò ancora nel castigarlo e le dirò che di fatto è pessimo e
che lei lo disprezzerà. Non nego tuttavia che è un libro onesto, e che la
interesserà, credo non in sé e per sé, bensí in vista di una revisione – che le
può dare un’idea del tipo di scrittore che sono e di quali sono le mie
possibilità.
Qualche parola su di me: ho ventisei anni, e sono italiano. Ho scritto dei
racconti che sono stati pubblicati su «Scribner’s», sull’«American
Mercury», sull’«Atlantic Monthly», «Harper’s», «Story», «Woman’s Home
Companion», e su varie altre riviste. Ho il curioso onore di aver scritto piú
racconti per l’«American Mercury» di qualsiasi altro scrittore vivente.
Essendo la tendenza presente del «Mercury» (ho un racconto sull’ultimo
numero) quella che è, non posso piú dire che sia chissà che onore.
Comunque, se le interessano i miei racconti, troverà che trattano
esclusivamente di due soggetti a me vicini in modo particolare – l’ambiente
italoamericano e l’influenza della Chiesa cattolica sugli italoamericani. Il
romanzo che riceverà da Soskin non è il miglior libro che io spero di
scrivere; sono quasi sicuro, al contrario, che sarà il peggiore, perché il mio
desiderio è di scrivere un libro su una famiglia italoamericana – molto
numerosa – che affronta il problema moderno del controllo delle nascite e
l’atteggiamento della Chiesa su questo terribile soggetto. Dal momento che
il libro sarà autobiografico, e dal momento che scaturirà dal mio sangue e
dalla mia anima, basandosi sulle mie esperienze, non posso negare che sarà
indubitabilmente un grandissimo libro che verrà ammirato dal mondo intero
e amato per sempre. Se fallirà fallirò anch’io, ma è inutile dire che io sono
quel calibro d’uomo e scrittore che non fallisce. Posso fidarmi del mio
istinto per questo, e il mio istinto non sbaglia.
Prima di mettermi al lavoro su quel libro però voglio terminare questo
nel modo in cui Soskin dice che va fatto, e spero che lei mi aiuterà. Spero
che le piaccia abbastanza da farla mettere a sedere e dirmi cosa c’è che non
va secondo lei. Spero che lei resti in contatto con me fino a quando non
l’avrò riscritto, perché di fatto so perfettamente cosa c’è di sbagliato: l’ho
scritto in tre settimane mentre ero a letto sofferente a causa di
un’indigestione acuta, ho scritto quel dannato libro a mano e l’ho mandato
di gran fretta alla dattilografa, e se è amaro è perché mi trovavo in una
condizione amara e nera e l’ho terminato in una situazione che avrebbe
spaventato e sconfitto un uomo qualunque. Perciò, tutto considerato, è
piuttosto buono, e un uomo che fa quello che ho fatto io e lo fa a letto
pensando di morire (non era vero, ovviamente, ma io lo pensavo) se la cava
abbastanza bene, secondo me. Spero che lei sia d’accordo con me, e se lo è
spero che mi onorerà con una lettera e me lo dica.
Sinceramente suo,
J. Fante

Il commento del lettore della Viking riassunse la


trama di «La strada per Los Angeles» (in seguito
pubblicato dalla Black Sparrow Press nel 1985) e
incluse il brano seguente, notevole per il suo tono
distaccato e la sua cecità all’atmosfera bizzarra e
comica: «La compensazione al sentimento di
inferiorità e di disgusto nei confronti di sé stesso
indotto dall’abitudine alla masturbazione è cercata
nello sfoggio di frammenti non digeriti di Nietzsche,
Schopenhauer, Spengler e consimili, insieme al
pubblicizzarsi come uno scrittore importante alla
ricerca di materiale per un’opera magna. Il ragazzo
disprezza in modo acceso l’“ignoranza” della
famiglia e fa mostra della sua scarsa erudizione con
una truculenza offensiva». Il lettore aggiunge,
comunque: «Credo che mentre la Viking non potrà
usare il manoscritto, neanche dopo la riscrittura che
l’autore sembra ansioso di fare, altri lavori della
stessa provenienza potrebbero essere interessanti.
Nel libro c’è verosimiglianza e vitalità, ma mancanza
di disciplina».
La lettera di rifiuto di David Zablodowsky
cominciava cosí: «La cosa piú facile da dire del suo
manoscritto, che alcuni di noi qui, incluso me, hanno
letto e discusso, sarebbe una dichiarazione del nostro
trovarci d’accordo con tutto quanto è affermato nella
lettera che mi ha scritto il 6 ottobre. Non è solo
originale e rinfrescante da parte di un autore il dire
quanto di peggio può nei confronti del proprio
lavoro, ma rende anche possibile, da parte
dell’editore di turno, il presumere un grado di
franchezza che è ugualmente straordinario». In
seguito aggiungeva: «Le assicuro che secondo me lei
ha garanzie oggettive in abbondanza che giustificano
la sua fiducia in sé stesso come scrittore, ma non
credo di sbagliare spingendola a considerare cose
come il tempo e i tentativi necessari per la crescita di
qualcosa di cosí grande come lei si aspetta di
diventare».

[A David Zablodowsky, Viking Press]


1851 North Argyle, #4,
Hollywood, California
David Zablodowsky, Esq.,
Viking Press,
New York City
21 gennaio 1938

Caro signor Zablodowsky,


le sono molto grato per la deliziosa e bellissima lettera che ha scritto
circa il mio romanzo. Sono molto spiacente che non l’abbia ritenuto adatto
alla pubblicazione perché sarebbe certamente stato un grande onore e
ispirazione avere il rispetto e la fiducia di un uomo del suo calibro. La sua
lettera è meravigliosamente comprensiva, e per ciò lei ha la mia completa
riconoscenza. La voglio ringraziare moltissimo.
William Soskin è ancora interessato al libro, e ha chiesto di
rimandarglielo in caso lei non lo fosse. Perciò – con rammarico – le chiedo
di rimandare il manoscritto alla Stackpole Sons, all’attenzione del signor
Soskin.
La voglio ringraziare ancora una volta per la sua brillante lettera, spero
ardentemente che un giorno in futuro lei possa pubblicare qualcosa di mio.
Potrei scrivere cose grandissime se sentissi che anche solo un uomo, ma
della sua capacità e integrità, le legge. Le auguro il meglio di tutto.
Sinceramente suo,
John Fante

Stackpole Sons pubblicò «Aspetta primavera,


Bandini» – il terzo romanzo compiuto di Fante, ma il
primo a essere stampato – nell’ottobre del 1938.
Prima che passasse un anno, un altro libro – «Chiedi
alla polvere» – venne non solo concluso, ma
pubblicato sempre dalla medesima casa editrice.
La seguente è l’unica lettera conosciuta che data
al periodo in cui il romanzo venne scritto.
Sfortunatamente, i progetti dell’editore di «dargli
grande risonanza» vennero sconvolti da un tracollo
finanziario dovuto alla perdita di una causa per
infrazione di diritti d’autore intentata per conto di
Adolf Hitler, a seguito della pubblicazione da parte
della Stackpole di un’edizione non autorizzata di
«Mein Kampf». Nel 1941 la Stackpole Sons era
fallita. In questo periodo i Fante vivevano a Los
Angeles, dove Joyce lavorava al Wpa, Federal
Writers Project.
La recensione sul «News» uscí su un giornale
locale di Denver. In quella su «Scribner’s», John
Chamberlain paragona Fante a James T. Farrell:
«Entrambi gli autori scrivono parlando di un gruppo
non privilegiato di immigranti cattolici […] Ognuno
ha trattato il soggetto in modo duro e distaccato.
Fante crede in una tecnica purissima, “poetica”,
mentre Farrell usa una mescolanza di realismo e
grottesco». Conclude: «Tutti i Bandini oscillano fra
poli estremi. Arturo, il primogenito, si odia perché è
un immigrato, odia le proprie lentiggini, odia i brutti
polli nel cortile sul retro della casa, si odia quando
Rosa Pinelli lo ignora. Arturo però ha una lealtà
profondamente nascosta nei confronti della famiglia
e della razza. Comprende suo padre quando
l’artigiano tormentato scappa con la vedova
Hildegarde, e dà mostra di comprensione anche
verso la madre nel rifiutare di dirglielo. Alla fine è
Arturo – Arturo con il suo cane – che riunisce
nuovamente la famiglia. La fine sarebbe stata
sentimentale se fosse stato qualunque altro a
raccontarla, ma il signor Fante lo fa nel modo
giusto».
«Human Bondage» (cosí come lo chiama Fante) è
il romanzo di Somerset Maugham «Schiavo d’amore»
(«Of Human Bondage») del 1915, un’autobiografia
appena velata.

[Alla cugina Jo Campiglia]


206 No. New Hampshire,
Los Angeles,
29 novembre 1938

Carissima Jo,
moltissime grazie per aver preso la recensione sul «News». Proprio come
dici è buona e dovrebbe tornare utile durante il periodo di Natale. È stato
generosissimo da parte tua aver faticato cosí per trovarla – e anche da parte
di Edward: ringrazialo per me. Mi è sembrato che fosse molto acuta, scritta
com’era da una cattolica convinta: ha fatto un buon lavoro.
Il libro sarà stampato questa settimana a Londra. Routledge, un’ottima
vecchia casa editrice inglese, mi ha telegrafato la settimana scorsa per dirmi
che l’accettavano. Non so come sarà l’edizione inglese, ma immagino che
non saranno fatti dei cambiamenti. Vorrei aver messo l’hockey inglese o
l’oro al posto di quella roba sul baseball nell’edizione americana, ma
avevano molta fretta perché lo volevano per Natale.
Joyce e io non abbiamo un soldo, ma per il resto stiamo bene e siamo
felici. I quattrini arriveranno, e spero di cominciare il mio nuovo romanzo il
primo dell’anno. Ora sto scrivendo una scaletta, ed è un lavoro grosso ed
esasperante. Il nuovo libro si chiamerà Ask the Dust on the Road, e la storia
ha come sfondo Los Angeles (niente a che fare con la roba di Hollywood).
È la storia di una ragazza che una volta amavo e che amava un altro che a
sua volta la disprezzava. Strana storia di una bellissima ragazza messicana
la quale per qualche motivo non ha nulla a che vedere con la vita moderna,
comincia a fare uso di marijuana, perde la testa e vagabonda per il deserto
Mojave con un cagnolino pechinese. [È] un libro come Human Bondage,
ma con humour e malinconia. Devo finirlo per ottobre dell’anno prossimo,
quindi devo scriverlo entro luglio.
Per Natale andremo a casa, e dopo di ciò i nostri piani sono di recarci in
qualche posto che sia tranquillo e poco caro: probabilmente Monterey.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

Su «Scribner’s» di dicembre è uscita una recensione ottima di John


Chamberlain, considerato il miglior critico americano.

Nel gennaio del 1939, il governatore Olson, nuovo


eletto, come ricorda Carey McWilliams, nomina
quest’ultimo a capo della Division of Immigration
and Housing della California, «un ufficio unico [con]
potere di investigare sul benessere degli immigranti,
fare ispezioni nei campi di lavoro nelle fattorie, e di
occuparsi di alcune forme di alloggiamento rurale».
McWilliams venne scelto sulla base del lavoro di
attivista che l’avrebbe portato a scrivere il suo
«Factories in the Field», un resoconto giornalistico
esplosivo sulle condizioni di lavoro nei campi dei
braccianti immigrati, pubblicato nel luglio 1939.
Fante scrisse un breve articolo sul suo amico
William Saroyan per la rivista di Louis Adamič,
«Common Ground», nel 1941.

[A William Saroyan]
3313 Temple St,
Los Angeles (nuovo indirizzo)
[senza data – gennaio 1939 circa]

Caro Tiger Saroyan, Wildcat Willie the Wow,


Joyce e io saremo con un mare di altra gente a Frisco venerdí sera alle
otto e mezza all’Empire Hotel, dovunque esso sia, e moriamo dalla voglia
di rivederti.
Sembra che Carey McWilliams sia appena stato nominato nuovo
commissario per l’Housing and Immigration, un lavoro delicato e
interessante che ha a che fare con gli immigranti che lavorano ecc. e
abbiamo stabilito di incontrarci all’Empire Hotel, dove alloggia, e dove
arriverà da Sacramento a una qualche ora di giovedí. Tu conosci Carey, Bill.
Ti ho portato al suo ufficio quella volta che siamo andati in centro a L.A.
Conosce te, i tuoi scritti, gli piaci ecc. Potresti cercarlo prima del nostro
arrivo, se ne hai voglia, all’albergo o all’ufficio dell’Housing and
Immigration nello State Building. Di fatto, sarebbe una buona idea: potresti
ubriacarti. In ogni caso, Joyce e io vogliamo vederti assolutamente venerdí
sera intorno alle mangiate e trenta 1 (otto e mezza) all’Empire Hotel. Ho
scritto a Joe Jackson, dicendogli che vorrei mettermi in contatto con lui
attraverso te; ma ora ti scrivo perché mi hai detto che non hai piú un
telefono. Perché non hai piú un telefono, proprio tu, uno degli autori piú
abbienti della costa occidentale, piú benestante dei Norris, dei Dobie, degli
Steinbeck? Perché? Cosa ne fai del tuo denaro? Puoi spiegarmi tutto quando
ci vedremo, e per piacere, non deluderci, Willie. Ti vogliamo.
Johnnie

La recensione sull’«Atlantic Monthly» di cui


Fante parla alla madre nella lettera seguente e che
definisce come «meravigliosamente soddisfacente» in
una lettera ancora posteriore, del 23 novembre, a sua
cugina, era stata scritta da Ellery Sedgwick. Questi
descrive la scrittura di Fante come «un tipo di poesia
[che] inala vita da una girandola di esistenza
americana, molto piú grande dei suoi membri
aggregati, dalla portata molto piú vasta di una
qualsiasi porta di chiesa», e conclude cosí: «“Chiedi
alla polvere” realizza in pieno la meraviglia
interrogativa presente negli scritti frammentari di
Saroyan, e riconosce inoltre la crudeltà del destino
dell’uomo. Fante fa centro con altrettanta sicurezza
di Halper in “The Foundry”, o di Swinnerton in
“Notturno”, per prendere ad esempio due autori
speculari. L’amore di Camilla per Sammy e la sua
disintegrazione quando non viene accettata farebbe
piangere un sasso. Fante deve aver vissuto qualcosa
di simile a un certo punto della sua vita. E ora che ha
scritto il suo “Werther”, speriamo vivamente che
possa procedere a un altro “Faust”».
(All’affermazione di Sedgwick che Fante avesse
vissuto un’esperienza simile, Joyce Fante risponde:
«No, non gli è mai accaduto»).
Fante parla anche del prodotto di una
collaborazione con Lynn Root e Frank Fenton, sul
punto di essere venduto alla Mgm, ma che venne poi
trasformato (da una sceneggiatura non di Fante, ma
di S. J. e Laura Perlman) in un film, «The Golden
Fleecing», distribuito nel 1940.
Circa quello che dice alla madre, ovvero che
«Joyce e io siamo andati a messa regolarmente»,
Joyce Fante commenta semplicemente: «Falso».

[Alla madre]
826 South Berendo,
Los Angeles
8 novembre 1939

Carissima mamma,
il mio nuovo libro esce oggi. Da quello che sento ha tutte le possibilità di
fare un mucchio di soldi. Lo dico per via della lettera che ho ricevuto dal
mio editore e delle prime recensioni, una delle quali apparirà sul numero di
dicembre dell’«Atlantic Monthly». Venerdí scorso il mio editore mi ha
telegrafato dicendo che avrebbe spinto moltissimo il libro, e so che la
vendita anticipata supera già quella del mio primo libro. È – questo nuovo –
un lavoro molto ben fatto per quello che riguarda la stampa e la legatura, ed
è molto piú bello del primo. È in mostra in una vetrina a Beverly Hills, e ha
una delle copertine piú affascinanti che io abbia mai visto. Te ne manderò
una copia prestissimo.
Anche il mio primo libro ne guadagnerà. So di varie librerie che hanno
ordinato altre copie di Bandini, e c’è la possibilità che anche quello faccia
guadagnare dei soldi. Oh, sí, uno scrittore qui in città che si chiama Leonard
Penn, il marito dell’attrice Gladys George, ha chiesto un’opzione per il mio
primo libro, e ha in mente di scrivere una pièce per New York tratta da
quella storia. Domani firmerò l’accordo. Dall’opzione non trarrò un gran
guadagno – solo cento dollari, ma se la pièce avrà successo potrò incassare
migliaia di dollari, perché mi toccherà metà dei profitti.
In generale il futuro sembra roseo. Alla Metro stanno esaminando un
soggetto che ho scritto con Frank Fenton e Lynn Root. Credo che ci siano
buone possibilità di venderlo per circa seimila dollari, o duemila a testa.
Riguardo a ciò non avremo notizie definitive per tutta questa settimana, ma
se lo venderemo, ovviamente Joyce e io verremo a casa per il
Ringraziamento, e forse prima. Un altro mio soggetto è in esame alla
Warner Brothers, e un terzo, non ancora finito, sarà consegnato fra pochi
giorni. Succederà senz’altro qualcosa prima di Natale, o ancora prima.
Speriamo che le cose volgano con decisione al meglio mano a mano. D’ora
in poi avrò una buona posizione nel mondo dell’editoria. Posso chiedere e
ottenere grandi anticipi, quando deciderò di scrivere un altro libro. Di fatto
sono certo di poter ottenere un anticipo di duemilacinquecento dollari
appena lo chiedo. Il successo del mio nuovo libro mi aprirà naturalmente
delle opportunità qui a Hollywood, ma dovrò discutere tutto ciò con il mio
agente.
Joyce sta bene. Oggi aveva un brutto mal di testa, ma è la prima volta
che sta male in sei mesi. Ha mandato una serie di poesie all’«Atlantic
Monthly», ed erano cosí buone che sono sicuro che ne venderà almeno un
paio.
Ti suggerisco di ascoltare la radio domenica sera, c’è il programma di
Joseph Henry Jackson da San Francisco. Credo che recensirà il mio nuovo
libro questa domenica. Se no, lo farà la domenica successiva. Il programma
è alle sei o alle sei e trenta di sera. È un programma che viene trasmesso da
costa a costa e dovrebbe aiutare moltissimo, sempre che a Jackson piaccia il
libro. Non ho avuto sue notizie, e potrebbe darsi che il libro non gli sia
andato a genio, credo però che lo loderà. Accludo un ritaglio dal «Boulder
Camera». Mi è stato mandato da Milton Folawn, che ora è tornato a
Boulder.
Quaggiú ha cominciato a piovere. Oggi c’è stata la prima pioggia della
stagione, leggera e fredda. Il cambiamento mi piace. Ultimamente faceva
troppo caldo. Sto lavorando a un racconto bellissimo. Joyce e io siamo
andati a messa regolarmente le scorse domeniche. Ho ricevuto una lettera
da Paul Reinert che mi chiede una copia del mio nuovo libro. I preti fanno
voto di povertà e non gli è permesso di comprare cose come i libri. Gliene
manderò una entro pochi giorni.
È tutto per questa volta. Il mio amore a tutti,
Johnnie

[Alla madre]
23 novembre 1939

Carissima mamma,
il mio libro ha già venduto piú copie di Bandini, ed è uscito da soli dieci
giorni. L’editore sta facendo molta piú pubblicità al mio libro che non agli
altri in catalogo quest’autunno. Dovunque vada ricevo grandi lodi. Alcune
delle recensioni non sono cosí entusiastiche come lo erano per il mio primo
romanzo, ma in generale credo che sia un gran successo. Probabilmente mi
farà guadagnare un po’ di denaro.
La settimana scorsa Pascal Covici della Viking Press era in città. Mi ha
fatto un’offerta meravigliosa di duecento dollari al mese per un anno intero
per un nuovo libro, con un conto aperto di tremilacinquecento dollari. In
altre parole posso ritirare duecento dollari al mese per un anno intero a
titolo di royalty anticipate, e se non bastano posso ritirare fino a
tremilacinquecento dollari. Ovviamente ho ricevuto altre offerte. Ritengo da
ora in poi di essere nella posizione in cui posso chiedere quello che voglio.
Altri tre editori mi hanno offerto tremila dollari ciascuno, e Stackpole è
preoccupato che io possa abbandonarli per un’altra azienda. Quello che farò
dipende da come mi sentirò nelle prossime settimane. Adesso non sono
pronto a cominciare un libro nuovo. Per tre mesi non voglio nemmeno
pensarci. Nel frattempo le offerte continuano ad arrivare, e sceglierò la
migliore. Per quello che riguarda il denaro e il successo non ho nulla da
temere. Nella mia testa non ci sono dubbi che il mio prossimo libro mi
frutterà una fortuna – forse cinquantamila dollari. Ma non penso ai soldi.
Sto indicando tutte queste cifre perché so che interesseranno piú a te che a
me. Qualsiasi cosa accada, credo che d’ora in poi il mio problema con il
denaro sia finito. Ora posso ottenere quello che voglio – fino a
tremilacinquecento dollari l’anno per il mio prossimo libro.
Il mio primo libro uscirà molto presto in edizione economica, e mi
daranno cinquecento dollari, ma la metà andrà all’editore. Sto scrivendo un
racconto che mi frutterà un paio di centinaia di dollari, e la settimana scorsa
ho venduto un film alla Metro Goldwyn Mayer, ma non ho ancora ricevuto
l’assegno. La mia parte sarà di mille dollari. Sto pensando a un lavoro per il
cinema per il quale mi pagheranno trecento dollari alla settimana, ma non è
ancora sicurissimo. In ogni caso il denaro non è piú un problema. Per la fine
della prossima settimana avrò l’assegno per il film, e potrò mandarti
duecento dollari. Il resto andrà per pagare i conti, comprare vestiti e farci
sopravvivere fino a quando firmerò un contratto per un nuovo libro. Joyce e
io non sappiamo che fare per il futuro. Possiamo andare dove vogliamo, ma
non abbiamo ancora deciso. Potremmo andare al mare per qualche
settimana.
Non ci sono molte notizie. Ho ricevuto una lettera da Denver, dove
scrivono che Ralph sta benissimo e che sta per iniziare un nuovo lavoro.
Potremmo venire al Nord la prossima settimana, il 30 novembre. Se lo
faremo ti telegraferò.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

I mille dollari – o duemila, come scrive nella


seguente lettera alla cugina – per il soggetto («The
Golden Fleecing») venduto alla Mgm, la
pubblicazione di due romanzi in un anno, e le
richieste lusinghiere degli editori sul romanzo
successivo, tutto aiutò a trasformare la fine del 1939
in un momento di tranquillità economica e di
esultante fiducia in sé stesso. Solo alcune delle
speranze espresse nella lettera precedente e in quella
che segue però si avverarono. Non apparve infatti
nessuna edizione economica con i Mercury Books,
senza dubbio a causa dei problemi legali avuti da
Stackpole. Non venne mai distribuito un film dal
titolo «Mamma Ravioli», né è stato identificato alcun
film del 1939-40 con Cagney e Garfield. Il
«raccontino dago» non è identificato, ma non
apparvero piú racconti di Fante sull’«Atlantic
Monthly». E nel maggio del 1940 parlava di sé
descrivendosi come «nella situazione peggiore in cui
mi sia mai trovato».
Fu probabilmente in quel periodo (sebbene non
venisse pubblicato fino al 1942), prima che si
impegnasse nel progetto del 1940 poi risoltosi in
nulla di scrivere un romanzo filippino, che Fante
scrisse una breve dichiarazione per il «Twentieth
Century Authors». In questa sostiene di essere nato
nell’anno 1911 e dice di essere «impegnato a scrivere
“Mater Dolorosa” (un titolo provvisorio), lo sforzo
maggiore mai fatto». Sembra probabile che questo
titolo si riferisca al libro ideato sul tema del
controllo delle nascite a cui pensava dal 1936, il
libro italiano a cui fa riferimento anche altrove.

[Alla cugina Jo Campiglia]


23 novembre 1939

Cara Jo,
ti sono grato per la lettera, e non mi sorprende né mi dispiace che ti
piaccia di piú Bandini che non Chiedi alla polvere, credo infatti che la
scrittura in Chiedi alla polvere sia superiore a quella di Bandini, ma la
storia in Bandini mi era molto piú vicina che non quella di Chiedi alla
polvere. Per questa ragione non potevo far cantare questo nuovo libro con il
tono lirico di Bandini. Il primo libro mi è uscito dal cuore; il secondo dalla
testa e dal (comincia per c e finisce per o).
Le recensioni sono contraddittorie. Alcuni condannano il libro in quanto
osceno; altri lo lodano selvaggiamente. La miglior recensione – ed è
veramente perfetta – apparirà nel numero di dicembre dell’«Atlantic
Monthly». Leggila, se il mio lavoro ti interessa. Quel critico ha veramente
capito il mio libro, e ha fatto piú per le sue vendite di tutti gli altri. Hanno
già stampato una seconda edizione, e ci aspettiamo buone vendite fra ora e
Natale. Gene Fowler è impazzito per il libro, e lo esalta dappertutto. Lo
stesso vale per Bill Saroyan, Carey McWilliams, Louis Adamič, e dozzine
di altri.
Fra l’altro, la Mercury Books (venticinque centesimi) fra poco farà
uscire un’edizione economica di Bandini. Ne sono contentissimo, perché
significherà quasi un milione di lettori. Oh sí – il prossimo anno Bandini
apparirà sul palcoscenico di New York. La settimana scorsa ho firmato un
accordo per autorizzare un commediografo a ridurlo per il teatro.
Probabilmente la produrrà Abbott, con Leo Carrillo nella parte di Svevo
Bandini. Ovviamente tutto dipende se troveremo o no un adattamento che
vada bene, ma ho un forte presentimento che ci riusciremo.
Le cose cominciano ad andare meglio. Penso davvero che i miei
problemi di soldi siano finiti. La Viking Press mi ha offerto quattromila
dollari come anticipo sul mio nuovo libro, che è una gran tentazione, ma ci
sono anche altre offerte. Posso chiedere trecento dollari al mese per un anno
o diciotto mesi. Il prossimo libro dovrebbe fruttarmi molto denaro, cosa che
non ha molta importanza, ma dal punto di vista critico un grande libro,
intenso, scritto da me e che ha successo, mi metterà d’un colpo allo stesso
livello di scrittori come Faulkner, Sinclair Lewis, Tom Wolfe. Sono un po’
preoccupato di arrivarci cosí presto. Che succederà quando avrò quaranta,
quarantacinque, cinquant’anni? Preferirei prendermela con calma.
La settimana scorsa – due scrittori e io – abbiamo venduto un soggetto
per un film alla Metro. Abbiamo ottenuto seimila dollari, o duemila a testa,
ma il denaro non è ancora arrivato, tantomeno la grana che mi spetta per
l’edizione economica di Bandini, ovvero la metà di cinquecento dollari.
Presto – credo piú o meno a Natale – la Warner distribuirà il mio soggetto
che si chiama Mamma Ravioli. È con Garfield e Cagney, e il titolo potrebbe
cambiare, ma sarà un film bellissimo, quindi tienilo d’occhio.
Sto scrivendo un raccontino dago dannatamente bello per l’«Atlantic
Monthly». Ti terrò informata. Le riviste smaniano per i miei lavori, ma non
mi dànno nessuna garanzia.
Joyce e io andremo a San Francisco questa settimana per la partita Cal-
Stanford. Abbiamo in progetto di bighellonare per San Francisco qualche
giorno, poi andremo a Roseville. Dopo di ciò i nostri piani sono vaghi. Ho
pensato a Denver, ma può aspettare fino a quando non firmerò un nuovo
contratto e comincerò il libro. Questa volta sarà uno grosso – una lunga
saga familiare – centomila parole.
Chiedi alla polvere è stato preso in considerazione dalla Metro e dalla
Paramount, ma non credo che abbia delle possibilità. Comunque potrebbe
saltarne fuori un lavoro per me da qualche parte in città, se volessi. E
francamente non lo voglio. Non hai idea di quanto sono invidiosi e amari
alcuni degli scrittori locali che guadagnano duemila dollari alla settimana
nei confronti di un uomo che di fatto scrive e produce un buon libro. Se mi
daranno cinquecento dollari alla settimana e una garanzia di dieci settimane,
accetterò un lavoro. Se no che si fottano con una pompa da bicicletta.
Di’ a Grace che presto avrò dei soldi per lei. Sono contento che ti piaccia
Joyce. Ovviamente lei ama molto tutti noi. Dài il mio amore a Ralph e a tua
madre e a tutti.
johnnie

[Alla madre]
2904 Manhattan Avenue,
Manhattan Beach, California
12 dic. 1939

Carissima mamma,
Joyce e io abbiamo preso una casa di cinque camere. È meravigliosa, con
la vista che si apre sul mare. Siamo felicissimi qui – è il posto migliore in
cui abbiamo mai vissuto. L’affitto per l’estate è di centocinquanta dollari al
mese, ma noi abbiamo firmato un contratto per cui l’abbiamo a
quarantacinque dollari per tutto l’anno. È un posto davvero splendido, e
quest’estate verrete tu e tutta la famiglia a godervelo. Abbiamo due letti
extra e un paio di brandine, quindi c’è tantissimo posto per tutti.
L’assegno per la ristampa della Mercury di Bandini non è arrivato. Non
so cosa gli sia capitato, ma mi aspetto di ricevere notizie fra pochi giorni.
Nel frattempo dovremo fare attenzione ai soldi. Comunque allego un
assegno di sessanta dollari, con la promessa di mandarne altri in seguito.
Joyce e io saremo a casa per le vacanze – probabilmente per il 22 o 23
dicembre. Rimarremo anche per Capodanno.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

1
Intraducibile gioco di parole basato sull’assonanza di ate e eight
[N.d.T.].
1940

Del 1940 sopravvive molto materiale. Anzitutto,


dal gennaio del 1940 abbiamo piú o meno dodici
pagine – tutte quelle che si sono trovate – di un
diario dattiloscritto che Fante aveva cominciato a
tenere. Va dal 3 al 29 gennaio, il giorno in cui ebbe
un disastroso incidente con la macchina descritto
nella lettera seguente. È stampato come appendice a
questo volume.
Del 1940 abbiamo inoltre una dettagliata
corrispondenza con la Viking, soprattutto con Pascal
Covici, un rapporto che dette come risultato la
pubblicazione di «Dago Red». Queste lettere rivelano
molto circa le difficoltà di Fante – infruttuose, come
poi risultò – a terminare un romanzo sui filippini in
California. Il suo diario registra che fu Carey
McWilliams a dargli l’«ispirazione» per imbarcarsi
in questo progetto, sebbene il suo interesse per i
filippini fosse di vecchia data. Gli altri piani e
ambizioni a cui Fante accenna includono un «Italian
“opus”» che doveva essere un breve libro sulle
«reazioni dell’italoamericano medio all’entrata in
guerra dell’Italia» e «Ah, Poor America!»
Sfortunatamente da questi progetti scaturirono solo
frammenti. Alcuni di questi vengono da lui inclusi
nelle lettere, e in ogni caso formano una lettura
interessante. Anche la corrispondenza con la Viking
dimostra la permalosità di Fante in modo divertente
(divertente per chi la nota, in ogni caso).
Poi ci sono tre belle lettere nelle quali fa dei
commenti rivelatori sul proprio lavoro e risponde a
un ammiratore entusiasta, ingaggiandolo per farsi
aiutare nell’ottenere il Guggenheim Award.
Questo fu anche l’anno che vide la produzione di
due sceneggiature di Fante. Si trattava di film di
serie B o «programmatori», designati per la seconda
parte di una doppia proiezione. Uno era intitolato
«Non mi ucciderete», dalla Warner Brothers, e l’altro
«The Golden Fleecing», dalla Mgm. Fante continuò a
essere dilaniato dalle tentazioni di Hollywood (ed era
la sua reale indigenza che rendeva tali tentazioni cosí
allettanti) e dall’ambizione di scrivere a tempo pieno.
Ora, comunque, aveva l’aiuto della moglie per i suoi
progetti letterari, come ci mostra una lettera che
Joyce scrisse a Covici.
Respingendo quella che interpreta come
un’accusa da parte dell’editore in commenti fatti in
precedenza, Joyce Fante commenta a sua volta con
spirito: «Mi arrabbio moltissimo quando mi imbatto
in questa vecchia storia, ovvero che il matrimonio ha
seccato la vena di Fante come romanziere. Il fatto è
che a Fante era successa una cosa molto buona
quando sposò Joyce Smart, e ne era consapevole.
Non mi ha sposata, come pensavano i miei parenti,
per i soldi, ma certamente si rendeva benissimo conto
di quali fossero i vantaggi. La proprietà che ereditai
alla morte di mia madre nel 1941 valeva mezzo
milione di dollari di oggi. Le entrate dovute a quella
proprietà – un edificio di uffici con tre affittuari, otto
case in affitto e un distributore di benzina – ci
permisero di tirare avanti, e ci fecero sopravvivere
nei molti momenti di non produttività.
Ma torniamo ai primi anni di matrimonio.
All’inizio del 1938 cominciai a lavorare per il Wpa,
Writers Project, con un salario di novantaquattro
dollari al mese, e quella era l’entrata con la quale ci
mantenevamo mentre John scriveva i suoi primi due
lavori pubblicati, “Aspetta primavera, Bandini” e
“Chiedi alla polvere”. Oltre a una macchina e a una
macchina da scrivere nuova, portai la capacità di
fare editing e consulenza, cose che John ebbe modo
di apprezzare mentre scriveva i suoi due libri nel
1938-39 e durante tutta la carriera da quel momento
in poi […]. Non sono mai stata una brava donna di
casa, ma prima, come del resto adesso, gestivo
ottimamente il denaro, riuscendo nell’incredibile
compito di non andare mai in rosso in banca,
nonostante avessi il conto in comune con un marito
che d’abitudine non riempiva le matrici degli assegni
[…]».

[A Pascal Covici, Viking Press]


2904 Manhattan Ave,
Manhattan Beach, Calif.
17 febbraio 1940

Caro Pasquale,
il 29 gennaio ho avuto un incidente (sono andato a sbattere contro un
palo del telefono; ero solo) e sono stato portato all’ospedale con la
mandibola rotta, uno zigomo rotto, e i muscoli del braccio destro lacerati.
Solo per il braccio ci sono voluti settantacinque punti, e oltre al dolore e il
rischio di tetano, tutta quest’esperienza è costata molto cara. Mi ci sono
voluti tre dottori, un’operazione, due settimane in ospedale, e una fortuna
spesa in raggi X. Ora sto bene, ma il conto in banca è a zero. C’erano
settecento dollari, ma l’incidente me ne è costato quasi un migliaio. Ho
bisogno di trecento dollari immediatamente; me ne servirebbero anche
cinquecento, ma non posso chiederti cosí tanto. In ogni caso ho le spalle al
muro e se non trovo un aiuto potrei finire crivellato dalle pallottole degli
obblighi contrattuali. Posso trovare quello che mi serve da qualche altra
parte, ma credo che tu sappia ciò che questo comporta.
Oggi – non appena finisco questa lettera – telegraferò per essere
dimesso. Per giugno ti manderò del lavoro, diciamo quindicimila parole.
Devo prendermela comoda perché ho perso tantissimo sangue e la ripresa è
un processo lento ed esasperante. Dal momento che non posso nemmeno
pensare di usare una macchina da scrivere per un’altra settimana, per ora mi
fermo. Ho un romanzetto e due racconti da scrivere prima di iniziare la
grande opera italiana. Sí, e ho anche altri piani, ma non ne posso parlare
qui. Quando verrai di nuovo?
Non dire una parola a nessuno di tutto ciò, per favore.
John Fante

«Citizens: A Novel», di Meyer Levin, un racconto


romanzato sull’uccisione di alcuni scioperanti da
parte della polizia a Chicago nel 1937, e «Paris
Gazette» di Lion Feuchtwanger, una storia di
ottocentotrenta pagine su un intrigo ordito dai nazisti
per prendere possesso di un giornale tedesco
pubblicato nella Francia del 1935, vennero entrambi
pubblicati dalla Viking nel 1940 e ben recensiti per il
loro messaggio politico. Covici ne aveva
evidentemente mandato delle copie a Fante, che non
ne rimase impressionato.
Il romanzo breve di Fante «Una moglie per Dino
Rossi» venne incluso in «Dago Red».
[A Pascal Covici, Viking Press]
2904 Manhattan Ave,
Manhattan Beach, Calif.
23 aprile 1940

Caro Pasquale,
mio Dio, Pat, questo Levin è un atroce musone e uno scrittore piatto. Ho
attaccato con coraggio Citizens cinque o sei volte, e Gesú, aveva proprio
un’ottima possibilità di scrivere qualcosa di bello, e invece se l’è fottuta
facendo una gran baraonda sul proletariato. Maledizione, conosce le
acciaierie cosí bene, e guarda che fa con quella roba meravigliosa. Mi dà la
nausea, mi rattrista, mi rattrista moltissimo.
Poi Feuchtwanger. Diavolo. Mia moglie l’ha letto tutto. Non so come
abbia fatto. Dov’è la nota lirica? Dov’è la qualità del canto del violino che
io ottengo nei miei scritti? Nulla. Solo un gran librone, un romanzone per il
mercato dove girano i soldi. Maledizione. Non dirmi che devi stampare
Feuchtwanger solo perché è Feuchtwanger.
Ho appena finito di scrivere una chicca di romanzetto di ventimila parole
che si chiama Una moglie per Dino Rossi. Ragazzi, che scrittura. E che
storia. L’ho mandato a Elizabeth Otis. Se non riesce a venderlo la mia
opinione della letteratura americana diminuirà sensibilmente.
Ascolta Pat. Sto pensando di far uscire un libro di racconti. […] Ho in
mente di intitolarlo L’odissea di un wop. Grandioso, no? […]
Sinceramente,
Johnny

[Alla madre]
2904 Manhattan Avenue,
Manhattan Beach, Calif.
24 aprile 1940

Carissima mamma,
[…] come sai dalle altre lettere che ti ho scritto, Covici della Viking
Press è molto interessato al mio prossimo libro. Non ho ancora nessuno
schema, né ho scritto una sinossi, quindi non firmerò nessun contratto prima
di ciò. Voglio prendermi il tempo necessario per questo nuovo libro. Voglio
diciotto mesi per scriverlo, e Covici è d’accordo a finanziarmi per venti
mesi a duecento dollari al mese. Buono. Ma prima vuole vedere la sinossi, e
non ha torto. Bene, ho raccolto tutti i miei racconti, e formano già un bel
librone, piú quelli che ho mandato a Covici l’altro giorno, con il
suggerimento di farli uscire questo autunno. Cosí il mio nome resta sotto gli
occhi del pubblico e anche se non dovessi cavarci nulla, sarebbe importante
per la pubblicità. Ora sono in attesa di sapere cosa ne pensa Covici. Se
questa proposta non lo convincerà, posso portare i racconti a qualche altro
editore, e sono certo che a qualcuno piaceranno abbastanza da farli uscire
sotto forma di libro.
Ora che siamo di nuovo al verde, passiamo tutto il tempo a casa. Le
giornate sono state piacevoli, moltissimo sole, e di solito il pomeriggio
andiamo al mare. Qui abbiamo una meravigliosa striscia di spiaggia, un
grande nastro bianco di sabbia che prosegue per miglia e miglia, e il sabato
e la domenica ci vengono i bagnanti da tutta la California del Sud. […]
Tre settimane fa circa A. I. Bezzerides e io abbiamo scritto un soggetto
per il cinema. È stato rifiutato sia dalla Metro che dalla Columbia, ma
abbiamo avuto buone notizie dalla Paramount e dalla Rko. Il mio agente ieri
mi ha telefonato per dirmi che alla Rko stavano considerando la cosa con
molta serietà. Ha parlato di settemilacinquecento dollari. Questa settimana
sapremo. Se lo vendiamo a quel prezzo in banca avrò poco piú di tremila
dollari, e non avrò preoccupazioni per molto tempo – fino a quando farò il
mio grande libro. Mi piacerebbe finirne un altro prima che la guerra arrivi
in questo Paese. Perché mi sembra che possa arrivare da un giorno all’altro
– nei prossimi otto mesi. Si stanno preparando tutti. […]
Non ho visto né sentito nulla da parte dei nostri parenti. Un mese fa circa
sono passato accanto al negozio di Maselli con la macchina, e ho visto
Maselli che stava davanti all’entrata con le braccia conserte. Non c’era
nemmeno un cliente in vista. Intorno a quel quartiere sono spuntati dei
negozi piú grandi, e a distanza di un solo isolato Safeway ha costruito un
grande magazzino che porta via la gente ai piccoli commercianti. Non mi
sono fermato a salutare Maselli. Ma mi è dispiaciuto molto per lui vederlo lí
davanti al suo negozietto. […]
Il mio amore a papà, a Jo e a te,
Johnnie
Con il definire la sua malattia «Blitzkrieg», nella
lettera seguente Fante ci ricorda che nel settembre
del 1939 la Germania nazista aveva invaso la
Polonia, dando inizio alla Seconda guerra mondiale,
e fa direttamente eco alle tattiche della «guerra
lampo» nell’invasione da parte della Germania del
Belgio e dell’Olanda il 10 maggio 1940. Gli Stati
Uniti non entrarono in guerra fino all’attacco subito
nel dicembre del 1941.
«Il cagnolino rise» era un racconto scritto dal
personaggio Arturo Bandini in «Chiedi alla polvere».

[A Pascal Covici, Viking Press]


2904 Manhattan Ave,
Manhattan Beach, Calif.
26 maggio 1940

Caro Pasquale,
hai ragione per quello che riguarda un libro di racconti in questo
momento. Detesto trovarmi d’accordo con te, ma devo essere onesto e
affrontare i fatti. […]
L’uomo con la falce mi ha quasi ghermito un’altra volta. Questa volta è
stata l’influenza. Me la sono presa tre settimane fa e dopo sei ore la febbre
era salita a 105º F rimanendo ferma per quattro giorni. Il dottore mi ha
prescritto dosi pesanti di sulfanilamide che ha abbassato la febbre ma che
dannazione mi ha quasi ucciso. Ho perso ventidue libbre in due settimane.
Avrebbe potuto essere piú facile se non fosse stato per l’incidente d’auto,
che mi ha lasciato debolissimo e predisposto.
Questo è […]
Stavo per chiederti un altro anticipo per superare quest’ostacolo, ma mia
moglie me l’ha proibito. In ogni caso non mi sono mai trovato in condizioni
peggiori di cosí, e non appena il Blitzkrieg sarà sconfitto mi metterò al
lavoro per te. Mi sto consumando dal desiderio di scrivere, sto impazzendo.
Amo la guerra, il caos, le predizioni buie sulla fine di questa civiltà. È
sempre in tempi come questi che riesco a dare il meglio di me con la
macchina da scrivere. E quando sarò sulla quarantina e mi offriranno il
Nobel puoi stare certo che lo accetterò con gioia.
Qui rischiamo lo sfratto. Se accadrà, mia moglie andrà a stare da sua
madre al Nord, ma io terrò duro per un paio di settimane e poi andrò a stare
con un amico a Hollywood. In ogni caso questo indirizzo sarà ancora buono
per dieci giorni.
Il Paese è impazzito, Pasquale. I patrioti sono usciti da sotto le pietre
bagnate e ora avremo una visione chiara della democrazia senza i vestiti.
Io sono innocente. Non ho avuto niente a che fare con Versailles perché
ero un ragazzino. Ancora meno con la povertà e la rovina dopo il ’29 perché
anch’io ho fatto la fame e ho vagabondato per le strade, con la testa che mi
ronzava a causa delle invenzioni dei bugiardi che mi scacciavano dai loro
fetidi templi del sapere. Mi sento come un uomo di Dio. Mi sono tappato il
naso e ho stretto i denti. Ora sono uscito all’aria aperta e sento odore di
sangue. Possono fare a brandelli questa civiltà sopravvalutata, possono
tenersi il loro fascismo e nazismo e bolscevismo e democrazia. Scriverò a
macchina con una mano, con le dita dell’altra mi turerò le narici. Sarà piú
lento, meno conveniente, ma in ogni caso sarà una scrittura grandissima.
Hitler. Blah. Mussolini. Blah. Stupidi. Nessuno dei due ha letto Il cagnolino
rise.
Ossequi,
John

Il 29 maggio 1940 Covici scrisse a Fante: «I


[m]iei soci sono ben disposti verso di te quanto me, e
vogliamo stipulare un contratto per i racconti e tre
romanzi. L’assegno qui accluso di duecento dollari
piú i trecento dollari che ti ho dato, sono da
considerarsi come un anticipo generico».

[A Pascal Covici, Viking Press]


2904 Manhattan Ave,
Manhattan Beach, Calif.
3 giugno 1940

Caro Pat,
inutile dire che sono terribilmente felice per la tua decisione. Con ciò è
detto tutto. I miei piú sentiti ringraziamenti per la tua fiducia e il tuo
entusiasmo. Puoi contare su di me per quello che riguarda la mia
produzione. Scriverò per te il romanzo dannatamente migliore che tu abbia
mai pubblicato. Dico davvero. Scriverò un libro che farà sembrare quelli di
Steinbeck delle formiche. Conserva questa lettera. Aspetta. La rileggerai fra
due anni. Vedrai. […]
Ascolta Pat, ho un nuovo titolo, una chicca, un titolo forte. Dago Red.
Ecco Pat. Dago Red. Bang. L’odissea di un wop suona troppo come cristo
che porta la croce su per la collina. Dago Red è fulmineo e ha entusiasmo.
Dago Red. Bang.
Il fatto che questo libro sia stato accettato mi sprona come un calcio in
culo. Immediatamente mi è stato tutto chiaro. Ti manderò prestissimo lo
schema del romanzo, e wow, che libro, mi è apparso come qualcosa che
salta su da terra. Ce l’ho tutto sulla punta delle dita. Aspetta e vedrai che ti
piacerà, è bello.
[…] Qui ci sono altri racconti. L’iradiddio e Ave Maria devono
semplicemente essere inclusi. Sono la misura della mia fede e sono
appropriati.
[…] Questa è la disposizione che a me piace:

Chierichetto
Una moglie per Dino Rossi
Casa, dolce casa
La madre di Jakie
Professionista
L’odissea di un wop
Prima comunione
Charge It
La canzonetta scema di mia madre
La strada per l’inferno
Muratore nella neve
Uno di noi
L’iradiddio
Ave Maria
(A Night in Venice)

So che non hai A Night in Venice, e non credo tu abbia Professionista.


Tanto per fare ti mando anche The Postman Rings and Rings, pubblicato su
«The Mercury». Credo che sia piuttosto ordinario, ma se hai bisogno di
materiale potrebbe essere incluso. A Night in Venice è abbastanza lungo
(seimilacinquecento parole circa), ed è stato messo, riveduto, come capitolo
in Chiedi alla polvere. Se lo vuoi posso fartelo avere. Gli unici due su cui io
insisto perché vengano aggiunti sono L’iradiddio e Ave Maria. […]
Con i migliori saluti da me e Joyce,
John

[Alla madre]
6 giugno 1940

Carissima mamma,
bene, come mi aspettavo la fortuna è arrivata in extremis, quando
eravamo agli ultimi tre dollari, con l’affitto da pagare entro una settimana, e
i conti che si sommavano.
Sabato mattina ho ricevuto una raccomandata della Viking Press con la
quale mi comunicavano di aver accettato il mio libro di racconti per
pubblicarlo in autunno. Nella lettera c’era un assegno di duecento dollari
come anticipo. L’anticipo in realtà era di cinquecento – ma ne avevo presi
in prestito trecento da Covici dopo l’incidente. Ora che il debito è pagato,
abbiamo qualche soldo, possiamo pagare l’affitto e qualche conto, e un mio
nuovo libro uscirà in autunno. Il mio angelo custode sta davvero lavorando
per me. Non mi ha mai deluso, nemmeno una volta.
Il nuovo libro sarà una raccolta di tutti i racconti che ho scritto. Ho anche
trovato un titolo meraviglioso. Lo chiamerò Dago Red. […]
Dài il mio amore a tutti.
Johnnie

L’Italia di Mussolini entrò in guerra con la


Germania il 10 giugno 1940.

[A Pascal Covici, Viking Press]


14 giugno 1940

Caro Pasquale,
non vorrei proprio sembrare un profittatore di guerra, non lo sono per
nulla, ma il fatto che gli italiani si siano precipitati in guerra provocherà un
grandissimo interesse da parte degli italoamericani qui in questo Paese, e
per questa ragione ti do tre a uno che Dago Red avrà successo.
Potrei sorprenderti nei prossimi due mesi mandandoti il manoscritto di
un libro che sto considerando seriamente, un libro corto che non supera il
centinaio di pagine, intitolato We Have Been Betrayed, la storia della
reazione dell’italoamericano medio all’entrata in guerra dell’Italia. Potrei
costruire il racconto intorno a mio padre, che è pro Mussolini, ma
democratico convinto e insaziabilmente americano. Al momento questa è
solo un’idea, ma se prenderà corpo sarà grande e importante, però per
piacere non ci contare, perché non sono sicuro di riuscire a renderla bene.
[…]
Tuo,
John
Commentando la lettera successiva su sua madre,
Joyce Fante scrive: «Notare qui che la signora Smart
aveva avuto un leggero colpo apoplettico, ma poco
dopo aveva dato il benvenuto alla figlia e al genero,
lasciando loro una parte della casa perché
l’abitassero. Noi avevamo pagato i conti piú grossi
dei medici a seguito dell’incidente di John con la
macchina, ma ce ne erano altri, piú piccoli – gas,
luce, acqua e simili – che non riuscivamo a pagare.
Li pagò la signora Smart. Eppure John in questa
lettera parla di lei con disprezzo. Io non andai al
Nord con l’idea di spillarle qualcosa per comprare
dei vestiti e farmi dare dei soldi. Andai perché mia
madre era malata».

[A Pascal Covici, Viking Press]


Venerdí [fine di giugno 1940]

Caro Pat,
per il 15 luglio avrò terminato un paio di capitoli del romanzo, piú uno
schema esauriente. Te lo manderò. Sono in grado di promettertelo.
Nel frattempo ti chiedo di cedermi altri cinquanta verdoni dell’anticipo
contrattuale. È una cosa molto seria, ti spiego. Mia moglie è andata al Nord
a trovare sua madre a Roseville, California. Aveva in mente di fermarsi una
settimana, ma sua madre, secondo una lettera che ho ricevuto mezz’ora fa,
ha avuto un leggero colpo apoplettico. Mia moglie è lí con lei, da sola,
spaventatissima. Dovrò andare lassú appena posso, e il mio piano è di
partire lunedí mattina. Mia suocera non è in miseria, quindi non mi
mancherà nulla quando arriverò, ma nel frattempo devo chiudere questa
casa e comprare il biglietto del treno. Roseville è in qualche modo la mia
città natale, dal momento che è là che vivono i miei genitori, e vista la piega
drastica che hanno preso gli eventi non ho altra scelta se non mettermi in
mente di viverci e lavorarci. E va bene. Mia suocera ha una casa grande con
molti alberi ombrosi sulla sua proprietà, e il calore di San Joaquin non mi
darà molto fastidio.
Ma al momento sono all’ultimo biglietto da un dollaro, che mi durerà
fino a quando riceverò tue notizie, sempre che ciò avvenga. Mia moglie e io
avevamo fatto dei piani. Lei andava al Nord con l’idea di spillare qualcosa
alla madre, per comprarsi dei vestiti e farsi dare dei soldi. La sua malattia,
come puoi vedere, ha mutato considerevolmente la situazione. Mia moglie
aveva in mente di ritornare domani, ma ora sembra che sia costretta a
rimanere a tempo indeterminato – almeno fino a quando sua madre starà
meglio, e trattandosi di un colpo apoplettico non farei alcuna congettura.
Quella donna anziana è veramente molto affascinante, anche se un po’
spilorcia, e mia moglie le vuole molto bene. All’inizio mi odiava perché
sono italiano, ha combattuto contro di me con le unghie e con i denti, e ha
fatto cose impressionanti per mandare a monte il mio matrimonio. Ha fallito
solo perché l’abbiamo fatto in segreto. Comunque ora mi ha accettato, e
credo di piacerle segretamente, si tratta di una di quelle fiere tedesche le cui
labbra sottili non rivelano mai i veri sentimenti. C’è una considerevole dose
d’ipocrisia in questo caso. Per esempio, se non avessi pubblicato un
romanzo, sarei stato perseguitato anche dopo il matrimonio. Ma la vecchia
signora è una dama da club del libro quindi ciò ha solleticato abbastanza la
sua vanità, dal momento che poteva dire ai quattro venti di avere un genero
romanziere. Il suo vantarsi in ogni caso si è poi ridotto a un mormorio
quando ha visto il tenore generale dei miei libri e ha visto la maniera non
viziata in cui la mia gente scopa e amoreggia. L’ultima volta che le ho
parlato sperava che io avrei «fatto qualcosa di buono per il mondo».
Era il suo modo tortuoso di dirmi che pensava che i miei scritti fossero
dannatamente immorali. D’altra parte però la vecchia è convinta che io sia
un genio, e certo non la si può biasimare. In breve, nel suo cuore io ci sono
e non ci sono. La cosa non mi disturba affatto, dal momento che non vedo
perché dovrei preoccuparmi delle critiche di mia suocera, ma che diavolo, si
devono affrontare una quantità di situazioni fra il ridicolo e il divertente, e
una di queste è che quando la vecchia signora morirà lascerà a mia moglie
una proprietà considerevole.
Cosí hai un quadro generale. Devo vivere là e scriverci per qualche
mese. Mi farà bene, perché l’unica attività di quella città è il fluttuare dei
miraggi all’orizzonte provocati dal calore. Qui io sono strangolato dai debiti
e sono costantemente minacciato da idioti convinti che io sia in possesso di
una fortuna. Non sanno, gli sciocchi.
Con i cinquanta dollari d’anticipo pagherò il gas e la luce, la spedizione
di libri e di parte del mobilio, e mi rimarrà qualche dollaro quando arriverò.
Questa, te lo prometto, è l’ultima volta che ti chiedo dei soldi. Se me li
mandi con un vaglia telegrafico lunedí mattina potrò andarmene a
mezzogiorno. In ogni caso l’affitto qui va pagato mercoledí, quindi
nonostante tutto scapperò. Sai che apprezzerò il tuo aiuto, e quando vedrai
lo schema del romanzo saprai che è davvero cosí, che ho intenzione di
mostrare la mia gratitudine con della buona e solida prosa. Quindi, per
favore, lunedí mattina.
John Fante

Il 16 luglio dalla Viking domandarono a Fante di


fornire loro una lista di persone a cui proponevano di
mandare delle copie autografate di «Dago Red»
prima che venisse pubblicato, piano questo ideato
per aiutare la pubblicità che si ha per passaparola. Il
24 luglio, con le bozze, la casa editrice informò
Fante che la data di pubblicazione proposta era il 23
settembre, e gli domandava un altro paio di racconti
per rimpiazzare «L’iradiddio», perché ritenuto non
«in sintonia» con gli altri. Nel frattempo Fante aveva
spedito la seguente lettera.
[A Robert Hatch, Viking Press]
211 Pleasant Street,
Roseville, Calif.
Robert Hatch, Esq.,
The Viking Press,
New York City, NY
22 luglio 1940

Caro signor Hatch,


il vostro progetto per stimolare un precoce interesse intorno al mio libro
è buono, ma al tempo stesso non lo è abbastanza. Perciò mi sono preso la
libertà di espandere la vostra idea aggiungendo l’elenco di alcune librerie di
Los Angeles e San Francisco. […]
Ovviamente non ho alcun diritto di rivolgere questa domanda, dal
momento che mi sono solo limitato a scrivere Dago Red, ma, se non è un
allontanamento troppo radicale dalla vostra politica, mi fareste sapere
quando il mio libro uscirà? Se volete che resti un segreto profondo e oscuro,
immagino di non poter fare altro che soffrire nell’ignoranza. Ma se il lasciar
trapelare questa informazione non scuoterà da cima a fondo la vostra
azienda, allora confido che qualcuno alla Viking Press farà trapelare il
segreto. Come dico, non lo domando per me, dal momento che mi sono
limitato a scrivere il libro e perciò posso essere ignorato ipso facto poiché il
manoscritto è nelle vostre mani; è per altri che domando – la mia cara
piccola madre, che siede alla finestra tutto il giorno, lavorando a maglia e
aspettando con ansia che il postino le porti notizie. La cara vecchia signora
è molto povera, e di conseguenza non potrà pagare la cifra che
probabilmente chiedete per rilasciare questa informazione, posso però
assicurare che ricorderà tutti voi degni gentiluomini nelle sue preghiere.
Sinceramente vostro,
J. Fante

[Pascal Covici a John Fante]


signor John Fante
211 Pleasant St
Roseville, Calif.
30 luglio 1940

Caro John,
essendo via il signor Hatch, la tua lettera è stata consegnata a me. Non
mi è piaciuta. Il sarcasmo e i vituperi possono avere un senso, specialmente
quando si fanno trattative in Oriente, ma sputare in faccia alla gente è un
gesto scarsamente civile.
Nessuno di noi in quest’ufficio, per quanto ne so, ha mai scritto un libro,
ma ne pubblichiamo una quantità notevole, e giudicando dai resoconti
passati dovremmo intenderci abbastanza di pubblicazioni e vendite. Siamo
sempre felici di apprendere nuovi modi e sistemi per promuovere i nostri
libri e qualsiasi suggerimento tu possa dare sarà accolto con attenzione. Non
crediamo però saggio, in ogni caso, che tu ti immischi nelle vendite prima
di consultarti con noi. Quello che fai potrebbe interferire in malo modo con
i nostri piani proprio come il nostro caparbio cambiare il tuo manoscritto
potrebbe con buone probabilità rovinare la tua attenta concezione della
storia. Tu scrivi i tuoi libri, e noi baderemo alle vendite, un lavoro molto piú
facile e semplice, te lo garantisco, ma del quale siamo spaventosamente
gelosi. Prendiamo molto sul serio le nostre pubblicazioni e non cerchiamo
mai di fare scherzi.
E non starai trasformandoti, che Dio ce ne scampi e liberi, in uno di quei
geni perseguitati convinti che l’editore lo nasconda dietro uno staio e che
voglia tenere segreto tutto quanto riguarda il suo libro? La fase successiva
che attraversa quella razza particolare, sai, è quella di correre da una libreria
all’altra a dire ai venditori come devono disporre e vendere il suo libro.
Puoi immaginare, ne sono certo, come ciò sarebbe odioso e fatale.
Quanto alla data di pubblicazione, a causa dei disegni di Angelo, non
siamo ancora sicuri del giorno esatto per l’uscita di Dago Red. Per ora
pensiamo che sarà il 23 settembre.
Non solo siamo consapevoli del fatto che hai scritto Dago Red, ci
aspettiamo cose ancora piú grandi e che il nostro giudizio sia giusto o no –
solo il tempo lo potrà dire – ti lanciamo ugualmente con grandi speranze e
aspettative ancora maggiori per il futuro. Tutto quello che domandiamo è la
tua cooperazione modesta e intelligente.
Sinceramente tuo,
Pascal Covici
[A Pascal Covici,Viking Press]
[Telegramma]
Pascal Covici
Viking Press
18 East 48 th St
1º agosto 1940

RICEVUTA LETTERA INSULTANTE VORREI ROMPERE CONTRATTO


JOHN FANTE

Ma una lettera rasserenante del 1º agosto da


Marshall Best, un altro editor della Viking, risistemò
la questione.

[A Marshall Best, Viking Press]


[Telegramma]
Marshall Best
Viking Press
18 East 48 th NY
5 agosto 1940

CORRETTE BOZZE IN ARRIVO DUE ALTRI RACCONTI QUESTA SETTIMANA,


GRAZIE PER LA SUA LETTERA

JOHN FANTE

[Al signor Schryver, Viking Press]


211 Pleasant Street,
Roseville, Calif.
9 agosto 1940

Caro signor Schryver,


[…] Ho apprezzato le sue correzioni sulle bozze, e con due o tre
eccezioni ho mantenuto i suoi suggerimenti e seguito i suoi consigli. Ho
cambiato qualche nome. […]
Non sono d’accordo con la sua opinione, ovvero che L’iradiddio non è in
sintonia. Seguendo Casa, dolce casa, rientra assolutamente nell’insieme,
ora che ho cambiato i nomi cosí che la ragazza che appare nell’ultima parte
di Casa, dolce casa è la stessa de L’iradiddio. Mi sembra molto importante
che L’iradiddio venga incluso. Perché mostra proprio quelle influenze della
prima giovinezza dell’autore che poi furono importantissime durante la sua
adolescenza. Il racconto resta. È l’unico punto su cui insisto. […]
Sinceramente suo,
John Fante

[A Pascal Covici, Viking Press]


20 settembre 1940

Caro Pat,
ho ricevuto le mie copie, e sono felicissimo del meraviglioso lavoro che
avete fatto sul libro. Emana classe e gusto. Valenti Angelo ha fatto un
ottimo lavoro. Sono rimasto un po’ confuso pensando al lavoro che ha fatto
Little, Brown per il volume di racconti di Pagano, perché mi è sembrato che
The Paesanos fosse vagamente sporco proprio come realizzazione. Angelo
invece è stato elegantissimo; la copertina è concepita in modo splendido e le
sue illustrazioni hanno una qualità meravigliosa e pulita. Devo scrivergli per
ringraziarlo.
Sto lavorando a due romanzi non per volontà di dissipazione, ma perché
devo farlo, semplicemente. Quando ti dico che sono al verde non ti sto
suggerendo di mandarmi dei soldi; ma la povertà ha un effetto disastroso sul
mio lavoro. Il mio pensiero era che a Roseville sarebbe stato diverso. Invece
è molto peggio. Se riesci a capire i problemi con le suocere, potrai farti
qualche idea della mia situazione. Qui in casa non posso fumare; non posso
stare sveglio fino a tardi (amo lavorare la notte), e mi si fa sempre sentire
che il cibo che mangio è una regalia data a un fallito. Ciò può essere
divertente per un po’. Poi diventa piuttosto spaventoso. I miei sono senza un
soldo, hanno grossi debiti, mio padre soffre per un problema grave al cuore
e non può lavorare, mia madre è malata, e io non ho nemmeno un decino
per comprarmi delle sigarette a poco prezzo. A questo si sommano le
continue liti fra mia moglie e sua madre, quest’ultima è una vecchia signora
di buone intenzioni la quale pensa che il successo arriva se si lavora con le
mani ed è estremamente sospettosa di uno che in tutto e per tutto sta a
sedere e fa funzionare le dita. Questa situazione, sebbene sia dovuta a
piccole cose, ha in toto un effetto devastante, e so a malapena che fare.
Sono settimane che ho una voglia terribile di sbronzarmi, ma non posso
nemmeno permettermi un bicchiere di birra.
Il mio romanzo (lo chiamo: Ah, Poor America!) sarà qualcosa di
veramente meraviglioso, ma richiede una ricerca considerevole, e qua
intorno non ci sono biblioteche adeguate, né degli autobus per andare a
Sacramento. Non c’è nemmeno carta da macchina da scrivere, buste
eccetera; e quando ho bisogno di un francobollo devo piatire tre cent da mia
madre, che proprio non li ha. Be’, le cose non vanno molto bene. Per come
la vedo io, la miglior cosa per uscirne è cercare un lavoro da qualche parte,
e mettermi a fare qualcosa. Da quando sono arrivato qui ho scritto quattro
racconti, e finora non ne ho venduto nessuno. I soldi che ho ottenuto da
quella storiella sul «Virginia Quarterly» sono finiti ai dottori, che mi stanno
facendo tutti causa dall’incidente.
Bene, sto facendo del mio meglio. Ho detto che stavo lavorando a due
libri. È cosí. Perché, essendomi impossibile lavorare da queste parti, mi
sono tenuto occupato raccogliendo materiale per quello che probabilmente
sarà un altro Furore. L’idea: (e per l’amor del cielo, tienila per te!) è un
libro sui filippini della California che intitolerò The Little Brown Brothers,
un libro cosí pieno di pure storie che il problema migratorio degli Okie
diventa al confronto una escursione durante le vacanze. Quando ti fermi a
considerare che la percentuale di donne filippine rispetto agli uomini è di
uno a venti, riesci a farti un’idea di cosa debbano affrontare i filippini. Ma è
solo un barlume, perché la loro angoscia per i tabú è probabilmente
peggiore di quella dei negri. Inoltre, la questione filippina raggiungerà il
punto di ebollizione fra due anni, con la loro indipendenza garantita per il
1946. La storia dei filippini in California non è ancora stata raccontata. La
racconterò io. Il libro sarà sul tono generale di Pian della Tortilla, ma sarà
piú grande. Sarà una storia spavalda, romantica di un piccolo popolo
orgoglioso preso a calci su e giú per questo Stato sotto il sistema piú
maligno, con i suoi tabú di razza e di classe, che sia mai esistito. Ma io non
la racconterò cosí: la renderò divertente e nostalgica; spezzerò i loro
maledetti cuori, trasformerò il piccolo filippino in un eroe. Io li capisco. Mi
piacciono. Li sento miei perché sono latino e le loro tradizioni, se ci sono,
sono spagnole, quindi latine. Questo resta fra me e te, Pat. Non devi dirlo ad
anima viva. NON dirlo a Steinbeck!
Se verrai qui a ottobre spero di poterti mostrare del lavoro su Ah, Poor
America! Non te lo prometto, ma faccio del mio meglio. Quello che vedrai
sarà ovviamente qualcosa di magnifico, perché una serie di colpi
sperimentali che ho dato al libro da varie angolazioni hanno tutti dato dei
risultati soddisfacenti. Ogni volta suona autentico. Anche il mio stile sta
cambiando. Mi sorprende in modo costante.
Mi dispiace da morire di aver firmato il nostro contratto attuale. Mi crea
un problema molto peggiore di quello che avevo con Stackpole, che mi
finanziava mentre scrivevo. In questo modo, devo scrivere prima di essere
pagato e la paga che ricevo è inferiore di quella percepita dagli scrittori
pulp. Comunque un patto è un patto, e non sto chiedendo una elargizione o
un cambiamento. Ma alla lunga è piú economico cercare di vendere racconti
o soggetti originali per il cinema. Credo che dovrò fare quest’ultima cosa.
Questo è certo: per attaccare Ah, Poor America! devo vedere con chiarezza
la strada davanti a me per almeno sei mesi, mentre ora la vedo a stento da
un giorno all’altro.
Ancora grazie e congratulazioni per l’ottimo lavoro con Dago Red.
Spero che venda bene, ma probabilmente non sarà cosí: anche la mia
fortuna si è semplicemente esaurita.
John

[A Pascal Covici, Viking Press]


24 settembre 1940

Caro Pasquale,
la tua lettera mi ha fatto molto piacere, e sono stato molto contento nel
vedere la pubblicità sul «Times», molto contento che a Steinbeck sia
piaciuto il mio libro, e molto contento del fatto che tu e lui ne abbiate
parlato con Gannett.
Quanto ai racconti, sono tutti liberi da diritti all’estero con l’eccezione di
Rapimento in famiglia, che non può essere venduto in Inghilterra come
racconto su una rivista perché è già apparso su «Harper’s Bazaar».
Dago Red si dovrebbe poter vendere bene a qualcuno in Italia. Vorrei che
contattassi Mondadori di Milano. Ha già chiesto l’opzione sui miei due
primi libri. Hanno qualcuno a New York, immagino.
Ho cominciato da capo con Ah, Poor America!, l’ho fatto perché ora ho
qualcosa di meglio. Mia moglie e io siamo finiti a rotolarci per terra dalle
risate, è cosí divertente. Ho solo una dozzina di pagine, non abbastanza per
mandartele, ma se avrai pazienza ti appioppo quello che ho a portata di
mano, solo come esempio dello stile e del tono della cosa. Non ho
intenzione di battere a macchina dodici pagine, ce ne sono due o tre, non
rifinite, ovviamente, però fantastiche.

Ah, Poor America!

Avevano dei problemi con il vecchio Giovanni. Quel vecchio


avvinazzato non lavorava piú. Suo figlio Mingo gli chiese: – E perché no?
Giovanni, cosí vecchio che i peli sulle gambe gli si erano consumati,
disse: – Ho lavorato tutta la mia vita. Ora ho settantacinque anni, e sono
pronto a godermi i frutti delle mie fatiche.
– I frutti delle tue fatiche! – rispose Mingo. – E come, vecchio figlio di
puttana, non hai nemmeno uno scudi! 1
– San Rocco provvederà. E cosí Sant’Antonio. Nel frattempo dammi
dieci cent, figlio mio, perché mi voglio comprare due bicchieri di chiaretto.
Mingo digrignò i denti, sputò sul tappeto, e afferrò il naso di suo padre.
Storse quel naso al chiaretto a destra e a sinistra. – Rospo! 2 – esclamò. –
Scarafaggio! – Poi lo lasciò andare, e le dita morte di Giovanni
accarezzarono il suo naso, massaggiandolo come per assicurarsi che fosse
ancora nel mezzo della faccia. Gli occhi di Giovanni avevano l’aspetto di
uva concord calpestata. Ora si stavano riempiendo di lacrime perché il naso
era stato pizzicato.
«Ah, – sospirò Giovanni Scarpi. – Magari fossi quaranta libbre in meno,
tre pollici piú alto e quarant’anni piú giovane! Ti spezzerei senz’altro le
dita, figlio mio amato».
– Eccoti i soldi, – disse Mingo. Estrasse qualche moneta dalla tasca,
contò dei nichelini e qualche penny, poi li gettò come semi sul tappeto.
– Striscia per prenderli, vecchio idiota.
Le monete rotolarono in tutte le direzioni come degli scarafaggi
spaventati. Giovanni disse: – Grazie, figlio mio. E possa tu morire di fame,
o piuttosto con un coltello piantato nel cuore.
Poi si inginocchiò sul pavimento e carponi raccolse le monete. Gli occhi
del vecchio erano velati dall’età. Il suo naso era a due pollici di distanza dal
tappeto mentre andava a tastoni. Mingo lo guardò disgustato. Quello era un
padre!
– Ho la nausea, – disse. – Vederti mi rivolta le budella.
– Se ti imbarazzo, vattene. Vai in cucina a parlare con quella vecchia
rugosa di tua madre.
– Sí! – replicò Mingo, sollevando un piede come per tirarlo contro il
sedere ossuto di suo padre.
Donna Scarpi era in cucina e sgusciava piselli. Donna Scarpi pesava
novanta libbre senza le sue sei sottane, ed era alta quattro piedi e sei pollici
senza scarpe. I piselli erano in un sacco marrone e si muovevano come se ci
corressero dei topi ogni volta che le sue dita grassocce si infilavano
nell’apertura. Donna Scarpi era arrabbiata con i piselli. Odiava il droghiere
che glieli aveva venduti perché era americano, odiava il negozio perché era
a Denver, che si trovava in America, e odiava l’America perché non era
Italia. Sedeva con lo scolapasta nel suo morbido grembo, intenta a sgusciare
piselli, ed esclamava: – Gah! Piselli! America! Peeew! – a ogni pisello che
sgusciava.
Era seduta alla finestra della cucina. Attraverso la finestra vedeva il
giardino spoglio, recintato da un alto steccato marrone, dove la terra era
cosí dura e crepata che le poche erbacce che ci crescevano erano stentate,
angosciate e terrificate dal loro orrendo destino. Oltre il giardino ce n’erano
degli altri uguali a quello, alcuni ravvivati da fili del bucato sparsi, con
mutande, pannolini e sottane che si agitavano come felici idioti nel dolce
mattino. In un angolo giaceva una pila di sparvieri, assi, scalette e altre
cianfrusaglie. Erano bianchi, spruzzati di calce, stridenti, antisettici, come
due o tre tazze rotte impilate nell’angolo di una stanza altrimenti spoglia.
Sembravano offesi, solitari e imbarazzati. Un giardino solitario. Vi si
aggiravano dei gatti, ma non dei cani.
Quella pila di assi, sparvieri e scalette apparteneva a suo figlio Mingo.
Erano i suoi attrezzi da lavoro – equipaggiamento da muratore. La porta
della cucina si aprí, e apparve suo figlio Mingo. Era di media statura, con il
torace forte, muscoloso, con mani abbronzate le cui dita sembravano essere
state rotte diverse volte. Portava il cappello nero di sghembo sull’orecchio.
– Dov’è Bella? – domandò.
– Levati il cappello, – rispose lei. – Ora sei in casa, e non sotto quel
sudicio sole americano.
– L’affitto è stato pagato, – disse Mingo. – L’ho pagato io. Pago dodici
dollari al mese per evitare che il sacco di patate che sei e quell’asino che hai
sposato moriate assiderati. Perciò me lo levo o me lo tengo come pare a me.
Se il mio cappello non ti piace, puoi andartene all’ospizio.
Donna lo guardò, in alto e in basso, dalle scarpe con gli schizzi di calcina
alla faccia cotta dal sole. – Letame, – disse lentamente. – Il Signore mi ha
dato del letame al posto di un figlio.
– Dov’è mia sorella Bella?
– Vaglielo a domandare.
Mingo avvampò. Sollevò il pugno e lo girò piano, come se tenesse un
coltello. – Dio volesse che il mio cuore fosse duro, e potessi tagliarti la
gola.
– Ah, povera America! – esclamò Donna. – Ah, il cuore sanguinante
dell’America, che trasforma gli uomini in cani!
Sulla parte anteriore della casa sbatté una porta, scuotendo tutto
l’edificio. Donna si sedette ad ascoltare.

E cosí via

Il brano dovrebbe darti grossomodo l’idea di come ho in mente di


scrivere questo libro. Ovviamente non è finito, come puoi vedere, ma
dovrebbe bastare per illustrarti il fatto che scriverò un libro pieno di
umorismo e tragedia. Perché nell’insieme ci sarà la tragedia: quella di un
uomo che lascia che i suoi sogni gli scivolino fra le dita. Un sacco di roba
bellissima in questa storia. Se te la riassumessi ucciderei la forza
dell’impatto di quello che voglio dire. Coprirò il periodo di tempo che va
dal 1909 a oggi: la storia di molti italiani, ma essenzialmente quella di
Mingo Scarpi, che venne in America perché pensava che suo padre (già qui)
fosse ricco, e trovò un ubriacone, in un saloon nella parte nord di Denver; e
nel vedere il figlio dopo sei anni le sue prime parole furono: «Prestami un
dollaro, figlio mio».
Bene, Mingo Scarpi era stato messo in trappola e fatto venire in America
da una donna che si chiamava Coletta. (Questa è una storia che proviene
dalla famiglia di mio padre). Sí. Una donna che si chiamava Coletta era
innamorata di mio padre da quando erano giovani negli Abruzzi. Venne in
America e voleva che mio padre andasse con lei. Lui non l’amava; non
voleva andare in America. Lei venne da sola. Passarono gli anni, lei gli
scriveva delle lettere e lo supplicava di andare, perché l’amava sempre. Lui
fu adamantino. Poi al padre di lui venne una fortissima voglia di andare in
America. Mio nonno Giovanni. Un vecchio degli Abruzzi, una brava
persona, ma amante del vino, incline a sognare a occhi aperti, e
all’improvviso vuole andare in America. Immagina! Un vecchio di
sessantotto anni, mai uscito da Torricella Peligna, Abruzzi,
improvvisamente freme all’idea dell’America. Ed è venuto, il vecchio
bastardo. Ed è venuto, dapprima vendendo metà della sua proprietà – venti
acri circa – poi venne in America, e l’America lo inghiottí, perché non
scrisse, e per due anni loro non ne seppero nulla. Pensavano che fosse
morto, invece lui era vivissimo, secondo le lettere che ricevevano da
Coletta, che si era sistemata a Denver, dove i loro cammini si incrociarono.
Il vecchio Giovanni apparve a Denver, il vecchio bastardo, aveva
vagabondato per il Paese, ed eccolo, un vecchio, a Denver. Bene, per questa
donna, questa Coletta, l’amore si era trasformato in odio per mio padre,
perché era frustrata dal desiderio che aveva avuto che lui venisse, e lui non
era venuto, quindi lei l’aveva odiato e voleva vendicarsi per il torto che
aveva subito da lui perché non era venuto.
La sua vendetta fu bellissima, perché raccontò a mio padre, scrivendogli,
che il vecchio Giovanni prosperava in America, che era impiegato nelle
ferrovie, e che aveva fatto fortuna. Ma non era la verità. Il vecchio Giovanni
era terribilmente povero e disperato. Andava da Coletta e le diceva di
scrivere negli Abruzzi perché gli mandassero dei soldi. E invece questa
donna terribile scrisse che Giovanni prosperava e che Mingo doveva andare
in America per dividere la sorte del padre. Mio padre finalmente arrivò,
perché alla fine le lettere di lei l’avevano sedotto, e la storia del successo di
suo padre era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Quando
arrivò a Denver trovò suo padre in miseria, e trovò Coletta amareggiata,
sposata e vendicativa.
[non firmata]
[Joyce Fante a Pascal Covici]
27 settembre 1940

Caro signor Covici,


John ha trovato un passaggio per Los Angeles, dove si è recato per
cercare un lavoro nel cinema. Mi ha chiesto, partendo, di imbucargli questa
lettera [la precedente], cosa che faccio, anche se non sono sicura che sia
finita. Ero contraria al fatto che andasse a Hollywood, ma lui era cosí
nervoso che ho creduto potesse giovargli. Questa mattina mi ha mandato un
telegramma in cui mi informava del fatto che stava tornando, e che non
aveva trovato il lavoro. Sono contenta che sia andata cosí, perché credo che
dovrebbe lavorare al suo romanzo. Ha cominciato in modo splendido. Lo ha
pianificato quasi per intero, ed è buono. John qui ha una considerevole
quantità di materiale, ma mando solo quello che mi ha lasciato da spedire.
Mi ha fatto un grande piacere vedere il meraviglioso spazio che avete
dato a Dago Red sul «New York Times». Con i vostri sforzi e un po’ di
fortuna dovrebbe vendere bene. Credo che sia io che lei siamo d’accordo
che John dovrebbe limitarsi a scrivere libri. Scrivere dei film, per quello che
ne so, è uno spreco di talento e di tempo. Anche se ora il salario del cinema
ci fa comodo, sono certa che alla lunga il campo di John sia la narrativa.
Faccio del mio meglio per convincere John a continuare con il suo libro, e
in via confidenziale spero che lei faccia lo stesso.
Cordialmente sua,
Joyce Fante

Nell’agosto del 1940 un tal Keith Baker scrisse a


Fante, evidentemente su carta intestata della sua
compagnia, domandandogli se poteva dedicargli
alcune copie dei suoi libri e scrivere sul risguardo
una frase da ciascuno di essi. Fante rispose che
l’avrebbe fatto e ordinò persino della carta da lettere
con l’intestazione simile a quella usata dal suo
corrispondente. Dopo due lettere in tono distaccato,
ne scrisse altre andando oltre, dapprima chiedendo a
Baker di aiutarlo con la domanda alla John Simon
Guggenheim Memorial Foundation; in seguito,
eccitato dalla prospettiva della nuova carta intestata,
diventa poetico celebrando la carta. A Baker, in
qualità di collega scrittore, fa dei commenti
rivelatori sulle revisioni e sulle fonti autobiografiche
di «Chiedi alla polvere».

[A Keith Baker]
211 Pleasant Street,
Roseville, California
9 ottobre 1940

Caro Keith Baker,


grazie mille per gli ottimi campioni. Mi piace questo stile di intestazione,
questo tipo di carta. Ma preferisco i caratteri neri invece che verdi. Ne
voglio quattromila fogli, e voglio duemila buste nello stile e della qualità di
questa lettera. Credo che il suo prezzo sia molto generoso e sarei un idiota a
non approfittarne. D’altra parte è accaduto qualcosa all’improvviso che mi
costringe a tirare i cordoni della borsa. Perciò è meglio che non mi mandi
quest’ordine fino al primo di dicembre circa, perché fino ad allora non sarò
in grado di pagarlo. È gentilissimo da parte sua avermi fatto un prezzo cosí
ragionevole. Grazie ancora.
Al momento sto scrivendo un romanzo importante sugli italiani: sarà il
mio ultimo libro su questo soggetto per molto tempo, non l’avrei iniziato se
i miei editori non avessero strepitato cosí tanto da farmi decidere di andare
avanti – però è un buon libro, con la miglior scrittura che abbia mai
prodotto. Mi ci vorranno nove mesi, forse un anno.
Dopo di ciò, ho in mente di fare qualcosa di completamente diverso – un
romanzo sui filippini in California. Questo libro sarà qualcosa che gli altri
scrittori non si sono mai sognati di fare – un contributo molto importante a
quel problema. Ah, tutto questo sembra orribilmente stupido, e molto
pomposo: quello che intendo dire è che voglio scrivere un meraviglioso
libro sui filippini di California, e credo di avere la capacità per farlo.
Oltre a moltissimo duro lavoro locale qui in California, ciò richiederà un
viaggio nelle Filippine – un’avventura che ora come ora non posso
permettermi.
Comunque c’è un sistema per aggirare l’ostacolo: la Guggenheim
Memorial Foundation. Voglio sottoporle il mio progetto e cercare di
suscitare l’interesse della Fondazione perché mi diano una borsa di studio.
Se l’ottengo, saranno circa tremila dollari per un anno di lavoro, con
possibilità di rinnovo.
Per ottenere questa borsa, devo presentare i miei lavori precedenti, e dare
un’idea generale di quello che voglio fare. Ho già provveduto. Inoltre, devo
anche avere degli sponsor; ovvero, gente a cui piace il mio lavoro e che mi
sostenga davanti al comitato della Guggenheim Foundation.
Le sarei perciò molto grato se scrivesse una lettera alla Fondazione.
Potrebbe far sapere loro quello che pensa del mio lavoro, e che crede nella
mia capacità di riuscire a scrivere un libro sui filippini. Non dovrebbe
essere una lettera molto lunga: basterebbero e avanzerebbero
duecentocinquanta parole. L’uomo a cui rivolgersi, e il suo indirizzo, sono
qui di seguito:

Henry Allen Moe,

John Simon Guggenheim Memorial Foundation,

55 Fifth Avenue,

New York City, N.Y.

Ho già una notevolissima lista di sponsor: Steinbeck, Carey McWilliams,


Morris Fishbein, Bill Saroyan eccetera, e avrei piacere ad aggiungere il suo
nome a questa lista. La sua lettera sarebbe di grande aiuto.
Per piacere, mi faccia sapere se vorrà fare questo per me, e che ha
mandato la lettera. Per sdebitarmi la cosa migliore che posso promettere è la
mia sincera intenzione di scrivere un bel libro.
Con i miei migliori saluti,
John Fante

[A Keith Baker]
211 Pleasant Street,
Roseville, California
13 ottobre 1940

Caro Keith,
le sono molto riconoscente per la lettera grandiosa che ha scritto a Moe.
È la seconda volta che provo a ottenere una di quelle borse di studio, e mi
sembra di avere una buona possibilità, grazie alle lettere come la sua, e
grazie, ovviamente, a qualche sforzo da parte mia. Dago Red ha suscitato
moltissimo interesse nei miei confronti.
Non sono riuscito a capire a cosa si riferiva, cioè quale fosse la sua
richiesta per delle citazioni da ciascuno dei miei libri, ma devo ammettere
che è un’idea stupenda quella di avere una collezione di libri sui quali gli
autori stessi hanno trascritto qualche bel brano preso dalle loro opere, sul
frontespizio, e se non fosse che odio quasi tutti gli scrittori che conosco,
anch’io mi diletterei di un hobby del genere. Gli scrittori sono la gente piú
vanesia sulla Terra. Il mio amico Willie Saroyan, per esempio – ora, se io
chiedessi a William di trascrivere qualcosa preso da un suo libro sul
frontespizio, probabilmente si offrirebbe di scrivere tutto il libro a mano.
È veramente meraviglioso da parte sua fornirmi la carta, nonostante la
mia presente indigenza. Non sono al verde, ma devo fare attenzione per un
po’, e dal momento che lei è stato cosí generoso, non posso far altro che
ripagarla al piú presto. Il suo deve essere un lavoro affascinante. Io amo la
buona carta. Mi piace immaginarmi da solo in qualche posto, in montagna,
al mare, in mezzo a Los Angeles, in una cameretta, con accanto a me pile di
carta eccezionale. Ah – voglio dirle che io nutro un grande affetto per la
carta e per quello che ha significato nella mia vita. Le possibilità che si
hanno con un semplice foglio di carta bianca quando lo si fa scorrere sul
rullo della macchina da scrivere invitano alla riflessione. Non si può mai
dire quali parole marceranno sul foglio pulito. È impossibile esserne sicuri.
Quel senso di dubbio, e speranza, e preoccupazione, si traduce sul biancore
e ne appare il valore – di solito scarso. Ma quando se ne ha una certa
quantità accanto a sé, si può buttare via quanto c’è di cattivo e infilare un
altro foglio nella macchina, ed eccola di nuovo, pulita come una coscienza
pulita, che ti perdona per quanto c’era di cattivo, e ti invita a riprovare.
Questo mi piace. Prima ero solito ammassare la carta bianca come un avaro.
Mi sedevo in camera mia a Los Angeles e la sfogliavo pensando ai milioni
di parole che sarebbero entrate in tutta quella carta. Eppure non ho mai
scritto tante parole. Ma il sogno era là, usciva da quella amabile carta
bianca. Sherwood Anderson ne parlava nei suoi libri. Anche lui aveva gli
stessi sentimenti. Il mondo in qualche modo sembrava cosí grande e
voluminoso come quella pila di carta accanto al suo gomito e in quella
vastità bianca lui era felicissimo. Caro vecchio Anderson! Credo che abbia
fatto di me uno scrittore, con quella devozione quasi orgiastica davanti alle
molte risme di carta bianca accanto a lui a Chicago nelle solitarie stanze in
affitto.
Naturalmente non so nulla della sua scrittura, posso però dire che le
lettere le scrive molto bene e si esprime con chiarezza. Sarei molto
interessato al suo romanzo sul Middlewest. Nella sua lettera lei dice che sta
rimaneggiando una revisione. Suona male. Per esperienza ho scoperto che
quella roba è meglio lasciarla stare dopo il primo fallimento. Il tempo la
rivedrà. La metta dietro l’orologio, ci pensi come a un tentativo, e poi ci
torni fra un paio d’anni. Si sarà rivista da sola. Un manoscritto può
diventare un’ossessione. Può darsi che stia sbagliando della grossa, è cosí
testardamente convinto di essere nel giusto, che solo il tempo può fare
qualcosa. Io ho due romanzi che non hanno mai raggiunto la sufficienza.
Quando li scrivevo ero pazzo delle loro virtú. Dicevo che nessuno era in
grado di scrivere cosí. Quei libri li ho ancora con me. Li guardo e
arrossisco. Sembra incredibile. Eppure, nonostante tutto, poi non si
rimpiange. Si continua semplicemente a scrivere.
Ho trentun anni e sono abile [al servizio militare]. Sono sposato e in
California non prendono alla prima chiamata gli uomini sposati. Perciò, per
qualche tempo, l’eviterò. Odio questi tempi. Ho la mia visione personale,
ma sono cosí dannatamente contrario allo spirito dello status quo che farei
meglio a stare zitto (non sono comunista). Questo mondo è un mondo
buono, mi rifiuto di lasciarmi andare alla depressione. Amo tutto: il bene e
il male, la morte e la vita, la malattia e la salute, l’inizio e la fine, la
primavera e l’inverno.
Con i miei migliori saluti,
J. Fante

Ps.: Per favore, mandi la lettera a Moe.

[A Keith Baker]
211 Pleasant Street,
Roseville, California
6 novembre 1940

Caro Keith,
la carta è meravigliosa, bellissima, deliziosa, è un piacere scriverci sopra.
È arrivata ieri e ho pagato l’addebito che era abbastanza modesto. Grazie,
signore, per averla mandata nonostante la mia impossibilità a pagarla
subito. Ricevo trentacinque dollari la settimana dalla Viking Press per
scrivere un romanzo che non sto scrivendo, e al posto del quale sto
scrivendo una pièce, e questo denaro è abbastanza poco perché sono
indebitato con gli ospedali e i medici di Los Angeles in seguito a un
tremendo incidente di macchina che ho avuto sei mesi fa. […]
Credo che in questa idea che ho della pièce ci sia veramente qualcosa,
l’ho cominciata solo ieri, mettendo da parte il romanzo fino a quando la
finirò, ci vorranno al massimo tre settimane. È la storia di Una moglie per
Dino Rossi, che è nella sua copia di Dago Red. Ho già scritto dodici pagine
molto buone e pulite, e il passo indica che sono abbastanza caldo per finirla
in tempi brevi.
Mia moglie e io eravamo a San Francisco il fine settimana scorso con
Bill Saroyan e Carey McWilliams, e abbiamo fatto cose da pazzi. Il nostro
gruppo era enorme, perché sembravamo trovare le persone via via, ed
evidentemente nel corso di quella sera ho pensato che dovevo scrivere una
pièce come ha fatto Willie Saroyan, e non appena sono tornato a casa mi
sono messo a lavorarci, molto sorpreso davanti a quelli che definisco i suoi
meriti.
Vuole sapere se io sono Arturo Bandini, e io le dico che lo sono – in
particolare l’Arturo di Chiedi alla polvere, anche se non interamente
l’Arturo del mio primo libro. La storia d’amore in Chiedi alla polvere è
quasi vera nel senso che una volta sono stato infatuato della ragazza del
romanzo, e lei, secondo me, è affascinante e interessante nella vita reale
tanto quanto ho cercato di farla apparire nel libro. Oggi è a Spring Street a
Los Angeles, lavora nello stesso bar che ho descritto nel romanzo,
essendoci tornata dal manicomio, dal deserto, e punta verso il Nord. Se un
giorno avrò la fortuna di incontrarla a Los Angeles la porterò là e gliela farò
vedere e conoscere.
Con ossequio,
J.

A novembre, in una lettera che non abbiamo piú,


Fante informò Covici che stava smettendo di
lavorare a «Ah, Poor America!», il primo romanzo –
italiano – in progetto nel contratto. Covici rispose
che era una saggia decisione, e sperava che Fante
avrebbe scritto prima il suo romanzo sui filippini.
Joyce Fante commenta: «Il consiglio di Covici a
Fante di tornare sul romanzo filippino poi risultò
essere cattivo. Per i successivi dieci anni circa, Fante
lo iniziò molte volte, ma il romanzo non decollò mai.
Credo che fosse un romanzo impossibile da scrivere.
Non c’era affinità con il materiale e gli aneddoti
erano grossolani e rivoltanti. Dove si trovava un
protagonista? Fante sarebbe stato consigliato meglio
se gli fosse stato detto di continuare con il materiale
che conosceva cosí bene – l’ambiente italoamericano
o la sua vita come giovane scrittore. Esiste senz’altro
un modo per trattare la storia dei filippini in
America, ma Fante non ne trovò mai la chiave».

[A Pascal Covici, Viking Press]


211 Pleasant Street,
Roseville.
30 novembre 1940

Caro Pasquale,
continuo ad avere l’impressione che abbandonare quel romanzo sia stata
una buona idea, quindi do per scontato che il mio primo impulso circa tutto
quell’affare sia stato corretto. La tua tranquilla approvazione di quanto ho
fatto mi ha reso contentissimo. Mi aspettavo la ripetizione di un’esperienza
precedente con Soskin, che mi ha tormentato per mesi con Chiedi alla
polvere; ma non lo dico con la malizia che sembra fare capolino, perché
seppure con tutti i suoi difetti, a me Chiedi alla polvere piaceva, e sento che
un giorno sarà apprezzato. […]
Il giorno stesso in cui ho abbandonato il libro ho cominciato una pièce
basata su Una moglie per Dino Rossi […]. Anche se sono ignorantissimo
per quanto riguarda lo scrivere per il teatro, confido moltissimo in questo
mio primo tentativo e credo di essere senza dubbio migliore di Steinbeck e
certamente migliore di Saroyan. […]
Amore e baci,
John

[A Marshall Best, Viking Press]


7 dicembre 1940

Caro signor Best,


[…] Con l’avvicinarsi di Natale, mi trovo al verde e non ho nemmeno un
comignolo da cui possa scendere il vecchio Babbo Natale. Questo fatto mi
spinge a chiederle se è possibile per lei mandarmi del denaro. Non ho modo
di sapere se Dago Red ha venduto, ma immagino che sia andato abbastanza
bene da far entrare qualche dollaro dalla mia parte del libro mastro. Potreste
mandarmi quanto mi spetta? Credetemi, ve ne sarei profondamente grato.
Sinceramente suo,
John Fante

L’11 dicembre 1940, Marshall Best rispose:


«Temo che la nostra pubblicità su “Dago Red”
l’abbia ingannata sulle vendite. Abbiamo speso tre
volte tanto rispetto alle vendite, non perché ci
aspettassimo di rifarci con questo libro, ma perché
sentivamo che serviva per il suo futuro. Le vendite
sono state buone, se paragonate alla maggior parte
dei volumi di racconti, ma non coprono gli anticipi
già dati, che, come lei sa, erano per il romanzo e per
“Dago Red”. Il fatto di averle già dato altri anticipi
rende ancora piú difficile per noi fare in modo di
mandarle qualcosa. Avevamo sperato che, non
avendo passato tutto il tempo sul romanzo, sarebbe
stato in grado di vendere alcuni racconti o di fare
altro per risolvere il problema delle entrate fino a
quando non sarebbe stato di nuovo pronto a
ricominciare con il romanzo. È difficile dirle NO, ma
al momento non vedo come si possa fare altrimenti».
Il racconto a cui Fante fa riferimento nella lettera
seguente è «Helen, la tua bellezza è per me» –
apparso sul «Saturday Evening Post» nel marzo
1941. È nella raccolta «La grande fame».

[A Marshall Best, Viking Press]


26 dicembre 1940

Caro signor Best,


[…] vi interesserà sapere, a lei e a Pat, che la settimana scorsa sono
riuscito nell’impossibile e ho venduto un racconto su un filippino e una
ragazza bianca al «Saturday Evening Post». Che io sappia è la prima volta
che una rivista cosiddetta patinata pubblica qualcosa sui filippini americani.
Che il «Post» l’abbia preso mi ha addirittura stupefatto. Lei e Pat lo
troverete migliore di qualsiasi cosa di Steinbeck, ed è importante che lo
leggiate perché è in relazione con il mio progetto di romanzo sulla
questione filippina in California. Questo racconto dovrebbe riuscire a
convincere voi editori testardi della mia stupefacente versatilità e
dell’incommensurabile valore che io rappresento per la vostra azienda. […]
Sinceramente suo,
John Fante

1
In italiano nel testo [N.d.T.].
2
In italiano nel testo [N.d.T.].
1941-49

Il decennio di guerra vede Fante alle prese con un


forte calo della creatività, infatti cominciò e
abbandonò non meno di tre libri sotto la pressione
gentile e piena di tatto di Covici. Aveva ancora un
lavoro per il cinema che venne realizzato in questi
anni, «Youth Runs Wild», per la Radio-Keith-
Orpheum Pictures nel 1944. Le sue entrate piú
consistenti tuttavia erano sempre dovute a
Hollywood, dove tantissimi sforzi morivano sul
nascere. Un lavoro che doveva essere stato
relativamente soddisfacente fu quello di scrivere una
sceneggiatura per Orson Welles (mai prodotta)
basata sull’incontro e il matrimonio dei suoi genitori.
Tutti questi tentativi di scrittura, ovviamente, erano
resi piú difficili dall’insicurezza dovuta alla guerra,
la possibilità di essere arruolato, e le frustrazioni del
lavoro per l’esercito che infine intraprese,
cominciando a scrivere per l’Office of War
Information. Verso la fine del decennio, comunque,
era impegnato con un libro sulla nascita del suo
primo figlio, che gli avrebbe fruttato il maggior
successo in termini economici, ovvero «Full of Life».
Nel frattempo erano nati altri tre bambini, il bisogno
di denaro in famiglia era quindi aumentato,
spingendolo a guadagnare nel modo piú sicuro che
conosceva, ovvero scrivendo film.
La prima lettera di questo periodo è a Louis
Adamič, redattore del periodico «Common Ground»,
nel cui numero della primavera del 1941 appare un
pezzo intitolato «John Fante» di Ross B. Wills
(ristampato come appendice al presente volume). È
un ritratto vivido e amichevole, ma è macchiato da
una certa trascuratezza circa i fatti, che sono
sacrificati ai troppi aneddoti coloriti (per esempio,
Wills racconta che Fante lasciò Denver dopo il suo
viaggio a casa nel 1934 con due dollari in tasca, e
che dovette tornare in California in autostop), e da
una certa condiscendenza nel tono. I libri di Fante
sono lodati, ma lui è anche descritto come «piuttosto
pigro e facilmente distratto» come scrittore, essendo
il flipper la sua maggior distrazione.
Adamič mandò la lettera di Fante a Wills, che
scrisse a Fante per difendersi. Pur ammettendo che il
pezzo poteva essere «rude», era ingiusto definirlo
diffamatorio: persino l’amico di Fante Carey
McWilliams, «del cui affetto non puoi dubitare, ha
scritto a Louis senza che io lo sapessi, per
supplicarlo di non cambiare nemmeno una parola del
pezzo!» E aggiunse: «Mi hai detto che avevi da
obiettare solo in merito alla parte di Denver. Okay,
ma sei stato tu a raccontarlo a me e Carey – per
esempio, molto prima che tu incontrassi Burnett mi
hai detto che a Denver avevi raccontato di essere
stato tu a scrivere il film «Piccolo Cesare», e che ti
avevano creduto. Carey e io abbiamo pensato che
fosse perfetto – affascinante, meraviglioso, e che ti
“somigliasse”». E Wills era sicurissimo che un pezzo
del genere non avrebbe avuto alcun effetto
sull’assegnazione del Guggenheim a Fante.
Joyce Fante aggiunge questo commento: «Trovai
l’articolo su Fante di Ross B. Wills su “Common
Ground” offensivo quando l’ho letto, e oggi la penso
nello stesso modo. L’impressione generale che si ha è
che Fante sia un clown e che non bisogna prenderlo
sul serio come scrittore. Il tono è accomodante e la
descrizione fisica è esagerata e lo sminuisce. Sono
d’accordo con Fante che l’articolo potrebbe aver
avuto un peso nel fatto che non gli venne assegnato il
Guggenheim».
I racconti «All-American Team» e «Beautiful
Bird» non sono stati ristampati.

[A Louis Adamič]
16-3-41

Louis,
quando ti ho visto al cinema ieri sera ho riso moltissimo. Poi ho
fischiato. Non ho ottenuto il Guggenheim grazie anche (secondo me)
all’idiotissimo pezzo da liceale di Wills. Ma non sono furibondo, né sono
sensibile: a tempo debito saprò prendermi cura del signor Wills. Se è in
grado di darle, sarà anche in grado di riceverle e, ragazzi!, posso tirare fuori
grandi cose! Nel frattempo tu ti meriti un gran calcio in culo per aver
stampato tale bile. Ma ti perdono.
Omaggi,
J. Fante

Ps.: Carey ha ottenuto un Guggenheim.


Fai attenzione al mio All-American Team su «The American», un
racconto magnifico su italiani, ebrei, giapponesi eccetera, tutti bambini che
giocano in una squadra di football.
Non fare caso al mio Beautiful Bird su «Good Housekeeping».
Peeeeeeeeeewww!

Il racconto a cui ci si riferisce nella lettera


seguente è «Helen, la tua bellezza è per me»; Fante
mette in rilievo il personaggio di Julio Sal che
doveva essere la figura principale nel romanzo
progettato sui filippini, «The Little Brown Brothers».
Il racconto è stato ristampato ne «La grande fame».

[A Pascal Covici, Viking Press]


830 South Berendo,
Los Angeles
30 marzo 1941

Caro Pat,
hai senz’altro letto il mio racconto sul «Post». Mi devi senz’altro dire se
ti è piaciuto. L’hai senz’altro trovato eccellente. Ti stai senz’altro
comportando in modo un po’ strano, non facendo nessun commento. Devi
senz’altro ammettere che è, era e sarà sempre un racconto superbo. […]
Con i migliori omaggi, sempre, da Joyce e
John

Covici rispose (30 aprile 1941): «Sebbene la tua


Helen non abbia mai varato mille navi, certamente
ha messo voglia a quella quantità di piedi di ballare,
e di pagare. Il racconto è costruito in modo delizioso
e abile. Julio Sal mi piace moltissimo. Ha delle
grandi possibilità per il tuo romanzo filippino. Vorrei
che fosse pronto ora».

[A Pascal Covici, Viking Press]


21 giugno 1941

Caro Pat,
non mi crederai mai se ti dico che ho cominciato, senza finirle, almeno
una dozzina di lettere per te. Avevo un fortissimo desiderio di scrivere,
finalmente ero a posto finanziariamente e potevo immergermi nel libro. Ma
finora non sono stato in grado di vedere le cose in quel modo. Troppo tardi,
come al solito, capisco che per quello che riguarda Hollywood, ho sprecato
il mio tempo. Sono venuto qui piú di due mesi fa con un’unica idea in
mente: raccogliere del materiale per il libro, e poi scapparmene via.
Chiunque inibito dalla povertà come me (è la mia sola scusa) può essere
senz’altro perdonato se prova a mettere le mani su un gran malloppo di
denaro. E ci ho provato. Ci ho provato disperatamente, stupidamente, e
costantemente. Stava per succedere tutto, e non è successo nulla. […]
Nel frattempo non ho lasciato che il romanzo morisse nella mia mente.
Ho qualcosa, davvero, Pat. Questo soggetto mi spaventa un po’. Sono stato
con i filippini per molto tempo, sono diventato amico dei buoni e dei cattivi,
ho preso degli appunti eccitanti e pianificato il libro fino alla fine, ed è
grande. Ora ho circa quaranta pagine di appunti, con l’interlinea semplice,
con materiale sufficiente per fare due libri su quel soggetto. Ho bisogno di
chiarire qualche altro aspetto, ma sono pinzillacchere. Tutto sommato, ho il
cammino ben definito, e tutto quello che devo fare è sgomberare il campo e
mettermi al lavoro.
Qualcosa a caso: c’è un’organizzazione di protettori filippini a L.A. Un
orgoglioso gruppo di ragazzi, sono cinque, che vigilano sulla concorrenza
eccetera. Il protettore filippino, a differenza di come accade ai bianchi, gode
di alta considerazione, ed è profondamente rispettato… Conosco un
filippino che ha sfidato l’Fbi che minacciava di deportarlo, e che è arrivato
a sposare una bianca a dispetto della violenta opposizione dei genitori di
lei… Conosco un altro filippino che ama solo GROSSE donne bianche. È alto
quattro piedi e otto, e non si innamora a meno che la sua compagna non sia
piú alta di lui di un piede. Quando è arrivato in America aveva diciotto anni.
Si è immediatamente innamorato di una donna di cinquantotto anni, e piú
alta di tredici pollici. Lei lo prendeva spesso in braccio come un Charlie
McCarthy… So del caso di due prostitute bianche che andarono a un campo
con trecento filippini a Oxnard. Una di loro proseguí per Lompoc, l’altra si
fermò per occuparsi dei trecento. Questi trecento erano in una lunga
camerata, in due lunghe file di letti. La ragazza cominciò coraggiosamente
all’inizio di una fila. Con quattro filippini che tenevano alti fino sopra le
teste dei lenzuoli intorno a ogni letto, per decenza, lei scese lungo una fila e
risalí lungo l’altra, con i filippini che tenevano alti i lenzuoli formando cosí
un muro di intimità per il ragazzo e la ragazza. Le ci vollero tre giorni, e se
li fece tutti. Loro la ricoprirono di regali: scarpe, fiori, vestiti. E, perdio, si è
sposata con uno di questi!… So di una società segreta filippina che prospera
ancora, non dissimile dalla mafia, e di una volta in cui i membri di questa
società segreta punirono la moglie infedele di uno di loro portandola in un
campo oltre Stockton – era incinta – le mozzarono i seni, le strapparono
letteralmente la pelle dal corpo e la seppellirono viva. Ho parlato con uno di
quelli che hanno preso parte a questa mostruosa operazione, e lui ha una
paura tremenda che io denunci il fatto, mi ha lasciato intendere che ci
saranno problemi di ogni tipo se informerò il pubblico letterario di questo
crimine, ma lo farò lo stesso. So di storie di matrimoni misti, di amore
disperato, di gioco, di vizio, e tutto l’arazzo tragicomico del filippino in
America dal giorno in cui ha lasciato la sua amara casa nelle isole per
arrivare in America, che odia e ama con un attaccamento che lo consuma, e
che lo terrà qui fino alla morte. Ho scoperto che, nonostante tutte le
persecuzioni e le discriminazioni contro di lui, il filippino ama l’America
piú del proprio Paese – e che è un emarginato qui come lo è laggiú.
Ma ora andiamo al romanzo.

[A seguire una sinossi di cinque pagine con


interlinea semplice, che segue l’eroe, Julio Sal, dalla
sua prima storia d’amore con una commessa
sfruttatrice, attraverso una carriera come
organizzatore del lavoro e «campione del suo
popolo», che si prende «la sua vendetta contro le
donne bianche che lo hanno disprezzato» e «le ama e
le lascia e non potrà mai fidarsi ancora di una
ragazza americana, perché è stato profondamente
ferito». Farà poi carriera come pugile, per cui
«ritorna l’antico sogno» e si innamora di una
ragazza americana nonostante l’opposizione del
padre, e la sposa, fingendo di essere spagnolo. Il
matrimonio è annullato e viene deportato. La sinossi
si conclude cosí:]

Tornava nelle isole come un eroe. Avrebbero accolto Julio Sal, sarebbe
diventato un altro Rizal. E ora lui sapeva un paio di cose, e […] aveva
qualche nozione sul futuro del suo Paese: a est c’era la Cina, e per qualche
motivo Julio Sal aveva la stessa impressione che molti filippini hanno in
questi giorni – ovvero che l’unione con la Cina salverebbe il suo Paese dai
giapponesi. Cosí Julio Sal ha molte cose a cui pensare nel suo viaggio di
ritorno a casa, e c’era molta meraviglia e speranza di vita nel futuro.
In tutta sincerità, non posso fare questo libro, e farlo bene a meno che
non abbia molto tempo. Se lo vuoi per quest’inverno tanto vale dirti subito
che dubito di potertelo dare. Preferirei che tu pianificassi di avere il
manoscritto per febbraio del 1942, probabile pubblicazione per quella data.
Come controparte ti chiedo – perché ne ho bisogno – duecento dollari al
mese per sette mesi (oh, sí, mia moglie sta per avere un bambino). Di questi
tempi questa è la paga media che ricevono i meccanici, e non posso vivere
con uno standard piú basso […].
Saluti da tutti e due.
John

[Alla madre]
Sabato [giugno 1941 circa]

Cara mamma,
siamo ridotti ai nostri ultimi quindici dollari, ma alla fine qualcosa di
buono è saltato fuori, e credo che cominceremo a lavorare lunedí o martedí
prossimo. Se si concretizzerà, guadagnerò cinquecento dollari o
settecentocinquanta dollari alla settimana per otto o dieci settimane. Il
lavoro è quasi sicuro, almeno cosí mi dice l’agente, ma non lo crederò fino
a quando non riceverò il mio primo assegno. Nel frattempo stiamo bene
tutti e due, e ho lavorato duramente su un’altra idea per il cinema.
Joyce e io non siamo affatto sicuri, ma potrebbe darsi che tu divenga
nonna fra circa nove mesi. […]
Con amore da Johnnie

Il primo figlio dei Fante, Nick, nacque il 31


gennaio 1942.

[Alla madre]
1º luglio 1941

Carissima mamma,
Joyce è appena stata dal dottore, che le ha detto che il bambino nascerà
all’inizio di febbraio. Questo è il secondo mese della sua gravidanza, e non
ha mai avuto un aspetto migliore. Nessun malessere mattutino né nausea.
Siamo entrambi molto felici, e so che lo sarai anche tu.
Sta arrivando un lavoro – probabilmente all’inizio della prossima
settimana. Non so quanto guadagnerò, ma saranno quasi quattrocento
dollari la settimana, forse meno. Si deciderà fra un giorno o poco piú. Tutto
quello che so è che mi vogliono alla Rko, ma anche che non hanno
particolare fretta di iniziare a lavorare sul film. Ora che Joyce è incinta
dobbiamo mettere da parte i soldi per il bambino. Nel frattempo siamo
rimasti con gli ultimi tre dollari, l’affitto arretrato e i conti da pagare. Ma
non siamo affatto preoccupati.
Come ci si sente a essere una nonna e un nonno? E che pensa Josephine
di diventare zia? Questo bambino avrà tantissime zie e zii.
Con amore,
Johnnie
Orson Welles, stimato regista di teatro e
produttore della celeberrima versione radiofonica de
«La guerra dei mondi», di Herbert George Wells, era
arrivato a Hollywood nel 1939, a ventitre anni, e gli
era stata data carta bianca dalla Rko Radio Pictures
per fare sei film. Il primo fu «Quarto potere», che fu
distribuito nel maggio del 1941; anche se ora sono
tutti d’accordo nel definirlo come uno dei film
americani piú importanti, allora non ebbe successo
per quanto riguarda gli incassi. Il progetto su cui
Fante lavorò con lui doveva essere un documentario
antologico di quattro episodi, intitolato «It’s All
True». Fante e il collaboratore Norman Foster
lavorarono per adattare un racconto di Robert
Flaherty, «My Friend Bonito», e anche sulla
riduzione del racconto basato sull’incontro dei
genitori di Fante. Comunque, via via che il progetto
diventava piú grande fino a includere un episodio
ambientato a Rio de Janeiro durante il carnevale, i
suoi costi lievitarono enormemente, e prima che
venisse ultimato, due altri film di Welles furono
distribuiti e giudicati come dei fallimenti
commerciali. Il suo contratto venne cancellato dalla
Rko nel 1943.
[Alla madre e al padre]
830 1/2 So. Berendo
2 agosto 1941

Cari mamma e papà,


Joyce è tornata lunedí mattina ed era bellissimo riaverla accanto a me.
L’appartamento era diventato cosí sudicio, con i piatti impilati in cucina e i
vestiti sporchi che ciondolano su ogni sedia.
Joyce vi ha detto che sto lavorando. Il lavoro che ho adesso è veramente
meraviglioso. Orson Welles, il nostro produttore, è il tipo piú meraviglioso
di Hollywood, e fa i film piú belli. Uno dei film che sto scrivendo dovrebbe
essere basato sulla storia vera di come un certo muratore di San Francisco
incontra una certa ragazza italiana. Io ho detto a Welles che era una storia
vera e lui mi ha creduto. Fra pochi giorni lo studio dovrebbe mandarvi un
contratto che voi dovete firmare, nel quale promettete di non fargli causa
per diffamazione. Firmatelo, per favore, e non vi preoccupate. Il soggetto
che ho scritto (con Norman Foster) promette di essere la storia d’amore piú
bella mai realizzata a Hollywood. Non dovete preoccuparvi di nulla, e
quando vedrete il film vi prometto che ne sarete felicissimi e orgogliosi.
Tutti i soggetti che consegniamo a Welles per questo film dovrebbero
essere storie vere. Be’, il mio soggetto del muratore italiano non è
esattamente vero, ma ho dovuto dire loro che lo era per poterlo vendere. Per
l’idea mi hanno dato mille dollari. Per favore, fate come dico e firmate le
carte che la Rko vi manda. Mi occuperò io del resto. Gli studi
cinematografici devono fare molta attenzione a non essere perseguiti
legalmente per diffamazione, e anche se nel soggetto non c’è nulla di
offensivo, non vogliono ugualmente correre dei rischi. Appena riceverò il
mio assegno ve ne manderò una parte.
Nel frattempo guadagno trecento dollari la settimana, e il mio salario fra
un mese potrebbe essere aumentato a quattrocento. Il lavoro potrebbe
durare a lungo – probabilmente un anno. Ma non ne sono sicuro. Comunque
sto mettendo da parte i soldi per il bambino e per avere la possibilità di
scrivere il mio libro senza l’aiuto finanziario di nessuno.
Joyce sta bene e tutto procede al meglio. Mi dispiace di non aver scritto
finora, ma in queste due ultime settimane sono stato occupatissimo.
Tutto il mio amore,
Johnnie

[Alla madre]
Giovedí [agosto 1941 circa]

Cara mamma,
sono stato molto contento di mandarti l’assegno, e spero di mandartene
altri con il passare del tempo. La cosa piú importante per me adesso è di
mettere insieme piú soldi possibile, in preparazione per l’arrivo del bebè.
Credo proprio che questo nostro lavoro durerà molto a lungo –
probabilmente sei o sette mesi: forse ancora di piú. Ma d’altro canto
potrebbe terminare improvvisamente. Voglio essere preparato al peggio.
Faremo anche un lavoro per la radio per Welles, il 15 settembre
inizieremo a scrivere il grande programma Lady Esther che viene trasmesso
in tutto il Paese attraverso quaranta stazioni e raggiunge ventisei milioni di
persone. Per adesso non abbiamo ancora cominciato, ma lo faremo la
prossima settimana. Nel frattempo Foster e io scriveremo un soggetto per
un film.
[…] Questa settimana comprerò un’automobile – qualcosa del genere
auto di seconda mano. La compagnia di Welles si trasferisce a Culver City e
io ho bisogno di una macchina per muovermi. […]
Johnnie

[A Pascal Covici, Viking Press]


842 South New Hampshire,
Los Angeles
17 settembre 1941

Caro Pasquale,
sto ancora lavorando per Orson Welles, ma ho moltissima voglia di
finirla e di cominciare a lavorare sul romanzo.
Perché diavolo voialtri non potete farmi avere millequattrocento verdoni
a duecento al mese in modo che io possa mettermi a scrivere questo libro
superbo che ho in mente? [La frase seguente porta l’annotazione a margine
sottolineata: confidenziale]. So che Jo Pagano ha ricevuto quel genere di
anticipo dalla Random House su un lavoro per il quale «Scribner’s» prima
gli aveva dato seicento dollari, e poi l’aveva rifiutato. […] Con i soldi che
ho risparmiato e i millequattrocento da voi, posso assolutamente garantire
un manoscritto finito in nove mesi al massimo. Non vorresti per piacere
cercare ancora una volta di convincere i tuoi soci a farlo?
Immagino che potrei rimanere con Welles indefinitamente, ma il lavoro
non mi piace affatto, e ardo dal desiderio di darmi a una prosa onesta. […]
John

Joyce Fante fornisce il seguente appunto: «Mia


madre morí improvvisamente il 13 novembre 1941. Io
ritenni opportuno essere a Roseville per occuparmi
della proprietà, e poco dopo John mi raggiunse. Il
nostro primo figlio, Nicholas, nacque il 31 gennaio
1942. Comprammo una casa su Coronado Avenue
con l’eredità di mia madre e ci andammo a stare.
Presto, comunque, John andò a lavorare per l’Office
of War Information di San Francisco, dove fu
raggiunto da me e dal bambino. Vivevamo al 414 di
Shrader Street e affittammo la casa di Roseville.
Ancora una volta Fante è impossibilitato a
continuare con il romanzo filippino. Il suo lavoro è
troppo impegnativo e gli porta via troppo tempo».
L’Office of War Information era un impiego dove
l’abilità di Fante come scrittore avrebbe potuto
essere utile, ma il senso di futilità che sentiva nello
svolgere il tipo di lavoro che gli era richiesto lo
spinse a domandare l’aiuto di Covici per cercare
invece di ottenere una posizione nella sezione di New
York dell’Owi, dove come italiano poteva rivolgersi
ad altri italiani.

[A Pascal Covici, Viking Press]


414 Shrader Street,
San Francisco
[novembre 1942]

Caro Pat,
qui sono semplicemente impantanato, e quelle promesse avventate di
quattro capitoli per Natale dovranno essere ritrattate. Non è questione di
cattiva volontà da parte mia. Il fatto è che semplicemente non ho tempo. Il
mio lavoro comincia alle cinque e trenta tutti i giorni per finire alle due e
mezza del mattino dopo. Quando stacco sono stanchissimo e i miei occhi
non funzionano bene. […]
Ma c’è un’alternativa. Potrei andare a New York e scrivere qualche
programma per l’Owi che potrebbe essere trasmesso in Italia. Dopotutto due
dei miei libri sono stati tradotti in italiano. Ho un seguito laggiú – non
molti, certamente, ma qualcuno sí, e sono abbastanza, credo, da poter
scrivere qualcosa per gli italiani. […]
Omaggi,
J. Fante

[A Pascal Covici, Viking Press]


414 Shrader Street,
San Francisco
22 dicembre 1942

Caro Pasquale,
sapevo che Guinzburg si trovava in Nordafrica, e di conseguenza che tu
non eri stato in grado di parlargli. Ti sono molto grato per il tuo
interessamento e per la briga che ti sei preso con la gente dell’Owi di New
York. Scoprirai, temo, che per il mio caso si può fare ben poco. L’Owi è un
Federal Writers’ Project su larga scala, piena dello stesso tipo di burocrati
che sguazzano nel trogolo pubblico da quando la Repubblica si mise in
marcia e cominciò il suo viaggio sinistro e nebbioso nel 1776.
Non mi sto lamentando. Sono semplicemente stato ingenuo. Volevo
aiutare. Sentivo di avere qualcosa da dare al mio Paese. Ero arrabbiato con i
nazisti, i fascisti e i giapponesi. L’anno prima avevo guadagnato moltissimi
soldi – circa tredicimila dollari. Potevo tornare a Hollywood e guadagnarne
ancora. Ma no – il fuoco freddo dell’odio bruciava contro il nemico e
volevo fare tutto quello che potevo prima di essere richiamato alle armi.
Quindi sono venuto a San Francisco e ho domandato di poter lavorare.
L’Owi mi ha dato da riempire un modulo: cosa ha fatto? Cosa ha scritto?
Ci ho messo tutto. Libri, racconti, lavoro per la radio. L’hanno studiato
(oppure no, non so quale delle due) e mi hanno messo subito a produrre un
tipo di scrittura che non era il mio. Ho chiesto di poter fare dei servizi
speciali. Sono stati molto comprensivi. Avrebbero provato a trovare un
posto per me. Ci stanno ancora provando. Non riescono a immaginare dove
collocarmi all’interno del dipartimento dei servizi speciali. Credono che,
non avendo io alcuna esperienza come giornalista radiofonico, sia piú
qualificato per fare il giornalista.
Non è molto logico tutto ciò. Ma è politica. Sono stato qui questi mesi e
ho fatto un buon lavoro. Mi dicono che sono il miglior cronista dei giornali
radio dell’organizzazione intera. Non è un gran successo. Lo può fare
qualsiasi asino. Ma ci sono ancora piú asini che non ci riescono.
Ho faticato e sudato per entrare nel dipartimento dei servizi speciali, e
ora invece non voglio farne parte. Ho studiato il lavoro che producono
lassú. Non voglio quella roba sulla mia coscienza. Sono sicuro che a
ognuno lassú, salvo poche eccezioni, andrebbe conferita la Croce di ferro.
Non posso raccontarti tutto, è la regola. Ma posso dirti questo: Ira Wolfert,
che è appena tornato dalle isole Salomone, ha detto che i marine avevano un
unico pensiero oltre a quello di ammazzare i giapponesi: ovvero quello di
piantare una pallottola nel nostro cronista quattro stelle per i servizi speciali.
Wolfert ha detto che bisognava tenerli fermi questi marine se no sfasciavano
la radio.
Un’altra cosa. Ho offerto delle idee a questa organizzazione. Sono state
prese in considerazione e poi respinte. Poi sono entrate in produzione e le
ha realizzate un altro scrittore. Ho anche altre idee. Ma l’Owi non le avrà.
Sono stufo di questa storia di leccare i piedi ai farabutti. Non è frutto di
amarezza, questo. Spero solo di evitare l’umiliazione. Al piano di sopra
miriadi di executive resterebbero senza fiato e mi direbbero scioccatissimi
che non «combatto la guerra». Palle. Sono loro che non la combattono. E
che invece si prendono i soldi del governo per farlo. Diavolo, la paga è
un’inezia. Ma è sempre meglio del Wpa e di ammazzarsi di lavoro per
stazioni radiofoniche di second’ordine a cinquanta verdoni la settimana. Ora
alcuni ne prendono settantacinque e altri cento. È una grande guerra.
Guinzburg non può fare nulla. Immagino che a New York ci sia la stessa
situazione. Ho un’idea per uno sketch del genere Abbott-Costello fra due
italiani in Italia. È caustico e satirico. Potrebbe essere utile ora – ora che per
la prima volta abbiamo qualche vittoria degli alleati. Prima non potevamo
essere satirici e divertenti, perché non avevamo vinto le battaglie. Ora però
la guerra sta cambiando. I servizi speciali, cosiddetti, potrebbero essere
sollevati dalla palude della banalità ed essere fatti invece di vero umorismo
americano. Siamo conosciuti dappertutto per il nostro umorismo. È la
grande e importante eredità americana. È Mark Twain e Josh Billings e cosí
via. È quello che ci si aspetta dagli americani.
Ma a dispetto di tutto questo, nonostante le idee che posso avere,
onestamente non sono interessato a dei cambiamenti dall’attuale routine. In
ogni caso come cronista ho il mio pubblico. […]
I miei migliori auguri, Pat, per Natale e per l’anno nuovo – e che possa
portare pace a tutti gli uomini.
John

[Alla madre e al padre]


414 Shrader St,
San Francisco
26 dicembre 1942

Cari mamma & papà,


abbiamo passato un bel Natale. La sera è venuto Tom, e deve avervi
raccontato della nostra cena, e di tutti i regali ricevuti da Nick. […]
Il mio lavoro non è granché soddisfacente, ma non è troppo duro. Sono
stanco di fare tutti i giorni la stessa cosa. Sono abituato a essere il capo di
me stesso, e questo cambiamento è frustrante. Volevo scrivere qualcosa di
mio, ma per ora non ho trovato il tempo per farlo. Spesso torno a casa alle
tre del mattino. E allora sono esausto oppure non sono dell’umore giusto.
[…]
Il mio amore & felice anno nuovo da tutti noi,
Johnnie

[A Pascal Covici, Viking Press]


[Intestazione Warner Bros. Pictures, Inc.
West Coast Studios,
Burbank, California]
12 gennaio 1943

Caro Pat,
ora sono alla Warner Bros., avendo preso un permesso dall’Owi. È
valido tre mesi. Sono ovviamente felicissimo di essere fuggito da quel nido
di ratti. Hai mai parlato poi con Guinzburg per quella cosa?
Ho lavorato un po’, ma non molto, sul libro. La mia situazione con
l’ufficio di leva è veramente triste. Non so. Potrebbero richiamarmi ogni
momento, come potrei avere altri sei mesi. […]
Amore e baci,
Johnnie

[Alla madre e al padre]


414 Shrader St,
San Francisco
15 marzo 1943

Cari mamma e papà,


siamo contenti che abbiate trovato un posto. Credo di sapere qual è la
casa, e probabilmente è meglio di quella al 211 di Pleasant St […].
So che ne sarete felici: Nick è stato battezzato domenica. La sua madrina
era Rosie, e Tommy ha recitato la parte del padrino. È stato battezzato alla
chiesa di St Agnes. Il prete gli ha anche cosparso la bocca con sale
benedetto, gli occhi, le orecchie e il naso invece con olio santo. Nick ha
detto: «Sí». […]
Il mio lavoro è duro. Devo lavorare dalle undici di sera alle sette di
mattina, e mi sfinisce. Dovrei anche lavorare part time per la Rko, ma sono
sempre cosí stanco che per ora non ho fatto nulla. In ogni caso farò in modo
di finire ciò che devo in breve tempo non appena l’avrò abbozzato. Stiamo
cercando di capire a quanto ammonterà l’imposta sul reddito. Quest’anno
non sarà malissimo – circa cento dollari. Stiamo mettendo da parte il dieci
per cento del mio salario ogni mese come deposito per la guerra. Questo
significherà un deposito di venticinque dollari ogni trenta giorni, e il
governo lo prende direttamente dal mio assegno. […]
Il mio amore a entrambi,
Johnnie

[Alla madre]
[frammento senza data; primavera 1943 circa]

[…] Sto studiando italiano, e a New York mi specializzerò, in modo che


quando arriverò in Nordafrica sarò in grado di parlarlo abbastanza bene cosí
da poter avere a che fare direttamente con i molti italiani presenti a
Casablanca, a Tripoli, o dove mi vorranno mandare. Non so cosa fare di
preciso con Joyce e Nick. Non possono venire in Africa con me, però mi
piacerebbe che mi seguissero a New York. Quando partirò da lí, possono
tornare a Roseville. Questo lavoro mi frutterà seimila dollari l’anno, ci
saranno quindi abbastanza soldi per loro e per le mie spese. Quando chiesi
di avere un posto in Nordafrica non credevo che l’avrei ottenuto, ma ieri è
arrivata una lettera, e stanno accordandosi per trasferirmi da quest’ufficio a
quello di New York. A New York studierò per qualche mese con il
dipartimento italiano dell’Owi.
Sarò messo al corrente dei problemi degli italiani in Nordafrica, e il mio
lavoro sarà di cercare di istruire quelli presenti nei territori occupati circa i
principî democratici degli americani. Immagino che quando arriverò in
Nordafrica avranno praticamente smesso di sparare, e noi dobbiamo fare un
gran lavoro là, non tanto durante la guerra quanto dopo, con la pace. La mia
partenza dipende da quanto sarò rapido nell’imparare l’italiano. Non credo
che mi ci vorranno piú di tre mesi. Joyce non vuole che io vada, ma io
considero invece questa possibilità come una grande opportunità di vedere
un’altra parte di mondo, e di essere utile al Paese.
Probabilmente mi daranno la possibilità di andare fino in Italia, perché il
nostro ufficio ha dei grandi piani non solo per il tempo di guerra, ma anche
per la pace che lo seguirà. Non so bene quali saranno i miei compiti. Ma
saranno limitati a scrivere propaganda per la radio, ad andare fra gli italiani
e dirgli che noi gli siamo amici, e non nemici. Sarà un lavoro molto
emozionante.
Spero di avere qualche giorno prima di partire per New York, e in quel
periodo tornerò a casa. Quando questo accadrà esattamente non lo so – fra
un mese, circa.
Non c’è molto altro che io possa fare, tranne forse venire arruolato
nell’esercito. Sta succedendo ad alcuni uomini qui, anche se sono necessari
per la difesa nazionale. Io però preferirei senz’altro lavorare per l’Owi in
Nordafrica, piuttosto che portare un fucile come soldato semplice
nell’esercito.
Il mio amore a entrambi,
johnnie

Joyce Fante scrive: «John non riuscí mai a


padroneggiare l’italiano in modo sufficiente da poter
ottenere l’incarico in Nordafrica. Il progetto venne
abbandonato».

[Alla madre e al padre]


San Francisco
5 luglio 1943
Cari mamma e papà,
ho dato le dimissioni all’Owi, e martedí sera partiremo tutti per Los
Angeles, dove ho accettato un lavoro agli studi cinematografici Rko.
Il mio agente sta trovando per noi un posto a Hollywood, e quando ci
saremo sistemati ve lo farò sapere. […]
Non appena potrò, vi manderò dei soldi. Con le nuove tasse, il trenta per
cento del mio salario va al governo e al mio agente, quindi non saranno
molti – ma farò del mio meglio.
Il mio amore a tutti voi,
Johnnie

Joyce Fante fornisce il commento seguente sulla


vita e le vicende della famiglia durante il 1943 e il
1944:
«A luglio del 1943 Fante ricevette un’offerta per il
cinema, e la famiglia si spostò al Sud. Fu un anno
difficile. C’era una guerra in corso, e di conseguenza
le case scarseggiavano. Passarono delle settimane
prima che riuscissimo a trovare un posto dove
abitare, poi però affittammo una casa a North Oxford
che dividevamo con il proprietario.
Ero incinta del secondo figlio, e Nick era sempre
un bebè. Val Lewton, già produttore de “Il bacio
della pantera”, non era un uomo con cui si lavorava
facilmente, e Fante non era uno scrittore facile per
un produttore. Fante cominciò a bere pesantemente,
e si uní a un gruppo di giocatori professionisti che
per vivere depredavano giovani vittime benestanti.
Fante usciva ogni sera rincasando poi alle quattro o
alle cinque di mattina, e, di conseguenza, il suo
matrimonio cominciò a mostrare le prime crepe.
Sebbene Fante fosse di certo ben pagato, alla
nascita di Dan a febbraio non c’erano piú soldi.
Chiaramente quello stile di vita caotico lasciava
poco spazio a un serio lavoro di scrittura.
Fante divenne idoneo per l’arruolamento quando
lasciò l’Office of War Information. Gli fu mandata
una notifica di arruolamento cinque giorni dopo la
nascita di Dan, il 19 febbraio 1944.
Decidemmo di tornare tutti a Roseville, in modo
che potessi essere piú vicina alla famiglia di John
durante la permanenza di questi nell’esercito. Ci
sistemammo un’altra volta nella casa che avevamo
comprato a Coronado Avenue, e John venne
trasferito al Placer County Draft Board. Gli venne
accordato un rinvio».

[Alla madre]
[fine agosto 1943]

Cara mamma,
Nick sta bene […].
Sto lavorando moltissimo allo studio cinematografico – alle volte lavoro
sia la notte che il giorno, e da domani dovrò lavorare tutte le notti fino al 16
settembre.
Qualche volta Joyce ha un po’ di nausea, ma in generale non ha
problemi. Spero fra un po’ di avere una cameriera che stia qui tutto il
tempo. Ora abbiamo una donna di colore che viene una volta alla settimana
a pulire la casa.
Non so che dire del fatto che arruolino anche i padri. Se mi chiamano,
dovrò andare.
Joyce ti ringrazia per le belle cose che hai mandato a Nick.
Tutto il mio amore a te e a papà,
Johnnie

[Alla madre]
[Intestazione Rko Radio Pictures, Inc.
780 Gower Street,
Los Angeles, California]
15 dicembre 1943

Signora Mary Fante


419 Pleasant St
Roseville Calif.

Cara mamma,
[…] sto ancora lavorando per la Rko e ho in progetto di finire il mio
compito attuale entro una settimana. Dopo di ciò non so cosa accadrà.
Voglio lasciare il cinema almeno per tre mesi per scrivere il mio romanzo
sui filippini. Ora abbiamo abbastanza denaro perché io possa farlo, e con i
soldi della proprietà che Joyce avrà a disposizione da gennaio in poi le
nostre preoccupazioni finanziarie saranno praticamente finite.
Ho fatto domanda per una borsa di studio alla Guggenheim e sembra che
quest’anno le mie possibilità di ottenerla siano ottime. Ovviamente tutto
dipende dalla situazione della guerra e della chiamata alle armi. Forse non
mi chiameranno per niente ora che i padri sono stati messi in fondo alla
lista. Spero che saremo in condizione di tornare a Roseville e vivere a casa
nostra quando sarà il momento di iniziare il libro. Gli inquilini non hanno
un contratto quindi siamo liberi di tornarci quando vogliamo. Comunque
tutti gli spostamenti dipendono da Joyce e dal nuovo bambino. In questo
momento è difficilissimo prendere delle decisioni. Sfortunatamente non
saremo a casa per Natale. […]
Questo per ora è tutto, il mio amore a entrambi,
Johnnie

Nel 1944 Fante riuscí a lavorare con una certa


continuità al romanzo pianificato da tempo, che
avrebbe dovuto chiamarsi «The Little Brown
Brothers». Per la fine dell’anno, comunque, quando
ricevette una risposta tiepida dalla Viking Press, il
lavoro venne abbandonato, e l’inizio del 1945 lo
trovò ancora una volta legato a Hollywood.

[A Pascal Covici, Viking Press]


215 Coronado Street,
Roseville, California
27 aprile 1944

Caro Pat,
lavorerò immediatamente al mio libro, comincerò domani. La decisione
di andare avanti è arrivata dopo che l’ufficio di leva mi ha detto che
passeranno almeno tre mesi, forse quattro, prima che mi chiamino. (Ho
passato l’esame fisico pre reclutamento a Los Angeles il 19 marzo).
È stata una decisione difficile. Avrei dovuto prenderla mesi fa – noo,
anni fa. Ora comunque è presa, e spero di scrivere qualcosa di bello. Il
manoscritto non sarà lungo quanto avevo progettato, ma nella sua brevità
spero di instillare la mia migliore scrittura. In ogni caso, puoi aspettare The
Little Brown Brothers per pubblicarlo in autunno. […]
Pax vobiscum!
John Fante
[A Pascal Covici, Viking Press]
215 Coronado Street,
Roseville, Calif.
12 maggio 1944

Caro Pat,
grazie per il telegramma. Spero che il tuo entusiasmo per il manoscritto
finito sia tanto vigoroso quanto quel messaggio. Io ci sto certamente dando
dentro. Una data approssimativa per il completamento di questo lavoro è il
1º settembre. Spero di poterlo consegnare prima. Con il nuovo schema,
potrebbe anche succedere.
Pasquale caro, scriveresti al mio ufficio di leva e mi faresti avere un
permesso per questo lavoro? Ci sono andato un paio di giorni fa e L. F.
Morgan, il capo degli impiegati, mi ha informato che una lettera del mio
editore – in cui si dice che quello che faccio contribuisce al morale –
aiuterebbe moltissimo a farmi rimanere qui a Roseville a lavorare sul libro.
[…]
John

[A Pascal Covici, Viking Press]


215 Coronado Street,
Roseville, Calif.
8 giugno 1944

Caro Pat,
l’ufficio mi ha notificato anche la riclassificazione, e puoi essere certo
che ne approfitterò quanto piú posso.
Le condizioni qui sono ideali per scrivere bene. La mia casa è stata
isolata contro il calore rovente dell’estate, e il giardino è abbastanza grande
da liberarmi dall’agitazione di mio figlio Nick. L’altro bambino piange
molto, ma l’isolante lo tiene fuori portata, e sono molto grato per quella che
deve essere stata una vigorosa lettera all’ufficio.
Per il 15 luglio dovrei avere un pezzo consistente da mostrarti.
I migliori saluti da tutti noi
John Fante
[A Pascal Covici, Viking Press]
[Telegramma]
Roseville Calif.
[novembre 1944 circa]
Pascal Covici
Viking Press
18 East 48th st (NYC )

ANCORA ATTENDO RITORNO MANOSCRITTO E REAZIONE BALLOU CHE


PROMETTESTI IN DIECI GIORNI SALUTI
JOHN FANTE

Il 10 novembre, Covici scrisse che aveva fatto


leggere il manoscritto due volte e riporta i commenti
dei lettori. Non erano incoraggianti. Il primo aveva
commentato: «La scrittura è bella, calda e colorita.
Quello che mi preoccupa sono la trama e la storia.
[…] È questo problema razziale e la maniera in cui è
trattato (alle volte quasi camuffato) che mi sembra la
cosa piú discutibile di tutto il libro. […]». Il secondo
lettore, tale signor Ballou, come il primo all’oscuro
del fatto che la prima parte del manoscritto era stata
pubblicata come racconto, aveva scritto: «Queste
prime novanta pagine circa mostrano che potrebbe
essere un libro divertente e leggero, ma è stato
rovinato da […] mancanza di simpatia reale. […]
[C’]è un’aria di condiscendenza da parte dell’autore
che mi sembra imperdonabile in un romanziere e che
è destinata ad allontanare i lettori. […] Il dialogo è
troppo uniforme. Ogni filippino parla usando
esattamente la stessa collezione di frasi standard.
[…] Anche i laureati parlano usando questo gergo a
monosillabi. Nonostante ciò, il primo capitolo,
probabilmente il migliore del libro, potrebbe essere
un ottimo racconto […]».
Joyce Fante aggiunge il commento seguente: «Lo
stesso Covici trovò questo lavoro detestabile. Disse
di avere una forte sensazione che John fosse “fuori
strada”. Fante credeva che Covici vi avesse trovato
del razzismo implicito.
Quando a John venne offerto un contratto per il
cinema a Hollywood, lui lo rifiutò. L’offerta venne
ripetuta con lo stipendio aumentato. Lui la rifiutò di
nuovo. La terza volta accettò. Sembravano troppi
soldi per poterli rifiutare. Fante andò a Hollywood, e
dopo qualche tempo comprò una casa al 625 di
South Van Ness, dove la famiglia visse fino al 1951, e
dove nacquero Victoria e James».
Il racconto a cui si fa riferimento nella lettera
seguente è «Furfantello» apparso su «Woman’s
Home Companion» del marzo 1945. È stato
ristampato ne «La grande fame».

[A sua cugina Jo Campiglia]


[Intestazione Paramount Pictures, Inc.
West Coast Studios]
30 dicembre 1944

Cara Jo,
il tuo biglietto di Natale mi ha fatto molto piacere. È passato tanto tempo
dall’ultima volta che ci siamo scritti delle lettere, ma non vedo alcuna
ragione per cui non si possa ricominciare da capo nell’anno nuovo, che
spero sia buono per te, e che ti porti tutte le cose che desideri di piú. […]
È vero che non ho scritto molto pensando a una eventuale pubblicazione
dall’inizio della guerra, ma la causa è nella guerra stessa e nella sensazione
radicata della futilità di dire qualcosa in questi tempi cosí sanguinosi. Deve
uscire un mio racconto su «Woman’s Home Companion», e ho finito metà
di un altro libro. Altrimenti mi limito a giocare con i miei figli e a scopare
mia moglie, giudicando entrambe queste azioni molto nobili e buone per la
mia anima immortale. I miei bambini sono semplicemente fantastici. Nicky,
il piú grande, non ha ancora tre anni; ma riconosce le lettere e sa scrivere
l’alfabeto, cosí come è in grado di sillabare una serie di parole. Ha
memorizzato quasi duecento righe di Mamma Oca, parla con una
meravigliosa chiarezza, e dice cose deliziose. A Natale, per esempio, gli ho
dato qualche pacca sul culetto e ho detto: «Questo cos’è?» Lui si è scansato,
si è accigliato e ha risposto: «Se continui a farmi domande come questa non
mi piaci piú». E il mio Danny è proprio un ragazzone. Ha nove mesi e pesa
ventisette libbre, ha cinque denti e il sorriso di un angelo. Per noi
rappresentano una fonte di piacere senza fine, e mia moglie è veramente un
genio con un tocco da maestro quando si tratta di dirigere le loro piccole
vite.
Questi nipoti hanno portato moltissima gioia a mia madre e mio padre, i
quali li adorano, letteralmente, e li viziano con la stessa velocità con cui noi
proviamo a vanificare i loro trucchetti fatti di torte, caramelle, biscotti e
qualsiasi altra cosa desiderino i loro cuoricini. Di tanto in tanto mio padre
arriva persino a dare sottobanco a Nick un bicchiere di vino. Quanto a mia
madre, se ne sta paralizzata dal piacere mentre Nick sale su una sedia e
procede a buttare per terra ogni piatto che è nel frigo. Crede che sia un
angelo, semplicemente, anche quando (e lo fa sempre) ficca il gatto nel
gabinetto.
Potrei passare tutta la guerra qui alla Paramount, dove mi hanno offerto
un contratto. Sono bei soldoni – seicento dollari la settimana – e tranne per
il fatto che sarei lontano dalla mia famiglia il progetto mi piace – una storia
di gitani per Lamour e De Córdova. Ho una garanzia di dieci settimane con
un’opzione alla fine di quel periodo. Se tutto va bene, ho intenzione di
venire a stare qui con la famiglia al completo verso febbraio, sempre che si
riesca a comprare una casa. […]
Perché non ti sei sposata? Sembra assolutamente scandaloso che una
donna meravigliosa vada sprecata. La mia impressione è che tu sia troppo
pigra per intrappolare un gentiluomo innocente. Mi dicono che sia piuttosto
facile. Tutto quello che devi fare è ancheggiare un po’ e fare finta che
qualsiasi cosa lui dica sia affilata come un dialogo di Moss Hart. Dio,
quando ci penso, capisco quanto sia stato facile per Joyce.
Ma basta parlare di queste cose… Per favore, dài il mio amore a tutti e la
mia speranza che siate felici nell’anno nuovo. Ma soprattutto spero che il
1945 porti una vera pace in Terra in modo che quei meravigliosi e
coraggiosi ragazzi possano tornarsene a casa…
Con l’affetto di sempre,
johnnie

[Alla madre]
[Intestazione Paramount Pictures Inc.
West Coast Studios,
5451 Marathon Street,
Hollywood 38, California]
5 gennaio 1945

Cara mamma,
qui va tutto bene. Allo studio apprezzano moltissimo il mio lavoro, e alla
fine del periodo di dieci settimane sono quasi certo che mi faranno un
contratto di sei mesi. Allora chiamerò la mia famiglia. Sento spesso Joyce e
sono contento che stiano tutti bene. Spero che tu e papà andiate d’accordo.
[…]
Il mio amore a entrambi,
Johnnie
[Alla madre e al padre]
Paramount Studios,
5451 Marathon Street,
Los Angeles, 38, Calif.
29 gennaio 1945

Cari mamma e papà,


[…] Mi sento molto solo senza mia moglie e i miei bambini. Sto
guardandomi intorno per comprare una casa, ma il mercato qui è molto
caro. Oggi sono venuto a sapere che ne vendono una meravigliosa vicino
all’oceano, sette camere a quindicimila dollari. […] Io guadagno
cinquecento dollari alla settimana, ma una volta pagate le tasse, ne restano
solo trecentoquarantacinque.
Non vedo l’ora che tu e papà veniate qui da noi quest’estate nella nuova
casa. Voglio che papà mi costruisca un barbecue di pietra nel giardino sul
retro.
Credo sarebbe una buona cosa se tu e papà veniste a vivere qui
permanentemente. Ora le proprietà sono care a Los Angeles, ma dopo la
guerra potremmo trovarvi un piccolo bungalow da qualche parte in città, e
riunirci di nuovo. C’è tantissimo spazio per tutti se verrete a farci visita. La
casa ha quattro stanze da letto.
Mancate molto a Nick. Vuole sempre andare a casa di nonna.
Tutto il mio amore…
johnnie

[Alla madre e al padre]


Los Angeles, Calif.
15 aprile 1945

Cari mamma e papà,


quando riceverete questa lettera noi saremo nella nuova casa. […]
Sto lavorando moltissimo agli studio, e sembra che il mio lavoro sia di
loro gradimento. Però mi stanca. Ogni sera torno a casa cosí sfinito che non
riesco nemmeno a cenare. Devo bere per tenermi sveglio. La morte del
presidente Roosevelt mi rattrista molto. Era un grande uomo. Nessuno può
prenderne il posto. […]
Tutto il mio amore a entrambi…
Johnnie

La lettera seguente si riferisce all’episodio della


scoperta dei danni causati dalle termiti alla loro casa
nuova – la casa dove vissero fino al 1951 – che Fante
usa in modo divertentissimo in «Full of Life».

[Alla madre]
625 South Van Ness,
Los Angeles, 5, Calif.
16 maggio 1945

Cara mamma,
siamo rimasti molto male del fatto che tu non sia potuta venire con papà.
Aspettavamo con ansia la vostra visita. [… ]
La nostra casa è ancora come l’ha lasciata papà. Ho visto un avvocato, e
ho in mente di fare causa all’uomo che ce l’ha venduta. Nel frattempo sto
cercando di rintracciare Smith, ma non è mai piú tornato. Papà ti può
raccontare di Smith. È l’ispettore che ha esaminato la casa un anno fa e ha
detto che non c’erano termiti. Appena riesco a mettermi in contatto con lui
farò in modo che il lavoro lo faccia lui. Ma non c’è fretta. Per un po’
possiamo andare avanti come abbiamo fatto finora. […]
Johnnie

Le due lettere seguenti mostrano come Fante


sperasse ancora di poter ottenere qualcosa dal
progetto di «The Little Brown Brothers». Fu forse
quest’entusiasmo rinnovato a portarlo a
sopravvalutare la possibilità che venisse pubblicato?
[All’editore A. A. Wyn]
31 maggio 1945
A. A. Wyn Ed.
67 West 44 th Street
New York City, New York

Caro signor Wyn,


la sua lettera in cui mi domanda se ho un libro, arriva nel momento in cui
ho deciso di fare qualcosa circa un progetto abbandonato lo scorso ottobre.
Questi sono i fatti: sono sotto contratto con la Viking Press per alcuni
romanzi. L’estate scorsa ho cominciato un libro sui filippini in California.
Basato su un mio racconto apparso sul «Saturday Evening Post», il romanzo
raggiungerà piú o meno le centomila parole. Ho finito poco piú di un quinto
del libro e l’ho mandato a Pascal Covici della Viking. A quel tempo ero
eccitatissimo per come l’avevo scritto, ed ero convinto che fosse il piú bel
romanzo che avessi mai prodotto. Covici ha comunque deciso che non lo
voleva. Cosí – leggermente attonito e disgustato – l’ho messo da parte.
La settimana scorsa, invece, l’ho ripreso in mano ed è tornato l’antico
entusiasmo. Sembra impossibile che io possa sbagliarmi cosí su questo
libro. Non fidandomi del mio giudizio, ho fatto sí che gente competente
come Carey McWilliams e A. I. Bezzerides lo leggesse. L’hanno trovato
delizioso e hanno insistito sul fatto che fosse di gran lunga il mio lavoro
migliore. Capisce quindi che è possibile che Covici si sia sbagliato e che
abbia ragione io.
Naturalmente, se lei si impegna a sponsorizzare questo libro, ciò dovrà
essere definito con la Viking Press. Scrivo oggi stesso a Covici. […]
Tutto questo, ovviamente, si basa sull’ipotesi che le piacciano le prime
cento pagine di The Little Brown Brothers. Le vuole vedere?
Sinceramente,
John Fante

[A Pascal Covici, Viking Press]


[Intestazione Paramount Pictures, Inc.
West Coast Studios]
31 maggio 1945

Caro Pat,
ho la possibilità di pubblicare il romanzo filippino con un’altra casa
editrice.
Sono convinto che, avendolo tu rifiutato, io sia libero di proporlo a
chiunque altro. Non ho scritto niente di piú di quello che hai visto a San
Francisco, ma l’altra casa editrice crede che sia abbastanza buono cosí
com’è per farlo uscire in autunno. Devo ancora lavorarci molto,
ovviamente, e prima di procedere voglio che tu sappia cosa sto facendo.
[…]

Covici rispose con tatto che, se il libro fosse stato


rivisto completamente, avrebbe voluto riconsiderare
la cosa, e se non lo era, «perché pubblicarlo solo per
il gusto di averlo pubblicato e qualche dollaro?»
Aggiunse: «Capisci, John, credo fermamente nella
tua abilità letteraria e […] aspetterò con pazienza
che tu mi dia il romanzo che so che tu puoi scrivere».

[Alla madre e al padre]


625 So. Van Ness,
Los Angeles 5, Calif.
2 agosto 1945

Cari mamma e papà,


credo che sarebbe una buona idea se papà tornasse qui un’altra volta e
facesse dei lavori a casa mia. È impossibile per me trovare qualcun altro, e
con l’arrivo delle piogge invernali vanno fatti presto.
In questo momento c’è una terribile crisi di materiali da costruzione, ma
abbiamo già abbastanza roba e non ci sarà bisogno di molto altro. Posso
prendere la betoniera di Al per il lavoro in cemento. Mi ha promesso di
darmela in prestito.
Mi piacerebbe se veniste entrambi. C’è moltissimo spazio in casa, e ti
farebbe bene, mamma, rivedere i bambini. […]
Moltissimo amore da
johnnie

Joyce Fante fornisce l’appunto seguente: «Avevo


una piccola rendita, e intorno al 1946 ricevetti due
eredità da alcuni parenti. In quel periodo circa, con
mia sorella vendemmo un appezzamento di terreno a
Roseville. Ora avevamo un po’ di denaro. John,
sollevato dalle preoccupazioni finanziarie, giocava a
golf tutti i giorni e ciò fino al 1950, quando rimasi di
nuovo incinta».

[Alla madre e al padre]


24 febbraio 1946

Cari mamma e papà,


[…] Sto lavorando al mio nuovo libro. È un compito lungo e difficile,
ma sono contento di aver cominciato. So che avrà successo. Ho la
possibilità di tornare a lavorare per il cinema, ma non voglio. Preferisco
lavorare al mio libro, invece, e giocare a golf quando ne ho voglia. […]
Il mio amore a te e a papà…
Johnnie

Ancora una volta viene annunciato un nuovo


inizio, questa volta un altro tentativo su un
argomento cui Fante aveva accennato per la prima
volta nel 1933 e a cui era ritornato nel 1936, che
ovviamente lo preoccupava. Era una preoccupazione
condivisa da molte giovani coppie cattoliche, in
particolare negli anni prima del Concilio Vaticano II
– l’insegnamento della morale cattolica, che proibiva
le forme «artificiali» di controllo delle nascite, e gli
effetti che questo precetto aveva sul matrimonio.

[A Pascal Covici, Viking Press]


625 South Van Ness Ave.,
Los Angeles, California.
23 marzo 1946

Caro Pat,
sarai interessato a sapere che ho cominciato un nuovo romanzo. Sarai
ancora piú interessato nel sapere che è la cosa migliore che abbia mai
scritto. È un romanzo sul controllo delle nascite, su un marito e sua moglie,
su come poi hanno un figlio che salva il loro matrimonio, e poi è la storia
dell’uomo e del suo bambino – i primi cinque anni della vita del bambino,
fino al momento difficile in cui il padre lo porta a scuola quel primo giorno
– l’inizio di una nuova vita per il bambino, la fine di qualcosa di prezioso e
meraviglioso per il padre. È un libro che farebbe sgorgare lacrime da una
lastra di granito. Si scrive in maniera splendida. Ho scritto solo cinquemila
parole, ma si scrive facilmente. Potrei terminarlo per la fine di ottobre, se è
quello il momento migliore. Altrimenti dovrai aspettare fino alla primavera
del 1947. Quando vedrai un po’ di questa roba ne sarai soddisfattissimo.
Leggerai qualcosa che non si è visto in questo Paese per molti anni – un
lavoro proprio fatto bene. Questo non è essere spacconi. Lo sento, proprio
qui.
John Fante
Covici rispose che quella era «la lettera piú bella
ed eccitante che abbia mai ricevuto da te», ed
esprime desiderio di vedere il lavoro «non appena ti
soddisfa». Ma il commento di Joyce Fante è:
«Questo manoscritto non esiste, e non ho memoria di
averlo letto».

[Alla madre]
16 maggio 1946

Cara mamma,
[…] Sto lavorando al mio libro quasi tutti i giorni. Sembra essere
abbastanza buono. L’ho mostrato ad alcune persone di cui rispetto il
giudizio, e tutte mi hanno detto che è la cosa che ho scritto meglio in tutta la
mia vita. Anche se vorrei che andasse un po’ piú veloce. Di questo passo ci
vorrà un anno per finire questa maledetta cosa. Eppure non me ne importa
molto. Gioco a golf tutti i giorni, e fin quando sarò in grado di farlo non mi
preoccupo di altro. […]
Il mio amore a te e papà,
[non firmata]

A proposito della soprammenzionata abitudine di


giocare a golf tutti i giorni, Joyce Fante fornisce la
seguente annotazione: «Fante aveva due vizi, il gioco
e il golf, e gli prendevano talmente tanto tempo e
denaro che ci si domanda quali fossero le sue
priorità. Passò letteralmente anni della sua vita sui
campi da golf e al tavolo da gioco. Il golf era un
vizio perché gli occupava tutta la giornata. Fra il
1946 e il 1950 usciva di casa alla stessa ora in cui gli
uomini vanno a lavorare e tornava la sera in tempo
per la cena. Lo faceva tutti i giorni, incluso il fine
settimana. Di tanto in tanto sedeva alla macchina da
scrivere, ma in questi anni la scrittura era
decisamente secondaria.
Il golf continuò a essere un problema, interferendo
con il suo lavoro, fino alla metà degli anni Settanta,
quando delle ulcere ai piedi gli resero difficile
andare in giro. Quando fu pubblicato “La
confraternita dell’uva”, era ormai stato costretto a
rinunciarvi del tutto.
Quanto al gioco, giocava frequentemente e con
delle poste alte. Spesso si accompagnava a William
Saroyan, la cui ossessione per il gioco è ben nota e
significò la rovina della sua carriera e del suo
matrimonio. Non era nulla per Fante perdere mille
dollari a poker, e dal momento che non era un
giocatore particolarmente abile, perdeva piú spesso
di quanto non vincesse».
Il racconto a cui si fa riferimento nella lettera
seguente deve essere «Papa Christmas Tree»,
apparso sul «Woman’s Home Companion» del
dicembre 1946. Non è stato ristampato.
[Alla madre]
Lunedí [giugno 1946 circa]

Cara mamma,
è orribile non essermi fatto vivo per tanto tempo, ma ho semplicemente
continuato a rimandare. D’ora in poi cercherò di scrivere almeno una volta
alla settimana. […]
Mi hanno chiesto un racconto di Natale per il «Woman’s Home
Companion», e lo scriverò. Deve essere finito per luglio, solo un racconto,
ma probabilmente mi daranno millecinquecento dollari. […]
In una busta a parte spedisco a papà qualcosa che credo gli farà piacere.
È la traduzione italiana del mio romanzo, Chiedi alla polvere. Mi è stata
mandata da un soldato inglese che l’ha vista in una libreria a Venezia. Io
non sono in grado di leggerlo, ma credo che papà ci si divertirà. Mi
raccomando, ci faccia attenzione, perché è l’unica copia che ho.
L’altro giorno mi è arrivata una ricevuta per le royalty dalla Stackpole
Sons, che ha pubblicato il mio primo romanzo. Ora viene tradotto in
norvegese e per la prima volta in tutti questi anni il libro ha pagato quello
che doveva alla casa editrice, cosí che ora non è piú in debito. È bello
sapere che dopo otto anni vende ancora delle copie e, quando avrò finito il
libro che sto scrivendo ora, tutti gli altri probabilmente ricominceranno a
vendere.
Il mio amore a te e papà,
Johnnie

[Alla madre e al padre]


18 luglio 1946

Cari mamma e papà,


[…] Ho avuto un momento di fortuna durante le ultime due settimane.
Eravamo al verde e stavamo incassando le nostre cedole di guerra per
pagare i conti, il mese scorso invece ho avuto un rimborso per le tasse dal
governo di novecento dollari, e tre giorni fa ho venduto un racconto per
mille dollari al «Woman’s Home Companion». E questo aiuta moltissimo.
Abbiamo delle spese pesanti in questa casa.
[non firmata]
[Alla madre e al padre]
14 gennaio 1947

Cari mamma e papà,


[…] Ho ricevuto molte lettere interessanti provenienti da ogni parte del
Paese circa il mio ultimo racconto apparso sul «Woman’s Home
Companion». Apparentemente è piaciuto molto. Ne avevo oltretutto già
ricevute delle altre, e il mio agente ha richieste per i miei racconti dagli
editor di tutte le riviste piú importanti. Ora ne sto scrivendo un altro che
credo riuscirò a vendere. Non è difficile tirare fuori questi racconti. So che
potrei farci moltissimi soldi, ma sono troppo pigro. Arrivo a buttarne giú tre
o quattro in un anno, tutto qui.
Voglio soprattutto scrivere un altro romanzo, ma non mi vengono con
facilità. Negli ultimi quattro anni ne ho iniziati tre, ma nessuno di questi è
arrivato da qualche parte. Presto ci proverò di nuovo. […]
Con amore,
Johnnie

La lettera precedente mostra che Fante ha di


nuovo abbandonato il romanzo sul tema del controllo
delle nascite. I romanzi iniziati e poi abbandonati
sono «Ah, Poor America!», «The Little Brown
Brothers», e il libro senza nome sul controllo delle
nascite.
Il manoscritto che accompagna le due lettere
seguenti, spedite insieme, non è identificato.

[A Pascal Covici, Viking Press]


625 So. Van Ness Ave,
Los Angeles 5, Calif.
20 aprile 1947
Caro Pat,
non so cosa dire di questo. Un mese fa l’avevo messo da parte perché
non ero sicuro. Ora lo riguardo e mi sembra che abbia un buon sapore.
È tutto quello che implica – un romanzo con umorismo e gentilezza sulle
cose profonde – il matrimonio, il controllo delle nascite, la religione, la
guerra. Potrei inviartene uno schema se quello che ti mando suscita un
qualche interesse.
I miei ringraziamenti per il volume di Dante.
Sinceramente tuo,
John Fante

Pat,
questo lotto di pagine è qualcos’altro ancora.
Dopo aver tralasciato quello che tu avevi visto nell’altra parte, ho
cominciato a pensare che sarebbe divertente scrivere un romanzo con libertà
assoluta e senza limiti, scrivere qualsiasi cosa io scelga di scrivere, libertà
completa di cominciare e finire quando mi va. È come se tutta la vita oggi si
fosse disintegrata in frammenti atomici. È ricordare le cose piú memorabili.
Sembra un romanzo adatto al nostro tempo. Ovviamente, in un romanzo di
questo genere, potrei continuare senza fine raggiungendo qualsiasi
lunghezza.
In conclusione, lasciami dire che entrambi questi manoscritti sono
ovviamente degli esperimenti e te li mando anticipando con mestizia le tue
opinioni. C’è poca speranza che ti piacciano, eppure non so resistere a
nutrire una minuscola scintilla di speranza.
jf

La risposta di Covici bilanciò l’elogio verso uno


dei due stralci («Hai l’inizio per un romanzo
bellissimo») con lo scetticismo verso le parti
sperimentali («Delle scene senza alcuna connessione
fra loro non fanno un romanzo»).
[Alla madre e al padre]
22 aprile 1947

Cari mamma e papà,


[…] Un paio di settimane fa ho parlato con un prete cattolico qui, un
amico del nostro vicino, e sembra che Joyce e io ci sposeremo presto di
nuovo in chiesa. Joyce dice di voler diventare cattolica e vuole mandare i
bambini a St Brendan il prossimo settembre. Come sai, Danny non è stato
battezzato. Ma presto lo sarà.
Ho avuto dei problemi piuttosto consistenti con lo scrivere, ultimamente.
Mi sono esaurito, ed è un lavoro molto duro. Ma in realtà è colpa mia. Per
due anni ormai ho giocato a golf tutti i giorni, e il mio lavoro ne ha sofferto.
È quasi come ricominciare tutto da capo. Ora sto lavorando a un racconto
che mi piace, però, e sono sicuro di tornare presto in forma. Per inciso, ho
ridotto il golf a nove ore la settimana. […]
Il mio amore a tutti voi,
Johnnie

La lettera seguente, diciassette mesi dopo che


Fante aveva elencato i romanzi abbandonati e aveva
parlato di ricominciare a provarci «presto», dimostra
chiaramente che si trovava in una impasse creativa –
dove, ovviamente, il giocare a golf tutto il giorno
ogni giorno aveva un ruolo importante, come causa o
come effetto. Qualche racconto, comunque, continuò
a essere scritto – nel 1947, 1948 e 1949 ne vennero
pubblicati tre: «Il sognatore», «La grande fame» e
«Un gioco solo per Oscar» – e il nuovo libro venne
finalmente cominciato nel marzo del 1950.
[Alla madre e al padre]
15 settembre 1948

Cari mamma e papà,


sono passate alcune settimane da quando vi ho scritto. […]
Ho avuto molti problemi con il mio lavoro, ultimamente. Sembra che
non sia stato in grado di scrivere nulla che mi dia soddisfazione. Ho provato
con dei film, dei racconti, e ho persino cominciato un libro. Ma tutte queste
cose sono venute fuori male. Invece di starmene a preoccupare troppo, ho
passato molto tempo a giocare a golf. Ma non ci sono soldi nel golf, dunque
ho interrotto rimettendomi a lavorare. Ora ho un altro ufficio. È a un passo
dal vialetto di casa, su Wilshire Boulevard. La camera è piccola ma
tranquilla e la pago venticinque dollari al mese. È un buon posto dove
lavorare. Ho cominciato qui questa mattina, e sento che qui produrrò
qualcosa. La settimana scorsa sono stato a Palm Springs per cinque giorni a
lavorare sul soggetto di un film con un amico, ma non abbiamo poi messo
niente su carta.
Due settimane fa Covici era in città. Ho avuto una lunga conversazione
con lui e gli ho parlato della mia idea per un nuovo libro. Mi ha ascoltato
con pazienza e quando ho finito mi ha detto che non gli piaceva. Sono
rimasto molto deluso. La mattina dopo però mi ha chiamato e mi ha detto
che ci aveva ripensato, e che la sera prima si era sbagliato. Mi ha spinto a
scrivere immediatamente il libro. Ho intenzione di farlo adesso. […]
[manca il resto]

[Alla madre e al padre]


4 gennaio 1949

Cari mamma e papà,


siamo dispiaciutissimi di non essere potuti venire a Natale. Avevamo
fatto piani per tutta l’estate, ma i soldi che avevamo bastavano appena per
fare i regali ai bambini e avremmo dovuto chiedere un prestito per
permetterci il viaggio.
È stato uno strano Natale per Joyce e me. Non è stato come gli altri.
Credo che l’unico modo per godersi il Natale sia di passarlo con la propria
gente. Il fatto che non potevamo essere a Roseville ha levato un po’ della
gioia di quel giorno. Ho pensato tantissimo a voi ed ero molto infelice
perché ero cosí lontano. Ricordavo i tanti Natali in Colorado. Mi ricordavo
di quando andavamo alla messa presto in quelle mattine fredde e buie, e
pensavo alla grande stufa che avevamo in salotto, e come fossimo soliti
riunirci intorno a essa in inverno, e come giocavamo sul pavimento e ci
sedevamo accanto alla finestra, aspettando che papà tornasse a casa. Mi
ricordo tantissime cose di quella casa su Arapahoe Street. Vi abbiamo
passato tanti bellissimi Natali. Mi ricordo di come papà andasse giú in
cantina ad assaggiare il suo nuovo vino a Natale. Mi ricordo i cavoli nel
giardino dietro casa, rigirati nella terra, ma buoni da mangiare tutto
l’inverno. Ho passato questo Natale a pensare a quei giorni e a desiderare di
poterci tornare, tutti noi. Mi ricordavo anche di tutti i sacrifici che hai fatto
per noi quando eravamo bambini, e ti vedo adesso, che ti alzi nelle
mattinate fredde per accendere il fuoco e prepararci il pranzo da portare a
scuola. Mi ricordo quei grandi panini con la marmellata che facevi per noi,
e mi ricordo il pane che lievitava nella padella grande, e com’era buono
mangiare il pane fritto con lo zucchero sopra.
Era dura per papà in quei giorni. Mi ricordo come si preoccupava perché
non c’era lavoro, con la neve per terra e pochissimi soldi, ma noi ce la
siamo cavata bene, eravamo dei bambini felici e avevamo tutto quello di cui
avevamo bisogno. […]
Mi sembra di essere in uno di quei periodi improduttivi del mio lavoro
quando tutto quello che scrivo viene fuori sbagliato. Ho tantissime cose di
cui scrivere, ma quello che faccio non è molto buono. Devo continuare e
non disperarmi. Ho sprecato due mesi prima di Natale a scrivere un film, e
questo mi ha fatto rimanere indietro. Dopotutto però potremmo riuscire a
venderlo. Il cinema sta attraversando uno dei periodi peggiori e gli studi
cinematografici non comprano soggetti. C’è moltissima preoccupazione per
la televisione e la paura che rovinerà il giro d’affari che ruota intorno al
cinema. […]
Tutto il mio amore a entrambi,
Johnnie

[Alla madre e al padre]


1º feb. 1949
Cara gente,
[…] Oggi ho finito il terzo racconto in sei settimane e l’ho mandato a
New York. Non ci sono notizie dalla Warner, ma Norman Foster, che ha
lavorato con me quando facemmo il film per Orson Welles, ora vuole che io
adatti il mio libro Chiedi alla polvere per il cinema. Mi ha chiamato ieri
sera per sapere quanto volevo per farlo. Se lo studio cinematografico decide
di comprarlo, potrei ottenere diecimila [dollari]. Ma non posso contare su
nulla. Né ci penso.
Stiamo tutti bene.
Il mio amore a tutti,
Johnnie

[Alla madre e al padre]


1º maggio 1949

Cari mamma e papà,


Tom è stato qui per un giorno o due (è ripartito oggi) ma non l’ho visto.
Era occupatissimo e ci ha telefonato dall’hotel in centro.
Mi ha detto di essere stato a Roseville e di avervi visti tutti, e che ha
parlato con il dottor McAnally di papà. Il dottore crede che, nonostante
papà non stia benissimo di cuore, non è cosí grave come può sembrare.
Sono stato molto contento quando Tom mi ha riferito che il dottore ritiene
che papà abbia molti anni ancora da vivere.
So quanto deve essere difficile, però. So quale terribile dolore deve
essere per papà, che ha lavorato duramente tutta la sua vita, e che è abituato
a usare le mani e a tenersi occupato. Deve essere una gran croce, una croce
difficilissima per lui da portare.
Ma finché c’è vita c’è anche speranza. Immagino che la cosa che gli dà
ancora piú fastidio del cuore sia lo stato dei suoi occhi. Ma non deve
arrendersi. Anche quello si può curare. Ci vorrà tempo e denaro, ma tutti
noi faremo quello che possiamo. Gli chiedo di avere coraggio, di avere fede
in Dio, di credere che Dio lo aiuterà a recuperare la vista. Non abbiamo
bisogno di un miracolo. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è qualche
soldo per le cure mediche. Una cataratta è certamente una brutta cosa, ma
può essere curata. Può essere.
Sento che papà può vivere altri dieci anni, se solo non si arrende. Deve
essere forte e avere fede in Dio, in sé stesso e nei suoi figli. Questa è la cosa
piú importante di tutte. Se si arrende, se non combatte, sarà dura. Ma deve
combattere.
Papà, ti dico questo: su con il morale. Credi nei tuoi figli, nei tuoi nipoti.
Sii coraggioso e forte, cosí che possano essere fieri di te. Ho già detto a
Nick e Danny che sei un combattente nato. Ho detto loro quanto sei forte.
Ho detto loro che il nonno vivrà per sempre. Devi continuare a combattere.
Non commiserarti. Ricordati che dicevi che nessuno poteva sconfiggere
Nick Fante. Devi crederci ancora, perché è vero. E nessuna di queste cose
avrà la meglio su di te. I tuoi occhi guariranno presto. Presto potrai vedere
di nuovo. Devi avere fiducia. Non bere troppo. Sii il padre forte e
coraggioso che conosco. Ti amiamo tutti, Pete, Tom, Jo, e io – e Bud. E tutti
i tuoi nipoti. Per amor loro, sii forte, continua a lottare. È dura per la
mamma. Non sta bene. Sii gentile con lei. Sii un buon amico per lei, perché
lei è sempre stata cosí buona con te.
Presto verrò a Roseville – fra pochi giorni, spero. Ti farò sapere.
Tutto il mio amore,
Johnnie

Il nuovo bambino di cui si parla nella lettera


seguente era Victoria, nata il 4 ottobre 1949.

[Alla madre]
8 agosto 1949

Cara mamma,
felicissimo di aver ricevuto la tua lettera. So che avrei dovuto scriverti
tanto tempo fa, ma sono stato terribilmente occupato.
Sto di nuovo lavorando nel cinema. L’accordo non prevede molti soldi,
ma ho accettato comunque, perché avremo moltissime spese con il nuovo
bambino, che arriverà fra due mesi. Ho a che fare con un produttore
indipendente. Mi ha dato come prima paga mille dollari. Alla fine di questo
primo acconto prenderò altri mille dollari – fra sei settimane circa. Poi altri
cinquecento quando il soggetto è finito. A seguire ci sarà un altro
pagamento di duemilacinquecento quando cominciano a girare il film.
Ho anche un accordo futuro per un soggetto che ho scritto con Carey
McWilliams. Non si realizzerà prima di un altro mese, ma significherà un
altro bel malloppo di denaro per entrambi.
Oltre a ciò, ho appena finito un altro soggetto che non è ancora stato
proposto a nessuno. Tutto sommato, ho lavorato duramente per molti mesi.
[…]
Continuo a vedere spesso Carey. È stato un buon amico in tutti questi
anni; migliore di Ross, che ora non vedo molto di frequente dal momento
che si è sposato per la terza volta. Mi doveva cento dollari, e quando ne ho
avuto veramente bisogno non me li ha resi. […]
Il mio amore a te & papà,
Johnnie
1950-56

Di tutte le lettere scritte all’inizio degli anni


Cinquanta ne sopravvivono solamente due non
dirette alla famiglia. Un decennio in cui la situazione
economica dei Fante migliorò significativamente, ma
segnato dal diabete diagnosticato a John nel 1955. Il
«nuovo libro», «Full of Life», di cui parla ai genitori
nella lettera seguente, si sarebbe trasformato in una
delle produzioni piú redditizie e soddisfacenti, sia
come romanzo che come film. Il suo primo successo
(come scrisse Fante nel marzo del 1952 a Mencken, a
cui dedicò il libro, dopo che questo venne pubblicato)
fu quello di risvegliare l’interesse del «Woman’s
Home Companion», rivista che pagava molto bene,
che «mi dette un paio di migliaia di dollari come
anticipo», ma poi rifiutò la versione finale. «Mentre
era ancora sotto forma di manoscritto, – avrebbe
detto a Mencken, – l’ho venduto allo Stanley Kramer
dei film per quarantamila verdoni. Il mese scorso
[febbraio 1952] il “Reader’s Digest” decise di
pubblicare circa settemila parole del romanzo nel
numero di maggio, cosa per cui mi offrirono altri
settemila dollari […] un totale di cinquanta
bigliettoni da mille per un libro che deve ancora
essere messo sul mercato». Il successo finanziario di
«Full of Life» permise ai Fante di comprare, anche
prima che il libro fosse pubblicato e la sceneggiatura
scritta, una nuova casa a Malibu, dove Fante visse
fino alla sua morte nel 1983 e dove sua moglie Joyce
ha vissuto fino alla fine dei suoi giorni. «Il periodo
che seguí, – commenta Joyce Fante, – fu di relativo
benessere, con Fante che lavorava come scrittore
sotto contratto fra gli altri per la Columbia Pictures,
la Twentieth Century Fox, e la Mgm. Nel 1957
scrisse la sceneggiatura per “Un solo grande
amore” in collaborazione con Sonya Levien e Daniel
Fuchs. Questo film, con Kim Novak, fu realizzato
dalla Columbia Pictures». Un’altra sceneggiatura
che scrisse con Jack Leonard fu distribuita in questo
decennio, un film di serie B chiamato «Il mio uomo».

[Alla madre e al padre]


19 marzo 1950

Cari mamma e papà,


so che è passato molto tempo dall’ultima volta che ho scritto, ma in
questi giorni sono stato cosí occupato che quando finisco il lavoro mi sento
semplicemente troppo stanco per scrivere. Cercherò di farlo di piú d’ora in
poi. […]
Le cose si mettono al meglio per me, anche se al momento siamo
completamente al verde. Venerdí scorso ho dovuto rifiutare un lavoro alla
Fox Studios perché non mi pagavano abbastanza. Mi offrivano
quattrocentocinquanta dollari alla settimana, che certamente sono un sacco
di soldi, ma rappresenta una diminuzione di cento dollari alla settimana
rispetto al mio ultimo salario, e il mio agente mi ha consigliato di non
accettare. Comunque, credo che torneranno questo lunedí e mi offriranno i
cento dollari extra. Ho anche buone prospettive per un lavoro alla Warner
Brothers. Sono interessati a qualche racconto che ho scritto sui filippini, e
potrei vendergliene due, ottenendo anche un lavoro allo studio. Avrei inoltre
dei racconti per la radio che potrei vendere, e in piú sto lavorando a un paio
di racconti brevi e ho cominciato un nuovo libro. Come potete vedere, ciò
mi tiene molto occupato. […]
Tutto il mio amore, e prometto di scrivere prima la prossima volta, e piú
spesso nel futuro…
Johnnie

[Alla madre]
7 giugno 1950

Cara mamma,
Solo un biglietto per scriverti che ho ricevuto la tua ultima lettera e che
ho delle buone notizie. Ho appena venduto il mio nuovo libro al «Woman’s
Home Companion» per cinquemilacinquecento dollari. È una gran cosa per
me, perché avevamo terribilmente bisogno di quei soldi. Non li avrò tutti
prima del 15 agosto, ma ne prenderò un migliaio adesso, per pagare dei
conti che andavano saldati da tempo, e le nostre tasse che sono in arretrato
di due anni. Il mio libro è promettente, potrei venderlo anche al cinema. Mi
hanno infatti già offerto diecimila dollari per averlo, ma il tipo vuole
darmene solo duemilacinquecento. Credo che potrò ottenerne molti di piú
dopo che il racconto apparirà sulla rivista. È il racconto della nascita di
Nick. Ovviamente molte cose sono inventate, ma è una storia molto bella su
un marito e una moglie, e di come diventano genitori di un bel bambino.
Includo una copia del contratto perché tu la veda. Devo ovviamente
consegnare un buon manoscritto prima che mi paghino, ma sono certo che
ci riuscirò.
Il mio amore a te e papà
Johnnie

Come sfondo alla «storia molto bella su un marito


e una moglie, e di come diventano genitori di un bel
bambino», Joyce Fante fornisce il seguente
commento: «Qualcosa deve essere detto della reale
situazione che costrinse Fante a imbarcarsi in “Full
of Life”. Dopo un lungo periodo di relativa serenità
durante il quale avevamo denaro a sufficienza, anche
se non moltissimo, mentre Fante giocava a golf tutti i
giorni trascurando il suo lavoro, e io mi occupavo
dei bambini, all’inizio del 1950 Fante rimase
atterrito alla notizia che ero di nuovo incinta.
Il nostro terzo figlio era ancora piccolissimo, e
ora ce n’era un altro in arrivo. Lui era devastato. Mi
aggredí per settimane, gridando oscenità. I suoi
amici, Ross Wills e Carey McWilliams, consigliarono
un aborto, probabilmente gli suggerirono di
andarsene. Lui voleva che abortissi. Io rifiutai.
Decise di lasciare la famiglia, considerando me e i
bambini come un intollerabile ostacolo al successo.
Poi cambiò idea e rimase, ma l’amarezza non se ne
andò. Non mostrò alcuna tenerezza né
preoccupazione, rimanendo fuori fino a tardi tutte le
sere per settimane, e tornando a casa talmente
ubriaco che dovevo quasi portarlo di peso su per le
scale. Non fu presente alla nascita di James. In
seguito rimase freddo e indifferente a casa,
ignorando sia me che il bambino.
Entrambi rimanemmo feriti da questo periodo, per
tutto il resto della nostra vita matrimoniale, anche se
non vi facemmo poi mai allusione. Incredibilmente, il
quarto figlio portò invece con sé un cambiamento in
meglio nelle nostre vite.
Rendendosi conto di essere con le spalle al muro,
Fante si imbarcò nel suo nuovo romanzo, “Full of
Life”, che fu il suo piú grande successo commerciale
e che rinnovò la sua brillante carriera come
sceneggiatore. Sebbene negli anni Cinquanta
guadagnò quello che per gli standard odierni
equivarrebbe a un milione di dollari, Fante non
emerse da quel periodo con denaro sufficiente per
finanziare la scrittura di un altro romanzo.
Ironicamente, “Full of Life” descrive
un’atmosfera domestica solare con un giovane
marito amoroso e una moglie che aspetta il primo
figlio, l’opposto di quello che era realmente accaduto
nella nostra famiglia».

[Alla madre e al padre]


[senza data – 14 agosto 1950 circa]

Cari mamma e papà,


siamo tutti a Catalina Island per due settimane. Siamo venuti qui in aereo
venerdí pomeriggio, e viviamo in un appartamentino di tre camere. Sono
tutti felicissimi, specialmente i ragazzi. È fantastico essere lontani dal caldo,
dal rumore e dallo smog di Los Angeles. […]
Il mio libro è finito e ora sto aspettando il responso finale dei redattori
del «Woman’s Home Companion». Il libro è stato anche accettato dalla
Viking Press e sarà pubblicato dopo che sarà apparso sulla rivista.
[…]
Il mio amore a tutti,
Johnnie

«Full of Life», comunque, dopo essere stato


rifiutato per la pubblicazione dal «Woman’s Home
Companion», fu poi pubblicato nel 1952 non dalla
Viking Press, ma dalla Little, Brown and Company di
Boston.
L’autoritratto comico di Fante come «nouveau
riche» pseudo wasp suburbano è tratteggiato in modo
divertente nella prima parte della lettera seguente,
mandata al suo vecchio amico ed ex collega scrittore
della costa del Pacifico, trasferitosi poi a New York
in quello che Fante considerava come un esilio.
Quello a cui alludeva con l’«affare Adamič» era il
fatto che Louis Adamič venne trovato morto per un
colpo di arma da fuoco nella sua casa in fiamme nel
settembre del 1951. Nonostante alcuni suoi amici
avessero suggerito che forse era stato ucciso per
scongiurare la pubblicazione del suo libro pro Tito
sulla Iugoslavia, «The Eagle and the Roots» (Adamič
aveva ricevuto per tre volte delle minacce), la sua
morte venne ufficialmente attribuita a suicidio.
L’argomento principale della lettera ruota intorno
alle udienze circa l’influenza comunista
nell’industria cinematografica che la House Un-
American Activities Committee aveva svolto con
vicende alterne fino dal 1947. Un sottocomitato
aveva tenuto delle udienze a Los Angeles all’inizio di
settembre. Nel 1949 i cosiddetti “Hollywood Ten” –
membri attuali e non del Partito come Alvah Bessie,
Ring Lardner jr, Dalton Trumbo, e Edward Dmytryk
– erano stati in galera per vilipendio del Congresso
non avendo collaborato nelle prime udienze.
Quell’anno, inoltre, cinquanta produttori di spicco di
Hollywood pubblicarono la Waldorf Declaration in
cui si impegnavano a non impiegare testi avversi a
meno che non dichiarassero sotto giuramento di non
essere comunisti (nell’aprile del 1951 Dmytryk
acconsentí abiurando e apparendo davanti al
Comitato come teste non avverso). Fu l’inizio del
periodo delle liste nere a Hollywood giustamente
bollato come infame.
In quanto redattore di «The Nation» (si spostò a
est per riunirsi allo staff nella primavera del 1951) e
veterano della lotta per le libertà civili, McWilliams,
come Fante sapeva bene, era aspramente ostile a
quella che molti consideravano come una caccia alle
streghe; «Witch Hunt: The Revival of Heresy» era
infatti il titolo del libro di McWilliams in cui criticava
le investigazioni sulla «lealtà». È interessantissimo
notare il punto di vista indipendente di Fante e
rimarcare il suo suggerire l’esistenza di altri tipi di
test politici piú nascosti in opera negli anni
precedenti. Chiaramente l’amicizia lunga una vita
con McWilliams non era basata su una comunanza
ideologica.
Sui commenti di Fante circa la motivazione di
coloro che avevano comprato il suo «Full of Life»
per lo schermo, Joyce Fante commenta: «Il
ragionamento che Fante segue qui lo mostra al suo
meglio in quanto ad acume». E continua:
«Bisognerebbe dire che Fante attribuiva il suo non
aver trovato lavoro nel cinema alla fine degli anni
Quaranta al fatto che era rimasto “insensibile” alle
cause della sinistra. Nota storica: alla fine degli anni
Quaranta era di moda nella comunità del cinema di
Hollywood mostrare simpatie per la sinistra. In
seguito, durante quella che fu chiamata la Caccia
alle streghe di Hollywood, le posizioni vennero
ribaltate, e divenne di moda essere anticomunisti.
Fante, sia detto a suo merito, non fu né l’uno né
l’altro, e rimase sempre apolitico».

[A Carey McWilliams]
28981 W. Cliffside Dr,
Route 2,
Malibu, California
17 ottobre 1951

Caro McWilliams,
ora ascolta bene, McWilliams, quando hai a che fare con un uomo come
me, non hai a che fare con una merda qualsiasi. E invece hai a che fare
proprio con una merda qualsiasi e sono qui a dirtelo, esattamente qui a
Malibu, dove ora vivo – sí McWilliams, quella Malibu – sono qui a dirti che
questo posto benedetto che ora è mio fronteggia l’oceano Pacifico come una
fortezza, e tutte le sere sono là fuori con un binocolo (ora possiedo un
binocolo, McWilliams) a spiare l’orizzonte per avvistare navi del nemico, e
quando dico nemico non intendo i giapponesi, McWilliams, ma mi riferisco
a un Paese in Asia la cui capitale comincia con una m. Cosí io sto sulla mia
proprietà con un binocolo, e se vengono, come accadrà, McWilliams, voglio
che tu sappia, e con te, tua moglie, il tuo bambino, e tua madre, che John T.
Fante, un onesto cunt-tributor 1 (è scritto giusto, McWilliams) alle lettere
americane, è là fuori per fermare le orde slave, pronto a morire sul posto per
mantenere la gente come te al lavoro, quello di scrivere la verità,
celebrandola come un faro per guidare il mondo intero lungo il pericoloso
sentiero della libertà umana. La casa mi costa ventinovemila dollari, bub.
McWilliams, come va con i poveri? Come va con le masse ebree
pullulanti e sudate nella città piú cattiva del mondo? Ti piace il salmastro,
kid? Ti piacciono le sensuali colline della California, e bianchi tutto intorno
a te? Quanto vorresti essere qui su questa preziosa striscia di terra d’oro,
con il mare che ti ruggisce nelle orecchie, tenendoti sveglio, e la massa
imponente della luna sospesa come una bomba atomica sulla tua casa, e la
tua casa, un ranch californiano (è la parola, kid) – un ranch, un grande
edificio fatto a y con un tetto bianco di cemento e quattro camere da letto su
un acro di terreno verdeggiante, la terra del nostro amato Golden State?
Come fai a sopportare quel lurido manicomio, negri a destra, dago a
sinistra, ed ebrei dappertutto? Mi dicono che ci sono persino dei greci a
New York. Torna, man. Fai un bagno, levati l’odore unto dei wop di dosso e
vieni a casa al clima piú maledettamente buono, l’aria piú dolce, le donne
piú amabili, le brezze piú fresche, la miglior prosa di tutti gli Stati Uniti.
Non dimenticare le tue origini, boy, ricorda che un’ostrica è meglio di tutti i
filetti del mondo. Torna, son. Alzati, abbassa gli occhi e canta con me ora,
in questo momento: «I found my love in Avalon | beside the bay | I left my
love in Avalon | and sail’d away».
Diamine, è piacevole essere ricchi per un po’. Sono a diciassette miglia
sopra Malibu Colony, sull’autostrada Pacific Coast, un miglio da Zuma
Beach, due miglia da Trancas, ventiquattro miglia da Oxnard. Questo
agglomerato si chiama Malibu Riviera, è una parte della vecchia proprietà
Ringe. Ho fatto un acquisto veramente favoloso – un acro intero, tutto
racchiuso da un muro di cemento, quattro camere da letto, una tavernetta,
un garage con quattro posti macchina, un terrazzo sul tetto, due camini –
cinquemila piedi di casa su un piano, completamente ammobiliata (e anche
molto costosa) per ventinove G 2. Il mobilio comprende un congelatore
enorme, la lavapiatti elettrica, lo smaltitore di rifiuti, il frigorifero eccetera.
La tavernetta e il salotto sono in legno, ogni finestra ha gli infissi in acciaio,
ci sono tre bagni con doccia in ognuno e una iarda di prato con
duecentoquindici alberi piantati – pini, avocado, cedri eccetera; una
conigliera con dieci conigli, piú altri in arrivo, e un pollaio con dieci galline,
piú due cani. La casa ha quattro anni circa, è costata settantacinque migliaia
di dollari per costruirla, ed era in vendita l’anno scorso per novantaduemila
ammobiliata. In virtú del mercanteggiare e delle macchinazioni del mio
amico, l’agente immobiliare Myron Winton, il posto si è in qualche modo
liberato ed è stato possibile acchiapparlo perché avevo i soldi in contanti.
Tasse, quattrocento l’anno. Unico fastidio: imposte sull’acqua. Altissime. I
bambini prendono l’autobus per andare a scuola a Malibu, e vivere qui è
molto meno complicato che vivere in città. Ho un uomo qui, un vecchio e
gentile messicano, che fa tutto il lavoro in giardino e le faccende piú
pesanti. Lo pago settantacinque dollari al mese e gli do cibo e vino in
quantità. Si chiama Henry Aguilar, è nato in New Mexico, ha cinquantotto
anni, non parla inglese e raccomanda di mettere intorno al collo delle ossa
di serpente a sonagli come rimedio perché i denti di Victoria nascano dritti.
Mette peperoncini piccanti nel caffè e adora i bambini.
Ho visto Wills una volta sola da quando hai lasciato la città. Non saprei
dirti nulla di quell’uomo. L’affare Adamič lo ha profondamente
impressionato, è stata un’esperienza devastante, lo ha reso piú amaro che
mai; ha etichettato tutta quella misteriosa storia cosí: «Omicidio per mezzo
di suicidio».
Le udienze dell’Un-American Activities sono state presentate qui in
modo favoloso, uno spettacolo affascinante e orrendo. Fatto piuttosto
curioso, sono stato nominato. Ciò è accaduto durante la testimonianza di
Carl Foreman, che nello sforzo di provare che si era ravveduto, ha
dichiarato che uno dei suoi progetti futuri era Full of Life di John Fante. Mi
ha anche messo in una compagnia piuttosto ambigua, perché ha indicato di
aver preso sotto contratto Menjou, Gary Cooper e Edw. Dmytryk per fare
dei film per lui.
Credo che lo spettacolo piú penoso di tutti fosse la povera Eleanor
Abowitz. È in ogni caso meno che fotogenica, e lo spettacolo di questa
creatura con il suo visetto da uccellino che spuntava da sotto un
cappelluccio, con grandi occhi nervosi ed esitanti davanti alle telecamere,
con quelle labbruzze umide che formavano le parole, era un peccato contro
la femminilità. Ho visto la bobina di quella sceneggiata in un bar su
Western Avenue, con i baristi che guardavano con sospetto, ed era
dolorosissimo perché odiavano la vista di lei, del suo essere ebrea, e la
funesta ironia [dei] suoi lineamenti. È stata una cosa molto crudele.
Non è facile per me dire che il comitato fosse solo a caccia di streghe,
perché credo che l’investigazione abbia rivelato sul serio la stretta mortale
dei comunisti sulla corporazione, i metodi efficienti di un’organizzazione di
pochi per dirigere la politica, la loro grande abilità nelle procedure
parlamentari, e la loro infinita pazienza in un’organizzazione composta da
persone notoriamente impazienti. Fino all’ultimo uomo e all’ultima donna,
era gente sorprendentemente cupa e determinata. Sulla mia vita, non riesco
a capire perché abbiano abbracciato il comunismo. Dov’è il fascino di
quella filosofia? Dov’è il suo lato umano? Quelli che hanno abiurato e
quelli che non l’hanno fatto… per me è tutto uguale: non sono diversi dai
nazisti nella loro fiducia verso il futuro, cupa, umorale e vendicativa. Né è
molto facile dire se, venuto il tempo delle purghe, verserebbero una lacrima
umana per coloro che non fossero d’accordo con il loro modo di gestire lo
spettacolo. Se le posizioni fossero rovesciate, se a coloro che sono stati
accusati fosse permesso di fare accuse e di assegnare una punizione, quanti
direbbero, va’, e non peccare piú? Anche la pietosa, tragica Eleanor
Abowitz, che sembrava cosí tristemente inerme, mostrerebbe un
atteggiamento, e molto aggressivo.
Ho notato pure che dei centosettantacinque nomi circa portati allo
scoperto, il novantacinque per cento erano scrittori che lavoravano. È un
dato interessante questo, perché giorno dopo giorno, circa duecento scrittori
vengono impiegati regolarmente in questa città. Sarebbe troppo affermare
che, a meno che tu non abbia una tessera di partito, non puoi lavorare? Parlo
di questo non come di un fatto, ma solo perché tu ci rifletta.
E ho un’osservazione finale pericolosa da fare, che ha a che vedere con
me e la vendita del mio romanzo alla Kramer Company. Perché supponi che
Carl Foreman fosse cosí in ansia di fare questo romanzo, questo racconto di
una moglie che si converte al cattolicesimo, di un prete e di un vecchio e di
un eroe esitante che alla fine torna alla sua religione d’origine? Questo
comunista ha comprato un romanzo perché si confaceva alla sua filosofia,
perché ha scoperto (all’improvviso) grande calore e tenerezza in quel
manoscritto? O piuttosto, sentendo il latrare dei lupi da dietro le colline, si è
detto in tutta fretta: questo è il tipo di materiale con il quale voglio essere
trovato quando mi prenderanno? So solo che tutti gli altri studi
cinematografici in città avevano rifiutato quel romanzo e, con l’eccezione di
una compagnia indipendente, nessuno aveva fatto un’offerta. E, ancora piú
significativo, la ragione per cui la King Brothers era desiderosa di
comprarlo era che Dmytryk voleva farlo. Dmytryk! I lupi gli avevano già
strappato le bretelle e un bel pezzo di culo, e ovviamente ha paura che
possano di nuovo corrergli dietro ululando. Posso solo dire che questi sono i
quarantamila dollari piú fortuiti mai incassati da un uomo: due tipi si
contendono e si strappano l’un l’altro la tonaca di un prete, ed entrambi
cercano di provare quanto quel sacco gli doni.
Come puoi vedere, Lucifero aveva dispiegato le sue forze, ma i suoi
poteri satanici non hanno potuto nulla contro Dio, che era al mio fianco.
Comincerò la sceneggiatura il primo dicembre, e dovrei essere
impegnato fino a febbraio circa. La settimana scorsa ho avuto un breve
incontro con Kramer. Era molto amareggiato nei confronti di Foreman. E
anche piuttosto criptico. Ma ho capito che Kramer (e questa è solo
un’intuizione) e i suoi avvocati volevano che Foreman abiurasse
completamente, cosa che non ha fatto. Era un teste avverso. Kramer mi ha
fatto una dichiarazione supplichevole, dicendo che come risultato della
precisa radiazione di Foreman, gli venivano fatte congratulazioni da gente
che aveva sempre disprezzato e che era stato denunciato dai suoi migliori
amici. Era il perfetto esempio di un sinistroide sotto pressione. Ma
immagino che il pregio di un sinistroide sia la flessibilità.
Quanto al mio non venire a New York, la transazione della casa è
avvenuta nello stesso momento circa in cui avevo progettato il viaggio.
Ho ricevuto una lettera nebulosa da Stanley Salomen di Little, Brown, in
cui mi diceva quanto fossero tutti sorpresi, lui compreso, per le dimissioni
date da Angus Cameron. Stanno andando avanti con dei piani per far uscire
il mio libro la prossima primavera, il 21 aprile. Potrebbero garantirgli una
certa visibilità, perché Salomen ha detto che speravano in cinquantamila
dollari. Verrà qui alla fine di questo mese.
Ora falla finita con tutte queste cose senza senso e torna a casa. La
settimana scorsa sono andato verso casa tua su Alvarado e posso riferirti
che la proprietà è sempre in piedi, in buona forma, verde come uno
smeraldo.
Dài il mio amore a Iris e Jerry; ci mancate, e spero che anche noi ti
manchiamo, e che tu stia seriamente pensando a tornare a casa.
Amore e baci,
j. f.

Non si sa chi siano i destinatari dell’altra lettera


di questo periodo. «Stan» potrebbe essere lo Stanley
Salomen di Little, Brown a cui si riferisce nella
lettera precedente. Evidentemente, in ogni caso, sono
i potenziali editori di un libro di Fante.
Questa lettera – che comincia forse come una
proposta per un editore, ma che poi cresce, come il
«Prologo a Chiedi alla polvere», fino a diventare un
racconto – è essenzialmente la prima versione di «La
confraternita dell’uva» di Fante, pubblicata da
Houghton Mifflin nel 1977, perché tratta degli ultimi
giorni di suo padre e dell’indomabile vitalità del
vecchio. (Il padre di Fante era morto nel 1950).
Eppure quello che accade è sufficientemente diverso
perché questa stesura meriti una pubblicazione
indipendente qui. Un paragone fra questa versione e
il libro pubblicato può aiutarci a capire quanto sia
lontana la narrativa di Fante dalla semplice
trascrizione di eventi autobiografici o familiari.
Il romanzo che Fante sta mettendo da parte al
presente è l’inizio di quello che divenne poi «1933.
Un anno terribile», pubblicato postumo nel 1985.

[A Stan e Howard ——]


febbraio 1954

Cari Stan e Howard,


ho dedicato due mesi a pensare, scrivere e riscrivere il romanzo di cui
abbiamo parlato al Beverly Hills Hotel; la storia del ragazzo che scappa per
diventare un grande giocatore di baseball. Devo ora riferire con rammarico
che non riesco a farlo partire. Il materiale è bello in teoria, ma povero
quando viene buttato giú. Credo che la ragione per cui non riesco a partorire
stia nella sensazione che questo libro non sia importante. Neanche Full of
Life era importante, ma c’era un’urgenza meravigliosa dietro alla scrittura, e
senza quell’impeto sento che la storia del ragazzo non può essere resa con
successo. È chiaro che potrei semplicemente sedermi e scriverla senza
pensare affatto al suo personale significato, ma poi non sarebbe il libro che
vorrei scrivere o quello che voi vorreste pubblicare. Fra qualche tempo, ne
sono sicuro, forse il prossimo anno, il progetto avrà piú consistenza, e sarò
in grado di farlo partire.
Il lavoro per quanto sotto una cattiva stella però non è andato sprecato.
Perché lo scrivere tutte quelle pagine non soddisfacenti ha aggiunto
qualcosa di nuovo, e mi ha dato un meraviglioso entusiasmo – un’idea
importante, alla quale desidero moltissimo dare immediatamente inizio.
I miei migliori sforzi in tutti i libri che ho scritto sono stati diretti verso
mio padre, i suoi problemi, i suoi fallimenti e i suoi successi. La sua morte
tre anni fa ha lasciato una profonda ferita nel cuore che non scomparirà mai.
Lui è nei miei pensieri tutto il tempo, e voglio scrivere un libro sui suoi
ultimi giorni. Fino alla fine della sua vita, mio padre è stato una fonte
costante di preoccupazione, specialmente per mia madre. Beveva forte,
giocava, litigava, e l’occhio gli correva sempre dietro alle signore, fino a
quando ha esalato l’ultimo respiro.
La sua ultima avventura capitò l’estate del suo settantacinquesimo
compleanno, quando scappò con una donna di settantotto. Lei si chiamava
Hattie Coldwell, una entusiastica salutista, che viveva solo di verdure crude
e yogurt. Questo è il mio progetto: la storia di un vecchio che fa la sua
ultima scappatella.
Per capire come un’avventura cosí straordinaria sia potuta accadere,
bisogna pensare a come mio padre viveva in quel periodo. In un certo senso
era andato in pensione. I miei fratelli e io mandavamo denaro a casa a San
Juan, e lui non doveva lavorare. Ma gli piaceva essere attivo, e di tanto in
tanto costruiva un camino o tirava su un muro di pietra, oppure scolpiva una
lapide. Lavorava quando stava bene, un paio d’ore al giorno. Il resto del
tempo lo passava all’Abruzzi Cafe, dove giocava a peppa e a pinnacolo,
beveva troppo e fumava troppo. Il dottore l’aveva avvertito di smettere con
tutti questi vizi – specialmente il gioco e il fumo. Non serviva a niente che il
dottore gli prescrivesse di non bere, perché sapeva che quel tabú non
sarebbe stato rispettato. Nel pomeriggio, dalle due alle quattro, mio padre
faceva un pisolino. Alle cinque mia madre gli faceva trovare la cena pronta,
e dalle sei alle dieci lui andava in centro all’Abruzzi Cafe. Durante tutta la
sua vita da sposato – quarantasei anni – a mio padre era piaciuto pensare di
essere uno spirito libero, che sua moglie non osasse interferire con le sue
fonti di piacere, e che le sue bellissime ore all’Abruzzi Cafe fossero segrete
e a lei sconosciute. Il grande fascino e la bellezza dell’amore di mia madre
stavano nel lasciarglielo credere, e faceva sempre finta di non sapere
nemmeno che l’Abruzzi Cafe si trovasse nella Chinatown di San Juan – un
mezzo isolato di saloon e di tintorie. Anche per mia madre quelli erano
momenti felici e di grande pace. La maledizione della sua vita era
preoccuparsi per quest’uomo. Era uno scandaloso dongiovanni quando
c’erano delle signore, e anche se dentro di lui il fuoco era estinto, c’erano
ancora dei carboni ardenti sotto la cenere, e ogni tanto un vento che
diffondeva un profumo seducente faceva avvampare le braci ancora una
volta. Da cinque anni però, ovvero da quando aveva compiuto i settanta,
mio padre non aveva piú mostrato alcuna inclinazione verso le altre donne.
Non fosse stato che per il vino e per delle giocate leggere all’Abruzzi, era
pronto per una placida vecchiaia. Nel giardino sul retro c’erano dei polli, e a
tre miglia piú su sulla strada c’era l’industria vinicola di Joe Muto. Joe
consegnava il vino proprio come il lattaio i latticini. Cinquanta cent il
gallone, costava – un vino che il Palace Hotel a San Francisco voleva al
punto da offrire a Joe un prezzo favoloso per l’intero raccolto, e lui aveva
sempre rifiutato.
Un giorno uguale all’altro, attraverso le calde estati della Sacramento
Valley, mio padre dormiva sotto gli alberi nel giardino sul retro, alle volte
troppo stanco per pensare all’Abruzzi Cafe, fino al giorno in cui non vi andò
affatto. Le otto di sera lo trovarono a letto. Aveva finalmente raggiunto uno
stadio di anzianità e apatia che portava una grande serenità a mia madre.
Perché lei ora sapeva sempre dove fosse – a casa, in giardino, addormentato
sul dondolo, a fumare troppo, a bere troppo – ma comunque a casa, dove
non bisognava preoccuparsi per lui.
La soddisfazione di lei lo irritava. Con un brivido capí che lei ora si
dedicava con impegno al compito di servirlo fino alla sua morte, e quella
sollecitudine e quegli sguardi teneri gli facevano sentire che poteva morire
entro qualche settimana, sí – forse qualche giorno. In tutta la sua vita
accanto a lei non aveva mai pensato che sarebbe vissuto piú di sua moglie,
ma ora che aveva rinunciato, per cosí dire, ai piaceri carnali dell’Abruzzi
Cafe, lei aveva interpretato questa rinuncia come un segno che le sue ore
fossero contate… o cosí pensava [lui].
Questo era in parte giustificato. E si capiva da piccolissime cose. Lei
aveva un baule pieno di vestiti, scarpe, cappotti eccetera, regali che le
avevano fatto i figli durante gli anni, che non indossava mai, perché papà
non la portava mai da nessuna parte. Ma ora che lui era a casa tutto il
tempo, adagiato nella monotonia del trovarsi sempre in compagnia di lei, lei
voleva rallegrare la cupa immagine che aveva, e cominciò a indossare
alcuni dei suoi fronzoli. Ciò non significava poi altro che rassettarsi il
pomeriggio, cioè indossare lo scialle che sua figlia le aveva regalato, o le
calze nuove, o una vestaglia da casa datale da uno dei figli. Per anni aveva
sofferto a causa di un udito difettoso. Uno dei figli le aveva comprato un
apparecchio acustico che lei aveva rifiutato di usare perché sentiva che «a
papà non sarebbe piaciuto». Ora che papà era lí tutto il tempo, sembrava
sensato metterselo per facilitare la conversazione. Mio padre rimase basito
quando lei fece la sua apparizione con quell’ammennicolo, e non poté che
trarre una conclusione: aveva in mente di usarlo dopo la morte di lui, e ora
stava facendo pratica in vista di quel momento. Quando venne
l’assicuratore per riscuotere i suoi venticinque cent settimanali delle loro
magre polizze, papà credette di notare un’alacrità e uno sguardo piú
brillante da parte della mamma mentre trattava con quell’uomo, una
cordialità non necessaria, e quando li udí ridere per una cosa o un’altra, si
vide con chiarezza sei piedi sotto terra mentre la compagnia pagava il
dovuto con il sottofondo di quella stessa risata. Mio padre dette una lunga
sorsata al vino e rimuginò sul suo destino.
Piú o meno in quel periodo, un giorno d’estate, arrivò una Cadillac e si
fermò davanti casa; ne scese una bella signora di settantotto anni. Era Hattie
Coldwell, la vedova del compianto farmacista di San Juan, Emerick
Coldwell. La signora Coldwell cercava mio padre per un lavoro in
muratura, la costruzione di un barbecue nel suo patio. Sebbene le sue ossa
scricchiolassero quando scese dal dondolo, qualcosa di vitale si riaccese in
mio padre alla vista della vivace Hattie Coldwell. Sentí mia madre che
diceva alla signora che lui era in pensione, che non accettava piú lavori, e in
quell’istante lui mise fine al suo pensionamento; mentre la grossa Cadillac
si allontanava con mio padre dentro, l’unica cosa che mia madre vide fu la
polvere alzata lungo la strada. Quando lo rivide, era contentissimo, ed era di
nuovo in attività. La schiena gli doleva e le ossa scricchiolavano, ma non
era possibile arrendersi quando c’era del lavoro da fare.
L’apparecchio acustico e i fronzoli tornarono cosí nel baule, e ancora una
volta la mamma aveva qualcosa di cui preoccuparsi. Papà ci mise tre
settimane a costruire il barbecue, un lavoro che richiedeva al massimo due
giorni. Ogni mattina però si alzava con il sole, pieno di entusiasmo, facendo
delle smorfie quando le ossa gli dolevano, ma felice – e misterioso, non
parlava del suo lavoro, entusiasta perché aveva sconvolto i «piani» della
mamma, e oramai convinto che sarebbe vissuto un secolo.
E nemmeno andava a lavorare vestito come un normale muratore. No –
si radeva e si incipriava, si metteva il vestito migliore (ne aveva una dozzina
o piú, scartati dai suoi figli), un bel cappello, e via, con la tuta avvolta in un
giornale.
Non stava «facendo nulla» con Hattie Coldwell. La mamma ne era
assolutamente convinta. Ma lui aveva cominciato a godere della sua
compagnia con tale incurante gioia e vitalità che la mamma si preoccupò, e
una volta di piú tornò al trantran di tutti gli anni passati con lui, in pensiero,
costernata davanti al suo rifiuto di restarsene in un angolo.
Si preoccupò talmente che si ammalò, e il dottore ritenne opportuno che i
figli venissero chiamati a casa, perché lei stava veramente male.
E noi arrivammo, quattro figli e una figlia, per trovare mia madre
pallidissima, debole e rassegnata. Ci riunimmo accanto al suo letto. Il
dottore le sentí il polso e la fronte, poi scosse tristemente la testa. Età
avanzata, disse, una donna stanca, semplicemente, pronta per morire.
Piansero tutti, tranne papà, che non credette a una parola, convinto che la
mamma stesse fingendo. Lei voleva un prete, che venne ad amministrare gli
ultimi sacramenti. Cominciò cosí una lunga notte di veglia, ciascuno di noi
a turno al capezzale, mentre gli altri aspettavano in cucina, sorseggiando il
caffè, bevendo vino. Erano momenti di tortura, di grande infelicità.
Attraverso il muro sentivamo il respiro affannoso di mia madre, il suo
ansare. Pensavamo che sarebbe stato misericordioso da parte del dottore
darle qualcosa perché non soffrisse piú, ma questi si rifiutò e andò via. Non
c’era altro che potesse fare. Poco dopo mio padre si alzò e si ritirò nella
camera da letto sul retro. Sembrava malsicuro, come se la tragedia del
momento lo avesse finalmente colpito, e si stesse allontanando per soffrire
da solo, perché non era uomo da piangere di fronte agli altri. Eravamo
molto contenti che i suoi sentimenti fossero cambiati. Se mia madre fosse
morta, avremmo ricordato con amarezza la freddezza di mio padre, il suo
cinismo. Quando chiuse la porta dietro di sé, ci guardammo sollevati. Ci
eravamo risparmiati qualcosa di spiacevole nel futuro.
Dopo un minuto o due sentimmo però lo scorrere dell’acqua nella vasca
da bagno e rimanemmo sbalorditi nel pensare che in un momento cosí
critico faceva il bagno, poi lo udimmo letteralmente canticchiare mentre
l’acqua sciabordava e il sapone scivolava nella vasca. Era mostruoso,
nauseante. Mio fratello Tony voleva fare irruzione là dentro e tirare un
pugno al vecchio. Mia sorella Cosette scoppiò in lacrime. I miei altri fratelli
arricciarono le labbra disgustati. Poi dalla camera da letto mia madre
chiamò flebilmente, non era un richiamo, era piuttosto un gemito, io entrai e
lei mi domandò quasi esalando l’ultimo respiro: «Chi sta facendo il
bagno?» Le risposi, nessuno, ma lei replicò: «È lui. So che è lui, e io qui
che muoio». Pianse. Chiese a Dio che la portasse via da quella valle di
lacrime e l’accogliesse in paradiso. Uscii dalla camera in punta di piedi.
Dieci minuti dopo mio padre fece la sua apparizione. Aveva indossato
uno dei suoi vestiti migliori. Sarebbe andato all’Abruzzi Cafe. Riuscimmo
solo a guardare attoniti quell’indicibile freddezza.
Mio fratello Tony lo afferrò. «Come puoi farlo?» Lo scosse. «Tua moglie
muore e tu te ne vai in un saloon!»
«Lasciala morire, – replicò lui. – Le farà bene. Domani mattina starà
meglio».
Mia madre lo sentí. Si alzò dal suo letto di morte ed entrò nella camera.
«Ingrato! – gli gridò. – Questo è il ringraziamento che ricevo! Certo che
vivrò! Vivrò, dovesse essere l’ultima cosa che faccio, e ti dispiacerà».
E visse, stanca di morire, annoiata dalla morte, non riuscimmo a
riportarla a letto perché rimase lí a sedere a raccontarci di Hattie Coldwell, e
di come era andata a bussare alle porte della morte solo per raddrizzare mio
padre e provare a fare di lui un uomo.
I miei fratelli e mia sorella Cosette erano sbalorditi, furiosi e frustrati.
Avevano lasciato le loro case e le loro famiglie per precipitarsi qui in
macchina, in treno e in aereo, solo per scoprire che era tutto una farsa. Ma
non dettero la colpa tanto alla mamma quanto a quell’infedele, il loro padre,
che a settantacinque anni ancora «correva dietro alle donne», e a
mezzogiorno del giorno dopo ci fu una riunione familiare, durante la quale
tutti assalirono papà, che disse che non correva dietro a nessuno, e che non
vedeva niente di male nel costruire un barbecue per Hattie Coldwell; io non
potei non essere d’accordo con lui, e mi si rivoltarono contro, tutti loro,
perché ero uno scrittore, suppongo, e dissero che quella situazione mi
piaceva perché probabilmente l’avrei usata in uno dei miei libri. Quello che
non riuscivano a comprendere però era che io capivo che quei due vecchi
assaporavano ancora una volta la ricchezza dell’esperienza umana, sotto il
violento travestimento dell’infedeltà, che non esisteva e che di fatto non
poteva esistere.
Seguí una scena amara, non tanto brutta quanto comica, il problema
vecchio come il tempo di quale fosse il figlio che faceva di piú per i
genitori. Tirammo fuori i registri dei conti, cosí com’erano – i conti, le
ricevute eccetera, e venimmo a sapere alcuni fatti interessanti – la bolletta
del telefono non era stata pagata da tre mesi, anche se mio fratello Tony
aveva mandato i soldi ogni mese. Contrito, papà ammise di averli spesi
all’Abruzzi Cafe. Mentre parlavamo, la padrona di casa venne a lamentarsi
perché c’erano quattro mesi arretrati d’affitto da pagare, e mio fratello
Henry gemette, perché anche lui aveva mandato del denaro. Una volta di
piú papà ammise di averli usati per «altre spese». Allora cominciammo a
fare un’investigazione completa: luce e gas stavano per essere tagliati
perché non erano stati pagati, il conto del droghiere aspettava da molto
tempo cosí come quello del magazzino di mangime dove papà prendeva le
granaglie per i suoi polli.
Se perdeva tutti quei soldi all’Abruzzi Cafe, allora le cose stavano
veramente cambiando a San Juan, e l’Abruzzi non era piú il posto dove un
momento di sfortuna non costava comunque piú di tre dollari in una notte
passata a giocare. Mio fratello Henry indagò, e apprese che erano già due
mesi che papà non giocava piú a peppa né a pinnacolo all’Abruzzi. Dove
andava a finire allora, il denaro?
«È quella donna – disse la mamma. – Lui la porta in giro. Negli hotel, al
bar». Era un’eventualità assurda. La signora Coldwell era un membro del
comitato della scuola, presidente delle Figlie della California. Si sarebbe
piuttosto fatta sparare che apparire in un bar o in un hotel con mio padre.
Piú lo interrogavamo, piú si arrabbiava, finché minacciò di andarsene da
casa. In Virginia c’era la sede nazionale del Bpo Elks, dove chi ne faceva
parte poteva andare a trascorrere in pace gli ultimi giorni di vita. O la
smettevamo di tormentarlo, o avrebbe fatto le valigie e sarebbe andato via.
La faccenda fu messa cosí a tacere, per il momento, e i miei fratelli e mia
sorella, assenti da troppo tempo dalle loro case e dai loro figli, partirono.
Nel mio caso non c’era urgenza che me ne andassi. Decisi quindi di passare
qualche altro giorno a San Juan. Per come andarono le cose, fu una fortuna.
Ricordo bene l’addio di mio fratello a papà, e quello che gli disse
baciandolo su una guancia passandogli un braccio intorno alle spalle. «Sii
buono con la mamma, – disse. – Non dimenticare: dopotutto è tua moglie».
La mattina stessa in cui partirono, la bufera ricominciò. Mio padre si era
alzato presto, fresco come una rosa, pronto per andare a lavorare al
barbecue.
Mia madre scandí un ultimatum. Se papà tornava al barbecue della
Coldwell, lei si sarebbe messa a letto e non si sarebbe alzata mai piú.
Era una minaccia spaventosa, formidabile – una che lui avrebbe
rispettato. D’altra parte lui insisteva dicendo che un uomo d’onore, un
muratore la cui reputazione era in gioco a San Juan – lui, Svevo Bandini –
costruttore dei grandi magazzini Safeways, dell’ufficio postale, della
camera mortuaria Burns, e di una quantità di edifici imponenti, non poteva
non finire il lavoro. Se avesse rinunciato allora, quel fatto l’avrebbe seguito
nella tomba e si sarebbe tramandato ai suoi figli che fino a quel giorno
potevano, ringraziando Iddio, andare a testa alta per la via principale della
città.
«Quella donna è una puttana 3, – disse la mamma, – una troia».
«Per favore, mamma, – replicai. – Ha settantotto anni».
Si arrivò a un compromesso. Lo suggerii io. Il vecchio aveva
sicuramente diritto a salvare l’onore e finire il suo lavoro. Allo stesso
tempo, per evitare qualsiasi accenno a una cattiva condotta, proposi di
andare a lavorare con mio padre, e di fargli da aiutante, fino a che non
avesse terminato. Mia madre fu d’accordo, sentendo che la mia presenza a
casa Coldwell avrebbe costretto papà a «comportarsi bene». Non c’era
niente di strano a che io mi offrissi di fare da aiutante. Anni prima avevo
portato lo sparviere per il vecchio in tanti lavori di muratura; avevo
mescolato la calcina, spento la calce, faticato con il cemento. Non era
nemmeno cosí importante il tempo che ci sarebbe voluto. Tre o quattro
giorni – non mi interessava.
E fu cosí che all’età di quarant’anni misi da parte per un po’ i miei
strumenti per scrivere e tornai all’occupazione della mia gioventú: portare
lo sparviere. Ancora una volta, come vent’anni prima, uscivo di casa con
mio padre, con il pranzo in un sacchetto di carta. Con indosso le nostre tute,
camminavamo fianco a fianco attraverso la città, e quell’esperienza mi
rendeva felice. Incontrai dei vecchi amici che mi conoscevano come lo
«scrittore di Hollywood», e notai una certa soddisfazione nei loro sguardi
rivolti al mio abbigliamento di lavoro. Lo scrittore che si era fatto da solo
aveva avuto il meritato castigo. Tutte le splendide chiacchiere sul mio
successo letterario si erano finalmente scoperte come grottesche bugie;
eccomi, ritornato, con in mano uno sparviere. Mi dava un piacere enorme.
Il lavoro, invece, no. La signora Coldwell mi considerava un lavoratore
qualunque, anche dopo che mio padre mi ebbe presentato. Anche
l’atteggiamento di mio padre era cambiato del tutto. Divenni nient’altro che
un salariato. Cominciò a darmi ordini. Lo faceva per mostrare alla signora
Coldwell quanto fosse esperto nel trattare con gli uomini. Dopo avermi dato
dei compiti, scomparve dentro casa Coldwell, lasciandomi a lavorare nel
giardino sul retro.
Setacciai la sabbia, mescolai la calce, lavai i mattoni e preparai tutto per
il maestro 4, che sentivo ridere e divertirsi da dentro la casa. Alle otto e
mezza doveva essere là fuori con me, a posare i mattoni preparati, e a
spalmare la molle calcina. Alle dieci ero seduto sconsolatissimo su una
cassa, aspettando che quell’assurdità terminasse e che cominciasse il lavoro.
Alla fine, disgustato, bussai alla porta di servizio. Apparve papà, arrossato
dal vino, e mi disse di tornare al lavoro. Replicai che non c’era nulla da
fare. «Allora aspetta, – ribatté. – Tieni d’occhio la situazione». A
mezzogiorno riapparve per dirmi che pranzava con la signora Coldwell e
che potevo avere il pomeriggio libero. Decisi cosí di finire il barbecue da
solo. Avevo infatti qualche nozione di muratura – certamente abbastanza da
rispettare sommariamente lo stile rustico richiesto dal lavoro.
Alle due papà e la signora Coldwell uscirono dalla casa ed entrarono in
garage. Chiesi loro dove stessero andando. La signora Coldwell trovò che io
fossi insolente. Papà disse che andavano al deposito di legname a comprare
del materiale. Non li vidi piú fino alle cinque. Per quell’ora lentamente e
con diligenza avevo alzato un muro di due piedi. Mio padre lo vide e
sussultò, dicendo che andava abbattuto. La signora Coldwell ritenne che
dovevo essere licenziato per insubordinazione. Il vecchio tentennò
nell’incertezza e decise di darmi un’altra possibilità.
Sulla via del ritorno ci fermammo – mio padre e io – all’Abruzzi Cafe.
Volevo assolutamente chiarire le cose. Invece ci picchiammo, con papà che
tirava tutti i pugni, dal momento che mi rifiutavo di rispondere. Mi colpí
una dozzina di volte, e quando vide un rivolo di sangue che mi usciva dal
naso fu profondamente mortificato. Il barista e due paesani lo tennero. Io
uscii. Il giorno dopo però lavorò duramente, e il giorno dopo ancora finí
tutto, senza che ci fossimo rivolti la parola. Entrò in casa e dopo un po’
sentii lui e la signora Coldwell che ridevano. Andai alla finestra laterale, da
dove li vidi nel salotto, che bevevano sherry giocando a cribbage. Il vecchio
pagava. Ora sapevo dove andavano a finire i soldi. Tornando a casa gli
chiesi quanto aveva perso. Rifiutò di dirmelo. Gli domandai se la signora
Coldwell gli aveva dato un assegno per il lavoro del barbecue. Con mestizia
ammise di aver perso talmente tanto che il lavoro era stato fatto gratis.
Furioso allora gli chiesi la paga che mi spettava. Non mi avrebbe dato un
penny. Mi ero offerto io di fare quel lavoro, disse. Non era stato lui a
volermi.
Era però malinconico e rassegnato: il lavoro era stato fatto. Il motivo per
accompagnarsi alla signora Coldwell non sussisteva piú. Davanti a lui ora
c’era la monotonia dei pomeriggi estivi, passati a ciondolare per casa,
sonnecchiando sul dondolo, aspettando, aspettando – niente, la morte. Mi
addolorava. La sua relazione con quella donna, la Coldwell, era innocua,
anche se costosa, mi sembrava che ne avesse diritto, e avvertii quasi del
risentimento nei confronti dell’atteggiamento di mia madre.
Lei, per contro, ora ronzava come una trottola, contenta perché era tutto
finito, sollevata perché non bisognava piú preoccuparsi per quella faccenda.
Cosí io mi preparai a partire per Los Angeles. Telefonai all’aeroporto di
Sacramento per prenotare il biglietto. Il mio aereo era l’indomani a
mezzogiorno. Cenammo tranquilli, mamma, papà e io. Dopo ci sedemmo
nel portico davanti casa, parlando poco, a guardare gli aerei che ci
sorvolavano veloci diretti a San Francisco, Reno e Seattle. Alle otto circa,
Jack Santini, il proprietario dell’Abruzzi Cafe, arrivò con la macchina.
Aveva un lavoro per mio padre: un muro di pietra che voleva fargli costruire
intorno alla sua capanna a Donner Lake. Era in grado di farlo, il vecchio?
Dapprima mio padre rifiutò, lamentandosi di essere stanco, di non voler
andare tanto lontano da casa, su per le montagne. Santini però gli promise
una buona camera nella capanna e tutte le comodità che voleva. Mia madre
ritenne che lui dovesse andare; perché Donner Lake era lontanissimo da San
Juan e dalla signora Coldwell. Anch’io fui d’accordo. Alla fine lo
persuademmo ad accettare quel lavoro. Santini era molto contento. Disse a
papà di preparare il suo equipaggiamento e di essere pronto per partire alle
sette del mattino dopo.
Tutto andò come era stato pianificato. La mattina dopo salutai papà e lui
salí nella macchina di Santini con una valigia di vestiti e gli attrezzi da
muratore. Poi non resse piú e scoppiò a piangere, e io feci lo stesso, perché
il tempo passava e sapevamo che forse non ci saremmo visti mai piú. Pianse
anche quando baciò la mamma, lei invece aveva gli occhi asciutti ed era
felice, perché sapeva dove lui stava andando, quello che andava a fare e
quando sarebbe tornato – dieci giorni al massimo. La macchina di Santini si
allontanò e io rientrai per fare colazione.
Non erano ancora passati due minuti da quando papà era andato via, che
subito la mamma si mise il suo apparecchio acustico e i suoi occhiali. Dal
baule estrasse un grazioso vestito da casa. Sí – dal momento che non
doveva preoccuparsi per lui, poteva indulgere in queste cose. La guardai
meravigliato. Sembrava che mia madre si fosse alleggerita di un gran
mucchio di anni. Diceva cose divertenti; rideva, raccontava delle storie
meravigliose del passato. Era un’altra donna.
Sentimmo una macchina da fuori. Era ancora Jack Santini. Questa volta
però papà non era con lui, e la persona [che] scese e che ordinò a Jack di
entrare in casa era sua moglie Mary. Dalla rigidità della bocca di lei e dal
panico sul viso di Santini si capiva che c’era qualcosa che proprio non
andava, che portavano cattive notizie.
La mamma avvertí che era successo qualche disastro e cominciò a
rabbrividire e a gemere. Era capitato qualcosa a papà. Era stato assassinato,
l’avevano ucciso, era andato in prigione, o era morto in qualche modo
orribile. Quell’evento si leggeva chiaramente sulle facce di Santini e di sua
moglie. Rimanevano solo da sapere i dettagli.
«Diglielo», ordinò Mary Santini al marito.
Dapprima Jack non voleva, ma doveva confessare, altrimenti gli sarebbe
capitata una disgrazia. Cosí raccontò alla mamma tutta la storia. Lui non
possedeva una capanna a Donner Lake. Era una bugia. Non aveva del
lavoro per papà, laggiú. Papà si era rivolto a lui perché fosse suo complice.
Era la signora Coldwell la proprietaria della capanna, e papà ci era andato
con lei. Jack lo aveva solo portato a casa della signora Coldwell. Ora la
coscienza gli rimordeva, e sentiva – cosí come la signora Santini – che la
mamma doveva sapere la verità. Con gli accordi presi però non c’entrava
niente. Aveva solo fatto un favore a mio padre. E adesso voleva confessare
tutto. Si vedeva comunque che era stata la signora Santini a farlo parlare –
che era stata lei a dirglielo, che era stata lei a indignarsi e a trascinarlo a
svelare tutto a mia madre.
Andarono via, e la mamma tornò a letto, con gli occhi fissi, e risoluta
nell’anima a giacere in quel modo fino alla morte, cosí io cancellai la
prenotazione e mi organizzai per andare a Donner Lake e riportare indietro
papà. Non c’era altra scelta. La mamma era là stesa, rigida e con lo sguardo
fisso, e ogni tanto diceva: «Santa Teresa, sono pronta. Vieni a prendermi».
Non posso raccontare tutto qui, ma come arrivai a Donner Lake e ripresi
mio padre, anche questo fa parte della storia. Se la figlia della signora
Coldwell non fosse stata presente, forse non sarei riuscito a farlo tornare.
Ma era lí, Vivian Coldwell, una divorziata, appena arrivata da Reno, a sole
quaranta miglia di distanza. L’ho usata in modo piuttosto vergognoso, ma il
fine giustifica i mezzi, e quando mio padre mi osservò mentre cercavo di
manovrare Vivian per sedurla, non poté sopportarlo. Per lui «giocare» con
la signora Coldwell era una cosa, ma che suo figlio, padre di suo nipote, si
invischiasse con un’altra donna, era qualcosa che non avrebbe tollerato, e
piú pensava a suo nipote, meno gli importava della signora Coldwell. In
meno di quarantott’ore riuscii a farlo uscire da là e a riportarlo sulla via di
casa.
La mamma lo perdonò. Una volta ancora scese dal suo letto di morte,
restituita alla vita, perché lui aveva promesso di comportarsi da uomo, di
comportarsi bene, e fino a quando l’avesse fatto, e lei sapeva dove fosse, e
che non era nei guai, era felicissima.
Due mesi dopo, mio padre morí – morí tranquillamente, probabilmente
di noia, mentre faceva un pisolino sul dondolo sotto il fico nel giardino
dietro casa. Per il funerale arrivammo tutti, e la mamma singhiozzò e pianse
tanto che pensavamo sarebbe morta anche lei. Per due giorni patí pene
insopportabili, piangendo tanto da far pensare che persino le sue ossa si
sarebbero lavate con quell’agonia. Il mattino dopo il giorno del funerale
però era vispa in modo sorprendente. Uscí dalla sua camera con il suo
apparecchio acustico e i suoi occhiali, e aveva tirato fuori un bel vestito a
fiori.
Era triste perché lui se ne era andato, e sapevamo che il dolore dato dalla
sua assenza sarebbe stato con lei fino alla fine della sua vita, ma era anche
piuttosto felice. Non c’era piú bisogno di preoccuparsi per papà. Ora lei
sapeva esattamente dove si trovava – in paradiso – e che non avrebbe piú
potuto mettersi nei guai.
[non firmata]

1
Intraducibile gioco di parole: in inglese cunt indica l’organo genitale
femminile [N.d.T.].
2
Grand, ossia mille dollari [N.d.T.].
3
In italiano nel testo [N.d.T.].
4
In italiano nel testo [N.d.T.].
1957-58

Nelle tre sezioni seguenti sono raccolti altrettanti


gruppi di vivaci lettere scritte da Fante durante i
viaggi e i soggiorni in Europa mentre lavorava ai
progetti di alcuni film: dapprima a Napoli nel 1957,
poi a Parigi nel 1959, e infine a Roma nel 1960. Era
ormai uno scrittore affermato, richiestissimo, grazie
a «Piena di vita» (che aveva ottenuto una nomination
all’Oscar per la migliore sceneggiatura nel 1957 e
basato sul romanzo «Full of Life») e a «Un solo
grande amore», due film che avevano avuto grande
successo.
Le lettere che Fante mandò alla famiglia durante
quei tre viaggi rivelano quali fossero le condizioni di
vita di uno sceneggiatore. Il primo e l’ultimo gruppo
mostrano anche la sua arguzia nell’osservare la
vivacità della vita nel Paese d’origine e le sue
reazioni emotive. Le lettere di risposta di Joyce Fante
al marito in viaggio sono sfortunatamente andate
perdute.
Il primo fu un viaggio in Italia nel luglio e agosto
del 1957 dovuto al progetto di una sceneggiatura per
la regia di Richard Quine, il quale aveva già diretto
la sceneggiatura di Fante per il film tratto dal suo
«Full of Life» (1952) e che aveva in seguito lavorato
a «Off Limits – Proibito ai militari» (distribuito nel
1957), «Una strega in paradiso», «Il mondo di Suzie
Wong», e altri film. La sceneggiatura sulla quale
lavorarono a questo giro (una commedia per la
Columbia Pictures, con Jack Lemmon, intitolata
«The Roses», ambientata a Napoli) non venne mai
prodotta.

[A Joyce Fante]
Hotel Excelsior,
Roma
27 luglio 1957

Tesoro,
sono arrivato a Roma alle quattro circa di questo pomeriggio dopo un
volo meraviglioso da Copenaghen via Milano, sopra le Alpi. Volare sulle
Alpi è eccitante e spaventoso. Sembra che quei picchi debbano raggiungerti.
Per quanto fossimo molto al di sopra, sembravano vivissimi attraverso la
luce del sole stranamente luminosa di questo pomeriggio.
Il mio rappresentante della Mca, un tipo della Sas, piú un uomo della
Columbia ci aspettavano all’aeroporto di Roma. Sono andato con l’uomo
della Columbia all’Hotel Excelsior dove ho incontrato Jack Fier e sua
moglie. Abbiamo parlato per un’ora, poi sono andato a letto alle sei e mezza
del pomeriggio, ho dormito tre ore, e dopo sono andato a cena con Fier, sua
moglie e una coppia di gente della Columbia. Abbiamo mangiato in un
posto che Napoleone ha fatto costruire per Giuseppina, una massa
impressionante di calda pietra marrone. Abbiamo mangiato al fresco 1 su
una terrazza brulicante di camerieri che ci servivano dell’ottimo cibo.
Non so cosa dire di Roma che potrebbe suscitare una grande
impressione. Probabilmente ne ho già vista troppa nei film. Mi piace
davvero, mi piace la sua atmosfera libera e vigorosa e il fatto che ora, alle
due di mattina, le strade sono piene di gente che cammina lentamente per
andare Dio solo sa dove, e di piccole Fiat che sfrecciano impazzite a
velocità spaventosa. Le luci non si possono accendere la notte, solo quelle
di posizione – non si può suonare nemmeno il clacson, e dubito anche che
esistano delle leggi specifiche per il traffico. Devi solo fare del tuo meglio,
in macchina o a piedi.
Questo hotel è in via Veneto e probabilmente è il piú bello della città. Le
strade su entrambi i lati per due isolati sono piene di tavolini e sedie, con
moltissima gente che parla e beve. C’è una vera e propria invasione di
turisti che, in qualche modo, guasta la vivacità originale.
Copenaghen mi è piaciuta moltissimo. Abbiamo fatto una sosta di cinque
ore e la Sas ci ha portato in città, che dista cinque miglia, a un superbo
stabilimento di bagni turchi. Dopo, Stanley Donen e io abbiamo fatto un
giro, a guardare le vetrine luccicanti dei negozi e quelli che sembravano
essere migliaia di cittadini in bicicletta. L’intera maledetta città va su due
ruote, biciclette o motorini. Faceva una strana impressione nella piazza
centrale girarsi in tutte le direzioni e vedere interi eserciti di uomini, donne
e ragazzi pedalare in masse compatte, silenziose, veloci, tutte le facce
arrossate dall’aria frizzante, in un’intensa e meravigliosa atmosfera di
tranquillità. Copenaghen è pulitissima, pulita in un modo attento e
appassionato. Ogni finestra brilla come argento. Ogni pomello d’ottone
sembra oro lustrato. Credo che se una cartaccia cadesse per la strada il
sindaco perderebbe il lavoro. Dio mio, ci si chiede se tutta quella pulizia sia
veramente necessaria. I romani non sono altrettanto puliti, ma sembrano
molto piú sofisticati. Nessuno a Roma si preoccupa di nulla – me ne sono
accorto subito. […]
Per inciso, la carta igienica è ruvida, ma non è poi cosí male. Sono
contento che tu me ne abbia messa un po’ in valigia. Il caffè fa
semplicemente schifo dappertutto. […]
Tutto il mio amore a tutti,
Tuo J. F. […]

[A Joyce Fante]
[Napoli]
[28-30 luglio 1957 circa]

Tesoro,
le donne di Napoli sono dei maiali. Sono maiali grassi con dei vestiti
sciatti, di solito neri, macchiati di salsa di pomodoro, urina, grasso, o cacca
di bebè. I seni gli arrivano alle ginocchia, e i loro culi pendono come dei
palloncini gonfi d’acqua. In realtà non camminano, si trascinano piuttosto,
scivolando su dei sandali di legno o cuoio dai quali fanno capolino dieci
sudice dita. Ma devo anche spiegare che sono meravigliose, ognuna ha il
volto della madre di Dio e le mani contorte, incallite e tenere delle donne
che hanno passato la vita a badare ai propri figli e ai propri uomini. Quei
seni giganteschi e scesi, cosí grotteschi e mostruosi, confortano i bambini
che piangono, e non è difficile immaginare che eccitino gli uomini. È anche
possibile che a Napoli gli uomini preferiscano che le loro donne siano
corpulente e abbrutite, con pance poderose e occhi che hanno guardato Dio.
Immagino che gli uomini vogliano che le donne abbiano un forte odore di
sudore e di mestruazioni perché è animalesco, è come andare il piú vicino
possibile all’animale continuando a vivere nella civiltà. Perché sono civili,
sofisticati, generosi, gentili, educati, valorosi e terribilmente coraggiosi.

29 luglio

L’Hotel Vesuvio è meraviglioso. La mia camera dà su via Caracciolo, il


lungomare che costeggia l’intera baia. Quando esco sul terrazzino con
ringhiera del mio alloggio al terzo piano il Vesuvio è alla mia sinistra.
Dall’altra parte della strada oltre la via c’è un ammasso di caffè costruiti
sull’acqua. Mentre scrivo, questa sera, sono illuminati da brillanti insegne al
neon, e un centinaio di barchette sono raggruppate sotto il molo su cui sono
costruiti. Di giorno i bambini napoletani si tuffano da là per prendere le
monete che gli lanciano i turisti. L’acqua è incredibilmente sporca, piena di
avanzi di cibo e melma, ma quei ragazzini straccioni, abbronzati e vispi
sono sani e hanno una vitalità piena di fierezza.
La mia camera è molto bella. Nell’hotel ci sono ovunque delle grandi
lastre di granito levigato. I corridoi, e persino i muri, sono fatti di quel
materiale. Quine ha una suite accanto alla mia stanza. Ha un salotto che
progettiamo di trasformare in ufficio. Come sai, sua moglie è qui. Sembra
passarsela abbastanza bene, ma si comporta in modo simile a Justine, e
trascorre intere giornate in camera sua. Una volta ogni tanto va a fare
compere. Sembra proprio una brava persona. A volte Dick è un po’ rude
con lei, è sarcastico, impaziente. Ma è molto preoccupato per i figli a casa, e
vuole che lei torni da loro. Ogni tanto gli passa per la mente che dovrebbe
offrirle qualche genere di divertimento, portarla in giro, mostrarle la città;
ma è molto occupato con me e con gli scenografi e non può dedicarle piú
della sera a cena. Lui crede che lei capirà da sola di dover tornare dai
bambini. Barbara sta cercando di imparare l’italiano in un modo un po’
stupido, studia dei libri e fa delle domande. Invece Quine si è preso un
insegnante. Anch’io sto pensando di farlo. Il mio italiano è
spaventosamente inadeguato.
Il cibo qui è sempre molto, parecchio condito, servito generosamente da
camerieri gentili. La carne ha un sapore piuttosto forte, comunque, e la
maggior parte sembra vitello, per quanto si possa trovare tutto ciò che si
vuole, dalle braciole d’agnello al filet mignon. Il vero problema è evitare il
pane. È buono in modo peccaminoso in tutte le forme, specialmente i
panini. Vengono sempre serviti con dei piattini pieni di palle di burro
cremoso. Il polpo da queste parti è una famosa prelibatezza. Quine l’ha
provato, e sostiene che sappia d’aragosta. Viene servito direttamente dalla
pentola, bollito, e arriva viscido sul piatto con tutti quei tentacoli scivolosi.
Le strade laterali sono affascinanti – mi riferisco ai quartieri piú poveri –
non sono piú di vicoli, in realtà, e brulicano di gente. In ogni porta c’è un
negozio diverso davanti al quale sono impilati mucchi di verdura, montagne
di pesce (catini di anguille che nuotano, vivissime), polpi, grosse fette di
tonno, e centinaia di pesci rosa, gialli e bianchi che non avevo mai visto
prima. Ci sono dei negozi che vendono camicie, altri che vendono scarpe,
altri piatti, altri ancora vestiti, pane, latte, ci sono delle pasticcerie; ogni
negozio ha la sua specialità, alcuni sono terribilmente sudici, altri puliti. I
macellai appendono le carcasse squartate all’ingresso o fuori dal negozio. In
altri posti si vendono solo uova. Ogni tanto ci si imbatte in un basso 2 con
una gallina legata per una zampa, che razzola sul davanti. E, Dio, quanti
gatti, cani e bambini! Spesso i bambini hanno il culo di fuori, sono sudici
quanto è umanamente possibile, ma sono adorabili. Triste da dire, le
bambine hanno già un aspetto stranamente sgraziato, con delle faccette
tirate e grandi bellissimi occhi. Dovresti vedere con quanta dolcezza
bambine di cinque anni accudiscono i loro fratellini appena nati, portandoli
in braccio – perché queste bambine hanno bambolotti vivi con cui giocare,
un precoce allenamento per le fatiche pesanti dei matrimoni che
contraggono prestissimo. I ragazzi sono tutti molto belli, completamente
liberi da inibizioni, selvaggi, eppure allo stesso tempo educati.
Dopo aver passato qui qualche giorno, capisco perché volevano che ci
venissi. Dobbiamo far sí che questa storia sia contemporanea, per catturare
la favolosa ricchezza di quest’ambiente. Significa scrivere una
sceneggiatura totalmente nuova, mantenendo solo la traccia di quella
precedente. All’inizio, a Roma, parlando a Jack Fier, ho detto che ero
contrario, e ne ero convinto, ma ora che sono stato qui mi rendo conto che
abbiamo una grandissima opportunità di creare qualcosa di molto bello, e
lavorare non mi spaventa. Credo che non potrò lasciare Napoli prima del
dieci settembre, forse addirittura il primo ottobre. Questo comunque non
significa che me la spasserò. Quine vuole avere piú o meno settanta pagine
per cominciare a girare, cosí sarò in anticipo, proprio come è successo per
Un solo grande amore.
In una lettera ti incitavo a venire, e lo faccio ancora; ma permetti che ti
metta in guardia contro gli attacchi d’ansia che Quine e sua moglie stanno
provando a causa dei loro figli cosí lontani da qui. Se verrai, dovrai
aspettarteli anche tu. […]
Queste righe sono state scritte il trenta luglio, dopo mezzanotte, domani
è il ventesimo anniversario della cosa migliore che mi sia mai capitata nella
vita, o in mille vite. Sappi che questo giorno lo passerò con una spina nel
cuore perché sono cosí lontano dalla donna che amo.
J. F.
[A Joyce Fante]
[Napoli]
2 agosto 1957

Carissima,
[…] Cammino molto, bighellonando – e quando attraverso la strada
trattengo il respiro e spero di arrivare vivo. Gli automobilisti sono
semplicemente diabolici. Queste macchinette sono indemoniate, e ti
vengono letteralmente addosso da ogni direzione. Fanno delle conversioni a
u dove i pedoni hanno la precedenza, e sembra che sia una questione di
onore supremo far sí che nessuno ti sorpassi. Tutto questo in assenza del
famoso temperamento italiano. In silenzio. Senza parlare. Solo una cupa
devozione alla macchina.
La città è vecchia, molto vecchia. Odori strani, antichi, ti assalgono negli
edifici, nei vicoli: l’odore di milioni di persone che sono stati qui e se ne
sono andate. Non è un odore proprio disgustoso, è strano, piuttosto
sgradevole, eppure sostenibile.
I poveri di Napoli vivono in centinaia di migliaia nei vicoli, nei
seminterrati, in caseggiati affollatissimi, in catapecchie – la loro è una
povertà disperata, una monotonia senza fine di giorni e anni che si
allungano e si allungano, e non c’è nessuna possibilità di uscirne, di poter
cambiare. Le loro donne sono grasse, gonfie. Capisco perché. Non c’è
davvero altro da fare se non mangiare e fare figli. […]
Oggi in una libreria ho trovato un paio di copie dell’edizione italiana di
Aspetta primavera, Bandini – una scoperta sorprendente, dal momento che
non ricordo di aver dato a Mondadori il permesso di ripubblicarlo. Sto
facendo controllare la cosa dall’Mca a Roma. Ho anche preso un paio di
copie in italiano di Full of Life, che, per inciso, uscirà il prossimo mese qui,
come in tutto il resto d’Italia. […]
Addio per adesso. La lettera deve essere spedita.
Ti amo,
J. F.

[Ai figli]
[Napoli]
2 agosto 1957
Cari Vicky e Jimmy,
ho pensato che forse vi avrebbe fatto piacere sapere qualcosa dei
bambini napoletani. Per prima cosa, ce ne sono a bizzeffe, piú bambini di
quanti non se ne siano mai visti – di tutte le grandezze, da bebè minuscoli a
superminuscoli, fino a ragazzi grandi e ragazzine. Non credo che i ragazzi
grandi diventino grandissimi, almeno non come quelli americani – e so che
le ragazzine non diventano alte come quelle americane. Ma le piccole
napoletane crescono sui lati: ingrassano. Voi non avete mai visto tante
ragazzine cosí grasse. Credo che sia perché mangiano troppo pane e
maccheroni, che sono il loro cibo preferito. Mangiano anche tantissimo
formaggio, e i bambini della vostra età bevono vino, inoltre sospetto che
mangino tanti dolci, per esempio dei biscotti tondi e duri. Dubito però che
bevano molto latte. Certo, ne bevono un po’, ma non tanto quanto voi.
Sono dei bambini felici, ed è naturale, perché sembra possano fare tutto
quello che vogliono. Corrono per strada, salgono su per i gradini delle
chiese, rovesciano i bidoni della spazzatura, si rotolano nei rigagnoli, e in
quella grande città se ne vanno a spasso lontano da casa. Ma le strade gli
sono amiche e loro le conoscono bene, la sera riescono quindi a tornare
sempre sani e salvi.
Sembra che a letto non ci vadano mai. Dalla finestra del mio albergo li
vedo giú in strada, sul lungomare, giocano anche a mezzanotte. E quando
mi sveglio la mattina sono di nuovo là, immersi nel gioco come al solito.
Non hanno giocattoli. Ogni tanto si vede una bambina con una bambola
malridotta, o un bambino con una palla, ma niente di piú. Le bambine si
occupano delle loro sorelline e dei fratellini, quelle di sei anni portano i
neonati in braccio. Un’altra cosa interessante dei bambini napoletani è
quanto sudici riescono a diventare. Dal momento che sono molto poveri, i
loro padri non gli possono comprare dei vestiti nuovi, quindi si mettono le
stesse cose un giorno dopo l’altro, fino a quando diventano degli stracci e
bisogna buttarle via. La maggior parte di loro va in giro a piedi nudi. I loro
piedini sono però molto robusti. Robusti, abbronzati e sudici. Ma sono sani
e felici e senza una preoccupazione al mondo.
Quasi tutti i bambini chiedono l’elemosina. Se capiscono che sei di fuori
città, ti vengono incontro con le mani tese, e a mendicare denaro. Credo che
lo prendano per andare a comprarsi dei dolci. Io gli do qualcosa piuttosto
spesso – non molto, forse qualche penny. Ma devo stare attento, perché se ti
vedono dare dei soldi a uno dei loro bambini, ti vengono tutti intorno come
dei merli, ti tirano i vestiti, e ti toccano con le loro mani appiccicose,
correndoti dietro per la strada.
[non firmata]

[A Joyce Fante]
[Napoli]
3 agosto 1957

Tesoro,
vivendo in America tendiamo a pensare che gli altri posti siano
manchevoli in quanto a stile, modernità, e che il nostro modo di vivere sia il
migliore al mondo. Non crederci.
Oggi mi hanno riportato la biancheria. Le camicie bianche erano ancora
piú bianche, le altre erano stirate con un’abilità e una precisione che non
pensavo possibili. Cinque camicie, alcune paia di calzini, mutande: il conto,
due dollari.
La cortesia è stupefacente. Ognuno fa del suo meglio per farti stare bene.
Nessuno è scortese. Ti aprono le porte, ti riempiono il bicchiere di vino,
accorrono quando ti cade il tovagliolo, si inchinano se entrano in camera tua
e ti ci trovano, chiedendo scusa. Al confronto Chasens è un ristorante di
Bowery da quattro soldi.
Oggi ha piovuto di nuovo. Un temporale improvviso. L’aria è diventata
caldissima, statica. Il Vesuvio è scomparso in una valanga di nuvole grigie e
sudice. I lampi sono venuti giú in quattro o cinque linee parallele che hanno
squarciato il cielo, i tuoni rimbombavano, e ha cominciato a piovere,
furiosamente, follemente – per tre minuti. Poi il tutto è passato e ogni cosa
era come prima.
È maledettamente difficile smettere di mangiare. La pasta è paradisiaca.
Non so – dicono che sia l’acqua – tu comunque non puoi immaginare
quant’è buona. Quine c’è diventato matto. La mangia con le cozze, con il
burro, con la salsa di pomodoro, con i funghi. Il vino è sempre piú
sorprendente; ci sono piú marche di quante bibite abbiamo noi a casa.
Torniamo alla pasta: per pranzo ne ho mangiata in salsa di cervello e
fegatini di pollo, wow! E il pane – be’, bisogna scansarlo, arrivi quasi a
pregare che sparisca… […]
Ieri il giornale di Napoli ha mandato un cronista a intervistarmi. Dio solo
sa quello che ne verrà fuori, in italiano, ovviamente.
Con affetto,
J. F.

[A Joyce Fante]
[Napoli]
6 agosto 1957

Tesoro,
le buone maniere, la gentilezza, l’educazione di alcuni italiani che
lavorano con noi desta semplicemente ammirazione. Tutti gli italiani con
cui abbiamo a che fare hanno delle posizioni secondarie, come assistente
alla regia, segretario di produzione eccetera. Parlano piano, sono molto
attenti e non contraddicono mai. Si limitano a suggerire le cose, piuttosto
che informare direttamente. Sembrano abbastanza poveri, non fumano altro
che sigarette del mercato nero (meno care, perché senza tasse) e sono privi
di ostentazione.
Eppure… Marfiano, il nostro aiuto regista, è un barone. Octavio Opa, il
nostro segretario di produzione, è il figlio del conte Opa, un tipo temerario
che ha buttato via un patrimonio immenso in Sardegna per diventare pittore.
Sembra quasi che la Storia e il tempo abbiano reso poveri moltissimi
aristocratici italiani. L’altra sera il duca ci ha detto che l’aristocrazia
napoletana ha un legame profondo e inscindibile con i poveri di Napoli,
molto simile all’intimità che un albero ha con le proprie radici.
L’aristocrazia non può scuotersi di dosso l’ombra della povertà e i poveri
non possono sopravvivere senza i fasti dell’aristocrazia. Hanno
disperatamente bisogno gli uni degli altri. Si amano, si trattano con
galanteria e rispetto. […]
Ho capito da Maria Antonelli che in Italia godo di una certa reputazione
letteraria, specialmente a Roma, dove Aspetta primavera è stato
ripubblicato, e che il libro che la gente ama piú di tutti è Chiedi alla
polvere. Oh, sí… sono stato intervistato dal giornale «Roma» un paio di
giorni fa… o te l’ho già detto?
Ieri ho comprato un orologio per trentottomila lire, circa sessanta dollari,
e in Usa ne varrà duecento. Qui tutto è molto meno caro che a casa, in
particolare il cibo e i vestiti. Scarpe di ottima qualità costano dagli otto ai
dieci dollari. Un vestito di sartoria ne costa circa trentacinque. Una buona
cena vino compreso, due dollari. È pieno di bellissimi negozi per signore, e
c’è un numero sorprendente di librerie. I libri sono tristemente poco cari.
Full of Life con copertina rigida costa trecentocinquanta lire – circa
cinquanta cent. Ho trovato delle copie di Bandini in una libreria dove le
avevano dal 1938! […]
Il mio affetto a tutti,
J. F. […]

[Ai figli]
[Napoli]
Martedí [agosto 1957 circa]

Cari Jimmy e Vicky,


ogni volta che vado al ristorante qui all’angolo vicino all’albergo, mi
metto a sedere fuori sotto un grande ombrellone. Dall’altra parte della
strada vedo parecchi bambini napoletani che giocano nel vicolo. Sono
molto poveri, scalzi, con addosso delle magliette e dei calzoncini ridotti
malissimo. Ma a loro non importa essere poveri; di fatto, sembra che si
divertano tantissimo.
La primissima volta che sono andato a quel ristorante, venendo dall’altra
parte della strada, è arrivata al mio tavolo una bambina che mi ha sorriso, si
è toccata le labbra con la punta delle dita e le ha tese per chiedere dei soldi.
In altre parole, mi stava tirando un bacio, e io dovevo darle una moneta.
Avrà avuto nove anni, quella bambina. Era piuttosto alta, ma molto magra.
Portava un vecchio vestito blu logoro all’orlo e sulle spalle. Aveva capelli
neri che le ricadevano sul viso. Gli occhi marrone scuro. Il vestito era
troppo corto, le arrivava sopra il ginocchio. Aveva le gambe piuttosto
sporche. Le dita dei piedi erano nere per via del sudiciume della strada. Non
era esattamente una bambina carina; in effetti sembrava che il naso fosse
rotto, e i denti non erano dritti, né puliti. Ma nonostante tutto ciò sembrava
molto graziosa. Il primo giorno le ho dato una moneta. Era da cinquanta
lire, poco piú di un nichelino, meno di un decino. È tornata di corsa
dall’altra parte della strada, e l’ho seguita con lo sguardo. È entrata in un
negozio all’angolo, e poco dopo ne è uscita con due ciambelle. Poi è andata
al bordo del marciapiede, dove era seduto un bambino, molto piccolo, di
appena due anni, il suo fratellino. L’ha preso su, in braccio, e gli ha dato una
delle due ciambelle, poi si è messa a camminare, sempre tenendolo per
mano.
Il giorno dopo quando sono tornato al ristorante, la bambina ha di nuovo
attraversato la strada e ha teso la mano, io le ho dato altre cinquanta lire, e
lei ha rifatto la stessa identica cosa, ha comprato per sé e per il fratello delle
ciambelle. Cosí, l’ho vista ogni giorno, lei veniva al mio tavolo, e ogni volta
le davo cinquanta lire.
Volevo fare qualcosa di molto carino per quella bambina cosí dolce. So
che ha estremo bisogno di un vestito nuovo, e credo che abbia bisogno di
scarpe. Domenica scorsa allora ho pensato di dirle che volevo portarla in un
bel negozio per comprarle qualcosa.
Ma domenica scorsa non è venuta. L’ho cercata, l’ho aspettata, ho
persino attraversato la strada e sono andato nel vicolo dove vive, ma non
sono riuscito a trovarla. E non c’era nemmeno questa mattina. Sono
preoccupato. Forse è malata. Forse hanno cambiato casa. La prossima volta
che vi scrivo, vi dirò se l’ho rivista. Non so nemmeno il suo nome, quindi
non so come fare a trovarla.
Tanto amore da papà.
Papà

[Ai figli]
[Napoli]
8 agosto [1957]

Cari Vicky e Jimmy,


questa mattina quando sono andato al ristorante in via Santa Lucia, mi
sono seduto a fare colazione e ho guardato dall’altra parte della strada per
cercare la bambina. Non c’era, ma ho visto un’altra bambina che le
assomigliava molto, ho pensato che fosse sua sorella perché aveva gli stessi
capelli neri tagliati in modo irregolare e lo stesso strano naso e gli stessi
occhi. L’ho chiamata e ho cercato di parlarle, dopo poco è arrivato anche un
ragazzino e gli ho chiesto nel mio scarsissimo italiano se conosceva la
bambina che non veniva piú. Certo che la conosceva, perché era sua sorella,
e l’altra bambinetta anche lei era sua sorella. Bene, questo ragazzino ha otto
anni. Mi ha detto che la bambina che non viene piú si chiama Vincenza, che
è malata, con dolori alla testa, e che è a letto. Cosí adesso io so il suo nome.
Allora ho dato una moneta al ragazzino – cento lire – e gli ho detto di darla
a Vincenza. Ha detto che l’avrebbe fatto, ed è corso via. È tornato dopo
pochi minuti, e aveva due monete, da cinquanta lire ciascuna, dicendo che
ne avrebbe data una a Vincenza e una l’avrebbe tenuta per sé. Gli ho
risposto che andava bene, e lui ha attraversato la strada, risalendo un vicolo
e poi delle vecchie scale su per un edificio dove Vincenza è a letto e dorme.
Sono contento di sapere il nome della bambina e che presto starà bene di
nuovo. Vi racconterò altre cose di lei in seguito.
Tanto amore da papà.
Papà

[A Joyce Fante]
[Napoli]
[8 agosto 1957]

Tesoro,
ieri siamo scesi lungo la costa a Castellammare, Sorrento, Amalfi, fino a
Positano. Siamo passati accanto al Vesuvio, attraverso una campagna molto
ricca, il cui terreno è reso fertilissimo dalla lava. Non importa quanto sia
grande la frutta in California, qui è piú grande.
Positano è splendida e terribile. Immagina un’area tre volte Paradise
Cove, incastonata profondamente in una baia costeggiata da scogliere
scoscese tempestate da ville bianche, oppure rosso pompeiano, tutte con i
tetti corallo e rossi. Scendere in città è un’avventura. Dei vicoletti intriganti
sui quali sono sospese delle viti – qua un piccolo bar tedesco, là un
ciabattino, gente che cammina in costume da bagno, donne in bikini. La
spiaggia è abbastanza grande, con la sabbia scura. L’acqua è calda, blu. A
dieci miglia di distanza, Capri si erge in una nebbiolina sottile. C’è gente
sdraiata dappertutto, sonnolenta, mezzo addormentata. Barche si lanciano
sull’acqua calma. Molti adolescenti, tantissimi americani, e altrettanti
italiani e tedeschi, bighellonano su terrazze color corallo, tutti abbronzati
come gli indigeni. Positano ti impone di viverla, di sperimentarla e di
amarla. […]
Se riesco a trovare il giornale ti mando l’articolo su di me che è apparso
su «Roma», il quotidiano di Napoli… L’altra sera sono andato al cinema…
ho visto un film western americano con Audie Murphy e Walter Brennan.
Sono sobbalzato quando li ho sentiti parlare italiano. Immaginati Brennan
che dice in italiano: «Tu vecchio cayuse codardo, fai un passo e ti stendo!»
Con amore,
J. F.

[Al figlio]
[Napoli]
9 agosto 1957

Caro Nick,
[…] Il fatto è che guidare una macchina in Italia è pericoloso. Non
sembra che ci siano delle leggi. Fanno delle conversioni a u quando gli
pare, guidano a sinistra o a destra, salgono sui marciapiedi, buttano giú i
pedoni, suonano il clacson come dei matti, provano sempre a superare
qualsiasi cosa, urlano e si mandano a quel paese a vicenda: eppure… non ho
mai visto un incidente.
La nostra compagnia ha due macchine a noleggio per fare i sopralluoghi
e per trasportarci in giro. Sono Fiat 1400, guidate da due giovanotti italiani
completamente matti, Luigi e Pasquale. Sul parabrezza della macchina di
Luigi c’è scritto «Columbia Pictures, macchina numero uno». Quella di
Pasquale è la numero due. Pasquale è un po’ seccato perché ha il cartello
numero due. È del tutto folle. Noi lo chiamiamo Fangio. Non permette che
qualcuno lo sorpassi. Quando c’è molto traffico si getta sul lato sinistro
della strada, piazza le mani sul clacson e si fa largo a tutta birra. Gli altri
automobilisti e i pedoni terrorizzati gli urlano maledizioni, agitano i pugni e
sputano nella sua direzione. Lui ha uno sguardo furibondo negli occhi, grida
insulti a sua volta, gesticola in modo convulso e ride. E ogni volta che
oltrepassa un ingorgo, o supera qualcuno, ruggisce: «Fangio! Fangio!
Attenzione! Arriva Fangio!» Altre volte alza la radio a tutto volume e
picchia sul volante come se fosse un tamburo, a tempo di musica. Gli piace
quando la macchina finisce un po’ fuori controllo, riacciuffa il volante
all’ultimo minuto, e ride del nostro attaccamento alla vita.
L’altro giorno siamo andati giú sulla costa fino a Positano, per una strada
strettissima lungo il litorale. Le strade laggiú erano state costruite centinaia
di anni fa per un traffico di carri, e due macchine ci passano a stento. Due
pullman non ci riescono. Devono fare retromarcia fino a uno slargo. Su
quella strada Pasquale ha raggiunto una Cadillac Coupe de Ville,
nuovissima e bianca. Immediatamente si è attaccato al clacson senza piú
mollarlo. L’automobilista, americano, è diventato matto, ha cercato di
andare piú forte di noi, e ci lasciava sempre indietro nei rettilinei. Ma
appena arrivava a una curva, ricominciava il clacson. L’americano a quel
punto si sarebbe buttato giú dalla scarpata pur di farci passare, e dopo un
altro lunghissimo assedio con noi appiccicati al suo paraurti e il clacson che
gli strideva nelle orecchie, quel poveraccio ha trovato un posticino al lato
della strada dove si è infilato per lasciarci passare. Pasquale passandogli
accanto gli ha gridato contro, lanciando insulti, e finalmente ce lo siamo
lasciato alle spalle. Alla curva successiva ci siamo imbattuti in due pullman
colossali che venivano in direzione opposta alla nostra. Ci hanno
oltrepassato, e abbiamo capito benissimo che Pasquale era in brodo di
giuggiole. Ha fermato la macchina e siamo scesi tutti per vedere quello che
sarebbe successo. Di fatto gli autobus hanno incrociato la Cadillac è si è
verificata una terribile impasse. I passeggeri sono scesi, e anche l’americano
è sceso dalla sua Cadillac. Si sentiva che stavano litigando, e forte. Pasquale
era cosí felice che si è buttato per terra e ha cominciato a picchiare i pugni
contro il terreno. […]
Il mio affetto a tutti,
Papà

[A Joyce Fante]
Napoli
11 agosto 1957
Tesoro,
cinquanta pagine della nuova sceneggiatura sono già pronte e spedite via
aerea a Hollywood. È una vera bellezza, e siamo tutti emozionatissimi. Non
ho alcun dubbio circa l’opportunità dei cambiamenti. In confronto la
versione americana impallidisce. Questo lo gireremo a colori e in
cinemascope – cosa che con l’altro non avremmo potuto fare. Il ruolo di
Lemmon è proprio delizioso. Abbiamo creato delle situazioni per lui in
queste strade cosí affollate che dovrebbero essere assolutamente esilaranti.
Abbiamo anche trovato un’attrice italiana per la parte di Carlotta, tanto
meravigliosa che con un po’ di fortuna dovrebbe diventare una star. Ricorda
Elizabeth Taylor, solo che ha molta piú vitalità. Il suo nome è Juili [cioè
Giulia] Rubini. Questa settimana Dick la sta mettendo alla prova a Roma.
Dicono che parli un po’ d’inglese, e che lo stia studiando. La lingua è
importantissima. Teniamo le dita incrociate. Ci sarebbe anche Rossana
Podestà, se la vogliamo. La settimana scorsa era qui con suo marito. È
abbastanza piacevole, ma niente a che vedere con la Rubini. L’altro attore
principale probabilmente sarà Van Heflin nel ruolo di un sottufficiale di
marina (Sam Henry nel copione).
Domani vado a fare un sopralluogo all’isola di Ischia che da quanto ho
capito è un posto delizioso. Qui a Napoli fa caldissimo. Nella mia stanza sto
bene perché c’è l’aria condizionata, ma per strada si bolle. L’acqua della
baia è caldissima.
Oggi sono andato a messa in una chiesetta in via Santa Lucia, piú o
meno a cinque isolati da qui. La messa è la stessa, ovviamente, ma gli
italiani si comportano in un modo piuttosto diverso da quello dei cattolici di
casa nostra. Per cominciare, la maggior parte di loro non si inginocchia mai.
C’era un prete che confessava durante la messa. Il confessionale è
spalancato. Il sacerdote e il penitente si vedono benissimo. Le donne vi
entrano perché è aperto, mentre gli uomini si inginocchiano davanti al prete
nella navata. Quando la confessione è terminata, il penitente gli bacia la
mano. Oggi un bambinetto che si stava precipitando per fare la comunione
era arrivato quasi troppo tardi, e il prete si è limitato a porgere la mano
perché la baciasse, spedendolo poi alla balaustra per la comunione. È
arrivato appena in tempo. Sembra che la maggior parte della congregazione
sia formata da donne anziane. Ho anche notato che alcune si coprono la
testa con degli scialli e dei fazzoletti, mentre altre non se ne curano. L’altro
giorno però a Positano Maria Antonelli è entrata in chiesa quando
all’improvviso è saltato fuori un prete che le è corso dietro, ordinandole di
uscire perché portava dei pantaloncini capresi. Lei gli ha risposto che
voleva accendere una candela, lui allora ha scosso le spalle, l’ha lasciata
fare, e se ne è andato borbottando qualcosa.
Vivere qui o a Roma è molto economico. Mi dànno duecento dollari la
settimana per le spese e finora ne ho toccati solo duecento su un totale di
quattrocento. Sono anche molto generoso e do tantissimi soldi ai mendicanti
e ai lustrascarpe. Lascio delle laute mance, non perché voglia fare colpo, ma
perché è maledettamente complicato contare le lire. Il denaro è sudicissimo
ed è stampato su carta di bassa qualità, una banconota da diecimila (sedici
dollari) è grande quasi come questa pagina. D’altra parte, una banconota da
cinquecento lire non è molto piú grande di un biglietto da visita. Le monete
da cento lire sono piú o meno della stessa dimensione di un quarto di
dollaro americano. Ne ho sempre la tasca piena. Valgono all’incirca sedici
cent e sono comode per le mance. Spesso il resto ti arriva in monetine da
dieci lire, che sono maledettamente piccole e valgono talmente poco (circa
mezzo cent) che si lasciano a manciate giusto per liberarsene.
A Roma si può trovare un appartamento grande e bello per
centocinquanta dollari al mese. I domestici costano venti dollari al mese. Se
vivessimo qui potremmo permetterci almeno due persone per le pulizie, la
cucina e il bucato, che sappiano anche tagliare e cucire e siano degli ottimi
sarti. Per qualche motivo quasi tutti qui, persino i poveri, portano dei vestiti
di sartoria. Il piú disgraziato degli accattoni ha il suo sarto personale. A
Napoli si può comprare un ottimo vestito di sartoria per trenta dollari. Abiti
lunghi cuciti a mano oppure corti a maglia costano un dollaro. Le scarpe da
uomo vanno dai tre agli otto dollari. Viene da ridere a vedere quanto
costano poco i giocattoli. Il cibo è praticamente regalato, per i nostri
parametri. Con due dollari si paga il banchetto piú sontuoso di Napoli. Un
piatto di spaghetti costa trenta cent. E cose come ciotole di frutta e piattini
pieni di burro fresco sono gratis. Di fatto ti servono tanto burro durante un
pasto che dà la nausea solo a guardarlo. Il vino costa pochissimo, trenta cent
la bottiglia, si può avere un’annata nuova a ogni pasto e non prendere mai
due volte la stessa cosa. In realtà questo è il Paese del formaggio. Tu
impazziresti, assolutamente. Qui in albergo ti portano un vassoio pieno di
almeno venti qualità diverse fra i migliori formaggi d’Europa, e quando ne
chiedi un tipo particolare, te ne portano tanto da ucciderti, e non importa
quanto tu protesti mangiarne, non ti lasciano prendere una porzione piccola.
La mozzarella è squisita. Arriva in pezzi grandi come una pagnotta tonda di
pane francese a lievitazione naturale. E la servono spessa quanto una fetta
di pane. Quando ti alzi da tavola sei sempre mezzo morto, e brancoli in
cerca del letto piú vicino.
In questo momento (sette e mezza di sera, domenica), migliaia,
letteralmente migliaia di persone passeggiano lungo via Caracciolo,
dall’altra parte della strada. Lo fanno tutte le sere, camminano lungo la riva,
uomini, donne e bambini, e vanno avanti fino all’una di notte, perché a casa
loro fa troppo caldo. Dei poliziotti in uniforme bianca fanno la ronda su dei
cavalli bianchi, altri invece con dei guanti bianchi vanno in bicicletta. Non
sembrano esserci mai problemi. La gente è rumorosa ma pacifica.
Qui il mercato nero è molto popolare. Noi siamo abituati a pensarlo
come un posto dove le cose si pagano a carissimo prezzo. Qui però è al
contrario. Comprando le sigarette al mercato nero si risparmia un dollaro a
stecca. Comunque non so perché lo chiamino con quel nome cosí sinistro.
Si vedono dei venditori anche nelle strade laterali, è un’attività fiorente. Da
loro comprano persino i poliziotti.
Tutto il mio amore,
J. F.

[A Joyce Fante]
[Napoli]
13 agosto 1957

Tesoro,
[…] Ieri siamo andati all’isola di Ischia, a diciotto miglia da Napoli, un
viaggio di un’ora e mezza in barca. Era una giornata caldissima. Il mare
sembrava una lastra di vetro. La barca era molto affollata. Contadini, turisti,
tantissimi bambini.
Una volta il vulcano di Ischia era attivo. La terra è fertile per le ceneri
vulcaniche. Laggiú può fare molto caldo. Il terreno è ottimo per l’uva: ci
sono delle viti che sembra non finiscano mai, anche sulle terrazze lungo i
fianchi scoscesi delle colline. È un posto molto primitivo, di fatto piuttosto
deprimente; almeno per me. Gli isolani sono cosí vicini alla terra, sono in
uno strano modo parte della terra stessa. Alcuni di loro hanno ricavato la
propria casa dalla roccia come i cavernicoli. Siamo stati portati in macchina
a fare il giro dell’isola, che è piú grande di Catalina, e abbiamo pranzato in
un hotel favoloso, nuovissimo, l’Albergo Santa Maria Isabella, lontano dal
porto della città, impressionante – un hotel sontuoso quanto il Beverly
Hilton, ma piú di buon gusto. Ha la stessa gestione del Vesuvio. Non so
perché, ma Ischia mi ha deluso. Guidando attraverso le strade affollate della
città portuale, una delle nostre macchine ha investito un gatto, che si è
evidentemente rotto la schiena, da come si contorceva e urlava, ma noi
abbiamo proseguito (su istruzione della nostra guida, che era il vicesindaco)
e l’incidente ha fatto stare piuttosto male Barbara Quine; ha continuato a
piangere per ore.
Oggi siamo ritornati nei vicoli, le stradine dove vivono i napoletani
poveri, a fare dei sopralluoghi. Ci hanno portato in un tunnel sotto un caffè,
un’antica catacomba che i monaci usavano per scappare durante
l’occupazione spagnola. Era piuttosto profondo, poi girava su sé stesso,
c’era una gran puzza di umido, era infestato dai ratti, abbiamo attraversato
piccole e grandi stanze piene di antiche botti di vino, umidità, un buio
tremendo (avevamo delle candele) – e alla fine siamo arrivati in un’area
cavernosa grande su per giú quanto il nostro garage, e quello era un posto
tristissimo, perché là nel 1942 durante un bombardamento inglese sono
morte centosettanta persone. Qualche candela brucia su una mensola per
commemorare la tragedia, e ci sono dei ricordi che pendono dal muro
umido, un rosario, qualche fotografia. […]
Ti amo. Mi manchi.
j. f.

[A Joyce Fante]
[Napoli]
Sabato [agosto 1957 circa]

Tesoro,
[…] Il giornale di Napoli ha pubblicato una mia fotografia con intervista,
e come risultato mercoledí scorso ho ricevuto una visita, un vecchio
gentiluomo raffinato che si chiama Giuseppe d’Augustino. Ha piú o meno
sessantacinque anni, e sua madre, che è una Fante, è originaria di Torricella
Peligna, città natale di mio padre. Sua madre ha ottantacinque anni, e spero
di poterla incontrare presto. Credo che siano molto poveri. Non so quale sia
il mio legame con la madre di lui… ma, da quanto ho capito, è la figlia
dello zio di mio padre che si chiama Mingo. Lo zio Mingo, il cui vero nome
era Dominic, ha partecipato alla guerra tra i Borbone e le forze di re Vittorio
Emanuele. Fu costretto a lasciare il Paese e si dice che sia andato in
America. Ho fatto una gran fatica a parlare con D’Augustino. Ha sei figli
grandi, la piú giovane ha quindici anni. Mi ha invitato a casa sua, ma non ce
l’ho fatta e ho dovuto inviare un messaggio con le mie scuse. […]
Amore e baci,
J. F.

Allegata lettera per la mamma.

[A Joyce Fante]
[Napoli]
17 agosto 1957

Tesoro,
[…] Il lustro di Napoli doveva logorarsi, e cosí è stato. Sta diventando
tutto una noia. Resto quasi sempre confinato in albergo, tranne per qualche
passeggiata in città dopo il lavoro, o quando aspetto Quine, che adesso è a
Roma e vi resterà fino a domani. […]
Ieri sera ero a casa di uno dei nostri autisti napoletani, Pasquale. Vivono
al secondo piano di uno di quei vicoli pieni di inquilini – lui, sua moglie, tre
figlie piccole, e un figlio di undici anni. La loro casa è un patetico miscuglio
di modernità statunitense e Italia antica. Quattro minuscole stanze buie, in
un palazzo di trecento anni, piene da scoppiare di mobili stile italiano-
Grand Rapids di mogano recentemente acquistati: letti e cassettoni
massicci, qua e là qualcosa di antico, come una sedia da cucina fatta a
mano, o un semplice tavolo fatto nello stesso modo. Ma non gli manca
nulla… hanno un televisore tedesco nuovissimo ed enorme, una radio
Telefunken due volte la nostra, e sui muri di ogni camera sono appesi dei
grandi bassorilievi con la testa della Santa Vergine, tutti incorniciati da un
tubo di neon illuminato! La luce è azzurra. L’ho guardato affascinato,
domandandomi se sarebbe apparsa la scritta «Beer».
Le figlie di Pasquale sono delle ragazzine molto dolci e bellissime. Sua
moglie, intrappolata come un ratto fecondo in quella cupissima trappola, si
è cercata una via di fuga dalla noia nel mangiare. Pesa almeno cento chili,
contro i sessantacinque di Pasquale. Le ragazzine mi hanno dato un bacio e
io gli ho dato cinquecento lire. Immediatamente tutta la famiglia è andata al
cinema!
Oggi ho comprato un paio di scarpe al mio lustrascarpe. È uno strano
tipo, avrà circa sessant’anni, e porta le scarpe piú malridotte di Napoli. Ogni
mattina mi aspetta fuori dall’ingresso dell’albergo e mi rincorre per la strada
fino al ristorante, con la sua attrezzatura sulle spalle. Non sarei mai riuscito
a liberarmi di lui, cosí ho architettato il semplice espediente di dargli cento
lire e una sigaretta – di solito lui ne scrocca tre o quattro. È un vecchio
bastardo lurido, con i denti rovinati, capelli sporchi e cespugliosi, e una
cosa che sembra un tumore grande come un pomodoro che gli cresce sulla
tempia sinistra. Dal momento che gli ho dato dei soldi ora mi tratta con
attenzione servile. Ha insistito per lustrarmi le scarpe (si dà il caso che siano
sempre lustre, perché in albergo lo fanno gratis ogni sera). Inoltre, quel
vecchio le pulisce malissimo. Le sue spazzole sono striate di nero e
marrone, quindi la pelle diventa sudicia come i suoi lerci pantaloni a
brandelli.
Comunque, un giorno la scorsa settimana gli ho comunicato il mio shock
per le sue scarpe ridotte a pezzi – sono legate con lo spago, e hanno le punte
tagliate con il coltello che mettono in mostra dei calzini luridi. E questo l’ha
spinto immediatamente e con nuovo vigore a cercare di scroccare qualcosa
un’altra volta. Continuava a chiedermi un paio delle mie vecchie scarpe. Gli
ho detto che non ne avevo. E lui mi ha risposto che sapeva che io invece ne
avevo tante, perché lui le aveva lustrate – scarpe belle, americane. E
pantaloni!, seguitava, mostrandomi i buchi sul sedere, pantaloni vecchi per
un povero vecchio, da un americano che aveva tutto.
Be’, era instancabile. Cosí ogni mattina quando l’incontravo, assumeva
un’aria sorpresa e ferita, diceva: «E le scarpe? Quando mi porti le scarpe?»
Poi si afferrava i pantaloni e li scuoteva, facendoli quasi cadere a pezzi
come del carbone bruciato.
Stamattina ho deciso, che diavolo!, gli do un paio di scarpe, ma subito
mi sono reso conto che le mie erano troppo grandi, quindi ho tirato fuori
dall’armadio un paio di pantaloni e sono sceso per strada. E lui era lí,
dall’altro lato, che aspettava, augurandomi il buon giorno e venendomi
dietro. Gli ho dato i pantaloni. Lui li ha carezzati, felice. Pantaloni
americani? Gli ho risposto sí. Lui ha sospirato e ha detto, se solo ora avessi
un paio di scarpe.
L’ho portato in un negozio e l’ho fatto sedere. Si è messo a fare una
confusione del diavolo con il negoziante, non la finiva piú, avrà provato e
rifiutato una dozzina di paia di scarpe. Alla fine si è deciso per un paio
marrone molto a punta. Il venditore ha detto che costavano cinquemila lire,
circa otto dollari. Il vecchio allora ha dato in escandescenze, mi ha indicato
e ha supplicato il negoziante che non mi ingannasse, che io ero un uomo
buono, che quelle scarpe io gliele regalavo. Il negoziante però è stato
adamantino. Il vecchio si è rimesso le sue schifosissime scarpe, e via, siamo
tornati per strada. Camminava come un cane affamato, svelto e all’erta, io
mi trascinavo dietro di lui. Abbiamo superato sei isolati e siamo andati in un
altro negozio. Là abbiamo trovato lo stesso paio di scarpe, che costava però
cento lire in meno. Le ho comprate. Lui se le è portate via in una scatola.
Ho la terribile sensazione che le venderà a qualcuno. Spero di no.
Con amore,
j. f.

Il progetto per «The Roses» fu poi cancellato


improvvisamente a seguito di un ordine da
Hollywood. Joyce Fante commenta quanto segue:
«In quel momento Richard Quine ricevette un
telegramma da Harry Cohn, presidente della
Columbia, che diceva:
PROGETTO CANCELLATO. RITORNARE A CASA IMMEDIATAMENTE.
HARRY COHN
Ciò può essere spiegato in vari modi. Uno è che
Cohn scoprí di non poter trovare i finanziamenti per
quel progetto. Fante mi disse che pensava fosse
accaduto perché a Richard Quine era stato ordinato
di dare frequenti resoconti a Cohn, e non era stato
fatto. In ogni caso, vennero sprecati degli scritti
meravigliosi. Fu un’esperienza davvero scoraggiante
per Fante. Doveva poi essere tristemente seguita
dalla cancellazione del progetto di Zanuck a Parigi
nel 1959, e del film scritto per Dino De Laurentiis a
Roma nel 1960. Quelle ottime sceneggiature non
vennero utilizzate per motivi che non avevano a che
fare con il testo. Questi sono esempi di come
Hollywood tratta i buoni scrittori».
«Southern California Country: An Island on the
Land», di Carey McWilliams venne pubblicato la
prima volta nel 1946.

[A Carey McWilliams]
[Intestazione Columbia Pictures Corporation
1438, Gower Street,
Hollywood 28, California]
15 gennaio 1958

Caro Carey,
maledizione, come corrispondente sono pessimo, ma che ci si può fare?
Ho ricevuto la tua bella lettera e l’esilarante articolo del «NY H- Trib» sulle
squadre americane di football. Grazie davvero. Me lo sono proprio goduto.
I calcoli biliari sono tremendi e devono essere espulsi, ma pensa ai
diabetici, ovvero me, e forse troverai di che consolarti. Ma Dio è testimone
che mi sento benissimo. Ha qualcosa a che vedere con la dieta, ne sono
certo. Non alzo piú il gomito. Mi sono preso una bella sbornia con lo
champagne a Capodanno, ma non mi ha fatto male e lo zucchero nel sangue
è rimasto basso. Mia moglie si è davvero rovinata. L’ho trovata al cesso, a
casa di amici, avvinta alla tazza, con il vestito nuovo addosso. Sono rimasto
a guardarla ridendo, e questo l’ha fatta stare ancora peggio. Dopo vent’anni
di matrimonio un uomo può guardare sua moglie che si ficca un dito in gola
per vomitare, e non trovarlo scioccante. È un bene o un male? Io dico che è
un bene. Sono pazzo di quella bimba. Credo che abbia quarantatre o
quarantaquattro anni, ma ha ancora un culo delizioso e un corpo proprio
come si deve. (Non so perché sto dicendo tutto questo, forse perché ho
intenzione di sbattermela stasera appena metto piede a casa).
Sono sempre nel cinema, faccio sempre molta grana, e non me ne
dispiaccio troppo. Vorrei tanto star scrivendo un romanzo, o, meglio ancora,
qualcosa per il teatro – che è il mio prossimo progetto. Ma ho cosí bisogno
di denaro che non posso proprio lamentarmi del favoloso contratto che ho
ora.
L’estate scorsa sono stato in Italia per sette settimane, soprattutto a
Napoli, ma anche qualche giorno a Roma, per il progetto di un film. È stata
un’esperienza molto commovente e importante per me. In qualche modo
l’Italia era come me l’immaginavo, almeno per quanto riguarda il clima e
l’ambiente, ma ho trovato che la gente è semplicemente splendida, cortese e
raffinata. Persino il contadino piú infimo in Italia è in un certo modo nato a
una cultura e a una vita civilizzata che noi non conosciamo. Poi ho odiato la
gente ricca che ho incontrato, gli impostori nel mondo del cinema, gli
osceni uomini di Roma, la loro arroganza bucolica di imbroglioni di città.
Un giorno ti racconterò di questo viaggio, della condizione miserabile dello
scrittore italiano, della ridicola adorazione da parte degli italiani per
qualsiasi cosa sia su celluloide. […]
Ho riletto la settimana scorsa Southern California Country. Credo che tu
non abbia idea di che libro meraviglioso, rinfrescante e importante sia.
I miei saluti a Iris e Jerry,
con affetto,
John Fante
1
In italiano nel testo [N.d.T.].
2
In italiano nel testo [N.d.T.].
1959

Nel 1959, dalla fine di maggio all’inizio di luglio,


Fante fu nuovamente all’estero per un film. Sua
moglie lo raggiunse a Parigi per alcune settimane
all’inizio di giugno. In quell’occasione lavorava per
Darryl F. Zanuck, il potente produttore
hollywoodiano che in quel momento operava in modo
indipendente in Europa. Fra le altre celebrità
menzionate nelle sue lettere a casa, sono presenti
Juliette Gréco, la cantante e attrice francese; Elvis
Presley, la rock star; e il suo vecchio amico e
collega, lo scrittore della West Coast William
Saroyan.
La sceneggiatura di Fante, intitolata «The Fish
Don’t Bite» non fu mai prodotta. Joyce Fante spiega
perché: «Anche Saroyan era a Parigi, e avendo
accumulato una enorme quantità di debiti di gioco,
aveva persuaso Zanuck a produrre una pièce che
aveva scritto per Juliette Gréco, e a cancellare il
progetto che coinvolgeva Fante. Ciò provocò per
qualche tempo la rottura di un’amicizia ventennale».
Venne poi di fatto realizzato solo un progetto fra i
menzionati – quello di trarre una sceneggiatura da
«Passeggiata selvaggia» di Nelson Algren per il
produttore Charles Feldman. La versione
cinematografica, «Anime sporche», venne diretta da
Edward Dmytryk e fu distribuita nel 1962.

[A Joyce Fante]
Parigi
29 maggio 1959

Carissima,
sono le quattro e mezza di mattina. Non riesco a dormire. Ho appena
ordinato dell’acqua calda e mentre scrivo bevo Sanka.
Be’, cosa posso dire di Parigi dopo un giorno e mezzo passato fra le sue
braccia? Non lo so. Ho solo un’impressione chiara e inequivocabile. Parigi
è la vagina del mondo civilizzato. Trasuda sesso, semplicemente. Tutto e
tutti sembrano farne parte. Ci sono donne dappertutto, sembrano miliardi –
americane, europee, cinesi. E gli uomini sono sopraffatti dalle donne, le
inseguono, le evitano, camminano con loro. Tutta la faccenda è una
gigantesca storia d’amore cosmica.
Ho camminato moltissimo – ore e ore. Non conosco altre strade se non
gli Champs-Élysées e l’Avenue George V. Ma sto imparando a orientarmi, e
a tornare a casa sano e salvo.
Ora, per quello che riguarda il viaggio. È stato un assassinio – una noia
lancinante – diciannove ore di volo sulla rotta piú traditrice che esista al
mondo. L’ansia di un volo cosí non ti lascia mai, annodata nella profondità
dello stomaco, e i danesi che gestiscono la compagnia aumentano la
tensione dandoti da mangiare senza sosta. Si mangia per non annoiarsi, e la
tensione aumenta.
A Copenaghen ho perso il mio orologio da polso. Siamo stati portati in
un posto dove si potevano fare dei bagni caldi, erano le tre della mattina del
nostro arrivo. Me lo sono levato e l’ho lasciato nella doccia. Scriverò per
sapere che fine ha fatto.
Siamo arrivati a Parigi all’una e trenta di ieri pomeriggio. C’è stato
subito un problema per quella scatola gigantesca con i sigari. La dogana
francese l’ha immediatamente confiscata. Per mia fortuna, c’era
l’amministratore di Zanuck. Far entrare i sigari nel Paese costerà trecento
dollari! Me lo dicono ora che avrei dovuto metterli in una valigia.
Ieri sera, da solo, ho cominciato a esplorare la città (Saroyan era andato
da qualche parte e non avevo compagnia). Avevo sessanta dollari con me,
piú quattrocento in traveller’s cheque. Ho fatto dei giri, bevendo
champagne, passando per un certo numero di bar, pagando da bere a chi
aveva sete, senza distinzione fra ragazzi e ragazze. A mezzanotte stavo
benissimo ed ero ubriaco. Alle tre di mattina ho perso il senso del tempo e
del luogo. No, non sono andato a letto con nessuno. Ho solo bevuto con
loro. Alle sette di mattina ero di ritorno in albergo… ed ero al verde! Non
riesco a capire come abbia fatto a spendere quattrocento dollari, eppure tutti
i miei traveller’s cheque e i contanti che avevo sono spariti. L’unica è che
mi abbiano ripulito in uno dei bar. In ogni caso ho messo al corrente del
fatto l’American Express, loro raccoglieranno tutti i traveller’s cheque
quando li ricevono e controlleranno le firme per le falsificazioni.
Comunque, ubriaco com’ero, quando sono tornato all’albergo ho fatto un
test dello zucchero. Era negativo! Oggi ne ho fatti altri quattro, ed erano
tutti negativi. Ora come ora sono sobrio e intendo rimanere tale – non facile
in questa città dove il vino e i liquori si consumano al posto dell’acqua.
Ho visto Zanuck all’una precisa di mercoledí. Abbiamo parlato per circa
due ore, e riprenderemo oggi alle undici. Credo che resterò qui almeno
cinque settimane a lavorare su questo progetto. Le idee di Zanuck non sono
male quando le spiega e non ho difficoltà a seguirlo.
Quanto alla tua visita qui, dammi un paio di settimane cosí da poter
determinare il mio status, in particolare con Zanuck. È possibile che riesca a
scrivere un’altra sceneggiatura per lui, non appena sia finita questa. So che
con lui posso concludere un buon affare, buono almeno come con gli
italiani.
Saroyan vive qui accanto, al George V. Ha un «patto» con Zanuck, ma
francamente pare molto vago. Al momento tutto quello che ottiene sono dei
denari per le spese dell’albergo. A Zanuck piace la sua compagnia, ma
conversando ho avuto l’impressione che Z. abbia qualche dubbio circa il
progetto di Bill, una pièce per Juliette.
Saroyan mi dice che lei si è stufata di Zanuck. Ha persino un altro
amante e non ne fa segreto. Ma è affezionatissima al ragazzo e le dispiace
per lui, a sentire Saroyan.
In ogni caso il mio progetto è al primo posto nei piani di Zanuck,
secondo Bill. So perfettamente che Zanuck è molto interessato, ma le
stravaganze di questo lavoro sono troppo complesse perché io possa essere
sicuro al cento per cento di qualcosa.
Dài il mio amore ai bambini. Mi mancate tutti.
John

Ora sono da poco passate le cinque, e cercherò di rimettermi a dormire.


Ho una stanza meravigliosa – una suite piú che altro – con un salotto.

[A Joyce Fante]
[Intestazione Hotel Prince de Galles,
33 Avenue George V,
Paris]
25 giugno 1959

Tesoro,
ho finito la prima stesura della sceneggiatura questo pomeriggio tardi. La
stanno battendo a macchina e Zanuck l’avrà domani. Credo che la leggerà
durante il fine settimana. Poi ci consulteremo e faremo le ultime limature.
Non si tratterà di molto lavoro – non piú di un giorno o due. Dopo di ciò
avrò presumibilmente finito con l’operazione di Zanuck, a meno che non
abbia qualcos’altro da offrirmi.
Sto aspettando la sceneggiatura di De Laurentiis. Doveva essere spedita
da Roma martedí, quindi si suppone che l’avrei dovuta ricevere ieri.
Immagino che arriverà domani. Come sai, dovrei andare a Roma questo
fine settimana per parlare della sceneggiatura con De L.
Conduco una vita tranquilla, ma in questo fottuto albergo c’è un rumore
orrendo che proviene dalla piazza. Non riesco proprio a dormire la notte,
almeno non prima delle tre, piú o meno. La mattina sono mezzo morto per
lo sfinimento, con le occhiaie e una pessima sensazione circa la giornata
che verrà.
Ieri notte è stato indicibile, semplicemente, sembrava che mezza Parigi
fosse là a spostare mobili, fra urla e risate. Per ventotto dollari a notte direi
che la cosa piú a buon prezzo che potrebbero offrire sarebbe un po’ di
quiete, ma come sai, chiunque viva sulla piazza deve rassegnarsi. Non credo
che all’albergo interessi poi molto, perché gli ospiti sono tutti di passaggio e
in ogni caso fanno conto di derubarli solo una volta.
Ieri pomeriggio Bill Saroyan ha fatto un rapido giro con i figli mentre
c’era una pioggia deliziosa. Suo figlio Aram è un giovanotto molto carino,
alto quanto Bill e molto amichevole. Lucy è piccolina, ha la bocca piuttosto
grande e il naso grosso. Somiglia a Carol. È una bambina dolcissima. Vorrei
che avesse un viso piú piacevole.
Di solito vado a cena con Guido Orlando. Racconta sempre storie folli e
assurde. Ma è un’ottima compagnia. Da quando sei partita non ho piú visto
Zanuck. Dorothy sta battendo la sceneggiatura. Mi chiama sempre Clang
Clang. Presley è sempre qui. Orlando me lo ha presentato. È un ragazzo
piuttosto gradevole. Ogni giorno a quest’ora (sette di sera) la strada è
intasata di ragazzi con la sua fotografia, in attesa che lui esca e firmi
autografi.
Vorrei avere altre notizie, ma tutto tace. Sono comunque molto sollevato
dall’aver finito. Saroyan vuole vendermi la sua Karmann-Ghia per
millequattrocento dollari. Ha solo dodicimila miglia, è un affaretto rosso
con sedili ribaltabili di pelle. Costerebbe circa quattrocento dollari mandarla
a casa – ma non ne ho proprio bisogno.
Il mio amore a tutti,
jf

Ps.: Ora che sei di nuovo a casa, come ti senti? Sei dispiaciuta di essere
partita? Non credo che dovresti esserlo. Dal momento che non potevamo
proprio fare un giro per la Francia e per l’Europa, sembrava piú saggio che
tu tornassi a casa. Qui le cose possono diventare monotone.
Spero comunque che ti sia divertita a New York. Mi raccomando, fammi
avere tutti i dettagli della tua permanenza lí.

[A Joyce Fante]
[Parigi]
29 giugno 1959

Dolcezza,
oggi ho finalmente e completamente terminato la sceneggiatura. Zanuck
l’ha definita «pazzesca», e forse lo è, perché con i cambiamenti è diventata
una commedia affascinante e bella.
Questo pomeriggio è stata mandata a Londra per essere ciclostilata.
Devo restare in zona finché arrivano le copie, piú o meno sabato. Zanuck
mi ha chiesto di leggere qualcos’altro, un nuovo romanzo sulle donne
soldato d’Israele, e lo sto facendo, non perché lo voglia, ma perché me l’ha
chiesto, e tanto per fare qualcosa. Mi piacerebbe tornare a casa. Non ne
posso piú.
Zanuck mi assicura che potrei lavorare con la Fox a Beverly Hills, e so
che non mi prende in giro quando mi dice che potrebbe sistemare le cose in
quel senso. L’affare con De Laurentiis non è riuscito. De L. era
«estremamente offeso», cosí mi ha detto l’agente di Roma, perché ho
chiesto delle garanzie: «Ma nessuno le ha mai chieste», ha detto. L’agente
dice che invece non è affatto vero, che De L. sicuramente farà nuove
proposte e che devo tenere duro. Qui a Parigi mi ha contattato anche
Charles Feldman, che era a tavola con noi al San Francisco – quell’uomo
brizzolato seduto alla sinistra di Ratoff.
La gola si è fatta sentire di nuovo, con dolori forti eccetera, ovviamente
mi dà noia, ma per il resto mi sento bene. Dev’essere fantastico trovarsi di
nuovo sull’oceano Pacifico. Vorrei poter partire presto, ma devo pensare al
futuro in termini di buoni rapporti con Zanuck, e aspettare che mi dica
quando posso partire. Potrei addirittura rimanere qui fino a quando non
ingaggia un regista, ha detto infatti che vorrebbe che io ci parlassi prima di
tornare a casa.
Le notizie della tua permanenza a N.Y. e dei bambini mi hanno fatto
molto piacere. Di’ a Jimmy di continuare con le preghiere, almeno dieci per
sera, lo stesso vale per Vicky. Mi fa piacere sentire che Nick sta lavorando.
Non mi meraviglia la tua reazione a New York. È come dici tu. Dorothy
Machini è rimasta malissimo quando ha saputo che eri tornata a casa. Ieri
mentre lavoravamo qui, sugli ultimi cambiamenti, mi ha chiesto una gomma
da cancellare. Gliene ho data una di quelle tonde, come una ruota. Lei ha
detto: non è una gomma da cancellare, è una gomma e basta, oh, no, non lo
è, è un diaframma bucato per chi vuole commettere errori.
Venerdí sera Zanuck l’ha chiamata alle nove perché andasse a lavorare
(alle nove di sera!) e lei gli ha risposto: vai a cacare. Ti avevo detto di come
lei avesse organizzato qualcosa fra Zanuck e una ragazza scura che sembra
la Gréco. Be’, gli è riuscito fin troppo bene. Zanuck ha incontrato la
ragazza, poi si è tirato su i pantaloni e ha mostrato a Dorothy i segni dei
denti sulla coscia dove la ragazza l’aveva morso, e in seguito ha spiegato
che lei lo aveva morso allo spasimo «dappertutto…»
Ti amo,
jf

Il «raccontino su Parigi» a cui si fa riferimento


nella lettera successiva è «La prima volta che ho
visto Parigi». È pubblicato in appendice al presente
volume.

[A Joyce Fante]
[Parigi]
2 luglio 1959

Tesoro,
la trama si ispessisce, e se non viene tolta presto dal fuoco, la padella
brucerà. Ho parlato con Charles Feldman di Passeggiata selvaggia di
Nelson Algren ed è proprio un incarico di prima qualità, con il quale potrei
lavorare in tutta libertà. Ha anche un’altra cosa che è molto interessante.
Nel frattempo Zanuck mi ha chiesto di restare in zona fino a quando la
sceneggiatura non sia tornata da Londra (The Fish Don’t Bite), e di
discutere piú avanti un altro incarico per lui. Non so di cosa si tratti, ma
credo che sia qualcosa con Israele sullo sfondo.
Per aggiungere ancora un altro tocco, oggi ho visto Milton Grossman,
l’agente di Anthony Quinn, qui fuori dall’albergo, era appena arrivato e mi
ha chiesto quale fosse la mia disponibilità per scrivere una sceneggiatura
per Quinn.
Roba da levare il fiato. Se fossi disoccupato in mezzo a Hollywood
probabilmente dovrei aspettare due anni per trovare degli incarichi buoni
come questi, mentre qui a Parigi, in un’ora, mi capita tutta questa roba.
Ti ho detto che ho scritto un raccontino su Parigi? L’ho mandato a Art
Buchwald, ma è a Copenaghen, e quando ieri ho telefonato alla sua
segretaria per domandarle quando mi avrebbero restituito il manoscritto, lei
mi ha chiesto di aspettare fino a che lo veda Buchwald, e lo ha definito «un
capolavoro».
Guido Orlando si sta tramutando rapidamente in una piaga. Mi afferra e
mi tiene stretto mentre parla, mi dà dei colpi sul braccio per enfatizzare le
cose, e ogni volta che mi percuote dice: «Bang!» Cosí: «Allora lui va dalla
ragazza e (bang!) e cosa credi che lei gli abbia detto? (Bang!) Gli ha detto:
no, signore, io no (bang!) Ora il poveraccio è preoccupato, capisci? Ma poi
gli viene un’idea (bang!) Parlerà con la madre di lei! (bang! bang!) Quindi
telefona alla madre (pow!) La madre acconsente a parlargli (boom!)»
Oggi siamo andati insieme a cercare una copia di Passeggiata selvaggia
di Nelson Algren. Feldman mi aveva detto che quel libro si poteva trovare
alla libreria Brentano’s. Guido ha detto che lo sapeva lui dove trovare il
libro, in culo Brentano’s. Siamo saliti su un taxi e siamo andati al quartiere
dell’Opera in un negozio chiamato Smith’s, una libreria inglese. Lui è
saltato giú dal taxi, si è precipitato dentro, ha interrotto una commessa che
parlava con un altro cliente e ha gridato: «Ehi, avete un libro intitolato The
Wild West di un cretino che si chiama Nelson?» La ragazza ha detto di no.
Allora lui ha ribattuto: «Ma questa è una libreria o no?» Lei ha risposto che
lo era, ma che semplicemente non avevano quel libro. Sono state necessarie
lunghe spiegazioni, ed è finita che abbiamo appreso che non avevano il
libro di Algren.
Il mio amore a tutti,
J. F.

Oggi mi sono tagliato i capelli. Mi dovresti vedere! Il barbiere me li ha


fatti ondulati! Una disinvolta spirale di capelli in cima alla fronte.

[A Joyce Fante]
[Parigi]
5 luglio 1959

Tesoro,
sto sempre ammazzando il tempo, aspettando che Zanuck faccia una
mossa. Sono passati piú di dieci giorni dall’ultima volta che ho scritto una
riga. Il film dovrebbe partire il primo settembre. Zanuck ora sta cercando un
regista. Non ha ancora detto a Hugo che non lo vogliono. Hugo resta a
Madrid. Pare che io debba rimanere qui fino a che non abbiano scelto il
regista, cosí da poterci parlare.
Charles Feldman è stato molto carino, ma c’è l’inganno. Zanuck è il tipo
d’uomo che vuole una cosa nel momento stesso in cui non la può avere, e
siccome sa che Feldman mi vuole, non vuole lasciarmi andare. Feldman ha
fatto un’offerta ancora piú invitante. Ora dice che posso lavorare per lui
ogni momento, due, tre, dieci settimane da quando finisco di lavorare con
Zanuck.
Caldissimo qui a Parigi, e terribilmente desolato. Tutti vanno al Sud in
Riviera, e le strade sono deserte tranne che per gli americani carichi di
macchine fotografiche. Per me è una noia mortale. Viene la sera e non c’è
altra via se non andare a sedersi in quei dannati cafés, a bere tè, caffè o
alcol. Una sporchissima trappola. L’unica cosa che posso definire positiva
in tutto ciò è che per questo io vengo pagato.
Martedí Zanuck partirà per il Sud della Francia. Bisogna che per allora
abbia preso una decisione. Ti terrò informata, e se necessario telegraferò.
Non scrivermi, perché potrei essere in viaggio per tornare a casa.
Ti amo,
jf

[A Joyce Fante]
[Parigi]
7 luglio [1959]

Tesoro,
per rispondere alle domande nella tua lettera del 3 luglio…
Non ho avuto nuove da De Laurentiis, né dall’agente di Roma. Ho
pensato e sto ancora pensando di andarci a fare un salto, ma non riesco a
mettere insieme abbastanza entusiasmo per arrivare all’aeroporto. Per la
verità sono sollevato di non avere il lavoro di De Laurentiis. Per me era il
mezzo per arrivare a un fine: volevo che i ragazzi facessero un viaggio in
Europa. Ma il prezzo in termini di dove dovevo stare, di inquietudine, di
indifferenza alla sceneggiatura, sarebbe stato troppo alto. Ora voglio tornare
a casa il prima possibile.
Ieri ho visto Zanuck e lui ha fatto altri cambiamenti di poco rilievo nella
sceneggiatura, piccolissimi, una giornata di lavoro. Domani (si pensava che
sarebbe stato oggi) parte per Deauville, per una settimana, piú o meno, con
la Gréco. Vuole che io resti in zona fino al suo ritorno, in caso che prendano
un regista per il film. Non mi ha offerto alcun incarico nuovo per la buona
ragione che non ne ha, ma nei prossimi giorni potrebbe trovare qualcosa. Se
mi viene offerto e mi piace, gli proporrò di permettere che scriva da casa.
Nel frattempo ho già accettato l’incarico da Feldman, ma comincerò solo
dopo aver concluso con Zanuck. […]
Ti amo,
jf
1960

Il terzo viaggio di Fante in Europa, e il piú lungo,


ebbe luogo nel 1960, e fu fonte di una nuova messe di
vivaci resoconti destinati alla famiglia a casa. In
quell’occasione Fante lavorava per Dino De
Laurentiis, un importante produttore italiano che
aveva realizzato molti dei film di Fellini, perché
l’accordo che non si era concretizzato nel 1959 era
stato stipulato nuovamente. La sceneggiatura si
basava su Navarra, re di Napoli, scrive Fante, ma
ancora una volta non ne risultò alcun film completo.
Ancora una volta, comunque, un altro progetto
menzionato incidentalmente (il progetto per un film
basato sulla vita di san Giuseppe da Copertino)
sfociò in seguito nella sceneggiatura scritta da Fante
per un film che venne poi prodotto, «Cronache di un
convento», distribuito nel 1962.
Fante non riuscí mai a realizzare la sua ambizione
di portare tutta la sua famiglia in Europa, sebbene
suo figlio Nick lo andasse a trovare a Roma.

[A Joyce Fante]
[Intestazione Residence Palace Hotel,
Via Archimede 69, Roma]
Mercoledí cinque e trenta del pomeriggio [forse 3 agosto 1960]

Tesoro,
qui è tutto una follia. Odio questo albergo e presto andrò via. Ora sono
riposato, ma il viaggio è stato da cani. Immaginati di volare su un aereo con
centotrenta italiani! Mi hanno spaventato a morte fin dalla partenza da New
York. Dio mio, come si sono lamentati: hanno pianto e hanno agitato le
braccia in direzione degli amici e parenti che li avevano accompagnati! Ho
avuto l’orrenda sensazione che fossimo tutti condannati. Di fatto poi è stato
un ottimo volo. Dal momento che viaggiavo in prima classe, io e altri tre
tipi avevamo venti sedili per noi, e tutte quelle grassone lamentose sono
invece andate in turistica, ammassate nell’altra metà dell’aereo. A nostra
disposizione avevamo due toilette, e lo giuro, nessuno ci si è avvicinato,
mentre nella turistica erano in fila lungo il corridoio, aspettando il loro
turno. Era una crudeltà.
Non ho visto De Laurentiis. Ci dà un paio di giorni di riposo. Ero in
camera da appena cinque minuti, però, quando mi ha chiamato Posinetti. Ci
siamo incontrati in via Veneto a bere qualcosa. Piú tardi ho visto Coletti, il
regista che è nato a venti miglia dalla città natale di mio padre; abbiamo
cenato insieme. È un uomo piacevole, non profondissimo. Ha le macchine
piú grandi di Roma: una Olds 88 del 1956 bianca decappottabile. Molte
strade sono troppo piccole per lei. Siamo andati al Colosseo a mezzanotte al
chiaro di luna e siamo rimasti a guardarlo, mentre Coletti borbottava una
serie di cliché su tutto il sangue versato, i poveri martiri eccetera. È davvero
un posto agghiacciante.
A Roma non c’è crisi degli alberghi. Le folle colossali attese per i Giochi
[olimpici] non sono arrivate e non sono previste. Sono in parola per
prendere un appartamento e dovrei averne uno fra pochi giorni. Nick
dovrebbe organizzarsi per venire come stabilito. Almeno una volta puoi
scrivermi qui.
Questo hotel è schifoso. Carino, pulito eccetera, ma pieno di tipe
cattoliche grasse e fuori di sé all’idea di fare un giro per il Vaticano. È
americanissimo, naturalmente, però chi lo gestisce non serve caffè
americano, anche se il novantacinque per cento degli ospiti proviene dagli
Stati Uniti.
La sceneggiatura e il materiale non sono male. Dovrebbe essere un
lavoro facile – non arriverà a dieci settimane anche facendo uno sforzo
d’immaginazione.
Il mio amore a te e a tutti i bambini
Il tuo devoto marito,
John Fante

[A Joyce Fante]
[Intestazione Residence Palace Hotel,
Via Archimede 69,
Roma]
5 agosto 1960

Tesoro,
questa mattina ho avuto il mio primo incontro con De Laurentiis. È
andato benissimo. È un uomo basso e tarchiato, di un’energia straordinaria.
Credo che andremo d’accordo. C’è qualche difficoltà nella sceneggiatura,
ma ho mantenuto la posizione. Probabilmente come dimostrazione di
fiducia, De Laurentiis mi pagherà la metà del salario in anticipo, e l’altra
metà in cinque settimane. Tende a gridare, a saltare su dalla sedia e a
gesticolare, con me però ha sempre parlato con calma. Seduto accanto a me
c’era un interprete, e Coletti, il regista, era di fronte. Poi è arrivata la
segretaria di De Laurentiis e lo ha informato che Rod Steiger (che vogliamo
nel ruolo principale del film) era a Berlino. Senza starci a pensare De
Laurentiis ha ordinato alla segretaria di prendere due biglietti aerei per
Berlino, quindi a quanto pare Coletti e io partiremo domani pomeriggio e
andremo due giorni in Germania. Lunedí sarò di ritorno.
A Roma De Laurentiis ha tre uffici. Mi ha offerto di sceglierne uno
qualsiasi come posto per lavorare, quindi Coletti mi ha portato a vederli. Ho
deciso per quello a via XXIV Maggio. È uno studio vero e proprio, con
molti uffici e camerini. Tutti i camerini hanno bagni privati e docce, e
volendo posso trasformare le stanze in camere da letto per Nick e me. In
ogni caso non ci sono problemi a Roma per quello che riguarda lo spazio
vitale. Per quando arriverà Nick avrò deciso quale è il posto migliore sotto
tutti i punti di vista.
Forse Roma non mi entusiasma allo spasimo, però mi piace sul serio.
C’è qualcosa qui – la gente lo chiama «il colore di Roma» – una tinta oro-
rossiccia fissata sugli edifici che dà loro un aspetto meraviglioso, quasi
soffocante. Questo, unito alla costante presenza del verde di alberi,
cespugli, viti, crea degli scorci bellissimi, soprattutto con lo sfondo delle
rovine romane. Di certo è piú bella di Parigi – e ora che l’ho detto, non
aggiungerò altro.
Vicky e Jimmy mi mancano moltissimo. Per qualche motivo Roma mi fa
pensare a Victoria.
Spero che Danny si stia comportando da buon cittadino. Di’ a Jimmy che
sono stato molto contento di leggere che i Dodgers hanno vinto la loro
prima partita contro i Pirates.
Ti amo,
John Fante

Credo sia meglio che tu continui a scrivermi c/o Residence Palace Hotel
fino a nuove disposizioni. Sto per prendere un appartamento.

Ma mentre Fante era lontano, a casa non tutto


andava come doveva. Joyce Fante spiega:
«Nel frattempo avevo dei grossi problemi con
Nick, allora di diciotto anni, e con Dan, di sedici. I
problemi includevano ubriachezza, utilizzo della
macchina senza permesso, notti passate fuori. I
ragazzi erano fuori controllo.
Nick faceva parte di un gruppetto di giocatori di
poker. Una notte andai a dormire pensando che i
ragazzi stessero giocando come al solito nell’ala sul
retro della casa. Quando mi alzai la mattina dopo, la
festa non era ancora terminata. Erano tutti
ubriachi… sembrava un’orgia. Li cacciai fuori di
casa, minacciandoli di chiamare lo sceriffo. Questo
comportamento faceva presagire il tipo di condotta
descritta in seguito da Fante ne “Il mio cane
Stupido”.
Fortunatamente Nick presto sarebbe partito per
raggiungere suo padre a Roma».

[A Joyce Fante]
[Residence Palace Hotel,
Via Archimede 69,
Roma]
Lunedí 8 agosto [1960]

Tesoro,
siamo arrivati a Berlino sabato notte alle dieci circa e domenica abbiamo
parlato con Rod Steiger per un paio d’ore. Come tutti gli attori è tronfio e
ogni accenno alla nostra conversazione ora mi dà la nausea.
Poi Coletti e io abbiamo preso un taxi e abbiamo fatto un giro per
Berlino Est. Siamo passati attraverso la Porta di Brandeburgo, abbiamo
visto la carcassa carbonizzata del Reichstag, e siamo andati lungo strade
cupe e tragiche, grandi montagne di macerie della guerra ancora ammassate
in orridi mucchi. Com’è monotono – com’è disperato – isolati e isolati di
appartamenti scuri, butterati dai proiettili, nelle strade quasi nessuno, una
macchina ogni tanto, e quando si vuole alzare il gomito si bevono
vendemmie del 1935 o ’36. Chiunque ami il comunismo dovrebbe vedere
Berlino Est. Al diavolo i dogmi marxisti. Quello che l’occhio vede a
Berlino E. risponde a tutte le domande. Ti senti molto a disagio a guidare
nella calma mortale di quelle strade. L’aria è piena di paura, di polizia. La
gente cammina piano, senza allegria. In tutto il mondo non esiste una
domenica pomeriggio cosí.
[…] Siamo stati all’Hotel Gehrhaus, che mi ricorda Mayerling – un hotel
molto romantico alla periferia della città, in un’area simile a un parco, con
pini e pioppi. È tranquillo in modo fantastico. Le camere da letto si
affacciano su dei padiglioni con dei tavoli. Ogni stanza da letto ha un
salottino con un divano, un tavolo e delle sedie. Di notte sotto i piumini si
sente il sussurrare del vento fra gli alti pini, soffocato di tanto in tanto dal
ronzare di un aereo che vola basso.
Quello che ho visto della Germania mi è piaciuto, meno Berlino Est.
Sono rimasto affascinato dalle donne. Sembravano tutte cosí graziose, tutte
familiari in modo misterioso. Poi ho capito cosa c’era in loro che mi
sembrava di conoscere cosí bene – i loro occhi – chiari, azzurri e grigi, alle
volte di un celeste quasi bianco, occhi cosí simili a quelli della mia cara
moglie. Anche l’espressione che avevano… cosí familiare, erano spalancati,
fissavano gli oggetti, come in una costante meraviglia di fronte a qualsiasi
cosa.
[…] Rimarrò qui al Residence Palace fino all’arrivo di Nick.
Il mio amore a tutti,
J. F.

[A Joyce Fante]
Via Rusticucci 14,
Roma
[16 agosto 1960]

Tesoro,
credo che oggi sia martedí 16 agosto. Nick e io finalmente alloggiamo in
una meravigliosa casa antica dove ha vissuto Raffaello. È vicinissima al
Vaticano, nella vecchia Roma. Alla fine sono sistemato e felice, ma la
strada è stata lunga e difficoltosa. […]
Ora siamo a via Rusticucci 14. In questa vecchia casa ognuno di noi ha
la propria camera da letto. Dall’altra parte del vicolo c’è un gran muro
romano antico sul quale (o attraverso il quale, dal momento che c’è un
passaggio) il papa scappava a Castel Sant’Angelo. Oltre a questo muro ci
sono delle abitazioni estremamente antiche di gente povera. L’intera zona è
di proprietà del Vaticano ed è conservata con grande cura. […]
Finora tutto è stato frenetico. Sono molto indietro con la sceneggiatura,
ma non poteva essere altrimenti perché è una cosa davvero pessima quella
che mi hanno dato, e ho dovuto pensarci su.
La vita a Roma fino a questo momento è stato un viaggio gastronomico.
Dio, come mangiamo! Sono certamente aumentato di peso, ma lo perderò.
Anche Nick è considerevolmente aumentato. È impazzito per il cibo. In
questa parte del Vaticano ci sono dozzine e dozzine di piccole trattorie o
piccoli caffè dove il cibo è squisito. Abbiamo in progetto di provarle tutte.
Sono ragionevolmente sano – sempre un po’ stanco – il sonno arriva
piano piano e non dura a lungo. Questo posto è terribilmente rumoroso
dappertutto e bisogna abituarcisi. Quanto a ciò che ho visto, niente mi ha
impressionato davvero. Ho la strana sensazione di camminare attraverso
delle cartoline, un contatto unidimensionale con il passato. Nessuna mi
commuove con una qualche forza. Ma il cielo è sempre squisito,
attraversato da nuvole bianchissime, accecanti. Le notti sono calde e irreali,
fantastiche, quasi troppo perfette. Direi che questa città è piú bella di Parigi,
ma per qualche motivo non è carica dell’elettricità di Parigi. È inutile
cercare di vedere tutto. Mi dicono che ci vuole una vita, e ci credo.
Finalmente un indirizzo definitivo!
Tutto il mio amore,
jf

[A Joyce Fante]
Via Rusticucci 14,
Roma
[forse 17 agosto 1960]
Tesoro,
mi domando, ma oggi è mercoledí? Mai in vita mia ho avuto una tale
difficoltà a ricordare il giorno della settimana. Sarà un buon segno? Forse.
[…]
Ieri ho gironzolato per il Vaticano. Dio, cosa si può dire, tranne che è
davvero molto antico, e mastodontico, con tantissime persone che si agitano
come formiche in un formicaio sconosciuto. La cosa ridicola di
quest’esperienza è che si viene via senza essere particolarmente
impressionati. È stato troppo celebrato. Interi eserciti di preti e suore lo
trovano piacevolissimo, ma i comuni peccatori non reagiscono in modo
adeguato. […]
Ci vediamo…
Ti amo…
jf

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
[agosto 1960]

Tesoro,
[…] Il lavoro procede. Sono a trentacinque pagine, ma vengono a fatica.
Sono davvero un po’ confuso circa la sceneggiatura in generale, ma per me
è naturale. Mentre vado avanti e mi guardo indietro, trovo precisione e
ordine.
L’uomo che nella vita reale era Navarra, re di Napoli, e sul quale si basa
questa sceneggiatura, è morto due giorni fa a Napoli. Avrei dovuto
incontrarlo là. Ieri, la redazione di «Oggi», la rivista italiana, mi ha chiesto
di scrivere un pezzo su Navarra e io ho dovuto declinare, perché di lui so
solo quello che è nella sceneggiatura. […]
Sai che ho fatto il bagno una volta sola da quando sono arrivato a Roma?
È stato al Residence Palace. Nell’appartamento a Giacinto Pezzana non
c’era acqua calda, cosí là non mi sono lavato. Poi abbiamo traslocato in
gran fretta, solo per scoprire che non c’è nemmeno qui. Ora la Signora 1 sta
facendo installare lo scaldabagno, e credo che oggi sarà pronto. Siamo tutti
e due luridi e appiccicosi. Quanto a lavarsi con l’acqua fredda, l’acqua
romana non si limita a essere fredda, è gelida, arriva da vasti fiumi che
scorrono in profondità sotto il Vaticano. Per radermi bollo l’acqua sul
fornello. Non è una cosa molto scomoda, però. Siamo ben trattati e curati.
La nostra biancheria, la tintoria eccetera, persino le nostre scarpe vengono
lustrate tutte le mattine. Per questo, pago quattro dollari la settimana.
Coletti è andato in Spagna, ma tornerà oggi e credo che ci sarà una
riunione. Si è portato Bandini con sé e forse avrò un resoconto anche di
quello. Un regista che conosco vuole fare San Giuseppe da Copertino in
Spagna. […]
jf

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
[21 agosto 1960]

Tesoro,
è domenica, 21 agosto. Le campane di San Pietro suonano da stamattina
e la gente, al novantanove per cento donne, sciamano nella strada quattro
piani sotto per andare a messa. Sono le nove e mezza e Nick dorme ancora.
[…]
Uno scrittore, Vitoriani Petrilli, che ha lavorato su questa sceneggiatura,
ha pranzato con me un paio di volte, tre volte, di fatto, e abbiamo
conversato lungamente dell’Italia e del cinema. Petrilli mi racconta cose
molto inquietanti.
Ci sono sei milioni di comunisti in Italia. L’intera industria del cinema,
con piccole eccezioni, è dell’intellighenzia rossa del tipo che prevaleva
anche a Hollywood. Si possono identificare facilmente perché dànno tutti
voce a cliché antiamericani. Il lavoro va a loro, e mantengono le cose come
stanno.
L’Italia, dice Vitoriani, oggi è una frontiera – e sotto la superficie ci sono
fermento e problemi. Comunque i poveri non sono rossi. Lui crede che la
religione qui sia morta, semplicemente, anche fra i poveri, si limitano a fare
finta, un’abitudine antica di dubbia consolazione.
Gli intellettuali sono come da noi. Ora scherniscono l’America, ma se
domani l’America prende posizione con fermezza contro i russi su
qualcosa, o se gli americani segnano una vittoria nella Guerra fredda, gli
stessi rossi improvvisamente cambiano posizione e si mettono a parlare
della loro devozione eterna agli Stati Uniti. Oscillano avanti e indietro,
senza principî, ipocriti, persi. Ovviamente tutti i finocchi sono rossi. […]
Ti amo…
jf

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
[forse 22 agosto 1960]

Tesoro,
oggi è lunedí e, maledizione, vorrei poter raccontare qualcosa di
eccitante. Sto macinando, ora ho sessanta pagine, ne mancano forse ancora
un altro centinaio. Sí, c’è qualcosa di eccitante, almeno dal mio punto di
vista.
Oggi Coletti è passato da qui per il suo (piú o meno) primo resoconto sui
progressi fatti, e gli ho mostrato una scena che avevo riscritto; era
completamente nuova, sostituiva del tutto quella che c’era già, ed era
piuttosto forte. Mentre la leggeva (o meglio, un interprete la leggeva per lui)
mi sono di colpo reso conto che era un errore grossolano mostrargliela – nel
caso non gli fosse piaciuta io avrei dovuto subire le sue obiezioni alle scene
seguenti. Puoi immaginare il mio sollievo quando ha detto che gli piaceva
moltissimo, e ha anche cominciato a parlare del casting! Ho cosí superato
un ostacolo enorme messo con le mie stesse mani sulla mia strada.
Credo che riuscirò a finire prima del termine delle dieci settimane, ma ho
come un presentimento che non me lo permetteranno. Si fa presto, sai:
suggerimenti per delle limature, piccole parti da riscrivere eccetera. […]

Martedí
Ieri sera a cena con Oppo ho conosciuto un giovane e brillante
scenografo italiano che chiamano il Grillo perché è magrissimo e si muove
con grande rapidità. Ha un hobby molto interessante: ruba nelle tombe
etrusche. Stasera Nick e io siamo invitati nel suo piccolo appartamento per
vedere una parte del suo bottino, cosucce (deve stare attento a causa del
governo) che ha prelevato. È in grado di capire dove sia una tomba dal
rilievo del terreno. Si chiama Giuliano e dice che troverà una ragazza per
Nick.
Tra l’altro, se non mi sentirai piú parlare di questo, la colpa è degli
italiani. Non sono affidabili, semplicemente. Prendono appuntamenti,
promettono, giurano, e non li senti piú. Mi è successo spesso nella mia
breve permanenza qui. Ma spero che funzioni.
Ora chiudo. Di’ ai bambini che la mia prossima lettera domani sarà per
loro.
Ti amo…
jf

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
Sabato 27 agosto 1960

Tesoro,
sono a pagina ottantasei – un po’ piú di metà. Ma mi aspettano delle
scene difficili. Credo che ci vorranno altre tre settimane. Comunque si dice
che io debba restare per qualche tempo mentre girano, cosa che non mi
attira molto. I soldi sí, però. Dovrò aspettare e vedere.
È sopraggiunta la solita noia. Diavolo, non faccio altro che lavorare fino
a buio, poi passeggio domandandomi cosa fare di me stesso. Nick e io di
solito ceniamo insieme. […]
Ti amo…
John

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
29 agosto 1960

Tesoro,
ho ora novantacinque pagine, ne mancano ancora cinquantacinque (piú o
meno). Ma mi sono lasciato alle spalle la parte difficile. Oggi ho scritto una
delle scene piú impegnative, e una volta finita ho tirato un sospiro di
sollievo. Adesso è solo questione di rifinire ciò che è già scritto.
Al momento c’è una faida in corso soprattutto con quel figlio di puttana
di Coletti. Mi ha telefonato sabato sera, dicendo che sarebbe venuto qui da
me alle dieci di domenica mattina. Non si è fatto vedere. Non ha nemmeno
avuto la decenza di chiamarmi per disdire, semplicemente non è apparso.
Mi ha reso furibondo, in particolare perché ho sentito dire che gli piace
vantarsi del suo comportamento scorretto con gli scrittori, mentre un De
Laurentiis lo fa tremare fin nelle midolla. È uno dei migliori esempi di
come la cosiddetta gente danarosa in Italia ami mostrare il proprio potere.
Se le cose andassero come vuole lui, tutti gli scrittori sarebbero niente di piú
che servi. Ma con me non ci riuscirà. Mollerò tutto e tornerò a casa prima di
lasciare che questa persona mi tiranneggi.
Domani mattina – martedí – incontrerò De Laurentiis per parlare del
materiale consegnato finora, cinquanta pagine, che ha detto essere di suo
gusto. […]
Ti amo,
jf

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
2 settembre 1960

Tesoro,
con oggi sono qui da un mese. Piú di cento pagine finite – nessuna delle
quali va a genio a qualcuno, credo. È una faccenda complicatissima. Devo
accorciare una sceneggiatura di duecentoventi pagine, quindi taglio
parecchio. Ora il regista crede che io abbia esagerato, e che non capisco i
napoletani. Forse. Ma non penso che siano cosí complicati come Coletti
ama credere, e invece li capisco, inoltre capisco anche troppo bene ciò che
fa una buona storia. Preoccupato? Onestamente non lo sono. L’intera
faccenda si aggiusterà poco per volta, con dei compromessi. […]
Il tuo affezionato schiavo,
Johnny

[A suo figlio]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
Domenica 4 settembre 1960

Caro Danny,
la tua lettera mi ha fatto moltissimo piacere. Grazie di aver trovato il
tempo per scrivere al tuo malandato vecchio. Hai scritto una lettera molto
bella, per inciso – pulita, affermazioni chiare, diretta e precisa. Forse anche
tu sei uno scrittore, come me. Pensaci… […]
Io continuo a lavorare, ma è piú o meno tutto quello che faccio. Non mi
ficco nei guai, né mi ubriaco, né butto via la grana. Detesto dirlo, ma mi sto
irrigidendo come tutti i vecchi stupidi. Vedo una quantità di tipe che mi
piacerebbe portare a letto, ma è qualcosa che mi attraversa la mente come
un sogno che passa poi in fretta. Gli preferisco la mamma. […]
Tantissimo amore…
Papà

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
8 settembre 1960

Tesoro,
ora che Joe Petrak è qui la vita è divertentissima. Siamo sempre in giro, e
quando lavoro Joe e Nick se la svignano. […]
De Laurentiis mi ha offerto un altro progetto, e sto pensando che potrei
accettarlo se lui provvedesse alle spese di viaggio e di alloggio per te e la
famiglia. Significherebbe che tu dovresti trovare qualcuno che venga a
vivere in casa nostra, pagando o no l’affitto. Quanto ai bambini, potrebbero
portarsi i libri e tu potresti impegnarti con monsignor Falvey per farli
studiare fino al nostro ritorno, in modo da non farli rimanere indietro.
Quanto a Dan potrebbe iscriversi a una scuola americana qui, ce ne sono
svariate… questi sono pensieri miei in libertà e potrebbero essere poco
pratici, ma fa parte della mia natura amare ciò che è poco pratico… […]
Ti amo,
Don Giovanni

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
13 settembre 1960

Tesoro,
ho cominciato un’altra stesura della sceneggiatura. Non è cosí male
come sembra. Sono andato avanti fino a pagina centocinquanta che è quasi
la fine – quindi questa nuova stesura si avvicina a quella finale almeno per
quanto è possibile nei film italiani.
Non ho idea di quanto mi ci vorrà. Dio sa come vorrei essermi lasciato
tutto alle spalle. Non che la vita a Roma sia cosí male; è piuttosto piacevole,
in realtà, e la presenza di Nick mi aiuta molto, ma non è casa, non è Malibu
e la mia famiglia.
Il 19 settembre andrò a Napoli per vedere la cerimonia della liquefazione
del sangue di san Gennaro, che è una parte integrante della nostra storia.
Spero di portare Nick con me. […]
Tutto il mio amore…
jf
[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
20 settembre [1960]

Tesoro,
ho starnutito – di notte – a letto, mentre pensavo: O mare distante e
remoto, verde spinacio, e gialle colline alle mie spalle, dov’è la nebbia
mattutina e il caffè tanto buono da farmi levare dal letto-ventre dove riposa
mia moglie? […]
La storia procede bene, anche se lentamente. Sarà finita fra due
settimane, piú o meno, con questa stesura. E dopo… cambiamenti, ma non
molti… forse un’altra settimana. Oggi Coletti mi ha offerto un altro incarico
– come ha fatto già De Laurentiis – quindi il futuro è aperto. Potrei chiedere
un contratto per un anno che includa i trasferimenti per l’intera famiglia piú
un salario di quattrocento dollari settimanali – e ottenerlo. Qui potremmo
vivere benissimo con centocinquanta dollari la settimana. Se dovessi
rimanere per diciotto mesi non dovrei pagare le tasse americane e solo il
venti per cento di quelle italiane. Con millecinquecento dollari la settimana
significherebbe al netto la cifra di…? […]
Ti amo,
jf

[A Joyce Fante]
22 settembre 1960

Tesoro,
[…] A questo punto è inutile che facciamo dei piani per farti venire. Non
ci si può fidare di questa gente, semplicemente; un giorno è tarallucci e vino
e offerte da capogiro, il giorno dopo non ricordano nemmeno una parola di
quanto hanno detto. Oggi mi sento molto giú e non voglio pensare a nessun
prolungamento della mia permanenza qui. Il lavoro progredisce, ma io mi
esaurisco. Finirò in tempo, ovvero allo scadere delle dieci settimane. Ma ciò
che è in progetto per dopo resta tutto da vedersi. Voglio tantissimo scrivere
un libro, tornare a casa e scriverlo.
La mia indolenza è dovuta anche al cibo. Qui è difficilissimo mangiare
bene. Mettono l’olio di soppiatto in quello che stai mangiando, non
capiscono come se ne possa fare a meno e cercano di dimostrare che hai
torto.
Non hai idea di quante volte mi trovo il caffè zuccherato secondo il gusto
del cameriere. Fanno a modo loro, semplicemente. Devi stare di guardia alla
tua minestra come un poliziotto, se no un cameriere ti carica e la annega nel
formaggio. […]
Tanto amore
jf

[Al figlio]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
24 settembre 1960

Caro Danny,
[…] La scuola come va? Spero che tu stia attento quando guidi. Come
sai, non lo si è mai abbastanza, e anche i migliori automobilisti si mettono
nei pasticci con le guardie.
Il traffico qui, comunque, è una disgrazia nazionale. Le strade sono
inondate di sangue, semplicemente, mentre questi folli italiani si uccidono a
vicenda in quelle micidiali piccole Fiat. Gli automobilisti disprezzano i
pedoni e (senza scherzi) adorano piombare su un incrocio affollato e far sí
che la gente scappi via. Resti fra noi, Danny, il carattere italiano viene fuori
per intero in questo problema del traffico. Sono egoisti, cafoni, vani e
stupidi. Per quello che mi riguarda questa è un’analisi onesta di tutta la
nazione. E per dare un tocco finale, sono farabutti, ladri, malversatori,
bugiardi e truffatori. Mi dànno la nausea. Sii contento del tuo lato tedesco e
inglese. E soprattutto sii contento di essere americano. Per quanto riguarda
me, vorrei essere un Ubangi con un osso nel naso.
Ma credo che sia cosí a Roma, città di ladri, e che in provincia sia
diverso. Mi dicono che gli abruzzesi siano persone molto per bene. […]
Addio, ragazzo mio, e abbi cura della mamma anche da parte mia.
Tanto amore…
Papà

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
1º ottobre [1960]

Tesoro,
[…] Sono d’accordo con te che essere un salariato è scoraggiante.
Sembra cosí stupido venire da tanto lontano e condurre una strana esistenza
fra strana gente, lavorando su una stupida sceneggiatura, tutto per cento
schifosissimi dollari in piú di quanto avevamo a luglio… Avrei potuto
restarmene a casa e guadagnare di piú, scrivendo per la televisione.
Il mio agente è un asino e un coglione. Avrebbe potuto organizzare le
cose per me in modo da farmi avere come salario solo settecento dollari la
settimana, e per le spese altri settecento dollari, cosí che le mie tasse italiane
sarebbero state la metà, dal momento che ciò che si spende per vivere non è
tassabile. Ma naturalmente l’agenzia è interessata solo alle commissioni sul
lordo, e mi ha incastrato in un pessimo affare. Con Richard Egan però non
l’ha fatto. Egan prendeva circa mille dollari alla settimana per le spese, che
non sono tassabili.
Sono a pagina centotrentatre. Ancora quindici pagine circa. Non è stata
facile, questa sceneggiatura. Certe cose che vogliono alla fine rendono
necessari dei cambiamenti fin dalla prima pagina per imbastire le
motivazioni alla stupidità delle ultime scene.
Non so cosa fare quando comincerà la nuova stesura. Non posso
tirarmene fuori e perdere il posto nei credits. Né ho idea (cosí come non ce
l’ha nessuno scrittore in Italia) di chi mi potrebbe seguire ora come ora, se
anche ci fosse qualcuno.
Se tu potessi affittare casa nostra…
Se io ottenessi un contratto soddisfacente…
Se tu potessi trovare una sistemazione per Danny…
Se tu potessi decidere cos’è meglio per Nick…
Se i nostri figli potessero adattarsi a Roma…
Se tutte queste cose… allora direi sí, andiamo a vivere in Europa per
diciotto mesi, perché credo che cosí potremmo mettere da parte
settantacinquemila dollari… sto solo facendo ipotesi. Pensaci. So che a te
qui piacerebbe moltissimo. Ma che ti assuma il compito di riorganizzare la
tua vita e l’orrenda responsabilità di casa nostra e degli animali è chiedere
troppo.
Tanto amore…
jf

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
7 ottobre 1960

Tesoro,
bene, sono finalmente arrivato in fondo alla prima stesura. Finita ieri alle
4 di pomeriggio (giovedí). De Laurentiis parte domani per New York, starà
via quattro giorni, e quando torna dovrò ultimare delle revisioni di poco
conto. Poi avrò finito con tutto ciò, una buona volta e per sempre.
La sceneggiatura è venuta fuori piuttosto buona, credo. A Coletti piace
molto. Ora vuole che ne scriva un’altra. Ieri De Laurentiis mi ha parlato, e
vuole che io ne scriva altre due per lui. Hugo Fregonese è in città, e vuole
che scriva una sceneggiatura per il suo produttore.
Il mio contratto termina l’11 ottobre, piú o meno il giorno in cui riceverai
questa lettera. Fare le valigie e andare via, abbandonando questa gente con i
suoi suggerimenti per i cambiamenti sulla sceneggiatura, non sarebbe leale.
Credo che sarà un film importante, uno che alla lunga mi farà guadagnare
molto.
Le complessità dello scrivere sceneggiature oggi, con il declino della
produzione a Hollywood e il vantaggio che ne risulta per l’Europa, sono
quasi troppe per poterci pensare. È un problema che mi ronza
continuamente in testa, mentre provo a fissare qualche obiettivo, qualche
piano che possa riunire la famiglia e il lavoro.
Credo che potrò organizzarmi una base operativa che renderà possibile
per me lavorare a casa, e tenere degli incontri a New York. Ma non c’è il
minimo dubbio che, per l’istruzione dei nostri figli, abbiamo un’occasione
d’oro di vivere in Europa e metterli di fronte alle meraviglie del pianeta che
occuperanno per pochissimi anni. Non sto facendo il sentimentale; mi
sembrerebbe solo giusto farlo, potendo.
Quando pensi alla folla miserrima dei ragazzi e delle ragazze che
frequentano i nostri figli, il fatto che la loro istruzione è ridotta a essere un
programma per ammazzare il tempo in pessime scuole, l’indifferenza, la
trascuratezza delle loro vite, il tuo essere incarcerato mentre sei lí
impotente, incapace di fare di piú che fargli indossare abiti puliti… quando
pensi a tutto ciò, il futuro non sembra molto gratificante, e il presente è una
noia.
Ma la trappola è scattata e noi ci siamo dentro, tu con il tuo lavoro e io
con il mio. Qui in Italia si dice che l’America è la terra delle donne e dei
bambini e hanno ragione, ovviamente.
Quindi colli chini sotto il giogo, macinando sigarette e macchine e
giradischi per una progenie che non ci chiede altro se non le nostre vite.
[…]
Ti amo…
John S. (schiavo) Fante

[A Joyce Fante]
[Via Rusticucci 14,
Roma]
12 ottobre [1960]

Tesoro,
sembra che manchino al massimo altre due settimane. Ho finito le due
stesure e ora aspetto il ritorno di De Laurentiis da New York. Ci
incontreremo sabato mattina per parlare dei cambiamenti che ha suggerito.
C’è un notevole disaccordo fra Coletti, a cui piace la mia stesura, e De
Laurentiis, che, sebbene l’apprezzi, vuole fare dei grossi tagli. Non so cosa
risulterà da tutto questo, e non potrebbe importarmi di meno.
Lunedí stavo quasi per tornare a casa. Prima di partire per New York, De
Laurentiis mi ha fatto sapere, attraverso la segretaria, che il mio salario
sarebbe stato sospeso fino al suo ritorno. Ho subito cercato un aereo per
andarmene. La segretaria allora ha telegrafato a New York, e De Laurentiis
ha telegrafato in risposta che dovevo continuare a percepire il salario.
Oggi ho pranzato con Spyros Skouras jr e Mike Curtiz, il regista del film
Francesco d’Assisi. Mi avevano dato le loro sceneggiature la sera prima, da
leggere, per dare suggerimenti. Durante un pranzo piacevole, Curtiz mi ha
chiesto di riscrivere una piccola scena – due pagine, di fatto. Sono tornato a
casa e l’ho fatto immediatamente. Mi daranno trecentocinquanta dollari per
questo. Non male per un’ora di lavoro.
A Roma sta cominciando a fare freddo. Piove per un’ora circa ogni
giorno e io non ho impermeabile – ma mi sono infilato in una trattoria
durante la spruzzata e sono rimasto asciutto. Da quando non bevo piú vino,
mi sento molto bene. La scorsa settimana per un po’ di tempo ho scoperto
che avevo lo zucchero leggermente alto ma senza vino tutto si normalizza.
Quando tornerò è probabile che porti con me un incarico da scrivere a
casa. Mike Curtiz mi dice che la situazione a Hollywood fa semplicemente
schifo.
Tutto il mio amore, e di’ a quel cagnetto di non andarsene in giro, ma di
andare via!
J. F.

Un biglietto senza data in copia carbone della


seguente lettera di Fante può essere decifrato cosí:

[Alan B. Abrutyn, a John Fante]

Caro signore,
molti anni fa (venti?) ho letto sull’«Encore Magazine» il capitolo di un
suo libro – o forse era solo un articolo autobiografico. Trattava della
discriminazione contro persone di discendenza italiana e il suo esserne fatto
segno durante un provino per una squadra di football quando era
adolescente. Potrebbe per favore darmi dei riferimenti per quest’articolo o
libro?
Molte grazie.
Alan B. Abrutyn

Il racconto cui si riferisce il dottor Abrutyn è


«L’odissea di un wop», pubblicato sull’«American
Mercury» nel 1933 e ristampato in «Dago Red» e
«La grande fame».

[Ad Alan B. Abrutyn]


[28981 W Cliffside Dr.,
Malibu n. 4, California]
2 novembre 1960

Caro dottor Abrutyn,


la sua lettera mi ha seguito fino a Roma e ritorno, mi dovrà quindi
scusare per il ritardo nel risponderle.
La sua grafia è senza dubbio la peggiore in cui mi sia imbattuto in vita
mia e dopo averla letta e riletta con grande attenzione sono giunto alla
conclusione che lei desidera sapere se un mio pezzo apparso sulla rivista
«Encore» sia mai stato incluso in un libro.
Tuttavia non ne sono sicurissimo. Ecco come ho letto la sua lettera:
Dur Sir,
muny yeais I renl im «Encore Magatine» a chuber fian a boul af yous – a
perhep it wus just am autsliograpuul actull. I denet c discumniupion aguuist
pernail uf ituliun descent and you exposure to piss during a football myact
as a teenuge. Cured you pleue refy me to Mis arbiue a look.
Bruny prunk
Alur B Whulr 2
1
In italiano nel testo [N.d.T.].
2
«Dear Sir, many years (20?) I red in «Encore Magazine» a chapter
from a book of yours – or perhaps it was just an autobiographical article. It
dealt with discrimination against persons of Italian descendent and your
exposure to this during a football tryout as teenager. Could you please refer
me to this article or book. Many Thanks. Alan B. Abrutyn»
1961-81

Durante gli anni Sessanta, Fante ebbe molto


successo come sceneggiatore e scrittore di soggetti a
Hollywood, ottenendo ottime paghe, anche se
nessuno dei film ai quali lavorò – con l’eccezione di
«Piena di vita» del 1957 – rappresentò per lui una
fonte di orgoglio o di piacere. Oltre a «Anime
sporche» e «Cronache di un convento» già
menzionati (entrambi distribuiti nel 1962), in questi
anni vennero distribuiti anche «I miei sei amori»
(1963), «Maya» (1966), e un film per la televisione,
«Something for a Lonely Man» (1968). Senza dubbio
lavorò anche ad altri progetti che non vennero mai
realizzati. Verso la fine degli anni Sessanta,
comunque, la carriera nel cinema di Fante era
essenzialmente conclusa. Il clima della vita familiare
di questo periodo, con la sua confusione e le
ribellioni delle nuove generazioni, è presente nel
racconto lungo «Il mio cane Stupido», terminato nel
1971 e incluso in «A ovest di Roma» (1986).
Negli anni Settanta, invecchiato e malato, Fante
fu comunque in grado di tornare finalmente al lavoro
che aveva scelto, ovvero scrivere narrativa. Nel 1974
lavorava a «La confraternita dell’uva», pubblicato
poi nel 1977. In quell’anno subí la prima
amputazione a una gamba, e un anno dopo divenne
cieco. Nonostante tutto continuò, dettando alla
moglie, a lavorare come scrittore, e terminò «Sogni
di Bunker Hill», pubblicato nel 1982. In questo, come
in «1933. Un anno terribile», il libro che era stato
messo da parte nel 1954 e finito qualche tempo dopo
negli anni Cinquanta o Sessanta, ritornò ancora una
volta sull’argomento della Depressione negli anni
Trenta.
Abbiamo solo alcune lettere sparse che risalgono
agli ultimi decenni di vita di Fante, e tutte meno una
sono indirizzate al suo vecchio amico Carey
McWilliams. Queste includono una serie di preziose
lettere che Fante scrive a una ricercatrice. Nelle
lettere di questi anni cogliamo le caratteristiche di
Fante vivide come sempre, e notiamo anche il suo
coraggioso atteggiamento di fronte alla malattia, con
l’unica eccezione di un breve biglietto di lacrimosa
autocommiserazione.
Tutte le restanti lettere sono spedite dall’indirizzo
della casa di Fante a Malibu.
Il numero per il centenario di «The Nation» è
datato 20 settembre 1965.

[A Carey McWilliams]
27 ottobre 1965

Caro Carey,
il numero per il centenario di «The Nation» era meraviglioso.
Congratulazioni!
Devo però anche dire, vecchio mio, che il tuo articolo mi ha lasciato un
po’ dubbioso. Va bene che tu sulla carta sostenga di essere contento di
essere andato in quel posto sinistro dove ora risiedi, io ti dico invece che il
tuo posto nel tempo e nella storia oggi è Los Angeles e l’Ovest.
Noi stiamo bene per quanto questo è possibile per una famiglia che vive
in una casa su un albero accanto alla bocca di un vulcano attivo. […]
Scrivo ancora film. Sono fuggito dalla tv, ma tutti i miei amici ne sono
stati risucchiati, incluso Fenton, che al momento siede ubriaco fradicio alla
sua macchina da scrivere e macina roba.
I miei migliori saluti,
John Fante

Nel gennaio 1971 Fante mandò il manoscritto di


«Il mio cane Stupido» a McWilliams, il quale lo inviò
a Richard Seaver alla Grove Press. Fu poi pubblicato
in «A ovest di Roma» nel 1986.
[A Carey McWilliams]
1º febbraio 1971

Caro Carey,
ti ricordi, in In cerca di guai, quella stupida lettera scritta a Horace
Greeley? Ogni volta che Greeley la leggeva tirava fuori un’interpretazione
diversa, fino a quando non ha piú avuto senso…
Ho la stessa sensazione nei confronti della tua lettera circa il mio
romanzo. Non so se il libro ti sia piaciuto o no. Credo che tu vuoi che ti
piaccia, ma hai delle riserve. Che va benissimo. Anche per me è cosí. Certe
volte si legge come un sogno. E alle volte mi fa assolutamente disperare.
Sono certo però che sarà un libro di grande successo. […]
I miei migliori saluti a te e a Iris.
Omaggi,
John Fante

[A Carey McWilliams]
21 aprile 1971

Caro Carey,
il rifiuto da parte della Grove Press è una pessima notizia, ovviamente,
ma non sono scoraggiato. Da qualche parte, in quella giungla di editori, il
mio libro certamente troverà una casa. Ho finito le revisioni suggerite da
Little, Brown, e ora il manoscritto è di nuovo nell’ufficio di Ned Bradford.
[…]
Grazie mille per il tuo aiuto con il libro.
Sinceramente,
John Fante

Nel gennaio del 1972 una ricercatrice


universitaria che raccoglieva del materiale per uno
schizzo biografico su Fante scrisse a McWilliams per
avere informazioni; a sua volta McWilliams scrisse a
Fante per sapere se approvava il progetto. «Vuoi che
io cooperi; se è cosí, fino a che punto e a che
livello?», domandò, proseguendo: «Devo raccontarle
della totale desolazione che hai sparso fra le giovani
signore da Roseville a Calexico? Le devo dire di tutti
i posti che abbiamo visitato insieme e in quali
condizioni eravamo quando facevamo quelle gite?
Per favore, consigliami. Ricordati, nonostante i miei
anni, che ho una memoria quasi perfetta!» Segue la
risposta divertente ed equivoca di Fante.
«The Musso & Frank Grill» è un ristorante di
Hollywood.

[A Carey McWilliams]
8 febbraio 1972

Caro Carey,
Marilyn Murphy-Plittman è alla ricerca di fatti autentici che riguardano
la mia vita, e ogni reticenza da parte tua si rivelerebbe alla lunga
imbarazzante. Non mi risparmiare, nel modo piú assoluto, e lascia che
succeda quello che deve succedere.
Comunque…
Preferisco che tu non nomini Roseville, né il fatto che io conosca le
famiglie Smart o Dornfeld.
Credo anch’io che tu debba essere molto attento a non parlare di nessuna
relazione troppo profonda o duratura fra me e te, perché, come tutti sanno,
sei un membro del Partito comunista e la mia reputazione potrebbe esserne
macchiata.
Preferirei che tu non parlassi della mia amicizia con Ross Wills. Quella è
un’epoca buia e vergognosa della mia vita che può aggiungere molto poco
alle mie qualità di scrittore.
Evita anche ogni riferimento a Jo Pagano, Frank Fenton, Bob Brownell,
Helen Purcell, Marie Baray, Jean Winfield, e insomma tutti i fatti che
avevano a che fare con la mia vita a Bunker Hill. Preferisco pure che
Stanley Rose e William Saroyan non vengano nominati in connessione con
me.
Non nominare William Faulkner né Edmond Kohn. Credo anche che
qualsiasi riferimento al Musso & Frank sarebbe di pessimo gusto.
Nella tua lettera parli di «tutti i posti dove siamo stati insieme», ma sul
mio onore non riesco a ricordarli, e sono convinto che ti riferisci a qualcun
altro.
La signora Murphy-Plittman probabilmente ti chiederà di Camilla,
l’eroina di Chiedi alla polvere. Preferisco che si parli di lei come di un
personaggio puramente immaginario e non come di una persona reale.
Per il resto, fai in modo che lei sappia assolutamente tutta la verità, spara
a zero. Non ho nulla da nascondere.
Il tuo amico
[non firmata]

La signora Murphy-Plittman scrisse a McWilliams


che era «particolarmente interessata all’esperienza
di immigrante», e fa delle speculazioni: «Per
esempio, sembra essere soprattutto deluso. Ha
lavorato duramente per diventare “americano”,
[uno] status che doveva essere suo al momento della
nascita. Ora è un “america[no]” ma considera ciò
come una vittoria priva di significato. Vorrebbe
vivere altrove, i legami familiari e una scarsità di
risorse però lo tiene [sic!] qui. Sto tralasciando
qualcosa nell’analisi?» Aggiunge inoltre: «Mi
sembra che egli abbia smesso di scrivere seriamente
non solo perché dopo “Full of Life” aveva la
possibilità di guadagnare moltissimi soldi lavorando
per il cinema, non solo perché la sua famiglia
aumentava, ma perché la morte del padre lo lasciò
senza le difese che aveva usato in precedenza e che
servivano a trattenerlo dal soccombere del tutto alla
tentazione del denaro». McWilliams rispose
generosamente a queste domande con una lunga
lettera, riprodotta di seguito, e ne mandò una copia a
Fante assieme a una copia della lettera con le
domande. A sua volta Fante commenta con forza, per
non dire con risentimento.
Joyce Fante chiosa cosí la lettera seguente:
«McWilliams si sbaglia nel ricordare che “Chiedi
alla polvere” era stato scritto mentre Fante era a
Bunker Hill. Potrebbe essersi generata della
confusione perché “Chiedi alla polvere” era stato
ambientato a Bunker Hill. Di fatto venne scritto nel
1938-39. A parte questo i commenti che McWilliams
fa su Fante sono quasi tutti molto acuti. Egli dice che
la documentazione dimostra che i periodi in cui era
piú produttivo erano quelli di minor prosperità.
Vero». Ma, aggiunge: «Non capisco quella strana
osservazione su Fante in quanto essenzialmente
scrittore pre Seconda guerra mondiale. È offensivo e
non vero. Nonostante la profonda amicizia che
esisteva fra i due uomini, McWilliams sembra aver
sottovalutato Fante in quanto romanziere».

[Carey McWilliams a Marilyn Murphy-Plittman]


Signora Marilyn Murphy-Plittman
615 Larkspur
Corona del Mar, California 92625
18 febbraio 1972

Cara signora Murphy-Plittman,


[…] Prima di tutto, ho sempre considerato Fante come uno scrittore di
enorme talento. Direi infatti che il dono per la scrittura che ha dalla nascita
è piú grande di quello di tutti gli altri scrittori che abbia mai conosciuto.
Con questo voglio dire che lui non ha mai, per quello che ne so, studiato la
scrittura come se fosse un mestiere, immergendosi in quei tomi pesantissimi
di Warren e Brooks e non seguendo mai un corso su come scrivere un
romanzo o un racconto. Ha coltivato il suo talento, senza dubbio, ma
l’aveva fin dalla nascita. Non è quel tipo di scrittore che può sedersi e,
consciamente, «costruire» della narrativa. C’è molto di John Fante in ogni
cosa che ha scritto.
Quello che lei dice circa il presente atteggiamento che ha verso il suo
lavoro è interessante, e dovrebbe essere preso abbastanza seriamente;
dopotutto, chi può saperne di piú di queste cose se non l’autore stesso? E
ovviamente mi rendo conto che l’appartenere a una minoranza etnica, in
particolare alla «nuova minoranza etnica» che presto diverrà la «nuovissima
minoranza etnica», è la corrente mania degli intellettuali. Si stanno ora
interpretando tutti i tipi di problemi alla luce di questo nuovo canone. Io
però ho qualche dubbio sul fatto che le differenze etniche siano cosí
importanti come la moda corrente le fa passare. (Per inciso, nel caso in cui
lei non lo conosca, potrebbe interessarle dare un’occhiata al libro di
Alexander De Conde Half Bitter, Half Sweet, sugli italoamericani,
pubblicato da «Scribner’s» nel 1971. Giovanni Fante viene menzionato a
pagina 382). La mia opinione, per quello che può valere, è che John è
americano quanto Huckleberry Finn.
Cercando delle risposte alle sue domande, sarei incline a dare maggiore
enfasi a fattori che non siano correlati al suo background, ai suoi sentimenti
verso il padre né ad altre considerazioni di questo genere. Per esempio,
credo che la documentazione dimostri che i periodi in cui è stato piú
produttivo erano quelli di minor prosperità. Per come ricordo io, i libri, o
almeno la maggior parte di essi, sono arrivati in un’unica ondata: Aspetta
primavera, Bandini (1938), Chiedi alla polvere (1939), Dago Red (1940).
In quegli anni era ovviamente produttivo. Non ricordo infatti che abbia
scritto con maggior diligenza o soddisfazione di quando lavorava a Chiedi
alla polvere, che io ritengo anche essere il suo libro piú bello. In quel
periodo viveva in una camera ammobiliata su Bunker Hill e dire che era a
corto di fondi sarebbe un clamoroso eufemismo. Ma anche cosí si divertiva
e il fatto che le sue tasche fossero vuote non sembrava infastidirlo. John Jay
Chapman una volta disse di Walt Whitman che mangiava poco e male ma
che camminava per la Terra in trionfo, ovvero piú o meno l’atteggiamento
di John in quel tempo.
Ci sono scrittori e scrittori e non ce ne sono due uguali. Ne conosco
alcuni che hanno piuttosto successo e che sono notevolmente zelanti nella
loro professione, che sono in grado di mantenere un orario regolare per la
scrittura giorno dopo giorno, settimana dopo settimana nonostante non
siano sotto pressione per quello che riguarda il denaro. Vedi, per esempio,
l’articolo su un numero recente della rivista «New York Times» di Jeff
Greenfield su Arthur Miller. Matthew Josephson, un altro amico, è sempre
stato in grado di mantenere simili orari. Alcuni dei suoi libri hanno venduto
moltissimo, altri meno, ma una stagione dopo l’altra Matty è rimasto alla
sua macchina da scrivere. Ci sono altri scrittori però che dànno il meglio di
sé sotto pressione. Non intendo dire che gli scrittori di quel genere debbano
morire di fame per mettersi a scrivere né che scrivono solo se hanno fame e
hanno bisogno di soldi. È piú complesso di cosí. Una certa misura di
ricchezza ingombra le loro vite, li devia dal loro lavoro, e crea loro ogni
genere di piccole difficoltà. Ciò può in parte essere dovuto al fatto che gli
scrittori di questo tipo hanno un certo gusto per la vita e la gioia di vivere.
Questi tipi sono naturalmente inclini a marinare la scuola ogni volta che
possono e ci vuole pochissimo a farli alzare dal loro banco. Non ho mai
dovuto forzare molto la mano di John per indurlo a seguirmi a qualche
festa. Ama la vita – almeno prima era cosí – piú di chiunque io abbia mai
conosciuto.
Scrivere sceneggiature per il cinema è, senza dubbio, un lavoro duro che
richiede impegno, ma il «denaro facile» o il «denaro a palate» che se ne
ricava alle volte può avere un’influenza dannosa sulla vita di uno scrittore.
E non è solo una questione di denaro; comporta un modo di vivere, sono
sottolineati certi valori, si stabilisce una maniera di vedere le cose. Se lavori
nell’industria del cinema come scrittore, necessariamente tendi a vivere in
quel mondo. Frank Fenton, un amico di John e mio, si pavoneggiava
dicendo che non era andato a ovest di Western Avenue per un anno intero,
una volta. Forse perché io sono un tipo austero e calvinista, come le dirà
John, imbevuto di etica protestante e cose del genere, credevo che alcuni dei
suoi amici e conoscenti di Hollywood avessero una cattiva influenza su di
lui anche solo nel senso che non lo incoraggiavano a sviluppare il suo
talento. Ci sono anche stati degli scrittori che sono fioriti nell’ambiente di
Hollywood, ovvero che hanno continuato a scrivere libri, racconti e
commedie cosí come sceneggiature e trattamenti per il cinema. Alcuni
hanno beneficiato tecnicamente della loro esperienza di lavoro in
quell’industria, apprendendo come muoversi nella narrativa e come
affilarne l’impatto. Probabilmente però questi sono casi speciali. Un grande
scrittore – Faulkner, per esempio – deve aver guadagnato tantissimi soldi a
Hollywood, ma vi rimase per dei periodi piuttosto brevi tornando poi
sempre in Mississippi.
Noterà che Frank Fenton, assolutamente privo del talento di John, ma
tutto sommato anche lui un bravo scrittore, ha pubblicato, credo, un
romanzo da quando ha iniziato a lavorare per quell’industria. E potrei citare
molti altri casi simili. Potrebbe sembrare strano che io sottolinei questa cosa
dal momento che ne sono largamente responsabile, suppongo, per aver fatto
sí che John venisse coinvolto nel cinema, presentandolo a Ross Wills.
Vorrei anche sottolineare che molti fattori – personali, sociali, politici
eccetera – hanno qualcosa a che fare con le domande del genere di quelle
che fa lei. Da quello che abbiamo di lui, per esempio, John può sembrare
come uno scrittore da pre Seconda guerra mondiale. Forse è stato difficile
per lui affrontare un mondo come quello che emerse dopo la guerra. Se
fosse cosí non sarebbe l’unico scrittore ad avere quella difficoltà. Mi
vengono in mente molti altri fattori, alcuni assolutamente piú piccoli e di
rilevanza marginale. Per esempio, io ho lasciato la California nel 1951 e
non sono piú stato in grado di fare fronte al compito di mantenere il mio
amico ragionevolmente sobrio, lontano dalle corse, sedute di poker, fumerie
d’oppio e postacci del genere, tenendolo confinato alla casa e al focolare,
dedito allo studio e ad andare abitualmente a messa. Negli anni in cui ci
frequentavamo con regolarità io ero per lui uno splendido esempio – lui
ovviamente lo negherà con forza – di una vita pulita, di alti pensieri e di
guida sicura…
In ogni caso, buona fortuna con i suoi studi. […]
Carey McWilliams

[A Carey McWilliams]
23 marzo 1972

Caro Carey,
la tua lettera alla signora Murphy-Plittman del 18 febbraio è interessante,
informativa e forse anche vera. Mi è piaciuta molto. Il tipo di cui scrivi è
una rarità. Mi piacerebbe incontrarlo una volta, ma non credo che vorrei
conoscerlo intimamente.
Un fatto curioso circa i biografi degli scrittori è che resistono con
testardaggine alla verità. Non includo necessariamente anche te, ma la
Murphy-Plittman è un buon esempio di biografo che porta i paraocchi
mentre galoppa verso il traguardo. Per esempio, vengo sempre accusato di
tralasciare la mia scrittura per il luccichio e l’oro di Hollywood. Nessuno
fra quelli che scrivono la mia vita o ci riflettono sopra si preoccupa di
considerare il crudo fatto che io avevo una famiglia da mantenere, che
c’erano di mezzo quattro figli, una moglie e una casa. L’aver lavorato come
sceneggiatore viene visto come se avessi avuto un attacco di scolo. Se
invece avessi fatto il benzinaio, o il muratore, il fascino che ne sarebbe
risultato mi avrebbe reso immortale. Ma in fondo chi se ne frega? Scrivere è
come una malattia di questi tempi. Ora sono quasi tutti in grado di
esprimersi, e la cacofonia che ne risulta è assordante. La Murphy-Plittman
ne è un esempio. È di una noia mortale.
Quanto ai narratori, James T. Farrell ha scritto il suo primo racconto nel
1932, apparso sul «Mercury», nello stesso numero che conteneva il mio
primo racconto. Per quarant’anni Farrell ha riscritto quel racconto con
variazioni che sono diventate dei romanzi. Ce ne devono essere almeno
trenta, se non di piú. Nominami un uomo al mondo che abbia letto un
romanzo di Farrell dall’inizio alla fine.
Ho scritto Bandini perché era un foruncolo che andava inciso. La
maggior parte dei miei racconti erano foruncoli piú piccoli. Chiedi alla
polvere era un foruncolo che faceva male. Doveva essere fatto sanguinare e
pulito. Full of Life è stato scritto per soldi. Non è un romanzo molto bello. Il
mio cane Stupido è un altro foruncolo. L’ho inciso. Sto lavorando a The
Last Supper. Per soldi. Mi annoia. Mi ci metto solo di tanto in tanto.
Il mio amico Saroyan. Per Bill non ci sono foruncoli. Ha pubblicato
cinquanta libri. Ha la diarrea. La cacarella. Cacarella letteraria. È
un’assurdità. Nessuno ha tanto da dire.
Per inciso, nella tua lettera alla Murphy-Plittman dici che Faulkner «deve
aver guadagnato tantissimi soldi a Hollywood». Non potrebbe esserci nulla
di piú distante dalla realtà: ha guadagnato maledettamente pochi soldi in
città per la semplice ragione che era un noto alcolizzato e che i dirigenti
temevano non avrebbe consegnato il lavoro. Nel 1943 o ’44 lavoravo alla
Warner nello stesso periodo in cui ci lavorava Faulkner. Il mio salario era di
quattrocentocinquanta dollari la settimana. Ci crederesti che Faulkner ne
guadagnava solo duecentocinquanta? E che Jack Warner aggiungeva una
clausola al suo contratto che stabiliva che la collaborazione di Faulkner non
era richiesta se si fosse presentato al lavoro in stato di ubriachezza?
Faulkner ha potuto lavorare a Hollywood solo attraverso i buoni uffici del
suo amico Howard Hawks. Le sue sceneggiature erano lunghissime,
arrivavano a trecento pagine, in realtà un’estensione della sua tecnica di
romanziere. Hawks le vagliava per trovarci delle perle, ma Faulkner era
irremovibile dal suo disprezzo per la tecnica di scrittura delle sceneggiature.
Dubito pure che si sia mai preoccupato di leggere una sceneggiatura che
non fosse stata scritta da lui. Probabilmente era bravissimo a scriverle, ma
che si può fare quando il capo è Jack Warner?
La tua lettera alla Plittman è generosa, profonda, calda, gentile, onesta ed
essenzialmente vera, un bell’equilibrio fra affetto e onestà, e ti ringrazio per
averla scritta. […]
I miei migliori saluti,
John

Carlos Bulosan era un autore americano di


origini filippine. Il suo memoir «America Is in the
Heart: A Personal History», venne pubblicato per la
prima volta nel 1946.

[A Carey McWilliams]
6 aprile 1974

Caro Carey,
l’University of Washington Press mi ha mandato America Is in the Heart
di Bulosan, in formato tascabile, e anche se non mi sono addentrato nel
testo, ho letto la tua introduzione, e voglio dirti, vecchio mio, che è scritta
benissimo – calda, meravigliosa, compassionevole e profondamente
commovente. Il tuo ultimo paragrafo possiede l’emozionante eloquenza
della scrittura che dovrebbe essere messa in musica. È splendida e non sarà
mai dimenticata. Penso sempre al tuo lavoro in termini di tecnica, di talento
nel raccogliere i fatti ed esporli con l’abilità di una mente critica che non
viene gabbata facilmente. Ma stai cambiando. Sei meglio che mai. Dovresti
scrivere come Walt Whitman. C’è la cadenza, la passione per la giustizia, il
sapere, l’esperienza.
Ciò detto, e avendoti lusingato, blandito, procedo ora ad assestare un
colpo basso. Voglio un favore da te. Intendo dire che ne ho davvero
bisogno.
La ristampa del libro di Carlos è un bellissimo lavoro, e io darei
entrambi i testicoli perché gli editori si persuadessero a inserire nella loro
lista il mio Chiedi alla polvere. Non posso fare come voglio e
domandarglielo. Ho bisogno che qualcuno come te passi parola. Lo vuoi, lo
puoi fare per me senza comprometterti? So che Chiedi alla polvere ti era
piaciuto, e do per scontato che continuerà a piacerti dopo trentacinque anni.
Hai visto gli Oscar martedí notte? Non sei contento di non essere cosí
senile come quel finto Mosè hollywoodiano, John Huston? Dio, che farsa
che era tutto quanto! Ora che anche quei fottutissimi attori si sono aggregati
ho la nauseabonda sensazione che stia per irrompere in questo Paese una
nuova religione. John Huston, L’esorcista, un matto come Wm Peter Blatty
a piede libero. Il vecchio e semplice cinismo è di grande conforto in questi
giorni. Senza quello la vita sarebbe assolutamente impossibile. I miei figli si
irritano perché non dico mai nulla contro il sadismo e l’orrore, la fame
pubblica di morte, non una morte decente, ma l’oscena violenza dello
schermo. Gli americani stanno forse preparandosi a una morte catastrofica
in tutte le parti del mondo?
I miei saluti a Iris,
John Fante

Anche a Joyce è piaciuta moltissimo la tua introduzione.

[A Carey McWilliams]
25 aprile 1974

Caro Carey,
grazie di cuore per le due lettere belle e persuasive che hai scritto a
Peregrine Smith e alla University of Washington Press. Ho già sentito Gibbs
Smith da Salt Lake City che mi chiede una copia di Chiedi alla polvere,
l’ho spedita ieri. […]
Ti terrò informato di quello che accadrà a Chiedi alla polvere. Robert
Towne, che ha scritto la sceneggiatura di L’ultima corvée, ha avuto
l’opzione per gli ultimi tre anni e si suppone che stia scrivendo la
sceneggiatura. Ci crederesti se ti dico che la grana che mi ha pagato finora
per l’opzione (circa quattromilacinquecento dollari) è piú del doppio dei
soldi che ho ricevuto per scrivere Chiedi alla polvere, incluse le royalty,
dalle quali non ho preso assolutamente nulla? Tutti gli introiti sommati
ricevuti da Aspetta primavera, Bandini, Chiedi alla polvere e Dago Red
(sotto forma di libri) non basterebbero per comprare una falciatrice sul
mercato di oggi, e ragazzi, ciò di cui ho proprio bisogno oggi è una buona
falciatrice.
Ciò mi fa pensare. Sto coltivando l’aglio. […] Nel frattempo me ne sto
seduto nella mia stanza piccola e sudicia a succhiarmi il pollice cercando di
scrivere un romanzo. Sono arrivato circa a trentamila parole, e lo sto
chiamando La confraternita dell’uva – la storia di quattro italiani vecchi e
ubriaconi di Roseville, un racconto su mio padre e i suoi amici.
Buona estate. Il mio amore a Iris.
Saluti,
John Fante

[A Carey McWilliams]
13 febbraio 1975

Caro Carey,
grazie mille per avermi spedito quegli articoli. Me li sono goduti tutti.
Quest’ultimo, sulla povertà degli italoamericani, mi ha rattristato, ma non
mi ha sorpreso.
È solo una teoria, la mia idea è però che non possono incolpare che sé
stessi. Non vogliono essere messi allo stesso livello dei neri e dei
portoricani; dopotutto sono bianchi, orgogliosi della loro razza e della loro
tradizione. Non vogliono urlare e sollevare un polverone come gli umili
neri, cosí che si limitano a tenere alta la testa, mangiare moltissima pasta e
vedere Il padrino sei volte, perché li riempie di orgoglio, ecco com’è:
Marlon Brando, Al Pacino – il loro tipo di gente, orgogliosa, romantica, non
come i neri che strepitano per avere il loro posto al trogolo.
Ovviamente è anche colpa dei loro preti. Uomini orgogliosi della Madre
Chiesa, non fanno nulla per gli appetiti corporali, salvano solo l’anima. Oh
merda. Gli italoamericani sono fottutissimi, cosí poco assimilati, cosí
stupidi, e castrati dai loro genitori idioti i quali, a loro volta, sono stati
avvelenati dai loro genitori, via via fino al piú grande stronzo di tutti i tempi
– l’imperatore Costantino.
Ho scritto un nuovo romanzo, di gran lunga il migliore, e tu potresti
essere costretto a leggerlo perché sto pensando seriamente di mandartelo.
Per inciso, Robert Towne gli ha dato una scorsa e potrei ricavarne un
contratto con il cinema. Ma chi capisce queste questioni cosí eteree e
assurde?
Moltissimo amore a te e Iris.
John Fante

Robert Towne, nominato nella lettera precedente


perché aveva chiesto l’opzione per qualcuna delle
opere di Fante, era ed è uno degli sceneggiatori di
maggior successo di Hollywood. Esercitò la sua
opzione comprando «La confraternita dell’uva» nel
1975.
«Southern California Country: An Island on the
Land» di McWilliams venne pubblicato per la prima
volta nel 1946. Il film progettato, che doveva
chiamarsi «The Forty Blondes», apparentemente non
venne mai realizzato.

[A Carey McWilliams]
31 maggio 1975

Caro Carey,
grazie per avermi menzionato a Digby Diehl del «L.A. Times». Forse
potrò fare qualcosa per lui.
Non sta accadendo assolutamente nulla di eccitante in questi giorni. Con
una brutta ulcera da diabete su un piede, mi trascino cercando di pensare a
qualcosa per un nuovo libro, ma il piede mi preoccupa perché potrebbe
trasformarsi in qualcosa di molto serio. Un’ulcera è semplicemente una
ferita che non guarisce, e questa qui è classica. La prognosi non è buona.
Un giorno l’ulcera (è fra le dita dei piedi) è sul punto di risanarsi, e
ventiquattr’ore dopo peggiora. Quei fottuti dottori non curano nulla.
Diventano fatalisti e filosofici. Mi tormentano con gli antibiotici che
macerano la ferita. Aspettano, in previsione dell’operazione. Ultimamente
ho letto moltissime cose sul diabete e sulle meraviglie della medicina
moderna, sull’aiuto che l’insulina apporterà all’umanità. A parte qualche
rara nota a piè di pagina non parlano mai della complicazione piú comune
di questa malattia – le ferite ai piedi. Sono disgustato, se non riescono a
curare questa semplice lesione fra le dita, come potranno fare
un’amputazione – una possibilità che potrà verificarsi nel futuro? Nel
frattempo, come ti ho detto, sto cercando un’idea per un libro.
Bob Towne ha chiesto l’opzione per il mio La confraternita dell’uva e ha
in mente di trarne una sceneggiatura. Ha anche l’opzione per Chiedi alla
polvere ormai da tre anni. Quell’uomo è immensamente richiesto. Mi ha
detto che ha rifiutato mezzo milione per scrivere alcune sceneggiature.
Pensa! Mezzo milione per scrivere una sceneggiatura! Ha rifiutato la
possibilità di scrivere Il grande Gatsby e ha respinto un’offerta per essere a
capo della Warner Brothers. Stranamente, (e in confidenza) non credo che
sia un ottimo sceneggiatore nonostante la sua reputazione da capogiro. In
ogni caso è un tipo molto dolce, gentile come un gattino e abile come un
lupo. Il mio libro è in buone mani. Non lo sottoporremo agli editori prima
del termine del mio contratto con il cinema.
Ti interesserà sapere come sono arrivato a conoscere Robert Towne.
Cinque anni fa lui era seduto nella biblioteca pubblica di Seattle a leggere
Southern California Country quando gli capitò sotto mano qualcosa in cui
era nominato Chiedi alla polvere. Ne prese una copia, la lesse, e
immediatamente si mise in contatto con me. Il mondo è piccolo.
E piú piccolo ancora: sto lavorando a un soggetto per un film con Buck
Angell che chiameremo The Forty Blondes. Se venderà sarai ricompensato.
Il mio amore a Iris.
Con affetto,
John Fante

Nella sua risposta alla lettera precedente,


McWilliams racconta a Fante una storia:
«Vuoi sentire una storia divertente? Un mio
parente, un accumulatore di denaro dal cuore di
pietra, morí a Kansas City, solo, senza eredi, e lasciò
una proprietà valutata circa otto milioni di dollari –
questo qualche anno fa; piú realisticamente circa
dodici o tredici milioni di dollari. Lasciò tutto a
quegli ospedali PROTESTANTI di Kansas City che curano
SOLO I BIANCHI ! Ovviamente questa era una
discriminazione contro ebrei, cattolici, neri, rosa e
mulatti. Il testamento venne impugnato e la questione
è stata dibattuta in tribunale per anni. Ieri la Corte
suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di rivedere una
decisione presa da un tribunale dicendo che il
testamento era valido! Se fosse stato cambiato, mio
fratello e io ne avremmo ereditato un terzo… Mi sta
bene, vero? Mi sono voluto mischiare con i non
bianchi, con i rapporti fra le razze e via dicendo. […]
Ps.: Il nome del mio parente era Homer
McWilliams. Homer, non ci si crede!»

[A Carey McWilliams]
19 giugno 1975

Caro Carey,
Homer McWilliams appartiene alla posterità. È completamente del
genere Nat West e Lenny Bruce, un Man on Horseback che, abbattuto e
nella tomba, è risorto per sgominare il suo infedele nipote. Aveva visto tutto
chiaramente – i suoi denari guadagnati con fatica riversati in una topaia
liberale che si chiama «The Nation». Con una risata luciferina ha firmato, e
ora la pace della tomba lo avvolge mentre aspetta che si aprano le porte del
paradiso, dove Dio lo accoglierà a braccia aperte. Te lo dico io, ragazzo, è
qualcosa di nauseante, orribile, nero, e c’è dell’umorismo spietato. Perché
nel nome di Dio non scrivi un libro su quel vecchio figlio di puttana?
Le lesioni sui miei piedi non migliorano né peggiorano – cosa che, mi
viene detto, va bene. Se non peggiorano, miglioreranno, cosí dicono i
dottori dalle facili promesse.
Quanto ai soldi, potrebbe accadermi qualcosa di grandissimo effetto.
Bob Towne e Francis Ford Coppola faranno il mio libro, La confraternita
dell’uva. Almeno questo è quanto mi assicura Bob Towne. Non potrebbero
esserci migliori auspici per uno scrittore – due vincitori di Oscar. Il piano
dell’agenzia è di vendere il libro dopo l’annuncio formale dell’affare
Towne-Coppola. Inutile dire che sono orribilmente cinico e mi aspetto che
vada in fumo all’ultimo momento. Ma Towne insiste a dire che è tutto vero.
Vedremo.
Sto rimuginando sulla tua idea circa Ross Wills. È difficile da mettere a
fuoco. Tu sai che a me Ross non è mai piaciuto. Era visibilmente un fasullo.
Fin qui tutto bene, ma per scrivere di qualcuno in un libro lo devi amare per
davvero. Wills era veramente molto superficiale, molto meschino. Dovrei
scrivere con i paraocchi se dovessi fare un libro su di lui. Venire a sapere
che non era affatto sordo però MI affascina. Che la sua vista fosse
misteriosa, i suoi istinti affilati come quelli di un lupo, e che avesse le narici
di un lupo e il pisello di un lupo e il suo concetto dell’amore fosse
semplicemente assalto e stupro. Che la sua sordità fosse in realtà un
attributo, come la cecità di Helen Keller. In breve un lupo sordo che vaga
per il mondo in cerca delle anime delle donne.

Coraggio, Carey. Se il mio affare non va in porto, trarrò consolazione dal


terribile scherzo che ti ha giocato il caro vecchio Homer McWilliams.
Saluti,
John Fante
«La confraternita dell’uva» di Fante venne
pubblicato a puntate in «City» di Francis Ford
Coppola, che ebbe breve durata.

[A Carey McWilliams]
22 luglio 1975

Caro Carey,
mi è molto piaciuta la tua lettera a Robert Sherrill, ma se mi perdoni un
suggerimento, ho da farne uno: non chiamare il vecchio spilorcio «cugino
Homer». È piú comodo identificarlo come zio Homer. La grande differenza
d’età che c’è fra voi rende la parola «zio» anche piú appropriata. Inoltre i
vecchi zii sono piú brontoloni dei vecchi cugini. No?
Ti è capitato per caso di vedere il «City» di San Francisco di Coppola?
Vi pubblicano il mio romanzo. Comunque, «City» è un ottimo spazio per la
tua produzione letteraria. Non c’è ragione per cui non dovresti fare il
redattore di quella rivista. Sbirciando in un futuro non troppo lontano vedo
che accadrà.
Un libro su Ross Wills, un romanzo folle, è una tentazione. Se dovessi
farlo in qualità di narratore manterrei il dubbio aleggiante, anche dopo la
sua morte, circa la sua sordità, o comunque sul suo udito difettoso. Ho
sempre avuto dei sospetti in tutti gli anni in cui l’ho conosciuto,
specialmente quando la faccia gli ardeva dalla rabbia nel vedermi parlare di
lui con qualche pollastrella. Una volta nel suo appartamento abbiamo
litigato e io mi sono talmente arrabbiato con lui che gli ho girato le spalle e
gli ho dato del figlio di puttana. Mi ha prontamente tirato un calcio in culo.
Continua cosí,
John Fante

[A Carey McWilliams]
31 maggio 1976

Caro Carey,
[…] A Ted Solotaroff della Bantam è piaciuta la revisione fatta su La
confraternita dell’uva, finalmente il lavoro è finito del tutto e pronto per la
pubblicazione. Ora devo affrontare un vero dilemma. La ricerca di un’idea.
Per la prima volta in vita mia non riesco a pensare a niente da scrivere. Per
molte ragioni è un problema confortante. La mia mente è vuota e mi godo la
tranquilla noia di una non-esistenza, dell’ego sommerso, dell’assurdità che
uno scrittore debba scrivere. Perché combattere il semplice fatto che non si
ha niente da dire? La maggior parte della merda pubblicata ora è stata
sparata fuori da scrittori che hanno continuato a scrivere molto dopo
rispetto a quando avrebbero dovuto fare una pausa e tacere.
I miei migliori saluti a te e Iris da Joyce e me.
John Fante

Houghton Mifflin, subito prima della


pubblicazione di «La confraternita dell’uva», si mise
in contatto con McWilliams nel novembre del 1976
per un giudizio che sarebbe stato usato nel
pubblicizzare il libro. McWilliams lo scrisse e ne
mandò una copia a Fante. Eccolo:

Un romanzo commovente «di un uomo e del


mondo, di amore e di saggezza», con la costante
«presenza della morte» superbamente animata dalla
gioia di vivere. Divertente, acuto, penetrante; infuso
di un sottile senso della scena e dell’ambientazione;
un piccolo classico di barocco californiano, pieno di
passione, humour osceno, e rabbia di vivere, una
splendida visione della «morte che riluce attraverso
il volto di un vecchio; attaccato con forza al tempo».
Gli abitanti di «St Elmo» – una città che conosco
bene – non lo apprezzeranno, cosí i suoceri
dell’autore, a me invece è piaciuto.
Carey McWilliams

La moglie di McWilliams, Iris – come la moglie di


Fante, Joyce – era di Roseville, la vera «St Elmo».

[A Carey McWilliams]
23 dicembre 1976

Caro Carey,
era un bellissimo commento per il mio romanzo, e credo di meritarlo,
specialmente quando ti fermi a pensare a quel noioso tipo che è Saul
Bellow.
La battaglia prosegue. Il tuo amico, il dottor Breslow, ha raccomandato
un superbo chirurgo oftalmico dell’Ucla che si chiama Stanley Kopolow.
Kopolow mi ha operato all’occhio destro con il laser e mi ha salvato dalla
cecità totale, dal momento che il mio occhio sinistro non serve piú a niente.
Questo è accaduto quattro mesi fa. Il trattamento al laser non migliorerà la
vista ma mi proteggerà da ulteriori danni alla retina. A parte ciò cammino
sempre, con cautela, su due piedi, sospirando quando passo accanto ai
campi da golf.
Per ora me la cavo. Quello di cui ho piú bisogno non sono le medicine o
i medici, ma una buona e solida idea per un romanzo. La necessità di
scrivere senza la sostanza di un’idea può essere molto dolorosa.
Gli editori sono emozionatissimi per La confraternita dell’uva, e hanno
in mente di fare una grande campagna, qualsiasi cosa ciò voglia dire. Riesco
però ad avvertire il loro entusiasmo, ed è reale.
Buon anno a te e a Iris.
John Fante
[A Carey McWilliams]
23 agosto 1977

Caro Carey,
la perdità piú grande dopo quella di una gamba è la capacità di scrivere.
È come lottare con un pesante pneumatico di gomma appeso al collo. Non
chiedermi perché. Riesco solo a pensare a quel peso grande e senza
speranza che preme sulle braccia. Come puoi vedere la mia calligrafia se ne
è andata al diavolo. La macchina da scrivere è fuori discussione.
Il problema è che sono caduto due volte. Sono tornato a casa dopo
ventinove giorni, ho cominciato a provare a usare un «girello» e sono
inciampato all’indietro andando a ricadere sul mio moncone. Da allora,
dolore. Ma vale la pena vivere, e si tira avanti.
Non potrei aver sopportato tutto questo senza Joyce – immaginati, mi
pulisce il culo, mi lava lo scroto, mi fa la barba eccetera. Sono fortunato.
Resta in piedi, Carey, non cadere. Saluti a te e a Iris.
John

[A Carey McWilliams]
settembre 1977

Caro Carey,
non riesco a immaginare la causa del tuo travaglio letterario. Forse il
materiale ti ha annoiato; forse dovresti riscriverlo e ricominciare di nuovo.
Forse, ingabbiato con quella maestrina di Susanville vorresti invece un
sorso di libertà. In ogni caso, sono certo che con il passare del tempo ce la
farai.
Ho un bel libro in lavorazione, ma è una cosa complessa, difficile da
mettere insieme.
Bene, fra una settimana a partire dalla prossima domenica da queste parti
ci sarà una gran giornata – il ricevimento per il matrimonio di mio figlio
Jimmy con Jennifer, una giapponese. […]
Quando saranno tutti riuniti (inclusa Joyce) ci sarà un assente. Ovvero io.
Perché non andrò a farmi guardare il moncone da tutti. E anche se fossi
presente, cercherei di andare a nascondermi da qualche parte e piangere,
perché in questi giorni piango moltissimo, senza nessuna ragione in
particolare.
Il mio amore a te & a Iris
John Fante

[A Carey McWilliams]
28 settembre 1977

Caro Carey,
Dio solo sa cos’è stato a farmi scrivere l’ultima lettera che ti ho mandato,
forse quattro o cinque bicchieri di grenache rosé, che ho buttato giú molto
in fretta in un giorno molto caldo. Alle volte posso diventare sentimentale,
ma è raro che cada cosí in basso. Sapevo, finendo la lettera, che l’avrei
consegnata al gabinetto, invece il mio umore mi ha imposto di spedirla,
buona, cattiva o indifferente.
La verità è che ero contentissimo di evitare il ricevimento, nonostante le
urla di protesta della famiglia intera, e ho passato tutto il pomeriggio in
santa pace, guardando due partite di football. Spero che mi perdonerai per
quella lettera intollerabilmente lacrimosa e nauseante. Non sono stato io a
scriverla, era un vecchio dago ubriaco.
Sto facendo pratica con le stampelle. Non è troppo difficile. In cinque
anni, per lo meno, dovrei farcela. Facciamo cosí, Joyce mi lega con una
cinghia alla vita, la stringe forte, e mi spinge al largo. Mi spaventa a morte,
ma sto imparando.
Saluti a Iris,
John

[A Carey McWilliams]
17 novembre 1977

Caro Carey,
per motivi che ti spiegherò in seguito, sto dettando questa lettera a Joyce.
Ho molta comprensione per te che vivi a New York. Il solo sopravvivere là
mi sembra un atto di coraggio che va ben oltre la lotta per la sopravvivenza.
Spero anch’io che tu faccia le valigie e te ne vada dal quel buco nero e
spettrale. Non capisco cosa ti trattiene ora che non sei piú impegnato con
«The Nation». Torna nella terra di Dio e goditi il tempo che ti resta.
Mi hanno operato agli occhi per un glaucoma. È cominciato in fretta e
inaspettatamente, c’erano state delle avvisaglie per qualche giorno –
ipersensibilità alla luce, occhi che lacrimavano, un leggero dolore. Il mio
oftalmologo mi ha visitato e mi ha mandato subito al St John’s. Ciò
accadeva dodici giorni fa. L’operazione all’occhio destro è stata un orrore.
Sono rimasto un giorno in ospedale, dopo sono tornato a casa per trovare un
grigiore diffuso e vedendoci appena dall’occhio sinistro. Ma questa mattina,
a undici giorni dall’operazione, ho levato la benda e con grande gioia ho
scoperto che la mia vista sta tornando. A parte ciò l’esistenza è stata placida
e priva di eventi. Ovviamente ho sempre un sinistro dolore a una gamba,
che cerco di ignorare. Immagino che dovrò aspettare qualche settimana
prima di recuperare del tutto la vista. Nel frattempo, sto steso sul divano,
ascolto la radio e maledico il mio destino. È stato bello ricevere tue notizie.
Scrivi presto, mi raccomando, e pensa alla California.
Affettuosi saluti,
John

[A Carey McWilliams]
12 gennaio 1978

Caro Carey,
lo scoop Bulosan sulla scuderia di scrittori di Ross Wills alla Mgm è
sorprendente, divertente e triste. Povero Carlos. Aveva un’avversione
fanatica alla verità e amava distorcerla. Naturalmente la storia sulla Mgm è
assurda e falsa. Come sai, per continuare con quello che ho detto prima,
Carlos iniziò a copiare dei pezzi ed ebbe dei problemi con il «New Yorker».
Il mio rapporto con lui è sempre stato amichevole, alle volte un po’ pesante.
La dimostrazione sono i molti interrogatori dell’Fbi negli anni 1940-45 sul
fatto se conoscevo comunisti. Era sempre necessario per me superare questi
interrogatori prima che mi fosse permesso di lavorare alla Mgm, Rko o
Warner Brothers. Il cuore della questione era sempre Carlos Bulosan.
L’ho conosciuto tramite te. Venne a casa mia con suo fratello Aurelio nel
1939 circa, a Berendo Street. Mi piaceva immensamente. E cosí a Joyce. Ci
vedevamo spesso e fu Carlos a introdurmi nella comunità di filippini di Los
Angeles – i ristoranti, i night club, e le sale da biliardo dei filippini. E agli
scrittori. La qualità piú deliziosa di Bulosan era la sua incapacità a dire il
vero. Tutto quello che diceva era un’invenzione. Se spariva per una
settimana circa, la sua spiegazione era poi sempre un racconto avventuroso
di inseguimento e trionfo. È l’unico essere umano che io abbia mai
conosciuto ad avermi soddisfatto con le sue bugie. Mi ricordo di una sera a
un bistrò di Temple Street dove eravamo con Joyce e un paio di altri amici
filippini, in cui bevemmo e ballammo molto. Durante i festeggiamenti,
prese Joyce da parte, la portò in un angolo buio del caffè e le parlò con il
cuore in mano. Quando in seguito domandai a Joyce di cosa avessero
parlato, lei disse che Carlos le aveva confidato di essere comunista, e le
aveva mostrato la sua tessera del Partito, che, in ogni caso, lei non era
riuscita a vedere in quell’angolo oscuro. Eravamo entrambi convinti che si
trattasse di un’altra delle sue esagerazioni, soprattutto perché non potevamo
credere che i comunisti girassero con le tessere addosso data la pericolosità
di quel periodo.
A. I. Bezzerides è ancora in giro. Al momento lavora a un documentario
su William Faulkner, e vive nella Valley, al 19950 di Collier Street,
Woodland Hills, 91364.
Frank Fenton è stato via per cinque anni. Questa è solo un’ipotesi
plausibile. Frank ha scritto due romanzi, A Place in the Sun e What Way My
Journey Lies.
Io e te ci siamo incontrati nel 1933 se ben ricordo. Io vivevo a Bunker
Hill e di tanto in tanto lavoravo in un saloon sulla Terza Strada a poca
distanza da Hill. Coral Hatton, la ragazza nella fotografia, era una cameriera
del Marcus Bar. Io ero aiuto cameriere, e piú o meno una piccola celebrità.
Marcus, un ebreo geniale di mezz’età, era fiero di avermi fra i suoi
impiegati e mi pagava cinque dollari alla settimana piú i pasti. È stato un
periodo felice per qualche settimana, dopo che la mia fotografia apparve sul
«Times». Mi aggiravo per quel caffè, con un grembiule intorno alla vita,
firmando autografi e facendo commenti profondi. Piacevo a tutti e spesso
autografavo i menu per i clienti, che ci si divertivano e mi consideravano
come qualcuno destinato al successo. In quei giorni avevo anche un
secondo lavoro. Ero redattore capo di una agenzia letteraria truffaldina al
piano sopra al Marcus Bar. Un vecchio francese con la barbetta mi pagava
cinque dollari alla settimana e io facevo l’editing alle sceneggiature dei
dilettanti che rispondevano agli annunci di De Kolty (il mio capo) sul «L.A.
Times». Faceva pagare venticinque dollari a manoscritto e io facevo tutto il
lavoro.
È stato piú o meno in quel periodo che ho scritto una lettera a H. L.
Mencken chiedendogli che ti scrivesse, per presentarci. In seguito ricevetti
un biglietto da te in cui mi invitavi nel tuo ufficio. Poco tempo dopo
abbiamo pranzato insieme in un bel ristorante su Spring Street. In qualche
momento, in quel periodo, mi hai presentato Wills. I ricordi che ho di quel
periodo sono sbiaditi. Ricordo un bar clandestino dove bevevamo, ma poco
altro. Imparare il linguaggio dei segni da Ross non fu un problema. Me ne
impadronii in una sera. Sono sorpreso che tu non l’abbia mai imparato.
Comunque, proprio come te, ho passato molte serate nei bar a scrivere i
miei pensieri a Ross. Questa cosa lo divertiva. Gli piaceva quando la gente
intorno a lui gli passava dei biglietti, piú erano meglio era, ma era stancante.
Un altro scrittore di quel periodo, uno bravo, era Owen Francis, l’autore
di racconti che veniva dalle miniere della Pennsylvania. Era un eccentrico
assoluto, attaccabrighe e ubriacone. Una volta rubò un tram guidandolo dal
capolinea su Vermont Avenue. Si aggirava da Musso & Frank e spendeva le
paghe delle sue sceneggiature molto piú in fretta di quanto le guadagnasse.
Negli ultimi giorni ebbe un attacco di cuore e il medico lo mise a caramelle,
invece che ad alcol. Morí poco dopo.
Non devi dimenticare George Milburn, lo scrittore dell’Oklahoma che ha
pubblicato tantissimi racconti sull’«American Mercury», in particolare
Hatrack, che a suo tempo creò scalpore. Non so cosa sia accaduto a George.
Probabilmente è morto. Il mio ultimo ricordo è un incendio che ha bruciato
casa sua a Hollywood, distruggendo un manoscritto quasi finito del
romanzo che stava mettendo insieme.
Ce ne sono ancora altri, sfocati negli anni – Jim Tully, Jo Pagano,
Saroyan ecc., ma che non vale la pena menzionare.
Saluti,
John
[A Carey McWilliams]
10 novembre 1978

Caro Carey,
ho l’ultimo numero di «Westways». Due articoli in particolare hanno
attirato la mia attenzione – uno scritto da te, l’altro da tuo figlio. Il migliore
dei due, e di gran lunga il migliore di tutta la rivista, è quello di Jerry
McWilliams. Il pezzo su Clarkson Crane è fatto benissimo. È scritto con
sensibilità, oggettività e compassione. Ne ho apprezzato ogni frase. Tuo
figlio ha del talento vero. Dio sa da dove l’abbia preso, ma è di grande
consolazione scoprire le prime cose di questo giovanotto cosí brillante e
sensibile. Per favore, porgigli le mie congratulazioni e manifestagli la mia
speranza di vedere altri suoi lavori in futuro.
Quanto al tuo articolo, ho avuto delle difficoltà a finirlo. L’ho trovato
tedioso e di una gran noia. Sembra che tu abbia perso l’antica fiamma, il tuo
fraseggio è diventato ingombrante e manca di convinzione. Il tuo articolo ha
la qualità di qualcosa che poteva aver scritto Earl Wilson, pettegolo, fatuo e
di nessun valore. Perché per una volta non scrivi narrativa? Alcuni dei tuoi
personaggi sono piuttosto interessanti, ma quasi non meritano tanto spazio.
I pochi, magri paragrafi su di me erano imbarazzanti, non veri, e non
descrivono quasi la forza di carattere che possedevo in quegli anni
formativi. Il tuo sforzo di descrivermi come il servile cameriere di un
ristorante economico in un infimo saloon della Terza Strada era cosí
umiliante che ho impedito ai miei figli di leggerlo. La mia povera moglie ha
pianto quando ha letto quelle brutte parole. Attenzione, non sto screditando
i tuoi altrimenti generosi talenti, ma in questo articolo sei proprio
inciampato. Detesto scrivere parole tanto scoraggianti, ma sento che come
tuo amico devo dire le cose come stanno. Lascia però che aggiunga subito
qualche parola di incoraggiamento. Riprova. Ce la puoi fare. L’ho visto nel
passato, e spero di rivederlo nel futuro. Come ho già detto, perché non dare
una possibilità alla narrativa? Ci si possono guadagnare dei soldi ed è una
possibilità per te di fare ammenda.
Quanto al resto, la mia salute è piú o meno la stessa. Sono tormentato da
una nuova ulcera al piede destro che tenacemente, anche se con lentezza, sta
guarendo. La mia vista è andata e passo una considerevole quantità di
tempo a pensare a un altro romanzo. La transizione alla cecità non è facile.
Tutto sta nel concentrarsi intensamente e si dipende dalla memoria, ma ho
in mente un tema eccellente che sto per cominciare a dettare a Joyce. È la
storia di un cane che vorrebbe essere un uomo, pieno di invidia e rabbia per
la sua bassa condizione. Mi ricorda vagamente La fattoria degli animali di
Orwell. Potrebbe non sembrare granché per come lo descrivo qui, però ho
delle buone sensazioni a questo riguardo, e penso a Orwell e a Thurber.
Congratulazioni per tutte le onorificenze che si ammassano su di te.
Spero che ti riprenda presto dalla malattia, e come al solito ti auguro ogni
bene. Cosí Iris. So che l’operazione alla cataratta non è troppo difficile, e
prego che ne esca con il vento in poppa.
Con affetto,
John

La zia di Fante, Dorothy, viveva a Paradise, in


California. Nel 1980 la Black Sparrow Press riprese
a stampare i libri di Fante con «Chiedi alla polvere».

[Alla zia Dorothy]


25 settembre 1981

Cara zia Dorothy,


come sei arrivata in paradiso? Hai passato molto tempo in purgatorio?
Mi chiedo se tu abbia incontrato mio padre. Sono certo che ha passato
almeno venticinque anni in purgatorio, e ora potrebbe essere in paradiso.
Sono stato molto spiacente di leggere dei tuoi problemi agli occhi, ma
voglio subito dirti che anch’io sono cieco ora, dopo i disastri del diabete e il
glaucoma. Ho anche perso l’uso delle gambe a seguito di una doppia
amputazione, cosí non posso vedere né camminare, e passo tutto il mio
tempo sulla sedia a rotelle o a letto. Non che mi lamenti. Al contrario,
piagnucolo, sono arrabbiato e infastidito e umiliato dalla presente
condizione in cui vivo, ma ho qualcuna delle consolazioni dei viventi. Ho la
mia cara moglie Joyce a cui sto dettando, e i miei quattro figli – mio figlio
Nick, trentanove anni; Daniel, trentasette; Victoria, trentuno; e Jimmy,
trenta. Ho una quantità di nipoti che mi vengono spesso a trovare.
Quanto a me ho ventisei anni, prendo ventisei dosi di insulina ogni
giorno, e passo molto tempo ad ascoltare la radio. Scrivo anche romanzi. In
ordine di apparizione sono, Aspetta primavera, Bandini, La confraternita
dell’uva, e Sogni di Bunker Hill. Tutti in ristampa dalla Black Sparrow
Press, Santa Barbara. Ne ho delle copie, ma mi servono per lavorare.
I miei figli Nick e Jim sono ingegneri in uno stabilimento a Santa
Monica. Sono entrambi bravi e guadagnano molto. Mio figlio Dan è
intelligente e coraggioso, e un giorno sicuramente avrà successo. Mia figlia
Victoria è divorziata e ha due bambini. È una ragazza lunatica, bellissima,
passionale e ha stile. Tutti noi la adoriamo.
E non posso dimenticare Willy e Ginger, i miei cani. Hanno un sacco di
pulci, ma mi venerano. Li accetto, con le pulci e tutto.
Per ultima, ma non perché è di minore importanza, c’è la donna che ha
provocato tutto questo – i miei problemi, i miei travagli, la mia amarezza, il
mio vero amore – la mia cara e bellissima moglie, che è senza vergogna,
un’impertinente nata, che mi tratta male, mi ingiuria, e però mi ama. Siamo
veramente una strana coppia, ci scontriamo di tanto in tanto, mandandoci a
quel paese, e litighiamo dalla mattina alla sera – ma non ci manca mai
l’amore, e il momento stesso in cui finisce la litigata siamo di nuovo l’uno
nelle braccia dell’altra. È una vita dura, ma non riesco a pensare a un’altra
che possa andarmi cosí bene.
Sono stato contento di sapere di Ralph e Arthur. Da’ loro il mio amore. I
miei migliori saluti a tuo marito.
Tuo nipote,
John

John Fante morí al Motion Picture Hospital di


Los Angeles l’8 maggio 1983. Aveva
settantaquattro anni.
Epilogo

Asserendo che «la riscoperta è parte integrante


nella storia della sua vita», Joyce Fante fornisce
questo commento finale:
«Nel 1980, quando la Black Sparrow Press
ristampò una nuova edizione di “Chiedi alla
polvere”, Fante era stato dimenticato quasi del tutto
come romanziere. John Martin [editore della Black
Sparrow] non l’aveva mai sentito nominare fino a
quando Bukowski non gli sottopose “Chiedi alla
polvere”. “Sogni di Bunker Hill”, un nuovo romanzo
scritto sotto dettatura da Fante a seguito della sua
cecità, uscí nel 1982. “Aspetta primavera, Bandini”
venne ristampato nel 1983, poco prima della morte
di Fante. “La grande fame” venne pubblicato nel
1985. Nello stesso anno, un ammiratore entusiasta
del lavoro di Fante, Paul Yamamoto, un giovane
agente di talento, cominciò a proporre la sua opera
per il cinema e la televisione. Ebbe un enorme
successo, e per la fine degli anni Ottanta aveva
venduto o ceduto le opzioni per tutti i lavori di Fante
tranne uno.
Nel frattempo quattro opere inedite di Fante,
“1933. Un anno terribile”, “La strada per Los
Angeles”, “Il mio cane Stupido” e “L’orgia” furono
mandate in stampa [le ultime due insieme, in un
volume intitolato “A ovest di Roma”], sempre per la
Black Sparrow Press.
Cominciarono ad apparire delle traduzioni. I
francesi furono i primi ad adottarlo, influenzati
dall’ottima accoglienza sulla stampa. Christian
Bourgois éditeur pubblicò tutte le opere di Fante,
ottenendo un notevole successo. Fante è tuttora piú
popolare in Francia che in qualsiasi altro Paese,
inclusi gli Stati Uniti. Seguirono traduzioni in
norvegese, tedesco, svedese, italiano, spagnolo,
portoghese e altre ancora.
Verso la fine degli anni Ottanta vennero pubblicati
molti articoli sulla stampa americana. La rivista
“Life” definí Fante un tesoro nazionale. Fra le altre
riviste è apparso su “Vogue”, “Rolling Stone” e
“American Film”.
Oggi (1990) a sette anni dalla sua morte, Fante
ha una reputazione mondiale come romanziere».
Appendici
Appendice I

Carteggio Fante-Saroyan

 (con alcune lettere di Joyce Fante)1

[A John Fante]
[giugno 1937]
Martedí pomeriggio

Caro John,
sono emozionatissima! Ieri sera ho ricevuto una lettera dal «Mercury» in
cui mi dicevano che hanno accettato A Poet To Her Tangled Verses. Mi
sento terribilmente famosa, e voglio ringraziarti perché la responsabilità di
questo è tua.
Vogliono che io scriva una breve nota biografica e non so che cosa dire.
Mi aiuteresti?
Sono due giorni che non telefoni, e mi sei mancato. È orribile non poterti
vedere. Perché non vieni appena ricevi questa lettera?
Joyce

[A William Saroyan]
2 settembre 1938

Caro Willie,
il mio libro Aspetta primavera, Bandini uscirà il 10 ottobre o giú di lí. Lo
pubblica William Soskin (Stackpole Sons). Il libro, ovviamente, è
mozzafiato. Mi dicono che le prevendite sono già a circa cinquemila.
Potresti organizzare con i critici del «San Francisco» – Jackson eccetera?
Anche con il «Coast». Me lo devi, bastardo. Ti ho fatto una tale pubblicità
per tutta la Costa Ovest che mi merito qualcosa in cambio. So che hai un
nuovo libro che sta per uscire. Prima che tu ne scriva un altro faresti meglio
a dare un’occhiata al mio: ho chiesto a Bill Soskin di mandarti una copia
prima che sia in vendita.
Amore e baci
J. Fante
Saluti da Joyce.

[A William Saroyan]
206 No. New Hampshire, L.A.
15 settembre 1938

Caro Willie,
grazie per la tua lettera e per la tua generosissima collaborazione
riguardo al mio libro. Il pezzo grosso, per quello che mi riguarda, è Joe
Jackson della radio. Se riuscirai a farglielo almeno leggere, sono sicuro che
la mia prosa farà il resto. Chiaramente, ho creato un’opera d’arte immortale.
Qui però sappiamo come fare. «Westways», per esempio, mi darà
un’intera pagina di spazio nella sua sezione «Tides West», e posso
recensirmi da solo. È una buona idea. Credo che questa pratica dovrebbe
essere resa piú universale. Non intendo dire per tutti gli scrittori – intendo
dire solo per me, e forse per te; e nessun altro, Willie. Nessun altro. Solo io
e te, soli soletti.
E la radio. La radio è una buona cosa. La miglior stazione radiofonica
sulla Terra è Kmpc, Beverly Hills. Io vado in onda sulla Kmpc, leggo il mio
copione, tutto su John Fante che ha scritto Aspetta primavera, Bandini.
Ascolta la Kmpc, Willie. Le altre stazioni possono anche andare a farsi
fottere. Dovrebbero essere tutte eliminate, tutte tranne la Kmpc. Alle volte
passo interi giorni a non fare altro se non stare a sedere e ascoltare la Kmpc.
Un buon grido da college:
K!
Km!
Kmp!
Kmpc!
Rah, rah, rah!
Wheeeeeeeeee! (fischio)
Kmpc, Beverly, Beverly, Beverly Hills!
Quanto alle lettere che scrivo, Saroyan, ricorda per favore che sbrigo
personalmente la mia corrispondenza, e che tutta la posta senza la mia firma
è nulla, e vuoto e nulla.
Chiunque ti scriva, con una firma che non sia la mia, non ha alcuna
autorità per scrivere la lettera che scrive e che contiene le mie affermazioni.
Lo sottolineo non perché possa mai accadere, né perché è accaduto nel
passato. Lo sottolineo solo perché oggi mi sento un sottolineatore.
Il che mi porta direttamente alla conclusione della lettera: posso solo
dire, in poche parole, che quanto alla questione dei Sudeti non posso farci
nulla. Qualsiasi affermazione fatta da Konrad Henlein è rigorosamente di
Henlein e di nessun altro, a meno che, ovviamente, non rechi la mia firma
in calce, ricordalo per favore. Le voci corrono, e vanno messe a tacere.
Quello che dice Henlein sono affari suoi. Quello che dico io, sono affari
miei. Ricordalo, Saroyan. Nessun dannato armeno può accusare me di
qualcosa!
Avanti! 2
J. Fante

[A William Saroyan]
1º novembre 1938

Caro Willie,
grazie per la tua bellissima lettera a Soskin. Contiene molto materiale
che si può citare e che lui userà per la pubblicità. Sono molto contento che il
libro ti sia piaciuto: lo sentivo fin dall’inizio. Grazie anche per averlo
sottoposto all’attenzione di Joe Jackson. Come sai, la sua recensione è stata
ottima.
Le recensioni sono state buone quasi all’unanimità. Le due eccezioni
sono il «Saturday Review» e il «Sunday New York Times». Quest’ultima
non era male, ma secondo me era piuttosto stupida. Chi ha recensito il mio
libro ha sprecato una gran quantità di spazio scrivendo un saggio e
chiedendosi se uno scrittore di racconti può creare un romanzo – roba
vecchia, e banale. Poi nella recensione ha detto delle assurdità. Quando
Soskin l’ha letto si è strappato i capelli.
La recensione di John Chamberlain che uscirà su «Scribner’s» di
dicembre è quella che ho desiderato di piú. Rispetto veramente il suo
giudizio perché lui sembra essere il migliore di tutti. Soskin mi ha detto che
è fantastica.
Il libro vende bene. Qui a Los Angeles i negozi hanno terminato le copie
e stanno arrivando i nuovi ordini. Spero di guadagnare qualcosa anche se
non molto visto il mio anticipo. Il Natale dovrebbe aiutare un po’.
Se hai ancora bisogno di un esemplare per la tua Antologia del peggior
racconto, fammelo sapere. Ho un classico.
Con affetto,
J. Fante

[A William Saroyan]
206 North New Hampshire
Los Angeles 13 novembre 1938

Caro Willie the Wasp,


che Dio ti maledica, Willie the Wasp, per aver dato a bere al signor
Soskin l’idea che io devo consegnare un libro piú grande e piú grosso
oppure i clienti non compreranno il mio prodotto. Führer Soskin mi ha
scritto mandandomi della bile assai colorita da cui trapela il concetto che è
d’accordo con Willie the Wasp Saroyan ovvero che i miei libri come il mio
cazzo sono troppo piccoli. Non avrei mai pensato che Willie the Wasp
Saroyan, mio amico e collega scrittore, sarebbe passato al nemico e gli
avrebbe dato consigli su come distruggermi. Hai tradito la causa, e sei un
vagabondo, ma io vado lo stesso in giro per la città ululando, dicendo alla
gente quanto sia bello il tuo nuovo libro, che è cosí grande da lasciarmi
senza fiato. Willie the Wasp Saroyan, ti dico che sei lo scrittore di
commedie piú maledettamente bravo, e parlo di un umorismo migliore di
quello di Mark Twain, il migliore che abbia mai visto. Quanto a me, io
leggo e rido, leggo e rido, leggo e rido. Ma tu sei un bastardo
doppiogiochista, un venduto alle classi capitaliste, e se può farti felice il
mio nuovo libro sarà grandissimo. Con questo voglio dire che sarà di circa
centomila parole.
Führer Soskin è pronto a darmi quello che voglio sotto forma di un altro
anticipo, ma sarò molto cauto, perché non voglio essere legato e dover
pagare per sempre le royalty che mi sono state anticipate. Sto pensando di
chiedere millecinquecento [dollari] che mi sosterranno fino alla fine del
prossimo libro e con i quali pagherò alcuni debiti all’intera popolazione
della California del Sud. Millecinquecento è due volte di piú di quello che
ho ricevuto per Bandini, immagino però che il prossimo libro venderà due
volte tanto quel che ha venduto Bandini.
Sembra che Joe Jackson sia eccitatissimo riguardo a me, e pare che sia
una persona per bene, un tipo proprio a posto, e mi scrive delle lettere
bellissime – delle lettere migliori di quelle che scriverà mai a te, tu,
italoarmeno. Ho visto la tua foto sul «Newsweek» e sembri Vic Bottari. Se
darai un’occhiata al «Des Moines Register» del 30 ottobre vedrai la mia
foto, e io sembro Tyrone Power. Quindi vaffanculo.
Dovresti ormai aver ricevuto della roba dalla gente del Guggenheim
circa la mia richiesta di borsa di studio. Vorresti per piacere, per piacere
Willie the Warthog, metterti subito al lavoro? È una cosa importantissima
per me, e il tuo supporto alla mia causa sarà importantissimo per loro. Per
piacere non deludermi, Willie. Presto verrò dalle tue parti e ti cercherò. Nel
frattempo Joyce e io ti mandiamo il nostro amore, e per favore non scordarti
quel Guggenheim…
J. Fante

[A William Saroyan]
16 o 17 nov. [1938]

Caro Willie the Whirlpool,


l’altro giorno stavo camminando e pensando all’arte, cosí ho preso in
mano «Newsweek» e c’era della roba su un wop armeno che si chiama
Saroyan che ho letto con grande divertimento. Poi l’occhio (mio Dio che
occhi, mamma!) mi è caduto su una foto del solo e unico Willie the Wow,
seduto alla sua macchina da scrivere e che sembrava De Mille, senza la
pelata. Poi ho fantasticato, pensando a un’altra foto, e la nuova foto a cui
penso è la mia, e rifletto, Gesú Cristo, con l’aspetto che ho questi altri
scrittori sono fuori gioco. Il problema del tuo nuovo libro, il problema di
Saroyan, è il tuo aspetto. Oh, non fraintendermi – sei piú carino di Wallace
Beery, ma non sei piú carino di Tyrone Power. Invece IO SÍ! Quindi ah ah a
te, vecchio pasticcione.
Per la tua edificazione accludo la primissima cosa che ho scritto e che
abbia mai provato a pubblicare. È stata scritta nel 1931, un anno prima che
uscissi sull’«American Mercury». È un brano che non ha prezzo e se sei
sempre in cerca di materiale per la tua Antologia del peggior racconto, so
che questo raggiungerà un posto di rilievo.
Una buona azione merita che venga ricambiata – puoi avere il racconto
che accludo per trecento dollari. Perdio, ragazzo, Colliers paga cinquecento
dollari per un racconto di questa lunghezza – inoltre, questo è scritto a
mano – il che significa che ci è voluto piú tempo per scriverlo. Vorrei che tu
esaminassi la consistenza della carta: i normali fogli per la macchina da
scrivere non hanno questa qualità. Notare l’intensa tinta dell’inchiostro.
Inchiostro Higgins, quindici cent a bottiglietta. In alto, nell’angolo in alto a
sinistra, troverai una graffetta d’ottone. Queste graffette sono fuori
produzione; al tempo mi sono costate due cent l’una. Il pezzo ha anche un
altro valore. Potresti venderlo a un grafologo come esempio di scrittura a
mano. Notare l’indirizzo nell’angolo a destra. Quel posto non esiste piú.
Cosí solo chi possiede questo manoscritto saprà dove è stato scritto il
racconto. È un’informazione di grande valore.
Ho molta voglia di vederti. Ci divertiremo – voglio dire, io mi divertirò –
a mettere a confronto le fotografie. Potremmo anche iniziare a scrivere una
commedia. Non senza garanzie. Ma per proporre una sinossi a Jed Harris o
a qualcun altro che conti da qualche parte, intascare un po’ di grana
dell’anticipo, e finirla in qualche giorno. Sai bene quanto me che questo
Geo. Kaufman non è poi cosí eccitante. In Bandini c’è una commedia in tre
atti maledettamente bella.
Con molto amore
Jf
xxxxxxx
(baci)
Non ho letto il tuo nuovo libro ma cercherò di mettermici prima di
attaccare il nuovo romanzo. Forse posso rubarne qualcosa.

[A William Saroyan]
John Fante
1851 No. Argyle, Hollywood
Inverno [autunno?] 1938

Carissimo, caro Willie,


continuo a dispiacermi per non averti visto quella sera dopo la cena da
Chink e di non averti placcato per una partita a biliardo. Sono un mago a
quel gioco – per lo meno lo ero. Quel gioco io l’ho talmente nel sangue che
da queste parti in questa stupida città, ogni volta che un attore comincia a
blaterare della sua «stecca», sento che i miei riflessi scattano pronti
all’azione e mi metto in cerca di una stecca da biliardo.
Sono ormai un imbrattacarte puro e semplice. Il mio campo è la radio.
Pièce di un atto. La tecnica è semplice e anche interessante. La stesura
unidimensionale di un radiodramma consente di includere alcune facili
particolarità e riduzioni. E per strano che possa sembrare, i tabú sono meno
scottanti che in altri rami della scrittura americana – eccetto, ovviamente il
teatro e la letteratura seria. Alla radio si può dire «diavolo». Puoi dire
«dannazione», e puoi anche parlare della fratellanza degli uomini e del
comunismo con la c minuscola. La ragione essendo: hai a che fare con dei
tali zotici che non ti capiscono. Oggi la radio è una polvere per dormire.
L’accendi, ti rilassi, e presto le sciocchezze che emana ti sospingono verso
il sonno. Tutte le inibizioni che io abbia mai avuto escono da me e si
riversano in una sceneggiatura per la radio. Intendo ovviamente dire
inibizioni antiestetiche. Tutta la merda e le fandonie e i pasticci, tutta la
piattezza e il tedio, tutti i pensieri e le idee mediocri che ho accumulato
durante una vita lunga e terribile, partono da sotto le mie dita e vanno su
pagine e pagine di pura e incontaminata merda.
Pagano è tornato da New York. Deve fare un gran lavoro di riscrittura sul
suo romanzo prima che sia pronto per la pubblicazione. Wm Soskin ha
parlato con Jo di me. Soskin vuole il mio libro. Devo comunque
risistemarne alcune parti. Sfumarlo. Lavorando duro potrei farcela in un
mese. Potrebbe andare in stampa il prossimo autunno. Comunque sia non
mi interessa. Ho un libro migliore da scrivere, ma vorrei terminarlo e
stamparlo prima della guerra che sta per arrivare. Diavolo – perché
pianificare il lavoro da qui a due anni? Nessun uomo sano osa farlo in
questi tempi.
Nella raddio [sic!] c’è la grana, Willie. Il tuo tipo di grana. Dieci pagine,
una commedia di un atto – da trecento a cinquecento verdoni ciascuna. È
uno spasso, davvero. Sono in grado di mettere insieme quella roba appeso
per un piede a un edificio di quattro piani, scrivendo con le dita dell’altro
piede. Ho tirato fuori quattro commedie, e sto finendo la quinta, in tre
settimane. E ti dànno persino il titolo di autore. Sei milioni di persone in un
collegamento a catena come quello di Rudy Vallée – e ogni tanto fanno
anche della roba maledettamente bella – Čechov – Shaw – O’Neill – Joyce
– e anche il morboso Uomini e topi. E nella concentrazione di una
dimensione c’è il potere – e soprattutto – discorsi – parole – solo discorsi e
suoni… tutto questo però rappresenta naturalmente piuttosto l’eccezione
che la regola… la media è pessima, comunque non peggiore del pix 3. Tutti
gli spettacoli comici fanno piuttosto schifo. Sto parlando del teatro. (In ogni
caso non ho ancora venduto nessuna delle mie commedie, il mio agente
però dall’ufficio di Morris mi dice che sono ottime e che faranno centro –
quello che voglio io è la grana – al diavolo il centro).
Mia moglie è a Berkeley. Siamo troppo poveri per vivere insieme. I suoi
sono ricchi però mi odiano e mi odiano perché sono italiano. È una
situazione disgustosa… E senza soluzione. Mia moglie ha bisogno di un
lavoro. Scrive anche lei. Le sue poesie sono apparse sull’«Amer. Mercury»
e sul «California Arts». L’hai conosciuta. Sono certo che ti è piaciuta. Le ho
scritto che tu le avresti telefonato.
Il fatto è che sua zia, la signora Maynard Shipley, è il capo del San
Francisco Wpa. In breve, lei ha una grande influenza, ma solo in teoria. Le
ho scritto che saresti stato felice di fare tutto quello che potevi. Dal
momento che non è piú in rapporti con la famiglia – non sanno che siamo
sposati – va avanti da sola – è naïf, innocente, e terribilmente sincera. Si è
laureata a Stanford, a Chi Omega, o qualcosa del genere ecc.
Vorrei che tu la chiamassi, che possibilmente la incontrassi e la mettessi
al corrente del modo migliore di ottenere quei novantaquattro verdoni al
mese. I suoi hanno rotto con lei perché lei li ha provocati apertamente con
me, e sono convinti che lei mi sposerà, non sapendo che siamo già sposati.
Accludo una pagina dall’ultima lettera di mia moglie. Non c’è bisogno di
spiegarla. So che possiamo entrambi essere certi che non dirai nulla del
nostro matrimonio – se si scoprisse la verità, la sua famiglia la farebbe a
pezzi.
Le ho detto che la chiamerai venerdí pomeriggio o sera. Non ricordo il
tuo numero di telefono privato, oppure ti potrei risparmiare la fatica, e ti
potrebbe chiamare lei. Questo è un grandissimo favore da chiedere, Willie,
ma ci sarà un momento e un luogo in cui sarò in grado di ripagarti con
qualcosa simile a questo che è cosí importante per mia moglie e me.
Quando le telefoni, mi raccomando di chiedere di Joyce «Smart», e da lí
in poi riferisciti a lei sempre con il nome da ragazza. Questo è il suo
indirizzo, è sull’elenco di Berkeley. Chris Runckel, 2312 Rose Street,
Berkeley, Calif.
Speriamo di riunirci molto presto. Ho deciso che deve essere cosí. Sono
perdutamente innamorato di lei e mi consumo avvertendo la mia inutilità.
Ma so di poter contare su di te.
Johnnie

[Joyce Fante a John Fante]

[…]
Nella tua lettera hai detto che William Saroyan avrebbe facilmente
potuto sistemare le cose con il Wpa. Se è cosí, e se non ti dispiace, potresti
domandargli di farlo per me? E potresti spiegargli che, dal momento che
siamo sposati in segreto, vorrei che lo facesse usando il mio nome da
ragazza? Credo che per me sarebbe una cosa ottima, perché allora avrei
tempo di lavorare a quello che scrivo. Oh che meraviglia sarebbe ricevere
novantaquattro dollari al mese, e non dover far altro che scriverti dei
sonetti! Per favore, per favore, cerca di sistemare le cose. Come ti ho detto,
la zia di Camilla è il capo del Wpa di San Francisco, e ciò dovrebbe
assicurarmi la possibilità di entrarci. Perciò se chiediamo l’aiuto di William
Saroyan dobbiamo fare attenzione che lui non mi chiami signora Fante
invece di signorina Smart, perché altrimenti la zia di Camilla lo verrebbe a
sapere, Camilla lo verrebbe a sapere, e cosí Chris, la zia Sophie, mia madre,
e non ci sarebbe allora piú motivo per me di ottenere novantaquattro dollari
al mese dal Wpa perché verrei a vivere con te.
Ti amo, e approfitto con delizia del privilegio che ho di poterne parlare,
cosa che non ho mai avuto a casa. Qui tutti sono comprensivi, e mi lasciano
parlare per ore e ore delle tue virtú, dei tuoi successi, e del tuo bellissimo
naso. Non ho ancora fatto parola della tua somiglianza con Mussolini, né
dei tuoi splendidi occhi, ma lo farò. Per favore, non proibirmi di parlare di
te. È cosí divertente.
Arrivederci, amore. Mi dispiace di non averti scritto ieri. Non avevo
nulla da dire. E sai com’era pessima la mia ultima lettera in cui non avevo
niente da dire.
Con amore,
Joyce

[A William Saroyan]
John Fante
11 dicembre 1938

Caro Willie the Whistler,


hai preso un modulo del Guggenheim da riempire per Fante? L’hai
riempito? Hai detto delle belle cose? L’hai spedito?
E perché diavolo non l’hai fatto?
È proprio divertente essere famosi. Aspetta – ci arriverai anche tu.
Continua a tenere il naso sulla macina. Lavora, Willie, lavora duro.
Sarò felicissimo di darti dei consigli sui fatti importanti della vita, della
carriera eccetera, in qualsiasi momento. Per te sarà gratis.
Amore e baci da Joyce. Da me, solo baci.
J. Fante
(Notare il miglioramento nella firma)

[A William Saroyan]
John Fante
2904 Manhattan Ave;
Manhattan Beach, Calif.
18 gennaio 1940

Caro Willie,
abbiamo ancora una bassa opinione di te, anche se ti amiamo, noi, i
poveri. Quindi non abbandonare i tuoi simili, e non spendere tutti i tuoi
soldi in belle sale di marmo.
Un gruppo di tuoi ammiratori (ah ah) in questa cittadina di Hermosa
Beach ha la smania del teatro, e molti di loro, come te, sono attori di
talento, ma non hanno nulla da recitare, nel senso che mi hanno chiesto di
chiederti alcuni dei tuoi capolavori (ah ah, un’altra volta) che sono stati
invendibili o – se preferisci – uno dei tuoi lavori piú famosi che vorresti
prestare a un gruppo di bravi ragazzi che fanno teatro in modo dilettantesco.
Qui vivono tutti con i sussidi, quindi il compenso dovrai richiederlo al
governo (ah ah).
Seriamente, fammi sapere se posso lasciar usare a questo gruppo uno dei
tuoi lavori. Ne sarebbero eccitati e orgogliosi. So ovviamente che potresti
essere legato mani e piedi a causa di impegni presi; se è cosí non importa.
In ogni caso spendi tre cent della tua enorme fortuna e fammi sapere non
solo riguardo a ciò ma anche riguardo a tutto il resto, come tu odi il denaro,
come vorresti essere ancora povero ecc., tutta quella roba, buttala giú e
mandamela.
Quanto a me io sto scrivendo un altro romanzo per il quale spero che i
critici mi paragonino all’altro nostro fratello, Michael Arlen. Ho venduto un
soggetto per il cinema [un] paio di mesi fa e per qualche mese è grassa, che
va bene dal momento che ho offerte addirittura fino a tremilaseicento dollari
per un nuovo romanzo – grana maledettamente buona per essere un
anticipo, no, Willie? Tu con i tuoi scarsi e miseri cinquecento verdoni di
anticipo, Gesú, mi fai pena per come hai sofferto.
Ora sono felicissimo, Willie. Vivo sul mare e la prosa sbocca come un
dago ubriaco. Sentiamo dire di te delle grandi cose, e ogni tanto ricevo una
recensione sul mio ultimo libro dove parlano bene anche di te.
Sarò a Frisco piuttosto presto, forse il fine settimana del 20 gennaio, in
quel caso ti telefonerò o ti telegraferò a casa. Parto con Carey McWilliams,
che ti ha visto di recente a Fresno e ha parlato bene di te durante un dibattito
sul mio lavoro.
Sono entusiasta del fatto che tu sia lí a darci dentro, amico mio, e spero
che non mollerai fino a quando tu non abbia ricevuto quello che vuoi.
Con amore da me e Joyce,
Johnnie

(Mi raccomando di farmi sapere della pièce)

[A William Saroyan]
John Fante
211 Pleasant St,
Roseville, California
24 dic. 1940

Willie,
hai visto il pezzo che ho fatto su di te per «Common Ground» di Louis
Adamič? Ci ho guadagnato quindici verdoni. Per favore, invia altri
venticinque dollari – oppure, se vuoi, deducili dal mio conto presso il
sindacato dei giocatori d’azzardo Saroyan-Mardikian.
La settimana scorsa Irita Van Doren mi ha telegrafato perché vuole che
recensisca Il mio nome è Aram per l’«Herald Tribune». Ho preso il libro a
Sacramento (il «Tribune» mi rimborserà) e l’ho letto immediatamente. Per
essere franchi, Willie, solo quattro racconti in tutto quel volumetto
inconsistente valgono l’inchiostro con cui sono stati scritti. È di gran lunga
il peggior libro pubblicato che hai scritto. Per questo motivo recensirlo non
è stato facile. Se fosse rimasto fra me e te e i ragazzi giú da Omar, gli avrei
dato la batosta che si merita. Ma essendo il mondo dell’editoria quello che
è, e il lavoro per costruire un libro quello che è, ho scritto una recensione
molto favorevole nella quale ho faticato sulla roba buona – e quattro delle
storie sono davvero fantastiche – fino a quando non ho riempito abbastanza
spazio per la recensione.
Ti ho preso un po’ in giro, ma è stato un castigo dettato dall’amore per il
tuo bene, e anche il mio onesto sentimento nei riguardi degli aspetti dubbi
del libro. Quello che mi ha dato fastidio è che con questo, il tuo peggior
libro, tu avrai piú lettori che per The Trouble With Tigers e Little Children, i
tuoi libri migliori. Quanto a questo però troverai che la recensione che ho
fatto non danneggerà le vendite – cosa che volevo evitare.
La settimana scorsa ho venduto una storia a «Satevepost» per seicento
dollari e ne hanno chieste altre, ma non ti pagherò comunque il debito
ancora per del tempo. Devo finire di saldare i conti del dottore a seguito del
mio incidente e tu non hai bisogno di denaro.
Ho mandato il primo atto della mia pièce a Nathan. Mi ha risposto che fa
schifo, cosa che non credo, ma che per un po’ mi ha spompato. Ora è in
mano al mio agente e se riesce a sollevare dell’interesse mi ci rimetterò
subito. Altrimenti dovrà aspettare fino a quando avrò finito con i debiti.
Buon anno anche da Joyce.
Johnnie

[A William Saroyan]
John Fante
211 Pleasant St,
Roseville
[senza data]

Caro, carissimo William,


sono convintissimo che tu sia meraviglioso, sei infatti dannatamente
bellino, ma non avresti dovuto lasciarmi giocare cosí a poker quella sera,
con la pancia piena di alcol. Sei un bastardo, tesoro; un sudicio bastardo.
Ho scritto un quarto di una pièce. Si chiama Dago Red, e vi succede che
Nick Toscana tira un pomodoro al ritratto del Duce 4. Questa è l’imbeccata
per l’ingresso dell’esercito italiano che arriva da entrambe le quinte.
Arrivano con dei cannoni leggeri e delle mitragliatrici, e crivellano il
pubblico, poi un ragazzo greco con una sottanina appare da una botola, con
un tipo grande e grosso del genere di Italo Balbo, con la barba e tutto, che lo
sodomizza da dietro.
Vorrei che tu vedessi questa pièce, perché è immensamente
contemporanea, e perché so che tu sei come me, antigreco. Vorrei
leggertela, ad alta voce, io che leggo e tu che ascolti.
È grandiosa, Willie. È una pièce davvero grandiosa.
Ci vediamo da Herb Caen,
Johnnie
[A William Saroyan]
211 Pleasant
Roseville
2 gennaio 1941

Caro Willie,
anch’io sono un grande ammiratore dell’America, come i poveri ragazzi
pieni di cliché tipo Sherwood e gli altri, in questo momento però sono preso
da quella brutta questione materialistica di dover sbarcare il lunario. So che
è generosissimo da parte degli scrittori del Wpa dare la loro roba gratis per
una causa cosí nobile, e vorrei poterlo fare anch’io, immagino però di essere
un vero vagabondo perché non credo che potrò essere all’altezza. Il buon
vecchio Bob Sherwood – scrive gratis! Ragazzi – è coraggiosissimo da
parte sua. Hai visto l’appassionato editoriale che ha scritto per
«Mademoiselle»? Era magnifico. Mi ha fatto drizzare i capelli. E ci sono
ottime probabilità che l’abbia scritto gratis. Deve averlo scritto gratis. Di
certo non pagano denaro per quel genere di prosa.
… Scherzi a parte, di fatto sto per cominciare a scrivere una pièce sul
tema dell’unità americana, ma era ed è mio pensiero di scriverla per un
gruppo di ragazzini della Susanville High School. Se viene fuori bene come
le cose che scrive Sherwood – e non vedo come ciò possa essere possibile –
la rimanderò al grande Commonwealth della Carolina del Nord, dove
trattano i negri come se fossero bianchi e non esiste alcun pregiudizio
razzista contro i banchieri ebrei.
Ho rispedito il primo atto della pièce alla mia agente a New York.
Dev’essere una pièce fantastica. Cosí bella da lasciarla senza parole. In ogni
caso, ce l’ha da tre settimane e non ho ancora sentito una parola da lei.
Vorrei però che la vedessi tu. Quando mi ritornerà – dopo che avrò dato
all’agente la solita paga per averla letta – te la spedirò di corsa. Poi tu potrai
spedirla di corsa a un produttore a New York. Che potrà spedirmi di corsa
un contratto, e io di corsa finire di scriverla. Faremo di corsa le prove e, se
ci affrettiamo, potremo farla uscire a Broadway in primavera. È una corsa
contro il tempo. Se ci mettiamo tutti a lavorare duro davvero possiamo
farcela.
Anche il giorno dopo sono stato malissimo. Mi sono svegliato e ho
sentito che bastava che muovessi le dita dei piedi perché il sistema solare
mi crollasse addosso. Sono rimasto steso per quattro ore, teso e immobile,
meditando su quella calamità. Ma cataclasma 5 o no, dovevo andare al
cesso. E mi è stato chiaro non appena ho messo una gamba fuori dal letto.
Non do la colpa al vino della sala da biliardo. È stato quel torcibudella
frizzante di borgogna di lusso che quei ricchi capitolisti [sic!] ci hanno
servito. Sapevano che noi eravamo proletari, Willie. Ci volevano sistemare.
Se non fosse stato per le nostre origini contadine, per la nostra innata
robustezza, saremmo crollati. È come ho sempre detto: o siamo noi a
sistemare quei cani ricchi o ci sistemano loro. Quando verrà la rivoluzione,
il Soviet a San Francisco, Paul Smith sarà messo al muro. Sarò io
personalmente a dare ordini al plotone d’esecuzione, però ordinerò ai
ragazzi di sparare in aria. Nel frattempo lo colpirò io sulla testa con una
bottiglia di borgogna frizzante.
Perché non vieni a Roseville a trovarmi. È a sole due ore e mezza da
Frisco. Lascia che sia tuo zio Melik a guidare il carro funebre, e tu vieni in
treno. Nel caso che tu possa venire, telefona prima per sapere se sono in
città perché in questi giorni sarò spesso a Sacramento a cercare roba sui
filippini.
Telefono: Roseville 36 W. Ti costa sei bit 6.
Potresti farmi un favore importante che mi frutterebbe cinque banconote
da mille dollari in pochissimo tempo, ovvero dovresti scrivere a Collier
Young e dirgli che ho una grande idea per un film – cosa vera – ma che non
la toccherò se non ci sono garanzie. Credimi: è un’idea valida, tu potresti
far sí che Young mi telegrafasse, cosí io potrei ottenere cinquecento dollari
la settimana per un paio di mesi finendola nei tempi degli studi
cinematografici. Ci vorrebbe troppo tempo ora per dartene un’idea, e
annoierebbe sia me che te, ma non annoierà Young e la sua truppa, perché
come trama di film è bellissima. Fallo per me, Willie. Fagli sentire che lo
metti al corrente di qualcosa di speciale. In ogni caso, se vuoi, puoi dirgli
che lo faccio a uso delle riviste, e che se ci arrivo costerà tantissimo. Il fatto
è che non sto facendo nulla del genere. Ma potrei.
La sai quella del boia che dà una pacca sulle spalle al condannato mentre
gli mette la corda al collo, ride e dice: «Questa ti farà morire»…
[non firmata]
[A William Saroyan]
John Fante
Office of War Information,
111 Sutter Street
San Francisco
[autunno 1942 circa]

Caro Willie –
mi hai mandato un telegramma ignobile. «Meglio per te». Che palle. Ho
provato in ogni modo a trovarti quei soldi. Sono andato in banca e mi hanno
mandato via perché sul mio conto non c’era abbastanza e perché non risiedo
da molto tempo a Frisco e non ho un lavoro da parecchio. Sono andato alle
finanziarie e mi hanno detto la stessa cosa. Ho chiamato con una
interurbana Roseville e non mi hanno dato ascolto perché dovevo avere
qualcuno che garantiva per me. Ho cercato di ottenere un prestito sulla mia
macchina, ma tutto quello che potevano darmi era un centinaio di dollari
che non potevo incassare in ogni caso perché ho perso la mia lettera di
licenziamento.
Ho provato qui con un paio di tipi ma non ce li avevano. Non ho potuto
provare con New York perché devo già dei soldi al mio agente e al mio
editore. Ho debiti anche a Hollywood. Non avevo alternative. Dal tuo
telegramma ho visto che eri disperato e ho fatto quello che mi è parso
meglio. Sono andato da Mardikian perché pensavo che tu ne avessi bisogno.
È stato l’ultimo da cui sono andato e gli ho detto del tuo telegramma. Mi ha
detto che te li avrebbe mandati. Ha detto che dovevi chiamarlo. Ho riferito
il suo messaggio. Sento di aver fatto tutto quello che potevo.
Credi che io il denaro lo accumuli?
Immagini che lo impili in materassi e nei buchi? Hai l’impressione che le
mie risorse siano illimitate? Perché mi domandi di prestarti quello che non
ho? Perché chiedi a un grande amico come me di fare l’impossibile? Stai
forse pensando che mia moglie sia ricca? Ah, amico mio, non pensare cose
del genere. È vero che mia moglie ha ereditato del denaro e una proprietà. È
anche vero che non si può toccare per altri undici mesi. Mettiti l’animo in
pace, amico. Il denaro non è nelle mie mani. Dormi in tutta tranquillità.
Quel denaro non sarà nelle mie mani ancora per del tempo.
Io non ho perso il sonno a preoccuparmi per il tuo telegramma disperato.
Però ho provato a fare quello che mi hai chiesto durante le ore di veglia.
Credimi, ho fatto tutto quello che potevo. Ero ovviamente un po’ dubbioso
circa la tua disperazione. Perché dovresti essere disperato? Sei armeno. Tu
hai dei soldi sotterrati da qualche parte. Ma io VOLEVO aiutarti. Dannazione,
volevo farcela anche solo per ricambiare quella volta in cui mi mandasti
l’intera somma di un decimo del tuo salario settimanale quando ti
prostituivi alla Metro.
Questo non è il cinema, Saroyan. Questa è la guerra. Prima l’impari,
Saroyan, meglio è, Saroyan.
Ho ricevuto una lettera da Lou Adelman. Digli che quando verrà in città
deve chiamarmi all’Owi dopo le cinque di pomeriggio.
Addio, Willie, e tieni pronto il tuo occhio affilato per quei figli di puttana
codardi, quei ratti giapponesi. Scrivi una lettera al tuo amico Fante appena
puoi. Ti risponderà. Risponderà sempre a Saroyan.
Ma non chiedere a Fante duecento dollari in quel modo. Chiedigli una
somma inferiore, e se lui ce l’ha, te la manderà. Fante ha un figlio, un
maschietto, la speranza della nazione. Potrebbe diventare il prossimo
presidente, quando sarà grande abbastanza per farlo. Non prendere soldi dal
genitore del prossimo presidente, quando sarà grande abbastanza per farlo.
L’affitto è di settantacinque al mese; il gas e la luce piú o meno dieci. I
debiti sono elevati. Vedi? È dura per Fante. Fa del suo meglio. E ama che la
gente glielo riconosca. È offeso dal tuo atteggiamento. Tu non lo apprezzi.
Lo hai profondamente ferito.
Un ultimo consiglio. Non sprecare i tuoi soldi, Saroyan. Quando avrai
guadagnato una bella somma, mettila in banca. Non seppellirla sull’argine
di qualche ruscello dietro Fresno. Potrebbe sopravvenire un’alluvione.
Scrivi!
Johnnie

[A William Saroyan]
John Fante
214 Shasta
Roseville, California
[Inizio autunno 1942 circa]
Martedí

Caro Willie,
qua siamo orgogliosissimi di te, noi gente semplice (niente salari Mgm,
ma in ogni caso buona gente, questi Fante). Ne stavo parlando con mio
figlio poco fa (aveva appena sporcato i pantaloni, e stava lí a crogiolarcisi)
quando gli ho detto: «Figlio, cosa vuoi da William Saroyan?» Il ragazzo ha
iniziato a dondolarsi da destra a sinistra prima di rispondere. Poi ha detto:
«Di’ a quel figlio di puttana di mandarmi Phyllis Brooks». A quel punto il
suo enorme pene si era alzato e si era allungato fino a raggiungere la
dimensione di una gomma da cancellare e io ho capito, con la sicurezza del
sangue che riecheggia lungo gli anni, che ero davanti a un giovanotto il
quale con il tempo avrebbe rivaleggiato anche con William Saroyan, il
vecchio Hollywood Bill.
Di’ a tutti di andare in culo, con amore.
Jf

1
Le lettere riportate nella presente appendice sono state cortesemente
concesse da Joyce Fante.
2
In italiano nel testo [N.d.T.].
3
Abbreviazione per picture, cinema [N.d.T.].
4
In italiano nel testo [N.d.T.].
5
Cataclasm nel testo [N.d.T.].
6
Due bits equivalgono a un quarto di dollaro.
Appendice II

I diari di John Fante


Manhattan Beach, gennaio 1940

3 gennaio 1940 – mercoledí

Oggi è arrivato il tavolo da ping-pong, un regalo di mia suocera.


L’abbiamo sistemato nel patio. Ho fatto diverse partite con Joyce e Don
Jacobson e ho vinto sempre. Ci sono delle nuvole a ovest, nere come
inchiostro rovesciato su un tavolo. Oggi per me è stata una buona giornata.
Nessuna preoccupazione, di conseguenza nessun pensiero. Sensi di colpa
per la mia pigrizia, ma è una recrudescenza dovuta a troppe letture di cliché
cristiani sul duro lavoro, l’industriosità, il naso sulla macina, e tutte quelle
sciocchezze. Ci siamo preoccupati e abbiamo temuto che Joyce fosse
incinta. Ieri sera ha avuto le mestruazioni. Abbiamo sospirato di sollievo.
Eppure vogliamo tutti e due un figlio. Un giorno, ora no. Cosí finisce la
prima annotazione su questo diario.

3 gennaio 1940

Fra tre mesi comincerò un altro romanzo. Dio solo sa di cosa tratterà. Ma
per allora la mancanza di denaro forzerà il tema. Una volta Saroyan mi ha
detto: scrivili grandi e scrivili spesso, Johnnie, perché ti dimenticano in
fretta… Come se mi importasse di quando mi dimenticano! L’idea
confortante dell’immortalità mi ha abbandonato molto tempo fa. L’ultima
volta in cui ci ho pensato avevo tredici anni. Allora ne ero convinto. Sapevo
che non sarei mai morto. Sarebbero morti gli altri, ma in qualche modo io
l’avrei fatta franca. Mi sembra però che piú vado avanti a scrivere, meno ho
quella sensazione. Ed è una cosa che detesto, perché ora scrivo per dovere –
il dovere di guadagnare. Ora anche l’orgoglio mi fa scrivere, e un tocco
(esiguo) di ambizione. Orgoglio e dovere. Non sembra possibile che io
possa scrivere qualcosa di duraturo spinto da queste pressioni. Eppure
potrebbe capitare. Le cose migliori vengono fatte in circostanze stranissime.
E questa potrebbe essere una circostanza stranissima.
Questa sera ho pensato a un soggetto per un film ambientato in una
fabbrica di pesce in scatola. Andrebbe bene per un tipo come Gable. Ho
anche pensato molto alla storia suggerita da mio padre. Farò qualcosa anche
con quel soggetto. Finora tutti i soggetti che ho scritto li ho scritti in
collaborazione con qualcuno. Mi piacerebbe farne uno da solo, per provare
a me stesso che sono in grado di farlo.

5 gennaio 1940

Ieri Brownell e io siamo andati a pranzo in città – lui con Oliver


Thornton, io con McWilliams. Con Carey il pranzo è stato interessante. Mi
ha detto di una sua amica che si è suicidata in un hotel di San Francisco. C.
sembrava compiaciutissimo dei resoconti del comitato di La Follette e
molto amareggiato dal fatto che il governatore abbia scelto Oliver Carlson
come uomo per le pubbliche relazioni. C. mi ha dato una magnifica idea per
un romanzo sociologico basato sulla vita dei filippini in California. È
importante e mi sono subito messo all’opera per fare ricerche. Mi
piacerebbe fare domanda per il Guggenheim su questo soggetto. I filippini
sono fra i californiani piú pittoreschi e disgraziati. La percentuale è circa di
una ragazza ogni cento maschi nello Stato e ciò è dovuto alle quote di
immigrazione. Potrei basare il tema del romanzo sul disadattamento
sessuale, e andare sul sicuro. Questo mi eccita veramente. La predilezione
dei filippini per le bionde al perossido con vestiti rossi attillati è un esempio
sorprendente della loro passione divertente e patetica. Sono, io credo –
almeno i filippini di California – piuttosto stupidi, però gli è stata negata
l’istruzione. La civiltà europea non fa per loro. L’attraversano
romanticamente, raccolgono frutta, lavano i piatti, fanno i fattorini
d’albergo, i domestici. I loro usi sono modellati sui valori americani piú
superficiali: gli piacciono le cose alla moda per quello che riguarda i vestiti,
lo stile di vita della rivista «Esquire». Devono ottenerlo con dei salari bassi
e contro considerevoli pregiudizi. Sono odiati ma non c’è nessun
movimento organizzato contro di loro perché non hanno invaso seriamente
il posto della manodopera americana. Sono gli operai di livello infimo della
civiltà californiana. Nelle campagne non sono abbastanza da creare un
problema. Sono appena tollerati. Hanno un grande senso della lealtà.
Vogliono essere accettati. Ricordo che una volta Fanya Foss mi ha
raccontato di un incontro di comunisti a cui erano andati e che i filippini
erano eccitatissimi per il comunismo, non tanto per la filosofia economica
quanto per la democrazia del libero amore. In questo incontro l’oratore ha
insistito sulla promessa della libertà di fare l’amore con tutte le donne,
bianche e di colore. I filippini erano molto emozionati a questa prospettiva.
Hanno espresso a gran voce il loro entusiasmo per l’oratore. Roba cosí
sarebbe fantastica in un libro. So qualcosa di loro, ma non abbastanza per
toccare l’argomento del loro background. Ho lavorato con loro alle
fabbriche di conserve alimentari a Wilmington. Allora non mi piacevano,
ma ero giovane e pieno di pregiudizi che ora non ho piú.
Dopo aver salutato Carey ho incontrato Brownell, Oliver Thornton e
Eleanor Boggian al bar dell’Hotel Clark. Abbiamo bevuto insieme e poi
abbiamo cenato da Little Joe’s. Dopo cena siamo andati in una casa nel
quartiere dei neri per bere ancora. Brownell ha incontrato una nera con cui
ha vissuto e ci siamo seduti intorno a un tavolo a casa del pappone della
nera. C’era un juke-box, noi ci abbiamo messo delle monetine, abbiamo
bevuto mentre la musica suonava e Brownell ballava con la sua nera.
Quando è stato il momento di andarsene Thornton voleva rimanere. Era
ubriaco. L’abbiamo lasciato lí, siamo andati in un altro posto ad ascoltare
una nera grassa che cantava delle canzoni blues. Alle tre di mattina siamo
tornati da Thornton. Non voleva venire, io però l’ho trascinato via e l’ho
messo sul sedile anteriore con me. Brownell aveva lasciato la sua nera ed
era sul sedile posteriore con Eleanor, la ragazza di Thornton. Tornando a
casa in macchina, si era arrabbiato come un matto, da ubriaco, diventando
geloso. Si era convinto che Brownell stava provando a sedurre Eleanor.
Tutto ciò era assurdo. Thornton però aveva aperto la portiera della
macchina e io ho dovuto rallentare altrimenti me la tranciava il vento.
Thornton è saltato fuori e ha cominciato a prenderlo a pugni dicendo che
era un figlio di puttana e altre oscenità. Li ho separati e ci siamo azzuffati
per strada. Apparsa macchina della polizia, sceso poliziotto che mi dice di
far risalire Thornton in auto e di portarlo via. Aveva dato a Brownell un
sacco di pugni fortissimi e aveva colpito Eleanor sulla bocca. Brownell non
si era difeso perché aveva visto che Thornton era ubriaco. Comunque siamo
poi arrivati davanti all’hotel e ha ricominciato. Mi ha nauseato e gli ho dato
uno schiaffo per calmarlo. È sceso e mi ha colpito diverse volte. Poi gli ho
tirato un sinistro e l’ho steso. L’abbiamo portato dall’altra parte della strada,
all’hotel, e io sono salito in camera con lui. In ascensore mi ha tirato i
capelli e non mollava la presa. Al settimo piano mi ha colpito di nuovo
allora gliele ho suonate ancora e l’ho steso di nuovo, poi l’ho spogliato e
l’ho messo a letto. Aveva la faccia gonfia e blu e c’era del sangue. Era un
casino. Non volevo colpirlo, ma mi sembrava la soluzione migliore e piú
rapida. Brownell e io abbiamo portato Eleanor a casa e siamo tornati qui
alla spiaggia alle quattro e un quarto di stamattina.

6 gennaio [1940]

Ieri sera Brownell, Jacobson e io siamo andati in città a trovare


Thornton. La faccia di Thornton era piuttosto gonfia, aveva gli occhi
appannati, le costole fasciate e due dita steccate. Thornton si lamentava di
«vedere ometti da tutte le parti» e aveva paura a camminare perché temeva
di «calpestarli». Poi è arrivata la moglie e se l’è portato via. Sembrava
tragicamente infelice. Jacobson e io ci siamo fermati a bere nel bar di Clark.
Jacobson, sei piedi e tre, duecentoventicinque libbre, è assolutamente
eccitatissimo dal suo corpo massiccio. È davvero un bel gigante. La sua
mente è comunque delle dimensioni di una capocchia di spillo. Però mi
piace. Invece non mi piace la sua ambizione: diventare attore. Parla della
sua grande occasione, che lo renderà un attore famoso. Vive per questo,
compiacendosi moltissimo del suo corpo grande e bello. Immagino che quel
tipo di ideale vada bene. Lo immagino, ma che diavolo.
Sono sempre eccitatissimo per il romanzo filippino. Ho un’idea ancora
non definita per una storia ma su cui si può lavorare: un tipo come Ceferino
Garcia, un agricoltore spaccone e lottatore – la storia delle sue
peregrinazioni, dei suoi amori e delle sue battaglie. Non ho abbastanza da
annotare in questo diario. Stasera mi sento male, mi sento di un male del
diavolo. Mi sono ubriacato per due sere di fila. La Terra e gli uomini mi
rattristano. Il mondo mi fa piangere. Gli uomini che vagano sulla Terra,
uomini che stanno nelle loro casette con le mogli e i bambini,
nascondendosi dalla Terra. Gli affari, l’aumento dello stipendio, uomini
dell’università che escono per suonarle al mondo, mio fratello Pete, tutti gli
uomini miei fratelli, cosí tristi, troppo presto per morire, Terra infelice,
stanca per i suoi figli perduti. C’è bisogno di qualcosa – una scarica
d’eccitazione, un’idea per cui morire, un modo per tenere lontana la morte.
Combattere il fuoco con il fuoco, combattere la morte con la morte. Forse la
risposta è nella guerra in arrivo. Questo in bocca mia sembra polvere e
menzogna. Be’, l’ho detto, l’ho scritto. Lo riguarderò piú tardi e vedrò se
sono cambiato.

8 gennaio [1940]

… Ieri ha piovuto sempre. Ho spesso dei momenti di debolezza e


depressione. Stamattina mi sento bene. Sono venuti i Brownell. Abbiamo
giocato a ping-pong. Ieri sera ho portato Joyce e Kay a vedere un film a
Inglewood. Charles Laughton in La taverna della Giamaica. Robaccia, ma
Laughton era eccellente. È bellissimo qui al mare. Dormo serenamente.
La situazione della guerra diventa piú complessa. La settimana scorsa le
dimissioni di Hore-Belisha come ministro di Guerra hanno indicato che
qualcosa di cattivo e tragico è in atto nel circolo degli alti ufficiali inglesi.
Hore-Belisha è ebreo. La spiegazione per le sue dimissioni sembra
coincidere con il sentimento antiebreo in Germania. Questa guerra è
intollerabile. Da tutte le parti comandano briganti. Detesto gli inglesi quanto
detesto i tedeschi, e il mio disprezzo è per i francesi e gli italiani. I russi
sono degli assassini aggressori e i finlandesi sembrano strumenti dei sudici
inglesi. La fibra morale in questo XX secolo si è trasformata in pus. Il
paziente morirà o sarà costretto a perdere moltissimo sangue. Sono
contrario alla morte, ma credo che il mondo sarebbe migliore se il paziente
venisse ucciso. Lo pensavo tanto tempo fa quando le cose del mondo non
mi toccavano, ed ero indifferente. Quel pensiero ora non c’è piú. Ogni volta
che quella faccia da carogna di Neville Chamberlain si soffia il naso ciò ha
delle ripercussioni sul piccolo oceano della mia vita. Cosí Hitler, Mussolini,
tutti loro. Questa è una situazione mostruosa. Se la cura stesse solo nello
sbarazzarsi di chi comanda, credo che sarebbe stato fatto secoli fa. Ma c’è
un’abbondanza di cosiddetti leader, come funghi, come c’è una
sovrabbondanza di stupidità su questa Terra. Una sorta di cristianesimo
altamente raffinato è l’unico sistema per uscirne, per come la vedo io.
L’uomo non ha mai dato davvero una possibilità a Cristo.

9 gennaio [1940]

Ieri sera qui c’era una folla di persone – Jacobson, Brownell, Kay e una
coppia di attori dilettanti. Sono state fatte una quantità di chiacchiere inutili.
Jacobson è riuscito a parlare piú di tutti e ad attirare l’attenzione su di sé.
Adulava, arrossiva e faceva dannatamente il carino, per tutti i suoi sei piedi
e tre di statura. Era efficace e un po’ nauseante. Gli attori, ovviamente, sono
sempre nel personaggio – quello di qualcun altro. Giú al piano inferiore, la
moglie di Jacobson, incinta di sei mesi, era a letto e si domandava cosa gli
fosse successo, perché aveva promesso di essere a casa per le sette, ed è
andato via che era quasi l’una. Un attore resterà fino a quando si è liberata
l’ultima sedia e l’ultimo ascoltatore si è addormentato.
Ieri ho lavorato un pochino al mio racconto. Dovrei finirlo oggi, ma
dubito che ci riuscirò. Ieri sera Joyce e io abbiamo avuto un momento
d’amore appassionato, una splendida, succulenta e devastante emozione.
Questa mattina il ricordo mi rende ancora caldo e lascivo.

13 gennaio [1940]

Giovedí sono andato in macchina in città sotto la pioggia per prendere le


nuove targhe del 1940. Ho fatto un salto all’ufficio di Carey per ritirare del
materiale sui filippini, e là ho parlato con Carey e Margaret Kalish, la sua
segretaria, una giovane dall’aspetto estremamente pulito, ma direi
pericolosa dopo una relazione. Voglio dire, la brandirebbe come un’ascia
sulla testa di un uomo, se questo fosse sposato. Lo dico senza cognizione di
causa, è solo un sospetto. Appartiene a quel gruppo di intellighenzia che
verso la fine degli anni Trenta di questo secolo considerava l’essere
comunisti come l’ultra ultra. È tuttora, io credo, rappresentante del Partito
comunista di questo distretto. Lei e tanti come lei hanno ricevuto una
tremenda bastonata, quanto a principî politici, dall’alleanza russotedesca e
dall’attacco russo alla Finlandia.
Quel pomeriggio sono andato alle udienze al La Follette Committee nel
Federal Building. Ne sono uscito disgustato. Sembra dannatamente futile
interrogare solo nemici del lavoro e ascoltare le loro risposte, per la
maggior parte bugie, a beneficio degli archivi. Non ho mai sentito delle
bugie cosí evidenti in tutta la mia vita, né un tale smascheramento di bugie
come quando La Follette ha cominciato a investigare sulle condizioni di
lavoro in California del Sud. Quella «inchiesta» è una farsa. Mostra tutto il
marcio del sistema politico, ma poi non fa nulla contro di esso. In breve,
prende a calci nei denti la santità della verità. Il cinismo delle persone
esaminate da La Follette è qualcosa che suscita meraviglia. Eppure non gli
si può dare la colpa. Sono dei duri individualisti, e l’unico principio che
seguono è quello di calpestare gli altri in modo da prendere e ammassare
piú che possono dei beni di questo mondo. Non sono d’accordo con questi
lupi inesperti, ma certamente non posso condannarli perché fanno quello
che secoli e secoli di civilizzazione europea hanno insegnato loro.
Quella sera Carey e io ci siamo ubriacati terribilmente e abbiamo fatto il
giro dei bar. Siamo finiti in un quartiere di neri nel Wilshire District. Io ero
troppo ubriaco per guidare fino a casa. Sono rimasto in un hotel e Joyce ha
fatto l’inferno la mattina dopo quando sono tornato qui. Troppo esaurito ieri
per lavorare, ma sono rimasto molto colpito da Cosí muore la carne,
un’opera poderosa di Butler.
Oggi ho lavorato un paio d’ore sul racconto, che diventa piú lungo a ogni
seduta. Ho buttato giú circa millequattrocento parole di roba meravigliosa.
Oggi ho lavorato al sole, una giornata sfacciatamente bella, fresca, sinuosa e
piena di una luce stupenda.
Ho raccolto abbastanza materiale per il romanzo filippino, ma ne posso
usare poco. Non metterò mano al libro prima di aver delineato in modo
chiaro la storia. Credo che dovrebbe essere un libro breve, Joyce però dice
che mi metterò nei guai con i critici se faccio un altro libro corto. Non vedo
che diavolo abbia a che vedere la lunghezza con questo, tranne che per fare
un libro lungo questa volta dovrei riscrivere sugli italiani. Francamente non
c’è niente che mi interessi in particolare. Sono contento di lavorare a questo
racconto e poi a un altro, se mi viene in mente qualcosa. Uno scrittore si
sente maledettamente bene quando produce una pagina dopo l’altra ogni
giorno, fintanto che scrive quello che si sente di scrivere. Ora sento di dover
scrivere racconti.
Sono curioso di sapere perché il mio editore non mi scrive per avere un
libro quest’autunno. Ovviamente si aspetta che gli scriva io, perché dà per
scontato che io sia al verde e che afferri al volo quello che ha da offrirmi.
Non sa, quel gran fottuto, che ho venduto un soggetto per il cinema e che ho
dei soldi in banca. Riderò quando riceverà lo shock nel sapere i termini che
stabilirò per un libro nuovo.

20 gennaio 1940

Questo l’ho scritto da Fresno dove Carey McWilliams e io ci siamo


fermati durante una gita lungo la costa di San Francisco. Abbiamo lasciato
Los Angeles ieri sera e abbiamo passato la notte a Bakersfield. In teoria
sono qui per raccogliere del materiale per il libro sui filippini, ma oggi a
Fresno si gela, e il mio progetto di andare in giro per i quartieri malfamati
non è piú cosí allettante dopo aver preso freddo venendo da Bakersfield.
Il mio racconto sta rapidamente trasformandosi in un romanzo breve. Ho
in mente di chiamarlo Fickle Woman. Ho già scritto piú di diecimila parole
e spero di finirlo durante questo viaggio. Accidenti alla macchina da
scrivere di Carey.
C’è un incredibile degrado fra gli emigrati visibile anche dall’autostrada.
Una campagna amara, sterile, senza ispirazione, e faulkneriana. Pianura
squallida nella valle di San Joaquin. Campi di cotone, frutteti, marrone
inverno e ostili. Gli emigrati che ci lavorano vivono in tende e baracche. La
mia indifferenza verso di loro mi sorprende. Mi contento di dire che le loro
condizioni sono miserabili. Oltre a ciò non sento altro e francamente posso
fare poco. All’inferno tutto il problema degli emigranti che lavorano. Ha
avuto abbastanza pubblicità da Furore. Nelle città c’è una miseria ancora
maggiore, ma non è stata pubblicizzata.
Ieri ho ricevuto una lettera da Soskin. Vuole un altro romanzo mio,
ovviamente. La sua lettera era poco soddisfacente. Ha dato vita a una nuova
casa editrice ed è caratteristicamente eccitato. Ma mi ha fregato troppe volte
nel passato.
Questo racconto o romanzo breve che sto scrivendo è uno dei progetti di
maggior soddisfazione che abbia mai intrapreso. Scorre con una facilità
meravigliosa. Ha delle qualità che non ho mai ottenuto negli altri scritti.

23 gennaio 1940

Domenica mattina, 21 gennaio, sono partito da Fresno, e sono tornato a


Los Angeles il giorno stesso. Sono andato via perché non mi divertivo alla
Conferenza per l’azione democratica. Il Fresno Hotel straripava di quella
gente, questi orrendi politici, tutti con il naso nel trogolo; anche quegli
indicibili Winebrenner, tutti con un lavoro da ingrassare o da proteggere,
tutti lí nel nome di una moribonda democrazia, tutti a fare confusione e a
dar voce al frasario di un sistema scomparso e mai troppo valido. Amo la
democrazia, ma detesto i democratici di professione. Bisognava vederli,
sentirli, guardarli. I loro discorsi facevano lo stesso chiasso di quando ero
ragazzo, e gli oratori erano dei tipi ancora peggiori, perché da ragazzo
almeno non capivo i chliché. C’era il segretario del governatore, un tipo che
si chiama Mosk, che era l’ambasciatore speciale del governatore. Quel
gentiluomo potrà anche essere un buon segretario, e confesso che ha un
dono per vestirsi, ma quello che è uscito dalla sua bocca in quel discorso di
parole vuote lo condanna per l’eternità, a mio giudizio, in quanto ritardato
mentale. Tutto l’insieme non era affatto divertente. Un gruppo di idioti che
vanno in giro per il nostro Stato in quel modo rappresenta una situazione
molto pericolosa. Ovviamente poi i comunisti erano presenti, alcuni
dichiarati, altri si supponeva fossero tali. Un gruppo di scontenti, cattivi
come i democratici; un branco di intellettuali compiaciuti di sé, dal sangue
freddo e sediziosi. Come Margaret Kalish, la segretaria di Carey. Quando le
ho detto che mi piacevano tante cose italiane perché la mia gente è italiana,
ha fatto finta di credere che questa fosse un’affermazione pittoresca e
primitiva. Fingeva stupore davanti a questo atteggiamento. Cosí scioccante
e insolito eccetera. Mi ha prostrato. L’ho detestata. Non posso fare a meno
di pensare che sia una ragazzina carina, ma questo miserevole episodio mi
ha fatto innervosire. Poi c’erano gli altri. Un tipo piuttosto gentile che si
chiama Miegs, che gestisce la fiera dello Stato. Uno stupido avvocato che si
chiama Sawyer da Frisco che ha degli importanti lavori per il Comitato. Un
rumoreggiante demagogo che si chiama J. Frank Burke che ha letto un
orrendo discorso con strane parole dentro del genere «elemosinari», o
qualcosa del genere, intendendo dire, immagino, carità. Ha pronunciato
quella parola cinque volte in un discorso di venti minuti. Si è veramente
infuriato per come vengono trattati i poveri. Tutti i maiali nel trogolo
l’hanno applaudito. È rimasto considerevolmente impressionato da quella
ovazione. Si è alzato in piedi e ha bevuto un bicchier d’acqua, raggiante di
contentezza. L’unico uomo onesto del gruppo era Carey McWilliams. È
l’unica persona onesta, che io sappia, in tutto il dannato Partito
democratico, anche se dicono che Kidwell è onesto, però io non lo conosco.
Sí signore, Carey è INTEGRO . Ma è anche un cattivo oratore, una personalità
non troppo forte, anche se è infinitamente saggio e acuto. Non ha le qualità
di un leader. Comunque, quando ho visto quello che mi circondava, mi sono
messo a bere forte nel bar dell’hotel, continuando poi con Carey, Kalish e
Eleanor Boggian, che era lí per leccare il culo a tutti gli avventori che la
tolleravano. Sabato sera sono andato a letto ubriaco e domenica a
mezzogiorno sono partito per Los Angeles. Sul treno ho bevuto ancora, mi
sono messo a fare una fantastica partita a poker, e sono arrivato alle sette e
trenta in città dove Joyce, Bob e Kay mi aspettavano per riportarmi in
macchina al mare. Ovviamente ieri mi sentivo malissimo, con un’amara
depressione da postumi, pensieri suicidi, idee degenerate, allucinazioni
fantasticamente orribili, e anche oggi per un po’ è stato cosí, ma sta
passando, e mi impegnerò a fare del mio meglio per restare sobrio.

27 gennaio 1940

Ho scritto quindicimila parole della storia che sto chiamando Fickle


Woman. Ora sono fermo. Mi sono impantanato. Devo inventare qualcosa
per tirarla fuori dalla palude e finora non so cosa possa essere. Ieri questa
casa era un manicomio. Joyce era furiosa per il modo in cui la gente viene
qui, si ferma tutto il giorno e ci costringe a uscire fuori di casa per avere un
po’ di privacy. Fries è arrivato da Los Angeles, poi Bob e Kay sono venuti
per prendere in prestito la mia auto, lasciandoci in cambio il loro macinino.
Poi Kay è rimasta a usare la mia macchina da scrivere fino a quando è stato
comunque troppo tardi per lavorare, poi siamo usciti, Joyce e io, per andare
a cena con il macinino di Bob e io sono diventato matto per farlo partire.
Poi siamo tornati a casa dopo cena e un film, Ross e un paio di prostitute
erano stati qui, a giocare a ping-pong, a fare fracasso, e hanno lasciato le
luci e la radio accese. Tutto questo a me non dà noia, ma Joyce è fuori di sé.
Milton Folawn mi scrive dal Colorado e mi dice di essere stato in un
ospedale psichiatrico cercando di curarsi perché alcolizzato. Ora è uscito.
Non fa parola del fatto di essere guarito. Non guarirà mai. Il suo egoismo
gli ha scavato un gran buco nell’anima. Ora quel grande buco è là, e
riecheggia con forza. Bisogna riempirlo. Con l’alcol.
Oggi è il primo di cinque giorni in cui sono stato capace di scacciare un
terribile attacco di malinconia, con dei rimuginamenti morbosi sulla morte,
la mia, e sulla generale futilità dell’uomo. Credo che il mio problema sia di
natura biologica piuttosto che un derivato di cinismo. Ha a che vedere con
un’insufficienza ghiandolare. O vitaminica. Non mi si fa fesso cosí
facilmente come pensa la mia mente. Una buona massima per una persona
può essere questa: che la nostra felicità non è scritta, che il destino
dell’uomo è di essere infelice. Se possiamo rassegnarci a una specie di non
speranza che non sia suicida, credo che avremmo una buona filosofia di
vita.
Ho letto un po’ di Jeffers, ieri sera. Puzza. Ora so perché le divorziate e
le donne di mezz’età amano il suo lavoro. È selvaggiamente indiretto,
sessuale, e secondo me la sua roba è di pochissimo valore. In Give Your
Heart to the Hawks ho notato uno sforzo da parte di Jeffers di eguagliare in
poesia, e una pessima poesia, quello che Cain ha fatto nei suoi noiosissimi
romanzi. Jeffers è il poeta piú sopravvalutato della sua generazione. La sua
dappocaggine, la sua ingenuità da riviste pulp mi sciocca.

29 gennaio 1940

Ieri, domenica, è stato bellissimo. Siamo stati a non far nulla sulla
spiaggia e ho cominciato ad abbronzarmi. Che giornata! Mi sono dovuto
fermare un centinaio di volte per dirmi come era bella.
Frances Phillips della Morrow era qui per parlare con me di un libro.
Abbiamo pranzato a Little Bavaria. Credo che Phillips sia lesbica. Mi è
piaciuta. Sono lontanissimo da un libro nuovo. Gli editori mi scoraggiano.
Vogliono sempre quello che io non mi sento di fare. Phillips era solo
vagamente interessata al romanzo sui filippini. Da me vuole un grande libro
italiano.
Ieri sera sono andato a Redondo e ho giocato a una strana roulette. Ho
perso tre dollari. Non sono molto attenti qui nel loro adempiere
all’ordinanza della città che proibisce il gioco. Se vinci, ti dànno una stecca
di sigarette. Tu la porti sulla spiaggia, poco lontano da lí, e un altro negozio
la prende in cambio di denaro. È divertentissimo. Avevo guadagnato nove
dollari e avrei dovuto smettere, perché stasera ci vorrei tornare. Ho faticato
moltissimo per far scucire a Joyce tre dollari. Ho dovuto promettere che non
ci sarei tornato, promessa che ovviamente non manterrò. Che diavolo – chi
se ne importa di tre stupidi dollari? Ross Wills sarà molto divertito quando
gli dirò della roulette. Ama giocare. Credo che lo chiamerò oggi e gli dirò di
venire.
Sono fermo con La donna è mobile 1, o Fickle Woman. Oggi cercherò di
rimettermici. Ho scritto quindicimila parole e il resto dovrebbe essere facile
una volta che supero questo ostacolo. Non so quale sia il problema. Credo
di essermi annoiato.
Oggi con la posta è arrivata la notizia che posso unirmi alla società
onoraria Eugene Field senza dover pagare. Ma nonostante la lista di nomi
famosi del comitato di Direzione, non sono interessato. Non so molto di
Field, tranne che ha scritto dei bei versi per bambini.
Joyce ha scritto una poesia che si chiama Portrait of Jenny, una cosa
molto bella. Ha talento per la poesia, ma anche un buon talento per
trascurare la sua poesia. Potrebbe diventare una splendida poetessa se ci si
mettesse. Ma non lo fa. Una volta ogni tanto le rimorde la coscienza e
lavora come una pazza. Ma non basta.

1
In italiano nel testo [N.d.T.]
Appendice III

La prima volta che ho visto Parigi

Una sera, verso le otto, camminavo lungo Avenue


George V come attraverso un fiume di calore, la
giacca sulle spalle, domandandomi come diavolo
facessero questi francesi, tutto il giorno precisi come
pinguini incravattati e inamidati, e le donne poi
sempre chic nei loro vestiti scampanati, alcune in
pelliccia nonostante il caldo.
Ma la maggior parte di queste pollastrelle in
pelliccia era americana, le stole di visone come
simbolo di identificazione globale, assoluto come le
Stelle e Strisce, nel senso che stavamo andando da
Maxim e poi in un locale di strip-tease, nudo totale,
darling, e quando siamo tornati in albergo Harry era
di nuovo un ragazzino.
A un certo punto all’angolo, appoggiata al muro
della Croce rossa francese, c’era questa donna,
vecchia come Parigi, la donna piú vecchia e
pidocchiosa e brutta che abbia visto in nove
settimane di Francia, con la pelle come Notre-Dame
e i capelli grigi stopposi arruffati e sudati, poteva
esserci un nido di piccioni dentro, e con un vestito di
cotone di quelli che puoi trovare nelle baracche
abbandonate del Texas dell’Est, quelli che usi per
bloccare una perdita dallo scarico… e le sue caviglie,
massicce come pali, gonfie, bianche, cacciate dentro
le scarpe, due pezzi di pelle sbrindellata, e stava
piangendo, la faccia coperta dai gomiti, singhiozzava
– il fiume piange mio figlio mio figlio è morto, mio
marito, l’hanno portato via per sempre e io sono sola
adesso – una litania straziante di questo tipo, e io mi
sono fermato e l’ho fissata, e ho sentito che dovevo
fare qualcosa, ma cosa? Almeno dire qualcosa, sta
male? ha bisogno di un dottore? vuole qualche soldo,
Madame?
Invece ho proseguito oltre come tutti gli altri,
immune al dolore di un essere umano, e ho
continuato a galleggiare nel caldo della sera, ma
quando ho attraversato la strada ho pensato: aspetta,
non puoi fare questo, lasciarla cosí, devi tornare
indietro e aiutarla, ma perché proprio io? Non se ne
preoccupa nessuno, perché dovrei farlo io? E poi
probabilmente arriverà qualcuno, cosí ho aspettato, e
l’unica cosa che si è fermata a curiosare è stato un
piccolo scottie marrone, legato a un guinzaglio
cromato, che si è avvicinato e ha annusato quelle
caviglie bianche e poi è stato tirato indietro dalla sua
distinta padrona.
Poi è arrivato un signore che teneva la giacca sulle
spalle come me, forse era un fornaio, o forse un
operaio, la polvere del suo onesto giorno di lavoro lo
rivestiva delicatamente, si è fermato e si è sfregato il
mento, quindi ha proseguito, si è girato un’altra volta
e poi è scomparso per sempre. Lui e io, mi sono
detto, lui e io.
Dio mio, a nessuno importa niente, che civiltà,
Jacques Fath e i loro pasticcini e Giuda, ti spennano
in quei bistrò con tutte quelle mignotte, che Paese,
non c’è da meravigliarsi che siano stati sconfitti.
Nemmeno due gendarmi che sono arrivati e si sono
fermati a due piedi da lei e hanno infilato il pollice
nella cintura e hanno fissato il cielo e ovviamente
hanno esclamato: «Oddio, ci dobbiamo abituare alla
pioggerellina».
Io mi sono detto, va bene zuccone, ti diverti o
cosa, allora perché stai qui a guardare, ti stai proprio
divertendo, eh?
Cosí mi sono voltato e ho proseguito per un altro
isolato verso il mio albergo, in mezzo a una massa di
ragazzini in attesa che Elvis venisse fuori, e io sono
entrato e ho chiesto se c’era posta per me. Niente
posta. Tutto a un tratto sono scoppiato a piangere per
la mia meravigliosa California, ho tagliato per il bar
che è magnifico con tutte le pareti ricoperte di
mogano, mi sono seduto in una poltrona rossa e mi
sono guardato intorno alla ricerca di un ragazzo di
Fresno che conosco che viene ogni tanto a farsi una
birra, ma non ho visto nessuno se non una principessa
indú, un attore italiano, una contessa che in realtà non
è una contessa, quattro deliziose puttane fiere della
loro professione, e terribilmente care, e i soliti
francesi eleganti in abito nero e colletto inamidato
che indossano come niente fosse. Ho bevuto due
highball mentre pollastrelle troppo delicate per essere
toccate mi galleggiavano davanti agli occhi.
E improvvisamente eccola di nuovo, quella
vecchia all’angolo – possibile che fosse ancora lí?
No, non era possibile, ma se invece fosse stato cosí?
Non mi avrebbe abbandonato mai, questa cosa,
questo torcimento di divina idiozia che mi pungola e
mi incasina sempre, sempre che vuole sapere le cose
della gente, che non la può lasciare per conto suo.
Era ancora lí, la vidi da un isolato prima,
immobile nel caldo della sera, questa cosa
cominciava a irritarmi e mi sono detto che doveva
essere una farsa, è un’accattona, cretino, la gente le
dà qualcosa per compassione, possibile che sei cosí
stupido? Ma nessuno le dava niente se non una rapida
occhiata, e quando ho raggiunto l’angolo e lei in
mezzo alla strada, il suo dolore era quasi tangibile,
enorme e strisciante e storpio nel caldo della sera, e
mi straziava senza sosta e io sapevo che dovevo
aiutare quella donna o ne avrei portato il peso in me,
e forse avrebbe staccato un altro pezzettino della mia
morte sulla Terra.
Allora ho attraversato la strada e mi sono fermato
davanti a lei, e il mio magistrale francese ha preso il
comando: c’è qualcosa che non va, Madame? Posso
aiutarla, señora, no français, parla un poco italiano,
ha bisogno… io posso… cosa c’è nonnina? Ho
toccato la pelle della vecchia Notre-Dame, la mia
mano si è posata delicatamente sulla gargouille, e
improvvisamente, quasi con orrore, mi sono detto che
poteva essere una santa, era possibile, perché i santi
possono essere i tipi piú strani nei posti piú
impensati.
Lei si è girata e mi ha guardato, gli occhi piccoli,
sgualciti, e lacrime grandi come gocce di pioggia nel
caldo della sera. Io ho detto, per favore, Madame,
non pianga piú, io la aiuterò, vuole un dottore,
qualcosa da mangiare, del vino, qualsiasi cosa, e ho
tirato fuori un pacchetto di banconote enormi, e ho
detto le prenda, pour vous, merci, se vuole, gracias,
per favore. Lei ha scosso la testa e sembrava volesse
dire idiota, e ha continuato a piangere, ancora di piú.
Allora mi sono agitato, ho perso il controllo e ho
afferrato questo tipo, aveva l’ombrello e indossava un
panciotto, poteva essere l’ambasciatore francese, e io
ho detto, per amor di Dio cerchi un po’ di capire che
cosa ha questa donna, lui è rimasto sorpreso, si è
girato e le ha parlato con voce bassa e melodiosa, con
fare intimo e gentile come fosse suo figlio, e lei gli ha
risposto con voce bassa e melodiosa, con fare intimo
e gentile come fosse sua madre.
Poi si è girato verso di me e ha detto: «Non vuole
nulla, solo di essere lasciata sola con il suo dolore».
Ha fatto un inchino da ambasciatore francese e si è
allontanato.
Ho sospirato nel caldo della sera e sono tornato
indietro in albergo, in mezzo ai ragazzini in attesa di
Elvis, ho ordinato un drink, e c’è stato un momento
in cui sono rimasto senza fiato pensando alla dignità
umana, e improvvisamente Parigi è diventata un gran
posto.
Appendice IV

John Fante1

Un giorno nell’estate del 1932, allo studio


cinematografico dove lavoravo, mi dissero che c’era
un certo signor John Fante che voleva parlarmi e che
aveva una lettera del mio amico Carey McWilliams.
Esitai, perché in quei giorni ogni giovane scrittore, o
scrittore in fieri, che arrivava a Los Angeles – e ci
venivano tutti! – andava dritto dritto allo studio
legale di Carey per chiedere a lui, un autore già
conosciuto, molti favori, specialmente un aiuto per
trovare lavoro nel cinema in modo da poter
guadagnare e mantenersi mentre scriveva il Grande
Romanzo Americano; Carey andava loro incontro
sbolognandomeli, accompagnati da una lettera e da
gran divertimento da parte sua. Come Carey sapeva
bene, nove su dieci di questi aspiranti erano vacui,
per usare un eufemismo; e il peggio era che quello
scaltro burlone non mandava mai nessuna ragazza
carina fra tutti i geni di sesso femminile.
Ero quindi dell’umore di far dire al visitatore che
ero andato a pescare e che non sarei tornato per sei
mesi, quando improvvisamente mi venne in mente
che quel Fante poteva essere l’autore dello
stupefacente racconto Chierichetto, il primo che
avesse scritto, apparso sull’«American Mercury» di
H. L. Mencken. Decisi allora di andare nella sala
d’aspetto senza farmi annunciare per dargli
un’occhiata e, se necessario, sparire.
Ed era lí. Non si poteva non vedere. Non era
seduto sulla panca, mite, ad aspettare. Non lui.
Tipicamente, come avrei scoperto in seguito, si
sporgeva con audacia sulla scrivania della
receptionist, molto carina, riversando sul turbamento
di lei una vera e propria cascata di incalzanti parole
poetiche.
Bassetto, vivace, con le unghie mangiate e le mani
tozze, era abbigliato con delle vecchie scarpe da
tennis e dei pantaloni troppo grandi, sformati, che
minacciavano di cadergli dai fianchi per unirsi al
punto dove la loro lunghezza esagerata era stata
arrotolata fino al bordo dei suoi calzini. Sotto una
giacca con le toppe, verde brillante, sagomata sulla
schiena, e con le maniche troppo corte, portava un
vecchio golf viola con lo scollo a v.
Sopra a questa mise c’era una massa di capelli
biondo-rossicci, che una volta erano stati divisi nel
mezzo, e una faccia impudente e lentigginosa che
sarebbe potuta venir fuori da una qualsiasi cittadina
americana. Mi ha immediatamente fatto pensare a
Mark Twain e stabilii che se quel tipo non era un
discendente diretto di Huck Finn, allora era il
discendente diretto del cugino di Huck. Pensai che
era uguale a tutti i ragazzini con cui ero cresciuto
nella mia cittadina in Missouri, nel lontano 1912. Se
qualcuno in quel momento avesse scommesso dieci a
cento che si trattava di un italiano, avrei accettato
subito, il nome di quel ragazzo doveva essere
«Stumpy» Smith o «Spot» Jones. Perché John Fante
ha l’aspetto meno caratteristicamente italiano di
qualsiasi altro italiano io abbia mai conosciuto, ed è
altrettanto caratteristicamente americano quanto
qualsiasi americano esistente.
L’abbagliata receptionist riuscí finalmente a
spostare la sua attenzione su di me. Lui si girò e fece
un sorrisone, e dal quel momento diventammo amici.
Non aveva mai visto uno studio cinematografico,
e mentre facevamo la reciproca conoscenza
gironzolammo un po’. Dissi: – Cosí tu sei un altro di
quei tipi che scriveranno il Grande Romanzo
Americano, vero?
Lui si fermò e alzò il pugno chiuso verso il cielo
in un’amabile sfida. – Dieci! Venti! Ho quaranta
grandi romanzi dentro di me! Tutto quello che voglio
è del tempo, una macchina da scrivere e un panino
ogni tanto!
Camminava nel modo leggermente tipico di chi ha
le gambe arcuate e i piedi piatti, con le braccia
piuttosto lunghe e grosse che ondeggiavano accanto
al suo torace carenato, con il mento sporto in fuori
come in segno di sfida, e mi ricordava un giovane
scimpanzé appena liberato nella sua giungla, e che
agogna tutte le avventure che può trovare. A ogni
passo le dita dei suoi piedi sembravano entrare nella
terra, come esprimendo la profonda convinzione, già
evidente, che la Terra fosse un posto bellissimo ed
eccitante e che lui avrebbe cercato di starvi il piú
vicino possibile, e per tanto tempo quanto avesse
potuto.
Allora, come adesso, aveva l’insaziabile e
incosciente curiosità di un cucciolo. Quello studio
cinematografico sconosciuto conteneva troppe cose
meravigliose che bisognava guardare nello stesso
tempo. Ma non era in soggezione. Probabilmente non
è mai stato messo in soggezione da niente e nessuno
in vita sua, nemmeno quando nella sua nativa Denver
lottava tutti i giorni con le suore della scuola
parrocchiale, i poliziotti e gli agenti in cerca dei
bambini che marinavano la scuola. D’altro canto
dubito che abbia mai mancato di essere curioso in
modo quasi fantastico nei confronti di ogni nuova
esperienza. A dispetto del grande e terribile «INGRESSO
VIETATO» scritto sulle porte, entrava con baldanza in un

set proibito sul quale una troupe stava girando,


fermandosi a poca distanza dalla scena, per guardare.
Con mia grande sorpresa non gli gridavano contro, né
tantomeno lo buttavano fuori! Solo in seguito capii
che ha il raro dono di appartenere virtualmente a
ogni situazione nella quale si venga a trovare; il dono
di farsi accettare per come è dovunque vada, come se
in qualche modo comunicasse la sensazione: «Va
tutto bene, sono io».
Ma lo spettacolo piú meraviglioso messo su dallo
studio cinematografico per Johnnie, quel giorno in
cui ci incontrammo per la prima volta, fu quello delle
attrici bellissime, quasi incredibili, a cui passavamo
accanto dappertutto, molto truccate e in abiti di
scena. Faceva pochi passi e si fermava di colpo per
guardarle a bocca aperta in adorazione. Mugolava ed
emetteva dei suoni gutturali, mentre con gli occhi le
ricopriva di sguardi idolatranti. «Ah!», diceva con lo
sguardo, «creature meravigliose!» Le guardava con
un tipo di ingordigia amichevole, proprio come un
bambino che entra al caldo quando fuori fa freddo e
scopre che la tavola è coperta di torte appena
sfornate. Poi si raggiunse un climax assolutamente in
tono con la situazione. Stavamo passando per la
strada di un set quando una limousine si fermò per un
attimo davanti a noi. Nel tonneau c’era una donna
giovane e bellissima con i capelli scuri. John si girò
verso di me preda di una terribile eccitazione. – Ma
non è… – io dissi, – Dolores… – In quel momento la
macchina ripartí dirigendosi verso i cancelli dello
studio cinematografico.
John le corse dietro come un folle. Ma era troppo
tardi. Si allontanò veloce e i cancelli di ferro si
chiusero con fragore. Lui vi si arrampicò sopra fino a
metà, e si appese guardando fisso attraverso le sbarre
fino a quando la limousine non fu scomparsa. Poi si
lasciò cadere al suolo, e, sollevando al cielo i pugni
chiusi, gridò: – Ragazzi!
Non c’era frustrazione in quel gesto. Non c’è
dubbio che se avesse raggiunto la macchina avrebbe
detto alla signorina Del Río che era la donna che lui
adorava nei suoi sogni, la stella del suo cielo, e
l’ispirazione della sua carriera. Quello che esprimeva,
comunque, era che aveva ventun anni, che il grande
Mencken aveva appena pubblicato il suo primo
racconto; che era un mondo meraviglioso perché
c’era una donna cosí bella come quella che aveva
finalmente visto di persona; e che era sul cammino
della gloria e della fama, e un giorno la signorina Del
Río e tutti gli altri avrebbero sicuramente letto i suoi
racconti che non avevano eguali e non gli sarebbero
mai piú passati accanto senza accorgersi di lui
allontanandosi veloci, sbattendogli con fragore i
cancelli in faccia.
Mencken è totalmente responsabile di aver
scoperto Fante come scrittore. E quello che Mencken
deve aver passato, lo sa solo Iddio. Anche Fante
rabbrividisce ora quando ci pensa.
Nato a Denver nel 1911, Fante era al primo anno
di università in Colorado nel 1929-30 quando per la
prima volta si imbatté nell’«American Mercury» e
nei libri di Mencken. L’esuberanza tesa e fresca della
matricola aveva in qualche modo trovato un
compagno nella vitalità pungente di Mencken. Fante
cominciò a scrivergli delle lettere – terrificanti –
lunghe quindici, trenta, quaranta pagine, che erano
piene e ribollivano delle credenze mescolate di Fante,
dei suoi desideri, esperienze, cose di famiglia. E con
incredulità ed eccitazione da parte del ragazzo,
Mencken gli rispose! Gli rispondeva scrivendogli
«Caro signor Fante», e con gentilezza, simpatia,
serietà e incredibile pazienza!
Prima della fine di quell’anno, l’università e il
Colorado stesso erano diventati noiose prigioni.
Quello che si agitava in Johnny non poteva essere
risolto in quel luogo; non aveva un’idea ben chiara di
cosa fosse né di quello che voleva fare. Comunque,
una persona che riusciva a far sí che il grande
Mencken leggesse e rispondesse alle sue lettere
doveva avere qualcosa di speciale.
A metà del 1930, un giorno Fante partí. Aveva un
dollaro e trentatre centesimi. Con l’autostop e
prendendo il treno senza biglietto, arrivò a
Wilmington, in California, che è una parte del porto
di Los Angeles. Per piú di un anno fece un lavoro
dopo l’altro, facendosi licenziare spesso perché non
prendeva abbastanza sul serio quello che faceva:
nelle drogherie e nelle stazioni di servizio; sei mesi
nelle fabbriche di cibo in scatola lavorando al fianco
di filippini e giapponesi; e infine come stivatore nelle
navi Catalina. Nell’autunno del 1931, decise di
rimettersi a studiare e si iscrisse al Long Beach
Junior College.
Durante tutto questo tempo aveva continuato a
scrivere lettere a Mencken, raccontando le sue
avventure, la gente che incontrava, i libri che
leggeva, e immergendosi nuovamente nelle
esperienze della sua gioventú.
Un giorno di primavera del 1932 aprí una lettera
di risposta di Mencken e ne uscí un assegno di
centosettantacinque dollari. Seppellito nella sua
ultima lunghissima lettera, Mencken aveva trovato un
eccellente racconto, l’aveva tagliato e chiamato
Chierichetto.
In un sussulto di gloria, Fante lasciò la scuola,
andò a festeggiare per una settimana e si sistemò poi
in una camera a Long Beach con una macchina da
scrivere di seconda mano per inondare il mondo dei
suoi capolavori.
Per qualche motivo però non venivano fuori.
Lottava e imprecava, una volta arrivò persino a
buttare la macchina da scrivere dalla finestra. Cosa
c’era che non andava? C’era qualche trucco decisivo,
insolubile, vile in questa faccenda dello scrivere che
non aveva previsto? Dopo molte settimane passate
inutilmente si mise a sedere e scrisse una lunga
lettera a Mencken nella quale riversò la sua anima.
La lettera gravitava fra le cime della speranza e gli
abissi della disperazione, e indulgeva persino, per un
lungo tratto, a una sostenuta nota di nostalgia.
Da questo frammento della lettera, Mencken tirò
fuori un altro racconto preciso. Mandò a Fante un
altro assegno e pubblicò Casa, dolce casa, che si
trova in ogni raccolta dei migliori racconti americani.
John si era appena trasferito a Los Angeles
quando lo conobbi. Poco dopo andai a trovarlo.
Aveva preso una stanza da tre dollari in un hotel in
rovina a Bunker Hill, che molti anni prima era stato il
quartiere residenziale piú elegante in cima alla
collina della città, e ora stava appollaiato sulla spalla
della metropoli come un vecchio e incurabile
foruncolo, pieno di raccoglitori di arance in pensione
forzata provenienti dall’Est, camerieri, le piú sciatte
prostitute, e la gente piú povera, vecchia e sconfitta
di ogni parte del mondo.
Ma John, all’inizio della sua carriera, si era
sistemato là come un re nel suo palazzo, e si trovava
magnificamente, come a casa sua. Quando entrai, era
seduto al centro di… della sua minuscola stanza in un
assembramento di persone. C’erano otto o dieci
individui, e non si sarebbe potuta trovare una
porzione piú rappresentativa di emarginati, sconfitti,
defraudati, ed esseri umani allo sbando. John li aveva
raccolti qua e là, in bar clandestini di terz’ordine, nei
cinema aperti tutta la notte di Main Street, e a
Pershing Square. Potevano anche essere creature del
sottosuolo, ma in quel momento erano sulla cresta
dell’onda durante la gara comune di racconti sulla
propria vita, mentre John li incitava e ascoltava
commentando con comprensione. Ricordo bene
alcuni di loro, perché in seguito li incontrai che si
attaccavano a John nello stesso modo in cui lui
l’aveva fatto con Mencken. C’era l’ex pilota di voli
merci «distrutto», amareggiato da qualche presunta
ingiustizia, che moriva di fame nutrendosi di gin;
l’impiegato di banca dell’Est che tentava di salvare le
apparenze e che sembrava annichilito da qualche
peso segreto di cui voleva parlare, ma senza riuscirvi;
la strana donna attraente e amareggiata che viveva
nell’hotel, che periodicamente piangeva nel profondo
della notte, per alzarsi poi e correre nel quartiere
malfamato tornando infine barcollante e malata; l’ex
agricoltore del Midwest macchiato di tabacco che
aveva una ingegnosa teoria sul fatto che Aimee
McPherson era Cristo tornato sulla Terra sotto forma
di donna; dei camerieri filippini che morivano di
fame per vestirsi con abiti da ottanta dollari da
indossare nelle balere da dieci cent.
Per due anni John visse fra una povertà assoluta e
la disperazione di Bunker Hill, incubando la sua
carriera di scrittore. Non credo che si sia sentito
infelice per sé stesso nemmeno un momento. Era
stato povero tutta la sua vita ed era abituato alla
povertà, ma non la sopportava per gli altri. Passava
spesso giorni e giorni senza mangiare, quando poi
aveva fame davvero fregava un po’ di frutta al
giapponese all’angolo, e di tanto in tanto con audacia
rubava il latte a persone piú abbienti. Vendeva
raramente un racconto, perché attraversava la lunga
ed esasperante metamorfosi da scrittore di lettere a
narratore di storie consapevole. E quando ne vendeva
uno, conosceva comunque troppe persone che non
avevano di che mangiare né abbastanza per pagare
l’affitto. Dopo pochi giorni era di nuovo senza un
soldo, e allora veniva da Carey o da me per «cinque
dollari per qualche giorno». Noi protestavamo
dicendo che aveva appena venduto un racconto, ma
sapevamo anche dove era finito il denaro. Quella
notte sarebbe andato a furoreggiare nelle strade piú
malfamate della città, l’Hārūn ar-Rashīd della mala di
Los Angeles con un biglietto prestato da cinque
dollari.
Improvvisamente si aprí il cielo e ne venne giú
una cascata d’oro, e John divenne ricco. Qualcuno lo
portò a uno studio cinematografico di Hollywood, e
gli venne dato un contratto per due mesi come
scrittore. Il suo nome appariva ora non solo sul
«Mercury», ma anche sull’«Atlantic Monthly» e altre
riviste di alto livello, e quello fu il motivo per cui lo
avevano preso.
«Due e cinquanta!» offrirono subito a John.
Nonostante non fosse bravo in matematica riuscí a
capire che erano quindici dollari la settimana, e
accettò prima che cambiassero idea. Era inoltre
desideroso di legarsi a uno studio cinematografico e
conoscere cosí tutte le persone straordinarie che
aveva adorato o a cui aveva fischiato sullo schermo
da bambino a Denver solo qualche anno prima.
Il primo assegno di John fu di duecentocinquanta
dollari. In quel periodo viveva con me, portò
l’assegno a casa e mi chiese se doveva tenere la
bocca chiusa. Guardammo il contratto – lui non li
leggeva mai – e presto si rese conto che si trattava di
duecentocinquanta dollari la settimana, e non di due
dollari e cinquanta al giorno!
Be’, cominciava a essere qualcosa! Sembrava
deliziosamente illecito e piuttosto incredibile.
Sebbene avesse guadagnato fino a
duecentoventicinque dollari con i suoi racconti, di
media non ne scriveva piú di quattro l’anno, con
molta distanza l’uno dall’altro. Quando veniva
pagato per uno di questi, i soldi svanivano prima che
potesse rientrare dei debiti accumulati e occuparsi
della gestione di Bunker Hill.
Io sottolineai che in due mesi avrebbe potuto
mettere da parte abbastanza denaro del suo salario da
potersi mantenere e starsene tranquillo per un anno o
piú mentre scriveva quel suo primo romanzo che
sognava tanto. Fu immediatamente d’accordo. E
pensando ai suoi poveri amici di Bunker Hill, che
avevano già cominciato a venire a Hollywood a
scrocco per farsi dare soldi dalla fortuna improvvisa
di John, lo persuasi a girare a me in banca il suo
assegno settimanale, e io gli avrei dato una cifra
modesta.
La carriera di John nel cinema fu un brillante
successo sociale, ma un fiasco professionale. Si
aggirava per lo studio cinematografico, come si suol
dire, come un cane cieco in una macelleria. Era
dappertutto, entrava e usciva dagli uffici dei
produttori e dai camerini delle star, e sui set,
pranzando e cenando con signore famose; e invece di
esserne abbagliato, era lui che abbagliava sé stesso in
quanto John Fante, autore in ascesa, che appariva
sulle migliori riviste, e in procinto di scrivere uno dei
libri piú grandi d’America, un romantico Grande
Amatore, o «che ama di pari amore sia gli uomini che
gli animali», come diceva il suo io letterario in un
punto di Chiedi alla polvere.
Come scrittore di cinema, meravigliò il suo
produttore piú volte con idee eccellenti, che erano
però troppo grandi o troppo letterarie, oppure non
potevano entrare nella struttura arbitraria richiesta da
questo o quel soggetto cinematografico.
E John di fronte a qualsiasi situazione arbitraria è
sprovveduto e ribelle. Scrive persino i suoi racconti e
i suoi libri senza un disegno che si possa chiamare
tale; scrive e basta, e se il racconto non lo convince,
lo strappa in mille pezzi, disgustato, salvando poco o
niente, ricominciando da capo seguendo un’altra
strada o un racconto completamente nuovo.
Alla fine dei due mesi la carriera di John era finita,
ma la cosa non gli dispiaceva affatto. Era stato bello,
ma non si era trovato benissimo. Molte delle persone
del cinema erano interessanti e affascinanti, ma tutto
sommato non si sentiva giusto fra loro, come si era
invece sentito con le persone a Bunker Hill.
Sembrava che non avessero bisogno di nulla, oppure
che lui non avesse nulla per loro. Sentí
improvvisamente il desiderio di tornare a Denver. Era
andato via da lí con qualche problema, senza un
soldo, disprezzato, sconosciuto, e con molte profezie
sul suo conto, ovvero che «quel tipo farà una brutta
fine». Ora la sua vita aveva raggiunto un culmine:
aveva guadagnato molti soldi con il cinema ed era
diventato intimo delle persone famose. Sapeva che
pochi fra i suoi amici a Denver sarebbero rimasti
colpiti dai suoi racconti sul «Mercury» e
sull’«Atlantic», ma che sarebbero trasecolati davanti
alla sua carriera nel cinema. Avrebbe recitato quella
parte e mostrato loro qualche cosetta.
Mi domandò quanti soldi aveva. Gli mostrai il suo
libretto di banca. Quasi svenne. – Dodicimila
verdoni! – Gli parlai come avrebbe fatto uno zio. –
Oh, no, no, no! – rispose alla mia ansietà, non li
avrebbe buttati via; sarebbe andato a Denver a
spassarsela per una settimana circa, poi avrebbe
affittato una capanna là sulle montagne – sapeva
perfettamente dove – e avrebbe vissuto in tranquillità
per scrivere il romanzo.
La mattina seguente gli portai il suo capitale in
biglietti da dieci e da venti, che, con gli occhi fuori
dalle orbite, lui si infilò in tutte le tasche. Poi partí di
corsa per andare in città. Ritornò presto quella sera
stessa barcollando sotto una montagna di acquisti
fatti, che includevano un biglietto per una cuccetta
sul treno di mezzanotte per Denver.
Sopraffatto da quella vasta pila di fronzoli costosi
– compensazione per i giorni passati a Bunker Hill, in
cui aveva avuto fame, ed era andato spesso sulla
Seventh e a Broadway a fissare con avidità le vetrine
piú esclusive e a scuotere i pugni contro quegli abiti
eleganti – io mandai a chiamare con urgenza Carey
perché venisse a prestare il suo supporto morale. Ci
trasformammo in valletti e lo aiutammo ad
abbigliarsi. C’erano delle scarpe gialle enormi e
dall’aspetto simile a una cannoniera che alla luce del
sole dovevano sicuramente abbagliare chi le
guardava; una camicia stupefacente viola scuro con
una cravatta verde e bianca; e un vestito con tre
bottoni, a scacchi, doppiopetto con una combinazione
di colori piuttosto indescrivibile (la sua dipendenza
da vestiti a doppiopetto che di solito porta non
abbottonati – per un tipo grosso e tozzo come è lui –
ha spesso causato ai suoi amici un notevole
disappunto). Ma non era finita lí. Aveva comprato un
cappotto. Strusciava per terra di almeno tre pollici, e
le maniche erano troppo lunghe di almeno mezzo
piede. Anche quello, ovviamente, era a doppiopetto,
ed era spesso un pollice. Era troppo grande anche per
Carey e me, e doveva calzare alla perfezione a Primo
Carnera, ma la sua gioia alla Harpo Marx era cosí
evidente che non dicemmo nulla e lo ammirammo
educatamente.
Si calò uno Stetson nuovissimo su un occhio, e
andammo alla volta del treno. Quella sera John era,
senza dubbio, l’essere umano piú felice d’America.
Sulla strada per la stazione Carey mi fece fermare la
macchina, entrò in un negozio e ne tornò con un bel
bastone ocra che sistemò sul braccio di John. Il
quadro era completo.
Lo scortammo a bordo del treno. Mentre
procedeva, abbigliato in quel magnifico vestiario, era
ovvio che se si fosse stancato del suo peso e avesse
voluto, avrebbe potuto lasciarsi scivolare, e nessuno a
dieci piedi di distanza si sarebbe accorto che non
camminava sui suoi piedi.
Passò un mese, e nessuno di noi due ricevette
notizie da John. O meglio, tranne un paio di articoli
dai giornali di Denver, spediti, senza commento, che
raccontavano del ritorno a casa di «uno dei figli piú
distinti di Denver, il famoso giovane autore e
produttore cinematografico». John stava vivendo un
momento troppo eccelso per darsi pena di scrivere.
Un giorno poi ricevetti un telegramma, a carico
mio, da una città vicino Sacramento, dove vivevano i
suoi genitori. «Mandami venticinque. Voglio tornare.
Ho un’idea da un milione di dollari per il cinema»…
Carey e io mettemmo insieme tutta la storia in
seguito, in parte da ammissioni strappate a John, e in
parte da un giornalaio di Denver conosciuto qualche
tempo dopo. Le prime due settimane di John a
Denver erano state fantastiche. Porte esclusive, di cui
aveva ignorato l’esistenza durante i vecchi tempi, si
erano spalancate restando senza fiato davanti a lui, e
lui vi era entrato con un sigaro da mezzo dollaro
all’angolo della bocca e il cappello calato su un
occhio. Aveva raccontato con nonchalance di essere
pagato diecimila dollari per una sua idea per il
cinema, e venticinquemila dollari per il soggetto di
un film, e di feste incredibili e amicizia intima con
famose stelle del cinema. Rifiutandosi con disprezzo
di indicare come fonte del suo successo l’aver scritto
racconti, non c’era quasi film però, dai tempi de I
pionieri, del quale lui non dichiarasse di esser stato
l’autore.
Essendo un uomo ricco, doveva, ovviamente,
spendere come tale. In mezzo ai suoi vecchi
compagni di gioco distribuiva con indifferenza
biglietti da cinque e dieci dollari, dicendo loro di non
farci caso, di andare a trovarlo se capitavano a
Hollywood. Gli venne fatto largo attraverso Denver,
e lui incedeva con i suoi grandiosi abiti come Soglow
in Il piccolo Re.
Ma quello che possedeva se ne andava poco alla
volta. Perse il suo bastone. Il cappello da quindici
dollari era scomparso. Qualcuno gli aveva rubato il
cappotto. E una mattina, dopo una grande festa, si
svegliò in un albergo e scoprí stupefatto di essere al
verde. Convinse un cameriere a comprargli le valigie
per il denaro che gli occorreva per pagare il conto.
Poi uscí a fare colazione, telefonò all’albergo e lasciò
un messaggio dicendo che era stato richiamato a
Hollywood per affari urgenti.
Prese un tram fino al confine della città e si
diresse sull’autostrada in direzione di Sacramento.
Mentre aspettava che una macchina si fermasse al
segnale del suo pollice teso, contò il denaro
rimastogli. Aveva solo due dollari, che
rappresentavano un progresso: perché era piú ricco di
settanta cent circa rispetto a quando era partito da
Denver per la prima volta, diversi anni prima. La
cosa gli sembrò divertentissima. Finalmente una
macchina si fermò, perché il guidatore credeva che
John si sentisse male. Lui però stava solo rotolando
nel fosso tenendosi i fianchi dalle risate.
Da allora, senza cessare di essere John Fante, ha
venduto vari soggetti – ricco un mese e al verde il
mese dopo. Ma sopra ogni cosa, ha pubblicato tre
libri importanti: due romanzi, Aspetta primavera,
Bandini (1938), Chiedi alla polvere (1939), e una
raccolta dei suoi racconti migliori, Dago Red (1940).
Tranne che in Chiedi alla polvere, che parla
soprattutto di una trovatella messicana, tutte le sue
storie sono su italoamericani. Tratta questo soggetto
perché lo conosce dai tempi della sua infanzia e
giovinezza. È convinto di aver esaurito questo campo
e ora sta progettando un libro sui filippini, che
conosce e comprende bene. All’inizio di quest’anno,
il «Saturday Evening Post» ha accettato uno dei suoi
racconti su di loro.
Ha scritto, finora, soprattutto di italiani perché
questi rappresentano il materiale che lui conosceva
meglio e direttamente, quando cominciò la sua
carriera di scrittore. La sua vita da adulto, dal 1930,
comunque, è trascorsa in un ambiente generalmente
non italiano. Ha molti parenti con i quali è in ottimi
rapporti, ma tranne Jo Pagano, lo scrittore, e uno o
due altri, non riesco a pensare ad altri italoamericani
fra i suoi amici. Questi sono infatti soprattutto
americani di vecchia data di stirpe anglosassone. Tre
anni fa ha sposato una ragazza anglosassone.
John è orgoglioso delle sue radici italiane (odia
Mussolini perché ha distrutto un popolo di talento e
cultura), ma non è particolarmente consapevole di
essere italiano. Ha attraversato la sua infanzia senza
che gli venisse fatto sentire di essere inferiore o
diverso perché era italiano. Era comunque un discreto
attaccabrighe e ha saputo difendersi in quelle poche
occasioni in cui l’avevano chiamato wop.
Come lavoratore nel campo della scrittura, è
piuttosto pigro e viene facilmente distratto.
Probabilmente quello che gli fa sprecare la maggior
parte del tempo è il flipper. Il suo arguto amico
Saroyan prese spunto per il personaggio del fanatico
del flipper da lui, nella sua commedia I giorni della
vita; anche l’attore che diede vita al ruolo assomiglia
moltissimo a Fante. Non so quante ore e dollari abbia
buttato cercando di «far sventolare la bandiera
americana» su quelle macchine. Ma la sua gioia
quando ci riesce è cosí trionfante – piú grande di
quella provata alla pubblicazione di un suo nuovo
libro. Quando non ci riesce, la sua tristezza e
disperazione spezzano il cuore.
Senza falsa modestia, Fante ama e rispetta il suo
lavoro, ma non l’ho mai sentito vantarsene. Ammira
con franchezza Steinbeck, Hemingway, e James T.
Farrell, anche se non dubita che quando avrà al suo
attivo tanti libri quanti ne hanno loro, otterrà il
medesimo riconoscimento. Fra gli scrittori italiani
moderni, il suo entusiasmo va a Ignazio Silone,
l’autore di Fontamara e Vino e pane.
Ha sempre desiderio di persone – di qualsiasi
genere; di cibo – di qualsiasi genere; di cose da bere
– qualsiasi cosa da bere; e di povertà, e ricchezza, di
gioia e di dolore, e di qualsiasi altra cosa produca
questa terra povera e ricca. E ha, soprattutto, una
sorprendente naturalezza, diretta e senza inibizioni
verso le infinite funzioni ed espressioni della vita.
Come Will Rogers, probabilmente Fante non ha mai
incontrato un uomo che non gli piacesse.
1
R. B. Wills, John Fante, in «Common Ground», vol. I, primavera
1941.
Appendice V

Bibliografia e filmografia
Bibliografia.

Wait Until Spring, Bandini (1938, 1983)

Aspettiamo primavera, Bandini, traduzione di G. Monicelli, Mondadori,


Milano 1948.

Aspetta primavera, Bandini, traduzione di C. Corsi, Leonardo, Milano


1989; Marcos y Marcos, Milano 1995; con un’introduzione di N.
Ammaniti, Einaudi, Torino 2005.

The Road to Los Angeles (1985)

La strada per Los Angeles, traduzione di F. Durante, Leonardo, Milano


1989; Marcos y Marcos, Milano 1996; con un’introduzione di S.
Veronesi, Einaudi, Torino 2005.

Ask the Dust (1939, 1980)

Il cammino nella polvere, traduzione di E. Vittorini, Mondadori, Milano


1941.

Chiedi alla polvere, con un’introduzione di C. Bukowski, traduzione di


M. G. Castagnone, SugarCo, Milano 1980; Marcos y Marcos, Milano
1994; con un’introduzione di A. Baricco, Einaudi, Torino 2004.

Dreams from Bunker Hill (1982)

Sogni di Bunker Hill, traduzione di F. Durante, con un’introduzione di P.


V. Tondelli, Mondadori, Milano 1988; Marcos y Marcos, Milano 1996;
con un’introduzione di G. Amelio, Einaudi, Torino 2004.
Dago Red (1940, 1985)

Dago Red, traduzione e [a] cura di F. Durante, Marcos y Marcos, Milano


1997; a cura di E. Trevi, con un’introduzione di D. Starnone, Einaudi,
Torino 2006.

A Wife for Dino Rossi (incluso in Dago Red)

Una moglie per Dino Rossi, traduzione di M. Martone, con una nota di
G. G. Napolitano, Sellerio, Palermo 1988.

Full of Life (1952, 1988)

In tre ad attenderlo, traduzione di L. Bonini, Mondadori, Milano 1957.

Full of Life, traduzione di A. Osti, Fazi, Roma 1998; con un’introduzione


di P. Giordano, Einaudi, Torino 2009.

Prologue to Ask the Dust (1990)

Prologo a Chiedi alla polvere, traduzione e [a] cura di F. Durante,


Marcos y Marcos, Milano 2001; in John Fante, Romanzi e racconti,
traduzione e [a] cura di F. Durante, Mondadori, Milano 2003.

Il Prologo, con un’introduzione di A. Baricco, Einaudi, Torino 2004.

The Brotherhood of the Grape (1977, 1988)

La confraternita del Chianti, traduzione di F. Durante, Leonardo, Milano


1990; Marcos y Marcos, Milano 1995; in John Fante, Romanzi e
racconti, traduzione e [a] cura di F. Durante, Mondadori, Milano 2003.

La confraternita dell’uva, traduzione di F. Durante, con un’introduzione


di V. Capossela, contributi di E. Trevi, Einaudi, Torino 2004.

The Wine of Youth: Selected Stories (1985)

La grande fame, traduzione di F. Durante, con un’introduzione di M. G.


Mazzucco, Einaudi, Torino 2007.

Il Dio di mio padre, traduzione e [a] cura di F. Durante, Marcos y


Marcos, Milano 1997 (Il Dio di mio padre riprende i racconti di The
Wine of Youth non compresi in Dago Red).

1933 Was a Bad Year (1985)

Un anno terribile, traduzione di A. Osti, con un’introduzione di S.


Veronesi, Fazi, Roma 1996.

1933. Un anno terribile, traduzione, di A. Osti, con un’introduzione di V.


Cerami, Einaudi, Torino 2008.

West of Rome (1986)

A ovest di Roma, traduzione di A. Osti, Fazi, Roma 1997; con


un’introduzione di F. Marcoaldi, contributi di E. Trevi, Einaudi, Torino
2008.

John Fante & H. L. Mencken: A Personal Correspondence 1930-1952


(1989)

Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken (1930-1952), a cura


di M. Moreau, traduzione di A. Osti, Fazi, Roma 2001.

Selected Letters 1932-1981 (1991)

Lettere: 1932-1981, a cura di S. Cooney, traduzione di A. Osti, Fazi,


Roma 1999.
Filmografia.

Dinky, con Frank Fenton, Warner Brothers, 1935.


Non mi ucciderete, (titolo originale: East of the River), con Ross B. Wills,
Warner Brothers, 1940.
The Golden Fleecing, Metro Goldwin Mayer, 1940.
Youth Runs Wild, Rko radio Pictures, Inc., 1940.
Il mio uomo, (titolo originale: My Man and I), Metro Goldwin Mayer, 1952.
Piena di vita, (titolo originale: Full of Life), Columbia Pictures, 1956.
Un solo grande amore, (titolo originale: Jeanne Eagels), con Sonya Levien
eDaniel Fuchs, Columbia Pictures, 1957.
Anime sporche, (titolo originale: A Walk on the Wild Side), con Edmund
Morris, Columbia Pictures, 1962.
Cronache di un convento, (titolo originale: The Reluctant Saint), Dmytryk-
Weiler Productions, 1962.
I miei sei amori, (titolo originale: My Six Loves), Paramount Pictures, 1963.
Maya, Metro Goldwin Mayer, 1966.
Something for a Lonely Man, Universal Television, 1968.
Elenco dei nomi e delle opere

Abbott
Abbott-Costello
Abowitz, Eleanor
Abrutyn, Alan B.
Adamič, Louis
Adelman, Lou
Aguilar, Henry
Ah, Poor America!
Algren, Nelson
All-American Team
Ambrose Bierce
America Is in the Heart
Anderson, Sherwood
Angell, Buck
Angelo, Valenti
Angoff, Charles
Anna Vickers
Antonelli, Maria
A ovest di Roma
Apologia di Socrate
Aspetta primavera, Bandini
Astor, Mary
Austin, Mary
Ave Maria
Babando, Angelo
Il bacio della pantera
Baker, Keith
Balbo, Italo
Signor Ballou
Bantam Books
Baray, Marie
Beauharnais, Giuseppina di
Beautiful Bird
Beecher Stowe
Beery, Wallace
Bellow, Saul
Bentler, Harold
Bern, Paul
Bessie, Alvah
Best, Marshall
Bezzerides, A. I.
Bierce, Ambrose
Billings, Josh
Bischoff, Sam
Black Sparrow Press
Blatty, William Peter
Boggian, Eleanor
Bottari, Vic
Bradford, Ned
Brando, Marlon
Brennan, Walter
Brent, George
Dottor Breslow
Brief Passion
Brooks, Phyllis
Brown, Gilbert
Brown, Samuel Gilson
Brownell, Bob
Bruce, Lenny
Buchwald, Art
Bukowski, Charles
Bulosan, Aurelio
Bulosan, Carlos
Burdick, Ralph
Burke, J. Frank
Butler, Samuel
Bynner, Witter
Byrd, Richard Evelyn

Cagney, James
Il cagnolino rise
Cain, James Mallahan
Caldwell, Erskine
Calverton, Victor Francis
Cameron, Angus
Campiglia, Grace
Campiglia, Jo
Cantello, Frank
La canzonetta scema di mia madre
Capuzzi, Eleanore
Carlson, Oliver
Carnera, Primo
Carrillo, Leo
Casa, dolce casa
Čechov, Anton Pavlovič
In cerca di guai
Chamberlain, John
Chamberlain, Neville
Chapman, John Jay
Charge It
Chiedi alla polvere
Chierichetto
Christian Bourgois éditeur
Citizens
Cohn, Harry
Coldwell, Emerick
Coldwell, Hattie
Coldwell, Vivian
Coletti, Duilio
Communism Comes to Hollywood
La condizione umana
La confraternita dell’uva
Cooper, Gary
Cooper, James Fenimore
Coppola, Francis Ford
Cosí muore la carne
Covici Pascal
Crane, Clarkson
Crawford, Joan
Cronache di un convento
Curtiz, Mike

Dado, Speedy
Dago Red
Dalí, Salvador
D’Augustino, Giuseppe
Day, Eddie, jr
De Conde, Alexander
De Córdova, Arturo
DeFord, Miriam Allen
De Kolty, Jean C.
De Laurentiis, Dino
Del Río, Dolores
De Mille, Cecil Blount
Diehl, Digby
Dinky
Dizionario del diavolo
Dmytryk, Edward
I dolori del giovaneWerther
Donen, Stanley
La donna è mobile
Famiglia Dornfeld
Zia Dorothy
Doubleday
Durrett, Ashton Key

The Eagle and the Roots


The Education of Carey McWilliams
Egan, Richard
L’esorcista

Factories in the Field


Monsignor Falvey
Fante, Dan
Fante, Dominic
Fante, Giovanni
Fante, Henry
Fante, James
Fante, Jennifer
Fante, Josephine (Cosette)
Fante, Joyce
Fante, Mary
Fante, Nick
Fante, Nick
Fante, Pete
Fante, Tom
Fante, Tony
Fante, Victoria
Farrell, James Thomas
La fattoria degli animali
Faulkner, William
Faust
Feldman, Charles
Fellini, Federico
Fenton, Frank
Feuchtwanger
Fickle Woman
Field, Eugene
Fier, Jack
Fishbein, Morris
The Fish Don’t Bite
Flaherty, Robert
Signor Fleming
Folawn, Milton
Follett, Wilson
Fontamara
Foreman, Carl
The Forty Blondes
Foss, Fanya
Foster, Norman
The Foundry
Fowler, Gene
Francesco d’Assisi
Francis, Kay
Francis, Owen
Fregonese, Hugo
Fuchs, Daniel
Full of Life
Furfantello
Furore

Gable, Clark
Garcia, Ceferino
Garfield, John
George, Gladys
Gidlow, Elsa
Gidlow, Ruby
Un gioco solo per Oscar
I giorni della vita
Githens, Jake
Give Your Heart to the Hawks
Gold, Michael
The Golden Fleecing
Goldwyn, Sam
La grande fame
Il grande Gatsby
The Grandmothers
Gréco, Juliette
Greeley, Horace
Green, Charles
Greenfield, Jeff
Grossman, Milton
Grove Press
La guerra dei mondi
Guggenheim Award
Guggenheim Foundation
Guinzburg

Hailè Selassiè
Haines, William
Half Bitter, Half Sweet
Halper, Albert
Hanna, Phil
Harbor Days
Harlow, Jean
Hārūn ar-Rashīd
Harris, Jed
Hart, Moss
Hatch, Robert
Hatrack
Hatton, Coral
Hawks, Howard
Heflin, Van
Helen, la tua bellezza è per me
Hemingway, Ernest
Henle, James
Henlein, Konrad
Henry, Sam
Hitler, Adolf
Hopper, Hedda
Hore-Belisha
Houghton Mifflin
House Un-American Activities Committee
Huckleberry Finn
Huston, John

Ingold, Charles
L’iradiddio
Irving, Washington
It’s All True

Jackson, Joe
Jackson, Joseph Henry
Jacobson, Don
Jeffers, Robinson
Josephson, Matthew
Joyce, James

Kalish, Margaret
Keller, Helen
Knopf, Alfred Abraham
Kohn, Edmond
Kopolow, Stanley
Kramer Company
Kramer, Stanley

Lamour, Dorothy
Landon, Alfred
Lardner, Ring, jr
The Last Supper
Laughing in the Jungle
Laughton, Charles
Lederer, Francis
Lemmon, Jack
Leonard, Jack
Levien, Sonya
Levin, Meyer
Lewis, Sinclair
Lewton, Val
Lieber, Maxim
Little, Brown and Company
The Little Brown Brothers

Machini, Dorothy
La madre di Jakie
Malraux, André
Mamma Ravioli
Martin, John
Marx, Harpo
Mater Dolorosa
Maugham, William Somerset
Maya
Dottor McAnally
McCarthy, Charlie
McCarthy, Joseph
Signor McKeeMcPherson, Aimee Semple
McWilliams, CareyMcWilliams, Homer
McWilliams, Iris
McWilliams, Jerry
Medford, Benny
Mein Kampf
Mencken, Henry Louis
Menjou, Adolph-Jean
Mercury Books
I miei sei amori
Milburn, George
Milestone, Lewis
1933. Un anno terribile
Miller, Arthur
Il mio cane Stupido
Il mio nome è Aram
Il mio uomo
Miscellaneous Essays
Moe, Henry Allen
Una moglie per Dino Rossi
Mondadori
Il mondo di Suzie Wong
Morgan, L. F.
Muratore nella neve
Murphy, Audie
Murphy-Plittman, Marilyn
Mussolini, Benito
Muto, Joe
My Brothers Who
My Friend Bonito

The Newer Spirit


Nietzsche, Friedrich
A Night in Venice
Nix, Lloyd S.
Non mi ucciderete
None So Blind
Notturno
Novak, Kim
Nowell, Elizabeth

The Oddest Fancy


L’odissea di un wop
Off Limits – Proibito ai militari
Opa, Octavio
L’orgia
Orlando, Guido
Orwell, George
O’Sullivan, Maureen
Otis, Elizabeth

Pacino, Al
Il padrino
The Paesanos
Pagano, Ernest
Pagano, Jo
Papa Christmas Tree
Paris Gazette
Pasquale (Fangio)
Passeggiata selvaggia
Pater Doloroso
Zio Paul
Penn, Leonard
Peregrine Smith
Perlman, Laura
Perlman, Sidney Joseph
Petrak, Joe
Petrilli, Vitoriani
Phillips, Frances
Pian della Tortilla
Piccolo Cesare
Il piccolo Re
Piena di vita
I pionieri
A Place in the Sun
Podestà, Rossana
A Poet to Her Tangled Verses
Porter, Eddie
Porter, Esther
Portrait of Jenny
The Postman Rings and Rings
Power, Tyrone
Presley, Elvis
Prima comunione
La prima volta che ho visto Parigi
Professionista
Prologo a Chiedi alla polvere
Purcell, Helen
Quarto potere
Quine, Barbara
Quine, Richard
Quinn, Anthony

Zio Ralph
Random House
Rapimento in famiglia
Reinert, Paul
Robinson, Edward G.
Rogers, Gordon
Rogers, Will
Roosevelt, Franklin Delano
Root, Lynn
Rose, Stanley
The Roses
Rubini, Giulia
Runckel, Chris

Sal, Julio
Salomen, Stanley
Salpeter, Milton
Santini, Jack
Santini, Mary
Saroyan, Aram
Saroyan, Lucy
Saroyan, William
Sauber, Harry
Sayre, Joel
Scarpi, Bella
Scarpi, Donna
Scarpi, Giovanni
Scarpi, Mingo
Schiavo d’amore
Sherwood, Bob
Schryver, Elliott
Seaver, Richard
Sedgwick, Ellery
Selznick, David O.
Sherrill, Robert
Shipley, Maynard
Silone, Ignazio
Sinclair, Upton
Skouras, Spyros, jr
Signora Smart
Smith, Bernie
Smith, Gibbs
Il sognatore
Sogni di Bunker Hill
Un solo grande amore
Solotaroff, Ted
Something for a Lonely Man
Soskin, William
Southern California Country
Spengler, Oswald
S.S. San Pedro
Stackpole Sons
Stanwyck, Barbara
Steiger, Rod
Steinbeck, John
Stewart, Donald Ogden
Story Press
Strachey, John
Strachey, Lytton
La strada per l’inferno
La strada per Los Angeles
Una strega in paradiso
Swinnerton, Frank

La taverna della Giamaica


Taylor, Elizabeth
These Here Highbrows
Thoreau, Henry David
Thornton, Oliver
Thurber, James
To Tell the Truth
Towne, Robert
Il tramonto dell’Occidente
Trumbo, Dalton
Tully, Jim
Turano, Tony
Twain, Mark

L’ultima corvée
University of Washington Press
Uno di noi
Untermeyer, Louis
Uomini e topi
Ursvieg, Herta

Van Doren, Irita


Van Gogh, Vincent
Vanguard Press
Vino e pane
Viking Press
Vittorio Emanuele II

Wagner, Robert
Wallis, Minna
Warner, Jack
Wassermann, Jakob
We Have Been Betrayed
Welles, Orson
Wells, Herbert George
Wescott, Glenway
We Snatch a Frail
West, Mae
West, Nathanael
What Way My Journey Lies
Whiffen, Peter
Whitman, Walt
Wiggin, Kate Douglass
William Morrow and Company
Williams, William Carlos
Wills, Ross B.
Wilson, Earl
Wilson, Pete
Wimberly, Lowry Charles
Winebrenner, Dolf
Winfield, Jean
Winton, Myron
Witch Hunt
Wolfe, Thomas
Wolfert, Ira
Wyn, Aron Abraham, XIII

Yamamoto, Paul
Young, Art
Young, Collier
Youth Runs Wild

Zablodowsky, David
Zanuck, Daryllryl Francis
Il libro

L’
affresco di una v i ta c o n s a c r ata alla
scrittura. Ironiche, brutali, sincere, vittimistiche,
trionfali, le lettere di John Fante costituiscono un
capitolo a sé della sua opera. E ci mostrano la vita di
un genio braccato dai debiti e ossessionato dal sogno
di finire sugli scaffali insieme ai grandi della letteratura.

Impiegato in un’impresa per la produzione di ghiaccio, operaio


in una fabbrica di pesce in scatola, tuttofare per uno studio
professionale, sguattero in bar e ristoranti. La tormentata
carriera dello scrittore John Fante inizia cosí, nei primi anni
Trenta, con l’arrivo in California, poco piú che ventenne, e il
sogno di diventare scrittore. Le lettere che Fante scrive ai
genitori, alla moglie e, piú avanti, agli amici scrittori e ai suoi
editori, ripercorrono la sua intera esistenza e dànno conto
dell’enorme lavorio che sta dietro a pagine solo apparentemente
fresche e spontanee.
L’autore

John Fante è nato a Denver (Colorado) l’8 aprile 1909, figlio


di un abruzzese emigrato in America nel 1901. Nel 1933
inizia il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles,
pubblicato postumo nel 1985. Il vero romanzo d’esordio è
Aspetta primavera, Bandini, uscito nel 1938. Del 1939 è il
suo capolavoro Chiedi alla polvere. Tra gli altri suoi libri
ricordiamo Sogni di Bunker Hill, La confraternita dell’uva,
Dago Red, La grande fame, A ovest di Roma, 1933. Un anno
terribile, Full of Life, Bravo, Burro!, tutti già pubblicati da
Einaudi Stile Libero. John Fante muore l’8 maggio 1983.
Dello stesso autore

 
A ovest di Roma
Aspetta primavera, Bandini
Chiedi alla polvere
Dago Red
La confraternita dell’uva
La grande fame
La strada per Los Angeles
Le storie di Arturo Bandini
Sogni di Bunker Hill
1933. Un anno terribile
Full of Life
Bravo, Burro!
Titolo originale  Selected Letters. 1932-1981
© 1991 Joyce Fante for the Estate of John Fante. All rights reserved.

Introduzione e note © 1991 Seamus Cooney. All rights reserved.

Published by arrangement with Harper Collins Publishers Inc.

La traduzione di Alessandra Osti è pubblicata su licenza Fazi Editore srl., Roma.


© 2014 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: illustrazione di Fabio Fontanella.
Progetto grafico: Riccardo Falcinelli.

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Ebook ISBN 9788858417690

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