Sei sulla pagina 1di 313

Indice

Copertina
Frontespizio
Introduzione
Nota al testo.
Avvertenza.
Fiabe giapponesi
Nord-est
La sposa di neve
Una preziosa salvietta
Il mandriano e la yamanba
La gratitudine della rana
Le parole dell’albero di corniolo
I tre amuleti
Il Ricco Lumachino di risaia
Jinshirō, quello delle radici alla brace
Il canto del gatto
Il fratello cuculo
Il Dio della Montagna e il Dio Scopa
La pietà filiale della tortora
La Scimmia e il Fagiano
Luna e Stella
Il fuso della yamanba
Il ricco Signor Libellula
La pura terra del Jizō
Il calderone della fortuna
Il villaggio degli usignoli
Il matrimonio delle volpi
La fanciulla senza braccia
Nonno togliporri
Il carpentiere e il dèmone
A pesca con la coda
Una via d’uscita per la moglie
Il Jizō con il cappello di paglia
La canzone dello scheletro
L’ospite della notte di Capodanno
L’origine del baco da seta
La montagna Kachi kachi (1)
Il Jizō delle scimmie
I tre fratelli
La montagna Kachi kachi (2)
Il vecchio che faceva sbocciare i fiori
Il passero con la lingua tagliata
Un’occhiata, mille ryō
I genitori dei kaimochi
Il ponte Misokai
Centro
La risata degli orchi
La lepre che era stata sconfitta da una tartaruga
Una monaca come giudice (Lo specchio di Matsuyama)
Il saggio
Il ragazzo con la goccia al naso
Le volpi nel sacco
La Volpe e la Lontra
Il matrimonio della talpa
L’uomo che comprava sogni
La scimmia e il rospo
La moglie del ritratto
La fortuna piovuta dal cielo e la fortuna spuntata dalla terra
La donna carpa
Urihime
La yamanba che fece da sensale
È stata molto usata
Il vecchio e il granchio
L’albero d’oro
Il sandalo di tre shaku
Il villaggio degli sciocchi: «Portate un negi»
Pelle di vecchia
Il monaco Zuiton
La montagna dei vecchi abbandonati (1)
I due pigroni
La malattia del cappello di paglia
La gratitudine del lupo
Issunbōshi
Il ladro di pesci
L’uccello che chiama la pioggia (1)
L’uccello che chiama la pioggia (2)
Il genero misterioso
La fonte della giovinezza
Sannen Netarō, Tarō il dormiglione
Il cacciatore fortunato
L’ascia d’oro
I tre mercanti
L’usignolo che attraversò la valle
L’orco e i tre bambini
«Certamente»
Il ragno d’acqua
Benizara e Kakezara
Il figlio serpente
La fava, la paglia e il carbone
Il gatto e i dodici segni dello zodiaco
Il vecchio tagliabambú
La gara del silenzio
Il destino del nascituro
La volpe del rasoio
Il villaggio degli sciocchi: «Piantala e mangia!»
Momonoko Tarō
I geta fatati
Il ragazzo che salí in cielo
Le due Kannon
La donna che non mangia
La Balena e l’Oloturia
Sud-ovest
Il Dio della Povertà
La moglie volpe
Urashimatarō (1)
Il tanuki fantasma
La catena d’oro della divinità del cielo
La ghiandaia celeste
Gonji «naso fine»
Il genero serpente
Tanokyū
Il tanuki e la volpe
Potessi diventare un nibbio!
La lepre, il tanuki, la scimmia e la lontra
Il passero con la schiena rotta
La visita
L’allarme per l’incendio
La cicogna, il gambero e la balena
Gli spiriti del tesoro
Attaccati, attaccati!
La montagna dei vecchi abbandonati (2)
La tana del tanuki
Gutsu lo sciocco
La battaglia tra la Scimmia e il Granchio (1)
La battaglia tra la Scimmia e il Granchio (2)
Lo sgocciolio delle vecchie case
Una storia senza fine
Il mantello di paglia che rende invisibili
Bada a come parli (Se il fagiano fosse stato zitto)
Il sūtra del topo
Takenokodōji, l’omino del germoglio di bambú
Le talpe e i rospi
Il cane, il gatto e l’anello
Gara di spacconate
La moglie gru
Parole costose
Il ragazzo che aveva fatto un sogno
Gorō da un occhio solo
Urashima (2)
Il genero dèmone
Il ricco carbonaio
Fratello e sorella
La tartaruga parlante
Il picchio e il passero
La sorella cigno
Il ministro Yuriwaka
Ceneraccio
Il genero kappa
Il principe della paglia
Il ragazzo veggente
La sorella dèmone
La moglie pesce
Il fegato della scimmia
La fanciulla scesa dal cielo
La moglie serpente
L’uomo senza ombra
Il figlio del sole
Gli astri fratelli (L’origine della stella polare)
Fiabe degli Ainu
Introduzione
Un solo uovo di salmone
Il dio-orso e la volpe bianca
La pentolina che aveva tempo libero
Glossario
Bibliografia
Il libro
Copyright

Copertina
Frontespizio
Fiabe giapponesi
Inizio del libro
Copyright
Fiabe giapponesi
A cura di Maria Teresa Orsi
Introduzione
1. Momotarō, il figlio della pesca.

C’era una volta Momotarō.


I libri di fiabe giapponesi per l’infanzia ce lo presentano come un ragazzino, nato
miracolosamente dall’interno di una pesca portata dalla corrente di un fiume, che giunto all’età
di quindici anni circa decide di partire per conquistare l’isola dei dèmoni. Vestito di tutto punto,
con tanto di armatura, calzari e vessillo, Momotarō parte per la sua avventura e in compagnia di
tre fedelissimi seguaci, un cane, una scimmia e un fagiano, arriva all’isola. Il suo viaggio si
conclude trionfalmente, anche se la fine della storia può sembrare incompleta rispetto a ciò che
un lettore occidentale si aspetterebbe. Infatti Momotarō non salva alcuna principessa prigioniera
e non conclude la sua avventura con un matrimonio, dopo il quale tutti vivono felici e contenti.
Si limita a tornare a casa con un carretto carico dei preziosi doni ricevuti dai dèmoni sconfitti.
Sebbene alcuni studiosi abbiano ammesso l’esistenza in passato di varianti che prevedevano uno
happy end matrimoniale che ancora sopravvive in qualche regione , resta il fatto che la versione
1

piú «ortodossa» e diffusa ha una conclusione – il ritorno a casa dell’eroe – che sembra quasi
suggerire un ideale di banale normalità.
Momotarō , tuttavia, conteneva in sé sufficienti elementi di suggestione e interesse per
2

diventare un modello. Non a caso fu una delle prime fiabe specificamente riproposta alla fine del
XIX secolo in forma letteraria e indirizzata a un pubblico infantile. È pur vero che il personaggio
non possedeva un pedigree particolarmente illustre come quello di altri suoi colleghi,
protagonisti di fiabe che avevano trovato modo di entrare anche in una letteratura scritta già nei
secoli VIII e IX, e della cui lunga presenza in Giappone esistono quindi prove documentate.
Secondo alcune ipotesi, la fiaba cominciò a diffondersi grazie alla trasmissione orale in un
periodo che va dal 1550 al 1630 e la storia sembra essere apparsa in libretti popolari verso la fine
del XVII secolo, raggiungendo il massimo della diffusione fra il 1764 e il 1789 .
3

La sua possibile destinazione a un pubblico infantile era quindi in qualche modo già stata
avvertita in quell’epoca, ma fu solo dopo la cosiddetta apertura del Giappone all’Occidente e
l’inizio del processo di modernizzazione che Momotarō fu scelto come l’eroe per eccellenza da
proporre all’infanzia. Il perché di questa preferenza può essere ritrovato nell’età del protagonista,
un ragazzino, che favoriva il processo di identificazione con i giovani lettori, nella sua nascita
meravigliosa, nel suo coraggio, nell’amicizia con i fedeli animali. D’altra parte, il motivo
principale della sua fortuna poteva attribuirsi al fatto che, proprio nel momento in cui il
Giappone dava il via al suo progetto di trasformazione in un paese forte e moderno, capace di
competere con le potenze straniere, la storia del ragazzino che da solo riesce a sconfiggere i
temibili dèmoni ben si adattava al clima generale. La fiaba di Momotarō possedeva inoltre una
struttura labile, con motivi non ben definiti; ciò permetteva trasformazioni e riscritture in misura
piú ampia rispetto ad altre che, pur nella continua varietà di personaggi e avvenimenti, esigono
maggiore uniformità e ripetitività . Cosí quando Momotarō fu promosso al rango di fiaba
4

destinata a essere inserita nei libri di testo delle scuole elementari, approvati dal Ministero
dell’Istruzione, accanto ad alcune inevitabili semplificazioni che lo liberavano da incongruenze e
ripetizioni, anche la sua fisionomia cambiò.
La versione proposta dallo scrittore Iwaya Sazanami (1870-1933) nel 1894 resta emblematica:
quando Momotarō annuncia ai genitori adottivi la sua intenzione di partire, spiega che lontano, a
Nord-est del paese, sulla distesa del mare si trova l’isola dove abitano dèmoni feroci «che non
rispettano gli augusti insegnamenti del nostro imperatore e hanno in passato procurato gravi
danni al nostro paese» . Quando poi giunge al cospetto dei nemici, il protagonista si presenta
5

come «Momotarō, generale del grande Giappone, inviato delle divinità della terra».
Questa tendenza a fare di Momotarō il difensore di valori militari e nazionalistici si sarebbe
accentuata ulteriormente dopo la vittoria del Giappone su Cina e Russia, anche se questa non è
stata l’unica direzione in cui si è mossa la metamorfosi del personaggio nel corso del nostro
secolo. Già nel 1891 un altro scrittore, Ozaki Kōyō, aveva proposto, con chiari intenti di parodia,
un Momotarō-dèmone, nato anch’egli da una pesca, che procede alla conquista del Giappone in
compagnia di un lupo, di un gorilla e di un serpente velenoso, impresa che tuttavia si rivelerà
fallimentare. Durante gli anni Venti, la penna degli scrittori della cosiddetta scuola proletaria
creava invece un Momotarō in veste di difensore dei diritti delle masse popolari, o viceversa
costretto ad affrontare le rivendicazioni dei suoi seguaci che rifiutano di seguirlo in altre
battaglie, in nome del proprio diritto a non essere sfruttati . Non molto lontana da quest’ultima
6

versione, infine, è quella di Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927), ben noto per le sue riletture
paradossali e controcorrente, che ci propone nel 1924, in chiave critica, un Momotarō aggressivo
e sostenitore dell’ideologia della conquista e, contro di lui, i dèmoni, impegnati in una guerriglia
per la difesa della propria indipendenza . Tuttavia, a mano a mano che la propaganda militarista
7

si faceva sentire nel Giappone degli anni Trenta e Quaranta, l’immagine di un Momotarō
schierato dalla parte della «giusta guerra» contro i paesi occidentali acquistava peso sempre piú
rilevante: cosí, un cartone animato del 1943 ce lo mostra a bordo di un aereo militare diretto
verso un’«isola dei dèmoni» che non era difficile identificare con Pearl Harbour .8

Dopo la fine della guerra e la sconfitta fu inevitabile che il personaggio subisse un calo di
popolarità, salvo riemergere in breve tempo riproponendosi come uno degli eroi per eccellenza
della letteratura per l’infanzia. Tra le rielaborazioni del dopoguerra, la piú originale è
probabilmente quella di Satō Satoru, che nel suo Uchū kara kita kanzume («La scatola venuta
dallo spazio», 1967) presenta Momotarō nelle vesti di un anziano professore di fisica che,
rinchiuso in una macchina del tempo di sua invenzione, può tornare indietro di seicento anni; ma,
per un difetto di fabbricazione della macchina, si trasforma egli stesso in un neonato. La
macchina del tempo, infine, rotonda, leggera e di un tenue colore rosato, appare come una pesca
agli occhi stupiti della vecchietta che la raccoglie mentre galleggia sulle acque del fiume . Nella
9

maggior parte dei casi, tuttavia, l’immagine di Momotarō che emerge nel dopoguerra tende a
riappropriarsi delle caratteristiche che aveva posseduto all’interno della fiaba tradizionale,
abbandonando sia le vesti del guerriero sia quelle del viaggiatore spaziale per tornare a essere un
giovane eroe che compie azioni meravigliose aiutato dai fedeli compagni.
In effetti, nel corso delle molteplici trasformazioni letterarie, la storia aveva rinunciato alle
sue prerogative, prima fra tutte a quel principio di «ridondanza massimale» che è riconosciuto
come l’elemento peculiare e irrinunciabile di ogni fiaba. Pertanto quindi, le riscritture della fiaba
di Momotarō, o quanto meno quelle piú apertamente controcorrente, si possono leggere come
tentativi di un processo di «scombinamento», analogo a quello messo in opera da Iring Fetscher
nel suo Chi ha svegliato la bella addormentata? . 10

Da questo punto di vista, una delle «ricostruzioni» piú apprezzate anche dagli studiosi è stata
quella di Matsui Tadashi (apparsa nel 1965), sia perché vicina alla forma della fiaba tradizionale,
della quale rispetta anche il ritmo e la cadenza del discorso, sia perché tentava di ricostruire
quello happy end matrimoniale che – secondo alcuni specialisti – era esistito in passato e poi era
stato in qualche modo cancellato .
11
Oltre a vedersi riconosciuto il carattere di eroe per eccellenza della fiaba giapponese,
Momotarō può vantare anche un altro primato, ossia quello di aver stimolato l’interesse degli
studiosi di folclore, mitologia, letteratura che, nel corso del secolo, hanno cercato di leggere e
interpretare la sua storia. Soprattutto nel dopoguerra la tendenza ha raggiunto la punta massima,
inserendosi in quello che è stato definito il «boom della fiaba» e che ha visto un proliferare di
raccolte, saggi e studi sull’argomento.
Già a suo tempo, lo studioso Yanagita Kunio, durante gli anni Trenta, elaborando la teoria del
«minuscolo personaggio» capace di compiere grandi imprese – presente in molte fiabe – aveva
ipotizzato una possibile relazione con un’antica credenza religiosa che riconosceva in questi
personaggi, nati in modo meraviglioso, divinità scese dai monti lungo il corso dei fiumi . 12

Procedendo su linee molto simili, ma con un approccio di tipo comparativistico, Ishida Eiichirō
in Momotarō no haha ha invece collocato all’origine della fiaba la figura della Grande Madre e
del Giovane Eroe simile a quella ritrovabile nella mitologia del Vicino Oriente . Infine, Seki 13

Keigo, che con Yanagita divide il merito di essere stato fra i maggiori studiosi ad analizzare le
fiabe dal punto di vista dell’approccio folclorico, partendo dal presupposto che esse siano in
stretta relazione con i costumi e la struttura sociale, vede in Momotarō, e soprattutto nella
spedizione all’isola dei dèmoni, il riflesso di cerimonie di iniziazione legate al raggiungimento
della maggiore età. Rifiutando inoltre la posizione di Yanagita, che nel motivo del minuscolo
eroe nato dalla pesca identificava una tradizione soprattutto indigena, Seki, attraverso un
minuzioso studio comparativo, avanzava l’ipotesi che questo motivo fosse giunto in Giappone
dopo un lungo viaggio partendo dall’Asia Minore, attraverso la Turchia, la Cina e la Corea . 14

Non sono mancate infine riletture in chiave «femminista», come quella di Ishikawa Junko.
Prendendo spunto dalla versione che vede Momotarō tornare a casa con la principessa-sposa, la
studiosa propone una sua personale interpretazione secondo la quale la storia esprime
simbolicamente il passaggio da una cultura matrilineare (l’isola dei dèmoni) ad una patrilineare,
in cui la donna viene costretta ad abbandonare il luogo d’origine per seguire il marito . Insomma, 15

se in Occidente Cappuccetto Rosso è stata forse la fiaba che piú ha stimolato ipotesi,
interpretazioni e analisi, in Giappone Momotarō non ha certo svolto un ruolo meno importante.
Un ulteriore contributo è stato offerto anche da Bruno Bettelheim. Nella prefazione alla
traduzione giapponese del suo The Uses of Enchantment si è soffermato ad analizzare alcune
fiabe giapponesi, fra le quali per l’appunto Momotarō, che, coerentemente con la propria visione
didattica, ha interpretato come uno strumento essenziale per la maturazione psicologica del
bambino:
Il significato racchiuso nella fiaba e che può essere trasmesso sia ai genitori sia ai figli ci dice in sostanza che un bambino
realmente amato dai genitori, nel momento in cui affronta il mondo, può avere la fortuna di incontrare buoni amici, può essere in
grado di vincere gli innumerevoli pericoli che nascono dall’interno e dall’esterno della sua coscienza e, alla fine, può condurre
un’esistenza pienamente realizzata. Cosa simboleggiano dunque i tesori dei dèmoni? Sono il simbolo degli infiniti tesori della
vita e non devono essere letti solo in termini materiali 16.

2. Le fiabe.

Jorge Luis Borges si è chiesto piú volte cosa possa essere quel libro «totale», «infinito», della
cui esistenza finge di non dubitare. Nel suo paradosso letterario, il grande scrittore argentino fa
in proposito varie ipotesi, tra cui quella di opere circolari o che comportino infiniti sviluppi.
Ebbene, passando dall’immagine simbolista alla realtà, un gradino al di sotto della ineffabile
opera universale sognata da Borges si potrebbe porre il grande libro delle fiabe. Quel libro che –
suggeriva Calvino in una sua ormai classica definizione – contiene «il catalogo dei destini che
possono darsi a un uomo e a una donna soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi di un
destino» .17

Si è detto che nella fiaba confluiscono quegli archetipi che, nella interpretazione junghiana,
sono all’origine della stessa capacità dell’uomo di pensare e raccogliere l’esperienza in concetti
razionalizzabili. Ed è facilmente constatabile che eroi ed eroine delle fiabe, a differenza di
quanto può avvenire nei miti o nelle leggende, non hanno uno spessore tale da farne esempi di
tipologia umana. Sono pertanto, come suggerisce Marie-Louise von Franz, immagini archetipe,
che forniscono rappresentazioni dei processi istintuali insiti nella psiche e quindi di valore
generale .18

L’idea della validità universale della fiaba è stata accettata anche da Bruno Bettelheim, per il
quale le fiabe sono specchi non della realtà, ma di esperienze interiori. I personaggi che in esse si
muovono sono astrazioni talmente universali da essere comparabili, nel loro valore simbolico,
agli aspetti isolati della personalità umana, quegli stessi che Freud ha sintetizzato nei concetti di
Es, Io, Super-io .
19

Gli specialisti di studi folclorici, e in particolare i seguaci del metodo finnico, sono disposti ad
ammettere la presenza ovunque di una specifica attività umana essenzialmente identica e di un
interesse per le fiabe che è in pratica generale. Sono tuttavia lontani dall’ipotesi universalistica
già avanzata da Wilhelm Grimm nel 1856, secondo il quale la fiaba si basa su «situazioni
talmente semplici e naturali da poter apparire dovunque» . La via percorsa dalla scuola finnica è
20

quella di tracciare la «biografia» di un dato tipo di fiaba, attraverso un rigoroso studio


comparativo che permetta di risalire all’«archetipo», ovvero a «quella forma che ha avuto la
massima importanza nel dare origine alle versioni della fiaba oggi reperibili in una determinata
area» .
21

A questo proposito si apre un altro vasto campo di ricerca, dove ancora gli interrogativi aperti
sono predominanti, che ruota intorno alla migrazione di un tipo di fiaba, alla possibile
connessione genetica tra motivi simili, all’accertamento di sviluppi locali non mutuati da culture
esterne o viceversa derivati da un centro di espansione originario. Questi interrogativi chiamano
in causa metodi di ricerca differenti, che fanno capo alla filologia, all’antropologia culturale, alla
storia, e anche alla letteratura per quanto attiene a quel complesso rapporto dialettico che
intercorre tra tradizione orale e trasposizione scritta della fiaba.
D’altro canto, ritornando al suggerimento di Calvino, la fiaba si configura come una grande
enciclopedia del narrabile, composta com’è di funzioni originarie facilmente riscontrabili in
mille romanzi e poemi. E ciò rende ragione delle intuizioni di Roland Barthes secondo cui la
lettura presente (e futura) fa parte del libro passato. Una chiave interpretativa che giustifica e
anzi esalta le «deformazioni» provocate dal complesso processo (orale e scritto) che accompagna
la metamorfosi della fiaba. È tutto qui il paradosso di quello che il senso comune è portato a
considerare il piú umile dei generi letterari che invece tende a espandersi quasi senza limiti,
ponendosi in un rapporto unico e insostituibile con la storia dell’uomo e della sua cultura. Ma
l’intrusività della fiaba, il suo rifiuto di confini di ogni genere, compresi quelli geografici, ne
costituisce anche la piú intima contraddizione. Resta per forza di cose oscuro il rapporto tra
universale e particolare, tra ciò che attiene a quella fiaba «originaria», contenitore di tutte le altre,
la cui esistenza è suggestivamente teorizzata da alcuni studiosi, e le costruzioni successive,
antropologicamente definite oltre che selezionabili sulla base di differenze storico-geografiche.
In particolare in questa ottica appare impossibile distinguere con certezza un mondo fiabesco
estremo-orientale senza approfondire natura, caratteristiche e origini di somiglianze e
sovrapposizioni fra Occidente e Oriente.
L’universalità allora, seppure la si voglia cogliere, deve essere vista piú come uno schema
analitico che come una reale, tangibile qualità della fiaba. È in fondo l’approccio – mediato
scientificamente dal lavoro di Thompson e in Giappone da Seki Keigo – che mette in evidenza
caratteristiche comuni a tutte le fiabe, dalla tendenza a conservare e rispettare la tradizione
ricercando nell’«autorità dei tempi passati» non solo la giustificazione ma anche il principale
motivo di interesse, allo scarso peso che viene dato all’originalità delle trame e dei personaggi.
Né va sottovalutato il ruolo sociale, sostanzialmente simile ovunque.
In un breve saggio sulla fiaba giapponese lo studioso svizzero Max Lüthi elenca come punti di
somiglianza rispetto a quelle europee alcuni elementi generali, quali la presenza di metamorfosi
nelle fiabe di magia, l’aspirazione verso ricchezza, soddisfazione dei desideri e felicità, l’elogio
dell’onestà, della diligenza e dell’umiltà (minore quello della giustizia), l’apprezzamento della
bellezza . A parte questi temi generali relativi all’esistenza umana, ovvero al catalogo dei destini
22

di cui parla Calvino, molte somiglianze saltano agli occhi anche di un lettore non specialista.
Basti pensare alla Fanciulla senza braccia che ricorda da vicino La fanciulla senza mani dei
fratelli Grimm. Del resto, questo tipo di fiaba (catalogata da Thompson come 706) è tra i piú
popolari e diffusi in tutto il mondo e in Europa se ne conoscono versioni letterarie almeno fin dal
XII secolo . La canzone dello scheletro presenta lo stesso tema di L’osso che canta (tipo 780)
23

sempre dei fratelli Grimm, mentre Il cane, il gatto e l’anello è assai simile all’Anello magico
riportato anche da Calvino nelle sue Fiabe italiane.
Naturalmente non manca una Cenerentola versione giapponese, riconoscibile nella storia
delle due sorellastre Benizara e Kakezara (che in molte varianti diventano Nukafuku e
Komefuku) e della cattiva matrigna. Del resto già nel 1892 Marian R. Cox aveva elencato 345
tipi di Cenerentola, diffusi in tutto il mondo, mentre nel 1951 Anna Birgitta Rooth arrivava a
catalogarne piú di 900 e a ipotizzare una migrazione della fiaba da un centro originario situato
nel Medio Oriente . In un saggio pubblicato nel 1985, Chieko Irie Mulhern giunge alla
24

conclusione che il ciclo della Cenerentola giapponese mostra sorprendenti affinità con quello
italiano e ipotizza una sua derivazione dalla tradizione italiana, attribuibile all’influenza dei padri
gesuiti presenti in Giappone durante gli anni della massima attività del missionariato, tra il 1570
e il 1614. La studiosa analizza le versioni scritte del ciclo giapponese di Cenerentola che
appaiono all’interno dei cosiddetti otogizōshi, brevi racconti popolari prodotti in gran numero dal
XIV secolo alla metà del XVII, lasciando da parte l’evoluzione del ciclo orale sul quale non si
hanno dati sicuri . D’altra parte, non si può non tenere presente che il tema matrigna/figliastra era
25

già apparso in Giappone all’interno di testi letterari, primo fra tutti l’Ochikubo monogatari
(«Storia di Ochikubo») del tardo X secolo .26

Infine, un’indagine di tipo comparativistico come quella compiuta da Warren Roberts in un


testo classico degli studi folclorici, The Tale of the Kind and the Unkind Girls, che prende in
esame 900 versioni della fiaba Frau Holle (ovvero La filatrice presso il pozzo, tipo 480)
dimostra l’appartenenza di un certo numero di fiabe giapponesi – il gruppo del Passero con la
lingua tagliata e quello di Benizara e Kakezara – ai sottotipi della fiaba in questione .27
Tuttavia non sono mancati studiosi impegnati soprattutto a dimostrare la presenza in
Giappone di sviluppi locali o a sottolineare i caratteri particolari della fiaba giapponese. Lo
stesso Max Lüthi, per esempio, precisa:
Nella fiaba giapponese, la tragedia e la morte sono realtà molto piú familiari che non nella fiaba europea. In Europa in genere
la morte e la rovina riguardano i comprimari. I principali personaggi con cui l’ascoltatore si identifica, se sono colpiti da un
incantesimo, ne vengono alla fine liberati, se sono uccisi sono richiamati in vita. Viceversa, i destini che vengono presentati nella
fiaba giapponese spesso si concludono con la morte. È assai raro che la trasgressione di un divieto sia il punto di partenza per
un’avventura che si conclude con un miglioramento nello stato sociale del protagonista, cosí come avviene nelle fiabe europee;
piú spesso in Giappone essa porta ad uno stato di vuoto in cui il protagonista si trova ad aver perso tutto, cosí come avviene nelle
leggende europee28.
Un esempio calzante di questa situazione appare nel Villaggio degli usignoli dove il
protagonista, un taglialegna, disobbedisce alla promessa fatta alla bella donna che ha incontrato
in un misterioso palazzo ed entra nelle stanze proibite. In seguito a ciò, la donna è costretta a
riprendere il suo vero aspetto, quello di un usignolo e ad andarsene in lacrime: la casa misteriosa
scompare e l’uomo si ritrova solo in mezzo al campo da cui era partito. Lo psicanalista Kawai
Hayao, che ha studiato il rapporto fra la fiaba e la psiche dei Giapponesi, sottolinea come
caratteristica peculiare del Villaggio degli usignoli – che pure condivide con molte fiabe
occidentali lo stesso motivo della «stanza proibita» – proprio la presenza di una conclusione che
è identica al punto di partenza. Il fatto che non sia successo nulla, sostiene Kawai, e che il
protagonista si trovi in una situazione di vuoto, può essere letto cosí: «È il Nulla che si è
verificato». In sostanza la fiaba è positivamente espressione del Nulla. La dicotomia esistente fra
mondo umano e mondo superumano, fra donna usignolo da una parte e uomo dall’altra si annulla
in un cerchio che in sé racchiude ed elimina le differenze, un cerchio in cui il Nulla è allo stesso
tempo Essere. Giunti a questo punto, il passo successivo è quasi inevitabile: «Cosa è successo?»
«Nulla». «Cosa è il Nulla?» «Un albero di susino, un usignolo». E non c’è bisogno che Kawai ci
spieghi che siamo ormai nel terreno dei paradossi dell’esperienza zen . 29

Con queste premesse non può stupire che molte fiabe giapponesi non si concludano con un
bel matrimonio, magari raggiunto dopo mille peripezie, sebbene questo motivo non sia come è
ovvio del tutto bandito. Esistono esempi che si chiudono con il classico happy end matrimoniale,
come, tra le fiabe contenute in questo volume, La fanciulla senza braccia, Benizara e Kakezara,
Pelle di vecchia, Fratello e sorella, Il genero misterioso. Ma con frequenza ancor maggiore
troviamo un finale caratterizzato dalla separazione, ossia l’evento che in molte fiabe europee si
verifica e non può non verificarsi che all’inizio della storia. Anche sotto questo aspetto resta
emblematico Il villaggio degli usignoli, ma si potrebbero aggiungere La fanciulla scesa dal cielo,
Urashimatarō, Il genero dèmone, La sposa di neve, La moglie gru. Nella versione qui riportata
di quest’ultima fiaba l’uomo riesce per un attimo a ritrovare la moglie perduta, ma non fa alcun
tentativo per riprenderla con sé e ritorna da solo al proprio villaggio.
Nella grande maggioranza dei casi si tratta di storie che hanno come soggetto l’incontro fra un
essere umano e un essere soprannaturale: La donna carpa, La moglie volpe, La moglie pesce, La
moglie gru oppure Il genero serpente. In questi racconti di regola il matrimonio si verifica non
come conclusione, ma all’inizio della storia; quando poi la vera identità del coniuge viene
rivelata la separazione è inevitabile. Se è lo sposo che appartiene ad un altro mondo in genere
viene cacciato o ucciso. Se è la donna, il piú delle volte è costretta ad andarsene sia pure con
grande dolore. È stato fatto notare in piú di un’occasione e da piú di uno studioso come anche la
fiaba occidentale offra esempi di matrimoni fra un essere umano e un animale, La Bella e la
Bestia, Hans Porcospino, Re Ranocchio e cosí via. Tuttavia una differenza fondamentale è che
nelle fiabe occidentali l’animale è in realtà un essere umano che per qualche magia ha perso le
sue vere sembianze ed è costretto a restare sotto altra forma finché qualcuno non lo salvi dalla
maledizione. In Giappone viceversa è l’animale che assume sembianze umane e quando la sua
vera natura viene rivelata deve ritornare al proprio mondo. Nella fiaba giapponese, è la
conclusione, non esiste o esiste assai poco il concetto di «redenzione» . Anche nei casi in cui, 30

come nelle fiabe occidentali, un essere umano è vittima di un maleficio, non necessariamente
esso riprende il suo vero aspetto alla fine della storia. Si veda per esempio la versione di
Urihime, in cui la fanciulla, posseduta da Amanojaku, si trasforma in un uccello e non ritorna
donna neppure dopo che è stata cacciata via la strega malvagia, o anche la seconda parte del
Genero dèmone, dove la sposa uccisa e mutata in anguilla resta tale anche quando la
macchinazione della sorella è stata smascherata. Si potrebbe obiettare che l’esame di una
versione non è comprovante e che solo un’analisi capillare può dar ragione dell’effettiva
incidenza del tema della separazione rispetto allo happy end, ma, sia pure con tutte le riserve, è
difficile resistere alla tentazione di registrare queste conclusioni cosí antitetiche rispetto al
sostanziale ottimismo delle fiabe europee.
Kawai Hayao ha messo a confronto Il corvo dei fratelli Grimm con La moglie gru, una delle
piú famose versioni giapponesi del matrimonio fra esseri di diversa specie, e ne ha sintetizzato la
struttura dividendola in quattro momenti: inizio, svolgimento, sviluppo, conclusione.
In apertura, nella fiaba giapponese la donna, che in realtà è una gru, va a trovare l’uomo. In
quella dei Grimm è l’uomo che per caso incontra il corvo. Successivamente la gru propone
all’uomo di sposarla, nascondendogli la sua vera natura, mentre nella versione europea il corvo
rivela subito di essere in realtà una principessa di stirpe reale e gli chiede di liberarla
dall’incantesimo che la tiene prigioniera. Segue la terza fase: nel Corvo l’uomo deve svolgere
una serie di compiti per liberare la principessa e alla fine li porta a termine con l’assistenza della
donna. Nella Moglie gru è la donna che a un certo punto si pone un compito, quello di tessere la
tela meravigliosa con le proprie piume, ma è ostacolata dal marito. Nella conclusione, la vera
natura della gru viene scoperta e segue l’inevitabile separazione. Per i Grimm, invece, l’uomo
conclude la sua missione felicemente e sposa il corvo che ha ripreso sembianze umane . 31

Si potrebbe dedurre, come peraltro ha fatto Max Lüthi, che la fiaba giapponese è molto piú
vicina alla leggenda, se siamo disposti ad accettare la differenza fra leggenda e fiaba proposta
dallo stesso autore:
Senza esitare l’eroe della fiaba sposa un essere ultraterreno, una fata, una donna cigno e non percepisce in costoro nulla che
possa turbarlo […] Nella leggenda invece, il matrimonio con un’abitatrice dei boschi, una strega o una ninfa è di per sé gravido di
tensioni e in genere termina tragicamente […] Mai nella leggenda troviamo un matrimonio con uno spirito redento. Nella fiaba
per contro è del tutto naturale che l’eroe sposi la fanciulla stregata che ha liberato, senza vedervi nulla di straordinario 32.
Tuttavia, Kawai non sembra essere d’accordo con questa definizione che quasi
automaticamente avvicina la fiaba giapponese al mondo della leggenda. Lo studioso insiste
viceversa che la conclusione «infelice» di questo tipo di fiaba in particolare e in genere di molte
altre nasce da ciò che egli definisce il paradigma culturale giapponese, che esige la percezione di
una «bellezza malinconica», ovvero di quell’aware (un’intensa emozione velata di malinconia)
che ha rappresentato uno dei concetti estetici piú complessi e profondi tra quelli presenti in tutto
l’arco della storia letteraria giapponese . 33
3. I protagonisti.

I personaggi delle fiabe – lo sappiamo – sono «figure eteree e trasparenti», mancano di


spessore psicologico, sono intercambiabili, esprimono funzioni e non caratteri umani. È anche
vero però che la fiaba, affondando le sue radici nel contesto culturale di una comunità
storicamente data, conferisce ai suoi personaggi una fisionomia che, sia pure entro certi limiti, li
mette in relazione con quel contesto. Può darsi che sia per via dei condizionamenti che le fiabe
lette nell’infanzia operano sul lettore, ma il Gatto con gli Stivali o Pollicino sembrano
appartenere al mondo europeo piú di Baba-jaga o Mago Gelo, il Troll ha un sapore piú norvegese
di un Orco nostrano, e Askeladden, anche quando il suo nome diventa Ceneraccio, non perde i
suoi panni nordici.
Cosí, Momotarō esibisce una fisionomia tutta giapponese; e accanto a lui si fanno strada altri
personaggi, alcuni con un nome definito, altri meno caratterizzati sul piano dell’identità
personale, ma certo riconoscibili nell’aspetto, nel comportamento, nella loro appartenenza come
parte integrante – per usare la definizione di Umberto Eco – del «bagaglio enciclopedico» di
ciascun giapponese.
Nelle fiabe giapponesi, come peraltro in quelle occidentali, dèmoni e streghe sono di casa,
impersonando forze dell’universo, talvolta benefiche, molto piú spesso feroci e distruttive.
Gli oni (dèmoni o orchi) fanno la loro comparsa già nei testi scritti dell’ VIII secolo. Uno dei
fudoki («cronache di venti e di terre»), raccolte di informazioni su caratteri, costumi e leggende
delle regioni del paese, compilate per ordine imperiale nel 713, ci informa laconicamente che
nella regione di Izumo un uomo coltivava il suo campo, quando arrivò un dèmone (oni) con un
occhio solo e se lo mangiò. Non ci è dato sapere altro sullo sfortunato contadino, ma la
tradizione dei dèmoni divoratori di uomini avrebbe avuto vita lunga e prospera. È pur vero che
gli studiosi sottolineano come all’epoca dei fudoki il segno grafico di oni potesse anche essere
letto in altri modi e spesso indicasse non tanto un dèmone (come quello che si sarebbe in seguito
sviluppato con tratti somatici inconfondibili), quanto piuttosto un essere senza forma precisa, uno
spirito, o ancora l’anima di un morto, spinta da qualche rancore a ritornare sulla terra . Ma 34

l’interesse dell’oni verso l’essere umano inteso come possibile preda e cibo appetitoso appare fin
dall’inizio come un elemento relativamente costante, semmai arricchito qua e là da particolari
raccapriccianti. Cosí, nella raccolta di aneddoti di ispirazione buddhista Nihon ryōiki («Storie
miracolose del Giappone»), compilata nel IX secolo, si narra la storia della figlia di una ricca
famiglia di mercanti, che affascinata da uno sconosciuto accetta di diventarne la moglie e passa
la notte con lui. La mattina dopo, i genitori, non avvertendo segni di vita, entrano nella stanza e
vi trovano soltanto una testa semidivorata e un piccolo dito bianco, unici resti della loro
disgraziata figliola . 35

Con il passare del tempo e come frutto dell’interazione fra credenze popolari e buddhismo,
l’oni perfezionò la propria fisionomia assumendo lineamenti definiti e sempre piú spaventosi.
Ecco per esempio la descrizione di un dèmone che compare nel Konjaku monogatarishū
(«Raccolta di racconti del tempo che fu»), risalente al XII secolo. In un primo momento, il
dèmone, per ingannare la sua vittima, assume sembianze femminili:
C’era là una donna che indossava una veste di un leggero colore violetto, una sopravveste non foderata di colore piú scuro, un
paio di ampi pantaloni scarlatti; si copriva la parte inferiore del volto con la manica e sembrava in preda a una profonda ansia. Il
suo aspetto destava davvero compassione. Si appoggiava alla spalliera del ponte, come fosse arrivata fin là non di sua volontà ma
qualcuno ve l’avesse abbandonata, e non appena vide arrivare (il viandante) mostrò allo stesso tempo pudore e sollievo.
Poco dopo tuttavia la donna rivela le sue vere sembianze:
il volto era vermiglio, largo come un cuscino, con nel mezzo un solo occhio, la sua altezza raggiungeva quasi tre metri, le sue
mani avevano solo tre dita, ma le unghie erano lunghe piú di quindici centimetri e sembravano dei pugnali. Il corpo era verdastro,
l’occhio simile ad ambra, i capelli arruffati come rami di assenzio selvatico. Il terrore che ispirava superava ogni limite 36.
Nelle fiabe e nell’iconografia popolare il dèmone ha un aspetto meno inquietante: robusto,
tarchiato, indossa sul corpo nudo, che può essere blu o rosso, un ridotto perizoma fatto di pelle di
tigre, sul capo ha una, due o tre piccole corna, mentre due zanne spesso gli sporgono dalla bocca.
Piú grottesco che terrificante, l’oni delle fiabe rivela inoltre tratti caratteriali indiscutibilmente
umani: ama danzare, cantare, bere sake o addirittura giocare d’azzardo, cosí come lo vediamo
nella Pura terra del Jizō. Si spaventa facilmente e una volta sconfitto non esita a versare grosse
lacrime di dolore, come avviene in Momotarō. Altrove non dimostra un’intelligenza
particolarmente brillante, come nella storia di Benizara e Kakezara o in quella dell’Orco e i tre
bambini. Non mancano d’altronde dèmoni patetici, come l’Oniroku del Carpentiere e il dèmone,
costretto a procurarsi il cibo per i suoi piccoli che lo aspettano fra i monti, o ancora, oni generosi,
disposti ad aiutare gli esseri umani, specialmente quando costoro sono in grado di farli divertire.
È il caso del Nonno togliporri. In molte versioni, sono i dèmoni, e non i misteriosi tengu, a
chiedere al vecchietto di ballare per loro e a ricompensarlo alla fine togliendogli il porro che
deforma la sua faccia. Ma soprattutto gli oni ridono nei momenti meno opportuni, rischiando cosí
di perdere tutto il potere che fino ad allora sembravano possedere rispetto agli esseri umani.
L’esempio emblematico è offerto da La risata degli orchi, ritenuta una delle fiabe piú originali
dell’intero patrimonio folclorico giapponese.
Nella scena finale, gli orchi, alla vista delle tre donne che alzano la veste, scoppiano in una
fragorosa risata e si lasciano pertanto sfuggire la loro preda. Il rapporto fra lo spettacolo delle tre
donne che mostrano «la cosa piú importante» che hanno e la risata degli spettatori è di difficile
interpretazione e può apparire sorprendente. D’altro canto, a parte le speculazioni sul significato
di questo episodio e su possibili connessioni con temi appartenenti alla mitologia di altri paesi, il
motivo si ricollega in modo evidente a una delle pagine piú importanti della mitologia
giapponese. Nel primo libro del Kojiki («Cronaca di antichi avvenimenti», 713) si narra infatti
che la divinità del Sole, Amaterasu, offesa per le intemperanze del fratello Susanoo, aprí la porta
della dimora rocciosa del Cielo, entrò e vi si chiuse dentro. Il mondo fu invaso dalle tenebre
finché, davanti a un’assemblea di divinità, la dea Ame no Uzume «si rimboccò le maniche con
un tralcio del rampicante celeste hikage, si cinse il capo con una fascia fatta di tralci di masaki,
legò insieme foglie di bambú da tenere fra le mani, poi capovolse un secchio di legno davanti
alla porta della dimora rocciosa e lo colpí con il piede facendolo risuonare. Quindi fu posseduta
dal dio, mostrò il seno e abbassò la veste fino ai genitali. Allora la Pianura dell’Alto Cielo vibrò
tutta al suono della risata delle ottocento miriadi di divinità» . A questo punto, incuriosita,
37

Amaterasu si affaccia alla porta e viene costretta a uscire ridando cosí la luce al mondo.
È stato fatto notare che nella sequenza mitologica l’atto di Uzume, ossia l’esibizione dei
genitali, ha l’effetto di forzare le labbra chiuse degli dèi e soprattutto quelle di Amaterasu ad
aprirsi in una risata, cosí come si apre la porta oltre la quale si è chiusa la divinità . 38

Nell’interpretazione dello psicanalista Kawai Hayao, lo stesso episodio, trasferito nella fiaba,
può essere letto da una parte come un mezzo per ristabilire un equilibrio che era andato perduto,
restituendo i dèmoni al loro mondo e separandoli definitivamente dagli esseri umani, e dall’altra
come vettore di una funzione relativizzante, che dà ai dèmoni una debolezza umana e toglie loro
il potere di nuocere . 39
Stretta parente degli oni è la yamanba (lett. «vecchia dei monti»), che tuttavia rispetto a quelli
si presenta come figura molto piú complessa, multiforme e in definitiva, nonostante la sua
ferocia, non priva di un certo fascino. La yamanba (detta anche yamauba, o ancora yamaonna
«donna della montagna» e yamahime «signora della montagna») si impone con la sua presenza
sia all’interno della tradizione orale sia nella letteratura scritta. Il Tōno monogatari («Racconti di
Tōno»), una delle prime raccolte di leggende registrate nel 1910 dallo studioso Yanagita Kunio,
ce ne offre un ritratto particolare ben differente da quello della megera che compare nella
maggior parte delle fiabe. Si racconta infatti nel terzo episodio che un tal Sasaki Kahee del
villaggio di Tochinai quando era giovane si recò a caccia fra le montagne.
All’improvviso gli apparve una bellissima donna, seduta su di una roccia, intenta a pettinare i lunghi capelli neri. Il suo volto
era candido. […] l’uomo imbracciò il fucile, la colpí con una pallottola e la donna cadde al suolo. Quando le si avvicinò si
accorse che era molto alta e che i capelli sciolti superavano in lunghezza la statura della donna.
L’episodio successivo ci racconta invece di Kichibee del villaggio di Yamaguchi che si era
recato fra i monti per raccogliere bambú nani.
Una folata di vento percorse la distesa dei bambú. Si voltò e vide che dal bosco in lontananza usciva una giovane donna che
portava un bambino sulle spalle e avanzava verso di lui attraverso il campo. Il suo aspetto era seducente e i lunghi capelli neri le
scendevano sulla schiena. La corda che teneva il bambino legato a lei era fatta di tralci di glicine, la veste che indossava era un
comune kimono a strisce, ma l’orlo, a brandelli, era tenuto assieme da foglie di alberi. I suoi piedi non sembravano toccare il
suolo40.
Il Tōno monogatari non fa esplicito riferimento al termine yamanba, né ci illumina sul fatto se
essa fosse un essere umano o un fantasma, preferendo lasciare del tutto incerti i confini che
separano il mondo degli uomini da quello degli esseri soprannaturali. Ma seppure in questo caso
l’immagine della donna fra le montagne è solo inquietante e non minacciosa come nelle fiabe,
l’atmosfera e i particolari – compresa la presenza del bambino – permettono di includerla in una
delle mille facce che la «donna delle montagne» assume attraverso fiabe, letteratura e leggende
presentandosi ogni volta con una diversa valenza: strega perversa e madre, divinità e dèmone,
patetica e minacciosa, generosa e vendicativa.
I primi testi scritti dove essa compare sembrano propensi ad accentuare il suo carattere
dèmoniaco. È sempre il Konjaku monogatarishū, fonte preziosissima di storie di mostri e
fantasmi, che ci informa su una giovane donna della capitale, senza marito o parenti che si
occupino di lei, che, scoprendosi in attesa di un figlio, decide di trovare rifugio fra le montagne
per metterlo al mondo. Qui incontra una vecchia con i capelli bianchi che si offre di aiutarla e
poco dopo nasce il bambino. «Dopo due o tre giorni, la donna stava sonnecchiando quando sentí
confusamente che la vecchia mormorava fissando il neonato che giaceva lí accanto: “Uhm, che
bontà! Ne farò un sol boccone”» . La storia si conclude con la fuga della giovane madre, mentre
41

nessuna informazione ci viene fornita sulla fine della yamanba rimasta senza pranzo. E questo
aggiunge al racconto una sfumatura di umorismo che contribuisce a umanizzare la perfida strega.
Di tutt’altra dimensione è invece la yamanba protagonista dell’omonimo dramma del teatro
nō apparso nel XV secolo, di autore sconosciuto. Considerata dalla gente come «un dèmone che
vive fra le montagne», ma dèmone soprattutto in quanto separata dal mondo umano, verso il
quale peraltro non si dimostra né feroce né distruttiva, la yamanba «non conosce luogo d’origine,
non ha casa, può fare affidamento solo sulle nuvole vaganti o l’acqua che scorre, e non esiste
recesso montano dove non sia passata» . Nel testo del nō, permeato dalla visione buddhista,
42

l’incessante vagare per i monti della donna può essere letto anche come l’inevitabile
conseguenza dell’attaccamento alle illusorie realtà di questo mondo, che impedisce di eliminare
il ciclo delle rinascite e ottenere la salvezza. Allo stesso tempo, cosí come bene e male, giusto e
ingiusto, vero e falso sono due facce della stessa realtà, la yamanba dèmone è anche generosa e
sollecita verso gli abitanti del villaggio, che pure la odiano e la temono. Le ultime parole da lei
pronunciate prima di uscire di scena sono allo stesso tempo una richiesta di liberazione,
attraverso l’illuminazione buddhista, e una preghiera rivolta agli esseri umani. «In questo
continuo vagare, la polvere del mondo e le nubi delle false illusioni che impediscono di staccarsi
dal ciclo delle rinascite, hanno fatto di me una yamanba. Guardate, guardate la figura di questa
donna dèmone!»
L’immagine proteiforme della yamanba ha subíto con il passare del tempo altre metamorfosi.
Durante l’epoca Tokugawa (1603-1867) la sua figura viene associata a quella di un figlio,
Kintarō, nato – secondo una versione – in modo miracoloso dopo che alla donna è apparso in
sogno un drago rosso. Kintarō, che è allevato dalla madre e vive con lei fra i monti, in età adulta
diventa il leggendario eroe Sakata no Kintoki, uno dei fedeli seguaci di Minamoto no Yorimitsu
(948-1021), al cui fianco combatte per eliminare i dèmoni del monte Ōe. Se la figura storica di
Minamoto no Yorimitsu non è messa in discussione, quella di Sakata è molto piú nebulosa e il
fatto che il suo nome sia citato in un documento del 960 non è sufficiente a dissipare i dubbi
sulla sua possibile reale esistenza . Ciò non impedí ovviamente all’eroe di godere di una notevole
43

fortuna nel romanzo e nel teatro. Accanto a lui, nelle rielaborazioni letterarie e drammatiche di
epoca Tokugawa, la yamanba acquista a sua volta una nuova dimensione, trasformandosi da
personaggio nebuloso, senza nome e senza passato in una figura «storica» in quanto madre di
Sakata no Kintoki .
44

Non fu tuttavia solo il teatro a dare un fondamentale contributo all’evoluzione della «donna
delle montagne». Kitagawa Utamaro (1753-1806), famoso soprattutto per le sue «stampe del
mondo fluttuante» (ukiyoe) che raffiguravano le piú famose cortigiane del suo tempo, inserí piú
volte fra le sue «belle donne» anche la yamanba, ritratta non come vecchia strega, ma come una
giovane donna nel fiore dell’età e sorprendentemente simile alle piú rinomate bellezze del tempo.
Accompagnate dal figlio Kintarō, che, in omaggio alla sua possibile nascita da un drago rosso, è
raffigurato con il corpo vermiglio, le yamanba di Utamaro hanno la pelle bianca, i lunghi capelli
sciolti in un disordine che serve solo ad accrescerne il fascino inquietante, e indossano kimono
ampiamente aperti sul seno fiorente. Insomma abbiamo qui una yamanba sensuale e seducente,
molto lontana da quella delle fiabe.
A dire il vero, anche la fiaba popolare, pur privilegiando l’aspetto feroce della donna delle
montagne, non manca di rispettarne la pluridimensionalità. Certo, l’immagine piú diffusa è
quella che incontriamo nel Mandriano e la yamanba, una vecchia insaziabile che inghiotte uno
dopo l’altro i pesci e poi il bue e che volentieri farebbe fare la stessa fine anche al mandriano. In
altre fiabe alla voracità della donna si accompagna la capacità di leggere nel pensiero altrui, che
toglie alle sue vittime la speranza di poterle sfuggire. Alla stessa tipologia appartengono anche
Amanojaku che troviamo in Urihime e la «donna che non mangia» protagonista della fiaba che
porta lo stesso titolo. In numerose varianti di quest’ultima – molto diffuse in tutto il Giappone –
la donna è in realtà un ragno vorace, oppure si trasforma in un ragno nel tentativo di uccidere e
divorare l’uomo. Da qui sarebbe nato il detto: «Se incontri un ragno di sera, uccidilo anche se
assomiglia a tuo padre». Il motivo del ragno che tesse la sua tela per uccidere, sviluppato in
modo indipendente nel Ragno d’acqua, si ricollega in varia misura alla figura della yamanba. È
stato fatto notare che spesso essa appare affiancata al telaio o al filo, come avviene in Urihime e
nella brevissima Il fuso della yamanba.
Anche nella fiaba, tuttavia, compare talvolta la seconda faccia della donna ovvero quella
generosa e disinteressata. È il caso della Yamanba che fece da sensale, anche se si potrebbe
obiettare che i metodi da lei scelti per procurare una sposa al suo protetto non sono proprio
ortodossi e che il suo intervento resta capriccioso e coercitivo.
Inutile dire che la complessità stessa del personaggio ha stimolato le interpretazioni piú varie
soprattutto in campo psicologico, laddove si parta dal presupposto che le fiabe forniscano
rappresentazioni dei processi istintuali insiti nella psiche umana. Cosí Kawai Hayao ha voluto
vedere nella yamanba soprattutto la figura materna – intesa nella funzione archetipica di Grande
Madre – nel suo aspetto totalmente buono o totalmente distruttivo. La polarità è espressa in
termini evidenti nella fiaba Le due Kannon, particolarmente interessante, secondo lo studioso,
qualora venga letta come una storia che ci rivela la presenza di un lato d’ombra anche nella
stessa Kannon, che pure rappresenta l’aspetto positivo della Grande Madre . Un’altra possibile
45

interpretazione sarebbe quella di vedere nella yamanba l’espressione piú emblematica di una
figura molto frequente e molto forte nell’immaginario giapponese: quella della donna che
distrugge l’uomo, assumendo volta per volta sembianze diverse, volpe, o spettro, o serpente e
che ha trovato ampio spazio anche nella letteratura scritta. Ma forse, come sostiene Alain Walter
nel suo Erotique du Japon classique, questo tipo di fantasma è universale e testimonia
l’inquietudine dell’uomo di fronte al potere di seduzione femminile . 46

Esiste però anche una lettura che permette di vedere la donna delle montagne sotto una
diversa luce, quella di vittima e non di colpevole a tutti i costi. È offerta dalla studiosa Baba
Akiko. Analizzando la protagonista della Donna che non mangia Baba propone un
capovolgimento di valori: la giovane che si presenta alla porta del protagonista dichiarando che
non mangerà nulla è una yamanba che, pur di stabilire un contatto con gli esseri umani, è
disposta a rinunciare alla sua principale prerogativa, ossia quella di divorare il prossimo. Il
bisogno di entrare in rapporto con il mondo degli uomini, di farne parte è la molla che muove la
donna fino al momento in cui, scoperta dal marito, si trova costretta a «vendicarsi» e a
riassumere la sua originaria ferocia. In tal modo la studiosa non solo stabilisce un sia pur esile
legame fra la yamanba delle fiabe e quella ben piú tragica e patetica del dramma nō, ma la
inserisce altresí nella ricca galleria di protagoniste di fiabe che appartengono a un altro mondo e
che tentano inutilmente di mescolarsi con gli esseri umani, per venirne sempre respinte.
Il nutrito elenco di esseri dotati di poteri soprannaturali che amano avvicinarsi al mondo
umano con alterne fortune include altri due personaggi, che a rigore apparterrebbero al regno
animale: la volpe e il tanuki, il cui nome scientifico è Canis viverrinus, nyctereutes o
procionides. Spesso intercambiabili nelle loro funzioni, ma allo stesso tempo distinti come
personalità e aspetto fisico, i due «animali» condividono la tendenza a ingannare il prossimo,
fare dispetti, giocare tiri maliziosi che spesso hanno conseguenze dannose e irreparabili.
La volpe intesa come animale furbo, infido e imprevedibile ha un ruolo fondamentale
nell’immaginario di ogni paese, ma sembra che in Oriente, e in particolare in Cina e Giappone, la
diffidenza nei suoi confronti sia particolarmente profonda. Un apologo cinese del 333 a.C. ce la
presenta mentre utilizza la propria furbizia per mettere in guardia la tigre molto piú forte e feroce
di lei: «Il Sovrano del Cielo – dice la volpe – mi ha dato speciali privilegi, concedendomi
un’astuzia superiore a quella di tutti gli altri animali. Se provi a divorarmi, di certo lo offenderai
molto» .
47

Nel folclore giapponese la volpe (kitsune) ha come principale caratteristica quella di


trasformarsi a suo piacimento in modi diversi e stravaganti. La piú singolare delle sue
metamorfosi sembra risalire al 1889 quando assunse la forma di una locomotiva sulla linea
Tōkyō-Yokohama. Si racconta che il macchinista a bordo di un treno che percorreva la linea,
inaugurata solo una quindicina di anni prima, notasse un altro treno sulle stesse rotaie che
procedeva in direzione opposta, pur senza mai avvicinarsi troppo. Il macchinista, intuendo la
verità, spinse allora il proprio treno a tutta velocità fino a investire l’altro, per poi scoprire sulle
rotaie il corpo di una volpe .
48

A parte queste estemporanee manifestazioni, forse dettate anche da una certa polemica contro
il progresso, la volpe tradizionale ama soprattutto prendere l’aspetto di una giovane, bellissima
donna, il piú delle volte per ingannare l’uomo, sedurlo e prendersi poi gioco di lui, non
diversamente da quanto avviene nel Dio orso e la volpe bianca del folclore ainu.
Essere misterioso, pericoloso, responsabile di turbare la mente umana attraverso il suo magico
potere di possessione (kitsunebiki), inafferrabile e affascinante, la volpe occupa un posto d’onore
anche nelle opere letterarie dove appare in tutte le sue possibili metamorfosi. Già il Genji
monogatari («La storia di Genji»), scritto nell’XI secolo dalla dama di corte Murasaki,
capolavoro indiscusso della narrativa giapponese, fa cenno in piú di un’occasione al suo magico
potere di seduzione, alla capricciosa volontà di trasformarsi in donna, oltre che alla predilezione
per i luoghi abbandonati ai quali la sua invisibile presenza aggiunge un fascino inquietante. Ma
sarebbe impossibile in questo ambito seguire tutto il cammino che la volpe percorre, nel
romanzo, nel teatro, nella letteratura colta e in quella popolare, in epoca classica e ai giorni
nostri . Nella fiaba le sue trappole possono apparire feroci e ingiustificate, come nel caso delle
49

Volpi nel sacco, oppure essere abilmente messe al servizio di qualche umano altrettanto infido,
come avviene nel Matrimonio delle volpi. Tuttavia, in alcuni esempi – citiamo Il calderone della
fortuna – la volpe mostra doti di grande abnegazione sacrificando la propria vita per
ricompensare l’uomo che l’ha salvata. Anche nella Moglie volpe appare come madre affettuosa e
sollecita, obbligata suo malgrado ad abbandonare il figlio. La storia di Kuzunoha, la volpe bianca
che si trasforma in donna per diventare moglie del nobiluomo che l’ha protetta dai cacciatori e
che mette al mondo un figlio da cui è poi costretta a separarsi, resta uno dei temi favoriti di molta
letteratura giapponese anche nel nostro secolo.
Il tanuki (o mujina), che per molti versi è simile al tasso, appartiene in realtà alla famiglia dei
canidi: un animale coperto da una folta pelliccia, con una lunga coda, il muso aguzzo e due
macchie scure attorno agli occhi che ricordano quelle del procione. Nel folclore appare come un
essere dispettoso, burlone, ma anche vendicativo e feroce. Un caso limite è raggiunto da La
montagna Kachi kachi dove la perfidia dell’animale che serve al vecchio uno spezzatino di carne
umana raggiunge livelli truculenti. Se all’interno delle fiabe il suo aspetto malevolo sembra
predominare, resta il fatto che il tanuki condivide con altri esseri soprannaturali una certa
ambiguità di carattere che gli permette a volte di agire in modo generoso, come avviene in molte
varianti del Calderone della fortuna, dove lo troviamo al posto della volpe riconoscente.
Meno intelligente della volpe e meno elegante nell’aspetto, anche il tanuki può trasformarsi in
qualunque oggetto o persona, ma la sua abilità per quanto notevole non riesce a competere con
quella dell’altra, da cui viene spesso sconfitto. Le sue incursioni nel mondo umano lo vedono
nelle vesti di una giovane donna, come avviene nel Tanuki fantasma, ma piú spesso egli ama
prendere le sembianze di un monaco. In questo abbigliamento è ritratto in una famosa stampa
dovuta a Tsukioka Yoshitoshi (1839-92), che ci mostra un tanuki insolitamente mite e innocente,
avvolto nelle vesti di un monaco, appoggiato a un basso tavolo alla fioca luce di una lampada.
Accanto a lui sul focolare è sospeso un bollitore per l’acqua del tè, quasi a ricordare che in altre
occasioni il dispettoso animale non ha esitato a trasformarsi proprio in un bollitore e a correre
all’impazzata per tutta la stanza. Come appare evidente da questo esempio, l’aspetto maligno del
tanuki è mitigato da una frequente comicità di comportamento alla quale si affiancano certe
stravaganze nell’aspetto. Prima fra tutte, la smisurata dimensione dello scroto che l’animale
adopera per gli scopi piú impensati: come ombrello, come mantello in cui drappeggiarsi, come
sgabello, come arma per soffocare o strangolare i nemici . Lo scroto può anche esser usato come
50

un improvvisato tamburo, anche se in questo caso la tradizione vuole che il tanuki preferisca
adoperare il proprio stomaco, gonfiato a dovere, su cui batte con le zampe per ricavare un suono
che ha lo scopo principale di confondere i passanti e far perder loro la strada…
Brenda Jordan, autrice di un saggio su tanuki e volpi in Giappone, riconosce in questi
personaggi caratteristiche che permettono di avvicinarli al trickster, una delle piú antiche figure
mitologiche del mondo, che in termini psicologici sarebbe manifestazione di ciò che Jung chiama
«Ombra», una seconda personalità della quale non siamo normalmente coscienti e che non
possiamo controllare. Secondo Jordan, se il vero trickster è quella parte dell’inconscio che non
risponde alla logica e alla ragione, allora «l’idea del trickster nel folclore e nell’arte, che appare
in Giappone come tanuki e kitsune, può essere un tentativo non solo per riconoscere questa parte
della personalità umana, ma anche per giungere a comprenderla e accettarla» . 51

Nel Tōno monogatari di Yanagita Kunio si racconta anche che accanto al villaggio di
Matsuzaki c’era una collina chiamata il bosco dei tengu. Un giovane del villaggio, mentre stava
lavorando in un campo di gelsi ai piedi della collina, si addormentò e al suo risveglio si accorse
che un uomo grande e grosso con il volto rosso lo stava fissando. Il giovane, che era robusto ed
esperto nella lotta, non si intimorí e si preparò ad affrontare l’intruso, ma all’improvviso fu
buttato a terra e perse conoscenza. Quando riprese i sensi l’uomo era scomparso. Tornato a casa,
il giovane raccontò ai familiari ciò che era successo. Nell’autunno dello stesso anno, scomparve
misteriosamente e si racconta che il suo corpo fu ritrovato nella valle, privo di braccia e di
gambe .
52

Ci troviamo di fronte ai misfatti di un altro personaggio molto noto del folclore giapponese, il
tengu (lett. «cane celeste»). Sebbene i tratti che lo distinguono cambino a seconda del periodo
storico e delle regioni, gli elementi piú costanti sono il volto rosso, il naso lunghissimo, la
capacità di volare e il ventaglio di piume che porta fra le mani. Alle origini della sua leggenda,
peraltro incerte, hanno contribuito sia il folclore cinese trasmesso in Giappone a partire dal VI-VII
secolo, sia le credenze buddhiste che si sarebbero sovrapposte a immagini piú antiche di divinità
delle montagne che possedevano la forma di uccelli. A partire dal XIII secolo la loro figura fu
spesso associata a quella degli eremiti conosciuti come yamabushi («coloro che vivono sui
monti»), aderenti al movimento ascetico shugendō che prevedeva il ritiro fra le montagne,
considerate sacre, e pratiche religiose dove si fondevano elementi di shintoismo, taoismo e
buddhismo. L’identificazione dei tengu con gli yamabushi derivò dalla loro comune associazione
con la montagna e con la credenza popolare secondo la quale le pratiche ascetiche, svolte a
stretto contatto con la natura, lontano dalla polvere del mondo, avrebbero permesso di ottenere
poteri soprannaturali come salire sul vento o dissolversi in nebbia. Sotto le vesti di yamabushi i
tengu furono spesso raffigurati nella pittura, nella letteratura e nel teatro, oltre che nella
tradizione orale.
Tra le cattive abitudini loro attribuite, spicca quella di provocare incendi, favorire le guerre,
rapire i bambini e impossessarsi degli adulti causandone la misteriosa sparizione, come
nell’episodio del Tōno monogatari sopra riportato. Di minore entità sono invece altre bizzarre
manifestazioni, come le improvvise fragorose risate che si possono udire quando si attraversano
sentieri di montagna, la pioggia di pietre che cade sui passanti o sui tetti delle case, il suono di
alberi tagliati che sembrano crollare in piena notte e gli improvvisi scrolloni che scuotono le
pareti delle baracche fra i monti. All’interno delle fiabe i tengu possono talvolta svolgere le
stesse funzioni dei dèmoni; cosí in alcune versioni del Nonno togliporri, sono loro che danzano e
cantano, premiano il vecchietto simpatico e puniscono quello che non li accontenta. Mostrano
inoltre una certa ingenuità di comportamento che li porta spesso ad essere ingannati dagli
uomini, come nel caso del Mantello che rende invisibili.
Se i tengu hanno il loro quartier generale fra le montagne, i kappa (lett. «ragazzini del fiume»)
prediligono i corsi d’acqua. Essi sono presenti nelle leggende di tutto il paese, ma la prima
peculiarità che sembra distinguerli è la grande varietà dei nomi con cui vengono chiamati nei
vari dialetti locali. Ishikawa Jun’ichirō nel suo Kappa no sekai («Il mondo dei kappa») ne
enumera circa ottanta . Coerentemente, anche il loro aspetto cambia a seconda delle zone, ma la
53

tradizione piú ortodossa li vuole di piccola statura, simili appunto a bambini, con i capelli che
ricadono a casco sulla fronte: elemento immancabile e della massima importanza è la presenza di
un piatto o di una cavità colma d’acqua sulla testa, che conferisce loro una forza straordinaria. Il
kappa ama i cetrioli e la lotta libera, nella quale talvolta sfida gli esseri umani, e l’unico modo
per vincerlo sembra essere quello di costringerlo a fare un inchino, cosí che la preziosa acqua
contenuta nel piatto sulla testa si rovesci privandolo della sua forza . Probabilmente associato a
54

qualche credenza che ne faceva una divinità delle acque, il kappa ne conserva traccia nelle
leggende che lo vedono impegnato a irrigare le risaie e badare al lavoro dei campi. In questa
veste compare anche in una delle fiabe principali di cui è protagonista, Il genero kappa.

4. Yanagita Kunio e gli studi sulla fiaba.

Bruno Bettelheim, nella citata prefazione alla versione giapponese di The Uses of
Enchantment, sottolineava come elemento di grande interesse il fatto che in Giappone le fiabe
fossero state raccolte e sistemate in forma scritta molto prima che in Europa. Perrault raccoglieva
le sue fiabe nel XVII secolo e i fratelli Grimm hanno dato alle stampe nel XIX secolo la loro
versione dei Märchen divenuta classica. «Eppure – conclude Bettelheim – seicento anni prima di
Perrault e ottocento prima dei fratelli Grimm, le fiabe giapponesi già erano state raccolte in
forma scritta ed erano diventate parte fondamentale della tradizione letteraria» . Per molti versi il
55

discorso è ineccepibile. In Giappone motivi di fiabe appaiono sporadicamente all’interno di


opere scritte già in tempi antichi e la loro presenza diventa rilevante a partire dal XIII secolo. Un
caso emblematico è offerto dalla storia del pescatore Urashima (o Shimako, o Urashimatarō), che
dopo aver trascorso tre anni nel mondo delle divinità del mare torna al suo paese e scopre che in
realtà ne sono passati trecento. Essa appare per la prima volta all’interno dei fudoki, già ricordati,
che furono compilati nel 713. È stata inoltre riproposta in forma scritta piú volte nel corso dei
secoli e, anche se la sua fisionomia è stata qua e là modificata, le linee generali rimangono pur
sempre le stesse che ritroviamo anche nella fiaba orale . Nel IX secolo, la raccolta di racconti di
56

ispirazione buddhista Nihon ryōiki («Storie miracolose del Giappone») comprende la storia dello
scheletro che parla e quella della donna volpe che mette al mondo un bambino, tipi analoghi alla
Canzone dello scheletro e alla Moglie volpe. Lo Ujishūi monogatari («Racconti raccolti a Uji»)
degli inizi del XIII secolo riporta storie assai simili al Passero con la schiena rotta e al Nonno
togliporri. Infine, l’abbondante produzione di racconti «popolari» composti fra il XIV e il XVII
secolo e conosciuti come otogizōshi offre numerosi esempi strettamente imparentati alle fiabe
piú diffuse, come la storia della gru che per riconoscenza verso chi l’ha salvata si trasforma in
donna, quella di Issunbōshi, il ragazzino alto un pollice che sconfigge i dèmoni, quella di
Urihime, la fanciulla nata da un cetriolo.
D’altro canto, gli inizi di uno studio sistematico sulla tradizione orale e sulla fiaba popolare
ebbero inizio piú tardi rispetto all’Europa e si registrano solo a partire dai primi anni del nostro
secolo. Essi sono strettamente legati al nome di Yanagita Kunio (1875-1962), definito «il padre
del folclore giapponese», ovvero colui che ha svolto un ruolo simile a quello sostenuto in
Germania dai fratelli Grimm.
Poliedrico, versatile, solitario e indipendente, Yanagita indirizzò la sua vita e la sua carriera in
diverse direzioni. Partito come poeta e scrittore, fu funzionario governativo per circa vent’anni,
poi giornalista e studioso di folclore, fondatore di riviste e di gruppi di ricerca. Sopravvisse alla
Seconda guerra mondiale trascorrendo gli ultimi anni nella nostalgia per un Giappone che stava
rapidamente scomparendo e che egli aveva fatto rivivere all’interno dei suoi numerosissimi
scritti, con le sue tradizioni, i suoi paesaggi e la sua fede popolare. Già pochi anni dopo la sua
morte Yanagita era diventato una leggenda, riuscendo a ottenere i consensi di intellettuali dei piú
diversi orientamenti politici, dai gruppi conservatori che apprezzavano il suo approccio
nazionalistico e la sua convinzione sull’omogeneità etnica del paese, fino agli intellettuali
progressisti che ritrovavano in lui un sincero interesse per «lo studio dell’uomo comune», la
difesa di una cultura popolare, oltre che una voce critica dello sfruttamento capitalistico del
Giappone orientato verso il materialismo e il consumismo del dopoguerra.
Nato a Tsujikawa, piccolo villaggio del Giappone centrale, sesto figlio all’interno di una
famiglia dove gli studi classici erano di casa, Yanagita si trasferí giovanissimo a Tōkyō dove
venne a contatto con gli ambienti intellettuali del tempo e fu a sua volta poeta e scrittore . Di 57

questo esordio rimase in lui il gusto profondo per la parola scritta, per una vocazione letteraria
che domina tutti i suoi saggi, per una prosa ricercata, ricca di immagini poetiche, di impressioni
soggettive, che segue il libero corso del pensiero senza soffermarsi troppo sulla consequenzialità
logica del discorso. Agli stessi anni risale anche il suo interesse per i dialetti e la tradizione
popolare che lo porterà a scrivere nel 1910 Tōno monogatari, una raccolta di leggende tutte
provenienti dalla regione attorno al villaggio di Tōno, nel Nord-est del Giappone. Questi racconti
egli li aveva raccolti dalla voce di un giovane studente del luogo, Sasaki Kiyoshi (1886-1933),
che successivamente sarebbe diventato suo allievo e anch’egli studioso di tradizioni popolari. La
predilezione di Yanagita per la letteratura, per le fiabe cinesi e per i racconti fantastici che
avevano avuto in Cina e in Giappone una grande fortuna, è già tutta percepibile nel taglio
letterario dell’opera, sebbene l’autore affermi nell’introduzione di aver «registrato le storie cosí
come gli erano riferite, senza aggiungere una parola o una frase» . E del resto la stessa
58

introduzione è già permeata dalla personalità dello scrittore, dalle sue citazioni letterarie, dal suo
profondo e inesauribile interesse per la fede popolare, ben diversa da quella sostenuta dallo
shintoismo di Stato. Nel Tōno monogatari due mondi si fronteggiano: da una parte, quello
concreto, fatto di piccole comunità rurali, colline boscose che nascondono templi e santuari, dove
si celebrano feste e cerimonie; dall’altra il mondo segreto e nascosto delle divinità, gli
onnipresenti kami, a cui è concesso andare e venire da un mondo all’altro: la divinità della casa,
che protegge la famiglia, ma all’improvviso e senza una ragione apparente se ne va mandando la
casa in rovina; le divinità della montagna che possono possedere le persone e renderle capaci di
prevedere il futuro, la divinità Kakura che accetta volentieri che la propria immagine scolpita nel
legno venga usata dai bambini per giocare, ma che si indispettisce e procura un mare di guai se
gli adulti interferiscono in questo passatempo. Accanto ai kami, emergono altre figure del
patrimonio tradizionale che ritroviamo con le stesse caratteristiche anche nel mondo della fiaba:
lupi e scimmie, volpi e tengu, dèmoni e streghe, o ancora i misteriosi uomini della montagna che
rapiscono le fanciulle e uccidono o mangiano i propri figli. Inutile cercare in Tōno monogatari
tracce di una morale o una religione ufficiale: violenza e frodi, omicidi e ferocia, credenze
«eretiche», incantesimi e magie, sono parte integrante di uno stretto rapporto fra uomo e natura.
L’opera non è soltanto una trascrizione di tradizioni orali che stavano per essere dimenticate,
ma anche il punto di partenza che segna il successivo sviluppo degli interessi di Yanagita, il suo
tentativo di esplorare ciò che egli definiva il nucleo della personalità giapponese.
Il tema che unifica tutto il suo lavoro è infatti la ricerca di elementi della tradizione che
possano spiegare il carattere «distintivo» giapponese. Proprio all’interno delle fiabe trasmesse
oralmente da tempi immemorabili resterebbero tracce di questi elementi. Nell’interpretazione
dello studioso, a differenza della civiltà europea che nel suo continuo progresso ha sostituito le
cose vecchie con le nuove e all’età dei miti ha fatto seguire quella delle fiabe, il Giappone,
estremo lembo dell’Asia, possiede ancora una straordinaria abbondanza di materiali dove si
mescolano fiaba e mito. Nella fiaba esiste cioè una struttura sistematica che permette di cogliere
quasi intuitivamente la forma di pensiero che scorre alla sua base e pertanto lo scopo ultimo dello
studioso di folclore dovrebbe essere quello di giungere alla mitologia, ripercorrendo a ritroso il
corso della fiaba e quindi ricercare le credenze religiose originarie che hanno preceduto la stessa
mitologia.
Nel 1948 la pubblicazione di Nihon mukashibanashi meii («Guida alla fiaba popolare
giapponese»), curata dallo stesso Yanagita, avrebbe segnato una data fondamentale nella storia
degli studi sulla fiaba popolare, proponendone una classificazione che nasceva da una lunga
opera di raccolta e consultazione del materiale . Le duecento e piú fonti scritte a cui Yanagita
59

faceva capo per i circa tremila titoli elencati erano in buona parte apparse dopo il Novecento e in
particolare durante gli anni Venti e Trenta: si trattava di raccolte che coprivano l’intera area del
Giappone oppure singole regioni, collezioni ufficiali sovvenzionate dal governo, collezioni
private curate da associazioni e gruppi di studio locali, raccolte individuali, manoscritti, articoli
di riviste che avevano dedicato ampio spazio alle fiabe popolari. Era una prova evidente che
l’opera di Yanagita a favore degli studi folclorici, i suoi sforzi per incoraggiare ricerche sul
campo, per creare gruppi di giovani studiosi, per stimolare l’interesse pubblico attraverso
conferenze e viaggi, dava i suoi frutti e che erano ormai state gettate solide basi per un
sistematico studio.
Nella Guida Yanagita proponeva una sua classificazione di tipi e sottotipi. Pur conoscendo
The Types of the Folktale di Antti Aarne e Stith Thompson , coerentemente con le proprie scelte,
60

forse un po’ polemico contro l’«internazionalizzazione» proposta dalla scuola finnica, egli
preferí dividere le fiabe in due gruppi principali: «fiabe in forma completa» e «fiabe derivate», a
loro volta divisi in sottogruppi. Le prime sono quelle nelle quali è rintracciabile ciò che secondo
lo studioso sarebbe lo scopo originario della fiaba, ossia raccontare la nascita miracolosa di un
giovane eroe, la sua forza straordinaria che lo distingue fra gli esseri umani, e infine la
conclusione che prevede l’ottenimento di ricchezze e un felice matrimonio. Viceversa le fiabe
«derivate» sarebbero quelle nelle quali è stata colta e ampliata una sola porzione del ciclo
completo, che si sono sviluppate come racconti comici, piú vicini come forma ad aneddoti che
non a fiabe vere e proprie, racconti di «esagerazioni», o ancora storie relative all’origine di
animali o piante che forse potevano essere considerate come parte di cicli piú lunghi . Le fiabe
61

sono raccolte in 347 tipi dei quali viene fornita una versione normativa seguita dalle varianti
nella loro distribuzione geografica.
Nonostante l’abbondante materiale raccolto e l’esempio fornito dall’indice di Aarne-
Thompson, Yanagita non propose un suo indice dei tipi, forse ritenendo che lo studio del folclore
come scienza fosse ancora in un stadio troppo iniziale per permettere il tipo di ricerca sistematica
necessaria per compilare un indice. O forse non era del tutto convinto dell’opportunità di
applicare il sistema di Aarne al materiale giapponese. Sta di fatto che egli lasciò ai suoi
successori il compito di redigere un indice di tipi e motivi.
Il primo tentativo in questo senso fu compiuto da Seki Keigo (1899-1990), allievo di
Yanagita, che era stato fra i suoi collaboratori nella compilazione della Guida. Interessato agli
studi europei e ad un approccio comparativo, Seki si è presentato come il principale continuatore
degli studi sulla fiaba popolare, anche se le sue scelte lo hanno portato in una direzione del tutto
opposta a quella del maestro. Il suo Nihon mukashibanashi shūsei («Raccolta di fiabe
giapponesi»), in sei volumi, apparso dal 1950 al 1958, seguiva infatti una diversa classificazione,
che si rifaceva direttamente a quella proposta da Aarne-Thompson. Come gli studiosi della
scuola finnica, Seki suddivideva le fiabe in tre gruppi: «fiabe di animali», «fiabe popolari
comuni» e «scherzi e aneddoti», fornendo una serie di sottogruppi e attribuendo ad ogni fiaba
l’appartenenza a un determinato tipo, che corrispondeva alla classificazione proposta da Aarne-
Thompson. Il procedimento di presentazione della fiaba e delle sue varianti per area geografica
restava in sostanza lo stesso di Yanagita, anche se la scelta della versione normativa era spesso
diversa. Le fonti erano in buona parte quelle disponibili negli anni precedenti la Seconda guerra
mondiale, ma in un secondo momento Seki ripropose una riedizione dell’opera ampliata, Nihon
mukashibanashi taisei («Raccolta completa di fiabe giapponesi», 1979-80) in dodici volumi,
dove erano prese in esame anche fonti molto piú recenti. Nella sua prima Raccolta Seki propose
altresí un indice dei tipi che tuttavia successivamente modificò due volte, rinumerando le fiabe.
Nel 1971 fu pubblicato a Helsinki A Type and Motif Index of Japanese Folk Literature, a cura
di Ikeda Hiroko, che pure adottava il metodo della scuola finnica. Ikeda aveva fatto parte del
gruppo di studi di Yanagita e aveva altresí collaborato al Motif-index of Folk Literature di Stith
Thompson. Il suo lavoro applicava al materiale giapponese i criteri utilizzati nella seconda
edizione riveduta di The Types of the Folktale di Aarne-Thompson e forniva a sua volta una
propria numerazione dei tipi della fiaba giapponese.
Infine nel 1988 compariva la monumentale opera in ventotto volumi a cura di Inada Kōji,
Nihon mukashibanashi tsūkan («Prospetto e analisi della fiaba giapponese»), che comprende
circa seimila fiabe raccolte e registrate in tutto il paese (Okinawa e Hokkaidō compresi), a partire
dalla seconda metà del XIX secolo. Inada ha sviluppato una sua propria metodologia, forse come
risposta sia alle correnti dominanti nel campo degli studi folclorici internazionali sia ai modelli
giapponesi precedenti alla sua opera. Il suo interesse sembra soprattutto essere quello di
enfatizzare le caratteristiche peculiari della fiaba giapponese e in questo senso il suo approccio è
molto vicino a quello di Yanagita. Inada suddivide le fiabe di ogni provincia in quattro gruppi
principali organizzati a loro volta in sottogruppi: «racconti dei tempi passati», «storie comiche»,
«storie di animali» e «storie a formula», che formalmente fanno parte del secondo gruppo. I
primi tre gruppi sono costruiti attorno all’intreccio della storia, mentre l’ultimo raccoglie storielle
basate su giochi di parole, ripetizioni e filastrocche. L’ultimo volume del Prospetto comprende
un ampio indice comparativo dei tipi. In esso sono presentati i 1211 tipi proposti da Inada e
accanto a questi i principali indici internazionali, ossia quello di Aarne-Thompson, l’indice dei
tipi del folclore cinese, coreano e ainu, l’indice elaborato da Seki Keigo nella Raccolta completa
di fiabe giapponesi e infine i tipi proposti da Yanagita nella Guida alla fiaba popolare
giapponese. Eccellente per gli specialisti di folclore, ma scoraggiante per dimensioni e
complessità, l’opera di Inada resta comunque un punto di riferimento indispensabile.

MARIA TERESA ORSI


1. Seki Keigo, Momotarō no kyō do («Il paese natale di Momotarō»), in Seki Keigo chosakushū («Raccolta di opere di Seki
Keigo»), IV, Dōhōsha, Kyōto 1980, pp. 212-13; Namekawa Michio, Momotarō zō no hen’yō («Le metamorfosi di
Momotarō»), Tōkyō shoseki, Tōkyō 1981, p. 528.
2. In alcune varianti regionali – inclusa quella presentata in questo volume – il nome del protagonista compare come
Momonoko Tarō.
3. Namekawa Michio, Momotarōzō no hen’yō cit., pp. 2-3.
4. Takeda Tadashi, Mukashibanashi no hakken («La scoperta delle fiabe»), Iwada shoin, Tōkyō 1995, p. 4.
5. Nihon mukashibanashi («Fiabe giapponesi»), I, Hakubunkan, Tōkyō 1897, p. 13.
6. Torigoe Shin, Momotarō no unmei («Il destino di Momotarō»), Nihon hōsōshuppan kyōkai, Tōkyō 1983, pp. 94-134.
7. Cfr. Momotarō, in Akutagawa Ryūnosuke, Racconti fantastici, a cura di C. Ceci, Marsilio, Venezia 1995, pp. 111-21.
8. Torigoe Shin, Momotarō no unmei cit., p. 155.
9. Ibid., pp. 204-5.
10. I. Fetscher, Chi ha svegliato la bella addormentata?, Emme Edizioni, Milano 1982.
11. Matsui Tadashi, Momotarō, Fukuonkan shoten, Tōkyō 1965.
12. Ricordiamo, fra i numerosi saggi di Yanagita sull’argomento, Momotarō no tanjō («La nascita di Momotarō»), in
Yanagita Kunio zenshū («Raccolta completa delle opere di Yanagita Kunio»), X, Chikuma bunko, Tōkyō 1990, pp. 7-422.
13. Ishida Eiichirō, Momotarō no haha («La madre di Momotarō»), Kōdansha, Tōkyō 1956.
14. Seki Keigo, Momotarō no kyō do cit., pp. 199-234.
15. Ishikawa Junko, Ryō no chibusa o me ni shite («Volgendo gli occhi alle due mammelle»), Seijisha, Tōkyō 1979, pp. 232-
50.
16. B. Bettelheim, Mukashi banashi no miryoku («The Uses of Enchantment»), Hyō ronsha, Tōkyō 1978, p. 7.
17. I. Calvino, Sulla fiaba, Einaudi, Torino 1988, p. 19.
18. M.-L. von Franz, Le fiabe del lieto fine, Tea, Milano 1996, p. 13.
19. B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 1977, pp.
74 sgg.
20. Citato in S. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 503.
21. W. E. Roberts, The Tale of the Kind and the Unkind Girls, Wayne State University Press, Detroit Mich. 1994, p. 6.
22. M. Lüthi, Nihon no mukashibanashi ni wa samazama no tokuchō ga aru («La fiaba giapponese possiede alcuni caratteri
particolari»), in Ozawa Toshio (a cura di), Nihonjin to minwa («I Giapponesi e la fiaba»), Gyōsei, Tōkyō 1980, pp. 117
sgg.
23. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare cit., pp. 177 sgg.
24. M. R. Cox, Cinderella (1892), Kraus Reprint, Nendeln 1967; A. B. Rooth, The Cinderella Cycle, Gleerup, Lund 1951.
25. C. I. Mulhern, Analysis of Cinderella Motifs Italian and Japanese, in «Asian Folklore Studies», XLIV (1985), pp. 1-37.
26. Anonimo, Storia di Ochikubo, a cura di A. Maurizi, Marsilio, Venezia 1992.
27. Roberts, The Tale of the Kind and the Unkind Girls cit.
28. Lüthi, Nihon no mukashibanashi cit., p. 120.
29. Kawai Hayao, Mukashibanashi to nihonjin no kokoro («Le fiabe e la psiche dei Giapponesi»), Iwanami shoten, Tōkyō
1995, pp. 29-31.
30. Ozawa Toshio (a cura di), Nihonjin to minwa cit., p. 102.
31. Kawai Hayao, Mukashibanashi to nihonjin no kokoro cit., pp. 176-78.
32. M. Lüthi, La fiaba popolare europea, Mursia, Milano 1979-92, pp. 19-20.
33. Kawai Hayao, Mukashibanashi to nihonjin no kokoro cit., pp. 32-33.
34. Baba Akiko, Oni no kenkyū («Studio sugli oni»), Chikuma bunko, Tōkyō 1996, p. 31.
35. Nihon ryōiki («Storie miracolose del Giappone»), in Nihon koten bungaku taikei («Grande collana di letteratura classica
giapponese»), 70, Iwanami shoten, Tōkyō 1967, p. 275.
36. Konjaku monogatarishū («Raccolta di racconti del tempo che fu»), in Nihon koten bungaku taikei («Grande collana di
letteratura classica giapponese»), 25, Iwanami shoten, Tōkyō 1965, pp. 492-93.
37. Tradotto dalla versione inglese di D. L. Philippi, Kojiki, University of Tokyo Press, Tōkyō 1968, p. 84.
38. Kawai Hayao, Mukashibanashi to nihonjin no kokoro cit., pp. 94-95. Si veda anche in proposito il saggio di A. M. Di
Nola, Riso e oscenità, in Id., Antropologia religiosa, Vallecchi, Firenze 1974, pp. 53-90.
39. Ibid., pp. 106-7.
40. Tōno monogatari, in Yanagita Kunio zenshū cit., IV, Chikuma bunko, Tōkyō 1997, pp. 16-17.
41. Konjaku monogatarishū cit., p. 496.
42. Yamanba, in Nihon koten bungaku zenshū («Raccolta completa di letteratura classica giapponese»), 34, Shōgakukan,
Tōkyō 1975, p. 518.
43. Cfr. Sasama Yoshihiko, Umi to yama no rajo («Le donne senza veli del mare e dei monti»), Yūzankaku shuppan, Tōkyō
1995, pp. 145-46.
44. Una delle versioni piú importanti è quella scritta da Chikamatsu Monzaemon (1653-1724) per il teatro dei burattini,
Komochi yamauba («Il figlio della yamauba», 1712). Nel dramma, la yamauba è in realtà la cortigiana Yaegiri, amante di
un famoso guerriero, Sakata Kurando, e costretta a seguirlo in esilio fra i monti dopo che l’uomo è caduto in disgrazia a
corte.
45. Kawai Hayao, Mukashibanashi to nihonjin no kokoro cit., p. 51.
46. A. Walter, Erotique du Japon classique, Gallimard, Paris 1994, p. 353.
47. U. A. Casal, The Goblin Fox and Badger and Other Witch Animals of Japan, in «Asian Folklore Studies», XVIII (1959),
p. 1.
48. Ibid., p. 12.
49. Una panoramica del percorso letterario della volpe è offerta da Hoshino Yukihiko, Kitsune no bungakushi («Storia della
letteratura sulla volpe»), Shintensha, Tōkyō 1995.
50. B. Jordan, The Trickster in Japan: Tanuki and Kitsune, in S. Addiss (a cura di), Japanese Ghosts and Dèmons, George
Braziller, New York 1985, p. 130.
51. Ibid., p. 137.
52. Tōno monogatari cit., p. 52.
53. Ishikawa Jun’ichirō, Kappa no sekai, Jijitsūshinsha, Tōkyō 1974, p. 43.
54. Nihon minwa no kai (a cura di), Nihon no minwa («La fiaba popolare giapponese»), Kodansha, Tōkyō 1991, p. 262.
55. Bettelheim, Mukashi banashi no miryoku cit., p. 3.
56. Sulla fiaba, le varianti e le fonti vedi Seki Keigo, Nihon mukashibanashi taisei («Raccolta completa di fiabe giapponesi»),
12 voll., Kadokawa shoten, Tōkyō 1979-80, VI, pp. 22 sgg. Tra le varianti si distacca in particolare quella registrata nella
provincia di Niigata, nella quale il protagonista resta nel regno degli abissi per molti anni, ha figli, nipoti e pronipoti e, al
momento del ritorno al suo paese natale, si rende conto che qui nel frattempo sono trascorse solo poche ore.
57. Per notizie sulla vita di Yanagita e sul suo contributo letterario e scientifico rimandiamo a R. A. Morse, Yanagita Kunio,
and the Folklore Movement. The Search for Japan’s National Character and Distinctiveness , Garland Publishing, New
York - London 1990.
58. Tōno monogatari cit., p. 9.
59. L’edizione inglese del libro di Yanagita è stata curata e tradotta da F. H. Mayer, The Yanagita Kunio Guide to the
Japanese Folk Tale, Indiana University Press, Bloomington Ind. 1986.
60. A. Aarne e S. Thompson, The Types of the Folktale, in «FF Communications», n. 70, Academia Scientiarum Fennica,
Helsinki 1928.
61. Ozawa Toshio (a cura di), Mukashibanashi nyūmon («Introduzione alla fiaba»), Gyōsei, Tōkyō 1997, pp. 2-3; Mayer, The
Yanagita Kunio Guide cit., p. XVI.
Nota al testo.
In Giappone il termine piú usato per indicare le fiabe è oggi mukashibanashi (lett. «storie del passato») che – secondo la
definizione dello studioso Seki Keigo – si riferisce a racconti trasmessi oralmente attraverso generazioni, la cui paternità non è
attribuibile a un singolo, definito autore. Un’altra parola di uso comune è minwa (da minkan, «popolo» e setsuwa, «racconto»),
proposta come traduzione dell’inglese folktale. Quest’ultima ha goduto di particolare fortuna negli anni successivi alla Seconda
guerra mondiale, in concomitanza con il fiorire di studi e associazioni sulla cultura popolare.
Oggi i due termini si riferiscono entrambi a un genere di narrativa che, pur occupando un’ampia sezione all’interno di testi
letterari rivolti all’infanzia, mantiene come carattere specifico l’appartenenza alla tradizione orale; viceversa, con dōwa
(«racconti per l’infanzia») e jidō bungaku («letteratura giovanile») si indicano opere elaborate specificamente per un pubblico
infantile da parte di singoli autori.
Nel 1946, nella prima edizione del suo libro divenuto un classico, La fiaba nella tradizione popolare, Stith Thompson
constatava che in Cina e in Giappone non erano stati ancora fatti «sforzi adeguati per recuperare le tradizioni non scritte». In
realtà, un vasto ed entusiastico lavoro di raccolta e registrazione era già in atto nel Giappone della prima metà del secolo, ma la
distanza e le difficoltà dei rapporti durante gli anni della guerra avevano certo svolto un ruolo predominante nell’impedire che i
risultati fossero ampiamente diffusi. Gli anni piú vicini a noi hanno assistito a un continuo progresso nelle ricerche, al
moltiplicarsi di raccolte di materiale di prima mano in tutto il paese, al formarsi di cataloghi e classificazioni.
Le fiabe inserite in questo volume appartengono al genere dei mukashibanashi e sono state scelte basandosi appunto su
raccolte curate da specialisti giapponesi negli ultimi decenni. Il principale testo di riferimento è stato Nihon no mukashibanashi
(«Fiabe del Giappone»), pubblicato nel 1956 da Seki Keigo (Iwanami bunko, Tōkyō 1992), che propone un’ampia rassegna di
storie distribuite nell’arco di tutto il Giappone. Altre fiabe sono state tratte dai seguenti volumi: Nihon mukashibanashi meii
(«Guida alla fiaba giapponese») di Yanagita Kunio (Nihon hōsō kyōkai, Tōkyō 1948); Nihon mukashibanashi hyakusen («Cento
fiabe giapponesi»), a cura di Inada Kōji e Inada Kazuko (Sanseidō, Tōkyō 1971); Nihon mukashibanashi taisei («Raccolta
completa di fiabe giapponesi»), a cura di Seki Keigo (Kadokawa shoten, Tōkyō 1979-80); Nihon mukashibanashi tsūkan
(«Prospetto e analisi della fiaba giapponese») di Inada Kōji (Dōhōsha, Kyōto 1988); Okinawa no mukashibanashi («Fiabe di
Okinawa»), a cura di Fukuda Akira, Iwase Hiroshi e Endō Shōji (Nihon hōsō shuppan kyōkai, Tōkyō 1980).
Nel presente volume le fiabe sono state disposte in ordine geografico, da nord a sud e da est a ovest, anche se non mancano
eccezioni. La prima parte, Nord-est, comprende essenzialmente fiabe provenienti dalla regione del Tōhoku, la piú settentrionale
dell’isola Honshū. Nella seconda, Centro, sono state inserite tutte le altre fiabe dello Honshū con eccezione di quelle della
regione Hokuriku, che per configurazione geografica e caratteristiche culturali può considerarsi a sé stante. Nella terza parte, Sud-
ovest, sono incluse le fiabe delle isole Kyūshū, Shikoku e Okinawa. Ogni fiaba è seguita dal nome della provincia e della zona da
cui proviene. Naturalmente la presentazione di una fiaba come rappresentativa di una regione non significa che sia presente solo
in quella data area. Nella maggior parte dei casi, le fiabe sono diffuse in tutto il paese in numerose varianti e di queste è stata
presentata la piú significativa o piú legata a un determinato ambiente. Anche in questo caso, in linea di massima, ci si è attenuti
alle scelte operate da Seki Keigo. Dove tuttavia si è sentita la necessità di integrare il testo con l’aggiunta di una diversa variante
regionale o di fiabe la cui presenza sembrava utile per completare il quadro d’insieme, si è fatto ricorso ad altre raccolte, indicate
nella bibliografia.
Un discorso a parte riguarda le Fiabe degli Ainu, minoranza etnica dell’isola Hokkaidō, che pur appartenendo a una cultura e a
una lingua diverse da quelle giapponesi e pur rientrando in una forma del tutto particolare di narrativa orale, rappresentano una
pagina di tale importanza e interesse da non poter essere ignorata.
Circa i problemi di traduzione, al di là di quelli piú generali riguardanti ogni tentativo di presentare al pubblico italiano opere
giapponesi, sembra indispensabile ricordarne alcuni che si sono posti con particolare evidenza. Il primo è stato quello della resa
delle forme dialettali, elemento essenziale all’interno della fiaba popolare. I curatori giapponesi delle raccolte a cui abbiamo fatto
riferimento avevano affrontato il problema della presenza del dialetto, modificando in parte il testo originale ed eliminando forme
locali che sarebbero risultate incomprensibili agli stessi Giapponesi, ma conservando quanto necessario per rispettare la
colloquialità e la vivacità del racconto. Su questa scelta si è dovuta operare un’ulteriore modifica: a malincuore, si è deciso di
usare l’italiano standard in tutti i casi, consapevoli che parte dell’immediatezza espressiva sarebbe andata perduta o diluita, ma
anche nella convinzione che un dialetto italiano sarebbe stato troppo legato a un dato ambiente culturale per risultare convincente.
La resa delle onomatopee – frequentissime nelle fiabe – ha costituito un altro problema considerando che tali espressioni dànno
vivacità al racconto, conferendogli una fisionomia tutta particolare. Dove possibile abbiamo mantenuto l’onomatopea originale,
pur sapendo che il richiamo a determinati oggetti o azioni rischiava di andare perduto.
Per motivi analoghi abbiamo preferito mantenere in originale quei termini che si riferiscono a cose o concetti che non hanno
equivalenti in italiano e la cui traduzione sarebbe risultata imprecisa o incompleta. La spiegazione relativa, dove non fornita
all’interno delle note a piè di pagina, è inclusa nel Glossario.
Un’ultima osservazione riguarda le formule di apertura e chiusura di ogni fiaba. È stato agevole tradurre le prime e non ci
sembra sussistano forzature nell’iniziare col tradizionale «C’era una volta», che rende adeguatamente il giapponese mukashi
mukashi (ovvero tonto mukashi, tonton mukashi, mukashi mukashi no sono mukashi). Piú complesso è stato affrontare le formule
di chiusura, che sono in taluni casi cosí stilizzate da non mantenere in pratica alcun rapporto con la storia. Si andava cioè dalle
formule piú semplici, shimyaa, konde oshimai, kyō wa kōde shimyaa («fine», «e con ciò siamo alla fine», «per oggi con ciò siamo
alla fine») a varianti piú sofisticate: dotto harai (ovvero doddo harai, dondo hare, dondo harae, dodo harea, secondo la regione),
il cui primo significato sembra essere «tutto venduto, tutto esaurito» o ancora ichigo pōnto saketa (ovvero ichigo sakaeta, ichi ga
sakaeta), che da un primo significato «e la famiglia prosperò per generazioni» è passato poi a indicare «il mercato è stato
prospero e si è venduto tutto». In ogni caso, in chiusura si è preferito ricorrere volta per volta alle formule che ci sembravano piú
pertinenti e vicine alla sensibilità italiana.
Nel corso della stesura del libro, molte persone ci hanno offerto la loro collaborazione: Inagaki Kiyoko dell’Università di
Roma «La Sapienza» e Oue Jun’ichi dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, che ci hanno piú volte dato suggerimenti su
alcuni punti delle traduzioni; Koudate Akira, che con entusiasmo infaticabile ci ha permesso di ottenere tempestivamente testi
che avremmo avuto difficoltà a recuperare; e infine Mori Masaaki, la cui paziente e generosa disponibilità ci è stata preziosa per
risolvere in piú di un’occasione dubbi e problemi. A tutti vada il nostro piú sincero ringraziamento.

M. T. O.
Avvertenza.
Il sistema di trascrizione adottato è lo Hepburn, secondo il quale le vocali vengono lette come in italiano e le consonanti come
in inglese. In particolare:

ch è un’affricata come l’italiano “c” in cena (mochi va letto come fosse scritto moci);
g è sempre velare come l’italiano “g” di gatto (quindi geta va letto come fosse scritto gheta);
h è sempre aspirata;
j è un’affricata (quindi Jizō va letto come fosse scritto Gizō);
s è sempre sorda;
sh è una fricativa come l’italiano “sc” di scena (quindi Shinto va letto come fosse scritto Scinto);
u in su e tsu è quasi muta;
w va pronunciato come una “u”molto rapida;
y è consonantica e si pronuncia come l’italiano “i” di ieri;
z è dolce come nell’italiano rosa, come in zona se iniziale o dopo n.

Il tratto lungo sulle vocali indica l’allungamento delle stesse.


Seguendo l’uso giapponese, il cognome precede sempre il nome.
Fiabe giapponesi
Nord-est
Traduzioni e note di Virginia Sica.
La sposa di neve
C’era una volta un uomo celibe. Un mattino d’inverno, osservando un ghiacciolo che
sporgeva dalla gronda, pensò: «Come sarei felice se mi toccasse una sposa cosí sottile e bella!» e
senza accorgersene disse a voce alta:
– Voglio avere una moglie cosí a tutti i costi.
Si fece sera e qualcuno bussò energicamente alla porta. L’uomo chiese chi fosse e gli fu
risposto:
– Sono la fanciulla-ghiacciolo di stamattina, signore!
L’uomo aprí la porta:
– Bene, bene, entra, per cosa sei venuta?
La fanciulla rispose:
– Avete detto che desideravate una sposa, sono venuta per quello. Non vi piaccio?
– No, no, mi piaci! Accomodati, – e cosí dicendo l’uomo la fece entrare dentro casa e
cominciò la loro vita come marito e moglie.
La sposa di ghiaccio detestava i bagni pubblici e per molti giorni non vi si recò. L’uomo
pregò dunque la vicina di accompagnarvi la sua sposa. La vicina costrinse la fanciulla riluttante
ad entrare nel bagno. Per un po’ non si udí alcun rumore e, giacché le sembrò davvero strano, la
donna aprí l’uscio e guardò, ma dentro non c’era piú nessuno: nella vasca galleggiavano un
pettine da acconciatura e una forcina.

Di questa storia esiste anche un’altra versione.


C’era una volta un giovane celibe. Una notte d’inverno, durante una violenta bufera di neve,
avvertendo la presenza di qualcuno fuori della porta, egli aprí e trovò una giovane sconosciuta
distesa per terra.
– Ehi, cosa vi è accaduto? – esclamò e la aiutò ad entrare in casa. La ragazza era bella, cosí
l’uomo la prese in moglie. Era una donna di buona costituzione e i due vissero in armonia fino a
primavera. Poi il clima si fece temperato e la donna pian piano prese ad assottigliarsi e a perdere
in vivacità.
Un giorno si recò in visita da loro un amico del marito e la donna fece gli onori di casa
offrendogli del sake e altre prelibatezze. Dopo un po’ il marito la chiamò, ma invano.
Chiedendosi che cosa mai fosse accaduto, entrò in cucina e, dinanzi all’acquaio, trovò soltanto
gli indumenti intrisi d’acqua della moglie.

Aomori, Minamitsugaru.
Una preziosa salvietta
Una volta, al portale di un signore di nobili origini, si era fermato un monaco questuante
dall’aspetto miserevole per chiedere con insistenza l’elemosina.
La serva ne aveva avuto compassione e, visto che era il primo dell’anno ed erano avanzati
molti mochi, ne aveva avvolto sette nella carta e glieli aveva offerti. Il monaco l’aveva
ringraziata e si era allontanato. La padrona, che aveva veduto la cosa, le disse:
– Tu dici che è un certo Kōbō Daishi , ma quelli che vengono a chiedere l’elemosina non si
1

dovrebbero presentare cosí. Avevo già incontrato quel monaco mendico per la strada. Va’ a
riprenderti i mochi che gli hai dato.
La serva, riluttante, corse dietro al monaco, a malincuore gli riferí il discorso e gli chiese in
restituzione i mochi. Il monaco si mise a ridere:
– Ah, le tue intenzioni sono buone! È la tua signora da compiangere, anche se vive in quella
grande casa. Ti chiedo scusa, – disse, restituendole i mochi. Poi le consegnò una piccola
salvietta. – Se strofinerai il viso con questa, a poco a poco diventerai bellissima, – e si allontanò.
La ragazza, che non era una gran bellezza, prese a strofinarsi ogni giorno il viso con la
salvietta del monaco mendicante e, volta per volta, diventò sempre piú bella. La padrona,
sorpresa, spiò nella sua stanza e la vide. Cosí un giorno, mentre la ragazza non era in casa, la
donna prese la salvietta e se la passò sul viso. Allora il suo volto si trasformò nel muso di un
cavallo e mentre la signora, furente, strofinava con forza, come un cavallo nitrí

Aomori, Sannohe.
1. Vedi Glossario.
Il mandriano e la yamanba
Viveva un tempo in una contrada un mandriano al quale il padrone aveva chiesto di recarsi in
una città costiera per acquistare del pesce.
Il mandriano, caricati i salmoni sotto sale e i merluzzi su un bue, era di ritorno. Il sole
tramontava quando giunse ad uno stagno ai piedi di un boschetto di bambú alle porte del
villaggio. Mentre passava sotto il boschetto, improvvisamente gli parlò una yamanba, una strega
di montagna lí nascosta:
– Mandriano, dammi un pesce!
– Mica posso, è del padrone!
– Bene, bene, se non mi dai quel pesce, lo vedrai se non me lo prendo e me lo mangio! – lo
minacciò la yamanba con uno sguardo orribile.
– Va be’, ecco, prenditi un pesce! – disse il mandriano pensando che altrimenti sarebbero stati
guai e, srotolato un merluzzo da un involto di paglia, lo gettò ai piedi della strega.
Tirato un sospiro di sollievo e data una sferzatina sulla natica del bue, stava per proseguire
quando la yamanba, come se fosse terribilmente offesa, strillò:
– Fermo!
Il mandriano si spaventò ma, ripresosi, le disse:
– Il pesce l’hai avuto, non ti basta?
– Aspetta fino a che l’avrò mangiato! – replicò la yamanba e, guardando il mandriano con
occhi rabbiosi, gnam gnam, si mangiò il pesce dalla testa alla coda, senza lasciarne neppure una
lisca. Poi, stiracchiandosi, se ne venne fuori col volerne un altro.
– Il pesce non è roba mia, è del padrone! Non posso dartene cosí tanto! – rifiutò il mandriano.
La yamanba lo minacciò con una guardataccia: – Non fare storie, che ti prendo e ti mangio!
Il mandriano le consegnò un altro pesce e la yamanba divorò anche quello. Alla fine, dei pesci
che il padrone aveva richiesto, non ne rimase neppure uno e, visto che da mangiare non c’era piú
nulla, la strega sbottò:
– Dammi quel bue!
Il mandriano rimase sbigottito ma, al pensiero di farsi privare del bue, che sarebbe stato un bel
guaio, rifiutò:
– Niente affatto, la bestia è roba del padrone!
La yamanba gli si rivoltò contro come una furia e ottenne anche il bue. E come per i pesci,
gnam gnam, se lo finí tutto, a partire dalla testa.
A poco a poco s’era fatta notte e non era rimasta che la pelle delle natiche del bue, che la
vecchia strega masticava rumorosamente. Ma non riuscendo proprio a ingoiarla, se la tirò fuori
dalla bocca e ordinò all’uomo di andare al fiume vicino e di sciacquargliela. L’inorridito
mandriano considerò che quella fosse l’occasione buona per darsela a gambe, ma la yamanba,
pensando che non doveva farselo scappare, gli legò una lunga corda alla vita. Il mandriano fece i
due isolati scarsi che c’erano da lí al fiumicello e prese a sciacquare la pelle di bue, riflettendo
sul fatto che, una volta finita la cotenna, la vecchia megera di certo avrebbe divorato anche lui;
allora ragionò su come squagliarsela. Assicurò al ramo di un salice la corda che aveva attorno
alla vita e ne legò l’estremità alla pelle di bue che sciabordava nell’acqua. Poi piano piano si
diede alla fuga.
La yamanba, ignara di tutto, borbottò fra sé e sé:
– Ma quanto tempo ci mette quel dannato mandriano? Che starà facendo?
Quindi sbraitò:
– Non hai ancora finito? – e tirò la corda. Allora la pelle di bue emise un suono, blob blob,
galleggiando e affondando nell’acqua. La yamanba pensò: «Che strano!» e diede un altro
strattone. E di nuovo la cotenna fece blob blob. La strega innervosita tirò con forza poi, persa la
pazienza, raggiunse la sponda del fiumicello, ma il mandriano se l’era già svignata. Quando si
rese conto della sua fuga, la yamanba arrabbiatissima prese a dire:
– Mandriano, dove te ne sei andato, dove te ne sei andato, non ti darò requie, la vedrai! –
perlustrando e annusando i paraggi qua e là. Alla fine, scovata la direzione per la quale l’uomo se
n’era scappato, vi si precipitò.
Essendo l’ultima decade del mese, la luna era alta in cielo e rischiarava la notte. Il mandriano
poté cosí attraversare campi, boschi, monti e fiumi di gran carriera, sentendosi alle spalle la voce
della yamanba che lo chiamava. Morto di paura, giunse fin dove si estendeva la spiaggia, sulla
quale, dall’alba, dei carpentieri stavano costruendo una barca. Li raggiunse e li pregò:
– Ehi voi! Sono inseguito da una strega, mi potete nascondere?
– È un bel pasticcio, ma non abbiamo altra soluzione: perché non ti nascondi sotto una delle
barchette che stanno qui intorno?
Il mandriano, senza por tempo in mezzo, rovesciò una barca rotta e si nascose lí sotto. Dopo
poco, i capelli scarmigliati e gli occhi che mandavano fiamme, ecco giungere di corsa la strega:
– Barcaioli, non è passato di qua or ora un cavolo di mandriano?
– Che ne sappiamo noi se è passato o no?
– Ah, non lo sapete, eh? Se avete nascosto quel dannato mandriano, non crediate di passarla
liscia!
– Liscia o no, se non ti fidi, puoi sempre dare un’occhiata qui intorno!
La yamanba andò al capanno degli attrezzi e buttò all’aria il legname impilato, buttò all’aria i
frammenti di tavole, rovesciò le barche che stavano lí in riparazione. Ben presto avrebbe
capovolto la barca dov’era nascosto il mandriano. L’uomo pensò: «Che guaio!» e, schizzato
fuori, di nuovo scappò via. E la strega dietro.
Il mandriano galoppò fino a giorno inoltrato, attraversando campi, boschi, fiumi e monti, per
sbucare in un vasto campo. Lí c’era un uomo da solo che, garin garin, falciava di buona lena
canne di miscanto. Il mandriano gli si avvicinò e lo pregò:
– Buonuomo, sono inseguito da una yamanba! Fate qualcosa per nascondermi!
Come già i barcaioli, il contadino rispose:
– Nasconderti? Ora su due piedi non saprei come fare, però da quella parte ci sono dei covoni;
ti puoi nascondere lí!
Il mandriano fece una catasta di covoni e vi si nascose sotto. Ed ecco giungere di corsa la
yamanba ansimante:
– Tagliaerbe, non è passato or ora un dannato mandriano? – chiese.
– Non lo so, ma puoi guardare nei dintorni, – rispose l’uomo con l’aria di non volersi
immischiare. La yamanba esaminò i covoni uno ad uno. Era lí lí per scovare il mandriano ma
questi schizzò prontamente da sotto i covoni e scappò. E la yamanba sempre dietro.
L’uomo attraversò campi, boschi, fiumi e monti. Stava già facendosi sera quando infine
giunse nei pressi di un fiume, ove si ergeva un grande salice sul quale si arrampicò. Correndo
arrivò anche la yamanba, trafelata per quella corsa dal mattino alla sera, e, senza forze, si fermò
ai piedi del salice.
– Mandriano, sei stato bravo a salire su quest’albero, come hai fatto? – gli chiese. Lí accanto
c’erano due alberi, di cui uno era secco. Il mandriano rispose:
– Sali con tutto il peso sui rami dell’albero secco, appoggia invece appena appena i piedi sui
rami di quell’altro!
La yamanba fece quanto le era stato detto: si arrampicò con cautela su un ramo vivo e salí
pesantemente su un ramo secco. Nel momento in cui la sua mano raggiungeva il mandriano, il
ramo secco si spezzò e la strega cascò nel fiume con un tonfo, in un’ansa dove l’acqua era
profonda. La vecchia toccò il fondo e, glu glu glu, ingurgitò un sacco d’acqua.
Il mandriano scese dal salice e se la diede di nuovo a gambe. Ancora una volta s’era fatto buio
e mentre correva l’uomo vide un chiarore che brillava davanti a lui.
Trascinando stanco le gambe, si diresse a fatica verso quella casa. All’interno vi era una
ragazza sola che, accanto al focolare, bruciava della legna. Il mandriano si accostò all’ingresso e
la pregò:
– Sono inseguito da una yamanba, aiutami!
La ragazza molto tranquillamente gli rispose:
– Capisco. Non può che essere la mia terribile nonna. Entra.
Il mandriano, sfinito, entrò e si scaldò le mani al focolare. La ragazza disse:
– Tra un po’ la nonna rientrerà. Tu sali al piano superiore e comincia a masticare castagne
d’India.
Il mandriano pensò che fosse ben strano, ma la ragazza aggiunse:
– La vecchia ha una paura tremenda dei topi e, temendo che le si avvicinino, dirà che va a
nascondersi nel cassone. Quando sarà al riparo lí dentro, potrai ucciderla versando acqua bollente
da una fessura.
Il mandriano non ne fu troppo contento ma, come gli aveva detto la ragazza, prese un pugno
di castagne d’India, salí in soffitta e aspettò.
La yamanba arrivò. Entrando in casa disse:
– Eccomi di ritorno!
Era bagnata fradicia, tremava dal freddo e, non prestando alcuna attenzione alla ragazza, si
mise sull’asse del focolare a riscaldarsi, seduta con una gamba su e una giú.
Un masticare di castagne provenne dal piano superiore.
– Uè, cos’è questo? Topi? – chiese la vecchia.
– Sí, topi. Quando sono sola in casa escono anche in pieno giorno e ci posso fare ben poco!
Sentendo parlar di topi la yamanba si mise a tremare. La ragazza aggiunse:
– E ce ne sono di grossi!
– Uh, allora io mi nascondo!
– Sí, c’è un cassone vuoto, entra lí.
La vecchia vi entrò in fretta dicendo:
– Chiudimi, chiudimi!
Dal piano superiore si udiva l’uomo impegnato a masticare castagne. La ragazza portò una
grossa tavola di legno, chiuse il cassone e ci mise sopra delle pietre pesanti. Poi chiamò il
mandriano dal piano superiore; insieme fecero bollire in un calderone dell’acqua e la versarono
nel cassone, cosí la yamanba morí ustionata.
Da allora il mandriano e la ragazza vissero insieme in quella casa.

Aomori, Hachinohe.
La gratitudine della rana
In una contrada, un tempo viveva un ricco signore che aveva tre figlie.
Un mattino, andato a controllare l’acqua delle risaie, aveva trovato che nelle piantagioni
appena seminate non ve ne era neanche una goccia e che le piantine di riso erano diventate come
fieno. Preoccupato aveva borbottato fra sé e sé:
– Darò una delle mie tre figlie in moglie a chi irrigherà queste risaie! – ed era rincasato. Il
mattino seguente si era nuovamente recato sul posto e aveva trovato che l’acqua defluiva dai
canali d’irrigazione. Il signore stava pensando che avrebbe dovuto dare in sposa una delle
figliole quando, scendendo verso il campo sottostante, vi aveva veduto nel bel mezzo un grosso
serpente che strisciava placidamente, fendendo le pianticelle del riso. «Dunque, è stato lui»,
aveva pensato ed era tornato a casa avvilito.
Se ne stava assorto nei suoi pensieri e si era fatto mezzodí. La maggiore delle sue figlie era
giunta a servirgli il pranzo:
– Padre, padre, mangiate! – gli aveva detto e lui le aveva risposto:
– Tuo padre non vuole mangiare, sai, se non fino a quando avrai sposato il Serpente che ha
irrigato le risaie!
– Andrò ovunque vogliate ma non dal Serpente, ve ne prego! – aveva risposto la fanciulla ed
era fuggita via. Era poi giunta la secondogenita:
– Padre, padre, mangiate! – ma, quando le era stato chiesto di andare in sposa al Serpente che
aveva irrigato le risaie, se n’era andata ripetendo quanto aveva detto la sorella maggiore. Visto
che neanche la secondogenita gli aveva dato ascolto il padre era ancora piú avvilito. Poi gli
aveva servito il pranzo la terzogenita, cosí egli aveva provato a fare la stessa richiesta anche a lei;
e poiché ella aveva replicato: – Ubbidirò a tutto ciò che dite, padre. Andrò in sposa al Serpente,
ma voi mangiate qualcosa! – il padre aveva mangiato di gusto. Poi, quando le aveva detto: – Ti
comprerò qualunque cosa tu desideri, – la figlia aveva fatto una richiesta: – Nulla mi occorre ma,
ve ne prego, comprate mille aghi, mille fiaschette di zucca e mille pezze di seta da imbottitura.
Era giunto infine il giorno delle nozze. La terzogenita, recando con sé gli oggetti avuti in
dono, andò alla risaia del Serpente. Riempí l’imboccatura delle fiaschette con l’imbottitura di
seta, vi conficcò gli aghi e gettò tutto nell’acqua:
– Sarò la sposa di chi farà affondare tutte queste fiaschette!
Il Signore dell’acquitrino venne fuori. Serpeggiò nell’acqua per affondare le fiaschette, ma si
infilzò negli aghi e morí.
La figliola non tornò a casa. Superò un valico di tre ri in salita e tre ri in discesa: dalle viscere
della montagna saliva un cupo rumore, e qualcosa sembrò emergere. Temendo che la
maledizione del Serpente stesse per colpirla, la ragazza proseguí in preda all’ansia, quando si
imbatté in una vecchia che non aveva mai visto prima.
– Figliola! Io sono la rana di questa montagna e non so quanti discendenti mi sono stati
divorati dal Serpente! Grazie a te d’ora in avanti potremo godere appieno del sole e del vento! –
la ringraziò la vecchia e aggiunse: – Ma è pericoloso che una ragazza bella come te viaggi da
sola. Copriti con questa e prosegui, – disse e consegnò alla fanciulla una pelle di vecchia.
Congedatasi dalla rana, coperta della pelle di vecchia, la fanciulla giunse in un villaggio e fu
presa a servizio nella residenza del signore del luogo, dove lavorò con impegno da mane a sera.
Una notte, dopo che tutti erano andati a dormire, l’erede della famiglia notò che in una stanza
era acceso un lume ed entrò: era la stanza della vecchia, ma al suo posto una bella ragazza di
diciassette o diciotto anni, che non aveva mai visto prima, stava leggendo un libro. Allora pensò
che stessero accadendo cose misteriose.
Ben presto l’erede fu colto dal mal d’amore e, per quanti medici consultasse, non migliorava
affatto. Un giorno un medico disse:
– Fategli servire da mangiare da tutte le donne che sono in casa, una alla volta. Se gli darete in
moglie quella da cui accetterà il cibo, guarirà d’incanto.
Allora in casa del signore tutte le domestiche servirono da mangiare ma l’erede non accettò il
cibo da nessuna. Era rimasta solo la vecchia. – Anche se vecchia, è pur sempre una donna! – si
dissero. Le fecero prendere un bagno giacché era troppo sporca e le fecero indossare un kimono
e quella si trasformò d’improvviso in una bellissima ragazza. Tutti rimasero stupefatti. Non
appena ella serví il pasto, l’erede si levò a sedere e mangiò. Cosí la fanciulla andò sposa in casa
del signore e tutti vissero felici e contenti.

Aomori, Sannohe.
Le parole dell’albero di corniolo
C’era una volta in una contrada un giovanotto pigro che trascorreva le giornate senza far
nulla. Un giorno che gli era venuta voglia di mangiare dei cachi, ma non di salire sull’albero a
prenderli, pensò che, standosene sotto l’albero, forse sarebbero caduti da soli; allora si fece un
giaciglio di paglia, si stese a pancia all’aria e se ne stette a bocca aperta. Giunse un corvo da
occidente e si posò sull’albero. Dopo un po’ anche da oriente giunse un corvo e si posò. I due
uccelli cominciarono a ciarlare:
– Il signore della mia città è gravemente ammalato. È a causa del grande albero di corniolo
che cresce nel suo giardino e che gli succhia il sangue, ma non lo sa nessuno. È una cosa
vergognosa. Se lo abbattessero, il signore guarirebbe subito…
Il giovanotto che era lí sotto pensò: «Ecco una faccenda interessante!» e immediatamente si
recò in città. E davvero a casa del signore c’era un gran trambusto. Il ragazzo, spacciandosi per
un noto indovino, si fece condurre al capezzale del signore. Poi, dopo aver recitato una formula
magica inventata di sana pianta, si pronunziò dandosi grandi arie:
– Nel giardino di questa casa deve esserci un grande albero di corniolo. Se non lo si abbatte,
la malattia non guarirà.
– C’è un albero di corniolo, certo che c’è, conosce a fondo la cosa! – e i familiari, sbalorditi,
subito presero ad abbattere l’albero. Miracolosamente la malattia del signore andò un po’ alla
volta regredendo. Tuttavia, se si fermavano a riposare un minuto, i frammenti di legno si
ricostituivano come prima. E allora di nuovo la malattia del signore peggiorava e loro non
sapevano che pesci prendere.
Quella sera in una stanza il giovanotto stava dormendo. Verso la mezzanotte, udí un fruscio:
– Signor Corniolo, Signore, si dice che oggi abbiate riportato gravi ferite, come vi sentite?
Una vocina dal sottosuolo rispose:
– Siete voi, l’Acero Rosso di Ogurayama? Stavolta non ce la farò.
– Non avvilitevi, vi riprenderete, – lo confortò la voce e si ritirò. Dopo breve tempo, ancora
frusciando giunse qualcun altro. Era il Siliquastro di Daiitokuzan. Dopo di lui giunse la Vecchia
Criptomeria di Furushiroyama con gran rumore di passi. A voce alta commentò lo stato di salute
del malato e s’informò:
– È venuta la Quercia di Hanabayama?
Sentendo che non era ancora giunta s’indignò grandemente. La Quercia arrivò proprio mentre
l’altra diceva:
– Se arriva adesso, le farò vedere io! – e quando le fu chiesto: – Perché cosí in ritardo? – lei,
risentita, rispose: – A quel paese il Corniolo! Vengo a fargli visita per sapere della sua salute e
mi sento trattare in questo modo! Non è giusto! Lo dirò a tutti che se gli spruzzano addosso
acqua salata, le schegge di legno non si rinsalderanno! – aggiunse sprezzante e li piantò lí.
Il giovane aveva udito ben bene queste parole. Al mattino, dopo aver recitato le sue formule,
disse:
– Non appena avrete ripreso a tagliare il corniolo, spruzzatelo d’acqua salata.
Tagliarono l’albero nel modo in cui era stato loro indicato e in un nonnulla il corniolo crollò e
la grave malattia del signore svaní.
Si narra che il giovanotto pigro, venerato come un dio, abbia ricevuto in ricompensa due o tre
forzieri di monete e che sia divenuto ricchissimo.

Akita, Senboku.
I tre amuleti
Con l’arrivo dell’autunno i castagni si erano colorati di rosso e i bambini del villaggio
cominciavano a recarsi sui monti per la raccolta delle castagne. Anche il novizio del monastero
desiderava andare e ne chiese il permesso:
– Abate, potrei andare a raccogliere le castagne?
L’abate gli rispose:
– Figliolo, sui monti c’è una strega, sarebbe meglio evitare.
Ma non riuscendo proprio a contenere il suo desiderio, il ragazzo insistette:
– Sí, Sua Eminenza, però ne ho tanta voglia! – cosicché l’abate disse:
– Se davvero lo desideri tanto, ti darò tre preziosi cartigli portafortuna e, qualunque cosa
dovesse capitarti, chiedi loro aiuto.
Il novizio si inoltrò fra i monti, pensando di essere di ritorno prima del tramonto con un
fruttuoso raccolto. Ma, mentre raggranellava i frutti di buona lena, a poco a poco calò il buio, il
vento si alzò fischiando e sopraggiunse la strega. Il ragazzo venne trascinato a casa della vecchia
dove si fece piccolo piccolo dalla paura; purtuttavia, a un certo punto vinto dal sonno, finí per
addormentarsi.
Giunta mezzanotte, cominciò a piovere e l’acqua penetrava attraverso le fessure del tetto.
Tic, tic, tictictic
svegliati e guarda la strega in faccia!
sussurrava la pioggia. Il novizio aprí gli occhi e vide la vecchia che, a bocca spalancata, si
tingeva i denti di nero . Il novizio pensò che presto avrebbe fatto da pasto alla strega e, con voce
1

piagnucolosa, esclamò:
– Vecchia, mi scappa la cacca!
– Falla in un angolo del focolare, – rispose la strega.
E il novizio di rimando:
– Sono un novizio, non mi permetterei mai di imbrattare il focolare!
La strega replicò:
– Allora falla nel doma.
E il novizio:
– Sono un novizio, non mi permetterei mai di imbrattare il doma!
– Uh, quanto sei noioso! Adesso ti lego e te ne vai alla latrina! – gli rispose la vecchia,
annodandogli una pesante corda alla vita.
Nella latrina il novizio pensò che fosse giunto il momento di darsela a gambe, si slacciò la
corda e la assicurò a un pilastro, poi vi fissò uno dei tre preziosi amuleti che aveva ricevuto
dall’abate, chiedendogli di rispondere al posto suo, e scappò dalla casa della strega.
Poiché il novizio non tornava, la strega gli diede una voce:
– Hai finito, ragazzo?
L’amuleto dalla latrina rispose:
– Non ancooora!
A lungo la strega chiamò e la voce ripeté:
– Non ancora, non ancora! – ma il novizio non tornava.
Borbottando – Che gran cacone ’sto novizio! – la strega dette uno strappo alla corda e il
pilastro scricchiolò.
– Ehi, il novizio se l’è filata! – gridò allora la vecchia e si mise a inseguirlo cosí com’era a
piedi nudi.
Il ragazzo scappò nell’oscurità della montagna mentre dietro di lui la strega gridava:
– Novizio, aspetta!
Era ad un pelo dal farsi acchiappare quando tirò fuori un altro amuleto e lo lanciò implorando:
– Fa’ sorgere una grande collina di sabbia!
Detto fatto, alle sue spalle si levò una collina di sabbia. La strega tentò di arrampicarvisi, la
collina franò, tentò di nuovo e la collina franò di nuovo, mentre il novizio si dileguava. Ma
benché percorresse campi e montagne, la strega sembrava sempre sul punto di raggiungerlo. Il
ragazzo allora estrasse il terzo amuleto e lo lanciò dicendo:
– Fa’ fluire un grande fiume! – e il fiume apparve.
La strega tentò di attraversarlo, ma fu trascinata dalla corrente, tentò di nuovo e la corrente la
trascinò di nuovo, mentre il novizio fuggiva via.
Finalmente il ragazzo raggiunse il monastero di corsa, picchiò alla porta e implorò con voce
rotta dal pianto:
– Abate, abate, sono inseguito dalla strega, vi prego, aprite la porta, presto!
L’abate, che stava dormendo, si alzò:
– Hai visto? Ecco perché t’avevo detto di non andare sui monti! Aspetta, aspetta, mi metto le
mutande!
Il novizio gridava:
– Fate presto, presto, abate, altrimenti finirò mangiato dalla strega! – e l’abate di rimando: –
Aspetta, aspetta, mi metto il kimono! – Aspetta, aspetta, mi metto l’obi! – Aspetta, aspetta, mi
metto i sandali! – Aspetta, aspetta, prendo il bastone!
Finalmente aprí l’uscio.
– La strega sta arrivando, presto, abate, aiutatemi, ve ne prego! – esclamò il novizio
rifugiandosi all’interno. L’abate allora tirò fuori una grande cesta, vi nascose il giovane e
l’appese al soffitto.
Faceva finta di nulla quando la strega arrivò di volata:
– Abate, non è venuto un novizio? – chiese.
– No, non è venuto, – rispose l’abate.
– Ma va’, deve essere venuto, abate! – replicò la strega e scovò il cesto sospeso al soffitto.
– Eccolo là. Aprimi quel cesto! – disse con voce minacciosa.
Allora l’abate le rispose:
– Te lo mostrerò, ma prima ascolta quello che ti dico.
Poi disse:
– Alta, alta! – e la strega diventò sempre piú grande, quasi da poter toccare la cesta.
Poi l’abate intimò:
– Bassa, bassa! – e la strega diventò sempre piú piccola finché fu ridotta alla stregua di un
granellino.
Allora l’abate risoluto l’arrotolò in un pezzetto di mochi che si abbrustoliva sul focolare e se
l’ingoiò in un sol boccone.
Tirato giú il novizio, l’abate prese ad ammonirlo affinché in futuro desse retta ai suoi consigli,
ma all’improvviso avvertí un gran mal di pancia che lo costrinse a recarsi alle latrine. E allora dal
deretano gli volò via un nugolo di mosche.
Fu cosí che la vecchia strega si trasformò in uno sciame di mosche che volarono per tutto il
Giappone.
Akita, Hirashika.
1. L’usanza che le donne si tingessero i denti di nero con una pasta a base di ossido di ferro esisteva in Giappone fin dai
tempi antichi. Dapprima limitata alle nobildonne di Corte, si diffuse in seguito anche nelle classi popolari. Verso il XIV-XV

secolo diventò uno dei contrassegni del passaggio dall’infanzia all’età adulta e durante l’epoca di Edo (1603-1867) fu
adottata in particolare dalle donne sposate.
Il Ricco Lumachino di risaia
C’era una volta in una contrada un ricco signore. La gente del villaggio mormorava che egli,
essendo di alto lignaggio, non conosceva ristrettezza alcuna. Ma fra i nago, i piccoli contadini
che lavoravano i campi di tal signore, c’era una coppia cosí povera da non poter neppure
accendere il proprio focolare.
Avevano ormai superato i quarant’anni ma, chissà per quale ragione, non avevano bambini e i
due se ne dolevano al calare di ogni notte:
– Come vorremmo avere un figlio! Qualcosa che noi si possa chiamare figlio nostro,
foss’anche un ranocchio o una lumaca di risaia! – e con queste parole rendevano omaggio al Dio
dell’Acqua e continuavano a pregare.
Un giorno la moglie, recatasi come ogni altro giorno a ripulire le risaie dalle erbacce, pregò la
divinità:
– Oh Signore dell’Acqua, ti prego, per me andrebbe bene anche un piccolo di queste lumache
di risaia, per l’amor del cielo, concedimi un figlio!
E mentre stava pregando dal profondo del proprio cuore il dio dell’acqua, com’è come non è,
improvvisamente cominciò a dolerle il ventre; e se cercava di controllarsi, il dolore a poco a
poco si acuiva finché, non potendo piú resistere, quasi carponi se ne tornò a casa. Il marito si
preoccupò perché, pur curandosi in vari modi, la moglie non riusciva a sentirsi meglio. Per
affidarsi ad un medico, soldi non ce n’erano; cosí cominciò a pensare al da farsi. Siccome per
fortuna nel vicinato c’era una levatrice, anche se non era proprio un medico, provò a chiederle
aiuto; e venne fuori che la moglie era incinta. I due si rallegrarono immensamente alla notizia e
subito accesero una lampada votiva sull’altarino casalingo, pregando la divinità affinché il
nascituro fosse sano.
In breve tempo nacque un lumachino di risaia. Si stupirono tutti ma i genitori, dichiarando che
questo era il figliolo loro concesso dalla divinità, riempirono una ciotola d’acqua, vi misero
dentro il lumachino appena nato, lo posero sull’altarino e lo allevarono con cura.
Come fu come non fu, trascorsero venti anni dalla nascita, ma il figliolo lumaca non era
cresciuto neppure un po’ e non diceva una sola parola. Eppure mangiava come un adulto.
Un giorno l’anziano padre, mentre caricava sui cavalli il riso del tributo annuale per il ricco
signore della contrada, prese a sospirare:
– Ah, ero cosí contento di aver ricevuto un figlio dal Dio e, accidenti, era una lumaca! Un
figlio lumaca non ti serve in alcun lavoro e a me pover’uomo tocca spendere la vita cosí, a
mantenere mia moglie e mio figlio!
Chissà da dove si udí una voce che diceva:
– Padre, padre, allora oggi vado a portarlo io quel riso!
Il padre dette un’occhiata intorno, ma non c’era nessuno e mentre pensava stupito: «Chi è che
parla?» la voce continuò:
– Sono io, padre! Per tutto il lungo tempo trascorso fino a oggi ho goduto della vostra
protezione, ma è giunta l’ora che mi affacci al mondo. Oggi andrò io al vostro posto a casa del
padrone e gli porterò il tributo!
– E come fai a portare i cavalli?
– Come lumaca non posso, però, se mi fate salire fra i sacchi, riuscirò a condurli dove voglio
senza difficoltà!
Il padre era stupefatto: il lumachino, che mai fino a quel momento aveva parlato, adesso
parlava e addirittura diceva che sarebbe andato al posto suo a pagare il tributo! Ma pensò:
«Questa è la volontà del figlio concessomi dal Dio dell’Acqua e, se disobbedisco, potrebbe
colpirmi la punizione divina». Allora caricò i sacchi di riso su tre cavalli. Poi, sollevato con due
dita il figlio lumachino dalla ciotola sull’altare, lo pose in mezzo al carico di riso.
– Padre, madre, allora io vado, a presto! – disse il lumachino e dai, dai, hip, hop, dando ordini
ai cavalli con destrezza, guadagnò l’uscita. Il padre gli aveva permesso sí di andare, ma era cosí
preoccupato per lui che seguí i cavalli di soppiatto. Il lumachino attraversava acquitrini e ponti
con i suoi yah, yah! dritto, dritto! come un provetto conducente di cavalli e se ne andava a gran
voce. Non solo. Alzando il tono, cantava uno stornellino e persino i cavalli, al passo con la sua
voce, trottavano di buon umore mentre le loro campanelle al collo facevano dilin dilon, dilin
dilon. E i viandanti e i contadini nelle risaie, a questo spettacolo, dicevano:
– È proprio come dice il vecchio detto, si sente ma non si vede! Ma quei cavalli non sono i
ronzini del contadino povero? Chi sta cantando questa canzone? – e rimanevano a guardare con
stupore.
Il padre, vista la scena, se ne era tornato a casa chiedendosi come tutto questo fosse possibile.
Poi, dinanzi all’altarino, entrambi i genitori avevano pregato dal profondo del cuore:
– Signore, Dio dell’Acqua, fino ad oggi non sapevamo nulla e abbiamo trattato il lumachino
con sufficienza ma ti ringraziamo immensamente per il figlio che ci hai voluto concedere. Ti
preghiamo, fa’ che quel figliolo e i cavalli giungano alla residenza del signore sani e salvi.
Il lumachino, intanto, inconsapevole di tutto, cloppete clop, aveva condotto i suoi cavalli ed
era giunto alla residenza del ricco signore. I servi, a sentire che era arrivato un tributo, erano
usciti a vedere, ma oltre ai cavalli non c’era nessuno. Mentre si chiedevano l’un l’altro come mai
avessero inviato solo quelli, avevano udito una voce che proveniva da qualche parte fra i sacchi:
– Ho portato il tributo. Potreste tirarlo giú, per favore?
– Come, viene da lí? Ma non c’è nessuno!
Si erano sporti a guardare fra i sacchi e ci avevano trovato una piccola lumaca che chiedeva
loro:
– Non posso mettere giú io i sacchi dai cavalli, mi dispiace tanto, vi prego, potreste tirarli giú
voi? E per non spiaccicarmi, poggiatemi pianino pianino sul bordo della veranda!
I servi erano stati colti da sgomento:
– Padrone, padrone, una lumaca ha portato il tributo annuale!
Il padrone era venuto fuori e, proprio come avevano detto i suoi servi, aveva trovato che una
lumaca aveva portato il tributo. Tutti quelli della residenza erano usciti a frotte a vedere e si
erano messi a discutere della strana faccenda.
Frattanto per ordine del lumachino il riso era stato scaricato e immagazzinato e i cavalli
foraggiati. Poi anche il lumachino era stato chiamato in casa e gli era stato servito il pranzo.
Il lumachino stava sul bordo del vassoio e, a non prestargli attenzione, neppure si vedeva;
eppure, un po’ alla volta, il riso della sua ciotola diminuiva; poi diminuí il brodino e cosí piano
piano anche il piatto che lo accompagnava. Al termine egli disse:
– Grazie della generosa ospitalità. Adesso accetterei del tè.
Il signore aveva sentito parlare in precedenza della storia del figlio lumaca concesso dal Dio
dell’Acqua, ma non credeva possibile che potesse arrivare a tanto. Parlava e lavorava come un
essere umano e il signore pensò che avrebbe potuto includerlo fra i beni della casa.
– Signor Lumaca, signor Lumaca, fra la mia casata e la vostra famiglia ci sono rapporti fin
dalla generazione dei vostri nonni. Ordunque, con me ho due figliole. Vi andrebbe di prenderne
una in moglie?
Il signore aveva provato a fargli la proposta per accaparrarselo senza tirar fuori un soldo e il
lumachino, invece, a sentirla se ne era cosí rallegrato che chiese conferma della cosa; il signore
promise:
– Dico sul serio, vi darò in moglie una delle mie figlie!
Il lumachino, che per quel giorno aveva goduto di una ricca ospitalità, se ne tornò a casa. I
genitori, nel frattempo, si erano chiesti perché, fattosi cosí tardi, non fosse ancora di ritorno e si
auguravano che nulla fosse andato storto lungo il tragitto; quando il lumachino tornò a casa in
gran forma con i suoi tre cavalli li trovò tutti preoccupati.
Durante la cena il figlio raccontò:
– Ehi, oggi il padrone mi ha dato in moglie una sua figlia!
Il padre e la madre si chiesero meravigliati se potesse essere vero ma, comunque, si trattava
pur sempre della parola di un figliolo concesso dalla divinità.
Un giorno chiesero a una zia di recarsi presso la famiglia del padrone per una conferma.
Allora il signore chiamò le due figlie e provò a saggiare la situazione.
– Chi di voi due andrebbe in sposa presso la famiglia della lumaca?
La figlia maggiore disse:
– Chi mai andrebbe in moglie in una casa di lombrichi! Io no di certo! –, si alzò pestando i
piedi e se ne uscí dalla stanza. Ma la dolce figlia minore lo confortò dicendo:
– Il Signor padre ha fatto un accordo e sarò io ad andare in moglie alla lumaca. Vi prego, non
abbiate timori!
La zia, ricevuta tal risposta dal signore, al suo ritorno a casa informò i genitori del lumachino.
Il corredo nuziale della figlia minore era costituito da un carico tale che sette cavalli
bastavano a stento, sette cassettoni e sette cassapanche e una quantità sorprendente di involti e
fagotti. Poiché era impossibile far entrare tutto nella modesta casuccia, il signore fece costruire
un deposito. A casa del genero non c’era proprio nulla. E poiché non avevano altri parenti, il
padre e la madre chiamarono l’unica zia e una vecchia del vicinato e celebrarono il matrimonio.
Con una cosí bella nuora, i due genitori erano veramente contenti. La giovane moglie era
servizievole con i suoceri, lavorava bene nei campi e la vita era migliorata. I due genitori
dicevano che anche tutto questo si doveva alla magnanimità del Dio dell’Acqua e riponevano in
lui una fede assoluta.
Frattanto si avvicinava il giorno della prima visita della giovane sposa alla casa paterna . 1

Sarebbe avvenuta dopo l’ottavo giorno del quarto mese, data del matsuri in onore del buddha
Yakushi, nume tutelare del villaggio.
I fiori erano in boccio quando il giorno del matsuri arrivò. Anche la sposina sarebbe andata a
vedere i festeggiamenti; perciò si era fatta un bellissimo trucco e aveva indossato un grazioso
kimono che aveva tirato fuori da una cassapanca. Piú la si guardava piú sembrava bella, come
una creatura celeste. Terminato che ebbe di prepararsi, ella sollecitò il marito lumaca:
– Andiamo insieme a vedere il matsuri!
– Ah, sí, bene, portami con te. Oggi è anche bel tempo ed è tanto che non vado fuori a
guardare il paesaggio…
La sposa sistemò il marito dentro il nodo dell’obi e insieme si recarono ad assistere ai
festeggiamenti. Lungo la strada i due si misero a conversare. Ma la gente, i passanti, tutti si
voltavano a guardare:
– Una donna cosí bella che parla da sola, passeggia e ride, poverina, deve essere matta!
Cosí i due giunsero dinanzi al grande torii del buddha Yakushi e fu allora che il lumachino
disse:
– Per una certa ragione non posso entrare. Tu va’ a far visita al tempio da sola, io aspetto qui.
Mettimi da qualche parte sull’argine delle risaie lungo la strada.
– Sí, ma stai attento, non ti far scovare da qualche uccello, ti prego, fa’ attenzione! Io vado un
momento a pregare e torno!
Cosí dicendo, la sposina si avviò lungo la salita, pregò all’altare principale e fece ritorno. Ma
non vide il suo adorato marito. Preoccupata guardò dappertutto ma, per quanto facesse, non
riusciva a vederlo. L’aveva beccato un uccello, oppure si era perduto in mezzo alle risaie?
Si inoltrò e lo cercò, ma era aprile e le risaie erano piene di lumache. Una ad una le sollevò
per osservarle, ma nessuna di loro somigliava neppure un poco a suo marito.
Una lumachina alla volta!
Compagno mio,
primavera è giunta quest’anno!
Sarai stato beccato
da uno stupido uccello
come nulla fosse?
Cosí cantava mentre lo cercava in mezzo alle risaie, il volto schizzato di fango, il bel vestito
completamente imbrattato. Nel frattempo era giunto il tramonto e la folla del matsuri cominciava
a tornarsene a casa. Alla vista della ragazza, tutti quelli che passavano si mormoravano l’un
l’altro:
– Guarda, guarda, una cosí bella giovinetta impazzita, poverina!
La ragazza, per quanto cercasse, non aveva trovato il marito; allora aveva pensato che
preferiva morire nell’acquitrino della risaia. Stava per gettarsi quando da dietro le giunse la voce
di uno sconosciuto:
– Attenta, ragazza, che fai?
Si volse a guardare e vide un giovane di bell’aspetto in piedi, il volto coperto da un ampio
copricapo di paglia e un flauto shakuhachi infilato nella cintura. La ragazza gli raccontò
l’accaduto e aggiunse:
– Voglio morire, – ma il giovane le rispose:
– Non hai piú nulla di cui preoccuparti perché la lumaca di risaia che cerchi sono io!
La ragazza non gli dette ascolto e disse che non poteva essere vero.
– Ti toglierò ogni dubbio. Io sono il figlio mandato dal Dio dell’Acqua e finora ho avuto le
sembianze di una lumaca; ma oggi tu hai pregato il buddha Yakushi e io ho potuto assumere
l’aspetto di un essere umano. Mi sono recato a rendere grazie al Dio dell’Acqua e sono tornato
qui, ma tu non c’eri e fino ad ora ho vagato chiedendo qua e là.
Felici, i due si incamminarono verso casa. La sposa era bellissima, ma anche il giovane
lumaca faceva una gran figura. La coppia tornò a casa e la felicità dei due genitori non si
racconta neppure nelle favole. Vennero poi informati anche il ricco signore e sua moglie che, ben
lieti, si recarono dal lumachino. Ma un genero cosí brillante non poteva rimanere in un posto
tanto disonorevole e cosí il signore fece costruire una splendida dimora nella zona piú bella della
città. Lí la giovane coppia si dedicò al commercio. E poiché la faccenda del giovane lumaca era
diventata ben nota alla gente, il negozio prosperò e in men che non si dica egli diventò il piú
ricco signore della città.
I suoi anziani genitori trascorsero una serena vecchiaia. Anche l’unica zia andò sposa a un
benestante. Lui venne soprannominato il Ricco Lumachino di risaia e tutto il parentado visse in
prosperità.

Iwate, Kamihei.
1. In base alla tradizione, subito dopo le nozze la sposa ritornava per un breve periodo a casa dei propri genitori. La visita
avveniva di norma il terzo o il quinto giorno dopo la celebrazione del matrimonio.
Jinshirō, quello delle radici alla brace
Un tempo in una contrada viveva un giovane, di nome Jinshirō che mangiava solo radici alla
brace. I giovani del villaggio volevano trovar moglie a questo Jinshirō e allora si misero a
passare a frotte dinanzi alla casa del ricco Asahi, portando sulle spalle dei grossi cesti intrecciati.
Il ricco signore, che osservava stupito la cosa, chiese:
– Ehi voi, che fate?
– Si va a raccogliere le ghiande di Jinshirō, quello delle radici arrostite, raccolta di ghiaaande!
– risposero i giovani e proseguirono.
La volta successiva i ragazzi passarono in massa dinanzi alla casa del ricco signore portando
delle lunghe zappe. L’uomo uscí e di nuovo rimase a osservare. E i ragazzi:
– Si va a zappare le risaie di Jinshirō, quello delle radici arrostite, a zappaaare! – e se ne
andarono.
«Questo Jinshirō “delle radici arrostite” non l’ho mai sentito nominare», pensò il ricco
signore. «Però, fra la raccolta di prima e la zappatura di adesso, deve essere ben ricco! Se mi
riesce gli voglio dare in moglie mia figlia!»
Un giorno vennero degli intermediari alla residenza del ricco Asahi per chiedergli la mano
della figlia. Poiché la richiesta proveniva da Jinshirō «delle radici alla brace», il signore concluse
l’accordo immediatamente. E cosí la figlia del signore diventò moglie di Jinshirō e portò con sé
vari oggetti in dote. Ma quando arrivò a casa del promesso sposo, trovò una capanna, piccola e
sporca. In casa non c’era niente di niente, cosí gli amici prestarono paraventi, pentole e bollitori e
il matrimonio si celebrò senza intoppi. Ma il giorno dopo se ne tornarono a casa portando via
proprio tutto, tatami, paraventi, pentole e tazze da tè. La sposa era in ansia, ma Jinshirō non
sembrava minimamente toccato dalla cosa e aveva una faccia tranquilla.
La donna si mise a preparare da mangiare ma non trovò neppure un chicco di riso.
– Il riso non serve! – disse Jinshirō e, come al solito, arrostí delle radici e le mangiò. Ma la
sposa proprio non poteva. Non essendoci altro da fare, tirò fuori tre rotoli di seta tessuta che
aveva portato da casa:
– Vendi questi e compra del riso! – disse e mandò Jinshirō in città.
Lungo il tragitto Jinshirō venne truffato da un commerciante ambulante e tornò senza aver
comprato un bel niente. Il giorno dopo si recò di nuovo in città per comprare del riso, ma anche
questa volta tornò a mani vuote.
Il terzo giorno vendette finalmente dei rotoli di seta e incassò il denaro ma, lungo la strada,
incontrò dei bambini che avevano catturato un falco e lo stavano maltrattando. Allora Jinshirō
comprò il falco con il denaro ricavato dalla vendita della seta. Era ben contento, cantava
Trallalero
trallalà
e si divertiva a far volare il falco. Entrò poi in una risaia e vi trovò un kappa che giocava.
Vedendolo, il falco immediatamente lo attaccò. Allora il kappa disse:
– Ti dò il mio tesoro se mi liberi!
Jinshirō accettò e il kappa gli dette il suo tesoro che consisteva in un martelletto magico e un
sacchetto di lunga vita. Jinshirō pensò: «Il sacchetto può tornarmi utile per metterci le radici, ma
del martello non so che farmene». Lo gettò via e se ne tornò a casa.
La moglie aspettava ansiosa che il marito tornasse con il riso, ma rimase senza parole quando
vide che anche quel giorno era ricomparso senza aver comprato un bel nulla. Jinshirō, dimentico
del riso, le raccontò dettagliatamente i fatti accaduti.
– Il sacchetto, eccolo qua! – e glielo mostrò. La sposa non per niente era figlia di un signore.
– Questo è certo un tesoro, ma se non è appaiato all’altro, non serve! – disse e andò a
raccogliere il martelletto magico che Jinshirō aveva gettato via, lo prese e tornò a casa. Con
quello, la donna in un batter d’occhio trasformò la loro misera capanna in una grande casa
lussuosa.
Jinshirō, vedendo ciò, pensò che gli era capitata fra le mani una cosa utilissima:
– Che bello! Provo a farlo anch’io!
La moglie gli aveva insegnato come battere il martelletto dicendo «kome to kura to wo
dashimashō, che vengano subito fuori riso e magazzino!» Jinshirō allora agitò il martello
dicendo un po’ troppo velocemente «komekura dehare! che vengano subito fuori i piccoli
ciechi!» Ed ecco venire fuori un sacco di piccoli ciechi. La moglie, stupefatta, ripeté la formula e
stavolta con kome to kura il desiderio si realizzò e apparvero riso e magazzino.
Un giorno la donna inviò un messo a casa dei suoi genitori per invitarli e i due, ben contenti,
si recarono subito a casa della figlia. Dopo aver visto ogni cosa, rimasero senza fiato. Subito
venne servito un magnifico banchetto e di nuovo furono presi da stupore a tanto sfarzo. Al
termine del banchetto tutti i vassoi e il vasellame di lacca vennero adagiati sull’acqua del fiume e
lasciati portar via dalla corrente. Poiché il ricevimento era finito, i genitori si apprestavano a
tornare a casa e la figlia disse:
– I signori Asahi rincasano! Fate luce!
In casa venne acceso subito un fuoco. E la casa bruciò tutta, facendo luce ai genitori finché
non furono rientrati.
Poco tempo dopo il ricco signore, per ricambiare la cortesia, organizzò un banchetto per
Jinshirō e signora. Terminato che fu il banchetto, poiché a gettare in acqua vassoi e vasellame
laccato si sarebbe perduto tutto, fecero solo finta di farli portar via dalla corrente. Poi, quando i
due giovani sposi stavano per accomiatarsi, il signore a sua volta diede fuoco alla casa per far
loro luce. La casa di Jinshirō, subito dopo l’incendio, era stata ricostruita ed era diventata ancora
piú sfarzosa, ma il ricco signore una nuova casa non poteva certo costruirsela; cosí andò a stare
in una capannuccia. Allora Jinshirō, impietosito, gli mise in piedi una bella casa.

Iwate, Kamihei.
Il canto del gatto
C’erano una volta un vecchio e una vecchia che possedevano un gatto. Era un vecchio gatto di
tre colori, che aveva ormai raggiunto i venticinque anni.
Una sera il vecchio si era recato chissà dove per affari e la vecchia si era sistemata sotto il
kotatsu per scaldarsi, quando arrivò il gatto. A un certo momento, alla vecchia venne sonno e
allora il gatto le disse:
– Ti faccio vedere come canto e ballo?
– Ma perché, un gatto può cantare?
Il gatto allora cominciò a cantare e a ballare sollevando le zampe anteriori.
– Vecchia, non dire a nessuno che ho cantato e ballato, perché se lo farai, ti ucciderò, – disse
il gatto. Poi, copertosi il capo con una piccola salvietta, danzò e danzò ancora.
Il vecchio rientrava in quel frangente, cosicché il gatto interruppe la danza e salí sul kotatsu.
La donna se ne stava zitta, senza far parola di quanto era successo. Poi i due vecchi si infilarono
sotto le coperte.
Piano piano giunse la mezzanotte. Il gatto non c’era e cosí la donna disse al marito che
dormiva accanto a lei:
– Sai, il gatto di tre colori questa notte ha cantato e ballato. Una cosa impressionante! – e
raccontò tutta la faccenda.
Da una trave del soffitto si udí allora un miaoo: era il gatto che li stava guardando con occhi
di fuoco.
– Ho paura! – gridò la vecchia nascondendosi sotto la trapunta. Ma il gatto piombò giú, la
azzannò alla gola e la uccise. Il vecchio, terrorizzato, tremava come una foglia. Poi il gatto sparí.
I vecchi gatti con il pelo di tre colori sono pericolosi. Si dice che, se li si lascia danzare,
diventino dei mostri. Ecco perché non bisogna mai far danzare un gatto di tre colori.
Questo è quanto.

Iwate, Ninohe.
Il fratello cuculo
C’erano un tempo in una contrada due fratelli. Il fratello maggiore era veramente buono
d’animo mentre l’altro aveva una natura malvagia. Un giorno i due fratelli se ne erano andati
ognuno per proprio conto in montagna a lavorare. Lungo la strada di ritorno il fratello maggiore
aveva raccolto delle patate di montagna e le aveva arrostite sul focolare ma, poiché il fratello
sarebbe tornato tardi, aveva mangiato le parti stoppose e lasciate per il fratello le parti saporite.
Il minore tornò e il suo pasto fu eccellente. Ma il ragazzo aveva un animo maligno e sospettò
ingiustamente che, se a lui era toccata una parte cosí saporita, quella che aveva mangiato il
fratello era forse piú gustosa della sua.
Allora uccise il fratello. Poi gli aprí lo stomaco. Ma vi trovò solo le parti non appetitose.
Allora persino lui provò rimorso. Voleva far qualcosa per ridargli la vita e si mise a cercare lo
spirito volato via nel momento in cui il fratello era morto. E chiamò senza sosta con voce
addolorata:
– Acchi tonde itta ka, sei volato di là? Kocchi tonde itta ka, sei volato di qua? – vagando di
giorno in giorno alla sua ricerca.
Nonostante ciò non trovò mai lo spirito del fratello. E nel frattempo il suo stesso spirito si
trasformò in un cuculo. È per questo che anche oggi i cuculi gemono con voce addolorata
achatoteta, kochatoteta.

Iwate, Kokonohe.
Il Dio della Montagna e il Dio Scopa 1

Un tempo vivevano in una contrada i poveri coniugi Morihei ai quali, a breve, sarebbe nato un
bambino. Un giorno Morihei si era recato in montagna a raccogliere della legna e, frattanto che
pensava di affastellarne sempre un po’ di piú, si era fatto scuro e non aveva potuto rincasare. Si
era dunque sistemato per la notte sotto un grande albero accanto a una grotta. Verso la metà della
notte aveva sentito un rumore di sonagli di cavallo che proveniva dai recessi montani e una voce
maschile che allegramente faceva hoi! hoi! come un incitamento a gran voce. Mentre l’uomo
ascoltava in silenzio e rifletteva sulla stranezza della cosa, quel suono poco alla volta si era fatto
vicino e, giunto dinanzi al grande albero, si era arrestato.
Ed ecco una voce:
– Ehi, Signor Dio della Montagna, vogliamo andare? Non sta bene far tardi!
Un’altra voce, proveniente da sotto l’albero, aveva risposto:
– Siete voi, Signor Dio della Fortezza? Siete assieme al Signor Dio Scopa?
E dall’esterno la replica:
– Già, siamo venuti insieme.
E di nuovo la voce da sotto l’albero:
– Ad esser franchi, stanotte ho ospiti presso di me e non posso venire. Potreste andare voi e
fare a modo vostro?
– Ah davvero? Avete ospiti? In tal caso si va solo noi, a presto! – e le divinità avevano
lasciato il luogo con gran baccano.
Era giunta l’aurora e le divinità erano tornate.
– Signor Dio della Montagna, eccoci di ritorno. In verità, pensavamo che si trattasse solo della
moglie di Morihei e invece stanotte c’era anche la moglie di un vicino. E quindi abbiamo
impiegato piú tempo del previsto. Tuttavia, poiché ad entrambe è stata fatta garbata consegna,
state pure tranquillo. Il bambino dei Morihei è un maschio, ma gli è stato destinato un solo filo di
paglia al giorno. Alla famiglia vicina, è nata una bambina ma le sono concessi novantanove
tesori. La spesa prevista per allevarli corrisponderebbe all’incirca a tre shō di sale al giorno. Il
Signor Dio della Fortezza ha proposto di destinarli come marito e moglie, ma voi, Signor Dio
della Montagna, che ne pensate?
Subito il Dio della Montagna aveva approvato.
– Dunque, arrivederci.
– Bene, addio, – e si erano separati.
Morihei era stato ad ascoltare la conversazione senza perderne una parola. Pensava che, se
accadono cose strane, quella lo era di certo e all’alba, rientrato dalla montagna, aveva trovato che
a casa la notte precedente era avvenuto il parto e che era nato un maschio. Si era poi recato di
fretta presso la famiglia vicina; anche lí, la notte precedente c’era stato un parto ed era nata una
bambina. E poiché è una gran fortuna che un bambino e una bambina nascano insieme nella
stessa notte, si era deciso che sarebbero diventati marito e moglie.
I due bambini divennero adulti e si sposarono. La ragazza era d’animo generoso, offriva da
bere agli ospiti senza lesinare, concedendosi ella stessa del sake, e quando adoperava il denaro lo
faceva senza risparmio. Le riuscivano bene anche gli affari nei piú diversi campi. Ecco perché,
accumulando beni, i depositi e i magazzini si erano moltiplicati e la donna era divenuta
proprietaria di esattamente novantanove magazzini. Il marito, al contrario, era gretto e meschino.
Sebbene fossero proprietari di quasi cento depositi, l’uomo si struggeva in cuor suo: «Come si fa,
mia moglie è una spendacciona e per questo non possiamo costruire un altro deposito! Vorrei
proprio fare qualcosa per proibirle tanta prodigalità».
Un giorno giunse un monaco pellegrino. Quando il marito gli raccontò della faccenda, il
monaco gli dette queste istruzioni:
– Non è cosa difficile. La mattina del quindicesimo giorno del mese, quando il sole sorge,
guarda sul tetto del magazzino che sta esattamente al centro. Sul tetto vedrai tre vecchi gnomi nel
riverbero del mattino, con indosso tre tuniche color porpora e con dei rossi ventagli spiegati, che
danzano la danza del sole che nasce. Scocca una freccia di artemisia con un arco di stelo di
girasole nel ginocchio sinistro del vecchio che sta al centro. Cosí ciò che desideri si avvererà.
Il marito aveva preparato ogni cosa e si era messo ad aspettare la mattina del quindicesimo
giorno del mese. Quel giorno arrivò. Il sole sorse e l’uomo guardò sul tetto del magazzino che
sorgeva al centro dei novantanove. Tre venerabili gnomi, aperti dei rossi ventagli, eseguivano la
danza del sole nascente rivolgendosi verso tutti i punti cardinali. L’uomo tese l’arco di stelo di
girasole e scoccò la freccia nel ginocchio del vecchio gnomo al centro. Il ginocchio sinistro si
fratturò e i tre sparirono.
Da quel momento, le cose cambiarono e i due finirono col diventare poveri. La moglie non
poté piú gustare l’amato sake. Anche gli ospiti a poco a poco diminuirono e il marito, indignato,
sostenendo che ogni cosa era colpa della donna, la cacciò di casa concedendole una sola
domestica.
La moglie e la domestica si incamminarono senza meta. Il sole tramontò e si fece buio. Le due
donne non avevano piú la forza di proseguire e piansero sulla strada per un’intera notte; poi,
fattosi giorno, si rialzarono e, mentre si consultavano sulla direzione da prendere, ecco dirigersi
verso di loro tre fanciulle bellissime.
– Dove siete dirette? – chiese la donna.
– Noi si va oltre quelle montagne, al Villaggio del Canto del Fagiano. Due di noi stanno bene,
ma la terza è ferita a una gamba e soffre molto! – risposero.
Chiedendosi se fosse il caso di recarsi anche loro al Villaggio del Canto del Fagiano, le due
donne si incamminarono al seguito delle tre fanciulle.
Il sentiero montano era impervio, e mentre proseguivano a fatica, le figure delle ragazze
sparirono alla loro vista. Il sole era tramontato di nuovo, e mentre pensavano che anche quella
notte sarebbe trascorsa all’addiaccio, videro un chiarore in lontananza. Piene di speranza
proseguirono in quella direzione e trovarono una sordida e misera capanna nella quale c’era una
ragazza tutta sola. Le due donne la implorarono:
– Permetteteci di fermarci solo una notte!
La ragazza rispose:
– In una casa cosí misera non c’è né da mangiare né da vestire, ma andare in giro a quest’ora
sarebbe troppo pericoloso, perciò fermatevi pure.
Le due entrarono piene di contentezza e trovarono nella capanna un solo vecchio pentolone da
tre shō sospeso sul focolare centrale.
– In casa non c’è nulla, vado a raccogliere dei rafani e ve li cucino!
Cosí dicendo la ragazza uscí e rientrò portando un enorme rafano che bollí e serví alle due
donne. Aveva un sapore delizioso.
Il mattino seguente, quando aprirono gli occhi, la ragazza era scomparsa chissà dove. E
poiché sarebbe stato sgarbato andarsene in sua assenza, le due donne attesero. Si fece mezzodí.
La domestica si recò al campo di rafani della sera precedente e vide che era molto grande. Nel
punto da cui la sera prima la ragazza aveva estratto il rafano, sgorgava dell’acqua. La domestica
aveva la gola secca, cosí ne bevve nel cavo delle mani e si accorse che si trattava di un fantastico
sake! Tornò e informò la padrona. Le due donne si recarono insieme al campo dei rafani e
bevvero e si ubriacarono allegramente per poi cadere addormentate. Si era fatta sera quando
riaprirono gli occhi, ma la ragazza non era ancora rientrata. Le due portarono dal campo rafani e
sake per la cena e anche quella notte si fermarono lí. Il mattino dopo la ragazza non era
ricomparsa.
La padrona e la domestica decisero di restare per un po’ di tempo in quella casa. La domestica
disse:
– Riempio il pentolone di sake, lo porto in città e vado a venderlo.
Cosí fece e uscí per andare in città.
– Sake, sake! Sake di sorgente! – camminava e strillava la domestica. E poiché la gente della
città lo acquistava, lo beveva e lo gradiva molto, quel sake non bastò per tutti. Con il danaro
ricavato, la domestica acquistò varie cose e rientrò alla capanna.
La sorgente era inesauribile e ben presto la padrona e la domestica divennero gestrici di una
grande mescita di sake. Lí intorno furono costruite molte case e la gente venne da ogni dove. In
men che non si dica il posto si trasformò in una prospera città e la donna in una ricca proprietaria
di sakaya.
Quello che era stato il giovane Morihei, frattanto, era caduto in disgrazia e non riusciva
neanche a sbarcare il lunario. Aveva sentito dire che in un posto detto Villaggio del Canto del
Fagiano aveva fatto fortuna la proprietaria di una grande bottega di sake e che la cittadina era
divenuta prospera. Aveva cosí pensato di spostarsi lí per vendere i sandali di paglia che egli
stesso fabbricava.
Un giorno la ricca signora vide un anziano venditore di sandali.
– Dove ho già visto quest’uomo? Proprio non mi viene in mente. Chi sarà?
Stava lambiccandosi il cervello quando la domestica esclamò:
– Quell’uomo un tempo era vostro marito!
La donna provò compassione vedendolo cosí cambiato; allora avvolse una misura di monete
d’oro nella paglia e consegnò il tutto alla domestica chiedendo che le fossero fatti dei sandali.
L’uomo tornò a casa portando con sé la paglia. Ma quella notte faceva freddo e allora la bruciò
nel focolare. Poi cercò altra paglia e, preparati i sandali, si recò dalla signora della sakaya. La
donna si aspettava che egli si presentasse almeno con un vestito nuovo, ma l’uomo aveva lo
stesso aspetto miserabile di prima. Questa volta la donna infilò una monetina d’oro in un
nigirimeshi e glielo offrí. L’uomo si diresse verso casa con il suo nigirimeshi ma, lungo la strada,
si imbatté in un’anatra selvatica ferma sullo specchio di uno stagno. L’uomo afferrò delle pietre e
gliele lanciò contro ma, non riuscendo a colpirla, perse la pazienza e finí con il lanciare il
nigirimeshi che aveva ricevuto in dono. Poi se ne tornò a casa.
Quando si ripresentò dalla padrona della sakaya aveva ancora lo squallido sembiante di
sempre. La donna, vedendolo, si rammaricò:
– Ma che uomo sfortunato! – e disse: – Che ne pensi di lavorare come garzone in questa
bottega?
L’uomo rispose:
– Bene, sarò vostro domestico, – e vissero cosí sotto lo stesso tetto.

Iwate, Shimohei.
1. La credenza popolare riteneva che la divinità della montagna (che in alcune regioni poteva avere sembianze femminili)
fosse la protettrice delle partorienti e dei neonati e che, in prossimità del parto, arrivasse in groppa a un cavallo. Anche la
divinità della scopa, a sua volta, era ritenuta una presenza indispensabile perché il parto si svolgesse felicemente.
La pietà filiale della tortora
C’era un tempo un ragazzino che faceva sempre tutto il contrario di ciò che gli veniva detto.
Se suo padre gli diceva di andare sui monti, lui andava al fiume, e se gli si diceva di andare alle
risaie, lui si recava ai campi, tanto che il padre non sapeva piú come prenderlo.
Un giorno il padre si ammalò ma questo ragazzo privo di pietà filiale non lo degnò neppure di
uno sguardo. L’uomo, alla sua morte, avrebbe voluto esser sepolto sui monti ma, ben sapendo
che il figlio faceva sempre il contrario di quanto gli si diceva, e pensando che se glielo avesse
chiesto apertamente non sarebbe stato mai accontentato, sul punto di morire chiamò il figlio al
suo capezzale e gli disse le sue ultime parole:
– Costruisci la mia tomba sulla sponda del fiume, – e spirò.
Vedendo il padre morire, il ragazzo che pure era tanto dispettoso, si pentí di tutte le sue azioni
e, almeno stavolta, prestò ascolto alle parole del defunto, pur senza capirne le intenzioni, e cosí
lo seppellí su uno sperone della sponda del fiume.
Ma quando piove, l’acqua del fiume deborda dalle sponde. E quando l’acqua deborda, la
tomba paterna sembra venir spazzata via dalla corrente. E il figlio, non trovando requie, pieno di
nostalgia per il padre, è diventato una tortora e, quando il cielo minaccia pioggia, tubando e
piangendo, vola senza sosta dal monte al fiume e dal fiume al villaggio.

Iwate, Waka.
La Scimmia e il Fagiano
La Scimmia e il Fagiano stavano costruendo una risaia in comune. Al momento di arginarla, il
Fagiano disse:
– Compagna Scimmia, gli altri stanno delimitando gli argini, facciamolo anche noi.
La Scimmia replicò:
– Sí, sí, compagno Fagiano, però mi fanno molto male le zampe, scusami se non posso!
– Va bene, va bene! Abbi cura di te, vado a farlo io, – disse il Fagiano e costruí gli argini tutto
da solo.
Trascorsero i giorni e al momento di dissodare la risaia il Fagiano propose:
– Compagna Scimmia, gli altri hanno cominciato a dissodare il terreno, facciamolo anche noi.
La Scimmia replicò:
– Oggi ho un mal di testa da sragionare.
– Ah! – commentò il Fagiano e di nuovo da solo dissodò la risaia. Trascorse un po’ di tempo.
– Compagna Scimmia, gli altri hanno cominciato a trapiantare le pianticelle. Facciamolo
anche noi.
– Accidenti se non mi sento in difficoltà! In questi ultimi due o tre giorni ho avuto una tosse
cosí forte da sragionare.
– Ah!
Anche stavolta il Fagiano non poté far altro che trapiantare le pianticelle da solo.
La risaia fu irrigata, mondata dalle erbacce, il gran caldo passò e giunse l’autunno.
Spuntarono tante spighe e si avvicinò il momento della raccolta.
– Compagna Scimmia, gli altri hanno cominciato la raccolta del riso, facciamolo anche noi.
– Mi fa male la schiena, mi fanno male le zampe davanti e di dietro, mi fa male la testa da
sragionare.
– Capito, capito! – disse il Fagiano e, senza un rimprovero, fece la raccolta e la mondatura da
solo. Finalmente il riso fu pronto. Allora la Scimmia andò a trovare il Fagiano:
– Senti compagno Fagiano, finora ti ho fatto sgobbare tanto, ma oggi prepariamo del mochi e
mangiamo.
– Sí, sí, va bene, – rispose il Fagiano.
Decisero cosí di preparare il mochi. Fecero cuocere a vapore il riso, tirarono fuori mortaio e
pestello e cominciarono a pestare, bettara, bettara.
Quando ebbero finito, la Scimmia disse:
– Compagno Fagiano, prendi per favore il secchio.
– Sí, va bene, – rispose il Fagiano ma, mentre era in cucina, la Scimmia prese il mochi, lo
attaccò alla punta del pestello e se ne scappò alla chetichella verso la montagna.
– Ehi! Che mascalzona d’una Scimmia! – esclamò il Fagiano stupefatto e le corse dietro, ma
della Scimmia non era rimasta traccia.
Intanto l’avida Scimmia continuava a correre di gran carriera senza rendersi conto che il
mochi le era cascato in un cespuglio lungo la strada. «A quest’ora il Fagiano starà piangendo»,
pensava. Giunta in cima alla montagna mise giú il pestello e vide che del mochi non ne era
rimasto neppure un po’.
– Dove è finito il mio mochi? – esclamò sorpresa. Tornò sui propri passi guardandosi attorno
e vide il Fagiano che, nel mezzo del cespuglio, si mangiava quietamente il mochi impolverato
ripulendolo pian pianino.
– Ehi, compagno Fagiano, eri lí? Che sapore ha un mochi di cespuglio?
– Oh, compagna Scimmia! È un mochi di cespuglio, sí, ma se ci togli la polvere è buono!
– Ah sí? Allora danne un po’ anche a me!
– Compagna Scimmia, tu mangiati il mochi di pestello, ché il mochi di cespuglio me lo
mangio io, dopo aver soffiato via la polvere!
– Non mi prendere in giro, dammene un po’!
– Neanche un po’!
– Bene! Sappi che questa notte verrò ad assalirti!
Detto questo, la Scimmia si ritirò infuriata sui monti.
Il Fagiano entrò un po’ in apprensione per averla fatta tanto arrabbiare. Tornato a casa prese a
piangere, oi, oi, quand’ecco che, rotolando rotolando, giunse l’Uovo che gli domandò:
– Perché stai piangendo, compagno Fagiano?
– La Scimmia dice che verrà a sferrare un attacco questa notte, piango perché ho paura! –
rispose il Fagiano.
– Ma dài! Non hai da piangere per una cosa simile, ti aiuto io! – disse l’Uovo.
Ma il Fagiano continuava a piangere.
In quel frangente, ton ton ton, giunse la Spranga della porta che gli domandò:
– Compagno Fagiano, perché piangi?
– È solo che la Scimmia verrà a sferrare un attacco, ecco perché sto piangendo!
– Ti aiuterò anch’io, non piangere! – disse la Spranga.
Nonostante questo il Fagiano continuava a disperarsi. Giunsero l’insetto Forbicina e lo
Scarabeo Amaro, seguiti dall’Ago da tatami, dal Mortaio e dallo Sterco Fresco.
– Compagno Fagiano, non c’è da piangere, noi tutti ti aiuteremo! – dissero e finalmente il
Fagiano si tranquillizzò e smise di piangere.
Giunse il tramonto. Ognuno al proprio posto, aspettavano che la Scimmia arrivasse: la
Spranga all’ingresso, l’Uovo sul bordo del focolare, l’Ago lí accanto, la Forbicina dentro la giara
dell’acqua, lo Scarabeo Amaro dentro il mastello del miso, lo Sterco Fresco proprio all’uscio, il
Mortaio sospeso alla trave del soffitto. Si fece notte. La Scimmia si avvicinò strepitando di
lontano:
– Fagiano, Fagiano, questo è un attacco notturno! Fagiano, Fagiano, ci sei?
Ma quando arrivò, l’abitazione era immersa nel silenzio.
– Fagiano, Fagiano, apri! Questo è un attacco notturno di Sua Eccellenza la Scimmia! – urlò a
gola spiegata, ma l’interno dell’abitazione era nel silenzio piú totale. La Scimmia fece scorrere
l’uscio con un colpo secco:
– Ti ho detto di aprire e se non lo fai io entro lo stesso!
In quel momento la Spranga le si abbatté sulla fronte.
– Chi è che picchia sulla testa della gente? Brr, ma che freddo fa! – disse la Scimmia, si
avvicinò al bordo del focolare e soffiò sulla fiamma.
Fu allora che l’Uovo balzò fuori.
– Ahia! Scotta! – gridò la Scimmia riparandosi con due zampe, ma cadde a terra e l’Ago le si
infilò nel buco del sedere.
– Brucia, che male! Il miso è un toccasana per le scottature! – disse la Scimmia e si precipitò
al mastello del miso, cercando di spalmare l’impasto sulle bruciature; ma per sbaglio lo mise in
bocca e lo ingoiò.
Cosí masticò anche lo Scarabeo Amaro.
– Ah, che amaro, che amaro! – esclamò e di getto infilò la testa nella giara dell’acqua dove la
Forbicina le recise l’unica lingua che possedeva!
– Qui non è il caso di pensare al Fagiano, sono io a essere attaccata! – disse la Scimmia
tentando di filarsela di gran carriera ma, in quello stesso momento, calpestò lo Sterco Fresco,
scivolò e sbatté a terra.
– Ecco, questa è la sconfitta dell’avida Scimmia! – disse il Mortaio precipitandole addosso giú
dal soffitto.
Fatta vendetta, storia finita.

Iwate, Hienuki.
Luna e Stella
C’era una volta una matrigna. La figliastra si chiamava Luna, mentre la figlia nata dal suo
matrimonio si chiamava Stella. La matrigna detestava Luna, ma Stella era una ragazza di indole
generosa e premurosa nei riguardi della sorella maggiore.
Un giorno il padre partí per un lungo periodo di servizio presso il potere centrale. Dopo la sua
partenza, la matrigna pensò che quello fosse il momento propizio per uccidere Luna. Preparò
dunque dei manjū: in quello di Luna mise del veleno ottenuto polverizzando pistilli di girasole
cresciuto sul greto di fiume, a Stella preparò un comune manjū dolce. Poi disse:
– Stella, quello di tua sorella è un manjū avvelenato, non mangiarlo scambiandolo con il tuo.
Stella si spaventò ma, con aria indifferente, disse:
– Sorella, andiamo a giocare fuori!
Portò fuori Luna e le disse:
– Sorellina, ti dò metà del mio, il tuo manjū è avvelenato, non mangiarlo!
Poi glielo fece buttare via nella macchia di bambú dietro la casa. Giunsero dei passeri a
beccarlo, ma il veleno fece effetto ed essi morirono svolazzando tutt’intorno. Le due fanciulle,
terrorizzate a tale vista, sbiancarono in volto.
Verso sera, mentre la matrigna pensava che a quell’ora Luna fosse morta per effetto del
veleno, le due ragazze tornarono a casa come se nulla fosse accaduto. La matrigna non riuscí a
capacitarsene.
La volta successiva progettò di uccidere la ragazza sospendendo un mortaio di pietra alla
trave in corrispondenza del luogo ove la fanciulla dormiva. Poi disse alla figlia:
– Stella, stanotte ucciderò tua sorella facendo precipitare il mortaio dal soffitto, non dirlo a
nessuno.
Stella rispose:
– Sí, sí, mammina, non dirò niente!
Finse poi di andare a dormire, chiamò Luna in un angolo nascosto e le disse:
– Sorella, la mamma sta escogitando una diavoleria per ucciderti. Stanotte vieni a dormire
insieme con me.
Poi collocò una zucca riempita di rosso d’India al posto di Luna e ci stese sopra le coperte,
facendo in modo che sembrasse Luna addormentata. A notte fonda, l’ignara matrigna recise la
fune che legava il mortaio al soffitto; il mortaio cadde e produsse un rumore come se Luna fosse
stata schiacciata. Il rosso d’India schizzò sul viso della matrigna:
– Ah, con questo quella odiosa è andata, mi sento piú serena!
Infinitamente felice se ne andò poi a dormire.
Il mattino dopo si svegliò piú presto del solito, preparò la colazione e chiamò:
– Luna, Stella! La colazione è pronta! Svegliatevi e venite a mangiare!
Le sorelle risposero di sí e si presentarono in due come di consueto. La matrigna rimase
annichilita: «Com’è possibile? È chiaro che non posso limitarmi a cose dappoco come ho fatto
fino ad oggi! Non resta che abbandonarla fra i monti!»
Pagò poi profumatamente un tagliapietre affinché costruisse un sarcofago, e in tono duro disse
le sue ragioni:
– Stella, Luna è una figlia inutile a questa famiglia. Ho pensato di abbandonarla sulla
montagna, chiusa in un sarcofago, ma non devi parlarne a tuo padre!
– Sí, sí, perché dovrei raccontare quel che fai tu, mammina? – rispose Stella.
Poi, fingendo di andare a giocare, si recò dal tagliapietre e gli chiese un favore:
– Vi prego, aprite un piccolo buco sul fondo del sarcofago in cui metterete mia sorella!
Il tagliapietre acconsentí con garbo e praticò un piccolo foro sí da non far capire nulla alla
matrigna.
Venne il momento di abbandonare Luna. Stella le disse:
– Sorella, qui dentro ho messo dei semi di rapa. Strada facendo, lascia cadere da questo buco i
semi un po’ alla volta. Quando arriverà la stagione della fioritura, verrò a salvarti seguendo la
traccia dei fiori.
Le fece cosí nascondere il sacchetto di semi, dei chicchi di riso abbrustolito e dell’acqua.
Luna, dentro il sarcofago, venne portata in spalla per monti, valli, e ancora monti. Cammina,
cammina, cammina, giunsero fra gli anfratti montani dove, scavata una fossa, venne seppellita.
Giunse la primavera. Gli uccelli gorgheggiavano e i prati erano in piena fioritura. Era giunto
anche il tempo che Stella andasse a salvare Luna. Un giorno disse:
– Mammina, mammina, vado in montagna a raccogliere trifogli, potresti preparare dei
nigirimeshi?
Se li fece preparare e aggiunse:
– Io sono una gran mangiona… – e ne portò anche per la sorella, insieme con un’accetta presa
dal falegname. Poi si avviò. Alle pendici dei monti le piante di rapa erano in piena fioritura. Il
sentiero fiorito proseguiva dritto, verso l’interno dei monti. Seguendolo, Stella attraversò monti e
valli chiamando la sorella finché, cammina cammina, trovò un punto dove la fioritura si
allargava come in un cerchio. Oltre quel punto non si vedevano piú fiori di rapa.
«Ecco, deve essere qui che è sepolta mia sorella», pensò Stella, e scavò con l’accetta fino a
che questa urtò contro qualcosa con un suono sordo. Era il sarcofago di pietra.
Stella per la gioia gridò:
– Sorellina, sorellina! Stella è venuta a salvarti!
Dall’interno provenne una flebile voce:
– Aah, sei tu Stella…
– Sei viva sorella? – diceva Stella mentre scavava con tutte le sue forze. Da un angolo del
sarcofago spuntava un lembo di obi rosso. – Ecco, è questo! – esclamò Stella e, aggrappandosi
alla fessura con tutta la forza possibile, spalancò di colpo il pesante coperchio. – Ah, quanto mi
sei mancata! Sei ancora viva, sorella? – chiese aiutandola a sollevarsi.
Luna, dopo i lunghi mesi trascorsi a piangere, era diventata cieca. Si aggrappò alla sorella
continuando a piangere:
– Ah, sei tu, Stella!
Allora avvenne il miracolo: le lacrime che scorrevano dall’occhio sinistro di Stella caddero in
quello destro di Luna e quelle che scorrevano dall’occhio destro di Stella caddero in quello
sinistro di Luna e i due occhi della ragazza si aprirono.
– Ah! I tuoi occhi vedono! – esclamò Stella. Nutrí poi la sorella offrendole i nigirimeshi che
aveva portato con sé, la dissetò con l’acqua di fiume di valle finché quella si fu rifocillata.
Luna si era ripresa, ma le due fanciulle piangevano incerte sul da farsi:
– Ormai non possiamo tornare a casa, che cosa faremo d’ora in poi?
Proprio in quel frangente passò di là il signore del luogo con la sua scorta, di ritorno dalla
caccia al cervo. Vide le sorelle in lacrime e domandò:
– Perché piangete?
Udito il racconto dell’accaduto, anche il signore provò grande compassione e le condusse con
sé a palazzo.
Trascorsero i mesi. Un giorno Luna e Stella stavano guardando in strada quando ecco
giungere un vecchio mendicante cieco che, accompagnandosi con una piccola campana
tintinnante, recitava una specie di nenbutsu:
Dove sono la Luna e la Stella,
insostituibili col cielo e la terra?
Se ci fossero Luna e Stella,
non suonerei questa campanella!
– Non sarà nostro padre quello? L’aspetto è da mendicante ma la voce è la sua! – si dissero le
due ragazze correndo a cingerlo da entrambi i lati. Era proprio il padre, divenuto cieco a forza di
piangere per nostalgia di Luna e Stella. Scoprirono cosí che, tornato dal suo lungo viaggio e non
avendole trovate, girava pellegrino di paese in paese domandando se fossero ancora vive in
qualche luogo. Piangevano tutti e tre, il padre e le sorelle. E avvenne il miracolo: le lacrime di
Luna scorrevano nell’occhio sinistro del padre, quelle di Stella scorrevano in quello destro, e
l’uomo riacquistò la vista. I tre tornarono a palazzo al colmo della felicità. Il signore, informato
di tutta la storia, li tenne presso di sé, assicurando loro una vita agiata per sempre e per sempre.
La nostra storia termina cosí.

Iwate, Hienuki.
Il fuso della yamanba
C’era una volta un cacciatore. Mentre a notte fonda stava ritornando a casa lungo una strada
di montagna, si accorse che su un albero poco lontano una vecchia dai capelli bianchi, che poteva
avere circa ottant’anni, stava filando alla luce di una lanterna di carta. La cosa gli parve sospetta
e allora tirò un colpo di fucile mirando alla donna. Questa però scoppiò a ridere malignamente e
non successe nulla.
Tirò un secondo colpo e anche questa volta non accadde nulla. Impensierito tornò a casa e
raccontò il fatto ad un anziano vicino. Questi allora gli disse:
– Non devi prendere di mira la vecchia, ma la lanterna di carta.
Il giorno successivo, l’uomo passò di nuovo per la stessa strada e vide di nuovo la vecchia
che, come la sera prima, appollaiata sull’albero, filava alla luce della lanterna. Questa volta il
cacciatore, come gli era stato detto, sparò un colpo verso la lanterna. Questa si spense e
nell’oscurità si udí un tonfo, come se qualcosa fosse caduto al suolo. L’uomo se ne tornò a casa.
La mattina dopo si recò sul posto e ai piedi dell’albero vide che giaceva, morta, una grossa
civetta vecchia di chissà quanti anni.

Iwate, Hanamaki.
Il ricco Signor Libellula
Un tempo, nel villaggio di Tayama, viveva un uomo molto ricco, detto Signor Libellula. Da
giovane egli era stato un contadino di grande integrità. Divenuto possidente e non avendo alcun
emblema che lo comprovasse, fece richiesta al potere centrale affinché gliene fosse concesso
uno. E ricevette in risposta queste parole:
– Nella tua famiglia c’è tanto benessere da tempo, ma la prima ricchezza sono i figli. Ne hai?
– Sí, – rispose, – Dainichi Nyorai me ne ha concessa una.
1

Ricevette dunque l’attestato del blasone di signore; venne poi chiamata la figlia e portata al
cospetto delle autorità: era una fanciulla bellissima e fu data come concubina a un nobiluomo.
Adesso vi racconterò del ricco signore: da giovane era stato un gran lavoratore. Una volta, lui
e la moglie si erano recati in montagna per il lavoro dei campi e si erano appisolati. Quando la
moglie s’era svegliata, fra la bocca e il naso del marito che dormiva profondamente, stava
svolazzando una libellula. Il marito si era poi svegliato:
– Ho fatto un sogno stranissimo! Al di là di quel campo, alle pendici della montagna, c’era del
sake buonissimo. Ho sognato di berlo ed era ottimo.
– È curioso, sul tuo viso si è posata piú volte una libellula!
Si erano diretti alle pendici della montagna, avevano sentito un piacevole odore di sake, ne
avevano seguito la scia e avevano trovato un torrentello. Il profumo era invitante, l’avevano
assaggiato ed era sake per davvero. Pieni di felicità piú volte ne avevano fatto scorta e piú volte
lo avevano venduto.
Era stato cosí che si erano arricchiti. In seguito, in un punto piú in alto, avevano trovato
dell’oro: i due avevano assoldato molti servi per scavare ed erano cosí divenuti possidenti.
Doveva la sua fortuna ad una libellula, dacché il nome di Signor Libellula.

Iwate, Ninohe.
1. Vedi Glossario.
La pura terra del Jizō
1

Si dice che, tanto, tanto tempo fa, vivessero in una contrada un vecchietto e una vecchietta.
Un mattino, dopo il risveglio, mentre la donna spazzava l’interno della casa e l’uomo puliva il
doma, cadde in terra un fagiolo di soia.
– Ehi, moglie! Ho trovato un fagiolo di soia! Lo seminiamo nell’orto per ricavarne mille semi
o lo pestiamo nel mortaio per farne della farina?
Mentre i due si stavano consultando, il fagiolo di soia, plip, scivolò dalle dita del vecchio e,
ticchete ticchete, rotolando, si andò a infilare in una tana di topi, in un angolo del doma.
– Eeeh? Accidenti, che peccato! Il fagiolo che avevo trovato si è perso! Moglie, moglie!
Presto, va’ a prendere l’accetta!
Scavando scavando nella tana con l’accetta che la vecchietta aveva preso dalla cassa del
legname accanto al focolare, il vecchio, un po’ alla volta, penetrò all’interno.
Avete visto il fagiolo di soia che il nonno ha fatto rotolare?
Avete visto il fagiolo di soia che il nonno ha fatto rotolare?
cantava, procedendo lungo il percorso, quando all’improvviso si imbatté in un Jizō di pietra.
Il vecchietto disse:
– Ascolta, Jizō, non hai per caso visto un fagiolo di soia che questo vecchio ha fatto rotolare?
– L’ho visto e l’ho raccolto, l’ho arrostito e me lo son mangiato.
– Quand’è cosí, me ne torno a casa.
Il vecchio fece per andarsene, ma il Jizō sembrò dispiaciuto:
– Nonno, nonno, aspetta, in cambio di quel fagiolo di soia, farò qualcosa per te.
– Se è cosí, dimmi cosa.
– Procedi verso l’interno e troverai uno shōji rosso. Lí ci sono dei topi che stanno preparando
una cerimonia nuziale. Va’ e datti da fare con il mortaio. Poi procedi oltre e arriverai a uno shōji
nero. Troverai dei dèmoni che giocano a carte. Va’, fa’ il verso del gallo e prenditi l’oro.
– Ho capito, grazie, – e il vecchietto, proseguendo verso l’interno, come aveva detto il Jizō,
trovò lo shōji rosso.
– È permesso? – disse sporgendosi, e dall’interno uscí la sposa topina che gli chiese:
– Per cosa siete venuto, nonno?
– C’è un matrimonio, cosí sono venuto ad aiutarvi a pestare il riso nel mortaio.
– Ah, siete arrivato proprio al momento giusto! Entrate, presto, e dateci una mano! – disse la
topina e fece entrare il nonnino in casa.
Il vecchio entrò e vide che la casa era un posto sfarzoso: nella prima sala da banchetto c’erano
stoviglie di lacca cinabro e un braciere di bronzo. Nella seconda sala erano dispiegati tanti
kimono di seta. Entrando nella terza sala, vide dei topolini che, messo dell’oro in un mortaio,
pestavano e cantavano:
Yeh hao, yeh hao!
Nessun miao
udir vogliam!
Il vecchio si avvicinò e li aiutò a pestare l’oro nel mortaio. I topi, molto soddisfatti, gli
donarono una grande quantità di bellissimi kimono di seta vermiglia. Portandoli con sé, il
vecchietto si inoltrò all’interno e si diresse verso lo shōji nero. Una folla di dèmoni, pit pat,
giocava a carte. Il vecchietto, per non farsi vedere, si arrampicò sulle travature della stalla; poi,
fattasi notte fonda, flap flap, si mise a battere le braccia coperte da un mantello di paglia contro il
petto e fece chicchirichí.
– Questo è il primo gallo? – dissero i dèmoni. Il vecchio aspettò un pochino e poi di nuovo,
flap flap, batté le braccia contro il mantello di paglia e fece chicchirichiií.
E i dèmoni chiesero:
– Questo è il secondo gallo?
Il vecchio dopo un po’, ancora un volta, flap flap, batté sul mantello e fece chicchirichí.
E i dèmoni stupiti:
– Ma è il terzo gallo, s’è già fatta l’alba! – e, lasciando tutto l’oro sparpagliato, presero a
scappare in un fuggi fuggi generale.
Allora il vecchio scese piano piano dalla trave della stalla, raccolse l’oro e se lo portò tutto a
casa. Poi lui e la vecchietta, smessi gli abiti stracciati che avevano, indossarono i kimono di seta
ricevuti in dono dai topi e, tutti contenti, pesarono il denaro facendolo scorrere a piene mani.
Giunse una vecchia vicina di casa.
– Ci siete? Mi dareste un po’ di fuoco? Eeeh? Com’è che siete cosí contenti?
A queste parole i due vecchi risposero:
– Guarda, questo e questo! – e le mostrarono le vesti scarlatte e l’oro.
– Che invidia! Bene, torno subito a casa e mando il mio vecchio anch’io! – disse la vicina e se
ne tornò in fretta. Poi, come avevano fatto i vicini, la donna spazzò l’interno della casa e l’uomo
pulí il doma ma, chissà come mai, il fagiolo di soia non saltò fuori. Allora il vecchio disse a gran
voce:
– Moglie, moglie, presto, portami un pugno di fagioli da quel cesto di paglia.
Infilò poi nella tana dei topi i fagioli che la moglie aveva portato, cominciò a scavare il
terreno con l’accetta ed entrò nella tana. Come gli era stato indicato dal vicino, proseguí per un
tratto e trovò un Jizō in pietra seduto. Gli chiese:
– Per caso sono rotolati qui dei fagioli di soia?
Il Jizō rispose:
– Sí, sí, li ho presi e li ho mangiati.
– Ma che vai dicendo, cavolo di un Jizō! È questo il modo di prendere per i fondelli la gente
mangiando i fagioli degli altri? In cambio, dammi dei kimono di seta e dell’oro!
Il Jizō, con espressione offesa, diede al vecchio le stesse indicazioni che aveva dato al suo
vicino di casa.
Chi sottratto i miei fagioli avrà
il maltolto rimborsar dovrà
canterellava il vecchio strada facendo, e dopo poco trovò lo shōji rosso e i topini che pestavano
l’oro nel mortaio e cantavano:
Yeh hao, yeh hao!
Nessun miao
udir vogliam!
Il vecchio dette una sbirciatina e, come il vicino, vide kimono vermigli, vasellame di lacca
cinabro e oro. Bramoso di tutte queste cose, pensò che, se avesse imitato la voce del gatto,
avrebbe potuto portarsi via tutti i tesori e a gran voce fece: miao, miaaao. In un attimo la dimora
dei topi, fino a quel momento luminosa, sprofondò d’improvviso in un’oscurità totale, come se
avessero soffiato sulle lampade, e tutto svaní. Il vecchio, meravigliato, proseguí carponi finché
giunse allo shōji nero. Sentí un rumore, pit pat, e, chiedendosi cosa fosse, sbirciò: erano i dèmoni
che, accalcati, giocavano d’azzardo. Ricordandosi quello che gli aveva detto il Jizō di pietra, per
non farsi vedere si arrampicò sulle travi della stalla e si nascose. Poi, fattasi tarda notte, battendo
le braccia contro il mantello di paglia, flap flap, urlò con quanto fiato aveva:
– Ehi, sono il primo gallo!
I dèmoni rimasero attoniti:
– Ma cos’è questo?
Il vecchio ripeté a gran voce:
– Ehi, sono il secondo gallo!
I dèmoni rumoreggiarono:
– Ma questo cos’è? – E il vecchio, lasciandoli ancora piú stupefatti e convinto di cacciarli via,
gridò di nuovo:
– Sono il terzo gallo!
– Ma quella è la voce del finto gallo della notte scorsa che si è rubato il nostro oro e stanotte è
ancora qui! Catturiamolo! – dissero questa volta i dèmoni e si arrampicarono sulle travature della
stalla con tale foga che alcuni di loro si impigliarono con le narici nei ganci e rimasero sospesi
penzoloni.
Il vecchio a tale vista scoppiò a ridere a gola piena e i dèmoni gridarono:
– Non lasciamocelo scappare! – e, tutti insieme, lo afferrarono.
– Questo vecchio anche ieri ci ha portato via tutto il nostro oro! – e giú botte a non finire,
tanto che il corpo dell’uomo si coprí di sangue. Tuttavia, piangendo piangendo, riuscí a
svignarsela.
La vecchia, udendo i lamenti del marito, disse fra sé: «Eh? Forse il mio vecchio canta una
canzone perché sta arrivando con le vesti di broccato vermiglio!» e, toltisi gli stracci che
indossava, li gettò nel fuoco e si mise ad attenderlo completamente nuda.
A fatica, il marito sgusciò fuori dalla tana lamentandosi. E cosí fu che il cattivo vecchio
rimase lí coperto di sangue e gli abiti della cattiva vecchia bruciarono tutti.

Iwate, Kamihei.
1. Vedi Glossario.
Il calderone della fortuna
Vivevano in una regione un vecchio e una vecchia. La loro casa era povera e il vecchio ogni
giorno si recava in montagna a raccogliere legna da bruciare e la portava in città per venderla.
Cosí si sostentavano alla giornata.
Un giorno il vecchio, salendo come sempre verso la montagna, incontrò tre bambini del
villaggio che, catturata una volpe, la stavano riducendo in fin di vita. Il vecchio fu preso da
compassione.
– Ehi, ehi, bambini! Che state facendo? Non si può trattare un essere vivente con tale crudeltà.
Me la vendete? – e consegnò a ogni bambino una monetina di rame.
– È vostra, nonno, ve la diamo, – dissero i bambini contenti e consegnarono al vecchio la
corda a cui era legato il collo della volpe.
– Ah, che carina, che carina! – diceva il nonno mentre la portava con sé verso la montagna. –
Non so quali siano i tuoi monti, ma da oggi durante il giorno sta’ alla larga dal villaggio e fa’
attenzione a non farti catturare da bambini come quelli. Presto, tornatene alla tua tana, –
l’ammoní; poi, delicatamente, la lasciò andare verso una boscaglia.
Anche il giorno successivo il vecchio si recò in montagna. E la volpe del giorno prima si fece
viva:
– Nonno, nonno, grazie a voi ieri ho avuto salva la vita! Quanto vi sono debitrice!
Il vecchio disse:
– Oh, oh, tu sei la volpe di ieri! Non ti ho salvata aspettandomi favori da te. L’ho fatto solo
perché mi facevi pena e non ho bisogno di nulla in cambio. Anche se sei solo un animale, mi hai
ringraziato e questo mi basta. Piuttosto, anziché stare allo scoperto, che potresti cadere di nuovo
nelle mani dei ragazzi del villaggio, presto, rientra nella tana!
La volpe piangendo si rannicchiò accanto al vecchio.
– Nonno, allora farò cosí. Proprio al tempio del villaggio qui sotto sono in difficoltà perché
non hanno un calderone. Mi trasformerò in quello. Sarò un po’ pesante, ma voi mi porterete lí,
mi venderete all’abate e guadagnerete del denaro. Va bene?
Cosí dicendo la volpe arrotolò la coda, kurukuru, girò tre volte su se stessa e in un momento si
trasformò in un calderone di bronzo di eccellente fattura. E quando il vecchio provò a batterne il
bordo con le nocche, produsse un magnifico suono metallico.
Stando cosí le cose e non potendolo lasciare lí dov’era, il vecchio portò il calderone al tempio.
– Sebbene sia stato acquistato dai miei antenati, vorrei venderlo.
L’abate del tempio, non appena lo vide, lo volle. Disse che era un po’ caro, trattò il prezzo e
lo comprò per tre ryō d’oro. Il vecchietto, che fino ad allora non aveva mai visto tanto denaro,
tutto contento se lo mise in tasca e tornò a casa.
L’abate frattanto era tutto giulivo per aver messo le mani su quel calderone che tanto gli
piaceva.
– Novizio, spargilo ben bene di sabbia e dagli una lucidata! Domani si chiama un artigiano e
si fa fare una fornace, – ordinò. Il monaco fece rotolare il calderone attraverso la porta delle
cucine e prese a strofinarlo con la sabbia.
E il calderone parlò:
– Novizio, mi fai male, mi fai male, strofina delicatamente!
Il monaco sbalordito cercò scampo nelle cucine:
– Abate, abate, quella pentola parla!
– Ma cosa vai dicendo? Quello è il suono del calderone. A te è sembrato che parlasse. I buoni
calderoni differiscono dagli altri finanche nel suono. Lascialo nelle cucine, – ordinò l’abate.
Il novizio, pur sospettoso, obbedí e fece nuovamente rotolare il calderone dalla sponda del
fiume alle cucine. Ma durante la notte, chissà come e chissà dove, la pentola sparí. E l’abate,
convinto che fosse stato rubato da un ladro nel bel mezzo della notte, non smise di rammaricarsi
per quel calderone davvero eccellente.
Il vecchio, che neppure per sogno sapeva di tali avvenimenti, anche il giorno successivo si
recò in montagna. Di nuovo gli venne incontro la volpe:
– Buongiorno nonno. Ieri, al tempio un novizio mi ha strofinato con la sabbia ed è stata
davvero dura. Oggi mi trasformerò in vostra figlia. Vi recherete subito in città e mi comprerete
un pettine e uno spillone da acconciatura, un obi e un fazzoletto, un grembiule e dei tabi. Poi,
diventerò una bella fanciulla e allora mi condurrete in una casa di piacere della città e mi
cederete ad un alto prezzo. Avanti, presto, avanti!
Il vecchio andò in città come gli era stato detto, cercò gli oggetti che la volpicina gli aveva
chiesto e di nuovo tornò sui monti.
– Avete fatto presto, nonno! Come son belle tutte queste cose! State a guardare, adesso
divento una fanciulla, – e girando tre volte su se stessa, kurukuru, si trasformò in una graziosa
figliola.
Il vecchio si recò in una casa di piacere della città portando con sé la ragazza.
Il proprietario, sentendogli dire: – Questa è mia figlia. È in vendita, – e volendola con sé, tirò
fuori cento ryō e li offrí al vecchio che se ne tornò a casa con il gruzzolo. Anche il proprietario
del resto aveva fatto un affare perché la ragazza alla casa di piacere ebbe un grande successo.
L’anno seguente, nel giorno della festa , la ragazza si recò dal padrone dicendogli:
1

– Da quando sono giunta qui non sono mai tornata al mio villaggio neppure una volta e
desidererei rivedere i miei genitori. Concedetemi un solo giorno.
Il padrone, pensando che fosse giusto, le concesse di tornare, carica di doni, al villaggio. Ma
la ragazza non si fece mai piú vedere alla casa di piacere. Quanto al proprietario, si disse che se
quella figliola, che gli aveva fatto guadagnare molto piú del prezzo con cui l’aveva pagata, ne
aveva abbastanza di quella vita, c’era ben poco da fare e non espose neppure un annuncio per la
ricerca della scomparsa.
Un giorno il vecchio, di nuovo su in montagna, s’imbatté nella volpicina.
– Nonno, nonno, ne è passato di tempo! Come va la salute? Io nella casa di piacere in città ero
sfinita e cosí ho preso un po’ di riposo. Ora sto meglio e voglio ricambiarvi un’altra volta il
favore. Questa volta mi trasformerò in un cavallo e voi mi condurrete presso un ricco signore
lontano da qui e mi venderete. Però questo sarà l’ultimo favore che vi potrò fare in questa vita.
Se dovesse accadere il peggio, voi non lo verrete a sapere e non soffrirete per la mia fine.
Considerate la data di oggi come l’anniversario della mia morte e qualche volta, ricordandovi di
me, celebrate un servizio funebre. Bene, allora diventerò cavallo…
– Fermati! Grazie al tuo aiuto le cose sono cambiate e oggi questo vecchio conduce
un’esistenza agiata. Piú di questo cos’altro potrei volere da te?
Ma mentre stava ancora parlando, la volpe si era già trasformata in una splendida puledra. E
al vecchio non restò che condurla presso un lontano signore, venderla per cento ryō e tornare a
casa con il denaro.
Proprio in quel periodo ci fu una richiesta di cavalli e la volpe-puledra venne destinata a
2

trasportare un dignitario e due grandi casse attraverso lunghissimi valichi montani. Ma, checché
se ne dica, essendo in realtà una piccola bestiola, le sue energie ben presto vennero meno, il
sudore le scorse copioso e non poté proseguire.
– Ecco quello che succede con i cavalli non avvezzi! – dissero con gran disprezzo quelli della
carovana. La volpe crollò al suolo e quelli, dicendo che non c’era nulla da fare, l’abbandonarono
ai margini di una palude, trasferirono il dignitario e il carico su di un altro cavallo e proseguirono
il viaggio attraverso i monti. Dopo che tutti si furono allontanati, la volpe-cavalla scomparve
chissà dove senza lasciare tracce.
Il vecchio, divenuto grazie alla volpe il piú fortunato e ricco signore della regione, non
dimenticò mai le sue ultime parole. All’interno della propria residenza fece erigere uno splendido
padiglione commemorativo e qui, il diciannovesimo giorno di ogni mese, l’uomo e la consorte si
raccoglievano in preghiera per la futura vita della volpe.

Iwate, Kamihei.
1. Il termine giapponese sekku (rito o festività annuale) si riferisce alle principali feste originate in Giappone o importate
dall’India e dalla Cina. In questo caso, potrebbe riferirsi al cosiddetto Onna no ko sekku («festa delle bambine»), il terzo
giorno del terzo mese dell’anno, o all’Obon, la cerimonia in onore dei morti che, secondo il computo tradizionale del
tempo, cade il quindicesimo giorno del settimo mese lunare.
2. Si tratta dei cavalli che venivano forniti alle stazioni di posta in occasione di viaggi ufficiali compiuti da funzionari o
dignitari.
Il villaggio degli usignoli
Tanto tempo fa, ai piedi di un monte, viveva un giovane taglialegna. Un giorno salí in
montagna e, in un bosco che sorgeva al centro di una vasta distesa d’erba, trovò un maestoso
palazzo che mai aveva visto prima. Il taglialegna si guadagnava da vivere tagliando alberi nella
zona, ma di una dimora come quella non sapeva nulla, e non ne aveva neppure mai sentito
parlare. Preso da curiosità, si avvicinò pian pianino. Il profondo silenzio poco si confaceva alla
grandiosa struttura del palazzo e non si vedeva l’ombra di anima viva. Solo, in fondo, in un vasto
giardino quasi immerso nella foschia, tanti fiori erano in boccio e si udivano cantare gli uccelli.
Il taglialegna si affacciò all’ingresso della dimora. Ne uscí una donna bellissima che gli
domandò:
– Che cosa siete venuto a fare?
– Oggi è una giornata cosí bella da attirarmi fin qui, – le rispose il giovane. La donna osservò
con attenzione il suo volto e, resasi conto che si trattava di una persona onesta, disse:
– Siete giunto proprio al momento giusto. Ho un favore da chiedervi.
– Cosa vorreste chiedermi?
– È solo che, data la bella giornata, anch’io vorrei andare in città. Potreste custodire la casa
nel frattempo?
Il taglialegna accettò subito:
– È una cosa da niente.
La donna aggiunse:
– Bene, però in mia assenza non dovrete guardare nelle stanze attigue.
L’uomo promise e la donna uscí serena.
Il taglialegna rimase solo. Non riusciva però a trattenere la sua curiosità per le stanze che la
donna gli aveva proibito di guardare. Alla fine venne meno alla promessa fatta, fece scorrere i
fusuma e guardò nella sala attigua. Vi trovò tre graziose fanciulle che facevano pulizia. Appena
lo videro, le tre ragazze si nascosero come uccellini in volo. Il taglialegna rifletté sulla stranezza
della cosa, poi provò ad aprire la seconda stanza. Qui c’era un bollitore per il tè dove l’acqua
bolliva gorgogliando sopra un braciere di bronzo e intorno spirava una leggera brezza profumata.
C’era anche un paravento d’oro cinese, ma non si vedeva nessuno. Aprí la terza stanza: c’erano
molti archi e frecce e armature allineate. La quarta sala era una stalla e dentro vi era un robusto
cavallo scalpitante, dal manto lustro e scuro, con una sella rilucente d’oro e redini di broccato
damascato, la criniera al vento come i filari di cipressi battuti dalla tempesta sulle vette del
Miyama. Nella quinta stanza erano esposti vasellame di lacca cinabro e piatti di Nanchino. Nella
sesta stanza l’uomo trovò un mestolo d’oro poggiato in un secchio di platino. Da un secchio
d’oro gocciolava sake che andava a riempire sette giare sottostanti. Il taglialegna, non potendo
resistere al profumo del sake, ne bevve dal mestolo d’oro e si ubriacò sentendosi al settimo cielo.
La settima stanza era una grande sala di colore blu, dove aleggiava un profumo di fiori. In
essa vi era un nido di uccellini. Nel nido c’erano tre piccole uova. Senza pensarci, il taglialegna
ne prese uno, ma per sbaglio lo lasciò cadere e l’uovo si ruppe. Ne uscí un uccellino che volò via
pigolando. L’uomo lasciò cadere anche il secondo e il terzo uovo e anche questa volta uscirono
due uccellini che volarono via pigolando. Il taglialegna rimase attonito lí in piedi.
In quel momento tornò la donna. Guardandolo in volto, scoppiò in un pianto disperato:
– Non c’è nessuno piú inaffidabile degli esseri umani! Avete infranto la promessa e avete
ucciso le mie tre figlie! Oh, che dolore, che dolore… – e, trasformandosi a sua volta in un
usignolo, la donna volò via piangendo.
Il taglialegna la seguí con lo sguardo. Poi, messa da parte l’accetta che portava al fianco,
raddrizzò le spalle. Solo allora si rese conto che il maestoso palazzo era scomparso e che si
trovava solo e attonito in un campo di graminacee.

Iwate, Kamihei.
Il matrimonio delle volpi
Si narra che questa sia una storia di tanto tempo fa.
Kichi di Monja aveva sentito dire che un ricco possidente stava cercando moglie. Un giorno,
mentre se ne andava a spasso verso i campi, all’ombra di un cespuglio scovò delle volpi che
facevano una gara di metamorfosi.
– Ehi, volpi, che cosa state facendo? – esclamò Kichi.
Le volpi, colte di sorpresa, dissero:
– Guarda guarda, non è Kichi?
– Un ricco signore sta cercando moglie. Non potreste pensarci voi con le vostre metamorfosi?
– chiese l’uomo.
Le volpi risposero:
– Se ci offri aburaage e azukimeshi non è cosa difficile!
Fu cosí che Kichi si presentò al cospetto del ricco signore e gli promise i suoi servigi. Preparò
poi aburaage e azukimeshi e tornò dalle volpi per prendere accordi:
– Nel giorno convenuto, organizzate un matrimonio con una trentina di persone e sette cavalli.
Giunse il giorno delle nozze. Il ricco signore si era preparato di tutto punto e attendeva
impaziente perché, nonostante fosse già giunta l’ora, della sposa neanche l’ombra. Solo al calar
della sera si vide approssimarsi dai campi il brillio di una trentina di lanterne. Kichi, nelle vesti
di nakōdo, apriva un vivace corteo matrimoniale composto di cavalli bardati a festa, cassapanche
e arredi di ogni tipo. Il corteo entrò nella residenza del signore: Kichi prese le lanterne di tutti
coloro che passavano attraverso la veranda e le appese via via alla grondaia. Uno sfarzoso
banchetto venne allestito nel salone, fu offerto il sake, si cantò e si danzò. Tuttavia, proprio nel
bel mezzo dei festeggiamenti, nelle cucine vivande e suimono si dileguarono. Quando la festa
volse al termine, il nakōdo Kichi rincasò come alcuni fra gli invitati; altri, intenzionati a fermarsi
per la notte, rimasero lí.
La mattina seguente il ricco proprietario, facendo scorrere le imposte della veranda, venne
colpito al capo da qualcosa che pendeva dalla gronda. Data un’occhiata, vi trovò una trentina di
ossi di cavallo ciondolanti. Chiedendosi cosa mai fosse accaduto, si guardò intorno e notò che vi
erano impronte di volpi dappertutto sul corridoio della veranda. Svegliò la servitú e fece
controllare da ogni parte: tutta la casa era invasa di impronte di volpi e nella sala del ricevimento
non c’era neppure uno degli invitati che si erano trattenuti per la notte. Controllò allora il talamo
nuziale e non vi trovò la sposa addormentata. Sollevò le coperte e apparve una vecchia volpe che
dormiva acciambellata. La bestiola, spaventata, si drizzò e, mentre i servi piú giovani cercavano
di catturarla, scappò fracassando uno shōji della stanza.
Il ricco signore comprese di essere stato ingannato e inviò un giovane servitore a casa di
Kichi, ma il ragazzo trovò solo la madre semicieca.
– Il mio Kichi è andato a fare lo stalliere lontano da qui. Sono passati tanti giorni, ma non è
ancora di ritorno, – disse la donna.
Trascorsero quattro o cinque giorni e Kichi passò per caso davanti alla residenza del ricco
signore trascinando un ronzino e cantando una canzone da stalliere. Il signore gli intimò di
fermarsi e chiese spiegazioni sulla questione della promessa sposa.
– Io sono appena tornato da servizio di stalliere da un posto lontano, neanche per sogno so
qualcosa di un matrimonio di volpi, – rispose Kichi con fare tonto, lasciando di stucco il ricco
signore.
La nostra storia termina qui.
Iwate, Shiwa.
La fanciulla senza braccia
C’era una volta una coppia che si amava teneramente e aveva una graziosa bambina. Quando
la bambina ebbe quattro anni, la madre morí. In seguito il padre si risposò e la matrigna non
riuscí mai a contenere il suo astio nei riguardi della figliastra. Pensava continuamente a un modo
per cacciarla di casa, ma la bambina era cosí amabile che l’occasione non si presentava mai. Gli
anni passarono, la fanciulla compí quindici anni, ma la matrigna, giorno dopo giorno, non faceva
altro che pensare a quanto le fosse odiosa quella figliastra e a come liberarsi di lei.
Venne il giorno in cui la donna disse al marito:
– Per quanto faccia, non riesco a vivere con quella ragazza cosí scaltra. Concedetemi dunque
di congedarmi da voi.
L’uomo, che dava sempre ascolto alla moglie, rispose:
– Non dartene pensiero. Vedrò di fare qualcosa, – e si convinse ad allontanare l’innocente
figlia.
Un giorno disse alla giovinetta:
– Andiamo ad assistere al matsuri.
La fece vestire con un bel kimono, che mai le era stato concesso di indossare, e uscirono.
Era una giornata radiosa e poiché non capitava tanto spesso che il padre la invitasse, la
ragazza uscí piena di felicità. Tuttavia, sebbene si fosse detto che sarebbero andati al matsuri,
attraversarono la montagna e la ragazza, stupita, chiese al padre:
– Padre, dove si tiene la festa?
– Superati due monti, ai piedi di un grande castello, – le rispose l’uomo, proseguendo verso il
profondo interno dei monti. Giunti in una vallata al di là del secondo monte, il padre disse: –
Pranziamo – e i due cominciarono a mangiare dei nigirimeshi che avevano portato con sé.
Mentre mangiava, la fanciulla, non abituata a lunghi percorsi, cominciò a sonnecchiare. Il padre
pensò che fosse il momento opportuno e, con l’ascia che portava alla cintura, amputò entrambe
le braccia della disgraziata figliola, prima la destra, poi la sinistra, quindi si allontanò dal monte
abbandonando la giovinetta che implorava in lacrime:
– Padre, aspettatemi, vi prego, padre, sto soffrendo!
La ragazza, coperta di sangue, lo seguí piangendo e incespicando, ma l’uomo se ne andò
senza voltarsi.
– Oh, quanto sono disgraziata! Perché devo subire una simile atrocità finanche da mio padre?
– si chiese la fanciulla. Poi, non avendo piú una casa alla quale tornare, si deterse con l’acqua di
un torrente le ferite dei monconi e sopravvisse cibandosi di bacche e frutti selvatici.
Un giorno passò di lí un giovane nobiluomo a cavallo scortato dal suo seguito.
– Come, hai un volto umano, ma non hai braccia, chi sei dunque? – chiese il giovine signore,
scoprendo la fanciulla che si nascondeva dentro un cespuglio.
– Sono una ragazza senza braccia, abbandonata anche dal proprio padre, – scoppiò a piangere
la fanciulla.
Il giovane ne chiese il motivo e fu molto commosso dalla storia.
– Comunque sia, è meglio che ti porti con me, – disse, la fece montare a cavallo e lasciarono i
monti. Rientrato alla sua dimora, il giovane disse alla madre:
– Madre, oggi non ho cacciato selvaggina, ma sui monti ho raccolto una ragazza senza braccia
e l’ho condotta con me. È veramente una ragazza sfortunata, lascia che resti presso di noi.
Poi le narrò tutta la storia. La madre, anche lei d’animo gentile, lavò il viso della fanciulla, le
acconciò i capelli, le mise del belletto e cosí la ragazza tornò piacente come un tempo. Anche la
signora ne gioí e le si affezionò come a una figlia.
Trascorso un breve periodo, il giovane pregò la madre:
– Madre, permettetemi di prendere in moglie quella ragazza.
– È la sposa giusta per te, ne ero consapevole già da prima.
Con queste parole la madre autorizzò il matrimonio e le nozze vennero celebrate.
Presto la ragazza seppe di essere in attesa di un bambino. Le due donne trascorrevano giorni
sereni, quando il giovane marito dovette recarsi a Edo. Pertanto pregò la madre:
– Madre, abbiate cura del bambino che deve nascere.
– Non darti pensiero. Non appena il bambino sarà nato, ti invierò un messo, – promise la
nobildonna. Il giovane partí per Edo.
Poco tempo dopo, nacque un maschietto delizioso.
– Figlia mia, informiamo tuo marito a Edo il piú presto possibile, – disse la suocera e scrisse
una lettera che riferiva della nascita del bambino. Poi chiese a un messo che viveva nei paraggi
di portarla d’urgenza.
Il messo attraversò monti e campi e, arso dalla sete, a metà del percorso si fermò presso una
dimora per chiedere dell’acqua. Era proprio la casa d’origine della fanciulla senza braccia. La
matrigna si informò dove l’uomo fosse diretto.
– La moglie senza braccia del signore vicino ha avuto un bambino e io sto recandone notizia
al giovane signore che sta a Edo, – raccontò senza alcun sospetto il messo. La matrigna, resasi
conto che la figliastra era ancora viva, all’improvviso divenne molto cordiale.
– Deve essere una bella fatica arrivare fino a Edo con questo caldo! Riposatevi un po’, – e,
cosí dicendo, serví all’uomo sake e manicaretti.
In men che non si dica, il messo si ubriacò e la matrigna, lesta, estrasse la lettera dalla sacca
dei dispacci e lesse: «È nato un maschio cosí bello che nessun tesoro al mondo reggerebbe al suo
confronto».
– Odioso! – esclamò la donna e riscrisse la lettera: «È nato un tal mostro che è arduo capire se
si tratta di un dèmone o di un serpente».
Poi la introdusse furtivamente nella sacca dei dispacci. Intorpidito dal sake, il messo si
risvegliò frastornato e disse:
– Che eccellente accoglienza!
La matrigna, con un sorriso radioso, rispose con garbo:
– Passate di qui anche lungo la via del ritorno, mi racconterete di Edo.
Quando il giovane signore lesse la lettera consegnatagli dal messo rimase sbalordito. Tuttavia
scrisse in risposta: «Anche se fosse un dèmone o un serpente, abbiatene cura fino al mio ritorno»,
e affidò la lettera al messo. L’uomo non poteva dimenticare l’accoglienza riservatagli dalla
signora della casa dove si era fermato andando a Edo. Sperando in un altro sake di benvenuto, si
fermò lí anche sulla strada del ritorno. La matrigna lo accolse dicendogli:
– Oh, state rientrando ora, con questo caldo? Prego, accomodatevi.
Lo condusse nella sala dei banchetti e lo fece di nuovo ubriacare:
– Prego bevete, prego assaggiate.
Quando il messo si fu addormentato, la matrigna prese la lettera e scrisse: «Non ho alcun
desiderio di vedere la faccia del bambino, ne ho abbastanza anche della ragazza senza braccia.
Cacciatela dunque di casa insieme con il figlio. In caso contrario, resterò a Edo e non farò piú
ritorno».
Poi la infilò nella sacca.
Passata la sbornia, il messo si congedò dalla matrigna e tornò alla residenza del nobiluomo,
riattraversando valli e monti. La madre del giovane signore chiese se ci fosse una risposta, svolse
il plico e vi trovò scritte soltanto parole che non si aspettava.
– È mostruoso! Ti sei fermato da qualche parte durante il tragitto? – chiese al messo che
rispose, mentendo:
– Certo che no! Sono andato spedito come un cavallo e spedito sono tornato!
La nobildonna attese, rimandando ogni decisione al rientro del figlio da Edo. Pensando che
potesse arrivare da un giorno all’altro, non informò la fanciulla della lettera. Tuttavia il tempo
passava e nulla faceva prevedere che il giovane signore stesse per tornare a casa. La donna, non
sapendo cos’altro fare, un giorno chiamò a sé la fanciulla e le raccontò tutto. La ragazza ne fu
costernata e alla fine rispose:
– Madre, è doloroso andarsene senza poter ricambiare ogni amorevolezza che questa ragazza
deforme ha ricevuto da voi, ma se è questo ciò che ha in animo mio marito, non v’è altro da fare.
Me ne vado.
Con l’aiuto della nobildonna si caricò il bambino sulle spalle, poi si congedò da lei e lasciò la
casa con le lacrime agli occhi.
Non avendo un posto dove andare, cominciò a vagare senza meta. Ben presto le venne una
gran sete. Arrivò ad un torrente, si chinò per bere e il bambino fu quasi per scivolarle dalle
spalle.
– Qualcuno mi aiuti! – gridò e, spaventata, fece il gesto di trattenere il figlio con le braccia.
Miracolosamente le due braccia le crebbero all’istante ed ella poté cosí fermare il bambino che
stava scivolando.
– Che gioia, ho di nuovo le mie braccia! – esclamò la ragazza piena di felicità.
Poco dopo il giovane signore tornò da Edo in preda al desiderio di vedere il figlio, la moglie e
la madre, ma venne a sapere che la moglie e il bambino erano partiti. Ne chiese spiegazione alla
madre e venne a sapere strane cose sul conto del messo. Allora lo interrogò e scoprí che gli era
stato offerto del sake nella casa della matrigna.
– Povera figliola, va’ a cercarla piú presto che puoi, – disse la madre, sollecitando il figlio.
Il giovane signore andò in giro a destra e a manca e, nella sua ricerca, giunse ad un santuario
accanto ad un torrente. Vide una mendicante con un bambino in braccio, che pregava
fervidamente. A guardarla di spalle, somigliava molto a sua moglie, ma le braccia le aveva.
Allora il signore provò a chiamarla, incuriosito. Quando la donna si voltò verso di lui si accorse
che la mendicante era proprio sua moglie. Al colmo della felicità, entrambi piansero lacrime di
gioia. Chissà come, dove quelle lacrime cadevano, fiorivano bellissimi fiori e ne sbocciarono
anche fra l’erba e sugli alberi, passo passo, mentre i tre tornavano a casa insieme. La matrigna e
il padre furono invece condannati dal governatore della provincia per il male che avevano fatto
alla fanciulla.

Iwate, Hienuki.
Nonno togliporri
C’erano una volta due nonnetti che avevano sul viso un porro grande come un pugno di cui si
vergognavano. Sperando di liberarsene con una supplica alle divinità, i due si recarono in
pellegrinaggio presso un santuario fra i monti, per trascorrervi tutta la notte in preghiera.
Ad un certo punto, verso la metà della notte, da lontano giunse un debole suono. Pian piano il
suono si approssimò e, prestando attenzione, capirono che si trattava di un’orchestra di flauti,
tamburi e quant’altro. Mentre i due nonnetti si chiedevano che cosa fosse, il suono si avvicinò
fino ai pressi del torii piú esterno:
Tarara tarara
tororo tororo
ton ton ton
ton ton ton!
La musica adesso risuonava per tutto il santuario. Increduli, i due vecchietti stavano per
rincantucciarsi in un angolino quando la porta del santuario si spalancò ed entrarono cinque o sei
tengu tutti insieme, alti circa sei shaku, i visi rossi, i nasi enormi.
Tarara tarara
tororo tororo
ton ton ton
ton ton ton!
Erano loro ad eseguire la musica di accompagnamento, ma solo quella perché non c’era chi
danzasse. Apparentemente stufi del kagura, si incitavano l’un l’altro a ballare, ma non c’era chi
sapesse farlo veramente. Uno dei tengu esclamò:
– Accidenti! – in tono sprezzante e, girandosi di lato in quello stesso momento, sorprese i due
nonnini nascosti.
– Ehi, ci sono dei vecchietti umani! Presto, venite fuori! Che aspettate a mettervi a ballare?
Cosí dicendo afferrò per una manica uno dei due e lo trascinò al centro del gruppo. Il nonnino
già impaurito si mise a tremare. Eppure quella musica era abbastanza accattivante e il vecchietto,
afferrato il ritmo, prese a danzare.
La noce va in pezzetti
e si spa-pacca!
Dov’è la mamma di ’sti ragazzetti?
Chi se ne impippa!
ripeté tre volte cantando e ballando mentre i tengu, molto divertiti, lo incoraggiavano battendo le
mani.
– È una danza molto piacevole però, scusaci, il porro che hai sulla fronte è sgradevole e ti
nasconde le fattezze del viso! Ti togliamo noi quel porro! Davvero ottimo ballerino! – e, con
queste parole, i tengu gli liberarono il viso dal porro.
Il vecchietto sentí il volto improvvisamente alleggerito e si ritirò tutto contento.
Venne poi trascinato nel circolo l’altro vecchietto.
– Bene, tocca a te, prova a ballare! – dissero i tengu facendogli da accompagnamento.
Tarara tarara
tororo tororo
ton ton ton
ton ton ton!
Ma il secondo vecchietto era oltremodo impaurito, il corpo gli tremava tutto e le ginocchia
non lo reggevano. Nondimeno, pressato da tutti e non potendo far altro, cantò:
Pioviggica, pioviggica, non smette, no!
Quando pioviggica cosí, come son giú, oh!
E pur se va cosí, me ne fregherò!
E ballava. Tuttavia, anche se la canzone era accettabile, la voce era distorta dal battere dei
denti e non riusciva a seguire il ritmo. Per di piú era su toni minori e i tengu, che amano
l’allegria, assunsero un’espressione delusa e dissero:
– Dacci dentro ancora un po’!
Ma piú quelli glielo ripetevano, piú il vecchietto si faceva piccolo piccolo finché, patapum,
cadde sui fondelli e finí con lo scoppiare in pianto. I tengu, di pessimo umore, dissero:
– C’è un limite anche alla pusillanimità. Son cosí tremende le nostre facce? Il kagura è
interessante e piacevole e tu sei solo capace di frignare! Non vogliamo imbatterci in un vecchio
come te un’altra volta! Va’, portati il tuo porro a casa! – e gli piazzarono sul naso il porro tolto
poco prima all’altro.
Il vecchietto, allibito, si passò le mani sul naso e vi trovò un enorme porro sotto quello che già
aveva. La sua faccia era diventata grottesca al punto che era impossibile guardarlo due volte!

Iwate, Kamihei.
Il carpentiere e il dèmone
C’era in una regione un fiume che scorreva tumultuoso. Tante volte vi avevano costruito dei
ponti, ma la corrente li aveva spazzati via. Gli abitanti del villaggio, in gran difficoltà, dopo
essersi consultati piú volte, decisero di interpellare un carpentiere perché costruisse loro un
ponte. Il carpentiere acconsentí di buon grado, ma era preoccupato sul da farsi. Si recò al fiume,
si fermò sull’argine e rimase a osservare l’acqua che scorreva quando, dalla spuma, puff, saltò
fuori un dèmone gigantesco che gli domandò:
– A che pensi, carpentiere?
– Devo costruire un ponte, – rispose l’uomo.
E il dèmone di rimando:
– Se mi dai i tuoi occhi, te lo costruisco io.
– Mi va bene, – rispose il carpentiere, e per quel giorno si separarono.
Quando il giorno successivo l’uomo andò al fiume, trovò un ponte costruito per metà. E il
giorno ancora successivo vi trovò un ponte completo. Venne fuori il dèmone e disse:
– Dammi i tuoi occhi!
Il carpentiere spaventato rispose:
– Aspetta! – e se ne scappò su per i monti. Mentre si trascinava senza meta, gli giunse una
flebile voce che canticchiava una cantilena per bambini in lontananza:
Oniroku, trallallà!
presto gli occhi porta qua!
Tornato in sé, il carpentiere rientrò a casa. Il giorno dopo incontrò nuovamente il dèmone, che
gli disse:
– Presto, dammi i tuoi occhi, oppure indovina il mio vero nome!
Il carpentiere acconsentí e disse:
– Chidicosa?
Il dèmone di rimando:
– No, non è questo il mio nome.
– Quellodiche?
– No, non è neppure questo.
Infine il carpentiere gridò a gran voce:
– Oniroku!
Allora il dèmone scomparve in un attimo.

Iwate, Tanzawa.
A pesca con la coda
Nevicava come ogni giorno e la Volpe non riusciva a scendere dai monti giú al villaggio. Lo
stomaco le brontolava in modo insopportabile. In una piccola pausa di sereno poté finalmente
giungere in paese. Mentre camminava lungo la sponda del fiume, ecco venir fuori da sotto il
ghiaccio la Lontra con una carpa fra i denti. La Volpe la chiamò:
– Ehi, signora Lontra!
– Oh, è la signora Volpe! Da quanto non ci si vede! – rispose l’altra.
– Per tutto questo tempo a causa della neve non sono riuscita a scendere al villaggio e sto
morendo di fame. Per favore, dividiamo a metà quella carpa! – chiese la Volpe.
– In tal caso, io la mangerò dalla parte della testa, voi dalla parte della coda, – rispose la
Lontra, ed entrambe, gnam gnam, presero a mangiare.
Quando ebbero finito, la Volpe disse:
– Mi avete veramente salvata, ve ne sono grata. Ad ogni modo, come l’avete catturata?
Insegnatelo anche a me.
La Lontra mentí:
– Non è difficile. Quando di sera il fiume gela, legatevi un ferro di cavallo alla coda e
camminate lungo la sponda. Un buco nel ghiaccio ci sarà pure, infilateci la coda. Le carpe
abboccheranno, voi tirate su la coda e ne prendete quante ne volete!
La Volpe pensò di aver appreso una gran cosa e, durante una sera fredda, raccolse sul sentiero
un vecchio ferro di cavallo, se lo legò alla coda e si mise a camminare lungo la sponda del fiume.
Trovò un foro nel ghiaccio. Ritenendo che fosse quello giusto, ci infilò dentro la coda. Dopo un
po’, improvvisamente sentí qualcosa batterci contro. Stava pensando che una carpa avesse
abboccato quando ecco, all’improvviso, un secondo strattone. Cominciò a contare convinta che
avessero abboccato due carpe ed ecco altri strattoni. Mentre si felicitava con se stessa, si udí il
canto del gallo provenire dalla fattoria vicina. La Volpe pensò che fosse sufficiente e cercò di
estrarre la coda, ma si era congelata e pareva proprio che non volesse venire piú fuori. La Volpe
cominciò a preoccuparsi: in quel momento dalla casa che si destava di buon’ora uscí la moglie
che si recava ad attingere acqua al fiume, portando con sé un mastello. La Volpe tentò con tutte
le forze di estrarre la coda e scappare, ma la donna la vide e, meravigliata, corse in casa urlando
al marito:
– Ehi, c’è una volpe nel fiume!
Accorse il marito portando dal doma un attrezzo per battere la paglia, con l’intenzione di
bastonare ben bene la Volpe, ma colpí invece la lastra di ghiaccio e quella si crepò. Con ciò la
Volpe poté liberare la coda e latrando, uhaaa, balzò via e se ne tornò sui monti.
Dopo che si fu un po’ rincuorata, si guardò la coda chiedendosi quante carpe avessero
abboccato; ma quelle che credeva essere delle carpe, carpe non erano. Al ferro di cavallo stavano
saldamente attaccati tanti pezzi di ghiaccio che non si staccavano a nessun costo. Alla fine, la
Volpe si liberò la coda a fatica, facendo sciogliere il ghiaccio al sole in un posto assolato della
montagna.

Iwate, Shibanami.
Una via d’uscita per la moglie
Un tale pensava che la moglie del vicino fosse piú bella della sua e cominciò a frequentarne la
casa. Sua moglie era molto dedita al lavoro e non si truccava neppure un po’. Un giorno il marito
le disse:
– Sei troppo brutta, vattene!
La moglie, trattandosi di questa ragione e non di un’altra, rispose che sarebbe andata via. Fece
quindi un fagotto delle sue cose, si acconciò i capelli e si truccò. A questo punto diventò di gran
lunga piú bella della vicina. L’uomo immediatamente pensò che fosse un peccato mandarla via.
Terminati i preparativi, la donna si prostrò davanti al marito per accomiatarsi:
– Badate alla vostra salute. Grazie per esservi preso cura di me cosí a lungo, e perdonate il
disturbo che vi ho arrecato.
Poi scese sul doma e fece per uscire. Allora il marito le sbarrò la strada:
– Questa è casa mia, non puoi uscire di qui! Esci da qualche altra parte!
La donna fece per uscire dalla veranda posteriore e immediatamente il marito le sbarrò la
strada:
– Anche qui è casa mia, non puoi uscire!
La moglie, non avendo via di scampo, fece per uscire dalla stanza principale, ma il marito si
fece ancora avanti:
– Anche qui è casa mia, non puoi uscire da qui!
La moglie disse:
– In tal caso non c’è alcun luogo da cui possa uscire!
Il marito ribatté:
– Allora non uscire!
– Volete dire che non devo andarmene? – domandò la moglie e prese a spogliarsi. Da quel
momento il marito smise di frequentare la casa della vicina.

Iwate, Shibanami.
Il Jizō con il cappello di paglia
C’era una volta una povera coppia. Era giunto l’ultimo giorno dell’anno, ma essi non avevano
di che mangiare per trascorrere degnamente la serata, cosí la moglie propose al marito:
– Scambiamo con del riso la pallina di seta che abbiamo filato con tanta cura.
L’uomo si diresse verso la città con la sua pallina di seta.
– Pallina di seta, pallina di seta, chi vuole una pallina di seta? – vociava, andando piú volte su
e giú tra la zona collinare e la parte bassa della città.
C’era il mercato di fine anno, ma la pallina di seta non attirava nessuno. Ciononostante,
l’uomo continuò a camminare per la città fino a sera dicendo:
– Pallina di seta, pallina di seta, chi vuole una pallina di seta? – ma non trovò nessuno che
volesse comperarla.
Non potendo fare altrimenti, pian piano se ne stava tornando verso il centro quando ecco
venire dalla direzione opposta un vecchio venditore che diceva:
– Cappello, cappello, chi vuole un cappello di paglia?
– Una pallina di seta, pallina di seta!
– Un cappello di paglia, cappello! – gridavano i due e, incrociandosi, si guardarono in viso.
Raddrizzando un po’ la schiena, il vecchio rivolse la parola all’altro:
– Come va giovanotto, non riuscite a vendere, eh?
– Non va proprio come speravo, – rispose il giovane sorridendo.
Il vecchio, con il volto oscurato, replicò:
– Già, sembra che cappelli di paglia e palline di seta poco si confacciano al mercato di fine
anno. Anch’io cammino da stamattina e ho perso la voce, ma sembra proprio che non riesca a
vendere.
– Se fossero pesce o riso, tutti li vorrebbero, – rispose l’altro, guardando serenamente la
merce venduta di volata nelle botteghe ai due lati della strada, e scoppiò in una risata.
– C’è poco da ridere. Sentite giovanotto, non so chi siete e da dove venite, ma non vi servirà a
niente riportarvi a casa stasera quella pallina di seta invenduta. Che ne pensate, la scambiereste
con il mio cappello? In tutta onestà, neanch’io stasera ho voglia di riportarmi a casa questo
copricapo, – propose il vecchio venditore.
«Già, proprio cosí», pensò l’altro e scambiò la sua pallina di seta con il cappello. Dopodiché
si avviò verso casa trascinandosi stancamente.
Strada facendo passò accanto a una vasta distesa d’erba. Cominciò a nevicare e, per di piú, la
neve si trasformò in bufera. L’uomo proseguí a fatica finché raggiunse un Jizō nudo a metà del
campo.
– Con questo gelo, nudo, in piedi in mezzo alla neve, sai che freddo, povero Jizō! – disse
l’uomo fra sé e sé e coprí il capo del Jizō con il cappello che aveva scambiato con la pallina di
seta. Poi ricominciò il suo tragitto verso casa, trascinandosi a mani vuote.
La moglie, immaginando che prima o poi il marito sarebbe tornato con del riso, aspettava a
casa facendo preparativi per la cena del Capodanno.
Si era fatto buio quando il marito tornò a mani vuote e le raccontò in dettaglio:
– … alla fine, non sono riuscito a vendere la pallina di seta. Allora l’ho scambiata con il
cappello di un vecchio venditore di cappelli di paglia, ma poi con quel cappello ho coperto la
testa di un Jizō di pietra che stava in mezzo ad un campo.
La donna ascoltò la storia in silenzio, poi confortò il marito:
– Anche se tu avessi portato il cappello a casa, non sarebbe valso a niente per questa sera.
Quindi hai fatto proprio bene a regalarlo almeno al Jizō!
Ma anche a prenderla cosí, c’era poco da stare allegri e i due se ne andarono presto a dormire.
La coppia si svegliò di soprassalto: fuori infuriava la bufera ma, ai rumori della tormenta, si
intervallava un ooh, issa, ooh, issa, come se qualcuno portasse qualcosa in spalla. Chiedendosi
che cosa stesse accadendo a quell’ora, i due porsero orecchio, e poi presero a raccontarsi una
storia per scacciare la paura. Il rumore a poco a poco si avvicinava e sembrava quasi dirigersi
verso casa loro. «Che strano», pensarono i due; sollevarono la testa e udirono un vocione che
diceva:
– Molte grazie per ciò che hai fatto oggi.
Poi, sembrò che qualcuno lasciasse cadere qualcosa di pesante all’entrata.
I due si alzarono e andarono a vedere: sull’ingresso c’era un grosso sacco e in mezzo alla
tormenta un grande Jizō di pietra si allontanava con passo pesante. La coppia aprí il sacco: era
pieno di monete e monetine d’oro.

Iwate, Esashi.
La canzone dello scheletro
C’erano una volta, Shichibee-di-su e Shichibee-di-giú, due buoni amici. Un giorno i due si
consultarono e decisero di andarsene in un altro paese a far fortuna. Shichibee-di-giú lavorò
duramente e risparmiò molti quattrini. Shichibee-di-su, invece, entrato a far parte di una banda di
loschi figuri, commise solo misfatti. Trascorsero tre anni e Shichibee-di-giú decise di tornare al
suo paese, cosí chiese a Shichibee-di-su di tornare anche lui. Quello gli rispose:
– Voglia ne avrei tanta, ma non ho neppure un vestito da mettermi.
Poiché erano partiti dal villaggio insieme, lasciar lí l’amico non era ben fatto. E tornarsene da
solo non gli andava. Cosí, Shichibee-di-giú gli regalò un kimono, gli pagò il viaggio e decisero
di tornare assieme. E insieme partirono. Ma giunti al valico di confine con il loro paese,
Shichibee-di-su uccise Shichibee-di-giú, gli rubò il denaro e se ne tornò al villaggio facendo finta
di nulla. Al villaggio, Shichibee-di-su ingannava la gente con questo racconto:
– Shichibee-di-giú era completamente cambiato. Dopo la partenza ha commesso solo misfatti
e alla fine non aveva il denaro per il viaggio di ritorno, per questo non è tornato.
Trascorse un breve periodo e Shichibee-di-su ricominciò a giocare d’azzardo e spese tutto il
denaro che aveva rubato a Shichibee-di-giú. Non potendo piú rimanere al villaggio, partí
nuovamente. Giunto al valico dove aveva ucciso Shichibee-di-giú, udí una voce che da qualche
parte lo chiamava:
– Shichibee, Shichibee.
Chiedendosi chi potesse essere, l’uomo si guardò alle spalle, ma non c’era nessuno. Pensò che
fosse una fantasia e ricominciò a camminare, ma di nuovo si sentí la voce:
– Shichibee, Shichibee.
«Bah! Che cose strane succedono!» si disse, e prestò attenzione: la voce proveniva da un
cespuglio sul ciglio della strada. Shichibee-di-su, perplesso, esaminò il cespuglio e vi trovò uno
scheletro che ridacchiava con i suoi sporgenti denti bianchi. Shichibee restò ammutolito e lo
scheletro disse:
– Eh amico mio, ne è passato di tempo. Ti sei dimenticato di me? Sono Shichibee-di-giú, che
tu hai ammazzato qui tre anni fa, a colpi di spada, e derubato anche del denaro faticosamente
risparmiato. Da allora ho atteso, giorno dopo giorno, pensando che forse sarebbe arrivato quello
in cui t’avrei incontrato. La mia preghiera è stata esaudita proprio oggi, ho potuto rivedere la tua
faccia. Non c’è felicità piú grande!
Shichibee-di-su, terrorizzato, cercò di battersela, ma lo scheletro lo afferrò per una manica
con la sua mano fatta solo di ossa e non lo mollò. Poi gli domandò:
– Tu, dove sei diretto?
Shichibee-di-su, non potendo far altro, rispose:
– Sono stato al villaggio, ma sono rimasto senza denaro; nella speranza di guadagnare sto
partendo di nuovo. Ora che sono riuscito ad andarmene vorrei risparmiare anche i minuti,
lasciami!
– Capito, sei sempre il solito. Allora, che ne pensi, se danzerò per te, mi porterai dietro? Basta
che mi sistemi in una scatola e mi porti con te. Non mangio niente, non ho bisogno di vestiti, non
c’è altro modo per far soldi partendo da zero. Forse ti domandi com’è la mia danza, cosí ti dò qui
un assaggio. Osservami bene! – disse lo scheletro e gli mostrò varie figure di danza, alzando le
mani o sollevando i piedi con le ossa che tintinnavano. Poi aggiunse:
– Che te ne pare, Shichibee? Eseguirò qualunque danza, basta che tu canti o segni il tempo!
Che ne pensi, non è un modo per fare soldoni?
Pensando che sí, si potevano far soldi, Shichibee-di-su partí portandosi dietro lo scheletro.
In effetti, il ballo dello scheletro di Shichibee-di-su ebbe molto successo in città e villaggi e la
sua fama giunse alle orecchie del signore del luogo. Shichibee-di-su fu convocato a palazzo. Si
organizzò affinché lo scheletro si esibisse in un salone del castello ma, chissà perché, al cospetto
del signore, lo scheletro non danzò per niente. Shichibee-di-su si fece rosso e verde, eseguí
canzoni e ballate, batté le mani. Ma lo scheletro non accennava neppure un passo. Shichibee-di-
su perse la calma e lo frustò. Allora lo scheletro si alzò e si andò a sedere al cospetto del
feudatario:
– Signore, il motivo per cui ballavo era per incontrare voi. Quest’uomo mi ha ucciso al valico
del confine e mi ha sottratto il mio denaro, – disse, denunciando i fatti fino ad allora accaduti.
Il signore si meravigliò e replicò:
– Nella vita accadono cose ben strane. Presto, legate quest’uomo e indagate.
Shichibee-di-su, sotto inchiesta, confessò tutta la faccenda e venne crocefisso.

Iwate, Kamihei.
L’ospite della notte di Capodanno
C’era una volta una casa di gente povera. Una sera di Capodanno vi giunse un cieco,
proveniente da chissà dove, e chiese ospitalità per la notte. Il capofamiglia, imbarazzato, si scusò
dicendo:
– Come si può vedere, la mia è una casa povera, potreste chiedere ospitalità presso quella del
ricco vicino.
Ma il cieco rispose:
– Per me una casa povera va bene, – ed entrò.
Venne l’alba del primo giorno dell’anno. Il cieco, alzatosi all’aurora, in vena di complimenti
disse che sarebbe andato lui ad attingere la prima acqua augurale. Si recò al pozzo, ma scivolò
sul ghiaccio e cadde nella cavità. Quelli della casa, spaventati, esclamarono:
– Non avremmo dovuto lasciarlo fare! Presto, tiriamolo fuori! – e calarono nel pozzo una
robusta fune.
Il cieco vi si aggrappò e disse:
– Ehi, ehi, voi! Tirate questa fune e gridate «Ooh, issa! Ooh, issa!»
Dall’abitazione uscirono tutti, moglie e suocera comprese, e presero a tirare la fune dicendo a
gran voce:
– Ooh, issa! Ooh, issa!
Il cieco raggiunse finalmente l’imboccatura e, nel venirne fuori, esclamò a gran voce:
– Salgo, salgo!
Da quel momento, pian piano la fortuna della famiglia cominciò a salire.
Il ricco vicino si meravigliò molto che quella povera casa diventasse sempre piú prospera e
fosse baciata dalla fortuna. La cosa gli sembrava strana, cosí si fece raccontare come tutto era
successo perché avevano ospitato un cieco durante la notte di Capodanno. «Stando cosí le cose,
se mi trovo un cieco anch’io e lo ospito per la notte e poi lo faccio cadere nel pozzo, potrò
accumulare sempre piú denari», pensò l’uomo.
Anche per quell’anno giunse l’ultimo giorno. Per fortuna, proprio dinanzi al portale di casa,
passò un misero cieco e il signore, in quattro e quattr’otto, mandò un servo a invitarlo. Il servo lo
agguantò:
– Signor cieco che passate, il mio signore ha bisogno di voi. Vogliate trascorrere la notte in
questa casa, ve ne prego!
Il cieco scosse la testa e rifiutò:
– No, no, oggi è l’ultimo giorno dell’anno. Devo tornarmene a casa in tutta fretta e
trascorrerlo serenamente con moglie e figli.
– No, no, passate ugualmente la notte in questa casa, per favore!
– No, no, apprezzo la vostra squisita gentilezza, ma per stanotte niente da fare!
L’uno tirava e l’altro scuoteva il capo finché il servo si caricò il cieco in spalla e lo condusse
di forza dentro casa. Il cieco, esasperato, esclamò:
– Che cosa sta succedendo, c’è un limite nel prendere in giro una persona, anche se è cieca!
Il mattino dopo, giunto l’atteso primo giorno dell’anno, il ricco signore si alzò di buon’ora e
svegliò il cieco che stava ancora dormendo:
– Signore, signore, questa è la prima mattina dell’anno, svegliatevi, presto! È regola in casa
mia che agli ospiti venga chiesto di attingere la prima acqua augurale dell’anno. Sono
mortificato, ma potreste andare un attimo al pozzo a prenderla?
– Capisco, ma stamattina fa un gran freddo, non ho nessuna voglia di alzarmi, – replicò il
cieco senza fare neppure il gesto di sollevarsi.
Il ricco signore lo scosse e di forza lo fece levare, lo spinse fino al pozzo e gli urlò:
– Avanti, signore, presto, attingete l’acqua augurale!
– Sí, sí, – rispondeva il cieco tremante di freddo, ma tentennava, cosí che il ricco signore
perse le staffe e ordinò al servo di gettarlo nel pozzo con una spinta. Il cieco, che non se lo
aspettava, cascò dentro, annaspò nell’acqua e scoppiò in pianto. Il ricco signore allora gli lanciò
una fune:
– Signore, signore, mi dispiace sentirvi piangere cosí. Ecco, adesso vi calo una fune,
aggrappatevi!
Fece poi uscire dalla casa serve e servi e fece dire a tutti a gran voce:
– Ooh, issa! Ooh, issa! – mentre lo tiravano fuori. Il cieco imprecava con voce tremante e
diceva:
– Che freddo, che freddo, precipito, precipito!
Infine emerse carponi dal bordo del pozzo.
Si dice che, da quel giorno, i beni del ricco signore siano precipitati a vista d’occhio.

Iwate, Esashi.
L’origine del baco da seta
Anticamente vivevano due anziani coniugi che avevano una bambina bellissima e che, nella
propria stalla, allevavano un cavallo pomellato.
La fanciulla cominciò ad avere una stretta familiarità con il cavallo e ogni giorno, sporgendosi
sull’uscio della stalla, gli parlava per ore finché divenne sua consorte.
Il padre, indignatissimo, un giorno tirò fuori il cavallo, lo portò in una distesa montana e lo
impiccò al ramo di un grande albero di gelso. Frattanto che lo scuoiava, giunse la figlia e, vista la
scena, scoppiò in un pianto dirotto. Quando il padre ebbe terminato, la pelle del cavallo si diresse
verso la ragazza che osservava lí accanto, si avvolse attorno alla sua figura e i due volarono in
cielo.
I genitori piangevano giorno e notte, in ansia per la figlia. Una notte la ragazza apparve loro in
sogno:
– Padre, madre, non piangete piú! Sono nata sotto una cattiva stella e queste sono le
conseguenze, perciò lasciatemi al mio destino. Invece, la mattina del sedicesimo giorno del terzo
mese di primavera, all’aurora, guardate dentro il mortaio che sta nel doma. Troverete una
moltitudine di strani insetti a forma di testa di cavallo. Prendete le foglie del gelso, là dove è
stato ucciso il pomellato, e allevate quegli insetti. Produrranno dei fili di seta, vendetela e potrete
vivere di quello. Si tratta di bachi da seta, uno dei tesori del mondo.
I genitori si svegliarono alle parole che la figlia aveva detto. Pensarono che fosse un sogno
ben strano ma, giunta la mattina del sedicesimo giorno del terzo mese, si svegliarono presto e
controllarono il mortaio che stava nel doma: era colmo di insetti a forma di testa di cavallo, come
quelli visti in sogno. Allora si recarono al campo sul monte, raccolsero le foglie del gelso e
nutrirono a sazietà gli insetti. Questa è la storia dell’origine del baco da seta che conosciamo
oggi.
Il cavallo e la fanciulla divennero la nostra divinità Oshira . È per questo che Essa ha un
1

duplice aspetto, di testa di cavallo e di testa di fanciulla.

Iwate, Kamihei.
1. Nella fede popolare della regione del Tōhoku è considerata la divinità protettrice della coltura del baco da seta. La sua
immagine, ricavata dal legno del gelso, è quella di una coppia di uomo e donna, il primo con la testa di cavallo.
La montagna Kachi kachi (1)
C’erano in una contrada l’Orso e il Coniglio, che avevano deciso di andare in montagna a
raccogliere legna. I due, indossati i mantelli di paglia e fissata un’accetta alla cintola, si
avviarono. Ma l’Orso era un po’ tonto e il Coniglio furbo. Prima ancora che raggiungessero la
montagna, cominciò a lamentarsi:
– Che fatica, che fatica!
Giunti sui monti, si misero a tagliare un albero. L’Orso tagliò tanto perché era forte, il
Coniglio invece tagliò poco. Anche quando ebbero raccolto la legna, l’Orso se ne caricò in
abbondanza sulla groppa, il Coniglio invece pochina. Decisero di tornare. Il Coniglio era furbo,
se ne stava dietro e diceva:
– Oh, che fatica! Che fatica! – e non faceva un passo.
L’Orso disse:
– Signor Coniglio, come siete debole, anch’io cammino con un carico, – ma il Coniglio non
procedeva affatto.
L’Orso disse:
– Dunque, vediamo, se vi è cosí faticoso, datemene metà.
Presa metà della legna dal dorso del Coniglio, riprese a camminare. Dopo un po’, di nuovo il
Coniglio si fermò:
– Oh, che fatica! Che fatica!
L’Orso disse:
– Signor Coniglio, diamine, se vi è cosí faticoso, datemi tutto, – e stavolta si mise l’intero
carico in spalla.
Ma dopo un po’ di nuovo il Coniglio si fermò:
– Oh, che fatica! Che fatica!
L’Orso disse:
– Se vi è cosí faticoso, montatemi in groppa, – e riprese a camminare con il Coniglio in spalla.
Il Coniglio, in groppa all’Orso, batté due pietre focaie, kachi kachi, e accese un focherello.
L’Orso domandò:
– Signor Coniglio, sento un rumore sulla mia groppa, cos’è?
Il Coniglio fece lo gnorri e rispose:
– Signor Orso, quello è il canto dell’uccello kachi della montagna Kachi.
Il Coniglio soffiò poi sulla fiamma, fuuff fuuff. L’Orso chiese:
– Signor Coniglio, e questo rumore che cos’è?
Il Coniglio rispose:
– Questo è l’uccello fuuff fuuff della montagna Fuuff fuuff.
Poi saltò giú dalla groppa dell’Orso e se ne scappò. L’Orso, con la fiamma accesa sul dorso, a
poco a poco ne sentí il calore e cominciò a capire di essere stato ingannato.
Con il dorso coperto di bruciature, l’Orso attraversò con grande sforzo i monti lamentandosi e
trovò il Coniglio che raccoglieva tralci di glicine. L’Orso disse:
– Signor Coniglio, prima mi avete bruciato con l’inganno.
Il Coniglio fece lo gnorri:
– Il Coniglio della montagna di prima era il Coniglio della montagna di prima! Il Coniglio
della montagna dei glicini è il Coniglio della montagna dei glicini. Che cosa ne so io?
L’Orso pensò che avesse proprio ragione, poi gli chiese:
– A proposito, signor Coniglio, che cosa intendete fare con il glicine?
– Siccome oggi fa bel tempo, pensavo di raccogliere i tralci di glicine per fare un gioco al
sole, – rispose il Coniglio.
L’Orso disse:
– Sembra interessante, mi fareste partecipare?
Cosí decisero di giocare assieme e colsero i tralci di glicine. L’Orso domandò poi:
– A che gioco giochiamo?
Rispose il Coniglio:
– Fare lo scivolo lungo il fianco della montagna con le zampe legate è uno spasso!
L’Orso annuendo rispose:
– Ma certo!
Subito decisero di cominciare dall’Orso. Andarono sulla cima del monte e il Coniglio legò le
zampe del compagno:
– Ecco, provate a rotolare, è molto divertente.
L’Orso annuí e cominciò a rotolare, ma di là andò a sbattere contro la radice di un albero, di
qua cadde dentro un cespuglio, e infine, invece di divertirsi, credette di morire, ruzzolando a
fondo valle. Aveva le zampe legate e non era facile rialzarsi. Quando ci riuscí, il Coniglio era già
scappato via.
L’Orso attraversò la montagna a fatica lamentandosi, e trovò il Coniglio che preparava una
varietà di miso. L’Orso disse:
– Signor Coniglio, poco fa pensavo di morire per via dei vostri inganni. Guardate che ferite ho
sul corpo! Che potete fare?
Il Coniglio, con espressione innocente, rispose:
– Il Coniglio della montagna dei glicini era il Coniglio della montagna dei glicini! Il Coniglio
della montagna del miso è il Coniglio della montagna del miso. Che ne so io?
L’Orso annuí pensando che fosse proprio cosí. Poi domandò:
– A proposito, signor Coniglio della montagna del miso, che cos’è quello che stavate
preparando or ora?
Il Coniglio della montagna del miso rispose:
– Questo si chiama tademiso. Spalmato sulle bruciature, sulle contusioni o sulle spellature, è
una medicina miracolosa che agisce in un battibaleno. L’ho preparato e sto per andare in città a
venderlo.
L’Orso non poté contenere il suo desiderio di avere la medicina:
– Signor Coniglio, come vedete anch’io ho bruciature e contusioni. Datemene un pochino, per
favore.
Il Coniglio acconsentí, gli andò alle spalle e spalmò il miso sulle ferite. Il sale, assorbito a
poco a poco, procurò all’Orso un dolore tremendo, ma il Coniglio già non c’era piú, era scappato
via.
L’Orso, imprecando e piangendo, scese alla sponda del fiume e si sciacquò il corpo lavando
via faticosamente il miso. Attraversò la montagna lamentandosi, e di nuovo trovò il Coniglio che,
da solo e molto affaccendato, tagliava un albero e ne ricavava tavole. L’Orso lo raggiunse a
fatica e lo accusò:
– Signor Coniglio, poco fa mi son trovato in gran difficoltà. Per colpa del vostro intervento, il
corpo mi si è riempito di bolle, che potete fare?
Il Coniglio con tono arrogante rispose:
– Il Coniglio della montagna del tademiso era il Coniglio della montagna del tademiso! Il
Coniglio della montagna dei cedri è il Coniglio della montagna dei cedri, che diamine ne so io?
L’Orso pensò che il Coniglio avesse ragione. Poi gli chiese:
– A proposito, signor Coniglio, per cosa intendete utilizzare le tavole di cedro?
Il Coniglio rispose:
– Il Coniglio della montagna dei cedri con queste tavole ci costruisce una barca. E sta
pensando di navigare sul fiume e di prendere tanto pesce.
Allora l’Orso esclamò:
– Ah, sembra molto interessante! Signor Coniglio, fate partecipare anche me!
I due costruirono le barche. Dopo essersi consultati, avevano deciso che, poiché il Coniglio
era bianco, avrebbe costruito una barca di bianche tavole di cedro; essendo l’Orso scuro, avrebbe
costruito una barca di terra scura. L’Orso costruí la barca di fango, il Coniglio completò la sua di
tavole di cedro, poi salparono.
La barca dell’Orso era fatta di terra e dopo poco sembrò sul punto di sgretolarsi. Allora il
Coniglio la speronò con la sua barca di legno e la barca dell’Orso pian piano cominciò ad
affondare. L’Orso, in ambasce, urlò:
– Signor Coniglio, aiutatemi!
– Va bene, va bene, vengo in vostro aiuto! – rispose il Coniglio, mentre la barca di terra
colava a picco e l’Orso faceva un tonfo nell’acqua.
Il Coniglio estrasse allora una canna e finse di aiutarlo:
– Ecco signor Orso, aggrappatevi, aggrappatevi.
Ma in realtà lo spinse piú in fondo, finché lo uccise.
Dopodiché il Coniglio ripescò l’Orso e decise di andare in una casa vicina a chiedere una
pentola per prepararsi un brodo di orso. Gli adulti erano nei campi, i piccoli sorvegliavano la
casa. Il Coniglio preparò il brodo e lo mangiò con i bambini, lasciando solo le ossa e la testa. Poi
si allontanò dicendo:
– Bambini, quando tornano mamma e papà, dite loro di battere questa chiave, di girarci
intorno e di dare un morso al cranio di orso. Io vado a fare un sonnellino sulla montagna qui
dietro, non dite nulla a nessuno.
Dopo breve tempo tornarono dai campi i genitori. I bambini ripeterono quanto detto dal
Coniglio e i genitori batterono la chiave, ci girarono intorno e morsero il cranio di orso. Ma a
furia di picchiare, girare e mordere, persero tutti i denti. I genitori dissero furibondi:
– Siamo stati ingannati dal dannato Coniglio e ora siamo sdentati!
Poi interrogarono i bambini:
– Ragazzi, il Coniglio dov’è?
Il Coniglio aveva raccomandato ai bambini di stare zitti ma, messi alle strette, essi risposero
che il Coniglio stava dormendo sulla montagna lí dietro.
Afferrato un gancio per le pentole, i genitori uscirono di corsa, seguirono le indicazioni dei
bambini e trovarono il Coniglio addormentato.
– Per colpa di questo coniglio schifoso non c’è rimasto un solo dente! Maledetto, odioso! Lo
ammazziamo, andate a prendere il coltello che sta accanto al cuscino! – ordinarono ai figli,
mentre lo picchiavano.
I bambini credettero che fosse stato detto loro di portare il cuscino e corsero veloci a
prenderlo.
– Razza di bambini deficienti, non il cuscino, abbiamo detto il coltello che sta accanto al
cuscino! Se non capite, portate il coltello che sta sul tagliere! – ordinarono i genitori. Allora i
bambini, sentendo la parola «tagliere», corsero a prenderlo.
– Ma che bambini deficienti! Tenete fermo il Coniglio con il tagliere per non farlo scappare! –
dissero i genitori e corsero a prendere il coltellaccio.
Il Coniglio nel frattempo escogitò uno stratagemma e domandò:
– Bambini, quant’è grande la testa della mamma?
I bambini fecero segno con una mano:
– Piú o meno cosí.
Il Coniglio disse:
– Non capisco! Mostratemelo con due mani!
Allora i bambini fecero il gesto con due mani:
– Grande cosí!
Approfittando del momento il Coniglio scappò via.
In quel mentre tornarono i genitori. Il Coniglio stava ormai scappando, quelli gli lanciarono
contro il coltellaccio, centrarono la coda e gliela mozzarono. Si racconta che da allora i conigli
non ebbero piú la coda.
La nostra storia termina cosí.

Iwate.
Il Jizō delle scimmie
Viveva in una contrada un nonnetto. Fattisi preparare dalla moglie dei mochi di grano
saraceno abbrustoliti, se ne andò in montagna a tagliare erba in un campo. Giunse allora dalla
montagna un branco di scimmie che, presa la colazione che il vecchio aveva appeso a un ramo
d’albero, se la mangiò tutta. Pur tuttavia il vecchio se ne stette in silenzio seduto in mezzo al
campo ad osservare. Le scimmie lo videro e dissero:
– Oh, guarda, c’è un Jizō. Non sta bene lasciarlo in un posto simile, mettiamolo al sicuro nel
tempietto al di là del fiume.
Incrociarono le zampe a mo’ di sgabello e sollevarono il vecchietto.
Si inzaccherino pure le scimmie
ma non il Jizō!
Cantando questa canzoncina attraversarono il fiume. Il vecchio aveva voglia di ridere, ma se
ne stette zitto a occhi chiusi. In breve, dopo averlo trasportato dentro il tempietto rupestre, le
scimmie lo collocarono al posto d’onore e, una dopo l’altra, gli lanciarono ai piedi tanti oboli che
chissà dove avevano preso:
– In offerta all’eccelso Jizō, in offerta all’eccelso Jizō.
Poi sparirono da qualche parte.
Quando furono lontane, il vecchio raccolse con comodo le monete e uscí dal tempietto. Si
recò in città, comprò dei bei kimono e tornò dalla moglie. Mentre si godevano felici delle
leccornie, vestiti degli abiti nuovi, giunse una vecchia vicina che domandò:
– Da dove avete tirato fuori kimono cosí belli? E com’è che siete tanto contenti?
Il vecchietto e la moglie le raccontarono tutto e quella disse:
– Chiederò al mio vecchio di fare lo stesso! – e se ne tornò a casa soddisfatta.
Spinto dalla moglie, anche il vecchio vicino di casa si recò in montagna, con i suoi mochi
abbrustoliti, e appese la colazione al ramo di un albero. Il branco di scimmie scese dalla
montagna e la mangiò. Dopodiché sollevarono con le zampe incrociate il vecchio che fingeva di
essere un Jizō seduto in mezzo al campo, e cantarono la loro canzone attraversando il fiume.
Si inzaccherino pure le scimmie
ma non il Jizō!
La canzone era cosí buffa che a metà della traversata il vecchio non seppe trattenersi, scoppiò
a ridere e aprí gli occhi. Le scimmie, spaventate, sciolsero le zampe incrociate e gli fecero fare
un tonfo nell’acqua.
Il vecchio venne portato via dalla corrente, ora sommerso ora riaffiorando, e a malapena risalí
la sponda aggrappandosi a un salice. Frattanto la moglie si era tolta i vecchi abiti e li aveva
bruciati e ora aspettava nuda il ritorno del marito che avrebbe dovuto comprare tanti bei kimono
e altre cose con il denaro delle scimmie. L’uomo arrivò lamentandosi e bagnato fino all’osso e la
vecchia si disse: «Ecco, ecco, è il mio vecchio che torna cantando, dopo aver ricevuto dalle
scimmie bei kimono e denaro».

Iwate, Esashi.
I tre fratelli
C’erano una volta, tanto tanto tempo fa, tre fratelli. Il primo si chiamava Ichirōji, il secondo
Jirōji, il minore Saburōji. Ichirōji era un sempliciotto, un po’ lento di comprendonio. Quando
Ichirōji ebbe vent’anni, Jirōji diciotto e Saburōji sedici, il padre li chiamò a sé e disse loro:
– Bene, ora che avete raggiunto l’età adulta non è il caso che restiate per sempre in famiglia.
Vi darò tre anni di tempo durante i quali ognuno di voi dovrà trovare la propria strada. Poi
tornerete a casa.
Quindi distribuí cinque ryō ad ogni figlio. Jirōji e Saburōji dissero:
– Padre, allora torneremo fra tre anni, dopo aver raggiunto senz’altro il successo, quindi
abbiate cura di voi e rimanete in buona salute.
Ichirōji invece rimase in silenzio.
Dunque, proprio la sera del quindicesimo giorno i tre fratelli partirono alla volta di luoghi
lontani. Camminarono insieme, dritto per una strada di montagna sulla quale si agitavano al
vento spighe di susuki, finché giunsero ad un trivio. Per quella notte si fermarono lí.
Il mattino successivo Jirōji propose:
– Fratelli, non ci trovo nulla di proficuo a proseguire cosí, tutti i giorni insieme. D’ora in
avanti andiamocene ognuno per tre strade diverse, e torniamo a casa dopo aver raggiunto il
successo! Allora, che ne direste di separarci qui?
Saburōji ascoltò quanto il fratello diceva e fu d’accordo:
– Sí, io farei come dice Jirōji.
Anche Ichirōji disse:
– Sono d’accordo.
Concordarono di rivedersi là nello stesso giorno dopo tre anni, quindi decisero che Ichirōji
avrebbe preso la strada di destra, Jirōji quella centrale, Saburōji quella di sinistra. Poi si
separarono.
Prima di tutto vi racconterò di Ichirōji che se ne andò per la strada di destra.
Poiché era un animo semplice, separatosi dai fratelli, proseguí come se nulla fosse, senza
sentirsi solo. Dopo breve tempo, si inoltrò fra i monti e dopo averli superati trovò un grande
stagno su cui riposavano molte oche selvatiche. Ichirōji cercò un sasso per colpirle ma non riuscí
a trovarne. Allora tirò fuori dal petto le monete e cominciò a lanciarle. Non centrò le oche ed
esaurí tutti i denari. Nonostante questo Ichirōji proseguí per la sua strada senza darsi pensiero. A
poco a poco giunse il tramonto. Aveva fame e avrebbe volentieri mangiato qualcosa, ma il
denaro era terminato. Anche lo spensierato Ichirōji non sapeva come cavarsela. Entrò in un
tempietto ai margini della strada e si addormentò.
Non saprei quanto tempo fosse trascorso quando qualcuno chiamò:
– Ehi, ehi, fratello Ichirō!
Aprí gli occhi e guardò di qua e di là ma non c’era nessuno. «Che sia una volpe o un tanuki a
prendermi in giro?» pensò, e si riaddormentò. Stavolta quel qualcuno chiamò con voce piú alta:
– Fratello Ichirō!
Guardò meglio e vide in un angolo del tempietto una ciotola rotta che lo chiamava:
– Fratello Ichirō, fratello Ichirō!
– Eh? Sei tu a chiamarmi, io credevo proprio fosse una volpe o un tanuki! – disse Ichirōji e la
ciotola ridacchiò:
– Che importa chi è! Senti fratello, sei senza un soldo, hai solo il vestito che porti addosso,
non è il caso che tu prosegua all’infinito. Che ne pensi, non lavoreresti con me?
– Cosa? E tu che lavoro fai?
– Non ti preoccupare fratello, basta che tu faccia come dico io.
E quella notte i due, dopo aver parlato per un po’, si addormentarono.
La notte successiva, Ichirōji si mise la ciotola rotta in petto e si diresse in città. Per prima cosa
andò a casa di un ricco. Dormivano tutti profondamente e Ichirōji introdusse la ciotola in casa
servendosi dell’apertura attraverso cui passava il gatto. Una volta entrata, la ciotola gli aprí la
porta dall’interno in modo che anche Ichirōji poté penetrare e rubare denaro e preziosi. Divenne
cosí un ladro provetto.

Ora vi narrerò la storia di Jirōji, che se ne andò per la strada centrale.


Jirōji era fin dalla nascita un tipo tranquillo e, tra i fratelli, quello di indole piú buona.
Dopo essersi separato da loro, sentendosi malinconico e insicuro, si avviò verso un villaggio
scegliendo le strade piú larghe. Nonostante camminasse tanto, non giunse in alcun luogo abitato.
Frattanto si era fatta notte ed egli si accasciò disperato sull’erba del ciglio della strada. Mentre
pensava alla sua casa e ai fratelli, sentí qualcuno che lo chiamava. La voce proveniva da sotto il
sedere:
– Ehi, Jirōji!
Spaventato guardò in basso, sotto il proprio sedere e vi trovò una spatola.
– Cosa? Sei tu a chiamarmi? Mi hai spaventato, – disse.
– Ma non c’è da spaventarsi cosí! Ascolta, non ha senso camminare all’infinito dicendoti che
hai paura. Ora ti insegno una cosa utile. La figlia di un ricco signore che sta a circa un ri di
distanza da qui è gravemente ammalata. Monaci e yamabushi pregano ogni giorno, il medico la
cura senza allontanarsene, ma, mi vergogno tanto per loro, non ottengono alcun risultato e la
malattia della madamigella peggiora di giorno in giorno. Eppure non è difficile guarirla. Basta
che tu mi capovolga e sfiori il sedere della ragazza: guarirà all’istante.
– Cosa succede se non ti capovolgo?
– In questo caso la malattia peggiorerebbe. Forza, Jirō, portami là e prova a sfiorare il sedere
della fanciulla. Certo, di norma non si può toccare il culo di una nobildonna ma, trattandosi di
una malattia per cui si muore dall’oggi al domani, ti lasceranno fare, – aggiunse la spatola.
Jirōji era una brava persona, pensò che nulla l’avrebbe reso piú contento del guarire
un’ammalata grave, e quella stessa sera si recò dal ricco signore, mettendosi la spatola in petto.
Quando arrivò, la fanciulla era davvero grave e i suoi lamenti giungevano fino al portale
d’ingresso. Preoccupato Jirōji entrò e si offrí di guarire la malattia della damigella. Nella casa
erano pronti ad aggrapparsi a qualunque cosa pur di salvarla. Pertanto lo pregarono di intervenire
immediatamente.
Jirōji fece uscire tutti e circondò la ragazza con un paravento. Dopodiché tirò fuori la spatola
dallo scollo del kimono e sfiorò delicatamente il sedere della fanciulla. In un batter d’occhio,
colei che tanto si era lamentata fino a quel momento, guarí. La famiglia del ricco signore, al
colmo della felicità, acclamò Jirōji, lo trattò con grande favore e finí con il dargli la ragazza in
sposa.
Segue la storia di Saburōji, il minore.
Nonostante fosse il minore, Saburōji era, tra i fratelli, quello di indole piú determinata.
Separatosi da loro, prese a camminare a grandi passi lungo la strada di sinistra ma, cammina
cammina, era sempre fra i monti. Nel frattempo era scesa la sera ed egli era giunto in un luogo
sinistro e abbandonato dove il vento serotino ululava battendo sui pini. Stanco del cammino di
un’intera giornata, Saburōji si fermò a ristorarsi sotto un pino, pensando che avrebbe trascorso lí
la notte. Da lontano giunse una folata di vento dall’odore penetrante, che faceva ondeggiare e
frusciare l’erba. Colto di sorpresa Saburōji si volse e, dalla direzione dei monti, ecco
sopraggiungere, svolgendo minaccioso le sue spire, un serpente gigante dalla vermiglia lingua
biforcuta.
– Oh, accidenti!
Saburōji si nascose arrampicandosi sul pino ma il serpente, sibilando con la sua lunga lingua,
scrutò sull’albero, lo scovò e cominciò ad arrotolarsi intorno al tronco. Nonostante l’indole fiera,
Saburōji fu preso dalla paura e, mentre pensava a come fare, il serpente prese a salire verso di
lui.
Saburōji tremando cominciò a recitare il nenbutsu. In quel mentre, essendosi allentato il suo
obi, le monete che portava nella scollatura caddero tutte nelle fauci del serpente che si avvicinava
per fare di lui un sol boccone. Per quanto la gola del serpente fosse enorme, la bestia restò
soffocata e cadde all’indietro. Mentre Saburōji tirava un sospiro di sollievo, ecco passare di lí il
signore della contrada, con una numerosa scorta. Vide il serpente che agonizzava ed esclamò:
– Magnifico! Non so quanta gente ha sofferto fino ad oggi a causa di questo serpente.
Giungevo proprio adesso per distruggerlo. Vedo che lo hai fatto tu. Bene, seguimi!
Cosí dicendo il signore condusse Saburōji con sé. In seguito il giovane fu dichiarato samurai e
gli venne conferito l’incarico di punire tutti gli esseri malvagi.

Giunse l’autunno del terzo anno. A Ichirōji, ora ladro provetto, sovvenne il ricordo del
lontano paese natio:
– Ah, via via sono trascorsi tre anni, cosa starà facendo mio padre?
Era sí un ladro, ma era rimasto l’Ichirōji di prima, senza grandi brame, che dava tutto il
denaro ai poveri e vestiva il solito abito a brandelli come una processione di alghe marine; ora,
seduto sulla veranda in pezzi del suo tempietto, sospirava.
– Devo tornare a casa, come ho promesso ai miei fratelli. Ma non oso mostrarmi a mio padre
ridotto cosí, devo fare qualche lavoretto per portargli qualcosa in regalo.
Parlava fra sé e sé e la ciotola nella scollatura del kimono gli disse:
– Bene, bene, non ti preoccupare, stasera si va a fare una cosa come si deve!
In quanto a Jirōji, era adesso genero del ricco signore. Non aveva disagi economici e,
portando con sé la spatola, guariva malati a destra e a manca. E come genero del ricco signore,
veniva riverito da tutti. Quella stessa sera, tornato dalla casa di un ammalato, osservava seduto in
veranda la luna piena che sorgeva dai monti circostanti e si ricordò:
– Ah! Oggi è il quindicesimo giorno dell’ottavo mese e il giorno promesso per il ritorno al
paese è fra un mese. Come se la staranno cavando i miei fratelli? Devo tornare nel giorno
concordato!
Mise dunque da parte cinquecento ryō come regalo e si preparò a partire.
Saburōji, il minore, pensava spesso al paese natio e in quel periodo vide finanche in sogno i
suoi fratelli. Passò un giorno, ne passarono due, arrivò il primo giorno del nono mese. Proprio
mentre stava per partire, ricevette dalla dimora di un ricco signore della zona la denuncia di un
furto di ben cinquecento ryō, avvenuto la notte prima. Pur essendo il giorno che precedeva la
partenza, Saburōji si mise alla ricerca del ladro e, infine, lo acciuffò: era un disgraziato, con una
veste somigliante ad una processione di alghe marine. Lo interrogò e scoprí con grande
meraviglia che si trattava di suo fratello maggiore Ichirōji da cui si era separato tre anni prima. Il
ricco signore che aveva sporto denuncia per il furto, altri non era che fratello Jirōji. I tre fratelli,
commossi, scoppiarono in lacrime.
Il giorno successivo mandarono un palanchino a prendere il padre al paese. Chissà quale fu la
sua sorpresa!
Tutto è bene ciò che finisce bene.

Miyagi, Momoo.
La montagna Kachi kachi (2)
C’erano una volta un vecchio e una vecchia che, un giorno, andarono al campo a seminare
fagioli.
La vecchia cantava:
Se ne pianto uno, ne crescano mille!
Il vecchio cantava:
Se ne pianto due, ne crescano duemila!
Arrivò quatto quatto un tanuki e si fermò su una pietra.
– Se ne pianti uno, fagiolo difettoso; se ne pianti due, fagioli marci, – cominciò a dire,
dispettoso.
La vecchia lo cacciò via e i due ripresero a lavorare, ma il tanuki ritornò e cominciò di nuovo
a fare dispetti. Lo cacciarono piú volte, ma non ci fu verso: tornava sempre. Allora i due presero
una decisione. Rientrati a casa per il pranzo, prepararono una spessa pasta di grano saraceno e la
portarono al campo; poi la stesero sulla pietra dove il tanuki era solito fermarsi e ripresero il loro
lavoro. Poco dopo arrivò il tanuki, ma questa volta restò attaccato alla pietra e non riuscí a
scappare. Il vecchio lo afferrò, lo portò a casa e lo appese alla trave del soffitto, dicendo:
– Questa sera prepareremo un brodo di tanuki.
Si avviò poi verso la montagna, mentre la moglie cominciava a pestare l’orzo nel mortaio. Il
tanuki la pregò allora di allentare la corda che lo legava e si offrí di aiutarla ma, non appena
libero, la colpí con il pestello e la uccise. Prese poi le sue sembianze e mise a cuocere la donna
per fare il brodo. Quando il vecchio tornò dalla montagna mangiò di gusto:
– È proprio buona questa zuppa di tanuki! Morbida e dolce!
– Lo credo bene! – rispose l’animale. – È la tua vecchia!
Poi, con un sol balzo, saltò fuori dalla finestra e si dileguò.
Mentre il vecchio tutto solo piangeva e si disperava, arrivò il Coniglio e gli promise di
vendicarlo. Per prima cosa, chiese al tanuki di fare una gara a chi raccoglieva piú erba. Sulla via
del ritorno, diede fuoco alla sporta che il tanuki portava sulla schiena e questi tornò a casa pieno
di bruciature. Arrivò da lui il Coniglio, fingendosi un venditore ambulante di medicine, gli
cosparse la groppa di peperoncino rosso e, mentre il tanuki si lamentava per il dolore, aggiunse
della pasta di miso salata. Quando infine l’animale fu guarito, il Coniglio costruí due barche, una
di legno per sé e una di fango per l’altro, e lo invitò ad andare a pesca. Quando furono in mezzo
all’acqua, la barca del tanuki affondò e cosí la vendetta fu completa.

Yamagata, Kitamurayama.
Il vecchio che faceva sbocciare i fiori
Vi racconterò una storia. C’erano una volta in una contrada un vecchio e una vecchia. Un
giorno il nonno andò in montagna a raccogliere legna, la nonna al fiume a fare il bucato. Ad un
tratto giunse galleggiando, ponpoko, ponpoko, una grande pesca e la vecchia canticchiò:
Un’altra ancora e la darò a Tarō,
un’altra ancora e la darò a Jirō.
Raccolse la pesca, la portò a casa e la mise in un mortaio.
Nel frattempo il vecchio rientrava dalla montagna e chiese:
– Moglie, c’è qualcosa da mangiare?
– Ah, poco fa ero al fiume a fare il bucato e ho trovato una grossa pesca che galleggiava. L’ho
messa nel mortaio che sta nel doma, mangiala pure! – rispose la vecchia.
Il nonno andò per prendere la pesca dicendo:
– Oh! Molto bene, l’assaggio, – ma quando arrivò al mortaio, sorpresa!
Sbalordito esclamò:
– Moglie, questa non è una pesca, è un cagnolino!
Davvero si trattava di un cagnolino, ma la vecchia disse:
– Io ci ho messo sicuramente una pesca poco fa!
– Che sciocchezze dici, questo è un cagnolino! – replicò il vecchio. Entrambi si misero a
guardarlo: era proprio un cucciolo delizioso.
I due lo allevarono con cura e il cagnolino poco a poco crebbe. Un giorno il cane cosí parlò al
vecchio:
– Nonnino, mettimi la sella.
Il vecchio rispose:
– Come potrei mettere la sella al mio tesorino?
– Non preoccuparti, mettimela, – disse il cane e il vecchio gliela montò.
Poi il cane aggiunse:
– Nonnino, mettici sopra la cesta di paglia.
E il vecchio rispose:
– Come potrei mettere la cesta di paglia addosso al mio tesorino?
– Non preoccuparti, mettimela.
Il vecchio allora issò la cesta e il cane, di nuovo, disse:
– Nonnino, mettici anche la zappa.
– Come potrei aggiungere anche la zappa?
– Non preoccuparti, metticela, – e poi soggiunse: – Seguimi.
Il vecchio lo seguí e s’inoltrarono fra i monti.
– Nonnino, adesso scava nel terreno, – disse il cane.
Il vecchio scaricò la zappa e la cesta di paglia e fece una buca nel terreno. Ed ecco venir fuori
monete d’oro, grandi e piccole, di tutti i tipi!
– Nonnino, adesso riempi la cesta e mettimela sul dorso, – disse il cane.
Il vecchio molto contento rispose:
– Come potrei caricar tutto sul mio tesorino? Lo porterò io in spalla.
Il cane si oppose:
– Non preoccuparti, mettimi la cesta sul dorso.
Quando il vecchio ebbe terminato di caricare la cesta, il cane aggiunse:
– Ora, nonnino, montami in groppa.
– Come potrei montare in groppa al mio tesorino?
– Non preoccuparti, sali, – disse il cane e, tuppete tuppete, scese dai monti con il vecchio in
groppa.
Tornati a casa, il vecchio sparse in cortile le monete e le monetine e prese a contarle. Giunse
l’anziana vicina di casa per chiedere un po’ di fuoco e si informò:
– Dicevate sempre che non avete soldi, da dove arriva questo mucchio di monete?
Il vecchio raccontò tutta la faccenda dal principio alla fine, e la vicina commentò:
– Allora, se è un cane cosí bravo, prestatecelo per un giorno.
Il vecchio le consegnò il cane:
– Ecco, portatelo pure con voi.
Giunto a casa dei vicini il cane disse:
– Nonno, mettetemi in groppa la cesta di paglia.
I due vecchi erano molto avidi e subito risposero:
– Siamo andati a farcene prestare una proprio per caricartela in groppa!
Quando fu il momento di caricare la zappa e poi di montare a cavalcioni sul cane, il vecchio
continuò a rispondergli che tutto era già stato previsto. Fu cosí che la bestiola si diresse fra i
monti con il vecchio in groppa. Dopo un po’ il cane disse:
– Scavate qui.
Il vecchio scavò con la zappa ma, sorpresa! Ecco venir fuori ogni sorta di cose orribili,
serpenti giganti, rane, millepiedi… Il vecchio infuriato esclamò:
– Bestiaccia, mi hai fatto scavare in un posto simile!
Quindi uccise il cane, lo seppellí, piantò sulla fossa un ramo di salice e se ne tornò a casa.
La vecchia avida aspettava che il marito tornasse con la cesta piena zeppa di monete, ma il
vecchio arrivò con aria corrucciata. La vecchia domandò:
– Marito, che cos’è successo?
– Mi chiedi cos’è successo? Quella bestiaccia d’un cane mi ha fatto scavare, certo, ma mi ha
fatto scavare in un posto terribile!
Il marito raccontò la faccenda e la moglie rimase di stucco.
«Mi domando cosa sia accaduto al cane, l’hanno portato via stamani ma ancora non tornano a
restituirmelo», pensava frattanto il nonnino e si recò dai vicini a chiedere notizie.
Il vicino, con la faccia accigliata, gli raccontò la faccenda per filo e per segno.
– Che cosa terribile avete fatto, l’avete ucciso! – esclamò il nonnino.
Il giorno seguente si recò sul luogo dove era stato piantato il ramo, ma vi trovò un grande
albero di salice. Tagliò l’albero e al ritorno ne fece una macina in ricordo dell’amato cane. Di
nuovo accadde una cosa sorprendente: mentre lavorava alla macina insieme con la moglie, ecco
venirne fuori monete d’oro che caddero dinanzi al nonno e monetine d’oro che caddero dinanzi
alla nonna.
Giunse nuovamente la vecchia vicina per chiedere da accendere:
– Da dove proviene quel mucchio di monete?
– Il ramo piantato dove avete sepolto il cane era cresciuto; ci ho costruito una macina e
mentre la giravo ne sono saltate fuori tutte queste monete.
– Ah sí? Allora prestateci quella macina per un giorno!
– Va bene, prendetevela pure, – acconsentí il vecchietto.
Gli avidi vicini presero la macina e cominciarono a girarla ma, accidenti!, ecco venirne fuori
sterco di cavallo che cadde dinanzi al vecchio e sterco di mucca che cadde dinanzi alla vecchia.
Nuovamente infuriati, fecero a pezzi la macina maledetta e ne bruciarono i resti nel focolare,
imprecando.
Poiché i vicini non restituivano la macina, il vecchietto si presentò a casa loro per riaverla
indietro e gli fu risposto:
– Quella macina ha prodotto sterco di cavallo davanti a me e davanti a mia moglie sterco di
mucca! Eravamo cosí disgustati che l’abbiamo bruciata nel focolare.
– Che cosa terribile avete fatto! E la cenere? – s’informò il vecchietto.
– Ah, quella, può darsi che sia rimasta in un angolo del focolare! – rispose il vecchio vicino,
poco affabilmente.
Il vecchietto se ne tornò a casa portando la cenere con sé, si arrampicò su di un albero e
cominciò a gridare:
– Ecco il miglior spargitore di cenere di tutto il Giappone!
Passava da quelle parti un nobile samurai che si informò:
– Chi è costui?
– Sono il miglior spargitore di cenere di tutto il Giappone, – gli fu risposto.
Il nobiluomo replicò:
– Bene, mostrami come fai.
Il vecchio sparse la cenere e subito esplose una bellissima fioritura di ciliegi e di boccioli di
pruno. Il samurai ne tessé le lodi e si allontanò dopo aver lasciato una gran quantità di denaro.
Marito e moglie stavano contando le monete quando si fece nuovamente viva la vecchia
vicina per chiedere del fuoco. Si informò:
– Da dove proviene tanto denaro?
– Il mio vecchio stava spargendo da un albero la cenere che gli aveva dato vostro marito. È
passato un samurai e l’ha visto, si è complimentato e se ne è andato lasciando tutto questo
denaro, – le rispose la vecchietta.
La vicina avida prese in prestito anche la cenere, tornò a casa e disse al marito di aspettare il
samurai su di un albero. Il samurai giunse e si informò:
– Chi è costui?
– Sono il miglior spargitore di cenere di tutto il Giappone!
– Bene, mostrami come fai.
Il vecchio, pensando che fosse l’occasione buona, fece vedere come spargeva la cenere, ma
questa, anziché produrre bellissimi fiori, volò negli occhi del samurai e lo fece arrabbiare
moltissimo.
La morale della favola è che non bisogna mai imitare gli altri. Che tu ci creda o no, è andata
proprio cosí.

Toyama, Kamiarakawa.
Il passero con la lingua tagliata
Bene, è successo tanto tempo fa. C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Il vecchio andò
in montagna a raccogliere legna. Giunto sui monti, appese la colazione al ramo di un albero, ma
giunse un passero e se la mangiò. Quando il vecchio aprí il cestino, vi trovò il passero
addormentato. Lo portò a casa e lo allevò con cura. Lo chiamava Ochon Ochon.
Un giorno il vecchio si recò in montagna a raccogliere la legna, lasciando a casa la vecchia e
il passero. Era una bella giornata e la donna preparò della colla di amido di riso, poi uscí per
andare al fiume, dicendo al passero:
– Vado a lavare i panni, controlla che il gatto del vicino non mangi il mio amido di riso.
Il passero aveva fame e se lo mangiò lui. La vecchia rientrò e chiese:
– Ochon Ochon, dov’è finito l’amido?
Il passero rispose:
– L’ha mangiato il gatto del vicino.
La vecchia andò a controllare, ma il gatto non aveva nulla attaccato al muso; invece trovò
tracce d’amido sulla lingua del passero. Allora gliela tagliò e lo fece volar via.
Il vecchio rientrò dalla montagna e domandò:
– Dov’è finito Ochon?
La vecchia rispose:
– Avevo preparato della colla di amido, ma mentre ero al fiume se l’è mangiata. Mi sono
arrabbiata, gli ho tagliato la lingua e l’ho fatto scappare via.
Passero Ochon, che direzione hai preso?
Passero con la lingua mozzata, dove sei andato?
Tesorino, dove sei diretto?
Il vecchio si mise in cammino finché trovò un tale che strigliava le mucche.
– Signor strigliatore di mucche, non è passato di qui un passero con la lingua tagliata?
– Sí, è passato. Ma ve lo dico solo se bevete la sciacquatura delle mucche, tredici volte nella
coppa paterna e tredici in quella materna.
Il vecchio bevve la sciacquatura delle mucche e l’uomo gli diede queste indicazioni:
– Scendete per di qui, troverete un tale che striglia i cavalli.
Passero con la lingua mozzata, dove sei andato?
Passero Ochon, che direzione hai preso?
Tesorino, tesorino!
Proseguí diritto e trovò il tale che strigliava i cavalli.
– Signor strigliatore di cavalli, non è passato di qui un passero con la lingua tagliata?
– Sí, è passato. Ma ve lo dico solo se bevete la sciacquatura dei cavalli, tredici volte nella
coppa paterna e tredici in quella materna.
Il vecchio bevve e l’uomo gli diede queste indicazioni:
– Scendete per di qui, troverete un tale che sciacqua verdure.
Passero Ochon, che direzione hai preso?
Passero con la lingua mozzata, dove sei andato?
Tesorino, tesorino!
Proseguí diritto e trovò il tale che sciacquava le verdure.
– Signore che sciacquate le verdure, non è passato di qui un passero con la lingua tagliata?
– Sí, è passato. Ma ve lo dico solo se bevete la sciacquatura delle verdure, tredici volte nella
coppa materna e tredici in quella paterna.
Il vecchio bevve e l’uomo gli diede queste indicazioni:
– Scendete per di qui, c’è una macchia di bambú, lo troverete che sta raccogliendo il riso, con
un grembiule rosso e un tasuki rosso.
Passero con la lingua mozzata, dove sei andato?
Passero Ochon, che direzione hai preso?
Tesorino, tesorino!
Cosí dicendo, scese di molto e trovò la macchia di bambú. Piú oltre c’era una casa. Il vecchio
bussò all’uscio e gli fu risposto:
– Sei il nonno o la nonna?
– Sono il nonno!
– Se sei il nonno, presto, entra.
Il vecchio entrò e gli venne offerto un pasto eccellente, allestito con ogni cura. Poi il passero
gli domandò:
– Nonno, preferisci un baule pesante o un baule leggero?
Il vecchio rispose:
– Sono vecchio, dammi quello leggero.
Il passero caricò il baule leggero sulle spalle del vecchio dicendogli:
– Nonno, non aprirlo in nessun posto, se non quando sarai giunto a casa.
Il vecchio tornò a casa, lo aprí e vide che era pieno di monete e monetine d’oro. I due vecchi
si rallegrarono.
Ma la donna era avida e disse:
– Vado anch’io a prenderne, – e si recò dal passero.
Bussò all’uscio e il passero domandò:
– Sei il nonno o la nonna?
– Sono la nonna!
– Se sei la nonna, presto, entra.
La vecchia entrò e il passero andò a prendere la tavola della latrina che adoperò come vassoio,
schegge di legno della staccionata che adoperò come bacchette per mangiare e infine della sabbia
che le offrí come pranzo. Quando poi la vecchia disse che sarebbe tornata a casa, le chiese:
– Nonna, preferisci il cesto pesante o quello leggero?
L’avida donna disse che voleva il cesto pesante. Il passero disse:
– Portalo in spalla e non guardare dentro prima di giungere a casa.
La vecchia si incuriosí e, non appena dietro la staccionata, aprí la cesta: ne uscirono serpenti,
vipere e millepiedi che la morsicarono a morte.
Anche voi, non lasciatevi trascinare dall’avidità!

Ishikawa, Enuma.
Un’occhiata, mille ryō
Tempo fa, nel Kishū, c’era un uomo che si chiamava Kichigorō. Un giorno i giovani del
villaggio si erano riuniti in gruppo e andavano dicendo:
– Uno che non ha mai visto le tre capitali, non è un vero uomo.
Kichigorō chiese:
– Dove sono queste tre capitali? – e gli risposero:
– Le tre capitali sono Edo, Kyōto e Ōsaka. Kyōto e Ōsaka sono qui vicino quindi, se non hai
visto nessuna delle tre, prima di tutto va’ a Edo!
Kichigorō disse:
– Vorrei andare a Edo, ma denaro non ne ho!
– Se non ne hai, vuoi imparare una cosa?
– Sí.
– Va’ in montagna con il cane e di’ «Scaviamo denaro, scaviamo denaro». Il cane dirà «Scava
qui, scava qui»; tu allora scava e uscirà denaro a bizzeffe!
Kichigorō, che non era una cima, ci credette; non appena rientrato a casa prese il cane, andò
in montagna e, camminando, disse:
– Scaviamo denaro, scaviamo denaro.
Il cane gli abbaiò di rimando:
– Scava qui, scava qui.
Pieno di felicità Kichigorō scavò e ne uscí tanto denaro.
Kichigorō andò a Edo con quei soldi, ma erano troppi e non sapeva come spenderli. Proprio
allora sentí dire che nel quartiere di Yoshiwara c’era una certa oiran chiamata Hitome Senryō .
1 2

Kichigorō pensò: «Bene, bene, vedo questa qui e me ne torno al paese», e si recò alla casa di
incontri Kamiya di Yoshiwara.
– Vorrei vedere una che si chiama Hitome Senryō, – disse.
– Per vederla ci vogliono mille ryō, ma tu ce li hai?
– Non ti preoccupare, ce li ho qui, – disse Kichigorō e mostrò i mille ryō.
– Bene, adesso ti passerà davanti, guarda attentamente!
Mentre Kichigorō guardava con attenzione, gli passò davanti agli occhi una donna
dall’andatura svelta e ancheggiante.
– Non l’ho vista bene. Fammela vedere un’altra volta, – disse Kichigorō.
– Per vederla un’altra volta ci vogliono altri mille ryō!
– Eccoti i mille ryō.
Questa volta la donna passò con un altro kimono, sempre a passettini veloci.
– Stavolta non ho visto un granché, fammela vedere ancora.
– Hai tutto questo denaro?
– Ho ancora mille ryō, – disse Kichigorō e di nuovo la donna, con un altro kimono, passò
ancheggiando.
– Vorrei vederla un’altra volta, ma non ho piú denaro, quindi me ne vado, – disse Kichigorō, e
fece per avviarsi.
Allora due uomini lo inseguirono:
– Vieni, l’oiran vuole vederti un momento.
– Ma non ho piú un soldo.
– No, non c’è bisogno di soldi, vieni un attimo, per favore.
Cosí dicendo i due lo tirarono a forza.
Salirono al primo piano e lo fecero sedere su tre cuscini damascati sovrapposti.
L’oiran gli disse:
– Vengono tanti uomini a comprarmi, e tutti dicono bugie e sconcezze. Non ho mai visto una
persona onesta come te. Sono una donna, un giorno dovrò avere un marito anch’io, ma non ce
n’è un altro onesto come te. Ti prego, sposiamoci.
Kichigorō rifiutò:
– Io sono del Kishū, ho parenti al paese, non posso prendere moglie senza consultarmi con
loro.
L’oiran replicò:
– Allora torna nel Kishū e con il loro benestare ci sposeremo. Per il momento promettimi
soltanto di diventare mio marito.
Kichigorō promise. Dopodiché l’oiran tirò fuori tremila ryō dicendo:
– Te li restituisco.
Ma Kichigorō li respinse:
– Li ho portati fino a Edo apposta, non posso tornare al paese con un peso simile, te li lascio,
– e ripartí con solo dieci ryō per le spese di viaggio, dicendo:
– Tornerò fra cinquanta giorni.
Arrivato al suo paese, i parenti lo trattennero dal tornare a Edo, dicendogli:
– Quella donna ti ha ingannato.
– Anche se fosse, sono venuto via dicendo che sarei tornato dopo cinquanta giorni, quindi
almeno una volta ci devo andare per una risposta, – rispose Kichigorō e si recò a Edo nonostante
il parere contrario di tutti.
Si presentò di nuovo alla Kamiya di Yoshiwara. Ne uscí un uomo che disse:
– Manchi da due mesi, quella persona è morta di dolore sette giorni fa.
Dicendosi «Che cosa terribile ho fatto!» Kichigorō chiese dove fosse la tomba e vi si recò a
pregare. Ad un tratto, la tomba si spalancò e ne uscí il fantasma della donna che gli disse:
– Tu non tornavi e io ho finito per morire di nostalgia. Perché da oggi tu viva serenamente, ti
darò dei semi di mandaranci. Piantali e produrranno dei mandaranci senza semi che potrai
vendere. Poiché non hanno semi, nessuno potrà produrne di eguali, mentre tu li moltiplicherai
con gli innesti.
Lo spettro gli consegnò sette semi di mandaranci. Kichigorō li portò con sé e li coltivò.
Nacquero cosí i mandaranci senza semi. Si dice che sia per questa ragione che i mandaranci del
Kishū non hanno semi.

Fukui, Sakai.
1. Il piú famoso quartiere di piacere «autorizzato» di Edo (antica Tōkyō). Aperto nel 1618, costituí fino alla seconda metà del
1800 non solo uno dei punti di riferimento dominanti nella vita della città, ma un centro ispiratore di una cultura tutta
particolare, dinamica, edonistica, popolare e brillante, che ebbe ampi riflessi su teatro e romanzo.
2. Lett. «un’occhiata, mille ryō».
I genitori dei kaimochi
C’era una volta l’abate di un tempio rupestre. Poco distante, viveva una bella donna.
Un giorno l’abate mise delle uova in un contenitore di lacca e le fece consegnare da un
novizio, mentendogli:
– Sono dei kaimochi, portali alla donna.
Per strada il novizio aprí il contenitore, vi trovò le uova e, ridendo perché l’abate aveva detto
una bugia, le portò alla donna. Due tre giorni dopo, impacchettate stavolta una decina di trote,
l’abate disse al novizio:
– È un rasoio, – e gli fece di nuovo fare la consegna.
In strada il novizio, chiedendosi di che cosa si trattasse, scartò l’involto e trovò le trote. E
ridendo le consegnò alla donna.
Cinque o sei giorni dopo vi fu un servizio commemorativo per un parrocchiano. L’abate vi si
recò portandosi dietro il novizio. Lungo la strada c’era una fattoria nella quale si allevavano polli
in quantità. Il novizio li guardò e disse:
– Abate, lí allevano i genitori dei kaimochi che ho portato giorni fa alla signora. Guardate!
L’imbarazzato abate proseguí in silenzio. Al ritorno dalla funzione, i due attraversarono il
ponte sul fiume in cui nuotavano molte trote. E di nuovo il novizio a voce alta disse:
– Abate, guardate laggiú nel fiume. Nuotano tanti rasoi come quello che ho portato giorni fa
alla signora.
L’abate sospettò che per la strada il novizio avesse visto le trote e rispose:
– Quel che hai visto hai visto, quello che hai udito hai udito. Taci e seguimi.
Nel frattempo attraversavano il valico. Cominciò a soffiare il vento e portò via il copricapo
dell’abate. Gli era stato detto «Quel che hai visto hai visto» e il novizio si guardò bene dal
raccoglierlo e in silenzio tornò al tempio.
L’abate si accorse che gli mancava il copricapo e commentò che doveva averlo dimenticato a
casa del parrocchiano. Il novizio disse:
– Abate, strada facendo mi avete detto che quello che ho visto ho visto e di proseguire in
silenzio. Perciò sono stato zitto e non ho raccolto il copricapo che vi era volato via!
L’abate replicò:
– Va bene, va bene, torna a raccoglierlo senza stare a sottilizzare.
Il novizio rifece il percorso per raccogliere il copricapo, ci mise dentro foglie e sterco di
cavallo e lo riportò indietro. L’abate, furente, esclamò:
– Perché ci hai messo dentro queste schifezze?
– Mi avete detto di raccogliere senza stare a sottilizzare e io ho preso tutto quello che c’era
per strada!
L’abate ancora piú furente disse:
– Che schifo lo sterco! Va’ a lavare quel cappello e fallo scorrere bene in acqua!
Il novizio fece scorrere via il copricapo sul fiume e tornò.
Due tre giorni dopo, avendo un’altra cerimonia, l’abate cercò il copricapo, ma non lo trovò e
chiese:
– Novizio, sai dov’è il mio copricapo?
E il novizio:
– Abate, mi avete detto di lavarlo facendolo scorrere in acqua e io l’ho fatto scorrere via
insieme con lo sterco, perciò non c’è piú!
Gifu, Ōno.
Il ponte Misokai
Un tempo, in un posto chiamato Sawayama di Hida, viveva un carbonaio onesto e pio, dal
nome Chōkichi.
Una notte apparve al suo capezzale un vecchio che sembrava un eremita:
– Va’ alla città di Takayama, resta sul ponte Misokai e udrai delle cose veramente
interessanti.
L’uomo, non appena udite queste parole, si risvegliò. Era stato un sogno, ma Chōkichi subito,
vendendo il suo carbone, andò alla città di Takayama e se ne stette sul ponte Misokai. Stette lí un
giorno intero, ma non gli riuscí di udire nulla di interessante. E cosí pure il secondo e il terzo
giorno.
Il quinto giorno, il padrone del negozio di tōfu accanto al ponte gli chiese sorpreso:
– Perché ve ne state ogni giorno lí in piedi?
Chōkichi gli raccontò del sogno e il padrone del negozio scoppiò a ridere:
– Non riponete speranze in sogni cosí stupidi! Anche io di recente ho fatto un sogno. Mi è
apparso un vecchio che mi ha detto: «In un villaggio alle pendici di Norikura, che si chiama
qualcosa come Sawayama, c’è un tale di nome Chōkichi. Scava alle radici dell’albero di pino
accanto alla sua casa e vedrai che salterà fuori un tesoro». Io non so dove si trova questo
Sawayama di Norikura o simili, e anche se lo sapessi, non presterei attenzione a stupidi sogni
senza senso. Non per offendervi, ma anche voi, fate la cosa giusta, tornatevene a casa!
A quelle parole il cuore di Chōkichi sobbalzò: era successo proprio ciò che il sogno gli aveva
annunciato! Salutò a stento e in tutta fretta come volando si precipitò al suo villaggio. Scavò alle
radici dell’albero di pino e vennero fuori tanti tesori, oltre a monete d’oro e d’argento.
Grazie a questo, Chōkichi divenne ricco e fu chiamato dalla gente del villaggio il Signor
Prosperità.

Gifu, Ōno.
Centro
Traduzioni e note di Maria Gioia Vienna.
La risata degli orchi
C’era una volta un ricco signore. La sua unica figlia, molto amata, andava in sposa in un
villaggio lontano.
Il giorno delle nozze, dalla casa dello sposo venne a prenderla un meraviglioso palanchino.
Mentre percorrevano valichi e vette, i parenti, a cominciare dalla madre, tutti attorno
acclamavano:
– La sposa! La sposa! – quando dal cielo calò all’improvviso una nube nera e avvolse il
palanchino.
– Cosa mai si può fare? – si chiedevano, ed ecco che la nube rapí la promessa sposa e la portò
via.
– Qualunque cosa accada, la ritroverò, – disse sconvolta dalla preoccupazione la madre, alla
quale era stata sottratta la figlia amatissima. Portò con sé dello yakimeshi e, senza una meta
precisa, salí vagando per la montagna.
Mentre la cercava per campi e per monti, imbruní. Proprio di fronte a lei vide un tempietto.
Giuntavi, chiese:
– Scusatemi, potrei fermarmi per questa notte?
Ne uscí una monaca che rispose:
– Non ho vesti né cibo da darti, a ogni modo resta pure.
Entrata nel tempio la donna, esausta, si coricò subito. L’altra si tolse la tonaca e con essa la
coprí. Poi disse:
– La fanciulla che cerchi è prigioniera dell’orco sulla sponda opposta del fiume. Ora non puoi
andarci: il fiume è sorvegliato da un cane grande e un cane piccolo. Durante il giorno, però, può
capitare che schiaccino un pisolino. Potrai attraversare approfittando di quell’attimo. Ma, bada
bene: il ponte si chiama Ponte Abaco perché è formato da una miriade di sfere e devi stare molto
attenta a dove metterai i piedi. Se sbagliassi, torneresti al paese dove sei nata.
Il giorno seguente, disturbata da un fruscio, la donna si svegliò. Tutt’intorno si allungava una
distesa di canne, il tempio non c’era piú e anche la monaca era sparita. Solo le canne stormivano
al vento del mattino piene di malinconia. Si rese conto di aver dormito poggiata a una stele di
pietra esposta al vento e alla pioggia.
– Monaca, ti ringrazio, – si accomiatò la donna e, giunta alla riva del fiume come le era stato
indicato, il cane grande e il cane piccolo stavano giusto pisolando: non si lasciò sfuggire
l’occasione e, ben attenta a non calpestare le sfere del Ponte Abaco, lo attraversò.
Finalmente, proseguí: si udiva il suono familiare di un telaio, chanchan chankarin. D’istinto
la madre chiamò la figlia, la ragazza fece capolino, le due si corsero incontro e si abbracciarono
felici.
Poi, in fretta e furia, la giovane rifocillò la donna.
– Se ti trovasse l’orco, sarebbe un guaio, – le spiegò, e la nascose in un barile di pietra.
L’orco rincasò:
– Sento odore di umani, – disse, annusando l’aria rumorosamente.
La ragazza rispose di non saperne nulla e questi insistette:
– Se è cosí, andiamo in giardino a contare i fiori.
Nel giardino c’era una pianta fatata che metteva tanti fiori quante erano le persone in casa.
Quel giorno, se ne erano aperti tre: l’orco tornò indietro inferocito.
– Devi aver nascosto qualcuno da qualche parte, – le disse.
Mentre stava per lanciarsi su di lei, la ragazza, che rifletteva sul da farsi, ebbe a un tratto
l’ispirazione di dire:
– Ne saranno sbocciati tre perché aspetto un bambino.
L’orco, fino ad allora fuori di sé, fu tanto felice che quasi si mise a camminare sulle mani.
Con voce altissima e piena di gioia chiamò a raccolta i suoi vassalli e ordinò loro, saltando qua e
là:
– Portate del sake, portate i tamburi e uccidete i guardiani del fiume.
– Ecco il sake, ecco i tamburi, battiamo a morte cane grande e cane piccolo.
Anche i servitori, felici, si dettero alla baldoria piú sfrenata.
In breve tempo, presa una sbornia solenne, caddero tutti in un sonno profondo. Il capo degli
orchi chiamò:
– Moglie! Ho sonno: accompagnami al barile di legno.
Le aveva parlato del barile di legno e la ragazza tirò un sospiro di sollievo. Infilato il marito
nel recipiente, lo coprí con sette coperchi che chiuse con sette chiavi. Poi, in tutta fretta, fece
uscire la madre dal barile di pietra e fuggirono via.
Il cane grande e il cane piccolo erano stati uccisi: non c’era nessuno che le fermasse e
giunsero in un magazzino dove erano custoditi carri e barche.
– Sarà meglio un carro da diecimila ri o un carro da mille ri?
Mentre si consultavano tra loro, comparve la monaca.
– Né il carro da diecimila ri, né quello da mille fanno al caso vostro: fuggite su una barca, – le
avvertí.
Allora, madre e figlia salirono su una barca e si allontanarono sul fiume il piú velocemente
possibile.
L’orco che dormiva nel barile aveva sete e chiamò e richiamò a gran voce:
– Moglie, porta dell’acqua.
Poiché non ricevette risposta, forzò i sette coperchi e uscí: la giovane non c’era piú. Per
quanto la cercasse, non se ne vedeva neppure l’ombra.
– Che furfante! Se l’è svignata! – disse, e svegliò i servitori. Andarono a controllare al
deposito: la barca non c’era e corsero tutti al fiume.
Madre e figlia erano ormai cosí distanti che potevano a stento vederle. Allora, l’orco ordinò ai
servitori:
– Bevete l’acqua del fiume.
I numerosi vassalli, ubbidendo, infilarono tutti la testa nel fiume e si dettero a tracannarne a
grandi sorsate. L’acqua prese a diminuire e con essa la barca delle due donne risalí la corrente
poco a poco.
Ora l’orco avrebbe potuto afferrarle con una mano e madre e figlia erano rassegnate a morire,
quando apparve di nuovo la monaca:
– Suvvia, non perdete tempo, mostrate subito ai dèmoni la cosa piú importante che avete.
Si uní a loro e tutte e tre insieme sollevarono l’orlo del kimono. Ebbene, a quella vista gli
orchi cominciarono a ridere a crepapelle finché, rotolandosi dalle risa, vomitarono tutta l’acqua
che avevano ingoiato. Cosí, la barca si allontanò di nuovo e madre e figlia scamparono al grave
pericolo.
– È stato tutto merito tuo, – ringraziarono calorosamente la monaca.
– Io sono la stele del campo. Ogni anno, deponetene un’altra al mio fianco. Ciò mi renderà
felice piú di ogni cosa, – rispose, e scomparve.
Le due donne tornarono a casa sane e salve e da allora non dimenticarono mai il loro debito di
gratitudine. Ogni anno deposero, una accanto all’altra, una nuova stele.

Niigata, Minamikanbara.
La lepre che era stata sconfitta da una tartaruga
Una lepre fece ritorno a casa sconfitta in una gara di corsa da una tartaruga. Al villaggio, le
lepri si consultarono tra loro:
– È una vergogna avere in paese una come te. Vattene, – dissero, e la cacciarono via.
Proprio in quel periodo, però, al villaggio delle lepri giunsero i messi del Lupo della
Montagna a riferire l’ordine:
– Dovete offrire al Lupo tre leprotti.
Il villaggio cadde nella costernazione.
– È una gran pena sacrificare i nostri figli. Non è cosa che si possa fare, – dicevano, e non
c’era giorno che non cercassero una soluzione.
La storia giunse alle orecchie della lepre sconfitta. «Ecco una buona occasione», pensò, e
tornò in paese come se niente fosse.
– Sono stata ripudiata, è vero, ma se riuscissi a salvare i leprotti, mi fareste tornare con voi?
– Dici sul serio? Se lo farai, ti riammetteremo al villaggio.
Cosí, la lepre sconfitta dalla tartaruga raccolse tutto il suo coraggio e andò dal Lupo:
– Signor Lupo, ci avete ordinato di offrirvi tre leprotti. D’altra parte, il vostro volto fa davvero
paura e non c’è nessuno di loro che voglia venire. Sembrerebbe una sciocchezza, ma ve ne
prego, non potreste sedervi in cima alla rupe volgendo il capo in quella direzione? Se lo farete, li
accompagnerò qui senz’altro, – disse.
Il Lupo rispose:
– È una cosa da niente, – e subito si sedette sull’orlo del precipizio dando le spalle alla lepre.
Questa gli sferrò allora una zampata nella schiena con quanta forza aveva: il Lupo fece un
ruzzolone e precipitò nell’orrido.
La lepre che era stata sconfitta dalla tartaruga tornò gongolante al villaggio, dove narrò
l’accaduto. Cosí, poiché i tre leprotti erano salvi e tutto era andato per il meglio, fu riammessa
nella comunità.

Niigata, Minamikanbara.
Una monaca come giudice (Lo specchio di Matsuyama)
C’era una volta un figlio devoto. Aveva preso moglie, ma poco dopo il padre era morto ed
egli ne era rimasto molto addolorato.
Un giorno dovette recarsi a Edo per sbrigare delle commissioni e passò per caso di fronte a un
negozio di specchi.
«Ne hanno di cose strane», pensava, quando dette una sbirciata in uno di essi: la propria
immagine che vi si rifletteva era in tutto identica al padre morto. «Mio padre era qui allora?», si
chiese, acquistò lo specchio e fece ritorno a casa, dove lo dispose sull’altare di famiglia e prese a
venerarlo ogni giorno.
«Cosa avrà combinato mio marito, che non passa giorno senza che guardi e riguardi
l’altare?», si arrovellava la moglie. Andò anche lei a dare un’occhiata e vide riflesso nello
specchio il volto di una donna. Si precipitò dal marito e lo accusò:
– Sei crudele come nessun altro! Hai portato con te una concubina e la custodisci ben bene in
quella cornice.
– Che vai dicendo? Quello è mio padre buonanima, – rispose, e i due presero a litigare
dandosi torto a vicenda:
– È cosí.
– No, è colà.
In quella, si trovò a passare di lí una monaca che chiese la ragione di quanto stava accadendo.
– Ebbene, fate vedere a me, – disse, e guardò nello specchio: vi era riflessa una monaca.
– Carissimi, quella donna si è redenta e ha preso i voti. Rappacificatevi, – concluse.
E la mia storia finisce qua.

Niigata, Minamikanbara.
Il saggio
Un uomo stava rincasando a notte fonda, quando sentí qualcuno che parlava con sua moglie.
«Che impudente!» pensò. Appena in casa lo colpí alla schiena e, senza volere, lo uccise. Guardò
meglio: era il capovillaggio. Marito e moglie non sapevano che fare, ma alla fine l’uomo disse:
– La cosa migliore è chiedere consiglio al saggio del paese, – e andò a chiamarlo.
– Bene, bene. Me ne occuperò io, – disse il saggio.
Prese il cadavere sulle spalle e se ne andò. Lo poggiò contro le imposte di una casa dove
alcuni giovani del villaggio stavano giocando d’azzardo, bussò e fuggí via. Dentro dissero:
– Qualcuno è venuto a spiarci.
Uno di loro afferrò un randello, uscí senza far rumore e colpí alle spalle la persona che era lí
in piedi. Il corpo rovinò a terra con un tonfo e tutti uscirono a vedere: era il capovillaggio.
– L’hai fatta grossa! Hai ucciso il capo! – dissero e, spaventati, a ogni buon conto andarono a
chiedere consiglio al saggio del paese.
– Bene, bene. Me ne occuperò io, – disse questi.
Trasportò il cadavere davanti a quella che era stata la sua casa e sulla porta chiamò:
– Moglie, sono tornato. Apri!
La moglie rispose:
– Chi passa la notte a divertirsi come fai tu, può anche restare fuori!
– Allora mi butterò nel pozzo, – disse il saggio.
Gettò il cadavere nel pozzo e fuggí via. La moglie, convinta che il marito si fosse ucciso,
cominciò a piangere:
– Se gli avessi aperto la porta, tutto ciò non sarebbe accaduto, – e decise a ogni buon conto di
andare a chiedere consiglio al saggio.
– Me ne occuperò io, non ti preoccupare, – disse il saggio.
Scaldò l’acqua nella marmitta e depose il cadavere nel cesto che serviva per cuocere i cibi a
vapore. Quindi chiamò il medico:
– Il capovillaggio è divorato dalla febbre.
Il medico accorse, fece per controllare il polso e disse:
– Mi rincresce, ma ormai non respira piú.
Cosí, alla fine, si poté fargli il funerale.
A seguito dell’accaduto, si dice che il saggio ricevette da tutti sostanziosi compensi traendone
un notevole profitto.

Niigata, Minamikanbara.
Il ragazzo con la goccia al naso
C’era un uomo molto povero. Ogni giorno veniva da una landa desolata a vendere fiori. Quelli
avanzati, li deponeva nel fiume in onore della Principessa delle Acque.
Una volta, faceva ritorno come al solito dopo una giornata di lavoro quando scoprí che, a
causa di una piena, non c’era verso di guadare il fiume.
«Oh bella! Questa proprio non ci voleva. Non potrò rincasare», pensava, ed ecco che
all’improvviso comparve ai suoi piedi una grande tartaruga. «Sali, sali su!» sembrava incitarlo,
ed egli salí sul dorso dell’animale. In quattro e quattr’otto fu condotto via senza sapere neppure
dove fossero diretti.
– Dove siamo? – chiese l’uomo sorpreso.
– La Principessa ti ha fatto chiamare perché vuole ringraziarti di averle offerto fiori ogni
giorno.
«Questa, poi», pensò il fioraio, si presentò al suo cospetto ed ella parlò cosí:
– Ti farò dono di un figlio maschio, che avrà sempre la goccia al naso. Se però ti prenderai
cura di lui, egli esaudirà ogni tuo desiderio. D’ora in avanti fa’ come fosse tuo figlio.
– Come si chiama? – domandò.
– Il suo nome è Tohō.
Conducendo con sé il ragazzo, l’uomo fece ritorno a casa sul dorso della tartaruga. Abitava in
una catapecchia malridotta, e come prima cosa pensò: «Proviamo a fargli cambiare la
disposizione della casa».
– Tohō, Tohō, non potresti sistemare questa baracca? – gli chiese.
Tohō chiuse gli occhi e batté le mani per tre volte: come fosse la cosa piú semplice del
mondo, fece apparire una splendida dimora.
– Ora che mi hai procurato la casa, non ho di che arredarla. Mi aiuteresti? – gli chiese, e il
ragazzo si occupò anche di questo con grande facilità.
– Tohō, ora mi daresti dei vestiti?
– Sí, subito, – e gli dette anche quelli.
– Tohō, non ho soldi. Potresti farli apparire?
– Quanti ne vuoi?
– Sono troppi mille ryō?
– Figuriamoci. Non sono queste le cose complicate, – rispose il ragazzo, e gli dette un forziere
di mille ryō. Con quel danaro l’uomo aprí un banco di pegno, si procurò degli assistenti, assunse
delle domestiche e in poco tempo divenne ricchissimo.
Passarono cinque anni e il padrone, che aveva ormai molte conoscenze, era sempre invitato
ora da questo, ora da quel tale. Immancabilmente, Tohō lo seguiva dappertutto come un’ombra e,
come se non bastasse, era sempre sudicio.
Un giorno, l’uomo gli disse:
– Tohō, Tohō! Quel naso, non sarebbe il caso di soffiarselo?
– Proprio non posso soffiarmelo.
– E il moccio?
– Proprio non posso asciugarmelo.
– E che mi dici di cambiarti i vestiti?
– Anche quelli, non posso cambiarli.
A quelle risposte, l’uomo si trovò in grave imbarazzo.
Un giorno, gli chiese:
– Tohō, non c’è nulla che vorresti avere?
– Non ho bisogno di niente, ti ringrazio.
– Quando è cosí, ti sono molto grato, ma pensavo di darti un periodo di riposo. Non potresti
tornartene a casa?
– Se le cose stanno in questo modo, non ho altro da fare, – rispose Tohō.
Il padrone non ebbe il tempo di chiedersi se avesse già lasciato la casa che questa, in un batter
d’occhio, si trasformò nella squallida stamberga che era prima. Anche i vestiti che indossava e
ogni altra cosa tornarono ad essere all’improvviso come erano stati un tempo. L’uomo si sentí
perduto.
Ecco, questo è quanto accadde.

Niigata, Minamikanbara.
Le volpi nel sacco
Dicono sia accaduto tanto tempo fa.
Presso il cimitero del villaggio di Katada, tutte le sere appariva una volpe e stregava i
passanti.
Nella famiglia di Shinzaemon c’erano tre figli maschi.
– Tutti e tre insieme, sfidiamo la volpe, – disse il maggiore.
A notte i fratelli andarono al cimitero e si sedettero ad aspettare. A un bel momento, karakoro,
karakoro, si udirono i passi di una donna che calzava geta.
– Ci siamo! Finalmente la volpe arriva, – e attesero che si avvicinasse.
Una donna col capo avvolto in una salvietta portava un voluminoso fagotto. Quando fu vicina
ai tre, chiese:
– Siete stanchi anche voi?
– Da dove vieni? – s’informò il fratello piú grande.
– Sono la figlia maggiore di Yazaemon, del villaggio di Takayama.
– Dove te ne andavi con questo buio?
– A dire il vero, sono di ritorno dalla città. Alla bottega del tessitore c’erano parecchie
faccende da sbrigare e ho fatto tardi. Ho lavorato al telaio, poi pian piano sono arrivata fin qui,
ma non è bene che una donna rincasi tutta sola a notte fonda. Mi accompagneresti, per favore?
– Ma certo che ti accompagno, – rispose il ragazzo, e si allontanò con lei.
Giunti nelle vicinanze di Takayama, si udí il pianto di un neonato. La vecchia di Yazaemon
venne loro incontro con il bimbo sulle spalle.
– Signore, signore, vi ringrazio per averla accompagnata. Accomodatevi e mangiate qualcosa.
Guardate, ci sono sōmen e kaimochi. Servitevi, vi prego, e intanto vi preparo un bagno caldo.
Il ragazzo fece onore alla tavola, poi si accomodò nella vasca.
All’alba, gli abitanti del villaggio uscirono diretti ai campi per i lavori mattutini, quando
videro qualcuno seduto nel mezzo del fiume con l’acqua fino al collo.
«Questa, poi! E quello cosa sta facendo?» si dissero, e andarono da lui.
– Ehi tu! Chi sei? Cosa fai lí?
– Sono il figlio maggiore di Shinzaemon. Ho accompagnato a casa la figlia di Yazaemon e ora
sto facendo un bagno caldo.
– Stupido, questo è il fiume. Svelto, vieni fuori di lí.
Tira e molla, lo trascinarono fuori dall’acqua. Lí vicino, c’erano gli avanzi della sera prima: i
sōmen erano in realtà lombrichi e i kaimochi sterco di cavallo. Essendo rimasto a lungo immerso
nel fiume, il giovane si ammalò e morí.
Il secondo fratello decise di vendicare la morte del maggiore e a notte tornò al cimitero.
Karakoro, karakoro, si udí di nuovo il rumore dei geta. Anche lui fu raggirato, proprio come il
fratello, dalla volpe che aveva preso le sembianze della figlia di Yazaemon. Accompagnò la
ragazza fino a casa, la vecchia con il bimbo sulla schiena venne ad accoglierli, gli furono offerti i
sōmen di lombrichi e i kaimochi di sterco di cavallo. Poi sedette nel fiume convinto di essere
nella vasca da bagno, prese un’infreddatura e morí.
«Maledetta volpe, questa è la volta che te la faccio pagare», pensava il fratello piú giovane,
digrignando i denti.
– Madre! Madre! Voglio vendicarmi. Comprami otto tan di cotone e la veste bianca della
divinità di Inari.
– Smettila con queste sciocchezze. Stregati da quella volpe sono già morti i tuoi due fratelli:
se ora toccasse anche a te, sarebbe davvero troppo. Rinuncia, ti prego.
– Che dici, andrà tutto bene. Ho un piano, – le rispose, e non le prestò ascolto. La madre tornò
da lui con ciò che le aveva chiesto. Con gli otto tan di cotone confezionò per il figlio un grande
sacco.
Una sera, il giovane indossò la veste bianca di Inari, prese con sé il sacco, andò al cimitero e
attese. Karakoro, karakoro, si udí di nuovo il rumore dei geta. Come immaginava, sopraggiunse
la falsa figlia di Yazaemon.
– Ehi, tu, Volpe, ascoltami bene. Sono la Suprema Divinità di Inari. Dovresti vergognarti per i
mezzucci con cui inganni e uccidi la gente.
Sbalordita, la fanciulla si tramutò in una smilza volpicina e si prostrò ai piedi del terzo fratello
avvolto nella veste bianca.
– Non ho parole per scusarmi dei miei poveri incantesimi. Ti prego, perdonami.
– Non dovrei farlo, ma visto che insisti ti perdonerò. In generale, voi volpi di qui non vi
esercitate abbastanza e non avete neppure un riconoscimento ufficiale. Ecco perché i vostri
incantesimi sono cosí rozzi. Che ne diresti se vi conferissi un rango?
– Come desideri. Cosa ti occorre?
– Mi basterà che entriate in questo sacco. Raduna tutte le volpi del luogo senza dimenticarne
neanche una. Ciascuna porti in bocca una monetina d’oro. Poi, mi serve un martello di legno:
procuramene uno, per favore.
La volpe fece ciò che le era stato detto e tutta felice chiamò a raccolta le compagne. Ognuna
di loro portò una monetina d’oro ed entrarono nel sacco.
– Allora, ci siete proprio tutte?
– Tutte, eccetto una.
– E perché?
– È una volpe di Iwano. Non si sente bene e sta riposando.
– Allora portatela a spalla, – disse.
Stipò ben bene fin negli angoli del sacco le volpi e annodò saldamente l’imboccatura. Poi,
afferrò il martello procurato dalla volpe.
– Adesso comincerò a darvi il rango che vi spetta, – disse, e tirò una gragnuola di colpi con
quanta forza aveva finché non furono morte.
Raccolse le monete e, tutto soddisfatto per aver avuto la meglio sulle volpi, il terzo fratello
aprí il sacco. Senonché il martello ne aveva risparmiate ben due, ancora vive negli angolini:
saltarono fuori e si dileguarono.
In verità, in quell’occasione si sarebbe dovuta estinguere per sempre la stirpe delle volpi, ma
dal momento che due di loro riuscirono a mettersi in salvo, ne esistono ancora oggi.
La mia storia è finita.

Niigata, Nagaoka.
La Volpe e la Lontra
La Volpe e la Lontra decisero di invitarsi reciprocamente a pranzo. Per prima, la Lontra invitò
la Volpe. Calata la sera, la attese dopo aver preparato ghiottonerie di ogni tipo.
La Volpe ospite giunse, impaziente di iniziare.
– Accomodati, Volpe cara, e non fare complimenti, – disse la Lontra, e quella rispose:
– Grazie dell’invito.
La Volpe guardò la tavola imbandita: ciotole e piatti erano colmi di pesciolini prelibati. Piena
di ammirazione, la Volpe rincasò ben sazia, dopo aver fatto onore alla tavola.
Toccò poi a lei invitare la Lontra. Fin dal mattino, si dette da fare sugli argini delle risaie e
sulle sponde del fiume, ma non riuscí a pescare nulla. Calò la sera e arrivò la Lontra.
– Volpe cara, grazie per l’invito, – disse affacciandosi in casa, ma, chissà per quale ragione, la
Volpe se ne stava lí, immobile, a fissare il soffitto. Per quanto la interpellasse, la Volpe non
rispose neanche una volta: la Lontra non poté fare altro che andarsene.
Il mattino seguente la Volpe trotterellando venne a scusarsi.
– Lontra cara, sono mortificata per ieri. Il fatto è che mi era stato assegnato il compito di
tenere d’occhio il soffitto, – spiegò, e aggiunse: – Questa sera, però, devi assolutamente venire.
Anche quel giorno la Volpe camminò senza risparmiarsi per pescare qualcosa, ma com’era da
prevedere, non concluse nulla e rincasò con la coda fra le gambe. Calò la sera e di nuovo venne
la Lontra.
– Salve, – disse: questa volta, la Volpe se ne stava immobile, a testa bassa. La Lontra non poté
fare altro che andarsene.
Il mattino seguente, la Volpe si presentò di nuovo.
– Lontra cara, ieri mi era stato affidato il compito di tenere d’occhio il pavimento.
– Non sarà che mi racconti storie perché non sai pescare? – le chiese allora la Lontra, e la
Volpe rispose con franchezza:
– Hai proprio indovinato.
– Allora ti spiegherò come fare, – disse la Lontra. – Hai una coda tanto lunga! Se la lasci a
bagno nel fiume nelle serate fredde, abboccheranno tutti i pesci che vuoi.
La Volpe rincasò felice. Attese il tramonto e andò al fiume. Come le aveva insegnato la
Lontra, scavò un buco nel ghiaccio e vi fece ciondolare la coda. La tirò su qualche tempo dopo: il
ghiaccio che l’aveva ricoperta scricchiolava, zara zara. Tuttavia, di pesci neppure uno. Per
quante volte ripetesse l’operazione, le cose andavano sempre alla stessa maniera. Allora,
convinta che nel suo modo di pescare ci fosse qualcosa di sbagliato, lasciò a bagno la coda con
molta pazienza per un tempo lunghissimo.
Poco a poco, cominciò a dolerle tanto che le fitte si propagavano fino al centro della testa.
Resisteva anche a quello, quando si fece giorno. Si sentivano le voci dei bambini che
attraversavano a piedi il fiume ghiacciato. «Che disastro!» pensò la Volpe, e tentò di tirare fuori
la coda, ma le era rimasta imprigionata nel ghiaccio e, per quanto si sforzasse, non voleva venir
via.
– Non ho bisogno di carpe e di carassi. Solo mi occorrerebbe che tu uscissi, – disse.
Tirò e tirò con tutte le forze e infine la coda uscí, appena in tempo.

Niigata, Minamikanbara.
Il matrimonio della talpa
Una talpa aveva una bellissima figlia in età da marito.
– Questa ragazza dovrà andare in sposa alla personalità piú in vista di tutto il Giappone, –
disse, e chiese un parere alle altre della sua specie.
– Il piú importante del Giappone è il Sole.
– Quando è cosí, la darò in sposa al Sole.
– Il Cielo è piú in alto del Sole, e dunque il piú importante del Giappone è il Cielo.
– Quando è cosí, la darò in sposa al Cielo.
– Il Cielo viene coperto dalle nuvole, quindi l’essere piú importante è la Nuvola.
– Quando è cosí, la darò in sposa alla Nuvola.
– Ma no! Per quante nuvole ci siano, esse vengono spazzate via dal Vento. È il Vento il piú
importante.
– Quando è cosí, la darò in sposa al Vento.
– Ma no, ma no! Quando il Vento soffia e cade la Pioggia solo la Diga del fiume può
resistere: l’essere piú importante del Giappone è la Diga del fiume.
– Quando è cosí, la darò in sposa alla Diga.
– Per quanto la Diga sia forte, non resiste agli artigli della Talpa al lavoro. Dunque, se proprio
vogliamo dirlo, la piú importante del Giappone è la Talpa.
– Allora è deciso: la darò in sposa alla Talpa.
Cosí la figlia della talpa, come c’era da aspettarsi, andò in sposa a un suo simile.

Niigata, Minamikanbara.
L’uomo che comprava sogni
C’erano una volta due mercanti che partirono insieme per un viaggio di lavoro. Un giorno,
poiché avevano camminato a lungo ed erano stanchi, decisero di fare una sosta in un luogo molto
simile alla nostra spiaggia di Teradomari:
– Perché non ci fermiamo un poco?
– Mi si chiudono gli occhi dal sonno, – disse il piú anziano dei due, e l’altro rispose:
– Davvero? Se sei stanco, sarà meglio che riposi.
Non fece in tempo a finire la frase, che il compagno era già caduto in un sonno profondo e
russava. «Guarda un po’! Si è già addormentato!» pensò il piú giovane ma, mentre osservava
l’uomo sprofondato nel sonno, ecco che da una narice del compagno spuntò di colpo un tafano.
Subito, l’insetto si allontanò volando in direzione dell’isola di Sado. «Che strano!» pensò,
quando il tafano fece ritorno e si intrufolò di nuovo nel naso dell’uomo assopito.
Poco dopo, questi si svegliò dicendo:
– Ho fatto uno strano sogno.
– Davvero? E cosa hai sognato? – gli chiese l’altro.
– Sull’isola di Sado c’era un uomo ricchissimo e in casa aveva una pianta di camelia
rigogliosa di fiori bianchi. Dalle sue radici un tafano volava fino a me, mi ordinava di scavare in
un punto ai piedi dell’albero e io lo facevo. Finito di scavare, veniva fuori una giara piena d’oro.
Ecco, questo era il sogno.
Il giovane non aveva perso una sola parola. Poi, chissà cosa pensava, gli propose:
– Mi venderesti il sogno?
– Ma a che ti serve comprare un sogno?
– Questo non è importante, ma vendimelo, te ne prego, – gli chiese con insistenza il
compagno.
– A quanto lo compreresti?
– Dunque vediamo, andrebbero bene trecento?
Il piú anziano si convinse e il commercio di sogni venne concluso per trecento monete.
Alla fine del viaggio, come prima cosa l’uomo che aveva comprato il sogno tornò al suo
villaggio. Poi, con l’aria di chi ripartiva per lavoro, si imbarcò in segreto per l’isola di Sado.
Giuntovi, prese a cercare qua e là e alla fine riuscí a trovare la casa del ricco signore. Una volta
lí, chiamò e il padrone di casa uscí a vedere.
– Vengo da Echigo e sono un poveretto senza dimora. Mi vergogno a chiederlo, ma non mi
potreste tenere con voi, magari per ramazzare il giardino? – lo pregò.
– Questo è proprio il posto che fa per te. Pensavo giusto di prendere una persona che tenesse
in ordine il giardino. E ora, comincia pure a lavorare, – rispose l’uomo.
Grazie alla fortunata coincidenza fu assunto. Il compratore di sogni lavorava con impegno
giorno dopo giorno, in attesa della primavera.
Il freddo inverno terminò e finalmente giunse la bella stagione. L’aria si fece sempre piú mite
e il giardino fu tutto un boccio. Fiorirono anche le camelie ma, chissà per quale motivo, se ne
schiusero solo di vermiglie e di bianche non se ne vide neanche una. L’uomo non si perse
d’animo e decise di attendere l’anno seguente.
Tornò di nuovo la primavera e in giardino cominciarono a schiudersi le gemme. «Fioriranno
le camelie bianche?» si chiedeva l’uomo ogni giorno, e un bel mattino vide che un albero era
coperto di fiori candidi.
Tutto felice, si alzò furtivamente nel cuore della notte in modo che nessuno lo scoprisse, prese
con sé le molle di ferro per attizzare il fuoco e saggiò il terreno intorno alle radici della sua
camelia. Scavò finché udí un suono, kotsun, kotsun, come se avesse urtato contro qualcosa: si
sarebbe detto il coperchio di un vaso. «Ecco, ci siamo!» pensò aprendolo. Era una giara d’oro
abbagliante colma del prezioso metallo.
Dissotterratala, l’uomo coprí la buca facendo in modo di rimettere la terra al suo posto e
nascose la giara in un luogo a tutti sconosciuto.
Passarono sei mesi. Un giorno, il compratore di sogni andò dal padrone di casa e gli disse:
– Vi siete presi cura di me per molto tempo, ma ora devo tornare al mio paese per celebrare
l’anniversario della morte dei miei genitori e vi chiedo il permesso di andarmene.
– Ci hai ricambiato servendoci a lungo onestamente. Torna pure a casa, – rispose il ricco
signore, e gli dette una piccola somma per le spese di viaggio.
L’uomo si congedò, avvolse come fosse parte del bagaglio il vaso d’oro che aveva nascosto e
fece ritorno a Echigo. Dicono che da quel giorno, divenuto molto ricco, visse felice e contento.

Niigata, Minamikanbara.
La scimmia e il rospo
Sulla montagna di Minukino vivevano una scimmia e un rospo. Quel giorno, giú al villaggio
qualcuno celebrava la nascita di un nipotino e si udivano i vivaci rumori che accompagnano la
preparazione del mochi. Tonton, tonton!
La scimmia si mise in ascolto e propose al rospo:
– Rospo, Rospo caro, verresti con me a rubare quel mochi? Poi ce lo divideremo.
– Questo genere di cose non fa per me, grosso e lento come sono, – rispose l’altro.
– Ma basterebbe che tu saltassi in un pozzo e imitassi il pianto di un neonato, – insistette la
scimmia. Il rospo accettò.
Senza por tempo in mezzo i due scesero al villaggio, diretti alla casa dove si preparava la
festa. Come d’accordo, il rospo si tuffò nel pozzo con un tonfo e prese a piangere a squarciagola.
– È caduto un bambino nel pozzo! – gridarono gli abitanti della casa in gran confusione.
Approfittando del trambusto, la scimmia sgattaiolò all’interno, si caricò in spalla il mortaio del
mochi, e fuggí a gambe levate sulla montagna. Arrampicatosi in cima al pozzo, con passo lento e
pesante anche il rospo fece ritorno.
– Rospo, Rospo caro, per fortuna sono riuscita a prendere il mochi. Ma, che ne diresti se lo
mangiasse uno solo di noi due? Ne avrebbe certamente a sazietà. Facciamo rotolare il mortaio
giú dalla montagna: chi lo raggiungerà per primo, mangerà tutto, – propose la scimmia.
Il rospo fece buon viso a cattivo gioco e accettò. L’altra portò quindi il recipiente in cima a un
pendio e lo lasciò rotolare con gran fracasso. Furba qual era, prese a rincorrerlo a rompicollo.
Il rospo la seguiva lemme lemme nella discesa. Per sua fortuna, il mochi che era nel mortaio si
andava attaccando ai rami degli alberi ai margini del pendio ed egli, raccogliendolo felice, se ne
veniva mangiando a quattro palmenti.
La scimmia risalí la china tergendosi il sudore:
– Ehi, Rospo! Alla fine mi sono fatta portare via tutto il mochi proprio da te. Ho detto una
sciocchezza: è meglio mangiare mentre si scende.
– Scendendo o salendo, ciò che conta è che sono stato io a mangiarlo, – le rispose il rospo.

Niigata, Minamikanbara.
La moglie del ritratto
Tanto, tanto tempo fa c’era un uomo di poco cervello chiamato Gonbee. Aveva superato i
trent’anni e poi i quaranta, ma non c’era donna che volesse sposarlo e viveva in una minuscola
capanna. Una sera, venne da lui una donna bella come non se ne erano mai viste prima da quelle
parti e gli chiese:
– Mi faresti rimanere per questa notte?
Sbalordito, Gonbee la ospitò con gioia. Calata la notte, la donna gli disse:
– Sembra che tu sia solo. Anch’io non ho nessuno. Prendimi in sposa, ti prego.
Felice, Gonbee la sposò.
A Gonbee quella donna piaceva cosí tanto che non si rendeva piú conto di quello che faceva.
Quando intrecciava sandali di paglia, non aveva occhi che per lei e finiva per confezionarne di
lunghi piú di cinque o sei shaku: chi mai avrebbe potuto calzarli? Quando intrecciava
impermeabili di paglia, non aveva occhi che per lei e ne confezionava di lunghi uno o due jō: chi
mai avrebbe potuto indossarli?
Un giorno andò a lavorare nei campi, ma fu preso dalla nostalgia per la moglie. Dava un colpo
di zappa e poi:
– Mia moglie sarà in casa? – e correva a guardarla. Tornava al campo, dava un altro colpo di
zappa e poi:
– Mia moglie sarà in casa? – e correva a guardarla.
Ridotto in quello stato non riusciva piú a lavorare. La moglie, allora, andò in città e da un
pittore fece eseguire il proprio ritratto.
– Questo è uguale a me. Appendilo al gelso nel campo e tienilo lí mentre lavori, – gli disse, e
glielo fece portare in campagna. Da allora, ogni giorno l’uomo zappava guardando quel ritratto.
A un bel momento, però, si levò un vento fortissimo che fece volare via il dipinto. Gonbee tornò
a casa in lacrime e raccontò l’accaduto alla moglie.
– Non ti preoccupare, ce ne faremo fare un altro, – lo consolò la donna.
Volteggiando al vento, il ritratto era salito alto nel cielo e andò a posarsi proprio nel giardino
del signore del luogo. Il feudatario lo guardò: vi era raffigurata una bellissima donna ed egli la
volle per sé.
– Se esiste il ritratto, deve esistere anche la creatura che vi è dipinta. Cercatela, – ordinò ai
suoi vassalli.
– Conoscete una donna che somigli a questa? – chiedevano i messi battendo i dintorni, finché
giunsero al villaggio di Gonbee.
– Conoscete una donna che somigli a questa?
– Sí, ce n’è una cosí da Gonbee, – risposero gli abitanti.
Gli uomini si diressero alla capanna: la donna che vi trovarono era davvero uguale a quella
del ritratto.
– Questa donna viene con noi, è un ordine del signore del luogo, – dissero, e la trascinarono
con loro a viva forza.
– Abbiate pietà! Abbiate pietà! – li implorava Gonbee, ma alla fine la condussero via.
Il marito piangeva da strappare il cuore e le sue lacrime, insieme con il moccio che gli colava
dal naso, formarono un lungo ruscello. Prima di essere portata via, la moglie, anch’essa in
lacrime, gli raccomandò:
– Non c’è altro da fare, quindi andrò, ma l’ultima notte dell’anno vieni davanti al castello del
feudatario a vendere quei ramoscelli di pino che a Capodanno si mettono accanto alla porta di
casa. Allora potremo sicuramente incontrarci.
Arrivò l’ultima notte dell’anno. Gonbee tutto contento si piazzò davanti al castello con piglio
determinato, carico di rami di pino. Poi, cominciò a gridare:
– Pini di Capodanno, pini di Capodanno!
Ed ecco che la donna, fino ad allora sempre triste, per la prima volta fece un bel sorriso.
Felice, il signore del luogo ordinò ai suoi servitori:
– Andate a chiamare quel mercante.
La donna sorrise di nuovo e il feudatario ne fu estasiato.
– Se ti piacciono a tal punto i venditori di pini, anche io lo diventerò: chissà come sarai
contenta, – disse.
Fece indossare a Gonbee le proprie vesti, infilò il sudicio kimono dell’uomo, si caricò sulle
spalle i rami di pino e prese a gridare:
– Pini di Capodanno, pini di Capodanno!
La donna, che sembrava felice come non era mai stata prima, rideva. Il signore del luogo,
sempre piú contento, uscí dal portale del castello e prese ad aggirarsi qua e là gridando:
– Pini di Capodanno, pini di Capodanno!
Appena fu uscito, la donna ordinò ai servitori di sbarrare il portale di ferro. Dopo qualche
tempo, l’uomo fece per rientrare, quando si accorse stupito che il portale era ben chiuso.
– Il vostro feudatario è rimasto fuori! Il vostro feudatario è rimasto fuori! – si sgolava
picchiando i battenti, ma nessuno venne ad aprirgli.
All’interno del castello la donna e Gonbee, circondati da una moltitudine di servitori, vissero
felici e contenti.
E con ciò, la storia finisce.

Niigata, Nakakanbara.
La fortuna piovuta dal cielo e la fortuna spuntata dalla terra
Tanto, tanto tempo fa c’erano due vicini di casa, un vecchio onesto e un vecchio imbroglione.
Un giorno, verso la fine dell’anno, i due s’incontrarono per la strada.
– Che bello sarebbe se a Capodanno facessimo uno di quei sogni che diventano realtà ! – disse
1

il vecchio onesto, e l’altro:


– Eh sí, sarebbe proprio bello.
Decisero che, se uno dei due avesse sognato qualcosa, lo avrebbe riferito all’altro e si
salutarono.
Il terzo giorno dell’anno nuovo, il vecchio onesto e il vecchio imbroglione si incontrarono
ancora una volta.
– Allora, ieri hai sognato qualcosa?
– Proprio cosí, ho fatto un sogno.
– Cosa hai sognato?
– Ho sognato che la fortuna mi pioverà dal cielo, – raccontò il vecchio onesto.
– Io, invece, ho sognato che la mia fortuna spunterà dalla terra, – gli fece eco l’imbroglione.
– Davvero? Sono entrambi bei sogni, – concluse il vicino, e si salutarono.
Passarono alcuni giorni.
– Oggi il tempo è bello. Andiamo a seminare i fagioli, – disse un mattino il vecchio onesto, e
si dette a dissodare il campo. Mentre lavorava, si udí un suono metallico come se la punta della
zappa avesse urtato una pietra. «Qui non dovrebbero esserci sassi», pensò. Meravigliato, fece per
rimuovere la pietra ed ecco che, sotto di essa, era sepolta una marmitta.
– C’è una pentola! – esclamò, e ne sollevò il coperchio: era colma di monete d’oro lucenti. Il
vecchio onesto sbalordí: «Questa deve essere la fortuna spuntata dalla terra che aveva sognato il
mio vicino. Devo subito avvertirlo», pensò, interruppe il suo lavoro e corse da lui.
– Vicino, è apparsa la tua fortuna che doveva spuntare dalla terra. Presto, va’ a prenderla, – gli
spiegò dove fosse e rincasò.
Una volta a casa, il vecchio onesto raccontò l’accaduto alla moglie:
– Il vicino non stava piú nella pelle dalla contentezza, vedrai che andrà a prendere la pentola
d’oro e la porterà a casa.
– Hai fatto proprio bene. Ora, però, avviciniamoci al fuoco, che è meglio, – disse la donna. I
due vecchietti si strinsero intorno al focolare e continuarono a parlare di quella vicenda.
Il vicino imbroglione, pazzo di gioia, si era precipitato al campo. In effetti, si vedeva che il
terreno era stato zappato e c’era una marmitta. «Le monete d’oro saranno lí dentro», pensò, e ne
sollevò il coperchio. Delle monete non v’era traccia e la pentola brulicava di serpenti. «Che gli
venga un colpo! Quel vecchiaccio mi ha giocato!» L’imbroglione avvampò di collera. «Bene,
bene. Gliela farò vedere io, la sorpresa».
Si caricò la marmitta sulle spalle e tornò indietro.
Prese in casa una scala a pioli e si arrampicò sul tetto del vicino. Dall’apertura del camino
sbirciò di sotto: il vecchio si stava scaldando le spalle al fuoco. «Prima si fa beffe della gente e
poi si riscalda!» pensò, e si adirò ancor di piú. Scoperchiò la marmitta e ne rovesciò il contenuto
in testa al vecchio. Questa volta, però, nella pentola non c’erano serpenti. Vere monete d’oro
piovvero alla rinfusa nella casa dei due vecchietti.
– Vecchia, il vicino ha avuto la sua fortuna dalla terra e noi abbiamo avuto la nostra dal cielo,
– disse il vecchio, e se ne rallegrarono.
E cosí si racconta che il sogno del secondo giorno di Capodanno si avverò e che i vecchietti
onesti divennero molto ricchi.

Niigata, Minamikanbara.
1. Secondo la tradizione, il primo sogno dell’anno nuovo era ritenuto di particolare importanza per prevedere il corso della
fortuna lungo tutto l’anno.
La donna carpa
In estate, l’acqua di un certo fiume simile al nostro Kariyata decrebbe. Due o tre uomini
gettarono le reti e pescarono una grande carpa nera. Quella carpa, la comprò un tale.
– Un momento, un momento. A ben guardare, sei una carpa nera. Da tempi lontani si dice che
quando le carpe nere hanno raggiunto i tre shaku di lunghezza non si devono piú mangiare. Se ne
hai la forza, non rimanere in questo fiume. Cerca di far piovere e fuggi via in tutta fretta, – le
disse, e la liberò.
Si arrivò alla metà del mese. La domestica di quel tale dovette tornare a casa all’improvviso.
Privato delle sue comodità, l’uomo si trovava a disagio. Avrebbe voluto prendersi una donna
giovane, ma in quell’epoca dell’anno era già trascorso il periodo delle assunzioni. Non trovò
quindi una buona aiutante.
Un bel giorno una giovane donna con un voluminoso fagotto si fermò dal venditore di tè alle
porte del villaggio e disse:
– Non ho genitori né fratelli. Non ci sarebbe un posto dove potrebbero prendermi a servizio?
Senza por tempo in mezzo, la padrona del negozio andò a chiedere a casa di quel tale.
– Portatemela subito qui, – rispose l’uomo, felice, e la vecchia gliela condusse. La giovane era
molto bella ed eseguiva prontamente qualsiasi cosa le si ordinasse: l’uomo ne fu soddisfatto.
– Fermati pure quanto vuoi, – disse, e le fece molti doni, sottokimono, geta e cosí via. La
donna, però, riponeva su uno scaffale tutti i regali senza mai usarli. La cosa in cui riusciva
meglio era la cucina: minestre e secondi piatti avevano un sapore squisito.
Trascorsero cosí due anni. L’uomo cominciò a convincersi che la donna avesse un che di
misterioso.
«Da quando è arrivata quella ragazza, si mangia meglio. Tutto ciò che prepara ha un sapore
eccezionale. Proverò a spiare come fa», pensò.
Un bel giorno, sbirciò in cucina attraverso un foro nello shōji. Vide cosí la donna che
dapprima stemperava il miso nel mortaio, poi lo metteva nella pentola di terracotta. Quindi si
arrotolava il kimono fino alla vita, tirava fuori qualcosa simile alla coda di un pesce, un carassio
o una carpa, e con esso rimestava nella pentola. «Questa, poi! È disgustoso! Si tratta di uno
spirito, non c’è dubbio. Sarà meglio che me ne liberi al piú presto». Senza attendere oltre, la
chiamò:
– Per una serie di ragioni, non posso piú tenerti qui. Era destino che andasse cosí, – le disse, e
la congedò.
Non avendo altra scelta, la donna prese con sé quello che aveva quando era arrivata e lasciò la
casa.
«Chissà dove andrà?» pensò l’uomo, e la seguí: sembrava avesse preso il sentiero che
conduceva alla sponda del fiume ma, giunta che fu nei pressi di un’ansa profonda, si tramutò di
colpo in una carpa nera e vi si tuffò con un guizzo. Sbalordito, l’uomo tornò a casa e raccontò a
tutti l’accaduto. Poi, andò a controllare la stanza che era stata della domestica: aveva lasciato lí
tutto quello che le era stato dato, dai soldi ricevuti nei due anni passati, ai geta, ai sandali, ai
sottokimono, al kimono foderato, alla giacca imbottita.
Allora comprese che altri non era se non la carpa, tornata da lui per gratitudine, e si sentí
molto triste.

Niigata, Minamikanbara.
Urihime
C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Un anno che avevano seminato cetrioli, su una
cunetta tra i solchi spuntò uno stelo particolarmente robusto. Per crescere era cresciuto, ma,
curioso a dirsi, portava fiorellini stentati, nessuno dei quali, chissà perché, dava frutti.
– È strano, – dicevano i due vecchietti. – Avremo scambiato un seme per un altro? –. Mentre
discutevano della cosa, lo stelo prese a crescere fino a raggiungere la sommità dell’argine e lí,
per la prima volta, si aprí un fiore senza pari. Il fiore si ingrossò e si allungò fino a diventare un
meraviglioso cetriolo, che poi si piegò quasi a toccare terra.
– Che cetriolo stupendo! – commentarono felici il vecchio e la vecchia. – Lasciamolo
maturare ben bene; poi, ne prenderemo i semi –. I due attesero che fosse giallo, se lo caricarono
sulle spalle e lo portarono a casa. Era pesante e lo lasciarono cadere con un tonfo sul pavimento
di legno. Nel colpo, per tutta la lunghezza del cetriolo si aprí una crepa. Dalla crepa si udí il
pianto di un neonato. La vecchia si precipitò a raccoglierlo: era una bimba paffuta.
Poiché era nata da un cetriolo, il vecchio e la vecchia la chiamarono Urihime , «Cetriolina».
1

La allevarono con affetto e, crescendo, Urihime divenne una giovane di straordinaria bellezza.
Molto abile al telaio, fu ben presto la piú brava del villaggio. Ogni giorno, senza eccezione,
Urihime sedeva al telaio al piano superiore e tesseva con impegno, tenkarakan, tenkarakan,
confezionando stoffe meravigliose. Grazie a lei, i due vecchietti potevano andare in
pellegrinaggio al tempio, in città. Al ritorno, non mancavano mai di portarle come omiyage le
patate che le piacevano.
– Urihime, siamo tornati. È merito tuo se siamo potuti andare al tempio. Ti abbiamo portato le
patate che ti piacciono tanto, – la chiamavano. Urihime lasciava il telaio e, dopo averle ripulite
una ad una, le mangiava.
In quel periodo, si aggirava da quelle parti la perfida Amanojaku che, mentre gli adulti erano
2

assenti, entrava nelle case dove vivevano giovani donne e si impossessava di loro. Quando ciò
accadeva, anche le ragazze piú miti cambiavano carattere e divenivano irrispettose e caparbie.
– Urihime, in città hanno visto sua eminenza l’abate. Noi andiamo a rendergli omaggio.
Finché non saremo tornati, rimani al piano di sopra e non aprire a nessuno, chiunque venga, –
dissero un giorno il vecchio e la vecchia e, sprangato l’uscio, si misero in cammino.
Urihime, tutta sola, se ne stava al telaio, tenkarakan, quando giunse Amanojaku che, imitando
la voce della figlia dei vicini, la chiamò:
– Urihime, Urihime!
– Che c’è?
– Andiamo a giocare? Fammi entrare!
– Oggi il nonno e la nonna non ci sono e io non posso uscire.
– Apri la porta.
– Il nonno e la nonna mi hanno detto di non aprire, perché c’è in giro Amanojaku.
– Quando è cosí, apri la porta solo quel tanto da farci passare un dito. Mi dispiace non poterti
neppure vedere.
Urihime, convinta che se pure Amanojaku fosse venuta non sarebbe riuscita a entrare, aprí la
finestra del piano superiore quel tanto da farci passare un dito.
– Urihime, non ti vedo neanche ora. Apri ancora un dito.
Di nuovo, Urihime aprí solo quel tanto da farci passare due dita.
– Urihime, apri ancora un dito.
Poiché aveva aperto tanto da farci passare due dita e nulla era accaduto, Urihime aprí ancora
quel tanto da farci passare tre dita. Prima che se ne potesse accorgere, un orribile artiglio si
insinuò nella fessura e, spalancando con un gran frastuono i battenti, Amanojaku irruppe nella
stanza. Urihime, terrorizzata, cadde svenuta.
Quando, poco dopo, riprese conoscenza e si sollevò da terra, ormai non era piú quella di
prima. Posseduta da Amanojaku, il suo volto era spaventoso. Si dette a tessere rumorosamente
incurante che il filo si potesse spezzare.
Poco tempo dopo, i due vecchi tornarono dalla città con le patate come regalo.
– Urihime, siamo tornati, – dissero dopo aver aperto la porta.
Una Urihime diversa dal solito scese con passo pesante dal piano superiore e con voce roca
chiese:
– Dov’è il regalo?
Quasi strappò le patate dalle mani della vecchia e, senza neanche pulirle, le divorò cosí
com’erano. Il vecchio e la vecchia la guardavano meravigliati: finito di mangiare, Urihime tornò
di sopra trascinando i piedi e cominciò a tessere con gran fracasso, jangara, jangara.
L’uomo uscí nell’orto e, mentre rifletteva su quella strana faccenda, un uccellino giunse
volando leggero e si posò su un albero di fico lí accanto. Poi, come se avesse una gran fretta,
cinguettando insistentemente prese a svolazzare davanti alla casa. Il vecchio prestò orecchio a
quel canto:
Amanojaku seduta si è
al telaio di Urihime.
Ehi, voi, cacciatela via!
L’uccellino non smetteva di cinguettare svolazzando davanti alla casa. «Dunque Amanojaku
si è impossessata della nostra Urihime», pensò il vecchio, e si precipitò al piano superiore. A
quel rumore, Urihime si voltò a guardare: dall’espressione del viso, il vecchio sembrava
intenzionato a sbranarla. Lasciò il telaio tentando di fuggire, ma inciampò nella barra e rovinò a
terra. Nella caduta, batté con tanta violenza il volto e il petto che ne morí. Allora, da sotto il suo
corpo si levò in volo, con schiamazzi sinistri, un uccello nero, grande come un colombo.
Stupita da tanto chiasso, la vecchia salí a vedere: trovò il vecchio impietrito accanto a
Urihime distesa a terra. I due si aggrapparono alla ragazza e presero a chiamarla per nome
piangendo, ma Urihime non si mosse. Poi, con il passare delle ore, il corpo della giovane si
trasformò in un lungo cetriolo. Dicono che da quel giorno nell’orto dei due vecchi nacque un
frutto da ogni foglia.

Niigata, Koshi.
1. In giapponese, uri è un termine generale per piante della famiglia delle Cucurbitacee, che comprende cetriolo, cocomero,
zucca, luffa, melone, lagenario, ecc. Si è qui preferito tradurlo come «cetriolo» seguendo l’indicazione proposta da Seki
Keigo nella sua raccolta Nihon no mukashibanashi. Hime ha come primo significato «principessa, giovane signora», ma
spesso viene usato come semplice vezzeggiativo per nomi di ragazze e bambine.
2. Vedi Glossario.
La yamanba che fece da sensale
È successo tanto, tanto tempo fa. In un certo luogo, una vecchia viveva con il suo unico figlio.
Desiderava una sposa per lui, ma erano poverissimi: non c’era verso che una giovane in età da
marito accettasse di venire.
Una volta, poco prima di Capodanno, in una notte di tempesta si udí bussare e, aperta la porta
di casa, entrò qualcuno. Guardarono bene: una vecchia sconosciuta era entrata trascinando i piedi
e chiese:
– Mi spiace disturbare, questa notte c’è una forte tempesta. È molto ciò che vi chiedo, ma
fatemi riscaldare per favore.
Si avvicinò quindi al fuoco. Poi parlarono del piú e del meno.
– Oh, ma qui non c’è una sposa?
– Siamo poveri: non c’è nessuna che sia voluta venire, né qualcuno che se ne sia occupato.
– Davvero? Se le cose stanno cosí, sarà mia cura procurarti una bella giovane in età da marito,
– disse la vecchia, e se ne andò chissà dove, cosí come era venuta.
Una notte, di fronte alla casa si udí un gran tonfo, come fosse caduto qualcosa. Il figlio si
precipitò fuori a vedere: incredibile a dirsi, vi trovò un elegante palanchino. Dentro il palanchino,
una bellissima fanciulla vestita di meravigliosi kimono era adagiata come morta. La madre e il
figlio, sbalorditi, la portarono in casa, la sistemarono al calore del fuoco, le usarono ogni
premura e se ne stettero a osservarla confusi.
– Che ti è capitato?
– Io sono la figlia dei Kōnoike di Ōsaka. Sono stata rapita nel bel mezzo del corteo nuziale e
abbandonata in questo posto sperduto tra le montagne.
– Ah, davvero? È cosí?
La madre e il figlio la trattavano con grande riguardo.
Una notte, giunse all’improvviso la vecchia di qualche tempo prima. Intimò alla giovane:
– Io ti ho fatto da sensale e ti ho data in sposa a questa casa. Sono un dèmone: se tenterai di
fuggire di qui, ti divorerò.
Poi se ne andò di nuovo. Non c’era altro da fare: la ragazza accettò di sposarsi e prese a vivere
lí.
Senonché, nella casa dei Kōnoike di Ōsaka, tutti erano in grande agitazione perché la figlia
era stata rapita. La cercarono da ogni parte e vennero a sapere che si trovava in una misera casa
di un villaggio fra le montagne di Echigo. Subito, le persone di servizio si affrettarono a
raggiungerla.
– Siamo venuti a prendervi. Presto, torniamo a Ōsaka.
– No, mi trovo bene con il figlio di questa casa. Non desidero recarmi altrove, – rispose, e non
ci fu verso che accettasse di seguirli. Quando, giunti che furono a Ōsaka, gli inservienti riferirono
tutto ciò ai genitori, questi ordinarono:
– Se le cose stanno cosí, costruite per nostra figlia una casa, un magazzino per il riso e uno per
i vestiti. Ha il permesso di stabilirsi a Echigo.
Cosí, visse tra gli agi.
Questo è tutto ciò che si racconta.

Niigata, Koshi.
È stata molto usata
C’era una volta una vecchia. In un giorno di bel tempo andò al fiume a sciacquare una grande
pentola. Mentre era accovacciata per lavarla, senza volerlo finí per mostrare una parte importante
di sé. In quella, si trovò a passare di là un giovane del paese. La vecchia ignorava di averla in
bella vista e il ragazzo decise di avvertirla giacché non era il caso che altri la vedessero. D’altra
parte, non era certo un argomento del quale si potesse parlare apertamente.
– Nonna, l’hai tirata fuori, – disse allora.
– Certo, visto che il tempo era bello, – rispose la donna.
Non sembrava avesse capito e il ragazzo provò a insistere:
– Quella cosa grande…
Convinta che stesse parlando della pentola, replicò:
– È la piú grande di tutte.
– È nera… – continuò l’altro.
– Beh, certo, è stata molto usata.
Disperato, il giovane si allontanò.

Niigata, Minamiuonuma.
Il vecchio e il granchio
Dicono sia accaduto tanto tempo fa.
C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Un giorno, il vecchio andò al fiume, trovò un
granchio e se lo portò a casa. Lo sistemò sotto la veranda e, se c’era qualcosa di buono da
mangiare, prima di tutto lo divideva con lui. Quando andava in città, non dimenticava mai di
comprargli le patate dolci arrostite che gli piacevano e gliele offriva.
Il granchio ormai, si era affezionato al vecchio. L’uomo andava da lui e lo chiamava:
– Il nonnino è qui. Qui, Granchio! Qui, qui!
L’animaletto usciva dalla tana, riceveva la sua parte di leccornie e mangiava felice.
Tuttavia, poiché il vecchio sembrava occuparsi solo di lui, la cosa cominciò a dare sui nervi
alla vecchia. «Da quando è arrivato quell’animale, mio marito non divide con me le cose piú
gustose, ma ne dà solo al granchio. Alla prima assenza del vecchio, avrà il fatto suo!» pensava la
donna.
Un giorno, l’uomo dovette recarsi in città.
– Quell’accidente di granchio avrà ciò che si merita, – disse la vecchia, e andò alla veranda
nascondendo un pezzo di legno.
Poi, imitò il vecchio:
– Il nonnino è qui. Qui, Granchio! Qui, qui!
«Il vecchio è già di ritorno e mi avrà portato come sempre qualcosa di buono», pensò il
granchio, e uscí felice da lí sotto. Tuttavia, ad attenderlo non trovò il caro vecchietto: la vecchia
era lí con occhi fiammeggianti d’ira e un’espressione che incuteva terrore. «Povero me!» pensò
l’animale tentando di fuggire nella sua tana, ma la vecchia lo colpí sul carapace con il legno che
teneva nascosto. Forse perché non si aspettava una tale violenza, forse perché era stato colpito in
un punto vitale, il fatto è che il povero granchio morí agitando le chele in preda ad atroci
sofferenze.
«L’ho fatta grossa!» pensò la vecchia. Ciononostante, poiché i granchi le piacevano molto,
prima che il vecchio fosse di ritorno lo fece bollire e se lo mangiò. Poi scavò una fossa profonda
nel boschetto di bambú dietro casa, vi seppellí il carapace e i resti dell’animale e rientrò come se
niente fosse successo.
Tornato dalla città, il vecchio andò come sempre alla veranda con le patate arrostite che
piacevano al granchio.
– Il nonnino è qui! Qui, Granchio! Qui, qui! – chiamò.
Tuttavia, il granchio, che come d’abitudine sarebbe dovuto uscire subito, quel giorno non
accennava a farsi vivo. Per quanto lo chiamasse, non veniva: convinto che fosse andato a fare un
giro nei campi dietro casa, andò a cercarlo. Cerca di qua, cerca di là, del granchio nessuna
traccia. «Che sarà successo?» pensava il vecchio che se ne stava impalato senza sapere che pesci
pigliare, quando dal boschetto venne verso di lui un grazioso uccellino che si posò sul ramo di un
albero lí di fronte e cinguettò:
– Cip cip!
Poi, tornò nel bosco.
Il vecchio non aveva mai visto prima un uccello dal canto cosí armonioso. «Che uccello
sarà?» si chiedeva ammirato, ed ecco che quello volò di nuovo verso di lui, cinguettò e tornò nel
bosco. L’uccellino volò avanti e indietro allo stesso modo un gran numero di volte: l’uomo trovò
quel comportamento piuttosto strano e provò a seguirlo. Scoprí tracce di terra smossa.
«Qualcuno deve aver scavato qui», pensò. L’uccellino stava grattando la terra con le zampette,
ma quando il vecchio gli si avvicinò volò via di nuovo.
Sempre piú meravigliato, l’uomo andò a guardare meglio e trovò sparpagliati il carapace e le
zampette del suo granchio. «Chi ha potuto farmi questa cosa orrenda? Non sarà mica stata la mia
vecchia? I granchi, li mangia volentieri», pensò, e tornò a casa furibondo.
– Vecchia, vecchia, mi hanno fatto una cosa tremenda. Nel boschetto dietro casa c’è il
granchio morto.
Mentre parlava, il vecchio crollò a terra per il troppo dolore. Sbalordita, la moglie fu presa dal
rimorso per l’orribile azione che aveva compiuto.
– Vecchio, vecchio, perdonami, te ne prego. Sono stata davvero crudele. Non avevo
intenzione di ucciderlo, volevo solo spaventarlo: l’ho colpito con un pezzo di legno ed è morto.
Perdonami, te ne prego, – lo implorava tra le lacrime.
Il marito si sollevò da terra:
– Va bene, va bene. Hai fatto una brutta cosa, ma hai riconosciuto il tuo errore e ti perdonerò,
– disse, e cosí fece.
Poi, i due anziani coniugi eressero insieme una tomba per il granchio dentro il boschetto.
Raccontano che ancora oggi qualche volta un grazioso uccellino viene cinguettando:
– Cip cip!

Niigata, Koshi.
L’albero d’oro
C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Un giorno, il vecchio andò alla spiaggia a
raccogliere alghe quando, portata dalla corrente, venne verso di lui una canoa. Il vecchio vi
guardò dentro: c’era una giovane donna che, da giorni e giorni in balia delle onde, era ormai in
fin di vita.
Il vecchio le prestò soccorso e la condusse a casa con sé. Poi, lui e la vecchia se ne presero
cura come meglio poterono: la fanciulla si rimise in forze e fu felice delle attenzioni ricevute dai
due anziani coniugi. Poiché il vecchio e la vecchia non avevano figli, decisero di nominarla loro
legittima erede.
Prima di essere abbandonata alle correnti, la giovane era rimasta incinta: poco tempo dopo
dette alla luce un maschietto che era proprio un gioiello. Il vecchio e la vecchia ne furono
entusiasti. Il bimbo crebbe e arrivò ai sette, otto anni. Chiedeva e richiedeva alla madre:
– I miei compagni di giochi hanno tutti un babbo e una mamma. Io, invece, ho solo un nonno,
una nonna e una mamma. Perché non ho il papà?
Tuttavia, la madre esitava a fargliene conoscere la ragione.
Un tempo, la donna era stata la consorte del signore di un certo luogo. Era giovane e bella e il
feudatario la colmava di attenzioni. Le sue amiche però avevano preso a odiarla e, dopo molto
tramare, avevano nascosto sotto il letto del signore il guscio vuoto di una noce di kaya . Quando,
1

all’oscuro di tutto, il feudatario si era sdraiato accanto all’amata, il guscio si era rotto con un
rumore sgradevolissimo. All’udirlo, le altre donne si erano finte scandalizzate che avesse osato
fare un peto al cospetto del signore: il feudatario era stato preso dalla collera e aveva esiliato la
donna.
– Tuo padre era quel feudatario, – disse la madre, e lo mise infine a parte della vicenda.
Da allora, il bambino prese ad assillare la donna ogni giorno:
– Fammi andare da lui.
Non avendo scelta, la madre acconsentí. Poi, gli dette due piccole monete d’oro da utilizzare
durante il cammino. Il bambino andò alla spiaggia e con una pietra ridusse in polvere una delle
due. Poi avvolse la polvere ottenuta nella carta, la ripose nello scollo del kimono e si mise in
viaggio verso il paese del feudatario. Giuntovi, prese a percorrere ogni giorno il perimetro del
castello, gridando a gran voce un numero infinito di volte:
– Qualcuno vuole semi dell’albero d’oro? Qualcuno vuole semi dell’albero d’oro?
All’inizio nessuno si curò di lui. Qualche tempo dopo, però, il signore del luogo a furia di
sentirlo si disse: «Che strano venditore! Chiamiamolo e mettiamolo alla prova».
Dette l’ordine ai servitori e lo fece condurre a castello.
– Cosa sono i semi dell’albero d’oro? – gli chiese.
Il ragazzo allora, mostrando la polvere avvolta nella carta che aveva preparato, rispose:
– Questi sono i semi dell’albero d’oro. Se li semini nella cenere del braciere e li nutri ogni
giorno con le foglie usate del tè, dànno vita a un grande albero d’oro o d’argento, come desideri.
Tuttavia, per germogliare devono essere seminati solo da persone che non abbiano mai fatto
neanche un peto dalla nascita.
– Che sciocchezze vai dicendo. Non esiste al mondo persona che non abbia mai fatto un peto,
– ribatté il signore accigliandosi.
– Allora perché hai esiliato mia madre accusandola di averne fatto uno? – chiese l’altro di
rimando.
Solo allora il signore del luogo comprese che il bambino era suo figlio. Poiché non aveva
eredi, felice, lo designò tale.
E con ciò, la storia finisce.

Niigata, Sado.
1. Noce moscata giapponese (Torreya nucifera).
Il sandalo di tre shaku
Al villaggio di Haetsubaki viveva, un tempo, una famiglia di nome Nagayoshi. La
componevano una vecchia e la figlia Osoyo che, mi dicono, quanto a bellezza, era la prima del
villaggio. Tuttavia, dormigliona qual era, non c’era verso che rimanesse sveglia.
La vecchia desiderava un marito per la sua unica figlia, che, cosí bella, ne trovò subito uno.
Poiché la giovane non faceva che dormire oltre ogni immaginazione, il genero prese a non
sopportarne piú la vista e finí per andarsene. Per quanti uomini la sposassero, a causa del suo
continuo dormire l’abbandonavano tutti.
Stando cosí le cose, la donna disse alla figlia:
– Non fai altro che poltrire e i tuoi mariti se ne sono andati, ma non puoi stare senza un uomo
e devi assolutamente trovarne uno. Siamo d’accordo? E questa volta cerca di comportarti bene.
– Se gli uomini continuano ad andarsene, sarò accusata di essere una figlia ingrata, perciò
questa volta conta pure su di me: informati per favore se c’è qualcuno, – rispose la figlia.
La madre si rivolse allora ai parenti:
– Anche lei è d’accordo. Per favore, occupatevene voi.
E dicono che di nuovo le trovarono subito un marito. La giovane era bella e lo sposo fu felice.
Passò una notte, ne passarono due, ed ecco che la ragazza riprese a dormire senza ritegno e non
ci fu niente da fare.
Una sera il genero domandò alla vecchia:
– C’è qualche lavoro da fare questa notte?
– Dunque, vediamo, che ne diresti di intrecciare un sandalo di paglia? – gli rispose.
La donna non voleva far sapere al genero che la figlia dormiva dal mattino alla sera e,
sperando che si svegliasse, si dette a raccontare storie inventate di sana pianta:
– Osoyo, oggi è successo questo e quest’altro. Di fronte al santuario, c’è stata una
rappresentazione di nō, non è vero?
Ma era tutto inutile, la ragazza non prestava ascolto. Quando se la dormiva della grossa,
quella benedetta figlia, non sentiva proprio niente.
Mentre chiacchierava, la madre legava insieme fili di canapa. Distratta dal continuo scrutare il
volto della figlia, non si accorse che una scintilla era caduta nel sacco che li conteneva: parlava e
parlava, ma non aveva occhi che per la ragazza. Il genero, da parte sua, si arrovellava: «Non
credevo fosse cosí pigra. Se dorme tanto, come faremo?» Continuando a intrecciare il sandalo,
teneva gli occhi fissi sulla giovane. Nel frattempo la suocera non si era accorta che la canapa
aveva preso fuoco e l’intero sacco finí per bruciare. «Sta dormendo, continua a dormire»: assorto
in questi pensieri, anche il genero dimenticò di intrecciare il calcagno del sandalo e ne
confezionò uno enorme.
– Cosa hai combinato? – gli disse allora la donna. – Io ho bruciato un intero sacco di canapa,
tu hai fabbricato un sandalo fuori misura. Tutto il lavoro della notte non è servito a nulla. Di
questo passo, piú lavoriamo piú soldi sprechiamo. Non rimane che andarcene subito a letto.
E cosí, dicono, tutti e tre si misero a dormire.

Niigata, Sado.
Il villaggio degli sciocchi: «Portate un negi»
Il signore di Matsumoto andò ad ammirare le montagne. Si fermò alla locanda di un villaggio.
Essendo il soba la specialità del luogo, gliene servirono, senza portare però il condimento.
– Portate gli aromi, – ordinò il signore. Gli abitanti del villaggio non sapevano neanche cosa
fossero, gli aromi, e dopo essersi consultati, chiesero chiarimenti.
– Sta parlando del negi, – spiegò l’attendente riferendosi al porro. Senonché, gli abitanti
pensarono che volesse invitare il negi, il sacerdote shintoista, e lo andarono a chiamare.
– Il negi è arrivato, – riferirono, ma quelli risposero:
– Ormai abbiamo finito di mangiare. Lasciatelo lí.
Per quanto aspettassero, non arrivavano altre istruzioni e cosí chiesero di nuovo chiarimenti.
– Lasciatelo pure in un angolo della cucina, – fu detto loro.
Piú tardi, l’acqua calda per lavarsi le mani non veniva servita e il signore chiese:
– Perché non portano l’acqua? – L’attendente ordinò allora di far girare l’acqua calda, chōzu,
da un commensale all’altro, ma gli abitanti del villaggio non capirono cosa significasse quella
parola e chiesero all’abate buddhista.
Questi rispose:
– Chō significa «lungo» e zu «collo»: dovete far girare un collo lungo.
In quattro e quattr’otto, mandarono a prendere l’uomo con il collo piú lungo del villaggio e
glielo fecero roteare di qua e di là. Il signore di Matsumoto sbalordí.
Arrivò il giorno seguente. Il sacerdote, che era rimasto seduto in cucina, sembrava ridotto
male e gli abitanti del villaggio chiesero:
– Cosa ne dobbiamo fare del negi?
– Se è cosí malridotto, interratelo in un angolo soleggiato del campo, lasciando che ne spunti
solo la testa di circa due sun.
Seguirono le istruzioni e lo interrarono. Calò la sera e il sacerdote sembrava sul punto di
morire.
– Il negi sta per morire, – riferirono, e l’attendente disse:
– Quando è cosí, bisogna innaffiarlo con urina fresca.
Lo fecero, ma il negi non resse a tanto e morí. Informarono l’attendente:
– Ha chiuso gli occhi.
A quelle parole, l’uomo andò a vedere di persona: al posto del porro trovò il sacerdote. Il
signore di Matsumoto ne fu molto impressionato.
Il feudatario doveva rientrare, chiamò il capovillaggio e insieme andarono ad ammirare la
montagna. Gli alberi erano molto belli e il signore non risparmiò le lodi. Pensando di farne un
regalo al suo ritorno, ordinò al capo:
– Scortecciami quell’albero di katsura vicino al cipresso.
Il capovillaggio fraintese:
– Scorticami il grugno di Katsu, il vicino qui appresso.
Forse il signore trovava interessanti i tratti campagnoli di un tale che si chiamava Katsu,
pensò il capovillaggio. Subito lo cercò, gli scuoiò la faccia e ne portò la pelle al feudatario.
Spaventato, il signore di Matsumoto si affrettò a partire.

Nagano, Kamiina.
Pelle di vecchia
C’ era un uomo molto ricco, la cui sposa era morta dando alla luce una bimba. Cosí, prese di
nuovo moglie e ancora una volta ebbe molti figli.
La matrigna, che detestava la figliastra, desiderava liberarsene e ordinò alla nutrice di
mandarla via di casa, non importa dove. La nutrice provò compassione per lei ma alla fine,
pensando che se l’avesse tenuta lí, non si poteva prevedere cosa le sarebbe successo, si consultò
con il padrone e decisero di darle mille monete d’oro e di mandarla via. Poi, la donna si rivolse
alla giovane:
– Hai con te molto denaro e sei bella, per giunta: se non sarai piú che prudente, potrai trovarti
in pericolo.
Detto ciò, le consegnò una pelle di vecchia.
Copertasi dalla testa ai piedi, la giovane prese l’aspetto di una donna anziana e lasciò la casa.
Vagava senza meta, quando in una città fu assunta come sguattera nella casa di un signore. La
giovane lavorava sempre coperta dalla pelle di vecchia. Quando faceva il bagno, cercava di
entrare nella stanza solo dopo che tutti se ne erano andati, e cosí poteva togliersela senza correre
il pericolo di essere scoperta da qualcuno.
Una sera, come sempre si immerse nell’acqua calda dopo essersi liberata della pelle di
vecchia. All’improvviso il giovane signore la scoprí e da quel momento, con il pensiero fisso a
quella bella donna, pian piano finí per perdere la salute. Preoccupato, il padre si rivolse a un
indovino e questi gli disse:
– Il giovane si è innamorato di una persona di questa casa: se si unirà a lei, la sua malattia
guarirà.
Cosí fecero sfilare nella stanza del malato, una dopo l’altra, tutte le giovani, da quelle di rango
piú elevato fino alla piú umile delle serve, e ognuna gli chiedeva:
– Volete la medicina o preferite dell’acqua calda?
Tuttavia, non ce n’era neppure una che avesse destato il suo interesse: il giovane sollevava
appena la testa per poi tornare immediatamente a sdraiarsi. Da ultimo, venne il turno della
sguattera:
– Che senso ha, una vecchia come me? – insisteva, e non voleva andare, ma le fu ordinato di
entrare senz’altro.
Una volta nella stanza, disse:
– Volete che vi prepari la medicina?
Subito, venne riconosciuta. Si tolse allora la pelle di vecchia e si tramutò in una giovane
stupenda: cosí, divenne la sposa di quella casa e dicono che visse per sempre accompagnata dalla
fortuna.

Niigata, Mitsuke.
Il monaco Zuiton
C’era una volta un monaco che viveva in un tempio su una montagna. Tutte le sere, un tanuki
veniva a molestarlo. Calata la notte, quando l’uomo si accingeva a mettersi a letto,
invariabilmente dall’altra parte delle imposte il tanuki lo chiamava a gran voce:
– C’è Zuiton?
Seccatissimo, il monaco non trovava il modo di sottrarsi a tutto ciò.
«Dovrò pur vendicarmi!» si disse. Una sera, dopo aver preparato una gran quantità di cibo,
patate e rafani, e aver comprato del sake, si mise in attesa:
– Questa sera, quella bestiaccia avrà quel che si merita.
Alla solita ora, al di là delle imposte si udí:
– C’è Zuiton?
Dall’interno, il monaco rispose con voce non meno sonora di quella del tanuki:
– Sí, ci sono.
– C’è Zuiton?
– Sí, ci sono.
– C’è Zuiton?
– Sí, ci sono.
Anche il tanuki gridava a squarciagola, tentando di superare la voce dell’altro. Senonché
Zuiton, che aveva mangiato bene e bevuto ancor meglio, continuava a rispondere pieno di
vigore, mentre il tanuki si sgolava:
– C’è Zuiton?
Pian piano, l’animale cominciò a perdere le forze e la sua voce si fece sempre piú flebile.
– C’è Zuiton? – chiese alla fine con un filo di voce, e il resto si perse in un mormorio.
Il tanuki non parlò piú e il monaco si addormentò. Il giorno seguente, quando aprí le imposte
di buon’ora, trovò l’animale stecchito, con la pancia squarciata dal troppo gridare.

Nagano, Kamiina.
La montagna dei vecchi abbandonati (1)
In passato, con l’espressione «il salto nella valle dei sessant’anni», si indicava la pratica per
cui, al compimento del sessantesimo anno d’età, gli anziani ritenuti ormai non piú buoni a nulla
venivano precipitati in una valle.
In un villaggio, il padre di un contadino aveva compiuto sessant’anni e, secondo gli ordini del
signore del luogo, era giunto per lui il momento di essere gettato nella valle. Il figlio, dunque,
portando il genitore a cavalcioni sulle spalle, si mise in viaggio verso i recessi della montagna,
quando il padre prese a spezzare i ramoscelli degli alberi lungo la strada che stavano percorrendo
per farne dei punti di riferimento.
– Padre, padre, non penserai di tornare a casa? – chiese il figlio, e il padre rispose:
– No di certo. Ma se tu non riconoscessi la via del ritorno, non sapresti che fare. Per questo
lascio dei segnali.
A quelle parole, pieno di riconoscenza, il figlio se ne tornò a casa portando con sé il genitore.
Da quel momento, nascondendolo sotto la veranda, fece in modo che il feudatario non sapesse.
Il signore del luogo era uno di quelli che chiedono sempre cose impossibili. Un giorno,
radunò i contadini e ordinò:
– Portatemi una fune fatta di cenere.
Non c’era modo di intrecciare una fune con la cenere e i contadini non sapevano che pesci
pigliare. Il nostro tornò a casa e chiese al padre, nascosto sotto la veranda.
– Oggi il feudatario ci ha ordinato di portargli una fune di cenere, ma come si fa?
– Intreccia una fune torcendola ben bene, bruciala con molta cura fino a ridurla in cenere e
portagliela, – lo istruí il padre. Il contadino, felice, fece subito quanto gli era stato indicato e
portò la fune di cenere che aveva ottenuto. Nessuno degli altri contadini ne era stato capace e
solo il nostro aveva eseguito l’ordine. Per questa ragione, il signore ne rimase ammirato.
Poi gli fu ordinato:
– Questa volta fa passare un filo nella conchiglia di uno strombo.
Il contadino tornò a casa e di nuovo chiese al padre. Questi lo istruí:
– Tieni la conchiglia rivolta verso la luce, poi attacca all’estremità del filo un granello di riso
e fallo mangiare a una formica; la formica trascinerà con sé il filo e questo passerà attraverso lo
strombo.
Il contadino fece quanto gli era stato detto e portò al feudatario la conchiglia attraverso cui
passava il filo. Il signore fu pieno di ammirazione nei suoi confronti. Gli chiese poi:
– Come sei riuscito a fare cose tanto difficili?
Il contadino rispose con sincerità:
– A dire il vero, ho avuto pena di gettare mio padre nella valle, l’ho ricondotto a casa e l’ho
nascosto sotto la veranda. Poiché era difficile eseguire ciò che ordinavate, gli ho chiesto
consiglio e lui mi ha indicato di fare cosí e cosí. Seguendo le sue istruzioni, ho portato ciò che mi
avevate chiesto.
A quelle parole il feudatario, molto colpito, comprese che si doveva aver cura degli anziani,
che avevano tanta esperienza, e da allora sospese la pratica del «salto nella valle».

Nagano, Shimoina.
I due pigroni
C’era una volta un uomo molto pigro. Un giorno, si fece preparare dalla moglie dei
nigirimeshi, si fece appendere il sacchetto al collo e si avviò in città con le mani nelle maniche
del kimono.
All’ora del pranzo l’uomo cominciò a sentire un certo appetito. Tuttavia, poiché era pigro, gli
dava noia anche solo tirare fuori i nigirimeshi dal sacchetto. «Dovrò attendere che passi qualcuno
e me li prenda», pensò. Camminava senza occuparsi di altro, quando venne verso di lui un uomo
con la bocca spalancata. Per tenerla aperta a quella maniera, doveva sicuramente essere in preda
ai morsi della fame. «Se glielo chiedo, lui mi aiuterà di certo», si disse, e gli propose:
– Scusami, qui nel sacchetto legato al collo ho degli onigiri, ma proprio non ho voglia di
muovere le mani. Se me li prendi tu, potremmo dividerceli.
Allora l’altro rispose:
– È un po’ che la stringa del mio cappello si è allentata e non ho nessuna voglia di
riannodarla. Prima o poi qualcuno lo farà per me: intanto, me ne sto cosí a bocca aperta per
evitare che mi cada il cappello.

Nagano, Shimoina.
La malattia del cappello di paglia
Dopo aver bevuto molto sake, a un ubriacone venne voglia di bere acqua. Non c’era che
dell’acqua sporca pullulante di larve di zanzara, ma non seppe resistere e la tracannò. Senonché,
le larve presero a brulicargli nello stomaco ed egli si mise a letto dolorante.
Venne un tale che gli suggerí:
– Se è per questo, basta ingoiare un pesce rosso.
L’uomo mandò giú il pesce che prese a nuotare qua e là a caccia delle larve, ma quello
stomaco dell’accidente gli doleva sempre piú.
Venne un altro che lo consigliò:
– Se è per questo, basta ingoiare un uccello.
Il malato mandò giú l’uccello, che mangiò tutti, pesce rosso e larve, ma poi prese a battere le
ali. L’uomo non sapeva piú cosa fare.
Udita la storia, di nuovo un tale gli disse:
– A prendere uccelli è molto bravo un vecchio che abita accanto a me.
L’uomo lo mandò a chiamare. Il vecchio uccellatore si mise un copricapo di paglia come
faceva sempre, portò con sé una pertica, entrò nella pancia del malato e catturò l’uccello.
Tuttavia, al momento di tornare indietro, finí per dimenticarsi il cappello.
Fu cosí, dicono, che nacque la malattia del «cappello di paglia» . 1

Nagano, Chiisagata.
1. In giapponese, kasa, «cappello di paglia», è omofono di kasa, termine popolare per «sifilide».
La gratitudine del lupo
C’era una volta un uomo. Una notte, per un lavoro urgente, dovette andare al villaggio al di là
del valico.
Era una notte molto buia. Sul passo cresceva un fitto bosco di grandi alberi che incuteva
timore anche alla luce del giorno. Vi si stava inoltrando tutto solo, quando di fronte a lui udí uno
strano rumore.
«Sarà il solito tanuki», pensò, continuando a salire. Questa volta invece udí un latrato simile a
un rantolo. Si chiese cosa mai potesse essere e scrutò in direzione di quei rumori alla luce della
lanterna: un lupo dalle fauci spalancate protendeva il collo e si stringeva nelle spalle, ma non
sembrava affatto intenzionato ad avventarsi su di lui. L’uomo gli si fece piú vicino. Il lupo, che
fino ad allora era rimasto in piedi, piegò le zampe anteriori come per inchinarsi e all’uomo parve
proprio che gli chiedesse di liberarlo da ciò che gli procurava dolore.
Guardò bene: aveva qualcosa in gola.
– Ora ti aiuto, – gli disse l’uomo, si liberò il braccio dalle vesti, affondò la mano nelle fauci
del lupo e prese la cosa che vi si era impigliata: era un osso.
– Ma guarda che osso grande! D’ora in avanti dovrai fare piú attenzione, – gli disse, e il lupo,
mugolando felice, sgattaiolò verso i recessi della montagna.
Passarono alcuni giorni e l’uomo fu invitato a una festa in una casa del vicinato. Mentre
facevano onore alla tavola, davanti alla casa si udí un poderoso ululato. Impalliditi, i presenti
rabbrividirono.
– Vado io a vedere, – disse l’uomo, e uscí.
Era il lupo che qualche tempo prima aveva soccorso sul passo di montagna. L’animale lo
riconobbe, subito si fece docile come un gattino e venne ai suoi piedi. Gli accarezzò la testa e il
lupo lo ricambiò, felice, leccandogli la mano.
– Hai apprezzato cosí tanto il mio gesto, l’altra volta? – gli disse. Con un tonfo, il lupo spinse
verso la porta della casa una cosa nera che gli era a fianco. Poi, con un fruscio fuggí verso la
montagna. L’uomo guardò bene: era un fagiano.
Il lupo lo aveva portato come ringraziamento.

Nagano, Shimoina.
Issunbōshi1

Tanto tempo fa, in un certo luogo, una coppia viveva d’amore e d’accordo. Non avevano figli,
ma ne desideravano a tal punto che si sarebbero accontentati di un bimbo piccolo come la punta
di un dito. Un giorno, andarono al santuario di Sumiyoshi e supplicarono:
2

– Divinità di Sumiyoshi, concedeteci un figlio, magari piccolo come la punta di un dito.


Fu cosí che, dopo nove mesi, nacque un bel bambino.
Lo chiamarono Issunbōshi e, nonostante fosse piccolo proprio come la punta di un dito, lo
allevarono con molto affetto. Tuttavia, poiché, per quanto tempo passasse, il bimbo non
cresceva, un giorno gli dettero un ago da cucire come spada e lo mandarono via di casa.
Issunbōshi non aveva altra scelta: si fece dare dalla madre anche una ciotola e due bacchette
per il riso. A bordo della ciotola e remando con le bacchette, dopo giorni e giorni approdò alla
capitale del Giappone, dove risiedeva l’imperatore.
Gironzolava qua e là, quando si trovò di fronte una splendida casa. Entrò nel genkan e chiamò
con quanto fiato aveva in gola:
– C’è nessuno? C’è nessuno?
Chiedendosi di chi fosse quella strana voce, gli abitanti della casa si affacciarono sull’uscio:
piú basso di un geta, un essere umano minuscolo se ne stava lí, in piedi.
– Eri tu che chiamavi?
– Sí, il mio nome è Issunbōshi e sono stato cacciato di casa dai miei genitori. Vi prego, fatemi
restare qui da voi.
Averlo in casa sarebbe stato divertente: decisero cosí di tenerlo con loro.
Issunbōshi era piccolo di statura, ma molto intelligente. Qualunque cosa gli facessero fare, se
la cavava e tutti lo coccolavano, Issunbōshi di qua, Issunbōshi di là. In particolar modo, se ne
invaghí la principessa.
Un bel giorno, andò a pregare la dea Kannon e lo condusse con sé. Sulla via del ritorno si
imbatterono in due orchi. Mentre gli orchi tentavano di afferrare la fanciulla, Issunbōshi,
roteando l’ago che portava al fianco, gridò a gran voce:
– Chi credete io sia? Sono Issunbōshi, venuto a onorare la dea Kannon al seguito della
principessa.
Per tutta risposta, uno di loro se lo ingoiò in un sol boccone. Ma Issunbōshi era cosí piccolo
che anche nella pancia del mostro riuscí a muoversi liberamente; brandendo la spada si girò e
rigirò pungendolo e l’orco, sbalordito, lo vomitò. Allora l’altro afferrò Issunbōshi tentando di
schiacciarlo, ma questi, cogliendolo impreparato, si lanciò contro i suoi occhi che punse e colpí
con l’ago finché l’orco non poté piú resistere e fuggí a gambe levate.
Sostenendo la principessa che tremava in un cantuccio, Issunbōshi si accingeva a tornare a
casa, quando dal cielo piovve un martelletto. La fanciulla lo raccolse e Issunbōshi le chiese cosa
fosse.
– È il martelletto magico che esaudisce ogni desiderio, – gli spiegò.
– Allora, Principessa, prova a farmi diventare alto, – le chiese.
– Cresci, cresci! – disse la principessa.
Agitò il martelletto ed ecco che Issunbōshi crebbe in un batter d’occhio e si trasformò in un
meraviglioso samurai.

Saitama, Iruma.
1. Issun (un sun) indica una misura minima (vedi Glossario). Bōshi (da hōshi, lett. «maestro della Legge», «monaco
buddhista») può indicare «bambino», «ragazzino», in riferimento all’usanza per cui in passato i ragazzini portavano il
capo rasato come i monaci.
2. Famoso santuario shintoista oggi compreso nell’area di Ōsaka e dedicato a tre divinità protettrici di chi viaggia per mare.
Il ladro di pesci
Era una fredda giornata d’inverno. Scavato un buco nel ghiaccio, un pescatore prese un gran
numero di pesci, salí sulla slitta e si avviò verso casa. Una volpe lo scoprí. Alla volpe i pesci
piacevano da matti e per di piú aveva una gran fame. «Costi quel che costi, voglio mangiarli», si
disse. Corse poco piú avanti e si coricò nel mezzo della strada come fosse morta. «Voglio la
pelle della volpe per farne un cappello», pensò il pescatore. Convinto che fosse stecchita la
raccolse e la aggiunse al carico.
L’uomo si rimise in marcia, con la sua slitta stipata di pesci. Approfittando di un momento in
cui non poteva vederla, la volpe ne prese uno e scese di nascosto. Perché l’uomo non si
accorgesse che il carico si era alleggerito, in cambio vi issò una pietra e fuggí verso la foresta
con il suo bottino.
Nella foresta, la volpe stava mangiando il pesce rubato quando venne verso di lei un orso.
– Dove hai preso questo pesce?
– L’ho pescato.
– Voglio provare anch’io.
Allora la volpe lo istruí:
– Ti insegnerò una tecnica segreta. Segui questo sentiero: porta al fiume. Il fiume è
ghiacciato. C’è un foro tondo: infilaci dentro la coda e aspetta. I pesci abboccheranno e verranno
fuori insieme a lei, quando la tirerai via.
L’orso, felice, si avviò. Trovò il buco e vi lasciò penzolare la coda. Paziente, attese che i pesci
abboccassero. A un certo punto, ebbe la sensazione che qualcosa gliela tirasse. «Sarà
sicuramente un grosso pesce. Mangerò cibo prelibato a sazietà», pensò, e la tirò su con uno
strattone. Gli parve allora che qualcosa si spezzasse: fece un capitombolo a faccia avanti e rotolò
sul ghiaccio.
Poi si voltò a vedere cosa mai fosse successo: nel foro ghiacciato era rimasta la sua coda,
recisa alla base.

Saitama, Iruma.
L’uccello che chiama la pioggia (1)
Tanto tempo fa, in un certo luogo, vivevano una madre e un figlio. La madre lo adorava, ma il
figlio non le dava mai retta. Cosí, la donna finí con l’ammalarsi per la preoccupazione. Una
volta, assetata, gli chiese di portarle dell’acqua, ma il figlio, che aveva a noia l’andare ad
attingerla, estrasse un tizzone dal fornello e le porse quello. Alla vista del fuoco, la madre,
spaventata, morí sull’istante. Mentre era ancora in preda allo stupore, il figlio ingrato fu
tramutato in un volatile. Da allora, un uccello rosso dalla testa alla coda prese a posarsi
sull’albero presso la tomba della donna.
Quando l’uccello va a bere, ai suoi occhi l’acqua è fuoco ardente e non riesce a dissetarsi. Se
piove, si salva bevendo a piccoli sorsi goccia dopo goccia. Per questo canta sempre:
– Fure fure, furee! Cadi cadi, pioggia cadiii! – e sembra proprio che voglia far piovere.

Saitama, Chichibu.
L’uccello che chiama la pioggia (2)
«L’uccello della pioggia», il martin pescatore rosso, fu un tempo la moglie di un allevatore.
Questi possedeva un gran numero di cavalli e compito della donna era foraggiarli e abbeverarli
mattino e sera. Era, però, troppo pigra per andare fino al fiume lí vicino ad attingere acqua:
sempre attenta a non stancarsi, fingeva di averli abbeverati, ma in realtà non se ne occupava.
Quando il marito le chiedeva se i cavalli avessero avuto l’acqua, rispondeva sempre che sí,
l’avevano avuta. Di conseguenza, i poveri animali, assetati, si struggevano dal desiderio di bere e
non trovavano sollievo a tanta sofferenza. Per punizione, la moglie si reincarnò in un volatile.
Dicono che questo uccello, rosso dal becco fino alla coda, non abbia che qualche piuma color
indaco sul dorso. Perciò, se tenta di dissetarsi nei ruscelli il suo corpo si riflette rosso nell’acqua,
in tutto uguale al fuoco che arde, e cosí il martin pescatore non riesce a berne neanche una
goccia. Stremato per la sete, succhiando la rugiada dalle foglie degli alberi può appena inumidirsi
la gola. Tuttavia, se la siccità si protrae per giorni e giorni, anche la rugiada si asciuga e l’uccello
non trova piú nulla. Dicono che, in quelle occasioni, cinguetti assetato rivolto al cielo invocando
la pioggia. Cosí è stato chiamato mizugoi tori, «l’uccello che chiama la pioggia». Quando lancia
ripetutamente il suo richiamo, hyōroro, vuol dire che di lí a poco pioverà.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
Il genero misterioso
Tanto tempo fa, l’unica figlia di un ricco signore passava le acque alle terme di Arima, a
Settsu. Nello stesso periodo, un giovane, venuto a curarsi, si fermò presso la medesima locanda,
nella stanza accanto. Lei era bella e bello era anche lui: frequentandosi mattino e sera, i due
strinsero amicizia e finirono per innamorarsi.
Ben presto la figlia del ricco signore dovette tornare a casa. I due, che fino ad allora erano
stati legati da sentimenti d’amore, non si erano ancora rivelati l’un l’altra dove vivessero né
come si chiamassero.
Per la giovane era giunto il momento di partire: desiderosa di fargli conoscere il proprio
indirizzo e il proprio nome, compose una poesia:
Se mi ami, vieni a cercarmi! Al villaggio dei diciassette anni,
all’estremità del ponte che non marcisce,
il dolce «botamochi» degli insetti che cantano d’estate.
«Se è davvero sincero, verrà sicuramente a cercarmi per quanto difficile sia l’indovinello che
gli proporrò. Se lo interpreta e viene, è un ragazzo promettente. Se non capisce, non è l’uomo per
me», pensò la figlia del ricco signore, quindi consegnò al giovane il biglietto dicendo:
– Io vivo qui e questo è il mio nome: ti prego, vieni a trovarmi.
Si lasciarono cosí ed ella fece ritorno al villaggio natale.
Poco tempo dopo, anche il giovane tornò da Arima. Aveva tutte le intenzioni di andare a
cercare la ragazza, ma non c’era verso di sciogliere l’enigma della poesia che lei gli aveva
scritto. Per quanto provasse a concentrarsi non gli veniva nessuna idea e si aggirava senza meta
per la città.
Sul limitare dell’abitato si imbatté in un massaggiatore. Poiché si dice che i massaggiatori
siano saggi, pensò che se avesse chiesto a lui, magari quello avrebbe capito. Cosí, provò a
interrogarlo sul significato dell’indovinello.
– Dunque, vediamo, – l’uomo incrociò le braccia e se ne stette a pensare per un poco,
quand’ecco che dopo una breve pausa batté le mani ed esclamò:
– Ah, ci sono!
Poi, gli spiegò:
– A diciassette anni si è nel pieno della giovinezza (wakasa), quindi il villaggio dei diciassette
anni è quello di Wakasa. Il ponte che non marcisce è il Ponte di Pietra. Gli insetti che cantano
d’estate sono le cicale: voleva intendere la Villa delle Cicale, all’estremità di quel ponte. Il
botamochi è un dolce, ma anche uno dei nomi della lespedeza, che si dice pure ohagi.
Quest’ultimo può essere un nome di donna. Vai a chiedere della signorina Ohagi della Villa delle
Cicale: sono certo che la troverai.
Felice, il giovane ringraziò il massaggiatore e si recò senz’altro a cercare la giovane al
villaggio di Wakasa.
Cerca e cerca, giunse alla Villa delle Cicale, all’estremità del Ponte di Pietra. La casa,
dall’ingresso imponente, era interamente circondata da magazzini e chiusa da una recinzione
bianca in muratura che si snodava, lunghissima, senza interruzione: era di una ricchezza da
togliere il fiato.
Intimorito, il giovane si convinse che in una tale, magnifica residenza persone mai viste né
conosciute non sarebbero certo potute entrare a loro piacimento: quella sera si fermò in una
locanda e passò l’intera notte a riflettere. L’indomani, sul far del giorno, si avviò verso l’ingresso
della Villa delle Cicale e prese a ramazzarne con deferenza lo spazio antistante. Qualche tempo
dopo, all’ora solita il portiere fece per aprire i battenti dell’ingresso principale: quella mattina, il
terreno era ordinatamente spazzato e non vi era rimasto un solo granello di polvere. Sorpreso,
l’uomo pensò: «Ma guarda un po’! Qualcuno ha spazzato senza che glielo chiedessi. Chissà che
non sia per farmi perdere la faccia».
Tuttavia, il mattino seguente, quello successivo e poi ancora il terzo giorno accadde la stessa
cosa. E cosí, il portiere decise: «Ci deve essere una ragione per tutto ciò. Domattina mi alzerò di
buon’ora e acciufferò quell’impostore». Al mattino si svegliò assai prima del solito, si appostò
dietro i battenti del portone e attese la persona che ramazzava. Poco dopo si udí il rumore di una
scopa. Il portiere si affrettò ad aprire e afferrò l’uomo.
– Chi diavolo sei? Cosa vieni a fare ogni mattina davanti alle case della gente? – gli chiese.
Quello rispose:
– Non sono un poco di buono. Pare proprio che in questa casa ci sia lavoro per tanta gente e,
se fosse possibile, vorrei che assumessero anche me. Confido nella tua autorevolezza e voglio
essere il tuo apprendista: mi faresti il favore di chiederlo tu al padrone? Ecco quel che vorrei:
perciò ogni mattina vengo e ramazzo fuori del cancello. Te ne prego, prova a chiederglielo.
– Se questo è il motivo, gliene parlerò, – rispose il portiere, e subito chiese al ricco signore:
– C’è un tale che ogni mattina spazza davanti al cancello. È bravissimo, non potreste
assumerlo?
– Bene, bene. Lo assumo, – disse questi, e di buon grado prese quell’uomo a lavorare per lui.
Cosí il giovane, grazie alla sua abilità, poté entrare come servitore presso la Villa delle Cicale.
All’inizio lo incaricarono dei servizi piú umili, come pulire la vasca da bagno o ramazzare; non
faceva altro che occuparsi di cose sudicie, lavorando fino a diventar nero. Pur vivendo notte e
giorno sotto lo stesso tetto, non riuscí neppure una volta a incrociare lo sguardo con la sua amata.
D’altra parte, per la giovane della Villa delle Cicale era stato scelto uno sposo fin da quando
era bambina. In origine, la famiglia del fidanzato non era affatto meno ricca della Villa delle
Cicale, ma da un certo periodo in poi le sue fortune erano tramontate e ora, sprofondata
nell’indigenza, ne differiva come la notte dal giorno. Per di piú, fin dall’inizio la giovane non
aveva provato il minimo interesse per quell’uomo. Tuttavia, trattandosi dello sposo scelto dai
suoi genitori, non poteva certo dire che le era sgradito. E del resto, pensava, aveva scritto nome e
indirizzo al giovane col quale aveva stretto amicizia qualche tempo prima alle terme di Arima,
ma non c’era verso che si facesse vivo: forse non aveva capito l’indovinello.
Nel frattempo passarono giorni, poi mesi e giunse infine il momento di sposare l’uomo al
quale era promessa. Per disposizione dei genitori, mentre covava in cuor suo quella pena, si
decise a dare un ricevimento di nozze.
Poco tempo dopo venne fissata la data del matrimonio: bisognava trovare dei servitori che
trasportassero a spalla il palanchino su cui sarebbe salita la sposa. Stabilirono, pertanto, che
l’uomo recentemente assunto come addetto ai bagni avrebbe sorretto la parte anteriore della
stanga, e che avrebbero procurato un secondo portatore che si occupasse di quella posteriore.
Arrivò quel giorno. La giovane prese posto sul palanchino, vestita a festa con il kimono a
maniche lunghe delle donne nubili. L’addetto ai bagni sollevò la stanga anteriore, un altro
inserviente si fece carico di quella posteriore e sollevarono a spalla il palanchino. Scortati dalle
persone del seguito, dagli ospiti e dagli attendenti, uscirono in corteo dalla villa del ricco signore.
Giunti a metà del tragitto, poiché i portatori avevano sostenuto uno sforzo notevole, fu loro
concessa una breve pausa. Nel momento in cui il palanchino venne deposto, il portatore
anteriore, dando voce al collega, si voltò indietro: in quell’istante si trovò per caso faccia a faccia
con la giovane che vi era all’interno. A quella vista, quest’ultima ebbe un attacco di una sua
vecchia malattia: per le fitte lancinanti, prese a premersi il petto in preda al dolore. A causa di
quell’improvviso malore la promessa sposa, di cui non si poteva certo fare a meno, non sarebbe
stata in grado di affrontare la cerimonia e cosí inviarono dei messaggeri alla casa che li attendeva
e il matrimonio venne rimandato.
Poi, il palanchino fece ritorno alla Villa delle Cicale. La giovane era in gravissime condizioni
e non dava piú cenni di vita. I suoi, spaventati, chiamarono un medico, le dettero medicine,
fecero un gran baccano e ottennero che fosse visitata con molta cura, ma il suo fisico non
presentava segno alcuno di malattia.
– Se il corpo è sano, non può che essere mal d’amore: – alternandosi al capezzale della
ragazza, i genitori e la nutrice la pregavano di aprire loro il suo cuore ma quella, timida qual era,
rimaneva in silenzio.
Cosí, provarono a far venire un indovino di chiara fama.
– È senza dubbio mal d’amore e l’interessato è tra le persone che vivono in questa casa, –
disse.
Quando gli chiesero come avrebbero fatto a riconoscere l’uomo, l’indovino rispose:
– Dalla sua calligrafia.
A quelle parole, il ricco signore e la moglie convocarono, nessuno escluso, i settanta e piú
uomini che lavoravano lí, dagli impiegati agli apprendisti, e ordinarono loro di scrivere qualcosa.
Udita la storia, i servi, estremamente felici, fecero a gara per scrivere come meglio potevano,
essendo ciascuno di essi desideroso di avere in sposa la ragazza. Uno dopo l’altro si recarono nei
suoi appartamenti a mostrarle il risultato. Tuttavia, la giovane sbirciava ciò che avevano scritto,
ma non li invitava ad accomodarsi né li degnava di uno sguardo. Terminati i domestici
propriamente detti, andarono a chiedere la sua opinione, ma non c’era nessuno che le fosse
piaciuto.
– Non ci siamo. A pensarci bene, però, c’è ancora uno sguattero addetto ai bagni, che è stato
assunto da poco. Anche lui è un uomo: facciamogli scrivere qualcosa, – si convenne, e lo
sguattero fu convocato. Gli chiesero di scrivere, ed egli scrisse:
Se mi ami, vieni a cercarmi! Al villaggio dei diciassette anni,
all’estremità del ponte che non marcisce,
il dolce «botamochi» degli insetti che cantano d’estate.
– Come, come? Che sciocco a presentare simili stranezze. È cosí che speri di fare colpo sulla
signorina? – lo deridevano gli altri.
Tuttavia, l’uomo si recò negli appartamenti della giovane, le mostrò il foglio ed ella per la
prima volta sollevò il capo e sorrise. Poi, si fecero raccontare come erano andate le cose. Saputo
ciò che era accaduto dalle terme di Arima fino ad allora, finalmente il giovane fu scelto come
genero della Villa delle Cicale. Si predispose di nuovo una fastosa cerimonia nuziale e i due
poterono diventare marito e moglie.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
La fonte della giovinezza
C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Un giorno, il vecchio andò sulla montagna a fare
il carbone. Era una giornata calda e, con la gola riarsa dalla sete, a un bel momento non poté piú
resistere. «Da qualche parte dovrà pur esserci una fonte», pensò, e si dette a cercarla quand’ecco,
proprio dietro alla roccia lí vicino, vide una sorgente d’acqua limpida. Il vecchio si aiutò con le
due mani e bevve: aveva un ottimo sapore e fu pervaso da un’indicibile sensazione di benessere.
Poi, senza che se ne rendesse conto, ringiovaní, la schiena curva si raddrizzò ed egli si trasformò
in uno splendido ragazzo. Soddisfatto, l’uomo si caricò il carbone sulle spalle e rincasò.
– Vecchia, sono tornato, – chiamò, e la vecchia uscí dicendo:
– Oggi hai fatto presto.
Non appena vide il marito, rimase a bocca aperta.
– Ma tu sei il mio vecchio! Come hai fatto a tornare cosí giovane all’improvviso? – gli chiese.
– Pensa un po’, ho bevuto da una fonte sulla montagna, – le disse e le raccontò l’accaduto.
Presa dall’invidia, la vecchia gli disse:
– Che bella cosa ti è successa! È stata una vera fortuna. Anch’io voglio ringiovanire. Anch’io
voglio bere quell’acqua.
Ascoltò con attenzione le spiegazioni del marito e si fece indicare il luogo in cui si trovava la
fonte: il giorno seguente lasciò l’uomo a guardia della casa e andò sulla montagna.
Calò la sera. Aspetta e aspetta, la moglie non tornava. «Perché ci mette tanto? Che le sia
successo qualcosa?» pensò il marito, chiese aiuto alla gente del villaggio e andarono a cercare la
donna. Giunti alla sorgente, udirono i vagiti di un neonato. Sorpresi, si mossero tutti in direzione
di quei lamenti: tramutata in una bimbetta, la vecchia stava piangendo.
La donna, avida qual era, pensando che altrimenti non sarebbe ringiovanita a sufficienza,
aveva bevuto una quantità eccessiva d’acqua finendo per tornare una neonata. Non c’era altro da
fare: dicono che l’uomo la sollevò tra le braccia, la portò a casa e se ne prese cura.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
Sannen Netarō, Tarō il dormiglione
C’erano una volta due case, una accanto all’altra. La casa a est era una residenza sontuosa,
mentre quella a ovest una catapecchia minuscola e misera.
Tempo prima, nella casa povera era morto il padre e ora vi abitavano la madre e il suo unico
figlio. Il giovane, uno sfaticato, giorno dopo giorno mangiava e dormiva, mangiava e dormiva,
senza concludere nulla: per questo, la gente lo chiamava «Mangia e dormi». Anche la madre, che
non poteva rimanere indifferente a tutto ciò, provava talvolta a farlo ragionare:
– Se non ci fossi io a guadagnare qualcosa, come faresti?
– Che dici, mamma? Avrei qualche buona idea anche in quel caso, – rispondeva sempre il
figlio e, come al solito, mangiava, dormiva e basta.
Il giovane compí ventuno anni. Una volta che la madre andava in città a vendere carbone, le
disse:
– Madre, visto che vai in città, comprami un copricapo e una veste da sacerdote.
– Per farne cosa? – gli chiese la donna. Il figlio, celandole i suoi propositi, rispose:
– Avrei un’idea.
«Non so cosa voglia farne, ma se gli compro ciò che mi ha chiesto, magari si troverà un
lavoro», pensò la madre, e tornò dalla città con il copricapo e la veste da sacerdote.
Il figlio indossò la veste, calzò il copricapo, si dipinse il viso, sgattaiolò senza far rumore nella
casa ricca, salí sul kamidana e vi si nascose. All’ora della cena, proprio mentre gli abitanti della
casa erano a tavola, saltò giú con un tonfo.
Sbalorditi, i presenti gli chiesero:
– Chi sei?
Alterando la voce, il giovane rispose:
– Sono la divinità tutelare di questo villaggio. Fate in modo che vostra figlia e il figlio della
casa a ovest si sposino quanto prima, perché io li ho destinati come marito e moglie. Se non
dovessero farlo, li ridurrò in polvere.
Mentre tutti erano ancora attoniti, se ne andò in gran fretta.
Se era un vero kami, sarebbe di certo tornato al suo santuario: mandarono subito i domestici a
inseguirlo, ma il ragazzo era già fuggito da un pezzo in casa sua, lí accanto, e nessuno ne scorse
le tracce.
All’alba, dalla casa ricca mandarono subito dei messaggeri alla casa a ovest a dire che, per
ordine del kami, li pregavano di accettare in sposa la loro figlia. Stupita, la madre si ostinava a
ripetere:
– Non è possibile. La nostra povera dimora non può ospitare la figlia della casa a est.
Ma quelli risposero:
– Dovete accettare. Per quanto siate poveri, d’ora in avanti vi considereremo come la nostra
nuova famiglia. Dunque, non preoccupatevi.
– In tal caso… – disse la donna, e finalmente acconsentí.
Quindi, dalla casa ricca mandarono subito taglialegna, carpentieri e pittori, sistemarono
rapidamente la catapecchia e celebrarono una splendida cerimonia nuziale.
Poi, «Mangia e dormi» acciuffò la madre e le disse:
– Allora, mamma, ho avuto una buona idea, o no?

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
Il cacciatore fortunato
C’era una volta il guardiano di un tempio shintoista. Un giorno all’alba uscí a caccia.
Sull’argine della risaia vicina si erano posate tredici anitre selvatiche. Di quelle, dodici
formavano una fila che descriveva una linea spezzata. Solo una si era sistemata poco distante.
L’uomo imbracciò l’arma, prese la mira e premette il grilletto proprio mentre l’archibugio
oscillava. La palla seguí una traiettoria a zig-zag e colpí tutte le dodici anitre. Come non
bastasse, quell’unica palla urtò contro una pietra e colpí di rimbalzo anche quella che se ne stava
un poco discosta. Insomma, in un colpo solo prese tutti e tredici gli uccelli.
Le anitre, però, non erano morte sul colpo: si sollevarono battendo le ali, caddero in un grosso
canale delle vicinanze e galleggiando sulla superficie dell’acqua venivano trasportate pian piano
dalla corrente verso la foce del fiume. «Oh, accidenti!» pensò l’uomo: in fretta e furia saltò nel
canale e si dette a raccogliere gli uccelli nell’acqua che gli arrivava alla cintola. Dopo averli
radunati tutti li legò con tralci di glicine e fece per issarsi sulla sponda, ma scivolò sul fango.
D’istinto si aggrappò alle radici di un albero lí a fianco, ma queste si mossero e il guardiano andò
a finire col sedere nel fossato. Quelle che aveva creduto essere radici, erano in realtà le zampe
posteriori di una lepre: cosí, catturò anche quella.
Però, era completamente zuppo. Si affrettò a uscire dall’acqua sacramentando:
– Maledizione!
Senonché si accorse che la lepre, vistasi afferrata per le zampe posteriori, aveva tentato di
mettersi in salvo scavando il terreno con quelle anteriori e aveva dissotterrato ben otto kan di
patate selvatiche.
Il guardiano si mise in spalla le tredici anitre e la lepre, senza dimenticare gli otto kan di
patate, e fece ritorno a casa.
– Aah! Sono zuppo. Che freddo! – diceva, e si mise vicino al focolare, quando sentí una
sgradevole sensazione di viscido lungo le gambe. «Che sarà mai?» pensò, e subito si tolse i
pantaloni da lavoro per controllare: chissà come, vi si erano infilate una miriade di piccole
anguille. Erano piú di sei kan, al punto che tutta la casa ne fu piena.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
L’ascia d’oro
Tanto tempo fa vivevano, una accanto all’altra, una coppia di vecchietti buoni e una coppia di
vecchietti cattivi. Entrambi i mariti si guadagnavano da vivere come tagliaboschi. Il vecchio
buono era poverissimo, mentre quello cattivo aveva messo da parte un gruzzolo e si faceva beffe
dell’altro per la sua miseria. Tuttavia, convinto com’era che chi lavora, prima o poi conosce la
fortuna, l’onesto vecchietto non se ne curava e procedeva alacremente nella sua attività.
Per un raffreddore, il vecchio buono fu costretto a restare a casa due o tre giorni. Guarito,
come al solito prese con sé la sua ascia e salí sulla montagna a tagliar legna. La parcella di bosco
assegnatagli si trovava sul limitare di una gola, che si ergeva su un fossato dalle acque profonde.
Giuntovi, il vecchio salí su una catasta di legna, ma, nei pochi giorni in cui era rimasto a casa, il
manico dell’ascia, troppo asciutto, si era allentato: la lama di ferro venne via al primo colpo e
precipitò in acqua.
– Il fossato è troppo profondo. Non potrò mai ripescarla da solo.
L’uomo, abbattuto, si convinse che l’unica cosa da fare era raccomandarsi alla Divinità delle
Acque.
– Vi supplico, restituitemi la mia ascia, – pregò con tutta l’anima. Dal fossato si sprigionò una
nube di vapore e ne emerse la Divinità delle Acque che reggeva tra le mani un vassoio votivo di
legno vergine sul quale era poggiata un’accetta.
– Ti ho portato l’ascia, come avevi chiesto – disse, e la porse al vecchio. Questi ringraziò e
fece per afferrarla, ma, incredibile! era un’ascia d’oro abbagliante.
– Non è questa. Ve la restituisco, ma vi prego: portatemi la mia, – disse sorpreso, e la restituí
alla Divinità che si immerse nell’acqua e tornò con una nuova ascia sul vassoio.
– È questa? – chiese, e la porse al vecchio.
L’uomo la prese: era la sua ascia di ferro.
– È lei! Domani potrò riprendere il lavoro.
Beato, si profuse in ringraziamenti.
– Sei una persona onesta. In premio, ti darò anche l’altra, – disse la Divinità, e gliene fece
dono.
Felice, il vecchio rincasò con l’ascia d’oro. La mostrò alla moglie e comunicò la notizia anche
al capovillaggio che, quando la vide, esclamò:
– Varrà da cinquecento a mille ryō! Non accadono spesso eventi tanto fortunati: dobbiamo
organizzare una festa in onore della Divinità.
Ne parlò con gli abitanti del villaggio che si fecero carico delle spese, acquistarono cibi e
bevande e prepararono il mochi. Tutti parteciparono alla baldoria e festeggiarono come si
conviene la Divinità delle Acque. L’ascia d’oro rimase a lungo il tesoro della famiglia del
brav’uomo.
Il vecchio cattivo si rodeva dall’invidia.
– Quello stupido del mio vicino ha fatto proprio un colpaccio, ma andrò anch’io a procurarmi
un’ascia d’oro, – disse, e si incamminò verso la montagna. Giunto alla parcella del vecchio
buono in cima all’orrido, prese a tagliar legna. L’ascia non voleva staccarsi in nessun modo:
accese un fuoco e vi espose l’arnese. Dopo che il legno si fu asciugato, lo agitò. Finalmente, la
lama si sfilò e precipitò nel fossato. Poi, il vecchio cattivo supplicò:
– Vi prego, restituitemi la mia ascia.
Come era già accaduto, si levò una nube di vapore e apparve la Divinità con un’ascia d’oro
sul vassoio di legno vergine.
– Ecco la tua ascia, – disse ancora una volta. L’imbroglione, che non stava piú nella pelle
dalla felicità, ringraziò e la afferrò senza esitare.
– Che furfante! Va’ via, non meriti niente, – disse allora la Divinità infuriata, strappò l’ascia
d’oro dalle mani del vecchio cattivo e scomparve nell’acqua.
L’uomo tornò a casa deluso, con le pive nel sacco. La moglie, però, certa che quel giorno
sarebbe rincasato con un’ascia d’oro, aveva ordinato da bere e da mangiare, aveva preparato il
mochi e lo attendeva pronta per i festeggiamenti. Poiché il marito era tornato a mani vuote, non
potendo pagare i conti dei negozi, dovettero vendere tutti gli attrezzi che possedevano, compresa
l’ascia di ferro. Fin dal giorno seguente furono costretti a interrompere anche il lavoro sulla
montagna.
Dicono che, mentre la famiglia del vecchio buono divenne sempre piú ricca, quella del
vecchio cattivo sprofondò nella miseria.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
I tre mercanti
Un giorno, un venditore ambulante camminava portando sulla schiena un carico di tè novello
e annunciava:
– Tè nuovo! Tè nuovo!
Subito dietro di lui veniva un venditore di setacci, che strillava:
– Furui, furui! Setacci, setacci! – ma sembrava dicesse:
– Furui, furui! Roba vecchia, roba vecchia ! 1

«Sarà tè nuovo o vecchio? Non si capisce», pensavano gli abitanti della città, e nessuno ne
comprava.
Alla fine il venditore di tè perse la pazienza e acciuffò il venditore di setacci:
– Senti un po’, imbecille, chi vuoi prendere in giro? Se io cammino vendendo tè con tanta
cura e tu mi vieni dietro strillando: «Roba vecchia, roba vecchia!» non riuscirò a piazzarne
neanche una foglia.
L’altro, da buon mercante, ribatté:
– Non dire sciocchezze. Anche io sono un venditore: non posso fare altrimenti. Non intendevo
dire che il tuo tè è vecchio. Parlavo solo dei miei setacci, tutto qui. È cosí o no? Se vuoi vendere
il tè e non ci riesci, sono affari tuoi.
– Cosa hai detto? Cosa hai detto?
Alla fine, essendo entrambi due tipi poco inclini ad accettare una sconfitta, ne nacque una
rissa vera e propria.
In quella, si trovò a passare di là un venditore di ferraglia, che trasportava un paio di panieri a
bigollo. A vedere quei due che si stavano azzuffando, fece per dividerli e chiese:
– Ehi voi, che fate! Perché litigate?
Uditone il motivo, li consigliò:
– Non vale la pena picchiarsi per una cosa simile. Ho un’idea. D’ora in poi, spostiamoci tutti e
tre insieme.
I tre si misero al lavoro procedendo ben allineati.
– Tè nuovo! Tè nuovo! – annunciava il venditore di tè.
– Furui, furui! – gli faceva eco il venditore di setacci, e subito dopo di loro attaccava il
compratore di ferraglia:
– Furukanē, furukanē! Ferro vecchio, ferro vecchio! – ma sembrava dicesse: – Furukanē,
furukanē! Non è vecchio, non è vecchio ! 2

Questa volta, vendettero sia il tè, sia i setacci, sia il ferro vecchio.
Da allora, tutti e tre in fila uno dietro l’altro realizzarono buoni affari d’amore e d’accordo.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
1. Furui, «setaccio», è omofono dell’aggettivo furui, «vecchio».
2. Furukane, «ferrovecchio», può suonare come una forma corrotta e dialettale di furukunai, «non vecchio, nuovo».
L’usignolo che attraversò la valle
Un venditore ambulante dovette recarsi per affari in un altro paese. «Durante la mia assenza,
non vorrei che mia moglie si procurasse un amante», pensò, e la sera prima di partire parlò
chiaramente alla donna:
– Moglie, mentre sarò via tienti lontana dagli altri uomini. Perché non te ne dimentichi,
lascerò questo di guardia.
Sul lato destro delle parti intime della moglie vergò il carattere «usignolo». Poi, partí per
affari.
Dopo aver girovagato qua e là per un certo tempo, alla fine fu di ritorno. Si accorse però che il
carattere che, senza ombra di dubbio, aveva scritto all’interno della coscia destra della donna, ora
si era spostato sul lato sinistro. Cieco di rabbia, il marito gridò:
– Chi vuoi prendere in giro? Nonostante quanto ti avessi ordinato, c’è stato un altro uomo.
Voglio che tu te ne vada questa notte stessa.
La moglie corse in lacrime dal nakōdo e lo pregò:
– Per carità, fatelo ragionare voi.
– Ci penso io, – disse l’uomo, e si recò dal marito.
– Stando a quello che ho sentito, pare che l’usignolo si sia spostato da destra a sinistra, ma
questo non è irragionevole. Non sapete dunque anche voi che l’usignolo vola di ramo in ramo
attraverso le valli? – gli disse.
Ridotto al silenzio, il marito non poté che lasciar correre.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
L’orco e i tre bambini
C’era una famiglia povera. Il padre era morto già da tempo e la madre si affannava a badare a
tre figli maschi di undici, nove e sette anni. «Per quanto possa guadagnare, una donna nella mia
situazione riesce a stento a mantenersi in vita. Non posso proprio allevare questi tre bambini
come dovrei. D’altra parte, è tremendo vederli soffrire. E se li abbandonassi sulla montagna?
Magari li divorerà una belva e sarà meglio cosí». Dopo lunghe riflessioni, la madre decise infine
di sbarazzarsene.
Un giorno, portò con sé i tre bambini sulla montagna.
– Aspettatemi qui per un poco. La mamma va a comprarvi dei dolci.
Li ingannò abilmente, li abbandonò e fece ritorno a casa. Credendo che avesse detto loro la
verità, i bambini la attesero a lungo. Nonostante intorno si facesse scuro, però, la donna non
tornava. Alla fine, non seppero resistere oltre e i due maggiori presero a singhiozzare
sommessamente.
– Fratelli, è inutile piangere. Cerchiamo piuttosto se da qualche parte qui vicino non ci sia
qualcuno che possa ospitarci per la notte. Vediamo un po’, io provo a salire su un albero, – disse
il piú piccino, di soli sette anni, e si arrampicò. Diritto di fronte a loro si vedeva il bagliore di un
fuoco. – Ma guarda! Laggiú c’è un fuoco. Andiamo.
Scese dall’albero, rincuorò i fratelli e i tre si incamminarono pian piano in direzione della
luce: sperduta sulla montagna c’era una casa diroccata. Dentro, una vecchia ravvivava
energicamente la fiamma. I bambini entrarono e chiesero:
– Ci siamo persi e non sappiamo cosa fare. Possiamo rimanere per questa notte?
– Vorrei tanto ospitarvi, ma qui abita un orco e sarà di ritorno a momenti. Che voi restiate è
fuori discussione. Per questa strada lo incontrerete di certo, ma incamminandovi per l’altra sarete
in salvo. Ora, andate subito a casa, – disse, e mostrò loro la via piú sicura.
– È talmente buio che non riusciremo mai a tornare. Per favore, fate in modo di ospitarci per
questa notte, – tornarono a chiedere i bambini, che non avrebbero saputo dove andare.
– Ma insomma, se venisse l’orco e vi divorasse tutti e tre, sareste contenti?
La vecchia non aveva finito di parlare che dal retro si udí il rumore di passi pesanti. Sembrava
proprio che l’orco fosse di ritorno.
– Avete visto? L’avete tirata per le lunghe e ora è arrivato. Come possiamo fare? Come? Ah,
ecco! Entrate qui dentro, svelti.
La vecchia in tutta fretta infilò i bambini nella botola della cantina, la coprí con un robusto
portello e vi stese sopra una stuoia di paglia.
Ormai a un passo, l’orco entrò dalla porta posteriore, annusò l’aria e subito prese a rovistare
in ogni angolo, dicendo:
– Vecchia, sento lezzo di umani. Ci deve essere qualcuno, ne sono sicuro.
Messa alle strette, la donna rispose:
– Dalla porta principale erano giusto entrati tre piccoli umani a chiedermi ospitalità per questa
notte, ma tu sei arrivato all’improvviso da quella posteriore e i bambini, spaventati, sono fuggiti.
Il lezzo di cui parli sarà certamente l’odore che si sono lasciati dietro quei tre.
– Ah, sí? Sicché sono venuti tre bambini e poi se ne sono andati. Ormai è inutile che cerchino
di scapparmi: mi basterà un solo passo per raggiungerli. Dove siete, piccolini?
Chiamandoli, l’orco calzò scarpe che percorrevano mille ri per ogni balzo e schizzò via dalla
porta sul retro come una palla da schioppo. Per quanto desse loro la caccia, però, non scorse
nulla di simile a un bambino.
– Ne ho abbastanza. Forse mi sono spinto troppo lontano. A momenti passeranno di certo da
questa parte. Tanto vale riposarsi un poco, – disse, e si sedette sul ciglio della strada. Mentre
riposava, cedette alla stanchezza e finí per addormentarsi ronfandosela della grossa.
Quando l’orco si era precipitato fuori, la vecchia aveva subito tirato su i tre bambini dalla
botola e li aveva fatti uscire dalla porta posteriore:
– L’orco ha ai piedi le scarpe dei mille ri e sarà sicuramente andato molto lontano. Via voi,
svelti! Per questa strada.
Man mano che i fratellini procedevano, si udiva un rumore potente, gō, gō, come se una
tempesta stesse per scatenarsi. Si chiedevano cosa fosse, quando in cima al sentiero di fronte a
loro videro un enorme orco sdraiato in terra che russava. I bambini erano terrorizzati e i due piú
grandi scoppiarono di nuovo in un pianto dirotto.
– Fratelli, è inutile piangere. Se dorme profondamente, forse potremo passare.
Il piú piccino, scalzo e in punta di piedi, andò a verificare furtivamente le condizioni
dell’orco. Russava forte, d’un sonno pesante.
Il bimbo dette per caso un’occhiata ai piedi del mostro: «Queste devono essere le scarpe dei
mille ri. Costi quel che costi, le voglio», pensò, e facendo in modo di non svegliarlo si dette
piano piano a sfilargliele. Era già riuscito a togliergliene una quando l’orco ritrasse il piede con
un sussulto e si rigirò. Preso alla sprovvista, il piccolo trattenne il fiato e l’altro parlò nel sonno:
– Uhm, ecco i topi che di notte se ne vanno a zonzo.
Poi, non appena il mostro riprese a russare, gli sfilò anche l’altra. Di nuovo, l’orco ritrasse il
piede e si girò. Ancora una volta, il piccino rimase immobile e, prima di riaddormentarsi
profondamente, l’orco borbottò:
– Uhm, ecco i topi che ritornano.
Al momento opportuno, prese entrambe le scarpe, il bambino tornò indietro in tutta fretta.
– Fratello maggiore, metti queste, – disse, e le fece calzare al fratello piú grande. Quando poi
tutti e due i fratellini furono saldamente legati al maggiore, il piccino gli gridò:
– Ora salta!
Con gran fracasso i tre balzarono via come una palla da schioppo. In quel momento, l’orco si
svegliò:
– Ah, quei furfanti mi sono scappati, – disse digrignando i denti dalla rabbia, e si mise al loro
inseguimento, ma senza le scarpe dei mille ri non riuscí ad acciuffarli. I fratellini giunsero in un
baleno in un luogo abitato e l’orco non poté far altro che tornarsene mogio mogio sulla
montagna.
– I bambini, li hai catturati? – gli chiese come per caso la vecchia, angustiata per la loro sorte,
e quello rispose:
– Mi ero allontanato troppo e, mentre riposavo, mi hanno preso le scarpe. È andata male.
A quelle parole, anche la vecchia poté tirare finalmente un sospiro di sollievo.
I tre bambini tornarono a casa sani e salvi e da allora aiutarono la mamma e lavorarono con
impegno.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
«Certamente»
C’era una volta uno sciocco che prese moglie. Il giorno del matrimonio, al momento di
prendere posto per il ricevimento, il nakōdo si raccomandò:
– La sposa ha molti parenti altolocati. Questa sera, di fronte agli ospiti bada a non dire idiozie.
Poi, legò un filo al fundoshi del promesso sposo e lo istruí:
– Ascolta. Quando dovrai dire qualcosa, io tirerò di nascosto questo filo e tu non farai che
ripetere: «Certamente». Non dovrai per nulla al mondo aprir bocca a vanvera.
Poco dopo, lo sposo e il nakōdo si sedettero nella sala del banchetto. Quando gli ospiti
rivolgevano la parola al giovane, al momento opportuno l’amico tirava il filo senza dare
nell’occhio e, come d’accordo, lo sposo rispondeva solo: «Certamente». Cosí, per fortuna la
conversazione procedeva senza intoppi.
– La gente non fa altro che dipingerlo come uno sciocco, ma padroneggia diversi argomenti
ed è senza dubbio un giovane a posto, – si meravigliavano tutti.
Nel frattempo, però, era stato servito anche del sake e il nakōdo avvertí il bisogno di andare a
fare una certa cosa. Cosí, convinto che fosse pericoloso perdere di vista il filo, ne assicurò
l’estremità al pesce che era sul suo tavolino da pranzo, si alzò e andò in bagno. Senonché, in quel
mentre, senza che nessuno se ne avvedesse, nella sala si intrufolò un gatto che addentò il pesce e
tentò di fuggire.
Il filo legato al pesce era annodato anche al fundoshi dello sposo: il gatto lo tirò e allo stesso
tempo dette uno strattone al giovane, che disse d’un fiato:
– Certamente.
Il gatto tirò di nuovo e il filo ebbe un altro sussulto. Ogni volta, lo sposo diceva a voce sempre
piú alta:
– Certamente, certamente.
Siccome il gatto continuava a tirare con tutte le sue forze, alla fine il giovane non poté
trattenersi e con una smorfia gridò:
– Certamente, certamente! Al pesce Certamente la testa sta per essere portata via ! 1

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
1. La prima parola della frase di circostanza, Gyoi ni gozaimasu, «Certamente; ne convengo», suona come omofona di gyo,
«pesce».
Il ragno d’acqua
Un pescatore di salmoni aveva gettato la sua lenza nel lago Iwaoke di Ashikawa. Un ragno
spuntò fuori dall’acqua e cominciò a tessere la sua tela intorno al cinturino dei sandali di paglia
che l’uomo calzava. Poi tornò nell’acqua e, quando sembrava ormai che si fosse immerso una
volta per tutte, uscí di nuovo e di nuovo si dette a tessere la ragnatela. Emergeva e annodava un
filo, riemergeva e annodava un altro filo. Ripeté il movimento per decine e decine di volte,
finché la ragnatela formò una robusta corda.
Il pescatore di salmoni, che inizialmente aveva assistito alla scena con aria di sufficienza,
cominciò a provare un certo disagio. Approfittando del momento in cui il ragno, dopo aver
assicurato il suo ennesimo filo, era sott’acqua, staccò rapidamente la corda dal cinturino dei
sandali e la fissò alla radice di un albero lí accanto. Poco dopo la corda cominciò a tendersi,
come se qualcuno la trascinasse a fondo e, mentre il pescatore si chiedeva cosa stesse accadendo,
le radici dell’albero presero a vacillare sotto quelle scosse.
La ragnatela venne tirata con forza sempre maggiore e alla fine l’intera pianta cedette e fu
trascinata nel lago. L’uomo, che fino ad allora era rimasto a guardare, impallidí e se ne tornò a
casa in tutta fretta.

Yamanashi, Nishiyatsushiro.
Benizara e Kakezara
C’erano una volta due sorelle, Benizara e Kakezara. La madre di Benizara era morta, mentre
Kakezara era figlia della seconda moglie del padre. Benizara era retta e di buon carattere, ma la
matrigna la detestava.
Un giorno mandò le due sorelle a raccogliere castagne. A Benizara dette un sacco senza
fondo, a Kakezara un sacco buono. Poi ordinò loro:
– Non tornate prima che il sacco sia colmo.
Le figlie andarono sulla montagna e raccolsero castagne. Il sacco di Kakezara si riempí in
poco tempo e la ragazza tornò a casa in fretta, prima della sorella. Benizara, che era molto leale,
continuò a raccoglierle con impegno finché non si fece buio. Sulla montagna l’oscurità era calata
all’improvviso e la ragazza ebbe l’impressione che un lupo le si avvicinasse furtivo. Allora si
mise subito in cammino, senza sapere dove andare.
Scese la notte e si smarrí. Era triste, ma se anche avesse pianto non sarebbe cambiato nulla; si
incamminò chiedendosi se da qualche parte non ci fosse una casa quando, di fronte a lei, scorse
una luce. Che fortuna! Andò: c’era una vecchia che filava.
Benizara disse:
– Sono venuta a raccogliere castagne, ma si è fatto tardi e non so come tornare indietro.
Fatemi rimanere per questa notte.
– Io ti farei restare, ma i miei due figli sono orchi. Stanno per rincasare e ti potrebbero
divorare. Piuttosto che ospitarti, ti insegnerò la strada, – rispose la vecchia, e le spiegò ben bene
la via del ritorno.
Poi mise nel sacco una gran quantità di castagne e le dette una scatolina e un pugno di riso.
– Porta le castagne a tua madre, come prova. Quanto alla scatolina, se avrai bisogno di
qualcosa, chiedila a voce alta, batti per tre volte la scatola e ciò che desideri apparirà. Infine, se
incontrerai gli orchi miei figli, schiaccia il riso tra i denti, passatelo sulle labbra e fingiti morta, –
la istruí.
Benizara la ringraziò e si incamminò per la via che le era stata indicata. A un tratto si udí il
suono di un flauto. Subito schiacciò il riso tra i denti, se lo passò sulle labbra e si finse morta sul
ciglio della strada.
Giunsero un orco rosso e un orco blu.
– Fratello, sento odore di umani, – disse uno dei due. Si chinò su di lei e per un po’ di tempo
stette a osservarla. – Niente da fare, fratello. È putrefatta. Ha la bocca piena di vermi, – disse
infine, riprese a suonare e i due se ne andarono.
Benizara attese fino a quando il suono del flauto si fu allontanato e si rimise in cammino per
la via che le era stata indicata. Giunse l’alba. Proprio mentre la matrigna stava dicendo che
Benizara doveva essere stata divorata da un lupo durante la notte, la ragazza rincasò. Non solo
non era morta, ma era tornata con il sacco colmo di castagne: perfino la donna non poté
rimproverarla.
Un giorno, al villaggio ci fu uno spettacolo teatrale e la matrigna vi condusse Kakezara. A
Benizara fu ordinato di sbrigare delle faccende prima che le altre due tornassero e cosí si mise a
lavorare con impegno. Vennero delle amiche che le proposero di andare a vedere la
rappresentazione.
– Mia madre mi ha ordinato di sbrigare delle faccende; non posso venire, – rispose Benizara.
– Ti aiutiamo noi, – dissero allora le amiche, e tutte insieme finirono in un attimo il lavoro che
avrebbe richiesto un’intera giornata.
Le amiche indossavano eleganti kimono, ma Benizara non ne possedeva affatto. Mentre
riflettevano sul da farsi, la ragazza prese la scatolina che aveva ricevuto dalla vecchia sulla
montagna e disse:
– Voglio un kimono.
Ne apparve uno bellissimo, Benizara lo indossò e andò allo spettacolo. Durante la
rappresentazione, Kakezara assillava la madre:
– Voglio un dolce!
Allora Benizara gliene lanciò uno. Il signore del luogo, che assisteva allo spettacolo, notò la
cosa.
Il giorno seguente, il variopinto corteo del feudatario giunse al villaggio e il palanchino si
fermò davanti alla casa di Benizara. La madre di Kakezara, piena di gioia, fece vestire a festa la
figlia e la mandò a ricevere l’ospite. Sceso dal palanchino, il signore disse:
– Sono due le giovani che vivono qui. Mandatemi anche l’altra.
La matrigna aveva chiuso Benizara in una tinozza ma, a quelle parole, non poté che obbedire.
La fece uscire e la condusse da lui. Paragonata a Kakezara, Benizara aveva un aspetto
tremendamente trascurato, cionondimeno il signore chiese:
– Quale delle due era ieri allo spettacolo?
Risposero:
– Era Kakezara.
Il feudatario insistette:
– No, non era questa la ragazza.
Poiché la madre si affannava a ripetere che sí, era proprio lei, si decise di far loro comporre
una poesia.
Il signore ordinò:
– Scrivete una poesia sul tema: «Su un vassoio un piatto; sul piatto del sale; nel sale un ago di
pino».
Ad alta voce Kakezara declamò:
Metti un piatto sul vassoio
sul vassoio versa sale
dentro il sale infila un pino
sostegno grande. Stecco pericolante.
Poi colpí il feudatario sulla testa e fuggí via. Dopo di lei, fu la volta di Benizara, che recitò:
Un piatto e un vassoio.
Sulla montagna nel mezzo del piatto
è caduta la neve. Un pino cresce
con la neve come radice.
Il signore la colmò di lodi. Fece subito approntare il necessario, invitò Benizara a salire su
uno splendido palanchino e la condusse con sé alla sua residenza. La madre di Kakezara
assistette in silenzio, ma poi, fatta accomodare la figlia in una cesta vuota, prese a trascinarla,
dicendole:
– Vedi, Kakezara? Anche tu andrai alla residenza del feudatario.
Tirava come un’ossessa e in modo cosí incontrollato che, dicono, a un certo punto le due
donne precipitarono in un profondo fossato e morirono.

Shizuoka, Hamamatsu.
Il figlio serpente
C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Chissà per quale ragione i due non avevano figli
e non pensavano che a quanto sarebbe stato bello averne.
Durante un’assenza del vecchio, che era andato in montagna a falciare erba, la donna, non
sapendo cos’altro fare, si imbottí il ventre con un kimono ridotto a brandelli e quando il marito
rincasò, gli disse:
– Guarda come è cresciuta la mia pancia.
L’uomo ne fu molto felice.
Eppure, un figlio nacque davvero. Non era però un essere umano, bensí un serpente. Il
vecchio e la vecchia restarono di sasso, ma accettarono la propria sorte e allevarono il serpentello
con molta cura. Tuttavia, questi crebbe tanto che avrebbe attirato l’attenzione della gente. Non si
poteva piú tenerlo in casa e, consigliatasi con il marito, la donna andò sulla montagna per disfarsi
del figlio serpente.
– Fino a oggi ti abbiamo dato un nome, Shizuo, e ti abbiamo allevato con affetto, come fossi
nostro figlio. Ora sei cresciuto al punto che la gente ti potrebbe vedere: non è piú possibile tenerti
in casa. Nutriti e vivi al sicuro sulla montagna, senza portare rancore ai tuoi genitori, che ti
abbandonano qui, – gli disse perché si rassegnasse al suo destino, e se ne tornò a casa.
Trascorsero alcuni anni. Al villaggio si raccontava che chiunque passasse per la montagna
veniva divorato da un grosso serpente. Il vecchio e la vecchia, convinti che si trattasse di Shizuo,
erano molto preoccupati per ciò che stava succedendo. La voce giunse alle orecchie del signore
del luogo, che emise un bando in cui prometteva mille monete d’oro a chi avesse ucciso il
serpente e gliene avesse portato la testa.
Il vecchio e la vecchia seppero del bando e insieme decisero:
– Se quel serpente è davvero Shizuo, sarebbe meglio se a ucciderlo fossimo noi due. Se poi
per sbaglio lui ci divorasse, pazienza: in fondo si tratta di nostro figlio. Andiamo dunque sulla
montagna a cercarlo.
Cosí, si misero in viaggio con un’abbondante colazione al sacco.
– Shizuo, Shizuo! – chiamavano inoltrandosi nei recessi della montagna, quando, con un
fruscio, si parò loro davanti un enorme serpente. La vecchia e il vecchio gli dissero:
– Il feudatario ha promesso un forziere di mille monete d’oro a chi ti taglierà la testa. Ci
mangerai o ti lascerai uccidere?
Come pensavano, sembrava proprio che l’animale, ormai adulto, potesse comprendere il
linguaggio umano; il serpente protese il capo verso i due vecchi.
– Hai capito? Ci permetterai di tagliarti la testa? – gli chiesero.
Assentí: piangendo, uccisero il grande serpente e lo offrirono al signore del luogo. Furono
festeggiati e ricevettero il forziere.
Per questo la gente di un tempo diceva:
– Dovunque, fra i campi o per i monti, bisogna aver cura dei propri figli. Sono tesori che
valgono mille monete d’oro.
Pare che il detto sia nato da questa storia.

Shizuoka, Tagata.
La fava, la paglia e il carbone
C’era una volta una vecchia che si accingeva a preparare da mangiare. Mise a bagno delle
fave e, qualche tempo dopo, andò a controllarle: si erano ammorbidite ben bene. Mentre le stava
versando in pentola, una fava cadde e rotolò in un angolo del giardino. «Per una fava…», pensò
la donna, e andò a prendere la paglia per il fuoco. Si levò il vento: dalle mani della vecchia volò
via una pagliuzza, che andò a posarsi proprio nell’angolo del giardino in cui era rotolata la fava.
«Per una pagliuzza…», pensò, e anche questa volta la lasciò dov’era. Stava accendendo il fuoco
con la paglia che aveva appena portato quando, senza che se ne accorgesse, cadde e rotolò via un
pezzetto di carbone incandescente che andò a fermarsi sempre nello stesso angolo.
– Andiamo in pellegrinaggio al grande santuario di Ise, – si accordarono carbone, paglia e
fava, e tutti e tre insieme si misero in viaggio.
A un certo punto del cammino, si imbatterono in un fiumiciattolo. Mentre tentavano di
risolvere il problema, la paglia ebbe un’idea:
– Ci sono! Io sono la piú lunga, e vi farò da ponte. Voi attraverserete e poi mi isserete
sull’altra sponda.
– È una buona idea, – dissero, e subito la paglia si fece ponte.
Carbone e fava si precipitarono per avere la precedenza nella traversata e ne nacque una rissa
furibonda. La fava perse e il carbone attraversò per primo. Tuttavia, non era che a metà strada
quando fu preso dal panico: non riusciva ad andare avanti in nessun modo.
– Sbrigati! Sbrigati! – gli metteva fretta la paglia, che si sentiva ardere.
Sbrigati qua, sbrigati là, piú lo incoraggiava e piú il carbone restava fermo senza muovere un
solo passo avanti. Ormai bruciata, la paglia si spezzò e i due precipitarono in acqua con un tonfo.
– Ben ti sta, cosí impari a passarmi avanti, – disse la fava che aveva assistito dalla riva.
Cominciò a ridere a crepapelle e tanto rise che a un bel momento le scoppiò la pancia.
Piangeva disperata, quando si trovò a passare di lí un sarto, che le chiese:
– Perché piangi?
La fava gli raccontò l’accaduto e l’uomo, mosso a compassione, le disse:
– Purtroppo non ho con me il filo verde: ti ricucirò la pancia con del filo nero.
È per questo che ancora oggi le fave hanno una venatura nera.

Shizuoka, Hamana.
Il gatto e i dodici segni dello zodiaco
In un certo luogo, il re chiamò a raccolta gli animali e annunciò loro che avrebbe dato un
banchetto. Gli animali, felici, non vedevano l’ora che arrivasse il momento. Senonché, il gatto
finí per dimenticare la data. Andò a chiederla al topo, che a bella posta gli indicò il giorno
seguente la festa.
Il giorno del banchetto gli animali si precipitarono all’appuntamento. Per primo uscí il bue
dall’incedere lento. Poi andò la tigre. Se avesse ritardato sarebbe stato un bel guaio, e cosí il topo
salí a volo sul dorso del bue. Giunti all’ingresso del palazzo del re, il topo saltò a terra e fu il
primo a entrare.
Di fronte al sovrano si allinearono educatamente secondo l’ordine in cui erano arrivati il topo,
il bue, la tigre, la lepre, il drago, il serpente, il cavallo, la pecora, la scimmia, il gallo, il cane e il
cinghiale. Gustarono tutti mille ghiottonerie e tornarono alle loro case.
Il giorno dopo il gatto, felice e pieno di entusiasmo, andò al palazzo del re. C’era un gran
silenzio, però, e provò a informarsi dal portiere.
– Ma il banchetto era ieri! – rispose quello, e non finiva di prenderlo in giro.
Da allora, il gatto detesta il topo con tutto se stesso ed è divenuto suo nemico giurato. Ancora
oggi, quando un gatto scova un topo, lo divora. Ed è per questo, inoltre, che non è stato incluso
nei dodici segni zodiacali.

Shizuoka, Shimizu.
Il vecchio tagliabambú
C’era una volta un vecchio tagliabambú. Un giorno andò nei campi e, mentre lavorava la
terra, una cinciallegra gli volò incontro e si fermò sul manico della zappa. Il vecchio l’afferrò e la
mangiò in un sol boccone. Però, dal buco del sedere gli spuntarono le zampe dell’uccello. Le tirò
per farlo uscire e dentro il suo stomaco la cinciallegra cinguettò:
Cip cip! Gira gira!
Batto batto! Gira gira!
Trottola fruscia fruscia!
Tornato a casa, si consultò con la sua vecchia. Questa gli disse che forse sarebbe guarito se
avesse scaldato l’acqua del bagno con bambú tagliati nel boschetto del signore del luogo. Il
vecchio andò nel boschetto. Il feudatario passò proprio di là.
– Chi osa tagliare il mio bambú? – lo rimproverò.
L’uomo rispose:
– Sono il vecchio scoreggione di tanto tempo fa, – e il signore, di rimando:
– Se sai scoreggiare, scoreggia.
Il vecchio si piegò, tirò le zampe dell’uccello e si sentí:
Cip cip! Gira gira!
Batto batto! Gira gira!
Trottola fruscia fruscia!
– È davvero interessante. Scoreggia di nuovo, – disse il feudatario. Il vecchio tirò ancora una
volta e si sentí cinguettare:
Cip cip! Gira gira!
Batto batto! Gira gira!
Trottola fruscia fruscia!
Pieno di ammirazione, il signore del luogo gli dette una grossa ricompensa e inoltre gli
accordò il permesso di tagliare tutto il bambú che desiderava.
Udita la storia, il suo vicino, un vecchio avido, disse:
– Ci andrò anch’io.
Andò a tagliare il bambú nel bosco del feudatario e di nuovo il signore si trovò a passare
proprio di lí.
– Chi osa tagliare il mio bambú? – lo rimproverò.
– Sono il vecchio scoreggione di tanto tempo fa, – rispose anche il vecchio avido.
– Se sai scoreggiare, scoreggia.
L’uomo si piegò, spinse con tutte le forze, ma al posto della scoreggia uscí qualcosa di piú
sporco. Furente, il feudatario sfoderò la spada e gli affettò il sedere.
La moglie del vecchio avido aspettava in casa, certa che sarebbe tornato con una qualche
ricompensa, quando il marito apparve di lontano con il culo tagliato. La vecchia immaginò che
se ne tornasse a cavallo. «Avrà ricevuto una tale meravigliosa ricompensa che non potremo piú
usare gli stracci e le altre cose che abbiamo da noi», pensò, e bruciò tutto nel forno. Una volta
rincasato, il vecchio chiese:
– Vecchia, dove sono gli stracci?
E la vecchia rispose:
– Mi è sembrato che stessi tornando in sella a un cavallo rosso, e cosí li ho bruciati tutti.

Aichi, Kitashidara.
La gara del silenzio
C’erano una volta un vecchio e una vecchia, che avevano ricevuto dai vicini sette mochi. Il
vecchio ne mangiò uno e cosí fece la moglie. Allo stesso modo, si servirono una seconda e una
terza volta. Quando l’uomo fece per prenderne ancora, ne era rimasto uno solo. Propose quindi:
– Facciamo la gara del silenzio. Il vincitore potrà mangiare l’ultimo mochi.
La vecchia acconsentí. Stettero senza parlare per qualche tempo, ma poi il marito, annoiato, si
infilò sotto le coperte. La donna fece lo stesso.
In quella, si intrufolò in casa un ladro. Nel silenzio piú assoluto mise insieme qualcosa e stava
per andarsene, ma dette uno sguardo in giro: c’era un mochi, e l’uomo fece per mangiarlo. Se
glielo avesse rubato sarebbe stato davvero troppo, pensò la vecchia, e all’improvviso cacciò un
urlo poderoso:
– Chi è là?
A quelle grida il ladro, sbalordito, lasciò cadere ciò che aveva preso e si dette alla fuga.
La vecchia aveva però rotto il silenzio e il marito vinse la gara. Fu cosí che il vecchio mangiò
con gusto il mochi rimasto.

Wakayama, Naka.
Il destino del nascituro
C’era una volta un uomo. La moglie attendeva un figlio ed egli andò a pregare Koyasu Jizō di 1

Oinozaka, a Tanba.
L’uomo vegliava nel padiglione della divinità, quando giunse un altro Jizō che chiese al
primo:
– Da qualche parte sta nascendo un bimbo. Occupatene tu, per favore.
Ma il Koyasu Jizō rispose:
– Non posso, ho qui un fedele. Pensaci tu.
All’alba, il secondo Jizō fu di ritorno.
– Ti ringrazio per essertene occupato, – disse il Koyasu Jizō, e l’altro rispose:
– Ho deciso che vivrà fino ai diciotto anni. Poi, se lo porterà via lo Spirito del fiume Katsura
della capitale.
– Grazie ancora.
«Non staranno mica parlando della mia famiglia?» pensò l’uomo che aveva udito il dialogo, e
rincasò preoccupato. Quando seppe che la moglie aveva dato alla luce un bambino fu certo che il
discorso dei Jizō udito al mattino si riferisse proprio alla sua casa, ma tenne quell’angoscia per sé
senza farne cenno alla donna. In seguito, non ebbero altri figli.
L’uomo fu incaricato del controllo del fiume Katsura. Il bimbo crebbe pieno di attenzioni
verso i genitori. Poiché sarebbe morto presto, anche il padre aveva per lui un affetto particolare e
soffriva senza che gli altri sapessero. Proprio quando il ragazzo compí diciotto anni, il fiume
Katsura straripò.
– Andrò a fare un sopralluogo al tuo posto, – disse al padre, ma questi, ben sapendo che
giorno fosse, glielo proibí. Malgrado ciò, il ragazzo uscí di casa di nascosto, senza neanche fare
colazione.
«Ora che è uscito, se lo porterà via lo Spirito del fiume», pensò l’uomo, e disse alla moglie:
– Chiama i parenti e prepara per il funerale.
– Non dire stupidaggini, – rispose la donna, e battibeccarono per un bel po’. A ogni modo, il
marito non volle sentir ragioni e in casa si approntò il necessario per un funerale.
Al giovanotto di diciotto anni che era uscito digiuno venne presto appetito. Entrò in una
locanda dove servivano mochi e si fermò a mangiare. Accanto a lui era seduta una splendida
fanciulla.
– E tu non ne vuoi? – le chiese.
– Ma sí, accetterò il tuo invito, – rispose, e un boccone dopo l’altro divorò una gran quantità
di mochi.
Nel frattempo, il cielo si era rasserenato.
– Devo andare a ispezionare il fiume. Il conto, per favore.
– Sono mille monete, – disse il padrone.
– Io non ho neanche un soldo, – aggiunse la ragazza.
– Tornerò piú tardi. Intanto, eccovi il mio cappello di paglia come pegno. Se dovessi morire,
tenetelo in cambio delle mille monete, – disse il ragazzo, e i due uscirono assieme.
Giunsero in riva al fiume ed ecco che la giovane gli disse:
– Io sono lo Spirito di questo luogo. Mi hai offerto tutti i mochi che volevo. Poiché tuo padre
è a conoscenza del tuo destino, ti farò vivere fino a sessantuno anni.
«Ma guarda un po’. L’ho scampata bella!» pensò il giovane. Sulla via del ritorno, si fermò
alla locanda:
– È successo questo e quest’altro. Potrò vivere fino a sessantuno anni grazie al rispetto che ho
sempre nutrito verso i miei genitori. In pratica, ero sul punto di morire. Meno male che le ho
offerto i mochi!
– Meno male davvero. Non c’è bisogno che mi paghi: mi avevi lasciato il cappello come
pegno e io l’avevo accettato convinto che saresti morto, cosí lo terrò, – rispose il padrone, e non
si fece pagare.
Il ragazzo tornò a casa che stavano preparando per il funerale.
– È successo cosí e cosí, – raccontò, e la gioia dei suoi genitori fu immensa.

Hyōgo, Mikata.
1. Lett. «Jizō della buona nascita», «del parto facile»: una delle forme sotto cui la religione popolare venera il bodhisattva
Jizō (vedi Glossario).
La volpe del rasoio
Tanto tempo fa, al passo di Tatsumi viveva una volpe di nome Otonjorō. Spesso stregava gli
esseri umani e li radeva a zero. Gli abitanti del villaggio non sapevano piú cosa fare.
Un giorno, il capovillaggio invitò a casa propria i paesani e fecero bisboccia. In
quell’occasione, si parlò di lei.
– Darò una ricompensa a chi riuscirà a catturare la volpe Otonjorō. Chi si offre? – chiese il
capovillaggio.
C’erano lí due giovani che non facevano che vantarsi della propria forza:
– Liberarsi di Otonjorō è cosa da nulla. La prenderemo e torneremo a farti visita, – gli
assicurarono.
«Non è cosí semplice, sarebbe meglio lasciar perdere», pensarono i convenuti, e dentro di loro
se la risero di gusto.
La sera stessa i due tornarono a casa, si misero una falce alla cintura e senza por tempo in
mezzo si diressero al passo di Tatsumi. Una vecchia volpe dal pelo fulvo camminava verso di
loro con aria distratta.
– Eccola, eccola! – disse uno dei giovani.
– È lí, è lí! Impossibile lasciarsi abbindolare da quell’affare, – gli fece eco il compagno. Per
un poco stettero a osservarla in silenzio, ed ecco che la volpe si trasformò in una giovane donna e
sollevò tra le braccia un piccolo Jizō di pietra che si trovava sul ciglio della strada. Poi, lo sfiorò
con una pianta acquatica presa dal ruscello e in un attimo lo tramutò in un neonato. Infine, se lo
caricò sulla schiena.
«Vediamo un po’ cosa ha intenzione di fare», pensarono i giovani, e la seguirono. La volpe si
comportava come se non si fosse accorta di nulla.
Poco piú avanti, Otonjorō si fermò davanti a una casa. Bussò, le fu aperto ed entrò. I giovani
sbirciarono da una fessura della porta: due vecchietti avevano accolto la volpe e il neonato con
grande gioia, quasi si trattasse di una figlia e di un nipotino.
– Poveretti! – si dissero i ragazzi a quella vista. – Il vecchio e la vecchia sono sotto
l’incantesimo della volpe. Bisogna avvertirli.
Di lí a poco, la vecchia uscí di casa. Uno dei due le corse incontro e la mise in guardia:
– Vecchia, tutto ciò è frutto dell’incantesimo di una volpe.
La donna, però, non gli prestò ascolto.
– Ma è vero! La volpe vi ha stregati, vecchia, – insisteva a non finire, ma quella non gli
credeva.
Intanto, le loro voci si erano fatte sempre piú concitate e uscí anche il vecchio, chiedendosi
cosa mai fosse successo.
– Quella che è appena entrata è una volpe sotto sembianze umane, – lo avvertirono i due
giovani.
– Siete pazzi, – commentarono i due anziani coniugi, e non li presero sul serio.
– Quando è cosí, se non vi fidate di quel che diciamo, provate a bollire il neonato nella
marmitta. Vedrete che subito si rivelerà per quello che è: un Jizō di pietra! – proposero.
– Se insistete cosí tanto, sarà meglio fare un tentativo, – disse il vecchio e, senza prestare
ascolto alla moglie che tentava di dissuaderlo, lo infilò in pentola. Una volta lí dentro, il bimbo si
mise a piangere con quanto fiato aveva in gola e, per quanto attendessero, non si tramutò affatto
nella statuetta. Con crescente timore i due giovani presero a domandarsi cosa fare.
– Furfanti, impudenti! Per chissà quale rancore avete ucciso il mio amato nipotino. Venite con
me: vi denuncerò al magistrato, – intimò loro il vecchio inferocito, tentando di condurveli a
forza.
Pallidi e tremanti, i giovani si gettarono a terra e lo implorarono:
– Perdonateci, per carità.
Il vecchio e la vecchia non intendevano ragioni e insistevano a volerli trascinare dal
magistrato. In quella, si trovò a passare di lí un abate.
Di fronte a tanto trambusto, ne chiese la causa.
– La mia missione è offrire soccorso agli uomini. Da quel che mi avete riferito, questi due
giovani si sono macchiati di una colpa e d’altra parte vostro nipote non tornerà certo in vita. Piú
che farli condannare come criminali, io penso sarebbe meglio se prendessero i voti e ne
facessimo dei monaci. In questo modo, li si farebbe pregare in suffragio del bambino. Sarebbe un
bene anche per lui, – suggerí premurosamente.
I vecchi pensarono che la proposta dell’abate fosse ragionevole e perdonarono i ragazzi.
Il monaco fece subito ritorno al tempio, conducendoli con sé.
– Sarà meglio che prendiate anche voi l’aspetto di monaci, – disse loro, e subito procedette
alla tonsura. Poi i due giovani, accompagnandosi con il tamburo rituale , si dettero alla preghiera
1

invocando il Buddha in favore dell’innocente.


Dopo qualche tempo, udirono qualcuno che li chiamava per nome a gran voce. Stupiti, i due
spalancarono gli occhi: spuntava il giorno. L’abate era scomparso cosí come il tempio. Non c’era
piú la casa, non c’era il vecchio e non c’era la vecchia. Loro, poi, erano seduti nel mezzo di una
distesa d’erba. Meravigliati, si passarono una mano sul capo: senza che se ne fossero accorti,
qualcuno doveva averli rasati a zero, perché non era rimasto loro un solo capello in testa. Tra le
mani stringevano due bacchette di bambú la cui punta era ricoperta di sterco di cavallo.
Cosí fu che Otonjorō riuscí a stregare i due e a raderli a zero.

Tottori, Kitaka.
1. È il mokugyo (lett. «pesce di legno»). Oggetto del rituale buddhista formato da una cassa di legno, cava e rotonda, decorata
con intagli simili alle squame di un pesce. Viene percosso da una bacchetta rivestita sulla punta da pelle o stoffa.
Il villaggio degli sciocchi: «Piantala e mangia!»
Tanto, tanto e ancora tanto tempo fa accadde quanto segue.
In un villaggio, vivevano un vecchio e una vecchia. Un giorno, il figlio andò in città a
comprare pesce e trovò delle magnifiche orate.
– Qual è il modo migliore di mangiare l’orata? – chiese.
– Piantala e mangia, – gli risposero.
– Allora, datemene una, – disse, e rincasò con il suo acquisto.
– Padre, ho comprato un’orata eccellente, ma ora la pianto, la preparo e ve la servo, – lo 1

informò, prese con sé il pesce, si mise la zappa in collo, andò sulla montagna e lo piantò.
Il mattino seguente di buon’ora tornò dove aveva piantato l’orata, ma non era ancora pronta, e
se ne tornò a casa. Il giorno dopo provò di nuovo, eppure non era cambiato nulla. Il quarto
giorno andò a vedere: il pesce era marcito e non ne erano rimasti che gli occhi.
– Ooh! – si rallegrò. – Gli sono spuntati gli occhi! Ha germogliato!
A quella vista, il padre disse:
– Che sciocco sei! Quando ti hanno detto: «Piantala e mangia», volevano intendere di
mangiare l’orata senza tante storie, dopo averle tolto lisca e pelle, – e rise.

Tottori, Yazu.
1. Il verbo tsukuru («preparare», «cucinare») è omofono del verbo tsukuru («coltivare»). Qui si è tradotto nel senso piú ampio
di «piantare» per conservare il gioco di parole dell’originale.
Momonoko Tarō
Dicono sia accaduto tanto tempo fa. C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Il vecchio
era andato in montagna a tagliare la legna, la vecchia al fiume a fare il bucato.
Aveva finito di lavare quando, portata dalla corrente, una grande pesca rotolò verso di lei,
donburi kasshiri sukkongō, donburi kasshiri sukkongō! La vecchia la raccolse, la assaggiò e la
trovò squisita. «Portiamone una anche al vecchio», pensò.
– Che ne venga ancora una per il vecchio! Che ne venga ancora una per il vecchio! – disse, ed
ecco che di nuovo la corrente portò verso di lei una grande pesca. La tirò su con un mestolo
senza difficoltà, la portò in casa e la ripose nella credenza.
All’ora del pranzo, il vecchio fece ritorno.
– Vecchio, oggi ho trovato una bella pesca. Mangiamola insieme.
La prese, fece per tagliarla, quando di colpo si spaccò in due e ne uscí un bimbo dal pianto
vigoroso.
– Che vedo mai! Pensavo fosse una pesca, vecchio, ma è nato un bambino.
– Bello, bello davvero! Teniamolo con noi e trattiamolo con affetto.
– In casa non c’erano bambini: che fortuna averne ricevuto in dono uno cosí inaspettatamente!
Poiché è nato da una pesca, chiamiamolo Momonoko Tarō.
– Momonoko Tarō, Momonoko Tarō, fatti cullare, – dicevano i due vecchietti, e lo
coccolavano passandoselo l’uno all’altra. Gli davano da mangiare riso bianco e pesce in
abbondanza e, poiché si irrobustiva a ogni boccone che mandava giú, crebbe in fretta.
Quando Momonoko Tarō divenne forte abbastanza da poter lavorare, i vicini vennero a
chiamarlo:
– Momonoko Tarō, verresti con noi in montagna?
– Non oggi: sto intrecciando una fune da passarmi intorno alla vita, – disse, e non andò.
L’indomani, i vicini si presentarono di nuovo:
– Momonoko Tarō, verresti in montagna?
– Non oggi. Sto facendo dei sandali di paglia, – disse, e non andò.
– Verresti? – tornarono a chiedergli il giorno seguente.
– Oggi sto affilando il falcetto, – rispose, e non si mosse.
«Che razza di sfaticato!» pensavano, senonché il quarto giorno si alzò e finalmente andò sulla
montagna.
Una volta lí, Momonoko Tarō non fece che dormire e si svegliò solo quando si trattò di
mangiare il bentō. Calò la sera e i vicini lo chiamarono:
– Momonoko Tarō, è ora di tornare a casa.
– Uaah! – fece il ragazzo svegliandosi con un grosso sbadiglio, afferrò un albero imponente,
lo sradicò senza mettere mano all’ascia e se lo portò a casa.
– Nonna, sono tornato.
La vecchia uscí a guardare: portava in spalla una pianta enorme.
– Dove la metto? Nel giardino davanti alla casa? – chiese, ma per metterla lí avrebbe distrutto
il giardino e cosí non ne fece nulla. – Allora, la metto sotto il tetto? – domandò, ma a quella
maniera avrebbe distrutto il tetto e cosí non ne fece nulla. Infine, la scagliò nel ruscello. Dōn! La
terra tremò e dalla montagna giunse l’eco. Gōn!
– Che sarà stato? Era un albero enorme.
– Che sarà stato? Una forza straordinaria. È stato Momonoko Tarō!
I servitori del signore del luogo giunsero alla casa dei due vecchi mentre questi erano ancora
stupiti.
– Siamo venuti a controllare cosa fosse quel frastuono.
Quando il feudatario seppe che il boato era stato causato da Momonoko Tarō scagliando nel
torrente l’albero che aveva sradicato, si batté il ginocchio ed esclamò:
– Allora, mandiamolo a sottomettere gli orchi. Fate venire il ragazzo.
Senza por tempo in mezzo, gli ordinò:
– Va’ all’isola degli orchi e sottomettili.
Il vecchio e la vecchia, preoccupati, decisero di preparargli le migliori focacce di miglio di
tutto il Giappone. Gōrin, gōrin, la vecchia macinò e macinò nel mortaio e approntò tre grandi
focacce. Momonoko Tarō se le appese alla cintura con dei tralci di rampicante e partí. Si imbatté
in un cane.
– Momonoko Tarō, Momonoko Tarō, dove stai andando?
– Vado all’isola degli orchi, a sottometterli.
– Cosa porti con te?
– Sono le migliori focacce di miglio di tutto il Giappone.
– Dammene una e ti accompagnerò.
– Non posso dartene una intera. Prendine metà.
Il cane, ricevuta la focaccia, proseguí al suo fianco. Questa volta, gli si fece incontro una
scimmia:
– Momonoko Tarō, Momonoko Tarō, dove stai andando?
– Vado all’isola degli orchi, a sottometterli.
– Cosa porti appeso alla cintura?
– Sono le migliori focacce di miglio di tutto il Giappone.
– Dammene una e ti accompagnerò.
– Non posso dartene una intera. Prendine metà.
Anche la scimmia, ricevuta la focaccia, proseguiva al suo fianco, quando venne verso di loro
un fagiano:
– Momonoko Tarō, Momonoko Tarō, dove stai andando, accompagnato dal cane e dalla
scimmia?
– Vado all’isola degli orchi, a sottometterli.
– Cosa porti appeso alla cintura?
– Sono le migliori focacce di miglio di tutto il Giappone.
– Danne una anche a me e ti accompagnerò.
– Non posso dartene una intera. Prendine metà.
Poi, con il cane che abbaiava, la scimmia che strideva e il fagiano che schiamazzava, si mise
in marcia, bau bau, kya kya, kēn kēn!
Quando giunsero sull’isola, gli orchi avevano sbarrato il pesante portale e i nostri non
poterono entrare. Il fagiano superò in volo l’ostacolo e aprí dall’interno.
– Andiamo, presto, – disse, e cosí entrarono.
– Inaudito! Chi sarà mai questo Momonoko Tarō «figlio della pesca»? – lo schernirono gli
orchi e mossero all’attacco. Come c’era da aspettarsi, avendo mangiato le migliori focacce di
miglio di tutto il Giappone, i quattro avevano la forza di mille uomini e sconfissero gli orchi uno
dopo l’altro. Il fagiano li beccava sul viso, la scimmia li graffiava e il cane mordeva loro le
gambe. In poco tempo gli orchi ebbero la peggio.
Il loro capo versò lacrime su lacrime dai suoi grandi occhi e chiese perdono a mani giunte:
– Ti prego, risparmiaci la vita. Ti darò quanto di prezioso posseggo.
Momonoko Tarō caricò tutto su un carretto cigolante e, tira e spingi, fece ritorno con cane,
scimmia e fagiano.
È accaduto tanto tempo fa.

Okayama, Kawakami.
I geta fatati
C’era un tempo un figlio devoto che aveva uno zio avido di nome Gonzō. Una volta che la
madre era malata e avevano un assoluto bisogno di soldi, il giovane andò dallo zio a chiedere un
prestito. Questi glielo concesse. Anche quel danaro fu speso e, poiché gliene occorreva dell’altro,
il ragazzo ne chiese ancora, ma questa volta lo zio rifiutò di aiutarlo dicendo:
– Se non mi restituisci quanto mi devi, non ti farò certo un secondo prestito.
Il figlio devoto non sapeva cosa fare. Non riuscí a trovare soluzione alcuna e, sulla via del
ritorno, si assopí.
Venne da lui un vecchio che gli dette un paio di geta alti, da pioggia.
– Se calzi questi geta e rotoli in terra, ogni volta comparirà una monetina d’oro. Ma,
attenzione: se non farai altro che ruzzolare, la tua altezza diminuirà, – gli spiegò.
Destatosi dal sogno il giovane, pieno di gioia, provò subito a fare un capitombolo: come gli
aveva detto il vecchio, comparve la monetina. Quando lo seppe lo zio, si precipitò da lui e gli
disse:
– Ho pazientato fino a oggi per il danaro che ti avevo prestato. Ora, dammi quei geta.
Il figlio devoto gli disse che no, proprio non poteva darglieli, ma fu tutto inutile: l’altro glieli
strappò di mano e se ne andò.
Tornato a casa, lo zio chiuse ben bene la porta e in giardino stese in terra un largo furoshiki
sul quale, calzati i geta, cadde e ricadde: in un batter d’occhio comparve una montagna di
monete. L’uomo, però, rimpicciolí fino a diventare minuscolo come un insetto.
Il nipote, chiedendosi cosa stesse facendo lo zio, aprí la porta: c’era una gran quantità di
monete d’oro, ma di lui nessuna traccia. Lo cercò dappertutto ed ecco che in un cantuccio del
giardino si muoveva un ometto piccolo piccolo. Era lui. Il ragazzo si riprese danaro e geta e
rincasò.
Ancora oggi esiste un insetto che si chiama gonzō . Dicono sia quello in cui si tramutò lo zio
1

avido.

Okayama, Okayama.
1. Si tratta del kokuzōmushi, calandra del grano (Calandra granaria), un coleottero dal corpo lungo e stretto, bruno e privo di
ali, le cui larve si nutrono della parte aromatica del grano.
Il ragazzo che salí in cielo
C’era una volta un giovane. Giorno dopo giorno, non faceva altro che rimanersene con le
mani in mano: alla fine, i suoi lo mandarono via di casa. Rassegnato, camminava riflettendo:
«Sarà il caso di trovare lavoro da qualche parte, magari come garzone». Ed ecco che, oltre la
recinzione di una casa, stavano sradicando scorzonere.
– Prendetemi a lavorare con voi, – li pregò, e fu subito assunto.
Un giorno, come al solito era intento a raccogliere le piante, quando trovò una grossa
scorzonera che non voleva saperne di venire fuori. Ci mise tutte le sue forze finché riuscí a
strapparla con uno schiocco, ma lo slancio fu tale che il ragazzo volò fino a Ōsaka, nel quartiere
dei bottai. Andò da un bottaio e gli chiese:
– Non avreste un lavoro per me?
L’uomo rispose di sí e fu subito assunto. Lí, ogni giorno aveva l’incarico di adattare i cerchi
alle botti.
Un giorno, come al solito stava chiudendo a martellate il cerchio di una grande botte, quando,
chissà come, per un colpo il cerchio si spezzò con un rumore secco e il giovane volò via fino a
Kyōto, nel quartiere degli ombrellai. Andò da un ombrellaio e chiese:
– Non avreste un lavoro per me?
L’uomo rispose di sí e fu subito assunto. Lí, ogni giorno aveva il compito di far asciugare al
sole gli ombrelli appena fabbricati.
Un giorno, stava tentando di chiudere un grosso ombrello di bambú e carta oleata, quando
all’improvviso si levò un turbine di vento cosí forte che il ragazzo fu sollevato in volo con tutto
l’ombrello. Saldamente aggrappato al manico volò sempre piú in alto, finché fu trasportato in
cielo.
Di fronte a lui si scorgeva un fuoco. «Oh, che bellezza!» pensò, e andò a vedere: c’era una
casa. Dentro, una donna filava.
– Non avreste un lavoro per me? – le chiese, e quella, sorpresa, rispose:
– Questa è la casa del Tuono, ma ora è fuori. Proviamo a chiedere a lui quando sarà di ritorno.
Non passò molto tempo che il Tuono rincasò rombando Goro goro! La moglie gli spiegò la
questione.
– Se le cose stanno cosí, ogni giorno uscirai con me, con l’incarico di spargere la pioggia, –
disse al giovane, e lo assunse. Da allora ogni giorno, quando il Tuono usciva, il ragazzo lo
seguiva con una grande ciotola colma d’acqua spruzzandone a profusione con la mano.
– È arrivata la pioggia! – dicevano sulla terra, e qui e là cominciava un corri e fuggi.
Tutto ciò era molto divertente, ma un brutto giorno, in un momento di disattenzione, con un
piede mancò una nuvola. «Ho fatto una sciocchezza». Non finí di pensarlo, che precipitò in mare
con un tonfo.
Lí, andò al Palazzo del Drago e chiese:
– Non avreste un lavoro per me?
– Mancava giusto qualcuno che mi ramazzasse il giardino e non sapevo come fare. Ti assumo.
Però, c’è una cosa che è bene tu sappia. Una volta in giardino, dall’alto scenderanno verso di te
cibi prelibati, ma non mangiarne per nulla al mondo, – lo mise in guardia.
Mentre il giovane spazzava il giardino, in effetti dall’alto calarono vivande gustose a
sfiorargli le labbra. In un primo momento resistette, ma pian piano cominciò ad aver fame e finí
per assaggiarne un boccone. Avvertí subito uno strattone e si sentí tirare verso l’alto
«Ho fatto una sciocchezza». Non finí di pensarlo, che fu pescato e tirato a bordo di una barca.
Sulla barca c’erano molti pescatori:
– Oh, abbiamo preso una sirena, – dissero, e ne nacque un gran trambusto.
– Tenetemi con voi come servitore, – li pregò, e raccontò loro la sua storia da quando
raccoglieva scorzonere fino a quando ramazzava il giardino nel Palazzo del Drago. I pescatori,
meravigliati, lo riaccompagnarono fino al suo paese. Da allora, si dice che prese ad ascoltare i
consigli dei genitori e si dedicò al lavoro con impegno.
Anche questo è accaduto tanto, tanto tempo fa.

Okayama, Shitsuki.
Le due Kannon
Nei dintorni di un luogo chiamato Yasunaga viveva, dicono, una yamanba che imitava il
pianto dei bambini. Certi che si trattasse davvero di un bimbo, i passanti accorrevano, la
yamanba saltava fuori, li acciuffava e li divorava. Cosí, in preda al timore, nessuno osava piú
passare per Yasunaga.
C’era un uomo molto forte di nome Uheita. Come al solito la vecchia prese a imitare il pianto
di un neonato, Uheita si avvicinò, il pianto cessò e spuntò la donna.
– Vecchia, cosa fate in un luogo simile?
– Ho smarrito la strada.
– Siete anziana, vi prenderò sulle spalle e vi accompagnerò al villaggio.
– Sí, ma quando ve lo dirò, fatemi scendere.
– Va bene. Vi farò scendere quando vorrete.
La vecchia, felice, gli si accoccolò sulla schiena. L’uomo se la sistemò saldamente in spalla,
le afferrò forte entrambe le mani e prese a scendere verso il villaggio.
Alle porte di Yasunaga, la yamanba gli disse:
– Caro Uheita, fatemi scendere.
Pensava, infatti, che una volta a terra avrebbe potuto mangiarselo. Uheita tuttavia lo sapeva
bene e rispose:
– Aspettate, aspettate un altro poco. Siamo ancora lontani dal villaggio.
– Almeno liberatemi le mani, per favore. Non posso piú sopportare il dolore.
– Abbiate un po’ di pazienza. Vi libererò tra un attimo.
– Svelto, liberatemi. Che dolore!
– Siamo quasi arrivati.
Mentre discutevano a questa maniera, la trasportò fino a casa propria.
L’uomo la spinse dentro a forza, serrò ben bene porte e finestre, accese un gran fuoco nel
doma e la gettò sui tizzoni scoppiettanti.
– Come scotta! Brucia! – gridò la vecchia che, ustionata, balzò via dalle fiamme e tentò di
mettersi in salvo.
– Sei la yamanba che fino a oggi ha divorato gente su gente. Come potrei lasciarti fuggire?
Uheita la rincorreva da una parte all’altra ma, nella confusione, la perse di vista.
– Dove sarà finita quella strega?
La cercò per tutta la casa, quando si accorse che sull’altare di famiglia, dove fino ad allora
c’era stata una sola immagine della dea Kannon, ora c’erano due statue.
– Che strano! Qui c’era una sola Kannon e ora ne abbiamo due. Quale sarà quella vera?
I familiari, dal primo all’ultimo, vennero a dare un’occhiata ma, sia nelle dimensioni, sia nel
volto e nell’aspetto, non c’era un dettaglio in cui le due Kannon differissero. Che complicazione!
– Una è sicuramente la yamanba, – dicevano consultandosi tra loro: quale fosse, però, non
riuscivano proprio a capirlo.
Uheita osservava attentamente le due Kannon quando a un certo punto batté le mani ed
esclamò:
– Ho avuto un’idea. Se le si offre riso bianco con fagioli rossi, la nostra Kannon sorride
dolcemente e tende la mano destra. Cuociamo il riso e offriamoglielo, – disse, e in quattro e
quattr’otto cosí fecero.
Quando disposero sull’altare il riso appena cotto, ecco che, come avevano sospettato, una
delle Kannon sorrise dolcemente e sollevò la mano.
– Questa furfante è la yamanba, – gridò l’uomo. La strega non fece in tempo a muoversi che
Uheita le afferrò la mano e la tirò giú dall’altare. Quella che fino ad allora era stata una splendida
Kannon, imprecò:
– Accidenti! – e ridivenne la megera di prima.
– Tu, yamanba, sei quella furfante che fino a oggi ha fatto strage di esseri umani. Ecco la
vendetta che meriti, – disse, e la calpestò, le sferrò calci e la picchiò finché non l’ebbe uccisa. Da
allora, dicono, il villaggio poté vivere tranquillo.

Shimane, Suki.
La donna che non mangia
C’era una volta un uomo. Poiché viveva sempre solo, gli amici si preoccupavano per lui e lo
esortavano a prendere moglie, dicendogli:
– Metti la testa a posto. Non sarebbe ora che ti sposassi?
L’uomo rispondeva:
– Se esiste, presentatemi una donna che non mangi. Posso aspettare quanto volete.
Un giorno, una graziosa fanciulla giunse alla casa dell’uomo e gli chiese ospitalità:
– Sono una viandante. Sta calando la sera e sono esausta: vi prego, fatemi rimanere per questa
notte.
L’uomo la avvertí:
– Potrei anche darti da dormire, ma sappi che in casa non c’è nulla da mangiare.
– Io non mangio nulla. Sono una donna che non mangia. Mi basta fermarmi per la notte, –
disse di nuovo la ragazza. L’uomo sbalordí, ma a ogni buon conto decise di ospitarla.
Il mattino seguente, la donna non accennava ad andarsene. Sbrigava per lui incombenze di
ogni genere e l’uomo stabilí che poteva rimanere per sempre. La cosa che piú gli andava a genio
era che la donna non faceva che lavorare, senza mangiare nulla. Tuttavia, siccome era sempre
digiuna, a un certo punto l’uomo stesso le propose di assaggiare qualcosa, ma la donna rispose
che le bastava l’odore e non toccò cibo.
Il marito, convinto che non ci fosse al mondo sposa migliore di quella, se ne vantava con gli
amici. Non c’era nessuno, però, che lo prendesse sul serio. Poco tempo dopo, venne da lui il suo
migliore amico e lo avvertí:
– Cosa ti succede? Ancora non te ne sei accorto? Tua moglie non è un essere umano. Devi
fare qualcosa.
Ma l’uomo rispose:
– Non crederai a queste sciocchezze, – e non gli badò.
– Sei l’unico a non saperlo. Al villaggio ne parlano tutti. Come possono esistere al mondo
esseri umani che non mangiano? Se pensi che io stia mentendo, fingi di andare da qualche parte,
sali sul tetto senza che lei se ne accorga e prova a vedere cosa fa, – gli disse l’amico.
Un giorno, l’uomo uscí di casa per andare in città dicendo:
– Non rientrerò prima di sera.
Tornò dopo essersi allontanato di un solo isolato e, senza che la donna sapesse, si arrampicò
di soppiatto sul tetto. La moglie, rimasta sola, si dette subito a lavare il riso. Accese rapidamente
il fuoco e iniziò a cucinare. Quando il riso fu cotto, approntò trentatre nigirimeshi, andò a
prendere in cucina tre maccarelli e li arrostí. Poi, si piegò su un ginocchio e si sciolse
disordinatamente i capelli. Al centro della testa si aprí allora un’enorme bocca dentro la quale la
donna gettò i nigirimeshi e i maccarelli. E cosí mangiò.
A quella vista, l’uomo si spaventò a morte, scese senza far rumore dal tetto e corse a casa
dell’amico. Questi gli disse:
– Non dirle che hai visto tutto. La cosa migliore è che torni a casa fingendo di non sapere
nulla.
L’uomo rincasò come se niente fosse successo. La moglie era a letto e diceva di avere mal di
testa. Gliene domandò la causa e lei rispose con voce carezzevole:
– Non è nulla. Non mi sento bene e cosí mi sono coricata.
– Perché non prendi una medicina? O pensi di aver bisogno di qualche preghiera
propiziatoria?
– Non so cosa potrebbe andare bene, – rispose la donna, e sembrò che fosse pronta ad
avventarsi su di lui.
– Allora, vado a chiamare lo sciamano.
L’uomo si precipitò a casa dell’amico e lo trascinò con sé.
– Di quale influsso malefico si tratterà? È la maledizione dei tre shō di riso? È la maledizione
dei tre maccarelli? – disse l’amico.
A quelle parole la donna saltò su dal letto gridando:
– Ah, dunque mi avete vista!
Gli si avventò contro e prese a sbranarlo.
Il marito, terrorizzato, tentò di mettersi in salvo, quando la donna, che aveva ormai divorato
l’amico, lo acciuffò, lo sollevò come un gattino, se lo caricò sulla testa e senza por tempo in
mezzo fuggí verso le montagne. Se ne andò correndo come una lepre per campi e per monti.
Quando attraversarono un bosco, l’uomo vide davanti a sé il ramo sporgente di un albero e
pensando: «È fatta!» vi si aggrappò. La donna dèmone non si accorse di nulla e continuò a
correre a piú non posso. L’uomo scese dall’albero e senza far rumore si nascose fra i cespugli di
iris e di artemisia che crescevano da quelle parti. Ma ecco che la donna dèmone tornò sui suoi
passi fino al luogo dove l’uomo era nascosto e cominciò a dire:
– Nasconditi pure finché vuoi, non ti lascerò scappare.
Fece per avventarsi su di lui, ma proprio mentre stava per spiccare il balzo, gridò piena di
rammarico:
– Accidenti, per me non esiste veleno piú potente dell’iris e dell’artemisia. Il mio corpo si
guasterebbe al solo sfiorarli. Se non fosse per questi cespugli, avrei già divorato anche te.
L’uomo, certo ormai di essere al sicuro, afferrò le piante e le scagliò contro il dèmone. E
questo, colpito dal veleno, morí.

Hiroshima, Aki.
La Balena e l’Oloturia
– Non c’è nessuno piú in gamba di me, – si vantò un tempo la Balena.
L’Oloturia la udí e rise. Offesa, la Balena la sfidò:
– Facciamo una gara di velocità.
L’Oloturia acconsentí:
– Fra tre giorni, vieni a una certa ora alla baia di Yura. Ti aspetterò lí, – le promise.
Poi, l’Oloturia si allontanò e chiamò a raccolta le sue compagne:
– In sostanza, per le ragioni che vi ho esposto, mi sono impegnata a gareggiare con la Balena.
Tuttavia, non sono certo io quella che potrebbe batterla. Andate ognuna in una baia e, quando la
Balena arriverà, ditele: «Arrivi ora?» – le pregò. Tutte d’accordo si avviarono rotolando ciascuna
verso la propria meta.
I tre giorni passarono. La Balena e l’Oloturia s’incontrarono alla baia di Yura.
– Allora, nuotiamo da qui alla spiaggia di Kohama, – stabilirono, e la gara ebbe inizio. La
Balena avanzava con incedere maestoso, mentre l’Oloturia non faceva che ruzzolare e procedeva
con grande fatica.
Giunta alla spiaggia di Kohama, la Balena, convinta che l’Oloturia non potesse essere già lí,
provò a darle una voce:
– Oloturia! Oloturia!
– Balena cara, arrivi ora? – le fu risposto.
La Balena sbalordí.
– Ora nuotiamo fino alla spiaggia di Shimoda, – disse, e riprese a nuotare. Raggiunta la
spiaggia, si guardò attorno e chiamò:
– Oloturia! Oloturia! – quando un’oloturia rispose:
– Balena cara, arrivi ora?
Questa volta si spinse nuotando fino alla baia di Mori, ma, dovunque arrivasse, era stata
preceduta.
Cosí, raccontano che alla fine la Balena fu sconfitta.

Yamaguchi, Ōshima.
Sud-ovest
Traduzioni e note di Matilde Mastrangelo.
Il Dio della Povertà
C’era una volta una giovane coppia. La moglie era una scansafatiche che gettava sempre i
fondi del tè e gli avanzi della cena davanti al forno, tanto che con il tempo il Dio della Povertà
prese a vivere in quella casa. I due diventarono sempre piú poveri fino a non potervi piú porre
rimedio. Non erano neppure in grado di preparare i mochi per le feste del nuovo anno che si
stavano avvicinando. Prima che se ne rendessero conto loro stessi, arrivò la notte dell’ultimo
dell’anno.
Poiché in casa non avevano neanche un ceppo di legno, il marito pensò di bruciare le assi del
pavimento. Era intento a staccarle e gettarle nel fuoco quando sentí provenire dal fondo della
stanza un fruscio. Si chiedeva cosa fosse, quando comparve un vecchio vestito di stracci. Il
padrone di casa stava per colpirlo con un tizzone, ma l’altro disse:
– Fa’ sedere anche me accanto al fuoco, – e si avvicinò al braciere.
Mentre l’uomo si domandava cosa succedesse, il vecchio aggiunse:
– Sono passati otto anni da quando sono entrato in questa casa e ormai non resta piú niente.
Mi andava a genio tua moglie che gettava sempre gli avanzi del cibo e del tè. Ecco perché mi
sono stabilito qui da voi. Se vuoi diventare ricco, mandala via.
Il marito seguí il consiglio e cacciò via la donna.
La divinità della povertà gli ordinò allora di andare al villaggio a comprare uno shō di sake,
ma l’uomo rispose che non aveva nessun recipiente.
– Compralo al karatsuya – gli suggerí il vecchio.
1

L’uomo, come gli era stato detto, andò al karatsuya, comprò il tokkuri e quindi si recò dal
vinaio e si fece dare uno shō di sake. I soldi, glieli aveva dati il vecchio vestito di stracci. Al suo
ritorno, i due bevvero insieme e poi la divinità gli disse:
– Stasera per l’ultimo dell’anno, al grido «Inchinatevi, inchinatevi!» passerà il corteo di un
nobile signore; egli sarà su un palanchino e verrà da quella parte. Tu dovrai saltarvi dentro e
colpirlo.
– Non sono capace di compiere un’azione simile, – protestò il padrone di casa.
– Non hai scelta, – rispose la divinità. – Non hai altro modo per ridiventare ricco, fa’ quello
che ti ho detto.
L’uomo pensò che non poteva opporsi al Dio della Povertà e si avviò portando con sé un
bicollo. Come gli era stato detto, giunse un palanchino ornato con molte lanterne di carta. Fece
per colpire chi stava all’interno, ma sbagliò e colpí invece il battistrada che morí sul colpo. Il
corteo si allontanò. Guardò ciò che aveva colpito: era una monetina di rame. Mentre l’uomo
restava lí meravigliato arrivò il vecchio:
– Perché non hai colpito il feudatario nella portantina? – chiese. – Il primo dell’anno passerà
un altro palanchino, approfitta della prossima occasione, – aggiunse.
La sera del primo giorno dell’anno nuovo, infatti, giunse un altro corteo risplendente di
lanterne. L’uomo uscí ad aspettarlo, al momento giusto colpí la portantina e in quell’istante si udí
un grande rumore, come se qualcosa rotolasse rompendosi in mille pezzi. Dall’interno del
palanchino caddero tintinnando monete d’oro piccole e grandi. L’uomo le raccolse e diventò
ricco come un tempo.

Kagawa, Nakatado.
1. Lett. «negozio di Karatsu». Karatsu è una località nella provincia di Saga, nell’isola di Kyūshū, famosa per la produzione
di ceramiche e porcellana. il termine karatsuya può quindi anche indicare genericamente «negozio di ceramiche».
La moglie volpe
Nei tempi dei tempi, nei parchi del palazzo imperiale, c’erano molti animali e si praticava la
caccia alla volpe. Un giorno, il nobile Yasunari andò fra i monti insieme agli altri uomini del
seguito per una battuta di caccia e davanti a lui apparve una volpe bianca che sembrava piú che
millenaria. La volpe, forse perché era gravida, implorò con le lacrime agli occhi di risparmiarle
la vita fino alla nascita del cucciolo. Yasunari la lasciò andar via, ma quando l’imperatore lo
venne a sapere lo esiliò in una località chiamata Abe.
Yasunari aveva una moglie di nome Kuzunoha. Una volta giunto ad Abe, per il dispiacere di
non poter vivere insieme a lei si ammalò. I dieci uomini del suo esiguo seguito fecero il possibile
per curarlo, ma le sue condizioni erano ormai disperate, e in piú, essendo in esilio, non poteva
essere raggiunto dalla moglie.
La volpe bianca che egli aveva salvato seppe della sua malattia. Assunse allora le sembianze
di Kuzunoha e andò da lui. In un primo momento non riuscí a entrare perché all’ingresso c’era
un cartello che proibiva il passaggio agli estranei. Si rivolse allora agli uomini del seguito e
riuscí a sgattaiolare dentro. Yasunari, convinto che si trattasse della moglie, ne fu cosí felice da
guarire. Ben presto, la volpe bianca ebbe da lui un figlio che chiamarono Dōjimaru.
Era trascorso ormai molto tempo da quando Yasunari era stato esiliato e l’imperatore permise
a Kuzunoha di andare a trovare il marito. Al suo arrivo, la donna non poté credere ai propri
occhi: c’era un’altra Kuzunoha, identica in tutto a lei, e un figlio di nome Dōjimaru. Yasunari a
sua volta non riusciva piú a distinguere chi delle due fosse la vera moglie. Le chiamò entrambe e,
dopo che ebbero mangiato la focaccina che conta gli anni, capí che la Kuzunoha volpe aveva
mille e tre anni e quella vera trentatre. Ora che la sua età era stata scoperta, la volpe bianca non
poteva piú rimanere.
– Se hai nostalgia di me, vieni a trovarmi nel bosco di Shinoda, – scrisse in una lettera d’addio
al figlio, e se ne andò.
Dōjimaru, che era figlio della volpe, aveva una grande nostalgia della mamma e cosí un bel
giorno partí per il bosco di Shinoda. La volpe bianca comparve, lo accolse con affetto e gli
regalò un bastone di canna che il ragazzo portò con sé a casa.
Passò altro tempo e l’imperatore accordò a Yasunari il perdono, permettendogli di tornare con
la famiglia alla capitale. Dopo che vi si furono stabiliti, andarono un giorno al mercato di
Sumiyoshi. A un tratto Dōjimaru, che aveva con sé cento mon, perse di vista i genitori. Si diresse
verso la spiaggia e vide alcuni bambini che avevano catturato una tartaruga e la stavano
tormentando. Diede tutto il denaro che aveva ai bambini, comprò la testuggine e la lasciò libera
in mare. Dopo un po’ di tempo la marea risalí e i bambini si tuffarono in acqua. La tartaruga non
aveva ancora raggiunto il mare aperto e cosí la catturarono di nuovo e ripresero a tormentarla.
Dōjimaru, rimasto senza soldi, non sapeva come fare per aiutarla. Allora propose:
– Non uccidetela! Vi darò il mio kimono in cambio dei vostri.
I bambini erano figli di pescatori e Dōjimaru un aristocratico: le loro vesti erano molto diverse
ed essi subito accettarono lo scambio. Dōjimaru condusse la tartaruga in alto mare e la fece
fuggire:
– Presto va’ in fretta! Non farti prendere di nuovo, mi raccomando, – le disse.
Separato dai genitori, Dōjimaru non sapeva come tornare a casa. Mentre camminava sulla
spiaggia, vide avvicinarsi una barca proveniente dal Palazzo del Drago. Era bellissima.
– Siamo venuti per portarti con noi, – gli dissero i barcaioli.
Il ragazzo salí a bordo e in un batter d’occhio giunsero al Palazzo.
– Ti ringrazio per aver salvato la principessa mia figlia, – gli disse il sovrano, e lo accolse con
ogni premura offrendogli cibi squisiti. Trascorsero cosí trenta e poi cinquanta giorni senza che
Dōjimaru se ne rendesse conto. Infine, preoccupato per i genitori, espresse al sovrano il desiderio
di tornare a casa. Questi gli regalò tre gioielli: il primo comandava le maree, il secondo bastava
leccarlo una sola volta per non avere fame per quindici giorni, e l’ultimo aveva il potere di far
comprendere il canto del nibbio, del corvo e degli altri uccelli. Poi, donatogli un kimono di
broccato d’oro, lo fece riportare alla spiaggia di Sumiyoshi.
Dōjimaru scese a terra e notò che le spighe di riso, alla sua partenza appena spuntate, ora
erano tanto mature da essere ingiallite. Era troppo piccolo per sapere dove andare, ma ecco che
giunse in volo un cigno. Egli allora avvicinò all’orecchio uno dei gioielli ricevuti in dono al
Palazzo del Drago:
– Dōjimaru, devi tornare subito a casa! Tua madre è morta per il dispiacere di non vederti piú
e tuo padre è in fin di vita, – gli disse l’uccello. Poi aggiunse: – So che non sai come arrivarci!
Basta che segui la direzione del mio volo.
Il ragazzo seguí il cigno e in breve giunse a casa. Come gli era stato appena detto, Kuzunoha
era morta e Yasunari era in condizioni gravissime. Dōjimaru sfiorò il corpo del padre con le
gemme ricevute dal sovrano dei mari e subito l’uomo guarí dalla terribile malattia.
In quel momento un colombo si posò sul tetto e cominciò a tubare con insistenza. Dōjimaru si
affrettò a mettere vicino all’orecchio la pietra magica e sentí:
– Va’ subito alla capitale, altrimenti passerà molto tempo prima che tu possa aver successo
nella vita.
Il ragazzo salutò il padre e partí per la capitale. Poiché aveva con sé la gemma che nutre per
quindici giorni, andò via senza provviste. Si mise in cammino senza perdere tempo verso la città,
ma a mezzogiorno si fermò a riposare in un angolo di un campo. Due corvi, uno proveniente da
est e l’altro da ovest, si posarono su un albero vicino a lui. «Chissà cosa si staranno dicendo?»
pensò, e per ascoltare pose vicino all’orecchio la gemma fatata. Il corvo dell’est chiese all’altro:
– Da dove vieni?
E quello dell’ovest:
– Vengo da Kumano. Quest’anno il raccolto è andato male e non mi rimaneva che partire.
Com’è la situazione alla capitale?
– Va bene. Però la gente è stupida. Dōman ha stregato l’imperatore mettendo sotto terra,
nell’angolo nord-ovest del giardino, il verme dei tre veleni. I sudditi non lo sanno e si rivolgono
a monaci e esorcisti per far guarire l’imperatore, ma è tutto inutile. Eppure, basterebbe solo
stanare il verme! – raccontò il corvo dell’est.
«Questa sí che è un’informazione utile», si disse Dōjimaru e riprese in fretta il cammino
finché giunse alla capitale. Chiese ospitalità per una notte alla residenza di un amico della sua
famiglia e il mattino dopo si mise a camminare per la città, con il bastone di canna donatogli
dalla madre, annunciando:
– Una grave calamità vi sovrasta e coloro che non lo sanno saranno i piú colpiti.
Lo incrociarono gli attendenti di Dōman che erano in giro per la città e cercarono di farlo
fuori, irritati per ciò che diceva, ma Dōjimaru con la sua canna li ridusse in poltiglia.
Poiché il suo ospite lo conosceva, si recò dall’imperatore per comunicargli che Dōjimaru era
giunto da Sumiyoshi per curarlo. Ma Dōman che era presente intervenne:
– Mi sto occupando io della guarigione dell’imperatore con le mie formule magiche. Sua
Maestà non vorrà certo dare ascolto a un bambino.
L’uomo si adirò e chiese di poter mettere a confronto Dōjimaru e Dōman in una gara di
magia: il vincitore avrebbe curato il sovrano. E cosí fu stabilito che la gara si sarebbe svolta
davanti all’imperatore.
Fu mandato a chiamare Dōjimaru e i due si sedettero l’uno di fronte all’altro. Per primo, il
ragazzo mise un foglio di carta in un vaso e subito spuntò un albero di susino; poi tagliò un
foglio in piccole parti, le lanciò in aria e ne vennero fuori degli uccelli che volando si posarono
sull’albero; infine batté tre volte le mani e tutto scomparve. Dōman, pensando di dover affrontare
un bambino, aveva sottovalutato la prova, ma rimase sbigottito per tutto quello che aveva visto.
Venuto il suo turno, tagliò due fogli di carta e creò un serpente che si avventò su Dōjimaru per
divorarlo. Il ragazzo rimase imperturbabile e il suo avversario si convinse di avere a che fare con
un vero saggio. Mise allora dentro alcune scatole laccate poste una sull’altra dodici mandarini e
gli chiese di indovinarne il numero. Questa volta Dōjimaru era in difficoltà e si mise a riflettere
tenendo stretta la canna. La madre volpe allora si trasformò nel bastone e gli suggerí:
– Devi dire: «dodici topi».
Dōman, che aveva messo i dodici mandarini nelle scatole, era sicuro a quel punto di aver
vinto, ma quando aprí trovò proprio dodici topi. Sconfitto, cercò di fuggire, ma Dōjimaru prese
la gemma che comanda le maree e ordinò alle acque di sommergere Dōman che morí annegato.
Solo allora fece ritirare l’alta marea e tutto tornò come prima.
Dōjimaru si avvicinò all’imperatore e spiegò:
– Per guarire Sua Maestà basta stanare il verme dei tre veleni nascosto nell’angolo nord-ovest
del giardino imperiale.
Gli attendenti scavarono nel luogo indicato, trovarono il verme e l’imperatore guarí. Dōjimaru
ricevette molti regali dopodiché ritornò con il suo bastone di canna dal padre.

Kagawa, Mitoyo.
Urashimatarō (1)
Tanto tempo fa, in una grande baia del Mare del Giappone, viveva Urashimatarō con sua
madre quasi ottantenne. Urashima faceva il pescatore e non era sposato. Un giorno la madre gli
chiese:
– Urashima, perché non prendi moglie fintanto che io sono ancora in buona salute?
– Non ho un lavoro sicuro e se mi sposassi non sarei in grado di mantenere la famiglia. Per
noi due basta il pesce che mi procuro ogni giorno, – rispose.
I giorni e i mesi passarono, la donna compí ottant’anni e Urashima quaranta. Era autunno e il
vento freddo del nord soffiava ogni giorno, impedendogli di andare per mare e di far soldi
vendendo il pesce. Non sapeva piú come dar da mangiare alla madre e ogni sera si coricava
pensando: «Speriamo che almeno domani sia bel tempo!» Un giorno finalmente il cielo sembrò
promettere bene e Urashimatarō saltò su dal letto, salí sulla barca e cominciò a pescare. Fino allo
spuntare del sole non riuscí a prendere niente. Quando il sole era alto nel cielo e Urashima era
ormai avvilito, qualcosa di pesante abboccò all’amo. In gran fretta tirò su il filo e vide che si
trattava di una tartaruga. L’animale aveva le zampe anteriori sul bordo della barca, ma non
faceva niente per scappare.
– Pensavo fosse un’orata e invece è solo una tartaruga, – disse. – È per colpa tua che gli altri
pesci non abboccano. Ti lascio andare ma allontanati da qui, – e la tartaruga si immerse nel mare.
Urashima si accese la pipa e riprese a pescare, ma non poté far niente se non preoccuparsi.
Prima di mezzogiorno, di nuovo qualcosa mosse la canna, egli tirò il filo e trovò anche questa
volta la tartaruga.
– Ti avevo detto di allontanarti! – esclamò. «È una vera sfortuna, i pesci non abboccano e la
tartaruga è sempre qui», pensò e la lasciò andare ancora una volta. Non poteva tornare a casa a
mani vuote e cosí attese con pazienza per altre due ore; sentí quindi di nuovo un peso
all’estremità della canna. Pensando che fosse la volta buona, tirò il filo ma era ancora la
tartaruga. La liberò un’altra volta. Il sole stava per tramontare e non aveva preso neanche un
pesce. Giunse la sera e Urashimatarō, chiedendosi cosa avrebbe potuto dire alla madre, guidò la
barca verso la riva. Fu allora che vide un battello dirigersi, chissà per quale motivo, verso di lui.
Se Urashima virava a dritta, anche il battello virava a dritta, se virava a sinistra anche il battello
virava da quella parte, fino ad affiancarsi alla sua imbarcazione. Si affacciò il capitano:
– Urashima, sali a bordo, la principessa del Palazzo del Drago ti aspetta.
– Non posso lasciare mia madre e seguirti fino al Palazzo del Drago, – rispose il pescatore.
– Provvederò io a lei, non preoccuparti, sali, – disse il capitano, e a queste parole Urashima
senza pensarci su si spostò sull’altra imbarcazione. Subito questa si immerse nell’acqua verso il
Palazzo del Drago.
La residenza del Signore dei Mari era magnifica. La principessa pensò che Urashima potesse
aver fame e gli serví ogni sorta di delizie.
– Rimani pure un paio di giorni, – gli disse e insieme alle numerose fanciulle che vivevano
nel Palazzo si prese con gran premura cura di lui. In un baleno trascorsero tre anni. Il pescatore
pensò che fosse giunta l’ora di tornare a casa. Al momento di salutarlo, la principessa gli porse
tre scrigni chiusi uno dentro l’altro:
– Aprili solo se ti troverai in difficoltà, – gli disse.
Quindi Urashima salí sulla stessa barca con cui era arrivato e fu condotto fino al promontorio
della baia.
Tornò al suo villaggio, ma vide che perfino la forma delle montagne era cambiata e che gli
alberi sulle colline erano scomparsi o erano morti. «Come mai tutto è cosí diverso? Eppure sono
stato via solo tre anni!» pensava, mentre si dirigeva verso la sua abitazione. Si fermò presso una
casa dal tetto di paglia dove un vecchio era intento a intrecciare i giunchi. Lo salutò e provò a
chiedergli:
– Avete mai sentito parlare di Urashimatarō?
Il vecchio rispose:
– Ho sentito dire che al tempo dei nostri nonni un tale Urashimatarō si recò al Palazzo del
Drago ma non fece mai piú ritorno.
– E che ne è stato di sua madre? – domandò ancora, e seppe cosí che era morta molto tempo
prima.
Urashima proseguí fino al luogo dove un tempo sorgeva la sua casa: non rimaneva che il
piccolo pozzo in pietra e il sentiero di sassi del giardino. Si ricordò a quel punto del regalo
magico, sollevò il coperchio della prima scatola e vi trovò le ali di una gru. Aprí la seconda e si
alzò un fumo bianco che lo avvolse. E di colpo Urashima si trasformò in un vecchio. Nella terza
scatola c’era uno specchio e quando si guardò poté vedere quanto il suo viso era cambiato. Non
ebbe il tempo di meravigliarsi che si accorse che le ali della gru si erano posate sulla sua schiena.
Si alzò in volo e si trovò a volteggiare sulla tomba della madre. Da lí vide la principessa,
trasformata in tartaruga, che gli veniva incontro e avanzava lungo la spiaggia.
Si racconta che da questa storia prenda spunto la danza della gru e della tartaruga, Ise ondo . 1

Kagawa, Nakatado.
1. Danza tradizionale della regione di Ise, dove sorge uno dei piú antichi e venerati santuari shintoisti.
Il tanuki fantasma
C’era una volta in un certo villaggio un fabbro. Un giorno, che era andato nel paese vicino, gli
impegni gli presero piú tempo del previsto e si mise sulla via del ritorno che era già notte fonda.
Quando giunse al traghetto per la sua isola trovò una donna ferma lí da sola con aria sconsolata.
Tutta preoccupata si rivolse al fabbro:
– Devo tornare assolutamente a Iwakura, sull’altra sponda; ma è notte fonda e non ci sono piú
barche. Se almeno ci fosse il marinaio, avrei provato a svegliarlo e a chiedergli di traghettarmi,
ma non si sa dove sia andato. Che disperazione! Mi potrebbe aiutare ad andare dall’altra parte?
La notizia che non c’erano piú barche preoccupò anche il fabbro. Poi gli venne in mente che
di lí a poco l’acqua si sarebbe abbassata per la marea e risalendo di un po’ il corso d’acqua
avrebbero trovato un tratto da poter attraversare a piedi. Lo disse alla donna che, tutta felice, si
mise a seguirlo.
Giunti dove l’acqua era piú bassa, il fabbro si rimboccò l’orlo del kimono per attraversare il
tratto d’acqua. La donna gli chiese di tenerla per mano perché aveva paura. L’artigiano cominciò
ad attraversare il fiume, ma l’acqua diventava sempre piú profonda e la donna gli chiese di
portarla sulla schiena. L’uomo dovette accontentarla e fu allora che notò che era molto piú
leggera di quanto si potesse immaginare. Pur sembrandogli strano, la condusse comunque fino
all’altra sponda.
– Qui l’acqua sembra piú bassa. Potrebbe mettermi giú e tenermi per mano? – chiese la
donna.
Il fabbro fece come gli veniva chiesto, ma continuò sospettoso a osservarla. Si accorse cosí
che il rumore dei suoi passi nell’acqua era un po’ strano. Ogni volta che poggiava i piedi, infatti,
si sentiva chobin chobin, come se fosse il passo di un cane o di un gatto. Non ebbe piú dubbi: si
trattava di un tanuki.
Una volta superato il corso d’acqua, i due rimasero mano nella mano. Proseguirono per un
poco e presero un sentiero nella boscaglia.
– Potreste tenermi per l’altra mano, per favore? – chiese la donna porgendogliela, ma l’uomo
rifiutò di lasciarla anche solo per un attimo. Uscirono dal bosco e camminarono ancora fino a
raggiungere una strada molto frequentata.
– Vi ringrazio per la vostra gentilezza, – disse la donna, tentando di ritrarre la mano.
L’artigiano, invece, tenendola ben stretta disse:
– Non è prudente che una ragazza cammini da sola a quest’ora della notte. Venite con me e
fermatevi a casa mia.
La donna sembrava restia, ma tirandola per la mano la condusse fino alla sua abitazione.
– Eccomi a casa moglie mia; c’è un ospite con me, prepara un bel fuoco nella fucina, –
annunciò.
Calmò la gelosia della moglie con buone maniere e la convinse ad accendere il fuoco. Poi
l’uomo spinse la sconosciuta verso i carboni ardenti:
– Avanti, brutto tanuki, adesso ti butto nel fuoco! – disse minaccioso. La donna emise un
grido facendo tutta la resistenza che poteva:
– Non arrabbiatevi, non siate in collera!
– Cosa dici, maledetto tanuki, volevi forse stregarmi?
– No, non era per niente mia intenzione, – assicurò la donna.
– Bugie! – insistette l’uomo.
– Dico sul serio. È vero, io sono il tanuki Jirō Hacchū e vivo nel bosco di Iwakura. Ero andato
a Mishima per visitare mia figlia che ha partorito. In genere riesco a salire sul traghetto per
attraversare il fiume senza farmi vedere dagli uomini. Ma ieri sera non c’erano piú barche in
servizio; allora ho pensato di farmi portare sulle spalle da voi, e per questo mi sono trasformato
in una ragazza. Non avevo nessuna intenzione di stregarvi, né di farvi del male. Vi prego, abbiate
pietà di me e lasciatemi andare. Vi sarò riconoscente per tutta la vita.
La donna tanuki chiese perdono e alla fine l’uomo ne ebbe compassione. Le fece promettere
che d’ora in avanti non si sarebbe piú trasformata in un essere umano e che non avrebbe mai piú
stregato gli uomini. Solo a questo punto le lasciò la mano. La donna tanuki si inchinò piú volte,
poi sembrò dirigersi verso la porta, ma in pochi attimi era già scomparsa.

Tokushima, Mima.
La catena d’oro della divinità del cielo
C’era una volta una famiglia composta di padre, madre e tre figli. Quando i bambini erano
ancora molto piccoli il padre morí. Per andare a visitare la tomba del marito, nella ricorrenza del
settimo giorno, la madre dovette lasciarli soli. Prima di uscire disse:
– Fra queste montagne vive la spaventosa strega yamanba. Mi raccomando, non aprite la
porta a nessuno mentre sono fuori!
Dopo un po’ giunse la yamanba:
– La mamma è tornata! – disse.
– Allora facci vedere la mano, – risposero i bambini.
Essa mostrò la mano che era coperta di peli e i bambini commentarono:
– La nostra mamma ha la pelle molto piú liscia. Tu sei la yamanba!
La strega andò chissà dove a farsi prestare un rasoio, si depilò la folta peluria, si cosparse di
farina di grano saraceno e tornò indietro.
– La vostra mamma è tornata! – disse, e i fratellini:
– Mostraci la mano.
Toccarono e trovarono che era molto morbida. Tuttavia il respiro della donna era affannoso e
la voce sembrava il rumore di un bollitore che rotola in una valle. Allora dissero:
– Nostra madre ha la voce molto piú bella.
La yamanba questa volta bevve dell’acqua nella quale aveva lavato dei fagioli rossi e di
nuovo, toc toc, andò a bussare alla porta.
– Si è fatto un po’ tardi, ma la mamma è tornata, – disse.
Poiché la voce era davvero simile a quella della mamma, i bambini pensarono che questa
volta potevano aprire la porta. Cosí la strega entrò in casa.
Come ogni sera, i due fratelli piú grandi si addormentarono in una stanza, la strega e il
neonato in quella accanto. Durante la notte i due sentirono uno strano rumore nella stanza vicina,
kori kori, come se qualcuno sgranocchiasse qualcosa.
– Mamma, cosa stai mangiando? – chiesero.
– Un croccante, – rispose la yamanba.
– Danne uno anche a noi.
A questa richiesta la strega strappò le dita della manina al suo fianco e gliele lanciò. I due
ragazzi le raccolsero e videro che si trattava delle dita del fratellino. Allora si resero conto di ciò
che era successo.
– Dunque è davvero la yamanba!
Presero di nascosto un vaso di olio e scapparono di casa. Si arrampicarono sull’albero che
stava accanto all’ingresso e lo cosparsero di olio.
Quando si accorse che i fratelli erano fuggiti, la yamanba li rincorse. Vide la loro ombra
riflessa nel laghetto davanti all’ingresso e prese una rete per afferrarli, ma non ci riuscí. Alzò la
testa e capí che stavano sull’albero. Fece per salire, ma scivolava:
– Come posso fare? – tuonò e il fratello piú piccolo impaurito si lasciò sfuggire che era
possibile salire facendo delle tacche sul tronco. La yamanba andò nel deposito, prese una falce,
cominciò a colpire il legno e ad arrampicarsi. Colti dalla disperazione, i due bambini si rivolsero
al Cielo:
– Divinità del Cielo, lanciaci un’asta di metallo o una catena! – supplicarono, e dall’alto si
srotolò una catena d’oro.
Cosí i due fratelli poterono aggrapparsi ad essa e salire in cielo. Anche la yamanba pregò:
– Divinità del Cielo, lanciami un’asta o una corda.
Dall’alto scese una corda fradicia che ella afferrò per arrampicarsi, ma la fune si spezzò e la
strega cadde al suolo. Il suo sangue andò a finire sulle radici del grano saraceno che era lí vicino.
Si dice che da quel momento le radici del grano saraceno siano diventate rosse.
Si racconta poi che il piú grande dei due fratelli saliti in cielo sia divenuto la luna e il piú
piccolo una stella.

Tokushima, Mima.
La ghiandaia celeste 1

Una volta un capomastro mise in giro la voce che in montagna si poteva ascoltare il canto
della ghiandaia celeste. Il ricco signore della zona ordinò ai suoi funzionari di aprire una nuova
strada perché anche lui voleva recarsi a sentire il canto dell’uccello. Fu cosí realizzata un’ampia
e comoda strada.
Il ricco signore giunse in montagna e provò a tendere l’orecchio, ma sentí solo kukuku e non il
verso della ghiandaia. Fece chiamare il capomastro e gli chiese spiegazioni sul perché si sentisse
solo kukuku.
– Questo non è che il verso della tortora! – gli disse rimproverandolo.
Ma almeno, grazie a lui, il sentiero di montagna era diventato una strada comoda, dove si
poteva passare senza che nulla intralciasse il passo.

Kōchi, Hata.
1. «Ghiandaia celeste» è la libera traduzione dell’originale buppōsō (Eurystomus orientalis), nome di un uccello della
famiglia dei Corvidi. Le piume del capo e della coda sono nere e blu, il becco e le zampe vermigli. Piuttosto raro in
Giappone, è stato presto ritenuto un uccello sacro. Buppōsō letteralmente significa «Buddha (butsu), Legge (hō) e
Comunità monastica (sō)», ossia i «tre tesori» del buddhismo.
Gonji «naso fine»
In un certo luogo viveva il giovane Gonji. Era la fine dell’anno quando, prima di imbarcarsi
su di una nave, disse alla madre:
– Devi farmi un favore, nel giorno della mia partenza da’ fuoco alla casa.
La madre fu stupita dalla richiesta del figlio, ma data la sua insistenza accettò. Quella stessa
sera Gonji a un tratto esclamò:
– Che odore di bruciato, la mia casa sta andando a fuoco!
Gli altri gli chiesero come poteva saperlo, ma Gonji continuava a ripetere:
– Sono sicuro che la mia casa sta bruciando, sento la puzza.
Alla fine lo portarono a riva e videro che la casa era davvero ridotta in cenere. L’uomo che
aveva accompagnato Gonji raccontò poi:
– È incredibile, la casa ha preso fuoco proprio nel momento in cui Gonji ce lo diceva!
Un altro allora disse:
– Davvero ci credi? Ma non capisci che è stato un puro caso? Facciamo una prova, cosí ti
convincerai.
Prese del carbone e lo sotterrò accanto a un pozzo. Un tale che passava di lí in quel momento
chiese:
– Cosa state facendo?
– Stiamo sotterrando del carbone per mettere alla prova Gonji, – risposero quelli.
L’uomo riferí tutto a Gonji:
– Si dice che hai un ottimo fiuto, vogliono scoprire se è vero o falso e hanno nascosto il
carbone accanto al pozzo.
«Ah, è cosí dunque?» pensò il giovane, ma fece finta di niente.
Vennero poi a chiamarlo:
– Abbiamo bisogno del tuo fiuto, altrimenti non sappiamo come fare, – gli dissero.
– Pensate che io sia in grado? – domandò Gonji.
– Se sei riuscito a fiutare la tua casa che stava bruciando, puoi fare di tutto. Aiutaci per favore
a scoprire annusando quello che abbiamo smarrito, – gli chiesero e lo condussero con sé.
Gonji si avviò verso il pozzo e cominciò ad annusare, sun sun sun. Poi continuando ad
annusare si avvicinò al bordo.
– Che strano, sento odore di carbone.
Cominciò a scavare e, quando trovò il carbone, rimasero tutti senza parole. Fu cosí che
divenne famoso per il suo fiuto straordinario.
Qualche tempo dopo un ricco signore della zona si ammalò. Tutti erano molto preoccupati
perché non si riusciva a capire l’origine della malattia. Dato che Gonji era famoso perché poteva
scoprire ogni cosa con il fiuto, venne convocato anche lui.
«Sono in un bel pasticcio», pensò e cercò di rifiutare, ma non gli fu possibile tirarsi indietro.
«Non ho via di scampo», si disse uscendo di casa. Giunse a un sentiero di montagna quando il
giorno volgeva al termine e decise di riposarsi. Mentre era sdraiato pensava: «Come posso fare?
Se vado lí sono spacciato». In quel momento sentí un battito d’ali. Si girò a guardare e vide che
si trattava di un tengu. Non sembrava solo. Rivolgendosi a qualcuno, il tengu chiese:
– Che ne dici, lo mangiamo?
– No, per carità, non si può! Se lo mangi succederà qualcosa di terribile. È stato convocato dal
signore del luogo!
– E allora? Tanto non scoprirà mai la verità. Il fatto è che sotto la grande pietra della fontana
vive un vecchio rospo; finché non lo sposteranno da lí il signore non guarirà, – spiegò il tengu.
Poi volarono via.
«Che cosa utile ho sentito!» pensò Gonji. Si alzò e riprese contento la sua strada.
Arrivato a destinazione, fu subito condotto alla grande residenza del signore. Gli attendenti lo
implorarono:
– Non riusciamo a capire cosa c’è all’origine della malattia. Vorreste provare ad annusare?
Gonji entrò nella stanza e cominciò a girare fiutando. Cammina cammina, arrivò alla fonte nel
giardino, dove continuò ad annusare. Infine disse:
– Qui c’è qualcosa di sospetto. Sotto questa pietra vive un vecchio rospo, se non lo si sposta
da lí il signore non guarirà dalla malattia.
Fece sollevare dai servi il masso e spuntò fuori un vecchio rospo. Appena lo tolsero il signore
guarí. Gonji ricevette una grossa ricompensa in denaro e gli fu assegnata anche una rendita
annuale. Poiché era diventato famoso per il suo fiuto, non fu piú chiamato soltanto Gonji, ma gli
fu dato il soprannome di «naso fine». Quando fu poi nominato samurai, divenne Gonjirō «naso
fine».

Kōchi, Nagaoka.
Il genero serpente
C’era una volta una ragazza, figlia unica, molto amata dai genitori. Un bel giovane cominciò a
farle visita ogni notte. Che piovesse o ci fosse vento non mancava mai. Era molto bello e cosí
anche la madre della fanciulla all’inizio era contenta, ma quando lo vide arrivare, per nulla
spaventato, anche in una notte piena di lampi e tuoni, si insospettí. Gli chiese da dove venisse e
quale fosse il suo nome, ma non ebbe risposta.
La donna aveva sempre piú dubbi. Una notte fece passare il filo di un rocchetto nella cruna di
un ago, si avvicinò al cuscino del giovane che stava dormendo e infilò l’ago fra i capelli. Subito
il giovane scappò via a gambe levate urlando di dolore. Dietro di lui il rocchetto rotolò
rumorosamente a terra mentre il filo cominciava a svolgersi. La mattina dopo la donna, seguendo
questo filo, giunse presso un grande fossato pieno d’acqua. Dal fondo provenivano delle voci. Si
mise ad ascoltare con attenzione. Era una donna serpente che diceva rivolgendosi al figlio:
– Ora che ti hanno trafitto il capo con una punta di ferro, non potrai piú vivere. Mi dispiace
molto, ma non posso fare niente per te. Vuoi lasciarci una tua volontà?
– Non importa se morirò. La ragazza metterà al mondo il figlio mio che ha in grembo. Sarà lui
a vendicarmi! – rispose il figlio serpente.
– Certo, non credo proprio che la ragazza conosca il sake di pesca della Festa delle bambine
del terzo mese, quello di iris della Festa dei bambini del quinto mese e quello di crisantemo della
Festa dei crisantemi del nono mese . Se qualcuno glielo facesse bere, per il bambino sarebbe la
1

fine, – disse la donna serpente.


La madre della ragazza, sentite queste parole, tornò di corsa a casa. Fece bere alla figlia il
sake di pesca del terzo mese, quello di iris del quinto mese e quello di crisantemo del nono mese
e cosí eliminò dal suo grembo il figlio del serpente. Da allora si dice che le donne debbano
assolutamente bere il sake in queste ricorrenze dell’anno.

Kōchi, Tosa.
1. Si tratta di alcune fra le principali festività annuali osservate in Giappone. La festa del terzo mese, detta anche momo no
sekku (festa dei peschi), coincideva con il terzo giorno del terzo mese del calendario lunare ed è tutt’oggi considerata la
festa delle bambine. La festa del quinto mese, detta anche shōbu no sekku (festa degli iris), cadeva il quinto giorno del
quinto mese; oggi è festa nazionale dedicata ai bambini. Infine, la festa del nono mese, detta anche kiku no sekku (festa dei
crisantemi), cadeva il nono giorno del nono mese del calendario lunare.
Tanokyū
C’era una volta un attore girovago di nome Tanokyū. Una volta, lasciata la mamma da sola al
paese natio, era partito per guadagnarsi da vivere, quando ricevette una lettera: la madre si era
ammalata. Tanokyū, spinto dall’amore filiale, decise di far subito ritorno a casa. Era ormai il
tramonto quando giunse in prossimità di un pendio dove c’era una locanda.
– Se si valica di notte questa montagna, si rischia di incontrare il grande serpente. Vi
consiglierei di non farlo, – gli disse la padrona cercando di trattenerlo.
Ma Tanokyū era un vero esempio di pietà filiale e pur di arrivare dalla madre anche un solo
istante prima, non le diede ascolto e proseguí su per la montagna fino al valico. Lassú trovò un
piccolo santuario e si fermò a riposare. Fu allora che giunse un robusto vecchio dai capelli
bianchi:
– Chi sei? – gli domandò.
– Sono Tanokyū, – gli rispose il giovane.
Il vecchio sentí male e capí tanuki.
– Oh, si dice che i tanuki siano bravissimi a trasformarsi, prova a farlo davanti a me. Certo, i
tanuki hanno questa fama, ma se proprio vuoi sapere la verità, anch’io non sono un essere
umano, ma un grosso serpente, – gli spiegò poi.
Tanokyū era terrorizzato. Tuttavia, per assecondarlo, si infilò una parrucca da donna che
aveva con sé e gli mostrò quello che era capace di fare. Il grande serpente fu molto soddisfatto:
– Sei piú bravo di quanto credessi!
Poi, forse perché ora non aveva piú sospetti, cominciò a chiacchierare del piú e del meno.
Infine gli chiese:
– Che cos’è che detesti di piú?
– Le monete d’oro, – rispose Tanokyū. – E voi invece, che cos’è che non sopportate?
– Detesto la nicotina del tabacco e il succo dei cachi acerbi. Se il mio corpo ne viene a
contatto, non riesco piú a muovermi, come se fossi paralizzato. Mi raccomando però, non dirlo
agli esseri umani. Hai capito? Per nessun motivo. Ti risparmio la vita perché sei un tanuki, ma
non farne parola a nessuno. Adesso è ora che vada, – e scomparve.
Tanokyū, tranquillizzato, con passo spedito scese per il versante della montagna. Quando
arrivò a valle era ormai giorno. Incontrò due anziani boscaioli, raccontò ciò che era accaduto la
notte prima e spiegò loro come tenere lontano il grande serpente. I vecchi boscaioli gli furono
molto grati, chiesero agli abitanti del paese di raccogliere tabacco e cachi acerbi e iniziarono la
caccia al serpente. Quando questi lo venne a sapere, capí di essere stato tradito dal finto tanuki.
Ormai non poteva piú restare su quella montagna e dovette scappare su un’altra poco lontana.
Deciso però a vendicarsi a tutti i costi del tanuki, cercò la casa di Tanokyū. Infine la trovò, ma la
porta era chiusa e non riuscí a entrare. Girò tutto intorno per vedere da dove si poteva intrufolare
e alla fine scoprí il comignolo sul tetto e si infilò dentro.
– Eccoti la vendetta che meriti! – gli urlò. E gli versò addosso una montagna di monete d’oro.

Kōchi, Takaoka.
Il tanuki e la volpe
Una volpe propose a un tanuki una gara di abilità nel trasformarsi. Alla volpe spettò il
compito di cominciare. Pensò bene in cosa potesse cimentarsi per dare una lezione al tanuki. Poi
si mise a correre, si pose al lato della strada e si trasformò in una statuetta di Jizō. Quando il
tanuki arrivò, credette che fosse veramente un Jizō e gli offrí uno dei nigirimeshi del suo pranzo.
Si mise poi a pregare, ma quando alzò la testa non trovò piú il cibo che aveva appena donato.
Meravigliato, ne offrí un altro, ma quando alzò la testa il nigirimeshi non c’era piú. Ne offrí
ancora uno e questa volta, quando alzò la testa, vide che una metà si trovava ancora nella mano
del Jizō.
– Che storia è questa? – disse, irritato. Tirò la mano e subito il Jizō ritornò volpe.
Senza dire niente sui nigirimeshi che aveva mangiato, la volpe si rivolse all’altro:
– Adesso è il tuo turno.
– Bene, bene, – disse il tanuki deciso a fargliela pagare. – Mi trasformerò nel corteo di un
ricco signore e passerò di qui domani a mezzogiorno; mi raccomando, non te lo perdere, – e la
salutò.
Il giorno successivo la volpe, sapendo che nella mattinata poteva passare il tanuki, uscí di casa
che era ancora buio e si mise ad aspettare seduta sul bordo della strada. Verso mezzogiorno
finalmente si sentirono in lontananza le voci dei battistrada e apparve il corteo. La volpe, che
all’inizio si era trasformata in essere umano, dopo un po’ riacquistò il suo vero aspetto, ma non
se ne rese conto. Si mise a correre in mezzo alla strada complimentandosi con l’avversario:
– Bravo tanuki! Eccellente metamorfosi!
Si trattava però del vero corteo di un daimyō. Raccontano che la volpe non fece in tempo a
finir di parlare che già la sua testa era saltata via.

Kōchi, Agawa.
Potessi diventare un nibbio!
Yohachi era un pescivendolo ambulante. Un giorno, mentre era in giro per vendere la sua
merce, giunse in volo un nibbio, beccò un tonno e se ne volò via. Yohachi dopo aver assistito
alla scena pensò che doveva essere emozionante diventare un nibbio e volteggiare in alto nel
cielo. Cosí un giorno si recò dalla divinità Monju, sul monte Godai, e pregò ad alta voce di farlo
diventare un nibbio. Dietro la sala del tempio c’erano però quattro o cinque giovanotti che si
erano messi ad ascoltare. Uno di loro rispose:
– Va bene Yohachi, puoi star sicuro, ho accolto la tua richiesta. Tornando a casa, prova a
salire sull’albero piú alto di questa montagna.
Convinto che il suo desiderio sarebbe stato realizzato, Yohachi felicissimo pensò di fare
subito una prova. Salí sul pino piú alto del monte Godai, ma una volta giunto in cima guardò in
basso e la paura gli fece passare la voglia di spiccare il volo. Arrivarono da quelle parti i giovani
che l’avevano visto al tempio. Appena notarono Yohachi sul pino esclamarono tutti insieme:
– Guardate lí che grosso nibbio si è poggiato!
Yohachi si sentí rassicurato. Allargò le braccia e si lanciò nel vuoto: il suo corpo si rigirò piú
volte e andò a sbattere per terra. Yohachi perse i sensi e il gruppo dei ragazzi gli si avvicinò
preoccupato. Gli spruzzarono dell’acqua, lo massaggiarono fin quando finalmente rinvenne.
Ripresa conoscenza, Yohachi si guardò intorno incuriosito. Vide i ragazzi che gli stavano
accanto e disse:
– Ehi giovanotti, statemi alla larga, potreste rompermi le ali.

Kōchi.
La lepre, il tanuki, la scimmia e la lontra
C’era una volta un venditore di sale di nome Chōbee. Un giorno, che era andato a comprare
del sale, dei fagioli, una ruota per mulino e una stuoia, si era stancato molto e lungo il tragitto si
era fermato a riposare. In quello stesso luogo si trovavano una lepre, un tanuki, una scimmia e
una lontra. La prima disse:
– Se io gli passo davanti fingendo di zoppicare, Chōbee di sicuro mi inseguirà. In quel
frattempo voi tre dovete prendere il cesto delle mercanzie e scappare via.
E cosí la lepre cominciò a correre zoppicando. Come aveva previsto, Chōbee afferrò il suo
bilanciere e la rincorse. Nello stesso tempo gli altri tre fecero come era stato deciso. La lepre
riuscí a fuggire e Chōbee ritornò al posto dove si era fermato, ma il suo cesto era scomparso.
Arrabbiato mise sulle spalle il bilanciere e se ne andò. I quattro animali si riunirono per dividersi
il bottino.
La lepre decise:
– Alla lontra darò il sale, cosí quando catturerà i granchi del fiume, li mangerà conditi e molto
piú gustosi, – e le diede il sale. – Alla scimmia che dorme sulle rocce, diamo la stuoia. Vedrai
come starai comoda, – e le consegnò la stuoia.
Poi si rivolse al tanuki:
– A te che vivi in un buco darò la ruota del mulino. Se la metterai all’entrata della tua tana,
comincerà a girare e vedrai come sarà divertente guardarla mentre ti riposi, – e gli diede la ruota.
– Sono rimasti soltanto i fagioli, li prendo io, – disse infine la lepre e ognuno andò per la sua
strada.
La lontra volle provare subito a mangiare i granchi. Con il sacco di sale sulle spalle entrò nel
fiume, ma il sale si sciolse tutto. Il tanuki passò la notte a fissare la ruota, ma questa non si mosse
per niente. Allora, insieme alla lontra, entrambi molto arrabbiati, andarono dalla scimmia. La
trovarono con la schiena rotta perché aveva usato la stuoia per dormire sulle rocce, ma era
scivolata e si era fatta male.
Tutti e tre fuori di sé per la rabbia andarono dalla lepre. Questa stava mangiando i fagioli e
metteva le bucce sull’ombelico. Quando i tre arrivarono protestando disse:
– Siete furiosi anche voi? Ho mangiato i fagioli e guardate cosa mi è spuntato sulla pancia.
Povera me, che dolore!
– Beh, allora ciascuno ha i suoi guai, – convennero gli altri animali.
Dicono che da quella volta il sedere delle scimmie è diventato glabro e liscio e per la stessa
ragione è rilucente.

Kōchi, Agawa.
Il passero con la schiena rotta
C’era una volta una vecchina buona e generosa che viveva in un villaggio di montagna. Un
giorno arrivò nel suo giardino un passero con la schiena rotta che sembrava soffrire molto. La
vecchietta ne ebbe compassione, lo prese e lo sistemò in una gabbia. Gli diede il mangime che
preferiva e lo curò con molto affetto. In breve tempo il passero guarí e riuscí a volare nella
gabbia senza problemi. La donna era ben felice di accudirlo amorevolmente, ma un giorno
l’uccellino scappò via e volò chissà dove senza far piú ritorno. La vecchietta, preoccupata, si
mise allora a cercarlo. Il giorno dopo un passero si posò sulla gronda e cominciò a cantare a tutto
spiano, con trilli e cinguettii. Incuriosita la donna aprí la porta e vide che nel giardino vi erano
sparsi dei semi di zucca.
Li raccolse e li seminò nel campo dietro la casa; spuntarono dei bellissimi germogli, poi
sbocciarono dei fiori e quando i frutti maturarono la vecchia poté raccogliere un bel numero di
grandi zucche. Tutta contenta, le mise a seccare al sole, appese alla gronda, per dieci giorni.
All’improvviso da una zucca cominciò a cadere qualcosa che assomigliava a dei chicchi di riso.
La donna ne prese uno e si accorse che era proprio riso bianco di ottima qualità. Mise per terra
tutte le altre zucche e vide che ognuna di esse era piena di riso. Molto felice provò a cucinarlo; il
sapore era eccellente. Allora ne sistemò una parte in alcune scatole di lacca e le regalò ai vicini
che furono ben contenti di mangiare un cibo cosí buono. Inoltre, piú la vecchina attingeva alla
sua riserva di riso e piú questa aumentava; fu cosí che divenne ricchissima.
Tra i suoi vicini c’era un’avida vecchia. Venuta a conoscenza della storia, invidiosa della
fortuna dell’altra, cominciò ad andare in giro in cerca di passeri. Alla fine ne prese uno, gli ruppe
la schiena e lo chiuse in gabbia. Non gli dava niente da mangiare e l’uccellino dolorante volava
nella gabbia come impazzito. Ben presto l’avida vecchia lasciò la gabbia aperta e il passero volò
via con un pigolio pieno di sofferenza. La donna già pregustava il dono che avrebbe ricevuto il
giorno dopo. L’indomani un uccellino venne a cantare sul davanzale. La vecchia aprí subito le
imposte e vide semi di zucca sparsi al suolo. Li raccolse tutti e li seminò nel campo dietro la
casa. Spuntarono dei bei germogli dai quali sbocciarono dei fiori che divennero frutti; poi
nacquero tante zucche. La vecchia le appese tutte al tetto e ogni giorno le guardava dicendo:
– Producete presto il riso, avanti! – ma non ne cadeva neanche un chicco.
Allora arrabbiatissima le tirò giú e le spaccò una alla volta. Ma dalle zucche uscirono sciami
di vespe e grovigli di serpenti, scolopendre e lucertole che la accerchiarono pungendola e
pizzicandola fin quando l’avida donna, non avendo come difendersi, morí disperata.

Fukuoka, Ukiha.
La visita
Il capo del villaggio un giorno si ammalò e rimase a casa a letto. Tutti gli abitanti, uno dopo
l’altro, andarono a fargli visita. Passarono le ore, ma Kichiyomu, caso strano, non si fece vivo.
Alla sera finalmente giunse con passo lento e tranquillo. Il capovillaggio meravigliato lo
rimproverò:
– Sono venuti ormai tutti, e tu che ti saresti dovuto presentare per primo cosa aspettavi?
– Appena ho saputo che eravate malato, sono andato a chiamare il medico, – rispose
Kichiyomu.
Il capovillaggio con un sorriso disse sollevato:
– Sono stato troppo severo. Ti ringrazio per la tua premura.
Le condizioni di salute del capovillaggio peggiorarono. Tutti gli abitanti si recarono di nuovo
in visita e Kichiyomu fu l’ultimo ad arrivare. Il capovillaggio che stava per esalare l’ultimo
respiro gli chiese:
– Kichiyomu, sei andato a chiamare il medico?
– Ho pensato che stavolta fosse inutile e sono andato invece a chiamare l’abate. Poi sono
andato a ordinare gli aburaage, per offrirli al funerale, e la bara.
Il capovillaggio non poté credere alle proprie orecchie.
La storia finisce qui.

Ōita.
L’allarme per l’incendio
Una notte scoppiò un incendio nel villaggio in cui abitava Kichiyomu. L’uomo indossò il
kimono, si lavò il viso e lemme lemme andò ad avvertire il capovillaggio.
– Signore, scusate, è scoppiato un incendio. Signore, ci sarebbe un incendio, – disse con
calma e gentilezza.
Ma la voce era troppo bassa e il capovillaggio non aprí neanche un occhio. Poco dopo si
svegliò invece la moglie, che sentendo un bisbiglio alla porta andò a vedere chi fosse. Trovò
Kichiyomu che senza perdersi d’animo ripeteva:
– Signore, ci sarebbe un incendio.
La donna allarmata svegliò subito il marito. L’uomo si agitò come un matto e in gran fretta si
diresse verso il luogo dell’incendio. Quando arrivò, il fuoco era ormai spento e i funzionari lo
rimproverarono per essere intervenuto cosí tardi. Si scusò in tutti i modi, ma tornato a casa
convocò Kichiyomu e gli fece una ramanzina:
– Insomma Kichiyomu, non devi svegliarmi con tanti riguardi quando c’è un incendio. Se
succede qualcosa di grave nel villaggio, devi affrettarti a venire a bussare alla mia porta e
chiamarmi a voce alta.
– Va bene, ho capito, – disse Kichiyomu e andò via.
Qualche tempo dopo, nel cuore della notte, Kichiyomu arrivò di corsa ansimando alla porta
del capovillaggio. Brandendo un pesante bastone che aveva portato sulle spalle cominciò a
colpire ovunque, con botte da orbi, finestre e scorrevoli di legno, spaccando tutto. Infine, urlando
a squarciagola, prese di mira i pilastri:
– Signore, un incendio enorme! Un incendio, un incendio!
Il capovillaggio saltò dal letto:
– Kichiyomu, ho capito. Smettila di colpire tutto con il bastone, mi stai distruggendo la casa.
Piuttosto, dov’è l’incendio? – chiese sconvolto.
Kichiyomu allora con aria innocente chiese:
– Signore, va bene se vi sveglio cosí la prossima volta che ci sarà un incendio?

Ōita.
La cicogna, il gambero e la balena
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, una grande cicogna. «Non c’è nessuno al mondo grande
come me», pensava mentre, fuwari fuwari, volava leggera sui mari. Un giorno, che sentiva le ali
un po’ stanche, cercò dall’alto un posto dove fermarsi. Vide nel mare una specie di asta, pensò
che faceva al caso suo e ci si diresse in picchiata.
– Ehi, chi si è posato proprio qui? – domandò una voce.
– Come ti permetti? Sono la cicogna, l’essere piú grande del mondo, – rispose l’uccello.
– Ma cosa dici? Sono io, il gambero, l’animale piú grande del mondo, e tu sei poggiata su una
delle mie antenne. Altro che uccello piú grande del mondo!
A queste parole, alla cicogna non rimase che volare via, fuwari fuwari.
Il gambero si inorgoglí: «Sono io il piú grande del mondo», e saltellando, pion, pion, proseguí
per la sua strada. Quando le chele cominciarono a fargli male per la stanchezza cercò un posto
per fermarsi. Fu allora che avvistò una cavità e pensando che facesse al suo caso ci si diresse.
– Ehi, chi si è fermato proprio qui? – chiese a un tratto una voce.
– Chi piuttosto si permette di parlarmi cosí? Io sono il gambero, l’animale piú grande del
mondo, – rispose.
– Cosa vai dicendo? Io sono la balena e tu sei entrato nel mio naso. Guarda che sto per
starnutire!
Con un potente starnuto la balena fece volare il gambero contro una roccia.
È da allora che le chele dei gamberi sono curve.

Ōita, Hōkaibu.
Gli spiriti del tesoro
Tanto, tanto tempo fa, un samurai era in viaggio per il paese per apprendere le arti dei
guerrieri. Un giorno, cammina cammina, si fece buio. Si mise a cercare un posto dove passare la
notte e trovò una casa disabitata. Chiese allora ai vicini:
– Posso fermarmi in questa casa vuota?
– Non è un buon momento, nella casa ci sono degli spiriti. Se ciò non vi spaventa, fermatevi
pure, – gli risposero.
– Non ho paura, – disse il samurai ed entrò nella casa.
Durante la notte, spuntò dal pavimento un omino vestito con un kamishimo giallo. Voltandosi
verso il giardino gridò tre volte:
– Buona fortuna, buona fortuna, buona fortuna.
Qualcuno dal giardino rispose:
– Eccomi.
I due parlarono fitto fitto e poi si salutarono. Dopo poco venne fuori un omino che indossava
un kamishimo bianco. Guardando il giardino anche lui gridò tre volte:
– Buona fortuna, buona fortuna, buona fortuna.
Qualcuno dal giardino rispose:
– Eccomi.
I due parlarono di chissà cosa fitto fitto e poi si salutarono. Di nuovo spuntò dal pavimento un
omino, questa volta vestito con un kamishimo rosso. Voltandosi verso il giardino anche lui gridò
tre volte:
– Buona fortuna, buona fortuna, buona fortuna.
Qualcuno dal giardino rispose:
– Eccomi.
Dopo aver parlato fitto fitto si salutarono.
A quel punto il samurai pensò: «Adesso provo a fare la stessa cosa». Si voltò verso il giardino
e gridò tre volte:
– Buona fortuna, buona fortuna, buona fortuna.
Qualcuno uscí per rispondere e il samurai lo afferrò per il bavero:
– Ti sto osservando da tempo. Ho visto venire a parlare con te tre uomini, uno vestito di
giallo, uno di bianco e uno di rosso. Mi vuoi spiegare cosa succede? – gli chiese.
– Anticamente questa era la residenza di un signore ricco e potente. Sotto il pavimento è
sotterrato un enorme tesoro di monete d’oro e di ogni tipo conservate in una giara. Il primo uomo
che hai visto, vestito di giallo, è lo spirito dell’oro; quello in bianco è lo spirito dell’argento;
quello in rosso è lo spirito del rame, – spiegò l’apparizione.
– E tu chi saresti? – domandò l’ospite.
– Sono lo spirito della giara.
– Va bene, ho capito. Ora vattene! – gli ordinò il samurai e si rimise a dormire.
La mattina seguente i vicini, convinti che il samurai fosse stato divorato dai fantasmi,
andarono a controllare. Lo trovarono che dormiva. Lo svegliarono e gli chiesero:
– Sono apparsi i fantasmi ieri notte?
– Certo, li ho visti, – rispose e raccontò tutta la vicenda. Poi aggiunse: – Se davvero sotto
questa casa c’è un tesoro enorme, perché non ci mettiamo a scavare?
Fecero come il samurai aveva proposto e davvero trovarono una grande giara che conteneva
moltissime monete d’oro, d’argento e di rame.
Ōita, Hōkaibu.
Attaccati, attaccati!
C’era una volta un’anziana coppia. Un giorno il vecchio andò a lavorare nei campi, in un
luogo molto lontano. La moglie lo raggiunse piú tardi per portargli il pranzo. Mentre saliva per la
montagna sentí una voce che diceva:
– Devo attaccarmi o devo tenermi stretto?
La donna spaventata affrettò il passo. Quando giunse dal marito gli raccontò:
– Lungo il sentiero, nel punto in cui si passa per la foresta, ho sentito una voce che diceva:
«Devo attaccarmi o devo tenermi stretto?» Presa dalla paura sono venuta di corsa fin qui.
Il vecchio le disse:
– Nel tornare, se sentirai quella voce rispondi: «Attaccati, attaccati!»
La donna al ritorno passò per la montagna e al suono della voce fece come aveva detto il
marito: allora una grande quantità di monete d’oro le si attaccò al corpo, al punto che non era piú
in grado di muoversi. Piú tardi anche il vecchio finí di lavorare e passando per la montagna trovò
la moglie immobilizzata dal peso di tutto quell’oro. E cosí ritornarono a casa felici di essere
diventati tanto ricchi.
Un’anziana vicina si recò da loro a informarsi:
– Come mai vi lamentavate di essere tanto poveri e ora siete cosí ricchi? Cosa è successo?
Il padrone di casa le raccontò tutta la storia. La vecchia tornò a casa sua e riferí al marito la
vicenda. Questi, invidioso, decise allora:
– Proviamoci anche noi!
La mattina dopo andò a lavorare nei campi al di là della montagna. La moglie lo raggiunse per
portargli il pranzo e lungo il percorso udí anche lei:
– Devo attaccarmi o devo tenermi stretto?
Benché fosse tutta contenta, finse di essere spaventata. Portò il pranzo al marito, mangiarono
e in fretta tornò verso casa. Arrivata alla montagna sentí la voce:
– Devo attaccarmi o devo tenermi stretto?
La donna subito rispose:
– Attaccati, attaccati!
Allora una grande quantità di resina di pino le si attaccò al corpo, impedendole di muoversi. Il
marito giunse pieno di speranza e quando vide la donna ferma si precipitò verso di lei, ma con
sua grande sorpresa invece di ricchezze trovò solo della resina.
È proprio vero che vive meglio chi non è invidioso.

Ōita, Hayami.
La montagna dei vecchi abbandonati (2)
In un tempo ormai lontano i vecchi che non erano in grado di lavorare venivano messi in un
cesto e abbandonati sulla montagna. Quello che segue è un racconto che risale a tale periodo.
Viveva in un villaggio una vecchia. Un giorno il figlio e il nipotino la misero in un cesto per
portarla in montagna. Lungo il percorso la donna appallottolava l’erba e la gettava sul sentiero.
– Cosa stai facendo? – le domandò il figlio.
– Lascio delle tracce, cosí che voi non vi perdiate nel tornare a casa –. Giunti sulla montagna
posarono la nonna. Prima di andare via il ragazzino disse al padre:
– Riportiamo indietro il cesto?
– E perché? – chiese il padre. – Non ci serve piú.
– Non è vero, potremmo usarlo per portarti qui quando sarai vecchio, – replicò il figlio.
«Ho capito, ho sbagliato; se abbandono mia madre toccherà anche a me la stessa sorte», pensò
allora l’uomo e condusse di nuovo la vecchia a casa, prendendosene cura con molto affetto.

Ōita, Naoiri.
La tana del tanuki
Gonsaku, il contadino piú intelligente del villaggio di ponente, si imbatté un giorno per strada
in Kisuke, il piú intelligente del villaggio di levante.
– Buongiorno!
– Buongiorno a voi! Che bella giornata, vero? Gonsaku, lo sapete che nella mia risaia un
corvo ha fatto il nido sulla testa di un tanuki? Perché non venite a vedere?
– Kisuke, per quanto possa esser matto, non potrei mai credere a una storia simile, – rispose
Gonsaku.
– E se fosse vero, cosa mi dareste?
– Vi darei hachihiki, otto puledri.
E cosí Kisuke condusse Gonsaku nella sua risaia. Sulla cima di un albero un corvo aveva fatto
il nido.
– Si tratta semplicemente di un corvo che ha fatto il nido sulla cima di un albero. Dove
sarebbe il tanuki? – chiese Gonsaku.
– Ma come non avete capito? Ho detto che un corvo ha fatto il nido sul ta no ki, ossia
sull’albero del campo. Per questo vi ho detto che aveva fatto il nido sul tanuki. Ora mi dovete
otto puledri!
– Oh, accidenti! Andiamo a casa mia.
Insieme si incamminarono verso la casa di Gonsaku. L’uomo prese dalla stalla un cavallo
scarno scarno e lo tirò davanti all’amico:
– Eccovi il puledro.
– Ma è uno solo! – esclamò Kisuke.
– Guardategli la coda, sta trascinando una ciotola. Quando ho detto che vi avrei dato
hachihiki, non intendevo affatto «otto puledri», bensí un puledro che «trascina una ciotola» . 1

Avanti, portatevelo via, – gli disse e cosí Kisuke se ne andò scontento tirandosi dietro lo scarno
cavallo.

Saga.
1. In giapponese hachi «otto» è omofono di hachi «ciotola» e hiki, numerativo per contare i cavalli, è omofono di una forma
del verbo hiku «trascinare».
Gutsu lo sciocco
C’era una volta un tale di nome Gutsu che viveva in montagna insieme alla madre e al fratello
maggiore, il quale si guadagnava da vivere cacciando gli animali con le trappole.
Un giorno il fratello disse:
– Gutsu, va’ un po’ a vedere se è rimasta intrappolata qualche bestia.
Gutsu obbedí e uscí, ma ritornò subito.
– Che cos’era? – chiese il fratello.
– Era la gallina del vicino; l’ho lasciata andare, – rispose Gutsu.
– Che verso ha fatto quando è fuggita? – domandò il fratello.
– Ha fatto ken ken ed è scappata.
– Che imbecille che sei! Era un fagiano! – disse il fratello.
Anche il giorno dopo il fratello gli ordinò:
– Gutsu, va’ di nuovo a controllare la trappola. Qualunque animale trovi, osservalo bene e
portalo a casa.
Gutsu obbedí, ma tornò subito come la volta precedente:
– Era rimasto intrappolato il vitello del vicino e allora l’ho lasciato andare.
– Che verso ha fatto quando è scappato? – domandò il fratello.
– Faceva otsun, otsun.
– Come possono esistere stupidi come te! Avevamo catturato un cinghiale e te lo sei fatto
scappare! Mi raccomando, la prossima volta trascinati a casa tutto quello che trovi nella trappola,
– si raccomandò il fratello.
Il giorno seguente, Gutsu andò a controllare la trappola e trovò la madre che era andata in
montagna a fare legna e per sbaglio c’era caduta dentro. Appena vide il figlio gli chiese disperata
di liberarla, ma Gutsu rispose:
– Non posso, perché mio fratello mi sgriderebbe.
Cominciò a trascinare verso casa la donna chiusa nella trappola. La madre supplicava:
– Gutsu, lasciami andare, liberami.
– Non posso, mi è stato detto di trascinare a casa qualunque cosa fosse rimasta nella trappola,
– insisteva il figlio, ma quando arrivò alla loro abitazione, la donna era ormai morta lungo il
tragitto.
Il fratello maggiore lo rimproverò molto, ma era troppo tardi. Poiché non rimaneva che
celebrare il funerale, mandò Gutsu a chiamare l’abate.
– Chi è l’abate? – domandò Gutsu.
– È un tale che recita le preghiere vestito di nero, – spiegò il fratello e Gutsu uscí. Andò a
finire in una stalla. C’era una mucca nera e Gutsu si rivolse a lei chiedendole di recarsi a casa
poiché era morta la madre.
La mucca rispose:
– Muuu.
Il ragazzo tornò a casa e riferí che l’abate si era rifiutato.
– Dove l’hai incontrato? – s’informò il fratello maggiore.
– In una stalla, – rispose Gutsu.
– Ma i monaci stanno nei templi!
– E che cos’è un tempio?
– È una dimora alta e grande.
Gutsu uscí di nuovo. Su un albero alto era poggiato qualcosa di nero. Gutsu gli parlò del
funerale della mamma e l’uccello volò via gracchiando. Il ragazzo tornò a casa e riferí
dell’incontro. A quel punto il fratello, visto che non poteva utilizzare Gutsu per nessuna
incombenza, gli disse:
– Andrò io, tu rimani a cucinare, – e uscí.
Gutsu si mise quindi a preparare il riso. La pentola borbottava, gutsu, gutsu.
«Ah, conosce il mio nome!» pensò Gutsu.
– Ehi, che vuoi? – chiese. Dopo un po’ la pentola cominciò a fare gukkuta, gukkuta e lo
sciocco Gutsu pensò che gli stesse chiedendo se aveva mangiato.
– No, non ho mangiato, – rispose, ma poiché quella continuava a chiederglielo, si innervosí,
afferrò la pentola e la sbatté su una pietra. Con un kuwan la pentola si ruppe e a Gutsu sembrò
che dicesse: – Allora, non hai mangiato!
– Se me l’avessi detto prima, non ti avrei rotto! – esclamò allora. Quando il fratello maggiore
ritornò a casa lo rimproverò ancora.
Il fratello pensò poi che, dopo la cerimonia, l’abate volesse fare un bagno e disse a Gutsu di
preparare l’acqua calda. Quando gli chiesero se era pronta, il ragazzo provò a infilare la mano
nell’acqua. – È bollente, – dichiarò. Il monaco entrò nella tinozza, ma verso il fondo l’acqua era
ancora fredda:
– Ehi, mi hai fatto entrare, ma l’acqua è fredda. Mi prenderò un malanno! Metti qualcosa nella
stufa per far scaldare l’acqua in fretta, – disse.
Gutsu allora buttò nel fuoco tutte le vesti del monaco che trovò lí vicino, dai geta fino alla
tonaca. Cosí dicono che quando l’abate, terminato il bagno, uscí tutto caldo dalla tinozza, non
trovò piú niente da indossare.

Nagasaki, Minamimatsuura.
La battaglia tra la Scimmia e il Granchio (1)
C’erano una volta la signora Scimmia e il signor Granchio. La prima aveva raccolto dei semi
da un albero di cachi e il secondo aveva dei nigirimeshi. La Scimmia disse:
– Perché non facciamo a cambio tra i miei semi e i tuoi nigirimeshi?
Cosí fecero. Il Granchio portò a casa i semi, li piantò nel campo antistante e giorno dopo
giorno crebbe un magnifico albero di cachi. Andò allora dalla Scimmia e le chiese di
raccoglierne i frutti. La Scimmia acconsentí subito, ma una volta salita sull’albero mangiò tutti i
cachi maturi e lanciò sul Granchio quelli acerbi. Il Granchio si arrabbiò e fuggendo le rivolse
delle ingiurie. Questa volta fu la Scimmia a offendersi; afferrò il Granchio e lo ficcò in una buca.
Poi dall’alto si preparò a defecargli addosso. Allora il Granchio le afferrò saldamente il sedere
con le sue chele. La Scimmia per il gran dolore cominciò a implorarlo:
– Ti prego, Granchio, lasciami andare! In cambio ti regalerò tre peli del mio sedere.
Per questo motivo le chele dei granchi sono pelose.

Nagasaki, Kitatakaki.
La battaglia tra la Scimmia e il Granchio (2)
In un luogo lontano vivevano una scimmia e un granchio. I due un giorno andarono in un
campo a raccogliere i germogli di riso, ne presero in gran quantità e prepararono dei mochi. La
scimmia però li rubò tutti senza lasciarne nemmeno uno al granchio e se li andò a mangiare da
sola sulla cima di un albero di cachi.
– Li hai portati via tutti, dammene almeno uno! – supplicava il granchio, ma vedendo che
l’altra non gli dava retta disse: – Ehi, Scimmia! Lo sai che se appendi il cestino che hai in mano
all’estremità piú alta di un ramo sottile dell’albero di cachi, i mochi si moltiplicano?
Subito la scimmia appese il suo bottino al ramo secco piú alto. Questo si spezzò e i mochi
finirono per terra. Il granchio allora, mentre la scimmia scendeva dall’albero, li raccolse e li
nascose nella sua tana. La scimmia, arrabbiatissima, si avvicinò alla tana e gli urlò:
– Ridammi i mochi altrimenti ti riempirò di merda, – e sporse il sedere.
Allora il granchio pizzicò energicamente con le sue chele il deretano della scimmia che
spaventata fuggí sulla montagna.
È per questo che oggi le scimmie hanno il sedere cosí rosso.

Kumamoto, Aso.
Lo sgocciolio delle vecchie case
Nei tempi dei tempi viveva tra le montagne un’anziana coppia. Marito e moglie amavano
entrambi i cavalli e ne allevavano uno magnifico. Una sera un ladro, intenzionato a rubarlo, entrò
di nascosto nella casa. Salí su una trave della stalla e stette ad aspettare, ma per quanto a lungo
attendesse, il cavallo tardava a tornare e il ladro si addormentò.
Un lupo feroce, che viveva fra le montagne, si diresse verso la casa dei due vecchi per
catturarli e mangiarli. «Sono io il piú forte del mondo!» pensava il lupo, quando per caso udí il
vecchio che chiedeva alla moglie:
– Vecchia mia, che cosa piú ti spaventa al mondo?
La moglie rispose:
– Il lupo feroce.
A queste parole l’animale si sentí orgoglioso e decise che quella sera li avrebbe divorati
entrambi. Poi fu la donna a chiedere al marito:
– E tu vecchio mio, di che cosa hai piú paura?
– Piú di tutto ho paura dello sgocciolio delle vecchie case.
Il lupo fu stupito dalla risposta: «Pensavo di essere io il piú forte. Ma c’è questo “sgocciolio”
che è forte quanto me», si disse e tremò di paura. In quel momento il ladro di cavalli si svegliò,
guardò in basso e vide un animale che gli sembrò un cavallo. Convinto che fosse ciò che
aspettava, gli si buttò sopra. Il lupo allora pensò: «Questo è di sicuro lo “sgocciolio” di cui
parlava il vecchio», e spaventato corse via in gran fretta. Si diresse verso la tana dove si trovava
il suo branco e vi entrò di corsa. Il ladro non voleva proprio farselo sfuggire, si teneva stretto
all’animale con tutte le forze, ma giunti davanti alla tana del lupo fu costretto a scendere e si
mise ad aspettare che uscisse di nuovo.
Il lupo raccontò al capo delle bestie feroci la storia dello «sgocciolio delle vecchie case» e il
capo ordinò:
– Che qualcuno vada a catturarlo!
Tutti, impauriti, si rifiutarono:
– Io non posso andare.
– Neanch’io posso andarci.
Alla fine fu scelta la scimmia, per la sua intelligenza. La scimmia mise la coda fuori della tana
e il ladro, che stava aspettando, convinto che fosse quella del cavallo, la afferrò. L’uomo tirava
con tutte le sue forze e la scimmia, a sua volta, pensando di essere stata catturata dallo
«sgocciolio», faceva resistenza a piú non posso. Il ladro tirava da una parte, la scimmia dall’altra
e alla fine la sua coda si spezzò.
È per questo che mentre un tempo le scimmie avevano il muso peloso e la coda lunga, oggi
hanno la coda corta e il muso rosso e senza peli, perché quella volta lo hanno sfregato contro le
rocce.
E qui finisce la storia.

Kumamoto, Kuma.
Una storia senza fine
Tanto tempo fa, i topi di Nagasaki, visto che non c’era piú niente da mangiare, decisero di
prendere una barca e partire tutti insieme per Satsuma. Tuttavia durante il viaggio incontrarono
la barca dei topi di Satsuma che navigava verso Nagasaki. Rivolsero loro delle domande e
seppero che a Satsuma non c’era piú da mangiare e che per questo i topi si dirigevano verso
Nagasaki. «A che serve allora arrivare fino a Satsuma? Non è meglio gettarsi in mare?», pensò
allora un topo e squittendo, chū chū, si buttò con un tonfo in mare. Un altro topo, squittendo, chū
chū, si buttò con un tonfo in mare. Un altro topo, squittendo, chū chū, si buttò con un tonfo in
mare…

Kumamoto, Kamimashiki.
Il mantello di paglia che rende invisibili
C’era una volta, in un luogo che non conosciamo, un tale di nome Hikohachi. Quest’uomo
andava sulla spiaggia a raccogliere gli hamaguri per venderli al mercato di Kumamoto. Poiché la
mattina doveva alzarsi presto per andare al mercato, altrimenti non avrebbe venduto niente, la
moglie gli preparava ogni giorno il pranzo da portare con sé. Non avendo però un fazzoletto per
avvolgerlo, la donna adoperò il suo sottokimono e questo lo fece diventare lo zimbello di tutti.
– Non voglio piú fare questo lavoro, – disse allora Hikohachi. – Vado a imbrogliare un tengu,
– e si avviò verso le montagne. Qui, appollaiato su di un albero, un tengu suonava un grande
tamburo.
Hikohachi si mise in testa un setaccio per il riso guardando attraverso i buchi.
– Signor tengu, signor tengu! – chiamò e il tengu, domandandosi chi mai potesse averlo visto
e lo chiamasse, chiese:
– Come fai a vedermi?
– Possiedo un oggetto che mi permette di vedere lontano! Posso vedere tutto. Caspita, ma
quella è Kumamoto! Riesco a vedere perfino Kyōto! – esclamò con finta meraviglia. Al tengu
venne voglia di avere anche lui quell’oggetto e disse:
– Danne uno anche a me.
– Non posso, non ce n’è uno simile in tutto il mondo, – rispose Hikohachi.
Allora il tengu gli propose:
– Facciamo cambio: io ti darò il mio mantello e il cappello di paglia che rendono invisibili.
– A queste condizioni ti accontento. Però, poiché si tratta di qualcosa di veramente raro,
voglio avere prima io il tuo mantello e il tuo copricapo di paglia.
Il tengu scese dall’albero e fece indossare a Hikohachi il mantello e il cappello di paglia che
rendono invisibili. Prese poi il setaccio e provò a usarlo, ma non vedeva proprio niente:
– Hikohachi, Hikohachi! Non funziona! – disse, ma Hikohachi era ormai scappato lontano e il
tengu rimase lí con un palmo di naso.
Quando Hikohachi indossava il mantello di paglia diventava invisibile e poteva cosí rubare
riso o sake senza problemi. Con l’andar del tempo smise di lavorare. Andava in un’osteria,
metteva la testa in una botte di cinque shaku di sake e dopo aver bevuto tornava a casa. Il
garzone dell’osteria riferí preoccupato al proprietario che il sake scompariva. Il padrone
domandò:
– Che aspetto ha questo ladro?
Il giovane rispose:
– È un fantasma, entra senza far rumore, beve tutto il sake e se ne va.
– Non si tratterà forse della divinità del sake? Porterà fortuna. È meglio non disturbarlo, –
disse il padrone e nessuno intervenne.
La moglie di Hikohachi era molto arrabbiata perché il marito non faceva altro che andare a
bere. Un giorno, mentre dormiva, gli bruciò il mantello e il cappello che lo rendevano invisibile.
Quando Hikohachi, prima di andare all’osteria domandò:
– Dove sono finiti il mantello e il cappello di paglia?
La moglie rispose:
– Erano cosí malridotti che li ho bruciati.
– E dov’è la cenere?
– Lí.
Hikohachi si spogliò, si bagnò con l’acqua e si cosparse il corpo con la cenere. Andò poi
come sempre all’osteria e, pensando che quella sarebbe stata l’ultima volta, bevve con gran foga
in maniera sconsiderata. Infine, non potendo piú trattenersi uscí a urinare dalla porta secondaria.
E la storia finisce qui.

Kumamoto, Kuma.
Bada a come parli (Se il fagiano fosse stato zitto)
C’era una volta un fiume i cui argini, per quante volte fossero ricostruiti, venivano sempre
distrutti dalle alluvioni. Gli abitanti del villaggio si riunirono per discuterne e uno di loro
propose:
– Proviamo a offrire il sacrificio dello hitobashira tumulando un uomo vivo nel terrapieno.
– E chi dovremmo seppellire? – chiese qualcuno.
– Colui che ha sul proprio kimono una toppa a strisce orizzontali sul disegno a strisce
verticali, – disse l’uomo.
Controllati gli abiti di tutti, risultò che proprio la persona che aveva suggerito il criterio di
scelta indossava un kimono con una toppa a strisce orizzontali su strisce verticali. Da allora il
fiume non diede piú problemi.
La figlia di quell’uomo, che in seguito si era sposata, non parlava mai e si limitava a
rispondere a monosillabi. Il marito, non potendone piú, un giorno le disse arrabbiato:
– È come se tu fossi muta, ora basta! Ti riporto al tuo villaggio, – e partirono. Mentre
camminavano per la campagna un fagiano volò facendo il suo verso; un cacciatore prese il fucile,
puntò e colpí l’animale. La ragazza commentò la scena con queste parole:
– In questo mondo ci sono persone che farebbero meglio a tacere. Anche il fagiano, se non si
fosse fatto sentire, sarebbe ancora vivo.
Il marito allora disse:
– È vero, tuo padre fu condannato al sacrificio dello hitobashira per aver parlato con poca
prudenza. Perdonami, capisco solo ora perché, piuttosto che fare osservazioni affrettate, ti limiti
a rispondere appena, – e detto ciò ritornarono a casa.
La morale della favola insegna che bisogna parlare solo dopo aver riflettuto bene.
Per oggi è tutto.

Kumamoto, Yamaga.
Il sūtra del topo
C’erano una volta, in un certo paese, un vecchio e una vecchia. Un giorno all’improvviso il
marito morí e la moglie addolorata cominciò a rivolgere di continuo delle preghiere al Buddha.
Capitò da quelle parti un monaco che aveva perso la strada e le chiese ospitalità per una notte.
La vecchia tutta contenta gli preparò un buon pranzo, con l’intenzione di fargli poi recitare un
sūtra. Dopo cena, infatti, gli domandò:
– Mi recitereste un sūtra?
L’ospite in realtà era monaco solo di nome e alla richiesta della donna si trovò in grande
difficoltà poiché non ne conosceva nessuno. Chiedendosi cosa fare, si mise a sedere davanti
all’altare buddhista. In quel momento spuntò un topolino e subito il monaco cominciò a recitare:
– Onchorochoro, è arrivato qualcuno.
Il topo si affacciò in un buco e il monaco continuò:
– Onchorochoro, sta spiando.
Il topo squittí e il monaco:
– Onchorochoro sta borbottando qualcosa.
Infine il topo fuggí con un fruscio e il monaco concluse salmodiando:
– Onchorochoro, è andato via.
La vecchia, che non aveva capito nulla, rimase molto soddisfatta della cerimonia. Trattò il
falso monaco con tutta la gentilezza possibile e poi lo lasciò andare via.
Da allora cominciò a recitare mattina e sera il sūtra Onchorochoro. Una notte un ladro entrò
in casa. Come d’abitudine, la vecchia stava declamando le sue preghiere:
– Onchorochoro, è arrivato qualcuno.
Il ladro si meravigliò e provò a guardare da una fessura:
– Onchorochoro, sta spiando, – disse la vecchia.
Sempre piú meravigliato il furfante bisbigliò tra sé e sé:
– Come fa a sapere che sto spiando?
La donna continuò:
– Onchorochoro sta borbottando qualcosa.
Il ladro cominciò a preoccuparsi. «Certo che se entro in questa casa rischierò la vita!» si disse,
e decise di andarsene.
– Onchorochoro, è andato via, – concluse la vecchia e il ladro in grande agitazione fuggí a
gambe levate.

Kumamoto, Amakusa.
Takenokodōji, l’omino del germoglio di bambú
C’era una volta un giovane apprendista bottaio di nome Sankichi. Un giorno andò sulla
collina che sorgeva alle spalle del paese a tagliare dei bambú per fare dei cerchi da tinozze. Da
qualche parte gli sembrò di sentire una voce che lo chiamava.
– Chi è? – domandò.
– Sanchan, sono qui, sono qui! – rispose qualcuno.
Sankichi allora chiese:
– Dove sei? – e sentí:
– Sono qui, nel bambú.
Si avvicinò, ma non vide nessuno. Se ne stava fermo lí meravigliato quando di nuovo la voce
disse:
– Sanchan, per favore, tirami fuori dal bambú!
Il ragazzo in gran fretta recise il fusto con una sega e un minuscolo uomo ne saltò fuori.
Sankichi fece un balzo all’indietro per lo stupore. Lo guardò bene e capí che era quell’esserino di
cinque sun che l’aveva chiamato. La voce era forte pur se apparteneva a un corpo cosí piccolo.
– Chi sei? – gli domandò Sankichi facendolo salire sul palmo della mano.
– Sono stato catturato da un crudele germoglio di bambú e imprigionato qui dentro senza
poter ritornare in Cielo. Poi per fortuna sei arrivato tu a salvarmi. Non sono mai stato cosí felice.
Allora Sankichi gli chiese:
– Come facevi a sapere il mio nome?
E l’altro rispose:
– Io so tutto del mondo.
Il giovane apprendista gli domandò quale fosse il suo nome e l’omino disse:
– Takenokodōji.
– Quanti anni hai?
– Milleduecentotrentaquattro.
Poi Sankichi volle sapere se aveva intenzione di tornare subito a casa.
– Vorrei andare via adesso, ma se prima non ti mostrerò la mia gratitudine la principessa mia
signora mi sgriderà. Partirò solo dopo averti ringraziato, – rispose.
– Cosa farai per ricambiarmi il favore? – domandò Sankichi.
– Posso realizzare sette tuoi desideri.
– Dici davvero?
– Gli abitanti del cielo non dicono mai bugie! – disse l’esserino e pronunciò una misteriosa
formula magica.
Allora Sankichi bisbigliò:
– Germoglio di bambú, germoglio di bambú, fammi diventare un samurai! Germoglio di
bambú, germoglio di bambú, fammi diventare un samurai! Germoglio di bambú, germoglio di
bambú, fammi diventare un samurai!
A quel punto Sankichi si trasformò davvero in un samurai.
Si racconta poi che il giovane, dopo aver ringraziato la creatura celeste, partisse per praticare
l’arte dei guerrieri.
E qui finisce la storia.

Kumamoto, Kuma.
Le talpe e i rospi
Una volta, tanto tempo fa, le talpe camminavano in superficie per il mondo. Un giorno però
tutte insieme decisero:
– La luce del sole è troppo forte e ci impedisce di girare liberamente. Dobbiamo sottomettere
il sole e impedirgli di dare fastidio ai nostri occhi. Forza, combattiamolo!
Poi si consultarono ancora e conclusero:
– Potremmo arrampicarci sull’Albero Nero e colpirlo a morte con una freccia.
A quel tempo, infatti, il piú alto era l’Albero Nero e non il pino o il cedro come adesso.
I rospi però dissero:
– Senza il sole farebbe freddo e noi non potremmo vivere. Dobbiamo avvertirlo subito.
Scrissero una lettera e gliela mandarono: «Questo è quanto sta succedendo. Vi preghiamo di
fare attenzione». Il sole rispose:
– Vi ringrazio molto per avermi messo in guardia. D’ora in poi farò in modo che le talpe non
vedano piú la mia luce e punirò il kuroki facendolo seccare se crescerà piú di tanto. Voi rospi,
invece, chiedetemi ciò che volete.
– Non desideriamo nulla di particolare, – risposero i rospi. – Però per noi non c’è niente di piú
penoso che partorire nell’acqua gelida.
Si dice che da allora, in pieno inverno, nel giorno chiamato l’ingresso dei rospi nel fiume,
soffia il vento del sud e il clima si fa tiepido.
Questo è ciò che avvenne tanto tempo fa.

Kagoshima, Satsuma.
Il cane, il gatto e l’anello
C’erano una volta tre marinai che facevano servizio su una nave partita dall’isola di Koshiki.
Arrivati a destinazione, il capitano diede al piú povero dei tre trenta soldi per comprare dei dolci
o qualche altro regalo da portare ai bambini della sua isola. Mentre girava per la città l’uomo
vide alcuni ragazzi che avevano legato un serpente con una corda e lo tormentavano. Per salvare
l’animale diede dieci monete ai ragazzi e lo comprò. Proseguí oltre e trovò alcuni bambini che
tormentavano un cane. Anche questa volta, diede loro dieci monete e comprò il cane. Proseguí
per la sua strada e trovò altri bambini che tormentavano un gatto. Anche questa volta diede loro
dieci monete perché lasciassero in pace l’animale. A quel punto aveva finito tutti i soldi e ritornò
al porto dove, completato il carico, lo stavano aspettando per partire. Salí a bordo e la nave si
diresse verso l’isola di Koshiki.
Sulla rotta del ritorno, in mare aperto, per qualche misterioso motivo il vascello si fermò. Era
davvero strano che non andasse avanti, poiché il vento non mancava. Stupiti guardarono a poppa
e videro che un pescecane aveva addentato il timone. Il capitano allora disse:
– Coraggio, ognuno di noi getti il proprio asciugamano in mare. Quando il pescecane lascerà
il timone, colui che ha gettato l’asciugamano per ultimo dovrà essergli dato in pasto.
Per primo il capitano lanciò in mare il proprio asciugamano e gli altri lo imitarono. Infine fu il
turno del marinaio povero. Soltanto allora il pescecane lasciò la presa e l’imbarcazione
ricominciò a muoversi. Il marinaio si gettò in acqua e lo squalo gli si avvicinò:
– Non sono qui per divorarti. Sono venuto a prenderti: il Sovrano del Palazzo del Drago vuole
ringraziarti per aver salvato la vita al Serpente, la sua unica figlia.
L’uomo salí sul dorso del pescecane e fu condotto al Palazzo del Drago. Lungo il percorso lo
squalo gli suggerí:
– Quando sarai al Palazzo, fatti dare l’anello che viene conservato nella scatola di legno di
paulonia.
Il marinaio povero giunse cosí al Palazzo del Drago. Qui gli furono servite molte prelibatezze
e ricevette in dono anche l’anello. Quindi montò sul dorso del pescecane che lo ricondusse alla
sua isola. Nel giro di tre anni accumulò tante ricchezze da dover costruire numerosi magazzini.
Se aveva con sé l’anello, poteva realizzare qualunque desiderio. Ma un mercante di cavalli di
Ōsaka venne a sapere dell’anello magico e intenzionato a rubarglielo partí per l’isola di Koshiki.
Si presentò dicendogli:
– Sono un ricco signore di Ōsaka e desideravo conoscere il piú ricco signore di Koshiki.
Il marinaio lo accolse con un ricco banchetto. Il mercante poi gli disse:
– Anch’io posseggo tanti tesori, ma vorrei vedere i vostri.
Il padrone di casa gli mostrò l’anello. Approfittando di un momento di distrazione, il
mercante glielo portò via e lo sostituí con un altro. E cosí il marinaio tornò a essere tanto povero
da non poter neppure guardarsi intorno.
Il cane che era stato salvato dal marinaio venne a sapere del furto e corse in suo aiuto. Poco
dopo giunse anche il gatto.
– Se ritroverete l’anello vi farò mangiare per sempre cibi prelibati. Potreste fare qualcosa per
me? – chiese il marinaio.
I due animali andarono subito a Ōsaka, in casa del mercante e videro che l’anello era
custodito in un vaso ed era proprio impossibile prenderlo. Il gatto allora catturò il topo Chōdo 1

che viveva in quella casa.


– Gatto di tre colori, gatto di tre colori, ti prego, non uccidermi! – lo pregò il topo e il gatto gli
disse:
– Se farai quello che ti dico ti risparmierò la vita. Il tuo padrone tiene in un vaso un anello e tu
dovrai prendermelo.
Il topo subito andò a rosicchiare il vaso finché lo ruppe, prese l’anello e lo consegnò al gatto.
Il cane e il gatto cominciarono però a litigare per decidere chi di loro due dovesse portare
l’anello. Alla fine il cane ebbe la meglio e scappò tenendo l’anello in bocca finché giunse a un
fiume largo otto ri. A metà della traversata gli venne fame e in quello stesso momento un pesce
guizzò dall’acqua. Il cane tentò di afferrarlo e cosí fece cadere nel fiume l’anello che stringeva
fra i denti.
Il gatto, che si trovava sulla sponda del fiume, poggiò la zampa sul guscio di un granchio e lo
bloccò.
– Aiuto! Non uccidermi, sono il capo della mia casata! – lo pregò il granchio, e il gatto gli
propose:
– Se non vuoi essere ucciso cercami l’anello che è caduto nel fiume.
– Lo cercherò con tutti i miei vassalli, – disse il granchio, e chiamati a raccolta i suoi uomini
lo recuperò. Tuttavia il cane si impossessò di nuovo dell’anello. Lo portò al padrone e gli fece
credere che tutto era avvenuto solo per merito suo. Il gatto però raccontò ciò che era successo in
realtà e allora il signore disse:
– Ai cibi prelibati aggiungerò una punizione: al gatto saranno serviti in casa, ma il cane
mangerà in giardino.
Si racconta che fu da allora che ai gatti è permesso mangiare in casa mentre i cani vengono
messi fuori.

Kagoshima, Satsuma.
1. Lett. «proprio, precisamente». Una traduzione potrebbe quindi essere: il topo Giunto-al-Momento-Giusto.
Gara di spacconate
I tre signori di Higo, Satsuma e Mino, andarono insieme in pellegrinaggio al santuario di Ise.
Si fermarono in una locanda nei pressi del santuario, ma non riuscirono a decidere chi di loro
dovesse sedersi al posto d’onore.
– Oggi è davvero difficile decidere i posti. Perché non facciamo una gara di spacconate?
Colui che dirà la fandonia piú grande siederà al posto principale, – disse uno di loro.
– Va bene, d’accordo, – dissero gli altri.
Decisa la gara sorse un altro problema:
– Cominciate voi.
– No, cominciate voi, – insomma, nessuno dei tre voleva parlare per primo. Non potendo
andare avanti cosí, chiamarono la serva della locanda, che subito accorse.
– Senti, dobbiamo fare un gara di spacconate, ma non riusciamo a stabilire chi deve
cominciare per primo. Prepara tu dei numeri, uno, due e tre, da tirare a sorte.
La donna accettò e lasciò la stanza. Fece tre cordicelle di carta attorcigliata e ritornò dagli
ospiti.
– Eccomi qui, signori; tirate pure a sorte.
Ma di nuovo:
– Prego, prima voi.
– No, prima voi, – nessuno dei tre accennava a prendere le cordicelle.
– Allora comincio io, – disse infine il signore di Higo e scelse uno dei tre capi. Gli capitò il
numero tre. Poi fu la volta del signore di Satsuma al quale capitò il numero uno.
– È inutile che il signore di Mino scelga un numero: sarà comunque il secondo, – dissero.
– Signore di Satsuma, tocca a voi cominciare, – lo incoraggiò il signore di Higo.
– A Satsuma non abbiamo niente di particolarmente grande. Esiste però un albero della
canfora al cui interno c’è una cavità che potrebbe essere ricoperta da cento tatami.
– Davvero eccezionale! – si complimentarono gli altri due.
Fu poi il turno del signore di Mino:
– Anche nella nostra provincia non abbiamo niente di particolarmente grande, tranne una
mucca.
– Quant’è grande? – gli chiesero.
– Tanto da poter stare in Mino e bere in un solo sorso tutta l’acqua del lago Biwa che si trova
nella provincia di Ōmi, – rispose.
– È in netto vantaggio! – commentarono meravigliati i compagni.
Quando fu il suo turno, il signore di Higo pensò preoccupato, inclinando un po’ la testa da un
lato: «Ormai hanno già detto ogni sorta di smargiassate, cosa posso aggiungere per vincere?»
I signori di Satsuma e di Mino lo incalzavano:
– Su, raccontate!
– Nella provincia di Higo non abbiamo niente di particolarmente grande, tranne due cedri, –
disse alla fine.
– Quanto sono alti?
– In due o tre anni possono crescere tanto da passare attraverso le nuvole.
– E cosa ne fate se sono tanto alti?
– Beh, si pensava di tagliare l’albero della canfora di Satsuma, di stenderci sopra la pelle della
mucca di Mino per farne un tamburo e poi di suonarlo usando i nostri due cedri come bacchette.
Cosí fu decretato che il signore di Higo sedesse al posto d’onore. Dicono che ancora oggi, egli
occupi una posizione di superiorità rispetto ai signori di Satsuma e di Mino.

Kumamoto, Amakusa
La moglie gru
C’era una volta un carbonaio di nome Karoku che viveva in montagna con la mamma
settantenne. Un giorno d’inverno, mentre andava in città a comprare dei futon, vide una gru che
si dibatteva in una trappola nella quale era rimasta incastrata. Stava per aiutarla a liberarsi
quando giunse l’uomo che aveva messo la trappola.
– Ehi, perché ti intrometti nel lavoro degli altri? – gli chiese in tono minaccioso.
– Volevo fare qualcosa per questa gru, mi sembrava cosí sofferente. Perché non me la
vendete? Ho con me i soldi con i quali avrei dovuto comprare dei futon, prendeteli in cambio
della gru, – disse Karoku. L’uomo accettò e gliela consegnò. Karoku la prese e subito la lasciò
volare via.
«Anche se stasera avremo freddo, pazienza», pensò e tornò a casa. Quando lo vide, la madre
gli domandò:
– Che ne hai fatto dei futon?
– Ho visto una gru rimasta incastrata in una trappola, mi ha fatto molta pena e per liberarla
l’ho comprata con i soldi dei futon, – rispose.
– Se questa è stata la tua scelta, per me va bene, – disse la madre.
Il giorno seguente, alle prime ore della sera, giunse a casa di Karoku una fanciulla di una
bellezza tale da abbagliare gli occhi.
– Sareste cosí gentile da ospitarmi per questa sera? – chiese all’uomo.
– Come potrei, in questa umile casa? – rispose Karoku.
– Ve ne prego, – insistette, ed egli la ospitò. Poi la ragazza aggiunse: – Dovrei parlarvi, potete
essere cosí gentile da ascoltarmi?
– Cosa volete dirmi?
– Vi prego, fatemi diventare vostra moglie, – disse la donna.
– È la prima volta in vita mia che vedo una fanciulla cosí bella. Come può uno come me, che
non sa cosa mangerà oggi o domani, sposare una donna come voi? – rispose Karoku.
– Non dite cosí, prendetemi in moglie.
– Non è possibile, – ribadí l’uomo.
Ma la madre di Karoku, che aveva sentito il discorso, intervenne:
– Se lo desideri veramente, fanciulla, diventa pure la sua sposa e abbi cura di lui.
E cosí la ragazza diventò la moglie di Karoku.
Passò qualche tempo e la donna chiese al marito:
– Chiudimi per tre giorni nel ripostiglio. Non aprire per nessun motivo la porta e non guardare
dentro.
Karoku obbedí e per tre giorni non guardò nel ripostiglio. Al quarto giorno la donna uscí e
Karoku le disse:
– Sarà stato terribile, ero molto preoccupato per te. Devi mangiare subito qualcosa.
Lei acconsentí e poi disse, mostrandogli una pezza di stoffa:
– Karoku, vuoi andare a vendere per duemila ryō questa stoffa che ho tessuto mentre ero nel
ripostiglio?
Il marito prese la stoffa e la portò alla residenza di un ricco signore. Questi vedendola disse:
– Che prezioso tessuto! Sono disposto a comprarlo per due o anche tremila ryō, ma non
sarebbe possibile averne un altro?
– Non lo so, devo chiederlo a mia moglie, – rispose Karoku.
– Non c’è bisogno che glielo chieda, basta che tu sia d’accordo. Ti darò i soldi fin da ora, –
concluse il signore.
Karoku tornò a casa e parlò della proposta alla moglie.
– Se mi dai un po’ di tempo, tesserò un’altra pezza di stoffa, – disse la donna. – Questa volta
però devi chiudermi nel ripostiglio per una settimana e non devi per nessun motivo guardare
dentro, – aggiunse. La donna si chiuse di nuovo nel ripostiglio.
Trascorsa la settimana il marito preoccupato aprí la porta e guardò dentro. Vide una gru che
stava tessendo la stoffa strappando a una a una le sue sottili piume fino a rimanerne priva.
Proprio in quel momento aveva terminato il suo lavoro.
– Ho finito, – disse la gru. – Ora che mi hai visto, forse non provi piú affetto per me. Non mi
rimane che andare via. Sono la gru che un giorno hai salvato. Consegna pure la stoffa al ricco
signore, come gli hai promesso.
Quindi si voltò verso ovest e rimase in silenzio. Allora uno stormo di mille gru giunse in volo,
prese la gru rimasta senza piume e la portò via.
Karoku era diventato molto ricco, ma non riusciva a rassegnarsi alla separazione dalla moglie
gru. La cercò in tutto il Giappone poi un giorno, ormai stanco, giunto su una spiaggia si fermò.
Fu allora che vide arrivare dal mare aperto un vecchio su di una barchetta.
– Da queste parti non c’è nessun’isola. Da dove proverrà? – si chiese Karoku e in quel mentre
la barca toccò la riva.
– Ehi vecchio, da dove vieni? – domandò.
– Dall’isola Tsuru no hagoromo, l’isola dell’Abito di Piume, – rispose il vecchio.
– Potresti portarci anche me? – chiese Karoku.
L’altro acconsentí e lo fece salire a bordo. La barca scivolò veloce sull’acqua e in men che
non si dica approdò su una splendida spiaggia bianca. Karoku scese sulla riva, ma a un tratto non
vide piú né la barca né il vecchio. Continuò a camminare per la spiaggia finché apparve un
bellissimo laghetto. Al centro si alzava una collinetta di sabbia; sulla sommità, la gru senza
piume era circondata da tutte le altre gru, delle quali sembrava essere la regina. Esse offrirono a
Karoku ogni sorta di prelibatezze, poi l’uomo risalí sulla barca del vecchio e fu ricondotto a casa.

Kagoshima, Satsuma.
Parole costose
Una coppia di coniugi viveva in grande povertà e non era in grado di pagare le tasse al proprio
signore. La moglie, una donna intelligente, disse un giorno al marito:
– Va’ nella regione del Kamigata , entra al servizio di un ricco signore e metti da parte i soldi
1

per pagare le tasse. Io ti aspetterò con pazienza, ma tu dovrai lavorare.


Il marito partí quindi per il Kamigata, si fece prendere al servizio di un ricco signore e in un
anno mise da parte trenta monete.
A questo punto chiese un permesso e decise di tornare a casa con i soldi guadagnati. Quando
giunse la sera, il buio gli impedí di proseguire. «Chissà se c’è una casa?» si domandò, e proprio
allora vide una luce; si avvicinò e trovò un vecchio.
– È permesso? – domandò, e il vecchio:
– Prego.
– Potreste ospitarmi stanotte?
L’altro rispose:
– Sei disposto ad ascoltare ciò che ti dirò? Perché se non ne hai voglia, non ti ospito.
Quando furono seduti uno di fronte all’altro, il vecchio disse:
– Le mie parole sono molto care, vuoi ascoltarle egualmente?
– Se si tratta di un prezzo ragionevole, posso certo pagarti, – rispose l’ospite e l’altro disse:
– Quando piove non metterti al riparo sotto le rocce. Ora mi devi dieci monete.
«Che disdetta!» pensò l’uomo. «A fatica avevo guadagnato trenta monete e, se adesso ne
spendo dieci, non me ne rimangono che venti», e pagò la somma richiesta.
La mattina seguente l’uomo si era appena allontanato dalla casa del vecchio quando si
scatenarono vento e pioggia cosí forti da impedirgli di andare avanti o tornare indietro. Stava per
fermarsi sotto la sporgenza di una roccia, ma si ricordò: «Quando piove, non metterti al riparo
sotto le rocce». E infatti, poco lontano da lui la roccia franò.
Continuò a camminare verso casa e si fece di nuovo buio. Come il giorno precedente vide una
luce:
– È permesso? – chiese. Comparve un vecchio che assomigliava a quello della sera prima:
– Per le mie parole bisogna pagare una tassa. Te la puoi permettere?
– Non ho altra scelta, se mi permettete di restare qui, – rispose l’uomo.
– Chi ha fretta vada adagio. Non aver fretta quando viaggi. Ora mi devi dieci monete, – disse
il vecchio.
L’uomo pagò la somma richiesta. La mattina seguente il viandante per fare piú presto decise
di imbarcarsi su una nave.
– Ehi, capitano! Fate salire anche me?
– Sí, ma affrettati, – rispose il capitano.
In quel momento gli tornò in mente: «Chi ha fretta vada adagio. Non aver fretta quando
viaggi» e decise di proseguire a piedi. E infatti la nave affondò.
Contento per lo scampato pericolo proseguí per la sua strada, ma giunse di nuovo la notte.
Come le volte precedenti fu ospitato da un vecchio che gli disse:
– L’ira è cattiva consigliera. Ora mi devi dieci monete.
L’uomo sborsò le ultime dieci monete e riprese la sua strada.
Appena arrivato a casa, guardò dentro e vide la moglie che beveva del sake insieme al
monaco di un tempio. Preso dall’ira, stava per entrare e uccidere entrambi quando gli tornò in
mente: «L’ira è cattiva consigliera». Varcò allora il cancello e disse:
– Eccomi di ritorno.
– Benvenuto! – rispose la moglie dall’interno e in fretta nascose il monaco in una giara.
Il marito entrò in casa e vedendo da bere e da mangiare domandò:
– Hai avuto ospiti?
– Ieri ho sognato che tornavi e ti stavo aspettando, – rispose la moglie.
– E quella giara che cosa contiene?
– Il miso da portare al tempio.
– Lo porterò io, – disse il marito e si caricò la giara sulle spalle. Giunto al tempio chiamò un
novizio e gli disse:
– Compra questa giara per cinquecento monete.
La poggiò a terra e si allontanò per andare al gabinetto. Approfittando della sua assenza, il
monaco ordinò subito al novizio:
– Ragazzo, dagli le cinquecento monete d’oro che sono sul mio tavolo!
Cosí l’uomo tornò a casa con il suo bottino e marito e moglie vissero felici e contenti.

Kagoshima, Satsuma.
1. Lett. «zona alta». Indica la regione attorno a Kyōto, dove, nel Giappone premoderno, risiedeva l’imperatore.
Il ragazzo che aveva fatto un sogno
Nel periodo in cui la scuola era chiusa, ai dodici ragazzini della classe furono assegnati dei
compiti a casa. Per il secondo giorno dell’anno nuovo, il maestro chiese ai discepoli di parlare
del loro primo sogno dell’anno. Tutti quanti raccontarono quello che avevano sognato, tranne un
ragazzo che disse:
– Ho fatto un sogno, ma non voglio raccontarlo, – e non ci fu verso di farlo parlare.
– Non ci si comporta cosí. Avanti, parla!
– No, non parlerò mai.
– Se sei cosí ostinato non rimane che metterti in una barca scavata in un tronco d’albero e farti
portare via dal mare. Sei ancora deciso a non parlare?
– Sí, non aprirò bocca.
Sui quattro lati di una barca quadrata furono fissate delle aste di metallo in modo che
l’imbarcazione non potesse avvicinarsi alla riva e si incagliasse nelle secche. Lo fecero salire, gli
diedero del riso con dei frutti di palma e lo spedirono in mare.
Ciò che il ragazzo aveva sognato era di attraversare un ponte tenendo per mano due giovani
donne.
Ma continuiamo il nostro racconto. Il sedicesimo giorno del primo mese la barca del ragazzo
arrivò all’isola dei dèmoni; la riva era sabbiosa e cosí poté approdare rotolando su se stessa.
Appena i dèmoni la videro si avvicinarono per impossessarsene, ma a prua trovarono un cartello
sul quale era scritto: «Colui che porterà in salvo questa barca sarà ucciso insieme a tutta la
famiglia, compresi i parenti piú lontani». A poppa videro un altro cartello sul quale era scritto:
«Colui che porterà in salvo questa barca potrà vivere felice con tutta la sua famiglia, compresi i
parenti piú lontani».
I dèmoni un po’ confusi cominciarono a tirare la barca che alla fine si spaccò in due parti e ne
uscí il ragazzo. Decisero allora di farlo prigioniero, ma uno di loro disse:
– No, il nostro capo potrebbe arrabbiarsi, – e subito andarono a riferirgli l’accaduto.
Il capo ordinò:
– Molto bene, fatelo a pezzettini sul tagliere e portatemelo.
Il ragazzo supplicò:
– Abbiate un attimo di pazienza, vorrei parlare con il vostro capo. Non potrò farlo dopo che
mi avrete ridotto a pezzetti. Vi prego, concedetemi di incontrarlo.
I dèmoni lo condussero al cospetto del capo.
In sua presenza il ragazzo disse:
– Ho fatto una scommessa con il Sovrano del Palazzo del Drago e con il Signore degli Inferi e
del Paradiso. Mi sono impegnato a venire fin qui a vedere il vostro tesoro. Concedetemi questo
favore, cosí che nell’altro mondo potrò raccontare ciò che ho visto.
Il capo prese tre bastoni e glieli mostrò:
– Questo è il senribō, il bastone delle mille leghe, che ti fa volare lontano se dici la parola
senri. Il secondo è lo ikibō, il bastone della vita: se tocchi una persona morta con questo la riporti
in vita; il terzo è il kikimimi, il bastone dell’ascolto, ti fa capire ciò che dicono gli uccelli e le
bestie feroci, – gli spiegò.
– Vi prego, fatemeli toccare. Quando incontrerò il Sovrano del palazzo del Drago e il Signore
degli Inferi, potrebbero dirmi che non li ho neanche sfiorati, – disse il ragazzo.
Il dèmone rispose:
– Puoi prenderli in mano, ma mi raccomando, non aprir bocca.
Appena li afferrò, il ragazzo disse:
– Senri, senri, – e volò fino al villaggio di Ōsaka.
Si avvicinò all’ingresso di una grande casa. Vide due corvi e mise il bastone dell’ascolto
vicino all’orecchio per sentire cosa dicevano:
– La figlia unica del ricco signore di ponente sta morendo. Dobbiamo affrettarci, forza!
Sentito ciò anche il ragazzo si diresse di corsa verso la residenza del signore di ponente.
Lungo il fiume dieci ragazze stavano lavando il riso per il funerale.
– Sono un divinatore, vorrei vedere la fanciulla che è morta, – disse.
Una delle giovani interruppe il lavoro e lo accompagnò alla residenza del signore. Questi
speranzoso gli disse:
– Vi prego, andate subito da mia figlia.
– Se è appena morta, allora posso far qualcosa.
Fece sistemare dei paraventi intorno alla ragazza e la sfiorò con il bastone della vita. Subito la
fanciulla aprí gli occhi.
– Non si era mai vista una cosa simile! – esclamarono tutti; le diedero da mangiare e la
ragazza si riprese completamente.
– Ti devo la vita di mia figlia, – gli disse il signore di ponente. Gli diede in sposa la figlia e lo
fece vivere in grandi agi.
Passò del tempo e la figlia unica del ricco signore di levante d’improvviso morí. Costui si
rivolse allora al signore di ponente per chiedergli aiuto:
– Ho saputo che vostro genero resuscita i morti. Vi supplico, non potrebbe far tornare in vita
anche mia figlia?
Ma Ponente rispose che non poteva aiutarlo. Se avesse acconsentito a mandare il ragazzo,
c’era il rischio che anche il signore di levante l’avrebbe voluto come marito della sua unica
figlia. Levante però assicurò che non era sua intenzione dargli la figlia in sposa e Ponente
acconsentí. Il ragazzo salvò la fanciulla con il bastone della vita, ma il ricco signore di levante
non mantenne la promessa e gli impedí di tornare a casa del suocero. Ponente allora si rivolse al
feudatario e il caso venne esaminato in tribunale. La sentenza fu che il ragazzo, durante la prima
metà di ogni mese, fosse genero del ricco signore di levante, e durante la seconda metà fosse
genero del ricco signore di ponente.
Ebbe quindi due famiglie. Alla metà del mese, una delle due mogli lo accompagnava e l’altra
lo andava a prendere sul ponte che si trovava tra le due proprietà di levante e ponente. Si era cosí
avverato il primo sogno dell’anno: su di un ponte egli teneva per mano due giovani donne.

Kagoshima, Satsuma.
Gorō da un occhio solo
C’era una volta, tanto tempo fa, un uomo che si era recato alla capitale per comprare della
merce. Terminato il lavoro, tornava con la nave verso il suo paese quando a un tratto il vento
cambiò direzione e la nave fu trasportata lontano per giorni e giorni, finché raggiunse un porto
sconosciuto: qui fu finalmente possibile gettare l’ancora. Sull’imbarcazione non c’era piú acqua
da bere e cosí uno degli uomini dell’equipaggio prese una giara e scese a terra a cercarne.
Le valli che si formavano tra le colline erano ricoperte di foreste e tra quegli alberi l’uomo
trovò la fonte che cercava. Felice, per prima cosa si dissetò e poi riempí la giara. A quel punto
sentí un rumore e si voltò: un omaccione dall’aspetto spaventoso, con un solo occhio, lo stava
fissando e sembrava che da quell’unico occhio sprigionassero fiamme bianche. Si trattava di
Gorō da un occhio solo, un orco che si cibava di uomini. Il marinaio si affrettò a tornare verso la
nave, ma Gorō allungò la sua enorme mano e lo afferrò per la nuca. Quindi lo trascinò su per le
montagne e lo buttò in una grotta ai piedi di una parete scoscesa. «Che fortuna, ho trovato una
buona preda!» si disse l’orco e in gran fretta accese un fuoco nella grotta.
L’uomo, terrorizzato all’idea di essere divorato, si rifugiò in fondo in fondo alla grotta. Nel
buio avvertí la presenza di altri esseri viventi: si trattava di una decina di cavalli. Fu allora che gli
balenò in mente un’ottima idea. Ritornò verso l’ingresso della grotta spingendo davanti a sé i
cavalli, poi si avvicinò a Gorō. Afferrò un pezzo di legna incandescente e d’improvviso glielo
conficcò nell’occhio. L’orco emise un urlo fortissimo.
– Maledetto! Mi sono distratto un attimo e guarda cosa è successo!
Gridando e lamentandosi, cercò di catturare il naufrago, ma l’uomo si nascondeva tra i cavalli
e non gli riuscí di acchiapparlo.
– Devo scacciare fuori dalla grotta i cavalli, cosí potrò trovare l’uomo e mangiarmelo, –
decise l’orco. A tentoni cominciò a contare gli animali: – Questo è un cavallo, ecco un altro
cavallo… – si assicurava e li spingeva fuori. Il marinaio allora si coprí con una pelle di cavallo e
si mise dietro agli altri animali. Quando Gorō lo toccò, disse: – Ecco un altro cavallo, – e lo fece
passare.
Superato cosí il pericolo, l’uomo scappò via. Al fiume riempí la giara di acqua e sano e salvo
ritornò alla nave.

Kagoshima, Kumage.
Urashima (2)
Colui che dà vita agli esseri umani e decide del loro destino è il Drago sovrano che risiede nel
palazzo sul fondo del mare.
Tanto tempo fa c’erano due fratelli: il piú piccolo eccelleva nella caccia, l’altro nella pesca. Il
primo, quando andava nei boschi non tornava mai senza preda, il secondo, quando andava a
pescare non tornava mai senza pesci.
Un giorno fecero una scommessa:
– Scambiamoci gli attrezzi e vediamo chi di noi porta piú bottino a casa.
Cosí il fratello maggiore andò in montagna con il fucile del minore e questi a sua volta andò
verso il mare con la canna da pesca dell’altro. Il grande sparò un colpo che non raggiunse però
nessun volatile, ma un albero; il piú piccolo riuscí a far abboccare un pesce molto grande, quello
che chiamano akaminotsuru, ma al momento di tirarlo su l’animale ingoiò l’amo e scappò via.
Il fratello maggiore disse:
– È vero che non sono riuscito a colpire nessun uccello, ma almeno ho recuperato la
pallottola. Tu invece hai perso il mio amo e la scommessa quindi l’ho vinta io, – e pretese un
sacco di soldi come risarcimento.
Non avendoli, il fratello minore decise di andare sulla spiaggia a cercare l’amo e perlustrò il
mare per tre giorni e tre notti. Il terzo giorno incontrò un vecchio dai capelli bianchi che gli
chiese:
– Sono tre giorni e tre notti che stai cercando qualcosa. Cosa ti è successo?
Il fratello minore gli raccontò la vicenda e gli chiese aiuto. Allora il vecchio lo invitò ad
aggrapparsi alla sua schiena e prima ancora che il ragazzo potesse rendersene conto, in men che
non si dica, lo condusse al Palazzo del Drago.
Nel palazzo, dovunque andasse, gli venivano offerti divertimenti di ogni tipo. Fra un
banchetto e l’altro trascorsero cosí tre giorni. Questi tre giorni nel mondo degli uomini
corrispondono a trecento anni. Alla fine, il fratello minore ebbe nostalgia del paese natio e decise
di tornarvi. Il vecchio gli consegnò allora una scatola che conteneva il soffio magico che ferma
lo scorrere del tempo:
– Non aprire mai questo scrigno, non ne avresti che problemi, – disse.
L’altro prese lo scrigno e salendo di nuovo sulla schiena del vecchio fece ritorno al suo paese.
Tutto era cambiato: nella sua casa vivevano persone sconosciute e gli alberi nel giardino erano
diventati enormi. Nella risaia vicino al villaggio c’era un vecchio di circa settant’anni intento a
estirpare le erbacce. Provò a fargli delle domande e allora il vecchio gli disse che, sí, aveva
sentito parlare di un tale, vissuto circa cinque generazioni prima, che era scomparso in mare
facendo perdere le sue tracce. Non sapendo piú cosa fare, il fratello minore, dimenticando il
consiglio del vecchio, tentò di aprire la scatola con la pipa che stava fumando. Allora dall’interno
si sprigionò sibilando una nuvola di fumo che lo avvolse e lo trascinò in cielo.

Kagoshima, Okinarabu.
Il genero dèmone
C’era una volta, in un tempo lontano, una vedova che aveva tre figlie. La piú grande si
chiamava Awamenkashira e la piú piccola Otomadarukana. Un giorno, mentre cadeva una
pioggia sottile, la donna andò a lavorare i campi. Con l’andar delle ore la pioggerella si trasformò
in un temporale e il piccolo ruscello che era lungo la strada si gonfiò tanto da straripare. La
madre si affrettò a tornare verso casa, ma giunta al corso d’acqua si rese conto che il livello
aumentava sempre piú e che non le era possibile raggiungere l’altra sponda. Non sapendo come
fare fu presa dalla disperazione. In quel mentre giunse un dèmone che le chiese cosa le fosse
successo. La vedova rispose che per la piena non poteva tornare a casa.
– Ti farò attraversare io il fiume, – le propose il dèmone. – Di sicuro avrai delle figlie, in
cambio dovrai darmi in sposa una di loro.
Non avendo altra scelta la vedova accettò e il dèmone la portò al di là del fiume.
– In un giorno di pioggia verrò a prendere tua figlia e se non manterrai la promessa ti
ucciderò, – minacciò prima di andare via. Con il cesto sulle spalle, la donna tornò a casa
preoccupata e bagnata come un pulcino. Le figlie, che l’avevano attesa con ansia, si sentirono
sollevate nel vederla arrivare sana e salva. Accesero il fuoco, la aiutarono a cambiarsi, le
prepararono il tè cercando di rasserenarla, ma, nonostante la loro accoglienza, la madre,
diversamente dal solito, continuava ad essere triste. Le prepararono da mangiare, ma la donna
non toccò niente. La figlia maggiore le chiese con premura:
– Mamma, cosa ti è successo?
La vedova si decise cosí a raccontare quello che le era capitato e in lacrime implorò la piú
grande:
– La situazione è questa. Perdonami se ti chiedo tanto, ma non accetteresti di sposare il
dèmone per salvare tua madre?
La figlia protestò subito e inveí:
– Ma che diavolo dici! Neanche per sogno.
La donna si rivolse alla secondogenita dalla quale però ebbe la stessa risposta. Alla fine non le
rimase che chiedere aiuto alla piú piccola.
– Va bene mamma, farò tutto quello che vuoi. È grazie a te che sono venuta alla luce e non
posso disobbedire a un tuo volere, – rispose la ragazza. – Se mi chiedi di diventare la moglie di
un dèmone lo farò.
Come aveva preannunciato, un giorno il dèmone arrivò. Cadeva una fitta pioggia. Prese in
braccio la ragazza e molto soddisfatto per essere riuscito a rapire una sposa si portò via
Otomadarukana. Quando arrivarono al fiume, che anche quel giorno era in piena, il dèmone
sollevò la ragazza, se la mise sulla testa, legò le falde dell’obi di lei alle proprie corna e cominciò
di buon passo ad attraversare il corso d’acqua. Era quasi giunto a destinazione quando nel
poggiare il piede sulla riva inciampò e perse l’equilibrio. Otomadarukana approfittò di
quell’attimo per liberarsi e correre come in volo sulla riva. Il dèmone fu travolto dalla corrente e
trascinato via dalle rapide. Tentò di dibattersi disperatamente, ma alla fine fu inghiottito da un
vortice e con un gemito straziante morí.
«È il Cielo che mi ha aiutato perché sono stata una brava figlia», si disse la ragazza, ormai in
salvo, rivolgendo un pensiero di ringraziamento alla madre. In quel mentre arrivò il principe
Ajiganashi. Si fece raccontare ciò che le era successo e alla fine le chiese di diventare sua
moglie. La ragazza accettò e fu portata nel magnifico palazzo di Ajiganashi, dove condusse una
vita di gran lusso. Un giorno, Otomadarukana si ricordò della mamma alla quale non aveva fatto
sapere che la sua vita era completamente cambiata e che ora viveva nel lusso e nello sfarzo.
Desiderando tranquillizzarla, chiese al marito il permesso di lasciare il palazzo e fece ritorno al
suo paese. La madre fu felicissima di vederla, ma la sorella maggiore, Awamenkashira, invidiosa
della fortuna che era capitata a Otomadarukana, escogitò un piano malvagio. Il giorno in cui la
sorella stava per ritornare dal marito, si offrí di accompagnarla per un tratto di strada e cosí le
due ragazze uscirono insieme da casa dirette alla residenza di Ajiganashi. Quando arrivarono in
prossimità della sorgente vicina al palazzo, improvvisamente la sorella maggiore spinse l’altra
nell’acqua e la fece annegare. Poi sostituí i suoi vestiti con quelli della sorella e fingendo di
essere Otomadarukana raggiunse il palazzo. La sera, al momento di andare a dormire,
Awamenkashira, che non era la vera moglie e non conosceva l’organizzazione della casa,
cominciò ad aggirarsi per le stanze, borbottando qualcosa tra sé e sé, come avesse dimenticato
dove erano riposti i futon e i guanciali. Ajiganashi sentí e si meravigliò che la moglie non si
ricordasse dov’era solita riporre i futon. Dopo vari tentativi Awamenkashira li trovò e facendo
finta di niente li sistemò per la notte. Venne il mattino e la donna si alzò per andare ad attingere
acqua alla stessa sorgente dove il giorno prima aveva spinto la sorella. Ed ecco che
Otomadarukana, trasformatasi in un’anguilla, prese ad agitarsi sul fondo della sorgente
intorbidendo l’acqua, cosicché non fu possibile attingerla. La donna non poté che tornare a mani
vuote dal marito, il quale decise di recarsi di persona alla fonte. Quando Ajiganashi giunse alla
sponda della sorgente, l’acqua divenne stranamente limpida e una grande anguilla apparve in
tutta la sua lunghezza. L’uomo fece per catturarla e subito l’anguilla si fece prendere. La portò al
suo palazzo e ordinò che venisse preparata per il pranzo. Quando l’anguilla fu portata in tavola,
Ajiganashi stava per assaggiarla, ma si accorse che non era ben cotta. Fece per lamentarsene,
quand’ecco che la testa dell’anguilla, che gli era stata servita nella ciotola, cominciò a parlare:
– Sei tanto bravo a capire se un’anguilla è cotta o meno al punto giusto, ma non capisci che
quella donna non è tua moglie.
Rendendosi conto di ciò che era successo, Ajiganashi fu colto dallo stupore e dalla rabbia. Il
piano di Awamenkashira era stato smascherato e la donna, non sapendo dove rifugiarsi, si
trasformò in un insetto fracassone, il todoromushi , e si nascose sotto una tinozza appoggiata al
1

muro. Per questo ancora oggi dicono che una pietanza poco cotta viene chiamata ajiganashi . 2

Kagoshima, Amami.
1. Lett. «insetto (mushi) che fa todorotodoro», dove l’ultimo termine è un’onomatopea che indica «rimbombo», «fracasso».
2. Lett. «senza sapore».
Il ricco carbonaio
Tanto tempo fa, due ricchi signori, Levante e Ponente, erano compagni di pesca e ogni sera
andavano insieme lungo la costa. Le loro mogli annunciarono nello stesso periodo di aspettare un
bambino. Una sera i due amici si recarono come al solito sulla costa, ma la marea era bassa e
nell’aspettare che si alzasse si misero a riposare appoggiati al tronco di un albero. Levante prese
subito sonno mentre l’altro rimase sveglio e vide giungere il Drago che vive nel palazzo in fondo
al mare. Rivolto al tronco dove erano i due amici disse:
– Ehi, albero! Dobbiamo andare a decidere il destino dei figli di questi due uomini.
Il tronco rispose:
– Non posso muovermi, mi stanno usando come cuscino; occupatene tu anche per me.
Il Drago si assentò giusto il tempo di assegnare la sorte ai nascituri e al suo ritorno disse:
– Ho svolto il compito: Levante avrà una femmina che avrà in dote una misura di sale;
Ponente avrà un maschio e a lui sarà dato un fusto di bambú.
L’albero replicò:
– Mi sembra troppo una misura di sale.
– Non credo, la ragazza se lo meriterà, – spiegò il Drago prima di congedarsi.
Ponente, ascoltato il dialogo fra le due divinità, pensò che se voleva rimediare alla scarsa dote
del figlio doveva prendere subito dei provvedimenti. Svegliò l’amico e gli disse:
– Signor Levante! Ho appena sognato che le nostri mogli avevano partorito, andiamo a
vedere, – e i due rinunciarono alla pesca e si incamminarono verso casa.
Lungo il percorso il signor Ponente propose:
– Perché non facciamo un patto? Se io avrò una femminuccia e tu un maschietto, o viceversa,
li uniremo in matrimonio.
L’altro fu d’accordo e prima di giungere a casa concordarono il patto.
I coniugi Levante ebbero quindi una bambina e i Ponente un bambino. Essi furono allevati
con molta cura e quando compirono diciotto anni Levante disse all’amico:
– Secondo la decisione che prendemmo quella sera, tuo figlio deve sposare mia figlia, – e cosí
fu fatto.
I due divennero marito e moglie e cominciarono a vivere sotto lo stesso tetto. Il giorno della
Festa del Raccolto del quinto mese, la ragazza preparò dell’orzo e lo offrí alle divinità e agli
antenati; poi lo porse al marito e disse:
– Ho fatto questo piatto pestando un sacco pieno d’orzo fino a ridurlo a un tō, per poi pestarlo
ancora fino a ridurlo a uno shō. Oggi è la Festa del Raccolto, ti prego di accettarlo.
L’uomo fu preso dall’ira e rispose:
– Se fosse riso poco cotto, potrei anche mangiarlo, ma come puoi pensare che accetti
quest’orzo crudo e pieno di pula? – e scaraventò via il vassoio e la ciotola.
La moglie disse:
– Non posso vivere con te. Mio padre ti ha affidato le ricchezze della casa, tienitele pure; io
me ne andrò portando con me solo il vassoio e la ciotola che hai appena gettato via.
Prese i due oggetti, raccolse tutto l’orzo senza lasciarne neanche un po’ e uscí di casa.
Appena varcò la soglia cominciò una lieve pioggerellina autunnale. Sotto l’acqua, le divinità
protettrici del magazzino della casa stavano commentando:
– Quest’uomo degno solo di un fusto di bambú si è permesso di gettar via il prodotto piú
pregiato del raccolto. Se rimaniamo qui, di sicuro caccerà anche noi. Andiamo dal carbonaio
Sumiyaki Gorō di Ushinishi, che è virtuoso, bello d’aspetto e pieno di buona volontà.
La donna li sentí e pensò: «Se lo dicono le divinità del nostro magazzino, sarà sicuramente
vero. Devo trovare a tutti i costi la casa di Sumiyaki Gorō». Cammina, cammina, la sera del
giorno seguente vide in lontananza una luce che si accendeva e si spegneva. Proseguí in quella
direzione e giunse alla capanna di Sumiyaki Gorō.
– C’è qualcuno? – chiese, e l’uomo si affacciò alla porta.
– Potreste ospitarmi solo per stanotte? Ve ne sarei molto grata, – domandò, ma egli rispose:
– La mia casa è talmente piccola che se ci entra la testa rimangono fuori i piedi e se si
mettono al coperto le gambe rimane fuori la testa. Come potrei ospitare una persona del vostro
livello? Piú avanti c’è una casa piú grande, sarebbe meglio per voi chiedere lí.
A questo rifiuto la donna insistette:
– Non è prudente per una ragazza andare in giro a quest’ora della notte, mi va bene anche se
ci piove dentro.
– Se è cosí, entrate pure, – e la fece accomodare.
Il padrone di casa le offrí del tè di riso tostato. La donna lo bevve e a sua volta offrí il piatto di
orzo che divisero e mangiarono insieme. A quel punto la ragazza disse:
– Vi prego, prendetemi in moglie.
L’uomo meravigliato rispose:
– Se una persona misera come me sposasse una donna del vostro ceto sarebbe punita.
– Non penso, – lo rassicurò lei. – È ciò che desidero, fatemi diventare vostra moglie.
– Se davvero lo volete, vi chiedo di sposarmi.
La mattina seguente la donna gli domandò:
– Mostrami tutti i forni che hai usato per fare il carbone fino ad adesso.
E quando fecero il giro delle fornaci trovarono ovunque dell’oro. Lo presero, chiesero al
falegname di costruire una cassa per riporlo e in men che non si dica divennero ricchi.
Nel frattempo l’uomo del fusto di bambú era diventato sempre piú povero e si era ridotto a
girare per i villaggi e a vendere oggetti di bambú. Un giorno capitò anche alla casa di Sumiyaki
Gorō. La moglie lo riconobbe e comprò la sua merce al doppio del suo valore. L’uomo pensò:
«Che stupida! Domani costruisco un grande cesto e glielo vendo», e cosí fece, ma questa volta la
donna gli mostrò il vassoio e la ciotola che aveva portato con sé la sera in cui era andata via. A
questa vista l’uomo per la vergogna si nascose sotto al magazzino e si uccise tagliandosi la
lingua con i denti. La donna lo seppellí in quel punto e disse:
– Non ho niente da offrirti. Solo per la Festa del Raccolto del quinto mese ti porterò dell’orzo
e non mangerai null’altro. Mi raccomando, non fare entrare nessun essere vivente nel deposito.
Sembra che da questo sia derivata l’usanza che quando si festeggia la costruzione di un nuovo
magazzino una donna vi salga per prima portando un piccolo sacco di paglia come buon augurio.

Kagoshima, Yoronjima.
Fratello e sorella
C’era una volta il nobile signore Shimota che aveva una figlia e un figlio. Quando il piccolo
aveva tre anni la moglie morí e dopo altri tre anni morí anche Shimota. In punto di morte chiamò
a sé i due figli:
– Ragazzi miei, nel giorno in cui siete nati vi è stato dato un nome, quello con cui vi chiamerò
anche oggi: tu figlia mia sei Hitomusume e tu, figlio, Ijō.
Detto ciò morí. Il giorno seguente si radunarono tutti i parenti e, dopo aver celebrato il
funerale, cominciarono a chiedere ai due fratelli:
– Come farete a vivere da soli?
– Non sarebbe opportuno che uno di noi venisse a occuparsi di voi? – propose qualcuno.
– Già, ma in questo caso chi di noi sarebbe il piú indicato?
Ci sarebbe stata una zia, sorella minore del padre, oppure alcuni parenti che vivevano nello
stesso villaggio. Chi avrebbe dovuto assumersi il compito di badare ai figli dell’autorevole signor
Shimota, la zia o i parenti del villaggio?
– Mi prenderò io cura di mio fratello minore, – disse infine la figlia.
– Ti ringraziamo, – risposero i parenti. – Lo affidiamo a te.
Trascorsero tre anni e la sorella un giorno disse:
– Ijō, sei il figlio del nobile Shimota, devi conoscere il mondo e studiare.
– Ti ringrazio sorella mia, ne sarei felice. Hai già fatto tanto per me, mi hai nutrito e vestito e
non osavo chiederti anche questo favore. Sarò felice di andare a scuola.
– Allora stasera va’ a dormire presto, domani ci alziamo di buon’ora, facciamo colazione e
andiamo insieme al tempio.
E cosí la mattina seguente si alzarono e fecero colazione.
– Coraggio, andiamo, – e uscirono. – Buongiorno abate.
– Felice di vedervi. Stavo proprio pensando che avrei potuto far studiare tuo fratello con i
soldi del tempio. Mi raccomando, impegnati! – disse l’abate al ragazzo.
– Apparteniamo a un’importante famiglia e volevo che almeno lui studiasse. Vi prego,
occupatevi della sua educazione, – pregò la sorella prima di andar via.
Ijō riuscí molto bene negli studi e in soli tre anni diventò piú bravo degli altri ottantaquattro
studenti. I suoi compagni erano invidiosi e non accettavano l’idea che un ragazzo piú giovane di
loro, orfano di padre e allevato solo dalla sorella, li superasse.
– In che modo possiamo avere la meglio su di lui?
– Se organizziamo per domani una gara di ventagli, di certo non potrà vincere.
Lo chiamarono:
– Ijō, non possiamo accettare che tu sia piú bravo nello studio. Domani devi misurarti con noi
in una gara di ventagli. Ti conviene andar subito a casa a procurartene uno.
Il ragazzo tornò a casa, ma non vi trovò la sorella perché era a lavorare nei campi. Disperato
si mise sotto le coperte e la sorella, quando giunse a casa, gli domandò:
– Com’è andata la scuola? Perché sei cosí triste?
– Sorella mia, grazie a te sono diventato il migliore della scuola, ma ora mi hanno sfidato a
una gara di ventagli e mi hanno detto di tornare a casa per procurarmene uno. Ma come facciamo
a comprare un ventaglio? Ero cosí disperato che mi sono nascosto sotto le coperte.
– Avevo previsto che ti sarebbe capitato qualcosa del genere e ho già preso provvedimenti.
Ora devi cenare presto e andare a dormire.
Dopo aver preparato la cena e messo il fratello a dormire, Hitomusume s’inoltrò fra le
montagne portando con sé quindici monete. Nell’attraversare una valle era triste e piangeva e in
quella successiva cantava finché a un certo punto comparve un vecchio dai bianchi capelli
spettinati:
– Dove vai ragazzina da sola nel mezzo della notte, piangendo nell’attraversare una valle e
cantando in quella successiva?
– Sono la figlia del signore Shimota. Ho fatto studiare mio fratello, ma gli allievi piú grandi di
lui l’hanno sfidato a una gara di ventagli e ora mi sto appunto recando a comprarne uno.
– Ormai è troppo tardi, troverai chiuso. Prendi il mio, che porto sempre con me da quando ero
bambino; è di poco valore e molto semplice, – disse e porse alla ragazza un ventaglio.
Di ritorno a casa Hitomusume disse:
– Ti ho comprato il ventaglio. Presto, fai colazione e portalo a scuola.
All’inizio i ventagli degli altri sembravano bellissimi e splendenti, mentre quello di Ijō al
confronto appariva scolorito e brutto, ma quando lo aprí al momento della gara, l’usignolo che vi
era disegnato si animò e si mise a cinguettare e i fiori di pruno che lo decoravano si sparsero
all’intorno. L’abate decise di dichiarare Ijō vincitore.
– Ci ha battuto anche in questa gara, non è possibile! Ti sfidiamo per domani a una gara di
barchette. Avanti, va’ a procurartene una! – gli dissero i compagni.
Ijō giunse a casa e si buttò disperato sotto le coperte. La sorella ritornò dai campi:
– Com’è andata oggi? Perché sei cosí triste?
– Grazie al tuo aiuto ho vinto, ma domani devo affrontarli in una gara di barche. Come
facciamo noi due a procurarcene una? Ero cosí disperato che mi sono nascosto sotto le coperte.
– Ho pensato anche a questo. Devi cenare presto e metterti subito a dormire, – rispose la
ragazza.
Portando con sé trenta monete si incamminò di nuovo fra le montagne. Nell’attraversare una
valle era triste e piangeva e in quella successiva cantava finché anche quella notte comparve il
vecchio:
– Ragazza, dove vai stasera?
– Grazie per l’aiuto, per merito vostro mio fratello ha vinto. Domani deve partecipare a una
gara di barche e sto andando a comprarne una.
– Poverina! Non riuscirai ad arrivare prima di domani a mezzogiorno. Posso darti quella che
posseggo da quando ero bambino; è brutta come la ciotola di un maiale ma prova egualmente a
dargliela.
La ragazza ringraziò e tornò a casa. La mattina seguente svegliò presto il fratello:
– Avanti, fa’ colazione e vai. Ecco la barca che ti ho comprato.
Le barche degli altri scolari erano bellissime, rosse, blu e bianche, ma quando le fecero
navigare sulla superficie del laghetto, se il vento soffiava da nord si dirigevano a sud, poi giunte
alla sponda viravano con il movimento delle onde e ritornavano verso nord. Invece la barca di
Ijō, come se fosse spinta da sette remi di sette divinità, qualunque fosse la direzione del vento
procedeva sicura verso nord, al ritmo yoisa yoisa, senza alcun problema. L’abate lo dichiarò
vincitore.
Gli altri compagni, non potendo sopportare la sconfitta, lo sfidarono per il giorno seguente a
una gara di tiro con l’arco e lo mandarono a procurarsene uno. Ijō giunse a casa e si buttò
disperato sotto le coperte. La sorella, terminato il lavoro nei campi, gli chiese:
– Com’è andata oggi? Perché sei cosí triste?
– Grazie, sorella mia, per merito tuo ho vinto anche oggi, ma domani vogliono che mi misuri
in una gara di tiro con l’arco. Ero cosí disperato che mi sono nascosto sotto le coperte.
– Non ti preoccupare, ho pensato anche a questo. Cena subito e vai a dormire presto.
La ragazza uscí portando con sé settanta monete e si inoltrò fra le montagne. Nell’attraversare
una valle era triste e piangeva e in quella successiva cantava, finché anche quella notte
ricomparve il vecchio:
– Cosa è successo, ragazza? Perché sei di nuovo qui?
– Grazie a voi oggi mio fratello ha vinto, ma domani deve partecipare a una gara di tiro con
l’arco e sto andando a comprarne uno.
– È troppo tardi, non c’è piú tempo. Prendi il vecchio arco che usavo quando ero bambino per
cacciare gli uccelli.
Hitomusume ringraziò e consegnò l’arco al fratello. Ijō fece colazione e si recò presto al
tempio. Gli archi dei compagni erano splendenti mentre il suo era annerito e modesto. «Come
potrò cavarmela?» pensava.
Per vincere la competizione bisognava tirare sette frecce senza farne cadere neanche una
all’interno dell’edificio. Le frecce di Ijō volarono fino alle nuvole e nessuna cadde all’interno,
mentre quelle dei compagni si sparsero tutte nel cortile, alcune nell’angolo di destra, alcune
nell’angolo di sinistra, e neppure una superò i confini. L’abate naturalmente dichiarò Ijō
vincitore.
– Smettetela di essere cosí invidiosi, – disse poi agli allievi, ma questi continuarono:
– Non riusciamo a rassegnarci al fatto che tu vinca sempre. Domani organizzeremo un
banchetto d’addio; porta anche tu da mangiare e da bere, – gli dissero.
Ijō tornò a casa e si buttò disperato tra le coperte. Quando la sorella, terminato il lavoro nei
campi, lo vide gli chiese:
– Com’è andata oggi? Perché sei cosí triste?
– Grazie, sorella mia, per merito tuo ho vinto anche la gara di oggi. Però per domani mi hanno
detto di portare da mangiare e da bere. Ero cosí disperato che mi sono nascosto sotto le coperte.
– Avevo immaginato che ti sarebbe potuta capitare una cosa del genere e ho già qualcosa in
mente. Cena e vai subito a dormire.
Dopo che il fratello si fu addormentato, la ragazza cominciò a cucinare e quando ebbe finito
avvolse in un unico involto cibo e sake e andò a dormire. Durante il sonno le comparvero i
genitori morti:
– Hanno detto che è un banchetto d’addio, ma non sarà cosí. Devi avvertirlo che metteranno
del veleno nel cibo per ucciderlo.
Hitomusume si svegliò subito e chiamò il fratello:
– Mi raccomando, mangia molto adesso e non toccare né cibo né sake quando sarai lí.
Ringrazia rispettosamente e spiega che ti dispiace molto, ma che hai un forte mal di testa e mal
di stomaco e non puoi accettare nulla. Se proprio sarai forzato a mangiare, sputa subito il cibo,
sali sul cavallo e corri a casa. Ora vai, – e lo fece montare a cavallo.
Quando giunse al tempio, Ijō trovò un banchetto meraviglioso. Spiegò che aveva mal di testa
e mal di stomaco; se una cosa gli veniva porta da destra, diceva – Mi dispiace – e la riponeva alla
sua sinistra, se gli veniva porta da sinistra la riponeva alla sua destra. A metà della giornata i
compagni protestarono:
– Sei arrivato fin qui senza che nessuno ti invitasse, hai superato tutti noi e adesso perché non
mangi ciò che abbiamo preparato? I cibi non sono avvelenati.
Poi uno di loro lo afferrò per i capelli, un altro gli aprí la bocca e un terzo lo costrinse a bere
una zuppa calda. Ijō sputò il brodo che gli avevano fatto bere, ma nonostante ciò cominciò a
sentirsi male. Salí sul cavallo, ebbe appena il tempo di dirgli mi affido a te, cavallo mio, e cadde
riverso. L’animale portò il suo padrone fino a casa e per non farlo cadere piegava le zampe
anteriori quando era in salita e quelle posteriori in discesa. Giunto davanti al portale d’ingresso
nitrí e apparve la sorella:
– Oh, povero Ijō ti hanno avvelenato.
Lo tirò giú dal cavallo, lo spogliò, lo mise in una botte di sake e la chiuse con il coperchio.
Quindi indossò il kimono del fratello, strinse l’obi attorno alla vita e si mise a suonare lo
shamisen accompagnandosi con il canto, mentre una gru le faceva eco suonando il koto. I
compagni, convinti di trovare Ijō morto e la sorella in lacrime, arrivarono trionfanti, ma quale
non fu la loro sorpresa nel vedere il ragazzo che si stava dilettando a suonare lo shamisen e che
invece di essere morto era in gran forma. Decisero allora di assaggiare a loro volta i piatti
preparati per il banchetto. E cosí chi cominciò a bere, chi a mangiare finché non si sentirono tutti
male.
La mattina seguente, all’alba Hitomusume si recò al tempio portando con sé mille monete e
un archibugio:
– Abate, vi ringrazio molto. Se dovevate far morire mio fratello, allora sarebbe stato meglio
non farlo studiare per niente. Ma io lo farò ritornare in vita.
– Oh sí, ti prego, vedi di farlo. Se lo avessi difeso, gli altri, cosí numerosi, sarebbero stati
capaci di uccidermi nel sonno e cosí li ho lasciati fare. Se questo ti può consolare, ora sono tutti
morti, – disse l’abate.
La ragazza allora si recò nel giardino del Castello dei Fiori. Molti fiori erano appena sbocciati
e usignoli, passeri e altri uccellini saltellavano da un ramo all’altro per dissetarsi con la rugiada
posata sui petali. Hitomusume puntò il fucile verso i passeri e subito una bellissima ragazza di
sedici, diciassette anni aprí gli scorrevoli della sala principale e uscí. Appena vide Hitomusume
rientrò nel padiglione centrale e si rivolse ai genitori.
– Nel giardino c’è uno splendido gentiluomo. Posso chiamarlo e offrirgli da fumare?
– Tutto quello che abbiamo è tuo, faremo come vorrai, – le risposero.
– Se le cose stanno cosí, padre mio, non potresti offrirgli del sake e parlargli?
– Se lo desideri, sarò felice di farlo.
Subito fecero portare un palanchino per l’ospite. Gli offrirono da fumare, del tè e poi ancora
dei dolci e infine da mangiare e da bere. Servendogli cibi prelibati, il padre gli disse:
– È necessario che troviamo un genero per nostra figlia. Non abbiamo nessuna ricchezza
particolare, ma per chi diventerà mio genero c’è pur sempre il giardino di fiori. Accettereste di
sposare nostra figlia?
– Vi ringrazio, non ho alcuna obiezione, ma ieri ho partecipato a un combattimento di galli e
il mio è stato ucciso da quello di un altro concorrente. Cosí oggi sono venuto da voi per
comprare il fiore che possa resuscitarlo. Una volta preso il fiore tornerò a casa, lo consegnerò a
mia sorella e verrò di nuovo qui per sposare vostra figlia. In futuro mi prenderò cura di voi.
La figlia del signore era al colmo della felicità:
– La ricchezza del nostro castello sono i fiori, voglio mostrarteli. Questo è il fiore che ridà vita
agli uccelli.
– Allora ne prendo un tralcio, – disse Hitomusume e spezzò un tralcio per portarselo via.
– Questo fa rinascere i buoi e quest’altro i cavalli. Questo fiore invece fa rinascere cani e gatti,
mentre quest’altro riporta in vita le capre. Poi c’è il fiore per i maiali e infine quello che fa
rinascere gli esseri umani.
A quel punto Hitomusume infilò di soppiatto il fiore nella manica del suo kimono e poi disse:
– Vado a casa, riporto in vita il gallo, lo affido a mia sorella e ritorno qui a prendere il mio
posto.
– Devi essere qui per domani all’alba; ti aspetto, – disse la figlia del signore.
Sulla via del ritorno, Hitomusume comprò del mochi e, giunta a casa, tappò tutte le fessure dei
muri per evitare che qualcuno spiasse dall’esterno. Lasciando soltanto una debole luce, tirò fuori
dalla botte Ijō e strofinò il fiore su tutto il corpo.
– Ho dormito fino a tardi la mattina; ho dormito fino a tardi la sera, – disse allora il fratello
rialzandosi.
– No, non hai dormito troppo la mattina o la sera. Sei morto perché ti hanno avvelenato. Ho
rischiato la vita per andare al Castello e comprare questo fiore, ma non me l’hanno voluto
vendere. Me l’hanno dato in cambio della promessa che avrei sposato la figlia del signore. Ho
accettato, mi sono fatta dare il fiore che risuscita gli uccelli e nel frattempo ho rubato quello che
serviva per riportare in vita te. Adesso mi sei debitore e dovrai diventare il genero del signore del
castello.
– Grazie, sorella mia. Mi hai salvato e ti sono riconoscente. Andiamo pure.
– Non fare parola del fatto che ieri sono andata io al castello altrimenti ti taglieranno la testa.
Dirai soltanto che sei felicissimo di aver riportato in vita il tuo gallo grazie al fiore che hai
ricevuto. Sulla tua guancia sinistra è rimasta una macchia nera poiché il fiore che avevo non è
stato sufficiente per strofinare anche lí. Appena giungerai al castello ti chiederanno come mai hai
sul volto un livido nero. Risponderai che eri cosí felice perché il gallo era rinato che hai
festeggiato insieme a tua sorella con tè e sake. Alla fine, ubriaco, sei caduto battendo la faccia su
una pietra. Stanca di aspettare, una bella ragazza, con un ombrello a tre stecche, ti verrà incontro.
Lei potrà riconoscerti, ma tu no, per cui non rivolgerle per primo la parola. Se ti dirà «Perché mi
hai fatto aspettare tanto?», allora vorrà dire che è lei quella che diventerà tua moglie. Devi
rispondere che, felice per la rinascita del gallo, hai dormito fino a tardi. Questo è tutto. Adesso va
pure.
Il ragazzo non aveva percorso che metà della strada, fino al limite nord del villaggio, che gli
venne incontro una giovane.
– Che bella fanciulla! Non sarà per caso lei? – si chiese Ijō mentre cercava di vedere se
l’ombrello aveva tre o quattro stecche.
– Ti avevo raccomandato di venire all’alba; perché mi hai fatto aspettare tanto?
– Grazie al fiore del castello ho riportato in vita il mio gallo. Ero cosí felice che ho festeggiato
con mia sorella fino a ubriacarmi, per questo stamattina mi sono svegliato tardi.
– Cosa ti è successo? Hai una macchia nera sulla guancia sinistra. L’altro giorno non avevi
nessun segno sul tuo volto cosí bello.
– Ero tanto contento che mi sono ubriacato con il sake per festeggiare insieme con mia
sorella. È stato allora che sono caduto e ho battuto il viso contro una pietra.
– Avevo immaginato che se non eri ancora arrivato era per un motivo del genere e ho portato
con me il fiore che ridà vita agli esseri umani.
Cosí dicendo, glielo passò sul viso e la pelle ritornò perfetta come prima. Felici e contenti si
sposarono e Ijō si prese cura anche dei suoceri. Da allora, se la sorella si trovava in difficoltà, dal
Castello dei Fiori le portavano il necessario e, se la vita al Castello andava male, era la sorella a
portare loro aiuto. Cosí vissero tutti felici e contenti.
Questo è quanto si racconta.

Kagoshima, Okinarabu.
La tartaruga parlante
C’era una volta un’anziana vedova molto povera che aveva due figli. Il primo abitava da solo
ed era ricchissimo, ma la sua avidità lo rendeva un uomo arido ed egoista che non si preoccupava
affatto della madre. Il secondo, invece, era povero, ma nondimeno si prendeva cura di lei ed era
un esempio di pietà filiale.
Si era alla fine dell’anno e madre e figlio erano cosí poveri che non avevano niente da
mangiare, neppure per il Capodanno. Il ragazzo pensò che almeno quella sera avrebbe voluto
procurarsi del pesce per la madre e al tramonto si diresse verso il mare. Per quanto si impegnasse
però non abboccava niente; aveva deciso di smettere quando dall’acqua spuntò la testa di una
piccola tartaruga. La guardò avanzare verso di lui e pensò che avrebbe potuto catturarla e farne
una squisita cena. Era pronto a colpirla quando sentí una voce:
– Non ho niente da mangiare ed è Capodanno! Che fame! Ho proprio fame!
Era davvero una cosa strana, ma senza dubbio era stato l’animale a parlare. Il ragazzo era di
nuovo in procinto di colpirlo quando udí:
– Non farmi del male, non uccidermi! Tirami su nella tua barca.
«È ben strano che le tartarughe parlino!» pensò, ma la prese ugualmente con sé e tornò a casa.
Si recò subito dal fratello, il quale sospettò che fosse venuto a sollecitare un regalo di fine anno e
lo trattò con molta freddezza.
– Stasera sono andato a pesca e ho preso qualcosa di strabiliante: una tartaruga che parla.
Perché non vieni a vederla? – lo incitò il ragazzo.
– Non dire sciocchezze. Come possono esistere cose del genere?
– Ti dico che è vero! Devi assolutamente guardare con i tuoi occhi, – insistette, ma il fratello
maggiore convinto che lo prendesse in giro si arrabbiò sempre di piú. – Se non ci credi allora
scommettiamo: se la tartaruga parla mi darai tutti i tuoi averi, in caso contrario disporrai della
mia vita.
E il fratello maggiore rispose:
– Se vuoi scommettere allora ci sto, andiamo a vedere, – e si recarono dal fratello minore.
Il ragazzo portò la tartaruga davanti al fratello maggiore.
– Adesso è il momento, avanti parla!
Non aveva finito di dirlo che l’animale cominciò a girare per la stanza:
– Non ho niente da mangiare la notte di Capodanno, povera me, che fame!
Il fratello maggiore aveva perso la scommessa e dovette cedere ogni suo bene, lasciare la casa
al fratello e trasferirsi nella povera dimora dell’altro. Nonostante ciò, essendo egli molto furbo,
in meno di un anno mise di nuovo insieme un’ingente fortuna.
Il fratello minore andò a vivere nella lussuosa casa e allevò con molta cura la sua tartaruga.
Un giorno, il fratello piú grande pensò di utilizzare la testuggine per guadagnare un po’ di soldi.
Se la fece dare e si recò da un ricco signore di un villaggio vicino. Scommise con lui che avrebbe
fatto parlare l’animale, ma quella volta non ci fu modo di cavare neanche una parola dalla
tartaruga. Secondo i patti, se avesse perduto, avrebbe dovuto offrire la sua vita al ricco signore,
ma questi gliela risparmiò. L’uomo tornò comunque a casa tanto infuriato che uccise la tartaruga
e la scagliò nel cortile. Quando il secondogenito andò a vedere cosa era stato del suo animale
scoprí che era morto. Con grande premura lo riportò a casa e lo seppellí nel giardino. Proprio in
quel punto nacque un bambú e divenne cosí grande che neanche due o tre uomini avrebbero
potuto portarlo sulle spalle, cosí raro che tutti gli abitanti del villaggio venivano a vederlo. Un
giorno, il fratello minore decise di tagliarlo e di venderlo ma, quando cominciò a recidere una
prima sezione, uscirono delle monete d’oro; dalla seconda sezione sgorgò del riso di finissima
qualità; dalla terza, dalla quarta e dai tagli successivi venne fuori ogni sorta di oggetti preziosi,
cosicché in breve tempo divenne ricchissimo.
Quando il fratello maggiore seppe dell’accaduto si sentí rodere dall’invidia. Si fece dare allora
dei frammenti del guscio della testuggine e li seppellí nel suo giardino. Anche da lui crebbe un
bambú molto grande. L’uomo cominciò a tagliarlo, ma dalla prima sezione uscí solo urina, dalla
seconda sterco, dalla terza e dalla quarta fango e tante altre sostanze disgustose. Sentita la
disavventura occorsa al fratello, il secondogenito si recò da lui e gli disse:
– Fratello mio, non hai mai eccelso per la tua pietà filiale. Io ormai, con i tesori che ho
ricevuto, sono in grado di badare a nostra madre e ti posso restituire i beni che mi avevi dato
dopo aver perso la scommessa.
E cosí fece.

Kagoshima, Ōshima.
Il picchio e il passero
Anticamente la femmina del picchio e quella del passero erano sorelle. Entrambe si recarono a
servizio nel borgo ai piedi di un castello. Un giorno il padrone consegnò loro il filato e gli
permise di confezionarsi un abito da cerimonia con un motivo screziato. Le due ne furono
contente e mentre preparavano le matasse, già ne avviavano la tintura. In quel mentre giunse un
messo dal loro paese dicendo che il padre era ammalato e che dovevano tornare
immediatamente. Le due ragazze si consultarono sul da farsi. Il picchio disse che avevano con
tanta fatica portato la preparazione fino a quel punto, che tornare a casa senza terminare la tintura
e la confezione del kimono era un vero peccato, e che mostrarsi alle amiche senza l’abito era
imbarazzante.
– Io tornerò quando il kimono sarà completato, – concluse e non si mosse.
Il passero, invece, saputo della malattia del padre, rifletté che non fosse il caso di pensare al
vestito e che doveva tornare il piú presto possibile per prendersi cura di lui. Tornò quindi a casa
con il filo non ancora tinto attorno al collo e fece appena in tempo a incontrare il padre nel
momento in cui spirava. Il picchio, invece, tornò al villaggio dopo aver terminato il suo
bell’abito da cerimonia, ma il genitore era ormai morto.
Le due sorelle furono convocate davanti al dio. Questi dichiarò che il picchio, che dava piú
importanza al kimono che al padre, avrebbe per sempre indossato un abito sfarzoso, ma in
cambio avrebbe dovuto cibarsi di insetti picchiando il becco contro il tronco degli alberi secchi.
Il passero, invece, che aveva mostrato grande affetto per il genitore e poco attaccamento per
l’abito, avrebbe dovuto vivere con la matassa di filo attorno al collo, ma in cambio avrebbe
potuto nutrirsi di riso.
Si racconta che essi continuano ancora oggi a vivere cosí.

Kagoshima, Ōshima.
La sorella cigno
Nel paese di Sashu viveva un ricco signore. La moglie gli era morta quando erano nati un
figlio e una figlia. La figlia si chiamava Tamanochu e il figlio Kaniharu. Il signore aspettò con
pazienza dieci anni senza prendere una nuova moglie, poi un giorno disse ai due figli:
– Tamanochu, Kaniharu, forse è il caso che io vada a cercar moglie, fin quando sarò vedovo
mi sentirò a disagio al cospetto dei signori degli altri paesi.
– Siamo contenti della tua decisione, – risposero e il padre allora aggiunse:
– Starò fuori tre giorni per cercare una moglie, – e partí.
Per tre giorni cercò qua e là. Vi erano molte donne, ma non trovò nessuna che potesse
diventare sua moglie. Infine giunse in un posto chiamato Yamadamuchinuyashi e qui vide una
bella fanciulla tessere una tela:
– Posso entrare? – le disse.
– Da dove giungete signore? Gradite fumare? – gli chiese la donna.
– Sono il signore di Sashu; sono rimasto vedovo e sono in viaggio per cercar moglie; vorreste
diventare la mia sposa?
– Ne sarei onorata, – rispose la donna. – Mio marito, il signore di Yamadamuchi, è morto
quando è nata nostra figlia. Ho dovuto cedere la casa e mi sono messa a tessere per guadagnarmi
da vivere. L’unica richiesta che ho da farvi è che mi permettiate di portare mia figlia con me.
Cosí fu deciso e ritornarono a casa tutti e tre.
Giunti a destinazione il padre chiamò Tamanochu:
– Sono tornato con la nuova madre, vieni a salutarla.
La ragazza si presentò e disse:
– I tuoi capelli sono come quelli della madre che mi ha dato la luce. La tua veste è come
quella della madre che mi ha dato la luce. Spero che mi tratterai come una tua figlia.
La nuova mamma si prese cura dei due ragazzi.
Venne il tempo in cui Tamanochu fu promessa in moglie al signore di Saga. Era la vigilia del
matrimonio quando la matrigna la chiamò:
– Tamanochu, va’ sulla montagna dei cedri e cogli dei fusti di canapa. Fanne una stuoia da
mettere nella pentola dove si cuoce il riso a vapore, e prepara del kōji.
La ragazza fece come le era stato chiesto, poi in una grande pentola mise a bollire dell’acqua
e sopra vi poggiò la stuoia di canapa.
– Ora sali qui sopra e fa’ il bagno, – le ordinò la donna.
– Non posso, madre mia. Se cadessi nell’acqua bollente morirei bruciata.
– Com’è possibile che una ragazza che deve diventar moglie di una persona importante non
voglia bagnarsi in quest’acqua? – e afferratala la buttò nell’acqua bollente.
Tamanochu morí e il fratello Kaniharu pianse disperato tutte le sue lacrime. La matrigna disse
al marito:
– La tua prima moglie doveva essere una donna malvagia. Pensa che sua figlia, mentre stavo
preparando il kōji, ha voluto buttarsi nell’acqua bollente ed è morta.
A tale racconto il padre commentò:
– Che cosa terribile! L’avevo già promessa in sposa. Cosa dirò domani al signore di Saga?
– Non preoccuparti, c’è mia figlia Kana. Facciamo per lei i preparativi previsti per
Tamanochu e diamola in moglie al signore di Saga, – rispose la donna.
Il marito però per il dispiacere finí con l’ammalarsi.
Il giorno dopo, dalla residenza di Saga mandarono a prendere la sposa. Poiché il padre era
malato partirono soltanto in tre: la madre, Kana e Kaniharu. Fu offerto loro un prelibato
banchetto e al momento di prendere congedo la madre disse al signore di Saga:
– Kaniharu rimarrà al servizio di Tamanochu, ordinategli pure ogni giorno di andare a tagliare
la legna, o di massaggiarvi la sera le gambe e le spalle.
Quindi tornò a casa e riferí al marito:
– Ho cambiato il nome di nostra figlia in Kananochu e l’ho data in sposa al signore di Saga.
– E Kaniharu che fine ha fatto? – domandò il padre.
– Ha pensato che la sorella poteva rattristarsi a stare da sola in un posto nuovo e ha deciso di
tenerle compagnia per sette giorni, – fu la risposta della donna.
Dalla mattina seguente Kananochu cominciò a dare ordini:
– Kaniharu, sbrigati a preparare da mangiare e poi vai a raccogliere la legna.
Il ragazzo non sapeva né dove andare né come svolgere il suo compito; l’unica soluzione che
trovò fu recarsi al luogo dove era sepolta la sorella sulla montagna di cedri.
– Spirito della montagna, spirito della montagna, – chiamò, e dal posto dove era sepolta la
sorella venne fuori un cigno che spezzò con il becco i rami secchi dei cedri e li legò in fascine.
Quindi disse:
– Sono tua sorella, come mai sei qui?
Kaniharu le raccontò tutto e aggiunse:
– Mi mandano a fare legna, mi fanno accendere il fuoco e devo finanche lavar loro le gambe,
non ne posso piú!
– Mio povero fratello, dimmi, hai solo quest’abito? – domandò il cigno.
– Sí, è l’unico.
– Allora torna a casa e portami i ritagli di filo e di stoffa che troverai accanto alla finestra
della stanza del telaio. Ti cucirò io un vestito.
Kaniharu tornò a casa e la mattina seguente si recò di buon’ora nella stanza del telaio.
Raccolse gli scampoli di stoffa e i pezzetti di filo accanto alle imposte della finestra e li portò
sulla montagna.
– Spirito della montagna! – chiamò, e comparve il cigno:
– Hai trovato filo e stoffa?
– Sí, eccoli.
– Oggi raccogli la legna, poi vai a casa e mettiti a letto con la scusa che hai mal di testa.
Questa sera non dovrai cenare, ma domani mattina mangia un bel po’ di kayu; poi, se a pranzo ci
sarà ancora il kayu, prendine molto, ma se servono del riso prendi solo mezza ciotola. Riposa per
tre giorni, la mattina del quarto dirai che ti senti finalmente in forma, ti riempirai bene lo
stomaco e tornerai qui.
Concluso il discorso fece cadere delle frasche secche e le raccolse. Kaniharu si caricò sulla
testa le fascine e andò a casa. Come gli aveva detto il cigno, si mise a letto dicendo che aveva
mal di testa. La mattina del quarto giorno annunciò che era guarito e che andava a raccogliere la
legna. Una volta sul posto chiamò:
– Spirito della montagna dei cedri! – e la sorella cigno gli venne incontro portando nel becco
un fagotto dove aveva avvolto il vestito.
– Eccoti la veste. Quando tornerai a casa non riporla in un posto decente, ma nascondila sotto
al tatami piú sporco, davanti al forno. Indossala a notte inoltrata, quando ti sveglierai e sentirai
freddo, ma levatela prima dell’alba e riponila al suo posto. Anche oggi ti aiuterò io a fare legna.
Raccolse delle fascine e aggiunse:
– Oggi sono qui per l’ultima volta. Domani ricorre il settimo giorno e dovrò presentarmi al
Sovrano dell’Aldilà. Non dovrai chiamarmi piú.
I due fratelli si separarono. Kaniharu tornò in lacrime a casa e nascose il vestito davanti al
forno, sotto il tatami piú sporco della cucina. La sera si addormentò per qualche ora, quando si
svegliò sentí freddo e indossò il nuovo abito.
Quella stessa notte il signore di Saga non riuscendo a riposare aveva chiamato i suoi
attendenti affinché gli portassero da accendere la pipa, ma tutti dormivano e nessuno gli aveva
risposto. Si era rivolto alla moglie e neanche lei si era svegliata. Non avendo altra scelta, si
diresse lui stesso in cucina e davanti al forno vide qualcosa che splendeva. Pensando che fosse
della brace, con un attrezzo per il fuoco tentò di afferrarla, ma si accorse che si trattava di
qualcosa di piú grande: un magnifico kimono.
– Da dove ha preso una veste cosí superba un ragazzino come te? – domandò il signore, e
Kaniharu scoppiò a piangere. – Non intendo né sgridarti né picchiarti, vorrei che tu mi
raccontassi tutto con sincerità, – lo rassicurò. Il ragazzo trasse dallo scollo del kimono un oggetto
che la sorella gli aveva lasciato come ricordo e lo porse al signore.
– Usciamo, vi racconterò tutto, – disse e per strada gli riferí ogni cosa.
– Perché non me l’hai detto prima? Domani mattina prepara presto da mangiare. Andiamo
insieme al luogo dove l’hai incontrata.
– Sono passati ormai sette giorni dalla sua morte ed è già nell’aldilà! Ha detto che non verrà
piú.
– Dobbiamo provarci lo stesso o non potrò mai perdonarmelo. Prepara il riso e mangia in
abbondanza e prepara anche dei nigirimeshi da portare con noi.
Cosí i due uscirono mentre era ancora buio per andare sulla montagna dei cedri.
Una volta sul posto il signore disse:
– Se tua sorella si accorge di me è probabile che non si presenti; mi nasconderò dietro un
albero, coprimi con i rami.
Poi Kaniharu cominciò a chiamare:
– Spirito della montagna dei cedri! – e il cigno giunse in volo.
– Che succede? Non ti avevo forse detto di non chiamarmi piú? Ero già a metà strada verso
l’altro mondo e sono dovuta tornare indietro.
A quel punto il signore di Saga venne allo scoperto:
– Puoi ancora diventare un essere umano? – le chiese.
– Sarebbe stato possibile fino a ieri, ma oggi si compie il settimo giorno. Ho già ricevuto il
lasciapassare del Sovrano dell’Aldilà, non posso fare piú niente. Proverò comunque a parlare con
il Sovrano. Intanto tornate a casa e sopra i due montanti del portale ponete due mortai pieni
d’acqua. Se un uccello bianco verrà a bagnarsi provate a cercare sulla collina del giardino.
Troverete il mio corpo. Se non metterete i mortai dove ho detto, non potrò mai piú ridiventare un
essere umano.
Mentre l’ascoltava il signore di Saga cercò di afferrare il cigno, ma questi disse:
– Non devi toccarmi!
– Come potrò mai vivere se non sarò riuscito nemmeno a sfiorarti? – disse il signore, ma
quando strinse la presa, nella sua mano non rimasero che tre, quattro mosche.
Tornò a casa e si rivolse ai genitori:
– Padre, madre, la felicità di cui ho goduto fino ad ora mi sembra d’un tratto vana. Ho un
favore da chiedervi: mettete un mortaio sui due montanti del portale.
– Tutte le ricchezze di questa casa sono tue e ogni tuo desiderio è per noi un ordine, –
risposero.
Il signore pose quindi sul portale due splendidi mortai. Dopo poco giunse un uccello bianco
che si bagnò e volò via, poi tornò a bagnarsi e volò via di nuovo. Il signore di Saga cercò allora
sulla collina del giardino; lí, dietro all’acquaio vi era una fanciulla la cui bellezza era tale da
oscurare il sole splendente. La fece salire sul palanchino e la condusse alla sua dimora.
La moglie malvagia fu messa a morte. La madre che ancora non sapeva nulla fu convocata e
le fu dato un fagotto nel quale era avvolta la testa della figlia. Mentre tornava verso casa, la
donna fu costretta a fermarsi per il mal di testa. Aprí il fagotto e alla vista del contenuto si
spaventò fino a morirne.
Il signore di Saga celebrò le sue nozze, questa volta con Tamanochu. Gli sposi e Kaniharu si
recarono a far visita al padre nel paese di Sashu e l’uomo per la gioia di vederli tutti vivi e in
buona salute guarí subito. Ben presto anche Kaniharu trovò una buona moglie e il padre si sentí
ancor piú sollevato. Tutto lascia pensare che i due fratelli continuino a vivere felici e contenti.

Kagoshima, Amami.
Il ministro Yuriwaka
Il ministro Yuriwaka quando si addormentava poteva dormire anche per una settimana di
seguito e quando era sveglio poteva star sveglio anche per una settimana. Durante un viaggio in
mare alla volta di Edo, la sua nave fu spinta dalla corrente su di un’isola deserta, Akaremuna. Il
primo dei suoi attendenti scese a controllare l’isola e fece sbarcare gli uomini del seguito. Poi
disse:
– Rimanete pure sull’isola a vostro piacimento, il ministro e io ci riposeremo un poco.
Dopo un po’ si rivolse di nuovo agli uomini:
– Se fate questo baccano non possiamo dormire, andate sulla nave, – e li fece tornare tutti a
bordo.
Quando il ministro poco dopo si addormentò l’uomo si impadroní della sua cintura e della piú
grande delle due spade che portava al fianco, risalí sulla nave, la fece salpare e tornò al loro
paese.
Raccontò alla moglie del ministro:
– Abbiamo fatto naufragio su un’isola deserta e il ministro purtroppo è morto. Le sue ultime
volontà sono state: «Ti concedo mia moglie. Vivete pure insieme». Mi sono occupato della
sepoltura e sono tornato a casa.
La donna rispose:
– Un uomo come lui non può morire. E anche se cosí fosse, la sua anima vive ancora, non
posso diventare vostra moglie.
Anche gli altri attendenti gli suggerirono:
– Che ne direste di aspettare almeno i tre anni di lutto? – ma l’uomo ordinò loro di tacere e
costrinse la donna a diventare la sua sposa.
Yuriwaka possedeva un cavallo stupendo. Il nuovo padrone tentò di montarlo, ma il cavallo si
imbizzarrí e l’uomo non riuscí a trattenerlo. Costruí allora una stalla di ferro e ve lo rinchiuse.
Dopo aver dormito per sette giorni sull’isola deserta, il ministro Yuriwaka si svegliò. Non
trovò nessuno del suo seguito né anima viva, né tracce di case o di fuoco. Visse per lungo tempo
sull’isola raccogliendo ogni giorno molluschi che apriva aiutandosi con la spada corta. Un giorno
passò al largo dell’isola una grande nave. Egli si sbracciò con tutte le forze e quelli lo
avvistarono.
– Su quest’isola non ci dovrebbe essere nessuno. Non sarà mica un dèmone? – disse qualcuno.
Uno piú colto rispose:
– No, no. Da come saluta educatamente chinando il capo deve essere un uomo. Quando
arriveremo, per prima cosa porgiamogli sulla punta di un remo tre chicchi di riso: se è un essere
umano li prenderà, li metterà in bocca e li masticherà a lungo; se è un dèmone li ingoierà senza
masticare.
Cosí provarono ad accostarsi all’isola. Con una lunga e incolta barba, in effetti Yuriwaka non
sembrava un essere umano. Quando però gli offrirono i chicchi di riso, li prese e li masticò a
lungo. Dalla nave calarono una scialuppa e lo trassero in salvo.
Tornato alla sua isola, il ministro andò nella casa accanto alla propria e chiese:
– Prendetemi per falciare il fieno per i cavalli o per ramazzare il giardino, ve ne prego.
Cosí fu preso a servizio in quella casa. Gli altri lavoranti dapprima avevano deriso Yuriwaka
per il suo aspetto, ma quando provò a falciare il fieno si meravigliarono della rapidità con cui
procedeva.
Il giorno seguente il ministro andò a tagliare l’erba insieme ad altri sette servitori del vicinato.
– Immagino che per tagliare l’erba cosí folta dovrete impiegare almeno mezza giornata. Ve la
preparerò sollevandola, ognuno di voi raccoglierà la propria parte e in piú un cesto per me, –
disse e quindi si mise al lavoro.
Con grande gioia tutti falciarono in un batter d’occhio la propria parte e ognuno fece anche
quella per il ministro. Ogni giorno, al mattino, al pomeriggio e alla sera, per tre volte, Yuriwaka
tornò a casa portando sulle spalle sette ceste di erba.
Il padrone raccontò questa storia al suo vicino, colui che una volta era stato il braccio destro
del ministro, il quale lo pregò:
– Non mi cederesti questo falciatore?
– No, non posso, – rifiutò il padrone all’inizio, ma alle insistenze dell’altro alla fine rispose: –
Facciamo decidere a lui.
Chiesero a Yuriwaka e questi acconsentí:
– Va bene, andrò.
Giunto a casa propria, il ministro chiese che lo portassero nelle stalle e gli mostrassero il
cavallo.
– Se ti avvicini ti sbrana, sii prudente, – gli dissero, ma egli accostò le labbra all’orecchio del
destriero e gli sussurrò:
– Hai dimenticato il tuo vecchio padrone?
Subito il cavallo, al quale si era rizzato il pelo, si calmò. Il ministro allora lo condusse nel
giardino:
– Portatemi una sella per questo cavallo, – disse.
Subito quattro uomini portarono sulle spalle una sella e il ministro, con una sola mano, la
mise sul cavallo. Chiese poi che gli portassero una frusta. Furono in due a portarla sulle spalle,
mentre Yuriwaka montò a cavallo sostenendola con il solo dito mignolo. Dopo aver percorso il
giardino tre volte da est a ovest, tolse la sella, la gettò tra l’edificio principale e le stanze interne
e ricondusse il cavallo nella stalla. Poi chiese:
– Prestatemi un arco –. Quando gli fu consegnato disse: – Nel piatto del padrone di questa
casa c’è un bell’uccello, infilziamolo con una freccia. Uccello femmina, allontanati. Uccello
maschio, vieni fuori.
L’antico attendente, ora padrone di casa, uscí e chiese:
– E allora, dov’è quest’uccello? – e Yuriwaka lo uccise con una sola freccia.
Entrò poi in casa dove la moglie che aveva capito tutto se ne stava nella sua stanza piangendo
a calde lacrime. Il ministro sentí dalla donna quanto era accaduto e le disse:
– È successo perché le tue forze non erano sufficienti per resistere a quell’uomo. Torniamo a
vivere insieme come marito e moglie, come un tempo.
E da allora vissero di nuovo felici e contenti.

Kagoshima, Okinarabu.
Ceneraccio
Tanto tempo fa, al signore di Ōmura della provincia di Ōmura nacque un figlio che chiamò
Mamichigane. Purtroppo quando aveva tre anni la mamma morí. Il padre si risposò e il bambino
fu allevato dalla matrigna.
Quando Mamichigane compí nove anni, il padre dovette recarsi a Edo per tre mesi. Al
momento di congedarsi, il signore di Ōmura disse alla moglie:
– Puoi anche non occuparti dei lavori di casa; ti chiedo solo di prenderti cura ogni giorno dei
capelli di mio figlio, – e partí.
La donna accompagnò il marito al porto, tornò a casa e subito cominciò a trattare male
Mamichigane:
– Va’ in montagna a fare la legna! – gli ordinò, e quando fu di ritorno disse: – Adesso
ramazza il giardino!
Non solo si guardò bene dal prendersi cura dei capelli del figlio, ma lasciò che vi crescessero i
pidocchi e, con il passar dei giorni, Mamichigane divenne un bambino sporco da non potersi
avvicinare.
Passarono i tre mesi e giunse una lettera che annunciava il ritorno della nave del padre per il
giorno seguente. La matrigna allora disse al figliastro:
– Tuo padre domani sarà qui. Raccogli la legna e scopa il giardino. Avanti, datti da fare!
Il giorno dopo Mamichigane le disse:
– Madre, andiamo incontro a mio padre, – ma la donna rispose:
– Vai avanti tu. Io verrò dopo essermi ravviata i capelli, – e si fece precedere da
Mamichigane. Poi si ferí il volto con un rasoio e si mise sotto le coperte. Quando il signore di
Ōmura vide come era conciato il figlio gli chiese:
– Come hai fatto a ridurti in questo stato?
– La mamma non si è presa per niente cura di me, – rispose il ragazzo.
– Ma dov’è adesso? – domandò l’uomo.
– Mi ha detto che sarebbe venuta dopo essersi sistemata i capelli.
Per un po’ di tempo i due aspettarono, poi decisero di tornare a casa. Poiché la moglie era a
letto, il marito gliene chiese il motivo. Lei sollevò il futon, mostrò il volto e disse:
– Guarda cosa mi ha fatto tuo figlio! Dopo la tua partenza, ogni giorno mi diceva «Odiosa
matrigna!» e mi feriva con un rasoio. Avevo troppa vergogna a farmi vedere dagli altri cosí
conciata e perciò non sono venuta a prenderti.
Il signore a queste parole, senza neanche ascoltare la versione di Mamichigane, gli disse irato:
– Vattene via non importa dove, figlio ingrato!
Scelse il migliore dei suoi tre cavalli e glielo diede insieme ai kimono che gli aveva portato in
regalo da Edo, poi lo cacciò di casa. Il ragazzo indossò i meravigliosi kimono, montò a cavallo e
lasciò il villaggio dirigendosi verso sud. Galoppa, galoppa, trovò davanti a sé un fiume lungo
mille ri e largo uno. Non potendo guadarlo, né risalendo né seguendone il corso, disse:
– Guardate come salta il destriero di Mamichigane!
Diede un colpo di frusta al cavallo e subito questo attraversò con un balzo il fiume. Galoppa,
galoppa, si trovò davanti a una montagna di rovi coperta da una nuvola bianca. Non potendo
andare né a destra né a sinistra disse:
– Nessun problema! Guardate come salta il destriero di Mamichigane!
Al primo colpo di frusta il cavallo annuí abbassando il capo, al secondo superò con un balzo
la montagna.
Galoppa, galoppa, giunse in un luogo dove un vecchio dai lunghi capelli incolti stava
ripulendo dalle erbacce un campo di miglio.
– Ehi vecchio, c’è qualcuno nel villaggio che cerca un lavorante? – gli chiese.
– Una settimana fa è morto uno dei trentacinque braccianti della grande casa sulla sommità
ovest della montagna. Può darsi che vogliano assumere qualcun altro, ma di certo non una
persona ben vestita come voi, – rispose il vecchio.
– Allora facciamo a cambio: io indosserò il tuo abito da lavoro e tu il mio kimono, – propose
Mamichigane.
– Se accetto la tua proposta e prendo questo splendido kimono potrei essere punito. È meglio
che ti regali il mio.
– Ti prego, accetta lo scambio, lo desidero davvero. Ti vorrei chiedere inoltre di prestarmi un
barile da riso per riporre la mia roba.
Il vecchio acconsentí.
Mamichigane indossò l’abito da lavoro e ripose nel barile i vestiti che aveva portato con sé e
la sella del cavallo. Liberato il destriero in un bosco di bambú poco distante, si fece
accompagnare dal vecchio alla casa del ricco signore sulla sommità ovest della montagna. Chiese
di poter lavorare e fu subito preso.
Mamichigane cominciò il suo lavoro. Fu mandato a tagliare il fieno, ma tornò poco dopo a
casa senza aver concluso niente.
– Non sono capace, mi sono solo ferito le mani. Fatemi ramazzare il giardino, – disse al
padrone.
Egli lo accontentò, ma Mamichigane disse:
– Mi si sono formate delle vesciche sulle mani e non sono riuscito a pulire il giardino.
Mettetemi a preparare i pasti per i quali impiegate sette persone.
– Va bene, come preferisci, – rispose il ricco signore.
– Mettetemi a disposizione per un giorno sette uomini, – disse Mamichigane.
Fece raccogliere a uno di loro della terra, a un altro delle pietre, a due dell’acqua, a uno fece
tagliare della paglia, a due fece impastare la terra e in men che non si dica costruí sette forni.
Cominciò cosí a preparare il riso e da quella volta i tre pasti giornalieri vennero serviti in tempo.
Fino ad allora, infatti, la prima colazione si faceva all’ora del pranzo, il pranzo all’ora della cena
e la cena in piena notte. Ora invece all’alba «la colazione è servita!» si sentiva dire, a
mezzogiorno era pronto il pranzo e al tramonto si cenava.
Il signore al colmo della gioia gli disse:
– Ho trovato proprio un bravo cuoco. Voglio che rimanga per sempre a lavorare per me.
Domani c’è uno spettacolo di danze, devi prepararci il bentō ancora piú presto di oggi.
La mattina successiva il ragazzo gli consegnò di buon’ora la scatola contenente il pranzo.
– Ceneraccio, vieni anche tu con noi, – lo invitò allora il padrone.
– Oggi è il terzo anniversario della morte di mia madre. Mi dispiace, ma non posso andare a
divertirmi, – rispose.
– Allora ti raccomando la casa. Noi andiamo.
– Va bene.
Ceneraccio aspettò che tutti uscissero, si lavò, indossò il piú bello dei kimono che aveva
affidato al vecchio, infilò degli eleganti zoccoli di lacca, richiamò il cavallo dal bosco di bambú e
lo sellò. Giunse sul lato nord del palcoscenico ed esclamò:
– Guardate come danza il cavallo di Mamichigane! – diede un colpo di frusta e il cavallo fece
un balzo verso il lato sud. Sia il ricco signore sia gli altri spettatori commentarono:
– È apparsa una Divinità del Cielo! Alziamoci e rendiamole omaggio.
Tutti si inchinarono con rispetto davanti a Ceneraccio e anche il padrone si uní agli altri. La
figlia del ricco signore, ormai in età da marito, disse:
– Ma quello è il nostro Ceneraccio! Lo riconosco dalla macchia scura che ha sull’orecchio
sinistro.
Ma il padre la rimproverò:
– Non mancare di rispetto alla Divinità! Avanti, inchinati subito!
La figlia ridendo ubbidí.
Ceneraccio tornò a casa prima degli altri. Liberò il cavallo sulla montagna, nascose i vestiti in
casa del vecchio, indossò l’abito da lavoro e si mise a dormire, usando come cuscino la ventola
di bambú. Piú tardi il signore rincasò:
– Ceneraccio, apri il portone!
Quando il ragazzo aprí gli disse:
– Che peccato che non sia venuto anche tu! Pensa, oggi durante lo spettacolo è apparsa una
Divinità del Cielo e tutti ci siamo inchinati al suo cospetto.
– Davvero? Avrei fatto bene a venire, – disse Ceneraccio.
– Anche dopodomani c’è una rappresentazione. Svegliati presto e preparaci da mangiare, – gli
ordinò il signore.
Il giorno stabilito Ceneraccio consegnò il pranzo in anticipo.
– Vieni anche tu! – lo invitò il padrone.
– Oggi è l’anniversario della morte di mio nonno, – rispose. Quando furono usciti tutti, si fece
il bagno, si vestí e sellò il cavallo. In quel momento però arrivò la figlia del signore, che era
tornata a casa con la scusa che aveva dimenticato i sandali di paglia. Non avendo scelta,
Ceneraccio la fece salire sul destriero e insieme cavalcarono fino al lato est del palcoscenico:
– Guardate come danza il cavallo di Mamichigane, – disse dando un colpo di frusta e subito il
cavallo balzò verso il lato ovest. Tutti i signori presenti dissero:
– Oggi il Dio del Cielo è apparso con la sua compagna, – e si inchinarono.
Ceneraccio con la ragazza tornò a casa prima degli altri. Liberò il cavallo sulla montagna, si
cambiò i vestiti e si coricò con la ventola di bambú come cuscino.
La fanciulla si ritirò nella sua stanza dicendo che stava male. Il ricco signore tornò:
– Apri il portone, Ceneraccio!
Poi aggiunse:
– Anche oggi è stato un peccato che tu non sia venuto. La Divinità del Cielo ha portato con sé
sua moglie.
– Mi dispiace molto, – rispose Ceneraccio. Quando il padrone seppe che la sua unica figlia
stava male si agitò molto. Valutò se fosse il caso di chiamare un medico, ma la ragazza gli disse:
– Non è necessario. Ti pregherei invece di far venire delle sciamane.
Furono cosí invitate tre miko che dissero:
– Questo malessere non deriva da un maleficio, è una malattia cronica.
La fanciulla non fu d’accordo e chiese:
– Chiamate la nuova sciamana che è giunta da poco.
Il responso di quest’ultima fu:
– Non si tratta di una malattia cronica, si è innamorata di uno dei lavoranti. Chiamate i
diciassette servitori, chiedetegli di vestirsi come preferiscono e fate offrire dalla ragazza una
ciotola di sake a uno di loro. In questo modo capirete di chi si tratta.
Il ricco signore fece come aveva detto la sciamana, ma la figlia non porse da bere a nessuno.
– Non c’è qualcun altro? – domandò il padre.
– C’è rimasto solo il sudicio Ceneraccio.
– Ceneraccio è al vostro stesso livello. Fatelo preparare e fatelo presentare, – ordinò il
padrone.
Quindi gli prestò un suo vecchio abito. Ceneraccio si fece il bagno, si asciugò col vestito
ricevuto e lo gettò nel porcile. Gli fu prestato allora un bell’abito, ma anche questa volta il
ragazzo si asciugò con esso e lo buttò dietro la stalla dei cavalli. Infine il signore gli prestò un
meraviglioso kimono da cerimonia, ma di nuovo Ceneraccio, dopo essersi asciugato, lo gettò
nelle latrine. A quel punto indossò le vesti che aveva affidato al vecchio, montò sul suo cavallo e
si presentò. Quando il ricco signore lo vide, lo accompagnò per mano nella stanza della figlia.
Costei guarí immediatamente e porse la coppa di sake a Ceneraccio.
Il padre allora gli disse:
– Non sono stato perspicace come mia figlia. Ti prego di diventare mio genero.
Cominciarono cosí i festeggiamenti per le nozze che andarono avanti per tre giorni. Al quarto
lo sposo chiese al suocero:
– Vogliate concedermi tre giorni di permesso, vorrei andare a far visita ai miei genitori.
Ma l’uomo rispose:
– No, non ti concederò tre giorni, te ne darò solo uno.
E cosí, ricevuto un giorno di permesso, Ceneraccio decise di partire. La moglie gli chiese:
– Percorrerai la costa o seguirai un percorso di montagna?
– Se prendessi la strada lungo il mare impiegherei tre giorni, per quella in montagna uno solo,
quindi sceglierò quest’ultima.
E allora ella gli disse:
– Andando per i monti, cadranno delle more sulla sella del cavallo. Anche se avrai sete, non
mangiarle. Se lo farai non ci rivedremo mai piú.
Il giovane prese il percorso montano e nella sella caddero delle more. Dato che la moglie gli
aveva tanto raccomandato di non mangiarle, all’inizio non le toccò, ma poi con il passar del
tempo gli venne sete e non resistendo piú ne prese una. Mamichigane morí all’istante crollando
sul collo del cavallo. L’animale continuò a portare il suo padrone e per non farlo cadere piegava
le zampe anteriori quando era in salita e quelle posteriori in discesa. Giunse fino alla casa natia e
davanti al cancello nitrí tre volte. Suo padre udí:
– Questo è il cavallo di Mamichigane. Che strano, non sento la sua voce, ma solo il nitrire del
cavallo per tre volte. Va’ a vedere, – disse e mandò la matrigna a controllare.
La donna aprí il portone e subito il cavallo la uccise con un morso. Il padre accorse sul posto.
– Chissà perché non è tornato finché era in vita, ma solo dopo che è morto, – si chiese. Mise
poi il corpo di Mamichigane in una botte che chiuse con un coperchio.
«Se almeno conoscessi il suo paese gli manderei una lettera! Aveva un sol giorno di
permesso, ma ne sono passati tre e ancora non è tornato», pensava intanto la moglie di
Mamichigane. Certa ormai che avesse mangiato le more, comprò tre gō di acqua che fa rivivere i
morti e uscí di casa senza neppure sapere dove abitasse il marito. In mezza giornata percorse a
piedi la strada che il cavallo di Mamichigane aveva fatto in un giorno. Alla fine giunse alla casa
del marito e chiese:
– È questa la casa di Mamichigane?
Il padre venne ad accoglierla.
– È questa, – rispose.
– Vorrei vedere il suo corpo, – disse la donna.
– Non posso mostrare mio figlio a una sconosciuta.
– Non sono affatto una sconosciuta. Ci siamo sposati e dopo tre giorni è partito. Vi prego,
mostratemelo.
– Ti chiedo scusa, vieni pure.
Il padre tirò fuori dal barile il cadavere di Mamichigane e glielo mostrò. Sembrava proprio
che dormisse. La moglie lavò il corpo e lo strofinò con l’acqua che fa rivivere i morti. Subito
Mamichigane parlò:
– Ho dormito la mattina, ho dormito la sera, – disse tornando in vita.
– Non hai dormito la mattina, non hai dormito la sera, hai mangiato le more benché ti avessi
detto di non farlo. Ti ho ridato la vita con l’acqua che resuscita i morti. Ora torniamo a casa, –
spiegò la moglie.
A queste parole il padre disse:
– È il mio unico figlio, non posso lasciarlo andare.
– Allora venite con noi, – rispose la donna, ma Mamichigane intervenne:
– Non posso servire due padri allo stesso tempo. Ti manderò dei soldi, prendi con te un buon
figlio adottivo. Io lavorerò nella casa di mia moglie che mi ha salvato la vita.
Salutarono il padre e tornarono a casa. Da allora, dicono, vissero felici e contenti.

Kagoshima, Okinarabu.
Il genero kappa
C’era una volta un vecchio di circa settant’anni che aveva tre figlie. Un giorno, mentre
irrigava il suo campo, che produceva trenta sacchi di riso l’anno, parlando tra sé e sé disse che se
ci fosse stato qualcuno disposto a farlo al suo posto, gli avrebbe dato in sposa una delle sue tre
figlie. Fu a quel punto che spuntò fuori un kappa e gli disse:
– Vecchio, cos’hai detto?
– Ho detto che se ci fosse qualcuno disposto a irrigare la risaia, gli darei in sposa una delle
mie tre figlie, – rispose l’uomo.
– Benissimo, darò subito l’acqua ai tuoi campi, ma se non manterrai la promessa ti mangerò il
sedere, – disse il kappa e immediatamente compí il lavoro promesso.
Il vecchio preoccupato se ne tornò a casa. Raccontò alla figlia maggiore del suo incontro.
– Non mi faresti il favore di diventare la moglie del kappa? – le disse poi.
– Mi stai chiedendo di non sposare un uomo, ma di diventare la moglie di un kappa che vive
nell’acqua? Non sarai per caso diventato matto? – replicò la ragazza.
Chiamò allora la secondogenita e le spiegò la situazione, ma la risposta fu la stessa. Disperato
il vecchio si rivolse alla piú piccola. Le raccontò l’accaduto e poi le chiese:
– Non mi faresti il favore di diventare la moglie del kappa?
– Devo a te la vita, padre. Non potrei mai contrastare la tua volontà e farò quello che mi hai
chiesto. In cambio però dovrai darmi la dote, – rispose la figlia.
– In che cosa consiste? – chiese il padre.
– Dovrai comprarmi sette zucche, – gli rispose la ragazza.
Il vecchio si affrettò a mettere insieme la dote; quindi la figlia gli chiese di chiudere le zucche
in una rete.
– Se diventassi la moglie di un essere umano ti seguirei, ma non posso immergermi nell’acqua
e dovrai portare da sola la tua dote, – disse il padre consegnandole le zucche.
La ragazza prese il fardello e giunta sulla sponda del fiume si fermò.
– La tua sposa è giunta. Avanti, viene a prendere il mio bagaglio, – disse.
Il kappa comparve, prese la rete nella quale erano avvolte le zucche e cercò di portarle con sé
nel fiume. Ma piú spingeva e piú le zucche risalivano a galla e non c’era verso di farle stare
nell’acqua.
– Hai voluto una donna come moglie e non sei in grado di sistemare la sua roba? Senza la
dote non diventerò mai la tua sposa, – disse la ragazza.
Il kappa provò di nuovo senza riuscirci. Alla fine si arrese.
– Basta! Tornatene pure a casa e portati via la tua dote, non sono capace di farla stare
nell’acqua, – disse.
– Me ne vado, ma tu non dovrai mai piú pretendere che una di noi tre sorelle diventi la tua
sposa. Inoltre, devi promettere che finché vivremo irrigherai sempre i nostri campi, – gli intimò
la ragazza.
Tornò cosí a casa sana e salva e le sorelle da allora la trattarono con rispetto. Appena i campi
si inaridivano il kappa li annaffiava e fu cosí che vissero per sempre felici.

Kagoshima, Okinarabu.
Il principe della paglia
Tanto tempo fa vivevano a Naha, nell’arcipelago delle Ryūkyū, una madre e un figlio.
Quando il bambino compí sette anni la madre si ammalò gravemente. In punto di morte gli disse:
– Figlio mio, mi resta poco da vivere. Non possediamo nessuna ricchezza se non tre fasci di
paglia in soffitta: sono i tuoi averi. Trascorsi sette giorni dalla mia morte dovrai portare questi tre
fasci a un venditore di miso e darglieli in cambio del miso. Devi sapere che una volta ero la
moglie di un Sovrano che aveva alle sue dipendenze molti servitori. Un giorno mentre gli uomini
stavano lavorando, vidi passare all’orizzonte un’imbarcazione. «Che nave grande!» esclamai, e
tutti si girarono per guardare. Il Sovrano mio marito si arrabbiò molto: «Va’ via! Sei una donna
capace solo di far distrarre chi lavora!» mi cacciò. Al momento di andar via mio suocero mi donò
questi tre fasci di paglia di riso.
Dopo aver raccontato ciò la donna morí.
Passati sette giorni il ragazzo seguí le ultime volontà della madre e presi i tre fasci di paglia
andò in un negozio dove vendevano il miso. Nessuno gli diede ascolto e il ragazzo rimase lí
seduto per un paio di giorni. Alla fine il padrone non potendone piú gli disse:
– Prenderò la paglia, – e in cambio gli diede tre shō di miso.
Il ragazzo andò allora da uno stagnaio e per un giorno intero non si mosse dalla bottega. Alla
fine l’artigiano gli chiese:
– Perché non mi dai questo miso?
– È la mia unica ricchezza, non posso dartelo senza avere niente in cambio, – rispose il
ragazzo.
– Allora vendimelo, – propose l’uomo.
– No, non posso neanche vendertelo. Te lo dò in cambio di una delle tue pentole.
– Se ti accontenti di una pentola, scegli pure quella che preferisci.
– Voglio quella mezza rotta e tutta sbeccata, – e si prese un pentolone vecchio e consumato al
posto del miso. Poi andò alla bottega di un fabbro ferraio e non si mosse da lí per due giorni. Alla
fine l’artigiano gli chiese:
– Ragazzo, non mi venderesti la tua pentola?
– No, non posso venderla. Posso però fare a cambio con una spada, – rispose il ragazzo.
– Quale preferisci? – gli chiese l’artigiano.
– Mi piacerebbe quella con l’impugnatura rotta, – rispose e, ottenuta una spada senza elsa, si
diresse al porto dove era ormeggiata una nave mercantile straniera.
Poiché era molto stanco si addormentò e mentre dormiva giunse un ladro. Vide la spada
poggiata vicino alla testa del ragazzo e tese la mano per rubarla, ma la spada si trasformò in un
serpente; ci riprovò, di nuovo spuntò il serpente e gli impedí di rubare la spada. Il capitano della
nave vide da lontano la scena:
– Ehi ragazzo, sali sulla mia nave e fammi vedere la tua spada, – gli disse a gran voce.
Il ragazzo obbedí e il capitano gli chiese:
– Vorresti vendermi la spada?
– Potrei anche vendervela, ma siete sicuro di poterla comprare?
– Certo, posseggo questa nave! Posso darti tutti i soldi che vuoi.
– Non voglio soldi. Voglio in cambio un paravento, – disse, e l’altro rispose:
– Se è questo che desideri non hai che l’imbarazzo della scelta. Prenditi quello che vuoi.
– Scelgo quel paravento rotto, – disse il ragazzo e con il suo paravento sgangherato si recò
nella residenza del sovrano Kanashi.
Su una collinetta del giardino spiegò il paravento e al riparo di esso si mise a fare un
sonnellino. Ad un tratto, l’usignolo che era dipinto sul paravento si mise a cantare e gli altri
uccelli si unirono a lui con trilli e cinguettii. La melodia giunse all’orecchio del sovrano che
mandò a chiamare il ragazzo:
– Mi venderesti il tuo paravento? – gli chiese.
– Non si tratta di un oggetto che posso vendere, – rispose. – Però posso dartelo in cambio di
due cose.
– Quali sono queste due cose? Avanti, parla! – ordinò il sovrano.
– Tutto il sale che c’è nel mare e tutta l’acqua che c’è sulla terra, – rispose il ragazzo.
Il re, pensando di aver incontrato un tipo un po’ matto, gli consegnò subito un certificato di
vendita del sale e dell’acqua. Poiché i due beni ora gli appartenevano, il ragazzo pretese dieci
monete da tutti coloro che attingevano acqua e cinque monete da chi raccoglieva il sale. Costretti
a sborsare moneta su moneta, i sudditi si rivolsero al sovrano pregandolo di far qualcosa per
ripristinare la libertà di attingere l’acqua e raccogliere il sale. Il re comprese allora di aver fatto
un errore clamoroso e mandò a chiamare il ragazzo.
– Ti darò tutto quello che vorrai purché tu mi restituisca l’acqua e il sale, – gli chiese, ma il
ragazzo non volle saperne. – Ti rendi conto che potrei darti battaglia e riprendermi tutto? – lo
minacciò il re, ed egli rispose:
– Non temo il combattimento, però avrei una domanda da fare a Vostra Altezza. Quando mia
madre viveva presso di voi, è stata cacciata di casa per aver distratto i servi che lavoravano. Chi
fu a mandarla via?
Soltanto allora il sovrano capí di chi fosse figlio il ragazzo.
– Prendi pure il mio posto, ma lascia che i sudditi attingano liberamente l’acqua e raccolgano
il sale, – gli disse e subito abdicò e lasciò il trono al ragazzo.

Kagoshima, Ōshima.
Il ragazzo veggente
Accadde tanto tempo fa a Naha, nell’arcipelago delle Ryūkyū. Due amici, Ushunobō e
Machaku, frequentavano insieme la scuola del tempio. Il primo, di ritorno da scuola, mangiava
riso bianco servito su pregiati tavolini di lacca; il secondo invece riempiva di verdura un piatto di
bambú intrecciato e mangiava solo quella. Un giorno Ushunobō disse all’amico:
– Machaku, non ti vorrai accontentare per sempre di questa misera vita. Perché non facciamo
in modo che anche tu possa mangiare pranzi gustosi?
– È vero che sono solo, senza genitori o fratelli, ma non devi preoccuparti per me, – rispose
Machaku.
Ushunobō escogitò però lo stesso un modo per far mangiare il riso a Machaku.
Fortunatamente nei depositi della sua famiglia c’era uno scrigno di monete d’oro. Lo rubò e lo
nascose sulla spiaggia. Il padre ben presto se ne accorse e gli chiese:
– Non sai niente dello scrigno di monete d’oro che hanno rubato?
Egli rispose:
– No, non ne so nulla. Però il mio amico Machaku riesce a fiutare le cose a qualunque
distanza e a ritrovarle. Padre, chiediamogli di cercare lo scrigno e diamogli come ricompensa
metà delle ricchezze in esso contenute.
– D’accordo, affidagli l’incarico, – disse il padre.
Ushunobō condusse allora Machaku sulla spiaggia, dissotterrò lo scrigno, diede all’amico la
sua parte e al padre la rimanente. E cosí anche Machaku poté mangiare riso bianco servito su
pregiati tavolini di lacca.
Proprio in quel periodo, al signore di Satsuma fu rubato un paiolo d’oro. Venuto a sapere che
nelle Ryūkyū viveva qualcuno capace di annusare a distanza i tesori smarriti, pensò di rivolgersi
a lui. Per presentargli la richiesta gli inviò sette navi cariche di riso. Machaku preoccupato andò a
parlarne con l’amico:
– Ushunobō, cosa devo fare? Sono giunti da Satsuma per avere il mio aiuto!
E l’altro gli disse:
– Va’ sulla costa di Satsuma e costruisci una capanna di circa tre ken quadrati. Trascorri lí tre
giorni e tre notti e vedrai che se il furto è stato commesso da un essere umano questi verrà da te.
Machaku fu condotto nella provincia di Satsuma. Costruí la capanna sulla spiaggia e vi si
stabilí. Una notte giunse barcollando un vecchio storpio, dai radi capelli bianchi che cadevano in
disordine. In una mano reggeva il paiolo d’oro e con l’altra si appoggiava al suolo.
– Ehi vecchio, corri un grosso rischio ad andare in giro con quella pentola, qualcuno potrebbe
vederti. Nell’angolo piú a nord della residenza del signore cresce rigogliosa un’erba che da
queste parti chiamano sanegoshu. Va’ subito a nascondere il paiolo tra la vegetazione e poi
scappa. Domani andrò a recuperarlo, – disse il ragazzo.
– Ti ringrazio molto. Vado subito a nasconderlo, ma ti prego, non dire a nessuno che sono
stato io, – gli chiese il vecchio.
– Stanne certo, – lo rassicurò Machaku.
La mattina seguente il ragazzo andò di buon’ora alla residenza del signore.
– Il paiolo si trova di sicuro all’interno di questa proprietà e non fuori, – disse e cominciò a
cercarlo tra l’erba sanegoshu. Lo trovò e lo consegnò al signore.
Questi si rallegrò molto.
– La tua abilità nel trovare gli oggetti smarriti con il fiuto è davvero straordinaria! Ti ho già
dato sette navi cariche di riso, ma te ne meriti come ricompensa altre sette.
Cosí Machaku ritornò a casa con sette navi piene di riso, divise tutto con Ushunobō e da
allora poterono mangiare riso bianco servito su pregiati tavolini di lacca.
Ma non finí lí. Tempo dopo, fu rubato il morso d’oro del cavallo del sovrano della Cina.
– Ho sentito che nelle Ryūkyū vive un tale capace di annusare a distanza i tesori smarriti e di
ritrovarli. Chiediamogli di lavorare per noi. Sembra che il signore di Satsuma gli abbia mandato
sette navi cariche di riso, gliene offriremo otto, – disse il re e mandò a chiamare Machaku.
Machaku, in grande agitazione, si recò a chiedere consiglio a Ushunobō:
– Mi hanno fatto un’altra richiesta. Cosa devo fare?
– Comportati come a Satsuma, – gli disse l’amico.
Machaku andò in Cina, costruí sulla spiaggia una capanna di circa tre ken quadrati e si mise
ad aspettare. Passarono tre giorni, e poi una settimana, ma nessuno si presentò. «Questa volta
non ho scampo!» pensò Machaku e fuggí sulle montagne. Era la notte dell’ultimo dell’anno e
una scimmia bianca, una rossa e una nera si stavano dando un gran da fare, invitando il capo
branco, per mangiare e far festa insieme. Mentre le osservava in silenzio, le tre scimmie
pestarono il riso, prepararono i mochi, quindi, lasciando a guardia del cibo una scimmia zoppa,
andarono a prendere il capo.
Machaku aveva fame e approfittò di un momento di distrazione della scimmia zoppa per
rubare i mochi e nascondersi in una grande botte che era lí vicino. A quel punto tornarono le tre
scimmie insieme con il capo e si accorsero che i mochi non c’erano piú. Come potevano essere
scomparsi tutti? Incominciarono allora a incolparsi a vicenda: la scimmia bianca disse che li
aveva presi la scimmia rossa; la scimmia rossa disse che li aveva presi la scimmia nera; la
scimmia nera disse che li aveva presi la scimmia zoppa. Quest’ultima si infuriò.
– Anche se non possiamo camminare bene, noi scimmie zoppe, fin dalle piú lontane
generazioni, non abbiamo mai rubato. Tu piuttosto, scimmia nera, sei di sicuro una ladra. Non sei
forse tu quella che ha rubato il morso d’oro del cavallo del re e l’ha appeso al pino sul versante
orientale?
Machaku a quel discorso si rallegrò molto, saltò fuori dal barile e lo fece rotolare verso il
branco. Le tre scimmie scapparono mentre quella zoppa cominciò a cadere e a rotolare di qua e
di là.
– Ripetimi quanto hai appena detto, – le chiese Machaku.
– Vuoi sapere cosa ho detto? Ho detto che la scimmia nera ha rubato il morso d’oro del
cavallo del re, – rispose la scimmia.
– Ho capito, – disse il ragazzo. – Allora tu sorveglia affinché nessuno lo porti via. Io sono
l’indovino che deve recuperarlo –. Poi andò sotto il pino del versante orientale e si mise a
dormire ai piedi dell’albero, nascosto fra le foglie.
Poco dopo giunsero cinque attendenti del re che stavano cercando Machaku.
– Saggio delle Ryūkyū dove sei? – gridavano, ispezionando la zona, fin quando uno di loro lo
trovò che dormiva.
– È qui! È qui!
A quel grido accorsero tutti.
– Ti sei comportato male. Perché sei scappato fra i monti? Se non eri in grado di trovare il
tesoro, potevi anche dirlo!
Machaku allora rispose:
– E invece l’ho trovato, proprio su quest’albero. Ma io non so arrampicarmi e se fossi venuto
a chiamarvi rischiavo che qualcuno lo rubasse. Allora mi sono messo a fare la guardia. Bene, ora
potete prenderlo.
Fece salire sull’albero i cinque attendenti, che recuperarono il morso d’oro e poi tutti insieme
ritornarono al palazzo. Il sovrano, al colmo della felicità, lo premiò con altre otto navi cariche di
riso e lo fece accompagnare alle Ryūkyū. Machaku divise anche questo dono con il suo amico
Ushunobō e tutti e due vissero felici e contenti.

Kagoshima, Ōshima.
La sorella dèmone
In un certo luogo viveva un giovane di cui non conosciamo il nome. Una volta, mentre stava
camminando per un villaggio vide dei bambini che avevano messo una zanzara in un fusto di
bambú e si divertivano a tormentarla.
– Perché fate un’azione tanto malvagia? Vendetemi la zanzara per una moneta, – disse il
ragazzo.
– Esiste davvero qualcuno disposto a pagare per una zanzara? – commentarono i bambini e
furono ben felici di vendergliela. Il ragazzo poi rivolto alla zanzara disse:
– Bada a non farti piú prendere da persone cosí cattive. Ti faccio volare via, ma in cambio
dovrai aiutarmi quando ne avrò bisogno, – e la liberò. Proseguí il suo cammino verso il villaggio
piú vicino.
No, ho sbagliato, il racconto non andava cosí. Questa è la storia di Bokka e di sua sorella
Asekka. Ricominciamo tutto daccapo.
Bokka e Asekka vivevano con i genitori e dormivano tutti e due nello stesso futon. Tuttavia,
mentre il fratello dormiva, la ragazza usciva, tornava all’alba tutta infreddolita e si rimetteva a
letto. A Bokka tutto ciò appariva molto strano e non faceva che chiedersi dove si recasse la
sorella ogni notte. Una sera fece finta di dormire e quando Asekka, convinta che il fratello fosse
profondamente addormentato, uscí di casa, la seguí incuriosito. Si allontanarono dal villaggio e
giunsero in un allevamento di bestiame. Qui la sorella si avvicinò a un bue e cominciò a
succhiarne il sangue. Bokka a questa scena rimase senza parole: colei che credeva sua sorella era
in realtà un dèmone, o forse un dèmone aveva mangiato la sorella e si era impossessato del suo
corpo. Tremante come un fuscello se ne tornò a casa.
Il giorno dopo aspettò che la sorella uscisse.
– Asekka è in realtà un dèmone, dobbiamo cacciarla via, prima che ci divori tutti! – disse ai
genitori, ma questi sdegnati risposero:
– Sarai tu, stupido che non sei altro, a voler mangiare tua sorella! Come fai a parlare cosí di
una ragazzina tanto per bene? Vattene via! – e lo cacciarono di casa. Bokka rassegnato se ne
andò.
È a questo punto che si inserisce la storia che ho raccontato all’inizio. Dopo aver salvato la
zanzara, Bokka si incamminò verso il villaggio piú vicino. Lungo la strada incontrò un’enorme
tigre. Il ragazzo stava per scappare, ma si accorse che la belva non si muoveva, anzi piangendo si
inchinava davanti a lui. Comprese che la tigre aveva bisogno del suo aiuto, le si avvicinò e vide
che aveva un chiodo, o forse una spina, in un piede. «Vorrà chiedermi se glielo tolgo» pensò e
tirò via il chiodo. La tigre allora lo seguí docilmente.
Arrivarono al villaggio piú vicino. Dovunque erano affissi dei cartelli sui quali era scritto:
«Colui che indovinerà quanti sacchi di cereali ci sono nei granai del signore, diventerà suo
genero». «Quanti ce ne saranno?» si domandava Bokka quando uno stormo di zanzare arrivò in
volo e bisbigliò al suo orecchio:
– Mille sacchi, ce ne sono mille!
– Grazie tante! – disse Bokka e si diresse al palazzo del ricco signore.
– Nei vostri depositi ci sono mille sacchi di cereali, – disse, e il signore, come aveva
promesso, fece di Bokka suo genero. Egli condusse una vita agiata e fece costruire per la tigre
una gabbia con una rete d’oro.
Passò cosí circa un anno e Bokka decise di tornare almeno una volta al suo paese per avere
notizie dei genitori. Caricò sul cavallo tanti regali e partí. Prima di uscire di casa raccomandò alla
moglie:
– Se vedrai la tigre molto agitata, apri la gabbia e lasciala andare.
Bokka approdò alla sua isola e salí su un promontorio, ma da lí non vide nessun essere
umano. Poi arrivò a casa sua:
– È permesso? – chiese.
– Bokka, dove te n’eri andato? Entra pure, – rispose qualcuno, e subito comparve Asekka.
Appena il fratello fu in casa la ragazza cominciò a piangere a dirotto: – Oh Bokka mio, dopo la
tua partenza c’è stata un’epidemia e nel nostro paese sono tutti morti, compresi mamma e papà.
Sono ormai rimasta sola. Vado subito a lavare il riso, tu nel frattempo rimani qui. Eccoti questo
tamburo. Mentre aspetti, prova a suonarlo, – disse e uscí.
Bokka prese a suonare il tamburo, quando spuntarono un topo bianco e uno nero.
– Bokka, Bokka! Siamo i tuoi genitori. Tua sorella è andata ad affilarsi i denti. Avevi ragione
tu, è un dèmone! Dopo aver divorato tutti gli abitanti del villaggio ha mangiato anche noi.
Adesso si sta preparando per ucciderti, devi fuggire, presto! Suoneremo noi il tamburo al tuo
posto.
I due topi con le codine cominciarono a percuotere lo strumento. Bokka montò sul cavallo e
fuggí via. Quando Asekka rientrò in casa, invece del fratello trovò i due topi alle prese con il
tamburo.
– Maledetti! – urlò cacciandoli. – L’avete fatto scappare.
Guardò fuori e vide Bokka che correva verso la collina. Si mise a inseguirlo e dopo un po’ era
a un passo dal raggiungerlo. Vedendosi alle strette, Bokka tagliò una zampa del cavallo, gliela
gettò e continuò la fuga. Il dèmone si fermò a mangiarla, mentre il fratello correva via. Presto
però la sorella gli fu di nuovo alle costole e allora il ragazzo recise un’altra zampa del cavallo,
ma a questo punto l’animale non fu piú in grado di procedere e cadde. Asekka si fermò a
divorarlo e Bokka ne approfittò per continuare la sua fuga. Si arrampicò su di un pino che
cresceva al bordo della strada, ma la sorella, che aveva ripreso a inseguirlo, lo scovò e cominciò
a salire anche lei sull’albero. Bokka era disperato.
Nel frattempo, a casa del giovane, la tigre sembrava impazzita nella sua gabbia. La moglie
allora la fece uscire e la belva corse all’isola dei genitori di Bokka. Proprio quando Asekka stava
per raggiungere il fratello sull’albero, l’animale arrivò e cominciò con lei una lotta all’ultimo
sangue.
– Forza tigre! Coraggio! – urlava Bokka.
Alla fine la tigre riuscí ad azzannare Asekka alla gola e a ucciderla.
Il giovane tornò a casa con la tigre e la tenne per sempre con sé.

Kagoshima, Ōshima.
La moglie pesce
C’era una volta un uomo povero che un giorno andò sulla spiaggia a raccogliere i pezzi di
legno trasportati dalla marea. Su di un tronco trovò delle uova di tartaruga che stavano
schiudendosi. Le uova di tartaruga, dovete sapere, si schiudono nell’ordine in cui vengono
deposte, e quando i piccoli vanno incontro ai genitori, lo fanno secondo l’ordine in cui sono nati.
I piccoli, dicevamo, erano tutti venuti fuori e la madre tartaruga era tornata verso la riva per
prenderli, ma vedendo che accanto ai figli c’era un uomo, ebbe paura e mise soltanto la testa
fuori dall’acqua. L’uomo, intenerito, aiutò i piccoli a uscire dalla sabbia.
– Su, andate in acqua uno dietro l’altro, – disse, accompagnandoli verso la madre.
Raccolta la legna, l’uomo si apprestava a tornare a casa quando fu raggiunto dalla tartaruga:
– Ti ringrazio molto per quello che hai fatto. Voglio ricambiare la tua gentilezza. Ti prego,
sali sul mio dorso, ti porterò fino al Regno degli Abissi, – gli disse.
L’uomo dapprima rifiutò l’invito, ma la tartaruga insistette e gli assicurò che con le sue ali
avrebbero raggiunto le profondità del mare in un batter d’occhio. L’uomo salí sulla testuggine,
questa aprí le ali e arrivarono al Regno degli Abissi. Strada facendo la tartaruga gli aveva però
suggerito:
– Quando il Signore del Palazzo ti chiederà «Che cosa desideri?», tu devi rispondere «Vorrei
la tua unica figlia».
L’uomo fu condotto al cospetto del Signore e invitato a un banchetto prelibato. Quindi il
Signore gli chiese:
– Che cosa desideri?
– La tua unica figlia.
Il sovrano gliela concesse. Alla partenza, regalò poi alla figlia una scatolina piccola piccola.
L’uomo portò la moglie all’isola dove abitava. Per mangiare non ebbero nessun problema,
perché la ragazza sapeva preparare di tutto. In breve tempo divennero ricchi ed ebbero tre figli.
Ogni giorno la moglie era solita fare il bagno al centro della stanza principale nascondendosi
dietro gli shōji. Si era fatta promettere dal marito che non l’avrebbe mai guardata mentre faceva
il bagno. L’uomo aveva sempre mantenuto la promessa, ma un giorno decise di spiare:
bagnandosi la punta di un dito con la saliva, fece un buco negli shōji e si mise a guardare. La
donna aveva riempito fino all’orlo una tinozza e dopo che si era immersa nell’acqua il suo corpo
si era trasformato in quello di un pesce; le mani si erano trasformate in pinne e sguazzava
nell’acqua. «Oh povero me», pensò il marito. Intanto la moglie si era rivestita e aveva
cominciato a preparare una cena piú ricca e abbondante del solito.
Al marito ciò parve strano e le chiese:
– Come mai ti impegni tanto nel cucinare?
– Te ne parlerò, – gli rispose lei.
Quando tutti ebbero finito di mangiare, la donna disse:
– Ti avevo raccomandato di non spiarmi e invece l’hai fatto. Per questo, d’ora in poi non
potremo piú vivere insieme. Porterò con me il piú piccolo dei nostri figli e mi occuperò di lui.
Agli altri due dovrai badare tu, ma io farò qualcosa per loro.
Gli diede la scatolina ricevuta dal padre e gli raccomandò:
– Non aprirla mai, per nessun motivo. Se proprio dovrai aprirla, fallo tenendo i piedi
nell’acqua in riva al mare.
Detto ciò se ne andò via portando con sé il figlio piú piccolo.
La moglie era molto bella e, dal momento in cui se ne era andata, il marito aveva perso la
testa per la tristezza e aveva dimenticato tutto ciò che gli era stato raccomandato. Cosí un giorno
aprí la scatolina piccola piccola. Da essa uscí di colpo una nuvola di fumo bianco e in un baleno
la casa ritornò povera come prima.
Non avendo piú niente da mangiare, i due figli andavano ogni giorno in riva al mare in cerca
di qualche pesce. Una volta videro galleggiare sulla superficie dell’acqua una sostanza morbida e
luminosa. Incuriositi tentarono di afferrarla e sulle loro mani ne rimase attaccata un po’. I due
ragazzi tornarono a casa e raccontarono tutto al padre. L’uomo tentò a sua volta di raccogliere la
sostanza misteriosa, ma questa in un baleno sprofondò nell’acqua e scomparve.
Si trattava di shirufu, un prodotto prezioso che non ha uguali al mondo e che il Signore del
Regno degli Abissi aveva mandato in regalo ai suoi nipoti. Tuttavia, all’arrivo del padre segnato
da un cattivo destino, esso si era inabissato sul fondo del mare. Ai due ragazzi rimase solo quella
piccola parte attaccata alle loro dita. L’uomo in seguito si risposò; i due figli scomparvero e di
loro non si ebbe piú notizia.

Kagoshima, Ōshima.
Il fegato della scimmia
Tanto tempo fa, la figlia unica del Sovrano degli Abissi si ammalò. Il divinatore interpellato
per esaminare il caso diede il seguente responso:
– La malattia può essere guarita soltanto dando alla ragazza il fegato crudo di una scimmia,
non ci sono altre soluzioni.
Il sovrano allora mandò un cane nelle province lontane a cercare una scimmia. Il cane
raggiunse un’isola remota e infine ne trovò una.
– Signora Scimmia, – le disse, – non avete mai pensato di visitare il Regno degli Abissi?
– Sí, in effetti una volta ci vorrei andare.
– Allora, vi accompagno io. Aggrappatevi a me e in un batter d’occhio arriveremo.
La scimmia felice si aggrappò al cane. Quando furono vicino al mare il cane posò la zampa su
una pietra piatta della riva e immediatamente i due arrivarono nel Regno degli Abissi.
Per qualche tempo la scimmia fu trattata con ogni riguardo, finché, un bel giorno, il polpo e il
pesce palla le confidarono tutto:
– Sei proprio in una brutta situazione. In realtà il Sovrano vuole il tuo fegato per darlo alla sua
unica figlia colpita da una malattia. Certo non vivrai a lungo.
Preoccupatissima, la scimmia si mise a riflettere su come scappare. Disse quindi al sovrano:
– Sono davvero imperdonabile, ma ho dimenticato il fegato a casa.
– Allora, va’ a prenderlo e torna subito qui, – rispose il Signore degli Abissi e la fece
accompagnare dal cane.
Giunti sull’isola, la scimmia scappò via e il cane non fu piú capace di trovarla.
In seguito si scoprí che erano stati il polpo e il pesce palla a spifferare tutto. Allora, per
punizione, al primo furono tolte tutte le ossa, al secondo furono rotte le spine. Con il tempo
queste spuntarono all’esterno e il pesce palla prese le sembianze che ha tutt’ora, con il corpo che
sembra coperto di aghi.

Kagoshima, Ōshima.
La fanciulla scesa dal cielo
C’era una volta un giovane chiamato Mikeran. Per vivere andava ogni giorno a coltivare i
campi o a tagliare la legna in montagna. Una mattina andò sui monti insieme agli uomini del suo
villaggio. Dopo il lavoro, i suoi compaesani erano soliti raggiungere un torrente dove bevevano e
si rinfrescavano. Quel giorno anche Mikeran aveva finito di lavorare presto e insieme a loro
scese a valle per fare il bagno nel torrente. Decise però di non fermarsi dove l’acqua era piú
profonda; iniziò a risalirne il corso per un bel tratto, arrivò dove non si era spinto mai nessuno e
trovò un grande stagno.
Si era tolto i vestiti intrisi di sudore e si preparava a fare il bagno quando, guardando
distrattamente il ramo di un pino in riva allo stagno, si accorse che c’era appeso un kimono
stupendo. «Ma è una cosa preziosa!» pensò e subito afferrò il kimono. In quel momento emerse
dall’acqua, proprio davanti a Mikeran, una fanciulla nuda con le mani giunte.
– Quell’abito è mio e mi serve per volare. È fatto di piume che per gli esseri umani non sono
di nessuna utilità. Vi prego, restituitemelo, – supplicò la ragazza.
Mikeran rimase in silenzio a guardarla senza darle una risposta. La ragazza nuda lo implorò di
nuovo:
– Mikeran, forse non hai compreso la mia richiesta. Quel kimono è mio. Senza di esso non
posso piú ritornare in cielo. Voi esseri umani non potete farne alcun uso di questo kimono di
piume. Ti prego, ridammelo.
Mikeran le domandò:
– Perché sei arrivata qui?
L’uomo non sembrava per nulla intenzionato a restituirle il kimono di piume. La fanciulla
allora pensò che, se gli avesse detto il vero motivo per cui era lí, sarebbe di sicuro riuscita a
riavere la sua veste.
– Sono una fanciulla del cielo e ogni tanto vengo qui a fare il bagno. Non sono una donna di
questa terra. E adesso che sai tutto, ti prego, ridammi il mio vestito, – gli disse in lacrime.
L’uomo però rispose:
– Torniamo all’isola dove abito e viviamo insieme. Cosí non avrai piú bisogno di scendere dal
cielo quando avrai voglia di fare il bagno in questo lago; tutte le volte che vorrai ti ci condurrò
io.
Detto ciò, non volle piú sentire ragioni.
– Mikeran, ti prego, non essere cosí spietato. Io sono una fanciulla del cielo, non posso vivere
sulla terra. Ti supplico, ridammi la mia veste di piume!
– Sono sicuro che se te la restituissi, te ne andresti subito in cielo. Invece torneremo insieme a
casa e diventeremo buoni amici.
Mikeran non le ridiede il kimono di piume.
Grande era la tristezza della fanciulla. Senza le ali non poteva piú risalire in cielo e, non
avendo altra scelta, seguí Mikeran fino al suo villaggio. Vissero insieme per sette anni durante i
quali ebbero tre bambini. La ragazza però continuava a desiderare di ritornare in cielo e non
smetteva di chiedersi dove il marito avesse nascosto la veste di piume. Un giorno Mikeran andò
a pescare. La fanciulla del cielo, prima di uscire a lavorare, mise come sempre il piccolo appena
nato sulle spalle del figlio di sette anni e affidò a quello di cinque anni il compito di badare al
fratellino, dandogli dei colpetti sulla schiena.
Andò al fiume fuori del villaggio, fece il bagno e poi tornò a casa. Quando giunse all’ingresso
sentí la ninna nanna che i bambini cantavano, nel retro della casa, per far addormentare il
piccolo:
Fa’ il bravo, fa’ il bravo, non piangere.
Quando papà tornerà un regalo ti porterà.
Apri il magazzino
fra il sesto e il quarto pilastro;
se i sacchi di castagne e di riso solleverai,
la veste per volare e per danzare troverai.
La mamma ascoltò la ninna nanna e capí finalmente che il kimono che aveva cercato per sette
anni si trovava al piano superiore del magazzino, sotto i sacchi di castagne e di riso.
E cosí, prima che il marito tornasse, prese la scala, aprí la porta del magazzino e vi entrò.
Sollevò i sacchi di castagne e di riso e trovò il kimono di piume. Per non farsi scoprire da
Mikeran la fanciulla del cielo indossò subito la veste, poi si mise sulle spalle il figlio piú grande,
strinse il secondo al petto, all’interno della scollatura del kimono, e con il braccio destro sollevò
il piú piccolo. Distese una prima volta le braccia e volò sul pino del giardino; le distese una
seconda volta e volò sulla sommità delle nuvole; la terza volta giunse in cielo, ma, ahimè, mentre
spiccava il volo dalle nuvole, sbagliò movimento e il piccolo che teneva con il braccio destro le
scivolò e cadde.
Quando dopo il lavoro Mikeran tornò a casa, la trovò vuota. Vide poi che la porta del
ripostiglio, tra il quarto e il sesto pilastro, era aperta; capí che la veste di piume non c’era piú e
rimase confuso e senza parole.
Si era fatta l’ora di cena e si avvicinò al focolare. Prese il soffietto e cercò di accendere il
fuoco, ma stranamente l’aria non ne usciva. Guardò stupito all’interno e vide che c’era infilato
un pezzo di carta ripiegato. Lo tirò fuori e lesse: «Raccogli mille paia di geta e mille paia di
sandali di paglia. Sotterrali e piantaci sopra un bambú. In un paio di anni crescerà fino a
raggiungere una grande altezza. Arrampicati e potrai arrivare in cielo senza difficoltà».
Mikeran si mise subito a raccogliere i geta e i sandali di paglia, ma riuscí a trovarne solo
novecentonovantanove paia. Piantò ugualmente il bambú che cominciò subito a crescere.
Trascorsero tre anni. Mikeran guardò verso l’alto e con gran felicità notò che il bambú sembrava
aver raggiunto il cielo. Cominciò ad arrampicarsi: piú saliva e piú credeva di essere sul punto di
arrivare, ma piú si accorgeva che restava ancora un pezzo di strada da fare. Infine giunse sulla
sommità, ma il cielo era ancora lontano e cosí rimase fermo sulla cima ondeggiante.
La fanciulla celeste era tornata nel suo mondo, ma quando era al suo telaio a tessere, di tanto
in tanto ricordava la sua vita sulla terra. Aspettava infatti trepidante che il bambú crescesse fino
al cielo.
Un giorno, mentre stava tessendo come al solito, la ragazza guardò dalla finestra verso il
basso e vide che il bambú era ormai quasi arrivato fino a lei. Un po’ al di sotto, la cima
ondeggiava spinta dal vento. Osservando bene, notò che vi era aggrappato un uomo, piccolo
come la testa di uno spillo. Raggiante di gioia, sfilò la spoletta del telaio e la fece scendere pian
piano fino all’altezza di Mikeran. Il marito l’afferrò e finalmente fu tirato su in cielo.
La divinità madre fu molto gentile con lui, ma la divinità padre gli affidava in continuazione
compiti impossibili. Era il periodo dell’anno in cui in cielo si preparano i campi per la semina e il
suocero gli ordinò di tagliare in un sol giorno gli alberi di una montagna di diecimila ettari.
Mikeran, pensando che era impossibile portare a termine una simile incombenza, si disperava,
ma lo raggiunse la moglie:
– Ti basta abbattere tre grandi alberi, appoggiare la testa sui ceppi che hai tagliato e
addormentarti per un po’, – gli svelò.
Il giorno seguente Mikeran andò in montagna come gli era stato ordinato, seguí le indicazioni
della moglie e in un sol giorno tutti gli alberi furono tagliati. Riferí del suo lavoro alla divinità
padre, ma la cosa non finí lí. L’uomo infatti gli ordinò:
– Ora devi vangare tutta la montagna di diecimila ettari.
Mikeran cadde di nuovo nella piú profonda disperazione. Giunse però la fanciulla celeste che
gli svelò:
– È facile. Rivolta la terra con tre colpi di vanga, poi mettiti a dormire per un po’ e tutto sarà
fatto.
Seguí le istruzioni della moglie e come per magia portò a termine il suo compito.
Mikeran ritornò a casa felice anche quel giorno, ma quando disse al suocero che aveva fatto
quanto gli aveva chiesto, la divinità gli assegnò un altro compito:
– Devi piantare i meloni d’inverno nei diecimila ettari di campo che hai vangato ieri. Non
dovrai metterci piú di un giorno.
Anche questa volta non si trattava di un compito che si poteva svolgere in un giorno. Chiese
allora consiglio alla fanciulla del cielo che gli svelò:
– Semina i meloni in tre punti del campo, addormentati e sarà come se l’avessi fatto su tutta la
superficie.
E cosí, grazie all’aiuto della moglie se la cavò anche per la semina.
Mikeran, pensando di aver terminato i suoi compiti, tornò soddisfatto a casa. La divinità padre
questa volta gli ordinò di cogliere il giorno seguente tutti i frutti dei semi appena gettati. «Com’è
possibile che in una notte sboccino i fiori e maturino i frutti?» si chiese incredulo Mikeran;
preoccupato si rivolse come sempre alla fanciulla celeste.
– Domani i meloni saranno già maturati. Ti basterà raccoglierne tre e addormentarti usandoli
come cuscino, – gli disse. Pur sembrandogli molto strano, la mattina successiva Mikeran si recò
di buon’ora nei campi. Come gli aveva detto la moglie, i meloni erano già maturi; seguí le
indicazioni e completò il raccolto. Felice fece ritorno a casa.
Poiché anche l’ultimo ordine era stato eseguito alla perfezione, la divinità padre fu molto
contenta. Fu deciso di organizzare la festa del raccolto e Mikeran ebbe il compito di preparare i
meloni. Il suocero, che fino a quel momento non gli aveva dimostrato che grande ostilità, gli
insegnò gentilmente il modo di tagliarli. Gli disse di aprirne tre con un taglio verticale, poi di
stendersi supino e dormire. La fanciulla del cielo, che era seduta dinanzi a lui, gli fece un segno
con gli occhi per metterlo in guardia:
– Non seguire le sue indicazioni, fa’ un taglio in senso orizzontale, – gli suggerí, ma Mikeran
non reputò opportuno disubbidire alla divinità che si era mostrata cosí gentile nel dargli delle
spiegazioni e tagliò i tre meloni nel senso della lunghezza. In quell’istante tutti i meloni, che
erano accatastati uno sull’altro fino a formare una montagna, si spaccarono e ne defluí un fiume
d’acqua che in pochi attimi inondò tutto. Mikeran fu trascinato via dalla corrente.
Il fiume che era sgorgato dai meloni formò, si dice, la Via Lattea che tuttora è visibile spesso
nelle notti d’autunno. Mikeran divenne la stella del Mandriano (Altair) e la fanciulla la stella
della Tessitrice (Vega). Tra di loro si stende la via Lattea che li separa e i due non fanno che
piangere. I due figli piú grandi divennero delle stelle poste vicino alla Tessitrice. Tutto ciò
accadde il settimo giorno del settimo mese dell’anno e perciò anche oggi il Mandriano e la
Tessitrice possono incontrarsi una sola volta all’anno, in quella ricorrenza.
Il figlio che era sfuggito dalle braccia della donna mentre volava in cielo era caduto sano e
salvo sulla terra. La madre gli mandava ogni anno tre koku di riso che lasciava nelle vicinanze
del torrente sulla montagna e il ragazzo aveva di che vivere per un anno intero. Ma un giorno
arrivò una donna, lavò i panni sporchi nel fiume e i tre koku di riso divennero tre granelli. La
gente racconta che anche il ragazzo all’improvviso scomparve e nessuno lo vide piú.

Kagoshima, Ōshima.
La moglie serpente
È successo tanto tempo fa. C’era una volta un uomo che viveva tutto solo ed era molto
povero. Un giorno che doveva andare per qualche motivo, supponiamo dal villaggio di Urabara a
quello di Kawamine, arrivò sulla cima di un colle e lí vide una donna bellissima. La donna gli
chiese:
– Dove state andando?
– Io vado al villaggio di Kawamine, ma tu dove vai?
– Stavo andando a casa vostra, – rispose la donna. – È un vero peccato che una persona
perbene come voi viva tutta sola. Ho pensato di venire a tenervi compagnia.
– No, no, non è il caso. Una donna cosí bella non è adatta a un poveraccio come me. È meglio
che lasci perdere.
– Non parlate cosí, lasciate che diventi vostra moglie, – replicò la donna e tanto insistette che
l’uomo non fu piú in grado di rifiutare. I due presero a vivere assieme come marito e moglie.
A un certo punto la donna rimase incinta. Poco prima del parto si rivolse al marito:
– Mentre metterò al mondo il bambino, non devi guardarmi, qualunque cosa succeda, – gli
raccomandò.
Dal canto suo, il marito non era tranquillo. Talvolta mentre giaceva accanto alla donna gli era
parso di sentire uno strano odore, che non si era dileguato quando aveva provato ad annusare una
seconda volta.
Ora pensò che forse la moglie gli nascondeva qualcosa e cosí un giorno le disse:
– Devo andare in un posto lontano, non aspettarmi per la notte.
Uscí, ma dopo poco tornò sui propri passi e provò a spiare all’interno della casa. La moglie,
forse perché era convinta che il marito non sarebbe tornato, non sembrava avere alcun sospetto:
il suo corpo si era trasformato in quello di un enorme serpente con le spire allungate su tre tatami
che avvolgevano un bambino bellissimo.
Quando si rese conto di essere stata scoperta, la donna non poté piú nascondersi.
– Sono il serpente dello stagno che si trova a Kawamine, – confessò allora. – Mi sembravi una
brava persona e perciò, pensando di darti un erede, ho assunto sembianze di donna e sono
diventata tua moglie. Ora che conosci la mia storia, non posso piú restare con te, ma non è
ragionevole che un uomo da solo allevi un bambino e allora ti lascerò uno dei miei occhi. Con
questo potrai nutrirlo tutti i giorni.
Cosí dicendo, senza esitare, si cavò un occhio, simile a una gemma, lo porse all’uomo e
quindi si allontanò a malincuore.
Da allora, seguendo le parole della moglie, l’uomo poté allattare il piccolo senza problemi,
offrendogli la gemma preziosa. Un bel giorno, tuttavia, si recò al porto per fare acquisti e, sulla
via del ritorno, passò accanto allo stagno di Kawamine. Sul filo dell’acqua si erano posate
numerose anatre selvatiche e l’uomo, pensando di ucciderne una, senza riflettere, si fece dare la
gemma che il figlio portava con sé e la scagliò contro i volatili. La gemma non colpí nessuna
anatra, ma si inabissò nel fondo dello stagno.
L’uomo si disperò: «Cosa ho mai fatto? Ho buttato via la gemma, come farò a nutrire mio
figlio d’ora in avanti?»
All’improvviso, nel mezzo dello stagno apparve un grande serpente:
– Quella gemma te l’avevo data togliendomi un occhio ed ora quello che hai fatto è molto
grave. Ma siccome la vita di mio figlio è la cosa piú importante, ora ti darò l’altro occhio.
Abbine cura e quando il bambino sarà divenuto grande, appendi la gemma nel tokonoma della
tua casa.
Il serpente si cavò l’altro occhio e glielo porse.
Quando il bambino fu cresciuto, l’uomo con ogni cura mise la gemma nel tokonoma. Poco
dopo, chissà come mai, piano pianino il denaro della casa cominciò a crescere e ben presto
l’uomo divenne il piú ricco del paese. Gli abitanti del villaggio erano pieni di invidia.
– Quel tale sta accumulando denaro in modo strano. Ci deve essere qualcosa di sospetto, – si
dissero e, un giorno, tutti insieme fecero irruzione nella casa.
Videro la gemma nel tokonoma e dissero:
– Sarà certo questa la causa.
Gliela strapparono via con la forza e se ne andarono. Privato di un gioiello tanto prezioso
l’uomo, disperato, si recò sulle rive dello stagno e raccontò tutto al serpente. Questi allora si
adirò.
– Ho capito, ho capito. Se ne ricorderanno, – disse minaccioso e subito le acque dello stagno
strariparono e una grande alluvione sommerse il villaggio.

Kagoshima, Kikai.
L’uomo senza ombra
Nell’arcipelago di Yaeyama, la notte del quindici agosto si offre alla divinità il fukagi, un tipo
di mochi di fagioli rossi. Da che cosa ha avuto origine questa usanza?
Tanto tempo fa a Yaeyama vivevano due giovani amici. Uno abitava nella zona piú a est e
l’altro all’estremità opposta, ma per quanto le loro case fossero lontane, si erano promessi di
rimanere per sempre amici.
Tutti i mesi andavano insieme a guardare la luna piena in un posto dov’era ben visibile.
Tuttavia mentre l’ombra di uno dei due amici si stagliava nettamente, quella dell’altro era molto
pallida e in particolare l’ombra della parte inferiore del corpo non si vedeva per nulla. Una sera
di luna piena, come sempre l’ombra dell’uno si disegnò con chiarezza al punto che erano
evidenti i movimenti delle mani, mentre quella dell’altro era appena percettibile. Stupito l’uomo
non sapeva piú cosa pensare: «È davvero strano! Da cosa dipenderà?» Provò a girarsi a destra e a
sinistra, a muoversi in avanti e indietro, ma non cambiava niente. I due, preoccupati, arrivarono
alla conclusione:
– Dobbiamo farci consigliare da qualche anziano.
Seppero che in un villaggio vicino viveva una vecchia indovina e, appena poterono, una sera
si recarono a consultarla.
– Dovremmo chiedervi un favore.
– Come mai due giovani come voi vengono da queste parti? Di dove siete? – chiese la donna.
– Del villaggio vicino. Abbiamo bisogno del vostro aiuto.
– Entrate pure e sedetevi.
La donna li fece accomodare e li fissò per un po’ di tempo. Poi volle sapere in tutti i dettagli il
perché si erano rivolti a lei.
– Nelle notti di luna piena, la mia ombra si vede, ma la sua è sbiadita e la parte inferiore del
corpo non appare per nulla, – cominciò l’uno e l’altro continuò:
– Ci siamo molto meravigliati e non capiamo come sia successo.
– Abbiamo sentito che voi sapete tutto e siamo venuti fin qui. Potreste aiutarci?
La vecchia li ascoltò, li fissò ancora e poi disse:
– Ho capito: vuol dire che hai solo tre mesi di vita, o forse neanche quelli.
I due amici chiesero imploranti:
– Non si può fare niente?
– Ci sarebbe un rimedio, ma non so se sarai in grado di accettarlo. Se davvero ti è cara la vita
devi fare ciò che ti dico. D’accordo? – si assicurò la vecchia.
– Farò qualunque cosa mi direte. Per favore, aiutatemi!
– Va bene, ti dirò di che si tratta, – disse l’indovina. – Devi tornare a casa e distruggere quello
che hai di piú caro. Se è un animale devi ucciderlo.
I due si meravigliarono:
– Volete dire che bisogna uccidere un qualunque animale, anche quello a cui piú tengo e che
allevo nella mia stalla? Oppure, se scelgo un oggetto, devo distruggere quello che piú mi piace
fra quanti ne ho in casa?
– Basta che sia tuo. Può essere un cavallo, una mucca, un maiale, una capra o un cane,
l’importante è che uccida quello a cui sei piú affezionato, altrimenti non potrai riavere la tua vita,
– raccomandò la vecchia.
– Va bene, farò quanto mi avete detto.
Sulla strada del ritorno i due amici si consultarono:
– Quale animale bisognerà uccidere? – si domandavano.
L’uomo dall’ombra pallida era molto povero. Aveva moglie e figli e in famiglia erano in
quattro o cinque; aveva inoltre un cavallo, se ne occupava ogni giorno con molta cura e con il
suo aiuto lavorava i campi e dava da mangiare alla famiglia. L’animale era davvero importante e
senza di lui sarebbe andato tutto in rovina.
– Il cavallo è la cosa alla quale tengo di piú, ma se lo uccido non potrò dar da mangiare alla
mia famiglia. Non so proprio cosa fare, – disse l’uomo. E l’altro:
– Finché sarai vivo potrai cavartela; se dai piú importanza al cavallo, in meno di tre mesi
morirai, e allora sí che la tua famiglia si troverà nei guai! Tua moglie e i tuoi figli da soli non
potranno farcela. Non è meglio uccidere il cavallo?
Cosí i due amici presero questa decisione.
A quel tempo si usavano arco e frecce. Andarono in montagna e tagliarono un albero di
catalpa, bruciarono il legno sul fuoco cospargendolo con l’olio per renderlo molto robusto cosí
che le frecce avrebbero potuto trapassare qualunque cosa, anche i sassi. Si dissero quindi che
quella sera stessa il cavallo sarebbe stato ucciso.
L’uomo tornò a casa per cena. La moglie durante la sua assenza era rimasta chiusa in casa
fingendo di cucire, ma in realtà era venuto da lei un amante. A quel tempo non c’erano le
lampade e si bruciavano gli aghi di pino. I kimono venivano riposti dentro una cassa chiamata
yafugai. All’arrivo del marito, la donna nascose l’amante nella cassa, vi si sedette sopra e
continuò a cucire.
Deciso ormai a uccidere il cavallo, il marito prese arco e frecce e si diresse alla stalla. Tese
l’arco ed era pronto a scoccare la freccia, ma non riuscí a lanciarla. «Se lo ammazzo potrò vivere,
è vero, però devo proprio farlo?» pensava, e tenendo fra le mani arco e frecce tornò indietro.
Si fermò davanti a casa e si chiese se non fosse la moglie l’essere a cui piú teneva.
L’indecisione lo assalí: doveva uccidere il cavallo? Doveva salvarlo e sacrificare qualcun altro?
Assorto nei dubbi, senza rendersene conto diresse l’arco verso la moglie e all’improvviso la
freccia gli sfuggí di mano. Volò verso la donna che istintivamente si ritrasse, le sfiorò la gola e
poi andò a conficcarsi proprio in mezzo alla cassa dei kimono, che si spaccò in due.
L’uomo perplesso si disse che non aveva intenzione di tirare la freccia, ma pure questa gli era
sfuggita di mano e forse aveva ucciso la moglie. La donna, probabilmente ferita, giaceva a terra
con gli occhi chiusi; dopo un po’ si rialzò, ma non tentò di scappare. Con stupore il marito vide
che dalla cassa scorreva un rivolo di sangue.
Si ricordò allora che la vecchia indovina gli aveva detto di bere un paio di sorsi del sangue
dell’animale preferito, dopo averlo ucciso. Senza rendersene conto, si precipitò a bere un sorso di
quel sangue. Tentò poi di aprire la cassa, ma il coperchio cadde verso di lui e si spaccò in due.
Vide allora che dentro c’era un cadavere. Non poteva trattarsi della moglie, seduta poco lontano.
Spaventato corse a chiamare l’amico, lasciando arco e frecce. Quello arrivò di corsa, si accorse
che il morto era un uomo e capí subito che era l’amante della donna.
È per questo che, in ricordo del sangue versato, il quindici viene offerto alle divinità il mochi
rosso. Qui a Yaeyama lo si mangia ancora oggi.
L’uomo non se la prese con la moglie e perdonò il suo errore; vissero in armonia con i loro
due o tre figli e con il passare del tempo la loro situazione migliorò.
Si dice da allora che il mochi di fagioli rossi sia di buon auspicio perché raccoglie in sé tutte le
impurità e per questo il quindici di agosto bisogna assolutamente prepararlo.
Okinawa, Yaeyama.
Il figlio del sole
Dicono che fosse la concubina di Toyomi. Una volta, mentre Toyomi non c’era, si
addormentò in giardino sotto i raggi del sole. Quando Toyomi, di ritorno, la vide pensò: «È
strano. Ora che i raggi del sole l’hanno colpita, di sicuro le sarà concesso di mettere al mondo un
bambino. È un evento straordinario». E lui, che prima frequentava la casa tutti i giorni, decise:
«Meglio che mi faccia da parte. È un evento straordinario». Cosí non si fece quasi piú vedere. La
ragazza si angustiava. Non sapeva che le era stato concesso un figlio, si era addormentata perché
si sentiva sola e non si era neppure accorta di essere incinta.
– Non capisco. Non ho avuto rapporti con nessuno oltre che con Toyomi, – diceva avvilita.
– Non ti preoccupare, – le disse l’uomo. – Di sicuro quando il bambino nascerà, porterà un
segno che dimostrerà di chi è figlio. Allora ci penserai.
Come previsto, quando il bambino nacque, aveva un segno a forma di sole nel petto e uno a
forma di luna sulla schiena.
– Te l’avevo detto che ci sarebbe stato un segno, – le disse Toyomi e si prese cura della
ragazza. Quando il piccolo compí sette o otto anni, il re venne a sapere che nell’isola di Tarama
era nato uno strano bambino. Meravigliato lo mandò a chiamare:
– Come è nato? Non si era mai sentito che in quell’isola cosí piccola e desolata succedesse
una cosa tanto strana!
Partí che era bambino e non si sa per quanto tempo restò a Okinawa. Un giorno
all’improvviso morí. Addolorate, le persone si riunirono attorno a lui per celebrare il rito
funebre, ma a un bel momento il ragazzo fece uno starnuto e aprí gli occhi.
– Non sono affatto morto, – disse. – Sono semplicemente stato chiamato da mio padre, il Sole,
per ricevere alcune istruzioni.
Infatti, poiché l’isola di Tarama era ancora quasi incolta, il padre Sole gli aveva consegnato
del tabacco da distribuire un po’ per uno a tutti. Inoltre gli aveva detto:
– Se farai cosí e cosí sarà possibile organizzare per bene quell’isola deserta.
Fu cosí che la nostra divinità creò i villaggi e fece aumentare la popolazione.
Dicono poi che il figlio del sole morí a centoventi anni. Le sue ultime volontà furono:
– Sono figlio di un augusto personaggio e perciò non dovete seppellirmi come tutti gli altri. Il
mio nome sarà Meijin Tarō e i discendenti di questa casa, e poi anche i discendenti di tutti i rami
di questa famiglia, non saranno mai dominati o sottomessi ad altri, ma avranno sempre qualcuno
ai loro ordini. Ciò è per via della mia assistenza divina e pertanto veneratemi come vostra
divinità tutelare.

Okinawa, Tarama.
Gli astri fratelli (L’origine della stella polare)
Perché la stella polare è diventata un punto di riferimento in tutto il mondo e i naviganti di
notte la guardano per seguire la rotta? Vi dirò come sono andati i fatti. Mio nonno tanto tempo fa
mi raccontò questa storia.
C’erano una volta due fratelli. Il padre era morto e furono allevati solo dalla madre. Il piú
grande era un fannullone, se ne andava in giro tutto il giorno e non faceva che mangiare. Il
secondo era serio, lavorava molto e si prendeva cura della madre che aveva fatto tanti sacrifici
per tirarli su. D’improvviso un giorno la madre si ammalò e morí. Il fratello minore si disperò,
ma non c’era modo di farla tornare in vita. Con grande premura i due ragazzi la seppellirono e
piansero a calde lacrime nel separarsi da lei. Il piú giovane non fu piú in grado di lavorare perché
appena pensava alla madre cominciava a piangere. Fu allora che si presentò una vecchia vestita
di stracci.
– Perché sei tanto addolorato? – gli chiese.
– Perché mia madre è morta e mi sento solo e triste.
– Soffri davvero tanto perché lei non c’è piú? Avresti voglia di incontrarla, di rivederla? –
chiese ancora la vecchia vestita di stracci.
– Oh certo, anche solo per una volta, – rispose il giovane.
– Allora se ci tieni tanto, posso fartela incontrare.
La vecchia mendicante condusse i due fratelli presso la sponda di un grande fiume. C’era una
barca e i tre vi salirono.
– Ascoltatemi bene. Dovrete remare con tutto il vostro impegno. Quando giungerete sull’altra
sponda, potrete incontrare vostra madre, – disse la vecchia.
I due ragazzi, spinti dal desiderio di rivedere la madre, si misero a remare con tutte le forze,
ma per quando faticassero non toccavano mai la riva opposta. Erano ormai stanchi morti, ma
pure continuavano a remare di buona lena; tuttavia non arrivavano mai a destinazione. Alla fine
il fratello piú grande pensò di essere stato ingannato dalla vecchia mendicante, si diede per vinto
e si mise a dormire sul fondo della barca. L’altro invece aveva cosí tanta voglia di vedere la
madre che pur essendo al limite della resistenza continuò a remare. Ma la forza di una sola
persona non bastava e la barca cominciò a essere trascinata via dalla corrente e a dirigersi verso
le rapide.
– Aiuto! Precipitiamo nella cascata! – disse il giovane, e proprio in quel momento la vecchia
vestita di stracci lo strinse a sé e si alzò in volo verso il cielo.
– Sei un bravo ragazzo. Una persona come te deve essere d’esempio al mondo intero.
Diventerai un punto di riferimento per tutti gli uomini, – disse. Cosí, il fratello minore fu
trasformato nella stella polare. – Tu invece dovrai penare ancora un po’, – disse poi la vecchia al
fratello maggiore che si era addormentato sulla barca, e lo lasciò nel fiume.
Per questo motivo ancora oggi nella Via Lattea brilla una stella: è il fratello maggiore che
deve continuare a lottare per raggiungere la riva.

Okinawa, Ishigaki.
Fiabe degli Ainu
Traduzioni di Virginia Sica.
Introduzione
Nel Konjaku monogatarishū («Racconti del tempo che fu»), scritto nel XII secolo, si narra di
Abe no Yoritoki, signore delle province del Nord, che dopo essere stato sconfitto dalle truppe
imperiali decise di rifugiarsi nel paese degli Emishi (Barbari). Dopo aver attraversato uno stretto
di mare, Yoritoki e i suoi uomini si trovarono alla foce di un grande fiume profondo che presero
a risalire, senza incontrare anima viva. Dopo sette giorni di percorso il paesaggio restava lo
stesso, fra ondulate distese di canne, ampio e deserto al punto da lasciare il gruppo perplesso e
meravigliato. Solo verso il trentesimo giorno, all’improvviso la terra sembrò tremare e agli occhi
dei viaggiatori comparve un esercito di piú di mille cavalieri, «il cui aspetto era simile a quello
della gente mongola cosí come appare nei rotoli dipinti, che avevano la fronte cinta da una banda
rossa» e che parlavano un linguaggio incomprensibile. A questa vista, gli uomini di Yoritoki,
spaventati, decisero di far ritorno al proprio paese .
1

Non vi sono prove che i mille cavalieri incontrati dai viaggiatori giapponesi appartenessero al
popolo degli Ainu o ai loro diretti antenati, ma la descrizione del paesaggio e dei personaggi
rende l’ipotesi affascinante anche se debole sul piano della veridicità storica.
Gli Ainu sono il gruppo etnico che forma la popolazione indigena della maggiore isola del
Nord del Giappone, oggi conosciuta come Hokkaidō, che si stende fra l’isola principale
dell’arcipelago, lo Honshū, e l’isola di Sakhalin . Nel 1993 si calcolava che la loro presenza
2

ammontasse, in Hokkaidō, a 23 830 individui, piú qualche migliaio sparso nel resto del paese,
anche se la valutazione resta difficile dal momento che i confini etnici fra Ainu e Giapponesi
sono stati oscurati da un massiccio processo di acculturazione . Le origini degli Ainu sono
3

oggetto di numerose controversie, poiché è considerato virtualmente impossibile ricostruire i


movimenti delle popolazioni dell’Asia nord-orientale prima del periodo storico. Gli studiosi
parlano di due distinte culture fiorite nello Hokkaidō intorno al IX secolo; gli appartenenti a una
di queste, la cosiddetta Satsumon, che occupavano il Centro e il Sud dell’isola e forse la parte
nord dello Honshū, sono ritenuti i diretti antenati degli Ainu.
Quella che è oggi considerata la cultura ainu fece la sua comparsa, a quanto sembra, verso il
XIII secolo, quando è testimoniata una fiorente attività mercantile fra gli abitanti della parte
meridionale dello Hokkaidō e il resto del Giappone. Tale cultura era caratterizzata da pesca,
caccia e raccolta di piante commestibili e da una complessa relazione spirituale con i fenomeni
del mondo naturale (personificati come divinità o kamui, in contrasto con gli uomini, chiamati
Ainu nella lingua di quella popolazione). Il principale rito religioso era lo iyomante, durante il
quale veniva «rimandato» al paese degli dèi lo spirito di una divinità, il piú delle volte un orso,
animale questo che non a caso ha un ruolo centrale in molte fiabe ainu. Le comunità locali erano
governate da un capo (kotankorokur) scelto in base alla famiglia di appartenenza e all’abilità
personale. Nel corso dei secoli si svilupparono gruppi regionali piú ampi, ognuno con un proprio
dialetto e varianti culturali specialmente evidenti nelle isole Kurili e a Sakhalin, dove gli Ainu
erano in stretto contatto con altre popolazioni dell’Asia del Nord.
Isolati per lungo tempo per una serie di circostanze quali una popolazione relativamente
scarsa, l’abbondanza di risorse naturali, la lontananza da stati vicini, gli Ainu rimasero liberi da
interferenze straniere almeno fino all’imposizione dell’influenza giapponese, a partire dal XVII
secolo. Successivamente essi sono stati gradualmente privati delle proprie risorse attraverso un
sistematico programma di sfruttamento e di emarginazione politica, economica e sociale che si è
intensificato a partire dal XVIII secolo, quando l’economia giapponese sostituí al controllo sui
prodotti dell’attività degli Ainu quello diretto sulla manodopera. Contemporaneamente, fra i
Giapponesi l’immagine di una popolazione «straniera» gradualmente si cristallizzò nella nozione
degli Ainu come barbari, piú vicini ai dèmoni che agli esseri umani. Alla fine del XIX secolo, il
processo di modernizzazione del Giappone trasformò lo Hokkaidō in una colonia interna, un
territorio strategico destinato a essere occupato dall’immigrazione e organizzato secondo le linee
dell’espansione capitalistica. La progressiva distruzione delle condizioni su cui si era basata la
cultura ainu fu accompagnata, da parte del governo giapponese, da un massiccio programma di
scoraggiamento dell’uso della lingua e dei costumi tradizionali, mentre le malattie e l’alcolismo
contribuirono in larga misura ad una progressiva degradazione del livello di vita. Nello stesso
tempo, con lo sviluppo dei concetti di «razza» e di «nazione» l’immagine dei barbari fu
sostituita, nella piú comune percezione giapponese, da quella di una «razza primitiva», in via di
estinzione, che peraltro mal si armonizzava con la persistente propaganda relativa a un’ipotetica
omogeneità etnica e culturale del Giappone, ancora ben viva e operante nel dopoguerra.
Se negli anni Venti e Trenta non sono mancati tentativi di dare vita a organizzazioni che
potessero creare un nuovo senso dell’unità e dell’identità degli Ainu, solo recentemente, a partire
dagli anni Settanta, è emersa una nuova, positiva e spesso radicale politica, influenzata anche dai
movimenti internazionali per i diritti civili e umani delle minoranze etniche. Lo sforzo di creare
un ampio senso di appartenenza al gruppo degli Ainu, attorno a cui mobilitarsi politicamente, e i
tentativi di far rivivere l’uso della lingua, hanno dato qualche esito positivo anche se, per usare le
parole di uno dei maggiori studiosi dell’argomento, Richard Siddle, «malgrado i principali leader
degli Ainu abbiano ottenuto reali risultati materiali e politici, e la cultura ainu sia piú vibrante di
quanto non fosse mai stata a partire dalle prime decadi del nostro secolo, la salute della nazione
degli Ainu resta fragile» .
4

La rinascita culturale degli Ainu, sottolineata da Siddle, è comunque oggettivamente


ostacolata dal fatto che essi non hanno sviluppato una propria forma di scrittura e che la loro
tradizione letteraria è stata trasmessa oralmente. Nel corso del nostro secolo la sopravvivenza di
questo patrimonio di straordinaria ricchezza e vivacità, che rischiava di perdersi, è stata garantita
soprattutto dagli sforzi di studiosi, giapponesi e ainu, che hanno dedicato anni di intensa attività
alla raccolta e alla trascrizione dei testi. Nel corpo della letteratura orale il posto principale è
occupato da poemi epici (yukar) organizzati in versi che venivano recitati con
l’accompagnamento di una melodia e sono caratterizzati dalla presenza di ritornelli (sakehe) . 5

Esiste inoltre una ricca tradizione di racconti in prosa (uwepeker), che erano narrati in modo
assai vicino alla conversazione quotidiana. La classificazione proposta da Chiri Mashiho (1909-
61), che fu uno dei principali studiosi della lingua e del folclore ainu, li divide in cinque
categorie: racconti di divinità, racconti di esseri umani, fiabe del tipo «il vicino invidioso», fiabe
di Giapponesi e storielle. I primi due generi, che costituiscono altresí la parte piú ricca e
originale, sono raccontati in prima persona, avvicinandosi in questo alle convenzioni degli yukar
nei quali il narratore si identifica con uno o piú protagonisti, non necessariamente umani. Negli
uwepeker si compie in effetti quella fusione fra divino, umano e natura che è stata alla base della
cultura tradizionale degli Ainu, e che rivive proprio attraverso la recitazione del racconto. Non a
caso Kayano Shigeru, studioso di folclore e tra i promotori della rinascita della cultura ainu, ha
proposto come possibile traduzione del termine uwepeker quella di «purificazione reciproca» . 6

Le fiabe degli Ainu qui presentate sono state scelte dalla raccolta tradotta in giapponese:
Kayano Shigeru (a cura di), Ainu no mukashibanashi («Fiabe degli Ainu»), Heibonsha, Tōkyō
1993.
M. T. O.

1. Konjaku monogatarishū, in Nihon koten bungaku taikei («Grande raccolta della letteratura classica giapponese»), 25, V,
Iwanami shoten, Tōkyō 1965, p. 267.
2. Oltre che nello Hokkaidō, un piccolo numero di Ainu viveva agli inizi del secolo a Sakhalin e alla fine dell’Ottocento nelle
Kurili. Oggi la popolazione Ainu è scomparsa da questi territori e i loro discendenti vivono in Hokkaidō.
3. Cfr. R. Siddle, Ainu, Japan’s indigenous people, in M. Weiner (a cura di), Japan’s Minorities. The Illusion of
Homogeneity, Routledge, London - New York 1997, p. 45.
4. R. Siddle, Race, Resistance and the Ainu of Japan, Routledge, London - New York 1996, p. 189.
5. Le principali raccolte di yukar tradotti in lingua occidentale sono: D. L. Philippi, Songs of Gods, Songs of Humans - The
Epic Tradition of the Ainu, University of Tokyo Press, Tōkyō 1979, e Tsushima Yūko (a cura di), Tombent, tombent les
gouttes d’argent. Chants du peuple ainou, Gallimard, Paris 1996.
6. Cfr. Ainu minwa o megutte («Sulla fiaba popolare degli Ainu»), Nibutani no techō («Taccuino di Nibutani»), Kokushisha,
Tōkyō 1987, p. 23.
Un solo uovo di salmone
Ero figlia unica e noi tre, papà, la mamma ed io, vivevamo dalle parti dell’area centrale del
fiume Ishikari. Ma poiché il babbo era avanti con gli anni, non era piú in grado né di salire in
montagna per andare a caccia, né di pescare pesciolini e salmoni che vivevano in gran quantità
nel fiume.
In quanto a me, facevo quello che sanno fare le donne: raccogliere verdure di montagna in
primavera per consumarle fresche al momento, e disseccarle e farne conserve per i pasti
invernali, sí da sostentare i miei vecchi. All’arrivo dell’estate raccoglievo bulbi di giglio, li
ripulivo in acqua, li pestavo nel mortaio e ne estraevo amido commestibile. Mescolavo poi gli
scarti, privi di amido, con le verdure e le facevo fermentare. Ne facevo poi dei dango di circa
quindici centimetri di diametro e li mettevo ad essiccare, alimento per il lungo inverno. Quando
arrivava la stagione fredda e il momento di consumarli, si ammorbidivano nell’acqua, si
pestavano nel mortaio e se ne ricavavano di nuovo dei dango che si mangiavano cotti. Si
facevano dunque grandi scorte di cibo per ogni stagione e in questo modo si sopravviveva.
Poiché la casa era isolata, non avevo contatti con nessuno al di fuori di papà e mamma.
Mentre conducevamo questo tipo di esistenza, a volte la mamma diceva incidentalmente:
– Un giovane lontano parente è il tuo promesso sposo e sta su, alle sorgenti del fiume.
Dovresti incontrarlo.
Io, la sola a preoccuparmi di procurare legna da ardere e cibo, proprio non potevo assentarmi
per raggiungere il posto dove si trovava quel giovane. Tuttavia la mamma si ostinava a ripeterlo
come se le fosse venuto in mente proprio allora ed io, incerta, facevo sempre finta di non aver
sentito.
Un giorno di primavera, mia madre avvolse un kimono ed altre cose in una stuoia da portare
in spalla, me la legò dietro la schiena e mi spinse fuori di casa dicendomi:
– Vai.
Riluttante ad andare in un posto in cui non ero mai stata, mi aggrappai ad un pilastro
dell’ingresso e presi a piangere e gridare no. Allora mia madre, anche lei piangendo, mi dette dei
delicati colpetti sulla spalla e mi disse fra le lacrime:
– Tuo padre è anziano e non sappiamo quando ci lascerà. Se non ti sbrighi a portargli un
genero, potrebbe morire senza aver mangiato quello che gli uomini sanno procurare, carni e
pesce.
Allora, non essendoci altro da fare, obbedii a ciò che mi aveva detto e mi accinsi ad andare
alle sorgenti del fiume. Con gli occhi velati di lacrime, calpestando ramoscelli secchi e
incespicando piú volte, affrettai il passo.
Quanto avessi percorso non saprei quando il sole prese lentamente a calare verso occidente.
Sbucai in un vasto terreno roccioso, di cui avevo sentito da mia madre ma, poiché mi aveva detto
che il luogo dove si trovava la casa del giovane non era lontano da lí, mi affrettai. Percorsi la
distesa desolata in direzione del limitare opposto, sopraelevato, e vidi un maestoso albero
divelto, le cui radici erano state dissotterrate dall’acqua del fiume, che sembrava essere stato
portato dalla corrente. Mi avvicinai lentamente e sul tronco disteso vidi seduta una donna sola.
La guardai: aveva pressappoco la mia età, il mento appuntito, la bocca cosí larga da pensare che
si aprisse fino alle orecchie, gli occhi sottili e pronunciati verso l’alto. Mi feci accanto e mi disse:
– Avevo sentito del tuo arrivo, sorella maggiore, e sono venuta fin qui ad aspettarti per
porgerti il benvenuto.
Mi sorrideva raggiante e mi prese per mano. Poi, fattami accomodare sul tronco, mi si accostò
e dicendo – Adesso lascia che ti spidocchi! – mi pose le mani in testa. Provai una piacevole
sensazione che mi fece scivolare nel torpore e, prima che me ne rendessi conto, caddi
addormentata.
Quando riaprii gli occhi, l’abito modesto che quella indossava giaceva davanti ai miei occhi e
la donna si allontanava veloce, vestita del bel kimono ricamato che prima avevo indosso io, con
in spalla l’involto che avevo portato con me.
Sconcertata, mi infilai l’abito che la donna aveva lasciato e la rincorsi. Quando la raggiunsi mi
lanciò dei ciottoli e mi gridò malignamente:
– Finalmente vado all’incontro con il promesso sposo, da dove salta fuori questa brutta
sconosciuta?
Con il mio kimono e il mio bagaglio in spalla, sembrava per davvero fossi io, finanche il viso
era identico. E il mio volto, ora che portavo il suo abito indosso, era diventato brutto come il suo.
Le andai dietro mortificata, quella si fermava, mi lanciava pezzi di legno e pietre e proseguiva
spedita dicendo cose velenose. La seguii di soppiatto e, dopo un po’ che si camminava, vidi una
casa solitaria. All’esterno c’era una gran quantità appetitosa di carni e pesci disseccati, appesi ad
un palo. La donna, ferma lí fuori, si schiarí la gola per avvertire del suo arrivo quelli della casa.
Forse perché ne aveva udito la voce, venne fuori una donna di mezz’età che l’appellò con un –
Prego, entra –. A me dette solo un’occhiata, poi si ritrasse in casa. Anch’io sgusciai dentro e mi
sedetti a sinistra del tavolo.
Il vecchio che si trovava dentro la casa accolse con cortesia solo la donna, a me non rivolse
neppure uno sguardo. E quella strillò:
– Non so da dove venga questa qui! Sono giunta alla casa del mio promesso sposo, non darmi
piú fastidio.
Frattanto rientravano dalla caccia due giovani, con in spalla carne di cervo. La madre uscí ad
informarli della presenza degli ospiti: i due ragazzi si sfilarono all’aperto l’abbigliamento da
caccia in pelle, poi entrarono in casa, salutarono entrambe con garbo e me con particolare
cortesia.
Il minore, che sembrava essere il promesso sposo, ci squadrò entrambe con espressione
dubbiosa. La donna se ne rese conto e mi rovesciò addosso parole ancor piú cattive. Io me ne
stavo ferma, a capo chino, piangevo e non dicevo una sola parola. Il vecchio, che appariva
imbarazzato, disse fra sé e sé: «Di spose per mio figlio ne sono arrivate due, non riesco a
distinguere quella vera». Allora il piú giovane, che era stato ad osservarci per un po’, si alzò e
tirò fuori due bellissime ciotole. In ognuna di esse pose i sacchiporo, delle uova di salmone
disseccate, che aveva preso da una mensola del focolare e ce le offerse invitandoci a mangiarle.
Io avevo già assaggiato uova di salmone, preparate da mio padre quando ero piccola e il
babbo mi aveva insegnato che si introducono in bocca uno alla volta e si masticano lentamente.
Cosí feci e si risvegliò in me un gusto antico di cose buone. Fui incuriosita dalla donna che se ne
riempiva il palmo della mano e se le metteva in bocca tutte in una volta. Accorgendomi di questo
modo di mangiare, in cuor mio pensai rasserenata: «Come mi aspettavo, non si tratta di un essere
umano». Disorientata, la donna prese a masticare e le uova di salmone le si attaccarono ai denti;
piú masticava piú le si riempiva la bocca, meno riusciva a deglutire e a disbrigarsi. Si infilò un
dito in bocca nel tentativo di liberarsi i denti, ma inutilmente. A poco a poco si innervosí e finí
con il mettere in bocca tutta la mano. Il colore del suo viso andò mutando, spinse in bocca
entrambe le mani e prese ad agitarsi. Alla fine sollevò un piede, come se volesse sfregarlo contro
la mascella e le guance. Gli esseri umani non riescono a farlo. Il vecchio e i due giovani
osservavano immobili la scena. La donna sembrava non capire piú nulla e, proprio in quel
momento, mi accorsi che aveva una coda di volpe. La donna continuava a grattarsi con un piede
sollevato. Anche i due ragazzi parvero aver intravisto la coda ed entrambi si alzarono
immediatamente: uno prese un tizzone, l’altro una grande pinza da fuoco e si lanciarono per
colpirla. Quella, ignara del fatto che la sua coda fosse stata notata, strillò:
– Finanche il mio promesso sposo! Quella donna è un’apparizione maligna! Uccidete lei!
– Volpe, mostra la tua vera natura! – dicevano i due giovani continuando a colpirla.
Intervenne il vecchio a voce alta:
– Pensavi di poter ingannare uomini e dèi alla luce del giorno e davanti agli occhi della Dea
del Fuoco? – e la colpí con l’attizzatoio.
Al solo udire le parole «davanti agli occhi della Dea del Fuoco», la donna assunse le
sembianze di una volpe. Era una volpe a cui erano rimasti solo pochissimi peli sulla punta delle
orecchie e della coda, il corpo spelacchiato e raggrinzito, la bocca larga fino alle orecchie, una
volpe scarna che faceva star male solo a guardarla. Nelle sembianze di essere umano non era
molto sciolta nei movimenti ma, appena rivelata la sua vera identità, era divenuta
incredibilmente agile e scappava velocissima di qua e di là dentro la casa. Il vecchio e i ragazzi
l’avevano circondata e cercavano di colpirla senza riuscirci. Lo fecero tutti insieme quando
sembrò un po’ indebolita. Allora il respiro le si interruppe, fu scossa da un tremito, poi, con un
ultimo irrigidimento, morí.
Il vecchio portò fuori il cadavere imprecando e lo gettò fra i rifiuti. Poi, dopo aver purificato
l’interno della casa, per la prima volta il vecchio e i ragazzi presero la mia mano, mi
accarezzarono le ginocchia e piansero lacrime di gioia.
Io raccontai la storia dei miei genitori e che la volpe mi aveva fatto addormentare quando mi
aveva tolto i pidocchi dal capo. Allora si decise che il piú giovane dei figli sarebbe diventato mio
marito. Per la prima volta assaporai in abbondanza carne e pesce, le cose che sanno procacciare
gli uomini, e mi fermai presso di loro.
Quella notte stessa mi apparve in sogno la donna che mi disse:
– Perdonami. Quando ti ho vista arrivare, ho voluto diventare io la promessa sposa, ti ho
aspettata per prendere il tuo posto, ma è finita cosí. Ero una divinità femminile incarnata in una
volpe, inviata dal mondo celeste per proteggere quel grande terreno roccioso. Non vi renderà
nulla buttare il mio corpo fra i rifiuti. Offritemi un semplice inau e un pochino di sake per farmi
tornare al paese degli dèi. Se lo farete, vi proteggerò in modo che viviate felici per tutta la vita.
Sembra che il vecchio e i due ragazzi avessero fatto lo stesso sogno perché il mattino dopo
dissero:
– Gli dèi sono dèi e si sposino fra loro. Da oggi in poi non deve piú accadere una cosa simile.
Offrirono poi un po’ di sake e un povero inau cosí che la volpe potesse tornare al mondo degli
dèi.
Ancora quella notte, in piedi sul guanciale dei sogni, quella dea-volpe mi sorrise raggiante e
disse:
– Sono stata perdonata dagli dèi e, anche se decaduta a divinità di basso rango, sono riuscita a
far di nuovo parte di loro. Per ringraziarvi, vi proteggerò per sempre.
In seguito io e il giovane che doveva diventare mio marito attraversammo il grande terreno
roccioso, portando in spalla una grande quantità di carni e pesci disseccati, e tornammo a casa
mia.
I miei genitori piansero di gioia e, come aveva detto mia madre, potei offrire al mio anziano
padre ciò che i maschi sanno procacciare. Dopo di allora potemmo vivere confortevolmente
senza preoccuparci di ciò che desideravamo mangiare. Ebbi tanti figli. Poi sia mio padre sia mia
madre lasciarono il mondo e anche io divenni anziana.
Per questo, quando voi, Ainu di oggi, mangiate uova di salmone disseccate, mangiatene uno
alla volta. E quando non sapete se una persona è un essere umano o uno spirito, basta che le
offriate queste uova e subito capirete di chi si tratta.

Cosí narrò una vecchia.


Il dio-orso e la volpe bianca
Sono un dio-orso, inviato dal mondo degli dèi per proteggere le grandi montagne. Mio padre e
mia madre sono ascesi anzitempo al paese degli dèi ed io sono stato accudito da mia sorella
maggiore e ho condotto una vita confortevole.
Avevo raggiunto l’età in cui anch’io desideravo prender moglie e tuttavia ancora non avevo
una sposa.
Un giorno, scendendo a valle dai monti, in un luogo ove non vi erano abitazioni né altro, vidi
una casa isolata di nuova costruzione. Aguzzai la vista incuriosito e mi parve che vi vivesse da
sola una bellissima fanciulla. Era proprio il periodo in cui desideravo ammogliarmi e subito presi
la decisione di dirigermi là.
Sono un orso, ma quando si fa parte del mondo degli dèi, si vive in una casa simile a quella
degli esseri umani e nulla ci differenzia da loro, né l’abbigliamento o il cibo o gli attrezzi che si
usa portare in spalla quando ci si sposta. Con indosso un kimono della migliore qualità ricamato
da mia sorella, la faretra in spalla e una freccia nel pugno, mi diressi alla volta di quella casa, con
il proposito di fermarmi per la notte. Apposta per questo procedetti molto lentamente ed arrivai
dinanzi alla casa verso il tramonto.
Lí giunto, battei leggermente il palmo della mano sul muro rivestito di graminacee e feci
intendere che c’era qualcuno. La giovane donna, udito il rumore, venne fuori con fare sereno, si
limitò a gettarmi un’occhiata e, senza dirmi la benché minima parola, si ritirò. Ci riflettei un po’
su: «Che importa, nessuno mi ha chiesto di venire, l’ho fatto di mia volontà. Entro senza
chiedere permesso».
Mi introdussi tranquillamente in casa. La giovane era seduta sulla destra e filava vicino al
focolare. Mentre me ne stavo in piedi, indeciso se andare a sedere al posto d’onore passando da
destra o da sinistra, la ragazza si ritrasse senza parole. Questo significava «prego, passami pure
davanti» ma allo stesso tempo anche «acconsento a sposarti». Avevo la felicità in cuore; passai
lentamente davanti a lei e andai a sedermi. A gambe incrociate eseguii un cortese cerimoniale di
ringraziamento, sfregando le mani l’una contro l’altra per poi sollevarle piú volte con il palmo
rivolto verso l’alto. La donna sollevò lentamente il volto: la bellezza di quel viso che mi
guardava! Mai, fino a quel momento, avevo veduto o sentito parlare di una tale bellezza.
La giovane, nel rendermi omaggio, si comportava come una divinità: strofinò delicatamente
gli indici l’uno contro l’altro e pose leggermente quello della destra sul labbro superiore. Poi
pacatamente si alzò e cominciò a preparare la cena. Preparò del riso dall’aspetto invitante e me
ne serví una montagna in una ciotola sottile posta su di un vassoio sottile insieme con un paio di
bacchette. Ricevuto il vassoio, lo sollevai con entrambe le mani per sei volte; me lo posi poi
dinanzi e cominciai a mangiare senza fretta. Consumai molto piú della metà di quel riso che
traboccava dalla grande ciotola di lacca. Appoggiai poi la ciotola con quel che rimaneva e le
bacchette che avevo adoperato sul vassoio e lo spinsi verso la ragazza. Ella mostrò una certa
esitazione, ma prese il vassoio e lo sollevò con garbo per sei volte. Poi terminò quel che restava
del riso.
Consumare in due del riso da una stessa ciotola suggella un matrimonio nel paese degli dèi
come in quello degli Ainu.
Frattanto che cenavamo, il sole era declinato e all’esterno si era fatto buio. Sono un dio, e
pertanto le raccontai una storia del paese degli dèi. Mentre narravo ella si sollevò e dispose un
letto per due. Vi entrai io per primo; la ragazza estinse il fuoco con la cenere e, dopo aver
rigovernato con cura il focolare, scivolò al mio fianco.
Mi girai lentamente e piano piano feci scivolare una mano sul petto della donna. Ma, a
contatto con la sua pelle, dubitai di me stesso e mi chiesi se non fosse la mia mano ad avere
qualcosa di strano. Quello che toccavo non era la pelle delicata d’una bella fanciulla, ma una
pelle ricoperta di croste. Ritirai la mano di getto, come se avessi toccato legna ardente. Poi
riconsiderai: «Com’è possibile che una donna cosí bella abbia il corpo ricoperto di croste?»
mentre speravo che fosse stato un sogno; e di nuovo piano piano feci scivolare la mano. Ma non
era stato un sogno: il suo corpo era davvero coperto di croste. Disperato pensai di alzarmi e di
tornare a casa, ma fuori era buio pesto e v’era ben poco da fare. Decisi quindi di dormire,
allontanandomi in silenzio da lei. Cosciente o ignara che fosse, la ragazza aveva il respiro
profondo di chi dorme.
Attesi l’aurora, uscii dal letto in tutta fretta e rientrai a casa. Mia sorella non mi chiese dove
fossi stato e io, al ricordo della notte trascorsa, provavo come un malessere al petto.
Non saprei quanti mesi e giorni fossero trascorsi quando, osservando dai monti ove abitavo,
potei vedere che quella casetta nuova era ancora là e che la ragazza era da sola. Mi ricordai di
quel suo bellissimo viso e provai il desiderio di tornare in quella casa.
Un giorno partii di buon mattino ma, questa volta, senza intenzione di trattenermi per la notte.
La ragazza accolse me, suo visitatore per la seconda volta, con grande gioia e la bellezza del suo
viso pareva maggiore di quando l’avevo incontrata in precedenza. Non mi guardò neppure in
volto che già cominciava a preparare da mangiare. Pensai che, anche se non mi fossi fermato per
la notte, avrei almeno gustato un buon pranzo, e mi disposi ad attendere. Frattanto la ragazza
giungeva portando una grande ciotola con coperchio su un vassoio e me lo pose davanti. Io lo
sollevai per sei volte poi, pensando di gustare delle prelibatezze, con la destra presi le bacchette,
con la sinistra sollevai il coperchio, ma rimasi stupefatto: mi aveva servito bocconi cotti di
serpente, quello che io, pur dal fisico imponente, aborrisco di piú a questo mondo. Quando li
vidi, dimentico di essere sotto umane spoglie, emisi un potente urlo e, riprese le sembianze di
orso, scappai di gran carriera scivolando sotto la cortina di bambú della finestra che dava ad est.
Puntai dritto verso casa mia, in maniera indecorosa, senza mai voltarmi. Poi, dall’alto della
montagna, guardai verso quella casa, ma era sparita senza lasciar traccia. Chissà quale divinità in
incognito mi aveva stregato e spaventato… Quasi non riuscivo a tenermi in piedi. Entrai in casa
tirando un gran respiro di sollievo e mi stropicciai ripetutamente gli occhi, ma per quanto
cercassi di comprendere l’identità della dea che mi aveva terrorizzato, non venivo a capo di
nulla, come se davanti agli occhi mi si alzasse una foschia. Questo non capire mi rese ancor piú
esasperato ed innamorato. Non riuscii piú a deglutire il cibo, persi l’energia fisica ed ebbi la
sensazione di dimagrire giorno dopo giorno. Lasciavo il cibo preparato da mia sorella senza
neppure toccarlo con le bacchette, e su quello del pasto precedente si formava muffa bianca, su
quello servito dopo, muffa nera. Pensavo che se non riuscivo a fare di una donna cosí bella la
mia sposa, potevo anche morire e non lasciavo piú il letto.
Una mattina mia sorella mi preparò un riso appetitoso e me lo pose dinanzi, ma non tentai di
toccare neppure quello. Ella mi guardò accigliata e prese ad arrabbiarsi come se avesse le
fiamme in volto.
– Sei uno scriteriato! Credevo che tu riuscissi a vedere meglio le cose, ma sei cieco! Sono
furibonda, ho pensato di lasciarti morire di fame, ma prima che tu muoia almeno ti illuminerò
sull’identità di quella che non riesci a toglierti dalla testa. Quella è la sorella minore del Dio
Volpe Bianca ed è una bellezza nota anche nel mondo degli dèi. Molti di loro la desiderano come
sposa e non appena se ne rende conto, ella li prende in giro come ha fatto con te. Quando le hai
toccato il seno, hai creduto che fossero croste, ma erano dango di miglio spalmati giú per tutto il
corpo. E nella ciotola non c’era del serpente, ma del comune pesce. Ma tu sei caduto nel suo
incantesimo, le hai creduto e, atterrito, le hai mostrato il tuo vero sembiante scappando in
maniera deplorevole. Se si è un dio, si deve avere il potere di scoprire chi è l’altro! Ma tu non hai
neppure provato a scoprire l’identità di quella donna e ora continui a startene a letto. Se vuoi
morire cosí, fa’ pure! Io me ne vado altrove a vivere per conto mio.
Mentre mi parlava cosí, sprimacciò il suo materasso, avvolse i suoi kimono e le sue cose in
una stuoia, se la caricò in spalla e se ne andò chissà dove.
A quelle parole, la foschia che avevo dinanzi agli occhi si dileguò. Mi guardai intorno e, come
aveva detto mia sorella, «vidi» che la ragazza era una dea-volpe e che, saputomi moribondo, si
stava precipitando a casa mia per diventare la mia sposa.
Poco dopo era davanti alla mia casa. La udii schiarirsi la voce, ma non avevo piú neanche la
forza di parlare. Dopo un po’ entrò silenziosa: la mia figura sdraiata era macilenta, pelle e ossa, e
sembrava che ci fosse solo il leggero kimono. Mi si fece innanzi e, trascinandosi sulle ginocchia,
chiese scusa in lacrime:
– Sono stata crudele a ridurti in questo stato, tu che sei un dio importante, perdonami.
Scaldò poi velocemente dell’acqua e me l’accostò alle labbra. In principio non riuscivo
neppure a deglutirla, ma ella mi apportò mille cure finché, poco a poco, il liquido passò
attraverso la gola e riuscii a sorseggiare finanche dell’okayu.
Insomma, non ero riuscito a comprendere la vera natura della donna e mi ero ammalato
d’amore. Mia sorella lo aveva capito, ma aspettava che lo scoprissi con le mie sole forze. Poi,
stanca, aveva lasciato la casa e mi aveva mandato la donna per cui stavo morendo.
La giovane donna mi curò e dopo molti mesi il mio corpo tornò vigoroso come prima. Alla
fine io e lei, sorella del Dio Volpe Bianca, ci unimmo in matrimonio. Ne nacquero molti figli e
oggi viviamo senza preoccuparci di ciò che desideriamo mangiare. E pensare che da giovane,
ignaro che si fosse spalmata la pelle con dango di miglio e credendole croste, ero scappato dal
suo abbraccio!
Voi dèi di adesso, in qualunque situazione vi troviate, non vi basti toccare con mano! Se non
vi sarete assicurati con i vostri occhi, vi derideranno come scervellati.

Cosí narrò un dio-orso.


La pentolina che aveva tempo libero
Sono un dio-orso di alto rango, delegato dal mondo degli dèi alla difesa della montagna piú
alta alle sorgenti del fiume Yupe.
Anche noi, divinità di alto rango, di quando in quando abbiamo l’obbligo di recarci quali
ospiti nel paese degli Ainu e di fare ritorno con grandi quantità di inau e di doni. Con ciò non si
intende dire recarsi in un qualunque luogo del paese degli Ainu, quanto far visita ad un uomo che
lavori sapientemente gli inau e che possieda uno spirito eletto.
Avevo udito parlare di un Ainu che viveva nella zona alta del fiume Ishikari. Pensavo di fargli
visita, ma un giorno lo vidi che stava andando a caccia dalle parti di casa mia. Allora cominciai a
scendere piano piano dalla montagna e venni allo scoperto apposta perché mi vedesse. L’uomo si
nascose velocemente dietro un albero e si appostò, preparandosi a scoccare una freccia. Fingendo
di non accorgermene, passai lí accanto. Con un sibilo il Dio Freccia si conficcò nel mio corpo.
Udii solo il suono della corda dell’arco, due, tre volte. Poi persi conoscenza.
Mi ripresi dopo un po’. Il mio corpo e la mia testa erano separati e solo il mio spirito se ne
stava seduto quietamente fra le due orecchie. Sono un orso di grandi proporzioni e l’uomo,
cosciente del fatto che sono la divinità della montagna del fiume Yupe, non volle farmi ritornare
al mondo degli dèi dal capanno di caccia, ma dalla sua casa al villaggio. Si caricò sulle spalle la
mia pelliccia con la testa ancora intatta e si avviò. Giunse a casa al tramonto, mi collocò
sull’altare esterno ed entrò in casa, dove informò la Dea del Fuoco del mio arrivo. La Dea del
Fuoco uscí: indossava sei kimono sovrapposti con le ampie falde svolazzanti, chiusi da una
cintura e aveva in mano un bastone di ferro ritorto. Mi disse:
– Onorevole Dio d’alto rango, sii ospite benvenuto presso il villaggio degli Ainu. Grazie
infinite, mettiti pure a tuo agio.
Mentre mi rivolgeva queste parole mi rendeva omaggio; poi rientrò in casa.
Portato a braccia da quelli del villaggio, fui introdotto in casa attraverso la porta delle divinità
e fui fatto accomodare presso il focolare al posto d’onore. Uno dopo l’altro gli abitanti del
villaggio giungevano al raduno e ognuno di loro mi riservava parole di benvenuto. Dopodiché
misero a fermentare il sake, prepararono i dango e mi posero dinanzi ghiottonerie che non avevo
mai visto e di cui non avevo sentito parlare neppure nel mondo degli dèi.
Con gli Ainu che consumavano sake e dango e io con loro, ebbe inizio un festeggiamento
serale molto piacevole. I presenti cominciarono a cantare e ballare uno dopo l’altro e notai fra
loro un giovane piccolino che nella danza era particolarmente abile. I suoi movimenti erano
leggeri, sembrava che volasse da un punto all’altro e di tanto in tanto eseguiva delle capriole piú
veloci dello sguardo. Guardavo solo la sua danza, senza stancarmi. Frattanto giunse un valente
narratore di yukar che prese a declamare.
Quando si accompagna un orso al mondo degli dèi, si comincia la narrazione dall’inizio e
sembra che sia d’uso interrompersi quando il racconto diventa avvincente o poco prima. Perciò
quando giunse l’aurora eravamo ancora a metà. Questo perché gli Ainu desiderano che il dio-
orso ritorni da loro per ascoltare il seguito del racconto. Anche cosí non riuscivo a distrarmi da
quel bravo giovane danzatore. Oltre tutto non sembrava un Ainu, ma un dio. Desideravo
conoscerne l’identità e provai a indagare ma nulla, cosí me ne ritornai al paese degli dèi con un
carico di doni.
Tuttavia non riuscivo a dimenticare la sua danza e, impaziente, tornai di nuovo a casa di
quell’uomo. Proprio come la volta precedente si prese a cantare e ballare, poi giunse il giovane e
io potei assistere alla sua danza. Guardandola dimenticai perfino di essere un dio e senza quasi
rendermene conto cominciai a danzare con lui. Mentre ballavo cercai ancora di scoprire chi
fosse, ma nulla. Anzi, nel momento in cui mi sembrò di intuire qualcosa, ecco improvvisamente
alzarsi dinanzi ai miei occhi una foschia e non capii piú nulla. Nonostante mi deliziassi
all’ascolto dello yukar, narrato da un Ainu ancor piú bravo di quello della volta precedente,
niente mi entrava nelle orecchie. E ancora una volta all’oscuro dell’identità del giovane, me ne
tornai al mondo degli dèi con la mia montagna di doni in spalla. Da allora tornai innumerevoli
volte come ospite in quella casa solo per il desiderio di rivedere quella danza.
Chissà dopo quante volte, accadde che si ballasse io e quel giovane e che, entrambi esausti, si
cadesse addormentati. Fu allora. Fra le tante pentole allineate sulla parete destra dell’ingresso
della grande casa, il mio sguardo si posò per caso su quella piú piccola e sottile e mi accorsi che
ondeggiava.
Mi guardai rapido intorno, ma del giovane nessuna traccia. Avevo capito! Il giovane che
sapeva danzare era un dio-pentolina, il Dio Kaparapeponsu. Mi alzai, trattenendo il desiderio di
esprimere i miei ringraziamenti, e attesi che il Dio Pentolina, vale a dire il giovane, si svegliasse.
Dopo un po’ egli arrivò. Mi voltai verso le pentole e vidi che quella piccola non c’era piú. Gli
sorrisi:
– Ho fatto visita a questa casa innumerevoli volte per il solo desiderio di vedere la tua
magnifica danza e di conoscere la tua identità. Grazie a queste visite ho finalmente capito chi sei
e posso tornare al mondo degli dèi a cuor leggero. Ma dimmi, come mai sei cosí abile nella
danza e perché la esegui per gli dèi?
Il Dio Pentolina Kaparapeponsu mi rispose timidamente:
– Vivo da molto tempo in questa casa e la padrona è veramente amante della pulizia. Non
appena mi ha adoperato per cucinare, mi lava senza por tempo in mezzo. Per questo vivo in uno
stato di benessere. Quando ho tempo libero, mi viene il desiderio di danzare e cosí, poco alla
volta, sono diventato bravo. Oltre tutto, quando si accompagna un dio-orso al mondo degli dèi, ci
si riunisce in tanti e solo le pentole grandi hanno da lavorare. Cosí io, che ho tempo libero, anche
per ringraziare di essere stato trattato con tanto riguardo, mostro la mia danza agli dèi. Fino a
oggi l’avevo eseguita per molte divinità, ma nessuno di loro aveva compreso chi fossi. Solo tu,
che sei di alto rango, ci sei riuscito.
Feci un cenno di diniego con la mano:
– No, no, è assolutamente impossibile capirlo alla prima o alla seconda volta. Io sono venuto
innumerevoli volte. E in questo modo il padrone di casa è diventato ricco, ma è stato anche per
merito tuo; cosí lo hai ringraziato per averti trattato con riguardo.
Ricevetti una quantità di doni maggiore della volta precedente, ringraziai anche il Dio
Pentolina e feci ritorno al mondo degli dèi.
In seguito feci visita in sogno al padrone di casa, uomo dallo spirito eletto, e lo resi partecipe
della storia della pentolina. Egli inviò ancora degli inau a me e, senza dubbio, una grande
quantità anche al Dio Pentolina. Ed è cosí che io, un dio di alto rango, per voler sapere chi fosse
il giovane che danzava, per vedere la sua danza, sono venuto tante volte nel paese degli Ainu.
Per questo voi Ainu di oggi, trattate con riguardo qualunque oggetto, lavate ciò che va lavato,
riordinate ciò che va riordinato. Il Dio degli Oggetti di certo ve ne renderà ricompensa.

Cosí narrò un dio-orso d’alto rango.


Glossario
aburaage (o agedōfu)

Piatto che si ottiene facendo friggere nell’olio la cagliata di soia (tōfu) tagliata a fette sottili.

Ainu

Gruppo etnico che costituisce la popolazione indigena dello Hokkaidō, la maggiore isola situata nel Nord dell’arcipelago
giapponese. Razzialmente esso non presenta affinità con le popolazioni mongolidi contigue. I vari studiosi hanno proposto
una possibile appartenenza caucaside oppure un collegamento etnico degli Ainu con il mondo austronesiano. Altre ipotesi
suggeriscono che essi rappresentino i resti di un’antica popolazione presente nell’Asia nord-orientale prima della grande
espansione dei gruppi mongolidi. Ugualmente dibattuto è il problema della lingua: non risolta è la questione della
relazione genetica con altre lingue, anche se sono state avanzate ipotesi che collegano l’ainu con lingue della famiglia
paleoasiatica, uralo-altaica o anche maleo-polinesiana. In genere gli studiosi non riconoscono una relazione genetica con il
giapponese, ritenendo le somiglianze esistenti fra le due lingue come dovute a reciproche influenze derivanti da secoli di
stretti contatti fra le due popolazioni.

Amanojaku (o Amanjaku, o Amanosagu)

Essere demoniaco, spesso rappresentato sotto sembianze femminili, che ha come unico scopo quello di tormentare gli
esseri umani. Nell’iconografia buddhista Amanojaku può comparire anche come un piccolo demone, schiacciato sotto i
piedi delle divinità protettrici dei templi e dei monasteri. Come termine generale, infine, indica persona caparbia, pronta a
fare solo il contrario di quanto le viene chiesto.

azukimeshi

Riso bollito con aggiunta di fagioli rossi (azuki).

bentō (o obentō)

Cibo freddo posto in una scatola di lacca, di plastica o di cartone, che si acquista presso rivenditori o si prepara a casa e si
consuma durante la pausa del lavoro, a teatro, in viaggio, in gita, ecc. In genere è composto di riso bollito, pollo, vegetali,
pesce.

bodhisattva

Nel buddhismo, indica colui che, ottenuta l’illuminazione, rinuncia ad entrare nel Nirvana per aiutare gli altri a ottenere la
salvezza.

daimyō

(Lett. «grande nome»). Nel Giappone feudale, il termine si riferiva al capo di una casata militare, proprietario di vaste terre
e al comando di un esercito personale.

Dainichi Nyorai

Il Buddha della Grande Illuminazione, figura centrale della scuola Shingon, personificazione della realtà dell’universo.

dango

Focaccine rotonde, composte di farina di cereali e acqua, bollite o cotte a vapore. Si possono servire abbrustolite con salsa
di soia, oppure condite con marmellata di fagioli o farina dolce.
doma

Parte della casa il cui impiantito è formato di terra battuta.

fudoki

(Lett. «cronache di venti e terra»). Topografie relative alle varie regioni del Giappone, compilate per ordine imperiale nel
713, che contenevano informazioni su risorse naturali, caratteri ambientali e geografici, leggende e costumi locali.

fundoshi

Specie di perizoma che gli uomini giapponesi indossavano in passato sotto il kimono.

furoshiki

Quadrato di stoffa (in genere seta o cotone) usato per avvolgere e trasportare oggetti. I quattro capi sono annodati nel
centro a cocche.

fusuma

Pareti scorrevoli all’interno della casa in stile giapponese. Sono formati da un’intelaiatura di legno rivestita su entrambi i
lati di carta o stoffa e sono talvolta ornati da pitture.

futon

Indica sia il materasso sia la trapunta usati per dormire nelle stanze di stile giapponese, sprovviste di letto. Durante il
giorno, vengono ripiegati e riposti in armadi a muro e la sera stesi sui tatami.

genkan

Ingresso principale nelle case di stile giapponese. In generale, vi si lasciano le scarpe prima di entrare in casa.

geta

Zoccoli di legno. Sono formati da una base rettangolare, retta da due supporti trasversali e paralleli, sulla quale sono fissati
due cordoni di seta o velluto che formano l’infradito.

Unità di misura di capacità, equivalente a circa 0,18 litri.

hamaguri

(Lett. «castagna di spiaggia»). Mollusco bivalve che vive sui fondali sabbiosi. Pregiato e commestibile, simile a una grossa
vongola, viene in genere cotto alla griglia e servito sopra un mucchietto di sale.

haori

Specie di giacca, ampia e corta, che si indossa sopra il kimono. È tenuta chiusa da un cordone annodato sul petto.

hime

Generico termine elogiativo per indicare una persona di sesso femminile. Può riferirsi inoltre a una fanciulla
dell’aristocrazia («principessa», «giovane signora») e infine può essere usato come semplice vezzeggiativo accompagnato
a nomi propri di ragazze e bambine.

hitobashira
(Lett. «uomo pilastro»). Vittime sacrificali che anticamente venivano sepolte vive durante i lavori di costruzione di ponti,
dighe o fortificazioni, per propiziarsi il favore delle divinità.

Inari (o Inarisama)

Divinità protettrice del raccolto, alla quale sono dedicati un gran numero di santuari, sparsi in tutto il Giappone.
Caratteristica è l’intima connessione di Inari con la volpe, animale a lui sacro. Inari è raffigurato ora come donna ora come
uomo che porta due fasci di spighe di riso sulle spalle ed è accompagnato da due volpi.

inau

Arredo sacro di fondamentale importanza nelle cerimonie religiose degli Ainu. È formato da un sottile bastone di legno di
salice o di corniolo, ornato da trucioli dello stesso materiale.

Jizō

(Sanscrito: Ks.itigarbha). Figura del pantheon buddhista alla quale la fede popolare ha attribuito il potere di alleviare le
sofferenze degli esseri umani nel corso dei sei livelli possibili dell’esistenza (in giapponese: rokudō, «sei vie»). Già
popolare in Giappone a partire dal IX secolo d.C., Jizō viene in genere rappresentato come un giovane monaco che regge in
una mano un gioiello e nell’altra il bastone da pellegrino. A partire dal XIV secolo circa si consolida il rapporto che lega
Jizō ai bambini, in particolare a quelli morti e costretti ad affrontare il momento cruciale situato fra la morte e la successiva
rinascita. Uno sviluppo popolare di questa credenza, non ancora del tutto scomparso nel Giappone moderno, prevedeva
che un’immagine di Jizō, spesso appena sbozzata, venisse posta agli incroci o laddove la strada si biforca. La tassonomia
dei Jizō oggetto di fede popolare annovera, tra gli altri, Koyasu Jizō («Jizō del parto facile») che assisteva le partorienti, e
Rokujizō («sei Jizō»), raggruppati in gruppi di sei e preposti ad ognuna delle «sei vie».

Unità di misura di lunghezza, equivalente a circa 3,03 metri.

kagura

(Lett. «musica degli dèi»). Danza o pantomima sacra che una tradizione identifica addirittura con l’origine del teatro
giapponese. Era accompagnata dalla musica di flauti e tamburi e da canzoni ed eseguita, sin dai tempi piú antichi, a corte o
presso i santuari shintoisti.

kaimochi

Focaccine di riso bollito farcite con marmellata di fagioli rossi azuki o farina dolce di fagioli di soia.

kami

Divinità shintoista. Tuttavia, il termine generale indica soprattutto la qualità o l’energia spirituale, sacra e numinosa
posseduta da luoghi e oggetti, divinità della mitologia imperiale e locale, spiriti della natura, eroi divinizzati, antenati e
sovrani. Sebbene la parola sia usata preferibilmente nella terminologia shintoista, non sempre esiste una chiara e precisa
suddivisione concettuale fra i kami e le divinità buddhiste.

kamidana

Piccolo altare domestico destinato al culto shintoista.

kamishimo
Durante l’epoca Tokugawa (1603-1867) era la veste da cerimonia dell’aristocrazia guerriera. Era formato da ampi
pantaloni a pieghe aperti lateralmente (hakama), indossati sopra il kimono, e da una specie di giacca senza maniche
(kataginu), dello stesso colore degli hakama, con ampie spalle rigide e sporgenti, sulla quale era disegnato lo stemma di
famiglia (kamon).

kan

Nel Giappone premoderno, unità di peso equivalente a circa 3,75 kg.

Kannon

(Lett. «colei che presta orecchio ai suoni (del mondo)»). Bodhisattva votato ad assistere e soccorrere coloro che invocano
il suo nome. In Cina e in Giappone assunse sembianze di divinità femminile pur essendo in origine maschile. Può
manifestarsi in trentatre forme diverse, per fornire aiuto agli esseri viventi nei sei stadi dell’esistenza.

kappa

(Lett. «fanciullo dei fiumi»). Creatura leggendaria che vive nell’acqua di fiumi e paludi. In genere è rappresentato come un
ragazzino, fornito di un becco tagliente, con il corpo coperto di scaglie, piedi e mani palmati e una corazza di tartaruga
sulle spalle. I capelli sono ricadenti a casco e sulla testa ha una cavità (o un piccolo piatto) che contiene acqua,
garantendogli poteri straordinari.

katsura

Albero a foglie decidue, tipico dell’arcipelago giapponese, simile al mediterraneo albero di Giuda. Alto fino a trenta metri,
ha foglie cuoriformi, corteccia dalle sfumature grigie, e a primavera produce piccoli fiori rossi. Il suo legno, molto pregiato
e resistente, è usato in falegnameria.

kayu (o okayu)

Densa minestra, ottenuta facendo bollire a lungo il riso in acqua abbondante e leggermente salata.

ken

Unità di misura di lunghezza, equivalente a sei shaku, ossia circa 1,82 metri.

Kobō Daishi

(Lett. «Grande Maestro dell’Immensa Legge»). Titolo postumo del monaco Kūkai (774-835), fondatore della scuola di
buddhismo esoterico Shingon. Noto come calligrafo, poeta e scultore, è da lungo tempo vivo nella credenza e nella pittura
popolari come monaco questuante.

kōji

Insieme di cereali cotti a vapore ed enzimi che vengono fatti riprodurre nello stesso cereale. Si usa nella preparazione di
sake, salsa di soia, miso, ecc.

koku

Unità di capacità per i cereali e in particolare per il riso. In epoca Tokugawa (1603-1867) un koku equivaleva a 180 litri di
riso mondato.

kotatsu
Struttura tradizionale per il riscaldamento, che consisteva in un buco quadrato scavato nel pavimento, sul fondo del quale
era posto una specie di piccolo braciere. Sul buco veniva sistemato un basso tavolo ( yagura), ricoperto a sua volta da una
trapunta che evitava il disperdersi del calore. Per riscaldarsi, ci si sedeva sul pavimento con le gambe infilate sotto il tavolo
e coperte dalla trapunta.

koto

Cetra di legno munita di tredici corde di seta e altrettanti ponticelli regolabili: viene suonato con tre unghie d’avorio fissate
al pollice, indice e medio della mano destra. Accordi e note sono determinati dalla pressione della mano sinistra sulle
corde.

manjū

Focaccia di pasta di farina di grano lievitata, ripiena di marmellata di fagioli rossi.

matsuri

Festa popolare e rito collettivo a sfondo religioso, caratterizzati da musiche, danze, giochi e una colorata e animata
processione che porta a spalla il mikoshi, la «temporanea residenza della divinità» con accompagnamento ritmico di flauti
e tamburi.

miko

Giovane donna che presta servizio presso i templi shintoisti con il compito di eseguire danze, recitare preghiere,
interpretare il volere della divinità e comunicarne i messaggi.

miso (o omiso)

Pasta di semi di soia, fermentata con sale, lievito o cereali. Elemento indispensabile nella cucina giapponese, soprattutto
per la preparazione di brodi e minestre. Esistono numerose varietà di miso che si differenziano per il sapore, la zona di
provenienza e il colore.

miyage (o omiyage)

Dono che si offre in genere al ritorno da un viaggio o una gita e che consiste in un prodotto tipico (un oggetto, ma anche
frutta, dolci, pesciolini disseccati, alghe) della zona visitata.

mochi (o omochi)

Focaccine di riso. Si preparano con riso glutinoso cotto a vapore, poi pestato in un grosso mortaio di legno fino ad ottenere
una pasta morbida ed elastica, che viene modellata a forma di piccola focaccia. Il mochi si può abbrustolire alla griglia o
servire in brodo e costituisce uno degli ingredienti principali dei piatti preparati per le festività del Capodanno.

mon

Nel Giappone premoderno le monete in rame (talvolta in ottone o ferro), rotonde e con un foro al centro, erano indicate
come zeni o mon. Erano raccolte in cordoni di cento o mille pezzi.

Monju

(Sanscrito: Manjuśri). Bodhisattva della saggezza. L’iconografia tradizionale lo presenta spesso a cavallo di un leone,
mentre tiene fra le mani una spada, simbolo della conoscenza e un libro che rappresenta le scritture sacre.

nakōdo
Persona incaricata di agire da intermediario fra due giovani a scopo matrimoniale.

negi

Porro (Allium ampeloprasum). Ortaggio molto in uso nella cucina giapponese. Omofono di negi, sacerdote shintoista.

nenbutsu

Giaculatoria. La ripetizione dell’invocazione Namu Amida butsu («Sia lode al buddha Amida») era per le scuole buddhiste
un elemento di fondamentale importanza che doveva assicurare ai fedeli la salvezza nel Paradiso della Terra pura.

nigirimeshi (o onigiri)

Polpette di riso, uno dei piatti piú antichi della cucina giapponese. Oggi si preparano in genere con riso bianco bollito e
contengono all’interno una prugna sotto sale o un pezzetto di tonno o uova di merluzzo. Hanno forma rotonda, cilindrica o
triangolare e possono essere avvolti da un quadrato di alga nori. Vengono serviti freddi o caldi, passati sulla griglia e
spennellati di salsa di soia.

(Lett. «talento»). Genere drammatico considerato la forma classica per eccellenza del teatro giapponese. Sorto verso la fine
del XIV secolo dalla fusione di elementi drammatici, musica e danza, fu portato a livelli artistici insuperati da Kan’ami
(1333-84) e dal figlio Zeami (ca. 1364 - ca. 1443).

obi

Lunga fascia di seta o broccato che si annoda in vita sopra il kimono.

oiran

Termine generale per indicare le cortigiane di alto rango, a partire dalla metà circa del XVIII secolo. In particolare, nel
quartiere di divertimento Yoshiwara di Edo (l’attuale Tōkyō), era un termine di rispetto col quale le apprendiste
indicavano le cortigiane piú anziane.

okayu

Vedi kayu.

omiyage

Vedi miyage.

onigiri

Vedi nigirimeshi.

ri

Unità di misura di lunghezza, equivalente a poco meno di 4 km.

ryō

Unità di misura per oro e argento. In epoca Tokugawa (1603-1867) divenne anche unità di moneta: un ryō d’oro pesava
circa 18,04 grammi.

sakaya
Fabbrica o rivendita di sake.

sake

Bevanda alcolica ottenuta dal riso fermentato, di colore trasparente.

samurai

(Lett. «colui che è al servizio»). Nel corso dell’ XI secolo indicava semplicemente un funzionario che prestava servizio (non
necessariamente armato) presso qualche nobile di corte. In seguito, il termine passò a designare i membri dell’aristocrazia
guerriera, detentrice dell’effettivo potere politico a partire dal tardo XII secolo.

shaku

Unità di misura di lunghezza, pari a circa 30,3 cm.

shakuhachi

Termine generico per indicare i vari tipi di flauto diritto esistenti o esistiti in Giappone. Comunemente, si riferisce a un
flauto di bambú, fornito di quattro fori nella parte anteriore e uno sul retro. Il nome deriva dalla lunghezza del modello
base, uno shaku e otto (hachi) sun, ossia 54,5 cm.

shamisen

Liuto a tre corde formato da una piccola cassa armonica e un lungo manico sottile. Le due facce della cassa erano in
origine ricoperte da una pelle di serpente, oggi sostituita per lo piú da pelle di gatto. Si suona per mezzo di un grande
plettro d’avorio. Oltre a far parte dell’orchestra di alcune fra le principali forme teatrali «classiche», come il kabuki o il
teatro di burattini, lo shamisen accompagna spesso anche i canti popolari.

shō

Unità di misura di capacità, equivalente a dieci gō, ossia circa 1,8 litri.

shōji

In generale, pareti scorrevoli utilizzate per separare i confini fra una stanza e l’altra oppure poste all’interno di finestre o
verande. Oggi, il termine indica in particolare gli scorrevoli formati da una sottile intelaiatura di legno ricoperta da carta di
riso che lascia filtrare la luce.

soba

Vermicelli di grano saraceno. Possono essere serviti in brodo o asciutti; in quest’ultimo caso, vengono intinti in un
condimento a base di salsa di soia, alghe e porri tagliuzzati.

sōmen

Vermicelli di farina di frumento, a lungo considerati cibo piú raffinato e costoso rispetto ad altri tipi di pasta.

suimono

Piatto della cucina giapponese. A un brodo di base (dashi) si aggiungono sake, soia, sale; la minestra viene arricchita con
pezzi di pesce, funghi, gamberetti, verdure e cosí via.

sun

Unità di misura di lunghezza, equivalente a 3,03 cm.


susuki

(Miscanthus sinensis). Pianta della famiglia delle Graminacee che spesso cresce in grossi cespugli nei terreni incolti o
lungo corsi d’acqua. Può raggiungere i due metri d’altezza. In autunno produce infiorescenze bianche e setose.

sūtra

Registrazione degli insegnamenti del Buddha storico, letteralmente «ordito» inteso come il filo che penetra i principî della
realtà e li tiene insieme. Il termine è adoperato anche in senso generale per indicare le scritture sacre.

tabi

Specie di calzini, con l’alluce separato, che si allacciano dietro il collo del piede per mezzo di tre ganci e si indossano con
il kimono per ripararsi dal freddo o nelle occasioni formali. Potevano essere di pelle o, a partire dalla metà circa del XVII

secolo, di cotone.

tan

Unità di misura per tessuti, che corrisponde approssimativamente alla quantità necessaria per confezionare un kimono,
ovvero a circa 10 metri di lunghezza per un’altezza di 34 cm.

tanuki

(Canis viverrinus, nyctereutes o procionides). Animale della famiglia dei Canidi, coperto da una folta pelliccia, con una
lunga coda, il muso aguzzo e macchie scure attorno agli occhi, che ricordano quelle del procione. La leggenda gli
attribuisce poteri soprannaturali.

tasuki

Lunga fascia incrociata sulla schiena che serve a trattenere le maniche del kimono all’altezza delle spalle o degli
avambracci quando si eseguono lavori domestici.

tatami

In origine, termine generale per indicare stuoie di giunco, paglia o bambú, o anche pelli di animali o drappi di seta, che
venivano stesi sull’impiantito delle case aristocratiche. Oggi, si intende una struttura rigida, dalle misure standard (90 ×
180 cm circa) che ricopre i pavimenti delle stanze in stile giapponese. I tatami attuali sono formati da stuoie di giunchi
intrecciati che rivestono una spessa imbottitura di paglia di riso e sono bordati da una passamaneria decorata.

tengu

Folletto che vive tra le montagne. L’iconografia classica ce lo presenta con sembianze umane, viso rosso e naso
lunghissimo, spesso vestito con l’abito tradizionale degli eremiti e in possesso di un ventaglio che gli dà poteri magici.
Fornito di ali, vola liberamente nel cielo, e la sua presenza si manifesta all’improvviso mediante scoppi di risate o lanci di
manciate di sassolini.

Unità di misura di capacità, equivalente a dieci shō, ossia circa 18 litri.

tōfu (o otōfu)

Uno degli alimenti indispensabili nella cucina giapponese. Ottenuto cagliando la soia, ha consistenza morbida, colore
bianco e sapore appena percettibile. Si può consumare crudo, fritto, bollito con verdure o nelle minestre.
tokkuri (o tokuri)

Contenitore di metallo, ceramica o vetro, alto e sottile, stretto verso l’imboccatura, per sake, salsa di soia, aceto, ecc.

tokonoma

Nelle stanze in stile giapponese indica una rientranza ricavata nella parete, che va dal soffitto al pavimento, e dove trovano
posto un dipinto, un esemplare di calligrafia o un vaso con fiori. In genere, l’ospite d’onore siede con le spalle al
tokonoma.

torii

Tipico portale di ingresso dei santuari shintoisti, che simbolicamente segna il passaggio dal mondo umano a quello delle
divinità. La struttura era in origine molto semplice e consisteva in due pilastri di legno grezzo sormontati da due travi
orizzontali. In seguito, travi e pilastri acquistarono forme piú complesse e spesso vennero rivestiti di lacca rossa. In tempi
recenti, il legno è stato talvolta sostituito da pietra, metallo o cemento armato.

uri

Termine generale per piante della famiglia delle Cucurbitacee, che comprende cetriolo, melone, cocomero, zucca, luffa,
lagenario, ecc.

uwepeker

Recitativi in prosa che appartengono alla letteratura orale degli Ainu.

yakimeshi

Polpettine di riso spennellate di soia e abbrustolite (vedi nigirimeshi).

Yakushi (Yakushi Nyorai)

Dizione popolare per Yakushirurikō («Luce di lapislazzuli del Maestro della Medicina»), Buddha della Terra di
Lapislazzuli orientale. Come bodhisattva, espresse dodici voti, tra i quali quello di curare le infermità degli esseri umani.

yamabushi

(Lett. «Coloro che vivono sui monti»). Eremiti che si dedicavano a pratiche religiose dove si fondevano elementi
shintoisti, taoisti e buddhisti.

yamanba (o yamauba)

Figura leggendaria: ha le sembianze di una vecchia strega dai capelli bianchi, lo sguardo torvo e la bocca enorme, vive nei
recessi delle montagne e possiede capacità magiche. Spesso presentata come figura totalmente negativa, la yamanba
cattura e divora gli uomini che incontra sulla sua strada. Tuttavia, in alcuni casi, si presenta come spirito benevolo che
assiste le donne al momento del parto, regala oggetti magici (come il martelletto che esaudisce i desideri), aiuta nel lavoro
dei campi o nella tessitura. La tradizione le attribuisce inoltre la scelta di allevare da sola i propri numerosi figli. Fra gli
eroi leggendari ritenuti nati da una yamanba, si ricorda il famoso guerriero Sakata no Kintoki, o Kintarō.

yukar

Poemi epici che formano la parte piú ricca della letteratura orale degli Ainu. Declamati con l’accompagnamento di una
melodia, essi sono divisi in kamui yukar, poemi riguardanti le divinità, oina, canti relativi a divinità specifiche che hanno
trasmesso la cultura agli uomini, e ainu yukar, che cantano le avventure degli eroi umani. In genere, sono narrati al
presente e in prima persona.
Bibliografia
Collezioni:

Inada Kōji, Nihon mukashibanashi tsūkan («Prospetto e analisi della fiaba giapponese»), 28
voll., Dōhōsha, Kyōto 1988.
Inada Kōji e Inada Kazuko (a cura di), Nihon mukashibanashi hyakusen («Cento fiabe
giapponesi»), Sanseidō, Tōkyō 1971.
Seki Keigo (a cura di), Nihon mukashibanashi taisei («Raccolta completa di fiabe
giapponesi»), 12 voll., Kadokawa shoten, Tōkyō 1979-80.
Id., Nihon no mukashibanashi («Fiabe del Giappone»), 3 voll., Iwanami bunko, Tōkyō 1956-
57.
Yanagita Kunio, Nihon mukashibanashi meii («Guida alla fiaba giapponese»), Nihon hōsō
kyōkai, Tōkyō 1948.

Opere giapponesi di consultazione:

Baba Akiko, Oni no kenkyū («Studio sugli oni»), Chikuma bunko, Tōkyō 1996.
Gorai Shigeru, Oni mukashi («C’erano una volta i demoni»), Kadokawa sensho 209, Tōkyō
1991.
Hattori Kunio, Mukashibanashi no hen’yō («Metamorfosi della fiaba»), Seikyūsha, Tōkyō
1989.
Hoshino Yukihiko, Kitsune no bungakushi («Storia della letteratura sulla volpe»), Shintensha,
Tōkyō 1995.
Ishida Eiichirō, Momotarō no haha («La madre di Momotarō»), Kōdansha, Tōkyō 1956.
Ishikawa Jun’ichirō, Kappa no sekai («Il mondo dei kappa»), Jijitsūshinsha, Tōkyō 1974.
Ishikawa Junko, Ryō no chibusa o me ni shite («Volgendo gli occhi alle due mammelle»),
Seijisha, Tōkyō 1979.
Kawai Hayao, Mukashibanashi no sekai («Il mondo delle fiabe»), in Kawai Hayao
chosakushū («Raccolta di opere di Kawai Hayao»), V, Iwanami shoten, Tōkyō 1994.
Id., Mukashibanashi to nihonjin no kokoro («Le fiabe e la psiche dei Giapponesi»), Iwanami
shoten, Tōkyō 1995.
Konjaku monogatarishū («Raccolta di racconti del tempo che fu»), in Nihon koten bungaku
taikei («Grande collana di letteratura classica giapponese»), 25, Iwanami shoten, Tōkyō
1965.
Namekawa Michio, Momotarōzō no hen’yō («Le metamorfosi di Momotarō»), Tōkyō
shoseki, Tōkyō 1981.
Nibudani no techō («Taccuino di Nibudani»), Kokushisha, Tōkyō 1987.
Nihon minwa no kai (a cura di), Nihon no minwa («La fiaba popolare giapponese»),
Kodansha, Tōkyō 1991.
Nihon ryōiki («Storie miracolose del Giappone»), in Nihon koten bungaku taikei («Grande
collana di letteratura classica giapponese»), 70, Iwanami shoten, Tōkyō 1967.
Ozawa Toshio (a cura di), Mukashibanashi nyūmon («Introduzione alla fiaba»), Gyōsei,
Tōkyō 1997.
Id. (a cura di), Nihonjin to minwa («I Giapponesi e la fiaba»), Gyōsei, Tōkyō 1980.
Id., Sekai no minwa («Le fiabe di tutto il mondo»), Chūōkōronsha, Tōkyō 1979.
Sasama Yoshihiko, Umi to yama no rajo («Le donne senza veli del mare e dei monti»),
Yūzankaku shuppan, Tōkyō 1995.
Satake Akihiro, Minwa no shisō («Ideologia della fiaba»), Chūōbunko, Tōkyō 1990.
Seki Keigo, Momotarō no kyōdo («Il paese natale di Momotarō»), in Seki Keigo chosakushū
(«Raccolta di opere di Seki Keigo»), IV, Dōhōsha, Kyōto 1980.
Id., Mukashibanashi no rekishi («La storia della fiaba»), ibid., II, Dōhōsha, Kyōto 1982.
Takeda Tadashi, Mukashibanashi no hakken («La scoperta delle fiabe»), Iwanami shoin,
Tōkyō 1995.
Torigoe Shin, Momotarō no unmei («Il destino di Momotarō»), Nihon hōsō shuppan kyōkai,
Tōkyō 1983.
Yamanba, in Nihon koten bungaku zenshū («Raccolta completa di letteratura classica
giapponese»), 34, Shōgakukan, Tōkyō 1975.
Yanagita Kunio, Momotarō no tanjō («La nascita di Momotarō»), in Yanagita Kunio zenshū
(«Raccolta completa delle opere di Yanagita Kunio»), X, Chikuma bunko, Tōkyō 1990.
Id., Tōno monogatari («I racconti di Tōno»), ibid., IV, Chikuma bunko, Tōkyō 1989.

Altre opere di consultazione:

Addiss, Stephen (a cura di), Japanese Ghosts and Demons, George Braziller, New York 1985.
Akutagawa Ryūnosuke, Racconti fantastici, a cura di C. Ceci, Marsilio, Venezia 1995.
Bettelheim, Bruno, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle
fiabe, Feltrinelli, Milano 1997.
Calvino, Italo, Sulla fiaba, Einaudi, Torino 1988.
Casal, U. A., The Goblin Fox and Badger and Other Witch Animals of Japan, in «Asian
Folklore Studies», XVIII (1959).
Di Nola, Alfonso Maria, Riso e oscenità, in Antropologia religiosa, Vallecchi, Firenze 1974.
Franz, Marie-Louise von, L’individuazione nella fiaba, Boringhieri, Torino 1987.
Id., Le fiabe del lieto fine, Tea, Milano 1996.
Fromm, Erich, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1994.
Iring, Fetscher, Chi ha svegliato la bella addormentata?, Emme Edizioni, Milano 1982.
Koschmann, Victor J., Ōiwa Keibō e Yamashita Shinji, International Perspective on Yanagita
Kunio and Japanese Folklore Studies, Cornell University Press, New York 1985.
Lüthi, Max, La fiaba popolare europea, Mursia, Milano 1992.
Marazzi, Antonio, La volpe di Inari e lo spirito giapponese, Sansoni, Firenze 1990.
Mayer, Fanny Hagin (a cura di), The Yanagita Kunio Guide to the Japanese Folk Tale,
Indiana University Press, Bloomington Ind. 1986.
Morse, Ronald A., Yanagita Kunio, and the Folklore Movement. The Search for Japan’s
National Character and Distinctiveness, Garland Publishing, New York - London 1990.
Philippi, Donald L., Kojiki, University of Tokyo Press, Tōkyō 1968.
Id., Songs of Gods, Songs of Humans - The Epic Tradition of the Ainu, University of Tokyo
Press, Tōkyō 1979.
Pisanty, Valentina, Leggere la fiaba, Bompiani, Milano 1993.
Propp, Vladimir, Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 1982.
Id., Morfologia della fiaba, Newton Compton, Roma 1976.
Roberts, Warren E., The Tale of the Kind and the Unkind Girls, Wayne State University
Press, Detroit Mich. 1994.
Siddle, Richard, Race, Resistance and the Ainu of Japan, Routledge, London - New York
1996.
Thompson, Stith, La fiaba nella tradizione popolare, Il Saggiatore, Milano 1994.
Tsushima Yuko (a cura di), Tombent, tombent les gouttes d’argent. Chants du peuple Ainou,
Gallimard, Paris 1996.
Walter, Alain, Erotique du Japon classique, Gallimard, Paris 1994.
Warner, Marina, From the Beast to the Blonde, Vintage, London 1995.
Weiner, Michael (a cura di), Japan’s Minorities. The Illusion of Homogeneity, Routledge,
London - New York 1997.
Zipes, Jack, Breaking the Magic Spell, Routledge, New York 1992.
Il libro
G iovani eroi, stanze proibite, mostri e fantasmi, fanciulle trasformate in animali, streghe malvagie, dèmoni divoratori di
uomini, orchi che ridono, volpi infide e imprevedibili. Divise per provenienza geografica (Nord-est, Centro e Sud-
ovest del Giappone, con forti differenze di temi e di stile), le fiabe presentate in questo volume da Maria Teresa Orsi
danno un quadro affascinante di un panorama favolistico peculiare. Un patrimonio di racconti popolari e fantastici, di storie per
tanti versi simili a quelle della nostra tradizione, ma immerse in un’atmosfera che può risultare strana se non sconcertante a un
lettore occidentale. Leggerle significa godere di una straordinaria fascinazione narrativa, con punte di suggestioni metafisiche e
surreali, ma anche affrontare un viaggio nell’«altro modo di pensare».

A cura di Maria Teresa Orsi.


Traduzioni di Virginia Sica, Maria Gioia Vienna, Matilde Mastrangelo.
© 1998 e 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Traduzioni di Virginia Sica (Nord-est, Fiabe degli Ainu), Maria Gioia Vienna (Centro), Matilde Mastrangelo (Sud-ovest)

In copertina: Utagawa Hiroshige, Murasaki Shikibu, xilografia a colori dalla serie Trentasei poetesse immortali, 1840 circa. (Foto © Bridgeman Images / Mondadori Portfolio).

Progetto grafico: 46xy.


Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in
alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto
dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce
una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto
dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere
imposte anche al fruitore successivo.
www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858436684

Potrebbero piacerti anche