Quando ero ancora bimbetto, i compleanni, come altre
importanti ricorrenze, si festeggiavano rigorosamente in casa, in due fasi ben distinte. La prima, la più importante, era quella dedicata al “parentame”. Questo evento si concretizzava in un pranzo domenicale di quelli che mio nonno era solito commentare, vista l’abbondanza di cibo, con una frase sibillina: “Accidenti alla fame nel mondo!”. Pure il vino non scarseggiava, anche se solitamente era di qualità non adeguata a confronto delle leccornie messe in tavola da mamma e nonna. La bassa gradazione alcolica di quel nostrano succo d’uva era comunque sufficiente per far alzare il livello della discussione fra i maschi della famiglia. Non che l’argomento fosse obbligatoriamente il calcio o la formula uno, ma una discussione sulla musica “pop” capitava ancor più raramente. Mi ricordo che una volta chiesi a mio fratello quale fosse la sua canzone preferita del momento. Mi rispose: “L’angelo azzurro”. Non la conoscevo. Come faceva? Gli girai la domanda. Lui non me la cantò, si limitò a recitarne un pezzetto cercando di seguirne la linea melodica:
“Se tu sei l’angelo azzurro
Questo azzurro non mi piace La bellezza non mi dice Le parole che vorrei Quanti baci e tradimenti ...oni e pentimenti...” C’era una parola mancante che non voleva venir fuori. Era un termine che, a suo dire, doveva finire in “oni” ma non si rammentava cosa fosse. Dopo un breve silenzio di seria riflessione scappò da ridere ad entrambi. No, con grande probabilità il testo non faceva menzione di attributi maschili. Provammo lo stesso, con gran divertimento, ma “coglioni” incespicava sul verso, non tornava bene all’orecchio. Alla fine, dopo vari improbabili tentativi (tormentoni, scatoloni, etc) optammo per un non sense alla Cochi e Renato/Jannacci:
“...lampi, tuoni e pentimenti
fan di te una donna sola che da sola resterà...”
Poi più niente. A memoria, Vincenzo detto “Ugo Lupo”
(alias mio fratello), non ricordava altro. Nessuno dei presenti in tavola era in grado di aiutarlo. Quel giorno capii l’importanza della scelta delle parole per una canzone. Decisi che avrei provato ad inventarne qualcuna. Giorni dopo presi un piccolo quaderno a quadretti e cominciai a trascrivere il testo della canzone di Umberto Balsamo. Lo avevo scovato su “Il Monello” o rivista simile. L’intento era quello di avere qualche campione di riferimento prima di lanciarmi a comporre qualcosa di mio. Dopo “L’angelo azzurro” sul quaderno finirono, in ordine temporale, astrusità del tipo “Figli delle stelle”, “Soli” cantata da Celentano e “Solo noi”, vincitrice di un Festival di San Remo. Intanto nei famosi pranzi di compleanno la musica latitava, eccezion fatta per qualche cantatina del babbo a fine pasto. La sua intenzione era quella di rendere omaggio alla canzone melodica dei vari Luciano Tajoli e Arturo Testa. Mi piaceva soprattutto quando mio padre intonava qualche frase talmente epica da apparire quasi assurda:
“...I cavalli son stanchi nell'umida sera
Ma la folta criniera Sembra il vento invocar..”
Ma, come una furia che passa, la musica la porta via il
vento e, a banchetto in corso, l’argomento principe era sempre e soltanto quello inerente al cibo. Garbava (e piace ancora) parlare di mangiare con il boccone in bocca. Testa e pancia saziate in un colpo solo. Che pacchia! Almeno finché non entrava in ballo la politica. Il momento storico lo esigeva. Qualunque fosse il grado di interesse su temi quali l’educazione, il mondo del lavoro, la salute, la cultura e lo svago, nessuno poteva esimersi dall’esprimere la propria opinione. Oddio, a pensarci bene, in questo familiare dibattito qualcosa di musicale c’era. Repertorio classico moderno. Partiva adagio, su scale tonali, ma poi c’era un crescendo strano finché, ad un certo punto, il direttore d’orchestra (se mai ce n’era uno) faceva cadere la bacchetta ed i “suonatori” cominciavano ad andare per conto loro, provocando un frastuono assordante. Tutti a suonare in modo casuale. Musica aleatoria alla ribalta, pace casalinga terminata. Difatti, quando i toni diventavano accesi, non c’era modo di non farsi invischiare nella accanita discussione. Quello era il momento in cui bisognava stare molto attenti alla frase da pronunciare. Un discorso del tipo: “Le elezioni le abbiamo vinte noi...” avrebbe causato un repentino “sparecchiamento” della tavola grazie al vortice causato dal giramento di palle dei presenti, quantomeno di quelli simpatizzanti un diverso schieramento politico. Solo un pugno sul tavolo ed un “ma che cazzo dici?!” “berciato” a squarciagola avrebbero (forse) ristabilito gli equilibri fra le varie forze, condannando però una discreta quantità di vetro a frantumarsi sul pavimento. La mamma ci sarebbe rimasta male. Passi la perdita della grappa “nostrana”, bevanda alcolica d’indegno gusto fatta con sommo spreco di vinacce, fuoco, alambicchi e tempo. Tempo che, a ragione, mia madre considerava impropriamente sottratto a faccende ben più importanti. Passi la sgradevolezza (per non dir di peggio) di certe parolacce buttate là come intercalare. Passi pure qualche alzata di voce non contemplata nelle regole del bon ton. Perdonabile persino la botta sul tavolo perché, come si suol dire, “quando ci vuole, ci vuole”. Ciò che avrebbe turbato la mamma sarebbe stata la perdita dei bicchierini. Ogni volta erano quelli del “servito buono” della bisnonna buonanima: “Pace all’anima sua... lei ci teneva come alle cosine sante e benedette...”. Se il momento non fosse stato così drammaticamente serio mi sarebbe venuto da chiedere: “ma quanti bicchierini teneva la bisnonna?”. Ma questi “fattacci” non eran certo all’ordine del giorno e sulla faccenda dei bicchieri rotti ho un tantinello esagerato.
Quello che veramente mandava in bestia tutti i
commensali di sesso maschile erano altre due parole. Una era compromesso, l’altra era storico. Di fronte al “compromesso storico” era talmente impossibile trovare una intesa che tanto valeva non parlarne affatto. Invece nascevano dibattiti così vivaci che dopo ore di concitati discorsi ognuno restava della sua idea. In queste circostanze spesso indugiavo sul da farsi fino a restare lì, fisso e rigido come un baccalà, congelato in una situazione in bilico fra il divertito (poco) e lo sbigottito (molto). Non riuscivo a capire cosa poteva esserci di tanto perverso in un compromesso storico. Nella mia testolina il ragionamento che mi facevo era semplice: compromesso significa che si è giunti ad un accordo. Patto per di più storico, quindi importante, epico”. Non ce fa feci più e sbottai: “Ehi, questa è la mia festa. Quindi smettetela di “azzipittarvi” su questo accordo epico”. Il risultato fu quello di suscitare solo un po’ di ilarità ed il dibattito riprese più acceso di prima. Soltanto molto tempo dopo sono arrivato a capo di quello che era il dilemma insito nel “compromesso storico”. La controversia, in quei giorni di governo di solidarietà nazionale, nasceva fra coloro che ritenevano che la prospettiva di trasformare la società italiana, come il movimento del ‘68 si riproponeva, fosse ormai svanita e coloro che pensavano che la spinta innovatrice della politica di sinistra non si fosse per niente esaurita. La storia ha dato ragione ai primi mentre io parteggiavo per i secondi. C’è poco da fare. La predisposizione ad avere un pensiero non sincronizzato ai comportamenti del momento l’ho dimostrata fin da piccolo. Poi arrivò il punto di non ritorno, quando ciò che solitamente si piega giunge a spezzarsi. Il momento topico fu il “misterioso” rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. La situazione generale, di lì a poco, sarebbe notevolmente cambiata. Il futuro che mi aspettava era figlio di un “porco con le ali” fortemente disimpegnato. L’avvenire aveva la faccia di un ragazzo con la faccia pulita, senza la barba ma con basette fini, squadrate e lunghette. Aveva i capelli corti ma con davanti un ciuffo enorme tenuto su dalla gommina spray. Bretelle e cravatta, gessato e Timberland. Era lui il predestinato ad organizzare l’assemblea di istituto che, guarda caso, cominciò a cadere nel giorno in cui, per la sua classe, ci sarebbe stato compito di matematica. Era ancora lui quello pronto a partecipare all’occupazione dell’ateneo soltanto per fare il filo a quella ragazza troppo “impegnata” per i suoi gusti, ma troppo bella per non provarci. Sempre lui quello che in seguito avrebbe speculato su flaccidi figli di papà, vendendo loro una caterva di lauree false, un po’ di lacca per fissare le idee, scampoli di personalità e qualche rimasuglio d’ideali a prova di bomba. Prima della morte di Moro ogni domanda esistenziale era più che lecita, dopo quel delitto restava solo da capire chi non fosse stato tentato dal contribuire ad una pessima ripartizione della ricchezza: “Compagno di scuola, compagno di niente ti sei salvato dal fumo delle barricate? Compagno di scuola, compagno per niente ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?..”
Incredibile ma vero! Qualcosina sulla musica di
Antonello Venditti era arrivato anche a me. Il cantautore romano aveva appena inciso un 45 giri che fungeva bene da colonna sonora di quel momento storico. Lato A: “Sotto il segno dei pesci”. Lato B: “Sara”. Quest’ultima canzone era assai famosa fra noi ragazzini delle medie dal momento che una alunna della nostra classe era rimasta incinta. Ma non si chiamava Sara. Il suo nome era Barbara. Liceo ginnasio statale Terenzio Mamiani di Roma chiama, Scuola media Galileo Galilei di Pieve a Nievole, risponde. Il bello del brano B era tutto lì. Ma “Nata sotto il segno dei pesci” non rivelava che in fondo eravamo già entrati in un periodo disimpegnato? Certo che sì. Al momento quella canzone non la capii. Era orecchiabile e tanto mi bastava. Peccato, avessi saputo che stavo già vivendo nel cosiddetto “riflusso”, forse mi sarei adeguato. Insomma erano tempi duri per un imberbe imbecille qual ero, perso in una generazione obbligata a sperare e destinata a restare delusa. Ma non tutto il male viene per nuocere. Seppur ancora fermo sulle melodie tipo quelle canticchiate da mio padre mi resi almeno conto che, per scrivere una canzone “ a modino”, ben altro mi sarebbe occorso rispetto a dei puledri stracchi in una rorida notte. Nel mio prezioso taccuino riportai un gran numero di testi, nessuno dei quali, per fortuna, originato dalla mia inventiva. La mia carriera di autore, se non proprio finita, era almeno rimandata. Eppoi avevo altre priorità. Mi serviva un’idea su come trascorrere un compleanno diverso per non finire in una canzone di Claudio Lolli:
“...Si porta in tavola una torta di mele con su piantate venti
candele e lo spumante dell'anno scorso, tenuto in frigo, rimasto lì. Si porta in tavola la commozione tutti i ricordi di giovinezza, la ruota gira, gira il timone fa capolino un po' di tristezza...”.
L'Ottavo Cancello (Verità Scomode Di Un Medico Pianista) Di Fabio Pollachini Youcanprint Edizioni. La Storia Del Dottor Salvatore Caminiti Medico Del Carcere Di San Vittore