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come scrivere un libro
MASSIMO PETRUCCI
Copyright © 2013 Massimo Petrucci
All rights reserved.
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni
internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi
elettronici, meccanici o altro senza l’autorizzazione scritta dell’autore.
Finito di stampare nel mese di Novembre 2013
ISBN-13: 978-1494304492
ISBN-10: 149430449X
DEDICA
I personaggi
I dialoghi
Scrivere è un mestiere e lo devi saper fare
Iniziare col piede giusto: l’incipit
Invece di spiegare, mostra
L’ambientazione
La struttura narrativa
Il climax
L’explicit
E se… situazione più che trama
Lo scrittore è un bugiardo, ma in fin di bene
Due parole sullo stile e sulla descrizione
Digressione: e vai col fuori tema!
Il nome dei personaggi
Un po’ di dritte sulla scrittura
Appunti di scrittura creativa
La piaga purulenta degli editori a pagamento
Come preparare il dattiloscritto per gli editori
La scelta della casa editrice
Lettera di presentazione e sinossi
Sull’argomento, a me sono piaciuti questi libri
Su di me: piccola nota egocentrica
Sui Social Network mi trovi qui
RINGRAZIAMENTI
L’Universo,
Lo stesso Stephen King confessa di scrivere circa dieci pagine al giorno, per
un totale di circa 2000 parole (parole non battute), molto o poco? Facciamo
due conti: fino a qui hai letto 1424 parole: Stephen ti sono con il fiato sul
collo!
Duemila parole al giorno, dopo tre mesi di lavoro, equivalgono a circa
183.000 parole, un bel romanzo di oltre trecento pagine per far trascorrere al
nostro lettore un bel po’ del suo tempo libero; sempre che, naturalmente, la
storia sia interessante.
Alla luce di quanto ci siamo detti, a creatività e tecnica si aggiungono costanza
e disciplina e se qualcuno protestasse affermando che obbligare con rigore e
disciplina un processo creativo è una bestemmia, allora chiamo a dare la sua
testimonianza il dott. Gregory Bateson, grande linguista, antropologo e
sociologo: “Il rigore da solo è la morte, ma la creatività da sola è la follia”.
Grazie dott. Bateson.
Il giusto connubio tra la disciplina e la creatività porta di certo a buoni (e
spesso grandi) risultati… anche andando fuori tema. Ricordi che ne abbiamo
parlato proprio qualche pagina fa? Non devi aver paura di andare fuori
tema.
Se ci pensi, ogni grande romanzo si può sintetizzare in poche parole, ad
esempio: un povero falegname si costruisce un burattino perché si sente molto
solo; il burattino, per magia di una fata, diventa infine un bambino vero.
Senti questa: due giovani vedono la loro unione ostacolata da un uomo ricco
e prepotente, che rapisce la giovane donna. Alla fine, grazie ad un’epidemia di
peste, l’uomo prepotente muore e i due giovani possono finalmente sposarsi.
Un altro esempio: in un convento alcuni frati vengo uccisi. Indaga un altro
frate accompagnato da un novizio apprendista che poi è colui che racconta la
storia.
Il primo, come avrai intuito, è Pinocchio, poi I promessi sposi e quindi Il
nome della rosa.
Prendiamo Pinocchio – io amo Pinocchio - e senza interrogarci troppo sulle
dinamiche che hanno spinto Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini) a
scrivere questa favola, poniamoci questa domanda: come potremmo ri-
scrivere questa storia? Non dico di riscrivere la storia di Pinocchio, ma
partendo dalla sintesi che hai letto, provare a scrivere la tua versione senza il
Gatto e la Volpe, senza Mangiafuoco, ma con i tuoi personalissimi personaggi
buoni e cattivi.
Se ci pensi, si potrebbero comporre infinite storie che hanno come
protagonista un falegname ed un burattino fatato oppure… stregato! La Fata
Turchina potrebbe essere la Strega Nerina e Pinocchio potrebbe diventare un
mostro assassino che alla fine uccide il suo Geppetto. Oppure il burattino
potrebbe essere donna, il Campo dei Miracoli potrebbe davvero far crescere i
soldi sull’albero, Pinocchio potrebbe innamorarsi di Colombina burattina e
rapirla, insomma le strade della fantasia sono infinite.
Cosa ne dici di smetterla con la teoria e fare un po’ di sana pratica? Non si
dimagrisce leggendo la dieta, giusto? Ecco la prima esercitazione, puoi
scriverla e tenerla per te oppure, se ti va, inviarmela per posta a
info@massimopetrucci.it avrò piacere di leggerla e magari scriverti due righe
di risposta.
La tua storia deve essere lunga al massimo 3400 battute (spazi esclusi), ma
non meno di 2000 battute di testo. Deve raccontare, nello stile che preferisci
(favola, horror, fantasy, notizia data al telegiornale o altro) e nel tempo storico
che vuoi (passato, presente, futuro) la storia di un falegname che sentendosi
troppo solo decide di costruirsi un burattino il quale per magia, tecnologia o
quello che ti pare, inizia a muoversi da solo.
In bocca al lupo o forse, dato il tema, sarebbe meglio dire in culo alla
balena!
Direi che è giunto il momento buono per chiudere questo capitolo, ma prima
un breve riepilogo per punti.
• Non temere la pagina bianca, essa si affronta una parola dopo
l’altra.
• Il tuo romanzo può essere una cosa da approcciare con piacere,
come una bella casa di villeggiatura in cui scegliere di andare quando ti
pare e per il tempo che desideri.
• Tuttavia non cercare scuse per non scrivere. I grandi scrittori
c’insegnano che bisogna avere disciplina e scrivere tutti i giorni, anche
solo poche righe (o solo sette parole sparse).
• Poniti degli obiettivi alla tua portata: 2000 battute al giorno, per
iniziare.
• Non temere di andare fuori tema.
• Divertiti con la fantasia.
Ispirazione, personaggi e dialoghi
È convinzione comune che uno scrittore abbia nella mente tutto il racconto
con chiarezza, punto per punto dall’inizio alla fine. Anche se per qualcuno
può essere così, in realtà le cose vanno quasi sempre in modo completamente
opposto. Forse solo quando si “progetta” un giallo è necessario avere tutto
chiaro, ma per un romanzo le cose possono andare in tutt’altro modo.
Lo spiega bene E. L. Doctorow quando dice che
scrivere un romanzo è come guidare di notte, non vedi nulla oltre a ciò che i tuoi fari
illuminano, ma puoi fare l’intero viaggio in questo modo.
Pensare alla scrittura come terapia può andar bene se il nostro lettore è anche
il nostro psicologo, per il resto è un concetto per buona parte sbagliato.
Sempre Veronesi, in una lezione tenuta alla Minimum Fax, dice:
“Il professionista lì si ferma [quando ha un problema], lotta con questo vento,
risolve, per quel che può, o vi è travolto, se non riesce a risolvere i problemi, poi,
dopo, quando questo momentaccio è passato, scrive.
Il dilettante, invece, BUM, subito prende questo flusso di merda che gli arriva
addosso, e, per terapia, per consolarsi, per reggere meglio l’urto e illudendosi
addirittura che questo nobiliti il suo gesto, scrive. In quel modo tu dai un
imprinting alla tua natura di scrittore che non ti rappresenta. E ti porti appresso,
anzi addirittura ci lavori… è come lavorare con una penna con un macigno
sopra e scrivere con ‘sto macigno. Ti porti dietro questo ingombro addirittura
nella pagina, addirittura dai alla pagina che scrivi, e che chissà perché io dovrei
leggere, gli dai addirittura il compito di guarirti, di farti star meglio, di lenire il
tuo dolore, alla scrittura o all’arte, diciamo, terapeutica. L’arte terapeutica c’è:
è per i dilettanti, quelli che oggi lo fanno e domani non possono più farlo perché
hanno vinto il concorso alle poste e non possono più scrivere, più recitare, più
dipingere.
Allora sì: scrivete quando state male. Se il vostro approccio alla letteratura è di
tipo dilettantistico, ma ripeto… ci sono dei dilettanti straordinari in questo senso
qua, proprio per la freschezza, la prontezza con cui trasferiscono nella loro arte
quello che stanno vivendo. Il professionista si protegge, perché si deve
proteggere, perché è oggi, è domani, dopodomani, è sempre. Non puoi
permetterti di caricare su un momento molto difficile tutto lo stress che consegue
a un lavoro letterario.
Perché, ok, scrivi, ti alleggerisci del peso perché l’hai trasformato in scrittura,
l’hai trasformato in una storia, ti sei preso le tue rivincite, hai mescolato le cose
– come diceva Sartre: «la letteratura è dove chi perde vince» – chi perde vince, e
uno già sta meglio. Te lo puoi permettere dopo quello che stavi passando mentre
scrivevi, quello che stai forse ancora passando, con una speranza aggrappata a
questo manoscritto – te la puoi permettere tutta l’altra merda che ti arriva per il
fatto che hai scritto? O ti spazza via? E adesso? Siamo sempre lì: perché io
dovrei leggere quello che hai scritto? Perché la gente dovrebbe correre in
libreria a leggere quello che avete scritto anche ove ve l’abbiano pubblicato?
Allora lì sono botte vere”
Domanda: chi, oggi, in Italia, può prendersi un mese di ferie, di punto in bianco, in
novembre?”
La domanda posta da Mozzi pone una questione importante ovvero non farsi
prendere troppo dall’idea iniziale e dalla frenesia di metterla per iscritto
trascurando quei dettagli importanti che renderebbero credibile la tua storia.
Sapere che lavoro fa il tuo protagonista vuol dire sapere cosa può permettersi
e cosa no: l’auto che possiede, il quartiere in cui abita e perfino le dimensioni
del suo televisore LCD.
Come direbbe Umberto Eco, prima di metterci a scrivere è necessario
pensare con precisione ai dettagli per poter immaginare ed inventare
tutto l’universo in cui la storia si svolgerà.
Compito da svolgere: compila la scheda per i tuoi personaggi principali,
quindi controlla che la tua storia sia coerente con le risposte.
Iniziare col piede giusto: l’incipit
Ogni racconto ha un inizio particolare e magico: l’incipit.
Uno degli incipit più noti al mondo è quello usato dal cane Snoopy seduto
sulla cuccia davanti alla macchina per scrivere: “Era una notte buia e
tempestosa”. A dire il vero quest’incipit non è di Snoopy ma è una celebre
frase di Edward Bulwer-Lytton nel racconto Paul Clifford pubblicato nel
1830: It was a dark and stormy night.
Roberto Cotroneo, nel suo Manuale di scrittura creativa, dice che scrivere un
libro vuol dire sedurre il mondo e l’incipit non è altro che un principio di
seduzione. Vladimirovic Nabokov diceva che l’incipit è il palpito iniziale del
racconto, l’opera che si fa realtà.
Un buon incipit introduce ma non dice, è un’ombra dietro ad una finestra che
attira la tua attenzione, è un passante che ti guarda negli occhi come per dirti
qualcosa e poi continua per la sua strada. L’incipit dà la spinta iniziale, quella
che ti fa lasciare gli ormeggi ed iniziare il viaggio.
Te ne propongo qualcuno tra i più celebri.
The Eye (L'occhio) - di Nabokov
Conobbi quella donna, quella Matilda, durante il mio primo autunno di émigré a Berlino,
all'inizio di due segmenti di tempo: gli anni venti e gli anni venti di questo schifo di vita.
Mi avevano appena trovato un posto di istruttore presso una famiglia russa che non era
ancora riuscita a cadere in miseria, e che viveva dei fantasmi di antiche abitudini
pietroburghesi. Non avevo precedenti esperienze nel tirar su bambini: neanche la
minima idea di come parlare o comportarmi con loro. Erano due, due ragazzini. Al loro
cospetto provavo un impaccio umiliante.
La sfera, mobile all'estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le
sue ampie oscillazioni con isocrona maestà.
“Il giorno in cui morii” svela subito al lettore che il protagonista muore, ma
tuttavia è spiazzante perché è proprio la voce narrante: un morto che racconta?
Ci dice anche che fu una brutta morte: “non fu affatto divertente”. Dopo
qualche parola veniamo informati che “la brutta morte” del protagonista non è
nemmeno l’evento principale nella classifica di ciò che è accaduto, è
addirittura al sesto posto! Quindi viene subito da pensare: se la morte è al
sesto posto, cosa diavolo ci sarà nei primi cinque posti? Alla fine scopriamo
che il protagonista è donna, mamma e si chiama Lully e che il figlio, quella
mattina, le chiede di restare in casa perché è il suo compleanno.
Di’ la verità, rileggendo questo incipit non ti viene voglia di continuare a
leggere per conoscerne il seguito?
L’incipit deve avere una grande valenza in termini di suggestione, ma non
deve mai essere un riassunto di ciò che si leggerà, in esso non ci deve essere
troppo della storia che andrai a raccontare, non deve svelare troppo. un buon
incipit fa intravedere, come in quello di Safier, ma allo stesso tempo rilancia
dell’altro: dice che il protagonista muore, ma dice anche che ci sono altre
cinque cose peggiori (tutte da scoprire). Quello di Anima Mundi addirittura
non ci dice assolutamente nulla di ciò che andremo a leggere, però ci dice che
tutta la creazione dell’universo non è bastata e che c’è dell’altro degno di
essere raccontato e noi (lettori) siamo interessati proprio a quest’altro.
L’incipit deve suggestionare e creare un’attesa.
Italo Calvino scriveva:
“Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra
disposizione il mondo: […] il mondo dato in blocco, senza un prima né un poi, il mondo
come memoria individuale e come potenzialità implicita. […] Ogni volta l’inizio è
questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore [è]
l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere
raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare.”
Il colonnello non riuscì a capire se aveva sentito quella parola prima o dopo il sonno.
Stava albeggiando. La finestra si stagliava nel chiarore verde della domenica. Pensò
che forse aveva un po’ di febbre. Gli bruciavano gli occhi e dovette compiere un
grande sforzo per riacquistare la lucidità.
“Che cosa possiamo fare se non si può vendere niente?” ripeté la donna. [sua moglie]
“Per allora sarà già il venti gennaio” disse il colonnello, perfettamente cosciente. “Il
venti per cento lo pagano quello stesso pomeriggio.”
“Se il gallo vince” disse la donna. “Ma se perde. Non hai pensato che il gallo può
perdere.”
La donna si disperò.
“E nel frattempo cosa mangiamo?” chiese, e afferrò il colonnello per il collo della
maglia. Lo scosse energicamente.
Il colonnello ebbe bisogno di settantacinque anni – i settantacinque anni della sua vita,
minuto per minuto – per giungere a quel momento. Si sentì puro, esplicito, invincibile,
nell’istante in cui rispose:
“Merda.”
Ci sono poi quei finali aperti, in cui si lascia al lettore la sensazione che la
storia non finisce lì, che ci sarà dell’altro. Di solito questi finali sono utilizzati
quando si suppone che davvero ci sia un prosieguo, un progetto di più
romanzi incentrati su quel personaggio o quella storia.
Nel romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451, per Montag, dopo le tremende
esperienze narrate, s’intravede una nuova vita, nuova speranza per il futuro
che attende lui ed i suoi amici.
Si stupì, e si fece da parte, per lasciar passare Granger, ma Granger, fissandolo, gli
fece cenno col mento di proseguire. Montag riprese a camminare. Guardava,
camminando, il fiume, il cielo, le rotaie arrugginite che andavano a perdersi, a valle, tra
le fattorie, là dove i fienili rigurgitavano di fieno, là dove tanti uomini erano passati
nottetempo, in viaggio, via dalla città. Fra qualche tempo, un mese o sei mesi, certo non
più di un anno, lui sarebbe ritornato a camminare in quel punto, solo, e avrebbe
continuato la marcia fino a quando non avesse raggiunto altra gente.
Ma ora lo attendeva una lunga passeggiata mattutina fino al mezzodì, e se gli uomini
tacevano, tacevano perché c’era da pensare a ogni cosa e molto da ricordare. Forse,
un po’ più avanti nella mattina, quando il sole fosse stato alto nel cielo e li avesse
riscaldati, avrebbero cominciato a chiacchierare, o semplicemente a dire le cose che
ricordavano, perché, non c’era dubbio, essi erano ben là, ad accertarsi che molte cose
fossero al sicuro entro di loro. Montag sentiva il lento rimuoversi delle parole, il loro
pigro ribollire.
E quando fosse venuta la sua volta, che cosa avrebbe potuto dire, che cosa avrebbe
potuto offrire in un giorno come quello, per rendere il viaggio un poco più agevole? Per
ogni cosa c’è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione.
Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo. Ma che altro? Che altro
ancora? Qualcosa, qualcosa…
“E sull’una e sull’altra riva del fiume v’era l’albero della vita che dava dodici specie di
frutti, rendendo il suo frutto per ciascun mese; e le fronde dell’albero erano per la
guarigione delle genti.”
Sì, pensò Montag, ‘ecco ciò che voglio metter da parte per mezzodì.
Per mezzogiorno…
Quando saremo giunti alla Città.
I finali catartici sono quelli del tipo e vissero felici e contenti ovvero quelli a
lieto fine. Ne è un esempio il racconto L’amore ai tempi del colera di Gabriel
Garcìa Màrquez dove Florentino, dopo tormenti e sofferenze, sta finalmente
per coronare il sogno della sua vita ovvero farsi amare da Fernina. Entrambi
sono a bordo del battello della Compagnia Fluviale del Caribe di cui
Florentino ne è il proprietario. Per evitare che il viaggio subisca interruzioni,
l’uomo fa issare la bandiera del colera, ma proprio per via di questa bandiera
non possono approdare da nessuna parte e continuano ad andare avanti ed
indietro lungo il fiume. Il capitano del battello chiede a Florentino per quanto
tempo ancora devono andare avanti e indietro, ed ecco come finisce il
racconto:
Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una brina
invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza incivile, il suo amore
impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.
“Fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?” gli
domandò.
Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette mesi e undici
giorni, notti comprese.
Possono esserci romanzi senza finali? La risposta non è scontata, anzi è sì,
possono esistere. Un romanzo che mi ha fatto impazzire prima che
comprendessi il meccanismo è Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo
Calvino. Ho letto praticamente tutto di Calvino e mi sono fatto l’idea che
doveva essere un pazzo. Nel romanzo citato viene narrata la storia di un uomo
ed una donna, due lettori accaniti, che però, per una serie di vicissitudini, non
riescono mai a concludere la lettura del libro, pertanto il lettore (quello vero)
si trova a leggere continui primi capitoli. Una follia che ti consiglio di leggere.
E se… situazione più che trama
In On writing, Stephen King scrive del suo concetto di trama così:
Secondo me racconti e romanzi sono costituiti da tre parti: (1) narrazione che conduce
la storia dal punto A al punto B e poi al punto Z; (2) descrizione, che offre al lettore
un'ambientazione con un sapore di realtà; e (3) dialogo, che dà vita ai personaggi
attraverso il parlato. Vi chiederete dov’è la trama in tutto questo. La risposta, la mia in
ogni caso, è: da nessuna parte.
È per questo che sono rimasto sorpreso quando ho letto che Stephen King è
del mio stesso parere, ma ancora più quando ha scritto:
Diffido della trama per due ragioni: perché le nostre vite ne sono in larga misura prive,
anche prendendo tutte le più ragionevoli precauzioni e stilando i più accurati
programmi; e perché credo che la costruzione di una trama e la spontaneità della
creazione vera siano incompatibili.
Chiediamoci:
• Che mestiere fa il tipo? E la ragazza?
• Come mai di giovedì alle tre del pomeriggio nessuno dei due è al
lavoro?
• Lui com’è vestito?
• Come c’è andato all’appuntamento: in auto o in tram?
• E quale tram ha preso?
• E i biglietti ce li aveva in tasca o ha dovuto comperarli? E così via
Quest’esempio tratto da “Farsi credere” di Giulio Mozzi, pone l’accento
nuovamente sull'attenzione per il realismo nella finzione: il lettore vuole
credere ma non desidera essere preso in giro.
Un sabato mattina, come mio solito specialmente d’inverno, ero in libreria
perso tra gli scaffali, ero lì ipnotizzato da migliaia di titoli. Prendevo un libro,
ne posavo un altro, sfogliavo pagine a caso nella speranza di trovare qualcosa
che mi rapisse all’istante. Lo trovai e lessi uno degli incipit più folgorante che
ricordi:
<<Per fortuna era solo un sogno. Non era nuda. E le sue gambe non erano legate a
quel lettino ginecologico antidiluviano, mentre il pazzo metteva in ordine gli strumenti su
un carrello arrugginito. Poi si voltò e sulle prime non riconobbe cosa teneva nella mano
incrostata di sangue. Appena lo vide, volle chiudere gli occhi ma non ci riuscì.
<<Poi, nell’istante in cui credette di sentire l’odore della carne bruciata, ogni cosa
diventò evanescente. […] Grazie a Dio era solo un sogno, pensò. Aprì gli occhi. E non
capì.[…]>>
Versione “precisazioni”:
Alle 12,17 in un autobus della linea S lungo 10 metri, largo 3, alto 3,5, a 3600 metri dal
suo capolinea, carico di 48 persone, un individuo umano di sesso maschile, 27 anni, 3
mesi e 8 giorni, alto m 1,62 e pesante 65 chilogrammi, con un cappello (in capo) alto 17
centimetri, la calotta circondata da un nastro di 35 centimetri, interpella un uomo di 48
anni meno tre giorni, altezza 1,68, peso 77 chilogrammi, a mezzo parole 14 la cui
enunciazione dura 5 secondi, facenti allusione a spostamenti involontari di quest’ultimo,
su di un arco di millimetri 15-20. Quindi il parlante si reca a sedere metri 2,10 più in là.
Centodiciotto minuti più tardi lo stesso parlante si trovava a 10 metri dalla Gare Saint-
Lazare, entrata banlieue, e passeggiava in lungo e in largo su di un tragitto di metri 30
con un amico di 28 anni, alto 1,70, 57 chilogrammi, che gli consigliava in 15 parole di
spostare di centimetri 5 nella direzione dello zenith un bottone d’osso di centimetri 3,5
di diametro.
Versione “Comunicato-stampa”:
Chi ha detto che il romanzo è morto? In questo nuovo e travolgente racconto l’autore,
di cui i lettori ricorderanno l’avvincente «Le scarpe slacciate», fa rivivere con asciutto
e toccante realismo dei personaggi a tutto tondo che si muovono in una vicenda di tesa
drammaticità, sullo sfondo di lancinanti pulsioni collettive. La trama ci parla di un eroe,
allusivamente indicato come il Passeggero, che una mattina si imbatte in un enigmatico
personaggio, a sua volta coinvolto in un duello mortale con uno sconosciuto. Nella
allucinante scena finale, ritroviamo il misterioso personaggio dell’inizio che ascolta con
assorta attenzione i consigli di un ambiguo esteta. Un romanzo che è al tempo stesso di
azione e di stranite atmosfere, una storia di terso e spietato vigore, un libro che non vi
lascerà dormire.
Siamo tornati ancora una volta sullo stesso punto fondamentale della scrittura:
riuscire a suscitare nel lettore un’emozione. È l’emozione che tiene incollato il
lettore, non il numero di parole, altrimenti anche l’elenco telefonico sarebbe
interessante da leggere!
Con la digressione abbiamo praticamente toccato tutti gli argomenti principali
che interessano il processo creativo di scrittura. Alla base di tutto ci deve
sempre essere qualcosa che “senti dentro”, di cui senti il bisogno di
raccontare. Qualcosa che è tuo, che conosci, che ti ha colpito, di cui hai
ragionato e che senti tuo. Non raccontare o scrivere di qualcosa solo perché è
di moda. È difficile raccontare qualcosa di cui non abbiamo alcun riferimento
dentro di noi, nessun riferimento emotivo. Possiamo raccontare di cose che
non ci appartengono: se scriviamo di un serial killer è chiaro che non è
necessario avere esperienze in merito, però dobbiamo sapere quanto più
possibile sui serial killer, informarci, leggere storie di serial killer,
approfondire la nostra conoscenza con delle ricerche che possano darci spunti
illuminanti per la storia che vogliamo raccontare.
Non dimenticare di rispondere alla domanda principale: perché vuoi
raccontare questa storia? E poi, cos’ha di speciale? Perché dovrebbero
leggerla?
Anni fa era tutto più complicato, cercare le fonti era dispendioso, ma oggi non
ci sono scuse: basta digitare qualcosa su Google e ci viene fuori l’impossibile!
Forse abbiamo invertito il problema, da quando non avevamo nulla, ora ne
abbiamo troppo e bisogna saper selezionare le fonti.
Il nome dei personaggi
Una volta chiacchieravo con un’amica che aveva letto un mio racconto, d’un
tratto mi fa: “Ma tu, come li scegli i nomi dei personaggi?”
Ecco, questa è una cosa che mi fa penare, specialmente quando devo dare un
nome ai personaggi principali della storia, anche se credo che non ci siano
regole ben precise. Personalmente, il nome non mi deve evocare cattivi
ricordi specialmente se lo do ad un personaggio positivo, anzi posso fare
proprio il processo inverso: penso ad una persona positiva della mia vita ed
uso il suo nome. Non sempre però questa cosa riesce con il protagonista,
devo pensare ad un nome che mi piaccia, ma non troppo legato a qualcuno…
un’impresa.
Tuttavia l’idea di dare un nome ad un personaggio partendo da una persona
reale e che conosci all’inizio può tornare utile perché ti aiuta a dare qualche
tratto distintivo al carattere di quel personaggio. Partendo da una persona
reale, è più semplice stilizzarne una di fantasia da inserire nel romanzo. Allo
stesso modo per un personaggio negativo puoi pensare a qualcuno che ti sta
sulle balle oppure ad un personaggio cattivo realmente esistito.
Qualche volta ho avuto la tentazione di dare i nomi in ordine alfabetico: il
primo, ad esempio, lo chiamo Arturo, il secondo Bruno, il terzo Cristiana, il
quarto Dennis e così via. Magari il lettore non se ne accorgerà mai anche se,
ne sono certo, qualcuno di sicuro ci farà caso e ne parlerà!
Potresti sceglierli a caso dall’elenco del telefono oppure i primi nomi che
appaiono nel News Feed di Facebook. Potresti fare una scelta culturale e dare
gli stessi nomi che appaiono in un romanzo che t’è piaciuto particolarmente,
oppure sceglierli tra gli amici delle elementari.
Alcuni personaggi però potrebbero anche non avere alcun nome proprio, ma
essere chiamati sempre e solo con un soprannome: il Rosso, er Cimice, il
Bestio, e così via. I soprannomi spesso sono molto più evocativi di un nome
poiché portano con sé un significato ben definito: se chiamo qualcuno
Davide, non dico nulla al lettore, a parte che è un maschio; diversamente se lo
chiamo il Guercio racconto molto di più. Interessanti sono anche quei nomi
strambi o molto particolari: Arocle, Astolfo, Aristide, Ovidio ed altri del
genere.
Ribaltando tutto il discorso, un nome potrebbe valere l’altro, d’altro canto
quando ad un bambino viene dato un nome non si sa se poi da grande farà il
postino, l’avvocato, il politico oppure il serial killer!
Un po’ di dritte sulla scrittura
Queste sono annotazioni prese, rubate, ascoltate, spiate. A volte ricordo da
dove le ho prese, molte altre volte no. È un mio problema, non sono mai stato
bravo con i nomi. Sono capace di citarti aforismi ed interi brani, poi mi chiedi
chi è l’autore o quale sia il titolo del libro e ti guardo con occhi da pirla senza
saperti dare la giusta risposta. Allora non mi sforzerò di trovare la fonte per le
quattro dritte che sto per darti, ma fidati di me che non è tutta farina del mio
sacco.
Vorrei tornare nuovamente sull’uso delle parole e ti di dico qual è la mia
personale opinione: l’universo delle emozioni è enormemente più grande di
quello delle parole, enormemente. Ogni qual volta provi a tradurre
un’emozione in parole perderai inevitabilmente un po’ di quell’emozione. Più
parole userai, più “parolone” userai e più emozione perderai. Puoi giurarci.
Una cosa è dire “Provo un sentimento d’amore per te” ed un’altra è dire “Ti
amo”; non c’è storia. Le parole sono un mezzo e non un fine, l’ho già detto?
Sicuramente, ma è importante che sia chiaro perché se a passare è il tuo
vocabolario forbito e non l’emozione dell’azione che stai raccontando, allora
avrai fallito. Non sforzarti di farcire il tuo vocabolario di paroloni, puoi
cavartela tranquillamente con ciò che già hai imparato, ne sono sicuro.
Attenzione, non sto parlando di scrivere con sciatteria, ma di scrivere in modo
naturale, semplice e diretto, non sforzarti di usare sinonimi altosonanti solo
per sentirti uno scrittore più figo. È la prima parola quella che nel 99% dei
casi è la migliore che puoi usare, prendilo quasi come un dogma.
Un’altra cosa, so che potrebbe suonarti pedante, ma la grammatica è
importante. Non è questione di ricordare a memoria il gerundio passato del
verbo disfare, né la differenza tra futuro semplice e futuro anteriore, però le
regole di base vanno utilizzate se non vogliamo scrivere cose dove il lettore si
ferma ed esclama: “In che senso?” per non dire: “Che cazzo ha scritto
questo?”
Come diceva la mia prof d’italiano: la cattiva grammatica produce cattive
frasi.
Dai un’occhiata a queste:
Dopo anni sotto la polvere Luigi ha trovato il suo libro.
Chi è stato anni sotto la polvere Luigi o il suo libro?
Questa mattina ho sparato ad un elefante in pigiama.
Chi era in pigiama l’elefante o il soggetto?
Non voglio mettermi a scrivere un capitolo sulla grammatica, tanto ormai
certe cose o le sai o è troppo tardi, tuttavia un paio di cose è bene tenerle
presenti:
Frasi brevi, concise: soggetto e predicato, prima di tutto;
Un po’ di sana punteggiatura aiuta e non ha costi!
A proposito di punteggiatura, la virgola, non hai idea di quanti casini è capace
di generare una virgola piazzata male. Ci sono persone che mettono la virgola
a casaccio: una qui, un’altra là, qui che dici? Non so… va be’ la metto. Poi ci
sono quelli che la mettono ogni qual volta fanno una pausa. Senza scrivere un
trattato intitolato “Sull’uso corretto della virgola”, ecco un paio di dritte che
puoi mettere nella tua personale cassetta degli attrezzi del bravo scrittore:
la virgola non va mai
Tra soggetto e predicato verbale;
Tra predicato verbale e complemento oggetto;
Davanti alla o;
Davanti alla e di congiunzione (amo le ciliegie e le fragole), invece
ci può andare quando ha significato di “eppure” come in
quest’esempio: ti ho detto di star zitto, e tu hai parlato lo stesso.
Stesso discorso quando la e introduce un discorso coordinato: sono
passato a prendere Mario e Gianluca, e siamo andati al mare.
Tra soggetto e predicato quella propria non ci vuole, quindi scrivere:
Marco, è andato in montagna
è un errore/orrore, evitiamolo. Le frasi, lo abbiamo detto, devono essere
semplici e dirette: nome e verbo, ogni frase per essere degna di questo nome
deve contenere un soggetto (sostantivo) ed un predicato (verbo):
Martina ama.
La roccia è fredda.
Luisa chiama.
La montagna è bella.
La rogna vola.
Il becco mortifica.
Il gatto glorifica.
Tutte le frasi sono corrette dal punto di vista grammaticale, ma solo le prime
quattro hanno un senso, le altre no. Questo vuol dire che la buona grammatica
è condizione necessaria ma non sufficiente per scrivere qualcosa di decente da
essere letto. Tuttavia ci deve essere, altrimenti la lettura diventa impossibile.
Un’altra cosa, i verbi hanno due forme: l’attiva e la passiva. Se vuoi seguire il
consiglio del maestro dell’horror, allora non usare la forma passiva. A dire
il vero non è solo Stephen King a consigliarlo, ho trovato lo stesso consiglio
anche in The Elements of Style di William Strunk Jr. e E.B. White (lo trovi su
Amazon a 6,63 euro).
Ecco un esempio tratto da On Writing:
Il cadavere fu trasportato dalla cucina al salotto.
Non è sbagliata, per carità, ma qualcosa del genere sarebbe più incisivo:
Freddie e Myra trasportarono il cadavere dalla cucina al divano in salotto.
D’altra parte, parafrasando King, il morto è morto e perché diavolo dovrebbe
essere il soggetto della frase?
La pietra fu scagliata dal piccolo bastardo. No, meglio scrivere: Il piccolo
bastardo scagliò la pietra. Più diretto, semplice e… azione!
Semplificare.
Ah, un’altra cosa: l’avverbio nuoce gravemente alla salute, ragione per la
quale è meglio evitarlo o assumerne in piccolissime dosi. L’uso costante
dell’avverbio è il sintomo che hai paura di non essere chiaro, vuoi spiegare
ciò che accade per timore che al lettore possa sfuggire.
L’avverbio è un modificatore del verbo (espressione rubata da Wikipedia), ma
non solo: trasforma anche aggettivi ed in certi casi altri avverbi. Sono quelle
parole che di solito terminano in –mente.
Lisa uscì sbattendo la porta rumorosamente.
Niente di male, funziona; ma “rumorosamente” è indispensabile? Sì, se non
hai supportato questo momento del racconto con una buona e preventiva
impalcatura emotiva. Sì, se la parte del testo che l’ha preceduta non ha fatto
intuire, con le azioni ed il dialogo, che Lisa sarebbe di lì a poco uscita
sbattendo con forza la porta.
“Che ci fai qui?” chiese.
Chiese, sussurrai, gridò sono tutti verbi. Ora farciamo con qualche avverbio.
“Che ci fai qui?” chiese minacciosamente.
Forse è un po’ eccessivo, ma rende il concetto molto bene: lavora al tuo libro
tutte le volte che puoi e se qualche volta scriverai poco o niente, non
disperarti, scrivi senza false speranze.
Geoffrey Wolff disse ad un gruppo di aspiranti scrittori: “Niente trucchi da quattro
soldi”
Il lettore può essere imbrogliato una volta, ma poi si renderà conto del
giochetto e vedrà il matrix che c’è dietro alla tua scrittura, vedrà la telecamera
durante la scena del film, e tutto il tuo lavoro verrà sprecato. Si stuferà e
chiuderà per sempre il tuo libro.
John Gardner suggerì, in un corso di scrittura creativa, di usare il linguaggio comune,
quello che si usa tutti i giorni e con il quale parliamo.
Questa frase ha oltre 370 anni, è di Santa Teresa che, a quanto pare,
s’interessava anche di scrittura creativa! A parte la battuta, che la santa spero
mi perdoni, il concetto espresso è fortissimo: le parole conducono ai fatti e
preparano l’anima. Le parole sono un mezzo potentissimo se usate bene,
usarle bene vuol dire saper scegliere quelle con più impatto emotivo e di
solito sono quelle più semplici che arrivano direttamente al cuore di chi legge.
Approccio dalla fine all’inizio: si parte dal finale e si ricostruisce tutta la storia.
Non c’è cosa più noiosa di un dialogo monocorde. È difficile che due persone
parlino con lo stesso ritmo e stesso colore. Qualcuno potrebbe usare uno
slang, parole più forbite, meno forbite, dirette, meno dirette, ci potrebbero
essere fraintendimenti. Ogni personaggio ha un carattere e di conseguenza un
suo modo di parlare.
Lo scrittore è un ladro che poi restituisce con grazia.
Tutti più o meno sono in grado di scrivere un racconto che parli di un amore
ostacolato da un cattivo, di un buono che interviene e concludere con un
finale catartico in cui il cattivo muore ed i buoni vissero felici e contenti. Non
tutto sanno scriverlo come Alessandro Manzoni; giusto per andare fino agli
albori del romanzo moderno. Il concetto, ribadito più volte, è avere una storia
forte non solo nel suo contenuto, ma emotivamente forte anche per te che la
devi scrivere. Scriverla, raccontarla dev’essere per te un’esigenza, devi sentire
che lo devi fare, che merita di essere conosciuta e lo devi fare nel modo (il
“come”) migliore e più originale possibile.
La verità è che siamo sempre alla ricerca di storie, d’altra parte noi esseri
umani da sempre abbiamo assimilato concetti ed idee attraverso l’ascolto di
narrazioni passate da padre a figlio. Leggere storie è quasi un’esigenza
primordiale.
Se alla parete è appeso un fucile quel fucile prima o poi deve sparare.
A dirlo è Samuel Beckett, il senso è che in qualsiasi cosa scriviamo c’è sempre
un po’ di noi. Non vuol dire raccontare per filo e per segno le nostre vicende
di vita, ma quando assimiliamo una storia e poi la restituiamo al mondo, essa
porterà con sé una contaminazione e questa contaminazione è ciò che noi
siamo.
Ogni romanzo è un universo di bugie attraverso le quali raccontiamo la verità.
Questa è mia, consentimi questa autocitazione. I romanzi sono bugie nel senso
che sono storie spesso inventate i cui personaggi non sono mai esistiti. Sono
però verosimili ed in qualche parte del mondo magari davvero è andata così.
Saltando le biografie, che comunque spesso sono verità romanzate, tutto il
resto della narrativa è invenzione. Tuttavia lo scrittore racconta bugie per
condurre alla verità, usa la finzione come possibilità di comprendere il
mondo.
Concludo questo capitolo sugli appunti con i dieci consigli su come scrivere
un libro dettati da Ken Follet.
1. Scrivere in modo semplice. Il principale obiettivo è far svagare il lettore.
2. Definire un progetto e stilare una scaletta degli eventi.
3. Farsi consigliare da lettori ed amici chiedendo loro cosa gli piacerebbe
leggere. L’idea di base del romanzo dovrà essere riassumibile in una sola
frase.
4. Connotare i personaggi fisicamente e caratterialmente (emotivamente).
5. I personaggi si devono comportare in maniera coerente con tutte le
descrizioni precedenti.
6. Rigore nella documentazione, specialmente per il romanzo storico.
7. Scrivere un abstract di una ventina di pagine con una sintesi dei vari
capitoli da sottoporre ad amici e lettori per averne un parere.
8. Il primo capitolo deve contenere un radicale colpo di scena ogni quattro o
cinque pagine. Tecnica per incollare il lettore al romanzo (lo facevano
anche Jane Austen e Dikens).
9. Cercare un editore.
10. Pubblicità! (Ken Follet inizia già a farla mentre scrive il primo capitolo).
La piaga purulenta degli editori a pagamento
Di solito a fregare è l’ego che ci fa credere grandi scrittori incompresi, questo
lo devi sapere è il primo grave problema ovvero avere un’opinione troppo
alta di se stessi. Qualche volta si pensa addirittura di essere “troppo avanti”,
geni incompresi del proprio tempo, proprio come scrive Pat Walsh quando
descrive la categoria degli “scrittori incompresi”:
il mio libro non è brutto (dicono questi sedicenti geni) è solo che tu sei troppo stupido
per coglierne la sottile filigrana di sapore joyceiano/pynchoniano/proustiano.
Pat è senza peli sulla lingua e di sicuro meno politically correct di me, ma ha
ragione. Quando si scrive non si può avere la pretesa di essere capiti solo da
se stessi e che tutti agli altri (leggi editori) siano degli emeriti imbecilli oppure
dei poveri venduti. Il tuo libro deve essere comprensibile, fruibile,
“accogliente” nella lettura.
Di solito la tipologia di autori descritta da Pat Walsh non trova nessun editore
tanto folle da investire sul dattiloscritto, allora accade l’inevitabile:
quell’autore tanto pieno di sé finisce nelle suadenti grinfie degli editori a
pagamento.
Ora, senza scrivere un articolo lunghissimo su questa piaga dell’editoria a
pagamento, ti spiego in due parole cosa accade e come funziona, dopo di che
potrai decidere in piena coscienza.
Una mattina ti arriva una lettera o una email in cui il sedicente editore ti scrive
che, dopo un’attenta analisi, ha deciso di pubblicare la tua opera, ma come si
sa l’editoria è un mondo difficile, c’è crisi ovunque, tra l’altro anche Proust,
Moravia, Gadda hanno iniziato come Aps (“Autori a Proprie Spese”,
acronimo inventato da Umberto Eco ne “Il pendolo di Foucault”), quindi il
tuo romanzo verrà sì pubblicato, ma tu devi metterci un po’ del tuo… denaro.
Ti viene fatta quella che in gergo è chiamata una “proposta editoriale” che
consiste generalmente in una di queste due soluzioni, ma si può presentare
anche in altre forme fantasiosamente ibride:
• Ti vengono chiesti mille o duemila euro.
• Non paghi, ma sei obbligato a comprare un certo numero di copie,
ad esempio 200 copie a 10 euro.
D’altro canto, cosa sono mille o duemila euro a fronte della realizzazione del
tuo sogno? A fronte del tuo successo come scrittore emergente? Vero e reale
come il Campo dei Miracoli in cui il Gatto e la Volpe rubano gli zecchini d’oro
a Pinocchio con la promessa che lo avrebbero reso ricco. Sostituisci “Gatto e
la Volpe” con “Editore a pagamento” ed il concetto resta praticamente lo
stesso.
Per questi sedicenti editori il business è presto detto: tu pagherai il prezzo di
stampa del libro, anzi di più togliendo il “rischio imprenditoriale” all’editore.
Con le nuove tecnologie un libro da 200 pagine, stampato in 1000 copie, costa
da 1,50 a 3 euro a copia. Ora immagina che il tue editore stampi 200 copie e
spenda, perché è sfigato, 3 euro a copia.
Prendiamo il pallottoliere: 200x3 = 600 euro.
A te chiede di comprare al prezzo scontato di 7 euro (invece di 10) le “prime”
250 copie del romanzo; di nuovo col pallottoliere 250x7=1.750, sempre col
pallottoliere: 1.750-600 = 1.150 per l’editore. Ma non finisce qui, dimentica la
distribuzione e la promozione – a volte non la ottieni neanche con gli editori
non a pagamento – quasi sicuramente succederà che l’editore ti ricontatti dopo
un anno e ti dica che considerato questo e quello, a causa dell’euro, del calo
del Dow Jones, di Ruby Rubacuori e del rigore regalato alla Juventus, molte
copie del tuo magnifico romanzo sono rimaste invendute ed andranno al
macero! Al macero?! Il tuo capolavoro al macero?! Già hai le lacrime agli
occhi, ma per fortuna la lettera continua e vieni a sapere che, se proprio la
cosa ti preme, quelle altre 200 copie le puoi avere con lo sconto del 40% sul
prezzo di copertina.
Pallottoliere: 10 euro – 40% = 7,2 x 200 copie = 1.440 euro.
Che saranno mai 1.440 euro a fronte del tuo capolavoro che rischia
l’estinzione? A casa dell’editore entrano la prima volta 1.150 euro e la seconda
1.440, per un totale d’incasso di 2.290 euro, più l’eventuale incasso generato
dalle vendite che tu hai stimolato con il passaparola e qualche vendita
fortunata.
Una casa editrice seria pubblica il 5% dei manoscritti che arrivano, Giulio
Mozzi (che lavora proprio come “selezionatore di libri” presso note case
editrici), afferma: su mille dattiloscritti, non più di cento sono leggibili; non
più di dieci sono davvero interessanti; uno o due sono pubblicabili. Questo
per quanto concerne le case editrici vere, quelle che poi devono investire di
tasca propria nella stampa, nella pubblicazione e un po’ di promozione. Una
casa editrice a pagamento pubblica invece praticamente tutto ciò che le arriva.
Perché? Immagina che l’editore a pagamento pubblichi solo 300 libri all’anno,
non mettiamo nel conto le eventuali vendite dei romanzi, diciamo che
prendiamo in considerazione solo i soldi presi dagli autori.
Pallottoliere: 300 x 2.290 = 687.000 euro.
Che ne dici di smetterla di sognare di pubblicare il tuo romanzo e d’investire
nella costituzione di una casa editrice a pagamento? Eh già… Essere scrittori
ha un costo che non si paga in termini economici, ma in termini molto più alti:
si paga in qualità, studio, concentrazione, grammatica, stile, fascino,
intelligenza, divulgazione, passione, spontaneità, onestà, pazienza, tenacia,
elasticità mentale, serietà, e queste cose non si comprano con la carta di
credito; per tutto il resto c’è…
Come preparare il dattiloscritto per gli editori
Il primo motivo per il quale rischi di non pubblicare il tuo romanzo è che…
ancora non lo hai spedito ad un editore! Sembra una banalità, ma è ciò che
avviene nella maggior parte dei casi. È arrivato il momento di tirare fuori il
libro dal cassetto e di dargli una possibilità, anzi più di una! Oramai lo hai
scritto e due sono gli errori che puoi compiere all’infinito:
1. Non spedirlo mai ad un editore.
2. Non smetterla di rileggerlo e correggerlo, rileggerlo e correggerlo.
Va bene lasciarlo sedimentare e poi “asciugarlo”, come abbiamo discusso
precedentemente, ma ad un certo punto ti devi arrendere e liberarti
emotivamente. Basta, lo hai scritto e ora lo devi spedire alle case editrici
dimenticandoti di lui. Pensa al prossimo romanzo, prendi appunti, leggi
qualcosa di bello, esci con gli amici, fai sesso, mangia una pizza, insomma
torna alla vita di tutti i giorni.
Per quanto possa piacerti, il tuo romanzo verrà alla fine giudicato dalla casa
editrice che deciderà se pubblicarlo oppure cestinarlo. Per meglio giudicarlo,
devi presentare il dattiloscritto secondo alcune norme molto semplici ed
evitare qualsiasi stampa strana, caratteri (font) fantasiosi e rilegature fuori
standard.
Usa un font standard come il Times New Roman oppure il Garamond,
imposta un corpo 11 oppure 12. Metti un margine di 4 cm per lato
(destra/sinistra), in modo che l’editor possa segnare un appunto se lo
desidera. Imposta un’interlinea normale o al massimo 1,5, per il primo
capoverso imposta un rientro di 0,25 cm.
Sul dattiloscritto scrivi sempre il tuo nome, il cognome, l’indirizzo, il
numero di telefono e l’email. Non è raro che le lettere di presentazione
vadano da un lato ed i dattiloscritti dall’altro e buonanotte al secchio! Non
spedire solo una parte del dattiloscritto, a meno che non sia richiesto
espressamente, mandalo sempre completo. Per quanto riguarda la rilegatura,
usa una normale spirale, in questo modo se c’è necessità di una fotocopia
interna, l’addetto potrà farla in modo molto semplice sfilando la spirale.
Non spedire il romanzo per posta elettronica, non si fa; a meno che non sia
espressamente richiesto. Non fare l’errore di spedire il tuo lavoro e chiedere
un parere o un giudizio, chi legge i manoscritti è pagato per selezionare
libri da pubblicare e non per fare il critico letterario.
Allegate una lettera di presentazione in cui spieghi chi sei, cosa fai, di che
campi. Per quanto riguarda gli eventuali premi vinti, Giulio Mozzi nel suo
“[Non] Un corso di scrittura e narrazione” scrive:
Se avete vinto premi letterari per racconti e romanzi inediti, non scrivetelo. Se il vostro
professore d’italiano del liceo diceva che scrivevate benissimo, non scrivetelo. Se siete
laureati, non fatevi fare una lettera di raccomandazione del professore con cui avete
fatto la tesi. Se avete pubblicato un libro a vostre spese, allegatelo al dattiloscritto; ma
non allegate gli articoli che sono usciti sui giornali locali. Insomma, ricordatevi questo: il
lettore professionista che legge il vostro testo, è interessato solo al testo.
Infine, una volta spedito, mettiti l’anima in pace e rilassati. Nella migliore
delle ipotesi ci vorranno tra i 4 ed i 6 mesi per avere una risposta, se positiva;
se invece la risposta è negativa essa potrebbe non arrivare mai. Per questo
motivo se dopo un anno non hai saputo più niente, rassegnati: per questa
tornata non è andata bene. Ti rifarai.
Ritorniamo al presente, pensiamo in modo positivo e vediamo insieme come
scegliere la casa editrice.
La scelta della casa editrice
Assodato che mai e poi mai pagherai per pubblicare il tuo libro. La scelta della
casa editrice è un momento importante. Non spedire a casaccio, ma cerca di
capire se l’editore che stai valutando pubblica il genere del tuo romanzo.
Inoltre tieni presente che non tutti i tipi di narrativa sono uguali: Einaudi,
Garzanti, Mondadori pubblicano narrativa, ma non esattamente lo stesso tipo
di narrativa.
Ah, a proposito, è difficile che Mondadori, Feltrinelli ed altre case editrici
pubblichino il tuo primo romanzo, qualche volta accade, ma è difficile. Se
vuoi spedire loro il tuo manoscritto, non sarò io a dirti di no, anzi ti sostengo.
Tuttavia sei costretto a considerare anche piccoli e medi editori.
Una volta che hai individuato una ventina di editori, tra un po’ vedremo
come, cerca di capire se hanno distribuzione. Un metodo empirico ma efficace
per verificarlo è andare nella tua libreria di fiducia e chiedere al libraio se in
scaffale hanno qualche titolo di quella determinata casa editrice. Inoltre chiedi
se è possibile ordinare qualche titolo. Se non hai buoni riscontri, depenna
quella casa editrice e passa alla prossima. Alla fine seleziona una decine di
case editrici e spedisci loro il manoscritto corredato da lettera di presentazione
e sinossi.
Lo vedremo nel prossimo capitolo.
Lettera di presentazione e sinossi
Lettera di presentazione e sinossi servono per dire chi siete e di cosa parla il
romanzo. Possono essere due documenti diversi oppure lo stesso. La
lunghezza deve essere possibilmente di una pagina, utilizzate il font Times
New Roman oppure Garamond in corpo 12, interlinea 1,5.
Scrivi di te, del motivo che ti hanno spinto a mettere per iscritto la storia. Se il
tuo romanzo è ambientato principalmente tra i Musei Vaticani e tu lavori
proprio nei Musei Vaticani, questo è un punto a tuo favore, ma se fai
snowboard tutto l’anno, questa cosa potrebbe non essere di alcun interesse
per l’editore.
Spiega a chi si rivolge il tuo libro (target principale) e perché. Anche il motivo
per il quale hai scelto proprio quella casa editrice tra tante altre. Ricorda che in
questa pagina stai “vendendo” il tuo manoscritto, ma stai attento che non stai
scrivendo ad un lettore qualunque, ma ad una persona esperta che legge
centinaia di manoscritti all’anno. Niente trucchi e niente adulazioni. Non
menzionare inutili concorsi letterari a cui hai partecipato con successo,
neanche se ti hanno regalato una targa d’ottone che esponi con soddisfazione
nella stanzetta. Se hai avuto la disgrazia di pubblicare con un editore a
pagamento, non dirlo! È un tuo scheletro nell’armadio.
Racconta la storia racchiusa nel tuo romanzo con onestà, senza cercare di
suscitare il colpo di scena, l’editore deve solo decidere se il tuo libro può
funzionare o meno. La sinossi ha lo scopo di presentare e spiegare le parti
fondamentali della tua storia. Evita descrizioni inutili, sapere che il
protagonista porta la coda di cavallo interessa ben poco, conta invece capire
quali siano quei passaggi importanti che danno senso e vita all’intreccio.
Spiega chi sono i personaggi principali, qual è il loro scopo nel romanzo,
come intervengono nella storia. Spiega qual è il conflitto, come si arriverà
all’apice della storia, il famoso climax, cosa faranno i personaggi principali,
cosa accadrà e come tutto si risolverà. Il personaggio principale avrà imparato
qualcosa? Sarà sempre lo stesso? Il mondo sarà rimasto uguale o qualcosa
sarà cambiato per sempre?
Sul web ci sono molti esempi di lettere di presentazione e sinossi, basta
andare su Google e scrivere: esempio lettera di presentazione casa editrice.
Tuttavia cerca di scriverne una tua personale versione, mettici le tue emozioni,
le tue motivazioni. In fin dei conti scrivere è la tua ambizione, non è vero?
Quindi nessun copia&incolla, per favore!
Ti lascio una nota di Erri De Luca che ritengo per certi versi illuminante.
Non spedire opere tue a scrittori. Non si mandano scarpe fatte da sé ai calzolai perché
provino a calzarle. Non si spedisce al pasticciere un dolce fatto in casa perché lo
assaggi. Diventare scrittori, darselo per compito, non passa dal contatto e dalla sponda
con un altro scrittore. Quello è vicolo cieco, non smistamento. Le case editrici sono la
buca su misura della biglia lanciata. Se respinta, andata perduta, ignorata con garbo,
non ricorrere alla lusinga di chi ti pubblica sì, ma a spese tue. Non farà niente di
promesso, ufficio stampa e distribuzione, in più dopo un annetto si rivolgerà a te per
chiederti se intendi acquistare l’invenduto che altrimenti manderà al macero. Piuttosto
procurati una tipografia, fanne tirare qualche centinaio di copie e distribuiscile in
proprio tra conoscenti.
Sull’argomento, a me sono piaciuti questi libri
• Pat Walsh, 78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato,
TEA - 2007
• Giulio Mozzi, (non) Un corso di scrittura e narrazione, TERRE DI
MEZZO Editore - 2009
• Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi - 2008
• Roberto Cotroneo, Manuale di scrittura creativa, Castelvecchi - 2008
• Erri De Luca, Tentativi di scoraggiamento (a darsi alla scrittura),
Libreria Dante&Descartes - 2009
• Stephen King, On writing, Sperling Paperback – 2001
• Umberto Eco, Sulla letteratura, Tascabili Bompiani - 2004
• Raymond Queneau, Esercizi di stile, Einaudi - 2008
• Stefano Brugnolo - Guido Mozzi, Ricettario di scrittura creativa,
Zanichelli - 2000
“L’arte di scrivere storie sta nel
saper tirare fuori da quel nulla che
si è capito della vita tutto il resto;
ma finita la pagina si riprende la
vita e ci si accorge che quel che si
sapeva è proprio un nulla”
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Ah, ho fondato anche una blog-rivista culturale online che in molti trovano
interessante: www.lettermagazine.it.
Scrivimi! :-)
“Spero che questa guida sia stata di tuo
gradimento, se vuoi scrivermi una tua
opinione, sarò felice di leggerla e, se me lo
permetti, d’inserirla tra le altre
testimonianze presenti nel mio sito. Infine,
sempre se hai tempo, ti sarei grato se
potessi lasciarla anche sul sito di Amazon.
Felicità!
Massimo
***