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Scrittura Creativa

(appunti su)
come scrivere un libro

MASSIMO PETRUCCI
Copyright © 2013 Massimo Petrucci
All rights reserved.
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni
internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi
elettronici, meccanici o altro senza l’autorizzazione scritta dell’autore.
Finito di stampare nel mese di Novembre 2013
ISBN-13: 978-1494304492
ISBN-10: 149430449X
DEDICA

A Bianca che mi sopporta,


ma principalmente che mi sostiene
giorno dopo giorno,
nonostante… me stesso.
CONTENUTI
Introduzione
Di cosa parleremo qui?
Scrivere per raccontare qualcosa
Ne deve valere davvero la pena
Scrivere tutti i giorni
Ispirazione, personaggi e dialoghi

I personaggi
I dialoghi
Scrivere è un mestiere e lo devi saper fare
Iniziare col piede giusto: l’incipit
Invece di spiegare, mostra

L’ambientazione
La struttura narrativa
Il climax
L’explicit
E se… situazione più che trama
Lo scrittore è un bugiardo, ma in fin di bene
Due parole sullo stile e sulla descrizione
Digressione: e vai col fuori tema!
Il nome dei personaggi
Un po’ di dritte sulla scrittura
Appunti di scrittura creativa
La piaga purulenta degli editori a pagamento
Come preparare il dattiloscritto per gli editori
La scelta della casa editrice
Lettera di presentazione e sinossi
Sull’argomento, a me sono piaciuti questi libri
Su di me: piccola nota egocentrica
Sui Social Network mi trovi qui
RINGRAZIAMENTI

L’Universo,

che realizza ciò in cui crediamo fermamente.


Introduzione
Ho un vivo interesse per la comunicazione, considerato che sono un
copywriter e consulente social/web marketing. Considero la scrittura un
fondamentale e potente mezzo di comunicazione, diffusione e divulgazione.
Scrivo da sempre, mia madre mi racconta che scrivevo ancora prima di saper
leggere: la nostra TV era della Voxson, io copiavo la marca lettera per lettera
su un foglio di carta e quando mia madre mi chiedeva cosa avessi scritto,
rispondevo: “Televisione!” e lei se ne tornava tranquilla a cucinare sapendo
che suo figlio alla fine era un “copione” e non un genio.
Nel corso del tempo la passione per la scrittura non mi ha mai abbandonato
ed oltre al mio lavoro di “scrittore persuasivo” sono riuscito anche a dare un
po’ di soddisfazione al mio lato passionale, così ho pubblicato una raccolta di
poesie (me ne pento), una raccolta di racconti e finalmente ho pubblicato il
mio primo romanzo! In tutto questo tempo ho raccolto molti appunti durante i
corsi ai quali ho partecipato, durante la lettura di molti libri e dalle chiacchiere
fatte con alcuni scrittori ed altri addetti ai lavori. Quanto annotato e appreso,
ho pensato di condividerlo qui in questo piccolo libro di consigli che spero
troverai utile e soprattutto pratico.
Prima d’iniziare, vorrei subito chiarire una cosa: durante la lettura leggerai
frasi del tipo “devi fare” oppure “questa cosa è così”, frasi dal tono assertivo;
tuttavia ci tengo che tu non ti senta mai in obbligo di seguirli, piuttosto
analizzali, misurali secondo il tuo metro e senti se per te possono funzionare.
Questo è il mio modo di vedere la scrittura, ma non è l’unico, tuttavia è ciò
che sento ovvero il mio onesto punto di vista.
Spero che tu possa realizzare il tuo sogno!
Massimo Petrucci
Di cosa parleremo qui?
• Si scrive per raccontare qualcosa.
• Questo qualcosa deve valere la pena di essere raccontato e poi
letto.
• Evitiamo, ad esempio, le pesantezze stilistiche o i sermoni.
• Scegliamo un linguaggio immediato, quotidiano e diretto.
• Impariamo a scrivere tutti i giorni.
• Scegliamo con attenzione: il luogo, il periodo storico, un
personaggio principale, un’idea forte come filo conduttore del nostro
romanzo.
• Caratterizziamo con chiarezza i personaggi principali.
• Riduciamo al minimo i dialoghi e manteniamoli variegati nello
stile.
• Cerchiamo di essere quanto più veri nella finzione: la verità
emotiva.
• Il lettore vuole leggere di un “conflitto” e vedere come va a
finire.
• Pensate ai dettagli dell’universo che state costruendo.
• Curate il vostro linguaggio, le parole sono tutto quello che
abbiamo.
• L’incipit è il primo battito del nostro racconto e deve
immediatamente sedurre il lettore.
• Diffidate delle trame ben congegnate, a meno che non stiate
scrivendo un giallo, date margine alla storia di svilupparsi da sola.
• Le migliori storie nascono da “situazioni” e le situazioni si
sviluppano da un “se”: e se un cane idrofobo bloccasse tizio in casa sua?
• Avere stile è una cosa, essere complicati e confondere il lettore è
un’altra cosa. Scegliete sempre la strada più semplice quando scegliete le
parole e le forme letterarie nella vostra scrittura.
• Non fate descrizioni meticolose, dettagliate o peggio elencando
tutto; le descrizioni devono essere pennellate, devono evocare piuttosto
che raccontare tutto il visibile.
• Le digressioni come nota di colore e di arricchimento in un
racconto.
• La scelta del nome: lasciatevelo suggerire dall’esperienza e da chi
conoscete.
• La stesura del dattiloscritto.
• La scelta della casa editrice.
Scrivere per raccontare qualcosa
Bando alle chiacchiere ed entriamo nel merito: perché scrivi? Insomma,
perché ti prendi la briga di sederti al computer e metterti a battere sulla tastiera
parola dopo parola? Perché lo fai?
Prendi un foglio di carta (o un foglio elettronico) ed annota la risposta. Dico
sul serio, fallo ora: prenditi due minuti e rispondi a questa semplice domanda:
perché scrivi?
Ci rivediamo tra qualche minuto…
Hai per caso risposto che scrivi per te stesso? Sei sulla cattiva strada oppure
hai mentito. Hai detto che scrivi perché ti piace? Uhm… mezza verità, ma non
è la risposta giusta. Scrivi per sfogarti? Per fare terapia? Per impulso? Perché
non ne puoi fare a meno? Niente da fare, sono tutte mezze verità.
Sì, va bene, taglio corto. Questa domanda l’hanno fatta anche a me e confesso
che la risposta era tra quelle appena elencate.
La verità è che chi scrive lo fa, alla fine dei conti, per farsi leggere. Semplice
verità: si scrive perché si vuole che qualcuno legga.
Per farsi leggere non soltanto per far colpo su chi ci piace (a volte funzione
alla grande, confesso!), ma soprattutto per farsi leggere da quanti più lettori
possibile. Tutte le altre risposte, che alcuni tra gli scrittori affermati rilasciano
nelle interviste, sono balle, mezze verità o rappresentazioni di romanticismo
intellettuale ovvero un altro modo per di dire “balle”.
Ad una lezione di scrittura creativa, Roberto Cotroneo ci chiese: “Se domani il
mondo scomparisse, continuereste a scrivere lo stesso?”
La giro a te: cosa faresti se il mondo finisse domani? Continueresti a scrivere?
Pensaci un attimo.
Se hai risposto: “Sì, continuerei a scrivere!” allora ancora una volta sei sulla
strada ingenua e romantica. La verità è che nessuno scrittore si prenderebbe
la briga di scrivere se l’indomani mattina il mondo non ci fosse più.
Il motivo è che uno scrittore senza lettori serve ancora meno di un tostapane
senza corrente elettrica.
Se scrivi, vuoi raccontare una storia ed una storia esige sempre un
pubblico!
In un’intervista Carlo Lucarelli, parlando di scrittori e di scrittura, dichiarò
che se ad uno scrittore si concedesse la possibilità di andare per tutta la sua
vita in un posto magnifico, diciamo il luogo dei suoi desideri, questo stesso
scrittore, dopo averci pensato un attimo, chiederebbe: “Posso andarci per
metà della vita e poi tornare per raccontare tutto?”
Si scrive per raccontare una storia.
Ora che ti ho convinto sulle vere ragioni per le quali tu ed io scriviamo,
passiamo ad un concetto tanto importante quanto sottovalutato: la semplicità
nel raccontare una storia.
Un racconto è un racconto, niente di più.
Un racconto non è un sermone e se c’è una cosa insopportabile per noi lettori
è quella d’imbattersi in uno scrittore che sale sul piedistallo della sua scrittura
e ci fa una bella predica, che ci sbatte davanti una morale preconfezionata.
Oddio che noia! Per non parlare di quegli scrittori che dimenticano che “un
racconto è semplicemente un racconto” ed iniziano ad usare un vocabolario
aulico, pieno di ghirigori letterari, metafore e iperboli che prima di
comprendere il senso della storia sei costretto a comprendere il senso delle
parole!
John Gardner, in un corso di scrittura creativa, disse: “Per favore, usate il
linguaggio comune, quello di tutti i giorni e con il quale parliamo”.
La parola è solo un mezzo e deve essere quanto più “trasparente” possibile, se
il lettore è costretto a concentrarsi sulla parola scritta perde di vista l’emozione
che quella stessa parola dovrebbe trasmettergli.
Immagina: questa mattina un cane si lancia davanti alla tua auto costringendoti
ad una frenata brusca, che causa il tamponamento con l’auto che ti segue dalla
quale scende un tizio di un metro e novanta che ti urla contro e per poco non
ti polverizza.
Come racconteresti quest’episodio ad un amico?
Sei in un bar, il tuo amico sorseggia un caffè e ti chiede: “Allora, come butta?”
E tu, poggiando la tazzina sul bancone, lo guardi e rispondi:
Quando ormai l’alba aveva lasciato luce al giorno, una pelliccia a quattro
zampe ha deciso di materializzarsi davanti alla mia autovettura. Lesto ho
spinto sul pedale che aziona il sistema frenante del mio mezzo, ma –
disdetta! - pur evitando di mettere fine all’esistenza del quadrupede
abbaiante, non ho potuto evitare che l’auto immediatamente dietro di me
finisse per precipitarmi sul paraurti posteriore! Preoccupato dell’accaduto
stavo per scendere, ma non ho neanche messo piede sull’asfalto, che un
uomo, dalla statura spropositata, ha sovrastato l’intera mia persona con un
volto arcigno che non prometteva assolutamente niente di buono…
C’è poco da ridere! Quando si scrive per raccontare una storia lo si deve fare
in modo che quella storia venga compresa al di là del testo scritto.
La parola è solo un mezzo e non il fine.
Va bene, hai una storia da raccontare. Hai scelto un modo semplice ed
immediato per raccontarla. Perché mai raccontare proprio questa storia?
Perché vuoi raccontare proprio la storia che hai scelto di raccontare? Se stai
scrivendo un romanzo, perché questa storia e non un’altra? Perché?
Perché pensi che sia bella? Perché ti piace? Perché ti commuove? La vera
domanda è però un'altra ed è questa: perché qualcuno dovrebbe leggere
questa tua storia?
La risposta di sicuro non è perché piace a te.
A volte capita di scrivere per un impulso interiore, per un dolore o per
qualcosa che ci ha colpito nell’intimo. Uno scrittore è un magnifico
osservatore, uno che passa il suo tempo occupandosene, uno che assorbe
situazioni e cose, che le fa sue, che rielabora e poi riporta su carta.
Tuttavia spesso, noi scrittori esordienti, finiamo semplicemente per mettere
per iscritto la nostra vita, il proprio caso personale, finendo per fare qualcosa
che assomiglia nella migliore delle ipotesi ad un’autobiografia, nella peggiore
sarà una sorta di diario personale.
A meno che tu non sia qualcuno come Maria Teresa di Calcutta, Michael
Jackson, Maradona o l’assassino di Kennedy, c’è qualcosa che dovresti
sapere: la tua storia non interessa proprio a nessuno.
Se però hai qualcosa che ti appartiene e pensi sia bello, utile, divertente
raccontare, allora dovresti prendere il nocciolo della questione, sradicarlo dal
tuo mondo personale, e porlo in un “non luogo” ovvero un posto dove possa
acquisire un significato più universale, in cui il lettore possa scoprire che quel
nocciolo appartiene anche a lui. Se ci riuscirai, avrei fatto un passo importante
per far sì che ciò che stai scrivendo smetta di appartenere solo a te, di essere il
tuo diario, e finisca per appartenere, se non a tutti, a molti.
Quei “molti” saranno i tuoi fedeli lettori, e su questo magnifico auspicio
finisce il primo capitolo.
Ne deve valere davvero la pena
Nel primo capitolo abbiamo visto quanto sia importante avere una buona
storia da raccontare. La seconda cosa fondamentale è decidere in che modo
scriverla.
Il “modo” fa la differenza, eccome se la fa!
Hai mai raccontato una barzelletta? Forse ti è capitato che un amico te ne
abbia raccontata una che ti ha fatto piegare in due dalle risate. Così hai
pensato di fare anche tu colpo e l’hai raccontata a qualcun altro che però non
ha reagito come ti aspettavi. Cos’è andato storto considerato che la storiella
era la stessa? La motivazione per cui la tua performance non è ben riuscita è
da cercare nel “come” hai raccontato la barzelletta.
Questa riflessione ci porta ad esaminare due elementi davvero molto
importanti: la creatività e la tecnica.
Pensa di essere un ebanista. Un ebanista crea le sue opere solo ed
esclusivamente usando il legno, niente altro che legno. Il tuo legno sono le
parole, tu componi le tue opere esclusivamente usando le parole e questo può
essere un problema perché, come l’ebanista, non puoi barare usando altri
materiali e trucchi artistici.
Ti faccio un esempio: quando ascolti una canzone, magari d’amore, cos’è che
ti fa emozionare? Quasi mai sono le parole, ciò che davvero conta è la musica.
È la musica che smuove l’emozione ancora prima che la parte razionale del
cervello abbiamo compreso il senso delle parole. Pensa alle canzoni in lingua
inglese, confessa: quante ti piacciono da morire eppure non hai mai
veramente compreso il testo? È la musica…
Purtroppo, a differenza del cantante, lo scrittore non ha la musica a supporto
del suo testo; tuttavia qualcosa si può fare e lo scoprirai un po’ più avanti.
Come il nostro caro ebanista che ha solo il legno (sapevi che non usa
nemmeno i chiodi?) tu hai solo le parole e devi usarle al meglio se vuoi che il
lettore arrivi fino in fondo. Usarle al meglio vuol dire utilizzare al meglio
questi due strumenti: la creatività e la tecnica.
Sono la creatività e la tecnica che insieme rendono un’opera eccezionale. Di
conseguenza essere solo creativi (avere un’idea) non basta, devi metterla in
pratica (tecnica). Vale anche il contrario: se hai solo la tecnica sarai un ottimo
falegname, ma non sarai mai un artista del legno.
Riepilogando: hai un’idea che consiste in una buona storia da raccontare e
devi raccontarla nel modo migliore.
Nasce però un nuovo problema: chi ti dice che è scritta bene?
Se vuoi fare lo scrittore, la ballerina, il cantante, il pittore o l’ebanista, abituati
fin da subito alle critiche ed al fatto che il più delle volte non verrai nemmeno
preso in considerazione.
Il primo vero consiglio che posso darti se vuoi fare lo scrittore è iscriverti
preventivamente ad un corso zen per lavorare sul tuo ego, quella vocina
dentro di te che ti dice che stai scrivendo la più grande opera d’arte letteraria
dopo la Divina Commedia di Dante. Questa vocina si chiama Ego ed è il tuo
peggior nemico, a meno che tu non faccia di cognome Alighieri.
Assioma da mandare subito a memoria: io non posso piacere a tutti.
Gli assiomi per definizione non si dimostrano, ma questa volta voglio farlo,
anzi sarai tu a dimostrarlo con quest’esperimento: scegli il nome di uno
scrittore famoso e bravo; uno che piace a te. Ce l’hai? Bene ora chiama a
raccolta cinque o sei amici, usa Facebook, Twitter o mettiti al telefono e
domanda loro cosa ne pensano. Fatto? Hanno letto tutti il suo ultimo
romanzo?
Bene, hai appena dimostrato l’assioma!
A qualcuno, come hai constatato, quello scrittore non piace, oppure non gli è
mai saltato in mente di comprare un suo libro. Se aumenti il numero di amici,
vedrai aumentare il divario delle opinioni: qualcuno si straccerà le vesti in sua
difesa, qualcuno dirà che è di una noia mortale o che, addirittura, scrivere non
è per niente il suo mestiere. Questo non vuol dire che devi ignorare totalmente
i giudizi degli altri né commettere l’errore di credere che sei il più grande
incompreso della storia della letteratura. In tutto, come dice il saggio, ci vuole
il giusto mezzo: accetta le critiche negative, prendile in considerazione per
rendere il tuo lavoro migliore di quello che è, poi se arrivano opinioni
positive, non esaltarti oltre misura, ma coccolati nell’appagante sensazione di
aver conquistato il lettore.
Prima di terminare questo breve capitolo, rivediamo alcuni concetti chiave:
• La tua storia non deve appartenere solo a te, deve valere la pena di
essere messa su carta (o in digitale) per essere letta ed apprezzata anche da
chi non sa niente di te e della tua vita.
• Usa le parole come un mezzo e non come un fine.
• Creatività e tecnica: la prima è quasi innata, la seconda s’impara.
• Accetta di non dover piacere a tutti, ma sforzati di dare il meglio.
Chiudiamo qui questo secondo capitolo e ti prometto che nel prossimo
scenderemo più in profondità su alcuni argomenti fin qui trattati aggiungendo
un po’ di considerazioni pratiche.
Scrivere tutti i giorni
Affrontiamo e liberiamoci subito dell’incubo di tutti gli scrittori, sia quelli in
erba, che quelli affermati: la mostruosa, angosciante, ripugnate pagina
bianca. Signore e signori stiamo parlando del “blocco dello scrittore”.
Eccoti là, davanti alla tua bella pagina bianca di Word, vedi il cursore
lampeggiare, hai le dita appoggiate sulla tastiera e… non accade nulla, non
senti nessun rassicurante ticchettio, la mente è un budino gelatinoso gettato
nel vuoto.
Black out.
Niente.
Vuoto assoluto.
Benvenuto nel Club della Pagina Bianca. Quello che blocca, specialmente
all’inizio, è il pensare di dover scrivere per forza qualcosa di abbastanza
lungo. Ti senti in ansia di dover riempire almeno centocinquanta pagine per
sentire il tuo lavoro degno di essere chiamato romanzo. Sei nel futuro, torna
al presente.
Non pensare al tuo romanzo “dall’inizio alla fine”, piuttosto prova ad iniziare
da un punto qualsiasi. Ti propongo un esempio: immagina di raccontare la
storia di un uomo che rimane da solo in mezzo all’oceano con la sua barca
ormai in avaria.
Come iniziare? Non pensare a tutta la storia, ma inizia e basta. Fallo sul serio,
prendi carta e penna oppure il tuo PC, notebook o tablet ed inizia a buttare giù
non tutta la storia ma la situazione. Inizia da una scena qualsiasi. Vuoi qualche
spunto? Prova a chiederti chi è quell’uomo, quanti anni ha, che corporatura
ha. Dove si trova ora? Chi ti ha detto che è già in mare? Magari ancora non è
partito, magari è già tornato a casa. La scena sta accadendo ora? Oppure è
tutto successo vent’anni prima? Magari l’uomo è in galera e sta pensando a
quei giorni per non impazzire? È lui che racconta? A chi lo sta raccontando?
Oppure è una narrazione in terza persona? Oppure è qualcuno che racconta di
qualcun altro?
Iniziamo da un punto inaspettato: l’uomo è a casa sua. Abita da solo? Sì, abita
da solo, ma ha un cane. Lo porterà con sé in quest’avventura in mare? Se sì,
cosa ne sarà del cane? E quando la barca andrà in avaria, il tizio continuerà a
dividere la sua acqua con il cane? Come vedi ancora prima d’iniziare hai già
molta carne a cuocere senza ancora preoccuparti di dove e perché la barca
andrà in avaria puoi riempire cinquanta pagine solo mettendo per iscritto le
risposte a queste domande.
Il trucco è procedere un passo alla volta e poi guardarti attorno. D’altro
canto è ciò che fai sempre, solo che il più delle volte la tua mente è altrove e
tu non te ne rendi conto. Se decidi di andare in viaggio in Egitto la prima cosa
che farai è un passo verso la porta d’ingresso del tuo appartamento per recarti
all’aeroporto, ma prima avrai di sicuro fatto altre cose: hai preparato le
valigie, cosa hai scelto e perché? Hai parlato con qualcuno, cosa ti ha detto?
Hai navigato in Internet per cercare informazioni e che posto hai trovato di
tanto particolare? Prima ancora di lasciare il tuo appartamento ne avrai di cose
da raccontare!
Bene, è il momento di prendere la macchina del tempo e cambiare… il tuo
passato! Sei alle scuole superiori, devi fare l’Esame di Stato. Di più, premi
l’acceleratore della macchina del tempo ed andiamo ancora più indietro. Sei in
terza media, sei in seconda media, sei in prima media; fermati. Probabilmente
è qui che hai ascoltato per la prima volta quella limitante e maledetta
espressione pronunciata dalla tua professoressa d’italiano: “Non andate fuori
tema!”
Torna leggermente indietro, la prof sta per pronunciare la maledizione del
fuori tema, ma tu alza la mano e dille che ti scappa e devi assolutamente
andare in bagno. Lei pronuncerà la frase, ma tu non ci sarai, non l’avrai mai
ascoltata. Ora hai la libertà di andare fuori tema senza l’assillo della vecchia
prof.
Quando si scrive un romanzo andare fuori tema non solo può capitare, ma è
anche fortemente consigliato; ne parleremo tra qualche pagina.
Torniamo alla pagina bianca, sei di nuovo davanti ad essa ma con una
consapevolezza nuova: la possibilità d’iniziare da un punto qualsiasi o,
magari, da un nuovo punto di vista. La mia personale metafora è che la
scrittura di un romanzo è un po’ come una casa di villeggiatura o una seconda
casa: è un luogo dove ci vai quando ti pare, quando ne hai voglia. Hai le
chiavi e ci ritorni tutte le volte che vuoi, per il tempo che ti pare e poi vai via.
Così per il romanzo: inizia a scrivere quando vuoi, quando ti pare, quando ne
hai voglia. Non giudicarti, non sentirti in obbligo. Tuttavia devo avvisarti di
non abusarne perché è molto pericoloso e potrebbe diventare una scusa
per scrivere sempre meno. La verità è nel mezzo, non dimentichiamo di
seguire il saggio, anzi ascolta cosa fa dire Zafon ad un’aspirante scrittrice
attraverso il personaggio di Marina:
“Non imparare a cercare pretesti per non scrivere. È un privilegio dei professionisti e
bisogna guadagnarselo”

Noi sicuro dobbiamo guadagnarcelo, giusto?


Questa riflessione ci porta al prossimo auspicio: (provare a) scrivere tutti i
giorni.
Non a caso molti giornalisti sono anche degli ottimi scrittori. Il motivo è che
sono abituati a scrivere tutti i giorni. Scrivere deve diventare un esercizio
giornaliero come fanno i grandi atleti che si allenano tutti i giorni, allo stesso
modo devi fare tu se vuoi diventare uno scrittore o una scrittrice.
Ricordi? Creatività e tecnica. La tecnica consiste anche nell’imparare a
scrivere con continuità.
Non devi porti obiettivi troppo complessi, ad esempio è inutile imporsi di
scrivere dieci pagine al giorno. Fissa obiettivi più alla tua portata, ad esempio
due pagine al giorno. Credi che sia troppo poco? Due pagine sono circa 3400
battute di testo, questo capitolo, fino a qui, è lungo 951 parole ovvero 4662
battute spazi esclusi. Troppo poco comunque? Se pensi che scrivere due
pagine al giorno sia una cosa banale, allora voglio darvi una buona notizia: se
scriverai con questo ritmo per soli sei mesi, avrai scritto un romanzo di circa
370 pagine. Un bel traguardo, non trovi? Ora che ti ho convinto, poniamoci
questa domanda e troviamo una soluzione: come s’inizia a scrivere?
Non è difficile e ci sono due modi: puoi battere ripetutamente i tasti di una
tastiera oppure far scorrere la punta di una penna su un foglio di carta! Scusa,
non ho resistito… battute a parte Alberto Moravia scriveva tutti i giorni, la
mattina, per due ore. Così faceva anche Anthony Trollope, uno dei più
prolifici scrittori inglesi di fine ottocento. Egli scriveva due ore e mezzo tutte
le mattine prima di andare al lavoro. Scriveva sempre, cascasse il mondo, lui
era lì ed allo scadere delle due ore e mezzo, anche se era a metà frase, si
fermava, chiudeva il quaderno e se ne andava al lavoro. Maniacale, ma
efficace.
Ci sono però anche altri casi. Hai mai sentito parlare di un certo James Joyce?
I flussi di pensiero, già, ma lascia che ti racconti un aneddoto: un giorno un
amico lo andò a trovare, James era piegato sulle pagine del suo ultimo lavoro,
sembrava stanco, affaticato.
“James, c’è qualcosa che non va? È il lavoro?” chiese l’amico.
“Sì…” rispose Joyce senza nemmeno alzare la testa.
“Quante parole hai scritto oggi?”
“Sette…”
“Sette? Ma James questo è ottimo per te!”
“Sì… suppongo di sì, ma non so in che ordine vanno!”
Non è uno scherzo e ciò dimostra che ci sono anche casi in cui mettere sette
parole di fila diventa un grosso sforzo creativo e James Joyce non è certo
l’ultimo sfigato aspirante scrittore che puoi incontrare in qualche forum sul
web.
Tu puoi tranquillamente porti l’obiettivo di scrivere 2000 battute al giorno, né
di più né di meno e poi andare dove vi pare con la bella sensazione di aver
compiuto il proprio dovere.
Stephen King nel suo “On writing” scrive:
“Io ho uno schema preciso. La mattina appartiene al nuovo, il lavoro che ho
attualmente in cantiere. Il pomeriggio è per il riposo e le lettere. La sera per la lettura,
la famiglia, le partite dei Red Sox alla TV e quelle revisioni che non possono attendere.
[…] Quando comincio a lavorare ad un progetto, non mi fermo e non rallento se non è
strettamente indispensabile. Se non scrivo tutti i giorni, nella mia mente i personaggi
cominciano ad appassire, cominciano a somigliare a personaggi invece che a persone
reali.”

Lo stesso Stephen King confessa di scrivere circa dieci pagine al giorno, per
un totale di circa 2000 parole (parole non battute), molto o poco? Facciamo
due conti: fino a qui hai letto 1424 parole: Stephen ti sono con il fiato sul
collo!
Duemila parole al giorno, dopo tre mesi di lavoro, equivalgono a circa
183.000 parole, un bel romanzo di oltre trecento pagine per far trascorrere al
nostro lettore un bel po’ del suo tempo libero; sempre che, naturalmente, la
storia sia interessante.
Alla luce di quanto ci siamo detti, a creatività e tecnica si aggiungono costanza
e disciplina e se qualcuno protestasse affermando che obbligare con rigore e
disciplina un processo creativo è una bestemmia, allora chiamo a dare la sua
testimonianza il dott. Gregory Bateson, grande linguista, antropologo e
sociologo: “Il rigore da solo è la morte, ma la creatività da sola è la follia”.
Grazie dott. Bateson.
Il giusto connubio tra la disciplina e la creatività porta di certo a buoni (e
spesso grandi) risultati… anche andando fuori tema. Ricordi che ne abbiamo
parlato proprio qualche pagina fa? Non devi aver paura di andare fuori
tema.
Se ci pensi, ogni grande romanzo si può sintetizzare in poche parole, ad
esempio: un povero falegname si costruisce un burattino perché si sente molto
solo; il burattino, per magia di una fata, diventa infine un bambino vero.
Senti questa: due giovani vedono la loro unione ostacolata da un uomo ricco
e prepotente, che rapisce la giovane donna. Alla fine, grazie ad un’epidemia di
peste, l’uomo prepotente muore e i due giovani possono finalmente sposarsi.
Un altro esempio: in un convento alcuni frati vengo uccisi. Indaga un altro
frate accompagnato da un novizio apprendista che poi è colui che racconta la
storia.
Il primo, come avrai intuito, è Pinocchio, poi I promessi sposi e quindi Il
nome della rosa.
Prendiamo Pinocchio – io amo Pinocchio - e senza interrogarci troppo sulle
dinamiche che hanno spinto Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini) a
scrivere questa favola, poniamoci questa domanda: come potremmo ri-
scrivere questa storia? Non dico di riscrivere la storia di Pinocchio, ma
partendo dalla sintesi che hai letto, provare a scrivere la tua versione senza il
Gatto e la Volpe, senza Mangiafuoco, ma con i tuoi personalissimi personaggi
buoni e cattivi.
Se ci pensi, si potrebbero comporre infinite storie che hanno come
protagonista un falegname ed un burattino fatato oppure… stregato! La Fata
Turchina potrebbe essere la Strega Nerina e Pinocchio potrebbe diventare un
mostro assassino che alla fine uccide il suo Geppetto. Oppure il burattino
potrebbe essere donna, il Campo dei Miracoli potrebbe davvero far crescere i
soldi sull’albero, Pinocchio potrebbe innamorarsi di Colombina burattina e
rapirla, insomma le strade della fantasia sono infinite.
Cosa ne dici di smetterla con la teoria e fare un po’ di sana pratica? Non si
dimagrisce leggendo la dieta, giusto? Ecco la prima esercitazione, puoi
scriverla e tenerla per te oppure, se ti va, inviarmela per posta a
info@massimopetrucci.it avrò piacere di leggerla e magari scriverti due righe
di risposta.
La tua storia deve essere lunga al massimo 3400 battute (spazi esclusi), ma
non meno di 2000 battute di testo. Deve raccontare, nello stile che preferisci
(favola, horror, fantasy, notizia data al telegiornale o altro) e nel tempo storico
che vuoi (passato, presente, futuro) la storia di un falegname che sentendosi
troppo solo decide di costruirsi un burattino il quale per magia, tecnologia o
quello che ti pare, inizia a muoversi da solo.
In bocca al lupo o forse, dato il tema, sarebbe meglio dire in culo alla
balena!
Direi che è giunto il momento buono per chiudere questo capitolo, ma prima
un breve riepilogo per punti.
• Non temere la pagina bianca, essa si affronta una parola dopo
l’altra.
• Il tuo romanzo può essere una cosa da approcciare con piacere,
come una bella casa di villeggiatura in cui scegliere di andare quando ti
pare e per il tempo che desideri.
• Tuttavia non cercare scuse per non scrivere. I grandi scrittori
c’insegnano che bisogna avere disciplina e scrivere tutti i giorni, anche
solo poche righe (o solo sette parole sparse).
• Poniti degli obiettivi alla tua portata: 2000 battute al giorno, per
iniziare.
• Non temere di andare fuori tema.
• Divertiti con la fantasia.
Ispirazione, personaggi e dialoghi
È convinzione comune che uno scrittore abbia nella mente tutto il racconto
con chiarezza, punto per punto dall’inizio alla fine. Anche se per qualcuno
può essere così, in realtà le cose vanno quasi sempre in modo completamente
opposto. Forse solo quando si “progetta” un giallo è necessario avere tutto
chiaro, ma per un romanzo le cose possono andare in tutt’altro modo.
Lo spiega bene E. L. Doctorow quando dice che
scrivere un romanzo è come guidare di notte, non vedi nulla oltre a ciò che i tuoi fari
illuminano, ma puoi fare l’intero viaggio in questo modo.

Roberto Cotroneo parla di svelamento di sé ovvero che la scrittura è un


processo attraverso il quale raccontiamo di noi (svelandoci) agli altri; allo
stesso modo ci porta a comprendere anche nuovi aspetti di noi stessi.
Da questa doppia interazione (o svelamento) prende forma la trama narrativa,
la quale, ad un certo punto della storia, può anche decidere d’intraprendere
direzioni inaspettate.
Umberto Eco, raccontando di come gli fosse venuta l’idea per “Il nome della
rosa”, disse semplicemente: “Avevo voglia di avvelenare un monaco” (Postilla
su "Alfabeta" n. 49 del giugno 1983).
Avevo voglia di avvelenare un monaco, gli è bastata questa scintilla creativa
per scrivere tutto il resto. Di certo Umberto Eco non si è seduto al computer e
si è messo a scrivere dal nulla, sicuramente non lui che è un perfezionista, la
prova è che nel romanzo ci sono dettagli che rasentano la maniacalità. Tuttavia
l’idea creativa è sintetizzata in un concetto molto semplice, in una frase: avevo
voglia di avvelenare un monaco.
Questa è una cosa su cui t’invito a prestare attenzione poiché è un aspetto
molto importante riuscire a sintetizzare in una frase l'idea di base del tuo
romanzo o racconto. Se ci riesci vuol dire che hai chiara la base fondante del
racconto. Ricordi l’esercizio di Pinocchio: voglio scrivere di un falegname
che si sente solo e che si costruisce un burattino che poi prende vita. Allora
dimmi, in che modo si sintetizza il tuo romanzo? Scrivilo in un massimo di 50
parole e ti assicuro che sono tantissime considerato che la sintesi di Pinocchio
ne conta una ventina.
Stephen King, a chi gli chiede come nascono i suoi romanzi, spiega che inizia
sempre ponendosi una domanda che suona più o meno così:
“Cosa accadrebbe se…”
In Cujo la domanda era: “Cosa accadrebbe se un grosso sanbernardo
diventasse idrofobo e si mettesse ad attaccare le persone per strada?”. Ne Il
gioco di Gerald si chiede: “Cosa accadrebbe se mentre fai sesso legato al
letto, il tuo partner muore e anche se urli nessuno ti sente?”.
Come vedi puoi partire da un’idea semplice e poi lasciare che la storia prenda
forma metro dopo metro, come quando guidi di notte per parafrasare E.
L. Doctorow, metro dopo metro puoi procedere per chilometri.
Devi solo fissare dei vincoli iniziali ovvero un luogo, un periodo storico, un
personaggio principale e un’idea forte come filo conduttore.
Facciamo un esempio: vogliamo scrivere una storia di certi ragazzini che
rimangono da soli su un’isola deserta dopo un naufragio.
Qual è il luogo? Un'isola deserta, immaginiamola in un luogo caldo.
Il tempo? È quello moderno ovvero accade ora.
Personaggio principale: un ragazzino di buona famiglia, intelligente eletto
dagli altri a “capo” per la sua capacità innata di essere leader.
Personaggio antagonista: un ragazzino bullo che vuole sottomettere gli altri
con la prepotenza e la forza.
Ora possiamo chiederci perché si siano salvati solo dei ragazzini, dove sono
gli adulti? Allora immaginiamo che erano in gita con la scuola, oppure che
appartenevano ad un college e tristemente, durante il naufragio, hanno perso
la vita il professore, che li accompagnava, ed i pochi membri dell’equipaggio.
Ecco, ora abbiamo avuto ciò che volevamo: dei ragazzini da soli su un’isola
deserta.
Ti ricorda forse Il signore delle mosche di William Golding? Giusto, la storia
è quella. In ogni caso, lasciando da parte Golding, tu hai un’idea, un posto, un
tempo e dei personaggi. Già da questi elementi puoi partire con la stesura del
tuo nuovo romanzo o racconto.
Tuttavia, come abbiamo appreso nei capitoli precedenti, una buona idea
(creatività) da sola non basta, ci vuole anche la tecnica. Vediamo allora alcuni
aspetti puramente tecnici.
I personaggi
A volte si leggono storie dove i personaggi restano fumosi, poco identificati,
che si dimenticano facilmente perfino mentre si sta leggendo e magari sei
costretto a tornare qualche pagina indietro per mettere a fuoco il personaggio
di turno. Ti è mai capitato? Il motivo è che l’autore ha prestato poca
attenzione alla loro caratterizzazione. È chiaro che non possiamo pretendere di
caratterizzare approfonditamente tutti i personaggi della storia, ma almeno
quelli principali dobbiamo tratteggiarli nel modo più efficace possibile, dargli
un carattere, un modo di parlare, un modo di affrontare la vita.
Non è soltanto una questione stilistica, infatti un personaggio ben delineato,
con un suo carattere definito e con una certa “fisicità”, inizierà anche a
muoversi nella storia in modo quasi del tutto autonomo; una specie di magia!
Sapere che il personaggio Carlo è un tipo collerico, che perde subito la
pazienza, ti aiuterà nel momento in cui avrai bisogno di farlo interagire con
l’universo che stai creando. Cosa accade se Carlo resta bloccato nel traffico?
Oppure se in fila all’ufficio postale gli passano davanti? Come reagirà?
Se invece Valeria è un personaggio con una psicologia complicata,
problematica, cosa le succederà se ha un appuntamento importante? Che viso
avrà? Che pensieri farà? Che reazioni potrà avere se non si è accorta di aver
appena superato un tale in fila all’ufficio postale e che ora le sta ringhiando
contro?
Se il personaggio Mimmo ha una deformazione alla gamba destra per cui è
costretto a zoppicare, cosa accadrà se decide di aiutare Valeria? Come
reagiranno i vari personaggi? Come si muoveranno in base alle loro
caratteristiche?
Ecco che la narrazione si dipinge di diversi colori, si vivacizza, diventa più
vera. Non c’è cosa più noiosa che leggere di personaggi tutti più o meno
simili, tutti con lo stesso modo di parlare, tutti con lo stesso slang.
È sempre un bene caratterizzare i propri personaggi, iniziando da quello
principale: il protagonista. Il mio consiglio è mettere nero su bianco un po’
d’informazioni sul suo conto, anche se poi non le userai mai durante il
romanzo. Ad esempio: che scuole ha frequentato? Come andava a scuola?
Aveva la ragazza? È stato mai in ospedale? Si è operato mai? Ha fatto sport?
Fa volontariato? Che auto ha? Che musica ascolta? Le domande possono
essere tante. Più risposte darai, maggiori saranno le possibilità che il tuo
personaggio sia coerente ed interessante, in altre parole, diventa vero.
I dialoghi
Sono forse l’aspetto più difficile. Un dialogo ben fatto rende tutto più vero e
credibile, ma se suona male, tutto l’impianto narrativo precipita
inesorabilmente. È buona norma ridurli al minimo, almeno all’inizio.
C’è una regola mai scritta che suona più o meno così: se sono “troppo veri”,
non funzionano; appare come un controsenso, vero? Per dimostrare questa
asserzione, prova a registrare una conversazione tra amici, poi riascoltala
mettendola nero su bianco e ti accorgerai che c’è qualcosa che non va. La
verità è che siamo abituati ai ritmi ed allo stile cinematografico, siamo
“addomesticati” a sentire o leggere un certo tipo di dialogo.
Bisogna trovare il giusto equilibrio tra la realtà e la finzione, altrimenti si
rischia di scadere nella noia o nel grottesco.
Un buon esercizio che potresti fare è prendere una fiction qualsiasi, italiana o
(meglio) straniera, ed analizzarne i dialoghi.
Se confronti quei dialoghi con quelli che ascolti tutti i giorni in casa, al lavoro
o per la strada, ti accorgerai che difficilmente le persone reali parlano così,
eppure ascoltarli durante un film non ti crea alcun disagio. Questa è la
controprova di quanto siamo abituati ad ascoltare e leggere la fiction.
Ti propongo qualche esempio. Immagina di essere sopravvissuto ad una
guerra, di aver visto morire amici. Torni a casa e la donna che hai sempre
amato e che non ti filava di striscio, ora scopre di amarti. Con occhi lucidi di
passione ti chiede: “Cosa farai domani?” e tu, alzando un sopracciglio,
rispondi: “Francamente, mia cara, me ne infischio!”
Ti prego, sii onesto, è verosimile? Eppure è una delle frasi più famose del film
(nonché del romanzo) “Via col vento”.
Analizziamo quest’altro scambio di battute tratto da “A perfect world”:
Red Garnet: “Li avete circondati?”
Sceriffo: “Li teniamo stretti come nella fica di una ranocchia”
Sally: “Immagino che parli per esperienza personale”
Difficilmente ascolteremmo uno scambio simile nella realtà, però nella fiction
funziona, tuttavia non dobbiamo esagerare, è importante considerare con
attenzione ciò che sta accadendo attorno ai personaggi, chi sono i personaggi,
qual è il loro carattere e come si comporterebbero in quella situazione.
Gli stili di dialogo possono essere diversi, di solito appartengono ad una o più
di queste macro categorie:
• Brevi e veloci;
• Rari;
• Molto lunghi e con ampie riflessioni;
• Variegati nella lingua (es. alternanza di parole dialettali);
• Omogenei e poco diversificato nello stile espressivo.
Se proprio non possono essere rari, meglio che siano brevi e veloci, altrimenti
è auspicabile che i tuoi dialoghi siano almeno variegati. In uno stile variegato,
il commissario parlerà in un modo, il malvivente in un altro, il modo di
parlare di un professore universitario sarà diverso dal modo di parlare di un
suo studente, che sarà ancora diverso quando questo stesso studente parlerà
con la sua ragazza. In fin dei conti lo facciamo anche tu ed io nella vita reale:
adattiamo il nostro modo di parlare ed il nostro linguaggio a seconda del
nostro interlocutore. Eppure non è raro trovare in molti romanzi personaggi
che parlano sempre e comunque allo stesso modo; risultato: noioso.
Un altro aspetto importante dei dialoghi è il contesto: essi mutano non
solo da persona a persona, ma anche da contesto a contesto. Non è raro
leggere qualcosa del tipo:
“Ciao Marzio”
“Ciao Osvaldo”
“Come va?”
“Bene”
“Noti qualcosa?”
“Sì, c’è il terremoto”
“Davvero? Credo che dovremmo scappare via, amico mio”
“Ti riferisci al probabile crollo di questo vecchio edificio?”
“Certamente. Io inizio a scappare, mi segui?”
“Ti seguo e ti supero, amico mio!”
Hai sorriso? Se questo fosse stato un dialogo di una scena comica, allora
avrebbe avuto un senso, ma se stiamo scrivendo di “realtà quotidiana” allora
siamo totalmente fuori strada. Di sicuro in questo mio esempio ho esasperato
il concetto, ma non è raro leggere di gente ferita a morte, che prima di passare
a miglior vita, ci lascia un sermone di due pagine!
Immagina che il tuo personaggio stia scappando insieme alla ragazza. Li
stanno inseguendo e vogliono ucciderli.
Lei: “C’inseguono! Cosa proponi di fare?”
Lui: “Penso che sia utile seminarli se vogliamo salva la vita. Credo che sia
meglio entrare in questo palazzo, attenta allo scalino.”
Lei: “Sì hai ragione, questo posto mi sembra ottimo. Qui non ci troveranno!”
È verosimile? I due stanno scappando, sono spaventati a morte, magari hanno
il fiatone e parlano in questo modo? Forse sarebbe meglio qualcosa come
questa:
Lei: "ci inseguono!"
Lui: "entra qui!"
Non c’è neanche bisogno che lei risponda “sì”, si capisce che lo seguirà.
Bisogna essere veri nella finzione.
È necessario che la scena sia verosimile se vogliamo che il lettore creda in ciò
che sta leggendo. Diversamente è come vedere le telecamere durante una
scena di un film di paura: si perde all’istante tutto il pathos!
Ogni scrittore è in fin dei conti un bugiardo: egli non racconta quasi mai la
verità. Se però bisogna raccontare anche solo una bugia, allora bisogna farlo
con il massimo dell’onestà, senza barare con il lettore, è l’unico modo per
essere credibili. Quello che bisogna fare, come dice Zafon, è cercare la “verità
emotiva” ovvero la sincerità all’interno della finzione.
La verità emotiva non è una qualità morale, è una tecnica, è mestiere.
Scrivere è un mestiere e lo devi saper fare
Isak Dinesen (pseudonimo di Karen Blixen, scrittrice danese) diceva di sé:
“Scrivo un po’ ogni giorno, senza speranza e senza disperazione”.

Una frase come questa andrebbe incorniciata.


Essere scrittori, lo abbiamo detto, passa per l’artigianato dello scrivere e
quindi dalla cura dello strumento e lo strumento si chiama scrittura.
Ezra Pound diceva:
“Una fondamentale accuratezza dell’espressione è il solo e unico principio morale della
scrittura”.

Certo, non possiamo basarci solo su questo, ma una fondamentale


accuratezza d’espressione è almeno un buon inizio.
Immagina di essere dal medico, non ti senti granché, lui ti guarda e ti dice che
hai una piccola infiammazione gastrica all’occhio destro. Anche un bambino
saprebbe che “gastrico” è qualcosa che ha a che fare con lo stomaco e non
con gli occhi. Cosa penseresti del medico? Beh io mi alzerei e, con un sorriso
di circostanza, mi dileguerei nel giro di tre secondi!
Eppure non è raro leggere bestialità di questo tipo (tra parentesi le versioni
corrette): pò (po’), stà (sta), qual’è (qual è), perchè (perché), fà (fa) e potrei
andare avanti per qualche pagina.
Curare la propria scrittura vuol dire amare la propria lingua, conoscerla,
sapere dove mettere una virgola e dove un punto e virgola. Il drammaturgo
russo Isaac Babel, parlando di tecnica narrativa, dichiarò: “Non c’è ferro che
possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto”.
Le parole e la punteggiatura sono gli unici strumenti che abbiamo per dare
vita e ritmo alla nostra narrativa. Raymond Carver, nel suo Mestiere di
scrivere, dice:
“[…] le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle
giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che
devono dire nel modo migliore. Se le parole sono appesantite dall’emozione
incontrollata dello scrittore, o se sono imprecise e inaccurate per qualche altro
motivo – se sono, insomma, in qualche maniera sfocate – fatalmente gli occhi del
lettore scivoleranno sopra di esse e non si sarà ottenuto un bel niente. Il senso
artistico del lettore non sarà affatto stimolato.”
T’invito a riflettere su quest’affermazione di Sandro Veronesi:
“Quando soffrono, i professionisti smettono di scrivere ed i dilettanti si mettono a
scrivere”

Pensare alla scrittura come terapia può andar bene se il nostro lettore è anche
il nostro psicologo, per il resto è un concetto per buona parte sbagliato.
Sempre Veronesi, in una lezione tenuta alla Minimum Fax, dice:
“Il professionista lì si ferma [quando ha un problema], lotta con questo vento,
risolve, per quel che può, o vi è travolto, se non riesce a risolvere i problemi, poi,
dopo, quando questo momentaccio è passato, scrive.

Il dilettante, invece, BUM, subito prende questo flusso di merda che gli arriva
addosso, e, per terapia, per consolarsi, per reggere meglio l’urto e illudendosi
addirittura che questo nobiliti il suo gesto, scrive. In quel modo tu dai un
imprinting alla tua natura di scrittore che non ti rappresenta. E ti porti appresso,
anzi addirittura ci lavori… è come lavorare con una penna con un macigno
sopra e scrivere con ‘sto macigno. Ti porti dietro questo ingombro addirittura
nella pagina, addirittura dai alla pagina che scrivi, e che chissà perché io dovrei
leggere, gli dai addirittura il compito di guarirti, di farti star meglio, di lenire il
tuo dolore, alla scrittura o all’arte, diciamo, terapeutica. L’arte terapeutica c’è:
è per i dilettanti, quelli che oggi lo fanno e domani non possono più farlo perché
hanno vinto il concorso alle poste e non possono più scrivere, più recitare, più
dipingere.

Allora sì: scrivete quando state male. Se il vostro approccio alla letteratura è di
tipo dilettantistico, ma ripeto… ci sono dei dilettanti straordinari in questo senso
qua, proprio per la freschezza, la prontezza con cui trasferiscono nella loro arte
quello che stanno vivendo. Il professionista si protegge, perché si deve
proteggere, perché è oggi, è domani, dopodomani, è sempre. Non puoi
permetterti di caricare su un momento molto difficile tutto lo stress che consegue
a un lavoro letterario.

Perché, ok, scrivi, ti alleggerisci del peso perché l’hai trasformato in scrittura,
l’hai trasformato in una storia, ti sei preso le tue rivincite, hai mescolato le cose
– come diceva Sartre: «la letteratura è dove chi perde vince» – chi perde vince, e
uno già sta meglio. Te lo puoi permettere dopo quello che stavi passando mentre
scrivevi, quello che stai forse ancora passando, con una speranza aggrappata a
questo manoscritto – te la puoi permettere tutta l’altra merda che ti arriva per il
fatto che hai scritto? O ti spazza via? E adesso? Siamo sempre lì: perché io
dovrei leggere quello che hai scritto? Perché la gente dovrebbe correre in
libreria a leggere quello che avete scritto anche ove ve l’abbiano pubblicato?
Allora lì sono botte vere”

Bisogna che ci ficchiamo in testa un concetto: scrivere è mestiere.


Lo è se vuoi scrivere per fare lo scrittore, scrivere per vedere il tuo libro in
bella mostra in libreria, per venderne quante più copie possibile, allora hai
scelto di scrivere per mestiere. Forse non ci camperai con questo mestiere, ma
hai scelto di farlo e devi farlo seriamente. Altrimenti c’è Facebook, c’è il tuo
blog, ci sono i forum letterari e ci sono le case editrici a pagamento.
Non ho segnato la fonte e mi spiace, ma nella mia Moleskine rossa ho
annotato questa frase: i principianti riempiono i propri racconti di
sentimento, mentre dovrebbero essere più incentrati sui fatti quotidiani del
raccontare, non per forza una morale, un insegnamento, piuttosto una serie
di azioni che vengono dal carattere dei personaggi.
I fatti e le azioni, perché sono queste cose che danno movimento ai
personaggi, fatti e azioni che scaturiscono dal carattere (ansioso, misantropo,
egocentrico, timido, collerico, psicotico, eccetera) dei personaggi. Ancora una
volta viene tirato di nuovo in ballo l’importanza della caratterizzazione dei
personaggi. In base al carattere prima o poi ci saranno delle scelte e, di
conseguenza, delle azioni. I personaggi inizieranno a muoversi da sé ed è
proprio da questo movimento che poi si sviluppa il racconto, snocciolandosi
una pagina dietro l’altra.
Il lettore non vuole altro che un racconto, ma non un racconto qualsiasi:
vuole essere testimone di un conflitto, vuole preoccuparsi per le sorti del
personaggio principale e continuerà a leggere, pagina dopo pagina, per sapere
come andrà a finire.
Allora cosa fa uno scrittore? Prende un tizio qualsiasi che fino all’istante
prima conduceva una vita normale, con i suoi problemi quotidiani e tutto il
resto e lo butta in un conflitto da risolvere.
Prendi il povero Don Abbondio: prima d’incontrare i bravi sul ponte, da dove
stava venendo? Cosa aveva fatto? Con chi aveva parlato? Che progetti aveva
per quella giornata? Io non lo so e nemmeno tu e scommetto che non lo
sapeva nemmeno Manzoni. Lo scrittore si è solo limitato ad “intercettare” il
parroco ed a mettergli davanti un bel conflitto: “Questo matrimonio non s’ha
da fare, né domani né mai”.
Lo scrittore intercetta un personaggio e gli cambia la vita.
Prendiamo Gianluca, ad esempio. Chi è? Non lo so, è un tale che sta andando
al lavoro a piedi. Forse è un salutista, chissà, non importa, sto inventando
all’istante, proprio mentre scrivo queste righe. Gianluca è un bel tipo, mangia
sano, fa sport e sta andando al lavoro. Ecco che si ferma: c’è una bambina
disperata poiché il suo gatto è salito su un albero e non ne vuole sapere di
scendere. A questo punto Gianluca potrebbe chiamare i pompieri, rassicurare
la bimba che tutto andrà bene e proseguire per la sua strada e a noi non
importerebbe più niente di lui.
Invece no, Gianluca è il personaggio della mia storia ed io, da buon scrittore,
non posso fargli vivere una vita tranquilla, allora Gianluca, intenerito dalle
lacrime della bambina, decide di arrampicarsi sull’albero e recuperare il
gattaccio. Si arrampica per quasi dieci metri, si allunga sul ramo dove il gatto
si è rifugiato e guarda giù. La bambina è poco più di un punto, sembra che lo
stia salutando, alza gli occhi, striscia ancora un po’ ed in quel momento sente
il frastuono di una motocicletta di grossa cilindrata e poi sente un urlo.
Immediatamente pensa alla bambina, si sporge dal ramo e invece della moto,
vede un pazzo, munito di motosega, avventarsi contro l’albero! Ci sono
riuscito: Gianluca ha ora il suo bel “conflitto” da risolvere ed il lettore ha
qualcosa a cui appassionarsi.
Possiamo subito porci delle domande: Gianluca ce la farà? Perché quel tizio
vuole abbattere l’albero, chi è? Conosce Gianluca? È d’accordo con la
bambina? È una trappola? E così via.
Prima d’iniziare il nostro bel romanzo o racconto, è bene interrogarci sul
conflitto da risolvere, poiché esso permeerà tutta la storia, farà in modo che
accada quello che deve accadere. Il carattere dei personaggi farà in modo che
ci siano delle scelte e non altre, che si compiano delle azioni e non altre. Solo
allora il mondo del nostro romanzo inizierà davvero a prendere vita.
Entriamo più nel merito, mi piace condividere con te uno strumento che uso
personalmente, ma che ho notato essere utilizzato anche da scrittori più
famosi. In altre parole per delineare più facilmente i personaggi principali, si
può usare un questionario le cui risposte serviranno ad identificare le loro
personalità.
Scheda del personaggio
• Nome, cognome, soprannome (se c’è).
• Luogo, data di nascita, età.
• Segni caratteristici (esempio: zoppica, è pelato, è molto alto, è molto
basso, è grasso, è magrissimo, è in forma, ecc.)
• Un po’ di vita (esempio: dove ha vissuto, caratteristiche della
famiglia, tipo d’infanzia, relazione con i genitori).
• Carattere (estroverso, aperto, gentile, premuroso, calmo, spaccone,
vergognoso, triste, cupo, spietato, indifferente, irascibile, violento,
ipocondriaco).
• Istruzione (scuole medie, superiori, università, molto colto,
ignorante).
• Stato civile e soddisfazione dello stato attuale (esempio: è single ma
ha voglia di un partner; è sposato ma ha voglia di un’amante; felice dello
stato attuale).
• Vita nella storia (professione attuale/attività).
• Rapporti sociali (con i colleghi/compagni/coetanei;
fiducia/collaborazione oppure sospetto/dispetto).
• Rapporti personali con altri personaggi della storia (ama X, odia Y,
ecc.).
• Mondo privato (hobby, interessi, gusti, sport, manie).
• Ideologia e filosofia (politica, religione, punti di vista sulle cose,
pessimista, ottimista).
• Conflitti e motivazioni (bisogno>conflitti al
bisogno>decisioni/azioni sul bisogno).
• Processo di crescita e fine (chi era il personaggio, cosa ha imparato,
cosa ha guadagnato o perso, chi o cosa è diventato durante il corso della
storia, se è maturato).

Queste domande ti spingeranno a riflettere per bene su chi è il personaggio di


cui vuoi narrare la storia. Non trascurare questa fase, prenditi tempo e
compila una scheda per ogni personaggio di rilievo, in particolare per il
personaggio principale “buono”, per quello principale antagonista e per i loro
gregari. Di un personaggio sapere quale sia il suo punto di vista politico, tanto
per fare un esempio, potrebbe condizionare le sue azioni e le sue parole se si
trovasse coinvolto in una manifestazione no-global. Sapere che tutte le
mattine si alza alle cinque e va a correre oppure che è un tipo molto sedentario
e sovrappeso, è importante se viene inseguito da due malviventi che vogliono
fargli la festa.
C’è un punto che mi piace molto ed è relativo al lavoro svolto dal
protagonista. Ti riporto cosa dice Giulio Mozzi poiché mi sembra davvero
centrato:
“Ricordo l’inizio di un romanzo che lessi dattiloscritto: Il 2 novembre, Marisa mi disse:
‘Non ti ho mai amato, tu per me sei stato una disgrazia’; e se ne andò. Mi presi un
mese di ferie per pensarci su.

Domanda: chi, oggi, in Italia, può prendersi un mese di ferie, di punto in bianco, in
novembre?”

La domanda posta da Mozzi pone una questione importante ovvero non farsi
prendere troppo dall’idea iniziale e dalla frenesia di metterla per iscritto
trascurando quei dettagli importanti che renderebbero credibile la tua storia.
Sapere che lavoro fa il tuo protagonista vuol dire sapere cosa può permettersi
e cosa no: l’auto che possiede, il quartiere in cui abita e perfino le dimensioni
del suo televisore LCD.
Come direbbe Umberto Eco, prima di metterci a scrivere è necessario
pensare con precisione ai dettagli per poter immaginare ed inventare
tutto l’universo in cui la storia si svolgerà.
Compito da svolgere: compila la scheda per i tuoi personaggi principali,
quindi controlla che la tua storia sia coerente con le risposte.
Iniziare col piede giusto: l’incipit
Ogni racconto ha un inizio particolare e magico: l’incipit.
Uno degli incipit più noti al mondo è quello usato dal cane Snoopy seduto
sulla cuccia davanti alla macchina per scrivere: “Era una notte buia e
tempestosa”. A dire il vero quest’incipit non è di Snoopy ma è una celebre
frase di Edward Bulwer-Lytton nel racconto Paul Clifford pubblicato nel
1830: It was a dark and stormy night.
Roberto Cotroneo, nel suo Manuale di scrittura creativa, dice che scrivere un
libro vuol dire sedurre il mondo e l’incipit non è altro che un principio di
seduzione. Vladimirovic Nabokov diceva che l’incipit è il palpito iniziale del
racconto, l’opera che si fa realtà.
Un buon incipit introduce ma non dice, è un’ombra dietro ad una finestra che
attira la tua attenzione, è un passante che ti guarda negli occhi come per dirti
qualcosa e poi continua per la sua strada. L’incipit dà la spinta iniziale, quella
che ti fa lasciare gli ormeggi ed iniziare il viaggio.
Te ne propongo qualcuno tra i più celebri.
The Eye (L'occhio) - di Nabokov
Conobbi quella donna, quella Matilda, durante il mio primo autunno di émigré a Berlino,
all'inizio di due segmenti di tempo: gli anni venti e gli anni venti di questo schifo di vita.
Mi avevano appena trovato un posto di istruttore presso una famiglia russa che non era
ancora riuscita a cadere in miseria, e che viveva dei fantasmi di antiche abitudini
pietroburghesi. Non avevo precedenti esperienze nel tirar su bambini: neanche la
minima idea di come parlare o comportarmi con loro. Erano due, due ragazzini. Al loro
cospetto provavo un impaccio umiliante.

Il pendolo di Foucault - di Umberto Eco


Fu allora che vidi il Pendolo.

La sfera, mobile all'estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le
sue ampie oscillazioni con isocrona maestà.

Io sapevo - ma chiunque avrebbe dovuto avvertire nell'incanto di quel placido respiro -


che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e
quel numero "pi greco" che, irrazionale alle menti sublunari, per divina ragione lega
necessariamente la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili - così che il
tempo di quel vagare di una sfera dall'uno all'altro polo era effetto di una arcana
cospirazione tra le più intemporali delle misure, l'unità del punto di sospensione, la
dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di "pi-greco", il tetragono segreto
della radice, la perfezione del cerchio.
E poi un romanzo che lessi nella mia adolescenza e che mi piacque molto,
l’unico libro di Susanna Tamaro che sono riuscito a leggere (scusami
Susanna, ma non si può piacere a tutti, giusto?).
Anima Mundi - di Susanna Tamaro
In principio era il vuoto. Poi il vuoto si è contratto, è diventato più piccolo di una
capocchia di spillo. È stata una sua volontà o qualcosa l'ha costretto? Nessuno può
saperlo, ciò che è troppo compresso alla fine esplode, con rabbia, con furore. Dal vuoto
è nato un intollerabile bagliore, si è sparso nello spazio, non c'era più buio lassù, ma
luce. Dalla luce è scaturito l'universo, schegge impazzite di energia proiettate nello
spazio e nel tempo. Correndo e correndo, hanno formato le stelle e i pianeti. Il fuoco e
la materia. Sarebbe potuto bastare questo, eppure non è bastato.

Esaminiamo proprio quest’ultimo incipit: ci racconta di un vuoto cosmico e di


una scelta (o un obbligo?), ci descrive la nascita della materia, delle stelle, dei
pianeti, della luce e dell’universo intero. Eppure, ci dice, tutto questo non è
bastato. Non è bastato per cosa? E perché? Cosa deve ancora accadere? Non è
possibile non continuare a leggere per comprendere cosa ci sia di più
importante e degno di attenzione della stessa creazione dell’universo.
Questo è il compito di un buon incipit: incuriosire.
Voglio proportene un altro così particolare da essere geniale!
L’orribile karma della formica – di David Safier
Il giorno in cui morii non fu affatto divertente. E non solo a causa della mia morte. A
voler essere precisi, in effetti, l'evento si conquistò appena il sesto posto nella classifica
dei momenti più spiacevoli di quella giornata. Al quinto andò l'attimo in cui Lilly mi
chiese con sguardo assonnato: "Perché oggi non rimani a casa, mamma? E' il mio
compleanno!"

“Il giorno in cui morii” svela subito al lettore che il protagonista muore, ma
tuttavia è spiazzante perché è proprio la voce narrante: un morto che racconta?
Ci dice anche che fu una brutta morte: “non fu affatto divertente”. Dopo
qualche parola veniamo informati che “la brutta morte” del protagonista non è
nemmeno l’evento principale nella classifica di ciò che è accaduto, è
addirittura al sesto posto! Quindi viene subito da pensare: se la morte è al
sesto posto, cosa diavolo ci sarà nei primi cinque posti? Alla fine scopriamo
che il protagonista è donna, mamma e si chiama Lully e che il figlio, quella
mattina, le chiede di restare in casa perché è il suo compleanno.
Di’ la verità, rileggendo questo incipit non ti viene voglia di continuare a
leggere per conoscerne il seguito?
L’incipit deve avere una grande valenza in termini di suggestione, ma non
deve mai essere un riassunto di ciò che si leggerà, in esso non ci deve essere
troppo della storia che andrai a raccontare, non deve svelare troppo. un buon
incipit fa intravedere, come in quello di Safier, ma allo stesso tempo rilancia
dell’altro: dice che il protagonista muore, ma dice anche che ci sono altre
cinque cose peggiori (tutte da scoprire). Quello di Anima Mundi addirittura
non ci dice assolutamente nulla di ciò che andremo a leggere, però ci dice che
tutta la creazione dell’universo non è bastata e che c’è dell’altro degno di
essere raccontato e noi (lettori) siamo interessati proprio a quest’altro.
L’incipit deve suggestionare e creare un’attesa.
Italo Calvino scriveva:
“Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra
disposizione il mondo: […] il mondo dato in blocco, senza un prima né un poi, il mondo
come memoria individuale e come potenzialità implicita. […] Ogni volta l’inizio è
questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore [è]
l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere
raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare.”

Vogliamo provare a scriverne uno? Leggi questo.


Quella mattina mi svegliai prestissimo. Non avevo dormito molto dopo che
avevo ucciso mia moglie. Non lo sapevo ancora, ma tra un po’ sarebbe
arrivata la polizia e sarei morto su una sedia elettrica.
Che te ne pare? Secondo me svela troppo, ha raccontato tutto. Proviamo a
renderlo migliore.
Era stata una notte lunga ed insonne steso a fianco al cadavere di mia
moglie pensando a cosa fare, tuttavia a cambiare davvero la mia vita
sarebbe stato il tizio che quella mattina bussò al mia porta.
Questa volta l’incipit non ci svela che il personaggio principale ha ucciso la
moglie, ma ci dice (forse inquietandoci) che è stato tutta la notte vicino al
cadavere della moglie. Perché è rimasto disteso vicino al cadavere e non ha
chiamato qualcuno? È stato lui ad ucciderla o la moglie è morta di morte
naturale? Chi bussa alla porta? Abbiamo quella che si chiama una
sospensione che ci spinge ad andare avanti per saperne di più. Sedurre vuol
dire anche incuriosire, significa dare la possibilità all’altro di riempire le
nostre zone d’ombra con le sue fantasie o aspettative. Sedurre significa
lasciarsi seguire ovvero condurre a sé. Ecco cosa dovrebbe fare un buon
incipit: promettere al lettore che ci sarà qualcosa per cui vale davvero la pena
continuare a leggere. Il cosa non è compito dell’incipit specificarlo, il cosa si
svelerà pagina dopo pagina ed è l’aspetto più difficile poiché non c’è cosa più
frustrante, per un lettore, di un romanzo che inizia col piede giusto e man
mano lo abbandona, con le emozioni che scemano, l’interesse per la lettura
che si fa sempre più vacuo fino a scomparire, finendo per fargli rimpiangere
gli euro ed il tempo sprecati.
Gli incipit possono essere di diverse tipologie:
Introduzione di un personaggio: “Lo chiamavano gigante, a
quattordici anni era quasi due metri, ma lui…”
In medias res: “Si volta e la vede…”
Tempo storico: “Era la fine della guerra, i tedeschi stavano
lasciando…”
Evocazione di un paesaggio: “Il mare era calmo, il sole alto…”
Ti propongo qualche esercizio, se ne hai voglia: immagina di raccontare la
storia di Cappuccetto Rosso come se fosse un romanzo. Scrivi diversi incipit,
tutti che introducono Cappuccetto Rosso, ma adottando incipit di diverse
tipologie.
Invece di spiegare, mostra
Incipit, climax, voci narranti e finali
Credo che ogni lettore, indipendentemente dal genere di libro che ha tra le
mani, abbia voglia di viaggiare, di credere e lasciarsi andare alla storia.
Spesso quello che succede è che le idee nel romanzo sono buone, ma il modo
in cui viene scritto è sbagliato: superficiale, sciatto oppure scontato. Per
questo motivo bisogna prestare molta attenzione agli aspetti principali che
ogni buon scrittore deve tenere conto durante la stesura del suo romanzo:
• l’ambientazione;
• la struttura narrativa: introduzione, sviluppo e conclusione;
• i personaggi;
• gli avvenimenti;
L’ambientazione
È il luogo (reale o di fantasia) in cui si colloca l’azione. Presta attenzione
affinché l’ambientazione sia coerente con il periodo storico poiché qui le cose
possono complicarsi.
Se hai deciso di ambientare la tua storia nel medioevo, domandati: quanto ne
so? C’era la carta? Gli occhiali erano stati inventati? C’erano le patate? E i
peperoni? La polvere da sparo? Come si curava l’influenza? A che ora si
cenava? Possono sembrare domande banali, ma invece sono molto importanti
e danno credibilità a ciò che stai scrivendo. È importante avere ben chiari tutti
gli aspetti e le caratteristiche dell’ambientazione poiché sono essi a rendere
credibile o meno la tua storia.
Tutto ciò vale anche per il passato prossimo: se ambienti il tuo romanzo negli
anni ottanta del novecento, potresti porti alcune domande: ci si poteva
scambiare sms? Era facile vedere il video del nostro cantante preferito? Che
marche di scarpe andavano di moda? C’era La7 in TV? L’auto che stiamo
facendo guidare al protagonista, negli anni ’80, era un modello nuovo o
vecchio? C’era il servosterzo? Indossava la cintura di sicurezza? C’erano i
telefoni con le schede o erano solo a gettoni? Si vedevano le partite in TV?
Esistevano i biscotti Ringo? C’erano i Pokemon? E il televideo? Era facile
registrare una conversazione?
Se decidi di raccontare una scena nella casa del protagonista, e la storia si
svolge nel 1975, è bene che tu ti faccia tutta una serie di domande, ad
esempio: che tipo di televisione può esserci in quell’appartamento, a colori o
bianco e nero? Quanti pollici? È possibile usare il telecomando? Che tipo di
telefono c’è in casa? Di che colore? Che tipo d’impianto stereo? Le pareti
hanno il parato oppure no? I sanitari del bagno sono bianchi? Oppure blu?
Esistevano i neon?
Studiare attentamente l’ambientazione in cui l’azione del romanzo si
compie è un aspetto da non sottovalutare.
La struttura narrativa
È ciò che tiene in piedi la storia e mantiene vivo l’interesse. L’introduzione
avvia il lettore nella situazione in cui l’azione del romanzo (racconto) avvierà
il suo corso. È in questa fase che sceglierai il punto di vista con il quale viene
osservata la scena e di conseguenza la voce narrante, la quale può essere in
prima persona (consigliata per chi si avvia alla scrittura), in seconda persona
(come per lo scrittore cinese Gao Xinjiang, premio Nobel per la letteratura nel
2000) o in terza persona.
La voce narrante
Quella a cui siamo più abituati è la terza persona, essa può essere interna
oppure esterna alla storia. Nel primo caso partecipa in qualche modo
all’azione narrante, ad esempio ricordando come andarono le cose. Nel
secondo caso è un narratore estraneo, che può essere a sua volta onnisciente
ovvero che conosce ogni aspetto della vicenda, oppure essere al corrente solo
di una parte.
La prima persona è forse la forma più semplice, quella che usiamo
normalmente nella nostra vita per raccontare le cose che ci riguardano. È
anche più naturale e dà la possibilità di raccontare i pensieri più profondi del
protagonista. Da parte del lettore è forse più semplice accettare per vera una
storia scritta in prima persona. “Accettare per vera” non vuol dire che il lettore
debba credere che quella cosa sia per forza veritiera ovvero realmente
accaduta, ciò che conta è che possa essere credibile. In fin dei conti la tua
storia potrebbe anche essere ambientata in un luogo di fantasia, con orchi e
draghi, oppure nel futuro con auto volanti. La cosa importante è che sia
verosimile, ricordi la realtà emotiva di cui abbiamo trattato nei capitoli
precedenti?
La seconda persona è molto più rara e potrebbe rientrare nel concetto di
prima persona. In questa tipologia di narrazione ci si rivolge al lettore
rendendolo protagonista della storia. Ecco l’incipit del romanzo La montagna
dell’anima di Gao Xinjiang:
Sei salito all'alba su una corriera traballante, di quelle che in città non si usano più, e
dopo dodici ore di sobbalzi su impervie strade di montagna, sei arrivato in questa
cittadina del sud. Con lo zaino in spalla e un borsone in mano, fermo alla stazione
invasa da cartucce di gelati e avanzi di canna da zucchero, scruti l'umanità che ti
circonda. Uomini piegati da sacchi di ogni dimensione e donne con bambini in braccio
scendono dagli autobus o attraversano il piazzale, mentre giovani con le mani libere,
senza sacchi né ceste, pescano dalle tasche semi di girasole, se li ficcano in bocca uno
dietro l'altro e sputano la scorza con gesti abili ed eleganti, emettendo un leggero sibilo.
Hanno l'aria spensierata e disinvolta, tipica del luogo. Sono a casa, perché dovrebbero
sentirsi a disagio? Le loro radici affondano in queste terre da generazioni, è inutile che
tu venga qui da tanto lontano a cercare le tue.
Il climax
Qualche che sia la tua voce narrante, ad un certo punto le forze in gioco
devono raggiungere un punto di crisi, l’apice della contesa (il cosiddetto
climax), un momento in cui lo scontro tra le diverse forze in campo arriverà
alla massima intensità, trascinando con sé tutto quanto. È il momento in cui lo
scrittore prende il personaggio principale, lo fa salire sull’albero ed inizia a
scuotere il tronco con tutte le sue forze! Tutto entra in gioco: conflitti e
tensioni, scene e dialoghi, scelte ed azioni.
Anche in questa fase sforzati di mostrare e non solo di descrivere. C’è una
grande differenza tra mostrare e descrivere ed è l’errore che commettono la
maggior parte degli scrittori alle prime armi: descrivere invece di mostrare.
Gli inglesi dicono show, don’t tell (mostra e non dire).
Evita cose come: “rispose tristemente” poiché quel “tristemente” si deve
intuire dalle azioni intraprese nella scena, dalla narrazione di ciò che sta
accadendo. Al lettore non si deve dire che tizio è triste e si sente solo, il
lettore lo deve e lo vuole dedurre da sé attraverso la lettura dei dialoghi e la
descrizione delle azioni che i personaggi mettono in campo. Ecco perché è
buona norma evitare il più possibile l’uso eccessivo di spiegazioni e
commenti, il personaggio va svelato attraverso ciò che dice e ciò che fa. È
così che il lettore si sente nella storia come se fosse uno spettatore invisibile
ed in quanto spettatore ha la possibilità di giungere ad una sua personale
interpretazione di ciò che sta accadendo, senza che l’autore glielo spieghi
parola per parola. Puoi mostrarlo:
• Attraverso le scene;
• Attraverso le azioni dei personaggi;
• Attraverso i dialoghi;
• Attraverso tutti gli altri sensi, quando è possibile.
Invece di scrivere: “Marco è sempre stato esageratamente goloso” potremmo
farlo capire descrivendo una scena come questa: “Marco vide il vassoio dei
dolci, pensò di mangiarne uno con la panna, solo uno, si disse, ma ancora
prima di averlo ingoiato, ne prese un altro al cioccolato e se lo ficcò in
bocca.”
Show, don’t tell si presta molto bene alla scrittura per il cinema; Federico
Fellini diceva: Non voglio dimostrare niente. Voglio mostrare.
Henry James, critico e lettore statunitense, scrisse: Forse farò un favore al
lettore dicendogli come dovrà trascorrere una settimana a Perugia. La sua
prima cura sarà di non aver fretta, di camminare dappertutto molto
lentamente e senza meta e di osservare tutto quello che i suoi occhi
incontreranno.
È proprio la metafora che ogni scrittore dovrebbe adottare ovvero prendere il
lettore e metterlo nel romanzo dandogli la possibilità di guardarsi intorno
senza spiegargli per filo e per segno cosa sta accadendo, ma solo
mostrarglielo con le azioni ed i dialoghi. In questo modo il lettore, attraverso
la sua percezione, immaginerà cose e tirerà le sue personali conclusioni.
L’explicit
Hai scelto l’ambiente (luogo e tempo), hai scelto un punto di vista (voce
narrante), hai iniziato a descrivere, attraverso i dialoghi e le azioni dei
personaggi, l’universo del tuo racconto. Ora devi incamminarti verso la
creazione dei conflitti e delle tensioni che manterranno vivo l’interesse del
lettore per arrivare al momento culminante (climax), quello più drammatico o
eccitante in cui il personaggio principale della storia ha ormai tutti gli elementi
per capire cosa è accaduto e cosa deve fare per risolvere il conflitto stesso. La
storia si avvia al punto in cui il lettore può finalmente tirare il fiato e da lì
scivolare verso il finale ovvero l’explicit.
Per George Elliot le conclusioni sono il punto debole della maggior parte
degli autori. Come per l’incipit, anche il finale del tuo romanzo deve essere
qualcosa d’intenso, un momento emozionale, qualcosa che faccia dire al
lettore: “Wow… bello…”, che gli faccia venire fin da subito la nostalgia del
tuo romanzo, che faccia riporre con malinconia il tuo romanzo sullo scaffale
della sua libreria.
Il finale nella maggior parte delle volte dovrebbe essere una catarsi, un
momento in cui il lettore si libera delle tensioni accumulate e lancia un sospiro
di sollievo: e vissero felici e contenti, ricordi? Finivano così le favole che ci
leggevano da piccoli. Oggi è improbabile e poco auspicabile che un romanzo
finisca con queste parole, ma di sicuro un brutto finale che lasci il lettore con
l’amaro in bocca può vanificare tutto il tuo lavoro.
Possono esserci diversi tipi di finale:
Finisce e basta, come in Nessuno scrive al colonnello di Gabriel Garcìa
Màrquez:
“Rispondimi”

Il colonnello non riuscì a capire se aveva sentito quella parola prima o dopo il sonno.
Stava albeggiando. La finestra si stagliava nel chiarore verde della domenica. Pensò
che forse aveva un po’ di febbre. Gli bruciavano gli occhi e dovette compiere un
grande sforzo per riacquistare la lucidità.

“Che cosa possiamo fare se non si può vendere niente?” ripeté la donna. [sua moglie]

“Per allora sarà già il venti gennaio” disse il colonnello, perfettamente cosciente. “Il
venti per cento lo pagano quello stesso pomeriggio.”

“Se il gallo vince” disse la donna. “Ma se perde. Non hai pensato che il gallo può
perdere.”

“È un gallo che non può perdere.”


“Ma supponi che perda.”

“Mancano ancora quarantacinque giorni prima di cominciare a pensarci” disse il


colonnello.

La donna si disperò.

“E nel frattempo cosa mangiamo?” chiese, e afferrò il colonnello per il collo della
maglia. Lo scosse energicamente.

“Dimmi, cosa mangiamo?”

Il colonnello ebbe bisogno di settantacinque anni – i settantacinque anni della sua vita,
minuto per minuto – per giungere a quel momento. Si sentì puro, esplicito, invincibile,
nell’istante in cui rispose:

“Merda.”

Ci sono poi quei finali aperti, in cui si lascia al lettore la sensazione che la
storia non finisce lì, che ci sarà dell’altro. Di solito questi finali sono utilizzati
quando si suppone che davvero ci sia un prosieguo, un progetto di più
romanzi incentrati su quel personaggio o quella storia.
Nel romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451, per Montag, dopo le tremende
esperienze narrate, s’intravede una nuova vita, nuova speranza per il futuro
che attende lui ed i suoi amici.
Si stupì, e si fece da parte, per lasciar passare Granger, ma Granger, fissandolo, gli
fece cenno col mento di proseguire. Montag riprese a camminare. Guardava,
camminando, il fiume, il cielo, le rotaie arrugginite che andavano a perdersi, a valle, tra
le fattorie, là dove i fienili rigurgitavano di fieno, là dove tanti uomini erano passati
nottetempo, in viaggio, via dalla città. Fra qualche tempo, un mese o sei mesi, certo non
più di un anno, lui sarebbe ritornato a camminare in quel punto, solo, e avrebbe
continuato la marcia fino a quando non avesse raggiunto altra gente.

Ma ora lo attendeva una lunga passeggiata mattutina fino al mezzodì, e se gli uomini
tacevano, tacevano perché c’era da pensare a ogni cosa e molto da ricordare. Forse,
un po’ più avanti nella mattina, quando il sole fosse stato alto nel cielo e li avesse
riscaldati, avrebbero cominciato a chiacchierare, o semplicemente a dire le cose che
ricordavano, perché, non c’era dubbio, essi erano ben là, ad accertarsi che molte cose
fossero al sicuro entro di loro. Montag sentiva il lento rimuoversi delle parole, il loro
pigro ribollire.

E quando fosse venuta la sua volta, che cosa avrebbe potuto dire, che cosa avrebbe
potuto offrire in un giorno come quello, per rendere il viaggio un poco più agevole? Per
ogni cosa c’è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione.
Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo. Ma che altro? Che altro
ancora? Qualcosa, qualcosa…

“E sull’una e sull’altra riva del fiume v’era l’albero della vita che dava dodici specie di
frutti, rendendo il suo frutto per ciascun mese; e le fronde dell’albero erano per la
guarigione delle genti.”

Sì, pensò Montag, ‘ecco ciò che voglio metter da parte per mezzodì.

Per mezzogiorno…
Quando saremo giunti alla Città.

Montag dopo il tempo della demolizione, il tempo della costruzione, quello


del silenzio ed il tempo della parola, comprende che è giunto il tempo della
guarigione; da quel momento in poi il mondo si dovrà preoccupare della
guarigione lasciando presupporre che ci sarà un tempo migliore di ciò che è
stato.
Ci sono poi i finali a sorpresa, sono difficili e si può rischiare di fare fiasco,
quindi pensaci bene prima di metterlo in scena. Un finale a sorpresa che
ricordo ancora anche se sono passati diversi anni, è quello del racconto
intitolato Un giorno ideale per i pescibanana di J.D. Salinger.
Il racconto inizia con una semplice telefonata tra la moglie del protagonista e
sua madre, dallo scambio di battute si capisce Seymour (il protagonista) sia un
tipo con qualche problema a controllare i nervi. Niente di allarmante, chi non
va in escandescenza di tanto in tanto? Seymour fa il pianista nell’albergo che
lo ospita con la moglie. Con il prosieguo della storia si comprende come
Seymour sia un tipo piuttosto bizzarro, che va in spiaggia in accappatoio e
proprio in spiaggia chiacchiera con una bambina, Sybil, la quale si lamenta
delle troppe attenzioni che il pianista aveva dato ad un’altra bambina proprio
la sera prima. Lui si giustifica dicendo che non ha tutta la colpa, che la
bambina era al suo piano e lui non poteva essere scortese. Dopo di che i due
escono dall’acqua ed ognuno va per la sua strada. Seymour si avvia in albergo
dalla moglie. In ascensore incontra una donna con la quale scambia un paio di
battute leggere sul fatto che lei – pare - gli stesse guardando i piedi. La storia
ormai sta volgendo al termine e sembra concludersi in modo piuttosto
tranquillo dopo un piacevole scorcio sulla vita del bizzarro pianista Seymour.
Ecco nel finale mentre si avvia verso la sua stanza d’albergo:
Tirò fuori dalla tasca dell’accappatoio la chiave della sua camera. Scese al quinto
piano, percorse il corridoio ed entrò al numero 507. La stanza odorava di valige nuove
e di acetone. Il giovanotto guardò la ragazza addormentata su uno dei letti gemelli. Poi
si avvicinò a una valigia, l’aprì, e di sotto a una pila di mutande e canottiere trasse una
Ortiges automatica calibro 7,65. Fece scattare fuori il caricatore, lo guardò, tornò ad
infilarlo nell’arma. Tolse la sicura. Poi attraversò la stanza e sedette sul letto libero;
guardò la ragazza, prese la mira e si sparò un colpo alla tempia destra.

I finali catartici sono quelli del tipo e vissero felici e contenti ovvero quelli a
lieto fine. Ne è un esempio il racconto L’amore ai tempi del colera di Gabriel
Garcìa Màrquez dove Florentino, dopo tormenti e sofferenze, sta finalmente
per coronare il sogno della sua vita ovvero farsi amare da Fernina. Entrambi
sono a bordo del battello della Compagnia Fluviale del Caribe di cui
Florentino ne è il proprietario. Per evitare che il viaggio subisca interruzioni,
l’uomo fa issare la bandiera del colera, ma proprio per via di questa bandiera
non possono approdare da nessuna parte e continuano ad andare avanti ed
indietro lungo il fiume. Il capitano del battello chiede a Florentino per quanto
tempo ancora devono andare avanti e indietro, ed ecco come finisce il
racconto:
Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una brina
invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza incivile, il suo amore
impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.

“Fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?” gli
domandò.

Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette mesi e undici
giorni, notti comprese.

“Per tutta la vita” disse.

Possono esserci romanzi senza finali? La risposta non è scontata, anzi è sì,
possono esistere. Un romanzo che mi ha fatto impazzire prima che
comprendessi il meccanismo è Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo
Calvino. Ho letto praticamente tutto di Calvino e mi sono fatto l’idea che
doveva essere un pazzo. Nel romanzo citato viene narrata la storia di un uomo
ed una donna, due lettori accaniti, che però, per una serie di vicissitudini, non
riescono mai a concludere la lettura del libro, pertanto il lettore (quello vero)
si trova a leggere continui primi capitoli. Una follia che ti consiglio di leggere.
E se… situazione più che trama
In On writing, Stephen King scrive del suo concetto di trama così:
Secondo me racconti e romanzi sono costituiti da tre parti: (1) narrazione che conduce
la storia dal punto A al punto B e poi al punto Z; (2) descrizione, che offre al lettore
un'ambientazione con un sapore di realtà; e (3) dialogo, che dà vita ai personaggi
attraverso il parlato. Vi chiederete dov’è la trama in tutto questo. La risposta, la mia in
ogni caso, è: da nessuna parte.

Se mi permetti l’autocitazione, nel mio romanzo “Stringimi le mani” ho


scritto:
A fregarci sono i libri e i film con le loro trame ben definite, ma la vita non ha trama,
inizia e finisce e quando accade, finisce e basta.

È per questo che sono rimasto sorpreso quando ho letto che Stephen King è
del mio stesso parere, ma ancora più quando ha scritto:
Diffido della trama per due ragioni: perché le nostre vite ne sono in larga misura prive,
anche prendendo tutte le più ragionevoli precauzioni e stilando i più accurati
programmi; e perché credo che la costruzione di una trama e la spontaneità della
creazione vera siano incompatibili.

Stephen King continua con le spiegazioni fino ad arrivare ad un punto in cui


dice: desidero che comprendiate che la mia profonda convinzione sulla
creazione delle storie è che fondamentalmente esse si costruiscono da sole.
King va giù duro con la trama e aggiunge:
Io credo che la trama sia l’ultima risorsa del buon scrittore e la prima scelta dello
sciocco. La storia che ne risulterà sarà probabilmente artificiosa e pesante.

Il fatto è che i racconti di Stephen King si basano su un concetto molto


particolare che io condivido e cerco di fare mio ovvero la situazione ed è una
cosa molto diversa dal meccanismo artificioso della trama.
Una situazione è qualcosa del tipo: ora prendo due tizi e li metto come custodi
in un hotel in chiusura stagionale, poi faccio impazzire uno dei due. Come
puoi comprendere non c’è una trama composta da una sequenza di cose, ma
da un contesto. Ora basta solo caratterizzare e far vivere i due personaggi per
mostrare cosa accade attraverso la narrazione delle loro azioni. Così facendo
non solo si diventa i creatori della storia, ma anche il primo lettore. Non
avendo chiaro per filo e per segno cosa accadrà, può succedere che la storia
prenda delle strade inaspettate e se viene sorpreso chi scrive, figuriamoci chi
leggerà!
King, tra l’altro, suggerisce di non preoccuparsi troppo del finale: perché
pretendere di tenere in pugno la situazione a tutti i costi? Prima o poi ogni
storia da qualche parte deve pur sfociare.
Una situazione abbastanza forte rende inconsistente la questione della
trama.
Come creare una situazione? La risposta è piuttosto semplice: è necessario
iniziare con un “e se...”; ne vuoi una prova? Ritorniamo a Stephen King e
vediamo alcuni racconti e le corrispondenti situazioni.
• E se… una cittadina del New England venisse invasa dai vampiri?
(Le notti di Salem)
• E se… un poliziotto di una remota cittadina del Nevada impazzisse e
cominciasse ad ammazzare tutti quelli che gli capitano a tiro?
(Desperation)
• E se…una giovane madre e suo figlio restassero intrappolati in
un’automobile in panne assediata da un cane idrofobo? (Cujo)
In altre parole, prendi un’idea, dei personaggi e vedi come reagiscono e come
si tirano fuori dalla situazione. Sai cos’è la cosa che mi affascina? È non avere
la più pallida idea come questi personaggi si tireranno fuori dai casini! Poni
un’idea drammatica come una domanda e non cercare una risposta immediata
ed esaustiva, ma sii curioso di sapere in che modo i tuoi personaggi possano
reagire e seguine lo sviluppo.
Come esercizio ti propongo di prendere qualche racconto/romanzo che ti è
piaciuto particolarmente ed interrogarti sulle motivazioni. Mettilo per iscritto.
• Qual è l’idea forte del racconto?
• È basata su un personaggio? Un pensiero? Una situazione?
• C’è una trama precisa?
Successivamente scrivi un breve racconto partendo da un condizionale
ovvero da una situazione. Te ne propongo qualcuna, ma sentiti libero di
pensarne altre.
• E se… una bambina si perdesse in un bosco?
• E se… un tizio si svegliasse senza memoria?
• E se… un uomo, appena ucciso, si scoprisse fantasma?
Se ti va, puoi inviarmi i tuoi testi alla mia email: info@massimopetrucci.it
Lo scrittore è un bugiardo, ma a fin di bene
Cosa si aspetta un lettore da un libro? Tu cosa rispondi? Non pensare ad un
lettore generico, ma a ciò che senti tu, poiché prima ancora di essere uno
scrittore, una scrittrice, sei (o dovresti essere) una persona che legge.
Allora giro la domanda te: cosa vuoi da un libro? Probabilmente hai risposto
che vuoi delle emozioni, qualcosa che ti prenda e non ti lasci andar via,
qualcosa di cui vuoi sapere come vada a finire, che ti faccia battere il cuore
oppure spaventare, intrigare, sorprendere o incuriosire.
Quello che è certo, è che non vuoi una storia banale.
In fin dei conti la letteratura è un buon modo per sperimentare cose altresì
impossibili, provare a mettersi nei panni di chi conduce una vita molto
diversa dalla nostra: un assassino, ad esempio, un detective, uno scienziato,
un extraterrestre o una modella. È bello anche ritrovare qualcosa che ci è
appartenuto, come l’adolescenza o l’innamoramento, la delusione d’amore o
l’avventura. Quello che sicuramente non vogliamo è che ci venga raccontata
una storia ordinaria, senza colpi di scena, senza conflitti di alcun genere; il
motivo è che quando leggiamo un racconto abbiamo maledettamente
voglia di credere.
Ho davanti a me “La fattoria degli animali” di G. Orwell. Devo leggere
l’ultima pagina e proprio ieri notte ci stavo provando, ma sono crollato. In fin
dei conti erano le quattro del mattino e solo un paio d’ore prima avevo
rischiato di morire: un’automobile non si è fermata al rosso e mi è piombata
addosso. Me la sono cavata con qualche contusione, ma l’auto è distrutta.
Quello che ho appena scritto è vero? C’hai creduto? Forse sì o forse no, ma
probabilmente sei disposto a farlo e non ti turba, anzi lo fai ogni qual volta
inizi a leggere un libro: sei disposto a credere. È quello che accade con i
film: sai benissimo che si tratta di finzione, che ci sono delle telecamere, degli
effetti speciali prodotti da un computer, che nessuno verrà ucciso davvero,
che si tratta di attori su un set cinematografico, allora perché soffri se il
protagonista è nei guai? Perché hai paura se la storia parla di mostri che
scoperchiano tombe? Perché piangi se la ragazza del protagonista muore di
leucemia? La risposta è perché hai scelto di credere.
Attenzione però, come tutti sei disposti a credere, ma non a lasciarti fregare!
Niente trucchi da quattro soldi, come disse Geoffrey Wolff ad un gruppo di
aspiranti scrittori. Per questo motivo quando si scrive di qualcuno o qualcosa,
è necessario conoscere tutto dell’universo in cui si svolge la narrazione.
Esempio:
L’inverno aveva dipinto di grigio quel giovedì pomeriggio, Luca guardò l’orologio: erano
le 15.35 e Laura era già una buona mezzora in ritardo, ma lui l’avrebbe aspettata
anche per tutta la vita, se solo fosse stato necessario.

Chiediamoci:
• Che mestiere fa il tipo? E la ragazza?
• Come mai di giovedì alle tre del pomeriggio nessuno dei due è al
lavoro?
• Lui com’è vestito?
• Come c’è andato all’appuntamento: in auto o in tram?
• E quale tram ha preso?
• E i biglietti ce li aveva in tasca o ha dovuto comperarli? E così via
Quest’esempio tratto da “Farsi credere” di Giulio Mozzi, pone l’accento
nuovamente sull'attenzione per il realismo nella finzione: il lettore vuole
credere ma non desidera essere preso in giro.
Un sabato mattina, come mio solito specialmente d’inverno, ero in libreria
perso tra gli scaffali, ero lì ipnotizzato da migliaia di titoli. Prendevo un libro,
ne posavo un altro, sfogliavo pagine a caso nella speranza di trovare qualcosa
che mi rapisse all’istante. Lo trovai e lessi uno degli incipit più folgorante che
ricordi:
<<Per fortuna era solo un sogno. Non era nuda. E le sue gambe non erano legate a
quel lettino ginecologico antidiluviano, mentre il pazzo metteva in ordine gli strumenti su
un carrello arrugginito. Poi si voltò e sulle prime non riconobbe cosa teneva nella mano
incrostata di sangue. Appena lo vide, volle chiudere gli occhi ma non ci riuscì.

<<Non poteva distogliere lo sguardo dal saldatore incandescente che si avvicinava


lentamente al suo corpo. Lo sconosciuto con il viso ustionato le aveva sollevato le
palpebre fissandole alle orbite con una spara chiodi ad aria compressa. Penso che non
avrebbe mai provato un dolore più grande nel poco tempo che le restava da vivere.
Tuttavia, quando il saldatore sparì dal suo campo visivo ed avvertì un calore sempre più
intenso tra le gambe, si rese conto che il supplizio delle ultime ore era stato solo un
assaggio.

<<Poi, nell’istante in cui credette di sentire l’odore della carne bruciata, ogni cosa
diventò evanescente. […] Grazie a Dio era solo un sogno, pensò. Aprì gli occhi. E non
capì.[…]>>

La donna poi si ritrova circondata da poliziotti, è perfettamente cosciente, ma


gli agenti la credono morta, prova a muoversi, ma è impossibile, prova a
parlare ma non le riesce. Nella mano stringe un biglietto, è un indovinello, di
lì a poco i poliziotti la metteranno in un sacco di plastica. Neanche a dirtelo
che ho immediatamente comprato il libro e sono tornato a casa con la voglia
di sapere cos’altro doveva accadere. Infatti venti minuti dopo ero sulla mia
bella poltrona a leggere con accanimento, ci stavo credendo, stavo credendo a
tutto ciò che lo scrittore aveva messo in scena per me.
Cinquanta pagine più avanti avevo però capito che c’era un trucco: l’autore
stava usando degli stratagemmi narrativi ed io li stavo notando. È come se
nella scena clou di un film s’intravede il microfono o si vede una telecamera
riflessa in uno specchio: improvvisamente ti viene da ridere e smetti di
credere. L’autore del romanzo stava cercando di tenerti incollato provando a
creare continui stati emotivi e di tensione, ma alla lunga mi stavano stancando:
era tutto preciso, una trama congeniata a tavolino, ma sfortunatamente
riuscivo a prevedere quasi ogni cosa. Fine della lettura.
Se vuoi essere creduto devi essere credibile. Semplice tautologia, tuttavia
non devi neanche commettere l’errore opposto: dichiararlo a tutti i costi, il
lettore finirebbe per insospettirsi. Se so che la donna che sto conquistando
ama la sincerità, non è che devo sbandierare la verità ad ogni occasione,
probabilmente finirebbe per sospettare che tutto questo mio modo di essere
non è altro che un’impalcatura.
Nella seduzione non vince chi mostra tutta la merce, ma chi lascia immaginare
tutta la merce che ha a disposizione.
Scrivere per essere letti ha a che fare con la seduzione e l’amore, ha a che fare
con la fascinazione, con la magia che lega il lettore alle pagine del tuo libro.
La seduzione presuppone un lento svelamento dei fatti, presuppone voglia di
sapere, desiderio di credere e di riempire le zone d’ombra dell’altro (in questo
caso il libro) con la propria immaginazione. Di contro non bisogna cedere alla
tentazione d’imbrogliare il lettore fornendo indizi, cose o situazioni che non
hanno nulla a che fare con ciò che poi accadrà nella storia. Non bisogna
abusare della sua pazienza e della sua voglia di credere in ciò che sta
leggendo. Ecco perché da una parte ti lasci trasportare dalla storia e dai
personaggi proprio mentre la stai scrivendo, ma dall’altra devi comunque
tenere sotto controllo i luoghi, i tempi, la cronologia degli eventi, la credibilità
di ciò che accade per evitare che ad un certo punto il tuo lettore esclami: “Ma
dai! Questa cosa non è possibile!” oppure “Uno così non reagirebbe mai in
questo modo!”
La narrazione, gli eventi, i personaggi con i loro caratteri, il loro mestiere, le
loro eventuali ambizioni o desideri, tutto deve passare attraverso le fitte
maglie della coerenza.
È la coerenza a rendere credibile ciò che si sta leggendo.
A meno che non si tratti di una biografia, la storia che stai raccontando è per
gran parte inventata, detto in un altro modo: stai raccontando una bugia.
Ogni scrittore in fondo è un bugiardo, lo abbiamo detto, e non racconta quasi
mai il vero anche perché non esiste un’unica Verità. Per questo motivo una
cosa si racconta e qualcun’altra no; ma se bisogna raccontare anche solo una
bugia allora bisogna farlo con il massimo dell’onestà.
Tuttavia la credibilità da sola non basta.
C’è un altro aspetto da tenere presente: se racconti una bugia, allora devi
saperla lunga, non devi mai cadere in contraddizione, devi avere memoria del
flusso narrativo, dei suoi eventi, delle parole dette dai personaggi, di ciò che
hanno fatto, della coerenza delle loro azioni con le caratteristiche della loro
personalità, del lavoro che fanno, delle passioni che hanno, devi conoscere il
loro passato, le loro aspettative per il futuro, ricordare con precisione le
relazioni che hanno avuto con gli altri personaggi della tua storia.
Non ti devono sfuggire i particolari.
Se il tuo personaggio è un esperto di automobili, non puoi fargli dire che la
sua auto sta cacciando fumo bianco perché ha appena rotto l’alternatore. Se il
tuo personaggio è un esperto d’auto, devi esserlo anche tu o quanto meno
provare ad esserlo. Se la tua storia è ambientata in un monastero del
medioevo, devo sapere tutto dei monasteri nel medioevo: come erano fatti,
quali erano i componenti di arredo, come si mangiava, cosa si cucinava, a che
ora ci si svegliava, quali erano le mansioni e via discorrendo.
Devi sapere tutto della scena che stai descrivendo, anche se alla fine non
scriverai di tutto. Se il tuo personaggio è seduto sul letto ed improvvisamente
gli squilla il telefono, devi sapere con buona approssimazione cose tipo: che
ora è? Che tempo c’è fuori? La stanza ha una finestra o un balcone? Entra la
luce o no? Il tizio è da solo? Ha la radio o la televisione accesa? Che suoneria
ha? Ha la vibrazione? È scalzo? È nudo? È vestito? A terra ha la moquette? Il
parquet? Le maioliche? È allegro? Nervoso? Ansioso? Assonnato? Ben
sveglio?
Non è necessario che al lettore fornisci tutte insieme queste informazioni, ma
è bene che tu sappia quante più cose possibili poiché tutto ciò può
condizionare alcune delle azioni che il tuo personaggio farà o non farà. Non è
questione di essere maniaci dei dettagli, ma nel possibile devi avere chiaro
tutti i punti di vista della scena e quindi sceglierne uno, magari il meno ovvio.
Questo vuol dire saperla lunga, questo vuol dire saper raccontare una
bugia che sappia di verità.
Due parole sullo stile e sulla descrizione
Nel libro “78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato”, Pat
Walsh alla nota n.15 scrive: lo scrittore che ha troppo stile è quello che non
ce la fa proprio ad esprimersi con semplicità. Usa ogni stratagemma,
infrange ogni regola e s’inventa addirittura parole nuove di zecca per far
capire di essere unico.
Se proprio, come dice Walsh, non ce la fai ad esprimerti con semplicità, se
proprio non ce la fai a rimanere nelle regole, se veramente ti capita di coniare
nuove parole o sillogismi, allora ti svelo una cosa: sei sulla buona strada per
scrivere qualcosa di veramente, pericolosamente, terrificante!
Se la tua scrittura è caratterizzata da frasi complicate, incompiute, da parole
pompose e sei certo che il tuo stile sia molto simile a quello con il quale è
stato scritto il monologo di Molly Bloom, ricordati una semplice verità: tu non
sei James Joyce e se l’Ulisse (il più noto romanzo di Joyce) è stato una vera e
propria rivoluzione rispetto alla letteratura dell’ottocento, nel duemila inoltrato
non stupirebbe davvero più nessuno.
Il vero stile nasce dall’amore per la letteratura, non dalla sciatteria o dalla
pigrizia, va bene questa cosa ammetto che assomiglia ad un sermone, tuttavia
lo stile fine a se stesso è un vezzo dello scrittore pieno di sé, che non gliene
frega niente del lettore, che scrive esclusivamente per compiacere la sua
persona.
L’altro lato della medaglia dello scrittore che usa uno stile troppo esasperato
laddove il soggetto e la narrazione ne richiederebbero uno più semplice, è
colui che teme di essere preso per uno scrittore privo d’arte, per cui si cimenta
in spericolate picchiate stilistiche, commettendo l’errore di ficcare nella
scrittura parole arcaiche, desuete o demodé con l’unico scopo di darsi un
tono.
In questo caso il suggerimento di Pat Walsh è tanto semplice quanto cinico e
ve lo cito in qualità d’ambasciatore che non porta pena: se proprio non
riuscite a farne a meno, buttatevi dalla finestra!
Al di là della cinica battuta, ogni parola dovrebbe essere messa lì perché è la
migliore e più semplice parola che potevi usare. I sinonimi sono fuorvianti e
spesso pericolosi, e, soprattutto, in letteratura molto spesso funzionano male.
Un esempio è la parola casa. Pensa alla tua casa, pensaci davvero e poi dici ad
alta voce: “Questa è casa mia”, suona con una certa intimità, vero? Questa è
la mia casa, è casa mia…
Alcuni sinonimi sono: abitazione, stabile, edificio, appartamento, alloggio.
Questa è la mia abitazione.
Questo è il mio stabile. (orrendo! Sorvoliamo su edificio)
Questo è il mio appartamento.
Questo è il mio alloggio.
Appartamento, alloggio, potrebbero anche andare bene, ma sarai d’accordo
con me che nessuno di questi sinonimi riesca ad essere evocativo come la
parola casa.
Una cosa è dire “Questa è la mia casa”, un’altra è dire “Questo è il mio
alloggio”, La casa non è solo un luogo fisico, non è qualcosa che ha a che fare
solo con muri e finestre, non è solo un insieme di mobilia, tappeti e quadri.
Casa sono anche i sentimenti, i ricordi, il vissuto, i dialoghi. Un alloggio è più
qualcosa di provvisorio, un luogo di transito. Di sicuro un appartamento può
diventare una casa, ma solo col tempo, dopo che le pareti si sono finalmente
impregnate della nostra vita.
La parola più semplice molto spesso non solo è la migliore che puoi usare, è
anche l’unica che veramente ha senso nel testo che stai scrivendo. Non
sacrificare mai la chiarezza in nome dell’arte (magari fosse arte).
Quando ho citato l’Ulisse, ho detto che oggi non stupirebbe più, aggiungo che
forse sarebbe anche ridondante. Oggi dobbiamo fare i conti con il cinema e la
televisione. La letteratura di fine ottocento e per tutta la prima metà del
novecento, era caratterizzata da ampie descrizioni, ricche di dettagli; oggi le
cose funzionano diversamente. Ci troviamo un po’ come quando la pittura fu
travolta dalla fotografia e si smise di dipingere in modo verista, finendo per
spostarsi verso altre forme pittoriche sempre meno “fotografiche”, fino ad
arrivare all’essenziale taglio della tela operato da Lucio Fontana.
Anche la letteratura ha subito, a causa del cinema, una trasformazione. La
descrizione dovrebbe assomigliare più ad una pennellata che ad
un’esposizione del tutto.
Uno degli errori più frequenti che si commette in fase di descrizione è scadere
nell’elencazione minuziosa delle cose. Provando a descrivere uno dei quadri
che ho nella mia stanza, potrei scrivere:
Nel quadro sono dipinte due teste di cavallo: quella a sinistra, col muso in basso,
guarda quella di destra che però è rivolta verso l’alto. Si tratta in realtà di una bozza, un
lavoro del pittore Mario Gauthier. La testa a sinistra rappresenta una scultura, quella di
destra un cavallo vero.

Ma potrebbe anche essere descritto in modo diverso, scelgo la lente


dell’ironia:
Il quadro doveva essere solo un bozzetto del maestro Mario Gauthier, rappresenta due
teste di cavallo una di fronte all’altra. Ogni volta che mi soffermo un po’ di più a
guardarlo non riuscivo a non ridere di gusto, non perché sia dipinto male, tutt’altro, ma
mi fa ridere il cavallo di sinistra, tutto impettito, che sembra aver calpestato per sbaglio
la zampa di quello di destra che, col muso in alto, lo immagino urlante e dolorante.
L’impressione è che quello di sinistra dica: “Oh! Mi scusi!” mentre l’altro, nitrendo di
dolore, risponde: “iiiiahhhh! E che maniere!”

Entrambe le descrizioni ci dicono di due teste di cavallo una di fronte all’altra,


apprendiamo che il quadro è una bozza di un lavoro del pittore Mario
Gauthier. Tuttavia credo che la seconda descrizione sia più evocativa della
prima, abbia un impatto emotivo più forte, le sue immagini mettono in moto,
nel cervello di chi legge, sensazioni molto diverse, e forse più funzionali alla
narrazione, rispetto alla prima descrizione.
Il motivo è che non ci troviamo di fronte ad una semplice elencazione di
oggetti, c’è di più: ai due cavalli viene data una connotazione, il primo è
impettito, quasi impacciato, il secondo è urlante. C’è una nota comica e
perfino un piccolo dialogo. La descrizione, in alcuni casi, può diventare uno
spunto per piccole digressioni o approfondimenti da diversi punti di vista.
Uno stesso oggetto, luogo o situazione, può essere descritto in modi differenti.
Se hai qualche dubbio, ti consiglio di farti subito un regalo acquistando
Esercizi di stile di Raymond Queneau, un libro a dir poco geniale, ma
soprattutto un ottimo esempio di scrittura creativa. Ecco qualche
copia&incolla dal libro.
La situazione iniziale è questa:
Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una
cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La
gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo
ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena
vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome,
davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: “Dovresti far mettere un
bottone in piú al soprabito”. Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.

La stessa situazione Queneau la descrive in novantanove modi diversi!


Versione “Metafora”:
Nel cuore del giorno, gettato in un mucchio di sardine passeggere d’un coleottero dalla
grossa corazza biancastra, un pollastro dal gran collo spiumato, di colpo arringò la più
placida di quelle, e il suo linguaggio si librò nell’aria, umido di protesta. Poi, attirato da
un vuoto, il volatile vi si precipitò. In un triste deserto urbano lo rividi il giorno stesso,
che si faceva smoccicar l’arroganza da un qualunque bottone.

Versione “precisazioni”:
Alle 12,17 in un autobus della linea S lungo 10 metri, largo 3, alto 3,5, a 3600 metri dal
suo capolinea, carico di 48 persone, un individuo umano di sesso maschile, 27 anni, 3
mesi e 8 giorni, alto m 1,62 e pesante 65 chilogrammi, con un cappello (in capo) alto 17
centimetri, la calotta circondata da un nastro di 35 centimetri, interpella un uomo di 48
anni meno tre giorni, altezza 1,68, peso 77 chilogrammi, a mezzo parole 14 la cui
enunciazione dura 5 secondi, facenti allusione a spostamenti involontari di quest’ultimo,
su di un arco di millimetri 15-20. Quindi il parlante si reca a sedere metri 2,10 più in là.
Centodiciotto minuti più tardi lo stesso parlante si trovava a 10 metri dalla Gare Saint-
Lazare, entrata banlieue, e passeggiava in lungo e in largo su di un tragitto di metri 30
con un amico di 28 anni, alto 1,70, 57 chilogrammi, che gli consigliava in 15 parole di
spostare di centimetri 5 nella direzione dello zenith un bottone d’osso di centimetri 3,5
di diametro.

Versione “Comunicato-stampa”:
Chi ha detto che il romanzo è morto? In questo nuovo e travolgente racconto l’autore,
di cui i lettori ricorderanno l’avvincente «Le scarpe slacciate», fa rivivere con asciutto
e toccante realismo dei personaggi a tutto tondo che si muovono in una vicenda di tesa
drammaticità, sullo sfondo di lancinanti pulsioni collettive. La trama ci parla di un eroe,
allusivamente indicato come il Passeggero, che una mattina si imbatte in un enigmatico
personaggio, a sua volta coinvolto in un duello mortale con uno sconosciuto. Nella
allucinante scena finale, ritroviamo il misterioso personaggio dell’inizio che ascolta con
assorta attenzione i consigli di un ambiguo esteta. Un romanzo che è al tempo stesso di
azione e di stranite atmosfere, una storia di terso e spietato vigore, un libro che non vi
lascerà dormire.

Ogni descrizione - a questo punto dovrebbe essere chiaro - permette di


spaziare attraverso spunti e appigli che gli stessi oggetti della descrizione
possono fornirti. Nella descrizione il lettore deve continuare a trovare il clima
del tuo racconto, ne deve essere parte viva ed integrante. Non deve dire tutto,
ma solo svelare un po’, senza però imbrogliare il lettore, senza dargli false
aspettative o elementi totalmente inutili.
<<Nella gabbia c’è un coniglio bianco>> tanto per citare Stephen King. Nella
semplice descrizione c’è tutto: il coniglio, il suo colore e la gabbia. Scommetto
che nella tua mente l’immagine è chiara e nitida. Il brano che segue è sempre
di Stephen King.
Guardate: qui c'è un tavolo con una tovaglia rossa. Sul tavolo c'è una gabbia grande
come un piccolo acquario. Nella gabbia c'è un coniglio bianco con il naso rosa e gli
occhi cerchiati di rosa. Nelle zampe anteriori ha un mozzicone di carota che sta
sgranocchiando tutto contento. Sulla schiena, chiaramente segnato in inchiostro blu, c'è
il numero 8. Vediamo la stessa cosa? Dovremmo incontrarci e confrontare gli appunti
per esserne matematicamente sicuri, ma io credo di sì. Ci saranno inevitabili varianti, si
capisce: alcuni riceventi vedranno una tovaglia color rosso robbia, qualcuno la vedrà
scarlatta, altri vedranno altre gradazioni. (Per i riceventi daltonici, la tovaglia rossa è
del grigio scuro della cenere di sigaro.) Qualcuno vedrà orli merlettati, qualcuno lisci.
Gli animi più decorativi vi aggiungeranno un po' di pizzo... ma per piacere: la mia
tovaglia è la vostra tovaglia, sbizzarritevi pure. La gabbia lascia parimenti ampio spazio
all'interpretazione individuale. Per cominciare è descritta in termini di paragone
approssimativo, utile solo se voi e io vediamo il mondo e misuriamo le cose con occhi
simili. Nel fare paragoni approssimativi è facile essere sbadati, ma l'alternativa è una
pignolesca attenzione ai dettagli che toglie tutto il piacere alla scrittura. Che cosa
dovrei dire, «sul tavolo c'è una gabbia lunga novantacinque centimetri, larga
sessantadue e alta trentacinque»? Questa non è prosa, è un manuale. Il paragrafo non
ci dice neppure di che materiale è fatta la gabbia (rete metallica? stecche d'acciaio?
vetro?), ma ha importanza? Abbiamo capito tutti che possiamo vederci dentro; oltre a
questo, non c'importa. L'elemento più interessante qui non è nemmeno il coniglio che
sgranocchia la carota dentro la gabbia, bensì il numero che ha sulla schiena. Non un
sei, non un quattro, non un diciannove virgola cinque. È un otto. È questo che stiamo
guardando e lo vediamo tutti. Non ve l'ho detto io. Voi non me lo avete chiesto. Io non
ho mai aperto bocca e voi non avete aperto la vostra. […] Si sono incontrate le nostre
menti.

Fanne tesoro di questa riflessione; io l’ho fatto.


Digressione: e vai col fuori tema!
Una delle tecniche narrative che aiutano lo scrittore a volte solo “ad allungare
il brodo”, ma altre se ben utilizzata, ad interessare il lettore, è quella della
digressione.
In realtà la digressione (dal latino escursione) è una parte del discorso
narrativo che volutamente porta verso un cambio, un allontanamento da ciò
che si sta trattando, quasi – se non proprio – un fuori tema.
La digressione va però utilizzata con attenzione e parsimonia, altrimenti
diventa solo un sintomo della confusione che hai in testa oppure può dare la
sensazione, a chi legge, di stare a perdere un mucchio di tempo.
La digressione deve arricchire la storia principale, deve incastrarsi in modo
coerente e funzionale. Gli elementi che ne fanno parte s’inseriscono
perfettamente nel testo narrativo, sono attinenti alla situazione che si va
descrivendo. Il suo scopo è dare contrasto focale, esaltare il chiaroscuro
dell’immagine narrativa.
Ecco un esempio di un testo e poi dello stesso testo con l’inserimento di una
digressione. La situazione è questa: un tale va ad una concessionaria per
acquistare un’auto nuova.
La scelta dell’auto, per noi uomini, è come scegliere una donna con la quale passare il
resto della vita; beh questo lo pensavo anche di Alice, la mia ex. Auto e donne, alla
fine capita davvero di trascorrerci insieme solo qualche anno. All’inizio tutto è bello,
anche con le auto è così, almeno finché pervade quel profumo di nuovo quando si entra
nell’abitacolo. Auto e donne, entrambe ti seducono e questa che ho di fronte ha tutte le
caratteristiche che mi piacciono: è rossa, è sportiva ed ha un muso grintoso, lo dicevo
pure di Alice.

Vediamo questa stessa versione con delle digressioni.


La scelta dell’auto, per noi uomini, è come scegliere una donna con la quale passare il
resto della vita. Solo che sia con le donne, che con le auto, spesso si trascorre solo
qualche anno. Un po’ come con Alice, che all’inizio ero certo avremmo trascorso
insieme il resto della vita. Anche a lei piacevano le auto, quelle sportive. Spesso
fantasticavamo su un viaggio a Londra con una bellissima Corvette; solo che all’epoca
non avevamo nemmeno i soldi per uno scooter, figurarsi per una Corvette. Però era
bello stare con Alice, all’inizio tutto è bello, perfino arrivare con la Alfa fino al mare.
Anche con le auto è così: all’inizio è tutto bello, le curi, le lucidi, almeno finché pervade
quel profumo di nuovo quando si entra nell’abitacolo. Ora che ci penso, quest’auto
sarebbe piaciuta anche ad Alice: è sportiva, ha un muso grintoso ed è rossa, proprio
come Alice.

Come puoi vedere, il racconto si arricchisce di esperienze, di colori e


chiaroscuri, rendendo la lettura più vivace. Abbiamo i ricordi, scopriamo
alcuni episodi di vita e ci facciamo un’idea un po’ più precisa del personaggio.
Tuttavia una cosa a cui bisogna prestare attenzione è non scadere in un
semplice “allungamento del brodo” fine a se stesso e di farcire il testo con
un’interminabile fila di particolari. Come scrive Roberto Cotroneo nel suo
“Manuale di scrittura creativa”:
Il lettore vuole capire vedendo. Non vuole leggere una mappa geografica, per quanto
dettagliata. Nessuno riesce ad intuire un luogo attraverso la lettura di una mappa.
Vuole degli elementi che non siano soltanto descrittivi, ma che siano descrittivi ed
emozionali insieme.

Siamo tornati ancora una volta sullo stesso punto fondamentale della scrittura:
riuscire a suscitare nel lettore un’emozione. È l’emozione che tiene incollato il
lettore, non il numero di parole, altrimenti anche l’elenco telefonico sarebbe
interessante da leggere!
Con la digressione abbiamo praticamente toccato tutti gli argomenti principali
che interessano il processo creativo di scrittura. Alla base di tutto ci deve
sempre essere qualcosa che “senti dentro”, di cui senti il bisogno di
raccontare. Qualcosa che è tuo, che conosci, che ti ha colpito, di cui hai
ragionato e che senti tuo. Non raccontare o scrivere di qualcosa solo perché è
di moda. È difficile raccontare qualcosa di cui non abbiamo alcun riferimento
dentro di noi, nessun riferimento emotivo. Possiamo raccontare di cose che
non ci appartengono: se scriviamo di un serial killer è chiaro che non è
necessario avere esperienze in merito, però dobbiamo sapere quanto più
possibile sui serial killer, informarci, leggere storie di serial killer,
approfondire la nostra conoscenza con delle ricerche che possano darci spunti
illuminanti per la storia che vogliamo raccontare.
Non dimenticare di rispondere alla domanda principale: perché vuoi
raccontare questa storia? E poi, cos’ha di speciale? Perché dovrebbero
leggerla?
Anni fa era tutto più complicato, cercare le fonti era dispendioso, ma oggi non
ci sono scuse: basta digitare qualcosa su Google e ci viene fuori l’impossibile!
Forse abbiamo invertito il problema, da quando non avevamo nulla, ora ne
abbiamo troppo e bisogna saper selezionare le fonti.
Il nome dei personaggi
Una volta chiacchieravo con un’amica che aveva letto un mio racconto, d’un
tratto mi fa: “Ma tu, come li scegli i nomi dei personaggi?”
Ecco, questa è una cosa che mi fa penare, specialmente quando devo dare un
nome ai personaggi principali della storia, anche se credo che non ci siano
regole ben precise. Personalmente, il nome non mi deve evocare cattivi
ricordi specialmente se lo do ad un personaggio positivo, anzi posso fare
proprio il processo inverso: penso ad una persona positiva della mia vita ed
uso il suo nome. Non sempre però questa cosa riesce con il protagonista,
devo pensare ad un nome che mi piaccia, ma non troppo legato a qualcuno…
un’impresa.
Tuttavia l’idea di dare un nome ad un personaggio partendo da una persona
reale e che conosci all’inizio può tornare utile perché ti aiuta a dare qualche
tratto distintivo al carattere di quel personaggio. Partendo da una persona
reale, è più semplice stilizzarne una di fantasia da inserire nel romanzo. Allo
stesso modo per un personaggio negativo puoi pensare a qualcuno che ti sta
sulle balle oppure ad un personaggio cattivo realmente esistito.
Qualche volta ho avuto la tentazione di dare i nomi in ordine alfabetico: il
primo, ad esempio, lo chiamo Arturo, il secondo Bruno, il terzo Cristiana, il
quarto Dennis e così via. Magari il lettore non se ne accorgerà mai anche se,
ne sono certo, qualcuno di sicuro ci farà caso e ne parlerà!
Potresti sceglierli a caso dall’elenco del telefono oppure i primi nomi che
appaiono nel News Feed di Facebook. Potresti fare una scelta culturale e dare
gli stessi nomi che appaiono in un romanzo che t’è piaciuto particolarmente,
oppure sceglierli tra gli amici delle elementari.
Alcuni personaggi però potrebbero anche non avere alcun nome proprio, ma
essere chiamati sempre e solo con un soprannome: il Rosso, er Cimice, il
Bestio, e così via. I soprannomi spesso sono molto più evocativi di un nome
poiché portano con sé un significato ben definito: se chiamo qualcuno
Davide, non dico nulla al lettore, a parte che è un maschio; diversamente se lo
chiamo il Guercio racconto molto di più. Interessanti sono anche quei nomi
strambi o molto particolari: Arocle, Astolfo, Aristide, Ovidio ed altri del
genere.
Ribaltando tutto il discorso, un nome potrebbe valere l’altro, d’altro canto
quando ad un bambino viene dato un nome non si sa se poi da grande farà il
postino, l’avvocato, il politico oppure il serial killer!
Un po’ di dritte sulla scrittura
Queste sono annotazioni prese, rubate, ascoltate, spiate. A volte ricordo da
dove le ho prese, molte altre volte no. È un mio problema, non sono mai stato
bravo con i nomi. Sono capace di citarti aforismi ed interi brani, poi mi chiedi
chi è l’autore o quale sia il titolo del libro e ti guardo con occhi da pirla senza
saperti dare la giusta risposta. Allora non mi sforzerò di trovare la fonte per le
quattro dritte che sto per darti, ma fidati di me che non è tutta farina del mio
sacco.
Vorrei tornare nuovamente sull’uso delle parole e ti di dico qual è la mia
personale opinione: l’universo delle emozioni è enormemente più grande di
quello delle parole, enormemente. Ogni qual volta provi a tradurre
un’emozione in parole perderai inevitabilmente un po’ di quell’emozione. Più
parole userai, più “parolone” userai e più emozione perderai. Puoi giurarci.
Una cosa è dire “Provo un sentimento d’amore per te” ed un’altra è dire “Ti
amo”; non c’è storia. Le parole sono un mezzo e non un fine, l’ho già detto?
Sicuramente, ma è importante che sia chiaro perché se a passare è il tuo
vocabolario forbito e non l’emozione dell’azione che stai raccontando, allora
avrai fallito. Non sforzarti di farcire il tuo vocabolario di paroloni, puoi
cavartela tranquillamente con ciò che già hai imparato, ne sono sicuro.
Attenzione, non sto parlando di scrivere con sciatteria, ma di scrivere in modo
naturale, semplice e diretto, non sforzarti di usare sinonimi altosonanti solo
per sentirti uno scrittore più figo. È la prima parola quella che nel 99% dei
casi è la migliore che puoi usare, prendilo quasi come un dogma.
Un’altra cosa, so che potrebbe suonarti pedante, ma la grammatica è
importante. Non è questione di ricordare a memoria il gerundio passato del
verbo disfare, né la differenza tra futuro semplice e futuro anteriore, però le
regole di base vanno utilizzate se non vogliamo scrivere cose dove il lettore si
ferma ed esclama: “In che senso?” per non dire: “Che cazzo ha scritto
questo?”
Come diceva la mia prof d’italiano: la cattiva grammatica produce cattive
frasi.
Dai un’occhiata a queste:
Dopo anni sotto la polvere Luigi ha trovato il suo libro.
Chi è stato anni sotto la polvere Luigi o il suo libro?
Questa mattina ho sparato ad un elefante in pigiama.
Chi era in pigiama l’elefante o il soggetto?
Non voglio mettermi a scrivere un capitolo sulla grammatica, tanto ormai
certe cose o le sai o è troppo tardi, tuttavia un paio di cose è bene tenerle
presenti:
Frasi brevi, concise: soggetto e predicato, prima di tutto;
Un po’ di sana punteggiatura aiuta e non ha costi!
A proposito di punteggiatura, la virgola, non hai idea di quanti casini è capace
di generare una virgola piazzata male. Ci sono persone che mettono la virgola
a casaccio: una qui, un’altra là, qui che dici? Non so… va be’ la metto. Poi ci
sono quelli che la mettono ogni qual volta fanno una pausa. Senza scrivere un
trattato intitolato “Sull’uso corretto della virgola”, ecco un paio di dritte che
puoi mettere nella tua personale cassetta degli attrezzi del bravo scrittore:
la virgola non va mai
Tra soggetto e predicato verbale;
Tra predicato verbale e complemento oggetto;
Davanti alla o;
Davanti alla e di congiunzione (amo le ciliegie e le fragole), invece
ci può andare quando ha significato di “eppure” come in
quest’esempio: ti ho detto di star zitto, e tu hai parlato lo stesso.
Stesso discorso quando la e introduce un discorso coordinato: sono
passato a prendere Mario e Gianluca, e siamo andati al mare.
Tra soggetto e predicato quella propria non ci vuole, quindi scrivere:
Marco, è andato in montagna
è un errore/orrore, evitiamolo. Le frasi, lo abbiamo detto, devono essere
semplici e dirette: nome e verbo, ogni frase per essere degna di questo nome
deve contenere un soggetto (sostantivo) ed un predicato (verbo):
Martina ama.
La roccia è fredda.
Luisa chiama.
La montagna è bella.
La rogna vola.
Il becco mortifica.
Il gatto glorifica.
Tutte le frasi sono corrette dal punto di vista grammaticale, ma solo le prime
quattro hanno un senso, le altre no. Questo vuol dire che la buona grammatica
è condizione necessaria ma non sufficiente per scrivere qualcosa di decente da
essere letto. Tuttavia ci deve essere, altrimenti la lettura diventa impossibile.
Un’altra cosa, i verbi hanno due forme: l’attiva e la passiva. Se vuoi seguire il
consiglio del maestro dell’horror, allora non usare la forma passiva. A dire
il vero non è solo Stephen King a consigliarlo, ho trovato lo stesso consiglio
anche in The Elements of Style di William Strunk Jr. e E.B. White (lo trovi su
Amazon a 6,63 euro).
Ecco un esempio tratto da On Writing:
Il cadavere fu trasportato dalla cucina al salotto.
Non è sbagliata, per carità, ma qualcosa del genere sarebbe più incisivo:
Freddie e Myra trasportarono il cadavere dalla cucina al divano in salotto.
D’altra parte, parafrasando King, il morto è morto e perché diavolo dovrebbe
essere il soggetto della frase?
La pietra fu scagliata dal piccolo bastardo. No, meglio scrivere: Il piccolo
bastardo scagliò la pietra. Più diretto, semplice e… azione!
Semplificare.
Ah, un’altra cosa: l’avverbio nuoce gravemente alla salute, ragione per la
quale è meglio evitarlo o assumerne in piccolissime dosi. L’uso costante
dell’avverbio è il sintomo che hai paura di non essere chiaro, vuoi spiegare
ciò che accade per timore che al lettore possa sfuggire.
L’avverbio è un modificatore del verbo (espressione rubata da Wikipedia), ma
non solo: trasforma anche aggettivi ed in certi casi altri avverbi. Sono quelle
parole che di solito terminano in –mente.
Lisa uscì sbattendo la porta rumorosamente.
Niente di male, funziona; ma “rumorosamente” è indispensabile? Sì, se non
hai supportato questo momento del racconto con una buona e preventiva
impalcatura emotiva. Sì, se la parte del testo che l’ha preceduta non ha fatto
intuire, con le azioni ed il dialogo, che Lisa sarebbe di lì a poco uscita
sbattendo con forza la porta.
“Che ci fai qui?” chiese.

“Voglio solo parlarti.” Sussurrai.

“Non abbiamo niente da dirci. Vuoi capirlo?!” gridò.

Chiese, sussurrai, gridò sono tutti verbi. Ora farciamo con qualche avverbio.
“Che ci fai qui?” chiese minacciosamente.

“Voglio solo parlarti.” Sussurrai lentamente.

“Non abbiamo niente da dirci. Vuoi capirlo?!” gridò furiosamente.

Gli avverbi danno l’impressione di arricchire il testo, ma la verità è che ne


rallentano il ritmo: il lettore per leggere parole come “minacciosamente”,
“lentamente”, “furiosamente” è costretto ad impegnarsi e sprecare tempo;
inoltre molto spesso invece di rinforzare, rendono la frase più debole.
Scrivere in modo semplice e diretto. È un dogma. Non so quale sia il tuo
modo di scrivere, ad esempio io se ben ispirato scrivo a raffica. Per questo
motivo, il giorno dopo o quando riprendo il testo, di solito rileggo quanto ho
scritto e correggo i refusi, i tempi errati ed altre cose del genere. Non è tutto.
La cosa più importante che voglio dirti è questa: quando ho terminato un
romanzo oppure quando riprendo un testo che ho lasciato per molto tempo,
applico la regola dell’asciugatura. Asciugare è la parola chiave, per asciugare
intendo eliminare non solo avverbi, aggettivi e accorciare frasi, ma eliminare
interi paragrafi se non veramente necessari. Alla fine almeno il 20% di quanto
ho scritto viene cancellato e ti assicuro che l’intero testo risulta più semplice,
veloce e diretto.
È semplice: lascia sedimentare il tuo testo per qualche tempo, un mese ad
esempio, dopo di che riprendilo, magari stampato su carta, siediti sul divano,
mettiti comodo e via con le cancellazioni! Tutto deve risultare più diretto e
con più ritmo. Elimina tutte quelle parti in cui spieghi cosa sta accadendo.
Ricorda che il lettore è al tuo fianco, molte cose le vede perché le scrivi e
molte altre le vede perché le intuisce. Personalmente credo che questa sia la
magia di un buon testo, è il lettore che con la sua fantasia partecipa e completa
l’opera letteraria.
Appunti di scrittura creativa
Piccola premessa: questo libro (o ebook se stai leggendo la versione
elettronica) avrebbe dovuto chiamarsi “Appunti di scrittura creativa”, ma il
Consulente Web Marketing ed Esperto SEO che vive in me, ha deciso di usare
le parole chiave che maggiormente sono cercate in Google sull’argomento.
Per la cronaca ogni mese ci sono circa 4.400 ricerche in chiave “scrittura
creativa” e 3.600 per “come scrivere un libro”, ed ecco il motivo per cui
questo libro si chiama “Scrittura creativa (appunti su) come scrivere un libro”.
L’aggiunta tra parentesi è stata inserita perché mi rendo conto che il mio non è
un tomo esaustivo sull’argomento, ma sono sicuro che qualcosa di utile lo
avrai trovato; anzi ti chiedo la gentilezza di scrivermi un tuo personale parere
al mio indirizzo di posta elettronica: info@massimopetrucci.it
Dopo questa breve premessa, il titolo di questo capitolo è quanto mai
azzeccato poiché voglio condividere con te i miei appunti di scrittura creativa
– almeno quelli più interessanti, annotati nella mia mitica Moleskine rossa.
Qualcuno di essi di sicuro l’ho rifilato da qualche parte, ma sono sicuro che
non ti dispiacerà leggerlo nuovamente.
La scrittrice Isak Dinesen diceva di scrivere ogni giorno, senza speranza e senza
disperazione.

Forse è un po’ eccessivo, ma rende il concetto molto bene: lavora al tuo libro
tutte le volte che puoi e se qualche volta scriverai poco o niente, non
disperarti, scrivi senza false speranze.
Geoffrey Wolff disse ad un gruppo di aspiranti scrittori: “Niente trucchi da quattro
soldi”

Il lettore può essere imbrogliato una volta, ma poi si renderà conto del
giochetto e vedrà il matrix che c’è dietro alla tua scrittura, vedrà la telecamera
durante la scena del film, e tutto il tuo lavoro verrà sprecato. Si stuferà e
chiuderà per sempre il tuo libro.
John Gardner suggerì, in un corso di scrittura creativa, di usare il linguaggio comune,
quello che si usa tutti i giorni e con il quale parliamo.

Ne abbiamo parlato da poco: niente paroloni inutili, niente avverbi che


appesantiscano il discorso, niente sinonimi che facciano perdere forza al
concetto che vuoi esprimere; ricordi la differenza emotiva tra casa e
appartamento?
Lo scrittore ha il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più
chiaro, da ogni lato.

A dirlo è Carver e credo si riferisca alla capacità che ha lo scrittore di vedere


le cose con una nitidezza ed una sensibilità superiore al normale. È quella cosa
che accade quando leggendo un libro ad un certo punto esclami: “Caspita
questa cosa l’ho sempre pensata ma non sono mai riuscito a dirla così bene”.
È anche la capacità di vedere e raccontare la stessa cosa da un punto di vista
ovvero da una focale diversa da tutti gli altri. Ha a che fare con lo stile, è quel
modo che rende uno scrittore riconoscibile, è la firma che egli lascia in tutto
ciò che scrive.
Le parole conducono ai fatti […] preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla
tenerezza.

Questa frase ha oltre 370 anni, è di Santa Teresa che, a quanto pare,
s’interessava anche di scrittura creativa! A parte la battuta, che la santa spero
mi perdoni, il concetto espresso è fortissimo: le parole conducono ai fatti e
preparano l’anima. Le parole sono un mezzo potentissimo se usate bene,
usarle bene vuol dire saper scegliere quelle con più impatto emotivo e di
solito sono quelle più semplici che arrivano direttamente al cuore di chi legge.
Approccio dalla fine all’inizio: si parte dal finale e si ricostruisce tutta la storia.

Quest’appunto lo annotai durante la visione di uno speciale su CSI la famosa


serie TV. Veniva spiegato come usavano costruire la sceneggiatura: si parte dal
morto, com’è morto? Cosa trovo sul luogo del delitto? C’è un proiettile? È
deformato? È di una pistola? Che calibro? Chi potrebbe averla? Ci sono
impronte? E così via, man mano si costruisce un identikit e poi si pensa ad un
movente e poi al motivo del movente, quindi si colloca in una casa, in una
situazione. Un processo che parte dal basso e ricostruisce l’intera trama.
Dire le cose come se sia ovvio che il lettore le sappia.

Ovvero non mettersi a spiegare troppo; lo abbiamo detto: il lettore è al tuo


fianco, digli che c’è un coniglio in una gabbia, nient’altro, il resto (tipo di
coniglio, tipo di gabbia, grandezze) sarà compito del lettore immaginarlo.
Evita che in un dialogo i protagonisti parlino allo stesso modo.

Non c’è cosa più noiosa di un dialogo monocorde. È difficile che due persone
parlino con lo stesso ritmo e stesso colore. Qualcuno potrebbe usare uno
slang, parole più forbite, meno forbite, dirette, meno dirette, ci potrebbero
essere fraintendimenti. Ogni personaggio ha un carattere e di conseguenza un
suo modo di parlare.
Lo scrittore è un ladro che poi restituisce con grazia.

Questa mi piace molto, forse perché spesso mi trovo a rubare scorci di


dialoghi ascoltati in treno o per strada, pezzi di racconti, avvenimenti. Questo
rubare però non ha il fine di accumulare per sé stessi, ma di ridare al mondo
quelle stesse cose ma rivisitate, modificate, trasformate in nuove storie da
raccontare.
Il primo passo è avere qualcosa che abbia senso raccontare, di cui ne valga la pena.
La seconda cosa fondamentale è come si decide di scrivere quel racconto. Il “come”
fa la differenza. […] Di solito quando si ha poco da dire lo si dice nel modo più
artificiale e pomposo possibile.

Tutti più o meno sono in grado di scrivere un racconto che parli di un amore
ostacolato da un cattivo, di un buono che interviene e concludere con un
finale catartico in cui il cattivo muore ed i buoni vissero felici e contenti. Non
tutto sanno scriverlo come Alessandro Manzoni; giusto per andare fino agli
albori del romanzo moderno. Il concetto, ribadito più volte, è avere una storia
forte non solo nel suo contenuto, ma emotivamente forte anche per te che la
devi scrivere. Scriverla, raccontarla dev’essere per te un’esigenza, devi sentire
che lo devi fare, che merita di essere conosciuta e lo devi fare nel modo (il
“come”) migliore e più originale possibile.
La verità è che siamo sempre alla ricerca di storie, d’altra parte noi esseri
umani da sempre abbiamo assimilato concetti ed idee attraverso l’ascolto di
narrazioni passate da padre a figlio. Leggere storie è quasi un’esigenza
primordiale.
Se alla parete è appeso un fucile quel fucile prima o poi deve sparare.

Questa è una famosa raccomandazione di Céchov fatta a chi scrive. Tuttavia il


punto focale non è se quel fucile sparerà o meno, ma creare l’attesa attorno a
quest’avvenimento, che può accadere, ma anche no, dà significatività
all’intreccio. Leggere un racconto vuol dire anche essere presi da una
tensione, da uno spasimo. Seguendo questo approccio, venire a scoprire che
alla fine il fucile ha sparato non sarà accolta come una semplice notizia, ma
come una rivelazione. La scoperta emotiva di come sono andate le cose, al di
là del puro desiderio del lettore.
C’è un film di Hitchcock dal titolo “Sabotaggio” che vidi molti anni fa. Inizia
con il regista che racconta, con la sua malefica flemma, che nel film c’è una
bomba ad orologeria e che questa bomba ad un certo punto esploderà. Il film
comincia con un ragazzino che prende un pullman e porta con sé un pacco,
ma non sa che in quel pacco c’è la bomba di cui ha parlato Hitchcock.
Durante tutto il film, mentre accadono le cose più banali, tu sei sempre lì con
addosso una tensione fortissima per la sorte del ragazzino che se ne va
girando tranquillamente con una bomba sotto al braccio! Ecco, questo
significa creare attesa e tensione.
In fondo tutto è autobiografia.

A dirlo è Samuel Beckett, il senso è che in qualsiasi cosa scriviamo c’è sempre
un po’ di noi. Non vuol dire raccontare per filo e per segno le nostre vicende
di vita, ma quando assimiliamo una storia e poi la restituiamo al mondo, essa
porterà con sé una contaminazione e questa contaminazione è ciò che noi
siamo.
Ogni romanzo è un universo di bugie attraverso le quali raccontiamo la verità.

Questa è mia, consentimi questa autocitazione. I romanzi sono bugie nel senso
che sono storie spesso inventate i cui personaggi non sono mai esistiti. Sono
però verosimili ed in qualche parte del mondo magari davvero è andata così.
Saltando le biografie, che comunque spesso sono verità romanzate, tutto il
resto della narrativa è invenzione. Tuttavia lo scrittore racconta bugie per
condurre alla verità, usa la finzione come possibilità di comprendere il
mondo.
Concludo questo capitolo sugli appunti con i dieci consigli su come scrivere
un libro dettati da Ken Follet.
1. Scrivere in modo semplice. Il principale obiettivo è far svagare il lettore.
2. Definire un progetto e stilare una scaletta degli eventi.
3. Farsi consigliare da lettori ed amici chiedendo loro cosa gli piacerebbe
leggere. L’idea di base del romanzo dovrà essere riassumibile in una sola
frase.
4. Connotare i personaggi fisicamente e caratterialmente (emotivamente).
5. I personaggi si devono comportare in maniera coerente con tutte le
descrizioni precedenti.
6. Rigore nella documentazione, specialmente per il romanzo storico.
7. Scrivere un abstract di una ventina di pagine con una sintesi dei vari
capitoli da sottoporre ad amici e lettori per averne un parere.
8. Il primo capitolo deve contenere un radicale colpo di scena ogni quattro o
cinque pagine. Tecnica per incollare il lettore al romanzo (lo facevano
anche Jane Austen e Dikens).
9. Cercare un editore.
10. Pubblicità! (Ken Follet inizia già a farla mentre scrive il primo capitolo).
La piaga purulenta degli editori a pagamento
Di solito a fregare è l’ego che ci fa credere grandi scrittori incompresi, questo
lo devi sapere è il primo grave problema ovvero avere un’opinione troppo
alta di se stessi. Qualche volta si pensa addirittura di essere “troppo avanti”,
geni incompresi del proprio tempo, proprio come scrive Pat Walsh quando
descrive la categoria degli “scrittori incompresi”:
il mio libro non è brutto (dicono questi sedicenti geni) è solo che tu sei troppo stupido
per coglierne la sottile filigrana di sapore joyceiano/pynchoniano/proustiano.

Pat è senza peli sulla lingua e di sicuro meno politically correct di me, ma ha
ragione. Quando si scrive non si può avere la pretesa di essere capiti solo da
se stessi e che tutti agli altri (leggi editori) siano degli emeriti imbecilli oppure
dei poveri venduti. Il tuo libro deve essere comprensibile, fruibile,
“accogliente” nella lettura.
Di solito la tipologia di autori descritta da Pat Walsh non trova nessun editore
tanto folle da investire sul dattiloscritto, allora accade l’inevitabile:
quell’autore tanto pieno di sé finisce nelle suadenti grinfie degli editori a
pagamento.
Ora, senza scrivere un articolo lunghissimo su questa piaga dell’editoria a
pagamento, ti spiego in due parole cosa accade e come funziona, dopo di che
potrai decidere in piena coscienza.
Una mattina ti arriva una lettera o una email in cui il sedicente editore ti scrive
che, dopo un’attenta analisi, ha deciso di pubblicare la tua opera, ma come si
sa l’editoria è un mondo difficile, c’è crisi ovunque, tra l’altro anche Proust,
Moravia, Gadda hanno iniziato come Aps (“Autori a Proprie Spese”,
acronimo inventato da Umberto Eco ne “Il pendolo di Foucault”), quindi il
tuo romanzo verrà sì pubblicato, ma tu devi metterci un po’ del tuo… denaro.
Ti viene fatta quella che in gergo è chiamata una “proposta editoriale” che
consiste generalmente in una di queste due soluzioni, ma si può presentare
anche in altre forme fantasiosamente ibride:
• Ti vengono chiesti mille o duemila euro.
• Non paghi, ma sei obbligato a comprare un certo numero di copie,
ad esempio 200 copie a 10 euro.
D’altro canto, cosa sono mille o duemila euro a fronte della realizzazione del
tuo sogno? A fronte del tuo successo come scrittore emergente? Vero e reale
come il Campo dei Miracoli in cui il Gatto e la Volpe rubano gli zecchini d’oro
a Pinocchio con la promessa che lo avrebbero reso ricco. Sostituisci “Gatto e
la Volpe” con “Editore a pagamento” ed il concetto resta praticamente lo
stesso.
Per questi sedicenti editori il business è presto detto: tu pagherai il prezzo di
stampa del libro, anzi di più togliendo il “rischio imprenditoriale” all’editore.
Con le nuove tecnologie un libro da 200 pagine, stampato in 1000 copie, costa
da 1,50 a 3 euro a copia. Ora immagina che il tue editore stampi 200 copie e
spenda, perché è sfigato, 3 euro a copia.
Prendiamo il pallottoliere: 200x3 = 600 euro.
A te chiede di comprare al prezzo scontato di 7 euro (invece di 10) le “prime”
250 copie del romanzo; di nuovo col pallottoliere 250x7=1.750, sempre col
pallottoliere: 1.750-600 = 1.150 per l’editore. Ma non finisce qui, dimentica la
distribuzione e la promozione – a volte non la ottieni neanche con gli editori
non a pagamento – quasi sicuramente succederà che l’editore ti ricontatti dopo
un anno e ti dica che considerato questo e quello, a causa dell’euro, del calo
del Dow Jones, di Ruby Rubacuori e del rigore regalato alla Juventus, molte
copie del tuo magnifico romanzo sono rimaste invendute ed andranno al
macero! Al macero?! Il tuo capolavoro al macero?! Già hai le lacrime agli
occhi, ma per fortuna la lettera continua e vieni a sapere che, se proprio la
cosa ti preme, quelle altre 200 copie le puoi avere con lo sconto del 40% sul
prezzo di copertina.
Pallottoliere: 10 euro – 40% = 7,2 x 200 copie = 1.440 euro.
Che saranno mai 1.440 euro a fronte del tuo capolavoro che rischia
l’estinzione? A casa dell’editore entrano la prima volta 1.150 euro e la seconda
1.440, per un totale d’incasso di 2.290 euro, più l’eventuale incasso generato
dalle vendite che tu hai stimolato con il passaparola e qualche vendita
fortunata.
Una casa editrice seria pubblica il 5% dei manoscritti che arrivano, Giulio
Mozzi (che lavora proprio come “selezionatore di libri” presso note case
editrici), afferma: su mille dattiloscritti, non più di cento sono leggibili; non
più di dieci sono davvero interessanti; uno o due sono pubblicabili. Questo
per quanto concerne le case editrici vere, quelle che poi devono investire di
tasca propria nella stampa, nella pubblicazione e un po’ di promozione. Una
casa editrice a pagamento pubblica invece praticamente tutto ciò che le arriva.
Perché? Immagina che l’editore a pagamento pubblichi solo 300 libri all’anno,
non mettiamo nel conto le eventuali vendite dei romanzi, diciamo che
prendiamo in considerazione solo i soldi presi dagli autori.
Pallottoliere: 300 x 2.290 = 687.000 euro.
Che ne dici di smetterla di sognare di pubblicare il tuo romanzo e d’investire
nella costituzione di una casa editrice a pagamento? Eh già… Essere scrittori
ha un costo che non si paga in termini economici, ma in termini molto più alti:
si paga in qualità, studio, concentrazione, grammatica, stile, fascino,
intelligenza, divulgazione, passione, spontaneità, onestà, pazienza, tenacia,
elasticità mentale, serietà, e queste cose non si comprano con la carta di
credito; per tutto il resto c’è…
Come preparare il dattiloscritto per gli editori
Il primo motivo per il quale rischi di non pubblicare il tuo romanzo è che…
ancora non lo hai spedito ad un editore! Sembra una banalità, ma è ciò che
avviene nella maggior parte dei casi. È arrivato il momento di tirare fuori il
libro dal cassetto e di dargli una possibilità, anzi più di una! Oramai lo hai
scritto e due sono gli errori che puoi compiere all’infinito:
1. Non spedirlo mai ad un editore.
2. Non smetterla di rileggerlo e correggerlo, rileggerlo e correggerlo.
Va bene lasciarlo sedimentare e poi “asciugarlo”, come abbiamo discusso
precedentemente, ma ad un certo punto ti devi arrendere e liberarti
emotivamente. Basta, lo hai scritto e ora lo devi spedire alle case editrici
dimenticandoti di lui. Pensa al prossimo romanzo, prendi appunti, leggi
qualcosa di bello, esci con gli amici, fai sesso, mangia una pizza, insomma
torna alla vita di tutti i giorni.
Per quanto possa piacerti, il tuo romanzo verrà alla fine giudicato dalla casa
editrice che deciderà se pubblicarlo oppure cestinarlo. Per meglio giudicarlo,
devi presentare il dattiloscritto secondo alcune norme molto semplici ed
evitare qualsiasi stampa strana, caratteri (font) fantasiosi e rilegature fuori
standard.
Usa un font standard come il Times New Roman oppure il Garamond,
imposta un corpo 11 oppure 12. Metti un margine di 4 cm per lato
(destra/sinistra), in modo che l’editor possa segnare un appunto se lo
desidera. Imposta un’interlinea normale o al massimo 1,5, per il primo
capoverso imposta un rientro di 0,25 cm.
Sul dattiloscritto scrivi sempre il tuo nome, il cognome, l’indirizzo, il
numero di telefono e l’email. Non è raro che le lettere di presentazione
vadano da un lato ed i dattiloscritti dall’altro e buonanotte al secchio! Non
spedire solo una parte del dattiloscritto, a meno che non sia richiesto
espressamente, mandalo sempre completo. Per quanto riguarda la rilegatura,
usa una normale spirale, in questo modo se c’è necessità di una fotocopia
interna, l’addetto potrà farla in modo molto semplice sfilando la spirale.
Non spedire il romanzo per posta elettronica, non si fa; a meno che non sia
espressamente richiesto. Non fare l’errore di spedire il tuo lavoro e chiedere
un parere o un giudizio, chi legge i manoscritti è pagato per selezionare
libri da pubblicare e non per fare il critico letterario.
Allegate una lettera di presentazione in cui spieghi chi sei, cosa fai, di che
campi. Per quanto riguarda gli eventuali premi vinti, Giulio Mozzi nel suo
“[Non] Un corso di scrittura e narrazione” scrive:
Se avete vinto premi letterari per racconti e romanzi inediti, non scrivetelo. Se il vostro
professore d’italiano del liceo diceva che scrivevate benissimo, non scrivetelo. Se siete
laureati, non fatevi fare una lettera di raccomandazione del professore con cui avete
fatto la tesi. Se avete pubblicato un libro a vostre spese, allegatelo al dattiloscritto; ma
non allegate gli articoli che sono usciti sui giornali locali. Insomma, ricordatevi questo: il
lettore professionista che legge il vostro testo, è interessato solo al testo.

Infine, una volta spedito, mettiti l’anima in pace e rilassati. Nella migliore
delle ipotesi ci vorranno tra i 4 ed i 6 mesi per avere una risposta, se positiva;
se invece la risposta è negativa essa potrebbe non arrivare mai. Per questo
motivo se dopo un anno non hai saputo più niente, rassegnati: per questa
tornata non è andata bene. Ti rifarai.
Ritorniamo al presente, pensiamo in modo positivo e vediamo insieme come
scegliere la casa editrice.
La scelta della casa editrice
Assodato che mai e poi mai pagherai per pubblicare il tuo libro. La scelta della
casa editrice è un momento importante. Non spedire a casaccio, ma cerca di
capire se l’editore che stai valutando pubblica il genere del tuo romanzo.
Inoltre tieni presente che non tutti i tipi di narrativa sono uguali: Einaudi,
Garzanti, Mondadori pubblicano narrativa, ma non esattamente lo stesso tipo
di narrativa.
Ah, a proposito, è difficile che Mondadori, Feltrinelli ed altre case editrici
pubblichino il tuo primo romanzo, qualche volta accade, ma è difficile. Se
vuoi spedire loro il tuo manoscritto, non sarò io a dirti di no, anzi ti sostengo.
Tuttavia sei costretto a considerare anche piccoli e medi editori.
Una volta che hai individuato una ventina di editori, tra un po’ vedremo
come, cerca di capire se hanno distribuzione. Un metodo empirico ma efficace
per verificarlo è andare nella tua libreria di fiducia e chiedere al libraio se in
scaffale hanno qualche titolo di quella determinata casa editrice. Inoltre chiedi
se è possibile ordinare qualche titolo. Se non hai buoni riscontri, depenna
quella casa editrice e passa alla prossima. Alla fine seleziona una decine di
case editrici e spedisci loro il manoscritto corredato da lettera di presentazione
e sinossi.
Lo vedremo nel prossimo capitolo.
Lettera di presentazione e sinossi
Lettera di presentazione e sinossi servono per dire chi siete e di cosa parla il
romanzo. Possono essere due documenti diversi oppure lo stesso. La
lunghezza deve essere possibilmente di una pagina, utilizzate il font Times
New Roman oppure Garamond in corpo 12, interlinea 1,5.
Scrivi di te, del motivo che ti hanno spinto a mettere per iscritto la storia. Se il
tuo romanzo è ambientato principalmente tra i Musei Vaticani e tu lavori
proprio nei Musei Vaticani, questo è un punto a tuo favore, ma se fai
snowboard tutto l’anno, questa cosa potrebbe non essere di alcun interesse
per l’editore.
Spiega a chi si rivolge il tuo libro (target principale) e perché. Anche il motivo
per il quale hai scelto proprio quella casa editrice tra tante altre. Ricorda che in
questa pagina stai “vendendo” il tuo manoscritto, ma stai attento che non stai
scrivendo ad un lettore qualunque, ma ad una persona esperta che legge
centinaia di manoscritti all’anno. Niente trucchi e niente adulazioni. Non
menzionare inutili concorsi letterari a cui hai partecipato con successo,
neanche se ti hanno regalato una targa d’ottone che esponi con soddisfazione
nella stanzetta. Se hai avuto la disgrazia di pubblicare con un editore a
pagamento, non dirlo! È un tuo scheletro nell’armadio.
Racconta la storia racchiusa nel tuo romanzo con onestà, senza cercare di
suscitare il colpo di scena, l’editore deve solo decidere se il tuo libro può
funzionare o meno. La sinossi ha lo scopo di presentare e spiegare le parti
fondamentali della tua storia. Evita descrizioni inutili, sapere che il
protagonista porta la coda di cavallo interessa ben poco, conta invece capire
quali siano quei passaggi importanti che danno senso e vita all’intreccio.
Spiega chi sono i personaggi principali, qual è il loro scopo nel romanzo,
come intervengono nella storia. Spiega qual è il conflitto, come si arriverà
all’apice della storia, il famoso climax, cosa faranno i personaggi principali,
cosa accadrà e come tutto si risolverà. Il personaggio principale avrà imparato
qualcosa? Sarà sempre lo stesso? Il mondo sarà rimasto uguale o qualcosa
sarà cambiato per sempre?
Sul web ci sono molti esempi di lettere di presentazione e sinossi, basta
andare su Google e scrivere: esempio lettera di presentazione casa editrice.
Tuttavia cerca di scriverne una tua personale versione, mettici le tue emozioni,
le tue motivazioni. In fin dei conti scrivere è la tua ambizione, non è vero?
Quindi nessun copia&incolla, per favore!
Ti lascio una nota di Erri De Luca che ritengo per certi versi illuminante.
Non spedire opere tue a scrittori. Non si mandano scarpe fatte da sé ai calzolai perché
provino a calzarle. Non si spedisce al pasticciere un dolce fatto in casa perché lo
assaggi. Diventare scrittori, darselo per compito, non passa dal contatto e dalla sponda
con un altro scrittore. Quello è vicolo cieco, non smistamento. Le case editrici sono la
buca su misura della biglia lanciata. Se respinta, andata perduta, ignorata con garbo,
non ricorrere alla lusinga di chi ti pubblica sì, ma a spese tue. Non farà niente di
promesso, ufficio stampa e distribuzione, in più dopo un annetto si rivolgerà a te per
chiederti se intendi acquistare l’invenduto che altrimenti manderà al macero. Piuttosto
procurati una tipografia, fanne tirare qualche centinaio di copie e distribuiscile in
proprio tra conoscenti.
Sull’argomento, a me sono piaciuti questi libri
• Pat Walsh, 78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato,
TEA - 2007
• Giulio Mozzi, (non) Un corso di scrittura e narrazione, TERRE DI
MEZZO Editore - 2009
• Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi - 2008
• Roberto Cotroneo, Manuale di scrittura creativa, Castelvecchi - 2008
• Erri De Luca, Tentativi di scoraggiamento (a darsi alla scrittura),
Libreria Dante&Descartes - 2009
• Stephen King, On writing, Sperling Paperback – 2001
• Umberto Eco, Sulla letteratura, Tascabili Bompiani - 2004
• Raymond Queneau, Esercizi di stile, Einaudi - 2008
• Stefano Brugnolo - Guido Mozzi, Ricettario di scrittura creativa,
Zanichelli - 2000
“L’arte di scrivere storie sta nel
saper tirare fuori da quel nulla che
si è capito della vita tutto il resto;
ma finita la pagina si riprende la
vita e ci si accorge che quel che si
sapeva è proprio un nulla”

da “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino


Su di me: piccola nota egocentrica
Mi chiamo Massimo Petrucci, mi puoi scrivere a info@massimopetrucci.it, il
mio blog personale è www.massimopetrucci.it. Per lavoro mi occupo di Web
Marketing e ti assicuro che saper scrivere conta davvero tanto! Se l’argomento
t’interessa, t’invito a visitare il mio sito www.marketingsocialnetwork.it.
Ho pubblicato un romanzo che sta andando molto bene sia nella versione
tradizionale su carta che in versione ebook, puoi saperne di più visitando
www.stringimilemani.it. Ho scritto per il teatro, vado molto fiero della mia
“Ho paura – la comica irrequietezza dell’esserci”; credo che su YouTube si
possa trovare qualcosa ripresa con una telecamera amatoriale. Scrivo tutti i
giorni per il web, tutti i santi giorni…
Dal 2004 mi occupo di Web, ho creato community partendo da zero, ad
esempio “il Ricettario di Bianca” (www.ilricettariodibianca.it) che conta circa
20.000 utenti iscritti, una delle community di appassionati di cucina più
grande d’Italia. Gestisco community su Facebook, ma anche su Google
Plus dove detengo la community di Food Blogger più grande d’Italia
(http://goo.gl/Dh2hlB).
L’esperienza maturata in tutti questi anni di gestione community, mi ha
permesso di comprendere come funzionano le dinamiche psicologiche
degli utenti in Rete, cosa si aspettano e cosa vogliono. Collaboro con diverse
aziende italiane.
Passioni – Amo viaggiare, amo la musica jazz, amo la buona cucina
specialmente in compagnia di amici.
Filosofia – Credo che l’Universo esaudisca i desideri di chi ha il coraggio di
sognare e di mettersi in gioco per realizzare i propri sogni.
Sui Social Network mi trovi qui
Di seguito alcuni dei miei profili social attraverso i quali puoi liberamente
contattarmi.
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Ah, ho fondato anche una blog-rivista culturale online che in molti trovano
interessante: www.lettermagazine.it.
Scrivimi! :-)
“Spero che questa guida sia stata di tuo
gradimento, se vuoi scrivermi una tua
opinione, sarò felice di leggerla e, se me lo
permetti, d’inserirla tra le altre
testimonianze presenti nel mio sito. Infine,
sempre se hai tempo, ti sarei grato se
potessi lasciarla anche sul sito di Amazon.

Felicità!
Massimo

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