Sei sulla pagina 1di 261

"Non è forse tutto finito con Napoleone?...

L’anima mancò
all’universo nuovo sin da quando Bonaparte ritirò il suo
soffio vitale; gli oggetti sparirono alla vista dopo che non
furono più rischiarati dalla luce che aveva dato loro il rilievo e
i colori"

Chateaubriand

Napoleone morì il 5 maggio 1821 a Sant’Elena, isoletta


sperduta nell’Atlantico dove gli inglesi lo avevano confinato
sei anni prima. La notizia della sua morte giunse in Europa a
luglio, suscitando vasta emozione e dando occasione a poesie,
canzoni, opuscoli, stampe che celebravano la sua
straordinaria vicenda. Il clima oscurantista della
Restaurazione aveva riguadagnato molte simpatie allo
sconfitto imperatore, ma poi il "Memoriale" pubblicato da Las
Cases nel 1823 sulla base di riflessioni e ricordi di Napoleone,
presentandolo come il difensore dei principi liberali e
nazionali, ne rafforzò il mito che trovò la sua apoteosi nella
grandiosa cerimonia del ritorno delle ceneri a Parigi nel 1840.
A partire dal racconto dei giorni estremi di Napoleone a
Sant’Elena, il volume segue la successiva costruzione della
leggenda napoleonica che ha segnato nel profondo
l’immaginario ben oltre l’Ottocento.

Vittorio Criscuolo insegna Storia moderna e Storia dell’età


dell’Illuminismo e delle Rivoluzioni nell’Università Statale di
Milano. Tra i suoi libri: "Il giacobino Pietro Custodi" (Istituto
storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1987),
"Albori di democrazia nell’Italia in rivoluzione (1792-1802)"
(Angeli, 2006). Con il Mulino ha pubblicato anche "Napoleone"
(nuova ed. 2015) e "Il Congresso di Vienna" (2015).
Vittorio Criscuolo

Ei fu
La morte di Napoleone
Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i
diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda
http://www.mulino.it/ebook

Edizione a stampa 2021


ISBN 9788815291776

Edizione e-book 2021, realizzata dal Mulino - Bologna


ISBN 9788815368034
Indice

Avvertenza
Capitolo primo
Sant’Elena
Capitolo secondo
Il moderno Prometeo
Capitolo terzo
La malattia e la morte
Capitolo quarto
Il testamento
Capitolo quinto
L’eco nel mondo
Capitolo sesto
Lutti formali e lacrime vere
Capitolo settimo
Il capolavoro politico di Las Cases
Capitolo ottavo
Le origini della leggenda
Capitolo nono
Il ritorno
Conclusioni
Lo spettro di Sant’Elena
Appendice
Filmografia
 

Nota bibliografica
 

Letture consigliate
 

Indice dei nomi


agli amici
Avvertenza

Le date riportate tra parentesi dopo i nomi dei vari


personaggi si riferiscono agli anni di nascita e di morte. Per i
sovrani (tranne che per i membri della famiglia Bonaparte)
esse indicano invece il periodo del loro regno.
Capitolo primo

Sant’Elena

«Quest’isola, il cui aspetto ostile è stato più volte descritto,


sorge bruscamente dall’oceano come un mostruoso e nero
castello». Così l’8 luglio 1836 Sant’Elena apparve a Charles
Darwin, che a bordo della nave Beagle ritornava in Inghilterra
dal suo viaggio di esplorazione nell’emisfero meridionale.
Vera fortezza naturale, con le sue ripide falesie alte alcune
centinaia di metri, che cadono a picco sul mare, l’isola
presentava in effetti, come osservava Darwin, una catena di
piccoli fortini e artiglierie che chiudevano «ogni varco
esistente nella roccia frastagliata» (Viaggio, p. 533), e ciò
rendeva ancora più forte l’impressione suscitata nei naviganti
dall’improvvisa apparizione di questa mole cupa e
minacciosa.

Lunga circa 17 km e larga al massimo 10, con una superficie


di 122 km2, circa la metà di quella di Malta, l’isola,
probabilmente di origine vulcanica, come dimostrerebbero le
sue nere rocce basaltiche, presenta un’orografia tormentata,
caratterizzata da rilievi per lo più brulli e desolati, fra i quali si
aprono vallate strette e profonde, nelle quali vi sono molte
sorgenti e cresce una vegetazione a tratti perfino
lussureggiante. All’estremità di una di queste valli si trova il
principale approdo, dove sorge il capoluogo, al quale fu dato il
nome di Jamestown in onore del duca di York, poi re
d’Inghilterra con il nome di Giacomo II (1685-1688).

Chiamata così perché scoperta nel 1502 da una spedizione


portoghese il 21 maggio, giorno di Sant’Elena, madre
dell’imperatore Costantino, l’isola appartenne al Portogallo
fino al 1633, fu occupata poi dagli olandesi e infine fu
conquistata dagli inglesi che se ne assicurarono
definitivamente il controllo nel 1673. Il sovrano inglese Carlo
II (1660-1685) ne affidò l’amministrazione e la difesa alla East
India Company, che ne fece un importante scalo, dove le navi
dirette verso l’Oriente potevano rifornirsi di frutta, vegetali,
carne, e soprattutto di acqua dolce.

Nel 1815 Sant’Elena contava più di 5.000 abitanti, dei quali il


10% europei e il resto formato da nativi dell’isola, da schiavi
portati dall’Africa e da lavoratori di varia provenienza, dei
quali molti cinesi. Napoleone vi sbarcò il 17 ottobre 1815,
dopo un viaggio di più di due mesi a bordo del vascello
inglese Northumberland. Probabilmente non ricordava più che
al tempo dei suoi studi quel piccolo punto perduto
nell’immensità dell’oceano aveva attirato la sua attenzione,
inducendolo a trascrivere dal libro di geografia una breve
annotazione, che era quasi un’oscura premonizione del suo
destino: «Sant’Elena, piccola isola».

Dopo la sconfitta di Waterloo, il 18 giugno 1815, la sua sorte


si era consumata nel giro di poche settimane. Nonostante gli
incitamenti di molti, fra i quali il fratello Luciano (1775-1840),
a combattere ancora, egli si convinse che non vi erano più le
condizioni politiche, più che militari, per continuare la lotta e
il 22 giugno decise di abdicare in favore del figlio, il piccolo Re
di Roma (1811-1832). Quindi, obbligato dal governo
provvisorio insediatosi a Parigi a lasciare la capitale, si diresse
verso la costa atlantica, a Rochefort prima, e poi sull’isola di
Aix, nella speranza di potersi imbarcare per gli Stati Uniti, ma
di fronte all’impossibilità di sfuggire al rigido controllo delle
coste attuato dalla marina inglese decise alla fine, il 15 luglio,
di consegnarsi al comandante della nave Bellerophon nella
speranza di ottenere asilo sul suolo della sua implacabile
nemica. Due giorni prima egli aveva preparato una lettera per
il principe reggente d’Inghilterra, futuro re Giorgio IV (1820-
1830):
John James Chalon, La Bellerophon con Napoleone a bordo a
Plymouth, 26 luglio-4 agosto 1815, 1817, Greenwich, National
Maritime Museum.
Altezza Reale, preda delle fazioni che dividono il mio paese e
dell’inimicizia delle più grandi potenze d’Europa, io ho concluso la mia
carriera politica e vengo, come Temistocle, a sedermi al focolare del
popolo britannico. Mi metto sotto la protezione delle sue leggi, che invoco
da Vostra Altezza Reale, come dal più potente, dal più tenace e dal più
generoso dei miei nemici.

Questo appello non ebbe alcuna risposta: le potenze alleate


erano decise a impedire che Napoleone potesse nuovamente
mettere in pericolo la stabilità del continente. Il 15 luglio,
nello stesso giorno in cui egli saliva sul Bellerophon, il primo
ministro inglese Robert Banks Jenkinson, conte di Liverpool
(1770-1828), scriveva al ministro degli esteri Robert Stewart,
visconte di Castlereagh (1769-1822), allora a Parigi, che in caso
di cattura di Napoleone, dal momento che l’imperatore
d’Austria Francesco I (1792-1835) non poteva tenere
prigioniero suo genero, e Luigi XVIII (1814-1824) era troppo
debole perché si potesse pensare a un processo per ribellione
in Francia, la Gran Bretagna avrebbe dovuto incaricarsi della
sua custodia, relegandolo possibilmente «il più lontano
dall’Europa». Questa decisione fu ancor più rafforzata dagli
eventi successivi: non appena il Bellerophon gettò l’ancora in
acque inglesi, fu circondato da uno sciame di barche, a
testimonianza della straordinaria curiosità, non priva di una
certa simpatia, che la figura dell’imperatore sconfitto
suscitava nell’opinione pubblica britannica. Nel contempo
diversi ambienti politici di orientamento liberale prendevano
iniziative in suo favore. Maturò così la scelta di Sant’Elena, già
prospettata durante il Congresso di Vienna e sostenuta
esplicitamente dal vincitore di Waterloo, Arthur Wellesley,
duca di Wellington (1769-1852), proprio perché remota, situata
nel mezzo dell’Atlantico, a 1.900 km dalla costa africana e a
più di 3.000 da quella brasiliana, e inoltre inaccessibile e ben
munita contro eventuali colpi di mano. Il 26 luglio fu stipulato
a Londra un accordo in virtù del quale la Compagnia delle
Indie orientali cedeva l’amministrazione dell’isola al governo
per tutta la durata della detenzione di Napoleone. Il 2 agosto,
su richiesta del governo di Londra, i rappresentanti delle
quattro potenze alleate firmavano a Parigi una convenzione
per effetto della quale la custodia di Napoleone, considerato
come loro prigioniero, era affidata alla Gran Bretagna.
L’accordo prevedeva inoltre che Austria, Prussia e Russia, e
anche la Francia, inviassero nel luogo scelto per la detenzione
di Napoleone loro commissari onde assicurarsi della sua
presenza; il governo prussiano decise però di non inviare il
suo rappresentante. Quando gli fu comunicato il suo destino,
Napoleone protestò «al cospetto del Cielo e degli uomini»
contro la violenza che gli veniva inflitta e si appellò al giudizio
della storia «contro la violazione dei diritti più sacri» di cui il
governo di Londra si rendeva responsabile privando della sua
libertà un uomo che si era consegnato, liberamente e con
fiducia, all’ospitalità del popolo inglese. Pochi giorni dopo egli,
senza che avesse potuto mettere piede sul suolo britannico, fu
invitato a trasferirsi sul Northumberland, che il 9 agosto,
accompagnato da una flottiglia di navi di supporto, salpò in
direzione di Sant’Elena.

Il decreto che sanciva la deportazione di Napoleone limitò a


tre gli ufficiali che lo avrebbero accompagnato; furono scelti il
Gran maresciallo Henri-Gratien Bertrand (1773-1844) e i
generali Charles de Montholon (1783-1853) e Gaspard
Gourgaud (1783-1852). Bertrand e Montholon furono
accompagnati dalle mogli e dai figli, rispettivamente tre e
uno; nell’isola poi Bertrand avrebbe avuto un altro figlio e
Montholon altri due, nati nel 1816 e nel 1818. Ai tre ufficiali si
aggiunse come segretario un civile, il ciambellano e
consigliere di stato Emmanuel de Las Cases (1766-1842), che
portò con sé il figlio di 15 anni Emmanuel-Pons Dieudonné de
Las Cases (1800-1854). Seguirono Napoleone anche 11
domestici fra i quali vanno ricordati il primo cameriere (valet
de chambre) Louis Marchand (1791-1876), il secondo cameriere
Louis-Etienne Saint-Denis, detto il «mamelucco» Alì (1788-
1856), i corsi Franceschi Cipriani (1773-1818) e Noël Santini
(1790-1862), il francese Jean-Baptiste-Alexandre Pierron (1790-
1876), lo svizzero Jean Noverraz (1790-1849). Considerando i
domestici di Bertrand e di Montholon, si imbarcarono con
Napoleone sul Northumberland in tutto 26 persone, delle quali
4 donne e 6 bambini o adolescenti. Avendo il suo medico
personale rifiutato di seguirlo, Napoleone decise di portare
con sé a Sant’Elena il dottor Barry Edward O’Meara (1786-
1836), un irlandese medico di bordo del Bellerophon, con il
quale aveva stabilito un buon rapporto intrattenendo lunghe
conversazioni in francese e anche in italiano.
Dopo l’arrivo nell’isola, in attesa che giungesse da Londra il
governatore designato, il generale Hudson Lowe (1769-1844),
fu l’ammiraglio Georges Cockburn (1772-1853) a incaricarsi
della ricerca della sistemazione più adatta a ospitare
Napoleone e il suo seguito. Egli scelse una costruzione che
serviva come residenza estiva del luogotenente del
governatore dell’isola ma, poiché questo edificio richiedeva
lavori di ampliamento e di manutenzione, Napoleone si
sistemò provvisoriamente nella proprietà di un agente della
Compagnia delle Indie, William Balcombe (1779-1829), la cui
graziosa abitazione era posta in una località, chiamata Briars
(i rovi), che lo aveva colpito per la sua amenità. Egli si stabilì
in un padiglione situato su un rialzo del terreno nelle
vicinanze della casa, dove – singolare coincidenza – aveva
soggiornato nel 1805 anche Wellington di passaggio nell’isola.
L’edificio era molto piccolo, composto da una stanza a
pianterreno e da un’angusta mansarda, dove si sistemarono
alla bell’e meglio Las Cases e suo figlio. Ciononostante
Napoleone visse qui i momenti migliori del periodo trascorso
nell’isola: egli poté passeggiare fra gli alberi del piccolo parco
o nel bel giardino ricco di fiori, dove vi erano una vasca e un
pergolato. Ma soprattutto il suo soggiorno fu allietato dalla
figlia dei Balcombe Elizabeth, detta Betsy (1802-1871), una
ragazzina quattordicenne, graziosa e vivacissima, che, per
nulla intimidita dal suo illustre ospite, gli poneva domande
strane e impertinenti e organizzava scherzi ai suoi danni. Una
volta spinse il terranova dell’ammiraglio Cockburn a
immergersi nella vasca in modo che il cane, scrollandosi
all’uscita dall’acqua, bagnasse completamente Napoleone che
era intento a scrivere. Nonostante gli inevitabili rimproveri,
Napoleone fu molto divertito da questi episodi e trascorse
diverse serate gradevoli presso i suoi ospiti. Questo periodo
durò però solo sette settimane perché il 10 dicembre 1815,
terminati i lavori nell’edificio a lui destinato, Napoleone vi si
trasferì con il suo numeroso seguito, del quale però non
fecero parte i coniugi Bertrand che, per preservare la loro vita
familiare, si sistemarono in una dimora separata.

La casa individuata dalle autorità inglesi era situata in una


località chiamata Longwood (lungo bosco), un vasto altopiano
a 500 m di altitudine, che a onta del suo nome si presentava, a
causa di una dissennata opera di disboscamento, brulla e
desolata. La scelta era stata dettata soprattutto da motivi di
sicurezza. La casa infatti, isolata e circondata da un muro a
secco, poteva essere facilmente sorvegliata attraverso due
corpi di guardia e un contingente di soldati acquartierati in
permanenza in una località vicina, chiamata più
propriamente Deadwood (bosco morto). Essa del resto era
molto lontana dal mare, sovrastata da un lato da una catena
montuosa che culminava nel picco di Diana, la cima più alta
dell’isola (823 m), e circondata da dirupi e burroni, fra i quali
un orrido precipizio chiamato non a caso Devil Punch Bowl (la
ciotola del punch del diavolo). Gli inglesi installarono inoltre
alcuni semafori attraverso i quali era possibile, in caso di bel
tempo, comunicare con un sistema di segnali ottici codificati
le novità a Plantation house, la residenza del governatore, e ad
altre zone dell’isola.
Louis-Joseph-Narcisse Marchand, Veduta di Longwood,
donata da Marchand a Napoleone I, acquarello, 1820, Rueil-
Malmaison, Musée National des Châteaux de Malmaison &
Bois-Préaux.

Molto rigide erano anche le istruzioni date all’ammiraglio


Cockburn da Lord Henry Bathurst (1762-1834), segretario di
stato per la guerra e le colonie, fieramente ostile a Napoleone.
Due navi incrociavano in permanenza lungo le coste
dell’isola, controllando i pescherecci e ogni imbarcazione
sospetta; un contingente di 1.800 soldati, oltre a garantire a
rotazione i 500 uomini di stanza al campo di Deadwood,
provvedeva a un costante pattugliamento delle strade. Agli
abitanti era fatto divieto di parlare a Napoleone e agli uomini
del suo seguito. Un ufficiale di ordinanza risiedeva a
Longwood con il compito di controllare in permanenza gli
ospiti della casa e di seguire Napoleone in tutti i suoi
spostamenti. Questi ultimi per altro erano fortemente
limitati: egli poteva muoversi durante il giorno in uno spazio
di 4 miglia (in pratica quasi tutto l’altopiano) senza incontrare
soldati e allontanarsi ulteriormente dalla sua abitazione fino a
un limite di 12 miglia. Per visitare il resto dell’isola, senza
però mai avvicinarsi alle coste, doveva preavvertire due ore
prima l’ufficiale di ordinanza incaricato di scortarlo. Durante
la notte la sua residenza era sorvegliata da sentinelle. Inoltre
tutta la corrispondenza dei francesi, in entrata e in uscita, era
disigillata e controllata sia a Londra sia a Jamestown.
Il sito di Longwood con i giardini e la casa (dall’ottobre
1816) dei Bertrand. In alto: pianta di Longwood old house; la
parte anteriore, a forma di T, era preesistente, quella
posteriore, con gli alloggi per gli altri esuli e per il personale
di servizio, fu costruita dopo l’arrivo di Napoleone a
Sant’Elena.

La residenza dove Napoleone rimase per tutto il restante


periodo della sua detenzione fu chiamata Longwood old house
per distinguerla da quella, detta Longwood new house, che gli
inglesi fecero costruire non lontano come sua abitazione
definitiva e che fu pronta poche settimane prima della sua
morte; egli per altro rifiutò di trasferirvisi perché, circondata
da una cancellata, somigliava troppo a una prigione. L’edificio
centrale di Longwood old house aveva la forma di una T. Sulla
parte anteriore vi era una veranda, dalla quale si entrava nel
parlatorio, un ambiente vasto e luminoso grazie alle ampie
finestre, che fu adibito nel tempo a diverse funzioni, e che
serviva comunque come sala di attesa per gli ospiti che
l’imperatore aveva accettato di ricevere. In una parete di
questo ambiente Napoleone fece aprire un foro circolare
attraverso il quale poteva vedere in anticipo, senza essere
visto, visitatori indesiderati, espediente utilissimo e più volte
utilizzato per evitare di ricevere il governatore o gli ufficiali
che egli inviava in ispezione. Dal parlatorio si passava nel
salone, dove vi erano un grande camino di marmo nero e un
pianoforte verticale: esso si animava dopo la cena, nelle
lunghe serate trascorse a leggere o a conversare. La sala da
pranzo, umida e buia, si collocava all’intersezione delle due
braccia della T ed era utilizzata soprattutto nelle cene, nelle
quali Napoleone amava riunire intorno a sé tutto il suo
entourage. Dalla sala da pranzo si passava da un lato alla
biblioteca, e dal lato opposto ai due ambienti, il gabinetto di
lavoro e la stanza da letto, che Napoleone chiamava il suo
intérieur, ovvero il suo appartamento privato. In ciascuna di
queste due stanze era sistemato un piccolo letto da campo e
sul fondo vi era un passaggio che dava nella stanza da bagno.
Gli ambienti erano di modeste dimensioni, per una superficie
complessiva di circa 150 metri quadrati. Alcuni domestici
erano alloggiati in mansarde situate al di sopra del corpo
principale, mentre per gli altri servitori e per i compagni di
Napoleone furono costruiti appositi ambienti sul retro
dell’edificio. Comprendendo il personale non francese nella
casa vissero mediamente più di quaranta persone.

Nello spazio intorno all’edificio principale furono creati due


giardini, i quali ricevettero i nomi dei due camerieri,
Marchand e Alì, che si incaricarono rispettivamente della loro
cura. Sui prati di questi giardini Napoleone volle che fossero
collocate piante di rose e di fragole, e fece erigere anche un
pergolato, dove talora consumava la colazione o lavorava, al
riparo di barriere ricoperte di rampicanti o di siepi che lo
proteggessero dagli sguardi indiscreti dei suoi controllori. A
questi spazi si aggiunse, a partire dal 1819, il giardino che fu
detto di Noverraz, dal domestico che se ne occupò: come
diremo, per un certo periodo fu lo stesso Napoleone a
dedicarsi ai lavori di giardinaggio in questo settore, dove fu
anche eretto un padiglione dal tetto a forma di pagoda,
chiamato per questo «cinese», che essendo posto su di una
sopraelevazione del terreno offriva un’ampia vista sul mare.
Sant’Elena: i luoghi dell’esilio di Napoleone.

In questo padiglione, che lo proteggeva dalle intemperie,


Napoleone si fermava a scrutare con il cannocchiale
l’orizzonte e seguiva le navi che arrivavano nell’isola e, dopo
averne fatto il periplo, gettavano l’ancora di fronte a
Jamestown, annunziate da un colpo di cannone del forte: una
vista che ogni volta ravvivava la speranza dei prigionieri di
ricevere lettere, libri e giornali, che per altro venivano
consegnati loro solo dopo l’ispezione delle autorità.

Il clima di Sant’Elena è temperato e mite, con poche


differenze fra le varie stagioni, ma l’altopiano sul quale fu
relegato Napoleone presentava condizioni sensibilmente
peggiori, i cui effetti negativi sulla sua salute furono
costantemente denunciati da lui e dai suoi compagni. Esposto
agli alisei, l’altopiano era il posto più ventoso, freddo e umido
di Sant’Elena, caratterizzato da un’elevata piovosità e dalla
presenza frequente della nebbia, e sovrastato dalle nuvole che
– componente pressoché costante del paesaggio –
circondavano in permanenza le cime più alte dell’isola.

Dopo la morte di Napoleone, furono annullate tutte le


limitazioni imposte agli abitanti. Tuttavia la partenza dei
francesi e dei molti uomini che erano stati impiegati nella sua
sorveglianza ebbe conseguenze negative sull’economia, tanto
che molti finirono con il rimpiangere gli anni in cui Sant’Elena
era stata al centro dell’attenzione del mondo. Nel 1821
l’amministrazione dell’isola fu riconsegnata alla Compagnia
delle Indie ma nel 1833, con il Saint Helena Act, il Parlamento
di Londra decise di affidarla nuovamente, e questa volta in via
definitiva, al governo. La East India Company, da tempo in
una fase di declino, sarebbe stata sciolta nel 1874. Nel corso
del XIX secolo, in seguito ai progressi dei trasporti marittimi,
all’apertura del canale di Suez (1869) e poi all’introduzione dei
refrigeratori, Sant’Elena perse progressivamente la sua
tradizionale funzione di scalo sulle rotte orientali. Essa per
altro vide ancora rinnovarsi il ruolo di isola prigione che la
sua natura e la sua posizione geografica sembravano averle
conferito. Nel 1890 fu relegato nell’isola il re zulu Dinuzulu
(1869 circa-1913) che, rimastovi fino al 1897, si occidentalizzò
nei costumi e ricevette anche il battesimo. In seguito, al
tempo della guerra anglo-boera (1899-1902), alcune migliaia di
coloni sudafricani in gran parte di ascendenza olandese
subirono la deportazione nell’isola, che divenne così una
sorta di campo di concentramento.

Per quanto riguarda i luoghi della detenzione napoleonica,


Longwood old house, data in affitto nel 1823 a un colono, fu
trasformata da questi in una fattoria per cui quasi tutti gli
ambienti vennero abbattuti o modificati. Nel 1840 la salma di
Napoleone, sepolta nell’isola nel luogo da lui indicato, fu,
come diremo, esumata e riportata, secondo la sua volontà, a
Parigi all’Hôtel des Invalides.

Il degrado dei luoghi nei quali Napoleone aveva vissuto i


suoi ultimi anni suscitò vivaci reazioni negative nell’opinione
pubblica, non solo in Francia. La situazione mutò quando il
nipote Carlo Luigi (1808-1873), figlio del fratello Luigi (1778-
1846), già re di Olanda, instaurò con il colpo di stato del 2
dicembre 1851 il Secondo Impero assumendo il nome di
Napoleone III. Egli avviò trattative con la Gran Bretagna che
portarono nel 1858 all’acquisto di Longwood old house e del
luogo che aveva ospitato fino al 1840 la tomba dello zio. Infine
nel 1959 una discendente della famiglia Balcombe decise di
regalare alla Francia anche la località del primo soggiorno di
Napoleone, i Briars. Su tutti questi luoghi, che costituiscono i
Domaines nationaux de Sainte-Hélène, sventola oggi il tricolore
francese. Non esiste più invece Longwood new house, demolita
nel 1949. L’edificio nel quale era morto Napoleone, la cui
struttura era stata irrimediabilmente alterata da molteplici
interventi ed era minacciata anche dall’invasione delle
termiti, vero flagello dell’isola, è stato ricostruito in modo da
ripristinare, per quanto possibile, gli ambienti e gli arredi
dell’epoca; lì è stato allestito anche un museo. Ancora oggi
questi luoghi sono uno dei principali motivi di richiamo
turistico dell’isola, che, anche per sfruttare economicamente
questa risorsa, si è dotata nel 2017 di un piccolo aeroporto che
prevede un volo settimanale da Città del Capo.
Capitolo secondo

Il moderno Prometeo

Tutti i compagni di sventura di Napoleone, compresi i


domestici e il medico O’Meara, hanno lasciato diari, ricordi e
testimonianze, alcuni dei quali non destinati alla
pubblicazione e venuti alla luce in tempi diversi. Tuttavia solo
Las Cases intuì fin dall’inizio che condividere l’esilio di
Napoleone avrebbe rappresentato un’occasione preziosa sul
piano storico e letterario e in effetti il suo Memoriale di
Sant’Elena, pubblicato nel 1823, conobbe una vasta fortuna, fu
tradotto in molte lingue ed ebbe diverse edizioni fino
all’ultima, apparsa nel 1840.

Membro di una famiglia nobile della Linguadoca, il


marchese di Las Cases, dopo avere intrapreso la carriera
militare nella marina reale, si schierò contro la rivoluzione ed
emigrò in Inghilterra dove visse in condizioni precarie fino a
quando pubblicò, sotto lo pseudonimo di «Lesage» (il saggio),
un Atlante storico, genealogico e cronologico che ebbe notevole
successo e gli procurò un buon reddito. Rientrato in Francia
nel 1802, aderì al regime napoleonico divenendo ciambellano
di corte, conte dell’Impero e membro del Consiglio di stato.
Napoleone in realtà lo conosceva appena, ma gradì fin da
subito la compagnia di questo aristocratico di antico regime,
dalla figura minuta, intelligente, colto e buon conversatore,
che presentava inoltre il vantaggio di conoscere bene la lingua
inglese per la quale fungeva da interprete. Durante il viaggio
verso Sant’Elena, mentre Napoleone cominciava a dettare le
sue memorie, Las Cases iniziò a tenere una sorta di diario nel
quale registrava lo svolgersi degli eventi e prendeva nota delle
sue conversazioni con l’imperatore. Questi, accortosi della
cosa, se ne fece mostrare alcuni brani e secondo Las Cases
non ne fu scontento. Non stupisce pertanto che ai Briars, a
parte i fedelissimi Marchand e Alì, lui solo, insieme con il
figlio che lo aiutava come copista, abbia condiviso la
residenza con l’imperatore, mentre gli altri compagni e
domestici vissero dispersi nell’isola finché non fu pronta
Longwood old house. Questa predilezione rese Las Cases inviso
agli ufficiali che, scavalcati dall’ultimo venuto nel favore del
capo, nutrirono nei suoi confronti gelosia e rancore, e lo
chiamavano ironicamente «il gesuita».

Las Cases fu, come vedremo, il primo a lasciare Sant’Elena,


alla fine del 1816. In questa occasione il governatore gli
sequestrò tutte le sue carte. Solo dopo la morte di Napoleone
egli riuscì a recuperare il suo manoscritto a partire dal quale
compose il Memoriale che pubblicò due anni dopo. Il recente
ritrovamento, alla British Library, di una copia del
manoscritto originario sequestrato da Lowe offre ora una
preziosa possibilità di ricostruire almeno in alcune linee
generali il processo di elaborazione dell’opera. Nelle citazioni
dal Memoriale avremo perciò sempre presenti le differenze fra
il testo dell’edizione del 1823 (Mem.) e quello del manoscritto
pubblicato nel 2018 (Ms., Le manuscrit retrouvé). Ad esempio
non figura in quest’ultimo il celebre accostamento, già per
altro più volte proposto negli anni precedenti, fra la sorte di
Napoleone e il mito di Prometeo, punito da Zeus per avere
rubato il fuoco per donarlo agli uomini, e incatenato perciò a
una rupe dove un’aquila (o, secondo un’altra versione, un
avvoltoio) gli divora il fegato che continuamente gli ricresce.
Las Cases inserì il brano nel testo edito alla data del 15
ottobre 1815, quando il Northumberland finalmente gettò
l’ancora di fronte a Jamestown: «Essa tocca il fondo, ed è là il
primo anello della catena che si appresta a inchiodare il
moderno Prometeo sulla sua roccia».

Per quanto concerne Bertrand e Gourgaud, fu senza dubbio


la fedeltà all’imperatore a spingerli a condividerne la sorte. Il
primo era stato al fianco di Napoleone lungo tutta la sua
carriera militare e politica, contribuendo alle sue campagne
soprattutto in quanto valido ingegnere del genio. Creato conte
dell’Impero nel 1809, era stato nominato nel 1813 Gran
maresciallo del Palazzo. Onesto, scrupoloso, fedele, Bertrand
non era però dotato di grande intelligenza e di spirito di
iniziativa, e pativa in tal senso, come Gran maresciallo, il
paragone con il suo predecessore Géraud-Christophe-Michel
Duroc, morto in battaglia nel 1813. Egli seguì Napoleone sia
all’isola d’Elba sia a Sant’Elena, accompagnato dalla moglie,
Fanny Dillon (1785-1836) e dai tre figli, ai quali se ne aggiunse
un quarto nato nel 1817 nell’isola. Bertrand, sul quale
pendeva in Francia una condanna a morte in contumacia, si
trovò in una condizione molto difficile, in quanto dovette
conciliare la sua fedeltà a Napoleone con i malumori della
moglie, la quale, amante del lusso e della vita di società, era
oppressa dalla noia e dalla solitudine e faceva pressioni sul
marito per indurlo a partire. La riluttanza di Madame
Bertrand a condividere l’esilio di Napoleone a Sant’Elena
apparve evidente fin dal primo istante: quando apprese sul
Bellerophon quale sarebbe stata la loro destinazione, tentò di
gettarsi in mare. Nell’isola comunque Fanny, donna di bella
presenza, alta ed esile, brillante, intelligente e piena di spirito,
che conosceva bene l’inglese, organizzò un salotto che
rappresentò, finché le fu consentito, una delle poche
occasioni di vita mondana in quell’eremo sperduto.

Il diario tenuto da Bertrand, i Cahiers de Sainte-Hélène, non


scritto per essere divulgato e pubblicato solo fra il 1949 e il
1959, riflette bene la sua personalità: privo di ogni valore
letterario, è un resoconto minuzioso e anodino degli eventi
quotidiani, ma costituisce una fonte preziosa per conoscere
molti aspetti che sono del tutto ignorati da Las Cases. Grazie a
questo testo possiamo seguire, fin nei dettagli, le varie fasi
della lenta agonia di Napoleone. Ma soprattutto il suo diario
testimonia la progressiva perdita di lucidità dell’imperatore, e
ci informa dei suoi momenti di delirio e delle sue fantasie più
scabrose: scrivendo sempre in terza persona, Bertrand riporta
con fredda puntualità le imbarazzanti rivelazioni di
Napoleone su particolari intimi dei suoi rapporti sessuali con
la prima fidanzata Desirée Clary (1777-1860), poi divenuta
grazie al matrimonio con il generale Jean-Baptiste Bernadotte
(1763-1844) regina di Svezia, o con la prima moglie Joséphine
de Beauharnais (1763-1814), e perfino gli incresciosi
riferimenti alla sua stessa moglie: «egli ripete cinque o sei
volte che Madame Bertrand è “une catin” (una prostituta)»
(Cahiers, 9 aprile 1821). Troviamo insomma in questi Cahiers
(Quaderni) non l’immagine un po’ stereotipata dell’eroe
costruita da Las Cases, ma l’uomo, con le sue debolezze, con
le sue piccole meschinità, con gli aspetti meno gradevoli del
suo carattere.

Gourgaud, che aveva 32 anni e non era sposato, era generale


e barone dell’Impero e aveva partecipato a tutte le campagne
napoleoniche, dimostrando coraggio e grande valore. Leale e
generoso, egli volle a tutti i costi essere chiamato da
Napoleone a far parte del suo seguito a Sant’Elena, ma aveva
anche un carattere impulsivo e orgoglioso, che rese difficile la
convivenza con gli altri. Geloso di Las Cases e di Montholon,
che riteneva gli fossero ingiustamente anteposti, contribuì ad
avvelenare il clima fra i compagni dell’imperatore, e giunse a
sfidare a duello Montholon. Su ordine di Napoleone, Bertrand
vietò il duello, ma i ripetuti incidenti provocati da Gourgaud
resero alla fine impossibile la sua permanenza nell’isola: il 13
febbraio 1818 lasciò Longwood e tre mesi dopo partì per
l’Europa. Napoleone fu sollevato dal fatto di essersi liberato
della sua ossessiva e morbosa gelosia: «Sono tre, quattro, dieci
volte felice, da quando Gourgaud è partito. Che fatica! Tutti i
giorni voleva incularmi mio malgrado» (Cahiers, 5 gennaio
1819). Non a caso egli fu il solo fra i suoi compagni d’esilio che
Napoleone ignorò nel suo testamento, anche se alla sua
partenza gli accordò una pensione.
Karl August von Steuben, L’imperatore a Sant’Elena detta le
sue memorie al generale Gourgaud, 1817, collezione privata.

Dopo essersi allontanato da Longwood, nell’isola prima e


poi in Inghilterra, dove si stabilì non potendo ritornare in
Francia, Gourgaud fece affermazioni irresponsabili circa le
relazioni clandestine con l’Europa intrattenute dagli esuli,
circa le reali condizioni di salute di Napoleone e i suoi progetti
di evasione, rivelazioni che giunsero alle cancellerie delle
potenze alleate irrigidendo il loro atteggiamento nei confronti
del prigioniero di Sant’Elena. Egli per altro a Londra si batté
per la causa dell’imperatore, cercando invano di farsi ricevere
dalla moglie Maria Luisa (1791-1847) e scrivendo a tutti i
sovrani, e per questo fu espulso dal governo inglese. Dopo la
detronizzazione della monarchia borbonica nel 1830 poté
riprendere la carriera militare, divenendo aiutante di campo
del re Luigi Filippo d’Orléans (1830-1848), che lo nominò pari
di Francia nel 1841. Anch’egli tenne a Sant’Elena un diario
(Journal de Sainte-Hélène), non destinato alla pubblicazione, nel
quale esprime tutto il suo disagio e si lamenta della scarsa
considerazione dell’imperatore nei suoi confronti. Il pregio
maggiore di questo testo, pubblicato nel 1899, è proprio nella
schiettezza con la quale rivela molti retroscena del piccolo
mondo di Sant’Elena: è Gourgaud ad esempio che allude più
volte alla presunta relazione intrattenuta da Napoleone con la
moglie di Montholon. D’altra parte risultano interessanti i
giudizi espressi sui suoi compagni d’esilio da quest’uomo
impulsivo e pieno di sé: riguardo al detestato Las Cases, egli
afferma che era andato a Sant’Elena solo per scrivere un libro!
Ben diverso è il caso di Montholon, anch’egli, come
Bertrand, accompagnato nell’esilio dalla moglie Albine de
Vassal (1779-1847) e da un figlio, al quale se ne aggiunsero
altri due nati nell’isola. Egli era ciambellano, conte
dell’Impero e generale, ma non poteva vantare grandi meriti
sul piano militare. Inoltre nel 1812 cadde in disgrazia presso
Napoleone che non approvò il suo matrimonio. Dopo
Waterloo Montholon fu indotto a seguire Napoleone
soprattutto dalla sua situazione finanziaria gravemente
compromessa dai debiti. In questo fu sostenuto dalla moglie,
tanto graziosa e civettuola quanto abile e astuta, pronta a
ricavare il massimo profitto dalla generosità dell’imperatore.
Montholon era un cortigiano dalle buone maniere e dallo
spirito vivace, la cui leggerezza fu di sollievo a Napoleone
nella sua difficile condizione. Questa sua mondanità lo
facilitava anche nelle relazioni diplomatiche, nelle quali
sapeva smussare i contrasti e trovare un punto di accordo. I
due coniugi seppero con pazienza e con abilità conquistarsi la
fiducia di Napoleone, che negli ultimi mesi fece proprio di
Montholon il suo confidente più intimo, e nel testamento lo
privilegiò largamente rispetto agli altri compagni di esilio. In
ogni caso Albine non rimase fino alla fine, e il 2 luglio 1819
lasciò Sant’Elena con i due figli nati nell’isola, non senza aver
ottenuto prima da Napoleone una ricca dotazione di denaro.

Molte voci sollevarono il sospetto che Albine fosse l’amante


di Napoleone, e che addirittura questi fosse il vero padre della
seconda figlia nata a Sant’Elena nel 1818, chiamata Joséphine,
che sarebbe morta poco dopo il ritorno in Europa. Queste voci
furono raccolte anche dai commissari austriaco e francese
che le comunicarono ai rispettivi governi. Al riguardo, a parte
le affermazioni di Gourgaud nel suo diario, di cui si è detto,
non mancano altri indizi forniti da medici e ufficiali inglesi; si
potrebbe ipotizzare che si trattasse di pettegolezzi messi in
circolazione da due persone, come Gourgaud e Madame
Bertrand, certo non ben disposte verso Albine. Bisogna però
considerare le note del diario di Bertrand che con la consueta
notarile precisione segnalano più volte che Madame
Montholon cenava da sola con l’imperatore. D’altra parte in
una conversazione riportata ancora da Bertrand Napoleone si
espresse con una certa chiarezza su Albine:

Madame Montholon è [...] un’intrigante, che conosce i suoi interessi:


quando le si è parlato di pensioni, che credeva non potessero essere
pagate, non ha sentito ragioni; non ha ceduto il suo cuore che per delle
buone lettere di cambio. Montholon è stato vittima di sua moglie (Cahiers,
23 aprile 1821).

Rientrato in patria dopo la morte di Napoleone, Montholon


si separò dalla moglie, legatasi nel frattempo all’ufficiale
inglese Basil Jackson, che l’aveva accompagnata nel viaggio
verso l’Inghilterra. Egli dilapidò rapidamente il patrimonio
lasciatogli dal testamento in dissennati investimenti
industriali, per cui si trovò nuovamente oberato dai debiti. In
fondo fu soprattutto un avventuriero, come dimostra la sua
decisione di partecipare al velleitario colpo di mano per
prendere il potere promosso nell’agosto del 1840 a Boulogne-
sur-Mer dal principe Carlo Luigi Napoleone, il futuro
Napoleone III. Imprigionato insieme con questi nel forte di
Ham, ottenne la grazia, anche per intervento di Gourgaud, il
10 luglio 1846, poco tempo dopo che il suo illustre compagno
di prigionia era riuscito a fuggire. A questo punto egli cercò
ancora, seppur tardivamente, di mettere a frutto gli anni di
Sant’Elena pubblicando nel 1847 un libro di memorie (Recits
[Racconti] de Sainte-Hélène) che in realtà attingeva largamente
al memoriale di Las Cases e ad altre opere apparse in
precedenza, e che ebbe comunque scarso successo.

Diviso da contrasti, gelosie, meschine rivalità, il gruppo di


uomini e di donne che accompagnarono Napoleone nel suo
esilio forzato fu per lui costante motivo di preoccupazione e
di afflizione. Vani furono i suoi ripetuti appelli alla concordia:
«Mi avete seguito per essermi di conforto, non è vero? [...]
Siate fratelli! In caso contrario non siete per me che un
supplizio!» (Mem., 27 aprile 1816). Da queste parole si
comprende la solitudine di Napoleone, circondato in fondo da
uomini mediocri, che non seppero essergli di consolazione e
dargli il sostegno morale che egli si aspettava.

Furono invece i domestici, primi fra tutti Marchand e Alì, a


dimostrargli fino all’ultimo fedeltà e devozione assolute. Il
primo apparteneva a una famiglia legata al servizio di
Napoleone: la madre era infatti nutrice del figlio, che nel 1814
seguì fino a Vienna. Nonostante la giovane età (24 anni),
Marchand fu con l’imperatore all’Elba e poi a Sant’Elena come
primo cameriere, ma, data la sua buona educazione e
istruzione, fece spesso le funzioni di un vero e proprio
segretario. Era l’ombra di Napoleone, sempre presente,
discreto e disponibile, colui che curava la sua vestizione e la
sua toilette, e che nelle notti insonni gli faceva compagnia
nella lettura o scriveva sotto dettatura. Napoleone riconobbe
nel suo testamento che i servizi resigli da Marchand erano
«quelli di un amico». Anch’egli scrisse diversi anni dopo aver
lasciato Sant’Elena delle Memorie pubblicate in due volumi nel
1952 e nel 1955, dei quali il secondo riguarda il periodo
dell’esilio. Questo scritto rispecchia in pieno la sua
personalità, in quanto focalizza tutta la sua attenzione su
colui al cui servizio egli si era interamente votato.
Appassionato di disegno, ci ha lasciato un abbozzo di ritratto
a matita dell’imperatore sul letto di morte.

Anche Saint-Denis, più noto come «Alì», a partire dalla


Spagna seguì Napoleone in tutte le sue campagne e poi
all’isola d’Elba. Egli, in quanto «mamelucco», membro della
guardia creata da Napoleone dopo la spedizione in Egitto, pur
essendo francese prese lo pseudonimo di Alì e vestiva il
caratteristico costume orientale. Aveva il compito di scortare
e difendere l’imperatore e di accompagnarlo sul campo di
battaglia, sempre pronto a porgergli il cannocchiale. Dormiva
a terra su una stuoia, di traverso davanti alla porta di
Napoleone, consuetudine che sorprese vivamente i marinai
del Northumberland. A Sant’Elena, dove però non indossò il
costume dei mamelucchi, che sarebbe stato ridicolo in quelle
circostanze, fu secondo cameriere, ma espletò anche le
funzioni di copista, grazie alla sua ottima calligrafia, e di
bibliotecario, compito questo importantissimo poiché la
lettura era l’occupazione principale di Napoleone. Litigò con
Noverraz perché entrambi corteggiavano una cameriera di
Montholon; il gigantesco svizzero (alto 1 metro e 90) lo prese a
bastonate e alla fine sposò la donna, mentre Alì poco dopo
prese in moglie la governante inglese dei figli di Bertrand. I
suoi Souvenirs (Ricordi), pubblicati nel 1926, sono una fonte
molto utile per conoscere in ogni dettaglio la vita di
Longwood.

Fra i domestici va infine ricordata l’enigmatica figura del


corso Franceschi Cipriani che, legato a Napoleone fin
dall’infanzia, godeva della sua intera fiducia. Egli aveva svolto
funzioni di agente segreto a Napoli, e anche a Sant’Elena, pur
avendo la carica di maître d’hôtel, si dedicò alla ricerca di
informazioni e ad attività di spionaggio, favorito dal fatto che
per provvedere all’approvvigionamento poteva muoversi
liberamente. Morì improvvisamente il 27 febbraio 1818,
colpito da violenti dolori addominali, e fu sepolto nell’isola.
Sulle cause della sua morte, dovuta probabilmente a una
peritonite, si è molto discusso, e si è ipotizzato anche un
avvelenamento.

Fin dall’inizio Napoleone, come si è visto, elevò una fiera


protesta contro il governo inglese che gli avrebbe teso una
trappola, tradendo la sua fiducia nelle tradizioni liberali della
nazione. Questo tema divenne un argomento ricorrente nelle
parole e negli scritti di tutto il gruppo di esuli e guadagnò
notevoli consensi nell’opinione pubblica europea, divenendo
parte integrante della leggenda. Il poeta tedesco Heinrich
Heine (1797-1856) ne trasse un violento atto di accusa contro
l’Inghilterra:
Britannia! A te appartiene il mare. Eppure il mare non ha acqua
sufficiente per lavarti dall’onta che, morendo, il grande estinto ti ha
lasciato in eredità. Non il tuo malsicuro sir Hudson, no, tu stessa fosti lo
sbirro che i re coalizzati assoldarono per vendicarsi nascostamente,
colpendo l’uomo del popolo, di quel che un tempo il popolo aveva fatto
apertamente a uno di loro. Ed egli era tuo ospite, si era assiso al tuo
focolare (Reisebilder, p. 219).

Si tratta però di accuse in larga misura prive di fondamento.


Il capitano del Bellorophon, Frederick Lewis Maitland (1779-
1839), ospitò Napoleone con molto rispetto e cortesia, ma
certo non poté promettergli che sarebbe stato accolto sul
suolo inglese, decisione che dipendeva dal governo. La fiducia
nell’ospitalità inglese nutrita da Napoleone e dal suo
entourage appare velleitaria: dopo la fuga dall’isola d’Elba egli
era stato formalmente dichiarato dagli alleati riuniti a Vienna
un fuorilegge, nemico e perturbatore della pace, esposto
perciò alla pubblica punizione. Gli alleati affermavano di
avere combattuto solo contro di lui, non contro la Francia,
rappresentata per loro da Luigi XVIII, quindi non lo
consideravano un prigioniero di guerra, che allo stabilimento
della pace avrebbe dovuto essere rimesso in libertà; quanto al
suo status di sovrano dell’isola d’Elba, riconosciutogli nel
1814, era decaduto perché lui stesso aveva infranto con la sua
fuga il trattato firmato a Fontainebleau. Inoltre egli, non
essendo suddito britannico, non poteva invocare la protezione
della legge inglese (l’Habeas corpus) che garantiva
l’inviolabilità della persona. Pretestuosa appare infine anche
l’affermazione secondo cui Napoleone si sarebbe
volontariamente consegnato agli inglesi: in realtà, una volta
abbandonata l’idea di forzare clandestinamente il blocco
navale, che lo avrebbe esposto al rischio di essere catturato
come un criminale, sorte certo non consona alla sua dignità,
Napoleone non aveva davvero altra scelta, tanto più che
sembrava imminente un ordine di arresto proveniente da
Parigi, dove nel frattempo era tornato sul trono Luigi XVIII.
Restava solo un’altra eventualità: il suicidio. Questa idea, che
già lo aveva concretamente tentato a Fontainebleau nel 1814,
riemerse in una discussione con Las Cases a bordo del
Bellerophon a proposito dell’imminente deportazione a
Sant’Elena:

Ma, dopo tutto, è proprio sicuro che io ci vada? Un uomo è dipendente dal
suo simile, quando non vuole più esserlo? [...] Mio caro, continuò, qualche
volta mi viene voglia di lasciarvi, e ciò non è molto difficile. [...] Tutto
sarebbe finito, e voi andreste a raggiungere tranquillamente le vostre
famiglie (Mem. e Ms., 2-3 agosto 1815).

L’altro motivo di contrasto, che avvelenò fin dall’inizio i


rapporti con le autorità inglesi, fu la questione del titolo con il
quale Napoleone doveva essere designato: da quando egli salì
sul Bellerophon fino al suo funerale gli inglesi si rivolsero a lui
come «generale Buonaparte» e gli riservarono gli onori dovuti
a un alto ufficiale. Alle sue proteste, le autorità risposero
sempre, come l’ammiraglio George Cockburn, di non
conoscere «nessuno a Sant’Elena con il titolo di imperatore»
(Mem. e Ms., 14-15 marzo 1816). In effetti la Gran Bretagna
aveva firmato la pace di Amiens nel 1802 quando Napoleone
era primo console, ma, a differenza delle altre potenze
europee, non lo aveva mai riconosciuto formalmente come
imperatore. Era questo un punto d’onore sul quale Napoleone
non poteva cedere, perché implicava la legittimità del suo
potere e quindi della dinastia che, a partire dal figlio, egli
aveva fondato. Lo ribadì in un colloquio con l’ammiraglio
Pulteney Malcolm (1768-1838), che aveva sostituito Cockburn
come comandante delle forze navali dell’isola, ricordando le
relazioni intrattenute con lui da tutte le potenze europee, e in
particolare il legame dinastico stabilito con l’Austria:
Credete, Signore, che quando respingo il titolo di generale non lo faccio
perché esso possa offendermi: lo rifiuto solo perché equivarrebbe a
convenire che non sono stato imperatore; e io difendo qui più l’onore
degli altri che il mio. Difendo l’onore di coloro con i quali sono stato, a
questo titolo, [...] in rapporto, in trattati, in alleanze di sangue e di politica
(Mem. e Ms., 25 luglio 1816).

Per questo motivo Napoleone impose nell’organizzazione di


Longwood il rigoroso rispetto delle gerarchie, dell’etichetta e
del cerimoniale in vigore alle Tuileries. Nella «Casa imperiale»
il Gran maresciallo di palazzo Bertrand teneva i rapporti con
le autorità inglesi, Montholon come maggiordomo e maestro
di cerimonie si occupava dell’amministrazione, Gourgaud,
nominato aiutante di campo, sovrintendeva alle scuderie, Las
Cases ebbe la funzione di segretario di stato. Di sera gli
ufficiali erano tenuti a indossare le uniformi di corte e le
signore a far mostra degli abiti e dei gioielli più belli, mentre
per Las Cases era prescritto il frac nero. A cena, sotto la
direzione del maître d’hôtel Cipriani, i camerieri servivano
indossando la livrea verde bordata d’oro con il gilet bianco.
Quando vi erano dei visitatori, l’ingresso di Napoleone era
annunciato a voce alta («Sua Maestà l’Imperatore!») da
Noverraz o da Santini. Questo cerimoniale poteva certo
suonare anacronistico, per non dire ridicolo, in quelle
condizioni, e non mancarono ironie al riguardo sulla stampa
inglese, ma era fondamentale per Napoleone, nella strategia
da lui lucidamente perseguita, ribadire che egli era stato e
restava imperatore.

La tensione dovuta alle restrizioni imposte ai prigionieri si


accrebbe notevolmente con l’arrivo nell’isola, il 14 aprile 1816,
del governatore nominato da Londra, Hudson Lowe, che aveva
ricevuto dal ministro Bathurst istruzioni molto più stringenti,
tendenti a prevenire possibili tentativi di evasione, a impedire
ogni comunicazione dei francesi con l’Europa e anche a
ridurre notevolmente le spese per il mantenimento di
Longwood. Il primo colloquio ebbe luogo il 16 aprile, e fu
l’inizio di una guerriglia che non avrebbe più avuto fine. In
seguito vi furono altri cinque incontri, tutti burrascosi;
l’ultimo fu il 18 agosto 1816, quando Napoleone decise di non
ricevere più il governatore, il quale non lo avrebbe rivisto che
cinque anni dopo, sul letto di morte.

Lowe impose subito nuove restrizioni ai francesi: divieto di


parlare con gli abitanti dell’isola, limiti rigorosi alle udienze
concesse ai visitatori, tenuti a riferire a lui il contenuto dei
colloqui, riduzione a 8 miglia dello spazio concesso agli
spostamenti del prigioniero. Poco dopo esplose il caso
dell’arresto di Las Cases, reo di avere tentato di inviare
clandestinamente in Europa, per il tramite di un suo servitore
mulatto, due lettere, una a un’amica inglese, l’altra a Luciano
Bonaparte. Lowe colse l’occasione per sequestrare tutte le sue
carte, compreso il manoscritto del Memoriale, nella speranza
di trovare qualche allusione a possibili progetti di evasione.
Alla fine Las Cases fu espulso e partì il 31 dicembre 1816
insieme con il figlio per Città del Capo, dove fu detenuto per
sei mesi prima di poter rientrare in Europa.

Questo affare presenta molti lati oscuri. Intanto le lettere


che Las Cases tentò di spedire in Europa erano insignificanti:
perché correre questo rischio quando i francesi disponevano
di canali clandestini sicuri per corrispondere con l’Europa?
Una prima ipotesi si affaccia: Las Cases d’accordo con
Napoleone voleva farsi espellere per poter eseguire una
missione segreta? Effettivamente egli in Europa stabilì una
rete di contatti con la famiglia Bonaparte e dispiegò
un’intensa attività in favore del prigioniero di Sant’Elena.
Bisogna dire per altro che l’imperatore avvertì molto la
mancanza di colui con il quale più piacevolmente si
intratteneva. Molto più convincente è l’ipotesi che Las Cases,
preoccupato anche per la salute del figlio, abbia montato
l’affare nell’intento di lasciare Sant’Elena, ritenendo di avere
ormai materiale sufficiente per il suo libro. Del resto quando,
alla fine, si profilò una soluzione di compromesso che gli
avrebbe consentito di restare, egli insistette per partire.

Un altro motivo di scontro fu la questione finanziaria. In


base alla convenzione firmata il 2 agosto 1815 a Parigi,
l’Inghilterra si era accollata le spese per la detenzione di
Napoleone, che erano davvero ingenti: per il 1817
l’ammiraglio Cockburn le stimava in circa 2 milioni e 200.000
franchi, dei quali 500.000 per il mantenimento di Longwood e
il resto per il contingente militare e le navi incaricate di
controllare l’isola. Napoleone doveva provvedere invece alle
sue spese personali, agli stipendi degli ufficiali e alle paghe
dei domestici, in media ogni anno, dal 1815 al 1821, poco
meno di 150.000 franchi. Egli disponeva anche di un fondo
cassa, che non intendeva toccare, di 300.000 franchi portati
nell’isola, al momento dell’imbarco sul Northumberland,
nascosti nelle cinture di alcuni uomini del suo seguito per
sottrarli alla perquisizione degli inglesi.

Sulla base delle istruzioni ricevute da Bathurst, Lowe ordinò


il rimpatrio di quattro domestici e impose alla colonia
francese una drastica riduzione delle spese. Ebbe origine così
una nuova guerra di posizione. Napoleone disse che, dal
momento che gli si negava il necessario per sopravvivere, era
pronto a sedersi alla mensa del reggimento di stanza a
Deadwood, che certo non avrebbe negato ospitalità a un
vecchio soldato! Egli fece addirittura rompere una parte della
sua argenteria perché fosse venduta sul mercato di
Jamestown: evento increscioso, che i marinai e i viaggiatori di
passaggio per l’isola si affrettarono a riferire in Europa.
Quando un capitano chiese come stava Napoleone, Cipriani
gli rispose: «Come uno che è costretto a vendere l’argenteria
per vivere»! Il problema finanziario si risolse alla fine del 1818
con un compromesso, negoziato con Lowe da Montholon: Las
Cases e Bertrand anticiparono delle somme, che furono poi
restituite loro, e Napoleone scrisse al figlio adottivo, Eugenio
di Beauharnais (1781-1824), già viceré d’Italia, perché
provvedesse ad aprirgli presso un banchiere londinese un
credito di 12.000 franchi al mese.

Ma era vero che, come scrisse Napoleone a Eugenio, gli


inglesi gli facevano «mancare le cose più necessarie alla vita»?
Nonostante i prezzi nell’isola, che riceveva i rifornimenti da
Città del Capo, fossero molto più alti che in Europa, i consumi
di Longwood erano tutt’altro che limitati. Lowe non aveva
torto a dire che le provviste erano sufficienti, e a denunciare,
ad esempio, lo spropositato consumo di vino. Per parte sua
Napoleone, che all’isola d’Elba aveva imposto rigorose
economie, non fece nulla né per ridurre gli sprechi, né per
impedire la disinvolta gestione degli approvvigionamenti.
Insomma anche per questo aspetto Lowe fu vittima del gioco
di Napoleone, il quale colse questa ulteriore occasione per
presentarsi di fronte all’opinione pubblica mondiale come la
vittima della taccagneria inglese.

L’ultimo nodo del conflitto con Lowe riguardò il medico


O’Meara, e fu il più delicato perché coinvolgeva la salute
dell’imperatore che, come diremo, a partire dal 1817 cominciò
decisamente a peggiorare. Il giovane irlandese (29 anni) si
trovò da subito in una situazione molto difficile e non priva di
ambiguità, in quanto da un lato medico personale di
Napoleone, dall’altro ufficiale di marina, tenuto quindi
all’obbedienza nei confronti dei suoi superiori. In particolare
Lowe pretendeva che gli fornisse notizie sulla salute del suo
paziente e sulla vita di Longwood, dove egli risiedeva. Per un
certo periodo egli si barcamenò, intrattenendo un rapporto
confidenziale con Napoleone (gli forniva di nascosto dei
giornali) e passando al contempo informazioni al governatore.
Napoleone gli pose la questione in termini molto netti: «siete
il mio medico o una spia?». Per contro Lowe, scoperti i
maneggi di O’Meara, minacciò di rispedirlo in patria. Da
questo momento l’irlandese, che forse accettò anche uno
stipendio da Napoleone, assunse un atteggiamento sempre
più ostile a Lowe che alla fine, il 25 luglio 1818, gli ordinò di
lasciare immediatamente Longwood senza neanche salutare
il suo paziente. In realtà il medico non obbedì e incontrò
Napoleone, accettando di portare in Europa, nascoste nella
suola di una scarpa, due lettere alla madre (Letizia Ramolino,
Madame mère, 1750-1836) e alla moglie Maria Luisa. Giunto a
Londra, egli pubblicò un pamphlet nel quale denunciò la
condotta indegna di Hudson Lowe nei confronti del suo
prigioniero. Destituito dalla marina inglese, si recò presso la
madre di Napoleone che gli conferì una pensione, mentre
Maria Luisa si rifiutò di riceverlo. Ritornato a Londra, pubblicò
nel 1822 un’opera (Napoleone in esilio o una voce da Sant’Elena)
che, scritta sulla base degli appunti presi con regolarità dopo
ogni incontro con Napoleone, offre una descrizione puntuale
della prigionia dell’imperatore e un resoconto fedele delle sue
riflessioni. Tradotto in varie lingue, il libro ebbe, prima del
Memoriale di Las Cases, un notevole successo e contribuì a
divulgare un’immagine molto negativa di Lowe.

Ma fino a che punto erano fondate le lamentele dei francesi,


e quanto era giustificato il loro odio per Lowe, che Napoleone
definì «una figura di iena»?
Non è mancato chi ha osservato, a difesa di Lowe, che egli
in fondo non fece che applicare le direttive del suo governo, il
quale avallò sempre le sue decisioni. D’altra parte non c’è
dubbio che Napoleone fece di tutto per porlo in cattiva luce.
Gourgaud riferisce al riguardo una frase molto significativa:
«Qui, qualunque cosa si dica, posso creare, a mio piacimento,
la reputazione del governatore. Tutto ciò che dirò contro di lui,
dei suoi maltrattamenti, dei suoi progetti di avvelenamento,
sarà creduto» (Journal, 21 dicembre 1817). Per parte sua, Lowe,
sospettoso e puntiglioso, oppresso dalla responsabilità di un
compito più grande di lui, che si sforzò di assolvere con
l’intransigenza di un meticoloso burocrate, mise in atto
comportamenti francamente odiosi: rifiutò ad esempio di
consegnare a Napoleone un libro donatogli da un autore
inglese perché nella dedica menzionava «l’imperatore
Napoleone»; scrisse a Città del Capo chiedendo un
trattamento severo per i Las Cases e trattenne i dispacci di
Londra che raccomandavano invece un atteggiamento più
indulgente. Quando rientrò in Inghilterra il governatore fu
accolto nella più completa indifferenza. In definitiva la
missione svolta a Sant’Elena non fu favorevole, come egli
forse si era illuso, agli sviluppi ulteriori della sua carriera. Egli
fu duramente criticato dai suoi stessi connazionali;
Wellington lo difese pubblicamente, ma sappiamo che lo
giudicava «a stupid man». In realtà agli esponenti del governo
inglese, e soprattutto al ministro Bathurst, il vero
responsabile delle condizioni stabilite per la prigionia di
Napoleone, fece molto comodo che tutte le critiche si
concentrassero sulla figura del governatore. La condanna
definitiva giunse per Lowe dalla pubblicazione del libro di
Walter Scott, Life of Napoleon Bonaparte (1827), che espresse sul
suo operato un giudizio assai severo. Nonostante tutti i
tentativi degli eredi e di alcuni storici di contrastare, o quanto
meno di ridimensionare le accuse mosse contro di lui, al
nome di Hudson Lowe è rimasta indelebilmente attaccata
l’immagine del carceriere ottuso e crudele. Si avverò così
quanto gli aveva predetto Napoleone: «Fra pochi anni il vostro
lord Castlereagh, il vostro lord Bathurst, tutti gli altri, voi
stesso che mi parlate, sarete sepolti nella polvere dell’oblio; o
se ancora si ricorderanno i vostri nomi, sarà soltanto per le
indegnità esercitate contro di me» (Mem. e Ms., 18 agosto
1816). Per conseguire questo obiettivo Napoleone mise in atto
nei confronti del governatore un’abile strategia che perseguì
con grande determinazione: quando si parlò di una possibile
espulsione di qualcuno del suo seguito, egli dichiarò che
preferiva che ciò accadesse provocando scandalo piuttosto
che senza scalpore, e aggiunse che, se pure fosse rimasto solo,
Hudson Lowe si sarebbe accorto che lui era «un vero
porcospino, sul quale non avrebbe saputo come mettere le
mani» (Mem. e Ms., 15 ottobre 1816). Nel 1817, in un incontro
con Lord William Pitt Amherst (1773-1857), che ritornava da
un’ambasceria straordinaria presso l’imperatore cinese, egli
gli disse che le angherie subite dal governatore avevano
accresciuto l’interesse per la sua condizione: «Voi mi avete
messo, come a Gesù Cristo, una corona di spine: in tal modo,
mi avete riguadagnato molti sostenitori» (Cahiers, 23 luglio
1817). A questo proposito François-Auguste-René de
Chateaubriand (1768-1848), sempre diviso fra l’ostilità alla sua
azione politica e la segreta ammirazione per l’uomo, avrebbe
scritto anni dopo:
Un’altra causa della popolarità di Napoleone è legata all’afflizione dei
suoi ultimi giorni. Dopo la sua morte, man mano che si conobbe meglio
ciò che aveva sofferto a Sant’Elena, si cominciò a intenerirsi; si dimenticò
la sua tirannia [...]; la sua gloria ha approfittato della sua disgrazia
(Mémoires d’outre-tombe, I, pp. 1004-1005).

In una lettera del 21 luglio 1815 il primo ministro Lord


Liverpool, nell’annunziare al suo ministro degli esteri
Castlereagh la decisione del governo di inviare Napoleone a
Sant’Elena, aggiunse che a una tale distanza egli «sarebbe
stato ben presto dimenticato». Si trattava ovviamente di un
clamoroso errore: presentandosi al mondo con l’aureola del
martire, Napoleone vinse l’ultima delle sue battaglie e pose
consapevolmente il primo fondamento della leggenda.
Napoleone al lavoro con Montholon e Gourgaud nel
parlatorio, incisione, senza data, Museo di Longwood House.
Capitolo terzo

La malattia e la morte

Nei primi tempi della sua permanenza a Sant’Elena le


condizioni di salute di Napoleone non presentarono problemi
particolari, nonostante le lamentele sue e di tutto il suo
entourage per le conseguenze negative del clima umido e
instabile di Longwood e per gli ostacoli frapposti all’attività
fisica preferita, l’equitazione. Certo, già da qualche anno si
erano manifestati i segni di un certo declino: era appesantito
e ingrassato, soffriva di disuria, presentava a volte un gonfiore
alle gambe e alle caviglie, ma, a parte malanni occasionali
come qualche raffreddore o il mal di denti (O’Meara gli tolse
due molari), fino al 1817 non ci furono episodi gravi.

Nel valutare le condizioni di Napoleone non si può


prescindere però dagli aspetti morali, legati alla difficile
condizione in cui si trovava. Soprattutto dovette fronteggiare
un nemico insidioso e subdolo, la noia, tanto più grave per un
uomo di azione come lui. Egli lo confessò, con amaro
umorismo, a Las Cases: «Di troppo qui non abbiamo che il
tempo» (Mem. e Ms., 15 gennaio 1816); e in un incontro con
Lowe non seppe trattenersi dal dire: «[...] il mio soggiorno qui
è una morte quotidiana! L’isola è troppo piccola per me, che
ogni giorno facevo dieci, quindici, venti leghe a cavallo» (Mem.
e Ms., 30 aprile 1816).

Come si è visto, egli già a bordo del Northumberland


organizzò la sua giornata in modo da riservare una parte
importante del suo tempo alla dettatura delle sue memorie e
dei resoconti delle campagne militari, per la cui trascrizione
chiamava a turno i suoi generali. Prese anche, non con grande
profitto, lezioni di inglese da Las Cases. Oltre che al lavoro, si
dedicò costantemente alla lettura, fin da giovane sua
particolare passione: la biblioteca gestita da Alì giunse ad
avere più di 3.500 volumi. Nella mattinata, quando il tempo lo
consentiva, si concedeva a volte una passeggiata o una
cavalcata. Nel primo pomeriggio si immergeva, secondo una
consolidata abitudine, in un bagno caldo nel quale si
tratteneva a lungo, leggendo o anche ricevendo qualcuno del
suo entourage, compresa Madame Montholon. Un intermezzo
piacevole era lo spazio riservato alle udienze concesse a
funzionari inglesi, a viaggiatori o ai capitani delle navi di
passaggio; questi incontri, ai quali presenziava sempre il Gran
maresciallo, furono numerosi soprattutto nei primi tempi (72
nel 1816, 41 nel 1817) ma divennero poi sempre meno
frequenti per gli ostacoli frapposti da Lowe, finché vennero
meno del tutto. Nel tardo pomeriggio, a parte qualche
passeggiata in calesse, Napoleone rivedeva e correggeva le
pagine che aveva dettato, ricopiate dal figlio di Las Cases o da
Alì. Quindi attendeva l’ora di cena giocando a reversi, gioco
prediletto dei suoi anni giovanili, o più spesso a scacchi. Dopo
la cena le lunghe serate si animavano fino a tardi solo quando
egli si lasciava prendere dall’onda dei ricordi, altrimenti
leggeva ad alta voce, in modo tutt’altro che efficace, brani
tratti per lo più da classici, ad esempio l’Iliade o l’Odissea,
tragedie di Eschilo e Sofocle, o di Voltaire, oppure le grandi
opere teatrali di Corneille, Racine e Molière. In tal caso il
tempo trascorreva stancamente. Dopo essersi ritirato nella
sua stanza, prima di dormire chiamava spesso Las Cases o
Marchand a leggergli qualcosa. Nel cuore della notte molte
volte si svegliava e chiedeva ancora al suo primo cameriere di
portargli il lume e di continuare la lettura. Di insonnia egli
aveva sempre sofferto, ma un tempo si alzava per lavorare,
ora era il lento scorrere del tempo che piano piano scavava
nel suo animo l’abisso della depressione.

Le testimonianze di cui disponiamo confermano i frequenti


sbalzi di umore che caratterizzarono le sue giornate. Stando
ai Cahiers di Bertrand, ancora il 10 marzo 1821 egli sembrava
confidare in un mutamento della posizione inglese e in un
conseguente esilio in America, ma pochi giorni dopo, avendo
appreso dai giornali arrivati dall’Europa che le elezioni non
erano state favorevoli ai liberali in Francia e in Inghilterra
avevano consolidato la posizione del governo tory, concluse
amaramente: «Nous faisions des châteaux en Espagne»
(facevamo castelli in aria). A volte, affioravano improvvisi
dalla routine della vita quotidiana barlumi dell’antica energia,
e alcuni tratti familiari del suo carattere: la sua abitudine di
fare una tiratina di orecchi a mo’ di amichevole rimprovero, e
certe espressioni spontanee, come ad esempio l’esclamazione
«Gesù! Gesù!», accompagnata da un segno di croce, per
esprimere sorpresa o sconcerto. Erano aspetti di
quell’atteggiamento semplice e bonario, di quella ruvida
schiettezza che colpirono molti degli inglesi che ebbero modo
di conoscerlo e furono alla base della simpatia nutrita per lui
da tutta la ciurma del Northumberland. Ma al fondo del suo
animo restava, incancellabile, la consapevolezza dell’abisso
che lo separava ormai dalla realtà di un tempo.

All’inizio sicuramente fu viva negli esuli la prospettiva,


ancorché vaga e ipotetica, di un cambiamento della loro
situazione. Sappiamo che furono precocemente stabiliti
canali clandestini di comunicazione con l’Europa, soprattutto
grazie a Cipriani, attraverso ufficiali della marina o fornitori
della Compagnia delle Indie. È impossibile per altro dire se il
progetto di un’evasione sia stato concretamente preso in
considerazione. Ossessionato da questo pericolo, Lowe cercò
in ogni modo indizi che confermassero i suoi sospetti,
sottoponendo a uno stretto controllo tutti gli abitanti di
Longwood. Nelle lettere che conosciamo gli esiliati,
preoccupati di sistemare le situazioni familiari, non parlano
che di questioni private o di denaro. Tuttavia in tutto il
periodo della detenzione di Napoleone si susseguirono voci di
reali o presunti complotti per favorire la sua liberazione, voci
che riconducevano a due centri principali: innanzitutto gli
Stati Uniti, dove si erano stabiliti il fratello Giuseppe (1768-
1844) e molti ufficiali napoleonici, e dove gruppi di
bonapartisti tentarono di fondare colonie, come ad esempio
nel 1818 Champ d’asile (Campo di asilo) in Texas o lo Stato di
Marengo, nome che è rimasto ancora oggi a una contea
dell’Alabama (capitale era Aigleville, città dell’aquila); in
secondo luogo l’America Latina che, agitata allora dalla lotta
per l’indipendenza dalla Spagna, sembrava aprire spazi
interessanti di azione politica. Era davvero impensabile un
colpo di mano che, a partire dalle coste del Brasile, magari ad
opera di uno dei tanti corsari rimasti disoccupati dopo la pace
europea, portasse via Napoleone da Sant’Elena? Nonostante
la rigorosa sorveglianza cui erano sottoposti i membri della
famiglia Bonaparte e i veterani delle guerre napoleoniche, le
cancellerie europee ebbero sempre ben presente il pericolo di
un’evasione.

Maggiori speranze suscitava la potenziale instabilità della


società europea, nella quale non mancavano forze ostili
all’assetto stabilito dal Congresso di Vienna e alla politica
della Santa alleanza. Del resto, in Europa l’attenzione per la
sua vicenda restava ben viva. Comparivano scritti che si
dicevano provenienti da Sant’Elena: si trattava spesso di falsi,
come il Manuscrit venu de Sainte-Hélène d’une manière inconnue
(Manoscritto venuto da Sant’Elena in modo sconosciuto),
pubblicato a Londra nel 1817, memoriale apocrifo di
Napoleone, che ebbe un grande successo, scritto in realtà dal
ginevrino Jacob-Frédéric Lullin de Châteauvieux (1772-1841).
Opere come queste contribuivano a tenere desto l’interesse
per Napoleone dell’opinione pubblica, sensibile anche ai
resoconti degli inglesi provenienti dall’isola che, avendolo
incontrato, avevano subito il fascino della sua personalità. Gli
sguardi degli esuli erano puntati soprattutto sull’Inghilterra,
dove non mancavano voci critiche nei confronti della stretta
alleanza stabilita dal ministro degli esteri Castlereagh con una
potenza reazionaria come l’Austria. Sulla stampa di
opposizione comparivano spesso severi giudizi sul
comportamento del governatore. Gli esuli di Sant’Elena del
resto trovarono il modo di far avere in Europa notizie sulla
loro situazione. Il corso Santini, espulso da Lowe con altri tre
domestici, portò con sé, cucita fra la stoffa e la fodera del suo
vestito, la protesta di Napoleone contro le vessazioni che gli
erano inflitte. Questo appello alla nazione inglese pervenne a
Henry Richard Fox, Lord Holland (1773-1840), che nel marzo
1817 in un discorso in Parlamento giudicò ingeneroso
l’atteggiamento assunto dal governo nei confronti del nemico
sconfitto. Non si poteva sperare nell’avvento a Londra di un
ministero whig, che forse avrebbe attenuato, se non
rovesciato, la linea dura adottata dal governo? Erano, certo,
calcoli in larga misura privi di fondamento, e probabilmente
Napoleone era il primo a saperlo. Ad ogni modo a spazzare
via ogni residua illusione giunse, nel febbraio 1819, la notizia
della decisione, presa dalle potenze alleate nel Congresso di
Aquisgrana (ottobre-novembre 1818), di escludere ogni forma
di clemenza nei suoi confronti. Da allora sempre più si fece
spazio nell’animo di Napoleone un cupo, rassegnato
fatalismo, e le sue condizioni di salute, che già avevano dato
diversi segnali negativi, iniziarono a precipitare.

Preoccupato da questi peggioramenti, segnalati da febbre


alta accompagnata da coliche, da un forte senso di debolezza
e soprattutto da un dolore al fianco destro che si irradiava
verso la spalla, O’Meara formulò nell’ottobre 1817 la diagnosi
di epatite. Lowe, che conosceva l’intesa fra il medico e il suo
paziente, sospettò che i suoi allarmanti bollettini non
corrispondessero alla reale situazione. Il conflitto fra i due
portò, come si è detto, alla destituzione di O’Meara il 18 luglio
1818 e al suo rimpatrio, per cui Napoleone rimase di fatto
privo di cure in quanto rifiutò di farsi visitare dai medici
inglesi proposti dal governatore. Questi sulle prime interpretò
questo comportamento come una conferma dei suoi sospetti,
ma una crisi intervenuta nella notte fra il 16 e il 17 gennaio
1819, nella quale ai sintomi consueti si aggiunsero difficoltà
respiratorie e perdita di conoscenza, rese necessaria una
visita del medico inglese John Stokoë (1775-1852), che
confermò la diagnosi di epatite. Mal gliene incolse, perché il
governatore, non convinto, lo cacciò seduta stante; giunto a
Londra, il povero medico fu subito rispedito nell’isola, dove fu
processato e destituito dalla marina. Egli avrebbe trovato poi
rifugio e protezione presso il fratello di Napoleone, Giuseppe,
negli Stati Uniti.

In questo periodo influì sulla condizione del prigioniero


anche un crescente scoraggiamento: dopo Las Cases, perdita
duramente avvertita, quattro domestici erano stati costretti
da Lowe a tornare in Europa, Cipriani era morto e infine il 2
luglio 1819 anche Madame Montholon era partita. La cerchia
dei compagni si era perciò molto ridotta, e anche Bertrand,
pressato dalla moglie, e Montholon attendevano l’occasione
opportuna per lasciare l’isola. Le cene e le serate diventavano
sempre più tristi, e Napoleone tese a isolarsi, chiudendosi per
intere giornate nelle sue stanze e rinunziando a volte anche al
lavoro. Nei mesi di luglio e di agosto 1819 egli decise
addirittura di non uscire più di casa, creando grande
apprensione nel governatore il quale non poteva più ricevere
dall’ufficiale di ordinanza il rapporto quotidiano che lo
assicurava della presenza del prigioniero. Finalmente il 18
settembre 1819 sbarcò nell’isola il medico inviato da Roma,
dalla madre e dallo zio, il cardinale Joseph Fesch (1763-1839),
per garantire a Napoleone le cure necessarie. Si trattava del
corso Francesco Antonmarchi (1780-1838), che si sarebbe
rivelato inadeguato al suo compito, non tanto per la giovane
età quanto perché, specializzato in anatomia, era del tutto
privo di esperienza clinica. Egli comunque, appena arrivato,
consigliò una più equilibrata dieta alimentare e soprattutto
una ripresa dell’esercizio fisico. Napoleone si lasciò
convincere: ricominciò a uscire, fece delle passeggiate e
qualche cavalcata e si impegnò anche personalmente, sempre
su suggerimento di Antonmarchi, nelle cure al giardino di
Noverraz. Risale a questo periodo l’immagine singolare
dell’imperatore in abiti coloniali, con il grande cappello di
paglia, dedito a lavori di giardinaggio! Questo mutato
atteggiamento portò effettivamente un certo beneficio. Si
trattò tuttavia di un breve intermezzo, perché nel corso del
1820 la salute riprese a peggiorare: i frequenti episodi di
vomito portarono Antonmarchi a parlare per la prima volta di
un problema allo stomaco. Il 4 ottobre 1820 Napoleone fece
l’ultima uscita a cavallo di un’intera giornata, ma dovette
rientrare in calesse, pallido in volto e afflitto da una
stanchezza mortale. Comparve allora anche un dolore acuto
nella zona epigastrica, paragonabile, secondo Napoleone, a
quello di un coltello che viene rigirato nella carne. Né
Antonmarchi né i medici inglesi chiamati a consulto furono in
grado di individuare la natura del male e di opporvi qualche
rimedio efficace. Il clima divenne ancora più pesante a causa
dei ripetuti contrasti fra Napoleone e il medico corso,
accusato, non a torto, non solo di scarsa capacità ma anche di
mancanza di coscienza professionale, perché dedicava gran
parte del suo tempo ad avventure amorose o alle sue ricerche
di botanica. Nel gennaio 1821 Montholon, che aveva ormai
rinunziato all’idea di partire, scrisse alla moglie che
Napoleone restava costantemente assopito sul letto o sul
canapé e che il suo stomaco non teneva più niente. Lui stesso
in effetti sentiva che la fine non era lontana, e lo confidò a
Bertrand: «Non passerò l’anno, tutt’al più il prossimo»
(Cahiers, 31 gennaio 1821). Il 7 marzo fece un’ultima
passeggiata in calesse, ma negli ultimi giorni del mese iniziò,
con una forte febbre, la fase terminale. Nel mese di aprile,
costretto ormai a letto, si impegnò nella redazione del
testamento, che portò a termine, con grande fatica, nella
serata del 25 aprile; alla fine disse a Montholon: «Ebbene!
Figlio mio, non sarebbe un peccato non morire dopo aver
messo così bene in ordine i propri affari?» (Mémoires de
Marchand, II, p. 316). Il 29 aprile il letto fu spostato nel salone,
fra le due finestre, in modo che ci fosse più aria. Il 4 maggio
cominciò l’agonia.

Nelle ultime ore, oltre ai medici, Antonmarchi e l’inglese


Archibald Arnott (1771-1855), tutti quelli che componevano la
piccola colonia di Sant’Elena si raccolsero intorno al letto del
morente cercando di comprendere le poche frasi confuse che
egli pronunciava nei brevi momenti di coscienza. A un certo
punto chiese: «Come si chiama mio figlio?», e Marchand
rispose: «Napoleone». Sembra che le ultime parole
comprensibili siano state «alla testa dell’armata». Dopo una
notte agitata, nel pomeriggio di sabato 5 maggio 1821
Napoleone esalò l’ultimo respiro. Il pendolo fu fermato alle 17
e 49 minuti, come si può vedere al Museo di Malmaison dove
oggi si trova.

Il governatore, che era stato costantemente informato degli


sviluppi della situazione dal dottor Arnott, ricevette la notizia
dall’ufficiale di servizio, il capitano William Crockat (1789-
1879). Egli avrebbe voluto constatare di persona la morte, ma
solo il mattino seguente, dopo che i domestici avevano
ripulito e sistemato la salma, fu ammesso in presenza del suo
prigioniero che non aveva più incontrato da cinque anni.
Montholon in seguito gli fece avere l’annuncio ufficiale del
decesso, che lo stesso Napoleone gli aveva dettato:
Signor Governatore, l’Imperatore è morto il 5 maggio 1821, a conclusione
di una lunga e penosa malattia, io ho l’onore di darvene l’annuncio. Egli
mi ha autorizzato a comunicarvi, se lo desiderate, le sue ultime volontà.
Vi prego di farmi conoscere quali sono le disposizioni prese dal vostro
governo per il trasporto del suo corpo in Europa, come pure quelle
relative alle persone del suo seguito.

Naturalmente di una sepoltura in Europa non era il caso di


parlare. Nel suo testamento Napoleone aveva espresso il
desiderio che le sue ceneri potessero riposare «sulle rive della
Senna, in mezzo a quel popolo francese che ho tanto amato»,
ma sapendo che ciò non gli sarebbe stato concesso aveva
detto a Bertrand che, nel caso dovesse essere sepolto a
Sant’Elena, avrebbe voluto che la sua tomba fosse situata in
un luogo in cui vi era una sorgente dalla quale ogni giorno i
suoi camerieri prendevano l’acqua e che egli, da una grande
pianta che era situata nei pressi, aveva chiamato la «valle del
geranio». Nel pomeriggio del 6 Antonmarchi procedette
all’autopsia. Lo stesso Napoleone glielo aveva chiesto prima di
morire: avendo intuito infatti dalla frequenza del vomito che
si trattava di un problema di stomaco, e sapendo che suo
padre era morto proprio di un cancro al piloro, voleva far
conoscere al figlio la causa della propria morte affinché
potesse premunirsi. L’autopsia fu compiuta alla presenza di
Arnott e di sei medici inglesi, i quali stesero un loro rapporto
per il governatore. Dal corpo furono asportati il cuore e lo
stomaco, posti in due recipienti di argento, ricolmi di spirito
di vino e sigillati. Sappiamo anche che Antonmarchi, aiutato
da un medico inglese, prese con il gesso l’impronta per una
maschera mortuaria, e che altri rilievi furono fatti in cera e in
cartapesta. Le vicende di queste maschere costituiscono un
inestricabile enigma: oggi vi sono, sparsi in vari musei e
collezioni private, molti esemplari, alcuni dei quali
certamente falsi.

Il 6 maggio fu preparata, nella stanza che era stata il


gabinetto di lavoro, la camera ardente. Il corpo fu sistemato
sul letto dove era morto, adagiato sul mantello blu portato a
Marengo e vestito con l’uniforme verde dei cacciatori a
cavallo della guardia, con il leggendario cappello, la spada al
fianco e un crocifisso sul petto; Bertrand e Montholon erano
davanti alla salma, mentre ai quattro angoli del letto stavano i
camerieri Alì, Marchand, Noverraz e Pierron. Per due giorni i
militari e i marinai inglesi e gli abitanti dell’isola sfilarono in
silenzio davanti al defunto. Il giorno 9 ebbero luogo i funerali,
che seguirono il cerimoniale previsto per un ufficiale inglese
del più alto grado. Il corteo funebre, con in testa l’abate corso
Angelo Vignali (1789-1836), che era giunto nell’isola insieme
con Antonmarchi per svolgere le funzioni di cappellano, fu
accompagnato dal rullo dei tamburi e dai colpi di cannone
delle navi ancorate nella rada di Jamestown; lungo la strada
erano schierati i soldati del reggimento inglese. Giunto al
luogo indicato per la sepoltura, che fu chiamato da allora «la
valle della tomba», il feretro fu posto in una profonda fossa,
ricoperta con tre pesanti lastre di pietra. Nessuna iscrizione
fu posta né sulla bara, né sulla lastra, in quanto non vi fu
accordo tra i francesi, che volevano scrivere «Napoléon», e
Lowe che invece preferiva «Napoléon Bonaparte». La tomba fu
circondata da una parte della cancellata che il governatore
aveva fatto erigere intorno alla Longwood new house e che
aveva indotto Napoleone a rifiutare di trasferirvisi. Alcuni
anni dopo Chateaubriand non mancò di esprimere il suo
ironico commento: «Sembrava che si avesse timore che non
fosse mai sufficientemente imprigionato» (Mémoires d’outre-
tombe, I, p. 1023).
Louis-Joseph-Narcisse Marchand, Napoleone sul suo letto di
morte, disegno a matita, 1821, Rueil-Malmaison, Musée
National des Châteaux de Malmaison & Bois-Préaux.

Nei giorni seguenti i francesi mostrarono a Lowe solo una


parte del testamento di Napoleone, quella che disponeva del
suo fondo cassa nell’isola (300.000 franchi) e dei mobili, libri e
suppellettili di Longwood. Adempiute le volontà da lui
espresse riguardo a questi beni, i francesi poterono ripartire
per l’Europa il 27 maggio. Il 25 luglio anche Hudson Lowe e la
sua famiglia fecero ritorno in Inghilterra.

Nel frattempo il capitano Crockat già il 7 maggio era partito


da Jamestown con una minuziosa relazione del governatore e
un resoconto dei risultati dell’autopsia, con l’incarico di
consegnarli al ministro Bathurst. Giunto a Portsmouth il 3
luglio, egli arrivò il giorno seguente a Londra dove poté dare la
notizia al ministro, il quale si affrettò a sua volta a
comunicarla al re, al governo e agli ambasciatori stranieri.

Poiché, come si è detto, le proteste degli esuli di Sant’Elena


avevano avuto una notevole diffusione nell’opinione pubblica
europea, alla notizia della morte comparvero
immediatamente diversi opuscoli che riproposero le accuse al
governo inglese e avanzarono il sospetto che la morte fosse
da attribuire al veleno. Queste voci però furono quasi del tutto
soffocate quando si conobbero le conclusioni dell’autopsia
svolta da Antonmarchi, il quale diede in questo frangente il
meglio di sé in quanto proprio in anatomia si era
specializzato in Italia. Nel suo rapporto il medico corso
affermò di avere osservato «un’ulcera cancerosa molto estesa
che occupava specialmente la parte superiore della faccia
interna dello stomaco e si estendeva dall’orifizio del cardias
fino a circa un pollice dal piloro». Sul bordo di questa ulcera,
verso il piloro, vi era inoltre «un buco dal diametro di circa 3
linee [6-7 centimetri]». In conclusione, secondo il processo
verbale firmato da Montholon, Bertrand e Marchand, la morte
era stata provocata «da uno scirro [squirre] canceroso dello
stomaco». Per comprendere queste affermazioni bisogna
ricordare che il termine «scirro» era usato allora in senso
generico per indicare sia una lesione ulcerosa sia un cancro,
in quanto la distinzione fra queste due patologie sarebbe
stata stabilita da un anatomista francese solo alcuni anni
dopo, nel 1830. In conclusione, i medici, in assenza di
un’analisi istologica delle cellule, non disponibile all’epoca,
poterono solo concludere sulla base dell’autopsia di
Antonmarchi che Napoleone era morto per una non meglio
precisata malattia allo stomaco. La vaghezza della diagnosi ha
suscitato interminabili discussioni fra gli specialisti nel
tentativo di precisarne il contenuto alla luce delle conoscenze
della medicina attuale. Si potrebbe ipotizzare una lesione
ulcerosa pregressa, della quale è impossibile precisare la data
di formazione, che avrebbe poi provocato la perforazione
rilevata da Antonmarchi e sarebbe degenerata in cancro. In
ogni caso si può sfatare la leggenda secondo la quale
l’abitudine di Napoleone di tenere una mano infilata nel gilet
fosse dovuta a un dolore cronico allo stomaco.

Come sottolineò nel suo dispaccio al ministro Bathurst il


governatore, l’autopsia era comunque sufficiente per
confermare che la morte era dovuta a cause naturali, per cui
non poteva essere imputata alle condizioni della detenzione.
Quanto a un presunto avvelenamento, Bertrand al suo rientro
garantì di avere attuato nell’isola le stesse precauzioni e gli
stessi controlli in vigore alle Tuileries.

La tesi dell’avvelenamento è stata rilanciata nel 1962 da un


medico svedese, Sten Forshufvud (1903-1985), il quale parlò di
un’intossicazione progressiva da arsenico, e a sostegno di
questa ipotesi addusse l’analisi di un capello appartenuto a
Napoleone, nel quale fu riscontrato un elevato tasso di questa
sostanza. Nonostante gli innumerevoli test effettuati su
presunti capelli di Napoleone, con tecniche sempre più
raffinate, le discussioni fra gli esperti non hanno portato a
conclusioni certe né circa il significato da attribuire agli
elevati tassi di arsenico riscontrati in alcuni di questi capelli,
né sulle cause di tale presenza, né sulla relazione fra questo
dato e la sua morte. Il principale indiziato del presunto
avvelenamento è stato Montholon, il quale avrebbe utilizzato
il veleno per topi che era presente in notevole quantità a
Longwood, infestata come tutta l’isola dai roditori; egli
avrebbe agito o su istigazione del conte d’Artois, fratello di
Luigi XVIII e futuro re Carlo X (1824-1830), con il quale era
stato in contatto nel 1814, o mosso dal rancore per la
relazione di Napoleone con sua moglie. Anche queste accuse
appaiono del tutto infondate, giacché Montholon, se diede
prova con la moglie di una notevole avidità, quando rimase da
solo a Sant’Elena con il primo figlio assisté con grande
dedizione Napoleone, e soprattutto rimase fino alla fine della
sua vita un convinto bonapartista. In conclusione, a parte la
presenza di una quantità anomala di arsenico nei capelli, sul
cui significato per altro non c’è concordia fra gli esperti, la tesi
dell’avvelenamento appare quanto mai fragile e soprattutto
non suffragata da alcuna prova credibile.

Va citata infine la fantasiosa ipotesi di una sostituzione del


cadavere di Napoleone con quello di Cipriani, morto tre anni
prima, da parte degli inglesi, o addirittura ad opera dello
stesso Hudson Lowe, tornato effettivamente per qualche
giorno nell’isola nel 1828. In base a questa tesi, avanzata nel
1969 da un giornalista, Georges Rétif (Anglais, rendez-nous
Napoléon... Napoléon n’est pas aux Invalides, Inglesi, restituiteci
N. ... N. non è agli Invalides), e più volte ripresa negli anni
seguenti, nella tomba di Parigi ci sarebbero i resti di Cipriani,
mentre le spoglie dell’imperatore sarebbero sepolte in un
luogo segreto a Westminster! Sull’onda del clamore mediatico
suscitato da questa tesi, che presupponeva evidentemente
l’esistenza di un grande complotto internazionale, si è levata
in Francia qualche richiesta di una riapertura della tomba
degli Invalides per esaminare i resti con la tecnica del Dna,
ipotesi ad oggi non presa in seria considerazione.

Resta da affrontare il problema, di cui molto si è discusso,


delle convinzioni religiose di Napoleone e dei suoi
comportamenti nell’ora suprema. All’inizio del testamento,
egli dichiarò di morire nella religione cattolica, apostolica e
romana, nella quale era stato educato, affermazione che era
innanzitutto un riconoscimento del ruolo della Chiesa e della
religione tradizionale nella società. In tal senso la spiegò
Bertrand, il quale nel suo diario scrisse che Napoleone moriva
«teista» in quanto credeva in un Dio principio di tutte le cose
(Cahiers, 22 aprile 1821 sera). Sappiamo che il 1o maggio
l’abate Vignali gli impartì l’estrema unzione. Bertrand in un
incontro con lui e con Montholon affermò che a suo parere
non bisognava dire che Napoleone aveva ricevuto la
comunione, «ciò che non è vero e non è forse opportuno dire»
(Cahiers, 1o maggio 1821); questa indicazione era in linea con i
comportamenti sempre adottati dall’imperatore, il quale in
occasione dell’incoronazione del 1804 si era fatto dispensare
da Pio VII dalla comunione pubblica. Ad ogni modo Bertrand
in un altro colloquio con l’abate corso gli precisò i limiti entro
i quali doveva espletare la sua opera di conforto religioso al
morente:

Bertrand ha parlato al Signor Vignali per impegnarlo a venire a vedere


l’Imperatore quando questi vorrà, ma a non trattenersi costantemente
presso di lui, a fare in modo di farsi vedere dagli inglesi in modo che i
malevoli, i libellisti e i nemici dell’Imperatore non possano dire – ciò che
egli sapeva essere già stato detto nell’isola – che l’Imperatore, quest’uomo
così forte, moriva come un cappuccino e voleva sempre avere un prete
con sé – il che egli ha capito molto bene (Cahiers, 3 maggio 1821).

A partire da un libro pubblicato nel 1840 da Robert-Augustin


Antoine de Beauterne (1803-1846), Conversations réligieuses de
Napoléon (Conversazioni religiose di N.), molti si sono
impegnati a dimostrare che Napoleone era credente e morì
adempiendo i doveri di buon cattolico. In realtà, come
cercheremo di mostrare, la documentazione esistente non
consente di squarciare il velo che avvolge i suoi ultimi istanti
di vita, né ci sembra opportuno tentare al riguardo forzature
dettate da posizioni confessionali, come quella che ha ispirato
la traduzione parziale in lingua italiana del libro di Beauterne
con prefazione del cardinale Giacomo Biffi nel 2013
(Napoleone Bonaparte, Conversazioni sul cristianesimo). Altra
questione è invece il tentativo di ricostruire le sue convinzioni
religiose, sulle quali le testimonianze dell’esilio a Sant’Elena
offrono molti interessanti motivi di analisi e di riflessione.

Napoleone considerò innanzitutto la religione in una


prospettiva politica, come una leva fondamentale
nell’esercizio del potere e come un «sostegno alla morale, ai
buoni principi, ai buoni costumi» indispensabile per
consolidare la riunione degli uomini in società. Per questo
motivo, appena diventato primo console, si era preoccupato
di chiudere con il concordato del 1801 la frattura religiosa
provocata dalla rivoluzione: egli intendeva infatti servirsi del
cattolicesimo «come base e come radice» del regime che si
accingeva a costruire in Francia (Mem. e Ms., 7-8 giugno 1816),
e tenne sempre lo stesso spregiudicato comportamento nei
confronti delle confessioni religiose presenti nei territori
conquistati. Gli stessi testi pubblicati da Beauterne mostrano
che anche il rifiuto delle dottrine luterane e calviniste si
fondava su considerazioni di ordine politico: «Il cattolicesimo
è la religione del potere e della società, come il
protestantesimo è la dottrina della rivolta e dell’egoismo». A
suo parere la religione cattolica aveva la capacità di «mettere
ordine dappertutto», costituiva «nel contempo un legame
sociale e un legame religioso», che rafforzava il potere
predicando «a tutti l’unione e l’amore» e convincendo
«meravigliosamente ciascuno a compiere il proprio dovere».
Al contrario il protestantesimo, affermando il diritto di ogni
credente di interpretare il Vangelo secondo le ispirazioni della
propria coscienza, consacra la sovranità mostruosa
dell’individuo e perciò getta nella società il seme delle
divisioni (Conversations sur le christianisme, pp. 78-84, passim).

Che le convinzioni religiose di Napoleone fossero legate al


razionalismo della sua formazione illuministica appare
evidente alla luce delle indicazioni che emergono dalle
memorie sugli anni dell’esilio. In alcune conversazioni riferite
da Gourgaud, egli, in polemica con la difesa della religione
tradizionale da parte del suo interlocutore, dichiarò di non
credere alla divinità di Cristo e sostenne apertamente che
«tutto è materia» (Journal, 28 agosto e 17 dicembre 1817).
Analoga indicazione si ricava da un’annotazione del diario di
Bertrand quattro giorni prima della morte: «Egli pone la
grande questione: sembra dire che non c’è nulla dopo»
(Cahiers, 1o maggio 1821). Più volte del resto Napoleone
dichiarò di non essere un credente: «Sono ben felice di non
avere religione. È una grande consolazione: non ho per nulla
timori chimerici, non temo niente» (Cahiers, 27 marzo 1821).
Tuttavia queste dichiarazioni non sono risolutive perché la
riflessione su questi temi a Sant’Elena appare in realtà molto
più articolata e complessa, intrisa di dubbi e oscillazioni che
erano certamente un’espressione sincera del suo travaglio
umano.

Napoleone riteneva che nella condizione dell’uomo «l’idea


di un Dio è la più semplice» per spiegare l’origine del mondo,
ma riconosceva al contempo gli ostacoli che l’analisi razionale
oppone alla fede in una realtà soprannaturale:

L’uomo lanciato nella vita si chiede: da dove vengo? Chi sono? Dove
vado? Sono questi tanti misteri che ci precipitano verso la religione. Noi
corriamo incontro ad essa, la nostra naturale tendenza vi ci porta; ma
arriva l’istruzione che ci arresta: l’istruzione e la storia, ecco i grandi
nemici della religione [...] (Mem. e Ms., 17 agosto 1816).

In particolare il carattere storico di tutte le religioni era ai


suoi occhi una prova decisiva della loro origine umana:
«crederei in una religione se esistesse dall’inizio del mondo»
(Journal, 28 gennaio 1818). Questo motivo fu sviluppato con
maggiore chiarezza in una dichiarazione riportata da Las
Cases:
Ogni cosa proclamava l’esistenza di Dio, ma le nostre religioni erano
evidentemente figlie degli uomini. Perché ce ne erano tante? Perché la
nostra non era esistita sempre? Perché escludeva le altre? Che cosa ne era
degli uomini giusti che ci avevano preceduto? Perché queste religioni si
smentivano reciprocamente, si combattevano, si sterminavano? Perché
ciò è successo in tutti i tempi e in tutti i luoghi? (Mem. e Ms., 7-8 giugno
1816).

Sulla base di queste convinzioni egli poteva ricostruire il


percorso della sua formazione dagli anni dell’adolescenza,
quando la fede cattolica era stata da lui seguita perché parte
integrante della tradizione familiare, alle posizioni raggiunte
nella maturità:
Questo è stato, [...] letteralmente, il cammino del mio spirito. Io ho avuto
bisogno di credere, ho creduto, ma la mia fede si è trovata inceppata,
incerta, da quando ho avuto coscienza delle cose, da quando ho
cominciato a ragionare [...]. Forse crederò di nuovo ciecamente, Dio lo
voglia! Ma non vi oppongo alcuna resistenza, non chiedo di meglio; e
concepisco che ciò debba essere una grande e vera felicità (Mem. e Ms., 17
agosto 1816).

Come si vede, queste conversazioni sul problema religioso


dimostrano una grande attenzione e anche un
coinvolgimento personale, che nascevano sicuramente dalla
dolorosa condizione in cui si trovava. Intanto vi era al fondo
del suo animo un’autentica sensibilità per alcuni aspetti del
culto tradizionale, un mondo che era inestricabilmente legato
alla sua educazione, ai suoi primi anni, e per questo
incancellabile. Secondo quanto riferisce Las Cases nel
Memoriale, egli si rammaricava per il fatto che la domenica,
non essendoci nell’isola fino all’arrivo di Vignali alcun prete
cattolico, non fosse possibile andare in chiesa: «Avremmo la
messa [...] se fossimo in un paese cristiano, se avessimo un
prete, e questo ci farebbe passare un momento della giornata.
Ho sempre amato il suono delle campane di campagna»
(Mem. e Ms., 11 agosto 1816). Quest’ultima frase, aggiunta da
Las Cases nell’edizione a stampa, rivela bene come vi fosse
qui non tanto l’espressione di un bisogno spirituale quanto la
nostalgia per la sua Corsica: la Chiesa, il prete, i riti
domenicali che riunivano tutta la comunità, il suono delle
campane che scandiva le ore della giornata facevano
rinascere in lui il ricordo di quel mondo lontano della sua
infanzia, che tante volte gli ritornò alla mente nelle ore più
tristi dell’esilio.

Ma egli riconosceva anche che l’afflato religioso era una


componente ineliminabile dell’animo, perché «l’inquietudine
dell’uomo è tale, che gli è necessario quel senso del vago e del
meraviglioso che esso gli presenta» (Mem. e Ms., 7-8 giugno
1816). Si innestavano su questo punto i dubbi, che facevano
vacillare la razionale sospensione del giudizio riguardo a un
problema superiore alle capacità di comprensione della
ragione umana. E nel momento in cui si affacciava l’idea della
morte, ormai non lontana, egli si apriva a riflessioni che
incrinavano le certezze che gli derivavano dall’analisi
razionale della realtà e dalla considerazione della storia.

Quando qualcuno dei suoi compagni di esilio gli prospettò


la possibilità che egli diventasse praticante, Napoleone
rispose «con convinzione che temeva di no e che lo diceva con
rammarico; che era sempre un mezzo di consolazione, e che
la sua incredulità non proveniva né da una bizzarria o da un
libertinaggio del pensiero, ma soltanto dalla forza della
ragione». Ma a questo punto si poneva, ineluttabile e
irrisolvibile, il mistero della vita e della morte:
Tuttavia, aggiungeva, l’uomo non deve giurare per nulla su tutto ciò che
concerne i suoi ultimi istanti. In questo momento, senza dubbio, credo
che morirò senza confessore; ma ecco, e indicava uno di noi, chi forse mi
confesserà. Sono ben lontano dall’essere ateo, ma non posso credere a
dispetto della mia ragione, senza essere falso o ipocrita. [...] Dire da dove
vengo, ciò che sono, dove vado è al di sopra delle mie idee, tuttavia tutto
ciò esiste. Sono l’orologio che esiste e non ha coscienza di sé, che dice «io
vado senza dubbio, ma chi mi ha fatto?». Tuttavia il sentimento religioso
è talmente consolante, che possederlo è una grazia del Cielo. Quale
risorsa sarebbe qui per noi! Quale potere avrebbero su di me gli uomini e
le circostanze, se offrendo a Dio le mie disgrazie e le mie pene, attendessi
la felicità futura come ricompensa! (Mem. e Ms., 7-8 giugno 1816).

Sappiamo dal diario di Marchand che nel pomeriggio del 3


maggio egli fece chiamare Vignali e rimase per qualche tempo
solo con lui. Il suo cameriere ipotizzò che volesse compiere un
atto religioso al quale non voleva testimoni. Si trattò forse di
una confessione? «L’uomo non deve giurare per nulla su tutto
ciò che concerne i suoi ultimi istanti»: in questa frase è
contenuta la chiave per comprendere il dramma dell’uomo
davanti all’approssimarsi della morte. Allo storico non rimane
perciò che il dovere di fornire tutti gli elementi che emergono
dalla documentazione disponibile e di fermarsi di fronte al
segreto inviolabile della coscienza individuale.
Capitolo quarto

Il testamento

Tutti i protagonisti delle vicende di Sant’Elena erano


consapevoli di avere puntati su di loro, sia pure per motivi e
con sentimenti diversi, gli occhi del mondo, e sapevano anche
che ogni loro comportamento, ogni gesto, ogni parola sarebbe
stato consegnato alla storia. Fu lo stesso Napoleone, in uno
dei burrascosi colloqui con Lowe, a fargli osservare «che egli
non valutava bene la propria situazione», non comprendeva
cioè «che tutto quello che egli faceva [...] era già storia; che
perfino la conversazione di quel momento era storia» (Mem. e
Ms., 16 luglio 1816). A questa convinzione egli si ispirò anche
nel redigere le linee fondamentali del suo testamento.
Tuttavia questo documento rappresenta anche una preziosa
testimonianza umana, in quanto egli, deciso a pagare tutti i
suoi debiti, anche quelli dell’infanzia, fu indotto in quei giorni
a ripercorrere, quasi in una sorta di esame di coscienza, i
principali momenti della sua esistenza.

Napoleone iniziò a dettare il suo testamento a Montholon il


13 aprile 1821 e concluse la sua redazione, con l’aggiunta di
vari codicilli, il 25 aprile, ma ancora nei giorni seguenti lo
riprese per integrarlo e correggerne qualche aspetto e per
dettare le istruzioni agli esecutori. Egli diede ordine di
bruciare un primo testamento redatto nel 1813, molto più
favorevole a Bertrand, il quale lo aveva in custodia. La scelta
di Montholon, diventato ormai il suo confidente privilegiato,
era la logica conseguenza del mutamento intervenuto da
tempo nelle gerarchie interne di Longwood a danno di
Bertrand. Questa parziale disgrazia, della quale Bertrand si
lamentò invano con lui («Credevo di avere qualche diritto alla
vostra stima e alla vostra amicizia. Non posso perderle senza
provare una viva pena», Cahiers, 16 aprile 1821), era dovuta al
malumore di Napoleone nei confronti della moglie, alla quale
egli rimproverava di avere voluto per la sua famiglia una
residenza separata, di avere sempre premuto sul marito per
partire e infine di essere stata poco presente a Longwood.

Con un enorme sforzo fisico, fra ricorrenti conati di vomito,


Napoleone ricopiò di persona ciò che aveva dettato perché, in
base alle disposizioni del codice civile, era necessario che il
documento fosse olografo. Alla fine gli mancarono le forze e la
penna gli cadde di mano, lasciando sull’ultimo foglio una
grossa macchia d’inchiostro.

Il documento consta di una quarantina di fogli, conservati


alle Archives nationales, e fu diffuso in diverse edizioni a
stampa a partire dal 1822. Esso si divide in tre parti: la prima
contiene indicazioni di ordine politico, le altre due invece, che
comprendono in tutto 8 codicilli, dei quali l’ultimo come si è
detto incompiuto, dettano le disposizioni relative alla
destinazione del suo patrimonio. In particolare la seconda
parte riguarda i lasciti individuali, che interessano in tutto 76
beneficiari, mentre nella terza sono contenuti i lasciti
collettivi, ai militari della Grande armata e a quelle zone della
Francia che avevano particolarmente sofferto per le invasioni
straniere.

Napoleone nominò suoi esecutori testamentari Montholon,


Bertrand e Marchand. Temendo che gli inglesi potessero
appropriarsi dei suoi beni, diede istruzione di mostrare al
governatore solo i due primi codicilli, nei quali dichiarava la
sua volontà di essere sepolto a Parigi sulle rive della Senna e
stabiliva i criteri per ripartire il suo fondo cassa personale di
Sant’Elena, circa 300.000 franchi, e inoltre tutti i beni (cioè
abiti, biancheria, libri, mobili, suppellettili ecc.) e i ricordi
personali portati nell’isola. Egli volle invece che il testamento
fosse tenuto nascosto agli inglesi e aperto in Europa; di fatto
esso fu disigillato e letto solo il 25 luglio, a bordo della nave
che riportava i francesi in Inghilterra.

All’inizio del documento Napoleone volle ribadire la sua


fedeltà alla Chiesa di Roma: «Muoio nella religione cattolica,
apostolica e romana, nel seno della quale sono nato più di
cinquanta anni fa». Si è già chiarito che questa affermazione
va interpretata in chiave politica, come riconoscimento del
ruolo della Chiesa nella società. Per il resto tutta la parte
iniziale, che è anche la principale, rappresenta la logica
conclusione della strategia adottata da Napoleone negli anni
della sua permanenza a Sant’Elena. Due sono i punti
essenziali di questo disegno. Innanzitutto, come si è visto,
l’atto di accusa nei confronti del governo inglese, che
avendogli negato l’ospitalità richiesta e avendolo
abbandonato nelle mani di un crudele carceriere, era stato il
principale responsabile della sua morte: «Muoio
prematuramente assassinato dall’oligarchia inglese e dal suo
sicario».

L’altra preoccupazione fondamentale era la rivendicazione


della legittimità del suo titolo di imperatore, che gli inglesi gli
avevano ostinatamente negato: questo aspetto era essenziale
per garantire l’avvenire della quarta dinastia di Francia che
egli aveva fondato. In questa prospettiva si comprendono le
parole dedicate alla seconda moglie. Secondo Las Cases
Napoleone gli avrebbe detto a Sant’Elena che per il secondo
matrimonio avrebbe dovuto scegliere una francese; infatti
sposando una straniera «ci si può trovare a posare il piede su
un abisso ricoperto di fiori», e in ogni caso «l’alleanza di
sangue fra sovrani non resiste contro gli interessi della
politica» e alla fine non offre vantaggi concreti (Mem., 13
novembre 1816). In un’altra occasione avrebbe anche
dichiarato: «quel matrimonio mi ha rovinato» (Mem. e Ms., 28
aprile 1816). Nel testamento però, nonostante Maria Luisa lo
avesse abbandonato politicamente nel 1814, si espresse nei
suoi confronti in termini molto positivi:

Io sono sempre stato soddisfatto della mia carissima sposa Maria Luisa;
conservo per lei fino all’ultimo istante i più teneri sentimenti. La prego di
vegliare per proteggere mio figlio dalle insidie che ancora circondano la
sua infanzia.
Evidentemente Napoleone voleva ribadire qui il legame
dinastico con gli Asburgo, e quindi il rango di imperatrice che
Maria Luisa deteneva, nonostante fosse ormai duchessa di
Parma. Colei che era ancora legalmente sua moglie era
impegnata perciò a preservare l’eredità del figlio, che era
diventato ormai un duca austriaco ma era pur sempre, nella
linea dinastica, l’erede diretto del padre con il nome di
Napoleone II. A questo riguardo Napoleone dava grande
rilievo all’eredità morale e politica che intendeva lasciare al
figlio:

Raccomando a mio figlio di non dimenticare mai che è nato principe


francese, e di non prestarsi ad essere uno strumento nelle mani dei
triumviri che opprimono i popoli dell’Europa. Non deve mai combattere
la Francia né nuocerle in alcun modo. Deve adottare la mia divisa: Tutto
per il popolo francese.

Naturalmente egli non lasciò al figlio nulla del suo


patrimonio, perché sapeva che il tutore era il nonno materno,
l’imperatore Francesco I, e non voleva quindi che le sue
ricchezze finissero nelle mani dei suoi nemici. Dispose però
che fossero consegnati al figlio tutti gli oggetti personali e gli
emblemi dei suoi trionfi militari e del suo potere politico. Fra
questi oggetti, elencati dettagliatamente in un lungo
inventario, ricordiamo le armi, fra le quali la spada di
Austerlitz, il cannocchiale usato in battaglia, le decorazioni,
gli speroni e le selle usati a Sant’Elena, una sveglia
appartenuta a Federico II di Prussia e presa a Potsdam nel
1806, il pendolo utilizzato a Longwood, la biancheria, gli abiti,
l’argenteria e i servizi di porcellana di Sèvres, 400 libri scelti
nella sua biblioteca fra quelli da lui più usati. Egli dispose che
i tre esecutori testamentari, Alì e Noverraz conservassero
ciascuno una parte di questa preziosa eredità per consegnarla
al figlio al compimento dei 16 anni. Come vedremo, nulla di
tutto ciò sarebbe pervenuto al giovane, prigioniero di fatto alla
corte di Vienna. In questa prima parte sono indicati
esplicitamente coloro che nel 1814 e nel 1815 lo avevano
tradito rendendosi così responsabili delle invasioni subite
dalla Francia: i generali Auguste-Frédéric-Louis Viesse de
Marmont (1774-1852) e Pierre-François-Charles Augereau
(1757-1816), il suo ex ministro degli esteri Charles-Maurice,
principe di Talleyrand-Périgord (1754-1838) e Marie-Joseph-
Paul-Yves-Roch-Gilbert du Motier, marchese de La Fayette
(1757-1834), ai quali per altro Napoleone accordava il suo
perdono augurandosi che i francesi facessero altrettanto. Egli
dichiarò di perdonare anche il fratello Luigi, che nel 1810 da re
di Olanda si era scontrato con lui fino ad abbandonare il trono
mettendosi sotto la protezione austriaca. Sul piano politico
infine aggiunse, anche per evitare che di quell’episodio
fossero incolpati altri suoi collaboratori, di essere il solo
responsabile dell’esecuzione nel 1804 di Louis-Antoine-Henri
di Borbone-Condé, duca di Enghien (1774-1804), accusato di
avere cospirato contro la Francia, decisione giustificata dalle
circostanze, che egli avrebbe adottato nuovamente in
condizioni simili.

Ai membri della sua famiglia riservò un generico


ringraziamento per l’interesse che avevano conservato per lui,
e lasciò solo degli oggetti come suo ricordo: innanzitutto alla
sua «buona ed eccellentissima madre» Letizia Ramolino, che
ebbe il busto e i quadri della sua stanza di Longwood, quindi
al cardinale Joseph Fesch suo zio, ai suoi fratelli e sorelle, ai
figli della prima moglie Joséphine, Ortensia (1783-1837) e
Eugenio di Beauharnais. È impossibile non considerare questa
scelta come un segno di una certa disaffezione nei confronti
del clan, i cui comportamenti non avevano corrisposto alle
sue attese. Del resto lui stesso, stando all’edizione a stampa
del Memoriale, avrebbe confessato a Las Cases:

È certo [...] che io sono stato poco assecondato dai miei e che essi hanno
fatto del male a me e alla grande causa. Si è sovente vantata la forza del
mio carattere; io non sono stato che un pulcino bagnato, soprattutto
verso i miei, ed essi lo sapevano bene: passata la prima burrasca, la loro
perseveranza, la loro ostinazione vincevano sempre; e, stanco della lotta,
hanno fatto di me ciò che hanno voluto (Mem., 24 settembre 1816).

Dopo avere provveduto alla sua eredità morale e politica,


Napoleone nelle altre due sezioni del testamento si preoccupò
di ricompensare i compagni di Sant’Elena e tutti coloro,
individui o collettività, con i quali riteneva di avere un debito
di riconoscenza. Nell’insieme il testamento disponeva di una
somma enorme, 211 milioni di franchi, ma in realtà
Napoleone non possedeva tutto questo denaro, e in larga
misura ne era consapevole. Per questo motivo buona parte
delle disposizioni testamentarie erano destinate, come
vedremo, a restare sulla carta.

Nello stabilire i lasciti Napoleone fece riferimento


innanzitutto alla parte più sicura del suo patrimonio, il
deposito parigino costituito presso il banchiere Jacques
Laffitte (1767-1844) nel 1815. Ritornato a Parigi dopo Waterloo,
egli si era preoccupato di mettere insieme, prima
dell’abdicazione del 22 giugno, un fondo finanziario
sufficiente per poter affrontare il difficile periodo al quale
andava incontro. Egli non poteva più disporre dei diamanti
della corona, del valore di 14 milioni di franchi, che Luigi XVIII
aveva portato con sé quando era fuggito in Belgio il 19 marzo
1815. Fra questi diamanti c’era il famoso Regent, così chiamato
perché tagliato nel 1717 quando la Francia era sotto la
reggenza di Filippo d’Orléans (1674-1723). Esso, che da solo
valeva più di 6 milioni, nel 1814 era stato portato da Maria
Luisa a Vienna ma era stato immediatamente restituito al re
di Francia. Quanto poi alla lista civile, vale a dire i mezzi
finanziari che il bilancio dello stato gli assegnava
annualmente per coprire le spese legate al suo ruolo di
sovrano, si trattava in gran parte non di denaro contante, ma
di crediti, che non era facile riscuotere, e soprattutto non in
tempi brevi. Costretto perciò a raccogliere in tutta fretta una
somma in oro e in argento, Napoleone riuscì, prima di lasciare
la capitale per recarsi verso la costa atlantica, a depositare
presso il banchiere Laffitte di Parigi circa 4 milioni, e inoltre
tenne per sé 300.000 franchi che avrebbero costituito il suo
fondo cassa a Sant’Elena. Egli calcolava che il deposito
parigino ammontasse a più di 4 milioni di franchi, ai quali
aggiungeva circa 2 milioni di interessi, ma, come vedremo,
esso sarebbe risultato in realtà molto inferiore.

A parte questa somma, egli contava su 2 milioni di franchi


portati con sé da Maria Luisa nel 1814, su 2 milioni e 800 mila
franchi detenuti da Eugenio di Beauharnais, e soprattutto su
ciò che restava della lista civile, che egli riteneva pari a 200
milioni mentre in realtà era di poco superiore ai 100 milioni di
franchi, e che soprattutto non era più disponibile in quanto
Luigi XVIII il 5 agosto 1818 aveva versato questi cespiti nei
fondi del tesoro pubblico.

Egli pensò innanzitutto ai suoi compagni di esilio, fra i quali


privilegiò ampiamente Montholon, al quale assegnò in tutto 2
milioni e 250 mila franchi, come ricompensa delle cure filiali
che gli aveva prodigato per sei anni; lasciò inoltre a Bertrand
950.000 franchi, a Marchand 500.000, 100.000 ad Alì, a
Noverraz, a Pierron e all’abate Vignali, somme minori agli altri
domestici. A Las Cases toccarono in tutto 300.000 franchi.
Napoleone consegnò a Marchand anche il collier di diamanti
ricevuto nel 1815 da Ortensia di Beauharnais,
raccomandandogli di tenerlo nascosto addosso per evitare
che lo prendessero gli inglesi. Secondo la sua consueta
tendenza a disporre matrimoni, il più delle volte infelici, egli
scrisse che era suo desiderio che Marchand sposasse una
vedova, sorella o figlia di un ufficiale o soldato della vecchia
Guardia, suggerimento che il suo fedele cameriere
effettivamente seguì prendendo in moglie la figlia del
generale Michel-Silvestre Brayer (1769-1840). Allo stesso
Marchand diede incarico di tagliare e conservare i suoi capelli,
con i quali avrebbe fatto poi dei braccialetti con una catena in
oro da donare a Maria Luisa (che lo rifiutò), al figlio (che non
lo ricevette mai), alla madre e agli altri familiari.
Quindi Napoleone pensò a quanti gli erano rimasti sempre
fedeli e alle famiglie di coloro che per questo avevano perduto
la vita. In questo elenco di lasciti figurano ad esempio, fra gli
altri, i generali che avevano combattuto eroicamente a
Waterloo, Antoine Drouot (1774-1847) e quel Pierre
Cambronne (1770-1842) che alla richiesta degli inglesi di
arrendersi avrebbe risposto con l’esclamazione che lo avrebbe
reso famoso («merde!»), trasformata poi dalla leggenda nella
frase più eroica: «La Guardia muore ma non si arrende!».
Centomila franchi furono riservati ai figli del generale Jean-
Baptiste Girard, morto in battaglia nel 1815 nella campagna
del Belgio, ai figli dei generali vittime del Terrore bianco nella
seconda Restaurazione, Charles de la Bédoyère e Régis
Barthélemy Mouton-Duvernet, fucilati, e Jean-Pierre Travot,
condannato nel 1815 alla pena capitale, poi commutata nel
carcere, dove impazzì e rimase fino alla morte nel 1836. La
stessa somma fu destinata ai figli del valoroso generale Jean-
Baptiste Muiron, che sul ponte di Arcole, nella campagna
d’Italia del 1796, gli aveva fatto scudo con il proprio corpo. Si
ricordò anche del barone Jean-Pierre du Teil (1722-1794),
comandante della scuola militare di Auxonne del quale era
stato allievo. Un posto importante nei suoi ricordi ebbe la
prima azione militare nella quale egli, giovane ufficiale di
artiglieria, si era distinto acquisendo una notorietà a livello
nazionale: la conquista, nel dicembre 1793, della città di
Tolone, che aveva aderito alla rivolta federalista, promossa dai
girondini contro la Convenzione controllata dalla Montagna,
aprendo il porto alla flotta inglese. Nel testamento Napoleone
lasciò 100.000 franchi rispettivamente ai figli o ai nipoti del
rappresentante della Convenzione Thomas-Augustin de
Gasparin (1754-1793) e del generale Jacques-François Coquille
detto Dugommier (1738-1794), che avevano appoggiato, contro
il parere del Comitato di salute pubblica, il piano di attacco da
lui predisposto, risultato poi decisivo per l’esito della
battaglia. Ma la memoria di Napoleone risalì indietro nel
tempo fino ai suoi primi anni. Così si ricordò della sua nutrice
in Corsica, che aveva già beneficato e che credeva morta, ma
che voleva comunque fosse soccorsa in caso ne avesse
bisogno. Centomila franchi furono riservati a un corso al
quale era affezionato fin dall’infanzia, Poggi di Talavo, con il
quale si era intrattenuto a lungo a conversare all’isola d’Elba,
dove fungeva da capo della polizia.

Non mancò nel testamento qualche pensiero per gli inglesi,


ad alcuni dei quali (i Balcombe, il medico Arnott) aveva già
dato dei regali. Lasciò a Elizabeth Vassal, lady Holland (1771-
1845), che gli era sempre stata amica e gli aveva inviato a
Sant’Elena provviste e libri, un prezioso cammeo ovale
donatogli dal papa Pio VI nel 1797, incastonato in una
tabacchiera che si trova oggi al British Museum. Frederick
Howard, conte di Carlisle (1748-1825), compose per questa
occasione alcuni versi nei quali invitava lady Holland a
rifiutare quel dono, impugnato dalla stessa mano che aveva
deciso il destino del giovane duca di Enghien, ma si attirò
l’ironica risposta del poeta George Gordon Byron (1788-1824),
che suggeriva invece di accettare un regalo così prezioso:
Signora, accettate la scatola che un eroe ha posseduto
a dispetto di questa elegiaca sciocchezza:
non permettete che pochi versi scritti da un seccatore,
impediscano a Vostra signoria di aspirare del tabacco da fiuto!

Oltre che degli amici inglesi, Napoleone si ricordò nel suo


testamento anche del suo più accanito nemico d’oltre Manica,
lasciando 100.000 franchi al sottufficiale francese Marie-
André-Nicolas Cantillon, che l’11 febbraio 1818 a Parigi aveva
esploso un colpo di pistola contro la carrozza del duca di
Wellington e che era stato poi assolto nel susseguente
processo.

Il settimo codicillo, riguardante «casi di coscienza», era


destinato a rimanere segreto e infatti non fu pubblicato, e fu
distrutto dopo che erano state adempiute le sue prescrizioni.
In esso Napoleone si occupava dei due figli naturali, Charles
Léon Denuelle (1807-1881), avuto da una relazione con una
dama di corte della sorella Carolina, Éléonore Denuelle de La
Plaigne (1787-1868) e Alexandre Walewski (1810-1868), nato
dall’amore con la bella polacca Maria Walewska (1786-1817).
Egli si augurava che il primo, chiamato il conte Léon
(riduzione di Napoléon), entrasse nella magistratura e che il
secondo facesse parte dell’armata francese, ma solo per
quest’ultimo, che sarebbe diventato sotto Napoleone III
senatore, diplomatico e ministro degli esteri, i suoi voti si
realizzarono. Proprio per effetto di questo lascito
testamentario il conte Léon, che ignorava le sue origini, venne
a sapere che sua madre era viva e che suo padre era
Napoleone. Egli da allora si vantò in ogni occasione di questa
ascendenza, e condusse una vita disordinata e inquieta.
Infine il testamento prevedeva che la lista civile, stimata
come si è detto in circa 200 milioni di franchi, andasse per
metà agli ufficiali e soldati dell’armata francese che avevano
combattuto dal 1792 al 1815 per la gloria e l’indipendenza
della nazione, per metà alle città e campagne di alcune zone
della Francia che avevano subito l’occupazione delle truppe
nemiche. Napoleone stesso però si rendeva conto che
l’effettiva disponibilità di questo preteso patrimonio privato
costituiva una questione delicata e avrebbe suscitato molte
discussioni. Per questo motivo egli imputò in gran parte le
somme destinate ai suoi compagni di esilio e ai suoi più fedeli
collaboratori al fondo detenuto da Laffitte, l’unico affidabile,
mentre per le altre disposizioni testamentarie faceva
riferimento a somme delle quali di fatto non era in grado di
disporre.

In questa situazione il compito dei tre incaricati


dell’esecuzione del testamento fu particolarmente complesso
e difficile. Intanto il banchiere Laffitte contestò la somma
calcolata da Napoleone e si riconobbe depositario solo di circa
3 milioni, sui quali inoltre non riteneva di dovere interessi in
quanto si trattava di un semplice deposito. D’altra parte la
registrazione del testamento, effettuata in Inghilterra il 10
dicembre 1821, non era possibile in Francia dove nel 1815
erano stati tolti a tutti i membri della famiglia Bonaparte i
diritti civili. Si apriva a questo punto la strada di un’azione
legale che si presentava particolarmente complessa, in
quanto la legislazione garantiva la metà dei beni ai
discendenti diretti, per cui sull’eredità potevano accampare
diritti sia i familiari di Bonaparte, sia l’imperatore d’Austria in
quanto tutore del figlio di Napoleone. La controversia legale si
protrasse per cinque anni e si concluse nel 1826 con un
compromesso, in base al quale Laffitte accettò di versare ai
legatari 3.856.121 franchi.

Questa soluzione fu favorita dall’intervento del governo


borbonico, il quale, desideroso di chiudere una disputa legale
che rischiava di riaccendere i riflettori della pubblica opinione
sulla figura di Napoleone, dichiarò di non opporre alcun
ostacolo all’esecuzione del testamento. Il governo di Parigi
fece anche pressione su Vienna perché rinunziasse a far
valere i suoi diritti, ma solo la morte del figlio di Napoleone
nel 1832 indusse il cancelliere austriaco Klemens Wenzel
Lothar principe di Metternich (1773-1859) a desistere. Non si
rassegnarono invece Madame mère e, dopo la sua morte, i figli
sopravvissuti, i quali adirono le vie legali per ottenere, senza
per altro riuscirvi, l’annullamento della convenzione del 1826.

In definitiva l’ultimo atto della vita di Napoleone, come ha


scritto Pierre Branda (p. 96), fu davvero poco glorioso;
concepito soprattutto in chiave politica, il testamento ebbe
una sorte non diversa da quella cui spesso vanno incontro le
ultime volontà dei privati cittadini, segnate dal contrasto fra
la soddisfazione di alcuni e i malumori di coloro che
ritengono di avere ottenuto meno di quanto avessero
meritato, da feroci conflitti di interesse e da interminabili
controversie legali.
A parte il deposito detenuto da Laffitte, nessuno degli altri
cespiti indicati da Napoleone poté essere utilizzato. Maria
Luisa dichiarò infatti di avere speso i 2 milioni portati con sé
dopo la prima abdicazione di Napoleone nel 1814, e
comunque rifiutò seccamente di renderne conto. Eugenio per
parte sua ricordò, non a torto, che egli aveva dovuto sostenere
finanziariamente la piccola colonia di Sant’Elena e disse che
nulla gli restava della lista civile in qualità di viceré del Regno
d’Italia. Per questo furono onorati solo i lasciti agli eredi
«privilegiati», vale a dire ai compagni di Sant’Elena e ai
protagonisti delle sue campagne militari, per somme
comunque inferiori a quelle indicate nel testamento. Nulla
rimase invece per i lasciti anonimi e per i casi di coscienza del
settimo codicillo.

Quanto ai milioni della lista civile di Francia, che erano in


realtà poco più di 100 milioni e non circa il doppio come
calcolava Napoleone, essi non erano più disponibili in quanto
erano stati, come si è detto, rifusi nel Tesoro del regno per
decisione di Luigi XVIII: era impensabile infatti che questi si
facesse carico dell’enorme somma che il testamento
assegnava ai soldati dell’armata imperiale e ad alcune città
della Francia. Fu questo in un certo senso l’ultimo capolavoro
politico di Napoleone: da un lato egli dava ai suoi veterani e al
popolo francese un’ulteriore prova della sua generosità,
legandoli ancor più al proprio ricordo, dall’altro scaricava sul
Tesoro francese, e quindi sulla monarchia borbonica, la
responsabilità di non adempiere le sue ultime volontà, in
modo da rinfocolare l’ostilità di una parte della nazione verso
il regime della Restaurazione.

Perché venissero attuate almeno in parte le altre


assegnazioni del testamento non coperte finanziariamente fu
necessario attendere la salita al potere del nipote Napoleone
III, il quale nel 1854 nominò una commissione appositamente
destinata a eseguire le ultime volontà dello zio. Naturalmente
non era disponibile l’enorme somma di 200 milioni. Ne furono
stanziati 8. Di questi, 4 milioni furono divisi fra i legatari
individuali; anche questa volta la somma più consistente fu
attribuita agli eredi di Montholon, morto nel frattempo,
mentre 300.000 franchi andarono al conte Léon. Gli altri 4
milioni, destinati a onorare i lasciti collettivi, erano troppo
pochi per soddisfare tutti (i sopravvissuti della Grande armata
erano nel 1855 circa 100.000) per cui si dovette provvedere a
una scelta fra gli aventi diritto onde evitare che a ciascuno di
essi giungesse una somma irrisoria. Quindi solo una piccola
parte dei militari ai quali Napoleone aveva voluto dare prova
collettivamente della sua riconoscenza ricevette una somma
di denaro. La maggioranza dovette accontentarsi di una
medaglia di Sant’Elena, sulla quale era incisa la frase: «Ai suoi
compagni di gloria. Il suo ultimo pensiero!».
Capitolo quinto

L’eco nel mondo

Per valutare l’impatto che la morte di Napoleone ebbe


sull’opinione pubblica del tempo occorre innanzitutto tenere
conto dei condizionamenti ai quali era soggetta all’epoca la
trasmissione delle notizie a causa del sistema dei trasporti e
delle comunicazioni. Come si è detto, il capitano Crockat
consegnò al ministro delle colonie Bathurst la relazione di
Lowe la mattina del 4 luglio. La notizia fu diffusa già nel tardo
pomeriggio da due giornali della sera, e il giorno seguente
tutti i fogli pubblicati a Londra la ripresero basandosi sulle
informazioni fornite da Hudson Lowe. Il governo inglese
informò immediatamente le ambasciate straniere. La lettera
che l’incaricato d’affari di Francia, il conte Georges de
Caraman, scrisse subito al ministro degli esteri, Étienne-Denis
Pasquier (1767-1862), già prefetto di polizia nell’Impero
napoleonico, fu affidata a un addetto all’ambasciata il quale,
giunto sul continente, prima di proseguire per Parigi utilizzò il
telegrafo ottico per trasmettere la notizia, che giunse così
nella capitale nel tardo pomeriggio del 5 luglio. Lo strumento
utilizzato, chiamato anche telegrafo Chappe dal nome del suo
inventore Claude (1763-1805), era formato da un’asta verticale
alla cui cima erano posti tre regoli di legno mossi attraverso
corde che scorrevano su delle pulegge; i regoli assumevano
così diverse posizioni corrispondenti ad altrettanti segnali. La
trasmissione dei messaggi era garantita da una rete di
postazioni, situate in luoghi elevati, dove le vedette si
servivano di cannocchiali per avvistare i segnali.
Naturalmente perché il sistema potesse funzionare era
necessario che le condizioni meteorologiche consentissero
una buona visibilità. La linea Parigi-Lille, impiantata nel 1794,
era stata prolungata nel 1810 fino a Calais proprio ad opera di
Napoleone, il quale aveva voluto anche un collegamento fra la
capitale e Lione, e quindi fra questa città e Torino, Milano e
Venezia, raggiunta nel 1810. Grazie a questo strumento il
«Moniteur universel» poté dare la notizia il 6 luglio: «I giornali
inglesi annunciano la morte di Buonaparte». Il 7 tutti i
giornali parigini la ripresero, dando nei giorni successivi
numerosi dettagli sugli ultimi momenti dell’imperatore, sui
risultati dell’autopsia e sui funerali.

In Italia il primo giornale a dare la notizia fu la «Gazzetta


piemontese» nel n. 84 di sabato 14 luglio:

Parigi 7 luglio – Un dispaccio telegrafico giunto ieri, reca la notizia della


morte di Napoleone Bonaparte accaduta il 5 maggio (nato il 15 agosto
1769). Eccone i particolari dati dai giornali inglesi del 4 del corrente, e
giunti pure per via straordinaria: «Bonaparte non vive più. Egli è morto il
5 maggio alle sei della sera dopo una malattia, che lo teneva in letto da
quaranta giorni. Egli aveva ordinato che dopo morte si facesse la sezione
del suo cadavere perch’egli dubitava che la cagione della sua malattia
fosse la stessa che già aveva messo a morte suo padre: la malattia
sospettata era un cancro al seno; di fatto nella sezione del cadavere si
riconobbe che i sospetti di lui erano fondati, e che egli era stato condotto
al suo termine da un cancro. Bonaparte fu sempre presente a se stesso
sino all’ultima ora della sua vita, e morì senza affanno». Fin qui il
«Courrier» inglese. – Un’altra relazione scritta da S. Elena il 7 maggio reca
le seguenti particolarità: «[...] I chirurghi riconobbero dopo la sua morte,
che un cancro avea fatto gran guasto nella regione dello stomaco. Il suo
cadavere è esposto sopra un letto di parata. [...] Dicesi ch’egli lasci un
testamento, il quale sarà spedito con tutte le sue scritture in Inghilterra.
Negli ultimi istanti della sua vita egli è stato assistito da un ministro della
religione, ch’egli avea fatto chiamare».

Come si vede, l’articolo riprendeva integralmente dalla


stampa francese le informazioni date dai giornali di Londra.
Questi ultimi in effetti erano i soli a disporre di notizie di
prima mano, non solo quelle filtrate dai documenti ufficiali,
ma anche quelle provenienti dalle navi che arrivavano da
Sant’Elena portando ogni volta nuovi particolari e
indiscrezioni. La morte di Napoleone fu annunciata il 16 luglio
dalla «Gazzetta di Milano» (n. 197), il 19 luglio dalla «Gazzetta
di Firenze» (n. 88) e il 27 luglio a Napoli dal «Giornale del
Regno delle Due Sicilie» (n. 108). A Milano si registrarono
numerose vincite al lotto per l’uscita di numeri legati
all’evento, e nel popolino molti dissero che Napoleone anche
da morto si rivelava amico della povera gente (Comandini, p.
1144).

A Roma lo zio di Napoleone, il cardinale Fesch, comunicò la


notizia alla madre, che era la sua sorellastra, diversi giorni
dopo averla appresa dai giornali il 16 luglio. I due, caduti sotto
l’influenza di una visionaria tedesca, sicuramente non ignota
alle autorità austriache che esercitavano un’occhiuta
sorveglianza su tutti i Bonaparte, erano stati a lungo convinti
che Napoleone fosse riuscito miracolosamente a sottrarsi alla
sua prigionia, portato via dagli angeli inviati dalla Madonna!
Le informazioni sul peggioramento delle condizioni di salute
del figlio, riferite da lettere e da persone provenienti da
Sant’Elena, e i rimproveri della figlia Paolina (1780-1825),
anche lei stabilita a Roma, riportarono Madame mère alla
realtà e la indussero a scrivere al governo inglese per chiedere
un trasferimento del figlio in Europa. Ciò accadeva poco prima
che giungesse a Roma la notizia della morte. Quando il
fratellastro le comunicò la scomparsa del figlio, Letizia, donna
molto religiosa e dal carattere duro, si chiuse nel suo dolore.
Profondamente colpita fu anche Paolina, che era fra i fratelli e
le sorelle sicuramente la prediletta di Napoleone, e colei che
gli fu più di tutti legata, tanto che progettava in quel periodo
di raggiungerlo a Sant’Elena. Sarebbe morta quattro anni
dopo. A Roma raggiunsero la madre i figli Luigi, l’ex re di
Olanda, da Firenze, Luciano, che viveva a Viterbo, e Gerolamo
(1784-1860), che si era stabilito in territorio austriaco con la
moglie Caterina di Württemberg, ma essi si trattennero solo
per il tempo necessario a partecipare alle messe in ricordo del
defunto. Rimase invece nel castello di Frohsdorf, in territorio
austriaco, dove viveva protetta dal suo ex amante Metternich,
l’altra sorella Carolina (1782-1839), la vedova di Gioacchino
Murat (1767-1815), che aveva preso il nome di contessa di
Lipona, anagramma di Napoli, di cui era stata regina. La figlia
della prima moglie di Napoleone, Joséphine de Beauharnais,
Ortensia, separata dal marito, il fratello di Napoleone Luigi, fu
sinceramente addolorata dalla notizia, che ricevette mentre si
trovava alle terme di Baden in Svizzera; il fratello Eugenio, che
viveva agiatamente con il titolo di duca di Leuchtenberg sotto
la protezione del re Massimiliano di Baviera, del quale aveva
sposato la figlia, si limitò a prendere il lutto e a far celebrare
delle messe in ricordo del defunto, senza mostrare di essere
particolarmente colpito dall’evento. Il quadro d’insieme
conferma la disgregazione della famiglia, divisa da dissidi e
malumori che segnavano ancora i loro reciproci rapporti.

Naturalmente all’epoca grande importanza avevano per la


circolazione delle notizie le lettere private e i viaggiatori, due
vie che spesso consentivano di conoscere le novità prima che
la stampa le divulgasse. Sappiamo ad esempio che la morte di
Napoleone fu conosciuta negli Stati Uniti già negli ultimi
giorni di luglio quando arrivò a New York da Le Havre una
nave con a bordo un passeggero che l’aveva appresa a Parigi
un giorno prima della partenza: la «Maryland Gazette and
Political Intelligencer» di Annapolis ne diede l’annuncio il 26
luglio come una notizia non confermata. A Boston invece
l’evento fu riferito il 6 agosto da un passeggero di una nave
proveniente dalle isole del Capo Verde. Il primogenito dei
Bonaparte, Giuseppe, che viveva nei pressi di Filadelfia con il
nome di conte di Sevilliers, seppe della morte del fratello il 10
agosto.

Le reazioni dell’opinione pubblica alla notizia furono


condizionate dalla situazione politica dell’Europa, dove
diversi moti insurrezionali avevano messo in allarme le
potenze garanti dell’ordine stabilito a Vienna. La Spagna, che
doveva fronteggiare la rivolta delle sue colonie nell’America
Latina, era ancora retta dal regime costituzionale imposto
dalla sollevazione militare del gennaio 1820 al reazionario
sovrano Ferdinando VII (1813-1833). Nel contempo la Grecia
era in fiamme perché anelava a costituirsi in stato
indipendente dall’Impero ottomano, e Metternich era
inquieto per il sostegno che agli insorti avrebbe potuto dare
l’Impero russo, tradizionale protettore di quelle popolazioni
cristiane: proprio nel luglio lo zar Alessandro I (1801-1825)
inviò un ultimatum a Istanbul. In Italia da poco il governo di
Vienna era intervenuto a reprimere i moti costituzionali a
Napoli, occupata il 23 marzo, e a Torino, dove le forze degli
insorti erano state scacciate il 10 aprile.

D’altra parte solo in Inghilterra la stampa godeva di


un’effettiva libertà. Nelle monarchie assolute della Santa
alleanza, Prussia, Austria e Russia, essa era controllata
rigorosamente dalle autorità governative e, quanto all’Italia,
basterà ricordare che, secondo Ugo Foscolo, la penisola non
era stata «mai tanto schiava e non mai come ora condannata
sistematicamente al silenzio» («European Review», 1824).

In Inghilterra la morte di Napoleone suscitò nella pubblica


opinione una notevole ripresa di interesse, accompagnata da
giudizi più equilibrati e talora addirittura benevoli nei suoi
confronti. Facendo onore al suo nome, «The Gentleman’s
Magazine» scrisse: «Napoleone Buonaparte, un tempo il
terrore e il flagello dell’Europa, non c’è più. Egli fu il nemico
inveterato di questo paese, è vero, ma ha pagato [...]. Ma ora è
morto; e l’odio che suscitò quand’era vivo deve essere sepolto
nella tomba che contiene i suoi resti». George Cruikshank
(1792-1878), che doveva i primi successi della sua carriera di
illustratore alle feroci caricature di Napoleone, insultato e
vilipeso in ogni modo nei suoi disegni, pubblicò un Monumento
a Bonaparte per esprimere la propria riconoscenza nei suoi
confronti giacché, mentre abbatteva le corone di mezza
Europa, aveva fatto anche affluire nelle sue tasche numerose
corone (monete). Il 7 luglio comparvero sui muri di Londra dei
manifesti che invitavano «tutti coloro che ammirano il talento
e il coraggio nelle avversità a prendere il lutto per la morte
prematura di Napoleone Buonaparte».

La stampa governativa diede ovviamente molto risalto ai


risultati dell’autopsia, che scagionavano l’Inghilterra
dall’accusa di avere favorito la morte di Napoleone con le
dure condizioni della sua detenzione. Ma questa tesi fu
avversata da diversi opuscoli, e al riguardo già il 9 luglio
O’Meara fece sentire la sua voce sul «Morning Chronicle»,
giornale di opposizione, affermando che, pur non essendo in
grado di stabilire le cause della morte, egli riteneva che
comunque il clima dell’isola, le vessazioni e le mortificazioni
alle quali era stato sottoposto Napoleone avevano contribuito
ad aggravare le sue condizioni di salute, anche in
considerazione degli effetti negativi che l’ansia ha sulla
funzionalità dell’apparato digerente.

Le polemiche sulle cause della morte come pure le aspre


critiche rivolte a Lowe si intrecciarono in quei giorni di luglio
con i dibattiti sull’imminente incoronazione di Giorgio IV,
succeduto al padre nel gennaio dell’anno precedente, una
questione che ben presto catalizzò l’interesse della pubblica
opinione; su tutti questi temi si sviluppò un serrato confronto
politico fra i gruppi di orientamento liberale e il ministero
conservatore di Lord Liverpool. Dissoluto e indolente, il
monarca, che fin dal 1811 aveva assunto la reggenza per il
padre malato, aveva condotto una vita disordinata,
contraendo ingenti debiti dei quali più volte aveva dovuto
farsi carico il Parlamento, e si era separato da tempo dalla
moglie Carolina di Brunswick, che a sua volta per altro teneva
una condotta libera e spregiudicata. Egli intendeva ottenere il
divorzio in modo da togliere alla moglie lo status di regina,
ma si scontrò con un’opinione pubblica largamente favorevole
a Carolina. Alla fine quest’ultima, dopo un aspro conflitto,
ottenne dal Parlamento una generosa pensione, ma non poté
assistere all’incoronazione, che ebbe luogo il 19 luglio.
Carolina morì poco dopo, il 7 agosto, e i suoi funerali diedero
occasione a Londra a violenti disordini che provocarono
alcuni morti. Si osservò da molti che in pochi giorni Giorgio si
era liberato dei suoi due principali nemici. Al riguardo Adèle
d’Osmond, contessa di Boigne (1781-1866), riferì nelle sue
Memorie un gustoso aneddoto, per altro non verificato. Stando
al suo racconto, quando Castlereagh comunicò al sovrano che
era morto il suo principale nemico, egli si sarebbe lasciato
andare ad aperte manifestazioni di gioia pensando che il
ministro si riferisse a sua moglie, e solo con molto imbarazzo
Castlereagh sarebbe riuscito a convincerlo che la notizia
riguardava Napoleone, e non Carolina! (Mémoires, III, p. 61).
A Vienna l’evento fu conosciuto il 13 luglio, e annunciato il
16 dalla «Wiener Zeitung». Metternich lo accolse con
freddezza, come dimostra una lettera al principe Pál Antal
Esterházy, ambasciatore a Londra: «Questo avvenimento pone
fine a molte speranze e trame colpevoli. Non presenta per il
mondo alcun altro interesse» (Aubry, p. 174). Egli chiese al
ministero inglese di trattenere tutti i documenti provenienti
da Sant’Elena e stabilì un rigoroso controllo sulla stampa
perché fossero pubblicate solo le notizie approvate dal
governo. Temeva in particolare le conseguenze della
divulgazione del testamento, tema assai delicato in quanto
poteva rendere di nuovo attuale quel legame dinastico che la
corte asburgica voleva far dimenticare.

In Francia all’annuncio della morte non mancarono reazioni


sentite e sincere: i coniugi Holland, che si trovavano a Parigi,
sospesero per diversi giorni le visite in segno di lutto. Lo
storico Edgar Quinet (1803-1875), allora diciottenne, a
distanza di anni conservava ancora ben vivo il ricordo di quei
momenti. Ricostruendo nell’opera autobiografica Histoire de
mes idées (Storia delle mie idee, prima edizione: 1858) le
vicende di tutta la sua generazione, Quinet ricordò come fra il
1815 e il 1821, essendo Napoleone «assente dal mondo», egli
lo avesse quasi dimenticato e avesse maturato i primi germi
delle sue convinzioni liberali, quando all’improvviso, avendo
appreso la sua scomparsa, sentì riemergere dal profondo della
sua coscienza un groviglio di sentimenti contrastanti, che
avrebbero segnato la sua formazione negli anni seguenti:
Quando nel 1821 esplose ai quattro venti la formidabile notizia della
morte di Napoleone, egli irruppe di nuovo nel mio animo, lo assediò; si
levò per così dire in piedi nella mia anima come in quelle di tutti gli
uomini di quel tempo [...]. Ma era troppo tardi per riempirla e riprendere
in essa il suo posto sovrano. Quel posto era preso da altri fantasmi che il
suo. Mi aveva lasciato due o tre anni di tregua; ne avevo approfittato:
quegli anni mi erano stati sufficienti per sfuggire all’autocrazia del suo
genio. Ritornò a infestare la mia intelligenza, non più come un
imperatore o il mio padrone assoluto, ma come uno spettro che la morte
ha quasi interamente cambiato [...] (Quinet, p. 134).

Vedremo in seguito come si sarebbe sviluppato nell’animo


di Quinet questo conflitto interiore fra il persistente legame
con Napoleone e il liberalismo divenuto ormai il fondamento
delle sue convinzioni politiche. Molte testimonianze tuttavia
sembrerebbero indicare che la notizia, stando almeno alle
prime impressioni, abbia suscitato un’emozione molto
minore di quella che ci si sarebbe aspettati. Al riguardo è stata
più volte citata dagli storici una frase attribuita a Talleyrand.
Egli avrebbe saputo della morte di Napoleone mentre era a
cena in casa di Eleonora Franchi, un’avventuriera italiana
vedova di Quentin Crawford, ricco letterato scozzese, e
all’istintiva reazione della padrona di casa («Mio Dio! quale
avvenimento!») avrebbe replicato gelidamente: «Non è un
avvenimento, è una notizia». In realtà il principe zoppo
probabilmente non pronunciò mai queste parole per la buona
ragione che, come è stato dimostrato (Lentz, pp. 101-103), egli
in quel tardo pomeriggio del 5 luglio si trovava nel suo
palazzo. Tuttavia l’atteggiamento distaccato di gran parte
della pubblica opinione è confermato da altri documenti,
come ad esempio questa lettera scritta il 12 luglio da John
Nicholas Fazakerley, un deputato inglese che si trovava a
Parigi: «La notizia della morte del re del Madagascar non
sarebbe stata accolta con maggiore indifferenza» (Lentz, p.
103).

Per spiegare questa situazione, che potrebbe apparire


sorprendente, è necessario considerare che era da tempo in
atto una violenta offensiva della destra ultrarealista, guidata
dal conte d’Artois, fratello di Luigi XVIII e futuro re Carlo X. A
scatenare questa reazione era stato il 13 febbraio 1820
l’assassinio del duca di Berry (1778-1820), ad opera di un
sellaio di fede bonapartista, Louis-Pierre Louvel, che era stato
anche all’isola d’Elba nel personale al servizio di Napoleone.
Egli aveva inteso con il suo gesto spezzare la linea di
successione dinastica dei Borbone: il duca in effetti era il
secondo figlio del conte di Artois e né lui né il fratello
maggiore, il duca di Angoulême (1775-1844), avevano figli
maschi; Louvel però non sapeva che la duchessa di Berry era
incinta, e infatti ella diede alla luce qualche mese dopo un
maschio, che sarebbe stato nella linea ereditaria Enrico V
(1820-1883) ma che non avrebbe mai regnato in quanto i
Borbone furono detronizzati dalla rivoluzione del 1830. Gli
ultrareazionari, che sognavano un ripristino della monarchia
assoluta e non avevano mai accettato la carta costituzionale
concessa da Luigi XVIII nel 1814, imposero l’approvazione di
una nuova legge elettorale, detta del doppio voto perché,
all’interno del già ristrettissimo corpo elettorale (appena
90.000 elettori su una popolazione di 28 milioni) consentiva di
votare due volte, sia nel circondario sia nel dipartimento, agli
elettori dotati di maggiore censo. Il 30 marzo 1820 furono
sospese le leggi liberali sulla stampa approvate nel 1819, e
furono quindi ristabiliti la censura e l’obbligo di
autorizzazione preventiva per le pubblicazioni periodiche.
Non stupisce in questa situazione la prudenza degli ambienti
di ispirazione liberale o animati da simpatie bonapartiste.
Proprio nei giorni in cui giunse a Parigi la notizia della morte
di Napoleone si discuteva alla Camera dei deputati la proroga
della censura sulla stampa, che fu approvata. Nel corso del
dibattito un deputato della destra parlò di Napoleone come di
un «usurpatore», suscitando le proteste dai banchi della
sinistra: «È morto; non ne parlate più»; l’oratore replicò: «Lo
so bene, ma c’è chi può gridare impunemente: l’imperatore è
morto. Viva l’imperatore!». Tuttavia l’incidente non ebbe
seguito. D’altra parte Luigi XVIII volle assumere
pubblicamente un atteggiamento di moderazione: quando il
comandante della guardia reale, il generale Jean Rapp (1771-
1821), già aiutante di campo di Napoleone e conte dell’Impero,
si mostrò profondamente addolorato dalla notizia giunta da
Sant’Elena, il re, prendendo le distanze dai malevoli
commenti degli ultras, dichiarò che quel dolore gli faceva
onore ed era ai suoi occhi un ulteriore motivo di stima nei
suoi confronti. Volendo dare un segnale per fermare le
intemperanze della destra, il governo fece in modo che
l’episodio avesse molto risalto nella stampa. In definitiva, al
di là delle invettive dei giornali oltranzisti, in particolare di
quelli di ispirazione cattolica, e delle circospette rievocazioni
pubblicate dalla stampa di opposizione, il dibattito
giornalistico si esaurì in breve tempo senza strascichi
significativi. Se però qualcuno, negli ambienti di corte, pensò
che la scomparsa di Napoleone avesse definitivamente
privato la monarchia borbonica dell’ingombrante presenza
del suo fantasma, favorendo l’adesione al regime restaurato
dei bonapartisti più moderati, dovette rapidamente ricredersi.

Il clima era profondamente cambiato rispetto al 1814


quando l’Europa intera si era ribellata al conquistatore e la
stessa Francia, chiamata a pagare il costo della sconfitta,
aveva voltato le spalle a Napoleone, rappresentato come
l’orco che ogni anno divorava con la coscrizione i suoi figli.
Allora si era diffusa una vera «leggenda nera» di Napoleone e
si erano unite contro di lui le voci dei legittimisti e dei liberali,
rappresentate rispettivamente da Chateaubriand e da
Benjamin Constant (1767-1830). Il primo nell’opuscolo Di
Bonaparte e dei Borboni aveva denunciato i crimini del nuovo
Attila, il secondo, che avrebbe accettato per altro durante i
Cento giorni di collaborare con Napoleone alla redazione di
un nuovo testo costituzionale, aveva condannato il suo
disegno di sottomettere l’intera Europa con la forza delle armi
(Dello spirito della conquista e dell’usurpazione nei suoi rapporti con
la civiltà europea). Ma il ritorno sul trono dei Borbone, la
parentesi dei Cento giorni e poi la seconda Restaurazione di
Luigi XVIII nel 1815 avevano determinato un radicale
mutamento dello spirito pubblico. Lo avrebbe notato,
rievocando anni dopo quegli eventi, lo stesso Chateaubriand,
che nel frattempo aveva superato le apocalittiche condanne di
Napoleone pronunciate nel 1814:
Passare da Bonaparte e dall’Impero a ciò che li ha seguiti significa cadere
dalla realtà nel nulla, dalla cima di una montagna nel baratro. Non è
forse tutto finito con Napoleone? [...] Come nominare Luigi XVIII al posto
dell’imperatore? Arrossisco pensando che mi tocca parlottare a questo
punto di una folla di creature infime delle quali anch’io facevo parte,
personaggi smarriti e notturni quali noi fummo di una scena dalla quale
il grande sole era sparito. [...] l’anima mancò all’universo nuovo sin da
quando Bonaparte ritirò il suo soffio vitale; gli oggetti sparirono alla vista
dopo che non furono più rischiarati dalla luce che aveva dato loro il
rilievo e i colori (Mémoires d’outre-tombe, II, pp. 3-4).

La carestia e la disoccupazione degli anni 1816-1817, pur


non imputabili alla monarchia borbonica, indussero la
popolazione a dimenticare le tasse e la coscrizione imposte
dall’amministrazione napoleonica e a rimpiangere un periodo
in cui i lavoratori nelle campagne e nelle città avevano goduto
di una condizione complessivamente migliore. Ma il
malessere popolare andava al di là delle circostanze
occasionali: il ricordo delle vittorie della Francia imperiale si
esaltava al confronto di una dinastia riportata sul trono dallo
straniero al prezzo di una pesante occupazione militare. La
fiammata di patriottismo manifestatasi nel 1815 di fronte
all’invasione nemica si identificava con quel tricolore che i
Borbone avevano rifiutato per imporre il loro vessillo bianco.
Si aggiungano l’agitazione degli ultras, che mettevano in
discussione la carta costituzionale e tutte le conquiste della
rivoluzione, l’epurazione dei pubblici funzionari dell’età
napoleonica, la smobilitazione dell’esercito e l’ostilità nei
confronti di coloro che avevano combattuto nelle armate
imperiali, le persecuzioni degli avversari politici: come non
rilevare che il terrore bianco aveva fatto in pochi mesi più
vittime di Napoleone nel suo lungo periodo di permanenza al
potere?

La letteratura – in particolare Honoré de Balzac (1799-1850)


nei suoi romanzi – ha spesso indicato come simbolo del
malcontento popolare la condizione dei «demi-solde», ufficiali
dell’esercito imperiale posti in non attività dalla
Restaurazione con un salario ridotto della metà, ma il loro
ruolo non deve essere sopravvalutato, perché molto spesso il
malumore di questi uomini si esaurì in alterchi e risse da
osteria. L’opposizione al regime, più che dagli alti gradi, che
spesso riuscirono a mantenere un ruolo nella
riorganizzazione dell’esercito promossa da Luigi XVIII, venne
dai soldati e dai sottufficiali. L’armata napoleonica era nella
sua base per lo più di estrazione contadina, e furono
soprattutto i soldati che, tornati dopo avere girato l’Europa da
conquistatori, diffusero con i loro racconti il mito di
Napoleone. Al riguardo l’esempio più famoso è il racconto del
personaggio del veterano della Guardia, Goguelat, nel Médecin
de campagne (Medico di campagna, 1833) di Balzac, ma già nel
1821 un opuscolo descriveva efficacemente le radici popolari
del mito napoleonico:
Gli stranieri che attraverseranno la Francia [...] troveranno il suo ricordo
vivo in tutte le memorie [...]. I padri racconteranno ai loro figli le
meraviglie della Francia sotto un tale generale, questi lo ripeteranno ai
loro nipoti, e questo ricordo, trasmesso di età in età, sarà come un
monumento domestico elevato alla memoria di Napoleone in tutti i secoli
(Une larme à la mémoire de Napoléon, Una lacrima in memoria di N., firmato
Philenor [Alfred de Terrebasse 1801-1871]).
Proprio in quegli anni si diffusero rapidamente le goguette,
luoghi di ritrovo e di divertimento per le classi lavoratrici dove
si beveva insieme e si cantavano canzoni che esprimevano un
contenuto di protesta politica o sociale. Per prudenza i testi di
queste melodie popolari non facevano riferimento esplicito a
Napoleone, ma ne esaltavano la memoria indirettamente
celebrando l’epopea delle sue armate, come questo celebre
motivo del 1817 che contrapponeva alla gloria passata la
miseria presente degli antichi soldati dell’imperatore:
Ti ricordi, diceva un capitano,
al veterano che mendicava il suo pane,
ti ricordi che un tempo nella pianura
tu sviasti una sciabola dal mio petto?
Sotto le bandiere di una madre cara,
tutti e due un tempo abbiamo combattuto,
io mi ricordo, perché ti devo la vita,
ma tu, soldato, dimmi, te ne ricordi?

La notizia venuta da Sant’Elena suscitò in questi ambienti


popolari, fortemente legati al ricordo dell’età imperiale, una
profonda emozione, molto maggiore comunque che nelle
classi colte o nei ceti dirigenti, nei quali persistevano riserve e
giudizi negativi nei confronti di Napoleone. Non mancò chi
prese pubblicamente il lutto, esibendo, nonostante fosse
vietato dalle autorità come atteggiamento eversivo, le violette
nere, simbolo tipicamente napoleonico.

Intanto molti, come si rileva dai rapporti della polizia, si


rifiutarono, soprattutto nelle campagne, di credere alla
notizia, convinti che si trattasse di un’invenzione diffusa ad
arte dai Borbone, reazione istintiva che avrebbe rievocato nel
1828 il celebre chansonnier Pierre-Jean Béranger (1770-1856):

Lui che un papa ha incoronato


è morto in un’isola deserta!
Per molto tempo nessuno l’ha creduto;
si diceva: riapparirà,
è accorso per mare.
(Les souvenirs du peuple, I ricordi del popolo)

Altro fenomeno significativo fu la comparsa, in diverse


regioni della Francia, di falsi Napoleone, segnalati da voci che
circolavano di villaggio in villaggio prima che i responsabili
fossero arrestati.

Il vero profluvio di opuscoli, pamphlets, libelli, dialoghi,


orazioni funebri, apparsi nei mesi immediatamente successivi
all’arrivo della notizia, dimostra in modo evidente quanto
fossero vivi il ricordo e il rimpianto dell’età imperiale. Si è
calcolato che, nonostante la sorveglianza della polizia, fra
luglio e novembre del 1821 siano stati stampati almeno 130
opuscoli in prosa, per una tiratura di più di 130.000 esemplari
(Fureix, p. 410). Questi scritti non furono opera di intellettuali,
i quali, come vedremo, mantennero in genere, anche quelli
che poi sarebbero diventati interpreti della leggenda
napoleonica, un atteggiamento freddo, se non addirittura
ostile; sovente anonimi, talora apocrifi, essi furono opera di
letterati di secondo piano, di studenti, di veterani, e diedero
voce ai sentimenti immediati, e talora ingenui, di antichi
soldati, di vedove, di funzionari, di piccoli impiegati, di
popolani. Come scrisse Lazare Augé (1798-1874) nel suo
opuscolo Quelques pensées apologétiques sur Bonaparte (Alcuni
pensieri apologetici su B., 1821), «si diventa autori per scrivere
di Bonaparte. Persone che non avevano mai pensato di
prendere una penna la afferrano come per istinto e
compongono per ispirazione». Non bisogna dimenticare
inoltre le numerose poesie e canzoni popolari composte per
l’occasione. Queste pubblicazioni, diffuse da venditori
ambulanti, erano lette nelle strade, o più spesso
clandestinamente. Molto importante, rispetto all’ampia fascia
di popolazione non alfabetizzata, era la circolazione di
incisioni, stampe, litografie, ritratti, che richiamavano talora
in modo abilmente dissimulato la morte dell’imperatore, e
anche di oggetti di uso comune (tabacchiere, pipe, bastoni,
fazzoletti, flaconi di profumo, medaglioni ecc.) con
l’immagine di Napoleone o con i simboli dell’Impero.

Diversi opuscoli apparsi nel 1821 accostarono la morte di


Napoleone a quella della moglie del sovrano inglese Giorgio
IV, ghiotta occasione per esprimere l’odio per la potenza
responsabile del martirio di Sant’Elena. Comparvero allora un
anonimo dialogo fra i due defunti sulle rive del fiume
infernale Stige, e un opuscolo De la reine d’Angleterre et de
Napoléon Bonaparte, tous deux morts d’un cancer (Della regina
d’Inghilterra e di N.B., entrambi morti per un cancro), opera di
un giovane di Grenoble, Alexandre Barginet (1797-1843),
giornalista e scrittore, che fu processato e assolto.

Va segnalata anche la pubblicazione di un apocrifo La mort


de Napoléon. Dithyrambe traduit de l’anglais de Lord Byron (La
morte di N. Ditirambo tradotto dall’inglese di Lord Byron),
testo in prosa presentato come una traduzione di versi che il
poeta inglese avrebbe composto in una sola sera per effetto
della violenta impressione suscitata in lui dalla notizia venuta
da Sant’Elena. L’opera ebbe notevole successo, e fu tradotta in
molte lingue, nel 1824 anche in italiano a Lugano. Per
comprendere che si tratta di un apocrifo basta considerare
l’appello finale al «saggio» Luigi XVIII perché non soffocasse le
lacrime dei francesi (p. 32), parole che Byron non avrebbe mai
rivolto all’odiato re gottoso. In realtà l’autore, probabilmente
Jacques Collin de Plancy (1794-1881), utilizzò un abile
escamotage per attribuire al poeta inglese un elogio della
grandezza di Napoleone, del quale pure si criticavano gli
errori politici e il «folle orgoglio», e l’ennesima condanna della
crudeltà dell’Inghilterra:
Piangete, fedeli inglesi; il vostro nome sarà maledetto; l’esecrazione della
posterità vi punirà dell’ospitalità violata. [...] Io, straniero alla Francia,
compatriota dei carnefici di Napoleone, ho voluto gettare qualche fiore
sulla sua cenere, per nascondere l’obbrobrio del mio paese (pp. 27 e 32).

La diffusione di questo culto napoleonico in larga parte


della popolazione francese nasceva innanzitutto
dall’identificazione di Napoleone con l’eredità della
rivoluzione, con la libertà, con l’eguaglianza, con la fine dei
privilegi della nobiltà e della Chiesa. Meno interessati alle
critiche mosse dagli ambienti liberali al dispotismo
napoleonico, i ceti popolari erano sensibili soprattutto alle
condizioni materiali dell’esistenza e inoltre all’atmosfera
cupa della restaurazione borbonica, caratterizzata dallo
spirito di rivincita dell’aristocrazia e del cattolicesimo
reazionario. Se qualcuno ricordava il ripristino della
monarchia, ridimensionava però la portata di queste critiche
in nome del patriottismo, identificato con la bandiera
tricolore della rivoluzione, che Napoleone aveva portato in
ogni angolo del continente:

Egli offese, è vero, la libertà che l’aveva nutrito nel suo seno; ma che cosa
non si perdona a un re vittorioso, e come potevano i francesi credersi
schiavi, mentre davano la legge ai monarchi dell’Europa? (Une larme à la
mémoire de Napoléon, firmato Philenor).

Molti di questi scritti esprimevano un orientamento di


fondo chiaramente repubblicano, e quindi non lesinavano
critiche al dispotismo di Napoleone, alla sua ambizione, alla
sua sete di potere, ma prevaleva nettamente su questi motivi
l’esaltazione di un uomo che era diventato da tempo ormai,
nell’immaginario popolare, il simbolo dell’opposizione ai
Borbone, l’antitesi all’Europa della Santa alleanza.
Significativa è in tal senso la chiusa di un opuscolo di un
antico capitano di artiglieria a cavallo, della Legione d’onore,
Alexandre Goujon (1770?-1823):
Lascio alla posterità la cura di segnare il suo posto; e dico fremendo
davanti al destino di questo genio straordinario: da cittadino lo biasimo,
da francese lo rispetto, da uomo lo compiango, da soldato lo piango!...
(Pensée d’un soldat sur la sepulture de Napoléon, 1821).

A porre la figura di Napoleone in una luce nuova


contribuiva anche la sventura dell’esilio a Sant’Elena, che fu
visto come una forma di espiazione dei suoi errori e conferiva
alla sua figura, purificata, l’aureola del martirio. Questo brano,
tratto da un opuscolo del conte François-Charles de
Chaumont-Quitry (1771-1841), esprime in forma colta e
consapevole un sentimento che dopo il 1815 si fece strada
progressivamente nella popolazione, per manifestarsi infine
alla luce del sole dopo la sua morte:
Al tempo del suo regno troppo assoluto, quando egli imponeva le leggi
all’Europa, nel mezzo del suo uragano; al tempo del suo potere che fu
troppo una divinità per lui, non mi si è mai trovato fra i suoi adulatori;
ma [...] davanti a questo nuovo calvario, nel mezzo dell’oceano, io ripeto
con ogni uomo di cuore: «Grande uomo! Io ti riverisco più con la corona di
spine che la violenza ha posto sulla tua fronte, che quando essa
splendeva dei diademi conferiti dalla vittoria» (Aperçu national sur
Napoléon, Idea nazionale su Napoleone, marzo 1822).

Nell’immaginario popolare si affermò quindi, fin dal 1815,


un vero culto della persona di Napoleone, che si esprimeva a
volte attraverso una singolare contaminazione di simboli
napoleonici e di riti e immagini della tradizione cristiana,
espressione di un diffuso anticlericalismo, anch’esso di
derivazione rivoluzionaria. Ecco una versione del Padre nostro
diffusa negli anni della Restaurazione:
Nostro Imperatore che è a Sant’Elena
Che il vostro nome sia rispettato
Che il vostro regno ritorni
Che sia fatta la vostra volontà
Contro tutti gli ultras che ci tolgono le nostre pensioni
Liberateci dai maledetti Borboni
E così sia (Ménager, p. 58).

Come notava nel 1832 Heinrich Heine, «non si immagina


fuori di Francia quanto il popolo francese è ancora attaccato a
Napoleone [...]. Napoleone è per i francesi una parola magica
che li elettrizza e li affascina. Napoleone è il loro Dio, la loro
religione [...]» (De la France, pp. 46-47).

Questo culto popolare di Napoleone va distinto dalla


leggenda napoleonica, che fu un’elaborazione più tarda e
soprattutto fu la costruzione letteraria e culturale della
generazione romantica: esso si affermò infatti fin dal 1815, e
assunse una connotazione soprattutto sentimentale, che si
traduceva in un’istintiva ostilità verso il potere regio,
aristocratico e clericale. Era in tal senso una realtà sociale
diffusa, che si esprimeva attraverso un fluido miscuglio di
umori e di aspirazioni di natura prepolitica, che non a caso
servirono da sostegno per tutti i vari gruppi di opposizione al
regime borbonico, dai liberali ai repubblicani.

D’altra parte questo sentimento popolare, se riprendeva


certo i temi che erano stati divulgati con una continua,
penetrante opera di propaganda dal regime imperiale,
assumeva però un carattere diverso, più spontaneo e istintivo,
e soprattutto metteva fra parentesi la rinascita della
monarchia e della nobiltà voluta, sia pure in forme nuove, da
Napoleone, per celebrare «il padre del popolo e del soldato»,
secondo le parole del veterano Goguelat nel romanzo di
Balzac Le médecin de campagne. L’ammirazione dei ceti popolari
non era rivolta insomma all’uomo di potere, con lo scettro del
comando nella sfarzosa corte delle Tuileries, ma al piccolo
caporale dalla redingote grigia, all’uomo del popolo, dai modi
semplici e bonari, che fumava e beveva con i suoi soldati, che
si distingueva solo per il suo piccolo semplice cappello, che
un opuscolo nel 1821 (L’homme au petit chapeau) contrapponeva
alle corone dei monarchi:
Io ammiro una testa ombreggiata
da un berretto voluminoso:
quando ne vedo una coronata
ciò lusinga molto i miei occhi.
Ma dell’eroe che io rimpiango,
il copricapo è meno bello,
egli non mise mai sulla testa
che un modesto piccolo cappello.

Non diversa era l’immagine che dava dell’imperatore un


opuscolo che esprimeva l’omaggio dei bonapartisti rifugiati in
America, reduci dall’esperienza della colonia di Champ d’asile:
Noi l’abbiamo visto abbeverarsi alla stessa acqua melmosa che ci faceva
schifo, e nutrirsi dello stesso pane nero. L’abbiamo visto distribuire su se
stesso la parte più penosa delle fatiche della guerra, al fine di aiutarci a
sopportarle con coraggio: marciando a piedi al nostro fianco su sabbie
bollenti, svolgendo con allegria i compiti di un semplice soldato (Les
débris du Champ d’asile. Accens des proscrits pendant la captivité de Napoléon à
la nouvelle de sa mort, I resti del Campo d’asilo. Parole dei proscritti
durante la prigionia di N. alla notizia della sua morte, Paris, 1821).

Las Cases riferisce un aneddoto, raccontatogli dallo stesso


Napoleone a conferma del profondo legame che lo univa al
«popolo del più basso livello» e che faceva di lui «il monarca
veramente nazionale»; essendosi mescolato alla folla che nei
pressi di Lione si affrettava per andare ad assistere al
passaggio dell’imperatore, egli chiese a una vecchietta che
differenza c’era fra questi e Luigi XVI: «Tiranno per tiranno, ci
avete guadagnato?», al che la donna ribatté: «Oh Signore [...], è
molto diverso. Quello era il re dei nobili; questo è il re del
popolo. È il nostro» (Mem. e Ms., 5 marzo 1816).
L’interprete più efficace di questo bonapartismo popolare fu
sicuramente Béranger, le cui canzoni, come notava Heine,
erano conosciute da ogni sartina di Parigi (De la France, p. 117).
La morte dell’imperatore gli ispirò Le 5 mai, poesia pubblicata
nel 1826 ma composta qualche anno prima, forse nel 1821;
essa sarebbe stata musicata, con dedica al pittore Horace
Vernet (1789-1863), da Hector Berlioz (1803-1869) fra il 1831 e il
1834, in un momento in cui il musicista era influenzato dalla
trionfante leggenda napoleonica. Un antico soldato dopo
cinque anni di esilio nelle Indie torna su una nave spagnola
con la speranza di morire in patria, quando giunge in vista di
Sant’Elena e apprende così che l’imperatore è morto:

Bravi spagnoli, che si vede sulla riva?


Un drappo nero! Ah, gran Dio, io fremo!
Cosa! Lui morto, o gloria! Quale lutto!
Intorno a me piangono i suoi nemici.
Lontano da quella roccia fuggiamo in silenzio.
L’astro del giorno abbandona i cieli.
La mano di un figlio mi chiuderà gli occhi.

Grande successo ebbe la canzone Le vieux drapeau (La


vecchia bandiera), che costò al suo autore tre mesi di carcere
e 500 franchi di ammenda. Un veterano, insieme ai suoi
antichi compagni d’armi, inebriato dai ricordi e dal vino,
celebra la vecchia gloriosa bandiera dai tre colori, che egli
conserva nascosta «sotto l’umile paglia» della misera dimora
dove vive «povero e mutilato». Quella bandiera, che aveva
brillato sull’Europa intera, «ripagava la Francia di tutto il
sangue che ci è costato». Stanca delle sue nobili imprese,
l’aquila era rimasta nella polvere, ma «la Francia
dimenticando i suoi dolori la benedirà di nuovo libera e fiera».
Non era più tempo però di guerre e di conquiste; la bandiera
era il simbolo della rivoluzione contrapposto all’odiato
vessillo bianco dei Borbone, e doveva servire da presidio di un
regime libero, di una repubblica difesa da cittadini soldati:
Stanca di errare con la Vittoria
delle leggi diventerà il sostegno.
Ogni soldato fu grazie a lei
cittadino sulle rive della Loira.
Solo lei può nascondere le nostre disgrazie;
[...]
Vieni mia bandiera! Vieni mia speranza!
Spetta a te asciugare le mie lacrime.
Di un guerriero che piange
il cielo ascolterà la preghiera.
Sì, io scuoterò la polvere
che offusca i tuoi nobili colori.
Capitolo sesto

Lutti formali e lacrime vere

Fu Metternich a dettare le linee di comportamento di fronte


alla morte di Napoleone sia per la moglie Maria Luisa,
duchessa di Parma, sia per la corte di Vienna dove risiedeva il
figlio. Maria Luisa apprese la morte del marito il 15 luglio dalla
«Gazzetta piemontese». La sua lettera del 19 luglio all’amica
Victoire Poutet contessa di Crenneville rappresenta
probabilmente l’espressione più immediata e sincera dei suoi
sentimenti:
Confesso che ne sono stata estremamente colpita. Benché io non abbia
mai provato per lui nessun genere di sentimento, non posso dimenticare
che egli è il padre di mio figlio, e che ben lungi dall’avermi maltrattata,
come tutti credono, ha sempre avuto per me ogni riguardo, la sola cosa
che si possa sperare in un matrimonio politico. Ne sono stata dunque
molto afflitta e sebbene si debba essere lieti che egli abbia concluso in
modo cristiano la sua infelice esistenza, io tuttavia avrei desiderato per
lui molti anni di felicità e di vita, purché lontano da me (Correspondance, p.
226).

Il legame dinastico stabilito nel 1810 era entrato in crisi con


la decisione dell’Austria di aderire alla coalizione europea
contro la Francia il 12 agosto 1813. Prima di partire per la
campagna militare a difesa della capitale, Napoleone, il 25
gennaio 1814, aveva salutato per l’ultima volta Maria Luisa e il
piccolo Re di Roma, che non avrebbe rivisto mai più. Due
giorni prima aveva affidato alla moglie la reggenza
dell’Impero durante la sua assenza, riservando però a se
stesso le decisioni più importanti. Si era creata comunque in
questo modo una situazione quanto mai delicata: Maria Luisa
era almeno formalmente alla guida della Francia in guerra
contro una coalizione comprendente il padre Francesco I. Nei
giorni decisivi, quando era ormai imminente l’ingresso degli
alleati a Parigi, Maria Luisa abbandonò la capitale per
rifugiarsi a Blois. Le lettere inviate al marito, nelle quali gli
dava notizie del figlio, mostrano che era pronta a raggiungerlo
e restava ancora fedele al suo ruolo politico e familiare. Per
parte sua Napoleone, che si era ritirato a Fontainebleau,
sperava ancora in un intervento dell’Austria in favore di una
reggenza di Maria Luisa che preservasse anche i diritti del
figlio. Ma questa ipotesi, se pure fu presa in considerazione a
Vienna, era comunque irrealizzabile per l’opposizione
dell’Inghilterra. Alla fine, abbandonato da molti dei suoi
comandanti, Napoleone fu costretto il 6 aprile ad abdicare
senza condizioni e il giorno 11 firmò con lo zar Alessandro I,
entrato da trionfatore a Parigi il 31 marzo, il trattato di
Fontainebleau che gli concedeva la sovranità dell’isola d’Elba.
Con la decisione degli alleati di ristabilire sul trono francese i
Borbone, il matrimonio di Maria Luisa perse ogni significato
politico: non le restò quindi altra scelta che ritornare a Vienna
nel seno della sua famiglia, affidandosi, insieme con il figlio,
alla protezione del padre. Metternich sottopose a una stretta
sorveglianza sia lei sia il suo entourage, composto in gran
parte da francesi. Ritrovando il mondo che aveva lasciato
quattro anni prima, Maria Luisa entrò in una fase
completamente nuova della sua vita. Lasciando il figlio a
Vienna, si recò per riposarsi alle terme di Aix-les-Bains, in
territorio francese, insieme con il generale Adam Albert,
conte di Neipperg (1775-1829), che il padre Francesco I le
affiancò con il compito di proteggerla e di controllarla. In
questo periodo Maria Luisa non sembrava avere ancora
escluso l’idea di recarsi all’isola d’Elba per incontrare il
marito, ma ben presto questa eventualità divenne sempre più
improbabile, e non solo per l’opposizione di Metternich.
Durante il viaggio di ritorno verso Vienna Maria Luisa si legò
sentimentalmente a Neipperg, uomo di bella presenza
nonostante avesse una benda nera sull’occhio destro perduto
in guerra. Maria Luisa seguì dalla reggia di Schönbrunn
l’ultima disperata avventura del marito, con la fuga dall’isola
d’Elba e l’effimero ritorno al potere, decisa a non
ricongiungersi più a lui: in una lettera del 6 aprile 1815 a
Claude-François de Méneval (1778-1850), il segretario postole
accanto da Napoleone, ella dichiarò: «Sono risoluta in ogni
caso, niente Francia, piuttosto un convento» (Tulard, p. 97).
Poco dopo lo stesso Méneval e tutti i francesi che facevano
parte del suo seguito vennero congedati; nel febbraio 1816
anche la madre di Marchand, il primo cameriere di
Napoleone, che era stata la nutrice del piccolo Re di Roma,
accusata di avere fatto giungere al padre a Sant’Elena una
ciocca di capelli del figlio, fu allontanata, con grande dolore
del bambino che le era molto affezionato. Maria Luisa gioì alla
notizia di Waterloo, che faceva cadere la temuta prospettiva
di un suo ritorno in Francia; per quanto concerne la sorte del
marito sconfitto, si limitò a scrivere al padre chiedendogli che
fosse trattato con «bontà e clemenza», precisando però che
non intendeva più occuparsene. Nel frattempo il Congresso di
Vienna, confermando quanto era stato stabilito nel trattato di
Fontainebleau fra lo zar Alessandro e Napoleone, le aveva
assegnato il Ducato di Parma e Piacenza. Dopo avere
rinunziato formalmente al suo titolo di imperatrice per
assumere quello di arciduchessa, il 19 aprile 1816 fece il suo
ingresso a Parma, capitale dello stato nel quale sarebbe
rimasta fino alla morte nel 1847, trovando quella tranquillità
che era ormai la sua principale aspirazione. La accompagnò il
suo amante Neipperg al quale ella lasciò la guida
dell’amministrazione del Ducato, compito che egli svolse con
abilità ed equilibrio. La coppia ebbe nel 1817 e nel 1819 due
figli, Albertina e Guglielmo, che presero rispettivamente il
titolo di contessa e conte di Montenuovo (italianizzazione di
Neuberg, da Neipperg), e ne aspettava un terzo in quella
estate del 1821 quando giunse la notizia della morte di
Napoleone.

Su suggerimento di Metternich a Parma il lutto fu adottato


solo dalla vedova, dalla sua casa e dalla sua servitù, ma non
dal resto della corte, dai militari e dai funzionari.

Il cancelliere austriaco volle anche che nessuna notizia


fosse divulgata nel Ducato sui particolari relativi alla morte di
Napoleone. La «Gazzetta di Parma» (n. 59 del 24 luglio) si
limitò a dare l’annunzio del lutto senza neanche nominare
Napoleone, citato solo come «serenissimo sposo» della
duchessa:

Parma li 23 luglio – Per la morte del Serenissimo Sposo dell’Augusta


nostra sovrana, accaduta nell’isola di S. Elena il 5 maggio u.s. – Sua
Maestà, i Cavalieri e le Dame che compongono il Servizio interno della
Corte, le persone della Casa Ducale, e la Livrea prenderanno il Lutto per
tre mesi a cominciare da domani 25 corrente, a tutto il 24 ottobre p.v. Il
Lutto sarà diviso in tre Classi, cioè dal 25 luglio a tutto il 4 settembre
Lutto di prima classe; dal 5 settembre al 2 ottobre, quello di seconda
classe, e dal 3 al 24 ottobre quello di terza classe.

La funzione funebre si tenne il 31 luglio nella Cappella della


Villa Sala in forma strettamente privata, e nella preghiera per
il defunto si evitò di citarne il nome, invocando Dio solo «pro
famulo Tuo consorte ducis nostrae», per un tuo servo consorte
della nostra sovrana. Maria Luisa assistette alla cerimonia
avvolta in un ampio velo nero per nascondere la sua
gravidanza. Dopo pochi giorni, l’8 agosto sposò nella cappella
ducale il conte di Neipperg, e il giorno seguente diede alla
luce la piccola Matilde che morì quasi subito. Il matrimonio,
tenuto segreto, era morganatico, in quanto, considerato il
rango inferiore del marito, escludeva questi e i figli dallo
status e dai diritti della duchessa. Il legame di Maria Luisa con
il generale austriaco era stato vissuto a Vienna con molto
imbarazzo; se è vero infatti che il matrimonio con Napoleone
si poteva considerare illegittimo, non avendo il papa mai
riconosciuto il suo divorzio dalla prima moglie, la relazione
con Neipperg contrastava comunque con i sentimenti religiosi
di Francesco e della sua corte.
La storiografia, in particolare quella francese, ha a lungo
giudicato con molta severità il cosiddetto «tradimento» di
Maria Luisa nei confronti del marito, ma una valutazione
equilibrata della vicenda induce a sfumare molto questo
giudizio.

Bisogna considerare intanto la difficile situazione di una


giovane donna di appena 23 anni, che era stata costretta a 19
anni a lasciare Vienna per sposare un uomo che le era stato
sempre dipinto con i più neri colori. Non è facile chiarire per
quale motivo Napoleone, nei momenti concitati che
precedettero la prima abdicazione del 1814, non abbia dato
alcuna precisa indicazione alla moglie, che più volte gli
scrisse per chiedergli istruzioni, mostrandosi pronta a
raggiungerlo. Forse riteneva che la moglie da sola avrebbe
potuto ottenere, grazie al sostegno del padre, condizioni più
favorevoli dagli alleati e perfino qualche garanzia per il figlio.
Si è anche parlato, per spiegare il suo rifiuto di incontrare la
moglie in questo momento, di una malattia venerea che egli
avrebbe contratto nella relazione con un’attrice, ma è una
notizia non verificabile, frutto con ogni probabilità di una
maldicenza messa in giro dai suoi nemici. È certo invece che
Louise de Guéhéneuc, duchessa di Montebello (1782-1856),
dama d’onore di Maria Luisa e sua amica, ebbe modo più
volte di ricordarle le infedeltà di Napoleone: l’ipotesi di un
ricongiungimento con il marito, che Metternich era
comunque deciso a impedire, fu definitivamente abbandonata
da Maria Luisa quando seppe che Maria Walewska aveva fatto
visita a Napoleone all’isola d’Elba con il figlio avuto da lui.
Dopo la morte di Napoleone il nodo politico più delicato,
che soprattutto preoccupava Metternich, era la situazione del
figlio, che diventava l’erede designato della famiglia
Bonaparte e poteva rappresentare oggettivamente un punto di
riferimento non solo per i bonapartisti ma per tutte le forze di
opposizione all’equilibrio europeo stabilito a Vienna. In effetti
Napoleone, a differenza che nel 1814, quando aveva abdicato
senza condizioni, nella seconda abdicazione del 22 giugno
1815 aveva ceduto il potere al figlio. Il giorno seguente la
Camera si era limitata a prendere atto di questa decisione, ma
in realtà tutti sapevano che gli alleati non l’avrebbero mai
avallata e Joseph Fouché (1759-1820), presidente del governo
provvisorio, lavorava dietro le quinte per favorire il ritorno dei
Borbone. Tuttavia, anche se solo formalmente, il piccolo
Napoleone II fu imperatore dei francesi dal 22 giugno fino al 7
luglio, giorno precedente l’ingresso di Luigi XVIII a Parigi.
Naturalmente, si era trattato di una mera finzione perché egli
era un bambino di 4 anni prigioniero di fatto alla corte di
Vienna. Tuttavia non mancarono richiami al figlio di
Napoleone nei numerosi complotti di matrice bonapartista,
per altro generalmente chimerici negli obiettivi e
dilettanteschi nell’esecuzione, che furono organizzati in
Francia fra il 1821 e il 1822, tutti o abortiti o facilmente
repressi dalle autorità. Nel 1821 il repubblicano Ferdinand
Flocon (1800-1866), affiliato alla Carboneria, pubblicava un
breve indirizzo «à Charles-François», il figlio di Napoleone, e
nello stesso anno comparve anonimo, ad opera di «un
cittadino amico della patria», un opuscolo che richiamava la
continuità della quarta dinastia come concreta alternativa
all’odiata monarchia borbonica: «Tremate, nemici di
Napoleone, suo figlio respira; respira per la vendetta; Francesi!
Napoleone vive» (Il n’est pas mort, Non è morto, agosto 1821).
D’altra parte il mito napoleonico era vivo in larga parte della
popolazione francese, soprattutto nei ceti popolari: in molte
case fu appeso, accanto al ritratto di Napoleone, quello del
figlio.

Anche per questo, fin da quando il piccolo Re di Roma era


giunto a Vienna con la madre, nel 1814, ci si era preoccupati
di staccarlo dalle sue origini francesi e di allevarlo come un
principe tedesco. In tal senso il problema più delicato fu
rappresentato dagli inevitabili riferimenti alla straordinaria
vita del padre, che si cercò il più possibile di limitare e di
presentare con circospezione. Sappiamo che egli nelle
preghiere del mattino e della sera metteva al primo posto suo
padre, e che chiese ai suoi precettori di poter leggere un’opera
(I fasti della Francia) che esponeva le sue grandi imprese.
Tuttavia, nonostante tutte le buone intenzioni di quanti
furono incaricati della sua educazione, la curiosità del
bambino dovette più volte confrontarsi con risposte reticenti
e con silenzi imbarazzati, e questo certamente lo indusse a
sua volta a celare nel suo animo i sentimenti e i pensieri
relativi al proprio passato. Francesco I, che gli era
sinceramente affezionato, seguì costantemente gli sviluppi
della sua educazione, informandone anche la madre, la quale
fu pienamente consenziente con il progetto di staccare il figlio
da quella nascita francese che giudicava una macchia da
cancellare. La politica dettata da Metternich e condivisa
dall’imperatore imponeva il divieto assoluto di lasciare
Vienna; egli pertanto non poté seguire a Parma la madre, in
quanto la sua presenza in Italia sarebbe stata quanto mai
pericolosa. Per questo motivo nel 1817 un accordo fra gli
ambasciatori delle quattro potenze alleate a Parigi sciolse un
nodo rimasto insoluto al Congresso di Vienna, escludendo il
figlio dalla successione del Ducato, che alla morte di Maria
Luisa sarebbe tornato ai Borbone di Parma. La posizione del
giovane fu regolata con l’assegnazione nel 1817 di alcuni
territori in Boemia e con l’attribuzione, il 22 luglio 1818, del
titolo di Duca di Reichstadt. Una volta garantito così il rango
del figlio nella corte asburgica, Maria Luisa mantenne con lui
solo rapporti occasionali e formali.

La notizia della morte del padre e del luogo dove era


avvenuta, che gli era stato fino ad allora celato, fu comunicata
al Duca di Reichstadt il 22 luglio e provocò in lui ripetute crisi
di pianto che colpirono vivamente i suoi precettori. Maria
Luisa gli scrisse da Parma:

Ho saputo, mio caro figlio, quanto profondamente sei stato scosso dalla
disgrazia che ci colpisce entrambi. Scriverti a questo proposito e parlarne
con te è per me la maggiore consolazione. Sono sicura che avverti per
questa perdita un dolore tanto profondo quanto il mio; saresti infatti un
ingrato se potessi dimenticare tutta la bontà che egli ti ha dimostrato
durante la tua infanzia. So che ti sforzerai di imitare le sue virtù, evitando
nel contempo gli scogli che hanno finito per perderlo (Bourgoing, p. 126).

Francesco I e la corte di Vienna, seguendo le prescrizioni di


Metternich, non presero il lutto, che fu invece adottato dal
Duca di Reichstadt, dal suo seguito e dalla sua servitù.
Superata la prima emozione, il bambino non pose altre
domande e si chiuse in se stesso, non senza sorpresa dei suoi
precettori. In realtà, intuendo l’ostilità della corte viennese
nei confronti del padre, egli aveva imparato a nascondere con
un atteggiamento di riserbo e di apparente distacco i suoi
sentimenti: primo indizio di una maturazione nata dalla
sofferta presa di coscienza della propria situazione. Questa
reticenza caratterizzava anche i rapporti con la madre, alla cui
lettera egli rispose, in seguito alle ripetute insistenze dei
precettori, solo quindici giorni dopo e in forma fredda e
distaccata, limitandosi a ribadire i consueti buoni propositi:
Cara Madre, vi ringrazio della vostra lettera nella quale si mostra così
bene il vostro affetto materno, cercando di consolarmi della morte di mio
padre, che vi getta, anche voi, in un dolore così profondo. [...]. Attendendo
dalla vostra inclinazione materna la felicità della mia vita, mi sforzerò,
per quanto mi riguarda, di tenere nel più gran conto le esortazioni che mi
avete indirizzato in questa triste circostanza, e unisco la mia preghiera
alle vostre per il riposo del defunto mio padre (Schiel, p. 222).

Proprio in questi anni il Duca attraversò l’adolescenza, nella


quale si delinearono alcuni caratteri della sua personalità.
Purtroppo ben poche sono le testimonianze su questa fase
decisiva della sua vita. Nel 1827, al compimento del
sedicesimo anno, il governo di Vienna impedì agli esecutori
testamentari di consegnargli gli oggetti lasciatigli in eredità
dal padre. Egli apprese a un certo punto ciò che la madre gli
aveva sempre taciuto, cioè che aveva avuto due figli da
Neipperg quando era ancora vivo il marito, ma del suo
pensiero a questo riguardo nulla traspare nelle sue lettere.
Questa chiusura in se stesso fu anche l’inevitabile
conseguenza della sua solitudine; egli stesso scrisse in una
lettera: «Vivo più con i miei libri che con gli uomini» (Tulard,
p. 191). Nel suo isolamento trovò un amico con il quale aprirsi
liberamente in un ufficiale austriaco, Anton von Prokesch-
Osten (1795-1876), incontrato per la prima volta nel 1830, che
aveva pubblicato nel 1819 una memoria sulla battaglia di
Waterloo letta avidamente dal giovane. Sul loro legame non ci
sono dubbi, in base alle lettere che ci sono rimaste, ma
bisogna considerare con molta prudenza le notizie forniteci al
riguardo dal racconto dello stesso Prokesch, pubblicato
postumo nel 1878.

Se ne ricava innanzitutto la conferma della grande


ammirazione e del profondo attaccamento dell’ex Re di Roma
nei confronti del padre. Ciò è confermato anche dalla
testimonianza del maresciallo Marmont, che il Duca di
Reichstadt incontrò nel gennaio 1831. Anche qui non è
possibile verificare quanto sia veritiero il resoconto di colui
che doveva comunque farsi perdonare il «tradimento» del
1814 ed era portato quindi a ingigantire la portata
dell’episodio. Comunque è credibile quanto dice Marmont
circa il vero e proprio culto nutrito per il padre dal Duca di
Reichstadt. Questi insistette per rivedere ancora Marmont il
quale, ottenuta l’autorizzazione di Metternich, lo incontrò più
volte. Il giovane in segno di gratitudine gli donò il proprio
ritratto dipinto da Moritz Michael Daffinger (1790-1849),
accompagnandolo con versi di Racine (Phèdre, atto I, scena II)
adattati alla circostanza:
Giunto presso di me spinto da una passione sincera,
tu mi raccontavi allora la storia di mio padre.
Tu sai quanto la mia anima, attenta alla tua voce,
si infiammava ai racconti delle sue nobili imprese.

Il giovane si convinse che la carriera delle armi fosse la sola


che convenisse al figlio del grande Napoleone, e provò non
senza ingenuità a conciliare questi suoi sogni con la sua
posizione, cercando consiglio e incitamento nell’amico
Prokesch. Questi, legato a Metternich e al suo segretario
Friedrich von Gentz (1764-1832), era molto ambizioso e
desideroso di fare carriera: grazie al cancelliere ottenne il
titolo nobiliare con l’aggiunta al cognome della parola
«Osten» (Est), allusione agli incarichi diplomatici ricoperti in
Oriente. In ogni caso egli non avrebbe mai potuto avvicinare il
Duca di Reichstadt senza il consenso di Metternich; anche
senza accreditare l’ipotesi che si trattasse di un agente
incaricato di sorvegliare e di frenare le esaltazioni del giovane,
questa circostanza getta un’ombra sui racconti di Prokesch e
sulla sincerità della sua amicizia. In ogni caso per questi anni
le sue affermazioni costituiscono in pratica la sola
testimonianza disponibile, non verificabile alla luce di altre
fonti.

La rivoluzione del 1830 in Francia diede occasione a voci


circa un possibile ruolo del Duca di Reichstadt come
alternativa a Luigi Filippo d’Orléans. Fra i gruppi politici
protagonisti delle tre «gloriose» giornate del 27, 28 e 29 luglio
che abbatterono la monarchia di Carlo X vi erano, accanto agli
orleanisti e ai repubblicani, numerosi bonapartisti che, pur
non essendo particolarmente organizzati e compatti,
facevano riferimento all’erede della quarta dinastia fondata
da Napoleone. Diverse testimonianze confermano che più
volte il nome di Napoleone II fu invocato dagli insorti.
L’azione dello storico Adolphe Thiers (1797-1877) e
l’intervento di La Fayette portarono poi all’abbandono
dell’ipotesi repubblicana e alla chiamata al trono di Luigi
Filippo d’Orléans, re dei francesi, quindi non più per diritto
divino ma per volontà della nazione, sulla base di una riforma
in senso liberale della carta concessa da Luigi XVIII nel 1814.
Sappiamo dalle Memorie di Metternich che il 9 ottobre 1830
Giuseppe Bonaparte, il fratello di Napoleone, gli scrisse una
lettera proponendogli di appoggiare una candidatura del
nipote al trono di Francia al posto di Luigi Filippo d’Orléans
(Mémoires, V, p. 159). Naturalmente la lettera non ebbe
risposta: il cancelliere austriaco era troppo avveduto per
sostenere una scelta avventurosa come quella di giocare la
carta del Duca di Reichstadt, che sarebbe stato sostenuto da
bonapartisti e repubblicani.

Negli anni 1830-1831, nei quali l’Europa fu nuovamente


agitata da movimenti rivoluzionari, sembrarono aprirsi nuovi
spazi alle speranze del giovane. Quando i moti costituzionali
nell’Italia centrale costrinsero il 15 febbraio 1831 Maria Luisa,
ormai vedova per la morte di Neipperg due anni prima, ad
abbandonare la capitale Parma per rifugiarsi a Piacenza, egli
si infiammò all’idea di accorrere a difesa della madre; si
sarebbe aperto in tal caso uno scenario davvero singolare,
perché al fianco dei rivoluzionari italiani si erano schierati i
cugini dell’ex Re di Roma, i figli del re di Olanda Luigi,
Napoleone Luigi affiliato alla Carboneria, che trovò la morte a
Forlì per un attacco di rosolia, e il fratello minore Carlo Luigi,
il futuro Napoleone III. In ogni caso Francesco I frenò subito lo
slancio del giovane, vietandogli ancora una volta di lasciare
Vienna. In quei mesi circolarono anche voci di una possibile
candidatura del figlio di Napoleone a re del Belgio, che era
insorto per rendersi indipendente dal Regno di Olanda, o a re
della Polonia, che si era ribellata al dominio russo per formare
finalmente uno stato nazionale autonomo. Si trattò
comunque di aspirazioni vaghe, se non chimeriche: se una
presenza in Italia del Duca di Reichstadt era impensabile per
Vienna perché pericolosa per il suo predominio nella
penisola, le altre due ipotesi erano inaccettabili
rispettivamente per l’Inghilterra e per la Russia. Del resto in
Italia i moti furono repressi dall’intervento militare austriaco,
in Polonia fu ben presto ristabilito il dominio russo e la corona
del Belgio indipendente andò a Leopoldo I di Sassonia-
Coburgo. Svanì infine anche l’idea di una sua candidatura alla
corona della Grecia indipendente.

Ancora una volta il desiderio di gloria che covava al fondo


del suo animo inquieto fu dolorosamente frustrato: l’aiglon
(aquilotto) aveva sognato di potersi finalmente levare in volo
ma le leggi della realpolitik avevano tarpato le sue già deboli
ali. Alcune testimonianze riferiscono della sua abilità di
cavallerizzo e della sua passione per il comando militare, ma
nella sua condizione queste attività erano poco più che un
innocuo passatempo. Stando al Prokesch, in questi frangenti
il giovane avrebbe dato prova di una certa maturità politica,
dimostrandosi desideroso di non essere indegno della gloria
del padre, ma deciso anche a non diventare un avventuriero
(Tulard, p. 175). In ogni caso, qualunque fosse la sua vera
personalità, essa non aveva alcuna possibilità di esprimersi, e
fu questo il vero dramma della sua esistenza. Del resto il suo
breve tempo volgeva ormai alla fine. La salute del giovane, di
bell’aspetto, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, molto alto
(circa 1 metro e 90), ma dal fisico gracile, era da tempo minata
dalla tisi e nel 1832 cominciò rapidamente a deteriorarsi. Il 24
giugno la madre accorse al palazzo di Schönbrunn al
capezzale del figlio per assisterlo negli ultimi giorni, fino alla
morte, avvenuta il 22 luglio. Fu sepolto nella cripta dei
cappuccini dove vi erano le tombe della famiglia imperiale. Si
chiudeva così un’esistenza segnata dalla sua stessa origine,
che il giovane Duca riassunse lapidariamente così: «la mia
nascita e la mia morte, ecco tutta la mia storia».

Si è molto discusso sulle responsabilità che hanno pesato


sull’infelice vicenda del giovane. Bisogna dire intanto che a
Vienna egli ebbe una buona educazione e un rango adeguato
al figlio di un’arciduchessa, e non è vero che, come si è
sovente ripetuto, gli sia stato a lungo impedito di conoscere la
storia del padre. Il problema era la sua condizione di erede
dell’Impero napoleonico, oggettivamente pericolosa per la
stabilità dell’Europa: fu questo il motivo per cui la sua vita fu
racchiusa dentro i confini fissati dalle ferree regole della
politica. In realtà è facile osservare come tutti i protagonisti di
questa vicenda abbiano sempre agito in base a valutazioni
politiche, destinate a prevalere su ogni considerazione di
carattere personale. Francesco I, pur nutrendo per lui un
sincero affetto, seguì con convinzione le direttive di
Metternich, volte a impedire che il giovane diventasse un
simbolo per le forze liberali e nazionali. Per parte sua Maria
Luisa, dopo avere compreso che gli interessi dell’Austria
negavano al figlio qualsiasi ruolo politico, si preoccupò solo di
garantirgli una solida posizione a corte e scelse la quiete di
Parma sotto la protezione di Neipperg; da allora intrattenne
con il figlio solo rapporti sporadici e formali, contribuendo
così oggettivamente al suo isolamento. Quanto a Napoleone,
nessun dubbio si può avere circa i suoi sentimenti: uno dei
maggiori motivi di sofferenza a Sant’Elena fu la lontananza
dal figlio e la difficoltà di ricevere sue notizie. Sappiamo che
nella sua stanza da letto vi erano due ritratti in miniatura del
Re di Roma di Aimée Thibault (1780-1868), un suo piccolo
busto di marmo e il quadro di Jean-Baptiste Isabey (1767-1855)
nel quale il piccolo è raffigurato in braccio alla madre. Ma
anche in lui, nel momento delle valutazioni politiche, prevalse
un freddo realismo. Nel 1815, quando fu spinto dal suo
entourage ad abdicare in favore del figlio, si mostrò
consapevole che non vi era per lui alcuna concreta possibilità
di un sostegno da parte dell’Austria, un giudizio che ribadì
lucidamente a Sant’Elena a quanti avanzarono l’ipotesi che
Vienna potesse giocare la carta dell’ex Re di Roma in funzione
antirussa: «[...] potrebbe servirsene come uno strumento di
minaccia, ma mai come un oggetto di benevolenza; doveva
risultare troppo temibile per loro. Il Re di Roma sarebbe
l’uomo dei popoli. Era soprattutto l’uomo dell’Italia» (Mem. e
Ms., 24 maggio 1816). Quando poi, discorrendo a Sant’Elena
con Las Cases o con Gourgaud, prese in considerazione
l’ipotesi di una crisi interna della Francia, ad esempio alla
morte di Luigi XVIII, egli mostrò chiaramente di ritenere che
l’occasione sarebbe stata forse propizia per il duca d’Orléans
ma non per quel bambino prigioniero a Vienna.

La morte prematura contribuì a fare del Duca di Reichstadt


una figura tragica, un eroe destinato a colpire profondamente
la sensibilità della generazione romantica. Alla sua sorte
dedicò parole commosse Giuseppe Mazzini, che invitò i poeti
a cantare la vicenda dell’infelice giovane, «schiacciato da un
nome, che non potea portarsi impunemente nell’inerzia»:
V’era un mondo nella testa di quel morente, e la solitudine d’intorno a
lui. La gente che vegliava i suoi ultimi aneliti, non parlava il linguaggio
della sua patria. [...] L’ombra d’una gloria che non morrà si stendeva
ancora sopra di lui, ma trista, muta, pallida come una memoria di tempi
irrevocabilmente trascorsi: [...] l’ultimo raggio d’un’epoca che suo padre
avea divorata, si spegneva con lui (Ai poeti italiani del secolo XIX, p. 350).

Si formò così, proprio negli anni in cui il mito del padre


trionfava nella vita culturale dell’Europa, una parallela
leggenda del figlio, destinata anch’essa ad alimentare poesie,
romanzi e lavori teatrali. Il primo contributo a questa
ricostruzione in chiave mitica della storia del Duca di
Reichstadt venne dal poemetto Le fils de l’homme ou souvenir de
Vienne (Il figlio dell’uomo o ricordo di Vienna) pubblicato nel
1829 da Auguste-Marseille Barthélemy (1796-1867) e Joseph
Méry (1797-1866). L’opera, di cui uscì subito una traduzione
italiana a Bruxelles, era in sé mediocre ma ebbe notevole
risonanza sia a causa del processo che l’autore dovette subire
(condanna a 3 mesi di prigione e 1.000 franchi di multa), sia
soprattutto perché gettava una luce sinistra sulla condizione
del Duca di Reichstadt alla corte di Vienna. Il libretto narra il
fallito tentativo di Barthélemy di consegnare nel 1827 al
giovane Duca una copia del poema Napoleone in Egitto da lui
composto insieme con Méry. Lanciando il suo atto di accusa
contro le autorità austriache, Barthélemy affermò che gli era
stata negata ogni possibilità di incontrare il figlio di
Napoleone:
Un potere ombroso vegliava su di lui,
l’ho visto, ma da lontano; [...]
e non ho nemmeno potuto raccogliere una volta
il suono della sua parola e l’accento della sua voce.
[...]
Nipote di un Cesare e figlio di un imperatore,
legatario del mondo, nascendo re di Roma,
tu non sei più oggi nient’altro che il figlio dell’uomo.

In una nota Barthélemy descrisse il suo incontro con il


precettore del Duca, il quale avrebbe dichiarato, per spiegare il
suo rifiuto: «Il principe non ascolta, non vede e non legge che
ciò che noi vogliamo che legga, veda e ascolti». Queste
affermazioni, per altro non verificabili, contribuirono a
divulgare, soprattutto in Francia, l’immagine del giovane
prigioniero a Vienna in una gabbia dorata, isolato dal mondo
e allontanato in ogni modo dalle sue origini.

L’opera che consacrò definitivamente questa aureola mitica


fu il dramma in sei atti L’Aiglon di Edmond Rostand (1868-
1918), rappresentato a Parigi il 15 marzo 1900 al teatro Sarah
Bernhardt, che interpretò proprio il personaggio del Duca.
L’opera ebbe grande successo anche perché esaltò il
sentimento nazionale di un pubblico animato dallo spirito
della rivincita nei confronti della Prussia, che nel 1870 aveva
sottratto alla Francia l’Alsazia e la Lorena: si respirò insomma
in teatro il clima che sarebbe stato pochi anni dopo uno dei
fattori della prima guerra mondiale. Nella finzione teatrale il
giovane, con l’aiuto di un veterano napoleonico, tenta di
fuggire da Vienna, ma viene arrestato. Nella scena conclusiva,
sul letto di morte, egli rivive i ricordi della sua infanzia in
Francia, rivede la culla in cui era stato salutato come Re di
Roma, e chiede che gli si intoni una canzone francese, una
delle nenie che gli cantava per addormentarlo madame
Marchand, oppure quella che inizia: «Era un piccolo uomo /
tutto vestito di grigio». La madre, lacerata dal rimorso, chiede
e ottiene il suo perdono. Il Duca mantiene fede sul letto di
morte alla richiesta di suo padre di non dimenticare fino alla
fine di essere nato principe francese, e muore invocando lui e
la Francia. Ma l’ultima battuta è di Metternich, che ha
assistito impassibile alla scena, ed è l’ordine perentorio di
rivestirlo con la divisa austriaca: «Gli rimetterete l’uniforme
bianca!».
Capitolo settimo

Il capolavoro politico di Las Cases

Las Cases apprese la notizia della morte di Napoleone in


Belgio, dove si era stabilito dopo un lungo peregrinare, dal
momento che gli era impedito il ritorno in Francia. Dopo che
nel settembre 1821 gli fu restituito dagli inglesi il manoscritto
sequestratogli da Lowe, iniziò dalla rielaborazione di questo
testo la redazione del Memoriale che sarebbe uscito due anni
dopo. Nonostante si interrompa alla fine del 1816, l’opera
rappresenta il documento più importante sull’esilio di
Napoleone e una fonte insostituibile per le ricostruzioni
storiografiche. Essa ebbe anche una grande fortuna editoriale,
e rappresentò per tutta la prima metà dell’Ottocento il
principale fondamento della leggenda napoleonica. Tutta la
generazione romantica, avvilita dalla frustrazione e dalla noia
nell’età della Restaurazione ma anche nella monarchia
borghese di Luigi Filippo d’Orléans, trovò nel testo
l’individualismo e l’eroismo che rappresentavano i suoi ideali
di vita, e si abbeverò alla sua fonte con entusiasmo. Basterà
ricordare, come emblema di questa gioventù animata da
slanci ideali che la inducevano a contrapporsi alla meschina
realtà quotidiana, il personaggio di Julien Sorel in Il rosso e il
nero (1830) di Stendhal (Henri Beyle, 1783-1842), che appena
possibile si appartava a leggere il Memoriale, il «libro che era
l’unica regola della sua condotta e l’oggetto dei suoi
entusiasmi», nel quale «trovava riunite felicità, estasi e
consolazione nei momenti di scoraggiamento».

L’opera tuttavia deve essere utilizzata con molta prudenza e


circospezione. Intanto non è un vero diario perché la
narrazione degli eventi è interrotta da molte digressioni, e
soprattutto dal resoconto di conversazioni più o meno
occasionali e improvvisate, che Las Cases spesso ha
sintetizzato unendo frammenti di dialoghi svoltisi in tempi e
in momenti differenti. A questo riguardo già Chateaubriand
osservò nei suoi Mémoires d’outre-tombe, a proposito delle
testimonianze relative all’esilio di Sant’Elena, che «è difficile
distinguere ciò che appartiene a Napoleone da ciò che
appartiene ai suoi segretari» (I, p. 999).

Las Cases era, oltre che un cortigiano, un esperto letterato,


capace di costruire con abilità la figura dell’eroe e
intenzionato a celare o a sminuire gli aspetti negativi della
sua vicenda politica. Egli pubblica ad esempio una lettera di
Napoleone a Murat del 29 marzo 1808 dalla quale risulterebbe
una preminente responsabilità di quest’ultimo nello
sciagurato intervento in Spagna; si tratta in realtà di un falso,
anche se non sappiamo se l’autore del Memoriale ne fosse a
conoscenza. D’altra parte lo stesso Las Cases ci informa che
Napoleone era ben consapevole dell’importanza dell’opera
che il suo segretario stava redigendo: «Egli mi diceva spesso:
“queste memorie saranno tanto celebri quanto tutte quelle
che le hanno precedute; voi sarete tanto celebre quanto i loro
autori, voi vivrete di esse”» (Mem. e Ms., 19-22 settembre
1815). Non c’è dubbio quindi che egli, quando dettava o
conversava, e ancor più quando si lasciava andare ai ricordi e
ai giudizi politici raccolti da Las Cases, parlava all’opinione
pubblica mondiale e alle generazioni future, cercando di
sfruttare la sua condizione di prigioniero ai fini del disegno
politico che perseguiva:

La nostra situazione può avere perfino dei vantaggi! L’universo ci


guarda!... Noi siamo i martiri di una causa immortale!... Milioni di uomini
ci piangono [...]; i voti delle nazioni sono per noi!... [...] Le disgrazie hanno
il loro eroismo e la loro gloria!... La disgrazia mancava alla mia
avventura!... Se fossi morto sul trono, tra le nuvole della mia
onnipotenza, per molta gente sarei rimasto un enigma; ora invece, grazie
alla sventura, posso essere giudicato a nudo! (Mem., 29-30 novembre
1815).

Principale artefice di questo progetto politico, Las Cases


diede vita a una grande opera di propaganda volta non solo a
esaltare la figura dell’imperatore, ma anche a sostenere la
causa bonapartista e le possibili aspirazioni di Napoleone II
nell’Europa della Restaurazione. Il confronto fra il testo edito
e il manoscritto da poco ritrovato al British Museum consente
di comprendere meglio il lavoro svolto da Las Cases. Si
osserva intanto che nel Memoriale sono spesso riportati tra
virgolette, come affermazioni di Napoleone, brani che nel
manoscritto figurano solo come considerazioni dell’autore o
come riassunti di un dialogo o di un argomento di
discussione. Bisogna chiedersi perciò: le parole attribuite a
Napoleone sono davvero uscite dalla sua bocca o sono il
frutto di successivi adattamenti o rifacimenti? Il testo a
stampa arriva fino al 1822 mentre il manoscritto termina al 23
novembre 1816; in ogni caso, anche considerando solo il
periodo di Sant’Elena, la versione edita è considerevolmente
più ampia rispetto a quella originaria. Las Cases quindi
ampliò e sviluppò molte parti e aggiunse interi paragrafi,
utilizzando talora opere pubblicate dopo la morte di
Napoleone, ad esempio i primi volumi del Recueil de pièces
authentiques sur le captif de Saint-Hélène (Raccolta di documenti
autentici sul prigioniero di Sant’Elena) apparsi nel 1821-1822.
Da questo raffronto è emerso che alcune delle più celebri frasi
attribuite a Napoleone, come «che romanzo la mia vita!»
oppure «io sono il Messia della rivoluzione», non si ritrovano
nel manoscritto. Si pone perciò l’esigenza di valutare in che
misura l’opera di Las Cases sia affidabile, rappresenti cioè un
fedele resoconto del pensiero di Napoleone. Questo problema
è particolarmente importante, come vedremo, in relazione
alle sue valutazioni politiche, che sono state ampiamente
utilizzate dalla storiografia.

Il Memoriale ribadisce naturalmente la validità dei principi


fondamentali sui quali erano fondate le costituzioni
dell’Impero: l’esigenza dell’unità e della concentrazione del
potere (Mem. e Ms., 5 luglio 1816) e la diffidenza verso la
rappresentanza parlamentare. Parlando della monarchia di
Luigi XVIII, Napoleone avrebbe ribadito a Sant’Elena il suo
antiparlamentarismo: «Le Assemblee non hanno mai riunito
prudenza ed energia, saggezza e vigore» (Mem. e Ms., 12-15
gennaio 1816). Quanto all’accusa, rivoltagli dai suoi avversari,
di avere concentrato nella sua persona tutto il potere e di
avere soffocato ogni forma di dissenso, egli la giudicava
«banale e volgare» (Mem., 2 settembre 1816): il carattere
autoritario del regime era stato la conseguenza inevitabile
delle condizioni eccezionali nelle quali egli aveva assunto e
mantenuto la guida della nazione francese.

Napoleone viene presentato nelle pagine del Memoriale


come «l’uomo della rivoluzione» (Ms., 12-15 gennaio 1816),
che aveva portato in tutta Europa i principi del 1789. Il suo
Impero, fondato sulla sovranità popolare, si contrapponeva
radicalmente alle monarchie di diritto divino e ne negava alla
radice la legittimità (Mem., 28-31 ottobre 1815). Di qui
l’insuperabile ostilità dei sovrani della vecchia Europa, che
andava ben al di là della sua persona: «Essi odiano la
rivoluzione ancora più di me» (Ms., 12-15 gennaio 1816).
Anche le guerre che aveva condotto non erano nate dalla
smisurata ambizione di cui lo si accusava: il conflitto europeo
era stato uno scontro senza quartiere fra il passato e
l’avvenire, fra l’Europa di antico regime e i principi della
rivoluzione, nel quale era stato necessario «abbattere per non
essere abbattuti» (Mem., 2 settembre 1816).

A questo proposito va osservato che nelle riflessioni sulla


rivoluzione tramandateci dal Memoriale Napoleone esprime
un giudizio molto equilibrato sulla figura di Maximilien
Robespierre (1758-1794), il quale a suo parere, dopo avere
abbattuto le fazioni che agitavano allora la Francia, aveva
intenzione di ripristinare l’ordine e la moderazione (Mem. e
Ms., 18 novembre 1815). Egli afferma anzi a un certo punto:
«Regola generale: mai rivoluzione seria senza terrore» (Mem. e
Ms., 3 settembre 1821). Questa posizione è confermata da una
conversazione con Bertrand, nella quale egli coglie con
lucidità i limiti intrinseci della politica dei girondini, incapaci
di guidare il corso degli eventi, e riconosce alla Montagna il
merito di avere salvato la rivoluzione (Cahiers, 15 o 16 marzo
1816). Queste valutazioni vanno ricollegate a quelle, riferite in
precedenza, sulle circostanze straordinarie che lo avevano
obbligato a concentrare tutto il potere nella sua persona:
Napoleone stabiliva in tal modo una linea di continuità fra la
propria azione, certo priva degli eccessi del Terrore, e il
governo forte garantito dal Comitato di salute pubblica per
salvare la Francia dalla controrivoluzione e dagli attacchi
della coalizione europea.

Ma Napoleone era stato anche un uomo d’ordine,


consapevole che una rivoluzione è «uno dei più grandi mali
con cui il Cielo può affliggere la terra», è «il flagello della
generazione che la esegue» in quanto «sconvolge tutto» (Mem.
e Ms., 3 settembre 1816). Egli rivendicava perciò il merito di
avere fermato il torrente impetuoso che, sorto dalla
rivoluzione, minacciava di travolgere l’ordine politico e
sociale:

Io ho chiuso la voragine dell’anarchia e ho sbrogliato il caos. Ho ripulito la


Rivoluzione, ho nobilitato i popoli e ho rafforzato i re (Mem., 1o maggio
1816).

I vecchi sovrani, paralizzati dal terrore nei loro palazzi, non


erano in grado di assorbire l’urto delle nuove idee, mentre lui
solo, in quanto figlio della rivoluzione e garante dei suoi
interessi, aveva saputo ergersi a mediatore fra il passato e
l’avvenire, e per questo (come indicano le parole messe in
corsivo da Las Cases) era stato accusato da alcuni di avere
tradito gli ideali repubblicani:

La causa del secolo era vinta; la rivoluzione compiuta; non si trattava che
di conciliarla con ciò che essa non aveva distrutto. Ora quest’opera mi
apparteneva: io l’avevo preparata da lunga data, a spese della mia
popolarità forse. Non importa. Io diventavo l’arca dell’antica e della nuova
alleanza, il mediatore naturale fra l’antico e il nuovo ordine di cose. Avevo
i principi e la fiducia dell’uno, mi ero identificato con l’altro; appartenevo
a tutti e due; avrei fatto in coscienza la parte di ciascuno (Mem., 24 agosto
1816).

Coloro che lo avevano sconfitto si illudevano di avere


stabilito a Vienna un sistema politico solido e duraturo, ma
non si avvedevano che, anche dopo la sua uscita di scena, le
istanze di progresso generate dalla rivoluzione continuavano
a operare nella società europea:

Niente potrebbe ormai distruggere o cancellare i grandi principi della


nostra rivoluzione; queste grandi e belle verità [...] sono ormai immortali
[...]. Esse saranno la fede, la religione, la morale di tutti i popoli: e questa
era memorabile si ricollegherà, qualunque cosa si sia voluto dire, alla mia
persona, perché dopo tutto, io ho fatto splendere la fiamma, ho
consacrato i principi e oggi la mia persecuzione finisce di farmene
diventare il Messia (Mem., 9-10 aprile 1816).

Con grande lucidità politica, Napoleone nell’esilio di


Sant’Elena previde i moti che le forze liberali e nazionali
avrebbero messo in atto contro la politica reazionaria della
Santa alleanza, e volle presentarsi, in quanto incarnazione dei
principi del 1789, come principale punto di riferimento per
quanti lottavano per la libertà e l’indipendenza dei popoli. Fu
questa geniale intuizione a consentirgli di vincere, nella
solitudine dell’esilio, l’ultima battaglia contro i suoi nemici.
Stando a Las Cases, egli avrebbe dichiarato che, se non fosse
stato sconfitto in Russia, sarebbe stato lui a creare nel
continente un vero e giusto equilibrio, garante della pace e
delle aspirazioni dei popoli:
Il sistema europeo si trovava fondato; non si trattava che di organizzarlo.
Soddisfatto su questi grandi punti, e tranquillo dappertutto, avrei avuto
anch’io il mio congresso e la mia santa alleanza. Sono idee che mi sono
state rubate. In quella riunione di tutti i sovrani, avremmo trattato i
nostri interessi in famiglia e ci saremmo limitati ad amministrare i nostri
popoli (Mem., 24 agosto 1816).

Dalle pagine del Memoriale emerge anche una radicale


critica delle decisioni del Congresso di Vienna, che aveva
perseguito un equilibrio basato su un bilanciamento di forze
fra le grandi potenze senza alcuna considerazione per il
principio di nazionalità. Ecco un significativo brano tratto
dalla risposta ufficiale al governatore relativamente alla
Convenzione sulla detenzione di Napoleone firmata dalle
grandi potenze il 2 agosto 1815. La lettera reca la firma di
Montholon, ma fu dettata dallo stesso Napoleone:

Coloro i quali pensano che le nazioni siano greggi appartenenti, per


diritto divino, ad alcune famiglie, non corrispondono [...] allo spirito del
secolo [...]. Infatti i re non sono che magistrati ereditari, che non esistono
che per la felicità delle nazioni, e non già le nazioni per la soddisfazione
dei re (Mem. e Ms., 23 agosto 1816).

Se avesse potuto portare a termine il suo disegno politico,


Napoleone avrebbe garantito la realizzazione delle aspirazioni
nazionali dei principali popoli europei: ciascuno di essi,
francesi, tedeschi, spagnoli e italiani, avrebbe dato vita a un
organismo nazionale, e tutti si sarebbero riuniti in una grande
federazione retta da un Congresso simile a quello degli Stati
Uniti o alle Anfizionie greche. Las Cases ci presenta quindi
Napoleone addirittura come un anticipatore dell’unità del
continente europeo, e perfino di una sua unificazione
monetaria:

Avrebbe anche voluto, per tutta l’Europa, una stessa moneta sotto conii
differenti, gli stessi pesi, le stesse misure, le stesse leggi ecc. [...] Ben
presto l’Europa non sarebbe stata effettivamente che un unico popolo.
Ognuno, viaggiando dappertutto, si sarebbe sempre trovato nella patria
comune ecc. (Mem., 14 novembre 1816).

In questa prospettiva i programmi di Napoleone avrebbero


aperto la strada anche a un drastico ridimensionamento degli
eserciti, attraverso un accordo sulla riduzione bilanciata degli
armamenti:

L’Imperatore aveva il progetto, alla pace generale, ci ha detto più di una


volta, di indurre ogni potenza a un’immensa riduzione degli eserciti
permanenti. Avrebbe voluto che ogni sovrano si fosse limitato alla sola
guardia, come schema del rimanente dell’esercito da riunire al momento
del bisogno (Mem., 14 novembre 1816).

Non sarà sfuggito il fatto che buona parte dei brani relativi
ai discorsi politici di Napoleone, ad esempio quelli sulla
federazione europea e sull’unificazione monetaria, non
figurano nel manoscritto originario. Si può ipotizzare quindi
che per questa parte Las Cases abbia in vario modo ampliato
e sviluppato le considerazioni raccolte a Sant’Elena,
adattandole alle condizioni politiche dell’Europa nel
momento in cui redigeva la sua opera. Quanto c’è dunque di
Las Cases nei programmi politici esposti nel Memoriale?

A questo proposito bisogna innanzitutto dire che egli non


inventò nulla: come si è visto nel capitolo quinto, fin dal 1815
si era radicata nella popolazione francese l’immagine di un
bonapartismo «democratico», che ridimensionava, come una
necessità transitoria, la rinascita della monarchia e della
nobiltà, e considerava Napoleone soprattutto come erede
della rivoluzione. Al riguardo è significativa la definizione di
bonapartismo proposta nel 1821 da Alexandre Barginet,
incentrata proprio sul richiamo all’eredità della rivoluzione:
Cos’è dunque un bonapartista? È forse un partigiano del governo
imperiale? Credo di avere già detto che questo governo non aveva alcun
elemento durevole, ed era legato all’esistenza di colui che l’aveva creato;
con Napoleone, questa costituzione non ha potuto mantenersi; senza
Napoleone, sarebbe insostenibile. Un bonapartista sarebbe al contrario
colui che, richiamando alla sua mente le grandi azioni di una rivoluzione
benefica e gloriosa, accorda il suo rispetto e i suoi pensieri a ciò che resta
di essa (Sur Napoléon ou Réponse aux journaux contre-révolutionnaires, Su N. o
risposta ai giornali controrivoluzionari, 1821).

D’altra parte le posizioni accreditate dal Memoriale erano il


punto di arrivo di una riflessione critica sulla propria
esperienza politica avviata da Napoleone subito dopo il
disastro russo. Già nelle considerazioni raccolte nel 1812 dal
suo ambasciatore in Russia, Armand-Augustin, marchese di
Caulaincourt (1773-1827), durante il precipitoso viaggio di
ritorno in slitta verso la Francia, egli, guardando al di là delle
contingenze politiche immediate, aveva molto accentuato la
dimensione europea della sua azione, già per altro richiamata
più volte in precedenza. Aveva detto allora orgogliosamente a
Caulaincourt: «Io vedo le cose più dall’alto» (In islitta, p. 59),
criticando la miopia degli altri sovrani che lo combattevano
senza comprendere che dopo la rivoluzione tutto era mutato,
che il vecchio equilibrio del continente era finito per sempre e
che lui solo era in grado di difendere le nazioni europee dal
predominio commerciale della Gran Bretagna. Le
argomentazioni di Sant’Elena trovano una puntuale
anticipazione nelle frasi, riferite da Caulaincourt, nelle quali
Napoleone affermava di combattere «per i più cari interessi
dell’Europa» (In islitta, p. 146); una volta ridotta alla ragione
l’Inghilterra, i popoli europei sarebbero stati ripagati dei loro
sacrifici con lo stabilimento di una pace generale, nella quale
tutti avrebbero trovato occasione di sviluppare le proprie
economie al riparo dalla rapacità del commercio inglese.
Avevano torto perciò i popoli dei territori conquistati a
lamentarsi: essi non erano stati sottomessi ma erano stati
amministrati come dipartimenti francesi; dovevano avere
pazienza e avrebbero goduto di tutti i vantaggi derivanti dal
nuovo assetto del continente. Ritornato al potere nel 1815,
dopo la fuga dall’isola d’Elba, Napoleone aveva operato poi
una vera svolta in senso liberale, che prefigurava molti dei
progetti enunciati a Sant’Elena: con la collaborazione del
liberale Benjamin Constant egli sancì la libertà di stampa,
abolendo la censura, e ripristinò la rappresentanza
parlamentare.

Alla luce di queste considerazioni si può stabilire una linea


di continuità che parte dalla riflessione successiva alla
sconfitta russa per giungere fino alle analisi dell’esilio, nelle
quali Napoleone poté sviluppare liberamente progetti e motivi
che per ragioni di opportunità aveva solo accennato in
precedenza, accentuandone il carattere propagandistico. In
tal senso ci sembra che, pur con le dovute riserve e
precauzioni, il Memoriale rispecchi nel complesso in modo
abbastanza attendibile la strategia concepita da Napoleone,
anche se probabilmente Las Cases accentuò alcuni temi,
precisandone e ampliandone i contenuti. Egli ebbe però
soprattutto il merito di dare organicità e coerenza alle
riflessioni raccolte a Sant’Elena, realizzando un’operazione
politica di straordinaria importanza: grazie a lui infatti il
bonapartismo, animato allora soprattutto dai ricordi delle
masse popolari e dalla crescente suggestione del mito nella
vita culturale e artistica, ma privo di una precisa
configurazione politica, si trovò ad avere «un corpo di dottrina
press’a poco coerente che gli permetteva, in prospettiva, di
non scomparire» (Bluche, p. 193).

Non a caso fu attraverso le pagine del Memoriale che


l’eredità di Napoleone si impose alla cultura europea del XIX
secolo. In tal senso è veramente emblematico il caso di Heine,
il quale rifiutava la definizione di «accanito bonapartista», e
dichiarava di amare soprattutto la rivoluzione, che aveva dato
«il segnale della guerra di liberazione dell’umanità» e
promosso quella religione della libertà nella quale egli
intendeva «vivere e morire». Di conseguenza, se ammirava il
genio di Napoleone, lo amava «incondizionatamente [...] solo
fino al 18 brumaio, perché in quel giorno egli tradì la libertà»
(Reisebilder, pp. 346-350, passim). In questa prospettiva Heine
allineava le sue posizioni politiche a quelle che si potevano
ricavare dal Memoriale, accettando in pieno l’immagine di un
Napoleone mediatore fra il passato e l’avvenire, fra i principi
rivoluzionari da un lato e la garanzia del predominio sociale
dei notabili dall’altro:

Poiché lo spirito della nostra epoca non è soltanto rivoluzionario ma è


sorto dalla fusione delle due tendenze, quella rivoluzionaria e quella
controrivoluzionaria, Napoleone non agì mai né in senso esclusivamente
rivoluzionario, né esclusivamente controrivoluzionario bensì ispirandosi
alle due concezioni, ai due principi, alle due correnti, le quali trovarono in
lui una sintesi; e di conseguenza la sua azione fu sempre naturale,
semplice, grande, mai convulsamente brusca, sempre tranquilla e mite
(Reisebilder, p. 162).

Di conseguenza anche Heine criticava la preconcetta ostilità


dei nemici di Napoleone verso la sua opera di sintesi politica,
la sola in grado di garantire contro le spinte rivoluzionarie
l’assetto della società:
Napoleone Bonaparte era un aristocratico, un nobile avversario
dell’uguaglianza borghese, e fu quindi un colossale equivoco da parte
dell’aristocrazia europea, rappresentata dall’Inghilterra, di combatterlo a
morte; infatti, anche se egli pensava di apportare alcuni mutamenti nelle
file di questa aristocrazia, ne avrebbe tuttavia mantenuto la maggior
parte e salvato anche il suo fondamentale principio, anzi avrebbe
rigenerato questa aristocrazia che invece ora si trascina indebolita dalla
vecchiaia, dalla perdita di sangue e dalla stanchezza per la sua ultima,
certo ultimissima vittoria (Reisebilder, p. 346).

A questo punto bisogna affermare con chiarezza che i


progetti politici esposti nel Memoriale nascevano da un’abile
mistificazione, che interpretava in modo unilaterale e
palesemente falso le linee adottate da Napoleone nella sua
azione politica.

Per quanto concerne la dimensione europea, egli l’aveva


effettivamente richiamata più volte per legittimare le sue
conquiste, giustificate dalla missione storica, attribuita a sé e
quindi alla Francia, di diffondere nel continente la civilisation,
ovvero la civiltà, vale a dire le nuove idee elaborate dal
pensiero dei Lumi e imposte poi dalla rivoluzione. In tal senso
stabiliva anche per questo aspetto una diretta linea di
continuità fra il proprio espansionismo e l’universalismo della
rivoluzione, che fin dall’inizio si era fatta portatrice di un
messaggio di liberazione per l’umanità intera. Sennonché
proprio in questa prospettiva appariva del tutto pretestuosa
l’attribuzione a Napoleone di un progetto di federazione
politica dell’Europa. Intanto identificando la civilisation con la
Francia egli poneva a fondamento della conquista
l’imposizione dell’egemonia non solo culturale, ma anche
economica e politica della Grande Nazione, egemonia contro
la quale larga parte della società europea si era sollevata nel
1814. Quanto poi al diritto di autodeterminazione dei popoli,
nulla era più lontano dall’azione politica di Napoleone,
sempre volta a imporre il predominio della Francia ai popoli
conquistati. Dopo la nascita del figlio egli pensò di dare al suo
Impero un assetto più centralizzato, anche per
ridimensionare il ruolo dei membri della sua famiglia ai quali
aveva delegato l’amministrazione di molti territori conquistati
e che non avevano corrisposto alle sue aspettative. In questo
quadro il titolo di Re di Roma dato al figlio prefigurava
probabilmente l’intento di cedergli a un certo punto la corona
d’Italia. Questi progetti, appena abbozzati alla vigilia
dell’attacco alla Russia, divennero inattuali dopo la sconfitta.
In ogni caso, se anche egli fosse riuscito a unificare la penisola
affidandola al figlio, si può essere certi che mai le avrebbe
concesso una reale indipendenza e autonomia dalla Francia.
Le aspirazioni all’indipendenza delle nazioni europee,
maturate anche grazie alle innovazioni portate dalla
conquista francese, furono uno dei principali fattori di crisi
del suo Impero. In tal senso Napoleone realizzò un vero
capolavoro politico riuscendo a presentarsi da Sant’Elena
come difensore dei diritti dei popoli contro le potenze della
Santa alleanza.

Non meno pretestuosa appare l’immagine liberale che


Napoleone diede di sé attraverso le pagine del Memoriale.
Stando al resoconto di Las Cases egli avrebbe dichiarato che,
una volta compiuta la storica missione di garantire
l’affermazione della civiltà in Europa, si sarebbe ritirato nei
suoi confini, ponendo fine alla guerra, alla quale era stato
obbligato, e avrebbe potuto cancellare quei caratteri autoritari
del regime che erano stati necessari per combattere i suoi
avversari:
Di ritorno in Francia, in seno alla patria, grande, forte, magnifica,
tranquilla, gloriosa, avrei dichiarato i suoi confini immutabili; ogni guerra
futura puramente difensiva, ogni nuovo ingrandimento, antinazionale.
Avrei associato mio figlio all’Impero; la mia dittatura sarebbe finita, e
sarebbe cominciato il suo regno costituzionale (Mem., 24 agosto 1816).
In realtà l’autoritarismo, lungi dall’essere una necessità
transitoria, era un elemento costitutivo della politica
napoleonica, che mirò fin dall’inizio a cancellare la principale
conquista politica della rivoluzione, la rappresentanza
parlamentare, sostituendo alle libere elezioni il plebiscito,
inteso come un pronunciamento popolare che delega a un
uomo la rappresentanza degli interessi e della volontà della
nazione. Non a caso nei quattordici anni del suo dominio
politico Napoleone non affrontò mai libere elezioni, e quando
diede spazio effettivo al voto popolare, con l’elezione dei
rappresentanti della Camera nel 1815 durante i Cento giorni,
si trovò di fronte una maggioranza di liberali che gli era
sordamente ostile. Tutta la sua azione fu segnata
dall’antiparlamentarismo, dall’insofferenza verso le
discussioni e i limiti proposti dalle assemblee rappresentative,
che impedivano a suo parere il pieno estrinsecarsi
dell’onnipotenza del capo, al quale dovevano essere affidati
tutti i poteri. Il bonapartismo non era compatibile con libere
elezioni, anche a suffragio ristretto; il richiamo alla sovranità
popolare doveva necessariamente esprimersi attraverso il
plebiscito, di regola manipolato dal potere.

Sulla base di queste premesse fu elaborata, nel corso dei


decenni successivi, la categoria politica del cesarismo-
bonapartismo, incentrata su un modello di stato autoritario a
base plebiscitaria. Attribuendo a se stesso la funzione di
mediatore fra l’antico e il nuovo, fra la necessità di preservare
la gerarchia sociale basata sul diritto di proprietà e le istanze
democratiche della rivoluzione, Napoleone prefigurava
l’intrinseca ambiguità che avrebbe caratterizzato fin
dall’origine la categoria del bonapartismo, fondata su un
precario equilibrio fra due criteri di legittimità contraddittori:
da un lato la sovranità popolare, ridotta però a un’investitura
plebiscitaria dal basso, dall’altro un’autorità che senza
controlli o limiti guida lo stato e regola la vita sociale.

Nonostante i suoi caratteri autoritari, l’Impero napoleonico


ebbe un’impronta progressista, in quanto svolse la funzione
di garantire le conquiste della rivoluzione contro le
monarchie assolute di antico regime. A partire dal Secondo
Impero di Napoleone III e poi nella seconda metà
dell’Ottocento, di fronte ai pericoli provenienti per le classi
dominanti dall’allargamento del suffragio e dalla nascita delle
prime organizzazioni operaie e socialiste, il modello assunse
sempre più, e diremmo definitivamente, una connotazione di
destra, confluendo nei partiti e movimenti di orientamento
autoritario e nazionalista.
Capitolo ottavo

Le origini della leggenda

Mentre in Francia il mito di Napoleone si era affermato


nelle classi popolari fin dal 1815 come una reazione
spontanea alla restaurazione borbonica, gli ambienti colti solo
a partire dal 1821 subirono il fascino della sua figura, ma nel
giro di pochi anni ne furono conquistati fino a imporla come
un tema centrale della vita culturale e artistica dell’età
romantica.

Appena lesse la notizia della morte di Napoleone, nella


«Gazzetta di Milano» del 16 luglio, Alessandro Manzoni
compose di getto, in soli tre giorni, Il Cinque Maggio, poesia
destinata a una vasta fortuna europea, che sarebbe diventata
anche, non senza una certa sorpresa dell’autore, la sua opera
poetica più famosa. Già nella stesura originaria della prima
strofa compariva il celebre incipit «Ei fu», che riprendeva la
frase iniziale («Napoleone Bonaparte non è più») dell’articolo,
tratto come di consueto dai giornali francesi:

Ei fu: come al terribile


Segnal della partita
Tutta si scosse in fremito
La salma inorridita,
Come agghiacciata immobile
Dopo il gran punto sta.
Tale al tonante annunzio
Stette repente il mondo
Che non sa quando, in secoli,
L’uomo a costui secondo
La sua contesa polvere
A calpestar verrà.

Nella versione definitiva la similitudine fra l’inerte salma di


Napoleone e gli effetti della sconvolgente notizia
sull’opinione pubblica e sullo stesso poeta è svolta in forma
più meditata, ed esprime con maggiore efficacia la condizione
dell’umanità, «percossa», «attonita», «muta». Ma soprattutto
si deve osservare come fin dalla prima redazione, vergata di
getto sul foglio, i versi tendessero alla conclusione,
all’immagine finale del trionfo della fede nella quale alfine
l’anima tormentata del grande scomparso trova la sua
consolazione e la sua definitiva pacificazione. Non a caso la
versione originaria è più breve, va rapidamente ai versi finali,
per altro appena abbozzati (solo l’ultimo sarà mantenuto),
mentre solo successivamente il poeta aggiunse le strofe
centrali che ripercorrono le tappe principali della vicenda
politica e umana di Napoleone:

Pace alla tomba: il Giudice


Che voi pur anco aspetta
Sul letto del suo gemito
Accanto a lui posò.

Manzoni, informato in via ufficiosa che l’ufficio della


censura non avrebbe dato la sua approvazione alla stampa
della poesia, ritenuta per il suo argomento pericolosa,
organizzò con l’aiuto degli amici, probabilmente nella
speranza di un’edizione fuori dai confini del Regno lombardo-
veneto, una circolazione clandestina di copie manoscritte che
furono recapitate a diversi destinatari, italiani e stranieri.
L’ode fu conosciuta in tal modo da Johann Wolfgang von
Goethe (1749-1832), che nel 1822 ne pubblicò una traduzione,
che fu la prima edizione dell’opera, anche se in tedesco, e da
Alphonse de Lamartine (1790-1869), che la giudicò «perfetta»
e disse addirittura che avrebbe voluto averla scritta lui. Anche
a Milano in diversi ambienti si ebbe notizia della poesia, e
molti riuscirono a vederne il testo. La prima edizione italiana,
non curata dall’autore, apparve nel 1823 a Torino in un
volumetto che raccoglieva anche gli Inni sacri, abile
escamotage per evitare i rigori della censura. Furono
realizzate nel contempo diverse traduzioni latine. L’opera fu
musicata da Giovanni Arcangelo Gambarana (1768-1831);
sappiamo che Manzoni ebbe modo di sentir cantare la sua
poesia in una serata a casa sua. La circolazione clandestina
del Cinque Maggio fu molto importante non solo per il suo
valore poetico, che ispirò diversi imitatori, ma soprattutto
perché divulgò a livello europeo quel repentino, sincero moto
di commozione, che molti poi avrebbero preso a modello, di
fronte a un evento avvertito come un passaggio decisivo della
storia.

Vi furono altri italiani che sentirono il bisogno di dedicare


un ricordo al grande scomparso. Fra questi ricordiamo il
novarese Pietro Custodi (1771-1842), che, ardente e fiero
democratico, aveva denunciato con vigore nel 1797 la politica
italiana di Bonaparte, ed era dovuto per questo fuggire da
Milano per sottrarsi al decreto di arresto emanato contro di
lui dal generale in capo dell’armata d’Italia. In seguito aveva
fatto parte a Milano dell’amministrazione napoleonica,
ricoprendo in particolare la carica di segretario del ministero
delle finanze. Il 17 settembre 1821 egli, che pure non era un
poeta, compose un’ode In morte di Napoleone, rimasta
manoscritta fra le sue carte, nella quale esaltava, oltre alle
straordinarie virtù del condottiero, la fermezza d’animo
dell’imperatore sconfitto, «quanto più misero, tanto più
grande» nel doloroso esilio di Sant’Elena:

Prigion nel mezzo dell’immenso Atlantico,


su nudo scoglio, inospitale, angusto,
non si mostrò giammai più imperturbabile,
né mai più augusto.

Tuttavia i principi repubblicani della sua gioventù agivano


ancora nel suo animo, tant’è che nelle ultime strofe egli
rimproverava a Napoleone proprio il tradimento delle
speranze in un avvenire migliore che i popoli avevano riposto
in lui e che egli, imponendo il suo dispotismo e dando sfogo
alla sua ambizione, aveva invece ignorato; proprio questo
rimorso avrebbe tormentato l’anima del grande scomparso
dopo la morte:

Ma un verme roditore avrà, che vindice


a lui giammai si scosterà da lato;
ché affinate lasciò tra l’arti regie
quelle di stato.
Né la depressa condizion de’ popoli
la minor fia tra le sue cure ultrici:
egli i lacci afforzò di quei che rendere
potea felici.
Un sincero rammarico sembrano esprimere questi versi Per
la morte di Napoleone del ravennate Paolo Costa (1771-1836),
che aveva partecipato al movimento democratico nel triennio
repubblicano 1796-1799 e si era in seguito dedicato all’attività
letteraria:

Sta presso al mesto salice


quel ch’or di lui n’avanza;
la gloria e la speranza
del mondo al ciel volò.

Molto severa fu invece la valutazione che dell’opera


napoleonica diede il milanese Giunio Bazzoni (1801-1849),
autore di due odi, Sulla tomba di Napoleone (1821) e Sant’Elena
(1826). Dalla prima riproduciamo questi versi molto critici:

E bagnerem di lacrime
i suoi sfrondati allori?
Benediremo il tumulo,
lo spargerem di fiori?
No! chiese al mondo impero e non amor.
Strappò alle madri i figli
per trarli a ingiusta guerra,
di pugne, di perigli
tutta coprì la terra
e di pianto e di sangue e di terror.

Bazzoni, allora appena ventenne, che sarebbe diventato in


seguito un ardente mazziniano e avrebbe preso parte ai moti
del 1848, rimproverava a Napoleone soprattutto di avere illuso
la sua terra, l’Italia: dapprima infatti le aveva presentato la
concreta possibilità di diventare finalmente libera e una, e poi
l’aveva tradita abbandonandosi a una stolta ambizione e alla
sete del potere, lasciandola serva e divisa, ricolma solo di
«ceneri e rimembranze». Nella seconda ode, Bazzoni
contrapponeva allo sconfitto Napoleone la figura, di lui ben
più grande, di Washington, concludendo con una precisa
accusa: «[...] Fra ceppi e lagrime / giacque Europa, e fu per te»
(Poesie).

In generale gli ambienti intellettuali e politici della penisola,


ispirati dagli ideali risorgimentali, espressero di fronte alla
leggenda napoleonica, che si stava affermando in Francia e in
larga parte della cultura europea, forti riserve, legate
soprattutto al mancato sostegno del programma nazionale
italiano. In tal senso è molto significativa la poesia composta
nel 1827 da Silvio Pellico (1789-1854) che, pur lontanissimo
per formazione e per orientamenti ideali da Napoleone, volle
anch’egli, prigioniero nella fortezza dello Spielberg, ricordare
commosso il grande condottiero morto nella solitudine di
Sant’Elena:

Io cui consuma il carcere,


Io cui la patria è per lui volta in pianto,
Io non l’amava, ed or plorando il canto.

Pellico immagina che lo spettro di Napoleone vada a


visitarlo nella sua cella e lo conforti, con il suo fiero contegno,
infondendogli il coraggio per resistere alle dure condizioni del
carcere. Tuttavia permane nel poeta una posizione critica, che
lo induce a un certo punto a rimproverare a Napoleone il
tradimento delle speranze riposte in lui dai patrioti italiani:

[...] degl’Itali,
oh degl’Itali almen pietà maggiore
preso t’avesse, o grande! [...]
(Ode per N.)

Napoleone ammette i suoi torti («Errai!»), ma quando il


poeta gli chiede quale sarebbe stata la sorte della sua patria
infelice, scompare, lasciandolo «oppresso» sul pagliericcio
nella solitudine della sua cella. Per tutta l’età risorgimentale
la condanna della politica italiana di Bonaparte prima e di
Napoleone poi fu il nodo centrale dei giudizi e degli
atteggiamenti assunti dalle ricostruzioni storiografiche, dalla
letteratura e dalla cultura in genere.

All’annuncio della morte, anche coloro che, come


l’austriaco Franz Grillparzer (1791-1872), gli erano stati e gli
sarebbero rimasti ostili, sentirono il bisogno istintivo di
esaltare la sua grandezza. Nella poesia a lui dedicata nel 1821,
che costituiva una delle sue prime prove letterarie, lo scrittore
austriaco cercò di formulare sul nemico scomparso un
giudizio «indipendente dalla passione», sereno ed equanime:
«La vita conosce l’amore e l’odio; la gloria dei morti è il bene
sacro della storia». A suo parere Napoleone, che egli nel 1809
aveva visto sulla scalinata del palazzo di Schönbrunn
assistere alla sfilata dell’armata, doveva essere posto «accanto
ad Alessandro e Cesare, fra gli eroi che continuano a vivere
sulle labbra degli uomini». Certo Grillparzer, fedele servitore
della casa di Asburgo e quindi nemico del principio di
nazionalità, che costituiva un pericolo mortale per l’Impero
guidato da Metternich, non poteva avere simpatia per la
modernità incarnata dal modello di stato napoleonico, che
veniva a sconvolgere il vecchio impianto del mondo
asburgico, ancora legato alle sue radici barocche: «Amarti non
posso. La tua dura missione fu di essere quaggiù il flagello di
Dio». Eppure dai suoi versi traspariva un recondito moto di
nostalgia per un’età eroica che avvertiva tramontata per
sempre con la morte del suo protagonista:

Il tuo oggetto minore fu di essere inviato, pieno di splendore, per coprire


la nostra orrenda nudità, per mostrare che degli esseri completi, nobili,
grandi possono concepirsi ancora nel nostro mondo nel quale tutto è
frammento e che, senza di essi, si dissolverebbero nel proprio nulla, per
mostrare che la razza esiste ancora, la razza dalla mano vigorosa che
vinse a Canne e lottò a piè fermo alle Termopili.

Si intuisce qui la personalità complessa, e contorta, del


poeta viennese. Quest’uomo fu per tutta la vita un oscuro,
pedante burocrate, in linea con i caratteri di quell’età che si
definisce «Biedermeier», dal nome di un personaggio
letterario che incarna la figura del borghese medio, fedele alle
autorità ma legato soprattutto alla tranquillità delle pareti
domestiche. Eppure covava al fondo del suo animo una
segreta inquietudine, che invano egli cercava di acquietare nel
senso del dovere e dell’ordine. Nel brano colpisce soprattutto
il contrasto fra la propria realtà, definita nuda, spezzata,
frammentata, e l’eroica pienezza di vita rappresentata da
Napoleone. Certo il pessimismo, che nei momenti migliori si
colorava della tenera malinconia tipica di una certa anima
popolare viennese, portava Grillparzer ad accettare come
unica condizione di sopravvivenza per le strutture imperiali
l’immobilismo, nutrito del culto di una prestigiosa tradizione
che sola poteva preservarlo dai pericoli della modernità. Ma
l’eroismo napoleonico esercitò a lungo un recondito fascino
sul mondo poetico di Grillparzer, che non a caso pensò di
dedicargli un dramma, poi non realizzato perché un simile
argomento non avrebbe mai ottenuto l’approvazione delle
autorità. Egli allora compose nel 1823 Fortuna e morte del re
Ottokar, dramma incentrato sulla vicenda del re Ottokar II di
Boemia, che, scontratosi con l’imperatore Rodolfo I di
Asburgo, fu sconfitto e morì in battaglia nel 1278. Era un
personaggio che per diversi aspetti, come la sfrenata
ambizione e la sete di potere, presentava molte analogie con
la figura di Napoleone, tanto che anche per questo la
pubblicazione e la rappresentazione dell’opera furono
ritardate dalla diffidenza della censura. Naturalmente il
dramma celebra la figura del capostipite della dinastia, di cui
si esaltano la prudenza e la saggezza, ma è il protagonista a
ispirare le pagine più felici. A fronte del personaggio, tutto
sommato scialbo, di Rodolfo, è Ottokar che si impone come la
vera fonte di ispirazione di Grillparzer. Particolarmente
potente è la scena in cui il re boemo, umiliato e sconfitto,
ritrova nella caduta tutta la sua umanità che lo riscatta, prima
della fine, dagli errori del passato. In questa dicotomia fra i
richiami del senso eroico della vita e i principi del vecchio
mondo asburgico si manifesta uno dei caratteri più originali
del poeta austriaco, nella cui condizione di individuo scisso e
duplice Claudio Magris ha voluto vedere una prima
espressione di quell’«uomo senza qualità» che sarebbe
diventato una delle tipiche creazioni della grande letteratura
mitteleuropea fra Ottocento e Novecento (Danubio, p. 89).

La posizione della cultura tedesca di fronte alla scomparsa


di Napoleone fu ancora in larga misura influenzata dal
persistere della vigorosa reazione antifrancese del 1814, che
aveva contribuito in modo determinante alla nascita della
leggenda nera. Mantenne invece la sua ammirazione per
Napoleone Goethe, che lo aveva incontrato a Erfurt nel 1808 e
aveva ricevuto la Legion d’onore. Si spiega anche così la sua
decisione di tradurre subito in tedesco la poesia di Manzoni.

Dal Cinque Maggio manzoniano trasse ispirazione, per la


composizione di una scena drammatica, La morte di Napoleone,
Adalbert von Chamisso (1781-1838), francese naturalizzato
prussiano, la cui famiglia era emigrata in Germania per
sfuggire alla rivoluzione. Ammiratore di Napoleone, allo
scoppio della guerra fra Prussia e Francia nel 1806 era rimasto
a lungo diviso fra il persistente legame con la terra di origine
e la patria adottiva. Egli fu critico nei confronti del dispotismo
napoleonico, ma il giudizio negativo sui Borbone e sulla
Restaurazione, che lo portò a rivalutare il Napoleone liberale
presentato da Las Cases, e la partecipazione umana al
dramma del prigioniero di Sant’Elena, provocarono in lui una
rinascita dell’antica ammirazione per l’eroe. Nella poesia egli
raffigura Napoleone sul letto di morte, mentre nel delirio
invoca il figlio; compaiono allora tre figure allegoriche,
l’Europa, la Storia e la Poesia. La prima gli rimprovera di avere
versato molto sangue senza averle dato la libertà, e la Storia
gli ricorda la sua condanna, ma la Poesia intende cantare le
sue gesta astenendosi da ogni giudizio: «Solo servi han potuto
oltraggiarti, adularti. Vergine del tuo nome è ancora il mio
labbro, consacrato d’ora innanzi alla tua lode eterna, o mio
eroe». Ma ormai le cose terrene perdono ogni importanza, e –
secondo il modello manzoniano – si apre per il defunto la
pace vera oltre la morte.

Un omaggio sincero all’imperatore scomparso venne da


Heine, che compose a suo dire nel 1821, ma forse qualche
tempo prima, la celebre poesia I due granatieri, musicata nel
1840 da Robert Schumann (1810-1856) e da Richard Wagner
(1813-1883). I versi narrano la storia di due soldati dell’armata
che, di ritorno dalla prigionia in Russia, apprendono la notizia
della sconfitta di Napoleone. Uno dei due decide di ritornare
presso la sua famiglia, ma l’altro è deciso a combattere
ancora, e chiede solo all’amico, nel caso dovesse morire, di
seppellire il suo corpo in terra di Francia, con le sue armi,
perché, se avesse sentito il suo imperatore cavalcare «tra
lampi di spade e fragori», sarebbe balzato fuori dalla sua
tomba per difenderlo.

Animato come l’amico Byron da un radicale libertarismo,


l’inglese Percy Bysshe Shelley (1792-1822) appare, nei pochi
«versi scritti apprendendo la morte di Napoleone», molto
severo nei confronti di quest’ultimo. Il poeta chiede alla
Madre Terra come mai, dopo un evento così straordinario, si
mostri ancora nella pienezza della sua allegrezza mattutina, e
addirittura salti e rida:

Come! Non è freddo il tuo pulsante cuore?


Quale scintilla vive nel tuo focolare?
Come! Non è forse risuonato il suo rintocco funebre?
E tu vivi ancora, Madre terra?
La Terra risponde, «e il lampo del disprezzo rideva mentre
essa cantava»:
«Ancora viva e ancora ardita», gridò la Terra.
[...] I morti mi riempiono, mi rendono diecimila volte
più piena di rapidità e di splendore e di allegria;
io ero brumosa, e cupa, e fredda,
come un gelido caos che ruotava nel cielo,
finché dallo spirito dei potenti morti
il mio cuore fu riscaldato. Mi nutro di coloro che ho nutrito.

Ma nelle parole finali la voce della Terra non è più irridente


e sfrontata, è appena un sussurro, quasi a esprimere
l’angoscia di fronte al ciclo vitale che involve ineluttabilmente
con sé ogni cosa, anche l’effimera gloria dei potenti:

Sì, viva e ancora ardita, mormorò la Terra,


il feroce spirito di Napoleone si rotolò
nel terrore, nel sangue e nell’oro,
un torrente di rovina dalla sua nascita alla sua morte.
Che i milioni che restano continuino a plasmare
il metallo prima che sia freddo,
e a tessere il sudario della sua vergogna, che come i morti
avvolge anche me, con le speranze che dalla sua gloria sono
svanite.

Molto più coinvolto, anche personalmente, dalla vicenda


napoleonica fu l’amico Byron, autore nel 1814 di una celebre
Ode a Napoleone Buonaparte, diventata uno dei testi classici
della leggenda nera: nel 1942 il musicista viennese Arnold
Schönberg, emigrato negli Stati Uniti, si ispirò ad essa per una
composizione per voce recitante e strumenti volta a
condannare la tirannide di Hitler.
Occorre precisare intanto che l’uso del cognome originario
«Buonaparte», invece di quello francesizzato «Bonaparte»,
non voleva essere denigratorio, come da parte degli avversari
che intendevano evidenziare così la sua condizione di
straniero: era un richiamo ai primi anni della sua carriera, al
giovane generale animato da ideali repubblicani, preferito
evidentemente al restauratore della monarchia.

La genesi dell’ode può essere compresa solo alla luce della


dimensione mitica nella quale fin dagli anni dei suoi studi
Byron proiettò la figura di Napoleone. Lo spirito di rivolta
contro la società, le tradizioni e la morale comune in nome
delle passioni e dei sentimenti dell’individuo indussero il
giovane lord a contrapporre un generico ideale repubblicano
alle istituzioni della sua Inghilterra e alle monarchie assolute
del continente. Da questa istintiva, radicale sete di libertà
nacque la visione eroica di Napoleone, uomo che incarnava i
principi della rivoluzione, che non riconosceva altra legge che
la propria volontà ed era deciso a imporla al mondo intero.
Ma vi era nel rapporto di Byron con il suo idolo, al di là dei
temi propriamente politici, una costante tendenza a
identificarsi con lui, in una commistione di vita e poesia che
fu caratteristica di tutta la generazione romantica. La notizia
dell’abdicazione del 1814 gettò Byron in una profonda
costernazione, in quanto dimostrava che il suo eroe,
preferendo l’umiliazione dell’esilio a una morte onorevole,
non si era mostrato all’altezza della sua gloria. Fu questa
cocente delusione che portò a un repentino rovesciamento
dell’ammirazione in esecrazione, istintiva risposta a una
caduta tanto improvvisa e rovinosa:
È fatta. Ancora ieri re!
E armato a combattere contro i re.
Ed ora sei una cosa senza nome:
così abietto. Eppure ancora vivo!

Byron esprime giudizi molto severi su Napoleone, che per


altro non nomina mai proprio perché ormai «senza nome»,
definendolo una «creatura vile», ma non fa riferimento agli
aspetti negativi della sua politica (il dispotismo, l’ambizione,
l’esecuzione del duca di Enghien) messi in luce dalla
letteratura a lui ostile. Egli lo accusa soprattutto di essersi
comportato come un comune mortale, di essere venuto meno
ai principi dell’onore, che gli imponevano di lasciare il potere
al culmine della sua potenza o di togliersi la vita nel
momento della sconfitta:
Pesata nella bilancia, la polvere dell’eroe
è tanto vile quanto volgare argilla;
i tuoi piatti, o Mortalità, si equilibrano
per tutto ciò che passa all’aldilà:
eppure mi sembrava che scintille più alte
dovessero animare i grandi uomini,
per abbagliare e spaventare;
e non pensavo che il disprezzo potesse così
irridere quegli individui, conquistatori della terra.

Alla fine, profeticamente, il poeta ipotizza per Napoleone,


come unica alternativa, la scelta di accettare la sorte di
Prometeo:

Oppure, come il ladro del fuoco dal cielo,


vorrai resistere al colpo?
E condividere con lui, l’imperdonato,
il suo avvoltoio e la sua rupe!

La delusione del 1814 non esaurì comunque l’interesse di


Byron per Napoleone, ché anzi la figura dell’imperatore tornò
rapidamente a ossessionare la sua sensibilità poetica e
umana, in un intreccio inestricabile di elaborazione letteraria
e di slancio sentimentale. Contribuirono in tal senso anche il
disprezzo per lo stupido e tetro sistema dell’equilibrio
imposto all’Europa e per la monarchia borbonica restaurata in
Francia. Nel maggio 1815 alla Camera dei Lord fu suo uno dei
due voti contrari alla messa fuori legge di Napoleone. Egli
riprese a raccogliere sistematicamente libri, reliquie, oggetti,
monete e cimeli napoleonici, e fra il 1815 e il 1816 compose
quattro poesie, pubblicate anonime come traduzioni dal
francese, che si possono considerare quasi una riparazione
per i versi dell’ode.

Nella prima di queste poesie, L’addio di Napoleone (Napoleon’s


Farewell), composta il 30 luglio 1815, poco dopo Waterloo,
Byron immagina l’estremo saluto alla sua terra
dell’imperatore sconfitto, che è tornato ad essere per lui un
simbolo di gloria e di libertà:
Addio a te, Francia! Ma quando la Libertà tornerà
una volta ancora nelle tue regioni, allora ricordati di me –
La violetta fiorirà nella profondità delle tue valli –
Benché appassita, le tue lacrime la schiuderanno di nuovo –
Ancora – Ancora – Io posso eludere i nemici che ci circondano
e ancora può il tuo cuore destarsi di colpo alla mia voce –
Ci sono legami che devono rompersi nella catena che ci ha avvinto,
allora voltati e invoca il condottiero che vorrai sceglierti.
Presentate sempre come traduzioni dal francese, altre tre
poesie comparvero prima che, nell’aprile 1816, Byron
lasciasse per sempre il suolo inglese. Fra queste anche una
Ode sulla stella della Legion d’onore, occasionata dal regalo di un
autentico esemplare della decorazione napoleonica ricevuto
da un’amica. I versi di Byron qui si caricano di simboli: la luce
splendente che emana dalla stella, i cui raggi sono formati
dalle anime degli eroi uccisi, abbaglia gli occhi umani come
un vulcano dei cieli. La stella viene rappresentata come un
fiume ribollente di lava che con il suo flusso di sangue
travolge gli imperi. Come preannunzio della stella appare in
cielo, celestial sign, un arcobaleno formato di tre splendenti,
divini colori, i colori della bandiera della Francia e di
Napoleone, il blu, il bianco e il rosso. La riapparizione della
stella è vista quindi come l’annunzio di una nuova era; nel
clima dell’Europa soggetta ai regimi della Restaurazione, essa
certo non splende più come un tempo, ma ispira ancora ai
suoi seguaci l’amore per la libertà, e il desiderio di morire per
essa:
Stella del prode! Il tuo raggio è pallido,
e le tenebre devono ancora prevalere!
Ma, o tu arcobaleno dell’uomo libero!
Le nostre lacrime e il nostro sangue devono scorrere per te.
Quando le tue splendenti promesse svaniscono,
la nostra vita non è che un peso di argilla.
E la libertà santifica con il suo passo
le silenti città della morte;
perché meravigliosi nella morte sono coloro
che orgogliosamente cadono nelle tue schiere;
e presto, o dea, possa io essere
per sempre con loro o con te!
Le poesie furono pubblicate nel 1816 in un volumetto,
questa volta con il nome dell’autore, poco dopo la sua
partenza dall’Inghilterra. A questo punto il processo di
identificazione del poeta con il suo eroe appare completo:
anch’egli, come Napoleone, era costretto ad abbandonare la
sua patria, a causa dell’ostilità della società inglese,
scandalizzata dalla sua radicale ricerca di libertà. Allora
l’addio alla Francia di Napoleone diventa, letto in controluce,
l’addio di Byron all’Inghilterra. E la chiusa dell’ode sulla stella
della Legion d’onore sembra quasi una profetica anticipazione
della sua morte precoce, avvenuta otto anni dopo a
Missolungi dove si era recato per combattere a sostegno
dell’indipendenza del popolo greco.

Byron, giunto in continente, evitò di mettere piede in


Francia, retta dalla disprezzata dinastia borbonica, e passò dal
Belgio alla Svizzera e poi in Italia, viaggiando in una carrozza,
che si fece costruire appositamente, identica a quella usata da
Napoleone. Egli si recò innanzitutto a visitare la piana di
Waterloo, il luogo fatale dove per l’ultima volta si era levata in
volo l’aquila. In quello stesso anno 1816 egli compose il canto
III del poema Childe Harold’s Pilgrimage (Il pellegrinaggio del
giovane Aroldo), che narra attraverso la figura del
protagonista Harold, «esule volontario, [...] ramingo, senza più
speranza alcuna», le emozioni di quel suo viaggio. Giunto sul
luogo dell’epica battaglia, Harold/Byron ne annunzia
solennemente la sacralità: «Fermati! Ché il tuo piede calca la
polvere di un Impero» (stanza 17). Ma lo sguardo commosso
che egli getta sul campo di battaglia è intriso di malinconia:
centinaia di giovani vite sono state spezzate, da una parte e
dall’altra, solo per rovesciare l’usurpatore e per riportare sul
trono un monarca imbelle. Si era consumata in quei luoghi
l’ultima, fatale carneficina, immane eppure inutile, anzi
dannosa, perché dopo tanto sangue l’Europa era più schiava e
misera di prima. Per questo Byron condanna sprezzante le
celebrazioni trionfali dei vincitori per l’abbattimento del
tiranno:
Là fu abbattuto il più grande, non il peggiore degli uomini, la cui anima,
mista d’opposte qualità, ora era fra le più possenti, ora fissa con eguale
fermezza su meschini oggetti; eccessivo in tutto, se tu ti fossi tenuto tra i
due estremi, il tuo trono sarebbe ancora tuo, o mai non sarebbe stato; ché
l’audacia ti fece e salire e cadere; perfino ora cerchi di riassumere
l’atteggiamento imperiale e di scuotere nuovamente il mondo, o Tonante
della scena terrestre! (stanza 36).

Ai suoi occhi la figura di Napoleone «più o meno che uomo –


nella buona e nella cattiva fortuna», assume la dimensione di
un grande eroe tragico, che al di là delle sue straordinarie
virtù e dei suoi non meno enormi vizi, era condannato a
vivere la sua drammatica parabola dalla forza del destino,
«che [...], provocato, suole abbandonare anche la più eccelsa
stella». Ancora una volta il poeta si immedesima con il suo
eroe. In questi versi bellissimi si esprime tutto il fascino che
la figura di Napoleone era destinata a esercitare sulla
spiritualità ardente, desiderosa di superare ogni limite, della
giovane generazione romantica:

Ma la tranquillità è un inferno per i cuori ardenti, e in ciò fu la tua rovina;


v’è una fiamma, un impeto dell’anima che non vuole dimorare entro gli
stretti limiti del proprio essere, bensì ha aspirazioni al di là della giusta
media del desiderio; e, sol che sia accesa, per sempre inestinguibile, si
nutre di eccelse avventure, né può stancarsi di alcunché, se non del
riposo – è una febbre nel più riposto cuore, fatale per chi l’ha, per chi mai
l’ebbe (stanza 42).

Ma ben presto lo sguardo del pellegrino si fa più distaccato


e dolente; i suoi pensieri si volgono allora a riflettere sulla
vanità e sulla caducità delle cose umane, sugli effetti
inesorabili dello scorrere del tempo, che travolge le passioni, i
desideri, le ansie degli uomini, una realtà rappresentata ai
suoi occhi dalla immota e arcana solennità dei vecchi castelli
diroccati sulle rive del Reno:
E là essi stanno, come sta un animo sublime, affranto, ma senza
inchinarsi alla più vile folla; inabitati, se non dal vento che si insinua
nelle loro fessure, o occupati in occulti colloqui con le nubi. Vi fu un
giorno allorché erano giovani ed orgogliosi; in alto sventolavano le
bandiere, in basso le schiere passavano; ma coloro che combatterono
sono avvolti in un sanguinoso sudario, e le sventolanti bandiere sono già
da tempo impalpabile polvere, e i desolati merli non sosterranno più
assalti avvenire (stanza 47).

Quando ebbe la notizia della morte di Napoleone, Byron,


che si trovava a Ravenna, in una lettera del 2 agosto 1821
confessò a Thomas Moore (1779-1852) di non avere la testa e
l’«estro» di comporre alcunché per l’occasione, e anzi suggerì
all’amico di scrivere lui qualcosa. In realtà, come abbiamo
visto, proprio in quell’anno ebbe inizio la crescente fortuna
della sua opera presso il pubblico francese. Anch’egli quindi,
nonostante la morte precoce nel 1824, diede un contributo
importante, direttamente con le sue poesie e indirettamente
attraverso le molte imitazioni e gli scritti apocrifi, alla nascita
della leggenda.
Anche nel caso della figura più importante della cultura
russa, Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837), si osserva il
caratteristico percorso che accomunò tanti intellettuali del
tempo, vale a dire il passaggio da posizioni decisamente ostili
a Napoleone a una progressiva rivalutazione della sua figura.
Influenzato in gioventù, al tempo dei suoi studi liceali, dalla
vera e propria demonizzazione di Napoleone compiuta dalla
letteratura russa al tempo dell’invasione del 1812, Puškin
espresse in quegli anni, in nome degli ideali patriottici, una
sincera ammirazione per il salvatore della Russia, lo zar
Alessandro I, che si atteggiava a liberatore dei popoli oppressi.

Nella poesia Napoleone sull’isola d’Elba, scritta nel 1815,


probabilmente durante i Cento giorni, egli raffigura
l’imperatore mentre, seduto su di uno scoglio, nell’oscurità
della notte, con l’animo pervaso da foschi pensieri, medita
una terribile vendetta e sogna una nuova Europa in catene ai
suoi piedi:
Attenta a te, Gallia! Europa!
Vendetta, vendetta!
Piangi – il tuo flagello ritorna – tu cadi di nuovo!
Tutto perirà – e nel mezzo di queste rovine
restaurerò il mio trono sulle vostre tombe.

Dopo essere stato condannato nel 1820 all’esilio nella


Russia meridionale per i contatti avuti con le società segrete e
per le sue idee progressiste sul piano politico e letterario,
Puškin iniziò a considerare Napoleone in una luce diversa,
anche grazie all’influsso esercitato sulla sua opera poetica da
Byron, e rivide nel contempo la valutazione positiva di
Alessandro, rivelatosi ormai come uno dei pilastri dell’ordine
reazionario imposto all’Europa. Nell’ode composta pochi mesi
dopo la notizia della sua morte, il poeta esprime la propria
ammirazione per Napoleone, celebrato come l’eroe che si erge
al di sopra della folla dei comuni mortali per compiere la
missione che gli era stata assegnata: «un destino
straordinario si è compiuto, un grande uomo si è spento».
Anche Puškin vede in Napoleone l’uomo della rivoluzione, che
aveva diffuso in Europa i principi del 1789. Egli però, che
conosceva sicuramente le critiche di matrice liberale rivolte al
dispotismo napoleonico, in particolare gli scritti di Germaine
Necker, Madame de Staël (1766-1817), in un testo risalente al
marzo 1824 e rimasto incompiuto, lo giudicò al tempo stesso
«erede e assassino» dei principi di libertà usciti dalla
rivoluzione. In questi versi Puškin pone direttamente a
confronto Napoleone e lo zar Alessandro, ma questa volta i
termini sono rovesciati rispetto alle poesie giovanili. Lo zar è
nel suo palazzo, inquieto e spaurito, quando si presenta di
fronte a lui lo spettro del suo nemico di un tempo:
Il sovrano del Nord all’improvviso fu pervaso dal freddo.
Turbato, fissò lo sguardo sulla soglia del palazzo...
I rintocchi della mezzanotte risuonarono:
ed ecco che un ospite inatteso si presentò al palazzo dello zar.
Era quell’uomo meraviglioso, messaggero della Provvidenza,
esecutore fatale di un ordine ignoto,
il cavaliere davanti al quale si inchinavano i re,
erede e assassino della ribelle libertà,
il freddo bevitore di sangue,
il principe sparito come un sogno, come l’ombra di un’alba.
[...] il suo sguardo meraviglioso, vivo, inafferrabile
ora perduto nella lontananza, ora irresistibile,
brillava come il fuoco della guerra, come un lampo,
nella pienezza del coraggio e della forza,
davanti al sovrano del Nord,
si ergeva, minaccioso, il sovrano dell’Occidente.

Lo spettro di Napoleone non pronunzia alcuna parola, ma la


sua sola presenza è un monito per lo zar, un muto atto di
accusa per il gretto dispotismo che guidava ormai la sua
politica.

Ormai la figura di Napoleone ha assunto nei versi del poeta


russo la configurazione dell’eroe, dell’individuo straordinario
destinato a infrangere ogni limite. Lo dimostrano questi versi
del 1824, nei quali egli viene evocato appunto come il
misterioso uomo del destino:
Chi ti ha inviato e perché?
Dovevi compiere il bene o il male?
Perché hai brillato? Perché il tuo genio si è spento
favoloso visitatore della terra?

Naturalmente il poeta esiliato trovava anche profonde


assonanze con la condizione del prigioniero di Sant’Elena, un
motivo che dà vita a pagine di intenso lirismo, in particolare
nella bellissima poesia Al mare, del 1824. In questi versi
Puškin dà il suo addio al mare di Odessa, sulle cui rive tante
volte si era fermato a sognare quella fuga dalla Russia che poi
non si era mai deciso a realizzare.
Addio, libero elemento!
Per l’ultima volta davanti a me
tu fai scorrere le onde azzurre
e risplendi di orgogliosa bellezza.
Incerto sul proprio destino, il poeta si chiede cosa dovrebbe
rimpiangere del proprio passato, e soprattutto dove dirigere il
suo «spensierato cammino», e solo due mete lontane, e
irraggiungibili, si presentano alla sua mente come richiami
irresistibili per la sua anima, Sant’Elena e Missolungi,
Napoleone e Byron, significativamente accostati dal loro
comune destino:
Un solo oggetto nel tuo deserto
stupirebbe la mia anima.
Una roccia, sepolcro della gloria...
Là si sono immersi nel freddo sonno
i giganti del ricordo:
là si è spento Napoleone.
Là egli è morto fra i tormenti.
E dopo di lui, come rumore di tempesta,
un altro genio è galoppato via da noi,
un altro dominatore delle nostre menti
è scomparso, pianto dalla libertà,
lasciando al mondo la sua ghirlanda.
Rumoreggia, agitati in tempesta:
egli è stato, mare, il tuo cantore.
La tua immagine era impressa in lui,
egli è stato creato dal tuo spirito:
come te, potente, profondo e tenebroso,
come te, non domabile da niente.

Rimasto ormai vuoto il mondo, il poeta può allontanarsi


dalle rive senza rimpianti e senza speranze, giacché «il
destino degli uomini è ovunque lo stesso», ma ovunque
avrebbe portato con sé la «trionfale bellezza» del mare, «e lo
scintillio, e l’ombra, e la parola delle onde».

Se in Europa all’annunzio della morte di Napoleone si


levarono, come si è visto, molte voci commosse e partecipi,
talora anche intrise di rimpianto per ciò che la sua figura
aveva rappresentato nella storia del continente, nella cultura
francese l’emozione e il ricordo si manifestarono insieme a
persistenti riserve e a una certa freddezza di fondo, che solo
negli anni successivi sarebbero state progressivamente
superate. La giovane generazione nata fra la fine del
Settecento e i primi dell’Ottocento era stata segnata nella sua
formazione dai trionfi e dai lutti di una guerra ventennale, dai
disastri della sconfitta e dell’occupazione militare, e risentiva
anche dei condizionamenti di ambienti familiari
generalmente ostili alla rivoluzione e al suo erede. Alfred de
Musset (1810-1857) ha raccontato con efficacia nel 1836 nel
romanzo Confessions d’un enfant du siècle (Confessioni di un
figlio del secolo) il travaglio di quei giovani costretti a vivere
un insanabile dissidio fra gli impulsi eroici e gli slanci ideali
dettati dalla loro formazione e la grigia, meschina realtà della
Francia della Restaurazione e della monarchia borghese di
Luigi Filippo d’Orléans.

Alphonse de Lamartine (1790-1869), pur essendo stato


educato dalla madre legittimista in un clima di odio per
l’usurpatore, e pur essendo rimasto sempre critico verso
l’esaltazione della guerra, pure sentì il bisogno di scrivere in
memoria di Napoleone, ispirato anche dai versi manzoniani
che aveva potuto precocemente conoscere. La sua ode
Bonaparte, composta a suo dire nel 1821 ma probabilmente
due anni più tardi, se riconosceva il suo genio («mai il piede di
alcun mortale [...] impresse sulla terra una più forte orma»),
esprimeva una severa condanna della sua personalità umana
e politica:

Niente di umano batteva sotto la tua spessa armatura:


senza odio e senza amore, vivevi per pensare:
come l’aquila che regna in un cielo solitario
non avevi che uno sguardo per misurare la terra
e artigli per ghermirla!

Prendendo spunto dall’assenza di ogni iscrizione sulla sua


tomba, Lamartine scriveva:

Qui giace... nessun nome!... domandate alla terra!


Il nome? È iscritto in caratteri di sangue [...].

E se ricordava le sue straordinarie imprese, precisava,


alludendo all’esecuzione del duca di Enghien: «la gloria
cancella tutto!... tutto tranne il crimine!». L’ode è
caratterizzata da un’evidente imitazione del Cinque Maggio
manzoniano: anche Lamartine infatti si augura che alla fine il
«segno redentore» della fede abbia toccato la fronte di
Napoleone, e riprende l’immagine del giudizio divino di fronte
al quale devono tacere gli odi degli uomini:
Il suo feretro è chiuso! Dio l’ha giudicato! Silenzio!
Il suo crimine e le sue imprese pesano sulla bilancia:
che la debole mano dei mortali non se ne occupi più!
Chi può sondare, Signore, la tua clemenza infinita?
E voi, flagelli di Dio! Chi sa se il genio
non è una delle vostre virtù?...

Va ricordato per altro che Lamartine, rimasto sempre


estraneo alla leggenda bonapartista, nel 1849, di fronte
all’ascesa politica del nipote di Napoleone, prossimo a
diventare Napoleone III, si pentì di questa conclusione
dubitativa e modificò gli ultimi due versi:

E voi, popoli, conoscete il vano prezzo del genio


che non fonda delle virtù!

Parallelo a quello di Lamartine è il percorso di Alfred de


Vigny (1797-1863), anch’egli influenzato dall’ambiente
familiare di orientamento legittimista, e di conseguenza
rimasto estraneo alla suggestione del mito. Egli però non fu
insensibile alla straordinaria personalità dell’uomo, e nel
1822, nel descrivere il dramma del potere attraverso le parole
che Mosè rivolge a Dio stando in piedi davanti a lui, dipinse il
liberatore del popolo ebraico con caratteri che evocavano in
modo trasparente la figura dell’imperatore:
La mia mano lascia il terrore sulla mano che tocca,
la tempesta è nella mia voce, il lampo è sulla mia bocca;
così, lungi dall’amarmi, ecco che tremano tutti,
e, quando apro le braccia, si cade alle mie ginocchia.
O Signore! Ho vissuto potente e solitario,
lasciate che mi addormenti del sonno della terra!
(Moïse, 1822)

Delle critiche di matrice liberale si fece portavoce anche


Casimir Delavigne (1793-1843) nel poema À Napoléon,
composto in occasione della morte. Definito «astro fatale ai re
come alla libertà», «stupefacente assemblaggio di luce e di
oscurità, di nulla e di gloria», Napoleone era condannato
soprattutto per il suo dispotismo:
Regneresti ancora se l’avessi voluto.
Figlio della libertà, detronizzasti tua madre.
Sempre in bilico fra l’ammirazione per l’eroe e la condanna
per il despota, Stendhal iniziò nel 1816 una biografia di
Napoleone che non avrebbe mai portato a termine. Nel 1821,
nel dettare il proprio epitaffio, non dimenticò un richiamo
all’uomo, da poco scomparso, che sarebbe stato il modello dei
suoi personaggi, Julien Sorel e Lucien Leuwen (1834, ma
incompiuto e pubblicato postumo): «Qui giace Henri Beyle
milanese, amò Cimarosa, Shakespeare, Mozart, il Correggio,
rispettò un solo uomo: Napoleone». Questa espressione
neutra e distaccata si spiega soprattutto con il persistere in lui
delle posizioni repubblicane della sua gioventù. Nel 1836,
nella prefazione ai suoi Mémoires sur Napoléon, rimasti
incompiuti e pubblicati postumi, Stendhal affermò: «Stimo
ora [Napoleone] per tutto il disprezzo che mi ispira ciò che è
venuto dopo di lui». Egli aggiunse però che lo chiamava con il
suo nome da imperatore solo perché aveva sentito molto
spesso i suoi nemici chiamarlo in senso spregiativo «Monsieur
Buonaparte», ma restava convinto che la gloria che egli aveva
acquisito sotto questo nome era «ben più pura» (p. 26).

Un ruolo decisivo ebbe, nella nascita della leggenda, l’opera


di Victor Hugo (1802-1885), anch’egli partito da posizioni ostili
alla rivoluzione a causa dell’influenza esercitata sulla sua
formazione dalla madre, realista e cattolica. I suoi primi
scritti furono infatti ostili a Napoleone: egli deplorò
l’assassinio del duca di Berry, lamentando che nessun
pugnale fosse riuscito a colpire durante i suoi undici anni di
tirannia «un Corso guardato da un mamelucco». Nel marzo
del 1822, nella poesia Buonaparte, egli giudicava l’imperatore
da poco scomparso un «flagello vivente» venuto dall’inferno,
che aveva regnato con il fuoco e con il ferro aspirando al
dominio dell’intero continente, la cui «empia gloria» si era
macchiata del crimine dell’assassinio del duca di Enghien
(«un sangue reale tinse la sua porpora usurpatrice»). Ancora
nel 1824, in occasione dei funerali di Luigi XVIII, celebrò il re
defunto, che aveva dato alla Francia giorni prosperi, e si
felicitò del fatto che del grande Impero napoleonico non fosse
rimasto «che una nera roccia battuta dall’onda, che un
vecchio salice battuto dal vento». Ma a partire dalla morte
della madre, nel 1821, egli andò progressivamente
accostandosi alla figura del padre Joseph-Léopold-Sigisbert
(1773-1828), che era stato un valoroso generale dell’armata
imperiale. A lui dedicò nell’agosto del 1823 l’ode À mon père
nella quale esaltava le imprese della Grande armata che, pur
sottomessa a un tiranno, si era coperta di gloria. Era il primo
passo sulla strada che lo avrebbe portato nel giro di pochi
anni a diventare il grande cantore della leggenda napoleonica.
L’eco del Memoriale appare evidente nell’ode Les deux îles, del
luglio 1825, in cui in versi davvero suggestivi evocò le due
isole che avevano segnato, all’origine e alla fine, la vita di
Napoleone:
La mano che di quelle nere rive
dispose i siti selvaggi,
e di spavento le volle coprire,
le fece così terribili, forse,
perché Bonaparte vi potesse nascere,
e Napoleone morire.
«Là fu la sua culla! – Là la sua tomba!»
[...]
Su queste isole, dall’aspetto cupo,
verranno, al richiamo della sua ombra,
tutti i popoli dell’avvenire;
le folgori che colpiscono le loro cime,
e i loro scogli, e le loro tempeste
non sono più che il suo ricordo.

Domina in questi versi il senso della vanità delle cose


umane: anche la straordinaria potenza acquisita da
Napoleone si era rivelata alla fine effimera, per cui nella
solitudine dell’esilio non gli restava che meditare
sull’ingannevole apparenza della gloria, che si presenta
dapprima come «un prisma abbagliante», poi come «uno
specchio espiatorio, in cui la porpora sembra sangue». Ma già
emergeva con forza il ricordo indelebile che l’epopea
napoleonica era destinata a suscitare proprio attraverso le
due isole che avevano segnato la sua esistenza:

Se perse un impero, avrà due patrie, [...]


non si pronunzierà il suo nome senza che esso risvegli
alle estremità del mondo una doppia eco.

Era il preannunzio del definitivo abbandono delle posizioni


precedenti, che si manifestò già nel febbraio 1827 nell’ode À la
Colonne de la place Vendôme, poesia nata dalla reazione
all’offesa consumatasi all’ambasciata austriaca a Parigi, dove
alcuni marescialli napoleonici erano stati annunciati con i
loro nuovi nomi e non con i titoli che ricordavano le sconfitte
dell’Austria. Il figlio del generale Hugo volle vendicare questo
affronto celebrando nei suoi versi il «monumento
vendicatore», il «trofeo indelebile», eretto nel 1810 in place
Vendôme a ricordo dei trionfi della Grande armata. Nel
dicembre dello stesso anno, nella celebre poesia Lui, la figura
di Napoleone si ergeva ormai, fin dai primi versi, come la
principale fonte dell’ispirazione del poeta:

Sempre lui! Lui dappertutto! – O bruciante o gelida,


la sua immagine senza posa scuote il mio pensiero.
Essa versa al mio spirito il soffio creatore.
Io tremo, e nella mia bocca abbondano le parole,
quando il suo nome gigantesco, circondato da aureole,
si leva nei miei versi in tutta la sua altezza.

Il 1827 fu davvero l’anno della svolta che segnò il trionfo


della leggenda napoleonica, destinata negli anni seguenti a
improntare di sé larga parte della cultura, della letteratura,
del teatro e dell’arte non solo in Francia ma nell’intero
continente europeo. Le pagine nelle quali Heinrich Heine
esprime i sentimenti suscitati in lui dalla visita ai luoghi della
vittoria di Marengo costituiscono un altro dei momenti
classici del mito napoleonico:
Sul campo di battaglia di Marengo, i pensieri ti si presentano talmente a
frotte da farti credere che siano gli stessi pensieri che molti caduti
dovettero improvvisamente abbandonare e che ora vanno errando come
cani randagi. Io amo i campi di battaglia, perché per quanto orribile sia la
guerra essa rivela tuttavia la grandezza spirituale dell’uomo, che vi sfida
il suo più potente nemico ereditario, la morte. E proprio questo campo di
battaglia, dove la libertà danzò su rose di sangue la lussureggiante danza
nuziale! [...] Nelle brume del mattino lo vidi, l’uomo col cappello a tre
punte e il grigio pastrano da campo, passava veloce come il pensiero,
rapido come un baleno, e in lontananza pareva echeggiare con dolcezza
raccapricciante un canto: Allons enfants de la patrie... [...] (Reisebilder, pp.
350-352, passim).

Nel mondo dell’arte, si può ricordare l’olio su tela Mort de


Napoléon, dipinto nel 1828 da Karl August von Steuben (1788-
1845), ora al Napoleonmuseum di Arenenberg, situato
nell’antica dimora di Ortensia di Beauharnais. L’opera
ricostruisce con precisione, sulla base delle testimonianze dei
protagonisti, la scena dell’imperatore sul suo letto di morte
circondato dai suoi fedeli, dall’abate Vignali, dai medici e dal
capitano Crockat. Ma l’opera più caratteristica della leggenda
è sicuramente il quadro Le songe de Bertrand, ou l’apothéose de
Napoléon (Il sogno di Bertrand, o l’apoteosi di Napoleone),
iniziato da Vernet, militante bonapartista, nel 1821, subito
dopo la notizia della morte, e presentato cinque anni dopo. La
tomba di Napoleone è rappresentata su uno scoglio, sul quale
si infrangono i flutti in tempesta; su di essa vi sono i simboli
della leggenda, la spada e il cappello. Nei pressi della tomba i
suoi compagni di Sant’Elena piangono mentre dall’alto, nel
limbo, osservano la scena gli eroi morti.
Karl August von Steuben, Morte di Napoleone, 1828 ca.,
Arenenberg, Napoleonmuseum.

Il mito, affermatosi prepotentemente nella cultura e


nell’arte europea a partire dal 1821, va distinto da quel
bonapartismo popolare, dai caratteri più istintivi e spontanei,
diffuso in Francia fin dal 1815, dopo la seconda Restaurazione
borbonica, e legato a un’idealizzazione di Napoleone come
emblema della rivoluzione. Si tratta di due correnti diverse,
che si svilupparono parallelamente, che si incrociarono nella
grandiosa giornata del ritorno delle ceneri di Napoleone a
Parigi il 15 dicembre 1840, ma rimasero ben distinte e si
separarono di fronte alle fortune politiche del fondatore del
Secondo Impero. Questo complesso intreccio di idee e di
sentimenti è stato espresso con particolare chiarezza da
Edgar Quinet nella sua già citata autobiografia, che ha il
merito di ricostruire il percorso di tutta una generazione.
Come si è visto nei primi anni della Restaurazione il futuro
storico, sepolto nei suoi pensieri il ricordo di Napoleone,
aveva aderito ai principi del liberalismo, quando d’improvviso
la notizia della morte, riaccendendo l’antica fiamma, aveva
fatto nascere nel suo animo «una violenta lotta interna, un
dissidio interiore» che aveva profondamente segnato la sua
formazione. In un primo tempo egli era riuscito ad accordare
ciò che sembrava inconciliabile, l’antico culto di Napoleone e
la sua sete di libertà, grazie proprio all’immagine rinnovata
diffusa dal Memoriale: colui che aveva schiacciato la libertà si
mostrava ora con una veste diversa, e sembrava essere stato
anch’egli «conquistato da queste nozioni di libertà e di
giustizia». Ma a un certo punto Quinet, che nel 1835 dedicò a
Napoleone un poema eroico, si rese conto di essersi
definitivamente allontanato dalla religione bonapartista dei
suoi primi anni che era rimasta invece viva nei suoi amici:
«malauguratamente mi accorsi che io non seguivo più qui la
strada del popolo. In questi differenti sforzi avevo
abbandonato il terreno della leggenda; per la prima volta mi
separavo dallo spirito delle masse». Egli infatti considerava
ormai Napoleone solo dal punto di vista della storia, come un
passato sul quale riflettere, mentre la sensibilità popolare,
ancora ispirata dal culto dell’eroe, era rimasta estranea a quel
travaglio interiore ed era ferma nell’attesa di un suo ritorno:
«Non avevano permesso che un’altra idea occupasse il loro
spirito. Finché egli visse, lo attesero; una volta morto, lo
attendevano ancora» (Quinet, pp. 133-136, passim). Si può
cogliere esattamente qui il punto di distacco fra il
bonapartismo popolare e la leggenda forgiata da intellettuali e
artisti. Questi ultimi avevano trovato già nell’immaginario
popolare i materiali grezzi con i quali costruire la leggenda,
ma per la maggior parte di loro quest’ultima doveva restare
confinata nel campo della letteratura e dell’arte, senza trovare
un concreto sbocco politico. Questa divisione emerse alla luce
del sole di fronte all’avvento al potere di Napoleone III, il
quale trovò proprio nella diffusa popolarità del culto
napoleonico un sostegno decisivo per la sua ascesa politica.
Per contro il colpo di stato del 2 dicembre turbò
profondamente gli ambienti intellettuali di orientamento
liberale, che pure avevano celebrato le imprese e la gloria di
Napoleone. Un deciso oppositore di Napoleone III fu Quinet, il
quale, esiliato nel 1852, rientrò in Francia solo dopo la
sconfitta di Sédan del 1870 e la caduta del Secondo Impero.
Ancora più significativa fu l’evoluzione delle posizioni
politiche di Victor Hugo, che era assurto, come si è detto, al
ruolo di cantore ufficiale della leggenda. Anch’egli andò in
esilio dopo il colpo di stato di Napoleone III, dapprima in
Belgio e poi nelle isole normanne nel canale della Manica
sottoposte alla sovranità inglese (Jersey e Guernsey).
Inevitabilmente le aspre critiche rivolte a Napoleone III, che
Hugo definiva spregiativamente «Napoleone il piccolo», si
ritorsero anche contro lo zio. In una poesia, L’expiation
(L’espiazione), composta nel novembre 1852 e inserita in
un’opera intitolata Les châtiments (I castighi), Hugo mostrava
come lo splendore delle imprese di Napoleone era stato
definitivamente offuscato dall’avvento al potere di Napoleone
III, «nano immondo», che aveva spregiudicatamente sfruttato
la gloria dello zio per conquistare il potere. Nei versi di
L’espiazione Hugo immagina che Napoleone sia destato nel suo
sepolcro da una voce aspra, amara, stridula, che gli ricorda le
sue sconfitte, Mosca, Waterloo, Sant’Elena, e lo ammonisce
che tutto ciò era nulla perché ora stava per arrivare il vero
castigo. Livido, in piedi, Napoleone si trova di fronte a strane
visioni che gli mostrano lo spettacolo desolante dell’Impero
che, scimmiottando le sue imprese, ha eretto il nipote. Poi a
un tratto l’orribile visione si spegne:
Horace Vernet, Il sogno di Bertrand, o l’apoteosi di Napoleone,
1821, London, The Wallace Collection.
Jean-Auguste-Dominique Ingres, L’Apoteosi di Napoleone I,
1853, Paris, Musée Carnavalet. Modello della tela
monumentale collocata sul soffitto del salone
dell’imperatore dell’Hôtel de Ville di Parigi e distrutta
nell’incendio del palazzo all’epoca della Comune (maggio
1871).

[...] L’imperatore,
disperato, lanciò nell’ombra un grido di orrore,
abbassando gli occhi, innalzando le mani spaventate;
le vittorie di marmo scolpite alla porta,
fantasmi bianchi in piedi fuori del sepolcro oscuro,
si facevano segno col dito e, appoggiandosi al muro,
ascoltavano il titano piangere nelle tenebre.

Già nel 1812, nel gelo della pianura russa egli aveva sentito
quella voce, e si era chiesto tremante se la sua sconfitta non
fosse la punizione di una sua colpa. Ora finalmente arrivava la
rivelazione: il vero castigo era l’infamia che aveva gettato
sulla sua memoria il colpo di stato del 2 dicembre. E il
demone misterioso, che lo aveva perseguitato per tutta la vita,
finalmente gli si rivelava:
E lui, gridò: demone dalle funebri visioni,
tu che mi segui dappertutto, che mai vedo,
chi sei dunque? – Io sono il tuo crimine, disse la voce.
La tomba si riempì allora di una luce strana
simile allo splendore di Dio vendicatore;
come le parole che vide risplendere Baldassarre,
due parole scritte nell’ombra fiammeggiavano su Cesare:
Bonaparte, tremante come un bambino senza madre,
alzò il suo volto pallido e lesse: Diciotto brumaio!
Disegno eseguito dal capitano Frederick Marryat poche ore
dopo la morte di Napoleone, litografia, London, Wellcome
Library.
Capitolo nono

Il ritorno

La questione della restituzione del corpo di Napoleone da


parte dell’Inghilterra onde assicurargli una degna sepoltura in
patria si pose subito dopo l’annuncio della sua morte. Già il 14
luglio, data significativa, La Fayette presentò alla Camera dei
deputati una petizione in tal senso, firmata da Gourgaud e da
altri generali napoleonici. Il vecchio generale, rimasto sempre
ostile all’Impero napoleonico in nome dei suoi principi
liberali, mirava a far leva sulla grande popolarità di Napoleone
per riunire tutte le forze dell’opposizione alla monarchia
restaurata. Per parte sua il governo francese, che era già stato
informato da quello inglese della volontà espressa da
Napoleone nel testamento di essere sepolto sulle rive della
Senna, intendeva in ogni modo scongiurare una simile
eventualità. Ma già a partire dall’estate, prima ancora che
fosse diffuso il testamento, si sviluppò in Francia una
campagna in favore del ritorno delle ceneri. Un opuscolo, che
costò all’autore Pierre Barthélemy una lieve condanna,
propose l’apertura di una pubblica sottoscrizione per la
costruzione di un mausoleo di fronte al Campo di Marte nei
pressi del ponte di Jena, all’incirca nel luogo in cui sarebbe
sorta poi la Tour Eiffel.
Anche la famiglia prese varie iniziative per il rimpatrio della
salma di Napoleone. Letizia, sempre attenta all’economia di
famiglia, non aveva mancato di esprimere preoccupazione per
il costo dell’operazione, ma fu indotta dalla pressione dei figli
a scrivere il 15 agosto (data in cui Napoleone avrebbe
compiuto 52 anni) al ministro degli esteri Castlereagh per
chiedergli, in nome della giustizia e dell’umanità, di restituirle
le spoglie del figlio, e analoga richiesta fu presentata da
Bertrand e Montholon in una supplica rivolta al re Giorgio IV,
secondo quanto era stato loro prescritto nelle istruzioni
testamentarie. Di fronte a queste istanze il governo inglese,
pur senza fornire una risposta ufficiale, comunicò di
considerarsi solo custode del corpo e di essere pronto a
restituirlo alla Francia o alla sua famiglia quando il governo
francese ne avesse fatto richiesta. Che ciò accadesse era
ovviamente impensabile: Luigi XVIII non rispose neppure a
un’istanza di Bertrand e Montholon che chiedevano il
consenso a una sepoltura di Napoleone nella sua Ajaccio. Il
problema si ripropose quindi solo dopo la caduta della
monarchia borbonica nel 1830.

Priva di una sua legittimità a fronte della dinastia borbonica


e di quella fondata da Napoleone, contestata dalla destra
legittimista e dagli ambienti di orientamento repubblicano, la
fragile monarchia di luglio doveva fare i conti anche con la
diffusione del mito napoleonico nei ceti popolari. Per questo
motivo quando, nel settembre 1830, fu presentata alla Camera
una nuova petizione per il ritorno delle ceneri, che avrebbero
dovuto essere poste ai piedi della colonna di place Vendôme,
la maggioranza parlamentare decise di respingere la
proposta, ritenendo pericoloso creare un luogo che avrebbe
costituito un punto di riferimento e di ritrovo per tutte le
forze di opposizione. Fu mantenuta anche la proscrizione dei
Bonaparte, e nel 1832 fu stabilito per i membri della famiglia,
come pure per i Borbone, l’obbligo di vendere i loro
possedimenti in Francia.

Tuttavia il ricordo di Napoleone era troppo vivo nella


nazione perché la monarchia «borghese» uscita dalla
rivoluzione di luglio potesse ignorarlo. Luigi Filippo decise
perciò di sostenere due iniziative che andavano incontro alla
sensibilità popolare: nel 1833 fu rimessa sulla cima della
colonna di place Vendôme la statua di Napoleone che era
stata abbattuta nel 1814, e nel 1836 fu inaugurato finalmente,
agli Champs-Élysées, l’Arco di trionfo voluto da Napoleone
nel 1806 e rimasto incompiuto. L’evento fu celebrato (À l’Arc de
triomphe) da Hugo, pienamente conquistato ormai alla
leggenda:

Tu la cui curva di lontano, nell’oro del tramonto,


si riempie di azzurro celeste, arco smisurato;
tu che levi così in alto la tua fronte ampia e serena,
fatta per trasformare sotto di lui la campagna in un abisso,
e per servire come base per qualche aquila sublime
che verrà a posarvisi e che sarà di bronzo!

La questione del ritorno delle ceneri, più volte riproposta in


Parlamento, fu invece sempre respinta. A rompere gli indugi
fu nel marzo 1840 Adolphe Thiers, subito dopo avere assunto
la carica di presidente del Consiglio e di ministro degli esteri;
in quello stesso anno pubblicò il primo dei 10 volumi della
sua Storia del Consolato e dell’Impero (1840-1855), vera pietra
miliare della storiografia sull’età napoleonica. Egli sperava
con la sua iniziativa di rafforzare il consenso al suo ministero,
sviando l’attenzione della pubblica opinione dalle pressanti
richieste di riforma parlamentare promosse dall’opposizione.
Dopo aver superato le perplessità di Luigi Filippo, egli
contattò, attraverso l’ambasciatore a Londra, lo storico
François Guizot (1787-1874), il ministro degli esteri inglese
Henry John Temple, visconte Palmerston (1784-1865), il quale
diede il suo assenso. La notizia, comunicata alla Camera dei
deputati il 12 maggio, fu salutata da vibranti acclamazioni.
Non mancarono però dubbi e perplessità. Certo il
bonapartismo aveva perduto dopo la morte del figlio di
Napoleone nel 1832 il suo principale, ancorché ipotetico,
punto di riferimento, né si intravedeva un capo autorevole in
grado di assumerne la guida. Tale infatti non sembrava essere
il nipote Carlo Luigi il quale, dopo avere organizzato nel 1836
un avventato tentativo di colpo di mano a Strasburgo, era
stato espulso dalla Francia e costretto a rifugiarsi negli Stati
Uniti e poi a Londra. Apparivano però evidenti a molti i rischi
di un’operazione destinata a rinverdire i fasti del mito
napoleonico. Di questi dubbi si fece interprete con particolare
efficacia Lamartine nel discorso da lui pronunziato alla
Camera il 26 maggio:

Mi associo, come francese, al pio dovere di dare una tomba nella sua
patria a uno degli uomini che hanno fatto più scalpore sulla terra, [...] la
cui volontà si sostituì per dieci anni alle leggi, alla volontà, al destino
della Francia, come filosofo, come uomo che ha qualche presentimento
della posterità, oso confessarlo davanti a voi, [...] non è senza un certo
rammarico che vedo i resti di questo grande uomo discendere troppo
presto forse da quella roccia nel mezzo dell’oceano, dove l’ammirazione e
la pietà dell’universo andavano a cercarlo attraverso il prestigio della
distanza e attraverso l’abisso delle sue disgrazie. [...] Non avrei
considerato una disgrazia per la memoria di Napoleone che il suo destino
l’avesse lasciato ancora per qualche tempo sotto il salice di Sant’Elena
[...]. Forse, da diversi punti di vista, queste ceneri non erano abbastanza
fredde perché vi si mettesse mano.

Egli comunque dichiarò di non opporsi alla proposta del


governo, purché essa non conducesse a riproporre quei
caratteri del bonapartismo (l’autoritarismo, l’individualismo,
l’esaltazione della gloria e della guerra, lo spirito di conquista,
il disprezzo per le leggi e per le istituzioni) che contrastavano
con i principi liberali e che egli riteneva esiziali per le sorti
della fragile democrazia francese:

Non ho un entusiasmo senza ricordo e senza preveggenza. Non mi


prosterno davanti a questa memoria. Non faccio parte di questa religione
napoleonica, di questo culto della forza che si vuole, da qualche tempo,
sostituire nello spirito della nazione alla seria religione della libertà.

Il 6 giugno la Camera approvò il progetto e indicò come


luogo più adatto per ricevere le ceneri dell’imperatore l’Hôtel
des Invalides, fatto costruire da Luigi XIV alla fine del XVII
secolo per accogliere i soldati anziani o invalidi delle sue
armate. Un mese dopo due navi, La belle poule e La favorite,
salpavano da Tolone. Alla spedizione, comandata dal
terzogenito del re Luigi Filippo, il principe di Joinville, presero
parte molti degli antichi compagni di Napoleone. Il più
autorevole era certo Bertrand, deputato di orientamento
liberale, che nel giugno aveva deciso di donare al re le armi di
Napoleone che non era stato possibile consegnare all’ex Re di
Roma; lo accompagnò il figlio Arturo nato a Sant’Elena nel
1817. Partì anche un Gourgaud invecchiato ma sempre
suscettibile e vanitoso, che durante il viaggio trovò modo di
litigare con il figlio di Las Cases, deputato anch’egli, che non
fu accompagnato dal padre, malato e pressoché cieco.
Tornarono nell’isola anche i cinque principali domestici:
Marchand, Saint-Denis, Pierron, Archambault e Noverraz. Fu
escluso invece Montholon che, oberato ancora dai debiti,
viveva a Londra nell’entourage di Carlo Luigi Napoleone.

Mentre la piccola spedizione navigava nell’Atlantico, due


eventi intervennero a mutare il clima nel quale era maturata
l’iniziativa di Thiers. Il 15 luglio il governo inglese firmò a
Londra un trattato con Russia, Prussia e Austria a sostegno
dell’Impero ottomano in lotta con il pascià di Egitto
Muḥàmmad ‘Alī (1769 circa-1849) che, sostenuto invece dalla
Francia, mirava a espandere i suoi domini e a rendersi
indipendente da Istanbul. Si trattava per Parigi di una sfida
che sembrava rinnovare l’alleanza che aveva sconfitto
Napoleone. Mentre il paese era percorso da un sussulto di
eccitazione nazionalistica rivolta in particolare contro
l’Inghilterra, Thiers accelerò i lavori di fortificazione della
capitale e si mostrò pronto ad affrontare la guerra. In quegli
stessi giorni Carlo Luigi Napoleone lasciava Londra e sbarcava
il 6 agosto sul suolo francese, a Boulogne-sur-Mer, nel
tentativo di sollevare la guarnigione e di promuovere un colpo
di stato; fu un nuovo smacco: il pretendente fu arrestato,
processato e condannato al carcere a vita nel forte di Ham,
dal quale sarebbe evaso sei anni dopo; suoi compagni
nell’impresa furono fra gli altri quell’Alexandre Barginet, che
conosciamo come autore nel 1821 di vari scritti in morte di
Napoleone, e Montholon, il quale fu condannato a venti anni
di detenzione nello stesso forte di Ham. Nel frattempo, a
calmare i venti di guerra era intervenuto saggiamente Luigi
Filippo, il quale in ottobre congedò Thiers, che quindi non
poté condurre a termine l’iniziativa che aveva promosso, e
chiamò al ministero Guizot. Si avviò così un negoziato che
risolse con un compromesso la crisi orientale: Muḥàmmad ‘Alī
rinunziò alle conquiste e ottenne l’Egitto a titolo ereditario,
impegnandosi a riconoscere la sovranità ottomana. Si
diradarono così le nubi che a un certo punto si erano
addensate sulla spedizione a Sant’Elena.

Le navi francesi giunsero nell’isola l’8 ottobre e una


settimana dopo ebbe luogo l’esumazione. Il corpo fu trovato
come mummificato, in ottimo stato di conservazione: i
testimoni furono colpiti dalla naturalezza dell’espressione del
viso. Principale vittima dell’operazione fu il proprietario del
terreno su cui si trovava la tomba, che vide svanire la lucrosa
attività che aveva messo in piedi per accogliere i numerosi
visitatori, ma in compenso se ne giovarono i salici, che erano
stati gravemente danneggiati da quanti avevano preso, fin dai
funerali del 1821, l’abitudine di strappare loro delle fronde
come souvenir. Imbarcato il feretro, la spedizione ripartì il 18
ottobre e approdò il 30 novembre a Cherbourg. La salma fu
quindi trasportata a Le Havre e da qui risalì su
un’imbarcazione funeraria la Senna fino a Rouen, per
giungere infine il 15 dicembre a Parigi. Lungo il percorso, in
ogni villaggio il passaggio del battello-catafalco fu salutato
dalla popolazione assiepata sulle rive, fra i rintocchi delle
campane e il rullo dei tamburi delle guardie nazionali. Giunto
nella capitale, il feretro fu sistemato su un monumentale
carro funebre, alto 10 metri e largo quasi 5, con le ruote dorate
e agli angoli quattro aquile con le ali spiegate, tirato da sedici
cavalli con le gualdrappe recanti gli emblemi imperiali. Era
una mattina gelida e su Parigi cadeva la neve, ma migliaia di
parigini avevano invaso le strade per seguire la cerimonia.
Lungo il percorso erano state erette statue allegoriche (la
Prudenza, la Forza, la Giustizia, la Guerra ecc.), l’ultima delle
quali, gigantesca, rappresentava l’Immortalità. I veterani
mostravano impettiti, nonostante l’età e gli acciacchi, le
decorazioni e le vecchie gloriose uniformi che avevano
finalmente tirato fuori dagli armadi. Un cavallo bianco che,
ricoperto degli stemmi imperiali, faceva la parte del destriero
di battaglia fu scambiato dalla folla per il vero cavallo di
Napoleone, e così ebbe anch’esso la sua giornata di gloria,
prima di tornare il giorno dopo al quotidiano compito di
trainare i carri delle pompe funebri. Il corteo raggiunse, in
mezzo a una folla strabocchevole, gli Champs-Élysées e, dopo
essersi fermato per qualche tempo sotto l’Arco di trionfo,
dove fu salutato da numerose salve di cannone, arrivò alla
spianata degli Invalides, dove vi era ad attenderlo anche il
vecchio Las Cases. Qui il principe di Joinville si rivolse al padre
dichiarando: «Sire, vi consegno il corpo dell’imperatore
Napoleone», e Luigi Filippo rispose: «Lo ricevo a nome della
Francia». Bertrand pose sul feretro la spada di Napoleone e
Gourgaud il cappello. La giornata si concluse con la funzione
religiosa e l’esecuzione del Requiem di Mozart.

La cerimonia fu veramente grandiosa, e anche lo scrittore


inglese William Makepeace Thackeray (1811-1863), che nel
romanzo La fiera della vanità (1848) avrebbe dimostrato la sua
capacità di rappresentare con fine ironia ipocrisie, perbenismi
e stereotipi della vita sociale, fu molto colpito dallo spettacolo
al quale assisté di persona:
Deve esserci stato in quest’uomo qualcosa di grande e di nobile, qualcosa
di generoso e di avvincente per avere lasciato un ricordo così caro al
popolo, un nome circondato di un rispetto così costante, di un affetto così
durevole (Lucas-Dubreton, p. 380).

Una voce critica si levò invece dalla Russia, attraverso la


poesia L’ultima dimora (Poèmes, p. 101), pubblicata nel 1841 da
Michail Jur’evič Lermontov (1814-1841), che in quello stesso
anno sarebbe morto in un duello, come era accaduto quattro
anni prima a Puškin. Lermontov lanciava un duro atto di
accusa contro il popolo francese, giudicato «senza testa»,
incostante e leggero, in quanto aveva tradito Napoleone e ora,
mosso da un tardivo rimorso, lo accoglieva con una festa di
cui il poeta coglieva tutta la vanità. Nei versi conclusivi
Lermontov esprimeva il suo rammarico per la decisione di
«turbare la pace santa, l’oscuro asilo» di un uomo che
aspirava a un tranquillo sonno nella sua isola. E immaginava
che se Napoleone fosse uscito dalla sua tomba avrebbe
espresso tutto il suo disgusto e il suo rancore per quello
spettacolo, e, colmo di amarezza, avrebbe rimpianto l’isola
bruciata sotto il cielo di climi lontani, dove il suo guardiano
era un gigante come lui invincibile, l’oceano.

Heine, che si trovava a Parigi, prese le distanze dalle


considerazioni di Lamartine, che vedeva nella cerimonia un
pericoloso rinnovarsi degli aspetti deteriori del bonapartismo,
affermando che in realtà non si intendeva affatto esaltare il
Napoleone liberticida, il conquistatore. La giornata celebrava
un uomo che rappresentava la giovane Francia di fronte alla
vecchia Europa; protagonisti infatti non erano i reduci,
anacronistici sopravvissuti a un’età ormai finita, ma uomini e
donne di «una generazione tutta nuova», estranea allo spirito
militare e all’orgoglio delle conquiste, animata piuttosto «da
una tenera e triste pietà filiale» di fronte a quel «catafalco
dorato, in cui giacevano sepolte tutte le gioie e le sofferenze,
tutti i gloriosi errori e le speranze appassite dei loro padri, per
così dire l’anima dell’antica Francia». Così anche il poeta
tedesco, che si definiva qui un «bonapartista incurabile», si
lasciò andare a una commossa rievocazione dell’evento:
E poi tutta l’apparizione era così favolosa, così fiabesca, che si credeva
appena ai propri occhi, che si credeva di sognare. Perché questo
Napoleone Bonaparte che si vedeva seppellire era, dopo un così lungo
tempo, agli occhi della nazione attuale, passato nel campo della
tradizione, presso le ombre gloriose di Alessandro il Macedone, di Giulio
Cesare e di Carlo Magno, e tutt’ad un tratto, in una fredda giornata
d’inverno, egli riappariva in mezzo ai vivi, su un carro d’oro, ornato di
vittorie d’oro, carro trionfale che si avanzava fantasticamente attraverso
le bianche brume del mattino. Ma queste brume svanirono
improvvisamente come per incanto, quando il convoglio imperiale arrivò
agli Champs-Élysées. In questo momento il sole squarciò le fosche nuvole e
baciò per l’ultima volta il suo favorito, versando dei riflessi rosa sulle
aquile imperiali che precedevano il convoglio [...] (Lutèce, pp. 159-160).
Piuttosto il rimpianto di Heine andava a quell’età eroica
incarnata da Napoleone che era ormai tramontata per
sempre, sostituita dalla nuova civiltà borghese votata al
progresso tecnico e industriale:

La musa della storia ha inciso queste esequie nelle sue tavole come un
fatto notevole; ma per il tempo attuale questo avvenimento è di minore
importanza [...]. L’imperatore è morto. Con lui si è estinto l’ultimo eroe
secondo l’antico stile, e il nuovo mondo dei droghieri respira a proprio
agio come liberato da un incubo brillante. Sulla tomba imperiale si
innalza un’età borghese e industriale [...] (Lutèce, pp. 160-161).

Quanto ad Hugo, anch’egli presente, ci ha lasciato una


puntuale descrizione della giornata e alcuni versi celebrativi:

Cielo ghiacciato, sole puro – Oh! Brilla nella storia,


imperiale fiaccola del funebre trionfo!
Che il popolo ti conservi per sempre nella sua memoria,
giorno bello come la gloria,
freddo come la tomba!

Egli però colse anche l’evidente imbarazzo della monarchia


orleanista, timorosa di accreditare apertamente Napoleone
come imperatore, il che avrebbe significato legittimare le
pretese della quarta dinastia. A questo proposito un giudizio
più articolato e penetrante fu formulato dal giornalista e
critico letterario Philarète Chasles (1798-1873), il quale,
assistendo alla cerimonia «solo, meditativo e rattristato», la
giudicò una «lugubre, funebre, orribile e stupida illusione», in
quanto quel tentativo di mettere d’accordo il prestigio
trionfale di Napoleone e lo spirito del nuovo liberalismo non
era di fatto che menzogna, frode e follia:
Ci si credette insieme liberale e imperiale, come ci si potrebbe ritenere al
tempo stesso uomo e donna, bianco e nero. Questo ermafroditismo
politico non ferì nessuno. Lo spirito e la passione riconciliarono tutto.
Ridicolo miscuglio! [...] Amate Napoleone? Riprendete la sua dinastia per
padrona. Se amate la libertà, bisogna maledire colui che l’ha uccisa e la
abborriva (Mémoires, II, pp. 115-116).

Con il pretendente prigioniero, Guizot poté illudersi che il


fantasma dell’imperatore fosse stato sepolto una volta per
tutte, e consegnato alla storia. Tuttavia era pur vero che, come
fu osservato da molti, da quel momento vi erano a Parigi due
sovrani, uno alle Tuileries, l’altro agli Invalides. Certo, il
suffragio ristretto impediva immediati contraccolpi elettorali,
poiché escludeva dal voto la massa del popolo, così legata alla
religione bonapartista. Tuttavia il nipote di Napoleone,
quando apprese la notizia nel forte di Ham, ebbe di che
rallegrarsi. Allevato nel culto dello zio dalla madre Ortensia,
che aveva fatto della sua dimora svizzera di Arenenberg, nei
pressi del lago di Costanza, un luogo di ritrovo per quanti
erano rimasti fedeli alla memoria dell’imperatore, egli
affermò di essere in attesa che un raggio del sole morente
dalla roccia di Sant’Elena giungesse fino a lui, che si sarebbe
certamente mostrato degno di conservare quel fuoco sacro.
Non ebbe da attendere molto; la rivoluzione del 1848,
imponendo il suffragio universale, aprì la strada alla sua
rapida ascesa politica che lo avrebbe portato in soli tre anni
dalla presidenza della Repubblica alla restaurazione
dell’Impero.

I lavori per la costruzione del monumentale sarcofago di


quarzite rossa e della cripta circolare, contornata da statue
bianche delle vittorie, nella quale il feretro doveva essere
sistemato, si protrassero a lungo, per cui solo il 2 aprile 1861,
alla presenza del nipote divenuto ormai imperatore con il
nome di Napoleone III, ebbe luogo l’inaugurazione del
tombeau. Intorno alla tomba di Napoleone furono sistemati i
corpi di Bertrand e di Duroc, mentre i fratelli Gerolamo e
Giuseppe trovarono posto in due cappelle laterali. Oggi
comunque gli Invalides non hanno più questa configurazione
di mausoleo napoleonico, e sono il tempio della gloria
francese, nel quale sono sepolti gli eroi di guerra, dall’età di
Luigi XIV fino al secondo conflitto mondiale. Custode del
tombeau fu nominato il compagno di esilio di Napoleone a
Sant’Elena, il fedele corso Santini, che non aveva ricevuto
nulla del lascito riservatogli nel testamento e mantenne
l’incarico fino alla morte.

In quegli anni Napoleone III chiese anche all’Austria la


restituzione del corpo del figlio di Napoleone, ma senza
risultati. Il progetto fu ripreso nel 1940 dall’ambasciatore
tedesco a Parigi Otto Abetz e fu infine accolto da Hitler,
desideroso di compiere un gesto amichevole nei confronti
della Francia, che le sue truppe avevano occupato nel giugno.
Così il 15 dicembre, a cento anni esatti dal ritorno delle ceneri
del padre, le spoglie del Duca di Reichstadt giunsero alla Gare
de l’Est e furono portate su un affusto di cannone trainato da
un trattore fino agli Invalides, dove furono consegnate alle
autorità francesi. Come cento anni prima, nevicava e faceva
molto freddo, ma in quella plumbea Parigi, schiacciata sotto il
tallone nazista, non c’erano bandiere tricolori da sventolare
né glorie trascorse da rievocare. La cerimonia si svolse di
notte, al cospetto di pochi invitati, e nemmeno fu presente il
capo della Francia collaborazionista, il maresciallo Philippe
Pétain (1856-1951), irritato perché l’iniziativa era stata presa
da Berlino. Era l’ultimo affronto della storia all’infelice Duca
di Reichstadt, il cui ritorno in patria serviva da pretesto per
rinsaldare i rapporti fra gli occupanti nazisti e i
collaborazionisti di Vichy. I parigini reagirono con amara
ironia, dichiarando che, viste le difficili condizioni di vita,
sarebbe stato meglio che i tedeschi avessero portato carbone
invece che ceneri. Una voce di dissenso si levò da Grenoble,
ad opera di una studentessa, allora giovanissima e poi
diventata scrittrice, Monique Difrane (1922-2014), che
compose una poesia in cui opportunamente chiamava la
Francia, proprio in nome della tragica figura del figlio di
Napoleone, alla resistenza contro la barbarie nazifascista:
La fatalità che cullò il re di Roma
lo perseguita ancora al di là della tomba?
[...]
Parigi, non senti stasera il grido delle aquile?
Gli avvoltoi sono vincitori in questo inverno di morte.
Essi hanno tutto profanato e la tua anima e il tuo corpo...
Parigi, senti questa sera, senti il grido delle aquile?

Quasi come una sorta di riparazione, il 3 agosto del 1945


andò in scena, al Théâtre du Châtelet di Parigi, L’Aiglon di
Edmond Rostand, proibito evidentemente durante
l’occupazione nazista, e certo agli occhi di molti spettatori,
dietro il personaggio di Metternich, dovette profilarsi l’ombra
ben più inquietante di Hitler.
Conclusioni

Lo spettro di Sant’Elena

Se si fossero lasciati i resti di Napoleone nell’isola dove il


destino li aveva portati, si sarebbe evitato, o quanto meno
ridimensionato, il profluvio di retorica sulla gloria, sull’eroe,
sulle virtù militari che ebbe origine dalla giornata del 15
dicembre 1840. Non mancarono in effetti, come si è visto, voci
critiche nel mondo politico e negli ambienti intellettuali nei
confronti della grandiosa cerimonia del ritorno delle ceneri.
Marie-Catherine-Sophie de Flavigny, contessa d’Agoult (1805-
1876), scrittrice nota con lo pseudonimo di Daniel Stern, e
celebre anche per la sua appassionata storia d’amore con il
musicista Franz Liszt (1811-1886), parlò di «spettacolo
desolante», che aveva visto come protagonista un «popolo
imbastardito, stupido e vile»: «Ho un accesso di santa collera,
ne piango di rabbia. Oh! Era meglio lasciarlo a Sant’Elena»
(Lucas-Dubreton, p. 383). Naturalmente, come ben comprese
Lamartine, era impossibile resistere alla spinta del
sentimento nazionale. Del resto Sant’Elena restava per molti
il luogo esecrando dove si era consumato il calvario del loro
eroe. Non a caso vi era stato qualcuno che aveva sognato
addirittura la sua definitiva scomparsa dalla carta geografica.
Nel 1836 Louis Geoffroy (1803-1858), un magistrato, pubblicò
un libro (Napoleone e la conquista del mondo 1812-1832. Storia
della monarchia universale), riedito poi nel 1841 con il titolo di
Napoléon apocryphe (trad. it. Napoleone apocrifo, 1991), nel quale
immaginò che Napoleone avesse sconfitto la Russia nel 1812 e
quindi, invasa l’Inghilterra, avesse imposto al mondo il
proprio dominio. L’Impero universale da lui stabilito, oltre a
garantire l’ordine, la pace e la felicità, promuove uno
straordinario progresso scientifico e tecnologico, grazie
all’utilizzo delle due risorse dalle quali era possibile
attendersi all’epoca radicali novità, l’elettricità e soprattutto il
vapore, in grado di creare, nelle sue diverse applicazioni, forze
centuplicate rispetto a quelle conosciute. Ne deriva uno
scenario fantascientifico: vetture che volano con la velocità
della folgore su strade ferrate fra le due estremità dell’Impero,
enormi vascelli che hanno fino a 20 ruote azionate da
numerose macchine a vapore in grado di attraversare l’oceano
in meno di una settimana, grandi palloni aerostatici simili a
dirigibili che si muovono grazie all’unione delle forze
magnetiche con l’elettricità, nuove macchine che possono
scacciare le nuvole e dissipare le tempeste, procedimenti
basati su scariche elettriche e altre forze fisiche per trarre
acqua potabile dal mare. La medicina ha acquisito la capacità
di curare la cecità e di approntare vaccini per debellare la
maggior parte delle malattie.

Al culmine del suo potere, Napoleone viene colpito da


un’improvvisa apoplessia il 23 luglio 1832, esattamente il
giorno successivo a quello in cui, nella realtà, era morto suo
figlio, sul quale l’opera tace completamente (l’imperatore ha
una sola figlia, Clementina, deceduta prima di lui), e muore
due giorni dopo. Permaneva però, nello scenario surreale
dell’Impero universale, un’ombra gravida di mistero,
destinata a restare fino alla fine inesplicabile.

Nel 1826 Napoleone, dopo le sue ultime vittorie, tornava


dall’Oriente in Europa quando all’improvviso i marinai della
nave imperiale videro profilarsi all’orizzonte Sant’Elena:

[...] l’imperatore impallidì, un freddo sudore gli imperlò improvvisamente


la fronte; sembrava che un pericolo ignoto, un fantasma spaventoso gli
avessero gelato il sangue. «Sant’Elena» disse con voce cupa; e lasciò
cadere la testa sul petto, come oppresso da un dolore lancinante. I re e i
generali lo guardarono stupefatti, non riuscendo a comprendere quello
spavento. Il mare era calmo, la navigazione rapida e felice [...].
L’ammiraglio Duperré venne a prendere gli ordini dell’imperatore,
chiedendogli quando si sarebbe dovuto sbarcare. «Mai!» rispose, o meglio
gridò Napoleone. Tutti erano pietrificati dallo stupore e quasi dal terrore.
«La nave si allontani al più presto dall’isola senza attraccare».

Mentre la nave, volgendo verso Occidente, si allontanava


rapidamente, come indignata, Napoleone, salito sul ponte, si
fermò a lungo a contemplare l’isola con il cannocchiale con
una cupa espressione sul volto. Un anno dopo egli inviò a
Sant’Elena una squadra navale che raccolse tutti gli abitanti
con i loro beni. Quindi in tutti i lati dell’isola «furono posti
nelle viscere della terra dei vulcani artificiali formati con tutta
la forza di gas compressi che le recenti scoperte della fisica
consentivano». Dopo una terribile esplosione, dell’isola non
rimasero che pochi frammenti calcinati, spazzati via
definitivamente dalla forza delle onde il 5 maggio 1827.
Nessuno riuscì a spiegare né allora né negli anni seguenti
quella misteriosa decisione:

Che cosa aveva motivato quella condanna a morte di un’isola da parte di


un uomo? Era capriccio, ricordo, orrore, timore superstizioso? Chi lo sa?

Il sogno e l’immaginazione letteraria offrivano una risorsa


preziosa per prendersi una rivincita sulla storia. Alcuni però
guardarono alla lontana isola con occhi diversi, e non la
considerarono affatto un luogo maledetto, una terra, secondo
la non troppo elegante espressione di Madame Bertrand,
«cacata dal diavolo fra i due mondi». Già nel 1816, quando era
appena agli inizi il calvario di Napoleone, una poesia in lingua
inglese (Ode to the Island of Saint Helena), pubblicata con il
nome di Byron (Farewell to England, p. 75), ma sicuramente
apocrifa, salutava l’isola preannunziandole la straordinaria
fama che le avrebbe assicurato l’eroe che, dopo la sua morte,
la storia avrebbe posto per il suo valore fra i primi di ogni età:

Pace a te, isola dell’Oceano!


Salute alle tue brezze e ai tuoi flutti!
[...]
Ricca sarà la ghirlanda che la storia intreccerà per te
e la sua immortale vegetazione fiorirà sulla tua fronte,
quando le nazioni che ora ti lasciano nell’oscurità
alla bacchetta dell’oblio a loro volta si inchineranno.
Immutata nella tua gloria – Non macchiata nella tua fama –
L’omaggio dei secoli santificherà il tuo nome.

Nel giorno in cui sarebbe finalmente rinato lo spirito di


libertà, e la violetta napoleonica avrebbe ripreso vita mentre
per contro sarebbe sfiorito il giglio borbonico, Sant’Elena
sarebbe diventata un altare nel mezzo dell’oceano al quale si
sarebbero rivolte le preghiere dell’umanità:

Appassirà il giglio, che ora fiorisce –


Dov’è la mano che può nutrirlo?
Le nazioni che lo innalzarono lo vedranno distruggersi –
Muffe premature lo affliggeranno.
Allora la violetta che fiorisce nelle valli
donerà alla brezza il suo profumo che rinasce –
Allora quando lo spirito di libertà si rianima
per cantare il suo anatema sulla tomba della tirannia
la lontana Europa avrà timore che la luce della tua stella si espanda
eclissando i pestilenti astri del Nord.

Nel 1821 molti, ad esempio Alexandrine Prévost de la


Boutetière de Saint-Mars, baronessa Du Montet (1785-1866),
considerarono l’isola particolarmente adatta, per la sua
maestosa e selvaggia solitudine, a custodire la tomba di
Napoleone:
Questo punto isolato nell’Oceano, questa roccia calcarea, questo cratere
spento, tomba di Napoleone, mi sembrano dei folgoranti manifesti della
Provvidenza. Il mondo era troppo ristretto per la sua vasta ambizione. [...]
Il sogno della gloria è finito, la stupefacente meteora si è spenta. La
tomba del gigante è degna del suo destino; immensa roccia perduta tra i
flutti, battuta dalle tempeste, quale monumento in Europa avrebbe avuto
questa sublime maestà della disgrazia, questa tristezza poetica e questa
grandezza? [...] Non turbate mai la sua cenere, lasciate ai flutti, agli
uragani il compito di fare la guardia alla tomba di Napoleone! (Souvenirs,
p. 210).

In effetti un’ampia letteratura mise in risalto, in forme


diverse, la romantica poesia che emanava dal luogo che il
destino aveva accomunato all’eroe scomparso. A questo
proposito particolarmente significativa è questa commossa
pagina di Heine, destinata a diventare, nei suoi stereotipi
retorici, classica:

L’imperatore è morto. Su un’isola deserta dell’Atlantico sta la sua tomba


solitaria. Egli, a cui la terra intera era troppo angusta, giace ora tranquillo
sotto la collinetta dove cinque salici piangenti lasciano pendere
tristemente i loro verdi rami e un pio ruscelletto mormora scorrendo con
un malinconico lamento. Non c’è iscrizione sulla pietra tombale, ma Clio
la musa vi ha inciso col suo imparziale stiletto parole invisibili che
risuoneranno attraverso i secoli come accordi spettrali. [...] Sant’Elena
sarà il sacro sepolcro al quale i popoli dell’Oriente e dell’Occidente vanno
in pellegrinaggio su navi dai pennoni multicolori, per corroborare il loro
cuore al grande ricordo delle gesta del Salvatore terreno che soffrì sotto
Hudson Lowe, com’è scritto nei vangeli di Las Cases, O’Meara e
Antonmarchi (Reisebilder, pp. 219-220).

La solitudine di quella terra perduta fra le acque esprimeva


bene il drammatico contrasto fra la gloria dei trionfi e il dolore
degli ultimi anni, e corrispondeva così in modo quanto mai
efficace alla sensibilità di un’opinione pubblica che, al di là
dei diversi orientamenti politici, proprio da quella improvvisa
caduta era stata profondamente colpita. Ed era soprattutto
l’immensità dell’oceano a dare al luogo un’arcana aureola di
mistero, ben espressa dai versi di Delavigne:

Egli è venuto a morire su un ultimo scoglio,


dove la sua potenza ha fatto naufragio.
Il vasto mare mormora attorno al suo feretro.
(À Napoléon, 1821)

Vi era insomma qualcosa di grandioso e di arcano in quello


scoglio battuto dai flutti e spazzato dai venti africani, che
rappresentava la solitudine dell’eroe e insieme l’acquisizione
della pace che ormai la morte gli aveva restituito dopo la sua
vita agitata. In tal senso, anche il pellegrinaggio dei suoi fedeli
seguaci assumeva in quel luogo lontano un significato
diverso, in quanto la natura stessa dell’isola ispirava al
visitatore non tanto il ricordo e l’ammirazione per la
grandezza dell’uomo quanto una meditazione sulla vita e sul
tempo, intrisa di malinconia, estranea alle passioni e ai
conflitti della lontana Europa. È questo lo stato d’animo che
ispira questi versi, tratti da un opuscolo pubblicato nel 1821
(Respect et vérité aux mânes d’un grand homme, Rispetto e verità
ai mani di un grande uomo, firmato C.L.F.):

Un giorno un viaggiatore a questa riva lontana


andrà con occhio contento a cercare la sua tomba,
a togliere dal salice che la copre un ramo
e a meditare allo stormire del suo triste fogliame.
(Lucas-Dubreton, p. 48)

Prendendo le distanze con la sua pungente ironia dalla


cerimonia del ritorno delle ceneri, Chateaubriand espresse
con efficacia il legame profondo che la storia aveva ormai
stabilito fra la vicenda politica e umana di Napoleone e la
piccola isola dell’Atlantico. Nel cuore della capitale il tombeau
era esposto agli umori contrastanti della nazione e, al di là
della debordante retorica ufficiale, non era in grado di ispirare
sentimenti davvero adeguati alla grandezza di Napoleone.
Nonostante tutto, Sant’Elena restava la vera depositaria della
memoria per chiunque volesse riflettere, lontano dai clamori
della civiltà, sul significato di quella straordinaria esistenza:
Privato del suo catafalco di rocce, Napoleone è venuto a seppellirsi nelle
immondizie di Parigi. Al posto dei vascelli, che salutavano il nuovo Ercole
[...], le lavandaie [...] si aggireranno nei dintorni con qualche invalido
sconosciuto alla Grande armata. [...] Qualunque cosa si faccia, si vedrà
sempre nel mezzo del mare il vero sepolcro del trionfatore: a noi il corpo,
a Sant’Elena la vita immortale (Mémoires d’outre-tombe, I, pp. 1031-1032).

Fu però soprattutto Lermontov, in una poesia del 1830


(Liriche e poemi, pp. 36-37), a cogliere in versi di intenso lirismo
la compenetrazione ormai indissolubile fra il mito di
Napoleone e il mito di Sant’Elena, lui che, come si è detto,
dieci anni dopo avrebbe espresso una severa critica alla
giornata del 15 dicembre 1840. Sembrava che ormai lo spirito
dell’eroe defunto abitasse quei luoghi, e in effetti, al calar
della sera, si poteva scorgere a volte una presenza spettrale,
un uomo in piedi sulle ripide rive, con lo sguardo perduto
nell’immensa distesa dell’oceano in tempesta:
Nell’ora incerta tra la notte e il giorno,
quando sull’acqua azzurreggia la bruma,
nell’ora di pensieri empi, visioni,
misteri e fatti che non vuol la luce
vedere, né la tenebra coprire,
qual ombra, quale volto in riva al mare,
lo sguardo all’onde, sta presso sbilenca
croce? Vivo non è, ma neppur sogno
son l’occhio acuto sotto l’alta fronte
e quelle braccia ripiegate in croce.

I suoi occhi guardano ancora verso Oriente, dove c’è la


lontana Francia, ma egli si è ormai lasciato alle spalle il
frastuono dei campi di battaglia e le seduzioni della gloria,
«ingannevole compagna», e anche se affiora a tratti il
rimpianto dei giorni perduti («perché ebber dunque così a
finire?»), e rimangono vivi nel profondo dell’animo, se non le
passioni, gli antichi pensieri, egli ha dato il suo definitivo
addio alla patria e alle ambizioni di un tempo, e preferisce ai
richiami del passato la solitudine e la pace di quello scoglio:
[...] benché morto, egli ama
questo isolotto perso in mezzo al mare
dove marcì il suo corpo ai vermi preda.

Quando sorge il giorno, e splende il sole sui flutti, il


fantasma scompare d’improvviso dagli scoscesi dirupi, ormai
deserti. Ma i pescatori raccontano «storie portentose»,
raccolte e tramandate dalla gente del luogo, sulle visioni che
nelle notti tempestose, alla luce dei lampi, apparivano a un
tratto agli occhi impauriti dei naviganti:

Allorché la tempesta infuria ed urla,


la folgore balena e romba il tuono,
un fuggevole raggio spesso schiara
un’ombra triste sugli scogli.
E un navigante, qual fosse il terrore,
poté vedere un bruno, immoto volto
sotto il cappello, con annuvolata
fronte, e due braccia ripiegate in croce.
François Joseph Sandmann, Napoleone a Sant’Elena, 1820,
Rueil-Malmaison, Musée National des Châteaux de
Malmaison & Bois-Préaux.
Appendice

Filmografia

Gli anni di Sant’Elena hanno nella vastissima


cinematografia dedicata a Napoleone uno spazio tutto
sommato marginale. Ciò è stato dovuto in parte
all’ambientazione che, legata alla vita quotidiana di
Longwood, priva di eventi significativi, obbliga a privilegiare
una scenografia di interni e moduli tipici della
rappresentazione teatrale, vale a dire l’efficacia dei dialoghi e
la capacità di rendere in modo adeguato la psicologia dei
personaggi. Non a caso buona parte delle opere per sfuggire a
questi condizionamenti ha inserito nella narrazione
avvenimenti di fantasia, immaginando in modi diversi una
fuga del prigioniero dall’isola.

Agli inizi della cinematografia sugli ultimi anni di


Napoleone si colloca l’opera di uno dei maestri del cinema
muto, il romano Mario Caserini (1874-1920), che girò nel 1911
Sant’Elena, film suggestivo, apprezzato per l’accuratezza
dell’ambientazione e per l’efficacia con la quale furono
presentati, con la tecnica del flashback, i ricordi che
ritornavano alla mente di Napoleone. Seguì nel 1911 Le
Mémorial de Sainte-Hélène, di Michel Carré (1865-1945), che
conferì ai personaggi rigide caratterizzazioni divenute poi veri
e propri stereotipi più volte riproposti in seguito, classici
quelli della spregiudicata avventuriera (Madame Montholon) e
del carceriere ottuso (Lowe), che dopo la morte di Napoleone è
terrorizzato dal suo fantasma. Nella narrazione è inserito
anche un fallito tentativo di evasione.

Nel 1912 fu girato dallo statunitense James Searle Dawley


(1877-1949) il cortometraggio Prisoner of war (Prigioniero di
guerra), che inizia con l’addio di Napoleone alla Francia e si
chiude con la sua morte, che avviene mentre si scatena
sull’isola una terribile tempesta, un altro luogo comune più
volte ripetuto e non rispondente al vero.

Alla soglia del passaggio al cinema sonoro il regista


francese Abel Gance (1869-1981) progettò un ciclo di ben sei
film da dedicare all’epopea napoleonica. Egli girò nel 1927 il
classico Napoleone, concernente i primi anni fino alla
campagna d’Italia del 1796, ma non riuscì a realizzare quello
che aveva previsto di dedicare all’esilio di Sant’Elena. La
sceneggiatura fu utilizzata in seguito dal regista tedesco di
origini rumene Lupu Pick (1886-1931) per il film Napoleone a
Sant’Elena (1929), nel quale il grande attore tedesco Werner
Krauss (1884-1959), pur senza poter utilizzare ancora il
parlato, diede un’interpretazione convincente del dramma
umano di Napoleone, segnato dal conflitto fra l’amarezza del
declino e il riemergere a tratti dello spirito di dominio. Alcune
scene furono girate proprio a Sant’Elena da un’unità di
produzione inviata nell’isola. Il film preludeva anche alla
transizione al sonoro, in quanto le didascalie erano lette da
una voce fuori campo e gli stessi attori recitavano in diretta
alcune scene.

L’Aiglon, del 1931, adattamento dell’opera teatrale di


Rostand, di Viktor Tourjansky (1891-1976), regista russo
emigrato in Francia, fu uno dei primi film sonori europei e
ottenne un notevole successo. Con lo stesso titolo, e ispirato
anch’esso all’opera di Rostand, era già uscito nel 1913 un film
muto del regista statunitense di origini francesi, Émile
Chautard (1864-1934). Alcuni anni dopo, nel 1961, Claude
Boissol (1920-2016) si cimentò nuovamente con la figura del
figlio di Napoleone con il film Napoléon II. L’Aiglon, che si
proponeva di superare i canoni retorici imposti dal dramma di
Rostand ma vi riuscì solo in parte perché inevitabilmente gli
schemi costruiti dalla tradizione nazionale si imposero agli
intenti iniziali del regista.

L’ipotesi secondo cui Napoleone non sarebbe morto a


Sant’Elena, più volte prospettata da presunte ricerche storiche
o da opere letterarie, ha trovato molto spazio nel cinema per
le opportunità che offriva alla fantasia degli sceneggiatori e
per l’evidente impatto sul grande pubblico. Fu dapprima un
breve documentario americano (11 minuti) del 1938, intitolato
The man of the rock (L’uomo della roccia), diretto dallo
statunitense Edward L. Cahn (1899-1963) a riprendere la tesi,
priva ovviamente di ogni fondamento, secondo la quale
Napoleone sarebbe stato sostituito nell’isola da un sosia, un
certo François-Eugène Robeaud, morto al suo posto.
Questa idea fu anche al centro della sceneggiatura scritta da
Charlie Chaplin (1889-1977) nel 1936 e poi non realizzata.
Sappiamo che Chaplin fin dagli anni Venti pensava a un film
su Napoleone, nel quale egli stesso avrebbe interpretato il
ruolo del protagonista. In origine questo interesse era legato
in parte a ricordi familiari ma in seguito le posizioni politiche
progressiste e l’impegno pacifista che caratterizzarono questo
periodo della sua vita lo portarono a privilegiare l’aspetto
umano della vicenda di Napoleone rispetto alla sua
dimensione eroica. In questa prospettiva maturò l’idea di un
film sull’esilio. Chaplin fu colpito, oltre che dalla lettura del
Memoriale di Las Cases, dalla fantasiosa storia narrata nel
romanzo di Pierre-Eugène Veber (1869-1942) La seconde vie de
Napoléon Ier (La seconda vita di Napoleone I, 1924), del quale
acquistò alla fine del 1935 i diritti di riproduzione. L’anno
seguente scrisse, in collaborazione con un intellettuale
inglese, simpatizzante del movimento comunista, John
Strachey (1901-1963), la sceneggiatura di un film intitolato
Napoleon’s return from Saint Helena (Il ritorno di Napoleone da
Sant’Elena). In realtà del romanzo di Veber rimase solo l’idea
di una fuga da Sant’Elena di Napoleone, grazie a un sosia che
prende il suo posto. Napoleone tornato in Europa non riesce a
riunire i suoi seguaci per riprendere il potere e deve prendere
atto che il suo tempo è finito. Chaplin previde anche una
scena in cui egli incontra il figlio che però non lo riconosce. Le
posizioni pacifiste ed europeiste assunte in quegli anni da
Chaplin si rivelano in una battuta attribuita a Napoleone, il
quale dichiara a Montholon che se avesse potuto ricominciare
la sua vita avrebbe impiegato il suo genio militare per unire
tutte le nazioni del continente. Queste poche notizie sono
sufficienti a farci rimpiangere la mancata realizzazione del
progetto, sostituito poi dal celebre Il grande dittatore.

Durante la guerra fu girato Sant’Elena, piccola isola, il cui


titolo, come spiegava la didascalia iniziale, prendeva spunto
dall’annotazione lasciata dal giovane Bonaparte nei suoi
quaderni di geografia all’epoca dei suoi studi. Il film fu
presentato nella sala delle proiezioni del Ministero per la
cultura popolare il 15 marzo 1943. Il regista Renato Simoni
(1875-1952), veronese, scrittore, critico d’arte e autore di
libretti operistici, si giovò per la sceneggiatura della
collaborazione di Umberto Scarpelli (1904-1980). Egli diede
all’opera l’impronta di uno scrupoloso realismo. Da segnalare
l’eccellente interpretazione di Napoleone offerta da Ruggero
Ruggeri (1871-1953) che, pur essendo di 20 anni più anziano
del personaggio, espresse con grande efficacia le sfumature
degli stati d’animo del prigioniero, rassegnato al suo destino e
amareggiato dalle rivalità e dalle gelosie della sua piccola
corte. Tutto il cast era comunque notevole: fra gli altri
Lamberto Picasso (Hudson Lowe), Mercedes Brignone
(Madame mère), Elsa de Giorgi (Betsy Balcombe), Salvo
Randone (Gourgaud), Paolo Stoppa (O’Meara), Rubi Dalma
(Fanny Bertrand) e anche un giovanissimo Alberto Sordi nei
panni di un ufficiale inglese.

Una ricostruzione puntuale degli eventi fu anche il


principale obiettivo del film L’ostaggio dell’Europa (1989) del
polacco Jerzy Kawalerowicz (1922-2007). Nel 1955 uscì
Napoléon di Sacha Guitry (1885-1957), nel quale il regista
interpreta il ruolo di Talleyrand, che aveva già rivestito nel
suo Il diavolo zoppo (1948). In quest’opera è lo stesso Talleyrand
a narrare ai suoi ospiti la storia di Napoleone dopo avere
appreso la notizia della sua morte a Sant’Elena. Dalla
narrazione emerge l’ammirazione di Talleyrand per l’uomo
che egli per altro aveva tradito, legandosi segretamente allo
zar Alessandro I e poi, nel 1814, favorendo il ritorno sul trono
dei Borbone. Degna di nota è l’interpretazione di Hudson
Lowe fornita dall’attore americano Orson Welles (1915-1985).

Per quanto concerne la filmografia di matrice anglosassone,


generalmente meno incline a dare una connotazione positiva
alla figura di Napoleone, va ricordato del regista statunitense
Fielder Cook (1923-2003) Eagle in a cage (Aquila in gabbia) del
1972. Napoleone, dopo un fallito tentativo di fuga, viene
avvicinato da un personaggio di fantasia, Lord Sissal, il quale
si offre di favorire la sua partenza dall’isola; in cambio egli,
tornato in Europa, avrebbe dovuto reprimere i movimenti
rivoluzionari e muovere guerra alla Prussia, contribuendo a
un assetto del continente più favorevole agli interessi della
Gran Bretagna. Se non avesse accettato, sarebbe stato
accusato di crimini contro l’umanità, anacronistica proiezione
nel passato di una formula nata nel XX secolo. Il piano fallisce
perché poco prima della sua realizzazione Napoleone avverte
i sintomi del cancro allo stomaco che lo porta alla morte poco
dopo. Nella vicenda si inserisce anche una relazione fra
Napoleone e Betsy Balcombe.
Un’altra storia di fantasia sugli ultimi anni di Napoleone fu
proposta dal film The emperor’s new clothes (I vestiti nuovi
dell’imperatore) del 2001, ispirato a un romanzo del belga
Simon Leys (pseudonimo di Pierre Ryckmans, 1935-2014), La
morte dell’imperatore, e diretto dallo statunitense Alan Taylor
(nato nel 1965). Nonostante presenti una storia
assolutamente fantastica, il film tiene conto nella
caratterizzazione dei personaggi della verità storica e ha il
pregio di tenere desta l’attenzione dello spettatore
mantenendo la narrazione sempre sospesa fra una commedia
degli equivoci e il dramma. Anche in questa caso Napoleone
riesce a lasciare l’isola facendosi sostituire da un sosia, il
mozzo Eugene Lenormand. Questi, invece di rivelare la sua
vera identità, decide di continuare a fingere di essere
l’imperatore per godere dei vantaggi che questa situazione gli
assicura. Per questo in Francia, dove non arriva alcuna notizia
riguardo alla fuga di Napoleone, non riesce a farsi riconoscere
e a riconquistare il potere. Quando giunge la notizia che a
Sant’Elena il falso Napoleone-Lenormand è morto per
un’indigestione, il vero Napoleone rivela la sua identità ma
non è creduto e finisce in manicomio fra molti pazzi che
dicono di essere Napoleone. Riesce però a fuggire e finisce con
il costruirsi una vita normale. Agli Invalides viene sepolto il
mozzo Lenormand. Veramente godibile è la scena in cui il
falso Lenormand, ovvero Napoleone, si ferma in una locanda
di Waterloo, meta ormai di numerosi turisti, e dorme in un
letto sul quale una targa avverte che lì aveva dormito
Napoleone: affermazione falsa che però ora è diventata vera.
Nel 2003 è uscito il film Monsieur N. del francese Antoine de
Caunes (nato nel 1953), anch’esso incentrato su vicende
falsificate o del tutto inventate, narrate secondo i moduli del
thriller. Il film risente anche delle insistenti voci levatesi in
quegli anni in Francia sullo scambio dei corpi fra Napoleone e
Cipriani, morto nel 1818. La storia parte appunto
dall’esumazione della salma avvenuta a Sant’Elena
nell’ottobre 1840 in vista del trasporto a Parigi. Il colonnello
inglese Basil Heathcote, personaggio di fantasia, che è stato a
Sant’Elena nei primi anni dell’esilio di Napoleone, crede che
la sua morte celi un mistero e si impegna a Parigi in una serie
di indagini, che vengono descritte dal regista con alcuni
flashback sugli eventi svoltisi nell’isola. In questi squarci il film
mostra con efficacia le complesse relazioni stabilitesi fra
Napoleone e i suoi compagni di esilio. Le indagini conducono
infine Heathcote in Louisiana, dove vive in una fattoria Betsy
Balcombe, da qualche tempo vedova di un Monsieur N., del
quale tutti parlano con grande rispetto, ricordando il suo
cattivo inglese pronunziato con accento francese e i suoi modi
militareschi. La conclusione sembra quindi accreditare
l’ipotesi di una fuga di Napoleone da Sant’Elena e la tesi per
cui non sarebbe suo il corpo che riposa nel tombeau agli
Invalides.

Ricordiamo infine lo sceneggiato televisivo, disponibile su


Raiplay, Napoleone a Sant’Elena prodotto dalla Rai nel 1973 in
quattro puntate per la regia di Vittorio Cottafavi (1914-1998).
Napoleone era interpretato da Renzo Palmer (1919-1988).
Nel complesso le opere cinematografiche sull’esilio di
Sant’Elena, se offrono alcuni suggestivi approfondimenti della
psicologia di Napoleone e dei personaggi che a vario titolo
condivisero con lui quegli anni, è rimasta in larga misura
estranea ai problemi posti dalla storiografia relativamente al
significato di quel periodo sia in relazione allo sviluppo
complessivo della vicenda napoleonica sia nell’ambito della
situazione dell’Europa nell’età della Restaurazione. Hanno
prevalso insomma le diverse prospettive ideologiche e
nazionali, per cui alla retorica nazionalistica di alcuni film
francesi, con le conseguenti rappresentazioni caricaturali del
personaggio di Hudson Lowe, si sono contrapposte da parte
anglosassone posizioni più critiche nei confronti di
Napoleone. Per il resto, nell’intento di far presa sul grande
pubblico, si è preferito ricorrere ai consolidati stereotipi del
mito napoleonico o a ricostruzioni di pura fantasia.
Nota bibliografica

Diamo di seguito l’elenco dei riferimenti abbreviati che


utilizziamo nel testo per segnalare la fonte delle citazioni e le
indicazioni complete delle opere alle quali esse si riferiscono.
Per i testi memorialistici indichiamo la data sotto la quale è
possibile reperire i brani citati; nel caso del Memoriale di Las
Cases indichiamo sempre, come si è detto, se il brano si trova
sia nel testo edito sia nel manoscritto originario, oppure in
uno solo di essi. Tranne che nel caso in cui abbiano
particolare interesse, trascuriamo le differenze di carattere
formale che esistono fra il testo manoscritto e quello edito.

Aubry = Octave Aubry, Le Roi de Rome, Paris, 1936.

Bazzoni, Poesie = Giunio Bazzoni, Poesie, 1897.

Bertrand, Cahiers = Henri-Gatien Bertrand, Cahiers de Sainte-


Hélène, 3 voll., Paris, 1949-1959.

Bluche = Frédéric Bluche, Le bonapartisme: aux origines de la


droite autoritaire (1800-1850), Paris, 1980.

Boigne, Mémoires = Recits d’une tante. Mémoires de la comtesse


de Boigne, née d’Osmond, 5 voll., Paris, 1921-1923.
Bourgoing = Jean de Bourgoing, Le fils de Napoléon, Paris,
1932.

Branda = Pierre Branda, Le prix de la gloire. Napoléon et


l’argent, Paris, 2007.

Byron, Farewell to England = Lord Byron’s Farewell to England


and other late poems, London, 1816.

Byron, Childe Harold’s Pilgrimage = George Gordon Byron, Il


pellegrinaggio del giovane Aroldo, traduzione di Andrea Maffei,
Firenze, 1874.

Caulaincourt, In islitta = Armand-Louis-Augustin de


Caulaincourt, duca di Vicenza, In islitta con l’imperatore. Colloqui
di Napoleone col suo grande scudiero (dicembre 1812), Bari, 1939.

Chasles, Mémoires = Philarète Chasles, Mémoires, 2 voll.,


Paris, 1876-1877.

Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe = François-René de


Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe, 2 voll., édition par les
soins de Maurice Levaillant et Georges Moulinier, Paris, 1951
[1848].

Comandini = Alfredo Comandini, L’Italia nei cento anni del


secolo XIX giorno per giorno illustrata, vol. I, 1801-1825, Milano,
1900.

Conversations sur le christianisme = Napoléon Bonaparte,


Conversations sur le christianisme, préface de Jean Tulard,
Monaco-Perpignan, 2014.
Custodi, In morte di Napoleone = Vittorio Criscuolo, Pietro
Custodi in morte di Napoleone, in «Società e storia», n. 173, 2021.

Darwin, Viaggio = Charles Darwin, Viaggio di un naturalista


intorno al mondo. Autobiografia. Lettere (1831-1836), a cura di
Pietro Omodeo, Milano, 1980.

Du Montet, Souvenirs = Souvenirs de la baronne Du Montet


1785-1866, Paris, 1914.

Farewell to England = Lord Byron’s Farewell to England, and other


late poems [autore: John Agg, 1783-1855], Philadelphia, 1816.

Foscolo (1824) = Ugo Foscolo, Italian Periodical Literature


(pubblicato in «European Review», 1824), in Edizione Nazionale
delle Opere, vol. XI, Saggi di letteratura italiana, a cura di Cesare
Foligno, Firenze, 1958, pp. 327-366 (testo inglese), pp. 367-395
(traduzione italiana).

Fureix = François Fureix, La France des larmes. Deuils


politiques à l’age romantique (1814-1840), Paris, 2009, chap. X,
Napoléon, «la plus grande morte du siècle».

Gourgaud, Journal = Gaspard Gourgaud, Journal de Sainte-


Hélène, texte établi, présenté et commenté par Jacques Macé,
introduction de Thierry Lentz, Paris, 2019.

Heine, De la France = Heinrich Heine, De la France, Paris, 1857


[1831-1832].

Heine, Lutèce = Heinrich Heine, Lutèce. Lettres sur la vie


politique artistique et sociale de la France, Paris, 1866 [1840-1843].
Heine, Reisebilder = Heinrich Heine, Reisebilder (Impressioni
di viaggio), a cura di Alba Burger Cori, Torino, 1960 [4 voll.:
1826, 1827, 1829 e 1831].

Las Cases, Mem. = Emmanuel de Las Cases, Le Mémorial de


Sainte-Hélène, texte établi et commenté par Gérard Walter, 2
voll., Paris, 1956-1957.

Las Cases, Ms. = Emmanuel de Las Cases, Le Mémorial de


Sainte-Hélène. Le manuscrit retrouvé, texte établi, présenté et
commenté par Thierry Lentz, Peter Hicks, François Houdecek,
Chantal Prévot, Paris, 2018.

Lentz = Thierry Lentz, «Bonaparte n’est plus!». Le monde


apprend la mort de Napoléon (juillet-septembre 1821), Paris, 2019.

Lermontov, Poèmes = Michail Jur’evič Lermontov, Poèmes, par


Louis Jousserandot, Paris [1918].

Lermontov, Liriche e poemi = Michail Jur’evič Lermontov,


Liriche e poemi, traduzione di Tommaso Landolfi, Milano, 2006.

Lucas-Dubreton = Jean Lucas-Dubreton, Le culte de Napoléon.


1815-1848, Paris, 1960.

Magris, Danubio = Claudio Magris, Danubio, Milano, 1986.

Maria Luisa, Correspondance = Correspondance de Marie Louise


1799-1847. Lettres intimes et inédites, Vienne, 1887.

Mazzini, Ai poeti italiani del secolo XIX = Giuseppe Mazzini, Ai


poeti italiani del secolo XIX, in Scritti letterari editi ed inediti, vol. I,
Letteratura, Imola, 1906, pp. 349-374.
Mémoires de Marchand = Mémoires de Marchand, premier valet
de chambre et exécuteur testamentaire de l’Empereur, vol. II, Paris,
1985.

Ménager = Bernard Ménager, Les Napoléon du peuple, Paris,


1988.

Metternich, Mémoires = Mémoires, documents et écrits divers


laissés par le prince de Metternich, 8 voll., Paris, 1880-1884.

Pellico, Ode per N. = Silvio Pellico, Poesie e lettere inedite,


Roma, 1898, pp. 29-39.

Quinet = Edgar Quinet, Histoire de mes idées. Autobiographie,


Paris, 1903 [1858].

Schiel = Irmgard Schiel, Marie Louise. Une Habsbourg pour


Napoléon, Louvain-la-Neuve, 1992.

Stendhal, Mémoires sur Napoléon = Stendhal, Mémoires sur


Napoléon, établissement du texte et préface par Henri
Martineau, Paris, 1930.

Tulard = Jean Tulard, Napoléon II, Paris, 1992.


Letture consigliate

Strumento fondamentale per accostarsi a temi e problemi


dell’età napoleonica è il Dictionnaire Napoléon, diretto da Jean
Tulard, Paris, Fayard, 1999. È da poco uscito Thierry Lentz,
Napoléon. Dictionnaire historique, Paris, Perrin, 2020.

Sulla vasta memorialistica: Jean Tulard, Nouvelle bibliographie


critique des Mémoires sur le Consulat et l’Empire écrits ou traduits
en français, Génève-Paris, Librairie Droz, 1991.

Fra le opere generali da vedere i classici Georges Lefebvre,


Napoleone, Roma-Bari, Laterza, 1991 [1935] e Jean Tulard,
Napoleone. Il mito del salvatore, Milano, Rusconi, 1989 [1977]. In
italiano sono disponibili anche: Luigi Mascilli Migliorini,
Napoleone, Roma, Salerno editrice, III ed., 2014; Vittorio
Criscuolo, Napoleone, Bologna, Il Mulino, II ed., 2009; in
francese: Thierry Lentz, Nouvelle histoire du Premier Empire, 4
voll., Paris, Fayard, 2002-2010; in inglese: Steven Englund,
Napoleon. A political life, Cambridge, Harvard University Press,
2004.

Sant’Elena: Frédéric Masson, Napoléon à Sainte-Hélène, Paris,


Goupil, 1912; Paul Ganière, Napoléon à Sainte-Hélène, 3 voll.,
Paris, Perrin, 1956-1962; AA.VV., Sainte-Hélène terre d’exil, Paris,
Hachette, 1971; Jacques Macé, Dictionnaire historique de Sainte-
Hélène, Paris, Tallandier, 2004; Gilbert Martineau, Napoléon à
Sainte-Hélène 1815-1821, Paris, Tallandier, 2005; Sainte-Hélène île
de mémoire, sous la direction de Bernard Chevallier, Michel
Dancoisne-Martineau et Thierry Lentz, Paris, Fayard, 2005;
Thierry Lentz e Jacques Macé, La mort de Napoléon. Mythes,
légendes et mystères, Paris, Perrin, 2012; Charles-Éloi Vial,
Napoléon à Sainte-Hélène. L’encre de l’exil, Paris, Perrin, 2018.

Sulla memorialistica di Sant’Elena, utilissima l’antologia dei


quattro «evangelisti» curata da Jean Tulard: Las Cases,
Gourgaud, Montholon, Bertrand, Napoléon à Sainte-Hélène,
textes choisis, préfacés et commentés par Jean Tulard, Paris,
Laffront, 1981.

Del Memoriale di Las Cases è disponibile la traduzione


italiana: Emmanuel de Las Cases, Memoriale di Sant’Elena, a
cura di Luigi Mascilli Migliorini, 2 voll., Milano, Rizzoli, 2004.
Da vedere anche in italiano: Betsy Balcombe, Il mio amico
Napoleone. Memorie di una ragazza inglese, a cura di Ernesto
Ferrero, Milano, Mondadori, 2007 [1843].

Testamento e questioni finanziarie: Pierre Branda, Le prix de la


gloire. Napoléon et l’argent, Paris, Fayard, 2007.

L’eco della morte: Louis Jacob, La mort de Napoleon I (impression


produite en France et en Europe), in «La nouvelle revue», XXIX,
IIIe série, t. VI, novembre-décembre 1908, pp. 89-105; André
Chesnier du Chesne, L’opinion publique en Angleterre. La mort de
Napoléon, in «La Revue hebdomadaire», 14 maggio 1921, pp.
92-103; Georges Lote, La mort de Napoléon et l’opinion
bonapartiste en 1821, in «Revue des études napoléoniennes»,
janvier-juin 1930, pp. 19-58; Donald D. Horward e William
Warren Rogers, The American Press and the Death of Napoleon, in
«Journalism Quarterly», vol. 43, n. 4, 1966, pp. 715-721;
Emmanuel Fureix, La France des larmes. Deuils politiques à l’âge
romantique (1814-1840), Paris, Champ Vallon, 2009; Thierry
Lentz, «Bonaparte n’est plus!». Le monde apprend la mort de
Napoléon (juillet-septembre 1821), Paris, Perrin, 2019.

La leggenda: Philippe Gonnard, Les origines de la légende


Napoléonienne. L’oeuvre historique de Napoléon à Sainte-Hélène,
Paris, Calmann-Lévy, 1906; Maria Dell’Isola, Napoléon dans la
poésie italienne a partir de 1821, Paris, Gamber, 1927; Jean Lucas-
Dubreton, Le culte de Napoléon 1815-1848, Paris, Albin Michel,
1960; Maurice Descotes, La légende de Napoléon et les écrivains
français du XIXe siècle, Paris, Minard, 1967; Jean Tulard, Le mythe
de Napoléon, Paris, Armand Colin, 1971; Sudhir Hazareesingh,
La légende de Napoléon, Paris, Tallandier, 2005; Bernard
Ménager, Les Napoléon du peuple, Paris, Aubier, 1988; Jean
Tulard, L’Anti-Napoléon, Paris, Gallimard, 2013; Anna Gnedina-
Moretti, Napoléon dans la littérature russe, in «Revue du
souvenir napoléonien», n. 501, octobre-décembre 2014, pp. 36-
54; Nathalie Pigault, Les faux Napoléon (1815-1823). Histoire
d’imposteurs impériaux, Paris, CNRS éditions, 2018. In italiano è
disponibile la traduzione del libro di Jean Tulard, L’anti-
Napoleone, Roma, Veutro, 1970.
Sul «Cinque Maggio» manzoniano: Isabella Becherucci, «Il
Cinque Maggio»: storia del testo ed edizione critica, in «Prassi
Ecdotiche della Modernità Letteraria», 4/II, 2019, pp. 87-140;
Isabella Becherucci, Imprimatur. Si stampi Manzoni, Venezia,
Marsilio, 2020.

Biografie: Jean Lucas-Dubreton, Béranger. La chanson. La


politique. La société, Paris, Hachette, 1934; Jean Touchard, La
gloire de Béranger, 2 voll., Paris, Colin, 1968; Michel Barthelot,
Bertrand, grand maréchal du Palais, Châteauroux, Chez l’auteur,
1996; Arthur-Lévy, Napoléon et Eugène de Beauharnais, Paris,
Calmann-Lévy, 1926; Jean Autin, Eugène de Beauharnais. De
Joséphine à Napoléon, Paris, Perrin, 2003; Jacques Macé, Le
général Gourgaud, Paris, Nouveau Monde éditions, Fondation
Napoléon, 2006; Pierre de Lacretelle, Secrets et malheurs de la
reine Hortense, Paris, Hachette, 1936; Jacques-Olivier Boudon,
Le Roi Jérôme, frère prodigue de Napoléon, Paris, Fayard, 2008;
Georges Bertin, Josehp Bonaparte en Amérique, Paris, Librairie de
la Nouvelle Revue, 1893; Thierry Lentz, Joseph Bonaparte, Paris,
Perrin, 2016; Maurice Brun, Le banquier Laffitte 1767-1844,
Abbeville, F. Paillart, 1997; Michel Dancoisne-Martineau,
Hudson Lowe, le grand brûlé de Sainte-Hélène, Sainte-Hélène,
MDM, 2018; Gilbert Martineau, Lucien Bonaparte, Paris, France-
Empire, 1989; Irmgard Schiel, Marie-Louise. Une Habsbourg pour
Napoléon, Louvain-la-Neuve, Duclot, 1992; Charles-Éloi Vial,
Marie Louise, Paris, Perrin, 2017; Luigi Mascilli Migliorini,
Metternich, Roma, Salerno editrice, 2014; Jean de Bourgoing, Le
fils de Napoléon, Paris, Payot, 1932; Jean Tulard, Napoléon II,
Paris, Fayard, 1992; Alessandra Necci, Il prigioniero degli
Asburgo. Storia di Napoleone II Re di Roma, Venezia, Marsilio,
2011; Joachim Kühn, Pauline Bonaparte, Paris, Plon, 1963;
François Charles-Roux, Rome, asile des Bonaparte, Paris,
Hachette, 1952.

Ritorno delle ceneri: Jean Tulard, Le retour des cendres, in Les


Lieux de la mémoire, vol. II, La Nation, t. III, Paris, Gallimard,
1993, pp. 81-110; Georges Poisson, L’aventure du retour des
cendres, Paris, Tallandier, 2004.

Bonapartismo: Frédéric Bluche, Le bonapartisme aux origines de


la droite autoritaire (1800-1850), Paris, Nouvelles éditions
latines, 1980; Domenico Losurdo, Democrazia o bonapartismo:
trionfo e decadenza del suffragio universale, Torino, Bollati
Boringhieri, 1993.
Indice dei nomi

Abetz, Otto, 186


Agoult, Marie-Catherine-Sophie de Flavigny, contessa d’, 189
Alessandro I, zar di Russia, 85, 106, 107, 157-159, 205
Alessandro III di Macedonia, detto Alessandro Magno, 145, 184
Alì, vedi Saint-Denis
Amherst, Lord William Pitt, 42
Angoulême, Louis-Antoine di Borbone, duca di, 90
Antonmarchi, Francesco, 51-54, 56, 57, 194
Archambault, Achille, 179
Arnott, Archibald, 52-54, 76
Artois, conte di, vedi Carlo X
Attila, re degli Unni, 92
Aubry, Octave, 88
Augé, Lazare, 96
Augereau, Pierre-François-Charles, generale, 71
Augusta Amalia Luisa, principessa di Baviera, viceregina
d’Italia, 84
Balcombe, famiglia, 13, 21, 76
Balcombe, Elizabeth (Betsy), 12, 13, 205-207
Balcombe, William, 12
Baldassarre, re di Babilonia, 173
Balzac, Honoré de, 93, 94, 100
Barginet, Alexandre, 97, 131, 180
Barthélemy, Auguste-Marseille, 120, 121
Barthélemy, Pierre, 175
Bathurst, Henry, conte di, 14, 36, 38, 41, 42, 56, 57, 81
Baviera, figlia del re di, vedi Augusta Amalia Luisa di Baviera
Bazzoni, Giunio, 142, 143
Beauharnais, Eugenio di, viceré d’Italia, 39, 72, 74, 79, 84
Beauharnais, Joséphine de, prima moglie di N., 26, 72, 84, 109
Beauharnais, Ortensia di, regina di Olanda, 72, 74, 84, 167, 185
Beauterne, Robert-Augustin-Antoine de, 60, 61
Béranger, Pierre-Jean, 95, 102
Berlioz, Héctor, 102
Bernadotte, Jean-Baptiste, generale (nel 1818 re Carlo XIV di
Svezia), 26
Bernhardt, Sarah, 121
Berry, Charles-Ferdinand di Borbone, duca di, 90, 164
Berry, Maria Carolina di Borbone-Napoli, duchessa di, 90
Bertrand, Arthur, 11, 25, 179
Bertrand, Henri-Gratien, 11, 13, 16, 25-27, 29, 30, 32, 36, 39, 46,
47, 50, 52-54, 56, 57, 59-61, 67, 68, 71, 74, 78, 113, 127, 167,
169, 176, 179, 182, 186
Bertrand, madame, vedi Dillon, Fanny
Biffi, Giacomo, cardinale, 60
Bluche, Frédéric, 133
Boigne, Charlotte-Louise-Éléonore-Adélaïde d’Osmond,
contessa di, 87
Boissol, Claude, 202
Bonaparte, famiglia, 37, 48, 72, 74, 78, 83-85, 110, 136, 176
Bonaparte, Carlo, padre di N., 54, 82
Bonaparte, Carlo Luigi, vedi Napoleone III
Bonaparte, Carolina, regina di Napoli, 77, 84
Bonaparte, Gerolamo, re di Westfalia, 84, 176, 186
Bonaparte, Giuseppe, re di Napoli e poi di Spagna, 48, 50, 85,
116, 186
Bonaparte, Letizia, vedi Ramolino, Letizia
Bonaparte, Luciano, principe di Canino, 8, 37, 84
Bonaparte, Luigi, re di Olanda, 21, 71, 84, 116
Bonaparte, Napoleone Luigi, 116
Bonaparte, Paolina, 83, 84
Bourgoing, Jean, 113
Branda, Pierre, 79
Brayer, Michel-Silvestre, generale, 74
Brignone, Mercedes, 205
Byron, George Gordon, 76, 97, 148-157, 160, 192
Cahn, Edward L., 203
Cambronne, Pierre, generale, 75
Cantillon, Marie-André-Nicolas, 76, 77
Caraman, George, conte di, 81
Carlisle, Frederick Howard, conte di, 76
Carlo II, re d’Inghilterra, 8
Carlo X, re di Francia, 58, 90, 115
Carlo Magno, re dei Franchi e imperatore, 184
Carolina di Brunswick, 87, 88, 96, 97
Carré, Michel, 201
Caserini, Mario, 201
Castlereagh, Robert Stewart, visconte di, 9, 10, 42, 43, 49, 87,
88, 176
Caterina di Württemberg, 84
Caulaincourt, Armand-Augustin-Louis de, duca di Vicenza,
132
Caunes, Antoine de, 207
Cesare, Gaio Giulio, 145, 184
Chalon, John James, 9
Chambord, Henri-Charles-Ferdinand-Marie-Dieudonné
d’Artois, conte di (pretendente borbonico col nome di
Enrico V), 90
Chamisso, Adalbert von, 147
Chaplin, Charlie, 203, 204
Chappe, Claude, 81
Chasles, Philarète, 185
Chateaubriand, Auguste-René de, 42, 55, 92, 124, 195
Chaumont-Quitry, François-Charles de, 99
Chautard, Émile, 202
Cimarosa, Domenico, 164
Cipriani Franceschi, 11, 33, 36, 39, 47, 50, 58, 59, 207
Clary, Désirée, 26
Cockburn, George, ammiraglio, 12-14, 35, 38
Collin de Plancy, Jacques, 97
Comandini, Alfredo, 83
Constant, Benjamin, 92, 133
Cook, Fielder, 205
Corneille, Pierre, 46
Correggio, Antonio Allegri, detto il, 164
Costa, Paolo, 142
Costantino, imperatore romano, 7
Cottafavi, Vittorio, 207
Crawford, Quentin, 89
Crenneville, Victoire Poutet, contessa di, 105
Crockat, William, 53, 56, 81, 167
Cruikshank, Georges, 86
Custodi, Pietro, 141, 142
Daffinger, Moritz Michael, 114
Dalma, Rubi, 205
Darwin, Charles, 7
Dawley, James Searle, 201
De Giorgi, Elsa, 205
Delavigne, Casimir, 163, 194
Denuelle, Charles Léon, vedi Léon, conte
Denuelle de la Plaigne, Eléonore, 77
Difrane, Monique, 187
Dillon, Fanny, moglie di Henri-Gratien Bertrand, 11, 13, 16, 25,
26, 30, 51, 68, 192, 205
Dinuzulu, re degli zulu, 21
Drouot, Antoine, generale, 75
Dugommier, Jean-François Coquille, generale, detto, 75
Du Montet, Alexandrine Prévost de la Boutetière de Saint-
Mars, baronessa, 193
Duperré, Guy-Victor, ammiraglio, 191
Duroc, Géraud-Christophe-Michel, 25, 186
Du Teil, Jean-Pierre, 75
Elena, Giulia Flavia (santa), madre di Costantino, 7
Enghien, Louis-Antoine-Henri di Borbone-Condé, duca di, 72,
76, 151, 162, 164
Enrico V di Borbone, vedi Chambord, Henri-Charles-
Ferdinand-Marie-Dieudonné d’Artois, conte di
Eschilo, 46
Esterházy di Galantha, Pál Antal, principe, 88
Fazackerley, John Nicholas, 89
Federico II, re di Prussia, 71
Ferdinando VII, re di Spagna, 85
Fesch, Joseph, cardinale, 51, 72, 83, 84
Filippo, duca d’Orléans, reggente del trono di Francia, 73
Flocon, Ferdinand, 111
Forshufvud, Sten, 57
Foscolo, Ugo, 86
Fouché, Joseph, 110
Francesco I, imperatore d’Austria, 10, 71, 78, 106, 107, 109, 112,
113, 116, 118, 120
Franchi, Eleonora, vedova di Quentin Crawford, 89
Fureix Emmanuel, 96
Gambarana, Giovanni Arcangelo, 141
Gance, Abel, 202
Gasparin, Thomas-Augustin de, 75
Gentz, Friedrich von, 115
Geoffroy, Louis, 189, 190
Gesù Cristo, 42, 47, 61
Giacomo II, re d’Inghilterra, 7
Giorgio III, re d’Inghilterra, 87
Giorgio IV, reggente e poi re d’Inghilterra, 9, 56, 87, 88, 96, 176
Girard, Jean-Baptiste, 75
Goethe, Johann Wolfgang von, 140, 147
Goujon, Alexandre, 98
Gourgaud, Gaspard, 11, 16, 25-31, 36, 41, 43, 61, 119, 175, 179,
182, 205
Grillparzer, Franz, 144-147
Guitry, Sacha, 205
Guizot, François, 177, 180, 185
Heine, Heinrich, 33, 100, 102, 133, 134, 148, 167, 183, 184, 193
Hitler, Adolf, 150, 186-188
Holland, Elisabeth Vassal, lady, 76, 88
Holland, Henry Richard Fox, Lord, 49, 88
Hugo, Joseph-Léopold-Sigisbert, generale, 165, 166
Hugo, Sophie Trébuchet, madre di Victor, 164, 165
Hugo, Victor-Marie, 164-166, 171-173, 177, 184, 185
Ingres, Jean-Auguste-Dominique, 171
Isabey, Jean-Baptiste, 119
Jackson, Basil, 30
Joinville, François d’Orléans, principe di, 179, 182
Kawalerowicz, Jerzy, 205
Krauss, Werner, 202
La Bedoyère, Charles de, generale, 75
La Fayette, Marie-Joseph-Paul-Yves-Roch-Gilbert du Motier,
marchese di, 71, 116, 175
Laffitte, Jacques, 73, 78, 79
Lamartine, Alphonse de, 141, 161, 162, 178, 179, 183, 189
Las Cases, Emmanuel de, 11, 12, 16, 23, 24, 26, 27, 29, 31, 34-41,
45, 46, 50, 62, 63, 69, 72, 74, 101, 119, 123-126, 128-131, 133,
136, 147, 179, 182, 194, 203
Las Cases, Emmanuel-Pons- Dieudonné de, 11, 12, 24, 37, 38,
41, 46, 179
Lentz, Thierry, 89, 90
Léon, conte (Charles Léon Denuelle), 77, 80
Leopoldo I di Sassonia Coburgo, re del Belgio, 117
Lermontov, Michail Jur’evič, 182, 183, 196, 197
Leys, Simon (Pierre Ryckmans), 206
Liszt, Franz, 189
Liverpool, Robert Banks Jenkinson, conte di, 9, 43, 87
Louvel, Louis-Pierre, 90
Lowe, Hudson, 12, 18, 24, 33, 36-42, 45, 46, 48-51, 53-58, 67-69,
81, 87, 123, 130, 194, 201, 205, 208
Lucas-Dubreton, Jean, 182, 189, 195
Luigi XIV, re di Francia, 179, 186
Luigi XVI, re di Francia, 33, 103
Luigi XVIII, re di Francia, 10, 34, 58, 73, 74, 79, 90-93, 97, 110,
116, 119, 126, 155, 164, 176
Luigi Filippo di Orléans, re dei francesi, 28, 115, 116, 119, 123,
161, 177, 179, 180, 182
Lullin de Chateauvieux, Jacob-Frédéric, 49
Madame mère, vedi Ramolino, Letizia
Magris, Claudio, 147
Maitland, Frederick Lewis, comandante del Bellerophon, 8, 33,
34
Malcolm, Pulteney, ammiraglio, 35
Manzoni, Alessandro, 139-141, 147, 148, 161, 162
Marchand, Louis-Joseph, 11, 14, 16-18, 24, 31, 32, 46, 47, 52, 54-
56, 65, 68, 71, 74, 78, 107, 113, 179
Marchand, Marie-Marguerite Broquet, madame, 31, 107, 121
Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, seconda moglie di N., poi
duchessa di Parma, 28, 40, 69, 70, 73, 74, 79, 105-113, 116-
119, 121
Marmont, generale Auguste- Frédéric-Louis Viesse de, 71, 114
Marryat, Frederick, 173
Massimiliano I Giuseppe di Wittelsbach, re di Baviera, 84
Mazzini, Giuseppe, 119, 120
Ménager, Bernard, 100
Méneval, Claude-François de, 107
Méry, Joseph, 120
Metternich-Winneburg, Klemens Wenzel Lothar, conte, poi
principe di, 78, 84, 85, 88, 105-108, 110, 112-116, 118, 121,
145, 188
Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, 46
Montebello, Louis de Guéhéneuc, duchessa di, 110
Montenuovo, Albertina, contessa di, 108
Montenuovo, Guglielmo, conte di, 108
Montenuovo, Matilde di, 108, 109
Montholon, Charles-Tristan, marchese di, generale, 11, 16, 27,
29-32, 36, 39, 43, 51-54, 56, 58, 59, 67, 68, 71, 74, 78, 80, 113,
130, 176, 179, 180, 204
Montholon, Joséphine de, 30
Montholon, madame, vedi Vassal, Albine de
Moore, Thomas, 156
Mosè, 163
Mouton-Duvernet, Régis-Barthélemy, generale, 75
Mozart, Wolfgang Amadeus, 164, 182
Muḥàmmad ‘Alī, 180
Muiron, Jean-Baptiste, 75
Murat, Gioacchino, re di Napoli, 84, 124
Musset, Alfred de, 161
Napoleone II, vedi Reichstadt, duca di
Napoleone III (Carlo Luigi Napoleone Bonaparte), 21, 30, 31,
77, 80, 116, 138, 162, 169, 170, 172, 178-180, 185, 186
Neipperg, Adam Albert, conte di, 106-109, 114, 116, 118
Noverraz, Jean, 11, 16, 18, 32, 36, 51, 54, 71, 74, 179
O’ Meara, Barry Edward, 12, 23, 39, 40, 45, 50, 86, 194, 205
Orléans, duca di, vedi Luigi Filippo, re dei francesi
Orléans, duca di, reggente del trono di Francia, vedi Filippo,
duca di Orléans
Ottokar II, re di Boemia, 146, 147
Palmer, Renzo, 207
Palmerston, Henry John Temple, visconte di, 177
Pasquier, Étienne-Denis, 81
Pellico, Silvio, 143, 144
Pétain, Philippe, 187
Philenor, vedi Terrebasse, Alfred de
Picasso, Lamberto, 204, 205
Pick, Lupu, 202
Pierron, Jean-Baptiste-Alexandre, 11, 54, 74, 179
Pio VI (Giovanni Angelo Braschi), papa, 76
Pio VII (Luigi Chiaramonti), papa, 59, 95, 109
Poggi di Talavo, 76
Prokesch-Osten, Anton von, 114, 115, 117
Puškin, Aleksandr Sergeevič, 156-158, 160, 183
Quinet, Edgar, 88, 89, 169-171
Racine, Jean, 46, 114
Ramolino, Letizia, Madame mère, 40, 51, 72, 74, 78, 83, 84, 175,
176, 205
Randone, Salvo, 205
Rapp, Jean, generale, 91
Re di Roma, vedi Reichstadt, duca di
Reichstadt, duca di, 8, 31, 35, 52-54, 70, 71, 74, 78, 105-107,
110-121, 125, 135, 136, 148, 178, 179, 186, 187, 190, 202, 204
Rétif, Georges, 58
Robeaud, François-Eugène, 203
Robespierre, Maximilien, 127
Rodolfo I di Asburgo, re di Germania, 146
Rostand, Edmond, 121, 188, 202, 203
Ruggeri, Ruggero, 204
Saint-Denis, Louis-Étienne, detto il «mamelucco» Alì, 11, 16-18,
24, 31, 32, 46, 54, 71, 74, 179
Sandmann, François Joseph, 197
Santini, Noël, 11, 36, 49, 186
Scarpelli, Umberto, 204
Schiel, Irmgard, 113
Schönberg, Arnold Franz Walther, 150
Schumann, Robert, 148
Scott, Walter, 41
Shakespeare, William, 164
Shelley, Percy Bysshe, 148, 149
Simoni, Renato, 204
Sofocle, 46
Sordi, Alberto, 205
Staël, Anne-Louise-Germaine Necker, baronessa (madame)
de, 158
Stendhal (Henri Beyle), 123, 163, 164
Steuben, Karl August von, 27, 167, 168
Stokoë, John, 50
Stoppa, Paolo, 205
Strachey, John, 203, 204
Talleyrand-Périgord, Charles- Maurice de, principe di
Benevento, 71, 89, 205
Taylor, Alan, 206
Temistocle, 9
Terrebasse, Alfred de (Philenor), 94, 98
Thackeray, William Makepeace, 182
Thibault, Aimée, 119
Thiers, Adolphe, 116, 177, 180
Tourjanski, Viktor, 202
Travot, Jean-Pierre, generale, 75
Tulard, Jean, 107, 114, 117
Vassal, Albine de, moglie di Montholon, 11, 29, 30, 46, 50, 52,
58, 201
Veber, Pierre-Eugène, 203, 204
Vernet, Horace, 102, 168, 169
Vignali, Angelo, abate, 16, 54, 59, 60, 63, 65, 74, 167
Vigny, Alfred de, 162, 163
Voltaire, François-Marie Arouet, detto, 46
Wagner, Richard, 148
Walewska, Maria, 77, 110
Walewski, Alexandre, 77, 110
Washington, George, 143
Welles, Orson, 205
Wellington, Arthur Wellesley, duca di, 10, 12, 41, 76, 77

Potrebbero piacerti anche