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Come nasce la pratica di benevolenza?

Secondo le scritture buddhiste durante la stagione delle piogge, in un ritiro al quale era presente
anche il Buddha, alcuni monaci suoi seguaci si allontanarono nel bosco per meditare in una parte
dove c’erano degli alberi molto alti ed una radura. Pare che in questa parte di bosco ci fossero dei
demoni che non gradirono questa invasione di monaci meditanti: così incominciarono a spaventarli
con visioni terrificanti. I monaci ressero un po’ alle visioni, ma poi tornarono indietro dal Buddha
per chiedere cosa fare in quella situazione.
Il Buddha non fece niente per mandare via i demoni, come qualcuno si aspettava, ma insegnò ai
monaci la pratica della benevolenza ( Metta ) come pratica per disperdere la paura. Così disse:
“Dovete praticare irraggiando benevolenza senza alcun timore, in tutte le direzioni e verso tutti gli
esseri. Questa pratica vi aiuterà a superare la paura”.
Le scritture dicono che i monaci, non troppo convinti, tornarono nella radura del bosco con gli
alberi alti; iniziarono a praticare ed a irraggiare benevolenza verso i demoni, i quali non solo si
placarono, ma addirittura si misero al loro servizio.
Quindi la pratica di benevolenza, la Metta, l’accettazione incondizionata e imparziale è vista
come il modo per trascendere la paura.
Si può osservare una risonanza in altre religioni, specie nell’ambito cristiano con la Prima Lettera di
Giovanni laddove si dice che “l’amore scaccia la paura”. Si dice anche che“finchè temiamo non
siamo perfetti nell’amore”.
La pratica di Metta per alleviare prima, e trascendere dopo, la contrazione fondamentale della
paura. Può essere interessante osservare che storicamente in molti monasteri buddhisti è ancora
d’uso iniziare i monaci e le monache con la meditazione di Metta (benevolenza) e passare solo in un
secondo momento alla meditazione vipassana (consapevolezza). Nel mondo occidentale succede il
contrario.
L’importante è che ci siano entrambe in quanto si sostengono l’una con l’altra. Perchè si
sostengono?
La Metta è un ammorbidente; su una interiorità ammorbidita o, meglio, in un cuore guarito o curato,
la consapevolezza, che è la capacità di vedere, si instaura con più facilità. Per contro la capacità di
vedere, che poi sfocia nella saggezza, facilita una apertura e accettazione di benevolenza. E’
difficile, se non abbiamo benevolenza anzitutto verso noi stessi, far sorgere l’intenzione duratura di
praticare metta verso gli altri.
E’ da osservare che il Buddha disse: “Chi che ama se stesso, non nuoce agli altri”.
E anche Gesù disse: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
La base è l’amore maturo di se stessi cioè dotato di quella saggezza che sceglie ciò che giova e
scarta ciò che è deleterio. E’ completamente diverso dal narcisismo basato sull’odio di se stessi.
Quindi, tradizionalmente, il primo personaggio verso il quale si trasmette la Metta è “se stessi”.
Spesso, insegnando metta in occidente, si è capito che è meglio posporci perchè possono nascere
forti difficoltà ad essere i primi a subire la pratica.
Un primo suggerimento molto pratico è quello di ripetere le frasi tradizionali, riportate in
precedenza, verso una persona cara, un amico, un animale, una pianta, o comunque un soggetto sul
quale ci venga facile sentire un senso di apertura all’amore. Insistere su questo soggetto senza
imporre se stessi (se questo crea problemi). Senza imposizioni, altrimenti non funziona. Durante la
giornata provare a ripetere queste frasi, ovunque vi troviate, e mandare un augurio a tutto campo,
gratuito.
Un secondo suggerimento pratico può essere di notare chi è seduto accanto a noi in un posto
pubblico: indirizzare verso costui le frasi di metta, senza cancellare dalla mente quelle frasi come
“guarda come si e’ vestito questo… che tu possa essere felice”.
Accanto alla mente meccanica, attivare la mente consapevole di metta.
Si tratta solo di ricordarsi di praticare; passeranno ore senza ricordarselo, ma con l’attenzione…, col
tempo…
Se lo facciamo, allora osserviamo la nostra reazione… A cosa ci stiamo opponendo nel non farlo,
nel rifiutarlo?
E’ comunque qualcosa alla quale non siamo abituati che va contro la nostra voglia di agire le
nostre abitudini. Prendiamo in mano questa situazione insolita, senza giudicarla e
osserviamola senza scacciarla, ma vedendo che ci sta dicendo come siamo fatti dentro, lo sta
gridando… ascoltiamola.
Un grosso ostacolo della Metta è la nostra abitudine a vedere e marcare i nostri lati negativi e
quelli degli altri.
Bisogna che ci accorgiamo di questo fatto: guardare una persona con molta critica non la si può
spalmare di frasi di Metta. Oppure guardando sorgere la nostra irritazione prendere la Metta come
un fucile per far fuori l’irritazione con due frasi. Dobbiamo accorgerci che siamo sintonizzati con la
mente sui difetti, che stiamo cercando la prova dell’esistenza del difetto, che la ragione è la nostra
perchè l’abbiamo detto e previsto. Uscirsene con frasi di Metta è un colmo.
Usare la pratica di metta in questo modo… non e’ fare pratica di metta.
Meglio e più conveniente è chiederci se ci sta bene rilevare tutte le mancanze, nostre e altrui,
oppure comprendere che è solo una sofferenza che siamo abituati a causarci e a causare nelle
persone intorno a noi? Fare pratica di Metta in questi momenti è molto più costruttivo che aspettare
di praticare solo quando siamo di buon umore.
Osservare questo rimestare mentale sui difetti nostri e altrui è fondamentale.
Un aiuto alla pratica di Metta è il riflettere sul fatto che come noi desideriamo la felicità anche gli
altri desiderano la felicità. Così facendo si esce da un circolo di ferro e fuoco sulle azioni e
reazioni negative, portando l’attenzione su un livello più alto, universale.
Dal libro “INDISPENSABILE AUTOSTIMA” dello psicologo GEO si legge:
“Quali sono gli indizi che debbono farci concludere che non abbiamo autostima e non ci amiamo
nella misura in cui e’ indispensabile farlo?”
• vivere in uno stato di autocritica tale da creare uno stato di abituale insoddisfazione di se;
• ipersensibilità alla critica altrui, cioè ci sentiamo attaccati facilmente e proviamo un forte
risentimento per chi ci ha criticato qualunque sia la ragione;
• una indecisione cronica, non tanto per mancanza di informazione, ma per paura di sbagliare,
perchè sorge la paura di non ottenere l’approvazione altrui e la nostra;
• un desiderio eccessivo di compiacere, che fa sorgere la mancanza di negazione per non
ferire l’affetto dell’altro;
• un perfezionismo legato anche esso al desiderio di approvazione con relativa frustrazione
quando si arriva ad un errore;
• un senso di colpa molto forte per comportamenti che non sono oggettivamente sbagliati;
• una esagerazione nella valutazione dell’entità dei propri errori;
• un lamento continuo senza mai perdonarsi completamente, dal quale traspare un residuo di
non accettazione;
• una irritabilità a fior di pelle che esplode per cose di poco conto;
• un atteggiamento ipercritico, nel senso che tutto ci appare deludente, non vale molto…
Qualcuna di queste cose èben radicata dentro di noi e ce la portiamo dietro da chissà quanto tempo.
Sono indici della esigenza di sviluppare l’amore verso noi stessi. La meditazione di consapevolezza
porta ad una maggiore accettazione di se stessi; insieme alla pratica di Metta si colma il deficit
evidenziato dalle forma di sofferenza descritte. Quando la situazione comincia a cambiare, cioè
iniziamo ad accettarci, questo rappresenta una svolta notevole della nostra esistenza.
E’ graduale, ma fondamentale.
Accettare se stessi significa accettarsi così come siamo, pienamente e senza condizioni.

Questo ho ascoltato dal Maestro Corrado Pensa

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