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NICOLETTI

2021
  Con la preziosa e gentile collaborazione di:

ILENIA BORTOLOTTO
MARGHERITA BUTINI
GIULIA CARDELLI
FRANCESCA MARIA CARRANI
FLAVIA CASTALDO
SIMONE CHILLEMI
FELICIA CUOCO
FEDERICA D'ELIA
ALISSA DOKIC
GABRIELE ENRICO
ASIA FANELLA
ALESSANDRA FORTE
CHIARA GIUFFRIDA
JACOPO GRECO
CAMILLA LISI
DAVIDE LUCANTONI
REBECCA LYNCH
IRENE MARZOCCHI
FEDERICA MENGHI
MARTA MONACO
ELENA MONETA
VALENTINA MONTAGUTI
VALENTINA MUSCATELLO
ANGELICA PICCIOLI
FRANCESCO SCHIAVONE
MATTEO TONIATTI
CARLA TROVATO
SOMMARIO

Sclerosi multipla
INTRODUZIONE, DIAGNOSI, PATOGENESI………………………………………………………………1
TERAPIA……………………………………………………………………………………………………….21

Neuromielite ottica
DIFFERENZE CON LA SM…………………………………………………………………………………..76
PATOFISIOLOGIA e TERAPIA…..……………………………………………………………………….....78

Epilessia
INTRODUZIONE……………………………………………………………………………………………....84
CLASSIFICAZIONE DELLE CRISI…………………………………………………………………………. 91
SINDROMI EPILETTICHE……………………………………………………………………………..……103
FORME DOPO I 2 E I 5 ANNI……………………………………………………………………………....115
SINDROMI DA MUTAZIONE DEI CANALI NA………………………………………………………..…..124
EPILESSIE MIOCLONICHE PROGRESSIVE………………………………………………………….....129
ASSENZE……………………………………………………………………………………………………...132
TERAPIA…………………………………………………………………………………………………….....134
BENZODIAZEPINE e STATUS EPILEPTICUS………………………………………………………………………………….164
TRATTAMENTO ASSENZE……………………………………………………………………………………………………….170

Malattia di Parkinson
INTRODUZIONE……………………………………………………………………………………………….184
GENETICA………………………………………………………………………………………….................197
FISIOPATOLOGIA……………………………………………………………………………………………..208
TERAPIA………………………………………………………………………………………………………..221
LEVODOPA…………………………………………………………………………………………………..................................235
DISCINESIE DA LEVODOPA E TRATTAMENTO……………………………………………………….................................262
IMAO B…………………………………………………………………………………………………………………………...…..276
D2 AGONISTI………………………………………………………………………………………………………………………..283

Malattia di Alzheimer
INTRODUZIONE……………………………………………………………………………………………….289
GENETICA E FISIOPATOLOGIA…………………………………………………………………………….305
TERAPIA………………………………………………………………………………………………………...316
1° aprile 2021

NEUROFARMACOLOGIA
Partiremo dalle patologie neuroinfiammatorie del SNC.
A tal proposito, vi è anche il problema Covid, perché in queste patologie si
usano farmaci immunomodulanti, immunosoppressori, e da qui nasce il quesito:
questi farmaci possono aumentare il rischio d’infezione da SARS-CoV-2 o
interferire con la vaccinazione?
Tratteremo quattro patologie:
• Sclerosi Multipla
• NMOSD, ossia disordini dello spettro della neuromielite ottica
• MOG-patie, patologie caratterizzate dalla presenza di anticorpi anti-
MOG. La MOG è la glicoproteina della mielina degli oligodendrociti;
• Narcolessia, sempre su base autoimmunitaria ma diversa dalle
precedenti. Per il momento non vi sono trattamenti immunomodulanti,
sono tutti sintomatici.
In seguito, tratteremo della malattia di Parkinson e dell’epilessia.

SCLEROSI MULTIPLA (SM)


È una malattia demielinizzante del SNC (da distinguere quindi dalle malattie
demielinizzanti del SNP, come la Guillain-Barré) su base autoimmunitaria,
termine su cui andranno costruiti i substrati per la terapia.

Per anni si è pensato che la sclerosi Multipla fosse una patologia esclusiva delle
cellule T, sia CD4+ che CD8+, ma ora vi è una grande considerazione del ruolo
svolto dai linfociti B: sono entrati prepotentemente nel trattamento della Sclerosi
Multipla gli anti-CD20, che sono farmaci di seconda linea, ma sono
estremamente efficaci. Questi sono tre: l’Ocrelizumab, che è in commercio,
l’Ofatumumab, in commercio negli Stati Uniti ma non ancora in Italia, e il
Rituximab, che non ha l’indicazione specifica ma è utilizzato spesso soprattutto
perché è presente il biosimilare ed è quindi preferibile per ragioni di costi.

Per definire la malattia, la prima cosa è distinguere tra RIS, CIS, forma di
Sclerosi Multipla RR, forma di Sclerosi Multipla SP e forma di Sclerosi Multipla
PP.
• RIS sta per “sindrome radiologica isolata”, quindi non avete segni clinici,
ma occasionalmente per qualche ragione individuate delle lesioni che
ricordano la SM radiologicamente. La paraclinica, ovvero la Risonanza
Magnetica Nucleare, è fondamentale sia per la diagnosi della SM che per
seguire l’efficacia dei trattamenti. Quindi, quando parlate di SM, fate
sempre riferimento a clinica e paraclinica: la clinica sono i sintomi, molto
variegati a causa della localizzazione delle lesioni. Potete infatti andare
da lesioni clinicamente silenti a lesioni che diventano molto critiche dal
punto di vista sintomatologico. Più piccolo è il tessuto cerebrale, minore
è la capacità di compenso e maggiore è la gravità dei sintomi: le lesioni

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più gravi saranno, quindi, quelle midollari, perché il midollo spinale ha un


volume inferiore rispetto al resto dell’encefalo. Quando le lesioni
demielinizzanti occorrono lì, la prognosi è più severa e bisogna
intervenire con farmaci più robusti, che inevitabilmente poi hanno anche
un profilo di sicurezza e tollerabilità inferiore. Probabilmente, la sindrome
radiologica isolata riflette la presenza di lesioni in zone asintomatiche del
SNC; quindi, avete la lesione demielinizzante, ma non vi sono sintomi.

• CIS sta per “sindrome clinica isolata”, ovvero avete una singola lesione o
anche di più, che danno un episodio clinico senza averne poi un altro
successivo. Tuttavia, quando si ha una CIS, la CIS può diventare un
fattore di rischio per lo sviluppo successivo di SM. Quindi, è qualcosa di
simile al rapporto che si ha tra un attacco ischemico transitorio e un ictus
tromboembolico: ovvero si ha un TIA, dove la situazione è reversibile e il
paziente ritorna al suo status quo ante, ma a quel punto dovete fare
antiaggreganti perché sapete che l’ictus può venire fuori.

• RR sta per “relapsing remitting”, ovvero ‘a ricadute e remissioni’ o


‘recidivante remittente’: è la forma di SM largamente predominante, che
si verifica fino all’85% dei pazienti. Prevede delle ricadute che esprimono
episodi di neuroinfiammazione nel SNC, in cui le lesioni hanno una
barriera ematoencefalica permeabile. Questo si può vedere in diversi
modi, per esempio con una risonanza magnetica con gadolinio, che è il
mezzo di contrasto che in tal caso permea perché la barriera
ematoencefalica in quel momento è permeabilizzata fondamentalmente
dalle citochine proinfiammatorie e così si mette in luce la lesione. È
questa la forma più frequente, come anche quella per cui quasi tutti i
farmaci sono approvati e rimborsati dal SSN. Lo scopo quando si fa
terapia è innanzitutto ridurre al minimo la frequenza delle ricadute ma
anche cercare di attenuare la progressione della malattia (cosa che
interviene almeno in un 65% dei casi delle forme RR, che evolvono nelle
forme SP)

• SP significa “secondarie progressive”. Ciò significa che la barriera


ematoencefalica è apparentemente intatta, ma c’è una progressiva
disabilità neurologica. Mentre nelle forme RR c’è un meccanismo detto
outside-in, ovvero che parte da fuori e va verso l’interno (evidentemente
i linfociti vengono sensibilizzati perifericamente, ad esempio nei linfonodi
cervicali, e poi attaccano il SNC), nella forma SP l’infiammazione non
viene più dall’esterno, ma è all’interno del SNC, quindi una lesione
interamente inside. Nella forma progressiva le lesioni sono smouldering,
letteralmente ‘lesioni che inceneriscono’, perché è come un fuoco che si
accende all’interno della cenere. In questi casi non sono quindi i linfociti
sensibilizzati in periferia che attaccano il SNC permeabilizzando la
barriera ematoencefalica e creano il presupposto per cui arrivino altri
linfociti e così via, ma le lesioni si formano all’interno, perché si creano

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delle situazioni che favoriscono questo: in genere, più che le nuove, sono
le vecchie lesioni che iniziano ad espandersi (ed anche lì un fuoco che si
accende quando c’è la cenere). E, se volete cercare di ridurre le lesioni
smouldering nel caso della SM in forma SP, dovete usare o farmaci
antinfiammatori che passano la barriera ematoencefalica, perché se non
lo fanno diventa estremamente complicato. Oppure, e sarebbe il goal
finale, farmaci neuroprotettivi, perché quando si ha una
demielinizzazione inevitabilmente questa porta al danno dell’assone. Il
danno dell’assone lo si ha nella forma RR, cioè ogni episodio
neuroinfiammatorio dà danno assonale, che è 12 volte maggiore nelle
forme iniziali, cioè nelle forme RR, piuttosto che nella forma SP. Ma la
differenza nasce dal fatto che inizialmente il danno assonale viene
compensato; successivamente, quando la forma diventa progressiva, il
danno assonale si struttura, non viene più compensato, cioè si
esauriscono le capacità di recupero del SNC. A questo punto c’è una
disabilità neurologica progressiva, che porta poi il paziente sulla sedia a
rotelle. La disabilità progressiva si misura con un parametro, l’EDSS, che
sta per “expandend disability status scale”. Più alto è il punteggio di
EDSS, peggio si sta; l’EDSS va da 0 a 10, dove 10 significa morte. In
genere, quando i valori sono al di sopra di 4,5 inizia una disabilità seria
che conduce alla sedia a rotelle. La forma SP rappresenta un po’ il “buco
nero”, non solo dal punto di vista anatomico perché questa perdita
assonale si vede alla risonanza come buco nero, specie nella T1 pesata,
ma buco nero significa anche che non c’è terapia, anche se adesso un
farmaco che si chiama Siponimod ha dimostrato attività nella forma SP e
ha questo genere di approvazione.

• PP, sta per “primaria progressiva”. La caratteristica di questa forma di SM


non è che si tratti di una forma ad insorgenza più precoce, anzi spesso
l’insorgenza è tardiva intorno ai 30-40 anni, che può interessare il 10-
15% dei pazienti. Ma in questa forma PP la malattia si manifesta con una
progressiva disabilità, senza apparenti episodi di infiammazione, ossia
teoricamente la BEE è integra: quando fate risonanza con gadolinio,
questo non permea nel SNC perché la BEE mantiene la sua integrità.
C’è però una progressiva disabilità neurologica che alla fine è simile a
quella che vedete nella forma SP.
Tre sono le considerazioni da fare su questa forma primaria progressiva.
La prima è che la forma PP potrebbe rappresentare una forma SP in cui
la componente a ricadute e remissioni è stata clinicamente silente. In
altre parole, il paziente ha direttamente sviluppato una forma PP, non
perché non ci sia stata una forma a ‘ricadute e remissioni’ ma
semplicemente perché quella forma non si era manifestata dal punto di
vista clinico.
La seconda osservazione è che la forma primaria progressiva molto
difficilmente è “pulita”. Quando si fanno gli studi sulla forma PP, c’è
sempre un grado di attività, che può essere minimo, ma possono esservi

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episodi di riaccensione infiammatoria. E questo è importante perché, se


si sviluppano dei farmaci nei confronti delle forme progressive, bisogna
cercare di evitare questo bias sperimentale, ossia: se voi fate un
trattamento di pazienti con forma PP, ma poi questi pazienti hanno degli
episodi infiammatori, magari il farmaco sta agendo ma perché interviene
nei confronti di questi episodi infiammatori.
La terza osservazione è che nei pazienti con forma PP c’è stato un
breakthrough, ovvero un’innovazione assoluta nel trattamento, con un
trial clinico famoso che si chiama Oratorio, che ha valutato un farmaco
che si chiama Ocrelizumab. Questo è un anticorpo monoclonale
umanizzato diretto nei confronti dei CD20, quindi un anticorpo che
teoricamente attacca i linfociti B. Il CD20 è espresso nella linea
maturativa dei linfociti B, ma non in tutta la linea maturativa: non è
presente, infatti, nelle cellule staminali, nei pro-B; poi inizia a comparire
e lo si ritrova nelle cellule B della memoria immunologica fino ai
plasmablasti. Nei plasmablasti non viene più espresso e non si ritrova
nelle plasmacellule. Questo studio è stato il primo a dimostrare che un
farmaco potesse rallentare la progressione della forma PP. Ovviamente,
la farmacologia nella SM è un grosso business farmaceutico,
considerando tutti i farmaci che ci sono e quelli continuamente prodotti
(l’ultimo un analogo del Siponimod e del Fingolimod è stato approvato
qualche settimana fa dall’EMA): è dunque un campo immensamente
fertile, molto di più rispetto a tutte le altre patologie del SNC. Questo non
sorprende, perché le conoscenze sulla SM attingono dall’immunologia,
che è un campo scientificamente molto più fertile rispetto alla
neurobiologia. La ragione è che la neurobiologia è stata gestita per tanti
decenni dagli elettrofisiologi, scienziati che valutavano i potenziali
d’azione o le differenze di potenziali di membrana, che non sono
traducibili in farmaci. Invece, l’immunologia ma anche l’endocrinologia e
l’oncologia si sono mosse sul fronte molecolare; quindi, quando
l’immunologia si applica alla neurologia, va da sé che le conoscenze
siano maggiori e che questo sia poi traslato nella produzione di
farmaci.
Dunque, l’Ocrelizumab è stato il primo farmaco a mostrare efficacia nella
forma PP; devo dirvi che il trial Oratorio in realtà non mostra questi effetti
stratosferici, perché c’è il rallentamento della progressione, ma è davvero
molto esiguo, anche se poi gli studi di follow up hanno mostrato una certa
efficacia.
Si discute ancora molto sulla forma PP, perché alcuni pensano non sia
una SM, ma una patologia virale da HTLV-1; in ogni caso la maggior
parte degli studiosi oggi sono concordi nell’inserire questa varietà
all’interno della SM.

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PREVALENZA

L’Italia è un paese dove la SM si studia molto, e abbiamo tra i migliori studiosi


al mondo nello studio della malattia, alcuni anche al Sant’Andrea.
Iniziamo dalla prevalenza negli Stati Uniti d’America, o in generale nel Nord
America: la prevalenza base è di 140 su 100 000 (la prevalenza indica il numero
totale di casi all’interno della popolazione). Quando valutate il Nord America,
spicca subito il gradiente Nord-Sud: se siete al di sopra del 37° parallelo, avete
questa prevalenza di 140 casi su 100mila; se, invece, siete al di sotto del 37°
parallelo, la prevalenza scende a 57-84 abitanti su 100mila. Questo vi dice che
la SM è più frequente al Nord, cosa assolutamente vera; infatti il Paese dove la
SM ha la maggiore incidenza, e non a caso molte linee guida della SM sono
state redatte lì, è il Canada, uno dei Paesi più freddi al mondo. Perché succede
questo? Per l’assenza di sole, la maggiore frequenza di patologie virali! C’è un
virus che è un grande candidato nella patogenesi della SM che è il Virus di
Epstein-Barr.

Lo stesso gradiente Nord-Sud si osserva anche in Europa. Qui si ha in generale


una prevalenza di 108 su 100mila, e tuttavia se considerate, per esempio, la
Danimarca, probabilmente il Paese europeo con la maggior prevalenza di SM
o quasi, si hanno 227 casi su 100mila. Se considerate la Svezia, avete invece
189 casi su 100mila; in Ungheria 176 su 100mila, nel Regno Unito, invece, 174.
Ne avete meno in Francia, Portogallo, Spagna ed Europa dell’Est.

La situazione in Italia è difficile in realtà da quantificare perché dipende dalle


fonti che prendete: quelle ufficiali del Ministero oppure quelle della Società della
SM all’interno della SIN, ovvero Società Italiana di Neurologia. Io faccio
riferimento a questa seconda fonte, dove si ha in Italia una prevalenza di 176
su 100mila. Nonostante siamo nel bacino del Mediterraneo, e quindi piuttosto
al Sud, l’incidenza resta molto alta.
Al mondo ci sono circa un 3 milioni di casi, di cui più di 600mila nell’Unione
Europea e 118mila solo in Italia. Ogni anno ci sono 1800-2000 nuovi casi. In
Italia c’è una differenza a seconda della regione che prendete in
considerazione: non c’è tanto un gradiente Nord-Sud, perché la prevalenza è
simile, ad esempio, tra Lombardia e Sicilia; la grande eccezione è
rappresentata dalla Sardegna che, come nel caso del Diabete di tipo 1, ha
un’altissima incidenza. Si hanno 229 casi. Alcuni fattori possono essere presi
in causa per spiegare questo fenomeno: quando c’è stato il mutamento
climatico, i popoli del Nord Europa con clima temperato sono migrati verso il
Sud Europa, e all’interno della Sardegna si è creata una situazione endogamica
e quindi i matrimoni hanno ingenerato questo. Stessa cosa può essere
accaduta in Sicilia, ma qui c’è stata più diversificazione, perché in realtà molti
popoli sono arrivati in Sicilia, tra Arabi e Normanni e quindi il patrimonio
genetico si è mischiato.

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FATTORI DI RISCHIO

La SM è una patologia genetica o ambientale?


Riguardo il Parkinson, ad esempio, vi sono diverse forme di monogenico, ma
l’ambiente svolge un ruolo. Nel caso della SM non esiste una genetica precisa,
non vi è una forma monogenica, ma vi sono dei polimorfismi genetici
predisponenti, che ritroviamo negli antigeni maggiori di istocompatibilità, dove
ci sono degli aplotipi altamente predisponenti, come in tutte le patologie
autoimmuni.

Innanzitutto, vi è una prevalenza nel sesso femminile maggiore, ma questo vale


per tutte le malattie autoimmuni. Nel momento in cui però la SM insorga in un
soggetto di sesso maschile, la prognosi è più sfavorevole.

Per quanto riguarda l’etnia, è una patologia soprattutto dei caucasici; e di


nuovo, nel momento in cui la SM viene ad un soggetto non caucasico, la
prognosi è sfavorevole, perché significa che un soggetto normalmente non a
rischio l’ha sviluppata, e quindi ci devono essere determinanti importanti. Il fatto
che la SM sia maggiormente presente nei caucasici, ve lo suggeriscono le
stime: per esempio, nell’Est Asiatico c’è una prevalenza di 2.2 su 100mila
abitanti, minima se confrontata a quella del Nord America o Europa. Se
prendete il Sub Sahara, limite estremo del gradiente Nord-Sud (perché poi c’è
l’Equatore e il gradiente s’inverte!), la prevalenza è di 2.1 su 100000.
Tuttavia, non è un problema di colore, perché gli Afroamericani hanno
prevalenza molto più alta rispetto agli Africani; quindi, questo rispetta il
gradiente Nord-Sud, anche se l’Est Asiatico è geograficamente molto
eterogeneo e ci sono delle zone dell’Asia più a Nord dove c’è freddo quasi
quanto in Scandinavia.
Perché l’ambiente è importante (oltre ai polimorfismi genetici che ci si aspettano
nelle patologie autoimmuni, e che in effetti ci sono)? Per il problema dei flussi
migratori, perché nei soggetti che migrano da zone ad alto rischio verso zone a
basso (es. “un danese che va a svernare in Kenia”) entro i 20 anni di età, a
questo punto il rischio si riduce! Quindi, la genetica è sì importante, ma
l’ambiente è tanto, se non più, importante. Tutte le patologie degenerative si
giocano nei primi periodi, anche in quelle che insorgono in età avanzata, come
il Parkinson. Quando si vede un paziente parkinsoniano, e si fa diagnosi
prevalentemente sui sintomi motori, è chiaro che ci sono 20-30 anni di fase
preclinica con una marea di sintomi, dalla depressione ai disturbi della fase
REM del sonno, alla costipazione e perdita dell’olfatto, che fanno già parte della
patologia, in cui i neuroni degenerano. La stessa cosa è qui: è come se la
malattia “covasse” e poi in qualche modo di accende. Quindi, il soggetto che
migra da zona a basso ad alto rischio entro i 20 anni di età avrà non dico lo
stesso rischio ma quasi dei nativi della zona ad alto rischio, e viceversa.

Poi, come in tutte le patologie autoimmuni, si ha il ruolo della vitamina D e del


sole. Quelli a Nord sono ad alto rischio perché hanno un deficit di vitamina D e

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sono meno esposti al sole. La vitamina D ha un ruolo fondamentale nel


modulare il sistema immunitario, e probabilmente la carenza di vitamina D
predispone a patologie autoimmuni, e soggetti che ne sono carenti devono fare
la terapia sostitutiva. Fate attenzione perché la Vitamina D può essere assorbita
meno se si fa uso di inibitori di pompa protonica! Io, ad esempio, prendo
moltissimo sole e nonostante questo ho la psoriasi e la dermatite, che si
accendono sistematicamente, e forse non è un caso siano anni che assumo un
inibitore di pompa protonica e dalle analisi ho livelli bassissimi di vitamina D,
nonostante una continua esposizione al sole. Quindi, vitamina D ed esposizione
al sole sono certamente fattori protettivi, e in molti casi, come in Nord Europa,
la vitamina D viene somministrata di routine ai pazienti affetti da SM.

RUOLO DEI VIRUS


Qui abbiamo un protagonista assoluto: EBV. Innanzitutto, c’è un maggior
rischio di SM in pazienti che hanno avuto la mononucleosi infettiva, e poi c’è il
fatto che nella SM si ritrovano degli antigeni virali, per esempio EBNA1, ovvero
l’antigene nucleare dell’Epstein-Barr di tipo A1. Questo è un tema leader: il
professor Marco Salvetti, uno dei neurologi del Sant’Andrea, è uno studioso
della correlazione tra EBV e SM. È abbastanza credibile che il virus entri in
gioco nella malattia: ciò significa che vi è stata un’esposizione alla malattia e
poi, probabilmente per meccanismi di mimetismo molecolare (quindi per
similitudini tra alcune proteine del virus e alcuni antigeni della mielina), il
sistema immunitario non riconosce più il self e attacca la mielina sotto istruzione
di antigeni di natura virale. Un lavoro pubblicato su Cell nel 2020 spiega bene
come un antigene maggiore d’istocompatibilità possa dare un’informazione
relativa ad antigeni virali e nello stesso tempo ad autoantigeni nel SNC e
contribuire all’attacco immunoreattivo nei pazienti affetti da SM.

RUOLO DEL MICROBIOTA


Altra fattore chiamato in causa è il microbiota, che ha diverse nicchie, di cui
quella più importante è nell’intestino, dove avete tutti i fila batterici rappresentati,
più di 10 milioni di geni non ridondanti, con una popolazione di batteri che ha la
stessa capacità metabolica del fegato e che è di un numero superiore a tutte le
nostre cellule messe insieme. Inizialmente, si pensava le cellule batteriche
fossero 10 volte in più rispetto alle cellule del nostro organismo, ma in realtà è
una stima un po’ esagerata e forse siamo sulle 2 volte di più, alcuni pensano 1
volta e mezzo di più. Tra i batteri correlati alla SM, ve ne è uno principalmente:
Akkermansia, un batterio commensale, che è aumentato nella SM (come
anche il Methanobrevibacter!). Una delle ipotesi è che alcune componenti
dell’Akkermansia facciano la stessa cosa che fanno alcuni costituenti proteici
dell’EBV, ovvero inneschino mimetismo molecolare e questo poi sia
responsabile dell’attacco neuroinfiammatorio del sistema immunitario nei
confronti del SNC. Inoltre, c’è anche una riduzione di alcuni Clostridi: Clostridio
di tipo IV e di tipo XIV, che producono acido butirrico. L’acido butirrico dà il
cattivo odore delle ascelle. (Scherzando, vi ho detto che se volete fare il più
grande dispetto al vostro nemico iniettate con una siringa un litro di latte nel

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sellino della motocicletta e la formazione dell’acido butirrico impedirà a quella


persona di usare la motocicletta a meno che non cambi sellino, perché la puzza
diventa insopportabile!). L’acido butirrico ci interessa anche perché è un
inibitore di HDAC, la deacetilasi degli istoni, enzima che si oppone all’apertura
delle eliche del DNA e quindi ai meccanismi di trascrizione genica e
duplicazione del DNA. Mancando l’acido butirrico, alcuni di questi meccanismi
potrebbero essere compromessi; questo è molto dibattuto perché non si sa se
l’acido butirrico prodotto dai Clostridi del microbiota intestinale sia in grado di
penetrare nel SNC, quanto possa passare o meno la barriera. Questo tipo di
associazione quindi non è chiara, ma va comunque presa in considerazione.
Domanda: ci sono studi relativi all’uso di probiotici?
Certamente gli studi ci sono, ma non si può pensare di curare la SM attraverso
l’uso di prebiotici (cioè fibre) o di probiotici (cioè flora). Certamente quando si
usano prebiotici e probiotici per riequilibrare la flora, poi le nicchie batteriche
ritrovano i propri equilibri. Se avessi in casa un malato di SM, gli consiglierei di
assumere probiotici e prebiotici perché un senso ce l’ha.

Altra cosa che potrebbe legare il microbiota alla patogenesi della SM è la


produzione di alcuni metaboliti della via delle chinurenine, via di
metabolismo del triptofano alternativa alla serotonina in cui si formano tutta una
serie di composti studiati in farmacodinamica, come la chinurenina, la 3-
idrossichinurenina, l’acido antranilico, 3-idrossiantranilico, acido chinolinico,
chinurenico, xanturenico, cinnabarinico. Alcuni batteri producono alcuni
metaboliti della via delle chinurerine, i quali interagiscono con un recettore che
abbiamo studiato in farmacocinetica, che si chiama AhR (recettore Arilico).
Questo è il recettore degli idrocarburi aromatici, quello che lega la diossina e il
benzopirene, e che induce tutti i citocromi P450 della famiglia A1. In realtà, il
legame di alcuni metaboliti della via delle chinurenine con il recettore Ah spinge
la sinapsi immunologica verso le cellule Treg, che sono responsabili
dell’immunotolleranza. Quindi, se il microbiota cambia, il meccanismo
dell’immunotolleranza può essere compromesso: questa può essere un’altra
ragione che lega il microbiota alla patogenesi della SM.
Se voi prendete un paziente con SM e lo trattate con farmaci di prima o di
seconda linea, voi avete un aumento della Sutterella (un batterio che è stato
anche legato all’autismo) e della Prevotella. La cosa interessante è che la
Prevotella è protettiva nei confronti della neuroinfiammazione, e in particolare
dell’Encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE), che è il modello animale
della SM. Tutti i farmaci che sono in commercio per la SM sono stati prima
esaminati sul modello della EAE. Si tratta di un modello che possiamo fare nel
topo, nel ratto, e che dà alcune caratteristiche identiche a quelle della SM:
lesioni concentriche di demielinizzazione che, quando vengono riparate e
vanno in fibrosi, formano le cosiddette “placche fibrotiche”, e per questo la SM
è stata chiamata da Chacot “Sclerosi a Placche”.

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FAMILIARITA’
Si stima sia intorno al 50%, più o meno come per la depressione (che ha una
componente familiare minore rispetto alla schizofrenia): quindi, la SM ha una
componente ambientale fondamentale, ma nello stesso tempo c’è questa
componente familiare.
Quali sono i geni predisponenti alla SM?
1. HLA, quelli che danno l’aplotipo, gli antigeni maggiori di istocompatibilità. E
in particolare ne è stato chiamato in causa uno, che se presente aumenta il
rischio di SM di circa tre volte (OR, rischio relativo=3; diventa 6 se mancano
i geni protettivi): si tratta di DR15, di cui esistono due sottotipi: a e b. In
particolare, il sottotipo b è quello che è sempre stato associato alla SM e si
chiama HLADRB1*1501 (chiamato anche DR2b). L’aplotipo a, invece, ossia
HLADRB5*0101 (chiamato anche DR2a), è stato dimenticato, anche se in
un recente lavoro uscito su Cell è stato preso in considerazione: è stato
dimostrato che questi due immunotipi agiscono jointly (“assieme”) nel
presentare alla sinapsi immunologica sia antigeni esterni (per esempio
appartenenti al virus EBV o ad Akkermansia) sia antigeni self, come quelli
che si trovano nella mielina e che vengono in qualche maniera poi portati al
sistema immunitario perché viaggiano negli spazi di Virchow-Robin e quindi
entrano in contatto, così avviene la clearence di elementi proteici che si
trovano nel SNC. Quindi, DR2a e DR2b sono gli aplotipi che è come se
mettessero d’accordo gli antigeni self con quelli non self, e i soggetti che
hanno questi aplotipi hanno un maggior rischio di sviluppare mimetismo
molecolare, ossia antigeni self che vengono riconsociuti come non self.
Questo mimetismo limita la cosidetta negative selection, cioè la selezione
negativa, che significa che il self viene riconosciuto come non self. Così, se
abbiamo una causa, ad esempio un EBV oppure un’alterazione del
microbiota con l’Akkermantia o se manca la protezione della vitamina D o
l’esposizione al sole, e se contemporaneamente il soggetto presenta questi
aplotipi, allora il suo sistema immunitario attaccherà gli antigeni della
mielina. Dunque, all’esame di neurologia è corretto dire che l’aplotipo
maggiormemnte coinvolto è DR2b, ma c’è anche il DR2a che agisce di
concerto per montare la risposta immunitaria. Questi due aplotipi sono
presenti soprattutto nei macrofagi e nelle cellule B: si potrebbe pensare
allora che la cellula B sia importante nella SM perché produce anticorpi,
invece no! Nonostante le bande oligoclonali si ricerchino nel liquor per fare
diagnosi di SM, le cellule B sono fondamentali nel momento in cui
presentano l’antigene in maniera altamente specializzata alle cellule T.
Quindi, la SM è una patologia che coinvolge sia cellule B sia cellule T.
Tradizionalmente è sempre stata considerata una patologia esclusiva delle
cellule T, ma adesso sono entrate in campo di ricerca anche le cellule B, e
queste sono fondamentali non tanto perché producono anticorpi (quelli che
troviamo nel liquor per fare diagnosi, ma che vengono interpretati più come
un epifenomeno della malattia), ma piuttosto perché agiscono da APC e
sensibilizzano le cellule T, a cui presentano gli antigeni. Dunque, la
presentazione degli antigeni dipende dagli aplotipi: tradizionalmente b

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(HLADRB1*1501) è quello considerato come primariamente coinvolto, ma


anche l’aplotipo a (HLADRB5*0101) agisce in maniera congiunta per
presentare l’antigene e sensibilizzare il sistema immunitario.
2. Il gene che codifica per la subunità alfa del recettore per IL-2 e quello che
codifica per il recettore dell’IL-17. Questo già vi fa pensare che due
elementi fondamentali della patogenesi della malattia siano i linfociti
autoreattivi sia Th1 sia Th17. Questi ultimi sono stati ignorati nella
patogenesi della SM per molto tempo e sono stati associati solo
recentemente proprio come nel diabete, nella malattia di Chron, nel LES,
nell’artrite reumatoide ecc.
Ci sono però degli aplotipi protettivi, che sono rappresentati dall’HLAA*02 e
HLAB*44: danno una protezione con un OR=0.6-0.7 (il che significa che il
rischio relativo di sviluppare SM è più o meno all’interno di questo range). Se
voi avete contemporaneamente l’HLADRB1*1501 e non avete l’HLAB*44 l’OR
diventa di 6, cioè il rischio di sviluppare la SM diventa 6 volte superiore rispetto
al resto della popolazione.

Per ricapitolare: la SM è sicuramente una patologia con spiccata componente


ambientale (il gradiente Nord-Sud ce lo suggerisce) e che ha la sua scaturigine
da agenti virali o da modificazioni del microbiota o da assenza di modulatori del
sistema immunitario come la vitamina D. Allo stesso tempo, ci sono però degli
aplotipi predisponenti, come HLADRB1*1501. Ci sono anche polimorfismi di
geni che codificano per recettori dei IL2 e IL17 che partecipano in maniera
marcata ai fenomeni di autoimmunità, e ci sono fattori protettivi.

SINTOMATOLOGIA

La diagnosi viene fatta sulla base della clinica e sulla base della paraclinica, le
quali teoricamente devono andare di pari passo. Se noi abbiamo un farmaco
che agisce efficacemente nei confronti delle lesioni visibili alla RM però non
riduce il tasso annuale di ricadute (e quindi il paziente ha gli stessi episodi
infiammatori clinici, se è affetto dalla forma RR), questa cosa è sospetta: la
maggior parte degli studi clinici dimostrano effetti visibili sia sul tasso annuale
di ricadute sia sulle lesioni alla RMN. La clinica della SM è estremamente
variabile, perché dipende da dove ci sono gli episodi di demielinizzazione e
dipende da come questi episodi vengono riparati.
Possiamo avere disturbi che riguardano il movimento, la sensibilità, il SNA, il
cervelletto.
Nei libri di testo di neurologia si trova la cosiddetta triade di Charcot,
rappresentata da nistagmo, tremore intenzionale e parola scandita, tutte e tre
manifestazioni di danno a carico del cervelletto. Il cervelletto è particolarmente
importante per la SM perché è un locus minoris resistentiae: qui si possono
avere episodi di demielinizzazione e si creano delle alterazioni di tipo
biochimico che dipendono primariamente dall’infiammazione, ma che possono
perdurare anche quando l’infiammazione non c’è più. Ad esempio, i canali del

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sodio Nav1.8 (che normalmente ritroviamo nei neuroni di senso del dolore, che
solitamente troviamo nei gangli delle radici dorsali) cominciamo a trovarli nelle
cellule del Purkinje del cervelletto nei pazienti affetti da SM. Oppure il recettore
mGlu1 viene ad essere enormemente ipoespresso nelle cellule del Purkinje del
cervelletto di persone affette da SM, e contemporaneamente queste cellule
esprimono un recettore che fisiologicamente non esprimono mai, cioè il
recettore mGlu5, nei soggetti affetti da SM. Quindi, non deve sorprendere che
i principali sintomi legati alla patologia siano di natura cerebellare: anche la
parola scandita lo è, perché riflette una disartria (e non una disfasia, che è una
manifestazione corticale).
Ci sono poi dei segni particolari, come il segno di Lhermitte: se al paziente
faccio flettere la nuca, lui ha una scossa elettrica che gli parte della schiena; o
ancora il segno di Uthoff: i sintomi si esacerbano all’aumento della temperatura.
Nel 25% dei casi, la SM esordisce come una neuropatia ottica. Il fatto che il
nervo ottico sia colpito non deve stupire: il nervo ottico ha mielina formata dagli
oligodendrociti, non dalle cellule di Schwann (quindi, nonostante sia uno dei
nervi cranici, ha le caratteristiche dei nervi del SNC).
Vedremo che la neuropatia ottica è una caratteristica assoluta dei disordini dello
spettro della neuromielite ottica, dove c’è anche la mielite, cioè ci sono anche
lesioni a carico del midollo spinale, che prendono anche tre segmenti (nella SM
possono lesioni del midollo, ma sono meno estese).

DIAGNOSI

Bisogna utilizzare i criteri di McDonald. Sono stati stabiliti diversi anni fa e poi
aggiornati nel 2017. Si basano sui principi della DIS (disseminazione spaziale)
e della DIT (disseminazione temporale) delle lesioni nella SM e delle
manifestazioni cliniche: è importante che le lesioni siano disseminate nello
spazio e nel tempo, e quindi cambino in base al particolare tempo di malattia.
Il secondo criterio (la DIT) può essere sostituito, in base all’aggiornamento dei
criteri di McDonald del 2017, dalla ricerca delle bande di anticorpi monoclonali
nel liquor. Si possono trovare diversi tipi di anticorpi: ad esempio gli anticorpi
anti-MOG (glicoproteina degli oligodendrociti della mielina), anche se questi ci
orientano più che altro verso le MOGpatie, oppure gli anticorpi contro i canali
del K, es. quelli contro Kv4.1. Tutto ciò fa credere che gli anticorpi siano alla
base dell’eziopatogenesi della malattia, ma questo non è vero: le cellule B
hanno un ruolo così importante nello sviluppo della SM perché presentano
l’antigene, non perché producono gli anticorpi.
Le bande oligoclonali, che tipo di sensibilità e specificità hanno come
biomarcatori della SM? Ovviamente trovare solo questo reperto non fa diagnosi
di malattia; bisogna anche avere la corrispondenza con le lesioni visibili alla
RMN. Se ci sono entrambi i criteri DIS e DIT è meglio, ma il criterio DIT può
essere sostituito da questa ricerca di anticorpi nel liquor: ritrovarli nel liquor
significa che questi sono stati prodotti all’interno della teca. Quindi, la sensibilità

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delle bande oligoclonali è intorno al 93%, mentre la specificità è pari al 94%,


ma questo solo se il paragone è fatto con soggetti normali o con patologie
neurologiche non infiammatorie. Se invece rapportiamo la specificità a soggetti
che abbiano un’altra patologia neurologica infiammatoria, questa stima scende
al 61%. Questo significa che noi troviamo bande oligoclonali nella SM, ma
questo non ci permette di distinguere la SM da un’altra patologia
neuroinfiammatoria.
Tuttavia, avendo le bande oligoclonali, abbiamo un indice prognostico, ossia il
suggerimento che le CIS possono poi evolvere nella SM franca.

Ci sono diverse situazioni con cui dobbiamo fare diagnosi differenziale: una di
queste è la malattia di Lyme, o neuroborreliosi. Essa può avere delle
caratteristiche molto simili alla SM, quindi dovremo sicuramente andare a
cercare gli anticorpi anti-borrelia. Un’altra situazione è il neuroAIDS.

Quando la prognosi è più favorevole?


• Quando il malato è di sesso femminile
• Quando l’esordio è avvenuto in età inferiore ai 35 anni. La SM può essere
presente anche nei bambini. Il Fingolimod si è rivelato straordinariamente
efficace nei bambini.
• Quando la malattia è di tipo RR (cosa che avviene nella stragrande
maggioranza dei casi).
• Quando l’esordio è monofocale, cioè quando abbiamo un unico quadro
sintomatologico, per esempio con segni visivi oppure con manifestazioni
sensitive oppure manifestazioni che interessano il tronco encefalico.
• Bassa frequenza degli attacchi. Gli attacchi si valutano clinicamente come
ARR (Annual Relapse Rate = tasso annuale delle ricadute di SM).
• Quando c’è un recupero completo dopo le ricadute, come è abbastanza
ovvio.
• Dal punto di vista paraclinico: quando c’è un minimo carico lesionale.

Cosa è che, invece, vi suggerisce una prognosi peggiore?


• Innanzitutto il sesso maschile, perché gli uomini sono meno a rischio di
sclerosi multipla, quindi, quando la prendono, accade un po’ come le
infezioni del tratto urinario, che se ricordate nell’uomo sono sempre
complicate, per definizione.
• Quando la storia di esordio è maggiore dei 35 anni di età.
• Quando c’è un esordio progressivo, il che significa che cominciate subito ad
avere disabilità neurologica, indipendentemente dal fatto che ci siano ancora
delle accensioni infiammatorie,
• Quando avete delle manifestazioni multifocali, quindi con grande
disseminazione spaziale, che possono interessare il cervelletto e l’apparato
che controlla il movimento, a volte gli sfinteri, ad esempio.
• Quando l’ARR, ovvero il tasso di ricadute ha un’alta frequenza.
• Quando c’è un recupero incompleto delle ricadute.

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• Quando avete un grande numero di lesioni, per esempio avete 9 lesioni o


più alle immagini T2 pesate. Le immagini T2 pesate di RMN vi danno un
quadro più chiaro, poiché sono immagini iperintense, perché il T2 della RMN
vi trasforma i liquidi e l’acqua in modo chiaro.
• Quando c’è un coinvolgimento precoce della corteccia, e questa è una
grande novità in tema di sclerosi multipla! Si pensava prima che la sclerosi
multipla colpisse esclusivamente la sostanza bianca, ma questo non è vero:
colpisce anche la corteccia, dalla regione subpiale alla regione vicina alla
sostanza bianca, quella che potete chiamare “leucocorticale”. In realtà, le
lesioni corticali più precoci sono e più peggiorano la prognosi, diventano
molto importanti poi nelle forme progressive: il problema è che se fate una
RMN con 1,5-3 Tesla, le lesioni della corteccia non le vedete, e quindi avete
bisogno di un metodo particolare che si chiama DIR (doble inversion
recovery).
• Quando avete almeno due lesioni midollari, per il motivo che vi ho detto poco
fa: il midollo spinale è piccolo rispetto al resto dell’encefalo, quindi i
meccanismi di compenso diventano più critici. In genere, quando si hanno
delle lesioni midollari, c’è una buona indicazione per passare da un farmaco
di prima linea ad un farmaco di seconda linea.
• Quando avete le cosiddette OCB, ossia le bande oligoclonali, che avete
quasi sempre nella sclerosi multipla, però sono un fattore prognostico
sfavorevole, anche se, ancora una volta, gli anticorpi non hanno questo
grande ruolo nella sclerosi multipla.
• Altro indice prognostico è dato dalla catena leggera dei neurofilamenti: si
trova esclusivamente nei neuroni, e voi potete ricercare le catene leggere
sia nel sangue che nel liquor, e se avete una quantità maggiore di 385 ng/ml
nel liquor significa che avete i neuroni danneggiati, perché è chiaro che si
danneggia la mielina ma poi si danneggia l’assone, e a questo fa seguito la
degenerazione neuronale, se avete questi neurofilamenti di catene leggere
che li trovate sia nel liquor che nel sangue.
Ovviamente, poi, il parametro che vi dice che la malattia sta evolvendo è
l’EDSS, che va da 0 a 10.

PATOGENESI

La storia di Stephen Hauser ricalca un po’ la storia sperimentale della SM.


Questa storia inizia quando Hauser era al Massachussets General Hospital,
uno dei migliori ospedali del mondo. Tantissimi anni fa c’è stata una
presentazione di dati da parte di uno studente dell’MIT (Massachussets Institut
of Technology), il quale presentava un modello di EAE, indotto in animali da
esperimento con antigeni della mielina. A presiediere c’era uno dei più grandi
neurologi, Reynold Adams, che si è detto non d’accordo con quanto presentato
dallo studente, che secondo lui non era un modello di SM ma un modello di
panencefalite, cioè una cosa completamente diversa. Infatti, mentre nella SM
devono esserci delle placche circoscritte di demielinizzazione che poi possono

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evolversi e modificarsi, in questo modello di EAE accadeva che gli animali


diventavano paralitici, e Adams sosteneva che la paralisi fosse dovuta a
problemi del nervo periferico, e questo non c’entra niente con la SM perché nel
nervo periferico la mielina è fatta dalla cellula di Schwann, mentre nella SM non
c’è un attacco alla cellula di Schwann.
Stephen Hauser ha deciso di occuparsi di questo problema utilizzando un
modello di primate, una scimmietta che si chiama Marmoset. Questa ha una
caratteristica particolare rispetto agli altri primati: ha frequentemente parti
plurigemellari. I parti plurigemellari sono caratterizzati dal fatto che il sangue è
in comune, e si viene quindi a creare una situazione di chimerismo. L’utilizzo
dell’EAE su Marmoset ha rappresentato un grandissimo passo avanti.
Come si induce l’EAE? Si induce immunizzando l’animale con proteine della
mielina o con estratti del midollo spinale. A quel punto l’animale sviluppa la
malattia; ma è fondamentale che sviluppi una malattia neurologica simile alla
SM, cioè con queste placche concentriche di demielinizzazione circondate da
macrofagi, e non come una forma di neuroinfiammazione diffusa (tipo una
panencefalite diffusa, che sicuramente è un’entità clinica ma che non ha niente
a che fare con la SM). Proprio questo chimerismo che si verifica nella vita fetale
di Marmoset favorisce il processo di immunizzazione: ci può essere passaggio
di linfociti B o linfociti T da un animale all’altro senza che ci siano problemi
particolari.
Una tappa fondamentale è stata quando Luca Massacesi (Università di Firenze)
è andato da Hauser: per la prima volta ha utilizzato come modello sperimentale
il MOG, cioè la glicoproteina della mielina degli oligodendrociti. Oggi quando si
fa il modello dell’EAE si usa spessissimo il MOG oppure il MOG35-55, che è un
frammento della proteina. Con ciò, Massacesi è riuscito a formulare un modello
con lesioni di demielinizzazione concentrica che erano molto simili alle
demielinizzazioni descritte nei cervelli dei pazienti affetti da SM. Utilizzando
questi modelli era possibile il transfer: trasferire la malattia da un animale a un
altro utilizzando le cellule del sistema immunitario.
Se voi prendete le cellule T e le trasferite da un animale che ha l’EAE ad uno
che non ce l’ha, l’animale che riceve le cellule T diventa malato, e tuttavia risulta
malato di panencefalite, non della stessa malattia dell’animale da cui derivano
le cellule. Invece, un animale che riceve queste cellule T nel transfer sviluppa
una patologia demielinizzante concentrica, con le tipiche placche della SM, solo
se queste cellule T vengono trasferite con le componenti dell’immunità umorale,
cioè gli anticorpi. Questo già dimostra come la SM non è soltanto una patologia
delle cellule T, ma è una patologia che in qualche misura coinvolge i linfociti B.
Questa informazione può essere fuorviante, perché fino a poco fa abbiamo
detto che il ruolo dei linfociti B nella patologia non è quello della produzione
degli anticorpi (che sono un epifenomeno) ma è quello della presentazione
dell’antigene ai linfociti T. E infatti questo è vero, perché se noi facciamo una
plasmaferesi in un paziente con SM per cercare di rimuovere gli anticorpi dal
sangue, non otteniamo un grande risultato clinico: l’intervento in assoluto
migliore è il trapianto di midollo osseo. Quindi, da animale a uomo qualcosa

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cambia: però, questo dato di transfer combinato di linfociti T e di linfociti B è


stato importante perché ha consentito di spostare l’attenzione sui linfociti B.
Nello stesso periodo, era stato sintetizzato il Rituximab (anti CD20), per artrite
reumatoide e linfoma non-Hodgkin: Stephen Hauser ha proposto agli organismi
regolatori americani di provare il farmaco per trattare la SM, pensando che gli
anticorpi sono necessari nella malattia e che il Rituximab agisce depletando i
linfociti B negli stadi maturativi intermedi, quindi prima o poi non si formeranno
neanche più le plasmacellule (quelle che ci sono già restano, ma quando
muoiono non vengono più sostituite). Quando ha fatto questa proposta, l’NIH e
l’FDA lo hanno preso a pernacchie! sostenevano che questa terapia non avesse
niente a che vedere con la SM essendo appunto considerata una malattia dei
linfociti T. Allora, Hauser si è rivolto alla Genentech (un’azienda che ha fatto
tutti i farmaci biologici e che si trova San Francisco in via DNA, 1): questa
azienda è stata più sensibile al tema, ed è stato istituito un progetto che
valutasse gli effetti del Rituximab sulla malattia dopo un anno di trattamento in
un numero elevato di pazienti affetti da SM. Ovviamente, serviva
un’approvazione, ma il progetto così descritto non fu approvato, proprio in virtù
del fatto che pensavano fosse fallimentare: fu loro concesso di seguire un
numero ridotto di pazienti e per un periodo di tempo inferiore, 6 mesi. Hauser e
la Genentech decisero di farlo in ogni caso, ma aspettandosi un risultato nullo:
pensare di notare un qualche risultato significativo con un farmaco biologico
che agisca sui linfociti B in così pochi mesi significa voler essere un po’
presuntuosi. Nonostante questo, invece, dando il Rituximab ci sono stati risultati
spettacolari dopo brevi periodi di tempo. Questo ha fatto pensare: come è
possibile che un anticorpo anti CD20 abbia migliorato il quadro clinico e
paraclinico della SM? Si è arrivati all’ovvia conclusione: questi miglioramenti
non dipendevano dalla deplezione delle plasmacellule, non dipendevano dalla
diminuzione degli anticorpi circolanti, ma dipendevano piuttosto da
qualcos’altro che interessava le cellule B. Queste, infatti, si comportano da APC
e possono produrre citochine. Il tutto è controllato dalle cellule B regolatorie:
quindi, quando si interviene sulle cellule B bisogna stare attenti, perché magari
vengono eliminate anche queste cellule B regolatorie provocando risultati
paradossali. Infatti, gli effetti prodotti da altri farmaci biologici contro altri
recettori dei linfociti B non sono stati altrettanto soddisfacenti: evidentemente è
proprio la linea anti CD20 ad essere fondamentale. Grazie ad Hauser e
Massacesi, si è passati da una fase in cui la SM era considerata una patologia
esclusivamente dei linfociti T ad una fase in cui sappiamo che sono coinvolti sia
linfociti T sia linfociti B.

Allora, perché vien fuori la malattia? Per l’intervento del sistema immunitario, lo
abbiamo detto un milione di volte, ma la cosa che dobbiamo fare ora è
distinguere le varie sottopopolazioni.
Nella forma RR, cioè la forma ricadute e remissioni, il meccanismo è outsite-in,
e questo significa che il sistema immunitario viene sensibilizzato al di fuori del
sistema nervoso centrale e poi entra nel SNC, permeabilizza la barriera
ematoencefalica e lì comincia a danneggiare la mielina. In particolare, ci sono

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delle cellule T che vengono sensibilizzate negli organi linfoidi secondari,


soprattutto nei linfonodi cervicali, e questa sensibilizzazione avviene perché
qualcuno presenta l’antigene (una cellula dendritica o cellula B, poi questo
dipende dai vari compartimenti) ed a quel punto sono cellule T che non
riconoscono più il self.
Tra le cellule T che attaccano il SNC, ci sono le cosiddette cellule T centrali
della memoria immunologica, che qui sono critiche: queste possono lasciare
il linfonodo solo se il recettore per la sfingosina 1-fosfato di tipo 1 (S1P1R) è
attivato. Questa è una conditio sine qua non.
I farmaci analoghi della sfingosina, primariamente Fingolimod e Siponimod,
ossia dei superagonisti dei recettori per la sfingosina 1-fosfato di tipo 1, che
sono i due attualmente approvati (però vi ho detto che un terzo farmaco del
quale poi vi parlerò è stato approvato da pochi giorni dall’EMA ed ora
ovviamente comincia il negoziato dell’approvazione qui in Italia) determinano
desensibilizzazione ed internalizzazione delle cellule T centrali della memoria
immunologica, perciò queste cellule T non lasciano i linfonodi, rimangono li ed
esauriscono lì il loro ciclo vitale, mentre invece le cellule T effettrici periferiche
della memoria possono uscire lo stesso e andare a fare i loro meccanismi di
immunosorveglianza, per esempio nella mucosa intestinale. C’è un aforisma
suggerito dal professor Comi, il quale è stato presidente della Società italiana
di neurologia per diverso tempo, ed è un grande esperto di sclerosi multipla,
anche se ora è in pensione (ha lavorato sempre al san Raffaele di Milano): «il
Fingolimod lascia le armate in caserma ma le sentinelle fuori», proprio perché
le cellule T effettrici periferiche della memoria possono uscire, mentre le cellule
T centrali della memoria immunologica rimangono confinate all’interno del
linfonodo. Questo dipende dal fatto che le cellule T centrali hanno un recettore
ritentivo che si chiama recettore CCR7, che è attivato dalle chemochine:
quindi, queste cellule possono uscire, vincendo la resistenza del recettore
ritentivo, soltanto se S1P1R viene attivato dalla sfingosina 1-fosfato. Nel
momento in cui il Fingolimod ed il Siponimod (dopo trasformazione in
Fingolimod fosfato e Siponimod fosfato) desensibilizzano il recettore S1P1R e
lo fanno internalizzare, prevale largamente il recettore ritentivo CCR7 e quindi
le cellule T centrali rimangono nel linfonodo e non possono attaccare il SNC.
Invece, le cellule T effettrici periferiche della memoria non hanno il recettore
CCR7 e quindi possono fuoriuscire dal linfonodo senza alcun tipo di problema.
Lasciando perdere ora la terapia ed ipotizzando che queste cellule T possano
invadere il SNC, come fanno? Innanzitutto, permeabilizzano la BEE attraverso
la produzione di citochine proinfiammatorie. La prima cosa che ci si può
chiedere è: ma le Treg? Come sapete, le T regolatorie sono responsabili
dell’immunotolleranza e normalmente dovrebbero frenare l’attacco delle cellule
T a carico del SNC, normalmente sono circa il 4% dei linfociti T circolanti, ma
nella SM purtroppo sono ipofunzionanti, cioè la loro capacità di spegnere
l’autoreattività è limitata nelle sclerosi multipla. Pertanto, in soldoni, un altro
obiettivo della terapia (oltre a quelli che prenderemo in esame) sarà quello di
aumentare l’efficienza delle cellule Treg, o comunque diminuire i cloni
autoreattivi migliorando la proporzione tra cloni autoreattivi e cellule Treg.

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Comunque, ad un certo punto i linfociti entrano nel SNC ed attaccano la mielina.


A questo punto, abbiamo dei protagonisti assoluti: i macrofagi del SNC, cioè la
microglia. C’è un modo per distinguere il macrofago che viene dal sangue dalla
microglia residente, ci sono dei marcatori specifici: sicuramente la microglia è
reattiva ed è attivata nelle placche di demielizzazione, e questo per esempio lo
vedete se cercate un marcatore della microglia attivata che è il recettore P2Y12
(recettore per ADP), che abbiamo studiato nelle piastrine, dove rappresenta il
bersaglio di clopidogrel, prasugrel, ticlopidina, ticagrelor e cangrelor. Quindi, se
voi fate l’istologia, voi siete perfettamente in grado di vedere che c’è microglia
reattiva in queste lesioni.
Perché poi muore la mielina? A causa dell’attacco delle citochine
proinfiammatorie, per l’attacco da parte della microglia, e poi nella zona della
demielinizzazione voi trovate sia CD8 che CD4, con delle differenze tuttavia: i
CD4 sono all’interno delle lesioni neuroinfiammatorie della sclerosi multipla,
mentre invece i CD8 prevalgono all’esterno della lesione (tra l’altro i CD8 sono
quelli che maggiormente contribuiscono all’immunità dei vaccini nei confronti di
Sars-CoV2). C’è una cosa molto interessante nella sclerosi multipla a questo
proposito: se voi fate il rapporto tra CD8 e CD4 nella zona infiammata, i CD8
prevalgono addirittura per 50 a 1, cioè sono presenti 50 volte di più anche se
come vi dicevo i CD4 sono quelli che sono maggiormente presenti nelle parti
interne della lesione. Se voi però studiate questo rapporto CD4/CD8 nel liquor
o nel sangue, allora avete una prevalenza di CD4, che può essere 3:1 o 5:1.
Pertanto, la sclerosi multipla è una patologia dei linfociti T, primariamente, ma
dei linfociti B, ed è una patologia in cui i CD8 hanno un ruolo estremamente
importante.
Nel momento in cui viene danneggiata la mielina, automaticamente
intervengono i meccanismi classici, cioè: formazioni di ROS, ovvero di specie
reattive dell’ossigeno; eccitotossicità; sinaptopatia, che nasce dall’azione delle
citochine proinfiammatorie, che modificano la trasmissione sinaptica (questo
per esempio è stato dimostrato da un altro eminente studioso della sclerosi
multipla che è il professor Diego Centonze, che professore all’università di Tor
Vergata, ma che lavora anche all’istituto Neuromed).
Tutto questo, come vi dicevo, porta a danno dell’assone.
Quindi, immaginate che voi avete questo episodio di infiammazione, in cui i
linfociti T con un meccanismo outside-in, cioè vengono da fuori e vanno verso
l’interno, attaccano il sistema nervoso centrale e permeabilizzano la BEE,
quindi voi fate una risonanza con mezzo di contrasto e siete immediatamente
in grado che il mezzo di contrasto passa perché la BEE è permeabile.
Contemporaneamente, però, avete l’intervento di elementi dell’immunità innata
che rispondono alle citochine (e quindi entrano in gioco), come per esempio la
microglia oppure i macrofagi che vengono dall’esterno. È ovvio che in tutto
questo contesto vengono prodotte anche chemochine, che richiamano ulteriori
linfociti, ulteriori monociti/macrofagi. Questo determina in ultima analisi un
danno assonale, che come vi dicevo prima nelle forme RR (relapse Remitting),
anche nelle forme iniziali, è 12 volte maggiore rispetto alle forme progressive:
cioè le forme RR o recidivanti remittenti sono caratterizzate dal fatto che avete

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ovviamente disseminazione temporale ma anche disseminazione spaziale,


dato che si vanno formando sempre più placche.
Perché avete la remissione? La remissione dipende dal fatto che c’è la
riparazione e il SNC ha una grande capacità di riparare. Finché questa capacità
riparativa non viene meno ed il danno assonale poi si struttura poi in maniera
significativa, si rimane sempre nella forma RR. Quindi, durante la ricaduta, il
paziente sta male, ma fa cortisone (per esempio 6-α-metil-pregnisolone) e
questo lo aiuta a superare la ricaduta, dopodiché il paziente torna in condizioni
abbastanza normali. Se, invece, entra nella forma progressiva, la disabilità
neurologica, come vi dicevo, va avanti, ed adesso cercheremo di capire il
perché.
Ora, queste cellule che entrano all’interno del SNC hanno una serie di
localizzazioni particolari. Queste sono:
(1) innanzitutto, perivenulari: intorno alle venule del SNC i linfociti formano dei
manicotti, che rimangono lì. Tuttavia, non si sa quale sia effettivamente la BEE
in corrispondenza di questi manicotti, ed è importante stabilirlo, perché poi
come vedremo ci sono diversi anticorpi monoclonali che si usano nella sclerosi
multipla, e la domanda è se gli anticorpi monoclonali agiscano esclusivamente
in periferia oppure agiscano anche entrando nel parenchima
celebrale. Ovviamente, l’anticorpo monoclonale se c’è una barriera
ematoencefalica integra, trattandosi di una molecola molto grande, non può
passare. Tuttavia, oggi abbiamo il sistema glinfatico, cioè sono stati dimostrati
vasi linfatici nel SNC in corrispondenza degli spazi perivascolari, e poi quando
si creano questi manicotti linfocitari vicino alle venule la domanda è se la
permeabilità della barriera rimanga integra o no, o se gli anticorpi piano piano
possano passare nonostante in determinate fasi il gadolinio non passi. Quindi,
ci sono dei punti di domanda fondamentali.
(2) Questi manicotti di linfociti si possono anche formare nelle venule dei plessi
coroidei. I plessi coroidei, come sapete, sono quelle strutture che formano il
liquido cefalorachidiano. Voi avete le bande oligoclonali, quindi quando avete
tutti questi linfociti in corrispondenza dei punti in cui si forma il liquor è anche
logico trovarsi delle bande, degli anticorpi presenti nel liquor.
(3) Cosa molto interessante, questi linfociti possono avere una localizzazione
nelle venule che si trovano in corrispondenza della pia madre. Quando i linfociti
si vanno a localizzare lì, formano dei follicoli ectopici (organi linfoidi terziari),
che hanno i centri germinali. Il fatto di avere i follicoli ectopici, dove si trovano i
linfociti T ma ricchissimi in linfociti B, ha rivoluzionato tutto quello che si sapeva
sulla patogenesi della sclerosi multipla. I centri germinali hanno i linfociti B, che
possono presentare l’antigene ai linfociti T, sostenendo l’infiammazione
dall’interno. Quindi, pian piano, in virtù di queste organizzazioni dei linfociti in
corrispondenza del sistema nervoso si passa da una fase outside-in in cui i
linfociti sono sensibilizzate ed attaccano al di fuori verso l’interno, ad una fase
che potremmo definire inside-in, che significa che i linfociti vengono attivati da
qualcosa che c’è all’interno, che si trova in corrispondenza della pia madre. La
presenza di questi follicoli linfoidi ectopici con i centri geminali, in realtà è un
elemento prognostico negativo. Quindi, più ci sono e più precocemente sono

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presenti maggiore è l’evoluzione verso la forma cornica progressiva. Vi dicevo


che questa è un’innovazione, quindi voi mi potrete chiedere come mai non si
sono accorti subito della presenza di questi follicoli linfoidi che si trovano in
corrispondenza delle meningi: la ragione è che quando si faceva l’analisi
istologica del cervello si toglievano le meningi, e togliendo le meningi
ovviamente questi follicoli andavano via! Poi, grazie allo studio della ricercatrice
Aloisi dell’Istituto superiore di sanità, che in collaborazione con il professor
Uccelli di Genova ha un’analisi del cervello con le meningi ancora attaccate, si
sono trovati questi follicoli ectopici. Questi follicoli sono in grado appunto di
stimolare il sistema immunitario a partire dalla pia madre, e quindi determinare
lesioni demielinizzanti che sono in sede innanzitutto subpiale e poi diventano
lesioni intracorticali, e poi lesioni leucocorticali, cioè al confine tra la sostanza
grigia e la sostanza bianca, che si affiancano alle classiche lesioni
iuxtacorticali, che insieme alle lesioni periventricolari, alle lesioni midollari ed
alle lesioni infratentoriali, sono quelle caratteristiche della sclerosi multipla.
Quindi, la sclerosi multipla è stata considerata fino a non tanto tempo fa una
malattia esclusiva della sostanza bianca, perché la mielina è lì, però in realtà la
sostanza grigia è coinvolta: la guaina mielinica è anche presente ovviamente
negli assoni dei neuroni della sostanza grigia, le lesioni sono anche corticali!
Possono essere vicine alla pia madre, più all’interno della corteccia, al confine
tra sostanza grigia e sostanza bianca (leucocorticali), e queste si affiancano alle
lesioni corticali iuxtacorticali, periventricolari, infratentoriali e midollari che sono
caratteristiche della sclerosi multipla.
Quindi, vedete ci sono questi centri germinali ricchi in linfociti B, ed i linfociti B
dall’interno istruiscono i linfociti T a sostenere la lesione immunitaria.
Nel momento in cui si passa alla fase progressiva, non ci sono nuove lesioni,
cioè non arrivano le cellule da fuori e cominciano ad attaccare dando
un’ulteriore disseminazione spaziale. Sono, invece, le lesioni precedenti che si
allargano, e si hanno quelle manifestazioni che si chiamano lesioni
smouldering, di cui vi parlavo poco fa, il che significa che “si accende l’incendio
sotto la cenere”, cioè sono queste placche che teoricamente sono silenti, ma
dove rinasce l’infiammazione ed i confini delle placche diventano sempre più
grandi. Quindi, la fase progressiva è caratterizzata non tanto dal fatto che si
formano nuove lesioni, quanto dal fatto che si ingrandiscono le lesioni
precedenti, che si struttura sempre di più il danno assonale, con la differenza
che ad un certo punto il sistema nervoso centrale non è più in grado di
compensare la perdita degli assoni, ed allora l’evoluzione è necessariamente
in disabilità neurologica, come è testimoniato dall’EDSS.
Attenzione! Due aspetti oggi diventano importanti nel valutare la terapia della
sclerosi multipla: non è soltanto la riduzione della frequenza delle ricadute, non
è soltanto il miglioramento della paraclinica, cioè del quadro della risonanza con
in immagini T1 pesate o T2 pesate, ma è anche la riduzione dell’atrofia
corticale. L’atrofia corticale si sviluppa per il meccanismo che vi dico: quando
voi fate un trattamento, il paziente non deve perdere più del 0,4% del volume
corticale per anno. E state attenti quando fate la terapia e valutate questo
parametro, perché nelle fasi iniziali della terapia potreste avere una

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paradossale riduzione del volume corticale ma perché la terapia è molto spesso


antifiammatoria, di conseguenza l’edema viene meno e pertanto il volume
corticale si riduce, ma non è quello l’indice!, quella è una pseudoatrofia. Voi poi
dovete seguire con la risonanza volumentrica quello che fa la corteccia
celebrale, e se il trattamento farmacologico riesce a farvi avere una riduzione
del volume corticale inferiore allo 0,4%, potete dire che a questo punto state
facendo il vostro dovere e la terapia sta funzionando bene.
Quindi, vedete ancora una volta: attacco dei linfociti T, CD8 in periferia e CD4
al centro; episodi di infiammazione in corrispondenza delle ricadute, che
corrispondono con la permeabilizzazione della BEE; danno assonale ingente
ma capacità di compenso.
Poi, man mano però, questi linfociti che entrano si organizzano e formano i
manicotti perivenulari, formano manicotti nelle venule in corrispondenza dei
plessi corioidei, ma formano soprattutto dei follicoli interstiziali ectopici con
centri germinali o germinativi che si trovano al di sotto della pia madre: quindi,
sono in strettissima corrispondenza delle meningi!, e probabilmente in quella
zona la barriera ematoencefalica è labile, quindi quello potrebbe permettere agli
anticorpi monoclonali di penetrare. Ed in effetti questo spiegherebbe perché
l’anti CD20 Ocrelizumab ha mostrato efficacia nella forma primaria progressiva,
che è una forma in cui probabilmente l’infiammazione nasce dall’interno perché,
a meno che non ci siano riaccensioni, la BEE rimane integra. Quindi, è grazie
a queste formazioni che forse gli anticorpi mononclonali sono in grado di
passare.

TERAPIA

Si possono utilizzare farmaci di prima linea e farmaci di seconda linea.


Alcuni dei farmaci hanno l’indicazione specifica della sclerosi multipla;
altri,come Mitoxantrone e Ciclofosfamide e lo stesso Rituximab, invece sono
farmaci utilizzati off-label, cioè al di fuori del regime di prescrizione (e tra questi
mettiamo anche l’Azobiprina, che è il profarmaco della 6-mercaptopurina).
L’insieme dei farmaci immunosoppressori utilizzati nelle sclerosi multipla è
molto grande, noi però qui faremo riferimento specifico ai farmaci che si usano
nel trattamento in maniera specifica, ossia che hanno l’indicazione specifica per
il trattamento della sclerosi multipla.
Allora, cosa fondamentale, che cosa valutiamo quando facciamo un trattamento
farmacologico?
Innanzitutto, abbiamo un’indicazione come sempre accade dagli studi di lancio,
che sono gli studi che portano all’autorizzazione di un farmaco, all’indicazione
e poi al rimborso da parte del sistema sanitario nazionale. Gli studi di lancio
sono, come sapete, gli studi di fase 3, che sono quegli studi che reclutano tra
300 e 3000 pazienti, in genere sono multicentrici, controllati, verso placebo, e
così via. Naturalmente, verso placebo, quando è possibile. In alcuni casi
sarebbe sempre meglio averlo contro un comparatore attivo; lo studio verso il
comparatore attivo dovrebbe essere lo standard degli studi di fase 3, ma molto

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spesso non lo è, perché un’azienda farmaceutica è sempre un po’ riluttante a


paragonare il proprio farmaco in sviluppo con un altro farmaco che è già nel
mercato, perché ci potrebbero essere dimostrazioni di inferiorità e questo
potrebbe poi spingere l’organismo regolatorio ad avere un atteggiamento non
generoso nei confronti del nuovo farmaco.
Quando si fanno gli studi di lancio o di fase 3, si valutano fondamentalmente 2
parametri, come vi dicevo:
(1) l’ARR, che significa il tasso di ricadute annuali, ed a questo proposito i
farmaci di prima linea riducono le ricadute annuali del 30-35%, ad eccezione di
un farmaco, il dimetilfumarato, che è il più efficace tra i farmaci di prima linea
ed induce una riduzione delle ricadute annuali del 50%.
(2) la paraclinica, cioè le immagini di risonanza T2 pesate, con l’iperintensività
che danno in T2 e poi le immagini T1 pesate anche con contrasto (gadolinio),
che ci dà anche indicazioni su fatto che ci sia una nuova lesione, perché quando
il gadolinio ovviamente diffonde, significa che la BEE a quel punto è
permeabilizzata e quindi può entrare.
Di base gli studi clinici si fondano su questo, poi naturalmente c’è il profilo di
sicurezza e di tollerabilità.
C’è però qualche altro parametro che va valutato, come per esempio l’atrofia
corticale, e cioè come (vi dicevo) è bene che il volume corticale si riduca
almeno dello 0,4% annuo.
E poi c’è un parametro che si chiama NEDA, che significa
“assenza di evidenza di attività di malattia” (Non Evidence of Disease Activity):
quali sono i parametri che ci permettono di valutare un NEDA? Innanzitutto, non
ci devono essere nuove lesioni, in T2 pesate ed in T1 pesate, non ci devono
essere manifestazioni cliniche, e non deve peggiorare l’EDSS, cioè il parametro
di disabilità neurologica. Nella maggior parte dei casi, quando voi fate un
trattamento e valutate ad un anno, avete dei buoni di dati di NEDA: per
esempio, il NEDA può raggiungere anche il 45%, ossia il 45% dei pazienti
trattati, soprattutto con i farmaci migliori, sono pazienti che poi non hanno
evidenza di malattia ad un anno. Se voi però valutate questo parametro per
esempio a 7 anni, dopo il trattamento con farmaci della sclerosi multipla, le cose
cambiano, ed avete soltanto un 8% dei NEDA: quindi, è vero che i farmaci
possono proteggere, però, quanto di fatto rallentino la progressione della
malattia è un altro discorso!
La sclerosi multipla ha un aspetto che la distingue dal disordine dello spettro
della neuromielite ottica: mentre il disordine dello spettro della neuromielite
ottica ha un’assoluta dipendenza della progressione della disabilità dal numero
e dalla severità delle ricadute, per cui l’obiettivo clinico, come vedremo, è
assolutamente quello di ridurre le ricadute e la loro severità, nel caso della
sclerosi multipla, invece, la progressione non è così dipendente dal numero di
ricadute e dalla loro severità (certo una dipendenza c’è, ma non è così
marcata), per cui potete avere anche un’ottima risposta clinica ad un anno, non
avete più lesioni T1 pesate ed in T2 pesate, ma poi però a 7 anni solo l’8% non
avrà evidenze di attività clinica, perché c’è comunque la progressione. Quindi,
come potete capire, il punto cruciale del trattamento della sclerosi multipla è

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quello di evitare la progressione, che è un goal purtroppo ancora non raggiunto,


nel senso che il 65% delle forme a ricaduta e remissioni evolvono nelle forme
secondarie. È vero che le cose sono migliorate rispetto a prima, perché se da
un lato c’è più diagnosi di sclerosi multipla (ma questo dipende anche dal fatto
che i criteri diagnostici si sono evoluti), nello stesso tempo la sclerosi multipla è
meno severa rispetto ai tempi passati, ed oggi si calcola che per andare sulla
sedia a rotelle passano dai 15 ai 32 anni, che è un tempo molto più grande
rispetto a prima, quindi progressi ne sono stati fatti! Però, se voi mi chiedete: è
possibile bloccare del tutto la progressione? Allora vi rispondo di no, perché la
stragrande maggioranza dei soggetti che hanno la forma a ricadute e remissioni
poi evolvono nella forma secondaria progressiva.
Poiché l’atrofia corticale è diventato un parametro da seguire, si fa sempre più
attenzione alla sfera cognitiva: la sfera cognitiva è una nuova acquisizione in
diversi settori della neurologia ed anche della psichiatria, come sapete (la
psichiatria non si era mai occupata di cognitivo, ma oggi schizofrenia,
depressione e disturbi bipolari hanno nella disfunzione cognitiva un po’ il cuore
della patologia; la neurologia aveva ristretto la sfera cognitiva alla malattia di
Alzheimer, alla malattia di Parkinson, per certi versi, e poi alle degenerazioni
lobari fronto-temporali, soprattutto alla demenza fronto-temporale, od in
generale alle demenze). L’alterazione cognitiva sta diventando molto
importante nella sclerosi multipla, e d’altro canto se voi avete un danno corticale
che adesso potete evidenziare col DIR, che è una particolare tecnica di
immaging, è abbastanza logico che ci possa essere una situazione del genere.

Bene, come vi dicevo, abbiamo farmaci di prima linea e farmaci di seconda


linea.
Nel momento in cui fate diagnosi di sclerosi multipla (ed avete almeno due
lesioni, perché se ne avete una sola avete una CIS, e quindi potreste decidere
di non intervenire, a meno che non ci siano dei fattori di rischio come le bande
oligoclonali), la prima cosa che fate è un trattamento di prima linea.
In prima linea, l’opzione di terapia è rappresentata dal Glatiramer acetato, che
prende il come di Copaxone, chiamato anche Copolimero, che è la stessa
cosa; poi si può usare la Teriflunomide; e si possono usare soprattutto gli IFN,
che a differenza degli IFN che voi utilizzate nel trattamento dell’epatite B,
dell’epatite C e nel trattamento dei melanomi metastatici, sono rappresentati
dall'IFN-β, che può essere IFN-β1a e IFN-β1b.
L’IFN-α non funziona della sclerosi multipla, cosa particolarmente interessante.
Qualcuno di voi si chiederà perché gli interferoni sono stati introdotti nel
trattamento della sclerosi multipla: per l’idea che la sclerosi multipla fosse una
patologia virale, e gli interferoni sono le principali difese contro i virus! Ma
attenzione: l’IFN-α, che è usato per la maggior parte delle malattie virali, qui
non si usa, non ha effetto. Invece, l’IFN-β, che non viene utilizzato nelle epatiti,
qui è efficace, ed è una cosa interessantissima perché altre patologie
autoimmuni come per esempio la psoriasi, il lupus, la celiachia, l’artrite
reumatoide e la malattia di Crohn, non solo non vengono trattate con gli IFN,
ma spesso sono peggiorate dagli IFN! Quindi, qui abbiamo una situazione

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assolutamente atipica, in cui (1) utilizzate un IFN che non si usa in altre
patologie virali; (2) è l’unico caso od uno dei pochissimi casi di una malattia
autoimmune in cui utilizzate l’IFN. È ovvio che non potete mai utilizzare IFN-γ,
cioè l’IFN di classe 2, perché è una citochina proinfiammatoria.
Oltre ad IFN, Teriflunomide e Glatiramer acetato (o Copaxone), c’è il
dimetilfumarato, che come vi dicevo è il farmaco più efficace di prima linea, e
poi ci sono dei nuovi farmaci che si chiamano FOGA, che significa letteralmente
“Follow-on del Glatiramer acetato”, e che sono a torto, e questo è un
grandissimo errore che fa la letteratura internazionale, considerati farmaci
generici del Glatiramer acetato. Non è così, sono farmaci complessi non
biologici, che in realtà sono farmaci che si approvano con una procedura ibrida,
come vi dirò quando sarà il momento: questo ha sollevato un polverone anche
di tipo giuridico in Italia tra l’azienda che produce il Glatiramer acetato, che è la
Teva, e l’azienda che produce il FOGA italiano (che si chiama Copemil), che
invece è la Maila.
Comunque, tutti questi farmaci vengono utilizzati come farmaci di prima linea.
La prima linea va bene finchè la risposta del paziente è buona. Ci sono però
delle circostanze in cui le cose non vanno più bene e bisogna cambiare tipo di
terapia, e voi potete a questo punto fare uno switch: ciò significa che potete
cambiare un farmaco di prima linea con un farmaco di prima linea, e di
conseguenza fate uno switch all’interno della stessa linea, per esempio stavate
prendendo il Glatiramer acetato e decidete di cambiarlo con il dimetilfumarato
per avere una migliore risposta; ma normalmente lo switch si deve fare
passando da un farmaco di prima linea ad un farmaco di seconda linea. Il
posizionamento in seconda linea dipende esclusivamente dagli organismi
regolatori: per esempio, il Fingolimod è di seconda linea in Italia ma di prima
linea negli USA. Questi farmaci li prenderemo in considerazione quando verrà
il momento. Sono farmaci molto più efficaci (riduzione degli ARR del 60-70%),
però vanno più verso l’immunosoppressione, quindi ci sono diversi interrogativi:
qual è il rischio di infezioni opportunistiche? Quando si ricostituisce il sistema
immunitario? Come si ricostituisce? Ad esempio, se voi fate un anti-CD20,
eliminate i linfociti B, e quando sospendete il farmaco i linfociti B tornano e sono
meno inclini a formare citochine ma più regolatori. Che succede col covid? Se
vi vaccinate e prendete il farmaco, viene meno l’efficacia del vaccino?
Quando si fa lo switch? Quando in un anno avete, nonostante i farmaci di prima
linea, almeno 2 lesioni iperintense in T2; almeno una lesione che prende
contrasto; l’aumento di un punto della scala delle EDSS.
A questo punto, quindi, passate a un farmaco di seconda linea, che vi dà più
soddisfazioni: per esempio uno di questi farmaci è il Natalizumab (TYSABRI)
che agisce sulle integrine α4-β1, così come faceva nella malattia di Chron nei
confronti delle integrine α4-β7, e quindi impedisce alle cellule del sistema
immunitario di passare attraverso la barriera ematoencefalica; questo farmaco
che è efficacissimo, con una riduzione del tasso annuale di ricadute che va
anche oltre il 65%, vi fa correre il rischio della PML (leucoencefalopatia
multifocale progressiva), che è una malattia demielinizzante con una mortalità
attuale del 20-25%, (è una mortalità inferiore di quella che c'era prima, però è

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ancora consistente). Ci sono dei pazienti che pur essendo a rischio di


sviluppare PML perché hanno gli anticorpi per il virus JC1 (virus che attacca il
SNC), pur avendo preso anche altri immunosoppressori (cioè pur essendo a
rischio!), decidono di continuare il Natalizumab per il semplice motivo che
l'effetto clinico è talmente buono che il paziente dice "ma perché lo devo
smettere? sto lavorando bene, a casa sto bene, posso anche fare la corsetta
fuori", e alcuni di questi pazienti sono morti perché hanno firmato il consenso
informato e sapendo del rischio che correvano però hanno continuato a fare il
TYSABRI e hanno sviluppato la PML, che poi paradossalmente è anche una
malattia demielinizzante. Quindi, quando switcciate ai farmaci di seconda linea
avrete una migliore efficacia, ma ricordate sempre che il punto base della
farmacologia è la formula STEPS (sicurezza, tollerabilità, efficacia, costi,
semplicità di trattamento): per questo motivo dovete pesare tutto quello che
accade quando trattate il paziente.
C'è la possibilità di trattare direttamente il paziente con il farmaco di seconda
linea, e ovviamente questo dipende dalla severità della patologia: se voi avete
una patologia molto severa, potete decidere di cominciare con la seconda linea
direttamente. Ad esempio, un parametro di severità è la lesione midollare: se
voi avete demielinizzazione nel midollo è abbastanza intuitivo che la patologia
è più severa, non può essere diversamente perché il midollo compensa di
meno; quindi, in presenza di lesioni midollari voi potreste saltare la prima linea
e cominciare direttamente il trattamento con la seconda linea.
Altra cosa di carattere generale sui farmaci è che voi avete farmaci che si danno
per via orale e farmaci che si danno invece per via parenterale: questi farmaci
sono distribuiti tra la prima linea e la seconda linea. Tra quelli di seconda linea,
gli analoghi della sfingosina sono tutti per via orale, la Clandribina è per via
orale; tra quelli di prima linea, i farmaci che si danno oralmente sono la
Teriflunomide e il Dimetilfumarato.
Se voi avete un farmaco che si dà per via orale e valutate la formula STEPS,
pensate che almeno la voce "semplicità di trattamento" sia favorevole, perché
la via orale potrebbe essere preferita rispetto alla via endovenosa o
sottocutanea o intramuscolare: in linea di massima è vero, ma bisogna valutare
bene le cose, perché se un farmaco viene preso oralmente soltanto per un paio
di mesi e poi si sospende per un anno, come avviene per la Cladribina, ancora
va bene; se un farmaco però viene preso tutti i giorni, come accade per esempio
con il Fingolimod, o due volte al giorno, come per il Dimetilfumarato, al limite
potrebbe essere più gradita una somministrazione in vena una volta ogni 6 mesi
piuttosto che prendere un farmaco tutti i giorni, poi questo dipende dal paziente.
Ultima cosa di carattere generale ma che poi affronteremo la prossima volta
riguarda il PEG (polietilenglicole), che è una specie di coda che si attacca ai
farmaci: ci sono molti farmaci che oggi vengono peghilati, uno l'abbiamo
studiato in endocrinologia cioè il Pegvisomant, ci sono fattori che si usano per
l'emofilia, cioè fattore VIII e IX, e poi ci sono gli interferoni, ossia interferone α
peghilato per epatite B e C, e interferone β1A peghilato (Plegridy, lo tratteremo
più avanti), che ha il vantaggio di poter essere somministrato con frequenze
ridotte, cioè 1 volta ogni 2 settimane.

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C'è il problema del vaccino Pfizer, perché a volte determina reazioni


immunoallergiche, sicuramente in soggetti predisposti, però uno studio
americano (condivisibile oppure no) ha riferito queste reazioni
immunoallergiche alla presenza nel vaccino Pfizer del PEG: nella formulazione
del vaccino, oltre all'RNAm con metilpseudouridina con il cap di poliA e oltre al
rivestimento lipidico, cioè alle nanoparticelle liposomiche che servono a
veicolare l'mRNA di Pfizer all'interno della cellula, c'è un po’ di PEG che serve
a stabilizzare. Allora, molti neurologi hanno detto: "Poichè PEG è stato
associato alle reazioni immunoallergiche del vaccino Pfizer, noi non diamo più
l'interferone peghilato"… ecco questa mi sembra una gran cazzata! per il
semplice motivo che se uno fa due volte a settimana interferone peghilato e
non ha reazioni immunoallergiche significa che non è allergico al PEG, anzi il
fatto di utilizzarre l'interferone peghilato suggerisce che si è abbastanza protetti
nei confronti delle reazioni immunoallergiche! Diversamente, se uno deve
cominciare il trattamento con interferone peghilato e si deve vaccinare, allora lì
forse un po’ di attenzione bisogna averla.
Detto ciò, il primo farmaco che prendiamo in esame nei minuti che ci sono
rimasti è il GLATIRAMER ACETATO (COPAXONE o COPOLIMERO): la
produzione è nata in Israele dall'azienda farmaceutica Teva ed è il classico
esempio di serendipity (“colpo di fortuna”), perché in realtà il Glatiramer acetato
è formato da un insieme di peptidi che possono arrivare a 200-300 aminoacidi,
ma gli aminoacidi che li formano sono esclusivamente 4: alanina, lisina,
glutammato, tirosina (che potete ricordare se voi usate la sigla AKEY: A=
alanina, K= lisina, E= glutammato, Y= tirosina). La procedura di produzione del
Glatiramer acetato si basa su questo: si prendono questi 4 aminoacidi, si
mescolano insieme e vengono migliaia di peptidi con lunghezza massima di
200-300 aminoacidi con combinazioni possibili che sono 10^29 (cioè la
composizione dei peptidi che formano il farmaco ha una variabilità di 10^29), il
che vuol dire che utilizzando questi 4 amminoacidi di partenza è impossibile
riprodurre lo stesso farmaco se non si usa in maniera rigorosa la stessa
procedura di produzione; è come se voi chiedeste a due architetti diversi con
due strategie diverse di costruire un palazzo utilizzando esclusivamente 4
mattoni di colori diversi: ovviamente gli elementi costitutivi saranno quei 4
mattoni soltanto che verranno ripetuti migliaia di volte nella costruzione del
palazzo, ma poi alla fine i due palazzi non saranno uguali perchè avranno delle
variazioni qualitative e quantitative. Nel momento in cui questo farmaco ha
avuto la scadenza di brevetto, il che normalmente accade una decina di anni
dopo l'immissione in commercio, quello che è accaduto è che molte aziende,
considerando il successo del Glatiramer acetato, hanno iniziato a fare la stessa
cosa, cioè prendere i 4 amminoacidi e creare dei farmaci “simili”, e li hanno
chiamati farmaci generici, e anche nella letteratura internazionale questi
farmaci sono stati definiti generici, ma affinché un farmaco venga definito
generico il principio attivo deve essere assolutamente identico!, e questo non
poteva essere il caso. I farmaci sono identici nel principio attivo se voi abbattete
il palazzo costruito con i 4 mattoni e alla fine gli elementi costitutivi sono gli
stessi e questi mattoni hanno una proporzione ben precisa che viene rispettata,

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ma se invece analizzate i peptidi così come sono e fate mille valutazioni di tipo
fisico, chimico, biologico, vi accorgete che questi nuovi farmaci che hanno la
pretesa di essere generici del Glatiramer acetato non lo sono per nulla, perché
differiscono per le caratteristiche fisico-chimiche che ovviamente dovete
valutare quando il farmaco è intatto e differiscono per alcuni aspetti nell'attività
biologica. Questi farmaci si chiamano FOGA (follow on), cioè fanno seguito al
Glatiramer acetato.
Come agisce il Glatiramer acetato? Innanzitutto, è interessante la sua scoperta
perché, dicevamo, è per serendipity. Questi 4 amminoacidi si trovano in alta
percentuale in alcuni epitopi della MBP (proteina basica della mielina), quindi
l'idea da parte dei ricercatori della Teva era quella di formare questi peptidi,
iniettarli nella coda dell'animale (cioè immunizzare l'animale con i peptidi) e
creare un nuovo modello di EAE, quindi non usano il MOG ma dei peptidi con
gli stessi aminoacidi ben rappresentati nella proteina basica della mielina.
Come spesso accade nella scienza, il presupposto di base non era corretto e
quello che loro hanno visto non è stata l'induzione delle EAE ma è stata
paradossalmente una protezione nei confronti delle EAE. Nel momento in cui
loro hanno indotto le EAE in altro modo ed hanno iniettato questa combinazione
di peptidi, l'animale è stato protetto dallo sviluppo della encefalomielite
autoimmune sperimentale: questo ovviamente ha destato interesse e questo
ha portato poi alla produzione del Glatiramer acetato su larga scala.
Questo farmaco ha una grande storia di trattamento alle spalle: sono stati
trattati più di 20.000.000 di persone affette da sclerosi multipla. Non ha una
grandissima efficacia considerando l'ARR, perché siamo sull'ordine del 30%-
33% di riduzione delle ricadute, tuttavia è un farmaco molto sicuro, quindi non
ha grandi effetti avversi. La sicurezza gli deriva da tutta una serie di
considerazioni, innanzitutto la gravidanza. Il problema della gravidanza è critica
per la sclerosi multipla: la gravidanza di per se è protettiva, soprattutto
nell'ultimo trimestre (e poi la protezione dura anche nei 5 anni successivi), e
questo probabilmente dipende dal fatto che nell'ultimo trimestre prevalgono
delle cellule NK dette CD56 BRIGHT, che spengono l'immunoreattività, cioè
sono cellule in grado di distruggere le cellule per esempio TH17. Tuttavia,
bisogna arrivarci all'ultimo trimestre di gravidanza!, e quando una donna affetta
da sclerosi multipla vuole iniziare una gravidanza può trovarsi con una malattia
particolarmente attiva e magari è in trattamento con un farmaco di seconda
linea o magari anche con uno di prima linea che però non è esattamente
indicato in gravidanza: ci sono dei farmaci che non possono essere utilizzati per
nessuna ragione al mondo, per esempio Teriflunomide, che è un teratogeno
quasi obbligato, e addirittura bisogna aspettare mesi perché una persona
trattata con Teriflunomide possa concepire. Tra tutti i farmaci per la sclerosi
multipla, quello più sicuro in gravidanza è il Glatiramer acetato: era l'unico
considerato quasi di classe A secondo la classificazione dei farmaci sicuri in
gravidanza dalla FDA (che ora non viene utilizzata quasi più), il che significa
che non esiste nessuna evidenza di teratogenicità né nell'animale da
esperimento né nell'uomo utilizzando il questo farmaco nelle donne in
gravidanza. È ovvio che la scelta di usare il Glatiramer acetato in gravidanza in

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realtà non è sempre facile, perché se una donna che ha una sclerosi multipla
abbastanza severa e sta utilizzando per questo un farmaco di seconda linea,
se fa uno switch al contrario (cioè passa da un farmaco di seconda linea ad un
farmaco di prima linea) ci può essere una riaccensione della malattia nelle
prime fasi di gravidanza che può essere pericolosissima (anche per il feto),
quindi bisogna valutare le cose con la massima attenzione.
Quando si somministra Glatiramer acetato, poiché è un insieme di peptidi, si
possono formare anticorpi questo – è ovvio! –, però non si riscontrano mai
anticorpi neutralizzanti: questo significa che non ci sono dei meccanismi
intrinseci che possano frenare l'azione del Glatiramer acetato come invece
succede nel caso degli interferoni, dove è possibile che si formino anticorpi
neutralizzanti, e questo dipende dal tipo di interferone e dal tipo di trattamento,
dalla dose, dalla circostanza.
Glatiramer acetato si dà sottocute. Ci sono due possibilità: giornalmente con
dosaggio di 20mg, oppure a giorni alterni con dosaggio di 40mg. Nel momento
in cui vengono iniettati, i peptidi (che sono tantissimi con una possibilità
combinatoriale di 10^29) vengono in parte idrolizzati, ma rimangono dei grossi
pezzi. Questi peptidi vengono poi processati perché arrivano con il sistema
linfatico le cellule che presentano l'antigene, i peptidi vengono associati all'MHC
II e presentati al linfocita T naive, orientandone il differenziamento verso le
cellule T Reg o verso le cellule TH2, a discapito delle cellule TH1 e TH17:
quindi, quello che il Glatiramer acetato fa è orientare il sistema immunitario
verso le branche protettive o di immunotolleranza o comunque
antiinfiammatorie (quando diciamo che il Th2 è antiinfiammatorio, diciamo
soltanto che non è immunoreattivo: sapete che il TH2 è coinvolto nell'asma e
nelle reazioni immunitarie contro i parassiti).
Queste cellule sensibilizzate con il Glatiramer acetato attraversano la barriera
ematoencefalica, entrano nel SNC e quando sono a contatto con gli antigeni
della mielina, soprattutto con la proteina basica della mielina che
ha un'alta presenza di amminoacidi che formano i peptidi del Glatiramer
acetato, a quel punto le cellule sono nuovamente differenziate verso questo
fenotipo antiinfiammatorio e quindi realizzano nel SNC un quadro di
immunotolleranza, e il successo del Glatiramer acetato si deve a questo (quindi
è esattamente tutto il contrario rispetto ai presupposti di base, che erano quelli
di indurre le EAE negli animali).
C'è un altro meccanismo del Glatiramer acetato che è quello dell'induzione di
BDNF, ossia il fattore di crescita di derivazione cerebrale che agisce sul
recettore tirosinchinasico Trk-B, attiva diverse vie di segnalazione tra cui la via
della PI3 chinasi. Il BDNF ha tre effetti nel SNC principali:
1) protettivo
2) migliora la sfera cognitiva
3) esercita azione antidepressiva
Il che non è male, perché vi ho detto prima che si rivolge sempre più attenzione
nei confronti della sfera cognitiva, e per quanto riguarda la depressione esiste
una chiarissima comorbidità tra depressione e sclerosi multipla, così come tra
dolore neuropatico e sclerosi multipla: non si può neanche parlare di

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comorbidità, perchè voi qui avete una patologia demielinizzante, ed è chiaro


che la parola comorbidità non ha senso perché la demielinizzazione può
interessare delle regioni che sono importanti per la fisiopatologia della
depressione oppure può interessare le vie del dolore, es. avete un dolore
neuropatico da sclerosi multipla che voi dovete cercare di trattare. Quando
abbiamo parlato dei sintomi abbiamo detto che sono i più variegati, a partire
dalla neuropatia ottica per finire ai sintomi cerebellari, motori, disautonomici,
sensitivi, con dolore, allodinia da freddo e così via. Parleremo principalmente
dei farmaci immunomodulanti della sclerosi multipla, come stiamo facendo, ma
la storia non finisce lì, perchè la 4-aminopiridina per esempio si può usare per
l'astenia associata alla sclerosi multipla, il sativex (una combinazione di THC e
cannabidiolo) viene utilizzato per la spasticità della sclerosi multipla e ha anche
effetto sul dolore, poi ci sono altri farmaci che possono essere utilizzati per le
disfunzioni sfinteriche, quindi la farmacologia è complessa e variegata. Quindi,
avere un potenziale effetto antidepressivo può essere significativo: è ovvio che
non mi aspetto che questo effetto antidepressivo dipenda da un’azione diretta
dei peptidi del copolimero all'interno del SNC, perché loro non dovrebbero
attraversare facilmente la barriera ematoencefalica; forse è l'ambiente
immunotollerante che i linfociti sensibilizzati con il Glatiramer acetato realizzano
all'interno del SNC che può aumentare i livelli di BDNF e quindi teoricamente
migliorare la sfera cognitiva o esercitare potenzialmente un'azione
antidepressiva.
Se voi utilizzate il modello YAC128, che è uno dei modelli più aggressivi
sperimentali di corea di Huntington, quindi un topo geneticamente modificato
con un danno a carico dello striato dorsale (nucleo caudato e putamen) che
dipende dall'espansione dell'huntingtina, e se voi fate un trattamento
dell'animale con il Glatiramer acetato avete protezione nei confronti del danno,
quindi questo è interessante. Non so questo che tipo di implicazioni possa avere
in neurologia ma sicuramente è una cosa che va considerata.

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Data: Giovedì 08 Aprile 2021

Farmaci di I e II linea per il trattamento della


Sclerosi Multipla

[Riprendendo la lezione precedente]


Il trattamento della Sclerosi Multipla (SM) procede per gradini, ovvero farmaci di I e
II linea.
I farmaci di I linea presentano efficacia abbastanza limitata, ma un decoroso
profilo di sicurezza e di tollerabilità, quindi normalmente il trattamento parte da
questi.
Naturalmente dipende anche dal grado di sviluppo della malattia: nel caso di
Sclerosi Multipla Severa, soprattutto se presenti lesioni midollari
(demielinizzazione o perdita assonale midollari presentano capacità di
compenso inferiori) si può prendere in considerazione direttamente un
trattamento con farmaci di II linea.
La classificazione dei farmaci in I e II linea dipende, in maniera critica, dagli
organismi regolatori del commercio del farmaco: ad esempio, Fingolimod è
farmaco di II linea in Europa e di I linea in USA (in quanto FDA ha dato una
approvazione differente).
Nella scorsa lezione abbiamo introdotto il primo dei farmaci di I linea: il Glatiramer
Acetato, di cui continuiamo la trattazione.
Farmaci di I Linea
Glatiramer Acetato (Copaxone o Copolimero)
Farmaco sottocute, chiamato anche Copolimero in quanto, appunto, è un polimero.
Nato “per serendipity” nei laboratori Teva (più grande produttore di farmaci
equivalenti al mondo) in Israele: l’idea è stata quella di creare un modello
sperimentale di SM nell’animale, ovvero il modello EAE (Encefalomielite
Autoimmune Sperimentale), iniettando nell’animale una mistura di peptidi da 200-
300 amminoacidi scelti da un pool di 4 amminoacidi siglati AKEY (anilina, lisina,
glutammato, tirosina), con possibilità combinatoriali pressoché infinite. Gli
amminoacidi AKEY sono abbondantemente presenti negli epitopi della proteina
basica della mielina. Si è pensato, quindi, che il sistema immunitario reagisse nei
confronti di questi svariati peptidi iniettati negli animali da esperimento, e dunque in
questi ultimi si sviluppasse la malattia. In realtà è accaduto esattamente il contrario:
non solo non è insorta EAE, ma addirittura si è notato un profilo protettivo nei
confronti di questa. Da ciò nasce il Glatiramer Acetato, farmaco somministrato alla
quasi totalità dei pazienti affetti da Sclerosi Multipla e farmaco più utilizzato (insieme
agli Interferoni, trattati in seguito).
Il vasto utilizzo del farmaco in terapia contro SM è anche dettato da un grosso
vantaggio: l’uso in gravidanza. Il problema della SM in gravidanza è molto sentito,
soprattutto perché l’insorgenza può essere relativamente precoce, o comunque nel

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periodo di fertilità di una donna e la gravidanza crea problemi in particolare nelle
prime fasi d’insorgenza della malattia.
Per tutti questi vantaggi, al momento della scadenza brevettuale, numerose
aziende hanno prodotto i Generici (o Equivalenti) del Glatiramer Acetato. In realtà,
questi, non sono Generici: per definizione, ci si riferisce ad un farmaco che abbia lo
stesso principio attivo del farmaco Brand.
La produzione di un vero e proprio Generico per Glatiramer Acetato è impossibile: il
pool dei 4 amminoacidi AKEY di partenza, grazie a procedure di produzione molto
standardizzate come quelle dei laboratori Teva, permette la formazione di diversi
peptidi di max 300 amminoacidi, quindi con probabilità combinatoriale elevatissima.
Ciò vuol dire che se si utilizza una procedura di produzione lievemente diversa (da
quella dei laboratori Teva) avremo un prodotto simile ma mai un prodotto identico.
Questi farmaci, prodotti in tutto il mondo, prendono il nome di FOGA (Follow-On
Glatiramer Acetate cioè seguito del Glatiramer Acetato).
[Quanto scritto fino ad ora è compendio derivante dalla lezione precedente, da ora
in poi parte la lezione di oggi]
Farmaci FOGA: Copemyl
Uno dei farmaci FOGA approdati in Italia è Copemyl.
I FOGA sono farmaci complessi non biologici, in quanto la procedura di produzione
non coinvolge sistemi cellulari o organismi viventi (a differenza di anticorpi
monoclonali, proteine di fusione o ormoni ricombinanti).
Sono farmaci approvati dagli Organismi Regolatori con Procedura Ibrida:
approvazione a metà strada fra l’approvazione di un Generico (che, di base, è
automatica: quando un Generico ha una biodisponibilità simile, all’interno del più o
meno 20%, al farmaco Brand va direttamente in commercio, abbattendo i prezzi) e
approvazione basata su studi clinici, nel caso di Copemyl.
In particolare, l’approvazione di Copemyl si è basata sullo studio clinico GATE:
alcuni pazienti sono stati trattati con Copemyl, altri con Glatiramer Acetato e si sono
osservati i risultati. Lo studio GATE ha creato dei problemi perché normalmente
negli studi clinici sulla SM, fissati gli end-point (cioè le finalità dello studio clinico)
soprattutto gli end-point primari, c’è sempre una corrispondenza fra Clinica e Para
Clinica. Nel caso dello studio GATE, gli end-point primari sono stati di Para-Clinica,
il che vuol dire che ciò che si andava ad osservare era il carico lesionale del
paziente tramite risonanza magnetica nucleare o con immagini T2 pesate
(iperintense nel caso di presenza di lesioni) o immagini T1 pesate con mezzo di
contrasto (ad esempio, con diffusione di Gadolinio nel parenchima cerebrale è
possibile capire se la barriera emato-encefalica sia integra o no). Nello studio
GATE, gli end point para-clinici sono stati soddisfatti, in quanto sia Copemyl che
Glatiramer Acetato hanno ridotto il numero delle lesioni e hanno avuto l’effetto che
più o meno ci si attendeva. Gli end-point Clinici dello studio GATE, invece, non sono
stati soddisfatti né da parte di Copemyl né da parte di Glatiramer (al contrario
solitamente Para-clinica e Clinica vanno di pari passo, come detto prima). In
particolare, il parametro non soddisfatto è ARR (tasso annuale di ricadute),

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considerato perché naturalmente parliamo di pazienti con SM a ricaduta e
remissione. Lo studio GATE ha quindi dimostrato un’equivalenza di efficacia fra
Copemyl e Glatiramer Acetato; efficacia, però, non confermata in Clinica, nei
confronti del parametro ARR. Ciò è andato contro a tutti gli studi effettuati su
Glatiramer Acetato, in cui si è riscontrata una efficacia del 30-35% di riduzione delle
ricadute. Nonostante ciò, AIFA ha posto il Copemyl nella così detta Lista di
Trasparenza: se il neurologo prescrive Glatiramer Acetato, il farmacista può
tranquillamente dare al paziente Copemyl, in quanto assolutamente
interscambiabili. Questo ha creato problemi economici ed etici: in primis, la SIN
(Società Italiana Neurologi) si è ribellata appellandosi al fatto che Glatiramer
Acetato e Copemyl non hanno stesso principio attivo. Oltre a questo, è nato un
contenzioso giuridico fra la ditta Teva (che produce Glatiramer Acetato) e la ditta
Maylan (che produce Copemyl), vinto da Maylan, in quanto è stata confermata in
molto paesi (tra cui l’Italia) l’equivalenza di utilizzo fra i due farmaci, abbattendo
quindi i costi per il SSN. In altri paesi, invece, Glatiramer Acetato e Copemyl sono
ancora diversificati.
Concentriamoci ora sulla produzione, da parte del sistema immunitario del
paziente, di Anticorpi Anti-Molecola nei confronti dei FOGA e Glatiramer Acetato.
La produzione di questi Anticorpi Anti-Glatiramer Acetato non ci deve stupire, è
una reazione piuttosto normale, ma non sono mai stati trovati Anticorpi
Neutralizzanti (che causerebbero un non funzionamento del farmaco).
Il tasso anticorpale di Anticorpi Anti-Copemyl è lo stesso di Glatiramer Acetato,
ma nello studio GATE non si è proceduti alla ricerca e alla conta di eventuali
Anticorpi Neutralizzanti, nei confronti dei quali rimane, quindi, un punto
interrogativo.
Nonostante tutte queste incognite, sul mercato Copemyl si può inter-scambiare
con Glatiramer Acetato, anche con un decoroso profilo di sicurezza e tollerabilità.
Teriflunomide (Aubagio)
Farmaco di I linea, che si incontra anche in altri settori della medicina in quanto
metabolita attivo di Leflunomide, farmaco parentale utilizzato nell’Artrite
Reumatoide.
Presenta alcuni vantaggi: è un farmaco orale, con posologia da 7-14 mg/die (14
mg/die rendono conto di un’efficacia migliore).
È un farmaco di I linea di tutto rispetto: riduzione tasso ARR del 30-35%, stima
equiparabile a Glatiramer Acetato e rispettabile profilo di sicurezza.
Meccanismo d’azione: Teriflunomide è un inibitore della Diidro-Orotato
Deidrogenasi, enzima coinvolto nella sintesi De Novo dei nucleotidi pirimidinici,
via utilizzata dai linfociti in attiva proliferazione ma non da altri tipi cellulari.
Teriflunomide inibisce, quindi, il sistema immunitario senza dare gli effetti
avversi tipici dei Farmaci Antitumorali, che colpiscono, invece, il pathway di
salvataggio per la produzione delle pirimidine, via utilizzata da diversi tipi
cellulari.
L’utilizzo di Farmaci Antitumorali Classici avrebbe sicuramente un effetto in
pazienti affetti da SM, in quanto questi hanno una potente azione
immunosoppressiva, ma si paga un prezzo degli effetti avversi. Nonostante

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questi ultimi, farmaci come la Ciclofosfamide e gli Analoghi delle Purine (come
ad esempio, 6-MercaptoPurina e Azatioprina) vengono utilizzati nel trattamento
della SM.
La struttura molecolare di Teriflunomide è molto simile a quella di alcune
Chinurenine.
La trattazione delle Chinurenine è stata affrontata in farmaco-dinamica, riportiamola
qui brevemente: il triptofano sappiamo essere il precursore di sintesi della
serotonina la cui via metabolica è solo una piccola parte del metabolismo del
triptofano; il triptofano, infatti, può essere metabolizzato anche da due enzimi, IDO
(di cui ne esistono due varianti: Indoleamina 2,3-DiOssigenasi 1 e 2) e TDO
(Triptofano 2,3-DiOssigenasi), e il prodotto ottenuto è Formil-Chinurenina.
Questa viene immediatamente trasformata in Chinurenina, dalla cui via (via delle
Chinurenine) hanno origine tutta una serie di metaboliti tra cui Acido Antranilico,
Acido 3-IdrossiAntranilico, Acido Chinunenico, Acido Chinolinico, Acido
Cinnabarinico, importantissimi perché preludono alla sintesi di NAD. Quindi, il
terminale della via delle Chinurenine è la Nicotinamide, che poi diventa
Nicotinamide-Adenil-DiNucleotide.
La via delle Chinurenine ha un ruolo molto importante nella regolazione
dell’immunità, nonostante la via sia più studiata per le funzioni che esplica sul
Sistema Nervoso Centrale, in quanto alcuni prodotti della via sono neuroattivi: ad
esempio, Acido Chinunenico è antagonista dei recettori NMDA e Acido Chinolinico
è agonista dei recettori NMDA.
Per quanto riguarda la regolazione dell’Immunità, la via delle Chinurenine regola a
livello della Sinapsi Immunologica, il primum movens di tutta l’immunità acquisita.
Come sappiamo, in seguito al riconoscimento dell’antigene, mediato da cellula
APC, il Linfocita T CD4+ può andare in contro a vari destini differenziativi: può
diventare un Th1, Th2, Th17,Treg. In seguito all’attivazione della via delle
Chinurenine nella cellula APC, alcuni metaboliti della via legano il recettore AhR
(recettore per gli Idrocarburi Aromatici), che è un fattore di trascrizione.
Ahr una volta legato e attivato, trasloca nel nucleo e si lega ad elementi responsivi
sul DNA chiamati XRE, inducendo, ad esempio, tutti i CYP450 della famiglia 1
(CYP 1A1, 1A2, 1B1). Questo stesso meccanismo, nelle cellule APC, orienta il
Sistema Immunitario verso l’immunotolleranza, quindi fondamentalmente verso la
produzione di Linfociti Treg.
Questo nella SM non è affatto male, in quanto nella patologia si osserva una
riduzione consistente delle Treg, ed avere un farmaco come la Teriflunomide che,
grazie alla sua strettissima somiglianza con alcuni componenti della via delle
Chinurenine, riesce ad indurre la produzione di Treg, è sicuramente un vantaggio.
Ad oggi, il rapporto Chinurenine/Triptofano viene utilizzato come indice di
valutazione dell’immunità: se il rapporto si alza, quindi vengono prodotte tante
Chinurenine e si depleta Triptofano, si è in una situazione di immunotolleranza e
ciò ha un valore prognostico negativo nei tumori (dove l’attivazione dell’immunità ha
un grande ruolo). Una delle ragioni per cui le CarT (linfociti T con recettori chimerici)
vengono utilizzati per i tumori liquidi e non quelli solidi, è perché il tumore solido
presenta un ambiente immunotollerante. Una delle strategie, per permettere la

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funzionalità delle CarT anche nei tumori solidi, è inibire l’enzima IDO della via delle
Chinurenine, in modo tale da abbattere l’immunotolleranza.
Ma effettivamente, Teriflunominde riesce ad indurre immunotolleranza come le
Chinurenine? Non è ancora chiaro, ma è certo che il farmaco, come le Chinurenine,
riesca ad indurre i CYP della famiglia 1, potendo legare AhR. Diciamo che è
presumibile un ruolo di Teriflunomide nell’indurre immunotolleranza, attività
indipendente dall’azione di inibizione sull’enzima Diidro-Orotato-Deidrogenasi.
Sotto il profilo metabolico, Teriflunomide inibisce CYP2C8 (appartenente alla
famiglia di CYP450) che, nonostante non sia uno dei CYP più importanti,
metabolizza alcuni farmaci tra cui Amiodarone (largamente utilizzato) e
Pioglitazone (un Tiazolidindione, utilizzato nel trattamento del diabete di tipo 2).
Quindi, porre attenzione alle interazioni farmacocinetiche, nel prescrivere
Teriflunomide ad un paziente che usa Amiodarone: il rischio è intossicazione da
Amiodarone (farmaco che può creare tutta una serie di problemi).
Tre osservazioni sulla Teriflunomide
1) La prima osservazione riguarda la Pandemia COVID-19.
[Sfogo di Nicoletti: siamo in una situazione di totale confusione: ieri ascoltavo il telegiornale e
l’EMA ha affermato che ci possono essere serie correlazioni fra il Tromboembolismo Venoso e il
Vaccino Astrazeneca, ma è ancora oggetto di studio. Questo, di fatto, vuol dire incitare almeno il
90% delle persone che sono in dubbio se fare o meno il vaccino, a non farlo.]

La domanda è: se siamo sotto somministrazione di Teriflunomide, che va ad inibire


i linfociti in attiva proliferazione, viene compromessa la capacità della risposta
immunitaria nei confronti del virus? Questo non avviene, cioè Teriflunomide è uno
di quei farmaci che non aumenta il rischio di infezione da COVID. I farmaci, invece,
che lo fanno sono soprattutto gli Anti-CD20, cioè gli anticorpi monoclonali che
inibiscono o comunque si legano al recettore CD20.
Ci sono alcune evidenze, svolte nei confronti non di Sars-Cov-2 ma di altri virus
come quello influenzale, che suggeriscono che Teriflunomide abbia azione
antivirale. Questo ci potrebbe stare, perché il virus ha bisogno di replicare e quindi
necessita anche di acidi nucleici, e Teriflunomide, inibendo la Diidro-Orotato
Deidrogenasi, toglie uno dei macchinari, utili al virus, per la produzione pirimidinica.
Sembra anche ci siano evidenze positive per quanto riguarda i vaccini per COVID
(a mRNA o a vettori adenovirali): pazienti affetti da SM, in trattamento
farmacologico con Teriflunomide, non hanno problemi di diminuita efficienza del
vaccino. Potrebbero invece esserci problemi con i vaccini vivi attenuati perché
comunque il farmaco dà una certa immunosoppressione, ma questo problema non
concerne i vaccini per COVID.
2) La seconda osservazione riguarda il profilo degli affetti avversi e in particolare
l’effetto avverso principe di questo farmaco che è l’epatotossicità.
Teriflunomide è particolarmente epatotossico e proprio per questo, durante l’intero
trattamento, si effettua un controllo dei valori delle Transaminasi: per i primi 5-6
mesi di trattamento, si procede con il monitoraggio di GOT/GTP ogni 15 giorni
mentre dal 6° mese in poi, una volta al mese.

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Ovviamente non si dovrebbe dare Teriflunomide a pazienti che sono in trattamento
con Acido Valproico (anch’esso presentante elevata epatotossicità) o che fanno
uso di alcool, per non danneggiare ulteriormente il fegato.
3) La terza osservazione riguarda la Teratogenicità.
Due sono i farmaci, utilizzati per il trattamento della SM, che danno teratogenicità:
un farmaco che inibisce la sintesi delle basi puriniche, Cladribina (farmaco di II
linea, che prenderemo in considerazione di seguito) e un farmaco che inibisce la
sintesi delle basi pirimidiniche, Teriflunomide appunto.
Teriflunomide è un teratogeno obbligato e nella vecchia classificazione di FDA, in
cui i farmaci teratogeni erano divisi in classi A, B, C, D, E, X, la Teriflunomide era
in categoria X, che vuol dire evidenza di teratogenicità, di malformazioni del feto,
compatibili con la vita nell’animale da esperimento e fortissimo rischio di
teratogenicità nell’uomo. È importante che passino diversi mesi da quando si
smette la terapia con Teriflunomide a quando si concepisce, per permettere
all’organismo di eliminare i residui del farmaco.
Questo meccanismo può essere accelerato con resina, che permette una più
veloce perdita di residui a livello intestinale: un esempio è Colestiramina, due o tre
volte/die per più di 10 giorni, in alternativa si può utilizzare Carbone Attivo, che
intrappola le molecole a livello intestinale e ne permette eliminazione con le feci.
I livelli di Teriflunomide devono scendere al di sotto di 20 mg/ml (Cut-Off) prima
che la donna possa concepire per evitare teratogenicità, proprio per questo è
consigliata una terapia anticoncezionale durante trattamento con Teriflunomide.
Si è parlato a lungo anche della teratogenicità di Teriflunomide nel sesso maschile,
nel senso che il farmaco potrebbe indurre mutazione dell’assetto genetico degli
spermatozoi, ma questo non è ancora evidence-based.
Teriflunomide, quindi, è un farmaco interessante e primo a somministrazione orale
(farmaci orali per SM sono 6 o 7) e chiaramente questo è un vantaggio per la
semplicità di somministrazione (ricordando la formula S.T.E.P.S.) che vuol dire una
maggiore aderenza al trattamento da parte del paziente, soprattutto perché la
somministrazione è una volta/die. Studi sull’aderenza al trattamento hanno
dimostrato una maggiore compliance dei farmaci per SM orali, piuttosto che farmaci
a somministrazione parenterale, la cui somministrazione è di una volta al mese.
Tuttavia questo non è del tutto vero perché sicuramente la somministrazione di una
volta al mese è sicuramente più vantaggiosa rispetto a quella quotidiana.
Dimetilfumarato (Tecfidera)
Altro farmaco di I linea, molto interessante, anch’esso a somministrazione orale.
Presenta alcuni vantaggi: presenta due meccanismi d’azione ed è il farmaco di I
linea più efficace nel trattamento della SM, ovvero la riduzione di ARR è del 50%
(in modo atipicamente elevato per essere farmaco di I linea, e caratteristica che lo
accumuna ai farmaci di II linea). Dosaggio di 120 o 240 mg/die.
Dimetilfumarato (DMF) è un analogo dell’Acido Fumarico, in particolare, è un Acido
Fumarico dimetilato. Acido Fumarico è sostanza endogena presente nei due più
importanti cicli biochimici: ciclo di Krebs e ciclo dell’urea.

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DMF una volta assunto oralmente, viene assorbito e convertito in
Monometilfumarato (MMF), anch’esso metabolita attivo, per cui il meccanismo
d’azione dipende sia da DMF che da MMF. Durante il suo metabolismo si forma
anche Acido Fumarico, che viene prontamente inserito nei cicli come forma di
energia (Krebs) o come intermedio metabolico (Urea).
Tutto questo gli conferisce un’ottima efficacia, anche se bisogna saper leggere fra
le righe: riduzione ARR è un parametro, ma si deve tener conto anche dello stato di
progressione della malattia, il cui parametro misurato con molta attenzione è
l’atrofia cerebrale, cioè la riduzione del volume celebrale che si ha con la
progressione di SM. In questo secondo parametro, il DMF non eccelle, a differenza
dei farmaci di II linea molto più efficaci contro lo sviluppo progressivo di atrofia
cerebrale. In generale, i farmaci di I linea non agiscono nel contrasto della
progressione di SM. Questo ci rende idea del fatto che, per SM, riduzione ARR e
rallentamento della progressione della malattia sono due parametri indipendenti.
In altre patologie, come i disordini dello spettro della Neuromielite Ottica, invece la
disabilità neurologica dipende strettamente dalla frequenza delle ricadute (tasso
ARR). In caso di Neuromielite Ottica, quindi, obiettivo principe della terapia è
riduzione delle ricadute. Per SM, invece, i due parametri si tengono distanziati.
DMF è una molecola piccola, a differenza di Glatiramer Acetato e degli Interferoni,
e può tranquillamente attraversare la barriera emato-encefalica e quindi può avere
un effetto all’interno di SNC. Questo è importante, perché ricordiamo che nel SNC
ci sono quelle lesioni definite smoldering, “quell’accensione del fuoco sotto la
cenere” e ciò avviene particolarmente nelle forme secondarie di SM.
Domanda da porsi per tutti quei farmaci che attraversano BEE è: sono farmaci in
grado di determinare neuroprotezione oppure i meccanismi di neuroprotezione
sono contesto-dipendenti o hanno “talloni d’Achille” da qualche parte?
Cercheremo di rispondere a questa domanda esaminando i meccanismi d’azione
del dimetilfumarato:
1) Il primo, che ha dominato il campo nello spiegare gli effetti del
dimetilfumarato, è quello di attivare la via di NRF2 con il meccanismo di
ormesi.
NRF2 è un fattore di trascrizione che sta agli antipodi rispetto ai fattori di
trascrizione della famiglia NFKB. Mentre NFKB lo associate a meccanismi di
infiammazione, NRF2 lo associate a meccanismi di citoprotezione in quanto
induce nel nucleo enzimi necessari alla sintesi di molecole antiossidanti. Tra
questi enzimi ci sono quelli coinvolti nella sintesi di glutatione ridotto GSH.
NRF2 deve attivarsi per tentare di proteggere le cellule nei confronti dello
stress ossidativo.
Normalmente NRF2 è confinato nel citoplasma in quanto si lega a KEAP-1,
che è una sorta di chaperone molecolare che forma un complesso con NRF2
e lo mette in condizioni di essere riconosciuto da CUL-3, che è un E3 ligasi
che, nel momento in cui entra in contatto con NRF2, la fa degradare con un
sistema ubiquitina proteasoma. Quindi noi abbiamo questo fattore di
trascrizione che normalmente è collocato nel citoplasma e non può andare
nel nucleo perché è legato a KEAP-1 che ne causa la degradazione. KEAP-1
ha dei sensori che servono a captare la presenza di specie reattive (con

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elettrone spaiato) ovvero suoi gruppi SH che sono come delle antenne che
riescono a rilevare la presenza di queste sostanze causando il distacco da
NRF2 che migrerà nel nucleo dove sarà in grado di legarsi ad altri fattori di
trascrizione. NRF2 nel nucleo innesca l’espressione di geni che codificano
per proteine antiossidanti come quelle coinvolte nella sintesi del glutatione.
Tra queste proteine c’è un sistema che si chiama XC- che è l’antiporto cistina
glutammato, uno degli antiporti più importanti che abbiamo nelle cellule.
Questo prende la cistina poi, dopo averla trasformata in cisteina, la utilizza
per la sintesi del glutatione (glutamil cistenil glicina), le sue capacità
antiossidanti dipendono dal fatto che c’è il gruppo tiolico della cisteina libero.

Questo sistema contemporaneamente rilascia glutammato, questo antiporto


cistina glutammato è attivato dalla N-acetilcisteina, che quindi provoca
rilascio di glutammato nella sinapsi. Per questo l’N-acetilcisteina è un
farmaco di una certa utilità nel trattamento delle tossicodipendenze,
trattamento di gambling patologico e del dolore a livello sperimentale. Il
dimetil- e il monometil- fumarato entrano nella cellula, a quel punto essi
depletano parzialmente i livelli di GSH (glutatione ridotto) e quindi crea un
ambiente ossidativo che modifica KEAP-1 che rilascia NFR2 che migra nel
nucleo e rende la cellula protetta verso lo stress ossidativo -> questo
meccanismo si chiama ORMESI, che sta ad indicare il fatto che il
dimetilfumarato provoca un piccolo danno iniziale depletando il GSH che
però potenzia la cellula svincolando NFR2 da KEAP-1 in modo che possa
dirigere la sintesi di geni antiossidanti.
È come la filosofia di Nietzsche: se uno viene preso a legnate e sopravvive
diventa più forte. Questo aneddoto ha due risvolti: Il primo è nel sistema
immunitario poiché grazie questo meccanismo le cellule del SI vanno
verso t-reg e verso th2 alle spese di th1 e th17 -> questo meccanismo
genera immunotolleranza.
-Seconda considerazione da fare a livello del SNC. Il dimetilfumarato entra a
livello del SNC e si potrebbe pensare che agisca come fattore protettivo nei
confronti dello stress ossidativo che contribuisce alla patogenesi della
sclerosi multipla.
Il punto interrogativo è uno: che succede con il meccanismo dell’ormesi?
Quando ho una pussè di sclerosi multipla (grande attacco infiammatorio), se
dò dimetilfumarato questo come prima cosa darà una riduzione di GSH e
quindi potrebbe aggravare il danno. Questo è stato dimostrato in sistemi
cellulari di eccitotossicità: neuroni in coltura esposti al glutammato. Se faccio
pre-esposizione con dimetilfumarato non ci sono problemi, ho protezione
verso eccitotossicità. Se invece combino concentrazioni di glutammato sotto
soglia (che di per sè non uccidono le cellule nervose) con dimetilfumarato a
questo punto quelle concentrazioni di glutammato diventano eccitotossiche,
uccidono la cellula.
È fondamentale la tempistica la tempistica: pre-trattamento con
dimetilfumarato è protettivo mentre la combinazione con una sostanza che
può essere tossica può creare sinergismo.
Questo problema può giustificare il fatto che nonostante il dimetilfumarato

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riduca del 50% il tasso annuale delle ricadute non abbia un grande effetto nei
confronti della progressione della malattia e dell’atrofia cerebrale.

2) COVID: se ho un pz trattato con dimetilfumarato con sclerosi multipla questo


frena l’iperinfiammazione che si ha nelle fasi tardive dell’infezione da Sars
cov2.
Durante questa infezione il problema inizialmente è il virus e noi abbiamo
delle difese naturali che sono gli interferoni, ci sono soggetti che hanno
mutazione nei geni che fanno sintetizzare l’interferone o nei meccanismi
di segnalazione dei recettori dell’interferone. Sono i soggetti che trovate
più frequentemente in terapia intensiva. Poi nella fase successiva, se ci
dovesse essere una progressione verso l’iperinfiammazione, sindrome
da rilascio di citochine, la linfoistiocitosi emofagocitica, il virus non fa più
testo, il problema è contrastare l’iperinfiammazione e difendere il
polmone. È stato visto che questa fase è caratterizzata da una ridotta
attività di NFR2 e quindi il dimetilfumarato può essere protettivo come
tutte le sostanze che lo rinforzano e che proteggono il polmone
dall’iperinfiammazione e dallo stress ossidativo.
Pz che stanno facendo dimetilfumarato non devono preoccuparsi perché
possono avere infezioni da covid ma, tuttavia, qualora dovessero evolvere
verso una fase di iperinfiammazione, il dimetilfumarato potrebbe essere
protettivo fortificando NRF2 dando protezione dal danno ossidativo che è uno
degli elementi che porta a morte l’individuo.
Questo è il meccanismo d’azione principale del dimetilfumarato e in effetti se voi
prendete animali knock out di NFR2 questi sviluppano l’EAE (encefalomielite
autoimmune sperimentale) ma il DMF perde di efficacia.
In realtà si è affiancato un secondo meccanismo che si basa sull’interazione del
DMF e del monometilfumarato con un recettore accoppiato a proteina G inibitoria
che è il recettore HCAR di tipo 2: è il recettore per gli acidi idrossicarbossilici di tipo
2; c’è un farmaco che lo attiva che è l’acido nicotinico usato per trattamento
dell’ipercolesterolemia dove, rispetto alle statine, ha il vantaggio di aumentare i
livelli di HDL cosa che non molti ipocolesterolizzanti fanno. L’ acido nicotinico
agisce da agonista dei recettori HCAR 2 così come DMF e MNF (il suo
metabolismo attivo).
Non sono stato in grado di trovare dati riguardo pz in trattamento con DMF per
sclerosi multipla e il loro controllo dei livelli di colesterolo.
Il meccanismo di abbassamento del colesterolo con acido nicotinico dipende dal
fatto che questo recettore si trova anche nelle cellule adipose, essendo associato a
Gi riduce i livelli di AMP ciclico e quindi impedisce che gli acidi grassi vengano
liberati dai trigliceridi in quanto la trigliceride lipasi è attivata da AMPc. Negli
adipociti ci sono recettori beta-3-adrenergici che aumentano livelli di AMPc che
attiva trigliceride lipasi e quindi c’è questo flusso di acidi grassi verso il fegato.
Cosa hanno a che fare questi recettori con il meccanismo d’azione del DMF per la
sclerosi multipla? Non vi saprei rispondere precisamente, HCAR 2 si trovano nelle
cellule del sistema immunitario e lo modulano, questo meccanismo può contribuire.

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Un’altra cosa interessante è che se voi fate EAE negli animali knock out per HCAR
2 questi non rispondono più a dimetilfumarato. Questo significa che tutti e due i
sistemi (NRF2 e HCAR2) devono essere presenti affinché l’animale risponda al
DMF. Non si compensano l’uno con l’altro, basta che uno sia assente e il DMF non
può agire anche se sono sistemi abbastanza lontani da un punto di vista
farmacodinamico.
HCAR 2 si trova anche nel SNC ed è un regolatore delle sinapsi.
Quindi anche qui altra domanda: cosa fa il DMF nel regolare la trasmissione
sinaptica? Nella sclerosi multipla siamo abituati a guardare al danno della mielina,
alla neurodegenerazione e così via, ma un elemento fondamentale è la
sinaptopatia, le sinapsi vengono danneggiate, il resto viene dopo.
Qual è il profilo di tollerabilità e di sicurezza del DMF? Per quanto riguarda la
sicurezza c’è poco, si può avere un po’ di linfopenia e quindi maggiore suscettibilità
alle infezioni come accade in tutti i farmaci in uso per la sclerosi multipla. Il profilo di
sicurezza lo possiamo considerare quasi ottimale, altrimenti non sarebbe un
farmaco di prima linea.
Ci sono dei problemi per quanto riguarda la tollerabilità, ovvero effetti avversi non
pericolosi per la vita ma dei quali i pazienti hanno contezza: per il DMF uno di
questi effetti è la diarrea che può essere occasionale o molto duratura, più di un
mese con ritmo giornaliero; può essere dovuta ad attivazione di HCAR2 che è un
regolatore generale del metabolismo e che si trova anche a livello intestinale.
Potrebbe alterare le dinamiche degli scambi intestinali e creare una reattività
anomala.
Un altro effetto avverso che si ha è il flushing, cioè un eritema che è legato
strettamente ad HCAR2 ed è una manifestazione che si ha anche con acido
nicotinico. Due cellule importanti da questo punto di vista: cellule di Langherans
della cute e cheratinociti, entrambe esprimono HCAR 2 che, attivando la
ciclossigenasi, fa formare le prostaglandine PGD2 e PGE2 che determinano
localmente vasodilatazione agendo rispettivamente sui recettori DP: EP2\EP4 che
sono accoppiati a proteina Gs. Si è cercato in passato di limitare le manifestazioni
di rash cutaneo con antagonisti del recettore della PGD2, approccio che non ha
avuto un seguito.
Vaccino: non esistono ancora dati riguardanti DMF e vaccino per il COVID. Quello
che possiamo speculare sull’impatto dei farmaci per la sclerosi multipla sui vaccini
deriva da quello che noi sappiamo sui vaccini antinfluenzali e contro lo
pneumococco. Dovrebbe uscire a giorni un articolo israeliano a riguardo, so che ci
sono dati abbastanza inaspettati. Basandosi sui dati che abbiamo per gli altri
vaccini possiamo dire che il DMF è considerato sicuro, cioè l’efficienza della
vaccinazione è abbastanza buona. Potrebbe esserci una riduzione dell’efficienza
della vaccinazione a causa della linfopenia.
Resoconto: DMF è forse il miglior farmaco di prima linea per la sclerosi multipla. Il
vantaggio è che si dà per via orale, lo svantaggio è che la somministrazione è due
volte al giorno a 120mg\240mg. Farmaco intrigante in quanto ha un ottimo controllo
del tasso di ricadute (riduzione del 50%) ma a giudicare dagli studi clinici non è

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molto efficace nei confronti della progressione di malattia e dell’atrofia. Ha due
meccanismi d’azione: attiva NFR2 sistema antiossidante più importante delle
nostre cellule ma allo stesso tempo è un agonista dei recettori HCAR di tipo 2
(recettori per acidi idrossicarbossilici) che sono gli stessi recettori attivati da acido
nicotinico. Ci aspettiamo un effetto del farmaco a carico del colesterolo plasmatico
ma questo non è mai stato investigato in maniera dettagliata. Potrebbe essere utile
nella fase di stress respiratorio acuto per infezione da Sars-cov2. Potrebbe
aumentare le difese antiossidanti tramite il sistema NFR2.
Interferoni
Gli ultimi farmaci di prima linea che prendiamo in considerazione per la sclerosi
multipla sono i più antichi: gli interferoni. Sono le principali molecole antivirali che ci
sono all’interno dell’organismo.
Da qui nasce tutto un discorso sul COVID19: perché rappresentano l’espediente
del nostro organismo per difendersi dal virus. Sono usciti due lavori su Science che
dimostrano come soggetti che hanno polimorfismi genetici che rendono inefficienti i
sistemi che producono interferone o il recettore per esso finiscono in terapia
intensiva. È una difesa fondamentale. Diversi studi clinici, soprattutto in Cina, che
valutano l’effetto della terapia con interferoni in pz affetti da infezione da Sars Cov2.
Un trattamento precoce con interferoni senza dubbio aiuta molto nell’infezione da
Sars-cov2 a meno che un soggetto non abbia una mutazione genetica della
segnalazione dei recettori per l’interferone dove non servirebbe a niente.
Sars-cov2 è un virus strano, perché è imparentato con un virus simile che si trova
nei pipistrelli che sono gli animali con la più lunga durata di vita in rapporto alla loro
superficie corporea poiché producono alti livelli di interferone e quindi possono
convivere con i virus respiratori che hanno adottato delle contromisure ovvero
hanno prodotto delle proteine che frenano l’azione dell’IFN.
Nell’infezione da covid quello che spesso accade è che la produzione di IFN
endogena è bassa all’inizio e alta alla fine, quando questo accade sono problemi
perché all’inizio non si è protetti e alla fine l’IFN richiamano monociti e quindi
macrofagi nel tessuto polmonare e l’iperinfiammazione polmonare, la linfoistiocitosi
emofagocitica è una sindrome da attivazione dei macrofagi.
Quindi l’IFN ha una doppia valenza nell’infezione da covid: protettivo all’inizio e
dannoso in seguito, nella fase di iperinfiammazione.
Sono stati fatti diversi studi in pz con sclerosi multipla in trattamento con interferoni
per vedere quale fosse il fattore di rischio per ammalarsi di covid. Gli studi
convergono nel dire che sono i farmaci che danno il minor rischio di ammalare i pz
con sclerosi multipla.

Gli interferoni sono una grande classe di sostanze che si dividono in tre sottoclassi:
Classe 1 che hanno due grandi rappresentanti: l’ IFNalpha (di cui esistono
moltissime varietà) e l’IFNbeta (una varietà divisibile in due sottoforme).
Classe 2: elemento caratteristico l’IFNgamma che è una citochina pro
infiammatoria, che non ha nessuna rilevanza nel trattamento della sclerosi multipla.

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Classe 3: IFNlambda imparentato con interleuchina 10.
A noi interessa la classe 1 che rappresenta gli IFN con azione antivirale.
Gli IFNalpha sono usati nell’Epatite C, nell'Epatite B, nel melanoma e molte volte
sono usate come sostanze peghilate. Il PEG-IFN è più protetto dalla degradazione
e dalla produzione di anticorpi contro l’interferone.
L’IFNalpha non è attivo nella sclerosi multipla così come non è attivo in
nessun’altra patologia autoimmune. Anzi, se usiamo interferoni nella psoriasi o nel
lupus, nelle IBD etc. peggiorano la patologia.
La sclerosi multipla è l’unica patologia autoimmune per la quale si usano gli
interferoni, cioè risponde bene agli interferoni beta. Nel disordine dello spettro della
neuromielite ottica (patologia sorella della sclerosi multipla) gli IFN non fanno nulla
e se fanno qualcosa la peggiorano.
Si usa l'interferone beta di due tipi: 1A e 1B.
Quali sono i farmaci che abbiamo in commercio?
INTERFERONE BETA 1A
Per l’1A abbiamo l’AVONEX: è considerato il più leggero tra gli interferoni che si
danno nella sclerosi multipla, si dà per via intramuscolare, dosaggio di 30 o 60
microgrammi una volta la settimana. Dà riduzione dell’ARR del 30% come tutti i
farmaci di prima linea.
Se volete dare qualcosa di più robusto date il REBIF: si dà sottocute, il cambio
della via di somministrazione è un problema in quanto si formano più anticorpi
contro l’IFN (a meno che non sia peghilato), dosaggio di 22 o 44 microgrammi. Il
REBIF 44 microgrammi è considerato come l’IFN più efficace nel trattamento della
sclerosi multipla anche perché viene dato a giorni alterni.
Sull’IFN BETA 1A abbiamo anche la versione peghilata: il PEG IFNbeta1A che si
chiama PLEGRIDI: viene dato a 125 microgrammi sottocute una volta ogni due
settimane.
All’inizio del trattamento avete un’esposizione molto più grande rispetto a REBIF.
Confrontando le AUC nella prima settimana con il PLEGRIDI avete un’AUC molto
più grande rispetto a quella del REBIF, man mano il livelli di PLEGRIDI
diminuiscono fino a che, nella seconda settimana è quella del REBIF ad essere
maggiore. (È una speculazione farmacocinetica: battibecchi tra case
farmaceutiche. Gli studi clinici dimostrano che non ci sono differenze nella
risposta clinica tra i due).
Ci sono però due considerazioni da fare:
1) quando date IFN sottocute potete avere delle reazioni cutanee locali che
sono meno importanti nel peghilato poiché la somministrazione è solo una
volta ogni due settimane rispetto al REBIF che si dà a giorni alterni.

2) Seconda considerazione: discorso complesso per il fatto che ci sono diversi


prodotti peghilati in mercato (ex. Fattori 8 e 9 dati per emofilia) e l’EMA ha

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fatto un comunicato mettendo in guardia dal polietilenglicole in quanto
potrebbe accumularsi nei plessi corioidei che sono le zone del SNC dove
viene prodotto il liquor cefalorachidiano a quanto è stato visto negli animali
da esperimento. Ciò non succede con i composti peghilati che voi usate
normalmente nell’uomo. È stato dimostrato che non c’è questo accumulo,
non si formano vacuoli, non si forma tossicità. Non prendete in
considerazione questo problema se doveste leggerlo da qualche parte. C’è
però un altro problema che è legato al covid19 ed in particolare al vaccino
PFIZER che è un vaccino a mRNA in cui questo pezzo di RNA, peraltro
modificato le metil-pseudouridine con rivestimenti in 5’ e le code in 3’, che
codifica per la proteina spike è rivestito da nanoparticelle lipidiche all’interno
delle quali c’è la PEG per aumentare la stabilità. Col vaccino Pfizer ci sono
stati casi di reazioni immunoallergiche che si hanno con qualunque farmaco
e con qualunque vaccino d’altra parte. Però uno studio americano ha
collegato l’incidenza delle reazioni immuno-allergiche alla presenza della
PEG, dicendo che il polietilenglicole si trova anche nei cibi e per questo
motivo nel momento in cui voi fate un trattamento col vaccino Pfizer
l’individuo potrebbe già essere sensibilizzato nei confronti del polietilenglicole
e per questo sviluppare reazioni immunoallergiche.
Quale è stata l’immediata reazione di alcuni neurologi in Italia? Hanno
immediatamente sospeso il trattamento col PLEGRIDY, cioè con la forma
peghilata dell’interferone beta-1A, passando ad altre forme di interferone.
Ora, se volete un giudizio, questo è assurdo per il semplice motivo che, se un
pz sta prendendo il PLEGRIDY, il che significa che è esposto ogni due
settimane ad un composto peghilato, va da sé che non può essersi
sensibilizzato perché se così fosse avrebbe già sviluppato una reazione
allergica facendo le varie somministrazioni di interferone. Quindi il fatto che
sta facendo il PLEGRIDY, vuole dire che non c’è sensibilizzazione e che
tranquillamente un pz del genere può fare la vaccinazione Pfizer, senza
correre il rischio di incorrere in reazioni immuno-allergiche.
Quello che vi sto dicendo in poche parole è diventato un polverone senza
capo né coda come per tante informazioni che abbiamo in questo
periodo.

INTERFERONE BETA 1B
C’è un altro tipo di interferone, quello beta-1b, si chiama BETAFERON: in realtà è
un interferone svantaggioso, intanto è meno potente, si danno somministrazioni di
250 microgrammi, sempre sottocute e questo si fa a giorni alterni.
Tuttavia c’è qualcosa di strano: negli USA, la Food and Drug Administration ha
approvato il betaferon per il trattamento delle forme progressive di sclerosi multipla,
senza alcuna logica in realtà perché nessuno degli interferoni agisce nei confronti
delle forme progressive. Probabilmente questo tipo di approvazione è nata dal fatto
che non c’era alcun farmaco per studiare le forme progressive e in uno studio
clinico il betaferon ha mostrato qualche effetto numericamente significativo e
questo ha portato all’approvazione del farmaco.

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In realtà nelle forme progressive abbiamo oggi due farmaci: SIPONIMOD, farmaco
simile al fingolimod utilizzato nelle forme croniche progressive però con attività (il
che significa che c’è comunque qualche episodio infiammatorio) e poi ancora
l’OCRELIZUMAB, antiCD20, primo farmaco a mostrare efficacia nei confronti delle
forme primarie progressive. A parte questi due, il panorama farmacologico della
sclerosi multipla non ci fornisce degli elementi importanti.
E’ uscito anche il biosimilare del betaferon, si chiama EXTAVIA, ha le stesse
caratteristiche del betaferon.
Quindi facendo un attimo una sinopsi di tutto ciò che vi ho detto, gli interferoni
utilizzati nella sclerosi multipla sono IFNbeta1A, IFN beta1B.
IFNbeta 1A possiamo darlo per via I.M e questo si chiama AVONEX (30/60
microgrammi) oppure potete darlo per via sottocutanea, si chiama REBIF e avete
due dosaggi che potete utilizzare o 22 microgrammi o 44 microgrammi 3 volte a
settimana; e poi c’è il PLEGRIDY che invece è la forma peghilata dell’interferone
beta1a che si dà a 125 microgrammi una volta ogni due settimane ovviamente con
vantaggi di minor frequenza di somministrazione, minor reazioni locali a livello
cutaneo, però c’è il problema dell’esposizione al farmaco che è molto grande la
prima settimana ma poi va riducendosi nella seconda; quindi cosa è importante ?
avere una grossa esposizione nei giorni iniziali oppure avere una continua
esposizione in tutto il periodo delle due settimane? Ovviamente non c’è una
risposta a questa domanda, ancora una volta gli studi clinici dimostrano una
efficacia molto simile.
In realtà c’è qualche dato sul profilo genomico dei pazienti che suggerisce che la
formula peghilata dà qualche risposta migliore ma dal punto di vista della risposta
clinica del paziente c’è veramente equivalenza tra l’interferone BETA 1A dato
sottocute regolarmente (REBIF 44) e il PLEGRIDY dato 125 microgrammi ogni due
settimane.
Abbiamo detto del PEG-polietilenglicole che non rappresenta per nulla un
problema nei confronti del vaccino Pfizer, un paziente che sta facendo interferone
peghilato per la sclerosi multipla non può essere sensibilizzato perché non ha le
reazioni immunoallergiche quando si somministra sottocute il PLEGRIDY quindi a
maggior ragione quel piccolo quantitativo presente nelle nano particelle Pfizer non
può creare problemi.
E poi invece ci sono queste forme di interferone BETA1 B.
L’interferone BETA 1B è meno potente, si dà 3 volta a settimana, in questo caso un
giorno sì e un giorno no e sono 250 microgrammi per via sottocutanea e c’è il
biosimilare dell’interferone beta 1 b che si chiama EXTAVIA.
Ricordatevi ancora una volta: gli interferoni, farmaci forse più conosciuti dalla
classe medica perché utilizzati per più tempo nel trattamento della sclerosi
multipla, però sono farmaci che hanno dei limiti a parte ovviamente la
somministrazione che è sottocutanea o intramuscolare e il limite è dato soprattutto
da altre patologie autoimmuni le quali potrebbero anche essere presenti in
pazienti con sclerosi multipla se ci sono IBD se c’è celiachia, se c’è artrite
reumatoide, se c’è il LES, se c’è psoriasi soprattutto, molte di queste patologie

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sono TH1 dipendenti, ebbene in questo caso l’interferone beta così come
l’interferone alfa potrebbe rappresentare un deterrente e gli interferoni non devono
essere farmaci di scelta, quindi bisogna operare la scelta giusta.
Per esempio, se avete artrite reumatoide e avete anche sclerosi multipla (quindi
una sfiga da matti) io andrei sulla TERIFLUNOMIDE perché la LEFLUNOMIDE
utilizzata nella artrite reumatoide è la teriflunomide, che è il suo metabolita attivo
nella sclerosi multipla quindi va beh, usiamo quello e possiamo prendere due
piccioni con una fava, però teniamoci abbastanza lontani dagli interferoni per
quanto possibile.
Detto questo, qual è il meccanismo d’azione? Qua devo mettere un punto
interrogativo perché il meccanismo d’azione non si conosce, nel senso che
sappiamo tutto sul meccanismo molecolare d’azione degli interferoni ma il vero
motivo per cui l’interferone BETA agisce nei confronti della sclerosi multipla e
invece non è attivo nei confronti di altre patologie autoimmuni rimane un po’
misterioso in realtà.
L’interferone BETA 1A e 1B lega due ricettori di membrana che sono recettori degli
interferoni di classe 1 quindi comuni agli interferoni alfa, interferoni omega, tau e
così via, e questi recettori sono legati al sistema JAK/STAT che è un sistema che
abbiamo già incontrato a proposito dell’artrite reumatoide parlando dei cosiddetti
Jak-inib.
Cosa succede fondamentalmente? Si attiva la chinasi di GIANO che si chiama JAK
e questa fosforila i fattori di trascrizione in particolare STAT 1 e STAT 2, si forma a
questo punto un complesso ternario tra STAT 1-STAT 2 e IRF 9 e questo
complesso ternario nel nucleo modula l’espressione dei cosiddetti ISG che sono i
geni stimolati dall’interferone. Quanti sono questi geni? Tantissimi: sono circa 2000
geni.
Gli interferoni sono tra le molecole più antiche nell’evoluzione, sono molecole
datate milioni di anni perché una delle cose fondamentali nell’evoluzione di tutte le
specie animali è stato quello di difendersi dall’attacco di materiale genetico in forma
virale quindi come prima cosa si sono formati tutti i sistemi che producono
l’interferone che fanno parte dell’immunità innata come TLR e compagnia cantante
e così sono venuti fuori gli interferoni. Ovviamente per questo motivo l’interferone
modula l’espressione di tantissimi geni. Evidentemente questi geni devono fare
qualcosa nella sclerosi multipla ed effettivamente qualcosa lo fanno, molti di questi
geni sono geni antivirali ma se c’è stata una esposizione al virus della sclerosi
multipla questo è stato in tempi molto antichi. Sapete benissimo che il virus di
Epstein Barr è chiamato in causa nella sclerosi multipla e allora è come se ci fosse
una continua esposizione al virus per cui l’attività antivirale degli interferoni entra in
gioco e onestamente questo non lo so.
Gli interferoni però hanno a che fare direttamente con l’immunità, modulano
l’immunità in tanti modi e a volte non in modi positivi. Per esempio, possono
esercitare un’azione immunosoppressiva; per esempio, inducono un antigene che
si chiama CD69 e questo antigene CD69 ritiene i linfociti negli organi linfoidi
secondari quindi è un meccanismo d’azione importante; per esempio, gli interferoni
inibiscono l’attività delle MMP9 delle metalloproteasi di tipo 9 quindi possono in

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qualche misura fortificare la barriera ematoencefalica e renderla meno attaccabile
da parte delle citochine pro infiammatorie, insomma i meccanismi sono tanti, il
risultato però è quello di un discreto controllo della sclerosi multipla con una
riduzione delle ARR che è intorno al 35%.
Cosa interessante: tra gli ISG c’è anche ACE2, che come sapete ACE2, oltre ad
essere un enzima importante perché converte l’angiotensina 2 in angiotensina 1/7,
è anche il bersaglio di spike, la proteina di SARS COV 2. Questo ha sollevato un
altro tipo di problema: cioè è possibile che i pazienti trattati con interferone nella
sclerosi multipla, o pazienti trattati con interferone alfa nelle epatiti per esempio,
possano essere maggiormente esposti al virus perché hanno più ACE2, visto che
ACE2 è un ISG quindi il gene che lo codifica è indotto dall’interferone? La risposta
è no!
Ancora una volta tutti gli studi clinici che hanno valutato il rischio di infezione
COVID 19 in pazienti con sclerosi multipla, in realtà sono degli studi che hanno
mostrato come gli interferoni siano protettivi nei confronti del rischio, abbiano una
protezione sicuramente maggiore rispetto a quella di tutti gli altri farmaci della
sclerosi multipla. Quello che si avvicina un po’ di più è il glatiramer acetato ma
l’interferone, tutti gli interferoni da questo punto stravincono.
Sicuramente gli interferoni non aumentano il rischio della sclerosi multipla, anzi
possono essere da questo punto di vista protettivi.
Inoltre è uscito un lavoro che dimostra che in realtà il vero ISG non è il gene di
ACE2, ma è un gene che codifica per una forma tronca di ACE2 che è una
forma inattiva, quindi insomma questa storia che gli interferoni possono essere
pericolosi per questo, in realtà non regge e non ha nè capo nè coda e anzi,
parlando sempre di COVID-19, non ci sono problemi con la vaccinazione, nel
senso che tutti i dati che sono emersi sui vaccini antinfluenzali, vaccini anti-
pneumococco e così via dimostrano che il trattamento con interferoni in realtà
non crea problemi con i pazienti che si devono vaccinare. Quindi da questo
punto di vista siamo abbastanza coperti e le cose vanno molto bene.
Qual è il tallone d’Achille dell’interferone?
Innanzitutto la formazione di anticorpi ed essi possono essere leganti o
neutralizzanti. E’ importante cercare di capire quali sono gli interferoni che fanno
formare meno anticorpi e quali invece ne fanno formare di più.
1) E allora, al primo posto in termini di quantità di anticorpi formati, c’è
l’interferone beta 1 b, quindi parliamo di betaferon o extavia. Per il semplice
motivo che l’interferone beta1 b è strutturalmente diverso dall’ 1A, viene
somministrato sottocute e la somministrazione sottocute predispone alla
produzione di anticorpi. Con l’interferone beta1b si può arrivare anche
nell’arco di un paio di anni al 36% di produzione di anticorpi neutralizzanti.
2) Subito dopo abbiamo l’interferone beta1a dato sottocute, in cui si formano
tanti anticorpi leganti, si formano meno anticorpi neutralizzanti rispetto
all’interferone beta1b, quindi potete avere per esempio un 15% di formazione
di anticorpi neutralizzanti.
3) Abbiamo l’interferone beta1a IM che sarebbe l’AVONEX e in questi casi la

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quantità di anticorpi neutralizzanti che si formano è molto piccola, se non
ricordo male per i neutralizzanti siamo sul 5/6% quindi questo non ci deve
creare grossi problemi.
4) Poi all’ultimo posto abbiamo il peghilato interferone beta1a cioè il PLEGRIDY
perché la peghilazione protegge nei confronti della produzione degli
anticorpi. Questo si sa per molte cose, per esempio anche per il fattore 8, il
fattore 9 della coagulazione nel trattamento dell’emofilia. La peghilazione fa
formare sempre meno anticorpi perché è come se proteggesse la molecola
dal riconoscimento da parte del sistema immunitario oltre a prolungarne
l’emivita.
Detto questo, a proposito degli anticorpi, due domande: ci sono degli elementi
genetici predisponenti? Cioè ci sono dei soggetti che sviluppano anticorpi nei
confronti degli interferoni perché hanno un aplotipo particolare? La risposta è si,
cioè ci sono questi soggetti: sono quelli che hanno un aplotipo DR4 e DR16 degli
antigeni maggiori di istocompatibilità. Questi sono più predisposti e DR4 se non
ricordo male dovrebbe essere HLA DRB1 *0401 mentre DR16 è HLA DRB1 *1601,
mentre invece ci sono degli aplotipi protettivi che sono per esempio HLA
DRB1*0404. Ovviamente stiamo parlando di antigeni maggiori di istocompatibilità
di classe 2.
Quindi, genotipizzando un individuo uno potrebbe capire fin dall’inizio se ci sono
soggetti maggiormente inclini a sviluppare anticorpi anti-interferone e se ci sono
soggetti invece che sono più protetti a sviluppare questo tipo di anticorpi.
Qualcuno di voi potrebbe essere interessato alla rivelazione degli anticorpi, cioè
come si fa a capire se uno sviluppa anticorpi neutralizzanti? Perché gli anticorpi voi
li potete facilmente vedere con l’ELISA ma questo non vi dice che sono anticorpi
neutralizzanti, allora voi avete due possibilità per poter farlo, per poter stabilire se
c’è una risposta all’interferone oppure no:
1) la prima possibilità è prendere il siero dei pazienti e vedere se il siero dei
pazienti impedisce l’azione dell’interferone per esempio in colture cellulari,
cioè voi applicate l’interferone, vedete delle risposte, mettete il siero e
chiaramente se il siero impedisce le risposte questo significa che voi avete
l’anticorpo neutralizzante.
2) L’altra possibilità è quella di somministrare l’interferone ai pazienti e misurare
per esempio la Neopterina o dei marcatori plasmatici che in genere
rispondono all’interferone. Se non c’è questa risposta plasmatica significa
che avete gli anticorpi neutralizzanti e il paziente non sta più rispondendo
all’interferone come dovrebbe rispondere e allora se le cose stanno così voi
potete fare uno switch all’interno della prima linea oppure potete fare, e
questo forse conviene di più, uno switch tra prima e seconda linea, quindi
salire di livello e utilizzare dei farmaci più efficaci per la sclerosi multipla che
però hanno ovviamente un profilo di sicurezza e tollerabilità meno buono
rispetto al profilo che normalmente vi aspettate.
L’altro problema legato agli interferoni sono gli effetti avversi. Effetti avversi di che
tipo?

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• Innanzitutto potete avere delle reazioni al sito di iniezione ed è qui come
vi dicevo che il PLEGRIDY cioè l’interferone peghilato mostra la sua
superiorità perché fate una singola somministrazione ogni due settimane
invece che farne sei ogni due settimane quindi ovviamente c’è una
grande differenza anche se poi magari somministrerete l’interferone
sottocute cambiando sempre sede di iniezione e quindi il vantaggio del
PLEGRIDY da questo punto di vista è fuori discussione.
• Poi l’interferone può dare epatotossicità.
• Può dare anche mielotossicità ma sono eventi tutto sommato abbastanza
rari.
• C’è il problema della depressione, cioè riduzione del tono dell’umore a
carico del sistema nervoso centrale ed esiste questa categoria di
depressione da interferone che, se ricordate quando abbiamo fatto gli
SSRI, abbiamo preso in esame: una delle indicazioni degli inibitori
selettivi della ricaptazione della serotonina è la depressione da
interferone; tuttavia è bene sottolineare che la depressione da interferone
si ha maggiormente con interferone ALFA, cioè con l’interferone che
viene utilizzato nel trattamento delle epatiti, ed è più rara nel caso
dell’interferone BETA.
Questo è tutto per i farmaci di prima linea nel trattamento della sclerosi multipla che
ancora una volta sono due farmaci orali TERIFLUNOMIDE e DIMETILFUMARATO
e due farmaci che si danno per via parenterale, cioè per via sottocutanea o
intramuscolare che sono il GLATIRAMER ACETATO e i FOGA da una parte e i
vari tipi di interferone BETA 1A e BETA 1B dall’altra parte.
Detto questo passiamo senza indugio ai farmaci di seconda linea.
Farmaci di II linea
Qui tratteremo i seguenti farmaci: innanzitutto gli ANALOGHI DELLA
SFINGOSINA che non sono soltanto il FINGOLIMOD, ma sono più farmaci
adesso e adesso cercheremo di prenderli in esame un pochino con le loro
caratteristiche; poi prenderemo in esame la CLADRIBINA.
Sia gli analoghi della sfingosina sia la cladribina sono farmaci che si danno per via
orale.
Poi il farmaco considerato il più efficace tra le seconde linee della sclerosi multipla
nel percepito popolare che è il NATALIZUMAB, il famoso TYSABRI che può
arrivare ad una efficacia del 65%-70%; poi prenderemo in esame l’
ALEMTUZUMAB che è un anti CD52 che però è probabilmente il farmaco che ha il
profilo di tollerabilità peggiore, anche se il profilo di sicurezza peggiore ce l’ha il
NATALIZUMAB perché c’è rischio di PML, cioè di leucoencefalopatia multifocale
progressiva in soggetti che potrebbero presentare determinate caratteristiche.
Poi c’è il grande gruppo degli anti CD20 che comprende tre farmaci, l’unico
farmaco attualmente approvato per la sclerosi multipla è l’OCRELIZUMAB e poi c’è
il farmaco che forse si usa ancora di più dell’OCRELIZUMAB, che è il RITUXIMAB,
che tutti voi conoscete, e poi c’è un farmaco in sviluppo che ha avuto già

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l’approvazione degli Stati Uniti ma che è in fase di approvazione in Europa che è
l’OFATUMUMAB, che probabilmente sarà disponibile in Italia non prima del 2022;
quindi abbiamo 3 anti CD20 che sono farmaci tra l’altro di grandissimo interesse
ma sono i farmaci che creano più problemi in corso di pandemia COVID perché
sono i tre farmaci, soprattutto l’OCRELIZUMAB e il RITUXUMAB, perché l’altro
ancora non c’è, che aumentano maggiormente il rischio di ammalare di COVID tra
tutti i farmaci della sclerosi multipla e sono quelli che anche possono avere un
maggiore impatto nei confronti della vaccinazione.
Allora cominciamo con ordine e con gli analoghi della sfingosina.

ANALOGHI DELLA SFINGOSINA


Che cosa è la sfingosina? È un poli-alcol che all’interno della cellula deriva dal
ceramide. Come sapete il ceramide è un costituente dei glicolipidi complessi e
il ceramide in realtà è un N-acil-sfingosina. Tra l’altro il ceramide è una
sostanza conosciuta molto bene dai patologi generali perché è una sostanza
che induce
apoptosi e che naturalmente viene prodotta da alcuni glicolipidi, per esempio dagli
sfingolipidi. La sfingomielinasi acida, la sfingomielinasi neutra producono ceramide.
Cosa fa la sfingosina nella cellula? La sfingosina fa tutte una serie di cose, il nome
stesso ci dice quanto sia complicata ed enigmatica perché la parola Σφίγξ in greco
significa enigma, quindi è veramente tutta una serie di azioni molto strane.
Allora la sfingosina viene intanto fosforilata all’interno della cellula da alcune chinasi
che sono le chinasi della sfingosina in particolare di tipo 1 e di tipo 2 e si forma il
prodotto che poi è la molecola fondamentale e importante che prende il nome di
S1P vale a dire sfingosina-1-fosfato. Questa sfingosina-1-fosfato si può formare nel
citoplasma ma può formarsi anche nel nucleo, quindi esiste anche la possibilità di
una fosforilazione della sfingosina a livello nucleare. Vedremo poi perché questo
può essere importante per il meccanismo di azione degli analoghi della sfingosina.
La sfingosina-1-fosfato fuoriesce dalla cellula, il meccanismo si chiama inside-out,
significa letteralmente da dentro a fuori, e una volta che è fuori interagisce con
cinque categorie di recettori che si chiamano recettori per la sfingosina-1-fosfato
(ovviamente senza essere molto originali).
Allora l’interazione della sfingosina-1-fosfato con i recettori della sfingosina-1-
fosfato avviene sulla stessa membrana cellulare perché il sito di legame è in realtà
compreso tra i sette domini transmembranari del recettore, quindi la sfingosina-1-
fosfato interagisce lì.
Quali sono questi recettori per la sfingosina 1 fosfato? Sono recettori per la
sfingosina di tipo 1, che si chiamano S1P1R, fino al recettore di tipo 5, cioè S1P5R.
Sono recettori largamente diffusi nell’organismo che hanno però delle
caratteristiche molto particolari.
Il recettore di tipo 1 è innanzitutto un recettore che si trova nei linfociti e il suo ruolo
è fondamentale per la fuoriuscita dei linfociti dagli organi linfoidi secondari, in
particolare dai linfonodi. In maniera ancora più particolare questo recettore è
espresso principalmente dalle cellule T centrali della memoria e dai linfociti T naive.

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Questi linfociti hanno anche un recettore che si chiama CCR7 che è un recettore
delle chemochine ed è un recettore ritentivo. Normalmente affinché i linfociti T
centrali della memoria ed i linfociti T naive possano fuoriuscire dai linfonodi è
necessario che i recettori S1P1R vengano attivati dalla Sfingosina 1 fosfato. E in
realtà all’interno del linfonodo la sfingosina 1 fosfato è presente in quantità molto
piccole e viene prodotta localmente e poi deriva anche dal sangue.
La maggiore sorgente di sfingosina 1 fosfato in realtà sono gli eritrociti, nel sangue
la sfingosina 1 fosfato è veicolata alle HDL, si trova complessata con la
apolipoproteina M e può formarsi localmente o raggiungere in piccolissime quantità
gli organi linfoidi secondari in modo tale da attivare il recettore della sfingosina 1
fosfato, il recettore vince nei confronti del recettore CCR7 che invece è il recettore
ritentivo e a questo punto le cellule T centrali della memoria immunologica
fuoriescono dagli organi linfoidi secondari e nel caso della sclerosi multipla queste
cellule raggiungono il sistema nervoso centrale e sono cellule che poi alla fine sono
responsabili della autoimmunità cioè attaccano le strutture della mielina.
Quello che accade, e che è molto strano, è che i recettori S1P1R e anche i recettori
CCR7 sono entrambi accoppiati a proteina G inibitoria.
La Proteina G inibitoria ha un accoppiamento comune a quasi tutti i recettori per la
sfingosina 1 fosfato, quindi è veramente curioso che due recettori accoppiati alla
stessa proteina G, il recettore per la sfingosina 1 fosfato di tipo 1 e il recettore
CCR7, in realtà abbiano funzioni opposte.
Il recettore di tipo 1 è un recettore che spinge i linfociti T centrali della memoria a
fuoriuscire dal linfonodo, mentre il recettore CCR7 risponde alle chemochine ed è il
recettore che trattiene le cellule T centrali della memoria negli organi linfoidi
secondari, però la biologia è questa: cioè fanno cose opposte nonostante siano
accoppiati alla stessa proteina G, vai a capire perché, ma le dinamiche recettoriali
sono estremamente complesse a volte.
Cosa interessante, che probabilmente sapete già, è che le cellule T effettrici della
memoria immunologica non hanno i recettori CCR7. Queste cellule possono uscire
dagli organi linfoidi secondari anche senza l’intervento della sfingosina 1 fosfato.
Questa caratteristica, vedremo tra poco, è all’origine del meccanismo d’azione degli
analoghi della sfingosina e quindi è una cosa che dovremo tenere in
considerazione come principale meccanismo d’azione di FINGOLIMOD,
SIPONIMOD, FONESIMOD, ONEZIMOD che sono i farmaci che oggi vengono
utilizzati nel trattamento della sclerosi multipla.
Il recettore di tipo 1 si trova anche nel SNC; è un recettore molto diffuso all’interno
dell’organismo ed è un recettore presente nei neuroni, negli astrociti, negli
oligodendrociti e nella microglia. Questo è fondamentale perché tutti gli analoghi
della sfingosina possono penetrare all’interno del SNC e possono trovare i recettori
per la sfingosina nelle principali cellule del SNC quindi esercitare una funzione lì.
Oltre a questo, il recettore di tipo 1 si trova nel cuore e si trova nei vasi, e in
particolare c’è l’effetto a livello cardiaco – un recettore accoppiato a G inibitoria,
quindi in modo simile al recettore M2 muscarinico: questo significa, in soldoni, che
quando il recettore di tipo 1 si attiva nel cuore esercita azione dromotropa e
cronotropa negativa, esattamente come fa il recettore M2 muscarinico. Vedremo

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che questo è un problema perché gli analoghi della sfingosina attivano tutti il
recettore per la sfingosina 1 fosfato di tipo 1 e quando questo accade quello che
succede è che si ha una bradicardia che in determinate circostanze potrebbe
essere molto critica. Ed è necessario per la prima somministrazione di questi
farmaci fare l’ECG, vedere se il QT è allungato o se ci sono problemi di blocco atrio
ventricolare perchè in quel caso se questi problemi dovessero essere persistenti
non si può andare avanti con il trattamento.
I recettori di tipo 1 si trovano anche nell’endotelio vascolare, questo vale per
tantissime sedi: vale per la barriera ematoencefalica, ma anche vale per la barriera
endoteliale a livello polmonare.
Quello che i recettori di tipo 1 fanno rispondendo alla sfingosina 1 fosfato è
rinforzare la barriera endoteliale: questo meccanismo d’azione è particolarmente
importante per gli analoghi della sfingosina, perché, facendo così, possono
impedire alle cellule del sistema immunitario di entrare nel SNC ma nello stesso
tempo, come vedremo, possono essere protettivi nella fase di iper-infiammazione
polmonare da COVID 19.
Anche in questo caso, come nel caso degli interferoni, ci sono degli studi clinici in
pazienti affetti da COVID 19, soprattutto fatti in Cina, perché ovviamente la Cina è
stata la prima a muoversi in questo senso, e sembra anche sulla base di tutta una
serie di informazioni che ci vengono da altre infezioni virali che colpiscono il
polmone, come per esempio forme gravi influenzali, che gli analoghi della
sfingosina 1 fosfato o gli analoghi della sfingosina, scusatemi, in generale, possano
essere farmaci di utilità per cercare di frenare l’iper infiammazione polmonare che è
caratteristica del COVID 19.
Poi questi recettori si trovano nella milza, nel rene, insomma hanno un po’ una
espressione ubiquitaria all’interno dell’organismo.
Il recettore della sfingosina 1 fosfato di tipo 2 è un recettore che si trova
prevalentemente nel sistema nervoso centrale ed è un recettore che controlla
anche lo sviluppo dell’apparato uditivo e dell’apparato vestibolare. Quindi, per
esempio, se voi avete un difetto di questo recettore, avete una vestibulopatia e un
deficit dell’udito che derivano da problemi dello sviluppo. Questo recettore a noi non
interessa per niente per il semplice motivo che tutti gli analoghi della sfingosina
non interagiscono con i recettori di tipo 2, FINGOLIMOD per primo ma neanche
tutti gli altri che noi prenderemo in considerazione.
Poi abbiamo i recettori di tipo 3: questi recettori di tipo 3 si trovano nel sistema
nervoso centrale; sono recettori, anche in questo caso, diffusi negli astrociti, nella
microglia, parzialmente negli oligodendrociti e si trovano anche nei neuroni. Questi
recettori di tipo 3 si trovano nell’endotelio vascolare, ma hanno curiosamente una
azione opposta, cioè permeabilizzano la barriera. C’è anche una cosa caratteristica
di questi recettori di tipo 3, che se vengono attivati inducono COX2, cioè inducono
la ciclo-ossigenasi di tipo 2 e questo potrebbe essere critico: perché se voi attivate i
recettori di tipo 3, potreste indurre infiammazione attraverso la produzione della
ciclo ossigenasi di tipo 2 e la sintesi di prostaglandine.

Poi avete i recettori di tipo 4: questi recettori non si trovano nel sistema nervoso
centrale e sono gli unici assenti dal sistema nervoso centrale; si trovano nelle

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cellule del sistema immunitario, in particolare nei linfociti TH17 regolando la
maturazione dei linfociti TH17, quindi hanno un ruolo più importante nella
regolazione del sistema immune ma non esercitano alcuna azione all’interno del
sistema nervoso centrale.
Infine ci sono i recettori S1P5R, cioè i recettori di tipo 5, i quali sono localizzati nel
sistema nervoso centrale e in modo particolare questi recettori si trovano negli
oligodendrociti sia nei precursori degli oligodendrociti che negli oligodendrociti finali
come, per esempio, gli oligodendrociti umani. Questi recettori sono coinvolti nei
meccanismi di ri-mielinizzazione, quindi attivare questi recettori potrebbe essere
utile per cercare di riparare le lesioni demielinizzanti, che per esempio sono
associate alla sclerosi multipla. Questi recettori li trovate anche nell’endotelio e
sono recettori che contribuiscono all’effetto di alcuni farmaci sulla barriera
endoteliale.
Bene, detto questo, quali sono i farmaci che vengono utilizzati nel trattamento della
sclerosi multipla?
- FINGOLIMOD
Prototipo è il FINGOLIMOD, che si chiama Gilenya.
E’ Il primo farmaco in assoluto tra tutti gli analoghi della sfingosina che viene
utilizzato per il trattamento di qualunque patologia.
In realtà l’uso del FINGOLIMOD è nato nell’immunosoppressione, nei pazienti che
avevano ricevuto un trapianto d’organo, poi però si è visto che insomma venivano
richiesti dei dosaggi molto alti e che il profilo di sicurezza e di tollerabilità non era
conforme con questo tipo di intervento e si è passati poi allo sviluppo del farmaco
nella sclerosi multipla.
Farmaco orale, così come sono orali tutti gli analoghi della sfingosina che oggi
vengono usati nel trattamento della sclerosi multipla, ed è il farmaco che ha
indicazione nel trattamento della RRSM cioè nella sclerosi multipla recidivante
remittente, cioè nella sclerosi multipla più frequente ed è anche il farmaco migliore
nella sclerosi multipla dei bambini, quindi un farmaco che ha una azione molto
marcata nella sclerosi multipla in età pediatrica.
Il FINGOLIMOD è un pro-farmaco, viene bioattivato dalla sfingosina chinasi e
trasformato in fingolimod-fosfato.
Adesso vedremo quali sono tutti i meccanismi d’azione del fingolimod.
In realtà ci sono anche alcuni effetti che dipendono dalla molecola non
fosforilata, però la maggior parte dei meccanismi del fingolimod dipendono dalla
trasformazione in fingolimod fosfato.
La differenza sostanziale tra fingolimod e sfingosina è che il fingolimod è più
liposolubile quindi, mentre per esempio la sfingosina 1 fosfato può dal sangue
penetrare in piccole quantità all’interno degli organi linfoidi secondari, il
fingolimod grazie alla sua liposolubilità può andarsene dappertutto e a quel
punto essere convertito a fingolimod-fosfato localmente e ha anche una
maggiore facilità, per esempio, ad attraversare la barriera ematoencefalica
rispetto alla sfingosina 1 fosfato.

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È un farmaco che viene utilizzato a 0.5 mg/die. Quindi bisogna fare il trattamento
tutti i giorni, nonostante l’emivita sia lunghissima: è superiore alle 100 ore, può
arrivare addirittura alle 400, 500 ore. Quindi è strano che, nonostante un’emivita
così lunga, si faccia un trattamento giornaliero con FINGOLIMOD.
La cosa, da questo punto di vista, da sottolineare è che la lunga emivita può essere
un vantaggio, perché permette una maggiore stabilità plasmatica del farmaco, ma
nello stesso tempo però, visto che il Fingolimod può produrre linfopenia, che è un
po’ intrinseca al suo principale meccanismo d’azione che tra poco prenderemo in
esame, questa lunga emivita prolunga i tempi di ricostituzione dell’SI. Nel momento
in cui voi sospendete la terapia ovviamente i linfociti ritornano a salire però ci
possono mettere un po’ di tempo: che non è il tempo che ci mettono quando voi
utilizzate un anti-CD20, per esempio nel caso dei linfociti B, ma ci vogliono
sicuramente delle settimane perché il sistema immunitario si possa ricostituire.
- SIPONIMOD
Il secondo farmaco è il SIPONIMOD, che è stato il primo a mostrare attività nei
confronti della SMSP (sclerosi multipla secondaria progressiva). E questo è stato
veramente un breakthrough, una novità molto positiva nel trattamento della SM.
Il Siponimod viene indicato negli USA per la RRSM e la SPSM con attività: il che
significa che avete la forma progressiva, in cui c’è quell’infiammazione con le
lesioni smoldering, con quell’incendio che viene fuori nella cenere, con BEE
integra, ma se viene specificato con attività significa che, nonostante la forma
progressiva, ci possono essere di tanto in tanto degli episodi infiammatori. E questa
stessa indicazione la dà l’EMA (l’agenzia europea dei medicinali). La situazione è
diversa invece in Australia e Giappone perché in questi paesi l’indicazione è la
forma secondaria progressiva indipendentemente dal fatto che ci sia o non ci sia
attività.
Quindi il placing therapy, cioè la collocazione terapeutica del Siponimod, è questa:
- SM a ricadute e remissioni (come il Fingolimod);
- SM secondaria progressiva con dell’attività infiammatoria in Europa e USA; -
SM secondaria progressiva indipendentemente da possibili attività
infiammatorie in Australia e Giappone.
Il Siponimod si dà 2 mg/die, non è un profarmaco; se non ricordo male l’emivita è
all’incirca >25 ore, il che significa che la ricostituzione delle cellule del sistema
immunitario nel momento in cui viene sospesa la terapia è molto più veloce
rispetto al fingolimod, e questo è sicuramente un vantaggio.
La cosa fondamentale del Siponimod è che è metabolizzato dal CYP2C9: se voi
ricordate, il CYP2C9 può avere la variante wildtype, che è tipica dei metabolizzatori
rapidi, ma ci sono anche i metabolizzatori lenti CYP2C9*2 e *3; bisogna
genotipizzare il soggetto prima di utilizzare il trattamento con Siponimod perché nel
caso in cui ci fossero delle varianti lente bisogna utilizzare 1 mg/die e non 2 mg.
Ovviamente considerate che il CYP2C9 può essere indotto da Fenobarbital e
Rifampicina e può essere inibito da antifungini, da Valproato e da Fluoxetina.
Quindi se avete farmaci che interferiscono col metabolismo del CYP2C9, bisogna

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tenerlo in grande considerazione quando si fa trattamento con siponimod.
Che differenza c’è sotto il profilo farmacodinamico tra FINGOLIMOD e
SIPONIMOD?
Vi preannuncio che il Fingolimod innanzitutto agisce come Fingolimod-fosfato, che
è in grado di attivare i recettori S1P1R, 3R, 4R, 5R.
Soltanto i recettori di tipo 2 non vengono attivati dal Fingolimod-fosfato.
Mentre invece il Siponimod non è un profarmaco; non viene fosforilato per la sua
attivazione; attiva esclusivamente S1P1R e S1P5R: quindi soltanto due recettori,
nei cui confronti mostra una grandissima affinità; il suo punto di forza è l’attivazione
del S1P5R.
Questo già ci crea un punto di domanda: per quale motivo il Fingolimod, che attiva
più recettori, ha esclusivamente l’indicazione per la forma a ricaduta e remissioni e
per la SM in età pediatrica, mentre il Siponimod, che ne attiva solo due, ha
l’indicazione non solo per la forma a ricadute e remissioni, ma anche per la forma
secondaria progressiva (con attività in Europa e USA, e anche senza attività
infiammatoria in Australia e Giappone)?
1) Non mi so rispondere a questa domanda, probabilmente questo deriva dal
fatto che lo studio clinico, che ha portato all’approvazione del Siponimod per
le forme progressive, è stato disegnato in maniera diversa nei confronti dello
studio clinico fatto col Fingolimod, che non ha avuto successo quando il
fingolimod è stato utilizzato clinicamente nello studio di Fase 3 per vedere se
fosse efficace nelle forme progressive, quindi questa è una possibilità.
2) La seconda possibilità è che in qualche misura l’attività del Fingolimod verso i
recettori 3R e 4R diventa un deterrente per il suo effetto nelle forme
progressive. Non c’è un razionale in questo, ma non si può escludere.
3) La terza possibilità è che il Siponimod possa attraversare la BEE meglio del
Fingolimod o meglio del Fingolimod-Fosfato. Il motivo per cui il Siponimod
non dev’essere bioattivato è che c’è già un gruppo acido nella sua struttura e
quindi è come se fosse già fosforilato di per sé. Ma noi sappiamo che questo
non è vero, perché il Fingolimod attraversa la BEE addirittura meglio del
Siponimod, sia in condizioni normali che in condizioni di infiammazione di
barriera.
Quindi se voi mi chiedete come mai il Siponimod ha l’indicazione per la forma
progressiva e il Fingolimod non ce l’ha, io vi posso dire che lo studio EXPAND del
Siponimod, che ha mostrato questo, è uno studio molto convincente, ma che non
esiste una spiegazione logica per cui i due farmaci, che teoricamente sono molto
simili (fanno in pratica la stessa cosa), possano poi avere un’indicazione diversa,
nel senso che il Siponimod è anche indicato nella forma progressiva.
Nel momento in cui esploriamo il profilo recettoriale di queste due sostanze,
dobbiamo segnalare una cosa sul recettore di tipo 1: perché nei confronti del
recettore di tipo 1 tutti gli analoghi della sfingosina (Fingolimod, Siponimod,
Ponasimod, Ozanimod) sono superagonisti.
Che cosa significa che tutti gli analoghi sono superagonisti? Significa che attivano

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in modo abnorme il recettore S1P1R e così facendo determinano
desensibilizzazione del recettore e internalizzazione.
E come vedremo, il principale meccanismo d’azione di queste sostanze, che è
quello di non far uscire i linfociti dai linfonodi, si riferisce esattamente a questo: la
capacità che hanno Fingolimod, Siponimod, Ponasimod e Ozanimod di bloccare i
linfociti all’interno dei linfonodi.
- OZANIMOD
Cos’è l’ozanimod? È un farmaco di cui ho appreso l’esistenza un paio di giorni fa,
non sapevo neanche che fosse stato approvato.
Ha le stesse caratteristiche del Siponimod, però in realtà, almeno in Europa, è stato
approvato esclusivamente per la forma RRSM (SM con Ricadute e Remissioni).
L’Ozanimod non è un profarmaco; ha un’emivita breve: quindi la ricostituzione del
SI dopo la linfopenia iniziale avviene con una certa velocità.
Produce però tutta una serie di metaboliti: in particolare viene metabolizzato in 4
composti e 2 di questi composti hanno un’emivita estremamente lunga.
Quindi è vero che l’attività di Ozanimod è soprattutto a carico del composto
parentale, che è quello che maggiormente lega i recettori per la sfingosina-1-
fosfato, però è altrettanto vero che si formano piccole quantità di metaboliti attivi i
quali poi hanno un’emivita più lunga.
Questo composto Ozanimod è un AGONISTA dei recettori S1P1R e S1P5R, quindi
praticamente fa la stessa cosa del Siponimod agendo sia su recettori di tipo 1 sia di
tipo 5.

- PONASIMOD
L’ultimo: il PONASIMOD, che è il composto della Jansen, approvato due-tre giorni
fa dall’EMA per il trattamento della RRSM.
E’ un composto completamente diverso dagli altri: non è un profarmaco, quindi c’è
una differenza fra Fingolimod e questi ultimi tre; però è specifico e altamente
selettivo per S1P1R, una differenza importante rispetto agli altri.
Facendo una sintesi di tutti questi:
- Il FINGOLIMOD agisce su quattro recettori dei cinque.
- Il PONASIMOD agisce su uno solo dei recettori.
- OZANIMOD e SIPONIMOD agiscono sia su S1P1R sia su S1P5R.
Detto questo, e sottolineando quanto sia complicato tutto questo, andiamo al
meccanismo d’azione, e seguiamo un po’ il meccanismo d’azione del Fingolimod
che è il farmaco del quale conosciamo probabilmente di più.
Meccanismo d’azione del FINGOLIMOD
1) Meccanismo d’azione primo: il Fingolimod impedisce la fuoriuscita dei
linfociti T centrali della memoria da parte degli organi linfoidi secondari. E

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lo fa dopo biotrasformazione in F-fosfato (Fingolimod-Fosfato).
Fondamentalmente il Fingolimod entra nel linfonodo, viene trasformato in
Fingolimod-Fosfato e attiva il recettore S1P1R in modo molto marcato. Questo tipo
di attivazione determina desensibilizzazione e internalizzazione del recettore.
Una volta che il recettore desensibilizzato è internalizzato, il linfocita T centrale
della memoria non può fuoriuscire dal linfonodo, quindi rimane nel linfonodo,
perché viene ritenuto dal recettore CCR7.
Quindi esiste sempre questa bilancia tra il recettore CCR7 per le chemochine
ritentivo e il recettore S1P1R , che è quello che fa uscire le cellule T centrali della
memoria, e nel momento in cui il Fingolimod fosfato si lega al S1P1R, esso viene
desensibilizzato e internalizzato, e a questo punto il recettore CCR7 prevale e i
linfociti T centrali della memoria non possono più uscire dagli organi linfoidi
secondari.
Questo avviene soprattutto nei linfonodi cervicali, da cui i linfociti T centrali della
memoria fuoriescono per raggiungere il SNC e attaccarlo il che vuol dire che i
linfociti T centrali della Memoria, che sono poi quelli responsabili dell’attacco alla
mielina sia CD8+, soprattutto nelle zone periferiche della placca di
demielinizzazione, che i CD4+,che invece si trovano centralmente, questi invece
rimangono negli organi linfoidi secondari ed esauriscono lì il loro ciclo vitale.
Contemporaneamente però le cellule T effettrici periferiche della memoria, le quali
non hanno il CCR7, non vengono ritenute, anche se il S1P1R è stato internalizzato.
Quindi queste cellule possono fuoriuscire, possono raggiungere le sedi di
immunosorveglianza (per esempio la mucosa intestinale) e questo limita le infezioni
virali, che per carità con Gilenya possono pure esserci, soprattutto le infezioni
erpetiche, ed è fondamentale che, prima di iniziare un trattamento con fingolimod, il
soggetto abbia o una storia di varicella alle spalle oppure faccia la vaccinazione per
varicella, perché altrimenti si rischia l’encefalite da herpes zoster. Però le infezioni
virali non sono quelle che uno si aspetterebbe, se l’immunosoppressione da
fingolimod fosse generale, per il semplice motivo che le cellule T effettrici
periferiche della memoria sono in grado di uscire dal linfonodo e raggiungere le
sedi di immunosorveglianza periferiche.
C’è un aforisma da questo punto di vista, che noi abbiamo visto in
farmacodinamica, ovvero che il fingolimod lascia le armate in caserma (quelle che
poi attaccano la mielina, le cellule T centrali della memoria) e lascia le sentinelle
fuori (le cellule T effettrici periferiche della memoria).
Questo è il primo meccanismo fondamentale del Fingolimod.
2) Al precedente si affianca un secondo meccanismo, che dipende dal fatto che i
S1P1R inibiscono il differenziamento delle Treg, quindi inibiscono i meccanismi
di immunotolleranza. Quello che il fingolimod fa è desensibilizzare i recettori di
tipo 1 e così facendo aumenta in modo relativo la produzione di cellule Treg, che
sono le cellule appunto responsabili di immunotolleranza. Non è che il numero
delle Treg aumenti, perché il fingolimod induce linfopenia, che nella maggior
parte dei soggetti non è una linfopenia molto marcata, e i linfociti poi

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recuperano quando la terapia dovesse essere eventualmente sospesa.
Tuttavia, nella riduzione dei linfociti le Treg si riducono di meno, proprio perché il
recettore per la fingosina1Fosfato inibisce la produzione di Treg e il fingolimod
interagendo con questo recettore è in grado di far produrre le Treg. Quindi questo
diventa particolarmente importante come meccanismo d’azione.
3) il fingolimod agisce a livello del SNC. A questo punto la sua azione è
controversa, perché non si sa se agisce sugli astrociti, sui neuroni, sugli
oligodendrociti o su tutti e quattro. Però c’è una cosa che bisogna sottolineare:
fingolimod è un farmaco molto efficace perché la riduzione di ARR (tasso
annuale di ricadute) supera il 55%, in alcuni studi raggiunge anche il 60%, ma
d’altra parte tutti i farmaci di 2° linea hanno più o meno quest’efficacia. Alcuni
farmaci di 2° linea hanno addirittura un’efficacia maggiore.
Ma indipendentemente da questo, se volete trovare un punto di forza a carico del
fingolimod, esso è tra i farmaci che hanno un effetto più marcato nei confronti
dell’atrofia. Questo suggerisce che esiste un meccanismo neuroprotettivo, quindi
bisogna cercare di capire: la neuroprotezione è mediata da un’azione primaria sugli
astrociti, o sui neuroni, oppure dipende dal fatto che esiste una rimielinizzazione
perché per esempio il fingolimod agisce sugli oligodendrociti? O ancora, perché
viene esercitata un’azione antiinfiammatoria a carico della microglia? Allora, la
prima cosa che è stata suggerita, è che l’azione del fingolimod dipendesse dagli
astrociti. Questo perché nella SM c’è gliosi reattiva, c’è proliferazione degli astrociti
e c’è un iperespressione negli astrociti dei S1P1R.
Sembra che i S1P1R svolgano un ruolo importante nella regolazione dell’astrocitosi
e probabilmente il Fingolimod desensibilizzando questi recettori potrebbe essere in
grado di ridurre l’astrocitosi.
Il ruolo degli astrociti nel meccanismo d’azione del Fingolimod è stato dimostrato
con il modello dell’EAE, in cui hanno fatto l’EAE da topi knock out cellulo-specifici in
cui il recettore tipo 1 era deleto esclusivamente negli astrociti. E in questi topi privi
di S1P1R il fingolimod non era in grado di migliorare l’EAE, non aveva questo tipo
di effetto, a testimonianza del fatto che probabilmente l’azione di Fingolimod sugli
astrociti diventa fondamentale per il suo meccanismo d’azione nella SM.
Nonostante però in questi animali il fingolimod fosse in grado di ridurre il numero di
linfociti circolanti. Quindi il meccanismo primario d’azione a livello periferico c’era,
nonostante questo però il fingolimod non era più in grado di proteggere gli animali
nei confronti dell’encefalite autoimmune sperimentale quando questi animali non
avevano l’S1P1R negli astrociti.
Mentre invece continuava ad essere efficace se il recettore mancava nei neuroni,
quindi probabilmente gli astrociti sono importanti per il meccanismo d’azione del
fingolimod. In che misura? Forse il fingolimod non li fa proliferare, quindi non c’è la
gliosi reattiva; si sa da studi su astrociti umani che il fingolimod induce un fenotipo
antiinfiammatorio negli astrociti, quindi è veramente una cellula bersaglio
importante nel SNC.
Allo stesso tempo il fingolimod agisce anche nei neuroni e questo è stato
dimostrato a più riprese con l’evidenza che il fingolimod protegge i neuroni in

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coltura nei confronti dell’eccitotossicità.
Come sapete l’eccitotossicità – l’abbiamo detto parlando anche del dimetilfumarato
– è la morte delle cellule nervose che dipende dall’azione del glutammato, il
principale NT eccitatorio del SNC. Quando voi studiate l’eccitotossicità nelle colture
neuronali, voi applicate ai neuroni NMDA o un qualunque agonista ai recettori
NMDA e ad un certo punto i neuroni muoiono principalmente per necrosi (la cellula
esplode e rilascia il contenuto all’esterno). Ebbene, se voi fate un trattamento delle
cellule con fingolimod, avete protezione nei confronti dell’eccitotossicità. Questa
protezione è inibita da antagonisti del S1P1R quindi questo significa che il
fingolimod è in grado di esercitare un’azione protettiva nei neuroni agendo sui
recettori tipo 1 localizzati nei neuroni.
Quindi questo diventa abbastanza interessante: non soltanto gli astrociti sono
coinvolti nell’azione del fingolimod nel SNC ma sono coinvolti anche i neuroni. I
neuroni esprimono il recettore di tipo 1 e l’attivazione di questo e poi la
desensibilizzazione è probabilmente responsabile dell’azione neuroprotettiva.

A questo proposito bisogna richiamare qualcosa che abbiamo fatto in


farmacodinamica, che è il problema del Ligand Bias e del Signaling Bias. Non so
se ricordate, quando abbiamo studiato la desensibilizzazione dei recettori, abbiamo
detto che tutti i GPCR come sono i S1P1R, che sono prevalentemente accoppiati a
proteina Gi (inibitoria) si desensibilizzano perché intervengono le GRK, in
particolare GRK2, 3, che sono le PK dei recettori accoppiati a proteine G. Queste
PK disaccoppiano il recettore dalla subunità α della proteina G, creano lo spazio
per intervento delle arrestine, soprattutto due arrestine, cioè l’arrestina 2 e 3 che
corrispondono alla βarrestina1 e alla βarrestina2 che fanno internalizzare il
recettore. Tuttavia quando il recettore si trova negli endosomi, le arrestine sono in
grado di segnalare e segnalano attivando la via della MAPK e la via della PI3K, e
soprattutto la via della PI3K è protettiva.
E’ stato dimostrato in colture di neuroni che nel momento in cui voi applicate il
fingolimod e il fingolimod Fosfato, ovviamente il recettore si desensibilizza ma
all’interno della cellula trovate un aumento dei livelli di ERK-fosforilata e di AKT
fosforilata: il che significa che nei neuroni il Fingolimod Fosfato ha attivato i
meccanismi di segnalazione intracellulare del recettore che si trova nell’endosoma
e che è accoppiato all’arrestina, si attivano due vie protettive (la via della MAPK e
la via della PI3K) e così il neurone viene protetto; che se considerate è un
meccanismo abbastanza affascinante.
4) Il fingolimod all’interno del SNC induce la produzione di BDNF (fattore
neurotrofico di derivazione cerebrale). Il BDNF agisce su TrkB (si legge
“trackB”) che è un recettore molto simile a TrkA che è quello invece attivato
dall’NGF (il fattore della Levi Montalcini). Il TrkB è un recettore TRK
(accoppiato a tirosinchinasi) e anche questo recettore è in grado di attivare la
MAPK e PI3K. Quindi la produzione di BDNF contribuisce all’attività protettiva
del fingolimod.
Questo è estremamente interessante perché il fingolimod è stato provato in diversi
modelli animali, per esempio i modelli di malattia di Parkinson, i modelli di malattia

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di Alzheimer, della Corea di Hungtinton, perfino in modelli di sindrome di Rett, e in
tutti questi modelli il fingolimod ha mostrato azione protettiva.
Quindi questo potrebbe spiegare perché in clinica, quando un pz viene trattato con
Gilenya, in realtà l’evoluzione dell’atrofia cerebrale che poi diventa così critica nella
SM, è meno marcata con fingolimod che con altri farmaci, indipendentemente
dall’effetto di farmaci sul tasso annuale di ricadute.
Tutte queste azioni del fingolimod sono condivise dal Siponimod.
Il Siponimod ha pure mostrato azione protettiva, anche protettiva nei confronti della
sinaptotossicità. Ma d’altra parte il siponimod fa esattamente lo stesso del
fingolimod, l’unica differenza è che non è un profarmaco: cioè mentre il fingolimod
agisce sottoforma di Fingolimod Fosfato, attivando e desensibilizzando il recettore
di tipo 1, il siponimod lo fa (internalizza i recettori di tipo 1) ma lo fa senza essere
fosforilato, perché ha già la funzione acida di per sé.

Un altro meccanismo legato all’azione di tutti e due i farmaci (fingolimod e


siponimod) è quello di ridurre la demielinizzazione e riattivare i meccanismi di
rimielinizzazione. Questi due effetti sono mediati sia dal recettore S1P1R ma
soprattutto dal recettore S1P5R, perché questo è un recettore che si trova negli
oligodendrociti umani e si trova anche nei precursori degli oligodendrociti. E
naturalmente quando bisogna riformare la mielina che è stata danneggiata, i
precursori degli oligodendrociti (OPC) devono migrare nella sede della lesione della
mielina e nuovamente riformare gli oligodendrociti che risintetizzeranno tutti i
costituenti della mielina avvolgendo così il nervo fino ai nodi di Ranvier.
Questo è stato dimostrato in diversi modelli, che sono i modelli di demielinizzazione
con Cuprizone, che è una tossina che interagisce col rame; i modelli di
Lisofosfatidilcolina (tossico per la mielina); e anche in girini geneticamente
modificati, in cui in realtà il siponimod è il miglior farmaco in assoluto nel riformare
la mielina in questi girini che poi sono geneticamente modificati e mostrano delle
lesioni demielinizzanti che possono essere a questo punto riparate.
Quindi esiste di fatto questa azione importante degli analoghi della sfingosina. Per
gli altri due analoghi non ci sono ancora dimostrazioni che possano fare questo
nell’SNC, ma esiste quest’azione fondamentale della sfingosina a carico del SNC
che sicuramente può rendere ragione del fatto che il fingolimod dà degli effetti
molto buoni nei confronti dell’atrofia cerebrale, ma che allo stesso tempo il
siponimod è l’unico farmaco a tutt’oggi ad aver mostrato attività nella forma cronica
progressiva.
Un’ultima cosa, con questo finiamo per oggi, endotelio della BEE: l’endotelio della
barriera emato-encefalica è un endotelio molto selettivo e questo dipende dalla
presenza delle tight junctions, cioè delle giunzioni serrate, dove trovate tutta una
serie di molecole ad esempio occludine, claudine, ZO-1 (zonula occludens tipo 1).
Alcune di queste cose se ricordate le abbiamo studiate nel rene, vi ricordate che le
claudine erano quelle che permettevano o no il passaggio di ioni Mg2+ o ioni Ca2+
nella branca ascendente spessa dell’ansa di henle ed erano poi regolate dal
recettore Calcium sensing? Ebbene, le tight junction ce le abbiamo anche qui. Poi

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abbiamo dei complessi di adesione che si trovano appunto nell’endotelio delle
barriere. E ancora, c’è l’unione tra catenine e caderine che forma le zone di
aderenza tra una cellula e l’altra. La situazione qui è la seguente: l’attivazione del
recettore S1P1R fortifica le barriere endoteliali e lo fa attraverso la proteina Rac.
Al contrario invece il recettore S1P3R permeabilizza le barriere e lo fa attraverso la
proteina Rho, perché il recettore è accoppiato prevalentemente a proteina G12,13,
che è la proteina G trimerica che però controlla Rho che è una proteina G
monomerica.
Quindi voi avete una bilancina tra recettore S1P1R e recettore S1P3R dove il
recettore di tipo 1 rinforza le barriere e il recettore di tipo 3 le permeabilizza.
Quello che accade col fingolimod è che prevale l’azione del recettore di tipo 1
che in questo caso viene attivato. Questa è una sede dove probabilmente il
recettore tipo 1 non viene desensibilizzato. E’ un discorso un po’ complicato
ma la desensibilizzazione dipende dalla riserva recettoriale come sapete e
per questo motivo il fingolimod rende meno permeabile la BEE.
Come vi dicevo rende meno permeabile anche la BEE a livello del polmone: e
questo protegge i pz che sono ammalati di COVID19 dall’iperinfiammazione
polmonare, perché impedisce alle cellule dell’SI di penetrare nel polmone,
soprattutto i monociti, che poi all’interno diventano macrofagi e sono responsabili
della linfoistiocitosi emofagocitica.
Questo è stato dimostrato in tantissimi modelli, in cui il fingolimod ha protetto il
polmone dall’iperinfiammazione ed è per questo che probabilmente i pz sotto
fingolimod e prendono il COVID-19 sono automaticamente protetti nei confronti
dell’iperinfiammazione che poi è quello che li fa andare in Terapia Intensiva.
Nell’insieme il fingolimod non aumenta il rischio di ammalare di COVID-19 in
maniera consistente.
Semmai potrebbero esserci problemi relativi al vaccino, perché sia nel caso
del fingolimod sia del siponimod quando si fa una vaccinazione bisogna
aspettare due mesi prima di iniziare il trattamento, soprattutto se si usano
vaccini vivi attenuati. Non si sa ancora quello che accade con la
vaccinazione Sars-CoV-2. C’è questo studio israeliano che deve uscire e si
saprà esattamente quello che accade.
Quindi ricapitolando tutto questo il fingolimod e siponimod hanno diversi
meccanismi di azione in realtà. Questi due farmaci differiscono per il fatto che il
fingolimod lega i recettori tipo 1,2,3,4,5 mentre il siponimod lega solo i recettori tipo
1 e 5.
Il risultato finale è impedire la fuoriuscita delle cellule T Centrali della Memoria
immunologica dagli organi linfoidi secondari e queste sono le cellule che attaccano
il SNC responsabili dell’autoimmunità.
Contemporaneamente il siponimod e fingolimod agiscono all’interno del SNC.
L’astrocita è una cellula probabilmente importante per il loro meccanismo d’azione,
come testimoniato dal fatto che gli animali che non hanno il recettore S1P1R negli
astrociti, quindi una delezione genetica cellulo-specifica, non rispondono al

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fingolimod quando sviluppano l’encefalomielite autoimmune sperimentale, però i
recettori si trovano anche nei neuroni, almeno il fingolimodfosfato, ma ora comincia
ad esserci anche evidenza col siponimod, esercitano azione protettiva:
quest’azione protettiva può avere diverse scaturigini, per esempio il fatto che nel
momento in cui il recettore per la sfingosina 1P viene internalizzato, vengono
attivate le vie della MAPK e PI3K che sono vie protettive.
Oltre a far questo tutte e due le sostanze aumentano la produzione di BDNF. BDNF
è un fattore protettivo oltre a supportare l’aumento della plasticità sinaptica.
Ancora, entrambe le sostanze sono in grado di impedire la demielinizzazione
perché creano un ambiente antiinfiammatorio nell’SNC e favorire la
rimielinizzazione. Questo lo fanno soprattutto attivando il S1P5R che è un recettore
che si trova negli oligodendrociti oltre che nelle cellule NK.
Infine i recettori per la sfingosina1P si trovano anche nell’endotelio e quando
vengono attivati lì si rinforzano le barriere. Qui probabilmente il recettore non viene
desensibilizzato.
Sia fingolimod che siponimod sono in grado di rinforzare la BEE ma rinforzano
anche (almeno il Fingolimod) la barriera polmonare, come dimostrato in tantissimi
modelli di infezione virale (virus influenza e così via) e questo potrebbe proteggere i
pz affetti da COVID-19 nei confronti dell’iperinfiammazione polmonare in cui un
elemento fondamentale sta nel fatto che i monociti penetrano all’interno del
parenchima polmonare attraversando la barriera endoteliale e una volta che si
trovano nel polmone danno origine alla linfoistiocitosi emofagocitica.

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Data: Giovedì 15 Aprile 2021

L’ultima volta abbiamo parlato degli analoghi della sfingosina, facendo poi
riferimento specifico a Gylenia, cioè al Fingolimod. Abbiamo descritto i
meccanismi d’azione, siamo arrivati agli effetti avversi che ancora non avevamo
trattato, e quindi vediamo un po’ quali sono i problemi col Fingolimod.

Effetti avversi Fingolimod


1. Problemi cardiaci
Fingolimod ha avuto problemi all’inizio soprattutto perché ci sono stati casi di
arresto cardiaco in pazienti che peraltro erano cardiopatici e avevano tutta una serie
di problemi. Questo in realtà dipende dal fatto che il recettore per la sfingosina 1
fosfato di tipo 1 cioè l’S1P1R si trova nell’atrio, dove questo recettore,
prevalentemente accoppiato a proteina Gi e attraverso il complesso βγ, esercita
azione cronotropa negativa, cioè riduce la frequenza cardiaca, e riduce anche la
velocità di conduzione tra atrio e ventricolo. Perché vi dico che lo fa attraverso la
subunità βγ? Perché viene attivato un canale del potassio, che appartiene ai Kir, e
questo particolare canale del potassio è in realtà il canale che viene modulato dai
recettori M2 muscarinici per l’acetilcolina, quindi è una particolare corrente al
potassio sensibile alla modulazione da acetilcolina. Ma comunque sia le subunità βγ
attivano il canale perché la proteina del canale possiede il dominio PH (non so se
ricordate il dominio omologo alla plextrina ha la capacità di essere attivato dalle
subunità βγ) e questo può determinare in alcuni soggetti delle riduzioni molto
marcate della frequenza cardiaca. Allo stesso modo si comportano appunto i
recettori M2 per l’acetilcolina, questa è la ragione per cui l’atropina aumenta la
frequenza cardiaca. Allo stesso modo si comportano i recettori SSt2 della
somatostatina e così via. C’è tutta una batteria di recettori accoppiati alla proteina
Gi che sono in grado di ridurre la frequenza cardiaca. Quand’è che nasce il
problema? Quando c’è il rischio da parte del paziente di arresto cardiaco. Oltretutto
ci sono soggetti che possono avere un QT allungato, cioè il tempo di
ripolarizzazione cardiaca allungato, e non a caso quando si misura il QT si misura il
QT corretto, cioè normalizzato per la frequenza cardiaca, perché se il QT è lungo in
un soggetto bradicardico c’è il rischio di EAD, cioè depolarizzazioni postume
precoci, che possono portare poi alle torsioni di punta e alla fibrillazione
ventricolare. Allora per farla breve per cercare di ovviare a questo tipo di problema,
che per altro si presenta dopo la prima somministrazione del Fingolimod perché poi
il recettore si desensibilizza e l’effetto sul cronotropismo non si vede più, l’industria
che produce il Fingolimod che poi è la Novartis ha messo in scheda tecnica la
necessità di fare un monitoraggio di un certo numero di ore, se non ricordo male 6
ore, della frequenza cardiaca e in generale dei parametri cardiaci mediante
elettrocardiogramma e oltre a questo fare anche il monitoraggio della pressione
arteriosa. Se la bradicardia dopo un po’ non si risolve, è particolarmente marcata, o
se il soggetto ha un QT lungo perché per esempio magari non lo sa ma ha
mutazioni genetiche che allungano il QT (ricordatevi ci sono 13 mutazioni
responsabili dell’allungamento del QT, delle sindromi del QT, autosomiche
dominanti; almeno 2 se non 3 autosomiche recessive) ebbene a quel punto
bisogna immediatamente sospendere il trattamento col fingolimod e il fingolimod
non si può fare più. L’altra possibilità è quella di utilizzare l’atropina se dovesse
esserci una bradicardia molto marcata, per cercare di accelerare così la frequenza
cardiaca. Perché se anche la riduzione di frequenza viene indotta dal fingolimod,
però bloccando il recettore muscarinico che agisce allo stesso modo rispetto al
recettore S1P1 a quel punto la frequenza cardiaca si può normalizzare con

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l’intervento con atropina. Quindi questa è la prima cosa. Ma oggi lo sanno tutti,
quando voi avete il fingolimod in terapia inizialmente bisogna fare questo tipo di
monitoraggio: elettrocardiogramma e monitoraggio della pressione. In genere i
pazienti rispondono abbastanza bene, ci sono poi quei pazienti che hanno delle
risposte particolarmente robuste di alterazione della frequenza e di alterazione
pressoria, e qui le cose devono essere ovviamente adattate al caso.

2. Neutropenia
La seconda cosa riguarda la linfopenia. Linfopenia sulla quale dobbiamo fare delle
riflessioni, perché innanzitutto è un fenomeno reversibile e in qualche settimana
quando si sospende il fingolimod le conte linfocitarie tornano ai livelli di partenza, è
vero tuttavia che ci sono dei soggetti in cui la linfopenia è molto marcata. E poi la
seconda considerazione, se ricordate il Fingolimod trattiene all’interno dei linfonodi i
linfociti T centrali della memoria immunologica, che sono quelli che attaccano il
SNC e distruggono la mielina, però permette alle cellule T effettrici della memoria di
fuoriuscire dai linfonodi, raggiungere le sedi di immunosorveglianza, per esempio la
mucosa intestinale, e qui per esempio combattere le infezioni virali. Ovviamente se
c’è una linfopenia particolarmente robusta c’è teoricamente il rischio di infezioni.

L’infezione che maggiormente ha creato problemi nel trattamento con fingolimod è


l’infezione erpetica, per esempio l’infezione da Zoster (che, come sapete,
appartiene alla famiglia degli Herpes) e in particolare l’encefalite da Zoster, perché
ci sono stati dei casi di morte di pazienti trattati con Fingolimod che hanno
sviluppato encefalite. Poi ad andarli ad analizzare sono casi un pochettino strani,
perché per esempio uno si è verificato in Toscana, era una signora che lavorava in
una scuola per bambini, questa signora non aveva mai fatto la varicella, quindi non
aveva anticorpi di protezione contro lo Zoster, c’era un’epidemia di varicella a
scuola ed oltre a prendere il Fingolimod era in trattamento con cortisonici, quindi
aveva le difese molto basse, aveva anche linfopenia, e questa persona è morta di
encefalite da Zoster. Poi c’è stato un altro caso in corea di cui non si sa
praticamente nulla, e c’è stato qualche altro caso invece un pochettino più
caratterizzato. Sono eventi rari però per cercare di scongiurare questo è
assolutamente necessario che i pazienti vengano vaccinati per la varicella, per lo
Zoster, prima di essere in trattamento con il Fingolimod. Quando si fa questo tipo di
vaccinazione (cioè il paziente si vaccina per lo Zoster, per poi assumere il
Finfolimod) è buona norma farlo almeno un mese e mezzo, due mesi prima. Credo
che il limite sia almeno 3-4 settimane, però insomma è prudente farlo almeno due
mesi prima in maniera tale che il fingolimod non interferisca con la vaccinazione
che utilizza per esempio virus attenuati e che quindi questo potrebbe rappresentare
un problema. Perché è vero che il Fingolimod è un farmaco molto sicuro per il
trattamento da sclerosi multipla, però la linfopenia può avere un certo impatto con le
vaccinazioni convenzionali, come appunto la vaccinazione per la varicella. Quindi
voi prendete un individuo che dovete trattare con Fingolimod, a quel punto ricercate
gli anticorpi anti Zoster se l’individuo non ricorda di aver avuto la varicella e se c’è
siero negatività bisogna fare la vaccinazione prima e poi almeno un mese dopo
cominciare il trattamento con Fingolimod per permettere alla vaccinazione di
diventare efficace e quindi poi cominciare il trattamento per la sclerosi multipla.
Quindi fondamentalmente si fa così.

Altri effetti avversi particolarmente critici non ce ne sono. Si è parlato di edema


maculare nella retina e si è parlato di melanomi, ma questi due effetti non sono
evidence based, cioè sono stati riportati dei casi ma in realtà la percentuale non

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differisce molto da quella della popolazione normale. Quindi veramente rimane
dubbio se l’edema maculare della retina o i melanomi possano avere un rapporto
di causa effetto con l’uso del fingolimod mettiamola così.

Fingolimod interazioni con Covid


1. Rischio infezione
Mentre invece in questo periodo siamo sotto pandemia covid e c’è una
domanda fondamentale: che succede col fingolimod nei confronti dell’infezione
da SARS-COV-2 cioè nei confronti di Covid19?
C’è un lavoro che è uscito a fine 2020, dove il leader del lavoro è il professore
Marco Salvetti, un lavoro del gruppo italiano per lo studio della sclerosi multipla, che
ha quantificato in un numero di pazienti, non elevatissimo ma significativo 200
pazienti se non ricordo male, il rischio di ammalare di covid in relazione al
trattamento nella sclerosi multipla. Premessa è che la sclerosi multipla è una
patologia che di per sé può aumentare il rischio di infezione da Covid 19, dove
l’EDSS (cioè il grado di disabilità) e anche l’età sono fattori di rischio associati, ed è
una malattia che deve essere comunque trattata. Quindi il trattamento sembra
ridurre l’incidenza di covid 19 in ogni caso, però ci sono differenze tra farmaco e
farmaco. Sicuramente il trattamento che riduce il rischio di covid 19, come abbiamo
già detto la volta scorsa, è quello con interferoni, ma questo non è assolutamente
sorprendente considerata l’azione antivirale degli interferoni. Nel caso del
Fingolimod c'è assoluta neutralità, cioè il Fingolimod non aumenta il rischio di covid-
19, quindi i pazienti possono essere trattati senza alcun problema. Anzi da questo
punto di vista il Fingolimod potrebbe essere protettivo, come vi ho detto la volta
scorsa, nei confronti dell'ultima frase di covid19 cioè la linfoistiocitosi emofagocitica
e della sindrome da rilascio di citochine, per una serie di meccanismi in realtà, ma
soprattutto perché riduce la permeabilità della barriera endoteliale nel polmone
quindi l'arrivo di cellule del sangue, principalmente monociti (considerate che la
fase di linfoistiocitosi ricorda molto una sindrome da attivazione dei macrofagi).

2. Vaccinazione
L'altro problema riguarda il vaccino, perché sicuramente i pazienti affetti da sclerosi
multipla vanno vaccinati perché sono pazienti fragili, e quindi se dovessero
ammalare di Covid, a parte questa azione protettiva del Fingolimod per l'aumento
della barriera endoteliale, potrebbero rispondere in maniera un pochino diversa
rispetto ai soggetti che non hanno questa patologia. Come sapete ci sono due tipi
di vaccini che stanno andando in giro: i vaccini a RNA messaggero, come Pfizer e
moderna; e i vaccini ad adenovirus come vettore, per esempio l’astrazeneca, il
Jhonson and Jhonson e lo Sputnik V. Quindi la domanda è adesso: se un paziente
è trattato con Fingolimod cosa succede al vaccino per Covid19? Il vaccino
mantiene la sua efficienza o perde di efficienza? Vi ho detto poco fa che se si fa un
vaccino antiZoster bisogna aspettare del tempo prima di cominciare il trattamento
con Fingolimod, e questo d’accordo. La cosa è un pochino diversa con il vaccino
covid per il semplice motivo che sono pazienti già in trattamento con Fingolimod
che diventano eleggibili per il vaccino come lo sono i pazienti affetti da sclerosi
multipla.

La cosa si è complicata alquanto perché c’è un Neurotalk, un Webinar che si può


trovare in rete, dove è stata invitata come ospite una professoressa di Israele che
si chiama Anat Achiron. Questa professoressa ha presentato i dati, che per altro
non sono stati ancora pubblicati, di più di 700 pazienti affetti da sclerosi multipla e

62
trattati con i vari farmaci DMT (modificatori dello stato di malattia), che sono stati
tutti vaccinati in Israele utilizzando il vaccino Pfizer, che è quello maggiormente
utilizzato lì (tra l’atro si è raggiunta adesso in Israele l’immunità di gregge, quindi la
quasi totalità della popolazione è stata vaccinata o ha avuto precedentemente la
malattia). I risultati di questo studio hanno sollevato molte critiche da un canto, ma
nello stesso tempo un allarme dall’altro canto. Si è visto ad esempio che i pazienti
trattati con Fingolimod (che la professoressa Achiron generalizza come analoghi
della sfingosina) non hanno sviluppato anticorpi! E quindi la conclusione in questo
Neurotalk da parte della professoressa Achiron era che i pazienti con Fingolimod
non dovrebbero essere vaccinati perché non ha senso, in quanto non si sviluppa la
reazione immunitaria nei confronti di Sars-Cov2, oppure se la vaccinazione è
necessaria bisogna sospendere il fingolimod e poi due mesi dopo eventualmente
vaccinare. Questo ha sollevato come potete pensare tutta una serie di
controdeduzioni e di critiche anche abbastanza forti, da parte degli immunologi e
da parte dei sostenitori del Fingolimod. Perché nell’esperienza clinica i pazienti
con Fingolimod vanno molto bene nei confronti del Covid19, cioè in genere i
pazienti con Fingolimod che ammalano di infezione da Sars-Cov 2 poi hanno una
patologia abbastanza sfumata, però questa è un’altra cosa è l’efficienza della
vaccinazione. Una critica abbastanza forte nei confronti di questi dati è emersa da
parte degli immunologi i quali ribadiscono, ma questo è un dato assoluto, che
quando voi fate una vaccinazione contro Sars-Cov2 in realtà l’immunità
cellulomediata è molto più importante dell’immunità umorale. Perché in effetti il
principale meccanismo che il sistema immunitario sviluppa contro le infezioni virali
è mediato da Cd8, cioè dai linfociti T citotossici, che sono coadiuvati dai Cd4, cioè
dai linfociti T helper, mentre la risposta umorale cioè la produzione di anticorpi è
sicuramente meno importante. È anche vero che però quando noi valutiamo
l’efficienza del vaccino su una base così regolare/irregolare non misuriamo
l’immunità cellulomediata ma misuriamo il sierologico, cioè gli anticorpi, e poi in
base al titolo si stabilisce se il vaccino è stato efficace oppure non è stato efficace.
Capite bene anche cosa questo può aver comportato all’interno dell’azienda che
produce il Fingolimod, cioè Novartis (che è una delle principali multinazionali al
mondo), perché un’informazione di questo genere, che ancora non è stata
pubblicata, potrebbe dare un colpo abbastanza pesante al mercato del fingolimod
a livello planetario, perché i neurologi potrebbero stabilire di non trattare più i
pazienti con il Fingolimod, o perlomeno quei pazienti che non hanno ancora avuto
il vaccino e che sono eleggibili per la vaccinazione.

Quindi questo è un dato per certi versi allarmante per certi versi criticabile, ma che
sicuramento va verificato, cioè bisogna vedere nei pazienti in trattamento con
fingolimod e che ricevono un vaccino (sarebbe utile non solo Pfizer ma anche gli
altri tipi di vaccino) che cosa succede all’immunità umorale facendo il sierologico e
cosa succede all’immunità cellulomediata. Perché potrebbe anche essere che
questi pazienti non presentino l’immunità umorale così sviluppata, ma presentino
l’immunità cellulomediata invece abbastanza robusta. Parlando un po’ con i
sostenitori del fingolimod ho sentito discorsi abbastanza interessanti, e cioè che non
solo gli anticorpi non sono così importanti rispetto all’immunità cellulomediata, ma
in alcuni casi potrebbero rappresentare un deterrente! Mi è stato detto che per
esempio i casi di tromboembolismo venosi che si sono verificati con Astrazeneca
(che per altro sono casi rarissimi che rientrano sicuramente nell’incidenza della
popolazione generale, anzi addirittura in minor misura) potrebbero dipendere dal
fatto che si formano anticorpi contro il fattore 4 piastrinico, un po’ come avviene
nella porpora trombocitopenica da eparina. E quindi avere una condizione in cui

63
l’immunità cellulomediata è molto robusta mentre gli anticorpi si formano in minor
misura per certi versi e per qualche vaccino potrebbe essere vantaggioso.
Ovviamente tutti questi sono discorsi che poi lasciano il tempo che trovano, perché
nel percepito popolare se uno fa il sierologico e gli anticorpi non si sono formati
questo è uguale, in maniera non corretta, a mancata efficienza del vaccino. Quindi
questo è un tema abbastanza scottante che potrebbe darvi possibilità di spunti se
venite interrogati dal professor Salvetti sulla sclerosi multipla: potete discutere
questo lavoro di Anat Achiron che ha valutato l’efficienza del vaccino in rapporto ai
trattamenti trovando che il fingolimod e l’ocrelizumab non permettono al vaccino di
esprimersi al meglio, però c’è un limite che va riesaminato perché la risposta
cellulomediata non è stata investigata in questi pazienti e avrebbe dovuto essere
investigata.

Siponimod

Caratteristiche
L’altro farmaco che è uscito da poco è il siponimod, che si chiama Mayzent.
Differisce dal fingolimod per la selettività recettoriale: mentre il fingolimod è un
agonista dei recettori 1, 3, 4 e 5 della sfingosina1fosfato; il siponimod ha specificità
per il recettore di tipo 1 (S1P1R) e di tipo 5 (S1P5R). Ha le stesse caratteristiche
del fingolimod, è un superagonista del recettore di tipo 1 e questo porta poi alla
desensibilizzazione del recettore, quindi in altre parole non permette ai linfociti T
centrali della memoria di fuoriuscire dagli organi linfoidi secondari, soprattutto i
linfonodi cervicali, e attaccare il sistema nervoso centrale. Però ha anche
un’altissima affinità per il recettore di tipo 5 che attiva soltanto senza farlo
desensibilizzare, vi ho detto la scorsa volta che questo recettore si trova
soprattutto negli oligodendrociti, compresi i precursori degli oligodendrociti. Ed è
per questo che il siponimod frena i meccanismi di demielinizzazione e favorisce i
processi di rimielinizzazione.

Indicazione per forma secondaria progressiva


Cambia l’indicazione cioè il siponimod viene indicato per la forma secondaria
progressiva però con attività, e questo è abbastanza interessante. Che significa
con attività? Sapete che la forma secondaria progressiva è caratterizzata da una
progressiva disabilità neurologica ma senza episodi di neuroinfiammazione che
vengono dall’esterno, quindi la barriera ematoencefalica è sostanzialmente integra,
però è difficile trovare una forma cronica secondaria progressiva pura, ma a volta ci
sono delle poussée infiammatorie che si alternano con questo decorso. Quindi
l’indicazione in commercio è per questa forma secondaria progressiva però con
attività, in Europa e negli Stati Uniti; mentre invece in Australia e in Giappone
questo limite non c’è e l’indicazione del farmaco è per la forma secondarie
progressive. È interessante questo confronto tra fingolimod e siponimod per il
semplice motivo che il fingolimod ha l’indicazione per la forma a ricadute e
remissione, che è quella largamente più frequente, è un farmaco di straordinaria
efficacia in età pediatrica, però non ha indicazioni per la forma secondaria
progressiva. Questo potrebbe dipendere da diverse cose: il disegno sperimentale
per i pazienti con forma secondaria progressiva che magari è per il siponimod è
stato più valido e ha portato a un migliore effetto del farmaco rispetto al fingolimod;
il fingolimod attiva anche i recettori per la sfingosina1fosfato di tipo 3 e di tipo 4
(che invece il siponimod non attiva), e il recettore di tipo 3 è in grado di indurre
Cox2, quindi potrebbe dare una piccola componente proinfiammatoria seppure in
un contesto antinfiammatorio, che il Siponimod non da; l’ultima differenza è l’affinità

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per il recettore di tipo 5 che è maggiore per il Fingolimod.

Fatto sta che esiste un modello per valutare la demielinizzazione e la


rimielinizzazione e questo è rappresentato dal girino dello Xenopus, che è un
tipo di anfibio largamente utilizzato nella biologia perché si usano le cellule uovo
di xenopus. Il girino di xenopus geneticamente modificato rappresenta un
modello estremamente valido per studiare la dinamica della mielina e utilizzando
questo particolare modello animale si è visto che il Siponimod è di gran lunga il
farmaco più efficace nel promuovere i meccanismi di rimielinizzazione e inibire i
meccanismi di demielinizzazione! Nelle forme secondarie progressive di sclerosi
multipla, c’è quella situazione in cui “il fuoco si accende sotto la cenere”, cioè
non c’è più l’attacco delle cellule del sistema immunitario da parte degli organi
linfoidi secondari che si trovano al di fuori del sistema nervoso centrale, ma in
qualche misura l’attacco origina dall’interno. Quindi in questa forma secondaria
progressiva è difficile vedere nuove lesioni, ma quello che molto spesso succede
è che le lesioni preesistenti si allargano e diventano più consistenti. Uno dei
meccanismi che può sostenere l’infiammazione dall’interno è la formazione di
follicoli ectopici (molto ricchi di linfociiti B oltre che di linfociti T) in corrispondenza
della pia madre (cioè nella parte interna delle meningi) e da lì riparte il processo
responsabile del danno locale. In questo caso la demielinizzazione ha un
andamento progressivo, colpisce prima la corteccia cerebrale adiacente alla pia
madre, cioè la zona perimeningea, poi si estende nella parte centrale della
corteccia, e poi alla zona leucorticale, cioè al confine tra la sostanza grigia e la
sostanza bianca.

È possibile riprodurre un modello di demielinizzazione corticale nella sclerosi


multipla con formazione di follicoli ectopici con questo modello sperimentale:
- Prendete dei topi e li immunizzate con PLP, cioè con la proteina proteolipide
(una particolare proteina che si trova nella mielina)
- Da questi topi prendete le cellule Th17 che sono responsabili
dell’autoimmunità, fate un transfer, ovvero trasferite queste cellule a topi
riceventi di un altro ceppo (che sono topi di un determinato ceppo che si
chiama SJ)
- Questi topi sviluppano l’EAE (encefalomielite autoimmune sperimentale) con
formazione di follicoli ectopici in corrispondenza della pia madre e con
produzione di linfociti TH17 e citochine che derivano da questi linfociti che
determinano il danno corticale.
Il Siponimod è molto efficace nel prevenire la demielinizzazione della corteccia
cerebrale e in generale i fenomeni degenerativi su base neuroinfiammatoria che si
sviluppano in questi particolari animali. Quindi questo è un bel modello che si
avvicina molto alle lesioni che si osservano nella forma secondaria progressiva di
sclerosi multipla, dove il siponimod ha mostrato una grande attività, quindi
effettivamente questo farmaco ha “le physique du role” per poter essere utile nelle
forme secondaria progressiva. In effetti il trattamento delle forme secondarie
progressive ha rappresentato fino ad adesso un “unmet need”, cioè un bisogno non
soddisfatto nella sclerosi multipla, e avere un farmaco come il Mayzent diventa
particolarmente utile.

Dosaggio
Il siponimod si dà al dosaggio di 2 mg/die per os (come il Figolimod), però il
dosaggio potrebbe essere dimezzato in base alla genotipizzazione. Perché un
punto di debolezza del Siponimod è che è metabolizzato dal CYP2C9, e il

65
CYP2C9 ha le varianti lente che sono CYP2C9 *2 e *3. Non sono varianti
frequentissime però possono arrivare a stime tra il 5-10% della popolazione
caucasica, e allora è assolutamente obbligatoria prima di cominciare il trattamento
con Siponimod la genotipizzazione del paziente e vedere se il paziente è un
Cyp2C9*1 (cioè wild type, metabolazzatore rapido) oppure *2, *3 (metabolizzatore
lento). In questo ultimo caso o non si da il Siponimod, o se si sceglie di darlo si da
1 milligrammo e non 2 milligrammi.

Effetti avversi
Per gli effetti avversi siamo più o meno sulla stessa lunghezza d’onda del
Fingolimod: - C’è il rischio di bradicardia da prima dose. Bisogna dire che non è
così marcata come nel caso del fingolimod, quindi è una cosa che si può
gestire meglio, tuttavia è bene fare il monitoraggio per 6 ore circa di pressione
arteriosa e elettrocardiogramma, per vedere se c’è bradicardia sostenuta o
allungamento del QT, e quindi non esporre il paziente a questo tipo di rischio.

- Nel lavoro di Anat Achiron in Israele sull’efficienza del vaccino covid su farmaci
per la sclerosi multipla a quanto mi risulta non c’erano pazienti trattati con il
Siponimod. Lei generalizza dicendo che tutti i pazienti trattati con analoghi
della
sfingosina1fosfato non montano la risposta anticorpale, ma questo non si
può fare perché Fingolimod e Siponimod sono farmaci simili ma ci sono
differenze nel meccanismo d’azione. Quindi deve essere ancora
determinato se il Siponimod interferisce con la vaccinazione oppure no.
- Anche per il Siponimod se i pazienti non hanno avuto precedentemente la
varicella bisogna fare la vaccinazione per lo zoster e poi aspettare almeno 3-
4 settimane, ma sarebbe più prudente anche aspettare di più per evitare una
ridotta efficienza del vaccino.

Quindi questa è tutta la storia con gli analoghi della sfingosina, che sono le
quattro molecole che abbiamo esaminato la volta scorsa. Le più importanti
sono fingolimod e siponimod e ricordate questo meccanismo particolare: la
desensibilizzazione e internalizzazione del recettore della sfingosina1fosfato
di tipo 1 che non permette alle cellule T centrali della memoria di fuoriuscire
dai linfonodi e attaccare il SNC.

TYSABRI (NATALIZUMAB)→ anticorpo monoclonale umanizzato (zu=


umanizzato, tutto umano tranne porzione fc), anticorpo diretto nei confronti della
subunità alfa4 delle intergrine, nella barriera ematoencefalica alfa4+ beta1,
mentre nel tratto GI alfa4+beta 7, poiché usato anche nel morbo di chron, nel
caso di disbiosi.
Agisce nei confronti del complesso VLA4 nella barriera ematoencefalica,
impedendo alle integrine di interagire con VCAM. Meccanismo diverso, gli altri
potevano indurre linfopenia, mentre qui i linfociti e monociti possono aumentare nel
sangue poiché non attraversano la barriera.
Per via endovenosa 1 volta al mese, 300 mg. Farmaco più efficace nel trattamento
della sclerosi multipla, con riduzione ARR= 65-70%, qualità di vita migliora. È un
farmaco che non crea problemi per gli effetti avversi, che non sono molti, ha un
punto di domanda nel profilo di sicurezza, aumentando rischio di PML
(leucoencefalopatia multifocale progressiva)→ dipende dal virus JC1 (polioma

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virus 2, sigla di John Cunninghan, scopritore), alberga in alcuni soggetti nel midollo
osseo, e cerca di entrare nel SNC ma inibito dal SI. In corso di terapia
immunosoppressiva è facilitato il suo ingresso. Non c’è farmaco che aumento il
rischio quanto il natalizumab→ i casi sono 753 a fronte di più di 170 000 pz trattati,
non è poco.
Prima cosa: titolo anticorpale contro JC1, studio clinico stratify, cut-off 1.5, i soggetti
senza anticorpi (al di sotto del cut-off) hanno probabilità minima di sviluppare la
PML (< 0.1/1000). Se invece sono presenti gli anticorpi, quindi virus presente
nell’organismo ma non nel SNC, trattamento >2 anni e pz ha fatto anche altri
immunosoppressori, probabilità 1.5-2.5%, rischio grosso poiché PML ha mortalità
che oscilla tra 25-30%. PML è una malattia demielinizzante, ma è multifocale e
diffusa, diversa dalla sclerosi multipla, primariamente astrocitaria con formazione di
corpi inclusi negli oligodendrociti. C’è declino cognitivo, sintomi cerebellari,
linguaggio, caratteristica la sindrome della mano aliena (mano non più sotto il
controllo, anche nella degenerazione cortico basale). Può portare a morte il pz, casi
di morte pz per PML in trattamento con natalizumab, anche al Sant’Andrea, ma
erano pz che avevano firmato consenso informato essendo siero positivo.
Natalizumab ha indicazione nelle forme recidivanti-remittenti, ma non nelle
forme progressive→ differenze tra siponimob e natalizumab.

Nello studio del prof. Marco Salvetti Natalizumab è diverso poiché aumenta di poco
il rischio; c’è un effetto nella vaccinazione antinfluenzale, che viene di poco
diminuita. Mentre non sembra aver prodotto effetti nella vaccinazione anti-covid.
Trattamento può essere sospeso se pz si positivizza con anticorpi anti-JC1→ può
sviluppare sindrome IRIS, da ricostituzione del SI in cui i linfociti attaccano il SNC.
Se pz dovesse positivizzarsi, deve essere gestito.

Tra i farmaci di seconda linea:


CLADRIBINA→ immesso in commercio da poco, prodotto dalla Merck. La sua
storia è che inizialmente era stata bloccata dall’EMA poiché in grado di aumentare
rischio di tumori, ma si è visto che non era così elevato e quindi è stato approvato
con due vantaggi: si dà per os, e viene somministrato 2 volta all’anno, differenza
tra terapia immunosoppressiva continua. È un analogo dell’adenosina (2-cloro-2-
desossiadenosina), interferisce con DNA e RNA.
Si somministra con dosaggio di 3.5 mg/kg in due anni, cioè 1.75 mg/kg/anno,
somministrato nella prima settimana dei primi due mesi, 4/5 giorni di trattamento nel
primo mese e poi nella prima settimana del secondo mese, dopo un anno si ripete
lo stesso trattamento, induce riduzione di alcune cellule del SI. Numero linfociti
determinante: quando sono < 800 linfociti/microlitro bisogna monitorare. Come
agisce la cladribina (2- cloro-2-desossiadenosina)? Farmaco resistente all’azione
della adenosina-deaminasi (ADA), differenza con la desossi-adenosina è questo,
cioè l’ADA che è l’enzima che degrada non è efficace nei confronti di questo
farmaco. Poi la cladribina viene bioattivata per opera della desossocitidina
chinasi (DCK), che è un enzima che fosforila gli analoghi della citidina, non gli
analoghi dell’adenosina, ma è fondamentale per la bioattivazione trasforma la
cladribina in cladribina monofosfato e poi diventa cladribina bifosfato e cladribina
trifosfato. C’è un altro enzima: 5’-nuclotidasi, che degrada il derivato trifosfato
della cladribina e lo riconverte in cladribina. Bilancio tra DCK (bioattivante della
cladribina) e 5’-nucleotidasi (enzima che degrada la cladribina trifosfato) è
importante per la suscettibilità cellulare nei confronti della cladribina. Ci sono cellule
in cui il rapporto DCK-5’NT è alto, e sono i linfociti, meno alto nei CD8+, importanti

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nella difesa nei confronti dei virus. Cladribina pur essendo falso metabolita, non ha
mostrato grande impatto nel rischio di infezione da Covid, forse anche perché i
CD8+ vengono parzialmente risparmiati dal meccanismo d’azione della cladribina,
c’è una deplezione iniziale ma i livelli si riducono di poco e recuperano con una
certa rapidità. Invece monociti, cellule dendritiche e neutrofili hanno rapporto più
basso DCK-5’NT e sono quindi resistenti all’azione della cladibrina. Stesso
discorso per alcune cellule, come quelle intestinali, in cui l’enzima degradativo
prevale su quello di bioattivazione. Quindi azione cladribina diretta
preferenzialmente ai linfociti T helper e B.
Quando la cladribina viene trasformata in cladribina trifosfato cosa succede? La
cladribina trifosfato inibisce la ribonucleotide reduttasi, enzima fondamentale
nell’omeostasi degli acidi nucleici, e poi viene incorporata nel DNA dove è in grado
di inibire DNA polimerasi, e quindi evitare l’allungamento del DNA. oltre a ciò c’è
un altro effetto, la cladribina può essere incorporata nel mitocondrio, trasformato in
cladribina trifosfato all’interno del mitocondrio e può interferire con la sintesi di DNA
mitocondriale, questo porta ad alterazione della catena respiratoria, apertura dei
mega-channel del mitocondrio e rilascio del citocromo-c, che si complessa con il
fattore APAF-1, questo complesso attiva la procaspasi 9 in caspasi 9→ la
procaspasi viene trasformata in caspasi 3 e quindi le cellule vanno incontro ad
apoptosi→ linfopenia transitoria, con linfociti che tornano a livelli base. Due
meccanismi azione: incorporazione nel DNA e quindi bloccaggio DNA polimerasi,
secondo meccanismo, entrata nel mitocondrio, anomalia del DNA mitocondriale,
apertura dei mega-channel, attivata la procaspasi 9 in caspasi 9→ procaspasi 3 in
cui caspasi 3.

Effetti avversi: predisposizione alle infezioni, inferiore a quella che si ha con


anticorpi-anti CD20, vaccino COVID, sempre nello studio di Anat Achiron.
Farmaco quasi teratogeno obbligato, quindi non usato in gravidanza, devono
passare almeno 6 mesi dopo trattamento, sia per il maschio che per la donna.
Dà un 65% induzione da ARR. 1.06 h
Indicazione in scheda tecnica nelle forme da remissione di sclerosi multipla e
non per le forme croniche progressive.

Lemtrada→ umanizzato, anti CD52, espresso su tutte le popolazioni linfocitarie


B e T, meno nelle dendritiche e poco espresse nelle staminali.
Per ev, 12mg/die in 5 somministrazioni al giorno per 5 giorni, si aspetta un anno e
poi 12 mg/die per 3 giorni.
Determina immuno-deplezione molto marcata→ meccanismi di citotossicità
complemento mediata, citotossicità cellulare anticorpo-mediata (meccanismo
numero 3, fagocitosi cellulare anticorpo-mediata, dipendono dal fatto che
l’anticorpo con porzione fc interagisce con Fcgamma III nelle cellule NK e
macrofagi, quindi cellule NK uccidono cellule che esprimono antigene CD52).
Differenza con cladribina: tempi di ricostituzione del SI, più lento con
Lemtrada. Efficace nella forma recidivante-remittente della sclerosi multipla
(RR-SM). 65-70% induzione ARR.
Profilo sicurezza e tollerabilità è subottimale→ può accadere che nella forma di
ricostituzione possano accadere forme autoimmuni. I CD52 oltre ad essere antigene
su linfociti T e B, presente anche in forma solubile (secreta), in grado di interagire
con una proteina espressa dai linfociti T: SIGLEC-10, quando interagisce con
CD52 solubile, in grado di inibire attivazione del recettore delle cellule T, inibendo
ZAP70 LCK fattori importanti per far trasmettere il segnale dal recettore del linfocita

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T, ciò può portare all’esordio dell’autoimmunità. Che tipo di autoimmunità abbiamo?
Innanzitutto, a carico della tiroide dove possiamo avere manifestazioni di
ipotiroidismo ma anche manifestazioni di ipertiroidismo, tipo malattia di Grave o
malattia di Basedow, e questo può anche arrivare a stime superiori al 35 % nei
pazienti trattati con alemtuzumab. Poi può esserci una porpora trombocitopenica
autoimmune che in questo caso ha una stima sicuramente più bassa, siamo
nell'ordine dell'1%, che però si può verificare. Un'altra cosa che può capitare è che
il SI reagisca nei confronti della membrana basale del glomerulo e questa azione
nei confronti della membrana basale del glomerulo determina la cosiddetta
glomerulopatia di Goodpasture in cui la selettività di filtrazione del glomerulo viene
meno proprio perché si formano anticorpi nei confronti di questo elemento. Poi si
possono creare anche delle forme di emofilia A di tipo autoimmune in cui
evidentemente il SI è rivolto nei confronti dei fattori di coagulazione (l’emofilia A è
data dal fattore VIII della coagulazione). Questo è un altro effetto autoimmune che
si viene a creare. Alemtuzumab è un farmaco di seconda linea per il trattamento
della sclerosi multipla, e ha questo meccanismo complesso di interazione CD52
solubile siglec-10 che viene compromesso quando date alemtuzumab e, nel
momento in cui piano piano si ricostituisce il sistema immunitario , il che richiede
diversi mesi, la grande immunodeplezione che voi avete con l' alemtuzumab
diventa un fattore di rischio per infezioni di vario tipo come infezioni virali. L'ultima
categoria di farmaci che voglio illustrarvi molto brevemente per la sclerosi multipla
sono i cosiddetti anti-CD20. Fondamentalmente si parla di 3 anticorpi: un anticorpo
che è già in commercio che è il rituximab. Questo anticorpo non ha indicazione
specifica per la sclerosi multipla (viene utilizzato per artrite reumatoide ma
soprattutto per i linfomi NH ) però al di fuori del regime di prescrizione viene
utilizzato anche nella sclerosi multipla soprattutto perché è presente il biosimilare
che naturalmente è meno costoso e questo offre dei vantaggi per il servizio
sanitario nazionale e per le aziende ospedaliere. L'altro anticorpo è ocrelizumab
che è un anticorpo umanizzato (è tutto umano tranne la porzione ipervariabile che è
murina) mentre il rituximab è chimerico (la porzione costante è umana mentre
invece la porzione variabile è tutta murina) quindi ocrelizumab rappresenta un
passo in avanti. Ma l'ocrelizumab (OCREVUS) è un farmaco che ha l'indicazione
specifica per il trattamento della sclerosi multipla e non lo potete utilizzare
nell'artrite reumatoide perché gli studi clinici hanno dimostrato un aumento della
mortalità. È anche vero che quei pazienti con artrite reumatoide erano di ceppo
etnico asiatico e in trattamento con altre sostanze, però c'è stato un aumento della
mortalità e immediatamente si è interrotto lo sviluppo in altre patologie autoimmuni.
Mentre invece nella sclerosi multipla l'ocrelizumab è stato considerato uno dei
break through, cioè un’innovazione assoluta perché è l'unico farmaco a tutt’oggi ad
aver mostrato attività nelle forme primarie progressive che sono quelle forme
caratterizzate sin dall'inizio da una progressiva disabilità neurologica ma senza
episodi di neuroinfiammazione che fondamentalmente nelle forme primarie
progressive quando fate la risonanza con il mezzo di contrasto questo non entra
perché la barriera emato-encefalica non è permeabile. Quindi nelle forme primarie
progressive è il fuoco che si accende sotto la cenere ma sin dall'inizio, cioè quella
cosa che abbiamo chiamato smoldering che è anche caratteristica delle forme
secondarie progressive ed è un meccanismo che è sostenuto da qualcosa che
avviene all'interno del SNC come per esempio questi follicoli ectopici di linfociti che
si trovano in prossimità delle meningi e che sono ricchissimi in linfociti B. Poi c'è un
farmaco che è stato già approvato negli USA ma non ancora in Europa e in Italia.
Probabilmente sarà disponibile a metà del 2022 in Italia e si chiama ofatumumab.
L'ofatumumab è un anticorpo anti-CD20 interamente umano e che ha una

69
differenza rispetto a ocrelizumab e rituximab: questi ultimi vengono somministrati
per via EV mentre l'ofatumumab per via sottocutanea. Facendo così, l'impatto nei
confronti del sistema immunitario è sicuramente un po’ meno aggressivo rispetto
all'impatto dell'ocrelizumab. Rimane poi da capire se voi volete far sì che questi
farmaci raggiungano il SNC è ovvio che dandone per via endovenosa avete un
picco plasmatico che è più alto rispetto a quando lo date sottocute quindi dipende
un po’ dai punti di vista. I sostenitori di ocrelizumab dicono che dando lo stesso è
maggiore la probabilità statistica che l’anticorpo monoclonale raggiunga per
esempio i follicoli ectopici che si trovano in prossimità della pia madre dove non si
sa fino a che punto la barriera emato-encefalica sia protettiva oppure no mentre,
invece, i sostenitori dell'ofatumumab dicono che il farmaco quando viene dato sotto
cute permette una modulazione più morbida del sistema immunitario evitando dei
fenomeni come infezioni virali o interferenze con i vaccini che ocrelizumab può
avere. Fondamentale è una diatriba scientifica ma tra due tra le aziende
multinazionali più rappresentative del mondo perché ocrelizumab è prodotto dalla
Roche e ofatumumab da Novartis. Sono le due aziende che hanno la sede primaria
a Basilea e negli ultimi anni hanno tentato qualche volta la fusione per creare
un'azienda unica con sede a Basilea in Svizzera ma alla fine questa fusione non si
è verificata. Quindi questi due farmaci sono competitivi con indicazione nella
sclerosi multipla.

Quando è nata la storia degli Anti-cd20 nella sclerosi multipla?


Si pensava all'inizio che questa malattia fosse mediata esclusivamente dai linfociti
T quando invece utilizzando i modelli di encefalomielite autoimmune sperimentale
si è scoperto che i linfociti B sono importanti e questo poi ha portato ad uno studio
clinico con rituximab che è stato promosso da Stephen Hauser con la Genentech
e lo studio clinico è stato sorprendente perché l' anti-CD20, cioè il rituximab, ha
dato un effetto molto marcato e anche in fasi abbastanza precoci di trattamento. Il
che è stato sorprendente per delle cose che ora vengo a dirvi.
Innanzitutto ragioniamo su cosa sia il CD20 che è appunto il bersaglio di
rituximab, ocrelizumab e ofatumumab. Fermo restando che attualmente
ocrelizumab è l'unico farmaco approvato con indicazione ufficiale per
sclerosi multipla e l’ofatumumab in Italia ancora non c'è, ma avrà questo
tipo di indicazione, il rituximab invece viene utilizzato per altre cose ma il
vantaggio è che c'è il biosimilare e allora ovviamente un’azienda
ospedaliera quando la prospettiva è quella di utilizzare ocrelizumab magari
potrebbe spingere verso l'uso del rituximab dicendo che tanto agiscono tutti
e due sullo stesso antigene di superficie che è il CD20 con la differenza che
del rituximab abbiamo il biosimilare che costa di meno e quindi perché non
utilizzarlo e risparmiare. Ma vedremo subito che questi farmaci non sono
uguali ma hanno delle differenze importanti e dobbiamo partire da questo.
CD20 è un antigene che viene espresso durante la maturazione dei linfociti
B quindi è abbastanza specifico per questi anche se questo non è vero al
100% perché c'è una sottopopolazione di T che anche esprime il CD20 e
questa sottopopolazione è stata sempre non considerata nel meccanismo
d'azione degli Anti CD20 e sarebbe comico che dopo tutti questi discorsi in
realtà gli effetti degli anti-CD20 fossero mediati da questa piccola
popolazione dei linfociti T, ma onestamente non credo sia così. Nella fase di
maturazione dei linfociti B quando il CD20 è espresso? Il CD20 non è
espresso nella cellula staminale. Questo è vantaggioso perché poi
comunque quando il farmaco finisce il suo corso è possibile la ricostituzione
del patrimonio dell'organismo dei linfociti B perché la cellula staminale non

70
viene attaccata dall’anticorpo. Non è espresso dai pro-B che è il primo
prodotto di differenziamento della cellula staminale però comincia ad essere
espresso dai pre-B e viene espresso dai linfociti B maturi, comprese le
cellule B della memoria immunologica. Poi comincia a scomparire nei
plasmablasti. I plasmablasti esprimono livelli bassi di CD20 e i plasmablasti
tardivi non lo esprimono più e questa è una differenza importante con il
CD19 che invece continua a essere espresso dai plasmablasti. Quindi una
differenza importante tra CD20 e CD19 è che i plasmablasti non esprimono
più il CD20 mentre invece continuano ad esprimere i CD19. Cosa
importante, naturalmente il CD20 ma anche il CD19 non è espresso dalle
plasmacellule. Quando voi date un anticorpo Anti-CD20, viene attaccato il
CD20 e la cellula che lo esprime viene distrutta dall’anticorpo. Quindi un
trattamento Anti-cd20 determina una deplezione dei linfociti B però non
determina una deplezione delle plasmacellule e neanche una deplezione
dei plasmablasti e le plasmacellule hanno una vita abbastanza lunga e
producono anticorpi i quali hanno anche loro una vita lunga. Quindi è stato
sorprendente nel lavoro fatto da Stephen Hauser con Genentech, che gli
effetti sulla sclerosi multipla fossero così rapidi e evidentemente non
potevano dipendere dalla riduzione delle plasmacellule perché le
plasmacellule stanno a lungo li e gli Anti-CD20 non hanno effetti tossici nei
loro confronti e anche alcuni anticorpi, alcune IgG, rimangono nell'organismo
per molto tempo. Insomma, la cosa che è stata evidenziata è che gli Anti-
CD20 prevengono altre funzioni delle cellule B non la loro capacità di
trasformarsi in plasmacellule e formare anticorpi ma sostanzialmente il fatto
che le cellule B si comportano da APC, cioè da cellule che presentano
l’antigene, e sono delle APC altamente specializzate. Oltre a questo, ci
sono cellule B che producono citochine proinfiammatorie così come ci sono
anche cellule B regolatorie e altri farmaci che agiscono sulla superficie delle
cellule B e magari non hanno avuto successo nel trattamento della sclerosi
multipla perché hanno avuto un’interferenza con queste cellule B regolatorie
che invece sono importanti per l’immunotolleranza. Vi chiederete cosa sia
questo CD20 e a cosa serva perché, mentre si sa tanto sul CD19 e vi ho
detto poco fa che il CD52 in forma solubile può addirittura frenare
l'immunità, sul CD20 non si sa moltissimo. Probabilmente il CD20 serve a
facilitare l'ingresso di calcio dall'esterno quando il recettore delle cellule B
viene attivato. Quindi serve a facilitare la trasduzione del segnale del
recettore delle cellule B facendo entrare calcio dall'esterno della cellula.
Quindi questo potrebbe essere il principale meccanismo del CD20.
Cosa fanno questi 3 farmaci?

Innanzitutto, cosa importante i 3 farmaci legano il CD20 su epitopi diversi.


Questi epitopi diversi sono parzialmente sovrapponibili tra rituximab e
ocrelizumab mentre invece sono completamente distinti per ofatumumab.
Questo potrebbe essere interessante perché nel trattamento dei linfomi soprattutto,
è ben noto il meccanismo di resistenza a rituximab. Se avete resistenza nei
confronti di rituximab potrebbe essere utile ocrelizumab, se avete resistenza a
ocrelizumab potrebbe invece funzionare ofatumumab proprio perché l'epitopo del
CD20 è diverso (il cd20 attraversa la membrana plasmatica 4 volte e questi farmaci
si legano al segmento di congiunzione tra i vari domini transmembranari
ovviamente sulla parte extracellulare). Quindi voi potreste avere per esempio un
ocrelizumab che non funziona perché ci sono mutazioni a carico dell’epitopo a cui

71
lui si lega mentre, invece, somministrate l’ofatumumab che si lega in altre porzioni
del cd20 e a questo punto funziona. Questa, perciò, è una differenza che va presa
in seria considerazione.
Quali sono i meccanismi attraverso i quali viene ucciso il linfocita B? sono gli stessi
meccanismi che vi ho descritto poco fa a proposito di alemtuzumab nel senso che
voi potete avere la citotossicità che in questo caso è una tossicità del linfocita B
complemento mediata. Questa citotossicità complemento mediata voi la avete per il
rituximab, la avete per ofatumumab ma la avete meno con ocrelizumab. Quindi
questo meccanismo di distruzione dei linfociti B mediata dal complemento funziona
meno e questo per chi vende ocrelizumab, cioè la Roche, è considerato un punto
di forza perché sono legate all'intervento del complemento le cosiddette reazioni al
sito di infusione. Quindi avendo meno rappresentato questo meccanismo
complemento mediato nell’uccidere i linfociti B ocrelizumab da meno reazioni nel
momento in cui questo farmaco viene somministrato per EV. Ocrelizumab è l’unico
farmaco al momento sul mercato tra gli anti-CD20 nel trattamento della sclerosi
multipla. Poi c'è un'altra cosa: la citotossicità e la fagocitosi è anticorpo mediata e
come ho avuto modo di dirvi in questo particolare meccanismo la porzione Fc
dell’anticorpo monoclonale interagisce con il recettore FcIIIgamma e questo tipo di
interazione attiva, ad esempio, le cellule NK perché il recettore per Fc si trova sulle
NK. Quando il recettore viene attivato queste cellule distruggono il linfocita B
oppure il recettore si trova sui macrofagi e in questo caso avete la fagocitosi
cellulare anticorpo mediata perché il macrofago viene attivato e automaticamente
si mangia il linfocita B. Il problema è che nell' FcIIIgamma, in questo particolare
recettore, voi potete avere dei polimorfismi e per esempio c'è un polimorfismo in
posizione 158 dove potete avere la valina oppure al suo posto la fenilalanina. Se
è presente la fenilalanina il recettore è a bassa affinità il che significa che
l'anticorpo monoclonale ha difficoltà con la sua porzione Fc a legarsi al recettore e
questi due meccanismi principali che sono la citotossicità anticorpo mediata e
fagocitosi anticorpo mediata diventano meno efficaci perché la porzione Fc
dell’anticorpo non si lega più al recettore, in quanto il polimorfismo in posizione 158
valina/ fenilalanina rende il recettore meno attivo nei confronti delle Fc. Qui c'è una
differenza molto importante tra rituximab e gli altri due nel senso che ocrelizumab e
ofatumumab hanno un Fc con alta affinità nei contorni di FcIIIgamma, mentre
rituximab ha in generale un’affinità più bassa. Se voi usate rituximab nel
trattamento linfoma NH e vi trovate un recettore per Fc che ha fenilalanina in
posizione 158 il legame sarà debole e si creerà resistenza nei confronti di
rituximab. Questo è ben noto nel trattamento del linfoma NH mentre nella sclerosi
multipla se voi utilizzate ocrelizumab o ofatumumab questi anticorpi hanno in
generale una maggiore affinità, in generale per Fc, e sono in grado di legare Fc
anche quando dovesse presentare la fenilalanina in posizione 158 che riduce
l'affinità del recettore nei confronti di Fc. Quindi se il recettore per Fc ha
fenilalanina in posizione 158 nel caso di rituximab questo non si lega più perché la
sua porzione Fc non ha affinità sufficiente per il recettore, invece, ocrelizumab e
ofatumumab sono ancora in grado di legarsi e quindi la differenza sostanziale è
questa. C'è un ultimo meccanismo di attacco dei linfociti B ed è quello che è
erroneamente indicato come apoptosi diretta da parte dell’anticorpo. In realtà non è
una vera apoptosi diretta ma è una disorganizzazione del citoscheletro delle cellule
B e nei confronti di questo meccanismo ci sono altri anticorpi non sviluppati per la
sclerosi multipla come obinutuzumab che sono particolarmente efficaci. Però
ofatumumab e ocrelizumab sono sicuramente più efficienti rispetto rituximab. Il
problema quando voi fate questo tipo di trattamento con anticorpi anti-CD20 è che
ovviamente la deplezione delle cellule B può creare una predisposizione nei

72
confronti delle infezioni soprattutto di quelle virali e qui con covid-19 non siamo
messi bene nel senso che ocrelizumab è il farmaco che più di tutti gli altri aumenta
il rischio di sviluppare covid-19 proprio perché rende meno efficiente il SI nei
confronti di SARS-Cov-2. Questo nello studio del gruppo italiano della sclerosi
multipla e Covid, pubblicato su Lancet Virology da parte del prof. Marco Salvetti e
di tutti i suoi collaboratori, è abbastanza bene evidenziato. Ovviamente i pazienti
trattati con ocrelizumab beneficiano molto del farmaco perché è molto efficace e lì
bisogna valutare il rapporto rischio/beneficio cioè se si continua a fare questo
trattamento con un aumento del rischio di ammalarsi di covid-19 oppure si cambia
da ocrelizumab ad un altro farmaco, ad esempio natalizumab, nel tentativo di
ridurre il rischio di ammalare di covid-19. L'altra cosa è la vaccinazione: questo è
ben noto. Le vaccinazioni ad esempio antinfluenzali, per lo pneumococco e così via
risentono del trattamento con antiCD20 quindi bisogna aspettare del tempo prima
che i pazienti possano essere vaccinati. Sempre questo studio in Israele di Anat
Achiron dimostra che i pazienti che sono in trattamento con ocrelizumab con anti-
CD20 non sviluppano una reazione anticorpale quando vengono trattati con il
vaccino Pfizer Anti-SARS-Cov-2. Ancora una volta è importante valutare la risposta
cellulo-mediata come abbiamo visto per gli analoghi della sfingosina ma insomma è
anche vero che in questo caso una ridotta efficienza della vaccinazione era più
prevedibile nel caso di ocrelizumab perché la deplezione delle cellule B dura
parecchio tempo e quindi la ricostituzione del sistema immunitario è più lenta
rispetto a quella che si osserva per esempio con cladribina.

Come si somministra ocrelizumab?


Viene somministrato in vena e questa ancora una volta è una differenza
importante con ofatumumab che invece si dà per via sottocutanea. In questa
somministrazione in vena viene fatto un primo dosaggio di 300mg, il dosaggio si
ripete sempre 300 mg dopo due
settimane e a partire da questo si danno 600mg ogni 6 mesi. Avete alla fine una
copertura dell'anticorpo per 6 mesi.

Perché ocrelizumab è così particolare nel trattamento della sclerosi multipla?


Perché c'è un famoso studio clinico che prende il nome di “studio oratorio” e
questo studio è stato il primo ad aver dimostrato l'effetto di un qualunque farmaco
nei confronti della sclerosi multipla primaria progressiva. Quindi questo è il fiore
all'occhiello dell'ocrelizumab. È un farmaco che ha mostrato attività nei confronti
della forma primaria progressiva che è una forma in cui c'è disabilità neurologica
ma non ci sono gli episodi infiammatori. Come ho avuto modo di dirvi queste
forme non sono sempre pure. Ogni tanto un pochino di attività infiammatoria c'è e
questa magari è stata una critica da parte delle altre aziende nei confronti della
Roche che ha fatto questo dicendo “eh quello che avete visto non era in pazienti
puri con forma primaria progressiva ma ogni tanto avevano delle poussée
infiammatorie ma indipendentemente da questo c'è un effetto significativo che
riguarda la progressione della disabilità”. Questa disabilità si misura con le EDSS
(scala di disabilità neurologica che va da 0 a 10. Quando si supera 4.5, si arriva a
5 o lo si supera il paziente inizia a essere in crisi e lo trovate sulla sedia a rotelle).
Quindi avere un farmaco che rallenta questa progressione diventa particolarmente
importante.
Quindi questa è la storia degli Anti-CD20, la grande rivoluzione nel trattamento
della sclerosi multipla, e questa rivalutazione dei linfociti B nella patogenesi della
malattia, quando la malattia si pensava dipendesse esclusivamente dai linfociti T
secondo le interpretazioni precedenti, ma adesso sappiamo che i linfociti B sono

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almeno altrettanto importanti. Il problema degli anti-CD20 è legato all'aumentato
rischio di ammalare di SARS-Cov-2. Lo studio israeliano, che teoricamente doveva
essere pubblicato il 7 aprile ma in realtà non è mai uscito fuori, ha suscitato molte
critiche anche da parte degli immunologi in Israele proprio perché la prof. Achiron si
è sbilanciata molto cioè prima di dire che i pazienti che per esempio stanno
facendo Gilenya o Fingolimod devo sospendere fingolimod se si vogliono
vaccinare ovviamente non potete basarvi esclusivamente sul fatto che non c'è una
siero reazione positiva ma dovete andare a vedere la reazione cellulo-mediata,
perché magari questi pazienti hanno un'efficiente reattività da parte delle cellule T
e soprattutto i CD8+ sono perfettamente in grado di contrastare il virus però non
hanno una reazione anticorpale significativa. Chissà per quale motivo ma potrebbe
essere così e in questo caso magari una situazione del genere può essere
vantaggiosa. Quindi c'è molta controversia in questo momento che è anche dettata
da ovvie tematiche di mercato e cose di questo tipo.

Prima di chiudere con la sclerosi multipla vorrei fare riferimento ad altri due farmaci:
uno è un farmaco che si usa nella spasticità. La spasticità è un segno della sclerosi
multipla che si vede abbastanza spesso. Ricordatevi la differenza tra spasticità e
rigidità. La rigidità è un ipertono dei muscoli estensori e flessori contemporaneo che
crea il fenomeno della ruota o troclea dentata ed è uno dei segni caratteristici della
malattia di Parkinson.
Spasticità invece si riferisce all'ipertono soprattutto dei muscoli estensori e in
particolare dei muscoli estensori fisiologici. Per esempio, la spasticità si ha nel
momento in cui viene compromesso il fascio piramidale. Questo per esempio si
vede nella sclerosi laterale amiotrofica in cui i cordoni laterali che veicolano le fibre
del fascio piramidale che viaggiano nel midollo spinale vanno in sclerosi cioè
vengono colpite nella sclerosi laterale amiotrofica e se prevale la compromissione
del motoneurone spinale avete flaccidità perché il muscolo non può contrarsi, se
invece prevale la degenerazione delle cellule piramidali giganti di Betz della
corteccia celebrale, quindi il fascio piramidale è compromesso, a quel punto avete
prevalentemente spasticità. Nella sclerosi multipla c'è spasticità che può derivare
ovviamente dalla demielinizzazione dei fasci e in questi casi si può usare il Sativex.
È una combinazione di THC e cannabidiolo e in pratica si fa uno spray orale di 100
microlitri (ogni 100 microlitri contengono 2,7 mg di THC e 2,5 mg di CBD).
Interessante che i due principali composti della cannabis sono combinati insieme.
C'è una differenza enorme tra THC e cannabidiolo. Innanzitutto, questi spray si
possono fare anche più volte al giorno cioè bisogna trovare il dosaggio sufficiente
per poter risolvere la spasticità o comunque poter aiutare nei confronti della
spasticità. Il THC attiva prevalentemente i recettori CB1 nel sistema nervoso
centrale. Il cannabidiolo invece fa tutt'altro. Il meccanismo d'azione non è così
chiaro: per esempio è un agonista parziale dei recettori 5HT1a , agisce sui recettori
per la glicina, agisce su canali trp cioè sono stati proposti tanti meccanismi di azione
del cannabidiolo però il cannabidiolo nei confronti del THC ha un effetto
ENTOURAGE che significa che aiuta un po’ l'azione del THC e lui lo fa perché per
esempio inibisce CYP2C9 , CYP3A4 e per esempio il delta9- tetraidrocannabinolo è
metabolizzato dal CYP2C9 quindi si creano delle situazioni di boosting farmaco
cinetico.
Qual è il problema di questi farmaci?
Il cannabidiolo da solo problemi in realtà non ne darebbe. Il cannabidiolo oggi è
stato approvato per il trattamento della sindrome di Dravet che è una grave forma
di epilessia encefalopatica, è stato approvato anche per la sindrome di Lennox-

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Gastaut che è un'altra forma di epilessia encefalopatica. Non è in grado di avere
azioni psicotrope, per esempio il cannabidiolo è stato proposto anche per il
trattamento di malattie psichiatriche incluso il disordine da uso di sostanze. Per il
THC la cosa è completamente diversa perché l'azione del THC nei confronti del
CB1 può determinare predisposizione alla psicosi. È chiaro che qui avete un
paziente con sclerosi multipla, quindi il calcolo rischio/beneficio deve tener conto
della patologia di base e deve tener conto dell'effetto invalidante della spasticità, su
questo non ci piove, però alterazioni del tono dell'umore, disforia, manifestazioni di
tipo psicotico sono state osservate nel trattamento con sativex. Questo dipende dal
fatto che i recettori CB1 sono presenti espressi da alcuni interneuroni corticali che
sono interneuroni basket, cioè cellule a canestro (significa che fanno sinapsi con il
corpo cellulare delle cellule piramidali contornandolo), e queste cellule a canestro
non sono quelle più note che esprimono parvalbumina ma sono quelle che
esprimono CCK cioè colecistochinina. Però queste cellule a canestro sono
importanti nel regolare le attività di network nel SNC e nel regolare la stazione di
scarica nelle cellule piramidali soprattutto nelle frequenze gamma da 30 a 90 Hz
che sono fondamentali per la sfera cognitiva. Quindi quando voi attivate in maniera
abnorme i recettori CB1 perché invece dei prodotti endogeni degli endocoidi, cioè
arachidonoil-glicerolo e anandamide, che sono prodotti esclusivamente dove
necessario e quando necessario voi il THC lo date dall'esterno chiaramente si può
alterare tutta la dinamica di network del snc e questo può determinare poi una
predisposizione. Il sativex viene utilizzato nel trattamento della sclerosi multipla e
una delle ragioni per cui i sostenitori della cannabis sono convinti che la cannabis
non faccia male in realtà questo è un trattamento terapeutico in cui il THC è
bilanciato dal cannabidiolo questo può dare boosting farmaco cinetico ma nello
stesso tempo il cannabidiolo può avere un'azione mitigante. Indipendentemente da
tutto questo il THC può avere delle ripercussioni dal punto di vista psichiatrico che
possono essere particolarmente serie. È vero però che pazienti con sclerosi
multipla hanno tratto beneficio dal consumo di cannabis (fumare canne e spinelli) e
alcuni sostengono che fumare la canna può essere più utile che prendere il sativex
ma ovviamente nella cannabis ci sono tantissimi altri composti psico-attivi che
posso facilitare l'azione del THC e questo anche perché la sclerosi multipla è una
patologia in cui c'è anche il dolore come una delle principali manifestazioni cliniche
e anche alcuni tipi di allodinia ed è noto che anche il THC ha un azione analgesica
quindi i vantaggi possono esser di vario tipo.

Il secondo farmaco che voglio prendere in considerazione è il Fampyra che è la 4-


aminopiridina e inibisce alcuni canali del potassio che sono canali potassio
voltaggio dipendenti, i canali kv1 che sono codificati dal gene KCNA. Che cosa fa
questo farmaco? Viene utilizzato questa volta per la fatica. La fatica è uno dei
segni principali della sclerosi multipla. I malati hanno astenia, si stancano subito
quando devono fare un particolare percorso è per esempio uno dei modi per
valutare se la 4-amminopiridina sta funzionando per migliorare la fatica è fare
camminare i pazienti per un determinato percorso e si fa il T25W che significa farli
camminare (w= walking) per 25 piedi e si calcola il tempo di percorso e si vede se il
paziente riesce a fare il percorso in un tempo ragionevole oppure non ce la fa
perché il paziente comincia ad avere tanta fatica.
Posologia 4-aminopiridina: 10mg bid (2volte/die).
Considerate che il blocco dei canali del potassio aumenta l'eccitabilità delle cellule
nervose, ciò può portare a manifestazioni psichiatriche quali agitazione e aggressività
ma soprattutto può predisporre a crisi epilettiche.
Quindi se ci sono manifestazioni di ipereccitabilità, questo farmaco dev'essere

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preso con una certa cautela.
Non è necessario che vi dica che se un paziente con Sclerosi Multipla
contemporaneamente ha un disordine da uso/abuso di Alcool o sta prendendo una
"tempesta " di benzodiazepine, anche nel tentativo di usarle come miorilassanti,
quando entrerà nella fase di astinenza, vi sarà una condizione di ipereccitabilità che
può portare ad una riduzione molto marcata della soglia per le convulsioni, e se il pz
sta prendendo la 4- amminopiridina, la situazione diventa critica.

Detto ciò, abbiamo finito la SCLEROSI MULTIPLA (MS).

NEUROMIELITE OTTICA
o DISORDINE DELLO SPETTRO DELLA NEUROMIELITE
OTTICA (NMOSD)
Vi ho detto all'inizio che le patologie neuroinfiammatorie hanno come "capostipite" la
SCLEROSI MULTIPLA. Ma in realtà, oggi esistono due entità nosografiche importanti
che inizialmente erano inglobati insieme ma che adesso è possibile separare:
1. La prima, è la cosiddetta NEUROMIELITE OTTICA, chiamata
precedentemente "NEUROMIELITE OTTICA DI DEVIC;
2. la seconda, invece, è rappresentata dalla patologia neuroinfiammatoria con
ANTICORPI ANTI-MOG.
La Neuromielite ottica, che oggi si chiama " DISORDINE DELLO SPETTRO DELLA
NEUROMIELITE OTTICA" (NMOSD) è una patologia che presenta delle differenze
con la sclerosi multipla, anche se di fatto è anch’essa una patologia demielinizzante
su base neuroinfiammatoria che colpisce il SNC.
Quali sono le differenze?
DIFFERENZE TRA SCLEROSI MULTIPLA(MS)e NMOSD:
Innanzitutto, la DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: nel senso che
• la sclerosi multipla ha una maggiore prevalenza nel Nord Europa e nel Nord
America e interessa soprattutto i Caucasici con un classico gradiente NORD-
SUD; • mentre la NMOSD ha una prevalenza abbastanza simile nelle varie parti
del globo quindi non abbiamo gradiente geografico.
ETÀ DI INSORGENZA MEDIA:
• per MS è quasi 30 anni
• per la NMOSD è circa 10 anni dopo.
DISTRIBUZIONE DELLA LESIONE:
• nella MS avete demielinizzazione nella sostanza bianca della corteccia, anche
nel midollo spinale, fondamentalmente le placche possono essere dovunque; •
nel NMOSD viene colpito innanzitutto il nervo ottico, sennò non si chiamerebbe
così (che comunque viene anche colpito nella sclerosi multipla: può capitarvi di
fatto che la sclerosi multipla si presenti come neuropatia ottica). E poi vi è la
presenza di MIELITE TRASVERSA, una lesione che prende trasversalmente il

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midollo spinale e cosa importante, si estende almeno per tre segmenti
vertebrali, mentre quando qualcosa del genere è presente nella MS,
l'estensione è molto più limitata.

[Si è parlato di mielite trasversa a proposito del vaccino ASTRAZENECA perché ci


sono stati un paio di casi negli studi clinici di lancio del vaccino (anche se questi
casi sono stati anche riscontrati nei soggetti non trattati) e alla fine si è scoperto che
il pz affetto da mielite trasversa che aveva effettuato il vaccino era affetto da
sclerosi multipla, quindi insomma alla fine non faceva giurisprudenza]

LA DIFFERENZA MAGGIORE TRA LE DUE PATOLOGIE:


• La MS non ha dei biomarcatori (Quando prendete il liquor cercate le bande
oligoclonali che comunque sono importanti nella diagnosi di malattia ma gli
anticorpi presenti nel liquor non hanno una grandissima importanza nella
patogenesi della malattia).
• Invece nella NMOSD, il 75% dei pz hanno ANTICORPI DIRETTI (IgG in
particolare) contro una proteina che si trova negli astrociti che si chiama
ACQUAPORINA-4 della quale adesso parleremo, e che ci richiama alla mente
l'acquaporina 2 (la proteina regolata dall'ADH nel dotto collettore del rene), ma
sono isoforme diverse. Il rimanente 25% può avere altri anticorpi: ad esempio
gli ANTICORPI ANTI-MOG.
Per cui all'interno di questo spettro avremo anche pazienti con ANTICORPI ANTI-
MOG (positivi per la glicoproteina della mielina degli oligodendrociti) e
ACQUAPORINA-4 NEGATIVI che rappresentano una quota che può andare dall' 8-
41%. Oggi si tende a differenziare come terza patologia neuroinfiammatoria proprio
i pz che hanno malattie demielinizzanti con anticorpi anti-MOG positivi. Quindi c'è
un po' di confusione dal punto di vista della classificazione clinica perché prima,
questi pz con gli anticorpi anti-mog venivano considerati come una minoranza dei
pz affetti da NMOSD, ad oggi invece vengono considerati separatamente.

DECORSO DELLA MALATTIA in MS e NMOSD:


• Nella MS: l’85% dei casi è costituito da remissioni e ricadute, poi una parte di
questi, almeno il 65%, sviluppano la forma secondaria e progressiva.
• nella NMOSD invece, è vero che l'80-90% dei casi ha lo stesso decorso
(remissioni e ricadute) MA c'è una differenza fondamentale: mentre nella MS
la progressione in disabilità è tutto sommato indipendente dalle ricadute (è
comunque importantissimo controllare e ridurre al massimo il tasso annuale di
ricadute, come avete potuto vedere, con tutti i farmaci di 2 alinea dal
FINGOLIMOD fino alla ALEMTUZUMAB) però la progressione della disabilità
neurologica va avanti lo stesso, nonostante il controllo esercitato sulle
ricadute; invece nella NMOSD la progressione della disabilità è strettamente
correlata alle ricadute.

PREVALENZA: siamo tra 0,05-13/100.000 (prevalenza più bassa della MS dove si


può arrivare a 40-50/100.000 soprattutto nei paesi nordici o molto vicini in
Sardegna) RAPPORTO M: F in NMOSD = 1:9 (Donne nettamente più colpite degli
uomini)

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Cosa si usa oggi quando avete un paziente affetto da NMOSD e fate la corretta
diagnosi? C'è una lista di farmaci che possiamo utilizzare, tra questi ve n'è uno che
è possibile usare anche per la Sclerosi Multipla che è il RITUXIMAB; possiamo
utilizzare anche l'AZATIOPRINA, il profarmaco della 6-mercaptopurina; un altro
ancora è la CICLOFOSFAMIDE, tuttavia sono farmaci che non hanno
un’indicazione specifica per la Sclerosi Multipla, e in tutta la lista di farmaci
tradizionalmente utilizzati nella neuromielite ottica non vi sono farmaci che vengono
utilizzati specificatamente per la sclerosi multipla.

Non solo, i farmaci specifici per la MS come interferone, fingolimod, dimetilfumarato


o natalizumab o non hanno effetto o addirittura peggiorano la condizione clinica della
Neuromielite Ottica.
Quindi si tratta di patologie che in realtà hanno le loro differenze.

PATOFISIOLOGIA della NEUROMIELITE OTTICA/ NMOSD: La prima domanda


che dobbiamo porci è perché si producono questi anticorpi? Gli anticorpi anzitutto
sono prodotti dai plasmablasti tardivi, e un grande attore coinvolto nella produzione
di questi anticorpi (che poi è una citochina riconosciuta inizialmente per la sua
capacità di far proliferare i linfociti B e li spinge al differenziamento in plasmablasti e
plasmacellule) è IL-6.
Questi anticorpi entrano nel SNC e attaccano l’ACQUAPORINA-4, proteina di
membrana che si trova negli astrociti, fondamentale per il trasporto dell'acqua.
L'attacco dell'anticorpo prevede anche l'intervento del Sistema del Complemento
(che può rappresentare anche un bersaglio per la terapia come adesso vedremo).
L'astrocita viene quindi danneggiato e il danno crea infiammazione con reclutamento
di neutrofili e monociti, questi ultimi una volta giunti nel SNC, diventano microglia o
anche macrofagi.
Come evento successivo viene danneggiato anche l'oligodendrocita nel suo rapporto
con l'astrocita (oligodendrocita responsabile della formazione della mielina) e infine
viene danneggiato l'assone.
Il danno neuronale, che poi rappresenta l'evento finale, dipende strettamente dal
tasso di ricadute di questa patologia, a differenza della MS in cui all'inizio è
identico, poi viene compensato, ma successivamente progredisce in maniera
indipendente. Una cosa interessante che si verifica è che, nel momento in cui
l'anticorpo si lega all'ACQUPORINA-4, questa viene internalizzata nell'astrocita e
nel momento in cui viene internalizzata, si trascina anche un trasportatore del
glutammato, e quando ciò accade avremo la riduzione della clearance (ovvero una
riduzione del glutammato a livello sinaptico) e questo può contribuire poi alla morte
neuronale e ai meccanismi di neurotossicità. Quindi ricapitolando:
1. I plasmablasti, sotto la guida dell'IL-6, producono Anticorpi IgG contro
l’acquaporina 4
2. Gli anticorpi si legano all’acquaporina-4 degli astrociti e attivano il sistema del
complemento, innescando un processo infiammatorio con danno agli astrociti
e conseguentemente anche agli oligodendrociti →demielinizzazione
dell’assone.
3. Contemporaneamente abbiamo l'internalizzazione dell'acquaporina 4 col
trasportatore del glutammato e il glutammato contribuisce al processo di
neurotossicità neuronale.
Perché questo meccanismo interessi tipicamente il nervo ottico e almeno 3 segmenti
consecutivi del midollo spinale con la mielite trasversa non è noto, però è anche vero

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che la neuromielite ottica può interessare anche altre parti del SNC.

Cosa si può fare nella terapia della NEUROMIELITE OTTICA?


A. Innanzitutto, attaccare il complemento: A tutt'oggi, questo tipo di intervento è
probabilmente il più efficace.

Il farmaco che è stato sviluppato per il trattamento della neuromielite ottica (ma
non solo per questa, questo farmaco può essere utilizzato ad esempio per
l'emoglobinuria parossistica notturna, o per i casi atipici di sindrome uremico-
emolitica - non so se vi ricordate dalle lezioni sugli antibiotici, lo STECK, cioè
l'E. Coli, produttore di tossina SHIGA-like è in grado di dare la sindrome
uremico-emolitica) e l’ ECULIZUMAB, che si lega al fattore C5 nella cascata
del complemento e impedisce che C5 venga trasformato in C5a e C5b: C5a è
coinvolto nell'infiammazione, recluta le cell. infiammatorie; mentre C5b è
importante per la formazione del complesso di attacco alla membrana da parte
del complemento, la così detta formazione MAC.

Quando somministrate ai pazienti l'ECULIZUMAB, nonostante le fluttuazioni


plasmatiche del farmaco nel tempo, il C5 del complemento si mantiene sempre
a livelli bassi per almeno 75 settimane.

L'ECULIZUMAB è un anticorpo monoclonale umanizzato (eccetto la porzione


ipervariabile che è murina), ed è diretto vs il Sistema immunitario, (-LI- sta per
linfociti).

Nello studio di lancio (studio Prevent di fase III) dell'ECULIZUMAB nel


trattamento della neuromielite ottica, vi sono dei risultati fantastici: Se facciamo
un confronto tra placebo e ECULIZUMAB valutando la % dei pz che non hanno
ricadute, con l'ECULIZUMAB siamo al 100%, cioè nessuno dei pz trattati nel
decorso temporale, cioè fino a 240 settimane di trattamento, ha ricadute;
mentre nei pz trattati col placebo addirittura l'80% hanno ricadute.

Posologia ECULIZUMAB: 900mg in vena, una volta/sett per 4 settimane e


poi si danno 1.2 gr (1200mg) in vena ogni 2 settimane.

Quando fate questo trattamento, questo sarà efficace nei pz che hanno
anticorpi anti AQP4, quindi quel 75% di pz che hanno NMOSD; Coloro che
invece hanno NMOSD ma non hanno anticorpi anti-AQP4: o non rispondono
al farmaco o rispondono molto poco.

È un farmaco ben tollerato, però bisogna stare attenti al meningococco, poiché


se ci sono focolai di meningite, il complemento rappresenta una grande difesa
nei confronti del meningococco ed è quindi importante valutare anticorpi vs
meningococco o comunque attenzionare la condizione del pz ed
eventualmente effettuare profilassi antibiotica (fortunatamente, il
meningococco risulta ancora altamente responsivo nei confronti di penicilline
e cefalosporine) prima della somministrazione dell'ECULIZUMAB.

Il profilo di sicurezza è molto buono nei pazienti con Anticorpi Anti-AQP-4


positivi e affetti quindi da NMOSD.

B. Una seconda possibilità è quella di attaccare il CD19, per il semplice motivo

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che il CD19, a differenza del CD20, lo trovate ancora nei plasmablasti (e
ricordatevi che sono i plasmablasti tardivi quelli che producono gli anticorpi nei
confronti dell'acquaporina 4 degli astrociti).
Un anticorpo che possiamo utilizzare è l’INEBILIZUMAB, che è un IgG
afucosilata (senza fucosilazione) in grado di attaccare il CD19 e lo attacca
mediante: - citotossicità mediata da complemento;
- citotossicità cellulare dipendente dall'anticorpo che rappresenta il
meccanismo prevalente;
- Fagocitosi cellulare dipendente dall'anticorpo
- e apoptosi diretta.

Anche qui si tratta di un anticorpo umanizzato diretto vs i linfociti.


Nello studio di lancio vedremo che è meno robusto rispetto a ECULIZUMAB.

POSOLOGIA INEBILIZUMAB: 300mg in vena al giorno1 e al giorno15 (ad


intervalli di due settimane) e ripetuto ogni 6 mesi (Come l'OCRELIZUMAB 300
mg per la MS sempre per via ev).

É chiaro che se usate un anticorpo del genere, che in realtà non ha avuto
sviluppo nella MS, attenti alle infezioni (in modo particolare da HIV o TBC, ma
questo mi sembra abbastanza ovvio)

Il profilo di sicurezza è abbastanza buono, può esserci una maggiore incidenza


di qualche effetto avverso: come l'ALTRALGIA 10% vs 4 % del placebo, ma si
tratta comunque di cose di poco conto.

-Perché l’Anti-CD20 non viene dato nella neuromielite ottica? In realtà può essere
dato, perché il RITUXIMAB viene dato, però ricordatevi che il CD20 non è espresso
nei plasmablasti tardivi. Quindi se diamo l'ANTICD20, in realtà eseguiamo una
deplezione delle cellule B e poi loro non si trasformeranno in plasmablasti però i
plasmablasti e le plasmacellule già presenti stanno lì. Invece con l'Anti-CD19 i
plasmablasti li togliete di mezzo.

CD19 e NEUROTOSSICITÀ:
Una cosa interessante, che ha portato i miei collaboratori e una vostra collega che si
è appena laureata, ad esplorare un fenomeno un po' strano è che, tutto ciò che è
diretto vs CD19 può dare in determinate circostanze neurotossicità, e questo è
abbastanza paradossale visto che parliamo di una patologia del SNC.
Voi mi direte come fai a dir questo? Ad esempio, vi sono degli anticorpi Anti-CD19
come il BLINATUMOMAB e il DENINTUZUMAB che sono diretti vs il CD19, utilizzati
in oncoematologia, che danno una % di effetti avversi a carico del SNC pari a 8,61%
e 7,5%, decisamente molto più alta rispetto a tutta una serie di anticorpi che per
esempio sono diretti vs CD20, CD38 o CD22.]

Sempre vs CD19, ci sono le CAR-T, ovvero cellule T con recettore chimerico


che vengono utilizzate per i tumori liquidi, cioè per leucemie e linfomi.
Ci sono due problemi con le CAR-T: uno è il rilascio di citochine e l'altro è la
neurotossicità.
le CAR-T sono dirette vs CD19 quindi quando utilizzate AntiCD-19 anche qui
chiaramente rischiate questa neurotossicità.

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Allora ha senso dare un farmaco come l'INEBILIZUMAB che è diretto vs CD19
nella Neuromielite Ottica quando altri anticorpi Anti-CD19, che si usano in
ematologia o le CAR-T dirette vs CD19 possono dare neurotossicità.
Ritornando alla neurotossicità:
Tra l’altro questa studentessa che si è laureata adesso, ha valutato anche con
bioinformatica tutte le possibili spiegazioni di questo fenomeno che è molto strano
perché il CD19 non è espresso nel SNC, a meno che non ci siano situazioni estreme
di infiammazione, tuttavia potrebbero esserci dei meccanismi di mimetismo
molecolare, cioè alcune proteine che presentano epitopi simili a proteine associate
a CD19, e quindi questo rappresenta un qualcosa che va esplorato ed è
estremamente interessante.

C. L'ultimo bersaglio per la Neuromielite ottica è come dicevo l'IL-6, una delle
interleuchine più affascinanti che abbiamo all'interno del nostro organismo che
media i meccanismi infiammatori: ad è un grande protagonista della
SINDROME DA RILASCIO DI CITOCHINE che si ha nel COVID19.
-L'IL-6 ha azioni pleiotropiche;
-viene prodotta principalmente da cellule del sistema immunitario e circola a
livelli molto bassi: da 1 a 5 picogrammi/ml in condizioni normali; ma durante
l'infiammazione i livelli raggiungono addirittura a nanogrammi/ml, quindi a livelli
1000 volte superiori.
-L' IL-6 regola diversi aspetti del metabolismo:
• a livello epatico regola non solo il metabolismo ma anche i meccanismi di
rigenerazione epatica;
• regola il metabolismo osseo;
• regola il metabolismo lipidico: per es. induce l'apolipoproteina A che
svolge un'azione antisclerotica;
• ma la cosa più importante la fa nei confronti del S.I. per esempio è stata
identificata come fattore di differenziamento dei LINFOCITI B, ed ha un
ruolo fondamentale in questa patologia.
Facendo un'indagine di diversi lavori, valutando i valori di IL-6 sia nel liquor che nel
sangue di pz. affetti da Neuromielite ottica e pz affetti da MS e osservandoli rispetto
a condizioni di controllo: nella MS i livelli di IL-6 non si muovono, mentre nella
Neuromielite ottica, sia nel sangue che nel liquor, i livelli di IL6 aumentano in modo
stratosferico e cosa interessante è che aumentano anche in quei pazienti che hanno
anticorpi anti-MOG oltre ai pz con anticorpi anti-AQP4 positivi.
Cosa fa l'IL-6?
interagisce col suo recettore, il quale, per poter funzionare dev'essere coadiuvato
da due proteine che gli stanno vicine: GP130.
Si tratta di un recettore composto da tre subunità: una subunità recettoriale
propriamente detta e due subunità ancillari, le GP130.
Ora mentre il recettore per l’IL6 propriamente detto è situato a livello delle cellule
del sistema immunitario e in alcune cellule della cute, quindi una distribuzione
cellulare abbastanza ristretta, invece le GP130 sono proteine presenti nella
maggior parte delle cellule.
MECCANISMI DI SEGNALAZIONE CELLULARE IL6-IL6R
1. Abbiamo innanzitutto un meccanismo di segnalazione classico: l'IL-6 si lega al
recettore coadiuvato da GP130 e il recettore trasmette attraverso il sistema
JAK STAT, sistema di segnalazione classico dei recettori per le citochine.

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2. Però c'è anche un altro meccanismo che si chiama TRANS SIGNALING:
dipende dal fatto che, a volte il r. dell’IL-6 si stacca dalla membrana (viene
staccato da enzimi della famiglia ADAM) e diventa solubile. IL6R solubile è in
grado poi di legare comunque l’IL6 e interagire con GP130 che stanno presenti
in tutte le cellule. Quindi mentre la segnalazione classica vale solo per quelle
cellule che esprimono IL-6R su membrana, questa segnalazione trans,
riguarda tutte le cellule in cui sono espresse Gp130.
3. Esiste una terza modalità, in questo caso sono coinvolte alcune cellule che
presentano l'antigene, queste esprimono il IL-6R che lega IL-6 e
successivamente questo nuovo complesso viene presentato ad altre cellule
che hanno il Gp130 e questo meccanismo si chiama
TRANSPRESENTAZIONE.

Ricapitolando avremo 3 meccanismi di segnalazione cellulare: un meccanismo di


segnalazione classica, un meccanismo di transegnalazione e un meccanismo di
transpresentazione.

Voi avete diverse modalità per intervenire in questo meccanismo:


1. la prima è utilizzare anticorpi diretti contro l’IL-6, se fate questo, potete bloccare
la segnalazione classica ma non bloccate la transegnalazione, quindi non è
una modalità molto buona e non è tanto applicata in medicina.

2. La modalità migliore invece è quella di utilizzare anticorpi monoclonali diretti


contro il recettore dell'IL6 e bloccate tutte e 3 le modalità di segnalazione. Il
farmaco prototipico che fa questo è il TOCILIZUMAB, utilizzato nella MS ma
anche nella fase di iper-infiammazione da covid19

Posologia: 8mg/prokg in vena ogni 4 settimane, quindi somministrazione


mensile.

In uno studio di confronto (Tango di fase II) con l 'AZATIOPRINA, uno dei
farmaci immunosoppressori aspecifici che si usa nel disordine dello spettro
della neuromielite ottica si è visto che l'effetto del TOCILIZUMAB è migliore.
Nell'analisi dei dati vi è in fatti un 86% di pazienti con TOCILIZUMAB che non
hanno ricadute mentre solo il 50-
57% con AZA non hanno ricadute.

Partendo dal Tocilizumab si è arrivato ad un anticorpo più evoluto, che si


chiama SATRALIZUMAB, un anticorpo sviluppato dall’azienda giapponese
CHUGAI e che è stato preso da LA ROCHE.
Si tratta di un anticorpo in un certo senso "intelligente", è un anticorpo pH
dipendente: ciò che accade è che l'anticorpo si lega al IL-6R e dopo il legame
l'anticorpo viene trascinato col recettore all'interno degli endosomi. Negli
endosomi il pH è acido poiché poi si complessano con i lisosomi e
normalmente, come nel TOCILIZUMAB, vi è la degradazione sia dell’anticorpo
che del recettore, ma il SATRALIZUMAB è un anticorpo pH dipendente, nel
senso che in ambiente acido, come nel caso degli endosomi, l'anticorpo si
stacca dal recettore dell’IL-6 e si lega ad un recettore che si chiama FCRN che
sarebbe il recettore di Brambell, il recettore neonatale Fc. Questo nuovo

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complesso FCRN-SATRALIZUMAB ritorna sulla membrana e a pH fisiologico,
l'anticorpo si stacca da FCRN e ritorna nuovamente disponibile per attaccare
nuovamente un nuovo recettore per l’IL-6.

CONFRONTO TRA TOCILIZUMAB E SATRALIZUMAB:


Tocilizumab: è un IgG1
Satralizumab: è un IgG2
A pH 7.4 il SATRALIZUMAB ha un'ottima affinità nei confronti dell’IL-6R, superiore
rispetto a quella del Tocilizumab
Analizzando le costanti di dissociazione (più basse sono e maggiore è l'affinità)
abbiamo: 1,5 nanomol per Satralizumab e 5,8 nanomol per il Tocilizumab.
A pH.5.8 il SATRALIZUMAB si dissocia completamente e molto velocemente dall’
IL-6R mentre l'affinità per FCNR allo stesso pH è molto maggiore 680 nanomol
rispetto al TOCILIZUMAB2800 nanomol
EMIVITA: Satralizumab: 30gg vs Tocilizumab:13gg. Quindi l'effetto nella
neuromielite ottica dura di più.

Affinità x Fc gamma R: è maggiore per il Tocilizumab rispetto al Satralizumab, ciò


significa che eventuali effetti citotossici sono maggiori per il tocilizumab
Modalità di somministrazione:
-per la sua lunga emivita il Satralizumab viene dato ogni 4 settimane a 120 mg
sottocute; -Il Tocilizumab si dà 8mg in vena ogni 4 settimane, ma se si desse
sottocute bisognerebbe darlo ogni settimana.

Sono stati fatti due studi sull'uso del Satralizumab nel trattamento della neuromielite
ottica (SAKURA STAR e SKY) che dimostrano un ottimo effetto del farmaco nei
confronti della frequenza delle ricadute, però esclusivamente nei pz con anticorpi
anti-acquaporina4 positivi.

EFFETTI AVVERSI: quando usate anticorpi contro il recettore dell'IL6 che


precauzioni bisogna avere?
Ovviamente durante il trattamento si avrà una predisposizione alle infezioni che ci
può sempre essere. Cosa interessante è che sono controindicati nella malattia di
Chron.

Abbiamo detto anche che sono regolatori del metabolismo lipidico e potreste avere
degli aumenti dei trigliceridi e di LDL ma anche delle HDL quindi potremmo dire che
comunque il metabolismo del colesterolo viene bilanciato.

C' è anche un effetto su alcuni citocromi, CYP2C19 e CYP2D6 e CYP3A4 che però
in questo caso vengono indotti dall'anticorpo, perché l'IL-6 ne impedisce invece la
produzione. Riassumendo:
Ci sono 3 nuove modalità di trattamento per i disordini dello spettro della
neuromielite ottica: 1. potete attaccare il complemento, questo probabilmente è
anche il farmaco più efficace, l'ECULIZUMAB anti-C5;
2. potete attaccare il Cd19 con l'INEBILIZUMAB col grande punto interrogativo
sulla neurotossicità;
3. o potete attaccare il recettore dell’IL-6 col Tocilizumab o col Satralizumab.

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Data: Giovedì 22 aprile 2021

EPILESSIA

Cos’è l’epilessia? È una patologia caratterizzata dalla presenza di crisi, che in


inglese si chiamano seizures (dal latino ‘sacire’). Una crisi è rappresentata dal
fatto che un gruppo di cellule nervose della corteccia cerebrale, ma in generale
di qualunque parte dell’encefalo, presenta una scarica anomala, improvvisa e
soprattutto ipersincrona. Ed è su questo termine ‘ipersincrono’ che dobbiamo
ragionare, per il semplice motivo che le cellule piramidali sono all’incirca l’85%
di tutti i neuroni presenti nella corteccia cerebrale e anche nell’ippocampo, e
normalmente scaricano in tempi diversi, quindi scaricano ad alta frequenza, ma
il voltaggio non è particolarmente elevato (per lo meno quello che si registra
sullo scalpo come EEG, ma arriveremo a questo).
Nel momento in cui le cellule dovessero scaricare insieme, questo si chiama
scarica ipersincrona. Questo avviene per esempio in alcune fasi del sonno,
quando la frequenza si riduce ma il voltaggio aumenta; però avviene anche in
patologia, quando si verifica un fenomeno che si chiama paroxysmal
depolarization shift, il che vuol dire che le cellule hanno uno shift, cioè un
viraggio in una scarica parossistica depolarizzante. Questo fenomeno, che voi
potete apprezzare come elemento interictale, cioè tra una crisi epilettica e
l’altra, e lo vedete all'elettroencefalogramma, è un po’ caratteristico
dell’epilessia.
L’epilessia è studiata dalla Lega internazionale contro l'epilessia, che si chiama
ILAE (International League Against Epilepsy).
All'interno dell'epilessia dovete distinguere, come vi ho detto, le seizures, cioè
le crisi, e nello stesso tempo le cosiddette sindromi epilettiche. Noi faremo
riferimento alle sindromi epilettiche a partire già da oggi; molte di queste sono
nei bambini e sono caratterizzate da crisi stereotipate. Alcune di alcune di
queste sindromi sono encefalopatiche, che significa che dipendono da un
problema di base a carico del sistema nervoso centrale, ma nello stesso tempo
loro aggravano l’encefalopatia di base, quindi c'è un rapporto biunivoco tra
sindromi epilettiche ed encefalopatia, nel senso che l'encefalopatia genera le
crisi epilettiche e le crisi epilettiche peggiorano l'encefalopatia. Vi faccio un
esempio diretto, una persona che conosco a Catania ha avuto un problema al
parto ed ha sviluppato un’epilessia encefalopatica e col passare del tempo c'è
stata prevalenza dei fenomeni neurodegenerativi e, a questo punto, la povera
ragazza è diventata cieca.
Andando al fenomeno di base, l'epilessia si cura con dei farmaci che molti
chiamano anticomiziali, così definiti perché nei comizi latini quando si ascoltava
qualcuno e questo aveva una crisi epilettica, si pensava che fosse un
messaggio degli dei e il comizio si interrompeva (da qui anche il termine ‘crisi
comiziali’).
Nel nostro cervello sono presenti spesso microcrisi, che molto spesso sono
abortive, non danno alcun tipo di sintomi e tuttavia possono essere all'origine
delle vere crisi epilettiche: quando questo si verifica, c'è stato un fenomeno che

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prende il nome di “epilettogenesi”, che noi cercheremo di esaminare nelle basi
molecolari. L’epilettogenesi è una sorta di memoria delle crisi; questo significa
che si crea un meccanismo di rinforzo sinaptico. Molto probabilmente, come
vedremo, alla base dell'epilettogenesi c'è un fenomeno che si chiama LTP, che
significa “potenziamento a lungo termine della trasmissione sinaptica
eccitatoria”, che permette alla crisi di diffondere e permette alla crisi poi di
ripresentarsi in altre circostanze. Questo ci fa fare un parallelismo immediato
tra l'epilessia e l'emicrania: voi direte, l'emicrania? che c'entra qui l'emicrania?
L’emicrania non è semplicemente “il mal di testa”, ma è una sindrome
neurologica che può essere associata a cefalea oppure no; e la sindrome
neurologica ha come caratteristica i segni dell'aura, come ricorderete, cioè
quelle manifestazioni che normalmente precedono la cefalea, ma che in alcune
circostanze possono anche essere protratte ed estendersi anche durante il
dolore cefalalgico. Nell’aura c'è probabilmente un focus, come spesso accade
nell’epilessia, e quindi c'è una zona del cervello ipereccitabile, e anche lì c'è
una scarica ipersincrona delle cellule nervose, ma la differenza nasce dal fatto
che quando c’è questo focus (nel caso dell’emicrania) poi si crea una
depressione a lungo termine della trasmissione sinaptica eccitatoria, che si
chiama spreading depression. Per esempio, voi nell’aura emicrania avete lo
scotoma, cioè il buco nero del campo visivo che va allargandosi sempre di più;
nel caso dell’epilessia, invece, avviene il contrario, cioè il rinforzo della
trasmissione sinaptica eccitatoria e questo ancora una volta permette di
memorizzare la crisi e permette alla crisi di ripresentarsi.
L’epilettogenesi è un tema molto dibattuto nello studio dell'epilessia, e
purtroppo non esistono farmaci, a tutt’oggi, che siano in grado di prevenire
l’epilettogenesi: quindi, tutti i farmaci antiepilettici che vengono oggi usati in
reparto sono di base sintomatici, cioè farmaci che fanno abortire le crisi, ma che
non prevengono il meccanismo di epilettogenesi. C'è probabilmente un’unica
eccezione, o una delle poche eccezioni, che è il Levetiracetam (Keppra), che
ha delle potenzialità per intervenire sull’epilettogenesi; però in realtà il
trattamento dell'epilettogenesi rimane un ‘unmet need’, cioè un bisogno non
soddisfatto nel management dei pazienti con epilessia.
Allora, ricapitolando, ci sono queste microcrisi, che poi possono dare sviluppo
ad una macrocrisi, che ci indica la possibilità che si possa trattare di
un’epilessia. State attenti: quando c’è un’unica crisi, e per esempio una crisi di
grande male (fra poco vi dirò, classificando le crisi, esattamente di che cosa si
tratta), non è bene cominciare il trattamento con antiepilettici. Dovete
cominciarlo se ci sono almeno due crisi non provocate, cioè due crisi
spontanee, che devono avere ovviamente un certo intervallo di tempo.
Tuttavia, ci sono delle eccezioni, cioè delle circostanze particolari in cui voi
potete cominciare il trattamento anche dopo una singola crisi. E questo per
esempio avviene se la crisi esordisce come status epilepticus, cioè se la crisi
dura più di 5 minuti, perché ci sono crisi subentranti una dietro l'altra: questo
rappresenta un'emergenza medica, e oggi il farmaco di prima linea nello status
epilepticus è il Midazolam in vena (comunque dovete fare il trattamento per via
endovenosa, qualunque farmaco decidiate di dare, come per esempio

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diazepam, lorazepam, fenobarbital o diversi altri). L'emergenza medica deriva
dal fatto che, se non intervenite nei confronti dello status epilepticus, si crea
danno a carico del sistema nervoso centrale per mezzo di un meccanismo che
conoscete tutti - si chiama eccitotossicità -; nello stesso tempo c’è ipertermia,
che può danneggiare le cellule nervose, e ci possono essere aritmie cardiache.
Un'altra possibilità è che ci sia familiarità nell’epilessia. Il tema della genetica
nell’epilessia è oggi molto attuale: ci sono almeno un 47% di pazienti affetti da
epilessia con chiare cause genetiche, e questa percentuale si va espandendo
sempre di più. Ci sono molte istituzioni anche in Italia di grandissimo valore che
studiano la genetica dell'epilessia, faccio un esempio per tutti: l'istituto Gaslini
di Genova, dove c'è un grande interprete di questo settore che è il professor
Pasquale Striano, che è in contatto con la banca del DNA dei pazienti epilettici
europea, e quindi questo permette una genotipizzazione continua e anche
l'identificazione di nuove mutazioni. Se voi avete familiarità e se si presenta una
crisi di grande male, questo può essere sufficiente a cominciare la terapia
anche se non ci sono due crisi non provocate.
Un’altra possibilità è che ci sia un basso QI, cioè un basso quoziente intellettivo:
questo può sembrare strano ma è espressione del fatto che ci può essere
un’encefalopatia, quindi un alterato sviluppo del sistema nervoso centrale.
Quando questo dovesse verificarsi, naturalmente significa che le crisi si
ripresenteranno nuovamente, ed è giustificato cominciare la terapia anche dopo
un’unica crisi, per esempio una crisi di grande male.
Ancora, cominciate la terapia se dopo la crisi c'è una cosiddetta paralisi di Todd,
una paralisi transitoria che può durare qualche minuto, ma anche delle ore in
determinate circostanze, e che fa seguito in genere ad un episodio di epilessia
focale. La paralisi di Todd suggerisce di cominciare la terapia anche se non
avete due crisi non provocate distanziate nel tempo. Quindi, come regola
generale (messaggio da portare a casa!): fate diagnosi di epilessia se ci sono
almeno due crisi non provocate distanziate nel tempo, e questo vi autorizza a
cominciare la terapia con farmaci antiepilettici (o, se li volete chiamare all'antica,
anticomiziali); tuttavia, ci sono delle circostanze come per esempio l'esordio
come stato di male epilettico, status epiletticus, familiarità, basso QI o paralisi
di Todd, in cui invece siete autorizzati a cominciare la terapia anche dopo la
prima crisi.

Detto questo, quando cominciate la terapia, cosa fate normalmente? Fate una
monoterapia. Poi dipende dalla condizione, naturalmente: ci sono delle
sindromi epilettiche, come la sindrome di Dravet, in cui siete costretti anche ad
utilizzare 3-4 farmaci insieme, però cominciate con una monoterapia. Questo
accomuna il trattamento dell’epilessia alla chemioterapia antibiotica, dove –
ricorderete – la cosa che si fa è cominciare con un singolo antibiotico: ciò non
preclude la possibilità di poterne associare diversi in determinate circostanze,
però la monoterapia è la situazione ideale.
Quando cominciate la terapia è assolutamente mandatorio fare una
titolazione, perché i farmaci antiepilettici hanno un profilo di sicurezza di
tollerabilità in genere buono, ma sicuramente subottimale, nel senso che

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inducono problemi a carico del sistema nervoso centrale, del cervelletto, come
atassia, nistagmo, possono dare sedazione e così via. Quindi, per cercare di
controllare questi effetti, partite con dosaggi più bassi e salite col dosaggio
progressivamente, finché non raggiungete il dosaggio giusto. Quando
cominciate con la monoterapia, a questo punto aspettate un certo periodo di
tempo e arrivati al dosaggio pieno aspettate almeno 5 emivite. Quindi, per
esempio, cominciate un farmaco con 100 mg, andate al dosaggio pieno che
potrebbe essere 400 mg; quando ci arrivate, da quel momento aspettate
almeno 5 emivite (è meglio se aspettate un po' di più!) e questo vi serve per
raggiungere il cosiddetto steady state, che ormai conoscete benissimo: si tratta
dello “stato stazionario”, cioè questo è il momento in cui i livelli plasmatici del
farmaco oscillano intorno ad un punto. Quindi, questo vi permette la
misurazione del farmaco nel sangue, tenendo conto del fatto che, quando voi
fate misurare il sangue in un laboratorio di analisi, avete la concentrazione
totale e non la differenza tra quota libera e quota legata. Molti farmaci
antiepilettici si legano tanto alle proteine plasmatiche: due esempi sono
fenitoina e valproato (probabilmente il farmaco a più ampio spettro tra tutti gli
antiepilettici, anche se ha un profilo di tollerabilità che non è il massimo per tutta
una serie di ragioni che poi avremo modo di dire). Ebbene, a questo punto
misurate la concentrazione nel plasma e dovete esser certi che la
concentrazione cada nel range, cioè che siate all'interno delle concentrazioni
terapeutiche. Fatto questo, attraverso il diario delle crisi, monitorate l'efficienza
della terapia per un certo periodo di tempo. Se la terapia non fosse sufficiente,
a quel punto potete pensare di inserire un secondo farmaco, e come fate?
Qualcuno potrebbe pensare di togliere il primo immediatamente e inserire il
secondo: questo non si può fare! Dovete inserire un secondo farmaco, che
ovviamente deve avere un meccanismo d'azione diverso dal primo, perché se
no non ha alcun senso, e dovete titolare il secondo farmaco lasciando il
dosaggio pieno del primo, finché non raggiungete una sovrapposizione. A quel
punto anche il secondo farmaco va a dosaggio pieno, vedete come si
controllano le crisi, dovete rimisurare le concentrazioni plasmatiche, tenendo
presente che gli antiepilettici possono indurre il citocromo p450, in particolare il
CYP3A4, e quindi a quel punto potreste avere variazioni delle concentrazioni
plasmatiche rispetto a quelle che facevate precedentemente. E, se controllate
le crisi col secondo farmaco, potete pensare di togliere il primo, cioè fare una
titolazione in basso col primo farmaco nel momento in cui controllate le crisi.
Quindi, non potete pare una semplice sostituzione farmacologica: avete un
farmaco che ormai è arrivato allo steady state, inserite un secondo farmaco,
cominciate a titolare piano piano, salite finché non raggiungete anche in quel
caso lo steady state, e poi cominciate a scendere col secondo farmaco, titolate
in basso e vedete se così ottenete il controllo delle crisi. In alcuni casi, è
necessario fare una terapia con due farmaci, in alcuni casi con tre farmaci: è
buona norma non andare oltre i tre farmaci, soprattutto in gravidanza, quando,
se usate più di un farmaco, la teratogenicità potrebbe diventare un problema –
e anche con un farmaco è un po' un problema, però non potete non trattare una
donna epilettica in gravidanza!

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Ora, immaginate per esempio di fare una monoterapia, cioè tenete un farmaco
che vi controlla bene le crisi, nel diario delle crisi del paziente vedete che le crisi
sono scomparse del tutto e per esempio vi tirate uno o due anni di terapia così;
passato questo tempo, potreste anche pensare di eliminare il farmaco, cioè
vedere se a quel punto le crisi ritornano, fermo restando che la maggior parte
dei farmaci (anzi quasi tutti) non intervengono nei confronti dell’epilettogenesi.
Come fate ad eliminare il farmaco? Dovete fare una titolazione in basso, e cioè
avete il dosaggio pieno del farmaco e cominciate a scendere con il dosaggio.
In questa fase, in cui le crisi possono potenzialmente tornare, massima
attenzione! Non bisogna lasciare il paziente solo in bagno, nella vasca da bagno
con la porta chiusa a chiave, oppure non potete fargli guidare la macchina o
fare il bagno al mare senza qualcuno che lo possa aiutare, perché questo
potrebbe essere particolarmente pericoloso e quelle un momento critico! Per
eliminare il farmaco vale lo stesso che vi ho detto poco fa per l'esordio della
terapia: se il paziente ha un basso QI, ha avuto episodi di stato di male
epilettico, ha avuto paralisi di Todd o ha familiarità, non è buona norma
eliminare il farmaco, ma conviene continuare la terapia, che in alcuni casi può
durare per tutta la durata della vita del paziente. Quindi, di base comportatevi
così.

Detto questo, cominciamo ad essere un più analitici. Sapete tutti che lo


strumento diagnostico principale per la diagnosi di epilessia è
l'elettroencefalogramma. Come si fa l'elettroencefalogramma? Si mettono
elettrodi sullo scalpo e gli elettrodi registrano l'attività delle cellule piramidali che
si trovano al di sotto dell'elettrodo (e si trovano verticalmente rispetto
all'elettrodo): questo perché le cellule piramidali sono l'85% dei neuroni che si
trovano nella corteccia cerebrale! Nonostante ci siano 20 tipi diversi, e forse
anche molti di più, di interneuroni GABAergici inibitori nella corteccia cerebrale,
in realtà gli interneuroni sono il 15% e le cellule piramidali, cioè le grandi cellule
eccitatorie col corpo cellulare triangolare, sono l'85%: sono quelle cellule che
voi registrate con l'elettroencefalogramma in maniera specifica.
Quello che l'elettroencefalogramma registra sono i potenziali generati da gruppi
di cellule, e quindi sono i potenziali di campo: non state facendo qui una
registrazione di una singola cellula o di un singolo canale, ma registrate il
campo elettrico generato da più cellule insieme. Ovviamente, la traccia di
registrazione sarà più bassa e più frequente quanto più è desincronizzata la
scarica delle cellule piramidali, cioè quanto più le cellule piramidali scaricano
una dopo l'altra e non tutte insieme. Se le cellule piramidali dovessero scaricare
insieme – e questo avviene ovviamente nell’epilessia, perché per definizione la
crisi epilettica è la scarica ipersincrona –, voi avreste dei grafoelementi che vi
indicano un alto voltaggio, come per esempio la punta, e nello stesso tempo
avreste una riduzione della frequenza. Quindi, quello che
l'elettroencefalogramma vi dice nel momento in cui diventa patologico è che voi
avete un rallentamento del tracciato e la presenza di grafoelementi patologici,
che sono la punta (“punta” significa che cellule piramidali eccitatorie stanno
scaricando in modo ipersincrono, cioè scaricano insieme) e l’onda (che invece

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riflette la scarica dei neuroni inibitori e quindi lo spegnimento dei neuroni
eccitatori, che avviene anche in modo sincrono). In molti tipi di epilessia, la
punta e l'onda possono essere aggregate, e avete i cosiddetti “complessi
punta-onda”: i più famosi sono quelli di 3 Hz, che si hanno nelle cosiddette
“assenze tipiche”. Vedremo cosa sono le assenze, che fanno parte delle
cosiddette epilessie generalizzate, in cui soprattutto i bambini - ma non soltanto
loro - si estraniano dalla realtà per pochi secondi; gli episodi di assenza sono
molto frequenti durante la giornata, quindi voi potete registrare con delle ottime
chance di catturare le assenze! Le vedete su tutte le derivazioni
dell'elettroencefalogramma, soprattutto su quelle della linea mediana, e sono
caratterizzate appunto da complessi punta-onda, come cercheremo di vedere.
Che cosa vi dice normalmente un'analisi elettroencefalografica?
L’elettroencefalogramma è oggi uno strumento molto sofisticato, che vi può
dare informazioni sull’attività elettrica cerebrale in condizioni di riposo e oppure
in relazione all'esecuzione di un task, in relazione ad un evento particolare, e
voi potete fare anche delle analisi molto approfondite, per esempio le analisi di
Fourier e così via. La registrazione elettroencefalografica vi permette di
individuare diverse oscillazioni di frequenza, perché la cosa interessante è che
i neuroni oscillano nella loro attività, cioè non hanno una scarica singola. Per
esempio, nella veglia attenta e nella veglia in movimento, voi avete la frequenza
beta, caratterizzata da un range di frequenza da 13-14 a 30 Hz. Avete anche
delle oscillazioni di frequenza superiori, cioè da 30 a 90 Hz: queste sono le
cosiddette oscillazioni di network ad alta frequenza, nella cosiddetta banda
gamma, che voi normalmente non apprezzate all'elettroencefalogramma, ma
che potete apprezzare con l'analisi di Fourier. Queste oscillazioni di frequenza
sono fondamentali per la sfera cognitiva del nostro sistema nervoso centrale,
per esempio abbiamo detto più volte che grazie a queste oscillazioni di network
ad alta frequenza le cellule piramidali sono in grado di assemblare le percezioni
- ad esempio nella corteccia prefrontale dorsolaterale - e innescare i
comportamenti, cioè le funzioni esecutive, oppure esercitare dei task, come per
esempio la memoria di lavoro. Al di sotto della frequenza beta, avete invece la
frequenza alpha (8-12Hz): se un individuo è sveglio però, per esempio, rilassato
e chiude gli occhi.
Poi, invece, ci sono le frequenze caratteristiche del sonno: per esempio, avete
la frequenza da 4 a 7 Hz, che è tipica delle onde teta; se invece andate sotto 4
Hz, avete le onde delta. Le onde teta e delta sono caratteristiche del sonno non-
REM, cioè del sonno ad onde lente, o sonno SWS. È anche vero che nel sonno
potreste avere delle frequenze a 6-12 Hz, che sono quelle tipiche dei cosiddetti
“spindles”, cioè i fusi del sonno, che sono delle manifestazioni a frequenza un
pochettino più alta, e che però sono molto interessanti perché vengono
generate da un network cortico-talamico (o cortico-talamo-corticale), che poi è
il network coinvolto nella patogenesi delle assenze epilettiche. Quindi, per certi
versi, le assenze epilettiche possono essere considerate come una sorta di
variante patologica dei fusi del sonno (è una cosa interessante che vi potete
vendere quando fate l'esame di neurologia).

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Quindi, questa è la situazione elettroencefalografica che vi correla la frequenza
di scarica al sonno e alla veglia. Una situazione completamente diversa l'avete
nella fase REM: è una fase molto affascinante del nostro sonno, perché è la
fase onirica (cioè la fase in cui noi sogniamo) e nello stesso tempo è una fase
di completa atonia muscolare, cioè una particolare fase in cui tutti i muscoli
scheletrici sono i tonici, eccezion fatta per i muscoli estrinseci dell'occhio.
Quindi, avete una situazione molto particolare: se voi fate una registrazione
elettroencefalografico durante la fase REM, la registrazione corticale vi dà l’alta
frequenza, cioè vi dà una frequenza molto simile a quella che avete durante lo
stato di veglia. Se contemporaneamente fate un EMG, cioè un esame
elettromiografico, trovate una completa atonia del muscolo, cioè non vedete
segnali di natura elettromiografica; però se fate un EOG, cioè un
elettrooculogramma, a quel punto vedete che i movimenti oculari sono molto
simili a quelli che avete in condizioni di veglia. Quindi, la fase REM è come se
fosse una situazione di veglia associata a completa atonia muscolare.
L’atonia muscolare è, tra l'altro, un meccanismo difensivo, perché la
rappresentazione onirica dei sogni non deve essere accompagnata a
comportamenti motori: se non ci fosse l'atonia muscolare generale, innanzitutto
non vi riposereste, e secondariamente durante il sonno potreste fare qualunque
cosa. Io ho visto delle immagini, in alcuni talk sul sonno, di mariti che erano
affetti da disturbi comportamentali della fase REM caratterizzati dal fatto che la
muscolatura scheletrica non diventava atonica e picchiavano la moglie quasi a
morte durante il sonno, senza rendersene conto! Sognavano e, non so
esattamente cosa sognassero, a quel punto rivolgevano le loro attenzioni alla
moglie in maniera assolutamente incosciente, e la moglie la mattina doveva
andare in ospedale perché era piena di percosse.
Esiste una patologia della fase REM che si chiama “narcolessia” (che poi vi
tratterò quando verrà il momento): curiosamente è una malattia autoimmune in
cui muoiono 70.000 neuroni dell'ipotalamo laterale che producono una
sostanza che si chiama orexina, detta anche ipocretina. In questo caso, la fase
REM ha degli esordi estremamente veloci e poi l’individuo si addormenta
durante il giorno, e quando si addormenta entra immediatamente in fase REM.
A volte, l’atonia della fase REM nei soggetti che sono affetti da narcolessia, si
verifica anche durante le condizioni di veglia, e gli individui cadono
improvvisamente: questo si chiama “cataplessia”, ed è come se si innescasse
il meccanismo della fase REM anche durante lo stato di veglia.
Ora, ritornando all'epilessia, le modificazioni elettroencefalografiche che voi
vedete nell’epilessia, come ad esempio i complessi punta-onda, non sono
necessariamente patognomoniche dell’epilessia, cioè non è che le trovate
solamente nell’epilessia. Ci sono diverse condizioni neurologiche che possono
dare questo: ad esempio, i complessi punta-onda li avete nelle malattie da
prioni, come la malattia di Creutzfeldt-Jacob, che sono le patologie più
devastanti e ad esito più infausto che potete avere nel sistema nervoso
centrale. Quindi, l’analisi dell’EEG da sola non vi permette di fare diagnosi di
epilessia, però naturalmente la diagnosi clinica e poi l'elettroencefalogramma vi
danno l'assoluta conferma che si tratta di qualcosa di strano.

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Questa era la parte generale. Ora andiamo a considerare innanzitutto la
classificazione delle crisi, poi la classificazione delle sindromi epilettiche, poi la
patofisiologia dell’epilessia e quindi il trattamento.
Cominciamo a classificare le crisi: la prima cosa che dovete fare, perché vi ho
detto che le crisi sono l'elemento unitario dell’epilessia, e quindi bisogna capire
di che crisi si tratta!
Le crisi si dividono in due grandi categorie: crisi focali, che un tempo venivano
chiamate parziali (ma è meglio chiamarle focali oggi), e crisi generalizzate.
“Crisi focali” significa che la scarica ipersincrona interessa soltanto una regione
dell'encefalo, che viene chiamato focus epilettico, e però da lì non si muove,
rimane lì. Al contrario, la crisi si chiama generalizzata nel momento in cui tutta
la massa encefalica viene coinvolta.
Stiamo attenti: voi potete avere una crisi focale che interessa addirittura un solo
emisfero, per esempio l'encefalopatia di Rasmussen, una forma estremamente
grave in cui le crisi possono essere anche numerosissime durante il giorno e in
cui tutto un emisfero può essere colpito: capite che succede se viene colpito
l'emisfero dominante! (tra l’altro, questa è anche una patologia degenerativa, in
cui man mano per un meccanismo promosso dal sistema immunitario le cellule
nervose muoiono). Nonostante il quadro clinico estremamente eclatante,
questa crisi è focale, non può essere considerata una crisi generalizzata, per il
semplice motivo che non coinvolge tutta la massa cefalica ma solo un emisfero.
Quindi, non pensate soltanto ad un piccolo focus epilettico, il focus può essere
anche abbastanza grande.
Le crisi possono essere “secondariamente generalizzate”, il che significa che
c'è un focus di inizio e poi la crisi si generalizza: questo vuol dire che è nata una
memoria delle crisi, che le sinapsi si sono rinforzate, e man mano con rinforzo
sinaptico l’iperattività si è estesa. Questo fenomeno di secondaria
generalizzazione può essere studiato utilizzando un modello animale, che si
chiama modello di Kindling. Che cos'è? Il Kindling è l'acquisizione di una
risposta elettrofisiologica e comportamentale nei confronti di uno stimolo
inizialmente subliminale, cioè sottosoglia. Il Kindling normalmente si studia
così: prendete ad esempio un ratto o un topo e mettete un elettrodo in alcune
regioni del sistema nervoso centrale, per esempio nell’amigdala o
nell’ippocampo; date una stimolazione elettrica in questa sede, ma la date a
bassa intensità o bassa frequenza, quindi l'animale in realtà non ha risposte
comportamentali, e contemporaneamente fate la registrazione
elettroencefalografica e vedete che non c'è nulla, se non l'artefatto di
stimolazione. Poi però ripetete la stessa procedura tutti i giorni e, man mano
che la ripetete, vedete che la registrazione elettroencefalografica comincia a
darvi delle manifestazioni (delle punte o delle onde) che rappresentano il
cosiddetto afterdischarge (“la scarica successiva”): cioè voi stimolate, prima
non avevate niente, stimolate con la stessa intensità o frequenza, e cominciate
a vedere questo tipo di fenomeni. Questi fenomeni diventano via via più estesi,
e il comportamento dell'animale comincia via via a modificarsi, finché dopo
qualche giorno fate la stimolazione e l'animale sviluppa uno stato di male

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epilettico con crisi subentranti e crisi generalizzate, anche se inizialmente
stavate stimolando una semplice regione cerebrale, per esempio l'amigdala,
che si trova nella parte interna del lobo temporale oppure l'ippocampo. Quindi,
quest’acquisizione rappresenta una vera e propria memoria della crisi, e
presumibilmente quello che avviene nella patogenesi dell’epilessia: una
microcrisi piano piano diventa una macrocrisi, e questa macrocrisi poi può dare
origine a un’epilessia focale, ma anche ad un’epilessia che secondariamente
può generalizzarsi. Questo rispecchia meccanismi di rinforzo sinaptico, e il
rinforzo sinaptico che studiano gli elettrofisiologici - come sapete bene - si
chiama LTP, cioè potenziamento a lungo termine della trasmissione sinaptica
eccitatoria. L’LTP ha un protagonista assoluto, che è il recettore NMDA del
glutammato, che è il recettore che permette alle sinapsi di rinforzarsi nel
momento in cui noi inneschiamo l'apprendimento associativo. È vero, tuttavia
che non esistono a tutt'oggi farmaci che bloccano i recettori NMDA in maniera
selettiva e che vengono utilizzati in terapia. Curiosamente c’è un farmaco oggi
usato che blocca il recettore AMPA, il Perampanel, ma comunque non esistono
farmaci che bloccano in modo esclusivo il recettore NMDA; anche se il
Felbamato inibisce i recettori NMDA ma non fa solo questo, ha altre funzioni
(inibisce canali calcio voltaggio dipendenti etc). Quindi questo è un fatto curioso:
il recettore NMDA è il recettore più studiato nelle neuroscienze in assoluto, ma
i soli due farmaci che lo bloccano e che sono usati in terapia sono la Memantina
(uno dei 4 farmaci rimborsati dal servizio sanitario nazionale per il trattamento
dell’Alzheimer) e l’S-Ketamina (isomero S della Ketamina) che oggi si dà per
via intranasale per il trattamento della depressione farmaco resistente e che per
altro è anche sostanza di abuso.
Quindi è vero che in questo rinforzo sinaptico e probabilmente l’epilettogenesi
è mediata da azione del recettore NMDA, ma questa informazione non ha
avuto una traduzione in terapia.
Uno dei motivi è che il recettore NMDA è coinvolto nell’induzione della
plasticità sinaptica, cioè nella fase molto iniziale, e una volta che la plasticità
sinaptica è indotta è inutile bloccare il recettore NMDA, perché i giochi sono
fatti: possibile chiave di lettura quindi può essere questa.
A lungo si è parlato nella ricerca del potenziale rapporto tra Kindling ed LTP,
non sono la stessa cosa, ma il rinforzo sinaptico è senza dubbio una base del
Kindling.
Uno dei principali obiettivi nel trattamento sperimentale dell’epilessia è cercare
di bloccare l’epilettogenesi, cioè bloccare lo sviluppo del Kindling, cioè di
bloccare lo sviluppo di questa memoria dell’iperattività; e molto farmaci sono
in grado di bloccare le crisi in animali fully kindled. Ciò significa che voi fate il
Kindling nell’animale, questa stimolazione per esempio dell’amigdala o
dell’ippocampo, poi quando l’animale alla fine sviluppa le crisi piene, voi
potete trattarle con Valproato, Lamotrigina, etc per fargli abortire la crisi. Ma
questi farmaci non sono in grado di impedire lo sviluppo della crisi, nel senso
che se fate un trattamento con questi farmaci sin dall’inizio, in realtà la
memoria dell’iperattività si sviluppa lo stesso. E questo è un problema, perché

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se avessimo dei farmaci in grado di intervenire sull’epilettogenesi, avremmo
strumenti di grandissima efficacia, evitando il fenomeno della
farmacoresistenza nell’epilessia. Un qualcosa di molto mal definito, come lo è
la resistenza negli antibiotici o nella depressione. Un soggetto è
farmacoresistente quando non risponde a diversi farmaci antiepilettici, dati nei
dosaggi giusti e nelle giuste combinazioni, con meccanismi d’azione diversi.
Questi soggetti arrivano anche a costituire il 30% degli affetti da epilessia. E, a
parte la chirurgia selettiva dell’epilessia o la stimolazione del nervo vago, non
si può fare granché, questo perché mancano farmaci che intervengono nei
confronti dell’epilettogenesi. Il Keppra (Levetiracetam) è il farmaco che agisce
meglio di tutti su questo livello.
Ora ci si può chiedere se sia peggio una epilessia focale o una generalizzata.
La generalizzata è molto più spettacolare, pensate ad una crisi di grande male
con questi soggetti che hanno crisi tonico-cloniche, ovvero l’ipertono e poi
scosse miocloniche, rispetto ad una epilessia focale che potrebbe evidenziarsi
in una serie di cose abbastanza banali come parestesie, se colpita la
corteccia somato-sensoriale etc.
Comunque, quella focale a mio parere è più grave, perché indica una spina
irritativa a carico del sistema nervoso centrale e quindi c’è qualcosa che non
va: o qualcosa che riguarda un alterato sviluppo del SNC o una forma
sintomatica di epilessia o secondaria, per esempio se si ha una massa
intracranica che crea problema.
Quindi anche se quella generalizzata è più spettacolare e può avere
sicuramente basi genetiche, ma è fondamentale tenere più sotto controllo una
epilessia focale.
Partendo da una microcrisi, per andare ad una macrocrisi e poi
eventualmente ad una generalizzazione, come nel caso di una epilessia che è
secondariamente generalizzata, qualcuno si può chiedere: se io ho una crisi di
grande male, posso capire se questa parte da un focus iniziale o se viene per
i fatti suoi? Una possibilità c’è ed è l’aura, che nel caso di una crisi
generalizzata è l’unica cosa che si ricorda. Se in quei secondi precedenti la
crisi di grane male tonico-clonica, comincia a comparire ad esempio una
mioclonia di un dito, significa che probabilmente il focus si trova
nell’homunculus motorio, dopodiché la crisi si generalizza coinvolgendo tutta
la massa encefalica e viene la crisi tonico clonica di grande male.
In molti casi però l’aura non c’è. In questo caso quello che succede è che
viene immediatamente fuori la crisi tonico-clonica senza essere preceduta da
un segno che ci fa pensare alla presenza di un focus: esiste infatti una teoria
detta ‘’centro encefalica’’ per cui il focus esisterebbe ma sarebbe localizzato
nella formazione reticolare del tronco encefalico e se il focus si trova lì poi
diffonde a tutta la massa encefalica perché la formazione reticolare è a
proiezione diffusa.

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Quindi le crisi si dividono in: focali e generalizzate.
Le crisi focali possono essere:
motorie, che si presentano spesso sotto forma di mioclonie (come delle
scosse muscolari, in realtà in neurologia si distingue un mioclono positivo da
uno negativo; il positivo è il momento della contrazione muscolare, il negativo
è il momento del rilasciamento muscolare) e le crisi miocloniche possono
avvenire dappertutto. Parlando delle sindromi epilettiche, le epilessie
miocloniche verranno fuori in molte circostanze. Ci sono delle patologie
terribili dette “epilessie miocloniche e progressive” che portano a morte in
qualche anno, forme sindromiche in cui l’epilessia è solo un elemento e in cui
ci sono poi delle mutazioni responsabili di fenotipi estremamente severi.
All’interno delle crisi motorie di tipo mioclonico prenderemo in esame la
sindrome di Dravet (detta anche epilessia mioclonica severa dell’infanzia).
Parlando di crisi motorie la crisi poi se è focale dipenderà esattamente dalla
localizzazione di questo gruppo di cellule nervose che scarica in modo
asincrona (a seconda delle parti interessate dell’homunculus o della corteccia
motoria). Sono importanti a proposito di questo la crisi Jacksoniana o marcia
Jacksoniana, che prende il nome di un grande neurologo Hughlings Jackson,
uno dei più famosi, che descrisse questa particolare crisi di forma focale che
colpisce progressivamente l’homunculus motorio di un emisfero cerebrale.
Quindi, non è una crisi generalizzata, è solo la rappresentazione
dell’homunculus nella corteccia che viene colpita. E per esempio l’homunculus
può cominciare con delle clonie del polso della mano, poi le clonie si spingono
verso l’avambraccio, braccio e poi vanno nel resto dell’homunculus (gambe,
testa, etc). Cominciano dalla mano perché è la parte dell’ homunculus più
rappresentativa, infatti eseguiamo i movimenti più sofisticati con le dita della
mano.
Una volta ho visto un paziente affetto da questo tipo di patologia, cioè lui
aveva delle marcie jacksoniane che si ripetevano l’una dietro l’altra. Il paziente
venne trattato con Midazolam e la cosa si è risolta lì, ma questo dipendeva dal
fatto che il paziente a monte aveva un tumore e una metastasi nella vicinanza
della corteccia motoria e per il danno da compressione e quindi l’ischemia
aveva sviluppato questa forma di epilessia. Quindi tra le crisi focali motorie la
marcia Jacksoniana, ovvero il fatto che l’homunculus sia reclutato in maniera
progressiva, diventa un elemento importante.
L’altra è la paralisi di Todd, una forma di perdita dei movimenti, quindi una
paralisi vera e propria, che interessa un arto o anche un emilato presente in
genere dopo una crisi focale e che può durare qualche minuto o qualche ora.
Una volta sono stato chiamato da amici (sono specialista in Neurologia, ma è
come se non lo fossi perché non ho mai fatto un’iniezione in vita mia) e ho
visto una donna svenuta con un’emiparesi e in ospedale gli venne attribuita la
diagnosi immediata di ictus cerebrale (perché in quei casi si pensa sempre a

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questo senza dubbio). Al pronto soccorso diedero una prognosi infausta alla
paziente per la paralisi molto diffusa, eppure dopo 30 minuti questa ha ripreso
a camminare, si è rialzata ed è tornata a casa da sola. Questo è dipeso dal
fatto che in realtà non era un ictus cerebrale ma una crisi epilettica
probabilmente data da ipoglicemia in quanto diabetica, seguita da paralisi di
Todd. Da qui questa è stata trattata col Keppra e le crisi non sono più tornate.
Nota bene: si ricorda che la paralisi di Todd è una indicazione di anomalia nel
sistema nervoso centrale e uno di quei casi in cui si può iniziare il trattamento
antiepilettico senza dover aspettare le 2 canoniche crisi successive a distanza
di tempo (conditio sine qua non per iniziare terapia).
L’altra cosa che interessa le crisi motorie è la cosiddetta epilessia parziale
continua di Kovzhenikow: si tratta di episodi di crisi focali motorie, come per
esempio la marcia Jacksoniana, che si ripresentano continuamente, sono
subentranti, una dopo l’altra e praticamente questo è l’equivalente dello stato
di male epilettico che è un termine che invece si applica all’epilessia
generalizzata. Quindi, quando si parla di status epilepticus o stato di male
epilettico, si fa riferimento ad una crisi di grande male che viene ripetuta
continuamente nel tempo; quando si parla di epilessia parziale continua di
Kovzhenikow in questo caso è una crisi focale ma che si può ripetere nel
tempo, come la marcia Jacksoniana. Un esempio lampante di epilessia
parziale continua di Kovzhenikow è quella raccontato dal film Gifted hand,
storia del primo neurochirurgo della Johns Hopkins a Baltimora che ha trattato
per primo l’encefalopatia di Rasmussen caratterizzata da queste crisi continue
focali che interessano un singolo emisfero.
Quindi non si parla di stato di male epilettico ma di epilessia ripetuta anche un
gran numero di volte al giorno. Questa è una patologia intrattabile
farmacologicamente e lui fu il primo a fare un’emisferectomia ad una bambina
affetta, che si è ripresa correttamente e ha ripreso a parlare nonostante le fu
rimosso l’emisfero dominante. Essendo una bambina e quindi avendo una
grande plasticità ha potuto riprendere una vita sana, perché l’emisfero rimasto
sopperisce; se invece avesse avuto una età più avanzata invece non avrebbe
mai sopportato un intervento cosi demolitivo.
Quindi noi abbiamo tre aspetti dell’epilessia focali motorie che dobbiamo
tenere in considerazione:
• marcia jacksoniana
• paralisi di Todd (indice prognostico che ci permette di iniziare il
trattamento dopo singola crisi)
• epilessia parziale continua (equivalente dello stato di male epilettico
dell’epilessie focali)
Le epilessie focali possono anche essere sensitive.

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Quindi possiamo avere parestesie, se ovviamente il focus epilettico è
localizzato prevalentemente nella corteccia somatosensoriale. Possono
essere anche disautonomiche, presentandosi quindi con midriasi, alterazioni
della pressione arteriosa se il focus localizzato nelle sedi del SNC che
controllano il sistema nervoso autonomo. Qui la diagnosi è molto difficile.
Esistono, ad esempio, delle forme di emicrania senza mal di testa definite
“equivalenti emicranici”, quindi il neurologo deve essere molto bravo a capire
non si tratti di un episodio ischemico o altro. Per esempio, se avete delle
parestesie ripetute nel tempo potreste pensare ad una Sclerosi Multipla, cioè
a meccanismi di demielinizzazione del SNC, mentre invece in alcuni casi si
può trattare di epilessie focali che interessano la sensibilità, dove il focus è
localizzato nella corteccia somatosensoriale primaria, secondaria, etc.
A volte le crisi possono essere olfattive (possono verificarsi delle parosmie,
alterazioni dell’olfatto). Il disturbo dell’olfatto è in comune con il Parkinson e
l’Alzheimer, ma in queste due però si perde l’olfatto mentre nella forma di
epilessia vi è solo l’alterazione.
Questo discorso ci apre una porta verso le crisi focali che non sono semplici
ma sono crisi focali complesse, ossia il focus e localizzato in alcune zone
del cervello che hanno grande significato integrativo, e queste zone sono la
corteccia prefrontale (fondamentale nei comportamenti, nella decision making,
velocità di processamento del pensiero, nelle funzioni esecutive e così via) e
la corteccia temporale. Queste due aree sono unite in una serie di patologie
che prendono il nome di degenerazioni lobari frontotemporali alle quali
appartengono delle patologie molto severe, come la paralisi sopranucleare
progressiva, la degenerazione corticobasale, l’FTDP-17, la demenza di Pick.
Quando un focus epilettico colpisce queste due regioni, è ovvio che la
manifestazione fenotipica dell’epilessia è molto complessa, cioè non si
manifesta con una semplice parestesia o una semplice scossa mioclonica, ma
tramite un qualcosa di più integrato, come per esempio disturbi del
comportamento, manifestazioni disforiche, alterazione del tono dell’umore,
fenomeni di alterazione dell’elaborazione della percezione visiva, che
prendono il nome di deja-vu e jamais-vu. [ Il deja-vu (= già visto) significa
vedere qualcosa di mai visto e avere l’impressione di averlo già visto; il
jamais-vu ( letteralmente ‘giammai visto’) significa vedere qualcosa di
assolutamente familiare pur avendo l’impressione di non averlo visto mai. ]
Poi si possono avere anche manifestazioni complesse dal punto di vista
olfattivo (per esempio tipico nei soggetti epilettici di questo tipo è sentire
l’odore di kerosene). Tutto ciò viene fuori quando le crisi focali interessano
zone integrative, che mettono percezione e sensibilità assieme.
Queste manifestazioni focali complesse comprendono anche disturbi della
memoria e manifestazioni d’aggressività e ciò non ci sorprende perché lì c’è
anche l’ippocampo fondamentale per gli aspetti contestuali della memoria e
l’amigdala dove nascono le memorie della paura. Tutto questo può far parte di

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un tipo di epilessia che prende il nome di epilessia temporale o epilessia
parziale complessa o focale complessa o psicomotoria: epilessia che
colpisce lobo temporale, ippocampo e amigdala, purtroppo spesso resistente
al trattamento farmacologico. Al Neuromed si opera la cosiddetta “alta
chirurgia per l’epilessia”, dove prevalentemente operano l’epilessia temporale,
spesso farmacoresistente per ragioni molecolari che vedremo. Il trattamento
chirurgico rimuove ippocampo e amigdala stando attenti a non rimuovere
tessuto cerebrale coinvolto nella corteccia motoria e che potrebbe essere lì
vicino (durante intervento si fa registrazione elettromiografica, test di risposta
del pz per esser certi si stiano toccando delle zone che si possono rimuovere).
Una volta rimosse queste zone si tolgono le crisi e l’ippocampo e amigdala
controlaterale compensano.
L’epilessia temporale (o psicomotoria) è l’unica forma in cui si ha PERDITA DI
COSCIENZA, importante questo perché nell’epilessia focale si è coscienti di
quello che si ha, si può avere una marcia jacksoniana o una paralisi, ma
essere coscienti di ciò che si ha. Se, invece, avete un’epilessia temporale si
ha una perdita di coscienza, ma non c’è perdita di coscienza in tutta la crisi
perché la crisi è preceduta da un’aura, e l’aura è caratterizzata da
manifestazioni motorie complesse o sensoriali al limite. (sentire odori,
cambiamenti di comportamenti, deja vu). Queste cose si ricordano.
Successivamente l’epilessia diventa motionless, ovvero il paziente non si
muove più, ha gli occhi sbarrati, un dreaming state (stato sognante) e a quel
punto cominciano gli automatismi che sono soprattutto motori: tics, gestualità
strane come allacciare e slacciare la camicia, o il paziente inizia a correre
improvvisamente, e in questo caso si parla di epilessia procursiva, il paziente
comincia a ridere senza fermarsi (epilessia gelastica) o in casi estremi si
mette alla guida durante la crisi senza avere coscienza (la guida della
macchina è un movimento semiautomatico, può essere condotto anche se
non avete coscienza di quello che sta accadendo).
Importante quindi fare diagnosi differenziale tra epilessia temporale e assenze
epilettiche, perché a volte questa perdita di coscienza può simulare delle
assenze complesse, ma la patogenesi e trattamento è del tutto diverso.
L’epilessia temporale è inoltre caratterizzata da neurodegenerazione: si
formano delle sinapsi ricorrenti eccitatorie nei granuli del giro dentato
dell’ippocampo, cioè l’assone delle fibre muscoidi del giro dentato
dell’ippocampo curva e poi torna indietro e stimola altre cellule nervose,
creando circuiti riverberanti eccitatori con degenerazione ippocampale
mediata da meccanismi di eccitotossicità. Questo esita alla fine nella sclerosi
del corno di Ammone [quest’ultima zona ripiegata visibile soprattutto
nell’ippocampo dorsale, formata dal giro dentato e dalle regioni CA4, CA3,
CA2 e CA1 che sono state descritte da un grande anatomico del passato che
si chiama Llorente de No’. Queste regioni sono fondamentali per gli aspetti

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contestuali della memoria: l’ippocampo dorsale ha funzione squisitamente
cognitiva (ad esempio quando apprendiamo qualcosa con meccanismo di
associazione); mentre invece l’ippocampo ventrale (più basso) ha valore
emozionale, cioè lì si fanno le memorizzazioni di tipo contestuale legate
soprattutto alle emozioni. ]
Dunque qui è coinvolto l’ippocampo, che comincia a degenerare, va in
sclerosi, che significa si formano delle cicatrici (la SM è detta anche “sclerosi
a placche” per la presenza di placche di demielinizzazione con esiti fibrotici).
Anche questa è una forma di epilessia farmaco resistente, trattabile con la
chirurgia.
Passiamo adesso alle crisi generalizzate, che interessano questa volta tutta
la massa encefalica e si possono mostrare in vari modi: crisi generalizzate di
natura mioclonica, crisi toniche, atoniche (bimbi che hanno la forma atonica
vivono con elmetto in casa, perché se cadono improvvisamente in preda alle
crisi si proteggono la testa).
Le crisi generalizzate più importanti in assoluto sono la crisi di grande male
e la crisi di piccolo male.
La crisi di grande male è l’epilessia tonico clonica, la più eclatante che si vede
nei film. La crisi tonico clonica dura al massimo 1 minuto e mezzo, in casi
estremi 2 minuti, ma non oltre. Se supera questa tempistica, ci sono tre
possibilità:
1. non è una crisi singola ma sono crisi subentranti, definendo così lo
status epilepticus o stato di male epilettico, quindi si ha una crisi dopo
l’altra. Questo status si diagnostica in particolare se la crisi dura più di 5
minuti. Lo stato di male epilettico è una condizione medica di
emergenza in cui si deve intervenire con farmaci endovena, azione
repentina per non far danneggiare il SNC da ipertermia ed
eccitotossicità o pericolo cardiovascolare (aritmie).
2. errore diagnostico: si pensa ad una crisi di grande male, ma invece non
lo è perché dura troppo. Si tratta, invece, ad esempio di un episodio
sincopale, in cui si ha ridotta perfusione del SNC per un’ipotensione
ortostatica o un problema vascolare di tipo ostruttivo. Ma qui la diagnosi
differenziale è facile, perché la crisi in questo caso è preceduta da
pallore e poi non è una crisi immediata, ma graduale, cioè l’episodio
sincopale ha una certa progressione nel tempo.
3. simulazione, terza possibilità in pazienti nevrotici, isterici, psicopatici
che possono simulare perfettamente una crisi per attirare attenzione,
facendole durare 20 minuti → il neurologo deve stare attento: una crisi
di grande male bona fide non può durare più di 1 minuto e mezzo o 2,
perché altrimenti è altro.
Dunque, il grande male si sviluppa attraverso:

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- segni premonitori, che precedono la crisi di molte ore e prevedono, ad
esempio, alterazione nel comportamento alimentare, o il paziente si sente
strano, può essere disforico, agitato. Il SNC sta preparando la crisi, ma
non è crisi di per sé.
- AURA (ma in questo caso non come l’aura che abbiamo nell’epilessia
psicomotoria che è una epilessia focale, questa è una forma di epilessia
generalizzata e l’aura dura pochi secondi ed è l’unica parte della crisi in
cui si ha coscienza. Questo è importante perché le crisi di grande male
sono crisi con perdita di coscienza. L’aura è molto importante anche
perché ha significato localizzatorio, se durante l’aura si ha clonie per
esempio al dito medio, e poi viene una crisi tonico clonica di grande male
significa che il focus è là e poi, una volta che il focus ha una scarica
ipersincrona delle cellule piramidali, da lì poi vi è la diffusione a tutto il
resto dell’encefalo.
- dopo l’aura (che può essere presente oppure no, perché la crisi può anche
venire fuori dal nulla, forse perché c’è un focus nella formazione reticolare
ascendente) c’è la fase TONICA, caratterizzata specialmente da ipertono
dei muscoli estensori fisiologici. Ma a prescindere da questo si ha un
ipertono generalizzato con pronosupinazione delle mani ad esempio.
Questa è una fase in cui è impossibile respirare perché c’è
ipercontrazione dei muscoli respiratori e c’è anche contrazione della
laringe che determina l’ ‘’epileptic cry’’ (pianto epilettico, in cui l’aria è
emessa da una laringe in quel momento costretta che crea questo
particolare rumore). La crisi tonica dura pochi secondi, al massimo 20-30
secondi, dopodiché si passa alla
- fase CLONICA, ossia cominciano le scosse muscolari. Durante la fase
tonica l’EEG dimostra attività ipersincrona delle cellule piramidali
mostrando una predominanza delle punte, grafoelementi patologici che
indicano attività ipersincrona delle cellule piramidali.
Mentre nella fase clonica si ha contrazione e rilasciamento muscolare con
queste scosse muscolari, e allora nella fase clonica c’è anche
spegnimento delle cellule muscolari e poi si ha la loro riaccensione. Quindi
la fase clonica è caratterizzata da punte, da onde e complessi punti onda.
NB: la punta indica la scarica sincrona cellule piramidali, l’onda indica
invece scarica sincrona degli interneuroni inibitori eccitati a loro volta dalle
cellule piramidali, ma che poi vanno a spegnere le cellule piramidali
stesse.
Durante la fase clonica non c’è neanche la capacità di respirare, questa
viene ripresa al termine della crisi.
- È possibile che durante la crisi il paziente si morda la lingua, questo
accade perché viene contratto il massetere (muscolo più potente del
nostro organismo, perché masticatorio e anche antigravitario usato da
alcuni nostri predecessori e animali per vincere la forza di gravità, come

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quelli che restano appesi all’albero mordendo un ramo con la forza del
massetere). Per cui se si prova ad entrare con la mano per prendere la
lingua del paziente nel momento in cui la lingua ruota all’indietro o il
paziente rischia di mordersela attenzione a non perderci le dita!
- alla fine della crisi si può avere perdita di urine o comunque si entra in una
fase di depressione post ictale, in cui si può avere un risveglio con cefalea
pulsante come esito della crisi di grande male.
La crisi di grande male è relativamente facile da trattare, infatti a volte la crisi
focale crea più problemi. Ci sono molti farmaci estremamente efficaci per
trattare il grande male epilettico, perfino gli antiepilettici di prima generazione
come il valproato, il Tegretol funzionano abbastanza bene.

L’altra forma di epilessia generalizzata di grande interesse sono le


cosiddette assenze epilettiche. Queste sono caratterizzate dal fatto che
soprattutto i bambini, ma anche i soggetti adulti, si estraniano
improvvisamente dalla realtà. Dura pochissimi secondi e poi tornano a fare
quello che stavano facendo prima, però questi episodi possono verificarsi
anche più volte nell’arco della stessa giornata. Le assenze si possono dividere
in assenze tipiche e assenze complesse.
Le assenze tipiche sono caratterizzate esclusivamente da questo. Noi, per
esempio, abbiamo qui al Neuromed un modello animale di assenze tipiche
che si chiama ratto Wag/Rij e questo è un’animale che sviluppa
spontaneamente assenze. In verità non è paragonabile all’uomo, perché il
ratto Wag/Rij sviluppa le assenze dopo quattro mesi quando è più che adulto,
mentre molte volte le assenze si verificano nei bambini o in età giovanile, però
possono essere presenti anche nella vita adulta. A scuola questi episodi molte
volte vengono confusi con disattenzione, altre patologie o semplicemente con
il fatto che il bambino viene considerato svogliato e a volte viene punito dagli
insegnanti quando non si fa invece una diagnosi corretta di assenze
epilettiche.
La diagnosi si fa facilmente in questo caso con l’elettroencefalogramma
proprio perché le crisi si ripetono frequentemente nel tempo, quindi mettete gli
elettrodi al bambino ed è facile registrare i complessi punta-onda che sono
complessi di 3Hz nelle assenze tipiche. Questi complessi si vedono in tutte le
derivazioni dell’EEG ma sono più evidenti negli elettrodi che sono posizionati
nella zona mediana.
Potete avere invece delle assenze complesse (o atipiche), che innanzitutto
all’EEG hanno dei complessi punta onda che sono un po’ diversi da 3Hz, per
esempio, possono essere 2/2,5 Hz. Ma poi sono caratterizzate da
manifestazioni motorie, che normalmente non sono presenti nelle assenze
tipiche anche se potete avere un po’ di tremore alle labbra. Nelle assenze
complesse, invece, potete avere clonie e manifestazioni motorie più
importanti. Le assenze complesse sono un problema perché sono
espressione di encefalopatia e quindi hanno una prognosi molto meno lieve
rispetto alle assenze semplici.

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Nella classificazione delle crisi dobbiamo infine indicare i cosiddetti spasmi,
che sono tipici della primissima infanzia. C’è la sindrome di West che è
caratterizzata dagli spasmi e che è la patologia prototipica degli spasmi
infantili. Gli spasmi sono in realtà manifestazione di ipertono ma non possono
essere considerate vere crisi toniche anche per l’età d’insorgenza, quindi
vengono chiamate spasmi e basta. Nella classificazione delle crisi da parte
dell’ILAE (Lega internazionale contro l’epilessia) hanno una collocazione a
parte.

Passiamo a due considerazioni. La prima in merito all’epilessia riflessa.


Questa è un tipo di epilessia scatenata da stimoli sensoriali, per esempio
stimoli visivi e uditivi. Per quanto riguarda gli stimoli visivi può nascere il
discorso dell’epilessia da televisione, cioè ci sono bambini che hanno le crisi
quando stanno davanti a uno schermo. E qui è difficile capire se è causata
dalla stimolazione fotica ossia la luce che lo schermo dà, oppure dal
contenuto di quello che stanno vedendo. Questa forma di epilessia, che si
chiama epilessia fotosensibile, può essere studiata nell’animale da
esperimento ed esiste un babbuino che si chiama Papio Papio che è
fotosensibile. Quindi voi date il fascio di luce al babbuino e quello comincia a
scatenare le crisi.
In alternativa può essere scatenata da stimoli uditivi. Questi possono creare
una serie di problemi, per esempio la sindrome del QT lungo di tipo II, che è
quella permutazione con perdita di funzione della corrente IKr del canale Erg
del potassio. Vi ricordate che gli stimoli uditivi potevano indurre le torsioni di
punta. Nel caso dell’epilessia gli stimoli uditivi inducono le crisi. Questa forma
di epilessia riflessa innanzitutto la vedete in diversi modelli animali, ci sono ad
esempio ratti che sviluppano le crisi quando li mettete dentro ad una
campana. Suonando la campana loro cominciano a convulsare.
Queste forme di epilessia possono avere anche associazione all’autismo. La
Sindrome dell’X fragile è una patologia genetica che si associa all’autismo nel
30-35% dei casi ma che è caratterizzata anche da crisi epilettiche. Infatti,
viene pure classificata all’interno delle sindromi epilettiche in cui le crisi sono a
carattere sindromico. I pazienti affetti da X-fragile hanno epilessia riflessa e
nei modelli murini di X-fragile, topi knockout del gene FMR1 che codifica per
la proteina del ritardo mentale associata all’X-fragile, questi topi presentano
epilessia riflessa.
L’epilessia riflessa si può anche manifestare in risposta ad improvvisi
movimenti o ad altre manifestazione di questo tipo.

L’altra considerazione invece è il rapporto tra le crisi epilettiche e gli ormoni


sessuali. Esiste sempre una grande associazione tra l’endocrinologia, la
psichiatria e la neurologia. Parlando della depressione noi abbiamo fatto
sempre riferimento a questo dicendo che, quando avete un paziente
depresso, prima di fare una diagnosi definitiva e cominciare una terapia
bisogna guardare gli asse endocrini e rivolgere l’attenzione alla tiroide
primariamente, all’asse del surrene e poi alle gonadi. Le gonadi nel caso

101
dell’epilessia diventano di grande interesse. E questo soprattutto perché
esistono degli ormoni prodotti all’interno del SNC che si
chiamano neurosteroidi di cui è prototipo l’Allopregnanolone che è un
derivato del progesterone. Questi ormoni sono prodotti in grandissima
quantità durante la fase luteinica del ciclo sessuale, quando il corpo luteo
arriva a produrre anche 40 mg di progesterone al giorno, che serve poi da
precursore dell’Allopregnanolone negli astrociti del SNC.
I neurosteroidi sono dei PAM, ossia dei modulatori allosterici positivi dei
recettori GABA-A, che hanno un ruolo fondamentale nella patogenesi e nel
trattamento dell’epilessia. Ve lo dico per due ragioni: ci sono delle pazienti
affette dalla cosiddetta epilessia catameniale, che è un’epilessia in cui le crisi
insorgono nel momento in cui i livelli di progesterone crollano, quindi nei
momenti che precedono la mestruazione. E’ vero che in quella circostanza si
riducono anche i livelli di estrogeni, ma Nicoletti non ha dubbi che sia la
caduta del progesterone a causare la crisi. La caduta del progesterone
significa anche caduta dei neurosteroidi, il recettore GABA-A quindi viene
attivato di meno dai neurosteroidi, in particolare il recettore GABA A
extrasinaptico responsabile dell’inibizione tonica del SNC e, quando questo
succede, vengono fuori le crisi. L’epilessia catameniale può essere pura, in
cui le crisi avvengono solo in questa fase del ciclo, oppure può avvenire
anche in altre fasi del ciclo però le crisi si esacerbano poco prima delle
mestruazioni. Quindi l’epilessia catameniale è una grande realtà.

[Domanda di una studentessa: ma i pazienti con epilessia riflessa hanno solo manifestazioni con lo
stimolo o potrebbero avere crisi sia spontanea che stimolate dalla luce o dal suono?
RISPOSTA: Se sono crisi spontanee non fanno parte dell’epilessia riflessa, ovviamente le crisi
possono anche essere spontanee però per definizione una crisi caratteristica dell’epilessia riflessa è
quella stimolata da stimoli sensoriali. Certo non è escluso che i pazienti possano avere crisi
spontanee anche per quello che abbiamo detto poco fa, nel senso che quando poi si acquista una
memoria della crisi anche senza l’elemento di induzione la crisi c’è .]

Tornando ai neurosteroidi c’è un farmaco che si chiama Ganaxolone che è in


sviluppo per il trattamento dell’epilessia. In realtà è in sviluppo da tanto tempo
e secondo Nicoletti sarebbe il farmaco ideale per il trattamento dell’epilessia
catameniale essendo un analogo dell’Allopregnanolone, ossia di questo
steroide che stimola il recettore GABA-A. Ricordo due farmaci, il Brexanolone
e lo Zuranolone che sono farmaci provati clinicamente per alcune forme di
depressione; in particolare il Brexanolone è stato approvato dalla FDA per il
trattamento della depressione post-partum e lo Zuranolone si è dimostrato
efficace anche per il trattamento della depressione maschile.
Racconto un episodio di una ragazza che è diventata cieca per un’epilessia
encefalopatica. La mamma mi raccontò che le crisi erano più frequenti prima
delle mestruazioni e allora si decise di fare un trattamento con il
Medrossiprogesterone acetato che è il famoso Depo-Provera, un
contraccettivo iniettabile per via intramuscolare che ha una durata di tre mesi.
La madre sbagliò dandole il dosaggio doppio e la ragazza passò da avere una
trentina di crisi al mese ad averne solo una o due. Successivamente il padre

102
si spaventò perché il ginecologo gli disse che il Medrossiprogesterone acetato
poteva essere pericoloso per il carcinoma della mammella e quindi le crisi
tornarono inevitabilmente.

Ora passiamo alla classificazione delle sindromi epilettiche.


Le sindromi epilettiche sono delle sindromi caratterizzate dal fatto che le crisi
sono stereotipate, ossia si presentano nella maggior parte dei casi sempre
allo stesso modo. Queste sindromi sono state inizialmente classificate in
idiopatiche, criptogenetiche, sintomatiche/secondarie.
Delle idiopatiche non si conosce la causa, e potrebbe non esserci.
Criptogenetico deriva dal greco kryptos che significa che la causa c’è ma è
nascosta, ossia esiste una causa genetica però non si sa qual è. La forma
sintomatica/secondaria dipende da qualche altra cosa.
Oggi quello che si sa è che quasi il 50% dei pazienti epilettici ha una
connessione genetica. Sono state identificate tantissime mutazioni in un
numero enormi di geni. Pensate che per esempio le cosiddette IGE, che sono
quelle che venivano chiamate epilessie generalizzate idiopatiche del periodo
giovanile, oggi sono state ridenominate GGE che significa epilessie genetiche
generalizzate. Quindi sta cambiando la terminologia, le epilessie che prima
erano classificate come idiopatiche oggi vengono rinominate epilessie
genetiche generalizzate. Quindi ancora una volta la genotipizzazione e anche
la capacità di trovare nuove mutazioni grazie ai modelli animali sta
rivoluzionando le nostre conoscenze su queste forme di epilessia.
È anche importante stabilire quando le sindromi epilettiche si estrinsecano,
per esempio possono venire fuori nella primissima infanzia, possono venire
fuori nell’infanzia cioè entro i due anni di età, possono interessare i bambini, la
cosiddetta childhood, o possono interessare delle età più avanzate come per
esempio il periodo giovanile e il periodo peri-adolescenziale.

Cominciamo a classificarle e partiamo dal neonato. I neonati possono avere


crisi di natura metabolica. Le crisi metaboliche sono tantissime ma c’è una
forma di epilessia del neonato che potete prendere subito in considerazione
ed è quella dell’alterato metabolismo della piridossina, ossia della vitamina
B6. In particolare, si ha quando manca un enzima che trasforma la piridossina
in piridossina fosfato e che impedisce la formazione dell’ultimo prodotto ossia
il piridossalfosfato. Quindi questa è una forma di epilessia da carenza da
piridossalfosfato, che può avere delle caratteristiche anche simili all’epilessia
encefalopatiche da un punto di vista fenotipico, ma che però rappresenta una
forma molto controllabile perché si tratta con la vitamina B6. Bisogna tenere
conto di questa forma di epilessia che forse prima avevamo classificato come
epilessia da carenza di piridossina ma il modo più corretto per classificarla è
epilessia da alterato metabolismo da piridossina ed in questa particolare
circostanza non si forma il piridossalfosfato.
Qualcuno si potrà chiedere come mai la carenza del piridossalfosfato può
determinare crisi epilettiche? E come seconda domanda: ma queste crisi,

103
visto che manca un enzima che forma il piridossalfosfato, si verificano anche
nella vita fetale?
La prima cosa da considerare è il GAD, ossia l’enzima glutammato
decarbossilasi, che è l’enzima che sintetizza il GABA a partire dal
glutammato. Il GABA si forma per decarbossilazione del glutammato ed
esistono due tipi di GAD, GAD-65 e GAD-67, che sono enzimi
piridossalfosfato dipendenti. Quindi è abbastanza ovvio che queste crisi
vengano fuori per il semplice motivo che la GAD non viene attivata in maniera
corretta perché manca il suo cofattore, ossia il piridossalfosfato. Quindi viene
compromessa la sintesi di GABA.
Passando alla seconda domanda: come mai queste crisi non si sviluppano nel
periodo prenatale? La ragione è che il GABA nella vita embrionale-fetale si
comporta da neurotrasmettitore eccitatorio. In realtà la capacità del GABA di
eccitare è così forte che il GABA durante la vita fetale genera dei potenziali
giganti eccitatori, è quasi più eccitatorio del glutammato durante lo sviluppo
del SNC. Poi però un po’ prima della nascita diventa inibitorio e allora a quel
punto, se non c’è piridossalfosfato, quindi la sintesi del GABA non è ottimale,
è ovvio che le crisi epilettiche vengano dopo la nascita anche perché ci sono
dei meccanismi di disinibizione, cioè gli interneuroni inibitori, che non
funzionano in maniera corretta.
L’ontogenesi, lo sviluppo dell’individuo, ricalca la filogenesi: cioè durante la
vita embrionale e poi fetale noi è come se ripercorressimo tutte le tappe
dell’evoluzione che partono dalla vita acquatica e poi arrivano al prodotto
finale che nella fattispecie siamo noi. Se considerate le specie animali più
primitive non hanno il controllo inibitorio, hanno soltanto l’eccitazione. Quindi
se è vero che l’ontogenesi ricalca la filogenesi, noi possiamo anche aspettarci
che durante lo sviluppo del SNC, che un po’ ripercorre a grande velocità la
filogenesi, abbiamo una fase in cui il cervello è dominato dall’eccitazione. Poi
dopo la nascita il GABA diventa inibitorio e allora le cellule piramidali sono
modulate da 20 sottotipi diversi di interneuroni inibitori e lì si plasma la sfera
cognitiva e quindi l’individuo acquista tutte le caratteristiche che noi gli
riconosciamo.
Ma arriviamo al meccanismo; come mai il GABA è eccitatorio prima della
nascita? Il GABA attiva tre tipi di recettori che prendono il nome di recettore
GABA-A, GABA-B e GABA-C. Il recettore GABA-C lo possiamo anche
dimenticare perché si trova esclusivamente nella retina, quindi in questo
contesto non è rilevante. Tra il recettore GABA-A e il recettore GABA-B c’è
una differenza sostanziale: il recettore GABA-A è un canale ionico permeabile
al cloro e al bicarbonato, quindi quando si apre viene attraversato da cariche
negative.
Il recettore GABA-B è accoppiato a una proteina G inibitoria, quindi è un
classico recettore metabotropico, e come sapete è attivato dal Baclofene, il
Lioresal, che è un farmaco miorilassante centrale. Quello più importante tra i
due tutto sommato è il recettore GABA-A, soprattutto dal punto di vista
farmacologico perché viene attivato dalle benzodiazepine e dai barbiturici.
Abbiamo un grande esempio di barbiturici tra i farmaci antiepilettici, ossia il

104
Fenobarbital. Viene inoltre attivato dall’etanolo, dagli anestetici volatili, dagli
anestetici iniettabili e dai neurosteroidi. Ci sono alcuni antiepilettici che sono in
grado di influenzare l’attività dei recettori GABA-A.
Ora facciamo una serie di ragionamenti, il primo dei quali è il seguente: la
permeabilità al cloro che cosa significa? Se voi prendete una cellula eccitabile
come un neurone considerate che l’interno è negativo rispetto all’esterno.
Ragioniamo sulla differenza di potenziale, che significa: se voi, per esempio,
avete una bottiglia in mano e la sollevate la caricate di energia potenziale, se
la faccio cadere per forza di gravità l’energia potenziale diventa energia
cinetica. Si chiama energia potenziale per questo, perché è un’energia che
potenzialmente può dare origine a un altro tipo di energia. Quando si crea una
differenza di potenziale ai lati di una membrana biologica si crea una sorta di
energia potenziale, il che significa che se ci sono le condizioni corrette questa
energia potenziale può dare origine a una corrente elettrica, ossia ad energia
elettrica. Come si crea questa differenza di potenziale tra interno ed esterno?
Attraverso una segregazione di ioni, cioè gli ioni sodio vengono confinati
all’esterno della cellula e gli ioni potassio restano preferibilmente all’interno
della cellula. Solo che all’interno della cellula ci sono anche le cariche
negative delle proteine e quindi si crea questa differenza di potenziale elettrico
tra interno ed esterno (ad esempio – 85 / - 90 mV), il che significa che
all’interno della cellula prevalgono le cariche negative e all’esterno della
cellula prevalgono quelle positive.
Se voi aprite un canale che è permeabile al cloro, teoricamente vi
aspettereste che il cloro fuoriesca dalla cellula e se ne vada all’esterno,
considerando che l’interno è negativo e l’esterno invece è positivo. Di fatto
questo è quanto accade durante lo sviluppo embrionale/fetale, il cloro
fuoriesce dalla cellula e questo causa una depolarizzazione. Per questo
motivo il GABA è eccitatorio nel SNC in sviluppo. Tuttavia, quando i neuroni
maturano, quindi ad esempio negli ultimi stadi di gravidanza nell’uomo e nei
primi giorni di vita post-natale nel roditore, i neuroni esprimono
un trasportatore KCC2 che prende il Cl- dall'interno della cellula e lo scarica
fuori. Oltre al cloro trasporta anche il potassio, infatti è un simporto K+ e Cl-, da
cui deriva anche il nome. Nel momento in cui questo trasportatore viene
espresso, il neurone si trova senza cloro all’interno, proprio grazie a questo
trasportatore KCC2 che lo butta verso l’esterno della cellula. Nel momento in
cui si apre il recettore GABA-A e si attiva questo canale permeabile al Cl-, il
gradiente di concentrazione del Cl- prevale sul gradiente elettrico. E a questo
punto, nonostante l’interno della cellula sia negativo, il Cl- entra comunque
nella cellula, perché il KCC2 rende la concentrazione intracellulare di Cl-
vicino allo zero. Allora il recettore GABA-A diventa un recettore
iperpolarizzante perché aumenta ancora di più la differenza di potenziale tra
l’interno e l’esterno e il recettore GABA-A diventa inibitorio perché viene
espresso il trasportatore KCC2.
Riassumendo: il GABA prima è eccitatorio perché, quando si attiva il canale
GABA-A il Cl- esce, non essendo ancora espresso il trasportatore KCC2.
Successivamente i neuroni, una volta finito il loro stadio di maturazione,

105
esprimono questo trasportatore KCC2 e, nel momento in cui lo esprimono,
questo butta fuori tutto il Cloro dalla cellula. E a questo punto, avendo una
concentrazione intraneuronale di Cloro uguale a zero, nel momento in cui si
attiva il recettore al GABA il Cloro entra invece di uscire e la cellula viene così
inibita perché aumenta la differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno. Il
KCC2 è esclusivamente espresso dai neuroni.
I neuroni peraltro hanno anche un altro trasportatore che si
chiama NKCC1 che è un parente stretto dell’NKCC2, cioè il trasportatore che
si torva nell’ansa di Henle ed è bersaglio dei diuretici dell’ansa, come il LASIX.
Questo NKCC1 fa il contrario, è un trasportatore sodio-potassio-2 cloro e fa
entrare il cloro. Quindi quello che succede è che prima della nascita prevale
NKCC1, mentre dopo la nascita prevale KCC2 su NKCC1, che continua ad
essere espresso ma in maniera ridotta. Quindi fondamentalmente prima della
nascita i neuroni sono pieni di cloro perché l’NKCC1 lo fa entrare, dopo la
nascita il KCC2 viene espresso e questo fa uscire Cl- e quindi il neurone
diventa privo di Cl- e contemporaneamente si riduce l’espressione
dell’NKCC1.
Tutta questa storia ha due risvolti fondamentali, il primo dei due è l’epilessia.
Un tipo di epilessia che è l’epilessia temporale o epilessia psicomotoria,
epilessia complessa dove c’è un’aurea seguita dallo stato sognante e poi ci
sono tutti quelli automatismi motori, quindi crisi focale complessa, spesso è
farmacoresistente. Questa forma di epilessia si può curare con la chirurgia e
nel tessuto prelevato chirurgicamente c’è una ridotta espressione di KCC2.
Significa che i neuroni in questa forma di epilessia esprimono meno il
trasportatore del cloro, e così facendo il recettore per il GABA è meno
inibitorio. In questo caso l’utilizzo di barbiturici, benzodiazepine e così via non
avrà nessun effetto, perché il loro recettore bersaglio (recettore GABA) non è
in grado di iperpolarizzare perché c’è il cloro all’interno. Per queste particolari
forme di epilessia si è pensato di sfruttare il fatto che i neuroni esprimono
ancora NKCC1, che è il trasportatore che fa entrare il Cl-. Allora si è pensato
come facciamo a ridurre la concentrazione di Cloro all’interno della cellula se il
KCC2 è espresso meno e lo butta fuori con maggior difficoltà? Proviamo a
bloccare NKCC1, ma come? Con i diuretici dell’ansa come il Lasix e quindi
vincere la farmacoresistenza e rendere possibile l’azione delle
benzodiazepine o dei barbiturici facendo entrare meno cloro nei neuroni. Il
Lasix però non funziona tanto contro NKCC1, avendo effetto sull’NKCC2. Ma
c’è un altro diuretico dell’ansa che è venti volte più potente del Lasix ossia il
Bumetanide, il quale invece è in grado di bloccare efficacemente NKCC1 e nei
modelli animali funziona. Solo che voi dovreste trattare un paziente che soffre
di epilessia temporale con il più potente diuretico dell’ansa esistente e questo
crea chiaramente perdita di sodio, perdita di volume plasmatico, ipokaliemia e
nello stesso tempo alcalosi metabolica perché nelle parti distali del rene il
sodio viene scambiato con il potassio e con i protoni. Quindi questo tipo di
intervento per cercare di migliorare la farmacoresistenza nell’epilessia non è
poi così raccomandabile.

106
Oggi quello che si sta cercando di fare è cercare di creare dei farmaci che
agiscano similmente alla Bumetanide bloccando NKCC1 ma non bloccando
l’NKCC2 che, invece, si trova nel rene, cercando dunque di dissociare l’azione
diuretica dalla capacità di bloccare l’NKCC1.
Questa è la prima cosa che ci mette in relazione l’omeostasi del cloro ai
meccanismi di resistenza e ci spiega anche perché i bambini che hanno
carenza di Piridossalfosfato non sviluppano le crisi prima. Non le possono
sviluppare perché il GABA è un neurotrasmettitore eccitatorio durante lo
sviluppo del Sistema Nervoso Centrale e, anzi, paradossalmente sono più
protetti dall’eccitazione quando il cervello si sta sviluppando. Poi le cose
cambiano quando i GABA diventano inibitori.

Un altro aspetto che voglio sottolinearvi riguarda invece l’autismo.


È stato dimostrato soprattutto nei modelli animali che questo fenomeno del
GABA che da eccitatorio diventa inibitorio, fatto che in ricerca si chiama
Switch del GABA, si verifica in modo molto più tardivamente e meno efficiente
nei modelli animali di autismo come, per esempio, nei modelli genetici come in
quello dell’X fragile.
Nell’animale un modello di autismo è il trattamento dell’acido valproico in
gravidanza. Il Depakin, uno dei farmaci più utilizzati al mondo nell’epilessia,
ha una certa teratogenicità ed è uno dei farmaci, tutto sommato, da evitare in
gravidanza perché può dare disturbi della notocorda come la spina bifida. Se
voi fate un trattamento nella topolina gravida con acido valproico, poi i
piccolini che nascono quando crescono sviluppano un fenotipo autistico e
questi animali, questi neonati, hanno uno switch del GABA difettivo, il GABA
continua ad essere eccitatorio per tempi più lunghi. Quindi, questo tipo di
fenomeno, dello switch del GABA, è stato collegato alla patologia autistica e
anche lì, farmaci simili alla Bumetanide, ma privi dell’azione diuretica, sono in
sviluppo per vedere se possono essere utili per il trattamento dei disordini
dello spettro autistico.

C’è un’ultima considerazione da fare. Il canale del cloro, del recettore GABA
A, è permeabile anche al bicarbonato. Non è una novità perché il bicarbonato
è carico negativamente quindi così come passa il cloro passa anche il
bicarbonato e su questo ci siamo. Però attenzione, mentre il cloro entra nella
cellula ed è responsabile dell’iperpolarizzazione perché il neurone è privo di
Cloro in quanto è espresso il KCC2 quindi il GABA è inibitorio, il bicarbonato
invece esce perché la concentrazione del bicarbonato nel neurone è
abbastanza alta. Il bicarbonato, quindi, è come se si opponesse all’azione
inibitoria del GABA, il GABA fa entrare cloro ma, contemporaneamente, esce
bicarbonato. Certo, entra più cloro rispetto a quanto bicarbonato esce, quindi il
GABA è comunque inibitorio, ma la fuoriuscita del bicarbonato è come se
frenasse un po’ l’azione del GABA. Il bicarbonato è formato da un’anidrasi
carbonica di tipo 7, magari non così popolare come l’anidrasi carbonica di tipo
2 o 4 che si trovano nel rene ma comunque sempre da tenere in
considerazione. Se voi bloccate l’anidrasi carbonica di tipo 7, potreste

107
ottenere un’azione antiepilettica ma è quello che succede con il prototipo degli
inibitori dell’anidrasi carbonica che è l’Acetazolamide, che sarebbe il famoso
Diamox.
Quando abbiamo studiato il Diamox abbiamo studiato gli inibitori dell’anidrasi
carbonica e detto che si usano poco come diuretici ma che si usano nel
glaucoma nel mal di montagna, etc.
L’Acetazolamide si può utilizzare anche nel trattamento dell’epilessia, quindi
questa è una cosa abbastanza interessante e che dipende dal fatto che se,
voi bloccate la sintesi del bicarbonato, prevenite un meccanismo che fa da
freno all’azione inibitoria del GABA e quindi potenziate l’azione inibitoria del
GABA stesso.
• Il Topamax, topiramato, farmaco antiepilettico ma anche tanto utilizzato
in psichiatria nel disturbo bipolare e nella profilassi dell’emicrania con
indicazione specifica.
• La Zonisamide, lo Zonegran, che si usa anche in epilessia, bloccante
dei canali del sodio, dei canali del calcio, ma anche inibitori delle
monoamminossidasi. Questi due farmaci sono in grado di inibire anche
l’anidrasi carbonica, il loro meccanismo è riconducibile al blocco di
canali principalmente ma sono farmaci che hanno anche una certa
attività nei confronti dell’anidrasi carbonica e, quindi, questo potrebbe
contribuire a giustificare l’effetto terapeutico che voi avete nell’epilessia.

Abbiamo parlato dunque di queste forme di epilessie da carenza, non di


piridossina, ma del metabolismo che riguarda la conversione in
piridossalfosfato.

Alla nascita possiamo avere una patologia riguardante le cosiddette crisi


neonatali familiari benigne, sono crisi genetiche.
Queste crisi neonatali familiari benigne sono crisi benigne, nel senso che si
presentano nei primi giorni di vita, possono restare per qualche tempo ma poi
spariscono senza lasciare traccia. Questo però non è del tutto vero perché in
un 10% dei casi questi soggetti che hanno avuto le crisi neonatali familiari
benigne possono sviluppare anche epilessia nei periodi successivi.
Domanda: queste crisi neonatali familiari benigne da cosa dipendono?
Risposta: dipendono dalla mutazione LOSS, con perdita di funzione (loss of
function), di due canali del POTASSIO che sono quelli voltaggio dipendenti
che generano le correnti: Kv7.2 e Kv7.3.
I canali voltaggio dipendenti del potassio sono quei canali che si aprono con la
depolarizzazione, i canali outward. Qualunque canale del potassio può essere
studiato dagli elettrofisiologi che hanno questa specializzazione assoluta di
studiare i canali. L’elettrofisiologia è una bellissima branca. Posizionando una
micropipetta sul neurone è possibile clampare il potenziale, cioè modificare il
potenziale di membrana come desiderato, portarlo a - 80, - 55, oppure +20
mV, giocandoci come si vuole. Il canale del potassio può naturalmente far
entrare o uscire potassio, a seconda di quanto potassio ci sia dentro o fuori
oppure a seconda del potenziale di membrana. Qualunque canale, giocando

108
col potenziale, può essere messo in condizione di far entrare o uscire il
patassio.
I canali outward, voltaggio dipendenti, sono quei canali che se li mettete in
condizione di far uscire potassio, fanno uscire più potassio rispetto a quanto
ne farebbero entrare se li metteste in condizioni di far entrare il potassio. A
differenza invece dei KIR, i canali cosiddetti inward, inward rectifier potassium
channel, che invece fanno entrare più potassio se li mettete in condizione di
far entrare potassio rispetto a quanto potassio fanno uscire se li mettete in
condizione di far uscire potassio.
Sembra un gioco di parole ma è così. Capita poi che il canale KIR faccia
uscire potassio, non lo faccia entrare, come succede frequentemente nel
cuore o nelle cellule beta del pancreas. Mentre invece i canali voltaggio
dipendenti del potassio come quelli delle correnti Kv 7.2 e 7.3 hanno
veramente la funzione di far uscire il potassio ed è una funzione fondamentale
nei meccanismi di ripolarizzazione. Quando un neurone viene depolarizzato, a
quel punto durante la depolarizzazione è entrato il sodio dentro la cellula,
vengono aperti i canali del potassio voltaggio dipendenti e il potassio fuoriesce
e così avete nuovamente la formazione del potenziale di membrana e poi le
pompe sodio potassio ci mettono del loro scambiando il sodio con il potassio,
questo è l’evento finale.

Nelle correnti del potassio Kv 7.2 e 7.3, la subunità alfa del canale del
potassio, la più importante è codificata dai geni KCNQ2 e KCNQ3. Questi geni
sono imparentati con il KCNQ1, gene che abbiamo studiato nel
cardiovascolare. Se ricordate, le mutazioni del KCNQ1 sono responsabili della
sindrome del QT lungo di tipo 1, sindrome genetica in cui le torsioni di punta
vengono sotto sforzo. Il KCNQ1, gene del cuore, che genera la corrente Kv
7.1, poi abbiamo questi due geni, KCNQ2 e KCNQ3 (sistema nervoso
centrale, neuroni) che generano le correnti del K+ voltaggio dipendenti, Kv 7.2
e 7.3.
Questi canali del potassio vengono inibiti da mutazioni con perdita di funzione
nelle convulsioni familiari neonatali benigne. In realtà le mutazioni molto più
frequenti sono quelli a carico di KCNQ2. Sono mutazioni nella maggior parte
dei casi benigne, può capitare però che la mutazione non sia più benigna. Un
esempio diretto, l’arginina in posizione 213: se questa arginina viene sostituita
dalla glutammina avrete un fenotipo benigno con convulsioni alla nascita e
fine del discorso, riguarda Kv 7.2. Se invece questa Arg213 viene sostituita
con un triptofano, aminoacido con caratteristiche ovviamente diverse, ci può
essere epilessia successivamente e anche un’evoluzione in ritardo mentale.
Non è sempre detto che le mutazioni dei canali del potassio possano dare un
fenotipo benigno di epilessia perché in alcune circostanze il fenotipo piò
essere diverso.
Ci sono poi anche delle forme di convulsioni familiari sempre definite benigne
che questa volta interessano sia il periodo neonatale che l’infanzia, quindi
entrambi i periodi, in cui le convulsioni sono più protratte nel tempo oppure
interessano esclusivamente l’infanzia.

109
In questo caso per esempio, un canale che viene mutato e del quale vi parlerò
a lungo poiché è il canale principale bersaglio della maggior parte dei farmaci
anti epilettici è il canale del sodio. E in queste forme di convulsioni familiari
neonatali e dell’infanzia, o esclusivamente dell’infanzia, sempre benigne, la
mutazione si ha a carico di una corrente del sodio (non del potassio stavolta)
che si chiama NaV 1.2, una delle correnti del sodio presenti nel sistema
nervoso centrale, canali voltaggio dipendenti per il sodio. Sono codificate dal
gene SCN2A.
Le mutazioni del canale del sodio possono dare dei fenotipi estremamente
variabili come avremo modo di vedere, dove si possono avere delle condizioni
drammatiche, come la sindrome di Dravet, le crisi generalizzate tonico
cloniche intrattabili dell’infanzia, dei bambini.
Ci possono essere anche delle manifestazioni, dei fenotipi anche più leggeri,
come le semplici convulsioni febbrili.

Sempre nella primissima infanzia si possono avere delle forme estremamente


severe di epilessia che sono le forme encefalopatiche.
La prima di queste forme è la cosiddetta Sindrome di Otahara, sindrome rara
caratterizzata all’elettroencefalogramma da alcuni episodi che si chiamano
“ECG suppression-burst”, che indicano la presenza dei complessi di punta
che sono il BURST ai quali fa seguito poi un EEG flat, quasi completamente
piatto per un breve periodo di tempo. Queste sono le manifestazioni
elettroencefalografiche tipiche di questa sindrome di Otahara, sindrome che
può manifestarsi nei primi giorni di vita ma a volte anche dopo qualche
settimana. Nel 75% dei casi questa sindrome di OTAHARA evolve nella
sindrome di West, un’altra epilessia encefalopatica di grande importanza.
Quali sono le caratteristiche della sindrome di Otahara? È caratterizzata
soprattutto da manifestazioni tonico cloniche, possono anche essere alternate
a spasmi, mentre la sindrome di West è tipicamente caratterizzata dagli
spasmi. È poi una sindrome che può avere una base genetica importante. Vi
sono alcuni geni che sono stati chiamati in causa, probabilmente il gene più
caratteristico prende il nome di gene ARX. È un gene fondamentale nello
sviluppo, è un gene homeobox, fondamentale in particolare per lo sviluppo
degli interneuroni inibitori. È un gene legato a tanti fenotipi, ad esempio alla
LISSENCEFALIA, alla sindrome XLAG (X-linked lissencephaly with abnormal
genitalia), lissencefalia con anomalia dei genitali e si chiama X perché il gene
ARX è localizzato nel cromosoma X in posizione p22 (Xp22). La proteina ARX
così critica per lo sviluppo degli interneuroni corticali, quindi
fondamentalmente la sindrome di Otahara potete assimilarla ad una
interneuronopatia quindi una patologia degli interneuroni della corteccia.
Le interneuronopatie sono state da sempre studiate dai neurologi, anche se
ora le cose sono cambiate, poiché queste patologie sono diventate di
grandissimo interesse nella psichiatria perché gli interneuroni parvalbumina
positivi sono disfunzionali nella schizofrenia, mentre gli interneuroni

110
somatostatina positivi (cellule di Martinotti e non) sono disfunzionali nella
depressione.
Comunque, questa proteina ARX è caratterizzata da 4 domini di polialanina.
Nella polialanina, vi sono diversi aminoacidi di alanina ripetuti in 4 segmenti
della proteina e questi segmenti di polialanina dipendono dall’espansine delle
triplette, per esempio la tripletta GCE e così via. Ci sono dei segmenti in cui le
guanine e le citosine vengono ripetute tanto nel gene, ed è in questi segmenti
che ad esempio potete avere le mutazioni caratteristiche di ARX che danno la
sindrome di Otahara. Non sono le uniche, potete avere anche mutazioni non-
senso, missenso, anche delle delezioni, e tutto questo vi può dare poi il
fenotipo Otahara. Ci sono altre proteine che possono essere mutate, una è
una proteina che si chiama STXBP, in particolare STXBP1. Si tratta della
proteina legante la sintaxina, una delle proteine del complesso SNARE.
Il complesso SNARE è composto da tre proteine e comprende sintaxina,
SNAP25 e Sinaptobrevina o proteina VAMP, che sono le tre proteine che
permettono alle vescicole sinaptiche di fondersi con la membrana e liberare i
neurotrasmettitori sulla fessura sinaptica.
C’è un ultimo gene che può essere coinvolto, CDK5L1. Codifica per una
proteina che è simile alla protein kinasi ciclina dipendente di tipo 5.
La protein kinasi ciclina dipendente di tipo 5 non ha rapporto col ciclo
cellulare, ha invece un rapporto con i meccanismi di regolazione nel citosol,
per esempio è una proteina che fosforila GSK3 beta.
Ci possono essere diversi geni coinvolti nella sindrome di Otahara, come per
esempio il gene ARX, quello che sicuramente è il più gettonato, gene
fondamentale per la formazione degli interneuroni. O ancora questa proteina
che lega la sintaxina, una delle proteine del complesso SNARE, o infine la
proteina simile a CDK5.
La sindrome di Otahara è molto difficile da trattare, anche se in alcuni casi si è
vista una risposta con alti dosaggi di Fenitoina e così via. La sindrome evolve
nel 75% nella sindrome di West.

La sindrome di West è anche chiamata sindrome del Tic-El-Salaam,


caratterizzata da spasmi in flessione. Sono bambini che flettono la testa,
bambini molto piccoli che hanno 2-3-4 mesi, da un punto di vista temporale
viene dopo rispetto a quella di Otahara.
Dal punto di vista dell’EEG, la sindrome di west è caratterizzata da
ipsaritmia, che significa letteralmente ipsi e aritmia, e il tracciato
elettroencefalografico è aritmico in tutte le derivazioni dalle quelli voi lo
registrate.
Da cosa dipende la sindrome di West? Può dipendere dalla genetica e gli
stessi geni chiamati in causa per la sindrome di Otahara sono importanti in
quella di west come il gene ARX. Non a caso il 75% dei bambini con sindrome
di Otahara poi automaticamente evolve in sindrome di West. Può però
dipendere anche da ipossia durante il parto, quindi ipossia cerebrale.
Una delle cose che possono essere utilizzate per il trattamento della sindrome
di West è l’ACTH che agisce stimolando la produzione del cortisolo da parte

111
del surrene, il cortisolo che esercita azione antiinfiammatoria e
antiedemigena. Il Synachten Depot, cioè la formulazione a lento rilascio di
ACTH, rappresenta una delle terapie possibili nella sindrome di West ed ha
una certa logica soprattutto quando la sindrome di West è di origine post
traumatica, e dipende appunto da ipossia durante il parto.
C’è un farmaco che è particolarmente efficace nella sindrome di West e
prende il nome di Vigabatrina. E’ un inibitore selettivo e irreversibile della
GABA TRANSAMINASI, l’enzima che metabolizza il GABA. Se viene
bloccato, i livelli di GABA nella sinapsi aumentano e che quindi
automaticamente il farmaco possa esercitare azione antiepilettica.
La Vigabatrina nella sindrome di West ha una certa efficacia ma presenta un
problema dato dalla tossicità. In linea teorica si può usare anche nella vita
adulta ma dà due tipi di tossicità: una tossicità di tipo psichiatrico con
manifestazioni psicotiche e allucinazioni durante il sonno che possono
acquistare le caratteristiche delle allucinazioni ipnagogiche e ipnopompiche.
Le allucinazioni ipnagogiche si hanno durante le prime fasi del sonno. Le
allucinazioni ipnopompiche si hanno prima del risveglio.
Oltre a questo, cosa più importante, poiché questi aspetti in un bambino così
piccolo diventano assolutamente irrilevanti, la Vigabatrina può dare danno a
carico del nervo ottico, e almeno nell’animale da esperimento dà edema intra
mielinico. C’è una neuropatia ottica quindi da Vigabatrina che ovviamente in
un soggetto adulto potete cercare di apprezzare valutando il campo visivo,
mentre invece in un bambino così piccolo diventa estremamente difficile da
valutare. Fondamentalmente l’unico modo è fare i potenziali evocati visivi per
vedere se la funzione del nervo ottico è conservata oppure no.

Ricapitolando:
1. sindrome di west o tic-el-salaam perché un po’ riproduce il saluto arabo,
2. spasmi in flessione,
3. elettroencefalogramma caratterizzato da ipsaritmia, cioè c’è aritmia in
tutte le derivazioni,
4. può essere di origine post traumatica o genetica. I geni della sindrome
di Otahara sono presenti anche nella sindrome di West.
5. L’ACTH è la prima possibilità da valutare come antiedemigeno,
antinfiammatorio. Tradizionalmente si dà questo, in teoria si potrebbe
dare anche il cortisone perché a maggior ragione ha azione
antinfiammatoria più diretta. Però c’è il problema che, se diamo il
cortisonico per lungo tempo, possiamo indurre un’ipoplasia della
ghiandola surrenalica perché si blocca l’asse del surrene; mentre
invece con l’ACTH si stimola il surrene, quindi l’approccio è
completamente diverso.
6. Poi la Vigabatrina, il Sabril. Questo farmaco inibitore selettivo della
GABA transaminasi che aumenta i livelli di GABA e ha però due
problemi da un punto di vista del profilo di sicurezza e tollerabilità: i
disturbi psichiatrici, i disturbi del sonno che nel bambino sono poco
importanti, ma soprattutto la possibilità che si sviluppi una neuropatia

112
ottica forse per edema intra mielinico. Ricordate che il nervo ottico ha la
mielina che è formata da oligodendrociti e non dalle cellule di Schwann,
quindi questo potrebbe rappresentare di fatto un problema.
Il trattamento della sindrome di West è importante ma purtroppo non
risolutivo.
È caratterizzata, tra le altre cose, da una regressione dello sviluppo quindi nei
mesi successivi della prima infanzia. L’esito è quello del ritardo mentale.

Sempre in questa fase della gravidanza, potete avere una forma di epilessia
focale con manifestazioni miocloniche a foci migranti. Significa che non
c’è un solo focus epilettico ma ce ne sono di più. È considerata un’epilessia
encefalopatica particolarmente severa perché può evolvere poi nella sindrome
di Otahara o nella sindrome di West.

113
LEZIONE 29 APRILE

EPILESSIA
La scorsa volta abbiamo cominciato a trattare le sindromi epilettiche, dove per
sindromi epilettiche si intendono una serie di forme di epilessia in cui le crisi sono
abbastanza stereotipate. Queste sindromi sono la parte più complessa
dell’epilessia in realtà, sono classificate come al solito dall’ILAE (lega internazionale
contro l’epilessia). Alcune sindromi hanno anche tante altre caratteristiche, per
esempio tra le sindromi epilettiche ci sono, come vedremo, un gruppo che si
chiama epilessie miocloniche progressive dove ci sono mille altri sintomi, oppure
per esempio le forme monogeniche di autismo che noi cerchiamo anche un po’ di
studiare al Neuromed, come la sindrome dell’X fragile, la sindrome di Angelman, la
sindrome di Rett, sono tutte caratterizzate da crisi epilettiche però naturalmente
hanno un fenotipo molto variegato. Comunque se ricordate abbiamo cominciato a
parlare delle forme dell’infanzia e la volta scorsa abbiamo descritto le convulsioni o
crisi familiari benigne del neonato, distinguendo queste crisi da quelle dovute alle
alterazioni del metabolismo della vitamina B6, sottolineando come questo è
qualcosa che si deve sempre ricercare se un bambino appena nato comincia ad
avere delle scosse, delle crisi, perché la vitamina B6 è essenziale per la biosintesi
del GABA che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC. Abbiamo parlato
di alcune forme di epilessia encefalopatica che sono una realtà abbastanza
importante nel panorama della pediatria, perché sono quelle forme in cui
l’encefalopatia crea le condizioni per l’epilessia ma le crisi epilettiche peggiorano
l’encefalopatia di base. Quindi c’è un rapporto bilaterale tra crisi epilettiche e
encefalopatie. Ne abbiamo descritte alcune come per esempio la sindrome di
Ohtahara, che è quella forma di epilessia caratterizzata da burst-suppression nei
primi giorni della vita, che purtroppo ha poi delle connotazioni non positive e
riconosce delle cause genetiche (abbiamo parlato del gene ARX). Poi siamo andati
alla sindrome di West, o la sindrome Tic es Salaam, e questo ci ha dato spunto per
trattare anche la terapia della sindrome di West dove si usa l’Acth o i cortisonici se
l’origine è post-traumatica. Ora è più complicato che lo sia perché non si usa più il
forcipe come prima, però per esempio questa è una cosa che ho ottenuto con la
mia nipotina. Quando è nata, anche se è nata da parto cesareo, hanno dovuto
usare il forcipe per tirarla fuori perché aveva delle posizioni un po’ scomode per il
chirurgo, quindi è nata con un grosso ematoma in viso e ha sofferto di qualche
piccola crisi tonica in determinati momenti del suo sviluppo, ma cose molto piccole,
quindi c’è stato il timore che ci potesse essere qualche forma post-traumatica. Poi
la sindrome di West ha anche delle origini genetiche, la sindrome di Ohtahara può
evolvere direttamente nella sindrome di West. Parlando di questo vi ho introdotto
un farmaco antiepilettico cioè la VIGABATRINA, che è questo farmaco che blocca
il metabolismo del GABA, cioè un inibitore irreversibile della GABA transaminasi o
GABAt, che però ha dei problemi, per esempio la possibilità della neuropatia ottica
per formazione di edema nella mielina (ricordatevi che la mielina del nervo ottico è
formata dagli oligodendrociti, questa è la ragione per cui esistono delle patologie
infiammatorie del SNC come la sclerosi multipla e la neuromielite ottica in cui il
nervo ottico è coinvolto) e poi altri effetti avversi della Vigabatrina che riguardano la
sfera psichiatrica che ovviamente sono di importanza relativa in un bambino di

114
pochi mesi però dando questo farmaco nella vita adulta le cose cambiano. Tra
poco quando cominceremo a trattare i farmaci uno per uno ci renderemo conto di
questo.

Forme di epilessia dopo i 2 anni


Bene quindi abbiamo un po’ analizzato la prima infanzia, e dalla prima infanzia ci
spostiamo un po’ e andiamo a vedere cosa succede nei bambini da due anni in su
dove abbiamo delle forme estremamente interessanti di epilessia.

1. Sindorme di Lennox-Gastaut
La prima che incontriamo è ancora una volta un’epilessia encefalopatica che
si chiama sindrome di Lennox-Gastaut. Lennox e Gastaut sono due dei più
grandi studiosi dell’epilessia, questa particolare sindrome può essere anche
l’evoluzione naturale della sindrome di West. È una sindrome abbastanza
critica che in genere comincia intorno ai due anni (mentre vi ricordate la
sindrome di West cominciava dopo pochi mesi di vita) ed è caratterizzata da
assenze atipiche.
Cosa sono? Le assenze, vi ricordate, sono quegli episodi in cui i bambini, ma
pure gli adulti a volte, si estraniano dalla realtà per pochissimi secondi e poi
tornano a fare quello che facevano prima e non ci sono altre manifestazioni,
anche se durante questi momenti in cui si estraniano dalla realtà non hanno
chiaramente memoria di ciò che sta succedendo, e sono delle forme
generalizzate. Le assenze si chiamano atipiche quando invece sono
accompagnate da segni motori. Questo è caratteristico della sindrome di
Lennox-Gastaut, dove voi potete trovare i complessi punta-onda
(caratteristici di tutte le forme di assenze), che però non hanno una
frequenza di 3 Hz come trovate nelle assenze tipiche ma una frequenza di 2-
2,5 Hz. La frequenza riflette il modo in cui oscilla il network talamo-corticale
che è all’origine delle assenze.
Nella sindrome di Lennox-Gastaut ci sono poi le cosiddette crisi atoniche che
sono crisi molto particolari in cui si perde completamente il tono muscolare e
il bambino cade per terra. Sono fondamentalmente l’equivalente della
cataplegia che abbiamo visto nella narcolessia ma la patogenesi è
completamente diversa tra le due condizioni, qua sono crisi epilettiche
generalizzate che determinano una perdita del tono muscolare. Dal punto di
vista del management di questi bambini questo ovviamente crea problemi
perché i bambini devono stare a casa con un caschetto, insomma le cose
possono essere abbastanza critiche.

Per la sindrome di Lennox-Gastaut è imperativo trovare una terapia


adeguata, anche perché c’è il cosiddetto developmental delay, cioè un ritardo
dello sviluppo e un ritardo psicomotorio, quindi poi l’outcome di questa
sindrome può essere abbastanza critico. Per questo motivo ci sono due
farmaci che possono essere utilizzati e sono abbastanza efficaci.
Il primo è l’ACIDO VALPROICO, il cosiddetto Depakin, che è il farmaco
antiepilettico a più largo spettro d’azione e utilizzato nella maggior parte delle

115
forme di epilessia sia focali che generalizzate. Però ha un certo spettro di
tossicità, soprattutto la tossicità epatica, e questa tossicità è amplificata nei
bambini che hanno meno di due anni, quindi bisogna fare abbastanza
attenzione nell’uso di questo farmaco perché i problemi epatici possono
essere abbastanza seri (quando poi tratteremo il farmaco vi dirò esattamente
che cos’è).
L’altro farmaco è il FELBAMATO che ha anche lui come il valproato diversi
meccanismi d’azione. Non è un farmaco molto amato dai neurologi in
generale perché ha un’alta incidenza di anemia aplastica (il midollo che non
produce più cellule). Normalmente voi avete 10 individui su 1 milione di
abitanti che possono avere una reazione di questo genere, nel caso di quelli
trattati con Felbamato i calcoli statistici sono che avete un 250 persone che
sviluppano l’anemia aplastica. Questo dipende dal fatto che il farmaco è
metabolizzato dall’organismo e si forma un composto tossico che si chiama
atropaldeide. Tuttavia, è anche vero che l’anemia aplastica, e in generale la
tossicità del Felbamato, è limitata in bambini piccoli (meno di due anni).
Quindi tutto sommato cominciare la terapia della sindorme di Lennox-Gastaut
utilizzando il Felbamato non è male, altrimenti dovete riservarlo a quei
soggetti che non rispondono alla terapia tradizionale.
Abbiamo una novità nel trattamento della sindrome di Lennox-Gastaut e
questo è il CBD, ovvero il CANNABIDIOLO. Questo naturalmente diventa
interessante per voi, perché come sapete il cannabidiolo, insieme al THC, è il
principale costituente della cannabis e in particolare la cannabis Sativa
varietà Indica. La cannabis contiene tanti composti psicoattivi, di cui il THC è
quello di cui si parla maggiormente, responsabile degli effetti psicotropi della
cannabis e anche il fattore di rischio della schizofrenia, e quello che dovrebbe
scoraggiare l’uso voluttuario della cannabis nella popolazione (o perlomeno è
quello che mi sforzo sempre di dire con un successo molto limitato perché chi
fuma cannabis continua a fumarla strafottendosene di qualunque cosa).
Il cannabidiolo è un composto completamente diverso che con il THC non ha
niente a che vedere, ha un’affinità estremamente bassa per i recettori CB1 e
CB2 quindi non agisce come il THC. Da tutto quello che ho letto il
meccanismo di azione del cannabidiolo non è stato ancora definito con
chiarezza però ci sono alcune cose che vanno sottolineate:
 È un antagonista di un recettore orfano che si chiama GPR55
 È un agonista inverso, cioè un agonista che produce l’effetto degli
agonisti normali di altri recettori orfani che si chiamano GPR3, 6 e 12
 Ma soprattutto è in grado di modulare l’attività di recettori molto
conosciuti, per esempio è un agonista parziale dei recettori 5HT1a.
Questo è molto interessante perché i recettori 5HT1a sono anche bersaglio
di farmaci che si impiegano per il trattamento della depressione e della
schizofrenia. Vi faccio un esempio: la vortioxetina è un agonista pieno dei
5HT1a; i farmaci ansiolitici non bezodiazepinici come ipsapirone, gepirone
e buspirone sono agonisti parziali dei recettori 5HT1a; l’aripiprazolo, il
brexpiprazolo e la cariprazina sono tutti agonisti parziali del 5HT1a e così
via. Quando voi avete un’attività agonistica sul 5HT1a questo determina una
riduzione dell’ansia e determina un controllo dei neuroni serotoninergici. Il

116
recettore 5HT1a se ricordate è accoppiato a proteina Gi, si trova sul soma
dei neuroni serotoninergici nei nuclei del rafe, e quello è importante in
psichiatria, è il nucleo dorsale del rafe, e quindi lì esercita un controllo sul
firing rate, cioè sulla frequenza di scarica di questi neuroni.
 È un modulatore allosterico dei recettori MOR e DOR.
I recettori MOR e DOR che potete chiamare anche recettori 𝝁𝝁 (miù) e
recettori 𝝳𝝳 (delta), sono i recettori oppioidi attivati dalla morfina. Quando ho
letto questa informazione ho cercato di documentarmi, perché già scrivere da
qualche parte che un farmaco è un modulatore allosterico non significa nulla.
Modulatore allosterico che vuol dire? Potenzia i recettori DOR e MOR o
diminuisce l’azione? Ho cercato il lavoro originale che dimostra questo e si
capisce ancora di meno, perché è un lavoro in cui si studia il binding di alcuni
ligandi radioattivi dei recettori MOR e DOR, tra cui per esempio il naloxone, e
si vede che mettendo il cannabidiolo le caratteristiche cinetiche del binding
vengono modificate, ma è un lavoro in cui non si esplora la funzione. Quindi il
cannabidiolo probabilmente modula i recettori degli oppioidi ma il significato
di questa modulazione non è per niente chiaro.
 Attiva recettore PPAR gamma.
Questa è una cosa interessante. Questo è un recettore che normalmente è
attivato dai tiazolidindioni, come per esempio il Pioglitazone che è un
farmaco che viene usato per il diabete di tipo due. Se ricordate è un recettore
che regola soprattutto il metabolismo delle cellule adipose. Per esempio,
quando è attivato questo recettore il tessuto adiposo produce le adipochine
antinfiammatorie, questo è il motivo per cui il Pioglitazone migliora la
sensibilità all’insulina, e anche ridistribuisce il tessuto adiposo trasferendolo
dal compartimento viscerale al compartimento sottocutaneo. È anche
coinvolto nelle displasie ventricolari aritmogeniche, in cui il tessuto cardiaco,
il tessuto di conduzione viene sostituito da tessuto adiposo. Quindi ha
veramente tante implicazioni nei meccanismi differenziativi cellulari. E ci sono
una serie di composti che possono attivare il PPAR gamma che sono
composti endogeni, tra questi ad esempio dei derivati dell’acido arachidonico:
ad esempio il 15-HETE, le LDL ossidate o un desossiderivato della
prostaglandina J2. Quindi il PPAR gamma è un fattore di trascrizione di
grande interesse, il cannabidiolo lo attiva e quanto questo possa contribuire
al suo effetto nel SNC non lo so ma sicuramente fa così.
 Inibisce sia l’influsso di calcio attraverso canali ionici, per esempio i
canali voltaggio dipendenti, che il rilascio di calcio intracellulare.
Come vedete tutti questi meccanismi hanno poco a che vedere con il
meccanismo del THC, o con quello dell’Anandamide o del 2-
arachidonoilglicerolo, che sono gli endocannabinoidi che invece attivano il
recettore CB1 prevalentemente.

Indipendentemente da tutto questo il cannabidiolo è considerato come una sorta di


composto buono, prova ne è che è stato approvato dal FDA (food and drug
administration) per il trattamento della sindrome di Lennox-Gastaut e anche per il
trattamento della sindrome di Dravet. Un’altra approvazione l’ha avuta per
l’epilessia associata alla sclerosi tuberosa che è una malattia genetica che tra l’altro

117
si può anche complicare con manifestazioni autistiche. C’è un farmaco che adesso
esiste negli Stati Uniti, si chiama EPIDIOLEX, che in realtà è una soluzione orale di
cannabidiolo e sembra funzionare abbastanza nei bambini altrimenti non ci sarebbe
stata l’approvazione. L’Epidiolex ancora non ha avuto l’approvazione dell’EMA
(agenzia europea dei medicinali) quindi questo è un dato di un certo interesse. Il
cannabidiolo tuttavia può avere un effetto se combinato con il THC, quindi bisogna
stare attenti che nella procedura estrattiva (se il cannabidiolo si estrae dalla
cannabis) non rimangano delle tracce di THC, perché il cannabidiolo può bloccare il
metabolismo del THC, per esempio può inibire CYP2C9 e CYP2C19. Tutti i
fitoterapici in genere hanno un grande impatto nei confronti del citocromo P450 e il
cannabidiolo non fa eccezione a questa regola, quindi si può esercitare una sorta di
busting farmacocinetico e il THC può cominciare ad agire. Considerate che una
combinazione di THC e cannabidiolo in un rapporto 1:1 cioè 2,7mg e 2,5 mg è il
cosiddetto Sativex, di cui abbiamo già parlato e che si usa per il trattamento della
spasticità nei pazienti affetti da sclerosi multipla (però in questo caso il THC diventa
determinante).
Dico tutte queste cose perché una realtà che probabilmente conoscete è quella
della cannabis-light, cioè di questi negozietti che si sono aperti come funghi dopo
una notte di pioggia, dove si vendono i prodotti della cannabis, che però per le
caratteristiche dei semi è una cannabis che contiene un THC inferiore allo 0,2%
con un limite massimo dello 0,6% ma è molto ricca in cannabidiolo. Alcuni pediatri
addirittura consigliano la cannabis-light per i bambini, ci sono molti prodotti
preparati da cannabis-light che si possono dare ai bambini senza alcuna
titolazione, senza sapere quanto c’è dentro, e questo dal mio punto di vista si
chiama criminal behaviour (comportamento criminale). Ma poi ognuno ovviamente
la ragiona come vuole, questa è un’opinione personale prendetela come più vi fa
piacere.
Tornando quindi alla sindrome di Lennox-Gastaut abbiamo il potenziale uso di
cannabidiolo che vi ripeto ancora una volta non ha niente a che vedere con il THC.
Questo vi può servire anche quando farete l’esame di pediatria e il professor
Pasquale Parisi è un eminente neuropediatra molto bravo, che si occupa di
epilessia pediatrica, se vi capita di parlare di sindromi epilettiche encefalopatiche,
se parlate della sindrome di Lennox-Gastaut, ricordatevi che abbiamo questa
nuova introduzione in terapia che è abbastanza interessante

2. Crisi focali del bambino


Detto questo ci sono serie di manifestazioni epilettiche nel bambino che
sono le cosiddette crisi focali del bambino. Sono un gruppo di epilessie che
in realtà vengono chiamate epilessie focali idiopatiche del bambino.
Queste epilessie sono molto frequenti, possono arrivare addirittura ad
interessare il 10-20% dei bambini, quindi potreste davvero vederle. In
alcuni casi si tratta di manifestazioni benigne che poi non si manifestano
più con l’età, in altri casi l’evoluzione può essere abbastanza critica e può
portare in un 50% dei bambini al declino cognitivo. È interessante che
abbia raggruppato queste cose come crisi focali idiopatiche, perché questo
significa che non c’è ancora una causa che viene riconosciuta (idiopatiche)
e che non hanno la tendenza a generalizzarsi ma che la crisi è confinata

118
ad una particolare regione del SNC (focali). È interessante accorpare
queste manifestazioni alla regione perisilviana. Quindi potremo definire le
crisi focali idiopatiche del bambino come le crisi che vengono determinate
dalle attività ipersincrone, attività epilettiche, nel network perisilviano. Cosa
significa network perisilviano? Sono quelle zone che stanno intorno alla
scissura di Silvio. Ma li abbiamo regioni parecchio interessanti:

• Il fascicolo arcuato, voi state studiando neurologia e il fascicolo arcuato


connette l’area di Wernicke al centro di Broca. E questo significa con l’area di
Wernicke organizzare il linguaggio e con il centro di Broca (che è l’area
motoria del linguaggio nell’emisfero sinistro) eseguire il linguaggio. Quindi già
vi fa pensare che le manifestazioni epilettiche di questo gruppo di epilessie
focali che sono le epilessie perisilviane possano interessare il linguaggio sia
parlato che scritto.

• Il giro angolare (perché questa regione perisilviana attraversa il lobo


temporale. Del giro angolare abbiamo parlato a proposito della depressione
perché il giro angolare fa parte del cosiddetto network con modalità di
default, cioè quello che guarda all’introspezione, alla pianificazione del futuro
tenendo conto del passato. C’è anche lì il giro temporale superiore, insomma
è una regione che ha diverse connotazioni.

• Il quinto lobo, ovvero l’insula. È una regione integrativa tra emozioni, funzioni
esecutive, corteccia gustativa e così via… di grandissimo interesse

Quali sono queste forme di epilessia nel loro insieme frequenti, ma naturalmente
con delle differenze, che fanno parte di questo grande gruppo delle epilessie
idiopatiche focali del bambino?

• Epilessia Rolandica
La più frequente di tutte è l’Epilessia Rolandica, che è caratterizzata da
spike, cioè da punte, centro-temporali. Quindi questa è una caratteristica
dell’origine delle manifestazioni dell’iperattività. Come vi ho detto se è
coinvolta la regione perisilviana c’è qualcosa che può interessare il
linguaggio, e infatti l’epilessia Rolandica durante la crisi è caratterizzata da
speech arrest (arresto della parola improvviso). Però indipendentemente da
questo arresto della parola che è temporaneo perché l’epilessia Rolandica,
tranne in alcuni casi, ha un’evoluzione benigna, in realtà poi il bambino può
avere qualche disturbo del linguaggio o della scrittura, qualche problema a
scuola, che ovviamente gli deriva dal fatto che la regione perisilvianica viene
colpita. Nulla comunque di cui bisogna spaventarsi, perché se è un’epilessia
benigna significa che quando poi la cosa si risolve molte funzioni possono
essere facilmente recuperate. Oltre all’arresto della parola che appunto
dipende dal coinvolgimento perisilviano che va nell’organizzazione dell’area
di Wernicke e del centro di Broca, ci sono poi delle manifestazioni sensoriali
o sensitive se preferite che interessano la faccia, o anche delle
manifestazioni motorie a carico della laringe e della faringe. Vi ripeto quindi

119
questa è la forma in assoluto più frequente nel bambino, caratterizzata da:
spikes centro-temporali; l’arresto della parola; manifestazioni come per
esempio tremore al labbro, contrazione dei muscoli laringei e faringei, che
sono però delle contrazioni assolutamente transitorie.

• Epilessia focale del bambino di Panayiotopoulos


Questa forma era considerata inizialmente come una variante di epilessia
occipitale, cioè si pensava che il focus fosse esteso al di dietro della regione
silviana, verso il precuneo e il lobo occipitale. Nella realtà le cose non stanno
così, questa caratteristica che era stata attribuita all’epilessia di
Panayiotopoulos come epilessia del lobo occipitale è stata successivamente
tra virgolette sconfessata, e questa forma di epilessia è soprattutto
disautonomica. Significa che è un’epilessia caratterizzata da pallore,
alterazione della pressione arteriosa, modificazioni del sistema nervoso
autonomo.

• Epilessia occipitale di Gastaut


Un po’ più tardivamente come età viene fuori la cosiddetta epilessia
occipitale di Gastaut. Questa è una forma di epilessia che ha sede
prevalentemente nel lobo occipitale, quindi dietro il network perisilviano. Ci
possono essere manifestazioni visive. Da non confondersi assolutamente
con l’epilessia di Lennox-Gastaut che è molto più popolare di questa e che
ha caratteristiche completamente diverse.

Queste tre forme (Panayiotopoulos; epilessia Rolandica soprattutto, che è quella


molto più frequente rispetto alle altre; e la forma di Gastaut) sono le tre ad
evoluzione tra virgolette un po’ più benigna invece ce ne sono due ad evoluzione
maligna, nel senso che portano ad alterazioni molto serie del linguaggio e al
declino cognitivo. La prima di queste:
• Sindrome di Landau-Kleffner
Nella sindrome di Landau-Kleffner avviene qualcosa di molto spiacevole, cioè
il fatto che il bambino da che parlava improvvisamente non parla più, quindi è
caratterizzata da afasia. Questo può portare nel 50% dei casi ad una perdita
dell’organizzazione del linguaggio e ad un serio declino cognitivo. Veniva
considerata un’epilessia isolata, rispetto alla all’epilessia Rolandica e rispetto
alle altre due, però è stata testimoniata la possibilità che le forme “benigne”
dell’epilessie focali del network perisilviano possano poi evolvere nella
sindrome di Landau-Kleffner, che è anche una sindrome difficile da trattare.
Alcuni geni sono stati chiamati in causa, come per esempio il gene SRPX2
oppure il gene ELP4, questo vale per tutte le forme perisilviane ma
soprattutto la Landau-Kleffner, che sono per esempio geni coinvolti nei
processi di migrazione cellulare. Tuttavia, il gene maggiormente chiamato in
causa in assoluto nella Landau-Kleffner è il gene Grin2 che codifica per la
subunità GluN2 dei recettori NMDA. I recettori NMDA del glutammato come
abbiamo avuto modo di studiare in farmacodinamica sono recettori formati da
5 subunità, dove è quasi obbligatorio che sia presente una subunità GluN1
che lega la glicina e la subunità GluN2 che lega il glutammato, e la subunità
GluN2 che lega il glutammato ha mutazioni che sono state associate con la

120
sindrome di Landau-Kleffner (non ricordo quale dei sottotipi della subunità
credo la Grin2a). quindi quando sentite parlare di Landau-Kleffner pensate ad
un bambino che sta parlando e improvvisamente non parla.
• Status epilepticus
L’altra forma è uno status epilepticus (vi ricordate lo status epilepticus cos’è
si tratta di tante crisi una dietro l’altra, si chiama anche stato di male
epilettico), in questo caso è uno stato di male epilettico di tipo focale e questo
avviene durante il sonno. Quindi è uno stato epilettico durante il sonno, che
fa parte di questo grande gruppo di epilessie del network perisilviano (delle
quali ai fini del vostro esame di pediatria ricordatevi soprattutto l’epilessia
Rolandica).

Forme di epilessia dopo i 5 anni


Detto questo ci sono alcune crisi che interessano fondamentalmente i bambini dai 5
anni di età, che sono invece delle epilessie parziali continue. Quindi sono delle
epilessie focali (il termine parziale non lo usate più, però il nome di queste epilessie
è parziali continue) descritte inizialmente da Kozhevnikov, e sono crisi focali
continuamente ripetute nel tempo. Quindi è un equivalente dello stato di male
epilettico però per le crisi focali. Come ho avuto modo di dirvi la più spettacolare di
queste crisi è la cosiddetta encefalopatia di Rasmussen.

ENCEFALOPATIA DI RASMUSSEN
Che cos’è l’encefalopatia di Rasmussen? Innanzitutto, è una malattia autoimmune,
ed è una malattia che curiosamente colpisce un solo emisfero. In alcuni casi il
numero di crisi focali, che possono essere crisi motorie o sensitive, è limitato; in
altri casi si raggiunge la definizione di epilessie parziali continue di Kozhevnikov,
perché sono enormemente ripetute nel tempo.
Questo è stato il tema principale di quel film di cui vi ho parlato che si chiama Gifted
Hands, che è quel film che racconta la storia di un neurochirurgo di colore che ha
fatto un’escalation sociale che veniva da una famiglia molto povera, e poi è
diventato neurochirurgo alla Johns Hopkins a Baltimora, ed è stato il primo a
trattare chirurgicamente l’encefalopatia di Rasmussen. In particolare con una
bambina la quale aveva crisi molto molto numerose nell’arco della giornata e stava
bene solo durante il sonno. E allora lui ha eseguito la cosiddetta emisferectomia,
cioè ha rimosso l’emisfero che era all’origine della crisi, naturalmente temendo che
la bambina potesse perdere delle funzioni importanti, questo è soprattutto vero
quando viene rimosso l’emisfero dominante dove c’è il centro della parola, però
contrariamente ad ogni aspettativa la bambina ha compensato perfettamente! Era
una bambina di 5 o 6 anni, per la grandissima plasticità del SNC la bambina ha
ricominciato a parlare, ha riconosciuto i genitori dopo un po’ di tempo, cioè quando
si è risvegliata dall’intervento. E quindi insomma questo è stato particolarmente
interessante.
In alternativa alla emisferectomia potete fare una emisferotomia, che significa
deconnettere l’emisfero nei confronti delle altre parti del SNC. Vi ho detto che
l’encefalopatia di Rasmussen è una malattia autoimmune. Lasciate che vi dica

121
inizialmente che si tratta di una raropatia, cioè la prevalenza dell’encefalopatia di
Rasmussen nei paesi dove più facilmente si fa questo calcolo (tipo la Germania e
gli Stati Uniti ecc.) oscilla tra 1 e 2 per milione, quindi è molto difficile trovare un
caso di questo genere. Il fatto che sia una patologia autoimmune è molto strano,
perché in genere il sistema immunitario, come accade per esempio nella sclerosi
multipla, dà un attacco multifocale ma non è che privilegia un emisfero rispetto
all’altro emisfero. Mentre invece in questo caso il sistema immunitario attacca un
singolo emisfero, e questo è particolarmente intrigante anche da un punto di vista
della ricerca.

Intanto quali sono le cause? Si sospetta che le cause possano essere di natura
virale, ma questo vale sempre per tutte le patologie autoimmunitarie del SNC.
Questo vale per la sclerosi multipla dove è chiamato in causa l’Epstein Barr; questo
vale per la narcolessia, che è un’altra patologia autoimmunitaria dove sia il virus
influenzale che le infezioni da streptococco betaemolitico (in questo caso un
batterio ovviamente) possono scatenare l’immunità nei confronti dei neuroni che
contengono orexina. Quindi vedete un virus o un agente infettivo quando si scatena
l’immunità all’inizio ci può essere stato. In questo caso è come al solito l’Epstein
Barr, che è una specie di grande nemico dell’uomo, che oltre a dare la
mononucleosi infettiva e il linfoma di Burkitt, può innescare le patologie
neuroinfiammatorie del SNC; o ancora l’Herpes di tipo 6 è stato anche chiamato in
causa. Poi hanno chiamato in causa la genetica. Per esempio, il gene STXBP1,
cioè il gene che codifica per la proteina che lega la sintaxina, che abbiamo già
incontrato nella sindrome di Ohtahara. La sintaxina è una proteina del complesso
SNARE e può essere coinvolto nella patofisiologia di questa patologia.

Poi c’è da chiedersi, stabilito questo, perché viene attaccato un solo emisfero? Cioè
cosa accade di strano in quell’emisfero? Ovviamente non so rispondervi. Quello
che è stato dimostrato è che c’è una potente immunità cellulomediata che è
responsabile di questo, con il coinvolgimento ad esempio dei linfociti T CD8
citotossici. Nello stesso tempo c’è una grande attivazione della microglia, ma
questo è nulla di nuovo sotto il sole perché la microglia sono i macrofagi del SNC,
quindi sono delle cellule che vengono immediatamente attivate nel contesto di
un’infiammazione. Tuttavia, perché in un emisfero? Come accade nella sclerosi
multipla tra l’altro, si formano anticorpi e ci sono degli autoanticorpi, anche se in
genere le patologie neuroinfiammatorie del SNC (tranne che per la neuromielite
ottica) l’immunità cellulomediata è più importante dell’immunità umorale. Questi
autoanticorpi sono diretti contro la subunità GluA3, che è una subunità del recettore
AMPA. Non sono specifici in assoluto dell’encefalopatia di Rasmussen, perché
sono anticorpi che si possono formare anche in altre patologie, tuttavia sono
anticorpi che se li prendete dal paziente e li iniettate nel cervello di un coniglio
determinano le crisi, e determinano una immunopatologia simile all’encefalopatia di
Rasmussen. Questi anticorpi possono legarsi ai recettori AMPA e con l’intervento
del complemento sono anticorpi in grado di distruggere le cellule nervose. Quindi
un problema dell’encefalopatia di Rasmussen è che con il passare del tempo i
neuroni muoiono e la degenerazione vi fa perdere le capacità motorie, il linguaggio
e ovviamente minori sono le capacità di compenso di un individuo e maggiore sarà

122
il deficit funzionale. E ancora una volta la domanda ma perché un solo emisfero? E
la risposta è non lo so. Ricordatevi tuttavia che è facile che si formino, come
abbiamo detto a proposito della sclerosi multipla, dei follicoli ectopici, con dei centri
germinali, cioè come se fossero dei linfonodi dislocati presenti in corrispondenza
della pia madre. Sarebbe molto interessante nei cervelli dei pazienti affetti da
encefalopatia di Rasmussen vedere se questi follicoli ectopici, questi centri molto
ricchi di linfociti B e linfociti T, possano essere presenti lì, a questo punto il linfocita
B presenta l’antigene al linfocita T e il cd8 attacca. Quindi che si tratti di una
patologia cellulomediata o di una patologia umorale con anticorpi anti GluA3 rimane
con il punto interrogativo, fatto sta che è una patologia autoimmune.

Che tipo di trattamento possiamo fare?


1. Il trattamento migliore è la chirurgia, quando voi deconnettete l’emisfero
colpito o addirittura lo rimuovete, poi la patologia va via. Anche se esistono
dei casi in cui la malattia di Rasmussen è bilaterale, sono casi rari, però se
dovessero verificarsi naturalmente l’intervento di chirurgia diventa
impossibile.

2. L'altra possibilità è l’immunosoppressione. In questo caso la cosa che potete


fare è dare cortisonici. Potete fare, ad esempio, boli di cortisone in vena e
potete usare URBASON (6-metilprednisolone) o il prednisolone e fate un po’
quello che si fa nella sclerosi multipla cioè fate tutti i giorni queste infusioni di
cortisone finché la cosa non si controlla. Nella sclerosi multipla, ovviamente, si
fa durante la ricaduta cioè nel momento in cui i sintomi sono presenti.

3. In alternativa potete fare plasmaferesi. La plasmaferesi, però, ha un senso se


voi credete che gli anticorpi abbiano un ruolo patogenetico nella malattia e
l'efficacia della plasmaferesi c'è e non c'è.

4. La stessa cosa vale per le immunoglobuline in vena. La ragione per cui si fanno
le immunoglobuline in vena la sapete perché, quando voi le iniettate ad un
paziente, c'è una certa possibilità che alcune delle immunoglobuline che voi
iniettate neutralizzino l'azione delle altre immunoglobuline, quindi, anche qui,
se la patologia che voi prendete in considerazione è una patologia dove
l'immunità umorale svolge un ruolo importante, con le Ig in vena dovreste
avere un effetto. Però le Ig in vena non funzionano molto bene.

5. Potete utilizzare degli immunosoppressori un pochino più consistenti: tra


questi ad esempio c'è il tacrolimus che è una sostanza simile alla ciclosporina
che si lega ad alcune immunofilline all'interno della cellula; in parole povere
lega le FKBP12 (FKB significa proteina legante le fk506 che è sinonimo del
tacrolimus) e quindi, così, realizzate l'immunosoppressione.

Quindi rimane un grosso punto interrogativo nella patogenesi della malattia di


Rasmussen però è un classico esempio di epilessia parziale continua di Kojewnikow,
cioè quelle forme di epilessia focale in cui le crisi sono molto riavvicinate tra di loro.
Da questo punto di vista c'è una sindrome, che è pure una sindrome epilettica, ed è

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quella indotta dalla puntura di zecche. Quando si parla di puntura di zecche voi
immediatamente pensate ad una rickettsia ma, in questo caso, la zecca non
trasmette la rickettsia ma trasmette un virus (ad esempio il flavivirus o l’arbovirus).
Questi virus possono essere responsabili di una forma di epilessia parziale continua
che è abbastanza simile all'encefalopatia di Rasmussen con la differenza però che
è reversibile cioè ad un certo punto questo si ferma. La patologia da zecche
trasmessa da virus, e che dà epilessia parziale continua, è stata descritta in Siberia
ed è, quindi, una patologia caratteristicamente siberiana. Questi virus si sono poi
spostati dalla Siberia verso l'Europa centrale e, anche se hanno dato l'infezione, non
hanno riprodotto il quadro di epilessia parziale continua (vai a capire perché) però
fanno parte dello stesso spettro quindi questo diventa abbastanza interessante.

Sindromi epilettiche da mutazioni dei canali del sodio.


Detto questo analizziamo altre sindromi epilettiche di natura genetica secondo la
classificazione dell’ILAE ossia quelle che dipendono da mutazioni dei canali del sodio
voltaggio dipendenti. E qui dobbiamo aprire una parentesi: i canali del sodio
importanti sono quelli che generano le correnti Nav1.1 e le correnti Nav1.2 e un po’
più eccezionalmente le correnti Nav1.6.
Perché mi riferisco a queste tre correnti?
Perché sono quelle principali all'interno del SNC. Nav1.1 e Nav1.2 predominano
largamente all'interno del nostro cervello e possiamo considerarle come i bersagli
preferenziali dei farmaci utilizzati per il trattamento dell'epilessia. La corrente Nav1.6
è molto particolare perché è una corrente persistente cioè si tratta di canali per il
sodio che hanno un ciclo di attivazione e inattivazione talmente veloce che passano
dallo stato inattivato allo stato di riposo con enorme velocità e quindi è come se si
attivassero continuativamente generando appunto questa corrente
persistente. Questi canali del sodio sono mutati in una serie di patologie e una di
queste patologie, già incontrata, è quella delle crisi neonatali e infantili benigne e, in
questo caso, le crisi possono essere non più benigne. Per le correnti Nav1.1, Nav1.2
e Nav1.6 la subunità alfa di questi canali, che genera le correnti, è codificata dai geni
SCN1A, SCN2A e ancora SCN8A. La nomenclatura dei geni del canale del sodio è
molto particolare perché i numeri del gene corrispondono al numero della corrente
fino ad Nav1.5 dove il gene è SCN5A, tra l'altro ricorderete, Nav1.5 è quello del cuore
le cui mutazioni sono responsabili della sindrome del QT lungo di tipo 3, della
sindrome di Brugada, della sindrome di Lev-Lenègre, della sindrome del seno
malato, delle cardiomiopatie dilatative, si trovano nella fibrillazione atriale e quindi
abbiamo un grandissimo coinvolgimento di questo canale del sodio. A partire dal
Nav1.6 la nomenclatura del gene cambia e dovete aggiungere due numeri in più.
Quindi il gene, che codifica per la subunità alfa che genera la corrente Nav1.6, si
chiama SCN8A.
Quali sono le patologie, a parte quella che abbiamo incontrato la volta scorsa, che
dipendono da mutazioni di questi geni?
Fatemi fare una premessa: la maggior parte delle mutazioni sono LOF (lost of
function), ossia mutazioni con perdita di funzione, e questo vi deve far un attimo
riflettere. Che cosa significa che una perdita di funzione del canale del sodio può
generare crisi epilettiche? perché è contro intuitivo: il canale del sodio è quello che
genera il potenziale d'azione e non è possibile che una mutazione del canale del

124
sodio possa determinare una crisi epilettica se questa mutazione fa perdere funzione
al canale del sodio. La risposta è molto semplice: soprattutto nella corteccia
cerebrale i canali del sodio sono anche localizzati su interneuroni inibitori. Quindi è
una disinibizione che poi determina le crisi. Le mutazioni del canale del sodio creano
uno spettro di patologie che, a seconda della gravità della mutazione, vanno da
qualcosa di benigno e tranquillo, che non crea problemi, a qualcosa di estremamente
grave.
• CRISI FEBBRILI. Le forme più benigne, dove evidentemente le mutazioni
possono essere mutazioni missenso o ci può essere la sostituzione di un
aminoacido con un aminoacido simile, sono le cosiddette FS che si chiamano
anche crisi febbrili che sono molto frequenti. Queste cosiddette convulsioni
febbrili sono riportate da molte mamme per i loro bambini perché in effetti
hanno una prevalenza del 3-4% della popolazione. Questi sono bambini che,
soprattutto nella fase ascendente della curva febbrile quando ad esempio
hanno una febbre da otite media, da bronchite o da un'infezione virale,
possono sviluppare delle crisi che sono soprattutto crisi motorie. Nella maggior
parte dei casi si tratta di crisi focali e sono crisi che si chiamano crisi febbrili
tipiche quando, per definizione dell'ILAE, durano meno di 15 minuti. In realtà
queste crisi possono anche essere tonico-cloniche quindi possono essere crisi
generalizzate però viene mantenuta questa definizione della durata inferiore a
15 minuti. Quindi qualcuno di voi, che ricorderà delle discussioni precedenti,
mi dirà che una crisi tonico-clonica di grande male non dura mai più di 2 minuti
perché altrimenti è uno stato di male epilettico. E infatti quando una crisi focale
tipica supera i 5 minuti diventa automaticamente uno status epilepticus, cioè
uno status di male con crisi subentranti, che a volte può essere particolarmente
critico nei bambini e può avere un esito fatale. Nonostante questo, quando
parlate di crisi tipiche fate riferimento alle crisi febbrili che hanno questa
caratteristica e sono i bambini di età compresa tra 6 mesi e 5 anni che possono
presentare questo tipo di manifestazioni. Le crisi invece si chiamano crisi
atipiche nel momento in cui sono crisi che durano più di 15 minuti ma questo
è chiaro che vale per una crisi focale oppure per uno stato di male epilettico
che si fa protratto. C'è una profonda differenza tra le crisi febbrili tipiche e
quelle atipiche anche perché quelle atipiche, oltre a durare di più, hanno poi
delle caratteristiche un po’ diverse dal punto di vista fenotipico e sono quelle
che magari esitano più facilmente in un’epilessia permanente che poi si verifica
anche dopo. Quindi, mentre le crisi febbrili tipiche hanno poi in realtà assoluto
carattere di benignità ed ad un certo punto se ne vanno via, quando c'è una
crisi atipica dovete stare sicuramente più attenti. Le crisi febbrili prendono il
nome di GEFS e in particolare di GEFS+ nel momento in cui si osservano al
di là dei 6 anni di età e in questo caso avete le mutazioni dei canali del sodio
che hanno un po’ più di gravità. Il termine GEFS+ significa epilessia
generalizzata con crisi febbrili plus cioè crisi febbrili che si osservano a più di
6 anni di età.

• SINDROME DI DRAVET. Se continuiamo con questa escalation arriviamo ad


una delle patologie più drammatiche che può avere anche esito mortale
durante una crisi che è la cosiddetta sindrome di Dravet (anche chiamata

125
epilessia mioclonica severa dell'infanzia o SMEI - severe mioclonical
epiletticy of infancy). Si chiama “dell'infanzia” perché in realtà è una patologia
che può insorgere molto presto nel bambino (può venire fuori anche a meno
di 6 mesi di età ma l'età di insorgenza può essere anche più tardiva). Si tratta
prevalentemente di crisi miocloniche che possono essere sia crisi febbrili che
crisi afebbrili. Queste crisi se sono afebbrili possono, per esempio, essere
indotte anche da un bagno caldo perché le mutazioni del canale del sodio, e
questo vale anche per le crisi febbrili, diventano sensibili alla temperatura; il
che significa che il canale del sodio si blocca e non funziona come deve
funzionare quando la temperatura interna supera un determinato
valore. Questo spiega perché durante la febbre voi avete la crisi: un corpo
che viene messo in una vasca con l'acqua calda ovviamente ha un aumento
anche della temperatura interna e questo può scatenare la crisi. A volte le
crisi oltre che avere le scosse miocloniche (si chiama epilessia mioclonica
severa dell'infanzia per questo motivo) coinvolgono il sistema nervoso
vegetativo e se questo dovesse verificarsi, e se c'è per esempio una crisi
vagale, questo può portare anche a blocco cardiaco. In alcuni casi può
essere molto utile mettere un pacemaker in maniera tale che se il cuore si
blocca automaticamente il pacemaker lo rimette in funzione e salvare la vita
del bambino. Oltre ad avere queste crisi miocloniche che possono essere
febbrili e afebbrili la sindrome di Dravet ha come caratteristica il ritardo dello
sviluppo e anche la perdita delle funzioni e organizzazione del linguaggio o
della parola che non è esattamente un’afasia ma è una parola che comincia
ad avere delle difficoltà e che è parte integrante della crisi. Quindi è una
patologia molto severa e una forma di epilessia encefalopatica in cui piano
piano il SNC comincia a reagire in maniera critica. Le cause genetiche sono
mutazioni di SCN1A (il gene che codifica per la subunità alfa del sodio che
genera la corrente Nav1.1) o possono esserci anche mutazioni di SCN2A o
di SCN8A o mutazioni, seppure più raramente, di SCN1B perché il canale del
sodio è formato anche da subunità beta (subunità ancillari) e quindi la loro
mutazione può far perdere la funzione dei canali del sodio che stanno sugli
interneuroni e anche la subunità gamma 2 del recettore GABA può essere
mutata. Quindi potete avere moltissime mutazioni che possono alla fine
essere responsabili dello stesso fenotipo. Ora considerate che la terapia
deve tenere conto del fatto che ci sono mutazioni con perdita di funzione ed
è assolutamente inutile e del tutto sconsigliato dare farmaci che inibiscono i
canali del sodio per il semplice motivo che, questi farmaci, non possono che
peggiorare il quadro sintomatologico.
E allora cosa possiamo utilizzare nella sindrome di Dravet?
Si usano 3 o 4 farmaci insieme quindi è uno dei casi in cui è necessario fare
la terapia combinata. Questa terapia combinata deve avvalersi
necessariamente di farmaci GABAergici (non potrebbe essere diversamente)
perché è la trasmissione GABAergica che non funziona bene in quanto i
canali del sodio che eccitano gli interneuroni sono canali disfunzionali. Allora
si può dare il CLOBAZAM (FRISIUM) che è una benzodiazepina. Oltre a
questo, si può dare un altro farmaco che si chiama STIRIPENTOLO che è un
farmaco che facilita l'attivazione del recettore GABA A che è il recettore

126
associato al canale del cloro. Potrebbe funzionare in alcuni casi il
LEVETIRACETAM (KEPPRA) che è un farmaco che facilita il rilascio di
GABA.
Se voi andate poi ad usare il Valproato questo stimola la sintesi del GABA e
inibisce il metabolismo del GABA però è anche un bloccante del canale del
sodio e quindi bisogna vedere se nella combinazione terapeutica questa cosa
diventa utile oppure no.
La sindrome di Dravet è l'altra condizione, insieme alla sindrome di Lennox-
Gastaut e insieme alle crisi associate alla sclerosi tuberosa, in cui è stato
approvato per gli Stati Uniti EPIDYOLEX cioè la soluzione orale di
cannabidiolo. Quindi prendete in considerazione questo.
Poco fa vi ho detto che le crisi febbrili si dividono in tipiche e atipiche ma potete
utilizzare anche la terminologia semplici e complesse. Quindi fate questa
correzione perchè è più idonea.
Semplici quando hanno durata inferiore a 15 minuti, ma se sono più di 5 minuti
automaticamente diventa status epilepticus, e poi complesse quando durano
più di 15 minuti e la prognosi diventa così meno favorevole.

• ICEGTCS. L'ultima patologia che è legata alle mutazioni dei canali del sodio
prende il nome di ICEGTCS. Questo è un nome abbastanza complesso (che
significa letteralmente intractable childhood epilepsy generalized tonic clonic
seizures) in cui ci sono queste crisi generalizzate di grande male intrattabili
anche qui molto spesso indotte dall'alta temperatura e che dipendono dallo
spegnimento dei canali del sodio. Quindi vedete che le patologie in cui
vengono mutati i canali del sodio sono molto complesse. Formano una specie
di spectrum, un continum che va dalle crisi febbrili semplici e complesse alle
cosiddette GERS+ (crisi febbrili che si hanno a più di 6 anni di età ) poi la
sindrome di Dravet, forse l'espressione più drammatica di queste crisi in cui
c'è anche ritardo dello sviluppo e così via e poi alla fine ICEGTCS che sono
queste crisi generalizzate intrattabili e che diventano particolarmente critiche
per il possibile outcome nei confronti del bambino.

Poi abbiamo ancora un paio di sindromi genetiche che meritano un po’ di attenzione
e una di queste si chiama ADNFLE. Questo termine significa letteralmente “epilessia
del lobo frontale notturna autosomica dominante”. Questa è una forma di epilessia
abbastanza interessante perché ci fa fare una riflessione: il sonno è un momento in
cui il tracciato EEG tende a sincronizzarsi tranne nella fase REM del sonno, che è
quella fase in cui invece l'attività elettroencefalografica è simile a quella della veglia
attenta, però nelle altre fasi, cioè nel sonno ad onde lente, ci sono le onde teta e le
onde delta che riflettono il fatto che si rallenta la frequenza che aumenta il voltaggio
proprio perché si viene a creare questa situazione di ipersincronizzazione cioè
scaricano insieme le cellule piramidali. Questo avviene durante la notte quindi può
accadere che in alcuni individui, che hanno mutazioni con trasmissione autosomica
dominante che sia colpito il lobo frontale prevalentemente, le crisi siano notturne. Le
mutazioni interessano alcune subunità del recettore nicotinico neuronale per
l’acetilcolina come per esempio le subunità alfa4 e beta2. Questo è abbastanza
interessante: alcune delle mutazioni sono con perdita di funzione, altre possono

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essere con acquisto di funzione e, come nel caso dei canali del sodio, i recettori
nicotinici possono anche essere localizzati negli interneuroni inibitori. Voi avete
anche questa complessità nel cervello in cui, come sapete, nella corteccia c'è un
15% di interneuroni inibitori, 20 sottotipi diversi forse più, e un 85% di cellule
piramidali. Ovviamente tutti i canali ionici e recettori possono essere localizzati in
entrambi i tipi di cellule e poi dipende da chi vince tra i due tipi cellulari.
Evidentemente se qui avete mutazioni con perdita di funzioni dei recettori nicotinici
per l’acetilcolina avrete anche in questo caso uno spegnimento degli interneuroni che
magari è parziale e non totale (non è come quando voi bloccate i canali del sodio)
però durante un momento della giornata in cui c'è già una tendenza all'attività
ipersincrona delle cellule, per esempio durante la notte, questo può determinare crisi
epilettiche che sono crisi a carattere focale localizzate nel lobo frontale. È
interessante che non esistono farmaci che hanno come bersaglio i recettori nicotinici
per il trattamento dell'epilessia.
I recettori nicotinici, invece, sono bersaglio innanzitutto della nicotina (che come
sapete da un disordine da uso di sostanze) ma oltre a questo sono bersaglio della
Vareniclina (che è il farmaco che si usa appunto per trattare il disordine da uso di
nicotina e così via) ma non ci sono farmaci ancora una volta sviluppati per l’epilessia.
L'altra forma si chiama ADTLEAF e questa è una particolare patologia che può
essere molto variegata nel fenotipo. Letteralmente significa “epilessia focale
autosomica dominante del lobo temporale con caratteristiche di tipo uditivo”. La cosa
interessante di questa forma di epilessia è il coinvolgimento del gene LGI-1. Questo
è un gene particolare che codifica per una proteina che si chiama “leucin rich glioma
inactivated gene” quindi è una proteina che si trova nei gliomi. Ci si può chiedere
“che ruolo ha nell’epilessia?” La risposta è che non ve lo so dire con certezza, però
questo LGI-1 è una proteina che si associa ai canali del potassio, ma anche ai
recettori AMPA del glutammato e che quindi regola dei canali ionici che sono
importanti per il mantenimento del potenziale di riposo e anche per l'attività dei
recettori AMPA (i principali recettori canale del glutammato e quelli che mediano la
trasmissione sinaptica rapida). Una cosa particolarmente interessante è che questo
LGI-1 può essere anche un bersaglio di anticorpi. E qui devo fare una piccola
premessa: ci sono tutta una serie di sindromi epilettiche che si possono sviluppare
nel contesto di un’encefalomielite autoimmune. Questa encefalomielite autoimmune
deriva dal fatto che si formano anticorpi contro proteine nucleari o contro recettori di
membrana o più in generale proteine di membrana. Tra questi recettori o proteine di
membrana, per esempio, ci possono essere anticorpi anti recettori NMDA del
glutammato, anticorpi anti LGI-1 (che è questa proteina mutata nella forma
autosomica dominante del lobo temporale con caratteristiche uditive) o si possono
formare anticorpi contro i recettori mGlu5 (sindrome di Ofelia).
Una domanda che faccio molto spesso nell'esonero di pneumologia è la seguente:
immaginate che arrivi un caso di una persona che ha 40-50 anni che presenta forte
declino cognitivo, una crisi psicotica acuta (quindi deliri, allucinazioni ecc) e allo
stesso tempo presenta crisi epilettiche. Ha la tac e la risonanza dell'encefalo negative
però ha un tumore polmonare.
In questo caso si può trattare di un microcitoma che, come sapete, è un tumore
neuroendocrino ma che può anche produrre anticorpi, tant'è vero che produce
anticorpi contro la subunità P/Q del canale del calcio che dà sindrome di Lambert-

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Eaton ma può produrre anche anticorpi anti-NMDA. Questi anticorpi possono
bloccare i recettori Mba degli interneuroni e dare un fenotipo psicotico come se fosse
una schizofrenia di origine autoimmune o possono dare crisi epilettiche che quindi
fanno parte di queste encefalomieliti autoimmuni. Anche i teratomi possono dare la
stessa cosa. Queste forme si chiamano “forme di epilessia di origine
autoimmunitaria” che sono anche forme di psicosi di origine autoimmunitaria perché
sono encefaliti autoimmuni. Questo è per esempio un caso che è accaduto a mia
moglie pediatra alla quale è arrivata in reparto una bambina che aveva crisi
epilettiche resistenti a qualunque trattamento e nello stesso tempo aveva
manifestazioni psicotiche con grande aggressività, tac negativa, risonanza
negativa. Hanno mandato il siero all'istituto Besta di Milano e lì hanno riscontrato
uno dei più alti titoli di anticorpi anti-recettori NMDA mai visti. Ovviamente quando
avete una condizione di questo genere innanzitutto dovete essere bravi a fare la
diagnosi ma se ci riuscite poi non siete in una condizione così sfortunata perché la
prima cosa da fare è rimuovere la causa. Quindi se c'è un tumore, per esempio un
teratoma, lo togliete e poi fate ad esempio una terapia immunosoppressiva
considerando che gli anticorpi rimangono in circolo per parecchio tempo e così fanno
anche le plasmacellule che li producono. Facendo poi però una terapia
immunosoppressiva, facendo la plasmaferesi e facendo tutto il resto queste
manifestazioni sono reversibili e pian piano vanno via. Tutto questo discorso è nato
dal fatto che uno dei bersagli di questi anticorpi prodotti dai tumori è la stessa proteina
responsabile della ADTLEAF cioè questa epilessia del lobo temporale con
caratteristiche uditive (e il fatto che ci siano caratteristiche uditive è abbastanza
logico perché il lobo temporale è quello responsabile della percezione uditiva).

Epilessie miocloniche progressive.


Uno dei gruppi più gravi delle sindromi epilettiche sono le epilessie miocloniche
progressive.
Cosa sono? Sono delle forme di epilessia su origine genetica. L’epilessia è
prevalentemente mioclonica cioè caratterizzata da scosse muscolari che però si
trovano nel contesto di sindromi abbastanza complesse dove la sfera cognitiva è
coinvolta, è coinvolto il cervelletto con l'incordinazione motoria (atassia) e nella
maggior parte dei casi queste forme sono mortali. La durata della vita dipende poi
dal tipo di tipologia, dalle varie situazioni e dalla possibilità di intervenire oppure no.
In generale per queste epilessie miocloniche progressive che hanno un esordio
abbastanza in tenera età (nella maggior parte dei casi cominciano tra i 5 e i 10 anni
ma in alcuni casi possono anche avvenire nel periodo neonatale o nella seconda
infanzia e ciò dipende un po’ da come sono le situazioni) il farmaco di prima linea è
rappresentato dal VALPROATO (DEPAKIN). È un farmaco che funziona molto bene
nei confronti dell'epilessia mioclonica, con quel punto interrogativo della sindrome di
Dravet perché lì c'è la mutazione dei canali del sodio, tuttavia c'è una condizione in
cui l'acido valproico non può essere utilizzato e questo avviene quando le epilessie
miocloniche progressive dipendono da una mutazione a carico dei mitocondri, cioè
quando c'è una mitocondriopatia di base il Valproato potrebbe aggravarla in quanto
il Valproato è tossico per i mitocondri quindi lì bisogna stare attenti. Valproato è un
farmaco di prima linea per l’epilessie miocloniche progressive eccezion fatta per le
epilessie mitocondriali.

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Quali sono queste epilessie miocloniche progressive?
• Malattia di Unverricht-Lundborg.
La prima si chiama malattia di Unverricht-Lundborg e si chiama così per i
due scopritori che sono Herman Lundborg (uno svedese degli inizi del ‘900) e
Heinrich Unverricht (un tedesco di cui c'è la sua statua a Magdeburgo che è
una città che apparteneva al Germania est). In realtà Unverricht è stato il primo
alla fine dell'800 a descrivere un paio di casi familiari di questa malattia e poi
Lundborg ha fatto la descrizione definitiva. Diverso tempo dopo la patologia è
stata etichettata come malattia di Unverricht-Lundborg. Questa si chiama
anche “epilessia mioclonica progressiva del Mediterraneo”. In realtà è un nome
fuorviante perché nonostante ci siano un certo numero di casi nel
Mediterraneo, compreso le coste del nord Africa, in realtà la regione geografica
dove l’epilessia è maggiormente presente è la Finlandia o in generale i paesi
scandinavi dove si arriva a una prevalenza di 1 caso su 20.000 abitanti. Questa
è una patologia che deriva da mutazioni di un gene che codifica per una
proteina chiamata cistatina B. Questa proteina è un inibitore delle proteasi che
sono tiol-proteasi (tipo papaina) che sono coinvolte nell'induzione di apoptosi.
Quindi mancando l’inibitore endogeno scatta un processo neurodegenerativo
che comincia dopo i 6-10 anni di età e che diventa via via più grave nel tempo.
È caratterizzato da queste crisi miocloniche, da queste scosse miocloniche, e
poi in realtà porta a morte. Prima si moriva entro 10-12 anni dall'inizio della
malattia mentre ora ci sono dei casi che arrivano anche fino a 60 anni di età
grazie al fatto che il management dei pazienti è stato un po’ facilitato. Ci sono
tante mutazioni a carico della cistatina B che possono essere responsabili
della malattia di Unverricht-Lundborg. La mutazione principale riguarda però
l'espansione di un dodecamero formato da GGGGCGGGGCGC che, come
vedete, è come se fosse un'isola di guanine e citosine e questo dodecamero
ha normalmente circa 3 ripetizioni nel gene della cistatina B in soggetti normali
mentre nella malattia si può arrivare anche a 20-30 ripetizioni. Quindi è una
malattia di espansione di sequenze del DNA. Ovviamente ci possono essere
anche mutazioni missenso o delezioni del gene che possono poi determinare
questo. Ancora una volta il farmaco di prima linea è l'acido valproico. Si può
però anche usare il CLONAZEPAM (RIVOTRIL) che è una benzodiazepina
che ha un effetto abbastanza positivo nei confronti dell'epilessia mioclonica e
che quindi in questo tipo di patologia può essere molto interessante.

• Malattia a corpi di Lafòra.


La seconda patologia è la così detta malattia a corpi di Lafòra. Cosa significa
malattia a corpi di Lafòra?
Innanzitutto si chiama così perché è stata scoperta da uno spagnolo, Rodriguez
Lafòra (un allievo di Ramon y Cajal), il quale ha descritto queste inclusioni
citoplasmatiche nelle cellule nervose che sono inclusioni di poliglucosano e
queste inclusioni vengono a formarsi vicino al reticolo endoplasmatico. Se si fa
un'analisi istologica si vedono questi inclusi di poliglucosano formati dal
glicogeno e che appunto prendono il nome di corpi di Lafòra.
Perché si determinano queste inclusioni che per altro sono gravissime?

130
La malattia dei corpi di Lafòra comincia intorno ai 6-8 anni circa e poi ha
un'evoluzione che porta a morte nell'arco di circa 10 anni con degenerazione,
perdita del cognitivo, perdita della funzione cerebellare (quindi atassia,
incoordinazione motoria ecc.). Qui ci sono due mutazioni che voi potete avere:
i geni si chiamano EPM2A e EPM2B mentre il gene dell’Unverricht-Lundborg si
chiama EPM1. I geni mutati possono essere quello che codifica per la laforina
e quello che codifica per la malina. La laforina è una fosfatasi che è localizzata
vicino al reticolo endoplasmatico e nel momento in cui viene mutata determina
un'iperattivazione della glicogeno-sintasi. Si formano quindi tutti questi depositi
di glicogeno che acquistano significato patologico e che formano appunto i corpi
di Lafòra. L'altro gene EPM2B (epilessie progressive miocloniche di tipo 2b) è,
invece, quello che codifica per la malina (che è una E3 ligasi) cioè una proteina
importante per il sistema ubiquitina-proteasoma.

Quindi vedete la differenza tra queste due epilessie miocloniche progressive: la


Unverricht-Lundborg caratterizzata da mutazione della cistatina B che è un inibitore
della proteasi e la patologia a corpi di Lafòra in cui ci sono queste inclusioni di
poliglucosani che invece dipendono dalle mutazioni di laforina e di malina.

• Lipofuscinosi ceroidi.
Tra le epilessie miocloniche progressive c'è poi un gruppo di patologie molto
esteso che prende il nome di Lipofuscinosi ceroidi che sono una serie di
malattie in cui c'è accumulo di lipofuscina. La lipofuscina è un pigmento lipidico
birifrangente che all'esame istologico si va a trovare nelle cellule nervose. Qui
ci sono tante varianti con una genetica complessa e la genetica è
caratterizzata in base al tipo. Per esempio, c'è una forma detta “infantile
tardiva” che si chiama anche malattia di Jansky-Bielschowsky che è una
forma molto grave ed è caratterizzata dal fatto che c’è una mutazione
dell'enzima che codifica per una tripeptidil peptidasi. Oltre a questo, avete altre
varianti della forma infantile tardiva come ad esempio una forma detta
“finlandese”, una variante “non finlandese”, una forma giovanile e una forma
dell'adulto che si chiama anche sindrome di Batten.
Avete insomma diverse patologie che però sono accomunate dal fatto di avere
gli accumuli di lipofuscina.

• Sialidosi.
Ancora c'è il grande gruppo delle Sialidosi (che sono malattie del
metabolismo) dove invece è interessato l'acido sialico o acido neuraminico. Ci
sono due categorie di Sialidosi: la sialidosi di tipo 1 che interessa il deficit di
neuraminidasi e quella di tipo 2 che interessa il deficit di N-
acetilneuraminidasi. Quindi è il metabolismo dei glicolipidi complessi che può
essere coinvolto. Queste sono patologie che d’ altra parte noi potremmo anche
cominciare a controllare con la terapia genetica applicando ad esempio
CRISPR/Cas9 a cellule staminali che derivano dal midollo osseo e che
vengono ingegnerizzate per produrre l'enzima mancante.
C'è un bravissimo ricercatore dell'Istituto san Raffaele di Milano, Luigi Naldini,
che è quello che ha salvato tantissimi bambini da patologie di accumulo

131
genetiche di natura lisosomiale come per esempio la leucodistrofia
metacromatica, dove c'è la mancanza di arilsulfatasi A, facendo proprio questo
cioè prendendo le cellule staminali dal midollo osseo e ingegnerizzandole per
far produrre un enzima che normalmente manca.

• Forme mitocondriali.
Tra le epilessia miocloniche progressive ci sono anche delle forme
mitocondriali che sono di diverso tipo e tra queste una delle più popolari è la
MERF che significa letteralmente “epilessia mioclonica con ragged red
fibers” (fibre muscolari scheletriche rosse stracciate). Ciò significa che c'è un
accumulo per esempio di mitocondri delocalizzati nel muscolo scheletrico e
quindi avete una patologia mioclonica del sistema nervoso centrale e poi
anche una patologia muscolare scheletrica. Questo tipo di patologia dipende
da mutazioni del DNA mitocondriale di un gene che codifica per tRNA (per
esempio il tRNA che trasporta la leucina ma non solo questo). Come sapete
le patologie mitocondriali sono nella maggior parte dei casi malattie lineari cioè
la mutazione è trasmessa esclusivamente dalla madre perché è la madre che
porta i mitocondri attraverso le cellule uovo. Queste hanno come caratteristica
l'eteroplasmia che significa che le mutazioni non si osservano in tutti i
mitocondri ma in alcuni sì e in altri no e quindi alcune cellule possono
presentare anche all'interno della stessa cellula dei mitocondri che funzionano
regolarmente e mitocondri malati.

• Atrofia dento-rubro-pallido-luysiana.
Infine in questo gruppo c'è anche l’atrofia dento-rubro-pallido-luysiana che e`
una patologia caratterizzata dal fatto che alcune strutture dei gangli della
base e del principale nucleo del cervelletto cioè il NUCLEO DENTATO, dico il
principale perché fa parte del neocervelletto e quindi dal punto di vista
quantitativo è il più rappresentato, vanno incontro ad ATROFIA e l’esito può
essere l’epilessia mioclonica progressiva.
Quindi vedete un grande gruppo di patologie molto severe ed a questo gruppo si
aggiungono altre malattie, queste vengono trattate abbastanza bene con il
VALPROATO e con il CLONAZEPAM che hanno una certa efficacia nei confronti
delle manifestazioni miocloniche ad eccezione delle forme mitocondriali perché
l’acido valproico è tossico per il mitocondrio e quindi non è il farmaco di prima
scelta.

Tra le SINDROMI EPILETTICHE c'è un ultimo gruppo di cui mi ero dimenticato di


parlarvi e di grandissima importanza, in passato veniva indicato come gruppo IGE
(Idiopathic Generalized Epilepsy), oggi oramai denominato GGE (Genetic
generalized epilepsy) e sono tra le epilessie più frequenti e più interessanti. A
queste GGE appartengono le Assenze epilettiche. Delle assenze epilettiche
parleremo quando incontreremo un farmaco che si usa per le assenze epilettiche,

132
vi ho già detto che si dividono in assenze tipiche ed atipiche. Nel caso delle
epilessie genetiche generalizzate potete avere:
 ASSENZE DEL BAMBINO, non fanno parte integrante delle GGE ma le
potete anche accomunare.
 ASSENZE GIOVANILI, sono bambini che si estraneano dalla realtà per
pochi secondi, possono rispondere abbastanza bene al trattamento. Questo
a noi interessa perché all’istituto neuromed abbiamo un gruppo di ricerca che
si occupa delle assenze, utilizzando un modello animale per le assenze che
è il ratto WAG/RIJ, è un ratto che spontaneamente sviluppa assenze dopo i 4
mesi di vita. Utilizzando questo ratto è possibile valutare sia una fase
presintomatica delle assenze che una fase prettamente sintomatica in cui
l’animale sviluppa i complessi punta-onda, non hanno la stessa frequenza
dell’uomo perché la distanza tra la corteccia somatosensoriale e il talamo è
più piccola nel ratto ma valutando la frequenza e la durata delle assenze si
possono scoprire nuovi target nell’uso di farmaci oppure si possono usare
farmaci già in uso per altre patologie.
Nelle assenze esiste una genetica. Sono stati chiamati in causa:
- Subunità dei canali del Na ad es. subunita` SCN1B
- Subunità dei recettori al GABA
- GLUT1: questa è forse la mutazione responsabile delle assenze piu` interessante.
Cos’è il GLUT1? é il trasportatore del glucosio che si trova nella barriera
ematoencefalica. Il GLUT1 per definizione non è un trasportatore insulino
dipendente. Superata la barriera ematoencefalica, il glucosio poi deve entrare
all'interno delle cellule nervose e lì ci sono altri trasportatori come GLUT3 che
stavolta dipende dai recettori per l'insulina e per IGF1.
Possiamo avere dei bambini con mutazioni di GLUT1 che quindi sviluppano
IPOGLICORRACHIA ovvero una riduzione di glucosio nel liquor e nello stesso
tempo vi aspettate una profonda disfunzione delle cellule nervose perché queste si
nutrono solo di glucosio e in alternativa di corpi chetonici. Nella maggior parte dei
casi i bambini che hanno assenze non hanno la mutazione di GLUT1. Se vi
dovesse capitare un bambino con la mutazione di GLUT1 per cui il cervello è
“iponutrito” perché il glucosio ha difficoltà ad attraversare la barriera
ematoencefalica c’è un rimedio che è la dieta chetogenica di cui parleremo alla fine
del capitolo dei farmaci antiepilettici. Ho avuto una studentessa, di un altro canale,
con una figlia che aveva un genotipo complesso, mutazione del canale del Na e di
GLUT1 e questa mia allieva camminava con il MIDAZOLAM nella borsa perché se
la chiamavano dalla scuola della bambina immediatamente lei doveva intervenire
per cercare di rimediare. La bambina è poi molto migliorata grazie alla dieta
chetogenica che però è molto difficile per un bambino perché è una dieta
sbilanciata nelle proteine ed ha pochissimo glucosio. Questo favorisce la
produzione di corpi chetonici che sono l’unica risorsa per nutrire i neuroni.

133
Dopo le assenze del bambino e le assenze giovanili abbiamo una delle forme più
frequenti delle sindromi epilettiche nella giovinezza (sempre appartenenti alle
GGE):
 EPILESSIA MIOCLONICA GIOVANILE. è una forma molto frequente
caratterizzata da scosse miocloniche prevalentemente, a volte da crisi
generalizzate di grande male, a volte possono essere presenti assenze ma il
fenotipo delle scosse miocloniche è prevalente. Le scosse miocloniche
tipicamente si verificano in raggruppamenti cioè in clusters soprattutto nelle
prime ore dopo il risveglio. L’epilessia mioclonica giovanile ha carattere
abbastanza benigno senza grandissimi esiti e si controlla abbastanza bene
con i farmaci come l’acido valproico che è sempre un farmaco di prima linea
nella maggior parte delle epilessie che prendiamo in considerazione. Anche
in questo caso è una sindrome genetica con mutazioni a carico di:
- Subunità del recettore GABA-A
- Proteine appartenenti alla famiglia EF-HAND che legano Ca+
- Canali Cl (cloro) voltaggio dipendenti, es. CLCN2 e CLCN5 che abbiamo
incontrato in nefrologia.
Se mi chiedete “qual è il gene che in ultima analisi è responsabile dell’epilessia
mioclonica giovanile?” non ve lo so dire.
Infine, l’ultima di queste GGE che prendiamo in considerazione sono:
 CRISI TONICO CLONICHE DI GRANDE MALE AL RISVEGLIO.
Ricordate che questo gruppo di patologie si chiamava inizialmente IGE ma questo
termine è stato sostituito come GGE perché la mutazione genetica è stata
riconosciuta, per questo è stato cambiato il nome in GGE.

TERAPIA DELL’EPILESSIA.
Passiamo ora alla terapia dell’epilessia, ricordandovi quello che vi ho detto
inizialmente: che la terapia dell’epilessia deve idealmente essere una Mono-terapia
quando è possibile. Iniziando sempre con il farmaco più indicato per quel tipo di
crisi, va fatta inizialmente una titolazione perché tutti i farmaci antiepilettici hanno
effetti avversi che sono standard come sedazione, diplopia, nistagmo, possono
deprimere il SNC. Per questo motivo bisogna arrivare al dosaggio pieno
gradualmente. Finita la titolazione quando si è raggiunto il dosaggio pieno bisogna
spettare lo steady state (stato stazionario) con la “regola delle 5 emivite” ovvero,
finita la titolazione aspettare 5 emivite per esempio se l'emivita di un farmaco è un
giorno bisogna aspettare 5 giorni e a quel punto diventa importante dosare il
farmaco nel plasma. Non fate fare colazione al paziente e gli fate il prelievo di
mattina. Premessa: questo dosaggio vi dà la quota TOTALE del farmaco (ovvero la
quota libera del farmaco più la quota legata). Ci sono farmaci che si legano molto
alle proteine plasmatiche e quindi sarebbe auspicabile andare a fare una

134
distinzione tra le due quote, questo è possibile in un laboratorio tramite
un’ultracentrifugazione, ultrafiltrazione ma in realtà praticamente non lo fa nessuno.
I valori che vi danno e che vi dicono se il farmaco rientra nel range sono quelli che
si riferiscono alla concentrazione totale del farmaco nel plasma.
È fondamentale il diario delle crisi. Diario delle crisi vuol dire che il paziente o chi
per lui, deve registrare il numero di crisi in un determinato arco di tempo per vedere
se una monoterapia è efficace oppure no. Se la monoterapia non è efficace potete
pensare di introdurre un secondo farmaco ma ricordatevi che non potete eliminare
il primo ed introdurre un altro, dovete fare la titolazione del secondo farmaco.
Quando i due farmaci sono sovrapposti, controllando le crisi, possiamo iniziare a
scendere lentamente con il primo farmaco facendo quindi uno switch. È chiaro che i
due farmaci devono avere dei meccanismi di azione diversi altrimenti è una
coglioneria.
Ci sono poi casi in cui sono necessari tre farmaci come nella SINDROME DI
DRAVET. Quindi non è detto che voi siate costretti a fare una monoterapia.

Gli antiepilettici si dividono in:


• farmaci di PRIMA GENERAZIONE
• farmaci di SECONDA GENERAZIONE
• potremmo definirne anche una TERZA GENERAZIONE ancor più recente.
I motivi per i quai è nata una seconda generazione di farmaci antiepilettici sono
due:
1. Farmacoresistenza: alcuni pazienti epilettici non rispondevano al
trattamento farmacologico tradizionale. In realtà la farmacoresistenza è un
problema anche oggi. Esiste almeno un 25% - 30% di pz che non rispondono
bene e voi potete tentare approcci alternativi come la stimolazione del nervo
vago, chirurgia dell'epilessia, dieta chetogenica...
Al momento, poiché c’è ancora farmacoresistenza, la ricerca è fertile.
Nonostante disponiamo di tantissimi farmaci per l’epilessia averne altri tutto
sommato non è così sbagliato.
2. Trattamento in gravidanza: i farmaci antiepilettici possiedono una certa
teratogenicità soprattutto il VALPROATO, che come abbiamo già detto e` un
farmaco ad ampio spettro utilizzato in prima linea in un gran numero di
tipologie di epilessia ma crea molti problemi e tra questi c’è la tossicità in
gravidanza. Ad esempio il valproato può dare spina bifida (alterazioni
notocorda).
Non possiamo escludere con certezza tossicità in gravidanza per i farmaci di
seconda e terza generazione perché non è semplice valutare questo nell’uomo, è
più semplice da valutare nel modello animale ma il passaggio dall’animale all’uomo
non è così automatico. È la FARMACOVIGILANZA che stabilirà alla fine se

135
c'è tossicità o meno. La farmacovigilanza è un meccanismo che può essere
estremamente lungo. Per alcuni farmaci è più semplice, ad esempio se avete un
inibitore del metabolismo, un analogo delle purine, analogo delle pirimidine, un
metotrexato, talidomide... siete certi che questi danno teratogenicità.
C'è un cosiddetto unmed need (esigenza insoddisfatta) nel trattamento
dell'epilessia che è quello dell'EPILETTOGENESI ovvero: un conto è intervenire
sulla crisi e spegnere la crisi, un conto è frenare il meccanismo che porta alla
ricorrenza della crisi. Perché alla fine l’epilessia è una patologia a ricaduta e
remissione. Se si riuscisse ad intervenire sull’epilettogenesi sarebbe l’ideale ma
non possiamo intervenire sul meccanismo di induzione dell'epilettogenesi in quanto
purtroppo il meccanismo si è già innescato e quindi dobbiamo intervenire
sull`espressione dell'epilettogenesi, cioè su quel processo che fortifica e induce
ancor di più la formazione di nuove crisi. Ci sono dei farmaci promettenti come il
LEVETIRACETAM che e` molto utile da questo punto di vista ma sicuramente la
ricerca non è giunta al termine.

FARMACI DI PRIMA GENERAZIONE


• FENITOINA (AURONTIN o DINTOINA): è il prototipo di questa categoria. E`
un farmaco che ha due valenze è un antiepilettico e un antiaritmico della
classe 1B della Classificazione di Vaughan-Williams. I farmaci della classe
1b, se vi ricordate, (lidocaina, fenitoina, mexiletina) sono farmaci che
inibiscono i canali del Na in maniera molto rapida e per questo vengono usati
principalmente nelle tachiaritmie ventricolari. La fenitoina non si usa
moltissimo nelle aritmie cardiache ma risulta essere molto efficace quando ci
sono tachiaritmie da digitalici in cui non volete dei farmaci che hanno
un'azione sopraventricolare perché questa tenderebbe a rallentare la
conduzione, aumentando la refrattarietà` del NODO AV, cosa che tra l'altro il
digitalico fa già di suo e per questo torna utile la FENITOINA.
MECCANSIMO D’AZIONE della FENITOINA:
Inibizione dei Canali del Na (correnti NaV1.1 e NaV1.2 sono le più importanti
correnti del Na nel SNC) in maniera VOLTAGGIO-DIPENDENTE, USO-
DIPENDENTE E FREQUENZA DIPENDENTE.
I canali del Na possono trovarsi nello stato R che è lo stato di RIPOSO in cui
chiaramente il canale non conduce e nell'arco di alcuni microsecondi, se c’è una
depolarizzazione, il canale passa dallo stato R allo stato O (open) in cui invece è
aperto e conduce. Il passaggio da uno stadio all'altro è dovuto al raggiungimento di
una soglia (es -55 mVolt) e a quel punto il Na entra ed è responsabile del
potenziale d'azione. Durante la depolarizzazione il canale passa dallo stato O allo
stato I (inattivato) ovvero il canale si desensibilizza e a quel punto il canale non
conduce più e questo avviene nell'arco di millisecondi anche se siete ancora in
depolarizzazione. Affinché il canale si riattivi deve ripassare da I a R e il tempo
impiegato per passare dallo stato I allo stato R (che coincide con la ripolarizzazione
ovvero con la fuoriuscita degli ioni K) è un tempo critico perché più il tempo è breve

136
e più alta sarà la frequenza di scarica del canale, più il tempo è lungo e più il canale
tenderà ad inibirsi.
Quanto abbiamo appena descritto che avviene nell'arco di millisecondi
è il ciclo di inattivazione rapida del canale a cui può contrapporsi un ciclo di
inattivazione lenta che viene ingaggiato solo quando il canale scarica ad alta
frequenza. Il ciclo di Inattivazione lenta segue gli stessi passaggi, passa dallo stato
O allo stato I, poi dallo stato I allo stato R ma invece che avvenire nell'arco di
millisecondi avviene nell'arco di secondi.
Quindi i farmaci usati nell'epilessia che agiscono nei confronti del canale del Na
hanno due finalità:
1. PROLUNGARE IL CICLO DI INATTIVAZIONE RAPIDA e questo vale per
la maggioranza dei farmaci antiepilettici.
2. SPINGERE IL CANALE AD ENTRARE NEL CICLO DI
INATTIVAZIONE LENTA che fa spegnere il canale progressivamente con un
fenomeno che nell'elettrofisiologia si chiama spike accomodation cioè una
continua ridotta frequenza dei potenziali di azione.

La FENITOINA ha proprio funzione di prolungare il ciclo di inattivazione rapida cioè


è proprio un classico farmaco antiepilettico che blocca i canali del Na. Entra nel
canale durante lo stadio I ovvero lo stato di inattivazione e questo è curioso perché
è esattamente il contrario di quello che potete pensare. Ovviamente la fase di
inattivazione è maggiormente rappresentata quando il canale è in funzione con una
certa frequenza e per questo motivo il blocco del canale da parte della fenitoina si
definisce uso-dipendente perché la fenitoina entra nel canale quando il canale è
utilizzato, il canale deve essere prima aperto per essere poi inattivato. Nello stesso
tempo frequenza-dipendente perché quando il canale inizia a scaricare con una
certa frequenza la probabilità statistica che il canale sia nello stato I è più alta e
quindi la probabilità che la fenitoina possa entrare nel canale è maggiore.
Una volta penetrata nel canale la fenitoina interagisce con dei domini
transmembranari del canale. La sub alfa dei canali del sodio è come se fosse
costituita da 4 subunità assemblate insieme, ognuno dei quali costituito da 6 domini
transmembranari: la zona tra il dominio 5 e il dominio 6 forma la parete del canale,
il dominio 4 forma il sensore del canale quello che registra la depolarizzazione.
Detto questo l'ingresso della fenitoina prolunga il tempo necessario affinché il
canale passi dallo stato I allo stato R, che è necessario affinché il canale si riattivi.
Questo è un meccanismo d'azione di classica inattivazione del canale in modo uso
dipendente, frequenza dipendente e voltaggio dipendente nello stesso tempo.

USO DELLA FENITOINA:

• CRISI FOCALI
• CRISI GENERALIZZATE TONICO-CLONICHE DI GRANDE MALE: per
molti anni è stato considerata il farmaco di primissima linea nelle crisi tonico-
cloniche generalizzate anche se oggi non è più così in quanto la fenitoina è
stata superata dalla LAMOTRIGINA (antiepilettico di 2° generazione) e dal
VALPROATO (antiepilettico di 1° generazione).

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• STATUS EPILETTICUS: male epilettico con crisi subentranti. In questo caso
il problema del farmaco è la sua liposolubilità, ma se voi fate un trattamento
in emergenza di uno status epiletticus considerando qualunque forma di
epilessia che abbia una durata >5 minuti ovviamente come crisi tonico
cloniche di grande male, il farmaco deve essere iniettato ev. Tutti i farmaci
che vengono utilizzati per il trattamento dello stato di male epilettico, vengono
utilizzati necessariamente per via ev. In questo specifico caso potete
utilizzare un farmaco analogo alla fenitoina che si chiama FOSFENITOINA, è
un profarmaco, un estere fosforico della fenitoina che gli conferisce una
maggiore solubilita` e una volta iniettato viene convertito in fenitoina.

Come si è scoperto che la fenitoina agisce principalmente nelle crisi focali ma


soprattutto nelle tonico-cloniche? Si è scoperto grazie ai modelli animali e in questo
caso si usano le CRISI MASSIMALI DA ELETTROSHOCK, ora gli animalisti
storceranno il muso ma questi sono animali che vengono usati per lo sviluppo di
farmaci e non possiamo fare altro.
Per ottenerle bisogna fare l'elettroshock nel roditore con scariche di intensità
massimali e a quel punto il topo svilupperà una fase tonica e poi le mioclonie cioè
una crisi vera e propria di grande male. I farmaci attivi in questo
modello da crisi massimale da elettroshock sono gli stessi che funzionano
nell'uomo nelle crisi di grande male, in particolare la fenitoina è molto
attiva nella fase tonica di queste crisi massimali da elettroshock ma non tanto nei
confronti della fase clonica dove addirittura può peggiorare le mioclonie. Questo
suggerisce che nelle crisi di grande male questo non è un problema
perché la fase tonica è il preludio di quella mioclonica ma non può essere usata
mai nelle sindromi miocloniche o principalmente miocloniche come l'EPILESSIA
MIOCLONICA PROGRESSIVA, ancor meno nella SINDROME DI DRAVET (cioè
l'epilessia mioclonica severa dell'infanzia) perché` qui ci sono mutazioni con perdita
della funzionalità` del canale del Na per cui se vai a somministrare un farmaco che
inibisce il canale del Na vai a peggiorare il quadro.

SOMMINISTRAZIONE:
Il farmaco si somministra per via orale nella maggior parte dei casi (nelle epilessie
focali o nelle epilessie tonico-cloniche generalizzate di grande male), fate una
titolazione che come vi ho detto è fondamentale, fino al
raggiungimento del dosaggio pieno, ad es. 100 mg tid. L' emivita del farmaco è
vicina alle 20 ore e quindi potremmo chiederci perché dare il farmaco tre volte al
giorno? Il motivo è che con la somministrazione tre volte al giorno avete livelli
ematici del farmaco più stabili e quindi una migliore copertura.
Se invece il farmaco viene dato ev per il trattamento dello status epiletticus (stato di
male epilettico con crisi subentranti) si danno 10-15 mg/kg in infusione. Non è
comunque il farmaco di prima linea per il trattamento dello status epilettico perchè
adesso si dà il MIDAZOLAM che è una benzodiazepina.

CINETICA:
Molto interessante è la CINETICA della fenitoina o fenilidantoina se preferite: il
farmaco si lega molto alle proteine plasmatiche (>90%) per cui potete avere dei

138
fenomeni di spiazzamento che nel caso del trattamento dell'epilessia sono
importanti. Cosa può spiazzare la fenitoina dal legame con l’albumina? il
VALPROATO, quì abbiamo un'interazione di grandissimo interesse, lega le
proteine plasmatiche con una grande affinità (esattamente come la fenitoina) per
cui se voi andate a somministrare questi due farmaci insieme aumenterete la quota
libera di entrambi e quindi l'interazione può darvi eventualmente delle sorprese.
Anche diversi FANS come i salicilati (tra cui l'ASPIRINA), gli anticoagulanti orali
(WARFARIN), diuretici (furosemide, torsemide...). Quindi sono molti i farmaci con
cui potete avere interazione di questo tipo.
Nel momento in cui la Fenitoina raggiunge il fegato viene metabolizzata
principalmente dal CYP2C9 (75%) e dal CYP2C19(25%). La prima osservazione
da fare riguarda la presenza di alcune varianti genetiche per cui ci sono
METABOLIZZATORI LENTI, in particolare nel caso del CYP2C9 abbiamo infatti *2
e *3 (più lento in assoluto). Se avete per esempio un omozigote *3/*3 il
metabolismo della fenitoina sarà compromesso per circa il 75%.
Lo stesso discorso vale anche per il CYP2C19, valgono le stesse varianti genetiche
con la differenza che per il CYP2C9 trovate che i metabolizzatori lenti sono
soprattutto tra i caucasici (4-5%) mentre nel CYP2C19 i metabolizzatori lenti
sono soprattutto asiatici.

L'altra considerazione importante da fare è che la fenitoina può interagire con


farmaci che inibiscono CYP2C9 e 19. Di cosa sto parlando? innanzitutto una
categoria che li inibisce entrambi e sono:

• ANTIFUNGINI AZOLICI come chetoconazolo che ora non si usa più come
antifungineo ma viene utilizzato nella sindrome di cushing;
l'itraconazolo, fluconazolo, posaconazolo.... sono tutti potenti inibitori del
CYP2C9 e del CYP2C19.

• ANTIDEPRESSIVI: se un soggetto è affetto da depressione, cercate di


evitare a tutti i costi se è in trattamento con fenitoina, l'uso della fluoxetina,
paroxetina e fluvoxamina. Fluoxetina e Paroxetina sono in realtà degli
inibitori deboli del CYP2C9 e CYP2C19, la fluoxetina li inibisce entrambi, la
paroxetina maggiormente il CYP2C9, la fluvoxamina è un inibitore forte del
CYP2C19. Questi farmaci che possono essere somministrati quando avete
una comorbilità tra epilessia e depressione possono aumentare i livelli
plasmatici della fenitoina.

• VALPROATO: avete una situazione molto particolare, valproato e


fenitoina competono per le proteine plasmatiche, per cui se voi avete un
paziente che prende fenitoina e non siete soddisfatti della terapia e pensate
di inserire in terapia il valproato, il valproato aumenterà la quota libera di
fenitoina ma inibisce anche il metabolismo della fenitoina quindi avrete una
maggiore esposizione dell'organismo alla fenitoina quindi un allargamento
dell'area sotto la curva e un allungamento dell'emivita della fenitoina. Questo
ovviamente si traduce in una maggiore probabilità statistica di avere effetti
avversi.

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• INIBITORI DI POMPA: omeoprazolo, lansoprazolo ed esomeprazolo
possonointerferire con quel 25% di fenitoina che viene metabolizzato dal
CYP2C19. Questo discorso vi può sembrare aleatorio perchè potete pensare
"chi se ne frega! questa è una quota piccola del metabolismo" tra poco vi
esporro` un lavoro che vi spiegherà il perché nonostante questa CYP
metabolizzi solo il 25% comunque l'interazione degli inibitori di pompa va
considerata.

• ISONIAZIDE (TBC): è un inibitore del metabolismo della fenitoina, quindi


anche quì attenti ad associare i due farmaci. Entrambi i farmaci possono dare
neuropatie periferiche.

Come sapete esiste anche il fenomeno della farmacoinduzione, cioè induzione del
citocromo P450 e ci sono gli induttori del CYP2C9 e CYP2C19:
FENOBARBITAL e RIFAMPICINA.
La rifampicina è difficile da trovare in terapia, dovreste avere un caso di TBC o nella
profilassi per meningococco con localizzazione faringea o laringea. Il fenobarbital
potete invece trovarlo in terapia e lo trovate quando combinate fenobarbital e
fenitoina, a questo punto il fenobarbital è metabolizzato sia dal CYP2C9 che dal
CYP2C19 come la fenitoina però induce CYP2C9 e CYP2C19 quindi il risultato di
questa interazione tra farmaci potrebbe essere qualunque, in base a come le cose
si mettono.

La fenitoina è poi lei stessa un induttore del CYP3A4 per cui anche quì attenzione
perché la fenitoina potrebbe essere combinata con una serie di farmaci che
vengono metabolizzati dal CYP3A4 e se ciò dovesse verificarsi ovviamente avreste
un'interazione tra farmaci significativa.
Qualcuno di voi potrebbe chiedersi "tutto questo nella pratica clinica quanto vale?
cioè quanto dobbiamo tener conto delle interazioni con il citocromo P450?"
Vi faccio un esempio dell'importanza di queste interazioni riportandovi una tesi di
laurea specialistica in Farmacologia del dottor Marano che ora lavora al BAMBIN
GESU'. La tesi riportava il caso di un bambino ricoverato in urgenza al Bambin
Gesù cioè in terapia intensiva e il bambino è stato trattato con fenitoina per la
profilassi delle crisi epilettiche in quanto aveva avuto un trauma cranico. Il bambino
era intubato per cui la fenitoina gli era stata data ev o im e contemporaneamente in
vena era stato dato Omeoprazolo per proteggere lo stomaco visto che è l'unico
inibitore di pompa che si può dare per via parenterale perché gli altri si prendono
per bocca. Il bambino è andato in intossicazione da fenitoina ed ha cominciato a
sviluppare una sindrome neurologica con ottundimento del sensorio, problemi
motori... che è dipesa dal fatto che le concentrazioni plasmatiche di fenitoina
avevano superato 30 microgrammi per ml ovvero una concentrazione
altissima se consideriamo che normalmente il range terapeutico della fenitoina e`
intorno a 10 microgrammi per ml e sopra ai 20 ci sono gli effetti avversi che tra
poco vi dirò, sopra i 30 si ha intossicazione da fenitoina che dà una sindrome
neurologica molto severa.
Nel momento in cui si sono accorti che il bambino aveva un'intossicazione da
fenitoina, hanno immediatamente sospeso la fenitoina ma non è successo nulla, i

140
livelli plasmatici continuavano ad essere alti e la sindrome neurologica era ancora
presente. Successivamente hanno sospeso l'omeprazolo e nel momento in cui
hanno tolto l'omeprazolo i livelli di fenitoina si sono immediatamente abbassati e la
sintomatologia neurologica è andata via. Cos'hanno fatto? la genotipizzazione del
bambino ed hanno trovato che il bambino era omozigote CYP2C9 *3*3, quindi vuol
dire che l'unica risorsa che aveva il bambino per poter metabolizzare la fenitoina
era il CYP2C19 ma era in terapia con omeprazolo che faceva competizione con il
CYP2C19 e non era possibile utilizzare altro inibitore di pompa. L'omeprazolo ha
fatto competizione con la fenitoina sul CYP2C19 i livelli di fenitoina si sono alzati e
sono rimasti alti per un certo periodo di tempo.
Ora le linee guida sono cambiate, per cui i bambini che vengono portati in terapia
intensiva per problemi traumatici vengono trattati con LEVETIRACETAM cioè
il KEPPRA (che non viene metabolizzato da CYP450) e non vengono più trattati
con fenitoina.
La genotipizzazione quando sei in terapia intensiva non puoi farla all'istante, ci
vogliono tempi tecnici per il prelievo e poi analisi del DNA.

EFFETTI AVVERSI DELLA FENITOINA:

Dobbiamo distinguere 2 categorie:


 Effetti avversi quando la fenitoina è data per endovena;
 Effetti affersi quando la fenitoina è data per bocca.
Considerate che la fenitoina è un antiaritmico, se lo date in vena può dare aritmie
cardiache. Questo non vi deve assolutamente sorprendere, sapete che gli
antiaritmici sono anche proaritmogenesi cioè possono produrre aritmie e le aritmie
cardiache possono determinare un rallentamento cardiaco e quindi dare
ipotensione. Aritmie cardiache e ipotensione sono alcune delle conseguenze in
acuto della fenitoina in vena. Ci sono degli effetti in acuto a carico del SNC, si può
manifestare una situazione paradossa cioè un'esacerbazione delle crisi. A volte
capita che dando un bloccante del canale del Na avete un’azione preferenziale
sugli interneuroni e quindi le crisi si esacerbano per questo motivo.
Possiamo avere anche rigidità, come rigidità nucale o addirittura rigidità da
decerebrazione che in questo caso è più una spasticità perchè è come se voi
interrompeste il fascio piramidale, quando voi interrompete il fascio piramidale
avete spasticità, ma sono manifestazioni rare date esclusivamente in caso di
utilizzo della fenitoina per il trattamento dello stato di male epilettico, cioè quando la
diamo e.v.
Che succede se la date per o.s.? potete avere effetti da overdose e c'è un organo
nel SNC più sensibile alla fenitoina: il cervelletto. Quando io ero studente mi misi in
testa che volevo fare una deplezione delle cellule dei granuli della corteccia
cerebellare, sono andato un pò a vedere in letteratura e il modello che veniva
utilizzato era la somministrazione di altissimi dosaggi di fenitoina nel ratto, quindi la
fenitoina è cerebello tossica per definizione.
Possiamo avere atassia, nistagmo, diplopia, sedazione che sono gli effetti di classe
della maggior parte dei farmaci antiepilettici. Possiamo anche avere manifestazioni
della cosiddetta sindrome di Luciani dove abbiamo dismetria, diàdococinesia.

141
Questo sarà un tema ricorrente, ovviamente nel caso della fenitoina ancora di più
perchè il cervelletto è più colpito ma in generale tutti i farmaci utilizzati per il
trattamento dell'epilessia possono sedare, dare sintomi cerebellari che diventano
vestibolo-cerebellari quindi anche nistagmo e diplopia come econseguenza.
Avete poi qualcosa di esclusivo della fenitoina. La fenitoina è un induttore del
CYP3A4, ma anche citocromi P450 che sono importanti per il metabolismo, primo
fra tutti il metabolismo della vitamina D quindi potete avere manifestazioni ossee
come osteomalacìa, osteoporosi, con il metabolismo e assorbimento della vitamina
B12 per questo motivo possiamo avere anemia megaloblastica, con il metabolismo
degli steroidi sessuali e nella donna potete avere manifestazioni di irsutismo, con il
metabolismo del collagene e per questo potete avere uno degli effetti avversi più
comuni cioè l'iperplasia gengivale. l'iperplasia gengivale è molto correlata alla
fenitoina, in realtà è più un fatto estetico che un fatto pericoloso e c'è un modo di
evitarla che è quella di seguire una buona igiene orale.
La fenitoina può darci neuropatie periferiche ed a questo proposito ricordate
l’interazione con l’isoniazide, perchè l'isoniazide inibisce il metabolismo della
fenitoina. Potreste avere iperglicemia con un meccanismo non chiaro ma quello
che succede è che tende ad inibire la secrezione di insulina. Inibizione della
secrezione di ADH che può portare diabete insipido, questo è il contrario di ciò che
accade con la carbamazepina che vedremo tra pochissimo, che non dà diabete
insipido ma facilita l'azione del diabete insipido e per questo può dare iponatremia.
Quindi una differenza importante tra il primo farmaco, la fenitoina (antiepilettici
classici) che può dare diabete insipido, e la carbamazepina che invece può dare
iponatremia per un aumentata azione dell'ormone ADH.
Altre reazioni avverse: reazioni da ipersensibilità (comuni alla maggior parte degli
antiepilettici) che di solito sono rash, ma possono evolvere in manifestazioni più
gravi, ve ne parlerò tra poco quando passeremo al secondo farmaco che è la
carbamazepina. Considerate che le manifestazioni da ipersensibilità possono
essere sistemiche: manifestazioni colestatiche per infiltrazione di eosinofili nei
canalicoli intraepatici, manifestazioni a carico del midollo osseo con riduzione delle
cellule del sangue ma queste manifestazioni nel caso della fenitoina sono rare.
Altro aspetto molto importante è la teratogenicità. La fenitoina è potenzialmente
teratogena, la teratogenicità è un fenomeno che interessa il 2-3% delle madri, se si
fa un trattamento con un farmaco antiepilettico si sale intorno al 4%, mentre con 3
farmaci antiepilettici combinati in gravidanza si arriva anche alla soglia del 10%.
Alcuni aspetti della teratogenicità abbastanza critici sono i disturbi della
notocorda che possono manifestarsi con la spina bifida, ve ne parlerò la prossima
volta parlando dell’acido valproico.
Ricordate che la fenitoina è un induttore: durante la gravidanza induce il
metabolismo della vitamina K e D che crea problemi al bambino quando nasce che
avrà concentrazioni basse di queste, questo vuol dire possibili disturbi della
coagulazione, è bene dare la vitamina K nell'ultimo mese di gravidanza. La carenza
di vitamina K può anche influenzare l'ossificazione (perchè il processo di gamma
carbossilazione è importante anche nella regolazione della matrice ossea), ci
potrebbero essere manifestazioni di rachitismo per accelerato metabolismo di
vitamina D. Le donne in gravidanza per evitare i problemi alla notocorda assumono
il folato, che un pò le protegge anche dalla teratogenicità iniziale.

142
• CARBAMAZEPINA (Tegretol)
La carbamazepina ha una caratteristica struttura a tre anelli dove nell’anello
centrale trovate un doppio legame. Questo è un dato abbastanza
interessante perchè nel momento in cui il farmaco viene usato e poi
metabolizzato, il doppio legame viene attaccato dal CYP450 soprattutto
CYP3A4 con formazione di un epossido. L’epossido è una specie
potenzialmente reattiva, a meno che non entri in gioco un’epossido idrolasi
che è l'enzima che normalmente è responsabile della rimozione
dell'epossido, lo trasforma in trans diidrodiolo, l'epossido idrolasi ha tante
isoforme quindi può esserci polimorfismo genetico tra gli individui che
determina una diversa metabolizzazione dell'epossido. Per questo motivo,
cioè per la presenza del doppio legame centrale, è stato sviluppato un altro
farmaco l’OXCARBAZEPINA, che ha le stesse indicazione della
carbamazepina, questo farmaco si chiama TOLEP. La storia
del Tegretol (carbamazepina) e del tolep (oxcarbazepina) è abbastanza
interessante perchè la stessa azienda che ha prodotto il Tolep (la Novartis)
nel momento in cui è scaduto il brevetto della carbamazepina. Io ricordo
perfettamente il giorno in cui il Tolep è entrato in commercio, il tipo di
propaganda che l'azienda ha fatto è stata la seguente: abbiamo la
carbamazepina che forma l’epossido, l'oxcarbazepina presenta un gruppo
chetonico nella posizione in cui normalmente è presente l'epossido non
potendo formare l'epossido è un farmaco che ha un profilo di sicurezza e
tollerabilità migliore. Nonostante questo, la classe medica ha impiegato anni
ad accettare il tolep ed ha continuato ad utilizzare la carbamazepina.
Cos'è la carbamazepina? è un antiepilettico che si usa:
 nell’epilessia focale;
 epilessia generalizzata tipo grande male;
quindi anche quì le stesse indicazioni della fenitoina. Potenzialmente si può
utilizzare anche nello status epiletticus, ma non è di prima linea.
 La cosa interessante è che si può usare anche in psichiatria,
caratteristica che la fenitoina non ha, in particolare nel disturbo
bipolare, il tegretol e ora anche il tolep sono due farmaci che vengono
utilizzati tanto nel disturbo bipolare soprattutto nella profilassi degli
episodi maniacali.

Altra cosa che vale per il tegretol e tolep è il TRATTAMENTO DEL DOLORE.
Abbiamo diversi tipi di dolore:
• Il dolore infiammatorio dove voi utilizzate i FANS;
• Il dolore da cancro, per il quale gli oppioidi sono i farmaci di prima linea e gli
oppioidi vengono utilizzati nelle forme di dolore molto severo.
• Il dolore neuropatico, che dipende da alterazioni strutturali o funzionali delle
vie di senso del dolore. Potete usare antiepilettici come farmaci di prima
linea, questi sono: Gabapentina e Pregabalin che sono nati per il trattamento
dell'epilessia ma che ora sono di prima linea per la neuropatia diabetica,
posterpetica, post traumatica, dolore talamico centrale, dolore associaciato a
sclerosi multipla ecc.

143
• Poi abbiamo il dolore neuro vascolare come i dolori emicranici, in questa
forma di dolore gli antiepilettici possono essere utilizzati come topiramato
(che ha l'indicazione assoluta), valproato, pregabalin e gabapentina.
• Il dolore accessuale, molto violento, di breve durata e viene detto anche
nevralgia del trigemino o del glossofaringeo. Nel dolore nevralgico del
trigemino e del glossofaringeo tegretol e tolep sono di gran lunga i farmaci di
prima linea. Non ci sono farmaci che danno un effetto così buono come la
carbamazepina e l'oxcarbazepina nel caso della nevralgia del trigemino e del
glossofaringeo.
Per quale motivo alcuni antiepilettici sono utilizzati in alcune condizioni patologiche
ed altri in altre condizioni patologiche? Di preciso non ve lo saprei dire. Una
possibile spiegazione del perchè carbamazepina e l'oxcarbazepina sono così
efficaci nel dolore nevralgico è che questa nevralgia rispecchia una forma di
epilessia focale nel nucleo sensitivo del trigemino.
Il tegretol si dà prevalentemente per bocca ad un dosaggio maggiore rispetto alla
fenitoina per diversi motivi: l'assorbimento è erratico e la potenza minore.
Ovviamente titolate. Si dà tid, partendo da un dosaggio di 200-400 mg al giorno,
ma salendo anche a dosaggi superiori come 1,5-1,6 g al giorno o avvicinandoci ai 2
g al giorno.
meccanismo di azione:
Consiste nell’inibizione dei canali del sodio in modo voltaggio- uso- frequenza-
dipendente. Buon effetto nei confronti delle crisi indotte da dosi massimali di
elettroshock negli animali da esperimento. Il legame alle proteine è meno
importante rispetto a quello della fenitoina, è intorno al 75% quindi i fenomeni di
spiazzamento sono meno rappresentati.
Nel metabolismo è coinvolto il CYP3A4. Nello stesso tempo è anche un forte
induttore dello stesso CYP3A4. Quindi quì c'è interazione con i tanti farmaci
metabolizzati dal CYP3A4 alcuni dei quali sono abbastanza critici ad esempio
ciclosporina, tacrolimus, sirolimus, i calcioantagonisti, benzodiazepine, una serie di
farmaci antitumorali, farmaci per il trattamento dell'HIV e antivirali, troviamo la
pillola anticoncezionale che, in caso di associazione con carbamazepina, potrebbe
fallire.
L’emivita plasmatica è intorno alle 15-17 ore e questo giustfica la triplice
somministrazione giornaliera per mantenere i livelli plasmatici più costanti possibili.
Ricordare di evitare succo di pompelmo che inibisce il CYP3A4 a livello intestinale
e l’iperico che induce il CYP3A4 interferendo con il metabolismo del farmaco.
Effetti avversi:
• Gastrointestinali.
Sono da prendere in considerazione, non sottovalutateli perchè voi sapete
che nella formula STEPS nel profilo di tollerabilità, sono gli effetti avversi non
pericolosi per la vita ma che possono compromettere l’aderenza al
trattamento.
• Iponatremia ipervolemica.
La carbamazepina, ma anche la oxcarbazepina ed un altro farmaco di cui vi
parlerò la prossima volta che si chiama eslicarbazepina (Zebinix, ultimo
arrivato e molto potente), sono in grado di aumentare l’azione dell’ADH a
livello del dotto collettore con aumentata traslocazione dell’acquaporina 2 in

144
membrana e quindi aumentato assorbimento di H2O che può portare
iponatremia ipervolemica che diventa abbastanza critica perchè ha un
impatto sul SNC in particolar modo in un paziente che soffre di epilessia.
Possiamo usare i vaptani cioè diuretici acquaretici che bloccano i recettori B2
della vasopressina, che vengono somministrati nelle sindromi da
inappropriata antidiuresi o per l'iponatremia, poi sapete che uno di questi, il
tolvaptan ha l'indicazione anche per il rene policistico perchè si formano cisti
piene di acqua per azione dell’ADH.
• Anemia aplastica.
La carbamazepina ha avuto una pessima reputazione tra i neurologi perché
si è pensato a lungo che potesse determinare anemia aplastica, già trattata
parlando del felbamato. Per il felbamato cioè il farmaco che si usa nella
sindrome di Lennox Gastaut l'anemia aplastica è realmente un problema, per
la carbamazepina sembra più essere una fake news, come tutte le stronzate
che sono state dette a proposito del COVID-19, perchè è vero che è stata
documentata l'anemia aplastica in alcuni pz ma se guardate i numeri
l’incidenza dell’anemia aplastica nei soggetti trattati con carbamazepina è
molto simile all’incidenza nella popolazione normale. Quindi alla domanda:
"la carbamazepina può determinare anemia aplastica?" io risponderei di no.
Questo è un pericolo che potete avere se voi avete un pz che
contemporaneamente prende farmaci che possono determinare aplasia
midollare ad esempio farmaci antitumorali, ha nevralgia del trigemino, ha
convulsioni, allora li fate attenzione perchè può esserci un sinergismo nei
confronti di un meccanismo midollare, o se il pz è psicotico e sta prendendo
clozapina cosa che non dovrebbe perchè la clozapina riduce la soglia delle
convulsioni e può dare anche neutropenia e può spingere verso l'aplasia
midollare. Nonostante questo, si nota frequentemente una riduzione dei
globuli bianchi e piastrine a inizio terapia, ma risulta essere una diminuzione
transitoria e i livelli dopo un pò si normalizzano.
• Teratogenicita.

Tutti questi effetti, compresa la teratogenicità, sono correlati alla formazione


dell’epossido. Questi effetti, teratogenicità e possibile effetto tossico a carico del
midollo osseo; l'aumento dell'ADH è una cosa diversa che con la formazione
dell'epossido probabilmente non ha correlazione. Chi fa la differenza è l’epossido
idrolasi, si divide in 5 isotipi ed è in grado di rimuovere l’epossido trasformandolo in
trans diidrodiolo. La teratogenicità si correla in maniera diretta alla quantità di
epossido idrolasi che è presente nel liquido amniotico. Se esiste il macchinario per
eliminare l’epossido la tossicità rimane minima, lasciando solo gli effetti di riduzione
di vitamina D e K. Da ricordare però che l’acido valproico inibisce l’epossido
idrolasi, mentre il fenobarbital la induce. Nell'equilibrio dell'epossido, se voi fate un
trattamento combinato tra carbamazepina e acido valproico è possibile che
l'epossido rimanga per un periodo di tempo più lungo e che ci sia un po’ di tossicità
a carico del midollo osseo o se una donna è in gravidanza ci sia più teratogenicità.
• Reazioni immuno-allergiche.
Voglio chiudere la discussione di oggi con un aspetto molto interessante
della carbamazepina che sono le reazioni immuno-allergiche. Questo è uno

145
dei casi in cui all'allergia da farmaci si applica la farmacogenetica (o
farmacogenomica). La carbamazepina può dare rash come la fenitoina,
diversi altri farmaci antiepilettici, ma allo stesso tempo la carbamazepina può
dare manifestazioni più importanti come la sindrome di Steven-Johnson,
sindrome di Lyell e il DRESS, o manifestazioni papulari disseminate. La
sindrome Steven-Johnson è caratterizzata da eritemi a carattere papulo-
maculare o vescicolo-bolloso che interessano almeno il 10% della superficie
corporea e possono interessare anche le mucose come dell’apparato
respiratorio o gastrointestinale e per questo può esserci mortalità. La
mortalità è più alta però nella Lyell perché è interessata circa 30-35% della
superficie corporea, chiamata anche necrolisi bollosa dell’epidermide. C’è
anche una sindrome intermedia che viene detta Steven-Johnson/Lyell con
coinvolgimento tra il 10 e il 35% della superficie. La DRESS è una forma
immuno-allergica da farmaci caratterizzata da infiltrazione da eosinofili. Tanti
farmaci sono stati tolti dal commercio perchè induttori della sindrome di
Steven-Johnson. Queste forme dipendono dal genotipo e in particolare degli
HLA di tipo 1, uno di questi antigeni maggiori di istocompatibilità molto
popolare è l’HLA B*1502 predispone alle reazioni immuno-allergiche della
carbamazepina. Questo particolare HLA è particolarmente frequente nei
cinesi e in particolare nei sud asiatici del ceppo Han, e invece è rarissimo nei
caucasici. Un altro genotipo predisponente è l’HLA A*3101, che si trova nel
3% circa degli europei e nel 10% o più dei giapponesi. Questi potrebbero
predisporre alle reazioni allergiche da carbamazepina. Quindi prima di
iniziare una terapia con carbamazepina sarebbe utile genotipizzare i pazienti
per evitare gli effetti avversi, ma questo non si fa mai. L’HLA A*3101
andrebbe anche questo ricercato sempre anche se ha un legame meno
solido e quindi le reazioni allergiche non sono della stessa gravità dell'HLA
B*1502 ma avere un 3% nei caucasici ed un 10% negli asiatici vuol dire
creare un campanello d'allarme.

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LEZIONE 6 MAGGIO 2021

Direi di riprendere dalla volta scorsa dove avevamo iniziato a trattare i farmaci
antiepilettici dopo aver parlato della fenitoina, che vi ricordo ancora è anche un
farmaco antiaritmico di classe 1B e ha questo meccanismo di azione caratteristico
di bloccare per tempi rapidi il canale del sodio voltaggio dipendente in modo
voltaggio uso e frequenza dipendente. Poi abbiamo parlato della carbamazepina,
cioè del famoso tegretol. Non so se ricordate da questo punto di vista che la
carbamazepina è soprattutto un farmaco che viene utilizzato nella nevralgia del
trigemino ed anche nella nevralgia del glosso-faringeo. Nella vostra pratica clinica
capiterà molte volte di trovare dei pazienti che soffrono di questo tipo di dolore, che
rientra nel dolore neuropatico, però è un dolore un po’ diverso, perché è un dolore
accessuale. Come abbiamo detto la volta scorsa è interessante che il tegretol ed il
tolep, cioè carbamazepina ed oxcarbazepina, siano così indicati in questa forma di
dolore, perché questo ci fa immediatamente pensare che i canali del sodio sono
importanti. Ci fa pensare anche che il dolore può riflettere una forma di epilessia
focale nel nucleo sensitivo del trigemino. Quindi, è una cosa da prendere in
considerazione. E poi abbiamo detto, a proposito della carbamazepina che è un
farmaco che può dare delle reazioni immuno-allergiche molto severe come per
esempio la sindrome di Stevens-Johnson, la sindrome di Lyell, che poi sono
sindromi molto simili, la differenza è nel coinvolgimento della superficie corporea e
poi la DRESS, cioè quella caratterizzata da eosinofili, in quel ceppo Han cinese che
è l’HLA-B*1502 ma anche l’HLA-A*3101 che si trova nei caucasici, anche se ha un
legame meno solido con questo tipo di manifestazione. Lì c’eravamo lasciati e
quindi, il farmaco che viene successivamente è l’Oxcarbazepina, del quale non vi
dirò tantissimo, perché in realtà è un derivato della carbamazepina ed il nome
commerciale è TOLEP e le caratteristiche sono molto simili tra Oxcarbazepina e
carbamazepina, tanto è vero che la stessa azienda, che la è Novartis, che ha
prodotto il tegretol, ha prodotto anche il tolep, e guarda caso ha prodotto il tolep nel
momento in cui è scaduto, diversi anni fa, il brevetto per tegretol, quindi avevano un
farmaco di riserva che evidentemente, come vedremo, ha delle caratteristiche un
pochettino diverse.
Il meccanismo d’azione del tolep è molto simile rispetto al meccanismo d’azione del
tegretol, vale a dire anche in questo caso blocco dei canali, più che blocco,
inibizione dei canali del sodio voltaggio-dipendenti ed anche in questo caso in
modo uso-dipendente e frequenza-dipendente.
Come al solito, Oxcarbazepina entra nel canale ionico, quando il canale è nella
fase di inattivazione, e prolunga il tempo necessario perché il canale possa tornare
allo stato di riposo, quindi questo significa che il canale è meno performante, però
nello stesso tempo il meccanismo frequenza-dipendente si ha perché lo stato di
inattivazione del canale statisticamente si verifica più spesso quando il canale

147
scarica ad alta frequenza, quindi questi farmaci hanno davvero la caratteristica di
discriminare tra i canali del sodio che funzionano fisiologicamente ed i canali del
sodio, invece, che scaricano ad altra frequenza e danno poi la tipica scarica
ipersincrona che è caratteristica delle caratteristiche epilettiche. Quindi, un
razionale qua c’è.
Allora voi mi chiederete quale è la differenza tra tolep e tegretol, ovvero
l’oxcarbazepina perché è diversa rispetto alla carbamazepina?
Perché essa è come la carbamazepina, ha una struttura a tre anelli, poi con una
carbossiamide è legata, però a differenza della carbamazepina, qui non c’è il
doppio legame nell’anello centrale, cioè fondamentalmente tra la posizione 9 e la
posizione 10 ed al posto del doppio legame c’è un gruppo chetonico che si attacca
all’anello centrale. Per questo motivo il metabolismo è un po’ diverso, cioè il
metabolismo dell’oxcarbazepina è quello che porta alla formazione di un
monoidriossiderivato, quindi di base c’è la riduzione del gruppo cheto in gruppo
ossidrilico e non si forma l’epossido. Se non si forma l’epossido significa che, di
base, la tossicità dell’oxcarbazepina sarà inferiore di quella della carbamazepina,
perché alcune reazioni, come per esempio la teratogenicità od ancora la presunta
aplasia midollare di cui si è parlato tanto con la carbamazepina (ma che poi
andando a vedere i numeri è molto simile a quella che ha nella popolazione
generale) non è che rappresenti in realtà un grossissimo problema, anche se è vero
che piastrine e globuli bianchi si riducono un po’ dopo l’inizio della terapia ma nella
stragrande maggioranza dei casi c’è un perfetto recupero delle cellule del sangue,
quindi poi non succede niente. Però, questo effetto e la teratogenicità sono
sicuramente inferiori con l’oxcarbazepina, perché non c’è l’epossido e l’epossido
non c’è perché nella struttura di base manca il doppio legame. Quindi, quando c’è
l’attacco del citocromo P-450 non c’è la formazione dell’epossido. E questo, tra
l’altro, rispecchia molto lo spirito degli antiepilettici di seconda generazione, perché
l’oxcarbazepina è un antiepilettico di seconda generazione. Questi sono
antiepilettici nati con una doppia finalità:
● la prima era quella di utilizzarli in ADD-ON, cioè in terapia aggiuntiva, pensando
che fossero un pochino meno efficaci ed un pochino meno tossici di quelli di
prima generazione, questa caratteristica degli antiepilettici di II generazione poi, è
stata plasmata nel tempo, perché per esempio, uno di questi, la lamotrigina è,
invece, un farmaco di primissima linea nelle crisi focali, nelle crisi di grande male.
Quindi, non è stato sempre così;
● la seconda cosa era che gli antiepilettici di seconda generazione potessero
essere più tollerati durante la gravidanza, cioè avere un effetto teratogeno meno
marcato rispetto ad una serie di antiepilettici di prima generazione. Questo è
senz’altro vero per l‘oxcarbazepina, per le cose che abbiamo detto, proprio
perché non si forma l’epossido.

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Dal punto di vista metabolico, il farmaco è metabolizzato dal CYP3A4 ed il farmaco
è anche un induttore del CYP3A4. Quindi, non ci sono differenze da questo punto
di vista con la carbamazepina. Però, l’oxcarbazepina, ha anche qualche piccola
cosa in più, cioè è un inibitore del CYP2C19. Inibire il CYP2C19, ricordatevi,
significa, anche inibire il metabolismo del plavix, cioè del clopidogrel. Il clopidrogrel,
vi ricordate, viene bioattivato dal CYP2C19. Quindi, se voi doveste avere, per
esempio, un paziente che ha gli stent coronarici, che sta facendo plavix, cioè
clopidogrel più cardioaspirina, e nello stesso tempo soffre di nevralgia del
trigemino, oppure è un paziente che soffre di disturbo bipolare e lo psichiatra gli
mette il tolep in questo caso, od ancora soffre di epilessia con focale, epilessia
generalizzata, e c’è il tolep in terapia, allora a questo punto bisogna stare attenti
perché il tolep potrebbe interferire con la bioattivazione del clopidogrel e questo
può significare la chiusura dello stent, cioè formazione di aggregati piastrinici nello
stent medicato dove l’endotelizzazione non avviene in maniera corretta. Quindi,
questo va preso in considerazione.
Per quanto riguarda le dosi, sono molti simili rispetto a quelle del tegretol, cioè si
parte da 400-600 mg e si arriva a dosi massime tra 1,5 e 2 gr pro die. Quindi, i
dosaggi sono abbastanza elevati, sono sicuramente più alti rispetto ai dosaggi della
fenitoina, sia carbamazepina che oxcarbazepina sono farmaci meno potenti rispetto
alla fenitoina. E le due cose base che abbiamo detto per la carbamazepina valgono
anche per l’oxcarbazepina. Innanzitutto, le reazioni di ipersensibilità, che
naturalmente sono presenti in tutti i farmaci antiepilettici, però sono normalmente
contenute, cioè siamo al massimo 3-4%. Qui, come al solito, c’è questo benedetto
ceppo Han dei cinesi dove c’è un aplotipo che si chiama HLA-B*1502 e questo
particolare aplotipo è predisposto alle reazioni di ipersensibilità di tutti i farmaci che
hanno le caratteristiche simili alla carbamazepina, cioè sia tegretol che tolep ed
ancora una volta, queste manifestazioni di ipersensibilità possono essere severe,
perché ci può essere la sindrome di Stevens-Johnson, che corrisponde a circa il
10% della superficie corporea che viene coinvolta, ma vengono coinvolte anche le
mucose per esempio dell’appartato respiratorio e dell’apparato gastrointestinale
con questo eritema multiforme che può essere vescicolo-bolloso o maculopapulare
e la sindrome di Lyell, dove invece il coinvolgimento della superficie corporea è
maggiore, cioè superiore al 30-35%, dove si osserva la necrolisi bollosa
dell’epidermide, cioè questa cute che si stacca e questa è una patologia che ha
anche un’elevata mortalità, poi ci sono anche le forme intermedie cioè
Stevens-Johnson/Lyell ed infine come vi dicevo c’è la DRESS che è caratterizzata
da una reazione ai farmaci con infiltrazione di eosinofili. Quindi, quando si fa
medicina senza frontiera, bisogna stare particolarmente attenti se ci sono gli
asiatici, perché vengono trattati con carbamazepina, oxcarbazepina, c’è il rischio
che questo si possa verificare. Teoricamente bisogna fare la genotipizzazione degli
asiatici e vedere cosa succede, se si rientra in questo particolare ceppo.

149
L’altro effetto avverso che è comune tra tregretol e tolep potenzialmente è
l’iponatremia, che è abbastanza critica nei soggetti anziani e questo dipende dal
fatto che entrambi i farmaci facilitano l’azione dell’ADH nel dotto collettore del rene,
viene riassorbita acqua e l’acqua naturalmente riduce la concentrazione del sodio.
Quindi, qua siamo esattamente in una condizione di iponatremia ipervolemica e
questa, per esempio, è una circostanza dove teoricamente si posso usare i vattani,
conivattan, tolvactan e così via, perché bloccano i recettori V2 dell’ADH.
Quindi, questo è quanto volevo dirvi con il tolep e consideratelo come un tegretol
un po’ meno tossico perché non si forma l’epossido. Quindi, ovviamente in questo
caso non avrete interferenza nei polimorfismi dell’epossido reduttasi, perché qua
non fa gioco, però i due problemi, cioè le reazioni di ipersensibilità legate al ceppo
genetico, al ceppo etnico, per esempio negli Han cinesi e poi l’iponatremia, invece
si vedono. Ovviamente, io molte volte non ve lo ripeto, ma gli effetti avversi di
classe dei farmaci antiepilettici sono comuni a tutti i farmaci antiepilettici, vale a dire
sedazione, nistagmo, vertigini, diplopia e così via, sono principalmente effetti
cerebello-vestibolari, questi li avete sempre, quindi quando dovreste andare in
overdose, avreste questo piccolo problema.
E poi abbiamo un altro farmaco che si chiama Eslicabazepina che potremmo
definire anche un farmaco di terza generazione perché rappresenta un’ulteriore
evoluzione della cabamazepina e questo farmaco si chiama Zebinix.
Che cosa è l’Eslicabazepina?
Beh, rispetto alla carbamazepina e rispetto all’oxcarbazepina, mantiene più o meno
le stesse indicazioni, in realtà, non è stato utilizzato per quanto mi compete nella
nevralgia del trigemino e nella nevralgia del glossofaringeo, dove tegretol e tolep
sono comunque farmaci di prima linea, però è un farmaco che voi potreste
prendere in considerazione nel trattamento soprattutto dell’epilessie focali, perché il
meccanismo, pur essendo tutto sommato abbastanza simile a quello di
carbamazepina ed oxcarbazepina, in realtà ha delle piccole differenze, cioè questo
farmaco come carbamazepina ed oxcarbazepina, è un inibitore dei canali del sodio
ed è un inibitore dei canali del sodio come al solito voltaggio-dipendente,
uso-dipendente e frequenza-dipendente. Però, fa due cose in più che possono
essere abbastanza interessanti: la prima cosa è che spinge il canale verso il ciclo di
inattivazione lenta. Questo ciclo di inattivazione lenta è molto simile nella sequenza
al ciclo di inattivazione rapida, cioè il canale passa dallo stato di riposo in cui
ovviamente non conduce, allo stadio aperto, in cui conduce, cioè fa entrare sodio
nell’arco di microsecondi, poi normalmente si inattiva nell’arco di millisecondi e
ritorna in condizioni di riposo. Questo è il ciclo di inattivazione rapida. Se questo
avviene lentamente, il canale passa dallo stato aperto allo stato di inattivazione,
stavolta nell’arco di secondi e questo meccanismo è responsabile del cosiddetto
spike accomodation, cioè immaginate dei neuroni che hanno un’elevata
frequenza di scarica, poi i canali del sodio entrano nel ciclo di inattivazione lenta e

150
man mano i potenziali di azione si fanno via via più diradati. Questo ciclo di
inattivazione lenta, come vedremo quando sarà il momento, è il principale
meccanismo d’azione della lacosamide, ovvero del Vimpat, però è condiviso dalla
Eslicabazepina. Normalmente l’inattivazione lenta viene innescata quando il canale
scarica a frequenza altissima, quindi è una specie di freno di sicurezza che il canale
mette in opera e se un farmaco spinge il canale ad entrare nel ciclo di inattivazione
lenta, naturalmente questo conferisce al farmaco un’ulteriore specificità cioè che il
farmaco può reclutare quei canali che stanno scaricando con frequenza altissima e
di conseguenza evitare di dare sedazione e depressione del sistema nervoso
centrale.
Poi, l’Eslicabazepina ha anche un secondo meccanismo che è interessante
cioè inibisce alcune correnti al calcio che sono le correnti del Cav 3.2. Noi abbiamo
incontrato tante volte i canali del calcio voltaggio- dipendenti, naturalmente in
farmacologia il canali più importanti in assoluto sono i canali L del calcio, cioè sono
quelli che vengono inibiti dai famosi calcio antagonisti, quindi su questo si incentra
molta della terapia nelle patologie cardiovascolari. Quando leggete una corrente
Cav 3, questo significa che fate riferimento ai canali T.
I canali T sono importanti, come vedremo tra poco, nelle assenze epilettiche, però
sono anche coinvolti soprattutto queste correnti Cav 3.C, Cav 3.2
nell’epilettogenesi. Con questo non voglio dirvi che eslicabazepina, lo zebinix, può
in qualche modo ridurre l’epilettogenesi. Però, questo è un meccanismo in più, da
prendersi in considerazione. Poi, per il resto anche qui abbiamo induzione di
CYP3A4 ed inibizione di CYP2C19. Queste due cose sono molto spesso unite tra
di loro. Quindi, insomma è interessante prenderle in considerazione. Quindi, cosa
portare a casa di questo Zebinix, di questa eslicabazepina?
Semplicemente che è una molecola molto simile al tegretol ed al tolep, cioè molto
simile alla cabamazepina ed all’oxcabazepina. È una molecola che ha qualche
meccanismo d’azione aggiuntivo, tra cui uno molto importante che spinge il
canale verso il ciclo di inattivazione lenta, e quindi questo è un valore
aggiunto. Poi ci potrebbe essere qualche azione sui canali del calcio che possono
essere coinvolti nell’epilettogenesi e poi rientrano nel determinismo delle assenze
epilettiche, nonostante questo, il farmaco è indicato ufficialmente per il trattamento
dell’epilessia focale.
Non ci sono tanti dati sui ceppi cinesi Han, però, tutto mi fa pensare che le
precauzioni che dovete prendere per le reazioni di ipersensibilità con tegretol e
tolep, possono anche essere riferite allo zebinix, cioè all’eslicabazepina. Quindi,
consideriamoli questi tre come farmaci molto simili di cui il tegretol è prima
generazione, il tolep seconda generazione e lo zebinix è terza generazione.
Forse vi ho detto l’altra volta che lo zebinix è un po’ più potente rispetto a
carbamazepina e oxcabazepina, in termini di dosaggio, ma in realtà poi vedendolo
bene non ci sono grandissime differenze, perché voi potete cominciare tra 200 mg

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e 400 mg, poi fate, come fate sempre per ogni farmaco antiepilettico
una titolazione, e fatta la titolazione potete attivare anche a 1600 mg. Quindi,
non siete distanti dai dosaggi che si usano normalmente con tegretol e tolep.
Quindi, magari è un po’ più potente, ma niente di così particolare.
Detto questo abbiamo forse il farmaco migliore tra tutti gli antiepilettici, che è l’acido
valproico.
L’acido valproico è una sostanza particolare, perché ricorda molto un acido grasso,
perché è un acido dipropilacetico. Quindi, immaginate l’acido acetico al centro e
due gruppi propilici che si diramano sui lati dell’acido acetico. Quindi, è come se
fosse un piccolo acido grasso ramificato, ma questo ci dà già tantissime
informazioni, perché pensate immediatamente alla β-ossidazione che avviene nei
mitocondri, pensate all’ω-ossidazione, che arriva nel citosol, quindi insomma avete
tutta una serie di situazioni che potete già prevedere dalla struttura dell’acido
valproico.
L’acido valproico sicuramente è l’antiepilettico a più ampio spettro,
in assoluto, quindi è quello che viene utilizzato maggiormente ed infatti è un
farmaco di prima linea nel trattamento delle epilessie focali, epilessie focali di ogni
tipo, delle epilessie generalizzate, tonico-cloniche, quindi del cosiddetto grande
male epilettico, è un farmaco che ha una grandissima efficacia nell’epilessie
miocloniche, valproato e clonazepam sono quelli che funzionano meglio quando
l’epilessia ha come caratteristica le mioclonie. Il valproato si chiama Depakin,
questo è un nome molto famoso che abbiamo incontrato diverse volte, un’epilessia
per tutti, epilessia mioclonica giovanile che è una delle forme più frequenti che si
hanno dopo i 12-13 anni di età. Vi ricordato che è un’epilessia generalizzata che
appartiene alle GGE, ovvero alle epilessie generalizzate genetiche, che erano
quelle che prima si chiamavano IGE, e magari in molti libri di testo le sono indicate
ancora come epilessie idiopatiche generali, ma caratterizzate da queste scosse
miocloniche dopo il risveglio al mattino, a volte anche crisi di grande male od
assenze complesse e così via.
Però, c’è un’eccezione per l’epilessia mioclonica che sono quelle mitocondriali,
dove noi abbiamo preso come esempio la MELAS, dove, in realtà ci sono diverse
altre patologie mitocondriali come la sindrome di Alpers-Huttenlocher oppure la
stessa MERRF.
Scusate ma noi abbiamo preso in considerazione la MERRF e non la MELAS
quando abbiamo studiato le epilessie mitocondriali, ma oltre alla MERRF c’è la
MELAS, c’è Alpers-Huttenlocher, e così via. Sono tutte patologie a DNA
mitocondriale od i suoi prodotti, per esempio gli RNA tranfer, sono modificati ed in
questo caso l’acido valproico nonostante sia efficace nei confronti delle mioclonie,
non dovreste utilizzarlo, perché l’acido valproico ha tossicità mitocondriale e quindi
esiste una controindicazione ben precisa. Quindi, se farete l’esame di neurologia e
vi interroga la Buttinelli e vi chiede qualcosa sul depakin, beh voi potere

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sottolinearlo questo: è utile per tutte le forme di epilessia, senza eccezioni, però
un’eccezione in realtà c’è e sono le forme da deficit mitocondriale dove il danno
mitocondriale che è già intrinseco per le mutazioni che avete può essere
ulteriormente peggiorato dall’acido valproico.
L’acido valproico è anche utile nelle assenze epilettiche, per un meccanismo che
fra poco vi dirò, sia nelle assenze tipiche che nelle assenze atipiche. Può essere
utilizzato anche in forme di epilessie encefalopatiche, per esempio nella sindrome
di Lennox-Gastaut, facendo però attenzione perché nei bambini molto piccoli, per
esempio bambini di età inferiore ai 2 anni la tossicità dell’acido valproico è
amplificata. Qui avete a che fare con un farmaco che è brillante dal punto di vista
del meccanismo d’azione, ma che ha il profilo di sicurezza e di tollerabilità
abbastanza critico, soprattutto per la tossicità epatica, che può complicare
veramente l’uso del farmaco ed adesso, anche se in maniera sinottica, cercheremo
di definire quali sono i suoi effetti avversi.
Detto questo, quali sono un po’ le caratteristiche di questo farmaco da un punto di
vista dinamico, cioè quale è il meccanismo d’azione?
Allora il primo meccanismo d’azione dell’acido valproico è identico a quello
di fenitoina, oxcarbazepina e carbamazepina, vale a dire inibizione dei canali del
sodio in modo voltaggio-dipendente, uso-dipendente e frequenza-dipendente.
Quindi, anche qui insomma nessuna differenza, magari il sito di legame del
farmaco con la subunità α dei canali del sodio è un pochettino diverso rispetto a
quello degli altri farmaci, che magari può essere interessante se dovessero
insorgere resistenze per mutazioni, ma a parte questo, è un meccanismo molto
simile. Però, l’acido valproico ha un meccanismo aggiuntivo, cioè inibisce i canali T
del calcio (secondo meccanismo d’azione) ed in virtù di questo particolare
meccanismo l’acido valproico viene utilizzato anche nelle assenze epilettiche ed è
uno dei farmaci di prima linea che si utilizza. Adesso non vi dico nulla su perché
l’inibizione dei canali T del calcio è importante per il trattamento delle assenze
epilettiche, perché fra poco ci arriveremo, fra poco parleremo di un altro farmaco
che si chiama Zarontin od etosuccinide che è un farmaco di prima linea, anche
questo per le assenze epilettiche, è un inibitore puro di canali T del calcio, vi basti
questa informazione di base: tutti i farmaci che inibiscono i canali T del
calcio hanno un potenziale uso nel trattamento delle assenze
epilettiche ed il valproato non è un’eccezione a questa regola, anche se lui
incorpora dei meccanismi che teoricamente potrebbero non andar bene con il
trattamento delle assenze.
Il terzo meccanismo è quello di aumentare l’attività a GAD. La GAD è la
glutammato decarbossilasi ed è l’enzima che normalmente trasforma il glutammato
in GABA, quindi è l’enzima di sintesi del GABA. In realtà ci sono due tipi di GAD,
vale a dire GAD65 e GAD67, questi due enzimi li ritrovate non soltanto nel SNC,

153
ma anche nelle cellule β del pancreas, cosa ci stiano a fare nelle cellule β del
pancreas è un altro discorso, non ben noto in realtà, forse servono a metabolizzare
il glutammato che si forma nel ciclo di Krebs e che potrebbe essere responsabile
delle fasi tardive di secrezione di insulina in risposta al glucosio. Forse il GABA è un
neurotrasmettitore che le cellule β utilizzano per comunicare l’una con l’altra o con
le cellule α e così via, ma insomma non si sa bene. Ma la cosa che si sa nel
diabete, invece, è che si formano nel diabete di tipo 1, cioè nel diabete autoimmune
dei bambini, anticorpi contro la GAD, questi anticorpi servono anche alla diagnosi,
soprattutto quando sono anticorpi diretti con più epitopi della stessa proteina o
contro più proteine. Quindi, la sintesi del GAD avviene non soltanto nel SNC, dove
è ovvio si verifica in tutti gli interneuroni inibitori, nelle cellule del Purkinje del
cervelletto e così via, ma avviene anche in periferia dove potrebbe avere un ruolo.
A questo proposito, è interessante che l’acido valproico possa indurre
insulino-resistenza, questo è legato soprattutto all’aumento ponderale, ma poi
mettiamoci anche un punto interrogativo questo aumento della sintesi del GABA
nelle cellule β, potrebbe in qual misura avere a che fare con l’insulino-resistenza,
che è poi è alla base di meccanismi che portano all’evoluzione del diabete di tipo 2,
come sapete e potrebbe essere legata alla steatosi epatica macrovescicolare,
quindi insomma tutta una serie di meccanismi particolari. Non lo so, lasciamo
questo così.
Il quarto meccanismo è l’inibizione sia della GABA-T che sarebbe la GABA
transaminasi che della succinico semialdeide deidrogenasi.
Che cosa è la succinico semialdeide deidrogenasi e cosa è la GABA transaminasi?
La GABA transaminasi è l’enzima che trasforma il GABA in semialdeide succinica.
Una volta che la semialdeide succinica si forma può avere due destini metabolici. Il
primo è una riduzione e diventa acido β-idrossibutirrico, che tra l’altro è una
sostanza che oggi viene utilizzata nel trattamento della narcolessia; l’altro possibile
destino, invece, è che interviene la succinico semialdeide deidrogenasi e trasforma
la semialdeide succinica in acido succinico. L’acido succinico poi diventa succinil
co-enzima A (succinil-CoA) che automaticamente è un metabolita del ciclo di
Krebs.
Allora, questa inibizione della GABA transaminasi e della succinico semialdeide
deidrogenasi significa anche inibizione del catabolismo del GABA, significa
accumulo di GABA e quindi significa meccanismo GABAergico che un po’ completa
l’aumento della sintesi del GABA, cioè l’attività della GAD che viene stimolata da
parte dell’acido valproico.
Il quinto meccanismo è abbastanza interessante ed è l’inibizione di GSK3β.
Che cosa è la GSK3β?
È la glicogeno sintasi chinasi 3 beta. Questo tipo di meccanismo è particolarmente
interessante perché la GSK3β è un enzima chiave nella patofisiologia del disturbo
bipolare. È un enzima chiave per i geni clock, per la circadianità delle nostre cellule

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e per la circadianità del nostro SNC. È un enzima chiave per la sintesi del
glicogeno: tutte le volte che GSK3β viene inibito c’è stimolazione della
glicogenosintesi, tra l’altro GSK3β viene inibita quando viene attivato il recettore
per l’insulina, ma oltre a questo, il GSK3β è un enzima importante nei meccanismi
di neurodegenerazione, perché è uno di quegli enzimi che può essere responsabile
della fosforilazione della proteina tau e questo è un capitolo che affronteremo la
prossima volta, in cui entriamo un po’ nel cuore delle due principali patologie
neurodegenerative, cioè la malattia di Parkinson e la malattia di Alzheimer.
La proteina tau con la malattia di Parkinson c’entra poco, però alcune forme di
degenerazione lobari fronto-temporali, come per esempio FTDP17, degenerazione
cortico-basale, paralisi sopranucleare progressiva, sono caratterizzate da
manifestazioni extrapiramidali simili alla malattia di Parkinson e queste sono
nell’essenza taupatie. Quindi, il legame tra la proteina tau e la malattia di Parkinson
in realtà se considerate queste forme potrebbe anche esserci e poi la proteina tau,
lo sappiamo benissimo, viene iperfosforilata nella malattia di Alzheimer e si
formano i cosiddetti grovigli o gomitoli neurofibrillari, che sono un po’ una
conseguenza dell’amiloidosi, cioè della formazione di aggregati di peptide
β-amiloide, però, in realtà, quando si formano gli aggregati neurofibrillari della
proteina tau, c’è l’esordio clinico della malattia. Quindi, il fatto che la GSK3β sia un
enzima responsabile dell’iperfosforilazione di tau e che il valproato sia in grado di
inibire il GSK3β diventa abbastanza interessante. Ma torneremo presto su questo.
Poi abbiamo un sesto meccanismo d’azione che è invece, l’inibizione di HDAC.
Cosa sono le HDAC? Sono le istone deacetilasi. Sono enzimi epigenetici molto
importanti. Sapete che il DNA interagisce con gli istoni. Gli istoni sono proteine
basiche, il DNA è acido quindi, insomma, non è difficile che ci sia un incontro tra
questi due elementi.
L’istone si può staccare dal DNA e quindi permettere, per esempio, la replicazione
del DNA se è una cellula proliferante, oppure la trascrizione del DNA in qualunque
cellula nel momento in cui, per esempio, l’istone viene acetilato. Quindi,
l’acetilazione degli istoni, soprattutto, per esempio, l’istone H3, è un evento critico
nell’epigenetica, perché quando l’istone viene acetilato, la carica negativa del
gruppo acetilico fa si che l’istone si stacchi dal DNA e le eliche del DNA si possono
aprire poi possono essere innescati i processi di replicazione del DNA oppure
trascrizione del DNA.
Le HDAC che formano quattro classi diverse di enzimi, invece, bloccano questo
processo, nel senso che sono le deacetilasi degli istoni: rimuovono i gruppi acetilici
dagli istoni. Quindi, nel momento in cui le HDAC entrano in funzione, il DNA non
può più essere trascritto, non può più formare l’RNA messaggero, il che vuol dire, in
soldoni, nel momento in cui l’acido valproico inibisce HDAC è in grado di innescare
dei meccanismi epigenetici. Per tutti questi motivi, quindi questi sei meccanismi di
azione che abbiamo descritto, l’acido valproico è un farmaco che ha

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attività in tutte le forme di epilessia, però non soltanto questo:
l’acido valproico è largamente utilizzato in psichiatria per il
trattamento del disturbo bipolare, dove è curioso, non è che ha
l’indicazione ufficiale. In realtà tra gli antiepilettici, l’unico che ha l’indicazione
ufficiale per il i disturbo bipolare è la lamotrigina. Però non c’è psichiatra al mondo
che non abbia mai usato il depakin.
Il depakin è utilizzato tantissimo nel trattamento del disturbo
bipolare, soprattutto nella profilassi delle fasi maniacali. Quindi, un
farmaco antiepilettico che è approdato a pieno regime in psichiatria. Ma non è
soltanto questo. L’acido valproico è anche utilizzato in terapia add-on
nel trattamento della schizofrenia, cioè a volte capita che il soggetto affetto
da schizofrenia sia farmaco resistente, a quel punto pensate di dare la clozapina,
che è il migliore tra i farmaci antipsicotici anche se è quello che ha un profilo un po’
più pericoloso di sicurezza e di tollerabilità, ma un’altra strategia che voi potete
seguire per cercare di migliorare l’out-come del trattamento del paziente affetto da
schizofrenia è aggiungere ad un antipsicotico convenzionale l’acido valproico.
L’acido valproico, è utilizzato nella profilassi dell’emicrania e della
cefalea a grappolo.
Come sapete c’è una differenza tra queste due patologie sostanziale: l’emicrania è
una sindrome neurologica che può essere caratterizzata o no da cefalea, anche se
il nome emicrania ci fa pensare alla cefalea, tant’è vero che ci sono dei casi anche
di emicrania in cui è presente solo l’aura, cioè le manifestazioni sensoriali, a volte
motorie, a volte disautonomiche, senza la cefalea e si chiamano equivalenti
emicranici; invece, la cefalea a grappolo è la patologia più devastante di dolore
alla testa che si può avere nella vita, dove il dolore è violentissimo, rigorosamente
unilaterale accompagnato da manifestazioni disautonomiche, per esempio
lacrimazione, rinorrea, ed è classicamente a grappoli, cioè si verifica negli stessi
orari del giorno e della notte, a differenza dell’emicrania. Quanto queste due
patologie siano diverse, ce lo dice anche la diversa distribuzione nei sessi, cioè
nell’emicrania c’è una prevalenza netta del sesso femminile: 15% le donne e 7%
circa, gli uomini ed è una differenza che nei bambini in età prepubere non si vede,
quindi nasce con il ciclo ovarico, fondamentalmente od anche con lo sviluppo delle
gonadi maschili. Mentre, invece, la cefalea a grappolo ha un’alta prevalenza
maschile: gli uomini ce l’hanno 7 volte in più rispetto ai soggetti di sesso femminile.
In entrambe i casi, l’acido valproico si può utilizzare nella profilassi, cioè fare la
somministrazione giornaliera e vedere poi quello che succede.
Si tratta di un antiepilettico a bassa potenza.
Che significa a bassa potenza?

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Vuol dire che voi utilizzate dei dosaggi che possono essere anche abbastanza
elevati che vanno dai 400 mg pro die fino a 2 gr pro die. Quindi, si sale parecchio
con il dosaggio di acido valproico, fin qui l’unico farmaco di potenza “abbastanza
civile” che abbiamo incontrato è la fenitoina, e le concentrazioni plasmatiche
di acido valproico se non ricordo male allo steady state sono intorno a
40-100 μg/ml, questo bene o male rappresentare il range terapeutico, se la
memoria non mi inganna.
Considerate che una volta che l’acido valproico viene assorbito c’è un alto
legame con le proteine plasmatiche e questo può determinare
fenomeni di spiazzamento. È una cosa che abbiamo già visto, ma che vi
ribadisco è che l’acido valproico e fenitoina competono. Quindi, se voi
per esempio avete trattato un paziente con fenitoina per crisi tonico-cloniche di
grande male non siete soddisfatti del trattamento, cioè il diario delle crisi del
paziente vi suggerisce di inserire un secondo farmaco e voi inserite l’acido
valproico, considerate che quando lo mettere in terapia, i livelli plasmatici di
fenitoina possono aumentare. Questo può dipendere anche da un’interferenza con
il metabolismo, come vedremo tra un minuto, ma può dipendere anche dal fatto che
l’acido valporico compete con le proteine plasmatiche, quindi diventa un discorso
interessante. Andiamo al metabolismo e questo è forse l’aspetto più intrigante
dell’acido valproico.
Intanto viene metabolizzato dalla beta-ossidazione e dall’omega-ossidazione;
questi sono i due meccanismi responsabili del metabolismo degli acidi grassi.
C’è una differenza sostanziale : la beta ossidazione è il processo mitocondriale
attraverso il quale un acido grasso alla fine diventa acetil-coenzimaA, mentre
l’omega-ossidazione si verifica nel citoplasma e potrebbe determinare anche dei
metaboliti tossici. Quando l’acido valproico viene metabolizzato da queste due vie
possono venir fuori metaboliti tossici, come per esempio, l’acido propil-2-pentenoico
(quindi con doppio legame), oppure propil-4-pentenoico. Questi due composti
possono venir fuori ed interferire con la beta-ossidazione e bloccarla, già questo vi
fa pensare che se bloccate la beta-ossidazione ci possono essere delle
conseguenze e adesso parlando degli effetti avversi le conseguenze le prenderemo
in esame e le studieremo.
L’acido valproico può essere metabolizzato dall’UGT quindi può essere sottoposto
a reazione di fase 2, nello stesso tempo può essere metabolizzato da CYP2C9,
CYP2C19. Nei confronti di questi enzimi, è anche un inibitore. Questo è un altro
punto di convergenza con la fenitoina, la quale è metabolizzata per due terzi da
CYP2C9 e per un terzo da CYP2C19. Se l’acido valproico li inibisce, ovviamente
quello che farà è aumentare i livelli di fenitoina quando i farmaci vengono dati in
combinazione. Attenzione in qualche review, si trova anche che l’acido valproico è
un farmaco induttore del CYP450, ma questo non è così insolito se voi avete un

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inibitore; a volte i farmaci che inibiscono le varie isoforme del CYP450 poi nel
cronico le possono indurre. Un esempio classico è il ritonavir, un farmaco anti-HIV
che è un inibitore del CYP3A4 di tale potenza che viene usato per il boosting
farmaco-cinetico (avete tutte le associazioni: ritonavir-derunavir,
ritonavir-atazanavir, ritonavir-lopinavir), per cercare di potenziare l’effetto di altri
farmaci metabolizzati dal CYP3A4 e quindi ridurre la frequenza dei dosaggi
giornalieri. In cronico, il ritonavir è un induttore del CYP3A4 e la stessa cosa il
valproato. E questa capacità di indurre in cronico è stata legata ad alcuni
meccanismi di tossicità epatica. L’acido valproico inoltre inibisce l’epossido idrolasi
che è quell’enzima chiave che rimuove gli epossidi quindi se voi doveste fare
un’associazione tra carbamazepina e valproato, ricordatevi che la carbamazepina
viene metabolizzata dalla CYP3A4 in epossido e poi è l’epossido idrolasi a
detossificare l’epossido. Quindi se avete l’acido valproico potreste avere un tipo di
interazione tra i due farmaci non favorevole, proprio perché l’acido valproico
inibisce l’epossido idrolasi quindi gli epossidi che si formano rimangono per più
tempo nell’organismo. Come potete apprezzare, qui è un profilo farmaco-cinetico
molto particolare, avete un farmaco che intanto ha un avido legame nei confronti
delle proteine plasmatiche quindi tutti i fenomeni di spiazzamento possibili ed
immaginabili, avete un farmaco che è un inibitore di tanti enzimi metabolici, e avete
un farmaco che è anche in grado di inibire la beta-ossidazione perché viene
metabolizzato da questa e anche da parte dell’omega-ossidazione come tutti gli
acidi grassi che si rispettino.
La cosa che dovete ricordare dell’acido valproico sono gli effetti avversi e andiamo
con ordine. Prenderei come primo degli effetti avversi, un effetto avverso che in
genere non si considera mai primo ma è la teratogenicità. State molto attenti
perché l’acido valproico è il farmaco che dovete evitare nel caso di epilessia in
gravidanza, certo è efficace e ci sono molte forme di epilessia che rispondono
molto bene al depakin però se una donna vuole concepire ed è in trattamento con
acido valproico, prenda contraccettivi orali o altre tecniche di contraccezione non è
consigliato. La teratogenicità dell’acido valproico interessa diverse cose in realtà e
diciamo l’effetto teratogeno più frequente è quello che riguarda la notocorda. Oltre a
questo, potete avere polidattilia, sindattilia, difetti cardiaci per esempio del setto
interatriale, dismorfismi e poi qualcosa si può verificare dopo la nascita e questo
qualcosa può essere un disturbo nel neuro-sviluppo del bambino, che può portare a
manifestazioni autistiche oppure ADHD, manifestazioni ossessivo-compulsivo.
[domanda studente: se una donna è in cura col Depakin e rimane incinta?
Risposta: una delle cose che si può fare è cambiare il farmaco, il problema è che il
depakin diventa particolarmente critico nelle prime tre settimane di sviluppo
dell’embrione, dove il rischio come vedremo fra poco è la spina bifida aperta, quindi
bisogna sperare il Signore, oppure se una donna decide fa un aborto terapeutico
durante i primi due mesi del concepimento. Il problema è della donna di rendersi

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conto di essere incinta entro le 3-4 settimane rispetto al concepimento, perché se lo
si fa molto presto in caso si cambia farmaco antiepilettico e si spera che non
vengano le crisi che possono essere molto critiche in gravidanza perché se
vengono possono uccidere la donna e l’embrione/feto, per cui la donna deve
ricevere un trattamento antiepilettico in gravidanza].

Una delle patologie più interessanti da studiare, più intriganti è l’AUTISMO.


Il termine autismo deriva da autòs che vuol dire che l’individuo è rivolto verso sé
stesso e nonostante questo, come sapete, l’autismo ha tantissime sfaccettature.
Per esempio, c’è l’autismo iperfunzionante (c’è quel film The Accountant, molto
interessante dove c’è questo individuo autistico che ha delle doti straordinarie da
tanti punti vista ma che però è assolutamente incapace di instaurare rapporti sociali
anche se come dice lui nel film: “Desidererei tanto farlo ma non riesco a stabilire
rapporti con altri essere umani”. Quindi l’essenza dell’autismo è questa). Poi ci
sono casi di autismo con intellectual disability, cioè con ridotto sviluppo
psico-motorio, o comunque ridotto sviluppo intellettivo. Ci sono casi di autismo in
cui l’eccellenza riguarda dei settori molto ristretti, per esempio ci sono molti bambini
autistici che riescono a disegnare la volta della stazione centrale di Milano dopo
averla vista per cinque minuti però poi non sanno compiere le operazioni base
dell’aritmetica e così via. Naturalmente si cercano da molto tempo farmaci contro le
varie forme di autismo. I farmaci che vengono utilizzati sono antipsicotici ed
antiepilettici. E’ promettente l’ossitocina, perché è un ormone che non soltanto fa
contrarre gli acini delle ghiandole mammarie e l’utero, ma ha anche un ruolo
centrale che non è solo quello di facilitare la funzione erettile perché è attraverso lei
che per esempio l’apomorfina migliora il comportamento nell’uomo, ma anche
quello di agire da ormone antistress, quindi l’ossitocina qui può avere un ruolo
interessante perché aumenta l’empatia tra gli esseri umani e anche nei casi in cui
l’aumento dell’empatia può essere nocivo, per esempio fa attaccare un bambino
alla madre anche se la madre lo picchia a sangue quindi può essere pericoloso.
Però a prescindere da questo, per la ricerca bisogna utilizzare dei modelli di
autismo e allora in questi casi o ci sono i modelli monogenici di autismo, per
esempio topi che hanno mutazioni di FRM1 che è il gene che codifica per FMRP, la
proteina del ritardo mentale associata alla sindrome dell’X fragile, e questa è una
forma di autismo monogenico. I bambini che hanno l’X fragile sono autistici nel
33-35%.
Oppure un altro modello di autismo nel topo è quello della somministrazione di
valproato in gravidanza, cioè voi prendete le topine mamme, fate un trattamento
cronico con valproato in gravidanza e poi la progenie diventa autistica. Questa
forma di autismo è stata associata ad una ridotta espressione di un trasportatore, il
KCC2 che è un sinporto sodio-cloro che permette al recettore GABA-A di essere
inibitorio. Questo per dirvi quanto l’acido valproico possa essere critico in

159
gravidanza, cioè dà tutta una serie di manifestazioni tipiche di teratogenicità cioè
malformazioni fetali però poi potrebbe alterarare il neurosviluppo e creare delle
conseguenze a lungo termine come ADHD, manifestazioni ossessivo compulsivo,
manifestazioni autistiche come testimoniato dal fatto che un modello animale di
autismo è quello che prevede la somministrazione di acido valproico in gravidanza.
Come vi dicevo il principale problema dell’acido valproico, è l’alterazione dello
sviluppo della notocorda compresi gli archi vertebrali che, come sapete, contornano
il midollo spinale. Per questo, la cosa migliore da fare è somministrare VitB9, che
sarebbe acido folico, durante la gravidanza ed è quanto oggi si fa in maniera molto
estesa, però a volte questo non basta perché può venire fuori la manifestazione
che prende il nome di spina bifida che letteralmente credo che si chiami distrafismo,
ovvero l’incompleta formazione degli archi vertebrali intorno al midollo spinale. La
spina bifida, se il difetto interessa la terza-quarta settimana di gravidanza, a
questo punto si chiama spina bifida aperta ovvero intorno al midollo spinale non ci
sono le meningi, non ci sono gli archi vertebrali, non c’è la cute cioè
fondamentalmente il midollo spinale è scoperto ed entra in contatto con il liquido
amniotico e questa condizione è incompatibile con la vita, il bambino muore in
utero. Poi invece la spina bifida può avere una serie di manifestazioni un po’ più
lievi che possiamo considerare in ordine crescente di gravità. La meno grave si
chiama spina bifida occulta, ovvero non si completa l’arco vertebrale intorno alle
meningi, e poi all’interno delle meningi c’è il midollo, ci può essere solo
un’ipertricosi della cute ovvero dei peli in corrispondenza della mancata chiusura
dell’arco vertebrale, ci può essere un po’ di sofferenza midollare nel punto in cui
questo si viene a verificare però insomma il bambino è alla fin fine
neurologicamente integro quindi la spina bifida occulta molte volte è asintomatica.
Altre volte può dare problema, per esempio quando l’individuo diventa adulto può
avere disfunzione erettile se è coinvolto il segmento dove c’è il parasimpatico
sacrale. Poi potreste avere invece il mielocele che è un’ernia delle meningi per
esempio della dura madre che avviene perché non si forma l’arco vertebrale, quindi
si forma una specie di sacco e il mielocele può avere delle conseguenze più
critiche. Per esempio, ci possono essere problemi agli arti del bambino, agli sfinteri
e così via. La cosa diventa ancora più grave se avete il mielomeningocele, che è
una condizione di gravità quasi estrema in cui c’è un erniazione non solo delle
meningi, ma anche del midollo spinale che formano insieme una curva, una specie
di sacca nella cute e si crea una zonula vaculosa di Recklinghausen e questa
rappresenta il fatto che il midollo spinale è erniato insieme alle meningi perché non
si sono chiuse le vertebre e viene macerato dal liquido cefalorachidiano che si
accumula lì, quindi avete una lesione molto grave. Ancora più grave, il
mielomeningocele cistica in cui si forma una vera cisti con erniazione delle
meningi e del midollo.

160
Riassumendo: quando date acido valproico ad una donna in gravidanza rischiate
parecchio. La teratogenicità normalmente è un fenomeno che interessa un 2-3%
delle donne in gravidanza, ma è una teratogenicità molto lieve. Quando date un
farmaco antiepilettico, qualunque esso sia, questa stima può salire al 4-5%. Se fate
una terapia antiepilettica con tre farmaci avete un numero che sale al 10%. Poi
teratogenicità è un termine molto esteso, perché voi potete avere anche
un’onicopatia come unico segno della teratogenicità cioè un’alterazione di
un’unghia come segno di teratogenicità però in quel caso non vi crea problemi.
Così come farmaci possono avere un effetto abortivo, ovvero uccidere il feto; in
quel caso non si parla di teratogenicità ma si parla di effetto abortivo.
Tenuto conto di tutto questo, l’acido valproico è quello che più degli altri dovete
evitare in gravidanza, per i motivi che vi ho detto cioè per 1) malformazioni a carico
del feto, tra queste la spina bifida aperta, occulta, mielocele, mielomeningocele
cistico, sono le forme più gravi. Ma poi potete avere difetti a carico del cuore, a
carico delle dita, a carico dello sviluppo facciale per esempio potete avere
palatoschisi.
2) L’acido valproico può dare incremento ponderale, niente di specifico da questo
punto di vista perché molti psicofarmaci fanno aumentare di peso, ci sono due
chiare eccezioni tra cui il topamax e il topiramato del quale parleremo tra poco.
Però questo potrebbe determinare insulino resistenza, come sapete bene
soprattutto quando avete questo accumulo di grasso viscerale, perché dal grasso
viscerale possono avere origine le adipochine pro-infiammatorie e queste possono
diminuire la sensibilità all’insulina. E per esempio in un fenomeno epatico che è la
steatosi macrovescicolare, possono essere in stretta correlazione con i meccanismi
di insulino resistenza che possono poi evolvere verso il diabete di tipo due.
3) La pancreatite che è stata testimoniata con l’acido valproico. In questo caso
dovete vedere i fattori di rischio come l’ipertrigliceridemia, l’eventuale aumento di
amilasi che testimoniano di un problema a carico del pancreas esocrino.
4) Problemi a carico del SNC. Da questo punto di vista l’effetto avverso che si
osserva maggiormente è il tremore che è un tremore d’azione, quindi non è un
tremore come quello che avete nella malattia di Parkinson ma viene fuori all’atto del
movimento (mentre la malattia di Parkinson è caratterizzata da un tremore a riposo,
che scompare all’atto del movimento volontario). Anche in questo caso vale la
regola generale di tutto i farmaci antiepilettici, vale a dire depressione del SNC e
sedazione, disturbi vestibolo-cerebellari con nistagmo ed atassia e così via, e
possono essere presenti diplopia.
5)La cosa più importante, l’epatotossicità. Si può verificare in tanti modi,
innanzitutto ha diverse scaturigini e sono l’insulino resistenza che è legata in
qualche modo alla steatosi macrovescicolare, seconda cosa l’inibizione della
beta-ossidazione che dipende dai metaboliti tossici di cui vi ho parlato cioè l’acido
propil-2-pentenoico e acido propil-4-pentenoico. Inibire la beta-ossidazione vuol

161
dire prevenire la formazione di acetil-coenzimaA che è un continuo rifornimento per
il ciclo di Krebs e nello stesso tempo far accumulare AG negli epatociti e in questo
caso l’outcome è la steatosi microvescicolare. Quindi quando date l’acido valproico
potete avere steatosi macrovesciolare e microvescicolare e come conseguenza di
questa cosa potete avere anche necrosi epatica che con l’acido valproico è stata
documentata e quindi rappresenta un ulteriore pericolo. Oltre a questo, avete un
inibizione del mitocondrio, per esempio l’acido valproico può compromettere
l’efficienza della respirazione mitocondriale ed è una conseguenza anche del fatto
che c’è meno rifornimento dell’acetil-coenzimaA al ciclo di Krebs (come sapete il
ciclo di Krebs è preludio alla fosforilazione ossidativa), ma anche danneggiare la
DNApolgamma, vale a dire la DNA polimerasi gamma che replica il DNA
mitocondriale e da questo punto di vista patologie come MELAS, MERRF e la
sindrome di Alpers-Huttenlocher che sono in realtà encefalopatia mitocondriali. Per
esempio, l’Alpers-Huttenlocher è caratterizzata da mutazioni a carico di
DNApolgamma. In queste patologie che sono caratterizzate da mioclonie
progressive e rientrano nelle epilessie miocloniche progressive NON bisogna
trattarle con valproato perché c’è una mitocondriopatia di base, e l’azione tossica
del valproato al mitocondrio potrebbe peggiorare la situazione.
Ci sono altre due cose meritevoli di attenzione. La prima è la iperammonemia da
valproato, che può anche essere associata ad encefalopatia epatica.
L’iperammonemia si ha quando i livelli di ammonio sono superiori a 97
microgrammi/dl. Per quale motivo si ha iperammonemia? (che è poi un effetto che
si può vedere non dico comunemente ma fa parte integrante degli effetti avversi
dell’acido valproico e anche della epatotossicità dell’acido valproico) Perché l’acido
valproico determina una riduzione della sintesi di N-acetilglutammato, e questo
porta ad un’inibizione di un enzima chiave del ciclo dell’urea che è la
carbamoilfosfato sintasi che è l’enzima di sintesi del carbamoilfostato, il quale parte
dall’ammoniaca e dal bicarbonato. Quindi automaticamente l’ammoniaca si
accumula. Oltre a questo, l’acido valproico inibisce la glutamil sintetasi che è anche
un modo per rimuovere l’ammoniaca perché è quell’enzima che trasforma il
glutammato in glutammina (la differenza tra i due è semplicemente un gruppo
amminico, quindi un enzima di smaltimento dell’ammoniaca). Per tutte queste cose
viene l’iperammonemia e considerate che la glutammil sintetasi si trova nel rene, e
si trova anche nel SNC, negli astrociti (è quella fonte di glutammina che poi i
neuroni usano per formare il glutammato necessario alla neurotrasmissione).
Quindi l’iperammonemia è un po’ al centro di patologie epatiche, renali, dell’SNC e
probabilmente l’inibizione della beta-ossidazione svolge un ruolo chiave da questo
punto di vista.
Ora riflettiamo un attimo sulla beta-ossidazione, questa è il processo attraverso il
quale gli acidi grassi nel fegato soprattutto diventano prima acil-coenzimaA poi
arrivano nel mitocondrio e all’interno delle membrane mitocondriali vengono

162
trasportate attraverso due trasportatori: CPT di tipo 1 e di tipo 2, questi trasportatori
sono la carnitina palmitoil transferasi di tipo 1 e 2. Utilizzano la carnitina e
trasformano l’acil coenzimaA che si trova nel citosol in acil-carnitina, dopo di che
nella membrana mitocondriale interna per mezzo del trasportatore di tipo due,
l’acil-carnitina torna ad essere acil-coenzimaA e all’interno del mitocondrio la beta
ossidazione va avanti e l’acil-coenzimaA alla fine produce acetil-coenzimaA.
Quello che succede è che il valproato si complessa con la carnitina e il complesso
valproato-carnitina viene eliminato dal rene; quindi, il valproato determina una
riduzione dei livelli di carnitina. E quello che si sa è che quando c’è una
iperammonemia da valproato uno dei rimedi è la somministazione in vena di
L-carnitina. Teoricamente si può anche utilizzare l’acetil-carnitina che però è una
sostanza che viene soprattutto impiegata per le neuropatie dolorose mentre qui
abbiamo una carenza di carnitina che determina un’inefficienza della
beta-ossidazione anche dovuta al fatto che si formano i metaboliti tossici
(propril-2-pentenoico e propil-4-pentenoico del valprotato). Questo è in stretta
relazione con un’alterazione del ciclo dell’urea che porta alla ridotta attività della
carbamoil fosfato sintasi e nello stesso tempo all’inibizione dei livelli di N-acetil
glutammato che sembra essere abbastanza critico per questo.
Infine, l’ultima espressione di epatotossicità molto grave nel caso dell’acido
valproico è la cosiddetta sindrome di Reye. Quest’ultima è caratterizzata da
acidosi metabolica, disturbi della coagulazione ed encefalopatia epatica con severo
coinvolgimento del SNC che può portare ad alterazioni dello stato di coscienza e
così via. La sindrome di Reye è nota perché ha come origine infezioni virali, e per
esempio la sindrome di Reye si ha quando i bambini vengono trattati con acido
acetilsalicilico (l’aspirina non si dà ai bambini proprio per il pericolo di questa
sindrome).
Quindi sono tante le cose che fa l’acido valproico al fegato: steatosi
macrovescicolare che è una conseguenza dell’aumento ponderale e dell’insulino
resistenza, steatosi microvesciolare che è una conseguenza dell’inibizione della
beta-ossidazione (questa è inibita sia perché ci sono i metaboliti tossici dell’acido
valproico sia dalla carenza di carnitina). Poi c’è l’iperammonemia strettamente
connessa al deficit di beta-ossidazione, anche connessa ai livelli di
N-acetilglutammato che si cura con la somministrazione in vena di L-carnitina. E
finalmente, c’è la sindrome di Reye.
Non vi ho citato i disturbi GI che il valproato può dare e neanche reazioni di
ipersensibilità perché non sono delle cose strettamente specifiche.
Quindi: valproato è un farmaco ad ampio spettro, efficace in tutte le forme di
epilessia. Ricordatevi di non somministrarlo nelle mitocondriopatie, efficace anche
nel disturbo bipolare, profilassi dell’emicrania e della cefalea a grappolo. Sei
meccanismi di azione distinti, tuttavia un profilo di effetti avversi ampio.

163
BENZODIAZEPINE E STATUS EPILEPTICUS

Per trattare le benzodiazepine partirei da un tema di grande importanza, che è


quello del trattamento dello status epilepticus. Che cos’è lo status epilepticus? Lo
status epilepticus è caratterizzato da crisi subentranti e per definizione è
caratterizzato da crisi che hanno una durata maggiore di 5 minuti. Lo status
epilepticus diventa definito quando le crisi raggiungono i 20-30 minuti, quando quel
paziente ha davvero ormai uno status epilepticus che si è strutturato.
Indipendentemente da questo, qual è l’impatto dello status epilepticus? Negli USA
ci sono almeno 200.000 casi/anno di status epilepticus (queste sono stime anche
un po’ retrodatate, quindi andrebbero aggiornate), con una mortalità di 50.000
persone, il che significa in soldoni che circa un quarto dei soggetti che sviluppa lo
status epilepticus poi ha un esito infausto. Ricordatevi che ci sono vari tipi di status
epilepticus, noi qui ci occuperemo dello stato di male o status epilepticus
caratterizzato da crisi tonico-cloniche, ma esiste anche uno status epilepticus non
convulsivante, che si chiama stato di male picnolettico in cui sono gli episodi di
assenza che si ripetono, così come esiste un’epilessia parziale continua di
Kojewnikow (di cui abbiamo parlato la volta scorsa) , la malattia di Rassmussen e la
malattia da puntura di zecca da parvovirus e da flavivirus sono esempi di epilessia
parziale continua, quindi insomma abbiamo tutto questo da prendere in
considerazione. Focalizziamo l’attenzione sullo stato di male epilettico da crisi
tonico cloniche di grande male, cioè quello classico convulsivante, vi ricordo che
quando una crisi tonico-clonica supera un minuto e mezzo, due minuti al massimo i
fatti sono tre: un individuo sta simulando, quindi si tratta di una nevrosi e a quel
punto ovviamente il trattamento è di tutt’altro tipo, o si tratta di un episodio
sincopale, ma lì potete capirlo perché intanto ci sono problemi a carico della
pressione poi è preceduto dal pallore poi è graduale e così via, oppure in
alternativa le crisi subentrano, questo si può verificare in tutta una serie di
circostanze, ad esempio se ci sono problemi metabolici acuti oppure se si va in
astinenza con farmaci che sono depressori o antiepilettici, ad esempio se si fa
l’errore di sospendere improvvisamente un farmaco antiepilettico potete avere così
delle crisi subentranti e si va in status epilepticus, oppure questo può essere
prodotto da farmaci che abbassano la soglia delle convulsioni come la Clozapina,
Bupropione, alcuni oppioidi come la Meperidina, tutti questi possono abbassare la
soglia delle convulsioni ed in soggetti predisposti ci può essere uno status
epilepticus.
Quando l’epilessia esordisce come status epilepticus voi siete autorizzati a fare poi,
una volta risolta la situazione, la terapia clonica anche senza aspettare la seconda
crisi, perché questa è una delle condizioni insieme alla paralisi di Todd, insieme alla

164
familiarità ed insieme al basso quoziente intellettivo che possono autorizzare ad
iniziare il trattamento senza che vi sia una seconda crisi non provocata.
Nello status epilepticus come primissima cosa quando ci sono queste crisi che
durano >5 minuti dovete controllare e condizioni generali, ad esempio la glicemia,
la respirazione, controllare l’apparato cardiovascolare, cercare di risalire alle cause,
anche servendovi dell’imaging; indipendentemente da questo, dopo aver corretto la
glicemia, la cosa importante è intervenire coi farmaci e bisogna farlo abbastanza
repentinamente per il semplice motivo che lo status epilepticus rappresenta
un’iperattività continua di neuroni all’interno del SNC e questo può determinare
degenerazione dei neuroni. La degenerazione può derivare da meccanismi di
eccitotossicità oppure da ipertermia ed in aggiunta a questo ci possono essere
anche aritmie cardiache. Quindi, come si interviene per lo status epilepticus? Ieri
sono andato in letteratura ed ho visto il position paper del 2018/2019 della LICE
(Lega Italiana Contro l’Epilessia), quindi i due organismi che dovete ricordarvi sono
l’ILAE (International League Against Epilepsy) e la LICE, quest’ultima ci dà delle
indicazioni abbastanza precise e ci dice che innanzitutto è possibile fare una
terapia quando ancora il paziente NON è in ospedale, quindi una cosa iniziale che
voi potete immediatamente utilizzare, si avvale del Diazepam (Valium®) prototipo
delle benzodiazepine ed in questo caso si dà per via rettale con dosaggio da
0,2-0,5 mg/kg; in alternativa al Diazepam si dà un farmaco che adesso è diventato
sempre più di prima linea per il trattamento dello status epilepticus, questo è il
Midazolam, però non ha ancora in questo caso l’approvazione in Italia.
Il Midazolam è una benzodiazepina estremamente potente, la quale fa parte delle
benzodiazepine utilizzate in anestesia; il Midazolam in questo caso lo potete dare
per os, per via intramuscolare o per via intranasale, quindi avete tre possibilità di
somministrazione; il dosaggio in questo caso è 5mg per i soggetti con peso tra
15-39 kg ed è invece 10 mg per i soggetti con peso uguale o superiore ai 40 kg. Vi
ripeto, questo è quello che fate prima di arrivare in ospedale dove il Diazepam
potete darlo per via rettale e non c’è problema, il Midazolam in Italia non ha
quest’indicazione in pre-medicamento, però potete utilizzare a casa queste tre vie
di somministrazione (per os, intramuscolare, intranasale) che tutto sommato sono
vie di somministrazione possibili. Poi si arriva in ospedale, e quando si arriva in
ospedale voi cominciate a fare i trattamenti di prima linea, sono quelli che fate nella
fase iniziale dello status epilepticus dove vi avvalete fondamentalmente di due
farmaci: il Diazepam ed il Lorazepam. Tutti gli studi clinici dimostrano che non c’è
una grandissima differenza tra questi farmaci, nel senso che potete utilizzare l’uno
o gli altri con un’efficacia abbastanza simile, forse il Lorazepam (Tavor®) ha
un’efficacia maggiore rispetto al Diazepam, però gli effetti sulla mortalità sono
abbastanza simili. Cosa fate? Li date rigorosamente per via endovenosa (siete in
ospedale in fase iniziale dello status epilepticus, cioè entro i 5-20 minuti, perché i 5
sono cut-off per poter fare la diagnosi di status epilepticus), nel caso del Lorazepam

165
date un dosaggio che è tra 0,05-0,1 (o 0,15 dubbio del Prof.) mg/kg, nel caso del
Diazepam invece date dosaggi attorno a 0,15-0,2 mg/kg, dosaggi simili potete
utilizzarli se invece di Diazepam o Lorazepam utilizzaste il Midazolam endovena.
Quindi questo è il trattamento dello status epilepticus iniziale, che appunto si avvale
delle benzodiazepine, che sapete essere dei PAM del recettore GABA-A, quindi
potenziate enormemente l’inibizione del SNC.
Che differenza c’è tra il Lorazepam e il Diazepam? Le differenze sono queste e
riguardano soprattutto il metabolismo, vale a dire, il Lorazepam viene metabolizzato
semplicemente per glucuronoconiugazione, mentre il Diazepam viene
metabolizzato principalmente dal CYP2C19, ma non soltanto, e diventa
Nordazepam e poi Oxazepam ed infine viene glucuronoconiugato, quindi ha un
metabolismo molto più complesso e si formano metaboliti a lunga emivita e poi il
Diazepam è particolarmente liposolubile, quindi la liposolubilità del Diazepam crea
questo tipo di problema: il farmaco va molto rapidamente nel SNC, ma più
lentamente nel tessuto adiposo e nel momento in cui si distribuisce dal sangue al
tessuto adiposo si riduce la concentrazione ematica e quello che succede è che il
farmaco ripassa dal SNC al sangue e quindi si riducono le concentrazioni nel SNC,
quindi avete una cinetica multifasica.
Prima fase: il farmaco va nel SNC;
Seconda fase: più lenta, il farmaco va nel tessuto adiposo;
Terza fase: come conseguenza della seconda, si riducono i livelli di equilibrio nel
compartimento centrale (sangue);
Quarta fase: il Diazepam ritorna dal SNC nel sangue e si riducono le concentrazioni
nel SNC.
Suggerimento che vi do: utilizzate il Lorazepam ed il Midazolam per queste fasi
iniziali dello status epilepticus rispetto al Diazepam, ma naturalmente anche il
Diazepam rientra tra i farmaci indicati inizialmente dalla LICE.
Se poi avete uno STATUS EPILEPTICUS DEFINITO, quindi siete intorno ai 20
minuti di status epilepticus, potete fare ricorso ad altri farmaci: uno di questi è la
Fenitoina in questo caso endovena; in alternativa alla Fenitoina potete usare la
Fosfenitoina, che è l’analogo fosforilato della Fenitoina, il quale è più idrosolubile e
quindi lo potete iniettare in vena con maggiore facilità, in genere si usano dosaggi
che sono tra i 15-20 mg/kg, non bisogna superare i 50 mg/minuto (o /10minuti); in
alternativa alla Fenitoina potete utilizzare il Fenobarbital, ha dei dosaggi un
pochettino più piccoli, intorno a 10 mg/kg, in genere le dosi in vena di Fenobarbital
>10 mg/kg vengono considerate dosi molto elevate, quindi bisogna rimanere
all’interno di questo range; in alternativa potreste utilizzare altri farmaci se la
risposta non va bene, questi sono il Valproato endovena con dosaggio tra 20-40
mg/kg, potete utilizzare il Levetiracetam (Keppra®) che vedremo ha tantissime
indicazioni per il trattamento dell’epilessia con dosaggio attorno ai 30 mg/kg
(tuttavia il Prof. Non n’è certissimo), potreste utilizzare teoricamente la Lacosamide

166
(Vimpat), farmaco particolarmente utile nei soggetti resistenti, dato in vena 200-400
mg (qui il dosaggio non lo calcolate per peso corporeo) e potreste arrivare fino ai
600 mg. Adesso vi sto dando dei range di dosaggio, se interessati andate a
controllare sulle linee guida e vedete che tipo di trattamento poter fare.
Potrebbe esserci il caso dello STATUS EPILEPTICUS REFRATTARIO, cioè voi
continuate a dare questi farmaci e lo status epilepticus sta continuando. Se
continua non dovete pensare che magari vedete le scosse muscolari e fate così la
diagnosi, ma lo status epilepticus può continuare anche con manifestazioni
sfumate, però l’iperattività nel SNC sta continuando, quindi dovete intervenire
proprio per evitare che possano venire fenomeni di ipertermia, di eccitotossicità e,
come vi ripeto di aritmie cardiache. In questo caso potete fare ricorso al Midazolam
in vena, che comunque è una benzodiazepina più efficiente, in alternativa potete
approdare anche ad anestetici veri e propri: potete utilizzare il Propofol, che è un
anestetico che si inietta, o il Tiopentale o il Pentobarbital, che sono barbiturici con
emivita più breve rispetto al Fenobarbital (Gardenale®) però più incisivi e a questo
punto realizzate quasi una perdita dello stato di coscienza.
Potreste avere uno STATUS EPILEPTICUS SUPER-REFRATTARIO, in questo
caso non saprei cosa consigliarvi, anche se ci sono delle possibilità: per esempio
potete utilizzare la Ketamina, può essere utilizzata anche nello status epilepticus
refrattario in alternativa al Midazolam, al Propofol, al Tiopentale e al Pentobarbital,
in questo caso la Ketamina viene utilizzata a dosaggi molto più alti rispetto a quelli
che si utilizzano per spray nasale nel trattamento della depressione
farmacoresistente, dato che lì si arriva a 54 mg, qua invece anche a dosaggi di
200-300 mg di Ketamina, si calcola pro kg quindi si arriva a 4 mg/kg o anche più di
Ketamina in vena. Potreste fare anche delle cose strane, ad esempio utilizzare la
stimolazione del nervo vago per far finire le crisi, per far entrare degli impulsi
attraverso il nucleo del tratto solitario e cercare di bloccare il processo nel sistema
nervoso centrale; potreste utilizzare la Lidocaina; potete utilizzare la Stimolazione
Magnetica Transcranica, insomma, ci possono essere delle potenziali alternative
che vi possono far finire uno status epilepticus super-refrattario.
Quindi, quando avete a che fare con lo status epilepticus e non parliamo di stato
picnolettico (status epilepticus NON convulsivo), ma di status epilepticus
convulsivo, caratterizzato da crisi tonico-cloniche subentranti, vi ricordo che quando
siete prima di entrare in ospedale fate il Diazepam per via rettale o il Midazolam per
via orale/intramuscolare/intranasale, poi una volta in ospedale nelle fasi iniziali il
Diazepam e Lorazepam principalmente, in alternativa il Midazolam in alcuni centri,
potreste fare poi in seconda linea Fenitoina, Fenobarbital o andare al
Levetiracetam, Acido Valproico, Lacosamide, poi quando avete refrattarietà andate
al Midazolam ev, Tiopentale, Pentobarbital, Propofol e Ketamina a dosi anestetiche
e poi, quando c’è il super-refrattario si possono anche utilizzare degli strumenti
completamente atipici se sono a disposizione, come la stimolazione del vago, la

167
Lidocaina o la Stimolazione Magnetica Transcranica, cioè tutte queste cose che
vedete nel position paper della LICE.

FENOBARBITAL
Un farmaco che ancora non abbiamo preso in considerazione è il Fenobarbital
(anzi l’abbiamo incontrato nello stato di male epilettico però sarebbe bene che vi
dica anche che cos’è). È un barbiturico a lunga emivita, superiore largamente alle
40 h e si avvicina alle 60 h, quindi significa che lo stato stazionario viene raggiunto
dopo tantissimo tempo. Questo farmaco famosissimo si chiama Gardenale ® o
Luminal® ed era uno dei farmaci più largamente usati nella neurologia del passato.
Che tipo di caratteristiche ha? Il Fenobarbital è un modulatore positivo dei recettori
GABA-A, questi sono recettori che formano un canale ionico permeabile al Cloro: il
Cloro entra nella cellula semplicemente perché i neuroni esprimono un
trasportatore che si chiama KCC2, questo butta fuori il Cloro e la concentrazione
del Cloro nei neuroni maturi è prossima allo zero e per questo motivo quando si
apre il canale del Cloro che forma il recettore GABA-A entra Cloro nonostante
l’interno sia negativo rispetto all’esterno; quindi è il KCC2 che rende il GABA
neurotrasmettitore inibitorio. Questo è tipico dei neuroni maturi, se voi lavorate in
ricerca e fate un’immunoistochimica con anticorpi anti-KCC2 lo vedete solo nei
neuroni, non è presente negli astrociti, negli oligodendrociti e nella microglia.
Questo recettore GABA-A è un po’ un epicentro della farmacologia perché è un
recettore che viene attivato dal GABA, la cui attivazione, però, viene facilitata dalle
benzodiazepine che agiscono da PAM del recettore GABA-A ed anche dai
barbiturici, dagli anestetici generali (quindi quelli che vi ho detto poco fa, apparte il
Pentobarbital ed il Tiopentale che sono barbiturici, ma anche il Propofol agisce sul
GABA-A, la Ketamina NO: è un bloccante dei recettori NMDA), dall’etanolo e dai
neurosteroidi. Neurosteroidi e barbiturici sono abbastanza simili perché
interagiscono con un sito all’interno del canale ionico che ha dei punti di
sovrapposizione. Cosa fanno i barbiturici? Questo meccanismo d’azione è comune
al Fenobarbital, Pentobarbital e Tiopentale, ovvero allungano il tempo di apertura
del canale. C’è una differenza sostanziale tra barbiturici e benzodiazepine: le
benzodiazepine hanno due meccanismi, aumentano l’affinità per il GABA dei
recettori GABA-A e aumentano la frequenza di apertura del canale ionico; invece, i
barbiturici fanno sì che il canale rimanga aperto per più tempo. C’è un parametro
che si chiama “tau” che indica proprio questo, cioè il tempo in cui il canale ionico
rimane aperto, quindi entra tanto Cloro ed iperpolarizza la cellula.
Il Fenobarbital è famoso anche per un’altra cosa: è un induttore generale delle
proteine, soprattutto le proteine del fegato. Quindi, se fate un trattamento
prolungato con Fenobarbital avete iperplasia a livello epatico, perché le proteine

168
vengono indotte e c’è un aumento della cellularità ed anche ipertrofia, cioè un
aumento del volume cellulare. Cosa in particolare viene indotto dal Fenobarbital?
Tante cose, tra queste diversi citocromi p450, soprattutto il CYP2B6, CYP2C9,
CYP2C19, CYP3A4, enzimi fondamentali nel metabolismo dei farmaci, poi induce
diverse forme dell’UGT (UDP glucuronil transferasi), come sapete il Fenobarbital
viene utilizzato nei prematuri per aumentare il metabolismo della bilirubina da parte
dell’UGT1A1 e quindi evitare l’ittero della prematurità ed anche in alcune forme
patologiche di ittero; oltre a questo è un induttore dell’epossido-idrolasi, qui si usa
nell’epilessia e quali tipi d’epilessia prevedono l’uso del Fenobarbital? Viene
utilizzato nelle epilessie focali e nelle epilessie tonico cloniche caratteristiche del
grande male epilettico. Il dosaggio del Fenobarbital è intorno a 100 mg/die,
massimo 200 mg/die, l’emivita è lunghissima e quindi va benissimo una singola
somministrazione giornaliera.

NEUROSTEROIDI
Prima di finire gli antiepilettici classici, poco fa vi ho detto che i barbiturici hanno un
meccanismo d’azione molto simile a quello dei neurosteroidi. Con voi abbiamo
incontrato molto spesso i neurosteroidi, sono delle sostanze di natura steroidea che
derivano dal progesterone e si formano nel SNC, in particolare si formano negli
astrociti. Il prototipo dei neurosteroidi si chiama Allopregnanolone. Come agiscono i
neurosteroidi? Agiscono aumentando il tempo di apertura del canale al Cloro
associato al recettore GABA-A. Oggi c’è un grande interesse per i neurosteroidi, in
diversi aspetti delle varie patologie.
Un neurosteroide l’abbiamo già incontrato studiando la depressione ed è il
Brexanolone, in realtà ne abbiamo incontrato anche un altro che si chiama
Zuranolone, questi due sono in sviluppo per il trattamento della depressione ed in
particolare il Brexanolone è stato approvato dall’FDA per la depressione
post-partum, che è un tipo di depressione molto difficile da trattare; però i
neurosteroidi sono anche in sviluppo per diverse forme di epilessia ed è molto
tempo che si parla di un di loro che si chiama Ganoxolone. Cos’è il Ganoxolone? È
un analogo dell’Allopregnanolone, quindi un’altra sostanza in grado di comportarsi
da neurosteroide e potenziare l’azione del GABA, però ancora non è approdato alla
clinica. Tuttavia, nel mese di gennaio di quest’anno (2021), il Ganoxolone ha avuto
un parere positivo da parte della FDA sulla base dello studio di fase 2, che si
chiama studio Violet, per poter andare avanti con lo studio di fase 3, quindi c’è la
fase 3 in corso con il Ganoxolone con delle indicazioni particolarmente interessanti.
Ora, dal mio punto di vista, dato che questo è un neurosteroide che si forma dal
progesterone, per me l’applicazione più logica del Ganoxolone sarebbe quella
dell’epilessia catameniale, quell’epilessia che si ha con la caduta del progesterone,
sarebbe interessantissimo indirizzare la ricerca in quel settore: ci sono donne che
hanno crisi epilettiche quasi esclusivamente quando cade il progesterone prima

169
della mestruazione, quindi perché no utilizzarlo lì dato che il motivo per cui c’è
un’esacerbazione o un’esclusività delle crisi in quel periodo è perché manca il
progesterone, quindi mancano i neurosteroidi, quindi se uno glielo dà le cose vanno
perfettamente bene. Invece, questo farmaco ha avuto un’altra via di sviluppo ed è
in sviluppo per le patologie da mutazioni di CDK5L1, una proteina simile alla
Chinasi Ciclina dipendente di tipo 5. Questo è un enzima molto particolare che
abbiamo già incontrato nella Sindrome di Ohtahara, innanzitutto le proteinchinasi
ciclina dipendenti sono quelle che fanno avanzare il ciclo cellulare, capite
benissimo che nei neuroni non c’entrano nulla se non nella fase in cui i loro
precursori proliferano, cioè nelle prime fasi dello sviluppo, tuttavia, la CDK5 ha un
ruolo un po’ diverso: per esempio, come la GSK3-β, è una delle proteinchinasi che
fosforila la proteina tau. La CDK5L1 è una proteina molto simile alla CDK5 e quindi
molto simile ad una proteinchinasi ciclina dipendente che invece di regolare in ciclo
cellulare regola, probabilmente, altre cose. Qui abbiamo moltissime forme
epilettiche che interessano lo sviluppo, la stessa Sindrome di Ohtahara, Sindrome
di West, altre sindromi del neurosviluppo vengono considerate in termine generale
come neuropatie da mutazione da CDK5L1: qua ci sono crisi epilettiche resistenti al
trattamento, oltre a questo i bambini non camminano, hanno problemi
nell’alimentazione, non parlano, quindi sono delle sindromi molto severe. La cosa
interessante è che il Ganoxolone, cioè neurosteroide che agisce con meccanismo
molto simile al barbiturico, ha l’indicazione per questo tipo di patologia.
Un’altra indicazione dei sviluppo per il Ganoxolone è quello dello status epilepticus
che si associa a sclerosi tuberosa (SE), malattia dove ci sono difetti della TSC1 e 2,
patologia che si complica con l’autismo, le proteine della sclerosi tuberosa sono
proteine coinvolte nella regolazione della via della MAP-kinasi e della via della
PI3K, quindi abbastanza interessante che questa sia un’altra forma di autismo
associata ad epilessia, addirittura status epilepticus dove questo nuovo farmaco
Ganoxolone è in fase di sviluppo.

ASSENZE EPILETTICHE
Andiamo al trattamento delle assenze epilettiche e vediamo come da questo punto
di vista possiamo comportarci. Innanzitutto, cosa sono le assenze epilettiche? Sono
delle forme generalizzate di epilessia non convulsiva, che possono suddividersi in
assenze tipiche o atipiche. Le assenze tipiche sono caratterizzate all’EEG da
complessi punta-onda di 3 Hz che si vedono in tutte le derivazioni, soprattutto negli
elettrodi che sono posizionati più medialmente. Le assenze atipiche hanno
anche delle manifestazioni neurologiche motorie, in genere quando ci sono le
assenze atipiche la situazione non è bella, perché abbiamo a che fare con epilessie
encefalopatiche. Le assenze dipendono da oscillazioni patologiche del network
cortico-talamo-corticale, costituito dalla corteccia somatosensoriale, dai nuclei
basali del talamo e dal nucleo reticolare del talamo. Quest’ultimo rappresenta una

170
parte alta della formazione reticolare: è come se si formasse un triangolo in cui la
corteccia cerebrale manda assoni eccitatori attraverso cellule piramidali sia al
nucleo reticolare del talamo che al complesso ventro-basale del talamo (cioè nuclei
ventro-postero-laterale e ventro-postero-mediale). Il complesso ventro-basale del
talamo manda fibre eccitatorie alla corteccia cerebrale e anche al nucleo reticolare
del talamo, ma la differenza è che il nucleo reticolare del talamo manda fibre
inibitorie GABAergiche solo al complesso ventro-basale e NON alla corteccia.
Quindi, corteccia e ventro-basale del talamo comunicano tra di loro con eccitazione
da una parte e dall’altra, loro due eccitano il nucleo reticolare, il nucleo reticolare
inibisce soltanto il talamo. Ora accade che quando il nucleo reticolare funziona di
più, quindi quando c’è più GABA in arrivo nel complesso ventro-basale del talamo,
si crea lì un’iperpolarizzazione che mantiene aperti per più tempo i canali T del
Calcio, voltaggio dipendenti, che inizialmente si aprono con la depolarizzazione
(quindi quando arriva uno stimolo al talamo dalla corteccia o dalle vie di senso che
arrivano dal basso) però poi se il canale T che si apre trova un ambiente
iperpolarizzato, perché contemporaneamente il nucleo reticolare del talamo sta
rilasciando GABA sul complesso ventro-basale, il canale T del Calcio del talamo
non si chiude e viene meno la sua caratteristica principale, perché “T” sta per tiny
(cioè fa entrare poca corrente) e per transient (cioè che si apre facilmente con
bassa soglia ma che si richiude altrettanto facilmente). In questo caso rimane
aperto e deriva dal fatto che il GABA attiva, quando il nucleo reticolare del talamo
ha un’iperattività, non solo i recettori GABA-A, ma anche i recettori GABA-B che
sono recettori metabotropici del GABA accoppiati a proteina Gi (inibitoria). Quindi
immaginate questo: avete quest’iperattività del nucleo reticolare del talamo, grande
rilascio di GABA nel complesso ventro-basale del talamo, il GABA rilasciato attiva i
recettori GABA-A e GABA-B, questi mantengono aperti i canali T del Calcio e come
conseguenza nascono le oscillazioni patologiche con frequenza di 3 Hz e avete i
fenomeni di assenza.
Per curare le assenze di che farmaci potete disporre? I farmaci attivi nelle assenze
sono i seguenti: l’Etosuccinide (Zarontin®), antiepilettico classico che agisce
esclusivamente inibendo i canali T del Calcio. Quindi, l’inibizione dei canali T
diventa fondamentale nel controllo delle assenze. Lo Zarontin® è un farmaco in
genere ben tollerato, molto spesso dato nei bambini con dosaggio che varia da 200
mg ad 1 g. Gli effetti avversi possono essere: fotosensibilità, parkinsonismo
farmacologico (questo si vede di più nei casi di assenze negli adulti piuttosto che
nelle assenze dei bambini, è molto difficile vedere un parkinsonismo farmacologico
nei bambini, ci può stare se bombardate un bambino con Aloperdolo...).
Quindi, primo target terapeutico è l’inibizione dei canali T del Calcio e l’Etosuccinide
agisce prevalentemente così. Il secondo farmaco che potete utilizzare è il Valproato
che ha un meccanismo che teoricamente non andrebbe bene con le assenze, che
è quello di aumentare la quantità di GABA nella sinapsi, aumentandone la sintesi e

171
diminuendone il metabolismo e noi non vogliamo tanto GABA nel nucleo reticolare
perché altrimenti lasciamo aperti i canali T nel complesso ventro-basale del talamo
ed è quello che non vogliamo. Nonostante questo il Valproato viene utilizzato
perché inibisce i canali T e l’inibizione dei canali T ovviamente è a valle rispetto a
tutto, quindi l’azione del Depakin® nelle assenze epilettiche deriva
fondamentalmente da questo. Poi c’è una stranezza che è il Clonazepam,
benzodiazepina della quale non abbiamo ancora parlato. Il Clonazepam è il famoso
Rivotril®, utilizzato per il trattamento delle assenze, efficace anche per il
trattamento dell’epilessia mioclonica (le benzodiazepine in generale, come l’acido
valproico, non sono male quando l’espressione dell’epilessia è la mioclonia) e poi si
usa in psichiatria per il disturbo bipolare in generale per sedare un po’ nelle fasi
maniacali e per favorire il sonno in determinate circostanze, molte volte si utilizza
come ipnoinducente anche se non ha esattamente la connotazione
dell’ipnoinducente, sono altre le benzodiazepine che si usano per questo (tipo
l’Halcion® o altri non benzodiazepinici come Stilnox® o Imovane®). Le
benzodiazepine come il Clonazepam potenziano l’attività del recettore GABA-A e
come mai allora vengono utilizzate nel trattamento delle assenze quando abbiamo
detto fino ad ora che farmaci GABA mimetici se fanno qualcosa, quel qualcosa è
peggiorare le assenze? È un paradosso ed in teoria non si capisce perché le cose
stiano così: il Clonazepam attiva prevalentemente i recettori GABA-A che
contengono la subunità α3 i quali si trovano nei neuroni del nucleo reticolare del
talamo. Quindi questo farmaco non sta tanto agendo nel complesso ventro-basale
del talamo, ma agisce prevalentemente nel nucleo reticolare del talamo sui corpi
cellulari inibendo l’attività del nucleo reticolare e questo non rilascia più GABA nelle
sinapsi ed i canali T del Calcio non rimangono più aperti. Quindi se all’esame di
neurologia dovessero chiedervi quali farmaci si utilizzano nelle assenze epilettiche,
innanzitutto direte Etosuccinide ed Acido Valproico, poi, stranezza, una
benzodiazepina nonostante potenzi la trasmissione GABAergica che in teoria è un
deterrente per il trattamento delle assenze, nonostante questo il Clonazepam si usa
nelle assenza e dipende dal fatto che il Clonazepam attiva un particolare recettore
al GABA che contiene la subunità α3, il quale è localizzato nei neuroni del nucleo
reticolare del talamo che viene inibito e non scarica più, non rilascia GABA nella
sinapsi col complesso ventro-basale del talamo, i canali T non rimangono aperti e
quindi le oscillazioni patologiche di 3 Hz nelle assenze tipiche o anche diverse nelle
assenze atipiche non si hanno più quando fate un trattamento col Clonazepam.
Oltre a questi farmaci viene utilizzata anche la Lamotrigina, è un farmaco che si
può utilizzare nel trattamento delle assenze nonostante sia un bloccante dei canali
del Sodio. Probabilmente il motivo per cui la Lamotrigina agisce qui è che questo
farmaco inibisce il rilascio di glutammato e quindi impedisce alle fibre che
provengono dal talamo ventro-basale o dalla corteccia di attivare il nucleo reticolare
del talamo. Quindi, un meccanismo indiretto che non c’entra niente con i canali T o i

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recettori GABAergici, ma impedisce al glutammato rilasciato dalle fibre che
provengono dal complesso ventro-basale del talamo e dalla corteccia di attivare il
nucleo reticolare del talamo.
Una volta che abbiamo stabilito quali farmaci si usano nelle assenze epilettiche,
torniamo al Clonazepam che c'è qualcosa che voglio dirvi a proposito perchè è un
farmaco che vedrete utilizzato molto spesso.
Partiamo dal dosaggio, il Clonazepam (RIVOTRIL) viene dato a basse dosi perché
molto potente :
• nei bambini si parte con 0,01-0,03 mg/kg e potete salire massimo a 0,06
mg/kg ma vi conviene mantenervi intorno a 0,04 mg/kg.
• Nell'adulto incominciate con 1,5 mg e potete salire normalmente intorno a 4-6
mg/kg e la massima dose tollerate è di 20 mg/kg.

Quale è il problema del clonazepam? Lo stesso di tutte le benzodiazepine date in


cronico (fino adesso abbiamo visto diazepam,lorazepam e midazolam che sono le
benzodiazepine usate nello status epiletticus in vena o per via rettale,
im,intranasale). Qui invece nelle assenze epilettiche o nelle mioclonie dovete dare il
Rivotril continuamente per bocca e si sviluppa tolleranza.
Questo significa che dovete progressivamente aumentare il dosaggio per ottenere
lo stesso effetto. Contemporaneamente si sviluppa dipendenza e infatti se
sospendete improvvisamente il farmaco nella migliore delle ipotesi avete ansia,
agitazione e insonnia mentre nella peggiore delle ipotesi avete crisi convulsive e
epilettiche.
Dovete stare molto attenti..ricordate questi concetti importanti di
TITOLAZIONE,TOLLERANZA E soprattutto DIPENDENZA (tra l'altro le
benzodiazepine possono anche essere delle sostanze d'abuso) perché le
manifestazioni neurologiche di rimbalzo possono essere particolarmente allarmanti.
Questo discorso vale anche per quando le benzodiazepine vengono date come
sedativo/ipnotiche perché se le sospendete bruscamente ci può essere insonnia da
rebound difficile da controllare.

Con questo chiudiamo il discorso sugli antepilettici classici (prima generazione) e


adesso molto brevemente vediamo cosa manca per la discussione sugli
antiepilettici di seconda generazione.
Il farmaco più importante di questa categoria è la LAMOTRIGINA (LAMICTAL) che
agisce inibendo in canali del Na in modo voltaggio dipendente,uso dipendente e
frequenza dipendente (meccanismo simile alla carbamazepina,fenitoina ,
oxicarbamazepina e valproato).
La lamotrigina lega dei siti del canale del Na diversi da quanto abbiamo visto per gli
altri farmaci ed è anche in grado di inibire il rilascio di GLUTAMMATO.
Quale è quindi la differenza tra questo farmaco e gli altri che legano solo il canale
del Na senza inibire il rilascio del Glutammato? Non lo sappiamo, evidentemente ci
sono delle differenze nella modalità di legame del canale del Na.
Probabilmente il suo ruolo nelle assenze epilettiche dipende proprio da questo cioè
l'eccitazione del nucleo reticolare del talamo da parte delle fibre che provengono
dalla corteccia somatosensoriale e dai nuclei VPM E VPL viene attenuata per

173
inibizione del rilascio di glutammato.
Originariamente, essendo un farmaco di 2° generazione si pensava di usarlo con
modalità add-on, ovvero come terapia aggiuntiva nelle assenze epilettiche ma oggi
non è più cosi e infatti è diventato il farmaco di prima linea nel trattamento delle crisi
focali,generalizzate e tonico cloniche di grande male epilettico. E' anche un'ultima
risorsa nelle assenze volendo.
Il dosaggio oscilla normalmente tra i 200-300 mg e questo dipende dalle
caratteristiche metaboliche perché la lamotrigina è metabolizzata da alcune
isoforme dell'UGT senza andare ad impegnare il CYP450. Si passa cioè
direttamente a reazioni di fase due. Questo vuol dire che gli unici farmaci che
possono interferire con la lamotrigina sono quelli che inibiscono o inducono l'UGT

INIBITORI:
• Acido valproico->che può essere usato in combinazione nelle terapie di
questi pazienti e causa un accumulo della lamotrigina per cui dovete andare
a ridurre il dosaggio (100 mg pro die). Esiste cioè una sorta di boosting
farmaceutico.
• ATOVAQUONE ->farmaco antimalarico che insieme aL PROGUANIL dà il
MALARONE è un farmaco molto efficace nella profilassi antimalarica
• ETOPOSIDE-> qui bisogna essere veramente sfigati per avere un tumore in
contemporanea con l'epilessia, anche in questo caso bisognerà abbassare il
dosaggio.

INDUTTORI:
• FENOBARBITAL->in questo caso voi dovete salire con il dosaggio della
lamotrigina fino ad arrivare anche a 300 mg

EFFETTI AVVERSI: Sono quelli classici di tutti gli antiepilettici= sedazione,


diplopia, vertigini, nistagmo...
• REAZIONI DI IPERSENSIBILITA' che in realtà avevamo anche gà trovato per
i cinesi Hhan con l' utilizzo di carbamazepina e ocicarbamazepina ma in quel
caso c'era un aplotipo predisponente ovvero l' HLAD*1502 mentre in questo
caso le reazioni di ipersensibilità avvengono senza nessuna predisposizione
particolare e sebbene anche con l'utilizzo degli altri epilettici possono esserci
reazioni di ipersensibilità con una frequenza del 3%-4%, con la lamotrigina
arrivate anche al 10%.
• Questo effetto avverso il prof lo ricorda perché ne ha avuto un'esperienza
personale con la sorella di un suo caro amico che ha avuto una diagnosi di
epilessia dopo tre episodi che inizialmente erano stati confusi per episodi
sincopali. La prima terapia è stata fatta con il LAMITTAL e le cose andavano
bene ma aveva cominciato ad avere rash (espressione di ipersensibilità) per
cui il farmaco è stato cambiato per paura che l'ipersensibilità potesse
evolvere o in senso di shock anafilattico o con Sindromi di Steven- Johnson.
Le donne sono maggiormente predisposte soprattutto se hanno patologie
autoimmuni.

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Parliamo adesso del FELBAMATO (TALOXA) che è un farmaco poco amato dai
neurologici perché potenzialmente tossico ma molto efficace nella sindrome di
Lennox-Gastaut che è una forma di epilessia encefalopatica che comincia a 2 anni
di età e i bambini hanno ritardo motorio, mentale e crisi catatoniche (perdita
improvvisa del tono muscolare con caduta a terra), assenze atipiche e raramente
crisi tonico-cloniche (perché la mielinizzazione non si è ancora completata non
sono delle vere e proprie crisi ,non si manifestano molto bene)
Per questa sindrome potete usare il VALPROATO che è però molto tossico nei
bambini piccoli (per esempio se consideriamo la sua tosscità epatica...).
Oggi è stato approvato anche il CBD (cannabidiolo) che è un derivato della
cannabis completamente diverso dal THC e infatti agisce in maniera diversa
essendo un agonista parziale dei recettori 5HT1A, interferisce con il Ca
intracellulare ed ha tra l'altro bassa affinità per CB1 e 2. Infine si può usare il
FELBAMATO che è a bassa potenza per cui i dosaggi possono arrivare anche a 2g
.
E' un induttore del CYP3A4 e un inibitore di CYP2C19 (QUESTA COMBO LA
ABBIAMO Già VISTA PER L'OCCARBAMAZEPIMA E L'ESCARBAMAZEPINA)
ricordatevi che quest'ultimo è fondamentale per la bioattivazione del PLAVIX
(clopidogrel) e anche per il metabolismo di omeprazolo,pantoprazolo e
esmeprazolo (inibitori di pompa).
Probabilmente se state trattando un bambino con la Sindrome di
LENNOX-GASTAUT questo non assumerà il clopidogrel (che è utilizzato in
situazioni di problemi vascolari)
Perché quindi il felbamato non è amato dai neurologi?
Ci sono due motivazioni

1-EPATOTSSICITA' simile al Valproato


2-ANEMIA APLASTICA: La patologia è di per sé gravissima e molto rara
(4-10individui su 1 mln di abitanti) e può manifestarsi perché il metabolismo del
felbamato genera atropaldeide che è mielotossica e infatti con il felbamato saliamo
ad un'incidenza di 200 individui per 1 mln di abitanti. Ovviamente non tutti i bambini
che assumono il farmaco sviluppano questa anemia però lo spauracchio di questa
incidenza 20 volte aumentata frena un po' i neurologi.
Gli affetti avversi del Felbamato peraltro sono molto più rari negli individui con 2
anni di età e questo è esattamente l'opposto di quanto succede per il valproato.

LEVITIRACETAM (KEPPRA) farmaco molto usato oggi con diverse formulazioni


(os,ev per lo status epiletticus). Sono tutti molto contenti del KEPPRA che infatti ha
fatto molto contenta l'azienda che lo produce e cioè l'UCB perché ha trovato un
mercato estremamente fertile. Si può usare in monoterapia o in terapia add-on.

MONOTERAPIA: Crisi focali, tonico-cloniche generalizzate e ci sono dei lavori che


dimostrano la sua utilità anche nelle assenze epilettiche ma nella realtà per questa
patologia si usa poco. Quando si usa nelle crisi focali in monoterapia il pz deve
essere >16 anni. Per le crisi tonico cloniche il bambino deve avere >12 anni

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ADD-ON: può essere usato nei bambini con >1 mese di età per le crisi focali.
E' molto efficace ed è l'unico in grado di ridurre l'epilettogenesi che è il
meccanismo per cui si forma la memoria patologica delle crisi che si studia con il
modello animale KINDLING, che è l'acquisizione progressiva di una risposta
elettrofisiologica e comportamentale ad uno stimolo che inizialmente è sottosoglia.

DOSAGGIO: Adulto comincia a 200 mg x2 e poi si sale fino ad un dosaggio


standard di 750 mg x2 e in estrema rati si arriva a 1.5 g x2.
Oggi questo farmaco viene usato anche per prevenire le crisi in pazienti che hanno
neoplasie cerebrali ed ha superato molti farmaci per una serie di ragioni tra cui il
suo meccanismo d'azione.
Età pediatrica: se andate al BambinGesù i bambini che vengono traumatizzati per
la strada, che hanno un trauma cranico e vengono intubati dovete fare un profilassi
delle crisi che prima si faceva con la FENITOINA in vena mentre oggi si usa il
LEVTIRACETAM.
Non è metabolizzato dai CYP ma dal CP450 è uno scarso substrato della
glicoproteina P che è quella che prende i farmaci antiepilettici e li scaraventa fuori
dalle zone dove c'è l'epilessia quindi avere un farmaco che non viene tanto
trasportato da questa glicoproteina è molto favorevole.

MECCANISMO D'AZIONE: Lo studio del KEPPRA è partito da meccanismi


d'azione tradizionale (es azione su GLUTAMMATO….). Alla fine hanno scoperto
che il LEVITIRACETAM agisce su delle proteine che si chiamano SD2A (stessa
famiglia di SD2D e C). La sigla sta ad indicare che sono proteine delle vescicole
sinaptiche e attraversano varie volte la membrana delle vescicole che contengono
sull'interno i neurotrasmettitori . Il rilascio è regolato da proteine del complesso
SNARE cioè SINAPTOBREVINA,SINTAXINA E SNAP25 che sono anche i substrati
della tox botulinica.
Cosa fa questa proteina nei confronti del rilascio vescicolare delle sinapsi non è
chiaro , sappiamo che non è un trasportatore, può stabilire un contatto con le
proteine che le si trovano attorno ma non ha un ruolo così attivo. Fatto sta che se
fate un topo knock-out per le proteine SD2A il topo muore dopo la nascita con un
grave fenotipo epilettico. Quindi il suo ruolo è evidentemente importantissimo per il
controllo dell'attività del SNC. Il ruolo di questo farmaco grazie alla sua interazione
con SD2A è quello di facilitare il rilascio di GABA agendo come PAM.
Questo farmaco ha dato quindi l'avvio allo studio della farmacologia di SD2A che
ha portato all'approvazione in commercio di un altro farmaco che si chiama
BRIVARACETAM (BRIVIACT) che agisce in maniera simile sebbene più ristretto
nelle indicazioni (solo epilessia focale)
Ha due caratteristiche divergenti:
-ELEVATA POTENZA : caratteristica positiva, invece di dovere arrivare fino al
grammo, qui arriviamo a 300.400 mg pro die
-METABOLIZZATO DAL CYP2C19, caratteristica negativa che significa avere
tante interferenze con tanti farmaci induttori e inibitori ma non solo perché ci sono
anche i polimorfismi del CYP ovvero i metabolizzatori lenti CYP2C19*2 E *3 che si
trovano soprattutto tra gli asiatici.

176
Altri due farmaci di seconda generazione sono GABAPENTIN E PREGABALIN.
Sono i famosissimi NEURONTIN E LYRICA. Se guardiamo i nomi vediamo che
all'interno contengono la parola GABA perciò ci aspetteremo che in qualche modo
vadano a modulare la trasmissione GABAergica e invece col piffero che lo fanno,
non hanno niente a che vedere con il GABA. Sono dei ligandi e modulatori negativi
della sub-alfa2delta1.2 di canali del Ca voltaggio dipendenti e se ricordate dalla
farmacodinamica sono dei canali formati dalla sub alfa1 che forma il poro e che ci
permette la distinzione tra canali ad alta soglia (L,M, PQ, R) e i canali a bassa
soglia (T). Poi abbiamo delle subunità beta che si trovano nella parte interna della
membrana e poi abbiamo 8 subunità gamma che sono transmembranali
pleiotropiche ( a volte le troviamo associate agli Ampa) e poi abbiamo queste
subunità alfa2delta che non sono fondamentali per il funzionamento del canale del
Ca ma ottimizzano la funzione del Canale. Legandosi a questa subunità questi
farmaci vanno a compromettere la funzione dei canali con questa subunità ovvero i
canali L,N E PQ. (forse la hanno anche i canali T ma non è mai stato dimostrato
con certezza)
Per la cronaca la subuntià alfa2delta è molto peculiare perché è una subunità in cui
la sub delta e la sub 2 sono unite da ponti disolfuro, però il gene che le codifica è
unico per cui si forma un unico precursore proteico che poi viene tagliato nel
reticolo endoplasmico e poi le due componenti vengono unite da ponti disolfuro.

Possiamo quindi chiederci quale è la sostanza che fisiologicamente si lega alla


subunità alfa2delta? La risposta non la sappiamo con certezza però ci sono dei forti
sospetti. Intanto ipotizziamo gli aa neutri come la leucina che legano il dominio di
vW (che non ha nulla a che fare con il fattore della coagulazione ma ha delle
sequenze amminoacidiche che sono simili) ed è esattamente lo stesso dominio
legato dai farmaci. E' interessante nell'ottica dei pz resistenti a questi farmaci.
Immaginiamo di avere un pz in uno stato catabolico come un pz che prende molti
cortisonici ed ha le proteine degradate o un soggetto diabetico in cui questi aa per
la gluconeogenesi attiva sono sempre in circolo. In questo caso gli aa potrebbero
legare il dominio e competere con i farmaci creando un meccanismo di resistenza.
Sarebbe molto interessante per esempio per un progetto di eccellenza andare a
cercare di correlare la resistenza a GABALIN E GABAPENTINA con questo stato
dismetabolico.
Un'altra sostanza che lega la sub alfa2dekta è la trombospondina che viene
prodotta dal SNC dagli astrociti e induce la formazione di sinapsi eccitatorie. Tra le
atre cose la troviamo anche nel cuore e infatti il suo nome è dovuto al fatto che
viene prodotta dalle piastrine. Nel cuore è stata coinvolta con la fisiopatologia
dell'insufficienza cardiaca.
MECCANISMO AZIONE: Riducono l'att dei canali N e PQ che normalmente fanno
entrare Ca necessario per il rilascio dei neurotrasmettitori e quindi vanno a ridurre il
rilascio di GLUTAMMATO.
Quando usiamo questi farmaci? Sono nati come farmaci add-on per il trattamento
dell'epilessia focale e da lì il trattamento si è spostato, infatti oggi li usiamo come
farmaci di prima linea assoluta per il trattamento del dolore neuropatico (il dolore
dipende da alterazioni morfologiche e funzionali delle vie di senso del dolore) e
soprattutto delle neuropatie dolorose.

177
Se voi andate a vedere le linee guide Europee, americane o canadesi in prima
linea ci trovate proprio questi due insieme a amitriptilina, duloxetina e venlafaxina
mentre non trovate gli oppioidi che sono in seconda linea perché non sempre il pz
con dolore neuropatico risponde agli oppioidi in maniera efficiente.

PREGABALIN E GABAPENTINA come spesso succede per farmaci di questa


tipologia sono anche approdati in psichiatria e sono utilizzati per il disturbo bipolare
e per la loro azione favorevole nei confronti dell'ansia.
PREGABALIN è più potente della GABAPENTINA .
Per il dolore neuropatico e per l'epilessia focale il dosaggio è di 150-200 mg/die.
GABAPENTINA voi cominciate il primo giorno con 100mg, 200mg il secondo, 300
mg il terzo e salite fino a 1800-2400 mg. Tra l'altro l'assorbimento di
GABAPENTINA è inibito dagli aa nell'intestino e si può saturare e non essere più
assorbita mentre per il PREGABALIN questa cosa non succede . Infatti non ho
assolutamente capito perché alcuni si ostinano ad utilizzare NEURONTIN quando
LYRICA è chiaramente migliore, nonostante questo soprattutto in psichiatria
NEURONTIN si trova.
Il prof con LYRICA ha avuto due problemi: in primis stava per uccidere il suocero e
poi ha avuto l'unico successo terapeutico con un tenore che era stato operato di
prostata ma l'anestetico locale aveva creato un singhiozzo intrattabile per cui il pz
non poteva più cantare, mangiare ed era disperato. Allora si è pensato che potesse
essere una forma di epilessia focale nel nucleo del tronco dell'encefalo che
controlla le escursioni diaframmatiche e che ovviamente lui andava ad attivare
enormemente essendo un tenore. A lui sono bastati 25mg per farlo tornare alla
normalità. Normalmente il singhiozzo intrattabile si cura con dopamina-antagonisti,
quindi provate a pensare che potrebbe essere un'epilessia focale e risolvete. Tra
l'altro era con il prof Gradini e hanno scritto un lavoro che si chiamava “LYRICA
CURA IL TENORE”
EFFETTI AVVERSI: sono quelli classici degli antiepilettici, in più potete avere
formazione di edemi, incremento ponderale e c'è una cosa che gli crea problemi,
probabilmente legata agli edemi stessi. La sub alfa2delta si trova anche nei canali L
che si trovano nel cuore e qui generano la corrente Cav1.2 e se voi interferite con i
canali L andate ad interferire con l'inotropismo e con la conduzione AV perché sono
i canali della fase di UPSTROKE nel nodo SA e AV.
Questa è proprio l'esperienza negativa che ho avuto con il PREGABALIN con mio
suocero che aveva fatto diversi STENT e aveva una sintomatologia dolorosa, era
allettato e non si sapeva cosa fosse e io li avevo suggerito di prendere questo
farmaco. E' andato in INSUFFICIENZA CARDIACA ACUTA, poi fortunatamente
non è morto, ha cambiato farmaco ed è passato agli oppioidi però fate massima
attenzione ai pazienti cardiopatici perché veramente possono esserci dei grossi
problemi con questi due farmaci.
Es paziente in insufficienza cardiaca con NYHA di grado 3 o 4 ma anche classe 2 o
pazienti con ischemia cardiaca non usate mai questi farmaci.
Mancano 3 o 4 farmaci epilettici ma il prof chiude qui quindi finirà i farmaci nella
lezione successiva per poi iniziare con PARKINSON.

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13 Maggio 2021

ALTRI ANTIEPILETTICI E LA MALATTIA DI PARKINSON

Finiamo gli antiepilettici.

Perampanel
Il primo che vi presento è il Perampanel (nome commerciale Fycompa) e se un
farmaco si chiama perampanel significa che ha a che fare con i recettori AMPA del
glutammato. Si tratta di recettori canale che fanno entrare esclusivamente sodio
responsabili della trasmissione sinaptica eccitatoria rapida nel SNC. Mi ricordo
quando Perampanel e Terampanel sono stati sviluppati e anzi mi avevano anche
chiamato in causa forse per qualche consulenza. Onestamente ero molto scettico
perché bloccare la trasmissione eccitatoria del SNC significa indurre sedazione e
tutta una serie di problemi anche di natura psichiatrica. Nonostante questo, il
Perampanel è andato in sviluppo ed è un NAM, cioè un modulatore allosterico
negativo dei recettori AMPA. Ha un’indicazione nelle crisi tonico-cloniche
generalizzate esclusivamente in terapia Add-ON, cioè in terapia aggiuntiva (se non
ricordo male per i bambini che hanno più di 12 anni di età, quindi non possono
essere utilizzati per la prima infanzia e se vi ricordate ci sono un sacco forme di
epilessia che possono essere trattate da vari farmaci). Non c’è onestamente tanto
da dire su questo farmaco, se non appunto il rischio di sedazione e il piccolo
declino cognitivo. Sono stati anche riportati casi di suicidio, proprio perché c’è un
impatto psichiatrico. Non chiedetevi perché bloccare i recettori AMPA possa dar
questo, però con i recettori del glutammato, soprattutto i recettori ionotropici, ci
sono sempre rischi di questo tipo; ad esempio, ricordate che bloccare i recettori
NMDA produce effetti psicotomimetici e nonostante questo la sketamina è adesso
un farmaco approvato per il trattamento della depressione farmaco-resistente.
Il Penampanel è metabolizzato dal CYP3A4 quindi tutto ciò che sapete dalla
farmacologia tradizionale, con i farmaci che inducono o inibiscono il CYP3A4, si
applica a penampanel; quindi, dal punto di vista della politerapia non è che sia
proprio il massimo.

Topiramato
Oltre a perampanel c’è il Topiramato e qui abbiamo un farmaco molto più in uso
che prende il nome di Topamax. Ha diverse indicazioni: innanzitutto può essere
indicato in monoterapia o in terapia Add-on, per le crisi focali che possono anche
essere secondariamente generalizzate. È un farmaco che si può usare anche in età
pediatrica (quindi bambini che hanno più di 2 anni) e viene utilizzato anche nei
regimi di politerapia nella sindrome di Lennox Gastaut. Questa è un’epilessia
encefalopatica caratterizzata da crisi atoniche, per cui ci sono questi bambini che
cadono all’improvviso, che devono vivere con un caschetto. Inoltre hanno assenza
atipiche, cioè episodi di assenza però con componente motoria e molto più
raramente crisi tonico-coniche di grande male. Questo perché per avere una crisi
generalizzata di grande male la mielinizzazione deve essere completa, quindi
quando i bambini hanno due anni la mielinizzazione è ancora in corso.

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Quali sono i meccanismi d’azione di questo farmaco? Ne ha diversi:
• Inibisce i recettori AMPA, ma non è il più importante;
• Inibisce i canali del sodio voltaggio dipendenti, quindi principalmente le
correnti Nav1.1 e Nav1.2. Il blocco dei canali del sodio è voltaggio
dipendente, uso dipendente e frequenza dipendente; questo è la conditio
sine qua non, perché i farmaci possano agire riducendo le crisi ma allo
stesso non inducendo depressione del SNC;
• Attiva i recettori GABA-A, che ricordate sono i canali del cloro, principali
recettori inibitori del SNC, a patto che però il KCC2 sia espresso e le
concentrazioni intracellulari di cloro vengano mantenute vicino allo 0;
• Inibisce l’anidrasi carbonica, e questo è abbastanza interessante, perché
significa creare acidosi metabolica (ricordate nei diuretici, l’effetto principale
degli inibitori dell’anidrasi carbonica era questo) e oltretutto significa impedire
che i neuroni sintetizzino bicarbonato (nei neuroni c’è principalmente
l’anidrasi carbonica di tipo 7, ma non soltanto) e quindi impedire che quando
si aprano i recettori GABA, il bicarbonato possa fuoriuscire determinando un
freno all’azione inibitoria del GABA. Quindi tutto questo contribuisce all’effetto
terapeutico del Topiramato.

Normalmente si comincia con 25mg al giorno, si fa una titolazione e si arriva a un


massimo in genere di 200-300 mg, quindi non conviene superare questi limiti.

L’indicazione è, come vi ho detto in scheda tecnica, per diverse forme di epilessia e


per la Lennox Gastaut, però il Topiramato viene usato molto in psichiatria per il
trattamento del disturbo bipolare. In genere si privilegia questo farmaco perché è
uno dei pochi che fa dimagrire (molto spesso i pazienti sono contenti per questo
motivo). Oltre tutto il Topamax ha un’indicazione precisa che è quella della
profilassi dell’emicrania severa (caratterizzata da più di 3 episodi al mese, di solito
episodi invalidanti quindi con fotofobia, fonofobia e osmofobia, il che significa che il
paziente deve stare al chiuso non sentire odori o rumori, e chiaramente questo
compromette la qualità della vita, l’attività lavorativa e così via). E’ tra i farmaci
antiepilettici, perché anche tregamina e Tragabapentina hanno le stesse indicazioni
però lui (Topiramax) ha l’indicazione ufficiale, cioè viene indicato in maniera
specifica per il trattamento dell’emicrania severa (trattamento profilattico).

Metabolismo del Topiramato


Il metabolismo è principalmente CYP3A4 con lunga emivita, però è anche un
induttore del CYP3A4 ed un inibitore del CYP2C19 e il fatto che inibisca
quest’ultimo deve farvi suonare un campanello d’allarme, perché ci sono altri
epilettici che vengono metabolizzati dal CYP2C19 come per esempio la Fenitoina e
il Fenobarbital anche se in piccola misura (circa 1/3). Ricordate poi che il CYP2C19
è il CYP che bioattiva il Clopidogrel, quindi quando i pazienti prendono Plavix la sua
bioattivazione può essere prevenuta dal Topiramato. Questo bisogna ricordarlo nel
caso di un portatore di stent, che soffre di emicrania o di epilessia e assume
Topiramato, bisogna fare attenzione perché se sta facendo il Clopidogrel in terapia,
il Topiramato non può essere un farmaco di buona scelta.

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Effetti avversi
A parte gli effetti standard degli antiepilettici che, ricordiamo, sono sempre quelli,
cioè sedazione, quando è presente, diplopia, nistagmo, segni cerebello-vestibolari,
vertigini (questo vale per tutti i farmaci antiepilettici non c’è nessuna differenza);
però in questo caso possiamo avere un pochino di declino cognitivo, ad esempio
una riduzione della fluenza verbale soprattutto in età scolare che potrebbe essere
abbastanza importane per i bambini.
A parte questo, bisogna considerare gli effetti avversi che derivano dall’inibizione
dell’anidrasi carbonica, quindi cosa vi aspettate? Innanzitutto, alcalinizzazione delle
urine, il che significa che c’è una predisposizione nei confronti dei calcoli, quindi la
nefrolitiasi è una cosa che vi potete aspettare. Poi c’è ipoidrosi che può essere
abbastanza critica, nel senso che l’individuo suda poco e quindi soprattutto nei
mesi caldi se è esposto al sole questo può creare ipertermia.
Questo l’ho sperimentato direttamente, un mio amico che è affetto da disturbo
bipolare, che prende il Topamax, mi ha chiamato e mi ha detto di essere andato al
mare e di essere enormemente accaldato e sudato, questo è il motivo, perché
l’inibizione dell’anidrasi carbonica può creare questo affetto.
Quindi attenzione quando prescrivete il Topamax, consigliate alla gente di non
stare esposta al sole o in ambienti caldi, quindi evitare che ci siano meccanismi di
alterata dispersione del calore.

Zonegran (zonisamide)
Un farmaco abbastanza simile al Topamax è lo Zonegran (che sarebbe la
zonisamide) che adesso esce come nome zonisamide. È un farmaco abbastanza
interessante che tra l’altro si interseca un po’ con la malattia di Parkinson.
È di base un inibitore dei canali del sodio, come al solito voltaggio dipendente, uso
dipendente, frequenza dipendente, quindi non c’è nessun tipo di differenza. Viene
usato principalmente in terapia add-on, nelle crisi focali secondariamente
generalizzate mentre è difficile utilizzarlo nelle crisi di grande male e tonico-
cloniche. Oltre a questo meccanismo è anche un inibitore dei canali T del calcio e
questo è interessante perché i canali T sono coinvolti nell’insorgenza delle assenze
epilettiche. Questo potrebbe suggerire di usare lo Zonegran per il trattamento delle
assenze, in realtà non è così: le assenze si trattano con l’Etosuccimide, con
Valproato e col Rivotril (ossia il Clonazepam), ogni tanto si può dare il Lamictal. Lo
Zonegran nonostante l’inibizione dei canali T del calcio non è preso tanto in
considerazione da questo punto di vista.
Anche la zonisamide è un inibitore dell’anidrasi carbonica, quindi quello che vi ho
detto a proposito del Topiramato vale anche per la zonisamide, per cui c’è la
possibilità di avere calcoli urinari per l’alcalinizzazione delle urine e la possibilità
che possa esserci ipoidrosi.
La ragione per cui vi ho detto che la Zonisamide si interseca un po’ con la malattia
di Parkinson è perché è stato utilizzato in associazione con Levodopa e ha
dimostrato la capacità di ridurre le fasi off. Levodopa è un farmaco fantastico per il
trattamento del Parkinson nei primi anni di terapia ed è la così detta “luna di miele”
o Honey moon. Quando questo periodo finisce ci sono le fluttuazioni dell’efficacia
terapeutica, con queste fasi off, di blocco motorio che si alternano con le fasi di

181
movimento normale e poi ci possono essere anche le LID cioè Levodopa-
induced-dyskinesia (movimenti involontari patologici, discinesie da levodopa).
Alcuni dei farmaci che possono migliorare le fluttuazioni sono gli inibitori delle
MAO-B, cioè della monoamminossidasi di tipo B coinvolta nel metabolismo della
dopamina.
C’è un nuovo farmaco inibitore reversibile della MAO-B che si chiama Safinamide,
che è un bloccante dei canali del sodio e anche in parte dei canali del calcio che
blocca le MAO-B; questo farmaco per il Parkinson è stato sviluppato in seconda
battuta perché il primo sviluppo era stato per l’epilessia. Interessante è che la
zonisamide ha esattamente lo stesso profilo, cioè è un inibitore reversibile delle
MAO-B (quindi si comporta come la Safinamide). Per questo vi dicevo che ci sono
stati degli studi clinici che hanno documentato il miglioramento delle fasi off in
combinazione con Levodopa; nonostante questo la Zonisamide è usata
esclusivamente nel trattamento dell’epilessia, non ha l’indicazione ufficiale per il
trattamento della malattia di Parkinson.

Per fare una sinossi di ciò che vi ho detto questo è un farmaco con un meccanismo
d’azione composito. È principalmente un bloccante dei canali del sodio voltaggio
dipendenti, uso dipendente e frequenza dipendente; allo stesso tempo è anche un
inibitore dell’anidrasi carbonica, blocca i canali T del calcio ma nonostante questo
non ha l’indicazione primaria per il trattamento delle assenze epilettiche. Ha questa
inibizione delle MAO-B che per l’epilessia non ha alcuna rilevanza ma che però
offre al farmaco un potenziale per essere combinato con la Levodopa, anche se vi
ripeto l’indicazione non c’è perché il suo fratello gemello, Safinamide, è invece un
farmaco che nonostante sia stato sviluppato per l’epilessia inizialmente, poi è
approdato al Parkinson.

Il dosaggio della zonisamide è intorno ai 200 mg e l’emivita è molto lunga, siamo


nell’ordine di 60 ore.
Il metabolismo è da parte del CYP3A4, però non è in induttore del CYP3A4 e non
è un inibitore del CYP2C19, quindi considerate questo come un farmaco “di
seconda linea” del trattamento dell’epilessia ma con un profilo farmaco dinamico
abbastanza interessante.

Lacosamide (Vimpat)
È un farmaco molto popolare che viene spesso utilizzato nei soggetti resistenti
all’intervento farmacologico convenzionale e questo per il suo peculiare
meccanismo d’azione: è un bloccante dei canali del sodio, però con un
meccanismo un po’ diverso rispetto alla Fenitoina, alla Carbamazepina, alla
Oxcarbazepina, allo stesso Topiramato, alla Lamotrigina, e così via. Infatti, quei
farmaci bloccano i canali del sodio in modo voltaggio, uso e frequenza dipendente
e si infilano nel canale inattivato nel ciclo di inattivazione rapida. Invece la
Lacosamide spinge il canale verso l’inattivazione lenta, che consiste nel fatto che il
canale quando è nella “fase O” (open, aperto) poi passa in una fase I (inattivazione)
che, a differenza del ciclo rapido, questo tipo di transizione avviene nell’arco di
secondi. Nel momento in cui il canale del sodio ingaggia il meccanismo di

182
inattivazione lenta avviene il fenomeno della così detta spike accomodation, cioè i
potenziali d’azione diventano via via più diradati finché cessano del tutto.
Questo avviene normalmente quando i neuroni scaricano ad altissima frequenza,
oppure quando c’è un farmaco come Lacosamide, che permette al ciclo di
inattivazione lenta di essere ingaggiato, quindi è un meccanismo diverso.

Oltre a questo, Lacosamide agisce su una corrente del sodio chiamata Nav1.6,
così detta corrente persistente che contribuisce alla patogenesi delle crisi
epilettiche, ed è una corrente caratterizzata dal fatto che il canale si inattiva ma poi
ritorna allo stato di riposo con dei tempi velocissimi.
Quindi notate, Lacosamide può essere un meccanismo d’azione ambivalente in un
certo senso: da una parte spinge i canali del sodio verso l’inattivazione lenta,
dall’altra blocca le correnti che hanno un ciclo di inattivazione talmente rapido che
praticamente non c’è, e sono dei canali che si aprono continuativamente.

Sono stati descritti anche altri meccanismi, ad esempio inibizione dell’anidrasi


carbonica, anche se fino ad un certo punto viene indicato con un meccanismo
tipico d’azione della Lacosamide. L’altro meccanismo è quello di interagire con una
particolare proteina che regola la lunghezza dell’assone, chiamata collapsin
response mediator protein CRMP-2. Quest’ultimo meccanismo d’azione è stato
oggetto di discussione e peraltro è anche una proteina di accompagnamento dei
canali del sodio.
Ricordate la Lacosamide oggi viene utilizzata tanto nei reparti di neurologia, in quei
pazienti che resistono, che sono quasi refrattari al trattamento.
Il dosaggio è 200-400 mg al giorno, che devono essere divisi in due
somministrazioni.

Sull’epilessia non voglio dirvi più niente se non sottolineare il fatto che nelle forme
farmaco dipendenti potete utilizzare altri presidi che non siano i farmaci, come ad
esempio la stimolazione del nervo vago o ancora la così detta dieta chetogenica.
La dieta chetogenica determina acidosi, infatti produce corpi chetonici che sono
un’alternativa al rifornimento energetico dei neuroni, questi si nutrono di glucosio
ma anche di corpi chetonici, cioè l’acido acetoacetico e l’acido betaidrossibutirrico e
a volte questa dieta fa miracoli.
Una vostra collega ha due bambini, di cui uno affetto da una forma abbastanza
seria di epilessia encefalopatica, in cui c’è una mutazione di GLUT1 (il trasportatore
di glucosio nella barriera ematoencefalica) e credo avesse anche una mutazione
del canale del sodio quindi una mista sindrome di Dravet (mutazione di GLUT1);
praticamente questa persona veniva a lezione col Midazolam nella borsa, con la
paura che la chiamassero da scuola per dirle che la figlia aveva una crisi, quindi
doveva scappare a scuola portandosi il farmaco con sé. Indipendentemente da
questo, questa ragazza ha risolto il problema tramite la dieta chetogenica.
Quindi è una dieta che nei soggetti farmaco resistenti fa tanto; ora che questo
dipenda dall’acidosi metabolica, dal fatto che i corpi chetonici vengano utilizzati per
il metabolismo energetico dei neuroni, o che dipenda da altre ragioni, questo non
ve lo so dire. Dunque, la dieta chetogenica è sicuramente di grande utilità e adesso
il suo impiego viene spostato anche in patologie degenerative come la malattia di

183
Alzheimer, dove una logica c’è, perché in questa patologia i neuroni captano meno
glucosio.

MALATTIA DI PARKINSON
È una malattia estremamente interessante che non mi piace definire “malattia” ma
piuttosto sindrome parkinsoniana, perché in realtà è un grande ombrello al di sotto
del quale ci sono molte cose, e vorrei cominciare proprio da queste per arrivare poi
a parlare della vulnerabilità dei neuroni del SNC e soprattutto del meccanismo
patogenetico, che per me ha un elemento finale comune, che è la disfunzione del
mitocondrio.
Innanzitutto, si ha un classico morbo di Parkinson o malattia di Parkinson e oggi si
sa che un 5-10% dei casi di Parkinson sono familiari e almeno la metà di questi
(intorno al 3-5%) sono riconducibili a trasmissione mendeliana e sono monogenici.
Qui la genetica ci dice qualcosa, perché abbiamo tutta una serie di proteine che
vengono coinvolte, con trasmissione autosomica dominante o autosomica
recessiva e alcune come la parkina e PINK1 sono estremamente interessanti per
capire la patogenesi della malattia. Cercheremo di capire perché la malattia di
Parkinson, così detta idiopatica, cioè non riconducibile ad altre cause, viene fuori
(ovviamente col beneficio dell’inventario, cioè cercheremo di dare un quadro
generale e poi in base a questo e alle vostre conoscenze capirete cosa ricavare).

La sindrome parkinsoniana può dipendere da tante altre cose, e a volte i sintomi


del Parkinson (che avete già studiato col professor Pontieri) che sono, brevemente,
bradicinesia, tremore a riposo, rigidità, disturbi della marcia, sono associate ad altre
cose, come distonia, rigidità assiale, in alcuni casi anche spasticità, disturbi del
linguaggio, oftalmoplegia; dunque, ci sono delle manifestazioni aggiuntive per cui in
alcuni casi si parla di Parkinson plus (anche detto Parkinson più). Quindi è
importante riconoscere il Parkinson plus fra le diagnosi differenziali della malattia di
Parkinson, che normalmente si fa, tuttavia dal punto di vista terapeutico questo è
abbastanza indicativo.
La malattia di Parkinson classica ha una caratteristica di base: risponde sempre
alla Levodopa e se non c’è risposta alla Levodopa non è malattia di Parkinson. In
realtà se allargate gli orizzonti e parlate di Sindrome parkinsoniana e inserite il
Parkinson plus, potete avere davanti delle sindromi che possono rispondere alla
Levodopa ma possono anche non rispondere. Quindi magari avete un quadro di
sintomi che fanno pensare alla malattia di Parkinson però poi non avete la risposta
sperata alla Levodopa.

Dunque, quali sono le altre condizioni che possono associarsi alla malattia di
Parkinson?
a) ALFA-SINUCLEINOPATIE
Innanzitutto, tutta una serie di patologie che prendono il nome di alfa-
sinucleinopatie, che dipendono dall’alterazione di una proteina chiamata alfa-
sinucleina. Questa proteina forma delle inclusioni intracellulari che nella malattia di
Parkinson si chiamano corpi di Lewy, che sono presenti in gran parte delle
malattie Parkinson così dette convenzionali, idiopatiche, in gran parte delle forme
genetiche, ma attenzione non in tutte le forme genetiche, ad esempio le forme

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caratterizzate da mutazione di parkina e PINK1 molto raramente hanno i corpi di
Lewy; quindi far risalire la malattia ai corpi di Lewy non è corretto. Tuttavia,
all’interno di questi vi è l’alfa-sinucleina, per questo la malattia di Parkinson si
considera una sinucleinopatia.
Non è l’unica, tuttavia, ci sono altre patologie che fanno parte del grande gruppo
delle alfa-sinucleinopatie: la demenza a copri di Lewy e la PDD parkinson
dementia disease (associazione parkinson-demenza). Sono due patologie molto
simili, caratterizzate dal fatto che i copri di Lewy non sono ristretti ai nuclei del
mesencefalo, soprattutto alla sostanza nera al nucleo dorsale del vago, al nucleo
ceruleus, al rafe dorsale e così via, ma si estendono anche alla corteccia cerebrale.
Quindi, avete un quadro misto di demenza e Parkinson, caratterizzato dall’alfa-
sinucleinopatia.

Che differenza c’è la demenza a corpi di Lewy e il PDD?


Avete anche accumulo di sostanza mieloide, quini in realtà la demenza a corpi di
Lewy vi riconduce tanto alla malattia di Alzheimer e il trattamento che fate nella
demenza a corpi di Lewy è abbastanza simile al trattamento per malattia di
Alzheimer.
La differenza tra queste due condizioni è che sono due condizioni dementigene,
cioè sono caratterizzate entrambe da declino cognitivo però nel caso della LBD
(Lewy body dementia), avete il declino cognitivo che può precedere le
manifestazioni parkinsoniane, cioè può precedere le manifestazioni extrapiramidali
o tuttalpiù venire fuori entro un anno dalle manifestazioni extrapiramidali. Quindi si
possono verificare due cose: o che il declino cognitivo c’è già e poi il quadro “simile
al Parkinson” si inserisce nel declino cognitivo oppure la demenza a corpi di Lewy
comincia con le manifestazioni parkinsoniane e poi il declino cognitivo viene entro
un anno.
Se invece il declino cognitivo viene fuori quando la sintomatologia parkinsoniana è
già totalmente stabilita, è passato più di un anno, quindi evidentemente la malattia
nasce come malattia di Parkinson e poi viene fuori la demenza in questo caso si
parla di PDD.
Quindi in realtà demenza a corpi di Lewy e PDD sono molto simili quello che
cambia è la tempistica: nella demenza a corpi di Lewy il declino cognitivo emerge
prima ancora dei sintomi parkinsoniani o entro un anno dall’insorgenza dei sintomi
parkinsoniani mentre nel PDD (parkinson dementia disease) si ha il Parkinson
prima, che si stabilisce bene e con tutti i disturbi del movimento, e poi a quel punto
si inserisce la demenza.
La demenza è anche un esito della classica malattia di Parkinson, quindi è come se
fosse un continuum e in questa specie di spettro si ha il Parkinson da una parte, poi
il PDD, poi la demenza a corpi di Lewy. Insomma, è difficile distinguere tra
patologie parkinsoniane, patologie dementigene, quando questi aspetti sono molto
frequentemente associati.

Un’altra patologia che fa parte delle alfa-sinucleinopatie si chiama atrofia multi-


sistemica e si tratta di una condizione in cui gli aggregati di alfa-sinucleina non si
trovano nei neuroni ma si trovano negli oligodendrociti e questi particolari aggregati
vengono chiamati corpi di Papp-Lantos. I corpi di Lewy e corpi di Papp-Lantos

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sono fondamentalmente simili, cioè sono delle inclusioni intracellulari caratterizzati
dalla presenza di alfa-sinucleina, ma possono esserci anche altre cose, come
neurofilamenti, a volte sono contornati dalle tau o proteine dello shock termico
HSP. Però i corpi di Lewy classici nella malattia di Parkinson e anche nella
demenza a corpi di Lewy e nel PDD si trovano nei neuroni, mentre invece
nell’atrofia multi-sistemica si trovano negli oligodendrociti).
L’atrofia multi-sistemica è una patologia abbastanza grave che in realtà deriva
dall’unione nosografica di tre patologie neurologiche del passato:
• la degenerazione striato-nigrale, caratterizzata da un parkinsonismo
abbastanza esteso;
• l’atrofia olivopontocerebellare, una patologia cerebellare, dove la
degenerazione avviene nel nucleo olivare inferiore, che è il nucleo che
manda le fibre rampicanti, cioè le fibre climbing. Una fibra si arrampica nel
soma, nella spalliera dendritica delle cellule del Purkinje. In effetti potete
avere o l’atrofia multi-sistemica variante P (cioè parkinsoniana, in cui
predominano di gran lunga i fenomeni parkinsoniani) oppure un’atrofia multi-
sistemica di tipo cerebellare, in cui predomina l’incoordinazione del
movimento e in generale i sintomi cerebellari;
• la malattia di Shy-Drager, caratterizzata dal coinvolgimento del SNA, cioè
c’è disautonomia. Molto spesso c’è ipotensione (che poi si verifica anche
nella stessa malattia multi-sistemica) e alterazioni della sfera genitale come
impotenza.

Dunque, quando voi sentite parlare di atrofia multi-sistemica, fate riferimento ad


una patologia che ha delle similitudini col Parkinson che ha queste inclusioni di
alfa-sinucleina che però non si trovano nei neuroni, si trovano negli oligodendrociti,
chiamati corpi di Papp-Lantos, ma a parte questo si ha la fusione di 3 vecchie
patologie neurologiche che sono la degenerazione striato-nigrale, l’atrofia
olivopontocerebellare e poi la malattia di Shy-Drager, caratterizzata da
disautonomia.

Le alfa-sinucleinopatie non sono finite e c’è una terza patologia che prende il nome
di Sindrome di Hallervonden e Spatz; Hallervonden e Spatz erano due nazisti
che hanno utilizzato altri esseri umani per le loro sperimentazioni e questo motivo
la malattia di Hallervonden e Spatz oggi non si chiama più così, ma si chiama
neurodegenerazione globale con accumulo di ferro di tipo 1, e fa parte di quel
grande capitolo delle tesaurosmosi marziali (sono patologie in cui il ferro si
accumula nei tessuti e in questo caso si accumula nel SNC).
Quando ero studente di medicina ho visto due pazienti, due fratelli, affetti da
malattia di Hallervonden e Spatz presso un neurologo, il professor Guazzi di Siena,
quello che ricordo erano manifestazioni distoniche, alterazioni posturali molto gravi,
una malattia particolarmente seria.
Anche nella sindrome di Hallervonden e Spatz c’è un’alterazione dell’alfa-
sinucleina, cioè le vedete le inclusioni di alfa-sinucleina all’interno dei neuroni.
Essa è una malattia genetica che deriva da mutazioni dell’enzima pantotenato
chinasi (cioè la chinasi dell’acido pantotenico).

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Dunque, vedete è interessante il gruppo delle alfa-sinucleinopatie è molto
variegato; la malattia di Parkinson è il prototipo ma poi c’è la demenza a corpi di
Lewy, la PDD, l’atrofia multi-sistemica e la neurodegenerazione globale con
accumulo di ferro di tipo 1 e queste sono le patologie che ruotano attorno alle
alterazioni dell’alfa-sinucleina.

b) DEGENERAZIONI LOBARI FRONTO-TEMPORALI


Manifestazioni simili alla malattia di Parkinson fanno parte del gruppo più
complesso di patologie neurologiche in assoluto, ma anche più affascinante, che
sono le così dette degenerazioni lobari fronto-temporali (FTLD frontotemporal
lobar degeneration). Sono una serie di patologie in cui è colpito sia il lobo frontale
che il lobo temporale (per questo si chiama degenerazione lobare fronto-
temporale), dove la caratteristica principale è la demenza, quindi sono patologie
dementigene, ma in questo caso non è demenza di Alzheimer, ma è una demenza
frontale e in questo ci sono i sintomi comportamentali. Quando si dice che c’è una
frontalità nel paziente, vuol dire che ci sono alterazioni serie del comportamento.
Quindi l’aspetto dementigeno, cioè il declino cognitivo, sfocia anche nei disturbi del
comportamento e delle manifestazioni psichiatriche. In realtà la demenza frontale, o
demenza fronto-temporale in questo caso, costituisce il 25% di tutte le demenze,
ovviamente qui chi la fa da padrone è la demenza di Alzheimer che è più del 60-
65% di tutti i casi di demenza.
Le demenze frontali non sono male, non so se qualcuno di voi ha visto il film che si
chiama Cono d’ombra, ed è la storia di quell’anatomopatologo nigeriano negli stati
uniti che aveva scoperto il danno creato dal trauma cerebrale nei giocatori di
football americano, ovviamente con grande avversione da parte di tutti, perché il
football americano è un grande business che porta molti soldi. Alcuni giocatori di
football americano come conseguenza dei traumi ripetuti sviluppavano aspetti
frontali di demenza con manifestazioni psichiatriche e molti di questi si sono
suicidati.
Notate che c’è una differenza tra trauma e trauma, perché se voi avete un trauma
unico di eccessiva intensità, ad esempio un incidente stradale che porta al coma
quello diventa un fattore di rischio per la demenza di Alzheimer. Ma se i traumi
sono ripetuti a quel punto il rischio è per il parkinson, per le degenerazioni lobari
fronto-temporali e per la sclerosi laterale amiotrofica.
Ovviamente i giocatori di football americano sono molto esposti a questo tipo di
trauma, molto più dei giocatori di rugby, anche se hanno il caschetto, non tanto per
le partite, ma perché durante gli allenamenti corrono l’uno contro l’altro e si
incontrano con le teste e sono bestie di due metri che pesano un quintale ciascuno
che corrono i 100m in 11 sec, quindi pensate la forza d’urto. Ovviamente il cervello
si trova all’interno del cranio, non ha grandi capacità di muoversi a destra e a
sinistra all’interno, quindi poi la compressione determina la degenerazione del SNC
e l’esito di questi traumi ripetuti ancora una volta può essere il Parkinson ma può
essere anche una demenza fronto-temporale che molto spesso si associa al
parkinson.
Mohamed Ali, Cassius Clay alle olimpiadi, quando lui ha portato la fiaccola
olimpica, tremava un sacco, era parkinsoniano e questo è stato il risultato del tipo
di attività che lui svolgeva, cioè i traumi ripetuti.

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Quindi trauma unico molto forte predispone per la demenza, mentre traumi ripetuti
predispongono per Parkinson o degenerazioni lobari fronto-temporali.

Allora queste degenerazioni lobari fronto-temporali sono un insieme di demenza,


parkinsonismo e malattia del motoneurone e ricordate la malattia principe del
motoneurone è la SLA, la patologia neurologica più terribile che ci sia, cioè la
sclerosi laterale amiotrofica.

Ora vi chiederete come è possibile che tre patologie così distinte possano far parte
dello stesso gruppo?
Perché questo gruppo delle degenerazioni lobari fronto-temporali è molto variegato.
E voi potete classificarlo sulla base:
 dei sintomi,
 sulla base delle mutazioni genetiche,
 sulla base delle caratteristiche istopatologiche.
Cominciando dall’istologia e dalla genetica. Ci sono tre tipi di mutazioni principali:
1) mutazioni della proteina tau: È una proteina che subito richiama alla mente la
malattia di Alzheimer perché in questa malattia la proteina tau e iperfosforilata e
l’iperfosforilazione della tau è all'origine dei cosiddetti grovigli o gomitoli neuro
fibrillari. Il gene che codifica per la proteina tau si trova nel cromosoma 17 e nel
momento in cui la tau viene iperfosforilata si stacca dai microtubuli, i microtubuli
diventano disassemblati e poi la tau iperfosforilata si aggrega e si formano questi
grovigli neurofibrillari. I grovigli neurofibrillari si trovano anche nella malattia di
Alzheimer ma la malattia di Alzheimer non è una tau-patia. Non esistono mutazioni
della proteina Tau che possono dare malattia di Alzheimer, mentre curiosamente
polimorfismi del gene della proteina tau (MAPT) vengono considerati fattori di
rischio per la malattia di Parkinson, quindi è interessante che le prime mutazioni
nelle degenerazioni lobari-fronto-temporali siano mutazioni della Tau.

2) mutazioni della progranulina: questa è legata al ciclo cellulare, ai tumori e


curiosamente il gene che codifica per la progranulina si trova sempre sul
cromosoma 17 ed anche abbastanza vicino al gene che codifica per la proteina tau.

3) mutazioni di C9ORF72, che è forse una delle proteine più affascinanti, infatti
quando è stata scoperta questa proteina è stato detto “abbiamo scoperto il gene
principale della sclerosi laterale amiotrofica”, questo può essere vero ma purtroppo
non si è tradotto in terapia. Che significa C9ORF72? Vuol dire che c’è un open
reading frame, cioè una parte che viene codificata in posizione 72 sul cromosoma
9. Questa proteina è una versione piena di un'altra proteina che si chiama DENN
implicata nei tumori e questa particolare proteina è un GEF, cioè uno scambiatore
di nucleotidi. Gli scambiatori di nucleotidi scambiano GDP e GTP nelle proteine
GTP dipendenti monomeriche, in questo caso è uno scambiatore di nucleotidi per
le proteine della famiglia Rab. C9ORF72 è coinvolto nei meccanismi di autofagia e
nella regolazione dei lisosomi. Quello che succede è che all'interno della struttura
del gene che codifica per C9ORF72 c'è una sequenza GGGGCC cioè ci sono sei
nucleotidi di cui quattro hanno la guanina e due la citosina. Questa sequenza ha

188
delle ripetizioni che in un soggetto normale variano da 0 a 25 mentre in patologia
possiamo arrivare anche a 1000 ripetizioni. Ci sono diverse conseguenze di ciò:
 La prima conseguenza è che la funzione della proteina nativa viene meno.
 La seconda conseguenza è che questa proteina con le sequenze espanse
possa trattenere nel nucleo delle proteine che legano l’RNA ed in particolare
l'mRNA.
 La terza conseguenza e che si formano dei dipeptidi nei quali questa sequenza
GGGG CC viene ripetuta tantissime volte e questi dipeptidi formano degli aggregati
all'interno della cellula.

C'è una differenza tra le patologie che hanno una mutazione della proteina tau,
della progranulina e della proteina C9ORF72. Quelle che hanno una mutazione
della proteina tau e quelle che hanno una mutazione della progranulina sono
caratterizzate da demenza e da parkinsonismo, quelle che invece hanno la
mutazione di C9ORF72 possono presentare segni di parkinsonismo in 1/3 dei casi
ed hanno demenza e in associazione alla demenza la SLA. Quando voi studierete
neurologia e tratterete la SLA avrete una patologia in cui degenera il primo e il
secondo motoneurone, cioè degenerano le cellule piramidali giganti di Betz e il
motoneurone α del midollo spinale. A seconda di chi prevale potete avere spasticità
o flaccidità. Si chiama sclerosi laterale perché il fascio piramidale decorre nei
cordoni laterali del midollo spinale e la degenerazione del tratto piramidale e
sclerotico. Questo dovrebbe dare spasticità, tutte le volte che il fascio piramidale è
colpito voi avete spasticità ma allo stesso tempo il motoneurone è colpito e se il
motoneurone è colpito voi avrete flaccidità. In caso di SLA voi pensate sempre ad
una malattia in cui il paziente respira con un polmone artificiale, non può fare nulla
se non muovere solo gli occhi per comunicare ma la cui sfera cognitiva è intatta, a
volte è così mentre altre volte in caso di SLA voi avete declino cognitivo cioè c'è
l'associazione con la demenza. Quindi potete avere l'una e l'altra cosa.
La caratteristica delle degenerazioni lombari-fronto-temporali (FTLD) è proprio
l'associazione demenza, Parkinson, SLA. Potete anche fare una differenza delle
FTLD basata sugli inclusi. Questi inclusi possono essere TDP43, FUS, ubiquitina e
poi potete ovviamente trovare gli aggregati della tau.

SINTOMI
Avete due variabili delle degenerazioni lobari-fronto-temporali:
• Variante comportamentale: Caratterizzata da segni frontali come
disinibizione, aggressività, manifestazioni compulsive e in alcune forme
avete molta apatia. L'apatia e una caratteristica di questo grande gruppo
delle degenerazioni lobari-fronto-temporali.
• Afasia primaria progressiva (cioè la perdita del linguaggio). Può avere due
caratteristiche:
1. può essere un’afasia semantica in cui il soggetto non riconosce più il
significato delle parole,
2. può essere un’afasia non fluente, significa che c'è una completa
mancanza di grammatica (agrammaticalità), poche parole pronunciate

189
dal soggetto senza alcun nesso tra di loro. Questa è differente con
l’afasia fluente in cui abbiamo più parole che vengono messe insieme.
Quindi gli aspetti della demenza possono essere di tipo comportamentale oppure
con distorsione del linguaggio. Anche l'organizzazione del linguaggio è
compromessa perché il lobo temporale è compromesso ed è qui che si trova l'area
di Wernicke che organizza il linguaggio.
DOMANDA: “Prof. Ma per ipergrammatismo cosa si intende?”
RISPOSTA: “Non è ho idea, l’ipergrammatismo ad esempio lo ha mio padre, che
parla sempre in modo forbito e rompe sempre i coglioni. Scherzo, non è ho idea,”
(Il prof. qualche minuto dopo ha trovato informazioni su l’Ipergrammatismo:
produzione di errori nel linguaggio parlato, applicazioni di regole grammaticali
quando non si devono applicare. Sinonimo di afasia fluente, per qualche scherzo
del destino l’hanno chiamato ipergrammatismo).

Quali sono le patologie in cui avete le manifestazioni parkinsoniane?


 La degenerazione cortico-basale (DCB): E una taupatia, cioè si formano gli
aggregati della proteina tau ed è caratterizzata da rigidità, acinesia e da un
segno caratteristico che è la sindrome dell'arto alieno, chiamato anche sindrome
della mano aliena. In pratica la mano si muove come se non fosse controllata
dalla volontà. Il termine significa che abbiamo una degenerazione dei sistemi
che collegano la corteccia frontale, quindi sistemi di programmazione del
movimento come ad esempio lo striato.
 PSP, paralisi sovranucleare progressiva: È un classico esempio di Parkinson
plus, cioè un Parkinson con caratteristiche leggermente diverse che è solo in
parte responsivo alla levodopa. È una taupatia caratterizzata da lesioni del
mesencefalo, quindi abbiamo oftalmoplegia per il semplice motivo che in questa
zona abbiamo i nuclei che controllano i muscoli estrinseci dell’occhio e quindi
abbiamo una paralisi dei muscoli estrinseci dell'occhio. E’ anche caratterizzata
da una paralisi pseudo-bulbare ma non degenerano i nuclei del bulbo, bensì
degenerano le fibre cortico-bulbari che vanno dalla corteccia al bulbo e poi c'è
tantissima apatia. Mi è capitato di studiare l'apatia per fare un webinar sulla
depressione perché l’apatia si associa spesso alla depressione. L'apatia è una
caratteristica assoluta della PSP e questa è una dimostrazione che il circuito
fronto-striatale ha un ruolo fondamentale nell'apatia. Apatia significa incapacità
di compiere dei comportamenti autogenerati che sono volontari e che hanno uno
scopo, quindi fondamentalmente il soggetto non si muove. La paralisi
sovranucleare progressiva si chiama sindrome di steele-richardson-olszewski.
 FTDP-17, demenza frontotemporale e parkinsonismo associata al
cromosoma 17: Queste patologie dipendono nel 50% da mutazioni della tau e
per l'altro 50% da mutazioni della progranulina.

Come vedete avete questo grande gruppo di demenze da degenerazione lobare-


fronto-temporale e vi ripeto dove le principali mutazioni sono a carico della tau,
della progranulina e C9ORF72, dove avete questa combinazione di demenza
frontale, sintomi parkinsoniani e malattia del motoneurone come nella SLA.
La demenza frontale tipica si chiama demenza di Pick dove la variabile

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comportamentale prevale in assoluto ma nella demenza di Pick, per definizione,
non avete manifestazioni parkinsoniane.

Parkinsonismo post-encefalitico: I segni parkinsoniani in un determinato periodo


storico sono stati ricondotti ad una infezione virale e questo deriva dal fatto che un
grande neurobiologo del passato che si chiama Constantin Von Economo, ha
studiato per un certo periodo di tempo, agli inizi del 900, una malattia virale che si
chiama encefalite letargica, caratterizzata dal fatto che i pazienti affetti dormivano
anche 20 ore di seguito senza mai svegliarsi e poi c'era una piccola percentuale
che soffriva di insonnia. Constantin Von Economo scoprì che i pazienti affetti da
encefalite letargica avevano lesioni dell'ipotalamo e del mesencefalo, ed è stata
una delle prime dimostrazioni che ha suggerito che il ciclo sonno-veglia fosse
regolato da specifiche strutture all’interno del SNC e non fosse soltanto qualcosa di
aspecifico legato all'arrivo di informazioni dall'ambiente esterno.
Constantin Von Economo è importante anche perché ha dato il nome alle famose
cellule di Von Economo, dei neuroni che si trovano nell’insula, anche detto 5° lobo
di Reil, i quali degenerano nelle demenze. I soggetti che avevano encefalite
letargica hanno sviluppato diversi anni dopo una forma di parkinsonismo post-
encefalitico. È stato uno studio interessante perché ha dimostrato come
un'infezione virale potesse essere all'origine del parkinsonismo. Questi pazienti
erano caratterizzati da lesioni del mesencefalo ed è ovvio che la forma di
parkinsonismo è riconducibile a questo. Questa forma di parkinsonismo post-
encefalitico ha dato vita al film “Risvegli” che parla di pazienti che hanno ripreso a
muoversi dopo trattamento con levodopa e se non ricordo male nel film i pazienti
erano tutti affetti da parkinsonismo post-encefalitico.

Parkinsonismo vascolare che in realtà dipende da aterosclerosi, lipoialinosi,


piccoli strokes cioè piccoli episodi di ischemia cerebrale che si hanno nella parte
più profonda del cervello dove ci sono anche le arterie che irrorano lo striato. Il
parkinsonismo vascolare non sempre risponde alla levodopa, anzi ha una debole
risposta alla levodopa. È un parkinsonismo in genere simmetrico associato anche a
manifestazioni focali, a volte avete spasticità e vi ricordo che la spasticità non è un
sintomo del Parkinson, quando l'avete fa parte del Parkinson plus. La malattia di
Parkinson è caratterizzata da rigidità quindi il parkinsonismo vascolare va
individuato perché a volte utilizzate calcio antagonisti, cioè farmaci che
vasodilatano nel SNC mentre il trattamento con levodopa non dà i risultati che
sperate.

Parkinsonismo tossico o tossicologico: qui vi riporto tre casi interessanti per


ragioni diverse, due di questi casi sono interessanti perché dimostrano che il
mitocondrio è al centro della patogenesi della malattia di Parkinson.
 Il primo è il parkinsonismo da MPTP, la MPTP è una tossina che si chiama 1-
metil-4-fenil-1,2,3,6- tetraidro-piridina. Questa è una tossina che si forma “by
product”, come prodotto collaterale, nella sintesi chimica di una droga che si
chiama dimetilprodina che è un derivato della meperidina cioè un oppioide. La
cosa è accaduta nel 1976 se non ricordo male quando un giovane tossico
dipendente del Maryland ha sintetizzato la dimetilprodina ed ha sviluppato segni

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Parkinsoniani, si è presentato in ospedale dove inizialmente è stato scambiato
per un soggetto schizofrenico catatonico, perché non hanno pensato che ci
potesse essere malattia di Parkinson in un soggetto così giovane. In effetti non
era una vera e propria malattia di Parkinson ma un parkinsonismo tossicologico
cioè generato da questa sostanza MPTP che si era formata come prodotto
collaterale quando il ragazzo aveva sintetizzato la dimetilprodina. Qualche anno
dopo la stessa cosa si è verificata in quattro persone che anche loro avevano
sintetizzato la dimetilprodina e avevano sviluppato un parkinsonismo
irreversibile.
Inizialmente non si era dato molto risalto alla MPTP. Il primo ragazzo con
parkinsonismo tossicologico poi successivamente morì di overdose da cocaina,
hanno fatto le analisi tossicologiche ed hanno trovato tracce di MPTP. La prima
cosa che hanno fatto i ricercatori è stata di somministrarla ai ratti ma i ratti non
sviluppano parkinsonismo da MPTP (mentre i topi si) e si è pensato che l’MPTP
non fosse una sostanza nociva. L’MPTP induce parkinsonismo nel topo, nella
scimmia, nell'uomo. Alcuni ricercatori che hanno inizialmente studiato l’MPTP
hanno sviluppato parkinsonismo irreversibile con lesioni nel sistema nigrico-
striatale. Noi utilizziamo MPTP in laboratorio ma lo facciamo con tutte le
precauzioni cioè utilizziamo guanti, si lavora sotto cappa quando si manipola
MPTP, bisogna stare attenti. È una sostanza particolarmente liposolubile che
attraversa la cute, penetra nell'organismo attraverso la respirazione e attraversa
senza alcun problema la barriera emato-encefalica. All'interno del cervello viene
attaccata dalla MAO-B che si trova soprattutto negli astrociti, attraverso una
doppia tappa di conversione viene trasformata in un prodotto finale che si
chiama MPP+ (1-metil-4-fenil ione piridinio). MPP+ viene captato dai terminali
dopaminergici e dai terminali noradrenergici attraverso il DAT (trasportatore ad
alta affinità per la dopamina) o il NAT (trasportatore ad alta affinità per la
noradrenalina) e a questo punto all'interno dei neuroni dopaminergici si
accumula se trova la melanina. Quindi i neuroni pigmentati sono particolarmente
esposti all'azione dell’MPTP e inoltre è un potente inibitore del complesso 1
della catena respiratoria del mitocondrio.
MPTP viene utilizzato da tantissimi laboratori, incluso il nostro, per creare dei
modelli di parkinsonismo tossicologico; si somministra con diversi paradigmi,
potete dare dosaggi più alti, dosaggi più bassi, fare somministrazioni acute cioè
ripetute nel tempo e i neuroni dopaminergici degenerano in modo dose
dipendente. Potete realizzare una degenerazione completa, più del 90% dei
neuroni oppure una degenerazione più contenuta, 40%- 50%. Perché è
importante? Perché la dimostrazione ancora una volta che il mitocondrio ha un
ruolo cruciale nella patogenesi della malattia di Parkinson, anche se questa non
è la malattia di Parkinson ma è parkinsonismo tossicologico e chiaramente non
dovete confonderlo.
 Parkinsonismo caraibico: È una forma di parkinsonismo plus. Nell'isola di
Guadalupe ci sono molti casi di PSP ed anche diversi casi di Parkinson che
però hanno una componente distonica, insomma non è il Parkinson tradizionale
ma è Parkinson con dei sintomi aggiuntivi. È molto più presente rispetto a
quanto non accada normalmente, in genere la proporzione tra Parkinson plus e

192
Parkinson normale è nettamente a favore del Parkinson normale ma lì non è
così, almeno il 50% dei casi è Parkinson plus.
Per quale motivo nell'isola di Guadalupe si ha questa forma di Parkinson plus?
Perché lì si consuma una particolare pianta che si chiama Annona Muricata.
L’Annona Muricata contiene delle sostanze che si chiamano acetogenine e tra
queste c’è l’annonacina. Se vuoi prendete l’annonacina e la iniettate nel topo
realizzate un modello di parkinsonismo. Si è calcolato che i nativi del posto che
fanno uso di annona muricata o mangiando il frutto o il nettare che esce dal
frutto tutti i giorni assumono la stessa quantità che vi serve per creare
parkinsonismo nel topo. L’annonacina è un potente inibitore del complesso 1
della catena respiratoria del mitocondrio.
In realtà c'è un'altra cosa da aggiungere che riguarda il rotenone che è un
pesticida che da parkinsonismo ed è anche utilizzato per l’induzione di modelli di
Parkinsonismo nell'animale. Il rotenone è molto simile ai pesticidi che vengono
utilizzati in agricoltura ed è un potente inibitore del complesso 1. Guardate che
la popolazone rurale è considerata a rischio di parkinsonismo per questo motivo.
Le sostanze utilizzate in agricoltura come insetticidi e pesticidi che sono inibitori
del complesso 1 e sono molto simili all’MPP+ (metabolita attivo dell’MPTP) sono
un fattore di rischio.
Un altro fattore di rischio è l'uso dei betabloccanti che sono farmaci largamente
utilizzati ma sono considerati tali.

 Parkinsonismo Litigo Botig: vi introduco un altro tipo di parkinsonismo


tossicologico. Cosa vuol dire Litigo botig? È Il linguaggio degli aborigeni
Chamorro dell'isola di Guam e di Rota. Queste isole sono state teatro di guerre
continue tra gli americani e giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. In
queste isole c'è una palmetta, che magari qualcuno di voi ha in giardino, che si
chiama Cyca Circinalis e durante i periodi di carestia che si accompagnavano
alle guerre, gli aborigeni Chamorro mangiavano esclusivamente Cyca. Nella
Cyca Circinalis è presente una sostanza che si chiama BMAA betametilamino-L-
alanina. Questi aborigeni hanno sviluppato una malattia che è il complesso
SLA/PD (Sclerosi laterale amiotrofica-Parkinson-demenza) in cui l'incidenza
della sclerosi laterale amiotrofica era mille volte più alta rispetto a quella degli
altri paesi del mondo. Nel momento in cui la guerra è finita questa patologia è
scomparsa dalle isole di Guam e Rota perché gli americani hanno colonizzato
l'isola costruendo i McDonald's ed infatti si dice che questa è “l'unica patologia
che è stata curata dai McDonald's”. Come agisce BMAA? È un agonista dei
ricettori NMDA e mGLU 1-5 (recettori metabotropici del glutammato) e
probabilmente questo può aver determinato una neurodegenerazione.

Parkinsonismo farmacologico: per chiudere questa carrellata non dimenticatevi


che esiste anche un parkinsonismo farmacologico che è quello che viene fuori se
voi, ad esempio, prendete antipsicotici di prima generazione cioè farmaci che
bloccano i ricettori D2 per più del 90%. In realtà basta un target occupancy
superiore al 75-80% per poter causare parkinsonismo farmacologico quindi anche
antipsicotici di seconda generazione come il risperidone e paliperidone potrebbero
dare manifestazioni di parkinsonismo. Insomma, per farla breve questo si può

193
verificare molto spesso in ambito psichiatrico e l’unico rimedio per il parkinsonismo
farmacologico sono i farmaci anticolinergici cioè akineton e disipal, soprattutto
l’akineton e si danno 2-4 mg un paio di volte al giorno.
Nel caso del Parkinson tradizionale li possiamo considerare come farmaci di
seconda linea mentre se voi avete e un parkinsonismo farmacologico sono di prima
linea, qui non potete dare la levodopa perché il paziente è schizofrenico e voi
dovete bloccare la trasmissione dopaminergica e non supportarla.

FISIOPATOLOGIA DEL PARKINSON


Cominciamo con alcune stime di prevalenza: In Europa le stime sono 65-1500 su
100.000 affetti da malattia di Parkinson, il che significa che oscillate tra lo 0,65% e
1,5%; negli USA siete più o meno sulle stesse cifre, 111-322 su 100.000.
Ovviamente è inutile che vi dica che la malattia di Parkinson è legata all'età e via
via che passa il tempo la sua prevalenza aumenta e forse tutti noi siamo destinati a
sviluppare il Parkinson dopo i 100 anni. Le cose cambiano un po’ se voi andate in
Africa, in Asia, nella penisola arabica perché in questo caso le stime sono più
basse e oscillano tra i 20-60 su 100.000. C'è una maggiore prevalenza negli
uomini, il rapporto uomini/donne è di 3:2.
C'è un discorso legato alle etnie, ad esempio, negli USA gli ispanici hanno un
maggior rischio di sviluppare Parkinson seguiti dai caucasici, seguiti poi da asiatici
e da afroamericani, quindi l'etnia per qualche motivo è importante.

Cosa succede nella malattia di Parkinson?


C’è una meiopragia d’organo, il che significa che alcune regioni del SNC sono
maggiormente esposte alla neurodegenerazione. La parte più coinvolta è la pars
compacta della sostanza nera dove ci sono i grandi neuroni melanici del
mesencefalo, in particolare la porzione vetro-laterale della sostanza nera è quella
che degenera per prima. Questa è la regione che innerva la porzione laterale
somatosensoriale del neostriato (formato da nucleo caudato e dal putamen) e
questa regione laterale somatosensoriale del neostriato è quella che fa
principalmente parte del putamen. Le fibre dopaminergiche che arrivano al
putamen degenerano prima rispetto a quelle che arrivano al nucleo caudato.
Si fa diagnosi di Parkinson nel momento in cui c'è una riduzione delle fibre
dopaminergiche nello striato maggiore del 70% oppure c'è una perdita di neuroni
nella sostanza nera maggiore del 50%.

Oggi è possibile fare una diagnosi accurata utilizzando una metodica che si chiama
DAT-SCAN cioè utilizzando la SPECT in cui si usa un legando del DAT
(trasportatore ad alta affinità della dopamina) che ovviamente è espresso dalle fibre
dopaminergiche, è un composto a struttura tropanica come la cocaina che infatti
lega il DAT avendo una struttura tropanica.
Usando questo composto spect capiamo quindi il grado di degenerazione delle
fibre a livello striatale permettendo di fare diagnosi accurata.
Si possono usare altri strumenti come la PET con levodopa marcata con fluoro18
che viene captata con alta prevalenza.

194
Nella patologia non muoiono soltanto i neuroni della sostanza nera, muoiono anche
altri neuroni del tronco dell’encefalo (neuroni noradrenergici del nuclues
ceruleus, importanti per il mantenimento dello stato di veglia e della soglia di
attenzione). Muoiono anche i neuroni del rafe dorsale (stazione principale
serotoninergica del tronco da cui partono le fibre serotoninergiche), i neuroni del
nucleo motore dorsale del vago, fondamentale per i neuroni visceromotori del
nervo vago, e muoiono pure i neuroni colinergici (nucleo di Meynert, che
degenera molto di più nell’Alzheimer che nel Parkinson ma comunque anche qui vi
è demenza associata a questo meccanismo).
Anche i neuroni del nucleo del tegmento peduncolopontino muoiono, altra
struttura colinergica del tronco importante per l’addiction e perché si attiva nella
fase REM del sonno ed è responsabile della rappresentazione onirica del sonno.

Quindi sono implicate diverse strutture, e non a casa il Parkinson è caratterizzato


da disturbi della fase REM del sonno, normalmente quando entrate in fase REM la
muscolatura diventa totalmente atonica, tranne i muscoli oculari che si muovono.
Nel disturbo comportamentale della fase Rem del sonno nel Parkinson invece la
muscolatura non è atonica, allora i contenuti onirici del sonno vengono tradotti in
movimento (fa esempio di marito che picchia moglie nel sonno).
Questo disordine della fase REM del sonno si riscontra anche in altre patologie
come demenza a come nella demenza a corpi di Levy.
Importante è che questi sintomi anticipano le classiche manifestazioni motorie della
malattia.

La vulnerabilità/morte dei neuroni dopaminergici si deve dunque a delle


caratteristiche come:
 ambiente ossidante che deriva dalla produzione dei ROS durante la sintesi della
melanina e durante l’auto-ossidazione della dopamina
 per il fatto (strano scherzo della natura) che i neuroni della pars compacta della
sostanza nera non hanno difese antiossidanti o comunque ne hanno poche.
Infatti, questi neuroni hanno molto ferro, che è suscettibile alla reazione di
Fenton producendo radicali ossidrilici. Inoltre, hanno poca catalasi e poco
glutatione.
Quindi sono delle cellule in cui si formano specie reattive dell’ossigeno ma non
hanno l’armamentario per difendersi da queste.

Quest’ultima caratteristica è dovuta al fatto che un ambiente ossidante è


fondamentale per il differenziamento neuronale.
I neuroni della sostanza nera infatti sono molto peculiari, hanno una scarica
elettrofisiologica molto tipica (come se fossero dei piccoli pacemaker).
Piccola nota: quelli che mettono le cellule staminali nello striato a fini terapici sono
degli imbroglioni, perché i neuroni della sostanza nera sono cellule perenni, non
possono dare origine ai tumori perché hanno un grado di differenziazione altissimo.
Sono cellule così istruite e specializziate che il sistema preferisce perderle che
sostituirle con neuroni che non sanno fare nulla.
Quando i neuroni muoiono tornano nel ciclo cellulare ma visto che non possono
portarlo a termine scatta un meccanismo di default quindi di autodistruzione.

195
Quindi una delle ragioni per cui i neuroni della sostanza nera sono vulnerabili è che
producono specie reattive dell’ossigeno, per ovvie ragioni perché producono
melanina e hanno tanta dopamina che si può auto ossidare, però non hanno le
difese antiossidanti e inoltre hanno tanto ferro.

Un’altra caratteristica del sistema nigrico striatale sta negli assoni neuronali, lunghi
fino a 4 metri, ed ogni singolo assone ha circa 2 milioni di sinapsi. Quindi con
assoni così lunghi si ha necessità di avere molti mitocondri che viaggiano dal soma
alle porzioni terminali dell’assone. I mitocondri invecchiano durante questo
percorso, infatti la loro catena respiratoria diventa deficitaria durante
l’invecchiamento e non riesce a trattenere i Ros (si stacca dalla catena respiratoria
l’anione superossido). In particolare, è il complesso 1 ad essere chiamato in causa
nel Parkinson.
Se facessimo una sezione della pars compatta della sostanza nera nel pz con
Parkinson si troverebbero, in una piccola percentuale, alcune inclusioni
intracellulari (intracitoplasmatiche) chiamate corpi di Levy, ossia inclusioni con
aggregati resistenti alle proteasi di una proteina detta alfasinucleina.
I corpi di Levy di per sé non sono responsabili della patologia ma sono un tentativo
disperato da parte del sistema di degradare aggregati di alfasinucleina e tuttavia
sono un indice di patologia.
Solo il 3-5% dei neuroni al massimo li presenta, ma questa percentuale viene
mantenuta durante tutto il decorso della malattia nonostante i neuroni muoiano: i
corpi si formano nei neuroni che sono destinati a morire.

Ma come mai allora i corpi di Levy si ritrovano nella stessa % nonostante i neuroni
vadano in contro a morte?
Questo perché esiste il meccanismo di seeding and template: quando si formano
questi aggregati di alfa sinucleina (parliamo di oligomeri, aggregati di più di 50
monomeri a differenza degli aggregati della proteina amiloide nell’Alzheimer in cui
sono 10 monomeri messi insieme).
Questi monomeri possono uscire dalla cellula tramite la morte di questa o tramite
trasporto mediato da vescicole e gli aggregati possono dunque essere trasferiti da
una cellula all’altra.
Gli aggregati entrano in un’altra cellula attraverso gli eparansolfato proteoglicani
che fungono proprio da recettori per questi aggregati. Quindi questi aggregati si
formano e si trasferiscono da una cellula all’altra.

Questi corpi di Levy però da dove partono?


A monte vi è una mutazione, ad esempio, della proteina stessa (alfasinucleina), o
mutazioni per enzimi implicati nella degradazione dell’alfasinucleina oppure
mutazioni che ne aumentano la sintesi.
Tuttavia, il Parkinson monogenico rappresenta solo il 5% dei casi (il Parkinson
familiare costituisce il 10% dei casi).

Nel Parkinson idiopatico invece (la maggioranza dei casi) i corpi di Levy da dove
vengono?

196
Per rispondere bisogna sapere che:
se noi iniettiamo corpi di Levy nel corpo striato di un animale, se ne riproduce la
patologia e l’animale inizierà a formare a sua volta corpi di Levy.
Se noi invece li iniettiamo in una animale knock-out (animale che non ha
l’alfasinucleina) i corpi di Levy non avranno diffusione.
Dunque, i corpi di Levy: partono da un punto  vanno in un altro punto 
incontrano alfasinucleina  l’alfa sinucleina si aggrega  questi aggregati
crescono.
Dunque, l’alfasinucleina monomerica, che è quella fisiologica che esercita la sua
funzione, non ci sarà più ma si troveranno solo aggregati che sono riscontrabili
anche nel liquor dei pazienti.

Poi c’è il movimento da un neurone all’altro: vi è una teoria che spiega come questi
aggregati partano dall’intestino (non acquisite con la dieta come i prioni ma forse
formati dal microbiota).
Se somministriamo aggregati di alfasinucleina nell’intestino dopo un po’ troviamo
aggregati nel nucleo del tratto solitario, poi in salita nel tronco finché non si
ritrovano nella sostanza nera.
Dunque, vi è un movimento verso l’alto fino in corteccia e ciò provoca demenza.
Tuttavia, ci può essere il caso in cui la demenza arriva prima, ossia questi
aggregati si formano prima nella corteccia arrivando dalle vie nasali, vanno nel
bulbo olfattivo e poi scendono al tronco. Questo meccanismo però si applica più a
quelle patologie da misfolding proteico come i prioni.

Tornando alla genetica del Parkinson, le forme familiari sono il 5% solo il 3-5% di
queste e sono riconducibili a una trasmissione monogenica.
Ci sono delle forme autosomiche recessive, dominanti e legate al cromosoma X:

a) FORME A TRASMISSIONE AD:

1. Mutazioni dell’alfasinucleina (meno dell’1% delle forme genetiche)


L’alfasinucleina è una proteina di 140 aa che si trova prevalentemente nei
terminali nervosi, è una proteina che interagisce inoltre con il complesso SNARE
mediando il rilascio dei neurotrasmettitori nel terminale sinaptico.
L’alfasinucleina è presente in forma monomerica, dimerica, tetramerica
(quest’ultima è meno incline a formare aggregati) e nell’alfasinucleina c’è anche
una regolazione intrasterica, ossia il segmento C-terminale interagisce
normalmente con la porzione centrale della molecola e quindi la molecola si
ripiega evitandone la formazione di aggregati.
Possono però accadere diverse cose come: la troncazione della proteina (C-
terminale non può interagire con porzione centrale della molecola) oppure può
essere nitrosilata (la nitrosilazione di alcuni residui come quelli in Tyr possono
favorire l’aggregazione), può essere fosforilata (forsforilazione in Ser129
ritrovata nei corpi di Levy) oppure ubiquitinata.
Quando questa proteina forma gli aggregati che non vengono più degradati, li
ritroviamo negli inclusi, ossia nei corpi di Levy. Questi aggregati sono anche in
grado di interferire con la funzione dei mitocondri, per esempio interagiscono

197
con la proteina Tom20 (proteina di trasporto della membrana mitocondriale
esterna) determinando disfunzione mitocondriale.

Le mutazioni dell’alfasinucleina riconosciute nella malattia di Parkinson sono:


- A53T
- A30P
- E46K
- G51D
- A53E
Le prime 3 sono quelle più importanti e le sigle significano le sostituzioni degli
aa (esempio Alanina è sostituita da una Treonina in posizione 53 o che una
Alanina è sostituita da una prolina in posizione 30)
La mutazione A53T dà la forma di Parkinson precoce (sotto i 50 anni) ma che
risponde bene alla Levo-dopa che però può indurre effetti avversi come le
discinesie. L’unica cosa è che però è una forma di Parkinson che si associa a
demenza.
Nel caso di A30P e E46K la situazione è simile ma il parkinsonismo è più
tardivo. Anche con queste mutazioni si può avere demenza e nei casi più gravi
dei sintomi cerebellari.
Queste mutazioni inoltre possono interferire con un’altra proteina, la parkina,
che sarà il protagonista assoluto sul discorso della via finale comune presentata
dai mitocondri.
Oltre queste mutazioni della sinucleina si possono avere delle CNV (variazioni
del numero di copie dei geni), ossia i geni per l’alfasinucleina può essere
duplicato o triplicato. La forma triplicata è associata ad una forma di Parkinson
più grave.

Se vogliamo rallentare la progressione della malattia, tutt’ora non esistono


farmaci sul mercato che siano in grado di farlo (forse qualche inibitore delle
MAO-B ma questo non è mai stato dimostrato). Possiamo tuttavia lavorare
sull’alfasinucleina per far sì che non si formino aggregati e migliorare la
patologia attraverso l’uso di sostanze ai fini di bloccare la produzione di
alfasinucleina (che comunque è una proteina del nostro organismo ma sul
modello sperimentale ha funzionato) attraverso sostanze come:

 siRNA: usati in modelli sperimentali solamente


 oligonucleotidi anti-senso (ASO), sono più promettenti e hanno riscontrato un
grande successo terapeutico nel trattamento dell’atrofia muscolare spinale e
sono in sviluppo nel Parkinson
 agonisti recettori beta2-adrenergici (quelli che si usano nell’asma) che riduce
la sintesi di alfasinucleina, ora in sviluppo clinico
 impedire l’aggregazione con dei pezzetti di anticorpi (intrabodies)che si
intercalano negli aggregati, approccio in sviluppo
 small moleculers, ossia molecole che sono in grado di attraversare la barriera
ematoencefalica e impedendo l’aggregazione
 favorire la clearance dell’alfasoinucleina utilizzando l’immunoterapia che può
essere passiva o attiva. Nella passiva si usano anticorpi monoclonali diretti

198
contro gli aggregati (attualmente in sviluppo). Nell’immunizzazione attiva invece
si tratta dei vaccini, ossia vaccinare soggetti affetti da Parkinson con aggregati
di sinucleina (vaccino di nome AFFITOPE) che è in avanzamento.
 l’alfasinucleina mutata o gli aggregati sono in grado di attivare una proteina
nominata c-Abl che fosforila una tirosina della parkina (Tyr143) che inattiva la
parkina. A tal proposito è in sviluppo il Nilotinib che è un inibitore di c-Abl per far
si che l’alfa sinucleina patologica non possa intervenire nei confronti della
parkina.

Quindi per riassumere si ha 3 tipi di approccio:

1. diminuire la produzione di alfasinucleina


2. Non farla aggregare con gli intrabodies o con le small moleculars
3. Favorire la clearance dell alfasinucleina con l’immunoterapia attiva o passiva

2. Mutazioni proteina LRRK2:


Tra le mutazioni a trasmissione AD quella più frequente interessa la proteina
LRRK2 (Dardarina, perché dal dialetto basco dardaro= tremore). Questa è una
proteina molto grande, sono 2527 aa, il gene contiene 51 esoni e ha diversi
domini tra cui domini LRR (domini a ripetizione di Leucina, “leucine rich
repeats”).
Poi abbiamo dei domini di GTPasi, abbastanza importanti perché la GTPasi è
una delle funzioni delle proteine G monomeriche. Quindi questo dominio può
permettere lo spegnimento di alcune proteine G monomeriche.
Poi c’è un dominio che si chiama ROC-COR, che serve per la dimerizzazione, e
un altro che si chiama WD40 e ha ripetizioni di triptofano e aspartato, che serve
anche a formare dei dimeri di LRRK2.
Fondamentalmente LRRK2 è una chinasi e infatti un ulteriore dominio presente
nella proteina è un dominio di MAPKKK. Quindi è una proteina in grado di
fosforilare diverse cose. Almeno il 10% di LRRK2 è localizzato nei mitocondri e
molte volte può accadere che, se LRRK2 va nei mitocondri in modo anomalo,
questo può determinare una ridotta difesa da parte dei mitocondri nei confronti
delle specie reattive dell’ossigeno. Per esempio, se capita che LRRK2 si
trasferisca in maniera più massiva nei mitocondri, questa fosforila una proteina
detta peroxiredoxina 3, che è la principale difesa che hanno i mitocondri contro il
perossido d’idrogeno (H O ). Quindi ancora una volta LRRK2 è una proteina che
2 2

ha a che fare coi mitocondri; è probabilmente questa la proteina più mutata in


assoluto nelle forme genetiche del Parkinson ed almeno il 10% delle forme
familiari dipende da mutazioni di LRKK2.

Mutazioni di LRKK2:
• G2019S, è la mutazione più frequente e l’unica da ricordare, in cui una
glicina in posizione 2019 della proteina viene sostituita da una serina
• I2020T, che significa che un’isoleucina in posizione 2020 è sostituita da una
treonina
• R1441H,C,G, il che significa che un’arginina in posizione 1441 può essere
sostituita da un’istidina, da una cisteina o da una glicina.

199
• Y1966C, che significa che una tirosina in posizione 1966 viene sostituita da
una cisteina.
Queste sono le sei mutazioni che con uno studio di linkage sono state associate
alla malattia di Parkinson.
ATTENZIONE: almeno l’1% della malattia di Parkinson sporadica non familiare è
riconducibile a queste mutazioni e soprattutto alla G2019S, che è la mutazione
principale. Se andate in altri gruppi etnici, la situazione diventa estremamente
interessante: per esempio, nei Maghrebini almeno il 35 - 40% del morbo di
Parkinson sporadico possiede la mutazione G2019S.
È diverso dagli Europei, ma i Maghrebini sono così. Per Ebrei Ashkenazi il 18-25%
dei casi sporadici di Parkinson sono associati alla mutazione G2019S o ad altre
mutazioni di LRRK2 e uno di questi ruoli di LRRK2, come dicevo, è quello di
garantire l’integrità mitocondriale. Quindi se LRRK2 è mutata, i mitocondri
diventano più vulnerabili nei confronti dello stress ossidativo.
Noi, per esempio, in laboratorio abbiamo dei topi transgenici che presentano la
mutazione G2019S dell’LRRK2 umana. E, se questi topi sono trattati con basse
dosi di MPTP, che in un topo normale non producono niente, quando questi topi
sono invece trattati con base dosi di MPTP appunto, si osserva degenerazione del
sistema nigrico striatale. È interessante perché ciò significa che potrebbe esserci
una convergenza tra genetica e ambiente nella fisiopatologia della malattia di
Parkinson.
Qualcuno potrebbe ora segnalare che, visto che abbiamo una mutazione a
trasmissione autosomica dominante, se un individuo è affetto da malattia, con
molta probabilità può essere affetto il figlio, almeno nel 50% dei casi. Quindi
potremmo fare la genotipizzazione del figlio, vedere la stessa mutazione e se la
mutazione è presente dire “okay questo è destinato alla malattia, trattiamolo sin da
quando ha 20 anni con dei farmaci che riducono gli aggregati di alfa-sinucleina, o
sono potenzialmente protettivi”. Non è purtroppo così, perché queste mutazioni
sono a penetranza incompleta. La penetranza aumenta con l’età, cosa che é molto
chiara negli animali da esperimento. Abbiamo questi topi transgenici dell’LRRK2,
che sono più sensibili all’azione tossica dell’MPTP quando arrivano agli 8 mesi di
età e probabilmente la penetranza della mutazione diventa quasi completa, e allora
la mutazione diventa un fattore di rischio. Questo invece non si verifica più
precocemente quando magari la mutazione non si è espressa con la massima
penetranza. Quindi il problema della penetranza è importante, perché voi non
sapete con certezza che un individuo che presenta la mutazione col tempo può
sviluppare la malattia. Quindi fare un trattamento magari di diversi anni con
sostanze neuroprotettive non è eticamente corretto, se poi questo soggetto non
svilupperà la malattia.

Quando avete le mutazioni di LRRK2, cosa succede alla principale attività della
proteina, che è una attività di tipo chinasico?
La proteina diventa più attiva, quindi la proteina funziona di più e fosforila di più.
Per questa ragione, ad esempio, la redossina del perossido di tipo 3 (o perossido-
redossina di tipo 3) viene fosforilata e messa fuori uso. A quel punto i mitocondri
diventano più sensibili alle specie reattive dell’ossigeno. Questo ha ispirato la

200
terapia, perché si è cercato di dare inibitori, anche qui small molecules (piccole
molecole) che inibiscono l’attività di LRRK2. E queste molecole sono in fase di
sviluppo clinico.

3. Mutazioni proteina VPS35:


Altra proteina mutata con trasmissione AD. È una proteina che forma il cuore
della via dei retromeri, via attraverso la quale le proteine di membrana vengono
trasferite negli endosomi, cioè prese da vescicole, le quali vanno in senso
retrogrado fino all’apparato di Golgi. Una volta nel Golgi poi vengono fuse con i
lisosomi, per permettere la degradazione delle proteine di membrana che
vengono trasportate. Queste proteine di membrana formano il cargo, cioè il
contenuto trasportato dall’endosoma, e il cargo interagisce con un complesso di
proteine di cui VPS35 fa parte.
La mutazione di VPS35 più importante è D620N, il che significa che un
aspartato in posizione 620 viene convertito in asparagina, quindi la molecola si
modifica parecchio perché l’aspartato è carico negativamente e l’asparagina non
lo è. Questo vuol dire che la via dei retromeri viene compromessa e, siccome è
una via importante per la degradazione dell’alfa-sinucleina, è anche possibile
che l’alfa-sinucleina si accumuli negli endosomi e l’endosoma poi non riesca ad
arrivare ai lisosomi. Quindi così nell’endosoma si iniziano a creare le premesse
perché si creino gli aggregati di alfa-sinucleina che alla fine formeranno i corpi di
Lewy.

Queste sono sicuramente le proteine più importanti, ma ve ne sono anche altre che
vengono coinvolte nella malattia. Tra i loro geni ve ne sono due molto interessanti
da un punto di vista speculativo
4. GTP-cicloidrolasi 1: gene GCH1 è un gene mutato con trasmissione AD della
malattia di Parkinson. Questo gene è fondamentale per la sintesi della
tetraidrobiopterina (o TH4) ed è il cofattore della tirosina idrossilasi (TH), che è
l’enzima battistrada della biosintesi delle catecolammine. La mutazione della
GTP-cicloidrolasi è responsabile della sindrome di Segawa, una distonia di tipo
5 che risponde alla Levodopa ed è caratterizzata, oltre che da distonia anche da
parkinsonismo. È una sindrome che colpisce i bambini, che può dipendere
anche da altre mutazioni a trasmissione autosomica recessiva, tra cui le
mutazioni della tirosina idrossilasi. Ma questa sindrome è interessante perché è
una forma di parkinsonismo, per altro atipico con altri segni, in cui la Levodopa
viene somministrata per anni senza fluttuazioni dell’efficacia terapeutica e senza
discinesie. Ma semplicemente perché in questa sindrome non degenerano le
fibre. Quindi il fatto che la mutazione della GTP-cicloidrolasi nella sindrome di
Segawa a trasmissione AD rappresenti un modello genetico di parkinsonismo,
ma che in realtà sia una sindrome distonica dei bambini complicata da
parkinsonismo, ci dà un’indicazione estremamente importante:
 la Levodopa nella malattia di Parkinson è il gold standard assoluto, la terapia
è fantastica per pochi anni e poi vengono fuori le fluttuazioni e le discinesie. Ma
questi affetti avversi della Levodopa non sono intrinseci alla Levodopa, ma
dipendono dal fatto che col tempo le fibre nigrico striatali continuano a
degenerare. Nella sindrome di Segawa questo non succede, perché c’è

201
un’alterazione enzimatica della sintesi della dopamina, non degenerano le fibre
del sistema nigrico striatale. Quindi in realtà il Parkinson che viene fuori non è
un vero Parkinson, è una conseguenza della ridotta sinesi di dopamina e qui la
Levodopa funziona sempre e non vi sono né fluttuazioni dell’efficacia
terapeutica né discinesie, a testimonianza del fatto che voi avete queste
manifestazioni avverse della Levodopa solo quando c’è la degenerazione
progressiva. Se la degenerazione progressiva non c’è, questo non accade.

5. Atassina 2: altra mutazione AD. È una proteina che può diventare patologica se
c’è un’espansione di tripletta, la CAG, cioè la classica tripletta che viene
espansa. A seconda dell’espansione, se avete circa 36 ripetizioni della tripletta,
voi avete malattia di Parkinson; se invece avete 43 ripetizioni della tripletta avete
la SCA 2, cioè l’atassia spinocerebellare di tipo 2. Quindi la stessa mutazione
della proteina atassina 2 può essere responsabile del Parkinson come della
SCA 2, a seconda del numero di espansioni di tripletta presenti.

6. Gene GYGIF2, che codifica per proteina Grb10, che è una proteina della
segnalazione dell’IGF (insuline like growth factor).

7. CHCHD2: codifica per la citocromo ossidasi, molto interessante perché ci


richiama al ruolo del mitocondrio. La citocromo ossidasi è il terminale della
catena respiratoria mitocondriale, e ce ne sono diverse altre, alcune però di
queste non sono state associate con sicurezza al parkinsonismo.

Quindi, ricapitolando, voi avete una serie di mutazioni a trasmissione


autosomica dominante, che sono associate alla genetica del Parkinson. Di tutte
queste ne dovete ricordare soltanto due: la mutazione dell’alfa-sinucleina, in
particolare A53T, A30P, E46K, e poi anche la duplicazione e la triplicazione del
gene, ed è ovvio perché l’alfa-sinucleina forma i corpi di Lewy. E poi le
mutazioni di LRRK2, per il semplice motivo che sono le più frequenti e le
alterazioni di queste proteine possono convergere nella disfunzione
mitocondriale.

Ultima cosa a proposito delle mutazioni di LRRK2 è che, quando avete queste
mutazioni, la malattia di Parkinson è molto simile alla malattia di Parkinson
idiopatica, ma è addirittura più benigna. Per esempio, il tempo che intercorre da
quando cominciano i sintomi motori a quando si hanno le prime cadute, le
cosiddette ‘falls’ che rappresentano una complicanza molto severa della malattia
di Parkinson, è un tempo più lungo. Devono passare almeno 12 anni da quando
si fa diagnosi prima che vi siano le cadute, se avete la mutazione di LRRK2;
mentre invece passano 9-10 anni quando si ha un Parkinson senza mutazione
di LRRK2. E anche la risposta alla Levodopa è migliore nei pazienti che hanno
la mutazione di LRRK2 rispetto a quelli che non la hanno. Quindi, è vero che
questa è la mutazione più frequente tra le autosomiche dominanti in assoluto,
ma allo stesso tempo è una mutazione che rende la malattia di Parkinson un
pochino più benigna.

202
b) MUTAZIONI A TRASMISSIONE AUTOSOMICA RECESSIVA:
Sono in generale meno frequenti ma, a mio modo di vedere, sono più importanti.
Vi sono tre mutazioni fondamentali che interessano i geni che codificano per
Parkina, Pink-1 e DJ1, che sono di gran lunga le più conosciute tra le autosomiche
recessive.
1. Parkina è una E3 ligasi, cioè una proteina del complesso ubiquitina
proteasoma, che serve a legare l’ubiquitina e quindi a far sì che le altre proteine
vengano degradate. La parkina ha un ruolo fondamentale nei meccanismi di
ubiquitinazione nel mitocondrio. Quando si ha mutazione della parkina, cosa
interessante è che si ha una malattia di Parkinson molto spesso senza corpi di
Lewy e ciò significa che i corpi di Lewy sono certamente associati alla malattia
nella maggior parte dei casi, ma potete avere Parkinson anche senza gli
aggregati di alfa-sinucleina. Quello che succede nello stesso tempo è che, se
avete malattia di Parkinson senza mutazione della parkina e avete i corpi di
Lewy, i corpi di Lewy intrappolano la parkina. Questa, ad esempio, viene
fosforilata dalla MAPK p38 in posizione serina 139 dentro ai corpi di Lewy e
quando questo succede la parkina non funziona più. Può anche essere
nitrosilata all’interno dei corpi di Lewy e viene intrappolata.

La cosa che mi viene in testa è che secondo me il vero responsabile della


malattia di Parkinson non sono i corpi di Lewy ma è la parkina, cioè il fatto che
la parkina venga inibita. Se voi prendete il cervello di pazienti affetti da malattia
di Parkinson ed andate a cercare l’espressione di alcuni substrati della parkina
come la proteina AIMP2 o la PAIS, queste proteine sono aumentate. Sono
aumentate perché la parkina non le ubiquitina e non le fa degradare. Quindi la
parkina non funziona, indipendentemente dal fatto che voi possiate avere le
mutazioni della parkina o meno. Se, invece, avete le mutazioni della parkina,
queste sono sufficienti a darvi la malattia di Parkinson indipendentemente dal
fatto che vi siano i corpi di Lewy, perché comunque la proteina è mutata. Quindi
il mio personale modo di vedere, che potrebbe dunque non esser condiviso
quando farete l’esame di Neurologia, è che in realtà il vero responsabile della
malattia di Parkinson sia la disfunzione mitocondriale e la vera proteina qui
coinvolta è la parkina, fondamentale per tutti i meccanismi di controllo di qualità
dei mitocondri. Ora può accadere che voi formiate i corpi di Lewy, abbiate gli
aggregati di alfa-sinucleina, questi aggregati alterino la funzione della parkina e
a quel punto il mitocondrio sia compromesso. Potete anche avere le mutazioni
della parkina e in questo caso ve ne fregate altamente se ci sono aggregati di
alfa-sinucleina o se non ci sono, perché in ogni caso le mutazioni sono
sufficienti a darvi la malattia di Parkinson.
La prova che la responsabile di tutto ciò sia la parkina è che, prendendo un
cervello di pazienti affetti da Parkinson dove non si hanno mutazioni della
parkina, nonostante questo alcune proteine substrato della parkina come AIMP2
e PAIS le troverete aumentate nel tessuto a segnalare che la parkina non stia
funzionando.
Le mutazioni della parkina sono responsabili nella maggior parte dei casi di
Parkinson giovanile. Sono casi che vengono fuori a 30 anni e a volte anche a 25

203
anni. È una malattia di Parkinson questa che risponde bene alla Levodopa,
anche se poi quando fate trattamento con Levodopa vengono fuori discinesie,
distonie e in alcuni casi iperreflessia, ma la risposta alla Levodopa viene
mantenuta.
Quindi è interessante come questa proteina che serve ad ubiquitinare, ovvero a
dare l’innesco per la degradazione delle proteine, è la proteina che è mutata
nella maggior parte nelle forme giovanili di malattia di Parkinson, quando la
malattia viene fuori a 30-35 anni. È una proteina che può dare da sola la
malattia, se viene mutata e quando vi sono altre cause di malattia, viene messa
in grado di non funzionare più, perché per esempio si trova a contatto coi corpi
di Lewy e l’alfa-sinucleina sotto forma di aggregati la inattiva. Perciò ancora una
volta è una proteina che può rappresentare una via finale comune e prova ne è
il fatto che avete forme di Parkinson giovanile senza corpi di Lewy da mutazione
della parkina.

2. PINK-1: protein chinasi attivata da PTEN. È una proteina legata i tumori, per
esempio quelli cerebrali ed è un controllore negativo della via della
fosfatidilinositolo 3 chinasi. Quindi, PTEN normalmente inibisce la PI3K. Ma qui
non c’entra niente: qui PTEN sostiene l’attività di PINK-1, che appunto è unna
proteina regolata da PTEN.
Pink-1 normalmente viene degradata dal mitocondrio, perché in grado di
attraversare la membrana esterna, di andare verso la membrana interna e
venire degradata. Tuttavia, quello che normalmente succede è che, se c’è un
danno mitocondriale, Pink-1 non viene degradata ma si autofosforila, diventa
attiva e, diventando attiva, recluta la parkina. A questo punto la parkina comincia
ad ubiquitinare le proteine che si trovano nella membrana esterna e interna del
mitocondrio, anche quelle che si trovano nel citosol e questo dà origine a tutti i
meccanismi di controllo di qualità del mitocondrio. Cioè fondamentalmente
quello che succede è che Pink-1 è una specie di sensore che immediatamente
si rende conto del fatto che i mitocondri possano essere danneggiati e, quando
effettivamente lo sono, Pink-1 sa di non dover essere degradata e richiama
quella che può correggere il danno mitocondriale, che è la parkina. Nel
momento in cui la parkina viene attivata, scattano i meccanismi di mitofagia, di
fissione e fusione del mitocondrio, di biogenesi, di sintesi proteica e così i
mitocondri danneggiati sono eliminati o riparati.
Se voi prendete un cervello di malato di Parkinson, Pink-1 è là, quindi non è che
Pink-1 si modifichi, è la Parkina che semmai si modifica. Tuttavia, se avete
mutazioni di Pink-1, automaticamente la Parkina non funziona più e, tutte le
volte che avete dei mitocondri danneggiati, la Parkina non è più in grado
d’innescare i meccanismi di controllo di qualità del mitocondrio.
Quindi è per questo che secondo me le mutazioni di Pink-1 e di Parkina, che
sono mutazioni autosomiche recessive, sono più importanti delle mutazioni di
alfa-sinucleina e di LRRK2. Ma, quando dico più importanti, è perché le
interpreto come mutazioni della via finale comune, ovvero loro influenzano
direttamente il mitocondrio, indipendentemente dal fatto che vi siano i corpi di
Lewy. Infatti le mutazioni di Pink-1 sono anche responsabili di Parkinson
giovanile ed anche in questo caso i corpi di Lewy sono molto rari.

204
La cosa cambia un po’ per DJ1.

3. DJ1: è una sostanza localizzata nel mitocondrio e svolge un ruolo antiossidante.


Tuttavia, quando avete le mutazioni di DJ1, sempre con trasmissione AR, potete
ritrovare i corpi di Lewy. La situazione qui è diversa da Parkina e Pink-1, che
sono questi due partner sempre legati tra di loro che fanno scattare i controlli di
qualità del mitocondrio. DJ1 è un antiossidante, che se va nel mitocondrio e lo
protegge dai radicali liberi; quando muta, inoltre, si può avere Parkinson con
corpi di Lewy, per ragioni sconosciute.

Ci sono due mutazioni a trasmissione AR che sono responsabili di Parkinson plus:


 ATP13A2, che è responsabile di una patologia particolare detta sindrome di
Kufor Rakeb. Questa è una forma di parkinsonismo giovanile, che inizia durante la
crescita dei bambini ed è associato a declino cognitivo, a spasticità. Insorge ad una
età inferiore rispetto ai 20 anni e ciò dipende dal fatto che ATP13A2 è un’ATPasi
che si trova nella superficie degli endosomi ed è importante anche per
l’acidificazione degli endosomi. Diverse proteine coinvolte nell’acidificazione di
endosomi e lisosomi sono responsabili anche di forme di parkinsonismo a
componente genetica. Ve l’ho indicato come Parkinson plus perché non è un
Parkinson normale, cioè l’insorgenza è veramente in tenerissima età, e poi c’è
spasticità, che non si ha normalmente in una malattia di Parkinson.
 PLA2G6. Questa è una particolare variante di fosfolipasi A2, che è quell’enzima
che stacca l’acido arachidonico dai fosfolipidi. La mutazione di questa fosfolipasi
A2, che si trova nelle membrane, è anche responsabile di alcune patologie
abbastanza complesse. Le patologie sono tre:
• Distrofia neuroassonale dell’infanzia
• Neurodegenerazione con accumulo di ferro di tipo 2 (la tipo è la
Hallervorden-Spatz)
• malattia di Karak, con particolari disfunzioni assonali
La stessa mutazione, quindi, può dar luogo a tre patologie diverse, ma sempre
caratterizzate da Parkinsonismo e sempre a trasmissione autosomica recessiva.

Poi vi sono ancora due geni coinvolti in questa trasmissione: uno è quello della
sinaptojannina 1, importante per il controllo delle vescicole sinaptiche. Queste
ultime ritornano ancora nella genetica del Parkinson, per il semplice motivo che
l’alfa sinucleina è in contatto con il complesso SNARE. E qui abbiamo un altro gene
stavolta a trasmissione autosomica recessiva e non dominante come l’alfa-
sinucleina.
L’altro gene che voglio segnalarvi è SPG11, che può dare parkinsonismo ma è
coinvolto in alcune patologie:
• la paraplegia spastica di tipo 11 (si chiama SPG11 proprio per questo)

205
• la forma giovanile di SLA di tipo 5 (cosa ancora una volta interessante vedere
Parkinson e malattia del motoneurone che viaggiano insieme con una
genetica combinate, come visto nelle degenerazioni lobari frontotemporali)
• particolare variante della malattia di Charcot Marie Tooth

Con questo terminiamo la genetica convenzionale del Parkinson, ma per ultimarla


del tutto devo parlarvi di un importante gene che conferisce rischio di malattia, forse
il più importante gene di rischio della malattia di Parkinson. Questo prende il nome
di GBA1 e codifica per un enzima detto glucocerebrosidasi, che degrada
normalmente la glucosilceramide, quel piccolo glicolipide formato da glucosio e
ceramide (ceramide N acil sfingosina). Esistono circa 300 mutazioni di questo gene
e, quando le mutazioni sono in omozigosi (ovvero tutti e due gli alleli sono colpiti),
viene fuori la malattia di Gaucher, una malattia da accumulo lisosomiale. Questa
malattia ha tre varianti:
 variante non neuropatica, cioè esclusivamente periferica, in cui è colpita la
milza, il fegato e le ossa
 seconda variante è neuropatica infantile, in cui i bambini muoiono entro i due
anni
 variante neuropatica dell’adulto
Questo particolare gene, quando mutato, determina accumulo di glucosilceramide
(o glucocerobroside). Questo lipide poi va nei lisosomi e li ingolfa. Ingolfandoli,
probabilmente altera la degradazione dell’alfa-sinucleina e così se ne possono
formare aggregati.
Se avete mutazioni questa volta eterozigotiche, non avrete la malattia di Gaucher,
ma il Parkinson. Il rischio relativo di ammalarsi di Parkinson, se si ha mutazione
eterozigotica, è tra 5 e 6 (cioè significa quasi 6 volte il rischio della popolazione
generale). Questo ha nuovamente ispirato la terapia; si è pensato proprio ai
soggetti eterozigoti, perché considerate che i carrier delle mutazioni sono
abbastanza frequenti, sono 1 su 100, cioè un individuo su 100 presenta una
mutazione eterozigote e può essere a rischio di sviluppare la malattia di Parkinson.
Quando questo si dovesse verificare, cosa possiamo fare dal punto di vista
pratico? Innanzitutto, potremmo eseguire una terapia genetica, per esempio
sfruttando dei vettori adenovirali o lentivirali, ovvero cerchiamo di inserire l’enzima
mancante. Questo è quello che fa Luigi Naldini al San Raffaele: prende le cellule
del midollo osseo, le trasfetta con i virus, fa esprimere l’enzima normalmente non
espresso e poi i monociti diventano microglia nel SNC e, per esempio, il
glucosilcerebroside a questo punto viene degradato e non si accumula più nei
lisosomi. Immaginate per esempio come questo tipo di terapia genica potrebbe
esser molto utile nei pazienti con forma infantile neuropatica della malattia di
Gaucher.
Invece nei pazienti con mutazione eterozigote anche qui una possibilità è la terapia
genica, ma mi sembra di difficile realizzazione; ciò che si potrebbe fare invece è
ridurre la sintesi di glucosilceramide. Il glucosilceramide non viene degradato e
allora ne cerchiamo di inibire la sintesi; e infatti inibitori della glucosilceramide

206
sintasi, l’enzima che forma glucosilceramide, sono in fase di sviluppo clinico per il
trattamento della malattia di Parkinson.
Quindi tra queste terapie che si sono ispirate alla genetica abbiamo incontrato:
1. sostanze che agiscono sull’alfa-sinucleina, riducendone la sua produzione;
qui abbiamo anche i β2 agonisti
2. sostanze che fanno degradare gli aggregati, per esempio l’immunoterapia, gli
anticorpi monoclonali, i vaccini
3. sostanze che impediscono l’aggregazione, ‘intrabodies’ o piccole molecole
4. sostanze che inibiscono l’attività di LRRK2, enzima iperattivo nelle forme di
Parkinson genetico che sono le più frequenti, per esempio G2019S. Pensate
tra i Maghrebini o gli Ebrei Ashkenazi come sarebbe facile avere materiale
umano per poter studiare nuove terapie protettive nella malattia di Parkinson.
5. infine, abbiamo trovato spunto con la β glucocerebrosidasi, enzima che
degrada il glucocerebroside, o glucosilceramide, dove si potrebbe fare
terapia genica nei bambini affetti dalle forme gravi delle malattie di Gaucher
salvando loro la vita. Ma nello stesso tempo anche nei soggetti a rischio di
ammalarsi di Parkinson, cioè che hanno la mutazione eterozigote della
malattia di Gaucher, si potrebbe intervenire riducendo la sintesi di
glucosilceramide e impedendo si formi il substrato che si accumula nei
lisosomi. Anche la forma autosomica dominante, se le mutazioni non sono
gravi, può portare a malattia di Parkinson nel periodo adulto e quindi anche
qui si può intervenire riducendo la sintesi di glucosilceramide.

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20 Maggio 2021

FISIOPATOLOGIA DELLA MALATTIA DI PARKINSON


Oggi parleremo della patogenesi della malattia di Parkinson.
Argomento che è rischioso, perché oggi ci fa compagnia il professor Pontieri che
potrebbe prendermi a pedate attraverso il computer, e probabilmente lo farà per la
visione che ho sulla patogenesi di questa malattia!

Se Pontieri dovesse chiedervi che cos‟è la malattia di Parkinson (premesso che


forse è più corretto parlare di una sindrome parkinsoniana), la risposta che
qualcuno può dare è che si tratta di un‟alfa-sinucleinopatia, partendo dal fatto che
ci sono i corpi di Lewy che contengono alfa-sinucleina, e quindi voi trattate il
Parkinson alla stessa stregua della PDD (Parkinson Derived Dementia), della
Demenza a corpi di Lewy, dell‟Atrofia Multisistemica (dove vi ricordate i corpi si
chiamano di Papp-Lantos e sono negli oligodendrociti) e poi abbiamo la Malattia di
Hallevorden-Spatz, che adesso invece si chiama Degenerazione Globale con
accumulo di ferro di tipo 1 e che dipende da un difetto della pantotenato-kinasi.

Io mi permetto umilmente di non essere d‟accordo con questa definizione: secondo


me la malattia di Parkinson non è un‟Alfa-sinucleinopatia, ma invece è una
PARKINO-PATIA. Questa è una definizione di carattere personale che può
generare ovviamente molti dissensi. Però sono abbastanza convinto di questo, per
il semplice motivo che vi ho raccontato la volta scorsa, cioè che se voi avete delle
mutazioni nella parkina o anche mutazioni di Pink1 (proteina che vedremo tra
pochissimo perché dialoga con la parkina in continuazione), voi avete una malattia
di Parkinson innanzitutto ad insorgenza precoce, ad andamento non così severo,
che risponde abbastanza bene alla L-DOPA, dove non c‟è declino cognitivo per cui
il paziente mantiene la sfera cognitiva abbastanza intatta durante il decorso, anche
se poi potete avere col trattamento discinesie, distonie, a volte anche iperreflessia,
anche segni psichiatrici. Ma la cosa molto interessante è che quando voi avete
mutazioni della parkina voi difficilmente avete corpi di Lewy, anzi non ci sono mai, e
lo stesso se avete una mutazione di Pink1. E, altra cosa estremamente
interessante, è che a differenza della malattia di Parkinson tradizionale in cui la
degenerazione non è ristretta ai neuroni della pars compatta della sostanza nera
ma coinvolge tutta un‟altra serie di nuclei all‟interno del tronco-encefalico tipo
neuroni del locus coeruleus, del nucleo del rafe, del nucleo motore dorsale del vago
e così via, quando c‟è la mutazione della parkina voi invece avete esclusivamente
la degenerazione della pars compatta della sostanza nera. Quindi la parkina mutata
vi dà una malattia di Parkinson tra virgolette “pura”.

Questo che vi dico può essere condivisibile o non condivisibile, se io in questo


momento mi trovassi in un congresso e dicessi che il Parkinson non è un’Alfa-

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sinucleinopatia ma una parkino-patia mi caccerebbero fuori senza remissione di
peccati.

Tuttavia questo mi permette di fare un discorso sulla via finale comune della
patogenesi del Parkinson, che è il mitocondrio, almeno secondo me.

RUOLO DEL MITOCONDRIO NELLA PATOGENESI DELLA MALATTIA DI


PARKINSON

Che cosa spinge a pensare che il mitocondrio sia fondamentale per la patogenesi
del Parkinson? Una serie di osservazioni.

 Istopatologia: innanzitutto se prendete dei preparati autoptici di cervelli di


pazienti affetti da Parkinson trovate costantemente una disfunzione
mitocondriale.
 Alterazione di proteine mitocondriali: alcune proteine del mitocondrio che
sono fondamentali per i processi di controllo mitocondriale, per esempio
proibitina, VDAC1 (un canale per gli anioni che noi abbiamo già studiato in
passato perché è unito al meccanismo di traslocazione mitocondriale del
colesterolo e quindi diventa fondamentale per la steroidogenesi) ma anche
altre proteine come HTAR2 che è una proteina tipica del mitocondrio ed è
mutata nella malattia di Parkinson (è uno di quei casi di Parkinson genetico
che abbiamo visto la volta scorsa) e anche proteine che appartengono al
gruppo TOM, cioè proteine di traslocazione di membrana mitocondriale
esterna: tutte queste proteine sono alterate in tessuti di pazienti con malattia
di Parkinson.
 Modelli di Parkinson farmacologico. MPTP e rotenone, inibitori del
Complesso 1: l‟MPTP e in particolare il suo metabolita l‟MPP+ sono le
sostanze più utilizzate in ricerca per produrre modelli di parkinsonismo
farmacologico: se avete per esempio un topo e gli date MTPTP, questo
all‟interno del sistema nervoso centrale diventa MPP+ e distrugge il sistema
nigricostriatale, e a seconda di quanto MPTP somministrate potete avere una
degenerazione del 30, 40% oppure una degenerazione completa, quasi il
100%. La seconda molecola è il rotenone. Uno dei modelli animali migliori di
parkinsonismo tossicologico è forse quello con rotenone, e sia rotenone che
MPP+ sono potenti inibitori del Complesso 1 della catena respiratoria
mitocondriale.
 Parkinsonismo caraibico. Annonacina inibitore del Complesso 1: e poi c‟è un
tema molto caro a Pontieri che avevo già trattato la volta scorsa e che è il
parkinsonismo caraibico, quello dell‟isola di Guadalupe: qui c‟è la sostanza
responsabile che si chiama annonacina, è un parkinsonismo nella maggior

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parte dei casi atipico, tuttavia l‟annonacina anche lei è un inibitore del
Complesso 1. Quindi il mitocondrio rientra a pieno titolo nell‟ambito della
fisiopatologia della malattia di Parkinson.
 Ruolo della mobilità, dell‟usura e della grandezza del mitocondrio: fate una
considerazione che secondo me è importante: gli assoni dopaminergici,
come vi ho detto tante volte, sono caratterizzati dalla loro lunghezza: gli
assoni del sistema nigricostriatale sono lunghi 4 metri e fanno 2 milioni di
sinapsi all’interno dello striato. Pensate questi poveri mitocondri come si
devono muovere a destra e sinistra per raggiungere tutte le terminazioni e
produrre l‟ATP che è fondamentale per il rilascio di dopamina ed in generale
per l‟attività sinaptica, quindi sono mitocondri sottoposti ad usura. E, quando i
mitocondri cominciano ad invecchiare e a non funzionare più devono essere
sostituiti o rimossi, o almeno una parte del mitocondrio deve essere rimossa,
perché altrimenti il mitocondrio è un grande generatore di ROS, cioè specie
reattive dell‟ossigeno, e soprattutto i neuroni della pars compatta della
sostanza nera non hanno grandi difese nei confronti dei ROS perché hanno
elevati livelli di ferro, bassi livelli di glutatione e catalasi. Questo perché un
ambiente ossidante è importante per il loro differenziamento, quindi è per
questo che la natura li ha resi vulnerabili, per privilegiare l‟ossidazione e farli
maturare così, e anche il fatto che contengono melanina li predispone allo
stress ossidativo, perché la produzione di specie reattive dell‟ossigeno è
intrinseca alla sintesi di melanina. Quindi è ovvio che si tratta di un sistema
vulnerabile, è un sistema in cui i mitocondri sono sottoposti ad usura più degli
altri sistemi perché devono viaggiare attraverso un assone lungo. Ed è anche
ovvio che più i mitocondri sono giovani e più sono piccoli, più hanno
possibilità di muoversi da una parte all‟altra, ma quando invece i mitocondri si
fondono e diventano una specie di palloni che non finiscono mai, questi sono
maggiormente predisposti alla morte. Ed avere un mitocondrio danneggiato
significa avere meno ATP e contemporaneamente avere più produzione di
ioni superossido, che non vengono più trattenuti dalla respirazione cellulare e
quindi sfuggono e possono provocare poi la formazione di radicali ossidrilici e
di ROS.

STRUTTURA E FUNZIONI DEL MITOCONDRIO

Cerchiamo di vedere come è fatto un mitocondrio: nel


mitocondrio esiste una membrana esterna, una
membrana interna e poi c‟è la matrice che si trova
all‟interno. Sapete che i mitocondri sono dei batteri che
ad un certo punto hanno deciso di vivere in simbiosi
con le cellule eucariotiche, e in particolar modo
sembrano essere delle rickettsie. Non vi è certezza che

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le cose siano così, però le rickettsie sono dei Gram negativi molto piccoli e il loro
codice genetico ha molte similitudini col genoma mitocondriale. I mitocondri hanno
un loro DNA che è un DNA circolare quindi non è un DNA cromosomico e questo
DNA codifica per 2 RNA ribosomiali, codifica per 22 RNA transfer, quindi gli RNA
che portano avanti e indietro i vari aminoacidi per la sintesi proteica sono per larga
parte codificati dal mitocondrio. E poi alla fine dovrebbero esserci circa 13 proteine
che fanno parte della catena respiratoria mitocondriale oppure subunità dell‟ATPasi
che serve per la produzione dell‟ATP. Questo è completamente diverso dall‟intero
corredo del batterio originario, se considerate che più di 1000 geni nucleari
codificano per proteine mitocondriali, quindi in effetti il DNA mitocondriale dà un
piccolo contributo, però il contributo che dà è importante innanzitutto per la sintesi
delle proteine, proprio per tutti gli RNA transfer che sono prodotti, e poi perché ha i
geni di alcune proteine della catena respiratoria. Il mitocondrio è utilissimo per la
produzione di energia ma è pericoloso perché può produrre specie reattive
dell‟ossigeno e pericoloso anche perché può innescare dei meccanismi di apoptosi
attraverso il rilascio del citocromo C, e oltretutto è coinvolto nell‟omeostasi del
calcio, perché il calcio che viene rilasciato nel citoplasma viene poi incorporato dal
mitocondrio.

Per tutte queste caratteristiche un elemento di fondamentale importanza è il


controllo di qualità del mitocondrio. E il controllo di qualità del mitocondrio si basa
su meccanismi che devono essere operativi soprattutto nel momento in cui i
mitocondri sono danneggiati. Quali sono questi meccanismi?

 Mitofagia. Innanzitutto su processi che si chiamano mitofagia: la mitofagia è


l‟autofagia però riferita al mitocondrio, vale a dire il mitocondrio danneggiato
viene poi degradato da corpi autofagici, che in questo caso sono corpi
mitofagici.
 Fissione/fusione del mitocondrio. Il secondo meccanismo di fondamentale
importanza è quello di fissione e fusione: sono entrambi meccanismi regolati
dalla dinamina, che è una proteina del citoscheletro. Nella fissione da un
mitocondrio grande si creano mitocondri più piccoli e questo può essere
particolarmente utile per il semplice fatto che, se un mitocondrio è
danneggiato, i mitocondri più piccoli che vengono generati possono riparare il
danno più facilmente; e poi se avete questo assone lungo 4 metri nel sistema
nigricostriatale il mitocondrio più piccolo generato dalla fissione può muoversi
molto più facilmente da una parte all‟altra della cellula. Il meccanismo
opposto invece si chiama fusione, e deriva dal fatto che due mitocondri
vengono fusi in un unico mitocondrio. Quindi questo significa che si forma un
mitocondrio molto più grande e nel momento in cui si forma è un mitocondrio
che può essere maggiormente sottoposto a danno, viaggia da una parte
all‟altra con più grande difficoltà e il DNA mitocondriale può invecchiare più

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facilmente e generare mutazioni. Quindi fondamentalmente se voi volete
innescare un meccanismo protettivo dovete facilitare la fissione e cercare di
inibire la fusione.
 Biogenesi mitocondriale. Un‟altra cosa fondamentale è la Biogenesi
Mitocondriale, che significa la formazione di nuovi mitocondri che
naturalmente può ovviare alla perdita dei mitocondri usurati.
 Mitochondrial Derived Vesicles (MDV). Poi ci sono le mitochondrial derived
vesicles MDV, significa vescicole derivate dai mitocondri: queste vescicole
vengono staccate dai mitocondri e sono dirette ai fagosomi e ai lisosomi
perché possano essere degradate. Se c‟è una parte localizzata del
mitocondrio che è danneggiata, una buona strategia potrebbe essere quella
di incorporarla nelle vescicole, far uscire queste vescicole e poi destinarle
alla degradazione
 Sintesi proteica del mitocondrio. Infine cosa fondamentale la sintesi proteica
del mitocondrio, il che significa che per esempio alcune proteine di origine
nucleare devono essere trasportate lì e il mitocondrio deve essere rifornito in
maniera adeguata, quindi ci sono meccanismi di trasporto di mRNA di origine
nucleare vicino alla superficie del mitocondrio, ci saranno dei repressori
mitocondriali che vengono in qualche modo bloccati quando è necessario
produrre nuove proteine che, ripeto, sono codificate dal DNA nucleare però
sono importanti per il mitocondrio.

Insomma tutto questo rientra nel cosiddetto controllo di qualità. Ci sono due grandi
studiosi americani, i Dawson, che si occupano tanto di mitocondrio e c’è una review
fantastica perché molte cose che adesso vengo a dirvi sono spiegate in modo
dettagliato lì.

Perché Nicoletti considera il Parkinson una PARKINO-PATIA?

Quello che vi ho detto all‟inizio è che ritengo che la malattia di Parkinson sia una
parkinopatia piuttosto che una alfa-sinucleinopatia, e naturalmente devo giustificare
questo fatto. Il problema è questo: se avete un danno o un‟inibizione della parkina
(danno significa che la parkina non funziona perché è mutata o perché viene
degradata o qualunque cosa possa verificarsi), voi avete un Parkinson “puro” con
degenerazione dei neuroni dopaminergici della sostanza nera compatta e risparmio
delle altre strutture che invece degenerano nella malattia di Parkinson. Se voi avete
invece la classica alfa-sinucleinopatia con formazione di corpi di Lewy, avete
Parkinson allo stesso modo con coinvolgimento di altre strutture e potete includerla
nella sindrome parkinsoniana in senso lato. Però, quando si formano i corpi di Lewy
e l‟alfa-sinucleina è anomala e si formano gli aggregati patologici, e anche quando
la proteina più importante nella genetica del Parkinson, cioè LRRK2, è mutata, in

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tutte queste condizioni il mitocondrio diventa disfunzionale, ma non solo questo: la
parkina perde la capacità di funzionare, per delle ragioni che adesso vi dirò.

In parole povere:

se voi avete una parkina mutata e l‟alfa-sinucleina è intatta, il Parkinson viene, e


addirittura viene molto precocemente con caratteristiche tipiche, cioè risponde alla
L-DOPA e avete il danno di un unico sistema.

Se invece avete l‟Alfa-sinucleina alterata, si formano i corpi di Lewy, o avete la


mutazione G2019S di LRRK2 che è la mutazione è più frequente in assoluto del
Parkinson, a quel punto avete la disfunzione mitocondriale ma non solo, avete una
parkina che viene alterata, fosforilata, non è più funzionale e viene intrappolata nei
corpi di Lewy.

Quindi ciò che genera l‟Alfa-sinucleinopatia mette fuori uso la parkina; mentre se
viene messa fuori uso la parkina, non c‟è l‟alfa-sinucleinopatia ma il Parkinson
viene lo stesso. Per questo secondo me è più corretto definirla parkinopatia.

Adesso entriamo nel dettaglio di come la parkina e come il suo partner Pink1 sono
coinvolti nella patogenesi del danno mitocondriale nella malattia di Parkinson

PATHWAY PINK1 / PARKINA: MITOFAGIA

Cominciamo da Pink1 (PTEN-induced kinase 1).

È una delle tre proteine principali responsabili del Parkinson a trasmissione


autosomica recessiva, le altre due sono parkina e DJ1. Poi abbiamo parlato anche
di forme atipiche come ATP13A2, fosfolipasi A2-G6 che danno malattie di
Parkinson molto particolari, sono sindromi atipiche con molte caratteristiche strane.
Pink1 si chiama così innanzitutto perché è una protein-kinasi, una serina treonina
kinasi. E poi si chiama così perché significa proteina indotta da PTEN: PTEN è

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l‟inibitore della via della fosfatidil-inositolo 3 kinasi (PI3K), quando avete mutazione
di PTEN la via della PI3K non è più sotto controllo inibitorio, e ciò avviene in molti
tumori tra cui anche tumori cerebrali.

Cosa fa normalmente Pink1? Normalmente si trasferisce nel mitocondrio, e si


trasferisce in modo tale da infilarsi tra la membrana esterna e la membrana interna
con la parte C-terminale che guarda verso il citoplasma ed invece la parte N-
terminale attraversa la membrana interna ed è rivolta verso la matrice
mitocondriale. Il trasferimento di Pink1 attraverso la membrana del mitocondrio
serve alla degradazione di Pink1, quindi in questo modo fisiologicamente viene
degradata se i mitocondri stanno bene e se non ci sono problemi. Tra parentesi, i
livelli di Pink1 sono stabili o aumentati nel tessuto autoptico di pazienti con malattia
di Parkinson. Nel caso in cui però il mitocondrio dovesse essere danneggiato, le
cose cominciano a cambiare: in questo caso Pink1 si autofosforila, e si autofosforila
su residui di serina o treonina perché questo fondamentalmente fa e, nel momento
in cui autofosforila, recluta la parkina, che è sicuramente la proteina più mutata
nelle forme autosomiche recessive monogeniche di malattia di Parkinson. Questo
accade fisiologicamente: quando il mitocondrio è danneggiato, Pink1 non viene più
degradata ma si autofosforila, cambia la sua conformazione e recluta la parkina in
corrispondenza del mitocondrio.
E a questo punto cosa accade alla parkina? La parkina è una proteina che
presenta diversi domini, almeno 4 domini, e normalmente è inattiva. In realtà si
tratta di un enzima chiamato E3-ligasi, cioè significa che è un enzima che lega
l‟ubiquitina, quindi fa parte del sistema ubiquitina-proteasoma ed è un enzima che è
deputato alla degradazione di altre proteine. Ma vi ripeto, questa E3-ligasi è
normalmente inattiva per un meccanismo che si chiama di modulazione
intrasterica: ci sono delle proteine che si ripiegano su se stesse e una parte della
proteina inibisce completamente l‟attività enzimatica. Tuttavia nel momento in cui
Pink1 viene autofosforilata perché il mitocondrio è danneggiato, Pink1 fa due cose:
fosforila una serina in posizione 65 della parkina e fosforila curiosamente anche
una serina che si trova nella stessa posizione 65 dell‟ubiquitina. Quando Pink1 fa
così, la parkina entra in attività perché la fosforilazione di serina in posizione 65
dell‟ubiquitina fa sì che l‟ubiquitina rimuova la modulazione intrasterica della
parkina, la parkina diventa attiva. E, quando la parkina diventa attiva, comincia a
fare quello che deve fare, e cioè interagisce con E2-ligasi (un‟altra ligasi. Sappiamo
che il sistema di ubiquitinazione delle proteine si articola attraverso E2 ed E3 ligasi)
e va ad ubiquitinare le proteine. Ubiquitinare le proteine significa mettere una targa
e dire loro “potete essere degradate dal sistema ubiquitina-proteasoma” oppure
“cominciate a diventare dei segnali per alcune particolari cose”. E quindi cos‟è che
accade quando la parkina comincia ad ubiquitinare? Premessa: la parkina
ubiquitina sia proteine della membrana mitocondriale esterna nelle prime 2 ore dal
danno mitocondriale, sia proteine della membrana interna e della matrice, ma

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anche proteine del citoplasma e tra queste ad esempio AIMP2, PARIS (questa
fondamentale per la biogenesi del mitocondrio che vedremo dopo) e ZNF146.
Quindi la parkina ubiquitina proteine del mitocondrio che si trovano nella membrana
esterna, nella membrana interna, nella matrice ma ubiquitina anche proteine del
citosol, e questo intervento della parkina è fondamentale per il controllo di qualità
del mitocondrio, e guai se non opera. Perché il mitocondrio non può essere riparato
se un mitocondrio è danneggiato e non possono innescarsi meccanismi di
mitofagia, di fissione e fusione, che sono fondamentali per mantenere l‟omeostasi
del mitocondrio.
Tra le proteine ubiquitinate ce ne sono alcune che si chiamano optineurina oppure
per esempio NDP152, poi abbiamo anche il GEF1 della proteina Rab e ancora nel
momento in cui scatta l‟ubiquitinazione vengono traslocate nella vicinanza del
mitocondrio anche Rab5 e Rab7A. Tutte queste proteine entrano immediatamente
in attivazione come proteine che segnalano nel momento in cui la parkina comincia
ad ubiquitinare, e si rendono disponibili ed interagiscono con la proteina LC3 ed
innescano la mitofagia.

Riassunto: quindi, riassumendo, è un meccanismo fantastico: il mitocondrio viene


danneggiato, Pink1, nel momento in cui il mitocondrio viene danneggiato, non viene
più degradata ma comincia ad autofosforilarsi, chiama la parkina, attiva la parkina
rimuovendo la modulazione intrasterica, la parkina comincia ad ubiquitinare ed
alcune proteine come optineurina o alcuni membri della famiglia Rab (le proteine
Rab sono proteine GTP-dipendenti monomeriche) innescano la mitofagia, cioè
innescano la rimozione autofagica dei mitocondri che sono danneggiati.

Capite benissimo che se parkina è mutata o Pink1 è mutata, questi meccanismi


non operano più e quindi i mitocondri danneggiati non possono essere rimossi.

MECCANISMO DI FISSIONE / FUSIONE DEI MITOCONDRI

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Ci sono poi i meccanismi di fissione e di fusione: che cos‟è ottimale per il controllo
di qualità del mitocondrio? Che sia promossa la fissione, cioè la produzione dei
mitocondri più piccoli da parte di mitocondri che sono abbastanza grandi e che
sono più inclini ad essere danneggiati. Inoltre è importante che si blocchi la fusione,
perché altrimenti si formano questi mitocondri colossali che sono più inclini a
formare specie reattive dell‟ossigeno.
C‟è una proteina, che è una specie di master switch, una specie di regolatore
generale dei meccanismi di fissione, che si chiama DRP1. Questa proteina DRP1 è
innescata da Pink1; quindi quando Pink1 si attiva perché il mitocondrio è
danneggiato, mette in funzione DRP1 perché Pink1 fosforila DRP1, e DRP1 è in
grado immediatamente di innescare i meccanismi di fissione. Quindi Pink1 attiva la
fissione.
Contemporaneamente però c‟è la parkina, che ubiquitina alcune proteine che si
chiamano mitofusine1 e 2, e anche un‟altra proteina che si chiama Opa1, e queste
tre proteine invece sono responsabili normalmente della fusione. Nel momento in
cui la parkina le ubiquitina, le fa degradare e quindi queste non possono più
fondere i mitocondri.

Riassunto: Quindi questo binomio Pink1/parkina dall‟eccellente biologia da un lato


attiva la fissione e dall‟altro canto inibisce la fusione dei mitocondri. Nel momento in
cui il mitocondrio è danneggiato, se Pink1 e parkina funzionano regolarmente, voi
avete Pink1 che genera mitocondri più piccoli che possono essere riparati più
facilmente e possono viaggiare più facilmente lungo l‟assone di 4 metri del sistema
nigricostriatale. E contemporaneamente la parkina inibisce la fusione perché
ubiquitina le proteine mitofusine1 e 2 che servono normalmente per fondere i
mitocondri. Quando questo succede, i mitocondri piccoli che sono più versatili, più
vitali e più efficienti nella catena respiratoria prendono il sopravvento sui mitocondri
più grandi che derivano invece dai meccanismi di fusione. Quindi questo oltre alla
mitofagia è un altro meccanismo fondamentale attraverso il quale Pink1 e parkina
agendo in coppia facilitano e permettono il controllo di qualità del mitocondrio.

BIOGENESI MITOCONDRIALE

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Altra cosa fondamentale è la Biogenesi mitocondriale. Ovviamente quando i
mitocondri sono danneggiati bisogna formarne altri, e c‟è un grande attore della
biogenesi mitocondriale che si chiama PGC1-alfa, che è un coattivatore di PPAR-
gamma (PPAR-gamma se ricordate dal diabete di tipo 2 è il bersaglio dei
Tiazolidindioni, cioè di farmaci come per esempio il pioglitazone che vengono
utilizzati nel trattamento del diabete tipo 2). Normalmente nei meccanismi di
biogenesi mitocondriale è importante che PGC1-alfa possa essere attivo, e l‟attività
di PGC1-alfa è fisiologicamente inibita da PARIS, quindi PARIS è una proteina del
citoscheletro che blocca PGC1-alpha. Però ricordate PARIS è uno dei substrati
citoplasmatici della parkina: quindi, quando la parkina si attiva, la parkina ubiquitina
PARIS, PARIS non è più in grado di inibire PGC1-alfa e a questo punto PGC1-
alpha diventa un primo attore della biogenesi mitocondriale, cioè la genesi dei
nuovi mitocondri.
In questo tipo di meccanismo operano anche NRF1 ed NRF2 che sono dei fattori di
trascrizione molto importanti per la cellula, perché sono fattori che normalmente
proteggono nei confronti dell‟ossidazione; e parkina e Pink1 sono anche in grado di
attivare la via NRF1 e NRF2 e questo contribuisce alla biogenesi mitocondriale.

Curiosità: il dimetilfumarato (tecfidera), che come ricorderete è un farmaco orale di


prima linea nel trattamento della sclerosi multipla, è un farmaco che attiva la via di
NRF1. Allora mi chiedo se questo farmaco, che ovviamente con la malattia di
Parkinson non c’entra niente, può, attivando la via di NRF1, favorire la biogenesi
mitocondriale e proteggere dalla progressione della malattia di Parkinson? C’è
qualche lavoro con modelli sperimentali di malattia di Parkinson che lo dimostra,
così come fingolimod e siponimod (altri farmaci usati nella sclerosi multipla) hanno
mostrato attività protettiva nei modelli sperimentali di Parkinson, però purtroppo i
modelli sperimentali di Parkinson non ricapitolano quasi mai il decorso e la
progressione di patologia di un paziente con Parkinson perché sono modelli
perlopiù acuti, anche se a dire il vero oggi si cerca di fare il modello di MPTP
cronicizzandolo e dandolo a bassi dosaggi, ed inoltre abbiamo anche topi mutanti
per esempio nel gene LRRK2 che possono essere usati in questo senso. Però è
interessante che c’è un sistema NRF che è un fattore di trascrizione che
normalmente può essere attivato dal dimetilfumarato e che potrebbe agire in
questo senso favorendo la biogenesi mitocondriale.

MITOCHONDRIAL DERIVED VESICLES

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Abbiamo detto che un‟altra caratteristica è quella delle cosiddette MDV, le
vescicole derivate dal mitocondrio, che rappresentano un meccanismo di controllo
del mitocondrio fantastico, perché se voi avete un danno molto circoscritto al
mitocondrio è stupido fare la mitofagia, ma è molto più logico rimuoverlo sotto
forma di vescicole. E la formazione di queste vescicole che poi finiscono nei
fagosomi e nei lisosomi e vengono poi eliminate, è promossa sempre da Pink1 e
parkina. Quindi ancora questa coppia Pink1 e parkina è in grado non solo di
promuovere la mitofagia, non solo di favorire la fissione sulla fusione, non solo di
promuovere la biogenesi mitocondriale attraverso l‟ubiquitinazione di parkina su
PARIS, ma facilita anche la formazione di queste vescicole, attraverso le quali il
danno mitocondriale può essere più facilmente corretto perché può essere isolato,
segregato, buttato via, e poi il mitocondrio può essere riparato…

Infine, affinché un mitocondrio possa esser riparato, è necessario ci siano nuove


proteine, e le proteine che derivano dal dna mitocondriale sono poche (per lo più
quelle della catena respiratoria, e quelle strutturali del mitocondrio): queste proteine
derivano per larga parte dal dna nucleare, che significa formazione di mRNA, che
deve essere trasferito nel mitocondrio. Affinché queste proteine possano accedere
al mitocondrio, è necessario che i fattori di inizio della sintesi proteica, come IFG4,
vengano trasferiti nel mitocondrio e le proteine possano essere poi traslocate. Il
trasferimento di mRNA, dei fattori di inizio della sintesi proteica degli eucarioti e la
traslocazione attraverso il traslocatore TOM20 sono tutti promossi da pink1 e
dall‟associazione pink1-parkina.
La parkina inoltre ubiquitina un repressore della traslazione (cioè della sintesi
proteica), che si chiama hnRNP-F, un repressore della sintesi delle proteine che
impedisce alle proteine mitocondriali, che originano dal dna genomico, di essere
espresse.
Quindi, Pink1 da solo con la Parkina permette il trasporto di queste specie di
mRNA, di tutti i complessi proteici che permettono la sintesi proteica nella vicinanza
del mitocondrio. E poi la Parkina anche distrugge un repressore, questo hnRNP-F,
che non è più in grado di bloccare la sintesi di proteine mitocondriali di origine
genomica.
Per questo motivo, se noi crediamo nel fatto che il mitocondrio possa rappresentare
una via finale comune nella patogenesi della degenerazione neuronale nella
patologia di Parkinson, ancora un volta per me il Parkinson è una mitocondriopatia
primariamente, e una parkinopatia / pink1patia. Il corpo di Lewy è ritenuto da tutti
all‟origine della malattia, ma non spiega perché, quando avete mutazione di parkina
o Pink1, i corpi di Lewy non si formano e l‟alfasinucleina è intatta.
Nasce qui un punto interrogativo fondamentale. Se voi avete una patologia
dell‟alfasinucleina (quest‟ultima forma aggregati patologici, ovvero oligomeri
costituiti anche da 29 monomeri, quindi oligomeri un po‟ più lunghi del peptide β
amiloide della malattia di Alzheimer) e questi aggregati dell‟alfasinucleina li trovo

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nei corpi di Lewy, e questi corpi non rappresentano la patologia di per sé quanto
più che altro un tentativo disperato di degradare l‟alfasinucleina. Anche su questo
punto non sono totalmente d‟accordo. Perché? La parkina viene intrappolata nel
corpo di Lewy, e quindi già avere un corpo di Lewy dove c‟è sinucleina dentro,
significa che voi sottraete la parkina della sua funzione, potendola trovare lì dentro.
Inoltre, gli aggregati di alfasinucleina intervengono nei confronti della parkina. Un‟
alfasinucleina mutata fa due cose. Innanzitutto fosforila la parkina nella tirosina 143
e lo fa attivando c-ABL, e questo mette la parkina fuori uso. La volta scorsa vi ho
detto che il Nilotinib è un farmaco usato nei tumori e che agisce su c-ABL: visto che
l‟alfasinucleina è in grado di promuovere la fosforilazione della parkina attraverso
l‟ABL, bloccare ABL potrebbe essere interessante. E Nilotinib quindi viene oggi
sviluppato per il trattamento protettivo della malattia di Parkinson. Come viene
anche fatto con altre strane strategie che vanno dall‟immunizzazione contro gli
aggregati di alfasinucleina passiva ed attiva, agli antisensi contro alfasinucleine, ai
silenziatori siRNAs, perfino ai β2 agonisti che sembra riducano l‟espressione di
alfasinucleina. Se volete un parere, tutti questi sforzi per ridurre la produzione di
alfasinucleina sono delle autentiche cagate, perché la terapia sperimentale
dell‟Alzheimer ci ha insegnato questo: tutto ciò che era mirato a ridurre la
produzione del peptide β amiloide è stato il più grande flop delle neuroscienze degli
ultimi 30 anni. E la stessa cosa sarà per l‟alfasinucleina. [Pontieri subentra,
aggiungendo che è d’accordo]

Se poi avete una mutazione d‟alfasinucleina A53T, che è la prima mutazione


trovata ed è quella che si descrive prototipicamente nella trasmissione autosomica
dominante, questa alfasinucleina mutata è anche in grado di fosforilare (attraverso
una chinasi p38 che è attivata da alfasinucleina mutata) parkina nella serina 131 e
così facendo inibisce parkina.
Quindi abbiamo una via finale comune che è il mitocondrio, in cui il corpo di Lewy
crea la patologia di Parkinson con vari meccanismi, tra i quali uno di questi è quello
sicuramente d‟inattivare la parkina. Per questo io la vedo meglio come
parkinopatia.
Bisogna anche spiegare il perché nelle alfasinucleinopatie il fenotipo è a volte così
diverso. Perché una demenza a corpi di Lewy incorpora delle caratteristiche della
malattia di Parkinson, ma non è malattia di Parkinson. Un PDD è una malattia di
Parkinson con qualche differenza; la malattia di Hallervorden Spatz non è malattia
di Parkinson, anche se c‟è il coinvolgimento del sistema extrapiramidale. Quindi per
quale motivo se si hanno alterazioni di alfasinucleina, posso avere così tanti
fenotipi di malattia diversi? Mentre invece l‟ipotesi unitaria si fonda sul fatto che se
avete mutazioni della parkina si ha il Parkinson puro che colpisce esclusivamente i
neuroni della pars compatta della sostanza nera.

219
Francesco Pontieri: « Credo che questo suggerimento di Parkinson puro in quanto
coinvolgente puramente la pars compatta, in realtà sia corretto sotto l‟aspetto di
modelli sperimentali, però è molto diverso dal vero Parkinson clinico. »

Nicoletti risponde: « Hai ragione perché poi il Parkinson clinico ha mille


sfaccettature che magari il Parkinson da parkina non ha, però il Parkinson da
parkina risponde bene alle L-dopa, non ha un decorso più severo, ha il cognitivo
preservato. L‟unica cosa è che può esserci iperreflessia e ci possono essere più
disturbi psichiatrici. »

Pontieri: « Diciamo che vagamente assomiglia al fenotipo clinico del Parkinson


monoaminergico in generale. Giustamente va distinta la sintomatologia puramente
motoria della malattia di Parkinson dipendente dalla denervazione dopaminergica
nigricostriatale e in questo il parkinsonismo monogenico da parkina è forse il
modello perfetto. Anche in questo caso poi , come sta succedendo nello spettro
delle demenze frontotemporali, ormai ci sono tante malattie di Parkinson, più che
una sola. Giustamente non sappiamo perché succede qualcosa nella demenza a
corpi di Lewy che è diverso rispetto alla malattia di Parkinson, ma non sappiamo
neanche perché ci sono de parkinsoniani che sviluppano più precocemente e
severamente danno di strutture dopaminergiche rispetto ad altri. »

Riprende Nicoletti. Come giustamente detto dal professor Pontieri, la sindrome


parkinsoniana ha un milione di sfaccettature diverse.

Quali sono le altre prove che suggeriscono che il mitocondrio sia importante nella
malattia di Parkinson? Per esempio VBS35, che è uno di quei geni mutati nel
Parkinson a trasmissione autosomica dominante, e questa è la proteina che lega il
cargo nella via dei retromeri, cioè gli endosomi che trascinano all‟interno le proteine
della membrana lo fanno come un aereo da cargo, e a quel punto le proteine dalla
via dei retromeri poi vanno ai lisosomi e lì vengono degradate. Quando però avete
la mutazione di VBS35, i meccanismi di fusione e fissione dei mitocondri sono
alterati, perché questa proteina influenza la dinamica mitocondriale.
Poi per esempio, la proteina LRRK2 è una proteina che nel 10% della sua
espressione è presente nel mitocondrio, e probabilmente ha un ruolo di protezione
nei confronti delle specie reattive dell‟ossigeno e nel momento in cui LRRK2 è
mutata (G2019S), questo porta ad una iperattività di LRRK2, tant‟è vero che
inibitori small-molecules che inibiscono l‟attività di LRRK2 sono in sviluppo clinico
come modificatori dello stato di malattia. Quando c‟è iperattività di LRRK2, si
fosforila la peroxidoredoxina3, che viene inattivata (la peroxidoredoxina tipo 3 è la
principale proteina dei mitocondri coinvolta nella protezione dai perossidi, come il
perossido di idrogeno che si forma dall‟anione superossido). Quindi un‟altra
conseguenza di mutazione di LRRK2 è quella di rendere il mitocondrio più
vulnerabile al perossido di idrogeno, che è il principale prodotto dell‟anione

220
superossido. Inoltre LRRK2 mutata fa accumulare nel mitocondrio RAB10, che è
un‟altra proteina che normalmente deve fare altre cose, e facendola entrare nel
mitocondrio quest‟ultimo viene danneggiato. Infine, l‟alfasinucleina, quando è in
forma di oligomeri, questi interferiscono col trasferimento mitocondriale di Tom20.
Tom20 è un traslocatore fondamentale affinché nuove proteine possano essere
disponibili per il mitocondrio. Quindi molte cose convergono verso il mitocondrio.

TERAPIA

La terapia odierna della malattia di Parkinson non è una terapia eziologica, né


patogenetica ma è soprattutto una terapia sintomatica. Qui mi sbilancio perché ci
sono dei farmaci come inibitori delle MAO B che hanno una potenziale capacità di
intervenire rallentando la progressione di malattia: questo però non è mai stato
dimostrato con certezza. Ad esempio c‟è un inibitore delle MAO B di più recente
introduzione che si chiama Safinamide, che ha tutte le caratteristiche per rallentare
la progressione di malattia, ma non c‟è un evidenza oggi che questo farmaco sia in
grado di farlo. D‟altro canto non è un task semplice dal punto di vista sperimentale,
perché la malattia di Parkinson comincia almeno 20-30 anni prima rispetto ai
sintomi motori e c‟è una progressione di sintomi che all‟inizio non hanno molto a
che vedere col movimento, e poi dopo 20 anni si approda alla diagnosi clinica di
malattia. Quindi per avere una sostanza neuroprotettiva efficace, dovrei iniziare il
trattamento un 20 anni prima.
Voi fareste uno studio clinico in soggetti che 20 anni dopo svilupperanno la
malattia? E soprattutto come fai a sapere che quel paziente sviluppa la malattia? E
soprattutto come fate a stabilire che un individuo 20 anni dopo svilupperà la
malattia? È vero, alcune forme sono genetiche, ma non c‟è mai certezza perché la
penetranza delle mutazioni di LRRK2 non è completa ed è una penetranza che
aumenta con l‟età. Inoltre, nessuna azienda farmaceutica può avventurarsi in uno
studio di follow up facendo un trattamento per 20 anni di seguito, perché dal punto
di vista dei costi è improponibile. Quindi siamo in una situazione molto triste,
perché non è facile individuare una strategia neuroprotettiva. Si è cercato di farlo
nell‟ischemia cerebrale, perché nell‟ictus tromboembolico l‟evento è acuto, ma
anche qui non si è approdati a nulla. Non è mai stato trovato un farmaco in grado di
proteggere i neuroni dal danno di ischemia cerebrale, figuriamoci un farmaco in
grado di proteggere da degenerazione progressiva nella malattia di Parkinson o
Alzheimer.
Oggi si parla molto di Aducanumab, che è un anticorpo monoclonale contro gli
oligomeri di amiloide sviluppato dalla Biogen per la malattia di Alzheimer, ma alla
fin fine non rappresenta un rimedio per la malattia di Alzheimer. E‟ semplicemente
forse il primo anticorpo monoclonale che sarà approvato per il trattamento della
malattia, anche se non ci si deve aspettare grandi cose. La tristezza è che tali
malattie vengono trattate quando si fa diagnosi, anche se iniziano molo prima.

221
Vent‟anni prima all‟origine della malattia è presente la costipazione: c‟era uno
studio con un gran numero di individui in cui si volevano valutare i fattori di rischio
CV. Ed è uscito fuori che la costipazione è un fattore di rischio della malattia di
Parkinson. Dieci anni prima della malattia vengono fuori gli RBD, ossia i disturbi
comportamentali della fase REM del sonno. La fase rem è una fase in cui i
protagonisti sono il nucleo subcoeruleus e i nuclei colinergici come il nucleo del
tegmento peduncolo-pontino (sede di patologia nella malattia di Parkinson,
nonostante non sia un nucleo monoaminergico) e il nucleo del tegmento latero-
dorsale. Se faccio l‟elettroencefalogramma nella fase REM, avete un quadro simile
alla veglia, ossia alta frequenza di onde e bassa ampiezza. Se fate un EMG,
ovvero un‟elettromiografia, e andate a valutare nella fase REM del sonno lo stato
dei muscoli scheletrici avete una completa atonia: questo perché il nucleo
subcoeruleus manda un‟informazione inibitoria agli alfa motoneuroni del midollo
spinale. Quindi tutti i muscoli diventano atonici tranne i muscoli degli occhi: infatti se
fate un elettrooculogramma, vedrete che nel sonno profondo non REM i muscoli
estrinseci dell‟occhio non hanno attività, mentre nella fase rem si muovono come
nello stato di veglia. Questo deriva dal fatto che i neuroni che controllano la
muscolatura estrinseca dell‟occhio si trovano più in alto rispetto a quelli controllati in
modo inibitorio dal nucleo subcoeruleus, perché il nucleo subceruleus stimola delle
stazioni inibitorie che si trovano vicino al nucleo gigantocellulare di magnun che si
trova molto più in basso rispetto ai nuclei che controllano i muscoli degli occhi.
Nella fase REM del sonno si sogna e questo dipende dai neuroni colinergici che
proiettano al talamo e poi alla corteccia: è fondamentale che i muscoli scheletrici
siano atonici durante la fase REM, per impedire che la fase onirica del sonno possa
essere trasformata in movimento. Nella malattia di Parkinson, così come nella
demenza a corpi di Lewy e in altre patologie, nasce il disturbo comportamentale
della fase REM. Significa che, quando questi soggetti sognano, la muscolatura
scheletrica non è in atonia ma mantiene la sua attività.
Il dottor Ferini Strambi, il più grande esperto di sonno in Italia, ha mostrato video di
donne picchiate a sangue da mariti che avevano il disturbo della fase REM del
sonno, i quali sognavano e poi colpivano la compagna a letto senza rendersi conto
di quello che facevano, come in una condizione di sonnambulismo.
Questo poi è l‟opposto di ciò che accade nella narcolessia, dove c‟è un segno che
si chiama cataplegia, che consiste nel fatto che la fase REM del sonno insorge
molto più velocemente e l‟atonia tipica della fase REM si ha anche nella fase di
veglia, e cadono per terra. Tutto ciò è abbastanza caratteristico delle fasi che
precedono la malattia di Parkinson.
Da almeno 10 anni al tempo 0, quando si fa diagnosi di malattia, posso trovare
iposmia: non è tipica della malattia di Parkinson, si può avere anche nell‟Alzheimer
(qui è logico aspettarsela, perché le placche amiloidi si formano in corrispondenza
dei recettori che si trovano nella mucosa nasale). Poi si ha EDS (excessive daytime

222
sleeping) in cui i soggetti per i disturbi comportamentali della fase REM del sonno
dormono di più durante il giorno.
Si ha anche depressione. Un mio amico a Catania aveva una depressione e veniva
trattato da uno psichiatra senza concludere nulla, ed è poi saltato fuori che questo
signore aveva una scrittura molto piccola, ossia la micrografi. La cosa fa subito
sospettare una malattia di Parkinson e quindi ha fatto la DAT-SCAN: la DATSCAN
è una metodica SPECT, che si basa sull‟uso di ioflupano, una molecola a struttura
tropanica (molto simile alla cocaina, che è un alcaloide a struttura tropanica) che
lega il DAT (il trasportatore ad alta affinità per la dopamina). E, quando si fa la
SPECT, si usa un ioflupano marcato con iodio 123, che permette di fare imaging e
stabilire quante fibre dello striato sono andate incontro a neurodegenerazione.
Questo soggetto aveva più del 70% di perdita delle fibre di caudato e putamen
bilateralmente, per cui si è fatta diagnosi di Parkinson e lo si è trattato con L-dopa e
la depressione è migliorata notevolmente. Il professor Bonavita, neurologo di
Napoli in pensione ma di grandissima esperienza, diceva sempre: “quando
dovesse essere presente depressione e venire per la prima volta in un paziente
che ha 45-50 anni, fategli un‟analisi dettagliata del movimento e cercate di capire
se la depressione è una delle manifestazioni prodromiche della malattia di
Parkinson.”
A quel punto si arriva al tempo 0 e fate la diagnosi, che si basa principalmente sui
tre segni cardinali della malattia di Parkinson che sono:

 rigidità (ovvero ipertono dei muscoli flessori ed estensori)


 tremore a riposo
 bradicinesia (ossia rallentamento del movimento).

In questo momento quando si fa la diagnosi in realtà non ci sono soltanto sintomi


motori, ma ci possono essere anche sintomi non motori e oggi si da molta rilevanza
ai sintomi non motori. La depressione è uno dei sintomi non motori e per esempio
ci sono delle aziende farmaceutiche oggi che sono molto interessate ad estendere
l‟uso dei farmaci antidepressivi alle così dette comorbilità neurologiche. Come
sapete, il termine comorbilità significa associazione non casuale tra diverse
patologie. Poi che si tratti di una reale comorbilità o che la depressione possa
essere inclusa tra le manifestazioni cliniche della malattia, questo è un altro
discorso e la stessa cosa vale per la sclerosi multipla.

Quali altre manifestazioni non motorie potete avere al momento della diagnosi?
Ci può essere dolore, che gioco forza deve essere un dolore neuropatico, cioè un
dolore che dipende da modificazioni anatomiche-strutturali delle vie di senso del
dolore. Ci può essere fatica e in alcuni casi ci possono essere delle manifestazioni
dementigene precoci per esempio MCI (compromissione cognitiva lieve, Mild
cognitive impairment), che è una specie di prodromo della malattia di Alzheimer,

223
però una condizione del genere può essere presente anche nella sindrome di
Parkinson. Questi sintomi non motori possono poi continuare ed evolvere e se ne
possono presentare anche altri man mano che la malattia va avanti, per esempio
sintomi urinari con problemi dell‟evacuazione della vescica ed ipotensione
ortostatica. Qui però bisogna valutare l‟impatto della terapia, perché i farmaci
dopamino-mimetici possono dare ipotensione ortostatica, in determinate
circostanze. Quando la Levodopa è stata utilizzata per le prime volte, visti gli alti
dosaggi che si utilizzavano perché non erano ancora in terapia gli inibitori periferici
delle LAD (cioè delle decarbossilasi), l‟ipotensione ortostatica era presente con una
certa frequenza. E poi ci può essere la demenza; quindi, inizialmente potete avere
soltanto MCI ma poi la manifestazione dementigena può venire fuori in maniera più
marcata.

Allo stesso modo i sintomi motori possono evolvere e potete avere delle
manifestazioni abbastanza critiche. Una di queste è la disfagia, che ovviamente
può compromettere la qualità della vita e può essere estremamente pericolosa per
la vita del paziente. Ci può essere instabilità posturale, ci possono essere le cadute
(per esempio la volta scorsa vi ho detto che i soggetti che hanno la mutazione di
LRRK2 in realtà hanno un Parkinson più “benigno”, anche se benigno non è la
parola giusta, rispetto ai soggetti che non hanno la mutazione perché le cadute
avvengono più tardivamente.). E poi c‟è il cosiddetto freezing of gait, ovvero
letteralmente il congelamento della marcia e che è una manifestazione molto strana
perché è una delle poche che non si correla con i livelli plasmatici di Levodopa.

Oltre questo ci sono le complicanze legate al trattamento. Le principali sono tre, le


prime due sono abbastanza classiche, molto studiate con la Levodopa, che
sarebbero le fluttuazioni dell’efficacia terapeutica il che significa che il paziente
in alcuni momenti della giornata va bene, è in fase ON, si muove bene, in altri
momenti però è in fase OFF e si blocca completamente. Queste fasi OFF possono
essere motorie e non motorie, cioè possono riguardare anche modificazione del
tono dell‟umore, dolore e così via. Oltre alle fluttuazioni ci sono le discinesie, le
così dette LID, cioè le discinesie indotte dal Levodopa e che sono forse la parte più
affascinante della fisiopatologia legate al trattamento. Questo perché le LID
rispecchiano una forma di plasticità sinaptica mal adattativa in cui i due nuclei del
nostro cervello che programmano i movimenti abitudinari (vale a dire il putamen e il
caudato) hanno una plasticità anomala e quindi programmano dei movimenti
assolutamente afinalistici che vengono ripetuti nel tempo e che compromettono la
qualità di vita del paziente. Molte volte bisogna attuare una scelta, se si trattano le
fasi OFF peggiorano le discinesie, quindi bisogna mettere sulla bilancia le fasi OFF
da una parte e le discinesie da un‟altra e vedere cosa conviene trattare di più. Oltre
a questo, come complicanze ci sono le psicosi, che possono venire fuori quando
un individuo è stato trattato per molto tempo con farmaci dopaminergici.

224
[domanda studente: perché invece i pazienti con Parkinson possono avere ipertensione durante il
sonno (mi sembra che ci fosse questa distinzione tra pazienti dipper e non dipper). Risposta del
Professor Francesco E. Pontieri: in alcuni pazienti Parkinsoniani, non succede a tutti (invece
questo è quasi la regola nei soggetti con atrofia multisistemica) c’è anche un interessamento
patologico del sistema nervoso autonomo. Questo si manifesta con un meccanismo piuttosto
strano che sostanzialmente è il trasformare il risentire eccessivamente della postura gravitaria o
antigravitaria, questo fa sì che poiché c’è un’alterazione nella regolazione del microcircolo, quando
il soggetto è in posizione supina (succede di notte perché di notte si è sdraiati, ma succede anche
se il soggetto è sdraiato di giorno), va incontro ad un incremento di pressione sistemica che può
essere anche terribilmente grave che è conseguenza dell’incapacità delle arteriole di rilassarsi in
questa posizione. Al contrario quello che succede è che passando in ortostatismo, che è una
condizione della quale noi non ci accorgiamo, ma nella quale tutti noi abbiamo un lieve incremento
pressorio e un lievissimo incremento di frequenza cardiaca, il parkinsoniano non compensa e di
conseguenza si ritrova con una ipotensione ortostatica che può essere sintomatica in due modi. Il
primo è l’evento sincope che è quello di cui si accorge il paziente, il secondo che è un po’ più
sottile poiché sta diventando ormai chiaro, è una ridotta perfusione celebrale il che comporta che la
corteccia prefrontale funzioni un pochino in riserva e che quindi quando la corteccia prefrontale si
trova in una condizione di dover lavorare per operare delle scelte, fatica e le performance cognitive
soprattutto nell’ambito delle funzioni esecutive di questi soggetti risentono negativamente del
passaggio in ortostatismo.]

TRATTAMENTO

Il miglior trattamento in assoluto per la malattia di Parkinson è rappresentato L-


DOPA più inibitori periferici delle LAAD.

Perché le indichiamo come LAAD e non come DOPA- decarbossilasi? Il motivo è


che le LAAD sono le decarbossilasi degli amminoacidi L-aromatici, sono enzimi non
specifici per cui le LAAD trasformano la Levodopa in dopamina però trasformano
anche il 5-idrossitriptofano in serotonina e l‟istidina in istamina. Quindi nel momento
in cui voi inibite perifericamente le LAAD, voi intervenite nei confronti di tutti questi
meccanismi. Non so quanto questo posso avere un impatto in tutto ciò che succede
dopo qualche anno che cominciate la terapia, anche perché questo potrebbe
intervenire a livello periferico, però è qualcosa da sottolineare. Così come un‟altra
cosa che bisogna sottolineare è che la Levodopa quando arriva nel sistema
nervoso centrale non viene captata esclusivamente dai terminali dopaminergici,
anche se quando voi fate una PET con Levodopa marcato con Fluoro18, voi in
realtà avete un quadro soprattutto dei terminali dopaminergici nello striato. Però la
Levodopa è un amminoacido e gli amminoacidi vanno dovunque, e nel momento in
cui la Levodopa viene captata da un terminale serotoninergico o viene presa
dall‟endotelio, dagli astrociti o dai neuroni noradrenergici, verrà metabolizzata lì.
Per esempio, una delle possibili spiegazioni dal punto di vista patogenetico delle
discinesie da Levodopa è che i neuroni serotoninergici captano la Levodopa, la
trasformano in dopamina perché hanno le LAAD (che solitamente utilizzano per
formare serotonina dal 5-idrossitriptofano), partendo da un neurone serotoninergico
vi ritrovate con un neurone serotoninergico per metà e dopaminergico per l‟altra

225
metà, che non è cosa da poco. Ricordatevi che i neuroni dopaminergici della pars
compatta della sostanza nera hanno una scarica elettrica a ritmo di samba, che è
dettata soprattutto da potenziali al calcio, molto peculiare, e se voi fate formare
dopamina in un terminale serotoninergico dello striato, questa dopamina non sarà
mai rilasciata con le stesse caratteristiche di un assone dopaminergico. E all‟inizio
del trattamento quando avete un certo numero di neuroni dopaminergici intatti,
prevale comunque la trasmissione dopaminergica ma quando questo rapporto
comincia a diventare non così favorevole perché la degenerazione va avanti,
mentre i terminali serotoninergici e noradrenergici degenerano molto di meno (in
parte degenerano, ma meno), a quel punto il rilascio di dopamina non avrà le
stesse caratteristiche del rilascio iniziale. Ora quanto questo possa contribuire a
creare la plasticità sinaptica mal adattativa onestamente non lo so, però
sicuramente è una cosa che deve essere tenuta in debita considerazione.

Detto questo, cosa è la Levodopa? Innanzitutto, è una sostanza naturale, che si


trova in alcuni fagioli, per esempio nella Mucuna Pruriens oppure si trova nelle
fave, per esempio in una fava che si chiama Vicia Faba. La storia della Levodopa è
abbastanza affascinante perché il ricercatore Guggenheim nel 1913 ha studiato la
Levodopa prodotta dalle fave e ha fatto il brevetto; però questo brevetto è andato
nel dimenticatoio e nessuno ne ha più parlato. Finché ad un certo punto Carlsson,
ricercatore svedese, nel 1950 ha fatto un esperimento su ratti che erano trattati con
reserpìna. La reserpina è una sostanza che veniva prima utilizzata per il
trattamento dell‟ipertensione severa (oggi non si utilizza più, si chiamava serpasil
allora). Sostanza molto importante perché ha dato origine agli psicofarmaci, perché
è una sostanza in grado di depletare le monoamine, cioè legandosi al trasportatore
vescicolare lascia le monoamine al di fuori delle vescicole, le monoamine vengono
tutte quante disperse dal terminale, finché dopo una fase iniziale il terminale rimane
senza monoamine. Per questo alla fine veniva utilizzata per il trattamento
dell‟ipertensione dopo questa fase iniziale. Carlsson aveva fatto questo, aveva
trattato gli animali reserpinizzati con Levodopa vedendo che la risposta motoria
veniva ripristinata. Dopo questo esperimento fatto con i ratti, Hornikiewicz ha
collaborato con un altro neurologo austriaco, Birkmayer, e Hornikiewicz aveva
scoperto che vi era una riduzione della dopamina nei gangli della base nei soggetti
morti di malattia di Parkinson e ha convinto Birkmayer a trattare i pazienti con
Parkinson con la Levodopa. Quindi è stato Hornikiewicz il primo ad aver
sperimentato la Levodopa nella malattia di Parkinson. Birkmayer inizialmente era
scettico, ma poi lo scetticismo gli è passato perché ha visto che la Levodopa, che in
quel momento era infusa per via endovenosa, aveva degli effetti straordinari nei
confronti della bradicinesia, cioè questi pazienti ricominciavano a muoversi. E sulla
scorta di questa evidenza altri autori molto importanti nella storia della malattia di
Parkinson per esempio Cotzias, Barbeau hanno ampiamente confermato i dati

226
della Levodopa che originava dagli studi di Hornikiewicz, ovvero che c‟era una
riduzione di dopamina nei gangli della base nei pazienti affetti da Parkinson.

In tutta questa storia si è inserito anche Oliver Sacks con il libro “Risvegli”. Sacks
ha trattato con Levodopa i pazienti che erano affetti da Parkinsonismo post-
encefalitico, cioè i pazienti che avevano avuto all‟inizio del „900 l‟encefalite letargica
di Von Economo. Von Economo era un neurobiologo che aveva studiato tanto
l‟encefalite letargica e al quale si deve un avanzamento importante nella
fisiopatologia dei disturbi del sonno, perché lui è stato il primo ad ipotizzare che
alcune strutture del tronco dell‟encefalo fossero responsabili della regolazione del
sonno-veglia. Prima si pensava che il sonno derivasse solo dalla mancanza di input
stimolatori provenienti dal mondo esterno. Lui invece si accorse che i pazienti con
encefalite letargica dormivano nella maggior parte dei casi 20 ore al giorno (da qui
il nome letargica) e questi pazienti avevano lesioni dell‟ipotalamo laterale del
mesencefalo e pochi pazienti invece avevano lesioni in altre strutture molto vicine a
quelle, ed invece erano insonni. E da qui è nato tutto lo studio dei nuclei del tronco
dell‟encefalo e dell‟ipotalamo che controllano il sonno, cosa che oggi si avvale di
strumenti molto potenti in neurobiologia come l‟optogenetica, l‟optofarmacologia.
Questi individui affetti da encefalite letargica diverse decadi dopo hanno sviluppato
parkinsonismo post-encefalitico che rispondeva benissimo alla Levodopa, come
riportato nel libro “Risvegli” di Oliver Sacks.
Per riassumere: Carlsson ha preso il Nobel insieme a Paul Greengard (Dio solo sa
perché sia stato dato a Greengard) ed Eric R. Kandel, che aveva fatto invece tutti i
meccanismi della memoria utilizzando la lumaca marina. Non si riesce a
comprendere come mai il Nobel non sia stato dato ad Hornikiewicz ma a Carlsson,
forse ha contribuito il fatto che fosse svedese, ma a mio modo di vedere non è
stato corretto.

La Levodopa è così fondamentale nella malattia di Parkinson che, se un paziente


non risponde alla Levodopa, non ha la classica forma di malattia di Parkinson, ma
può avere una forma di malattia di Parkinson plus, cioè può avere un‟atrofia
multisistemica, una paralisi sopranucleare progressiva o una forma di
parkinsonismo atipico. Alcune volte trovare scritto che queste forme non
rispondono alla Levodopa, in realtà non credo che questo sia corretto, perché
proprio da Francesco Pontieri ho appreso che una percentuale di pazienti con
atrofia multisistemica e con paralisi sopranucleare progressiva rispondono alla
Levodopa. Non sono in grado di quantificare la % di questi pazienti, ma credo sia
intorno ad 1/3. [Intervento di Pontieri: in pazienti con PSP è un evento raro, più che
altro succede in una delle varianti di PSP, che è la PSP-P (dove P sta per
Parkinson) che è l’unica variante fenotipica di PSP che ha una distribuzione
asimmetrica e che può avere un tremore che tende ad essere misto, mentre nelle
altre PSP non c’è. Questi possono rispondere discretamente con un beneficio

227
intorno al 20-30% per anche 4-5 anni, poi succede la cosa affascinante che a un
quadrimestre di distanza cominciano a mostrare una chiara oftalmoparesi e un
disturbo assiale e a quel punto virano in pochissimo tempo verso il fenotipo
convenzionale di PSP. Mentre per quando riguarda l’atrofia multisistemica, si ritiene
che non rispondano alla Levodopa perché il criterio di risposta è dato su un
beneficio di almeno il 20% alla OPTRS terza tra il pre e il post, dove il post sta ad
indicare almeno tre mesi ad una posologia adeguata. In realtà si sa che a dosaggi
di almeno 800 mg/die di Levodopa più inibitori di amminoacidi aromatici
decarbossilasi, una risposta c’è in una buona percentuale di pazienti con MSA ma
arriva al massimo a questo 20%. Quello che si osserva più che altro è che, se
proviamo a sospendere il farmaco, peggiorano; quindi più che accorgerci che
migliorano con la terapia, ci accorgiamo che, se la sospendiamo perché sembra
non esserci una sufficiente risposta, c’è un franco peggioramento. Questo è il
motivo per cui nelle MSA si tende a mantenere la Levodopa a meno che non ci sia
una severità di effetti collaterali soprattutto sulla disautonomia cardiovascolare per
cui il gioco non vale la candela. Inutile far muovere un pochino meglio uno che
sviene ogni volta che si mette in piedi].

La Levodopa è talmente gold-standard nella terapia di Parkinson che in alcuni casi


hanno pensato di fare un test diagnostico, per vedere se effettivamente il soggetto
è Parkinsoniano o meno, fare un challenge con Levodopa. Quando si fa questo
challenge, si danno 250 mg di Levodopa, ma 12 ore prima si somministra il
domperidone che è un antiemetico, perché uno dei problemi di tutte le sostanze
che aumentano la sintesi di dopamina o attivano i recettori dopaminergici è
l‟induzione del vomito. Dopo di che il domperidone si prende un‟altra volta una o
due ore prima dei 250 mg di Levodopa, dopo di che si fa il challenge e la
valutazione con UPDRS (la scala unificata di valutazione di malattia di Parkinson),
utilizzando soprattutto la parte tre che è la parte della valutazione motoria e questo
potrebbe aiutare a fare diagnosi.

[Domanda di Nicoletti a Pontieri: Questo challenge con Levodopa, anche ora che si
fa il DAT-SCAN molto frequentemente, continua in alcune strutture ad essere fatto?
Risposta di Pontieri: Negli stadi iniziali di malattia di Parkinson, quindi idealmente
quando si tratta di fare la diagnosi, la denervazione dopaminergica è sufficiente a
dare sintomi, ma è ancora sufficiente a far gestire bene la levodopa. Di
conseguenza è molto difficile che un test in acuto con L-dopa, che in teoria risente
molto come risposta di quelle che sono le concentrazioni extracellulari di L-dopa,
possa dare un beneficio. Nello stadio iniziale di Parkinson quella che prevale è la
cosiddetta risposta a lunga durata, motivo per cui qualche nostro collega ha per
tempo sostenuto l’utilità di fare una mega dose di L-dopa serale con cui il paziente
andava bene in effetti il giorno dopo. Poi dopo anni andava peggio, ma in sé per sé
aveva risposta. Noi purtroppo sappiamo questo, e vale anche per il DAT-SCAN,

228
ovvero che la aspecificità del test è notevole. Un test francamento positivo è
suggestivo molto di malattia di Parkinson idiopatico, però un test successivo
francamente positivo si osserva in meno del 20% dei soggetti con malattia di
Parkinson. Al contrario, un test negativo in acuto dice poco così come un DAT-
SCAN alterato non dice necessariamente malattia di Parkinson, ma dice
denervazione dopaminergica nello striatale, senza poter specificare di più perché il
versante post-sinaptico non è interessato nella questione].

[Nicoletti chiede: Quando tu fai un DAT-SCAN, usi un ligando del DAT. Si possono
avere condizioni funzionali in cui il DAT si modifica. Esempio diretto: nello studio L-
DOPA, che aveva la discrepanza tra l’effetto clinico che poi derivava dal beneficio
prolungato e poi invece l’imaging che mostrava una riduzione. Ecco, in una
situazione come questa quando tu fai un trattamento molto lungo e poi fai il DAT-
SCAN, chi può escludere che la biosintesi del trasportatore sia alterata e che quindi
quello che vedi non rispecchi una degenerazione quanto il fatto che ci sia una
desensibilizzazione del trasportatore o al contrario puoi avere un’ up-regulation del
trasportatore? Risposta di Pontieri: Dunque è molto più difficile di quello che può
sembrare, francamente io ho sempre avvisato gli studenti di stare alla larga da
informatori che spacciano per verità cose che non sono verità. Del resto, teniamo
presente che se i ragazzi girano su internet nei siti per i pazienti viene spacciato il
DAT-SCAN come l’esame che fa fare diagnosi di malattia di Parkinson, quindi il
messaggio che poi arriva ai pazienti è questo ed è anche il messaggio che arriva a
molti medici di medicina generale e persone che non lavorano specificatamente nel
campo. Il problema è pesante perché il DAT è una molecola che risente per forza di
cose nella sua espressione oltre che nella sua risposta funzionale da quello che è
l’assetto della trasmissione dopaminergica. Tanto che i tentativi che son stati due o
tre studi con farmaci dopamino-agonisti, per lo più in rapporto alla Levodopa, di
usare il DAT-SCAN come surrogato strumentale di progressione di malattia sono
falliti miseramente, proprio perché il segnale DAT-SCAN e diciamo il DAT, all’inizio
di malattia di Parkinson va in up-regolation da denervazione così come succede sui
recettori post-sinaptici così succede su una molecola pre-sinaptica che trova meno
dopamina in giro e cerca di acchiappare tutto quello che può. L’inserimento di
farmaci d’altra parte ha un effetto verosimilmente diverso, perché se noi forniamo
Levodopa diamo il precursore o comunque la molecola che il DAT usa per lavorare,
e quindi diamo il substrato al DAT per lavorare, e se noi usiamo un dopamino-
agonista diretto che attiva i recettori post-sinaptici e potenzialmente silenzia il
neurone dopaminergico, perché c’è già sufficiente segnale post-sinaptico, noi
possiamo avere una paradossale ulteriore riduzione di dopamina extra-cellulare e
un DAT-SCAN che incrementa ulteriormente perché trova ancora meno dopamina
di prima. Il punto purtroppo è che il DAT-SCAN sarebbe verosimilmente un esame
di alto significato e di alta valenza se noi riuscissimo ad identificare i fenotipi
preclinici che ci permettano di usare il DAT-SCAN come esame di screening

229
premotorio, cioè presintomi. A quel punto potrebbe diventare qualcosa che, oltre ad
avere una valenza diagnostica importante, potrebbe diventare utile anche per i trial
di neuroprotezione, perché invece di partire da meno 70% magari partiremmo da
meno 40-50% con qualche chance in più di far del bene, di fermarci ad un
momento migliore. Così io credo che il test in acuto a Levodopa non lo fa più
praticamente nessun centro Parkinson, ha ancora un’indicazione che però è
differente ed è quella di un soggetto in cui abbiamo iniziato la terapia
dopaminergica, c’è stata una risposta parziale non convincente ai fini di definizione
diagnostica e magari dopo un po’ sembra ridursi come risposta, un po’ troppo in
anticipo rispetto al prevedibile. Allora a quel punto, quindi quando ci poniamo il
problema ”Ma questa è una malattia di Parkinson o un parkinsonismo atipico?”,
fare un test in acuto con Levodopa con la premedicazione come hai indicato tu
(domperidone), diciamo che la dose pre-levodopa di domperidone si dà un trentina
di minuti e non due ore prima perché sono sufficienti per saturare, lì un test con
Levodopa in acuto in un soggetto che magari faceva 100mgX4, fargli in acuto
250mg per vedere se c’è un incremento di risposta rispetto al suo standard può
aiutare a farsi un’idea se ci sia o meno una risposta clinica alla Levodopa.]

Riprende Nicoletti: Vediamo qual è stata la grande innovazione nel trattamento con
L-dopa, ovvero l‟inserimento in terapia degli inibitori periferici delle LAAD.
Ovviamente devono essere inibitori periferici, perché se inibissero centralmente la
L-DOPA non sarebbe più trasformata in dopamina.
Gli inibitori delle LAAD sono due e sono Carbidopa e Benserazide.
Quando facciamo L-DOPA + Carbidopa il farmaco si chiama Sinemet, mentre L-
DOPA + Benserazide si chiama Madopar. In genere il rapporto ponderale nella
formulazione farmaceutica è 4:1 in favore della L-DOPA e questo vale sempre per il
Madopar, per le formulazioni di Sinemet a rilascio più prolungato (Sinemet standard
125 e formulazione intestinale con duo dopa), ma troviamo formulazioni di Sinemet
in rapporto 10:1 in favore della L-DOPA (il primo ad esser messo in commercio e
tuttora in commercio ma usato meno).
L‟inserimento di questi inibitori periferici delle LAAD ha permesso di ridurre molto la
dose di L-DOPA, fermo restando che 75 mg/die sembrano necessari per inibire la
maggior parte delle LAAD in periferia. E quindi per raggiungere questo dosaggio
con un rapporto 4:1 del farmaco, dobbiamo dare nell‟arco della giornata 300 mg di
L-DOPA associati a 75 mg di inibitori (100+25 mg x3 ad esempio). Nicoletti chiede
a Pontieri “voi in genere la titolazione di Levodopa-Carbidopa e Levodopa-
Benserazide come la fate all‟inizio? Partite 100 mg + 25 mg x2, oppure partite
direttamente con tre?

[Pontieri]: Per la titolazione non c‟è una regola, l‟usanza è utilizzare almeno 3 dosi
di meno sono poche in quanto avendo la L-DOPA emivita plasmatica molto breve si
fanno molte somministrazioni per evitare grosse fluttuazioni delle concentrazioni

230
plasmatiche del farmaco. Questo non ha grandi ricadute in acuto, ma è un discorso
importante per trattamenti prolungati per anni. Di solito è più semplice impostare gli
orari delle somministrazioni e poi modificare le dosi, piuttosto che fare uno schema
dove inizi con due volte al giorno, poi passi a 3 volte al giorno ecc. Quindi si
impostano 3 o 4 dosi al giorno (4 dosi significa ogni 4 ore e 3 dosi significa in
relazione ai pasti, ma tenendo presente che è utile fin dall‟inizio assumerla prima
dei pasti in modo tale che si riduca l‟interferenza dell‟assorbimento della L-DOPA
da parte del cibo) e la scelta è quasi individuale, ma è utile fare 1-2 settimane con
50 mg (ovvero mezza pasticca)x 3 o x4 e poi passare a 100mg (una pasticca
intera) x3 o x4. Questo fa stare tranquilli sulla quasi totalità dei soggetti
nell‟annullare gli effetti collaterali da eccessiva stimolazione periferica.

[Nicoletti riprende] Ci sono due considerazioni che dovremmo fare sulla L-DOPA e
sul metabolismo periferico. La prima considerazione è che, se voi permettete alla L-
dopa di essere trasformata in dopamina in periferia (ciò accadeva prima che
entrassero in commercio Benserazide e Carbidopa), la L-dopa può far succedere
cose poco piacevoli. Ad esempio l‟ipotensione ortostatica, che deriva dal fatto che i
recettori D2 per la dopamina che si trovano sui terminali dell‟ortosimpatico sono
accoppiati a proteina Gi e inibiscono il rilascio di noradrenalina. Considerate che
questi recettori D2 si trovano anche nei terminali del parasimpatico e questo
potrebbe significare che quella quota di L-DOPA che si trasforma in dopamina, ad
esempio nel tratto gastrointestinale, può interferire con lo svuotamento gastrico e la
motilità intestinale. Inoltre i recettori D1 della dopamina si trovano nella tonaca
muscolare dei vasi e sono accoppiati a proteina Gs, quindi quando vengono attivati
portano vasodilatazione e quindi riduzione della pressione. La dopamina viene
utilizzata anche nel trattamento dell‟insufficienza cardiaca acuta riducendo con i
meccanismi visti di vasodilatazione il post carico, ma anche andando ad interagire,
se ad alti dosaggi, con i recettori β1 che aumentano l‟inotropismo. Il terzo
meccanismo promossa dalla L-dopa riguarda il tubulo contorto prossimale del rene.
Il TCP non è in grado di sintetizzare L-dopo, perché non ha la tirosina idrossilas;
ma ha LAAD e se arriva la L-DOPA ed entra nel TCP viene trasformata in
dopamina. La dopamina interagisce attiva i recettori D1 nel TCP del rene, sempre
accoppiati a proteina Gs. Questi recettori si comportano allo stesso modo dei
recettori per il paratormone, sempre accoppiato a Gs, che permette di eliminare
fosfati grazie ad aumento dell‟cAMP che inibisce il trasportatore Na/Pi che
normalmente nel TCP riassorbe il fosfato insieme al sodio. I recettori D1 fanno
esattamente la stessa cosa nel rene, con eliminazione di fosfato e di una parte di
sodio. Quindi l‟ipotensione ortostatica dipende da questi tre meccanismi:

- riduzione del rilascio di noradrenalina da parte dei terminali


dell‟ortosimpatico;
- vasodilatazione diretta, soprattutto nel rene;

231
- attivazione dei recettori D1 nel TCP con eliminazione di una quota di sodio.

La L-DOPA, oltre a poter compromettere lo svuotamento gastrico e la motilità


intestinale, trasformandosi in dopamina può elicitare il riflesso del vomito, perché i
recettori D2 si trovano in una regione che si chiama CTZ, regione non protetta dalla
BEE, che controlla il centro del vomito (parti della formazione reticolare del bulbo
che controllano il riflesso del vomito). E, se la L-DOPA diventa dopamina e arriva a
questo livello, stimola il centro CTZ e procura il vomito.
In periferia la L-dopa non è solo metabolizzata dalle LAAD ma anche dalle COMT,
catecol-ossi-metiltransferasi. Sono enzimi che metilano il gruppo ossidrilico del
catecolo, ovvero un gruppo aromatico con 2 gruppi ossidrilici presente nella L-
DOPA, oltre che nelle catecolammine. Possono attaccare la L-dopa sia
centralmente che perifericamente e la cosa importante è che lo fanno in periferia,
perché è vero che in periferia la L-dopa solo in parte è trasformata in dopamina
perché presenti Benserazide e Carbidopa, ma è altrettanto vero che una quota
significativa della L-DOPA che somministriamo oralmente può esser poi attaccata
dalle COMT. Questa poi diventa metil-DOPA (nel senso che il gruppo ossidrilico in
posizione 3 viene metilato), e quella L-dopa non è più disponibile per la formazione
di dopamina nel SNC. Ci sono quindi delle circostanze in cui dobbiamo inserire in
terapia gli inibitori delle COMT. Li inseriamo ad esempio dopo un certo numero di
anni di terapia con L-DOPA, quando il beneficio prolungato va riducendosi mentre
va ad essere prevalente l‟azione rapida della L-dopa rispetto a quella prolungata,
quindi quando cominciano le fluttuazioni dell‟efficacia terapeutica e dobbiamo
combattere le fasi OFF. Per combatterle, possiamo utilizzare tre inibitori delle
COMT, che hanno caratteristiche diverse:

1. Opicapone, ultimo arrivato, inibitore periferico delle COMT (cioè inibisce solo
le COMT al di fuori del SNC) che si dà al dosaggio di 50 mg/die, si preferisce
darlo la sera prima di andare a letto e di solito si dà o un‟ora prima o un‟ora
dopo la somministrazione di L-DOPA;
2. Entacapone, inibitore periferico delle COMT, cioè anche lui non attraversa la
BEE e blocca le COMT solo al di fuori del SNC. Si somministra tutte le volte
in cui si somministra la L-DOPA al dosaggio di 200 mg a volta. E, anche se è
presente come farmaco singolo, nella maggioranza dei casi viene combinato
con L-DOPA + Carbidopa nel farmaco Stalevo. La differenza tra Opicapone
ed Entacapone è che l‟Opicapone ha un‟emivita più lunga e si somministra
solo la sera a 50 mg; mentre, invece, Entacapone ha emivita più breve e
deve essere somministrato più volte sotto forma di Stalevo);
3. Tolcapone, inibitore sia periferico che centrale, si somministra a 100 mg bid o
tid; ma ha un problema principale che è l‟epatotossicità per cui è importante
controllare le transaminasi almeno una volta ogni due settimane nel primo
anno di trattamento, anche se in realtà probabilmente non si fa.

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[Pontieri]: il Tolcapone è stato dopo la L-DOPA, quando uscì, il più grande passo
avanti per la terapia per il Parkinson, perché ha un’efficacia come potenziamento e
stabilizzatore della trasmissione dopaminergica clamorosa. Lo preferisco in
assoluto, ma appunto c’è questo problema della tossicità. L’epatotossicità del
Tolcapone è consistita in 6 casi di necrosi epatica acuta nel mondo a fronte di
qualche milione di pazienti trattati che sono passati da meglio a molto meglio. La
cosa più grave è che questa epatotossicità è emersa in fase 4, quindi quando il
farmaco era già commercializzato e che l’azienda farmaceutica che aveva fatto
tutta la parte pre-clinica del Tolcapone era al corrente di ciò perché questo era
emerso dalla fase 1 sui ratti. Dalla fase 1 si sapeva che questa tossicità interessava
soprattutto il sesso femminile e avevano dati che suggerivano ci fossero alcuni
genotipi più a rischio. Sarebbe stato gestito tutto meglio se fosse stato detto di
limitare l’uso di Tolcapone quando veramente necessario ed eventualmente fare
questo test nelle donne. Questo avrebbe consentito di avere ancora il Tolcapone
sul commercio senza limitazioni. La limitazione attuale è molto più drastica di quella
detta da Nicoletti, perché prevede un controllo della funzionalità epatica a
settimana per i primi due anni e poi un controllo ogni due settimane a vita. Questo
comporta anche doversi ricordare di quando i pazienti fanno il test e stare dietro a
tutto, nella pratica questo ha comportato una riduzione dell’uso del Tolcapone per
un abbassamento della compliance non solo alla terapia ma anche alla gestione e
al monitoraggio degli effetti collaterali, che per me è stato un gran peccato, perché
milioni di pazienti ci hanno rimesso. Permetteva una totale stabilizzazione della
trasmissione dopaminergica nelle 24 ore, un miglioramento notturno clamoroso,
una clamorosa riduzione delle sveglie e alzate notturne per andare in bagno.
Affondato tutto per 6 casi che per carità sono stati drammatici, ma inoltre sono
morti nel giro di 6 giorni, quindi il monitoraggio settimanale non esclude comunque
la possibilità di questi casi perché uno si fa le analisi il martedì e la domenica poi è
morto. Il Tolcapone da solo fa più di quello che fa l’Opicapone + Safinamide.

Nicoletti aggiunge che pensava fosse l‟Entacapone il preferito in terapia.


Pontieri replica dicendo “sicuramente è il più utilizzato attualmente, ma non è quello
di cui si è più contenti ed ha un problema, cioè che ha un‟emivita sovrapponibile a
quella della L-DOPA. Quindi quello che fa l‟Entacapone è alzare tutte le aree sotto
la curva della L-DOPA nel plasma senza però modificare molto il profilo durante la
giornata, quindi paradossalmente alza molto i picchi e facilita l‟insorgenza di
discinesie. Al contrario l‟Opicapone che è più stabile consente più facilmente (in
mani esperte) di gestire le dosi di L-DOPA in modo da evitare dei grossi picchi in
fase acuta di assorbimento. Si somministra la sera per tradizione, perché nei trial
registrativi è stato dato la sera ad almeno un‟ora di distanza dalla cena e almeno ad
un‟ora di distanza dalla L-DOPA, ma in realtà non cambia molto se lo si dà in altri
momenti della giornata. È conveniente, però, non darlo direttamente con la L-
DOPA.”

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Nicoletti conclude con un discorso sulle logiche che dominano le aziende
farmaceutiche e la produzione dei farmaci, che sfuggono ai più. Ultimamente c‟è
stata una campagna denigratoria nei confronti di Astrazeneca che sembra non
finire più, ma nella realtà persone che sono un po‟ dentro queste cose, la logica
commerciale in questa campagna denigratoria è stata molto più forte di quella
scientifica. Le aziende ci vendono i farmaci che servono per il bene comune, si, ma
comunque devono guardare il fatturato. Nessuno può omettere il profilo di
sicurezza che emerge in fase uno e poi aspettare che emerga in fase 4, perché
questo è un boomerang per la stessa azienda.
Nicoletti racconta che è stato chiamato da una persona a Catania perché la figlia
con acne deturpante, era stata trattata con Roaccutan, cioè Isotretinoina, un
derivato dell‟acido retinoico. Questa ragazza ha sviluppato una patologia psicotica,
è diventata schizofrenica, ha lasciato l‟università e la sua vita è stata rovinata.
Questa persona ha quindi sostenuto che l‟azienda, ovvero la Roche, che ha
prodotto il farmaco fosse già al corrente di questo e li ha citati in giudizio. Ha
chiesto consulenza a Nicoletti che ha detto di non poter assumere questo ruolo in
quanto consulente dell‟azienda stessa e quindi in chiaro conflitto di interessi. Ma
comunque ne hanno chiacchierato e alla fine non esistevano evidenze in letteratura
che persone trattate con Isotretinoina, prima dell‟episodio successo alla figlia,
sviluppassero problemi di quel tipo, c‟era qualcosa in correlazione alla depressione
e al tono dell‟umore, ma nulla di schizofrenia. Ma nonostante questo l‟azienda alla
fine ha negoziato con questa persona e gli ha dato 750 mila euro per chiudere il
processo. Questo fa pensare a quanto a volte alcuni aspetti del profilo di sicurezza
sono previsti un minimo per il meccanismo di azione del farmaco o dagli studi
condotti su di esso, ma non emergono così facilmente e poi, come diceva il
professor Pontieri, nella fase 4 di farmacovigilanza possono venire fuori alcune
cose per il profilo di sicurezza e tollerabilità.

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27 MAGGIO 2021

LEVODOPA
Oggi cerchiamo di trattare le varie caratteristiche della Levodopa (L-DOPA). Dovete
sempre partire da un presupposto: la L-DOPA non è un’amina, ma un aminoacido.
Questo è importante sottolinearlo, perché L-DOPA è un aminoacido non proteico,
ma nonostante questo si comporta come tutti gli aminoacidi: viene trasportato come
vengono trasportati tutti gli aminoacidi, ha solo un metabolismo un pochettino
diverso, perché può essere metabolizzato dalle COMT, come abbiamo detto la volta
scorsa, se ricordate, quando il discorso è caduto sui tre inibitori delle COMT, che
sono opicapone, tolcapone ed entacapone. E qui, quando è intervenuto il professor
Pontieri, ci ha dato delle dritte importanti, che onestamente non conoscevo, cioè il
fatto che il tolcapone tra i tre farmaci è di gran lunga il migliore. Allora, ho riflettuto su
questo, ovviamente c’è il limite che è legato al fatto che il tasmar (tolcapone) ha
bisogno del monitoraggio delle transaminasi, io credevo che tale monitoraggio
andasse fatto ogni 2 settimane, però il professor Pontieri ha detto giustamente che
va fatto tutte le settimane, una forzante in più rispetto alla scheda tecnica, però
indipendentemente da questo, mi sono un po’ interrogato sulla ragione: per quale
motivo il tolcapone è più efficace nei confronti di entacapone e nei confronti di
opicapone, perché onestamente pensavo che il opicapone fosse il massimo, perché
si danno 50 mg la sera, lo distanziate di un’ora dalla levodopa, e questo vi dà la
copertura, che vi permette di fare una singola somministrazione al giorno, quindi
anche estremamente comodo. Però, il tolcapone ha una differenza e la differenza
nasce dal fatto che non agisce solo perifericamente ma anche all’interno del
SNC e nel SNC, le COMT, innanzitutto metabolizzano la dopamina, ed in particolare
metabolizzano DOPAC, trasformandola in acido omovanillico. Quindi, dare un
inibitore delle COMT che agisce centralmente, significa che anche aumentare la
quantità di dopamina che c’è nel sito attivo, perché viene metabolizzata di meno, cioè
continuerà ad essere metabolizzata dalla MAO, ma a quel punto, l’altro tipo di
metabolismo non c’è.
Tuttavia, la COMT può anche intervenire sulla dopamina prima che intervenga la
MAO ed a questo punto la COMT centrale che è quella bloccata dal tolcapone,
perché gli altri sono esclusivamente degli inibitori periferici quindi non riescono a
farlo, può trasformare la dopamina in 3-metossi-tiramina. E questo mi ha molto
interessato, per due ragioni, perché da un canto quando il tolcapone blocca la COMT
centralmente può aumentare i livelli di dopamina anche indipendentemente dalla
MAO e la seconda cosa è che l’inibitore della COMT può bloccare anche la
produzione di 3-metossi-tiramina, che sarebbe una dopamina con un metile inserito
sul catecolo, prima ancora che la dopamina venga metabolizzata dalla MAO.
A questo punto vi chiederete che cosa sia la 3-metossi-tiramina.
La 3-metossi-tiramina appartiene al gruppo delle cosiddette amine trace.
Cosa sono le amine trace?

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27 MAGGIO 2021

Le amine trace sono un capitolo estremamente interessante, perché sono delle


amine che si formano in piccolissime quantità all’interno del SNC, le troviamo a livello
di picogrammi (pg), per cui quando sono state scoperte, sono state un po’
dimenticate per un certo periodo di tempo, perché si è pensato che fossero delle
molecole non così rilevanti ai fini della neurotrasmissione. Le cose sono poi
improvvisamente cambiate, quando sono stati scoperti dei recettori specifici per le
ammine trace che si chiamano recettori TAAR, che significa letteralmente recettori
attivati dalle ammine trace. In particolare, di recettori TAAR ce ne sono tantissimi nel
regno animale, ma i più importanti vanno dal recettore TAAR-1 al recettore TAAR-9
e d hanno un albero genealogico molto particolare, e tra questi è molto importante
TAAR-1, per il semplice motivo che ci sono dei polimorfismi di TAAR1 che sono
associati a schizofrenia ed a disturbo bipolare. Quindi, insomma, questo diventa
estremamente interessante e tra l’altro agonisti parziali di TAAR-1 sono in sviluppo
per la schizofrenia. L’anno scorso (2020) è uscito un lavoro su New England Journal
of medicine, che ha mostrato una buona efficacia di un’agonista parziale per TAAR-
1.
Voi direte, ma cosa c’entra tutto questo nella malattia di Parkinson?
Cosa c’entri, in realtà non lo so, però ci sono una serie di considerazioni da fare.
La prima è che i polimorfismi di TAAR possono essere ricercati anche nella malattia
di Parkinson.
La seconda cosa è che le amine trace sono un grandissimo gruppo di sostanze: in
questo gruppo ci sono anche delle sostanze molto note come per esempio
l’octopamina, la tiramina (si parla tanto in relazione alle MAO, che è una specie di
anfetamina che si forma nei cibi), la sinefrina.
A queste amine trace appartengono anche delle sostane che si chiamano
tironamine che sono estremamente interessanti, perché sono ormoni tiroidei, ovvero
T3 e T4 che vengono deiodinati, decarbossilati e questo rinforza l’idea che gli ormoni
tiroidei influenzano il sistema nervoso centrale, perché poi diventano tironamine e le
tironamine sono degli agonisti molto potenti dei recettori TAAR.
Cosa farebbe questo recettore TAAR-1?
È interessante perché il recettore favorisce la desensibilizzazione del recettore D2,
cioè questo è un recettore molto strano che si trova normalmente all’interno della
cellula quando le amine trace entrano nel terminale, si legano nel citoplasma dove
trovano il recettore TAAR-1, questo recettore poi trasloca in vicinanza del recettore
D2 e lo fa desensibilizzare più facilmente, associandolo alla β-arrestina. Le arrestine,
le β-arrestine, sono quelle proteine che promuovono la desensibilizzazione
recettoriale. Quindi, vedete che la cosa interessante è anche nell’ottica della
malattia di Parkinson, perché se si forma 3-metossi-tiramina per azione delle COMT,
a partire dalla dopamina, è presumibile che poi la 3-metossi-tiramina attivi il recettore
TAAR-1, che è il recettore delle amine trace e questo facilita la desensibilizzazione
dei recettori D2. Quindi, questo vuol dire alla fine che dando ad esempio L-DOPA,

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27 MAGGIO 2021

l’attività centrale delle COMT potrebbe togliere un substrato all’azione della


dopamina che si forma, facendo desensibilizzare più facilmente i recettori D2 e forse
l’effetto così marcato del tolcapone, di cui parlava il professor Pontieri la scorsa volta,
potrebbe dipendere non soltanto dal fatto che centralmente la dopamina non viene
degradata, viene degradata di meno, ma può dipendere anche dal fatto che non si
forma la 3-metossi-tiramina.
Quindi, sarebbe estremamente interessante valutare i livelli plasmatici di 3-metossi-
tiramina, in pazienti che fanno la L-DOPA in combinazione con in tre inibitori delle
COMT, ponendo un confronto tra entacapone, picapone e tolcapone, due agiscono
perifericamente, dove la quantità di dopamina che si forma dalla L-DOPA, tutto
sommato è abbastanza piccola, perché ci sono gli inibitori delle decarbossilasi
periferiche, però poi c’è quella che si forma nel SNC e potrebbe, teoricamente,
passare in circolo. L’ideale sarebbe fare i dosaggi di 3-metossi-tiramina nel liquor,
però questo non si può fare. Tuttavia, la misurazione plasmatica potrebbe essere
interessante. Quindi, voglio dire questo è un campo veramente innovativo, e studiare
le amine trace nei modelli sperimentali di Parkinson ma anche nei pazienti.
Allora, ricapitolando, abbiamo avuto una base di partenza e cioè questa informazione
che ci ha dato il professor Pontieri, molto preziosa che il tolcapone è il migliore degli
inibitori delle COMT, eccenzion fatta per il profilo di sicurezza e di tollerabilità dove
per altro c’è stata una velata critica nei confronti delle aziende farmaceutiche, che
molte volte nel definire i profili di sicurezza e di tollerabilità oscillano un po’. Però,
indipendentemente da questo, sicuramente che la possibilità che la 3-metossi-
tiramina non si formi nel sistema nervoso centrale, potrebbe anche contribuire a
questo.
Finendo con gli inibitori delle COMT, una cosa che sempre dobbiamo guardare è il
farmaco metabolismo: c’è una differenza tra i tre, nel senso che opicapone e
tolcapone non hanno grandissime interferenze con il citocromo P-450. Ad onor del
vero, il tolcapone è un debolissimo inibitore del CYP1A2 e del CYP3A4, insomma è
una cosa minima. Mentre, invece, se andate a guardare un sito che si chiama
SUPERCYP, dove ci sono tutte le informazioni relative al metabolismo dei farmaci
da parte dal citocromo P-450, ed a quel punto scrivete “drug search” e questo vi
serve anche per la vostra vita, quando fate una terapia e volete interrogarvi sul fatto
che un farmaco venga metabolizzato da un citocromo P-450 oppure possa essere
un inibitore od un induttore del citocromo P-450, ebbene facendo questo voi trovate
un dato che onestamente non conoscevo, cioè che l’entacapone, che è quello che si
trova nello stalevo ed è l’inibitore della COMT, che è combinato con L-DOPA e con
carbi-DOPA, sono 200 mg di entacapone e che quindi voi date tutte le volte in cui
date L-DOPA nel tentativo di ridurre le fasi off durante le fluttuazioni terapeutiche,
l’entacapone è un inibitore generale dei CYP.
A questo punto ci sono due cose che sono importanti qui: la prima cosa è che potete
avere in terapia altri farmaci che sono metabolizzati dai CYP, io non so se lo stalevo

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27 MAGGIO 2021

si associa ai farmaci dopamino-agonisti o quanto si associa, io non conosco la


frequenza di questa eventuale associazione. Però, indipendentemente da questo, ci
possono essere una marea di altri farmaci, come quelli per il sistema
cardiovascolare, i farmaci antidiabetici, e così via, che sono metabolizzati dai CYP.
Quindi, l’entacapone potrebbe creare dei meccanismi di interazione farmacocinetica
nei cui confronti ovviamente bisogna stare attenti.
L’altra cosa deriva dalla lezione che ho fatto ai ragazzi del 3 anno di medicina, e
questa era una lezione semplice perché ho spiegato il CYP2D6 ed il CYP3A4, però
facendo la lezione ho scoperto una cosa strana, e cioè che il CYP2D6*4 che è la
variante allelica del CYP2D6 più frequente nei metabolizzatori lenti. Pensate che il
75% di tutti i metabolizzatori lenti hanno il CYP2D6*4, dove ci sono delezioni e
mutazioni del citocromo P-450. Quindi, il CYP2D6 è completamente nullo, non
funziona, ma questi soggetti che hanno il CYP2D6*4 sono più inclini a sviluppare la
malattia di Parkinson e quindi mi sono interrogato del perché.
Per quale motivo c’è questo aumento di incidenza della malattia di Parkinson, ma
non soltanto un aumento di incidenza, anche l’età di insorgenza del Parkinson è
anticipata rispetto a quella standard. Perché questo genotipo può in qualche misura
influenzare lo stato della malattia? Non saprei dare una risposta, però il CYP2D6
metabolizza le fenilpiridine presenti nell’ambiente e metabolizza anche derivati
di natura anfetaminica che potrebbero in qualche misura danneggiare il
sistema nigrico-striatale. Quindi, è possibile che i metabolizzatori lenti del CYP2D6
che sono per la maggior parte quelli che hanno il CYP2D6*4, come variante allelica,
possono essere predisposti a sviluppare la malattia di Parkinson anche con
un’anticipazione rispetto all’età perché questi metabolizzano un po’ di meno le
sostanze tossiche che sono presenti nell’ambiente.
Se tanto mi dà tanto, nel momento in cui voi date entacapone all’interno dello stalevo
e bloccate il CYP2D6, magari lo fate per un lungo periodo di tempo cosa può
accadere allo stato della malattia? Probabilmente niente, perché i giochi sono fatti e
non penso che questo possa aggravare la degenerazione, però se c’è
un’esposizione a sostanze che sono presenti nell’agricoltura, a contaminanti
industriali, a cose particolari per cui il CYP2D6 viene bloccato, allora lì le cose
diventano critiche.
[intorno al 17°-18° minuto della lezione è entrato il professor Pontieri, ed il professor
Nicoletti gli ha fatto un riassunto di quello che ha detto nella precedente parte della
lezione].
RIASSUNTO da parte di Nicoletti: Allora quando non c’eri, in realtà l’ho fatto per te
aspettando che venissi tu (riferito a Pontieri). Allora, la prima raccogliendo quello che
hai detto la volta scorsa e cioè che il tolcapone di fatto è il migliore degli inibitori delle
COMT ma che però è limitato dal problema epatico ed anzi ci dicevi che le
transaminasi andrebbero valutate ogni settimana, però poi mi sono interrogato su
questo problema, cioè del perché il blocco centrale delle COMT aggiunto al blocco

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27 MAGGIO 2021

periferico, potesse dare al farmaco una marcia in più rispetto agli altri. E la risposta
ovvia è che il metabolismo centrale della dopamina ed anche della stessa L-DOPA,
centralmente viene inibito dal tolcapone e non viene inibito da opicapone e da
entacapone, questo già sarebbe una cosa, però centralmente la COMT è in grado di
trasformare la dopamina in 3-metossi-tiramina. E la 3-metossi-tiramina è un’amina
trace. Le amine trace sono queste amine presenti in piccolissime quantità che
attivano i recettori TAAR, che sono recettori di recente introduzione, e tra questi è
molto importante TAAR-1, perché i polimorfismi solo legati a schizofrenia ed a
disturbo bipolare.
Quindi, c’è questo recettore TAAR che è attivato dalle amine trace, le amine trace
sono tutto un grande gruppo che contiene dopamina, la stessa tiramina, la
tironamina, che deriva dagli ormoni tiroidei, che deriva da questa 3-metossi-tiramina
che si forma dalla dopamina per azione delle COMT. Nel momento in cui le amine
trace attivano il recettore TAAR-1, TAAR-1 si sposta dal citoplasma alla membrana
e fa desensibilizzare più presto il recettore D2. Quindi, è come se fosse un freno
all’azione della L-DOPA, perché c’è automaticamente meno recettore D2 disponibile
per l’attività terapeutica. Ed allora si stava ragionando se sia il caso di misurare le
amine trace nei pazienti parkinsoniani e ricercare i polimorfismi di TAAR-1 e fare, per
esempio, un confronto tra opicapone, entacapone e tolcapone, per vedere quanta
metossitiramina si forma. Certo, l’ideale sarebbe farlo centralmente, nel liquor.
Questo non si può, lo sappiamo bene, allora, il dato plasmatico potrebbe essere
interessante. Quindi, una delle ragioni per cui il tolcapone ha una maggiore efficacia,
potrebbe essere questa, cioè il fatto che non si viene a formare l’idrossitiramina, non
si attiva il recettore TAAR ed il recettore D2, viene desensibilizzato più lentamente e
quindi rimane più a disposizione della dopamina che si viene a formare. Quindi, le
amine trace nel Parkinson non le fatte mai nessuno.
Pontieri: la cosa è chiaramente affascinante, però vorrei aggiungere alcuni
argomenti: quando io ho parlato di una francamente maggiore efficacia terapeutica
del tolcapone, è sulla base di due parametri che sono in primo luogo la riduzione del
tempo di off nei pazienti fluttuanti, che a occhio e croce possiamo dire che adesso
con entacapone e quello che c’è nelle sperimentazioni cliniche controllate è il
guadagno è intorno ai 45-50 minuti al giorno, con opicapone è più o meno sui 70-75
minuti al giorno e con il tolcapone è quasi a 100 minuti al giorno. E la seconda cosa,
il secondo parametro che c’è sull’uomo è che sulle AUC (aree sotto la curva) di L-
DOPA plasmatica, è tutto quello che c’è a disposizione, con cui si ha un incremento
dell’area sotto la curva (AUC) mediamente intorno al 20-25% con entacapone, poco
più del 50% con opicapone, ed intorno al 70% con tolcapone, e qui parliamo solo di
quello che c’è a livello plasmatico.
Quindi, in primo luogo, si ha un’azione periferica delle COMT, per lo meno ai dosaggi
usati in terapia, pertanto è un confronto sulla base dei dosaggi utilizzati e non
necessariamente una potenza assoluta, è maggiore nel tolcapone rispetto agli altri.

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In più, c’è verosimilmente questo effetto centrale che pesa, soprattutto quello che
osservi molto, è sull’effetto durante la notte, perché la notte, dato che normalmente
un parkinsoniano sta circa 7-8 ore senza assumere L-DOPA nelle ore notturne, e lì
il beneficio è clamoroso rispetto a quello che si ha soprattutto con l’entacapone ma
anche con l’opicapone. Però, chiaramente questo è un discorso relativo a, correlato
in ambito clinico, che non necessariamente riflette quello che succede a livello
biochimico od esclusivamente a livello biochimico.
Se sia sensata o meno misurare qualcosa in periferia, io ti posso dire che è molto
ragionevole e qui parliamo di politiche aziendali tra virgolette è molto ragionevole
cercare di identificare cosa è diverso rispetto all’entacapone, e perché sono due
classi di farmaci analoghi e perché agiscono con un meccanismo simile.
Il problema del tolcapone è che sono ormai pochi pazienti che lo assumono, che per
riuscire ad avere dei dati, dovremmo fare qualcosa a livello nazionale e fatto bene».
Nicoletti: «Però questa 3-metossi-tiramina che è quella che si forma dalla
dopamina perifericamente. È vero che ci sono gli inibitori delle decarbossilasi, questo
ok. Però, una quota di L-DOPA viene anche trasformata in dopamina in periferia.
Quindi, se l’inibizione periferica delle COMT è maggiore con il tolcapone, come
sembra essere perché l’AUC lo dice, a questo punto è anche possibile che per lo
meno questa amina trace, in periferia, possa essere inferiore quando uno
somministra il tolcapone rispetto all’entacapone. Però, indipendentemente da
questo, le amine trace nel Parkinson sono mai state misurate. Adesso Luana Lionetto
sta mettendo appunto il metodo di dosaggio per misurarle tutte, incluse le tironamine,
e le tironamine derivano dagli ormoni tiroidei».
Pontieri: «Che metodo usa per ricercarle? Cromatografia?»
Nicoletti: «No, il metodo usato si basa sulla spettofotometria di massa per valutare
le amine trace».
Pontieri: «Però il principio di ricerca non è così diverso».
Nicoletti: «No, no, è la stessa cosa, perché la prima parte è cromatografica, ma lo
spettrofotometro di massa è poi un rilevatore in base al peso molecolare».
Pontieri: «Quindi, [le amine trace] le separi in cromatografia e poi le quantifichi, le
misuri con la spettrometria».
Nicoletti: «Esatto, è tutto il sistema che incorpora il cromatografo HPLC, anzi la
UHPLC seguita da spettrofotometria di massa e quindi questa potrebbe essere una
bella tesi di ricerca».
Pontieri: «Concordo, ma devo parlarne con la BIAL e ti faccio sapere l’esito».
Nicoletti: «Poi c’era una seconda informazione, Francesco, che stavamo
commentando ed era il fatto che andando a vedere su supercyp, che è questo sito
che ci dice tutti i farmaci che sono metabolizzati da citocromo P-450. Tu fai un “drug
search” e si hanno le risposte. Sul tale sito esce che l’entacapone è un inibitore
generale dei CYP, cosa che gli altri due farmaci, tolcapone ed opicapone, non fanno.

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Il tolcapone ha una lievissima interazione: ne inibisce solo due. E stavo ragionando


sulla cosa: uno dei CYP più conosciti è il CYP2D6 che tra l’altro è anche coinvolto
nel metabolismo di diversi dopamino-agonisti, tipo lisuride e così via. Comunque sia,
i caucasici soprattutto che hanno CYP2D6*4, che è una variante genetica, hanno un
CYP2D6 che non funziona. Questi sono circa il 5% della popolazione, ci sono un po’
di lavori che dimostrano che questa variante genetica del CYP2D6, aumenta il rischio
di ammalare di Parkinson. Non solo, ma il Parkinson viene fuori in un’età più precoce
e la spiegazione che danno è perché CYP2D6 può essere coinvolto nel metabolismo
di sostanze tossiche che vengono dall’ambiente, come la fenilpiridina, ed anche di
derivati anfetaminici che poi possono danneggiare le fibre dopaminergiche.
Allora mi chiedo quando si somministra l’entacapone e si ha un’inibizione generale
dei CYP, incluso il CYP2D6, da un canto questo crea un allarme per le interazioni
con altri farmaci, perché ci possono essere in terapia farmaci cardiovascolari,
antidiabetici, qualunque cosa, e lì è un problema, ma dall’altro però se ci sono queste
sostanze tossiche ambientali, capisco che quando uno dà l’entacapone ormai i giochi
sono fatti, la degenerazione è avanzata, tutto quello che si vuole, ma nello stato di
malattia, nel decorso della malattia un’inibizione dei CYP non può essere un
deterrente cosa che gli altri due inibitori delle COMT non fanno. Questo è un altro
punto di domanda.
Pontieri «Non lo so questo».
Nicoletti: «Anche se è un dato interessante da valutare.

Va bene detto, questo andrei a commentare insieme la farmacocinetica della L-


DOPA.
La L-DOPA si dà per via orale, però ci sono attualmente due eccezioni.
La prima eccezione è rappresentata dalla DUODOPA, che è in pratica sempre una
via enterale, però non viene presa per bocca perché viene presa attraverso una
stomia, per cui si bypassa lo stomaco e viene assorbita direttamente. Tuttavia,
questa è una metodica costosa, invasiva che però ha la sua utilità e su questo
torneremo.
Poi l’altra cosa in via sperimentale, c’è il cosiddetto NEURODERM che è una L-
DOPA che si dà per infusione sottocutanea continua. E questo è quanto mi ha
detto Marika, mi ha dato anche i link, io gli ho dato un’occhiata e credo che
NEURODERM sia questa compagnia israeliana che fa due preparati
fondamentalmente o lo fa attraverso una pompa con un collegamento oppure sotto
forma di cerotto attaccato alla cute, per cui la L-DOPA arriva allo stesso modo. Però,
credo che la sperimentazione è attraverso l’uso della pompa di infusione. E vengono
usati due dosaggi, uno basso ed uno alto e sono due farmaci prodotti da questa
azienda NEURODERM. Purtroppo penso che sia una cosa riservata e credo che non
si possa discutere sui dati che voi avete però sembra un’idea abbastanza
interessante».

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Pontieri: «È interessante senza ombra di dubbio, e diciamo anche che sembra


avere una discreta efficacia e qui stiamo parlando ancora di studi di fase 3 in corso.
Però, sicuramente la probabilità di ridurre le fluttuazioni c’è. E la problematica è che
quella relativa alle lesioni sottocutanee che sono simili a quelle dell’apomorfina.
La seconda problematica, che forse è più facilmente risolvibile, invece è legata alla
solubilità della L-DOPA, ed in particolare al fatto che nonostante che ora si usi una
pompa con due siringhe, in totale si riesce ad infondere non più di 700 mg di L-DOPA
al giorno. E questo significa spesso dovere usare anche poi delle compresse perché
non basta come posologia per coprire il dosaggio giornaliero di tutti i pazienti.
Però, possiamo dire che in ogni caso è un passo avanti, soprattutto se io posso
anticipare come clinico, è che la ricerca di una infusione continua che comporta
chiaramente alcuni disagi per il paziente, tecnologie diverse, quindi è molto più
complicata rispetto alla semplice somministrazione orale. Ma ha anche un particolare
potenziale beneficio ed è quello che il nostro cervello, quando parlo di cervello di non
parkinsoniani od almeno non evidentemente parkinsoniani, pertanto pensiamo ai più
giovani che sono deprivati dei fattori di rischio premotori, è un cervello in cui la
trasmissione dopaminergica è sostanzialmente stabile durante la giornata, quindi è
un cervello in cui i neuroni striatali sono abituati a ricevere un input che si modifica
poco e che si modifica per brevissimi tempi, in occasione di qualche cambiamento
nella motricità o dell’inizio del comportamento motorio. Invece, il cervello
parkinsoniano viaggia con una tipologia di stimolo diverso e questo soprattutto sul
versante post-sinaptico, rischia di dare delle conseguenze che il professor Nicoletti
ha anticipato nella precedente lezione e sono di tipo mal adattativo ma che fanno sì
che tutto il circuito funzioni in maniera diversa rispetto al normale anche se magari
consente una discreta motricità. Riportare ad una condizione di stimolazione
continua, veramente, significa provare a risettare un sistema più verso la modalità di
funzionamento normale. Quindi, in questo senso soprattutto secondo me le terapie
infusionali possono essere di grosso aiuto per il paziente. E quello che noi stiamo
cercando di fare è proprio quello di dimostrare che se si riesce ad anticipare un po’
la questione, il beneficio successivo a lungo termine finisce con l’essere significativo
e molto più prolungato rispetto a quello di attendere quando non si sa più cosa fare.
Scusate la divagazione e spero che sia anticipatoria, a quanto dirà il professor
Nicoletti».
Nicoletti: «Gli studenti presenti a lezioni sono contentissimi che tu stia
intervenendo, perché è fondamentale per la clinica. Io penso che queste lezioni
abbiano tanto il compito della formazione.
A proposito di questo ho trovato anche un’altra formulazione di levo-dopa non orale
che non conoscevo, si chiama INBRIJA o qualcosa del genere, che sarebbe una
formulazione di levo-dopa per via inalatoria senza inibitori della decarbossilasi, 33mg
per via inalatoria che viene data esclusivamente nelle fasi off e viene presa fino a un
massimo di 5 somministrazioni al giorno, quindi significa che il paziente è in

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trattamento regolarmente con sinemet e quando ci sono dei periodi di blocco inala
questi 33 mg di L-DOPA senza inibitori della decarbossilasi con un certo effetto sulle
fasi off, però non lo trovate nella scheda tecnica perché in Italia non è in commercio.
Pontieri: I vantaggi sono che viene inalato, quindi passa nel sangue direttamente a
livello alveolare, ha un effetto terapeutico nel giro di 7-8 minuti e purtroppo ha anche
un effetto terapeutico piuttosto breve a causa della posologia e del rapido
assorbimento, per questo lo si usa solo nelle fasi off, per anticipare la ripresa. Il
grosso rischio è quello dell’abuso: i farmaci dopaminergici tipo la polvere bianca
funzionano molto bene sia sulla trasmissione dopaminergica, ma anche su altro, e
soprattutto hanno effetti psicotropi. Li puoi anche fumare, li puoi iniettare in vena, in
compressa è meno efficace. Il problema è che si può morire, però i dopaminergici
sono psicotropi. La percezione di rapido miglioramento motorio è spesso associata
a una sensazione di euforia, per cui c’è tendenza all’abuso.

Nicoletti: Torniamo alla farmacocinetica della L-DOPA. Facciamo riferimento alla via
di somministrazione più seguita che è quella orale e cominciamo con L-DOPA +
inibitore della decarbossilasi che sono a rilascio immediato perché ci sono anche
quelle a rilascio controllato su cui poi faremo una piccola parentesi.
La prima cosa fondamentale per l’assorbimento è lo svuotamento gastrico, il motivo
per cui è stata sviluppata la L-DOPA è stato evitare problemi relativi allo svuotamento
gastrico, che normalmente è inibito dalla dopamina perché i recettori D2 sono
presenti sui terminali del vago. Sono recettori accoppiati a proteina G inibitoria e
tendono a ridurre il rilascio di acetilcolina. Questo meccanismo nei primi anni di
trattamento non è molto importante, poi per qualche ragione può diventare un po’ più
rilevante. Un’altra cosa è l’assorbimento intestinale che dipende dai trasportatori
degli amminoacidi, che si chiamano LAT (trasportatori degli L-amminoacidi). Questo
significa che gli amminoacidi che sono presenti nelle proteine della dieta possono
competere con la L-DOPA, allora è buona norma somministrarla ad adeguata
distanza dai pasti, normalmente si intende 30 minuti prima del pasto o 2 ore dopo il
pasto. In genere quando si ha un trasportatore bisogna riflettere perché è vero che
la L-DOPA che arriva dallo stomaco poi incontra il trasportatore e viene assorbita
che ci può essere a proposito tenete conto del fatto che pregabalin e gabapentina,
che non so quanto si usino nei soggetti affetti dal morbo di parkinson, ma sono
farmaci che spesso gli psichiatri usano per l’ansia e soprattutto sono farmaci di prima
linea per le neuropatie dolorose e per il dolore neuropatico in generale. Soprattutto
la gabapentina, il neurontin, compete per il trasporto degli amminoacidi, quindi non
so se questo è mai stato studiato dal punto di vista farmacocinetico.
Pontieri: “Ci sono report che raccontano di persone con parkinson che iniziano ad
assumere pregabalin che percepiscono ridotta efficacia terapeutica della L-DOPA,
ma sono dati aneddotici, non ci sono veri e propri studi.”

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Nicoletti: C’è da dire anche poi che i trasportatori tendono a saturarsi, questo è
notissimo per il trasporto del glucosio. Ci sono farmaci che è bene che stiano nello
stomaco un po’ di più così arrivano nell’intestino gradatamente e il trasportatore non
si satura mai. Mi sono rivolto una domanda “nel caso della DUODOPA in cui la L-
DOPA arriva direttamente nel sito di assorbimento, quindi bypassa lo stomaco, non
c’è possibilità che la L-DOPA possa saturare il trasportatore e quindi parte della L-
DOPA finisca nelle feci e quindi possa essere assorbita?”. Probabilmente no,
altrimenti penso che non sarebbe stata sviluppata, l’azienda farmaceutica ci avrà
prestato attenzione a questo.
Pontieri: esiste sicuramente un’indicazione a fare iniezioni intramuscolo periodiche
perché l’assorbimento della vitamina B12 nel tratto gastroenterico è tragicamente
ridotto. Un altro dato è che molti pazienti in terapia con L-DOPA vadano incontro a
una riduzione di peso del 30-40% dopo più di un anno di trattamento, senza
restrizioni dietetiche particolari, anzi di solito tendono ad alimentarsi più di prima. In
relazione a quanta della L-DOPA infusa sia effettivamente assorbita e quanta sia
nelle feci non saprei”.
Nicoletti: Ovviamente anche il contrario è possibile: ho la L-DOPA che arriva sempre
e ho malassorbimento degli amminoacidi. Quindi la perdita di peso dipende dal fatto
che i substrati energetici vengono assorbiti di meno.
Quali sono adesso i fattori che influiscono sull’assorbimento della L-DOPA: a parte
lo svuotamento gastrico e tutto quello che può avvenire a livello del trasportatore;il
primo è l’Helicobacter pylori, viene considerato fattore di rischio per la malattia di
Parkinson e su questo la letteratura non è concorde al 100%, tuttavia i pazienti affetti
da malattia di Parkinson spesso hanno anticorpi contro l’helicobacter e questi
anticorpi sono presenti 5 volte in più rispetto alla popolazione normale negli individui
che hanno più di 80 anni e che hanno la malattia e 3 volte in più se si fa una
valutazione di carattere generale. Il rischio relativo di ammalarsi di Parkinson dei
pazienti con Helicobacter che non è stato eradicato è 1.56 facendo una media di tutti
i dati presenti in letteratura. Non un rischio relativo “dell’altro mondo”, ma 1.56 è
statisticamente significativo, quindi HP facilita la malattia di Parkinson, ci si è chiesto
il perché. Ci sono 3 ipotesi possibili:
- H. pylori genera di glicosidi del colesterolo, che secondo chi l’ha scritto
potrebbero entrare nel SNC e danneggiare il sistema dopaminergico.
(Nicoletti ci crede poco)
- Attivazione del sistema immunitario: questo può sostenere dei meccanismi di
neuroinfiammazione che si associano costantemente alla malattia di
Parkinson. Con Marika nei modelli murini di Parkinson, diamo molta
importanza alla neuroinfiammazione e penso che sia la stessa cosa che
adesso si fa in clinica, si esaminano i marcatori della neuroinfiammazione, è
molto interessante.

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- Autoanticorpi forse con un meccanismo di mimetismo molecolare.


Autoanticorpi contro fattore nucleare (di trasposizione) di tipo 1a, il PDGF-B
(fattore di crescita di derivazione piastrinica) e altre molecole che potrebbero
alla fine danneggiare il SNC, come ad esempio il sistema nigrico-striatale o
altri sistemi.
Chiede a Pontieri se da loro fanno eradicazione, risposta: “Onestamente no; Tor
vergata lo fa praticamente su tutti, noi non lo facciamo sistematicamente. È una cosa
di interesse per i soggetti con tratti ossessivi che sviluppano una passione verso il
microbiota che diventa quasi patologica. Vorrei aggiungere un’altra possibilità che
personalmente trovo molto interessante, riguarda sia l’helicobacter, sia l’eventuale
eradicazione. Idealmente un’ulteriore fattore favorente potrebbe essere una
differente espressione di microbiota intestinale, su questo mi piacerebbe indagare.
Nicoletti: in effetti è valutabile, si fa anche al Sant’Andrea. Bisogna sottolineare
anche che l’Helicobacter altera la cinetica della L-DOPA, il t-max della L-DOPA che
è il tempo necessario per raggiungere il massimo della concentrazione plasmatica,
che più o meno corrisponde all’emivita che è circa 50 minuti e t-max è tra 30 minuti
e 1h30, le cose si accavallano quasi. Però per i soggetti che hanno helicobacter il t-
max è rallentato e nel frattempo l’effetto dura di meno, quindi per le fluttuazioni questo
può essere un problema. Queste alterazioni della cinetica sono corrette dai protocolli
di eradicazione, però c’è un bias di fondo che è rappresentato dal fatto che se
l’eradicazione si fa con la triplice in cui c’è claritromicina insieme al lansoprazolo e
all’amoxicillina. La claritromicina attiva i recettori per la motilina, come fa
l’eritromicina, sono i recettori che promuovono la motilità gastrica e intestinale e sono
attivati dai macrofagi portando a un maggiore svuotamento gastrico. Quindi con
l’helicobacter pylori per cercare di migliorare la cinetica della L-DOPA dipende dal
fatto che non c’è più l’helicobacter o dal fatto che la claritromicina può aver migliorato
lo svuotamento gastrico almeno nel breve termine. Chiaramente la risposta verrà
data aspettando che l’effetto della motilina non ci sia più e valuto l’assorbimento della
L-DOPA. Sarebbe bene fare questa valutazione 1-1.5 mesi dalla fine del protocollo
di eradicazione, ammesso che questo sia stato fatto con successo o se è stato
seguito un altro protocollo, come la quadruplice/Pylera (tetracicline, metronidazolo,
bismuto e inibitori di pompa protonica) che oggi ha la maggiore efficienza (>90%) si
evita direttamente questo effetto sullo svuotamento gastrico.
Un’altra cosa che può influenzare parecchio è la contaminazione batterica del piccolo
intestino che si chiama SIBO (small intestine bacterial overgrowth) che può essere
presente anche nei soggetti normali, ma nei parkinsoniani è più frequente (55%
rispetto al 33% della popolazione generale). Questo comporta una modificazione
qualitativa del microbiota intestinale, si alterano i rapporti tra microbiota e mucosa e
questo causa dei dismicrobismi e si traduce nell’infiammazione. Mediatori
dell’infiammazione possono intervenire anche nel SNC, le citochine infiammatorie
possono alterare l’omeostasi del SNC “favorendo” la malattia, oltretutto l’alterazione

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qualitativa del microbiota è in grado di influenzare in maniera critica la


farmacocinetica della L-DOPA. Ci sono due candidati:
- Enterococcus faecalis che è in grado di produrre un enzima particolare che si
chiama tirosina decarbossilasi (tirosina->tiramina) che attacca anche la L-
DOPA convertendola in dopamina come se fosse una LAD, solo che non è
inibita da carbidopa e benselazide??? che invece inibiscono le LAD. Quindi
se abbiamo come ospite l’E. faecalis che è un batterio presente nei soggetti
che fanno tanto uso di carne, che essendo un pasto iperproteico non va bene
per i pazienti parkinsoniani e andrebbe limitata, ma anche perché appunto
c’è l’enterococco che poi colonizza l’intestino e la sua tirosina decarbossilasi
può attaccare la L-DOPA e trasformarla in dopamina.
- Una volta che si è formata la dopamina interviene un secondo batterio che si
chiama Eggerthella lenta (Eubacterium lentum) e che è importante perché è
in grado di metabolizzare la digossina, quindi quando si studia il digitalico si
fa riferimento a questo batterio perchè quando è presente la quantità di
digossina che viene assorbita è inferiore. Ha anche un altro enzima che si
chiama dopamina deidrossilasi e trasforma la dopamina in tiramina.
Se trovate un microbiota con Enterococcus faecalis e Eggerthella lenta la L-DOPA
viene convertita prima in dopamina e poi in tiramina. C’è la possibilità di bloccare la
tirosina decarbossilasi dell’enterococcus faecalis e quindi cercare di aumentare la
biodisponibilità della L-DOPA. Questo si fa con un farmaco che si chiama
(alfa)fluorometiltirosina e che blocca la tirosina decarbossilasi, quindi la L-DOPA non
è trasformata in dopamina ed è maggiormente disponibile per l’assorbimento. Questo
è interessante perché è una L-DOPA che non è metabolizzata dalle LAD, che sono
bloccate dagli inibitori, ma da un enzima diverso che però attacca tirosina e L-DOPA.
Se esiste questa contaminazione del piccolo intestino o è presente Eggerthella è
possibile, usare la rifaximina, che è un antibiotico molto simile alla rifampicina, alla
rifabutina e alla rifaxomicina (macrolide atipico che si usa per la colite
pseudomembranosa da clostridium difficile), che agiscono bloccando l’rna
polimerasi. La rifaximina agisce localmente sia sui gram + sia – (enterococco e altri
batteri che possono intervenire sul metabolismo) e soprattutto viene assorbito molto
poco, quindi può agire localmente e migliorare l’assorbimento della L-DOPA.
Nei confronti di cos’altro dobbiamo prestare attenzione per evitare interferenze con
l’assorbimento di L-DOPA: cibo, integratori, antiacidi che contengono metalli, in
particolare ferro e alluminio perché interagiscono chimicamente con la L-DOPA e
quindi alterare il legame con il trasportatore degli amminoacidi e in ultima analisi
l’assorbimento. Poi in generale gli inibitori di pompa protonica e gli antiacidi
interferiscono con l’assorbimento della L-DOPA e non soltanto (Nicoletti prende il
Pantorc da 15 anni e la fisiologia del suo apparato intestinale è cambiata
profondamente, se lo sospende non riesce a dormire la notte).

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Questo discorso è per le formulazioni a rilascio rapido e si è tentato tanto di fare


formulazioni a rilascio controllato, ce ne sono due classiche: Sinemet CR (l-dopa,
carbidopa cr) e Madopar. Erano state pensate per garantire un assorbimento lento,
mantenere i livelli plasmatici più costanti ed evitare fluttuazioni per migliorare
l’efficacia terapeutica nelle fasi off. Queste in realtà possono essere utili soprattutto
la sera prima di andare a letto perché i parkinsoniani possono avere difficoltà a girarsi
nel letto o se devono alzarsi per fare pipì la bradicinesia non li aiuta, quindi con questi
farmaci che offrono una copertura un po’ maggiore le cose possono andare meglio.
C’è poi una sostanza interessante IPX203, che è una sostanza carina che stanno
studiando Francesco Pontieri e Marika Alborghetti. Si ispira al Plenadrel e se
ricordate il trattamento dell’insufficienza surrenalica con cortisolo che di solito si deve
fare più volte al giorno per riprodurre il ritmo circadiano del cortisolo, il Prenadrel è
idrocortisone formulato in modo tale che una quantità maggiore viene rilasciato alle
8 di mattina come avviene fisiologicamente, mentre il resto viene rilasciato nel resto
della giornata. In modo simile IPX203 in compressa ha uno strato che viene rilasciato
più velocemente e un altro più lentamente. La cosa interessante è il disegno dello
studio clinico che si chiama double dummy, che è il tipo che si usa per paragonare
2 farmaci non è come quando paragonate un farmaco a un placebo, perché il placebo
ha le stesse caratteristiche del farmaco e né il paziente né lo sperimentatore sanno
cosa si sta assumendo. Tuttavia se mettete a confronto due farmaci con
caratteristiche diverse vi trovate un po’ in difficoltà perché il cieco non esiste più
perché il paziente vede che queste sostanze sono diverse, soprattutto se tra una
fase e l’altra si cambia farmaco. Nel double dummy i pazienti fanno prima un
trattamento con L-DOPA e carbidopa a rilascio immediato, poi fanno un trattamento
con IPX203, dopodichè entrano nella fase del cieco dove ci sono 2 placebi: uno
uguale alla formulazione a rilascio immediato, l’altro a quella a rilascio controllato.
Quindi il paziente prende 2 compresse, però non sa se sta facendo il rilascio
immediato + placebo o IPX203 + placebo. Questo è importante per voi capire che
cos'è questo do double dummy che è una modalità di sperimentazione molto
particolare.
Pontieri: Non abbiamo elementi per sbilanciarci sull'efficacia di questo metodo di
sperimentazione. Vorrei però aggiungere due cose sulla pratica, prima cosa questo
modello di protocollo si usa anche per le infusioni sottocute anche in questo caso il
paziente ha due fasi preliminari una in cui si ottimizza il dosaggio di L-DOPA per os
in compresse e la seconda in cui si ottimizza l'infusione, poi c'è questa fase di double
dummy in cui il paziente assume sia le compresse che l'infusione una delle due con
farmaco e l'altra in placebo. Questo è necessario ogni volta che ci troviamo nella
situazione in cui non possiamo deprivare il paziente da una terapia fondamentale
come in questo caso la levodopa quindi per cercare solo di identificare quali siano le
differenze tra formulazioni diverse e modalità di assorbimento diverse. La maggiore
difficoltà in questi protocolli è quella di dover selezionare pazienti in eccellenti

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condizioni cognitive perché ad esempio nel trial dell’IPX203 in media devono


assumere 4 o 5 volte al giorno le compresse di levodopa immediata o di placebo,
almeno 3 o 4 volte al giorno quelle di IPX203 o placebo. La conseguenza è che
hanno bisogno di numerose sveglie ma soprattutto essendo tutti i parkinsoniani un
po’ disesecutivi di un caregiver che stia molto attento a fargli prendere il medicinale
giusto al momento giusto.
Nicoletti: Bene, avete qualche informazione su come si fanno questi disegni di
sperimentazione clinica sperando che questo possa portare a qualcosa perché nella
malattia di Parkinson come in altre malattie del SNC ci sono state innovazioni
farmacologiche ma ancora limitate, riferendoci a quello che abbiamo detto la volta
scorsa la differenza la faranno i farmaci in neuroprotettivi quando saranno disponibili
e con le modalità con cui si potranno utilizzare ma siamo ancora un po’ lontani da
questo.
Tornando alla levodopa, la levodopa va in circolo può essere metabolizzata
perifericamente sia dalle LAAD che dalle COMT. A questo punto ricordatevi anche
che le COMT sono enzimi polimorfi e per esempio può essere presente una
metionina o una valina in posizione 158 o 108 ma è la stessa cosa perché esiste una
COMT ancorata alla membrana del reticolo endoplasmatico e una COMT
citoplasmatica queste differiscono di 50 aminoacidi. I soggetti che presentano una
valina hanno una COMT più attiva, quindi è presumibile che metabolizzeranno più
rapidamente la levodopa in periferia. In effetti quando si valutano gli inibitori delle
COMT o si fa la cinetica della levodopa secondo me non si può prescindere da uno
studio del polimorfismo della COMT. Il polimorfismo della COMT, tra l’altro, è molto
importante nella schizofrenia perché i soggetti che hanno valina/valina, se hanno
meno di 15 anni ed assumono cannabis, hanno un rischio relativo di sviluppare
schizofrenia 10 volte maggiore rispetto al rischio nella popolazione normale. Quindi
ricordate che la COMT è un enzima polimorfo. Una domanda potrebbe essere: “La
MAO (monoamino ossidasi) è in grado di metabolizzare la levodopa?” la risposta è
“No, la MAO non c'entra niente. La MAO per definizione ossida le monoamine”. A
questo punto la levodopa raggiunge la barriera emato-encefalica e qui viene
trasportata da LAT, cioè dal trasportatore degli L-aminoacidi, quindi quello che
abbiamo detto per il trasporto a livello intestinale vale anche per il trasporto a livello
della barriera emato-encefalica: se c'è uno stato catabolico (es. un pasto
iperproteico) in cui prevalgono i glucocorticoidi che inducono catabolismo proteico
per cui ci sono più aminoacidi in circolo o se ci sono sostanze come pregabalin e
gabapentina che possono competere, significa che la quantità di levodopa che può
attraversare la barriera emato-encefalica sarà inferiore. Quindi la stessa
competizione con le proteine che voi vedete a livello periferico potrebbe esistere al
livello del SNC, una domanda potrebbe essere: “Ci sono studi sulla levodopa in
pazienti con ipercortisolismo, nei quali quindi lo stato catabolico è prevalente?” Non
sto parlando di soggetti che hanno Cushing perché lì è ovvio! Ma ad esempio anche

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soggetti che sono affetti da depressione a volte hanno ipercortisolismo cioè livelli alti
di glucocorticoidi, i livelli di cortisolo sono più alti nella depressione melanconica, c'è
un alterato feedback del cortisolo nella depressione che si può vedere con test di
soppressione al desametasone.
Mi chiedo se tutto questo, alterando la quantità di aminoacidi circolanti, potrebbe
creare una competizione al livello del trasportatore della barriera emato-encefalica?
Non so fino a che punto questo sia stato studiato, però è vero che lo studio della
depressione della malattia di Parkinson è molto attuale oggi sia perché la
depressione è parte della malattia, non si può parlare più di comorbilità, è qualcosa
che si associa al decorso della malattia frequentemente, ad esempio pazienti
depressi che hanno malattia di Parkinson e pazienti con Parkinson senza
depressione hanno un assetto dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene simile? (il prof non
dà risposta).
Cosa accade a questo punto nel SNC? La levodopa entra nel SNC raggiunge i suoi
bersagli. Quali sono i suoi bersagli? Primariamente sono i terminali dopaminergici, la
levodopa è captata dai neuroni dopaminergici tramite i trasportatori degli aminoacidi,
ad es. nello striato, se voi fate una PET con la 18-F DOPA (18- fluoro DOPA), la
captazione della 18-F DOPA con la PET vi dà un quadro dei terminali dopaminergici.
Oggi si preferisce il DAT-SCAN perché usa il marcatore del trasportatore della
dopamina. Noi abbiamo fatto una volta una sperimentazione animale in cui abbiamo
valutato alla PET la 18-F DOPA come marcatore dei terminali dopaminergici dello
striato; in effetti nello striato la 18-F DOPA marca prevalentemente quelli.
La levodopa però è un amminoacido e non entra soltanto nei terminali dopaminergici
ma entra anche altrove, la cosa più importante è che entra nei terminali
serotoninergici. I terminali serotoninergici hanno la LAAD perché la LAAD è
importante per la conversione del 5-idrossi triptofano in serotonina. Normalmente un
terminale serotoninergico non vede la levodopa perché non ha la tirosina idrossilasi
quindi non la forma e a parte la levodopa che può venire dalla periferia ma è tutto
sommato limitata, normalmente un terminale serotoninergico non forma dopamina.
In questo caso le cose sono diverse perché man mano che la malattia va avanti i
terminali dopaminergici si riducono, in genere quando si fa diagnosi di Parkinson c'è
una riduzione di almeno il 70% dei terminali dopaminergici nel neostriato, mentre i
terminali serotoninergici possono essere ridotti perché c’è danno anche a carico dei
nuclei del Rafe però la riduzione è inferiore quindi il rapporto tra questi due terminali
nello striato cambia. La levodopa captata dai terminali serotoninergici viene
trasformata in dopamina perché ci sono le LAAD e nel momento in cui si forma
dopamina nel terminale serotoninergico le vescicole sinaptiche che hanno il VMAT
(trasportatore vescicolare delle monoamine) non distinguono tra serotonina e
dopamina, quindi un terminale serotoninergico che in condizioni normali sintetizza
esclusivamente serotonina, in un paziente parkinsoniano soprattutto in fase avanzata
quando i terminali dopaminergici sono andati incontro a degenerazione in modo

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abbastanza esteso, comincia a sintetizzare anche dopamina e questo è un problema


perché il pattern di scarica dei neuroni serotoninergici è completamente diverso dal
pattern di scarica dei neuroni dopaminergici della sostanza nera. I neuroni
dopaminergici della sostanza nera sono molto particolari cioè hanno delle scariche a
burst, cioè a sequenze molto serrate che dipendono da particolari correnti al Ca che
hanno, ricordo che quando ero studente una volta andai a Cagliari dove c'erano i
migliori farmacogi loro misuravano i potenziali d'azione dei neuroni della sostanza
nera e dicevano che avevano un ritmo a “samba” molto caratteristico, quindi quando
il terminale serotoninergico rilascia dopamina insieme alla serotonina lo rilascia in
modo completamente diverso e questo può essere all'origine di quello che il Prof.
Pontieri sottolineava poco fa, cioè la formazione di una plasticità sinaptica
maladattativa, della quale tra poco parleremo, che poi è il substrato biochimico delle
discinesie da levodopa cioè dei movimenti involontari patologici, perciò attenzione,
la levodopa è captata non solo dai terminali dopaminergici ma anche dai terminali
serotoninergici.
La levodopa può essere anche captata dai terminali noradrenergici dove si forma
dopamina ma in questo caso cambia poco perché il terminale noradrenergico ha la
dopamina β-idrossilasi che converte la dopamina in noradrenalina, alla fine non
cambia nulla il terminale noradrenergico la levodopa la forma continuamente.
Può essere captata anche dalle fibre che producono istamina. Le fibre che
producono istamina mantengono lo stato di veglia, che sono le fibre del sistema
tubero-mammillare e queste fibre oltre a liberare istamina cominciano a liberare
anche dopamina in una sede in cui la dopamina normalmente non deve essere
liberata.
La levodopa viene trasformata in dopamina anche nell’endotelio perché l'endotelio
ha le LAAD.
È trasformata in dopamina anche da alcuni neuroni molto particolari che sono
neuroni TH+ cioè neuroni che hanno la tirosina-idrossilasi e che si ritrovano nello
striato, questi neuroni sono una minoranza e non è sicuro che abbiano la LAAD
quindi non si sa realmente la levodopa che entra in questi neuroni che fine può fare.
Sono neuroni molto particolari perché in generale lo striato non ha neuroni
dopaminergici ma ha questa piccola quantità di neuroni TH+ che non so neanche se
definire dopaminergici. La cosa interessante è che quando in una scimmia si fa una
denervazione con MPTP la quantità di questi neuroni aumenta cioè rispondono alla
denervazione.
Lasciando ora da parte tutto questo quando voi somministrate levodopa nella fase
iniziale della terapia avete un meccanismo molto particolare che prende il nome di
“beneficio prolungato” questo è essenziale per una buona risposta terapeutica nei
primi anni di trattamento ed è essenziale per evitare le fluttuazioni nonostante la
farmacocinetica rapida della levodopa. Il beneficio prolungato nelle fasi iniziali della

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terapia contribuisce per almeno il 60% forse anche 70% alla totale efficacia
terapeutica della levodopa.
Pontieri:il beneficio prolungato può contribuire anche per il 90% all’efficacia
terapeutica della levodopa.
Nicoletti: La risposta rapida invece, è quella residua cioè togliete a queste
percentuali la risposta rapida ed ottenete quella della fase iniziale alla terapia.
Pontieri: aggiungiamo anche un'altra cosa che per i ragazzi a volte è più semplice
da identificare, che se pensiamo di deprivare dello stimolo iatrogeno un
Parkinsoniano che sta assumendo levodopa perché è in stato iniziale di malattia, si
stima che servano quasi due mesi senza levodopa affinché quel parkinsoniano ritorni
nella condizione legata realmente alla malattia e questo a fronte di un’emivita così
breve, come vi ha detto il Prof. Nicoletti pochi minuti fa, vi fa capire quanto a lungo
riesca il cervello di un parkinsoniano ad utilizzare la levodopa esogena.
Nicoletti: È sorprendente da un punto di vista neurochimico.
Questo ci spiega uno studio che prende il nome di ELLDOPA (early versus late L-
DOPA), questo è uno studio che se ricordo bene è stato fatto in un trattamento con
placebo o levodopa ai dosaggi di 150-300 o 600 mg per 40 settimane in parkinsoniani
de novo, cioè parkinsoniani in stadio iniziale di malattia mai trattati; dopodiché si è
valutato nei vari gruppi l’UPDRS a 42 settimane, il che vuol dire due settimane dopo
la sospensione del trattamento. La musa ispiratrice è stata la seguente: se si fanno
40 settimane di trattamento o con placebo o con levodopa e poi si aspettano due
settimane cioè quando la levodopa non c'è più perché l’emivita è breve, se UPDRS
è migliore come punteggio nei pazienti trattati con levodopa significa che la levodopa
ha esercitato una protezione cioè ha rallentato la progressione della malattia.
Quando si è fatto questo studio clinico non è stata considerata la presenza del
“beneficio prolungato”. Il fatto strano che accadde e che l’UPDRS era più favorevole
nei soggetti trattati con levodopa che nei soggetti trattati con placebo e se non ricordo
male le variazioni dell’UPDRS erano dose dipendenti, ma eseguendo il DAT-SCAN
si è visto paradossalmente che i pazienti trattati con levodopa avevano una riduzione
maggiore dei terminali rispetto a quelli trattati con placebo. Da un lato lo studio era
stato disegnato per vedere la protezione da parte della levodopa sulla base del dato
clinico cioè dell’UPDRS, dall'altro nonostante la protezione dal punto di vista clinico
si osservava una tendenza alla degenerazione studiando i terminali. È anche vero
che quando si fa il DATSCAN si valuta il trasportatore della dopamina e quando si fa
un trattamento con levodopa per lungo tempo il trasportatore della dopamina si può
modificare, come è stato detto anche dal Prof. Pontieri la volta scorsa, quindi il dato
del DATSCAN in questo caso non va preso come oro colato. Vi ho citato questo
esperimento per introdurre quesito fondamentale: la levodopa è tossica o protettiva?
Non vi so rispondere.
Sono stati fatti diversi studi sia al livello cellulare che nei modelli animali ed i risultati
non sono omogenei, uno studio l'abbiamo anche pubblicato noi tempo fa mostrando

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una certa azione protettiva della levodopa in coltura però ci sono studi che
dimostrano una certa tossicità perché la levodopa trasformandosi in dopamina può
generare ROS (ioni superossido).
Cosa si può dire in merito? Innanzitutto, la DOPA è rilasciata dai terminali come se
fosse un neurotrasmettitore,quindi non è soltanto la dopamina che viene rilasciata
ma anche la levodopa, quale siano le conseguenze dal punto di vista neurochimico
di questo non ne ho idea.
La dopa si può trasformare in cisteinilDOPA, sostanza potenzialmente tossica, ad
esempio l’acido cisteinilsulfinico quando si accumula attiva i recettori NMDA e questo
avviene nella carenza di sulfito-ossidasi, una delle patologie più drammatiche
caratterizzata da estesa degenerazione a carico del SNC.
La levodopa può essere anche convertita in TOPA (2;4;5 triidrossi-fenil-alanina) e
questa è un'altra sostanza che può esercitare tossicità. Quindi alla domanda se la
levodopa è tossica o protettiva non vi so rispondere ma certamente lo studio
ELLDOPA non ci dà una risposta proprio perché non ha tenuto conto del “beneficio
prolungato”.
Pontieri: aggiungerei soltanto un'altra considerazione che non riguarda la
farmacologia di base ma la terapia. Molti pazienti sono terrorizzati dal trattamento
con levodopa ci sono anche molte pubblicazioni riguardo la levodopa-phobia. La
cosa importante è che la storia naturale della malattia di Parkinson ad oggi è
cambiata con l'introduzione della levodopa, parlare di neurotossicità della levodopa
a fronte del fatto che abbia più che raddoppiato l'aspettativa di vita e più che triplicato
la qualità di vita dei pazienti è un argomento che va riconsiderato. Magari qualcosa
di negativo lo fa, ma è anche vero che è talmente tanto l'effetto positivo che nel
complesso il rapporto è a favore dell'effetto benefico. Quanto ha detto il professor
Nicoletti è vero, la teoria suggerisce che ci siano elementi per cui la levodopa possa
essere potenzialmente neurotossica e questa cosa la consideriamo tuttora valida
cercando di utilizzare la posologia più adeguata per il paziente. In questo la
ELLDOPA ci ha dato un'informazione importante cioè i 600 mg al giorno di levodopa
in soggetti iniziali, quindi con sufficienti terminali dopaminergici per poter avere un
effetto positivo ed una discreta gestione della dopamina extracellulare, in 40
settimane cioè meno di un anno danno discinesie nell’11% di soggetti. Questo è stato
un dato molto importante nel trial di ELLDOPA che è alla base della regola che tutti
noi cerchiamo di utilizzare, cioè di varcare i 500 mg di levodopa al giorno solo se
necessario e di cercare di distribuire questi 500 mg preferenzialmente in 4 dosi
piuttosto che in 3 dosi in modo che la posologia ad ogni dose sia più bassa, che
dovrebbe corrispondere ad un picco plasmatico più basso, quindi a meno fluttuazioni
plasmatiche di concentrazioni di levodopa durante la giornata.
Nicoletti: Bene, tutto questo avviene nella fase iniziale. Abbiamo spesso parlato di
honeymoon cioè la luna di miele della levodopa, poi dopo un certo numero di anni e
non so dirvi quanti anni, l'unica cosa che posso dirvi è questa: la cosa che viene a

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volte detta ai congressi e che i farmaci dopamino-agonisti, ad esempio i farmaci non


ERGOT che si usano di più, sono farmaci che non danno mai fluttuazioni e che non
danno mai discinesie (movimenti involontari patologici) credo che questo non sia
vero nel senso che i farmaci dopamino-agonisti rispetto alla levodopa possono dare
i movimenti involontari patologici e possono dare anche fluttuazioni ma lo fanno con
una tempistica più lunga ad esempio dopo circa 10 anni. Prof. Pontieri, condivide
questa osservazione?
Pontieri: Condivido l'osservazione che ci sono fluttuazioni e movimenti involontari
anche in soggetti in monoterapia con dopaminoagonisti. Personalmente e da quello
che so dalla letteratura, e questa è una cosa su cui Ferdinando potrà divertirsi a
lungo, le fluttuazioni ed i movimenti involontari sono molto più frequenti in quelli che
assumono agonisti D1 e D2 piuttosto che in chi assume agonisti D2 puri o D2 like
puri.
La seconda cosa che vi ho detto a lezione è che ora utilizziamo dopamino-agonisti a
rilascio prolungato che sono in monosomministrazione giornaliera e sono molto
stabili ma fino a 10-15 anni fa erano tutti farmaci ad emivita più breve ed in linea di
principio c'era anche un legame tra emivita del farmaco e l'insorgenza di complicanze
motorie.
Ultima cosa, ve lo anticipo ma tanto lo dirà sicuramente anche Ferdinando, c'è un
bel lavoro fatto dai nostri colleghi di Milano in Africa, che è stato abbastanza dirimente
su quanto per le complicanze motorie pesi più la denervazione della terapia.
Probabilmente la ridotta incidenza di complicanze motorie con dopamino-agonisti è
legata al fatto che i dopamino-agonisti hanno un margine di incremento di posologia
relativamente ridotto, funzionano in maniera soddisfacente per alcuni anni,
dopodiché non bastano più. In quegli anni riducono sicuramente l'incidenza delle
complicanze rispetto a chi inizia il trattamento direttamente con levodopa. Quando
poi facciamo il discorso sul lungo termine quindi dopo 12-15 anni di trattamento le
differenze più o meno si annullano.
Nicoletti: Ecco, mi inserisco su questo. La prima cosa faccio riferimento ad un
farmaco che si chiama TAVAPADON, è un agonista parziale dei recettori D1 e D5,
in sperimentazione. Sì da oralmente, 1 volta al giorno. Se devo essere sincero mi
sembra una follia, perché come diceva Pontieri le complicanze ci sono di meno
quando i farmaci sono più selettivi per il D2 e non toccano il D1. Tra poco quando
parleremo dei meccanismi mal adattativi, (registrazione interrotta) sono fondamentali
per la plasticità sinaptica mal adattativa che alla base delle discinesie, quindi io non
so perché questi signori che hanno disegnato il TAVAPADON l'hanno portato allo
sviluppo clinico, perché mi sembra una follia.
Pontieri: Primary end-point di questo trial è verificare che non ci sia una maggiore
incidenza di complicanze quindi paradossalmente è un fase 3 di safety più che un
fase 3 di efficacia. La seconda cosa, io forse sono cretino, ma ho rifiutato di
partecipare a questo trial: l'ho trovato eticamente non ragionevole per decidere di

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ottenere dei fondi. Mi è sembrato troppo azzardato mettere a repentaglio dei


parametri dei pazienti per qualcosa che non mi convinceva per nulla.

Nicoletti: Sì, lo so, io faccio parte di un mondo in cui appena un'azienda


farmaceutica propone qualcosa tutti noi ci caliamo i pantaloni e accettiamo con
grande piacere però ci sono dei limiti a tutto. In ogni caso chi ha sviluppato questo
farmaco probabilmente è partito dal principio di voler evitare gli effetti legati alla
stimolazione del recettore D2. C'è anche da dire però che l'attivazione dei recettori
D2 è un requisito fondamentale per l’azione anti-parkinsoniana e poi attivare solo i
recettori D1 significa favorire le discinesie. La seconda osservazione si riferisce al
fatto che la degenerazione è più importante delle caratteristiche farmacologiche nel
caso ad esempio delle discinesie. Io condivido appieno, e non potrebbe essere
diversamente, un paio di osservazioni che riguardano la sperimentazione animale ad
esempio l'uso del MPTP nelle scimmie. Quando l’MPTP si usa nei modelli animali o
primati o topi, si può dosare in maniera tale da far degenerare una certa percentuale
delle fibre, ad esempio se date un dosaggio di MPTP molto alto degenerano più del
90% delle fibre, se date un dosaggio più basso avrete una degenerazione del 40% -
50%. Se voi trattate le scimmie che hanno ricevuto MPTP con levodopa migliorate
nettamente i sintomi parkinsoniani. Le scimmie che hanno ricevuto una dose di
MPTP più alta sono quelli che maggiormente sviluppano discinesie da levodopa,
perciò la sperimentazione animale va perfettamente incontro a quello che diceva
Pontieri.

L’altra cosa è un gene che abbiamo già incontrato nella genetica del Parkinson che
si chiama GTP cicloidrolasi. Questo è un gene fondamentale per la sintesi di
tetraidrobiopterina, cioè di BH4, che è il cofattore della tirosina idrossilasi. A parte
che è un gene predisponente nei confronti del Parkinson, però indipendentemente
da questo, ci sono dei bambini che hanno delle mutazioni molto severe di questo
gene, non formano tetraidrobiopterina e all’età di 5-6 anni sviluppano distonia, ma
poi sviluppano anche manifestazioni Parkinson-simili [Nota: il prof sta parlando
della malattia di Segawa]. Ora questi bambini vengono trattati con Levo-DOPA
fondamentalmente per tutto il resto della vita perché loro non riescono a
sintetizzare Levo-DOPA, in quanto non hanno l’enzima che trasforma la biopsina in
Levo-DOPA (??). Quindi hanno un blocco nella biosintesi delle catecolammine e
non solo, anche nella biosintesi della serotonina perché la tetraidrobiopterina è
anche un cofattore della triptofano-idrossilasi che trasforma il triptofano in 5-
idrossitriptofano. Quindi la Levo-DOPA deve essere somministrata a questi bambini
e per quanto mi risulta questi bambini con distonia, che non hanno degenerazione
del sistema nigrigo-striatale, perché ovviamente non hanno quella patologia, non
sviluppano mai fluttuazioni e non sviluppano mai discinesie. Questo a
testimonianza del fatto che le fluttuazioni e le discinesie non sono tanto una delle
caratteristiche che vengono fuori per il farmaco ma vengono fuori perché il farmaco
viene dato via via ad un sistema dopaminergico che sta degenerando e maggiore è

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la degenerazione maggiore è la probabilità statistica che questi effetti avversi


vengano fuori.
Quindi io penso che tutto questo sia convergente alla fine e che tu Francesco abbia
perfettamente ragione a sottolineare il fatto che la degenerazione è il determinante
principale almeno delle discinesie.
Va bene allora cosa succede quando finisce la luna di miele? Allora ci sono due
manifestazioni che sapete benissimo dalle lezioni del prof: le fluttuazioni dell’efficacia
terapeutica e le discinesie, che si chiamano anche LID (cioè discinesie da Levo-
Dopa). Sono due cose ovviamente diverse e che devono essere trattate
diversamente. Da un punto di vista neurobiologico sono più attratto dalle discinesie,
perché mi sono occupato sempre nella vita di glutammato e, a parte la dopamina, il
glutammato ha un ruolo fondamentale nelle discinesie da Levo-Dopa. E poi nella
patogenesi delle discinesie entra in gioco prepotentemente uno dei recettori che
insieme a Marika studiamo che si chiama recettore mGlu5 e poi vi dirò perché
fondamentalmente è così. Quindi le discinesie sono molto importanti, le discinesie
sono una conseguenza di un’amplificazione del meccanismo di base dello striato
dorsale. Lo striato dorsale è coinvolto nella programmazione del movimento
abitudinario, che è il movimento ripetuto tante volte nell’arco della giornata, a
differenza dello striato ventrale che invece programma il movimento finalizzato alla
ricompensa. Lo striato ventrale è l’accumbens.
Pontieri: Vorrei aggiungere che nella mia povera e basica pratica clinica posso
testimoniare la assenza di discinesie in un soggetto sano che ha assunto per errore
diagnostico per 35 anni Levo-Dopa Benserazide (Nicoletti: Caspita! Questa me la
rivendo ma l’avete pubblicata?). Questo è un signore che è stato in Argentina,
probabilmente quello che ho pensato è che abbia avuto delle clonie per una crisi
parziale per qualche motivo molti anni prima, fatto sta che mentre lavorava li nei
campi fu visto da un medico mentre al braccio apparentemente tremava. Questo gli
disse “tu hai il Parkinson”, gli mise in bocca una compressa di Madopar, gli disse
“prendi tre volte al giorno questo e non avrai problemi”. Il signore ubbidientemente
l’ha preso, anche perché dopo dieci minuti che aveva preso sto Madopar era sparito
tutto. Per 35 anni, forse 36, ha assunto 100/125 x 3 di Levo-Dopa al giorno, con
qualche fastidio gastrico, episodi simil-ipotensivi in ortostatismo occasionali
soprattutto in estate ma nulla di più. Ci ho messo un anno per fargli sospendere la
Levo-Dopa e la conclusione è stata non che qualcuno si fosse sbagliato prima, ma
che io ero stato così bravo da guarirlo dal Parkinson. Per cui continuo a ricevere
richieste di visite dai suoi amici perché io sono un santone tale che guarisce da una
malattia del genere e quindi sono bravissimo. Questi sono stati 35 anni o 36 anni di
Levo-Dopa continuativa con un’ossessività, dice che avrà dimenticato al massimo 10
compresse in 30 anni quindi proprio perfetto come potenziale paziente, senza
nessun effetto collaterale centrale. A mia conoscenza è l’esposizione più lunga in un
sano (Nicoletti: è incredibile! Molto interessante!). Invece adesso stavo cercando di

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farvi vedere un grafico


su quello che succede
nei pazienti, o meglio
nei denervati, perché
questo è un dato
altrettanto al supporto
del fatto che non
conta tanto la Levo-
Dopa ma conta la
denervazione.
Ecco guardate entrambe le condizioni tanto sono sostanzialmente sovrapponibili.
Allora qui ci sono queste bande di colore che indicano:
- In azzurro chiaro la condizione di pretrattamento
- In azzurro intermedio la condizione di assunzione di farmaci dopamino
agonisti negli italiani
- In rosa l’intervallo in cui ci sono fluttuazioni ma non discinesie
- In rosa rossa l’intervallo in cui ci sono sia fluttuazioni sia discinesie
Quello che vedete voi qua drammatico è quanto i soggetti italiani trattati abbastanza
precocemente con Levo-Dopa, queste sono persone che cominciano ad assumere il
farmaco intorno a un anno e mezzo dall’esordio dei sintomi e quindi dalla diagnosi
(qua c’è la durata della malattia), hanno un intervallo di tempo di più di 5 anni in cui
non compaiono complicanze e dopo cominciano ad avere complicanze. Quando noi
shiftiamo verso i soggetti africani mai trattati con la stessa durata di malattia, questi
sviluppano complicanze da Levo-DOPA dopo pochi mesi dall’assunzione di Levo-
DOPA a fronte di molti anni. Biologicamente queste due popolazioni [indica le due
più in basso nel grafico] hanno cominciato nello stesso momento, quindi quello che
vediamo è quanto in condizioni analoghe di danno cellulare sia stata mantenuta una
soddisfacente e omogenea, durante la giornata, risposta alla terapia o piuttosto siano
precocemente comparse le complicanze questo la dice abbastanza lunga, 6 anni
verso 2-3 mesi sono un intervallo che penso che tutti voi possiate ritenere
tragicamente significativa per un peso troppo più sbilanciato verso il quadro
endogeno, cioè la denervazione, piuttosto che verso il peso di farmaci. Ed è una cosa
estremamente interessante, questo ha tagliato la testa al toro a molta della fobia
verso la Levo-DOPA perché in pratica è stato dimostrato per caso. Nessuno di noi si
sognerebbe di deprivare soggetti da farmaci, quelli poverini erano stati senza farmaci
perché usciti dalle politiche locali della povertà in Africa e dalle decisioni delle ditte
farmaceutiche di non donare. Questi hanno sviluppato in pochi mesi quello che nel
mondo “civile” succede in diversi anni e riportando tutto però in relazione al momento
di inizio pesa molto più la durata di malattia della durata di esposizione ai farmaci.

Nicoletti: Se devo fare l’avvocato del diavolo se mi permetti, questo è un dato molto
convincente, ma naturalmente ci sono due variabili che possono concorrere qui

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(anche se il dato rimane di una forza straordinaria): la prima è l’etnia che potrebbe
creare delle differenze; secondo è il fatto che sicuramente in Africa immagino che
non abbiano fatto il dat-scan per vedere lo stato di degenerazione in partenza. Quindi
se poi lo stesso studio viene riproposto anche in una popolazione in un’etnia
omogenea, in cui però si fa il dat-scan e si vede, per esempio negli italiani, se quelli
che cominciano con una degenerazione dell’80% sviluppano le discinesie più
velocemente di quelli che cominciano con una degenerazione del 65% (non so
quanto questo sia fattibile dal punto di vista pratico, probabilmente non lo è) mi
sentirei più confortato, ma certo è un dato estremamente eclatante.

Pontieri: Purtroppo questo non è fattibile perché è non etico non trattare un
Parkinsoniano per 6-7 anni ed è economicamente troppo laborioso portare gli africani
qui per fare un dat-scan e riportarli indietro.
Nicoletti: No, certo io non mi riferivo a un’altra cosa però, cioè alla soglia di
vulnerabilità. Così come avviene in psichiatria quando c’è la differenza della
vulnerabilità allo stress, potrebbe anche accadere che per esempio io sviluppo i
sintomi Parkinsoniani quando ho un 80% di degenerazione delle fibre, rispetto ad un
altro che li sviluppa quando ha il 65%. Non so se clinicamente questo accade, però
non mi meraviglierei se accadesse perché poi i meccanismi di compenso della
programmazione del movimento ci possono anche stare. Per cui se si prendono delle
popolazioni di pazienti che cominciano a fare la terapia quando ci sono i sono i
sintomi, quindi questo eticamente diventa corretto, però poi il dat-scan ti dice il
paziente X ha una degenerazione del 75% un altro ce l’ha del 65%, stiamo iniziando
la terapia con levo-DOPA in entrambi i pazienti, quello che ha il 75% all’inizio poi
sviluppa le discinesie prima o le fluttuazioni prima.
Pontieri: Dunque io credo che purtroppo non ci sia una soluzione a quanto propone
Ferdinando per un motivo. Il dat-scan è un esame statico, nel senso che succide un
certo giorno, ed è un esame che non può considerare se esista un’up-regolation
dell’espressione del dat. Il che significa che non ci dice esattamente quante sono le
terminazioni dopaminergiche che non ci sono più, ci dice quante sono le terminazioni
dopaminergiche che ricaptano, o meglio quanto è il segnale dat che ricapta
potenzialmente dopamina. E poiché in una condizione di denervazione presinaptica
il ricaptatore tende a salire di espressione, e questo è uno dei motivi per cui il dat-
scan non è considerato affidabile nella fase iniziale della malattia come marker di
quantità di denervazione, purtroppo temo che questo sia impossibile. A meno che
Ferdinando non impiantiamo dei tubi da dialisi nei pazienti, è un po’ laborioso da
poter con certezza dimostrare. La questione di fondo su cui ci possiamo basare è:
giusto che quel 70% di cui tutti noi parliamo sia un dato medio (c’è chi comincia ad
avere sintomi al 60%,chi all’80%); giusto che un giovane probabilmente abbia
bisogno di una denervazione maggiore per cominciare ad avere sintomi, perché
tende ad avere meno meccanismi di compenso; però noi possiamo solo regolarci sui

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grandi numeri e dire, quando affrontiamo il discorso sotto l’aspetto statistico e


supportati da grandi numeri, l’idea è questa. Di più temo che sarebbe molto bello
trasformarli in scimmie ma non si può fare.
Nicoletti: Assolutamente ma era solo un commento. Il lavoro pubblicato su Brain è
un lavoro estremamente convincente anche se non l’ho seguito.
Allora arrivano queste fluttuazioni. Di che fluttuazioni si tratta? Beh innanzitutto
facciamo un discorso di natura farmacologica che fa riferimento alla così detta
finestra terapeutica. La finestra terapeutica è quell’intervallo di concentrazioni
plasmatiche che è compreso tra la minima concentrazione efficace e la massima
concentrazione tollerata. Quando voi somministrate un farmaco è bene che le
concentrazioni plasmatiche cadano sempre all’interno della finestra terapeutica.
Forse il tentativo di dare la Levo-DOPA per via sotto-cutanea per infusione continua,
i tentativi che sono stati fatti anche con tutti gli altri farmaci di fare formulazioni depot
o di dare cerotti etc., in realtà sono tentativi che tentano di far entrare i farmaci
all’interno della finestra terapeutica. Quando cominciate a dare la Levo-DOPA
all’inizio, quando c’è quella grande percentuale di beneficio prolungato, che io
pensavo fosse ristretto al 70% ma Francesco mi ha corretto può arrivare al 90%
addirittura, in genere le concentrazioni di Levo-DOPA sono quasi sempre all’interno
della finestra terapeutica considerando il fatto che la date più volte al giorno. Quindi
questo significa che le concentrazioni difficilmente vanno al di sotto del limite minimo
della finestra perché se ciò accade voi avete le così dette fasi off, vale a dire il
paziente si blocca (poi in realtà le fasi off non sono soltanto motorie ma possono
essere non motorie). Invece nel momento in cui le concentrazioni dovessero salire
al di sopra della finestra terapeutica, ci sono le cosiddette discinesie. Bene,quindi nei
primi anni tutto questo non succede. Poi però man mano che passa il tempo il
beneficio prolungato diventa sempre più basso in percentuale, e invece la finestra
terapeutica di riflesso si restringe. Quindi aumenta la probabilità statistica che le
concentrazioni plasmatiche in una determinata fase divengano troppo basse, o che
in altri momenti, come i momenti del picco plasmatico, possano essere eccessive e
dare i movimenti involontari patologici. E questo di per sé spiegherebbe le fluttuazioni
dell’efficacia terapeutica e spiegherebbe anche le discinesie. Però vedremo tra
pochissimo che questa spiegazione non c’è sufficiente, e non è sufficiente perché ci
sono casi in cui questa correlazione con le concentrazioni plasmatiche non c’è.

Cominciamo con le fluttuazioni. Il primo fenomeno che potete avere è il cosiddetto


fenomeno del Wearing-off, che significa letteralmente decremento di fine dose.
Decremento di fine dose significa che prima che si somministri la dose successiva di
Levo-DOPA c’è un periodo di tempo in cui il paziente si blocca, perché
evidentemente le concentrazioni plasmatiche scendono e scendendo vanno al di
sotto della finestra terapeutica. Questo fenomeno del Wearing-off teoricamente si
può correggere in diversi modi. O dando dei farmaci che potenziano l’azione della

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27 MAGGIO 2021

Levo-DOPA, come per esempio gli inibitori delle COMT, o anche un’altra categoria
di farmaci dei quali vi parlerò la prossima volta che sono gli inibitori delle MAO-B (che
tra l’altro Marika ha studiato tanto, ha scritto una bella review sugli inibitori delle MAO-
B). L’altra possibilità invece, che è quella più ovvia, è frazionare la dose, cioè invece
di dare 3-4 volte al giorno dare 5-6 volte al giorno riducendo la dose di volta in volta
in maniera tale che, nonostante la finestra terapeutica sia più ristretta, le
concentrazioni plasmatiche cadano sempre all’interno della finestra. Tuttavia ci sono
dei casi in cui dando la successiva somministrazione di Levo-Dopa, come per
esempio avviene se voi frazionate le dosi e quindi date più frequentemente Levo-
DOPA, il fenomeno del Wearing-off non si risolve.
Voi parlate di fenomeni di Delayed-ON, significa che la fase ON è ritardata quando
voi risomministrate di nuovo la Levo-dopa. Oppure siete nella condizione di NO-ON,
significa che nonostante la somministrazione successiva Levo-Dopa il paziente
rimane in fase OFF. Questa fase di NO-ON viene anche chiamata Drug-resistant
OFF, e questo da cosa può dipendere? Teoricamente da tante cose: per esempio
può dipendere dal fatto che voi date la Levo-dopa, ma per qualche motivo
l’assorbimento della Levo-dopa è ritardato oppure ne viene assorbita troppo poca
per poter risolvere la fase OFF; può dipendere da alterazioni della distribuzione della
Levo-DOPA; può dipendere da problemi legati al passaggio della barriera
ematoencefalica. Insomma queste sono le condizioni in cui probabilmente gli inibitori
delle COMT e gli inibitori delle MAO-B potrebbero rappresentare una soluzione di
maggiore applicazione. Non so da questo punto di vista cosa ne pensa Francesco,
se hai commenti da fare a proposito.

Pontieri: È un pochino come giocare con una bilancia, anche perché tenete presente
ragazzi che a questo punto i soggetti tendono anche ad avere delle conseguenze di
una eccessiva stimolazione dopaminergica esogena, quindi tendono ad avere delle
discinesie pure in fase di picco almeno. Il discorso è difficile da spiegare a lezione, è
qualcosa che bisogna vivere, cioè cercare di capire cosa sta succedendo a quella
persona. Io vorrei anche aggiungere una cosa che è molto pratica, è molto poco
culturale forse, cioè quanto il calo di fine dose sia importante per la persona. Noi
ricordiamoci che quello di cui abbiamo a che fare è un trattamento ad oggi
sintomatico, quindi il concetto di sintomatico è anche su “dopo che ti ho fatto stare
meglio cosa te ne fai?”, scusate la franchezza di termini. Quindi a volte la cosa più
frequente è che entri male la prima dose del pomeriggio, entri meno la prima dose
del pomeriggio, però bisogna anche capire quanto ciò veramente impatti in negativo
sulla quotidianità e sulle aspettative di quella persona. Perché quando cominciano
ad esserci dei cali non facilmente prevedibili, cominciamo a trovarci nelle condizioni
in cui c’è anche il rischio di sovradosaggio, o meglio di conseguenze della eccessiva
stimolazione. Secondo me bisogna lì avere un po’ più tempo di quello che ci danno.
Io e Ferdinando tra qualche anno saremo in pensione, voi avrete tanti anni davanti

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27 MAGGIO 2021

durante i quali chi ci comanda, cioè i governi e le regioni, ci chiederanno sempre di


più e ci daranno sempre di meno, scusate la franchezza. Ora noi siamo a 15 minuti
per una visita di centro Parkinson, Ferdinando penso possa inorridire, perché in 15
minuti al massimo puoi cominciare a pensare quali siano i problemi, invece dovresti
risolverli. Questo è importante. Ma io dico sempre, non pensate che un
Parkinsoniano debba essere trattato in maniera tale che chi lo segue sappia che
quello è un parkinsoniano, che vuol dire non gli stiamo dando troppo. E bisogna
anche capire quanto delle modificazioni durante la giornata siano di rilievo e di
impatto negativo, e quelle vanno sicuramente corrette, invece quelle che possono
essere gestibili forse al giorno d’oggi è meglio gestirle piuttosto che dannarsi l’anima.
Però tutto quello che vi sta dicendo Ferdinando è corretto, cioè a fronte di una
fluttuazione di concentrazioni plasmatiche, a cui più o meno corrisponde una
fluttuazione di biodisponibilità e di utilizzo cerebrale e una fluttuazione di resa
motoria, quello che noi dobbiamo fare e cercare di coprire questi buchi, e quanto vi
sta dando come indicazione è assolutamente corretto. Mi permetto di ridire che un
eccessivo frazionamento di dose comporta un danno in linea di principio per il
paziente, perché significa correre appresso un orologio, e significa soprattutto
impattare molto poco su quelle che sono le modificazioni periferiche, cioè su ciò che
significa un ritardo di assorbimento e un ritardo di entrata nel cervello in generale,
perché tutte queste non sono automaticamente corrette con un incremento di dosi.
Quindi secondo me biologicamente il discorso dovrebbe essere rivolto al cercare di
fare del nostro meglio per dare un tono dopaminergico basale sufficiente, usando
combinazioni di farmaci che ci consentano di coprire anche se non annullare il buco
e far sì che la resa pratica del paziente sia soddisfacente.

Nicoletti: Molto bene. Continuando potete avere anche i fenomeni ON-OFF che si
differenziano degli altri perché non c’è una correlazione diretta tra fasi On e fasi OFF
e fluttuazioni delle concentrazioni plasmatiche di Levo-DOPA. Quindi l’intervallarsi di
fasi OFF e fasi On non segue regole farmacocinetiche molto precise. E qua
naturalmente dobbiamo tener conto del fatto, che un conto sono le concentrazioni
plasmatiche che riflettono assorbimento, distribuzione e eliminazione del farmaco (e
anche il metabolismo anche se noi qui cerchiamo di bloccarlo), e un altro conto è poi
il farmaco che arriva nel SNC, viene storato, cioè immagazzinato nei terminali che
ancora sono presenti che non sono tanti, e a quel punto viene rilasciato ad intervalli
che poi sono gli intervalli di frequenza dei neuroni dopaminergici, e come abbiamo
detto anche di altri neuroni che non sono naturalmente dopaminergici.
Poi ci sono anche le così dette acinesie al risveglio. Quindi voi avete 3 tipi di
fluttuazioni dell’efficacia terapeutica:
- il fenomeno del Wearing-off, col delayed-ON e con il NO-ON
- i fenomeni ON-OFF
- le acinesie al risveglio, che sono abbastanza logiche perché il paziente
prende l’ultima dose di Levo-DOPA prima di andare a letto, a meno che non

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27 MAGGIO 2021

si trovi un sistema per cui la Levo-DOPA viene data anche continuativamente


durante la notte. Marika il Neuroderm viene infuso anche durante la notte?
[Marika: non penso no] ecco quindi si blocca in serata e il paziente rimane
scoperto. E poco fa abbiamo detto che quelle formulazioni a rilascio
controllato (Sinemet CR o Nafobat CR??) possono essere utili per le
ascinesie al risveglio.

Come ultima cosa ricordatevi che le fasi OFF possono essere anche non motorie e
questo è un tema che sta diventando sempre più importante nel management di un
paziente che è affetto dalla malattia di Parkinson. Cioè possono interessare:
- Manifestazioni psichiatriche: per esempio depressione, ansia e disturbi della
sfera cognitiva. In realtà non mi piace parlare dei disturbi della sfera cognitiva
come manifestazioni psichiatriche, sono manifestazioni non motorie.
Tradizionalmente i neurologi si occupano di sfera cognitiva perché studiano
le demenze, anche se oggi i disturbi della sfera cognitiva stanno diventando
molto importanti anche nelle patologie psichiatriche. Per esempio, si sta
dando tantissimo risalto alla depressione associata alla malattia di Parkinson.
Se ricordate la scorsa volta abbiamo detto che la depressione anticipa i
sintomi motori della malattia di Parkinson, adesso la ritroviamo anche nelle
fasi OFF in cui il tono dell’umore può improvvisamente decadere.
- Fenomeni che riguardano la sensibilità: tra questi il primo fenomeno è il
dolore. Cioè durante fase OFF ci può essere dolore, che è tipicamente un
dolore neuropatico, cioè un dolore che dipende da alterazioni strutturali e
funzionali delle vie di senso del dolore. Ci sono farmaci che curano il dolore,
ricordatevi farmaci come la Gabapentina e il Pregabalin, però non abbiamo
fatto altro che dire che questi farmaci potrebbero interferire con i LAP, cioè
con i trasportatori degli amminoacidi, quindi teniamo conto di questo
(sarebbe molto interessante correlare la cinetica della Levo-DOPA all’uso di
queste sostanze, che molto spesso gli psichiatri danno anche per il
trattamento dell’ansia).
- Manifestazioni OFF disautonomiche: principalmente con variazioni della
pressione arteriosa.

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Lezione 8 giugno 2021

Allora quello che facciamo stasera in realtà è molto semplice, cioè trattiamo l’ultimo
aspetto degli affetti avversi della L-DOPA, cioè le discinesie da L-DOPA e poi
tratteremo le due classi di farmaci che ancora non abbiamo trattato, cioè gli
inibitori delle monoamino ossidasi di tipo B o MAO-B ed i farmaci dopamino-
agonisti. E questo ci darà anche la possibilità di trattare una patologia che in realtà
è abbastanza frequente, fino al 15% della popolazione, che si chiama sindrome
delle gambe senza riposo (o restless legs syndrome), non so se ne avete mai
sentito parlare, però è una realtà clinica che non è legatissima alla malattia di
Parkinson, ma è sicuramente legata al trattamento con farmaci dopamino-agonisti.
Ma andiamo con ordine e parliamo delle discinesie da L-DOPA.

DISCINESIE DA LEVODOPA E TRATTAMENTO

Punto numero 1: quando si parla di discinesie si fa riferimento a movimenti


involontari patologici, che tipo di movimenti possono essere?
Innanzitutto, movimenti coreici. Il termine corea deriva da danza, quindi sono
movimenti involontari che ricordano un po’ la danza; la corea che tutti voi
conoscete è la corea di Huntington, che è una malattia da espansione di triplette, la
tripletta espansa è CAG della proteina huntingtina (HTT). Poi c’è un’altra forma di
corea che abbiamo studiato quando abbiamo trattato gli antibiotici, che fa parte di
un quadro che si chiama PANDAS, e sono le manifestazioni autoimmuni che
originano da infezioni da streptococco β-emolitico e colpiscono soprattutto i bambini
ed il tipo di corea si chiama corea di Sydenham o ballo di san Vito. Memorizzate
questo termine PANDAS, perché soprattutto in neuropediatria è una condizione
che si incontra abbastanza spesso. Io al Neuromed ho diversi collaboratori che
sono mamme ed una mamma ha un bambino che ha avuto in una particolare fase
delle manifestazioni un po’ ossesivo-compulsive, manifestazioni da iperattività e
quando è andato in neuropediatria a Roma, hanno fatto una diagnosi di PANDAS,
perché aveva il titolo antistreptolisinico alto. Interessante questo.
Oltre ai movimenti coreici, ci possono essere movimenti ballistici, ed anche
questa parola deriva dal greco, βάλλω che vuol dire scagliare letteralmente. C’è
una patologia neurologica che prende il nome di emiballismo controlaterale che
deriva da lesione ischemica monolaterale del nucleo subtalamico di Luys. Nella
fattispecie, quando ci sono movimenti ballistici da L-DOPA interessano tutti e due i
lati.
Poi ci possono essere movimenti atetosici che sono, invece, movimenti molto
lenti e possono esserci dei tics, che sapete benissimo di che cosa si tratta e poi
infine ci possono essere delle distonie.

262
Quando si parla delle distonie, invece, si fa riferimento a modificazioni del tono
muscolare che alterano la postura. Quindi, il distonico è uno che ha un ipertono di
un arto e poi acquista la postura conseguente all’ipertono.
Prima domanda: «Queste manifestazioni che per altro si possono valutare con
diverse scale, una delle scale note è quella di AIMS, cioè la scala dei movimenti
involontari abnormi, sono una conseguenza della L-DOPA oppure dipendono dalla
neurodegenerazione progressiva nella malattia di Parkinson? ».
Allora, qui, come ha detto il professor Pontieri nella lezione precedente, non ci sono
dubbi di sorta, le discinesie vengono fuori, si perché comunque la L-DOPA le dà, e
su questo non ci piove, però soprattutto perché, la L-DOPA viene somministrata in
un contesto di progressiva neurodegenerazione. E questo ve lo ricordate e lo
suggerisce anche la cosiddetta sindrome di Segawa, che è determinata dalla
carenza di GTP cicloidrolasi, che per altro è anche un enzima coinvolto nella
genetica del Parkinson, perché pazienti che hanno la sindrome di Segawa, sono
innanzitutto bambini distonici, sono bambini che vengono trattati con L-DOPA per
tutta la durata della loro vita, abbiamo già avuto modo di commentarlo. La L-
DOPA non causa mai fluttuazioni dell’efficacia terapeutica e discinesie e quindi
evidentemente in quella circostanza cui il difetto enzimatico impedisce la sintesi di
L-DOPA, però c’è degenerazione del sistema nigrico-striatale, discinesie non se
ne formano.
Poi c’è un altro dato che è il dato che si ottiene nelle scimmie trattate con MPTP.
La MPTP è la tossina parkinsonigena, cioè metil-fenil-tetraidro-piridina, ricordate
tutta la storia di quei tossicodipendenti californiani che accidentalmente avevano
assunto la MPTP ed erano diventati parkinsoniani, ebbene la MPTP funziona nei
topi, nei primati, MPTP non funziona nel ratto, la MPTP funziona benissimo
nell’uomo che se non sta attento quando la utilizza in ricerca, può ammalarsi e
sviluppare un parkinsonismo tossicologico. Comunque sia il vantaggio di questa
tossina è quello che voi potete dosare il danno, cioè in base alla dose di tossina
che voi date ad una scimmia od ad un topo, per esempio danneggiate il sistema
nigrico-striatale del 30%, del 50%, dell’80% e questo lo potete facilmente
verificare, soprattutto in un animale da esperimento, in cui fate i dosaggi dopo
aver sacrificato l’animale. Per esempio questo succede nel topo. Ebbene, se voi
date ad esempio la MPTP nelle scimmie, e poi le trattate con L-DOPA per
correggere il fenotipo motorio, la probabilità statistica che la L-DOPA sviluppi
discinesie è direttamente proporzionale all’entità del danno. Vale a dire se voi
utilizzare una dose di MPTP che danneggia in maniera molto marcata il sistema
nigrico-striatale, è molto facile che la L-DOPA induca discinesie. Quindi, dovete
immediatamente ragionare su questo.
Come mai la L-DOPA dà discinesie, quando avete un danno molto esteso dei
terminali dopaminergici nello striato?

263
Ricordatevi che per fare diagnosi è necessario che ci sia almeno una riduzione
del 70-75% dei terminali nello striato. Ed all’inizio del trattamento con L-DOPA più
o meno siete in queste condizioni. Poi, però, man mano che passa il tempo e
passano gli anni, i terminali si riducono ancora di più ed è come se ci fosse una
soglia al di là della quale la L-DOPA induce discinesie.
Per quale motivo è così?
Allora, qua bisogna un attimo riflettere, e pensare che nel momento in cui i
neuroni del sistema nigrico-striatale degenerano, ci sono pochi terminali
dopaminergici rimasti nello striato, la L-DOPA, in realtà, può essere captata da
molte altre cellule, tra cui le cellule serotoninergiche, le quali captano L-DOPA
senza alcun problema, perché la L-DOPA è un aminoacido. I terminali
serotoninergici posseggono la LAAD, cioè posseggono la decarbossilasi degli
aminoacidi aromatici e non potrebbe essere diversamente perché loro la
utilizzano per formare serotonina a partire dal 5-idrossi-triptofano. E quindi, però,
una volta che sono a contatto con la L-DOPA i terminali serotoninergici
cominciano a sintetizzare dopamina, perché la LAAD che è presente là sintetizza
la dopamina partendo dalla L-DOPA. Quindi, un terminale serotoninergico
comincia a diventare un terminale doppio, che rilascia non soltanto serotonina, ma
rilascia anche dopamina. In aggiunta, la dopamina viene anche sintetizzata nelle
cellule endoteliali, viene sintetizzata in altre cellule dello striato che normalmente
non la sintetizzano, insomma per farla breve, tutte queste cellule che
improvvisamente si mettono a sintetizzare dopamina, la rilasciano, però non con i
ritmi di scarica che sono tipici dei neuroni nigrico-striatali. E questo crea una
grande confusione del sistema, che determina a lungo andare una forma di
plasticità sinaptica anomala, di tipo mal adattativo, questo infine è responsabile di
un effetto che prende il nome di priming.
Che cosa è il priming?
Si forma una memoria patologica legata alla programmazione dei movimenti
abitudinari. E se voi considerate le discinesie, sono dei movimenti programmati in
maniera eccessiva, il neostriato ha il compito di programmare i movimenti
abitudinari, che sono quelli che noi compiamo nella maggior parte della nostra
vita. Tuttavia, se noi facciamo una programmazione eccessiva dei movimenti
abitudinari, eseguiamo dei movimenti “purposeless”, cioè assolutamente
afinalistici come per esempio i tics, od i movimenti coreici, che vengono ripetuti,
che non hanno senso, ma che riflettono il fatto che si crea questa forma di
potenziamento nella programmazione del movimento.
E che cosa significa priming?
Che una volta che questo si viene a formare, segue le leggi dell’habit memory,
cioè della memoria delle abitudini. Se voi per esempio, lo abbiamo detto diverse
volte, mettete il barattolo del sale, in cucina, in una particolare zona della cucina,
in una mensola, tutte le volte che andate in cucina non dovete ragionarci su,

264
andate immediatamente in quel posto ed andate a prendere il sale. Se voi
spostate il barattolo del sale, prima di riabituarvi alla nuova posizione del barattolo
del sale ci mettete tempo. Questo perché l’habit memory è una memoria poco
flessibile. Quindi, una volta che si è consolidata, è difficile rimuoverla, e poi vi dirò
quale è il substrato di tutto questo e perché si viene a formare. Questo ce lo dice
anche lo studio dell’addiction, cioè del disordine da uso di sostanze, dove le
memorie inizialmente sono codificate nel sistema mesolimbico, cioè nel nucleo
accumbens principalmente, che è il nucleo fondamentale per programmare il
movimento diretto nei confronti delle ricompense. Poi però, le memorie si
spostano e finiscono nello striato dorsale, cioè nel nucleo caudato e nel putamen:
quando questo succede, diventano inflessibili, perché si trasformano in habit
memory, cioè in memoria dell’abitudine del movimento. Ed a questo punto per
esempio voi odiate l’alcool, però la mattina siete costretti a bervi il bicchierino di
vodka, perché è diventato un habit memory. Forse la cosa che vi può dare la
migliore espressione di questa habit memory sono le persone che vedono i porno
al pc od in tv, che inizialmente sono attratti dalla novità o lo fanno così per
incentivare le pratiche erotiche o ciò che volete. Ma poi però diventa un habit
memory ed a volte succede che individui stanchi che non ne possono più, che
hanno passato una giornata di merda, però quando vanno a letto si devono
necessariamente vedere il film porno anche se in quel momento tutto vogliono
fare tranne che eccitarsi, perché è diventata una habit memory. Se voi traslate
tutto questo nella programmazione dei movimenti involontari, beh ecco qui avete
automaticamente dei movimenti ripetuti che non hanno senso che prendono il
nome di discinesie.
Come si possono manifestare le discinesie da un punto di vista temporale?
Allora innanzitutto le discinesie possono essere di picco.
Che cosa significa discinesie di picco?
Le discinesie di picco le avete in corrispondenza del Cmax, cioè della massima
concentrazione plasmatica della L-DOPA. E questo è abbastanza facile da
comprendere, tuttavia, perché nel momento in cui voi andate avanti con il
trattamento con L-DOPA, la finestra terapeutica, cioè quell’intervallo di
concentrazioni plasmatiche che va dalla minima concentrazione efficace alla
massima concentrazione tollerata, si va riducendo sempre di più. Ed allora è facile
che le concentrazioni plasmatiche di L-DOPA superino il limite più alto della
finestra terapeutica, che è il limite che demarca l’insorgenza degli effetti avversi di
primo tipo, cioè gli effetti avversi che dipendono dal meccanismo di azione del
farmaco ed a questo punto voi avete un’eccessiva programmazione del
movimento, cioè avete i movimenti involontari patologici. E fin qui le cose si
possono spiegare abbastanza bene. Tutto sommato quando voi avete le
fluttuazioni ed avete soprattutto il wearing off, cioè il decremento di fine dose, voi
frazionate la dose di L-DOPA per cui arrivate anche a darne 6-7 volte al giorno.

265
Ed automaticamente frazionando la dose, riducete anche i livelli di picco della L-
DOPA e questo potrebbe anche essere una buona strategia per cercare di ridurre
anche le discinesie. Poi insomma dipende anche chiaramente da situazione a
situazione.
Le cose si complicano quando invece, avete le cosiddette discinesie bifasiche,
perché le discinesie bifasiche non seguono le regole delle discinesie di picco.
Sono dei movimenti involontari che insorgono nel momento in cui le
concentrazioni plasmatiche di L-DOPA iniziano a salire e nel momento in cui le
concentrazioni plasmatiche di L-DOPA scendono dopo il picco. Mentre è facile
capire perché ci sono le discinesie di picco, è molto più complicato capire il
perché delle discinesie bifasiche, perché teoricamente vi aspettereste la massima
risposta motoria nel momento in cui le concentrazioni plasmatiche di L-DOPA
sono al picco, cioè sono al C max. Quindi perché che le avete queste discinesie
mentre la L-DOPA sta salendo e mentre la L-DOPA sta scendendo?
Evidentemente si crea una sorta discrasia o comunque di differenza tra le
concentrazioni plasmatiche e la capacità del nostro SNC di immagazzinare la L-
DOPA. Quindi il plasma ed il SNC non sono più due compartimenti collegati, ma
sono compartimenti completamente indipendenti, per cui evidentemente c’è più
rilascio e produzione di dopamina nel momento in cui le concentrazioni di L-DOPA
plasmatiche salgono o scendono rispetto alle concentrazioni di picco. Qui le cose
sono già molto più complicate, perché se voi cominciate a frazionare la dose, a
cambiare le modalità di trattamento nel tentativo di ridurre i picchi plasmatici di L-
DOPA, però nei confronti delle discinesie bifasiche non potete avere
necessariamente lo stesso effetto.
Le cose si complicano ancora di più se fate riferimento alla terza forma di
discinesie da L-DOPA che nel loro insieme si chiamano LID e la sigla LID sta per
Levodopa-induced dyskinesia, cioè discinesie indotte da L-DOPA e queste sono le
cosiddette distonie della fase off, cosa stranissima perché la fase off è quella fase
in cui in cui non c’è movimento.
Quindi come mai ci sono distonie?
Beh fondamentalmente perché le distonie e le discinesie sono due cose diverse: le
distonie riflettono un’alterazione posturale che è dovuta ad un aumento del tono di
determinati muscoli, quindi in realtà potete anche assimilarla ad una forma di
ipertono, di rigidità; mentre le discinesie invece sono dei movimenti involontari.
Quindi, il fatto che le distonie siano presenti nella fase off, ve le può far configurare
come un equivalente parkinsoniano, però un conto è la rigidità con il classico segno
della troclea dentata o ruota dentata ed un altro conto sono le distonie e le distonie
si classificano all’interno delle discinesie. Quindi, abbiamo questo quadro
clinicamente piuttosto strano da un punto di vista della sperimentazione
neurobiologica particolarmente affasciante, particolarmente interessante. Quindi, a

266
questo punto dobbiamo spostarci all’interno dello striato e capire quali siano le basi
delle discinesie.
Allora, punto numero 1: equazione anche qui da prendere con un minimo di riserva
però penso che sia abbastanza importante e vi ricordate che all’interno dello striato
c’è una via diretta ed una via indiretta. La via diretta del circuito dei gangli della
base è sotto il controllo dei recettori D1 ed è stimolata dai recettori D1. I recettori
D1 sono classicamente recettori accoppiati a proteina Gs. Ebbene, l’altra via, la via
indiretta invece è una via che è controllata dai recettori D2, che sono recettori
accoppiati a proteina G inibitoria (Gi). Normalmente, la dopamina vi permette di
programmare il movimento perché attiva la via diretta ma nello stesso tempo
inibisce la via indiretta. Quindi, nel momento in cui voi avete una degenerazione del
sistema nigrico-striatale, che cosa è più importante ai fini dei sintomi del Parkinson,
cioè rigidità, bradicinesia e tremore? La mancata stimolazione della via diretta da
parte dei recettori D1 o la mancata inibizione della via indiretta da parte dei recettori
D2?
Chiunque può rispondere che sono importanti, e questo lo sappiamo, non ci sono
dubbi. Nonostante questo, tuttavia, sicuramente la via indiretta è più coinvolta nei
sintomi motori del Parkinson, vale a dire il motivo per cui viene fuori la bradicinesia,
la rigidità ed il tremore è soprattutto perché la via indiretta è iperattiva ed all’interno
della via indiretta diventa iperattivo il cosiddetto nucleo subtalamico STN o nucleo
subtalamico di Luys. Questo nucleo funziona di più nella via indiretta e questo
diventa fondamentale per la patogenesi e la patofisiologia dei sintomi motori del
Parkinson. Il fatto che la via diretta, invece, non venga stimolata dai recettori D1,
contribuisce ai sintomi motori del Parkinson sicuramente. Tuttavia, contribuisce
meno; mentre, invece, l’attivazione della via diretta diventa fondamentale nella
patogenesi delle LID, cioè delle discinesie da L-DOPA.
Quindi, se negli esami di neurologia, qualcuno dovesse chiedervi “via diretta e via
indiretta dei gangli della base, come queste due vie si collocano nel determinismo
dei sintomi motori del Parkinson, delle discinesie da L-DOPA?” La vostra risposta
deve essere senz’altro così: la mancata inibizione della via indiretta da parte dei
recettori D2 è la principale responsabile di rigidità, bradicinesia e tremore che sono
i sintomi motori del Parkinson. Un’eccessiva attivazione della via diretta, controllata
dai recettori D1, è invece coinvolta nelle discinesie da L-DOPA. È ovvio che
contemporaneamente una ridotta attivazione della via diretta contribuisce ai sintomi
motori del Parkinson, ma non quanto contribuisca la ridotta attivazione dei recettori
D2 che normalmente spengono la via indiretta. Questo vi fa capire subito una cosa,
che per controllare le discinesie sarebbe molto utile per certi versi dare un
bloccante dei recettori D1, ma voi il bloccante dei recettori D1 non potete darlo e
non potete darlo per il semplice motivo che il bloccante dei recettori D1 vi riduce il
comportamento motorio. Ricordatevi che la via diretta in condizioni di base già sta
funzionando poco. Quindi, se voi deste un bloccante dei recettori D1 per impedire,

267
per inibire le discinesie da L-DOPA, sì voi raggiungereste il vostro scopo,
effettivamente lo fareste, però peggiorereste i sintomi motori della malattia di
Parkinson e quindi questa non è una via percorribile. Ci sono delle altre vie
percorribili, delle quali tra poco vi parlerò.
Ma andiamo un po’ al cuore della fisiopatologia delle discinesie da L-DOPA. Come
vi ho detto la fisiopatologia rispecchia lo sviluppo di una plasticità sinaptica mal
adattativa, quindi una forma di memoria patologica in cui il sistema di
programmazione dei movimenti abitudinari, che è il sistema nigricostriatale, si
confonde e programma i movimenti in maniera più marcata. Quando parlate di
sistema striato dorsale pensate sempre al sistema nigrico-striatale, cioè al sistema
dopaminergico che degenera però le fibre più importanti che innervano lo striato
non sono le fibre dopaminergiche, quelle sono importanti per noi, per la patologia,
ma le fibre più importanti sono quelle cortico-striatali e queste sono fibre che usano
glutammato come neurotrasmettitore eccitatorio. Se voi programmate il movimento,
la programmazione deve partire dalla corteccia, deve informare lo striato dorsale
del movimento che si sta per programmare. E poi il messaggio attraverso la via
diretta e la via indiretta, quindi poi alla fine attraverso il talamo ritorna alla corteccia
e torna alla corteccia motoria ed il movimento viene seguito. Poi, arriva la
dopamina con il sistema nigrico-striatale, ma la dopamina modula. In realtà, quello
che è importante è il glutammato che è rilasciato dalle fibre cortico-striatali. Quindi,
quando parliamo di plasticità sinaptica all’interno dello striato dorsale, diventa primo
attore il glutammato. La neurobiologia ci insegna che voi giocando con le fibre
glutammatergiche siete in grado di indurre alcuni fenomeni di plasticità ed uno di
questi fenomeni si chiama LTP.
Che cosa è la LTP?
È il potenziamento a lungo termine della trasmissione sinaptica eccitatoria, che è
un substrato ovvio di apprendimento. Io per esempio, riconosco Diletta che è
seduta davanti a me semplicemente perché le sinapsi che formano la sua
immagine sono potenziate rispetto alle altre sinapsi, quindi, nessun problema. Sei
io la dovessi incontrare anche per la strada dove ci sono altre persone, io
immediatamente la saluto, perché la sua immagine mi crea un segnale sul rumore
di fondo che l’immagine delle altre persone non mi crea. Quindi, questo dipende dal
fatto che le sinapsi sono potenziate ed in questo fenomeno che si chiama LTP c’è
un meccanismo di induzione che dipende largamente dall’attivazione dei recettori
NMDA ed i recettori NMDA sono importanti per l’induzione di LTP e poi dipende.
C’è un meccanismo di espressione di LTP che dipende dal fatto che i recettori
AMPA, gli altri recettori fondamentali ionotropici del glutammato funzionano
maggiormente, per cui la sinapsi viene sicuramente potenziata. Ebbene, voi potete
fare una cosa: potete prendere un animale, stimolare le fibre cortico-striatali
glutammatergiche ad alta frequenza ed a questo punto indurre LTP nelle sinapsi
del nucleo striato, nulla di nuovo sotto il sole e lo potete fare senza alcun tipo di

268
problema. Poi, però vi annoiate quando vedete questo potenziamento della sinapsi,
fate una stimolazione a frequenza più bassa e fate un depotenziamento. Quindi, da
LTP tornate indietro alla trasmissione normale. Quindi, prima potete fare
un’induzione del LTP e poi stimolando a bassa frequenza voi depotenziate.
Quando fate il depotenziamento siete in condizioni abbastanza fisiologiche, per il
semplice motivo che voi state giocando con i meccanismi di plasticità sinaptica e
giocate sul fatto che il potenziamento di una sinapsi può essere reversibile. Se voi
apprendente qualcosa e potenziate le sinapsi nel vostro ippocampo, questi
meccanismi di apprendimento possono anche ad un certo punto andare via. Vi ho
fatto diverse volte l’esempio: se voi imparate che Parigi è la capitale della Francia,
fate questo con un meccanismo di apprendimento associativo spaziale guardando
il planisfero ed utilizzano dei riferimenti spaziali, dopo diversi anni, voi ricorderete
che Parigi è la capitale della Francia, ma non ricorderete mai la
contestualizzazione, cioè non sapete quando lo avete imparato e questo
semplicemente perché LTP si è depotenziata, dove c’era LTP nell’ippocampo,
adesso non c’è più. Questo lo potete fare nello striato però è già più difficile, perché
lo striato codifica per l’habit memory e l’habit memory come vi ho detto è la
memoria delle abitudini è poco flessibile di natura. Però, una certa flessibilità esiste:
quando voi spostate il barattolo del sale dopo un po’ imparate che il barattolo del
sale è in un altro posto e quando entrate in cucina automaticamente ve ne andate
da un’altra parte. Le cose cambiano se voi prendete degli animali, dei ratti o dei topi
e voi fate una lesione del sistema nigrico-striatale non completa, cioè una lesione
che lascia alcune fibre, utilizzando una tossina che si chiama 6-idorssi-dopamina,
cioè voi iniettate questa tossina nel cervello degli animali ed i terminali del sistema
nigrico-striatale degenerano, lasciando un 10% delle fibre intatte o qualcosa di
simile. A questo punto, se voi fate l’induzione del LTP stimolando le fibre cortico-
striatali, voi LTP non ne avete più. Quindi, non c’è LTP. Ma questo perché?
Perché per indurre il potenziamento delle sinapsi nello striato voi avete bisogno di
recettori NMDA, avete bisogno di alcuni recettori che sono i valletti dei recettori
NMDA, che si chiamano recettori di mGlu5 metabotropici del glutammato, avete
bisogno di altri recettori che si chiamano mGlu1 ed appartengono allo stesso
gruppo, ma soprattutto avete bisogno dei recettori D1. Se voi non avete i recettori
D1 attivati, voi non fate LTP; quindi per avere LTP avete bisogno di questi quattro
elementi e fra poco vi dirò che esistono dei meccanismi di rinforzo tra questi signori
che funzionano in questi termini. Quindi, se voi prendete un animale, lo denervate,
non siete più in grado di indurre LTP, perché la dopamina rilasciata è in grado di
attivare i recettori D1 che si trovano nei neuroni della via diretta, non è più
sufficiente ad indurre LTP. Allora voi cosa fate?
Allora voi fate una somministrazione agli animali denervati con L-DOPA, quando
somministrate la L-DOPA, voi siete in grado nuovamente di indurre LTP e voi
questo lo potete tranquillamente fare perché la L-DOPA si trasforma in dopamina e

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quindi la dopamina rilasciata in quella piccola percentuale di fibre che è presente lì
o che è rilasciata anche dai terminali serotoninergici, vi attiva i recettori D1 ed a
questo punto voi formate LTP. Questa LTP voi teoricamente la potete
depotenziare, come vi ho detto poco fa, cioè fate una stimolazione a bassa
frequenza e potete ritornare alle condizioni di partenza. Però, qua c’è una
differenza: quando trattate gli animali denervati con Levodopa, gli animali in modo
del tutto casuale, si dividono in due categorie. Infatti ci sono gli animali che
sviluppano LID, cioè che sviluppano discinesie da L-DOPA, e gli animali che invece
non sviluppano LID. Quindi, avete due gruppi di animali, perché gli animali sono
tutti uguali, ma per quale motivo alcuni sviluppano LID ed altri non sviluppano LID
non lo so, ma questo succede. Perché nonostante gli animali di laboratorio derivino
dallo stesso ceppo nascono e crescono tutti nello stesso tabulario, però hanno
un’epigenetica diversa, perché il rapporto con la madre era diverso, i rapporti di
dominanza all’interno della gabbia sono diversi. Per cui quando voi fate una
denervazione, poi ad un certo punto date la Levodopa, in alcuni animali c’è lo
sviluppo delle discinesie, cioè dei movimenti involontari patologici, mentre in altri
animali questo sviluppo non c’è. Ma qui viene il bello, perché negli animali che non
sviluppano le discinesie, voi potete depotenziare LTP, pertanto fate la stimolazione
a bassa frequenza e LTP non c’è più; mentre invece negli animali che sviluppano le
discinesie da L-DOPA, LTP non la depotenziate più ed aivoglia a stimolare le fibre
a bassa frequenza, LTP è sempre lì E questo fa una grande differenza: significa
che quando si sviluppano le discinesie da L-DOPA, si crea una condizione tale per
cui il potenziamento della sinapsi che si viene a formare non si può depotenziare
più. Quindi, avete queste sinapsi molto più potenti del normale, che quando
programmano un movimento abitudinario, lo lasciano lì programmato, anche se il
movimento diventa afinalistico. E quindi voi fate questi movimenti coreici, questi tics
che non servono a nulla, però continuate ad eseguirli senza problemi, e non c’è
modo di bloccarli, perché non c’è modo assolutamente di creare un
depotenziamento E’ come se si creasse questa memoria indelebile del movimento,
responsabile dell’effetto del priming. Per cui se per esempio voi avete le discinesie
da L-DOPA e decidete improvvisamente di sospendere il trattamento con L-DOPA,
dopo di che un paio di mesi dopo, riprendete a dare L-DOPA al soggetto
parkinsoniano, dicendo: “Ok, non abbiamo più le discinesie perché ovviamente non
c’è più la L-DOPA, però il parkinsoniano ha tutti i problemi motori che ha, a quel
punto, le discinesie ritornano e ritornano subito”. Quindi, evidentemente la memoria
è lì, e poi chiaramente il movimento è supportato dalla dopamina che si forma in
risposta alla L-DOPA. Rimane ovviamente un grande punto interrogativo, perché
viene fuori questa LTP indelebile? A carico ci sono molte considerazioni che qui
possiamo fare ed una delle considerazioni, riguarda il fatto che negli animali che
sviluppano discinesie i recettori D1 stabiliscono un cosiddetto cross-talk, cioè
stabiliscono una forma di dialogo funzionale con i recettori mGlu5 metabotropici del

270
glutammato. Questi recettori mGlu5 sono accoppiati a proteina Gq, il loro compito è
quello di formare IP3 e DAG, come ricorderete dalle nostre discussioni di
farmacodinamica. Al contrario i recettori D1 sono accoppiati a proteina Gs; e
normalmente la segnalazione canonica dei recettori D1 tende ad essere inibita dai
recettori mGlu5, normalmente avviene così. Il meccanismo molecolare è
estremamente complesso e dipende dal fatto che i recettori D1 normalmente
attivano la proteina Gs, si forma cAMP, quando si forma cAMP, viene attivata la
protein chinasi A (PKA). La PKA fosforila una proteina che si chiama DARRP-32 in
una posizione particolare, che è la posizione della treonina 34. Questa DARRP-32
fosforilata in treonina 34 dalla PKA acquista la capacità di inibire le protein
fosfatasi, inibisce soprattutto la protein fosfatasi 1. La protein fosfatasi 1
normalmente leva il fosforo dai substrati della PKA e così attraverso questa
masturbazione senza fine il recettore potenzia sé stesso.
In condizioni normali il recettore mGlu5 cosa fa?
Attraverso alcune protein chinasi intermedie, che sono per esempio CDK5 oppure
la casein chinasi (CSK), il recettore mGlu5 inibisce DARRP-32, o per lo meno
fosforila DARRP-32 in maniera tale da inibire la PKA, perché la fosforila su altri
substrati, come treonina 75 e così via. Quindi, vedete il recettore mGlu5 nei
confronti del recettore D1, si comporta in condizioni fisiologiche da inibitore. Voi a
questo punto mi direte ma che cavolo ci stai raccontando? A cosa serve sapere
tutta questa masturbazione infinita sui vari recettori D1 ed mGlu5, che finalità ha?
Beh lo so e mi dispiace raccontarvi questo, ma c’è un signore che si chiama Paul
Greengard, il quale per questo ha preso il premio Nobel, insieme a Erick Kandel ed
insieme a Carlsson, che è lo scopritore della L-DOPA. Tutti e tre hanno preso il
Nobel, e Paul Greengrad ha preso il Nobel sugli studi su DARRP-32, cioè questa
particolare proteina che quando è fosforilata dalla protein chinasi A potenzia la
segnalazione dell’AMP ciclico. Quando è fosforilata su altri residui, la CDK5 dalla
casein chinasi attivate dal recettore mGlu5 invece, spegne la protein chinasi A e
spegne il segnale dell’AMP ciclico. Questo succede in condizioni normali.
Quando viene fuori LTP patologica, cioè quando viene fuori la base delle discinesie
da L-DOPA, le cose cambiano radicalmente ed è stato pubblicato un lavoro l’anno
scorso su Journal Clinical Investigation (JCI), che è una delle migliori riviste di
investigazione clinica al mondo, riguardo il fatto che i recettori D1 ed i recettori
mGlu5, quando si forma la memoria patologica, formano insieme dei
nanocomplessi. Quindi cambia completamente la struttura di membrana di questi
recettori ed i recettori si uniscono insieme e l’unione di questi recettori è stata
dimostrata con delle metodiche che si si chiamano FRET e BRET.
La FRET e la BRET hanno permesso di dimostrare che i due recettori stanno
insieme e sapete che cosa succede? Il recettore D1 acquista le stesse
caratteristiche di segnalazione del recettore mGlu5; cioè il recettore D1 in queste
circostanze, quando si forma la memoria patologica si accoppia alle proteine Gq ed

271
è in grado di formare IP3, esattamente come fa il recettore mGlu5 collaborando con
il recettore mGlu5.
Quindi che cosa succede nelle discinesie da L-DOPA?
Nelle discinesie da L-DOPA si altera il rapporto il rapporto fisiologico tra recettori
D1 ed i recettori mGlu5, i recettori D1 ed i recettori mGlu5 si “sposano” tra di loro,
come è dimostrato da queste tecniche particolari che si chiamano FRET e BRET,
cominciano a segnalare esattamente allo stesso modo, inducono l’idrolisi dei
fosfatildil inositolo 4-5 bisfosfato con formazione di IP3 e DAG. Tutto questo porta
all’attivazione della via della MAP kinasi che è una via di segnalazione
estremamente importante, che noi abbiamo studiato in rapporto ai recettori
all’insulina ed ad altre cose ed il risultato finale sarà la formazione di questa LTP
patologica, cioè di questa memoria patologica che porta poi all’effetto priming e alle
discinesie da L-DOPA. Quindi, un punto nodale nella formazione dei movimenti
involontari patologici da L-DOPA è questo rapporto tra il recettore mGlu5 ed il
recettore D1 che si viene a creare e che naturalmente offre degli spunti interessanti
di natura terapeutica. Perché se noi per esempio diamo un disaccoppiante, cioè
una proteina che agisce nel punto in cui questi recettori si uniscono e li
disaccoppia, probabilmente così facendo potremmo cercare di risolvere le
discinesie da L-DOPA in maniera abbastanza brillante. Ovviamente, questo ancora
non è stato fatto, però sono stati sviluppati in terapia i cosiddetti NAM dei recettori
mGlu5, che sono i modulatori allosterici negativi di questo recettore, partendo da
questo principio: noi non possiamo dare i bloccanti dei recettori D1, perché se li
diamo peggioriamo il comportamento motorio, i sintomi motori dei pazienti
parkinsoniani. Però possiamo dare i bloccanti dei recettori mGlu5, perché i recettori
mGlu5 contribuiscono all’espressione di questa plasticità nefanda che ci dà i
movimenti involontari patologici da L-DOPA. Nello stesso tempo gli mGlu5 fanno da
contraltare ai recettori D2 nella via indiretta e quindi se noi li blocchiamo
miglioriamo il comportamento motorio. Quindi, i recettori mGlu5 sono dei bersagli
fantastici per il trattamento delle discinesie e sono stati sviluppati alcuni NAM come
per esempio il Mavoglurant, il Dipraglurant ed il Basimglurant. E due di questi NAM
in particolare, il Mavoglurant ed il Dipraglurant sono approdati alla clinica per il
trattamento delle discinesie da L-DOPA. Soprattutto il Mavoglurant ha mostrato dei
risultati molto brillanti sicuramente in due dei tre studi clinici che sono stati portati
avanti. Tuttavia nonostante questo e nonostante l’ottimismo dei neurologi che
avevano partecipato agli studi clinici, la ditta Novartis che produce il Mavoglurant
ha deciso improvvisamente di interrompere lo sviluppo clinico nelle discinesie da L-
DOPA. Non vi so dire il perché, forse perché il Mavoglurant poteva determinare
alterazioni della sfera cognitiva, forse perché i dati dei risultati clinici per lo meno
quelli che non erano svelati alla fine non erano così soddisfacenti da spingere
l’azienda ad impegnarsi in un settore così delicato. Fatto sta che il Mavoglurant è
stato oggi riposizionato ed ora è in sviluppo per il trattamento dell’addiction da

272
cocaina. Quindi il discorso non si è chiuso ed il Mavoglurant è stato riposizionato,
non viene più utilizzato per il trattamento delle discinesie da L-DOPA, ma è stato
riposizionato qui.
Detto questo, cosa potete fare se avete discinesie da Levodopa? Come potete
intervenire? Potreste dare un farmaco che tende a ridurre le discinesie e questo
farmaco è la Clozapina, il migliore negli antipsicotici perché è un farmaco che, per
esempio, nella schizofrenia è di prima linea nei soggetti farmaco resistenti. E’ il
farmaco che ha la migliore risposta nei confronti del suicidio che si associa alla
schizofrenia; ma è un farmaco che ha un profilo di sicurezza non così favorevole
perché può dare neutropenia, miocardite eosinofila, può abbassare le soglie delle
convulsioni, fa ingrassare il paziente al di là di ogni misura, può dare una
salivazione profusa, può creare problemi ai pazienti anziani. Insomma, la Clozapina
potrebbe andar bene come farmaco antidiscinetico, ma fino ad un certo punto.
Nella memoria patologica entrano in gioco i recettori NMDA. Potrebbe essere
un’altra via percorribile quella di bloccare i recettori NMDA. Io non credo
fermamente in questo tipo di intervento, semplicemente perché i recettori NMDA
sono coinvolti nell’induzione della memoria patologica, ma una volta che la
memoria patologica è stata già indotta il problema riguarda l’espressione e non più
l’induzione. Nonostante questo, un farmaco che si chiama Amantadina è l’unico
farmaco con l’assoluta indicazione per le discinesie da Levodopa. Il nome
commerciale di questo farmaco è Mantadan e il farmaco si chiama anche
Adamantadamina per la sua forma icosaedrica che ricorda un diamante. La cosa
caratteristica di questo farmaco è che è anche un antivirale, quindi un farmaco che
è stato soprattutto sviluppato per il trattamento dell’influenza e fa parte dei farmaci
antinfluenzali. Poi da qui è approdato al SNC anche se si usa ancora per il
trattamento delle sindromi influenzali e è un farmaco che si comporta da bloccante
rapido dei recettori NMDA: s’infila nel canale, blocca i recettori però con una
cinetica rapida, agendo in maniera molto simile alla Memantina che in realtà è
stato sviluppato per il trattamento del Parkinson ma invece adesso è stato
riposizionato come uno dei quattro farmaci rimborsati dal Servizio Sanitario
Nazionale per il trattamento della malattia di Alzheimer. Quindi il bloccante rapido
dei recettori NMDA come, per esempio, l’Amantadina ha veramente un’azione sulle
discinesie. Non è un’azione dell’altro mondo però sicuramente un’azione ce l’ha.
L’Amantadina viene somministrata al dosaggio di 100mg bid, in casi limite tre volte
al giorno, quindi un dosaggio totale di 200 mg. Gli effetti avversi possono essere di
natura psicoto-mimetica, tutti i farmaci che bloccano i recettori NMDA possono
alterare la sfera percettiva, chiaramente Amantadina e Memantina lo fanno poco
perché sono dei bloccanti rapidi. Ricordatevi però che ci sono i bloccanti lenti come
Ketamina o PCP o Polvere d’Angelo. In realtà l’Esketamina è stata anche
approvata per il trattamento della depressione farmaco-resistente, ma in quel caso
abbiamo una coorte di pazienti che hanno una qualità della vita molto bassa e dove

273
un trattamento che comporta dei rischi psicoto-mimetici con un po’ di deliri ed
allucinazioni tutto sommato ci sta, perché questi effetti psicoto-mimetici sono
transitori mentre l’effetto antidepressiva è rapida e persiste per un certo periodo di
tempo. Sicuramente però né la Ketamina né la Penciclidina possono essere
utilizzati se non sperimentalmente nell’animale per il trattamento delle discinesie da
Levodopa.
Quindi il messaggio da portare a casa: Mantadan, Amantadina, bloccante rapido
del recettore NMDA è l’unico farmaco oggi con indicazione per la discinesia da
Levodopa.
Effetti avversi: a parte l’azione psicoto-mimetica, c’è la così detta livedo reticularis
che è una forma di eritema a reticolo che si può venire a formare. Ma per il resto il
Mantadan è abbastanza tollerato.
Cos’altro potremmo cercare di dare per controllare le discinesie da Levodopa?
Allora se noi sposiamo l’ipotesi secondo la quale la Levodopa quando i terminali
dopaminergici cominciano a degenerare in maniera massiva, viene captata dai
terminali serotoninergici, ovviamente viene sempre captata dai terminali
serotoninergici ma un conto quando voi avete ancora il 30% dei terminali
dopaminergici che captano Levodopa e la rilasciano e non c’è rapporto tra i
terminali dopaminergici e gli altri terminali monaminergici dello striato, quindi
comunque quella è la dopamina principale che viene rilasciata; quando però la
percentuale di terminali sopravvissuti comincia ad essere del 15-10%, i rapporti
cambiano. I terminali serotoninergici captano la Levodopa la trasformano in
dopamina e avete questo terminale che rilascia sia dopamina che serotonina ma
con i ritmi di scarica di un neurone serotoninergico, quindi ovviamente succede un
casino (cit.). Una cosa abbastanza logica sarebbe quella di cercare di spegnere
questo neurone serotoninergico, utilizzando per esempio agonisti dei recettori 5-
HT1A e in particolare agonisti parziali tipo Buspirone. Questi agonisti parziali sono
ansiolitici non benzodiazepinici e hanno mostrato un certo effetto nei confronti delle
discinesie da Levodopa. L’idea è quella di spegnere il neurone serotoninergico,
questi recettori sono accoppiati a Gi, bloccano il neurone serotoninergico, sono
recettori della serotonina localizzati sullo stesso neurone e così potremmo avere un
effetto. Vi devo dire però che in clinica il Buspirone è utilizzato molto poco.
Quindi siamo in una fase in cui la terapia diventa abbastanza complicata, nel senso
che non potete utilizzare gli antagonisti mgluR5 che secondo me sono dei farmaci
ottimi perché ancora non hanno questo tipo di indicazione, anche se il Dipraglurant
è ancora in sviluppo. Potete tentare di bloccare i recettori NMDA con l’Amantadina,
questo è l’unico farmaco che ha l’indicazione ed amen. Potreste lavorare sul
neurone serotoninergico oppure dare anche degli antagonisti dei recettori 5-HT2A
che possono funzionare post-sinapticamente, ed alla fine la stessa Clozapina è un
potentissimo bloccante del recettore 5-TH2A. Alcuni hanno sviluppato anche gli
antagonisti dei recettori α2 adrenergici, l’Idosaxano, ad esempio. Ma insomma

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nessuna di queste cose si utilizza in clinica. Quindi per essere un pochino più
concreto con voi, una delle possibilità potrebbe essere quella di ridurre il dosaggio
di Levodopa. Se voi riducete il dosaggio, chiaramente diminuite le discinesie; ma
non potete farlo impunemente perché poi vi ritornano i sintomi parkinsoniani. A
meno che non utilizziate quello che era una volta un’ultima risorsa ma che non oggi
non lo è più, ma è un qualcosa che potete fare anche in tempi più precoci che è il
così detto DBS ovvero la stimolazione cerebrale profonda. Questa consiste nel
fatto di posizionare in sedazione profonda combinata con un’anestesia locale due
elettrodi nel nucleo subtalamico di Luys. Ovviamente è un intervento
neurochirurgico che si fa con un casco, che permette il posizionamento esatto degli
elettrodi ed è guidato dalla risonanza magnetica nucleare. Una volta che
posizionate gli elettrodi lì, la discesa degli elettrodi è in anestesia locale perché voi
il dolore lo sentite nello scalpo e nelle meningi, ma all’interno del SNC non ci sono
fibre nervose del dolore. Il paziente deve essere sveglio in questa fase, anche se
inizialmente viene sedato, perché è un paziente che vi deve dire se l’elettrodo è
posizionato bene. Come fa a dirlo? Si possono fare delle stimolazioni ad alta
frequenza del nucleo subtalamico di Luys in quel momento e cercare di migliorare i
sintomi del paziente, quindi vedete che il paziente sta meglio. Perché il nucleo
subtalamico di Luys deve essere stimolato ad alta frequenza se è già iperattivo nel
Parkinson? Perché se voi fate una stimolazione ad alta frequenza, per esempio
una stimolazione a frequenze superiore a 100 Hz, a questo punto desensibilizzate il
nucleo, questa è una stimolazione anomala per cui il nucleo si spegne. Quindi se
vedete che il paziente risponde e va meglio da un punto di vista della
sintomatologia motoria, ben fatto, vuol dire che gli elettrodi stanno dove devono
stare e che voi state inibendo, paradossalmente stimolandolo, il nucleo subtalamico
di Luys, questo vi migliora i sintomi motori e siete in grado di ridurre il dosaggio di
Levodopa, perché ci state pensando con il nucleo di Luys. Attenzione perché una
singola stimolazione non basta; quindi voi dovete collegare gli elettrodi a dei piccoli
cavi che fate passare e fate arrivare sotto la clavicola e a quel punto posizionate in
anestesia totale sotto la clavicola una batteria e questa batteria genera impulsi. Ed
è una batteria che potrebbe essere anche ricaricabile con un dispositivo che potete
applicare sulla superficie della cute e a questo punto ricaricate la batteria. In modo
tale che la batteria continuamente dà impulsi al nucleo subtalamico di Luys, che si
spegne, migliorate i sintomi motori del Parkinson e questo vi permette di ridurre il
dosaggio della Levodopa riducendo le discinesie. Questa stimolazione cerebrale
profonda è oggi oggetto di tutte le evoluzioni del caso, perché per molto tempo la
frequenza utilizzata è stata una frequenza di stimolazione superiore a 100 Hz.
Questo ha un effetto ottimo sui sintomi motori del Parkinson; però non ha effetto nei
confronti dei sintomi assiali, non ha effetto sui disturbi che emergono sul lungo
periodo della parola, di swallowing (difficoltà nell’inghiottire). Per tutte queste cose
funziona meglio la stimolazione a bassa frequenza. Quindi oggi si sta cercando di

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combinare la stimolazione ad alta frequenza e bassa frequenza, per ottimizzare la
stimolazione cerebrale profonda, che ha permesso di ridurre il dosaggio della
Levodopa e così migliorare le discinesie.
Allora cerchiamo di fare un discorso cumulativo per tutto quello che abbiamo detto.
Le discinesie da Levodopa sono una conseguenza della denervazione progressiva
ovviamente in presenza di Levodopa; rispecchiano una plasticità sinaptica mal
adattativa per cui si forma un rinforzo sinaptico che non può più essere indebolito.
Quindi questo rinforzo rimane e la programmazione dei movimenti abitudinari viene
eseguita in eccesso e questo determina le così dette LID cioè discinesie da
Levodopa o movimenti involontari patologici che possono essere movimenti coreici,
ballistici, atetosici, possono essere tics ma ci sono anche le distonie. Queste
discinesie sono di picco, bifasiche o distonie della fase OFF. Nella formazione di
questa memoria patologica dei movimenti si verifica il meccanismo del priming,
cioè se voi sospendete la Levodopa nel momento in cui la rintroducete in terapia
automaticamente ritornano le discinesie. Si viene a creare un meccanismo molto
strano per cui i neuroni della via diretta i recettori D1 e mglu5 si accoppiano, e i
recettori D1 imparano a segnalare in maniera anomala come segnalano i recettori
mglu5, determinando un’attivazione dell’idrolisi dei polifosfoinositili e
secondariamente un’attivazione della MAPK. Come intervenire? L’unico farmaco
approvato è l’Amantadina, bloccante lento dei recettori NMDA (i recettori NMDA
sono coinvolti nell’induzione di questa forma di memoria patologica). I bloccanti dei
recettori mglu5 continuano ad essere per me molto promettenti, ma la Novartis ha
terminato lo sviluppo del Mavoglurant, che è stato invece destinato all’addiction da
cocaina. Una cosa che si può sicuramente fare è utilizzare la stimolazione
cerebrale profonda che determina l’inibizione a lungo termine del nucleo. Questo
migliora considerevolmente il comportamento motorio e permette di ridurre il
dosaggio di Levodopa migliorando le discinesie.
Una volta ad un congresso ho notato due piccole collinette, bozze, sulla testa di un
neurologo che parlava. Ho chiesto e mi hanno detto aveva gli elettrodi della
stimolazione cerebrale profonda, cioè era parkinsoniano e nonostante ciò
perfettamente in grado di gestire la comunicazione ad un congresso, anche se
aveva problemi ad usare l’indicatore. Perché quello è un movimento fine,
complesso; ma era l’unica cosa per la quale aveva bisogno di una hostess, per il
resto del tutto autonomo.

IMAO-B

Gli inibitori delle monoamino ossidasi B. Sono dei farmaci che a seconda della
molecola interessata possono essere somministrati in monoterapia nella fase
iniziale della malattia di Parkinson; ma in alternativa, e questo vale per tutti i
farmaci, possono essere dati in terapia add-on insieme alla Levodopa. E se dati in

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terapia ad on con Levodopa, servono a migliorare le fasi OFF perché potenziano
l’azione della Levodopa. E’ chiaro che in questo caso il rischio è quello di
peggiorare le discinesie. Voi rendete più efficiente la Levodopa un po’ come
facevano i tre inibitori delle COMT, Opicapone Tolcapone ed Entacapone, in questo
caso però come accadeva per gli inibitori delle COMT almeno bisogna valutare il
rischio che vengano peggiorate le discinesie.
Innanzitutto, cosa sono le MAO. Sono le monoamino ossidasi che ossidano le
monoamine come dice il nome, quindi non hanno effetto sulla Levodopa a
differenza delle COMT, perché la Levodopa è un amminoacido non è una
monoamina. Invece le MAO ossidano dopamina, noradrenalina, adrenalina,
serotonina e anche alcune particolari ammine che si chiamano amine-trace e che
sono ammine presenti in piccole quantità che oggi però sono oggetto di studio.
Ci sono due particolari tipi di MAO tutte e due localizzate nei mitocondri. Ad
esempio, sono enzimi che trasformano la dopamina in DOPAC ovvero acido
diidrossifenilacetico. Tuttavia, le MAO si dividono in due grandi gruppi: MAO A e
MAO B. Questo è uno dei capitoli più confusi della neurobiologia delle monoamine,
perché quando cercate di identificare quali sono i substrati della MAO A e della
MAO B si genera una gran confusione perché le cose cambiano a seconda che
andiate a cercare nel ratto, topo, scimmia o l’uomo.
Cercando di mettere un pochino di ordine, le MAO A sono principalmente coinvolte
nel metabolismo di noradrenalina e serotonina. Questo significa che se voi inibite le
MAO A, automaticamente potenziate la trasmissione serotoninergica e
noradrenergica; il che significa che avete degli antidepressivi.
Sono stati prodotti dei farmaci inibitori selettivi delle MAO A che si chiamavano
RIMA, il prototipo era la Moclobemide cioè Aurorix, farmaco che era stato prodotto
dalla Roche da un bravo ricercatore che si chiamava Mosè da Prada, il quale però
era obeso e amante del vino, e purtroppo è morto per complicanze del diabete II.
La Moclobemide era un farmaco abbastanza apprezzato nella terapia della
depressione, ma che poi è uscito dal commercio, ovvero la Roche non ha più
sostenuto lo sviluppo del farmaco.
E’ ancora possibile inibire la MAO A però utilizzando dei bloccanti irreversibili che si
chiamano Tranilcipromina e Fenelzina. Per esempio, la Tranilcipromina è
presente in un farmaco che si chiama Parmodalin, che è sempre più difficile trovare
in farmacia in associazione con la Tricloperazina che è un antipsicotico; la
Fenelzina potete trovarlo ma non facilmente. Questi inibitori irreversibili in realtà
bloccano sia la MAO A che la MAO B però bloccano principalmente la A. Una volta
che bloccano l’enzima dovete aspettare che vi sia un nuovo enzima perché la
catalisi riprenda a funzionare. Il problema, se voi usate la Tranilcipromina e
Fenelzina per il trattamento della depressione, è che la MAO A è coinvolta nel
metabolismo della tiramina che, oltre ad essere un amine-trace, è un’amina che si
forma per decarbossilazione della tirosina la quale si trova nei cibi invecchiati

277
perché le proteine si degradano. I cibi ricchi in tiramina sono quelli più buoni che
esistono per esempio il provolone ragusano, i salumi invecchiati o altre cose del
genere che contengono tanta tiramina. Per cui nel momento in cui siete in terapia
con inibitori della MAO A irreversibili, ci sono importanti restrizioni dietetiche perché
la tiramina potrebbe non essere metabolizzata soprattutto dalle MAO A intestinali,
andare in circolo non essere metabolizzata neanche dalle MAO A del fegato, che
sono tutte irreversibilmente bloccate, e la tiramina si comporta come un derivato
anfetaminico, rilasciando catecolamine dai terminali dell’ortosimpatico. E questo
determina un effetto che si chiama effetto “cheese”, che significa letteralmente
effetto formaggio, con un aumento della pressione arteriosa considerevole che può
portare anche alla rottura di un aneurisma o emorragia cerebrale. Quindi semmai
doveste prescrivere un inibitore irreversibile delle MAO A e B per il trattamento
della depressione, state attenti e attenetevi alle restrizioni dietetiche nei foglietti
illustrativi e che sono anche facilmente esplorabili in tanti siti internet.
La MAO-B è diversa e qui entriamo nel mondo del Parkinson, perché è quella che
principalmente metabolizza la dopamina in DOPAC, quindi se voi bloccate la MAO
B aumentate la dopamina nella fessura sinaptica. Cosa interessante, la MAO B si
trova soprattutto negli astrociti, in realtà si trova anche nei terminali serotoninergici
ma soprattutto negli astrociti, dove la dopamina viene captata dal trasportatore
OCT-3 che non è il classico trasportatore ad alta affinità della dopamina DAT ma è
un trasportatore dei cationi organici. Una volta dentro l’astrocita la MAO B converte
la dopamina in DOPAC; ma in questa conversione forma H2O2 che ovviamente
può diffondere dappertutto e generare i radicali OH, radicali ossidrilici che sono
nemici numero uno delle cellule perché possono creare danno a carico delle
macromolecole come acidi nucleici, glicoproteine, proteine complesse e così via.
Considerate che la MAO B è anche quella che trasforma MPTP in MPP+: quindi nel
meccanismo del Parkinsonismo tossicologico da MPTP, la MAO B ha un ruolo
fondamentale. Sulla scorta di tutte queste osservazioni si è pensato di produrre gli
inibitori selettivi delle MAO B, e gli inibitori si dividono in due categorie:
 inibitori irreversibili che sono due, Selegilina che si chiama anche
Deprenil (in realtà il nome commerciale è Iumez) e Rasagilina, che è quella
che per molti anni il Professor Pontieri ha prediletto e che prende il nome di
Azilect. Questi due farmaci possono essere somministrati nella fase iniziale
della malattia di Parkinson in monoterapia, ma come vi dicevo possono
essere dati anche in terapia add-on (in terapia aggiuntiva con Levodopa) per
cercare di migliorare le fasi OFF, quindi cercare di potenziare l’azione della
Levodopa. Perché la Levodopa nel SNC viene trasformata in dopamina e,
se voi bloccate il catabolismo della dopamina mediato dalle MAO B,
aumenta la quantità di dopamina nella flessura sinaptica e migliorate la
risposta terapeutica. Ovviamente, ancora una volta, dovreste cercare di

278
realizzare che c’è il rischio delle discinesie per il maggior funzionamento
della Levodopa.
 Poi abbiamo un bloccante reversibile, il Safinamide. E’ un farmaco che si
lega alla MAO B, però una volta che va via l’enzima recupera perfettamente;
quindi c’è una grande differenza tra gli irreversibili e reversibili. Tuttavia, lo
studio attento della Safinamide, che si chiama Xadago, ci ha dato delle
indicazioni interessanti. Perché questo è un farmaco multivalente, ovvero
non è soltanto in grado di inibire la MAO B, ma anche di inibire i canali del
sodio voltaggio dipendenti, i VSSC, e anche i VSCC cioè i canali del calcio
voltaggio dipendenti. In realtà inibisce meglio quelli del sodio rispetto a quelli
del calcio ed è un bene perché inibire i canali del calcio vuol dire anche
interferire con le funzioni del cuore e dei vasi. Nel blocco dei canali del sodio
il farmaco si comporta come il Lamictal, la Lamotrigina che abbiamo studiato
insieme ed è in grado di inibire e bloccare il rilascio di glutammato. Quindi il
meccanismo della Safinamide differisce in maniera marcata dall’azione dei
farmaci irreversibili, per il semplice motivo che la Safinamide inibisce la MAO
B selettivamente come gli atri due ma lo fa in maniera reversibile e, oltre a
inibire la MAO B, inibisce i canali del sodio e del calcio voltaggio dipendenti
(questi ultimi in minor misura) e soprattutto inibisce il rilascio di glutammato.
Queste sono azioni importanti che possono contribuire all’azione terapeutica
del farmaco nei confronti del Parkinson; e oltre a questo, se considerate che
la plasticità mal adattativa che porta alle discinesie da Levodopa dipende
dall’azione del glutammato sui recettori NMDA e mglu5, è ovvio che inibire il
rilascio di glutammato potrebbe migliorare le discinesie. Questo farmaco non
è stato sviluppato in monoterapia, è stato sviluppato esclusivamente in
terapia add-on insieme alla Levodopa per cercare di migliorare le fasi OFF.
Come vedete un aspetto importante della farmacologia del SNC è il
posizionamento terapeutico che dipende sì dal meccanismo d’azione dei
farmaci e dai risultati degli studi clinici, ma primariamente dall’ottica di
mercato dell’azienda farmaceutica che produce quel farmaco. Molte volte un
farmaco lo pensate attivo nei confronti di una particolare patologia o stadio
della patologia, però l’azienda decide di posizionarlo in altra maniera. Ad
esempio, la Memantina nella malattia di Alzheimer ha tutti i requisiti per
agire nelle forme lievi di malattia di Alzheimer, però quando è uscita era
posizionata esclusivamente nelle forme moderate con il mini mental score
che andava da 20 a 10. E questo per il semplice motivo che gli inibitori delle
colinesterasi erano già posizionati nelle forme lievi e la Memantina non
voleva fare concorrenza agli inibitori delle colinesterasi in quella forma di
malattia di Alzheimer, ma soltanto nelle forme moderate. Quindi era stata
una scelta strategica dell’azienda; così come una scelta strategica
dell’azienda che produce la Safinamide, che è la Zambon, è stata quella di

279
lanciare il farmaco per il trattamento delle fasi OFF nelle fluttuazioni da
Levodopa, ma non utilizzarlo in monoterapia come invece è il caso della
Selegilina e Rasagilina

SELEGILINA: si chiama anche Deprenil. Questo farmaco si è mostrato utile in


monoterapia nelle forme iniziali di malattia di Parkinson con uno studio che si
chiama DATATOP nel quale la Selegilina è stata paragonata alla vitamina E. Lo
studio, che è ormai retrodatato, ha dimostrato che il trattamento con Selegilina era
in grado di posticipare l’esordio della terapia con Levodopa. Si dà al dosaggio di
10mg/die, normalmente si dà bid, metabolizzato da CYP2B6 primariamente ma
anche dal CYP2A6 e da CYP3A4. Ricordatevi che del CYP2B6 ci sono delle
varianti, soprattutto *5 e *6 *18 che sono le varianti lente, e in particolare la variante
6 è frequente negli africani e afroamericani. Esistono anche le varianti 4 e 22 che
sono ultrarapide. La cosa interessante è che il Deprenil viene metabolizzato
producendo metamfetamina e poi, come metabolita secondario, anfetamina.
Questo ovviamente crea di problemi perché si tratta di sostanze tossiche per i
terminali, anche se si formano in piccola quantità. Però ha anche un piccolo
vantaggio, perché il Deprenil è stato sviluppato inizialmente come farmaco
antidepressivo e sicuramente l’azione antidepressiva dipende molto dall’azione
delle anfetamine e metamfetamine che sono psicostimolanti. E quindi è ovvio
tendano a migliorare il tono dell’umore, anche se non hanno alcuna applicazione
clinica da questo punto di vista.
Racconto una storiella: tanti anni fa insegnavo a Perugia e mi venne chiesta una
consulenza poi non concretizzatasi per il pugile Rosi, che aveva combattuto a
Perugia per il titolo per la cintura (non ricordo se dei pesi welter o medi). Aveva
combattuto contro un americano cento volte più forte di lui, ma aveva resistito e il
verdetto finale era stato di parità, perciò aveva conservato la cintura del campione
del mondo. In realtà all’antidoping gli hanno trovato dei dati anfetaminici nel sangue
e venne squalificato. Lui si difese dicendo che il neurologo gli aveva prescritto la
Selegilina come sostanza neuroprotettiva, perché la MAO B genera specie reattive
dell’ossigeno, per resistere alle specie reattive dell’ossigeno formate dai traumi
cranici. E questa fu la sua linea difensiva, che però non venne accolta dal comitato
antidoping, per cui fu squalificato. Però è interessante che la Selegilina o Deprenil
sia in grado di produrre questo.

RASAGILINA: somministrata al dosaggio di 1-2 mg/die. E’ anche questo un


inibitore irreversibile selettivo per le monoamino ossidasi di tipo B. Viene
metabolizzata dal CYP1A2, lo stesso che metabolizza Clozapina, Olanzapina,
Imipramina, etc. Il CYP1A2 ha diverse varianti polimorfiche, che però non sono
molto importanti, quindi ce ne freghiamo. Ma ricordate che il CYP1A2 può essere
indotto dal fumo di sigaretta, perché indotto dagli idrocarburi policiclici, come tutti i

280
CYP1. Viene indotto anche da tre inibitori di pompa PPI, in particolare Omeprazolo,
Esomeprazolo e Lansoprazolo; quindi massima attenzione quando sono combinati
con Rasagilina, perché il suo metabolismo viene accelerato. Ed infine il CYP1A2
viene inibito dalla Fluvoxamina, antidepressivo che a volte potrebbe esser presente
nel trattamento della malattia di Parkinson (ricordate che Parkinson e depressione
molto spesso viaggiano insieme). E il CYP1A2 viene anche inibito da alcuni
fluorochinoloni, come il Ciproxin, comunissimo nelle donne con cistite, ma anche
per le polmoniti da Pseudomonas.
Farmaco che esercita un’attività abbastanza brillante nel Parkinson; usato in
monoterapia e terapia aggiuntiva per migliorare le fasi off. Sono stati documentati
alcuni casi della cosiddetta “Sindrome di Pisa”, sindrome distonica in cui il tronco
dell’individuo è spostato su un lato, come la Torre di Pisa. E ci sono stati alcuni casi
in letteratura con la Rasagilina.
La Rasagilina è un farmaco interessante perché ha sollevato il problema di
carattere generale che è quello “gli inibitori delle MAO B sono in grado di esercitare
protezione?”. Ricordate che la MAO B genera ROS; se la blocchiamo, non soltanto
inibite il metabolismo della dopamina, ma impedireste anche la formazione di ROS
e quindi proteggereste. Diversi studi hanno affrontato il tema, specie uno
famosissimo nella farmacologia del Parkinson, che è lo studio ADAGIO. Gli studi
della Rasagilina sono tutti studi di tempo musicale: sono lo studio TEMPO,
ADAGIO, LARGO, etc. Lo studio Adagio utilizza un diegno sperimentale che si
chiama disegno del wash in. E’ uno studio su 1176 pazienti divisi in due gruppi: uno
trattato con Rasagilina, anzi la Rasagilina viene data o al dosaggio di 1 mg o 2
mg/die e questo è trattato per 72 settimane. Poi un secondo gruppo di pazienti
viene trattato per 36 settimane con placebo e poi per le seconde 36 settimane con
Rasagilina (ad 1-2 mg). Se confrontate i gruppi di pazienti trattati per tutte le
settimane con Rasagilina, e quelli trattati con placebo per metà e per metà con
Rasagilina, se al termine del trattamento nelle 72 settimane vedete che, valutando
l’UPDRS, avete dei risultati più brillanti nel gruppo trattato per 72 settimane con
Rasagilina rispetto a quelli trattati solo nelle ultime 36 settimane con Rasagilina,
significa che il farmaco ha protetto. Ovvero nelle prime 36 settimane il farmaco ha
fatto qualcosa. E in effetti l’UPDRS peggiorava di meno nei pazienti trattati per tutte
le 72 settimane con Rasagilina rispetto a quelli trattati con Rasagilina soltanto nelle
ultime 36 settimane. E da qui è venuto fuori il discorso sul farmaco neuroprotettivo
che rallenta la progressione di malattia; quindi trattando per 72 settimane il
paziente le cose vanno meglio rispetto a quelli trattati soltanto nelle ultime 36
settimane. Ma questo studio è stato enormemente criticato, anche dal professor
Pontieri. Il motivo è che innanzitutto le differenze con l’UPDRS sono soltanto di 1 o
2 punti, cosa minima. E oltretutto si è verificato che la Rasagilina mostrava questo
effetto “protettivo” al dosaggio di 1 mg ma non di 2 mg. Altra critica è stata che lo
studio offriva una valutazione longitudinale dei sintomi motori con l’UPDRS, e

281
l’UPDRS perde di obiettività quando lo stesso paziente riceve le scale di
valutazione più volte durante lo stesso trattamento. Dunque da questo studio non si
può concludere che la Rasagilina fosse in grado di proteggere dalla malattia di
Parkinson, rallentando la progressione. Nonostante ciò, se dovete scegliere un
farmaco per cercare di rallentare la progressione, sicuramente un inibitore delle
MAO B soddisfa questi requisiti. Considerate inoltre che tutti gli inibitori delle MAO
B sono in grado d’indurre sia il GDNF che il BDNF, fattore neurotrofico il primo della
linea gliale e il secondo di derivazione cerebrale. Sono fattori che funzionano in
modo diverso: il BDNF è simile al NGF, mentre il GDNF ha un meccanismo del
tutto diverso, ma è noto per la sua capacità di proteggere i neuroni della pars
compatta della sostanza nera e i motoneuroni, infatti ha implicazioni future nel
trattamento sperimentale della Sclerosi Laterale Amiotrofica. Questo fanno gli
inibitori delle MAO B.

SAFINAMIDE: Inibitore reversibile della MAO B e dei canali del sodio e del calcio
voltaggio dipendenti (di questi ultimi in minor misura) ed inibisce anche il
glutammato. Si dà una volta al dì, 50 o 100 mg; si dà una volta al giorno perché
l’emivita, cioè il T/2, è di 20-24 h. Emivita molto più lunga degli inibitori irreversibili:
Rasagilina e Selegilina sono irreversibili e, una volta bloccata la MAO, questa lo
rimane per moltissimo tempo. Qui invece l’inibizione dura per la durata del farmaco.
Non è un farmaco metabolizzato dal citocromo p450, quindi non si presta a
problemi di interazioni farmacocinetiche o variazioni della risposta viste nel caso dei
precedenti inibitori.
Qui si ha l’inibizione del rilascio di glutammato: il farmaco è indicato esclusivamente
in terapia aggiuntiva nei confronti della Levodopa. Il rischio delle discinesie con
Safinamide è minimo: pur aumentando i livelli di dopamina, perché è un inibitore
delle MAO di tipo B e ciò favorirebbe le discinesie, inibisce il rilascio di glutammato,
che significa anche togliere substrato alla memoria patologica che induce le LID.
Inoltre, per l’inibizione del rilascio di glutammato, che per altro si vede al dosaggio
di 100 mg/die ma si vede meno a quello di 50 mg/die, il farmaco potrebbe avere
attività anche nei confronti del dolore, che si associa a malattia di Parkinson, è un
dolore neuropatico, e anche qui c’è una memoria patologica sostenuta dal
glutammato. E poi potrebbe averne nei confronti anche della depressione in
relazione al Parkinson, ci sono antidepressivi che agiscono bloccando la
trasmissione glutammatergica, in primis l’Esketamina. Quindi questo potrebbe
essere interessante anche per i sintomi non motori associati alla malattia di
Parkinson.

282
D2 AGONISTI

I farmaci D2 agonisti sono molto efficaci nella malattia di Parkinson. Spesso i


neurologi cominciano trattando coi dopamino agonisti, per poi approdare
successivamente alla Levodopa. Il professor Pontieri precedentemente ci ha
ricordato che l’insorgenza di fluttuazioni e di discinesie coi dopamino agonisti è
meno frequente di quanto non avvenga con la Levodopa, ma non è esclusa.
Fluttuazioni e discinesie possono insorgere, ma insorgono con tempistiche più
lente. Quindi i dopamino agonisti da questo punto di vista sono più tollerati. Tuttavia
hanno una serie di talloni di Achille.
Si dividono in due grandi categorie:
 ERGOT DERIVATI, cioè i derivati della segale cornuta, che derivano dagli
alcaloidi che si trovano nello sclerozio del fungo Claviceps Purpurea, che
contamina le graminacee ed è stato all’origine dell’ergotismo nel periodo
medioevale. Partendo da molecole come ergotamina, sono state costruite
diverse molecole di sintesi, alcune ancora usate ma molto poco in Italia nel
trattamento della malattia di Parkinson. Una di queste molecole è il Lisuride
(Dopergin) che non credo sia più in commercio anche se ancora presente in
scheda tecnica; dove s’inizia il trattamento con 0,1 mg per arrivare a 0,6 mg
eseguendo questa escalation nell’arco di 7 settimane. Lisuride è
metabolizzato dal CYP2D6 e dal CYP3A4; non è un loro inibitore. Tutti questi
farmaci attivano marcatamente i recettori D3 della dopamina con maggior
affinità rispetto ai D2, ed hanno anche ottima affinità verso i D4 e affinità
molto maggiore che nei confronti dei D1. L’azione terapeutica è mediata
principalmente attraverso i recettori D2.
La Lisuride è anche agonista parziale dei recettori 5HT1A; ma soprattutto tutti
gli ergot interagiscono coi 5HT2B, cosa molto importante perché i 5HT2B
sono localizzati nei fibroblasti. E nel momento in cui i recettori 5HT2B sono
attivati, formano TGFβ e formare TGFβ nei fibroblasti significa creare
promesse per una fibrosi, che può essere polmonare, valvolare, specie
valvole mitraliche e tricuspidi, e una fibrosi retroperitoneale. La fibrosi è un
evento raro, quasi inesistente, perché è vero che il farmaco ha un’ ottima
affinità nei confronti dei 5HT2B, però non ha efficacia intrinseca contro il
recettore 5HT2B, quindi non c’è fibrosi per la Lisuride.
La fibrosi si può avere invece con un altro ergot che è la Pergolide, potente
attivatore dei recettori D3 e D2, ma anche agonista dei recettori 5HT2B,
quindi da questi stimola la produzione di TGFβ, dando fibrosi.
Si fa anche qui titolazione, cominciando con 0, 5 mg/die per arrivare a 1,5
mg/die. E’ metabolizzato dal CYP3A4 ed è un inibitore abbastanza potente
del CYP2D6 e del CYP3A4. Non c’è alcun motivo alla fine di usare la
Pergolide, perché offre solo svantaggi: può indurre fibrosi valvolare cardiaca,

283
inibisce i CYP.
L’ergot più efficace in assoluto è la Cabergolina, che sotto il nome di
Dostinex è il farmaco di prima linea nel trattamento dell’iperprolattinemia,
dove si usa a dosaggi molto bassi (1-2 mg per settimana). Nel caso del
Parkinson, invece, si usa a dosaggio di 0,5-1 mg/die, anche a dosaggi più alti
è stato usato e il nome commerciale qui è Cabaser. Il problema è che la
Cabergolina si comporta da potente agonista dei recettori 5HT2B, che
significa che vi fa correre il rischio massimo di fibrosi (soprattutto fibrosi
valvolare). Era in teoria uno dei farmaci più efficaci nel trattamento della
malattia del Parkinson, tra l’altro non metabolizzato dai CYP, quindi non c’è
problema di interazione farmacocinetica; ma il rischio di fibrosi è molto
elevato.
L’ultimo farmaco è il prototipo del gruppo e prende il nome di Bromocriptina
(Parlodel). Si inizia con 2,5 mg al giorno dati soprattutto la sera e poi si sale a
10-15 mg/die come massimo dosaggio. La Bromocriptina ha una bassa
biodisponibilità; viene metabolizzata principalmente da CYP3A4 ed è un
inibitore del CYP1A2 e del CYP3A4. Non induce fibrosi: ha affinità per il
5HT2B ma la fibrosi è rara perché non ha efficacia intrinseca verso questo
recettore.
 FARMACI NON ERGOT, che sono assolutamente specifici per i recettori
dopaminergici. Sono tutti potentissimi agonisti dei recettori D2, D3, verso
questi ultimi hanno efficacia maggiore, qualche volta anche nei confronti dei
recettori D4. Agiscono quasi niente verso i D1. Quali sono?
Innanzitutto il Pramipexolo (Mirapexin) somministrato tre volte al giorno al
dosaggio inziale di 0,088 mg x 3. Quindi si arriva ad un totale giornaliero di
circa 0,26 mg. Poi il dosaggio cresce e si arriva a 0,35 mg x 3 per un
dosaggio di 1,1 mg complessivi al giorno. Vantaggio è che non è
metabolizzato dal CYP3A4.
L’altro si chiama Ropinirolo (Requip), questo farmaco esiste come il
precedente in formulazioni a rilascio prolungato (si dà sempre per os ma è
rilasciato gradualmente). S’inizia con 2 mg/die (singola somministrazione
essendo a rilascio prolungato) e si va avanti fino a 4-8 mg (fino a 12-24 mg in
alcuni casi).

Racconto di una paziente visitata da mio padre, parkinsoniana in terapia con 250
mg di Levodopa al giorno, 100 mg di Xadago e 8 mg di Ropinirolo. Era perfetta,
cioè non aveva assolutamente nulla, se non delle lesioni alla risonanza, come dei
piccoli aneurismi, probabilmente per un parkinsonismo vascolare. Non so dire se
avesse questa ottima performance motoria perché in trattamento o perché avevano
esagerato leggermente con le dosi. Cosa interessante è che aveva la Levodopa a
dosaggio basso, Ropinirolo a dosaggio non così basso e Xadago.

284
Pramipexolo e Ropinirolo sono anche i farmaci usati come in prima linea nel
trattamento della “restless leg syndrome”. La sindrome delle gambe senza riposo
ha una prevalenza del 15% nella popolazione.
E’ una sindrome che normalmente si diagnostica nella terza decade di vita, ma può
iniziare molto prima, soprattutto nelle cosiddette forme primarie, le quali hanno
sicuramente una componente genetica. Esistono però anche delle forme
secondarie, cioè ci sono delle condizioni che possono favorire l’insorgenza della
sindrome delle gambe senza riposo: la gravidanza,, dove si arriva anche a stime
del 30% con questa sindrome; l’insufficienza renale, il diabete, e una serie di
patologie neurologiche.
In primis c’è un bisogno assoluto di muovere le gambe, che si ha soprattutto
durante il sonno. C’è una caratteristica fluttuazione di questo bisogno di muovere le
gambe, sensazione spiacevole.
In secundis questo bisogno di muovere le gambe si ha principalmente a riposo, per
questo prevale di notte.
Numero tre: il bisogno di muovere le gambe si riduce con l’attività.
Privilegia il sesso femminile, quindi il rapporto femmine – maschi è di 2:1. C’è una
genetica ancora non così chiara, ma chiarita di più col Gwas (Genome Wide
Association Studies). Ci sono i seguenti geni che sono stati chiamati in causa come
geni primari: uno si chiama MEIS1, poi si ha BTBD9 e MAP2K5. Il MEIS1 è un
fattore di trascrizione, è un gene homeobox che induce un altro gene detto PAX6,
importante per lo sviluppo di diverse cellule, coinvolto anche nell’ematologia e
associato allo sviluppo della leucemia mieloide. BTBD9 è un gene coinvolto nello
sviluppo degli arti nella Drosophila Melanogaster. MAP2K5 codifica per la proteina
chinasi MAPKK5, una delle varie forme della via della MAPK; ciò significa che
all’origine della sindrome delle gambe senza riposo, specie quando primaria, cioè
non legata a gravidanza, insufficienza renale o diabete, c’è qualcosa nel
neurosviluppo che la causa. Gli studi di neurogenetica hanno permesso
d’individuare altri geni, come ADH1b o ADH2, che non c’entra nulla con l’ormone
antidiuretico, ma è una variante dell’alcol deidrogenasi. Variante formata o da due
subunità β o da una subunità β e una subunità γ. Ed è qui che c’è la variante β2
con la mutazione H47R, che hanno i Giapponesi che metabolizzano più
velocemente l’alcol però poi hanno un’acetaldeide deidrogenasi difettiva, quindi
l’acetaldeide si accumula dando quelle classiche manifestazioni che hanno cinesi e
giapponesi quando tracannano in maniera eccessiva. E’ stato chiamato in causa
anche il gene che codifica per nNOS, la variante neuronale della sintasi del
monossido d’azoto radicale. E infine c’è il gene del recettore della vitamina D, i cui
polimorfismi sono stati anche legati alla sindrome delle gambe senza riposo.
Come farmaci di prima linea si usano: Pramipexolo, Ropinirolo, ma in alternativa
anche Gabapentina e Pregabalin, i due antiepilettici anche farmaci di prima linea
nel trattamento del dolore neuropatico. Nel caso del Mirapexin e Ropinirolo, questi

285
danno buoni effetti per la durata di circa 6 mesi – 1 anno; tuttavia la cosa
interessante è che si può verificare un effetto paradosso, cioè un’esacerbazione
paradossa dei sintomi della sindrome delle gambe senza riposo.
Io questo l’ho avuto con la moglie di un amico col quale giocavo a tennis, affetta da
questa sindrome. Le ho consigliato il Mirapexin, è stata meglio, ma dopo qualche
mese le cose sono precipitate improvvisamente rendendo la vita un inferno e quindi
ho suggerito il Ropinirolo. Così ha fatto, ma anche qui c’è stata una durata per un
certo periodo, poi le cose non hanno più funzionato a dovere. Un’alternativa poteva
essere Pregabalin e Gabapentina, che non erano state assunte per altri motivi.
Questi sono i primi due farmaci non ergot, usati nel trattamento della malattia di
Parkinson; considerate che il Pramipexolo è anche un ottimo farmaco
antidepressivo. Ma non si usa nel trattamento della depressione maggiore, ma in
quello della depressione associata a malattia di Parkinson.

Terzo farmaco non ergot usato è la Rotigotina (Neupro) data sotto forma di cerotto
transdermico. S’inizia con 2 mg e si arriva fino agli 8 mg. Questo farmaco ha avuto
una storia curiosa: quando è entrato in commercio, ci furono problemi per la
formazione di grumi nel cerotto. Poi la cosa si è risolta in maniera brillante, la
formulazione è stata rifatta, perché nel frattempo il farmaco è stato sospeso dalla
FDA. Il cerotto ha la comodità di applicazione; tuttavia è un po’ meno efficace
rispetto a Mirapexin e Ropinirolo, che si assumono oralmente.

286
LEZIONE 10 GIUGNO 2021

Con la discussione dell'ultima lezione abbiamo terminato i farmaci


antiparkinsoniani, ma per la verità c'è un altro dopaminomimetico di cui dobbiamo
parlare ovvero l'APOMORFINA (è un non-ergot). Può essere somministrata tramite
iniezione sottocutanea e questo serve esclusivamente per le fasi off, per risolverle
con una certa velocità. O in alternativa potete utilizzare le pompe ad infusione
continua soprattutto durante le ore di veglia (durante le ore notturne invece
l'attivazione sarebbe eccessiva).
Questa somministrazione serve a mantenere stabili i livelli del farmaco, che è un
potente agonista dei recettori D2 e nonostante il nome (che deriva dal fatto che
incorpora una parte della molecola della morfina) non ha assolutamente niente in
comune con la Morfina (non ha infatti azione su recettori oppioidi). Oltre ad attivare
i recettori D2 attiva anche D3, D4 e in maniera minore anche D1 (nella
sperimentazione animale ha uso per attivare i recettori D2, come del resto fa la
Bromocriptina).
L'Apomorfina viene metabolizzata dalle COMT e questo diventa rilevante nel
momento in cui il paziente è in terapia con degli inibitori delle COMT, che hanno
prevalentemente un'azione periferica ad eccezione del Tolcapone che agisce anche
a livello centrale (sembra essere il farmaco migliore, sebbene abbia un grande
problema di epatotossicità a seconda di come è montato). Quindi, somministrando
inibitori delle COMT, inibite il metabolismo dell’Apomorfina causandone l'accumulo.
Il problema principale della somministrazione di Apomorfina è il vomito (che è un
effetto avverso comune anche agli altri dopaminomimetici) e che deriva dal fatto
che i D2 si trovano anche nella regione CTZ (chemoreceptor triggering zone,
ovvero la zona “grilletto” del vomito) del tronco encefalico, una regione al di fuori
della BEE che quindi non rappresenta per questa regione un impedimento.
L’Apomorfina è uno dei farmaci emetici più potenti e dunque scatena il vomito nel
momento in cui vengono attivati i D2. Per questo dovete fare una premedicazione
con Domperidone che è un buon antiemetico, un antagonista dei D2 che però non
attraversa la BEE e agisce sui D2 perché i recettori sullo stomaco e nella CTZ non
hanno barriera, ma non antagonizza l'azione antiparkinsoniana di Levodopa e
Apomorfina.
Vorrei sottolineare gli effetti avversi dei dopaminomimetici, che ricordano quelli
della Levodopa con delle differenze:
• sono farmaci che possono dare fluttuazioni e discinesie, ma lo fanno con
delle tempistiche molto diverse, essendo più tardivi e in generale meno
frequenti rispetto a quello che vediamo per la Levodopa.
• hanno azione psicotomimetica, che è una caratteristica in generale di tutti i
dopaminergici, anche della Levodopa. E infatti quando annoveriamo tra i
sintomi tardivi del Parkinson le psicosi, le allucinazioni, non possiamo mai
essere certi di quanto siano una conseguenza della patologia e quanto
possano essere una conseguenza dei farmaci. La Memantina, che in
passato veniva usata per trattare il Parkinson in combinazione coi
dopaminomimetici, poteva dare segni di psicosi.
• sonnolenza, tipica di questa sostanza; bisogna fare attenzione al
parkinsoniano quando guida e fa uso di questi farmaci.

287
• alterato controllo della sfera degli impulsi: va informata la famiglia, perché
può venir fuori il cosiddetto gambling patologico.
Aneddoto: il prof Pontieri raccontava di aver avuto in terapia un paziente in
trattamento con farmaci dopamino agonisti. Ha acquistato tantissime
schedine di gratta e vinci e aveva perso anche il controllo nel grattare: ovvero
spendeva una fortuna in gratta e vinci e poi nemmeno controllava se avesse
vinto o perso. Si sfocia quindi nel gesto compulsivo. Questi pazienti possono
darsi anche ad esempio al poker online e rovinare la famiglia.
• ipersessualità: l'Apomorfina viene anche utilizzata per migliorare la funzione
erettile (presa per os e quindi assorbita attraverso le mucose), anche se
ormai con gli inibitori della fosfodiesterasi 5 non c’è più partita. Ma si
accorsero ad esempio che con Apomorfina spesso i pazienti disturbavano le
infermiere nei reparti, e quindi collegato con il discorso del mancato controllo
della sfera degli impulsi c'è che hanno un drive sessuale molto alto.
L'apomorfina è anche in grado di indurre la produzione di ossitocina, ormone
antistress che aumenta il bonding, cioè il legame tra esseri umani
(stranamente quest’ormone aumenta anche quando un individuo ferisce un
altro, ad esempio nel caso madre-figlio). Comunque l’ossitocina ha un
rapporto diretto con la funzione erettile.
• esiste anche un’altra manifestazione compulsiva che si chiama pudding,
ovvero pazienti che montano e smontano diverse volte il motore dell’auto,
senza che vi sia un senso.
• ipotensione, che dipende dall'attivazione dei recettori D1 (nella tonaca
muscolare dei vasi) e D2 (nei terminali ortosimpatici)

288
MALATTIA DI ALZHEIMER

Passiamo a parlare di Alzheimer, che è uno dei temi più gettonati negli ultimi anni
nell'ambito della ricerca della neurobiologia ed è incredibile il numero di soldi che
sono stati spesi negli ultimi 30 anni per la ricerca della MA rispetto ai risultati che
abbiamo ottenuto, che sono invece modestissimi. Non sono modestissimi quelli
ottenuti nell'ambito delle scoperte della fisiopatologia per cui ora abbiamo molte più
informazioni (anche se manca un’ipotesi unitaria come spiegazione della malattia).
Ma il vero tallone d'Achille è la terapia, che infatti è costituita esclusivamente da 4
farmaci approvati dal SNN; tre di questi sono inibitori delle Colinesterasi e uno di
questi è la Memantina, che invece è un inibitore lento del canale ionico associato ai
recettori NMDA.
La grande novità è arrivata il 7 Giugno di questo anno, cioè lunedì, quando l'FDA
ha approvato l'ADECANUMAB che è un anticorpo monoclonale diretto contro la
sostanza amiloide. Il prof, nonostante abbia rapporti con la casa farmaceutica
produttrice dell’Adecanumab ovvero la Biogen, non sa se approvare la scelta di
mettere in commercio questo farmaco. Questo in quanto sono stati eseguiti due
studi di fase 3 con quest’anticorpo chiamati studi Engage ed Emerge, che hanno
portato alla sospensione nello sviluppo dei trial nel Marzo del 2019 per futilità,
ovvero in sostanza non si erano raggiunti gli endpoint primari dello studio.
Senonché, quando sono poi stati aggiunti dei nuovi casi alla casistica preesistente,
uno dei due studi, l’Emerge, ha raggiunto la significatività statistica e per questo la
Biogen ha presentato nuovamente il dossier alla FDA. Nonostante questo, quando
l’FDA si trova davanti due studi di fase 3 con risultati contrastanti riguardo
l’efficacia, può anche decidere di approvare il farmaco, ma solo se l’effetto si rivela
consistente. Invece lo studio che raggiungeva la significatività statistica, lo studio
Emerge, facendo una valutazione con un parametro CDR-SB (che è un valore di
malattia clinica, che letteralmente sta per “Clinical Disease Rate Sum of Boxes”),
l'effetto del farmaco era del 22%, ovvero un miglioramento del parametro di soli
0.39 punti, mentre tipicamente l'FDA dovrebbe approvare un farmaco rispetto ad un
altro, quando tra i due il miglioramento è nell'ordine di 1-2 punti di differenza. E
quindi l'approvazione di questo farmaco è stata per il prof totalmente inaspettata,
visto che tra l'altro gli Ab monoclonali possono dare una serie di effetti avversi
anche molto gravi. Quindi nonostante sia il primo farmaco patogenetico della
malattia, perché va ad attaccare il primum movens della malattia, ovvero la
sostanza amiloide. Questo però potrebbe creare, secondo Nicoletti, un effetto
domino: così come è successo per l’Adecanumab, potrebbero passare tanti
anticorpi contro l’amiloide a carico del SSN con degli effetti clinici veramente
minimi. Ma questo farmaco è da ritenere certamente un breakthrough,
un’innovazione, nella speranza che possano esserci ulteriori innovazioni.

La malattia di Alzheimer (MA) è la più frequente forma di DEMENZA PRIMARIA,


ovvero un deterioramento della sfera cognitiva in almeno due domini e del
pensiero; la MA può essere preceduta da una forma lieve che prende il nome di
MCI (mild cognitive impairment, che sta per “compromissione cognitiva lieve”).
L'MCI tende ad evolvere nella malattia di Alzheimer soprattutto nella sua variante
amnestica, cioè nella variante con perdita della memoria. Ma per definizione nella

289
MCI è necessario che le attività della vita quotidiana siano risparmiate a differenza
di quanto succede invece nell'Alzheimer dove sono compromesse. L’MCI è quindi
un prodromo ed è interessante vi sia la definizione di un prodromo nella MA: se
avete un MCI, l’Alzheimer si chiama “prodromal” o incipiente, ovvero “che sta per
venire fuori”, sebbene in alcuni casi le MCI possano regredire e non evolvere nella
MA con recupero della sfera cognitiva. Però con un MCI amnestico c'è un 10-15%
di conversione ogni anno che dobbiamo aspettarci.
Il motivo per cui vi sottolineo questo discorso sul MCI riguarda il concetto della
diagnosi precoce della malattia; infatti probabilmente il motivo per cui le terapie
sperimentali dell'Alzheimer hanno fallito risiede nel fatto che la degenerazione
cerebrale inizia circa 20 anni prima rispetto all’esordio della malattia. Esordio
questo che spesso non è chiaro, perché può essere occultato dalla riserva
sinaptica: ad esempio, per fare una diagnosi di MA su una persona molto brillante,
questa deve avere una degenerazione molto spinta, perché la sua riserva sinaptica
è colossale. Quindi una persona con un ottimo eloquio, brillante nel pensiero e
nelle relazioni sociali, può degenerare, ma prima di raggiungere la soglia per la MA
ne corre. Magari lui ha 20-30 anni di sinaptopatie, di degenerazione, ma grazie alla
sua riserva sinaptica non si fa diagnosi se non si raggiunge un determinato livello.
Quindi la diagnosi dovrebbe anche tener conto di quello che l’individuo era prima e
di quello che è diventato dopo, anche se quello che diventa dopo è comunque
abbastanza simile ad una persona normale.
Nell' Alzheimer sono colpite soprattutto le regioni del rinencefalo e della corteccia
temporale, e questa malattia poi tende ad evolvere verso la corteccia cerebrale.
La malattia è caratterizzata da:
• perdita della memoria, soprattutto quella a breve termine
• perdita dell'orientamento spaziale, che è inizialmente extra moenia, ovvero il
paziente esce di casa e poi fatica a ritrovare la sua abitazione e infatti
possono utilizzare dei passepartout, dei foglietti di carta dove scrivono il loro
indirizzo e poi si fano aiutare dalle persone che incontrano a ritrovare la via.
Con il passare del tempo la perdita di orientamento diventa anche
intramoenia, cioè anche all’interno delle mura di casa.

Per quanto riguarda la memoria bisogna operare una differenza di base,


innanzitutto tra apprendimento e memoria.
Per apprendimento s’intende una fase di acquisizione di ciò che poi viene
memorizzato e la forma più chiara di apprendimento è l’apprendimento associativo,
dove noi apprendiamo qualcosa perché c'è uno stimolo non condizionato che
permette l'apprendimento di uno stimolo condizionato. Ovvero l'apprendimento è a
condizione che ci sia una secondo stimolo che offre delle caratteristiche affinché
l'apprendimento si inneschi. L’apprendimento dipende criticamente dai recettori
NMDA e dai meccanismi di plasticità sinaptica attività dipendenti, quali LTP ed LTD.
Poi c’è la memoria, che è la capacità di riconoscere e rievocare. Si divide in quella
a breve termine e a lungo termine. La memoria a breve termine viene persa per
prima nella malattia di Alzheimer. C’è una legge detta legge Di Ribot, secondo la
quale si perdono per primi i ricordi più recenti e poi mano mano si procede a ritroso
coi ricordi più lontani. Ma questo è abbastanza ovvio, perché le memorie più
antiche sono le memorie più consolidate e fanno parte delle memorie

290
autobiografiche che quindi tendono a rimanere nel tempo.
La memoria a lungo termine, che quindi si perde con il procedimento retrogrado, si
divide a sua volta in due grandi parti: la memoria dichiarativa e la memoria
procedurale.
1. La memoria procedurale è abbastanza conservata nella MA, perché è una
memoria delle procedure del tempo. Le procedure del tempo sono
memorizzate sia per intervento del cervelletto grazie alle cellule di Purkinje e
anche ad opera dei gangli della base. Il cervelletto è largamente conservato
nella MA, quindi la memoria delle procedure motorie in genere non viene
compromessa; cioè il paziente al limite riesce ad abbottonare una camicia o
compiere movimenti semplici, ad eccezione delle fasi terminali di malattia.
2. La memoria dichiarativa, invece, è quella maggiormente colpita nella malattia
e si divide in: memoria episodica e memoria semantica.
a) La memoria episodica è quella collegata a degli elementi
contestuali: ad esempio un individuo che vede un incidente stradale
e lo associa ad un albero in particolare, ogni volta che passerà di lì
e vedrà l'albero, ricorderà che c’è stato quell'incidente stradale.
Ovvero l'elemento spaziale albero diventa lo stimolo condizionato
che ha permesso di apprende l'episodio. E' questa una memoria
tipicamente ippocampale, zona molto coinvolta nell'Alzheimer dove
vengono colpiti in particolare gli interneuroni inibitori, che sono una
minoranza dei neuroni sia corticali che ippocampali (sono circa il
15%), ma hanno una importanza fondamentale nelle attività di
network, ovvero regolano la frequenza di scarica delle cellule
ippocampali. Ricordate questo perché sarà rilevante nel momento in
cui parleremo della terapia.
b) La memoria semantica ha sempre una componente corticale,
perché voi dovete memorizzare gli eventi, le immagini e i suoni
vengono decodificati dalla componente corticale, ognuno
ovviamene con le proprie funzioni. Quindi, quando avete una
memoria episodica, vengono potenziate le sinapsi sia
nell’ippocampo che nella corteccia cerebrale. Man mano che passa
il tempo tuttavia la corteccia cerebrale estrae la struttura statistica
della memoria, mentre l'ippocampo, invece, tende a perderla.
Esempio che faccio sempre: Parigi è la capitale della Francia e tutti
voi lo sapete; però nessuno di voi ricorderà in quale momento
esatto della vostra vita avete appreso questa nozione. Perché
inizialmente era una memoria episodica, magari guardando il
mappamondo o l'Atlante avete localizzato la Francia e Parigi al suo
interno, e utilizzando dei parametri spaziali avete memorizzato la
nozione “Parigi capitale francese” e la corteccia lo ha fissato. Ma
con l'andare avanti del tempo il potenziamento sinaptico è rimasto
localizzato esclusivamente a livello della corteccia, mentre quello a
livello dell'ippocampo è sparito. E infatti non c'è nessuna ragione
per cui l'ippocampo debba ricordare la contestualizzazione “Parigi
capitale della Francia”, e si offre per un altro tipo di apprendimento,
cioè come se si ricaricasse un po'.

291
C'è un'eccezione a questa regola, ed è quando la memoria
episodica ha una componente autobiografica, perché per esempio
se vostro padre vi prendeva a pedate perché non volevate studiare
che Parigi era la capitale della Francia, voi ricorderete per sempre
questo episodio che permane a vita nell’ippocampo. Mentre il
concetto in sé “Parigi è la capitale della Francia” rimane un classico
esempio di memoria semantica, quindi la memoria dei significati che
forma la nostra cultura.

Quindi queste particolari funzioni nella fase iniziale di MA sono compromesse.


Man mano che la malattia va avanti vengono coinvolte sempre di più le funzioni
cognitive superiori e il paziente può presentare afasia sensoriale, ovvero non riesce
a progettare il linguaggio e quindi automaticamente diventa afasico dopo un po' di
tempo.
Il paziente sviluppa poi aprassia, cioè incapacità di compiere dei movimenti
finalizzati e agnosia, ovvero incapacità di riconoscere gli oggetti.
La morte sopraggiunge in questa malattia in un arco temporale che va dai 5 ai 12
anni, anche se in media paliamo di 7 anni. Quando il paziente non è più in grado di
fare niente solitamente diventa allettato, si sviluppano infezioni opportunistiche e
spesso va incontro ad una polmonite.

VARIANTI ATIPICHE DELLA MALATTIA

Ci sono delle varianti atipiche di Alzheimer che vanno tenute in debita


considerazione, come la variante con atrofia corticale posteriore, ovvero viene
colpito prevalentemente il lobo occipitale. Ed ovviamente in questo caso c'è una
compromissione delle proprietà visuospaziali ed in genere si tende a dire che
questa variante atipica ha delle caratteristiche un po' più benigne rispetto alla
variante classica temporale, ippocampale ed entorinale della MA.
A volte invece c'è una variante logopenica, e qui la diagnosi differenziale può
essere complicata. Questo perché le alterazioni del linguaggio - ché poi si hanno
anche nella malattia tipica dove man mano si sviluppa afasia sensoriale - negli
stadi primari si verificano più frequentemente nelle degenerazioni lobari
frontotemporali, cioè quella serie di patologie che includono malattie come la
paralisi sopranucleare progressiva, la degenerazione corticobasale, la demenza di
Pick, l’FTTD, ma anche un grande ombrello che include demenza frontale,
parkinsonismi, Sclerosi Laterale Amiotrofica.
La variante di Alzheimer in questione però è caratterizzata da una logopenia
disfluente, in cui viene compromessa l’affluenza verbale ed anche il cosiddetto
word search, cioè la capacità di trovare le parole, ma anche quella di ripeterle.
Esiste poi una variante comportamentale disesecutiva, come se fosse una forma
frontale, pur rimanendo sempre nel contesto della malattia di Alzheimer. E qui il
segno principale osservato è l'apatia, sintomo con diverse diramazione e difficile da
quantificare. Per apatia, s’intende che l'individuo non ingaggia delle azioni
volontarie create da se stesso, quindi è un individuo per definizione apatico. In
queste forme comportamentali disesecutive può esservi iperoralità, cioè soggetti
queruli che parlano profusamente; oppure possono esserci delle manifestazioni di

292
ripetitività comportamentale e così via.
Questa manifestazione ci fa pensare ad una patologia più frontale, quindi una
degenerazione lobare frontotemporale; il che ci fa capire come a volte il limite di
demarcazione tra le varie patologie neurologiche possa essere molto sfumato.

PARAMETRI STATISTICI

Negli USA abbiamo circa 5,8 per milione di soggetti malati di Alzheimer.
L’incidenza, che è il numero di casi per anno, per tutte le demenze è di 10-15 su
1000 per anno; se guardiamo l’Alzheimer siamo sui 5-8 per 1000, ovvero la fa da
padrone nella statistica delle demenze.
Fondamentale è il rapporto con l'età, nel senso che prima dei 65 anni è molto raro
trovarlo, anche se non impossibile perché esistono delle forme genetiche
autosomiche dominanti monogeniche con penetranza completa e qui la demenza
può venire fuori anche a 35 – 40 anni.
Ciò nonostante, prendendo in considerazione la fascia di età che va dai 65 ai 74
anni, avete una stima dell’1,6% come prevalenza. Se poi salite oltre i 75 anni, ogni
5 anni che passano, l’incidenza raddoppia, per cui riuscite anche ad arrivare a
stime del 42% della popolazione, quando si superano per esempio i 90 anni di età.
Ché poi è una età questa in cui di per sé un po' di demenza quasi tutti la
sviluppano; ancora una volta dipende molto dalla riserva sinaptica, ovvero da quei
serbatoi di conoscenza propri di tutti gli individui.
Quale è la differenza tra i gruppi etnici? Non ci sono grandissime differenze; se
però guardate gli USA, gli afroamericani hanno il 13,8% sopra i 65 anni; gli ispanici
il 12,2% e i caucasici di razza bianca hanno il 10,3%. Mentre in Giappone
l’Alzheimer è meno frequente. Nei soggetti over 80 c'è prevalenza nel sesso
femminile, sebbene non sia una differenza molto netta.
In Italia non ci sono delle grandi differenze tra le diverse regioni, nonostante il
Veneto abbia la minore incidenza e la Liguria la maggiore. Però ho trovato stime su
poche regioni, quindi ad esempio non ho dati riguardo alla Sicilia. Esistono al
momento circa 600.000 casi in Italia di MA.

FATTORI DI RISCHIO

Detto questo la domanda è: esistono fattori di rischio?


Intanto sicuramente va detto che esiste una GENETICA, questo perché vi sono i
cosiddetti casi di MA monogenica. In secondo luogo, ci sono anche dei fattori di
rischio, rappresentati da: traumi, che devono essere acuti; se sono invece traumi
ripetuti, questi danno più frequentemente una degenerazione lobare
frontotemporale con manifestazioni comportamentali. Ad esempio, nel film Zona
d’ombra i giocatori di football americano, che erano sottoposti a traumi cranici
ripetuti, poi manifestavano disturbi comportamentali e suicidio.
Mentre invece per esempio, un grave incidente stradale con trauma cranico e il
soggetto che rimane in coma è un fattore di rischio un pochino più consistente di
malattia d’Alzheimer.
Poi c’è un fattore di rischio assolutamente chiaro che, a parte l’età, è il fattore di
rischio primario della malattia che è dato dall’ ApoE4 (Apolipoproteina E4) che si

293
distingue dall’ApoE2 e ApoE3. La differenza sta in due posizioni di amminoacidi:
112 e 158. Nel caso dell’ApoE2 avete cisteina sia in 112 che 158, in ApoE3 avete
cisteina in 112 e arginina in 158, in ApoE4 avete arginina in 112 e 158. L’apoE4 è
un fattore di rischio di grandissima importanza, pensate che se avete una
condizione di eterozigosi (per esempio ApoE3 e 4) voi avete 3-4 volte il rischio di
sviluppare Alzheimer. Se invece avete un’omozigosi (quindi 4-4) la probabilità è
circa 10-12 volte. Quindi questo è veramente un rischio codificato. Vedremo
perché, ma ve lo anticipo, l’ApoE4 facilita sia la formazione di aggregati di amiloide,
riduce la clearance dell’amiloide, nello stesso tempo facilita l’aggregazione della
proteina τ e facilita i meccanismi di neuroinfiammazione che contribuiscono alla
malattia di Alzheimer, così come contribuiscono a tutte le patologie degenerative
del sistema nervoso. Che l’ApoE4 sia un fattore di rischio diventa determinante per
il semplice motivo che oggi si tende a far partire gli studi più precocemente
possibile per valutare eventuali farmaci neuroprotettivi e vengono reclutati dai
pazienti che ancora sono largamente asintomatici, ma presentano un genotipo
ApoE4 – 4 e quindi sono tra virgolette predisposti a sviluppare la malattia.
Poi per carità almeno un 50% dei malati non hanno la ApoE4, quindi non è che
ApoE4 = Alzheimer, ma questo sicuramente aumenta il rischio di ammalarsi.
ApoE4 fa parte delle LDL che sono delle proteine che veicolano il colesterolo, ed è
abbondantemente presente nel fegato e nel SNC.
Un altro problema che può legarsi alla predisposizione della malattia ed è l'ultimo
esempio che vi faccio, poi andiamo direttamente a parlare della patogenesi
molecolare, è la riserva sinaptica, cioè la nostra capacità di elaborare informazioni
e comunicarle al mondo esterno sulla base di ciò che abbiamo memorizzato
nella nostra vita. Il che significa che abbiamo tante sinapsi sulle quali poter lavorare
(ricordatevi che abbiamo 86 miliardi di neuroni e di questi ognuno comunica con
100mila neuroni vicini, quindi la quantità delle sinapsi è quasi illimitata).
Detto questo però c'è uno studio che correla la malattia alla riserva sinaptica molto
noto, che si chiama “Nun study”, ovvero lo studio delle suore. In pratica si tratta di
suore di clausura dell'ordine di Notre dame, che nonostante si chiami ordine così
non è nato in realtà a Parigi, ma in Germania e poi naturalmente si è diffuso e ci
sono queste monache di clausura presenti in Canada presenti negli Stati Uniti. E
queste sono di clausura, quindi sono molto ristrette dal punto di vista ambientale e
comunicano esclusivamente tra di loro, non uscendo mai dal convento; quindi
insomma rappresentano una popolazione estremamente omogenea che può offrirsi
allo studio delle demenze. Un neurologo di nome Snowdown negli Stati Uniti ha
deciso di studiare queste suore e ha visto una cosa molto interessante e lo studio è
stato fatto con cinismo, cioè anche dopo morte, cioè dopo si prendevano i cervelli
di queste suore per fare diagnosi di certezza di malattia di Alzheimer. Perché ora la
diagnosi si può fare con molti strumenti anche utilizzando la PET, facendo delle
misurazioni del liquido cefalorachidiano, però insomma quando è iniziato lo studio

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molti di questi strumenti non erano presenti quindi la diagnosi di certezza si faceva
poi all'autopsia. Lui si è accorto che si ammalavano con alta frequenza di
Alzheimer, alta frequenza significa fino al 80% o qualcosa del genere, quelle suore
che al momento della domanda di noviziato avevano fatto tanti errori di ortografia e
di sintassi nella lettera che loro avevano mandato al convento. Mentre invece le
suore più forbite, quindi quelle che, quando avevano 20 - 25 anni facevano delle
domande molto ricche dal punto di vista sintattico e da un punto di vista
grammaticale, avevano una percentuale minima di sviluppo della malattia di
Alzheimer, al massimo il 10% quando morivano avevano sviluppato la malattia. E
questo rinforza l'idea della riserva sinaptica, cioè maggiore è la vostra cultura,
maggiore il vostro impegno mentale e più siete protetti nei confronti della demenza.
Bisogna analizzarlo con attenzione questo studio, perché non è così scontato come
possa sembrare: nel momento in cui voi attivate i circuiti cerebrali, potreste
teoricamente usurarli nel tempo e quindi io mi sarei aspettato il contrario, cioè che
le persone che usano maggiormente il loro cervello, magari da un punto di vista dei
sintomi sono protetti dalla malattia, perché prima di fare una diagnosi di malattia
dovete veramente attendere del tempo. Però poi quando muoiono e voi fate un’
analisi istopatologica o citopatologica nel SNC, vedete tanta degenerazione perché
i circuiti sono stati utilizzati e usurati tanto. Invece non era così, ovvero la riserva
sinaptica dava protezione, perché c'è produzione di fattori neurotrofici associati alla
plasticità sinaptica, probabilmente è questo o vi possono essere anche delle altre
ragioni; però lo studio Nun, ci dà questo tipo di informazione: maggiore è la riserva
sinaptica, più si è protetti dalla malattia di Alzheimer.

Una demenza simil Alzheimer è presente, come forse ricorderete, anche negli
aborigeni Chamorro delle isole di Guam e Rota del Pacifico occidentale esposti ad
una tossina che si chiama BMAA presente nella Cycas Circinalis che noi abbiamo
già studiato nella malattia di Parkinson. Quella è una patologia complessa,
dominata dalla SLA insieme al parkinsonismo e demenza simile all'Alzheimer. Però
attenzione, quel tipo di demenza è una demenza senza placche amiloidi, quindi
anche se si chiama SLA-Parkinson-demenza non può essere assolutamente
assimilato alla malattia di Alzheimer.

FISIOPATOLOGIA

Andiamo adesso al molecolare. Innanzitutto, che cos'è la malattia di Alzheimer: è


un’amiloidosi cerebrale, potete anche chiamarla beta-fibrillosi se vi fa piacere, ma
il termine corretto è amiloidosi cerebrale. Il che significa che nella malattia di
Alzheimer c'è deposizione di sostanza amiloide all'interno del sistema nervoso
centrale. Per definizione, la sostanza amiloide viene colorata dal Rosso Congo e
dalla Tioflavina S. Queste sono le colorazioni dell'amiloide, quindi quando vuoi fate
diagnosi di Alzheimer e ricorrente al neuropatologo o anatomopatologo, loro vi

295
fanno questo tipo di colorazione per visualizzare gli aggregati di sostanza amiloide.
Ci sono altre forme di demenza in cui non c'è necessariamente amiloidosi, così
come ci può essere amiloidosi in forme di demenza che non sono Alzheimer. Un
esempio per tutti è la Malattia da prioni, ad esempio nella Creutzfeldt-Jacob voi
potete vedere accumuli di sostanza amiloide.

Oltre a questa sostanza amiloide che voi trovate depositata extracellularmente, c'è
un'altra cosa che potete visualizzare quando aprite un cervello di un paziente
affetto da malattia di Alzheimer e questo è la formazione di aggregati di una
particolare proteina, che si chiama proteina Tau; gli aggregati vengono chiamati
grovigli o gomitoli neurofibrillari. Gli studiosi della malattia di Alzheimer si sono
divisi tra quelli che erano fautori dell'amiloidosi e quelli che invece erano fautori
della formazione di grovigli neurofibrillari come elemento chiave nella patofisiologia
della malattia. Quindi si sono creati due fronti: i cosiddetti Baptisti, fautori
dell'amiloidosi semplicemente perché la sostanza amiloide che si accumula deriva
dal peptide beta amiloide, ma è chiamato in inglese Bap, quindi i Baptisti sono
quelli che fanno risalire la malattia di Alzheimer alla sostanza amiloide che deriva
da questo particolare peptide che prende il nome di peptide beta-amiloide, un
peptide formato da 42 aminoacidi (quindi peptide 1-42). Ai Baptisti si
contrapponevano i Tauisti, che invece dicevano che le placche amiloidi che si
formano nella malattia di Alzheimer sono un epifenomeno che con la patogenesi
non c'entrano niente ed in realtà quello che è importante nella malattia è la
formazione degli aggregati di proteina τ. Tutto sommato i Tauisti non avevano tanto
torto, per il semplice motivo che è solo quando si formano gli aggregati di proteina
τ, cioè i grovigli neurofibrillari, che vengono fuori i sintomi della malattia. Questo
accade soprattutto quando gli aggregati di proteina τ, che originariamente si
trovano nella corteccia entorinale, si trasferiscono e vanno a finire anche nelle altre
zone corticali. Questo è il momento in cui si comincia ad apprezzare a visualizzare
la disfunzione cognitiva. Allora i Tauisti hanno detto “non parliamo di amiloide qua,
che ce ne frega dell'amiloide, l’amiloide si deposita anche nel cervello di soggetti
normali, depositi di amiloide voi potete vederli sotto forma di placche diffuse anche
nel cervelletto, che non è una regione coinvolta nella malattia, quindi che cosa
c'entra?” Mentre invece nel momento in cui si formano i gomitoli neurofibrillari, che
sono prevalentemente intracellulari a differenza dei depositi di beta amiloide che
sono prevalentemente extracellulari, vengono fuori i sintomi discognitivi della
malattia, vi ripeto ancora una volta, nel momento in cui gli aggregati di proteina τ
cominciano a muoversi da una determinata sede dove sono lì prima primariamente
che è la corteccia entorinale molto vicina all'ippocampo e all’amigdala e da lì poi si
spostano nelle altre zone della corteccia cerebrale.
Tuttavia ci sono due evidenze che indicano invece che i Tauisti avevano torto e che
quindi la malattia di Alzheimer, nonostante sia anche un taupatia perché alla fine la
proteina τ è alterata, si stacca dai microtubuli e forma questi aggregati particolari

296
che appunto si chiamano grovigli o gomitoli neurofibrillari, nonostante questo la
malattia di Alzheimer non può essere ricondotta ad un difetto primario della
proteina τ. Le evidenze sono fondamentalmente le seguenti: non esistono
mutazioni della proteina Tau che sono responsabili della malattia di Alzheimer. Le
mutazioni della proteina τ le troviamo nelle forme di degenerazione lobare
frontotemporale, nelle demenze frontali, in alcune forme in cui la demenza frontale
si associa a malattia di Parkinson; le abbiamo già viste queste cose, ma mai nella
malattia di Alzheimer. Mentre invece le principali mutazioni della malattia di
Alzheimer interessano il peptide beta amiloide, che è il peptide che forma la
sostanza amiloide e i suoi depositi, quindi questa è la prima evidenza assoluta.
La cosa fondamentale è la genetica, la genetica molecolare ci dice che la malattia
di Alzheimer è un’amiloidosi. Adesso vi dico chi ha maggiormente contribuito alla
genetica molecolare. Quindi questa è la prima l'evidenza, la più importante.
Poi la seconda evidenza viene dagli studi preclinici e anche dalle cellule in coltura,
perché oggi le cellule in coltura possono essere preparate da cellule umane, cioè
voi potete prendere le cosiddette cellule progenitrici staminali che vengono
indifferenziate, sono le cosiddette IPSC, e una volta che vengono indifferenziate voi
le fate differenziare come volete voi, quindi per esempio le potete trasformare nei
neuroni in coltura. Qual è il vantaggio, che sono cellule umane che voi potete
prendere tranquillamente dal sangue, dal midollo osseo di pazienti e quindi potete
prendere da pazienti che hanno l'Alzheimer, pazienti che hanno mutazioni e cose di
questo genere. Allora per farla breve, se voi prendete cellule che hanno mutazioni
della proteina Tau si formano i grovigli neurofibrillari, ma non si formano depositi
amiloidi. Se invece prendete delle cellule che hanno delle mutazioni tipiche di
quelle dell'amiloidosi della malattia di Alzheimer si formano i depositi amiloidi e si
formano anche i grovigli neurofibrillari. Allo stesso modo, se prendete del tessuto
cerebrale di topi dove ci sono i grovigli neurofibrillari e li iniettate in determinati topi,
questi topi riceventi avranno i grovigli neurofibrillari ma non avranno nessun
deposito di amiloide. Mentre invece, se prendete degli aggregati di amiloide e li
iniettate in topi riceventi, questi svilupperanno aggregati della sostanza amiloide e
anche grovigli o gomitoli neurofibrillari. Quindi che l’alterazione della proteina τ sia
importante non ci piove, anzi quando si formano questi aggregati vengono fuori i
sintomi discognitivi, però gli studi di genetica molecolare indicano in maniera
chiarissima che la malattia di Alzheimer è un’amiloidosi. Chi ha maggiormente
contribuito a questi studi: un inglese che si chiama Hardy, un americano che si
chiama Saint George-Hylop e poi un’italiana che si chiama Amalia Bruni,
professoressa che lavora in Calabria che ha passato diverso tempo da St. George-
Hylop e un’italiana, Amalia Bruni. La Bruni, che lavora in Calabria, ha passato
diverso tempo da St. George Hylop e fondamentalmente lei ha contribuito ad
individuare alcune delle mutazioni più importanti che sono associate alla malattia di
Alzheimer.

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Allora, chi è il principale del protagonista di questi depositi di sostanza amiloide?
Un particolare peptide che si chiama peptide beta-amiloide 1-42, cioè un
peptide formato da 42 aminoacidi. Stiamo attenti, questo peptide è il prodotto
fisiologicamente da tutti noi, però in piccole quantità, quindi normalmente non si
aggrega. Vedremo in quali circostanze può aggregarsi.
Come tutti i peptidi che si rispettino, il peptide Beta amiloide 142 deriva da un
precursore che si chiama APP, che letteralmente significa proteina precursore
dell’amiloide. Esistono tantissime varianti di splicing della APP il cui gene si trova
nel cromosoma 21, vedremo che questo è interessante perché ci crea un legame
tra la sindrome di Down, dove ci può essere duplicazione del cromosoma 21 o di
alcuni tratti del cromosoma 21, e la malattia di Alzheimer. Esistono diverse
isoforme della APP che vengono generate per splicing alternativo, quindi la APP
può avere per esempio 695 aminoacidi, le isoforme sono 695, 751 e 770.
Ci si è interrogati su quale sia la funzione di questo APP, ma non è molto chiaro.
La APP è una proteina transmembrana; la forma lunga della APP, quella che
comprende 770 aminoacidi, ha una sequenza di un inibitore delle proteasi tipo
Kunitz; quindi una delle ipotesi che è stata formulata tantissimi anni fa è stata
che possa servire ad impedire l'attacco delle proteasi che arrivano dal plasma nei
confronti del SNC, ma è un'ipotesi che non ha avuto grande follow up. Fatto sta che
questa particolare proteina può essere tagliata in alcuni punti e ci sono tre principali
enzimi che operano questo taglio e si chiamano:

• Alfa secretasi
• Beta secretasi (anche chiamata BACE-1)
• Gamma secretasi, che è veramente un enzima molto particolare per delle
ragioni che adesso vi dirò.

Allora, perché si formi il peptide Beta amiloide 1-42 devono intervenire in sequenza
la beta e la gamma secretasi. Se invece interviene l'alfa secretasi, l’alfa
secretasi taglia il peptide, l’APP, in un punto che preclude la formazione del peptide
beta-amiloide. E allora per molto tempo si è detto che l’alfa secretasi è l’enzima
buono perché impedisce la formazione del peptide beta amiloide, a differenza della
beta secretasi che invece è l'enzima cattivo. La gamma secretasi agisce in una
maniera un pochettino diversa.
Cosa fa BACE-1, cioè cosa fa questa beta secretasi di tipo 1? Dico tipo 1, perché
esiste anche una base di tipo 2. Questa taglia in corrispondenza dell'aminoacido
672 della APP, tenendo la numerazione della APP 770, e questo taglio forma la
porzione n-terminale del peptide beta-amiloide 1-42. Viene fuori un segmento che
si chiama C99. Se invece interviene l’alfa secretasi che taglia più in basso, si
chiama C83 ed è un frammento che non può mai in generale il peptide beta-
amiloide, per il semplice motivo che una porzione n-terminale del peptide beta-
amiloide, se interviene l’alfa-secretasi, non c’è più, perché questa taglia più in

298
basso. Una volta che si forma la parte n-terminale del peptide beta amiloide, che si
forma subito all'esterno della membrana plasmatica, è importante però tagliare
l’APP nella porzione C-terminale del peptide Beta amiloide, e per fare questo deve
intervenire la gamma secretasi. Cosa interessante, perché la Gamma secretasi è
un enzima che deve operare all’interno della membrana ed è difficile fare un’idrolisi
all’interno della membrana, per il semplice motivo che per definizione l’idrolisi
richiede molecole d’acqua, ma queste ultime sono quasi assenti nella parte interna
della membrana (trovate fosfolipidi, colesterolo). Quindi è chiaro che sia necessario
un enzima molto specializzato, che sia in grado di idrolizzare anche in un ambiente
in cui c’è pochissima acqua. Questo enzima si chiama appunto gamma secretasi
ed è formato da diverse proteine. Le proteine importanti sono PS1 e PS2 (PS1 è
più importante) e si chiamano “preseniline”. Sono fondamentali perché le forme
monogeniche di malattia di Alzheimer, in realtà dipendono soprattutto da mutazioni
delle preseniline. Pensate che ci sono 228 mutazioni di PS1 e solo 10 mutazioni di
PS2, questi dati sono stati aggiornati rispetto alle ultime versioni delle vostre
dispense precedenti.
La gamma secretasi però non ha soltanto le preseniline, per esempio ha la
cosiddetta PEN che sarebbe letteralmente un enhancer, un amplificatore
dell’azione delle preseniline; ha un’altra proteina che si chiama APH e si divide in
APH-A e APH-B/C, poi ha un’ultima proteina che si chiama nicastrina, una
proteina che deriva dalla città di Nicastro della Calabria perché è stata identificata lì
e Amalia Bruni, non solo ha contribuito ad identificare le preseniline insieme a St.
George-Hylop ma, sempre lavorando con lui, ha portato all'identificazione e alla
caratterizzazione della nicastrina.
Quindi, messaggio da portare a casa: le gamma secretasi sono in realtà enzimi
composti formati dalle preseniline 1 e 2, da un accompagnatore Pen o enhancer,
dall’APH e dalla proteina nicastrina.

Allora la gamma secretasi, a differenza della beta secretasi, è un enzima


promiscuo, cioè nel momento in cui taglia all'interno della membrana e forma la
parte C-terminale del peptide beta-amiloide, può formare un peptide che ha 38
aminoacidi, può formare un peptide che ha 40 amminoacidi o formare un peptide
che ha 42 aminoacidi o che ne ha 43. I peptidi prevalenti sono quello che ha 40
aminoacidi e quello che ha 42 aminoacidi. La regola è questa: più lungo il peptide
è, maggiore è la probabilità statistica che il peptide possa aggregarsi. Questo è
importante dal punto di vista terapeutico, anche se le terapie come vi dicevo non
hanno portato a niente, perché voi potreste non solo bloccare la gamma secretasi
bloccando qualunque produzione di questi peptidi, ma bloccando anche altri peptidi
che dipendono da questi enzimi, però potreste anche modulare l'attività della
gamma secretasi. Cioè far sì che la gamma secretasi produca dei peptidi più corti
anziché più lunghi e, quando parleremo tra poco della terapia sperimentale, faremo

299
riferimento specifico anche ai modulatori dell'attività della gamma secretasi, non
soltanto agli inibitori di questa.

Come vi dicevo, il peptide beta-amiloide si forma per azione congiunta della beta
secretasi e della gamma secretasi; se l’alfa secretasi interviene, il peptide beta
amiloide non si può formare per il semplice motivo che i primi peptidi e i primi
amminoacidi N-terminali del peptide sono stati tagliati dall’alfa secretasi e quindi
non c’è possibilità di vedere nulla.

Allora, quand’è che il peptide beta amiloide si aggrega? Dove si aggrega? Quale
sarà poi il suo destino?

Si può aggregare:

• se si forma in eccesso, questo può avvenire se il suo gene viene espresso


maggiormente, quindi questa è la prima possibilità.
• Cosa più importante, è che questo può avvenire se è ridotta la clearance,
perché il peptide beta amiloide è in grado di lasciare il SNC interagendo con
la proteina LRP, che è la proteina correlata al recettore per LDL (in
particolare LRP-1). LRP-1 si trova in prossimità dei siti di clearance del SNC
e interagendo con questa proteina il peptide beta amiloide può passare nel
sangue. Dal sangue può ritornare nel SNC attraverso un altro recettore, che
si chiama RAGE, recettore per i prodotti avanzati di glicazione proteica, che
sono quelli che si formano per la cronaca nel diabete di tipo 2. Questo fatto
della riduzione della clearance è fondamentale perché fino a qualche tempo
fa si pensava che il SNC dipendesse esclusivamente dalla barriera
ematoencefalica ed ematoliquorale, che sono ovviamente barriere dotate di
grande selettività, e che non esistesse alcun sistema linfatico all'interno del
sistema nervoso centrale. Questo è stato completamente sconfessato oggi,
perché il sistema il sistema linfatico in realtà si trova in corrispondenza delle
meningi ed è un sistema che può drenare. Ma c’è un altro sistema che è
stato chiamato “glinfatico” perché coinvolge la glia in maniera diretta e
decorre negli spazi perivascolari, cioè intorno ai vasi che penetrano nel
parenchima cerebrale. È un sistema che può favorire lo scambio di sostanze
che si trovano nel SNC con quelle che si trovano nei vasi, e viceversa.
Questo sistema glinfatico funziona molto bene durante il sonno e qui nasce
un rapporto molto importante tra il sonno e la malattia di Alzheimer: se un
individuo perde sonno ripetutamente, come tra l’altro succede a me, è a
rischio per sviluppare accumuli di sostanza amiloide. E questo avviene
perché è durante il sonno che il sistema glinfatico facilita la clearance del
peptide beta-amiloide, mentre se c’è perdita di sonno, il peptide può rimanere
nel SNC e ha più difficoltà a fuoriuscire e passare nel sangue e questo può
favorire la produzione di aggregati.

300
Un’altra cosa che può condizionare il sistema glinfatico, è il gradiente di
pressione e a questo punto devo dirvi qualcosa di abbastanza interessante
che si riferisce ad una patologia che abbiamo studiato insieme, che si chiama
Glaucoma. Questo, come ricorderete, è una patologia caratterizzata dalla
degenerazione delle cellule dello strato ganglionare della retina, quindi
fondamentalmente una neuropatia ottica perché queste sono le cellule che
formano gli assoni del nervo ottico, in cui la pressione oculare insieme all'età
rappresentano i principali fattori di rischio. Il Glaucoma è una patologia
amiloidotica. Non soltanto questo, ma chi forma i depositi dell’amiloide nel
glaucoma è il peptide beta amiloide 1-42, cioè lo stesso che forma i depositi
nella malattia di Alzheimer. Tra le altre cose, l'amiloidosi prodotta da questo
peptide non è esclusiva del glaucoma, ma si verifica anche per esempio nella
degenerazione maculare retinica senile. Per quale motivo si accumula il
peptide beta-amiloide e forma depositi nel glaucoma? Probabilmente dipende
da un gradiente di pressione che si viene a generare tra la pressione
endoculare e la pressione intracranica a livello della cosiddetta lamina
cribrosa (che non è la lamina cribrosa dell’etmoide, ma è quella zona in cui il
nervo ottico fuoriesce dal bulbo oculare). E, se si crea pressione in quella
zona, il peptide beta amiloide che si forma per esempio nella retina, non può
più essere rimosso, non può più passare nel sangue perché il sistema
glinfatico viene compromesso nella sua funzione e quindi si formano i
depositi beta amiloidi anche lì. È stato dimostrato un rapporto causale tra
degenerazione del nervo ottico, cioè delle cellule ganglionari della retina, e
depositi di sostanza amiloide, quindi è molto interessante considerare il
glaucoma come una patologia amiloidotica, alla stregua della malattia di
Alzheimer. Ed è anche vero che nell’Alzheimer i depositi di beta amiloide si
formano molto precocemente nella retina; quindi esiste veramente tanto in
comune tra queste due patologie e sono guarda caso entrambe patologie
amiloidotiche legate all'età.
• Un'altra cosa che può determinare un aumento di peptide beta amiloide e
può determinare un aumento di depositi di amiloide è data per esempio dal
metabolismo del peptide. Il metabolismo del peptide avviene ad opera di un
enzima che si chiama IDE, si chiama Ide perché è quello che degrada
l'insulina, quindi è curioso che il peptide beta-amiloide viene metabolizzato
dallo stesso enzima che degrada l’insulina. E questo ci fa pensare un'altra
cosa: se voi avete una condizione di iperinsulinismo, come per esempio il
diabete di tipo 2, la maggiore quantità di insulina che è presente può
competere con l’IDE e a questo punto il peptide beta amiloide viene
metabolizzato molto meno e ci sono maggiori possibilità che si formino
depositi nel SNC.

301
[ Riassumo: è possibile che il peptide beta amiloide venga prodotto maggiormente,
qui però dovete avere una copia addizionale del gene, come avviene per esempio
nei pazienti affetti da Sindrome di Down; è possibile che ci sia una ridotta clearance
del peptide, per esempio attraverso il sistema glinfatico, il sistema linfatico delle
meningi. E ApoE4, se presente, riduce la clearance del peptide beta-amiloide e
quindi automaticamente ne favorisce l’aggregazione; è possibile che ci sia una
competizione tra il peptide beta amiloide e l’insulina nei confronti di IDE, che è
l’enzima che metabolizza il peptide beta-amiloide. E nel caso in cui questo dovesse
verificarsi, avremo un accumulo di peptide nel SNC con formazione eventuale degli
aggregati. ]

• Ci sono poi delle sostanze che possono favorire l’aggregazione e sono dette
CHAPERONES PATOLOGICI. Questi chaperones patologici sono di varia
natura: possono essere acidi nucleici, metalli pesanti; sono stati sviluppati
anche dei chelanti di metalli per il trattamento della progressione della
malattia, va detto con dei successi limitatissimi.
Fra questi chaperones ci sono anche i GAG, in particolare quelli solfatati: più
sono i gruppi solforici, maggiore è la probabilità che i GAG fungano da
chaperones patologici. La solfatazione dei GAG è favorita da Apoe4, che
favorisce la formazione degli aggregati solfatando maggiormente i GAG.

Quando accade ciò, si cominciano a formare aggregati: per primi si formano gli
oligomeri, che vanno 2 a 10, quindi sono piccoli rispetto a quelli che si hanno nel
caso dell’alfasinucleina nella malattia di Parkinson. Questi oligomeri si formano con
un meccanismo detto nucleazione, che significa che c’è un nucleo centrale e poi
man mano si vengono a legare i vari monomeri nella formazione degli oligomeri.
Sono loro ad esercitare azione tossica; gli oligomeri determinano nelle cellule
sinaptopatia, favorendo l’LTD rispetto all’LTP. Ovvero tendono a far deprimere le
sinapsi piuttosto che a potenziarle. Inoltre, gli oligomeri determinano
iperfosforilazione della proteina τ; nel momento in cui quest’ultima è iperfosforilata,
questa si stacca dai microtubuli e tende a formare i grovigli neurofibrillari. E questo
è il momento in cui si ha l’esordio della disfunzione cognitiva nella MA.
Ma gli oligomeri e gli aggregati non fanno solo ciò; per esempio, agiscono sui
periciti dei capillari del SNC e possono dare a livello vascolare produzione di
endotelina 1, potente vasocostrittore, creando quindi un danno ischemico locale. I
depositi di sostanza amiloide spesso sono in prossimità dei vasi cerebrali, dato
questo da prendere in considerazione. Gli oligomeri poi continuano ad aggregarsi
formando le protofibrille e alla fine si formano le classiche fibre amiloidi. Protofibrille
queste che possono esser viste col Rosso Congo e la Tioflavina S, classica
sostanza amiloide. Purtroppo non siete in grado di vederle se sono in forma
oligomerica, perché queste non si visualizzano molto bene. E dunque è difficile fare
diagnosi precoce in presenza di questi oligomeri. Ma voi penserete “ma chissene

302
frega!”, perché se prendo il SNC non ho nessun problema, essendo l’individuo già
morto riscontro le placche e faccio diagnosi. Non è proprio così, perché si può
usare la PET, quindi una metodica di imaging può essere applicata quando
l’individuo è ancora vivo. Alla PET potete usare sostanze - derivate da una
sostanza iniziale detta 11C-beta-CIT, un reattivo di Pittsburgh - sfruttate per fare
diagnosi di amiloidosi cerebrale. Per esempio, abbiamo il 18F-florbetapir o il 18F-
florbetaban, due dei tre reattivi PET che possono mostrare il deposito di sostanza
amiloide anche molti anni prima che la malattia venga fuori. Quando prendete un
soggetto giovane però omozigote Apoe4, se fate una PET vedrete accumulo di
sostanza amiloide e parlerete di amiloidosi cerebrale asintomatica. Questa
inizialmente si deposita in un circuito studiato a proposito della depressione
maggiore: il network con modalità di default, il DMN (default mode network), circuito
che prevede la corteccia prefrontale ventromediale e il precuneo, dove si ritrovano i
primi depositi di amiloide. Questo è il circuito fondamentale per l’introspezione, che
si attiva quando sulla base delle esperienze passate si pianifica il futuro, quando si
guarda dentro noi stessi. Perché si ha deposizione di questa sostanza amiloide? Il
peptide β amiloide può far questo perché può acquisire una configurazione a
foglietto beta nella struttura secondaria; si può aggregare e formare ponti ad
idrogeno all’interno di se stesso e tra un peptide e un altro. E questi sono
veramente gli oligomeri tossici, perché nel peptide ci sono aminoacidi come la lisina
in posizione 16 o 26, l’aspartato in posizione 23 che sono coinvolti nella formazione
di questi legami. Ma perché in natura si è verificato ciò? Perché è stato permesso
ad un peptide di formare depositi che in ultima analisi possono esser tossici? Non
si sa, forse un effetto collaterale di evoluzione della specie, ma il prof non ne ha
idea. Considerate però che la specie umana non aveva la durata di vita di oggi, non
era prevedibile che questi aggregati potessero esser forieri di patologia, perché un
individuo moriva a 30-40 anni, in età precedenti rispetto allo sviluppo della malattia.
La malattia è venuta fuori perché grazie alla medicina l’aspettativa di vita si è
allungata. Ma allora perché illo tempore la natura ha permesso la formazione di
questi aggregati amiloidosici? Ipotesi affascinante prevede che questi aggregati
possano esercitare un’azione antinfettiva, cioè impedire a batteri e virus di
attaccare organi in generale e nello specifico il sistema nervoso. Ci riferiamo a virus
herpetici, l’HSV 1; se ci sono aggregati di β amiloide, il virus HSV 1 ha più difficoltà
ad indurre encefalite virale, perché gli aggregati impediscono l’attacco alle cellule.
Questa cosa vale anche per alcuni batteri, ad esempio Salmonella Tyiphimurium:
se iniettiamo quest’ultima all’interno del SNC di un topo transgenico che presenta
aggregati di amiloide, la Salmonella avrà difficoltà a produrre un’encefalite batterica
in questo topo. Maggiore è l’esposizione a batteri e virus più aggregati si formano;
è stato dunque ipotizzato che determinate infezioni che possono raggiungere il
SNC in quanto presenti in sedi vicine possano stimolare la produzione di depositi di
sostanza amiloide come meccanismo protettivo. Ed ovviamente, se ci sono queste

303
infezioni, l’individuo è maggiormente esposto a sviluppare la malattia di Alzheimer.
Una di queste infezioni deriva dalla periodonto e si chiama Porphyromonas
gengivalis, che produce delle tossine dette gingipain che possono attaccare il SNC
ed indurre formazione di aggregati. E’ stata ipotizzata una correlazione causale tra
queste infezioni da Porphyromonas nelle parti superiori del dente e la formazione
degli aggregati.

Dove si forma il peptide β amiloide (ABP) nella cellula, che viene tagliato sulla
membrana ad opera di due enzimi, bace1 e gamma secretasi? Si può formare sulla
membrana, nel senso che l’ABP è presente soprattutto sui terminali presinaptici ma
anche nelle spine dendritiche, cioè in sede postsinaptica. Ma la sede in cui questo
peptide β amiloide 1-42 in forma monomerica si può formare più facilmente sono gli
endosomi. Questi sono vescicole che possono viaggiare ovunque ed intrappolare al
loro interno proteine di membrana. Gli endosomi appartengono o alla via dei
retromeri, via in cui riportano le proteine al Golgi per farle poi idrolizzare dai
lisosomi; oppure possono ritornare sulla membrana, rimanere come vescicole e
liberare all’esterno il prodotto di ABP che, se liberato sotto forma di vescicola, verrà
fagocitata dalla microglia, i macrofagi del SNC. Oggi si pensa che la formazione
degli aggregati avvenga prevalentemente all’interno della microglia, che ha degli
aspetti favorevoli e altri nocivi nei confronti dell’Alzheimer. Può essere sede
d’infiammazione e nello stesso tempo facilitare la formazione di aggregati, come
anche degradarli.
Una volta che si formano questi aggregati accadono due cose:

• un meccanismo di diffusione detto ‘spreading’: gli aggregati partono da un


punto (ad esempio li ritroviamo in sedi come il precuneo del network con
modalità di default e poi diffondono alla corteccia cerebrale, all’ippocampo,
nella regione entorinale, peririnale, nel cervelletto, anche se questo non è
sede di MA. Questo sempre perché il deposito è condizione necessaria ma
non sufficiente nel determinare malattia.) e poi diffondono altrove, come
avveniva per gli aggregati d’alfasinucleina che formavano i corpi di Lewy
nella malattia di Parkinson. Questi aggregati potrebbero avere origine nella
mucosa olfattiva (l’anosmia si associa alla MA) e da lì diffondere ed andare
verso il SNC.
• E da qui il meccanismo che viene fuori prende il nome di ‘seeding and
template’, cioè gli aggregati continuano a formarsi perché, partendo da un
punto, passano da una cellula all’altra, per esempio grazie alla microglia. Poi
vengono aggiunti altri monomeri, gli aggregati si muovono da una parte
all’altra e gli stessi oligomeri formatisi per processo di nucleazione primaria
possono unirsi alle protofibrille attraverso un meccanismo di nucleazione
secondaria. Questo meccanismo di seeding and template è tipico delle
malattie da prioni: quindi la MA, come diverse malattie da misfolding proteico,

304
cioè caratterizzate da alterata struttura secondaria delle proteine, possiamo
definirla per certi versi anche una malattia prion-like, ovvero simile a quella
del prione. La differenza è che la malattia da prioni è trasmissibile, mentre la
MA a tutt’oggi non lo è.

GENETICA

L’1-2 % delle forme di Alzheimer sono monogeniche, forme molto rare che nella
maggior parte dei casi sono early onset, ovvero si verificano ben prima rispetto ai
65 anni canonici della malattia (ad esempio si può avere demenza di Alzheimer a
30-35 anni). Ed inoltre queste forme monogeniche possono esser complicate da
altre manifestazioni neurologiche non canoniche della MA. Nonostante ciò, le forme
monogeniche sono state essenziali, per esempio per il contributo di Amalia Bruni,
perché ci hanno fatto capire che la MA è un’amiloidosi primariamente e tutto quello
che avviene dopo è una conseguenza dei depositi di sostanza amiloide.
Si possono avere 26 mutazioni a carico del peptide precursore dell’amiloide, l’APP,
che si possono trovare prima della parte N-terminale del peptide β amiloide. Per
esempio, una mutazione molto famosa è K670N ed M671L, ovvero nei due
aminoacidi che precedono il punto di attacco della beta secretasi, una lisina in
posizione 670 è sostituita da un’asparagina, mentre una metionina in posizione 671
è sostituita da una leucina. Questa si chiama mutazione svedese, e in questa è
favorito l’attacco di BACE. Sono tutte mutazioni autosomiche dominanti ad
eccezione di quella in cui un’alanina in posizione 673 è sostituita da una valina
(A673V), che è a trasmissione autosomica recessiva e determina malattia. Se
avete invece una A673T, quindi siete un aminoacido sotto rispetto al punto di
attacco di BACE, questa è l’unica mutazione protettiva.
Poi c’è una mutazione D678N, vale a dire un acido aspartico sostituito in posizione
678 da un’asparagina: l’acido aspartico è carico negativamente, mentre
l’asparagina no, ciò determina una maggior liposolubilità del peptide β amiloide e
quindi una maggior facilità nell’aggregarsi.
Altra mutazione la si ha in posizione 682, in cui un residuo di acido glutammico
diventa lisina, che è carica positivamente. Si chiama mutazione di Leuven.
Altre mutazioni ancora interessano la posizione 693 dell’APP, che corrisponde alla
posizione 23 del peptide β amiloide. La mutazione interessa un acido glutammico in
posizione 693 che viene sostituito da una lisina ed è definita mutazione Italica.
Poi sempre in posizione 693 il residuo di acido glutammico può essere sostituito
con la glicina in una mutazione detta Artica. E poi la mutazione più importante di
tutte: un acido glutammico in posizione 693 è sostituito da un residuo di
glutammina, dove si passa da un aminoacido carico negativamente ad uno privo di
carica. E con questa mutazione il peptide β amiloide è molto più liposolubile, si
aggrega di più e vicino ai vasi cerebrali. Questa mutazione, detta Dutch (olandese),
dà luogo ad una cerebrovasculopatia amiloidotica familiare tipo olandese. Cioè

305
vengono fuori fenomeni di tipo emorragico, che possono portare a morte.
C’è anche la sostituzione di un aspartato in posizione 694 sostituito da
un’asparagina, la cosiddetta mutazione Iowa (prendono tutte il nome dalla città in
cui sono state identificate).
Infine, ci sono mutazioni molto vicine all’attacco della gamma secretasi: per
esempio, una leucina in posizione 705 sostituita da una valina; un’alanina in
posizione 713 sostituita da una treonina. O addirittura si hanno delle mutazioni più
a valle del sito di attacco della gamma secretasi: famosissima la mutazione della
valina in posizione 717 che può essere sostituita da isoleucina, glicina, leucina o
fenialanina.
Tutte queste mutazioni aumentano la produzione del peptide β amiloide.

Inoltre, ci sono le mutazioni di presenilina 1, in numero di 228, che sono la maggior


parte delle forme monogeniche ereditarie della MA. Mentre nel caso della
presenilina 2 ne abbiamo circa 10 di mutazioni. Anche nel caso di presenilina 1 e 2
mutate si ha maggior produzione del peptide β amiloide che favorisce la produzione
degli aggregati.
Non sono solo questi i geni coinvolti: quando si applica il GWAS allo studio di
patologie del SNC si trova di tutto. Sono stati ritrovati molti polimorfismi che
predispongono alla MA; uno di questi è quello che riguarda la proteina VPS35, che
insieme alle VPS26 e VPS29 forma negli endosomi quella parte che lega il cargo.
Ovvero le proteine di membrana vengono prese da queste VPS35, 26 e 29, che
formano il core del legame del cargo, portate negli endosomi e, quando l’APP è
trasferito negli endosomi, viene poi degradato e si forma il peptide β amiloide 1-24.
L’APP, per legarsi a VPS35, interagisce con SORL-1, altra proteina i cui
polimorfismi sono stati associati alla MA.
E poi vi sono alcune proteine della microglia, tra cui TREM2 che è mutata con
perdita di funzione nella MA, dove un’arginina in posizione 47 è sostituita da
un’istidina. TREM2 prende e degrada gli aggregati, quindi, se manca, la microglia
perde una delle sue funzioni positive, che è quella di risolvere gli aggregati.
Altra proteina che è detta CD33, un antigene espresso dalla microglia, prevede
mutazioni che determinano un’iperespressione che facilita la formazione di depositi
di amiloide e di aggregati nella microglia. E’ una genetica che interessa anche i
meccanismi di clearance o di deposito del peptide β amiloide, come questi geni
TREM2 e CD33, per cui la microglia perde la sua funzione e crea anche
un’iperinfiammazione, meccanismo fondamentale nella patogenesi della MA.

FISIOPATOLOGIA

Nel momento in cui si formano gli aggregati e gli oligomeri, diventano patologici e si
riduce la produzione del monomero. Se si crea il monomero del peptide β amiloide,
significa che questo deve esercitare una funzione. Abbiamo sempre considerato la

306
MA come una malattia da acquisto di funzione dell’oligomero, ovvero si formano
oligomeri tossici a carico dei neuroni. Ma è anche una malattia da perdita di
funzione in cui si depaupera il monomero, che è calamitato dagli aggregati e non è
più disponibile, e si perde la sua funzione. Quindi, grosso punto di domanda: la MA
è una malattia degenerativa perché gli oligomeri sono tossici o perché la funzione
del monomero non c’è più, essendosi formati gli oligomeri? Forse entrambe; ma, se
accettiamo che il monomero ha una funzione fondamentale e si perde nel momento
in cui si formano gli aggregati, cercare di bloccare la produzione di peptide β
amiloide per ridurre la produzione di oligomeri è una coglionata. Questo potrebbe
essere uno dei motivi per cui la strategia sperimentale della cura della MA sinora
non ha avuto successo.
Visto che il monomero è coinvolto nella produzione degli aggregati,
automaticamente quello che si verifica è la riduzione del monomero nel liquor.
Questa riduzione si nota quando compare l’amiloidosi cerebrale asintomatica: fate
la PET, vedete i depositi, eseguite una lombare e vedete che la quantità del peptide
β amiloide nel liquor cefalorachidiano è ridotta. E’ ovvio sia così, perché si son
formati gli aggregati. Tuttavia, ciò non è sufficiente a determinare patologia:
servono i grovigli neurofibrillari e la morte neuronale, affinché si verifichi patologia.
I grovigli neurofibrillari si formano a partire dalla proteina tau. La proteina tau è
molto particolare, è una proteina che è presente in 6 isoforme e mantiene in
maniera stabile i microtubuli, quindi fa parte integrante del citoscheletro delle cellule
nervose. Accade però che in determinate circostanze la proteina tau viene
iperfosforilata e l’iperfosforilazione della tau fa staccare la tau dai microtubuli, la tau
comincia ad aggregare su se stessa e si formano questi grovigli o gomitoli
neurofibrillari. I grovigli inizialmente sono dentro la cellula, però successivamente
anche loro possono essere trasferiti da cellula a cellula e anche per i grovigli
neurofibrillari c’è il meccanismo di seeding and template, cioè il meccanismo simile
al prione. Per cui sempre più tau viene coinvolta in questi grovigli, fino a quando la
cellula muore perché il citoscheletro è completamente scompaginato e voi avete la
formazione dei cosiddetti “ghost tangle”, cioè i cosiddetti grovigli fantasma, che poi
ritrovate nello spazio extracellulare.
A questo punto il neurone muore. Se il neurone muore, è ovvio che cominciate a
trovare la proteina tau e la sua forma fosforilata nel liquor. E, nel momento in cui
trovate non solo il monomero del peptide beta amiloide ridotto nel liquor
(monomero significa peptide beta amiloide solubile, che non ha quindi formato
l’aggregato), ma trovate anche la proteina tau e la proteina tau fosforilata
aumentate nel liquor, a quel punto potete chiamare la malattia di Alzheimer pre-
sintomatica. Ancora non avete la malattia, perché ancora non avete i sintomi,
anche se la patologia della tau comincia a venire fuori, però avete l’aumento della
tau e di fosfotau e la riduzione del peptide beta amiloide nel liquor.
Potete oggi vedere anche i grovigli perché potete utilizzare un reagente PET che si

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chiama 18-fluoro AV1451: questo particolare reagente si lega ai grovigli
neurofibrillari, quindi si lega alle forme di tau iperfosforilate che formano i gomitoli.
E così, come potete visualizzare l’amiloide col florbetapir, potete visualizzare i
grovigli utilizzando questo reagente PET 18F-AV1451.

Poi ad un certo punto viene fuori l’MCI, cioè viene fuori il declino cognitivo lieve,
che può essere per esempio amnestico oppure interessare altri domini della sfera
cognitiva, e quando viene fuori, per definizione, la qualità di vita non è ancora
compromessa nel paziente, quindi il paziente ha soltanto questi deficit lievi della
sfera cognitiva ma una discreta attività di vita, il paziente è perfettamente in grado
di fare tutto quello che fa a casa anche se un piccolo declino cognitivo ce l’ha. Però
quello che succede è che quando voi avete un MCI più avete manifestazioni di
amiloidosi, riduzione del peptide amiloide nel liquor, e in più avete aumento della
proteina tau nel liquor in questo caso parlerete di malattia di Alzheimer
prodromica o incipiente. Quindi passate a malattia di Alzheimer prodromica-
incipiente quando avete dimostrazione di amiloidosi, riduzione del peptide del
liquor, aumento di proteina tau e fosfotau.
Finché a questo punto la degenerazione diventa molto marcata e potete fare poi
diagnosi di malattia di Alzheimer quando i sintomi della sfera cognitiva vi
permettono di fare diagnosi.

Una domanda potrebbe essere: c’è un modo per valutare la sinaptopatia, cioè la
morte delle sinapsi nella malattia di Alzheimer? Perché questo non ve lo dice la
PET col florbetapir, perché questo mi dice soltanto il deposito delle fibrille e dei
grovigli, non ve lo dice la AV1451 perché questo mi fa vedere la tau, ma non mi
dice se ci sono più o meno sinapsi. Per questo scopo ci sono due marcatori:

1. il primo marcatore è il 18-fluorodesossiglucosio: c’è una riduzione molto


precoce nella captazione cerebrale di glucosio nei pazienti con malattia di
Alzheimer, questa è una cosa assolutamente critica e fondamentale: il
glucosio insieme ai corpi chetonici è l’unica risorsa energetica nel nostro
cervello. Nel momento in cui il glucosio viene captato di meno, è chiaro che
le sinapsi cominciano a soffrire in maniera molto marcata, e io sono un
fautore della dieta chetogenica della malattia di Alzheimer: per un motivo che
adesso vedremo i neuroni non riescono a captare glucosio e allora facciamo
una dieta chetogenica. Ovvero una dieta in cui i carboidrati sono solo il 10%
del fabbisogno energetico, una dieta sbilanciata soprattutto nei lipidi ma
anche in parte le proteine, ovviamente è una dieta che comporta degli sforzi
e anche dei rischi dal punto di vista metabolico, però è una dieta che può
fornire con i corpi chetonici un substrato energetico alternativo al sistema
nervoso centrale, fermo restando che i neuroni non possono nutrirsi di acidi
grassi perché non sono in grado di fare la beta ossidazione. Quindi questo è

308
il primo marcatore che ci dice che alcune regioni del SNC hanno una difettiva
captazione di glucosio, perché il desossiglucosio è una variante del glucosio
che viene fosforilato all’interno della cellula però non è più in grado di
andarsene verso la glicolisi, quindi si ferma là. E quindi sulla base di quanto
questotracciante viene captato potete risalire alla captazione del glucosio da
parte delle cellule nervose.
2. Poi c’è invece un altro reagente PET che in questo caso è al carbonio-11,
quindi è meno stabile, e che si chiama UCBJ: questo è un reagente
particolare, che lega la proteina SV2A (questa proteina è il bersaglio del
levetiracetam). Questa proteina si chiama così perché è una synaptic vesicle
associated protein, cioè una proteina associata alla vescicola sinaptica.
Quindi se voi utilizzate un reagente PET che è in grado di entrare nel
terminale e legare la proteina, meno il reagente PET si lega, meno terminali
ci sono, quindi la sinaptopatia è dimostrabile ed è in grado di darvi delle
risposte.

[ Domanda studente: ma la dieta chetogenica non indebolisce i neuroni sani?


Teoricamente sì, però moltissimi neuroni hanno questo tipo di problema, perché
anche se si dovesse indebolire il neurone sano però si forniscono corpi chetonici a
una miriade di neuroni che in quel momento sono compromessi. Ma tu mi dirai: ‘la
dieta chetogenica non si fa di routine nell’Alzheimer’. E’ vero, però ci sono
moltissimi lavori che la suggeriscono e la dieta chetogenica funziona molto bene
nell’animale da esperimento, quindi è qualcosa che secondo me ha veramente un
avvenire nel trattamento della malattia di Alzheimer ma questo è un parere
personale. Però la tua osservazione è giusta, fermo restando che i neuroni sani
possono comunque continuare a prendere il glucosio in circolo e usarlo per quanto
possibile, mentre invece i neuroni che non captano glucosio non possono fare
attività sinaptica. Quindi l’idea sarebbe quella di preservare comunque la funzione
dei neuroni sani anche riducendo l’apporto di glucosio, ma nello stesso tempo
fornire un substrato energetico alternativo che sono i corpi chetonici. Considera che
anche quando si fa la dieta chetogenica, il glicogeno continua a produrre glucosio a
livello epatico, e la stessa cosa succede con la gluconeogenesi, quindi un po’ di
glucosio c’è sempre; se il glucosio nel sangue non c’è, il cervello si blocca, è
evidente. Comunque non sono in grado di dare una risposta esatta alla domanda,
cioè in quale percentuale danneggi una cosa e in quale percentuale ne attivi
un'altra, e credo non sia possibile dare una risposta. ]

Tornando al nostro discorso, noi abbiamo dei marcatori per l’amiloide, marcatori
per la proteina tau, marcatori del consumo di glucosio quindi di attività delle sinapsi,
marcatori della proteina sinaptica SV2A e quindi veramente possiamo orientarci in
maniera abbastanza corretta.

309
Detto questo, come avviene la degenerazione delle cellule nervose?

Avviene un’azione tossica degli oligomeri. Quest’azione tossica prevede il fatto che
gli oligomeri possano legarsi ad un recettore di superficie e tale recettore è stato
identificato e curiosamente sembra essere la PrPC, cioè la proteina del prione
fisiologica (mentre la proteina del prione patologica è detta Sc). Quindi la proteina
del prione fisiologica che le nostre cellule esprimono è in grado di legare gli
oligomeri; però da sola non ce la fa, ha bisogno di un altro partner, e questo altro
partner si chiama recettore mGlu5 del glutammato. Quindi esistono due recettori
per gli oligomeri che formano un complesso con l’oligomero. Un ricercatore,
Strittmatter, ha offerto tante dimostrazioni che questi due recettori legano gli
oligomeri, e grazie a queste interazioni ha luogo l’azione tossica: quando il
recettore mGlu5 si attiva formando questo menage a trois, vengono innescati dei
meccanismi di trasduzione del segnale. E si attivano poi tutta una serie di protein
kinasi, come per esempio GSK3-beta, CDK5 che è una proteina chinasi ciclina-
dipendente che però non regola il ciclo cellulare ma regola alcune funzioni del
citoscheletro. Ed anche la Protein kinasi A, che con il recettore mGlu5 ha poco a
che vedere perché questo recettore è accoppiato a proteine Gq, e ancora CAM-
kinasi 2 (cioè chinasi calcio calmodulina dipendente tipo 2) che sono in grado di
iperfosforilare la proteina tau. La proteina tau è presente in 6 isoforme, e queste 6
isoforme dipendono dal fatto che sia presente o meno un segmento nella porzione
N-terminale e un altro segmento presente nella porzione C-terminale che viene
chiamato segmento R, quest’ultimo molto importante perché la proteina possa
interagire con i microtubuli. Quindi potete avere una proteina tau 0N3R, significa
che non c’è la parte N-terminale e ci sono 3 domini C-terminali; potete avere 0N4R,
1N3R, 1N4R, 2N3R, e 2N4R, denominate così a seconda del numero di domini N-
C terminali presenti. In generale i 4R sono quelli che danno più stabilità in assoluto
ai microtubuli. Tuttavia, nel momento in cui la proteina tau viene iperfosforilata si
stacca dai microtubuli e forma i cosiddetti grovigli neurofibrillari che, con un
meccanismo simile alla proteina del prione, poi possono diffondere e potete trovarli
in diverse regioni del sistema nervoso e, quando si muovono dalla corteccia
entorinale e raggiungono la corteccia cerebrale, quello è il momento in cui inizia la
disfunzione cognitiva.

Naturalmente questo ha aperto delle finestre di terapia sperimentale, perché si è


pensato di poter utilizzare i NAM (modulatori allosterici negativi) dei recettori
mGlu5, per evitare questo genere di meccanismo, che nei modelli animali
funzionano benissimo. Ma nell’uomo nessuna di queste molecole è stata sviluppata
per la malattia di Alzheimer: il Mavoglurant, come vi ho già detto nel Parkinson, è
stato inizialmente usato nelle discinesie da L-DOPA. Poi quel tipo di progetto è
stato terminato ed ora il Mavoglurant viene riposizionato per il trattamento
dell’addiction da cocaina. Quindi è possibile che poi questo farmaco possa essere

310
sperimentato come farmaco neuroprotettivo, per evitare la fosforilazione della tau
nella malattia di Alzheimer.

Un’altra cosa, gli oligomeri sempre attraverso questo meccanismo favoriscono


l’LTD a spese del LTP, cioè creano una specie di metaplasticità in cui le
modificazioni adattative delle sinapsi all’ambiente esterno favoriscono la
depressione delle sinapsi anziché il potenziamento. Ma il potenziamento significa
capacità di apprendimento; quindi quando avete gli oligomeri là davanti alla sinapsi,
a questo punto questa non si può potenziare, significa che prevale la depressione e
quindi l’individuo incomincia ad apprendere di meno.
Questo meccanismo di favoritismo dell’LTD sul LTP dipende dall’attivazione di
GSK3-beta, che tra l’altro è anche uno degli enzimi che fosforila la proteina tau. Per
questo motivo sono stati sviluppati degli inibitori di GSK3-beta che non hanno però
sortito alcun effetto. Tra questi ci sono il litio ed il valproato, entrambi farmaci usati
per il trattamento del disturbo bipolare; il valproato anche come antiepilettico ed
usato anche nella profilassi dell’emicrania e della cefalea a grappolo. Il litio e il
valproato teoricamente possono essere farmaci protettivi qui, però sono farmaci
che hanno tutta una serie problemi: il litio ha tanti meccanismi d’azione, ancora di
più ne ha il valproato, e sono meccanismi che non si sposano molto bene col
problema del cognitivo nella malattia di Alzheimer. Quindi è vero gli oligomeri sono
tossici, determinano sinaptopatia, fosforilano tau e sono responsabili di gran parte
della neuropatologia della malattia di Alzheimer, però non è facile bloccarne
l’azione (forse il Mavoglurant o un altro NAM può farlo, staremo a vedere).

Come vi dirò tra poco, tutti i farmaci sviluppati sperimentalmente per la malattia di
Alzheimer hanno mostrato un completo fallimento, e la maggior parte di questi
farmaci sono farmaci che inibiscono la produzione del peptide beta amiloide, quindi
la domanda a questo punto è: per quale motivo questi farmaci non hanno
mostrato una buon efficacia?
Qualcuno può obiettare, perché questo tipo di intervento è stato fatto molto
tardivamente, cioè questi farmaci sperimentali sono stati sviluppati, almeno nelle
prime fasi, in pazienti che avevano già la malattia, e lì non c’è trippa per gatti,
perché ormai lo stato degenerativo è talmente avanzato che non potete farci più
niente. Però ora si tende sempre di più ad andare a ritroso nel tempo, ed abbiamo
delle coorti di pazienti in cui possono essere riutilizzati in maniera piuttosto attenta.
Perché sono pazienti molto precoci, per esempio sono i figli di pazienti che hanno
la forma monogenica di Alzheimer con mutazione di presenilina 1 ma non solo;
oppure sono pazienti giovani magari con familiarità che sono omozigoti per ApoE4,
quindi ad alto rischio. Quindi anche grazie ai biomarcatori parzialmente può essere
risolto questo problema e si può tentare di individuare una fase molto precoce di
malattia e cercare di fare dei trattamenti. Dal punto di vista dell’industria
farmaceutica però mi sembra una di quelle follie che non avranno mai capo né

311
coda, perché voi dovreste cominciare un trattamento lungo (per esempio un
ragazzo di 25 anni che ha una mutazione autosomica dominante a penetranza
completa della presenilina-1, trattarlo per vent’anni e poi fare un follow-up e vedere
se questo ragazzo sviluppi malattia oppure no). E non è così semplice perché
questo significa fare un trattamento per vent’anni con dei costi spaventosi, quando
poi dopo vent’anni non si sa quale sarà la situazione, magari nel frattempo escono
farmaci più efficaci. Quindi dal punto di vista della strategia farmaceutica qualunque
amministratore delegato decidesse di innescare un meccanismo di questo genere
perderebbe la sua posizione molto presto.

La seconda ragione per cui questi farmaci che inibiscono la produzione del peptide
beta amiloide, come per esempio inibitori della beta o gamma secretasi non
funzionano, è che questi farmaci riducono sì la formazione degli aggregati, ma
riducono anche la formazione del monomero. E se noi partiamo dal principio che il
monomero debba fare qualcosa perché lo produciamo tutti noi (non è che il nostro
SNC è folle, se produce una proteina di 42 aminoacidi questa servirà a qualcosa),
se noi blocchiamo la produzione ovviamente non otteniamo un miglioramento o
addirittura possiamo peggiorare la situazione, come è stato osservato per alcuni
inibitori della gamma secretasi o inibitori delle beta secretasi.

Allora la domanda è: cosa fa il monomero?


È stato dimostrato da una bravissima ricercatrice dell’Università di Catania, la
professoressa Copani, che il monomero del peptide beta amiloide innanzitutto è
neuroprotettivo. Lei ha eseguito uno studio su colture neuronali che hanno mostrato
che, aggiungendo il monomero del peptide beta amiloide in condizioni tali per cui
dal monomero non si formano gli oligomeri, se voi poi trattate i neuroni in coltura o
con le citotossine oppure li deprivate del siero nutritivo, per cui questi neuroni
normalmente muoiono, dando il monomero voi proteggete i neuroni e bastano
concentrazioni molto basse del monomero del peptide beta amiloide per esercitare
la funzione neuroprotettiva. Al contrario se voi applicate gli oligomeri, cioè gli
aggregati del peptide beta amiloide, facilitate la morte neuronale. E una delle
osservazioni più interessanti all’epoca è stata che questa azione neuroprotettiva del
monomero viene inibita da inibitori della via della PI3K, che è una delle vie di
neuroprotezione più importanti e che abbiamo già studiato per il recettore
dell’insulina. Ed è la via che porta per esempio a fosforilazione di AKT, e quando
AKT viene fosforilata questo porta a fosforilazione e inibizione di GSK3-beta, quindi
insomma è una via molto importante di neuroprotezione. Però ragionando su
questo, cioè che la neuroprotezione da monomero del peptide beta amiloide era
mediata dall’attivazione della via della PI3K, l’idea di base è stata: è possibile che il
monomero del peptide beta amiloide sia in grado di attivare un recettore che
normalmente segnala con questa via? La risposta è stata sì, e il recettore che viene
attivato è il recettore IGFR-1, cioè per il fattore di crescita simile all’insulina di tipo 1

312
(IGF-1), che in endocrinologia si studia come recettore dell’azione dell’ormone della
crescita. L’IGF1 però è praticamente prodotto dalla maggior parte delle cellule e il
suo recettore di tipo 1 è un recettore simile a quello dell’insulina, cioè un recettore
della stessa famiglia del recettore insulinico, ed è abbondantemente espresso nel
SNC. E a che cosa serve questo recettore IGFR-1 insieme al recettore
dell’insulina? Serve a far entrare il glucosio nei neuroni. Ma allora qualcuno voi dirà
che sto dicendo una sciocchezza, perché noi sappiamo da biochimica che il
glucosio attraversa la barriera ematoencefalica in maniera insulino-indipendente. È
vero, il glucosio attraversa la barriera ematoencefalica usando GLUT1 come
trasportatore, e il passaggio della barriera ematoencefalica NON dipende
dall’insulina. E d’altra parte ci sono anche patologie in cui GLUT1 non c’è, e in quel
caso c’è ipoglicorrachia e lì dovete fare per forza la dieta chetogenica per dare
substrati alternativi alle cellule nervose. Tuttavia, una volta che il glucosio supera la
barriera ematoencefalica ed entra nel parenchima cerebrale, per poter entrare nei
neuroni ha bisogno di un altro trasportatore, che si chiama GLUT3. GLUT3 è un
trasportatore insulina-dipendente: vale a dire, quando si attiva il recettore
dell’insulina, ma cosa più importante, quando si attiva il recettore IGFR-1, a questo
punto grazie alla via della PI3K, GLUT3 trasloca e passa dal citoplasma alla
membrana e nei dendriti delle cellule nervose, il glucosio entra nella cellula. Quindi
questo recettore IGFR-1 è essenziale perché il glucosio possa penetrare nelle
cellule nervose e ovviamente questo tipo di meccanismo è più importante durante
l’attivazione sinaptica, cioè quando è necessario che il glucosio possa entrare nelle
cellule nervose. E, cosa abbastanza affascinante, il recettore IGFR-1 è un recettore
ipofunzionante nel cervello dei malati con Alzheimer, e questo è stato dimostrato a
più riprese. Non solo, ma il monomero del peptide beta amiloide agisce da PAM
(modulatore allosterico positivo) nei confronti del recettore IGFR-1, cioè è
essenziale perché questo recettore ottimizzi la sua risposta nei confronti delle
IGF1. Quindi questo è estremamente interessante, perché vuol dire intanto che il
monomero del peptide beta amiloide ha una funzione fondamentale, seconda cosa
che il peptide beta amiloide permette al recettore IGFR-1 di funzionare in maniera
ottimale e di far entrare glucosio nelle cellule nervose. E allora in parole povere,
che cosa succede nel momento in cui si formano gli aggregati di amiloide? Il
monomero viene captato da questi aggregati e non è più disponibile per la sua
azione sul recettore IGFR-1. E questa minore disponibilità soprattutto durante il
periodo di attivazione sinaptica è critica, perché questo è il momento in cui
normalmente il peptide beta amiloide si forma a partire dalla APP; ma se ci sono
degli aggregati ovviamente il monomero viene subito preso e calamitato e reso
indisponibile per la funzione del recettore. A questo punto il recettore funziona di
meno e, quando vuoi prendete un cervello di malati di Alzheimer, vedete che
questo recettore sta funzionando di meno probabilmente perché non c’è il
monomero disponibile, perché il monomero forma gli aggregati. Questo vuol dire

313
meno glucosio all’interno dei neuroni e, se c’è meno glucosio nei neuroni significa
che c’è meno ATP, perché ovviamente il glucosio è il principale substrato
energetico. E se c’è meno ATP, questo significa inoltre che la membrana delle
cellule nervose non riesce a mantenere il potenziale di riposo. Quindi voi avete una
lieve depolarizzazione praticamente costante, e una depolarizzazione costante
significa rimozione del blocco del magnesio dei recettori NMDA, il che significa
eccitotossicità, quindi qui entra in gioco il glutammato. Il recettore NMDA diventa
costitutivamente attivo e si altera l’apprendimento perché il rumore di fondo dato
dal recettore NMDA diventa più alto, e se il rumore di fondo è alto, è più difficile
apprendere. Provate a ricordarvi il volto di una candidata di Miss Italia durante il
concorso di Miss Italia, è difficilissimo perché il rumore di fondo è estremamente
alto, sono tutte belle. Se andate alla pescheria invece e trovate una candidata di
Miss Italia, immediatamente la memorizzate, perché il rumore di fondo è molto
basso.
Questo rapporto rumore di fondo-segnale dell’apprendimento diventa
fondamentale; quindi, se voi avete meno glucosio avete meno ATP, la membrana è
costitutivamente depolarizzata perché le pompe sodio potassio funzionano poco. A
questo punto voi avete attivazione del recettore NMDA, perché il blocco da
magnesio se ne va, meccanismo di eccitotossicità; oltre il meccanismo di
eccitotossicità avete poi un aumento del rumore di fondo che vi compromette
l’apprendimento. Quindi già questo significa creare sinaptopatia e già questo
significa contribuire al fatto che non ci sia un corretto potenziamento sinaptico.

Ma non è tutto: considerate che una piccola percentuale che non riesco a stimare,
per esempio il 3% del glucosio che entra nel neurone, è utilizzato per meccanismi
di glicosilazione, soprattutto per un meccanismo di glicosilazione che porta le
proteine a ricevere N-acetilglucosammina. Se le proteine vengono glicosilate, lo
fanno sfruttando il glucosio che entra; ma ovviamente, se entra meno glucosio, le
proteine non vengono N-acetilglicosilate. Ora, la proteina tau può essere glicosilata
con l’aggiunta di N-acetilglucosamina, e questa glicosilazione è mutualmente
esclusiva nei confronti della fosforilazione, cioè più glicosilazione c’è, meno
fosforilazione c’è della tau.

Per cui riepilogando: non c’è il monomero, il recettore IGFR-1 funziona poco,
GLUT3 trasloca di meno, c’è meno ingresso di glucosio nella cellula e formazione
di ATP, quindi attivazione del recettore NMDA e quant’altro, ed inoltre quella quota
di glucosio che normalmente era destinata alla glicosilazione non c’è più. Quando
non c’è più quella quota di glucosio, la proteina tau viene glicosilata di meno e
quindi viene fosforilata di più, perché sono gli stessi residui di serina e treonina che
vengono glicosilati ed anche fosforilati. A quel punto la tau fosforilata si stacca e si
formano i grovigli neurofibrillari.
Capite allora di cosa stiamo parlando, cioè tutti questi farmaci che sono stati

314
sviluppati durante gli anni, gli inibitori della sintesi del peptide beta amiloide cioè
inibitori di beta secretasi, inibitori di gamma secretasi, modulatori di gamma
secretasi, non hanno mai concluso niente dal punto di vista clinico, anzi in molti
casi c’è stato un peggioramento della sintomatologia cognitiva. Ma questo non mi
sorprende più di tanto, perché deriva dal fatto che è stato eliminato ancora di più un
peptide prodotto dal nostro SNC, che ha probabilmente la capacità di far entrare
glucosio all’interno della cellula e a questo punto favorire sia la produzione
energetica che i processi di glicosilazione. E questo spiega sinaptopatia, processo
di neurodegenerazione e spiega fosforilazione della tau e formazione dei gomitoli
neurofibrillari. Per cui noi, quando abbiamo di fronte una malattia come l’Alzheimer
e diamo per scontato il fatto che la produzione di depositi di sostanza amiloide è il
primum movens della malattia, ed io credo che non ci siano dubbi da questo punto
di vista, però dobbiamo dividere i due meccanismi:

• numero 1) azione tossica degli oligomeri: gli oligomeri inducono sinaptopatia,


inducono iperfosforilazione della tau, legano un recettore di superficie
formato da PRPC e mGlu5R e tutto quello che ne deriva
• numero 2) non meno importante questo meccanismo secondo me e cioè che,
quando si formano gli oligomeri, le protofibrille e le fibrille, i monomeri
vengono attivamente impegnati nella formazione degli oligomeri e si riducono
in maniera marcata. E la prova più ovvia è che le ritrovate di meno nel liquor.
E avere meno monomero significa avere meno attivazione del IGFR-1,
significa poca traslocazione di GLUT3, significa avere meno ATP, meno
risorse energetiche, depolarizzazione continua delle membrane, aumento del
rumore di fondo e aumento della eccitotossicità. Significa avere anche un
meccanismo di minore glicosilazione delle proteine inclusa la tau. E, se
considerate che glicosilazione e fosforilazione sono due eventi mutualmente
esclusivi, capite come questo a questo punto può essere importante.

315
LEZIONE 17 Giugno 2021
TERAPIA DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER (MA)
Riprendiamo dalla volta scorsa, dove abbiamo trattato la fisiopatologia della
malattia di Alzheimer e siamo arrivati ad una conclusione: quanto viene ritenuto
dalla maggior parte degli studiosi oggi non è detto che sia un punto di vista
interamente corretto. Questo perché si pensa che gli oligomeri di peptide β-
amiloide siano responsabili dell’azione neurotossica e che alla fine tutto quello che
si vede nel cervello malato di Alzheimer dipende da questo, compresa
l’iperfosforilazione della proteina τ, i gomitoli neurofibrillari o nella sinaptopatia la
morte neuronale etc. Il che è indubbiamente vero, la volta scorsa abbiamo detto
che gli oligomeri del peptide formano un ménage a trois con il recettore mGlu5,
metabotropico del glutammato, e con la proteina del prione fisiologica. Però in
realtà il problema non è solo questo, è che nel momento in cui si forma l’oligomero
si depaupera il monomero, perché il monomero viene calamitato dagli oligomeri, si
formano le protofibrille e, infine, le fibre amiloidi che sono quelle che gli istologi
vedono col Rosso Congo. Il problema è che il monomero diminuisce; a
dimostrazione di questo, se voi prendete il liquor di forme prodromiche di Alzheimer
o il liquor di amiloidosi asintomatiche, voi subito notate una diminuzione della forma
solubile di peptide β-amiloide 1-42, perché inevitabilmente il peptide ha formato gli
aggregati, quindi nel liquido come monomero non lo ritrovate più. Allora è nata la
domanda: il monomero del peptide β-amiloide svolge un ruolo importante nel nostro
cervello? Quando il monomero non è più disponibile, perché si formano gli
aggregati, questo può contribuire alla patofisiologia della malattia di Alzheimer?
Come risposta abbiamo dato: sì, poiché il monomero servirebbe a far entrare
glucosio all’interno del neurone, favorendo l’attivazione del recettore di tipo 1 dell’
IGF, a questo punto facendo traslocare il trasportatore del glucosio GLUT3 sulla
membrana, il quale è così disponibile per fare entrare glucosio nella cellula.
Inoltre, tutto quello che si vede nel cervello dell’Alzheimer può essere riconducibile
a questo fenomeno appena descritto.
Vi dico questo per introdurre il tema della lezione di oggi, che sarà conclusiva sulla
malattia di Alzheimer, vale a dire la terapia.
Per trent’anni si è cercato di fare terapia sperimentale per questa malattia,
basandosi sul principio che il peptide β-amiloide 1-42 fosse un peptide tossico,
quindi sono stati sviluppati inibitori della β-secretasi e anche della γ-secretasi. Sono
state sviluppate molecole di ogni genere, purtroppo i risultati clinici sono stati
insoddisfacenti, vi faccio un esempio: Verubecestat. Il Verubecestat è un potente
inibitore della β-secretasi, è una delle molecole su cui stanno ancora investendo le
multinazionali con lo scopo di rallentare la progressione di malattia. Io,
onestamente, non capisco perché si ostinino a fare ciò, poiché sono perdite di soldi
a fiumi con risultati clinici pari a 0; alcune di queste molecole hanno funzionato per
ridurre l’amiloidosi nei modelli animali, ma quando si va all’uomo e si usano
parametri importanti, come la scala ADAS- Cog 70 o la scala CDR-SB, che tiene
conto della malattia dal punto di vista clinico in maniera più diretta, quando si usano

316
inibitori della β-secretasi non c’è un miglioramento oggettivabile mediante queste
scale. Si è detto che questo può dipendere dal fatto che alcune di queste molecole
hanno difficoltà ad attraversare la BEE, in fin dei conti uno dei motivi potrebbe
essere quello che gli inibitori delle β-secretasi impediscono la produzione di peptide
β1-42 e quindi peggiorano l’aspetto della perdita di funzione nella MA. Quindi
potrebbero andar bene per ridurre la produzione di oligomeri, però -allo stesso
tempo- impediscono la produzione dei monomeri del peptide β-amiloide.
Per gli inibitori delle γ-secretasi il discorso cambia un po’. Le γ-secretasi sono degli
enzimi particolari, sono formati da 5 proteine: presenilina1, presenilina2, APH,
PEN, Nicastrina; questo complesso serve a tagliare la porzione carbossiterminale
del peptide β-amiloide, partendo dall’APP, all’interno della membrana. Quindi è una
zona dove si trova poca acqua e c’è bisogno di 4 o 5 proteine che lavorano insieme
per esercitare questo taglio.
Hanno prodotto degli inibitori delle γ-secretasi diretti, come per esempio il
Semagacestat, che è uno di quei farmaci che ha appassionato tanto l’azienda che
l’ha prodotto (Eli-Lilly, Indianapolis); nello studio di fase II sembrava che questo
farmaco fosse promettente, poi nello studio di fase III addirittura questa molecola
peggiorava la sintomatologia clinica basata sull’ADAS-Cog.
Allora, si è pensato di fare qualcosa di diverso: di modulare la γ-secretasi, cioè
favorire la produzione di peptidi di 39 e di 40 amminoacidi rispetto alla produzione
del peptide di 42 amminoacidi o di 43 amminoacidi. Questi farmaci modulatori delle
γ-secretasi hanno acquisito il nome di SALA, che significa agenti che abbassano
l’amiloide in maniera selettiva (Selecting Amiloid Lowering Agents). Questi SALA
farebbero sì che le γ-secretasi continuino a funzionare, ma tagliando il peptide in
modo tale da farlo più corto rispetto al peptide 1-42, curiosamente tra questi ci sono
dei FANS, come l’Indometacina, il Sulindact, il Naproxene. Questa è una cosa che
è venuta fuori da un dato epidemiologico: i soggetti affetti da artrite reumatoide, che
facevano uso di FANS, avevano una più bassa incidenza di MA. Si è pensato prima
che l’azione antiinfiammatoria dei FANS potesse essere responsabile di questa
protezione, perché in fin dei conti la componente neuroinfiammatoria nella MA è
importante. Però poi ci si è accorti che questo non era vero, perché per esempio i
cortisonici, che sono i più potenti antiinfiammatori che noi abbiamo, non hanno
alcun effetto protettivo nella MA, nel modo più assoluto. Dunque, si è fatto qualche
ragionamento sugli effetti off-target dei FANS, cioè che non dipendessero dal
blocco della ciclossigenasi. Si è visto che alcuni FANS, Indometacina in testa,
erano anche in grado di modulare l’attività delle γ-secretasi causando la produzione
di peptidi più piccoli.
Nella realtà, questo flusso di farmaci diretti a modulare le γ-secretasi non ha portato
assolutamente a nulla. In questi studi si è cercato di bloccare la sintesi del peptide
β-amiloide ed è questa una strategia che non ha alcun tipo di senso. Gli inibitori
delle β-secretasi, gli inibitori delle γ-secretasi e anche i modulatori delle γ-secretasi
non hanno sortito alcun effetto dal punto di vista clinico, anzi, in molte circostanze
hanno peggiorato il quadro clinico della malattia.

317
Altra osservazione: le γ-secretasi tagliano NOTCH, che è un importante sistema di
trasduzione all’interno dei neuroni. Quando voi date un inibitore delle γ-secretasi, o
un modulatore, potreste anche interferire col taglio di NOTCH. C’è una patologia
neurologica che si chiama CADASIL1, che è una patologia vascolare che dipende
da mutazioni di NOTCH 3, quindi NOTCH è importante nell’omeostasi tra vasi e
neuroni. Quindi rischiare di bloccare il taglio di NOTCH, interferendo con la via di
segnalazione, per bloccare le γ-secretasi non ha senso, ma oltretutto correndo il
rischio che non si formi il peptide β-amiloide, per queste ragioni il Prof ritiene che
non sia la strada giusta questa.
Quindi, ricapitolando, gli inibitori delle γ-secretasi e delle β-secretasi sono farmaci
sui quali era riposta tanta speranza, ma che in realtà non hanno incontrato tale
speranza. È veramente triste pensare a tutti i miliardi di dollari spesi per
esperimenti come questo.
Un discorso molto particolare riguarda la vaccinazione: è nata per caso, ma si è
subito distinta – come è accaduto per la COVID-19 – in vaccinazione attiva e in
vaccinazione passiva. La vaccinazione attiva è stata praticamente abbandonata,
però storicamente è importante, mentre la vaccinazione passiva è quella che viene
trattata maggiormente con l’uso di anticorpi monoclonali. La vaccinazione attiva è
quello che normalmente si fa, ma ci sono a disposizione degli anticorpi monoclonali
che possono servire a frenare l’infezione, nel caso della COVID-19, nell’intervallo di
tempo in cui l’Ab monoclonale agisce, quando questo viene degradato non agisce
più. Con la vaccinazione attiva il SI viene stimolato e reagisce sempre contro
l’infezione.
Come è nata la vaccinazione per la MA? Ovviamente la MA non è una malattia
infettiva, anche se ci sono delle ipotesi sul suo ruolo nelle infezioni sia virali che
batteriche;, sembra che quando si formano gli aggregati del peptide β-amiloide il
SNC viene protetto dalle encefaliti. La vaccinazione è nata dal fatto che un
ricercatore americano, Shank, che lavorava in una piccola azienda, ha scoperto
che se si iniettano aggregati del peptide β-amiloide nella coda dell’animale, un topo
transgenico che sviluppa la MA, l’animale si immunizza e forma Ab contro il peptide
β-amiloide, automaticamente l’animale sta meglio, si riducono i depositi amiloidi
all’interno del SNC. In questo studio pubblicato su Nature, Shank mostrava che la
vaccinazione attiva non era efficace solo nella profilassi della malattia, ma anche
come terapia, quando gli animali avevano già sviluppato le lesioni istopatologiche
della MA. Questo ha incuriosito e interessato molto la comunità scientifica.
L’effetto era principalmente legato alla produzione di Ab, gli Ab agivano in tanti
modi: per esempio attaccavano i depositi amiloidi attraverso il complemento,
favorendo la clearance degli aggregati, o per esempio tramite l’effetto sink, effetto
lavandino. Questo si verifica perché normalmente il peptide β-amiloide passa dal
parenchima cerebrale al sangue attraverso il sistema linfatico e attraverso le
proteine correlate ai recettori del LDL, come LRP1, quando voi date una

1
CADASIL è un acronimo, definisce una malattia genetica ad alta penetranza caratterizzata dall’occlusione
delle arteriole cerebrali che è causa di ictus ischemici ricorrenti, causa grandi disabilità.

318
vaccinazione attiva l’Ab lega il peptide β-amiloide che si trova nel sangue;
l’equilibrio a questo punto si sposta verso il sangue, tra entrata e uscita dal
parenchima cerebrale, così il monomero del peptide β-amiloide se ne va nel
sangue e si riduce la concentrazione a livello del parenchima cerebrale.
Ovviamente si è giunti allo studio clinico della vaccinazione attiva (AN1792),
purtroppo lo studio è stato interrotto per dei fenomeni di meningoencefalite asettica,
che venivano fuori per l’attivazione del SI.
Alcuni pazienti trattati con la vaccinazione attiva sono morti. L’autopsia di questi
pazienti ha dimostrato che i depositi di β-amiloide si erano ridotti in maniera
marcata, però non si riducevano i grovigli neurofibrillari, cioè gli aggregati della
proteina τ iperfosforilata. Questo è abbastanza logico, se τ è già stata
iperfosforilata, se è già staccata dai microtubuli, si sono già formati i grovigli
neurofibrillari i giochi sono fatti. Si può interferire con l’amiloide, ma non è possibile
sbrogliare i grovigli neurofibrillari. Tra le altre cose, adesso si stanno cercando di
produrre anticorpi contro le forme fosforilate di τ, però ancora non ci sono risultati.
Si è cercato in tutti i modi di ridurre la comparsa della meningoencefalite asettica e
quindi continuare le ricerche sulla vaccinazione attiva, modificando l’adiuvante del
vaccino, che magari poteva essere la causa di questa manifestazione, poiché
l’adiuvante stimolava la branca TH1 del SI. Cambiando l’adiuvante si è andati verso
una stimolazione TH2, ma si è perduta l’efficacia della vaccinazione nei modelli
animali.
Quindi, ricapitolando, la vaccinazione attiva è ancora un campo ipoteticamente
fertile, però non ha avuto alcun genere di sviluppo clinico.
Parliamo dell’immunizzazione passiva, usando MAb, gli anticorpi monoclonali. Ci
sono anticorpi che possono essere distinti in svariate categorie, in base al loro
funzionamento, ci sono Ab che attaccano tutte le forme di amiloide: la forma
monomerica, la forma oligomerica, quelli in fibrille e ci sono Ab più specializzati nei
confronti degli oligomeri, come per esempio il famosissimo Aducanumab.
Il primo MAb ad essere prodotto è stato il Bapineuzumab, il cui nome significa:
mab= anticorpo monoclonale, zu= umanizzato, neu = attacca qualcosa del SNC,
bap = attacca il peptide β-amiloide. I risultati clinici sono stati praticamente nulli,
inoltre c’era una serie di manifestazioni chiamate ARIA (Amyloid Related Imaging
Abnormalities). Queste ARIA sono le alterazioni dell’imaging correlate
all’assunzione di terapie modificanti l’amiloide, cioè quando voi date un anticorpo
che attacca la sostanza amiloide voi potete avere queste manifestazioni all’imaging
causate da eventi vascolari quali edema vasogenico, microemorragie. I sintomi
possono includere mal di testa, cambiamento dello stato mentale, confusione,
vomito, nausea, tremori e disturbi nel passo. Grande sconforto da questo punto di
vista: effetti collaterali importanti con un beneficio clinico scarso.
Un altro anticorpo, Solanezumab, è stato prodotto dalla Lilly, il Prof si trovava per
caso negli States quando un rappresentante della Lilly gli ha detto a cena: “ Tra
due giorni ci saranno i risultati dello studio di fase III del Solanezumab, noi siamo

319
molto fiduciosi, ci aspettiamo che questo anticorpo possa essere attivo”. In realtà
non è stato attivo per niente, non c’è stato alcun genere di miglioramento clinico e
nell’editoriale su Nature qualcuno ha scritto “effetto lillipuziano dell’anticorpo
Solanezumab”, poiché era prodotto dalla Lilly, quindi hanno fatto il gioco di parole
tra lillipuziano (piccolo, abitante di Lilliput – i viaggi di Gulliver) e Lilly la casa
farmaceutica.
Tutto questo è scoraggiante, tuttavia uno degli anticorpi prodotti, che prende il
nome di Aducanumab, ha una storia diversa.
Aducanumab è un anticorpo selettivamente diretto sugli oligomeri, con grande
affinità per gli oligomeri che vengono accorpati nelle fibrille, per quel processo che
prende il nome di nucleazione secondaria. Aducanumab è prodotto dalla Biogen,
nota per produrre diversi farmaci per la SM, tra cui il Natalizumab, il
Dimetilfumarato e così via. La prima pubblicazione sull’Aducanumab risale ad uno
studio di fase Ib, in cui l’obiettivo era quello di vedere il profilo di sicurezza e
tollerabilità; inoltre si è potuta vedere anche l’efficacia e alcuni dosaggi
dell’Aducanumab, in particolare il dosaggio elevato a 10 milligrammi per chilo, con
somministrazione mensile in vena, si dimostrava abbastanza efficace nei confronti
del parametro dell’ADAS-Cog. Questo ha incoraggiato gli studi di fase III, studi
molto famosi con più di 1000 pazienti, come lo studio Engage o lo studio Emerge,
detti anche, rispettivamente, studi 301 e 302.
Purtroppo, nel marzo 2019 c’è stata la dichiarazione di futilità in rapporto a questi
studi, cioè l’endpoint primario non è stato rispettato. Questo ha determinato un
iniziale crollo delle azioni della Biogen e l’interruzione dello sviluppo
dell’Aducanumab.
Tuttavia, mentre lo studio Engage non ha ottenuto nessun miglioramento dei
pazienti, lo studio Emerge, quando ha raccolto ulteriori dati dopo il 2019, ha
mostrato un effetto significativo sul parametro CDR-SB, in cui si raggiungeva una
riduzione del 22% rispetto alla scala CDR-SB quando si faceva il confronto tra chi
aveva ricevuto il farmaco e chi il placebo, con una differenza significativa.
A questo punto l’FDA si è trovata davanti alla richiesta della Biogen di dare
l’approvazione per l’Aducanumab per il trattamento della MA con questi due studi,
uno completamente negativo e uno con significatività statistica per il CDR-SB. Lo
studio Emerge, in realtà, dava un miglioramento del 22% che corrisponde a 0,39
punti. Normalmente la FDA, per approvare un farmaco con degli studi del genere
davanti, deve avere nello studio positivo almeno una differenza di 1 o 2 punti, qui
invece la differenza era di 0,39 punti, per cui le aspettative prima del 7 giugno, che
è la data in cui la FDA ha deciso positivamente sull’Aducanumab, erano negative.
Si pensava che la FDA non avrebbe mai approvato l’Aducanumab con questi
numeri, e invece sorprendentemente lo ha fatto. Ciò è stato motivato dal fatto che
la MA è una malattia devastante, che ha un impatto enorme sul pz e sui caregivers
e sul SSN e che alla fine l’Aducanumab può rappresentare il primo farmaco che
attacca direttamente la patogenesi della malattia, cioè la sostanza amiloide.
La cosa buona di questo farmaco è che attacca gli oligomeri e non il
monomero. Impedisce un meccanismo di aggregazione e non la produzione del

320
peptide β-amiloide, il quale in forma monomerica ha un ruolo nella captazione del
glucosio da parte del neurone.
Se proprio il Prof sarà messo in condizione di esprimere un giudizio su questa
approvazione dirà che non se l’aspettava, non pensava che si potesse approvare
un farmaco con questi numeri, ma questa è la realtà e bisogna prenderne atto. Ora
l’Aducanumab è disponibile per il trattamento della MA.
Altri MAb, che sono in via di sviluppo, includono il Crenezumab o il
Gantenerumab, che hanno delle caratteristiche diverse: il Crenezumab è un
anticorpo umanizzato, il Gantenerumab è come l’Aducanumab, è interamente
umano.
Questi anticorpi sono promettenti, il Gantenerumab è diretto verso gli aggregati e
non verso il monomero; quello che si sta cercando di fare adesso è di utilizzare
questi anticorpi in pz con stadio di malattia molto precoce, cioè quelli che hanno le
mutazioni delle preseniline autosomiche dominanti a penetranza completa. Ci sono
quei consorzi come il DIAN-TU, oppure il consorzio A4, che è quello che prende in
considerazione i pazienti che hanno Apoe4 in omozigosi, oppure il consorzio API,
che forniscono il nome di persone che hanno mutazioni predisponenti, pazienti che
possono essere automaticamente trattati. Si sta cercando di utilizzare questi
anticorpi contro l’amiloide più precocemente possibile, anni prima rispetto
all’esordio clinico della malattia, perché uno dei problemi per cui ogni strategia
fallisce è che sono stati utilizzati pazienti con malattia già attiva. La malattia
comincia vent’anni prima dell’esordio sintomatologico, quindi bisogna cominciare
molto prima per cercare di avere un effetto. Utilizzare queste persone, individuate
dai consorzi, che avendo una predisposizione genetica prima o poi svilupperanno
la malattia, significa iniziare precocemente a somministrare il farmaco.
La Lilly non si è arresa, ha prodotto un altro anticorpo che si chiama Donanemab,
questo è un particolare anticorpo che è diretto verso il peptide Aβ p3-42, anticorpo
diretto contro i peptidi che vanno da 3 a 42 e quella p sta per piroglutammato, cioè
ha un glutammato ciclico nella sua struttura. Questo piroglutammato si trova
esclusivamente nel peptide Aβ che fa parte degli aggregati.
Questa è la storia attuale dei MAb, che vede in testa la storia dell’Aducanumab,
che è stato approvato alla dose massima di 10mg/kg, si somministra EV una volta
al mese. L’ideale è quello di iniziare presto, non quando abbiamo già un declino
cognitivo, seppure lieve, ma ancora prima. Forse in questi stati aurorali di malattia,
attaccare solo gli oligomeri, senza interagire con i monomeri, potrebbe essere utile.
Considerate, tuttavia, che quando date un MAb, anche se questo attacca gli
aggregati più complessi, potrebbe, per intervento del complemento o altri sistemi,
degradare gli aggregati e quando si degradano gli aggregati complessi si formano
gli oligomeri un’altra volta, che sono tossici e vanno a calamitare i monomeri, quindi
non è molto semplice fare un’immunoterapia per la MA, però il fatto che
l’Aducanumab è stato approvato dà uno slancio a questo filone di ricerca.

321
Un’altra possibilità che abbiamo è quella di utilizzare delle sostanze che blocchino
l’aggregazione del monomero del peptide β-amiloide. Da questo punto di vista
bisogna ritornare al discorso di carattere generale, ossia: quando il peptide si
aggrega?
La prima possibilità è che sia un peptide geneticamente modificato, il che vuol
dire che ha qualche amminoacido sostituito, questo altera la sua liposolubilità e
aumenta la probabilità statistica che si possa alterare, ci sono delle mutazioni,
come abbiamo visto (mutazione olandese, artica, italica, etc.) che possono creare
questo tipo di problema, ma sono immensamente rare. Quindi non è qui che
dobbiamo cercare di attaccare il problema.
La seconda possibilità, che è quella che più realisticamente si verifica, riguarda la
clearance del peptide β-amiloide dal SNC che viene compromessa. Per
esempio, per un problema del sistema linfatico, o perché un individuo non riesce a
dormire e manca la clearance notturna del β-amiloide, oppure perché si crea una
differenza di pressione tra la camera anteriore dell’occhio e la pressione che c’è
all’interno del cranio, per cui questi depositi di amiloide si formano prima della
lamina cribrosa dove passa il nervo ottico e viene fuori il glaucoma, vengono fuori i
primi depositi della MA, tante possono essere le spiegazioni .
La terza possibilità invece è che entrino in gioco degli chaperones2 patologici,
cioè delle molecole che favoriscono l’aggregazione. Possono essere acidi nucleici,
possono essere metalli pesanti, c’è un attivo filone di ricerca per utilizzare i chelanti
dei metalli per proteggere il cervello dalla formazione di aggregati. Ci sono, però,
tra i vari potenziali chaperones che facilitano l’aggregazione i cosiddetti GAG, i
glicosamminoglicani, che fanno parte dei NETS. I GAG hanno la caratteristica di
essere solfatati, hanno gruppi solforici. La cosa interessante è che più sono i gruppi
solforici e più i GAG facilitano l’aggregazione del peptide β-amiloide. Indovinate chi
facilita la solfatazione dei GAG? L’Apoe4. L’Apoe4 non soltanto riduce la clearance
del peptide amiloide o della sostanza amiloide, ma favorisce l’aggregazione. Uno
dei meccanismi è quello che facilita la solfatazione dei GAG e i GAG solfatati fanno
questo, favoriscono l’aggregazione del peptide e quindi la formazione degli
oligomeri. In questo campo abbiamo alcuni farmaci, in particolare uno, che si
chiama Omotaurina, da non confondere con la Taurina, questo farmaco si chiama
anche Panixato, c’è anche il Tramiprosato (che non è l’Acamprosato, farmaco che
si usa per il Delirium Tremens), questo è un farmaco GAG-mimetico, si sostituisce
al GAG e impedisce l’aggregazione del peptide β-amiloide.
Il meccanismo di questo farmaco, il cui nome commerciale è Vivimind, è stato chia-
rito in dettaglio: questo farmaco lega il monomero del peptide β-amiloide in alcuni
amminoacidi critici, che sono la Lisina in posizione 28, la Lisina in posizione 16,
l’Aspartato in posizione 23, questi sono tre amminoacidi del peptide β-amiloide che
concorrono alla sua aggregazione e quindi, nel momento in cui l’Omotaurina o Vi-
vimind si va a legare a questi tre residui impedisce al monomero di aggregarsi.
Questo è il suo principale meccanismo d’azione. Rimane il fatto che, nel momento
2
Chaperone: ogni proteina cellulare necessaria per il corretto ripiegamento e per l’assemblamento di altre
proteine in strutture stabili e attive.

322
in cui l’Omotaurina forma il legame col β-amiloide, nasce un dubbio e cioè: la capa-
cità del monomero di far entrare glucosio nel neurone viene compromessa da que-
sto legame con l’Omotaurina oppure no? Al momento non c’è risposta. Tuttavia, il
farmaco è stato studiato clinicamente, il farmaco è somministrabile alla dose di 50 o
100 mg due volte al giorno, il farmaco non è tossico, non è rimborsato dal SSN. Vi-
vimind ha il suo perché, negli studi clinici il trattamento con Omotaurina ha mostrato
effetto utilizzando l’ADAS-Cog come scala di valutazione clinica, ha avuto effetto
esclusivamente nei pazienti che sono Apoe4 positivi. Questo non è una sorpresa,
visto che l’Apoe4 induce la solfatazione dei GAG: se il farmaco agisce impedendo
ai GAG di far aggregare il peptide β-amiloide, è ovvio che più GAG solfatati ci sono
in giro e più il farmaco ha modo di essere efficace dal punto di vista clinico.
Rimane la domanda, questo è un farmaco che produce qualche effetto di tipo pro-
tettivo oppure no? Il ricercatore Spalletta del S. Lucia (psichiatra esperto di imaging
volumetrico) ha dimostrato che se si fa un trattamento di un anno con Omotauri-
na in pazienti che hanno un MCI, un lieve declino cognitivo, quindi pz destinati a
sviluppare la malattia, il grado di atrofia delle code dell’ippocampo, della parte in-
feriore del lobo temporale e anche del giro fusiforme era ridotto. Nel frattempo in
questi pazienti si osservava un miglioramento in alcuni test cognitivi. Niente di spet-
tacolare, ma qualcosa di promettente.
L’Omotaurina ha anche un’altra caratteristica, cioè è un agonista dei recettori GA-
BA-A. I recettori GABA-A sono i principali recettori inibitori del SNC, formano dei
canali per il Cl, sono responsabili dell’inibizione sinaptica. Sono recettori attivati dal
GABA rilasciato dagli interneuroni. Voi direte: come può essere utile un’attivazione
di recettori inibitori in una demenza? Non servirebbe aumentare l’attivazione? Eb-
bene non è così, dei neuroni che soffrono maledettamente durante il decorso della
demenza sono proprio gli interneuroni inibitori, soprattutto gli interneuroni parval-
bumina positivi. Addirittura, se voi ricavate delle cellule staminali da pazienti
ApoE4+ e le fate differenziare in coltura e le fate diventare neuroni, la quantità di
neuroni gabaergici che si forma è inferiore rispetto a quella che si forma dalle sta-
minali di un individuo che ha ApoE2 o ApoE3 e non ha l’ApoE4 che è il fattore di ri-
schio della MA. Quindi c’è questa disfunzione gabaergica nella MA e avere un far-
maco che è in grado di attivare i recettori al GABA e che oltre a questo è anche un
farmaco antiaggregante è abbastanza interessante.
Ribadiamo: non è un farmaco dagli effetti spettacolari, non è pagato dal SSN, però
ha un buon profilo di sicurezza e tollerabilità.
Ci sono altri farmaci detti intercalatori di fibrille che possono interferire con i mec-
canismi di formazione degli aggregati, ma soprattutto con la formazione degli ag-
gregati con più alto peso molecolare e qui abbiamo di tutto: antracicline, tipo Doxo-
rubicina, che sono farmaci antitumorali estremamente tossici, tetracicline, le quali
sono molto interessanti, in particolare quelle a lunga emivita come la Doxicilina.
Questi farmaci sono stati utilizzati nel trattamento delle malattie da prioni, tipo ma-
lattia di Creutzfeldt-Jakob, la variante nuova di quest’ultima che noi abbiamo chia-
mato malattia della Mucca Pazza, con dei risultati iniziali che sembravano promet-
tenti, ma che non si sono rivelati tali. Le tetracicline hanno un effetto antiinfiamma-
torio nel SNC e in periferia, in alcuni casi le malattie da prioni si associano ad ami-
loidosi, la proteina che causa la malattia da prioni acquista le caratteristiche tintoria-

323
li della sostanza amiloide. Quindi farmaci come questi sono diventati potenziali
candidati nella MA, ma dal punto di vista clinico non c’è proprio nulla.
Questo è il quadro di ciò che ci offre la ricerca, facendo una sintesi: inibitori delle β-
secretasi, inibitori delle γ-secretasi, modulatori delle γ-secretasi non vanno per
niente bene, perché impediscono la produzione del monomero del peptide β-
amiloide; la vaccinazione attiva crea problemi e in questo momento non si sa in che
direzione possa andare; l’uso degli anticorpi monoclonali in un panorama di deso-
lazione completa è supportato da questa approvazione improvvisa
dell’Aducanumab a fronte di un effetto clinico molto modesto, che però rappresenta
un precedente. Gli intercalatori di fibrille possono essere farmaci utili, tra questi c’è
l’Omotaurina, l’analogo dei GAGA, che impedisce al monomero di formare gli ag-
gregati e allo stesso tempo è un farmaco che potenzia la trasmissione gabaergica e
probabilmente migliora le attività di network nel SNC. Di tutto questo che vi ho detto
il Vivimind è in commercio, l’Aducanumab è stato approvato e per il resto non ab-
biamo nulla.
Ora parleremo del trattamento convenzionale della MA. Cosa ci offre il SSN?
Sono quattro i farmaci che sono stati approvati con la nota 85 AIFA e sono tre inibi-
tori delle colinesterasi e la Memantina, che è un bloccante rapido dei recettori
NMDA. Di questo parleremo e con questo chiuderemo la MA.
Perché chiamiamo gli inibitori delle colinesterasi così, invece di chiamarli inibitori
dell’acetilcolinesterasi? Perché le colinesterasi sono due: acetilcolinesterasi e butir-
rilcolinesterasi, quindi è più corretto parlare di inibitori delle colinesterasi. Ovvia-
mente, le colinesterasi sono gli enzimi che per definizione metabolizzano
l’acetilcolina, quindi perché utilizzare farmaci che impediscono il metabolismo
dell’Ach? La motivazione è questa: il sistema colinergico è caratterizzato da neuro-
ni lunghi, quindi non stiamo parlando degli interneuroni colinergici dello striato o
dell’accumbens, ma parliamo dei neuroni setto-ippocampali o dei neuroni che par-
tono dal nucleo di Meynert e arrivano alla corteccia, questi neuroni degenerano
molto precocemente nella MA. L’Ach è importante per l’apprendimento e la memo-
ria, questo ce lo dicono molte cose, come il fatto che la scopolamina, che è un an-
tagonista dei recettori muscarinici, induce un’azione amnesizzante oltre a fare per-
dere la volontà e a dare allucinazioni. Questi sono gli effetti raccontati da Omero
nell’Odissea causati dall’infuso della maga Circe, la quale somministra questo infu-
so fatto di Mandragora officinarum e Hyoscyamus niger ai compagni di Ulisse, que-
sti poveretti perdono immediatamente la memoria, si convincono di essersi trasfor-
mati in maiali, perché hanno le allucinazioni, e perdono completamente la volontà.
Quindi rinforzare la trasmissione colinergica è importante.
Ovviamente ci si può chiedere come mai queste fibre lunghe colinergiche muoiono,
mentre invece i neuroni colinergici dello striato che sono piccoli, sono interneuroni e
rimangono intatti. Una delle spiegazioni è che questi particolari neuroni dipendono
per la loro sopravvivenza dall’NGF, fattore di crescita neuronale, che è il fattore che
ha fatto vincere il premio Nobel a Levi-Montalcini. L’NGF è una neurotrofina che
agisce su un recettore che si chiama TRK-A, perché è un recettore a tirosinchinasi
e fa sopravvivere esclusivamente i neuroni colinergici nel SNC. In periferia fa so-
pravvivere anche i neuroni dei gangli del simpatico, dei gangli delle radici dorsali,

324
ma all’interno del SNC è specifico per i neuroni colinergici. Cosa diversa dal BDNF,
che invece è un fattore neurotrofico molto più generalizzato, ad ampio spettro, ri-
spetto all’NGF.
Insomma, sembra che nella MA ci sia una perdita precoce di NGF, per cui i neuroni
colinergici degenerano molto velocemente, la stessa degenerazione si osserva nel-
la demenza a corpi di Lewy, dove la degenerazione è anche più marcata. Chiara-
mente questo ha generato grande interesse, ci si è chiesti se questa potesse esse-
re l’unica causa della degenerazione colinergica nella MA, e poi ci si è chiesto per-
ché si arriva a non produrre NGF? L’NGF non si produce, non per motivi genetici,
non si produce perché è prodotto dalle cellule piramidali, e le cellule piramidali co-
minciano a morire nella MA non se ne produce più. Per questa ragione cominciano
a morire i neuroni colinergici descritti prima e il sistema colinergico si va depaupe-
rando.
Noi abbiamo un bravissimo ricercatore che si chiama Cattaneo, che si è formato a
Trieste e ora è sempre in giro. Lui ha fatto una scoperta molto interessante: ha tro-
vato che topi mutanti che producono anticorpi anti NGF, dopo opportune tecniche
di ingegneria molecolare, sviluppano una malattia simile all’Alzheimer, con grovigli
neurofibrillari e declino cognitivo. Quindi c’è un rapporto importante tra NGF, dege-
nerazione sistema colinergico e MA.
Allora, la prima cosa che è venuta fuori è stata questa: è possibile somministrare
NGF per cercare di ridurre la degenerazione nella MA? Questo è molto difficile da
valutare, primo perché l’NGF ha difficoltà ad attraversare la BEE, secondo, l’NGF
induce dolore, è una sostanza iperalgesizzante. Questo è un grande problema,
come si fa a somministrare un NGF quando questa sostanza può dare dolore?
Cattaneo, che è molto intelligente, ha fatto un’osservazione, basandosi su patologie
che si chiamano HSAN. Le HSAN sono le neuropatie sensoriali autonomiche eredi-
tarie. Ci sono diverse forme di HASAN, l’HASAN4 dipende da mutazioni di TRK-A,
quindi dipende da un recettore per l’NGF che non funziona, questi pazienti non
hanno dolore, poiché l’NGF non ha il suo recettore, hanno declino cognitivo, perché
l’NGF non funziona nel SNC, quindi hanno un depauperamento precoce del siste-
ma colinergico. C’è anche un’altra HSAN che si chiama HSAN5, in cui c’è mutazio-
ne non del recettore per l’NGF, ma c’è la mutazione a carico dell’NGF, la mutazio-
ne si chiama R100W, che significa che un’arginina è sostituita da un triptofano in
posizione 100. Quando si verifica questa mutazione, l’NGF non è in grado di dare
dolore, però funziona nel SNC attivando il sistema colinergico, quindi i pazienti che
hanno l’HSAN5, a differenza di quelli che hanno l’HSAN4, non hanno dolore e non
hanno depauperamento cognitivo, sono infatti normali dal punto di vista cognitivo.
Non avere dolore è una condizione seria, perché significa ferirsi continuamente ed
essere esposti a rischi. L’NGF è importante.
Allora Cattaneo e altri ricercatori stanno cercando di sviluppare degli analoghi
dell’NGF che hanno le stesse caratteristiche dell’NGF R100W, cioè possono sup-
portare la vitalità dei neuroni colinergici senza indurre dolore, cercando così di mi-
gliorare la sfera cognitiva e di proteggere il sistema colinergico nei malati affetti da
MA. Qui parliamo di terapie sperimentali.

325
Invece, come dicevamo, tre dei quattro farmaci approvati dal SSN sono i tre inibitori
delle colinesterasi e il quarto è la Memantina. Va detto che l’approvazione di questi
farmaci è sub iudice, cioè praticamente il paziente va nelle UVA (unità valutazione
Alzheimer), viene sottoposto al MiniMentalState3 examination. Questi farmaci sono
rimborsati dal SSN nelle forme di MA da lieve a moderata, o al limite moderatamen-
te severa. Se il MiniMental va <10 non c’è rimborso da parte del SSN, perché in
questo caso i farmaci non si considerano efficaci, quindi in questo caso se il pa-
zienti o il caregiver volesse utilizzarlo può acquistarli a proprie spese.
La diagnosi di Alzheimer viene posta in questi centri UVA, anche tramite imaging o
tramite puntura lombare, tramite il dosaggio di peptide β-amiloide 1-42, di τ totale e
τ fosforilata. Si aspetta un mese e in questo mese si valuta se la terapia che è stata
instaurata induce effetti avversi, questo è un mese di valutazione di tollerabilità.
Dopodiché, se tutto va bene, dopo tre mesi si fa nuovamente la valutazione, se no-
nostante i farmaci c’è declino osservabile col MiniMental, a questo punto il SSN
non rimborsa più i farmaci. Se invece i farmaci frenano la MA, migliorano il cogniti-
vo, migliorano il punteggio al MiniMental o si mantiene stabile, il SSN continua a
rimborsare il farmaco, che sta dando degli effetti.
Cominciamo a parlare degli inibitori delle colinesterasi.
Le colinesterasi sono due: una si chiama acetilcolinesterasi e l’altra si chiama
butirrilcolinesterasi, la butirrilcolinesterasi veniva chiamata dai vecchi farmacologi
pseudocolinesterasi. La differenza tra questi due enzimi è data, innanzitutto, dai siti
di produzione e poi dalla specificità dei substrati. L’acetilcolinesterasi la troviamo
soprattutto nelle sinapsi, sia sinapsi colinergiche nel SNC, gangli del SNA, sia
sinapsi nella placca neuromuscolare, dove l’acetilcolinesterasi è un enzima
fondamentale per far sì che l’Ach possa agire con grandissima velocità e sia lì per
pochissimo tempo. L’acetilcolinesterasi è un enzima efficientissimo, una singola
molecola di acetilcolinesterasi idrolizza 10.000 molecole di acetilcolina ogni
secondo.
Si pensava che la butirrilcolinesterasi fosse specifica del fegato e del sangue, e che
non fosse presente nel SNC o nella placca muscolare. In realtà non è vero, poiché
la butirrilcolinesterasi può anche essere presente nel SNC e può contribuire anche
all’idrolisi dell’Ach all’interno del SNC. Inoltre, la butirrilcolinesterasi si trova molte
volte associata alle placche amiloidi, dove si concentra.
Una differenza importante tra la butirrilcolinesterasi e la acetilcolinesterasi risiede
nella specificità per i substrati. L’acetilcolinesterasi è assolutamente specifica per
l’Ach, non idrolizza altro, invece la butirrilcolinesterasi può idrolizzare l’Ach ma
anche tante altre cose, come la cocaina, l’eroina, l’aspirina, la butirrilcolina e la

3
Il Minimental è il test più popolare per la valutazione del pz con MA ed è un test decisamente rudimentale
detto MiniMental State Examination, ha punteggi che vanno da 30 a 0, se avete 30 o anche 29 siete soggetti
abbastanza normali, se avete intorno a 28 o 27 probabilmente c’è una MCI, che può interessare diversi
aspetti della sfera cognitiva, quello più critico è quello della sfera amnestica, l’MCI per definizione non deve
compromettere la vita quotidiana, da 27 a 20 si parla di MA lieve, da 19 a 15 si parla di MA moderata, da 14
a 10 si parla di MA moderatamente severa, <10 si parla di MA severa.

326
succinilcolina4: è un enzima promiscuo.
L’acetilcolinesterasi può essere suddivisa in vari tipi: G1, G2, G4.
La forma G4 è un tetramero, le 4 subunità sono ancorate insieme, al terminale
post-sinaptico, e nel SNC sono ancorate da una proteina detta PRIMA 5. Nella
placca neuromuscolare l’acetilcolinesterasi G4 è ancorata dal collagene Q. Questo
è interessante, poiché ci sono delle miastenie congenite che derivano da mutazioni
del collagene Q. Il collagene Q è questa specie di alberello che è in grado di tenere
lì almeno 4 molecole di G4, a volte ne tiene dodici, mentre PRIMA fa lo stesso, ma
lo fa nelle sinapsi del SNC. Quindi la G4 è la proteina più importante, la quale
metabolizza l’Ach nel SNC e nella placca neuromuscolare. Dopo la G4 c’è la G1,
che ha una forma globulare e monomerica; in questa forma di acetilcolinesterasi
manca il trascritto dell’esone sei del gene, l’esone sei è quello che permette la
tetramerizzazione, questa si chiama anche acetilcolinesterasi R, la sigla R sta per
readthrough, è un’acetilcolinesterasi in cui viene inserito un introne nella
trascrizione genica che normalmente non c’è. Questo monomero non è ancorato
alla sinapsi, ma si trova nello spazio extracellulare. La variante G2 a noi non
interessa molto, è un dimero che si trova negli eritrociti. La stessa cosa vale per la
butirrilcolinesterasi, per la quale ci sono diversi tipi: G1, G4 e via dicendo.
Fatta questa premessa: come si dividono gli inibitori delle colinesterasi?
Gli inibitori delle colinesterasi possono essere reversibili, pseudoreversibili o
irreversibili. Gli inibitori irreversibili sono i gas nervini e i veleni e gli insetticidi che
non hanno un ruolo nella nostra trattazione, anche se uno di loro – in passato – è
stato sviluppato per il trattamento della MA, ma senza successo. Quindi nel
trattamento della MA troviamo gli inibitori reversibili o quelli pseudoreversibili. Gli
inibitori reversibili sono due: Donepezil e Galantamina.
C’è poca differenza tra Donepezil e Galantamina, tutti e due sono specifici per
l’acetilcolinesterasi rispetto alla butirrilcolinesterasi, verso cui non hanno azione,
sono – poi – altamente specifici per la forma G4 rispetto alla forma G1. La
Galantamina è un modulatore allosterico positivo dei recettori nicotinici del SNC. La
Galantamina è una sostanza naturale che si trova nell’erba Moly6, questa
particolare erba è quella che Hermes ha dato ad Ulisse come antidoto al preparato
somministratogli dalla Maga Circe, questo conteneva scopolamina, la sostanza
data da Hermes bloccando l’acetilcolinesterasi aumentava l’Ach nella fessura
sinaptica entrando in competizione con la scopolamina, limitandone gli effetti.
Quindi, Donepezil e Galantamina hanno queste caratteristiche, assolutamente
specifici per la acetilcolinesterasi rispetto alle butirrilcolinesterasi, assolutamente

4
La succinilcolina è il depolarizzante di placca utilizzato per paralizzare il muscolo scheletrico durante gli
interventi chirurgici in alternativa ai curari.
5
Si chiama PRIMA perché è molto ricca in Prolina.
6
Si ritiene che Moly, “una radice nera, ma fiore simile al latte”, sia il bucaneve Galanthus nivalis, che è una
fonte di Galantamina. È stato proposto che i farmaci utilizzati da Circe fossero un estratto di Datura
stramonium, che causa perdita di memoria e delirio. Ciò fornirebbe una base per l’uso del bucaneve come
antidoto, siccome Datura stramonium è un anticolinergico, la Galantamina è un inibitore
dell’acetilcolinesterasi.

327
specifici per il tipo G4 rispetto al tipo G1, la Galantamina è anche PAM dei recettori
nicotinici neuronali del SNC che sono importanti per la memoria.
Il Donepezil viene dato al dosaggio di 5 o 10 mg/die, ha un’emivita >40h, quindi
possiamo dare tranquillamente una compressa di Donepezil al giorno, il nome
commerciale è Aricept o Memac. È metabolizzato principalmente dal CYP2D6 e in
parte dal CYP3A4, quindi dobbiamo fare attenzione alle interazioni tra farmaci.
La Galantamina si dà a dosaggi compresi tra 12 e 24mg, però questi dosaggi
devono essere divisi in due volte al giorno, poiché l’emivita è più breve, E = 3-4h.
Anche questa è metabolizzata dal CYP2D6 e dal CYP3A4. Inibitori reversibili
significa che loro inibiscono l’enzima soltanto quando sono presenti.
La situazione è diversa per l’altro farmaco rimborsato dal SSN che prende il nome
di Rivastigmina (Exelon), prodotto dalla Novartis. La Rivastigmina è un inibitore
pseudoreversibile: significa innanzitutto che è un carbamato, il carbamato si lega
all’enzima e forma un carbamilenzima, nel momento in cui si forma un
carbamilenzima l’enzima rimane bloccato per diverse ore. Per questo motivo,
nonostante l’emivita della Rivastigmina sia 1-2 h al massimo, viene dato solo due
volte al giorno e il dosaggio che si usa in terapia va da 6 a 12 mg. La Rivastigmina
è presente anche come cerotto, il famoso cerotto di Exelon, che è un cerotto che
rilascia 10 mg al giorno di principio attivo, ma ne esistono alcuni che rilasciano di
più. Il vantaggio del cerotto è che non ci sono picchi plasmatici, le concentrazioni
plasmatiche sono costanti. La Rivastigmina, oltre ad essere un inibitore
pseudoreversibile (come tutti i farmaci che finiscono in -stigmina sono così, come la
Piridostigmina nel trattamento della Miastenia Gravis).
Ci sono due differenze importanti tra Donepezil e Galantamina da una parte e
Rivastigmina dall’altra, vale a dire: la Rivastigmina agisce sia sull’acetilcolinesterasi
che sulla butirrilcolinesterasi, mentre Donepezil e Galantamina sono specifici per
l’acetilcolinesterasi; poi la Rivastigmina agisce sulla forma G1 più di quanto faccia
sulla forma G4, su cui comunque agisce.
A questo punto ci si chiede: quale tipologia di farmaco conviene utilizzare? Dipende
dall’informatore farmaceutico che avete davanti. Se avete qualcuno che vuole
sopportare l’uso in terapia di Donepezil e Galantamina vi dirà che nel SNC la forma
G4 è la forma prevalente e che la butirrilcolinesterasi partecipa poco al
metabolismo dell’Ach, quindi che senso ha inibirla o agire sulla forma G1.
Blocchiamo selettivamente la forma G4 dell’acetilcolinesterasi e siamo a cavallo.
Se, invece, viene qualcuno della Novartis, che sostiene l’impiego della
Rivastigmina, vi dirà una cosa diversa: è vero che la forma G4 tetramerica sinaptica
è quella più importante per il metabolismo dell’Ach nel SNC, però è altrettanto vero
che durante il decorso della MA la forma G4 si riduce, mentre la forma G1 no,
inoltre, la butirrilcolinesterasi quando c’è poca G4, entra in gioco nel metabolismo
dell’Ach, e poi -probabilmente- è legata anche alla patogenesi della MA poiché è
stata ritrovata associata ai depositi di sostanza amiloide.
Quindi entrambi gli informatori portano delle argomentazioni in parte valide, il Prof
deve dirci che tra l’efficacia di questi farmaci non si rilevano particolari differenze. Il

328
Prof esprime una simpatia per il trattamento con Exelon cerotto, però questo è un
punto di vista personale.
Considerate che noi potremmo avere delle forme lente di butirrilcolinesterasi, che è
infatti un enzima altamente polimorfo. Esiste per esempio la variante K, che è una
variante con D70G, aspartato in glicina in posizione 70, e poi c’è la variante atipica
che invece è E593T, un glutammato in posizione 593 è sostituito da una treonina.
Se sono presenti queste varianti di butirrilcolinesterasi, c’è una riduzione dell’attività
enzimatica di circa il 30-35%. Queste varianti si incontrano nella popolazione.
Prima di utilizzare la succinilcolina in terapia, per fare un intervento chirurgico,
ricerchiamo l’attività dell’enzima, non facciamo la genotipizzazione, però misuriamo
la butirrilcolinesterasi, perché se questa funziona di meno la succinilcolina avrà una
durata di blocco neuromuscolare più alta, e questo significa che il paziente non si
riprende con la respirazione spontanea, quando viene estubato, per questo deve
essere sostenuto.
Della butirrilcolinesterasi ci sono la variante H e la variante J, che invece possono
cagionare una riduzione del funzionamento dell’enzima anche del 90%, tuttavia
sono molto rare. Questo ce lo dice perché se dovessimo avere un paziente con una
variante più lenta della butirrilcolinesterasi la Rivastigmina funzionerebbe meno.
Detto ciò, gli inibitori delle colinesterasi sono utili finché sono presenti i terminali co-
linergici, se questi non esistono più non c’è l’Ach di cui noi possiamo impedire la
degradazione, questo significa che non ha più senso utilizzare gli inibitori delle coli-
nesterasi. Questo è il motivo per cui più lieve è la malattia, meglio loro funzionano,
ed è il motivo per cui quando si passa alla forma di Alzheimer severa non ha più al-
cun significato utilizzare gli inibitori delle colinesterasi, perché tutti i terminali coli-
nergici dei neuroni lunghi setto-ippocampali o Meynert-corticali sono defunti, quindi
non c’è più rilascio di Ach e l’inibitore delle colinesterasi non serve più a niente,
mancando l’Ach non può inibire il metabolismo di nulla.
L’opinione del Prof su questi farmaci è che sono tutti quanti sottodosati, agirebbero
molto bene se venissero usati a dosaggi più elevati, ma come potete immaginare
non è possibile poiché l’Ach è il neurotrasmettitore del SNA e della placca neuro-
muscolare. Teoricamente questi farmaci non potremmo usarli nei cardiopatici, per-
ché c’è il Vago nel cuore, non è prudente aumentare la quantità di Ach nella sinapsi
cardiaca, avremmo l’azione bradicardizzante e cronotropa negativa tipica del vago
a livello atriale. Nella placca neuromuscolare se impediamo la degradazione
dell’Ach abbiamo lo stesso effetto che possiamo avere con un depolarizzante di
placca o un gas nervino, con quadri critici. Quindi questi farmaci probabilmente
avrebbero più efficacia se fosse possibile utilizzarli a dosaggi più elevati. Conside-
rate che utilizzandoli ai dosaggi indicati dalle terapie, gli effetti avversi non sono
quasi mai a carico del cuore, il quale è preservato a questi dosaggi, mentre gli ef-
fetti più fastidiosi sono a carico dell’apparato GI, dove il vago e il parasimpatico in
generale sono importanti per regolare le secrezioni gastriche e per regolare la moti-
lità intestinale. Quindi con questi farmaci potremmo avere crampi et similia.
Sono farmaci utili, dal punto di vista della sfera cognitiva, in genere i pazienti ri-
spondono bene a questi farmaci, ma non è mai stata dimostrata un’efficacia di que-
sti farmaci nel rallentare la progressione di malattia. Si pensava che potesse essere

329
così, perché l’α-secretasi, che è l’enzima che impedisce la produzione del peptide
β-amiloide, perché taglia a metà e non fa formare questo peptide, viene stimolata
dai recettori muscarinici, quindi si è pensato che oltre all’azione cognitiva questi
farmaci inibitori delle colinesterasi possano anche favorire la via non amiloidogeni-
ca del taglio dell’APP, ma abbiamo già detto un milione di volte che impedire la
produzione del peptide 1-42 tutto sommato non sia una strategia valida, come han-
no dimostrato un miliardo di dati clinici, senza eccezioni.
L’ultimo farmaco da prendere in considerazione è la Memantina.
La Memantina è un farmaco che è nato per il trattamento della malattia di Parkin-
son in Germania, ma che invece è stato diretto al trattamento della MA. È un far-
maco molto simile all’Amantadina, cioè il farmaco che ha indicazione per le disci-
nesie da Levodopa per la malattia di Parkinson, ma agisce come inibitore rapido
del canale NMDA. Si infila nel canale ionico del recettore NMDA, esattamente co-
me fanno gli ioni di magnesio, e a questo punto impedisce al recettore di funziona-
re. Il blocco da parte della Memantina è voltaggio dipendente e anche uso dipen-
dente. Quindi la Memantina entra nel canale quando il recettore è stato attivato e
poi se c’è una depolarizzazione se ne va via dal canale e permette nuovamente al
canale di essere attivo.
Qui entriamo nel paradosso di Zenone, per quale motivo un bloccante dei recettori
NMDA migliora la sfera cognitiva nella MA, quando per sei anni abbiamo studiato
che i meccanismi di plasticità sinaptica, come per esempio LTP ed LTD che sono i
substrati della memoria e dell’apprendimento, dipendono – per la loro induzione –
dall’attivazione dei recettori NMDA. Quindi abbiamo una situazione strana: i recet-
tori NMDA devono essere attivati per l’induzione del potenziamento a lungo termine
e per l’induzione della depressione a lungo termine e per la trasmissione sinaptica
eccitatoria, però adesso stiamo dicendo che la Memantina, nome commerciale Ebi-
xa, viene utilizzata nel trattamento della MA ed è un bloccante rapido dei recettori
NMDA. Chiaramente questo può apparire privo di senso.
Per capire il meccanismo d’azione dobbiamo fare un discorso di carattere generale.
Se voi siete in macchina e avete una radio di quelle in cui la stazione radio va cer-
cata girando una manopola, ogni tanto captate una stazione e ve la sentite. Sapete
benissimo però che se entrate in una zona in cui ci sono diverse stazioni radio che
trasmettono, è difficile captare una stazione radio, a meno che questa non abbia
una potenza straordinaria, perché il rumore di fondo è molto alto. C’è un brusio di
fondo che vi impedisce di ascoltare la stazione radio selezionata, poi magari vi tro-
vate in un’altra zona dove non ci sono molte stazioni in giro e così potete captare
quel segnale che volete in maniera chiara. La stessa cosa succede nei meccanismi
di apprendimento, dove uno dei punti chiave è il rapporto tra il segnale, che noi
dobbiamo apprendere, e il rumore di fondo (Signal to Noise), più alto è il rumore di
fondo, più difficile sarà l’apprendimento. Se andiamo ad un concorso di Mr Italia e
pretendiamo di ricordare le caratteristiche di un candidato, a meno che non ci sia
qualcosa di strano, è difficile ricordarle rispetto a quelle di tutti i candidati, perché il
livello estetico di tutti i candidati è molto simile. Se invece troviamo una persona
con fattezze estetiche particolarmente nei canoni di bellezza in cui siamo cresciuti
mentre camminiamo per il mercato rionale, la notiamo immediatamente e ce la ri-
cordiamo pure bene. Quindi per l’apprendimento quello che è fondamentale è il se-

330
gnale rispetto al rumore di fondo.
La domanda a questo punto è: cosa succede nel momento in cui apprendiamo in
condizioni normali? Noi apprendiamo molto spesso con una modalità di tipo asso-
ciativo, cioè arriva uno stimolo di rinforzo: per esempio vediamo un incidente stra-
dale sotto un albero e memorizziamo quell’albero, perché lo stimolo di rinforzo de-
polarizza la membrana, in questo caso lo stimolo di rinforzo è l’incidente. La depo-
larizzazione della membrana rimuove il blocco del Mg++ nel canale ionico del re-
cettore NMDA, si attiva il recettore NMDA ed entra Ca++, il calcio entra e potenzia
la sinapsi e si crea un segnale su rumore di fondo. Il noise è basso e noi possiamo
apprendere.
Nella MA succede che c’è captazione di glucosio inferiore, inferiore captazione di
glucosio significa meno ATP, se c’è meno ATP la cellula nervosa avrà difficoltà a
mantenere il potenziale di riposo, se ha difficoltà a mantenere il potenziale di riposo
significa che la cellula ha un certo livello continuo di depolarizzazione, visto che le
pompe ioniche (ATPasi) non funzionano bene, essendo disponibile poco ATP.
A questo punto il magnesio va via, il recettore NMDA viene costitutivamente attiva-
to, quando viene costitutivamente attivato si alza il noise. Quando si alza il noise
diventa più difficile apprendere un’informazione, poiché noi abbiamo un recettore
NMDA che è già attivo, che ha alzato così il rumore di fondo, e a questo punto ap-
prendere diventa molto complicato. Cosa fa la Memantina? La Memantina entra nel
canale al posto del magnesio, ed è un po’ più stabile di questo, rimane all’interno
del canale ionico anche nel momento in cui c’è una certa difficoltà dovuta a questa
soglia di depolarizzazione labile. La Memantina sta lì e riduce il rumore di fondo, il
noise. Nel momento in cui arriva lo stimolo che deve essere appreso, la depolariz-
zazione della membrana è intensa, robusta, perché lo stimolo di rinforzo crea la
depolarizzazione e a questo punto la Memantina va via, permette l’apprendimento.
La Memantina è un magnesio evoluto, entra nel canale ionico anche in una condi-
zione in cui il magnesio sarebbe andato via, che è quella della parziale depolariz-
zazione che affligge i neuroni nella MA, così si viene a determinare la riduzione del
rumore di fondo ed è come se noi cercassimo una stazione radio in una zona in cui
non ci sono molte altre stazioni e la captiamo facilmente e ce la sentiamo.
Quando è stato fatto il lancio della Memantina da parte della Lundbeck il Prof ha
contribuito e faceva sempre l’esempio dei fenicotteri: quando era fidanzato con
quella che poi è diventata sua moglie (~ preistoria), i due andavano all’oasi di Ven-
dicari (Sicilia orientale), è un bellissimo posto dove ogni anno c’è un Fenicottero ro-
sa che il prof ricorda perfettamente, perché era l’unico. Poi i due, dopo il matrimo-
nio, sono andati in viaggio di nozze sul lago di Nakuru, in Kenya, dove si arriva con
la Jeep e ci sono migliaia e migliaia di fenicotteri rosa, il prof chiaramente ricorda la
scena pazzesca, ma non ricorda le caratteristiche di un certo fenicottero del lago di
Naburu, perché il rumore di fondo era elevato. Fondamentalmente, ciò che la Me-
mantina fa è ripristinare la situazione dell’oasi di Vendicari, come se non ci fossero
migliaia di fenicotteri, e a quel punto il paziente riesce a memorizzare il segnale che
deve memorizzare, presumibilmente attraverso un meccanismo di apprendimento
associativo.

331
Tutto questo è molto diverso rispetto alla PCP e alla Ketamina, le quali bloccano il
recettore NMDA – come la Memantina -, ma sono bloccanti lenti! Rimangono den-
tro il canale anche per un paio di ore. Il che vuol dire che loro azzerano il rumore di
fondo, se lo diamo ad un malato di Alzheimer, però impediscono anche
l’apprendimento, poiché impediscono al recettore NMDA di attivarsi anche quando
dovrebbe. Per questo l’Esketamina, che è un farmaco da poco approvato per il trat-
tamento della depressione farmacoresistente, ha sempre questa possibilità di far
deteriorare la sfera cognitiva, anche se la sua somministrazione ha dei vantaggi,
perché i pz depressi farmacoresistenti hanno una qualità di vita misera, quindi ave-
re un farmaco che funziona in almeno il 50% di questi pazienti ed in maniera molto
rapida è una grande innovazione terapeutica.
La Memantina agisce a dosaggi che vanno da 5 a 20 mg, possiamo titolare il far-
maco. Il metabolismo della Memantina non è ad opera del citocromo p450. Gli ef-
fetti avversi sono, soprattutto, di tipo psicotomimetico se la Memantina è associata
a dopamino agonisti. Per esempio, quando si utilizzava nella malattia di Parkinson
in Germania e veniva combinata con la Levodopa, c’erano queste particolari mani-
festazioni. Poi può ridurre l’azione dei barbiturici, il meccanismo non si conosce,
probabilmente è legato al fatto che viene ridotta l’espressione del trasportatore
KCC2, il GABA perde la capacità inibitoria per certi versi e i barbiturici non funzio-
nano più, questa è solo una speculazione.
Quando l’Ebixa è entrato in commercio, è stato un pochettino localizzato nelle for-
me moderate di MA e non nelle forme lievi; questa era solo una decisione di marke-
ting, per non fare competizione agli inibitori delle colinesterasi, in realtà non c’è dif-
ficoltà ad associare un inibitore delle colinesterasi con la Memantina, poiché il mec-
canismo d’azione è completamente diverso.
L’ultima cosa da dire è questa: la Memantina è un bloccante dei recettori NMDA, i
recettori NMDA sono coinvolti nel meccanismo di eccitotossicità, per cui verrebbe
da chiedersi: può essere che la Memantina rallenti la progressione della malattia?
In realtà questo clinicamente non è mai stato dimostrato, in merito il prof ci propone
la sua ipotesi per spiegare il fenomeno. I recettori NMDA possono essere recettori
sinaptici, cioè trovarsi al centro della sinapsi, oppure recettori extrasinaptici, che si
trovano alla periferia; i recettori sinaptici hanno, oltre alla subunità GluN1 - che lega
la glicina -, anche la subunità GluN2A, sono recettori trofici, sono recettori che fan-
no apprendimento, sono recettori importanti per la sopravvivenza delle cellule, poi-
ché fanno entrare il calcio che è utile per la biologia delle cellule nervose. Mentre
invece i recettori extrasinaptici sono quelli che hanno la subunità GluN2D e sono
recettori maggiormente coinvolti nella tossicità. La Memantina agisce sui recettori
che hanno la subunità GluN2D, cioè quelli extrasinaptici più coinvolti nella tossicità
cellulare, con più affinità rispetto a quelli che hanno la subunità GluN2A, che sono
quelli protettivi e coinvolti maggiormente nell’apprendimento. Al dosaggio utilizzato,
sono reclutate entrambe le categorie di recettori, allora questo significa che noi po-
tenzialmente potremmo avere un’azione protettiva, ma per svelarla dovremmo
scendere enormemente col dosaggio, in modo tale da bloccare solamente i recetto-
ri extrasinaptici. Ebbene c’è uno studio sperimentale preclinico dove sono stati uti-
lizzati dei topi che si chiamano YAC128 che sono mutanti per la Corea di Hunting-
ton per cui è stata testata la Memantina come farmaco protettivo, nel modello muri-

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no funzionava bene, aumentando la durata di vita e proteggendo i neuroni dello
striato a dosaggi molto bassi, appena si saliva con la dose, si perdeva l’effetto e
addirittura peggiorava la situazione clinica di questi animali. Quindi se il prof avesse
un caso di MA a casa sua, farebbe prendere a questa persona l’Ebixa con un inibi-
tore delle colinesterasi, e aggiungerebbe di prendere l’Ebixa a dosaggio non di 5
mg, ma a dosaggio di 0,5 mg al giorno. Ovviamente se uno dice una cosa così
all’esame di Neurologia il feedback del docente non sarà buono, perché il dosaggio
in scheda tecnica è da 5 a 20 mg, tuttavia se voleste cominciare un trattamento con
Memantina in una fase molto precoce di malattia e partire con questi dosaggi molto
bassi, potrebbe essere che la selettività per i recettori NMDA extrasinaptici che
hanno la subunità GluN2D possa proteggere le cellule nervose e contemporanea-
mente l’inibitore delle colinesterasi può associare un effetto sul miglioramento co-
gnitivo.

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