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Biblioteca Universale Laterza

552
© 2003, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2003


Seconda edizione 2005

Traduzione di Gaetano Rametta


Johann Gottlieb Fichte

Discorsi
alla nazione
tedesca
a cura di Gaetano Rametta

Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel giugno 2005


Poligrafico Dehoniano -
Stabilimento di Bari
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
CL 20-6990-3
ISBN 88-420-6990-6

È vietata la riproduzione, anche


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Introduzione
di Gaetano Rametta

a Lia,
che sa il perché

Fichte tenne i Discorsi alla nazione tedesca nell’anfiteatro dell’Acca-


demia delle scienze di Berlino, ogni domenica a partire dal 13 di-
cembre 1807, e così sino al 20 marzo 18081. Il pubblico era costi-
tuito da “una numerosa assemblea di signori e signore” della società
colta berlinese, mentre per via epistolare il filosofo manteneva i rap-
porti con personalità del governo prussiano, allora in “esilio” a Me-
mel, nell’estremo nord della Prussia orientale. Le condizioni in cui
si svolgevano gli incontri ci vengono riferite dalle memorie di alcu-
ni partecipanti, che sottolineano lo straordinario coraggio di cui
Fichte aveva dato prova nel sostenere in conferenze pubbliche la ne-
cessità di una rigenerazione spirituale della Germania, come condi-

1 In attesa della nuova edizione critica, le Reden an die deutsche Nation ver-

ranno citate secondo il testo della prima edizione berlinese del 1808, riprodot-
to nell’edizione a cura di R. Lauth per la “Philosophische Bibliothek” dell’edi-
tore Meiner, Hamburg 1978 [d’ora in avanti R]. Su quest’ultimo testo è stata
condotta la presente traduzione italiana; i riferimenti a quest’ultima sono pre-
ceduti dall’indicazione del discorso in numero romano, seguito dall’indicazione
in numero arabo della pagina. Nel panorama delle versioni già esistenti, oltre al-
le meritorie ma invecchiate traduzioni di E. Burich (Milano-Palermo 1915, rist.
1927 e 1937) e di B. Allason (Torino 1939, quinta rist. 1972), da confrontare la
bella traduzione francese di A. Renaut, Discours à la nation allemande, Impri-
merie nationale Éditions 1992.
Nella presente traduzione, tra parentesi quadre sono indicate le pagine cor-
rispondenti nell’edizione dei Fichtes Werke, a cura di I.H. Fichte, de Gruyter,
Berlin 1971, vol. VII, pp. 257-502. Le note contrassegnate da asterisco sono di
Fichte; quelle in numero arabo sono mie.

V
zione per la liberazione e il riscatto dalla dominazione straniera2. Le
truppe di occupazione francesi sfilavano sotto le finestre della sala
in cui le conferenze si svolgevano, e i suoni delle fanfare militari si
sovrapponevano alle parole dell’oratore; non soltanto in sala erano
presenti informatori francesi, ma persino il censore prussiano assi-
steva personalmente alle riunioni. Era ancora vivo il ricordo della
fucilazione cui era stato sottoposto il libraio Palm, per aver pubbli-
cato un opuscolo di propaganda anti-francese. Il rischio era dunque
effettivo, anche se del contingente francese facevano parte, con po-
sizioni di responsabilità, alcuni ex allievi del filosofo3.
Ma che cosa aveva portato la situazione a questo punto? È lo
stesso Fichte, nel Primo discorso, a presentarci la sua diagnosi.
Riallacciandosi esplicitamente alle lezioni sui Tratti fondamentali
dell’epoca presente che aveva tenuto a Berlino alcuni anni prima
(1804/05), egli sottolinea che i Discorsi vanno intesi come la con-
tinuazione di quelle. Come noto, nei Tratti fondamentali Fichte
aveva contrassegnato l’epoca presente come quella della “com-
piuta peccaminosità”, intendendo con ciò indicare la prevalenza
di un atteggiamento intellettualistico, volto al perseguimento del-
l’utilità e del vantaggio immediati nella vita terrena4. Tale atteg-
giamento era il frutto della critica illuministica alle religioni posi-
tive e della conseguente assolutizzazione della conoscenza scien-
tifica, nel senso matematico-quantitativo delle moderne scienze
della natura. Si era diffuso dalla Francia alla Germania, ma
l’“egoismo” immanentistico di cui esso era promotore si era in-
nestato qui su una situazione politica già di per sé frammentata e

2 Si confronti in particolare la testimonianza di Varnhagen von Ense, ripor-

tata in J.G. Fichte im Gespräch, vol. 4 [d’ora in avanti FG], a cura di E. Fuchs,
Stuttgart-Bad Cannstatt 1987, pp. 72-74.
3
A questa circostanza, oltre che al crescente isolamento in cui Fichte si sarebbe
trovato a causa dell’ostilità di Schleiermacher e dei romantici di Berlino, X. Léon ri-
conduce il fatto che il filosofo patriota non sia stato oggetto di “rappresaglie da par-
te degli occupanti” (cfr. Fichte et son temps, t. II, Fichte à Berlin (1799-1813), parte
2ª: La lutte pour l’affranchissement national (1806-1813), Paris 1927, pp. 122-124).
4
Cfr. J.G. Fichte, Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters [d’ora in avanti
GZ], in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften [d’ora in
avanti GA], a cura di R. Lauth, H. Jacob e H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cann-
statt 1962 sgg., vol. I, 8, pp. 206 sg.; trad. it. I tratti fondamentali dell’epoca pre-
sente, a cura di A. Carrano, coll. Fichtiana, Milano 1999, pp. 97 sg. Sulla con-
cezione della storia, cfr. W. Metz, Die Weltgeschichte beim späten Fichte,
“Fichte-Studien”, n. 1 (1990), pp. 121-131.

VI
ricca di spinte centrifughe. All’interno di questo quadro, si collo-
ca l’atteggiamento dei diversi Stati tedeschi, e più in generale dei
ceti territoriali e dei singoli cittadini, di fronte alle guerre rivolu-
zionarie prima, e a quelle di Napoleone poi.
Fichte cerca di adottare un linguaggio che, sulla scorta di Leo
Strauss, potremmo definire “reticente”. In parte per prevenire gli
interventi della censura, in parte perché costretto esplicitamente
da quest’ultima a modificare termini ed espressioni, egli impiega
in molti casi parole quanto più possibile generiche, che non sem-
pre rendono agevole – per un lettore del nostro tempo – identifi-
care i bersagli concreti della sua polemica con la stessa facilità con
cui venivano identificati dagli uditori e dai censori dell’epoca. Co-
sì avviene per l’uso dell’avverbio irgendwo, “da qualche parte”,
nel Primo discorso, quando si tratta di collocare nello spazio il
luogo in cui l’“egoismo” è andato completamente distrutto5; così
avviene per l’impiego del termine “estero”, con cui di solito (ma
non sempre) si intende, in concreto, la Francia.

5
“Là dove oggi, in modo allusivo e indeterminato, si trova ‘il corpo comu-
ne’, originariamente c’era, in modo concreto e chiaro, ‘lo Stato’; là dove oggi
vengono accusati di debolezza i ‘governi’, originariamente l’accusa era rivolta
contro il ‘governo’. Là dove oggi l’aggiunta ‘da qualche parte’ rende incerto qua-
le Stato sia inteso, originariamente si diceva, con diretto riferimento a un singo-
lo Stato: ‘È perché si sono strappati questi legami, dunque, che lo Stato è anda-
to distrutto’. Se è certo che questa proposizione si riferisce a Jena e Auerstädt
con le loro disastrose conseguenze, allora è chiaro anche quali sono i rimprove-
ri che più sopra vengono mossi contro ‘un simile governo’. ‘La trascuratezza di
tutti i legami mediante i quali la propria sicurezza è collegata alla sicurezza di al-
tri Stati’: è il ritiro della Prussia dalla Prima coalizione, il suo rifiuto di entrare
nella Seconda e nella Terza coalizione. ‘Il rifiuto dell’intero di cui esso è parte
solo per non essere distolto dalla sua quiete inerte’: è il sacrificio dell’impero da
parte della Prussia” (cfr. M. Lehmann, Fichtes Reden an die deutsche Nation vor
der preußischen Zensur, “Preußische Jahrbücher”, Bd. 82 (1895), pp. 503 sg.; cit.
in FG, p. 122. Il brano in questione è infra, pp. 10-13). Fichte aveva deciso di
stampare separatamente i singoli discorsi mano a mano che venivano pronun-
ciati, per raccoglierli quindi in volume. Particolari difficoltà con la censura eb-
bero l’Ottavo discorso, che però alla fine ricevette l’imprimatur; il Tredicesimo,
che andò addirittura smarrito, e che Fichte dovette completamente riscrivere; e
il Quattordicesimo, per la cui approvazione Fichte dovette rivolgersi diretta-
mente al primo ministro von Stein. Il Primo discorso, invece, restò bloccato, e
venne pubblicato in volume con le modifiche di cui si è appena detto.
Sulle travagliate vicende tra Fichte e la censura in rapporto alle Reden, ab-
biamo potuto consultare anche il prezioso saggio (inedito) di E. Fuchs, Fichtes

VII
La distruzione dell’egoismo indica dunque la distruzione del-
l’impero tedesco e, ancora più concretamente, la disfatta subita dal-
le truppe prussiane nella battaglia di Jena e di Auerstädt. Essa è vi-
sta da Fichte come l’esito conseguente del comportamento incerto
e oscillante della Prussia, che aveva abbandonato al loro destino i di-
versi Stati tedeschi con cui formava un’unica compagine, per salva-
guardare la propria sicurezza e ottenere magari qualche vantaggio
territoriale (come l’acquisizione dell’Hannover a seguito del Tratta-
to di Schönbrunn del 15 dicembre 1805, successivo alla disfatta au-
striaca nella battaglia di Austerlitz del 2 dicembre dello stesso anno).
L’inadeguatezza della politica prussiana si sarebbe manifestata di lì
a qualche mese, quando Napoleone avrebbe fatto pagare a caro
prezzo l’alleanza coi vincitori, imponendo alla Prussia di chiudere al
commercio inglese i propri porti (Trattato di Parigi, 15 febbraio
1806), e al tempo stesso costringendo l’imperatore asburgico Fran-
cesco II a dichiarare decaduto il Sacro romano impero germanico
(26 agosto 1806). Tale decisione era stata preceduta dalla fondazio-
ne della Confederazione del Reno (12 giugno 1806), che raccoglie-
va in un’unica compagine politica i territori tedeschi alleati dei fran-
cesi. Così, la Prussia venne a trovarsi isolata di fronte all’“alleato”
francese, e quando sembrò che perfino l’Hannover sarebbe stato re-
stituito all’Inghilterra, la decisione di mobilitare l’esercito e muove-
re guerra alla Francia giunse come un atto ormai tardivo e senza ef-
ficacia: la battaglia di Jena e di Auerstädt (14 ottobre 1806) fornì la
testimonianza che la dissoluzione dell’impero – cui la Prussia stessa
aveva contribuito col suo atteggiamento, basato solo sul calcolo me-
schino di qualche vantaggio temporaneo e sul mantenimento della
propria sicurezza – si era trasferita all’interno della Prussia6.
Per Fichte, l’idea di restare in una Berlino che era in procinto
di essere occupata dal vincitore (Napoleone vi entrerà il 27 otto-
bre) diventa insopportabile. Alla notizia della sconfitta prussiana,
egli perciò fugge dalla città, e raggiunge la corte a Königsberg.
Nella città di Kant, oltre a pubblicare il saggio su Machiavelli che
attirerà l’attenzione del giovane Clausewitz, Fichte tiene un corso
di dottrina della scienza nella locale università. Come vedremo, le

“Reden an die deutsche Nation” und die Zensur, cui vanno i nostri più vivi rin-
graziamenti.
6
Cfr. R, pp. 17 sg.; I, pp. 10-12.

VIII
riflessioni condotte in queste lezioni costituiscono lo sfondo indi-
spensabile per intendere adeguatamente le considerazioni di ca-
rattere teoretico contenute in particolare nel Settimo discorso. A
ogni modo, anche la capitale dell’antica Prussia orientale costi-
tuisce un riparo solo temporaneo: l’apertura delle ostilità contro
la Russia dello zar Alessandro, culminate nella vittoria napoleoni-
ca della battaglia di Friedland (13 giugno 1807), spinge Fichte
nuovamente alla fuga e al rientro a Berlino (agosto 1807), dopo
che l’umiliazione della Prussia si era estesa, dal terreno militare, a
quello politico-diplomatico (pace di Tilsit, luglio 1807). Nella ca-
pitale prussiana, ancora priva del governo che a seguito dell’oc-
cupazione di Königsberg da parte dei francesi si era ritirato a Me-
mel, Fichte trova il clima politico e spirituale per reagire al quale
decide di pronunciare le sue Reden an die deutsche Nation.
Ma allora, se tale è la situazione concreta all’interno della qua-
le intendono intervenire i Discorsi, è evidente che la continuità
con le lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente andrà in-
tesa in modo tutt’altro che lineare. Ciò che con la disfatta della
Prussia è andato distrutto, infatti, non è un semplice assetto poli-
tico, bensì è il principio stesso del periodo che costituiva l’età
“presente” all’epoca dei Grundzüge. La battaglia di Jena e le sue
conseguenze producono una rottura epocale, e i Discorsi inten-
dono porsi all’altezza di questa rottura7. A partire dalla sottomis-
sione nei confronti di una “violenza esteriore” quale quella eser-
citata dai francesi, l’unica possibilità per una via d’uscita è costi-
tuita dalla “formazione di un nuovo mondo”. La transizione tra la
vecchia e la nuova epoca, tra l’età dell’egoismo dominante – con-
traddistinta da un Illuminismo che ha emancipato la ragione dal-
l’obbedienza ad autorità estranee, ma che d’altra parte l’ha ridot-
ta a “intelletto sensibile” e calcolante – e l’età nuova, in cui la ra-
gione dovrà estendere la chiarezza guadagnata attraverso il lavo-
ro dell’intelletto alla dimensione propriamente spirituale del so-
prasensibile, può essere “agita” dal pensiero, e non meramente
subita, solo a partire dalla presa di coscienza che la crisi che inve-
ste la Germania è una crisi irreversibile sotto il profilo temporale,

7
R, p. 11; I, pp. 5-6.

IX
e il cui significato va ben al di là dei confini tedeschi, investendo
l’Europa nel suo complesso8.
I Discorsi sono l’espressione di questa presa di coscienza, e
proprio perciò rappresentano un unicum nella produzione filo-
sofica di Fichte. In questi anni, l’attività del filosofo si era anda-
ta svolgendo secondo due linee coerenti dal punto di vista della
concezione di fondo, ma distinte sotto il profilo dell’articolazio-
ne sistematica. Da una parte, abbiamo una sequenza impressio-
nante di esposizioni di dottrina della scienza (la prima della fase
berlinese, nel 1801/02; un breve corso nel 1803; addirittura tre
cicli nel 1804; le lezioni di Erlangen nel 1805; il corso di König-
sberg nel 1807); dall’altra, una serie di conferenze a carattere
“popolare”, che comprendono le lezioni sull’“essenza del dot-
to”, sui caratteri fondamentali dell’epoca presente, e sull’avvia-
mento alla vita beata (tutti e tre questi “corsi” verranno pubbli-
cati a Berlino nel 1806). Dove si collocano le Reden? Esse non
costituiscono, palesemente, una esposizione di dottrina della
scienza; la loro finalità non è di tipo speculativo, ma immediata-
mente pratico, operativo. D’altra parte, esse non sono neppure
“filosofia popolare”, anche se di quest’ultima possiedono la ca-
ratteristica di rivolgersi a un pubblico di non specialisti, e quin-
di di adottare un linguaggio per quanto possibile non tecnico e
d’immediata comprensibilità9.
La filosofia popolare espone le concezioni che contraddistin-
guono la dottrina della scienza, ma non le dimostra in senso rigo-
roso; mostra come vanno intesi i rapporti tra l’Assoluto e il mon-
do dei fenomeni, qual è la funzione della coscienza all’interno di
questi nessi; spiega quali siano le destinazioni dell’uomo, del dot-
to; quali siano le articolazioni di fondo della storia, la direzione di
marcia delle diverse epoche: ma non dimostra tutto ciò in senso
propriamente “genetico”, non riconduce il tutto alle proprie con-
dizioni di possibilità trascendentali, non mostra le stratificazioni
ontologiche, il carattere “universale e necessario” dei diversi li-
velli di essere e di presa di coscienza che lo costituiscono. Nono-

8
R, pp. 209-214; XIII, pp. 187-190.
9
Sul concetto fichtiano di “filosofia popolare”, cfr. H. Traub, Johann Gott-
lieb Fichtes Populärphilosophie, Stuttgart-Bad Cannstatt 1992.

X
stante i suoi limiti epistemologici, la filosofia popolare resta co-
munque “filosofia”. Anche se immediatamente volta a interveni-
re nella vita degli uomini, tuttavia essa non oltrepassa il piano di
una scissione tra il filosofo e il suo pubblico, resta una prestazio-
ne della “teoria”, che è rivolta a una prassi ma non coincide an-
cora con questa stessa prassi.
Le Reden intendono, invece, essere immediatamente prassi,
immediatamente azione. Anch’esse sono senz’altro “filosofia”, ma
lo spazio in cui tale filosofia si dispone non è più quello della teo-
ria, ma quello di una pratica e di un esercizio. In questo, le Reden
si allacciano al nucleo più profondo della dottrina della scienza,
che ha sempre inteso il pensiero come esercizio di libertà, e quin-
di come modalità intimamente pratica di esercizio della teoria. Ma
è proprio il piano su cui si dispone tale praticità del filosofare che
con le Reden cambia bruscamente. Non è più dell’intima praticità
di un pensiero che si tratta, il punto di partenza dell’esposizione
non è più la spontaneità del soggetto pensante che coglie se stes-
so. È l’instaurazione, la fondazione inaugurale di una nuova co-
munità di parola e di ascolto, ciò che qui è in gioco innanzitutto.
E la costituzione di tale comunità di parola e di ascolto è ciò che
va inteso come significato primario dell’idea di nazione. Solo se
riusciranno a fondare tale comunità, solo se riusciranno a creare
a se stessi le condizioni del proprio ascolto, tali Discorsi potranno
dire di essere stati effettivamente tali.
Certo, anche questo è un tratto caratteristico di tutto il pen-
siero di Fichte, della dottrina della scienza così come della filoso-
fia popolare. Ma qui è importante insistere su un’inversione, su un
rovesciamento che è al tempo stesso segno di una dislocazione, di
uno spostamento di fondo; qui è il dire che assume preminenza
sul pensare; o meglio, poiché evidentemente un dire senza pen-
siero non sarebbe un dire: il pensiero è tutto esercitato e pratica-
to come parola che si rivolge a un ascolto, come un dire che nel-
l’atto di pronunciarsi evoca e con ciò stesso fa emergere la comu-
nità di coloro che sono in grado di accoglierlo e di comprenderlo
e, con ciò stesso, di giustificarlo e di confermarlo. Non c’è più né
può più esserci scissione tra piano del pensato e piano del detto:
la riflessione è immediatamente linguaggio, e il linguaggio diven-
ta atto costituente, istituzione di comunità; il discorso non è più
mera trasmissione di contenuti, ma non è più nemmeno semplice

XI
comunicazione tra intelligenze diverse. Assieme a tutto ciò, esso
possiede valenza eminentemente “performativa”: è momento di
evocazione e di appello verso una comunità ancora assente, ma in
pari tempo è l’anticipazione nel presente della comunità di là da
venire, e perciò rappresenta in modo paradossale la conferma di
una fondazione già avvenuta.
Così i Discorsi cadono al di fuori della ripartizione tra dottri-
na della scienza e filosofia popolare, e manifestano una volta di
più la pregnanza della categoria fichtiana dello Schweben, di
quel librarsi oscillatorio tra ragione e intelletto che, nella Grund-
lage del 1794/95, costituiva l’attività dell’immaginazione pro-
duttiva, e che ora i Discorsi sembrano incorporare nel momento
in cui oscillano tra dottrina della scienza e filosofia popolare,
senza poter essere catturati all’interno di nessuna di queste due,
pur presentando aspetti di entrambe. Ma sarebbe più che fuor-
viante intendere tali rapporti alla maniera hegeliana di una
Aufhebung, di un inglobamento-superamento. Perché tale li-
brarsi dei Discorsi ne segnala in pari tempo l’eccedenza, l’ecce-
zionalità rispetto a entrambe: e questa eccezionalità, questa ec-
cedenza è costituita dal fatto che il pensiero è qui immediata-
mente dire, che la praticità del pensiero è qui immediatamente
atto di parola, anzi addirittura rivendicazione, da parte di colui
che parla, del proprio incondizionato diritto a farlo, non in virtù
del fatto che egli sia qualificato da qualcosa di diverso rispetto a
ciascun altro, ma per il semplice fatto di essere stato il primo ad
averlo fatto10. Dall’atto del dire, al suo carattere di fatto; dal suo
carattere di fatto, all’autogiustificazione dell’atto in quanto tale:

10
“Qualcuno tra voi potrebbe venir fuori e chiedermi: che cosa dà proprio
a te, unico tra tutti gli uomini e gli scrittori tedeschi, il mandato, la vocazione e
il privilegio di riunirci e di scagliarti contro di noi? Non avrebbe ciascuno tra le
migliaia degli scrittori tedeschi lo stesso diritto che hai tu, ma nessuno di loro lo
fa, bensì solo tu salti fuori? Io rispondo, che ciascuno avrebbe avuto senz’altro
lo stesso diritto che ho io, e che io lo faccio proprio perché nessuno di loro lo
ha fatto prima di me; e che io avrei taciuto, se un altro lo avesse fatto in prece-
denza. Questo era il primo passo verso la meta di un completo miglioramento;
qualcuno doveva farlo. Io sono stato il primo che lo ha capito in modo vivo; per-
ciò sono stato io che l’ho fatto per primo. Dopo questo, qualsiasi altro passo sarà
il secondo; adesso tutti hanno lo stesso diritto di farlo; ma, ancora una volta, a
farlo davvero sarà soltanto un singolo. Uno deve sempre essere il primo, e chi
può esserlo, lo sia!” (R, pp. 231-232; XIV, p. 206).

XII
è un movimento che ricorda senz’altro quello dell’“atto-fatto”
proprio della Tat-Handlung presente nella Grundlage. Ma qui,
come si vede, non siamo più sul piano dell’Io che pone se stes-
so come principio primo della scienza, bensì all’interno di un
esercizio di parola, in cui colui che parla si pone innanzitutto co-
me parlante, e ancor più: come colui che rivolge la parola e, nel
rivolgere la parola, instaura per anticipazione la comunità cui la
parola stessa si rivolge.
Fichte insiste, nel Primo discorso, sul fatto che egli si rivolge a
tedeschi “semplicemente”, a tedeschi senza alcuna distinzione di
ceto, di età, di sesso e di censo. D’altra parte, poco dopo, egli pre-
cisa che il suo appello si rivolge anzitutto alla “parte colta dell’in-
tera nazione tedesca”. Si tratta di una contraddizione solo appa-
rente. Come chiarirà in seguito, Fichte ritiene con ciò di produr-
re un’innovazione rispetto all’andamento della storia tedesca fino
a quel momento. Infatti, nel corso della storia tedesca, tutte le
spinte innovative erano partite dal “popolo”, e i ceti colti si erano
limitati ad assumerle, a metterle in forma, e a ripresentare al po-
polo le elaborazioni e le proposte che ne erano risultate. Ora in-
vece, per la prima e l’ultima volta, è ai ceti colti che spetta l’ini-
ziativa11: a coloro che vengono raggiunti dalla parola di colui che
parla, nel presente immediato dell’anfiteatro dell’Accademia; a
coloro che verranno raggiunti dai discorsi stampati di volta in vol-
ta, e quindi raccolti in libro, nel seguito.
Non occorre soffermarsi qui sull’influenza effettiva che i Di-
scorsi ebbero su alcune tra le più importanti personalità del mon-
do politico e culturale prussiano dell’epoca, e su come essi con-
tribuirono a formare il clima intellettuale e politico precedente e
successivo alle guerre di liberazione12. A parte alcune esaspera-
zioni legate all’ottica particolare della “fonte”, gli atti su Fichte
della commissione centrale d’inchiesta istituita dopo i “deliberati

11 Cfr. R, pp. 25-26; I, p. 18.


12 Su questi aspetti, si confronti il recente e pregevole lavoro di H.-J. Becker,
Fichtes Idee der Nation und das Judentum, “Fichte-Studien” Supplementa, Am-
sterdam-Atlanta 2000. Sul rapporto tra Fichte e l’ebraismo, si era già sofferma-
to E. Fuchs, Fichtes Stellung zum Judentum, “Fichte-Studien”, n. 2 (1990), pp.
160-177. Dello stesso autore, da confrontare anche l’articolo Fichtes Einfluß auf
seine Studenten in Berlin zum Beginn der Befreiungskriege, ivi, pp. 178-192.

XIII
di Karlsbad” risultano, su questo punto, assai eloquenti13. Più si-
gnificativo ci sembra insistere sul fatto che con la designazione del
proprio destinatario, Fichte intenda istituire una sorta di circolo
virtuoso della responsabilità: all’assunzione di responsabilità da
parte di colui che prende la parola, non può non seguire l’appel-
lo all’assunzione di una responsabilità corrispondente da parte di
coloro cui la parola si rivolge. Solo la chiusura di tale circolo farà
sì che il detto sia stato pronunciato effettivamente come “discor-
so”, e al tempo stesso confermerà che in tale “discorrere” non si
trattava semplicemente di rinviare a un’azione futura, ma che ta-
le azione era già cominciata, aveva già celebrato il proprio inizio
nella partecipazione, nell’ascolto e nella comprensione di questi
Discorsi. Se volessimo scomodare le categorie della moderna
scienza politica, potremmo opportunamente parlare in proposito
di una rappresentanza di tipo esistenziale, nel senso che Fichte e
il suo pubblico non traggono la loro qualifica di rappresentanti
della nazione da procedure formali di autorizzazione, bensì dal-
l’atto esistenzialmente concreto di una partecipazione, che a sua
volta è partecipazione all’evento concreto di una fondazione. Ta-
le fondazione è fondazione di una comunità, proprio perché si at-
tua nelle vesti di una comune assunzione di responsabilità, da par-
te di chi rivolge la parola e da parte di chi l’accoglie nell’ascolto.
La parola, il dire, il discorso pronunciato e ascoltato, è ciò che isti-
tuisce la comunità di cui si tratta.
Ma, evidentemente, tutto resterebbe sul piano astruso e inef-
fettuale di un artificio retorico – e peggio ancora demagogico – se
la fondazione si limitasse o addirittura pretendesse di essere una
“costruzione”, la creazione dal niente di qualcosa che non esiste
ancora. La necessità, l’urgenza che traspare da ogni proposizione

13
Cfr. FG, pp. 87-92. L’assassinio dello scrittore e politico reazionario Au-
gust von Kotzebue, avvenuto per mano del libraio Karl L. Sand a Mannheim nel
marzo del 1819, diede il pretesto alle forze conservatrici raccolte attorno al prin-
cipe di Metternich e al re di Prussia per rafforzare una politica repressiva nei
confronti dei movimenti liberali e patriottici presenti sul territorio della Confe-
derazione tedesca, sorta nel giugno 1815. Nel congresso di Karlsbad (6-31 ago-
sto 1819), vennero decise misure fortemente restrittive della libertà di opinione
e di stampa, assieme all’istituzione di una commissione centrale d’inchiesta com-
petente su tutti i territori tedeschi. L’istituzione di tale commissione (8 novem-
bre 1819) segna l’inizio della cosiddetta “persecuzione dei demagoghi”.

XIV
di questi Discorsi basterebbe a mostrarci che non è, che non po-
teva essere così. La responsabilità è reale ed effettiva solo nel mo-
mento in cui essa emerge come risposta liberamente assunta a una
urgenza che non è posta dal soggetto, ma che viene a urtarlo e a
sospingerlo dall’esterno: e tale Anstoß, tale “urto” impetuoso, ac-
compagnato dal “sentimento” necessario e doloroso della propria
limitazione, della propria temporanea impotenza, sappiamo già
da cosa sia costituito. Il contraccolpo a questo urto ricevuto dal-
l’esterno, lo abbiamo anch’esso evidenziato a sufficienza: è la pre-
sa di parola, l’articolazione in discorso e appello di quel senti-
mento del dolore che rischierebbe, altrimenti, di condurre a mu-
ta e solitaria rassegnazione, oppure a sfacciata e irresponsabile ac-
quiescenza alla violenza estranea temporaneamente dominante.
Una prima risposta, e una prima ribellione al dolore provocato
dall’esterno, è per Fichte proprio la decisione di tenere e di pro-
nunciare sino alla fine questi discorsi, di lottare ostinatamente
contro le circostanze avverse.
Ma non basterebbe neppure questo. Con ciò, verrebbe chiari-
to l’aspetto soggettivo dell’esigenza, l’assunzione personale di una
responsabilità, l’ottemperanza a un dovere superiore che si impo-
ne con la forza di un appello intimamente sentito e vissuto; ma se
fosse solo questo non usciremmo, i Discorsi non uscirebbero da
una prestazione meramente soggettiva e perciò stesso illusoria,
velleitaria, ineffettuale. Così come la presa di parola non è frutto
di una semplice decisione arbitraria, bensì è risposta concreta a
una situazione altrettanto concreta; così come i Discorsi sono il
frutto di un’assunzione di responsabilità liberamente assunta,
però assunta a partire da una situazione rispetto alla quale essi ap-
parivano assolutamente necessari, rispetto alla quale cioè la presa
di parola era l’unica concreta possibilità di affermazione e di
espressione della propria libertà: allo stesso modo, la comunità di
cui viene evocata l’esistenza non può risultare per magia da un at-
to discorsivo, bensì dovrà già essere o essere stata presente nella
realtà, cosicché la presa di parola possa sì inaugurarla, ma nella
modalità di richiamare all’essere ciò che si era stratificato nel pas-
sato, ciò che il presente stava rendendo irriconoscibile, e ciò che
soltanto il futuro avrebbe potuto condurre a rinnovata conferma.
I Discorsi assumono dunque una collocazione oscillante anche
sotto il profilo della loro determinazione temporale: sono indi-

XV
scutibilmente pronunciati in un presente che ha i caratteri della
più pressante urgenza e della più dura oggettività; ma la comunità
che essi inaugurano può essere presente solo in quanto si disloca
in un tempo che è diverso rispetto al presente effettivamente vi-
gente. Per questo, essi si protendono innanzitutto verso il futuro,
verso generazioni di là da venire; però al tempo stesso verso ge-
nerazioni che incorporano il futuro come complesso di aspirazio-
ni attuali, che vibrano e fanno vibrare il cuore di un presente al-
trimenti tutto da cancellare. L’appello ai “giovani” del Quattordi-
cesimo discorso, che tanto scalpore susciterà nei censori della
commissione centrale14, è in questo senso cruciale per tutta l’eco-
nomia delle Reden. Non è soltanto uno dei tanti vertici letterari di
questo testo, per noi ancora più difficile da leggere perché sem-
pre sul punto di apparire come mero esercizio retorico, e di una
retorica troppo spesso sbilanciata in senso enfatico, troppo spes-
so protesa al limite dell’iperbole e perciò stesso di un rovescia-
mento dal sublime nel suo opposto. Quell’appello è anche una ci-
fra dello Schweben che caratterizza i Discorsi sotto il profilo della
loro orientazione temporale. Il presente in cui essi si dispongono
è un presente che oscilla tra passato e futuro, che si protende al
futuro di nuove generazioni, con l’obiettivo di una “rigenerazio-
ne” completa dell’intero genere umano; ma è un presente che si
rivolge anche al passato, però non a “tutto” il passato, bensì a quei
momenti della storia trascorsa che prefigurano nel loro essere-ac-
caduti il futuro che ancora dovrà essere, che trova in loro l’antici-

14
Secondo costoro, i Discorsi “aspiravano a riunire la gioventù tedesca in
una comunità indipendente dai singoli governi, con l’obiettivo di operare per la
rigenerazione della Germania. La situazione politica di allora [inverno 1807/08]
procurò accesso a simili idee anche presso la generazione più anziana” (FG, pp.
88 sg.). Non solo: la commissione scorge nella festa della Wartburg, che si ten-
ne nell’ottobre del 1817 come celebrazione della Riforma e della battaglia di Li-
psia, il risultato conseguente della diffusione, tra studenti e professori delle uni-
versità tedesche, delle idee sviluppate nei Discorsi: “Attraverso questa festa, l’i-
dea di una Germania unita e rinnovata venne richiamata a nuova vita; l’illusio-
ne che Fichte istillò nei giovani già nell’anno 1808, secondo cui essi sarebbero
chiamati a operare, per la posterità, un miglioramento della situazione pubbli-
ca deteriorata dai loro padri, venne esasperata da insegnanti e scrittori fino a un
grado di arroganza difficile da credere” (ivi, p. 89). Ricordiamo che, in quel-
l’occasione, i discorsi di studenti e professori vennero accompagnati dal rogo di
libri a contenuto reazionario.

XVI
pazione di cui ha bisogno per non ridursi a mera speranza e con-
solatoria illusione, e che d’altra parte sarà l’unico a poterlo riscat-
tare dalle sue stesse sofferenze, dalle sue stesse speranze andate
deluse15.
Vi è dunque, all’origine dei Discorsi, la risposta a un’urgenza,
a una sollecitazione e a un dolore posti dall’esterno; ma vi è anche
il richiamo a un qualcosa di già-stato, di non-prodotto dal sog-
getto che parla, e che colui che parla intende portare alla luce, ri-
condurre nuovamente a linguaggio per coloro ai quali si rivolge: i
quali sono i presenti, i partecipanti alla fondazione della nuova co-
munità, che è già in atto nell’esercizio della presa di parola e del
suo ascolto, nell’esperienza partecipativa della comunicazione;
ma d’altra parte è presente nella modalità di un non-ancora, è pre-
senza di una comunità prefigurata, effettuale in quanto anticipa-
zione di ciò che sarà, dovrà essere solo in avvenire, e dunque è an-
cora assente. Perciò l’appello ai presenti non può non essere in pa-
ri tempo appello ai futuri, alle nuove generazioni di un’umanità
completamente rinnovata, per il cui avvento i Discorsi iniziano a
creare le condizioni “qui e ora”, nel presente.
È stata giustamente sottolineata la dimensione “profetica” del
pensiero di Fichte16; e certo, questo “librarsi” delle Reden in un
tempo che non coincide con nessuna delle tre dimensioni tradi-
zionali, che le raccoglie tutte nell’evento del discorso, senza però
sussumerle nella sintesi di alcuna Aufhebung, bensì al contrario le
ripristina nella concretezza di un raccordo che le mantiene nella
tensione della loro reciproca differenza, della loro specifica di-
stanza – tutto questo è senz’altro omogeneo a un profetismo “cri-
stiano”, di cui Fichte ha ripetutamente rivendicato la conformità
con i tratti costitutivi della dottrina della scienza. Per noi, qui, si
tratta però di sottolineare la specificità delle Reden non solo e non
tanto come evento “profetico”, ma come atto concretamente po-
litico, orientato alla costituzione di una comunità intesa come sog-

15 Cfr. R, pp. 235-236, 242-244; XIV, pp. 208-209, 215-216.


16 Cfr. R. Lauth, Filosofia e profezia, in Id., Il pensiero trascendentale della li-
bertà. Interpretazioni di Fichte, a cura di M. Ivaldo, coll. Fichtiana, Milano 1996,
pp. 285-326. Emblematica da questo punto di vista la citazione biblica da Eze-
chiele, alla fine del Terzo discorso (R, pp. 57 sg.; III, pp. 46 sg.), su cui cfr.
Becker, Fichtes Idee der Nation cit., pp. 168-171.

XVII
getto collettivo capace di azione condivisa e di risposta concreta
alle esigenze di una situazione palesemente “eccezionale”, in cui
cioè ne va dell’esistenza e della permanenza del “tutto” di cui cia-
scuno fa parte, e di cui si tratta infine di esplicitare la determina-
zione concreta.
Essa evidentemente è costituita, per Fichte, dal “tratto comu-
ne” di ciò che è tedesco17. È questo “tratto comune” che deve es-
sere posto in luce, che bisogna ricondurre a linguaggio, per tra-
sformarlo in sostanza di un nuovo legame e di un “nuovo mon-
do”. Da una parte, tale “tratto comune” andrà innanzitutto as-
sunto, e non costruito; ma dall’altra, esso potrà emergere solo a
partire dalla condivisione di una ben determinata presa di co-
scienza, attuata da parte di coloro che in quel tratto comune si ri-
conoscono, e che a partire da questo riconoscimento lo istituisco-
no appunto come tale, come orizzonte condiviso, e che in essi si
articola e si dispiega nella dimensione della pluralità. Ancora una
volta torniamo al carattere costituente e inaugurale proprio dei
Discorsi: il tratto comune è ciò a partire da cui può istituirsi la “na-
zione”, ma solo a partire dal momento in cui esso venga ricono-
sciuto, comunicato e partecipato “in quanto tale”. E proprio qui,
forse, è possibile trovare lo scarto che sembra distinguere l’idea di
“nazione” dal concetto di “popolo”.
Se non ci sbagliamo, Fichte non presenta mai, nelle Reden, una
definizione esplicita di ciò che bisogna intendere per “nazione”,
mentre troviamo ben due definizioni relative al concetto di “po-
polo”. La prima compare nel Quarto discorso, in un contesto ipo-
tetico e del tutto privo di forzature retoriche:

Se chiamiamo un popolo gli uomini che subiscono i medesimi in-


flussi esterni sull’organo vocale, e che sviluppano il loro linguaggio in
comunicazione continua, allora dobbiamo dire che la lingua di questo
popolo è necessariamente così come è, e non è propriamente questo
popolo che esprime la sua conoscenza, bensì è la sua conoscenza stes-
sa che si esprime a partire da esso (R, p. 62; IV, pp. 51 sg.).

17
“solo il fondamentale tratto comune di ciò che è tedesco potrà scongiu-
rare il tramonto della nostra nazione nella sua confluenza con l’estero” (R, p. 13;
I, pp. 7 sg.).

XVIII
È abbastanza sorprendente, crediamo, notare il carattere “pas-
sivo” che spicca in questa definizione del “popolo”. Da un lato,
abbiamo la dimensione della passività in rapporto agli influssi am-
bientali che si esercitano sugli organi della fonazione, della pro-
duzione sonora del linguaggio. Dall’altro, abbiamo l’inversione ri-
spetto alla determinazione corrente dei rapporti tra soggetto e
predicato della conoscenza: attraverso il linguaggio, non è tanto il
popolo a fungere da soggetto produttivo in rapporto al proprio
patrimonio di concetti e di idee, bensì al contrario sono queste co-
noscenze a essere veicolate per il tramite del popolo che parla un
determinato linguaggio, sono queste idee che si esprimono attra-
verso di esso, e che dunque lo plasmano, lo formano o, per usare
un termine altrove impiegato da Fichte: lo “fanno”. Viceversa,
non dovrebbe neppure essere sottolineata, ormai, la totale assen-
za, in questa definizione, di ogni dimensione “etnica” o razziale.
Non solo, ma come viene precisato all’inizio di questo stesso
Quarto discorso, tutti i popoli dell’Europa moderna sono frutto
di mescolanze tra ceppi di provenienza diversa, e ciò non vale so-
lo per i “Germani” che hanno abbandonato le sedi della loro re-
sidenza originaria, ma anche per i “tedeschi”, cioè per quei Ger-
mani che sono rimasti sul suolo della madrepatria. Ma appunto:
la dimensione del “suolo” è ciò che viene sottolineata come radi-
calmente irrilevante per la costituzione dell’identità di un popolo.
Il clima, la natura, l’ambiente in generale non sono aspetti che
possano vincolare lo spirito a una sede o a un luogo determinati e
fissati una volta per tutte18. Anzi, ciò che dovrebbe colpire, in que-
sta definizione, è il carattere plurale che costituisce il “popolo”

18 “Tra i cambiamenti indicati [...] il cambiamento di patria è del tutto insi-

gnificante. L’uomo si ambienta facilmente sotto qualunque striscia di cielo, e la


peculiarità del popolo, lungi dall’essere molto modificata dalla sede stanziale, al
contrario domina quest’ultima e la modifica in conformità con sé [...] Altret-
tanto poco si può attribuire un peso alla circostanza che nei territori conquista-
ti i popoli di provenienza germanica si siano mescolati con i precedenti abitan-
ti [...] la stessa mescolanza che all’estero ebbe luogo con Galli, Cantabri, ecce-
tera avvenne in misura certo non inferiore nella madrepatria con gli Slavi; co-
sicché nessuno dei popoli sorti dai Germani potrebbe dimostrare al giorno d’og-
gi una maggiore purezza della sua provenienza rispetto agli altri” (R, pp. 60 sg.;
IV, p. 50). L’altro cambiamento, che risulta invece essenziale, è quello della lin-
gua, “poiché gli uomini vengono formati dalla lingua molto più di quanto la lin-
gua venga formata dagli uomini” (R, p. 61; IV, p. 50).

XIX
nella sua costituzione materiale; e tale carattere plurale è essen-
ziale proprio in rapporto alla dimensione, questa sì decisiva, del-
la comunicazione e del linguaggio. Quest’ultimo si sviluppa nella
“comunicazione continua” tra uomini, in base alla quale si strati-
fica una rete di consuetudini e di costumi comuni; viceversa, in un
rapporto scambievole di determinazione reciproca, la lingua per-
mea di sé quella che oggi chiameremmo la “mentalità” condivisa
da parte di una comunità di parlanti, che in questo processo di re-
ciproca determinazione tra cultura e linguaggio vengono plasma-
ti e si plasmano in un’identità dinamica e aperta.
La seconda definizione di “popolo” si trova nell’Ottavo di-
scorso, che come abbiamo visto fu tra i più osteggiati da parte del-
la censura. Qui Fichte chiarisce che la riappropriazione del so-
prasensibile da parte della ragione non deve essere scambiata per
un atteggiamento di sottovalutazione e di abbandono delle vi-
cende che coinvolgono l’uomo su questa terra. “Al contrario –
egli scrive – nell’ordine normale delle cose, la vita terrena deve es-
sere essa stessa veramente vita, di cui si possa gioire e godere con
gratitudine”, a tal punto che lo stesso “senso religioso” non deve
essere inteso come rivolto esclusivamente alla dimensione meta-
sensibile del “mondo degli spiriti” e dell’esistenza ultraterrena,
ma deve innanzitutto permeare proprio la vita che si svolge
“quaggiù”:

L’impulso dell’uomo, cui si può rinunciare solo in caso di vera ne-


cessità, è di trovare il cielo già su questa terra, e di immettere ciò che
dura in eterno nella sua opera terrena quotidiana; è di piantare e di col-
tivare nel tempo ciò che non passa (R, p. 126; VIII, p. 112)19.

Tuttavia, quest’aspirazione alla creazione di qualcosa di eterno


all’interno del tempo, ha bisogno di una sorta di “pegno”, di una
promessa oggettivamente presente di eternità: e questa promessa

19
Ma evidentemente, ciò non sarebbe possibile senza la libertà. Ed è per
questo, come scrive Fichte, che “il senso religioso consiste innanzi tutto nell’in-
sorgere contro la schiavitù e, se lo si può impedire, nel non fare scadere la reli-
gione a mera consolazione dei prigionieri [...] dobbiamo impedire che qualcu-
no trasformi la terra in un inferno, per poter suscitare una nostalgia tanto più
grande del cielo” (R, p. 126; VIII, pp. 111 sg.).

XX
di eternità, nel senso della durata di un’opera attraverso l’avvi-
cendarsi delle diverse generazioni, è appunto ciò che costituisce il
concetto di “popolo” nella sua accezione più alta:

nel significato superiore della parola, inteso dal punto di vista della
concezione di un mondo spirituale in generale, un popolo è il tutto de-
gli uomini che sopravvivono insieme in società, e che si generano con
continuità da se stessi in senso naturale e spirituale (R, p. 128; VIII, p.
113).

A partire da tale “significato superiore”, è possibile leggere e


interpretare meglio la definizione contenuta nel Quarto discorso.
Il linguaggio è la prima dimensione attraverso cui si fonda e si con-
solida l’identità di una comunità. Tale comunità è costituita in-
nanzitutto come comunità di parlanti, ed è perciò contraddistin-
ta da una dimensione di pluralità, in cui i diversi soggetti svilup-
pano un primo strato d’identità condivisa attraverso l’uso di una
lingua comune. Quest’ultima si sviluppa nella “continuità” di uno
scambio comunicativo, che per mantenere le potenzialità creative
della lingua deve procedere, secondo Fichte, ininterrottamente da
una generazione all’altra. L’interruzione di questa continuità nel-
lo sviluppo linguistico costituisce la fondamentale differenza tra i
tedeschi e gli altri popoli “esteri”, che si sono dovuti appropriare
di una lingua “estranea” (il latino) e hanno con ciò spezzato per
sempre il flusso continuo dei rapporti tra immediatezza vivente
dell’esperienza e risorse creative di produzione simbolica incor-
porate nel linguaggio. Tale rottura nei rapporti tra la vita “origi-
naria” e il linguaggio implica, secondo Fichte, che le lingue ro-
manze siano lingue “vive” solo in apparenza, ma in realtà siano
“morte alla radice”.
Ora, ciò si riflette sul “popolo” nella sua accezione più alta,
cioè come “garanzia” e promessa di eternità intraterrena per le
opere del singolo che ne fa parte. In un popolo dalla lingua “vi-
va”, la connessione tra dimensione “sensibile” e dimensione “so-
prasensibile” o astratta del linguaggio può dispiegarsi dinamica-
mente attraverso un ampliamento progressivo della sfera di desi-
gnazione dei singoli termini, in cui, dal significato “letterale” rife-
rito a un fenomeno sensibile concreto, si sviluppa per allarga-
mento e incremento una designazione di tipo metaforico e “sim-

XXI
bolico”20, con la quale dapprima il singolo pensatore amplia il pat
rimonio dei significati incorporati in singoli termini e ambiti del-
la lingua, e quindi il poeta estende all’universo complessivo del
linguaggio l’ampliamento originariamente introdotto dalla filoso-
fia. Così, in un popolo “originario”, il patrimonio dei concetti e
delle conoscenze “astratte” si sviluppa non solo in diretto contat-
to con l’immediatezza originaria e le esperienze concretamente
vissute dal “popolo”, ma anche attraverso un circuito di recipro-
co arricchimento tra pensiero e poesia. Anzi, in queste condizio-
ni, lo stesso pensatore è necessariamente anche poeta, poiché ogni
atto innovativo di pensiero corrisponde a un ampliamento della
capacità di designazione simbolica del linguaggio, a un allarga-
mento nello spettro dei significati propri della lingua, e con ciò al-
l’incremento della potenza conoscitiva dell’“intelletto comune”
che da quella lingua è permeato e formato21.
Ma appunto: ciò che un popolo “originario” rende possibile,
è esattamente l’opposto di una fusione indistinta del singolo nel
“popolo”. L’originarietà del popolo è piuttosto ciò che dovrebbe
prevenire la possibilità di una siffatta comunità, in cui le diverse
singolarità verrebbero assorbite e annullate in un unico “corpo”
collettivo. L’originarietà del popolo in questione è infatti la con-
dizione che rende possibile e apre a ciascuno la possibilità di agi-
re in conformità alla propria destinazione, alla qualità e alle di-
sposizioni dei propri talenti e capacità. In altri termini, “origina-
rio” in Fichte non è ciò che orienta indietro alla ricerca di un re-
moto “inizio” nel passato, né tanto meno ciò che dovrebbe spin-
gere il singolo nelle braccia di una “comunità popolare” centrata
su appartenenza di sangue, di suolo e, magari, di dialetto. Al con-

20
Di particolare rilevanza l’esempio portato da Fichte, relativo al termine
Gesicht, qui tradotto con “visione”, ma che per Fichte è l’equivalente propria-
mente tedesco della parola di derivazione greca “idea” (R, pp. 64 sg.; IV, pp. 53
sg.). Sul nesso tra percezione dei Gesichter e filosofia fichtiana della creatività
storica, cfr. R. Lauth, Einleitung alla sopra citata ed. tedesca delle Reden, ora di-
sponibile in traduzione italiana col titolo La concezione fichtiana della storia, in
Il pensiero trascendentale della libertà cit., pp. 347-372.
21
Cfr. R, pp. 80 sg.; V, p. 68. Sulla lingua come ciò “che nel suo ambito con-
nette tutta la moltitudine di uomini che la parlano in un unico intelletto comu-
ne; che è il vero punto di confluenza reciproca del mondo sensibile e di quello
degli spiriti, e fonde così intimamente i loro estremi che non si può più dire a
quale dei due essa appartenga”, cfr. R, p. 73; IV, pp. 60 sg.

XXII
trario, se intesa in questo senso, allora l’accezione di “originario”
in Fichte non ha nulla a che fare con qualcosa di primigenio, an-
teriore, primordiale. Non siamo, insomma, di fronte a un pensie-
ro del radicamento e della sua nostalgia, perché “origine” non è
ciò che sospinge a ritroso verso il passato, bensì ciò che apre al fu-
turo; non è ciò che compatta i “tratti comuni” in un’identità in-
differenziata e cupamente contratta, bensì ciò che schiude a cia-
scuno la possibilità di creare ciò che è “nuovo”, ciò che “non è
mai ancora esistito”.
Ora, tenendo conto della stratificazione di senso che costitui-
sce il concetto di “popolo”, che ne è dell’idea di “nazione”? La
nazione scaturisce dalla presa di coscienza di ciò che il popolo è
nella sua configurazione linguistica e storica; è il popolo divenuto
cosciente di sé come orizzonte condiviso della vita di ciascuno che
parli la stessa lingua, condivida le stesse tradizioni, sia stato for-
mato a partire dalla medesima religione. In questa presa di co-
scienza sta appunto lo scarto, il “di più” che è proprio dell’idea di
nazione, e che forse proprio per questo non viene da Fichte mai
esplicitamente “definita”. Dire “che cos’è” una nazione, infatti,
comporterebbe la ripetizione di quei “tratti comuni” che già co-
stituiscono l’identità di un popolo, che ne contraddistinguono,
come scrive Fichte, il “carattere nazionale”. Ma appunto: la pre-
sa di coscienza che innalza il popolo a nazione sta esattamente nel-
la enunciazione, nella selezione, nella messa in evidenza di ciò che
il popolo “già” è nell’immediatezza del suo essere e vivere, ma che
in questa immediatezza non è ancora saputo e riflesso “in quanto
tale”. D’altra parte, se costitutiva della nazione è la presa di co-
scienza di ciò che un popolo è “in quanto tale”, evidentemente al
cuore della nazione si manifesta un nucleo irriducibile a descri-
zione, che però neppure si nasconde nel misticismo di un invisi-
bile absconditus. Esso si rivela come inoggettivabile, ma perciò co-
me tanto più essenziale e tanto più reale, quanto più concreta sarà
la presa di coscienza che lo manifesta nel suo pronunciarsi, nel suo
prodursi e comunicarsi. La presa di coscienza che inaugura la na-
zione è l’atto filosofico a partire da cui il popolo si instaura come
comunità politica, e che come tale non può essere rappresentato
in un complesso di qualità statiche e oggettive, bensì può essere
soltanto agito, praticato e partecipato. Ma allora, torniamo alla di-
mensione per cui la presa di coscienza, dal momento in cui sia fon-

XXIII
dazione inaugurale di comunità, non potrà che praticarsi ed esse-
re innanzitutto presa di parola, assunzione di responsabilità come
diritto a dire, coraggio di rivolgere un appello alla comunità che
prefigura il genere umano di là da venire.
In questo nocciolo filosofico sta dunque il carattere della na-
zione come idea, il suo carattere strutturalmente aperto “all’infi-
nito”. Così, la “nazione” in senso fichtiano non può e non sareb-
be mai potuta essere intesa in chiave “nazionalistica”, poiché essa
è prefigurazione di un’umanità a venire. La nazione “tedesca” ha
soltanto il compito di anticipare nel presente l’avvento dell’uma-
nità futura, dopo che la patria dell’Illuminismo e della rivoluzione
ha “tradito” l’idea che la muoveva, cioè l’idea di libertà22. Proprio
nel momento dell’angoscia e della difficoltà più grandi, la nazione
tedesca è chiamata ad assumere la responsabilità che l’ora storica
le affida, e che consiste nella riapertura del flusso tra dimensione
sensibile-materiale e dimensione soprasensibile-spirituale dell’e-
sperienza. In questo senso, proiettare su Fichte l’antitesi cosmo-
politismo-nazionalismo sarebbe, riteniamo, del tutto fuorviante23.
La nazione è in sé proiettata verso una dimensione di universalità
che non è di tipo geo-politico, ma che risale al nocciolo ideale che
la fonda, il quale a sua volta è costituito dall’idea di libertà come
capacità di configurare la realtà in forme sempre nuove, da parte
di sempre nuove creazioni. E queste creazioni, è necessario riba-

22 Su questi aspetti, cfr. i lavori di C. De Pascale raccolti nel volume Vivere

in società, agire nella storia. Libertà, diritto, storia in Fichte, coll. Fichtiana, Mila-
no 2001; da vedere in particolare La filosofia della storia nei primi anni berlinesi:
le origini teoriche dei “Discorsi alla nazione tedesca” (ivi, pp. 127-202), e Il prima-
to della Germania nei “Discorsi alla nazione tedesca” (ivi, pp. 203-229).
23
Al tema Kosmopolitismus und Nationalidee è dedicato il n. 2 delle “Fichte-
Studien” sopra citato: cfr. in particolare i contributi di I. Radrizzani, Ist Fichtes
Modell des Kosmopolitismus pluralistisch?, pp. 7-19; P. Oesterreich, Politische
Philosophie oder Demagogie? Zur rhetorischen Metakritik von Fichtes “Reden an
die deutsche Nation”, pp. 74-88; R. Schottky, Fichtes Nationalstaatsgedanke auf
der Grundlage unveröffentlicher Manuskripte von 1807, pp. 111-137. Da vedere
anche la discussione svolta sul numero successivo tra G. Geismann, Fichtes
“Aufhebung” des Rechtsstaates, e lo stesso Schottky, Rechtsstaat und Kulturstaat
bei Fichte. Eine Erwiderung, “Fichte-Studien”, n. 3 (1991), rispettivamente pp.
86-117 e pp. 118-153. Per uno sguardo oltre l’ambito strettamente specialistico,
infine, cfr. E. Balibar, Fichte e la frontiera interna. A proposito dei “Discorsi alla
nazione tedesca”, in La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx,
trad. it. di A. Catone, Milano 2001, pp. 74-89.

XXIV
dirlo, non sono il frutto di uno “spirito del popolo”, ma di ciascun
singolo che, attraverso l’“ambiente spirituale” in cui ha vissuto,
abbia ricevuto la possibilità di realizzare degnamente la propria
destinazione, di esprimere in tutta la possibile ricchezza e versati-
lità le sue inclinazioni, le sue qualità, i suoi talenti.
D’altra parte, se la nazione contiene al proprio interno un ri-
mando insopprimibile all’idea di libertà; se questo rinvio all’idea di
libertà non è il richiamo a un’infinità agognata e mai raggiunta, ma
la fonte da cui scaturisce, per ciascun singolo, la possibilità di crea-
re ciò che “non è ancora mai esistito”, di vivere creativamente la
propria esistenza “quaggiù”; se ciò implica che chiunque, “ovun-
que sia nato e qualunque lingua parli” (R, p. 122; VII, p. 107), ap-
partiene al popolo “originario”, purché viva e operi a partire dal-
l’idea di libertà, a partire dalla convinzione razionale nella possibi-
lità di configurare il fenomeno, la realtà esistente in forme sempre
nuove e differenti, mobili e diverse; se, infine, chiunque faccia par-
te della comunità di chi vive a partire dall’idea di libertà deve esse-
re disposto a garantire, a difendere e a lottare per la difesa della li-
bertà di tutti, perché di questi egli stesso è parte integrante – se tut-
to questo è vero, allora non solo la chiusura nei propri confini e nel-
la propria “zolla di terra” è incompatibile con ciò che è “tedesco”,
ma proprio la nazione tedesca in senso fichtiano era quella che me-
no di ogni altra avrebbe potuto pretendere di affermarsi come “po-
tenza” politica contro gli altri popoli europei; era quella che meno
di ogni altra avrebbe dovuto intendere la propria realizzazione in
termini di “Stato nazionale”. E ciò, non solo per le tendenze espan-
sionistiche che caratterizzarono quest’ultimo nella Germania di fi-
ne Ottocento, ma per il modo in cui questo tipo di organizzazione
costituzionale, centrata sul concetto di “potere” come forma di at-
tuazione dell’unità politica, ha dominato la scena della storia euro-
pea, e mondiale, fin dentro al secondo Novecento24. Tutto ciò che
comporta riduzione di differenze, semplificazione di articolazioni,
chiusura del “fenomeno” in “figure” che si vogliano compiute una
volta per sempre, è per principio incompatibile con la dottrina del-
la scienza, e con l’idea di nazione che da questa deriva.

24
Per una ricostruzione in chiave storico-concettuale, cfr. G. Duso (a cura
di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma 1999; Id., La lo-
gica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Roma-Bari 1999.

XXV
Arriviamo così ad affrontare, sia pure in estrema sintesi, il nu-
cleo teoretico di questi Discorsi, per come esso è esposto da
Fichte nel Settimo discorso. Qui egli cerca di riassumere il noc-
ciolo ontologico della dottrina della scienza come unica filosofia
coerente con ciò che costituisce il “carattere nazionale” del po-
polo tedesco. Al centro di tale concezione figura l’idea che la
realtà empiricamente presente non sia un tutto materiale auto-
sussistente, bensì che il suo significato più profondo sia costitui-
to dal suo essere “mezzo” e “condizione” per la manifestazione
della libertà. Ora però, a differenza di come poteva apparire dal-
la dottrina della scienza del periodo di Jena, tale libertà non è la
semplice espressione della spontaneità condotta a consapevolez-
za di sé da parte dell’Io che pone se stesso, e che con ciò tende a
esprimere se stesso subordinando la realtà data ai suoi propri fi-
ni. Al contrario, nella libertà dell’Io, di ciascuna singola autoco-
scienza, si manifesta la presenza di un Principio, che la fede reli-
giosa esprime come Dio vivente, e la filosofia come Assoluto eter-
namente in atto, e che proprio perciò non può fare a meno di ma-
nifestarsi al di fuori di sé. Ma qui sta il punto essenziale, il nodo
a partire da cui si consumò la rottura tra Fichte e Schelling: tale
rapporto tra l’Assoluto e ciò che appare “al di fuori” di esso, in-
fatti, non può essere inteso né semplicemente, alla maniera di
Spinoza e del primo Schelling, come risultato di un’autodeter-
minazione necessaria, ciò che annullerebbe la libertà sia dell’As-
soluto sia della sua manifestazione; né come risultato di una “ca-
duta” e di una scissione “per iato”, come nello Schelling di Filo-
sofia e religione. In quest’ultimo caso, l’introduzione della libertà
coinciderebbe con la perdita totale della razionalità, della capa-
cità di comprendere geneticamente il nesso Assoluto-fenomeno.
L’unica possibilità che resta, per Fichte, è invece quella di porre
la libertà come ciò mediante cui lo snodo tra Assoluto e fenome-
no si realizza, mantenendo in pari tempo l’ulteriorità del primo
rispetto alla sua manifestazione, e d’altra parte salvando la razio-
nalità della filosofia intesa in senso trascendentale. La libertà co-
sì compresa, però, non può più essere ricondotta al semplice li-
bero arbitrio, come oscillazione indefinita tra possibilità alterna-
tive: essa stessa andrà intesa, invece, come capacità di autodeter-
minazione, che però non dipende deterministicamente né dalla
totalità delle circostanze di volta in volta presenti, né dall’auto-

XXVI
svolgimento necessario di un Assoluto inteso come onnicom-
prensiva “natura”.
La libertà emerge allora come principio interno del fenomeno,
e modalità primaria di manifestazione dell’Assoluto. Poiché que-
st’ultimo esprime quanto nella realtà esistente non si lascia esau-
rire da questa, Fichte impiega ora l’espressione “di più” (Mehr)
per indicare l’eccedenza che di volta in volta si rivela all’interno
della configurazione assunta dal mondo in un momento dato. Ab-
biamo da un lato l’Assoluto, come principio inesauribile di “vita”,
intesa quest’ultima innanzitutto come “facoltà” di creazione sot-
to il profilo ideale e spirituale; abbiamo dall’altro una configura-
zione del mondo che si presenta come data, come il frutto e il pro-
dotto di una serie concomitante di atti di libertà e di circostanze
condizionanti, che hanno condotto il mondo a ciò che esso è in
quel dato momento. La questione è dunque: si dà un’esperienza
in cui si esprima il raccordo tra l’Assoluto, come scaturigine tra-
scendentale della “vita”, e il mondo come configurazione tempo-
raneamente chiusa di fenomeni? La risposta di Fichte è afferma-
tiva, e corrisponde all’esperienza della libertà. E l’atto in cui tale
esperienza si manifesta è costituito per lui dal fenomeno che, sem-
pre nel Settimo discorso, viene chiamato “decisione della vo-
lontà”. La decisione è l’atto in cui l’oscillazione tra possibilità di-
verse, tra le quali si libra l’arbitrio, è arrestata, e viene dato inizio
a un corso d’azione che sviluppa il contenuto della decisione as-
sunta. Ora, se la decisione è “libera”, tale contenuto non si lascia
derivare da nessuna circostanza esterna all’atto della decisione
stessa. Tuttavia, la decisione è espressione di libertà in senso “ori-
ginario” solo se in essa si manifesta quel “di più”, che è la moda-
lità mediante cui l’Assoluto emerge, rispetto al mondo inteso co-
me intero complessivo di fenomeni. Tale “di più” irrompe nel
mondo proprio attraverso la decisione che scaturisce dalla vo-
lontà, a patto però che in essa quel “di più” si esprima come tale,
in altri termini a patto che essa sia conforme alla originaria pro-
duttività che costituisce la dimensione propria dell’Assoluto25.

25 Lo sfondo delle considerazioni condotte nel Settimo discorso è costituito

dall’elaborazione del nesso tra Assoluto e fenomeno, che Fichte aveva svilup-
pato nel corso di dottrina della scienza tenuto a Königsberg, nell’inverno del
1807. Di particolare rilevanza appaiono, al riguardo, le lezioni 16-18, su cui cfr.

XXVII
Abbiamo appena visto come, sotto il profilo formale, il “di
più” della vita originaria scaturisca come indeducibilità della de-
cisione assunta di volta in volta rispetto alla totalità delle condi-
zioni presenti, si manifesti per differenza e per sottrazione rispet-
to alla realtà che è data in un certo momento. Ma proprio perciò,
essa è tutt’altro che “arbitraria”. Nel momento in cui raccoglie l’i-
stanza della libertà all’altezza della situazione concretamente de-
terminata nello spazio e nel tempo, la decisione appare al tempo
stesso come imprescindibile, e con ciò necessaria: di una necessità
però che non attiene alla sua dipendenza da fenomeni empirica-
mente dati, ma all’assunzione di una responsabilità che risponde
all’imperiosa esigenza di affermare la libertà, di esprimere e di po-
tenziare la creatività propria della “vita originaria”.
È così che, all’orizzonte della filosofia trascendentale, si pre-
senta la possibilità di un raccordo tra il carattere “iniziale” della
“decisione della volontà”, in cui l’“essenza” stessa irrompe nel fe-
nomeno, e la decisione storicamente determinata, cui la nazione
tedesca è chiamata da parte della presa di parola che si esprime e
si realizza nei Discorsi26. L’assunzione di una responsabilità con-
divisa è l’istanza che può nuovamente annodare il rapporto tra As-
soluto come vita originaria e flusso fenomenico come sua manife-
stazione. Ma l’accoglimento dell’appello a prendere posizione
non è soltanto ciò da cui dipende la tenuta ontologica del nesso
che stringe in un tutto vita assoluta e mondo dei fenomeni. Esso
è anche ciò da cui dipende la “riuscita” della transizione tra terza
e quarta epoca della storia universale, il passaggio effettivo tra la
“peccaminosità”, che coincide con la negazione della libertà e l’af-
fermazione di un determinismo universale, e la ritrovata “chia-
rezza” di un’apertura alle istanze della potenza liberamente crea-
trice dello spirito. E proprio qui sta il carattere arrischiato della
posta in gioco: la decisione infatti è necessaria, ma l’ordine della
sua necessità pertiene a un orizzonte diverso rispetto a quello del-
l’essere. Piuttosto, la necessità di cui qui si tratta è dell’ordine del-
l’esigenza, dell’ottemperanza a un dovere e a un’istanza più alti

J.G. Fichte, GA, II, 10, pp. 157-164; trad. it. Dottrina della scienza. Esposizione
del 1807, a cura di G. Rametta, Milano 1995, pp. 97-111.
26 Cfr. R, pp. 229 sg.; XIV, p. 204.

XXVIII
del semplice vantaggio immediato, della convenienza opportuni-
stica e meschina. Ma proprio perché tale decisione risponde a una
necessità che attiene alla sfera della responsabilità e non del puro
e semplice “essere”, essa è anche radicalmente infondata, inderi-
vabile da premesse date, da circostanze più o meno condizionan-
ti. Essa comporta un distacco, una recisione, una sottrazione ri-
spetto al mondo così come è dato, e al tempo stesso implica un
porsi oltre di esso, un proiettarsi nel presente verso ciò che è an-
cora assente. D’altra parte, proprio perché è dell’ordine della re-
sponsabilità, e non dell’essere dato “qui e ora”, essa riveste carat-
tere irriducibilmente ontologico: non è espressione di un’inclina-
zione meramente soggettiva, poiché in essa ne va del rapporto tra
Assoluto e fenomeno, ne va del carattere stesso del mondo in
quanto “apparizione” della vita originaria, in quanto condizione
e “mezzo” per la manifestazione della libertà (non nel senso stru-
mentale, ma di ciò “mediante” e “attraverso” cui la libertà può
continuare a esprimersi in rinnovate creazioni, può configurare
secondo forme diverse l’essere dato di volta in volta).
È all’altezza di questo nesso tra ontologia, politica e responsa-
bilità che deve essere assunta la critica al modello di “monarchia
universale”, che secondo Fichte minacciava l’Europa in modo
sempre più incombente dopo la pace di Tilsit27. Di qui l’inimici-
zia senza quartiere verso colui che Fichte in altro luogo chiama il
“senza nome”, verso colui che nella forma dell’impero post-rivo-
luzionario intende amalgamare tutti i popoli d’Europa in un’uni-
ca cultura, in un unico stile di vita e modello di civiltà. La Ger-
mania, la “nazione tedesca”, hanno le risorse per opporre a tale
modello quello di un ordinamento repubblicano, che nelle libere
città del Medioevo è apparso come congeniale e specifico dell’e-
sperienza storica tedesca. Qui, i liberi comuni hanno dimostrato
una concordia interna sconosciuta alle contemporanee città libe-
re d’Italia, evidenziando con ciò la strutturale affinità tra nazione
tedesca e ordinamenti repubblicani. Sarebbe vano ricercare, al-
l’interno delle Reden, un modello compiuto di assetto costituzio-
nale. Ma è chiaro che l’esperienza repubblicana alla quale Fichte

27
Su questo aspetto, cfr. ancora R. Lauth, Der letzte Grund von Fichtes “Re-
den an die deutsche Nation”, “Fichte-Studien”, n. 4 (1992), pp. 197-230.

XXIX
si richiama è caratterizzata da un assetto irriducibilmente plurale
di corpi costituiti, basati sulla capacità di autogovernarsi e au-
toamministrarsi da parte dei cittadini. Per questo, al di là della te-
nuta storica delle analisi fichtiane, al di là delle evidenti forzature
in rapporto alla storia e alla civiltà degli altri Paesi europei, ciò che
è importante è che la libertà, il nocciolo ontologico fondamenta-
le dell’intera concezione della dottrina della scienza, abbia trova-
to nella storia tedesca una forma congeniale di ordinamento poli-
tico, abbia scoperto in essa una “nazione” che ha dimostrato, nel-
la concreta “effettualità” della sua storia, la possibilità di una coe-
sistenza tra esperienza di autogoverno, pluralità di corpi politici
autonomamente costituiti, e raccordo di questi ultimi in un nesso
reciproco basato sul riconoscimento di una comune appartenen-
za alla compagine, o meglio, alla “federazione imperiale” (Reichs-
verband)28. In quest’ultima, la nazione tedesca si era data uno
spazio comune privo di un potere sovrano centralizzato, ma con-
vergente nel riconoscimento di un’autorità condivisa, il cui signi-
ficato non era dell’ordine della sovranità e del potere moderni, ma
era innanzitutto dell’ordine del simbolo, della giustizia e del go-
verno29. Tuttavia, Fichte è ben lontano dalla rievocazione nostal-
gica di un passato ideale, e la sua attenzione, a differenza di quel-
la dei “romantici” a lui contemporanei, non va alla figura di re e
imperatori, bensì all’esperienza di quegli organismi di autogover-
no che si erano istituiti in liberi comuni, e avevano come loro ce-
to portante la borghesia cittadina delle attività imprenditoriali e
delle professioni civiche. È a questo ceto che Fichte riconduce le
grandi conquiste della storia tedesca, culminate nella Riforma lu-
terana, e interrotte proprio a causa delle rivalità territoriali dei
principi tedeschi, che per la loro ambizione e “avidità” hanno pri-
ma schiacciato l’autonomia delle città libere, e poi hanno aperto

28
Per un primo inquadramento del concetto in chiave storico-costituziona-
le, cfr. H. Mohnhaupt-D. Grimm, Verfassung. Zur Geschichte des Begriffs von
der Antike bis zur Gegenwart, Berlin 1995, il § VII del primo studio: Kleine Or-
ganisationseinheiten und staatlicher Gesamtverband, pp. 53-62; per il dibattito
successivo al 1789, cfr. ivi, § XII.2: Lob und Tadel der Reichsverfassung in der
zeitgenossischen Publizistik, pp. 83-88.
29
Su questi aspetti, cfr. in particolare G. Duso, Fine del governo e nascita del
potere, in La logica del potere cit., pp. 55-85; e in proiezione contemporanea,
Considerazioni su democrazia e federalismo, ivi, pp. 160-189.

XXX
la strada all’intervento dell’“estero” nelle vicende interne della Ger-
mania. Con la guerra dei Trent’anni, insomma, inizia per Fichte
quel periodo di frammentazione e di perdita progressiva dei lega-
mi comuni, che renderà la Germania “oggetto” di politica da par-
te delle grandi potenze europee. Ma proprio ora, nell’istante più
cupo della sua storia, la “nazione tedesca” può ritrovare la risor-
sa a partire da cui sarà possibile, per essa, ricostruirsi su basi in-
teramente nuove: e tale risorsa altro non è che la filosofia tedesca
a partire da Leibniz, condotta alla sua svolta decisiva da Kant, e
condotta infine a compimento nella dottrina della scienza dello
stesso Fichte30.
Così, l’appello ai “ceti colti” della Germania non ha il signifi-
cato ristretto di un appello rivolto in chiave esclusiva a coloro che
sono dislocati sul territorio tedesco, e neppure è rivolto soltanto
a coloro che parlano la lingua tedesca. Piuttosto, il riferimento più
ampio è costituito dai ceti colti e dai “dotti” dell’intera Europa del
tempo, affinché comprendano il pericolo rappresentato dai pro-
getti imperiali di costruzione di una “monarchia universale” da
parte di Napoleone. Al tempo stesso, esso è però, in quanto ap-
pello, necessariamente legato a una prospettiva futura, prospetti-
va che deve trovare le sue condizioni di attuazione nel presente.
Con ciò, arriviamo infine a toccare il problema del “mezzo”, che
Fichte proclama come l’unico possibile, ma anche quello sicura-
mente efficace, per aprire la via alla ricostituzione della Germania
come “nazione” (non come Stato), e al tempo stesso per riaprire
all’Europa, attraverso la prefigurazione e l’esempio del popolo te-
desco, la via per la riappropriazione della sua libertà e della sua
vocazione spirituale.
Abbiamo visto come la valorizzazione del “tratto comune” di
ciò che è tedesco richieda una presa di coscienza, che è essenzia-
le al costituirsi della nazione come comunità d’intenti e di azione.
In tal senso, l’atto filosofico della “visione” è costituente, è origi-
nariamente produttivo non perché inventi o crei artificialmente

30
Sull’interpretazione fichtiana di Leibniz, cfr. M. Ivaldo, Fichte e Leibniz.
La comprensione trascendentale della monadologia, Milano 2000; per alcune in-
dicazioni sul rapporto tra Fichte e Kant, rinviamo al nostro Le strutture specu-
lative della dottrina della scienza. Il pensiero di J.G. Fichte negli anni 1801-1807,
Genova 1995.

XXXI
dal nulla qualcosa che non esiste, bensì appunto in quanto mette
in luce, porta alla visione e alla parola ciò che costituisce il tratto
comune “in quanto tale”. La salvaguardia di ciò che è tedesco dal-
la “confluenza con l’estero” è innanzitutto la salvaguardia delle
differenze dalla loro riconduzione a una unità globale e omoge-
nea, dalla loro sottomissione a un unico potere e a un’unica so-
vranità. In questo senso, la “monarchia universale” paventata da
Fichte sarebbe stata il dispiegamento della logica moderna della
sovranità sull’intera scala europea, e poca importanza avrebbe
avuto, a quel punto, l’affermazione dell’eguaglianza come univer-
sale principio giuridico, stabilita in base al Codice civile da poco
approvato. Infatti, in questo caso, si sarebbe trattato soltanto di
un’eguaglianza risultante e prodotta dalla sottomissione a un uni-
co e identico potere, di un’eguaglianza del livellamento, dell’assi-
milazione, dell’omogeneità.
Al tempo stesso, impedire la “confluenza con l’estero” signifi-
ca mantenere aperta la faglia della crisi, salvaguardare la possibi-
lità di un “passaggio” che, dalla rottura epocale segnata dalla ca-
tastrofe dell’egoismo, conduca alla soglia di un “tempo nuovo”,
di una nuova e più matura affermazione della libertà. Ma appun-
to, il carattere “critico” del momento presente richiede che le con-
dizioni dell’umanità futura si preparino fin da ora, che fin da ora
si predispongano gli uomini che quella transizione dovranno rea-
lizzare, che quella nuova umanità dovranno intanto anticipare. È
qui che l’esposizione deve fare un salto, deve mutare il suo ac-
cento. Per cogliere esattamente il “mezzo” di cui c’è bisogno, è ne-
cessario cioè abbandonare il tono della recriminazione, del rim-
provero, dell’imputazione di responsabilità e di colpe. La consi-
derazione deve passare, dal piano del giudizio etico, dell’assolu-
zione o della condanna per qualcosa che comunque si è ormai
consumato, al piano della considerazione storica, che assume ciò
che si è compiuto nel suo carattere di necessità, che intende spie-
garne le ragioni, e a partire da tale comprensione intende ricerca-
re i nuovi mezzi per rimediare alla situazione ormai vigente31.
Ora, alla considerazione storica il crollo dell’egoismo appare
al tempo stesso come la definitiva rottura, come il logoramento ir-

31 Cfr. R, p. 16; I, p. 10.

XXXII
reversibile di quei legami che prima stringevano assieme i singoli
in un intero. Qui non si tratta dei vincoli istituzionali, ma delle
motivazioni interiori, delle spinte profonde che spingevano cia-
scuno a obbedire a una medesima autorità, a ritenersi parte di un
medesimo corpo comune. Tali molle, tali impulsi altro non erano
che la “paura” e la “speranza”, e questi stimoli potenti erano ri-
volti sia alla vita terrena, sia al destino futuro del singolo in un’e-
sistenza ultraterrena32. Il timore della punizione e la speranza in
un avvenire migliore, sia nell’al di qua sia nell’aldilà, era ciò che
motivava gli individui a ottemperare ai propri doveri, a obbedire
alle leggi, a rispettare le autorità secolari e religiose. Ma proprio
questi stimoli, ora, per i tedeschi sono venuti meno. Essendo per
essi ormai tutto perduto, non c’è più nulla che gli uomini possa-
no temere; e d’altra parte, rispetto alla vita ultraterrena, l’Illumi-
nismo ha contribuito a dissolvere i vincoli che facevano innalzare
lo sguardo dell’uomo verso il cielo, che ne regolavano il compor-
tamento a partire dal timore per una punizione che sarebbe du-
rata per sempre, e dalla speranza in una remunerazione che infi-
ne avrebbe premiato il giusto. È dalla perdita di efficacia di siffatti
stimoli eteronomi, dal disincanto prodotto dall’Illuminismo, che
è necessario partire per rifondare il tutto ora dissolto. Si tratta cioè
di riprendere l’iniziativa dal punto in cui l’Illuminismo si è fer-
mato, di non arrestarsi all’opera negativa e distruttrice del suo in-
telletto, ma di considerare la distruzione avvenuta come l’aprirsi
di una possibilità nuova. Avendo dissolto i vincoli della paura e
della speranza, infatti, l’Illuminismo ha liberato lo spazio per la
creazione di un “Sé” più alto. È questo Sé più alto che si tratta,
per Fichte, di “formare” a partire da un’educazione interamente
nuova, che abbia a sua guida le conquiste operate dalla teoria e
dagli esperimenti compiuti da Pestalozzi, ma soprattutto che in-
corpori al proprio interno la visione della libertà, pervenuta a co-
scienza di sé nella filosofia propriamente “tedesca”, cioè nella dot-
trina della scienza. Il programma fichtiano della nuova educazio-
ne nazionale, che formi un “Sé assolutamente nuovo [...] genera-
le e nazionale” (R, p. 21; I, p. 15), non è dunque il progetto di un
ritorno al di qua dell’Illuminismo, bensì al contrario dell’Illumi-

32 R, pp. 19 sg.; I, pp. 13 sg.

XXXIII
nismo esso intende raccogliere il potenziale liberatorio, e trasfor-
marlo in un progetto di emancipazione universalmente condiviso,
tale cioè da predisporre il singolo a valorizzare le proprie capacità
di creazione, e al tempo stesso da innestare tali capacità nella re-
te dell’“intelletto comune” proprio della nazione.
Così, l’educazione nazionale appare a Fichte come l’unica pos-
sibile proposta conseguente alla presa di parola e all’assunzione di
responsabilità da parte della filosofia, da parte del “singolo” che
a quest’ultima ha dato voce e parola. Se i Discorsi alla nazione te-
desca devono essere, come abbiamo visto, un nuovo inizio, la fon-
dazione di un rinnovato corpo comune, allora l’educazione na-
zionale ne è il risvolto necessario in termini di progetto concreta-
mente politico, orientato cioè alla formazione di un soggetto di
azione collettiva, di un Sé “generale”.
Salta agli occhi la “modernità” e la “progressività” del proget-
to fichtiano33: azzeramento dei ceti, dei privilegi di nascita e di
censo, accesso universale ed egualitario a una formazione a voca-
zione spiccatamente universalistica, in cui la scommessa, che
Fichte cercherà di mostrare in tutti i suoi dettagli nel blocco dei
discorsi 9-11, è quella di formare un corpo collettivo di eguali, in
cui però l’eguaglianza non sia il segno di un appiattimento delle
differenze, bensì al contrario valorizzazione delle diversità, delle
propensioni, dei talenti. È perciò che essa si rivolge anzitutto alla
formazione della “volontà”, in quanto sorgente delle “decisioni”
da cui verrà a dipendere l’intera esistenza del singolo e del corpo
comune di cui farà parte. Abbiamo l’eredità di Rousseau, ma in-
nestata sulla svolta trascendentale iniziata da Kant, e condotta al
suo compimento nella dottrina della scienza dello stesso Fichte.
Certo, qui troviamo anche un insieme di concetti che sembrano

33 “In quanto Fichte apre i suoi discorsi osservando che egli parla ‘per te-

deschi semplicemente, di tedeschi semplicemente, senza riconoscere, ma anzi


mettendo assolutamente da parte e rigettando tutte quelle distinzioni laceranti,
che eventi infelici hanno provocato da secoli nella nazione’ [...] egli indica l’u-
nico appoggio per sollevarsi da questo abbattimento nella ‘creazione di un or-
dine di cose interamente nuovo’, nella formazione della nazione in un ‘Sé inte-
ramente nuovo, generale, nazionale’, nell’educazione di essa in quanto tale, sen-
za riguardo a uno Stato particolare, mediante la formazione del fondamentale
tratto comune di ciò che è tedesco”: così già la commissione centrale d’inchie-
sta (FG, p. 90).

XXXIV
destinati a seguire nel suo tramonto l’epoca nella quale furono for-
mulati. Però forse, in essi, c’è anche qualcosa “di più”. Innestare
l’educazione sulla base della dottrina della scienza, significa anzi-
tutto l’impossibilità di una separazione tra volontà e visione, si-
gnifica creare le condizioni perché, in ciascuno, tale intreccio tra
“volontà pura” e “visione chiara” si sviluppi e si ampli conforme-
mente alle proprie disposizioni e facoltà. Significa insomma, in
pari tempo, che l’educazione è educazione alla creazione, allo svi-
luppo di un Sé libero, e al tempo stesso capace di riannodare, nel-
l’esercizio di questa sua libertà, la condivisione di ciò che è “co-
mune”, di espandere l’orizzonte per l’agire insieme dei singoli.
Significa infine educare alla pratica di un’esperienza politica
che non è più, non può più essere quella del potere moderno, del-
lo Stato sovrano centrato sul nesso comando-autorizzazione-ob-
bedienza. Le molle che facevano funzionare questo “meccani-
smo” erano proprio quelle della paura e della speranza: ma ora
questi stimoli hanno fatto, letteralmente, il loro “tempo”34. Così
non è più possibile immaginare neppure un’opposizione dicoto-
mica fra interno ed esterno, fra “legalità” del comportamento
esteriore e intima “moralità” dell’intenzione, che andrebbe consi-
derata irrilevante dal punto di vista della prima. È proprio tutto
questo a essere crollato con l’egoismo, è l’insufficienza stessa del-
la bipartizione kantiana che con ciò si è manifestata. Allo stesso
modo, Fichte intende scongiurare l’interiorizzazione rousseauia-
na della scissione tra pubblico e privato, tra l’amor proprio del-
l’individuo come “particolare”, e la volontà generale operante in
quello stesso individuo come “cittadino”. È per questo che, nella
nuova formazione, la stessa libertà dovrà confluire in una più al-
ta necessità: si tratta di formare una volontà che non possa più vo-
lere diversamente da come vuole, e che in questo non poter più
volere altrimenti da come ha voluto una volta, scopra l’attuazione
suprema della propria destinazione e della propria stessa libertà.
Così, al superamento dell’assetto kantiano basato sulla separazio-
ne tra morale e diritto, tra eticità “interna” e legalità “esterna”, si
accompagna il superamento dell’aporia rousseauiana tra bour-

34
Per la critica della logica interna alla scienza politica moderna, cfr. R, pp.
109-113; VII, pp. 95-98.

XXXV
geois e citoyen; alla paura e alla speranza come fonti di obbedien-
za a un potere eteronomo, viene sostituito un Sé “generale”, di
una comunità di azione che non ha più bisogno né dell’una né del-
l’altra, perché ha in se stessa la fonte delle proprie decisioni, ha in
se stessa la forza per sostenerle e per condividerle, perché ha in se
stessa l’“amore” per l’idea del giusto, che in sé ha cancellato la
paura e la speranza. Ma allora, è evidente che l’unico ordinamen-
to politico adatto a questa forma di soggettività messa in comune,
di questo vero e proprio corpo collettivo, non potrà che essere
l’ordinamento repubblicano35; benché, per la loro stessa natura,
nei Discorsi tale ordinamento sia più evocato che concettualmen-
te determinato.
Qui le Reden evidenziano il carattere di utopia concreta su cui
ha insistito Ernst Bloch, quando ha parlato del significato “nor-
mativo” spettante ai “superlativi” così spesso impiegati nelle Re-
den36. La concretezza di tale utopia si rivela forse anche nel suo es-
sere produttiva in rapporto a una lettura non del tutto scontata dei
fenomeni cui l’Europa si trova posta di fronte al giorno d’oggi. È
sicuramente improprio accostare la “monarchia universale”, che
per Fichte costituiva la minaccia che gravava sull’Europa del suo
tempo, ai processi attualmente in atto sul piano della cosiddetta
“globalizzazione”; però è anche vero che nella critica alla monar-
chia universale emerge una linea di pensiero che sembra già antici-
pare la crisi dell’assetto statuale moderno, basato su un’antropolo-
gia di tipo “hobbesiano”, in cui la paura la fa da padrona, e la spe-
ranza altro non è che il suo risvolto, ovvero ciò che deve aiutare
l’uomo a sopportarla. L’ordinamento repubblicano non è, abbia-

35
“il tendere alla repubblica [Hinstreben zur Republik] in quanto Stato per-
fetto, che la nazione tedesca sarebbe l’unica in grado di sostenere tra tutte le na-
zioni dell’Europa moderna, verso la quale il popolo deve essere formato, della
quale deve essere reso degno [...] Questa è la strada per l’obiettivo prefisso, al-
la quale Fichte accenna nei suoi Discorsi, e queste sono anche le idee di fondo
di tutte le associazioni, movimenti e iniziative del periodo successivo” (dal me-
desimo rapporto della censura citato alla nota 33, FG, p. 91). Stando così le co-
se, è comprensibile che la seconda edizione delle Reden non abbia potuto esse-
re pubblicata in Prussia.
36
Cfr. E. Bloch, Fichtes Reden an die deutsche Nation, in Politische Mes-
sungen, WA, Bd. 11, Frankfurt am Main 1970, pp. 300-312. Per un commento
all’interpretazione di Bloch, cfr. ancora Becker, Fichtes Idee der Nation cit., pp.
358-362.

XXXVI
mo detto, concettualmente determinato; però l’esempio storico, a
partire dal quale Fichte ce lo presenta, incarna un modello di au-
togoverno e di autoamministrazione, di corpi costituiti, di città li-
bere che sono tali in quanto si riconoscono come compartecipi di
uno spazio comune, che era sì quello del “Sacro romano impero
della nazione germanica”, ma che nel modo in cui viene illustrato
da Fichte può senz’altro fornire spunti utili – più che alla rievoca-
zione nostalgica di un passato storico che già per lui era sepolto per
sempre, e che del resto era ben lontano dal soddisfare la sua idea di
“Stato secondo ragione” – a ripensare il nostro “futuro” di oggi-
giorno, a elaborare ulteriormente quella che nella teoria politica è
ormai emersa come esigenza di un nuovo rapporto tra pensiero re-
pubblicano, federalismo e democrazia, in grado di far fronte alla
crisi irreversibile degli Stati nazionali, e al tempo stesso di racco-
gliere l’istanza insopprimibile del riconoscimento delle differenze,
che va di pari passo con le richieste sempre più urgenti, e sempre
più estese su scala planetaria, di un’effettiva partecipazione e co-
decisione. È vero, l’idea di “nazione” è stata, nella vicenda della
modernità che comincia con la Rivoluzione francese, indissolubil-
mente collegata alla costituzione degli Stati nazionali, si è rivelata
un concetto funzionale all’espansione e alla realizzazione, sul con-
creto piano degli assetti politici e costituzionali, del progetto della
scienza politica moderna, centrata sulle nozioni di sovranità, auto-
rizzazione e rappresentanza. In questo senso, ciò che in Fichte, sul-
la scorta di Bloch, potremmo definire il carattere “normativo” del-
la nazione è stato riassorbito e probabilmente fagocitato per sem-
pre dalla “realtà effettuale” dello Stato moderno, o al massimo è
riemerso, al declinare del Novecento, come ossessione fantasmati-
ca di una rivendicazione di libertà che si è coattivamente riprodot-
ta in termini di “nazionalismo”, e che altrettanto coattivamente è
sfociata in guerre e massacri. Al contrario, però, se della “nazione”
fichtiana cogliamo la dimensione della ricerca di un legame che
stringa i singoli in una esperienza di libertà condivisa, senza paura
e senza speranza, ma nell’“amore” per la giustizia, allora forse qual-
cosa torna a parlarci.
Ricordiamo che quando Fichte allude alla sua vicenda dopo la
“disputa sull’ateismo”, che si concluse con l’abbandono dell’uni-
versità di Jena e con l’accoglimento del filosofo nella città di Ber-
lino, egli sottolinea come ciò che costituiva la peculiarità della “fe-

XXXVII
derazione” tedesca fosse la libertà di comunicazione e di movi-
mento, che consentiva a ciascuno di trovare ospitalità in un luogo
diverso da quello che, per diverse ragioni, aveva abbandonato, re-
stando però all’interno del medesimo spazio comune, senza di-
ventare insomma un “apolide” e un escluso37. Tale spazio, basato
su una comune appartenenza linguistica e culturale, e strutturato
a partire da un comune riferimento alla costituzione dell’impero,
era apparso per molti decenni compatibile con l’esperienza re-
pubblicana delle città libere, e costituisce per Fichte lo sfondo sto-
rico della sua opposizione all’instaurazione, da parte di Napoleo-
ne, di una “monarchia universale”, che oltre a rendere impossibi-
le l’ospitalità per chi fosse entrato in contrasto col detentore del
potere sovrano, avrebbe condotto al dispiegamento senza residui
della forma-Stato moderna, modellata sull’ossessione per l’unità
politica.
Sarebbe insensato ricercare, nelle Reden, delle indicazioni
“pratiche” di modelli costituzionali, non solo per la distanza tem-
porale che ci separa da esse, ma soprattutto perché questo non era
il loro intento neppure al tempo in cui vennero pronunciate, e fra
tante difficoltà pubblicate. Ma ricercare in esse un’interrogazio-
ne, il tentativo di battere una nuova via, il carattere esemplare di
un’assunzione di responsabilità da parte della filosofia, anzi da
parte del filosofo come singolarità che “decide” e pratica una pre-
sa di parola, e che con ciò provoca comunque una rottura, dà co-
munque avvio a un nuovo inizio, al di là degli esiti ulteriori del suo
dire: forse, questo dalla lettura delle Reden è ancora lecito aspet-
tarselo.

37
Cfr. R, pp. 139 sg.; VIII, pp. 123-124.
Discorsi alla nazione tedesca
Prefazione

[259] I seguenti discorsi sono stati tenuti a Berlino nell’inverno


1807/08 in una serie di lezioni come continuazione dei Tratti fon-
damentali dell’epoca presente esposti in quella stessa città, e stampati
nel 1806 per la stessa casa editrice. Ciò che con essi e mediante essi
andava detto al pubblico, è enunciato da loro stessi, e quindi non ci
sarebbe bisogno di alcuna prefazione. Ma poiché nel frattempo, a
causa delle vicende che hanno accompagnato la stampa di questi di-
scorsi, si è prodotto uno spazio vuoto da riempire, io lo riempio con
qualcosa che in parte è già stato approvato dalla censura e stampa-
to altrove, che è richiamato dall’occasione che ha provocato la la-
cuna in questione, e che in generale potrebbe trovare applicazione
anche qui, mentre io rimando in particolare alla conclusione del Do-
dicesimo discorso, che riguarda lo stesso argomento1.

Berlino, aprile 1808


Fichte

1
“A causa delle obiezioni della censura contro il Primo discorso, la stampa
era cominciata col Secondo discorso, ed era stato lasciato libero lo spazio pre-
visto per il Primo discorso. Poiché questo occupava meno spazio del previsto,
Fichte lo fece precedere da due sezioni tratte dal suo articolo su Machiavelli (cfr.
GA, I, 9, pp. 211 sgg.), e da una tratta dai dialoghi sul patriottismo e il suo con-
trario (cfr. GA, II, 9, pp. 387 sgg.)” (Fuchs, Fichtes “Reden” cit.). Il lettore ita-
liano può trovare la traduzione dei primi due testi in J.G. Fichte - C. von Clau-
sewitz, Sul Principe di Machiavelli, a cura di G.F. Frigo, Ferrara 1990, rispetti-
vamente a pp. 114 sg. e pp. 61-64.

3
Primo discorso
Considerazioni preliminari
e sguardo d’insieme

[264] Ho annunciato i discorsi che mi accingo a iniziare come


continuazione delle lezioni che ho tenuto proprio qui tre anni fa,
e che sono state pubblicate col titolo Tratti fondamentali dell’epo-
ca presente. In quelle lezioni avevo mostrato che il nostro tempo
si trova nella terza età principale di tutto il tempo universale, età
che ha come stimolo di tutte le sue attività e movimenti vitali il
semplice interesse sensibile; che lo stimolo suddetto costituisce
l’unica possibilità nella quale il tempo presente concepisce e com-
prende perfettamente se stesso; e che da questa chiara visione del-
la sua essenza, esso viene profondamente fondato e incrollabil-
mente rafforzato in questa sua stessa essenza vivente1.
Il tempo con noi procede con passi da gigante, più di quanto
abbia mai fatto con una qualsiasi altra epoca da quando esiste una
storia universale. Nei tre anni trascorsi dalla mia interpretazione
dell’età in corso, questa sezione si è da qualche parte perfetta-
mente esaurita e conclusa. Da qualche parte, l’egoismo si è di-
strutto mediante il suo completo sviluppo, poiché nel frattempo
ha perduto il suo Sé e l’indipendenza di questo; e a quell’egoismo,
poiché non voleva porsi di buon grado nessun altro scopo che se
stesso, un simile scopo altro ed estraneo è stato imposto da una
violenza esteriore. Chi ha cominciato a interpretare il proprio

1
Cfr. in particolare GZ, lez. 2, pp. 205-218 (trad. it., cit., pp. 95-113).

5
tempo deve accompagnare, con la sua interpretazione, anche il
suo procedere, se il tempo ne acquista uno; e così, di fronte allo
stesso pubblico cui ho indicato qualcosa come presente, diventa
per me doveroso riconoscere questo stesso qualcosa come passa-
to, nel momento in cui ha smesso di essere il presente2.
Ciò che ha perduto la sua indipendenza, ha in pari tempo
[265] perduto la facoltà di intervenire nel flusso del tempo, e di
determinarne liberamente il contenuto; se persiste in questa con-
dizione, il suo tempo, ed esso stesso assieme a questo suo tempo,
viene diretto dalla violenza estranea che comanda sul suo destino;
d’ora in poi, esso non ha più un proprio tempo, bensì conta i suoi
anni secondo gli eventi e le età di popolazioni e imperi estranei.
Esso potrebbe sollevarsi da questa condizione, in cui tutto il mon-
do trascorso è sfuggito al suo intervento spontaneo, e nel quale gli
è rimasta solo la gloria dell’obbedienza, soltanto a condizione che
per esso sorga un nuovo mondo3. Con la creazione di quest’ulti-
mo, esso potrebbe cominciare un’età nuova e a esso propria, riem-
piendola con la continua formazione di quel mondo. Tuttavia,
poiché ormai esso è assoggettato a una violenza estranea, questo
nuovo mondo dovrebbe essere costituito in modo tale da rimane-
re impercettibile a quella violenza, e da non stimolarne in alcun
modo l’invidia; anzi, in modo tale che questa sia spinta dal suo
proprio vantaggio a non porre alcun ostacolo alla configurazione
di un simile mondo. Se ora, per una stirpe che ha perduto il suo
Sé, il suo tempo e il suo mondo precedenti, dovesse esserci un
mondo così costituito, come mezzo per la generazione di un nuo-
vo Sé e di un nuovo tempo, allora a un’interpretazione poliedrica

2
Leggi: il particolarismo degli Stati e dei singoli ceti e individui tedeschi ha
condotto la Germania al suo crollo, evidenziando le conseguenze dell’“egoi-
smo” come tratto fondamentale dell’età moderna; la “violenza esteriore” è quel-
la esercitata dal dominio francese dopo la battaglia di Jena. Ciò comporta una
modificazione fondamentale del quadro storico, e impone una nuova interpre-
tazione dell’epoca in corso, giustificando anche da questo punto di vista l’im-
presa delle Reden.
3
Il “nuovo mondo” in questione è stato dischiuso all’orizzonte dello “spiri-
to” dalla “nuova creazione” costituita dalla dottrina della scienza; la sua realiz-
zazione nella “realtà effettiva”, però, esigerà la predisposizione di determinati
“mezzi”, il principale dei quali sarà appunto un nuovo tipo di “educazione na-
zionale”.

6
anche del tempo possibile spetterebbe di presentare questo mon-
do così costituito.

Ora, da parte mia, io ritengo che un mondo simile esista, e lo sco-


po di questi discorsi è di mostrare a voi la sua esistenza e il suo ve-
ro possessore, di recare innanzi ai vostri occhi una sua immagine
vivente, e di indicarvi i mezzi della sua generazione. Così, dunque,
tali discorsi saranno una continuazione delle lezioni tenute in pas-
sato sul tempo allora presente, poiché essi riveleranno la nuova
epoca, che potrà e dovrà seguire immediatamente alla distruzio-
ne dell’impero dell’egoismo da parte di una violenza estranea.
Ma prima di iniziare, devo invitarvi a presupporre, perché non
vi passi mai di mente [266], e a concordare con me, nella misura
in cui è necessario, i punti seguenti:
1) Io parlo per tedeschi semplicemente, di tedeschi semplice-
mente, senza riconoscere, ma anzi mettendo assolutamente da
parte e rigettando tutte quelle distinzioni laceranti, che eventi in-
felici hanno provocato da secoli nella nazione4. Voi, Onorevole
Assemblea, al mio occhio corporeo siete senz’altro i primi e im-
mediati rappresentanti che mi rendete presenti le amate caratteri-
stiche nazionali, e il punto focale visibile in cui si accende la fiam-
ma del mio discorso; ma il mio spirito raccoglie intorno a sé la par-
te colta dell’intera nazione tedesca da tutti i territori su cui essa è
diffusa, medita e considera la situazione e i rapporti comuni a noi
tutti, e si augura che una parte della forza viva con cui forse que-
sti discorsi afferreranno voi, permanga anche nella muta impron-
ta che sarà l’unica a finire sotto gli occhi degli assenti, e respiri da
essa, e dappertutto accenda spiriti tedeschi alla decisione e all’a-
zione. Solo di tedeschi e per tedeschi semplicemente, ho detto.
Mostreremo a suo tempo che ogni altra designazione unitaria o le-
game nazionale non hanno mai avuto verità e significato, oppure,
qualora ne abbiano avuto, che questi punti di unificazione sono
stati distrutti e ci sono stati strappati dalla nostra attuale situazio-
ne, e non potranno mai più ritornare; e che solo il fondamentale
tratto comune di ciò che è tedesco potrà scongiurare il tramonto

4 Questo appello attirò l’attenzione della commissione centrale d’inchiesta

per il suo carattere universalistico (cfr. supra, Introduzione, nota 33).

7
della nostra nazione nella sua confluenza con l’estero, e potrà far-
ci riconquistare un Sé basato su se stesso, e assolutamente inca-
pace di dipendenza. Appena capiremo quest’ultimo punto sparirà
anche l’apparente contraddizione, che forse ora qualcuno teme,
di questa affermazione con doveri di altra natura, e con occupa-
zioni ritenute sacre.
Perciò, poiché io parlo solo di tedeschi in generale, affermerò
come valide per noi diverse cose, che in un primo tempo non lo so-
no per chi è riunito qui, così come [267] affermerò come valide per
tutti i tedeschi altre cose, che in un primo tempo valgono solo per
noi. Nello spirito di cui questi discorsi sono l’emanazione, io scor-
go l’unità reciprocamente intrecciata, in cui nessun membro con-
sidera il destino di qualsiasi altro membro come un destino che gli
è estraneo, unità che deve e dovrà necessariamente sorgere, se non
dobbiamo andare completamente in rovina – io scorgo questa
unità come già sorta, compiuta, e immediatamente presente.
2) Io presuppongo ascoltatori tedeschi, che non si facciano as-
sorbire con tutto il loro essere nel sentimento del dolore per la
perdita subita, compiacendosi di questo dolore, nutrendosi della
loro inconsolabilità, e pensando di avere soddisfatto con tale sen-
timento l’esortazione ad agire loro rivolta; ma che si siano già sol-
levati da questo giusto dolore alla chiara meditazione e conside-
razione, o che perlomeno ne siano capaci. Io conosco quel dolo-
re, l’ho sentito come chiunque, gli rendo onore; l’ottusità che è
soddisfatta quando trova da mangiare e da bere, e quando non le
sopraggiunge un dolore fisico, e per la quale onore, libertà, indi-
pendenza sono parole vuote, è incapace di esso: ma esso è lì sol-
tanto per spronarci alla concentrazione, alla decisione e all’azio-
ne; mancando di questo scopo ultimo, esso ci priva della concen-
trazione e di ogni altra forza residua, e così completa la nostra mi-
seria; perché oltre a tutto questo esso fornisce, come testimone
della nostra inerzia e viltà, la prova visibile che noi meritiamo la
nostra miseria. Ma io non mi riprometto di sollevarvi da questo
dolore mediante rassicurazioni su un aiuto che dovrebbe giunge-
re dall’esterno, e mediante accenni a tutti i possibili eventi e cam-
biamenti che forse il tempo porterà con sé: perché, se anche que-
sto modo di pensare non testimoniasse già in sé – come fa – della
più colpevole leggerezza e del più profondo disprezzo di se stes-
so, preferendo perdersi nel mondo inconsistente delle possibilità,

8
invece di appuntarsi su ciò che è necessario, e affidando la pro-
pria salvezza al cieco caso, invece che a se stesso; [268] comun-
que, oltre a tutto questo, tutte le rassicurazioni e gli accenni di
questo tipo non potrebbero applicarsi in nessun modo alla nostra
situazione. Si può rigorosamente dimostrare, e lo faremo a suo
tempo, che nessun uomo e nessun Dio e nessun evento tra tutti
quelli compresi nel campo del possibile ci possono aiutare, ma che
se un aiuto ci deve giungere, dobbiamo aiutarci soltanto da noi
stessi. Invece, cercherò di sollevarvi dal dolore mediante la visio-
ne chiara della nostra situazione, della nostra forza ancora rima-
sta, dei mezzi della nostra salvezza. Perciò, presumerò senz’altro
un certo grado di concentrazione, una certa autonomia e qualche
sacrificio, e perciò conto su uditori da cui si può presumere tan-
to. Del resto, gli oggetti di questa assunzione sono in complesso
leggeri, e non presuppongono una quantità di forza superiore a
quella che credo si possa attribuire alla nostra epoca; quanto al pe-
ricolo, poi, non ce n’è assolutamente alcuno.
3) Nella misura in cui intendo produrre una chiara visione dei
tedeschi come tali, nella loro situazione presente, io presuppongo
uditori che siano inclini a vedere le cose di questo tipo coi loro oc-
chi, assolutamente non uditori che trovino più comodo, nella con-
siderazione di questi argomenti, dotarsi di lenti estranee e stra-
niere, che o sono intenzionalmente rivolte a ingannare, oppure
anche per loro natura, per il loro diverso punto di vista e la loro
minore acutezza, non saranno mai adatte a occhi tedeschi. Inol-
tre, io presuppongo che questi uditori, considerando con i propri
occhi, abbiano il coraggio di guardare con onestà alle cose come
stanno, e di ammettere con onestà quello che vedono; e che essi
abbiano già sconfitto, o perlomeno siano in grado di farlo, quel-
l’inclinazione così comune a ingannarsi sulle faccende che ci ri-
guardano, facendosene un’immagine un po’ meno sconfortante di
quella che corrisponde alla verità. Quell’inclinazione è un vile fug-
gire di fronte ai propri pensieri, è un senso infantile, il quale fin-
ge di credere che, se esso non vede la propria miseria, o almeno
non ammette di [269] vederla, questa miseria verrebbe cancella-
ta anche nella realtà, nello stesso modo in cui viene cancellata nel
suo pensiero. Al contrario, audacia virile è fissare il male negli oc-
chi, costringerlo a fermarsi, compenetrarlo con calma, freddezza
e libertà, e risolverlo nelle sue componenti. Inoltre, solo questa

9
chiara visione ci rende padroni del male, e ci fa iniziare con passo
sicuro il combattimento contro di esso poiché, abbracciando con
lo sguardo l’intero in ogni parte, sappiamo sempre dove ci trovia-
mo, e una volta raggiunta la chiarezza siamo certi del fatto nostro,
mentre gli altri, senza un orientamento sicuro e senza salde cer-
tezze, brancolano alla cieca e come in sogno.
Del resto, perché dovremmo temere questa chiarezza? Il male
non diventa minore se lo ignoriamo, né maggiore se lo conoscia-
mo; diventa solo più rimediabile nel secondo caso; ma qui, non
deve essere affatto messa in primo piano la colpa. È giusto colpi-
re l’inerzia e l’egoismo con amare invettive, irrisioni sferzanti e ta-
gliente disprezzo, e istigarli se non altro all’odio e al rancore, che
sono comunque stimoli potenti, contro chi ricorda tutto questo,
finché la conclusione necessaria, la sventura, non è ancora com-
pleta, e dal miglioramento possiamo attenderci ancora salvezza o
sollievo. Ma ora che questa sventura è completa a tal punto da to-
glierci anche la possibilità di continuare a peccare in questo mo-
do, non ha più senso e sembra compiacimento inveire ancora con-
tro i peccati che non si possono più commettere; e allora la consi-
derazione cade dall’ambito dell’etica in quello della storia. Per es-
sa, la libertà è un che di passato, e l’accaduto è il risultato neces-
sario di quanto lo ha preceduto. Ai nostri discorsi resta soltanto
questa considerazione del presente, e perciò noi non assumeremo
mai un altro punto di vista.
Io presuppongo dunque il seguente modo di pensare: che pen-
siamo a noi stessi semplicemente come tedeschi; che non siamo
prigionieri neppure del dolore; che vogliamo vedere la verità; e
che abbiamo il coraggio [270] di guardarla in faccia. Io conto su
di esso in ogni parola che dirò, e se qualcuno in questa assemblea
ne porterà con sé un altro, allora dovrà ascrivere solo a se stesso
le sgradevoli sensazioni che qui potrebbero venirgli procurate.
Ciò sia detto e stabilito una volta per tutte; e adesso mi accingo al-
l’altro compito, quello di esporvi in uno sguardo d’insieme gene-
rale il contenuto fondamentale di tutti i discorsi seguenti.
Da qualche parte5, ho detto all’inizio del mio discorso, l’egoi-

5 Per l’impiego di questo avverbio, e le modifiche imposte dalla censura al

brano che segue, cfr. supra, Introduzione, nota 5.

10
smo avrebbe distrutto se stesso mediante il suo completo svilup-
po, poiché nel frattempo avrebbe perduto il suo Sé e la facoltà di
porsi i suoi scopi in modo indipendente. Questa ormai avvenuta
distruzione dell’egoismo era il procedere del tempo da me accen-
nato, e l’evento in esso assolutamente nuovo, che secondo me ren-
deva possibile e necessaria una prosecuzione della mia preceden-
te descrizione del tempo; questa distruzione sarebbe quindi il no-
stro presente vero e proprio, al quale dovrebbe collegarsi imme-
diatamente la nostra vita nuova in un mondo nuovo, l’esistenza
del quale io ho egualmente affermato. Perciò, tale distruzione sa-
rebbe anche il vero e proprio punto di partenza dei miei discorsi,
e io dovrei mostrare prima di tutto come e perché una siffatta di-
struzione dell’egoismo risulti necessariamente dal suo sviluppo
supremo.
L’egoismo è sviluppato al suo grado supremo quando esso, do-
po avere afferrato l’insieme dei governati con insignificanti ecce-
zioni, a partire da questi si impadronisce anche dei governanti, di-
ventandone l’unico impulso vitale. Da un simile governo deriva,
anzitutto verso l’esterno, la trascuratezza di tutti i legami median-
te i quali la propria sicurezza è collegata alla sicurezza di altri Sta-
ti, il rifiuto dell’intero di cui esso è parte solo per non essere di-
stolto dalla sua quiete inerte, e la miserabile illusione dell’egoismo
di essere in pace finché non sono attaccati i propri confini; quin-
di, verso l’interno, quella debole conduzione delle redini dello
Stato che, con parole straniere, si chiama umanità, liberalità e po-
polarità6, ma che in lingua tedesca andrebbe più giustamente
[271] chiamata inettitudine e comportamento senza dignità.
Ho detto: quando si impadronisce anche dei governanti. Un
popolo può essere completamente corrotto, cioè egoista, poiché
l’egoismo è la radice di ogni altra corruttibilità – e tuttavia non so-
lo può continuare a esistere, ma perfino compiere imprese este-
riormente splendide, purché non sia corrotto il suo governo; an-
zi, quest’ultimo può addirittura agire verso l’esterno senza fede,
dimentico del dovere e dell’onore, purché verso l’interno abbia il
coraggio di tenere le redini del governo con mano ferma, e di con-

6
Humanität, Liberalität, Popularität: su questi termini, Fichte tornerà am-
piamente oltre, nel Quarto discorso (infra, pp. 57 sgg.).

11
quistare per sé la paura più grande. Ma quando si unisce tutto ciò
che abbiamo detto, il corpo comune va in rovina al primo serio at-
tacco cui va incontro, e come prima si era staccato dal corpo di
cui era membro, così ora i suoi membri, che non sono trattenuti
da alcun timore nei suoi confronti, spinti dalla paura più grande
nei confronti dello straniero, si staccano da lui con la medesima
infedeltà, andando ognuno per conto proprio. Qui, la paura più
grande afferra di nuovo quelli che ora si trovano isolati, e con
maggiore prodigalità e simulata gaiezza danno al nemico ciò che
al difensore della patria avevano dato avaramente e del tutto con-
tro voglia; finché anche i governanti, abbandonati e traditi da ogni
parte, vengono costretti a comperare la loro permanenza assog-
gettandosi e piegandosi a progetti estranei; e così ora anche quel-
li che nella lotta per la patria avevano gettato le armi imparano,
sotto insegne straniere, a portarle più coraggiosamente contro la
patria. Così accade che l’egoismo venga distrutto dal suo supre-
mo sviluppo, e che a coloro che, di buon grado, non volevano por-
si altro scopo che se stessi, un simile altro scopo venga imposto da
una violenza estranea.

Nessuna nazione che sia sprofondata in questa condizione di di-


pendenza può risollevarsi da questa con i mezzi comuni e impie-
gati finora. Se la sua resistenza è stata sterile quando la nazione era
ancora in possesso di tutte le sue forze, a che cosa può servire ora
che essa [272] è stata derubata della maggior parte di quelle? Ciò
che in precedenza sarebbe potuto essere di aiuto, cioè se il loro
governo avesse tenuto le redini con forza e con fermezza, ora non
è più applicabile, poiché queste redini sono ancora nelle loro ma-
ni solo in apparenza, e queste stesse mani sono guidate e dirette
da una mano straniera. Una simile nazione non può più contare
su se stessa; e altrettanto poco essa può contare sul vincitore. Que-
sti dovrebbe essere tanto sconsiderato, e tanto vile ed esitante,
quanto lo era stata quella nazione, se non mantenesse i vantaggi
raggiunti e non li perseguisse in tutti i modi. Oppure, se col pas-
sare del tempo diventasse tanto vile e sconsiderato, anche lui an-
drebbe certamente in rovina come noi, ma non a nostro vantag-
gio, bensì diventerebbe preda di un nuovo vincitore, e noi sarem-
mo l’aggiunta ovvia e poco significativa a questa preda. Ma se cio-
nonostante per una nazione caduta così in basso fosse possibile

12
salvarsi, ciò dovrebbe accadere in virtù di un mezzo nuovo, mai
impiegato finora, mediante la creazione di un ordine di cose inte-
ramente nuovo. Consentiteci dunque di vedere il motivo, presen-
te nell’ordine di cose finora vigente, per cui era necessario che
quest’ordine prima o poi finisse. Solo così potremo trovare, nel
motivo contrario a quello del suo tramonto, il nuovo elemento da
inserire nel tempo perché la nazione caduta in basso possa risol-
levarsi, in esso, a nuova vita.
Nel ricercare quel motivo, si scoprirà che in tutte le costitu-
zioni finora vigenti la partecipazione all’intero era connessa con la
partecipazione del singolo a se stesso, per mezzo di legami che da
qualche parte si sono strappati così completamente da non con-
sentire più nessuna partecipazione all’intero – mediante i legami
della paura e della speranza, secondo cui la vicenda del singolo,
in una vita futura e in quella presente, dipendeva dal destino del-
l’intero. L’Illuminismo dell’intelletto calcolante solo su base sen-
sibile è stata la forza che ha annullato il vincolo di una vita futura
con quella presente attraverso la religione; al tempo stesso, esso
ha concepito come fantasmi illusori anche altri mezzi comple-
mentari e rappresentativi [273] del modo di pensare etico, come
l’amore per la gloria e l’onore nazionale. È stata la debolezza dei
governi che, grazie alla frequente impunità per l’inottemperanza
del dovere, ha annullato la paura che le vicende del singolo di-
pendessero, almeno in rapporto alla vita presente, dal suo com-
portamento nei confronti dell’intero; e che ha reso inefficace an-
che la speranza, in quanto questa veniva assai spesso soddisfatta
senza alcun riguardo ai meriti verso l’intero, secondo regole e mo-
venti del tutto diversi. Sono legami di questo tipo a essersi strap-
pati completamente da qualche parte, e per la lacerazione dei qua-
li il corpo comune si è dissolto7.
Per quanto instancabilmente, d’ora in poi, il vincitore possa
perseguire l’unica cosa che può fare, cioè riannodare e rafforzare
la paura e la speranza per la vita presente come ultimi vincoli ri-
masti, egli con ciò fa solo il suo interesse, non il nostro, poiché ca-
pendo certamente qual è il suo vantaggio, egli collega a questo le-
game rinnovato soltanto il suo interesse, il nostro invece solo nel-

7
Qui termina il brano iniziato sopra, a p. 10.

13
la misura in cui la nostra conservazione, in quanto mezzo per i
suoi scopi, diventa un suo interesse. Per una nazione caduta così
in basso, d’ora in poi paura e speranza sono completamente an-
nullate, poiché la sua guida è sfuggita dalle sue mani, ed essa può
sì temere e sperare, ma d’ora in poi nessun uomo avrà più paura
o nutrirà più speranze per essa. A essa non resta nient’altro che
trovare un vincolo interamente nuovo e diverso, superiore a pau-
ra e speranza, per annodare l’interesse della sua totalità alla par-
tecipazione che ciascuno dei suoi membri ha a se stesso.
Oltre agli stimoli sensibili della paura o della speranza, e al
confine più prossimo a essi, si trova lo stimolo spirituale dell’ap-
provazione o disapprovazione etica, e il superiore affetto del com-
piacersi o dispiacersi della situazione nostra e di altri. Come l’oc-
chio esterno abituato a limpidezza e ordine viene tormentato e
turbato, come se provasse un dolore immediato, da una macchia
che forse al corpo non aggiunge immediatamente alcun dolore,
oppure dalla vista di oggetti confusamente in disordine, mentre
[274] quello abituato alla sporcizia e al disordine in essi si trova
perfettamente a suo agio; allo stesso modo anche l’occhio spiri-
tuale dell’uomo può venire abituato e formato in modo tale che la
semplice vista di un’esistenza confusa e disordinata, indegna e
senza onore, di lui stesso e della stirpe dei suoi fratelli, gli provo-
chi un’intima sofferenza, senza riguardo a ciò che ne sarebbe da
temere o da sperare per il suo benessere sensibile. Al possessore
di un occhio siffatto questo dolore, ancora una volta in modo del
tutto indipendente da paura o speranza sensibili, non lascerebbe
requie finché egli, per quanto sta in lui, non avesse superato la si-
tuazione che gli provoca dispiacere, e non l’avesse sostituita con
l’unica che lo può compiacere. Nel possessore di un occhio siffat-
to, l’interesse dell’intero che lo circonda è annodato in modo in-
dissolubile, mediante il sentimento trainante dell’approvazione o
disapprovazione, con le vicende del suo Sé personale allargato,
che si sente soltanto come parte dell’intero, e si può sopportare
soltanto nell’intero che lo compiace; la formazione in sé di un oc-
chio siffatto sarebbe dunque un mezzo sicuro, e anzi l’unico ri-
masto a una nazione che ha perduto la sua indipendenza, e con
essa ogni influsso sulla paura e la speranza pubbliche, per solle-
varsi nuovamente all’esistenza dalla distruzione che ha sopporta-
to, e per affidare con sicurezza i suoi affari nazionali, che dalla sua

14
caduta nessun uomo e nessun Dio ha più curato, al sentimento
nuovo e superiore che è sorto. Così dunque risulta che il mezzo di
salvezza che ho promesso di mostrare consiste nella formazione di
un Sé assolutamente nuovo, che finora forse è esistito come ecce-
zione in alcuni singoli, mai però come Sé generale e nazionale. Si
tratta di educare la nazione ad una vita interamente nuova, poiché
la sua vita precedente si è estinta ed è divenuta aggiunta di una vi-
ta estranea, e di fare in modo che tale vita rimanga esclusivo pos-
sesso della nazione, oppure, qualora da essa dovesse giungere ad
altri, rimanga intera e intatta pur nell’infinita divisione. In una pa-
rola, ciò che io propongo come unico mezzo per conservare l’esi-
stenza della nazione tedesca è un totale cambiamento dell’educa-
zione.
[275] Che ai bambini si debba dare una buona educazione, an-
che nella nostra epoca è stato detto a sufficienza e ripetuto fino al-
la nausea, e sarebbe ben poca cosa se anche noi lo volessimo dire
da parte nostra. Piuttosto, se riteniamo di poter fare qualcosa di
diverso, ci spetterà di ricercare accuratamente che cosa è vera-
mente mancato all’educazione finora vigente, e di indicare quale
elemento assolutamente nuovo debba essere aggiunto dall’educa-
zione modificata alla formazione dell’uomo finora vigente.
Dopo una ricerca del genere, all’educazione finora vigente bi-
sogna concedere che essa non manca di portare davanti agli occhi
dei suoi allievi una qualche immagine del modo di pensare reli-
gioso, etico, legale, e di qualsivoglia ordine e buoni costumi, am-
monendoli inoltre fedelmente, qua e là, di dare a quelle immagi-
ni un’impronta nella loro vita. Ma a parte eccezioni straordinaria-
mente rare, che dunque non furono motivate da questa educazio-
ne, poiché allora si sarebbero dovute presentare in tutti coloro che
avevano ricevuto questa formazione, bensì furono provocate da
altre cause – a parte queste eccezioni straordinariamente rare, di-
co, gli allievi di questa educazione in complesso non hanno se-
guito quelle rappresentazioni e ammonimenti etici, bensì gli sti-
moli del loro egoismo, che cresceva senza alcun ausilio da parte
dell’arte educativa, e che per loro era naturale. Ciò dimostra in
modo inconfutabile che quest’arte educativa ha sì potuto riempi-
re la memoria con qualche parola e modo di dire, e la fredda e di-
staccata fantasia con qualche immagine fioca ed esangue, ma non
è mai riuscita a innalzare sino alla vitalità i suoi ritratti dell’ordi-

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namento etico del mondo, né a far sì che il suo allievo venisse af-
ferrato per essi da amore e nostalgia struggenti, e dall’affetto ap-
passionato che spinge all’esposizione nella vita, e di fronte a cui la
nostalgia cade come foglia appassita. Questa educazione, dunque,
è stata ben lungi dal penetrare sino alla radice e dal formare la vi-
ta nella sua attività e nel suo movimento effettivi; al contrario que-
sti, trascurati da un’educazione cieca e inetta, [276] sono cresciu-
ti ovunque selvaggiamente, portando buoni frutti nei pochi ispi-
rati da Dio, cattivi nella grande maggioranza. Del resto, per ora è
più che sufficiente descrivere questa educazione mediante questo
suo risultato, e ai nostri fini possiamo risparmiarci il faticoso com-
pito di analizzare le vene e i succhi interni di un albero il cui frut-
to, ormai pienamente maturo, è caduto e sta davanti agli occhi di
tutti, esprimendo in modo massimamente chiaro e comprensibile
l’interna natura del suo produttore. A rigore, secondo questo
punto di vista, l’educazione finora vigente non sarebbe stata in
nessun modo l’arte di formare l’uomo, cosa di cui del resto non si
è mai vantata, bensì ha fin troppo spesso confessato apertamente
la sua impotenza, pretendendo come condizione per il suo suc-
cesso che le fosse messo a disposizione un talento naturale, o un
genio. Al contrario, un’arte siffatta sarebbe ancora da scoprire, e
la sua scoperta sarebbe il compito vero e proprio della nuova edu-
cazione. La penetrazione fino alla radice della vita nella sua atti-
vità e nel suo movimento effettivi, che è mancata all’educazione
finora vigente, dovrebbe esservi aggiunta dalla nuova educazione,
e come la prima, al massimo, ha formato qualcosa nell’uomo, co-
sì la nuova dovrebbe formare l’uomo stesso, e non dovrebbe as-
solutamente fare della cultura un possesso, com’è accaduto fino-
ra, bensì piuttosto una componente personale dell’allievo.
Inoltre, fino a oggi questa formazione così limitata è stata por-
tata solo alla minoranza molto ristretta dei ceti colti, che veniva-
no chiamati così proprio per questa ragione, mentre la grande
maggioranza su cui propriamente si basa il corpo comune, il po-
polo, è stata quasi completamente trascurata dall’arte dell’educa-
zione, e abbandonata alla cieca approssimazione. Mediante la
nuova educazione, noi vogliamo formare i tedeschi in una totalità,
che in tutti i suoi singoli membri sia spinta e animata dallo stesso
unico interesse; ma se a questo proposito volessimo nuovamente
distinguere un ceto colto, fosse pure animato dall’impulso del-

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l’approvazione etica appena indicato, da un ceto incolto, allora
quest’ultimo si allontanerebbe da noi, e per noi andrebbe perdu-
to, poiché speranza e paura, mediante cui soltanto si potrebbe an-
cora agire su di esso, non lavorerebbero più per noi, ma contro di
noi. [277] Quindi, non ci resta nient’altro che portare la nuova
formazione a tutti coloro che sono tedeschi, senza alcuna ecce-
zione, cosicché essa diventi non formazione di un ceto particola-
re, bensì formazione della nazione assolutamente come tale, e di
ogni suo membro senza alcuna eccezione. In essa, ovvero nella
formazione all’intimo compiacimento in ciò che è giusto, ogni dif-
ferenza di ceto, che in altri rami dello sviluppo potrebbe conti-
nuare a sussistere, dovrebbe essere completamente annullata e
scomparire, cosicché in questo modo, tra di noi, non sorga affat-
to una educazione popolare, bensì una vera e propria educazione
nazionale tedesca.
Io vi mostrerò che un’arte educativa come quella alla quale noi
aspiriamo è già stata scoperta e viene già esercitata effettivamen-
te, cosicché a noi non resta altro da fare che prendere quanto ci
viene offerto, il che senza dubbio, come ho promesso prima par-
lando del mezzo di salvezza che avrei proposto, non esige una mi-
sura di forza superiore a quella che possiamo equamente aspet-
tarci dalla nostra epoca. A questa promessa ne ho aggiunta anche
un’altra, che cioè, per quanto riguarda il pericolo, nella nostra
proposta non ce n’è assolutamente alcuno, poiché il vantaggio
stesso della forza che comanda su di noi esigerebbe piuttosto di
favorire l’attuazione di quella proposta che non di ostacolarla.
Trovo utile pronunciarmi con chiarezza su questo punto già in
questo Primo discorso.
È certo che sia nell’antichità sia in epoca moderna le arti del
traviamento e dell’umiliazione etica dei sottomessi sono state usa-
te di frequente e con successo come strumento di potere. Per mez-
zo di invenzioni menzognere e di un’artificiosa confusione nei
concetti e nel linguaggio, si sono diffamati i principi di fronte ai
popoli, e questi di fronte a quelli, per dominare in modo più si-
curo i separati; si sono astutamente suscitati e alimentati tutti gli
stimoli della vanità e dell’egoismo per rendere spregevoli i sotto-
messi, e per calpestarli così con una sorta di buona coscienza: ma
si commetterebbe sicuramente un errore rovinoso se si volesse se-
guire questa strada con noi tedeschi. A parte il vincolo della pau-

17
ra e della speranza, [278] la connessione di quella parte dell’este-
ro con cui siamo venuti attualmente in contatto si basa sugli sti-
moli dell’onore e della gloria nazionale; ma la chiarezza tedesca ha
da lungo tempo compreso, sino alla convinzione incrollabile, che
questi sono illusioni ingannevoli, e che dalla gloria dell’intera na-
zione non viene sanata nessuna ferita e nessuna mutilazione del
singolo; e noi potremmo ben diventare, se non ci viene offerta una
visione superiore della vita, pericolosi predicatori di questa dot-
trina assai comprensibile, e dotata di grande attrattiva. Senza cau-
sarci per questo ulteriore rovina, noi siamo già nella nostra costi-
tuzione naturale una preda che porta disgrazie; possiamo diven-
tarne una che porta salvezza solo attuando la proposta che abbia-
mo fatto: e così dunque, poiché l’estero capisce di certo qual è il
suo vantaggio, mosso da quest’ultimo preferirà averci in questo
secondo modo piuttosto che nel primo.
Ora, con questa proposta il mio discorso si rivolge in partico-
lare ai ceti colti della Germania, poiché spera di venire capito in-
nanzitutto da questi, e li incarica nel modo più urgente di diveni-
re i fondatori di questa nuova creazione, e in questo modo in par-
te di riconciliare il mondo con l’attività da loro svolta sino ad ora,
in parte di meritare la loro continuità nel futuro. Nel prosieguo di
questi discorsi, vedremo che ogni avanzamento dell’umanità nel-
la nazione tedesca è partito dal popolo, e che i grandi affari na-
zionali sono sempre stati affidati a lui per primo, e da lui presi in
custodia e portati avanti; che dunque ora accade per la prima vol-
ta che i ceti colti vengano incaricati dell’ulteriore formazione ori-
ginaria della nazione, e che, se essi assumeranno effettivamente
questo incarico, anche questo accadrebbe per la prima volta. Ve-
dremo che questi ceti non possono contare su quanto tempo sia
ancora a loro disposizione per porsi al vertice di questo affare,
poiché quest’ultimo è già quasi pronto e maturo per essere pre-
sentato al popolo, ed essere realizzato con membri provenienti dal
popolo, e questo fra breve provvederà da solo senza il nostro aiu-
to, [279] con la conseguenza per noi che gli attuali uomini di cul-
tura e i loro successori diventeranno popolo, mentre da ciò che fi-
no a oggi era il popolo sorgerà un altro e superiore ceto colto.

Dopo tutto, lo scopo generale di questi discorsi è quello di infon-


dere coraggio e speranza negli avviliti, diffondere gioia nella cupa

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tristezza, superare con leggerezza e serenità l’ora dell’angoscia più
grande. Il tempo mi sembra come un’ombra che indugia e piange
sul suo cadavere, da cui l’ha cacciata un esercito di malattie, e che
non riesce a distogliere lo sguardo dall’involucro un tempo così
amato, e disperatamente ricerca ogni mezzo per tornare nella sede
del contagio. Certo le brezze rinfrescanti dell’altro mondo, in cui
la dipartita è entrata, l’hanno già accolta in sé, e la circondano di
caldi aliti amorosi, certo già la salutano gioiosamente le voci fami-
liari delle sorelle, e le danno il benvenuto, certo già si anima e si
espande al suo interno in ogni direzione per generare la figura più
splendida in cui deve svilupparsi; ma non ha ancora un senso per
queste brezze, o orecchi per queste voci, o se li ha, è ancora immersa
nel dolore per la sua perdita, in cui essa crede di avere perduto an-
che se stessa. Che fare con essa? Anche l’aurora del nuovo mondo
è già spuntata, e già indora le cime dei monti, e anticipa il giorno
che deve venire. Per quanto posso, io voglio cogliere i raggi di que-
sta aurora, e raccoglierli in uno specchio, in cui il tempo sfiduciato
si rifletta per credere che esso esiste ancora, e perché in esso gli si
mostri il suo vero nucleo, e gli sviluppi e le configurazioni di que-
st’ultimo gli scorrano davanti in una visione premonitrice. Immer-
so in questa contemplazione, anche l’immagine della sua vita pre-
cedente sprofonderà nell’oblio, e il morto potrà essere portato alla
sua tomba senza levare eccessivi lamenti.
Secondo discorso
Sull’essenza della nuova educazione
in generale

[280] Il mezzo da me proposto per la conservazione di una na-


zione tedesca in generale, alla cui chiara visione questi discorsi
vorrebbero portare prima di tutto voi e, assieme a voi, l’intera na-
zione, emerge come tale dalla costituzione del tempo e dalle pe-
culiarità nazionali tedesche, così come esso deve, a sua volta, in-
tervenire nel tempo e nella formazione delle peculiarità naziona-
li. Questo mezzo, dunque, non risulterà perfettamente chiaro e
comprensibile finché esso non sia collegato a queste ultime, e que-
ste a esso, ed entrambi non siano esposti in perfetta compenetra-
zione reciproca. Si tratta di compiti che esigono un certo tempo,
e così potremo attenderci la perfetta chiarezza solo alla fine dei
nostri discorsi. Tuttavia, poiché da qualche parte dobbiamo co-
minciare, la cosa più utile sarà considerare quel mezzo stesso per
sé, nella sua essenza interna, a prescindere da ciò che lo circonda
nello spazio e nel tempo, e così il nostro discorso odierno e quel-
lo successivo saranno dedicati a questo compito.
Il mezzo indicato era un’educazione nazionale dei tedeschi as-
solutamente nuova, e mai ancora esistita in questo modo in nes-
sun’altra nazione. Questa nuova educazione è stata già distinta nel
precedente discorso da quella fin qui consueta nel modo seguen-
te: l’educazione fino a oggi avrebbe al massimo ammonito al buon
ordine e all’eticità, ma questi ammonimenti sarebbero rimasti in-
fruttuosi per la vita effettiva, che si sarebbe formata secondo mo-
tivi completamente diversi, del tutto inaccessibili a questa educa-

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zione. Al contrario di questa, la nuova educazione [281] dovreb-
be formare e determinare secondo regole, in modo sicuro e infal-
libile, la vita dei suoi allievi nella sua attività e nel suo movimento
effettivi.
Ma ora forse qualcuno dirà, come effettivamente dicono qua-
si senza eccezione quelli che hanno diretto l’educazione fino ad
ora: come si può pretendere da una qualunque educazione più del
fatto che essa mostri all’allievo ciò che è giusto, e lo esorti fedel-
mente a esso? Se egli vuole seguire queste esortazioni, è un pro-
blema suo, e se non lo fa, è colpa sua. Egli ha una volontà libera,
che nessuna educazione gli può togliere. Allora, per caratterizza-
re in modo ancora più deciso la nuova educazione alla quale pen-
so io, risponderei: “Proprio in questo riconoscimento, e in questo
affidarsi a una volontà libera dell’allievo, è consistito il primo er-
rore dell’educazione fino ad ora, e la palese ammissione della sua
impotenza e nullità”. Poiché nel momento in cui confessa che do-
po tutta la sua azione più energica la volontà resta libera, cioè
oscilla indecisa tra bene e male, essa confessa sia di non essere in
grado, sia di non volere né aspirare assolutamente a formare la vo-
lontà e, poiché questa è la vera e propria radice fondamentale del-
l’uomo, l’uomo stesso. Al contrario, la nuova educazione dovreb-
be consistere esattamente nel distruggere completamente la li-
bertà della volontà sul terreno di cui essa si assume l’elaborazio-
ne, e al contrario nel produrre stringente necessità delle decisio-
ni, e l’impossibilità dell’opposto nella volontà: volontà sulla qua-
le ormai si potrebbe contare e fare affidamento con sicurezza.
Ogni formazione aspira alla produzione di un essere saldo, de-
terminato e costante, che ora non diviene più, bensì è, e non può
essere diversamente da come è. Se non aspirasse a un essere sif-
fatto, allora non sarebbe formazione, ma un gioco qualunque pri-
vo di scopo; se non producesse un essere siffatto, allora appunto
non sarebbe ancora completa. Chi si deve ancora esortare, ed es-
sere esortato, a volere il bene, non ha ancora un volere determi-
nato e sempre pronto, ma vuole formarsene uno [282] a ogni oc-
casione d’uso; chi ha un volere così saldo, vuole ciò che vuole per
tutta l’eternità, e non può in nessun caso possibile volere altri-
menti che così, come vuole sempre. Per lui, la libertà della volontà
è distrutta e risolta nella necessità. Il tempo fino ad ora ha mo-
strato di non avere né un giusto concetto di formazione dell’uo-

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mo, né la forza di esporre questo concetto, proprio perché ha mo-
strato di voler migliorare gli uomini mediante prediche edifican-
ti, e si infastidiva e ingiuriava se queste prediche non davano al-
cun frutto. Ma come potevano darne? La volontà dell’uomo ha
già la sua salda direzione prima dell’esortazione e indipendente-
mente da essa; se questa concorda con la tua esortazione, allora la
tua esortazione arriva troppo tardi, e l’uomo avrebbe fatto ciò a
cui tu lo esorti anche senza di essa; se è in contraddizione, allora
puoi confonderlo al massimo per qualche attimo; quando arriva
l’occasione, egli dimentica se stesso e la tua esortazione, e segue la
sua inclinazione naturale. Se vuoi avere un qualche potere su di
lui, allora gli devi fare qualcosa di più che qualche discorso: devi
fare lui stesso, farlo in modo tale che egli non possa volere diver-
samente da come tu vuoi che egli voglia. È vano dire “vola” a chi
non ha le ali: con tutti i tuoi incitamenti, non si alzerà due metri
da terra; sviluppa invece, se puoi, le sue penne spirituali, e faglie-
le esercitare e rafforzare, ed egli senza alcun incitamento da parte
tua non potrà volere o potere altro che volare.
La nuova educazione deve produrre questa volontà salda e
non più oscillante secondo una regola certa ed efficace senza ec-
cezione; essa stessa deve produrre con necessità la necessità che
ha di mira. Ciò che finora è venuto bene, è venuto così per la sua
disposizione naturale, che ha sovrastato l’influsso del cattivo am-
biente; ma niente affatto per l’educazione, perché altrimenti tut-
to ciò che è passato attraverso di essa sarebbe dovuto riuscire be-
ne. Lo stesso vale per ciò che è riuscito male, perché altrimenti tut-
to ciò che [283] passa attraverso l’educazione dovrebbe riuscire
male, invece riesce male a causa di se stesso e della sua disposi-
zione naturale; l’educazione è stata in questo caso semplicemente
nulla, niente affatto dannosa, il vero e proprio mezzo formativo è
stata la natura spirituale. Dalle mani di questa forza oscura e im-
ponderabile, la formazione dell’uomo deve ora passare sotto il co-
mando di un’arte consapevole, che raggiunga sicuramente il suo
scopo in tutto ciò che le è affidato senza eccezione, oppure, quan-
do non lo dovesse raggiungere, sappia almeno che non lo ha rag-
giunto, e che dunque l’educazione non è ancora conclusa. Un’ar-
te sicura e consapevole per formare nell’uomo una buona volontà
salda e infallibile: questa deve essere dunque l’educazione da me
proposta, e questa è la sua prima caratteristica.

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Inoltre, l’uomo può volere solo ciò che ama; il suo amore è l’u-
nico e in pari tempo infallibile impulso del suo volere, e di tutta
la sua vita nella sua attività e nel suo movimento. L’arte dello Sta-
to fino a oggi, come autoeducazione dell’uomo sociale, ha pre-
supposto come regola certa e valida senza eccezione che ciascuno
ami e voglia il suo personale benessere sensibile, e a questo amo-
re naturale ha collegato artificialmente, mediante paura e speran-
za, la volontà buona che essa voleva, cioè l’interesse per il corpo
comune. A parte il fatto che in questo tipo di educazione chi este-
riormente è diventato un cittadino innocuo o utilizzabile, inte-
riormente rimane un uomo cattivo, poiché la cattiveria consiste
proprio nel fatto di amare solo il proprio benessere sensibile, e di
essere mossi solo da paura o speranza per questo, sia ora esso nel-
la vita presente o futura – a parte questo, abbiamo già visto che
questo criterio per noi non è più applicabile, poiché paura e spe-
ranza non giocano più a nostro favore, ma contro di noi, e l’amor
proprio sensibile non può più essere in nessun modo volto a no-
stro vantaggio. Noi perciò siamo addirittura costretti dalla neces-
sità a voler formare uomini buoni interiormente e alla base, poi-
ché solo in uomini siffatti la nazione tedesca può continuare a esi-
stere, mentre attraverso uomini malvagi confluisce necessaria-
mente con l’estero. Perciò noi, [284] al posto di quell’amor pro-
prio, cui non si collega più nulla di buono per noi, dobbiamo por-
re e fondare nell’animo di tutti quelli che vogliamo annoverare
nella nostra nazione un amore diverso, che si rivolga immediata-
mente al bene direttamente come tale e per amore di esso stesso.
L’amore per il bene direttamente come tale, e non magari per
la sua utilità per noi stessi, come abbiamo già visto reca la figura
del compiacimento per il bene stesso: di un così intimo compia-
cimento, da essere spinti a rappresentarlo nella propria vita. Que-
sto intimo compiacimento sarebbe dunque ciò che la nuova edu-
cazione dovrebbe produrre come modo di essere saldo e immu-
tabile del suo allievo; laddove dunque questo compiacimento ver-
rebbe necessariamente a fondare mediante se stesso la volontà im-
mutabilmente buona dell’allievo stesso.
Un compiacimento che spinge a produrre nella realtà effettiva
un certo stato di cose che in essa non è presente, presuppone
un’immagine di questo stato, che si libri di fronte allo spirito pri-
ma del suo essere effettivo, e trascini con sé quel compiacimento

23
che spinge all’attuazione. Perciò questo compiacimento presup-
pone, nella persona che deve esserne afferrata, la facoltà di proiet-
tare spontaneamente immagini tali da essere indipendenti dalla
realtà effettiva, e niente affatto copie di essa, bensì piuttosto mo-
delli. Io ora devo parlare prima di tutto di questa facoltà, e du-
rante questa considerazione vi prego di non dimenticare che
un’immagine prodotta da questa facoltà può piacere proprio in
quanto pura immagine, e come ciò in cui noi sentiamo la nostra
forza formatrice, senza perciò essere assunta come modello di una
realtà effettiva, e senza piacere in misura tale da spingere all’at-
tuazione. Quest’ultima è qualcosa di completamente diverso, ed
è il nostro scopo vero e proprio, di cui non mancheremo di par-
lare in seguito, mentre quella prima contiene solamente la condi-
zione preliminare per il raggiungimento del vero scopo ultimo
dell’educazione.
Quella facoltà di proiettare spontaneamente immagini che non
siano affatto mere copie [285] della realtà effettiva, ma che siano
in grado di diventare modelli di essa, sarebbe la prima cosa da cui
dovrebbe partire la formazione del genere umano mediante la
nuova educazione. Proiettare spontaneamente, ho detto, e in mo-
do che l’allievo se le generi per forza propria, e niente affatto per-
ché diventa solo capace di assumere passivamente l’immagine of-
fertagli dall’educazione, di capirla a sufficienza, e di ripeterla co-
sì come gli è data, come se si trattasse solo della disponibilità di
una siffatta immagine. Il motivo per esigere la spontaneità perso-
nale in questo formare è il seguente: solo a questa condizione l’im-
magine proiettata può attrarre su di sé il compiacimento attivo
dell’allievo. È infatti qualcosa di completamente diverso farsi sol-
tanto piacere qualcosa e non avere niente in contrario, il quale
passivo farsi piacere può sorgere al massimo solo da un abbando-
no passivo; ma è di nuovo qualcosa di diverso essere afferrati dal
compiacimento per qualcosa in modo tale che esso diventi creati-
vo, e stimoli al formare ogni nostra forza. Noi non parliamo del
primo, che certo è presente in tutti i modi anche nell’educazione
finora vigente, ma del secondo. Ma questo secondo compiaci-
mento viene suscitato solo se contemporaneamente è stimolata la
spontaneità dell’allievo, e se questa diventa per lui manifesta nel-
l’oggetto dato, in modo tale che esso non piaccia soltanto per sé,
bensì anche in quanto oggetto di espressione della forza spiritua-

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le, la quale ultima suscita compiacimento immediatamente, ne-
cessariamente e senza alcuna eccezione.
Questa attività del formare spirituale da sviluppare nell’allievo
è senza dubbio un’attività secondo regole, regole che si manife-
stano a colui che è attivo nell’immediata esperienza di se stesso,
fino alla visione nella loro unica possibilità; dunque questa attività
produce conoscenza, e precisamente di leggi universali e valide
senza eccezione. Inoltre, nel libero formare ulteriore che comin-
cia da questo punto, ciò che viene intrapreso contro la legge è im-
possibile e, finché non è seguita la legge, non scaturisce nessuna
azione; perciò, se anche questa libera formazione ulteriore, all’i-
nizio, procedesse per tentativi alla cieca, [286] dovrebbe comun-
que terminare con un ampliamento nella conoscenza della legge.
Questa formazione è perciò, nel suo esito ultimo, formazione del-
la facoltà conoscitiva dell’allievo, e certo niente affatto la forma-
zione storica sulla natura permanente delle cose, bensì quella su-
periore, e filosofica, sulle leggi in base alle quali una siffatta natu-
ra permanente diventa necessaria. L’allievo impara.
E aggiungo: l’allievo impara volentieri e con piacere, e finché
la tensione delle forze regge, non fa nulla più volentieri che impa-
rare, perché mentre impara è attivo, e in ciò prova immediata-
mente il piacere più grande. Qui abbiamo trovato una caratteri-
stica esterna della vera educazione, che in parte balza immediata-
mente agli occhi, in parte è infallibile: cioè che, senza alcun ri-
guardo per la diversità delle disposizioni naturali e senza alcuna
eccezione, qualunque allievo cui venga offerta questa educazione
impara con piacere e con amore, semplicemente per amore del-
l’imparare e per nessun’altra ragione. Noi abbiamo trovato il mez-
zo per suscitare questo puro amore dell’imparare, cioè stimolare
l’immediata spontaneità dell’allievo, e fare di questa la base di
ogni conoscenza, in modo tale che tutto ciò che viene appreso
venga appreso in essa.
Stimolare questa attività personale dell’allievo in qualunque
punto a noi noto, è la prima mossa principale dell’arte. Se è riu-
scito questo, allora si tratta ancora soltanto di conservare sempre
la freschezza dei punti stimolati a partire da questo, il che è pos-
sibile solo mediante progressione regolare, dove ogni mancanza
dell’educazione si scopre all’istante per l’insuccesso di ciò che ci
eravamo prefissi. Noi perciò abbiamo trovato anche il legame con

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cui il risultato prefisso viene indissolubilmente collegato al modo
di agire illustrato, abbiamo trovato la legge fondamentale della
natura spirituale dell’uomo, che è eterna e vige senza eccezione,
ovvero il fatto che egli tende immediatamente all’attività dello spi-
rito.
Se qualcuno, fuorviato dall’esperienza comune dei nostri gior-
ni, dovesse porre in dubbio perfino la presenza di una siffatta leg-
ge fondamentale, allora per costui osserviamo in sovrappiù che
l’uomo per natura è certamente solo [287] sensibile ed egoista,
finché lo spinge la necessità immediata e il bisogno sensibile pre-
sente, e che egli non si fa trattenere dal soddisfare quest’ultimo da
nessun bisogno spirituale né da qualsiasi riguardo; che però egli,
dopo che si è provveduto a questo, è meno incline a elaborare la
dolorosa immagine di esso nella sua fantasia, e a conservarsela
presente, bensì preferisce di gran lunga dirigere il pensiero a bri-
glia sciolta verso la libera considerazione di ciò che attira la sua at-
tenzione, anzi non disprezza neppure un volo poetico in mondi
ideali, poiché per natura gli è innata una leggerezza per ciò che è
temporale, affinché il suo senso per l’eterno ottenga un certo mar-
gine per svilupparsi. Ciò è dimostrato dalla storia di tutti i popo-
li antichi, e dalle molteplici osservazioni e scoperte che ci sono ve-
nute da essi; è dimostrato fino ai nostri giorni dall’osservazione
dei popoli ancora selvaggi, purché non siano trattati troppo seve-
ramente dal loro clima, e dai nostri propri bambini; è dimostrato
addirittura dalla franca ammissione dei nostri più scrupolosi av-
versari dell’ideale, i quali si lamentano che è un compito molto più
noioso imparare nomi e anni che non librarsi in ciò che a loro ap-
pare come il vuoto campo delle idee, i quali dunque, come sem-
bra, se se lo potessero permettere, preferirebbero fare la seconda
cosa invece della prima. Il far subentrare, al posto di questa natu-
rale leggerezza, il senso di gravità, in cui anche a colui che è sazio
la fame futura, insieme a tutte le occasioni di ogni possibile fame
futura, viene in mente come l’unica cosa in grado di riempire la sua
anima, e continuamente lo pungola e lo spinge, è un fatto che nel-
la nostra epoca viene ottenuto ad arte: nel bambino, disciplinando
la sua leggerezza naturale; nell’uomo, sforzandosi di passare per un
uomo prudente, gloria che spetta solo a chi non si fa sfuggire quel
punto di vista neanche per un attimo; perciò, tutto questo non è
affatto natura su cui potremmo contare, bensì una [288] corruzio-

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ne imposta con fatica alla natura recalcitrante, corruzione che
scompare appena quella fatica non viene più applicata.
Questa educazione che stimola immediatamente l’attività spi-
rituale dell’allievo, abbiamo detto, genera conoscenza; e questo ci
fornisce l’occasione per caratterizzare la nuova educazione anco-
ra più profondamente in opposizione a quella vigente fino ad ora.
Come abbiamo visto, la conoscenza risulta solo in modo collatera-
le, e come conseguenza che non resta esclusa. Se perciò l’immagi-
ne per la vita effettiva, da cui in futuro dovrà essere stimolata la se-
ria attività del nostro allievo divenuto uomo, può essere afferrata
solo in questa conoscenza; se dunque la conoscenza è senz’altro
una componente essenziale della formazione da raggiungere, tut-
tavia non si può dire che la nuova educazione abbia di mira imme-
diatamente questa conoscenza, bensì che la conoscenza si limita ad
accompagnarla. Al contrario, l’educazione fino a oggi ha avuto di
mira proprio la conoscenza, e una certa quantità di materia cono-
scitiva. Inoltre, c’è una grossa differenza tra il tipo di conoscenza
che sorge in modo complementare alla nuova educazione, e quel-
lo che aveva di mira l’educazione fino a oggi. Nella prima, sorge la
conoscenza delle leggi dell’attività spirituale, che condizionano la
possibilità di ogni attività di questo tipo. Per esempio, quando l’al-
lievo nella sua libera fantasia cerca di delimitare uno spazio me-
diante linee rette, questa è la sua attività spirituale stimolata per
prima. Quando egli scopre che con meno di tre linee rette non può
delimitare alcuno spazio, quest’ultima è la conoscenza comple-
mentare di una seconda attività, completamente diversa, della fa-
coltà conoscitiva che limita la libera facoltà stimolata per prima. A
questa educazione, quindi, sorge subito al suo inizio una cono-
scenza veramente superiore a ogni esperienza, soprasensibile, ri-
gorosamente necessaria e universale, che già in precedenza com-
prende sotto di sé ogni esperienza possibile in seguito. Al contra-
rio, fino a oggi l’istruzione era diretta, di regola, solo alle proprietà
stabili [289] delle cose, al modo in cui esse sono e in cui le si do-
vrebbe credere e osservare, senza poterne dare una ragione; dun-
que a un apprendere solo passivo mediante la facoltà della memo-
ria, che sta soltanto al servizio delle cose, e mediante cui in gene-
rale non si potrebbe nemmeno pervenire al presentimento dello
spirito come principio indipendente e originariamente iniziale del-
le cose stesse. Non creda la moderna pedagogia di schermirsi da

27
questo rimprovero richiamandosi alla sua repulsione spesso di-
mostrata contro la memorizzazione meccanica, e ai suoi noti pez-
zi di bravura alla maniera socratica; perché a questo proposito ha
già ricevuto da lungo tempo altrove la motivata risposta, che anche
questi ragionamenti socratici vengono solo imparati meccanica-
mente a memoria, e che questa è una memorizzazione tanto più pe-
ricolosa, in quanto all’allievo che non pensa dà l’illusione di poter
pensare. Del resto, ciò non poteva riuscire diversamente, vista la
materia che si intendeva applicare per lo sviluppo del pensiero au-
tonomo; per conseguire questo scopo, bisognerebbe iniziare con
una materia completamente diversa. Da questa conformazione
dell’istruzione fino a oggi risulta evidente, in parte, perché l’allie-
vo finora, di regola, abbia imparato malvolentieri, e perciò lenta-
mente e stentatamente, e in mancanza di attrattive da parte del-
l’imparare stesso, si siano dovuti introdurre stimoli estranei; in
parte, da ciò emerge il motivo delle eccezioni alla regola avute fin
qui. La memoria, quando viene chiamata in causa da sola e senza
dover servire a un altro scopo spirituale qualsiasi, è un patire del-
l’animo piuttosto che una sua attività, e si può capire che l’allievo
assuma questo patire molto malvolentieri. Inoltre, la familiarità
con cose totalmente estranee e che per lui non hanno il minimo in-
teresse, e con le loro proprietà, è uno scadente surrogato per quel
patire che gli è imposto; per questa ragione, la sua repulsione do-
vrebbe venire superata mediante la consolazione dell’utilità futu-
ra di queste conoscenze, mediante il fatto che solo grazie a esse si
possono trovare pane e onori, e perfino mediante punizioni e ri-
compense immediatamente presenti. È chiaro che così la cono-
scenza è stata fin dal principio [290] messa al servizio del benesse-
re sensibile, e che questa educazione, che abbiamo già visto inca-
pace di sviluppare un modo di pensare etico rispetto al suo conte-
nuto, soltanto per raggiungere l’allievo ha dovuto persino impian-
tare e sviluppare la sua corruzione morale, e ha dovuto collegare il
suo interesse all’interesse di questa corruzione. Si scoprirà inoltre
che il talento naturale, il quale, come eccezione alla regola, ha im-
parato volentieri, e perciò bene, alla scuola di questa educazione
finora vigente, e che, in virtù di questo amore superiore in lui pre-
sente, ha superato la corruzione morale dell’ambiente mantenen-
do pura la sua mente, ha ricavato da quegli oggetti un interesse pra-
tico mediante la sua inclinazione naturale e, guidato dal suo felice

28
istinto, era orientato a produrre tali conoscenze da sé, piuttosto
che limitarsi a riceverle. Inoltre, per quanto riguarda gli oggetti di
insegnamento con cui, come eccezioni alla regola, questa educa-
zione è riuscita nel modo più generale e felice, nel complesso essi
sono tali da poter essere esercitati attivamente, come per esempio
quelle lingue dotte in cui si arrivava a scrivere e parlare abbastan-
za bene in modo pressoché generale, mentre le altre, in cui gli eser-
cizi di scrittura e di parola venivano trascurati, di regola sono sta-
te imparate molto male e superficialmente, e dimenticate in età ma-
tura. Perciò, anche dall’esperienza fatta finora, risulta che solo lo
sviluppo dell’attività spirituale mediante l’istruzione è ciò che pro-
duce piacere nella conoscenza puramente come tale, e così man-
tiene anche l’animo aperto alla formazione etica, mentre il riceve-
re meramente passivo estingue e uccide la conoscenza, allo stesso
modo in cui ha bisogno di corrompere il senso etico fin nelle sue
fondamenta.
Per ritornare all’allievo della nuova educazione: è chiaro che
questi, spinto dal suo amore, imparerà molto, e poiché apprende
tutto nella sua connessione, ed esercita immediatamente ciò che
ha appreso facendo qualcosa, imparerà quel molto in modo giu-
sto e incancellabile. Ma questo è solo un aspetto secondario. Più
importante è il fatto che il suo Sé mediante questo amore [291]
venga innalzato e introdotto in un ordine di cose interamente
nuovo, in cui finora sono entrati a tentoni solo pochi prediletti da
Dio, in maniera meditata e secondo una regola. Lo spinge un amo-
re che non è assolutamente rivolto a un godimento sensibile qual-
siasi, poiché questo in lui tace totalmente come impulso, bensì al-
l’attività spirituale per amore dell’attività, e alla legge di essa per
amore della legge. Ora, se è vero che non è questa attività spiri-
tuale in generale ciò a cui si rivolge l’eticità, ma che per questo de-
ve aggiungersi anche una particolare direzione di quell’attività,
tuttavia quell’amore è la conformazione e la forma generale della
volontà etica; e così, dunque, questo modo di formazione spiri-
tuale è la preparazione immediata per la formazione etica, mentre
estirpa completamente la radice dell’immoralità, in quanto non la-
scia mai che il godimento sensibile diventi impulso. Finora que-
sto impulso è stato il primo a essere stimolato e formato, perché
altrimenti si riteneva di non poter plasmare l’allievo e ottenere su
di lui qualche influenza. Se poi si sviluppava l’impulso etico, allo-

29
ra questo arrivava troppo tardi, e trovava il cuore già occupato e
riempito da un altro amore. Con la nuova educazione, viceversa,
la formazione al volere puro deve diventare la prima, affinché, nel
caso in cui più tardi dovesse risvegliarsi l’egoismo, o essere sti-
molato dall’esterno, tale egoismo arrivi troppo tardi, e nell’animo
già occupato da qualcos’altro non trovi posto per sé.
Già per questo primo scopo, come per il secondo che indi-
cheremo in seguito, è essenziale che l’allievo stia fin dall’inizio
ininterrottamente e interamente sotto l’influsso di questa educa-
zione, e che sia completamente separato dalla comunità e protet-
to da ogni contatto con essa. Egli non deve neppure sentire che ci
si potrebbe dare da fare per il suo mantenimento e il suo benes-
sere nella vita, e tanto meno che si impari per questo, o che l’im-
parare possa servire a qualcosa a tal fine. Di conseguenza, lo svi-
luppo spirituale nel modo sopra indicato deve essere l’unico che
gli viene offerto, [292] ed egli deve essere occupato con esso sen-
za sosta, mentre in nessun modo questo tipo di istruzione deve es-
sere scambiato con quella che ha bisogno dell’impulso sensibile
opposto.
Ma se ora questo sviluppo spirituale non permette all’egoismo
di vivere, e dà la forma di una volontà etica, tuttavia non è anco-
ra la volontà etica stessa; e se la nostra educazione non andasse ol-
tre, allora educherebbe al massimo eccellenti cultori delle scien-
ze, come ce ne sono stati anche finora, e di cui pochi bastano, e
che per il nostro autentico scopo umano e nazionale non potreb-
bero fare più di quello che uomini simili hanno potuto fare sinora:
esortare e di nuovo esortare, farsi ammirare e, all’occasione, farsi
ingiuriare. Ma è chiaro, e lo abbiamo già detto prima, che questa
libera attività dello spirito è stata sviluppata perché l’allievo con es-
sa proietti liberamente l’immagine di un ordine etico della vita ef-
fettivamente presente, accolga questa immagine con l’amore che in
lui si è già sviluppato, e da questo amore venga spinto a rappre-
sentare effettivamente quell’immagine nella e attraverso la sua vi-
ta. Ci si chiede: come potrà la nuova educazione dimostrare di ave-
re raggiunto nel suo allievo questo suo autentico e ultimo scopo?
Anzitutto, è chiaro che l’attività spirituale dell’allievo, già pre-
cedentemente esercitata su altri oggetti, deve essere stimolata a
proiettare un’immagine dell’ordine sociale degli uomini, nel mo-
do in cui esso deve assolutamente essere secondo la legge della ra-

30
gione. Se quest’immagine proiettata dall’allievo è giusta, può es-
sere giudicato nel modo più facile da un’educazione che si trovi
in possesso di quest’immagine giusta; se l’immagine è stata proiet-
tata dalla spontaneità personale dell’allievo, invece di essere stata
ricevuta solo passivamente, e ripetuta in modo scolastico, se inol-
tre essa si è innalzata fino alla chiarezza e alla vivacità dovute, po-
trà essere giudicato dall’educazione allo stesso modo [293] in cui
essa in precedenza ha formulato un giudizio adeguato nello stes-
so riguardo a proposito di altri oggetti. Tutto questo è ancora que-
stione di semplice conoscenza e resta sul terreno di quest’ultima,
che in questa educazione è accessibile facilmente. Una questione
del tutto diversa e più alta è se l’allievo sia afferrato da un amore
così ardente per un simile ordine delle cose, che una volta sciolto
dalla guida dell’educazione e divenuto indipendente, per lui di-
venti impossibile non volere quest’ordine, e non lavorare con tut-
te le sue forze per promuoverne la realizzazione. Su tale questio-
ne, senza dubbio, non possono decidere le parole ed esami da fa-
re a parole, bensì soltanto il guardare ai fatti.
Io assolvo il compito che ci è posto da quest’ultima osserva-
zione nel modo seguente. Senza dubbio, gli allievi di questa nuo-
va educazione, benché separati dalla comunità degli adulti, vi-
vranno tuttavia in compagnia tra di loro, e così formeranno un
corpo comune separato e per sé sussistente, che avrebbe la sua co-
stituzione esattamente determinata, fondata nella natura delle co-
se e assolutamente richiesta dalla ragione. La primissima immagi-
ne di un ordine sociale, alla cui proiezione verrebbe stimolato lo
spirito dell’allievo, sarebbe questa immagine della comunità in cui
egli stesso vive, in modo tale che egli sarebbe interiormente co-
stretto a immaginarsi questo ordine punto per punto esattamente
come esso è predisposto nella realtà, e a comprenderlo in tutte le
sue parti come assolutamente necessario in base ai suoi fonda-
menti. Ora, questo è ancora una volta semplicemente opera della
conoscenza. In quest’ordine sociale, ciascun singolo nella vita rea-
le deve continuamente tralasciare, per amore del tutto, molte co-
se che, se fosse da solo, potrebbe fare senza pensarci; e sarà utile
che nella legislazione, e nell’insegnamento della costituzione da
basare su di essa, tutti gli altri vengano rappresentati a ciascun sin-
golo con un amore dell’ordine elevato a ideale, amore che forse in
questo modo nessuno ha veramente, ma che tutti dovrebbero ave-

31
re; e che dunque questa legislazione [294] ottenga un alto grado
di rigore, e imponga anche molte rinunce. Queste, come qualco-
sa che deve essere assolutamente, e su cui si basa la sussistenza del-
l’intero, in caso di necessità devono essere ottenute coattivamen-
te anche mediante la paura della pena presente; e questa legge pe-
nale deve essere eseguita assolutamente senza pietà o eccezione.
Con questa applicazione della paura come impulso, all’eticità del-
l’allievo non viene recato alcun danno, poiché qui non si deve
spingere a fare il bene, ma solo a non fare ciò che in questa costi-
tuzione è male; inoltre, nell’insegnamento della costituzione biso-
gna far capire perfettamente che chi ha ancora bisogno della rap-
presentazione della pena, o addirittura di rinfrescarsi tale rappre-
sentazione mediante la sopportazione della pena stessa, si trova a
uno stadio assai basso della formazione. A ogni modo, da tutto
questo è chiaro che, poiché non si può mai sapere se, quando si
obbedisce, si obbedisce per amore dell’ordine o per paura della
pena, in questo contesto l’allievo non può mostrare all’esterno la
sua buona volontà, né l’educazione può valutarla.
Al contrario, il contesto in cui una tale valutazione è possibile
è il seguente. La costituzione infatti deve essere impostata anche
in modo tale che il singolo non solo debba tralasciare qualcosa per
l’intero, ma possa anche agire e fare qualcosa per esso. Oltre allo
sviluppo spirituale nell’imparare, in questo corpo comune degli
allievi trovano posto anche esercizi fisici e i lavori meccanici del-
l’agricoltura, qui però nobilitati sino all’ideale, e quelli artigianali
di vario tipo. Regola fondamentale della costituzione sarebbe
l’obbligo, per chiunque si segnali in uno qualsiasi di questi rami,
di aiutare a istruire gli altri, e di assumersi diverse sorveglianze e
responsabilità; per chiunque scopra un qualsiasi miglioramento,
o capisca per primo e nel modo più chiaro quello proposto da un
insegnante, l’obbligo di attuarlo con la sua fatica, senza che per-
ciò sia sollevato dai suoi compiti normali nell’imparare e nel lavo-
rare; che ciascuno soddisfi questa pretesa liberamente, e non
[295] per costrizione, poiché chi non vuole è lasciato libero di re-
spingerla; che per questo non debba aspettarsi alcuna ricompen-
sa, poiché in questa costituzione tutti sono considerati assoluta-
mente uguali rispetto al lavoro e al godimento, e neppure una lo-
de, poiché il modo di pensare dominante nella comunità è che, co-
sì facendo, ciascuno fa soltanto il suo dovere. Invece, egli do-

32
vrebbe gioire esclusivamente del suo fare e agire per l’intero, e del
successo di esso, nel caso in cui gli arrida. In questa costituzione,
dunque, dal fatto di conseguire un’abilità superiore e dalla fatica
impiegata in essa, seguono solo nuova fatica e nuovo lavoro, e pro-
prio il più abile dovrà spesso vegliare quando altri dormono, e ri-
flettere quando altri giocano.
Gli allievi che, nonostante per loro tutto questo sia perfetta-
mente chiaro e comprensibile, pure compiono quella prima fati-
ca e le fatiche seguenti gioiosamente, con continuità e in modo ta-
le che si possa con sicurezza contare su di essi, e restano forti e di-
ventano più forti nel sentimento della loro forza e attività – que-
sti allievi possono essere tranquillamente abbandonati al mondo
dall’educazione; in loro essa ha raggiunto questo suo scopo; in lo-
ro è acceso l’amore, e arde fino alla radice della loro attività vita-
le, e d’ora in poi afferrerà senza eccezione tutto ciò che raggiun-
gerà questa attività vitale; ed essi, nel corpo comune più grande di
cui d’ora in poi fanno parte, non potranno mai essere qualcosa di
diverso da ciò che essi erano, inflessibilmente e immutabilmente,
nel piccolo corpo comune che ora abbandonano.
In questo modo, l’allievo è pronto a soddisfare le richieste più
immediate che il mondo gli porrà senz’altro, e ciò che l’educazio-
ne pretende da lui in nome di questo mondo, si è realizzato. Ma
egli non è ancora pronto in sé e per sé, e ciò che dall’educazione
può pretendere egli stesso, non si è ancora realizzato. Appena sarà
esaudita anche questa esigenza, egli diventerà capace allo stesso
tempo di soddisfare anche le richieste che, in casi particolari, un
mondo superiore potrebbe porgli in nome del mondo presente.
Terzo discorso
Continua la descrizione
della nuova educazione

[296] L’essenza vera e propria della nuova educazione proposta,


nella misura in cui questa è stata descritta nel discorso preceden-
te, consisteva nel fatto di essere un’arte meditata e sicura per for-
mare l’allievo a un’eticità pura. A un’eticità pura, ho detto; l’eti-
cità a cui essa educa è presente come qualcosa di primo, indipen-
dente e autonomo, che vive da se stesso la sua vita propria; inve-
ce non è affatto collegata e impressa, come la legalità spesso fin
qui perseguita, su di un altro impulso non etico, che essa servi-
rebbe a soddisfare. È l’arte meditata e sicura di questa educazio-
ne etica, ho detto. Essa non va avanti a caso e sperando nella buo-
na sorte, bensì secondo una regola fissa e a lei ben nota, ed è cer-
ta del suo successo. Il suo allievo emerge, a tempo debito, come
una salda e immutabile opera d’arte di questa sua arte, che non
potrebbe andare diversamente da come è stato disposto da essa,
e che non ha bisogno di un sostegno, bensì procede mediante se
stesso secondo la sua propria legge.
È vero che questa educazione forma anche lo spirito del suo
allievo; e questa formazione spirituale è addirittura ciò che vie-
ne per primo, ciò con cui essa inizia il suo lavoro. Ma questo
sviluppo spirituale non è lo scopo primo e indipendente, bensì
soltanto il mezzo condizionante per offrire all’allievo una for-
mazione etica. Nel frattempo, anche questa formazione spiri-
tuale acquisita solo occasionalmente resta un possesso incancel-
labile dalla vita dell’allievo, e la fiaccola sempre ardente del suo

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amore etico. Per quanto grande o piccola possa essere la som-
ma delle conoscenze che [297] egli ha portato con sé dall’edu-
cazione, egli ha sicuramente portato con sé uno spirito, che per
tutta la sua vita potrà accogliere qualsiasi verità la cui cono-
scenza diventi per lui necessaria, e che resterà incessantemente
tanto ricettivo all’apprendimento da altri, quanto capace di ri-
flessione personale.
Nella descrizione di questa nuova educazione, nel precedente
discorso, eravamo arrivati fino a qui. In conclusione, avevamo os-
servato che nonostante tutto questo essa non era ancora comple-
ta, bensì doveva risolvere un altro compito, diverso da quelli po-
sti fino ad ora; e adesso ci mettiamo all’opera per specificare me-
glio questo compito.
L’allievo di questa educazione non è solo membro della so-
cietà umana qui sulla terra, e per il breve lasso di vita che gli è
concesso su di essa, bensì è anche un membro nell’eterna catena
di una vita spirituale in generale, sotto un ordine sociale supe-
riore, e senza dubbio viene riconosciuto come tale dall’educa-
zione. Senza dubbio, una formazione che si è assunta il compito
di abbracciare tutto il suo essere deve condurlo anche alla visio-
ne di quest’ordine superiore, e come essa lo guidava a prefigu-
rarsi un’immagine di quell’ordine etico del mondo che non c’è
mai, ma deve eternamente divenire, così essa lo deve guidare a
proiettare nel pensiero, con eguale spontaneità, un’immagine di
quell’ordine del mondo soprasensibile in cui nulla diviene, e che
neppure è mai divenuto, bensì esiste in eterno; e in modo tale
che egli capisca e veda intimamente che non può essere diversa-
mente. Se guidato correttamente, egli arriverà alla fine dei tenta-
tivi con una simile immagine, e quando sarà alla fine, scoprirà
che nulla esiste veramente tranne la vita, e precisamente la vita
spirituale che vive nel pensiero; e che tutto il resto non esiste ve-
ramente, bensì sembra soltanto esistere, e di tale parvenza egli
comprenderà egualmente, sia pure solo in generale, il fonda-
mento proveniente dal pensiero. Inoltre, egli capirà che quella
vita spirituale, che sola esiste veramente, [298] è a sua volta Una,
è la vita divina stessa nelle molteplici configurazioni che ha otte-
nuto non per approssimazione, ma in virtù di una legge fondata
in Dio stesso, vita divina che esiste e si manifesta soltanto nel
pensiero vivente. Così egli riconoscerà la sua vita come un ele-

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mento eterno nella catena della rivelazione della vita divina, e
ogni altra vita spirituale come un elemento dello stesso tipo, e
imparerà a ritenerle sacre; e solo nell’immediato contatto con
Dio e nel non mediato fluire della sua vita da Dio egli troverà vi-
ta, e luce, e beatitudine; mentre in ogni allontanamento dall’im-
mediatezza troverà morte, tenebra e miseria. In una parola: que-
sto sviluppo lo formerà per la religione; e questa religione del ri-
siedere della nostra vita in Dio dovrà certamente dominare an-
che nel tempo nuovo, e in questo dovrà venire formata accura-
tamente. Al contrario, la religione del tempo antico, che separa-
va la vita spirituale dalla vita divina, e alla prima sapeva procu-
rare l’esistenza assoluta, che le aveva attribuito nel pensiero, so-
lo mediante un ripudio della seconda, e che usava Dio come fi-
lo conduttore per introdurre l’egoismo in altri mondi, anche al
di là della morte della vita mortale – questa religione, che evi-
dentemente era solo un’ancella dell’egoismo, deve essere certa-
mente condotta alla tomba insieme col tempo antico; poiché nel
tempo nuovo l’eternità non inizia soltanto al di là della tomba,
bensì irrompe in mezzo a esso nel suo presente, l’egoismo inve-
ce è licenziato tanto dalla direzione quanto dal servizio, e quin-
di con sé ritira anche i suoi servitori.
L’educazione alla vera religione è dunque il compito ultimo
della nuova educazione. Se nella proiezione di un’immagine del-
l’ordine del mondo soprasensibile richiesta a questo scopo l’allie-
vo si è comportato veramente in modo spontaneo, e se l’immagi-
ne proiettata è giusta sotto ogni aspetto, e assolutamente chiara e
comprensibile, potrà essere giudicato facilmente dall’educazione
come nel caso degli altri oggetti della conoscenza; [299] poiché
anche questo resta nell’ambito della conoscenza.
Ma anche qui, più significativa è la domanda su come l’educa-
zione possa misurare e darsi la garanzia che queste conoscenze re-
ligiose non restino morte e fredde, ma che si esprimeranno nella
vita effettiva del suo allievo; domanda alla quale deve essere fatta
precedere la risposta a un’altra domanda, cioè la seguente: come
e in che modo si mostra, in generale, la religione nella vita?
Immediatamente, nella vita comune, e in una società bene or-
dinata, non c’è assolutamente bisogno della religione per forma-
re la vita, bensì per questi scopi la vera eticità basta perfettamen-
te. Da questo punto di vista, dunque, la religione non è pratica, e

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non può né deve assolutamente diventarlo, bensì è solamente co-
noscenza: essa rende soltanto l’uomo perfettamente chiaro e com-
prensibile a se stesso, risponde alla domanda suprema che egli
può porre, gli risolve la contraddizione ultima, e così reca in lui
stesso perfetta concordia, e diffusa chiarezza nel suo intelletto. Es-
sa è la sua completa redenzione e liberazione da ogni vincolo
estraneo, e così essa gli è dovuta da parte dell’educazione come
qualcosa che gli spetta direttamente, e senza scopo ulteriore. La
religione ottiene un ambito per agire come movente soltanto in
una società massimamente immorale e corrotta, oppure quando
la sfera d’azione dell’uomo non si trova all’interno dell’ordine so-
ciale, ma al di fuori di questo, e deve piuttosto crearlo e conser-
varlo sempre di nuovo, come nel governante, che in molti casi sen-
za religione non potrebbe affatto esercitare il suo ufficio in buo-
na coscienza. Di quest’ultimo caso non si discute in un’educazio-
ne rivolta a tutti e all’intera nazione. Dal primo punto di vista, se,
nonostante la chiara visione dell’intelletto nell’incorreggibilità
dell’epoca, si continua comunque a lavorare instancabilmente su
di essa; se viene sopportato il sudore della semina, senza alcuna
speranza in un raccolto; se viene fatto del bene anche agli ingrati,
e vengono benedetti con azioni [300] e beni quelli che maledico-
no, e nella chiara previsione che continueranno a maledire; se, do-
po centinaia di fallimenti, si persiste comunque nella fede e nel-
l’amore: allora, non è più la semplice eticità che spinge, poiché
questa vuole uno scopo, bensì è la religione, la devozione a una
legge superiore a noi sconosciuta, l’umile ammutolire davanti a
Dio, l’intimo amore per la sua vita sbocciata in noi, che, se l’oc-
chio non vede nient’altro da salvare, deve essere salvata da sola e
per amore di se stessa.
La visione religiosa raggiunta dagli allievi della nuova educa-
zione nel loro piccolo corpo comune, in cui essi sono dapprima
cresciuti, non può diventare pratica in questo modo, e neppure
deve diventarlo. Questo corpo comune è bene ordinato, e in esso
ciò che viene abilmente intrapreso riesce sempre; inoltre, la tenera
età dell’uomo deve essere mantenuta nell’ingenuità, e nella tran-
quilla fiducia nella sua specie. La conoscenza delle sue perfidie re-
sti riservata all’esperienza propria dell’età matura e più forte.
Dunque l’allievo, nel caso in cui i suoi rapporti sociali doves-
sero progredire dalla semplicità a livelli superiori, potrebbe avere

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bisogno della sua cognizione religiosa come stimolo solo in que-
sta età più matura e nella vita seriamente intesa, dopo che l’edu-
cazione lo ha affidato da lungo tempo a se stesso. Come può ora
l’educazione, che non può esaminare l’allievo su questo punto fin-
ché egli è nelle sue mani, essere sicura che quando sorgerà questo
bisogno anche questo stimolo opererà immancabilmente? Ri-
spondo: “per il fatto che il suo allievo in generale è formato in mo-
do tale che in lui nessuna conoscenza resta morta e fredda quan-
do si presenta la possibilità che essa riceva vita, bensì ciascuna in-
terviene subito necessariamente nella vita, non appena la vita ne
ha bisogno”. Proverò subito questa affermazione ancora più ap-
profonditamente, e in tal modo solleverò e inserirò l’intero con-
cetto trattato in questo e nel precedente discorso in un più ampio
tutto della conoscenza, al quale, [301] in base a questo concetto,
io darò nuova luce e superiore chiarezza, dopo che in precedenza
avrò fornito in modo determinato la vera essenza della nuova edu-
cazione, di cui ho appena concluso la descrizione generale.
Ora questa educazione non appare più semplicemente come
l’arte di formare l’allievo alla pura eticità, come all’inizio del no-
stro discorso odierno, bensì ormai emerge come l’arte di rendere
in tutto e per tutto uomo l’intero essere umano. Per questo ci vo-
gliono due parti principali: dapprima, riguardo alla forma, biso-
gna formare l’uomo vivente, reale, fin nella radice della sua vita, e
non invece la semplice ombra e schema di un uomo; quindi, ri-
guardo al contenuto, bisogna che tutte le necessarie componenti
dell’uomo vengano formate in eguale misura e senza eccezione.
Queste componenti sono intelletto e volontà, e l’educazione deve
mirare alla chiarezza del primo, e alla purezza della seconda. Ma
per la chiarezza del primo, devono essere sollevate due domande
principali: anzitutto, che cos’è che la volontà pura vuole propria-
mente? E mediante quali mezzi si può raggiungere ciò che si è vo-
luto? Le altre conoscenze da fornire all’allievo sono comprese in
questa parte principale. In secondo luogo: che cos’è questa vo-
lontà pura nel suo stesso fondamento ed essenza? Qui viene com-
presa la conoscenza della religione. Ora, l’educazione esige asso-
lutamente le suddette parti, svolte fino all’intervento nella vita, e
non permette a nessuno di trascurarne la minima parte, poiché in-
tanto ciascuno deve essere un uomo; ciò che qualcuno diventerà
in seguito, e quale figura particolare assumerà o raggiungerà in lui

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l’umanità in generale, non riguarda per niente l’educazione gene-
rale, e si trova fuori del suo ambito. Adesso, mediante le seguen-
ti proposizioni, procederò come promesso a provare più ap-
profonditamente la proposizione secondo cui, nell’allievo della
nuova educazione, nessuna conoscenza può restare morta, e a
porre in connessione tutto ciò che è stato detto.
1) Secondo le nostre considerazioni, ci sono due classi di uo-
mini assolutamente diverse e completamente opposte [302] ri-
spetto all’educazione. Innanzitutto, tutti coloro che sono uomini,
e dunque anche queste due classi, consistono nel fatto che alle
molteplici espressioni della loro vita sta a fondamento un impul-
so, che in ogni cambiamento resta immutato e uguale a se stesso
– per inciso, il comprendersi di questo impulso e la sua traduzio-
ne in concetti genera il mondo, e non c’è nessun altro mondo che
questo mondo generantesi in questo modo nel pensiero comun-
que assolutamente non libero, bensì necessario. Ora, questo im-
pulso da tradurre sempre in una coscienza, in cui dunque le due
classi sono un’altra volta reciprocamente uguali, può essere tra-
dotto nella coscienza in un duplice modo, secondo le due diverse
fondamentali specie di coscienza, e le due classi sono diverse pro-
prio in questo modo di tradurre e di comprendere se stesse.
La prima specie di coscienza a svilupparsi nel tempo è quella
del sentimento oscuro. Con questo sentimento s’intende comu-
nemente e di regola l’impulso fondamentale compreso come amo-
re del singolo per se stesso, ed è vero che, in un primo tempo, que-
sto sentimento oscuro dà questo Sé solo come qualcosa che vuo-
le vivere e stare bene. Da qui deriva l’egoismo sensibile, come ef-
fettivo impulso fondamentale e forza propulsiva di una vita del ge-
nere, compresa in questa traduzione del suo fondamentale im-
pulso originario. Finché l’uomo continua a concepirsi così, deve
agire in modo egoistico, e non può fare altrimenti; e questo egoi-
smo è l’unico che è persistente, sempre uguale a se stesso, e da
aspettarsi sicuramente nel cambiamento incessante della sua vita.
Come straordinaria eccezione alla regola, questo sentimento
oscuro può anche oltrepassare il Sé personale, e cogliere l’impul-
so fondamentale come aspirazione a un diverso ordine di cose
oscuramente sentito. Da qui scaturisce la vita, che abbiamo de-
scritto sufficientemente altrove, la quale allora, sollevata oltre l’e-
goismo, viene sospinta da idee, che sono certamente oscure, ma

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comunque idee, e nella quale la ragione domina come istinto.
Questo coglimento dell’impulso fondamentale, in generale solo
nel sentimento oscuro, è il tratto fondamentale della prima [303]
classe di uomini, che non viene formata dall’educazione, ma da se
stessa, e che al suo interno comprende a sua volta due sottospe-
cie, che vengono divise in base a un fondamento incomprensibi-
le, assolutamente inaccessibile all’arte umana.
La seconda specie fondamentale della coscienza, che di rego-
la non si sviluppa da sé, ma deve essere accuratamente coltivata
nella società, è la conoscenza chiara. Se l’impulso fondamentale
dell’umanità venisse colto in questo elemento, allora ciò darebbe
una seconda classe di uomini, del tutto diversa dalla prima. Ora,
una siffatta conoscenza, che coglie l’amore fondamentale stesso,
non lascia freddi e indifferenti, come potrebbe fare un’altra co-
noscenza, bensì il suo oggetto viene amato più di tutto, poiché
questo oggetto è soltanto l’interpretazione e la traduzione del no-
stro stesso amore originario. L’altra conoscenza coglie un che di
estraneo, ed esso resta estraneo e lascia freddi; questa coglie il co-
noscente stesso e il suo amore, ed egli la ama. Benché ora tutt’e
due le classi vengano sospinte dallo stesso amore originario che si
manifesta solo in altra forma, tuttavia, prescindendo da questa cir-
costanza, si può dire che là l’uomo viene sospinto da sentimenti
oscuri, qui da conoscenza chiara.
Come abbiamo detto, che ora una siffatta conoscenza chiara
diventi immediatamente trainante nella vita, e che su ciò si possa
contare con sicurezza, dipende dal fatto che a essere interpretato
dalla conoscenza sia il vero e autentico amore dell’uomo, e anche
dal fatto che all’uomo risulti immediatamente chiaro che è così, e
al tempo stesso, con l’interpretazione, il sentimento di quell’amo-
re venga in lui stimolato e da lui sentito: cosicché la conoscenza,
in lui, non si sviluppi mai senza diventare, al tempo stesso, amo-
re, poiché nel caso opposto l’uomo resterebbe freddo; e mai l’a-
more senza diventare, al tempo stesso, conoscenza, poiché in ca-
so contrario il suo stimolo diventerebbe un sentimento oscuro:
cosicché dunque, a ogni passo della sua formazione, venga for-
mato unitariamente tutto l’uomo. Un uomo trattato continua-
mente dall’educazione come un intero indivisibile [304] lo resterà
anche in seguito, e ogni conoscenza diventerà per lui necessaria-
mente stimolo vitale.

40
2) Mentre in questo modo la conoscenza chiara viene posta in
primissimo piano al posto del sentimento oscuro, e viene trasfor-
mata nella vera base e punto di partenza della vita, l’egoismo vie-
ne completamente aggirato e privato del suo sviluppo. Poiché so-
lo il sentimento oscuro presenta all’uomo il suo Sé come biso-
gnoso di godimento e timoroso del dolore; il concetto chiaro non
glielo presenta affatto così, bensì glielo mostra come membro di
un ordine etico, e c’è un amore di questo ordine che viene susci-
tato e sviluppato insieme allo sviluppo del concetto. Con l’egoi-
smo, questa educazione non ha più nulla a che fare, poiché me-
diante la chiarezza ne ha essiccato la radice, il sentimento oscuro;
essa lo contrasta tanto poco quanto lo favorisce, non ne sa asso-
lutamente niente. Se questo desiderio dovesse svilupparsi in se-
guito, troverebbe il cuore già colmo di un amore più alto, che gli
vieterebbe di prendere posto.
3) Ora, questo impulso fondamentale dell’uomo, se viene tra-
dotto in conoscenza chiara, non mira a un mondo dato e già pre-
sente, che può solo venire assunto passivamente così come è, e in
cui un amore che spinga a un’attività originariamente creativa non
troverebbe posto; bensì, innalzato a conoscenza, esso mira a un
mondo che deve ancora divenire, un mondo a priori, che esiste nel
futuro e rimane futuro in eterno. Perciò, la vita divina alla base di
tutto il fenomeno non subentra mai come un essere statico e da-
to, bensì come qualcosa che deve ancora divenire, e dopo che ciò
che doveva ancora divenire è divenuto, subentrerà nuovamente
come qualcosa che deve ancora divenire in tutta l’eternità, cosic-
ché quella vita divina non subentra mai nella morte dell’essere sta-
tico, bensì resta continuamente nella forma della vita che scorre
fluente. L’immediata apparizione e manifestazione di Dio è l’a-
more; solo l’interpretazione di questo amore mediante la cono-
scenza pone un essere, e precisamente un essere tale che [305] de-
ve eternamente solo divenire, e lo pone come l’unico mondo ve-
ro, nella misura in cui c’è verità in un mondo in generale. Al con-
trario, il secondo mondo, dato e da noi trovato come già presen-
te, è soltanto l’ombra e lo schema da cui la conoscenza costruisce
una figura stabile e un corpo visibile alla sua interpretazione del-
l’amore; questo secondo mondo è il mezzo e la condizione per
l’intuibilità del mondo superiore per se stesso invisibile. Dio non
entra immediatamente neppure in quest’ultimo mondo superio-

41
re, bensì anche qui solo mediante l’unico, puro, immutabile amo-
re che non ha figura, amore in cui solamente egli appare imme-
diatamente. A questo amore si aggiunge la conoscenza intuitiva,
che porta con sé un’immagine da se stessa, nella quale riveste l’og-
getto in sé invisibile dell’amore; contraddetta tuttavia ogni volta
dall’amore, e perciò spinta in avanti verso una nuova configura-
zione, che allo stesso modo verrà contraddetta ancora una volta;
per cui solamente l’amore, che puramente per sé è Uno e assolu-
tamente incapace dell’infinità, dell’eternità e dello scorrere fluen-
te, in questa fusione con l’intuizione diventa un che di eterno e di
infinito come questa. L’immagine appena menzionata, che scatu-
risce dalla conoscenza stessa, presa per sé soltanto e ancora senza
applicazione sull’amore conosciuto con evidenza, è il mondo sta-
tico e dato, o la natura. L’illusione che l’essenza di Dio entri in
questa in qualsiasi modo immediatamente, e non invece mediata
dai membri intermedi indicati, deriva da oscurità nello spirito ed
empietà nella volontà.
4) Ora, come già ricordato, che il sentimento oscuro, di rego-
la, in quanto solvente dell’amore, venga saltato del tutto, e al suo
posto subentri, come solvente abituale, la conoscenza chiara, può
accadere solo mediante un’arte meditata di educazione dell’uo-
mo, e finora non è ancora accaduto. Poiché ora, come egualmen-
te abbiamo visto, nell’ultimo modo viene introdotta una specie di
uomini assolutamente diversa dagli uomini comuni fino a oggi, e
viene posta come la regola, allora certamente mediante una siffat-
ta educazione [306] comincerebbe un ordine di cose interamen-
te nuovo e una nuova creazione. L’umanità si trasformerebbe in
questa nuova figura mediante se stessa, educando appunto se stes-
sa, in quanto generazione presente, come generazione futura: nel-
l’unico modo in cui può farlo, mediante la conoscenza come uni-
ca luce comune da comunicare liberamente, e come vera luce che
lega in unità il mondo degli spiriti, e come aria di questo mondo.
Finora, l’umanità è divenuta ciò che è divenuta e che poteva di-
venire; con questo divenire per approssimazione, è finita; poiché
laddove si è sviluppata nella maniera più ampia, essa è divenuta
niente. Se non deve restare in questo niente, allora d’ora in avan-
ti deve fare se stessa in tutto ciò che vuole ancora divenire. Nelle
lezioni di cui queste sono la continuazione, ho detto che l’auten-
tica destinazione del genere umano sulla terra è quella di diventa-

42
re con libertà tutto ciò che esso in senso proprio è originariamen-
te1. Ora, questo fare se stessi in generale, con consapevolezza e se-
condo una regola, deve cominciare una buona volta da qualche
parte e in un qualche momento, nello spazio e nel tempo. In tal
modo, al posto della prima sezione di uno sviluppo non libero, su-
bentrerebbe una seconda sezione principale del libero e consape-
vole sviluppo del genere umano. Noi siamo dell’opinione che, per
quanto riguarda il tempo, questo tempo sia proprio adesso, e che
attualmente la nostra specie si trovi veramente nel mezzo della sua
vita sulla terra, tra le sue due epoche principali; per quanto ri-
guarda lo spazio, invece, noi crediamo che spetti innanzitutto ai
tedeschi di iniziare il tempo nuovo, anticipandolo e prefiguran-
dolo per tutti gli altri.
5) Tuttavia, neppure questa creazione interamente nuova se-
guirà da ciò che precede mediante un salto, bensì essa è la vera
prosecuzione e conseguenza naturale del tempo passato, partico-
larmente tra i tedeschi. In modo palese e, come credo, ammesso
da tutti, tutta la tensione e lo sforzo del tempo erano diretti a ban-
dire i sentimenti oscuri, e a procurare il dominio esclusivamente
alla chiarezza e alla conoscenza. Questo sforzo è anche perfetta-
mente riuscito, nella misura in cui il nulla vigente fino ad ora [307]
è stato perfettamente scoperto. In nessun modo questo impulso
alla chiarezza deve essere distrutto, né deve tornare a dominare
l’ottuso acquietarsi nel sentimento oscuro; ora quell’impulso de-
ve essere sviluppato ulteriormente, ed essere inserito in un cerchio
più ampio, in modo tale che, dopo la scoperta del nulla, diventi
manifesto anche il qualcosa, la verità affermativa e che pone real-
mente qualcosa. Il mondo proveniente dal sentimento oscuro, il
mondo dell’essere dato e che si faceva mediante se stesso, è
sprofondato e così deve rimanere; al contrario, il mondo prove-
niente dalla chiarezza originaria, il mondo dell’essere da svolgere
in eterno a partire dallo spirito, deve irraggiare e irrompere in tut-
to il suo splendore.
È vero che la profezia di una nuova vita in simili forme po-
trebbe sembrare singolare al nostro tempo, e difficilmente esso
potrebbe avere il coraggio di far propria questa promessa, se sol-

1
Cfr. in particolare GZ, lez. 1, pp. 195-204 (trad. it., cit., pp. 81-94).

43
tanto dovesse considerare l’enorme distanza delle sue opinioni
dominanti, sugli argomenti di cui abbiamo appena parlato, da
quelli che sono stati enunciati come i princìpi del tempo nuovo.
Io non voglio parlare della formazione che finora hanno ricevuto,
di regola, solo i ceti superiori, per giunta come un privilegio da
non condividere, la quale taceva completamente di un mondo so-
prasensibile, e ambiva a procurare soltanto qualche abilità per gli
affari di quello sensibile: è palesemente la peggiore. Invece, voglio
considerare quella che è stata l’educazione popolare, e che in un
certo senso molto limitato potrebbe essere chiamata anche edu-
cazione nazionale, la quale sul mondo soprasensibile non osser-
vava un silenzio assoluto. Quali erano le dottrine di questa edu-
cazione? Se noi, come primissima premessa della nuova educa-
zione, poniamo il fatto che alla radice dell’uomo esiste un puro
compiacimento per il bene, e che questo compiacimento può es-
sere sviluppato a tal punto che all’uomo diventa impossibile tra-
lasciare ciò che viene conosciuto come buono, e fare al suo posto
ciò che viene conosciuto come cattivo; al contrario, l’educazione
fino ad ora non soltanto ha ammesso, ma ha anche insegnato ai
suoi allievi, fin dalla prima giovinezza, in parte che nell’uomo è in-
sita una naturale repulsione contro i comandamenti di Dio, [308]
in parte che per lui è assolutamente impossibile adempierli. Che
cos’altro ci si può attendere da un indottrinamento del genere,
quando viene preso sul serio e viene creduto, se non che ciascun
singolo si rassegni alla sua natura che non può essere cambiata,
che non cerchi di fare ciò che gli è stato rappresentato come im-
possibile, e non cerchi di essere migliore di quanto possono esse-
re lui e tutti gli altri; anzi, che sia addirittura contento della viltà
che gli viene attribuita, quella di riconoscere se stesso nella sua ra-
dicale peccaminosità e cattiveria, mentre questa viltà gli viene rap-
presentata come l’unico mezzo per giungere a patti con Dio? E
che altro potrebbe pensare, nel caso in cui un’affermazione come
la nostra arrivi alle sue orecchie, se non che vogliamo giocargli un
brutto tiro, visto che egli sente ovunque nella sua interiorità, e toc-
ca con mano che questo non è vero, bensì lo è soltanto il suo con-
trario? Se noi ammettiamo una conoscenza completamente indi-
pendente da tutto l’essere dato, e che invece dà la legge a questo
essere stesso, e in questa conoscenza immergiamo fin dall’inizio
ogni bambino, e d’ora in poi vogliamo mantenerlo sempre nel-

44
l’ambito di essa, considerando al contrario la conformazione del-
le cose da apprendere solo storicamente come un accessorio di
poco conto, che risulta da sé: allora, ci vengono incontro i migliori
esponenti della cultura finora vigente, e ci ricordano che notoria-
mente non esiste alcuna conoscenza a priori, e che essi vorrebbe-
ro davvero sapere come sia possibile conoscere se non per espe-
rienza. E affinché questo mondo soprasensibile e a priori non si
tradisca neppure in quel luogo in cui sembrava non si potesse evi-
tare – nella possibilità di una conoscenza di Dio – e la spontaneità
spirituale non s’innalzi addirittura a Dio, bensì l’abbandono pas-
sivo rimanga tutto in tutto – contro questo pericolo, la formazio-
ne umana fino ad ora ha escogitato l’audace mezzo di trasforma-
re l’esistenza di Dio in un fatto storico, la cui verità viene accerta-
ta mediante un’escussione di testimoni.
[309] Le cose stanno così, eppure l’epoca non dovrebbe di-
sperare di se stessa. Infatti, questi e altri simili fenomeni non so-
no nulla di autonomo, ma soltanto fiori e frutti della radice selva-
tica del tempo antico. Se soltanto l’epoca si lasciasse inoculare una
nuova radice più nobile e più forte, allora l’altra si seccherebbe, e
i suoi fiori e frutti, cui da essa non giungerebbe più nutrimento,
appassirebbero e cadrebbero da sé. Adesso l’epoca non può af-
fatto credere alle nostre parole, ed è necessario che esse le ap-
paiano come favole. Noi non vogliamo neppure questa fede; noi
vogliamo soltanto spazio per creare e agire. Poi vedrà, e crederà
ai suoi occhi.
Così, chiunque abbia familiarità con i prodotti del nostro tem-
po, avrà osservato già da lungo tempo che qui vengono enuncia-
te ancora una volta le proposizioni e i punti di vista che la più re-
cente filosofia tedesca ha predicato fin dal suo inizio, e predicato
sempre di nuovo, perché appunto non poteva far altro che predi-
care. Che queste prediche si siano disperse senza alcun frutto nel-
l’aria vuota è ora chiaro a sufficienza, ed è chiara anche la ragione
per cui dovevano disperdersi in questo modo. Il vivente agisce so-
lo sul vivente; ma nella vita reale del tempo non c’è nessuna affi-
nità con questa filosofia, poiché questa filosofia si muove in un
orizzonte che per questo tempo non è ancora spuntato, e per or-
gani di senso che in esso non si sono ancora sviluppati. Essa in
quest’epoca non è affatto di casa, bensì è un’anticipazione del
tempo, e un elemento vitale già pronto in anticipo per una gene-

45
razione che non ha ancora visto la luce in esso. Essa deve rinun-
ciare alla generazione presente, ma non restare oziosa fino a quel
momento; ora assume il compito di formare per sé la generazione
cui essa appartiene. Solo quando le sarà divenuto chiaro questo
suo compito più immediato, essa potrà vivere in pace e in amici-
zia con una generazione che per il resto non le piace. L’educazio-
ne che abbiamo descritto finora è [310] al tempo stesso l’educa-
zione per essa; ancora una volta soltanto essa, in un certo senso,
può essere l’educatrice in questa educazione; e così, dovrebbe
precedere la sua comprensibilità e accettabilità. Ma verrà il tem-
po in cui verrà capita e accolta con gioia; e perciò, l’epoca non do-
vrebbe disperare di se stessa.
Ascolti quest’epoca la visione di un antico veggente, che era ri-
ferita a una situazione certo non meno dolorosa. Così dice il veg-
gente presso il fiume Chebar2, il consolatore dei prigionieri non
nella propria terra, ma in terra straniera: “La mano del Signore
venne sopra di me ed egli mi condusse fuori nello spirito del Si-
gnore e mi posò in mezzo alla pianura; questa era piena di ossa.
Mi condusse in giro presso di esse ed ecco, erano moltissime sul-
la superficie della pianura ed ecco, erano assai secche. Quindi mi
disse: ‘Figlio dell’uomo, potranno rivivere queste ossa?’. Risposi:
‘Signore Iddio, tu lo sai’. Mi disse allora: ‘Profetizza su queste os-
sa e di’ loro: Ossa aride, udite la parola del Signore. Così ha det-
to il Signore Iddio a queste ossa: Ecco, io faccio venire in voi uno
spirito e vivrete. Metterò su di voi i nervi, farò crescere su di voi
la carne, stenderò sopra di voi la pelle, infonderò in voi il respiro
e vivrete. E riconoscerete che io sono il Signore’. Io profetai come
mi era stato comandato e, mentre profetavo, si sentì un rumore e
subito un frastuono, e le ossa si avvicinarono l’una all’altra. Guar-
dai ed ecco, sopra di esse i nervi, venne su la carne e si stese su di
essi, al di sopra, la pelle, ma non vi era ancora il respiro. Allora mi
disse: ‘Profetizza al vento, profetizza, figlio dell’uomo, e di’ al ven-
to: Così ha detto il Signore Iddio: Vieni, o vento, dai quattro ven-
ti e soffia su questi morti, perché abbiano la vita’. Io profetai co-
me mi era stato comandato e venne in essi il respiro, ebbero la vi-

2
“Grande canale dell’Eufrate, identificato con l’attuale Scatt-en-mil, che
scorre verso est, nei pressi di Babilonia” (La Bibbia concordata, Milano 1999, vol.
2, p. 1158, nota 1).

46
ta e si drizzarono in piedi: erano un esercito grande, immenso”3.
Lasciate pure che le componenti della nostra superiore vita spiri-
tuale si secchino così, e proprio perciò, [311] lasciate pure che si
strappino anche i vincoli della nostra unità nazionale, e lasciateli
giacere per terra qua e là in selvaggio disordine, come le ossa dei
morti del veggente; lasciateli ingiallire e seccare sotto le tempeste,
i temporali e la torrida canicola di più secoli; il respiro vivificante
del mondo degli spiriti non ha ancora smesso di soffiare. Esso af-
ferrerà anche le ossa senza vita del nostro corpo nazionale e le ri-
metterà insieme, perché tornino a vivere in una vita nuova e tra-
sfigurata.

3 Ezechiele 37, 1-10 (ivi, pp. 1250-51; traduzione modificata per omogeneità

col testo tedesco).


Quarto discorso
La diversità capitale tra i tedeschi
e gli altri popoli di provenienza germanica

Abbiamo detto che il mezzo per formare un nuovo genere uma-


no proposto in questi discorsi dovrebbe essere applicato anzitut-
to da tedeschi a tedeschi, e che esso è particolarmente adatto pri-
ma di tutto alla nostra nazione. Anche questa proposizione ha bi-
sogno di una dimostrazione, e noi partiremo anche qui, come ab-
biamo fatto finora, da ciò che è più alto e più universale, mo-
strando ciò che il tedesco in sé e per sé, nel suo carattere fonda-
mentale, è, e da quando esiste è sempre stato, indipendentemen-
te dal destino che lo ha colpito in questo momento. Mostreremo
che la capacità e la ricettività per una formazione siffatta è già con-
tenuta in questo carattere fondamentale, in modo esclusivo ri-
spetto a tutte le altre nazioni europee.
I tedeschi sono, per prima cosa, un ceppo dei Germani in ge-
nerale. Su questi ultimi, qui basti dire che furono essi [312] a uni-
ficare l’ordine sociale istituito nell’antica Europa con la vera reli-
gione custodita nell’antica Asia, e a sviluppare così da se stessi
un’età nuova, in contrasto con l’antichità al tramonto. Inoltre, è
sufficiente caratterizzare il tedesco in particolare solo in contrasto
con gli altri popoli germanici sorti accanto a lui. Infatti, altre na-
zioni dell’Europa moderna, come ad esempio quelle di prove-
nienza slava, sembra che non si siano sviluppate in modo così
chiaro, rispetto al resto d’Europa, da poterne fornire una descri-
zione precisa, mentre altre di eguale provenienza germanica, co-
me gli scandinavi, per le quali il fondamento della distinzione che

48
andremo subito a indicare non è valido, qui vengono assunte sen-
za alcun dubbio come tedesche, e sono comprese in tutte le con-
seguenze generali delle nostre considerazioni.
Ma prima di cominciare, bisogna fare la seguente osservazio-
ne. Come fondamento della differenza prodottasi nel ceppo ori-
ginariamente indiviso, io indicherò un fatto che, in quanto fatto,
è chiaramente e inconfutabilmente sotto gli occhi di tutti; poi,
presenterò singole manifestazioni di questa differenza prodottasi,
che in quanto meri fatti possono essere spiegate in modo altret-
tanto chiaro. Ma per quanto riguarda il collegamento di queste ul-
time, come conseguenze, con il primo in quanto loro fondamen-
to, e la deduzione della conseguenza dal fondamento, non posso
contare sul fatto che essi possiedano la stessa chiarezza e forza
persuasiva per tutti. È vero che, anche da questo punto di vista, io
non enuncio proposizioni del tutto nuove e sin qui mai udite, ben-
sì tra noi ci sono diverse persone che o sono assai ben preparate
per una simile concezione, o addirittura sono già familiari con es-
sa. Ma, sull’argomento in questione, le idee correnti nella mag-
gioranza sono assai divergenti dalle nostre, e per correggerle e
confutare tutte le obiezioni basate su casi singoli, che potrebbero
essere addotte da chi è sprovvisto di un senso esercitato per l’in-
tero, ci vorrebbe un tempo di gran lunga superiore a quello a no-
stra disposizione, e oltrepasserebbe i limiti del nostro programma.
[313] A costoro, devo accontentarmi di fornire ciò che va detto a
questo riguardo come semplice spunto per la loro ulteriore rifles-
sione. Nel complesso del mio pensiero, tutto ciò potrebbe essere
disposto in modo non così isolato e frammentario, e senza fonda-
zione fin nella profondità del sapere, come si presenta qui. A par-
te la serietà per l’intero, che non può essere trascurata, non ho po-
tuto fare a meno di dirlo anche solo rispetto alle importanti con-
seguenze che ne deriveranno nel prosieguo dei nostri discorsi, e
che fanno parte in senso vero e proprio del nostro compito più
immediato.
La differenza tra il destino dei tedeschi e quello degli altri cep-
pi provenienti dalla stessa radice, che si presenta all’osservazione
immediatamente e prima di tutte le altre, è che i primi sono rima-
sti nelle sedi originarie del popolo di provenienza, mentre gli altri
sono migrati in altri luoghi; i primi hanno conservato e formato
ulteriormente la lingua originaria del popolo di provenienza, i se-

49
condi hanno accolto una lingua straniera e l’hanno trasformata
gradualmente a modo loro. Le differenze subentrate successiva-
mente possono essere spiegate solo da questa anteriore diversità,
e non in ordine inverso: per esempio, il fatto che nella patria ori-
ginaria, conformemente all’originario costume germanico, sia ri-
masta una federazione di Stati sotto un sovrano limitato, mentre
nei territori stranieri, più sul precedente modello romano, la co-
stituzione è sfociata in monarchie; e così via.
Tra i cambiamenti indicati, il primo, cioè il cambiamento di pa-
tria, è del tutto insignificante. L’uomo si ambienta facilmente sot-
to qualunque striscia di cielo, e la peculiarità del popolo, lungi
dall’essere molto modificata dalla sede stanziale, al contrario do-
mina quest’ultima e la modifica in conformità con sé. Anche la di-
versità degli influssi naturali non è molto grande sotto i cieli abi-
tati da popolazioni germaniche. Altrettanto poco si può attribui-
re un peso alla circostanza che nei territori conquistati i popoli di
provenienza germanica si siano mescolati con i precedenti abi-
tanti; perché comunque furono soltanto i Germani a vincere, a
dominare e a formare il nuovo popolo uscito dalla mescolanza.
[314] Inoltre, la stessa mescolanza che all’estero ebbe luogo con
Galli, Cantabri, eccetera avvenne in misura certo non inferiore
nella madrepatria con gli Slavi; cosicché nessuno dei popoli sorti
dai Germani potrebbe dimostrare al giorno d’oggi una maggiore
purezza della sua provenienza rispetto agli altri.
Più significativo, invece, e, come ho sostenuto, tale da fonda-
re una perfetta opposizione tra i tedeschi e gli altri popoli di pro-
venienza germanica, è il secondo cambiamento, quello della lin-
gua; e qui non si tratta, lo voglio dichiarare con chiarezza fin da
subito, né della costituzione particolare della lingua che è stata
conservata da questo ceppo, né di quella dell’altra lingua che è sta-
ta assunta dall’altro ceppo, bensì esclusivamente del fatto che lì è
stato conservato qualcosa di proprio, qui è stato assunto qualco-
sa di estraneo; né si tratta della provenienza anteriore di coloro
che continuano a parlare una lingua originaria, bensì solo del fat-
to che si continui senza interruzione a parlare questa lingua, poi-
ché gli uomini vengono formati dalla lingua molto più di quanto
la lingua venga formata dagli uomini.
Per chiarire le conseguenze di una simile differenza nella ge-
nerazione dei popoli, e il determinato tipo di opposizione tra i ca-

50
ratteri nazionali che segue necessariamente da questa diversità,
nella misura in cui è possibile farlo qui, devo invitarvi a una con-
siderazione sull’essenza del linguaggio in generale1.
Il linguaggio in generale, e in modo particolare la designazio-
ne degli oggetti in esso mediante il risuonare degli organi vocali,
non dipende affatto da decisioni e accordi arbitrari, bensì esiste
prima di tutto una legge fondamentale, secondo cui ogni concet-
to negli organi vocali dell’uomo diventa questo suono e nessun al-
tro. Come gli oggetti si riproducono negli organi sensibili del sin-
golo con questa determinata figura, colore, eccetera, così nell’or-
gano dell’uomo sociale, nel linguaggio, si riproducono con questo
determinato suono. Non è propriamente l’uomo che parla, bensì
in lui parla la [315] natura umana, e si annuncia agli altri suoi si-
mili. E così si dovrebbe dire: il linguaggio è uno solo, ed è assolu-
tamente necessario.
Ora, certamente, può darsi – ed è il secondo aspetto – che il
linguaggio in questa sua unità non sia mai emerso da nessuna par-
te per l’uomo semplicemente in quanto tale, bensì sia emerso dap-
pertutto ulteriormente modificato e formato dagli effetti che il
luogo e l’uso, più o meno frequente, hanno avuto sugli organi vo-
cali e che la sequenza degli oggetti osservati e indicati ha avuto sul-
la sequenza della designazione. Tuttavia, anche qui non ha luogo
arbitrio o approssimazione, bensì legge rigorosa; ed è necessario
che, in un organo vocale così determinato dalle condizioni men-
zionate, non emerga la lingua unica e pura degli uomini, bensì una
sua deviazione, e precisamente proprio questa deviazione deter-
minata.
Se chiamiamo un popolo gli uomini che subiscono i medesimi
influssi esterni sull’organo vocale, e che sviluppano il loro lin-
guaggio in comunicazione continua, allora dobbiamo dire che la
lingua di questo popolo è necessariamente così come è, e non è

1
Fichte si era già occupato di questo problema nello scritto Von der Sprach-
fähigkeit und dem Ursprung der Sprache (1795), GA, I, 3, pp. 97-127; trad. it. La
facoltà linguistica e l’origine del linguaggio, in J.G. Fichte, Scritti sulla dottrina
della scienza, a cura di M. Sacchetto, Torino 1999, pp. 443-480; questo e altri te-
sti jenesi erano già apparsi in J.G. Fichte, Scritti sul linguaggio, 1795-1797, a cu-
ra di C. Tatasciore, coll. Fichtiana, Milano 1998.

51
propriamente questo popolo che esprime la sua conoscenza, ben-
sì è la sua conoscenza stessa che si esprime a partire da esso.
In tutti i cambiamenti provocati, nello sviluppo del linguaggio,
dalle circostanze sopra ricordate, questa conformità alla legge re-
sta ininterrottamente ed esattamente la stessa e unica conformità
alla legge per tutti coloro che restano in comunicazione ininter-
rotta, e ovunque il Nuovo enunciato da ciascun singolo giunga al-
l’orecchio di tutti. Dopo millenni, e dopo tutti i cambiamenti spe-
rimentati nel loro corso dall’apparenza esterna della lingua di
questo popolo, resta sempre la stessa unica, vivente forza lingui-
stica della natura – che doveva erompere originariamente così –
che è fluita ininterrottamente attraverso tutte le circostanze, e in
ciascuna di queste è dovuta divenire così come è divenuta, alla lo-
ro fine è dovuta essere così come è adesso, e tra qualche tempo
sarà così come dovrà essere allora. [316] La lingua puramente
umana, considerata ai primi inizi assieme all’organo del popolo,
risuonò come suo primo suono; ciò che ne è risultato, considera-
to in seguito con tutti gli sviluppi che questo primo suono dovet-
te subire nelle circostanze date, dà come ultima conseguenza l’at-
tuale lingua del popolo. Perciò, anche la lingua resta sempre la
stessa lingua. Anche se i posteri, dopo qualche secolo, non capi-
scono più la lingua parlata un tempo dai loro avi – poiché per es-
si i passaggi sono andati perduti – tuttavia c’è fin dall’inizio un
passaggio continuo, senza salti, sempre inosservato nel presente,
e reso osservabile solo con l’aggiunta di nuovi passaggi, e che per-
ciò sembra un salto. Non è mai esistito un momento in cui i con-
temporanei abbiamo smesso di capirsi, poiché il loro eterno me-
diatore e interprete è sempre stata ed è rimasta la forza naturale
comune parlante da tutti loro. Così stanno le cose per la lingua, in
quanto designazione degli oggetti di percezione immediatamente
sensibile, e ogni lingua umana, all’inizio, è questo. Se da essa il po-
polo s’innalza al coglimento del soprasensibile, allora in un primo
tempo questo soprasensibile, per poter essere ripetuto a piaci-
mento e per evitare la confusione col sensibile, nel caso del primo
singolo; per poter essere comunicato e per fornire una guida ade-
guata, nel caso degli altri, può essere fissato solo designando un
Sé in quanto organo di un mondo soprasensibile, e distinguendo-
lo accuratamente dallo stesso Sé in quanto organo del mondo sen-
sibile – opponendo a un organismo corporeo un’anima, un senti-

52
mento e simili. Inoltre, poiché i diversi oggetti di questo mondo
soprasensibile appaiono, nel loro insieme, soltanto in quell’orga-
no soprasensibile, ed esistono solo per esso, potrebbero essere de-
signati nel linguaggio solo dicendo che essi hanno, col loro orga-
no, lo stesso rapporto che questo o quel determinato oggetto sen-
sibile ha con l’organo sensibile; equiparando, in questo rapporto,
un soprasensibile particolare a un sensibile particolare; e, attra-
verso questa equiparazione, [317] indicando mediante il linguag-
gio il suo luogo nell’organo soprasensibile. In questo campo, la
lingua non può fare nulla di più; essa dà un’immagine sensibile del
soprasensibile, limitandosi a osservare che si tratta di un’immagi-
ne del genere; chi vuole giungere alla cosa, deve porre in movi-
mento il suo proprio organo spirituale, secondo la regola fornita
dall’immagine. In generale, è chiaro che questa designazione sim-
bolica del soprasensibile dovrà orientarsi, ogni volta, secondo lo
stadio di sviluppo raggiunto, tra il popolo dato, dalla facoltà co-
noscitiva della sensibilità; che perciò, l’inizio e lo sviluppo di que-
sta designazione simbolica avverrà, nelle diverse lingue, in modi
molto diversi, secondo la diversità del rapporto che ha avuto e
continua ad avere luogo tra formazione sensibile e formazione spi-
rituale del popolo.
Ravviviamo con un esempio questa osservazione, già chiara di
per sé. Con una parola greca che viene comunemente usata anche
nella lingua tedesca, noi chiamiamo idea qualcosa che sorge in se-
guito al coglimento (spiegato nel discorso precedente) dell’im-
pulso fondamentale non solo mediante il sentimento oscuro, ma
subito mediante conoscenza chiara, come sempre avviene nel ca-
so di un oggetto soprasensibile, e quella parola esprime esatta-
mente lo stesso simbolo della parola tedesca Gesicht, “visione”,
come appare nelle seguenti locuzioni della traduzione luterana
della Bibbia: “Avrete visioni, farete sogni”. Idea o visione, nel si-
gnificato sensibile, sarebbe qualcosa che può essere afferrato so-
lo dall’occhio del corpo, in nessun modo invece da un altro sen-
so, per esempio dal gusto, dall’udito, eccetera, come ad esempio
un arcobaleno, o le figure che ci passano davanti in sogno. Lo stes-
so simbolo, nel significato soprasensibile, vorrebbe dire anzitut-
to, secondo l’ambito in cui la parola deve valere, qualcosa che non
viene afferrato dal corpo, ma solo dallo spirito; poi, qualcosa che
non può essere afferrato neppure dal sentimento oscuro dello spi-

53
rito, come diverse altre cose, ma esclusivamente dal suo occhio,
dalla conoscenza chiara. Se ipotizzassimo, inoltre, che per questa
designazione simbolica i Greci [318] si siano basati sull’arcobale-
no e su fenomeni del genere, allora dovremmo ammettere che la
loro conoscenza sensibile si era innalzata, già in precedenza, a os-
servare la differenza tra le cose, cioè il fatto che alcune si manife-
stano a tutti i sensi o a più di uno, altre soltanto all’occhio; e che
inoltre, se avessero avuto chiaro il concetto sviluppato, non avreb-
bero dovuto designarlo così, ma in un altro modo. Allora, balze-
rebbe all’occhio anche la loro superiore chiarezza spirituale ri-
spetto a un altro popolo, poniamo, che non abbia saputo designa-
re la differenza tra sensibile e soprasensibile mediante un simbolo
tratto dal cosciente stato di veglia, bensì, per trovare l’immagine di
un altro mondo, sia dovuto ricorrere al sogno; al tempo stesso, ver-
rebbe in luce che questa differenza non dipende dal fatto che il
senso per il soprasensibile sia, nei due popoli, più o meno forte, ma
solamente dalla diversità della loro chiarezza sensibile, nel mo-
mento in cui vollero designare un che di soprasensibile.
Così, ogni designazione del soprasensibile si orienta secondo
l’ampiezza e la chiarezza della conoscenza sensibile di colui che
qui designa. Il simbolo gli è chiaro, ed esprime il rapporto di ciò
che è concepito con l’organo spirituale in un modo che gli è per-
fettamente comprensibile, poiché questo rapporto gli viene spie-
gato da un altro rapporto, immediatamente vivente, con il suo or-
gano sensibile. Questa nuova designazione, sorta in tal modo, vie-
ne ora deposta nel linguaggio con tutta la nuova chiarezza, che la
conoscenza sensibile stessa riceve da questo uso allargato del se-
gno; e la possibile conoscenza soprasensibile futura viene ora de-
signata secondo il suo rapporto con l’intera conoscenza sensibile
e soprasensibile deposta nel tutto della lingua; e si procede inin-
terrottamente così, in modo tale che la chiarezza e la comprensi-
bilità immediate dei simboli non siano mai interrotte, bensì resti-
no un flusso continuo. Inoltre, poiché la lingua non è trasmessa
per arbitrio, bensì sboccia dalla vita intellettuale come un’imme-
diata forza naturale, [319] una lingua che continua a svilupparsi
senza interruzione secondo questa legge possiede anche la forza
di intervenire immediatamente nella vita e di stimolarla. Come le
cose immediatamente presenti muovono l’uomo, così anche le pa-
role di una lingua siffatta muovono colui che le intende, poiché

54
anch’esse sono cose, e niente affatto artifici arbitrari. Così avvie-
ne innanzitutto nel sensibile. Ma non altrimenti accade nel sopra-
sensibile. Infatti, benché in relazione a quest’ultimo il progresso
continuo dell’osservazione naturale venga interrotto dalla libera
meditazione e riflessione – e qui subentri, per così dire, il Dio in-
figurabile – tuttavia la designazione mediante il linguaggio rinvia
immediatamente l’infigurabile alla connessione continua del figu-
rabile; e così, anche da questo punto di vista, il progresso conti-
nuo della lingua, emersa dapprima come forza naturale, resta inin-
terrotto, e nel flusso della designazione non subentra alcun arbi-
trio. Perciò, anche alla parte soprasensibile di una lingua che con-
tinua a svilupparsi in modo così continuo, non può mancare la
forza stimolatrice di vita verso colui che solo ponga in movimen-
to il suo organo spirituale. Le parole di una lingua siffatta sono vi-
ta e creano vita in tutte le sue parti. Se facciamo l’ipotesi, anche
riguardo allo sviluppo della lingua per il soprasensibile, che il po-
polo di questa lingua sia rimasto in comunicazione ininterrotta, e
che ciò che uno ha pensato e detto abbia raggiunto ben presto tut-
ti: allora, ciò che finora abbiamo detto in generale, vale per tutti
quelli che parlano questa lingua. Per tutti quelli che solo vogliano
pensare, il simbolo deposto nella lingua è chiaro; per tutti quelli
che qui pensano veramente, essa è viva e stimola la loro vita.
Così, dico, stanno le cose con una lingua che, fin dal primo
suono emesso nello stesso popolo, si è ininterrottamente svilup-
pata dall’effettiva vita comune di questo popolo, e nella quale non
si è mai inserita una componente che non esprimesse un’intuizio-
ne effettivamente vissuta di questo popolo, e un’intuizione in con-
nessione onnilaterale con tutte le altre intuizioni dello stesso po-
polo. Lasciate che al popolo d’origine di questa lingua [320] ven-
gano incorporati tanti singoli, quanti si voglia, di un altro ceppo e
di un’altra lingua; a meno che a costoro non sia concesso di in-
nalzare l’ambito delle loro intuizioni fino alla posizione da cui,
d’ora in poi, si svilupperà la loro lingua, essi resteranno muti nel-
la comunità, e senza influsso sulla lingua, finché essi stessi non sa-
ranno entrati nel campo delle intuizioni del popolo d’origine, e al-
lora non saranno loro a formare la lingua, bensì la lingua a formare
loro.
Ma accade tutto il contrario di ciò che abbiamo detto finora,
se un popolo, rigettando la propria lingua, ne assume una stra-

55
niera, già molto formata per la designazione soprasensibile; e pre-
cisamente, non in modo da concedersi del tutto liberamente al-
l’influsso di questa lingua straniera, accontentandosi di tacere fi-
no a che non sia entrato nel circolo delle sue intuizioni; bensì, in
modo da imprimere su questa lingua straniera il circolo della pro-
pria intuizione, cosicché quest’ultima, dalla posizione in cui essi
l’avevano trovata, d’ora in poi deve muoversi in tale circolo. È ve-
ro che questo evento non ha conseguenze rispetto alla parte sen-
sibile della lingua. In ciascun popolo, i bambini devono comun-
que imparare questa parte della lingua proprio come se i segni fos-
sero arbitrari, e così devono ripercorrere tutto il precedente svi-
luppo linguistico della nazione; ma in questo ambito sensibile,
ogni segno può essere chiarito perfettamente mediante la visione
o il contatto immediati col designato. Al massimo, da ciò risulte-
rebbe che la prima generazione di un popolo che cambia la sua
lingua sarebbe costretta a ritornare alla sua infanzia; ma con la ge-
nerazione successiva e quelle future, tutto tornerebbe al vecchio
ordine. Al contrario, questo cambiamento ha le più importanti
conseguenze per quanto riguarda la parte soprasensibile della lin-
gua. È vero che essa, per i primi possessori della lingua, si è for-
mata nel modo descritto finora; ma per chi se ne appropria suc-
cessivamente, il simbolo contiene una comparazione con l’intui-
zione sensibile che essi, senza avere la formazione spirituale cor-
rispondente, [321] hanno già saltato da lungo tempo, oppure non
hanno ancora avuto e non potranno mai avere. Il massimo che
possono fare, in proposito, è farsi spiegare il simbolo e il suo si-
gnificato spirituale, ottenendo con ciò la storia morta e superfi-
ciale di una cultura estranea, ma non una cultura propria; e rice-
vendo immagini che per essi non sono né immediatamente chia-
re, né tanto meno suscitatrici di vita, bensì tali da dover apparire
completamente arbitrarie quanto la parte sensibile della lingua.
Ora, con l’entrata in scena come chiarificatrice della mera storia,
la lingua per loro è finita, è morta rispetto all’intero ambito della
sua forza simbolica, e il suo continuo fluire è interrotto; e benché
a loro modo, per quanto un simile punto di partenza lo renda pos-
sibile, essi possano nuovamente formare questo linguaggio in mo-
do vivente al di là di quell’ambito, pure quella componente stori-
ca rimane come una barriera, contro cui l’originario sorgere dalla
vita della lingua come forza naturale – e il suo ritorno alla vita co-

56
me lingua reale – s’infrangono senza eccezione. Benché in super-
ficie una lingua siffatta possa essere mossa dal vento della vita, e
dare di sé un’apparenza di vita, pure più in profondità essa ha un
elemento morto, e con l’ingresso del nuovo circolo di intuizione e
l’interruzione del vecchio, essa è stata recisa dalla sua radice vi-
vente.
Ravviviamo ciò che abbiamo detto con un esempio, aggiun-
gendo a sostegno di quest’ultimo che una lingua del genere, nel
suo fondamento morta e incomprensibile, si lascia anche perver-
tire molto facilmente, e se ne può abusare per abbellire in ogni
modo la corruzione umana. Per un esempio del genere mi servo
delle tre famigerate parole “umanità”, “popolarità”, “liberalità”2.
Queste parole, pronunciate davanti al tedesco che non ha impa-
rato nessun’altra lingua, sono per lui un suono completamente
vuoto, che per affinità vocale non gli ricorda nulla di noto, e così
esce perfettamente al di fuori del circolo della sua intuizione e di
ogni intuizione possibile. [322] Se ora, tuttavia, la parola scono-
sciuta risveglia la sua attenzione col suo suono straniero, elegante
e gradevole, ed egli pensa che ciò che suona così nobilmente deb-
ba anche significare qualcosa di elevato, egli deve farsi spiegare
questo significato completamente dall’inizio e come qualcosa di
interamente nuovo per lui, e può credere a questa spiegazione so-
lo ciecamente, e così si abitua tacitamente a riconoscere come dav-
vero esistente e degno di importanza qualcosa che lui, se lasciato
a se stesso, forse non avrebbe mai trovato degno di menzione.
Non si creda che con i popoli neolatini, che credono di pronun-
ciare quelle parole come parole della madrelingua, le cose stiano
molto diversamente. Senza studio erudito dell’antichità e della
sua lingua effettiva, essi capiscono le radici di queste parole al-
trettanto poco dei tedeschi. Ora, se davanti al tedesco, al posto
della parola “umanità”, si fosse pronunciata la parola Menschlich-
keit, che ne è la traduzione letterale, egli allora ci avrebbe capito
senza ulteriore spiegazione storica; ma avrebbe detto: “Non è poi
una gran cosa essere un uomo, e non una bestia selvaggia”. Ma
egli avrebbe detto così, come certo un Romano non avrebbe mai
detto, perché l’umanità in generale, nella sua lingua, è rimasta so-

2 Su queste espressioni, Fichte si era già soffermato supra, Primo discorso,

p. 11.

57
lo un concetto sensibile, non è mai divenuta invece, come presso
i Romani, simbolo di un concetto soprasensibile; poiché forse i
nostri avi avevano osservato molto prima le singole virtù umane,
e le avevano indicate simbolicamente nel linguaggio, prima che sia
capitato loro di riunirle in un concetto unitario, e precisamente
come opposizione alla natura animale, il che del resto non ha pro-
curato ai nostri avi nessun biasimo di fronte ai Romani. Ora,
chiunque volesse insinuare artificiosamente nella lingua dei tede-
schi questo simbolo estraneo e romano, evidentemente sottovalu-
terebbe il loro modo di pensare etico, poiché spaccerebbe loro co-
me vantaggioso e lodevole qualcosa che potrebbe anche essere ta-
le nella lingua straniera, ma che costui, secondo l’incancellabile
natura della sua immaginazione nazionale, intende semplicemen-
te come noto e affatto indispensabile. Forse, con una ricerca più
precisa, si potrebbe mostrare [323] che simili sottovalutazioni del
modo di pensare etico precedente, mediante l’assunzione di sim-
boli inadatti ed estranei, hanno caratterizzato fin dall’inizio i cep-
pi germanici che hanno accolto la lingua di Roma; tuttavia, qui
l’accento non cade principalmente su questa circostanza.
Se poi, invece delle parole “popolarità” e “liberalità”, dicessi
al tedesco le espressioni “ricercare avidamente il favore del mag-
gior numero” e “distanza dal servilismo”, che ne sono la tradu-
zione letterale, in un primo momento egli non riceverebbe nem-
meno l’immagine sensibile, chiara e vivace, che senz’altro riceve-
va il Romano dell’antichità. Costui aveva tutti i giorni davanti agli
occhi l’ipocrita cortesia rivolta a chiunque dal candidato avido di
onori, così come le manifestazioni di servilismo, e quelle parole ri-
producevano tutto ciò in modo vivo davanti a lui. Col cambia-
mento della forma di governo e l’introduzione del cristianesimo,
questi spettacoli erano già stati sottratti al Romano di età più tar-
da, allo stesso modo in cui, in generale, la sua propria lingua co-
minciò a morire in gran parte sulle sue labbra, in particolare a cau-
sa del cristianesimo estraneo, che egli non era in grado né di re-
spingere, né di assimilare. Come avrebbe potuto questa lingua, già
mezza morta nella propria patria, essere tramandata in modo vi-
vo a un popolo straniero? Come potrebbe esserlo, ora, a noi te-
deschi? Inoltre, per quanto riguarda il simbolo di qualcosa di spi-
rituale che si trova in quelle due espressioni, nella “popolarità” si
trova già in origine un vizio che, con la decadenza della nazione e

58
della sua costituzione, in bocca a essa venne travisato come virtù.
Il tedesco, purché essa gli venga presentata nella sua propria lin-
gua, non cadrà mai in questo travisamento. Invece, alla traduzio-
ne di “liberalità” dicendo che un uomo non ha un’anima da schia-
vo, oppure, secondo il nuovo costume, che non ha un modo di
pensare da lacchè, risponderebbe ancora una volta che anche que-
sto non significa poi molto.
Ma in questi simboli, che già nella loro forma pura, presso i Ro-
mani, erano sorti a un basso livello di cultura etica, o indicavano
addirittura un vizio, nel corso dello sviluppo delle [324] lingue
neolatine si sono insinuati anche i concetti della mancanza di se-
rietà nei rapporti sociali, del lasciarsi andare, della fatuità senz’a-
nima, e questi stessi concetti sono stati portati nella lingua tede-
sca, in silenzio e senza che qualcuno notasse chiaramente di che
cosa si trattava, perché anche noi attribuissimo loro importanza
grazie al loro aspetto antico e straniero. Questo è da sempre lo
scopo e il risultato di ogni intromissione: prima di tutto, avvolge-
re l’ascoltatore, dall’immediata comprensibilità e precisione che
ogni lingua originaria porta con sé, nell’oscurità e incomprensibi-
lità; quindi, dopo avergli fatto credere ciecamente, in questo mo-
do, di doversi affidare a una spiegazione ormai necessaria,
confondere a tal punto vizio e virtù da rendere difficile riuscire di
nuovo a separarli. Se al tedesco avessimo detto, con parole sue e
all’interno della sua cerchia simbolica, ciò che quelle tre parole
straniere vogliono dire – posto che vogliano dire qualcosa – cioè:
Menschenfreundlichkeit [cortesia, gentilezza, amabilità], Leutse-
ligkeit [socievolezza, cordialità], Edelmut [nobiltà d’animo], egli
ci avrebbe capito, ma i vizi indicati non sarebbero mai riusciti a
insinuarsi in quei nomi. Nell’ambito del discorso tedesco, un si-
mile avvolgimento nell’incomprensibilità e oscurità nasce o da in-
capacità, oppure da astuzia maligna; esso deve essere evitato, e co-
me aiuto è sempre disponibile la traduzione in autentico, vero te-
desco. Nelle lingue neolatine, invece, questa incomprensibilità è
naturale e originaria, e non può essere evitata con nessun mezzo,
poiché esse, in generale, non si trovano in possesso di una lingua
vivente su cui possano verificare la lingua morta, e in senso pro-
prio non hanno affatto una lingua materna.
Ciò che abbiamo esposto in questo esempio potrebbe facil-
mente applicarsi all’intero ambito della lingua, dando gli stessi ri-

59
sultati e, nella misura in cui è possibile farlo qui, dovrebbe avervi
chiarito ciò che abbiamo detto finora. [325] Si tratta della parte
soprasensibile della lingua, non di quella sensibile. Questa parte
soprasensibile, in una lingua rimasta sempre viva, è simbolica,
riassumendo a ogni passo in compiuta unità il tutto della vita sen-
sibile e spirituale della nazione, deposta nella lingua, per designa-
re un concetto a sua volta non arbitrario, ma emergente dall’inte-
ra vita della nazione fino ad ora. Da tale concetto e dalla sua de-
signazione, un occhio acuto dovrebbe poter costruire a ritroso
l’intera storia culturale della nazione. In una lingua morta, invece,
la parte soprasensibile è la stessa di quando la lingua era ancora
viva, e con l’uccisione di quest’ultima, essa si trasforma in una rac-
colta dispersa di segni arbitrari e assolutamente inspiegabili per
concetti altrettanto arbitrari. Con ambedue non si può fare altro,
appunto, che impararli.
Con ciò abbiamo risolto il nostro compito più immediato, di
trovare il tratto fondamentale che distingue il popolo tedesco da-
gli altri popoli di provenienza germanica. La diversità è sorta su-
bito con la prima separazione del ceppo comune, e consiste nel
fatto che il popolo tedesco parla una lingua viva fin dentro al suo
primo scaturire dalla forza naturale, mentre gli altri ceppi germa-
nici parlano una lingua animata solo in superficie, ma morta alla
radice. Noi poniamo la differenza esclusivamente in questa circo-
stanza, nella vitalità e nella morte; non ci pronunciamo affatto, in-
vece, sul restante valore interno della lingua tedesca. Tra vita e
morte non ha luogo alcuna comparazione, e la prima ha valore in-
finito rispetto alla seconda; perciò, tutte le comparazioni imme-
diate tra lingua tedesca e lingue neolatine sono assolutamente sen-
za valore, e sono costrette a parlare di cose di cui non vale la pe-
na parlare. Se si dovesse porre la questione del valore interno del-
la lingua tedesca, allora almeno dovrebbe entrare in campo una
lingua di pari rango e altrettanto originaria, come forse la lingua
greca; [326] ma il nostro scopo presente si trova molto al di sotto
di una comparazione simile.
Possiamo indovinare, in linea generale, quale incalcolabile in-
flusso sull’intero sviluppo umano di un popolo possa avere la co-
stituzione della sua lingua, la lingua che accompagna il singolo
fin nelle più recondite profondità del suo animo nel pensare e
volere, e lo limita o gli dà le ali; che nel suo ambito connette tut-

60
ta la moltitudine di uomini che la parlano in un unico intelletto
comune; che è il vero punto di confluenza reciproca del mondo
sensibile e di quello degli spiriti, e fonde così intimamente i loro
estremi che non si può più dire a quale dei due essa appartenga;
possiamo indovinare quanto siano diverse le conseguenze di que-
sto influsso, là dove è in gioco il rapporto tra vita e morte. An-
zitutto, è chiaro che il tedesco ha un mezzo per indagare la sua
lingua viva ancora più profondamente, confrontandola con la
lingua latina ormai estinta, che nello sviluppo della simbolizza-
zione diverge molto dalla propria; come viceversa, seguendo la
stessa via, può capire meglio anche la seconda, cosa che non è
possibile ai neolatini, che in fondo restano prigionieri nell’ambi-
to di un’unica e medesima lingua. In quanto impara la lingua la-
tina d’origine, il tedesco acquisisce in un certo senso anche le lin-
gue derivate, e se riuscisse a imparare la prima più profonda-
mente degli stranieri, cosa che può fare senz’altro per la ragione
che abbiamo detto, imparerebbe a comprendere anche le lingue
di questi stranieri in modo molto più profondo, e ad appro-
priarsene in modo molto più caratteristico di quelli stessi che le
parlano. Perciò il tedesco, se solo si serve di tutti i suoi vantag-
gi, può sempre avere uno sguardo d’insieme sugli stranieri, e può
capirli perfettamente, addirittura meglio di loro stessi, e tradurli
in tutta la loro estensione; mentre gli stranieri, senza un appren-
dimento assai faticoso della lingua tedesca, non potranno mai ve-
ramente capire i tedeschi, e lasceranno indubbiamente non tra-
dotto ciò che è autenticamente tedesco. Ciò che in queste lingue
possiamo imparare solo dagli stranieri, sono [327] perlopiù nuo-
vi modi di dire, sorti per noia ed eccentricità, e si vale molto po-
co se si cede a questi indottrinamenti alla moda. Il più delle vol-
te, invece, si potrebbe mostrare loro come dovrebbero parlare in
accordo con la lingua d’origine e con le sue leggi di trasforma-
zione, e che la nuova moda non c’entra niente, e urta contro il
buon uso tradizionale. – Come abbiamo detto, quella ricchezza
di conseguenze in generale, così come la conseguenza particola-
re menzionata da ultima, viene fuori da sé.
Ma la nostra intenzione è quella di cogliere queste conseguen-
ze nell’insieme, secondo il loro legame unitario e in profondità,
per fornire in tal modo una descrizione approfondita dei tedeschi
in opposizione agli altri ceppi germanici. Elenco brevemente que-

61
ste conseguenze in via preliminare: 1) Nel popolo della lingua vi-
va, la formazione dello spirito interviene nella vita; nel popolo
contrario, la cultura spirituale e la vita vanno ciascuna per la pro-
pria strada. 2) Per la stessa ragione, un popolo del primo tipo con
la formazione dello spirito fa veramente sul serio, e vuole che es-
sa intervenga nella vita; al contrario, per un popolo del secondo
tipo, essa è piuttosto un gioco geniale, con cui non vuole fare
nient’altro. I secondi hanno spirito; i primi, oltre allo spirito, han-
no anche un cuore. 3) Conseguenza della seconda: i primi sono se-
ri e diligenti, e s’impegnano onestamente in tutte le cose; i secon-
di, al contrario, si lasciano andare alla loro felice natura. 4) Con-
seguenza di tutto ciò che precede: in una nazione del primo tipo,
il popolo incolto è plasmabile, e quelli che lo plasmano speri-
mentano le loro scoperte nel popolo, e vogliono influire su di es-
so; al contrario, in una nazione del secondo tipo i ceti colti si se-
parano dal popolo, e considerano quest’ultimo solo un cieco stru-
mento dei loro piani. Riservo l’ulteriore trattazione di queste ca-
ratteristiche alla prossima ora.
Quinto discorso
Conseguenze della diversità indicata

[328] Per descrivere la peculiarità dei tedeschi, è stata mostrata la


differenza fondamentale tra questi e gli altri popoli di provenien-
za germanica, secondo la quale i primi sono rimasti nella corren-
te ininterrotta di una lingua originaria, che si continua a svilup-
pare dalla vita reale, i secondi invece hanno recepito una lingua a
essi estranea, che è stata uccisa sotto il loro influsso. Alla fine del-
l’ora precedente, abbiamo indicato altri aspetti di queste stirpi co-
sì diverse, che dovettero necessariamente scaturire da quella dif-
ferenza fondamentale; e oggi svilupperemo ulteriormente questi
aspetti, e li fonderemo più solidamente sul loro terreno comune.
Una ricerca preoccupata della sua fondatezza può esimersi da
diverse dispute e dal suscitare invidia di diverso tipo. Noi dedur-
remo passo dopo passo ciò che segue dalla differenza fondamen-
tale constatata, e staremo attenti solo alla correttezza della dedu-
zione. Io voglio che siate soltanto voi e ogni osservatore a decide-
re, se la diversità dei fenomeni che dovrebbe esistere a seguito di
questa deduzione si presenti o no nell’esperienza reale. Certa-
mente a suo tempo mostrerò che, per ciò che riguarda in partico-
lare i tedeschi, le cose sono andate effettivamente così come do-
vevano andare secondo la nostra deduzione. Ma per quanto ri-
guarda gli stranieri germanici, non avrò niente in contrario se
qualcuno tra loro capisce davvero ciò di cui qui si tratta, e in se-
guito riesce a dimostrare che anche i suoi compatrioti sono stati
la stessa cosa dei tedeschi, [329] e riesce ad assolverli completa-

63
mente dai caratteri opposti. In generale, la nostra descrizione, an-
che in questi tratti contrapposti, non si dilungherà su ciò che è
svantaggioso e stridente, il che renderebbe la vittoria più facile
che onorevole, bensì indicherà solo ciò che segue necessariamen-
te, esprimendolo in modo tanto onorevole quanto è compatibile
con la verità.
La prima conseguenza che ho indicato della differenza di fon-
do era che nel popolo della lingua viva, la formazione dello spiri-
to interviene nella vita; in quello contrario, cultura spirituale e vi-
ta vanno ciascuna per la loro strada. Prima di tutto, sarà utile spie-
gare meglio il senso di questa proposizione. Anzitutto, in quanto
qui si parla della vita, e dell’intervento in essa della cultura spiri-
tuale, con ciò dobbiamo intendere la vita originaria, e il suo sca-
turire continuo dalla fonte di ogni vita spirituale, cioè Dio, la con-
tinua formazione dei rapporti umani secondo la loro immagine
originaria, e così la creazione di qualcosa di nuovo e mai prima esi-
stito. Invece, non si tratta assolutamente della mera conservazio-
ne di quei rapporti allo stadio in cui già si trovano, contro la loro
scomparsa; e ancora meno, del sostegno di singoli membri che so-
no rimasti indietro rispetto alla cultura generale. Quindi, se si par-
la di cultura spirituale, con ciò bisogna intendere anzitutto la fi-
losofia – come dobbiamo chiamarla col nome straniero, poiché i
tedeschi non hanno accolto il nome tedesco loro proposto da lun-
go tempo – la filosofia, dico: poiché è questa che coglie scientifi-
camente l’eterna immagine originaria di ogni vita spirituale. Ora,
di essa e di ogni scienza basata su di essa si loda il fatto di inter-
venire nella vita del popolo che parla la lingua viva. Ora però, in
apparente contraddizione con questa osservazione, è stato spesso
ripetuto, e anche dai nostri connazionali, che filosofia, scienza,
belle arti e simili sono fini a se stesse e non servono alla vita, e che
valutarle per la loro utilità in questo servizio vorrebbe dire de-
classarle. [330] Qui è il luogo per determinare meglio queste
espressioni, e proteggerle da ogni fraintendimento. Esse sono ve-
re nel duplice, ma limitato, senso seguente: anzitutto, che scienza
o arte non devono servire alla vita in un certo stadio inferiore, per
esempio alla vita sensibile e terrena, o alla comune edificazione,
come hanno pensato alcuni; poi, che un singolo, in seguito alla sua
personale separatezza dal tutto di un mondo degli spiriti, può de-
dicarsi completamente a questi rami particolari dell’universale vi-

64
ta divina, senza avere bisogno di uno stimolo esterno a essi, e può
trovare in essi piena soddisfazione. Ma non sono affatto vere se as-
sunte in senso rigoroso, poiché è altrettanto impossibile che ci sia-
no più fini in se stessi quanto che ci siano più assoluti. L’unico fi-
ne in se stesso, al di fuori del quale non ce ne può essere nessun
altro, è la vita spirituale. Ora, questa in parte si esprime e appare
come un eterno fluire da se stessa, come scaturigine, cioè come
eterna attività. Questa attività riceve eternamente dalla scienza la
sua immagine esemplare, dall’arte l’abilità di configurarsi secon-
do questa immagine, e in questo senso potrebbe sembrare che
scienza e arte esistano come mezzi per la vita attiva in quanto sco-
po. Ora però, in questa forma dell’attività, la vita stessa non è mai
compiuta e chiusa in unità, bensì va avanti all’infinito. Se però la
vita deve esistere come una siffatta unità chiusa, allora deve esi-
stere in un’altra forma. Ora, questa forma è quella del pensiero
puro, che fornisce la visione religiosa descritta nel Terzo discor-
so1; una forma, che in quanto unità chiusa si separa assolutamen-
te dall’infinità del fare, e in quest’ultimo, nel fare, non può mai es-
sere espressa completamente. Tutti e due quindi, il pensiero e l’at-
tività, sono forme separate solo nel fenomeno, al di là del feno-
meno, invece, esse sono, l’una come l’altra, la medesima unica vi-
ta assoluta; e non si può dire che il pensiero sia e sia così per il fa-
re, oppure il fare per il pensiero; bensì [331] che entrambi devo-
no essere assolutamente in quanto la vita deve essere anche nel fe-
nomeno un intero compiuto, così come essa lo è al di là di ogni fe-
nomeno. Dunque all’interno di quest’ambito, e secondo questa
considerazione, è ancora troppo poco dire che la scienza influisce
sulla vita; piuttosto, è essa stessa e in se stessa vita consistente. Op-
pure, per collegarci a un noto modo di dire: “A che cosa serve il
sapere – si sente dire talvolta – se non si agisce in modo conforme
a esso?” In questa espressione, il sapere viene inteso come mezzo
per l’agire, e quest’ultimo come lo scopo vero e proprio. Vicever-
sa, si potrebbe dire: “come si può agire bene senza conoscere il
bene?”, e in questa espressione il sapere verrebbe considerato co-
me ciò che condiziona l’agire. Ma entrambe le espressioni sono
unilaterali: e la verità è che entrambi, sapere e agire, sono allo stes-
so modo parti inseparabili della vita razionale.
1 Cfr. supra, pp. 35 sgg.

65
Ma la scienza è vita consistente in se stessa, come abbiamo det-
to, solo quando il pensiero è il senso effettivo e la disposizione d’a-
nimo del pensante, in modo tale che egli, senza fatica particolare
e addirittura senza averne una chiara coscienza, pensa e conside-
ra secondo quel pensiero fondamentale tutto il resto di ciò che egli
pensa, considera e giudica; e, nel caso in cui esso influisca sull’a-
gire, agisce in modo altrettanto necessario conformemente ad es-
so. Invece, il pensiero non è affatto vita e disposizione d’animo se
viene pensato solo come pensiero di una vita estranea, per quan-
to possa essere compreso in modo chiaro e completo come un sif-
fatto pensiero meramente possibile, e per quanto chiaramente si
riesca a immaginare che qualcuno possa pensare in questo modo.
In questo secondo caso, tra il nostro pensare pensato e il no-
stro pensare effettivo si stende un grande campo di casualità e di
libertà. Può darsi che noi non esercitiamo quest’ultima, e così quel
pensare pensato resta distante da noi, e un pensare puramente
possibile, fatto liberamente da noi, e da ripetere liberamente di
continuo. In quel primo caso, il pensiero ha catturato il nostro Sé
immediatamente mediante se stesso, e lo ha reso se stesso, e me-
diante questa effettualità del pensiero per noi, sorta in tal modo,
[332] la nostra visione trapassa nella necessità di quello. Che ora
tutto ciò accada così, non può, come abbiamo detto, essere otte-
nuto con la forza da nessuna libertà, bensì appunto deve svilup-
parsi da sé, e ci deve catturare il pensiero stesso, e ci deve forma-
re secondo sé.
Ora, quando si pensa e si designa in una lingua viva, questa vi-
vente efficacia del pensiero viene molto favorita; anzi, purché il
pensare abbia profondità e forza adeguate, è resa perfino neces-
saria. Il segno stesso, in quella lingua, è immediatamente vivo e
sensibile, e riproduce l’intera vita personale, catturandola e inter-
venendo in essa; col possessore di una lingua del genere, lo spiri-
to parla immediatamente e gli si rivela, come un uomo fa con l’al-
tro uomo. Al contrario, il segno di una lingua morta non stimola
immediatamente niente; per immergersi nel suo flusso vivente, bi-
sogna prima ripetersi nozioni di un mondo defunto apprese sto-
ricamente, e sprofondare in un modo di pensare estraneo. Quan-
to dovrebbe essere potente l’impulso del pensare personale, per
non estenuarsi in questo sconfinato campo della storia, e non ac-
contentarsi, alla fine, di restare modestamente sul suo terreno! Se

66
il pensare di un possessore della lingua viva non diventa vivo, lo
si può incolpare senza scrupoli del fatto di non avere pensato, ma
soltanto fantasticato. Nello stesso caso, non si può subito incol-
pare di ciò il possessore di una lingua morta: infatti, può darsi che
egli abbia pensato a modo suo, sviluppando accuratamente i con-
cetti deposti nella sua lingua; egli non ha fatto solo ciò che, se gli
riuscisse, sarebbe da considerare quasi un miracolo.
Per inciso, è chiaro che all’inizio, nel popolo di una lingua
morta, quando la lingua non è ancora abbastanza chiara in tutti i
sensi, l’impulso del pensare sarà ancora presente nel modo più
forte, e produrrà i risultati più appariscenti; che però esso, non ap-
pena la lingua diventa più chiara e precisa, deperirà sempre più
tra le sue catene; e che in definitiva, la filosofia di un popolo sif-
fatto [333] si accontenterà della propria consapevolezza di essere
soltanto una spiegazione del vocabolario, oppure, come ha affer-
mato enfaticamente uno spirito non tedesco tra noi, una metacri-
tica del linguaggio2. Un popolo del genere finirà col riconoscere
la sua più grande opera filosofica in un mediocre poema didasca-
lico sull’ipocrisia in forma di commedia3.
In questo modo, dico, la cultura spirituale, e qui particolar-
mente il pensare, in una lingua originaria non confluisce nella vi-
ta, bensì è esso stesso vita del pensante. Tuttavia, esso tende ne-
cessariamente a influire, da questa vita pensante, su un’altra vita
al di fuori di essa, e così sull’universale vita presente, e a configu-
rarla secondo sé. Infatti, proprio perché quel pensare è vita, esso
viene sentito dal suo possessore con interiore benessere, nella sua
forza vivificante, trasfiguratrice e liberatoria. Ma chiunque abbia
scorto la salvezza nel suo intimo, vuole necessariamente parteci-
parla a tutti gli altri, e così è spinto e deve lavorare affinché la fon-
te da cui è scaturito il suo benessere si diffonda anche sugli altri.
Diversamente chi ha concepito come possibile solo un pensare
estraneo. Come il contenuto di quest’ultimo non gli procura né
bene né male, bensì occupa e intrattiene gradevolmente solo il suo

2
Il riferimento è all’opera di J.G. Herder, Verstand und Erfahrung: eine Meta-
kritik zur Kritik der reinen Vernunft, Leipzig 1799, rist. nella collana “Aetas
Kantiana”, Bruxelles 1969; trad. it. parziale Metacritica: passi scelti, a cura di I.
Tani, Roma 1993.
3 Allusione al Tartufo di Molière (1669).

67
tempo libero, così anch’egli non può credere che a un altro esso
possa fare bene o male, e in definitiva ritiene indifferente su che
cosa qualcuno eserciti la sua intelligenza, e come riempia le sue
ore di ozio.
Tra i mezzi per introdurre nella vita universale il pensare co-
minciato nella vita singola, quello più eccellente è la poesia, e co-
sì questa è la seconda ramificazione principale della cultura spiri-
tuale di un popolo. Già immediatamente il pensatore, quando de-
signa i suoi pensieri nel linguaggio, il che, secondo quanto sopra,
non può accadere altrimenti che simbolicamente, e cioè creando
in modo nuovo al di là di quello che fino ad ora era stato l’ambi-
to della simbolizzazione, è poeta; e se non lo è, già al primo pen-
siero gli verrà meno il linguaggio, e tentando il secondo gli verrà
meno il pensare stesso. [334] Diffondere questo ampliamento e
completamento del circolo simbolico del linguaggio iniziato dal
pensatore attraverso l’intero ambito dei simboli, cosicché ogni co-
sa al suo posto riceva la parte che le spetta della nuova nobilita-
zione spirituale, e così tutta la vita fino al suo ultimo terreno sen-
sibile appaia immersa nel nuovo raggio di luce, procuri benesse-
re, e in inconsapevole illusione si nobiliti come di per sé, questo è
opera dell’autentica poesia. Solo una lingua viva può avere una
poesia siffatta, poiché solo in essa il circolo simbolico può essere
ampliato mediante un pensare creativo, e soltanto in essa ciò che
è già stato creato rimane vivo e aperto all’irrompere di una vita af-
fine. Una lingua siffatta reca in sé una facoltà d’infinita poesia, da
rinnovare e da ringiovanire eternamente, poiché ogni animazione
del pensare vivente dischiude in essa una nuova vena d’ispirazio-
ne poetica; e così per essa questa poesia è il mezzo più eccellente
di diffusione nella vita universale della formazione spirituale rag-
giunta. Una lingua morta non può avere poesia in questo senso su-
periore, poiché in essa le condizioni indicate della poesia non so-
no presenti. Al contrario, essa per un certo periodo può avere un
sostituto della poesia, nel modo seguente. I risultati dell’arte poe-
tica presenti nella lingua d’origine susciteranno attenzione. È vero
che il popolo sorto di recente non può continuare a poetare nella
direzione intrapresa, poiché questa è estranea alla sua vita; però la
poesia può introdurre la loro vita, e i nuovi rapporti di questa, nel
circolo simbolico e poetico in cui i loro avi esprimevano la loro vi-
ta, travestendo ad esempio il loro cavaliere da eroe e viceversa, e

68
scambiando gli abiti tra gli dei antichi e nuovi. Proprio con que-
sto rivestimento estraneo di ciò che è abituale, quest’ultimo rice-
verà un’attrattiva analoga a ciò che viene idealizzato, e sorgeran-
no figure assolutamente amabili. Ma entrambi, tanto il circolo
simbolico e poetico della lingua d’origine, quanto i nuovi rappor-
ti di vita, sono grandezze finite e limitate, da qualche parte la lo-
ro compenetrazione reciproca si compie; [335] ma là dove essa è
compiuta, il popolo celebra la sua età dell’oro, e la fonte della sua
poesia si estingue4. Da qualche parte, c’è necessariamente un pun-
to supremo nell’adeguamento di parole chiuse a concetti chiusi, e
di simboli chiusi a rapporti di vita chiusi. Dopo aver raggiunto
questo punto, il popolo non può più far altro che ripetere in for-
ma modificata i suoi più riusciti capolavori, così da farli sembra-
re qualcosa di nuovo, mentre non sono altro che il vecchio ben no-
to; oppure, se vogliono assolutamente essere nuovi, devono ricor-
rere a ciò che è inadeguato e maldestro, e a mescolare, nell’arte
poetica, il brutto col bello, dedicandosi alla caricatura e all’umo-
rismo; allo stesso modo in cui, nella prosa, se vogliono parlare in
modi nuovi, sono costretti a confondere i concetti, e a mischiare
reciprocamente vizio e virtù.
Poiché in tal modo, in un popolo, cultura spirituale e vita van-
no ciascuna per la propria strada, è naturale che i ceti che non
hanno accesso alla prima, e ai quali non giungono neppure le con-
seguenze di questa cultura, come accade in un popolo libero, ven-
gano retrocessi rispetto ai ceti colti, e considerati per così dire co-
me un’altra specie di uomini, che originariamente e per semplice
nascita non sono uguali ai primi quanto a forze spirituali. Perciò,
i ceti colti non nutrono alcun interesse davvero amorevole per lo-
ro, e non hanno alcun impulso ad aiutarli seriamente, poiché ap-
punto essi credono che non ci sia nessuno da aiutare a causa del-
la naturale ineguaglianza, e chi ne fa parte viene piuttosto spinto
a utilizzarli e a farli utilizzare così come sono. Anche questa con-
seguenza dell’uccisione della lingua, all’inizio del nuovo popolo,
può essere attenuata da una religione compassionevole e dalla
mancanza di proprie abilità da parte dei ceti superiori, ma an-
dando avanti questo disprezzo del popolo diventa sempre più ma-

4 Fichte riprende questa posizione nel Settimo discorso, infra, pp. 98-99.

69
nifesto e terribile. A questo motivo generale dell’elevarsi e preva-
lere dei ceti colti [336] se n’è aggiunto uno di tipo particolare, che
qui non può essere trascurato, poiché esso ha avuto un influsso
molto esteso anche sui tedeschi. Ovvero i Romani, che all’inizio
di fronte ai Greci, seguendo ingenuamente il loro modo di dire,
chiamarono se stessi barbari, e barbara la loro lingua, in seguito
trasferirono ad altri l’epiteto che si erano assunti, e trovarono nei
Germani la stessa fiduciosa schiettezza, che essi prima avevano
mostrato ai Greci. I Germani credettero di poter sfuggire alla bar-
barie solo diventando Romani. Quelli che migrarono nei territori
un tempo romani lo diventarono con tutte le loro forze. Ma nella
loro immaginazione, barbaro ricevette assai presto il significato
accessorio di comune, plebeo, ottuso, e così romano al contrario
divenne sinonimo di nobile. Questo fenomeno è penetrato fin ne-
gli aspetti universali e particolari delle loro lingue, poiché nel mo-
mento in cui furono fondate istituzioni per la formazione medita-
ta e consapevole della lingua, queste procedettero a espungere le
radici germaniche, e a formare le parole da radici romane, e così
a generare il romanzo [die Romance] come lingua colta e cortese;
ma in particolare poiché, quasi senza eccezione, di fronte all’e-
guale significato di due parole, quella con radice germanica signi-
fica ciò che è ignobile e vile, quella con radice romana invece ciò
che è più nobile e superiore.
Tutto ciò, come se fosse un’infezione profonda dell’intero cep-
po germanico, colpisce i tedeschi anche nella madrepatria, a me-
no che essi non si preparino a fronteggiarlo con la massima serietà.
Anche al nostro orecchio il suono romano suona facilmente ele-
vato, anche ai nostri occhi il costume romano appare più nobile,
mentre ciò che è tedesco volgare; e poiché non siamo stati così for-
tunati da ricevere tutto questo di prima mano, ce lo facciamo da-
re anche di seconda, e per il tramite dei nuovi Romani. Finché sia-
mo tedeschi, sembriamo a noi stessi uomini come gli altri; quan-
do parliamo per metà o anche più in non tedesco, e imitiamo abi-
ti e costumi che sembrano venire da molto lontano, allora ci van-
tiamo di essere eleganti; ma il culmine del nostro trionfo è quan-
do non [337] veniamo più scambiati per tedeschi, bensì magari
per spagnoli o inglesi, a seconda di quale dei due è più alla moda.
Abbiamo ragione. Naturalezza da parte tedesca, arbitrarietà e ar-
tificiosità da parte dell’estero sono le differenze di fondo. Se ci at-

70
teniamo alla prima, allora siamo esattamente come il nostro po-
polo, questo ci comprende e ci considera come uguali a lui; solo
se ricorriamo alle seconde, diventiamo per lui incomprensibili, ed
esso ci scambia per esseri di natura diversa. Agli stranieri questa
innaturalità capita spontaneamente nella loro vita, poiché essi
hanno deviato dalla natura originariamente e in un aspetto capi-
tale; noi dobbiamo prima ricercarla, e abituarci prima a credere
che sia bello, elegante e comodo qualcosa che naturalmente non
ci sembra tale. Ora, il motivo principale di tutto ciò nei tedeschi
è la loro fede nella superiorità dell’estero romanizzato, accanto al
desiderio di agire altrettanto nobilmente, e di costruire artificio-
samente anche in Germania quell’abisso tra ceti superiori e po-
polo, che all’estero si è sviluppato naturalmente. Qui basti avere
indicato la sorgente di questa esterofilia tra i tedeschi. In un altro
momento mostreremo l’ampiezza dei suoi effetti, e mostreremo
che tutti i guai per cui siamo andati a fondo, i quali certo potero-
no provocare la nostra rovina soltanto insieme con la serietà te-
desca e con l’influsso sulla loro vita, sono di origine estera.
Oltre a questi due fenomeni risultanti dalla differenza fonda-
mentale, secondo cui la cultura spirituale interviene nella vita op-
pure no, e tra i ceti colti e il popolo sussiste una parete divisoria
oppure no, ho addotto anche il seguente, secondo cui il popolo
della lingua viva sarà serio e diligente e s’impegnerà in tutte le co-
se, mentre quello della lingua morta considera l’occupazione spi-
rituale più un gioco geniale, e si lascia andare alla sua felice natu-
ra. Questa circostanza risulta spontaneamente da quanto detto.
Nel popolo della lingua viva, la ricerca procede da un [338] biso-
gno della vita, che deve essere soddisfatto da essa, e così riceve tut-
ti gli stimoli necessari che la vita stessa reca con sé. Nel popolo
della lingua morta, la ricerca non vuole nient’altro che far tra-
scorrere il tempo in modo piacevole e adeguato al senso del bel-
lo, e se ha fatto questo, ha raggiunto completamente il proprio
scopo. Negli stranieri, tutto ciò è quasi necessario; nei tedeschi,
quando questo fenomeno si presenta, vantarsi di genio e felice na-
tura è un’esterofilia indegna di loro, che come ogni esterofilia sor-
ge dal desiderio di darsi arie da gran signore. Certo, in nessun po-
polo al mondo sorgerà mai qualcosa di eccellente senza uno sti-
molo originario nell’uomo, che in quanto è un che di soprasensi-
bile viene chiamato a ragione col nome straniero di genio. Ma di

71
per sé questo stimolo anima soltanto l’immaginazione, e proietta
in essa figure ondeggianti mai perfettamente determinate. Perché
queste vengano completate fin sul terreno della vita reale, e de-
terminate al punto da potersi sostenere in esso, c’è bisogno di un
pensare diligente, meditato e procedente secondo regole fisse. La
genialità offre alla diligenza la materia per l’elaborazione, e que-
st’ultima senza la prima avrebbe da elaborare soltanto ciò che è
già stato elaborato, oppure nulla. Ma la diligenza introduce que-
sta materia, che senza di essa resterebbe un vuoto gioco, nella vi-
ta; e così entrambe possono fare qualcosa solo nella loro unifica-
zione, mentre separate non valgono niente. Inoltre, nel popolo di
una lingua morta non può esprimersi una genialità veramente
creativa, poiché esso è privo della facoltà di designazione origina-
ria, ma può soltanto continuare a formare ciò che è già stato ini-
ziato, e diffonderlo nell’insieme della designazione già presente e
compiuta.
Per quanto riguarda in particolare l’impegno maggiore, è na-
turale che questo ricada sul popolo della lingua viva. Una lingua
viva può trovarsi a un alto livello di cultura rispetto a un’altra,
ma non potrà ottenere in se stessa quel compimento e quella for-
mazione che una lingua morta ottiene del tutto facilmente. [339]
In quest’ultima, l’ambito delle parole è chiuso, anche le loro
possibili connessioni corrette vengono gradualmente esaurite, e
così chi parla questa lingua la deve parlare proprio così come es-
sa è; ma una volta che l’abbia imparata, la lingua sulla sua boc-
ca parla se stessa, e pensa e compone per lui. In una lingua vi-
vente, invece, purché si viva veramente in essa, le parole e i lo-
ro significati aumentano e cambiano continuamente, e proprio
per questo diventano possibili nuove combinazioni, e la lingua,
che mai è, bensì diviene di continuo, non parla se stessa, ma chi
vuole usarla deve parlarla egli stesso a suo modo, e in modo
creativo per le sue esigenze. Senza dubbio, ciò esige molto più
impegno ed esercizio del primo caso. Allo stesso modo, come ho
già detto, le ricerche del popolo di una lingua viva vanno alla ra-
dice dello scaturire dei concetti dalla natura spirituale stessa,
mentre quelle di una lingua morta cercano di compenetrare e di
rendersi comprensibile solo un concetto estraneo, e così di fat-
to sono soltanto storiche e interpretative, mentre le prime sono
autenticamente filosofiche. Va da sé che una ricerca del secon-

72
do tipo può essere completata prima e più facilmente che una
del primo.
Dopo tutto, il genio straniero spargerà di fiori i sentieri per-
corsi dagli eserciti dell’antichità, e tesserà un velo prezioso alla
saggezza di vita, che scambierà facilmente per filosofia; al contra-
rio, il genio tedesco aprirà nuovi pozzi, e nei loro abissi porterà la
luce del giorno, e scaglierà masse rocciose di pensieri, con cui le
età future edificheranno le loro dimore. Il genio straniero sarà co-
me una silfide graziosa, che con passo leggero scivola sul terreno
da cui spontaneamente sbocciano i fiori, e si distende su questi
senza piegarli, assorbendone la rugiada ristoratrice; o come un’a-
pe, che dagli stessi fiori raccoglie con arte operosa il miele, dispo-
nendolo in cellette regolarmente costruite. Il genio tedesco [340]
sarà come un’aquila, che solleva con forza il suo corpo pesante, e
con ali possenti e allenate muove molta aria intorno a sé per sol-
levarsi più vicino al sole, dalla cui visione è rapita.
Riassumiamo quanto abbiamo detto da un unico punto di vi-
sta principale. In generale, per quanto riguarda la storia culturale
di un genere umano storicamente scisso tra antichità e mondo mo-
derno, le popolazioni principali prima descritte avranno, con l’ul-
teriore formazione originaria di questo mondo moderno nel suo
insieme, il seguente rapporto. La parte della giovane nazione di-
venuta straniera, assumendo la lingua dell’antichità, ha ottenuto
con questa un’affinità molto maggiore. All’inizio, per questa par-
te sarà molto più facile comprendere la lingua dell’antichità anche
nella sua prima e immutata figura, penetrare nei monumenti del-
la sua cultura, portandovi all’incirca così tanta freschezza, che es-
si potranno adattarsi alla nuova vita che è sorta. In breve, lo stu-
dio dell’antichità classica si diffonderà da essa su tutta l’Europa
moderna. Entusiasmata dai compiti lasciati irrisolti da quella, es-
sa continuerà a rielaborarli, ma certo soltanto come si lavora a un
compito dettato non da un bisogno della vita, ma da mera brama
di sapere, prendendolo alla leggera, assumendolo non con tutto il
cuore, ma soltanto con l’immaginazione, e dandogli un corpo eva-
nescente solo in questa. Con la ricchezza dei materiali lasciatici
dall’antichità, con la leggerezza con cui si può lavorare in questo
modo, essa introdurrà nell’orizzonte visivo del nuovo mondo una
ricchezza di immagini simili. Queste immagini del mondo antico,
già elaborate nella nuova forma, giunte a quella parte del ceppo

73
originario rimasta nel flusso della cultura originaria grazie alla
conservazione della lingua – immagini che forse, se fossero rima-
ste nell’antica forma, sarebbero passate davanti a essa inosservate
e senza essere notate – stimoleranno anche la sua attenzione e at-
tività spontanea. Ma se le comprende davvero, [341] e non le pas-
sa solo di mano in mano, essa le comprenderà conformemente al-
la sua natura, non nel mero sapere di un che di estraneo, ma co-
me componenti di una vita; e così, non solo le ricaverà dalla vita
del nuovo mondo, ma le introdurrà nuovamente in essa, dando al-
le figure prima evanescenti un corpo consistente e sostenibile nel-
l’elemento della vita reale.
In questa trasformazione, che l’estero stesso non avrebbe mai
potuto dargli, esso ora lo riceve indietro da loro, e solo mediante
questo passaggio diventa possibile una formazione progressiva
del genere umano sulla strada dell’antichità, un’unificazione del-
le due metà principali, e uno scorrere regolare dello sviluppo
umano. In questo nuovo ordine di cose, la madrepatria non farà
scoperte in senso proprio, bensì dovrà sempre confessare, nelle
cose meno e più importanti, che essa è stata stimolata da un qual-
che cenno dell’estero, il quale estero fu stimolato a sua volta dagli
antichi; ma la madrepatria prenderà sul serio e introdurrà nella vi-
ta ciò che all’estero fu proiettato solo dall’alto e fugacemente. Co-
me ho detto, non è qui il luogo per dare esempi pertinenti e
profondi di questo rapporto, cosa che ci riserviamo di fare nel
prossimo discorso.
In questo modo, tutte e due le parti della nazione comune re-
stano un’unica cosa, e soltanto in questa separazione e unità al
tempo stesso, esse sono un innesto sul tronco della cultura antica,
che altrimenti sarebbe stata interrotta dall’età moderna, mentre
l’umanità avrebbe dovuto ricominciare il suo cammino dall’inizio.
Ora, in queste loro destinazioni diverse nel punto di partenza, ma
concorrenti alla stessa meta, ambedue le parti devono conoscere
ciascuna se stessa e l’altra, e trattarsi reciprocamente in confor-
mità alle loro destinazioni; ma soprattutto, se vogliamo procede-
re bene, con una formazione onnilaterale e completa dell’intero,
ciascuna deve acconsentire a conservare l’altra e a lasciarla intat-
ta nella sua specificità. Per quanto riguarda questa conoscenza, es-
sa dovrebbe ben [342] scaturire dalla madrepatria, alla quale il
senso della profondità è stato dato per prima. Se però, nella sua

74
cecità per questi rapporti, e trascinato dall’apparenza superficia-
le, lo straniero dovesse mai procedere a privare la madrepatria
dell’indipendenza, e in questo modo a distruggerla e ad assimi-
larsela, allora esso, se questo proposito gli riuscisse, taglierebbe
per se stesso l’ultima vena con cui finora era rimasto collegato al-
la natura e alla vita, e cadrebbe completamente in preda alla mor-
te spirituale, che comunque nel corso dei tempi si è sempre più vi-
sibilmente rivelata come la sua essenza; allora il flusso della for-
mazione della nostra specie, che finora è andato continuamente
avanti, sarebbe davvero concluso, e ricomincerebbe la barbarie,
proseguendo senza scampo finché non tornassimo a vivere tutti
nelle caverne come bestie selvagge, sbranandoci a vicenda come
queste. Ma certo, che le cose stiano davvero così, e debbano ne-
cessariamente andare così, può capirlo solo un tedesco, ed egli è
anche il solo a doverlo fare: allo straniero che, non conoscendo al-
cuna cultura estranea, ha un campo illimitato per ammirare la
propria, ciò deve e potrebbe sempre apparire come l’invettiva pri-
va di gusto di un’ignoranza male istruita.
L’estero è la terra da cui si sprigionano vapori fecondi, alzan-
dosi fino alle nuvole, e mediante i quali anche gli antichi dei, cac-
ciati nel Tartaro, restano in contatto con la sfera della vita. La
madrepatria è il cielo eterno che la circonda, in cui i tenui vapo-
ri diventano nuvole compatte, che fecondate dal lampo tonante
che proviene da un altro mondo, ricadono come pioggia fruttifi-
cante, che unisce cielo e terra, e fa sbocciare anche dal grembo
della seconda i doni che sono propri del primo. Vogliono forse
nuovi titani dare ancora una volta l’assalto al cielo? Per loro non
sarà un cielo, poiché essi sono figli della terra; semplicemente,
verranno privati della vista e degli effetti del cielo, e a loro resterà
soltanto la loro terra, come una dimora fredda, sterile e buia. Ma
come dice [343] un poeta di Roma, che cosa può fare un Tifeo,
o il potente Mima, o Porfirio in atto di minaccia, o Reto, o il lan-
ciatore audace di tronchi divelti, Encelado, quando si scagliano
contro il risonante scudo di Atena?5 È questo lo scudo che senza

5
Il passo citato da Fichte è in Orazio, Carmina, III, 4, 53-58, e suona per
esteso: “Sed quid Typhoeus et validus Mimas / aut quid minaci Porphyrion sta-
tu, / quid Rhoetus evolsisque truncis / Enceladus iaculator audax / contra so-
nantem Palladis aegida / possent ruentes?”.

75
dubbio proteggerà anche noi, se sapremo metterci sotto la sua
protezione.

Nota alle pp. 70-71

Anche sulla maggiore o minore musicalità di una lingua, secondo noi,


non si dovrebbe decidere in base alla prima impressione, ma si do-
vrebbe ricondurre questo giudizio a saldi princìpi. Il merito di una lin-
gua, da questo punto di vista, andrebbe posto senz’altro, anzitutto, nel
fatto di sfruttare fino in fondo e di presentare esaustivamente la facoltà
dell’organo vocale umano; poi, nel fatto di collegare i singoli suoni in
una fluidità naturale e gradevole. Già da qui, emerge che nazioni che
formano i loro organi vocali solo unilateralmente e a metà, e con la scu-
sa della difficoltà o della cacofonia evitano certi suoni o collegamenti,
e per le quali è facile che suoni bene solo ciò che sono abituate ad ascol-
tare e possono produrre, non hanno alcuna voce in questa ricerca.
Qui può restare indeciso in che modo, sulla base di quei princìpi
superiori, verrebbe giudicata da questo punto di vista la lingua tede-
sca. La stessa lingua latina di provenienza viene pronunciata da cia-
scuna nazione dell’Europa moderna secondo il proprio modo di par-
lare, e sarebbe tutt’altro che facile ripristinare la sua vera pronuncia.
Perciò, resterebbe solo da chiedersi se la lingua tedesca, rispetto a
quelle neolatine, suoni così male, aspra e dura come sono portati a cre-
dere alcuni.
Finché questa questione non viene decisa seriamente, si può alme-
no spiegare, in via preliminare, come mai gli stranieri e perfino i tede-
schi, anche quando sono imparziali e senza odio o preferenze, hanno
questa impressione. Un popolo ancora incolto, dall’immaginazione
molto vivace, di grande sensibilità infantile, e libero da vanità nazio-
nale (sembra che i Germani siano stati tutto questo) viene attirato dal-
la lontananza, e trasferisce volentieri in questa, in paesi remoti e isole
beate, gli oggetti dei suoi desideri e gli splendori cui anela. [344] In lui
si sviluppa un senso romantico [ein romantischer Sinn] (la parola si
spiega da sola, e non potrebbe essere formata meglio). I suoni e le vo-
ci di quelle contrade ora colpiscono questo senso, e risvegliano tutto il
suo mondo di meraviglie, e perciò piacciono.
Potrebbe essere dipeso da questo il fatto che i nostri connazionali
emigrati abbiano abbandonato così facilmente la loro lingua per quel-
la straniera, e che a noi, loro parenti assai lontani, quei suoni sembri-
no così meravigliosi ancora oggi.

76
Sesto discorso
Presentazione nella storia
dei tratti fondamentali dei tedeschi

Nel discorso precedente, abbiamo mostrato quali dovrebbero es-


sere le differenze principali tra un popolo che ha continuato a for-
marsi nella sua lingua originaria, e un popolo che ha assunto una
lingua straniera. A questo proposito, abbiamo detto che, per
quanto riguarda l’estero, volevamo lasciare alla decisione di cia-
scun osservatore se in esso siano effettivamente comparsi quei fe-
nomeni che, secondo le nostre considerazioni, sarebbero dovuti
comparire. Invece, per quanto riguarda i tedeschi, ci eravamo im-
pegnati a mostrare che questi si sono espressi effettivamente nel
modo in cui, secondo le nostre considerazioni, dovrebbe espri-
mersi il popolo di una lingua originaria. Oggi ci accingiamo a
esaudire la nostra promessa, e mostreremo ciò che si tratta di di-
mostrare anzitutto nell’ultima, grande azione universale che il po-
polo tedesco abbia, in un certo senso, portato a termine: la Rifor-
ma della Chiesa.
Il cristianesimo proveniente dall’Asia, e divenuto più che mai
asiatico con la sua corruzione, che predicava soltanto ottusa de-
vozione e cieca fede, era qualcosa di estraneo e di straniero già per
i Romani. Esso non venne mai veramente compenetrato e assor-
bito da loro, e [345] suddivise la loro essenza in due metà incom-
patibili l’una con l’altra, in cui l’adattamento della parte estranea
venne mediato dalla triste superstizione originaria. Nei Germani
immigrati, questa religione ottenne dei seguaci in cui nessuna pre-
cedente formazione intellettuale le era di ostacolo, ma neppure

77
un’innata superstizione la favoriva, e così essa si presentò loro co-
me un elemento peculiare dei Romani, quali ormai anch’essi vo-
levano essere, senza particolare influsso sulla loro vita. Va da sé
che questi educatori cristiani, dell’antica cultura romana e della
comprensione linguistica che la conteneva, facevano giungere a
questi neofiti soltanto ciò che era compatibile con le loro inten-
zioni; e anche qui sta un motivo della decadenza e dell’uccisione
della lingua latina sulle loro labbra. Quando in seguito i genuini e
autentici monumenti dell’antica cultura caddero nelle mani di
questi popoli, e con ciò in essi venne suscitato l’impulso di pen-
sare e capire autonomamente, la contraddizione tra una fede cie-
ca e le stranezze che, nel corso del tempo, ne erano divenute og-
getto, li colpì in modo addirittura più forte dei Romani, ai quali il
cristianesimo era stato portato per la prima volta, in parte perché
quell’impulso era, per loro, una cosa nuova e recente, in parte per-
ché non era stato tramandato un terrore di fronte agli dei che po-
tesse fare da contrappeso. Accorgersi della perfetta contraddizio-
ne risultante da ciò in cui finora avevamo sinceramente creduto,
suscita il riso; quelli che avevano sciolto l’enigma risero e se ne fe-
cero beffe, e risero anche i preti, che l’avevano risolto essi pure,
tranquillizzati dal fatto che l’accesso alla cultura dell’antichità, co-
me mezzo per lo scioglimento dell’incantesimo, fosse aperto solo
a una ristretta minoranza. Con questo, mi riferisco soprattutto al-
l’Italia, in quanto allora era la sede principale della cultura neola-
tina, nei cui confronti le altre popolazioni neolatine erano ancora
assai arretrate da ogni punto di vista1.
Essi risero dell’inganno, poiché in essi non c’era serietà che po-
tesse amareggiarli; attraverso il possesso esclusivo di una cono-
scenza non comune, divennero in modo ancora più sicuro un
[346] ceto colto e raffinato, e potevano ben tollerare che la gran-
de massa, per cui non avevano alcuna pietà, continuasse a essere
vittima dell’inganno, e fosse ancora più docile ai loro scopi. Dun-
que poteva durare così, che il popolo fosse ingannato, e che chi
stava più in alto usasse l’inganno, e ne ridesse; e probabilmente,
se nella nuova epoca fossero esistiti solo i neolatini, così sarebbe
durato sino alla fine dei giorni.

1
Evidente riferimento all’Umanesimo e al Rinascimento italiani, di cui Fichte
sottolinea i risvolti critici rispetto alla religione e alla tradizione della Chiesa.

78
Qui, voi avete una chiara prova di ciò che abbiamo detto pri-
ma sulla prosecuzione della cultura antica attraverso la nuova, e
sulla parte che in essa può spettare ai neolatini. La nuova chiarez-
za derivò dagli antichi, illuminò in un primo tempo il centro della
cultura neolatina, e lì venne formata solo fino a una concezione in-
tellettuale, senza afferrare la vita e plasmarla diversamente.
Ma questo stato di cose non poté durare più a lungo, dal mo-
mento in cui questa luce illuminò un animo autenticamente reli-
gioso fin nella sua stessa vita, e quando questo animo venne at-
torniato da un popolo al quale poté facilmente comunicare la sua
più seria concezione della cosa, e questo popolo trovò dei capi che
diedero qualcosa al suo urgente bisogno. Per quanto in basso pos-
sa cadere il cristianesimo, tuttavia in esso resta pur sempre una
componente fondamentale in cui c’è verità, e che sicuramente sti-
mola una vita, purché sia vita effettiva e indipendente; la questio-
ne è: che cosa dobbiamo fare per essere beati? Se questa doman-
da fosse caduta su un terreno arido, in cui o fosse rimasto indeci-
so in generale se qualcosa come la beatitudine sia seriamente pos-
sibile, oppure, anche assumendo questa ipotesi, non ci fosse stata
una ferma e decisa volontà di diventare beati, allora, su questo ter-
reno, la religione non sarebbe intervenuta fin dall’inizio nella vita
e nella volontà, bensì sarebbe rimasta attaccata alla memoria e al-
l’immaginazione come un’ombra pallida e tremolante; e così, na-
turalmente, anche tutte le ulteriori delucidazioni sullo stato dei
concetti religiosi disponibili sarebbero rimaste senza alcun influs-
so sulla [347] vita. Ma quando, al contrario, quella domanda cad-
de su un terreno originariamente vivo, in cui si credeva seriamen-
te all’esistenza della beatitudine, e in cui era presente la ferma vo-
lontà di diventare beati, e i mezzi per la beatitudine forniti fino a
quel momento dalla religione erano stati impiegati a questo sco-
po con fede intima e onesta serietà: allora, quando questa luce fi-
nalmente cadde su questo terreno, che proprio per aver preso sul
serio quei mezzi si era rifiutato di fare chiarezza sulla loro natura,
essa dovette provocare uno spaventoso terrore di fronte all’in-
ganno sulla salvezza dell’anima, e una tumultuosa agitazione per
conseguire in altro modo questa salvezza; e ciò che sembrava pre-
cipitare come un’eterna rovina, non poté essere preso come uno
scherzo. Inoltre, il singolo che ebbe per primo questa visione non
poteva affatto accontentarsi di salvare solo la sua anima, indiffe-

79
rente al bene di tutte le altre anime immortali, poiché in questo
modo egli, secondo la sua religione più profonda, non avrebbe
salvato neppure la propria anima; bensì, con la stessa angoscia che
egli sentiva per quest’ultima, dovette lottare per aprire gli occhi a
tutti gli uomini indistintamente su quell’esecrabile illusione.
In questo modo, la visione che molti stranieri prima di lui ave-
vano avuto anche con maggiore chiarezza intellettuale, penetrò
nel cuore dell’uomo tedesco, Lutero. Non solo stranieri, ma an-
che molti nella sua nazione lo superavano per finezza di cultura e
conoscenza dell’antichità, per erudizione e altre prerogative. Ma
egli fu catturato da uno stimolo onnipotente, l’angoscia per la sal-
vezza eterna, ed esso divenne vita nella sua vita, gli fece rischiare
continuamente quest’ultima, e gli diede la forza e le qualità am-
mirate dai posteri. Sebbene altri, nella Riforma, possano avere
avuto scopi terreni, essi non avrebbero mai vinto, se alla loro te-
sta non ci fosse stato un condottiero ispirato dall’eterno. Che co-
stui, che vedeva continuamente in bilico la salvezza di tutte le ani-
me immortali, abbia contrastato in tutta serietà tutti i diavoli del-
l’inferno, è naturale [348] e non può destare meraviglia. Tutto ciò
è una prova della serietà e del coraggio tedeschi.
Come ho detto, sta nelle cose che Lutero si sia rivolto a tutti, e
innanzi tutto alla totalità della sua nazione, con questa disposi-
zione puramente umana, che ciascuno doveva procurarsi da se
stesso. Ma come accolse il suo popolo questo appello? Restò nel-
la sua quiete ottusa, incatenato al suolo da occupazioni terrene,
continuando indisturbato la sua vita abituale, oppure quella
straordinaria apparizione di possente entusiasmo suscitò soltanto
le sue risate? Niente affatto; esso venne catturato come da una
fiamma divorante dalla stessa cura per la salvezza dell’anima, e
questa cura aprì rapidamente anche i suoi occhi alla perfetta chia-
rezza, ed essi colsero al volo ciò che loro veniva offerto. Fu que-
sto entusiasmo solo un’elevazione momentanea dell’immagina-
zione, che non resse contro i gravi pericoli e le lotte nella vita? As-
solutamente no, essi abbandonarono ogni cosa e sopportarono
martìri di ogni tipo, combattendo guerre incerte e sanguinose so-
lo per non tornare sotto il potere dell’esecrabile papato, ma per-
ché per loro e per i loro figli continuasse a splendere la luce del
Vangelo, che sola rende beati; e in loro si rinnovarono, in epoca
più tarda, tutti i miracoli che il cristianesimo al suo inizio aveva

80
mostrato nei suoi seguaci. Tutte le espressioni di quell’epoca so-
no piene di questa preoccupazione universalmente diffusa per l’e-
ternità. Vedete qui una prova della peculiarità del popolo tedesco.
Esso è pronto a sollevarsi con entusiasmo verso qualsiasi tipo di
entusiasmo e di chiarezza, e il suo entusiasmo dura per la vita e la
trasforma.
Anche in precedenza e da altre parti riformatori avevano en-
tusiasmato masse di popolo, riunendole e plasmandole in comu-
nità; tuttavia, queste comunità non ottennero alcuna stabile con-
sistenza fondata sul terreno della precedente costituzione, poiché
i capi del popolo e i principi della precedente costituzione non
camminarono al loro fianco. Anche la Riforma di Lutero, all’ini-
zio, non sembrava votata a un destino più favorevole. Il saggio
[349] principe elettore sotto i cui occhi essa iniziò2, sembrava es-
sere saggio più nel senso degli stranieri che in quello tedesco; non
sembrava aver colto precisamente la natura della disputa, né dare
molta importanza a quello che gli sembrava un conflitto fra due
ordini mendicanti; al massimo appariva preoccupato per il buon
nome dell’università che aveva appena fondato3. Ma egli aveva se-
guaci che, molto meno saggi di lui, erano catturati dalla stessa se-
ria preoccupazione per la loro beatitudine che era viva nei loro
popoli, e tramite questa eguaglianza si fusero con essi in una co-
munanza di vita o di morte, di vittoria o di sconfitta.
In ciò, potete vedere una prova del tratto fondamentale su in-
dicato dei tedeschi come totalità, e della loro costituzione basata
sulla natura. Finora, le grandi questioni nazionali e internaziona-
li sono state portate al popolo da oratori entrati volontariamente
sulla scena, e dibattute presso di esso. Anche se all’inizio i princi-
pi, per esterofilia e desiderio di superiorità e distinzione, avreb-
bero voluto separarsi dalla nazione e abbandonarla o tradirla, in
seguito vennero di nuovo facilmente trascinati all’accordo con es-
sa, ed ebbero compassione dei loro popoli. Che si sia sempre ve-
rificato il primo caso, è quanto in seguito mostreremo con altre
prove; che possa valere continuamente il secondo, possiamo solo
augurarcelo ardentemente.

2 Federico di Sassonia, detto il Saggio (1463-1525), protettore di Lutero.


3 L’università in questione è quella di Wittenberg; gli ordini mendicanti in
conflitto erano gli agostiniani (cui apparteneva Lutero) e i domenicani.

81
Ora, benché si debba confessare che nell’angoscia di quel pe-
riodo per la salvezza delle anime restò una certa oscurità e indi-
stinzione, in quanto non si trattava solo di cambiare il mediatore
esterno tra Dio e gli uomini, bensì di fare a meno di ogni media-
tore esterno, e di trovare il vincolo connettivo in se stessi, forse fu
comunque necessario che la formazione religiosa degli uomini,
nel complesso, passasse per questa situazione intermedia. A Lu-
tero stesso, il suo zelo sincero ha dato ancor più di quello che cer-
cava, e lo ha portato molto al di là del suo edificio dottrinale. Do-
po aver sostenuto le prime battaglie contro il senso di colpa pro-
vocatogli dallo strappo audace [350] dall’intera fede tramandata,
tutte le sue espressioni sono piene di giubilo e trionfo sulla rag-
giunta libertà dei figli di Dio, che non cercavano più la beatitudi-
ne al di fuori di sé e al di là della tomba, bensì erano l’espressione
del sentimento immediato di essa. In ciò, egli è diventato il pre-
cursore di ogni epoca futura, e ha compiuto la sua opera per tut-
ti noi. Vedete anche qui un tratto fondamentale dello spirito te-
desco. Purché cerchi, esso trova più di quello che cercava, perché
s’immerge nella corrente della vita vivente, che scorre di continuo
mediante se stessa e lo trascina con sé.
Il papato, considerato e valutato secondo la sua disposizione
interiore, ha senza dubbio subìto un torto dal modo in cui è stato
trattato dalla Riforma. Le sue espressioni, estratte per la maggior
parte alla cieca dal linguaggio disponibile, e di un’oratoria asiati-
ca portata all’eccesso, valevano quello che valevano, e contavano
sul fatto che magari se ne sarebbe sottratto più del dovuto, ma non
sarebbero mai state valutate, soppesate o intese seriamente. La
Riforma le prese con serietà tedesca in tutto il loro peso; e aveva
ragione sul fatto che tutto andrebbe preso così, ma torto a crede-
re che quelli le avessero prese così, e li accusò di altre cose anco-
ra, oltre alla loro fiacchezza e superficialità naturali. In generale,
questo è ciò che ricorre in modo sempre uguale in ogni conflitto
della serietà tedesca contro ciò che è straniero, si trovi questo al-
l’esterno o all’interno del territorio, ovvero il fatto che gli stranie-
ri non riescono a capire come si possa dare tanta importanza a co-
se così indifferenti come parole e modi di dire, né ammettono, ria-
scoltandolo detto da bocca tedesca, di aver voluto dire ciò che pu-
re hanno detto e dicono e diranno sempre; e se uno, benché sia
molto lontano dall’attribuire a loro personalmente coerenza e

82
chiara coscienza di ciò di cui parlano, prende le loro espressioni
in senso letterale, e le considera come elementi di una serie con-
sequenziale di pensieri, che viene ricostruita all’indietro secondo
i suoi princìpi e in avanti secondo le sue [351] conseguenze, essi
si ritengono diffamati da ciò che chiamano cavillosità. In quella
presunzione, secondo cui appunto ogni cosa dovrebbe essere pre-
sa com’è intesa, ma poi non si dovrebbe più chiamare in causa il
diritto d’intendere e di opinare, si tradisce sempre l’esterofilia an-
cora così profondamente celata.
La serietà con cui la dottrina della vecchia religione venne trat-
tata, costrinse quest’ultima a una serietà maggiore di quella avuta
finora, a un rinnovato esame, trasformazione, rafforzamento del-
la vecchia dottrina, e a una maggiore riservatezza di vita e dottri-
na per il futuro: e questo, come ciò che seguirà immediatamente,
vi sia di prova per il modo in cui la Germania ha sempre retroa-
gito sul resto d’Europa. In questo modo, la vecchia dottrina ot-
tenne per la generalità almeno quella innocua efficacia che essa
poteva avere, una volta che non fosse stata rigettata; ma in parti-
colare, per i suoi difensori essa divenne esigenza ed esortazione a
una riflessione più profonda e conseguente di quanto avvenuto fi-
no ad allora. Qui vogliamo tacere come un fatto transitorio che la
dottrina emendata in Germania si sia diffusa anche nei paesi neo-
latini, e abbia prodotto anche lì lo stesso effetto di superiore en-
tusiasmo: benché sia sempre degno di nota che la nuova dottrina
in nessun paese propriamente neolatino abbia raggiunto uno sta-
tuto riconosciuto dallo Stato; poiché sembra che ci sia stato biso-
gno della profondità tedesca tra i governanti, e della docilità te-
desca tra il popolo, per trovare questa dottrina compatibile col
potere supremo, e renderla tale.
Ma da un altro punto di vista, e precisamente non rispetto al
popolo ma ai ceti superiori, la Germania con la sua riforma della
Chiesa ha esercitato sull’estero un’influenza generale e duratura;
mediante questa influenza, essa ha nuovamente trasformato que-
sto estero in precursore per se stessa, e in uno stimolo per le sue
nuove creazioni. Il pensiero libero e spontaneo, cioè la filosofia,
era [352] già stato spesso stimolato ed esercitato, nei secoli pre-
cedenti, sotto il dominio della vecchia dottrina, ma non per pro-
durre verità da se stesso, bensì soltanto per mostrare che e in che
modo la dottrina della Chiesa era vera. In un primo tempo, la fi-

83
losofia ricevette lo stesso compito anche presso i protestanti te-
deschi in riferimento alla loro dottrina, e da loro era serva del Van-
gelo come negli scolastici era stata serva della Chiesa. All’estero,
che o non aveva il Vangelo, oppure non lo aveva accolto con de-
vozione e profondità di cuore puramente tedesche, il libero pen-
siero si sollevò più facilmente e più in alto senza le catene di una
fede nel soprasensibile, acceso dallo splendido trionfo raggiunto;
ma restò alla catena sensibile della fede nell’intelletto naturale,
cresciuto senza cultura e costume; e ben lungi dall’aver scoperto
nella ragione la fonte di una verità fondata in se stessa, i verdetti
di questo rozzo intelletto divennero per gli stranieri ciò che per gli
scolastici era la Chiesa, per i primi teologi protestanti il Vangelo;
non si sollevava alcun dubbio sulla loro verità, la questione era
semplicemente come poter affermare questa verità contro prete-
se contrastanti.
Ora, poiché questo pensiero non penetrò nel campo della ra-
gione, la cui resistenza sarebbe stata più significativa, esso non
trovò altro avversario che la religione storicamente presente, e la
liquidò facilmente, poiché la misurò col criterio dell’intelletto pre-
supposto sano, e chiaramente si mostrò che essa lo contraddice-
va; e così si arrivò al punto che all’estero, quando fu chiarito de-
finitivamente tutto ciò, l’epiteto di filosofo e quello di irreligioso
e negatore di Dio divennero sinonimi, e furono contraddistinti da
eguale onore4.
Il tentativo di sollevarsi completamente oltre ogni fede in
un’autorità estranea era ciò che di giusto vi era in questi sforzi
compiuti all’estero, e divenne [353] un nuovo stimolo per i tede-
schi, dai quali esso era iniziato tramite la riforma della Chiesa. È
vero che tra noi teste di second’ordine e non indipendenti ripete-
rono pedissequamente questa dottrina straniera – più volentieri,
sembra, quella degli stranieri che l’altra, altrettanto facile da pro-
curarsi, dei loro compatrioti, perché la prima sembrava loro più
raffinata – e queste teste cercarono, per quanto possibile, di con-

4
L’allusione all’Illuminismo francese s’incrocia curiosamente con la vicen-
da dello stesso Fichte nella cosiddetta “disputa sull’ateismo”. La presa di di-
stanza dal primo sembra confermare l’inconsistenza delle accuse che vennero
mosse al secondo. Un più esplicito riferimento a questa vicenda si ha infra, Ot-
tavo discorso, pp. 123 sg.

84
vincersene esse stesse; ma quando si risvegliò lo spirito tedesco,
allora il sensibile non bastò più, bensì sorse il compito di ricerca-
re il soprasensibile, che non poteva più essere creduto in base a
un’autorità estranea, nella ragione stessa, e solo così di creare
un’autentica filosofia, in quanto del libero pensiero si fece, come
doveva essere, la fonte di una verità indipendente. A questo aspi-
rava Leibniz, in lotta con quella filosofia straniera; questo rag-
giunse il vero e proprio fondatore della nuova filosofia tedesca,
non senza ammettere di essere stato sollecitato dall’espressione di
un paese estero, che nel frattempo era stata intesa in modo più
profondo5. Da allora, il compito tra noi è stato pienamente risol-
to, e la filosofia realizzata: ma per ora bisogna accontentarsi di dir-
lo, in attesa di un’epoca che lo comprenda6. Se questo è vero, al-
lora, attraverso la sollecitazione dell’antichità filtrata dai paesi
neolatini, nella madrepatria tedesca sarebbe avvenuta ancora una
volta la creazione di qualcosa di nuovo, assolutamente mai esisti-
to prima.
Sotto gli occhi dei contemporanei, l’estero ha assunto con fa-
cilità e impetuosa audacia un altro compito della ragione e della
filosofia nel mondo moderno, l’istituzione dello Stato perfetto, e
poco dopo lo ha abbandonato, in modo tale che ora, dalla sua
condizione attuale, è costretto a condannare come un crimine an-
che il semplice pensiero di quel compito e, se potesse, dovrebbe
fare di tutto per cancellare quegli sforzi dagli annali della sua sto-

5
Evidente riferimento a Kant e al “risveglio dal sonno dogmatico” in lui su-
scitato dalla lettura di Hume (cfr. I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen
Metaphysik, die als Wissenschaft wird eintreten können (1783), in Kant’s Ge-
sammelte Schriften, Akademie-Ausgabe [d’ora in avanti KGS], vol. IV, p. 260;
trad. it. Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a cura di R. Assunto, Roma-Bari
1979, p. 8).
6
Qui Fichte intende se stesso e la sua dottrina della scienza, assieme alla sua
insoddisfacente ricezione da parte dell’“epoca”, cioè dei suoi contemporanei.
Questo problema si affaccia già nello scritto Sonnenklarer Bericht an das größe-
re Publikum über das eigentliche Wesen der neuesten Philosophie. Ein Versuch,
die Leser zum Verstehen zu zwingen (1801), GA, I, 7, pp. 165-268; trad. it. Rap-
porto chiaro come il sole per un più vasto pubblico sull’essenza propria della più
recente filosofia. Un tentativo di costringere il lettore a capire, in Fichte, Scritti
sulla dottrina della scienza cit., pp. 480-569 (ma confrontare anche l’edizione di
questo scritto comparsa nella collana “Fichtiana”, col titolo Rendiconto chiaro
come il sole. Al grande pubblico sull’essenza propria della filosofia più recente. Un
tentativo di costringere i lettori a capire, a cura di F. Rocci, Milano 2002).

85
ria7. Il motivo di questo risultato è evidente: lo Stato secondo ra-
gione non può essere costruito con procedimenti artificiali da un
materiale qualunque, ma prima la nazione deve essere formata ed
educata a esso. [354] Solo quella nazione che avrà prima assolto
il compito dell’educazione all’uomo perfetto mediante la sua ef-
fettiva esecuzione, potrà allora assolvere anche quello dello Stato
perfetto8.
Da quando abbiamo attuato la riforma della Chiesa, anche il
compito dell’educazione nominato per ultimo è stato intrapreso
più volte da paesi esteri, in modo pieno di spirito, ma nel senso
della loro filosofia. In un primo momento, questi inizi fra noi han-
no trovato seguaci fanatici. A suo tempo, riferiremo più ampia-
mente fino a che punto, ancora una volta, l’animo tedesco abbia
sviluppato questa questione ai nostri giorni.
In ciò che abbiamo detto, voi avete una chiara panoramica di
tutta la storia della cultura del mondo moderno, e del rapporto
immutabile tra le diverse parti di questo mondo e l’animo tede-
sco. La vera religione nella forma del cristianesimo è stata il ger-
me del mondo moderno, e compito generale di quest’ultimo è sta-
to quello di far confluire questa religione nella cultura già pre-
sente dell’antichità, in modo tale che essa venisse spiritualizzata e
santificata. Il primo passo su questa strada è stato quello di sepa-
rare da questa religione l’autorità esterna della sua forma, che la
privava della libertà, e di introdurre anche in essa il libero pen-
siero dell’antichità. L’estero ha spinto a questo passo, il tedesco lo
ha fatto. Il secondo passo, che in senso proprio è la continuazio-
ne e il compimento del primo, è di scoprire questa religione e con
essa ogni saggezza in noi stessi. Anche questo è stato preparato al-
l’estero e realizzato dai tedeschi. Il progresso che ora nell’eternità
si trova all’ordine del giorno è l’educazione perfetta della nazione

7
Fichte così sintetizza la vicenda che dalla Rivoluzione francese ha condot-
to all’impero napoleonico.
8
Alla recente storia di Francia, Fichte contrappone la destinazione presen-
te e futura che a suo avviso avrebbe dovuto assumere la Germania. Le Reden, e
più in generale la dottrina della scienza, dovevano essere la chiave di volta per
l’assunzione di questa responsabilità da parte della “nazione tedesca”. La locu-
zione “Stato secondo ragione” (vernunftgemäße Staat) rimanda ad altre espres-
sioni analoghe, innanzitutto a quella di Vernunftstaat presente nello Stato com-
merciale chiuso.

86
in senso umano. Senza di questo, la filosofia ora raggiunta non tro-
verà mai ampia comprensibilità, meno che mai una universale ap-
plicabilità nella vita; così come, all’inverso, senza filosofia l’arte
dell’educazione non giungerà mai a completa chiarezza in se stes-
sa. L’una è intrecciata all’altra, e senza l’altra è incompleta e inu-
tile. Già solo per il fatto che i tedeschi, finora, hanno portato a
compimento ogni passo della cultura, e [355] nel mondo moder-
no sono stati riservati propriamente a questo, a essi spetta di fare
lo stesso anche con l’educazione; ma quando sarà stato messo or-
dine in quest’ultima, sarà facile farlo anche col resto delle attività
umane.

In età moderna, dunque, il rapporto tra la nazione tedesca e lo svi-


luppo del genere umano è stato effettivamente questo. Resta da
chiarire maggiormente l’osservazione, già fatta un paio di volte,
sul corso naturale con cui questa nazione vi ha preso parte, che
cioè in Germania ogni cultura è partita dal popolo. Che la fac-
cenda della riforma della Chiesa sia stata prima portata al popo-
lo, e abbia avuto successo solo perché è diventata una faccenda
sua, lo abbiamo già visto. Ma resta da mostrare che questo singo-
lo caso non è un’eccezione, bensì è stato la regola.

I tedeschi rimasti in patria avevano conservato tutte le virtù che


un tempo erano di casa nel loro territorio, fedeltà, semplicità,
onore, ingenuità; ma di cultura finalizzata ad una vita superiore e
spirituale, non avevano ricevuto più di quella che il cristianesimo
di allora e i suoi maestri avevano potuto portare a uomini disper-
si. Ciò era ben poco, e così essi erano rimasti indietro rispetto al-
le popolazioni che erano emigrate. Erano davvero semplici e co-
raggiosi, ma semibarbari. Nel frattempo, tra loro sorsero città isti-
tuite da membri del popolo. In queste, la vita giunse rapidamen-
te alla più bella fioritura in ogni ramo della cultura. In esse sorse-
ro costituzioni e istituzioni cittadine, che benché fossero commi-
surate a piccole dimensioni, tuttavia erano eccellenti, e da esse si
diffuse per la prima volta sul resto del territorio un’immagine e un
amore dell’ordine. Il loro esteso commercio contribuì alla sco-
perta del mondo. I re temevano la loro lega. I monumenti della lo-
ro architettura durano ancora oggi, hanno sfidato la distruzione

87
dei secoli, e i posteri stanno ammirati di fronte a essi, confessan-
do la loro impotenza.
[356] Io non voglio confrontare questi cittadini delle città im-
periali tedesche del medioevo con gli altri ceti loro contempora-
nei, e chiedere che cosa facessero nel frattempo la nobiltà e i prin-
cipi; ma a parte alcune zone dell’Italia, nei cui confronti, comun-
que, i tedeschi non restarono indietro neppure nelle belle arti,
mentre nelle arti utili le superarono e ne divennero i maestri – a
parte queste, rispetto alle altre nazioni germaniche ora i cittadini
tedeschi erano gli uomini civilizzati, e quelle erano i barbari. La
storia della Germania, della potenza tedesca, delle imprese, delle
scoperte, dei monumenti e dello spirito tedeschi, in questo perio-
do è solamente la storia di queste città, e tutto il resto, come la ces-
sione e il riscatto di territori, non è degno di essere menzionato.
Questo è anche l’unico momento nella storia tedesca, in cui que-
sta nazione sia splendidamente e gloriosamente presente col ran-
go che spetta al suo popolo. Non appena il desiderio di possesso
e di dominio da parte dei principi distruggerà la loro fioritura e
calpesterà la loro libertà, il tutto sprofonderà gradualmente sem-
pre più in basso, e andrà incontro alla condizione presente. Ma
quando sprofonda la Germania, vediamo sprofondare anche il re-
sto d’Europa, e non solo per quanto riguarda l’apparenza esterna,
ma anche l’essenza stessa.

L’influsso decisivo di questo ceto dominante a tutti gli effetti sul-


lo sviluppo della costituzione imperiale tedesca, sulla riforma del-
la Chiesa e su tutto ciò che ha sempre contraddistinto la nazione
tedesca, e che da essa si è diffuso all’estero, non può essere disco-
nosciuto da nessuno, e si può dimostrare che tutto ciò che anco-
ra oggi tra i tedeschi è degno di onore è sorto dal suo seno.

E quale fu lo spirito con cui questo ceto tedesco produsse e go-


dette questa fioritura? Fu lo spirito della pietà, della rettitudine,
della modestia e del buon senso. Avevano pochi bisogni per se
stessi, ma sostenevano spese immense per imprese pubbliche. Ra-
ramente emerge e si segnala il nome di un singolo, [357] poiché
tutti avevano un’unica volontà ed erano egualmente pronti a fare
sacrifici per il bene comune. Esattamente nelle stesse condizioni

88
esterne della Germania, erano sorte città libere anche in Italia.
Confrontiamo la loro storia; accostiamo i continui disordini, i
contrasti e addirittura le guerre interne, il cambiamento incessan-
te delle costituzioni e dei governanti in queste ultime, alla pacifi-
ca tranquillità e concordia delle altre. Com’è possibile esprimere
in modo più chiaro che nell’animo delle due nazioni deve esserci
stata un’intima differenza? La nazione tedesca è l’unica, tra le na-
zioni dell’Europa moderna, che nel suo ceto cittadino ha già mo-
strato da secoli, coi fatti, di poter sostenere una costituzione re-
pubblicana.
Tra i mezzi individuali e particolari per risollevare lo spirito te-
desco, uno assai potente sarebbe quello di avere una storia entu-
siasmante dei tedeschi di questo periodo, che potesse diventare
un libro nazionale e popolare, come lo sono la Bibbia o il libro dei
Salmi, finché noi stessi non producessimo ancora una volta qual-
cosa che valga la pena di ricordare. Ma questa storia non dovreb-
be enumerare gli atti e gli eventi come in una cronaca, bensì do-
vrebbe farci sprofondare nella vita di quel periodo catturandoci
in modo meraviglioso, senza intervento o chiara coscienza da par-
te nostra: cosicché a noi stessi sembrerebbe di camminare, stare,
decidere, agire con essi, e questo non mediante invenzioni carez-
zevoli e infantili, come tanti romanzi storici hanno fatto, bensì me-
diante la verità; ed essa dovrebbe far sbocciare gli atti e gli eventi
da questa loro vita come testimonianze di questa. Certo, un’ope-
ra del genere potrebbe essere solo il frutto di ampie conoscenze,
e di ricerche che forse non sono ancora mai state intraprese; ma
l’autore dovrebbe risparmiarci la messa in mostra di queste cono-
scenze e ricerche, e presentarcene solo il frutto maturo nella lin-
gua attuale, in un modo comprensibile a ciascun tedesco senza ec-
cezione. Oltre a quelle conoscenze storiche, un’opera simile [358]
richiederebbe anche un’alta misura di spirito filosofico, che al-
trettanto poco dovrebbe far mostra di sé; e soprattutto, un animo
fedele e appassionato.
Quel tempo è stato, in cerchie ristrette, il sogno giovanile del-
la nazione riguardo azioni, lotte e vittorie future, e la profezia di
ciò che essa un giorno sarebbe stata, una volta dispiegate le sue
forze. Una compagnia corruttrice e l’attrattiva della vanità ha tra-
scinato la nazione ancora in crescita in cerchie che non sono le sue
e, mentre voleva risplendere anche in queste, ora essa sta coperta

89
di vergogna, e lotta addirittura per sopravvivere. Ma è davvero in-
vecchiata e infiacchita? Da allora, e ancora fino a oggi, la sorgen-
te della vita originaria non ha sempre zampillato per essa come per
nessun’altra nazione? Possono restare inadempiute quelle profe-
zie della sua vita giovanile, che vengono confermate dalla natura
degli altri popoli e dal piano formativo dell’intero genere umano?
Non sia mai. Purché, prima di tutto, facciamo recedere questa na-
zione dalla falsa direzione che ha preso, mostrandole, nello spec-
chio di quei suoi sogni giovanili, la sua vera tendenza e la sua ve-
ra destinazione, finché, tra queste considerazioni, non diventi ab-
bastanza potente da afferrare con forza questa sua destinazione.
Possa questa esortazione contribuire a far sì che un tedesco dota-
to allo scopo assolva questo compito preliminare in tempi brevi!
Settimo discorso
Comprensione ancora più profonda
del carattere originario e tedesco
di un popolo

[359] Nei discorsi precedenti, abbiamo indicato e dimostrato nel-


la storia i tratti fondamentali dei tedeschi in quanto popolo origi-
nario, e in quanto essi hanno il diritto di chiamarsi “il popolo”
semplicemente, al contrario delle altre popolazioni che si sono se-
parate da loro. Anche la parola “tedesco”, nel suo autentico si-
gnificato letterale, dimostra quanto abbiamo detto1. È opportuno
indugiare un’altra ora su questo argomento, e rispondere all’o-
biezione secondo cui, se tutto ciò costituisce il peculiare caratte-
re tedesco, si dovrebbe ammettere che oggi, tra gli stessi tedeschi,
di tedesco è rimasto ben poco. Poiché neppure noi possiamo ne-
gare questo fenomeno, bensì al contrario vogliamo riconoscerlo
ed esaminarlo nei suoi diversi aspetti, vogliamo cominciare con
una sua spiegazione.
Nel complesso, il rapporto del popolo originario del mondo
moderno col progresso della cultura di questo mondo è consisti-
to nel fatto che il primo, dagli sforzi incompleti e superficiali dei
paesi esteri, è stato solo stimolato a creazioni più profonde, da svi-
luppare nel suo proprio seno. Poiché indubbiamente dallo stimo-
lo al compimento ci vuole tempo, allora è chiaro che un simile rap-
porto comporti dei periodi in cui il popolo originario deve con-
fluire quasi interamente con l’estero, e apparire eguale a esso. Ciò

1 Fichte fa riferimento al significato etimologico di deutsch, aat diutisc, sost.

aat diot, che voleva dire appunto “popolo”.

91
dipende dal trovarsi nella condizione di essere solo stimolati,
mentre la creazione che si ha in vista non è ancora giunta a realiz-
zarsi. [360] Ora, la Germania si trova esattamente in un periodo
del genere per quanto riguarda la grande maggioranza dei suoi
abitanti colti, e da ciò derivano i fenomeni di esterofilia che si so-
no infiltrati profondamente nell’intero essere e vivere di questa
maggioranza. Noi abbiamo visto, nel precedente discorso, che la
filosofia, come libero pensiero sciolto da tutte le catene della fede
in un’autorità estranea, è ciò attraverso cui l’estero stimola la sua
madrepatria. Ora, nel caso in cui da siffatto stimolo non si passi
alla nuova creazione, che essendo ignota alla grande maggioran-
za, ha raggiunto pochissime persone, succede che, in parte, quel-
la filosofia straniera già prima indicata assume forme sempre di-
verse; in parte, lo spirito di essa s’impadronisce anche delle altre
scienze confinanti più da vicino con la filosofia, e considera que-
ste ultime dal suo punto di vista; infine, poiché i tedeschi non pos-
sono mai abbandonare la loro serietà e il loro immediato interve-
nire nella vita, questa filosofia influisce sui modi della vita pub-
blica, e sulle sue regole e princìpi. Noi mostreremo questo in det-
taglio.
Anzitutto: l’uomo non forma la sua concezione scientifica con
libertà e arbitrio, in un modo o nell’altro, bensì essa gli viene for-
mata dalla sua vita, e in senso proprio è la radice interna della sua
stessa vita divenuta intuizione, e per il resto a lui sconosciuta. Ciò
che tu sei veramente al tuo interno, viene fuori davanti al tuo oc-
chio esterno, e tu non potrai mai vedere qualcos’altro. Per vede-
re altrimenti, dovresti diventare altrimenti2. Ora, l’intima essenza
dell’estero, o della non originarietà, è la fede in qualcosa di ulti-
mo, saldo, immutabilmente stabile, in un limite al di qua del qua-
le certo la vita fa liberamente il suo gioco, che però essa non po-

2
Anche questa posizione era ben presente nel Fichte di Jena. Cfr., per tut-
ti, il passo seguente dalla Prima introduzione alla dottrina della scienza del 1797:
“Da quanto detto risulta che la scelta della filosofia dipende da che uomo si sia:
un sistema filosofico, infatti, non è un’inerte suppellettile, che si possa abban-
donare o accettare a proprio piacimento: al contrario, esso è animato dall’anima
dell’uomo che lo ha fatto proprio” (J.G. Fichte, Prima e Seconda Introduzione
alla dottrina della scienza, a cura di C. Cesa, Roma-Bari 1999, p. 19; testo origi-
nale in GA, I, 4, p. 195).

92
trà mai infrangere e fluidificare, confluendo in esso. Questo limi-
te impenetrabile, perciò, gli appare in qualche modo necessaria-
mente anche davanti agli occhi, ed esso non può pensare o crede-
re altrimenti che presupponendo qualcosa di simile, se la sua es-
senza non deve essere completamente trasformata, e il suo cuore
non deve essergli strappato. [361] Esso crede necessariamente
nella morte come elemento ultimo e originario, come sorgente
fondamentale di tutte le cose, e con esse della vita.
Noi qui dobbiamo mostrare anzitutto in che modo si manife-
sti tra i tedeschi questa fondamentale fede straniera.
Essa si manifesta anzitutto nella filosofia vera e propria. L’at-
tuale filosofia tedesca, nella misura in cui vale la pena di menzio-
narla qui, vuole profondità e forma scientifica, benché non sia in
grado di ottenerle; essa vuole unità, non senza essere stata antici-
pata dall’estero; vuole realtà ed essenza – non semplici fenomeni,
bensì una base di questi fenomeni apparente nei fenomeni. In tut-
ti questi passaggi essa ha ragione, e supera di gran lunga le filoso-
fie attualmente dominanti all’estero, poiché nell’esterofilia è mol-
to più seria e conseguente degli stranieri stessi. Ora, per essi, que-
sta base sottostante ai semplici fenomeni, per quanto possano de-
terminarla ulteriormente in modo ancora più sbagliato, è sempre
un essere saldo, che è proprio ciò che è e nient’altro, incatenato in
sé e vincolato alla sua propria essenza; e così la morte e l’estrania-
zione dall’originarietà, che risiedono in loro stessi, vengono fuori
anche davanti ai loro occhi. Poiché essi non possono sollevarsi al-
la vita direttamente da se stessi, ma per librarsi liberamente han-
no sempre bisogno di un supporto e di un appoggio, essi non ol-
trepassano questo supporto neppure col loro pensiero, che è l’im-
magine della loro vita. Ciò che non è qualcosa, per loro è neces-
sariamente nulla, poiché tra quell’essere in sé compatto e il nulla,
il loro occhio non vede nient’altro, giacché la loro vita qui non ha
nient’altro. Il loro sentimento, cui soltanto possono appellarsi, ap-
pare loro infallibile; e se qualcuno non ammette questo supporto,
allora essi sono ben lontani dall’immaginare che questi si accon-
tenti della vita solamente, ma credono che gli manchi l’intelligen-
za per osservare il supporto che indubbiamente sostiene anche
lui, e che difetti della capacità [362] di librarsi alle loro elevate
concezioni. È perciò vano e impossibile istruirli; bisognerebbe

93
farli e, se si potesse, farli diversamente. Da questo punto di vista,
l’attuale filosofia tedesca non è tedesca, bensì esterofilia3.
Al contrario la vera filosofia, giunta in se stessa a termine, e ve-
ramente penetrata oltre il fenomeno al nocciolo di questo, proce-
de dall’unica e pura vita divina – in quanto vita immediatamente,
che resta tale in tutta l’eternità, rimanendo in essa sempre una,
non invece in quanto vita di questa o quella cosa; ed essa vede co-
me solamente nel fenomeno la vita si chiude e di nuovo si apre al-
l’infinito, e diventa in generale un essere e un qualcosa solo se-
condo questa legge. L’essere sorge dinnanzi ad essa, mentre quel-
la se lo fa dare in precedenza. E così, soltanto questa filosofia è au-
tenticamente tedesca, cioè originaria; e viceversa, se qualcuno fos-
se un vero tedesco, allora non potrebbe filosofare altrimenti che
così4.
Quel sistema di pensiero dominante tra la maggior parte dei fi-
losofanti in tedesco – ma che non è tedesco in senso proprio – sia
che venga edificato consapevolmente come vera e propria dottri-
na filosofica, sia che stia alla base del nostro modo di pensare so-
lo inconsapevolmente, interviene nelle restanti concezioni scien-
tifiche del nostro tempo. Allo stesso modo, un’altra tendenza fon-
damentale del nostro tempo stimolata dall’estero è quella di non
limitarsi a memorizzare la materia scientifica, come facevano i no-
stri avi, ma anche di rielaborarla col proprio pensiero e filosofan-
do. Il tempo ha ragione per quanto riguarda in generale questa
tendenza; ma se, nell’attuazione di questo filosofare, esso proce-

3 Fichte condensa in questo capoverso le critiche che aveva rivolto a più ri-

prese, nel corso degli anni, alla filosofia di Schelling e alla concezione da questi
sostenuta dei rapporti tra Assoluto (unità) e fenomeno (molteplicità), in parti-
colare a partire dal Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) e dalla Esposi-
zione del mio sistema filosofico (1801) sino a Filosofia e religione (1804).
4 All’inverso, qui Fichte caratterizza nella sua impostazione di fondo la dot-

trina della scienza come autentica filosofia trascendentale: l’opposizione tra que-
st’ultima e la schellinghiana “filosofia dell’identità” esprime quella tra “vita” e
“morte” (su cui cfr. WL 1807, GA, II, 10, pp. 115-120; trad. it., cit., pp. 31-40),
e assume storicamente la forma di una dicotomica filosofia delle nazionalità, in
cui all’originarietà tedesca, basata sul carattere “vivo” della lingua, si contrap-
pongono l’“estero” e l’“esterofilia”, la cui preferenza per l’essere “morto” è con-
dizionata dal carattere altrettanto “morto” delle lingue “romanze”. È “condi-
zionata”, ma non “determinata”: se così fosse, infatti, non si spiegherebbe la
possibilità di un’esterofilia “tedesca”.

94
de, come c’è da aspettarsi, dalla filosofia straniera che crede nella
morte, esso avrà torto. Noi qui vogliamo dare un’occhiata alle
scienze più vicine al nostro proposito generale, e ricercare i con-
cetti e le concezioni straniere in esse diffuse.
Nel fatto che l’istituzione e il governo degli Stati [363] venga-
no considerati come una libera arte, che ha le sue regole fisse, l’e-
stero ci è indubbiamente servito da precursore, seguendo esso
stesso il modello dell’antichità. Ora, in che cosa riporranno que-
st’arte dello Stato gli stranieri, che già nell’elemento del loro pen-
sare e volere, nella loro lingua, hanno un supporto fisso, chiuso e
morto, e tutti coloro che in questo li seguono? Senza dubbio, nel-
l’arte di trovare un ordine di cose egualmente fisso e morto, dalla
cui morte sorga il vivo movimento della società, e sorga come lo
intendono loro: cioè, nell’arte di ricondurre tutta la vita nella so-
cietà a un immenso ingranaggio artificiale, in cui ciascun singolo
sia sempre costretto dall’intero a servire l’intero; nell’arte di risol-
vere un problema aritmetico in una somma calcolabile, a partire
da grandezze finite e già date: cioè di costringere ciascuno a pro-
muovere controvoglia il bene generale, a partire dal presupposto
che ciascuno voglia il bene suo proprio. Gli stranieri hanno in va-
ri modi enunciato questo principio e fornito artefatti di quell’ar-
te sociale meccanica; la madrepatria ha accolto la loro teoria, e ha
ulteriormente elaborato la sua applicazione per la produzione di
macchine sociali, anche qui, come sempre, in modo più ampio,
più profondo, più vero, superando di gran lunga il suo modello5.
Se, nel corso seguito dalla società fino a quel momento, s’inceppa
qualcosa, tali artefici di Stato non lo sanno spiegare se non col fat-
to che una delle sue rotelle potrebbe essere saltata, e non cono-
scono altro rimedio che quello di eliminare le rotelle danneggiate
e di inserirne di nuove. Quanto più qualcuno è radicato in questa
concezione meccanica della società, quanto più sa semplificare

5 Qui Fichte prende le distanze dalla scienza politica moderna, per come si

era venuta definendo nel contrattualismo e giusnaturalismo moderno a partire


da Hobbes; ma critica aspramente anche il modo in cui tale tradizione di pen-
siero “estera” era stata recepita nella teoria politica tedesca, e messa in pratica
dal dispotismo più o meno illuminato dei diversi sovrani tedeschi (non ultimi,
Federico II e l’assolutismo prussiano). Tuttavia, non è azzardato immaginare
una presa di distanza anche dall’impostazione e da alcune formulazioni del suo
Naturrecht jenese (1796/97).

95
questo meccanismo rendendo il più possibile uguali tutte le parti
della macchina, e trattando tutti come materiale indifferente, tan-
to più è considerato un grande artefice di Stato: e in questa nostra
epoca, a ragione – perché con chi oscilla indeciso e non è capace
di avere un saldo punto di vista, le cose vanno ancora peggio.
Questa concezione dell’arte dello Stato suscita rispetto per la
sua ferrea consequenzialità e la parvenza di sublimità che [364] ri-
cade su di essa. Inoltre, particolarmente dove tutto spinge verso
una costituzione monarchica – e che tale sta diventando in modo
sempre più puro – essa fornisce buoni servizi fino a un certo pun-
to. Ma quando si è raggiunto questo punto, salta agli occhi la sua
impotenza. Io cioè voglio assumere che voi siate riusciti a dotare
la vostra macchina di tutta la perfezione che vi eravate prefissati,
e che in essa ogni membro inferiore venga immancabilmente e ir-
resistibilmente costretto a costringere da un membro superiore, e
così via fino al vertice: ora, da che cosa viene costretto a costrin-
gere il vostro ultimo membro, da cui proviene tutta la coazione
presente nella macchina? Voi dovreste aver superato assoluta-
mente ogni resistenza che potrebbe sorgere dall’attrito dei mate-
riali contro quell’ultima molla, e averle dato una forza contro cui
ogni altra forza dileguerebbe in nulla – ciò che potreste fare an-
cora una volta solo per meccanismo – e così dovreste avere crea-
to la più potente tra tutte le costituzioni monarchiche: ma come
fate ora a muovere queste molle, costringendole a vedere e a vo-
lere il giusto senza eccezione? Come fate a inserire nel vostro in-
granaggio, calcolato e disposto sì in modo esatto, ma fermo, l’e-
ternamente mobile? Dovrebbe forse l’intera opera, come talvolta
dite nel vostro imbarazzo, agire a ritroso e sollecitare la prima
molla? O questo avviene mediante una forza che deriva dalla sol-
lecitazione della molla, oppure avviene mediante una forza tale
che non deriva da essa, bensì si trova nell’intero stesso indipen-
dentemente dalla molla; e un terzo caso non è possibile. Se assu-
mete il primo, allora vi trovate in un circolo che annulla ogni pen-
siero e ogni meccanismo; l’intera opera può costringere la molla
solo nella misura in cui essa stessa è da quella costretta a costrin-
gerla, dunque nella misura in cui la molla, però mediatamente, co-
stringe se stessa; ma se essa non costringe se stessa, difetto al qua-
le appunto volevamo rimediare, allora non risulta nessun movi-
mento. Se assumete il secondo, allora ammettete che l’origine del

96
movimento nella vostra opera proviene da una [365] forza che
non è affatto entrata nel vostro calcolo e ordinamento, e che non
è vincolata dal vostro meccanismo, ma indubbiamente agisce co-
me può senza vostro intervento, secondo le sue proprie leggi a voi
sconosciute. In ciascuno dei due casi dovete confessare di essere
dei pasticcioni e dei chiacchieroni incapaci.
In effetti, si è anche avuto sentore di ciò, e in questa dottrina,
che contando sulla sua coazione, può disinteressarsi del resto dei
cittadini, si è voluto educare almeno il principe con buone dottri-
ne e insegnamenti di ogni tipo. Ma come ci si può assicurare di in-
contrare una natura suscettibile, in generale, di essere educata a
fare il principe? Oppure, qualora si avesse questa fortuna, che co-
stui, che nessun uomo può costringere, sia docile e disposto ad ac-
cettare una disciplina? Una simile concezione dell’arte dello Sta-
to, che venga incontrata su suolo straniero o tedesco, è sempre
esterofilia6. Tuttavia, a onore dell’indole e dell’animo tedeschi, c’è
da notare in proposito che, per quanto noi volessimo essere buo-
ni artisti nella mera teoria del calcolo di questa coazione, tuttavia,
quando si trattò di passare all’esecuzione, ne fummo assai impe-
diti dal sentimento oscuro che così non dovrebbe essere, e da que-
sto lato restammo indietro rispetto all’estero. Anche se dovessimo
essere costretti ad accogliere il presunto beneficio di forme e leg-

6 Qui è senz’altro presente un riferimento a Machiavelli; ma la messa in lu-

ce del carattere aporetico nell’educazione del sovrano sembra rimandare in mo-


do ancora più determinato al Kant dello scritto Idee zu einer allgemeinen Ge-
schichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), KGS, vol. VIII, pp. 15-31; trad. it.
Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e
di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu,
Torino 1956, pp. 123-139: in particolare, confrontare la tesi VI, in cui Kant scri-
ve: “l’uomo è un animale che ha bisogno di un padrone [Herr][...] Ma questo pa-
drone è a sua volta un essere animale che ha bisogno di un padrone [...] Il capo
supremo [Oberhaupt]deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo.
Questo problema è quindi il più difficile di tutti e una soluzione perfetta di es-
so è impossibile” (ivi, p. 23; trad. it., cit., pp. 129-130). Su questa linea, si con-
fronti anche l’affermazione più tarda, secondo cui: “L’uomo ha bisogno, dun-
que, d’essere educato al bene; ma colui che ha il dovere di educarlo è ancora un
uomo...” (I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), KGS, vol.
VII, p. 325; trad. it. Antropologia pragmatica, a cura di G. Vidari, riveduta da A.
Guerra, Roma-Bari 2001, p. 220). Con la proposta formulata nelle Reden, Fichte
intende portare a “compimento” la filosofia kantiana anche da questo punto di
vista.

97
gi estranee, almeno non dovremo vergognarci al riguardo più del
dovuto, come se il nostro spirito fosse stato incapace di consegui-
re queste altezze della legislazione. Poiché, quando abbiamo la
penna in mano, non siamo secondi a nessuna nazione, può darsi
che noi per la nostra vita, sentendo che tutto ciò non era ancora
la cosa giusta, preferissimo lasciare stare il vecchio fino all’arrivo
del perfetto, piuttosto che scambiare la vecchia moda con una
moda nuova e altrettanto caduca.
Diversamente l’arte dello Stato autenticamente tedesca. An-
ch’essa vuole solidità, sicurezza e indipendenza dalla natura cieca
e incerta, e in questo è completamente d’accordo con l’estero. So-
lo che, a differenza di questo, essa non [366] vuole una cosa sal-
da e certa come primo elemento mediante il quale soltanto lo spi-
rito, come secondo elemento, diventi certo, bensì essa vuole subi-
to fin dall’inizio uno spirito saldo e certo come elemento unico e
primo di tutti. Questo è per essa la molla eternamente mobile e da
se stessa vivente che ordinerà e continuerà a muovere la vita del-
la società. Essa comprende di non poter produrre questo spirito
mediante invettive contro gli adulti già compromessi, bensì solo
mediante l’educazione della gioventù ancora incorrotta; e preci-
samente, essa con questa educazione non vuole rivolgersi, come
fa l’estero, alle ripide cime, ai principi, bensì con essa vuole rivol-
gersi alla vasta pianura, alla nazione, poiché senza dubbio ne farà
parte anche il principe. Come lo Stato è la prosecuzione dell’edu-
cazione del genere umano nelle persone dei suoi cittadini adulti,
così – dice quest’arte dello Stato – il futuro cittadino dovrebbe es-
sere educato più che mai a ricevere quell’educazione superiore.
Così, questa tedesca e nuovissima arte dello Stato diventa a sua
volta la più antica, poiché anche questa presso i Greci basava la
cittadinanza sull’educazione, e formava cittadini come le epoche
successive non ne hanno più visti. Nella forma, i tedeschi faranno
lo stesso; nel contenuto, con spirito non ristretto ed esclusivo,
bensì universale e cosmopolitico.
La grande maggioranza dei nostri compatrioti è dominata dal-
lo spirito estero anche nella sua concezione della vita d’insieme
del genere umano, e della storia in quanto immagine di quella vi-
ta. Come abbiamo mostrato altrove, una nazione che, nella sua
lingua, ha una base conclusa e morta, in tutte le arti del discorso
può giungere solo fino a un certo livello di formazione, consenti-

98
to da quella base, e lì vivrà una propria età dell’oro7. Senza la più
grande modestia e umiltà, una tale nazione non può trovare con-
veniente il pensiero che il genere umano sia superiore a quanto es-
sa pensa di se stessa; perciò, essa deve presupporre che anche per
la formazione del genere umano ci sia una meta ultima, suprema
e insuperabile. [367] Come le specie animali dei castori o delle api
costruiscono ancora oggi come costruivano migliaia di anni fa, e
in questo lungo periodo la loro arte non ha fatto alcun progresso,
lo stesso accadrà, secondo costoro, con la specie animale chiama-
ta uomo, in tutti i rami della sua formazione. Questi rami, impul-
si e capacità potranno essere valutati in modo esaustivo, anzi for-
se in un paio di articolazioni si offriranno perfino allo sguardo, e
potrà essere indicato il più alto sviluppo possibile per ciascuno di
essi. Forse al genere umano andrà ancora peggio che ai castori e
alle api, per il fatto che questi, non essendo istruiti, nella loro ar-
te non possono neppure tornare indietro, mentre l’uomo, anche
quando avesse raggiunto la cima, potrebbe sempre esserne sca-
gliato giù, e potrebbero occorrergli secoli di sforzi per raggiunge-
re nuovamente il punto in cui si sarebbe fatto meglio a lasciarlo
stare. Secondo costoro, il genere umano avrà senza dubbio già
raggiunto simili punti culminanti della sua cultura e simili età del-
l’oro: il loro zelo consisterà nel ricercare con cura tali momenti
nella storia, nel valutare secondo questi tutti gli sforzi dell’uma-
nità, e nel tentare di ricondurla a essi. Secondo loro, la storia è fi-
nita da lungo tempo, ed è già finita più volte; secondo loro, nulla
di nuovo accade sotto il sole, poiché essi hanno cancellato sopra
e sotto il sole la sorgente dell’eterno scorrere della vita, e lasciano
soltanto che la morte sempre ricorrente si ripeta e si ponga più
volte.
È noto che questa filosofia della storia ci è arrivata dall’estero,
benché adesso essa sia scomparsa anche in questo, e sia diventata
quasi esclusivamente una proprietà tedesca. Da questa affinità più
profonda, dunque, dipende anche il fatto che questa nostra filo-
sofia della storia possa capire in modo così completo gli sforzi dei
paesi esteri, i quali, anche se non esprimono più così spesso que-
sta concezione della storia, fanno ancora di più, poiché agiscono

7 Cfr. supra, Quinto discorso, pp. 68-69.

99
in essa e realizzano di nuovo un’età dell’oro; e a essi può addirit-
tura prefigurare in modo profetico il cammino che seguiranno,
[368] ammirandoli così apertamente, come chi pensa in tedesco
non può vantarsi di fare. Come potrebbe del resto? Le età dell’o-
ro sono per lui sotto ogni riguardo una limitatezza dell’essere
morto. Egli pensa che l’oro può essere sì la materia più nobile nel
seno della morta terra, ma che la materia dello spirito vivente è al
di là del sole e di tutti i soli, e ne è la sorgente. Per lui la storia, e
con essa il genere umano, non si dipana secondo la legge magica
e nascosta di una danza circolare, ma secondo lui è l’uomo vero e
autentico a farla, non ripetendo soltanto ciò che è già stato, bensì
creando l’assolutamente nuovo nel corso del tempo. Egli perciò
non si aspetta mai una ripetizione pura e semplice, e se anche es-
sa dovesse accadere, parola per parola, com’è scritto nell’antico li-
bro, almeno non suscita la sua ammirazione8.

8 Sul tema affrontato in questo brano, confrontare ciò che Fichte scriveva

già nella Bestimmung des Menschen (1800), GA, I, 6, pp. 266 sgg., e la conclu-
sione dell’opera, ivi, pp. 306-309 (trad. it. La destinazione dell’uomo, a cura di
C. Cesa, Roma-Bari 2001, rispettivamente a pp. 90 sgg. e pp. 134-136). Il pro-
blema attraversa l’Illuminismo tedesco, e da quest’ultimo viene lasciato in ere-
dità all’idealismo. Per quanto riguarda il primo, si confronti la seguente affer-
mazione di Mendelssohn, risalente al 1782: “Lo scopo della natura non è il per-
fezionamento del genere umano. No! Il perfezionamento dell’uomo, dell’indi-
viduo. Ogni singolo uomo deve sviluppare le sue disposizioni e capacità, e in
questo modo diventare sempre più perfetto. Proprio perché a questo è tenuto
ciascun individuo, l’intero genere deve ripetere il corso circolare per il quale ci
preoccupiamo tanto” (JubA, XIII, 65: citato in L. Fonnesu, Antropologia e idea-
lismo. La destinazione dell’uomo nel primo idealismo, Roma-Bari 1993, p. 51; ma
sul grande tema della “educazione del genere umano” e del “perfezionamento”
di quest’ultimo e/o del singolo individuo, cfr. tutto il cap. I, Premesse settecen-
tesche, pp. 25-56). Per la ripresa della questione in ambito idealistico, oltre alla
Destinazione dell’uomo di Fichte, cfr. la coeva opera di Schelling, System des
transzendentalen Idealismus, a cura di R.-E. Schulz, Hamburg 1957, p. 261; trad.
it. Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Semerari, Roma-Bari 1990,
p. 264: “Che nel concetto della storia sia implicito quello di una progressività in-
finita, si è dimostrato abbastanza nella parte precedente. Di qui peraltro non si
può certo immediatamente concludere per l’infinita perfettibilità della specie
umana, poiché, quelli che la negano, possono con altrettanta ragione affermare
che l’uomo abbia una storia tanto poco quanto l’animale, che egli invece sia rin-
chiuso in un eterno circolo di operazioni, in cui egli si aggiri incessantemente,
come Issione intorno alla sua ruota, e, tra continue oscillazioni e talora anche tra
visibili deviazioni dalla linea curva, ritorni pur sempre al punto da cui era par-
tito”.

100
In modo simile, lo spirito mortifero dell’estero si diffonde sen-
za nostra piena coscienza sul resto delle nostre concezioni scien-
tifiche, delle quali dovrebbero bastare gli esempi che abbiamo ad-
dotto; e questo accade perché proprio adesso noi elaboriamo a
modo nostro le sollecitazioni prima ricevute dall’estero, e attra-
versiamo questa situazione intermedia. Ho portato questi esempi
perché ciò rientrava nell’argomento; ma, per inciso, anche perché
nessuno creda di poter contraddire le affermazioni fatte, traendo
conseguenze dai princìpi addotti. Ben lungi dall’esserci rimasti
sconosciuti, o dal fatto di non essere riusciti a sollevarci fino a es-
si, li conosciamo invece piuttosto bene, e forse, se ci avanzasse del
tempo, saremmo capaci di svolgerli in tutta la loro consequenzia-
lità in avanti e all’indietro. Il punto è che noi li rigettiamo fin dal-
l’inizio, e così tutto ciò che deriva da essi, di cui nel pensiero che
abbiamo ereditato c’è più di quanto potrebbe credere l’osserva-
tore superficiale.
Come nelle nostre concezioni scientifiche, così questo spirito
dei paesi esteri s’infiltra anche nella nostra [369] vita comune, e
nelle sue regole; ma perché questo sia chiaro, e ciò che precede di-
venti ancora più chiaro, è necessario dapprima compenetrare con
sguardo profondo l’essenza della vita originaria, cioè della li-
bertà 9.
La libertà, presa nel senso dell’oscillare indeciso tra più possi-
bili equivalenti, non è vita, bensì soltanto soglia e accesso alla vi-
ta reale. Alla fine, da questo oscillare bisogna pur pervenire una
buona volta alla decisione e all’agire, e la vita comincia soltanto
adesso.
Ora, ogni decisione della volontà appare immediatamente e a
prima vista come un che di primo, niente affatto come un che di
secondo, e come conseguenza di un primo in quanto suo fonda-
mento – come esistente assolutamente mediante sé, ed esistente
così come essa è; significato che vogliamo fissare in quanto è l’u-
nico significato comprensibile della parola libertà. Ma riguardo al
contenuto interno di una siffatta decisione della volontà sono pos-
sibili due casi; cioè, o in essa appare solo il fenomeno separato dal-
l’essenza, e senza che l’essenza subentri in qualche modo nel suo

9 Le pagine che seguono costituiscono una delle sintesi migliori della con-

cezione filosofica del Fichte berlinese.

101
apparire; oppure subentra l’essenza stessa, apparendo in questo
fenomeno di una decisione della volontà: e qui dobbiamo subito
aggiungere che l’essenza può apparire solo in una decisione della
volontà e assolutamente in nient’altro, benché all’inverso ci pos-
sano essere decisioni della volontà in cui non appare assoluta-
mente l’essenza, bensì soltanto il mero fenomeno. Noi parleremo
dapprima di quest’ultimo caso.
Il puro fenomeno è determinato immutabilmente, semplice-
mente come tale, dalla sua separazione e opposizione con l’essen-
za, poi per il fatto di essere capace di apparire e di esporsi esso
stesso, e perciò esso è necessariamente così come è e si trova a es-
sere. Se quindi, come ipotizziamo, una data decisione della vo-
lontà nel suo contenuto è mero fenomeno, allora proprio per que-
sto essa di fatto non è libera, non è un che di primo e originario,
bensì è necessaria, ed è un secondo [370] elemento risultante da
un primo elemento superiore, che scaturisce così com’è dalla leg-
ge del fenomeno in generale. Ora, come è stato ricordato più vol-
te anche qui, poiché il pensiero dell’uomo lo pone davanti a lui
stesso così come egli è realmente, e resta per sempre impronta e
specchio fedele della sua interiorità, una siffatta decisione della
volontà, benché a prima vista appaia come libera (in quanto ap-
punto decisione della volontà), tuttavia non può assolutamente
apparire così a una riflessione ripetuta e più approfondita, bensì
in questa deve essere pensata come necessaria, così come è real-
mente e di fatto. Per uomini, la cui volontà non si è ancora solle-
vata in un circolo superiore a quello per cui in essi c’è soltanto
l’apparire di una volontà, la fede nella libertà è senz’altro follia e
illusione di un intuire passeggero, che resta fermo alla superficie;
per loro, la verità esiste solo nel pensiero, che a loro mostra do-
vunque solo le catene della dura necessità.
La prima legge fondamentale del fenomeno, assolutamente in
quanto tale (siamo autorizzati a tralasciarne la ragione, poiché lo
abbiamo fatto ampiamente altrove), consiste nel fatto che esso si
disgrega in un molteplice, che da un certo punto di vista è infini-
to, da un altro è un intero chiuso, nel quale intero chiuso del mol-
teplice ciascun singolo è determinato da tutti gli altri, e viceversa
tutti gli altri sono determinati da questo singolo10. Perciò, se dal-

10 Fichte rimanda probabilmente in primo luogo alla Anweisung zum seli-

102
la decisione della volontà del singolo, nel fenomeno non emerge
altro che la fenomenicità, rappresentabilità e visibilità in genera-
le, che di fatto è la visibilità di niente, allora il contenuto di una
siffatta decisione della volontà è determinato dall’intero chiuso di
tutte le possibili decisioni volontarie di questa singola volontà e di
tutte le altre possibili volontà, ed essa non contiene né può con-
tenere altro se non ciò che resta da volere dopo la sottrazione di
tutte quelle possibili decisioni della volontà. Perciò, di fatto, in
quella decisione non vi è nulla di indipendente, originale e pro-
prio, bensì essa è la mera conseguenza secondaria, risultante dal-
la connessione universale dell’intero fenomeno nelle sue singole
parti. Allo stesso modo, [371] perciò, essa è anche stata cono-
sciuta come tale da tutti quelli che si trovavano a questo stadio
della cultura, ma pensavano profondamente alla questione, e que-
sta loro conoscenza è stata anche espressa con le stesse parole di
cui ci siamo appena serviti. Tutto questo, però, accade perché in
loro l’essenza non subentra nel fenomeno, bensì subentra soltan-
to il mero fenomeno.
Al contrario, quando nel fenomeno di una decisione della vo-
lontà subentra immediatamente l’essenza stessa, per così dire in
prima persona e non mediante un rappresentante, tutto ciò che
abbiamo menzionato sopra, risultante dal fenomeno in quanto
intero chiuso, è senz’altro egualmente presente, poiché certo il
fenomeno appare anche qui; però un siffatto fenomeno non si ri-
solve in tale elemento, e non è esaurito da questo, bensì in esso
si trova ancora un che di eccedente, un altro elemento che non
si può spiegare in base a quella connessione, bensì resta dopo la
sottrazione di ciò che può essere spiegato. Ho detto che quel pri-
mo elemento si trova anche qui; quel di più diventa visibile, ed
entra sotto la legge e le condizioni dell’evidenza in generale, per
mezzo di questa sua visibilità, niente affatto per mezzo della sua

gen Leben, lez. 4-5, GA, I, 9, pp. 92-114 (trad. it. Iniziazione alla vita beata, in
J.G. Fichte, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Napoli 1989, pp.
285-309); ma l’accenno alla “ragione” o “fondamento” (Grund) sembra impor-
re un rimando più ampio ai corsi di dottrina della scienza che proprio in quegli
anni egli aveva tenuto a Berlino (pensiamo anzitutto ai tre cicli di conferenze del
1804), Erlangen (1805) e nei primi mesi del 1807 a Königsberg (in particolare,
cfr. WL 1807, lez. 16, GA, II, 10, pp. 157-159; trad. it., cit., pp. 97-101).

103
essenza interna. Però, esso è ancora di più che questo suo sor-
gere da una legge qualsiasi, e perciò come necessario e secondo;
e in rapporto a questo di più esso è ciò che è mediante se stes-
so, cioè qualcosa di veramente primo, originale e libero; e poi-
ché è questo, esso anche appare così al pensiero più profondo e
giunto a termine in se stesso. Come ho detto, la legge suprema
dell’evidenza consiste nel fatto che ciò che appare si scinda in un
molteplice infinito. Quel di più diventa visibile ogni volta come
di più rispetto a ciò che risulta qui e ora dalla connessione del
fenomeno, e così via all’infinito; e così dunque questo di più ap-
pare esso stesso come un infinito. Ma è chiaro come il sole che
esso consegue questa infinità solo perché ogni volta può essere
visto, pensato e scoperto esclusivamente mediante la sua oppo-
sizione a ciò che risulta all’infinito dalla connessione, e median-
te il suo essere più di quello. Ma a parte questo [372] bisogno
del suo pensiero, questo di più che tutto l’infinito, rappresenta-
bile all’infinito, esiste fin dall’inizio in pura semplicità e immu-
tabilità, e in tutta l’infinità non diventa né più né meno che que-
sto di più; ed è soltanto la sua evidenza, in quanto più dell’infi-
nito, a creare l’infinito e tutto ciò che in esso sembra apparire.
Nella sua suprema purezza, esso non può rendersi visibile altri-
menti. Ora, quando questo di più, che può subentrare solo in un
volere, subentra effettivamente come un di più evidente, allora
l’essenza stessa, che sola è e può essere, ed esiste da sé e me-
diante sé, l’essenza divina subentra nel fenomeno e si rende im-
mediatamente visibile; e proprio perciò lì c’è vera originalità e li-
bertà, e quindi anche la fede in esse.
E così, dunque, alla questione generale se l’uomo sia o non sia
libero, non si trova alcuna risposta generale; infatti, proprio per-
ché l’uomo è libero nel senso più basso, proprio perché comincia
con un oscillare e un tentennare indecisi, egli può essere libero o
anche non libero nel senso più alto della parola. In realtà, il mo-
do in cui ciascuno risponde a questa domanda è il limpido spec-
chio del suo vero essere interiore. Di fatto, chi non è più che un
membro nella catena dei fenomeni, può sì illudersi per un attimo
di essere libero, però questa illusione non resiste al suo pensiero
più rigoroso; ma così come egli trova se stesso, allo stesso modo
necessariamente concepisce tutta la sua specie. Al contrario, co-
lui la cui vita è afferrata da ciò che è veridico ed è divenuta vita

104
immediatamente da Dio, costui è libero e crede alla libertà in sé e
negli altri.
Chi crede in un essere fisso, morto e persistente, crede in esso
solo perché è morto in se stesso; e una volta morto, non appena
faccia chiarezza in se stesso, non può credere altrimenti che così.
Egli stesso e tutta la sua specie diventano per lui, dall’inizio alla fi-
ne, un che di secondario ed una conseguenza necessaria da un
[373] primo elemento, che dev’essere presupposto. Questo pre-
supposto è il suo pensiero effettivo e non meramente pensato, il
suo senso vero, il punto in cui il suo pensiero è immediatamente
vita; e così, è la fonte di tutto il resto dei suoi pensieri e giudizi sul-
la sua specie – nel suo passato, la storia; nel suo futuro, le aspet-
tative su di essa; e nel suo presente, la vita effettiva in lui stesso e
negli altri.
Noi abbiamo chiamato questa fede nella morte, in opposizio-
ne a un popolo che vive in modo originario, esterofilia. Con ciò,
una volta che si sia infiltrata tra i tedeschi, questa esterofilia si mo-
strerà anche nella loro vita effettiva, come tranquillo abbandono
alla necessità ormai immutabile del loro essere, come rinuncia a
ogni miglioramento di noi stessi o degli altri mediante la libertà,
come inclinazione a utilizzare se stessi e tutti così come sono, e a
ricavare dal loro essere il maggior vantaggio possibile; in breve,
come professione di fede che si riflette di continuo in tutte le at-
tività della vita, e che ho descritto a sufficienza altrove*, nell’uni-
versale ed equivalente peccaminosità di tutti. Lascio a voi la rilet-
tura di questa descrizione, come anche il giudizio sulla sua ade-
guatezza al presente. Come ho spesso ricordato, per chi è spento
interiormente questo modo di pensare e di agire sorge solo fa-
cendo chiarezza in se stesso, altrimenti costui, finché resta all’o-
scuro, mantiene la fede nella libertà, che in sé è vera ed è illusio-
ne solo nell’applicazione al suo essere attuale. Qui emerge con evi-
denza lo svantaggio della chiarezza per chi è interiormente mal-
vagio. Finché questa malvagità resta oscura, essa viene continua-
mente disturbata, pungolata e sospinta dalla costante esigenza
della libertà, e offre un appiglio ai tentativi di emendarla. Ma la
chiarezza la completa e la perfeziona in se stessa, aggiunge ad es-

* Cfr. Anweisung zum seligen Leben, lez. 11 [GA, I, 9, pp. 175-187; trad. it.,
cit., pp. 381-393].

105
sa il [374] gioioso abbandono, la tranquillità di una buona co-
scienza, il compiacimento di se stessa; ai malvagi capita ciò in cui
essi credono, davvero d’ora in poi non possono più migliorare, e
servono al massimo per mantenere vivo, tra i migliori, l’orrore
spietato contro il male, o l’abbandono alla volontà di Dio, e non
servono a nient’altro al mondo.
E così, finalmente, emerge nella sua completa chiarezza ciò che
nella nostra descrizione precedente abbiamo inteso per “tede-
schi”. Il fondamento vero e proprio della distinzione sta qui: se si
crede in qualcosa di assolutamente primo e originale nell’uomo
stesso, nella libertà, nella migliorabilità infinita, nell’eterno pro-
gredire della nostra specie; oppure, se non si crede a nulla di tut-
to ciò, anzi erroneamente si ritiene d’intendere e di capire che è
vero il contrario di tutto questo. Tutti coloro i quali o vivono in
prima persona creativamente e producendo il nuovo, oppure,
qualora ciò non sia loro toccato, perlomeno lasciano cadere deci-
samente ciò che non vale nulla, e vivono prestando attenzione al-
l’eventualità che il flusso della vita originaria li afferri, oppure,
qualora non siano progrediti neppure fin qui, hanno perlomeno il
presentimento della libertà, e non la odiano né sono terrorizzati
da essa, bensì la amano: tutti costoro sono uomini in senso origi-
nario; essi, considerati come un popolo, sono un popolo origina-
rio, il popolo in senso assoluto, tedeschi. Tutti coloro che si ras-
segnano a essere un che di secondario e di derivato, e si ricono-
scono e si comprendono manifestamente così, lo sono di fatto, e
mediante questa fede lo diventano sempre più; essi sono un’ap-
pendice della vita, che si è destata per proprio impulso di fronte
o accanto a loro, l’eco risonante dalla roccia di una voce già estin-
ta; essi, considerati come popolo, sono fuori dal popolo origina-
rio, e per esso estranei, e stranieri. Nella nazione che a tutt’oggi si
chiama il popolo in senso assoluto, cioè la nazione tedesca, in epo-
ca moderna è venuto alla luce, perlomeno finora, qualcosa di ori-
ginale, e si è rivelata una forza creatrice del nuovo. Ora, final-
mente, una [375] filosofia divenuta chiara a se stessa tiene di fron-
te a questa nazione lo specchio, in cui essa può conoscere con la
chiarezza del concetto ciò che finora essa è stata per natura senza
coscienza manifesta, e ciò verso cui essa è destinata dalla natura.
A essa viene fatta la proposta di fare di se stessa, in modo intero e
completo, secondo quel concetto chiaro e con arte meditata e li-

106
bera, ciò che essa dovrebbe essere, di rinnovare il patto, e chiu-
dere il suo cerchio. Il principio secondo cui deve chiuderlo le sta
pronto davanti: chiunque creda nella spiritualità e nella libertà di
questa spiritualità, e voglia l’eterna e continua formazione di que-
sta spiritualità mediante la libertà, costui, ovunque sia nato e qua-
lunque lingua parli, è della nostra specie, ci appartiene e si unirà
a noi. Chiunque creda nella stasi, nel regresso e nella danza circo-
lare, o addirittura ponga al timone del governo del mondo una
morta natura, costui, ovunque sia nato e qualunque lingua parli,
non è un tedesco ed è per noi un estraneo, ed è auspicabile che si
separi completamente da noi, quanto prima, tanto meglio.
E così, in questa occasione, appoggiandoci a ciò che abbiamo
detto prima sulla libertà, venga finalmente fuori a voce alta, e chi ha
orecchie per intendere, intenda quali sono le vere intenzioni di quel-
la filosofia che a buon diritto si chiama tedesca; e qual è il punto in
cui essa si oppone con rigore serio e inesorabile a ogni filosofia stra-
niera che creda nella morte. Non lo diciamo perché ciò che è mor-
to possa capirla, il che è impossibile, bensì perché per esso diventi
più difficile distorcere le sue parole, e fingere che anch’esso voglia e
in fondo intenda la stessa cosa. Questa filosofia tedesca s’innalza ef-
fettivamente, con l’atto del suo pensiero, all’immutabile “più di tut-
ta l’infinità”, e trova solamente in questo l’essere veridico; non se ne
vanta semplicemente in base all’oscuro presentimento che dovreb-
be essere così, senza essere in grado di realizzarlo. Essa scorge tem-
po, eternità e infinità nel loro sorgere dall’apparire e diventare visi-
bile di quell’Uno che in sé [376] è assolutamente invisibile, e che vie-
ne colto, e colto correttamente, soltanto in questa sua invisibilità.
Secondo questa filosofia, già l’infinità è niente in sé, e non le spetta
assolutamente un essere veridico: essa è solo il mezzo in cui ciò che
unicamente esiste, e che è soltanto nella sua invisibilità, diventa vi-
sibile; e da cui, nell’ambito della figurabilità, gli viene costruita
un’immagine, uno schema e ombra di se stesso. Ora, tutto ciò che
può ancora diventare visibile, all’interno di questa infinità del mon-
do delle immagini, è completamente un niente del niente, un’om-
bra dell’ombra, ed è soltanto il mezzo in cui diventa visibile quel pri-
mo niente dell’infinità e del tempo, e in cui al pensiero si apre lo slan-
cio verso l’essere infigurabile e invisibile.
Ora, all’interno di questa immagine unicamente possibile del-
l’infinità, l’invisibile emerge immediatamente solo in quanto vita

107
del vedere libera e originale; ovvero in quanto decisione della vo-
lontà di un essere razionale, e non può assolutamente emergere e
apparire diversamente. Ogni esserci permanente, che appare come
vita non spirituale, è solo un’ombra vuota, proiettata dal vedere,
mediata in modo molteplice dal niente. Contrapponendosi a que-
sta, e conoscendola in quanto niente mediato in modo molteplice,
il vedere stesso deve elevarsi alla conoscenza del suo proprio nien-
te, e al riconoscimento dell’invisibile in quanto unico vero.
Ora, quella filosofia dell’essere, che crede nella morte, resta
prigioniera in queste ombre delle ombre di ombre11. Essa diven-
ta senz’altro filosofia della natura, la più morta di tutte le filoso-
fie, e teme ed è devota alla sua propria creatura12.
Ora, questo persistere è l’espressione della sua vera vita e del
suo amore, e su ciò a questa filosofia si può credere. Se però, inol-
tre, essa dice che questo essere, da essa presupposto come vera-
mente essente, sia un’unica e la stessa cosa dell’Assoluto, non bi-
sogna crederle, per quante assicurazioni essa possa fornire, pre-
stasse pure dei giuramenti. Essa questo non lo sa, ma lo dice sol-
tanto sperando nella buona sorte, [377] ripetendolo da un’altra fi-
losofia alla quale non osa contestarlo13. Se lo sapesse, non do-
vrebbe partire dalla dualità in quanto fatto indubitabile, che con
quel colpo di mano essa si limita a togliere, e tuttavia lascia stare,
bensì dovrebbe partire dall’unità, ed essere in grado di dedurne,
in modo comprensibile ed evidente, la dualità e con essa tutta la

11
Leggi: resta prigioniera nei singoli enti intesi come oggetti particolari, co-
me “qualcosa”; tali “qualcosa” però sono semplici proiezioni o concrezioni del-
l’infinità dello spazio e del tempo (“ombre delle ombre”), i quali rappresenta-
no, a loro volta, proiezioni, immagini o “schemi” delle “ombre” primarie, co-
stituite dal “vedere” e dal “volere” in quanto immagini elementari della “vita”.
Se teniamo conto che quest’ultima è l’immagine originaria (Urbild) dell’Assolu-
to, abbiamo uno schematismo quintuplice come struttura fondamentale del-
l’apparire, o in altri termini: abbiamo la ricostruzione in senso trascendentale-
genetico delle cinque condizioni di possibilità principali, a partire da cui è pos-
sibile comprendere il fenomeno nel suo manifestarsi: 1) Assoluto “infigurabile”;
2) Vita come sua “immagine originaria”; 3) Vedere e volere; 4) Infinità spazio-
temporale; 5) Enti singolari, o “qualcosa”.
12
Cioè, alla “natura” intesa come insieme dei singoli enti o “qualcosa”. Tra-
sparente, soprattutto ai contemporanei, doveva apparire il riferimento a Schel-
ling e ai suoi seguaci.
13 Quasi certamente, questa “altra filosofia” è quella di Spinoza.

108
molteplicità. Ma per fare questo c’è bisogno del pensiero, della ri-
flessione attuata e portata fino al termine. In parte, essa non ha
imparato l’arte di questo pensiero e ne è in generale incapace, es-
sa è in grado solo di esaltarsi; in parte, essa è nemica di questo pen-
siero e non ama provarlo, perché verrebbe turbata nella sua illu-
sione prediletta14.
Ora, questo è il punto in cui la nostra filosofia si contrappone
seriamente a quella filosofia, e in questa occasione lo abbiamo vo-
luto dichiarare e testimoniare nella maniera più esplicita possibile.

14 È il caso di ribadire che in queste osservazioni Fichte condensa il frutto

di un incessante lavoro di approfondimento della sua dottrina della scienza, at-


traverso il quale la distanza con Schelling era apparsa al filosofo di Rammenau
sempre più ampia e incolmabile. Sul confronto Fichte-Schelling, fondamentale
resta l’edizione del loro Carteggio e scritti polemici, a cura di F. Moiso, Napoli
1986. La polemica si sviluppò pubblicamente con l’uscita, nell’autunno del
1806, dello scritto di Schelling Darlegung des wahren Verhältnisses der Na-
turphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre (cfr. F.W.J. Schelling, SW,
a cura di K.F.A. Schelling, Stuttgart-Augsburg 1856-1861, vol. VII, pp. 1-126;
trad. it. Esposizione del vero rapporto della filosofia della natura con la dottrina
fichtiana migliorata, in Carteggio cit., pp. 233-355). Non sembra che Fichte, il
quale nel frattempo si era trasferito a Königsberg, abbia preso immediata visio-
ne del saggio di Schelling; ma certo, la sua comparsa contribuisce a delineare lo
sfondo in cui va inserito il successivo scritto (rimasto inedito) di Fichte, Bericht
über den Begriff der Wissenschaftslehre und die bisherigen Schicksale derselben
(1806/07), GA, II, 10, pp. 21-65, trad. it. Rapporto sul concetto della dottrina del-
la scienza e sulle sorti che essa ha avuto sinora, in Carteggio cit., pp. 191-231.
Ottavo discorso
Che cos’è un popolo
nel più alto significato della parola,
e che cos’è amor di patria?

Gli ultimi quattro discorsi hanno risposto alla domanda: “che co-
sa sono i tedeschi, in opposizione agli altri popoli di provenienza
germanica?” La dimostrazione che, mediante tutto ciò, deve es-
sere condotta per tutta la nostra ricerca, viene completata se alla
nostra ricerca aggiungiamo la domanda: che cos’è un popolo?
Quest’ultima domanda equivale a un’altra domanda, spesso sol-
levata e alla quale si è risposto in modi molto diversi, e risponde
anche a questa: che cos’è amor di patria? Oppure, esprimendoci
ancora più esattamente: che cos’è l’amore del singolo per la sua
nazione?1
Se l’andamento della nostra ricerca fino a qui è stato giusto, al-
lora dovrebbe essere chiaro che soltanto il [378] tedesco (l’essere
umano autentico, non quello che si è spento in un complesso ar-
bitrario di regole) ha e può contare veramente su un popolo; e che
soltanto egli è capace di un amore per la sua nazione genuino e ra-
gionevole.
La seguente considerazione, che in un primo tempo sembra
esterna alla nostra ricerca, ci apre la strada per la soluzione del
compito che abbiamo di fronte.
Come abbiamo già notato nel nostro Terzo discorso, la reli-
gione ci può trasportare assolutamente oltre il tempo e oltre l’in-

1 Inevitabile il rimando a J.G. Fichte, Der Patriotismus, und sein Gegenteil

(1806/07) [Il patriottismo e il suo contrario], ora in GA, II, 9, pp. 393-445.

110
tera vita sensibile presente, senza perciò incrinare minimamente
la rettitudine, la moralità e la sacralità della vita afferrata da que-
sta fede. Anche se si è convinti che tutto ciò che facciamo su que-
sta terra non lascerà dietro di sé la minima traccia, e non porterà
alcun frutto; anzi, che il divino verrà addirittura pervertito e uti-
lizzato come strumento del male e di una corruzione morale an-
cora più profonda; tuttavia, noi possiamo continuare ad agire, an-
che solo per salvaguardare la vita divina sbocciata in noi, e in ri-
ferimento a un ordine delle cose più alto in un mondo futuro, in
cui nulla di ciò che è accaduto in Dio va distrutto. Così per esem-
pio gli apostoli, e in generale i primi cristiani, con la loro fede nel
cielo si erano sollevati dalla terra già in questa vita, e avevano a tal
punto rinunciato agli affari terreni, allo Stato, alla patria e alla na-
zione terrene, che non li degnavano nemmeno più della loro con-
siderazione. Ora, per quanto tutto ciò sia possibile, e per quanto
sia facile abbandonarsi gioiosamente alla fede, se la volontà im-
mutabile di Dio è che noi non abbiamo più una patria sulla terra,
e che quaggiù siamo schiavi e reietti; tuttavia, questo non è lo sta-
to naturale e la regola del corso del mondo, bensì una rara ecce-
zione. Inoltre, è fare un uso assai cattivo della religione, che tra gli
altri è stato fatto molto di frequente anche dal cristianesimo, se es-
sa fin dall’inizio, e senza considerare le circostanze presenti, [379]
mira a raccomandare questo ritirarsi dagli affari dello Stato e del-
la nazione come vera disposizione religiosa. In una simile situa-
zione, se essa è vera ed effettiva, e non è semplicemente provoca-
ta da fanatismo religioso, la vita temporale perde ogni autonoma
consistenza, e diventa soltanto una soglia di ingresso alla vera vi-
ta, e un difficile esame che si sopporta solo per obbedienza e ras-
segnazione alla volontà di Dio; e allora è vero, come molti hanno
immaginato, che spiriti immortali siano stati immersi solo per pu-
nizione in corpi terreni come in una prigione. Al contrario, nel-
l’ordine normale delle cose, la vita terrena deve essere essa stessa
veramente vita, di cui si possa gioire e godere con gratitudine, cer-
to in attesa di una vita più alta; e benché sia vero che la religione
è anche la consolazione dello schiavo oppresso ingiustamente, tut-
tavia il senso religioso consiste innanzi tutto nell’insorgere contro
la schiavitù e, se lo si può impedire, nel non fare scadere la reli-
gione a mera consolazione dei prigionieri. Al tiranno, certo, con-
viene predicare rassegnazione religiosa, e rimandare al cielo colo-

111
ro ai quali non vuole concedere neppure un posticino sulla terra;
noi altri non dobbiamo avere tanta fretta di fare nostra questa
concezione della religione – che egli raccomanda – e, se possiamo,
dobbiamo impedire che qualcuno trasformi la terra in un inferno,
per poter suscitare una nostalgia tanto più grande del cielo.
L’impulso dell’uomo, cui si può rinunciare solo in caso di ve-
ra necessità, è di trovare il cielo già su questa terra, e di immette-
re ciò che dura in eterno nella sua opera terrena quotidiana; è di
piantare e di coltivare nel tempo ciò che non passa – di non esse-
re collegato all’eterno in modo incomprensibile e solo attraverso
un baratro inaccessibile a occhio mortale, bensì in un modo visi-
bile all’occhio mortale stesso.
Vorrei fare un esempio banale. Quale uomo di animo nobile
non vuole e non desidera ripetere di nuovo, in modo migliore, la
sua vita personale nei suoi figli e poi ancora nei figli di questi? E
[380] sopravvivere ancora a lungo su questa terra dopo la mor-
te, in modo più nobile e perfetto, nella vita di costoro? Chi non
desidera strappare alla mortalità lo spirito, l’animo e i costumi,
con i quali egli forse, ai suoi giorni, faceva orrore alla perversio-
ne e alla corruzione, mentre rafforzava la rettitudine, rianimava
l’inerzia, risollevava l’umiliazione? E deporre tutto ciò, come il
suo lascito migliore per i posteri, negli animi dei suoi successori,
affinché un giorno anche loro possano nuovamente lasciarlo in
eredità, più bello e più ricco? Quale uomo di animo nobile non
vuole, con la sua azione o il suo pensiero, spargere un seme per
l’infinito perfezionamento, che va sempre avanti, della sua spe-
cie? Gettare nel tempo qualcosa di nuovo, di mai prima esistito,
che resti, e che divenga fonte inesauribile di creazioni? Chi non
desidera ripagare il suo posto su questa terra, e il breve lasso di
tempo che gli è concesso, con qualcosa che duri in eterno anche
quaggiù, in modo tale che egli, questo singolo, se anche non ve-
nisse ricordato dalla storia (perché aspirare alla fama dei posteri
è una spregevole vanità), tuttavia manifesti, lasci testimonianze,
nella sua coscienza personale e nella sua fede, del fatto che an-
ch’egli è esistito? Quale uomo di animo nobile non vuole tutto
questo, ho detto; ma il mondo va considerato e organizzato solo
secondo i bisogni di coloro che la pensano così, e il mondo esi-
ste unicamente per amor loro. Essi ne sono il nucleo, e anche
quelli che pensano in altro modo, finché la pensano così, esisto-

112
no solo per amor loro, e devono adattarsi a loro, finché non sia-
no divenuti come loro.
Ora, che cosa potrebbe fornire garanzia a questa esortazione e
a questa fede dell’uomo nobile nell’eternità e immortalità della
sua opera? Evidentemente, solo un ordine delle cose che egli po-
tesse riconoscere per se stesso eterno, e capace di accogliere in sé
l’eterno. Ma un siffatto ordine è la particolare natura spirituale
dell’ambiente umano, che certo non si può afferrare in un con-
cetto, ma pure è veramente presente, dalla quale [381] è sorto egli
stesso con tutto il suo pensare e il suo fare, e con la sua fede nella
loro eternità; è il popolo da cui egli proviene e tra cui è stato for-
mato, sino a divenire ciò che egli è adesso. Perché, per quanto sia
indubbio che la sua opera, se egli si appella alla sua eternità a buon
diritto, non è affatto il mero risultato della legge di natura spiri-
tuale della sua nazione, né si esaurisce in questo, bensì è un che di
eccedente e – in quanto tale – promana immediatamente dalla vi-
ta originaria e divina; tuttavia, è altrettanto vero che quell’ecce-
dente, fin dalla sua prima configurazione in un fenomeno visibi-
le, si è disposto sotto quella particolare legge di natura spirituale,
e si è formato un’espressione sensibile solo conformemente a es-
sa. Ora, finché questo popolo sussiste, anche tutte le ulteriori ma-
nifestazioni del divino, in esso, rientreranno e si daranno una fi-
gura sotto la stessa legge. Ma per il fatto che anch’egli è esistito e
ha agito così, questa stessa legge è stata ulteriormente determina-
ta, e la sua efficacia è diventata una componente costante di essa.
E così, dunque, egli è sicuro che la formazione raggiunta attra-
verso di lui resterà nel suo popolo finché questo stesso popolo esi-
sterà, e diventerà duraturo fondamento di determinazione per
ogni ulteriore sviluppo.
Ora, nel significato superiore della parola, inteso dal punto di
vista della concezione di un mondo spirituale in generale, un po-
polo è il tutto degli uomini che sopravvivono insieme in società, e
che si generano con continuità da se stessi in senso naturale e spi-
rituale, il quale tutto, nel complesso, si trova sotto una certa leg-
ge particolare dello sviluppo del divino da esso. La condivisione
di questa legge è ciò che nel mondo eterno, e perciò anche in quel-
lo temporale, unisce questa moltitudine in un tutto naturale e da
se stesso compenetrato. Questa stessa legge, riguardo al suo con-
tenuto, può sì essere colta nell’insieme, come noi abbiamo fatto

113
con i tedeschi in quanto popolo originario; essa può perfino [382]
essere compresa più precisamente, in alcune sue ulteriori deter-
minazioni, riflettendo sulle manifestazioni di un popolo siffatto;
ma non potrà mai essere compenetrata interamente col concetto
da chiunque resti continuamente sotto il suo influsso inconsape-
vole; benché, in generale, si possa intendere chiaramente che una
legge del genere esiste. Questa legge è un di più della figurabilità,
che nel fenomeno si fonde immediatamente con il di più dell’ori-
ginarietà infigurabile; e così dunque entrambi, appunto nel feno-
meno, non possono più venire separati. Quella legge, in quanto
legge dello sviluppo di ciò che è originario e divino, determina as-
solutamente e completamente ciò che è stato chiamato il caratte-
re nazionale di un popolo. Da queste ultime considerazioni è chia-
ro che uomini i quali, secondo la nostra descrizione dell’esterofi-
lia, non credono affatto in qualcosa di originario e in un suo pro-
gressivo sviluppo, bensì soltanto in un circolo eterno della vita ap-
parente e, mediante la loro fede, diventano come credono di es-
sere, non sono affatto un popolo nel senso superiore; e poiché di
fatto, in senso proprio, neppure esistono, non sono in grado nem-
meno di avere un carattere nazionale.
La fede dell’uomo nobile nell’eterna durata della sua efficacia
anche su questa terra si basa dunque sulla speranza nell’eterna du-
rata del popolo da cui egli stesso si è sviluppato, e della sua pecu-
liarità in accordo con quella legge nascosta; senza mescolanza e
corruzione da parte di qualunque cosa sia estranea e non perti-
nente al tutto di questa legislazione. Questa peculiarità è l’eterno
al quale egli affida l’eternità di se stesso e del suo progressivo ope-
rare, l’eterno ordine delle cose, in cui egli ripone il suo eterno; egli
deve volere la sua durata, poiché soltanto essa è per lui il mezzo
di liberazione, mediante cui il breve lasso di tempo della sua vita
quaggiù può prolungarsi in una vita duratura quaggiù. La sua fe-
de e il suo sforzo di piantare qualcosa che non passi; il suo con-
cetto, in cui egli coglie la sua vita personale come vita eterna, so-
no il vincolo che congiunge a lui nel modo più intimo dapprima
la sua nazione, e per mezzo di essa l’intero genere umano, e [383]
che introducono nel suo cuore allargato i bisogni di tutti gli uo-
mini, sino alla fine dei giorni. Questo è il suo amore per il suo po-
polo: dapprima rispettoso, fiducioso, contento di esso, orgoglio-
so della sua discendenza da esso. In esso è apparso un che di di-

114
vino, e l’originario lo ha degnato di farne la sua scorza e il suo mez-
zo immediato di confluenza nel mondo; perciò anche in seguito,
da esso, scaturirà qualcosa di divino. Poi attivo, efficace, sacrifi-
cantesi per esso. La vita, come nuda vita, come continuazione del-
l’esserci mutevole, per lui comunque non ha mai avuto valore, egli
l’ha voluta soltanto come sorgente di ciò che dura; ma questa du-
rata gli viene promessa solo dal fatto che la sua nazione continui
a esistere in modo indipendente; per salvare questa, egli deve es-
sere disposto anche a morire, perché essa viva, ed egli viva, in es-
sa, l’unica vita che abbia mai desiderato.
Così è. L’amore, che sia veramente amore, e non semplice-
mente un’attrazione passeggera, non si appunta mai su qualcosa
di transeunte, ma si risveglia e si accende e riposa soltanto nell’e-
terno. L’uomo non può amare nemmeno se stesso, a meno che non
si colga come un che di eterno; altrimenti non può nemmeno ri-
spettarsi, né approvarsi. Ancora meno egli può amare qualcosa al
di fuori di sé, a meno di non accoglierlo nell’eternità della sua fe-
de e del suo animo, e di collegarlo a questi. Chi innanzitutto non
scorge sé come eterno, questi in generale non ha amore, e dunque
non può neppure amare una patria, che per lui non esiste. Chi ma-
gari scorge come eterna la sua vita invisibile, ma non altrettanto la
sua vita visibile, costui può ben avere un paradiso e in esso la sua
patria, ma quaggiù egli non ha alcuna patria, poiché anche questa
viene scorta solo sotto l’immagine dell’eternità, e precisamente
dell’eternità visibile e resa sensibile, e perciò neppure lui può
amare la sua patria. Egli deve essere compianto, se non gliene è
stata tramandata alcuna; ma a chi essa è stata tramandata, nell’a-
nimo del quale si compenetrano cielo e terra, visibile e invisibile,
[384] creando soltanto così un cielo vero e compatto, costui lotta
fino all’ultima goccia di sangue, per trasmettere ancora una volta
il caro possesso, intatto, alla posterità.
Così anche è stato da sempre, benché non sia mai stato espres-
so con questa universalità e con questa chiarezza. Che cosa entu-
siasmava i nobili romani, le cui disposizioni d’animo e modi di
pensare vivono e respirano ancora tra noi nei loro monumenti, fi-
no al punto di sopportare e di compiere fatiche e sacrifici per la
patria? Lo dicono essi stessi, spesso e chiaramente. Era la saldez-
za della loro fede nella durata eterna della loro Roma, e la loro fi-
ducia nella prospettiva di sopravvivere essi stessi, in questa eter-

115
nità, eternamente nella corrente del tempo. Nella misura in cui era
fondata e in cui essi stessi l’avrebbero colta, se fossero stati per-
fettamente chiari in se stessi, questa fede non li ha ingannati. Ciò
che nella loro Roma eterna era davvero eterno, sopravvive in mez-
zo a noi ancora oggi insieme a loro, e sopravviverà nelle sue con-
seguenze sino alla fine dei giorni.
Popolo e patria in questo significato, come supporto e pegno
dell’eternità terrena, e come ciò che quaggiù può essere eterno, si
trovano molto al di là dello Stato nel senso comune della parola –
oltre l’ordine sociale, per come esso viene colto nella mera chia-
rezza del concetto, e viene istituito e conservato sotto la direzione
di quest’ultimo. Il concetto esige diritto certo, pace interna, e che
ciascuno trovi col suo impegno il suo sostentamento e la conser-
vazione della sua esistenza sensibile, finché Dio gliela voglia ga-
rantire. Tutto questo è soltanto mezzo, condizione e sostegno di
ciò che propriamente esige l’amor di patria, dello sbocciare del-
l’eterno e divino nel mondo, in modo sempre più puro, perfetto e
adeguato nell’infinito procedere. Proprio perciò questo amor di
patria deve governare lo Stato stesso, come autorità assolutamen-
te suprema, ultima e indipendente: anzitutto, limitandolo nella
scelta dei mezzi per il suo scopo più immediato, la pace interna.
A tale scopo, la libertà naturale del singolo deve essere senz’altro
limitata in vario modo, e se [385] con gli uomini non si avesse nes-
sun altro riguardo né scopo, allora si farebbe bene a limitarli nel
modo più stretto possibile, a sottoporre tutte le loro attività a una
regola uniforme, e a mantenerli sotto una continua sorveglianza.
Se anche questo rigore non fosse necessario, almeno per quest’u-
nico scopo non potrebbe essere dannoso. Solo una concezione su-
periore del genere umano e dei popoli allarga questa valutazione
limitata. La libertà, anche nelle attività della vita esteriore, è il ter-
reno su cui germoglia la cultura superiore; una legislazione che
tenga in vista quest’ultima, lascerà alla prima una cerchia ampia il
più possibile, perfino a rischio di una minore uniformità quanto a
quiete e tranquillità, e benché governare diventi più difficile e fa-
ticoso.
Per chiarirlo con un esempio: abbiamo visto che ad alcune na-
zioni è stato detto apertamente che esse non avrebbero bisogno di
tanta libertà quanto alcune altre. Questo discorso può contenere
perfino un eufemismo, poiché in realtà si voleva dire che esse non

116
potrebbero affatto sopportare tanta libertà, e che solo una gran-
de severità potrebbe impedire loro di logorarsi reciprocamente.
Ma se le parole vengono intese così come sono dette, allora esse
sono vere solo presupponendo che una nazione simile sia assolu-
tamente incapace della vita originaria e dell’impulso a essa. Una
nazione simile, qualora fosse possibile che in essa neppure una mi-
noranza di più virtuosi faccia eccezione alla regola generale, non
avrebbe bisogno effettivamente di alcuna libertà, poiché questa è
solo per gli scopi superiori che si trovano al di là dello Stato. Es-
sa ha bisogno soltanto dell’addomesticamento e addestramento
che consenta ai singoli di esistere pacificamente gli uni accanto
agli altri, e al tutto di venire predisposto come mezzo adeguato
per scopi da porre arbitrariamente, che si trovano fuori di esso.
Noi possiamo lasciare indeciso, se questo possa dirsi con verità di
una nazione qualsiasi; chiaro è che un popolo originario ha biso-
gno della libertà, che questa è il pegno del suo persistere come ori-
ginario, e che nel corso della sua durata [386] esso sopporta sen-
za alcun pericolo un grado di libertà sempre crescente. E questo
è il primo aspetto riguardo al quale l’amor di patria deve gover-
nare lo Stato stesso.
In secondo luogo, esso deve governare lo Stato dandogli uno
scopo superiore a quello comune della conservazione della pace
interna, della proprietà, della libertà personale, della vita, e del be-
nessere di tutti. Solo per questo scopo superiore, e con nessun al-
tro intento, lo Stato riunisce una potenza armata. Quando entra
in questione l’applicazione di questa, quando si tratta di porre in
gioco tutti gli scopi dello Stato nel mero concetto, proprietà, li-
bertà personale, vita e benessere, anzi l’esistenza dello Stato stes-
so; quando si tratta di decidere, senza un chiaro concetto intellet-
tuale del sicuro raggiungimento di ciò che ci si prefigge, respon-
sabili in senso originario e solo verso Dio: allora soltanto, al timo-
ne dello Stato, vige una vita veramente prima e originaria, e solo
a questo punto subentrano i veri diritti di maestà del governo,
quelli di mettere a repentaglio, come Dio, la vita inferiore per
amore di una vita più alta. Nella conservazione della costituzione
tramandata, delle leggi, del benessere borghese, non vi è nessuna
vita autentica in senso proprio, e nessuna decisione originaria.
Tutto ciò è il frutto di circostanze e situazioni, di legislatori forse
morti da lungo tempo; le epoche seguenti procedono fiduciose

117
lungo la via tracciata, e così di fatto non vivono una vita pubblica
loro propria, bensì ripetono soltanto la vita di un tempo. In que-
ste epoche non c’è bisogno di un governo in senso proprio. Ma
quando questo procedere uniforme entra in pericolo, e ora si trat-
ta di decidere su casi nuovi mai ancora esistiti, allora c’è bisogno
di una vita che viva da se stessa. Qual è ora lo spirito cui in casi si-
mili è concesso di porsi al timone, che con personale certezza e si-
curezza, e senza oscillare incerto di qua e di là, è in grado di deci-
dere, che ha l’indubbio diritto di pretendere in modo imperativo
da ciascuno che ne sia coinvolto, lo voglia questi o meno, e di co-
stringere chi oppone resistenza [387] a rischiare tutto, finanche la
propria vita? Non è lo spirito del tranquillo amore borghese del-
la costituzione e delle leggi, bensì la fiamma divorante del supe-
riore amor di patria, che abbraccia la nazione come scorza dell’e-
terno, per la quale il virtuoso si sacrifica con gioia, e il vile, che esi-
ste solo in funzione del primo, si deve appunto sacrificare. Non è
quell’amore borghese della costituzione; a meno che non perda il
ben dell’intelletto, esso non ne è affatto in grado. Comunque va-
da, poiché nessuno governa per niente, un governante per loro si
troverà sempre. Lasciate che il nuovo governante pretenda perfi-
no la schiavitù (e in che cosa consiste la schiavitù, se non nell’as-
senza di rispetto e nell’oppressione della peculiarità di un popolo
originario, che per quella mente non è presente?) – lasciate che
pretenda anche la schiavitù, poiché dalla vita degli schiavi, dalla
loro moltitudine, perfino dal loro benessere si può trarre vantag-
gio; allora, se quello è sufficientemente calcolatore, perfino la
schiavitù sotto di lui sembrerà accettabile. Perché dunque do-
vrebbero lottare? Per quei due, la cosa più importante è la tran-
quillità. Questa viene soltanto disturbata dalla continuazione del-
la lotta. Essi perciò faranno di tutto per terminarla il prima possi-
bile, si adatteranno, cederanno, e perché non dovrebbero? Per lo-
ro non si è mai trattato di altro, e dalla vita non hanno mai spera-
to di più che proseguire nell’abitudine di esistere in condizioni ac-
cettabili. La promessa di una vita anche quaggiù che duri oltre la
vita quaggiù – soltanto questa promessa può entusiasmare fino al-
la morte per la patria.
Così anche è stato finora. Laddove si è davvero governato, do-
ve si sono affrontate serie lotte, dove la vittoria è stata raggiunta
contro una forte resistenza, lì è stata quella promessa di vita eter-

118
na che governava, lottava e vinceva. È nella fede in questa pro-
messa che hanno lottato i protestanti tedeschi ricordati prima in
questi discorsi. Ignoravano forse che i popoli [388] potevano es-
sere governati e tenuti in un ordine giuridico anche con la vecchia
fede, e che anche in questa fede si può trovare un discreto so-
stentamento? Perché dunque i loro principi decisero la resistenza
armata, e perché i popoli la fornirono con entusiasmo? – Erano il
cielo e la beatitudine eterna ciò per cui essi versavano volentieri il
loro sangue. Ma quale potere terreno avrebbe dunque potuto pe-
netrare nell’intimo santuario del loro animo, e cancellarvi la fede
che ormai era sorta per essi, e su cui soltanto essi fondavano la spe-
ranza nella loro beatitudine? Dunque, non era neanche la loro
personale beatitudine ciò per cui essi lottavano; di questa essi era-
no già sicuri: era la beatitudine dei loro figli, di tutti i loro nipoti
e discendenti che non erano ancora nati; anche questi dovevano
essere allevati in quella stessa dottrina che a loro era apparsa co-
me l’unica apportatrice di salvezza, anche questi dovevano diven-
tare partecipi della salvezza che era giunta per loro; fu solamente
questa speranza che veniva minacciata dal nemico, fu per essa, per
un ordine di cose che sarebbe dovuto fiorire sulle loro tombe a
lungo dopo la loro morte, che essi versarono con tanta gioia il lo-
ro sangue. Ammettiamo che non fossero del tutto chiari in se stes-
si, che nel designare ciò che di più nobile era in loro usassero le
parole sbagliate, e facessero torto con la bocca al loro cuore; con-
fessiamo volentieri che la loro professione di fede non era il mez-
zo unico ed esclusivo per diventare partecipi del cielo al di là del-
la tomba: tuttavia questo è vero in eterno, cioè che mediante il lo-
ro sacrificio, in tutta la vita delle età seguenti è arrivato più cielo
al di qua della tomba, un più coraggioso e più gioioso sollevare lo
sguardo da terra, e una più libera attività dello spirito; e tanto i di-
scendenti dei loro avversari, quanto noi loro discendenti, godia-
mo fino a oggi dei frutti delle loro fatiche.
In questa fede, i nostri più antichi antenati comuni, il popolo
che ha dato inizio alla nuova cultura, i tedeschi che i Romani chia-
mavano Germani, si opposero con coraggio all’incombente do-
minio universale dei Romani. Non avevano dunque essi davanti
agli occhi la superiore prosperità delle province [389] romane vi-
cino a loro, i godimenti più fini in esse presenti, e inoltre leggi,
scranni giudiziari, fasci littori e scuri in abbondanza? Non erano

119
forse i Romani ben disposti a renderli partecipi di tante benedi-
zioni? Non ebbero prova della tanto lodata clemenza romana in
più d’uno dei loro stessi principi, purché questi si facessero con-
vincere del fatto che la guerra contro simili benefattori dell’uma-
nità era ribellione, mentre gli accondiscendenti venivano insigni-
ti di titoli regi, posti da condottiero nei loro eserciti, bende sacer-
dotali romane, trovando rifugio e sostentamento nelle colonie, se
venivano scacciati dai loro compatrioti? Non avevano alcun sen-
so per i vantaggi della cultura romana, ad esempio per la miglio-
re organizzazione dei loro eserciti, in cui persino un Arminio non
si era vergognato di apprendere il mestiere delle armi?2 Non può
essere loro imputato nulla di una siffatta ignoranza o mancanza di
considerazione. I loro discendenti, non appena hanno potuto far-
lo senza perdere la loro libertà, si sono addirittura appropriati del-
la loro cultura, nella misura in cui era possibile farlo senza smar-
rire la propria peculiarità. Perché dunque hanno lottato per di-
verse generazioni in una guerra sanguinosa, che si è sempre rin-
novata con la stessa forza? Uno scrittore romano fa parlare così i
loro condottieri: “A voi non resta che affermare la libertà, o mo-
rire prima di diventare schiavi”3. Libertà era per loro il fatto di ri-

2 Arminio fu il vincitore della battaglia di Teutoburgo (9 d.C.) contro le le-

gioni romane guidate da Quintilio Varo. L’episodio citato alla nota seguente è
successivo a questo evento.
3 Fichte si riferisce a Tacito, Annali, Libro II, cap. XV, che riteniamo op-

portuno citare per esteso: “Orationem ducis secutus militum ardor, signumque
pugnae datum. Nec Arminius aut ceteri Germanorum proceres omittebant suos
quisque testari, hos esse Romanos Variani exercitus fugacissimos qui ne bellum
tolerarent, seditionem induerint; quorum pars onusta uulneribus terga, pars
fluctibus et procellis fractos artus infensis rursum hostibus, aduersis dis obi-
ciant, nulla boni spe. Classem quippe et auia Oceani quaesita ne quis uenienti-
bus occurreret, ne pulsos premeret: sed ubi miscuerint manus, inane uictis uen-
torum remorumue subsidium. Meminissent modo auaritiae, crudelitatis, super-
biae: aliud sibi reliquum quam tenere libertatem aut mori ante seruitium?” (cfr.
la trad. it. di B. Ceva, Milano 1951, vol. 1, p. 71: “Le parole di Germanico, alle
quali seguì il segnale dell’inizio della battaglia, accesero l’ardore dei soldati. Nel
campo opposto, frattanto, sia Arminio, sia ciascuno degli altri capi dei Germa-
ni, non cessavano dal dimostrare ai loro che i nemici che stavan di fronte erano
proprio quei Romani dell’esercito di Varo, che erano stati più veloci nella fuga,
e che, per non voler sopportare la guerra, s’erano ribellati. Parte di essi aveva il
dorso pieno di ferite, parte con le membra spezzate dalle onde procellose erano
di nuovo gettati a sfidare l’ostilità degli dei e la ferocia dei nemici, senza spe-
ranza alcuna. Per quanto si fossero serviti della flotta e avessero intrapreso le vie

120
manere tedeschi, di continuare a decidere i loro affari in modo in-
dipendente e originario, secondo il loro proprio spirito, e di tra-
piantare questa indipendenza anche nei loro discendenti: tutte
quelle benedizioni, che i Romani offrivano loro, significavano per
loro la schiavitù, poiché in questo modo essi sarebbero dovuti di-
ventare qualcosa di diverso dall’essere tedeschi, sarebbero dovu-
ti diventare mezzi romani. Essi ritenevano naturale che chiunque
avrebbe preferito morire piuttosto che ridursi a questo, e che un
autentico tedesco, appunto, potesse desiderare la vita solo per es-
sere e rimanere tedesco, e per formare tra i suoi dei tedeschi.
[390] Essi non sono tutti morti, non hanno visto la schiavitù,
hanno lasciato la libertà in eredità ai loro figli. L’intero mondo
moderno deve alla loro tenace resistenza se esso esiste come esi-
ste. Se i Romani fossero riusciti a sottomettere anche loro, e a di-
struggerli in quanto nazione come hanno fatto dovunque, l’intero
sviluppo successivo dell’umanità avrebbe preso un’altra direzio-
ne, che non si può credere migliore. Noi, che siamo gli eredi più
immediati del loro territorio, della loro lingua e della loro dispo-
sizione d’animo, dobbiamo a loro il fatto di essere ancora tede-
schi, di essere ancora sostenuti dalla corrente di una vita origina-
ria e indipendente; a essi noi dobbiamo tutto ciò che siamo stati
da allora in quanto nazione, a essi dobbiamo ciò che saremo an-
cora in futuro, a meno che adesso per noi non sia finita, e nelle no-
stre vene non si sia disseccata l’ultima goccia del loro sangue. A
essi devono la loro esistenza perfino gli altri popoli, che ora per
noi fanno parte dell’estero, ma in loro sono nostri fratelli. Quan-
do essi sconfissero la Roma eterna, non esisteva ancora nessuno di
questi popoli; allora venne conquistata anche per loro la possibi-
lità della loro nascita futura.
Costoro hanno vinto perché erano ispirati dall’eterno, e così
tutti gli altri nella storia universale che erano animati dallo stesso
spirito; e così questo entusiasmo vince sempre e necessariamente
su chi non ha entusiasmo. Non è la forza delle braccia che fa con-

non tentate dell’Oceano, perché nessuno si opponesse a loro avanzanti e li in-


calzasse, respinti, allorché avessero attaccato battaglia, sarebbero stati sopraf-
fatti e vano aiuto sarebbero stati i remi e i venti. Si ricordassero i Germani del-
la cupidigia, della crudeltà, della superbia romane: che altro mai a loro sarebbe
rimasto, più che salvare la libertà o morire prima di cadere in schiavitù?”).

121
quistare le vittorie, né l’abilità nelle armi, bensì la forza dell’ani-
mo. Chi pone un obiettivo limitato ai suoi sacrifici, e non ama ri-
schiare oltre un certo punto, abbandona la resistenza non appena
il pericolo arriva a questo punto, che egli non può assolutamente
abbandonare, e di cui non può assolutamente fare a meno. Chi
non si è posto un obiettivo particolare, bensì ha messo in gioco
tutto, e la cosa suprema che si possa perdere quaggiù, cioè la vita,
non abbandona mai la resistenza, e se l’avversario ha un obiettivo
limitato, vince senza dubbio. Un popolo capace – sia pure soltan-
to nei suoi supremi rappresentanti e condottieri – di fissare lo
sguardo sulla visione proveniente dal mondo degli spiriti, quella
dell’indipendenza, [391] e di farsi catturare dall’amore per essa,
come i nostri antichi antenati, vince senz’altro su un popolo usa-
to, come gli eserciti romani, solo come strumento di un’estranea
brama di dominio, e per la sottomissione di popoli indipendenti;
perché i primi hanno tutto da perdere, i secondi solo qualcosa da
guadagnare. Ma per vincere su un modo di pensare che conside-
ra la guerra come un gioco d’azzardo con guadagni o perdite tem-
poranei, e in cui la posta è già fissata prima che cominci la parti-
ta, basta anche un capriccio. Pensate per esempio a un Maomet-
to – non quello reale della storia, su cui confesso di non avere al-
cun giudizio, ma quello di un noto poeta francese4 – che si sia mes-
so in testa di essere una delle rare nature chiamate a guidare l’o-
scura plebe della terra, e a cui tutte le sue trovate, per quanto mi-
sere e limitate possano essere in realtà, in conformità a quel pri-
mo presupposto devono necessariamente apparire, in quanto so-
no le sue, come idee grandi, sublimi e beatificanti, e tutto ciò che
si contrappone a esse come oscura plebe, nemici del loro stesso
bene, malvagi e odiosi; il quale ora, per giustificare di fronte a se
stesso questa sua presunzione come chiamata divina, e completa-
mente immerso in questo pensiero con tutta la sua vita, deve pun-
tare tutto su questo, e non può stare tranquillo finché non ha cal-

4
Voltaire pubblicò la “tragedia” Le Fanatisme ou Mahomet le prophète nel
1743. Quanto all’affermazione di Fichte, secondo cui egli non avrebbe avuto al-
cuna idea sul Maometto personaggio storico, ciò non deve trarre in inganno ri-
spetto alla valutazione che egli diede dell’islamismo come movimento teologi-
co-politico a carattere fortemente espansivo. Su questo, Fichte sembra avere le
idee abbastanza chiare: cfr. GZ, lez. 13, pp. 350-352 (trad. it., cit., pp. 306-308).

122
pestato chiunque non abbia di lui un’opinione altrettanto alta, e
finché tutti coloro che lo circondano non riflettano a lui la sua
stessa fede nella sua missione divina. Io non voglio dire che cosa
gli succederebbe, se davvero entrasse in lizza con lui una visione
spirituale vera e chiara in se stessa; ma con quei limitati giocatori
d’azzardo egli la spunterà senz’altro, poiché egli punta tutto con-
tro di loro, che non puntano tutto; nessuno spirito li spinge, egli
invece è spinto da uno spirito fanatico – quello della sua forte e
potente presunzione.
Da tutto ciò risulta che lo Stato, come mera conduzione della
[392] vita umana che procede nel suo pacifico cammino consue-
to, non è niente di primo e di essente per sé, bensì è soltanto il
mezzo per lo scopo superiore della formazione – che eternamen-
te procede in modo uniforme – del puramente umano in questa
nazione. È soltanto la visione dell’idea, e l’amore per questa eter-
na formazione progressiva, che deve assumere, anche nei periodi
di pace, la superiore sorveglianza sull’amministrazione dello Sta-
to, e che può salvare l’indipendenza del popolo, quando essa è in
pericolo. Tra i tedeschi, in quanto sono un popolo originario, que-
sto amor di patria è possibile e, come crediamo fermamente, fino
a ora è stato anche effettivo, e ha potuto contare con grande fidu-
cia sulla sicurezza dei suoi affari più importanti. Come avvenne
soltanto presso i Greci nell’antichità, anche presso di loro lo Sta-
to e la nazione erano separati l’uno dall’altra, e rappresentati cia-
scuno per sé. Il primo era rappresentato nei particolari regni e
principati tedeschi. La seconda era rappresentata, in modo visibi-
le, nella federazione imperiale; in modo invisibile, in una moltitu-
dine di consuetudini e istituzioni. Essa vigeva non secondo un di-
ritto fissato per iscritto, ma vivente nell’animo di tutti, e saltava
agli occhi dappertutto nelle sue conseguenze. Fin dove giungeva
la lingua tedesca, chiunque venisse alla luce nel suo ambito pote-
va considerarsi doppiamente cittadino: in parte del suo Stato di
nascita, alla cura del quale egli era affidato in un primo tempo, in
parte dell’intera patria comune della nazione tedesca. A ciascuno
era consentito di ricercare sull’intera superficie di questa patria
quella cultura che avesse la massima affinità con il proprio spiri-
to, o l’ambito d’azione a questo adeguato, e il talento non cresce-
va restando al suo posto, come un albero, ma gli era permesso di
cercarsene uno. Chi, a causa della direzione presa dalla sua cultu-

123
ra, entrava in conflitto col suo ambiente circostante, trovava fa-
cilmente pronta accoglienza altrove, trovava nuovi amici al posto
dei vecchi, trovava tempo e tranquillità per spiegarsi meglio, for-
se per conquistare e riconciliare quegli stessi che si erano irritati,
ripristinando così l’accordo nel tutto5. Nessun principe tedesco
ha mai preteso [393] di fissare la patria per i suoi sudditi entro le
montagne o i fiumi su cui governava, e di considerarli vincolati a
una zolla di terra. Una verità che non poteva farsi sentire da una
parte, poteva farlo da un’altra, in cui forse al contrario erano vie-
tate quelle cose che là erano permesse; e così dunque, nonostan-
te diverse unilateralità e meschinità degli Stati particolari, in Ger-
mania, considerata questa come un tutto, vigeva la massima li-
bertà di ricerca e di comunicazione che mai un popolo abbia pos-
seduto; e la cultura superiore era e rimase ovunque il risultato del-
l’azione reciproca dei cittadini di tutti gli Stati tedeschi, e questa
cultura superiore giungeva dunque per gradi, in questa forma, an-
che al popolo più ignorante, che perciò nella sua globalità conti-
nuò sempre a educarsi da se stesso. Questo pegno essenziale per
la sopravvivenza di una nazione tedesca, come abbiamo detto,
non fu sminuito da nessuno spirito tedesco al timone del gover-
no. Può darsi che non sempre sia avvenuto ciò che il superiore
amor di patria tedesco avrebbe auspicato rispetto ad altre deci-
sioni originarie, ma almeno nessuno ha mai agito direttamente
contro il suo interesse, né ha cercato di seppellire, estirpare e so-
stituire quell’amore con un amore opposto.
Ma se ora la guida originaria tanto di quella cultura superiore,
quanto della potenza nazionale che può avere come suo scopo so-
lo quella cultura e la sua durata, se l’impiego del patrimonio te-
desco e del sangue tedesco dovessero passare, dal comando di uno
spirito tedesco, sotto un altro comando, che cosa succederebbe
necessariamente?
Questo è il punto in cui soprattutto c’è bisogno della disponi-
bilità, cui ci siamo appellati nel nostro Primo discorso, a non vo-

5
Lo sfondo per la comprensione del passo è costituito dalla “disputa sul-
l’ateismo”, che si concluse con l’abbandono, da parte di Fichte, dell’università
di Jena, e col suo trasferimento a Berlino. Sulle implicazioni filosofiche della vi-
cenda, cfr. G. Rotta, La “idea Dio”. Il pensiero religioso di Fichte fino all’Athei-
smusstreit, Genova 1995.

124
lersi ingannare sulle proprie faccende, e del coraggio di voler ve-
dere e ammettere la verità a se stessi; a quanto mi risulta, è anco-
ra permesso parlare gli uni con gli altri o almeno sussurrare della
patria in lingua tedesca, e io credo [394] che non faremmo bene
se anticipassimo un simile divieto al nostro stesso interno, e vo-
lessimo incatenare alla viltà di singoli il coraggio che già in prece-
denza, senza dubbio, avrà ponderato il rischio.
Dipingetevi dunque il nuovo potere tanto benigno e benevolo
quanto volete, fatelo buono come Dio; riuscirete a inserire in es-
so anche una divina intelligenza? Poniamo che voglia in tutta se-
rietà la suprema felicità e benessere di tutti: sarà il benessere su-
premo, che esso è in grado di concepire, anche un benessere te-
desco? Così, spero che mi abbiate capito perfettamente sul pun-
to principale che vi ho esposto oggi, spero che molti di voi abbia-
no pensato e sentito che io esprimo chiaramente ed enuncio con
parole solo ciò che è riposto da sempre nel vostro animo; spero
che le cose stiano così anche per gli altri tedeschi che un giorno
leggeranno questi discorsi; inoltre, altri tedeschi hanno detto più
o meno le stesse cose prima di me; e quell’intimo sentimento è sta-
to oscuramente alla base della resistenza continuamente attestata
contro un’organizzazione e una disposizione meramente mecca-
nica dello Stato. E ora, io invito tutti coloro che abbiano dimesti-
chezza con la letteratura moderna dei paesi esteri, a indicarmi
quale tra i loro saggi, poeti e legislatori più recenti abbia mai tra-
dito un presentimento simile a questo, che consideri il genere
umano come eternamente progrediente, e riferisca tutto il suo agi-
tarsi nel tempo solo a questo progresso; se uno qualsiasi, anche nel
momento della sua più audace creatività politica, abbia mai pre-
teso dallo Stato qualcosa di più che semplice non diseguaglianza,
pace all’interno, gloria nazionale all’estero e, quando ci si spinge-
va al punto più alto, felicità domestica. Se questo, come bisogna
concludere da tutti questi segnali, è ciò che per essi vi è di più al-
to, allora essi non attribuiranno anche a noi nessun bisogno più
alto e nessuna esigenza superiore riguardo alla vita, e sempre
[395] presupponendo quelle benevole disposizioni verso di noi e
l’assenza di ogni egoismo e di ogni desiderio di voler essere supe-
riori a noi, crederanno di averci trattato in modo eccellente met-
tendo a nostra disposizione tutto ciò che essi ritengono degno di
essere desiderato. Ma allora, ciò per cui solamente i migliori tra

125
noi amano vivere verrebbe cancellato dalla vita pubblica, e il po-
polo, che si è sempre mostrato ricettivo alle sollecitazioni dei mi-
gliori, e che era lecito sperare potesse innalzarsi per la maggior
parte a quella eccellenza, è abbassato sotto il suo rango, non ap-
pena venga trattato come vogliono essere trattati loro, privato del-
la sua dignità, cancellato dalla serie degli enti, poiché confluisce
in quello di tipo inferiore.
Ora, colui nel quale quelle superiori esigenze riguardo alla vi-
ta, assieme al sentimento del loro divino diritto, sono comunque
rimaste vive e forti, si sente suo malgrado ricacciato in quei primi
tempi del cristianesimo, in cui si diceva: “Voi non dovete resiste-
re al male, bensì, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu
porgi l’altra guancia, e se qualcuno vuole prenderti il vestito, tu
dagli anche il mantello”6; quest’ultima cosa, a ragione: perché fin-
ché vedrà che indossi un mantello, cercherà di entrare in contat-
to con te per prenderti anche questo; solo quando sarai comple-
tamente nudo sfuggirai alla sua attenzione e verrai lasciato in pa-
ce. Proprio il suo senso superiore, che gli fa onore, rende per lui
la terra un inferno e una nausea, egli desidera non essere mai na-
to, desidera che i suoi occhi si chiudano il prima possibile alla lu-
ce del giorno, i suoi giorni sono avvolti da un dolore inestinguibi-
le fino alla tomba; a chi gli è caro, egli non può augurare dono mi-
gliore che una mente ottusa e senza pretese, per andare incontro
con meno dolore a una vita eterna al di là della tomba.
Questi discorsi vi chiedono di impedire un simile annulla-
mento di ogni più nobile impulso che possa in futuro svilupparsi
tra noi, e un simile abbassamento di tutta la nostra nazione, me-
diante l’unico mezzo che sia ancora rimasto, dopo che gli altri so-
no stati applicati invano. Essi vi chiedono di piantare [396] in tut-
ti gli animi il vero e onnipotente amor di patria mediante l’educa-
zione, in modo profondo e indelebile, nella comprensione del no-
stro popolo come eterno e come garanzia della nostra eternità per-
sonale. Quale sia l’educazione in grado di farlo, e in che modo, lo
vedremo nei discorsi seguenti.

6 Vangelo secondo Matteo, 5, 39 (La Bibbia concordata cit., p. 18 – traduzio-

ne modificata per omogeneità col testo tedesco).

126
Nono discorso
A quale punto dato nella realtà
sia da collegare la nuova educazione
nazionale dei tedeschi

Col nostro ultimo discorso sono state condotte e completate di-


verse dimostrazioni già promesse nel primo. Adesso, dicevamo, si
tratta soltanto di salvaguardare direttamente l’esistenza e la con-
tinuazione di ciò che è tedesco, e questo è il primo compito. Tut-
te le altre differenze sono sparite a un superiore sguardo d’insie-
me; e con ciò non viene recato alcun danno ai legami particolari
che qualcuno crede di avere. Se teniamo a mente la distinzione
compiuta tra Stato e nazione, è chiaro che anche in precedenza gli
affari di questi due non potevano mai entrare in conflitto. Il su-
periore amor di patria per il popolo della nazione tedesca nel suo
insieme doveva e dovrebbe comunque assumere la direzione su-
prema in ogni Stato tedesco particolare; nessuno di loro dovreb-
be mai perdere di vista questo affare superiore, senza respingere
da sé tutto ciò che è nobile e valido, e accelerare così il suo pro-
prio tramonto. Perciò, quanto più qualcuno era preso e animato
da quell’affare superiore, tanto migliore era come cittadino dello
Stato tedesco particolare, in cui cadeva la sua sfera d’azione im-
mediata. Stati tedeschi potevano entrare in contrasto con Stati te-
deschi su [397] particolari diritti tradizionali. Chi voleva la conti-
nuazione dello stato tradizionale – e chiunque fosse dotato d’in-
telligenza la doveva volere senza dubbio in ragione delle più lon-
tane conseguenze – doveva desiderare che vincesse la giusta cau-
sa, da qualunque parte essa fosse. Al massimo, uno Stato tedesco
particolare sarebbe potuto arrivare al punto di unificare sotto il

127
suo governo l’intera nazione tedesca, introducendo un unico do-
minio invece della repubblica di popoli precedente. Se è vero, co-
me io ritengo senz’altro, che proprio questa costituzione repub-
blicana è stata finora la fonte principale della cultura tedesca, e il
primo mezzo per assicurare il suo carattere specifico, allora, se la
presupposta unità del governo non avesse assunto la forma re-
pubblicana, bensì quella monarchica, in cui al detentore del po-
tere fosse stato possibile, per la durata della sua vita, schiacciare
sull’intero territorio tedesco un qualsiasi germoglio di cultura ori-
ginale; se questo è vero, allora dico che in questo caso sarebbe sta-
ta senz’altro una grande disgrazia per l’interesse dell’amor di pa-
tria tedesco se questo proposito fosse riuscito, e ciascun uomo di
nobile animo sull’intera superficie del territorio comune si sareb-
be dovuto ribellare a tutto ciò. Tuttavia, anche in questo caso peg-
giore di tutti, sarebbero stati pur sempre tedeschi a governare so-
pra tedeschi, e a dirigere originariamente i loro affari, e se pure
per un periodo passeggero si fosse sentita la mancanza dello spe-
cifico spirito tedesco, sarebbe comunque rimasta la speranza di
un suo nuovo risveglio, e ogni animo più forte si sarebbe potuto
ripromettere di trovare ascolto e di farsi intendere su tutto il ter-
ritorio; una nazione tedesca avrebbe comunque conservato la sua
esistenza, e avrebbe governato se stessa, e non sarebbe precipita-
ta in un’esistenza di ordine inferiore. Qui l’essenziale resta sem-
pre la nostra valutazione che l’amore nazionale tedesco sieda al ti-
mone dello Stato tedesco, oppure possa raggiungerlo con il suo
influsso. Ma se in seguito alla nostra premessa precedente questo
Stato tedesco, – [398] non importa se esso appaia come uno o di-
versi, di fatto è comunque uno – cade in generale da una direzio-
ne tedesca sotto una direzione straniera, allora è sicuro, e il con-
trario sarebbe del tutto contro natura e assolutamente impossibi-
le, è sicuro, dico, che d’ora in poi non deciderebbe più un affare
tedesco, bensì un affare straniero. L’interesse nazionale tedesco
verrebbe scacciato nel suo complesso dal luogo in cui finora ave-
va avuto la sua sede e veniva rappresentato, dal timone dello Sta-
to. Se ora con ciò non deve essere completamente cancellato dal-
la faccia della terra, allora deve essergli preparato un altro rifugio,
e precisamente nell’unica cosa rimasta, presso i governati e nei cit-
tadini. Ma se esso fosse già presso di questi e nella loro maggio-
ranza, non saremmo arrivati al punto su cui ora ci consultiamo; es-

128
so perciò non è presso di loro, e vi deve essere ancora portato. In
altre parole, ciò significa che la maggioranza dei cittadini deve es-
sere educata a questo senso patriottico, e per essere sicuri della
maggioranza, questa educazione deve essere tentata con tutti. E
così dunque, come avevamo promesso in precedenza, abbiamo
anche dimostrato, chiaramente e senza giri di parole, che l’educa-
zione e nient’altro è assolutamente l’unico mezzo che possa salva-
re l’indipendenza tedesca; e senza dubbio non sarebbe colpa no-
stra se a questo punto non si riuscisse ancora a capire il contenu-
to vero e proprio e l’intenzione di questi nostri discorsi, e il senso
in cui devono essere prese tutte le nostre affermazioni.
Per riassumere ancora più brevemente: sempre in base alla no-
stra premessa, i minori sono stati privati dei loro tutori paterni e
affini, e al loro posto sono subentrati dei padroni; se quei minori
non vogliono diventare schiavi, allora devono uscire di tutela e,
per poter fare questo, devono essere innanzitutto educati alla
maggiore età. L’amor di patria tedesco ha perduto la sua sede; de-
ve ottenerne un’altra più ampia e più profonda, in cui esso si fon-
di e si tempri in quieto nascondimento, e a tempo debito erompa
con forza giovanile, e restituisca anche allo Stato l’indipendenza
perduta. Ma su quest’ultimo punto, [399] possono stare tranquil-
li tanto l’estero, quanto le afflizioni piccole e meschine tra noi stes-
si; a loro consolazione, possiamo rassicurarli sul fatto che nel com-
plesso essi non ne avranno esperienza, e che il tempo che ne avrà
esperienza, la penserà diversamente da loro.
Ma per quanto rigorosamente i membri di questa dimostra-
zione possano essere reciprocamente connessi, il fatto che essa
convinca anche altri e li spinga all’attività dipende innanzitutto da
questo, se qualcosa di simile a ciò che abbiamo descritto come
specificità tedesca e amor di patria tedesco esista in generale, e se
esso meriti di essere conservato e che ci si sforzi per questo, op-
pure no. Che lo straniero, sia esso estero o interno, risponda a
questa domanda con un no, si capisce da sé; ma questi non è nep-
pure chiamato a consulto. Del resto bisogna notare, in proposito,
che la risposta a questa domanda non dipende affatto da una di-
mostrazione per concetti, che possono senz’altro portare chiarez-
za, ma non possono affatto dare informazioni sull’esistenza o il va-
lore effettivi, bensì questi ultimi possono venire accertati solo dal-
l’immediata esperienza di ciascuno in lui stesso. In un caso simi-

129
le, in milioni potrebbero dire che non c’è, ma in questo modo non
si può mai dire nulla di più se non che, semplicemente, non c’è in
loro, e niente affatto che non c’è in generale; e se anche uno solo
insorge contro questi milioni e assicura che c’è, allora egli ottiene
ragione contro tutti loro. Nulla impedisce, visto che ora parlo pro-
prio io, che nel caso presente io sia questo unico ad assicurare di
sapere per esperienza immediata in se stesso che esiste qualcosa
come un amor di patria tedesco, di conoscere il valore infinito del
suo oggetto, di essere stato spinto solo da questo amore a dire – a
suo rischio e pericolo – ciò che ha detto e che ancora dirà, visto
che al momento non ci è rimasto nient’altro che il dire, e perfino
questo ci viene ostacolato e impedito in ogni modo. Chi in sé sen-
te lo stesso, questi verrà convinto; chi non lo sente non può esse-
re convinto, poiché la mia dimostrazione si basa solo su quella
premessa; con lui [400] ho sprecato le mie parole, ma chi non vor-
rebbe rischiare qualcosa di così poco conto come le parole?
Quella determinata educazione da cui noi ci ripromettiamo la
salvezza della nazione tedesca è stata descritta in generale nel no-
stro secondo e terzo discorso. Noi l’abbiamo designata come una
totale trasformazione del genere umano, e sarà opportuno ricol-
legare a questa designazione una ricapitolazione complessiva del-
l’intero.
Di regola il mondo sensibile è invalso finora come il mondo
giusto, autentico, vero ed effettivamente sussistente, esso era il
primo che veniva presentato all’allievo dell’educazione; egli veni-
va condotto al pensiero solo a partire da esso, e il più delle volte
solo a un pensiero diretto a esso e al suo servizio. La nuova edu-
cazione inverte esattamente questo ordine. Per essa, solo il mon-
do che viene colto dal pensiero è il mondo vero ed effettivamen-
te sussistente; essa vuole introdurvi il suo allievo non appena ini-
zia con lui. Essa vuole legare a questo mondo tutto il suo amore e
tutto il suo compiacimento, in modo tale che presso di lui una vi-
ta sorga e scaturisca necessariamente solo in questo mondo dello
spirito. Nella maggioranza, finora ha vissuto solo la carne, la ma-
teria, la natura; mediante la nuova educazione, nella maggioran-
za, e anzi presto in tutti gli uomini, deve vivere e spingere solo lo
spirito. Lo spirito saldo e certo, di cui prima abbiamo parlato co-
me dell’unica base possibile di uno Stato bene istituito, deve es-
sere universalmente generato.

130
Mediante una siffatta educazione, lo scopo che ci siamo pro-
posti per primo, e da cui sono partiti i nostri discorsi, viene rag-
giunto senza alcun dubbio. Quello spirito da generare reca im-
mediatamente in se stesso il superiore amor di patria, il cogli-
mento della sua vita terrena come qualcosa di eterno, e della pa-
tria come portatrice di questa eternità, e qualora venga edificato
tra i tedeschi, reca l’amore per la patria tedesca in quanto una
delle sue componenti necessarie; e da questo amore segue da sé
il coraggioso difensore della patria, e il quieto e retto cittadino.
Mediante una siffatta educazione viene ottenuto ancor più di
questo scopo immediato, [401] come sempre avviene quando un
grande obiettivo viene voluto mediante un mezzo comprensivo;
tutto l’uomo viene compiuto in tutte le sue parti, perfezionato in
se stesso, e dotato verso l’esterno di perfetta capacità per tutti i
suoi scopi nel tempo e nell’eternità. La natura spirituale ha in-
dissolubilmente collegato la nostra perfetta guarigione da tutti i
mali che ci opprimono alla nostra convalescenza per la nazione e
la patria.
Noi qui non abbiamo più nulla a che fare né con l’ottusa me-
raviglia che un siffatto mondo del puro pensiero venga affermato,
e addirittura venga affermato come l’unico mondo possibile, men-
tre al contrario il mondo sensibile viene completamente rifiutato;
né con la negazione del primo, o in generale, o anche soltanto ri-
guardo alla possibilità che possa venirvi introdotta la maggioran-
za del popolo incolto. Noi le abbiamo già prima completamente
respinte da noi. Chi ancora non sa che c’è un mondo del pensie-
ro, se ne può istruire altrove coi mezzi a sua disposizione, noi qui
non abbiamo tempo per questa istruzione. Invece, vogliamo mo-
strare come persino la maggioranza del popolo incolto possa es-
sere innalzata a quel mondo.
Ora, poiché secondo il nostro intendimento ben meditato il
pensiero di una siffatta nuova educazione non deve essere consi-
derato come una semplice immagine per l’esercizio dell’acume e
dell’abilità polemica, bensì deve essere impiegato e introdotto
nella vita all’istante, dobbiamo innanzitutto indicare a quale
membro già presente nel mondo reale questa attuazione debba
collegarsi.
A questa domanda, noi diamo la risposta: essa dovrebbe col-
legarsi al metodo di istruzione scoperto, proposto, e già felice-

131
mente attuato sotto i suoi occhi da Johann Heinrich Pestalozzi1.
Noi vogliamo motivare e determinare più da vicino questa nostra
decisione.
Anzitutto, noi abbiamo letto e meditato gli scritti originali del-
l’uomo, e ci siamo formati da questi il nostro concetto della sua
arte nell’istruzione e nell’educazione. [402] Invece, non abbiamo
voluto per niente informarci su ciò che a questo proposito hanno
riportato, opinato, e sulle opinioni di nuovo opinato le gazzette
dei dotti. Osserviamo questo per raccomandare a chiunque voglia
avere un concetto su questo argomento di seguire la stessa strada,
e di evitare costantemente quella opposta. Altrettanto poco ab-
biamo voluto vedere finora qualcosa dell’effettiva attuazione, as-
solutamente non per trascuratezza, bensì perché volevamo prima
procurarci un concetto saldo e sicuro della vera intenzione dello
scopritore, rispetto al quale l’attuazione spesso può restare indie-
tro. Ma da questo concetto, il concetto dell’attuazione e dell’esi-
to necessario risulta da sé senza alcun tentativo, e dotati solo di es-
so, possiamo capire veramente l’attuazione e giudicarla in modo
corretto. Se, come credono alcuni, anche questo metodo d’istru-
zione dovesse già essere degenerato, qui e là, in un cieco branco-
lamento empirico e in un vuoto giocherellare e tirare a indovina-
re, a mio avviso la concezione fondamentale dello scopritore è al-
meno in ciò del tutto innocente.
Per questa concezione fondamentale, garantisce innanzitutto
ai miei occhi il carattere particolare dell’uomo stesso, per come
egli lo presenta nei suoi scritti con la franchezza più sincera e ap-
passionata. Io avrei potuto presentare i tratti fondamentali dell’a-
nimo tedesco in lui altrettanto bene che in Lutero o in qualsiasi

1
Del celebre pedagogista svizzero (1746-1827) Fichte tiene presente, oltre
allo scritto citato infra, p. 143 in nota, le seguenti opere: Wie Gertrud ihre Kin-
der lehrt, ein Versuch den Müttern Anleitung zu geben, ihre Kinder selbst zu un-
terrichten (1801), trad. it. Come Geltrude istruisce i suoi figli, a cura di A. Banfi,
Firenze 1929, o quella più recente di E. Becchi, in J.H. Pestalozzi, Scritti scelti,
a cura della stessa, Torino 1970, pp. 229-410; Buch der Mütter oder Anleitung
für Mütter ihre Kinder bemerken und reden zu lehren (1803) [Libro delle madri,
ovvero guida per le madri ad insegnare ai loro bambini a osservare e a leggere];
ABC der Anschauung oder Anschauungs-Lehre der Maßverhältnisse (1803) [ABC
dell’intuizione, ovvero teoria intuitiva dei rapporti di misura]; Anschauungslehre
der Zahlenverhältnisse (1803-1804) [Teoria intuitiva dei rapporti numerici].

132
altro, qualora ci siano stati altri pari a loro, e dimostrare con gioia
che quest’animo è stato presente fino a oggi in tutta la sua forza
prodigiosa nell’ambito della lingua tedesca. Anch’egli ha avuto
una vita difficile, e ha lottato con ogni possibile ostacolo, inte-
riormente con la propria cocciuta oscurità e debolezza, egli stes-
so scarsamente dotato dei più comuni strumenti di un’educazio-
ne dotta; all’esterno, con un persistente misconoscimento, verso
un obiettivo appena presentito e a lui stesso del tutto ignoto, so-
stenuto e sospinto da un impulso inesauribile, onnipotente e te-
desco: l’amore per il popolo povero più indifeso. Questo amore
onnipotente ne aveva fatto un suo strumento, proprio come Lu-
tero, solo in [403] un rapporto diverso e più conforme al suo tem-
po, ed era divenuto la vita nella sua vita. Esso fu per lui il filo con-
duttore saldo e immutabile, a lui stesso sconosciuto, di questa sua
vita, che lo ha condotto attraverso la notte che lo circondava da
ogni parte, e che coronò la sera di quella vita – poiché era impos-
sibile che un amore del genere abbandonasse la terra senza ri-
compensa – con la sua scoperta autenticamente spirituale, che ha
fatto molto di più di quanto egli avesse mai desiderato con i suoi
più audaci desideri. Egli voleva semplicemente aiutare il popolo;
ma la sua scoperta, assunta in tutta la sua estensione, annulla il po-
polo, toglie ogni differenza tra questo e un ceto colto, invece del-
la ricercata educazione popolare fornisce una educazione nazio-
nale, e avrebbe senz’altro la capacità di sollevare i popoli e l’inte-
ro genere umano dalla profondità della sua attuale miseria.
Questa sua concezione fondamentale si trova nei suoi scritti
con perfetta chiarezza e precisione non misconoscibile. Prima di
tutto egli vuole, per quanto riguarda la forma, non l’arbitrio vi-
gente fino a ora e il brancolare alla cieca, bensì un’arte dell’edu-
cazione salda e sicuramente calcolata, come vogliamo anche noi,
e come la scrupolosità tedesca deve necessariamente volere; ed
egli racconta molto ingenuamente come un modo di dire france-
se, secondo cui egli avrebbe voluto meccanizzare l’educazione, lo
abbia aiutato a far emergere dal sogno questo suo scopo. Per
quanto riguarda il contenuto, il primo passo della nuova educa-
zione da me descritta consiste nello stimolare e nel formare la li-
bera attività dello spirito del suo allievo, il suo pensiero, in cui più
tardi deve sorgere per lui il mondo del suo amore. Gli scritti di Pe-
stalozzi si occupano soprattutto di questo primo passo, e il nostro

133
esame della sua concezione fondamentale si rivolge prima di tut-
to a questo argomento. Ora, da questo punto di vista, il suo bia-
simo dell’istruzione fino a oggi, secondo cui quest’ultima immer-
ge l’allievo soltanto in nebbia e in ombre, senza farlo mai arrivare
all’effettiva verità e realtà, ha lo stesso significato del nostro, se-
condo cui questa istruzione non è potuta intervenire nella vita, né
formarla alla radice; e il rimedio proposto da Pestalozzi, [404] di
introdurre l’allievo nell’intuizione immediata, ha lo stesso signifi-
cato del nostro, di stimolarne l’attività spirituale alla proiezione di
immagini, e di fargli apprendere tutto ciò che apprende solo in
questo libero formare, poiché l’intuizione è possibile solo di ciò
che è proiettato liberamente. Che lo scopritore abbia effettiva-
mente inteso così, e non intenda affatto per intuizione quella per-
cezione brancolante alla cieca e a tentoni, è dimostrato dall’eser-
cizio illustrato in seguito. Allo stesso modo, a questa sollecitazio-
ne dell’intuizione dell’allievo mediante l’educazione viene pre-
scritta, del tutto giustamente, la legge generale e che va molto in
profondità di andare esattamente di pari passo con l’inizio e il
progresso delle facoltà del bambino che si tratta di sviluppare.
Al contrario, tutti gli sbagli nelle espressioni e proposte di que-
sto programma di istruzione pestalozziano hanno come unica fon-
te comune il fatto che lo scopo misero e limitato al quale si mira-
va all’inizio, cioè fornire, da un lato, l’aiuto necessario ai bambini
straordinariamente trascurati del popolo, presupponendo che
l’intero rimanesse come era, e dall’altro, il mezzo che porta a uno
scopo ben più alto, si confondono ed entrano in conflitto reci-
proco; e si sarà al sicuro da ogni errore, e si otterrà un concetto
perfettamente in accordo con se stesso, se si lascerà cadere il pri-
mo e tutto ciò che è seguito alla sua presa in considerazione, e ci
si atterrà esclusivamente al secondo e alla sua applicazione conse-
guente. Senza dubbio, la sopravvalutazione del leggere e dello
scrivere, la loro posizione quasi a meta e vertice dell’istruzione po-
polare, la sua fede ingenua nel detto dei secoli trascorsi, secondo
cui essi sarebbero i mezzi d’istruzione migliori, sono sorte nell’a-
nimo pieno d’amore di Pestalozzi soltanto dal desiderio di lascia-
re liberi il prima possibile dalla scuola per guadagnarsi il pane
quei figli della più estrema miseria, e tuttavia di fornire loro un
mezzo con cui potessero riprendere l’istruzione interrotta. Altri-
menti, egli avrebbe certamente trovato che proprio questo legge-

134
re e scrivere è stato finora il vero e proprio strumento [405] per
avvolgere gli uomini in nebbia e in ombre, rendendoli saccenti.
Da qui, senza dubbio, derivano anche diverse altre proposte che
stanno in contraddizione col suo principio dell’intuizione imme-
diata, e in particolare la sua concezione completamente sbagliata
del linguaggio come mezzo per sollevare la nostra specie dall’in-
tuizione oscura ai concetti chiari. Da parte nostra, noi non abbia-
mo parlato di educazione del popolo in opposizione ai ceti supe-
riori, poiché noi non vogliamo più avere il popolo in questo sen-
so di plebe inferiore e volgare, né questa può più essere soppor-
tata per gli affari nazionali tedeschi, bensì abbiamo parlato di edu-
cazione nazionale. Se mai si dovrà giungere a essa, allora il desi-
derio miserabile che l’educazione sia terminata il prima possibile
perché il fanciullo possa essere messo al lavoro subito dopo non
deve più farsi sentire, bensì dev’essere respinto subito alla soglia
della consultazione su questa faccenda. Certo, a mio avviso, que-
sta educazione non sarà costosa, le istituzioni potranno in buona
parte mantenersi, e il lavoro non subirà alcun danno. A suo tem-
po esporrò i miei pensieri sull’argomento: ma anche se non fosse
così, comunque l’allievo deve restare nell’educazione incondizio-
natamente e a ogni costo, finché essa sia e possa essere conclusa.
Quell’educazione a metà non è per niente migliore che nessuna
educazione affatto. Essa lascia tutto come prima, e se si vuole que-
sto, allora è meglio risparmiarsi anche la metà, e dichiarare subi-
to in partenza che non si vuole venire incontro all’umanità. Ora,
posta quella premessa, finché dura la semplice educazione nazio-
nale leggere e scrivere non servono a niente, mentre invece pos-
sono essere assai dannosi, poiché [406] potrebbero facilmente
sviare, come del resto è accaduto finora, dall’intuizione immedia-
ta al mero segno, e dall’attenzione, che sa di non sapere niente fin-
ché non lo afferra sul momento, alla distrazione che si fida del suo
trascrivere, e vuole imparare dalla carta ciò che probabilmente
non imparerà mai, e in generale alla fantasticheria che accompa-
gna così spesso la pratica con le lettere. Queste arti potrebbero es-
sere comunicate solo alla conclusione dell’educazione e come suo
ultimo dono, e l’allievo potrebbe essere condotto a scoprire e a
usare le lettere scomponendo il linguaggio, che egli controlla per-
fettamente già da lungo tempo. Vista la formazione già consegui-
ta, ciò sarebbe per lui un gioco da ragazzi.

135
Così nella semplice e universale educazione nazionale. Le co-
se stanno un po’ diversamente col futuro dotto. Questi non dovrà
pronunciarsi soltanto su ciò che vale universalmente, nel modo in
cui lo sa a memoria, bensì dovrà innalzare alla luce del linguaggio,
anche in solitaria meditazione, la profondità nascosta e a lui stes-
so ignota del suo animo, e perciò egli, nella scrittura, dovrà ac-
quisire e imparare a formare in anticipo lo strumento di questo
pensiero solitario, eppure sonoro; tuttavia, anche con lui biso-
gnerà avere meno fretta di quanto accaduto finora. Ciò risulterà
più chiaro a suo tempo, con la distinzione tra la semplice educa-
zione nazionale e quella per i dotti.
Tutto ciò che lo scopritore dice su parola e suono come mezzi
per lo sviluppo della facoltà spirituale, andrà corretto e limitato in
conformità con questa concezione. Il programma di questi di-
scorsi non mi permette di entrare nel dettaglio. Soltanto un’ulti-
ma osservazione per penetrare l’intero in profondità. La base per
lo sviluppo di ogni conoscenza è contenuta nel suo libro per le
madri, poiché tra l’altro egli conta molto sull’educazione familia-
re. Anzitutto, per quanto riguarda quest’ultima, l’educazione fa-
miliare, noi non vogliamo assolutamente entrare in contrasto con
lui sulle speranze che egli ripone sulle madri; ma per quanto ri-
guarda il nostro concetto superiore di un’educazione nazionale,
noi siamo fermamente convinti che questa, particolarmente pres-
so i ceti lavorativi, non può assolutamente essere né cominciata,
né continuata, né completata nella casa dei genitori, e in generale
senza una completa separazione dei fanciulli da essi. La pressio-
ne, l’ansia per il sopravvivere quotidiano, la meschina piccineria e
brama di guadagno che si aggiunge, infetterebbero necessaria-
mente i fanciulli, [407] li umilierebbero e impedirebbero loro di
spiccare liberamente il volo nel mondo del pensiero. Anche que-
sto è uno dei presupposti indispensabili per l’attuazione del no-
stro programma, e non può essere in nessun modo trascurato. Ab-
biamo visto a sufficienza che cosa succede quando in complesso
l’umanità in ogni epoca successiva si ripete così come era in quel-
la precedente; se deve essere intrapresa una totale trasformazione
di essa, allora deve essere strappata totalmente da se stessa, e nel
suo tradizionale modo di vivere deve essere inserita una cesura.
Soltanto dopo che una generazione sarà passata attraverso la nuo-
va educazione si potrà decidere quale parte dell’educazione na-

136
zionale si potrà affidare alla famiglia. Ma a parte questo, e consi-
derando il libro di Pestalozzi per le madri solo come base iniziale
dell’istruzione, anche il suo contenuto, il corpo del bambino, è
completamente sbagliato. Egli parte dalla proposizione giustissi-
ma che il primo oggetto della conoscenza del bambino debba es-
sere il bambino stesso, ma è dunque il corpo del bambino il bam-
bino stesso? Se si trattasse di un corpo umano, il corpo della ma-
dre non gli sarebbe molto più vicino e visibile? E come fa il bam-
bino ad acquisire una conoscenza intuitiva del suo corpo senza
avere prima imparato a usarlo? Quella cognizione non è una co-
noscenza, bensì un semplice imparare a memoria dei segni verba-
li arbitrari, che viene provocato dalla sopravvalutazione del par-
lare. La vera base dell’istruzione e della conoscenza sarebbe, per
dirlo nel linguaggio di Pestalozzi, un ABC delle sensazioni. Ap-
pena il bambino comincia a percepire suoni linguistici e a for-
marne egli stesso in caso di bisogno, egli dovrebbe essere guidato
a capire esattamente se ha fame o se ha sonno, se vede o se ode la
sensazione presente che egli designa con questa o quella espres-
sione, eccetera, o se pensa semplicemente a qualcosa; in che mo-
do si distinguano le diverse impressioni sullo stesso senso desi-
gnate da parole particolari, per esempio i colori, il suono dei [408]
diversi corpi, eccetera, e in quali gradazioni; tutto ciò nella giusta
sequenza, che sviluppi regolarmente la facoltà della sensazione.
Solo così il bambino ottiene un Io che egli separa nel concetto li-
bero e riflesso, e compenetra con esso, e appena si risveglia alla vi-
ta, in questa vita viene inserito un occhio spirituale, che d’ora in
poi non l’abbandonerà più. In questo modo, anche le forme in sé
vuote della misura e del numero per i successivi esercizi dell’in-
tuizione ottengono il loro contenuto interno chiaramente cono-
sciuto, che invece nel modo di procedere di Pestalozzi può esse-
re loro aggiunto solo attraverso oscura inclinazione e costrizione.
Negli scritti di Pestalozzi si presenta, da questo punto di vista, la
singolare ammissione di uno dei suoi insegnanti, il quale, iniziato
a questo procedimento, cominciò a scorgere soltanto corpi geo-
metrici svuotati. Lo stesso capiterebbe a tutti gli allievi di questo
procedimento, se in modo inavvertito la natura spirituale non
proteggesse da questo. Qui, nel comprendere con chiarezza che
cosa si senta veramente, è anche il luogo in cui non il segno lin-
guistico, ma il parlare stesso, e il bisogno di esprimersi per gli al-

137
tri, forma l’uomo e lo innalza dall’oscurità e dalla confusione alla
chiarezza e alla precisione. Sul bambino che per la prima volta si
risveglia alla coscienza, tutte le impressioni della natura che lo cir-
conda premono nello stesso tempo, e si mescolano in un caos op-
primente in cui dalla confusione generale non emerge nulla di sin-
golare. Com’è mai possibile uscire da questa ottusità? C’è bisogno
dell’aiuto di altri; egli può procurarsi questo aiuto solo dicendo
precisamente di che cosa ha bisogno, con le distinzioni da bisogni
analoghi che sono già deposte nel linguaggio. Seguendo quelle di-
stinzioni egli viene costretto, ritirandosi e concentrandosi su di sé,
a osservare ciò che sente veramente, a confrontarlo e a distin-
guerlo da altro, che pure conosce, ma che al momento non sente.
Solo in tal modo, in lui, si separa un [409] Io libero e consapevo-
le. Ora questo cammino, che in noi cominciano necessità e natu-
ra, deve essere continuato dall’educazione con arte libera e con-
sapevole.
Nel campo della conoscenza obiettiva, che si rivolge a ogget-
ti esterni, la familiarità col segno linguistico non aggiunge asso-
lutamente nulla per il conoscente stesso alla chiarezza e preci-
sione della conoscenza interna, bensì la innalza soltanto alla sfe-
ra completamente diversa della comunicabilità per altri. La chia-
rezza di quella conoscenza si basa totalmente sull’intuizione, e
ciò che nell’immaginazione si può riprodurre a proprio piaci-
mento in tutte le sue parti, esattamente nel modo in cui esiste
effettivamente, è conosciuto perfettamente sia che si abbia la
parola per dirlo, oppure no. Noi siamo addirittura convinti del
fatto che quel completamento dell’intuizione debba precedere
la familiarità col segno linguistico, e che il percorso inverso con-
duca esattamente a quel mondo di ombre e nebbia, e al prece-
dente parlare a vuoto, che Pestalozzi a ragione tanto detesta.
Anzi, crediamo che chi desidera sapere la parola quanto prima
tanto meglio, e pensa di avere accresciuto la sua conoscenza non
appena la sa, viva proprio in quel mondo di nebbia e si preoc-
cupi soltanto di estenderlo. Considerando l’edificio di pensiero
dello scopritore nella sua interezza, io credo che proprio questo
ABC della sensazione fosse ciò cui egli aspirava come base ini-
ziale dello sviluppo spirituale e come contenuto del suo libro
per le madri, e che gli passava confusamente davanti in tutte
le sue affermazioni sul linguaggio, e che soltanto la mancanza

138
di studi filosofici gli abbia impedito di diventare perfettamente
chiaro a se stesso su questo punto.
Ora, presupposto questo sviluppo del soggetto conoscente
stesso nella sensazione, e messo a fondamento come base dell’e-
ducazione nazionale che abbiamo di mira, il pestalozziano ABC
dell’intuizione, la dottrina dei rapporti numerici e di misura, ne è
la conseguenza perfettamente adeguata ed eccellente. A questa in-
tuizione si può collegare una parte a piacere del mondo sensibile,
essa può essere introdotta nell’ambito della matematica, finché
l’allievo sia sufficientemente formato in questi esercizi prelimina-
ri [410] da essere condotto alla proiezione di un ordine sociale tra
gli uomini e all’amore di questo ordine, come secondo ed essen-
ziale passo della sua formazione.
Non va tralasciato un altro argomento egualmente toccato da
Pestalozzi nella prima parte dell’educazione: lo sviluppo delle abi-
lità corporee dell’allievo, che devono necessariamente progredire
di pari passo con le abilità spirituali. Egli esige un ABC dell’arte,
cioè del potere corporeo. Le affermazioni che risaltano maggior-
mente, al riguardo, sono le seguenti: “colpire, portare, lanciare,
urtare, tirare, girare, lottare, ruotare, eccetera sono gli esercizi più
facili della forza. C’è una successione naturale dagli inizi in questi
esercizi fino alla loro arte compiuta, cioè fino al grado supremo
del ritmo nervoso, che renderebbe sicuri colpo e urto, salto e lan-
cio in centinaia di gradazioni, e renderebbe certi la mano e il pie-
de”. Qui tutto dipende dalla successione naturale, e non basta in-
tervenire con cieco arbitrio e introdurre un esercizio qualsiasi per
poter dire che anche noi abbiamo un’educazione corporea come
i Greci. Da questo punto di vista è ancora tutto da fare, poiché Pe-
stalozzi non ha lasciato alcun ABC dell’arte. Questo andrebbe
fornito, e ci sarebbe bisogno di un uomo che, egualmente a suo
agio nell’anatomia del corpo umano e nella meccanica scientifica,
unisse con queste cognizioni un alto grado di spirito filosofico, e
in questo modo fosse capace con completezza onnilaterale di sco-
prire quella macchina in conformità alla quale è stato progettato
il corpo umano, e di mostrare come questa macchina possa esse-
re gradualmente sviluppata, in modo che ogni passo accada nel-
l’unica giusta sequenza possibile, tutti quelli futuri preparati e fa-
cilitati da ogni altro, cosicché non solo la salute e bellezza del cor-
po e la forza dello spirito non verrebbero messe in pericolo, ma

139
addirittura rafforzate ed elevate – come questa macchina, dicevo,
possa essere sviluppata in questo modo a partire da ogni sano cor-
po umano. L’indispensabilità di questa componente, per un’edu-
cazione [411] che si ripromette di formare tutto l’uomo, e che si
determina, in particolare, per una nazione che deve recuperare la
sua indipendenza, e in seguito mantenerla, salta agli occhi senza
bisogno di ulteriore commento.
Ciò che resta ancora da dire per una determinazione più pre-
cisa del nostro concetto di educazione nazionale tedesca, lo riser-
viamo al prossimo discorso.
Decimo discorso
Per la determinazione più precisa
dell’educazione nazionale tedesca

La conduzione dell’allievo a rendersi chiare prima le sue sensa-


zioni, quindi le sue intuizioni, con cui deve andare di pari passo
una regolare formazione artistica del suo corpo, è la prima parte
principale della nuova educazione nazionale tedesca. Per ciò che
riguarda la formazione dell’intuizione, Pestalozzi ci dà un orien-
tamento adeguato; quello ancora mancante per la formazione del-
la facoltà della sensazione potranno darlo facilmente egli stesso e
i suoi collaboratori. Manca ancora una guida per la regolare for-
mazione della forza corporea: ma ciò che si richiede per la solu-
zione di questo compito è stabilito, ed è da sperare che, se la na-
zione dovesse dimostrare desiderio per questa soluzione, questa
stessa si troverà. Tutta questa parte dell’educazione è soltanto
mezzo e preparazione per la sua seconda parte essenziale, l’edu-
cazione civile e religiosa. Ciò che in generale è necessario dire in
proposito, è stato esposto nel nostro secondo e terzo discorso, e
da questo punto di vista non abbiamo nient’altro da aggiungere.
Dare una guida precisa per l’arte di questa educazione – sempre,
[412] come si capisce, in consultazione e dialogo con l’autentica
arte educativa di Pestalozzi – è compito della stessa filosofia che
propone in generale un’educazione nazionale tedesca; e questa fi-
losofia non mancherà di fornirla, purché sorga il bisogno di una
guida siffatta mediante la completa attuazione della prima parte.
Come sarà possibile che ogni allievo, nato anche nel ceto più umi-
le, visto che il ceto di nascita non fa veramente alcuna differenza

141
nelle disposizioni, comprenda, e addirittura comprenda facil-
mente, l’istruzione su questi argomenti che riguardano, se così si
vuol dire, la metafisica più profonda, ed è il bottino della specu-
lazione più astratta, e che risulta impossibile da comprendere per-
fino a dotti e a teste che speculano in proprio, su tutto ciò non è
il caso di stancarsi prima di cominciare, dubitando di qua e di là:
purché si vogliano seguire i primi passi, ci verrà insegnato dall’e-
sperienza. Solo perché il nostro tempo è in generale prigioniero
nel mondo dei vuoti concetti, e non è giunto da nessuna parte al
mondo della vera realtà e intuizione, non ci si può attendere da
esso che cominci a intuire proprio all’altezza dell’intuizione più
spirituale e più alta di tutte, e dopo essere già diventato saccente.
Da esso, la filosofia deve pretendere che abbandoni il mondo che
aveva fino a oggi, e che se ne crei uno completamente diverso, e
non bisogna meravigliarsi che una tale pretesa resti senza succes-
so. L’allievo della nostra educazione, invece, è subito fin dall’ini-
zio divenuto intimo nel mondo dell’intuizione, e non ne ha mai vi-
sto un altro; egli non deve cambiare il suo mondo, bensì solo ac-
centuarlo, e questo avviene da sé. Quell’educazione, come abbia-
mo già detto, è anche l’unica educazione possibile per la filosofia,
e l’unico mezzo per rendere quest’ultima universale.
Ora, con questa educazione civile e religiosa l’educazione è
conclusa, e l’allievo deve essere lasciato libero, e così in primo luo-
go noi saremmo a posto rispetto al contenuto dell’educazione
proposta. [413]
Non bisognerebbe mai stimolare la facoltà conoscitiva dell’al-
lievo senza che in pari tempo essa diventi amore per l’oggetto co-
nosciuto, poiché altrimenti la conoscenza resterebbe morta, e al-
lo stesso modo non bisognerebbe mai stimolare l’amore senza che
esso diventi chiaro alla conoscenza, poiché altrimenti l’amore re-
sterebbe cieco: si tratta di uno dei princìpi fondamentali dell’e-
ducazione da noi proposta, con cui anche Pestalozzi deve essere
d’accordo, in coerenza con l’impianto del suo pensiero. Ora, la
sollecitazione e lo sviluppo di questo amore si collegano da sé al
percorso regolare dell’istruzione seguendo il filo della sensazione,
e arrivano senza alcun proposito o intervento da parte nostra. Il
bambino ha un impulso naturale alla chiarezza e all’ordine; tale
impulso viene continuamente soddisfatto in quel percorso di
istruzione, e così riempie il bambino di gioia e piacere; ma, in mez-

142
zo alla soddisfazione, esso viene di nuovo sollecitato dalle nuove
difficoltà che appaiono, e così viene ulteriormente soddisfatto, e
così la vita procede nell’amore e nel piacere di imparare. Questo
è l’amore con cui ciascuno è collegato al mondo del pensiero, il le-
game in generale tra mondo sensibile e mondo degli spiriti. Da
questo amore sorge, in questa educazione in modo certo e calco-
lato, il facile sviluppo della facoltà conoscitiva, e la felice elabora-
zione dei campi della scienza, ciò che finora è avvenuto per caso
in alcune teste straordinariamente dotate.
Ma c’è ancora un altro amore, quello che lega l’uomo all’uo-
mo, e tutti i singoli in una concorde comunità della ragione dal-
l’uguale disposizione d’animo. Come quell’amore forma la cono-
scenza, così questo forma la vita attiva, e spinge a rappresentare il
conosciuto in sé e ad altri. Poiché per il nostro scopo vero e pro-
prio servirebbe a poco migliorare solo l’educazione dei dotti, e l’e-
ducazione nazionale che abbiamo di mira è diretta anzitutto non
a formare dotti, bensì appunto uomini, è chiaro che anche lo svi-
luppo del secondo amore accanto al primo è dovere indispensa-
bile di questa educazione. [414]
Pestalozzi* parla di questo argomento con nobile entusiasmo;
però dobbiamo ammettere che tutto questo non ci è parso mini-
mamente chiaro, e tanto meno se dovesse servire come base per
uno sviluppo a regola d’arte di quell’amore. Perciò è necessario
che noi comunichiamo le nostre idee personali per una base si-
mile.
La comune ammissione che l’uomo sia per natura egoista, e
che anche il bambino nasca con questo egoismo, e che sia sol-
tanto l’educazione a impiantare in esso un movente etico, si ba-
sa su un’osservazione assai superficiale, ed è assolutamente falsa.
Poiché da niente non si può fare qualcosa, e lo sviluppo per
quanto avanzato di un impulso fondamentale non può mai farlo
diventare il suo contrario, come sarebbe possibile per l’educa-
zione introdurre l’eticità nel bambino, se questa non fosse in lui
originariamente e prima di ogni educazione? E così è effettiva-

* Ansichten, Erfahrungen und Mittel zur Beförderung einer der Menschen-


natur angemessenen Erziehungsweise [Punti di vista, esperienze e mezzi per pro-
muovere un’educazione conforme alla natura umana], Gräff, Leipzig 1807.

143
mente in tutti i bambini che vengono al mondo; il compito è sol-
tanto di sondare la figura più originaria e più pura in cui essa
compare.
Tanto la speculazione conseguente quanto l’osservazione nel
suo insieme concordano sul fatto che questa figura più originaria
e più pura è l’impulso al rispetto, e che in questo impulso per pri-
mo si danno a conoscere l’etico, come unico oggetto possibile di
rispetto, il giusto e il buono, la veracità, la facoltà dell’autocon-
trollo. Nel bambino, questo impulso si mostra anzitutto come im-
pulso anche a essere rispettato da chi gli incute il più profondo ri-
spetto; e questo impulso, a sicura dimostrazione che l’amore non
deriva assolutamente dall’egoismo, si rivolge di regola in modo
più forte e più deciso al padre, più serio, spesso assente, e che non
appare immediatamente come qualcuno che gli fa del bene, [415]
piuttosto che alla madre, sempre presente con le sue cure. Il bam-
bino vuol essere notato da lui, vuole avere la sua approvazione; è
contento di se stesso solo nella misura in cui questi è contento di
lui. Questo è l’amore naturale del bambino per il padre; non per
colui che cura il suo benessere sensibile, ma per lo specchio che
gli riflette il suo proprio valore o disvalore. A questo amore, il pa-
dre ora può collegare facilmente dura obbedienza e ogni sacrifi-
cio; per la ricompensa della sua affettuosa approvazione, egli ob-
bedisce con gioia. Ancora, l’amore che egli desidera dal padre è
che questi noti il suo sforzo di essere buono e lo riconosca, che
mostri di essere contento quando lo può approvare, e di essere di-
spiaciuto di cuore quando lo deve rimproverare; che non deside-
ri nient’altro se non di poter essere sempre contento di lui, e che
tutte le sue esigenze verso il bambino hanno soltanto l’intenzione
di renderlo sempre migliore e più degno di rispetto. La vista di
questo amore vivifica e rafforza a sua volta durevolmente l’amore
del bambino, e gli dà nuova forza per tutti i suoi sforzi ulteriori.
Al contrario, questo amore viene ucciso dalla non considerazione,
o da un continuo e iniquo misconoscimento, ma in modo parti-
colare genera addirittura odio, se nel modo di trattare il bambino
si fa scorgere egoismo, e per esempio una perdita causata dalla sua
imprudenza viene trattata come un crimine gravissimo. Egli allo-
ra si vede trattato come un mero strumento, e questo indigna il
suo sentimento, certo oscuro ma pure mai assente, che egli do-
vrebbe avere un valore per se stesso.

144
Per provare questo con un esempio. Che cos’è che al dolore
della correzione nel bambino aggiunge la vergogna, e che cos’è
questa vergogna? Evidentemente, essa è il sentimento dell’auto-
disprezzo che deve sopraggiungere quando gli viene testimoniata
la disapprovazione dei suoi genitori ed educatori. Perciò anche,
in un contesto in cui la punizione non è accompagnata da vergo-
gna, non abbiamo più a che fare con l’educazione, e la punizione
appare come una violenza [416] da cui l’allievo si distanzia con
senso superiore, prendendosi gioco di essa.
Dunque questo è il legame che connette gli uomini nell’unità
del senso, e il cui sviluppo è una delle componenti principali del-
l’educazione per diventare uomo – niente affatto amore sensibile,
bensì impulso al rispetto reciproco. Questo impulso si forma in un
duplice modo: nel bambino, a partire dal rispetto incondizionato
per l’umanità adulta fuori di lui, all’impulso di essere rispettato da
essa, e a ricavare, dall’effettivo rispetto di questa, in che misura an-
ch’egli possa rispettarsi. Questa fiducia in una misura estranea del-
l’autostima, che si trova fuori di noi, è anche il fondamentale trat-
to caratteristico dell’infanzia e dell’immaturità, sulla cui presenza
esclusivamente si basa la possibilità di ogni insegnamento e di ogni
educazione a uomo completo della gioventù in crescita. L’uomo
maturo ha la misura della sua autovalutazione in lui stesso, e vuole
essere rispettato da altri solo nella misura in cui essi stessi si sono
resi degni del suo rispetto; e in lui questo impulso prende la forma
del desiderio di poter rispettare altri, e di produrre qualcosa al di
fuori di sé che sia degno di rispetto. Se nell’uomo non ci fosse un
simile impulso fondamentale, come si spiegherebbe il fenomeno
per cui anche all’uomo solo passabilmente buono dispiace trovare
gli uomini peggiori di quello che pensava, e che lo addolora profon-
damente doverli disprezzare, mentre all’egoismo, al contrario, do-
vrebbe fare piacere potersi sollevare altezzosamente sugli altri?
Ora, quest’ultimo tratto fondamentale della maturità deve essere
rappresentato dall’educatore, come si può contare con sicurezza
sul primo per quanto riguarda l’allievo. Da questo punto di vista,
lo scopo dell’educazione è quello di produrre la maturità nel senso
da noi indicato, e solo dopo che questo scopo è stato raggiunto l’e-
ducazione è effettivamente completa e terminata. Finora molti uo-
mini sono rimasti bambini per tutta la loro vita; quelli che per es-
sere contenti avevano bisogno dell’approvazione dell’ambiente, e

145
[417] credevano di non aver fatto nulla di buono a meno che non
fossero approvati da esso. A loro si sono contrapposti, come carat-
teri forti e potenti, i pochi che furono in grado di sollevarsi oltre il
giudizio degli altri, e di bastare a se stessi; e di regola questi sono
stati odiati, mentre quegli altri, benché non stimati, venivano con-
siderati amabili.
La base di ogni educazione etica è sapere che nel bambino esi-
ste un simile impulso, e presupporlo con fermezza, in modo da ri-
conoscerlo quando appare, e da svilupparlo gradualmente sempre
di più mediante adeguate sollecitazioni e la presentazione di una
materia in cui si possa soddisfare. La regola prima di tutte è diri-
gerlo sull’unico oggetto a esso adeguato, cioè l’etico, senza invece
metterlo a tacere con una materia a esso estranea. Per esempio,
l’imparare ha la sua attrattiva e la sua ricompensa in se stesso; al
massimo, potrebbe meritare approvazione un impegno esaspera-
to, come esercizio di autosuperamento. Ma questo libero impe-
gno, che va oltre quanto viene richiesto, difficilmente troverà po-
sto almeno nella semplice, universale educazione nazionale. Per-
ciò, che l’allievo impari ciò che deve, deve essere considerato co-
me qualcosa di ovvio e su cui non c’è niente da dire; anche l’ap-
prendere più veloce e migliore dell’intelligenza più dotata deve es-
sere considerato come un semplice fatto naturale, che non le pro-
cura nessuna lode o distinzione, e ancora meno copre altri difet-
ti. A questo impulso deve essere assegnata la sua sfera d’azione so-
lo nell’etico; ma la radice di ogni eticità è l’autocontrollo, l’auto-
superamento, la subordinazione dei propri impulsi egoistici al
concetto dell’intero. Solo in virtù di quest’ultima e assolutamente
di nient’altro sarebbe possibile all’allievo ottenere l’approvazione
dell’educatore, di cui è destinato ad avere bisogno dalla sua natu-
ra spirituale e dall’abitudine creata dall’educazione. Come abbia-
mo già ricordato nel nostro secondo discorso, ci sono due modi
molto diversi di quella subordinazione del Sé personale all’intero:
innanzitutto, quella [418] che deve essere assolutamente, e non
deve essere tralasciata da nessuno in nessuna parte, la sottomis-
sione alla legge della costituzione, stabilita per amore del sempli-
ce ordine dell’intero. Chi non va contro di essa si limita a non ri-
cevere disapprovazione, ma non gli viene assolutamente tributata
approvazione; mentre chi va contro di essa verrebbe colpito da di-
sapprovazione e biasimo effettivi, che nel caso in cui la mancanza

146
fosse pubblica, dovrebbero essere comminati altrettanto pubbli-
camente e, qualora non dessero alcun frutto, dovrebbero essere
rafforzati persino con una punizione supplementare. Poi c’è una
subordinazione del singolo all’intero che non può essere pretesa,
ma soltanto fornita volontariamente: aumentare e accrescere il be-
nessere dell’intero mediante il proprio sacrificio. Per imprimere
agli allievi fin dalla giovinezza il vero rapporto reciproco tra la me-
ra legalità e questa virtù superiore, sarà opportuno permettere
questi sacrifici volontari solo a chi per un certo periodo di tempo
non è stato accusato di niente per il primo aspetto, di negare in-
vece il permesso a chi non è ancora sicuro nella regolarità e nel-
l’ordine di se stesso. Gli oggetti di queste prestazioni volontarie
sono stati indicati in generale già prima, e risulteranno ancora più
chiaramente in seguito. A questa specie di sacrificio venga tribu-
tata attiva approvazione, effettivo riconoscimento dei suoi meriti,
ma assolutamente non pubblicamente, come lode che potrebbe
corrompere l’animo e renderlo vanitoso, allontanandolo dall’in-
dipendenza, bensì in segreto e con l’allievo da solo. Questo rico-
noscimento non deve essere nulla più che la sua buona coscienza
presentata all’esterno, e la conferma della sua soddisfazione con
se stesso, della sua autostima, e l’incoraggiamento a confidare in
se stesso anche in seguito. I vantaggi che in tal caso si hanno di mi-
ra verrebbero promossi in modo eccellente dalla istituzione se-
guente. Nel caso in cui vi siano diversi educatori ed educatrici, il
che presupponiamo come la regola, ogni bambino ne scelga libe-
ramente uno, a seconda di come lo spinge la sua fiducia e il suo
sentimento, come amico particolare [419] e per così dire consi-
gliere di coscienza. Da lui egli cerchi consiglio ogniqualvolta gli
riesca difficile fare la cosa giusta; questi lo assista con consigli ami-
chevoli; sia il confidente delle prestazioni volontarie che egli as-
sume; e infine sia quello che corona con la sua approvazione ciò
che è eccellente. Ora, nelle persone di questi consiglieri di co-
scienza, l’educazione dovrebbe promuovere con forza progressi-
vamente sempre maggiore, in ciascuno alla sua maniera, l’autosu-
peramento e l’autocontrollo; e così sorgeranno gradualmente fer-
mezza e indipendenza, con la generazione delle quali l’educazio-
ne si conclude e si conserva per il futuro. L’ambito del mondo eti-
co si schiude per noi nel modo più chiaro mediante il nostro fare
e il nostro agire, ed a colui per il quale è sorto in questo modo, es-

147
so è sorto effettivamente. Costui, ora, sa da sé ciò che ne costitui-
sce il contenuto, e non ha più bisogno di un testimone estraneo,
bensì può formulare in prima persona un giudizio giusto su di sé,
e d’ora in poi è maggiorenne.
Con ciò che abbiamo appena detto, noi abbiamo colmato una
lacuna che era rimasta nella nostra presentazione precedente, e ab-
biamo reso infine la nostra proposta veramente attuabile. Il com-
piacimento in ciò che è buono e giusto per amore di esso deve su-
bentrare mediante la nuova educazione al posto della speranza o
paura sensibile impiegata finora, e questo compiacimento deve
porre in movimento tutta la vita futura come unico movente. Que-
sto è l’aspetto principale della nostra proposta. La prima domanda
che ora incalza è: “Ma come può essere prodotto quel compiaci-
mento?” Prodotto, nel senso vero e proprio della parola, certo non
può essere, poiché l’uomo dal nulla non può fare qualcosa. Se la no-
stra proposta deve essere in qualche modo realizzabile, questo
compiacimento deve essere presente in modo originario e assolu-
tamente in tutti gli uomini senza eccezione, ed essere loro innato.
E così è anche effettivamente. Il bambino senza eccezione vuol es-
sere buono e giusto, non vuole affatto semplicemente stare bene
come un giovane animale. L’amore è la [420] componente fonda-
mentale dell’uomo; esso esiste appena esiste l’uomo, in modo inte-
ro e completo, e non gli si può aggiungere niente; poiché esso gia-
ce al di fuori del fenomeno sempre crescente della vita sensibile, ed
è indipendente da essa. Solo la conoscenza è ciò a cui questa vita
sensibile si collega, e che sorge e continua a crescere con questa. Es-
sa si sviluppa solo lentamente e gradualmente nel corso del tempo.
Ora, come potrebbe quell’amore innato venir fuori, svilupparsi ed
esercitarsi oltre i tempi dell’ignoranza, finché non sorga un intero
ordinato di concetti del buono e del giusto, al quale il trainante
compiacimento possa collegarsi? La natura razionale ha risolto la
difficoltà senza il nostro intervento. La coscienza che al bambino
manca nella sua interiorità gli si rappresenta e incorpora all’ester-
no nel mondo degli adulti. Finché in lui stesso non si sviluppa un
giudice intelligente, egli viene rinviato a questo da un impulso na-
turale, e così gli viene data una coscienza al di fuori di lui, fino a che
non se ne produca una in lui stesso. Questa verità finora poco no-
ta deve essere riconosciuta dalla nuova educazione, ed essa deve
guidare verso il giusto l’amore che è presente senza il suo interven-

148
to. Finora questa ingenuità e infantile credulità dei minori nella su-
periore perfezione degli adulti è stata impiegata di regola per la lo-
ro rovina; proprio la loro innocenza e la loro fede naturale in noi ci
hanno reso possibile trapiantare in essi, ancor prima che potessero
distinguere il bene e il male, invece del bene che interiormente vo-
levano, la nostra corruzione, che se avessero potuto conoscere
avrebbero respinto.
Questa è la colpa più grande che grava sul nostro tempo; e così
si spiega anche il fenomeno che si presenta ogni giorno, per cui di
regola l’uomo diventa tanto più cattivo, egoista, morto a ogni buo-
na sollecitazione, e inadatto a ogni opera buona, quanti più anni
conta, e perciò quanto più si è allontanato dai primi giorni della sua
innocenza, che in un primo momento continuano pur sempre a ri-
suonare sommessamente in alcune premonizioni del bene; [421]
inoltre, così si dimostra che la presente generazione, se non opera
una cesura assolutamente lacerante nel suo sopravvivere, lascerà
necessariamente dietro di sé una posterità ancora più corrotta, e
questa così a sua volta. Di tali uomini, un maestro del genere uma-
no degno di venerazione dice, con verità che coglie nel segno, che
per loro sarebbe meglio se per tempo venisse loro appeso al collo
un masso, ed essi venissero annegati nel mare, nel punto dov’è più
profondo1. È una calunnia ripugnante della natura umana dire che
l’uomo è nato peccatore; se fosse vero, come potrebbe mai giun-
gergli anche soltanto un concetto di peccato, che certo è possibile
soltanto per opposizione a ciò che peccato non è? Egli si fa pecca-
tore vivendo; e la vita umana fino a oggi, di regola, era uno svilup-
po della peccaminosità colto in crescente progresso.
Ciò che abbiamo detto mostra in una nuova luce la necessità di
fare posto senza indugio a un’effettiva educazione. Se la gioventù
in crescita potesse soltanto crescere senza alcun contatto con gli
adulti e del tutto senza educazione, allora si potrebbe pur sempre
fare il tentativo di vedere che cosa ne verrebbe fuori. Ma anche se
noi la lasciamo solo in nostra compagnia, la sua educazione si fa da
sola senza alcun nostro desiderio o volontà; essi stessi si educano su
di noi: il nostro modo di essere si imprime su di loro come loro mo-
dello, ci imitano anche senza che noi lo vogliamo, e non desidera-

1 Vangelo secondo Matteo, 18, 6.

149
no altro che diventare come siamo noi. Ora però noi siamo, di re-
gola e in gran maggioranza, assolutamente viziosi, in parte senza sa-
perlo, e in quanto noi stessi, altrettanto ingenui dei nostri figli,
prendiamo per giusta la nostra viziosità; oppure, se anche lo sa-
pessimo, come potremmo noi, in compagnia dei nostri figli, de-
porre immediatamente ciò che una lunga vita ha trasformato in una
seconda natura, e scambiare tutto il nostro vecchio senso e spirito
con uno nuovo? Essi devono corrompersi al nostro contatto, que-
sto è inevitabile; se abbiamo una scintilla d’amore per loro, allora
dobbiamo [422] allontanarli dal cerchio della nostra influenza ap-
pestante, ed edificare per loro un soggiorno più puro. Noi dobbia-
mo portarli nella società di uomini che, comunque stiano le cose
con loro per il resto, attraverso esercizio e abitudine costanti ab-
biano almeno acquisito la capacità di capire che i bambini li osser-
vano, e la facoltà di controllarsi almeno per quel periodo, e la co-
gnizione di come si debba apparire ai bambini; noi non dobbiamo
più riammetterli da questa società alla nostra, prima che abbiano
imparato a respingere opportunamente tutta la nostra corruzione,
e siano completamente protetti da ogni infezione.
Tanto abbiamo ritenuto necessario presentare qui sull’educa-
zione all’eticità in generale.
È stato più volte ricordato che i bambini dovrebbero vivere as-
sieme soltanto ai loro insegnanti e custodi, in totale separazione
dagli adulti. È ovvio senza bisogno di sottolinearlo che questa
educazione deve essere impartita a entrambi i sessi nello stesso
modo. Una separazione di questi in istituzioni particolari per ra-
gazzi e ragazze sarebbe controproducente, e annullerebbe molte
parti importanti dell’educazione per diventare un essere umano
completo. Gli oggetti dell’istruzione sono eguali per entrambi i
sessi; la differenza che ha luogo nei lavori potrebbe essere osser-
vata facilmente anche nella comunanza della restante educazione.
La società minore in cui essi vengono formati a esseri umani deve
consistere nell’unificazione di entrambi i sessi, come la società
maggiore in cui un domani entreranno come esseri umani com-
pleti; entrambi devono prima reciprocamente riconoscere l’uno
nell’altro la comune umanità, e imparare ad amarla, e avere amici
e amiche prima che la loro attenzione si appunti sulla differenza
sessuale, ed essi diventino sposi e spose. Inoltre, il rapporto reci-
proco tra i due sessi deve essere rappresentato nell’istituzione

150
educativa e venire formato negli allievi, in completa, salda prote-
zione da un lato, in amorosa prossimità dall’altro. [423]
Se si dovesse arrivare all’attuazione della nostra proposta, il
primo compito sarebbe quello di progettare una legge per la co-
stituzione interna di queste istituzioni educative. Se si è capito be-
ne il concetto fondamentale da noi stabilito, questo è un lavoro fa-
cilissimo, e noi non ci vogliamo fermare proprio qui.
Una delle principali esigenze di questa nuova educazione na-
zionale è che in essa imparare e lavorare siano unificati, che l’isti-
tuzione almeno agli allievi sembri mantenersi mediante se stessa, e
che ciascuno venga mantenuto nella coscienza di contribuire a que-
sto scopo con tutte le sue forze. Questo è richiesto immediatamen-
te già dal compito dell’educazione stessa, assolutamente ancora
senza alcun riferimento allo scopo della sua attuabilità esterna e
della sua economicità, che senza dubbio si richiederà alla nostra
proposta. In parte, perché tutti quelli che passano semplicemente
attraverso l’educazione nazionale universale sono destinati ai ceti
lavorativi, e della loro educazione fa parte senz’altro la formazione
ad abili lavoratori; ma in modo particolare, perché la fondata fidu-
cia di potersela cavare nel mondo grazie alle proprie forze, e di non
avere bisogno per il proprio sostentamento di alcuna benevolenza
estranea, fa parte dell’indipendenza personale dell’uomo, e condi-
ziona l’indipendenza etica molto più di quanto si sia creduto fino-
ra. Questa formazione fornirebbe un’altra parte dell’educazione,
che finora di regola è stata anch’essa lasciata in preda al cieco caso,
che si potrebbe chiamare l’educazione economica, e che non deve
essere in nessun modo considerata dal misero e limitato punto di
vista di cui alcuni si prendono gioco chiamandolo economia, ben-
sì dalla posizione etica superiore. Il nostro tempo stabilisce spesso
come un principio superiore a ogni obiezione che, se si vuole vive-
re, si deve adulare, strisciare, farsi utilizzare per qualsiasi cosa, e che
non può andare altrimenti. Esso non si accorge che, se anche gli si
volesse risparmiare l’eroico, ma assolutamente vero, detto contra-
rio, che se è così, esso [424] dovrebbe non vivere, ma morire, ri-
mane ancora l’osservazione, che esso avrebbe dovuto imparare a
vivere con onore. Proviamo a informarci più da vicino sulle perso-
ne che si contraddistinguono per una condotta disonorevole; si tro-
verà sempre che non hanno imparato a lavorare, o che disprezzano
il lavoro, e che per giunta sono anche cattivi economi. Perciò l’al-

151
lievo della nostra educazione deve essere abituato alla laboriosità,
affinché sia immune dalla tentazione della disonestà mediante la
cura per il nutrimento, e come primissimo principio dell’onore de-
ve essergli impresso nell’animo il fatto che è vergognoso voler es-
sere debitore del proprio sostentamento ad altro che non sia il pro-
prio lavoro.
Pestalozzi vuole accompagnare all’apprendimento l’esercizio
di un lavoro manuale di ogni tipo. Mentre non vogliamo negare la
possibilità di questa unificazione alla condizione da lui stabilita
che il bambino possa svolgere già perfettamente il lavoro manua-
le, pure questa proposta ci sembra derivare dalla povertà del pri-
mo scopo. A mio parere, l’istruzione dovrebbe essere presentata
in modo così sacro e degno di onore, che essa avrebbe bisogno di
tutta l’attenzione e la concentrazione, e non potrebbe essere rice-
vuta vicino a un’altra attività. Se nelle stagioni in cui l’allievo è co-
munque chiuso nella sua stanza si dovessero esercitare, nelle ore
di lavoro, lavori come fare a maglia, tessere e simili, allora affin-
ché lo spirito resti in attività sarà assai opportuno collegare a essi
esercitazioni spirituali in comune sotto sorveglianza; tuttavia
adesso la cosa principale è il lavoro, e queste esercitazioni non de-
vono essere considerate come istruzione, ma solo come un gioco
rasserenante.
Tutti questi lavori di tipo inferiore devono essere rappresenta-
ti in generale solo come cosa accessoria, assolutamente non come
il lavoro principale. Questo lavoro principale è l’esercizio dell’a-
gricoltura e del giardinaggio, dell’allevamento, e di quelle attività
artigianali di cui hanno bisogno nel loro piccolo Stato. Si capisce
che la partecipazione richiesta a ciascuno dovrà essere proporzio-
nata alla forza corporea della sua età, e [425] la forza mancante
dovrà essere sostituita da macchine e strumenti da inventare. Il
punto di vista principale in proposito è che essi, per quanto pos-
sibile, devono capire nei suoi fondamenti ciò che fanno, che essi
abbiano già ottenuto le cognizioni, necessarie alle loro attività,
sulla generazione delle piante, sulle proprietà e i bisogni del cor-
po animale, sulle leggi della meccanica. In questo modo, in parte
la loro educazione diventa già un’istruzione conseguente sulle at-
tività che essi dovranno intraprendere in seguito, e l’agricoltore
pensante e intelligente viene formato nell’intuizione immediata;
in parte, il loro lavoro meccanico viene già ora nobilitato e spiri-

152
tualizzato, esso è prova nella libera intuizione di ciò che essi han-
no compreso proprio nella misura in cui esso è lavoro per il so-
stentamento, e anche in compagnia con l’animale e la zolla di ter-
ra essi restano nell’ambito del mondo spirituale, e non si abbas-
sano a questi ultimi.
La legge fondamentale di questo piccolo Stato economico è
che in esso non può essere usato nessun articolo di cibo, vestiario,
eccetera né, nella misura del possibile, nessuno strumento che
non sia stato prodotto e perfezionato al suo stesso interno. Se que-
sta amministrazione domestica ha bisogno di un sostegno dall’e-
sterno, allora i prodotti le verranno offerti in natura, ma non di
specie diversa da quelli che ha anch’essa, e certo senza che gli al-
lievi sappiano che la loro riserva è stata accresciuta, o qualora ciò
sia opportuno, che essi la ricevono solo in prestito, e dovranno re-
stituirla a tempo debito. Ciascuno ora lavori con tutte le sue for-
ze per questa indipendenza e autosufficienza dell’intero, senza
però fare calcoli con esso o pretendere per sé una qualche pro-
prietà. Ciascuno sappia di essere interamente debitore dell’inte-
ro, e goda solo o, se è necessario, soffra con l’intero. In questo mo-
do, l’indipendenza onorevole dello Stato e della famiglia in cui do-
vrà entrare un domani, e il rapporto con essi dei loro singoli mem-
bri, [426] viene presentato all’intuizione vivente e prende radice
in modo indelebile nel suo animo.
Qui, in questa guida al lavoro meccanico, è il punto in cui si
separa l’educazione dei dotti che fa parte dell’educazione nazio-
nale universale e che si basa su di essa, e qui dobbiamo parlarne.
Ho detto: l’educazione dei dotti che fa parte dell’educazione na-
zionale universale. Se poi venga anche permesso, a chiunque cre-
da di avere abbastanza patrimonio per studiare, o per qualunque
motivo si annoveri tra gli attuali ceti superiori, di seguire il cam-
mino finora consueto dell’educazione dei dotti, lo lascio in sospe-
so: se mai si dovesse arrivare all’educazione nazionale, l’esperien-
za insegnerà come la maggioranza di questi dotti, con l’erudizio-
ne che si sono comprati, potrà reggere il confronto non voglio di-
re col dotto formato nella nuova scuola, ma addirittura con l’uo-
mo comune uscito da essa. Ma ora non voglio parlare di questo,
ma dell’educazione dei dotti nel nuovo modo.
Per quanto riguarda i princìpi di essa, anche il dotto futuro de-
ve essere passato attraverso l’educazione nazionale universale, e

153
deve avere ottenuto in modo chiaro e completo la prima parte di
essa, lo sviluppo della conoscenza nella sensazione, nell’intuizio-
ne e in ciò che si collega a esse. Solo al fanciullo che mostri un’e-
minente predisposizione per l’apprendere, e una spiccata inclina-
zione per il mondo dei concetti, la nuova educazione nazionale
può permettere di raggiungere questo ceto; ma essa dovrà per-
metterlo a chiunque mostri queste qualità, senza eccezione e sen-
za riguardo per una presunta differenza di nascita; poiché il dot-
to non è affatto a sua propria disposizione, e ogni talento a tal fi-
ne è una preziosa proprietà della nazione, che non può esserle sot-
tratta.
Il non dotto è destinato a conservare il genere umano nella po-
sizione culturale raggiunta, il dotto a farlo andare avanti secondo
un concetto chiaro e con arte consapevole. [427] Quest’ultimo col
suo concetto deve essere sempre in anticipo sul presente, coglie-
re il futuro, ed essere in grado di trapiantarlo nel presente per lo
sviluppo futuro. Per fare questo, c’è bisogno di un chiaro sguar-
do d’insieme sullo stato del mondo finora vigente, di una libera
abilità nel pensiero puro e libero dal fenomeno e, per potersi co-
municare, del possesso del linguaggio fin nella sua radice vivente
e creativa. Tutto questo richiede spontaneità spirituale senza di-
rezione estranea, e meditazione solitaria, in cui perciò il dotto fu-
turo deve essere esercitato fin dall’ora in cui è decisa la sua pro-
fessione; non semplicemente, come per il non dotto, un pensiero
sotto l’occhio dell’insegnante sempre presente. È richiesta una
quantità di nozioni ausiliarie che al non dotto risultano assoluta-
mente inutili per la sua destinazione. Il lavoro del dotto, e l’opera
quotidiana della sua vita, sarà proprio quella riflessione solitaria;
a questo lavoro egli deve essere condotto subito, mentre deve es-
sere lasciato libero dall’altro lavoro meccanico. Mentre così l’e-
ducazione del dotto futuro a uomo in generale procederebbe fin
qui di pari passo con l’educazione nazionale universale, ed egli as-
sisterebbe con tutti gli altri all’istruzione relativa, solo quelle ore
che per gli altri sono ore di lavoro dovrebbero essere trasformate
egualmente per lui in ore di istruzione in ciò che è specificamen-
te richiesto dalla sua professione futura; e questa sarebbe tutta la
differenza. Le nozioni generali dell’agricoltura, di altre arti mec-
caniche, e delle abilità manuali in proposito, che sono richieste già
al semplice uomo, le avrà già imparate senza dubbio frequentan-

154
do la prima classe o, se questo non dovesse essere il caso, queste
nozioni dovrebbero essere riprese. È ovvio che egli molto meno
di qualsiasi altro potrebbe essere assolto dagli esercizi fisici in pro-
gramma. Ma fornire i particolari argomenti di insegnamento che
ricadrebbero nell’istruzione dotta, così come lo sviluppo dell’in-
segnamento da osservare in essa, si trova al di fuori del piano di
questi discorsi.
Undicesimo discorso
A chi spetterà l’attuazione
di questo programma educativo?

[428] Il programma della nuova educazione nazionale tedesca è


stato esposto a sufficienza per il nostro scopo. La prossima do-
manda che si presenta è: “Chi deve porsi al vertice dell’attuazio-
ne di questo programma? Su chi dobbiamo contare, e su chi ab-
biamo contato?”
Noi abbiamo stabilito questa educazione come il supremo e
per il momento unico affare dell’amor di patria tedesco, e con
questo legame vogliamo introdurre nel mondo per la prima volta
il miglioramento e la trasformazione dell’intero genere umano.
Ma quell’amor di patria deve entusiasmare anzitutto lo Stato te-
desco, ovunque siano governati dei tedeschi, e avere la premi-
nenza ed essere la forza trainante in tutte le sue decisioni. Lo Sta-
to sarebbe dunque ciò al quale il nostro trepido sguardo dovreb-
be rivolgersi per primo.
Esaudirà esso le nostre speranze? Quali sono le aspettative che
possiamo avere nei suoi confronti secondo quanto abbiamo detto
finora, sempre guardando, si capisce, non a uno Stato particola-
re, ma all’intera Germania?
Nell’Europa moderna l’educazione non è partita propriamen-
te dallo Stato, ma da quel potere da cui gli Stati perlopiù hanno
ricevuto anche il loro, dal regno spirituale-celeste della Chiesa.
Questa non si considerava tanto una componente del corpo co-
mune terreno, quanto piuttosto come una colonia del cielo total-
mente estranea, che sarebbe stata inviata per procurare cittadini

156
a questo Stato estero in ogni luogo in cui essa avesse potuto met-
tere radice. La sua educazione era preoccupata soltanto del fatto
che gli uomini [429] non fossero dannati, bensì beati nell’altro
mondo. Con la Riforma, questo potere ecclesiastico, che per il re-
sto manteneva l’aspetto di prima, venne semplicemente unificato
col potere mondano, con cui in precedenza era entrato spesso in
conflitto; questa fu tutta la differenza che a questo riguardo sca-
turì da quell’avvenimento. Perciò rimase anche la vecchia conce-
zione dell’educazione. Anche in tempi recenti, e fino a oggi, la for-
mazione dei ceti possidenti è stata considerata una faccenda pri-
vata dei genitori, che potevano orientarsi a loro piacimento, e i lo-
ro figli di regola venivano preparati soltanto a essere utili a se stes-
si in futuro; l’unica educazione pubblica invece, quella del popo-
lo, era soltanto un’educazione finalizzata alla beatitudine celeste;
la cosa principale era un po’ di cristianesimo, di saper leggere e,
nel caso in cui si potesse ottenere, scrivere, il tutto per amore del
cristianesimo. Ogni altro sviluppo degli uomini veniva lasciato al-
l’influsso cieco e casuale della società in cui crescevano e alla vita
reale. Perfino le istituzioni per l’educazione dotta erano soprat-
tutto dirette alla formazione di ecclesiastici; questa era la facoltà
principale, di cui le altre costituivano solo l’appendice, e anche, il
più delle volte, ricevevano soltanto chi si era ritirato da quella.
Finché quelli che erano al vertice del governo restavano all’o-
scuro del suo scopo autentico, e anche per la loro persona erano
presi da quella coscienziosa preoccupazione per la beatitudine lo-
ro e di altri, si poteva contare sul loro zelo per questa specie di
educazione pubblica, e sulle loro serie preoccupazioni per essa.
Ma non appena vennero in chiaro su quello scopo, e compresero
che la sfera d’azione dello Stato risiede all’interno del mondo vi-
sibile, allora dovette apparire loro evidente che quella cura per la
beatitudine eterna dei loro sudditi non poteva gravare su di loro,
e che chiunque voleva essere beato doveva cavarsela da solo. D’o-
ra in poi, essi credettero di fare abbastanza [430] lasciando anco-
ra alla loro prima destinazione le fondazioni e le istituzioni risa-
lenti a tempi più devoti. Per quanto poco adeguate e sufficienti es-
se potessero essere in rapporto ai tempi del tutto cambiati, essi
non si ritennero obbligati a sostenerle economizzando su scopi di
altro tipo; non si ritennero autorizzati a intervenire attivamente, e
a sostituire ciò che era diventato vecchio e inutilizzabile col nuo-

157
vo adatto allo scopo; e a ogni proposta di questo tipo, era sempre
pronta la risposta: “Lo Stato non ha i soldi per questo”. Se mai fu
fatta un’eccezione a questa regola, ciò accadde a vantaggio delle
istituzioni culturali superiori, che irraggiano splendore all’intorno
e promettono gloria ai loro sostenitori; invece, la formazione di
quella classe che è il terreno vero e proprio del genere umano, da
cui continua a compiersi la formazione superiore, e su cui que-
st’ultima deve costantemente retroagire, la formazione del popo-
lo, restò trascurata, e dalla Riforma sino ai nostri giorni si trova in
uno stato di decadenza crescente.
Per poter sperare in qualcosa di meglio da parte dello Stato in
rapporto alla nostra faccenda sarebbe necessario, per il futuro e
da questo momento, che esso cambiasse il concetto fondamenta-
le dello scopo dell’educazione apparentemente avuto finora con
un concetto completamente diverso. Lo Stato dovrebbe capire di
avere completamente ragione nel respingere, come ha fatto fino-
ra, la cura per l’eterna beatitudine dei suoi concittadini, poiché
per questa beatitudine non c’è affatto bisogno di una formazione
particolare, e un vivaio per il cielo come la Chiesa, il cui potere al-
la fine gli è stato trasferito, non c’entra affatto, è solo un ostacolo
per ogni valida formazione, e dovrebbe essere esonerata da que-
sto servizio; mentre al contrario c’è molto bisogno di formazione
per la vita sulla terra e, da una solida educazione per quest’ultima,
quella per il cielo viene fuori da sé come un semplice accessorio.
Sembra che finora lo Stato, quanto più illuminato pensava di es-
sere, tanto più fermamente abbia creduto di poter raggiungere il
suo scopo vero e proprio anche senza la religione e l’eticità dei
suoi cittadini, mediante il semplice istituto della coazione e che,
rispetto alle prime, questi potessero fare come potevano. Speria-
mo che dalle esperienze recenti [431] abbia almeno imparato che
non può riuscirci, e che proprio la mancanza di religione e di eti-
cità lo ha portato al punto in cui si trova adesso.
Riguardo al suo dubbio, se esso abbia le risorse per sostenere
i costi di una educazione nazionale, speriamo di convincerlo del
fatto che con questa unica spesa provvederà alla maggior parte
delle spese restanti nel modo più economico possibile, e purché
se la assuma, esso avrà in breve tempo solo quest’unica spesa prin-
cipale. Fino a oggi, la maggior parte delle entrate dello Stato è sta-
ta impiegata per il mantenimento di eserciti permanenti. Il suc-

158
cesso di questo investimento lo abbiamo visto; basti questo, poi-
ché indagare più profondamente le ragioni particolari di questo
risultato esula dal nostro programma. Al contrario, lo Stato che
introducesse in modo universale l’educazione nazionale da noi
proposta, dall’istante in cui una generazione di giovani fosse giun-
ta a maturità passando attraverso di essa, non avrebbe più biso-
gno di un esercito permanente, bensì in loro avrebbe un esercito
come non è stato mai visto. Ogni singolo è perfettamente eserci-
tato a ogni possibile uso della sua forza fisica, e la comprende im-
mediatamente, abituato a sopportare ogni fatica e sforzo; il suo
spirito cresciuto nell’intuizione immediata è sempre presente e
presso se stesso, nel suo animo vive l’amore per l’intero di cui egli
è membro, dello Stato e della patria, e distrugge ogni altro stimo-
lo egoistico. Lo Stato li può chiamare e mettere sotto le armi ap-
pena vuole, e può essere certo che nessun nemico li abbatterà.
Un’altra parte della cura e delle uscite negli Stati saggiamente go-
vernati era diretta sinora al miglioramento dell’economia statale
nel senso più esteso e in tutti i suoi rami, e per l’ignoranza e inca-
pacità dei ceti inferiori molte misure e molte spese sono state rea-
lizzate invano, e la cosa è progredita dappertutto assai poco. Me-
diante la nostra educazione, lo Stato ottiene ceti lavorativi [432]
abituati fin dalla giovinezza a riflettere sui loro compiti, e che han-
no già capacità e inclinazione per provvedere a se stessi da soli; se
ora anche lo Stato sarà in grado di prenderli sotto braccio in mo-
do adeguato, essi lo capiranno con mezza parola, e accetteranno
il suo insegnamento con molta riconoscenza. Tutti i rami dell’am-
ministrazione domestica otterranno in breve tempo, senza molta
fatica, una floridezza tale da non essere ancora mai stata vista, e
allo Stato, se esso si farà i conti e nel frattempo apprenderà il ve-
ro valore fondamentale delle cose, la sua spesa iniziale porterà mi-
gliaia di interessi. Finora lo Stato ha dovuto fare molto per istitu-
zioni di giustizia e polizia, eppure non ha mai potuto fare abba-
stanza; case di detenzione e di correzione hanno comportato spe-
se, le istituzioni per i poveri infine hanno richiesto una spesa tan-
to maggiore quanto più si spendeva per esse e, nell’insieme della
situazione attuale, appaiono come vere e proprie istituzioni per
produrre poveri. In uno Stato che ha reso universale la nuova edu-
cazione, le prime saranno assai limitate, le ultime verranno del tut-
to eliminate. Una precoce disciplina assicura dalla detenzione e

159
dalla correzione successive e assai incresciose; poveri, invece, tra
un popolo così educato non ce ne sono affatto.
Possano lo Stato e tutti coloro che lo consigliano avere il co-
raggio di guardare veramente in faccia la sua situazione attuale, e
di confessarla a se stessi; possa lo Stato capire vivamente che non
gli è rimasta nessun’altra sfera d’azione in cui possa muoversi e de-
cidere qualcosa in modo originale e indipendente come uno Sta-
to effettivo, tranne l’educazione delle generazioni a venire; possa
capire che, se non vuole limitarsi a non far niente, può fare anco-
ra soltanto questo; ma che questo merito gli verrà lasciato senza
riserve e senza invidie. Che noi non siamo più in grado di oppor-
re una resistenza attiva, è stato già presupposto da noi come qual-
cosa che balza agli occhi ed è ammesso da tutti. Come possiamo
ora giustificare il perdurare della nostra esistenza, che abbiamo
perduto in questo modo, nei confronti di quanti ci accusano di
viltà e di un indegno amore per la vita? [433] In nessun altro mo-
do, se non decidendoci a vivere non per noi stessi e mostrando
questo coi fatti; facendo di noi il seme di una posterità più degna,
e volendoci conservare solo per amore di essa quel tanto che ba-
sta per impiantarla. Senza più gusto per quel primo scopo della
vita, che altro potremmo fare? Le nostre costituzioni ci verranno
fatte, ci verranno prescritte le nostre alleanze e l’impiego delle no-
stre forze militari, ci verrà fornita una legislazione, e talvolta ci
verranno tolti perfino i tribunali, le sentenze e la loro esecuzione.
Per il prossimo futuro, saremo sollevati da queste preoccupazio-
ni. Solo all’educazione non si è pensato; se cerchiamo un’occupa-
zione, allora scegliamo questa! C’è da aspettarsi che in questa ver-
remo lasciati tranquilli. Io spero – forse in questo m’inganno, ma
poiché riesco a vivere solo in virtù di questa speranza, non posso
fare a meno di sperare – io spero di convincere alcuni tedeschi e
di far loro capire che solo l’educazione ci può salvare da tutti i ma-
li che ci opprimono. Io conto sul fatto che la necessità ci abbia re-
si più inclini a fare attenzione e a meditare seriamente. L’estero ha
altre consolazioni e altri mezzi; non c’è da aspettarsi che esso pre-
sti una qualche attenzione a questo pensiero, o che gli dia un qual-
che credito, nel caso in cui dovesse imbattersi in esso; io spero, in-
vece, che per i lettori dei loro giornali diventi una ricca fonte di
divertimento venire a sapere che qualcuno si aspetta cose così
grandi dall’educazione.

160
Possano lo Stato e coloro che lo consigliano non essere sco-
raggiati, nell’assumersi questo compito, dall’osservazione che il
successo sperato sta in lontananza. Se tra i molteplici e assai com-
plicati motivi che hanno avuto come conseguenza il nostro attua-
le destino si volesse distinguere quello che pesa soltanto ed esclu-
sivamente sui governi, si scoprirebbe che questi, che più di chiun-
que altro sarebbero tenuti [434] a guardare in faccia e a domina-
re il futuro, nell’affrontare i grandi avvenimenti dell’epoca hanno
sempre cercato, per quanto potevano, di togliersi dall’imbarazzo
immediatamente presente mentre, rispetto al futuro, hanno con-
tato non sul loro presente, ma su un qualunque colpo di fortuna
che avrebbe dovuto recidere il filo continuo delle cause e degli ef-
fetti. Ma speranze del genere sono ingannevoli. Una forza trai-
nante, una volta che la si sia lasciata operare nel tempo, continua
a spingere e compie il proprio cammino, e dopo che è stata com-
messa la prima sbadataggine, non può più essere trattenuta da una
consapevolezza giunta troppo tardi. Il nostro destino ci ha solle-
vati per il prossimo futuro dal primo caso, quello di pensare solo
al presente; il presente non è più nostro. Del secondo caso, quel-
lo di avere un futuro migliore da qualcun altro che da noi stessi,
ne faremmo volentieri a meno. È vero che chiunque tra noi abbia
bisogno, per vivere, di qualcosa di più del nutrimento, non può
trovare nel presente alcuna consolazione al dovere di vivere; solo
la speranza in un futuro migliore è l’elemento in cui possiamo an-
cora respirare. Ma solo chi sogna può riporre questa speranza su
qualcosa di diverso da ciò che egli stesso può porre nel presente
in vista di uno sviluppo futuro. Perdonino, coloro che ci gover-
nano, se noi pensiamo anche di loro le stesse cose che pensiamo
tra di noi l’uno dell’altro, e che vengono sentite dai migliori; si
pongano al vertice dell’opera che anche a noi è del tutto chiara,
affinché possiamo ancora vedere sorgere, davanti ai nostri occhi,
ciò che un giorno cancellerà dalla nostra memoria la vergogna che
accompagna, davanti ai nostri occhi, il nome tedesco!
Se lo Stato si assumerà il compito che gli è richiesto, esso ren-
derà universale questa educazione su tutto il suo territorio, per
ciascuno dei suoi cittadini futuri, senza alcuna eccezione; inoltre,
è solo per questa universalità che noi abbiamo bisogno dello Sta-
to poiché, per singole iniziative e tentativi fatti qua e là, bastereb-
be senz’altro il patrimonio di persone private bene intenzionate.

161
Ora, non c’è sicuramente da aspettarsi che i genitori siano gene-
ralmente ben disposti [435] a separarsi dai loro bambini per affi-
darli a questa nuova educazione, di cui sarà difficile comunicare
loro un’idea; bensì, in base all’esperienza passata, bisognerà
aspettarsi che chiunque creda ancora di avere un patrimonio per
nutrire i suoi bambini a casa si opporrà all’educazione pubblica,
e in particolare a un’educazione pubblica che separa in modo co-
sì netto, e dura così a lungo. Finora, in casi del genere, quando c’e-
ra da aspettarsi ostilità, siamo stati abituati a sentire gli uomini di
Stato respingere la proposta con la risposta: “Lo Stato non ha il
diritto di esercitare coazione a questo scopo”. Poiché essi voglio-
no aspettare finché gli uomini in generale avranno buona volontà,
ma senza educazione non si potrà mai giungere a una buona vo-
lontà in generale, essi sono protetti da ogni miglioramento, e pos-
sono sperare che le cose restino come sono fino alla fine dei gior-
ni. Nella misura in cui la pensano così quelli che, in generale, ri-
tengono l’educazione un lusso di cui si può fare a meno, e rispet-
to al quale bisogna comportarsi nel modo più parsimonioso pos-
sibile, oppure quelli che nella nostra proposta scorgono soltanto
un nuovo azzardato esperimento con l’umanità, che può riuscire
o anche no, la loro coscienziosità va lodata. Da coloro che ammi-
rano lo stato attuale della formazione pubblica, e sono entusiasti
della perfezione cui essa sarebbe giunta sotto la loro direzione,
non possiamo assolutamente pretendere che intervengano su
qualcosa che ignorano completamente. Con tutti costoro non c’è
nulla da fare per il nostro scopo, e sarebbe deplorevole se la deci-
sione su questa faccenda dovesse spettare a loro. Ma se si potes-
sero trovare e chiamare a consulto uomini di Stato che, prima di
tutto, abbiano dato un’educazione a se stessi mediante un profon-
do e solido studio della filosofia e delle scienze in generale, che
facciano veramente sul serio col loro compito, che possiedano un
saldo concetto dell’uomo e della sua destinazione, che siano ca-
paci di capire il presente e di comprendere che cosa [436] man-
chi davvero, improrogabilmente, all’umanità attuale; se avessero
inteso da soli, mediante quei concetti preliminari, che soltanto l’e-
ducazione ci può salvare dalla barbarie e dall’inselvatichimento,
altrimenti irrompenti su di noi in maniera inarrestabile, se bale-
nasse loro l’immagine del nuovo genere umano che sorgerebbe
mediante questa educazione, se essi stessi fossero intimamente

162
convinti dell’infallibilità e affidabilità dei mezzi proposti; allora,
da uomini simili potremmo aspettarci anche che essi comprenda-
no come lo Stato, in quanto supremo amministratore delle fac-
cende umane, e in quanto tutore dei minori, responsabile solo di
fronte a Dio e alla sua coscienza, abbia anche il pieno diritto di co-
stringere questi ultimi a salvarsi. Dove esiste attualmente uno Sta-
to che dubiti del suo diritto di costringere i suoi sudditi al servi-
zio di guerra, e di togliere a tal fine i figli ai genitori, sia che uno
dei due o entrambi lo vogliano oppure no? E tuttavia, questa coa-
zione è molto più discutibile, e di solito ha le peggiori conse-
guenze per lo stato etico e la salute e la vita di chi vi è costretto;
mentre al contrario la coazione di cui stiamo parlando, una volta
completata l’educazione, restituisce tutta intera la libertà perso-
nale, e può avere solo le più vantaggiose conseguenze. Certo, in
un primo tempo si era lasciata alla libera volontà anche l’assun-
zione del servizio di guerra; ma dopo aver visto che ciò non era
sufficiente per lo scopo prefisso, non si è avuto alcuno scrupolo a
promuoverlo mediante coazione, perché la questione per noi era
abbastanza importante, e la necessità imponeva la coazione. Quel-
la scrupolosità verrebbe meno da sola, se i nostri occhi potessero
aprirsi sulle nostre necessità anche da questo punto di vista, e l’og-
getto diventasse per noi della stessa importanza; tanto più che ci
sarebbe bisogno della coazione solo nella prima generazione, e
nella successiva, passata essa stessa attraverso questa educazione,
sparirebbe. Anche quella prima coazione per il servizio di guerra,
in questo modo, verrebbe eliminata, poiché quelli che sono stati
così educati sono tutti egualmente pronti [437] a prendere le ar-
mi per la patria. Se per ridurre il clamore, all’inizio, si volesse li-
mitare questa coazione all’educazione nazionale pubblica nello
stesso modo in cui essa è stata limitata per il servizio di guerra, ed
escludere da essa i ceti liberati da quest’ultima, ciò non avrebbe
conseguenze particolarmente negative. I genitori intelligenti tra
gli esclusi affideranno volontariamente i loro bambini a questa
educazione; il numero dei bambini, insignificante rispetto all’in-
tero, di genitori poco intelligenti appartenenti a questi ceti, cresca
pure nel modo finora consueto, ed entri nell’epoca migliore che si
tratta di produrre. Esso servirà solo come strano ricordo del tem-
po antico, e per infiammare il nuovo alla viva consapevolezza del-
la sua superiore fortuna.

163
Se ora questa educazione deve essere educazione nazionale dei
tedeschi semplicemente, e se la grande maggioranza di tutti colo-
ro che parlano la lingua tedesca, e non invece soltanto la cittadi-
nanza di questo o quel particolare Stato tedesco, deve esistere co-
me un nuovo genere umano, allora tutti gli Stati tedeschi, ciascu-
no per sé e indipendentemente da tutti gli altri, devono assumere
questo compito. La lingua in cui questa faccenda è stata per la pri-
ma volta messa sul tappeto, in cui sono redatti e verranno ancora
redatti i sussidi, in cui avviene il tirocinio degli insegnanti, il cam-
mino della simbolizzazione che procede in modo unitario attra-
verso tutto questo, è comune a tutti i tedeschi. Stento a immagi-
nare come, e con quali trasformazioni, questi mezzi di formazio-
ne potrebbero essere trasferiti nel loro insieme, particolarmente
in quella estensione che noi abbiamo dato al nostro programma,
in una lingua qualunque dell’estero, in modo da apparire non co-
me un che di estraneo e di tradotto, ma come un che di intimo e
di risultante dalla vita propria della loro lingua. Questa difficoltà
è superata nello stesso modo per tutti i tedeschi; per loro, la cosa
è fatta e basta che l’afferrino.
Buon per noi, in questo caso, che ci siano ancora diversi Stati
tedeschi separati l’uno dall’altro! In questo importante [438] af-
fare nazionale, ciò che così spesso ci ha danneggiato forse po-
trebbe andare a nostro vantaggio. Forse l’emulazione dei più, e il
desiderio di primeggiare sugli altri, potrà fare ciò che il tranquil-
lo appagamento del singolo non avrebbe potuto compiere; poiché
è chiaro che quello tra gli Stati tedeschi che inizierà per primo in
questa faccenda conquisterà il primato quanto a rispetto, amore,
gratitudine dell’intero nei suoi confronti; egli si ergerà come il su-
premo benefattore e l’autentico fondatore della nazione. Egli darà
coraggio agli altri, fornirà loro un esempio istruttivo, e diventerà
il loro modello; metterà da parte le riserve in cui restavano impi-
gliati gli altri; i manuali e i primi insegnanti saranno provenienti
dal suo seno, e verranno forniti agli altri; e chi arriverà secondo
dopo di lui, sarà secondo anche nella gloria. A confortante testi-
monianza che tra i tedeschi un senso per ciò che è superiore non
è ancora del tutto estinto, finora diversi popoli e Stati tedeschi
hanno lottato tra di loro per la gloria di una maggiore cultura; al-
cuni hanno una più ampia libertà di stampa, una maggiore di-
stanza dalle opinioni tramandate, altri hanno gloria e meriti di an-

164
tica data, altri hanno addotto a loro favore qualcos’altro, e il con-
flitto non ha potuto essere deciso. Lo sarà alla presente occasio-
ne. Solo quella cultura che aspira e osa rendersi universale, e af-
ferrare tutti gli uomini senza distinzione, è un’effettiva compo-
nente della vita, ed è sicura di se stessa. Ogni altra è un’aggiunta
estranea, di cui si fa sfoggio e che non si può possedere neppure
in buona coscienza. In questa occasione si scoprirà se la cultura di
cui ci si vanta è presente solo in alcune persone del ceto medio che
la presentano nei loro scritti, uomini quali ce ne possono mostra-
re tutti gli Stati tedeschi; o se invece essa è salita fino ai ceti supe-
riori che consigliano lo Stato. Allora si mostrerà anche come bi-
sogna giudicare lo zelo qua e là dimostrato per la fondazione e lo
sviluppo [439] di istituzioni di cultura superiore, e se a suo fon-
damento ci sia stato un puro amore per la formazione umana, che
coinvolgerebbe senz’altro con eguale zelo ogni ramo di essa e in
particolare la sua primissima base, o il semplice desiderio di met-
tersi in mostra, e forse misere speculazioni finanziarie.

Ho detto che lo Stato tedesco che realizzerà per primo questa pro-
posta ne avrà la gloria più grande. Ma inoltre, questo Stato tede-
sco non resterà a lungo da solo, bensì indubbiamente troverà pre-
sto seguaci e imitatori. La cosa principale è che si cominci. Anche
se fosse solo questo, sentimento dell’onore, invidia, il desiderio di
avere anche noi ciò che ha un altro, e se possibile ancora meglio,
spingeranno uno dopo l’altro a seguire l’esempio. Anche le nostre
precedenti considerazioni sul vantaggio del singolo Stato, che
adesso potranno far dubitare qualcuno, diventeranno allora più
evidenti, poiché confermate nell’intuizione vivente.

Se potessimo aspettarci che subito e all’istante tutti gli Stati tede-


schi prendessero serie misure per realizzare quel programma, al-
lora già tra venticinque anni potrebbe esistere la migliore genera-
zione di cui abbiamo bisogno, e chi potesse sperare di vivere così
a lungo, potrebbe sperare di vederla con i propri occhi.
Ma noi dobbiamo considerare anche il caso che, tra tutti gli
Stati tedeschi attuali, non ce ne sia uno ad avere tra i suoi supre-
mi consiglieri un uomo in grado d’intendere tutto ciò che abbia-
mo premesso e di farsene coinvolgere, e in cui la maggioranza dei

165
consiglieri almeno non gli si opponga. Allora, questa faccenda
spetterebbe senz’altro a persone private ben disposte, e bisogne-
rebbe auspicare che fossero queste a dare inizio alla nuova edu-
cazione proposta. Abbiamo in mente anzitutto i grandi proprie-
tari terrieri, che sui loro possedimenti potrebbero erigere simili
istituzioni educative per i figli dei loro [440] sottoposti. Va a glo-
ria della Germania, e della preminenza che le fa onore sulle altre
nazioni dell’Europa moderna, il fatto che nel ceto suddetto ci sia
sempre stato qualcuno, qua e là, che si è impegnato seriamente
per l’istruzione e la formazione dei bambini sui suoi possedimen-
ti, e che ha voluto fare il meglio che poteva a questo scopo. C’è da
sperare che costoro siano tuttora disposti a farsi illuminare su ciò
che di perfetto viene loro offerto, e vogliano fare in grande e com-
piutamente ciò che finora hanno fatto in piccolo e parzialmente.
Certo, qua e là potrebbe avere contribuito l’idea che per loro sa-
rebbe stato più vantaggioso avere sudditi istruiti invece che igno-
ranti. Là dove lo Stato, avendo annullato il rapporto di sudditan-
za, ha eliminato quest’ultimo stimolo, esso dovrebbe meditare
tanto più seriamente sul suo imprescindibile dovere di non an-
nullare anche l’unica cosa buona che nei bene intenzionati era col-
legata a questo rapporto, e in questo caso non dovrebbe indugia-
re a fare ciò che comunque gli spetta, dopo aver sollevato coloro
che lo facevano volontariamente al posto suo. Riguardo ai ceti,
inoltre, abbiamo in mente le associazioni volontarie di cittadini
ben disposti a questo scopo. L’inclinazione a fare il bene, per
quanto ho potuto vedere, non si è ancora estinta negli animi te-
deschi sotto la pressione della necessità. Tuttavia, a causa di una
serie di difetti nelle nostre istituzioni, i quali nell’insieme si po-
trebbero ricondurre alla trascuratezza dell’educazione, questa
operosità raramente rimedia alla necessità, ma spesso sembra an-
cora aumentarla. Speriamo che quell’eccellente inclinazione pos-
sa infine dirigersi a quell’azione benefica che pone fine a ogni ne-
cessità e a ogni ulteriore benevolenza, cioè all’azione benefica del-
l’educazione. Ma noi abbiamo ancora bisogno e facciamo affida-
mento su un’azione benefica e su un sacrificio di altro tipo, che
non consiste in un dare, bensì in un fare e operare. Possano i dot-
ti esordienti, ai quali la loro situazione lo permette, [441] dedica-
re il tempo restante tra l’università e l’impiego in un pubblico uf-
ficio a istruirsi sul modo di insegnare in queste istituzioni, e a in-

166
segnarvi essi stessi! A parte che in questo modo acquisterebbero
enormi meriti per l’intero, possono star certi anche del fatto che
a trarne il guadagno più grande sarebbero essi stessi. Tutte le lo-
ro nozioni, che essi spesso si tirano dietro così smorte dalla co-
mune istruzione universitaria, riceveranno chiarezza e vitalità nel-
l’elemento dell’intuizione universale in cui qui vengono immerse.
Essi impareranno a riprodurle e a impiegarle con abilità; acqui-
steranno un tesoro di vera cognizione umana, l’unica che meriti
questo nome, poiché nel bambino l’intera pienezza dell’umanità
è presente in modo aperto e innocente; verranno condotti alla
grande arte del vivere e dell’agire, per cui di regola la scuola su-
periore non dà alcuna guida.
Se lo Stato rifiuta il compito che gli è assegnato, allora è una
gloria tanto maggiore per le persone private che lo accettano.
Lungi da noi anticipare il futuro con supposizioni, o assumere il
tono del dubbio e della sfiducia. Noi abbiamo detto con chiarez-
za a chi si rivolgono innanzitutto i nostri auspici. Ci sia consenti-
to osservare solo questo, che, se davvero si dovesse arrivare al
punto che lo Stato e i principi abbandonino la questione a perso-
ne private, ciò sarebbe conforme, come abbiamo già osservato e
dimostrato con esempi, all’andamento dello sviluppo e della cul-
tura tedeschi, e questo resterebbe fino in fondo eguale a se stesso.
Anche in questo caso, lo Stato seguirebbe a suo tempo, dapprima
come un singolo che vuol fare la parte che gli spetta, fino ad ac-
corgersi più tardi di non essere una parte, ma l’intero, e di avere
tanto il dovere quanto il diritto di occuparsi dell’intero. Da que-
sto momento, tutte le preoccupazioni indipendenti delle persone
private spariscono, e si sottomettono al programma universale
dello Stato. [442]
Se la faccenda dovesse prendere questa strada, allora certo col
prefisso miglioramento della nostra specie si procederà solo len-
tamente, senza una certa e salda visione d’insieme, e senza una
possibile valutazione dell’intero. Ma non facciamoci trattenere
per questo dal cominciare! È nella natura della cosa stessa che es-
sa non possa mai tramontare, ma che una volta messa in opera,
continui a vivere mediante se stessa, e si espanda sempre di più.
Chiunque sarà passato per questa formazione, sarà un testimone
a suo favore, e un suo devoto divulgatore; ciascuno sarà ricom-
pensato per la dottrina acquisita diventando a sua volta insegnan-

167
te, e formando quanti più allievi possibile, che un giorno divente-
ranno a loro volta insegnanti; e questo continua necessariamente
finché il tutto non sia conquistato senza eccezione.
Nel caso in cui lo Stato non si occupi della cosa, allora le ini-
ziative private dovranno temere che tutti i genitori dotati di un
qualche patrimonio non affidino i loro figli a questa educazione.
Ci si rivolga allora, nel nome di Dio e con piena fiducia, ai poveri
bambini abbandonati, a tutti coloro che l’umanità adulta ha re-
spinto e gettato via! Così come finora, particolarmente in quegli
Stati tedeschi in cui la pietà degli avi aveva molto accresciuto e ric-
camente dotato le pubbliche istituzioni educative, molti genitori
hanno permesso che l’istruzione arrivasse ai loro figli, poiché qui
essi trovavano il sostentamento che non avrebbero trovato in nes-
sun’altra attività, allo stesso modo, spinti dalla necessità, lasciate
che ci voltiamo e che diamo il pane a coloro cui nessun altro ne
dà, affinché essi col pane ricevano anche la formazione dello spi-
rito. Non dobbiamo temere che la povertà e l’inselvatichimento
del loro stato precedente siano di ostacolo al nostro intento! Pur-
ché li strappiamo improvvisamente e completamente da esso, e li
portiamo in un mondo assolutamente nuovo; se in loro non la-
sceremo niente che possa riportarli al passato, essi si dimentiche-
ranno di se stessi, e staranno lì come esseri nuovi appena creati.
[443] La nostra istruzione e il nostro ordinamento domestico do-
vranno garantire che in questa tavoletta fresca e pulita venga in-
ciso soltanto il bene. Per tutta la posterità, sarà un ammonimento
sulla nostra epoca il fatto che proprio coloro che essa ha respinto
abbiano ricevuto, solo mediante questa esclusione, il privilegio di
dare inizio a una specie migliore: quando costoro porteranno la
cultura che rende beati ai figli di chi preferì non stare insieme a
loro, ed essi diventeranno i capostipiti dei nostri futuri eroi, sag-
gi, legislatori e salvatori dell’umanità.
Per la fondazione iniziale c’è bisogno anzitutto di insegnanti
ed educatori capaci. Di questi, la scuola pestalozziana ne ha for-
mati ed è sempre pronta a formarne altri. Una delle caratteristi-
che principali, all’inizio, sarà che ogni istituzione di questo tipo si
consideri al tempo stesso come un vivaio di insegnanti, e che in-
torno a essa, oltre agli insegnanti già pronti, si riunisca una molti-
tudine di giovani che imparino a insegnare, e al tempo stesso in-
segnino, e nell’esercizio imparino a farlo sempre meglio. Ciò ren-

168
derà molto più facile anche il mantenimento degli insegnanti, qua-
lora all’inizio questi istituti dovessero lottare con una penuria di
mezzi. La maggior parte, però, è presente solo per imparare. Per
questo, per un certo periodo, essi potrebbero applicare ciò che
hanno imparato a vantaggio dell’istituto in cui lo hanno impara-
to, anche senza un compenso di altro tipo.
Inoltre, un simile istituto ha bisogno di un tetto e di una su-
perficie, di una prima dotazione, e di un pezzo di terra sufficien-
te. Appare evidente che, nell’ulteriore sviluppo di queste istitu-
zioni, quando in questi istituti si troverà una relativa moltitudine
di giovani già maturi, negli anni in cui questi, secondo l’istituzio-
ne vigente, guadagneranno come servitori non soltanto il loro so-
stentamento, ma anche un salario annuale, essi potranno provve-
dere per i più deboli e, con la laboriosità e la saggia economia co-
munque necessarie, questi istituti per la massima parte potranno
mantenersi da soli. In un primo tempo, finché il tipo di allievi pri-
ma menzionato non è ancora presente, tali istituti potrebbero ave-
re bisogno di maggiori sovvenzioni. È sperabile che si sia più di-
sponibili a fornire contributi di cui si scorge il termine. [444] Re-
sti lungi da noi una parsimonia dannosa allo scopo; è molto me-
glio non fare niente, che permettersi qualcosa di simile.
E così, purché ci sia la buona volontà, io ritengo che, nell’at-
tuazione di questo programma, non vi sia alcuna difficoltà che
non possa venire facilmente superata mediante l’unione di molti,
e la direzione di tutte le loro forze verso quest’unico scopo.
Dodicesimo discorso
Sui mezzi per conservare noi stessi
fino al raggiungimento
del nostro scopo principale

L’educazione che noi proponiamo ai tedeschi per la loro futura


educazione nazionale è ora descritta a sufficienza. Se mai esisterà
la generazione formata da essa, una generazione mossa soltanto
dal suo gusto per ciò che è buono e giusto; dotata di un’intelli-
genza che, nell’essere adeguata alla posizione in cui si trova, rico-
nosca sempre con certezza ciò che è giusto; e fornita della forza fi-
sica e spirituale per attuare sempre ciò che vuole; allora, tutto ciò
cui possiamo aspirare coi nostri più audaci desideri scaturirà
spontaneamente dalla sua esistenza, e si svilupperà da essa in mo-
do naturale. Quest’epoca avrebbe così poco bisogno dei nostri
consigli, che piuttosto dovremmo noi imparare da essa.
Ma poiché intanto quella generazione non è ancora presente,
ma deve essere prima educata e, prima di arrivare a quel momen-
to, anche se tutto andasse oltre le nostre attese, ci sarebbe bisogno
di un intervallo di tempo piuttosto lungo, sorge immediatamente
la domanda: “Come potremo [445] passare questo intervallo?
Come potremo conservarci, visto che non possiamo far niente di
meglio, almeno in quanto terreno su cui potrà procedere il mi-
glioramento, e in quanto punto di partenza a cui esso potrà colle-
garsi? Come possiamo impedire che, se un giorno quella genera-
zione così formata venisse tra noi uscendo dal suo isolamento, non
trovi in noi una realtà effettiva che non ha la minima affinità con
l’ordine di cose che essa ha compreso essere giusto, e in cui nes-
suno la capirebbe, o proverebbe il minimo desiderio e bisogno di

170
un siffatto ordine di cose, bensì considerasse quello presente co-
me del tutto naturale e come l’unico possibile? Non si perdereb-
bero ben presto costoro, che nel loro petto portano un altro mon-
do, e così non svanirebbe la nuova cultura in modo altrettanto
inutile per il miglioramento della vita effettiva della cultura fino-
ra vigente?”
Se la maggioranza va avanti nella sua consueta sconsideratez-
za, superficialità e distrazione, allora dobbiamo aspettarci che ac-
cada necessariamente proprio questo. Chi si lascia andare senza
fare attenzione a se stesso, e si fa plasmare dalle circostanze a lo-
ro discrezione, costui si adatta in fretta a ogni possibile ordine di
cose. Per quanto il suo occhio, all’inizio, possa essere stato dan-
neggiato da qualcosa quando l’ha visto per la prima volta, è suffi-
ciente farlo ritornare quotidianamente allo stesso modo perché vi
si adatti, e in seguito trovi che è naturale, e che è esattamente co-
sì come deve essere. Alla fine, ne prova perfino piacere, e gli si fa-
rebbe un cattivo servizio se gli si procurasse la situazione miglio-
re che aveva prima, perché questa lo strapperebbe dal modo al
quale ormai si è abituato. In questo modo ci si abitua perfino alla
schiavitù, purché resti intatta la nostra sopravvivenza sensibile, e
col tempo ce ne affezioniamo; e proprio questo è il massimo peri-
colo nell’assoggettamento, cioè che esso ottunde il senso dell’o-
nore, e per l’inetto ha anche il lato assai confortante di sollevarlo
da molte preoccupazioni e dal pensare autonomamente.
[446] Non facciamoci sorprendere dalla dolcezza della servitù,
poiché essa deruba della speranza in una liberazione futura anche
la nostra posterità. Se il nostro agire all’esterno è gettato in cate-
ne, fateci almeno sollevare tanto più audacemente il nostro spiri-
to al pensiero della libertà, alla vita in questo pensiero, a deside-
rare e ad aspirare solo a quest’ultimo. Lasciate pure che la libertà
scompaia, per qualche tempo, dal mondo visibile; ma diamole un
rifugio nel più intimo dei nostri pensieri, finché intorno a noi non
si sviluppi il mondo nuovo, che abbia la forza di presentare que-
sti pensieri anche all’esterno. Col nostro animo, che senza dubbio
dovrà restare libero a nostra discrezione, trasformiamo noi stessi
in prefigurazione, profezia, garanzia di ciò che la realtà effettiva
diventerà dopo di noi. Non lasciamo che, assieme al nostro cor-
po, venga piegato e soggiogato, e trascinato nella prigionia anche
il nostro spirito!

171
Se mi si chiede come potremo raggiungere tutto ciò, l’unica
possibile risposta, che riassume tutto, è questa: noi dobbiamo di-
ventare, all’istante, ciò che dovremmo già essere, tedeschi. Noi
non dobbiamo sottomettere il nostro spirito: quindi dobbiamo
per prima cosa procurarci uno spirito, e uno spirito saldo e certo;
dobbiamo diventare seri in ogni cosa, e non tirare avanti con leg-
gerezza, ed esistere solo per scherzo; dobbiamo formarci princìpi
sostenibili e incrollabili, che fungano da solido criterio per tutto
il resto del nostro pensare e agire; vivere e pensare devono essere,
per noi, una cosa sola, e formare un tutto che si compenetra com-
patto; in entrambi dobbiamo conformarci alla natura e alla verità,
e rigettare da noi gli artifici estranei. Per dirlo in una parola, noi
dobbiamo procurarci un carattere, poiché avere carattere ed es-
sere tedeschi significa indubbiamente la stessa cosa, e questa co-
sa nella nostra lingua non ha un nome particolare, perché deve
scaturire immediatamente dal nostro essere, senza il nostro sape-
re e la nostra riflessione1.
[447] Prima di tutto, dobbiamo meditare sui grandi eventi dei
nostri giorni, sul loro rapporto con noi, e su ciò che dobbiamo
aspettarci da essi, mettendo in moto autonomamente i nostri pen-
sieri; dobbiamo farci un’idea chiara e precisa su tutti questi argo-
menti, arrivando, sulle questioni che li riguardano, a un deciso e im-
mutabile sì oppure no. Chiunque abbia la minima pretesa di cul-
tura deve farlo. La vita animale dell’uomo scorre in tutte le epoche
secondo le stesse leggi, e in ciò ogni tempo è uguale a se stesso. Tem-
pi diversi esistono solo per l’intelletto, e solo colui che li compren-
de nel concetto vive con essi, ed esiste in questo suo tempo; una vi-
ta diversa è soltanto una vita da bestia o da pianta. Lasciar passare
su di sé tutto ciò che accade, ignorandolo; addirittura tapparsi di-
ligentemente occhi e orecchi di fronte al suo assalto; vantarsi di
questa assenza di pensiero come di una grande saggezza, può an-
dar bene per una roccia su cui le onde del mare si infrangono sen-

1
Secondo E. Fuchs, si tratterebbe qui della risposta fichtiana al brano se-
guente, che concludeva la Drammaturgia amburghese (1768) di Lessing: “Oh, l’i-
dea generosa di creare per i tedeschi un teatro nazionale, quando noi tedeschi
non siamo ancora una nazione! E non parlo nemmeno di costituzione politica,
ma semplicemente di carattere morale, il quale, vien quasi da concludere, par-
rebbe consistere appunto nel non volerne avere affatto” (citato in N. Merker,
L’illuminismo in Germania. L’età di Lessing, Roma 1989, p. 60).

172
za che essa lo senta, o per un tronco d’albero, che le tempeste scuo-
tono di qua e di là senza che esso se ne accorga, ma non è degno di
un essere pensante. Perfino il librarsi nei superiori circoli del pen-
siero non assolve dall’obbligo universale di capire il proprio tem-
po. Tutto ciò che è superiore deve voler intervenire, a suo modo,
nell’immediato presente, e chi vive veramente in quello, vive al
tempo stesso anche in quest’ultimo; se non vivesse anche in questo,
allora ciò sarebbe la dimostrazione che non viveva neppure in quel-
lo, ma in esso sognava soltanto. Quella indifferenza per ciò che ac-
cade sotto i nostri occhi, e l’artificiosa deviazione dell’attenzione,
sorta comunque, sarebbe quanto di più auspicabile potesse capi-
tare a un nemico della nostra indipendenza. Se questi è certo che
noi non pensiamo niente a proposito di nulla, allora con noi può fa-
re tutto ciò che vuole, proprio come con degli strumenti inanima-
ti. È proprio l’assenza di pensiero, infatti, che si abitua a tutto; là
dove invece veglia costantemente il pensiero chiaro e comprensi-
vo, e in questo l’immagine di ciò che dovrebbe essere, allora non ci
si riesce ad abituare.
[448] Questi discorsi si sono rivolti innanzitutto a voi, e si ri-
volgeranno all’intera nazione tedesca, nella misura in cui oggi la
stampa rende possibile raccoglierla intorno a sé, con l’invito a
prendere una salda e meditata decisione, e a diventare intima-
mente concorde con se stessa sulle questioni seguenti: 1) se è ve-
ro o non è vero che c’è una nazione tedesca, e che la sua soprav-
vivenza nella sua essenza specifica e indipendente è attualmente
in pericolo; 2) se vale la pena conservarla, o no; 3) se per questa
conservazione c’è un mezzo sicuro e completo, e quale.
In precedenza, tra noi era costume consolidato che la chiac-
chiera quotidiana si impadronisse di qualunque parola detta con
serietà, oralmente o a stampa, e la trasformasse in spassosa mate-
ria d’intrattenimento per la sua noia opprimente. Adesso, anzi-
tutto intorno a me, non mi sono accorto, come altre volte in pas-
sato, che di queste mie conferenze si facesse lo stesso uso; ma non
mi sono informato del tono attualmente in voga tra i circoli mon-
dani in campo editoriale, intendo dire le riviste letterarie e altri
prodotti giornalistici; e non so se da questo lato ci si debba aspet-
tare scherzo o serietà. Qualunque cosa succeda, almeno la mia in-
tenzione non è stata quella di scherzare, né di alimentare la ben
nota spiritosaggine della nostra epoca.

173
Tra noi tedeschi, il costume di considerare tutto ciò che ve-
niva portato all’attualità come un’esortazione a dire la propria,
rivolta a chiunque avesse una bocca, purché lo facesse rapida-
mente e all’istante, e a informarci se anch’egli aveva la stessa opi-
nione o no, si era radicato ancora più profondamente, ed era
quasi diventato una seconda natura, mentre il contrario era pres-
soché inaudito. Questa votazione chiudeva la questione, e il di-
battito pubblico doveva correre a un altro argomento. In questo
modo, tutta la comunicazione letteraria tra i tedeschi si era [449]
trasformata, come l’eco delle antiche fiabe, in un puro e sempli-
ce suono, senza corpo e senza sostanza. Come in tutte le cattive
compagnie nelle frequentazioni personali, anche in questa l’uni-
ca cosa importante divenne far sentire forte la propria voce, per-
ché ciascuno la riprendesse senza fermarsi e la rilanciasse al vi-
cino, senza pensare minimamente a ciò che echeggiava in essa.
Che cos’è questo, se non mancanza di carattere e di natura te-
desca? Non ho inteso neppure rendere omaggio a questo costu-
me e alimentare il pubblico dibattito. Già molto tempo fa, ho
contribuito a sufficienza a questo pubblico intrattenimento, an-
che se miravo a qualcos’altro, e alla fine mi si potrebbe scioglie-
re da questo obbligo. Non voglio affatto sapere all’istante che
cosa pensi, l’uno o l’altro, sulle questioni che ho sollevato, cioè
che cosa ne ha pensato o non ne ha pensato finora. Egli do-
vrebbe riflettere e meditare per conto suo, finché non si sia for-
mato un giudizio chiaro e completo, e dovrebbe prendersi tutto
il tempo necessario. Se le nozioni preliminari e il grado di cul-
tura richiesti per formulare un giudizio in questioni del genere
dovessero ancora mancargli, allora deve darsi il tempo per ac-
quisirli. Se ora, in questo modo, si è fatto il suo giudizio chiaro
e completo, ciò non vuol dire che egli lo debba rendere pubbli-
co. Se è d’accordo con ciò che abbiamo detto qui, allora è stato
già detto, e non occorre dirlo due volte. È sollecitato a parlare
solo chi può dire qualcos’altro e meglio. Invece, ciascuno lo de-
ve vivere e agire effettivamente in ogni singolo caso, a modo suo
e nella sua situazione.
Meno che mai, infine, con questi discorsi è stata mia intenzio-
ne presentare un’esercitazione di scrittura ai nostri maestri tede-
schi di dottrina e di stile, perché essi li correggano e io possa ve-

174
nire a sapere con l’occasione quali speranze possano essere ripo-
ste in me. Anche da questo punto di vista mi sono state sommini-
strate dosi sufficienti di buoni consigli e di dottrina, e [450] ormai
dovrebbe essere chiaro se ci si può aspettare o no qualche miglio-
ramento.
No, il mio intento è stato anzitutto quello di ricondurre il più
alto numero possibile dei nostri uomini di cultura, dallo sciame di
domande e ricerche, e dall’esercito di opinioni contraddittorie in
cui sono stati sbattuti di qua e di là, a un punto in cui potessero
assumere una posizione stabile, e precisamente al punto che ci ri-
guarda più da vicino, quello delle nostre faccende comuni. Il mio
intento è stato di condurli, in quest’unico punto, a un’opinione
salda da sostenere senza incertezze, e a una chiarezza in cui essi
potessero effettivamente orientarsi. Per quante controversie li
possano dividere su altri argomenti, ho inteso raccoglierli almeno
su questo punto in una comune unità d’intenti. In questo modo,
infine, ho inteso dare stabilità a un tratto fondamentale dell’uomo
tedesco, quello per cui egli ha ritenuto che valesse la pena farsi
un’opinione su ciò che concerne i tedeschi; mentre colui che su
questo argomento preferirebbe non sentire e non pensare niente,
d’ora in poi può essere considerato a buon diritto come qualcuno
che non ci appartiene.
La creazione di una simile saldezza di opinione, assieme al-
l’unificazione e alla comprensione reciproca di diverse persone
al riguardo, non soltanto è la salvezza immediata del nostro ca-
rattere da una dissoluzione indegna di noi, ma costituirà anche
un mezzo potente per raggiungere il nostro scopo principale,
l’introduzione della nuova educazione nazionale. Anche i nostri
governi, che sono stati a sentirci più di quanto consigliasse la
prudenza, si sono fatti sviare e hanno ondeggiato di qua e di là
come la nostra opinione; in particolare per il fatto che non era-
vamo mai d’accordo né ciascuno con se stesso né gli uni con gli
altri, oggi volevamo questo e domani qualcos’altro, e ciascuno
contribuiva a modo suo alle grida e alla confusione. Se negli af-
fari comuni dovremo riuscire, un giorno, a perseguire un cam-
mino stabile e certo, che cosa impedisce di cominciare innanzi-
tutto da noi stessi, [451] dando esempio di risolutezza e di fer-
mezza? Facciamo sentire un’opinione stabile e concorde; faccia-

175
mo percepire in modo deciso e universalmente condiviso il bi-
sogno dell’educazione nazionale, come abbiamo premesso; io
credo che i nostri governi ci aiuteranno e ci ascolteranno, se noi
ci mostriamo pronti ad aiutare noi stessi. Se non altro, nel caso
opposto, avremo per la prima volta il diritto di lamentarcene; ora
il lamento mal ci si addice, visto che i governi sono più o meno
come noi li vogliamo.
La domanda più importante che ho sottoposto alla decisione
della nazione tedesca è se esista un mezzo sicuro ed efficace per
conservarla, e quale esso sia. Io ho risposto a questa domanda, e
ho mostrato i motivi del mio modo di rispondervi, non per im-
porre il giudizio finale. Fare così non servirebbe a niente, poiché
chiunque debba mettere mano a questa questione, deve essersi
convinto interiormente da se stesso. Al contrario, l’ho fatto solo
per stimolare una riflessione e un giudizio autonomi. D’ora in poi,
devo lasciare ciascuno a se stesso. Posso solo esortarvi a non far-
vi ingannare da pensieri scialbi e superficiali, che circolano anche
intorno a questo argomento; a non farvi distogliere da una medi-
tazione più profonda; e a non accontentarvi di consolazioni che
non valgono niente.
Per esempio, già prima degli ultimi eventi noi abbiamo do-
vuto ascoltare fino alla sazietà, e da allora ci è stato ripetuto di
frequente che, se anche la nostra indipendenza politica andas-
se perduta, noi manterremmo pur sempre la nostra lingua e la
nostra letteratura, e in queste resteremmo ancora una nazione,
e così potremmo facilmente consolarci di tutto il resto. Ma su
che cosa si fonda la speranza che noi manterremo la nostra lin-
gua anche senza indipendenza politica? Quelli che dicono così,
non [452] ascrivono forse a questi loro appelli e ammonimenti
una forza miracolosa, fino ai figli e ai nipoti e a tutti i secoli fu-
turi? Gli adulti nostri contemporanei, che sono abituati a parla-
re, a scrivere e a leggere in tedesco, continueranno senz’altro a
fare così; ma che cosa farà la prossima generazione, e quella
successiva? Quale contrappeso pensiamo di dare a queste ge-
nerazioni, per mettere le briglie al loro desiderio di compiace-
re a chi risplende di successo e distribuisce ogni favore anche
con la lingua e la scrittura? Non abbiamo mai sentito dire di
una lingua che essa è la prima al mondo, benché venga procla-
mato che in questa lingua le prime opere devono ancora essere

176
scritte?2 E non vediamo già ora, sotto i nostri occhi, che scrit-
ti dal contenuto compiacente vengono redatti in essa? Ci si ap-
pella all’esempio di due altre lingue, una del mondo antico, una
del mondo moderno, che sono sopravvissute come lingue vive
nonostante il tramonto politico dei popoli che le parlavano3.
Non voglio neppure entrare nel modo in cui lo hanno fatto;
però è chiaro a prima vista che tutt’e due avevano qualcosa che
la nostra non ha, in virtù di cui hanno trovato grazia presso i
vincitori, grazia che la nostra non potrà mai trovare. Se questi
consolatori si fossero guardati un po’ meglio intorno, avrebbe-
ro trovato un altro esempio, che a nostro avviso fa al caso no-
stro, quello della lingua vendica. Anche questa sopravvive fin
dai secoli lontani in cui il popolo che la parla ha perduto la sua
libertà, e precisamente nelle povere capanne del servo della gle-
ba legato alla terra, perché in essa possa lamentare il suo desti-
no, non capito dai suoi oppressori4.

Ma poniamo il caso che la nostra lingua resti viva anche come lin-
gua di scrittori, e così conservi la sua letteratura: che letteratura
può essere la letteratura di un popolo senza indipendenza politi-
ca? Che cosa vuole, che cosa può volere uno scrittore ragionevo-
le? Nient’altro che intervenire nella universale [453] vita pubbli-
ca, formandola e trasformandola secondo la sua immagine; e se
vuol fare qualcos’altro, allora tutto il suo parlare è vuoto suono,
buono per solleticare orecchie oziose. Egli vuole pensare origina-
riamente e alla radice della vita spirituale, per coloro che agisco-
no in modo altrettanto originario, cioè governano. Perciò, egli
può scrivere soltanto in una lingua in cui pensano anche i gover-
nanti, in una lingua in cui si governa, nella lingua di un popolo che
costituisce uno Stato indipendente. Che cosa vogliono, in ultima

2
L’allusione, piuttosto ingiustificata, è al francese.
3
Fichte potrebbe riferirsi al greco antico e all’italiano.
4
Cfr. Enciclopedia Europea, vol. X, s.v. “sorabi”: “sorabi o vendi, popolazio-
ne slava occidentale, più comunemente nota con il nome di ‘serbi di Lusazia’, dal-
la regione storica di stanziamento a partire dalla fine del sec.VI d.C. [...] I sorabi,
pur nella loro tormentata storia, conservarono il senso della propria coscienza na-
zionale, che a partire dal sec. XIX si tradusse anche in una produzione letteraria
nelle due varianti linguistiche”, ovvero l’alto e il basso sorabo. L’esempio scelto
da Fichte non sembra dunque adatto a confermare la sua argomentazione.

177
analisi, tutte le nostre occupazioni intorno alle scienze più astrat-
te? Lasciate stare lo scopo più immediato, che sarebbe quello di
trapiantare la scienza di generazione in generazione e di tenerla al
mondo: perché mai dovrebbe essere tenuta al mondo? Evidente-
mente solo per configurare al momento giusto la vita universale e
l’intero ordine delle cose umane. Questo è il suo scopo ultimo;
mediatamente dunque, sia pure solo in un lontano futuro, ogni at-
tività scientifica serve allo Stato. Se rinuncia a questo scopo, essa
perde anche la sua dignità e la sua indipendenza. Ma chi ha que-
sto scopo deve scrivere nella lingua del popolo dominante.
Com’è vero, senza dubbio, che ovunque si incontri una lingua
particolare è presente anche una nazione particolare, che ha dirit-
to di curare i suoi interessi e di governare se stessa in modo indi-
pendente; così, all’inverso, si può dire che quando un popolo ha
smesso di governare se stesso ha anche l’obbligo di rinunciare alla
sua lingua e di confluire coi suoi vincitori, perché possano sorgere
unità, pace interna e la completa dimenticanza di rapporti che non
ci sono più. Anche un condottiero poco intelligente dovrà spinge-
re una mescolanza del genere in questa direzione, e possiamo stare
certi che con noi succederà così. Finché questa fusione non viene
raggiunta, ci saranno traduzioni dei manuali autorizzati nella lin-
gua dei barbari, cioè di coloro che sono troppo poco dotati per im-
parare la lingua del popolo dominante, e che proprio per questo
[454] si escludono da qualsiasi influenza sugli affari pubblici, e si
condannano a essere sottomessi per tutta la vita. A costoro, che sul-
le vicende della realtà si sono condannati a un ottuso mutismo,
verrà anche permesso di esercitare la loro eloquenza nell’invenzio-
ne di vicende immaginarie, o di servirsi per imitazione di antiche
forme ormai invecchiate. I sostegni si possono cercare, per il primo
caso nella lingua antica portata ad esempio, per il secondo in quel-
la moderna. Forse, per qualche tempo ci piacerà tenere una lette-
ratura simile, e chi non ha migliore consolazione, potrà consolarsi
con questa. Ma ciò che vorrei impedire, se potessi, è che una simi-
le consolazione da nulla, che servirebbe perfettamente a un nemi-
co della nostra indipendenza, tenga nell’inerzia del sonno uomini
che sarebbero capaci di guardare in faccia la verità, e di venire scos-
si alla sua vista fino al punto di decidere e di agire.
Così, ci viene promessa la continuazione di una letteratura te-
desca sino alle nuove generazioni. Per giudicare più da vicino le

178
speranze che possiamo nutrire su questo punto, sarebbe molto
utile guardarsi intorno, anche solo per vedere se al momento noi
abbiamo già una letteratura tedesca nel vero senso della parola. Il
più nobile privilegio e l’ufficio più sacro dello scrittore è di riuni-
re la sua nazione, e di deliberare con essa sulle questioni più im-
portanti che la riguardano. Ma in modo del tutto particolare, que-
sto è stato da sempre l’ufficio esclusivo dello scrittore in Germa-
nia, poiché essa era divisa in più Stati separati, e come un tutto co-
mune era tenuta insieme quasi soltanto dallo strumento dello
scrittore, la lingua e gli scritti. Questo diventa il suo ufficio in mo-
do tanto più proprio e più urgente in tempi come questi, in cui è
stato strappato anche l’ultimo vincolo esterno che univa i tede-
schi, la costituzione dell’impero. Ora – non parliamo di qualcosa
che sappiamo o temiamo, ma solo di una possibilità, che dobbia-
mo comunque prendere anticipatamente in considerazione – se
dovesse [455] risultare che già adesso i ministri di particolari Sta-
ti sono catturati dall’ansia, dalla paura e dal terrore a tal punto, da
impedire in un primo momento alle voci che presuppongono una
nazione come ancora esistente, e a essa si rivolgono, di farsi senti-
re oppure, mediante divieti, di diffondersi, allora questa sarebbe
una dimostrazione del fatto che già ora noi non abbiamo più un
ceto di scrittori tedeschi, e sapremmo come siamo messi con le
prospettive di una letteratura futura.
Ma che cosa dovrebbero temere? Forse il fatto che qualcuno
non sarebbe contento di udire quelle voci? Il minimo che si pos-
sa dire, è che per essere così teneramente premurosi hanno scelto
il momento sbagliato. Se non possono impedire che ciò che ap-
partiene alla patria subisca umiliazioni vergognose, e che allo stra-
niero vengano rivolte adulazioni disgustose, almeno non siano co-
sì severi contro una parola animata dall’amor di patria! È senz’al-
tro possibile che non tutti saranno egualmente contenti di sentire
tutto; ma in questo momento non ce ne possiamo preoccupare. È
la necessità che ci spinge, e noi appunto dobbiamo dire ciò che es-
sa ci comanda di dire. Noi lottiamo per la vita: vogliono forse co-
storo che noi misuriamo i nostri passi, perché qualche uniforme
statale non rischi di essere sporcata dalla polvere che si solleva?
Noi sprofondiamo nei flutti: dovremmo forse rinunciare a chia-
mare aiuto, per non spaventare qualche nostro vicino debole di
nervi?

179
Chi sono dunque coloro che potrebbero non essere contenti
di ascoltare, e a quale condizione potrebbero non esserlo? È sem-
pre solo l’oscurità e la tenebra che spaventa. Ogni spauracchio
scompare se lo fissiamo negli occhi. Fateci comparire dinnanzi a
questo spettro con la stessa audacia e spregiudicatezza con cui fi-
nora abbiamo analizzato ogni argomento in queste conferenze.
O si assume che l’essere che attualmente ha in pugno la dire-
zione di una gran parte degli affari mondiali sia un animo vera-
mente grande5, o si assume il contrario; un terzo caso non è [456]
possibile. Nel primo caso: in che cosa consiste ogni grandezza
umana, se non nell’indipendenza e originarietà della persona, e
nel fatto che essa non sia un artefatto della sua epoca, ma una crea-
tura che si è sviluppata in tutto e per tutto dall’eterno e originario
mondo degli spiriti? Nel fatto che per essa è sorta una concezio-
ne del mondo nuova e peculiare, e che essa ha ferma volontà e for-
za inflessibile per introdurre questa sua concezione nella realtà ef-
fettiva? Ma è assolutamente impossibile che un animo siffatto non
onori anche fuori di sé, in popoli e individui, ciò che costituisce la
sua personale grandezza nella sua interiorità: l’indipendenza, la
fermezza, l’originalità del modo di essere. Quanto più certo e fi-
dato è il sentimento della sua grandezza, tanto più egli disdegna
dominare su anime servili, ed essere grande tra i nani; disprezza il
pensiero che per comandare sugli uomini, bisogna prima umiliar-
li; è oppresso dalla vista della corruzione che lo circonda, lo ad-
dolora non poter rispettare gli uomini; ma tutto ciò che innalza,
nobilita, pone in una luce più degna la specie che gli è sorella, fa
bene al suo nobile spirito ed è il suo supremo godimento. Com’è
possibile che un animo siffatto sia scontento di sentire che gli
sconvolgimenti portati dall’epoca vengono utilizzati per scuotere
dal suo sonno profondo un’antica e onorata nazione, che è all’o-
rigine della maggior parte dei popoli dell’Europa moderna, e li ha
formati tutti? E per spingerla ad afferrare un sicuro mezzo di con-
servazione, che le consenta di sollevarsi dalla rovina, al tempo
stesso preservandola da ogni ricaduta, e di sollevare insieme con
sé tutti gli altri popoli? Qui non si incita a ribellioni che turbino

5 Il riferimento, tanto trasparente quanto sarcastico, è a Napoleone.

180
la quiete pubblica; al contrario, si cerca di dissuadere da queste
come sicure apportatrici di rovina, si fornisce una salda base im-
mutabile su cui finalmente edificare, in un popolo del mondo, l’e-
ticità più alta, più pura e mai ancora esistita tra gli uomini, in mo-
do da assicurarla per tutti i tempi seguenti e diffonderla a partire
da qui su tutti gli altri popoli; viene [457] indicata una trasforma-
zione del genere umano, da creature terrene e sensibili in puri e
nobili spiriti. Si crede forse che uno spirito puro, nobile e grande
egli stesso, o chiunque si formi prendendolo a modello, possa ve-
nire offeso da una proposta del genere?
Al contrario, che cosa dovrebbero ammettere e confessare
pubblicamente, quelli che nutrissero questa paura, confermando-
la con le loro azioni? Dovrebbero confessare di credere che il
principio da cui siamo dominati è sordido e meschino, nemico
dell’umanità, turbato da ogni attività di forza indipendente, tale
da non poter sentir parlare senza spaventarsi di eticità, religione,
elevazione degli animi, mentre la sua salvezza e la sua speranza di
conservarsi starebbero solo nell’umiliazione degli uomini, nella
loro ottusità e nei loro vizi. Dovremmo forse essere d’accordo
senz’altro, e senza la limpida dimostrazione precedente, con que-
sta loro credenza, che a tutti gli altri nostri mali aggiungerebbe an-
che l’umiliazione di essere dominati da un principio del genere?
Dovremmo agire conformemente a essa?
Ma anche nel peggiore dei casi, posto che abbiano ragione lo-
ro e torto noi, che con la nostra azione abbiamo ammesso il pri-
mo caso: dovrebbe veramente il genere umano essere umiliato e
abbassarsi al punto da compiacere a uno che vuol essere servito
in questo modo, e a quelli che ne hanno avuto paura? E non do-
vrebbe essere permesso di avvertirli della loro caduta, a qualcuno
cui lo comandi il suo cuore? Posto che essi non solo abbiano ra-
gione, ma che ci si debba anche decidere a dar loro ragione di
fronte ai contemporanei e ai posteri, pronunciando a voce alta il
giudizio su se stessi appena emesso: quale sarebbe il peggio che
potrebbe derivarne per l’ammonitore non gradito? Provino a im-
maginare qualcosa di superiore alla morte! Ma questa ci aspetta
tutti comunque, e fin dal principio dell’umanità uomini magnani-
mi hanno [458] sfidato il rischio della morte anche per faccende
di minor peso – perché dove mai ce n’è stata una più importante

181
di quella attuale? Chi ha il diritto di intromettersi in un’impresa
che è cominciata con questo rischio?
Se tra noi tedeschi dovessero esserci uomini del genere, cosa che
non spero, allora essi offrirebbero il loro collo al giogo della servitù
spirituale senza esserne richiesti, senza ottenerne riconoscenza e,
come spero, venendo respinti. Adulando, crederebbero di com-
portarsi da politici prudenti poiché non conoscendo i pensieri del-
la vera grandezza, li misurerebbero alla stregua della propria me-
schinità. Con smania carica di risentimento, userebbero la lettera-
tura, di cui altrimenti non sanno che cosa fare, come capro espia-
torio sul cui sacrificio costruire la loro corte. Noi invece, con l’atto
della nostra fiducia e del nostro coraggio, lodiamo molto più di
quanto potrebbero fare le parole la grandezza dell’animo presso
cui si trova il potere. Ovunque la nostra voce risuoni liberamente,
per tutta l’area di tutte le lingue tedesche, essa annuncia ai tedeschi
con la sua semplice esistenza: “Nessuno vuole la vostra sottomis-
sione, il vostro servilismo, la vostra oppressione da schiavi, bensì la
vostra indipendenza, la vostra vera libertà, il vostro innalzamento
e nobilitazione, questo è ciò che si vuole, poiché non ci viene im-
pedito di consultarci pubblicamente con voi su tutto questo, e di
mostrarvi il mezzo infallibile a questo scopo”. Se questa voce tro-
verà l’ascolto e il successo auspicato, allora essa innalzerà nel cor-
so dei secoli un monumento a questa grandezza e alla nostra fede
in essa, che il tempo non potrà distruggere, ma che crescerà e si
diffonderà sempre di più a ogni nuova generazione. Chi ha il dirit-
to di opporsi al tentativo di erigere un monumento simile?
Quindi, invece di consolarci della nostra perduta indipenden-
za con la fioritura della nostra letteratura futura, e di farci disto-
gliere con questa consolazione dalla ricerca di un mezzo per ri-
pristinarla, preferiremmo sapere se quei tedeschi, ai quali è toc-
cata in sorte una specie di tutela sulla letteratura, permettano an-
cora, al resto dei tedeschi che scrivono o leggono, di avere una let-
teratura nel vero senso della parola, e se [459] ritengano che at-
tualmente, in Germania, una simile letteratura sia consentita o
meno; ma fra non molto si dovrà decidere come la pensano vera-
mente6.

6 Qui Fichte allude alle autorità di censura.

182
In conclusione, la prima cosa che dobbiamo fare, anche solo
per poterci conservare fino al completo e profondo miglioramen-
to del nostro popolo, è di procurarci un carattere, e di confer-
marlo anzitutto formandoci, mediante la riflessione personale,
una salda opinione sulla nostra vera situazione e sul mezzo sicuro
per migliorarla. Abbiamo mostrato la nullità della consolazione
costituita dalla sopravvivenza della nostra lingua e letteratura. Ma
ci sono anche altre finzioni, che in questi discorsi non abbiamo an-
cora affrontato, e che impediscono la formazione di una salda opi-
nione simile. È opportuno prendere in considerazione anche que-
ste. Ma è un compito che riserviamo all’ora successiva.
Sommario del tredicesimo discorso*
Continuazione delle considerazioni
precedenti

Alla fine del nostro discorso precedente, abbiamo detto che sono
ancora diverse le idee inconsistenti e le dottrine illusorie in circo-
lazione tra noi circa le vicende dei popoli. Esse impediscono ai te-
deschi di acquisire un punto di vista saldo e conforme alle loro ca-
ratteristiche sulla loro situazione presente. [460] Proprio perché
ora questi sogni vengono diffusi con lo zelo più grande e imposti
alla venerazione pubblica, sembra opportuno sottoporli a un esa-
me più serio di quello che la loro importanza meriterebbe in altre
circostanze, tanto più che l’incertezza generale fa sì che alcuni li
utilizzino per riempire i posti rimasti vuoti.
Anzitutto i confini primi, originari e veramente naturali degli
Stati sono senza dubbio i loro confini interni. Quelli che parlano
la stessa lingua sono collegati tra di loro da una molteplicità di le-
gami invisibili mediante la semplice natura, ben prima che inter-
venga l’arte umana; sono capaci d’intendersi sempre più chiara-
mente, fanno parte di un tutto, e per natura sono Uno, e un uni-
co inseparabile intero. Essi non possono accogliere in sé e mesco-
lare con sé un popolo di altra lingua e provenienza, senza confon-
dersi e disturbare violentemente il regolare procedere della loro
formazione. La delimitazione esterna degli insediamenti risulta
solo da questo limite interno, tracciato dalla natura spirituale del-

* Sul perché di questo discorso si fornisca solo il sommario, e non il discor-


so stesso, si veda la nota alla fine di questo sommario.

184
l’uomo stesso come sua conseguenza e, nella considerazione na-
turale delle cose, gli uomini che vivono all’interno di determinati
monti e fiumi non sono affatto un popolo per questo, bensì al con-
trario gli uomini vivono insieme e, se così ha deciso la loro fortu-
na, sono protetti da fiumi e monti, perché essi erano un popolo già
da prima, mediante una legge di natura di gran lunga superiore.
Così, la nazione tedesca si insediò al centro dell’Europa, suffi-
cientemente unita in se stessa da una lingua e da un modo di pen-
sare comuni, e separata abbastanza nettamente dagli altri popoli,
come un muro divisorio tra stirpi non affini. Essa era coraggiosa
abbastanza per proteggere i propri confini contro ogni attacco
straniero, lasciata a se stessa, poco incline per tutto il suo modo di
pensare a occuparsi delle popolazioni vicine, a mescolarsi nelle lo-
ro faccende, e a provocare con agitazioni la loro inimicizia. [461]
Nel corso del tempo, la sua sorte favorevole la preservò dalla par-
tecipazione immediata alla depredazione di altri mondi, cioè alla
vicenda che ha condizionato più di ogni altra il tipo di sviluppo
della moderna storia universale, i destini dei popoli e la massima
parte dei loro concetti e opinioni1. È solo a partire da questa vi-
cenda che l’Europa cristiana, che prima, anche senza averne una
chiara coscienza, era stata una, e come tale si era mostrata in im-
prese comuni, si divise in diverse parti separate; solo a partire da
quella vicenda fu individuata una preda comune, cui ciascuno
aspirava allo stesso modo poiché tutti potevano utilizzarla allo
stesso modo, e che ognuno scorgeva con invidia nelle mani del-
l’altro; soltanto ora fu presente un motivo di segreta inimicizia e
voglia di guerra di tutti contro tutti. E fu anche soltanto ora che
per i popoli divenne vantaggioso incorporare popoli anche di al-
tre lingue e provenienza e appropriarsi delle loro forze, mediante
la conquista oppure, se questa non era possibile, tramite alleanze.
Un popolo rimasto fedele alla natura, se la sua sede d’insedia-
mento è diventata per lui troppo stretta, può avere la volontà di

1
Il riferimento è alle conquiste coloniali e ai conflitti relativi, seguiti alla sco-
perta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. L’accentuazione fortemen-
te critica di Fichte al riguardo non è certo nuova: cfr. per tutti Der geschloßne
Handelsstaat, GA, I, 7, pp. 43-44 (lettera dedicatoria al ministro von Struensee;
trad. it. Lo Stato secondo ragione o lo Stato commerciale chiuso, Milano 1909
[senza indicazione del curatore], pp. XII-XIII); e i capp. IV-VI del Libro secon-
do, ivi, pp. 99-112 (trad. it., cit., pp. 79-94).

185
ampliarla mediante la conquista del territorio vicino, per conqui-
stare più spazio, ed esso allora scaccerà i precedenti abitanti; può
desiderare di cambiare una regione sterile e selvaggia con una più
temperata e feconda; se degenera, può intraprendere semplici raz-
zie, soltanto per impadronirsi di tutto ciò che è utilizzabile, senza
desiderare il suolo o gli abitanti, e abbandonando nuovamente i
territori saccheggiati; infine, può ripartire tra sé, in quanto cose
egualmente utilizzabili, i precedenti abitanti del territorio con-
quistato, come schiavi di singoli individui: ma esso non ha il mi-
nimo vantaggio e non cadrà mai nella tentazione di annettersi la
popolazione estranea, così come essa sussiste, in quanto parte co-
stitutiva dello Stato. Ma se il caso è quello in cui [462] bisogna
strappare a un contendente egualmente forte, o ancora più forte,
una preda comune che attrae entrambi, il calcolo è diverso. Co-
munque il popolo sconfitto possa adattarsi a noi per il resto, al-
meno le sue energie possono essere impiegate per combattere l’av-
versario da depredare, e chiunque è per noi il benvenuto, in quan-
to accresce la pubblica forza armata. Se ora un uomo saggio, che
desideri pace e tranquillità, aprisse gli occhi su questo stato di co-
se, da che cosa potrebbe attendersi la pace? Evidentemente non
dalla limitazione naturale dell’avidità umana, per il fatto che il su-
perfluo non serve a nessuno, poiché è presente una preda da cui
tutti sono tentati; e altrettanto poco potrebbe aspettarsela da una
volontà autolimitantesi, poiché tra uomini simili, in cui ciascuno
prende per sé tutto ciò che può, colui che si limita deve necessa-
riamente andare in rovina. Nessuno vuole dividere con l’altro ciò
che adesso possiede; ciascuno vuole depredare l’altro del suo, per
quanto può. Se uno è tranquillo, questo accade solo perché non
si ritiene forte abbastanza per cominciare la lotta; la comincerà si-
curamente, non appena sperimenterà di avere in sé la forza ne-
cessaria. Quindi, l’unico mezzo per ottenere la pace consiste nel-
l’impedire che qualcuno raggiunga mai un potere tale da turbar-
la, e nel far sapere a chiunque che dall’altra parte c’è tanta forza
di resistenza, quanto dalla sua c’è forza di attacco. Così deve sor-
gere un equilibrio e un riequilibrio del potere complessivo, me-
diante cui soltanto, dopo che sono spariti tutti gli altri mezzi, cia-
scuno venga tenuto nei suoi attuali possedimenti, e tutti siano te-
nuti tranquilli. Dunque quel noto sistema dell’equilibrio di po-
tenza in Europa presuppone questi due elementi: un bottino al

186
quale nessuno ha diritto, ma verso cui tutti provano lo stesso de-
siderio, e quindi l’universale, effettivo desiderio di preda, che con-
tinua attivamente ad alimentarsi. Con queste premesse, questo
equilibrio sarebbe certo l’unico mezzo per mantenere la pace, se
solo si riuscisse a trovare il secondo mezzo per produrre quell’e-
quilibrio, e trasformarlo da vuoto pensiero in cosa reale.
[463] Ma quelle premesse, valevano davvero universalmente e
senza eccezione? Al centro dell’Europa, la potentissima nazione
tedesca non era rimasta intatta da quel bottino e dall’infezione del
suo desiderio, e quasi senza la facoltà di rivendicarne il diritto? Se
soltanto questa nazione fosse rimasta unita in un’unica volontà
comune e in un’unica forza comune, anche se gli altri europei si
fossero assassinati per tutti i mari e su tutte le isole e le coste: al cen-
tro dell’Europa, la salda muraglia dei tedeschi avrebbe impedito
loro di scontrarsi gli uni con gli altri – qui sarebbe rimasta la pace,
e i tedeschi si sarebbero conservati, insieme a una parte dei restanti
popoli europei, in una condizione di tranquillità e benessere.
Ma non era compatibile con gli interessi dell’estero, rivolti sol-
tanto al momento immediatamente successivo, che le cose restas-
sero così. Essi trovarono che il coraggio tedesco poteva essere uti-
lizzato per condurre le loro guerre, e le loro braccia per strappa-
re il bottino ai loro rivali; bisognava trovare un mezzo per rag-
giungere questo scopo, e la scaltrezza straniera la spuntò facil-
mente sull’ingenuità e la semplicità tedesche. È stato l’estero a
sfruttare per primo la divisione degli animi, sorta nel corso dei
conflitti di religione in Germania, per smembrare artificialmente
anche questo esempio in miniatura di tutta l’Europa cristiana e
trasformarlo, da un’unità intimamente intrecciata, in parti sepa-
rate e per sé sussistenti, allo stesso modo in cui prima l’estero stes-
so si era naturalmente smembrato nel corso della comune razzia.
L’estero ha saputo rappresentare questi Stati particolari, sorti in
questo modo nel seno di un’unica nazione, che non aveva nemici
se non nell’estero stesso, e non aveva affari tranne quello comune
di contrapporsi unendo le forze alle tentazioni e ai secondi fini di
quest’ultimo – li ha saputi rappresentare reciprocamente l’uno al-
l’altro come nemici naturali, contro i quali ciascuno doveva con-
tinuamente stare in guardia, mentre ha saputo presentare se stes-
so come l’alleato naturale contro questo pericolo incombente da
parte dei propri connazionali. I tedeschi sarebbero rimasti in pie-

187
di, o caduti, solamente con tali alleati, e [464] perciò dovevano ap-
poggiarli nelle loro imprese con tutte le loro forze. Fu con questo
vincolo artificiale che tutti i contrasti suscettibili di svilupparsi,
qualunque fosse il loro oggetto, nel mondo antico o nel mondo
moderno, divennero contrasti propri dei popoli tedeschi tra di lo-
ro. Ogni guerra, qualunque fosse il motivo per cui era sorta, do-
veva essere combattuta sul suolo tedesco e col sangue tedesco,
ogni turbativa dell’equilibrio doveva essere appianata in quella
nazione, alla quale l’origine prima di quei rapporti era del tutto
estranea, e per essere qualcosa gli Stati tedeschi, la cui esistenza
separata già cozzava contro ogni natura e ragione, dovettero ri-
dursi a fare da aggiunte ai pesi principali nella bilancia dell’equi-
librio europeo, di cui essi seguivano l’inclinazione ciecamente e
senza volontà. Come in alcuni Stati esteri i cittadini si chiamano a
seconda che siano di questo o di un altro partito straniero, e per-
ché votarono per questa o quella alleanza con l’estero, mentre non
si sa come chiamare chi è del partito della patria, così già da lun-
go tempo i tedeschi erano a favore soltanto di un partito stranie-
ro qualunque, e raramente ci si imbatteva in qualcuno che ap-
poggiasse il partito dei tedeschi, e sostenesse che questo paese do-
veva allearsi con se stesso.
Questa è dunque la vera origine e il significato, questo il risul-
tato per la Germania e il mondo intero della dottrina, che abbia-
mo aspramente criticato, di un equilibrio del potere da mantene-
re artificialmente tra gli Stati europei. Se l’Europa cristiana fosse
rimasta una come avrebbe dovuto, e come era in origine, non ci
sarebbe mai stata occasione per generare un pensiero simile. Ciò
che è uno poggia su se stesso, e sostiene se stesso, e non si divide
in forze contrastanti, che dovrebbero essere condotte a un equili-
brio reciproco. Quel pensiero ha ottenuto un significato provvi-
sorio solo per un’Europa divisa e ormai ingiusta. Ma di questa Eu-
ropa divisa e ingiusta, la Germania non faceva parte. Se almeno
questa fosse rimasta una, allora avrebbe poggiato su se stessa al
centro della terra civilizzata, come il sole al centro dell’universo;
[465] si sarebbe mantenuta in pace, e con sé avrebbe mantenuto
in pace i suoi più immediati vicini, e senza alcun procedimento ar-
tificiale, ma in virtù della sua semplice esistenza naturale, avreb-
be dato equilibrio al tutto. Fu solo l’inganno dell’estero a invi-
schiarla nella sua ingiustizia e nei suoi contrasti, e a fornirle in mo-

188
do interessato quel concetto come uno dei mezzi più efficaci per
ingannarla sul suo vero vantaggio, e per mantenerla nell’inganno.
Questo scopo ora è stato sufficientemente raggiunto, e il risultato
che si voleva ottenere si trova compiuto sotto i nostri occhi. Ma
anche se non possiamo annullarlo, perché non dovremmo cancel-
larne l’origine almeno nella nostra intelligenza, che è quasi l’uni-
ca cosa rimasta alla nostra giurisdizione? Perché dovremmo ave-
re ancora davanti agli occhi il vecchio sogno, dopo che la sventu-
ra ci ha risvegliato dal sonno? Perché non dovremmo vedere la ve-
rità almeno adesso, e scorgere l’unico mezzo che avrebbe potuto
salvarci – se mai i nostri discendenti vorranno fare ciò che noi ora
capiamo, così come noi ora subiamo ciò che hanno sognato i no-
stri padri? Lasciateci comprendere che il pensiero di un equilibrio
da conservare artificialmente poteva certo rappresentare per l’e-
stero un sogno consolatorio, a fronte della colpa e del male che
l’opprimevano; ma che però, come un prodotto assolutamente
estero, non avrebbe mai dovuto radicarsi nell’animo di un tede-
sco, e i tedeschi non sarebbero mai dovuti arrivare a una situazio-
ne in cui esso avrebbe potuto radicarsi. Almeno ora, lasciatecelo
penetrare nella sua nullità, in modo da dover capire che la salvez-
za generale non può essere trovata in quel pensiero, ma soltanto
nella concordia dei tedeschi tra loro.
Altrettanto estranea al tedesco è la libertà dei mari così spesso
predicata ai giorni nostri, sia che ci si prefigga veramente questa
libertà, oppure soltanto la facoltà di escludere da essa tutti gli al-
tri. Per lunghi secoli, durante la competizione delle altre nazioni,
il tedesco ha mostrato scarsa inclinazione a prendervi parte in mi-
sura estesa, e [466] non lo farà mai. Del resto, non ne ha nemme-
no bisogno. Il suo territorio riccamente fornito e la sua laboriosità
gli garantiscono tutto ciò di cui l’uomo civilizzato ha bisogno per
vivere. Non gli manca nemmeno l’abilità tecnica per trasformarlo
secondo i suoi scopi: e per quanto riguarda l’unico vero guadagno
che il commercio mondiale porta con sé, l’ampliamento della co-
gnizione scientifica della terra e dei suoi abitanti, il suo proprio
spirito scientifico non gli farà mancare un mezzo di scambio. Ma-
gari la sorte favorevole avesse protetto il tedesco dalla partecipa-
zione mediata al bottino degli altri mondi, allo stesso modo in cui
essa lo aveva protetto dalla partecipazione immediata! La credu-
lità e il desiderio di vivere in modo comodo e raffinato come gli

189
altri popoli non avrebbe trasformato in necessità le merci super-
flue prodotte in mondi estranei e, rispetto ai pochi prodotti me-
no superflui, sarebbe stato preferibile porre condizioni sopporta-
bili al nostro libero concittadino, piuttosto che trarre guadagno
dal sudore e dal sangue di un povero schiavo al di là dei mari. Al-
meno non avremmo fornito a noi stessi il pretesto per il nostro de-
stino attuale, e non verremmo combattuti come compratori, e
mandati in rovina come mercato2. Quasi un decennio fa, prima
che chiunque potesse prevedere ciò che è accaduto in seguito, ai
tedeschi fu consigliato di rendersi indipendenti dal commercio
mondiale, e di chiudersi come Stato commerciale3. Questa pro-
posta cozzava contro le nostre abitudini, ma in particolare contro
la nostra adorazione idolatrica dei metalli preziosi, e fu veemen-
temente contestata e messa da parte. Da allora abbiamo impara-
to, costretti da una violenza estranea e con disonore, a rinunciare
a molto più di quello cui allora assicuravamo di non poter rinun-
ciare con libertà e a nostro massimo onore. Possa almeno questa
circostanza, in cui non ci pungola il godimento, spingerci a retti-
ficare una volta per tutte le nostre idee! Speriamo di capire, alla
fine, che tutti quei barcollanti edifici teorici sul commercio mon-
diale e sulla produzione per il mercato mondiale sono senz’altro
adatti per lo straniero, e [467] fanno parte delle armi con cui egli
ci ha sempre combattuto, ma non hanno applicazione presso i te-
deschi, e che, accanto alla loro concordia reciproca, la loro inter-
na autonomia e indipendenza commerciale è il secondo mezzo per
la loro salvezza e, per suo tramite, per la salvezza dell’Europa.
Si osi infine guardare in tutta la sua odiosità e irragionevolezza
anche il sogno di una monarchia universale, che comincia a esse-
re offerto alla venerazione pubblica al posto dell’equilibrio, dive-
nuto da qualche tempo sempre meno credibile. La natura spiri-
tuale ha potuto rappresentare l’essenza dell’umanità solo per gra-
dazioni massimamente molteplici, in singoli individui e nella sin-
golarità in generale, cioè in popoli. Il fenomeno della divinità com-
pare nel suo specchio vero e proprio solo quando ciascuno di que-
sti si sviluppa e si configura lasciato a se stesso secondo la sua pe-

2
Trasparente allusione al blocco continentale imposto da Napoleone in fun-
zione anti-inglese.
3 Lo Stato commerciale chiuso uscì alla fine del 1800.

190
culiarità, e quando ciascun singolo fa lo stesso in ciascuno di loro,
secondo la peculiarità comune al popolo e la sua personale. Solo
chi mancasse di ogni presentimento per la legalità e l’ordine divi-
no, o fosse un loro nemico incallito, potrebbe osare intervenire in
questa legge suprema del mondo degli spiriti. Solo nelle partico-
lari caratteristiche delle nazioni, invisibili e nascoste ai loro stessi
occhi, si trova la garanzia della loro dignità, della loro virtù, del lo-
ro merito presenti e futuri. Mediante tali caratteristiche, infatti, le
nazioni entrano in contatto con la fonte della vita originaria. Se ta-
li caratteristiche vengono smussate per mescolanza e attrito, allo-
ra ne deriva la separazione dalla natura spirituale, da qui superfi-
cialità, da qui la fusione di tutte quelle caratteristiche in una cor-
ruzione uniforme e continua. Dovremmo credere agli scrittori,
che ci consolano dei nostri mali con la prospettiva di diventare
sudditi della nuova incipiente monarchia universale, secondo cui
qualcuno avrebbe deciso di polverizzare tutti i germi dell’umano
nell’umanità, per imprimere all’argilla che si scioglie una forma
qualunque? Dovremmo credere possibile, nella nostra epoca, una
così enorme rozzezza o inimicizia contro il genere umano? [468]
Ma se anche volessimo decidere di credere, in un primo momen-
to, all’assolutamente incredibile, con quale strumento si dovreb-
be realizzare questo programma? Che tipo di popolo dovrebbe
conquistare il mondo per un nuovo monarca universale, tenuto
conto dell’attuale stato d’incivilimento dell’Europa? I popoli eu-
ropei hanno già smesso da diversi secoli di essere selvaggi, e di gioi-
re di un’attività distruttrice fine a se stessa. Tutti cercano dopo la
guerra una pace definitiva; dopo lo sforzo la tranquillità, dopo la
confusione l’ordine; e tutti vogliono vedere coronata la parabola
della loro vita con la pace di una vita domestica e calma. Per un
certo periodo, l’entusiasmo può spingerli alla guerra anche per un
vantaggio nazionale solo immaginario; ma se l’esortazione ritorna
sempre nello stesso modo, il sogno scompare insieme alla febbre
che l’ha provocato; torna la nostalgia per un quieto ordine, e sor-
ge la domanda: “A che scopo faccio e sopporto tutto questo?” Un
conquistatore universale del nostro tempo dovrebbe per prima
cosa cancellare tutti questi sentimenti, e formare con arte consa-
pevole un popolo di selvaggi da inserire in quest’epoca, che per
sua natura non ne fornisce. Ma ancora di più. Purché all’uomo si
conceda solo un po’ di calma, l’occhio abituato fin dalla giovinez-

191
za a una civile coltivazione delle terre, a un certo ordine e benes-
sere, gode della vista di condizioni simili ovunque esso le incontri,
poiché gli presenta lo sfondo della sua personale nostalgia, che
non può mai essere totalmente estirpata, e il fatto di doverle di-
struggere lo addolora. Anche per questa benevolenza profonda-
mente impressa nell’uomo sociale, e per il dolore causato dal ma-
le che il soldato porta nelle terre conquistate, dev’essere trovato
un contrappeso. Non c’è nient’altro che il desiderio di preda. Se
la pulsione dominante del soldato diventa quella di farsi un botti-
no e, nella devastazione di terre fiorenti, viene abituato a pensare
soltanto a ciò che può guadagnare per la sua persona nella miseria
generale, allora c’è da aspettarsi che [469] i sentimenti della com-
passione e della pietà in lui ammutoliscano. Quindi, oltre a quella
rozzezza barbarica, un conquistatore universale del nostro tempo
dovrebbe anche formare i suoi a un desiderio di preda freddo e
meditato. Egli non dovrebbe punire i saccheggi, ma piuttosto in-
coraggiarli. Inoltre, anche la vergogna insita naturalmente nella
cosa dovrebbe venir meno, e il depredare dovrebbe valere come
segno prestigioso di intelligenza raffinata, essere annoverato tra
gli atti eroici, e aprire la via a tutti gli onori e a tutte le cariche.
Dov’è nell’Europa moderna una nazione così ignobile da poter es-
sere addestrata in questo modo? Ma poniamo che questa trasfor-
mazione le riesca: allora, il raggiungimento del suo scopo viene va-
nificato proprio dal mezzo utilizzato. D’ora in poi, in uomini, ter-
re e manufatti conquistati, un popolo simile non vede altro che un
mezzo per fare denaro nel più breve tempo possibile, andare avan-
ti e fare ancora denaro; esso saccheggia velocemente, e abbando-
na ciò che ha sfruttato al suo destino, qualunque esso sia. Esso ta-
glia l’albero di cui vuole conquistare i frutti. A chi agisce con stru-
menti del genere, tutte le arti della tentazione, della persuasione e
dell’inganno diventeranno inutili. Esse possono ingannare solo da
lontano. Appena le si guarda da vicino, la rozzezza animale e il de-
siderio di preda empio e spudorato balzeranno agli occhi anche
dei più idioti, e tutto il genere umano esprimerà il suo orrore a vo-
ce alta. Con tali strumenti si potrà certo saccheggiare la terra e ren-
derla un deserto, e polverizzarla in un cupo caos, ma non potrà mai
più essere ordinata in una monarchia universale.
I pensieri suddetti, e tutti i pensieri di questo tipo, sono pro-
dotti di un pensare che gioca semplicemente con se stesso, e tal-

192
volta resta anche impigliato nei suoi fantasmi, indegno della
profondità e della serietà tedesche. Al massimo, alcune di queste
immagini, come per esempio quella di un equilibrio politico, so-
no utili linee ausiliarie per orientarsi e per ordinare un’ampia e
confusa molteplicità di fenomeni; ma credere nell’esistenza natu-
rale di queste cose, o [470] aspirare alla loro realizzazione, è co-
me se qualcuno cercasse sull’effettivo globo terrestre l’espressio-
ne e l’indicazione dei poli, dell’equatore e dei tropici mediante i
quali egli si orienta sulla terra. Quando nella nostra nazione di-
venterà costume pensare non soltanto per scherzo e per così dire
stando a vedere che cosa verrà fuori, bensì come se ciò che pen-
siamo dovesse essere vero e valere effettivamente nella vita, allora
diventerà superfluo mettere in guardia contro simili miraggi di
una prudenza politica originariamente straniera, e utile solo per
incantare i tedeschi.
Questa profondità, serietà e solidità del nostro modo di pen-
sare, se la possediamo davvero, irromperà anche nella nostra vita.
Noi siamo dei vinti; se ora vogliamo essere anche disprezzati, e di-
sprezzati a ragione; se oltre a tutto il resto vogliamo perdere an-
che l’onore, ciò dipenderà pur sempre da noi. La lotta con le ar-
mi si è conclusa; si apre, se vogliamo, la nuova lotta dei princìpi,
dei costumi, del carattere.
Diamo ai nostri ospiti un’immagine di fedele attaccamento al-
la patria e agli amici, di inattaccabile rettitudine e amore del do-
vere, di tutte le virtù civili e domestiche, come amichevole dono
ospitale da riportare nella loro patria, alla quale infine faranno ri-
torno. Stiamo attenti a non indurli al disprezzo nei nostri con-
fronti. Il modo più sicuro per farlo, sarebbe o di temerli in mo-
do esagerato, oppure di rinunciare al nostro modo di essere, sfor-
zandoci di imitare il loro. Lungi da noi il malcostume di sfidare
e di provocare da singoli i singoli; ma, per il resto, il criterio più
sicuro sarà di andare per la nostra strada come se fossimo da so-
li con noi stessi, e di non stringere relazioni che non ci siano im-
poste dalla necessità; e per questo, il mezzo più sicuro sarà che
ciascuno si accontenti di ciò che possono fornirgli le vecchie re-
lazioni coi compatrioti, porti il peso comune secondo le sue for-
ze, ma consideri ogni favore da parte dello straniero come uno
smacco disonorevole. [471] Purtroppo, è divenuto un costume
europeo pressoché universale, e dunque anche tedesco, che in ca-

193
so di scelta si preferisca la propria umiliazione al rischio di sem-
brare, come si dice, persone che impongono soggezione, e forse
si potrebbe ricondurre tutto il galateo delle cosiddette buone ma-
niere a quest’unico principio. Magari potessimo noi tedeschi, nel-
le presenti circostanze, infrangere questo stile di vita invece di
qualcosa di più alto! Potessimo restare come siamo, anche a co-
sto di provocare un’infrazione del genere; anzi, essendone in gra-
do, potessimo diventare in modo ancora più forte e più deciso
come dovremmo essere! I rilievi che ci vengono fatti di solito, se-
condo i quali siamo privi di agilità e di destrezza, siamo grevi, pe-
santi e prendiamo tutto troppo sul serio, non dovrebbero imba-
razzarci, bensì al contrario dovremmo sforzarci di meritarli a
maggior ragione e in più ampia misura. Ci rafforzi in questa de-
cisione la convinzione, facile da conseguire, che nonostante ogni
sforzo a quelli non andremo mai bene finché non smetteremo di
essere noi stessi, il che equivale a smettere di esistere semplice-
mente. Ci sono popoli che, mentre vogliono mantenere le loro ca-
ratteristiche e vogliono vederle rispettate, concedono anche agli
altri popoli le loro, e gliele garantiscono e permettono. A questi
appartengono senz’altro i tedeschi, e questo tratto è fondato co-
sì profondamente in tutta la loro vita terrena passata e presente,
che molto spesso, per non fare torto ai loro stranieri contempo-
ranei e agli antichi, hanno fatto torto a se stessi. Ancora, ci sono
altri popoli ai quali il loro Sé, fortemente compatto in se stesso,
non concede mai la libertà di ritrarsi a considerare l’estraneo in
modo distaccato e tranquillo, e che perciò sono costretti a cre-
dere che vi sia un unico possibile stile di vita per l’uomo civiliz-
zato, che il caso avrebbe destinato proprio a loro; tutti gli altri
uomini al mondo non avrebbero altra destinazione tranne quella
di diventare così [472] come sono loro, e dovrebbero dimostra-
re a loro, che prendono su di sé la fatica di formarli, la più gran-
de riconoscenza. Tra i popoli del primo tipo ha luogo un’azione
reciproca di cultura e di educazione, massimamente benefica per
la formazione dell’uomo in generale, e una compenetrazione in
cui tuttavia ciascuno, con l’approvazione dell’altro, resta eguale a
se stesso. I popoli del secondo tipo non possono formare niente,
poiché non possono accettare niente nel suo stato presente; vo-
gliono soltanto azzerare tutto ciò che sussiste, e produrre ovun-
que al di fuori di loro uno spazio vuoto, in cui possano ripetere

194
sempre di nuovo la loro propria figura; perfino il loro iniziale, ap-
parente immedesimarsi in costumi estranei, è solo il benevolo ab-
bassarsi dell’educatore verso l’allievo che per il momento è an-
cora debole, però dà buone speranze. Perfino i personaggi del-
l’antichità a loro non piacciono finché non li hanno messi nei lo-
ro panni, e se potessero li richiamerebbero dalla tomba per edu-
carli alla loro maniera. Lungi da me la presunzione di imputare
questa limitatezza a una qualsiasi nazione del presente, presa nel-
la sua globalità. Assumiamo piuttosto che, anche in questo caso,
i migliori sono quelli che tacciono. Ma se quelli che sono venuti
tra noi e hanno parlato si devono giudicare da quello che hanno
detto, allora si dovrebbe concludere che essi vanno inseriti nella
classe appena descritta. Una simile affermazione sembra avere bi-
sogno di prove e, tacendo delle restanti manifestazioni che stan-
no sotto gli occhi dell’Europa, addurrò un’unica circostanza, la
seguente. Noi ci siamo fatti la guerra; da parte nostra, noi siamo
gli sconfitti, loro i vincitori; questo è vero, e lo ammettiamo.
Quelli potrebbero senza dubbio accontentarsi di questo. Ora, se
tra noi qualcuno andasse avanti dicendo che noi eravamo nel giu-
sto e avremmo meritato la vittoria, e che è deplorevole che essa
non sia stata nostra: sarebbe tutto ciò così grave, e potrebbero
[473] biasimarci così tanto quelli che da parte loro possono pen-
sare comunque quello che vogliono? E invece no, non possiamo
azzardarci a pensarlo. Dobbiamo riconoscere quanto sia ingiusto
avere una volontà diversa dalla loro e resistere a essi; dovremmo
benedire le nostre disfatte come l’evento più salutare per noi stes-
si, e loro come i nostri più grandi benefattori. Non può essere al-
trimenti, e si spera per la bontà della nostra intelligenza che sarà
così. Ma perché mi dilungo su ciò che quasi duemila anni fa è sta-
to detto con molta esattezza per esempio nelle opere storiografi-
che di Tacito? La concezione dei Romani sui loro rapporti con i
barbari che essi combattevano, secondo la quale opporre resi-
stenza contro di loro sarebbe stata una ribellione criminale e una
sollevazione contro le leggi umane e divine, e secondo cui le lo-
ro armi non potevano portare ai popoli nient’altro che benedi-
zione, e le loro catene nient’altro che onore – concezione che in
loro, comunque, aveva un apparente fondamento di giustifica-
zione – questa concezione è la stessa che ci è stata offerta al gior-
no d’oggi, e che molto benevolmente ci è stata richiesta presup-

195
ponendo che fosse la nostra. Non sto dicendo che affermazioni
simili siano soltanto scherni tracotanti; posso capire che una
grande presunzione e limitatezza possa portare a credere seria-
mente che le cose stiano così, e possa onorevolmente attribuire la
stessa fede all’avversario; per esempio, credo che i Romani la
pensassero veramente così. Mi chiedo solo se quelli tra noi, per i
quali risulta impossibile convertirsi a una fede del genere, po-
tranno puntare a un qualche accordo.
Ci rendiamo degni di profondo disprezzo da parte dello stra-
niero quando sotto alle sue orecchie ci accusiamo l’un l’altro, po-
poli, persone, ceti tedeschi, del nostro comune destino, e ci sca-
gliamo reciprocamente rimproveri aspri e veementi. Prima di tut-
to, tutte le accuse di questo tipo sono in gran parte inique, ingiu-
ste, infondate. Quali siano le cause che hanno condotto all’estre-
mo destino della Germania, lo abbiamo mostrato sopra; esse so-
no [474] insite da secoli in tutte le stirpi tedesche, senza eccezio-
ne e allo stesso modo; gli ultimi eventi non sono la conseguenza
di un particolare passo falso di un singolo popolo o del suo go-
verno, essi si andavano preparando da lungo tempo e, se si fosse
trattato solo dei motivi presenti in noi stessi, avrebbero potuto
colpirci allo stesso modo già molto tempo fa. La colpa o l’inno-
cenza di tutti, al riguardo, è egualmente grande, e non è più pos-
sibile calcolarla. La precipitazione del risultato finale ha dimo-
strato che i singoli Stati tedeschi non conoscevano nemmeno se
stessi, le loro forze e la loro vera situazione; come potrebbe dun-
que qualcuno pretendere di tirarsi fuori, e di pronunciare un giu-
dizio definitivo, basato su una seria conoscenza, riguardo alla col-
pa di altri?
Può darsi che, al di là dei popoli della patria tedesca, un de-
terminato ceto sia colpito da un rimprovero maggiormente fon-
dato, non perché anch’esso non abbia capito o non abbia potuto
fare più di tutti gli altri, che è una colpa comune, ma perché si è
dato l’apparenza di vedere e capire di più, cacciando tutti gli altri
dall’amministrazione degli Stati. Ma se anche un tale rimprovero
fosse fondato, chi lo deve pronunciare, e a che cosa serve che es-
so venga pronunciato e discusso proprio adesso, a voce più alta e
più aspra che mai? Noi vediamo che alcuni scrittori lo fanno. Se
questi scrittori hanno parlato come parlano adesso anche allora,
quando presso quel ceto, con il consenso silenzioso della decisa

196
maggioranza del restante genere umano, si trovavano ancora tut-
to il prestigio e tutto il potere, chi li può biasimare per il fatto di
richiamare i discorsi che facevano allora, ormai confermati dall’e-
sperienza? Sentiamo anche che essi portano davanti al tribunale
del popolo singole persone chiamate per nome, che un tempo sta-
vano al vertice degli affari, mostrando la loro incapacità, la loro
inerzia, la loro cattiva volontà, e dimostrando chiaramente che da
simili cause dovevano scaturire necessariamente simili eventi. Se
essi avevano [475] capito ciò che capiscono adesso già allora,
quando gli accusati avevano ancora il potere, e quando i mali che
dovevano risultare necessariamente dalla loro amministrazione
potevano ancora essere evitati, e lo avevano detto a voce altret-
tanto alta; se essi avevano già allora accusato i loro colpevoli con
la stessa forza, senza lasciare alcun mezzo intentato per salvare la
patria dalle loro mani, e semplicemente non sono stati ascoltati;
allora essi fanno assai bene a ricordare i loro avvertimenti allora
disprezzati. Ma se hanno ricavato la loro attuale saggezza solo dal
risultato, da cui tutto il popolo ha ricavato con loro la stessa iden-
tica saggezza, perché ora dicono proprio loro ciò che tutti gli altri
sanno altrettanto bene? O forse allora hanno adulato per avidità,
o taciuto per paura, davanti al ceto o alle persone su cui adesso,
dopo che quelli hanno perduto il potere, la loro requisitoria si ab-
batte implacabile? In tal caso, sarebbe bene che in futuro non di-
menticassero di menzionare tra le origini dei nostri mali, accanto
alla nobiltà e ai ministri e generali incapaci, anche gli scrittori po-
litici che sanno ciò che sarebbe dovuto accadere solo a cose fatte,
allo stesso modo della plebe e che, mentre adulano i potenti,
scherniscono contenti del male altrui chi è caduto in disgrazia!
O forse biasimano gli errori del passato, che certo non può es-
sere annullato da tutti i loro biasimi, solo perché in futuro non si
ripetano? Ed è semplicemente il loro zelo nel provocare un
profondo miglioramento dei rapporti umani a porli così audace-
mente al di là di ogni considerazione di prudenza e di rispetto?
Saremmo lieti di poter attribuire loro questa buona coscienza, se
solo la solidità della loro visione e della loro intelligenza li auto-
rizzasse ad avere buona coscienza in questo campo. Non sono sta-
te le singole persone che per caso si sono trovate ai posti di co-
mando ad aver provocato i nostri mali, ma la connessione e l’in-
treccio del tutto, l’intero spirito del tempo, gli errori, l’insipienza,

197
la superficialità, l’avvilimento e l’incerta condotta da questi inse-
parabile, insomma i costumi del tempo nel loro insieme. E così,
[476] ad agire sono state molto meno le persone che i posti, e
chiunque, perfino gli appassionati accusatori, può assumere con
alta probabilità che, se si fosse trovato allo stesso posto, sarebbe
stato trascinato dalle circostanze più o meno allo stesso punto.
Smettiamola di immaginarci una malvagità e un tradimento deli-
berati! Inerzia e mancanza di intelligenza bastano a spiegare gli
eventi un po’ ovunque; e questa è una colpa da cui nessuno do-
vrebbe assolversi completamente senza un profondo esame di co-
scienza. Tanto più che quando in tutta la massa si trova un grado
assai alto d’inerzia, nel singolo che la dovrebbe scuotere dovreb-
be risiedere un grado altrettanto alto di forza e di attività. Perciò,
se anche gli errori dei singoli vengono messi così nettamente in ri-
lievo, il motivo del male con ciò non è ancora scoperto, né viene
superato dal fatto che errori simili saranno evitati in futuro. Se gli
uomini restano imperfetti, non potranno far altro che commette-
re errori, e se anche sfuggono quelli dei loro predecessori, nello
spazio infinito della fallibilità se ne troveranno facilmente di nuo-
vi. Solo una completa trasformazione può aiutarci, solo il comin-
ciamento di uno spirito interamente nuovo. Se essi collaboreran-
no al suo sviluppo, allora saremo lieti di concedere loro, accanto
alla gloria della buona coscienza, anche quella di una giusta e sa-
lutare intelligenza.
Queste accuse reciproche non sono soltanto inutili e ingiuste,
ma anche estremamente imprudenti, e devono profondamente
abbassarci agli occhi dello straniero, a cui facilitiamo e offriamo
in tutti i modi la possibilità di venirne a conoscenza. Se non ci stu-
feremo di raccontare di fronte a loro quanto la nostra situazione
fosse confusa e assurda, e quanto miseramente fossimo governa-
ti, non dovranno essi credere che, comunque si comporteranno
nei nostri confronti, saranno pur sempre un bene per noi, e non
potranno mai farci troppi danni? Non dovranno credere che noi,
vista la nostra grande incapacità e inettitudine, siamo tenuti ad ac-
cogliere con la più umile riconoscenza qualsiasi cosa [477] essi ci
abbiano offerto, o che ci riservano ancora per il futuro, dal ricco
tesoro della loro arte di governo, amministrazione e legislazione?
C’è davvero bisogno da parte nostra di appoggiare la loro co-
munque non sfavorevole opinione di se stessi, e quella miserabile

198
che essi hanno di noi? Non diventano in questo modo certe af-
fermazioni, che altrimenti andrebbero prese come feroci prese in
giro, secondo cui essi avrebbero dato per la prima volta una pa-
tria ai territori tedeschi, che prima non l’avevano, oppure avreb-
bero cancellato la dipendenza servile delle persone in quanto tali
da altre persone, che da noi sarebbe stata legale, una ripetizione
di nostre affermazioni personali, e un’eco delle nostre personali
adulazioni? È una vergogna che noi tedeschi non condividiamo
con nessun altro popolo che abbia avuto, in questo, il nostro stes-
so destino, il fatto che, non appena su di noi comandano armi stra-
niere, proprio come se avessimo atteso questo momento già da
lungo tempo, e volessimo approfittarne prima che il tempo passi,
ci profondiamo in insulti contro i nostri governi e governanti, che
in precedenza avevamo adulato in modo disgustoso, e contro tut-
to ciò che appartiene alla patria.
Come possiamo stornare la vergogna dalla nostra testa noi al-
tri, che siamo innocenti, e lasciare da soli i colpevoli? Un mezzo
c’è. Non verranno più stampati scritti diffamatori dal momento in
cui si sarà sicuri che non ne verranno più comprati, e gli autori e
gli editori non potranno più contare su lettori attratti da pigrizia,
vuota curiosità e gusto del pettegolezzo, oppure dalla gioia per il
danno altrui, suscitata dal vedere umiliato ciò che un tempo in-
stillava in loro il doloroso sentimento del rispetto. Chiunque pro-
vi vergogna, restituisca col disprezzo che merita ogni scritto dif-
famatorio che gli venga offerto da leggere; lo faccia anche se cre-
de di essere l’unico ad agire così, finché tra noi non diventi co-
stume per ogni uomo d’onore fare lo stesso; e ci libereremo assai
presto di questa parte vergognosa della nostra letteratura, senza
bisogno di vietare i libri con la violenza.
[478] Infine, ciò che di fronte allo straniero ci umilia nel mo-
do più profondo è quando ci mettiamo ad adularlo. Una parte di
noi si era resa sufficientemente spregevole, ridicola e nauseante
già in precedenza, quando in ogni occasione offriva incenso gros-
solano ai potenti della patria, e non era trattenuta né da ragione,
né da decoro, gusto e buoni costumi, ogniqualvolta riteneva di po-
ter presentare l’elogio dell’adulazione. Questo costume è diven-
tato fuori moda, e in parte questi inni di lode si sono trasformati
in parole d’insulto. Nel frattempo, per non restare – diciamo co-
sì – senza esercizio, alle nostre nuvole d’incenso abbiamo dato

199
un’altra direzione, dalla parte in cui adesso è il potere. Già il pri-
mo atteggiamento, sia l’adulazione stessa, sia il fatto che essa fos-
se tollerata, doveva addolorare ogni tedesco seriamente pensante;
ma la cosa restava tra noi. Vogliamo ora rendere testimone anche
lo straniero di questa nostra infima inclinazione, e della grande
imperizia con cui ce ne liberiamo, aggiungendo così, al disprezzo
per la nostra bassezza, la vista ridicola del nostro impaccio? In ta-
le comportamento, ci manca completamente la finezza dello stra-
niero; per non restare inascoltati, infatti, diventiamo goffi ed esa-
gerati, e cominciamo subito con adorazioni e genuflessioni a sce-
na aperta. A ciò si aggiunge il fatto che i nostri inni di lode ci sem-
brano spremuti a forza dalla paura e dal terrore; ma non c’è nul-
la di più ridicolo di un timoroso che fa l’elogio della bellezza e del-
la grazia di colui che in realtà ritiene un mostro, e che con queste
adulazioni vuole soltanto convincerlo a non stritolarlo.
O forse questi elogi non sono adulazioni, ma l’autentica espres-
sione della venerazione e dell’ammirazione che costoro sono co-
stretti a tributare al grande genio, che secondo loro guida le vicen-
de degli uomini? Quanto poco conoscono anche qui il sigillo della
vera grandezza! In tutte le epoche e tra tutti i [479] popoli questa è
rimasta sempre eguale a stessa nel non essere vanitosa, come vice-
versa ciò che ha mostrato vanità è sempre stato infimo e meschino.
Alla vera grandezza, che poggia su se stessa, non piacciono le statue
dei contemporanei, né l’appellativo di grande, e neppure il favore
urlante e gli encomi della moltitudine; piuttosto, essa respinge da sé
tutto ciò col dovuto disprezzo, e attende il suo verdetto anzitutto dal
giudice personale nel suo intimo, e quello pubblico dalla giuria dei
posteri. Inoltre, è sempre stata sua caratteristica quella di rispettare
e di commiserare la sventura oscura e inesplicabile, di non dimenti-
care che la ruota del destino gira sempre, e di non farsi chiamare
grande o beata prima della fine. Quindi quegli encomiasti sono in
contraddizione con se stessi, e dicendo quello che dicono trasfor-
mano il contenuto delle loro parole in una menzogna. Se ritenesse-
ro davvero grande l’oggetto della loro presunta venerazione, si ac-
contenterebbero della sua superiorità rispetto al loro favore e alla
loro lode, e gli renderebbero onore in rispettoso silenzio. Mentre so-
no indaffarati a lodarlo, essi mostrano di ritenerlo piccolo e me-
schino, e così fatuo da gradire i loro elogi, sperando in tal modo di
stornare da sé qualche danno, o di procurarsi qualche vantaggio.

200
Quel grido entusiasta: “Che genio sublime, che profonda sag-
gezza, che vasto programma!” Che cosa significa in fondo, a ben
considerarlo? Significa che il genio è così grande che possiamo
comprenderlo perfettamente anche noi, la saggezza così profon-
da che anche noi possiamo penetrarla, il programma così vasto
che anche noi possiamo completamente riprodurlo. Quindi, si-
gnifica che chi è lodato è all’incirca della stessa grandezza di chi
lo loda, ma non completamente, poiché quest’ultimo capisce il
primo perfettamente, lo abbraccia con lo sguardo, e dunque gli è
superiore e, se solo si sforzasse un po’, potrebbe fare qualcosa di
ancora più grande. Bisogna [480] avere un’opinione assai alta di
se stessi, per credere di poter costruire la propria corte a così buon
mercato; e chi è lodato, deve avere un’opinione di sé assai sca-
dente, se accetta con compiacimento questi omaggi.
No, modesti, seri, posati, uomini e compatrioti tedeschi, resti
lontana una siffatta mancanza d’intelligenza dal nostro spirito, e
un siffatto insudiciamento dalla nostra lingua, nata per esprimere
il vero! Lasciamo che lo straniero esulti ammirato a ogni nuova
apparizione, e che in ogni decennio adotti un nuovo criterio per
la grandezza, creandosi nuovi idoli e bestemmiando Dio per lo-
dare gli uomini. Il nostro criterio per la grandezza resti l’antico:
che grande è soltanto ciò che è capace di idee e che si entusiasma
per esse, le quali sole portano salvezza ai popoli; sui vivi, affidia-
mo il verdetto alla giuria dei posteri!

Nota a p. 184

Dopo aver atteso per diverse settimane la restituzione del manoscritto


di questo tredicesimo discorso, che era stato inoltrato alle mie autorità
di censura, ricevo infine, al suo posto, il seguente messaggio:
“Il manoscritto del tredicesimo discorso del Sig. Professor Fichte è an-
dato perduto in circostanze fortuite, dopo che aveva già ottenuto l’impri-
matur e, nonostante gli sforzi compiuti, non è stato possibile ritrovarlo.
Ora, per non ritardare l’editore ecc. Reimer nella stampa, prego
l’Ill.mo Sig. Professor Fichte di integrare questo discorso coi suoi qua-
derni, e di spedirmelo per l’imprimatur.

Berlino, 13 aprile 1808.


v. S c h e v e”

201
Ciò che questo messaggio intenda con quaderni, non lo capisco, e ciò
che nell’elaborazione del testo era stato disposto e preparato su fogli
aggiuntivi è stato dato alle fiamme nel corso di un cambio di abitazio-
ne intervenuto nel frattempo. Io perciò sono stato costretto a insiste-
re perché il manoscritto, che non doveva essere perduto, fosse nuova-
mente recuperato. Questo [481] non è stato possibile, come si è assi-
curato, neppure dopo le ricerche più accurate; o almeno non è suc-
cesso, e io ho dovuto colmare la lacuna come ho potuto.
Mentre io, a mia propria giustificazione, sono costretto a portare
questa vicenda a conoscenza del pubblico esterno, lo prego tuttavia di
credere che le stranezze che si potrebbero trovare tanto nella vicenda
stessa, quanto nel messaggio sopra riportato, da noi non sono affatto
costume generale; al contrario, questa vicenda costituisce un’eccezio-
ne rarissima, e forse mai verificatasi così prima d’ora. Si può immagi-
nare che saranno prese le misure necessarie perché un caso simile non
possa più ripetersi.
Quattordicesimo discorso
Conclusioni generali

I discorsi che così concludo si sono diretti certamente, a voce al-


ta, innanzitutto a voi, ma hanno tenuto in vista l’intera nazione te-
desca e, nella loro intenzione, hanno raccolto intorno a sé, nello
spazio in cui respirate in modo visibile, tutti coloro che, fino a do-
ve si estende la lingua tedesca, siano capaci di capirli. Se fossi riu-
scito a gettare, nei petti che qui hanno battuto sotto i miei occhi,
una scintilla che continui a brillare e afferri la vita, allora io vorrei
che essi non rimanessero soli ma che, per tutto il territorio comu-
ne, sentimenti e decisioni simili si unissero e si collegassero ai lo-
ro, cosicché per tutto il territorio della patria fino ai suoi confini
più lontani, a partire da questo centro, si diffondesse la fiamma
unica e continua di un modo di pensare patriottico. Questi di-
scorsi non si sono rivolti alla nostra epoca per far passare il tem-
po a occhi e orecchi oziosi, ma per [482] sapere, come vuole
chiunque la pensi come me, se anche al di fuori di noi esista qual-
cosa di affine al nostro modo di pensare. Ciascun tedesco, che cre-
da ancora di essere membro di una nazione, che a suo riguardo
pensi in modo grande e nobile, che speri in essa, che per essa osi,
pazienti e sopporti, deve essere infine strappato dall’incertezza
della sua fede; egli deve vedere chiaramente se ha ragione, o se è
soltanto uno stolto e un fanatico; d’ora in poi, egli deve o prose-
guire sulla sua strada con sicura e gioiosa coscienza, oppure ri-
nunciare con ferrea risolutezza ad avere una patria quaggiù, e con-
solarsi soltanto con quella celeste. A voi, non in quanto persone

203
di un certo tipo nella nostra limitata vita quotidiana, bensì in quan-
to esponenti della nazione e, attraverso i vostri organi uditivi, al-
l’intera nazione, questi discorsi rivolgono il seguente appello.
Sono passati secoli da quando non siete stati convocati insie-
me come oggi; in questo numero; in una faccenda così impor-
tante, così urgente, così comune; così assolutamente in quanto
nazione e tedeschi. E non succederà mai più. Se adesso non fate
attenzione e non rientrate in voi stessi; se fate passare questi di-
scorsi come un vuoto solletico per le orecchie o uno strano mo-
stro, nessun uomo potrà più contare su di voi. Per una buona
volta, ascoltate e meditate. Almeno per questa volta, non anda-
tevene senza aver preso una salda decisione; e chiunque senta
questa voce, prenda questa decisione in se stesso e per se stesso,
come se fosse solo e dovesse fare tutto da solo. Se ci saranno ab-
bastanza individui che penseranno così, si formerà presto un
grande intero, che potrà confluire in un’unica forza compatta. Se
al contrario ciascuno, escludendo se stesso, spera negli altri e af-
fida la cosa agli altri, allora non c’è nessun altro, e tutti restano
com’erano prima. Prendetela subito, questa decisione. Non dite:
“Facci riposare ancora un po’, facci dormire e sognare ancora un
po’, forse il miglioramento arriverà da sé”. Non arriverà mai da
sé. Chi, [483] dopo avere sprecato lo ieri, quando pensarci sa-
rebbe stato ancora più facile, non può volere neppure oggi, co-
stui lo potrà ancora meno domani. Ogni ritardo ci rende ancora
più pigri, e ci culla ancora più profondamente nella pacifica abi-
tudine del nostro misero stato. Anche gli stimoli esterni a pen-
sarci non potranno mai essere più forti e più urgenti. Chi non si
sente scosso da questo presente, ha sicuramente perduto ogni ca-
pacità di sentire. Voi siete chiamati a prendere una decisione e
una conclusione salda e definitiva. Non a un comando, a un in-
carico, a un’esigenza da rivolgere ad altri, bensì a voi stessi. Voi
dovete prendere una risoluzione che ciascuno può attuare solo
da se stesso e in prima persona. Qui non basta quell’ozioso fare
propositi, quella volontà di volere prima o poi, quel pigro ac-
contentarsi nell’attesa di un miglioramento spontaneo; bensì da
voi si pretende una decisione tale che al tempo stesso sia imme-
diatamente vita e atto interiore, e che quindi, senza tentenna-
menti o attenuazioni, perduri e continui a farsi valere finché non
sia giunta alla meta.

204
O forse in voi è del tutto estirpata e scomparsa la radice, da cui
soltanto può germogliare una siffatta decisione che interviene nel-
la vita? Davvero tutto il vostro essere si è assottigliato e dissolto in
un’ombra vuota, senza linfa né sangue né autonoma forza motrice,
come un sogno in cui visioni variopinte nascono e si incrociano ope-
rosamente, mentre il corpo giace immobile e come morto? Da lun-
go tempo, alla nostra epoca, è stato detto in faccia e ripetuto sotto
ogni veste, che più o meno questo è ciò che se ne pensa. I suoi por-
tavoce hanno creduto che così si volesse solo insultare, e l’hanno
presa come un’esortazione a insultare a loro volta, perché la cosa
tornasse nel suo ordine naturale. Per il resto, non si è intravisto il
minimo cambiamento o miglioramento. Se voi avete udito quelle
parole, [484] se ve ne siete scandalizzati, allora smentite quelli che
pensano e parlano così di voi direttamente con i vostri atti: mostra-
te a tutto il mondo che siete diversi, e quelli saranno consegnati al-
la menzogna davanti a tutto il mondo. Forse hanno parlato di voi
così duramente proprio nell’intento di venire così confutati da voi,
e perché disperavano di potervi scuotere con qualsiasi altro mezzo.
In questo caso, la loro opinione su di voi sarebbe stata ben miglio-
re di quella di coloro che vi adulano perché restiate nell’inerte tran-
quillità e nell’assenza di pensiero che non si cura di nulla.
Per quanto possiate essere così deboli e senza forze, in questo
periodo la chiara e tranquilla meditazione vi è stata resa così faci-
le, quanto non lo era mai stata prima. Ciò che propriamente ci ha
fatto precipitare nella confusione sulla nostra situazione, nella no-
stra assenza di pensiero, nel nostro cieco lasciare andare, era la
dolce contentezza di noi stessi e del nostro modo di essere. Fino-
ra aveva funzionato ed era continuato così; a chi ci esortava alla
riflessione mostravamo trionfanti, al posto di un’altra confutazio-
ne, la nostra esistenza e sussistenza, che andava avanti senza che
noi ci pensassimo. Ma funzionava solo perché non venivamo mes-
si alla prova. Da allora, ci siamo passati in mezzo. Da questo mo-
mento, non dovevano dissolversi le illusioni, i miraggi, le false
consolazioni, con le quali ci siamo storditi a vicenda? Non dove-
vano sparire i pregiudizi innati che, senza venire di qua o di là, si
erano diffusi su tutti noi come una nebbia naturale, avvolgendoci
tutti nello stesso crepuscolo? Quel crepuscolo non trattiene più i
nostri occhi; ma non può più neppure servirci come scusa. Ades-
so noi stiamo qui, puri, vuoti, spogliati di ogni corteccia e rivesti-

205
mento estranei, semplicemente quali noi stessi siamo. Adesso
dobbiamo mostrare che cosa questo Stesso è, oppure non è.
Qualcuno tra voi potrebbe venir fuori e chiedermi: “Che cosa
dà proprio a te, unico tra tutti gli uomini e gli scrittori tedeschi, il
mandato, la vocazione e il privilegio di riunirci e di scagliarti con-
tro di noi? [485] Non avrebbe ciascuno tra le migliaia degli scrit-
tori tedeschi lo stesso diritto che hai tu, ma nessuno di loro lo fa,
bensì solo tu salti fuori?” Io rispondo, che ciascuno avrebbe avu-
to senz’altro lo stesso diritto che ho io, e che io lo faccio proprio
perché nessuno di loro lo ha fatto prima di me; e che io avrei ta-
ciuto, se un altro lo avesse fatto in precedenza. Questo era il pri-
mo passo verso la meta di un completo miglioramento; qualcuno
doveva farlo. Io sono stato il primo che lo ha capito in modo vi-
vo; perciò sono stato io che l’ho fatto per primo. Dopo questo,
qualsiasi altro passo sarà il secondo; adesso tutti hanno lo stesso
diritto di farlo; ma, ancora una volta, a farlo davvero sarà soltan-
to un singolo. Uno deve sempre essere il primo, e chi può esserlo,
lo sia!
Senza preoccuparvi di questa circostanza, indugiate un poco
col vostro sguardo sulla considerazione, cui vi abbiamo condotto
già in precedenza, dell’invidiabile condizione in cui si trovereb-
bero la Germania e il mondo intero, se la prima avesse saputo uti-
lizzare la felicità della sua situazione e riconoscere il suo vantag-
gio. Fissate gli occhi su ciò che ormai sono entrambi; e fatevi pe-
netrare dal dolore e dallo sdegno da cui sarà catturato ogni nobi-
le animo. Rivolgetevi quindi indietro a voi stessi, e vedete come
siate voi quelli che il tempo vuole liberare dagli errori dei prede-
cessori, i cui occhi vuole sgomberare dalla nebbia; che a voi è con-
cesso, come a nessuna generazione prima di voi, di rendere l’ac-
caduto non accaduto, e di cancellare questo intervallo poco ono-
revole dai libri di storia dei tedeschi.
Fate scorrere davanti a voi le diverse condizioni tra le quali do-
vete fare una scelta. Se andate avanti così nella vostra ottusità e in-
differenza, vi aspettano per primi tutti i mali della schiavitù, pri-
vazioni, umiliazioni, lo scherno e l’arroganza dei vincitori; voi ver-
rete cacciati di qua e di là in tutti gli angoli, poiché non starete be-
ne da nessuna parte finché, sacrificando la vostra nazionalità e la
vostra lingua, [486] non vi procurerete un posticino subordinato,
e il vostro popolo in questo modo non si estinguerà gradualmen-

206
te. Se invece vi deciderete a fare attenzione, allora troverete dap-
prima una sopravvivenza sopportabile e onorevole, e poi vedre-
te fiorire, tra voi e intorno a voi, una generazione che promette a
voi e ai tedeschi di essere ricordati nel modo più glorioso. Attra-
verso questa generazione, voi vedrete in spirito il nome tedesco
innalzarsi sino a divenire quello più celebrato tra tutti i popoli,
voi vedrete questa nazione quale rigeneratrice e restauratrice del
mondo.
Dipende da voi, se volete essere la fine e gli ultimi di una ge-
nerazione non degna di considerazione, e disprezzata dai posteri
persino oltre il dovuto; oppure, se volete essere l’inizio e il punto
di partenza di una nuova epoca, splendida oltre ogni vostra im-
maginazione, e coloro a partire dai quali i posteri conteranno gli
anni della loro salvezza. Meditate sul fatto che voi siete gli ultimi
ad avere la possibilità di operare questo grande cambiamento. Voi
avete ancora sentito chiamare i tedeschi come una cosa sola, ave-
te visto un segno visibile della loro unità, un impero e una fede-
razione imperiale, o ne avete sentito parlare; tra voi si sono anco-
ra fatte sentire di tanto in tanto voci ispirate da questo superiore
amor di patria. Chi verrà dopo di voi, si abituerà ad altre idee, as-
sumerà forme estranee e un altro corso di affari e di vita; e quan-
to passerà ancora, prima che non viva più nessuno che abbia vi-
sto tedeschi, o ne abbia sentito parlare?
Non è molto ciò che vi si chiede. Dovete soltanto assumervi
l’onere di concentrarvi per breve tempo, e di pensare a ciò che sta
immediatamente sotto i vostri occhi. Dovete solo formarvene
un’opinione salda, restarle fedeli, e poi esprimerla e dichiararla
nel vostro ambiente circostante. Il presupposto, la nostra sicura
convinzione, è che [487] questo pensiero produrrà in tutti voi lo
stesso risultato; e che, se voi pensate veramente, e non andate
avanti nella solita indifferenza, penserete in modo concorde. Pur-
ché vi procuriate in generale uno spirito, e non continuiate a vi-
vere semplicemente come piante, l’unicità d’intenti e la concordia
dello spirito verranno da sé. Ma una volta accaduto questo, verrà
fuori da sé anche tutto il resto di cui abbiamo bisogno.
Ma questo pensiero è effettivamente richiesto, in prima perso-
na, a ciascuno tra voi che possa ancora pensare a qualcosa che ha
sotto gli occhi. Avete tempo per farlo; l’attimo non vuole né stor-
dirvi né sorprendervi; gli atti delle trattative intraprese con voi re-

207
stano sotto i vostri occhi. Non metteteli da parte, finché non vi sia-
te messi d’accordo con voi stessi. No, non affidatevi, per pigrizia,
ad altri o a qualunque cosa al di fuori di voi; né alla stolta saggez-
za del tempo, secondo cui le epoche si sviluppano per mezzo di
una qualche forza sconosciuta, senza intervento umano. Questi
discorsi non si stancano di ribadire che voi potete essere aiutati
solo e soltanto da voi stessi, e trovano necessario ripetervelo fino
all’ultimo momento. Certo, la pioggia e la rugiada, e anni fecondi
o infecondi possono dipendere da una potenza a noi sconosciuta,
che non è in nostro potere; ma il tempo in tutto e per tutto pro-
prio degli uomini, i rapporti umani, se li fanno soltanto gli uomi-
ni, e assolutamente nessuna potenza che si trovi al di fuori di lo-
ro. Solo se tutti insieme sono egualmente ciechi e ignoranti, essi
cadono preda di questa potenza nascosta: ma sta a loro non esse-
re ciechi e ignoranti. Certo, la misura in cui le cose andranno ma-
le, potrebbe dipendere in parte da quella potenza sconosciuta, ma
in modo del tutto particolare dall’intelligenza e dalla buona vo-
lontà di coloro cui siamo soggetti. Ma se mai [488] le cose do-
vranno tornare ad andarci bene, questo dipende esclusivamente
da noi, e sicuramente non ci capiterà più alcun benessere, se non
ce lo procureremo da noi stessi: e in particolare, se ciascun singo-
lo tra noi, a suo modo, non farà e agirà come se fosse da solo, e co-
me se la salvezza delle future generazioni dipendesse da lui sol-
tanto1.

Questo è ciò che dovete fare; questi discorsi vi scongiurano di far-


lo senza indugio.

Scongiurano voi giovani. Io, che da parecchio tempo ho smesso


di essere dei vostri, credo, e l’ho anche detto in questi discorsi, che
voi siate ancora più capaci di ogni pensiero che vada al di là di ciò
che è volgare, e più sensibili a ogni bene e virtù, poiché la vostra
età è ancora più vicina agli anni dell’innocenza infantile e alla na-
tura. La maggior parte degli adulti considera questa vostra carat-
teristica in modo del tutto diverso. Essi vi accusano di presunzio-

1
Fichte aggiunse l’ultima frase dopo i due punti (“e in particolare [...] di-
pendesse da lui soltanto”) come attenuazione per superare le obiezioni della
censura, seguendo il suggerimento di von Stein.

208
ne, di formulare giudizi affrettati, azzardati e superiori alle vostre
forze, di voler sempre avere ragione, di amare le novità. Però sor-
ridono benevolmente di questi vostri difetti. Essi ritengono che
tutto questo dipenda soltanto dalla vostra scarsa conoscenza del
mondo, cioè dell’universale corruzione umana, poiché essi non
hanno occhi per nient’altro al mondo. Voi adesso avete coraggio
solo perché sperate di trovare dei compagni che la pensino come
voi, e ignorate la dura e rabbiosa resistenza che si opporrà ai vo-
stri progetti di miglioramento. Ma quando lo slancio giovanile
della vostra immaginazione si sarà spento, quando farete espe-
rienza dell’egoismo, della pigrizia e dell’ignavia universali, quan-
do avrete gustato la dolcezza di procedere nell’andazzo abituale,
allora vi passerà anche la voglia di essere migliori e più intelligen-
ti di tutti gli altri. Questa loro speranza nei vostri confronti non è
campata in aria; essi ne hanno trovato conferma nella loro stessa
persona. Essi devono confessare che nei giorni della loro stolta
giovinezza hanno sognato di migliorare il mondo come fate voi
adesso; ma [489] con l’accrescersi della loro maturità sono diven-
tati docili e mansueti come voi li vedete adesso. Io a loro credo; io
stesso ho già provato, nella mia non lunghissima esperienza, che
giovani i quali dapprima suscitavano ben altre speranze, più tardi
hanno perfettamente adempiuto le aspettative ben intenzionate di
questa età matura. Giovani, non fatelo più: perché altrimenti co-
me potrà mai cominciare una generazione migliore? Certo, vi ab-
bandonerà lo smalto della giovinezza, e lo slancio della vostra im-
maginazione smetterà di autoalimentarsi, ma cogliete questo slan-
cio, e tempratelo con la chiarezza del pensiero, appropriatevi del-
l’arte di questo pensiero, e in più riceverete come dono la più bel-
la dote dell’uomo: il carattere. In quella chiarezza di pensiero, voi
conserverete la sorgente dell’eterna fioritura giovanile; anche se il
vostro corpo invecchierà, e le vostre ginocchia si piegheranno, il
vostro spirito si rigenererà in freschezza sempre rinnovata, e il vo-
stro carattere starà saldo e senza mutamenti. Afferrate subito l’oc-
casione che qui vi si offre; pensate chiaramente all’oggetto che si
propone alla vostra deliberazione; la chiarezza che per voi ha fat-
to irruzione in un punto, si diffonderà gradualmente anche in tut-
ti gli altri.
Questi discorsi scongiurano voi vecchi. Di voi si pensa e a voi
si dice in faccia quello che avete appena udito; e l’oratore aggiun-

209
ge con franchezza in prima persona che, per quanto riguarda la
grande maggioranza di voi, a parte le eccezioni che non di rado si
presentano e che sono tanto più degne di rispetto, si ha perfetta-
mente ragione. Ripercorriamo la storia degli ultimi due o tre de-
cenni; tutti concordano eccetto voi stessi, anzi perfino ciascuno di
voi, nel campo che non lo riguarda immediatamente, è d’accordo
che, sempre a parte le eccezioni e considerando solo la maggio-
ranza, in tutti i settori, nella scienza come negli affari della vita,
l’incapacità e l’egoismo più grandi si sono sempre riscontrati nel-
l’età più avanzata. Tutti i nostri contemporanei hanno visto che
chiunque [490] volesse qualcosa di migliore e più perfetto, oltre
alla lotta con la sua propria oscurità e con le altre circostanze, do-
veva condurre con voi la lotta più aspra; che il vostro fermo pro-
posito era che non dovesse affacciarsi nulla che voi non avreste
fatto e inteso allo stesso modo; che consideravate ogni vivacità di
pensiero come un oltraggio alla vostra intelligenza; e che non ri-
sparmiavate alcuna energia per trionfare in questo conflitto su chi
era migliore, come in effetti di solito è accaduto. Così, voi siete sta-
ti la forza che ha ritardato tutti i miglioramenti che la natura be-
nigna ci ha offerto dal suo grembo eternamente giovane, finché
non tornavate nella polvere che già prima eravate, e la generazio-
ne seguente, nella guerra con voi, non era diventata come voi, ere-
ditando le vostre mansioni. Agite pure anche adesso come avete
agito finora nei confronti di ogni istanza di miglioramento, prefe-
rite pure ancora una volta al bene comune il vostro fatuo onore,
che tra cielo e terra non debba esserci nulla che voi non abbiate
già scoperto; così, con questa lotta finale, sarete sollevati dalla
continuazione della lotta, non ci sarà più nessun miglioramento,
bensì peggioramento su peggioramento, in modo che voi possia-
te gioire ancora un po’.
Non si creda che io disprezzi e sottovaluti la vecchiaia in quan-
to tale. Purché la fonte della vita originaria e del suo continuo mo-
vimento venga liberamente accolta nella vita, la chiarezza e con es-
sa l’energia crescono finché la vita dura. Una vita simile si vive me-
glio, le scorie della vita terrena scompaiono sempre più, ed essa si
innalza fiorente alla vita eterna. L’esperienza di una vecchiaia si-
mile non viene a patti col male, ma rende soltanto più chiari i mez-
zi e più abile l’arte per combatterlo vittoriosamente. Il peggiora-
mento con l’aumentare dell’età è colpa soltanto del nostro tempo,

210
e ovunque la società sia corrotta deve accadere lo stesso. Non è la
natura che ci corrompe, essa ci genera nell’innocenza; è la società.
[491] Chi si abbandona alla sua influenza, è naturale che debba
peggiorare sempre più, quanto più a lungo resta esposto a questo
influsso. Varrebbe la pena di studiare sotto questo punto di vista
la storia di altre epoche molto corrotte, e di vedere se per esem-
pio anche sotto il governo degli imperatori romani chi era cattivo
non peggiorasse sempre più con il crescere dell’età.
Questi discorsi dunque scongiurano innanzitutto voi, che tra i
vecchi e dotati di esperienza siete le eccezioni, perché in questa
faccenda incoraggiate, rafforziate, consigliate i più giovani, che
pieni di rispetto volgono a voi il loro sguardo. Ma essi scongiura-
no voi altri, che siete nella norma: se non volete aiutare, almeno
stavolta non siate di ostacolo, non mettetevi ancora in mezzo, co-
me avete sempre fatto finora, con la vostra saggezza e i vostri mil-
le scrupoli. Questa questione, come tutte le questioni razionali al
mondo, non ha mille risvolti, bensì uno, il che fa parte anch’esso
delle mille cose che ignorate. Se la vostra saggezza potesse salvar-
ci, lo avrebbe già fatto in precedenza, poiché proprio voi siete
quelli che ci avete consigliato finora. Ora, ciò è perdonato come
tutto il resto, e non deve esservi più rinfacciato. Ma imparate una
buona volta a conoscere voi stessi, e tacete.
Questi discorsi scongiurano anche voi uomini d’affari. Salvo
poche eccezioni, voi siete stati, finora, nemici dal profondo del
cuore del pensiero astratto e di ogni scienza che aspirasse ad ave-
re valore per se stessa, benché fingeste di disprezzare tutto ciò con
aria di superiorità; tenevate distanti il più possibile gli uomini che
se ne occupavano e le loro proposte; e il ringraziamento che essi
potevano aspettarsi da voi era, nel più comune dei casi, il rimpro-
vero di essere pazzi, o il consiglio di spedirli in manicomio. Al
contrario, costoro non si azzardavano a pronunciarsi con la stes-
sa franchezza nei vostri confronti, poiché essi dipendevano da voi,
ma nel loro intimo essi in realtà pensavano che voi, salvo poche
eccezioni, foste dei chiacchieroni superficiali e dei palloni gonfia-
ti, degli istruiti a metà che hanno fatto le scuole di corsa, dei bran-
colanti alla cieca [492] che si trascinano nel vecchio andazzo, per-
ché non hanno voluto o potuto fare di meglio. Mostrate con i fat-
ti che essi mentono, e perciò cogliete l’occasione che adesso vi vie-
ne offerta; deponete quel disprezzo per il pensiero profondo e la

211
scienza, lasciatevi istruire, e ascoltate e imparate ciò che non sa-
pete; altrimenti avranno ragione i vostri accusatori.
Questi discorsi scongiurano voi pensatori, dotti, scrittori che
siete ancora degni di questo nome. Quel biasimo degli uomini
d’affari nei vostri confronti non era del tutto ingiustificato. Spes-
so siete andati avanti nel campo del pensiero puro troppo incu-
ranti, senza preoccuparvi del mondo reale, e senza ricercare in che
modo il primo possa entrare in collegamento con quest’ultimo.
Per descrivere a voi stessi il vostro proprio mondo, avete messo
da parte troppo sprezzantemente il mondo reale. È vero che ogni
ordinamento e configurazione della vita reale deve procedere dal
superiore concetto ordinante, e che non serve continuare nell’an-
dazzo abituale; questa è un’eterna verità, e umilia con malcelato
disprezzo nel nome di Dio chiunque osi occuparsi di affari senza
conoscerla. Ma tra il concetto e la sua introduzione in una vita
particolare, c’è un abisso. Colmare questo abisso è opera tanto
dell’uomo d’affari, che certo già prima deve avere imparato ab-
bastanza per capirvi, quanto vostra, che stando su nel mondo del
pensiero non dovete dimenticare la vita. Qui potete incontrarvi
entrambi. Invece di guardarvi di traverso e sminuirvi a vicenda al
di là dell’abisso, sarebbe meglio che ciascuno dalla sua parte si
desse da fare per colmare il baratro, e aprire così la strada all’uni-
ficazione. Cercate di capire, finalmente, che entrambi vi siete re-
ciprocamente necessari come la mente e il braccio.
Questi discorsi scongiurano voi pensatori, dotti, scrittori an-
cora degni di questo nome anche da un altro punto di vista. I vo-
stri lamenti sulla superficialità, l’assenza di pensiero e la confu-
sione generali, sulla parvenza di pensiero e sulla chiacchiera ine-
stinguibile, sul disprezzo [493] della serietà e della profondità in
tutti i ceti, possono anche essere veri, come in effetti sono. Ma
qual è il ceto che ha educato questi ceti nel loro insieme? Che per
loro ha tramutato in un gioco ogni scientificità, e li ha condotti fin
dalla primissima giovinezza a quella parvenza di pensiero e a quel-
la chiacchiera? Chi è dunque che continua a educare anche le ge-
nerazioni già uscite dalla scuola? La ragione dell’ottusità dell’e-
poca, che balza maggiormente agli occhi, è che quest’ultima si è
resa ottusa leggendo i libri che voi avete scritto. Ma perché siete
così disposti a intrattenere questo popolo di oziosi, benché sap-
piate che non ha imparato niente e che non vuole imparare nien-

212
te? Perché lo chiamate “pubblico”, lo adulate come vostro giudi-
ce, lo aizzate contro i vostri concorrenti, e cercate con ogni mez-
zo di portare questa massa cieca e confusa dalla vostra parte? Per-
ché infine, perfino sui vostri giornali e bollettini editoriali, forni-
te materia ed esempio alla sua smania di giudicare, dato che lì voi,
in modo altrettanto incoerente, giudicate a casaccio, alla giorna-
ta, e il più delle volte in modo così privo di gusto, come potrebbe
fare anche l’ultimo dei vostri lettori? Se non la pensate tutti così,
se tra voi c’è ancora qualcuno che nutre intenzioni migliori, per-
ché allora costoro non si uniscono per porre fine alla sventura?
Per quanto riguarda in particolare quegli uomini d’affari, essi so-
no andati a scuola da voi, lo dite voi stessi. Perché non avete uti-
lizzato questo loro passaggio almeno per instillare in loro un qual-
che muto rispetto per le scienze, e soprattutto per spezzare in tem-
po la presunzione dei giovani di alti natali, mostrando loro che
nelle questioni di pensiero il ceto e la nascita non contano nulla?
Se forse già allora li avete adulati, e li avete distinti senza merito,
allora adesso sopportate ciò che voi stessi avete causato.
Questi discorsi vogliono discolparvi, nel presupposto che voi
non abbiate compreso l’importanza del vostro compito; essi vi
scongiurano di rendervi conto fin da ora della sua importanza,
[494] e che non lo esercitiate più come una semplice attività la-
vorativa. Se imparate a rispettare voi stessi, e mostrate di farlo nel
vostro agire, sarete rispettati anche da tutti gli altri. Ne fornirete
la prima prova con l’influenza che riuscirete a esercitare sulla de-
cisione richiesta, e col modo in cui vi comporterete in questa oc-
casione.
Questi discorsi scongiurano voi, principi della Germania.
Quelli che verso di voi si comportano come se non vi si potesse o
non vi si dovesse dire niente, sono spregevoli adulatori, sono ma-
ligni calunniatori di voi stessi; mandateli lontano da voi. La verità
è che anche voi nascete ignoranti come tutti noi e che, se volete
uscire da questa naturale ignoranza, dovete anche voi ascoltare e
imparare come noi. La vostra parte nella realizzazione del destino
che ha colpito voi e i vostri popoli, qui è stata presentata nel mo-
do più morbido e, riteniamo, nel solo che sia vero e giusto. A me-
no che non vogliate ascoltare solo adulazioni e mai la verità, non
potete lamentarvi di questi discorsi. Dimentichiamo tutto questo,
così come anche tutti noi altri auspichiamo che venga dimentica-

213
ta la nostra parte di colpa. Adesso, come per tutti noi, così anche
per voi comincia una nuova vita. Speriamo che questa voce, at-
traversando gli ambienti che vi rendono solitamente inaccessibili,
possa arrivare fino a voi! Con orgoglioso sentimento di sé essa può
dirvi: voi dominate su popoli fedeli, malleabili, degni di felicità,
come non è mai capitato ai principi di nessuna epoca e nazione.
Essi hanno senso per la libertà e ne sono capaci; ma nella guerra
sanguinosa contro ciò che a loro sembrava la libertà, vi hanno se-
guito, perché così voi avete voluto. In seguito, alcuni di voi han-
no cambiato idea, ed essi vi hanno seguito in ciò che a loro dove-
va sembrare una guerra di sterminio contro uno degli ultimi resti
di autonomia e indipendenza tedesche; ancora una volta perché
così avete voluto. Da allora, pazienti, essi portano il peso oppri-
mente del male comune; e non cessano di esservi fedeli, di dipen-
dere da voi con intima devozione, [495] e di amarvi come loro tu-
tori inviati da Dio. Se poteste osservarli senza che loro se ne ac-
corgano; se poteste discendere, liberi da chi vi circonda e che non
sempre vi mostra il lato più bello dell’umanità, nelle case dei cit-
tadini, nelle capanne dei contadini, e poteste osservare la vita si-
lenziosa e nascosta di questi ceti, nei quali sembrano essersi rifu-
giate la fedeltà e la semplicità divenute rare nei ceti superiori, so-
no più che certo che prendereste la decisione di pensare nel mo-
do più serio possibile a come aiutarli. Questi discorsi vi hanno
proposto un mezzo di aiuto, che essi ritengono sicuro, completo
e decisivo. Lasciate che i vostri consiglieri decidano se è così an-
che per loro, oppure se hanno qualcosa di meglio, purché sia al-
trettanto decisivo. Ma la convinzione che qualcosa deve accadere,
e immediatamente, e qualcosa di completo e di decisivo, e che il
tempo delle mezze misure e degli stratagemmi per tirare avanti è
passato: questa è la convinzione che i nostri discorsi vorrebbero,
se potessero, produrre in voi stessi, poiché essi ripongono ancora
la massima fiducia nel vostro buon senso.

Questi discorsi scongiurano tutti voi tedeschi, qualunque sia il po-


sto che occupate nella società, perché ciascuno che sappia pensa-
re, tra voi, prima di tutto pensi all’argomento che abbiamo susci-
tato, e perché ciascuno in relazione a esso faccia ciò che può fare
più facilmente nel posto in cui si trova.

214
A questi discorsi, si uniscono e vi scongiurano anche i vostri
antenati. Pensate che nella mia voce si mescolano dal grigio pas-
sato le voci dei vostri avi, che si sono opposti coi loro corpi al di-
lagante dominio romano sul mondo, che col sangue hanno otte-
nuto l’indipendenza dei monti, dei fiumi e delle pianure che sot-
to di voi sono divenute preda dello straniero. Essi vi invocano co-
sì: “Siate nostri rappresentanti, trasmettete alla posterità il nostro
ricordo puro e onorato come è giunto a voi, [496] che vi siete po-
tuti vantare di noi e della vostra discendenza da noi. Finora, la no-
stra resistenza è stata un esempio di nobiltà, grandezza e saggez-
za, noi sembravamo i consacrati e gli ispirati del divino piano del
mondo. Se la nostra stirpe finirà con voi, il nostro onore si tra-
muterà in vergogna, la nostra saggezza in stupidità. Perché, se il
popolo tedesco doveva tramontare nella romanità, era meglio che
lo facesse in quella antica che non in una moderna. Noi abbiamo
resistito a quella, e l’abbiamo battuta; voi siete stati polverizzati
davanti a questa. Ora che le cose stanno così, non potete batterla
con armi materiali; è il vostro spirito che deve sollevarsi e stare di-
ritto di fronte a loro. Voi avete ricevuto un destino più grande,
quello di fondare in generale il regno dello spirito e della ragione,
e di distruggere nel suo insieme la bruta forza materiale quale do-
minatrice del mondo. Se lo farete, allora sarete degni di discen-
dere da noi”.

Ma a queste voci si mescolano anche quelle dei vostri antenati più


recenti, che caddero nella sacra lotta per la libertà di religione e
di fede. Essi v’invocano così: “Salvate anche il nostro onore. Ciò
per cui combattevamo non ci era del tutto chiaro. Oltre alla legit-
tima decisione di non farci comandare da un potere esterno in
questioni di coscienza, ci spingeva anche uno spirito superiore
che a noi non si è mai rivelato del tutto. A voi si è rivelato, questo
spirito, se avete una capacità visiva per il mondo degli spiriti, e vi
guarda con il suo sguardo limpido e nobile. La mescolanza con-
fusa e variopinta degli stimoli sensibili e spirituali deve essere cac-
ciata dal dominio del mondo, e al timone delle faccende umane
deve subentrare il solo spirito, puro e libero da ogni stimolo sen-
sibile. Il nostro sangue è scorso perché questo spirito avesse la li-
bertà di svilupparsi e di crescere fino a esistenza autonoma. Sta a
voi dare a questo sacrificio il suo significato e la sua giustificazio-

215
ne, mettendo questo spirito al dominio del mondo che gli è desti-
nato. Se questo non avviene, come ultima meta alla quale era di-
retto tutto il precedente sviluppo della nostra nazione, allora an-
che le nostre lotte diventano [497] una farsa passeggera e senza
senso, e la libertà di coscienza e di spirito da noi conquistata è una
parola vuota, se d’ora in poi non dovranno più esserci in genera-
le né coscienza né spirito”.

Vi scongiura la vostra posterità non ancora nata: “Voi vi gloriate


dei vostri antenati, vi richiamate a loro e vi unite con orgoglio a
una nobile schiera. Abbiate cura che questa catena non si strappi
con voi; fate in modo che anche noi possiamo gloriarci di voi e, at-
traverso di voi, come membro intermedio senza macchia, possia-
mo unirci a quella stessa schiera gloriosa. Non costringeteci a ver-
gognarci della nostra discendenza da voi, come se fosse una di-
scendenza inferiore, barbara e servile; non costringeteci a na-
scondere la nostra provenienza, o a escogitare un nome estraneo
e una discendenza estranea, per non essere respinti e umiliati sen-
za ulteriore appello. Il modo in cui sarete ricordati dalla storia di-
penderà dal modo in cui riuscirà la prossima generazione, che na-
scerà da voi: sarà onorevole, se essa testimonierà di voi in modo
onorevole; sarà vergognoso anche oltre il dovuto, se voi non avre-
te nessuna autentica posterità, e la vostra storia sarà fatta dai vin-
citori. Nessun vincitore è mai stato incline o illuminato abbastan-
za da rendere giustizia ai vinti. Quanto più egli vi abbassa, tanto
più egli si innalza. Chi può dire quante imprese, istituzioni eccel-
lenti, nobili costumi dei popoli del passato sono entrati nell’oblio,
perché i loro successori vennero sottomessi, e il vincitore ne ha da-
to notizia conformemente ai suoi scopi, senza poter essere con-
traddetto?”.

Perfino l’estero vi scongiura, nella misura in cui è ancora in grado


di capire se stesso e ha un occhio per il suo vero vantaggio. Sì, esi-
stono ancora in tutti i popoli spiriti che non possono ancora cre-
dere che le grandi promesse di un regno del diritto, della ragione
e della verità nel genere umano siano vane e un fatuo sogno, e che
perciò ritengono che la presente età del ferro sia solo un passag-
gio verso uno stato migliore. Costoro, e in essi tutta l’umanità mo-

216
derna, contano su di voi. Una gran parte di essi [498] proviene da
noi, gli altri hanno ricevuto da noi religione e ogni altra cultura.
Quelli, in nome del comune territorio della patria, che fu anche
loro culla, e che ci hanno lasciato liberamente; questi, in nome
della cultura che hanno ricevuto da noi come pegno di una feli-
cità più alta, ci scongiurano di conservarci anche per essi e per
amor loro come siamo sempre stati, di non far strappare dal nes-
so della generazione sorta di recente questo elemento per lei così
importante, perché non senta dolorosamente la nostra mancanza
quando, un giorno, avrà bisogno del nostro consiglio, del nostro
esempio, della nostra collaborazione verso la vera meta della vita
terrena.

In queste voci si mescolano tutte le epoche, tutti i saggi e i buoni


che mai abbiano respirato su questa terra, tutti i loro pensieri e
presentimenti di qualcosa di superiore, e vi circondano e solleva-
no a voi mani imploranti; perfino, se così si può dire, la provvi-
denza e il divino piano del mondo nella creazione di un genere
umano, piano che esiste solo per essere pensato da parte degli uo-
mini ed essere introdotto da essi nella realtà, vi scongiura di sal-
vare il suo onore e la sua esistenza. Se dovranno avere ragione
quelli che credettero che con l’umanità sarebbe dovuta andare
sempre meglio, e che i pensieri di un suo ordinamento e di una
sua dignità superiori non sono vuoti sogni, bensì la profezia e il
pegno della realtà futura; oppure quelli che continuano a sonnec-
chiare nella loro vita animale e vegetale, e si prendono gioco di
ogni slancio in mondi superiori – a voi è toccato di emanare un
giudizio definitivo su questa questione. Il vecchio mondo con il
suo splendore e la sua grandezza, così come con i suoi difetti, è
crollato, per la sua propria indegnità e per la violenza dei vostri
padri. Se in ciò che hanno mostrato questi discorsi c’è della verità,
allora tra tutti i popoli moderni voi siete quello in cui il germe del-
l’umano perfezionamento si trova nel modo più decisivo, e a cui
è dato di compiere il passo avanti nel suo sviluppo. Se voi in que-
sta vostra essenzialità andate a fondo, [499] con voi vanno a fon-
do anche le speranze di tutto il genere umano nella salvezza dal
baratro dei suoi mali. Non sperate e non consolatevi con l’opi-
nione campata in aria, che conta solo sulla ripetizione dei casi già
avvenuti, che una seconda volta, dopo il tramonto della vecchia

217
cultura, sulle rovine di quest’ultima ne sorgerà una nuova da una
nazione semibarbara. Nel tempo antico un simile popolo, dotato
di tutti i requisiti per questa destinazione, era presente, ed era ben
noto al popolo della cultura, ed è stato da essi descritto2; e questi
stessi, se avessero potuto ipotizzare il caso del loro tramonto, in
questo popolo avrebbero potuto scoprire il mezzo per ripristi-
narsi. Anche noi conosciamo bene l’intera superficie della terra, e
tutti i popoli che vivono su di essa. Conosciamo noi forse un po-
polo siffatto, simile al popolo capostipite del nuovo mondo, su cui
possiamo coltivare eguali attese? Io penso che chiunque non si
formi opinioni e speranze esaltate, ma pensi ricercando seriamen-
te, dovrà rispondere “no” a questa domanda. Perciò non c’è nes-
suna via di uscita: se sprofondate voi, sprofonda l’intera umanità,
senza speranza di ripristinarsi in futuro.

Questo era ciò che io, Onorevole Assemblea, volevo e dovevo an-
cora una volta, alla fine di questi discorsi, instillare in voi come
miei rappresentanti della nazione, e attraverso di voi a tutta la na-
zione.

2 Cfr. la Germania di Tacito.


Indice

Introduzione di Gaetano Rametta V

DISCORSI ALLA NAZIONE TEDESCA

Prefazione 3

Primo discorso. Considerazioni preliminari e sguardo


d’insieme 5

Secondo discorso. Sull’essenza della nuova educazione


in generale 20

Terzo discorso. Continua la descrizione della nuova


educazione 34

Quarto discorso. La diversità capitale tra i tedeschi


e gli altri popoli di provenienza germanica 48

Quinto discorso. Conseguenze della diversità indicata 63

Sesto discorso. Presentazione nella storia dei tratti


fondamentali dei tedeschi 77

219
Settimo discorso. Comprensione ancora più profonda
del carattere originario e tedesco di un popolo 91

Ottavo discorso. Che cos’è un popolo nel più alto significato


della parola, e che cos’è amor di patria? 110

Nono discorso. A quale punto dato nella realtà sia da


collegare la nuova educazione nazionale dei tedeschi 127

Decimo discorso. Per la determinazione più precisa


dell’educazione nazionale tedesca 141

Undicesimo discorso. A chi spetterà l’attuazione


di questo programma educativo? 156

Dodicesimo discorso. Sui mezzi per conservare noi stessi


fino al raggiungimento del nostro scopo principale 170

Sommario del tredicesimo discorso. Continuazione


delle considerazioni precedenti 184

Quattordicesimo discorso. Conclusioni generali 203

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