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filosofia_Ruyer_2017.

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raymond ruyer

LA SUPERFICIE ASSOLUTA
a cura di
Daniele Poccia

TEXTUS
EDIZIONI
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Realizzazione editoriale
Textus Edizioni

Progetto grafico
mindmade | Andrea Padovani

Consulenza editoriale
Stefania De Nardis

© Copyright 2018 Textus Edizioni Casa editrice


L’Aquila, via Cappadocia, 9
www.textusedizioni.it
Prima edizione febbraio 2018

ISBN 978-88-99299-12-5

Si ringrazia la casa editrice Puf di Parigi per avere concesso la


pubblicazione in questo volume dei contributi Éxpériences
mentales sur la vie et la mort, in «Revue de Métaphysique et de
Morale», 1953, 3, pp. 237-263 e Sur une illusion dans les théories
philosophiques de l’étendue, in «Revue de Métaphysique et de
Morale», 1932, 4, pp. 521-527.
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Indice

Prefazione
Una metafisica della forma 11
Daniele Poccia

Raymond Ruyer secondo Raymond Ruyer 55


Su un’illusione nelle teorie WlosoWche dell’estensione 77
Le sensazioni, sono nella nostra testa? 87
Tentativo di soluzione 123
‘SuperWci assolute’ e domini assoluti di sorvolo 141
Domini assoluti e legami 161
Il paradosso fondamentale 173

Appendice
Esperimenti mentali sulla vita e sulla morte 205
Il mistero della memoria secondo F. Ellenberger.
Recensione 251

Nota ai testi 265


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La superficie assoluta
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Prefazione
Una metafisica della forma

Tutti noi, senza nemmeno sospettarlo,


siamo portatori di un’enorme esperienza
embriologica: il processo del ricordare,
coronato dalla vittoria dello sforzo mnemonico,
è straordinariamente simile a quello della
crescita.
Osip Mandel’štam

Forma

Forma, formazione, informazione, isomorfismo. La famiglia


concettuale evocata da questa concatenazione di termini
suggerisce l’orizzonte speculativo di Raymond Ruyer
(Plainfaing 1902-Nancy 1987). La scoperta del Wlosofo
della natura francese è, infatti, assai semplice: la forma
non è mai soltanto un’astrazione, l’esangue estrapolazione
di pochi tratti salienti da una ben altrimenti concreta realtà.
Non è una simbolizzazione astrattiva. La forma è tutto ciò
che c’è di veramente sostanziale, nel reale – e anzi, è il
reale stesso, in tutta la sua autonoma consistenza. Il concetto
di superWcie assoluta (a cui il presente volume è dedicato:
articoli ed estratti di libri)1 non fa riferimento che a questo
singolare ‘spessore’ ontologico del formale. La forma è l’es-
sere nell’imponente opera ruyeriana (ventidue volumi e

1
Si veda la Nota ai testi, in chiusura del libro.

11
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più di cento articoli).2 Sarà questo l’aspetto che farà del


pensatore di Nancy (città dove ha vissuto e insegnato quasi
tutta la vita) un punto di riferimento per autori come Ge-
orges Canguilhem, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Lacan,
Gilles Deleuze e Félix Guattari.
2
Per una bibliografia completa del corpus di Ruyer, oltre che per una chiara,
prima introduzione al suo pensiero, si veda: F. Colonna, Ruyer, Les Belles Lettres,
Paris 2007. Dopo la compilazione di questa bibliografia è stato pubblicato l’ultimo
libro di Ruyer, redatto interamente nel 1983 ma non dato alle stampe dall’autore:
R. Ruyer, L’embryogenèse du monde et le Dieux silencieux, Klincksieck, Paris 2013.
Altre monografie a lui dedicate, ma più centrate su concetti specifici, sono: F.
Louis, J.-P. Louis, La philosophie de Raymond Ruyer, Vrin, Paris 2014; L. Meslet.,
Le psychisme et la vie: la philosophie de la nature de Raymond Ruyer, Harmattan, Paris
2005; P. GAGNON., L’ontologie stratifiée du champ axiologique: la cybernétique et la vie
dans la philosophie de Raymond Ruyer, éd. Université de Laval, 2005. Tra i diversi
articoli usciti negli ultimi anni (e non solo) in merito ad aspetti più specifici della
sua concezione: J.-C. Dumoncel, Les Mutations de Raymond Ruyer, in Chromatikon.
Annales de la philosophie en procès, 5, 2009; ID., La mètaphysique de l’evenement chez
Whitehead, Péguy et Deleuze dans son rapport à Ruyer, Simondon et Dupuy, in Chro-
matikon. Annales de la philosophie, 6, 2010; ID., Raymond Ruyer. Néo-finalisme. Ruyer
1952 selon l’Ordre des Raisons, in «Philopsis», rivista online:
http://www.philopsis.fr; P. Gagnon, Raymond Ruyer, la biologie et la théologie na-
turelle, in Chromatikon VII. Annales de la philosophie en procès, 2012; ID., Que reste-t-
il de la théologie à l’âge électronique ? Valeur et cybernétique axiologique chez Raymond
Ruyer, in Chromatikon IX. Annales de la philosophie en procès, 2013; P. Gambazzi, La
forma come sintomo e l’idea come costellazione problematica. Sul preindividuale e il
trascendentale nella critica dell’ilemorfismo: Merleau-Ponty, Simondon, Deleuze (ma
anche Plotino, Bruno e Ruyer), in «Chiasmi International», 7 (2005); R. Ronchi, Le
passé qui se souvient de nous: mémoire et vie. De Bergson à Ruyer, in La sinuosité du vi-
vant, éd. par P. D’Alessio, Hermann, Paris 2012; L. VAX, Introduction à la Méta-
physique de Raymond Ruyer, in «Revue de Métaphysique et de morale», LVIII, 4
(1953). Tra i numeri di rivista consacrati interamente a Ruyer, si vedano inoltre:
Les études philosophiques. Raymond Ruyer, éd. par F. Colonna, PUF, Paris 2007; Revue
Philosophiques de la France et de l’Étranger. Raymond Ruyer: l’appel des sciences, éd.
par F. Colonna, janvier-mars, 2013, PUF, Paris; Critique («Ruyer l’inclassable»),
804, Les Éditions de Minuit, Paris 2014; F. Colonna, F. Louis, Philosophia Scientiæ.
Raymond Ruyer: dialogues et confrontations, XXI, Cahier 2, Kimé, Paris 2017. Tra le
opere filosofiche che riservano un posto privilegiato alle idee di Ruyer, facendo un
uso critico e originale, si possono leggere infine: R. BARBARAS, Introduction à une
phenomenologie de la vie, Vrin, Paris 2008; R. Chambon., Le monde comme perception
et realité, Vrin, Paris 1974.

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L’ontologia formalista di Ruyer stabilisce allora, in


prima battuta, un punto fermo: pensare la forma è pensare
il legame che sussiste tra i suoi elementi – concepiti dap-
prima staticamente soltanto come un insieme di punti
nello spazio e nel tempo, ben localizzati a formare una
«struttura» attualmente data e funzionante secondo una
casualità di tipo meccanico; ricondotta invece successi-
vamente al suo dinamismo essenziale, al suo essere for-
mazione in atto, «attività organizzatrice di dati spazio-
temporali», che suppone perciò l’azione di un potenziale
in se stesso trans-spaziale e trans-temporale, che sorvola
e domina la struttura. In questo passaggio si misura tutta
la distanza tra il giovane Ruyer e quello più maturo, dal
secondo dopoguerra in poi. La distanza tra il Ruyer strut-
turalista e il Ruyer neoWnalista (Néo-finalisme è il titolo
del suo opus magnum del 1952). È questo passaggio che si
tratta qui di comprendere.
Cominciamo perciò dall’inizio. Ruyer esordisce sulla
scena WlosoWa francese con un libro, la sua tesi di dottorato
principale, dal titolo programmatico: Esquisse d’une philo-
sophie de la structure (1930). Già dalle primissime pagine è
enunciato, nello stile baldanzoso del giovane pensatore
(ha appena ventotto anni), la tesi-manifesto che nel libro
è sviluppata in tutti i suoi più piccoli aspetti, in forma si-
stematica: «Non c’è che una realtà di una sola specie: la
realtà geometrico-meccanica, la forma, la struttura. Tutta
la diversità del mondo viene solamente dalla diversità delle
forme».3 La prospettiva non potrebbe essere più chiara:
la diversità del reale è solamente questione di diVerenze
di grado. Le forme sono tutto ciò che è – e tutto ciò che è, è

3
R. Ruyer, Esquisse d’une philosophie de la structure, Alcan, Paris 1930, p. 2.

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forma, forma nelle sue più svariate disposizioni, combi-


nazioni, sovrapposizioni, connessioni, etc. Le forme si le-
gano tra di loro e sono intramate di legami – i legami sono
la forma. E ‘legami’, a questa altezza, signiWca soltanto una
cosa: legami Wsici, deterministici, implacabilmente relativi
gli uni agli altri, per quanto capaci di sussistere in piena
indipendenza rispetto a qualsiasi rappresentazione ‘per’
e ‘di’ un soggetto. Ruyer scopre da subito, infatti, che la
forma è la porta d’entrata per un realismo rigorosissimo –
un realismo che egli stesso non esita a deWnire «asso-
luto».4 La formula segreta di questo formalismo radicale
è quindi: la molteplicità dei legami è l’unità della forma –
esse sono assolutamente inseparabili. Monismo, insomma,
coincide qui con pluralismo.
La contraddizione è risolta, per il momento, ricorrendo
alla supposizione di un ‘fondo’ spaziale unico, estrema-
mente frastagliato e in cui gettano le proprie radici tutte
le altre forme: un fondo spaziale che coincide con il conti-
nuum spaziotemporale della Wsica relativistica, alla quale
Ruyer è ora particolarmente interessato e debitore. Questo
fondo è in se stesso inconoscibile – per quanto se ne possa,
e anzi se ne debba, postulare l’esistenza. Ma perché e come
emergono forme sempre diverse? La risposta, per il Ruyer
degli anni Trenta, non è ancora pronta. Man mano che ap-
profondisce questa ipotesi speculativa si veriWca però un
ben strano fenomeno: l’ipotesi si trasforma. La forma
perde sempre più i tratti della mera struttura: si dinamizza,
appunto. Diventa parte di un processo in cui la struttura
non è che un momento e per di più subordinato. Dapprima,
come accade in un lungo articolo in due parti del 1940,

4
R. Ruyer, Esquisse d’une philosophie de la structure, cit., p. 8.

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prende il nome di «individualità»5 con chiaro riferimento


alle entità studiate della biologia, assunte ormai a para-
digma dell’esistente reale (poco prima si era servito del
generico termine di «soggettività», distinguendo tra sog-
gettività coscienti e incoscienti). Dopo il 1945 – dopo i
cinque anni di reclusione trascorsi nel campo di prigionia
OXag XVII A, in Austria6 –, la forma cambierà ancora, sino
a diventare sinonimo di ‘formazione’ e, anche, di ‘morfo-
genesi’. Più speciWcamente, di ‘auto-formazione’ – là dove
il preWsso ‘auto’ sta da indicare il carattere radicalmente
non meccanicista del processo in questione – il suo esser
tutto fuorché il risultato di un vis a tergo, di una composi-
zione estrinseca di elementi. Forma assume il signiWcato
esclusivo di una coscienza che è essere e di un essere che è co-
scienza. Cosa è successo dunque nel frattempo?
Ruyer ha tirato le conseguenze, all’indomani dell’uscita
del suo primo libro, di un fatto incontrovertibile: ovvero,
che il modo di legame di quella forma che è la nostra sen-
sazione cosciente non può essere dello stesso genere del
legame delle altre forme – caratterizzate da ciò che deW-
nisce altrimenti una casualità «per contiguità e vicinanza»
(de proche en proche). Essa è sì qualiWcata da una modalità
di presentazione partes extra partes, ma tali parti non sono
assolutamente altre le une per le altre: hanno una loro
unità immanente (come accade paradigmaticamente nella
sensazione visiva, dove alla distinzione dei dettagli si as-
socia la perfetta uniWcazione). Qui, nell’estensione sen-
sibile in cui consiste per esempio il mio campo visivo,
5
R. Ruyer, L’individualité, 1a e 2a parte, in «Revue de Métaphysique et de
Morale», 3-4 (1940).
6
Tutte queste informazioni biografiche sono contenute nel primo testo della
presente antologia, Raymond Ruyer secondo Raymond Ruyer, cfr. infra, cap. I.

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deve vigere una modalità di sussistenza e anche di eYcacia


irriducibili a quelle della mera cosalità. O perlomeno, deve
esserci una qualche diVerenza – che non sia solamente di
grado, ma anche di natura (di genere) rispetto all’oggetto
percepito. Ruyer scopre insomma che la sensazione non è
la percezione. Se per ottenere una percezione occorre in-
fatti rispettare una serie di inaggirabili criteri meccanici
e Wsiologici, non vale lo stesso per la sensazione una volta
ottenuta – dalla quale non si deve esigere la stessa «messa
in scena» percettiva, analoga a quella per realizzare una
buona fotograWa. È in questo frangente che elabora, pro-
gressivamente, e propone con sempre maggiore chiarezza
la nozione di «superWcie assoluta» – e, in seguito, anche
di «sorvolo assoluto», comprendente le realtà tridimen-
sionali, i volumi. Di che cosa si tratta?
Il lettore delle pagine che seguono avrà modo di sco-
prire ampiamente il signiWcato speciWco di questa espres-
sione, apparentemente così paradossale (come può una
superWcie, sempre percepita su un certo sfondo e percepita
da qualcuno, essere in se stessa ‘assoluta’?). La prosa di
Ruyer è perspicua e densa di esempi, osservazioni chia-
riWcatrici, raVronti, etc.: ogni nostra spiegazione non fa-
rebbe che aggiungersi poco utilmente a un’esposizione in
se stessa cristallina. Basti qui dire che la sua scoperta con-
cerne la coscienza, in quanto non è anzitutto ‘conoscenza’
di qualche cosa – non ha primariamente un valore ‘se-
mantico’, come si direbbe oggi. Se ce l’ha, ce l’ha deriva-
tamente (in quanto «coscienza secondaria» delle aree ce-
rebrali deputate alla percezione del mondo esterno),
perché innanzitutto è appunto «legame» e legame attivo.
Legame sta qui a indicare infatti «l’integrazione senza

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confusione» (integration sans mélange)7 dei vari dettagli


che compongo un’estensione sensibile – indipendente-
mente dal canale sensoriale dal quale essa è generata (vista,
tatto, udito, etc.). Si tratta, come si diceva, di un’unità in-
timamente moltiplicata e di una molteplicità intrinseca-
mente uniWcata. Unitas multiplex. Ruyer si renderà non-
dimeno e molto presto conto che aYnché ciò sia possibile
bisogna pensare l’ontologia dei suoi (della superWcie) ‘ele-
menti’ diversamente da come egli stesso aveva fatto in un
primo momento. Questo insieme sensibile – che chiama
ancora «assoluto» o «vero» – è un insieme i cui membri
sono caratterizzati da una perdita di individualità parziale,
come deve per forza di cose avvenire tra le molecole e gli
atomi della colla perché possa eVettivamente incollare
(l’esempio è dello stesso Ruyer). Non sono insomma per-
fettamente localizzati nello spazio e nel tempo – i quali,
piuttosto, sono sorvolati senza dimensione supplementare
(senza prendere le distanze lungo una perpendicolare che
permetta a un soggetto di ricomprendere la sua esperienza
come fosse un oggetto qualsiasi) dalla superWcie assoluta
in cui consiste ogni coscienza. ‘Vero’ indica insomma la
natura puramente ‘formale’ del reale, vale a dire il suo es-
sere partecipabile ma non osservabile – lo si ‘intravede’ e
intravedendolo, lo si fa: evade il terzo escluso. Il modello
dell’ontologia ruyeriana è e rimarrà sempre la materia mi-
croscopica, così come è stata studiata dalla meccanica
quantistica. Una materia che assomiglia ben poco alla ma-
teria con cui traYchiamo quotidianamente. Una materia
che è più simile a una mente – o al massimo, a un organi-

7
R. Ruyer, Paradoxes de la conscience et limites de l’automatisme, Albin Mi-
chel, Paris 1966, p. 11, cfr. infra, p. 176

17
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smo. Una materia che non è spaziotemporalmente loca-


lizzata una volta per tutte e non ha quelle caratteristiche
di impenetrabilità, opacità e molarità proprie del mondo
macroscopico: esiste diVusamente, traslucida, unitaria e
molteplice a un tempo.
Ecco, qual è allora l’intuizione che balena nella testa di
Ruyer. La superWcie assoluta è «la chiave non solamente
del problema della coscienza, ma del problema della vita».8
L’ontologia cambia e cambiando si estende, metodica-
mente. Ora non è più solo la coscienza ad avere un modo
di legame speciale – sono tutte le realtà veramente indivi-
duali, dall’atomo, alla molecola, agli esseri viventi tutti e
Wnanche a Dio. Il resto è un puro aggregato, una folla, un
ammasso, questo sì costituito da legami «per contiguità e
vicinanza» – come una pietra o una nuvola. Con una coppia
di termini concettuali che mutuerà da François Meyer e
che avranno una larga fortuna grazie a Deleuze e Guattari:
rispettivamente, «molecolare» contrapposto a «molare».
Non si tratta più solamente di dire che la forma è l’essere,
ma anche che la forma dell’essere è una forma di un certo
genere, analoga in tutto a quella del nostro campo visivo. Ruyer
individua così il suo isomorWsmo più importante, che lo
accompagnerà lungo tutta la sua lunga traiettoria intellet-
tuale: lo sguardo è reale, poiché il reale è già sempre uno
sguardo – per quanto sia uno sguardo senza punto di vista.
È auto-visione.
Se non si tratta insomma in senso stretto di conoscenza,
comunque, la coscienza – ovvero, ogni esistente propria-
mente detto – è apprensione immediata di una qualche
realtà, di cui è immediata ‘messa in immagine’ – con la

8
R. Ruyer, Néo-finalisme, PUF, Paris 2012 (1952), cfr. infra, p. 147.

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clausola fondamentale che non c’è però nessuno a mettere


in immagine. La coscienza si conosce come «uno spetta-
colo senza spettatore».9 Il realismo non potrebbe essere più
diretto, perché l’oggetto è fatto fuori e ridotto a semplice
fenomeno, insieme al soggetto – è etimologicamente qual-
cosa che sussiste solamente in quanto ‘posto di contro’ e
non ha perciò alcuna autonomia esistenziale: esiste ‘per’...
L’immagine, aveva già detto Ruyer nel 1932, è niente di
meno che «la cosa in sé».10

Formazione

Pian piano, e soprattutto a partire dagli Élements de psy-


chobiologie (1946), scritti praticamente durante la lunga
prigionia, e poi ancora più nettamente con Néo-finalisme
e tutte le opere successive, emerge un’ipotesi ulteriore. È
l’ipotesi del «tematismo», o «verticalismo», come anche
lo deWnisce. L’ipotesi di una regione della natura, non
spaziale e non temporale, che interviene però in ogni pro-
cesso attuale di formazione in guisa di temi speciWci che
ne dirigono lo svolgimento – temi che Wgurano nell’at-
tualità alla maniera di «un bianco da riempire», di una
lacuna assiologica che, come un magnete, orienta il cam-
biamento. Scriverà più tardi:

Solo l’insieme ‘tema-forma’ è. Isolare i due termini è


condannarli alla nulliWcazione. La formazione attiva te-

9
R. Ruyer, Paradoxes de la conscience et limites de l’automatisme, cit., p. 20.
10
R. Ruyer, Sur une illusion dans les théories philosophiques de l’étendue, in
«Revue de Métaphysique et de morale», 4 (ottobre-dicembre 1932), p. 527,
cfr. infra, p. 86.

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matica, essa solo è. La sua scomposizione convenzionale


in ‘tema puro’ e ‘forma pura’ lascerebbe sussistere due
simulacri.11

Siamo qui dunque ormai lontanissimi dall’attualismo Wsi-


calista degli esordi – attualismo che nel suo ostinato e sin-
golare olismo lasciava tuttavia impregiudicata la questione
concernente la genesi particolare delle forme. Qui, l’attuale
è commisto essenzialmente al potenziale – al tema, che avvi-
luppa e solca il primo, almeno quanto l’attuale retroagisce sul
potenziale che lo domina. Anche una molecola, attività au-
tonoma di auto-formazione, ha il suo tematismo speciWco.
C’è un Wnalismo della materia, come c’è un Wnalismo pro-
prio dell’azione umana. Di una molecola, dunque, come
di tutte le morfogenesi, siano esse organiche, tecniche,
psichiche, ideali, etc. È il concetto di feed-back assiologico
a dare conto di come ciò possa accadere. Ruyer è interessato
precocemente alla cibernetica e pubblica un libro pione-
ristico, in merito: La cybernétique et origine de l’information
(1954). Il feed-back assiologico, né feed-back negativo (re-
troazione di controllo omeostatico e di ristabilimento del-
l’ordine ottimale), né positivo (di ampliWcazione delle de-
viazioni e dunque morfogenetico), è piuttosto entrambi:
un controllo che modiWca lo status ottimale nel mentre
che si esercita come controllo; una deviazione che resta
incoativa, in statu nascendi, perché si esplica incessante-
mente in un’opera di riassestamento dell’ordine. Lo
schema logico di questa singolare processualità è invero
piuttosto chiaro: c’è retroazione assiologica là dove il po-

11
R. Ruyer, La genesi delle forme viventi, Bompiani, Milano 1966 (1958), p.
274.

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tenziale diventa incessantemente parte di un potenziale


di tipo logico superiore, là dove esso, in breve, si accresce
e si arricchisce, man mano che si realizza come attuale – e
l’attuale muta, altrettanto continuamente, progressiva-
mente e simultaneamente al mutare del potenziale. Detto
in termini mereologici, il tutto ‘tipico’ (il tema) diventa
parte di un tutto superiore (di un temai), a seguito del-
l’azione di ritorno che la forma attuale, la struttura sorvolata
che ne costituisce un’occorrenza, esercita su di esso. «Ca-
sualità ascendente» (come quella alla base dell’espressione
linguistica) – di contro alla «causalità discendente» (per
esempio: la comprensione linguistica) del tema rispetto
alla forma. I due momenti non sono separabili, appunto.
Le due causalità accadono contemporaneamente. Sempre.
La formazione è strutturazione in corso.
Ruyer ha avuto allora il merito di pensare la conoscenza
come un essere – e poi anche come l’Essere stesso, spo-
gliandola però di tutti gli attributi puramente rappresen-
tazionali che la WlosoWa le addebita solitamente. Anche
conoscere è un modo di esistere – perché non c’è esistenza
che non sia in qualche modo auto-conoscenza (ma non
«osservazione» a distanza!). La superWcie assoluta ridà
alla cognizione una dignità che forse non ha mai avuto in
sede speculativa. La conoscenza è un fatto come gli altri,
per quanto sia il fatto capitale – quello sul cui modello
vanno pensati tutti gli altri, ma non perché gli altri ne ab-
biano bisogno per essere (non perché debbano essere ‘co-
nosciuti’, al passivo, per essere), ma perché conoscere è es-
sere. Il formalismo ruyeriano è tutto qui. La forma è l’essere,
come si diceva. La forma, soltanto la forma: né puramente
spirituale, né puramente materiale. Formale. Il realismo di
Ruyer è dunque integrale: se tutto è forma, quando la forma

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è intuita direttamente – come nel caso del nostro campo


visivo – è conosciuta davvero in ogni suo aspetto, in quanto
tale, senza residui. È tutto il suo ‘aspetto’ – eidos compiu-
tamente aVerrato e, in concreto, eidos ‘realizzato’. Essere
è conoscere l’essere che si è – e basta.
Per tutto il resto, c’è l’inferenza analogica (l’isomor-
Wsmo, strumento matematico convocato dallo stesso
Ruyer) o la partecipazione allo stesso tema d’azione, su
base di una sorta di «animazione analogica». L’analogia
con il nostro campo di coscienza, là dove vi sono i segni
esteriori del Wnalismo, della strutturazione gerarchica che
caratterizza per esempio un organismo, è infatti più che
legittima: è quasi naturale. Ma partecipare a un tema, e
cioè agire in conformità a una stessa norma, è ancora di
più: è essere la formazione che da quel tema dipende – e in
qualche modo, ‘conoscere’ tutto ciò che vi aVerisce, in una
sostanziale indiscernibilità tra stesso analogico e stesso
numerico, tra «altro-io» e «io dell’altro». Questa è sem-
plicemente la vita, con i suoi sdoppiamenti e uniWcazioni,
mitosi di sviluppo e di riproduzione, meiosi legata all’in-
contro dei gameti, così come la psicologia, come le sue
morfogenesi ideali, fatte di associazioni e diVerenziazioni.
La vita, insomma, in quanto è più antica dell’organismo e
concerne anche i processi di formazione della materia mi-
croscopica.

L’alterità numerica non è assolutamente diVerente


dall’alterità di cambiamento. Ci sono delle transizioni
possibili tra lo stesso numerico e lo stesso analogico, tra
il tempo, regione dello stesso numerico, e lo spazio, re-
gione dello stesso analogico. Nell’ordine biologico, ci
sono tutte le transizioni possibili tra le divisioni cellulari

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di sviluppo e le divisioni cellulari di riproduzione. Delle


circostanze inWme possono decidere se tale divisione
cellulare fornirà la diversità dei tessuti e degli organi
dello stesso individuo, o fornirà due o più esseri gemelli.
Inversamente due cellule, già separate spazialmente,
possono unirsi e ridiventare un solo essere. Allo stesso
modo, nell’ordine dell’esperienza psicologica, l’‘io di un
altro’ non è essenzialmente diVerente da ‘io altro’.12

Vale a dire che due realtà distinte nello spazio (l’«alterità


numerica») non necessariamente diVeriscono da due re-
altà distinte nel tempo (l’«alterità di cambiamento») – al
contrario di quanto riteneva invece Gottfried Leibniz. Che
tanto nell’ordine psicologico che in quello biologico le
cose che sono solo ‘somiglianti’ possono divenire, in de-
terminate circostanze, eVettivamente la stessa cosa e vi-
ceversa – secondo un principio e una dinamica che lo psi-
coanalista cileno Ignacio Matte Blanco ha rintracciato come
una delle caratteristiche fondamentali della singolare «bi-
logica» dell’inconscio (il quale tratterebbe appunto le ana-
logie come identità e gli individui come classi: in una pa-
rola, si comporterebbe come un sistema dinamico dove
due cose distinte possono divenire una e una cosa sola può
divenire due cose distinte).13 Per un formalismo siVatto,
allora, il problema dell’intersoggettività non si pone: in
Dio – Valore dei valori, inconoscibile e persino non par-

12
R. Ruyer, Leibniz et ‘Mr. Tompkins au pays des merveilles’, in «Revue Phi-
losophique de la France et de l’Étranger», t. 147 (1957), p. 30.
13
I. M. Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica (1975),
Einaudi, Torino 2000. Sarebbe interessante condurre uno studio comparativo
sistematico tra la descrizione dei meccanismi inconsci fornita da Matte Blanco
e la psico-biologia di Ruyer – lavoro che ci riserviamo di fare in un’altra sede.

23
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tecipato – siamo tutti lo stesso e siamo tutti assolutamente


distinti gli uni dagli altri, in una perfetta compenetrazione,
appunto, di unità e molteplicità. In Dio, forma ed essere
di tutte le forme coincidono ancora, senza perdere in di-
scernibilità. Dio forse non si conosce come tale – come
Dio – ma si conosce in tutte le altre forme, solo come tutte
le forme, senza sapersi come un ‘io’. Conoscere veramente
è partecipare e non osservare dal di fuori, come si fa con
un oggetto.
Ruyer è stato un Wlosofo classico, che ha fatto culminare
le sue riXessioni da un’autentica teologia. Ma questa teo-
logia ci presenta un Dio «improvvidente», ‘inconscio’, in
ultima analisi, come nelle più radicali teologie speculative
del passato (quella di Giovanni Scoto Eriugena prima di
tutte). Dall’ameba, al virus, passando per la pianta, l’uomo
e le specie, un solo canto sembra eVondersi infatti per l’uni-
verso: è il canto di quelle melodie che – con una metafora
presa a prestito dall’etologo estone Jacob Von Uexküll –14
sono gli stessi organismi, melodie che si cantano da se
stesse, si odono da se stesse e non sono di conseguenza
mai del tutto riducibili a semplici macchine, combinazione
di meccanismi in cui l’azione si propaga per contiguità e
vicinanza. L’organismo è il massimamente formale, nel-
l’unico senso che questa parola può avere: la forma è un
formarsi da sé – come in una melodia. Dove si trova infatti
l’organismo, in quale delle molte parti che compongono
il suo corpo è collocato, se non in ciascuna e in nessuna in
particolare? È una forma, appunto: sussiste senza avere

14
«Una melodia che si canta da sé»: J. Von Uexküll, citato da M. Merleau-
Ponty, La Natura. Lezioni al College de France 1956-1960, Raffaello Cortina, Milano
1996 (1995), p. 25 e da R. Ruyer, Néo-finalisme, cit., p. 217.

24
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una localizzazione precisa e suppone tuttavia, in un rap-


porto che è di diVerenza e di necessaria implicazione,15
una struttura di cui è forma, che sorvola come forma. È
per metà ideale e per metà ‘materiale’, nel senso corrivo
della parola. Ovvero: il reale è più che reale: è potenzialmente
potenziale. L’ontologia di Ruyer sembra potersi riassumere
in questa sentenza: essere è essere una possibilità di possibilità,
possibilità che si accrescono realizzandosi – feed-back assio-
logico. Si legge nella trascrizione di una lezione che tenne
ai suoi compagni di prigionia, nel 1940:

Per lo spirito metaWsico, la visione del Tutto deve incor-


porarsi a ogni esperienza e a ogni atto; e ogni esperienza,
ogni atto modiWcano impercettibilmente la Realtà nel
suo insieme. […] Il senso del Tutto, che caratterizza lo
spirito metaWsico, deve dunque essere preso nel signiW-
cato forte della parola. Si tratta, per il metaWsico, del
Tutto del Reale e non solamente del Tutto dell’attuale.16

Questa visione è una visione che partecipa di ciò che vede


e che quindi lo cambia. La visione, metafora da sempre
del pensiero nella sua più alta e più nobile forma, è qui
ben altra cosa dal semplice ricevere passivamente il dato
della percezione. È formare il dato, nel mentre che lo si riceve.
La vista, compresa secondo un modello di intelligibilità
diverso da quello abituale, fornisce un nuovo paradigma

15
Per questa fondamentale relazione d’implicazione del condizionato da
parte dell’incondizionato, nella pur necessaria differenza di natura, si veda: R.
Ronchi, Filosofia della comunicazione. Il mondo come resto e teogonia, Bollati Bo-
ringhieri, Torino 2008.
16
R. Ruyer, L’esprit philosophique, in Revue Philosophiques de la France et de
l’Étranger. Raymond Ruyer: l’appel des sciences, cit.

25
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per il pensiero medesimo. Pensare è formare, dare forma


– nel mentre che la si ‘subisce’, come forma. Anche il pen-
siero può essere una forma, dunque. E anche la forma è
sempre già pensiero. Che sia la forma di una pianta o di
un Wlosofo. L’intelligenza, aVerma Ruyer, è l’attributo me-
glio diVuso nell’universo. Ma se la forma è il pensiero, la
forma dell’essere stesso è il pensiero e il pensiero, dunque,
è la forma, ancora, dell’essere in quanto tale. La forma ri-
cuce una volta per tutte la discrasia tra il piano ontologico
e il piano gnoseologico: è identità di ratio cognoscendi e
ratio essendi. La forma si pensa, dunque. La forma si cono-
sce nel mentre che si fa – e quindi non si conosce mai una
volta per tutte, pur nella perfetta apprensione di sé, mo-
mento per momento. È e basta – perché solo così può ba-
stare a se stessa. Il realismo di Ruyer salva i fenomeni fa-
cendo di essi l’essere, tutto l’essere e nient’altro che
l’essere. Un essere che è ciò che diviene e diviene ciò che è:

La realtà degli organismi e degli esseri attuali suppone


un essere non parmenideo. Un’azione o una formazione
autentica sfuggono al dilemma parmenideo dell’essere
o del non-essere. L’essere opposto al non-essere non
può caratterizzare un ‘essere attivo’, giacché un ‘essere
attivo’ per deWnizione cerca di essere e non è. Se fosse,
semplicemente e puramente, non agirebbe.17

Che ‘cerca di essere’, appunto: come una possibilità che


resta sempre tale, come una possibilità che si moltiplica
incessantemente in altre possibilità, all’inWnito, come un
inWnito non numerabile, che rimane sempre ‘completa-

17
R. Ruyer, La genesi delle forme viventi, cit., pp. 273-274.

26
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bile’, sempre attualizzabile. Come una forma, insomma,


che rimane formale, soltanto formale. E che cresce, per
rimanere una pura forma: partecipabile e non osservabile,
come quell’embrione che per Ruyer è il modello di tutti
gli esseri – perché continua a esitare, per dir così, sempre
sul punto di essere. Essere nascente. Essere che sta na-
scendo, «qui-ora»: ininterrottamente. L’embriologia è
per il Wlosofo francese la vera scientia scientiarum, la scienza
da cui attingere tutte le analogie per comprendere gli altri
processi di formazione, per illustrare tutte le «forme
vere», come anche deWnisce le morfogenesi. Asseriva giu-
stamente l’epistemologo e storico delle scienze del vivente
George Canguilhem:

In sostanza, il vitalista classico ammette che l’essere vi-


vente è inserito in un mondo Wsico, alle cui leggi costi-
tuirebbe un’eccezione. È qui, a nostro avviso, il peccato
WlosoWco imperdonabile. Non può esistere un impero
dentro un altro impero, altrimenti non c’è più nessun
impero, né come contenente né come contenuto. Quel
che rimane è una WlosoWa dell’impero, quella cioè che
riWuta la ripartizione, l’imperialismo. L’imperialismo
dei Wsici o dei chimici è quindi perfettamente logico:
esso spinge Wno in fondo l’espansione della logica, ossia
la logica dell’espansione. Non si può difendere l’origi-
nalità del fenomeno biologico, e di conseguenza l’origi-
nalità della biologia, delimitando entro il terreno della
Wsica e della chimica, entro un mondo d’inerzia e di mo-
vimenti determinati dall’esterno, delle isole di indeter-
minazione, delle zone di dissidenza, dei focolai di eresia.
Se l’originalità del biologico va rivendicata, deve trattarsi
dell’originalità di un dominio sull’intero dell’esperienza

27
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e non su degli isolotti nell’esperienza. Paradossalmente,


il vitalismo classico peccherebbe, in deWnitiva, soltanto
di eccessiva modestia, della paura a universalizzare la
sua concezione dell’esperienza. Quando si riconosce
l’originalità della vita, si deve ‘comprendere’ la materia
nella vita e la scienza della materia, che è la scienza sem-
plicemente, nell’attività del vivente.18

Ma non è esattamente questo quanto ha fatto Ruyer – met-


tendo da parte ogni modestia ed estendendo sull’intero
dell’esperienza il proprio dell’esperienza vivente?

Informazione

La forma, allora, cos’è? La risposta non potrà che essere


la seguente: la forma è in-formazione. L’approdo di Ruyer è
perciò invero piuttosto evidente. Consiste in una riattiva-
zione, contro il signiWcato moderno dell’espressione, del
signiWcato antico (per la precisione, etimologico-aristo-
telico) della parola ‘informazione’. Non più semplicemente
misura della riduzione del grado di incertezza di un sistema
dinamico (in funzione della varietà di alternative d’‘azione’
che esso presenta), avente dunque una portata eminente-
mente (questa è l’accezione tecnica che il concetto assume
in teoria dell’informazione); ma modo di sussistenza pro-
prio del reale, forma stessa delle cose – e anzi, processo
stesso di auto-formazione dell’essere reale. In questa mossa,
apparentemente retrograda, si conWgura un’opportunità
di pensiero che, per il suo carattere anti-moderno, appare

18
G. Canguilhem, La conoscenza della vita, Il Mulino, Bologna 1976, p. 141.

28
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oggi – in un’epoca in cui la nozione di «informazione»


sembra attrarre di nuovo l’attenzione degli scienziati 19 –
particolarmente promettente. Dire che il reale è formale
signiWca allora che esso si fa, in tutti i sensi della parola,
come una forma che non esiste se non in quanto continua
a formarsi: essere, conoscere, osservare: in ogni caso è il
reale che si sta facendo: la forma è una concatenazione di
strutture che vertono su altre strutture, tale per cui ogni
struttura è forma per ogni struttura successiva. L’informazione
è dunque un modo di farsi del reale – sia essa ‘in-forma-
zione’ di una macchina o di un organismo: l’informazione
è auto-informazione, informazione dell’informazione: la
creazione di una struttura non è a sua volta infatti un fe-
nomeno strutturale – ma rigorosamente formale: ne va di
una struttura di strutture, Wnite nel caso di una macchina,
inWnite in senso ‘numerabile’ (isomorfo all’insieme in-
Wnito e discreto dei numeri naturali) nel caso di un orga-
nismo.
In tal senso, la forma implica una serie di paradossi
che ne rivelano il carattere ‘sur-logico’. È il rovescio della
logica, insomma. Questi paradossi ben noti agli studiosi
di teoria degli insiemi, così come a coloro che si occupano
di pragmatica del linguaggio e di teoria dei sistemi, con-
cernono essenzialmente l’indiscernibilità di classe ed ele-
mento in talune formule linguistiche o situazioni concrete.
La più celebre, perché più antica, è senz’altro l’antinomia
del Mentitore: ‘Io sto mentendo’. Ma la vera formula au-
toreferenziale che illustra questo tipologia di auto-appar-
tenenze è piuttosto oVerta da enunciati del genere: ‘Questa

19
C. Rovelli, La realtà non è così come appare. La struttura elementare delle
cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, in particolare pp. 207-223.

29
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frase è vera’ – vera se vera e falsa se falsa e, dunque, prag-


maticamente sempre vera. Là dove un insieme è anche un
suo elemento, si produce infatti uno sdoppiamento di ele-
mento e insieme che li rende propriamente inaVerrabili
– e destinati così a una continua oscillazione bipolare tra
particolare e universale – tra classe, appunto, e individuo,
che sancisce l’indecidibilità del punto d’arresto dell’oscil-
lazione stessa. In termini insiemistici, la situazione di un
insieme che è elemento di se stesso (se, secondo il «prin-
cipio di comprensione» enunciato da Gottlob Frege, ogni
predicato – e cioè, ogni concetto – determina un insieme)
è tale per cui non esiste un fattore indipendente per de-
scriverne lo status (se dipende da se stesso dipende da se
stesso, insomma). Come succede, appunto, in un algoritmo
ricorsivo di cui non è stata Wssata la condizione di termi-
nazione (stabilita da particolari valori di input). Il soggetto
e l’oggetto, l’osservatore e l’osservato, in poche parole,
continueranno a scambiarsi il posto all’infinito (nel senso
potenziale dell’espressione), senza che si possano deter-
minare le loro reciproche posizioni. E a poco vale, a tale
proposito, evocare il ristabilimento dell’equilibrio che si
può attingere a un livello maggiore di astrazione (oggetti-
vando il paradosso all’interno di un tipo logico superiore
a quello che ha innescato il circolo vizioso): anche qui, se-
condo l’elementare constatazione circa l’incompletezza di
ogni sistema formale (il suo contemplare almeno una pro-
posizione il cui valore di verità non può essere determi-
nato), ci sarà occasione di incontrare ogni volta di nuovo
un inedito punto di indecidibilità. Un insieme che si auto-
appartiene è un ‘insieme vero’, a condizione però si intenda
l’oscillazione tra universale e particolare non più nei ter-
mini di un inWnito potenziale, quanto, piuttosto, di un

30
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vero inWnito potenziale - un inWnito tutto dato e per tale


motivo allo stesso tempo e universale e particolare.
È insomma questa situazione di impasse, apparente-
mente esiziale, che l’indagine di Ruyer valorizza e converte
in risorsa. Se il suo interesse per la cibernetica è a dir poco
precoce, la questione che la disciplina in questione portava
all’ordine del giorno (l’origine, appunto, dell’informazione)
si può dire sia stata da sempre la questione che più di ogni
altra lo ha interrogato. Fin dalla pubblicazione della sua
prima fatica (l’Esquisse), Ruyer si rende conto di come sia
necessario distinguere radicalmente tra il modo d’essere
dell’osservatore e quello dell’osservato. Con il suo linguag-
gio, tra la ‘sguardo sulla mappa’ e la ‘mappa di carta’. Scrive
in un testo riepilogativo della sua traiettoria intellettuale:

Non appena terminato il volume, ebbi il timore di non


aver spiegato a suYcienza il punto capitale, ovvero che
la coscienza, lo ‘sguardo sulla mappa’, era sì un sistema
strutturale, esattamente come la mappa di carta e come
il paesaggio geologico. Scrissi diversi articoli su questo
tema, cercando di deWnire meglio la nozione di ‘super-
Wcie assoluta’, alla quale mi riferivo implicitamente e
che per me conteneva tutto ciò che c’era nella coscienza.20

Ma si rende anche presto conto che l’osservazione, a ben


vedere, è comunque un ‘essere’ e non un punto metaWsico,
supposto libero di muoversi come un’ape nel campo oVer-
togli dalla propria osservazione. Si rende conto in breve
che l’osservatore osserva se stesso – come un insieme che

20
R. Ruyer, Raymond Ruyer par lui-meme, in «Les études philosophiques»,
1, 80 (2007), PUF, Paris, cfr. infra, p. 59.

31
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è anche il proprio elemento. L’unione di queste due condizioni


è lo specifico della forma. Di qui a imbroccare nel concetto
di ‘superWcie assoluta’, quale concetto cardine, e per molti
versi esclusivo, con cui aVrontare lo statuto della coscienza,
intesa come scaturigine unica dell’informazione, il passo
era allora breve. Quelle due parole, ‘superWcie’ e ‘assoluta’,
gli permetteranno in realtà di costruire un palinsesto teorico
fondato appunto sull’intuizione dell’irriducibilità dell’essere
della coscienza alla coscienza dell’essere. Per dirla in altri ter-
mini, sull’intuizione del carattere derivato e non originario
dell’intenzionalità che i fenomenologi (da Edmund Husserl
in poi) rintracciano invece come il fundamentum inconcus-
sum del pensiero e dell’essere – e più precisamente, della
correlazione reciproca di essere e pensiero come assoluta-
mente inaggirabile. Sarà allora in tale conteso che la nozione
di ‘informazione’ acquisterà un senso rinnovato e cruciale.
Una volta stabilita l’impossibilità di discernere tra l’osser-
vatore e l’osservato relativamente al campo di coscienza, è
l’eventualità stessa del circolo vizioso (ma anche, di un
mero feed-back meccanico, quali sono sia il negativo che il
positivo) a essere assunta ancora a realtà che si informa
nella stessa misura in cui informa l’altro da sé, e viceversa,
di un informare l’altro da sé che è anche sempre un infor-
marsi. Il feed-back assiologico non accade nella successione
spazio-temporale.
La scaturigine prima del fondamentale concetto di su-
perWcie assoluta è allora, in ultima analisi, in una riXessione
sull’autoreferenzialità. Ruyer non lo dice apertamente, ma
è quanto emerge da una lettura non ingenua del suo primo
libro. Il punto nodale della sua argomentazione, di fatto
autocritica, si enuncia in poche parole: dato un mondo in-
teramente meccanico, fatto solamente di strutture spazio-

32
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temporali, geometricamente deWnite e capaci di montarsi


l’una con l’altra, quale è lo statuto di tale visione della realtà
(lo ‘sguardo sulla mappa’)? Lo scoglio contro il quale si
arena irrimediabilmente ogni riduzionismo consiste nel
non poter ridurre a sua volta la concezione che incarna –
dovendo essa, a rigore, essere una ‘cosa’ accanto alle altre
cose. Almeno un essere, quello di colui che enuncia tale
‘verità’, deve escludersi dall’ambito di validità della sua
spiegazione, senza tuttavia costituire una vera eccezione
rispetto a esso. Ruyer esprime questa situazione intima-
mente aporetica ricorrendo al cosiddetto ‘cogito assiologico’.
Preso a prestito dal Wlosofo bretone Jules Lequier, questa
prova è presentata addirittura come «perfettamente in-
confutabile».21 Si tratta di una deWnizione della libertà.
Si sa, non c’è forse nozione più diYcile da pensare e
antinomica di quella di ‘libertà’. Eppure, Ruyer ne dà una
caratterizzazione destinata, non fosse per la scarsa diVu-
sione del suo pensiero, a fare storia. Il cogito assiologico
stabilisce infatti un primato di quanto si potrebbe chiamare
il primato dell’etica sulla verità – (o se si vuole, un primato
indicante l’esistenza di una ‘verità etica’ più antica della
verità epistemica), che è al cuore di tutta la sua meditazione.
Questo primato concerne il carattere primitivo, appunto,
dell’azione rispetto alla conoscenza – o, come si dovrebbe
dire più precisamente, della conoscenza attiva rispetto alla
mera ‘osservazione’ passiva. In una parola, dell’informa-
zione nel senso del ‘mettere in forma’, rispetto all’idea
moderna di ‘informazione’ come ricezione di dati che so-
lamente descrivono (‘misurano’) le possibilità di un sistema
(i suoi cosiddetti ‘gradi di libertà’). ‘Etica’ sta qui nel suo

21
R. Ruyer, Néo-finalisme, cit., p. 2.

33
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signiWcato etimologico di ethos, ‘abitudine’ o ‘abito’ con i


quali ci si conduce. Scrive in eVetti Ruyer:

La coscienza – o l’unità x di sorvolo non dimensionale –


malgrado un pregiudizio inveterato, non è essenzial-
mente percettiva o conoscitiva di strutture spazio-tem-
porali. È essenzialmente attiva e dinamica, organizzatrice
di strutture spazio temporali che gli sono date nel suo
campo di sorvolo, strutture sia organiche sia sensoriali.22

Suona allora il ‘cogito assiologico’ nella sua originaria for-


mulazione da parte di Lequier: «Cerco una prima verità,
dunque sono libero».23 La libertà (senz’altro ‘relativa’: non
si tratta di una libertas indifferentiae) è per Ruyer infatti un
dato universale. Non si può negare questo genere di verità,
senza con ciò auto-contraddirsi performativamente – non
si può avere per Wne l’intenzione di aVermare l’assenza di
ogni Wne nell’universo (senza sconfessare in actu exercito
ciò che si dice in actu signato). L’auto-contraddizione prag-
matica, o performativa che dir si voglia, ha insomma tanto
la funzione di rivelare l’incontestabilità assoluta del fonda-
mento sempre agente della comunicazione24 («Non si può

22
Ivi,p. 117.
23
Il quale aveva sentenziato, per la precisione: «Cerco una prima verità,
dunque sono libero. La libertà è la prima verità che cercavo, poiché la ricerca
della conoscenza implica la libertà, condizione positiva della ricerca» (R. RUYER,
Néo-finalisme, cit., p. 5).
24
Come fa notare Karl Otto Apel, «Se non posso contestare qualcosa senza
cadere in una auto-contraddizione attuale [i. e. performativa] e insieme non
posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-for-
male, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali
dell’argomentazione, che devono esser state già sempre riconosciute, affinché
il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso» (K. O. APEL,
Etica della comunicazione, Jaca Book, Milano 1992, p. 34).

34
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non comunicare»,25 facevano notare i teorici di Palo Alto),


e quindi della libertà come presupposto di ogni atto comu-
nicativo (di senso), quanto il produrre un crampo nel sog-
getto che lo vive e che lo vive come un conXitto tra due piani
supposti simmetrici della comunicazione stessa. ‘Supposti’,
abbiamo scritto, poiché la contraddizione nasce dalla se-
parazione su due piani di quanto si dispone invece su l’unico
piano, aVatto non simmetrico a quello semantico, della
pragmatica del discorso di quanto va correttamente distinto
perché aVerente non al «soggetto dell’enunciato», ma al
«soggetto dell’enunciazione».26 Il piano pragmatico è sem-
pre primo e sovra-determina quello semantico, che è a esso
immanente. Prendere atto di ciò signiWca uscire dalle pastoie
della meta-comunicazione, che si dipana senza via d’uscita
lungo la regressione inWnita dei diversi tipi logici (dell’al-
ternanza di linguaggio-oggetto e meta-linguaggio). SigniWca
mettere sotto scacco veramente lo stesso scacco cui altri-
menti si va incontro quando si considera l’inclusione del
sistema osservante in quello osservato (che è lo stesso della
formulazione di un enunciato in cui il piano dell’uso e quello
della menzione sono irrimediabilmente confusi, come ac-
cade nell’antinomia del Mentitore). SigniWca inWne accor-
gersi che la libertà non è simmetrica al suo opposto: la libertà
è un assoluto incircoscrivibile, che contiene se stessa in-
sieme al proprio altro. È la simmetria della simmetria e della
non simmetria tra la libertà e la non libertà stesse.
Qui, insomma, l’incontestabile inconfutabilità del ‘cogito
assiologico’ asserita da Ruyer va presa alla lettera: la libertà
25
P. Watzlawick, J. Helmick Beavin, D. D. Jackson, Pragmatica della comu-
nicazione umana, Astrolabio, Roma 1997.
26
Cfr. É. Benveniste, Essere di parola, Mondadori, Milano 2009, p. 124, per
esempio.

35
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non può trasformarsi davvero nel suo rovescio – che non è


appunto la necessità o il determinismo, ma quell’impal-
pabile libertas indifferentiae la cui astrazione fa rima esclu-
sivamente con l’inazione cui mette capo (proprio perché
dà luogo alla contraddizione). La libertà è costretta, per dir
così, a essere libera (siamo, invero, abbastanza vicini al
Jean-Paul Sartre de L’essere e il nulla, oggetto costante di
polemica da parte di Ruyer…). E questo non è per niente,
ancora, un’auto-contraddizione performativa, come po-
trebbe sembrare di primo acchito. È l’auto-contraddizione
performativa a essere una mera apparenza, per quanto dotata
di una sua speciWca eYcacia – ‘patologica’ (e comprensi-
bilmente, dato che sempre nell’orizzonte della libertà si
colloca: libertà signiWca qui, in ultima analisi, ‘eYcacia’).
Nemico giurato di ogni WlosoWa dell’assurdo, Ruyer aVerma
insomma l’inevitabilità costitutiva del Senso. Si può dire
veramente ogni cosa, ma diYcilmente si può pretendere
di aVermare sensatamente che «ogni atto è un puro eVetto
di cause, e non ha né Wne né senso».27 Almeno colui che
pronuncia questa asserzione deve infatti ambire al Senso.
Il Senso non è insomma semplicemente un dato da rico-
noscere, né propriamente un fondamento costituito una
volta per tutte. È piuttosto qualcosa che pur venendo prima
(in senso logico, non cronologico) di ogni prestazione o
aVermazione sensate deve tuttavia essere avvalorato sempre
di nuovo da queste. È tale carattere duplice, appunto, attuale
perché potenziale e potenziale perché attuale, che costituisce
l’autentica intuizione alla base della WlosoWa ruyeriana, in
quanto filosofia del Senso. Come constatava ancora Lequier,
riportato più volte da Ruyer, il reale risponde a questa unica

27
R. Ruyer, Néo-finalisme, cit., p. 2.

36
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regola generale: «Fare, e facendosi, farsi».28 È il luogo di


una immanenza in divenire, che modiWca non soltanto i
termini sui quali si applica, ma anche, ricorsivamente, il
processo del suo stesso accadere – e dunque, cresce. Un
fare, appunto, che si fa mentre fa e, ancora, mentre sta fa-
cendo anzitutto se stesso.
La libertà è dunque la libertà di dire ‘no’ a ciò a cui non
si può dire ‘no’, e di dire ‘sì’ a quanto si dice sempre ‘sì’.
Ecco la forma generale di quanto si deve chiamare più pro-
priamente un anti-paradosso, ovvero di una peculiare ti-
pologia di asserzioni che si veriWcano da se stesse29 – e si
veriWcano Wnanche quando vengono negate. L’anti-para-
dosso svela il fondamento sempre ‘fungente’, come direbbe
un fenomenologo, che ogni performance linguistica suppone
a proprio presupposto più o meno avvertito: l’istanza del-
l’enunciazione in atto, il soggetto dell’enunciazione nella
sua diVerenza dal soggetto dell’enunciato e che tuttavia
comprende quest’ultimo come un suo caso particolare, in-
sieme a se stesso. E lo svela nell’enunciato! Svela l’atto del-
l’enunciare qualcosa e dal quale dipende il reale aspetto
pragmatico di ogni dire – nella sua diVerenza di natura
dall’io linguistico, costituito nel linguaggio. Ovvero,
un’istanza che sembra eccedere costitutivamente la possi-
bilità di essere detta in un dire, perché di ogni dire è la
condizione di esistenza incircoscrivibile – e dunque può
essere più correttamente intesa come il luogo di un acca-
dimento ‘extra-proposizionale’. L’anti-paradosso non fa
che portare alla luce questa istanza, trovandole un punto di

28
J. Lequier, La recherche d’une première vérité et autres textes, PUF, Paris
1993, p. 72.
29
Cfr. R. Ruyer, La gnose de Princeton, Mimesis, Milano 2011, p. 163 e ss.

37
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emersione all’interno dell’enunciato stesso e formando


così un dire che è sempre vero nella misura in cui è detto.
L’esempio ruyeriano è semplice eppure eYcacissimo: «Io
non sono ancora morto».30 Chi può negare il valore di verità
di una frase del genere, se proferita da un essere umano in
carne ed ossa? Questa aVermazione rivela nel detto il dire,
e fa del detto un dire, da esso indiscernibile. Il cartesiano
‘io penso’ non è da meno, come il ‘performativo assoluto’
‘io parlo’.31 Si tratta sempre di un’asserzione «vera ogni
volta che la pronuncio».32 Dà luogo a un andirivieni tra po-
tenziale e attuale, tra universale e particolare, che non trova
punto d’arresto possibile, pur conWgurando a ogni passaggio
dall’uno all’altro corno dell’alternativa una memoria di
quanto era accaduto in precedenza (di ogni passaggio dal-
l’uno all’altro, passaggio divenuto nel frattempo, a sua volta,
parte dell’attuale). L’anti-paradosso è il paradosso, ma colto
nella sua dimensione virtuosa e non viziosa.
Questa processualità la si può descrivere perciò in ter-
mini chiastici, sebbene rinvii ad alcunché di radicalmente
inseparabile, nel suo duplice aspetto: l’essere dell’informa-
zione, nella prospettiva del Wlosofo francese, è anche sem-
pre l’informazione dell’essere. Il punto è capitale: tale im-
postazione risolve alla radice le diYcoltà legate
all’auto-referenzialità dei sistemi auto-osservantesi –

30
Ivi, p. 163. Si noti che Ruyer non scrive ‘Io sono ancora vivo’. C’è una dif-
ferenza sensibile, in effetti, nel mettere in questo modo lo stesso contenuto se-
mantico: si produce la tipica situazione di non confutabilità, appunto, propria
alle asserzioni antiparadossali del tipo su indicato – verificate anche qualora
negate. Nel contesto di una teoria panvitalista, come vorremo definire la pro-
spettiva ruyeriana, non è la vita, in breve, a essere un’eccezione, ma la morte.
31
P. Virno, Quando il verbo si fa carne, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 38.
32
R. Descartes, Opere filosofiche. Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e riposte,
vol. 2, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 24.

38
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bloccando subito, al primo livello, la possibilità di distin-


guere (e dunque, allo stesso modo, di perdere di vista questa
distinzione) il soggetto e l’oggetto della conoscenza. L’in-
formazione è insomma sempre ‘auto-informazione’.

Isomorfismo

Ruyer intravede così un intero e vastissimo dominio di ri-


cerche (una «WlosoWa biologica» e non una semplice ‘Wlo-
soWa della biologia’), che poi eVettivamente sviluppa, a
partire da questa primitiva intuizione. In qualche modo,
la sua inchiesta sulla natura dell’informazione (sempre
per articolare in termini chiastici il problema) lo porterà
a dispiegare una concezione sistematica sull’informazione
della natura – ovvero, una spiegazione particolarmente
raYnata e aggiornata scientiWcamente33 delle caratteri-
stiche costitutive dei processi psico-biologici. Una spie-
gazione, insomma, di come si formano gli enti naturali – e
anzi della formazione degli enti naturali come modo d’essere
degli stessi. L’essere è appunto formazione.
E con ciò è detto più di quanto sembrerebbe: aVermare
che l’essere di una realtà coincide senza resti con la sua
formazione è in eVetti superare d’un balzo le diYcoltà che
gli approcci analitici derivati dalla cibernetica incontrano
sul loro cammino. Non solo perché è così recisa alla base
la condizione di possibilità della distinzione suddetta di
osservante e osservato (come pensare di poter continuare

33
Ruyer si è interessato, tra l’altro, di fisica relativistica, meccanica quan-
tistica, biologia tutta e in particolare embriologia, cibernetica, psicologia in-
trospettiva e sperimentale.

39
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a separare questi due momenti, se l’essere di entrambi


coincide con il loro divenire? Dove situare l’osservatore,
se ciò che è osservato, come ciò che osserva, sono real-
mente due processi ontogenetici, tra loro isomorW?), ma
perché emerge, in forza di tale appaiamento, alcunché di
letteralmente non deWnibile nei termini dell’osservazione
medesima (implicante distanza e dimensione supplemen-
tare alle dimensioni di ciò che si osserva). È insomma
qualcosa come una nuova idea di conoscenza e di essere,
quindi, che Ruyer dispiega a partire dalla sua scoperta della
superWcie assoluta – o come la chiamerà più tardi, esten-
dendone la portata, del «sorvolo assoluto». È il ‘parteci-
pabile’ di contro al meramente osservabile. ‘Prendere
parte’ a qualcosa è esattamente quanto accade con un’anti-
paradosso – che non si può risolvere nel suo valore di ve-
rità, per agire di conseguenza, ma innesca piuttosto un fe-
nomeno di possessione del soggetto da parte del tema che
in esso è intravisto – e che si lascia intravedere, solo in-
travedere, nel mentre che lo si attualizza e veriWca.
Ruyer, che in Élements de psychobiologie parla aperta-
mente di un «modellamento gerarchico delle forme»,34
concepisce allora non solo l’architettura del reale secondo
una scala degli esseri35 che molto ricorda le antiche co-
smologie neo-platoniche (e non solo), attribuendo così a
ciascun modo di esistenza speciWco una scienza dedicata
(distinguendo inoltre tra «scienze primarie» e «scienze
secondarie»,36 scienze che riguardano individualità au-

34
R. Ruyer, Élements de psychobiologie, PUF, Paris 1946, p. 293.
35
Cfr. F. Colonna, Ruyer et la grande chaîne de l’être, in «Revue Philosophi-
que de la France e de l’Étranger», 1 (2013).
36
R. Ruyer, Raymond Ruyer par lui-meme, cit., cfr. infra, p. 64.

40
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tentiche e scienze statistiche), ma descrive accuratamente


la singolare libertà che comunque conserva ogni essere, a
ogni livello di questa scala. Di qui il ruolo di ‘oggetto mo-
dello’ che svolge nel suo pensiero l’embriogenesi, assunta
a vero e proprio schema di comprensione d’ogni fenomeno
naturale. Di qui lo statuto esemplare che assume ogni pro-
cesso di auto-informazione, in virtù della sua retroazione
e iterazione della retroazione – del suo essere percorribile
sempre in due sensi, dal potenziale all’universale o dal-
l’attuale al potenziale, e del suo essere di fatto sempre per-
corso in due sensi, dal potenziale all’attuale e dall’attuale
al potenziale. Il tutto diventa incessantemente la parte di
un tutto superiore, appunto.
Una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi
incrementi; una natura che si conosce, appunto, solamente
accrescendola e accrescendosi. Come un’informazione alla
seconda potenza. Se presa sul serio, infatti, la struttura di
un anti-paradosso suppone una ‘coerenza’ della parte con
il tutto che non si deve temere di deWnire per quel che è:
cosmologica. È insomma una sorta di entimema dello spazio
e del tempo interi, una monade «specchio vivente del-
l’universo», come avrebbe detto Leibniz. In altri termini:
una tale formulazione, rivela d’un colpo quanto Charles
Sanders Peirce aveva magistralmente fatto notare: che ogni
enunciato ha una portata universale, è implicato non sol-
tanto in una rete di rapporti sociali dai quali non è reseca-
bile senza un’esiziale perdita di senso, come hanno mo-
strato gli studi della pragmatica, ma intrecciato a ben
vedere nella stessa tessitura del reale nella sua totalità. È,
si direbbe, una miniatura o un monogramma del cosmo
tutto, atto a restituire adeguatamente questa ‘coerenza’
fatta di libertà. Scrive in eVetti Ruyer:

41
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Dire “Io sono già morto” è demenziale. Dire “Io non


sono ancora morto” è enunciare un anti-paradosso. L’as-
serzione si veriWca da se stessa. Ma gli Gnostici si spin-
gono oltre – seguendo anche in questo caso la Wligrana
della scienza più positiva. Propongono di dire: “‘Io’ non
sono ancora mai morto, dal cominciamento del mondo”.
È suYciente prendere ‘io’ in senso lato, come sinonimo
di ‘individualità-soggetto’. Le due cellule germinali da
cui ‘io’ provengo si sono fuse insieme senza annientarsi
e essendo ciascuna il risultato di una biforcazione cellu-
lare che non era neanche essa un annientamento. L’in-
dividualità biologica donde emerge il mio ‘io’ risale senza
rotture, di generazione in generazione, alle cellule viventi
più primitive, e queste cellule stesse alle molecole pre-
vitali, alle individualità ‘Wsiche’ che sussistono nel tempo
per la continuità semantica della loro azione.37

Al di là del prospetto generale che tali parole forniscono


della metaWsica del pensatore francese, è l’assenza di iati
che caratterizza il mondo vivente (qui esteso Wnanche alle
realtà inorganiche della microWsica: particelle, atomi e
molecole) a colpire il lettore. Un’assenza di fratture che fa
pensare a un’embricazione (a una «struttura Wbrosa del-
l’universo», come la deWnisce Ruyer) delle individualità,
linguistiche o naturali che siano, letteralmente in-Wnita e
che ha dunque il carattere ultimativo di una sorta di im-
menso bricolage, in cui ogni ‘pezzo’ è sempre messo al-
l’opera, senza resti. L’anti-paradosso, insomma, è il tutto
che è parte e la parte che è tutto – e che quindi non è mai

37
R. Ruyer, La gnose de Princeton, cit., p. 164.

42
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un tutto dato, dato una volta per tutte, perché il tutto è


sempre rigiocato nella parte, ridotto a sua volta a parte,
dalla (sua) stessa parte: ridotto a tutto di un altro tutto,
più esteso del precedente. Il feed-back assiologico di cui
ne va nell’anti-paradosso è simultaneità di feed-back ne-
gativo e feed-back positivo.
È dunque tale ‘assurda’ duplicità per cui ogni parte è
già da sempre il tutto (e il tutto è sempre già la parte), poiché
ogni tutto diventa incessantemente parte di un tutto superiore,
che Ruyer deWnisce, in quanto osservabile dall’esterno,
«equipotenzialità» (termine ripreso dallo psicologo Karl
Lashley e utilizzato per qualiWcare un fenomeno riscon-
trabile, per esempio, in maniera particolarmente signiW-
cativa nel cervello o nell’embrione, dove il danneggiamento
di un tessuto può essere ben recuperato da un’altra parte
degli stessi: dove insomma ogni parte può virtualmente
svolgere le funzioni di ogni altra parte e Wnanche del tutto).
Dove sono in eVetti ‘io’ che dico ‘Io non sono ancora
morto’? In ciò che dico o in ciò che per dire sono (‘non an-
cora morto’)? Non sono forse in entrambi questi due mo-
menti, indiVerentemente e simultaneamente, dando luogo
così a una completezza che non è dato ritrovare in nessun
altra tipologia di evento linguistico, sempre caratterizzato
altrimenti da un’intima scissione tra i due piani dell’enun-
ciato e dell’enunciazione? E non è così poiché, a ben vedere,
vi è un’istanza perpendicolare, assiale al tempo cronologico
e allo spazio attuale, eccedente la successione dei punti-
ora e la concatenazione dei fatti che si propagano ‘per con-
tiguità e vicinanza’, un’istanza che avviluppa e solca en-
trambi gli aspetti – quel trans-spaziale e trans-temporale,
quel potenziale, che contiene sé insieme al proprio altro
come una possibilità di possibilità? Posso anche dire, ap-

43
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punto, lanciando un guanto di sWda: ‘Io sono già morto’.


Ciò non toglie che debbo essere vivo per dirlo! La contrad-
dizione qui è sempre e solo apparente perché impliche-
rebbe, per esistere come contraddizione, che io sia vivo e
morto allo stesso tempo – e cioè, che io sia vivo, in ultima
istanza, per potermi dire ‘morto’! Insomma, non esiste mai
alcuna contraddizione perché la contraddizione conferma
invero ciò che vorrebbe sospendere: la vigenza inossidabile
dell’istanza di enunciazione in atto, come prova linguistica
dell’attualità incessante del vivere. La morte è un oggetto
del vivente (genitivo soggettivo). C’è morte nella vita, ma
non vita nella morte – se non ancora come semplice vita.

Il fondo della storia [affaire] – scrive Ruyer – è che il


‘male’ non è il negativo, ma il ‘complesso’, l’impasto,
per collisione e ibridazione, la ‘morte-nella-vita’, la ma-
lattia, il lutto dei sopravvissuti, il ricordo di partecipa-
zione che urta dolorosamente con l’idea che il partecipato
non è più.38

La verità etica summenzionata, in altri termini, è l’etica di


una verità che si sta facendo, qui e ora, nel suo accadere
continuativo – e per questo esposta anche ai tentenna-
menti, ai rischi e Wnanche alla possibilità imminente del-
l’errore propri di un soWsticatissimo discorso faticosa-
mente e successivamente pronunciato da un unico e non
certo perfetto Locutore:

Per esprimerci in maniera immaginosa, così come pro-


nunciando una lunga frase ci capita di dimenticare la

38
Ivi, p. 402.

44
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proposizione principale e di accordare l’autonomia a


un’idea incidente che deve essere subordinata, l’unità
dell’universo, il Logos, pronuncia delle frasi così lunghe
che si rendono indipendenti e si pronunciano da sole. Il
pronunciato del Logos universale si separa da lui in al-
trettante individualità più o meno dichiarate, sia nella
durata, sia nell’estensione, quanti sono i punti e le virgole
nella sua frase.39

La pertinenza dell’immagine musicale, e in particolare del-


l’improvvisazione, appare qui dunque particolarmente con-
vincente – nella misura in cui fa segno verso una modalità
di sussistenza (quella del suono musicale) la cui la stabilità
è, senza resti, la sua stessa instabilità. È Ruyer ad autorizzare
un simile paragone, nella misura in cui l’‘improvvisazione’
svolge una funzione di parola tecnica nella sua opera: indica
l’eVettivo concretizzarsi del potenziale (dei temi trans-
spaziali e trans-temporali) attraverso delle realizzazioni
che da esso dipendono almeno quanto lo alterano retroat-
tivamente. Era d’altronde inevitabile – se è vero che ai suoi
occhi forma ed essere sono lo stesso. Chi sa meglio del mu-
sicista, e ancora di più di quel musicista dall’«identità in-
compiuta»40 che è il jazzista improvvisatore, quanto ‘in-
formare’ sia anche informarsi, e dunque essere anche il
primo ascoltatore di se stessi, in una libertà che più grande
diYcilmente si riuscirebbe a immaginare? La risposta va
cercata insomma proprio in quella natura aVatto peculiare
che è la dimensione auditiva della sensibilità – e in parti-

39
R. Ruyer, «Leibniz et ‘Mr. Tompkins au pays des merveilles’», cit., p. 35.
40
Cfr. D. Sparti, L’identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione mu-
sicale, Il Mulino, Bologna 2010.

45
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colar modo, in quell’«oggetto temporale», come avrebbe


detto Husserl, che è una melodia. Qui, nell’assenza di di-
stanza che l’ascoltatore sperimenta rispetto a ciò che ascolta,
nel suo essere tutt’uno con l’ascoltare e l’‘oggetto’ del-
l’ascolto (che non è aVatto un ob-jectum), emerge una me-
tafora che non è solamente tale, è una metafora che «parle
au prope» (Henri Bergson), poiché nella musica la distin-
zione stessa tra metafora e metonimia viene meno, evi-
denziando una dimensione più originaria rispetto a quella
del linguaggio (in particolare alfabetico) per cui icona e in-
dice – somiglianza e prossimità Wsica rispetto al referente
– non si lasciano più separare e restano invece a uno stato
indistinto, come nel canto, appunto, di un uccello.

Una melodia è melodia soltanto se è ‘sorvolo assoluto’ e


non giustapposizione meccanica di note; non si com-
prende una melodia, aggiunge Von Uexküll, analizzando
l’inchiostro con le quali sono state stampate le note e colui
che ascolta la melodia deve coglierla come un tutto. Ma,
prima dell’ascoltatore, c’è il cantore, o la canzone che
canta se stessa, che domina essa stessa le sue note. Un uc-
cello canta perché ha voglia di cantare, perché ha la ten-
denza a cantare, allo stesso modo in cui ha avuto tendenza,
in quanto embrione, a formare la sua laringe. La melodia
dell’uccello, nel senso proprio della parola, è il seguito
della ‘melodia organica’ che è stato l’uccello in quanto si
è fatto da solo, senza testimone né ascoltatore.41

A essere sempre all’opera, insomma, è l’idea di una causalità


processuale e mnemica dell’Idea medesima, in cui il poten-

41
R. Ruyer, Néo-finalisme, cit., p. 217.

46
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ziale può potenzialmente accrescersi attraverso l’attualizzarsi


dell’attuale e viceversa, l’attuale potenziarsi attraverso l’attua-
lizzarsi del potenziale – come accade in una dinamica di ap-
prendimento, dove sono ‘improvvisati’ legami sulla base di
una certa direttiva e instaurati così nuovi temi da riutilizzare
in situazioni successive. Si potrebbe dire insomma che la
Natura ruyeriana, nei suoi molteplici aspetti e nella sua es-
senziale unità, è come un’esecuzione jazz (e quindi, come
una composizione istantanea). È una melodia di melodie.
L’attualità di tali ‘domini assoluti di sorvolo’ (materiali,
organici, psichici) è allora continuamente attraversata, se-
condo Ruyer, da ‘potenziali’ che risultano essi stessi dal-
l’accumulazione mnemica indotta dalla formazione e che
rinviano, in ultima istanza, a delle ‘essenze’ e dei ‘valori’ di
matrice teologica. Dall’atomo alla coscienza umana dotata
di capacità di riXessione, passando per l’unicellulare, ogni
‘forma vera’, non assimilabile a un «aggregato, ammasso o
fenomeno di folla» è da intendersi come una realtà attiva e
dinamica, come un’unità nella molteplicità di dettagli che
non cessa di ‘auto-condursi’ e di ‘auto-sorvegliarsi’. Come
allora nel ‘cervello’ o nell’‘embrione’ un ‘guasto’ in un punto
può essere recuperato parzialmente dalla funzionalità di un
altro, allo stesso modo Dio bilancia la sua azione a seconda
di quegli stessi incidenti che nemmeno lui può anticipare.
Con le parole di H. D. Lawrence che Ruyer pone a chiusura
del suo libro su La genèse des formes vivantes (1958):

Even the mind of God can only imagine


Those things that have become themselves.42

42
R. Ruyer, La genesi delle forme viventi, cit., p. 262.

47
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L’eternità di cui si parla nella WlosoWa di Ruyer, relativa-


mente per esempio ai valori e alle essenze teologici che
ogni cosa governano, è dunque sempre l’eternità del nuovo.
L’eternità è l’eternità di ciò che è appena nato – e che anzi
è sempre e solo ‘allo stato nascente’. L’embrione è appunto
il prototipo ultimo della WlosoWa di Ruyer, il processo fon-
damentale al quale egli guarda attribuendogli la funzione
di ‘paradigma’, di modello fondamentale di ogni altra realtà
propriamente detta. Come dire, insomma, che tutto quel
che esiste propriamente ha per il pensatore francese uno
statuto embrionale. ‘Prototipo’, dunque, è la parola giusta.
Come un oggetto tecnico la cui funzionalità non è ancora
deWnitivamente Wssata, e per questo resta suscettibile di
un continuo perfezionamento, anche nel caso dell’em-
brione si ha a che fare con qualcosa che ‘cerca di essere’,
piuttosto che ricadere nell’alternativa delineata dal «di-
lemma parmenideo di essere e non-essere».43 Che non è
né ontologico né me-ontologico. Sarà piuttosto del «pre-
ontologico»,44 si potrebbe dire con Jacques Lacan. Come
con l’inconscio per quest’ultimo, la coscienza spetta se-
condo Ruyer anzitutto a ciò che è dell’ordine del «non-
nato», del «non-realizzato».45 Qualcosa che conserva in-
somma una virtualità essenziale e irriducibile e che anzi
coincide con la sua medesima virtualità. Una possibilità
di possibilità, si diceva. In Dio, insomma, strutture e crea-
zione di strutture coincidono; ciò che nel resto del cosmo
si dispiega nel tempo in Dio è dato nell’assoluta simulta-

43
Ibidem.
44
J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoa-
nalisi 1964, Einaudi, Torino 2003, p. 30.
45
R. Ruyer, La genesi delle forme viventi, cit., p. 24.

48
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neità: è struttura di strutture nel senso dell’inWnito non


numerabile, un inWnito attualmente tale e che non cessa
di diventare inWnito.
L’opera di Ruyer, dunque, si presenta per molti versi
come un’embrio-logia speculativa, che pone a fondamento
il carattere da parte a parte incoativo che contraddistingue
il vivente che si sta formando, che ancora non giunge allo
stadio di maturazione. In breve, l’essere in procinto di es-
sere, il divenire l’essere che ancora non si è. E anzi, la sua
tesi a tale proposito è intransigente. Solo ciò che conserva,
foss’anche in minima parte, questa qualità ‘embrionale’,
questa predisposizione a svilupparsi, esiste in senso pro-
prio: i ‘domini assoluti di sorvolo’. Nella sua prospettiva,
per così dire, la ‘giovinezza’ e il reale sono termini sinonimi
– esistenza e non Wnitezza sono due domini perfettamente
coestensivi. Il reale, in una parola, o è giovane o nemmeno
prova a essere. Un coeYciente di immaturità qualiWca
ogni esistente propriamente detto. Divenire ciò che già da
sempre si è signiWca appunto anche irriducibilmente es-
sere ciò che si diviene. Quella di Ruyer è dunque altresì
una «dottrina delle novità eterne», per parafrasare una
celebre idea cartesiana. Nulla resta uguale, ma tutto si eter-
nizza. O tutto si eternizza perché nulla resta uguale. L’eter-
nizzarsi di ogni novità coincide con il modiWcarsi del-
l’eternamente già dato. Memoria sive inventio.

Ogni attività vitale, anche direttamente interessata, è


pure, nello stesso tempo, costituzione di un capitale mne-
mico. In altri termini, comincia a creare un’abitudine
che, secondo la deWnizione del capitale, faciliterà un atto
ulteriore. La vita non ha sempre bisogno di fare dapprima
un utensile per poi lavorare. L’atto vitale, diventando

49
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abitudine, si trasforma esso stesso, automaticamente, in


utensile – nel senso che serve d’ausiliario a un secondo
atto simile. Ogni learning è una sorta di montaggio di una
macchina invisibile, di una macchina automatica che de-
cupla il rendimento degli atti. L’operaio e l’ingegnere,
qui, sembrano fare tutt’uno. […] Ogni atto vitale, o psico-
vitale, subisce una sorta di divergenza [clivage] spontanea
in lavoro propriamente detto, da una parte, e in lavoro
di capitalizzazione, dall’altra. […] Non possiamo arro-
tolare una sigaretta senza apprendere, nello stesso tempo,
ad arrotolare una sigaretta.46

Una melodia è allora tanto una parte del mondo (metonimia)


che un’immagine del mondo (metafora). Forse si dovrebbe
parlare proprio di isomorWsmo per indicare questo parti-
colare statuto d’essere – nel senso per cui l’isomorWsmo
indica la corrispondenza biunivoca della parte al Tutto di
cui è parte e alle altre parti del Tutto – come in quegli in-
siemi inWniti che secondo Matte Blanco costituiscono il
proprio della bi-logica nel quale consiste il pensiero in-
conscio. Anzi, la tanto enigmatica autonomia del vivente è
forse solo una questione di musica – una musica che coin-
cide, pitagoricamente, con l’accadere del mondo, nella sua
irriducibile e immanente vitalità. Probabilmente, piuttosto
che alla cibernetica, gli studiosi dei ‘sistemi viventi’, come
sono soliti essere chiamati gli organismi, dovrebbero guar-
dare all’esperienza concreta del musicista, nell’atto della
sua arte – e a quella musica, come da sempre si è presentata
la WlosoWa [«La WlosoWa è la musica suprema» (Phaed. 61

46
R. Ruyer, Expériences mentales sur la vie et la mort, in «Revue de Méta-
physique et de Morale», 3 (1953), p. 248, cfr. infra, p. 224.

50
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a), scriveva Platone], quando, accadendo prima di tutto


fuori della pagina scritta, si dà come esercizio vivente di
autentica libertà. Di contro all’anti-realismo delle varie
epistemologie della complessità, e in generale delle Wlo-
soWe novecentesche, Ruyer, che si è sempre dichiarato
realista, appare dunque come l’alWere di un realismo sui
generis, perché ontologizza quanto sembrerebbe soltanto
una prestazione cognitiva (l’informazione), o al massimo
una misura Wsica (il grado di ‘neghentropia’ di un sistema:
la sua improbabilità), approntando quanto vorremo deW-
nire un realismo melodico – un realismo che trova nella
pseudo-metafora della musica la sua risorsa ultima e più
eYcace: il suo rinvio a una realtà intimamente processuale
che non cessa di com-muoverci con essa (come tutto il
cosmo si com-muove con il proferimento divino, secondo
la stessa immagine ruyeriana). L’anti-paradosso, in una
parola, è musica, soltanto musica.

Daniele Poccia

51

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