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Perché

al mondo ci sono tanti imbecilli? E perché gli stupidi prosperano,


riuscendo spesso a raggiungere posizioni di successo? La risposta è semplice:
l’intelligenza non serve più. L’uomo se l’è lasciata alle spalle, come i peli che gli
ricoprivano il corpo o la camminata a quattro zampe. Il segno più caratteristico
dell’essere umano, quello che gli ha permesso di elevarsi dalla specie animale e,
in una certa misura, di dominare il mondo, non è più necessario. Chi ha qualche
dubbio, dia uno sguardo a ritroso, ai geni del passato, a Leonardo, a
Michelangelo, a Einstein, e li paragoni con quello che ci offre il mercato. La
conclusione è triste, ma inevitabile: gli intelligenti hanno fatto il mondo, gli
stupidi ci vivono alla grande.

Pino Aprile Giornalista, ha collaborato con l’«Europeo», alcuni quotidiani
nazionali e la RAI. Attualmente è vicedirettore del settimanale «Oggi». Per la
RAI ha lavorato a TV7 e, con Sergio Zavoli, a Viaggio nel Sud.
PINO APRILE

ELOGIO DELL’IMBECILLE
Gli intelligenti hanno fatto il mondo, gli stupidi ci vivono
alla grande


Presentazione di
SERGIO ZAVOLI

PIEMME

I Edizione 1997
II Edizione, dicembre 1997
III Edizione aggiornata, agosto 2002

© 1997 - EDIZIONI PIEMME Spa
15033 Casale Monferrato (AL) - Via del Carmine, 5
Tel. 0142/3361 - Fax 0142/74223
www.edizpiemme.it

In copertina: Illustrazione di Arnal Ballester
Presentazione

La persona scontenta, incattivita, aggressiva la si può placare con un po’ di


attenzione, di tolleranza, di simpatia; ma provate a rabbonire l’imbecille, a
trarlo dalle sue inflessibili, persino energiche convinzioni, a insinuargli, mica
tanto, un dubbio: solo in apparenza spaesato, prenderà tempo per ricominciare
a tessere, si fa per dire, il suo ragionamento nell’ostinata idea che a non capire
siate voi, inutilmente protesi a scaricare su di lui la vostra stessa imbecillità.
Lo avete mai visto in quello stato? Quando non si sa - ed è questo il
momento, secondo me, più pericoloso - che cosa stia pensando? «Non pensa
niente!», si consolano gli ingenui. Ammettiamolo, ma non è proprio ciò che più
va temuto? L’idea, intendo dire, che un pensiero già debole possa come
svignarsela, bighellonare chissà dove, perdere il filo, seppure un’inezia, di se
stesso, e non trovare più la strada per rifarsi vivo? Da quel pensiero così ridotto
quali danni dovremo aspettarci quando il titolare lo richiamerà per rimetterlo in
moto?
Sto riflettendo: forse dovremmo augurarci che l’imbecille non si stanchi al di
là del normale, e quindi non riposi più del necessario. Ma, soprattutto, che non
si metta la testa sotto i piedi per dimostrarci di poterne disporre come crede; e
nel frattempo, che so, mette al mondo dei figli, li fa crescere, spiega loro la vita,
decide di che cosa e come parlare, magari della libertà, dell’amore, della morte,
ma anche delle rondini, della nebbia, dei sogni. Che fissa il modo di pensare e di
giudicare: da Bossi a Dio, dall’infinito all’ora di pranzo, dalla gara spaziale
alla partita a bocce. Che poi va a votare, e istruisce la moglie e i suoceri in
attesa che tocchi anche ai figli. Per la statistica egli rappresenta la
maggioranza, ma non è vero: rappresenta l’umanità. La quale, secondo alcuni
scienziati americani, non nasce intelligente. O meglio, il tasso di intelligenza di
una persona sarebbe ereditato solo per un terzo, tutto il resto si acquisisce.
Come? Confrontandoci con la vita. Perché si cresce, per ogni verso, in virtù dei
problemi che siamo costretti a risolvere. Primo fra tutti quello dell’intelligenza
o, se preferite, dell’imbecillità. Non è una cattiva notizia; l’idea che
Michelangelo possa avere avuto, in tenera età, la testa di Esposito Gennaro o di
Brambilla Ambrogio, produce grandi consolazioni e alimenta smisurate
speranze, ma soprattutto induce a doverose prudenze; il primo imbecille che
incontri, infatti, un giorno potrebbe affrescare la volta della Cappella Sistina o
scolpire la Pietà.
Se tutto questo fosse vero, se cioè la scienza riuscisse a provarci che
l’imbecillaggine ha abitato in ciascuno di noi fino a quando non l’abbiamo più o
meno sgominata mettendole contro, pian piano, l’intelligenza, dovremmo
accettare per buona una ipotesi di fronte alla quale nessuno si ritrae: tutti, in
fondo, siamo migliori della nostra fama. E forse, proprio per questo, un po’ più
uguali. Fino ad accogliere, nella media, anche l’ignaro protagonista del libro.

Sergio Zavoli
E Lorenz mi disse…

Perché ci sono tanti imbecilli? Non riuscivo a smettere di pensarci: mi


sorprendeva la naturale tolleranza che c’è per la stupidità. Mi scoprivo a
chiedermi: ma gli altri si accorgono o no di come siano prive di senso troppe
cose che abitualmente facciamo? E dal momento che non tutti sono scemi,
possibile che non gliene importi nulla?
Poi incontrai Charles Darwin e ne fui folgorato. La scuola mi offriva una
concezione tronfia dell’essere umano e delle sue «magnifiche sorti e
progressive». Darwin mi insegnò a dubitarne. Delle sue opere, più ancora che
l’Origine della specie, mi colpì L’origine dell’uomo, il meno conosciuto dei suoi
capolavori. NE diede la sensazione di un segreto rivelato.
L’essere umano è un animale, molto simile alle grandi scimmie. Ci ha resi
quel che siamo un lunghissimo processo evolutivo, regolato dalle stesse leggi
che ancora guidano il cammino di tutte le specie (anche vegetali). Ci distingue
dagli altri animali, persino da quelli più vicini a noi, la quantità e la qualità della
nostra intelligenza. Nessuno ne ha altrettanta, sul pianeta. Mi affascinava l’idea
che lo stesso meccanismo che aveva dato a noi questa potenza cerebrale,
l’avesse negata agli altri. Insomma: perché solo noi? (E perché, mi domandavo
subito dopo, una così bella dote viene usata tanto poco?).
La regola evolutiva è la stessa per tutti: la selezione naturale, la
sopravvivenza del più adatto. Così prevalgono le caratteristiche che permettono
alla specie (qualunque specie) di affrontare con vantaggio l’ambiente in cui è
inserita. La selezione naturale non ha un percorso stabilito: procede a caso e, da
una serie ininterrotta di tentativi riusciti, nasce la caratteristica che garantisce la
sopravvivenza della specie. Nel nostro caso si trattò dell’intelligenza.
Darwin stesso applicò all’uomo la sua teoria, da altri banalmente riassunta,
fin dall’inizio, nel modo («Discendiamo dalle scimmie») che indusse la pia
moglie del vescovo anglicano di Worcester ad augurarsi: «Almeno, che non si
sappia in giro».
Ma il ragionamento di Darwin era molto più complesso. In fondo, l’idea di
derivare dalle scimmie non è così terribile: non lo siamo più, questo conta. Molte
famiglie hanno antenati altrettanto impresentabili; e, cronologicamente, ben più
vicini. Dal pensiero di Darwin mi sembrava di poter trarre qualcosa di più: una
spiegazione plausibile dell’intelligenza umana, in base a ragioni soltanto
naturali. Che colpo, per l’uomo che si considera il … centro dell’universo: la sua
potenza mentale, nel teatro della vita, non vale più del mimetismo, della forza
fisica o dell’apertura alare di altri animali. E per gioco, ma non troppo, cominciai
a chiedermi: se ci furono specie acquatiche poi divenute terrestri; animali che
strisciavano e ora volano; cosa assicura che non avvengano in noi ulteriori
adattamenti che mutino la qualità e la quantità delle nostre caratteristiche,
comprese quelle cerebrali? Siamo il solo essere pensante del pianeta: e chi ha
detto che lo resteremo?
Mi resi conto che persino la teoria dell’evoluzione umana poteva alimentare
il nostro orgoglio di animali intelligenti, il bisogno di sentirsi speciali: la boria
della specie…
L’indagine scientifica sulle nostre origini era una volta affidata solo
all’esame dei- resti fossili dei primi ominidi e dei loro manufatti_ I risultati di
tali ricerche, opportunamente elaborati, permettevano di costruire quelle tavole
dell’evoluzione umana che illustrano i manuali scientifici: una serie di bipedi
diligentemente messi in fila, secondo F(ipotetico) ordine cronologico della loro
comparsa. Il primo, da sinistra, era praticamente uno scimmione: tozzo, peloso,
curvo, le braccia e le gambe sproporzionatamente lunghe e arcuate, lo sguardo
ottuso. Procedendo verso destra e verso l’oggi, i caratteri animaleschi si
attenuavano, sino a sublimarsi nell’ultimo della fila, l’Homo sapiens sapiens.
Alto, bello, il mento e lo sguardo protesi verso il futuro (qualcuno doveva avergli
detto che sarebbe diventato Leonardo da Vinci).
Naturalmente, venivamo messi sull’avviso: quella ricostruzione era solo
ipotetica; qualche ominide avrebbe potuto forse scambiare il suo posto nella fila
con il vicino più o meno scimmiesco; e c’era sempre l’anello mancante: il nostro
antenato più prossimo, già quasi bello come noi, ma ancora un po’ brutto e tonto
come i predecessori.
Questo non indeboliva la sostanza della ricostruzione: per quanto bestiali
potessero essere i suoi progenitori, l’essere umano rimaneva il meraviglioso
punto d’arrivo d’un cammino intrapreso milioni d’anni fa. Come dire: in un
modo o nell’altro, siamo speciali, unici. Dopo Darwin, non eravamo più il centro
della creazione, l’opera più importante di Dio, l’essere più nobile, il solo a
somigliargli; ma restavamo pur sempre il capolavoro dell’evoluzione. E su
questo poteva fondarsi la teoria che voleva vedere nell’uomo il centro della
natura, la ragione capace di spiegare l’esistenza dell’intero universo.
Non ero in grado di esprimere giudizi sulle dispute scientifiche e teologiche
che dall’intuizione di Darwin traevano origine. Non ero sicuro nemmeno del
fatto che zio Charles avrebbe condiviso certi sviluppi (altrui) delle sue idee.
Avvertivo soltanto, confusamente, che forse nella materia c’era qualcosa
d’importante, che ancora poteva essere colto. Anche se non riuscivo ad andare
più in là di questa fastidiosa sensazione.
Ero poi finito giornalista e, dopo molti anni in un quotidiano, ero entrato in
un settimanale, proprio in uno dei momenti di maggiore incertezza morale e
politica della recente storia italiana. Alla ricerca di risposte, di trasfusioni di
saggezza, andavano molto le lunghe interviste a personaggi, famosi per sapere e
autorevolezza, in mancanza di un dichiarato “Vecchio della montagna”. Ne
venivano fuori dei ritratti commentati, giudiziosi, infarciti di aneddoti e opinioni
su ogni possibile tema. Ho avuto così l’opportunità di incontrare diversi
protagonisti della storia del nostro secolo: alcuni mi hanno accolto nelle loro
case, ho conosciuto le loro famiglie, a volte ho pranzato alla loro tavola, ho
potuto, con H loro permesso (e talvolta ammetto, senza), curiosare sulle loro
scrivanie nelle loro biblioteche. Forse avrei dovuto chiedermi: chi mi dà il diritto
di irrompere nella loro vita, di estorcere pareri, confessioni, rubare sentimenti?
Ma non mi sono mai sentito un intruso Arrivavo a considerare un diritto, il mio,
di chiedere; e un dovere, il loro, di rispondere. Perché? Perché siamo animali
sociali ed è buona cosa mettere in comune, far circolare, le domande e le
risposte. Per molto tempo ho pensato che “La risposta assoluta” esista, ma
sbriciolata fra tutti gli uomini; ognuno ne possiede un granello e non sa di
averlo. Se qualcuno, come in un puzzle…
Un giorno, con il direttore della rivista in cui ancora oggi lavoro, decidemmo
di fare un servizio su Konrad Lorenz: era una “grande anima”, già premiato con
il Nobel per il suo contributo alla nascita di una nuova scienza, l’etologia (che
studia gli animali e i loro comportamenti); ma era conosciuto in tutto il mondo
per il suo paterno modo di raccontare osservazioni scientifiche, come fossero
storielle di animali. Un suo libro, L’anello di re Salomone, lo aveva reso
giustamente famoso.
Dopo la mia giovanile infatuazione per Darwin, avevo saltuariamente
coltivato, come tutti, per hobby e senza molto impegno, la mia personale ricerca
sul “Trittico fondamentale”: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Non
avevo fatto alcuna scoperta capitale, ma ero sempre più sorpreso dalla
naturalezza con cui l’essere più intelligente del pianeta tende ad agire in modo
del tutto irragionevole.
Di Lorenz avevo letto qualcosa e mi era piaciuto. Per prepararmi a
incontrarlo, mi procurai tutto quello che trovai di lui e mi ci tuffai: prima per
dovere, poi con interesse, poi con tale voracità che fui deluso non ci fosse altro
da leggere. Fu una folgorazione, un’altra, e faceva il paio con quella darwiniana.
Mi domandavo quali sarebbero stati i risultati di uno studio sugli esseri umani e i
loro comportamenti, secondo i principi e i metodi dell’etologia. Insomma: se
l’uomo non è che un animale (e non c’è ragione, a parte l’orgoglio della specie,
di pensare che sia il migliore), perché non sottoporlo a osservazione come si fa
con gli altri e valutare le sue azioni alla luce degli stessi criteri scientifici e dello
stesso distacco riservati ai lupi e alle oche?
Avvertii istintivamente che questa poteva essere la strada per capire qualcosa
di più delle ragioni che ci spingono a comportarci da stupidi. Ormai, a ogni
livello, la frequenza con cui trovavo degli imbecilli o anche persone che non lo
erano, ma da tali, sorprendentemente, agivano, era così alta che non poteva
trattarsi di coincidenze. E, pur considerata la benevolenza con cui valutavo me
stesso, non potevo fare a meno di notare che le mie scelte non erano sempre
ragionevoli e, addirittura, mi capitava di comprendere benissimo che stavo per
fare una cosa stupida. Eppure la facevo. Quale forza è alla base di questo modo
di agire, tanto da indurre a comportamenti sciocchi, nonostante la
consapevolezza e persino la volontà di evitarli? C’è, ecco la domanda, una
ragione più potente della ragione e che genera stupidità? Se l’intelligenza è la
nostra cifra, ci ha dato la sopravvivenza, il dominio di un ambiente che ci era
ostile, perché tutta quest’imbecillità? Cosa la giustifica o, addirittura, può
renderla necessaria?
Queste domande erano poco più che un gioco, per me; un argomento che
buttavo nella conversazione quando volevo stupire, apparire eccentrico. La
scorpacciata di Lorenz mi fece sospettare che, nella materia di quel mio
divertimento, potesse esserci più sostanza di quanto riuscissi a scorgerne.
Telefonai all’assistente di Lorenz e gli chiesi la cortesia di combinarmi un
appuntamento con il maestro, per un’intervista. Mi fu risposto che il professore
(già molto anziano) non era in condizioni di ricevere ospiti. Magari più in là…
La sera stessa partii per Vienna con un fotografo. La mattina dopo ero ad
Altenberg, lungo il Danubio, il paesino in cui Lorenz era nato e dove viveva con
la moglie, sua amica d’infanzia, nella casa costruita da suo padre. Il villaggio
aveva un nome più lungo della sua strada principale e lo stesso professore
abitava in via Lorenz (in onore del padre medico), che aveva un solo numero
civico e una sola casa: la sua.
Lo incontrai sulla porta, che rientrava dal suo laboratorio: non ebbe il
coraggio di cacciarmi. Leggendo i suoi libri mi ero fatta l’idea che fosse un
uomo meraviglioso. Adesso ne ero sicuro. Era un vecchio, nobile signore
nell’anima e nell’aspetto, con un fisico robusto, non dimentico del vigore
giovanile, la barba e i capelli candidi di un filosofo greco, una bonaria attitudine
al sorriso e gli occhi vivaci, interessati a tutto. Il bambino Lorenz non aveva
ancora smesso di giocare.
Nonostante la prepotenza con cui mi ero imposto, ignorando il suo diniego,
mi accolse con cordialità, dopo soltanto un fugacissimo accenno di sconcerto.
Mi parve persino contento di far entrare in casa uno sconosciuto che gli voleva
fare troppe domande. Lo attribuii alla sua squisita buona educazione. Poi mi resi
conto che non solo di quella si trattava: a lui non interessava che fossi un
giornalista; gli piaceva parlare delle sue idee, valutare l’effetto che producevano
sull’interlocutore (incredibile, se si pensa al consenso e all’ammirazione che
riscuoteva in tutto il mondo). E ascoltava le tue parole come fossero osservazioni
di un suo pari. Ma io non riuscivo a liberarmi della soggezione che mi ispirava:
quello non era più un articolo della serie”. Mi accadeva qualcosa. Non era la
prima volta che incontravo un grande personaggio; ma non mi ero mai sentito
così tanto nel posto giusto. E inferiore.
Eravamo nel suo studio, davanti a una ampia vetrata che si apriva su un vasto
prato delimitato da alberi. L’intervista era finita e il professore si era sottoposto
con ironica accondiscendenza al rito delle foto. Sua moglie ci chiese di prendere
il tè con loro. «Siete brave persone», osservò Lorenz quando lei si allontanò.
«Mia moglie ha una grande capacità di capire l’animo degli altri. E invita solo
persone buone a prendere il tè con noi.» Il complimento mi colse di sorpresa. E
mi resi conto che ora il maestro guardava il fotografo e me con diversa e più alta
considerazione. Un fatto così repentino, che lui dovette accorgersi del mio
divertito stupore. Aggiunse allora, quale spiegazione: «Io mi fido della
sensibilità di mia moglie e di quella degli animali, che queste cose avvertono
meglio di me: l’etologo in casa sono io, ma i nostri cani ascoltano mia moglie e
ignorano me».
Tutto questo (e la serenità della casa, il tè che era buono e i biscotti che
sapevano di forno) creò un delizioso clima di confidenza. Ero orgoglioso del
fatto che quest’uomo speciale mi dedicasse il suo tempo e mi trattasse da ospite
atteso, piuttosto che da intruso. E quando terminammo il tè, mi invitò a fare due
passi in giardino, dietro la casa. Non avevo programmato di parlargli delle mie
idee sulla stupidità. Non intendevo approfittare della cordialità che dipingeva di
buono quel piacevole pomeriggio. Eppure, quando ruppi il silenzio, fu per
chiedere: «Professore, lei non crede possibile che molti comportamenti umani
tendano a ridurre e non ad aumentare l’uso dell’intelligenza? E che una cosa del
genere sia indotta, o addirittura imposta, dalla società, dalla cultura? Che possa
esserci una sorta di selezione culturale (e forse persino naturale) che ci
condiziona, per costringerci all’imbecillità?».
Così, tutto d’un fiato. E appena finii, mi sarei morsa la lingua. Venni preso da
quella orribile sensazione che ti coglie quando, tutto contento della bella
impressione che stai dando, fai una cosa assolutamente sbagliata e pensi:
«Adesso si accorgono che sono cretino». Lorenz me lo lesse negli occhi e sorrise
divertito. Mi prese un gomito con una mano e fece lentamente spaziare l’altra
lungo l’orizzonte, in un gesto che indicava vastità, assenza di confini. «Lei
neppure immagina su cosa ha messo le mani», disse. E non vorrei che la mia
memoria assecondasse troppo i miei desideri, ma sarei pronto a giurare che nella
sua voce c’era un che di grave.
Incoraggiato dalla sua reazione, raccontai delle idee che mi giravano per la
testa e che le pagine stesse di Lorenz avevano aiutato a sedimentare. Cercavo di
esporle in modo sistematico, ma, per l’entusiasmo di aver un tale interlocutore e
di vederlo disposto a spendere il suo tempo ad analizzarle, è probabile che non
sia stato lineare quanto mi sarebbe piaciuto. Lui mi guardò come se mi vedesse
per la prima volta. Nei suoi occhi c’erano sorpresa e curiosità. Compresi che
dovevo aver detto, sia pure in forma poco scientifica, qualcosa di importante. E
che lui voleva capire se, almeno, me ne rendevo conto; se ero consapevole del
contenuto profondo di quel che dicevo, o se mi era capitata per caso in mano una
pepita di cui non conoscevo il valore.
Continuammo a passeggiare e a parlare per qualche minuto ancora, mentre
ormai il sole declinava nella campagna che scivola verso il Danubio. Non
ricordo esattamente cos’altro ci dicemmo. Rammento che lui elencò alcune
prove della stupidità umana: la follia europea della seconda guerra mondiale,
alcune scelte politiche di Reagan, il delirio di potenza che c’è nella corsa ad
armamenti sempre più sofisticati e incontrollabili. Ma la cosa che mi segnava
davvero, di quella conversazione, era il senso, l’idea forte delle parole di Lorenz:
nell’uomo, la selezione culturale è molto potente, forse ormai più incisiva di
quella naturale; i comportamenti sociali, o comunque indotti dalla società,
tendono a condizionare e indirizzare le scelte dei singoli. E non mi parve affatto
che il professore escludesse la possibilità che questa selezione operò nel senso di
ridurre le nostre facoltà intellettuali. Mi spiegò come questo avvenga, in modo
macroscopico, attraverso un meccanismo banale e inesorabile. Il genio umano
escogita vie d’uscita per (quasi) ogni necessità della nostra vita. E una volta
scovata la soluzione del problema, non ci è più necessario far uso della nostra
intelligenza: basta copiare. Ma replicare non è inventare; così, le nostre doti
intellettuali avvizziscono, perché non stimolate.
La mia intervista a Lorenz non aveva avuto per tema l’imbecillità, ma la
conversazione che aveva chiuso il nostro incontro condizionò talmente il mio
lavoro, che l’articolo finì in pagina con il titolo: «E Dio creò lo stupido».
Quando il mio pezzo venne acquistato per la ripubblicazione persino in
Giappone, capii che l’argomento doveva aver toccato corde più sensibili di
quanto siamo normalmente disposti ad ammettere.
Molti mesi dopo, mi scrisse un assistente di Lorenz. NE diceva che il.
professore ricordava con interesse la conversazione che avevamo avuto e che ne
aveva accennato a un suo amico, docente di filosofia in una piccola università
austriaca. Era una lettera simpatica: mi si consigliava di non abbandonare quelle
mie intuizioni, perché gli sviluppi avrebbero potuto essere sorprendenti; e di
cercare, da giornalista, l’occasione per diffonderle.
Ne fui lusingato e risposi subito; anche per dire che dubitavo seriamente
fosse il caso di rendere pubbliche quelle mie idee sulla stupidità. Non avrei
nemmeno saputo che forma dare ai miei pensieri: ero un giornalista, non uno
scienziato.
Non molto tempo dopo, Lorenz morì e il mondo si risvegliò più povero.
Avrei voluto sapere tutto di lui, di cosa aveva fatto da quando ci eravamo
incontrati, come aveva trascorso gli ultimi mesi, se la serenità della sua vita si
era conservata anche negli istanti estremi. Confesso che nutrivo anche un’altra
curiosità: il professore aveva avuto modo di elaborare qualcosa che, a partire da
quella nostra conversazione e da quel suo incoraggiamento, mi potesse essere
utile nei miei ragionamenti attorno all’imbecillità? In fondo, il. libro che aveva
lasciato a mo’ di testamento spirituale, aveva un titolo rivelatore: Il declino
dell’uomo. Ci pensai un po’ su, poi decisi di scrivere a quel suo cortese
assistente, per informarmi.
Non ne ebbi il tempo, perché ricevetti da lui, inaspettatamente, una nuova
lettera: mi chiedeva il permesso di trasmettere il mio indirizzo al professore di
filosofia a cui Lorenz aveva parlato delle mie idee. Egli era interessato ad avere,
con me, uno scambio di opinioni sull’argomento. E mio orgoglio fu carezzato
lungamente da quella richiesta. Però! Un filosofo austriaco, amico di Lorenz,
intendeva iniziare, assieme a me, una riflessione su terni da me indirettamente
proposti. Una persona più prudente e meno presuntuosa avrebbe cercato un
modo grazioso ed educato di svicolare; io mi abbandonai alla mia forma
prediletta di stupidità (l’orgoglio) e risposi che sarei stato lieto di offrire al
professore amico di Lorenz tutta l’attenzione che chiedeva, a patto di riuscire, io,
a meritare la sua.
E, tanto per non far subito brutte figure, mi procurai i libri del futuro
interlocutore. Non tantissimi, ma di rara profondità; scritti in stile rigido (o lo
vedevo tale io, sapendolo austriaco), preciso nei dettagli, sensibile alle
sfumature. Aveva scritto abbastanza di etica politica e filosofia del diritto, ma si
era interessato anche (poteva essere altrimenti?) di metodologia della ricerca
storica e di scienze naturali. Un suo testo sull’idea di giustizia (cosa sia stato
considerato giusto o ingiusto nei rapporti fra singoli e fra stati) era ritenuto il suo
capolavoro.
Non passò molto, che ricevetti una lettera del filosofo; fu la prima di una
lunga serie. La nostra corrispondenza andò avanti per mesi. Dedicavo pomeriggi
e serate liberi a mettere assieme gli argomenti per rispondergli e a cercare di
sciorinarli, per quanto nelle mie possibilità, in modo lineare e corretto. Ci tenevo
a decifrare, nelle missive del mio impegnativo interlocutore, tutti i percorsi
possibili. Lui andava subito al cuore dei suoi ragionamenti e la sua competenza
gli consentiva di esporli in forma chiara e sintetica. Io dovevo risalire i molti
rami delle sue idee forti e questo mi conduceva, a volte, alla scoperta di vie
insospettate. In più, la mia attitudine professionale alla divulgazione attraverso
l’esempio, l’aneddoto, mi portava all’uso di un linguaggio che, per quanto mi
fosse abituale, non era forse il più adatto ai temi trattati. Ben diversa la sua prosa
essenziale, priva di ornamenti, che appariva ancor più rigorosa a causa della
lingua, il tedesco. Ne derivava uno stile che aveva insieme una certa dignità
letteraria e la chiarezza (ritengo che la mia traduzione abbia inevitabilmente
impoverito la qualità della scrittura del mio corrispondente). Anche la fantasia
era adoperata come uno strumento: utile allo sviluppo del discorso. Sull’uomo e
la morale, il professore aveva convinzioni profonde, frutto di tanti anni di studio,
di riflessione, di insegnamento. Da quanto credevo di aver capito, quelle mie
povere idee, riferitegli da Lorenz, lo avevano interessato proprio perché così
distanti dalle sue.
Ho conservato tutte le sue lettere; non ho tenuto copia delle mie, di cui mi
sono rimasti, comunque, note, appunti, abbozzi. Su quei materiali ho ricostruito
la nostra discussione sulla fine dell’intelligenza. Negli anni trascorsi fin qui, ho
continuato a riflettere sull’argomento; ho trovato ulteriori dimostrazioni, nuovi
documenti, esempi migliori. Mi è sembrato giusto aggiungere tutto questo a
quanto già avevo, perché non altera la sostanza del mio discorso e, al contrario,
la rende più chiara. In più, senza la copia delle mie lettere, mi sarebbe in ogni
caso difficile distinguere, oggi, quanto pensavo e scrivevo anni fa e cosa ho
elaborato in seguito. Riporto fedelmente, al contrario, i brani delle lettere del
professore. Non ho aggiunto niente; ho solo tolto le parti che non riguardano
l’argomento del discorso e testimoniano, invece, di come una fortuita
conoscenza, nata per soddisfare la curiosità intellettuale, sia maturata in una
amicizia piena di pudore {*}.
{*} [N.d.A.] All’inizio di ogni capitolo compaiono, tra virgolette, i brani tratti dalle lettere del
professore.
Guerra all’intelligenza

“Ho letto con molta attenzione la lettera in cui espone queste sue sorprendenti teorie. L’originalità (o
la stravaganza?) di quanto da lei argomentato mi aveva colpito sin da quando me ne parlò il mio caro amico,
il professor Konrad Lorenz.
Le sue idee mi hanno impressionato; ma non sono affatto sicuro che si tratti di un’impressione
favorevole. La sua intuizione e le elaborazioni che ne ha tratto mi paiono, anzi, molto discutibili.
È mai possibile che l’umana intelligenza si stia estinguendo? Che le nostre facoltà più belle, più
significative e, quel che più conta, essenziali per la nostra sopravvivenza, siano davvero destinate a
scomparire?
Sono assolutamente convinto che questa eventualità sia un assurdo e che niente del genere potrà mai
verificarsi.
Cercherò, pertanto, di analizzare punto per punto le sue tesi e, se possibile, di controbattervi.
Gli ominidi da cui si sarebbe poi evoluto l’uomo si trovavano in una posizione senza dubbio
svantaggiosa rispetto a tutti gli altri animali. Erano, infatti, completamente privi delle doti fisiche che
avrebbero potuto garantire loro la sopravvivenza; non avevano consistenti difese, né mezzi di offesa
adeguati: sembravano alla mercé di un ambiente naturale ostile e, pertanto, condannati all’estinzione.
Persino il loro numero era esiguo.
Pochi e deboli.. questa era la scomoda condizione dei nostri progenitori. Pure, covavano potenzialità
che, opportunamente coltivate, non soltanto permisero loro di cavarsela, ma furono il motore di una
straordinaria evoluzione. ‘Intelligenza’ è il termine che, nel linguaggio comune, indica l’insieme di queste
doti: il fattore determinante dello sviluppo della nostra specie. Quanto alle caratteristiche fisiche, il nostro
progenitore non solo era inferiore ai suoi avversari, ma anche ai suoi concorrenti, quelli con i quali doveva
competere per procacciarsi il cibo e un riparo. Lo svantaggio fu annullato con l’esaltazione delle facoltà
intellettuali, la cui crescita rappresenta la prerogativa dell’evoluzione umana. E questo appare evidente
persino se si considera, fra i tanti, un parametro solo e il più scontato (ma significativo): l’aumento della
capacità cerebrale, la dimensione del nostro cervello.
Il volume della scatola cranica umana ha continuato a lievitare sino a 30 mila anni fa. Prima in modo
più o meno costante, ma abbastanza lento; poi con progressioni sempre più spinte. La potenza di questo
fattore evolutivo appare ancora più ragguardevole se si tiene conto che, nel frattempo, l’aspetto fisico dei
nostri progenitori cambiava molto più lentamente.
Perdoni se sono costretto a richiamare in questa mia premessa, nozioni piuttosto elementari, che lei
non ha bisogno di sentirsi ripetere. Ma mi sono necessarie per introdurre l’assunto principale mentre la
sopravvivenza (e l’evoluzione) di altre specie animali è stata dovuta alle loro caratteristiche fisiche, quella
dell’essere umano è dipesa dalle sue doti intellettuali; le quali hanno avuto tale importanza nel determinare
il cammino dell’Homo sapiens sapiens, da continuare a svilupparsi, sino a farne un animale a parte, del
tutto diverso qualunque altro.
Si potrebbe dire, quindi, che l’intelligenza fosse ‘il nostro destino necessario’: ci ha salvati
dall’estinzione e resi come siamo. E tutto questo va in direzione esattamente opposta a quello che lei
sostiene. Ma vorrei aggiungere ancora qualcosa.
L’evoluzione dell’essere umano è molto rallentata da 30 mila anni a questa parte, fino (parrebbe) ad
arrestarsi. Da allora, le nostre caratteristiche, che nei millenni precedenti erano continuamente mutate sotto
la spinta evolutiva, sono rimaste le stesse. Addirittura, l’aspetto fisico e il volume del cervello sono oggi
identici, nei tratti fondamentali, a quelli di un nostro antenato di 300 secoli fa.
Ma tra un uomo del Paleolitico e un nostro contemporaneo, le differenze sono tali, e tanto
significative, che un osservatore digiuno di conoscenze antropologiche stenterebbe a considerarli due
esemplari della stessa specie. Se non sono cambiate le caratteristiche fisiche, se nemmeno la capacità
cerebrale è mutata: che cosa determina la distanza che ci separa dai nostri simili di 30 mila anni fa?
La risposta va cercata di nuovo nell’intelligenza. È vero che, da allora, le dimensioni del cervello
sono rimaste uguali, ma quando si misura l’ingegno non ci si può fermare alla quantità di materia grigia.
Perché, anche se questa non è cambiata, si è profondamente evoluto l’uso che ne viene fatto. Ed è ciò che
più conta.
Noi siamo così diversi dai nostri antenati paleolitici, perché adoperiamo le nostre facoltà intellettuali
con una intensità a loro sconosciuta. Pensi alla complessità della tecnologia e delle macchine e all’impegno
quotidiano che ci richiedono. E se dal mondo delle cose passiamo a quello delle idee, consideri la vastità di
conoscenze scientifiche, di temi per la speculazione intellettuale e religiosa, di intuizioni, di valori: apparirà
allora evidente la distanza che ci separa da quei nostri lontani avi. Il mondo dello spirito umano si è evoluto
molto più del nostro aspetto fisico.
Non voglio ora richiamare le osservazioni di grandi pensatori, da Aristotele a Popper, che potrebbero
dar sostegno a quanto io dico; né intendo giocare con le parole. Ma non ritengo sia discutibile il fatto che,
mentre noi non siamo cambiati molto, a parità di volume cerebrale, hanno fatto progressi impressionanti le
nostre capacità intellettuali. Al punto che oggi siamo in grado di riprodurne qualcuna artificialmente: le più
elementari, d’accordo, le più schematiche; ma si tratta di un risultato molto significativo, perché segna un
inizio. Le intelligenze artificiali, come i calcolatori, replicano alcune nostre facoltà cerebrali. Per assurdo, se
l’essere umano dovesse estinguersi, certe sue caratteristiche non sparirebbero con lui. E questo non si può
dire di nessun altro animale.
Io sono sicuro, diversamente da quanto lei sostiene, che le nostre capacità mentali, lungi dal contrarsi,
continueranno a svilupparsi. Non vedo quali fattori potrebbero provocare un’inversione di percorso. Il
destino della nostra specie resta l’intelligenza, anche se non è possibile prevedere dove possa condurci
questo processo evolutivo: va misurato in tempi troppo lunghi per rischiare congetture. Ripeto, la sola
certezza che abbiamo, alla luce dei dati oggi a nostra disposizione, è che l’evoluzione umana è legata al
continuo aumento delle facoltà intellettuali. E questo aumento è stato prima quantitativo, poi qualitativo.”

Le considerazioni del professore non sembravano confutabili facilmente. Di
fronte alla sua costruzione logica, le mie congetture sulla fine dell’intelligenza
umana rischiavano di naufragare in porto. Ma nella prima lettera che avevo
scritto al mio dotto interlocutore, la mia idea era appena abbozzata, poco più che
un’intuizione. E nel riepilogo fatto dal professore del nostro percorso evolutivo,
mi pareva di scorgere le tracce di un consolante modo di pensare: veniamo da un
buio passato e procediamo verso un futuro che potrà essere soltanto più
luminoso. Una teoria che, al di là del suo spessore logico e scientifico, è minata
da una debolezza di fondo: ci piace pensare che sia così, ci dà ottimismo e la
speranza che quanto non riusciamo a capire e a fare oggi, ci sarà possibile
domani. Nell’intimo della nostra coscienza, forse non abbiamo mai accettato
davvero l’idea di discendere dalle scimmie; ce la rende digeribile solo il fatto
che da loro ci separa, ormai, una distanza enorme. E quasi altrettanto si può dire
di quei paleolitici che avevano tanto cervello quanto noi, ma non sarebbero stati
in grado di adoperarlo con la nostra intensità. L’intelligenza ci ha allontanato da
quegl’impresentabili parenti; ci ha portato a questo punto; ci condurrà ben più
lontano (sarà, ma i figli dei trogloditi scoperti in Nuova Guinea non molti anni
fa, oggi pilotano i jet).
Queste convinzioni, a mio parere, non stanno in piedi. E lo scrissi al
professore.
Sul nostro pianeta, la regola per la sopravvivenza è “il numero o la forza”;
non l’uno e l’altra. I leoni sono pochi, ma i più forti nella savana. Anche le
gazzelle corrono per la savana, prede dei leoni, ma sono tante; nessuna fiera può
sbranarle tutte. Le più lente muoiono, ma (per terribile che possa essere il
massacro) la specie è salva. La regola è questa, i pochi hanno la forza, i deboli
hanno il numero. I forti non trovano cibo per tutti, quando diventano troppi
muoiono di fame. I deboli e rari non hanno futuro.
Ma era proprio quest’ultima (come ricordava giustamente il professore) la
condizione dei nostri scimmieschi antenati, senza numero di gazzella né forza di
leone. Dall’istinto di conservazione scaturì, allora, una via di salvezza nuova che
infranse la regola: l’intelligenza. Un’arma rivelatasi potentissima, che ha messo
nelle nostre mani il destino di tutte le altre specie del pianeta; ci ha moltiplicati
dall’equatore ai poli.
L’intelligenza ci ha salvati dall’estinzione, ed è stata il motore della serie di
cambiamenti che ci ha fatti come siamo.
Ora, però, la situazione è molto diversa, rispetto alle lontane ere in cui ebbe
inizio il nostro cammino evolutivo. Ormai la nostra sopravvivenza è assicurata;
e, lungi dall’essere messi in pericolo dagli attacchi o dalla concorrenza di altre
specie animali, ne abbiamo sterminate diverse. Al punto che il nostro numero
(sovrabbondante) e le nostre potenzialità costituiscono addirittura una minaccia
per l’equilibrio del complesso, ma delicato sistema che è la Terra. E l’ecologo
James Lovelock, che ritiene il nostro globo un unico essere vivente, ipotizza che
il pianeta ci spazzerà via come pidocchi, di farsi uccidere da noi. Ma questo, per
nostra fortuna, andrebbe contro un principio evolutivo (e fisico), detto “di
economia”, secondo il quale, la natura si muove sempre lungo la strada meno
faticosa. E condannare all’estinzione un’intera specie, perché di cervello troppo
fertile, è “antieconomico”. Non si taglia una gamba per un’unghia incarnita.
L’Homo è pericoloso per la Terra solo se sapiens. Se non lo fosse più o lo fosse
meno, il pianeta potrebbe benissimo sopportarne la presenza.
Per la specie umana, ormai, il rischio non è più quello di estinguersi, ma di
moltiplicarsi, di crescere troppo, anche in potere. «Il numero è la bomba»,
sintetizzava il filosofo Raimond Aron.
E questo significa che l’intelligenza ha esaurito il proprio ruolo: non è più
necessaria, e viene dismessa come, in passato, altre caratteristiche caduche (peli
su tutto il corpo, coda, denti del giudizio…). Lo dimostrano la storia della nostra
specie, e i nostri comportamenti culturali, sociali.
Siamo così orgogliosi del nostro genio da ritenere:
1) che possa solo crescere;
2) che sia per sempre;
3) che, addirittura, l’Homo sapiens sapiens serva solo a perpetuare
l’intelligenza. La quale continuerebbe a esistere (magari nel silicio dei computer
o in forme di vita diverse), persino senza di noi.

Ma è falso. Dai 50 ai 30 mila anni fa, il volume del nostro cervello subì un
robusto taglio; e da allora, l’uso che facciamo di quel che resta è in calo. Come
ogni altra specie, noi abbiamo un solo, esclusivo interesse: salvare noi stessi. La
gazzella non corre per garantire la sopravvivenza della velocità; il leone non
azzanna per tramandare la forza. Così l’uomo non vive per scongiurare
l’estinzione dell’intelligenza; che è semplicemente un mezzo, comodo finché
serve, ma provvisorio, ove se ne trovasse uno migliore.
E genio è stato solo il ponte inventato dall’evoluzione per condurre la nostra
specie alla conquista delle condizioni che ne assicurassero la sopravvivenza. La
missione è compiuta; l’intelligenza non serve più, almeno non tanta quanta ne fu
necessaria in passato.
Einstein si domandava come mai l’uomo avesse inventato quasi tutto quando
vagava sul pianeta in pochi milioni di esemplari, e quasi nulla ora che formicola
a miliardi. A questo, non trovò risposta. La stupidità intimidisce i grandi, perché
ne intuiscono le proporzioni e la pericolosità (al contrario dell’intelligenza, non
ha limiti).
Due ricercatori del secolo scorso, Greg e Galton, contemporanei di Darwin
(il secondo era anche suo cugino), sollevarono una curiosa questione. Si fondi un
villaggio con cento irlandesi stupidi, analfabeti, ubriaconi e maneschi, e cento
inglesi colti, beneducati, sobri (be’… quasi). Dopo alcune generazioni, si
troveranno migliaia di cafoni e nemmeno un gentleman.
Greg e Galton avevano scoperto una cosa sorprendente e la esponevano con
britannica perfidia. Nella selezione e nella trasmissione dei caratteri, è il peggio
che vince; anche quando si tratta di doti ereditarie, la moneta cattiva scaccia
quella buona.
Se questo ci sorprende, è perché la nostra valutazione viene sovente distorta
da un approccio etico o estetico: è per questo che Abele ci sembra migliore di
Caino. Per quanto un tale giudizio possa essere accettabile sul piano morale,
rimane il fatto che, fra i due, è il secondo, e proprio per la sua aggressività, ad
affermarsi nella selezione naturale. Greg e Galton ne conclusero che, nell’eterna
lotta per l’esistenza, è la stirpe inferiore e meno favorita a prevalere, non per le
buone qualità (che nemmeno possiede), ma grazie ai suoi difetti. I due studiosi
furono incuriositi anche da un’altra osservazione, che non riuscirono a spiegare:
gli stupidi sono prolifici, gli intelligenti no; anzi, i geni sono tendenzialmente
sterili. Nel loro villaggio, quindi, sarebbero gli ottusi irlandesi a garantire la
continuità della vita; e i loro caratteri ereditari diventerebbero dominanti. «Mi
dispiace», scrisse Galton, «di essere incapace di risolvere la semplice questione»
della sterilità di uomini e donne di genio. E meno male che la questione era
semplice.
All’origine del nostro percorso evolutivo, non era così. Acquista allora
spessore il sospetto che l’intelligenza possa salvare un numero tutto sommato
esiguo di esseri scimmieschi, ma distruggere l’intero genere umano. Sarebbe
come una potente medicina: provvidenziale, se utilizzata per breve tempo;
veleno, se assunta tutti i giorni. Del resto, se gli intelligenti tendono a non avere
figli, e gli stupidi si dimostrano invece particolarmente prolifici, l’intelligenza è
condannata a non avere futuro. L’uomo è, fra tutti i primati (noi e le scimmie che
ci somigliano), quello che ha più grossi sia il cervello che gli attributi sessuali (il
pene per i maschi, le mammelle per le femmine).
La cosa dà qualche fondamento al sospetto che chi usa più uno dei due
organi “eccellenti”, abbia dei problemi con l’altro.
È necessario accettare l’idea poco lusinghiera che, per la continuità della
nostra specie, importa la quantità e non la qualità. L’istinto di sopravvivenza
spinge noi, come ogni altro essere vivente, all’aumento della “massa biologica”:
è per questo che, oltre che più numerosi, diventiamo più alti. E per lo stesso
motivo, ogni organismo vivente tende a incrementare il peso complessivo della
propria specie. Ecco perché il numero conta davvero. L’essere che più di ogni
altro grava sul globo (in senso ponderale), con il totale di tutti i suoi individui è
la formica: come si fa ad ammazzarle tutte? Le balene rischiano l’estinzione.
Nei paesi ricchi e sviluppati, si studia di più e si fanno meno figli. In quelli
del terzo e del quarto mondo, coltivare l’intelligenza è un privilegio di pochi; si
resta più facilmente ignoranti, e si ha più tempo e attitudine (pare) per procreare.
L’esplosione demografica procede con la povertà. Ma la tendenza all’aumento
della massa biologica è appagata in entrambi i casi. I ricchi sono pochi e ben
pasciuti (l’obesità è una malattia sociale che cresce con il reddito medio); i
poveri sono esili ma moltissimi. La minoranza di esseri umani ben nutriti e la
maggioranza di quelli sottoalimentati, secondo un calcolo basato sui dati della
Banca mondiale, raggiungono complessivamente lo stesso peso.
Siamo diventati più numerosi e più grossi; ma il nostro cervello è agli stessi
livelli da circa 250 mila anni. Nelle ultime migliaia di anni, la quantità di
esemplari della nostra specie è cresciuta con progressione sempre maggiore, ha
avuto un’impennata negli ultimi due secoli, e ora siamo all’esplosione
demografica. Non cambia il volume della nostra materia grigia. Questo è segno
evidente che, dopo aver percorso la via dell’intelligenza, la selezione ha
imboccato ormai quella della quantità. Non favorisce più l’ingegno, ma il
numero, la cui crescita sembra avvenire a spese di quella cerebrale.
E che fare degl’intelligenti che, nonostante tutto, e in numero sempre più
ridotto, continuano a nascere? Eliminarli. La selezione non è solo naturale, è
anche culturale; e da molte migliaia di anni l’Homo sapiens sapiens elabora
comportamenti e sistemi sociali che provocano lo sterminio dei migliori.
Le correzioni selettive della specie avvengono anche attraverso i sentimenti:
l’amore, l’orgoglio, l’invidia… Ne è ottima prova l’istinto materno e, più in
generale, la predisposizione a essere buoni e soccorrevoli con i piccoli della
specie. In una certa misura, questo comportamento si ritrova in tutti gli animali
e, più in alto si sale lungo la scala evolutiva, meno i piccoli sono indipendenti e
più forte è l’istinto di protezione nei loro confronti. La mamma pesce non
riconosce i suoi figli, che spesso sono in grado di cavarserla da soli appena nati;
mamma orsa, una volta che i suoi cuccioli sono cresciuti, li ignora; il piccolo
scimpanzè rimane con la madre, che lo cura amorevolmente, per un tempo
maggiore. Ma nessun altro animale avverte questo legame con la stessa intensità
dell’uomo. Il cucciolo di sapiens sapiens è quello che più a lungo resta inabile e
dipende dagli adulti (i genitori, e non solo) per ogni minima necessità. E questo
duraturo rapporto consente, da una generazione all’altra, una poderosa
trasmissione di cultura (informazioni utili, comportamenti proficui). Così
l’amore materno influisce sul destino della specie e lo determina.
L’Homo sapiens sapiens possiede in misura eccezionale, anzi quasi
esclusiva, anche un altro istinto: l’aggressività intraspecifica, la furia distruttrice
rivolta contro i propri simili. È pur vero che tutti gli animali hanno questo tipo di
carica conflittuale, ma nessuna specie ne è dotata quanto la nostra.
Qual è la funzione dell’aggressività intraspecifica, dell’impulso profondo a
praticare lo sterminio dei propri simili, in massa o alla spicciolata?
Basti pensare a che cos’è una battaglia: l’occasione per radunare in uno
stesso luogo i più forti e i più validi, di una parte e dell’altra, e farli fuori. Il
codardo scappa e ingravida la vedova dell’eroe. L’aggressività intraspecifica
opera una scrematura del genere umano, una riduzione chirurgica del suo valore;
è uno strumento inventato dall’evoluzione per abbassare il nostro livello
qualitativo.
Darwin si chiedeva come mai gli antichi greci, che considerava superiori per
intelligenza a ogni razza umana mai esistita, non avessero colonizzato tutta
l’Europa, non fossero riusciti a imporre la loro cultura e abbiano, al contrario,
subito un declino inarrestabile. Cercò di indicare una risposta nella pochezza di
coesione tra i loro piccoli stati, nella scarsa estensione del loro territorio, nella
pratica della schiavitù, e nella loro «estrema sensualità».
Non c’è una di queste ragioni che stia in piedi. Il genio è fiorito in paesi
altrettanto frammentati (si pensi all’Italia rinascimentale) e non c’è alcuna prova
che cresca con i confini territoriali; la storia della cultura ci racconta di filosofi
sia imperatori (Marco Aurelio), che schiavi (Epitteto); e quanto alla sensualità:
non era proprio grazie a quella che gli irlandesi cancellavano gli inglesi dal
villaggio di Greg e Galton?
No, i greci furono vittime delle tagliole anti genio poste sul cammino della
nostra specie. E, in modo particolare, proprio dell’aggressività intraspecifica.
Stando ai poemi omerici, gli eroi achei che andarono a farsi massacrare sotto le
mura di Troia erano i più belli, i più forti, i più dotati della loro stirpe nell’animo
e nel corpo. Solo i migliori per valore, nobiltà di sangue e intelligenza furono
selezionati (la parola è di una sinistra precisione), per l’impresa. E il primo a
morire fu Protesilao: il più bello e il più ardito dei greci. Sua moglie si ridusse a
giacere con una statua raffigurante il marito: romantico, ma insufficiente per una
gravidanza.
In patria, rimasero gli scarti. I più tonti, i vili e gli inabili; a loro toccò di
provvedere alla continuità della razza, mentre gli esemplari più pregiati della
gente achea facevano poetiche morti fra lo Scamandro e le porte Scee. Per
virtuose che fossero le achee (e non lo erano: l’unica, Penelope, meritò quasi un
poema a parte), dieci anni senza marito sono troppi; del resto, per certe
occorrenze, la grandezza d’animo o d’ingegno contano poco. Così, il genio
acheo fu azzerato per sempre, non tanto dalle armi nemiche, quanto dallo
straripante seme della feccia consanguinea. Nessuno degli eroi superstiti, una
volta tornato a casa, ardì riconoscere come propria discendenza il popolo di
infami e imbecilli cresciuto nel frattempo; preferirono l’esilio, vagare per mare,
tentare la fortuna su nuove, infide sponde. Meglio morire che mischiarsi a quegli
impresentabili parenti.
I resti degli achei, poche decine di anni dopo, furono sottomessi senza sforzo
alcuno dai dori. Che erano barbari, ma avevano capito la lezione; a Sparta, solo
ai migliori era concesso l’onore di andare in battaglia, a patto però che avessero
già dei figli. I primi della stirpe potevano rischiare la morte, soltanto dopo aver
provveduto a travasare il loro sangue in altre vene. Poi, però, l’orgoglio bruciò la
prudenza. Gli spartani giurarono di non tornare a casa, senza aver prima
sconfitto i messeni. Ci vollero vent’anni, il doppio che gli achei a Troia.
Nell’attesa, le spartane si accontentarono degli schiavi, i discendenti degli scarti
achei, presumibilmente resi ancor più tardi dalla condizione servile. I figli della
vergogna, fattisi adulti, vennero esiliati (non potevano essere schiavi, perché di
madre spartana; né cittadini, perché di padre schiavo): fondarono una città
oltremare. Da allora la Grecia cominciò a esportare il peggio.
Ma la guerra, o in senso più ampio l’aggressività intraspecifica, non è la sola
astuzia del nostro motore evolutivo. Ogni forma di organizzazione sociale umana
(monarchia, democrazia, dittatura … ) lavora contro l’intelligenza e le sue
espressioni. Il potere, appena può, comincia a dar fuoco ai libri, poi anche agli
autori. Si può arrivare alla guerra santa, alla persecuzione, allo sterminio contro
chiunque sia sospetto di pensiero (sacrilego, sovversivo, deviante: l’aggettivo è
un di più, la prova che qualche briciolo di fantasia può salvarsi solo passando
dalla parte del boia). Si potrebbe persino trame una norma: «Il potere di una
organizzazione sociale umana è tanto più forte, quanto maggiore è la quantità di
intelligenza che riesce a distruggere».
Questa furia livellatrice può assumere forme diverse. Nella democrazia di cui
siamo fieri, il peso in voti di alcuni cerebrolesi è pari a quello di Enrico Fermi e
dei ragazzi di via Panisperna, che hanno rivoluzionato la fisica contemporanea.
Perché le menti migliori sono sempre all’opposizione? Altre forme, più brutali,
di organizzazione politica si limitano solo a rendere più chiare le cose: l’esilio
per Salvemini, per Einstein; il gulag per Solgenitsin; la morte per Socrate. Con
l’esercizio del potere, l’Homo sapiens sapiens combatte l’aumento
dell’intelligenza e la riduce.
Erodoto ammoniva che gli dei stroncano tutto ciò che si innalza; colpiscono
con il fulmine gli alberi più alti, gli animali più grandi, perché quelli piccoli non
li infastidiscono.
Racconta poi che Periandro, tiranno di Corinto, tramite un araldo, domandò a
Trasibulo, feroce signore di Mileto, come si regge una città. Trasibulo condusse
l’araldo in un campo seminato, e ogni volta che vedeva una spiga che
sorpassasse le altre, la recideva e poi la gettava via, finché atterrò la parte più
bella della messe. Periandro capì e mise a morte gli uomini migliori di Corinto.
Charles Darwin si chiese anche le ragioni per cui la Spagna, dominatrice, per
un certo periodo, di mezzo mondo, sia rimasta poi terribilmente arretrata. Nel
darsi una risposta, dimostrò più acume rispetto a quando si era interrogato sulla
decadenza dei greci antichi: «La santa inquisizione», scrisse, «scelse con estrema
cura gli uomini più liberi e coraggiosi per bruciarli o imprigionarli. In Spagna,
alcuni dei migliori uomini - quelli che dubitavano e ponevano problemi, e senza
il dubbio non può esserci progresso - furono eliminati durante tre secoli al ritmo
di mille all’anno».
Che la Spagna fosse in guerra contro l’intelligenza è provato anche dalla
contemporanea espulsione degli ebrei, le teste più fini del regno; mentre dei
mori, che avevano contribuito a riportare in Occidente le scienze e la filosofia, si
era già privata.
Ai giorni nostri, nella Cambogia dei Khmer Rossi, un titolo di studio, la
conoscenza di una lingua straniera, una particolare abilità nel giocare a scacchi,
erano ragioni sufficienti per essere condannati a morte. In pochi anni furono
massacrati quasi due milioni di persone: poco meno di metà dell’intera
popolazione. La colpa non era la libertà di pensiero, ma persino il semplice
sospetto di esserne capaci.
Il cervello fa paura, scatena l’aggressività in chi ne è privo o meno dotato.
Hitler, alla testa della più ottusa macchina di potere mai vista in tempi moderni,
elesse suo nemico il popolo che ha meritato il maggior numero di premi Nobel. I
sovietici organizzarono il massacro delle fosse di Katyn per azzerare
l’intelligenza polacca (a potare la propria provvidero con più calma). Alessandro
Magno, giunto nella valle dell’Indo, fece rastrellare i dodici uomini più saggi
della regione e chiese chi fra loro fosse il migliore, per metterlo a morte.
L’imperatore cinese Shi Huang Ti ordinò la distruzione di tutte le opere letterarie
e l’eliminazione fisica di tutti gli uomini d’ingegno del suo sconfinato paese.
Cos’avevano da temere, questi uomini potentissimi, da parte di pochi e
deboli, sia pur dotati di intelligenza eccezionale? Nulla; ma era come se
obbedissero a un impulso profondo di distruzione dell’intelligenza. Che
possiamo chiamare Falce delle Mentaway, dal nome di un remoto arcipelago
nell’Oceano Indiano.
Fu un missionario italiano, mandato lì una quarantina di anni fa, a svolgere
opera di conversione, che mi parlò delle isole e dei costumi dei suoi abitanti.
Alle Mentaway non esisteva proprietà privata, la terra produceva
spontaneamente frutti diversi, ospitava numerosa selvaggina; fiumi e mare erano
ricchi di pesce. Ogni capofamiglia poteva attingere risorse in proporzione al
numero di bocche da sfamare. Questo comportava che una vedova con molti
figli fosse molto ambita.
Un mentawayano non scemo se ne cercava una già più volte madre, ma
ancora fertile, in grado di dargli altri eredi. Così acquistava subito il diritto ai
frutti di molti alberi, a pescare in un tratto di fiume più lungo. Se era intelligente,
il mentawayano trovava sicuramente il modo di far produrre di più ai “suoi”
alberi e rendere più redditizie la pesca e la caccia nei territori assegnatigli. Se
uno ha testa (non solo alle Mentaway), ne trae vantaggio.
Ma agli altri, egli appariva soltanto più fortunato: non rubava niente,
rispettava le regole, prendeva solo quello che gli spettava. Però turbava lo stesso
l’equilibrio sociale, l’idea universale di un’equa distribuzione dei beni, suscitava
invidia e sospetto.
Scattava, allora, un’altra regola dell’arcipelago: l’uomo fortunato (o troppo
capace, ma tanto non faceva differenza) veniva portato su un atollo deserto e
lasciato a morir di fame. Cos’aveva fatto per meritarlo? Nulla: per aver osservato
le leggi della comunità, veniva giustiziato. Sarebbe sfuggito alla condanna, solo
se avesse rinunciato ai diritti sui beni messi a sua disposizione dalle norme che
governavano l’arcipelago. Ma così avrebbe violato le regole. E avrebbe meritato
di essere abbandonato su un atollo deserto.
Se hai cervello, alle Mentaway (alle Mentaway…), in un modo o nell’altro
sei spacciato.
Sono sempre i migliori che se ne vanno

“Ritengo che non sia possibile ipotizzare seriamente quanto lei cerca di sostenere: cioè che la
selezione naturale tenda al peggio, che il percorso evolutivo di una specie consista, a un determinato punto,
in un regresso delle sue caratteristiche e potenzialità.
Certamente l’evoluzione non segue un cammino lineare; procede a caso e non mostra di avere un
progetto. Ma se si abbraccia l’intera esistenza di una specie, ci si rende conto che questa tende sempre verso
un miglioramento complessivo, che assicuri le condizioni ottimali per la sopravvivenza. La selezione
naturale matura spesso attraverso errori, tentativi abortiti, come il lavoro di uno sperimentatore; una specie
potrà sviluppare per un periodo di tempo, anche molto lungo, delle caratteristiche che non sono, in
definitiva, le più adatte a garantirle la continuità, ma alla fine, a prevalere, sono le doti più utili alla vita
(pena l’estinzione).
L’intelligenza non è solo la caratteristica peculiare della specie umana, quella che la identifica e la
distingue. È stata anche il fattore determinante per la sua sopravvivenza. E la selezione, in tutte le sue
forme: naturali e culturali, continuerà a esaltare questa dote, perché ha dato ottimi risultati evolutivi.”

Il professore rifiutava quasi con insospettato fastidio, mi pareva, le mie
osservazioni e quanto avevo esposto a loro sostegno. Ma doveva convenire
almeno su di un punto: la selezione naturale opera in vista di un solo scopo, la
continuità della specie. Il che è meno banale di quanto appaia, perché non
entrano, in questo discorso, giudizi di valore di alcun tipo. L’unico “valore” è la
sopravvivenza; non il modo in cui viene assicurata.
Se si accoglie questo presupposto, bisognerà, quale immediata conseguenza,
accettarne un altro: non vi sono doti in se stesse “buone” o “cattive”, “migliori”
o “peggiori”, se non in funzione del risultato: la vita. È buona la caratteristica
che raggiunge lo scopo; è migliore quella che lo raggiunge meglio. L’intelligenza
non è per se stessa preferibile alla forza bruta. In condizioni ambientali
profondamente mutate, una qualità di secondaria importanza può diventare
preferibile (perché più utile alla sopravvivenza) rispetto ad altre fin lì dominanti.
M rendevo conto che su queste considerazioni, universalmente accettate, non
poteva esserci alcuna discussione fra me e il professore. Il punto problematico
era un altro. Si trattava di dimostrare come sia davvero all’opera una fortissima
selezione, naturale e culturale, per ridurre le potenzialità intellettuali dell’essere
umano.
Era l’intuizione da cui ero partito: l’intelligenza si sta estinguendo, è
destinata a finire (capisco che qualcuno ci sia affezionato e ci resti male. Ma…).
La regola scoperta da Greg e Galton e incontrata nel capitolo precedente, si
può formulare anche così:
Nella selezione naturale e culturale della specie prevale il peggio, se il
peggio è più utile.
La ragione di questa legge spietata sta in una tragedia nascosta del nostro
percorso evolutivo: la scintilla di genio cui dobbiamo la salvezza, divampò
incontrollata, al punto di farci rischiare l’estinzione. Il continuo aumento del
volume cerebrale, secondo progressioni sempre maggiori, mise in pericolo la
nostra sopravvivenza. Solo grazie ai più stupidi dei nostri antenati ce la
cavammo, e a stento. Da allora, abbiamo maturato verso l’intelligenza
un’istintiva ferocia, per paura della morte, di essere cancellati.
L’essere più cervelluto mai apparso sul pianeta si è estinto meno di 50 mila
anni fa; noi siamo i suoi “nipoti”: i figli del fratello scemo.
L’uomo di Neanderthal aveva più materia grigia di qualsiasi altro suo simile,
prima (e dopo) di lui; e probabilmente scomparve proprio per questo. Il suo
contemporaneo ed erede, l’uomo di Cro Magnon, aveva meno cervello e
sopravvisse. Nel fondo della nostra cattiva coscienza ci sarebbe anche un
omicidio: perché i resti di Abele Neanderthal, mansueto e di testa grossa, furono
del tutto cancellati dal suo parente Caino Cro Magnon, feroce e dalla capoccia
più piccola (si ritiene che i microcefali siano più aggressivi).
I vincitori non amano i vinti; e infatti nessuno tra i nostri progenitori fu più
diffamato di Neanderthal, che è stato descritto da moderni paleontologi come
decisamente scimmiesco: gambette arcuate, piedi che poggiavano solo sul bordo
esterno, alluce divaricato, grandi arcate sopraccigliari, testa incassata. Poi si
scoprì che questa mostruosa ricostruzione era inattendibile, perché basata sullo
scheletro di un vecchio (di circa 40 anni: età per quei tempi venerabile), malato
di artrite deformante (e poi, il cretino sarebbe Neanderthal!).
In realtà, il nostro antenato non solo non era così brutto, ma le caratteristiche
che ci fanno apparire bello un corpo umano potremmo averle ereditate, almeno
in parte, da lui. Gli saremmo debitori anche dei caratteri neotenici (infantili) che
ci portiamo appresso; egli sublimò attività tipicamente puerili, come il gioco e
l’immaginazione, la capacità di sconfinare nella fantasia. Fu il primo a
tramandare delle forme d’espressione artistica, e a praticare riti funebri; doveva,
quindi, aver elaborato l’idea di un aldilà, di una vita oltre la morte, passo
necessario per spingersi a concepire l’esistenza della divinità.
Ma il fatto più straordinario era l’eccezionale volume del suo cervello, di
circa 1.700 centimetri cubici (convenzionalmente, un centimetro cubo
corrisponde al peso di circa un grammo). Alcuni studiosi valutano la quantità di
materia grigia ospitata oggi nelle nostre teste, inferiore solo di pochi grammi a
quella del più dotato progenitore; altri misurano la differenza addirittura a etti;
tutti concordano sul fatto che né prima né dopo di lui c’è mai stato qualcuno
altrettanto fornito.
Nell’uomo moderno, ogni chilo di peso corporeo (ossa, muscoli e tutto il
resto) regge una ventina di grammi di cervello, e anche meno. A questa
proporzione si arrivava già tra due milioni e un milione e mezzo di anni fa, con
l’uomo di Taung, esemplare della specie Africanus gracilis: un esseruccio di
venti chili e rotti, con circa 500-600 grammi di cervello. Neanderthal, invece,
con un fisico più modesto del nostro, trascinava un cranio maestoso; e ogni chilo
di carcassa sosteneva una quota di materia grigia quasi doppia (in percentuale)
rispetto a noi.
Ma si può affermare, come aveva fatto fin da subito il professore (per
mettere le mani avanti?), che non è la quantità di cervello che conta davvero: il
nostro, più modesto, sarebbe ancora il più capace, perché più complesso. Se
Neanderthal potesse intervenire nella discussione obietterebbe: «Quando
confrontate il vostro cervello con quello della scimmia, dite: “Ma io ce l’ho più
grosso”. Quando il paragone è con il mio, cambiate criterio e dite: “Ma io ce l’ho
più complicato”. Sono sapiens anch’io, sapete, e sento puzza di imbroglio».
La nostra specie, a giudicare dalle dimensioni cerebrali, ha fatto tre passi
avanti e uno indietro, sulla strada dell’intelligenza. A spese, come sempre, del
migliore: l’uomo di Neanderthal, il capolavoro abortito della nostra specie.
L’Australopithecus africanus, altro nostro progenitore, vissuto due milioni e
mezzo di anni fa, aveva un cervello di mezzo chilo (come i gorilla di oggi). Ci
volle un milione di anni, perché la massa cerebrale aumentasse di cento grammi,
con l’Homo abilis. Tasso di crescita: un grammo ogni diecimila anni. Seguirono
altri 800 mila anni, durante i quali si aggiunsero al nostro piccolo patrimonio
quantità ancora modeste di materia grigia. Poi, il grande salto: in soli 600 mila
anni il peso del cervello raddoppia, alla velocità di 30-35 grammi ogni diecimila
anni.
Al tempo di Neanderthal era normale trovare gente con crani da 1.600
centimetri cubici; è stato rinvenuto un teschio da 1.750 centimetri cubici e non si
esclude che ce ne fossero alcuni che si avvicinavano ai due chili. (La media
dell’uomo moderno è tra 1.300 e 1.350 centimetri cubici).
Se si trascura questo eccesso, il volume del cervello umano è immutato da
quasi 250-300 mila anni. Il che sembra non scalfisca comunque la nostra
certezza di essere molto migliorati, nel frattempo.
Quando la nostra avventura evolutiva ebbe inizio, per la nostra specie l’unica
vera possibilità di salvarsi dall’estinzione, e anzi di continuare a moltiplicarsi,
consisteva nell’intelligenza. Le doti fisiche erano modeste rispetto a quelle dei
potenziali nemici e avversari; insufficienti a procacciarsi il cibo e a difendersi
dai pericoli.
Ma, se la nostra sopravvivenza si deve al volume della materia grigia, come
è possibile che l’evoluzione abbia eliminato proprio Neanderthal, l’esemplare
che più aveva sviluppato quella dote?
Circa 250 mila anni fa, i nostri antenati avevano già un cervello pari al
nostro; il fisico no, sapeva ancora di scimmiesco. Anche Neanderthal,
nell’aspetto, era abbastanza diverso da noi: piccolino, tracagnotto, faccia larga,
con arcate sopraccigliari pronunciate. Il corpo umano divenne qual è oggi, solo
poco più di 20 mila anni fa. Corpo e cervello hanno seguito ritmi diversi di
evoluzione, alla ricerca del proprio (e del reciproco) equilibrio.
La nostra specie inseguì l’intelligenza per garantirsi un futuro; ma il corpo
umano non riuscì a sopportare la spaventosa crescita cerebrale di Neanderthal.
La ragione per cui il nostro cervello non aumentò più, e anzi diminuì di volume,
è il problema del parto, secondo Desmond Collins, docente di Preistoria
all’Università di Londra.
Ogni bambino deve passare con tutto il suo corpo per l’apertura pelvica della
madre; e la testa, nel forzare il varco, viene un po’ deformata; il che è possibile
grazie alla scarsa compattezza delle ossa del cranio nei neonati. Ma la testa del
piccolo Neanderthal era comunque troppo grossa, forse il quindici per cento in
più della media attuale. E fu la strage. Queste caratteristiche dovettero
determinare un’altissima mortalità infantile, che sarebbe aumentata (secondo i
calcoli di Collins) fino a raggiungere punte del 90 per cento.
Così, l’intelligenza venne letteralmente strozzata sul nascere; i bambini con
la testa più considerevole morivano al parto, spesso provocando anche la morte
della madre, lacerata nel tentativo di darli alla luce. Sopravvissero, in virtù delle
loro insignificanti capocce, i più cretini della specie; e solo in quanto imbecilli, a
paragone dei più dotati fratelli, ebbero in premio la vita e il compito di
tramandarla. Le loro madri superavano senza sforzo il parto e potevano ripetere
l’esperienza, soltanto perché capaci di garantire la (scarsa) qualità del prodotto.
Questa tragedia avvenuta tra 50 e 30 mila anni fa ci lasciò la sua impronta: la
paura dell’intelligenza, l’astio verso quel genio che può portare all’estinzione e
che aveva messo in pericolo il futuro della nostra specie.
«L’evoluzione biologica», ha scritto Irenäus Eibl-Eibesfeldt, l’erede di
Lorenz, «impara soltanto dalle catastrofi.»
Da allora il nostro destino sembra guidato da un principio, che possiamo
enunciare come la Prima legge sulla fine dell’intelligenza:
Il cretino vive; il genio muore.
L’evoluzione procede a casaccio, per tentativi che possono portare a ulteriori
sviluppi o arenarsi in un vicolo cieco; chiusa una strada, ne imbocca un’altra,
che fino ad allora era apparsa secondaria. È quanto sembra sia accaduto con
l’intelligenza: a un certo punto, si è rivelata una dote troppo pericolosa, cui era
meglio rinunciare. L’uomo l’aveva rincorsa, come l’unica possibilità di garantirsi
un futuro; ma quando i vantaggi che essa offriva hanno cominciato a richiedere
prezzi troppo alti, sino a diventare controproducenti, è stata abbandonata. D’altro
canto, l’evoluzione aveva portato l’intelligenza umana a livelli tali, da
permetterle di supplire egregiamente alla nostra mancanza di doti fisiche (artigli,
zanne, o altro); il futuro della specie era assicurato, e anziché sulla qualità, si
poteva, ormai, puntare sulla quantità.
«La nostra specie», sostiene lo scrittore tedesco Ernst Jonger, «soffre di
ipertrofia delle funzioni intellettive, ha perduto ogni armonia con le forze
naturali.» La stupidità ristabilisce l’equilibrio.
Ecco allora che il numero degli esseri umani aumenta, mentre la massa
cerebrale degli individui resta stabile, o addirittura diminuisce (c’è qualcosa di
serio nella legge di Murphy che dice: «L’intelligenza è una costante, la
popolazione in aumento»). In questa tendenza al ribasso è ancora riconoscibile la
Prima legge, attraverso il suo corollario.
Meglio scemi che morti.
Se, quindi, la nostra specie tende alla stupidità, il giudizio sull’imbecille va
rivisto: piuttosto che tardo, è un anticipatore; non capisce niente, ma è già pronto
per il futuro. Il genio che comprende tutto, invece, non si è, paradossalmente,
accorto che la sua stessa intelligenza è un vecchio arnese, ormai sorpassato. E
pericoloso.
Vivere per rincretinire

“Per avvalorare la sua tesi, lei ricorda un momento drammatico nella storia della nostra evoluzione.
Non me ne sfugge l’importanza. Ma non ritengo che sia sufficiente a provare quel che lei dice, il fatto
che la selezione naturale, in una fase del percorso evolutivo dell’homo sapiens, abbia avuto come risultato
una riduzione della capacità cerebrale; se questo non fosse avvenuto, l’essere umano sarebbe stato
condannato all’estinzione! La mortalità infantile altissima avrebbe ridotto paurosamente, e forse addirittura
compromesso in modo definitivo, le possibilità di sopravvivenza dei nostri progenitori.
Su questo posso essere d’accordo con lei. Ma non per le sue stesse ragioni. Al contrario, dal punto di
vista della selezione naturale (e della continuità della specie) la riduzione sensibile della capacità cerebrale è
stata un vantaggio. Una scelta vincente.
Ma anche per lo sviluppo delle nostre doti intellettuali è stata utile. Perché alla indubbia (e notevole,
sia in percentuale sia in termini assoluti) contrazione quantitativa, si è accompagnato un costante
incremento qualitativo. Anzi, la progressione stessa di questa crescita è andata aumentando. E lo sviluppo
dell’intelligenza umana ci ha condotto alle impressionanti innovazioni tecnologiche degli ultimi due secoli
(un periodo estremamente breve, nei tempi dilatati dell’evoluzione). Le nostre doti intellettuali sono
lievitate, nonostante l’immutato peso del cervello.
È certamente vero che la differenza tra l’essere umano e le scimmie antropoidi si misura prima di
tutto in termini di volume cerebrale; perché questo è il solo parametro davvero oggettivo. Ma non è l’unico;
ve ne sono altri basati su approfonditi studi del comportamento, delle capacità mentali e del loro uso; e tutti
confermano la distanza che ci separa dalle specie biologicamente a noi prossime.
E non si tratta solo di biologia, natura; nella sostanza, l’abisso tra noi e le scimmie antropoidi, come il
gorilla e lo scimpanzé, è culturale. Ancora una volta, il punto non è la quantità di cervello, ma il modo in
cui lo si adopera.
Rimane, nella sua apparente banalità, un punto indiscutibile: l’uomo è tale, perché è dotato di
intelligenza. E l’intelligenza umana è del tutto particolare. Nessun animale ha le nostre facoltà.”

Gli argomenti del professore erano sensati. È vero che non si può ridurre la
differenza tra l’essere umano e le scimmie antropoidi a un problema di cubatura
cranica; resta comunque il fatto che questo parametro è più importante di quanto
solitamente si sia disposti a riconoscere. E che la selezione naturale, riducendo
drasticamente la nostra capacità cerebrale, ci abbia salvati dall’estinzione, è
esattamente quanto sostenevo.
Ma il professore, nella sua replica, non aveva discusso il punto centrale del
mio ragionamento. La salvezza della nostra specie, fino all’uomo di
Neanderthal, si era identificata con l’aumento delle capacità intellettuali; in
seguito aveva invertito bruscamente la tendenza. Il volume cerebrale aveva
smesso di crescere e, anzi, si era ridotto di molto. Concesso che l’intelligenza
non coincida con la capacità cranica, questa ne è pur sempre, e
inconfutabilmente, l’indicatore più importante, l’unico oggettivo, da cui
dovremmo partire. Solo così potremo scoprire i meccanismi attraverso i quali il
nostro genio viene potato.
Per rincretinirci, salvarci e impedire che ci estinguessimo, lo spirito di
conservazione, tramite la selezione naturale, ha infatti disseminato, sui cammino
della nostra specie, valvole riduttrici dell’intelligenza. Esse governano la corsa al
ribasso della nostra capacità cerebrale.

Valvola numero 1, o del massimo

È la più gravida di conseguenze, quella rivelatasi determinante nel corso del
nostro lungo processo evolutivo; ha stabilizzato, contraendola, la quantità
massima di materia grigia che può essere ospitata nel nostro cranio. Questa
valvola si identifica, in sostanza, con la strettoia pelvica (se fosse più ampia, si
disarticolerebbe l’anca e le donne non potrebbero più camminare); un nascituro
dal cranio troppo sviluppato non riuscirà a passare attraverso l’apertura pelvica
materna, se non mettendo a repentaglio le sue possibilità di sopravvivenza e la
vita stessa della madre. Si impedisce, in questo modo, che l’ampliamento del
nostro cervello prosegua senza limiti, rivelandosi distruttivo (come nel caso
dell’uomo di Neanderthal).
La nostra capacità cranica è pertanto ferma, ormai da decine di migliaia di
anni, a una media di 1.350 centimetri cubici, più o meno. E anche se
l’intelligenza non si misura a grammi, quello quantitativo rimane il criterio in
base al quale abbiamo costruito le scale dell’evoluzione, con in cima le specie
più dotate di cervello. Allo stesso modo, abbiamo tracciato la linea di
demarcazione tra noi e le grandi scimmie. Sotto una certa capacità cranica non si
è più uomini, ma scimpanzé, gorilla; si è Cita e non più Tarzan. E dobbiamo
ammettere che noi siamo molto più vicini a quel limite, di quanto non lo fosse
l’uomo di Neanderthal. Proprio perché a lui il riduttore, la valvola del massimo,
mancava; e ne morì. La nostra salvezza è dipesa, con tutta probabilità, dalla
conquista di quel limite. L’incapacità di dire «basta», di porsi un freno, è tipica
dell’infanzia. In tal senso, noi rappresentiamo la “maturità” della specie.

Valvola numero 2, o del minimo

Tende a rimpicciolire sempre di più la dote relativa di cervello posseduta al
momento della nascita. I nostri progenitori, come oggi le scimmie antropoidi,
venivano alla luce con una quantità di materia grigia pari circa alla metà dello
sviluppo massimo da adulti. Negli uomini moderni invece il cervello del neonato
è, in proporzione, circa un quarto di quello dell’adulto. Questa drastica riduzione
dovette verificarsi attorno alla fine del periodo neanderthaliano, sostiene il
professor Collins. La ragione è evidente: i nascituri con la testa più piccola
permettevano un parto meno traumatico, avevano maggiori possibilità di
sopravvivenza e non ponevano m pericolo la vita della madre; avevano,
insomma, più chances di farcela.
Da un certo punto di vista, questo significa che l’uomo moderno, rispetto ai
suoi progenitori, ha uno sviluppo cerebrale maggiore, dalla nascita all’età adulta.
Che il suo cervello, in proporzione, cresce di più; che il bambino, per diventare
un esemplare maturo della sua specie, deve subire più cambiamenti rispetto al
piccolo scimpanzé, al piccolo gorilla e agli ominidi pre-neanderthaliani.
Ma moltissime malattie, o semplici disgrazie, possono bloccare, del tutto o in
parte, la crescita del cervello nel neonato e nell’infante; un piccolo di
Neanderthal in un caso del genere avrebbe comunque conservato, da adulto, più
materia grigia di un bambino di oggi.
Ma un nascituro con la testa più piccola ha maggiori possibilità di
sopravvivenza; e per garantire il futuro della specie conta solo questo. Da qui
derivano due potenti conferme della Prima legge: 1) l’evoluzione preferisce un
cretino vivo a un genio morto; 2) per darci vita, chiede in cambio cervello.

Valvola numero 3, o sommatoria del massimo e del minimo

La combinazione delle prime due valvole produce un effetto che va
addirittura al di là della loro semplice somma, racchiudendo in un percorso
obbligato il destino della nostra specie. L’evoluzione dei nostri progenitori, nella
corsa all’intelligenza, aveva conquistato una dotazione cerebrale ragguardevole
per i soggetti adulti, metà della quale era già disponibile alla nascita. In questo
modo, era assicurata subito una buona quantità minima di materia grigia, mentre
quella massima sembrava destinata solo a crescere. La regola (se una vogliamo
trarne) era: «Il minimo non può diminuire; il massimo può aumentare».
Ma l’uomo di Neanderthal scoprì, a sue spese, che esisteva un limite non
superabile, oltre al quale l’intelligenza (la capacità cerebrale) non era più d’aiuto
e, anzi, diventava un fattore decisamente negativo. A quel punto del nostro
cammino evolutivo, si definì la valvola del massimo. Quella del minimo
perfezionò il processo, con la progressiva riduzione del volume cranico alla
nascita. Oggi, per la combinazione di queste due valvole, la regola che guida la
nostra evoluzione risulta essere stata capovolta; la nuova è: «Il minimo può
diminuire; il massimo non può aumentare». Giusto il contrario di prima.
È evidente come ciò tenda a spingere verso il basso il nostro sviluppo
cerebrale.
Altri potenti fattori fisiologici capaci di ridimensionare le nostre facoltà
mentali divengono particolarmente attivi soprattutto negli ultimi decenni della
vita umana. E hanno, ormai, tale rilevanza da aver acquisito un peso notevole
anche nelle statistiche sociali, per via dell’innalzarsi della vita media e
dell’aspettativa di vita, specie nei paesi più ricchi.
Il primo di questi riduttori (primo, se non altro, in ordine cronologico) è
l’insulto ipossico, a causa del quale, il fatto stesso di nascere comporta una
potatura del cervello. La prima cosa che facciamo, nel venire alla luce, è
rincretinire (qualcuno direbbe: «Chi ben comincia…»). L’insulto ipossico non è
altro che una temporanea mancanza d’aria: dal momento in cui il cordone
ombelicale viene reciso a quello in cui emette il primo vagito, il neonato non
riceve più ossigeno tramite la madre e non è ancora in grado di procurarsene da
solo, con il proprio apparato respiratorio. Tra gli altri effetti, questo brevissimo,
ma fatale, intervallo asfittico provoca lo sterminio di una certa quantità di cellule
neuronali: non meno di 200 o 300 milioni. La cifra non è, in percentuale, molto
alta su un totale di parecchi miliardi; ma si tratta pur sempre di un trauma che
raccorcia le capacità intellettive del neonato. Nel caso di parti difficoltosi, la
temporanea mancanza d’aria può durare troppo, sino a compromettere senza
rimedio il cervello del bimbo, che resta demente. Otto handicappati su dieci sono
tali proprio per le conseguenze dell’insulto ipossico. Soltanto la nostra dote
cerebrale viene tosata alla nascita. Nessun altro organo subisce amputazioni. È la
nostra prima esperienza: non abbiamo ancora cominciato a gonfiare i polmoni,
che già ci viene svuotata un po’ la testa.
I tessuti che formano il cervello sono i più deperibili di tutto il corpo. Si
sviluppano molto rapidamente nei primi cinque anni di vita; poi continuano a
crescere, ma a un ritmo sempre più lento, fino ai vent’anni. Una volta raggiunti i
livelli massimi, inizia il deperimento, prima quasi impercettibile (dai vent’anni
in poi muoiono da 50 a 100 mila cellule cerebrali al giorno: circa 2 mila-4 mila
all’ora); poi sempre più veloce, inarrestabile, verso la demenza senile. Non
tantissimi millenni fa, la durata media della vita era compresa fra i venti e i
trent’anni, ed è aumentata molto lentamente. All’età a cui oggi ci si scopre
“giovanilisti”, nell’antichità classica (e tuttora nelle società arcaiche) si era
considerati vegliardi, circondati da un alone di rispetto, di sacralità. Il
vaneggiamento del demente senile era venerato come un oracolo: «Un dio lo
possiede», mormoravano compunti gli antichi del vecchietto (appena oltre gli
“anta”), ormai rimbambito. La demenza senile non era un morbo, ma un trofeo
di cui gloriarsi; riuscire a invecchiare, tanto da finire rincitrulliti, voleva dire
sfidare il destino, approssimarsi agli dei, e i nomi di chi ne era capace venivano
conservati come una speranza per tutta l’umanità.
Oggi, invece, nei paesi più industrializzati l’aspettativa di vita si aggira
attorno agli ottant’anni (e tende ad aumentare); l’età media si alza sempre di più
e i dementi senili si contano a decine di milioni. Sono soprattutto i paesi ricchi i
più interessati al fenomeno, perché i bassi indici di natalità e la pronunciata
longevità concentrano una percentuale rilevante della popolazione nelle fasce di
età (sopra i 70-75 anni), in cui la stupidità indotta dall’invecchiamento non è più
un rischio, ma una certezza statistica. La proporzione fra reddito pro-capite,
aspettativa di vita e decadimento cerebrale è così stretta, che il tasso di demenza
senile di un paese potrebbe essere derivato dai dati sulla ricchezza media.
In questo modo, la longevità, che sembrerebbe una meta ambita, una buona
“scelta” dell’evoluzione, si rivela un’arma per diminuire l’intelligenza: una
valvola genio-riducente.
La stessa funzione viene esercitata dalla vera peste del nostro tempo, che non
è l’AIDS, ma il morbo di Alzheimer, un male che intacca e distrugge le cellule
cerebrali. Le infermità sono fra gli strumenti principali di cui la selezione
naturale dispone, per determinare il processo evolutivo e indirizzare il cammino
delle specie animali (e vegetali). L’esempio più eclatante è quello delle
epidemie: quando una popolazione è in eccesso rispetto all’ambiente, tanto da
rischiare di non avere più un futuro, interviene spesso una forma epidemica, per
sfoltire sensibilmente il numero degli individui e dare, così, un avvenire ai
sopravvissuti e alla loro progenie.
La funzione dell’Alzheimer è quella di contenere il potenziale intellettuale
complessivo della specie umana, provocando il rimbambimento di un numero
crescente di individui. Colpisce i neuroni e non a caso, ma in particolare quelli
dove si localizzano la memoria, le funzioni del linguaggio e del pensiero astratto.
Cioè, proprio le attività che più ci caratterizzano come uomini, distinguendoci
dagli altri animali. Con il morbo di Alzheimer. la natura pota l’intelligenza
umana e ne mortifica la specificità, il suo essere tanta e unica. Questo male
venne individuato nel secolo scorso, quando sia l’età media che l’aspettativa di
vita alla nascita erano ancora tanto basse, perfino nei paesi più avanzati, da farne
poco più di una curiosità medica. Oggi, appena un secolo dopo, il morbo di
Alzheimer è responsabile di un caso di demenza senile su due; ne sono vittime il
3-4 per cento degli anziani dai 60 ai 74 anni, il 20 per cento di quelli fino agli 84,
e addirittura il 47 per cento di quelli con oltre 85 anni. Il che vuol dire che
almeno un vegliardo su due è rimbambito dall’Alzheimer. E, ancora una volta, si
conferma la regola secondo cui, persino a livello di singoli individui e non di
specie, più vita comporta un prezzo: meno cervello.
Chi evita queste malattie, rischia di rincitrullire per altre cause: per problemi
neurologici di diversa natura, per la conseguenza di piccoli infarti, di traumi, del
morbo di Parkinson e di numerose condizioni patologiche tipiche dell’età senile.
Già alla fine degli anni Settanta, da un convegno a Stresa, cui parteciparono tutti
i migliori geriatri del mondo, venne questo allarme: «La società di domani sarà
ad alto rischio demenziale». Quel domani è oggi.
Tanti anziani meravigliosi onorano il genere umano con l’acume delle loro
menti e la grandezza del loro cuore; ma è indubbio che, dopo una certa età,
rimbecillirsi è molto più facile. E sono proprio queste fasce d’età, oggi, a far
registrare la più forte crescita percentuale. Con l’eccezione dei paesi dove il
problema della fame e le condizioni igienico-sanitarie sono più drammatiche, il
numero degli anziani aumenta con tassi di incremento sempre maggiori. Nei
paesi più ricchi questo è ormai un problema sociale. Si dice, così, che «il mondo
invecchia». «E diventa più stupido», bisogna aggiungere.
Solo negli Stati Uniti, vi sono quasi quattro milioni di persone affette dal
morbo di Alzheimer. E come se non bastasse, l’età in cui la malattia si manifesta
tende ad abbassarsi.
Ritengo ce ne sia abbastanza per poter riassumere quanto fin qui detto, in un
enunciato, la Seconda legge sulla fine dell’intelligenza:
L’uomo moderno vive per rincretinire.
Lo stupido copia e vince

“Sulla riduzione della capacità mentale, nel corso dell’evoluzione umana, le nostre opinioni restano
discordi. Riguardo a questo punto non c’è quindi molto spazio per la discussione.
Quanto, invece, ai fattori fisiologici che sono stati da lei indicati, basterà una considerazione: il tempo
lungo il quale si sono rivelati significativi. Le varie forme di demenza senile hanno assunto l’attuale
rilevanza da molto meno di un secolo; un periodo del tutto trascurabile nel quadro di un processo evolutivo
che si misura a decine di millenni. Circa l’insulto ipossico, e le situazioni patologiche legate a conseguenze
di parti difficoltosi, la risposta è facile. Nascere e far nascere sono oggi esperienze molto meno pericolose
che in passato. E questo, proprio grazie all’uso dell’intelligenza che ha permesso di ridurre i rischi.
Ma anche volendo ammettere che la selezione naturale abbia effettivamente dimostrato la tendenza a
mortificare la capacità cerebrale, e con questa le qualità mentali, vi è stata una selezione culturale che ha
operato tanto potentemente in senso contrario, da bilanciarne l’effetto negativo. Osservando la storia di
questi ultimi millenni, si vede, al di là di ogni possibile dubbio, che proprio la dimensione sociale e
comunitaria della vita umana ha determinato il continuo progredire delle doti intellettuali. Basterà una
osservazione antropologica. Le popolazioni culturalmente più arretrate, legate a idee e a concezioni del
mondo tradizionali, tecnologicamente meno avanzate, sono sempre quelle vissute in isolamento. Sulle alte
montagne o in isole sperdute nell’oceano, o in mezzo ai deserti o nelle foreste, ovunque vi siano degli
ostacoli naturali ai contatti tra società diverse, è facile che prevalgano le culture arcaiche; le capacità
intellettuali non sono stimolate a elaborare nuovi sistemi di pensiero, soluzioni inedite. Mentre i confronti
tra civiltà diverse hanno sempre accelerato il progresso tecnologico, il formarsi di patrimoni di conoscenza
e di rapporti umani complessi e variegati.
La cultura è quella somma di sapere, di idee, di valori, che l’individuo condivide con gli altri membri
della comunità; è quindi una funzione del vivere insieme. La vita associata, la dimensione culturale
dell’essere umano, sono stati fattori primari per il potenziamento dell’intelligenza; e la selezione naturale ha
operato in questo senso.”

Non mi sembrava difficile, questa volta, trovare argomenti per replicare al
professore.
La tendenza che ha dominato tutta l’evoluzione umana, da quando ci è stato
possibile ricostruirla, fu ed è tuttora all’aumento continuo e sempre più rapido
dell’età media e dell’aspettativa di vita. Se appena di recente abbiamo raggiunto
l’attuale longevità, non è sensato dire che fenomeni come le varie forme di
demenza senile (qualunque ne sia la causa), hanno assunto rilevanza statistica
soltanto da pochi decenni, e non possono avere significato nel complesso del
nostro cammino evolutivo.
Non c’è mai stata, nella storia della nostra specie (e parlo di lunghi periodi),
una sostanziale inversione di tendenza riguardo all’aumento dell’età media (è
dell’aspettativa di vita). Quindi, proprio in base alla stessa logica del mio
interlocutore, bisogna affermare che la demenza senile inciderà sempre di più e
che siamo solo all’inizio di un processo di rimbambimento destinato ad
assumere proporzioni enormi.
Se non sbaglio, poi, l’insulto ipossico è, tra i molti rischi connessi col parto e
che sono stati felicemente eliminati o ridotti, uno di quelli che maggiormente
continuano a incidere. Questo perché l’unico modo di cancellarlo davvero,
sarebbe sostituire l’incubatrice naturale (la madre), che in questo caso non dà
molto affidamento, con un utero artificiale; ma per serie, profonde ragioni
morali, e non tecniche, tutti siamo terribilmente spaventati da questa idea, perché
cozza contro il pregiudizio consolidato che la migliore incubatrice sia la madre
naturale. La quale, invece, presenterebbe numerosi svantaggi. Al punto che sono
ormai molti gli studiosi che cercano il modo di escluderla dal processo di
riproduzione umana.
Il professore aveva anche proposto un tema d’importanza decisiva: l’influsso
della cultura sull’intelligenza.
La sua idea, in proposito, mi trovava perfettamente d’accordo. Un grande
studioso sovietico, Jury Lotman, aveva definito la cultura il cervello della
società. E intendeva quell’insieme di conoscenze teoriche e pratiche che
possediamo in condominio con gli altri membri della comunità.
E mio corrispondente aveva chiamato in causa questo argomento per
sostenere la propria visione delle cose; ma io mi proponevo di dimostrare
l’esatto contrario, e cioè che proprio la selezione culturale (forse ancora più
efficace di quella naturale) mira a ridurre le nostre capacità intellettuali.
L’essere umano non è esclusivamente il prodotto della natura; assieme a
questa agisce l’altra grande forza, la cultura. E l’una e l’altra cooperano per
renderci quali siamo.
L’uomo, secondo la fin troppo ripetuta definizione di Aristotele, è un animale
sociale; siamo fatti per vivere assieme agli altri; la cultura riguarda appunto le
comunità, piuttosto che i singoli, si accumula e si tramanda con lo stare insieme.
E stare insieme ci piace.
Ma ci fa scemi. Quando un esemplare della nostra specie, particolarmente
dotato di intelletto, mette il proprio genio al servizio della comunità, la rende più
stupida, produce imbecillità; perché gli altri si limiteranno a imitarlo, a sfruttare
le sue intuizioni, copiandole pedissequamente, e non saranno indotti a esercitare
le proprie facoltà mentali.
La concezione dell’anima elaborata nella mitologia dell’antica Cina chiarisce
bene questo concetto. L’uomo possederebbe due anime, Hun e Po. Po si origina
all’atto del concepimento (viene trasmessa col seme, dal genitore al nascituro) ed
è la sede della memoria. Hun, invece, scocca alla nascita, col primo respiro; è la
forza che accende e stimola l’intelligenza e cresce se viene tenuta desta e in
esercizio.
Po è l’anima inferiore, legata alla fisicità (non per nulla passa per via
spermatica), sede di tutte le nostre pulsioni più basse, della malvagità e
dell’invidia. Hun, invece, captata col respiro nell’aria, alito degli dei, è elevata,
portata alla speculazione. Po è la tenebra, Hun la luce; Po è l’àncora, Hun la
vela; Po cerca di trascinare Hun verso il basso, verso la materialità.
Hun è la creatività, la scintilla del genio, la riflessione originale e innovativa.
Po è la memoria: spenta, piattamente ricettiva, assimila, ricorda e replica le
intuizioni dell’anima più elevata, senza neppure avere la necessità di
comprenderle. Nell’anima bassa vengono raccolte e sedimentate le attività di
quella alta. Attraverso la procreazione di nuovi esseri, le opere originali
dell’anima superiore, razionale, verranno tramandate.
Questa sintesi mitologica illustra molto bene il processo di formazione della
cultura. Un insieme di nozioni e idee, patrimonio comune di tutta una società, si
trasmette di generazione in generazione. Le idee e le scoperte di poche menti
illuminate entrano a far parte di questo bagaglio e si trovano, così, a disposizione
di tutti, anche di chi non le capisce. Solo la cultura permette a tutti i membri
della comunità umana di ripetersi ai livelli dei migliori tra loro, di godere
condizioni di vita che non sarebbero stati in grado di raggiungere con le loro
forze; di risolvere problemi superiori alle proprie capacità. Non accade in
nessun’altra specie animale.
Il gorilla più forte e robusto del branco non potrà trasmettere il suo vigore
all’esemplare più mingherlino; una gazzella lenta non è avvantaggiata, nella
corsa, dalla velocità delle sue compagne. Ma anche il più tonto tra gli uomini si
servirà delle invenzioni dei suoi geniali simili. Nel momento in cui le scoperte
delle menti più fini saranno entrate nel patrimonio culturale dell’intera comunità,
anche l’ultimo imbecille ne parteciperà, in qualche modo. Un colpo di genio
portò un uomo eccezionale a scoprire il fuoco; ma a quel falò si scaldarono pure
i cretini.
Queste considerazioni conducono verso la Terza legge sulla fine
dell’intelligenza, che ha forma articolata.
L’intelligenza opera a beneficio della stupidità e ne alimenta l’espansione.
E che questo sia vero, ormai dovrebbe essere evidente: grazie alla cultura,
alla messa in comune delle conoscenze, ogni passo avanti compiuto dai più
dotati diventa patrimonio di tutti. In questo sta la nostra unicità: solo fra gli
esseri umani le conquiste dei migliori diventano un vantaggio per gli scarti della
specie.
Ma la conseguenza più stupefacente di questo meccanismo è che la cultura,
al contrario di quanto ci si aspetterebbe, tende a inibire l’esercizio delle facoltà
mentali, della riflessione, dell’inventiva. Per restare all’esempio del fuoco: è
certo che anche altri, a parte il primo geniale scopritore, sarebbero stati in grado
di arrivarci; ma se qualcuno l’ha già acceso, perché cercare ancora i fiammiferi?
In questo modo, il potenziale ideativo di tanti, di troppi, rimane inutilizzato; e la
cultura, per via del sapere accumulato e condiviso, induce alla pigrizia e
all’inerzia intellettuale. E metodo soffoca l’ingegno e lo sostituisce.
Un grande della meccanica inventò la serratura; da allora, chiunque può
adoperarla: basta girare la chiave.
La scintilla del genio brilla per un attimo nell’oscurità. La cultura trasforma
quel lampo in luce per tutti. E ne acceca le menti. La ripetizione è un esercizio
banale, ma ha un effetto riduttivo devastante per le capacità mentali di chi la
pratica. L’intelligenza ha bisogno di continui stimoli, di mantenersi in attività,
come qualsiasi altro organo o facoltà: l’uso la esalta, il riposo la atrofizza. Se un
poderoso patrimonio culturale offre già le soluzioni pronte per una infinità di
problemi, cosa dovrebbe aguzzare l’ingegno che, notoriamente, si muove solo in
caso di necessità? La tecnologia risolve, come una docile schiava, le molte
difficoltà pratiche della nostra vita ed è stato persino inventato il metodo per
inventare («per tentativo ed errore», Galilei). L’intelligenza non è più necessaria
per assicurare il futuro della nostra specie, i geni hanno esaurito il loro compito e
sono messi da parte: possiamo permetterci di essere stupidi, senza rischiare
nulla.
Ma è il caso di dare un nome al meccanismo che fa della cultura uno
strumento per cumulare prodotti dell’ingegno, renderli alla portata del più scemo
e moltiplicarne l’uso all’infinito. Lo abbiamo sotto gli occhi, solo che non lo
riconosciamo subito in un oggetto così grande (la condivisione dell’immenso
patrimonio di conoscenze e costumi sociali della specie). A me ne rivelò la
natura Konrad Lorenz, in quella nostra conversazione. «Ogni colpo di genio,
ogni invenzione lascia un sedimento materiale», gli dicevo, «sia esso un oggetto
o un modo di agire » «Si chiama utensile», mi interruppe lui. «t t 1 ciò che può
essere adoperato anche dal più idiota.» E di fronte alla mia perplessità, aggiunse:
«Guardi che questa è una definizione scientifica».
Utensile può essere uno strumento tecnico, ma anche un metodo logico, una
forma di organizzazione sociale e ogni altra cosa che, frutto dell’intuizione di
una mente geniale, possa essere adoperata da chiunque, «anche dal più idiota».
Oggi il mondo stesso è a misura dell’imbecille, al punto che macchine
complesse e pericolosissime, organizzazioni planetarie, strutture basilari per la,
vita umana sono nelle mani di persone universalmente conosciute come cretini,
psicotici, affetti da malattie invalidanti delle facoltà che più parrebbero
necessarie a certi livelli (equilibrio, saggezza, intuizione, tolleranza, altruismo,
intelligenza).
Basterà pensare a chi erano, nei momenti di maggior tensione e pericolo, i
leader delle potenze mondiali, i padroni del destino della Terra. Si diceva che
Gerry Ford, il presidente degli Stati Uniti nella prima metà degli anni Settanta,
fosse incapace di fare due cose assieme: scendere dalla scaletta dell’aereo e
masticare chewing gum. Leonid Breznev, uno dei più longevi leader della
vecchia Unione Sovietica, quando non era ubriaco, appariva per quel che era: un
alcolizzato. Per distruggere il pianeta, avrebbero dovuto solo pigiare un bottone.
In quale specie animale due così sarebbero diventati capobranco?
«Solo fra gli uomini il figlio del re diventa re, anche se cretino», mi diceva lo
scrittore e pastore Gavino Ledda. «Per questo preferisco le pecore».
La nostra è l’unica specie che riesca a mettere a disposizione degli esemplari
meno adatti tutto un corredo di strumenti per consentire loro una vita facile e
sicura, garantendone così la sopravvivenza. E l’intelligenza che ha permesso
questo. Ma, assolta tale funzione, essa non è più necessaria; la più grande,
geniale delle sue imprese è superare la sua stessa ragione di esistere e rendersi
superflua.
Charles Darwin ha spiegato che alcune conquiste particolarmente
significative ottenute dagli animali, si traducono poi, nel corso di generazioni, in
comportamenti che entrano nel bagaglio ereditario degli esemplari della stessa
specie.
Nel caso degli animali, si tratta di un processo esclusivamente naturale.
L’istinto guida i figli a non commettere gli stessi errori dei genitori e a imitarne
le azioni vantaggiose. È una trasmissione di sapere da individuo a individuo.
Nella specie umana, le acquisizioni dell’intelligenza si depositano e si
sedimentano nella cultura, diventano memoria della società. E si trovano, così, a
disposizione di tutti. Si ha, a questo modo, un passaggio di conoscenza da tutti a
uno e da uno a tutti.
Ma quando replichiamo un pensiero o un’azione che ci hanno raggiunto
attraverso la memoria collettiva, la nostra intelligenza non è chiamata in causa; e
questo, per quanto geniale possa essere stata l’intuizione che portò a quell’idea, a
quel comportamento utile.
Tutto ciò che fa parte della nostra cultura lo abbiamo ereditato, senza alcun
personale impegno, sotto forma di istruzioni per l’uso. È il “che fare” della
specie.
E c’è ancora una strada attraverso la quale la selezione culturale avrebbe
contribuito molto alla prevalenza dell’imbecillità. Se ne può riconoscere la
traccia nel mito della donna “oca ma bella”. È la risposta alla domanda: «Perché
ci piace Marylin Monroe?».
Negli animali, anche tra i mammiferi, il sesso è sostanzialmente legato alla
riproduzione (anche se ormai è assodato che non è solo ed esclusivamente
funzionale alla propagazione della specie, come si credeva qualche tempo fa).
Nell’uomo, invece, tale legame si è andato sempre più affievolendo; e questo
passaggio evolutivo fu tra quelli che maggiormente contribuirono a renderci
diversi dagli altri animali. La nostra sessualità smise di essere una pulsione
soltanto naturale e divenne un fatto culturale.
Negli animali, la femmina emette una serie di indicatori visivi, olfattivi, che
segnalano il periodo in cui è disponibile al rapporto sessuale: il maschio si eccita
quando li percepisce. Col tempo, nella nostra specie tali richiami vennero
sostituiti da altri, artificiali, come i profumi, il trucco, e la gonna di Marylin
sollevata dall’aria calda dello sfiatatoio della metropolitana.
Un guru dell’antropologia, Claude Lévi-Strauss, cita una teoria molto
suggestiva. In epoche remote, le donne più accorte e astute compresero che, in
determinati periodi, potevano “farlo” senza il pericolo di restare incinte, mentre
in altri giorni (e proprio quelli fertili, in cui il loro corpo emetteva i richiami
sessuali che attiravano l’uomo), era meglio lasciar perdere. Le ragazze meno
sveglie non facevano queste sottili distinzioni e continuavano a sfornare un figlio
dopo l’altro.
Le più furbe trovarono dei sistemi artificiali (culturali, direbbero gli
antropologi) per suscitare l’attenzione degli uomini: inventarono la cosmetica;
nei giorni “sicuri” si truccavano, si profumavano e imitavano i segnali dell’estro.
Così, senza rischiare gravidanze indesiderate, potevano lo stesso legare
sessualmente a sé i maschi e trarne i vantaggi conseguenti. Le altre dovevano
continuare a fare affidamento su quei richiami naturali che, purtroppo, venivano
emessi solo durante i giorni fecondi.
Il risultato di questa situazione sarebbe stato che le donne stupide avrebbero
avuto più figli di quelle furbe. La selezione naturale e quella culturale combinate
insieme avrebbero così operato, anche tramite il sesso, per una diffusione
massiccia dell’imbecillità.
Perché il capo è un imbecille

“Le sue considerazioni sono interessanti; cercherò di esaminarle una per una, in modo da poter
dedicare loro la dovuta attenzione.
Non voglio soffermarmi a lungo sulla immorale idea di violentare la natura in quanto questa ha di più
sacro e meraviglioso: il processo di generazione. lo sono profondamente convinto che taluni procedimenti
naturali non siano altro che la concretizzazione di una legge morale, di un principio etico tanto alto, che
forse ci sfugge nella sua interezza.
Siamo ora arrivati a quello che fu il punto centrale della sua conversazione col caro Konrad Lorenz,
secondo quanto lui stesso mi raccontò. Lo straordinario sviluppo dell’intelligenza umana avrebbe avuto,
come conseguenza estrema, quella di deprimere se stessa, di rendersi superflua. Questo era il senso di tutto
il discorso, che non riassumerò, dato che è ormai sufficientemente chiaro, tanto a me quanto a lei.
Ma insisto: tutto ciò mi sembra quantomeno discutibile. È senza dubbio vero che le conquiste
dell’intelligenza umana, messe a disposizione di tutti dalla vita sociale e dalla cultura elaborata nel tempo
dalla comunità, danno già la soluzione di molti problemi, concreti o astratti. Ma le difficoltà, gli
interrogativi non costituiscono un insieme finito; al contrario, non si esauriscono mai, sono un universo
senza limite. Affrontato e risolto un quesito, se ne presenterà un altro, e così via. In sostanza, all’intelligenza
umana non mancheranno mai occasioni di esercitarsi, perché si troverà sempre di fronte a nuove sfide, ad
altre domande. Di più, gli enigmi già superati saranno lo stimolo a cercarne altri.
Sono convinto che l’intima nostra natura stia nella sua razionalità; in parole povere, l’essere umano è
tale, perché si serve in continuazione, in tutta la sua vita, della propria intelligenza. Molto semplicemente,
non può fame a meno; è la sua essenza.
Per questo io sono persuaso che il nostro genio non finirà; nel momento in cui non fosse più la nostra
caratteristica fondamentale, cesseremmo di essere quello che siamo e torneremmo a essere delle bestie.
Lei ha appena sfiorato una questione vitale: il problema dell’anima. Generalizzando un poco, è
evidente che in tutti i sistemi di pensiero, in ogni religione, in tutte le filosofie, domina una concezione
dualistica dell’uomo. L’essere umano sarebbe composto di una parte materiale e di una spirituale. Quella
materiale è la sede degli impulsi che più ci avvicinano agli animali (o agli altri animali, come direbbe,
giustamente, lei); la parte spirituale governa le attività che sono caratteristiche, se non esclusive, dell’essere
umano, come la riflessione. Questa duplicità è stata vista come il confronto tra l’anima e il corpo, o tra parti
diverse dell’anima.
Non mi sembra che costituisca una buona prova di quanto da lei sostenuto; e, anzi, dimostra che
l’uomo è sempre stato consapevole di essere un animale molto particolare, e di avere qualcosa di unico:
appunto, l’intelligenza.
Certo, non posso che convenire con lei almeno su un punto: nel mondo c’è un numero di imbecilli
che non cessa di sorprendermi. Questa situazione è resa ancor più interessante dal fatto che molti, tra questi,
occupano posizioni di prestigio e di notevole potere, per cui esercitano una grande influenza sulla vita dei
loro simili. Anch’io ho cercato di spiegarmi non solo perché ci siano tanti stupidi, ma perché riescano a fare
delle eccellenti carriere.
La risposta, a mio parere, sta nella debolezza umana, e nell’uso insufficiente dell’intelligenza.
Riprenderò l’esempio da lei avanzato. Il successo di un uomo politico imbecille si spiega col fatto che, in un
modo o nell’altro, ha saputo lusingare i lati deboli dei potenti e delle masse. E che, proprio per la sua
stupidità, viene ritenuto non pericoloso e più adatto a ricoprire incarichi che una persona di genio gestirebbe
con ben altra autorità. Non c’è bisogno di invocare la fine dell’intelligenza!”

Il vero problema, nel mio dialogo epistolare con a professore, era che, come
molte persone di grande talento e profondità, mi sembrava stentasse a rendersi
davvero conto delle proporzioni immani assunte dall’imbecillità umana.
Non che la negasse, o che volesse a tutti i costi sottostimarla; uomo esperto
del mondo, si rendeva perfettamente conto di come il pianeta fosse popolato da
idioti.
Ma continuava a voler spiegare la stupidità e i suoi effetti come un incidente
di percorso, magari macroscopico, ma pur sempre, solo un intoppo lungo il
felice cammino dell’intelligenza.
Questa logica, in sostanza, rifiuta di affrontare il cuore del problema; e così
faceva anche il professore, che alle mie considerazioni sulle cause strutturali,
rispondeva cercando di spiegare i meccanismi grazie ai quali l’imbecillità riesce
a propagarsi. Per di più, il professore era così onesto, che non potevo accusarlo
dell’errore comune a tanti saggi che, secondo quanto ne dice Robert Musil nel
suo Discorso sulla stupidità, «evitano di studiarla, nel timore di essere confusi
con l’argomento».
In effetti, se nessuno, almeno credo, aveva mai analizzato davvero il
problema dell’imbecillità, chiedendosi da dove questa derivi, molti si sono
dedicati allo studio dei meccanismi che ne assicurano la diffusione, facendo sì
che gli stupidi riescano a influenzare profondamente la vita di tutto il genere
umano (compresi gli intelligenti).
Uno dei più noti moltiplicatori di imbecillità è il cosiddetto principio di Peter
(da colui che a suo tempo lo individuò, Lawrence Peter), che recita: «In qualsiasi
gerarchia, ognuno tende a essere promosso, finché non raggiunge il suo livello di
incompetenza; pertanto, ogni incarico è destinato a finire nelle mani di un
incapace».
Si tratti di strutture aziendali, culturali, politiche, religiose o altro, la regola
non cambia.
Il principio di Peter opera secondo un meccanismo logico abbastanza
semplice. Chi entra in un sistema gerarchico e svolge bene il proprio lavoro, di
solito “fa carriera”: sale sul gradino superiore nella scala. Se anche in quella
posizione si dimostra efficiente, è ragionevole pensare che sarà ancora
promosso. E così via. A questo modo, occupa livelli sempre più elevati, di
maggiore responsabilità; ma le complicazioni crescono di pari passo e
aumentano la qualità e la quantità dell’impegno e delle doti richieste. Fino a
quando il nostro uomo ottiene un incarico con un grado di difficoltà superiore
alle sue capacità.
A quel punto, si rivela inefficiente, e la sua carriera si arresta. Attenzione:
non verrà degradato, retrocesso a una posizione adeguata alle sue doti.
Continuerà a occupare il posto che ha fatto emergere la sua natura di incapace e
per il quale si è dimostrato inadatto.
Questo principio ebbe un grande successo. Ma ha un difetto: è fondato sul
presupposto della razionalità. Voglio dire: parte dall’idea che, in una gerarchia, i
comportamenti umani, almeno fino a un certo punto, siano ispirati a criteri
ragionevoli. E in base a un principio intelligente (secondo Peter) che viene
promosso il migliore, anche se verrà il momento m cui si rivelerà un imbecille.
Ma fino ad allora, il meccanismo obbedisce a regole logiche. Non sei scemo,
operi bene, e vai avanti; quando ti scopri incapace, la tua corsa finisce.
Ma le cose non stanno così. Gli sforzi per spiegare il diffondersi
dell’imbecillità non riescono a cogliere il vero interrogativo, che è questo: come
mai, nonostante il dilagare della stupidità il mondo va a gonfie vele?
Se le organizzazioni umane si reggessero davvero sull’operato dei migliori e
fossero regolate dal principio di Peter (quindi dominate, sia pure a causa di un
sistema perverso, dagli incompetenti) tutto dovrebbe andare a rotoli. Al
contrario, il mondo funziona, non siamo alla catastrofe, né con tutta probabilità
ci arriveremo prossimamente.
Allora: come è possibile che la società continui il suo cammino nonostante
l’aumento della stupidità?
C’è una sola risposta possibile: l’intelligenza non è (più) necessaria per far
marciare il mondo: l’imbecillità sa farlo altrettanto bene. E persino meglio.
Questo è esattamente quanto cercavo di chiarire al professore. Il cretino non
solo non ha una funzione negativa, ma anzi ha assunto un ruolo salvifico: la
sopravvivenza della nostra specie dipende ormai dall’imbecillità, come un tempo
dall’intelligenza.
Le persone di genio si rifiutano di concepire e di accettare questa verità. Per
loro è semplicemente impossibile pensare che l’essere umano debba diventare
stupido per poter avere un futuro. Vedono l’essenza della nostra specie nelle sue
doti intellettuali; e anche quando si rendono finalmente conto delle proporzioni
assunte dall’imbecillità, si ostinano a considerarla un fatto deleterio e
accidentale.
L’errore è dare, sulla stupidità, un giudizio etico o estetico. Essa va
considerava “tecnicamente”, alla pari dell’intelligenza, come uno degli strumenti
di cui l’evoluzione può disporre. Se l’imbecillità avesse un valore negativo per la
nostra specie, i casi sarebbero due: o ci saremmo estinti da un pezzo, o non ci
sarebbero più cretini. Una caratteristica nociva così diffusa, infatti, porta alla
sicura estinzione, oppure viene corretta dalla natura. La specie umana, al
contrario, è lungi dallo scomparire e la stupidità continua a espandersi. Non c’è
altra conclusione che questa: l’imbecillità è necessaria alla sopravvivenza della
nostra specie, per quanto possa dar fastidio agl’intelligenti rimasti.
Le nostre comunità sono strutturate in base a principi gerarchici: più o meno
vistosi, più o meno brutali, comunque presenti. E le burocrazie tendono a
diffondere stupidità (lo abbiamo sempre sospettato; ora sappiamo perché; fra
poco vedremo come). Se davvero l’imbecillità avesse una funzione distruttiva, le
società umane sarebbero al collasso: invece godono ottima salute e si
moltiplicano.
Evidentemente, è proprio la stupidità che sostiene le strutture sociali e ne
garantisce il futuro. Le burocrazie, dunque, contrariamente a quanto male si
pensa di loro, hanno una funzione positiva, non malgrado, ma proprio perché
accrescono il numero e il potere dei cretini.
La gerarchia è lo strumento che l’evoluzione ha inventato per raggruppare i
sapiens sapiens e costringerli alla demenza. Se la guerra, espressione
dell’aggressività umana, raduna i migliori della specie per sterminarli, il sistema
burocratico, espressione del nostro istinto sociale, mette assieme i cervelli e li
spegne: è la continuazione della lotta all’intelligenza, condotta con altri mezzi.
Lavoro in un gruppo editoriale. Anni fa, cominciarono a verificarsi dei furti
nelle redazioni dei periodici di proprietà dell’azienda. I derubati non la presero
bene, e si lamentarono dell’insicurezza della nostra sede: un palazzotto d’epoca
nel centro di Roma. Il sindacato ritenne utile far osservare che, in uffici in cui i
ladri entravano impunemente, anche altri avrebbero potuto presentarsi senza
invito. Ed eravamo nella stagione più calda del terrorismo.
L’editore fece finta di non sentire. Ma la protesta, per abitudine, continuò ad
apparire nei comunicati sindacali, soprattutto quando scarseggiavano altre
possibili lamentele.
Anni dopo, quando la minaccia del terrorismo era ormai solo un ricordo, fu
annunciato, «per motivi di sicurezza», il trasferimento delle redazioni in
ambienti più sicuri. La nuova sede si trovava in una delle zone più malfamate di
Roma, infestata da ladri, barboni, spacciatori di droga, prostitute e loro irascibili
protettori.
Non si era trovato niente di meglio, ci dissero. Ma ci venne garantito che i
nostri uffici sarebbero stati una vera fortezza: porte blindate ad apertura
elettronica, telecamere da ispezione in ogni locale (sperammo che almeno i
bagni fossero esclusi), vigilantes in portineria.
Per poter penetrare nel maniero era necessaria una tesserina magnetica, con
la nostra foto. A chi la dimenticava, veniva impedito l’ingresso. Questo generò
una serie di liti e proteste che portarono a un correttivo. Chi si fosse trovato
sprovvisto della tesserina magnetica doveva depositare un documento in
portineria e gli sarebbe stato dato un lasciapassare, previa identificazione da
parte della guardia giurata.
Che ci conosceva tutti benissimo; ma la prassi doveva essere quella. Con un
problema. Di solito, i documenti vengono custoditi insieme alle carte di credito e
alle tesserine magnetiche, nel portafogli o nell’agendina. Così, a molti capitava
ancora di non riuscire a entrare in ufficio.
L’accesso era stato reso difficile, e in certi casi impossibile, a noi, che
eravamo le persone da proteggere. Le cose andarono diversamente con gli ospiti
indesiderati. In pochi giorni, una collega fu aggredita da uno scippatore, un
fotoreporter derubato della costosa attrezzatura, il mio ufficio venne svaligiato,
la cassaforte aperta. L’allarme non funzionò.
Nel frattempo, un barbone elesse a propria residenza la tettoia all’ingresso
del palazzo; poco male, se non fosse stato per l’angolo accanto al portone,
destinato a servizi igienici. Ma la circostanza sembrava non dare fastidio ai
drogati che ci si rifugiavano, per contrattare o iniettarsi la dose.
Qualcuno si decise, dopo lunghe discussioni, a inviare una lettera aperta
all’azienda, suggerendo una proposta che cercava di conciliare libertà e
prudenza: le guardie all’ingresso avrebbero lasciato entrare i dipendenti (anche
sprovvisti di tesserina di riconoscimento) e agli estranei avrebbero dovuto
chiedere chi erano e cosa volevano.
L’idea apparve sospetta. I top manager disposero discrete indagini
sull’agitatore, per arrivare a stabilire che era uno che «dava fastidio». L’incauto
venne avvisato che si metteva in cattiva luce. Alla fine egli, vile o saggio, decise
di ignorare le stupidaggini che gli accadevano attorno. Lo fece sapere in giro, e
si prese atto con soddisfazione che aveva messo la testa a posto.
Mesi dopo, l’allora grande capo della nostra azienda annunciò di aver risolto
definitivamente il problema. Le guardie armate avrebbero concesso ai dipendenti
di entrare anche senza documenti; gli estranei sarebbero stati ammessi solo
previa identificazione.
L’azienda in cui lavoro non è peggiore di altre: né quel dirigente un cretino,
anzi era stimato uno dei più abili. E allora?
Questo episodio mi sembra un ottimo esempio di come funziona la società
umana, con le sue strutture gerarchiche. Tutti possono riferire di esperienze che
hanno visto trionfare l’imbecillità, persino dove e quando si trattava di questioni
molto serie.
Il mio direttore, quando andavo a proporgli un’idea che mi pareva brillante,
mi ammoniva: «Regola numero uno: ricorrere alle cose intelligenti, solo dopo
aver esplorato le infinite possibilità dell’ovvio». E quando decisi di prenderlo sul
serio, capii che aveva ragione.
Perché i comportamenti dei sistemi gerarchici sono così immancabilmente
stupidi? È mai possibile che tutti gli imbecilli si siano concentrati nei ruoli di
responsabilità? E che tutti gli intelligenti, nessuno escluso, ne siano stati
eliminati? In realtà, nei posti chiave delle gerarchie non ci sono più stupidi che
in qualsiasi altro gruppo umano; il tasso di imbecillità è lo stesso tra i manager, i
politici, e i parrucchieri.
Le gerarchie si comportano in modo stupido, non perché siano tutti cretini
coloro che ne fanno parte, ma perché non possono, per questioni di funzionalità,
agire diversamente. In una burocrazia non è possibile “mettersi a fare gli
intelligenti”.
Tutti i sistemi gerarchici funzionano tendenzialmente allo stesso modo; i loro
comportamenti collettivi sono dettati da semplici regole generali. La più
importante è questa: le norme e le consuetudini vanno rispettate. Esiste un modo,
e uno solo, di fare le cose; e a quello bisogna attenersi.
Al contrario, la mente umana è portata al dubbio, alla critica,
all’innovazione. Chi è abituato a mettere a frutto le proprie doti intellettuali si
chiederà sempre cosa sta facendo, perché lo fa, e se non ci sia un altro modo
(magari migliore) di farlo.
La struttura gerarchica della società prevede, invece, che in ogni determinato
caso, ci si comporti secondo la regola prefissata. Qualcuno, dotato di mente
sveglia e curiosa, potrebbe cominciare a obiettare: «Perché?». «Non c’è un
sistema meno sciocco di fare la tal cosa…?» (sì, di solito c’è). «Possibile che
nessuno si sia reso conto che…» (possibilissimo. E anche quando se ne rende
conto, se è furbo, sta zitto).
Ma le ragioni della gerarchia sono profonde. E le sue norme più sono
stupide, più vanno considerate indiscutibili. (Le regole intelligenti si difendono
da sole).
La ragione principale è questa: se tutti cominciassero a sollevare dubbi, a
mettere in discussione i comportamenti e le soluzioni date, l’attività della
struttura ne resterebbe paralizzata. Nelle gerarchie conta chi fa qualcosa, non chi
cerca il modo migliore di farla.
L’intelligenza, per le società umane, è sabbia negli ingranaggi; rischia di
fame inceppare i meccanismi. Il genio è sovversivo non soltanto perché, invece
di applicare la norma, la discute; ma perché, così facendo, blocca il cammino
regolare dell’intero sistema burocratico. L’intelligenza, mentre valuta con spirito
critico il. funzionamento delle strutture sociali, di fatto lo rallenta o lo
interrompe. L’acume, o semplicemente il buon senso, portano confusione. Se il
sistema reagisce, riaffermando la supremazia della propria imbecillità, fa bene: si
difende, come un organismo qualsiasi contro un agente esterno che ne metta in
pericolo la sicurezza, l’esistenza.
Ecco perché la stupidità è necessaria: è la vera linfa vitale della società
umana. È la regola, il motore che la fa marciare.
È tempo di trarre una prima conclusione e commentare l’errore più grosso
commesso da Peter, nel concepire il suo famoso principio. Peter vede le
gerarchie come strumenti che mirano a cumulare intelligenza e che, per errore,
portano a un aumento della stupidità. Se questo è vero (e, anche senza la felice
sintesi di Peter, era già intuitivamente noto a tutti), perché non si cambia
sistema?
Una contraddizione da cui non si esce, senza improponibili contorcimenti.
Ma che non esiste più se cambiamo l’assunto. Così: il compito delle gerarchie è
aumentare il tasso di imbecillità. E dal momento che ci riescono benissimo, non
c’è alcuna ragione di modificarle. E si capisce, ora, perché si viene promossi:
non per le prove di intelligenza che si forniscono, ma per la garanzia che si dà, di
agire in modo stupido, nel posto assegnato.
La struttura sociale, dunque, impone ai singoli individui di conformarsi a
comportamenti prestabiliti. In questo modo, attraverso un potente
condizionamento sociale, si ha una massiccia opera livellatrice verso il basso. Lo
spirito critico e l’esercizio in genere delle doti intellettuali vengono depressi, o
addirittura spenti.
Il genio, costretto nelle maglie delle strutture gerarchiche, viene reso
inoffensivo.
L’unica cosa non stupida che può fare l’intelligenza, in questo caso, è
adattarsi alla stupidità: osservare le regole, accettare la condotta imposta dalla
struttura. In definitiva, si chiede poco: solo di attenersi alle soluzioni già
stabilite. E se, per agire così, non è necessario essere geniali, non è nemmeno
indispensabile essere imbecilli. Un intelligente può benissimo farlo. Mentre un
cretino non può decidere, se cambia idea, di comportarsi da genio.
Molte persone intelligenti, una volta compresa l’irrimediabile stupidità delle
strutture sociali in cui sono inserite, commettono un errore: cercano di porvi
rimedio. Si rovinano così la vita, nel tentativo di rendere le società umane meno
sceme.
Altri, invece (e sono loro i veri geni), capiscono che un tale progetto è
destinato a fallire, perché nasce da un grave equivoco: il desiderio che diventino
meno stupidi degli organismi che funzionano soltanto se stupidi.
Non è difficile individuare e distinguere questi due tipi umani. I primi sono
animati da uno spirito di crociata, che li spinge a impegnarsi nel vano sforzo di
cambiare in meglio la società. Gli altri invece hanno capito che questa lotta,
prima che perdente, è inutile, perché sbagliata. E si adeguano all’imbecillità
delle strutture in cui operano. Non per questo rinunciano alla loro intelligenza.
Talvolta la coltivano nel tempo libero, e quelli che vengono etichettati come
innocui passatempi sono, in realtà, le cose in cui spendono il loro ingegno, che li
appassionano davvero, che danno senso alla loro vita. Altre volte, riescono a
utilizzare l’intelligenza anche all’interno delle strutture sociali. Sono quelli che
cambiano veramente le cose; ottengono risultati che sfuggono spesso agli
aspiranti riformatori, con tutto il loro spirito di crociata. Ma questo ramo del
discorso ci porterebbe troppo lontano e, dopo un lungo giro, esattamente al punto
da cui siamo partiti.
Le strutture sociali possono anche tollerare una limitata dose di intelligenza,
di spirito critico, di innovazione. Ma la norma generale, i comportamenti cui tutti
sono obbligati a rifarsi, devono restare stupidi, cioè stupidi, cioè stupidi. Se così
non fosse, molti di quelli chiamati a compiere una determinata funzione
verrebbero meno al proprio compito, perché lo troverebbero troppo difficile. Se
la regola fosse l’improvvisazione, lo sprazzo di genialità, pochi sarebbero in
grado di fare la cosa giusta al momento opportuno. E la gerarchia crollerebbe.
L’imbecillità può solo aumentare

“Devo confessare che le sue argomentazioni mi hanno colpito. Lei ha espresso, nel suo stile
paradossale, alcune delle idee che hanno ispirato tutta la mia riflessione attorno ai problemi dell’etica
sociale.
Come lei sa, ho dedicato molti anni di studio e di insegnamento ad alcune questioni che mi
sembravano e mi paiono tuttora fondamentali. Una domanda, in particolare, ho sempre ritenuto di vitale
importanza: qual è il ruolo dell’individuo nella società umana? Come è possibile per le singole persone
vivere insieme, in una comunità, e conservare la libertà, l’autonomia, l’indipendenza? Che influsso ha la
società sugli individui?
Ho raggiunto alcune conclusioni, dei punti fermi. Sono anch’io profondamente persuaso che la
società tenda sempre, necessariamente, a reprimere l’individuo, a mortificarne le capacità. Come lei
afferma, le strutture burocratiche sono organizzate in modo da obbligare tutti a comportarsi secondo regole
prestabilite e uguali per tutti. Al contrario, l’individuo dovrebbe poter essere libero di sviluppare le proprie
qualità, senza costrizioni.
Ecco quindi il conflitto tra il singolo e la società; tra l’esigenza della libertà personale, e la necessità
di stare assieme agli altri. Non siamo fatti per vivere isolati, ma in comunità. L’uomo solo, l’eremita, è una
contraddizione vivente; abbiamo bisogno dei nostri simili per soddisfare esigenze primarie. Ma essere parte
di una comunità influenza pesantemente l’individuo, lo condiziona, ne limita la libertà.
È possibile fare in modo che la vita sociale non mortifichi la personalità e i talenti del singolo? Non
costringa le persone a uniformarsi a quanto è già codificato? Esiste una via di mezzo tra il bisogno di vivere
in comunità e l’esigenza di libertà dell’individuo?
Nella ricerca della risposta a queste domande, mi guidano due convinzioni. La prima: sarà
l’intelligenza a salvarci dal conformismo. Solo esercitando in continuazione lo spirito critico l’uomo potrà
reagire a forze e strutture sociali che cercano di appiattire la sua identità.
La seconda è che il tentativo messo in atto da parte di pochi, isolati individui, di opporsi alla
massificazione si tradurrà nella salvezza per tutti. Le grandi innovazioni, nel pensiero, nelle arti, nelle
scienze e in tutti i campi in cui l’essere umano si è cimentato, sono state raggiunte perché qualcuno ha
rifiutato le soluzioni obbligate. E ha preferito, magari con rischio e fatica, tentare il nuovo, affidarsi alla sua
libertà e all’intelligenza.
Forse è vero: la società umana ha bisogno, come lei afferma, di una buona dose di imbecillità. Ma
senza l’intelligenza saremmo ancora all’età della pietra.”

«E lei cos’ha contro l’età della pietra?», avrei voluto rispondere. La passione
con cui il professore difendeva le sue certezze e il limpido senso morale che da
esse traspariva erano ammirevoli. Ma ero convinto che queste sue difese non
intaccassero la mia tesi.
Anzi, proprio nel corso del nostro scambio epistolare, per la necessità di
ribattere alle sue argomentazioni, approfondii quella che era stata solo
un’intuizione, ed ebbi ulteriori prove della fondatezza delle idee che ormai
andavo sviluppando.
Ero pronto a concedere che la società possa tollerare una circolazione
limitata di intelligenza, ma solo fino a quando questa non rischia di bloccare
l’attività del sistema. Nel suo insieme, la struttura resterà comunque e
necessariamente stupida, perché solo un tale stato di cose ne garantisce il
funzionamento.
Se non è trasformata in utensile, alla portata di qualsiasi cretino, la gerarchia
non può esistere né resistere.
Ma cosa accade se in una burocrazia si fissano compiti con un grado di
difficoltà troppo alto? In questi casi, se non si autodistrugge, la struttura
dimostrerà una sorprendente capacità di adattamento verso il basso.
Quasi sempre, alle origini delle gerarchie vi sono uomini d’eccezione, che
creano qualcosa di irripetibile. Cavour, Bismarck, De Gaulle concepiscono
l’Italia unita, l’Impero tedesco, la Francia contemporanea e riescono nel loro
progetto, in virtù delle proprie doti. Le grandi aziende, quasi tutte, sono
parimenti sorte per l’energia e la capacità (anche visionaria) di persone di valore.
Ma il genio muore (va in pensione, passa alla concorrenza), portandosi
appresso i suoi talenti. La struttura sociale, invece, una volta messa in piedi,
deve continuare il proprio cammino. L’Italia ha dovuto fare a meno di Cavour, la
Germania di Bismarck, la Walt Disney di Walt Disney. Si pone il problema della
successione: dopo di lui, chi manderà avanti la baracca?
Si può cercare di sostituire il genio con qualcuno capace di assicurare uno
standard elevato di comportamenti. Ma è un tentativo destinato al fallimento. Per
due motivi. Prima di tutto, le grandi doti intellettuali non si prestano a venir
tradotte in un insieme di regole: si esprimono con la creatività, l’originalità, non
solo con il metodo. E poi, anche se fosse possibile codificare le azioni geniali,
sarebbero necessarie persone di straordinario talento per garantirne l’esecuzione.
E una burocrazia che dovesse dipendere, per il proprio funzionamento, da una
merce così rara come il genio, sarebbe spacciata in partenza.
L’organizzazione deve poter sopravvivere senza le doti del cervelluto padre
fondatore. Può farlo solo se scende alla misura dell’imbecille, in modo da non
avere alcuna difficoltà nel reperimento della materia prima. Questo intendeva
Stalin, quando disse che persino una cuoca può sostituire un capo di stato
(sconsiglierei il contrario). Se l’organizzazione sociale funziona, non c’è alcuna
possibilità di errore: è a portata di cretino (e chi la guida, o ci fa, o ci è).
A ridurla così è, normalmente, il genio che le dà vita. Egli sa che se
disegnasse una gerarchia a sua immagine e somiglianza, la condannerebbe a
morte. E, infatti, dopo aver creato gl’imperi (economici, militari, politici), i
fondatori dedicano tutto il loro impegno a renderli scemi. Se sono onesti. (È
un’altra dimostrazione del fatto che la maggior produttrice di stupidità è
l’intelligenza).
Capita, anche, che alcuni leader mantengano artificiosamente alti i compiti
richiesti all’interno della struttura che guidano. Lo fanno per rendersi
indispensabili, insostituibili (se anche uno stupido fosse in grado di svolgerne i
compiti, rischierebbero il posto). Di norma, si tratta di manager di primo piano,
bravissimi, ma deleteri, perché, a questo modo, tengono sotto ricatto le aziende a
essi affidate e le condannano a traballare o a sfaldarsi, quando le lasceranno.
Violano, e non possono non saperlo, la regola fondamentale per il
consolidamento e l’efficienza di ogni burocrazia: sminuire continuamente il
livello delle qualità minime richieste per fame parte, in modo da espanderla,
abbassando il vertice e allargando la base.
La soluzione più frequente per sostituire l’ingegnoso fondatore è, di solito,
questa: dividere i suoi compiti fra più persone, per supplire con la quantità al
calo di qualità. C’è la divertente convinzione che si possa ottenere un genio
sommando due mezzi geni. Appare logico che quello di cui era capace un
grande, da solo, possa riuscire a una coppia di mediocri. Ma non è così: ci si
accorge ben presto che l’intelligenza non cresce con l’addizione. Come la non
sommabilità della luce è il limite del nostro universo (più rapidi di 300 mila
chilometri al secondo non si può andare), la non sommabilità dell’intelligenza si
rivela essere il limite della nostra specie. Con la stupidità, al contrario,
l’addizione funziona. Lo si evince dai risultati.
E quando i ruoli che una persona di talento svolgeva da sola vengono
parcellizzati, al posto del creatore della gerarchia (azienda o altro), sale una
miriade di co-presidenti, amministratori, responsabili tecnici e commerciali,
sottosegretari, funzionari, capi sezione… Ciascuno con il proprio ambito ben
definito, con la sua minuscola funzione, da curare secondo norme catalogate.
La suddivisione parossistica dei compiti è la salvezza delle strutture sociali,
perché, a forza di sminuzzarli, si arriverà al punto in cui, a ogni livello, si
richiederà di attenersi a comportamenti e regole così semplici, che chiunque sarà
in grado di osservarli. A questo punto, l’organizzazione è diventata un utensile e
può sfidare il tempo.
Fra i costruttori di gerarchie, il vero genio è colui che mette le cose in modo
da rendere superflue le proprie, strepitose capacità. Se l’impresa “riduzione a
utensile” non riesce, la struttura muore. È quello che accade tutti i giorni. Quante
aziende sono fallite appena dopo la morte del fondatore? I figli del capitano
d’industria, i vicepresidenti, quei personaggi di secondo piano che la figura del
capo lasciava nell’ombra, non sono sempre all’altezza del Numero 1. E se,
quando lo sostituiscono, il sistema non è già “alla portata di un cretino”,
finiscono per distruggere quanto l’altro aveva creato.
Dopo la morte di Cavour, l’Italia non riuscì a risolvere i tanti problemi posti
dall’unificazione e ne paghiamo ancora le conseguenze; la Germania, quando il
Kaiser decise di poter fare a meno di Bismarck, si avviò verso un delirio di
onnipotenza che la portò alla rovina della prima guerra mondiale. E gli unni
dopo Attila, i mongoli dopo Gengis Khan e suo figlio?
La gerarchia che ha bisogno, non diciamo di geni, ma anche solo di persone
troppo capaci, si estinguerà per mancanza di rifornimenti. Pertanto, le strutture
sociali più stupide prosperano, quelle più intelligenti, muoiono. Ne consegue
che:
L’imbecillità può solo aumentare.
Questa è la Quarta legge sulla fine dell’intelligenza.
Non ci sono apparentemente limiti alla parcellizzazione delle funzioni che
porta qualsiasi società umana alla misura del cretino. La sapienza popolare
sostiene che, una volta toccato il fondo, si possa solo risalire. Ma le cose non
stanno così, nel nostro caso (qualcuno ha ricordato che, toccato il fondo, si può
ancora scavare). Una struttura, pur pregna di imbecilli, tenderà comunque a
espandersi, a sminuzzare ulteriormente i compiti, ad abbassare, fin che può, i
requisiti minimi per farne parte.
Ma c’è un limite? Sì: è zero. Il numero sta a indicare sia il livello di
intelligenza, che la quantità di mansioni da svolgere per riuscire a diventare
membro della gerarchia. Detto in altro modo: la società perfetta è quella in cui
l’unico talento richiesto per potervi entrare è… entrarvi. E non fare,
assolutamente, nulla.
La cosa è dimostrata, una volta per tutte, dalle conclusioni cui giunse, a suo
tempo, uno dei più acuti studiosi di sistemi organizzativi umani, l’inglese Lord
Northcot Parkinson (niente a che fare col famoso morbo. Anche se…). Egli
divenne giustamente famoso per aver scoperto che qualsiasi burocrazia, per il
semplice fatto di esistere, tende a crescere secondo un tasso minimo del 5 per
cento annuo. Questa non è che una diversa formulazione della Quarta legge sulla
fine dell’intelligenza (che è stata appena enunciata), ma ha il pregio di
quantificare il gradiente di sviluppo delle società a misura di cretino. Attenzione:
la struttura moltiplica il numero delle persone necessarie al suo funzionamento,
senza che ci sia alcuna necessità di aumentare anche la mole e la qualità del suo
lavoro. In altre parole: la folla di imbecilli richiesta per fare le stesse cose, cresce
continuamente.
Il cinque per cento annuo è tanto: vuol dire che, in meno di vent’anni, nella
società-utensile, le funzioni che prima erano curate da uno solo diventano
competenza di due. E personale è raddoppiato e ogni membro di quella
burocrazia farà la metà di prima, poi un quarto, poi un ottavo… Questo, pur
sempre nel caso di una struttura sociale che qualcosa faccia. Perché non è affatto
necessario che essa abbia un lavoro (pur minimo) da svolgere. Può
tranquillamente non averne, senza che la sua tendenza al gigantismo ne soffra.
Lord Parkinson ha dimostrato che ogni organizzazione umana,
indipendentemente dalla sua natura, continuerà a espandersi anche nel caso che
non abbia nulla, ma proprio nulla, da fare.
Tale spinta interna all’accrescimento contemporaneo delle strutture sociali
(in numero e dimensione) e della loro imbecillità è caratteristica della nostra
specie. La stupidità si muove nel mondo come un corpo vivo e vorace che
conquista sempre nuovi spazi. L’aumento della quantità è considerato cosa
buona, la conferma d’essere sulla giusta via. Tanto da essere accompagnato da
una sensazione di piacere. «Solo di recente», ha scritto Eibl-Eibesfeldt in
L’uomo a rischio, «si è scoperto che è negativo».
Ma ancora nessun cretino è disposto ad ammettere a cuor leggero di essere
tale; tantomeno se occupa una posizione di responsabilità. E quando un incapace
giunge al vertice di una burocrazia, si pone H problema di mascherare o
compensare la propria insufficienza. Il metodo cui ricorre ha tutta l’aria di essere
una specie di “furbizia evolutiva”, con cui le strutture sociali si assicurano
un’ulteriore crescita di dimensioni e imbecillità. Ancora una volta, è stato Lord
Parkinson a scoprire il principio moltiplicatore, che recita così: «L’incompetente
tende a nascondere la propria incompetenza dietro l’aumento delle competenze».
Questa specie di scioglilingua descrive un comportamento osservabile in
tutte le attività umane. Chi non è capace di fare una cosa, cercherà di farne
molte. Chi non riesce a svolgere con successo i compiti che ha, se ne procurerà
altri (aggiuntivi, non sostitutivi). In questo modo potrà giustificarsi: «Se devo
fare tutto io, non posso farlo anche bene. È già tanto che riesca a…».
Va detto che tale modo di agire non è necessariamente consapevole.
L’incapace che si comporta così, può farlo anche in buona fede: vede che le cose
non marciano come vorrebbe e si dà da fare, si impegna, spende se stesso più di
prima. Soltanto che è un darsi da fare catastrofico. (Apparentemente, perché il
risultato più importante e non voluto, moltiplicare la stupidità, lo ottiene).
Ormai ai vertici delle organizzazioni umane ci sono persone che cumulano su
di sé una quantità di mansioni impressionante. Si tratta persino, a volte, di
incarichi fittizi, del tutto ininfluenti sul funzionamento della struttura e
moltiplicati per donazione, al solo scopo di rendere più spessa la cortina dietro
cui si cela un incompetente.
L’intero meccanismo è chiaro quando si sommano (curioso che nessuno lo
abbia fatto sinora) il principio di Peter (a) e la legge di Parkinson (b): «In una
gerarchia, ogni uomo tende a salire sino a che si rivela incapace (a); da quel
momento in poi, comincia a moltiplicare i suoi compiti, per nascondere la
propria incompetenza (b)».
Tale sistema (potremmo chiamarlo moto ascendente delle gerarchie, perché
porta i più stupidi dal basso in alto) ricorda molto da vicino quello che spinge
ogni specie all’aumento della propria massa biologica.
Le società umane si comportano come esseri viventi. Dei quali mostrano di
avere la stessa pulsione, quasi un istinto, ad accrescersi, a dilatarsi. È come se
avvertissero che nella continua espansione c’è la sicurezza di sopravvivere.
La storia fornisce ottimi esempi di questo sistema nei suoi aspetti
fondamentali. Uno dei migliori è la formidabile estensione dell’impero di Carlo
V. Il rampollo di casa d’Asburgo trovò concentrate sul suo capo, quando era
ancora un bambino, le corone di mezza Europa, per via di oculati matrimoni
contratti dai suoi antenati. Erede di Spagna, Borgogna, Austria, Boemia, Italia, e
altro; destinato a divenire Imperatore del Sacro Romano Impero; ma
assolutamente inadatto a un ruolo così impegnativo.
E come tutti coloro che, incapaci di affrontare un problema, lo
ingrandiscono, Carlo V, dopo aver accumulato tutti questi domini, estese il suo
impero al continente americano, del quale ampi territori divennero preda del
colonialismo spagnolo. Ma le navi che portavano in Europa le favolose ricchezze
delle terre appena scoperte non risolsero i problemi. Semmai li appesantirono.
L’improvvisa abbondanza di metalli preziosi, oro e argento, ne fece crollare il
valore, determinando così un generale innalzamento dei prezzi. In Europa, e
particolarmente nei possedimenti di Carlo V, si scatenò una devastante crisi
economica, che fece peggiorare ancora la situazione, già drammatica.
Altrettanto si può dire della strategia di governo di Adolf Hitler. Il dittatore,
giunto alla testa di un grande paese in pieno caos politico, sociale ed economico,
non fu in grado di raddrizzamele sorti; ubriaco di potere, esportò i guai del suo
paese nel resto del continente, moltiplicandoli e aggravandoli, prima con
l’annessione alla Germania dell’Austria e dei Sudeti; poi provocando la più
immane catastrofe della storia europea. Infine, incapace di sconfiggere la Gran
Bretagna, si lanciò contro l’Unione Sovietica, e spinse gli Stati Uniti a
intervenire anche nella guerra europea. Quando orinai l’epilogo era prossimo,
l’Armata Rossa alle porte di Berlino, Hitler, chiuso nel suo bunker, stendeva i
piani per nuove invasioni.
Questi modelli macroscopici illustrano in modo esemplare quanto accade
tutti i giorni sotto i nostri occhi. La cronaca degli ultimi anni, le vicende
economiche in particolare, offrono un campionario inesauribile. Molte industrie,
attività finanziarie che sembravano destinate a consolidare il proprio successo,
sono state condotte al tracollo da disegni espansionistici di dirigenti che
tentavano di mascherare la personale incapacità dietro l’aumento delle
competenze.
Questo appare evidente soltanto quando provoca conseguenze drammatiche.
Il che avviene di rado. Nelle situazioni normali, moltiplicare gli incarichi non fa
danni; al contrario, garantisce il funzionamento delle strutture a misura di
imbecille.
Il disastro causato dal gigantismo parossistico prova che le società umane
sanno soltanto espandersi o perire; o espandersi e perire, perché lo sviluppo
senza limiti può risultare distruttivo, paralizzante.
Anche in natura, l’incremento della massa biologica non è sempre
vantaggioso.
Riporto qui uno scambio di battute che ebbi con Konrad Lorenz. Il
professore mi spiegava che, per la specie umana, l’incontrollata spinta
all’aumento è ormai un pericolo molto serio. «L’economia cresce in maniera
esplosiva, da tutte le parti», mi diceva. «I sostenitori di questo modello di
sviluppo affermano che le aziende devono continuare a ingrandirsi o falliranno.
E, per giustificare questa tesi, aggiungono che anche gli alberi crescono
continuamente. La crescita sarebbe insomma un fatto naturale.»
«E non è vero?», gli chiesi.
«Sì, ma solo fino a un certo punto. Le ricordo un detto popolare: “Gli alberi
non crescono mai fino al cielo”. Persino quelli secolari, più grandi, più alti, a un
certo punto si fermano. Perché se continuassero a crescere senza limiti, il vento
spezzerebbe i rami, la linfa non riuscirebbe a raggiungere la cima, e ben presto
morirebbero.» E nel dirlo, il grande scienziato indicò il bosco, sulla collina.
«Questo è vero», riprese, «per tutti gli esseri viventi. Diventare troppo
grandi, vuol dire diventare vulnerabili, e condannarsi all’estinzione. Come i
dinosauri: di crescita si può morire.»
Quando visitai il Cremlino (ero a Mosca per intervistare l’ex ministro degli
esteri, Shevardnadze), un collega russo mi fece da guida. Mi mostrò un cannone
gigantesco: «Il più maestoso mai costruito al mondo», disse. «Pensa che
sfracelli!», commentai. «Non ha mai sparato», mi spiegò. «Troppo grande per
poter funzionare.»
Poco più in là, su un prato, una ciclopica campana. «La più pesante del
mondo?», chiesi. «Sì» assicurò la mia guida «ma non ha mai fatto udire i suoi
rintocchi. È così grande che, issata su un campanile, si sgretolerebbe da sola.»
E io cominciai a capire qualcosa in più dell’impero russo-sovietico. E di
altro.
Lo sviluppo senza confini non esiste in natura, né per le società umane. Ogni
organismo ha un suo limite e tende a raggiungerlo; se la crescita non si arresta e
lo supera, arriva la catastrofe.
Il disastro, comunque, è solo l’eccezione dovuta all’eccesso; da un certo
punto di vista, un semplice caso di cattivo funzionamento della stupidità (se
persino l’intelligenza ha le sue défaillances…).
Eppure, l’incapace, nella fase in cui dilata le sue competenze, esercita un
fascino irresistibile. Le masse lo adorano, lo seguono acriticamente in qualsiasi
avventura.
Qualche interessante osservazione viene dagli studi di un acuto ricercatore,
Erich von Holts e da una sua indagine, semplice, ma di grande portata per le
scienze del comportamento (non solo animale).
Von Holts si interessò ai cabacelli, minuscoli pesci che si spostano in branco
alla ricerca del cibo. Ogni tanto, uno di loro si stacca dal gruppo e nuota, da solo,
in una direzione diversa. E non è detto che sia quella giusta: potrebbe non esserci
cibo, di là, o persino nascondersi un predatore in agguato. Il cabacello
indipendente si volta a guardare cosa fa il branco; soltanto se gli altri, convinti
della sua scelta, lo seguono in numero sufficiente, lui, confortato, prosegue.
Altrimenti, rientra nel mucchio. È il modo d’agire tipico degli animali che
vivono in branchi, in stormi.
Von Holts privò un esemplare della parte anteriore del cervello, quella che
sovrintende alle attività di gruppo, alla vita sociale. Il pescetto continuò a
comportarsi in tutto e per tutto come gli altri ma, quando si separava dal branco,
non si girava più indietro per osservarne le reazioni. Lui tirava diritto, senza
esitazioni.
E l’intero branco lo seguiva. L’unico pesce senza cervello era diventato il
capo indiscusso. E proprio a causa del suo difetto.
Nessuno è tanto determinato, come chi non sa dove sta andando. Lo ammise
(parlava di sé) anche Oliver Cromwell, uno dei padri della potenza inglese.
Ma, prima o poi, il cabacello decerebrato porterà il branco in bocca al
predatore. E sarà la strage. Eppure, troverete sempre qualcuno che commenterà:
«Che condottiero, quel cabacello. Se non avesse fatto quell’unico, fatale
errore…».
La compagnia dei nostri simili ci fa scemi

“Partirò dalle battute conclusive della sua argomentazione. Gli esempi da lei citati mi sembrano
dimostrare non la fatale fine dell’intelligenza, ma (non si stupisca) la sua vitalità.
È penoso, per me, ricordare la catastrofe che ha travolto il mio paese, assieme alla Germania e a tutta
l’Europa. Lei forse non era ancora nato, o troppo giovane, allora, per capire davvero. Molti di noi hanno
compreso troppo tardi cosa poteva succedere, verso quale baratro stavamo precipitando. È così doloroso
pensare quanti disastri morali e materiali sarebbero stati evitati se i nostri fratelli tedeschi, e anche noi
austriaci, purtroppo, non ci fossimo lasciati affascinare da Hitler; se, invece di dare ascolto alle paure, ai
sentimenti irrazionali, avessimo seguito quanto consigliava il sano giudizio; se ci fossimo fatti guidare dal
nostro spirito critico.
Eravamo come travolti da un ciclone; uomini sensati, dall’animo profondo e dalla vasta cultura, si
lasciarono abbagliare da Hitler; oppure, più semplicemente, non riuscirono a scorgere, a intuire, quali
sarebbero state le conseguenze del nazismo.
Quella tragedia è la prova migliore di come la nostra unica possibilità di salvezza, come individui e
come specie, stia nelle facoltà mentali. Sarà lo spirito critico a salvarci; mentre la sua mancanza ci condurrà
alla distruzione.
Questo era anche quanto voleva affermare il mio amico Konrad. Pure lui era rimasto colpito
dall’esperimento del collega von Holts, e non solo perché spiegava la propensione tipica degli animali da
branco a seguire un capo. L’uomo è, a sua volta, un essere che vive in comunità che rischiano di degradare
in branco (e sarebbe una beffarda sconfitta dell’‘animale sociale’ per eccellenza).
Ma, grazie a una superiore provvidenza, mentre le bestie non possono che assecondare il loro istinto,
anche quando le conduce alla rovina, noi abbiamo una diversa possibilità. Non siamo condannati a seguire
la massa. Abbiamo l’uso della ragione, possiamo valutare eventi e circostanze. Siamo capaci di prendere
decisioni autonome, dettate dall’intelligenza. E questo (anzi: quella) può salvarci.
Siamo individui, singoli, liberi e indipendenti, prima di essere membri di un gruppo sociale. E questa
dignità ci spetta in quanto esseri umani, non quali componenti di una comunità.
Così, non sono affatto convinto dai suoi discorsi sul moltiplicatore d’imbecillità. Sono interessanti, lo
ammetto; e mi hanno costretto a riflettere su alcuni aspetti del vivere insieme che avevo finora ritenuto,
erroneamente, marginali.
Per questo, sento di doverla ringraziare; col suo gusto per il cinismo e per il paradosso, mi ha aiutato
a comprendere alcune cose. Lei ha ragione: le persone intelligenti, che cercano di ricorrere al ragionamento,
all’intelletto (e io mi sforzo di essere tra queste), stentano davvero a rendersi conto di quanto l’imbecillità
sia grande. Noi tendiamo sempre a presumere che anche gli altri, tutti gli altri, siano esseri ragionevoli: e
purtroppo, non è così.
Ma non posso e non voglio credere che la società sia in grado di controllare e determinare
completamente le azioni di ogni persona, perché la società non è onnipotente. Noi, individui liberi e
autonomi, abbiamo scelto di vivere insieme agli altri, per soddisfare i nostri bisogni e le nostre necessità,
meglio di quanto non potessimo fare separatamente. Da questa reciproca convenienza è nata la società
umana. Che deve rimanere un mezzo per permettere a ognuno di noi di esaltare i propri talenti, secondo le
sue possibilità.
Ora, sono d’accordo con lei su una constatazione di fatto. In molte occasioni, la comunità soffoca
l’individuo e il vivere insieme può avere sugli esseri umani un effetto negativo. Spesso li costringe a
conformarsi a dei comportamenti prefissati, a spegnersi nella massa.
Ma questo è solo un rischio necessario. La norma è diversa, perché la società è nata per aiutare
l’uomo a sviluppare le sue doti e le sue abilità; non per reprimerle.
Ecco perché mi rifiuto, nel modo più assoluto, di accettare e condividere la sua idea, che la comunità
abbia, quale funzione principale, quella di condurre gli individui a un livello medio di imbecillità.”

Forse mi sbagliavo, ma avevo come la sensazione che l’armatura del
professore stesse cedendo.
La sua fiducia nell’uomo e nelle sue qualità (anche morali), era davvero
nobile; e su quella convinzione si basavano le sue riflessioni riguardo all’etica
all’individuo, alla società.
Ma cominciava a darmi ragione su troppe cose.
È vero, consentiva con me solo su delle osservazioni di fatto: che
l’imbecillità sembra dominare il mondo e che le organizzazioni umane hanno il
potere di propagarla e aumentarla.
Mentre non ci trovavamo d’accordo sull’interpretazione da dare a queste
evidenze. Ma se fossi riuscito a trovare una falla nelle idee del professore, a
individuare il suo punto debole, forse alla fine sarebbe stato costretto a darmi
ragione anche sul resto.
Una società molto vasta, che riunisca milioni di persone (per esempio, un
paese come l’Italia) è a sua volta formata da una miriade di organizzazioni più
piccole. Questi gruppi minori interagiscono tra loro, hanno contatti, si
influenzano reciprocamente; e le loro relazioni ricalcano pari pari quelle degli
individui all’interno di una comunità.
Pertanto, le leggi sulla fine dell’intelligenza hanno valore sia per i singoli che
fanno parte di una struttura organizzata, che per le associazioni più piccole,
quando si uniscono per formarne una più grande.
Si possono classificare i diversi gruppi umani, secondo il livello di capacità
intellettuali richiesto per divenirne membri. È evidente che le società ai gradini
più bassi di questa ipotetica scala avranno, almeno potenzialmente, il maggior
numero di affiliati.
Per entrare in un club di tifosi del Milan, i requisiti sono minimi: basta saper
gridare (ed è facoltativo!): «Forza Milan». Per essere accolti nella ristretta
comunità degli astrofisici, sono necessarie ben altre doti, come comprendere il
senso di frasi del tipo: «una singolarità è nuda, quando inghiotte persino il suo
orizzonte degli eventi», o: «un buco nero evapora, se l’attrazione gravitazionale
è tanto forte, da infrangere la coppia spazio-tempo e lasciare che una delle due
dimensioni resti nel nostro mondo, in forma di radiazione».
Il punto è che, in entrambi i casi, il livello intellettuale che identifica il
gruppo coincide con il requisito minimo per aderirvi. Per dirla in altro modo: la
caratteristica che qualifica l’organizzazione, che la fa esistere e la distingue dalle
altre è la competenza più stupida necessaria per farne parte, non quella richiesta
ai soci più dotati. Di Einstein ce n’è uno solo; le conoscenze e le capacità per
essere ammessi nella comunità scientifica dei fisici sono molto più modeste delle
sue. Così, anche tra i fanatici milanisti ce ne saranno (è un’ipotesi…) di
intellettualmente ben forniti, ma non sono loro a qualificare il gruppo: è il tifoso
più scemo a farlo, quello che riesce a malapena a non stonare nel coro di uno
stadio.
È chiaro che gli spostamenti, lungo questa scala, sono possibili solo in una
direzione: verso il basso. Il cenacolo degli astrofisici potrà confluire nell’orda
dei milanisti, mentre il contrario non è concepibile, perché se anche il più
stupido astrofisico sa urlare «Forza Milan» (o «Forza» qualsiasi altra cosa), è da
escludere che il più cretino dei milanisti sia in grado di sostenere una disputa
sull’espansione dell’universo.
La nostra natura ci obbliga a comunicare con i nostri simili (è una delle
pulsioni più forti). E accade la stessa cosa (come fossero individui) alle società
umane; ma, come si è visto, questo può avvenire solo in un senso: il “più” si
abbassa al livello del “meno”, altrimenti il “meno” non capirebbe niente e ogni
tipo di relazione diverrebbe impossibile. Questo è il Moto discendente che regola
i rapporti fra gerarchie (e persino fra i singoli che ne fanno parte) e ne aumenta
le dimensioni e il grado di imbecillità.
Ma tale generalizzato calo di tono intellettuale è, in fondo, l’aspetto meno
appariscente nelle dinamiche dei gruppi sociali. Quelle interne hanno effetti
persino più profondi e vistosi.
L’assunto fondamentale è stato già enunciato: in un’organizzazione, la cifra
dominante è data dai requisiti minimi per farne parte. L’andatura di una carovana
di cento cammelli non sarà imposta dai novantanove più veloci, ma dall’unico
cammello zoppo. I corridori dovranno adeguarsi al suo passo, fossero anche “le
frecce del deserto”.
Tra noi esseri umani accade la stessa cosa. Quando più esemplari della specie
si uniscono, la capacità collettiva di pensiero è regolata su quella del più scemo.
Fernando Savater, sociologo e filosofo spagnolo, ha scritto che «l’unione di
molti individui è sempre più elementare di ciò che può essere un individuo da
solo». Vi sono funzioni per le quali la società è molto utile, se non
indispensabile: procacciarsi il cibo, difendersi dai nemici, da un ambiente ostile.
Il pensiero non sembra rientri fra queste necessità. Due persone possono
discutere, centomila no: forse riescono a urlare uno slogan, ma non a esprimere
un concetto, a riferire in modo comprensibile una frase articolata. Per riflettere e
ragionare bisogna essere da soli o in pochi. La differenza fra il contributo dato
alla genialità umana da Leonardo da Vinci e dalla curva sud dovrebbe essere
sufficiente come dimostrazione.
In altre parole, lo stare assieme, in società, ha un effetto deprimente sullo
sviluppo e persino sul semplice esercizio delle facoltà mentali. Perché comporta
un livellamento verso il basso. Funziona sui cervelli, come l’acqua su certi
tessuti: li restringe.
Questa consapevolezza trova espressione in un’ulteriore legge sulla fine
dell’intelligenza: la Quinta, che si può enunciare così:
Quando gli uomini si mettono assieme, diventano più scemi.
E, dato che l’uomo è animale sociale, le conseguenze sono prevedibili. È una
trappola per genio:

1) l’Homo sapiens sapiens è intelligente;
2) l’Homo sapiens sapiens ama la compagnia dei suoi simili;
3) in compagnia dei suoi simili, l’Homo sapiens sapiens non è più così
intelligente.

È però necessario riflettere su un’eccezione, molto significativa: alcune delle
più notevoli conquiste della scienza, dell’arte, del pensiero astratto sono state
ottenute da piccoli gruppi di persone. Dalle scuole filosofiche dell’antica Grecia,
ai cenacoli rinascimentali, ai team dei moderni ricercatori, la collaborazione
intellettuale ha dato risultati formidabili.
Come si concilia questa osservazione con quelle fatte in precedenza?
La cooperazione tra persone dotate di grandi capacità può funzionare da
moltiplicatore, anziché da riduttore di intelligenza. Le micro-comunità di
individui geniali sfuggono alla regola generale, costituendo una vistosa, non si sa
quanto episodica, eccezione. Di gruppi simili ve ne sono pochi, anche perché
sono davvero scarsi quelli in grado di fame parte.
Il fatto che si tratti di un’eccezione non ci permette di trascurarla. È doveroso
almeno un tentativo di individuarne la ragione; e di cercare una risposta alla
domanda che, di conseguenza, sorge: «Esiste un numero minimo di componenti,
raggiunto il quale, l’associazione umana comincia a produrre stupidità e, al di
sotto del quale, consente e stimola l’esercizio dell’intelligenza?».
In tutte le società è presente la tendenza a formare piccoli sottogruppi
all’intemo di organizzazioni più grandi. Se si guarda nel passato della nostra
specie, o a quanto accade nelle tribù primitive tuttora esistenti, si potranno trarre
utili indicazioni. Per il 99 per cento del suo tempo (da quando è apparso, sino a
oggi), l’uomo ha vissuto di caccia e della raccolta dei frutti spontanei della terra.
L’agricoltura e l’industria sono recentissime. Le tribù di cacciatori-raccoglitori
costituiscono comunità ristrette: poche decine di individui (fossero di più, il
territorio non potrebbe sfamarli tutti). Ma non tutti vanno all’inseguimento della
preda. Di norma un «gruppo di dieci» (poco più, poco meno) si dedica alla
caccia, gli altri (una quarantina: vecchi, invalidi, imbecilli, donne e bambini)
restano all’accampamento.
La propensione a formare sottogruppi fu studiata da un arguto inglese,
Antony Jay, non nelle tribù primitive, ma nel moderno mondo del lavoro. Nel
suo libro, L’uomo d’azienda, dimostra che in tutte le organizzazioni umane
(eserciti, chiese, compagnie finanziarie, comunità sportive) sorgono coalizioni
formate, di solito, da non più di 11 e non meno di 9 componenti. In esse Jay
invita a riconoscere i «gruppi di dieci» dei cacciatori del Neolitico. Egli ipotizza
una selezione naturale e culturale che avrebbe eliminato i sottogruppi troppo
esigui e quelli troppo numerosi, perché «non convenienti». Il «gruppo di dieci»,
in quanto vincente, si sarebbe imposto in tutta la nostra storia. La più potente
organizzazione del mondo antico, l’esercito romano, era strutturata in multipli di
dieci. L’unità base di combattimento era composta da dieci soldati (agli ordini di
un decurione), che vivevano insieme nella stessa tenda. Dieci unità di questo tipo
formavano la centuria e così via, sino alla legione. Le idee di Jay vennero
approfondite da un altro inglese, Martin Page, di mente altrettanto sveglia, anche
lui curioso dei problemi di organizzazione nel mondo del lavoro. Nel suo libro,
significativamente intitolato La tribù aziendale, esamina una cellula di primaria
importanza nelle società umane: il «gruppo nucleico», che può essere costituito
anche da otto individui.
Con ben altri intenti, il grande studioso francese George Dumézil (ancor oggi
considerato il maggior esperto delle antiche civiltà indoeuropee, da cui
deriviamo) studiò la cultura e le strutture sociali degli sciti, popolazione che
occupava le vaste pianure a nord del Mar Nero. Egli analizzò la mitologia degli
Osseti (attuale gente caucasica che avrebbe conservato, miracolosamente
indenne, la tradizione scita), che usavano organizzarsi in gruppi di sette uomini
armati. Al giovane eroe Atsaemaez, che sta per intraprendere la sua prima
missione quale guerriero e cacciatore, il padre rammenta di costituire un gruppo
di sette uomini; e che si sta in sette attorno al fuoco. E sette è il numero
particolarmente carico di magia e simbolismo nella tradizione indoeuropea.
Esiste dunque un numero, compreso fra sette e undici, che gli esseri umani
tendono a raggiungere nel formare sottogruppi all’interno di organizzazioni più
grandi. Si può ipotizzare che, al di sotto di questo numero (per esser sicuri: meno
di sette), l’associazione di Homo sapiens sapiens non produca imbecillità. Ma
questa non è una certezza; anche se è intuitivamente accettabile l’idea che fra
quattro o cinque persone sia più agevole discutere, ascoltare gli altri ed essere
ascoltati con sufficiente attenzione, non correre il rischio di diventare dispersivi:
insomma, coltivare l’intelligenza. Lo abbiamo tutti, in qualche modo,
sperimentato personalmente: quando vogliamo ragionare di cose importanti,
cerchiamo la compagnia di pochi. (I parlamentari sono mille).
Quanto alla funzione dei sottogruppi «di dieci» o «gruppi nucleici», non
dovrebbero esserci dubbi: essi sono il nerbo delle gerarchie, perché non le
indeboliscono ma, al contrario, ne assicurano l’efficienza. Il «gruppo di dieci» o
«nucleico» rappresenta, allora, l’unità minima per ottenere il rincitrullimento di
chi ne fa parte; permette una sufficiente distinzione dei compiti e il controllo
reciproco. In questo modo, ognuno ha poche regole e mansioni specifiche, con
relativi comportamenti obbligati, cui attenersi (sotto sorveglianza).
Sorge, allora, la necessità di una vera struttura gerarchica, in cui non solo
ognuno sappia cosa fare e quando farlo, ma anche qual è la sua posizione
rispetto agli altri. La conseguenza è che, indipendentemente dai talenti personali,
in una burocrazia, per convenzione (per regola culturale, quindi), chi occupa un
posto inferiore è inferiore.
Al contrario, in un cenacolo di geni, conta solo il libero e mutuo
riconoscimento del rispettivo valore. Socrate non si era autonominato a capo di
quell’irripetibile pugno di ateniesi che cercava la verità, ma gli altri
spontaneamente lo consideravano la loro guida.
Non c’era alcun impegno che legava Picasso ai grandi che rivoluzionarono
l’arte nel Novecento. Ma nessuno dubitava che fosse lui il migliore. Tranne uno,
forse, lo stesso Picasso, che faceva razzia di premi, riconoscimenti (a volte con
mezzi meschini), ma che quando sentì approssimarsi i suoi ultimi giorni,
esclamò: «Alla fine, non resta che Matisse», meno celebrato, ma più libero di
lui. Giudizio sbagliato, ma utile a capire che, in una “gerarchia di valori”, nulla è
certo.
Al contrario, nelle “gerarchie di potere”, tutto è chiaro. Lo stesso ordine
burocratico che spegne creatività e originalità, stabilisce la scala dei “meriti
presunti”, dalla quale non si può derogare, senza sconvolgere il fondamento
stesso della società. La struttura gerarchica elimina il bisogno di distinguere gli
esseri umani in base alle loro qualità, ai talenti.
In una burocrazia, il capo è il capo, perché occupa tale posizione, non perché
sia il migliore. E può benissimo essere più scemo dell’ultimo fattorino: non vuol
dire nulla, è lui che comanda; perché lui è il capo. 1 sottufficiali non sono
necessariamente più imbecilli dei soldati semplici, ma sono i gradi sulla manica
o sulla spalla che danno loro l’autorità di comandare.
I giudizi di valore sono del tutto assenti dai sistemi burocratici, perché la
struttura gerarchica li ha resi inutili e ha così sancito la fine del vantaggio
costituito dall’intelligenza.
L’imbecillità è al potere. E il potere non ha bisogno di genio.
Ma opera a beneficio di se stesso, tende a imprimere la propria immagine sul
mondo circostante e a moltiplicare la stupidità, da cui trae la sua ragione
d’essere.
Nell’antico Egitto (e, in generale, nel mondo arcaico) il ladro ingegnoso non
veniva castigato, gli si riconosceva, in premio, una parte del bottino. Per il furto?
No (era reato e punibile anche sulle rive del Nilo), per l’intelligenza. L’Egitto
aveva bisogno di genio e cercava di farlo emergere in tutti i modi. Un ladro
intelligente può diventare onesto; un cretino probo resta cretino, e c’è il rischio
che si metta pure a rubare.
Oggi il codice punisce con una pena maggiore il furto con destrezza. Per il
furto? No, per la destrezza. E nuovo Egitto in cui viviamo teme l’intelligenza e
la castiga. L’incapace di intendere e di volere può contare sulle attenuanti.
Così (il meccanismo è lo stesso anche quando si esce dal campo giudiziario),
il potere premia se stesso, la stupidità ed estende i suoi connotati all’intero corpo
sociale.
Tutti i regimi provvedono a soffocare l’intelligenza, che in ogni forma di
organizzazione non solo non è necessaria, ma costituisce un fastidio e addirittura
un pericolo. Le persone di buon senso, per dirne una, si fanno domande
spaventose, sovversive. Tipo: «Possibile che proprio quel cretino sia il mio
capo?» (Possibile e come). «Ma non ce n’era uno migliore per quell’incarico
così delicato?» (Quasi certamente c’era; ma non è questo il punto). Le dittature
sopprimono la libertà di pensiero (e spesso anche il pensatore). In democrazia
ogni testa vale un voto, anche una testa vuota. Tutte le forme di dominio cercano
di dettare una consonanza di pensieri, di desideri, di massificare gli individui e
costringerli a uno standard comune di imbecillità.
Questa è l’essenza del potere. Ed è il risultato di scelte evolutive e culturali
della nostra specie. L`uomo massa” della moderna società industriale (dissuaso
dal pensare, educato a desideri identici a quelli dei suoi simili, perché imposti da
efficientissimi sistemi di condizionamento), l’uomo che sa svolgere solo una
determinata funzione, è il prodotto di un processo evoluzionistico durato molti
millenni e volto a deprimere l’intelligenza. Chi dice: «Non mi piace», intende:
«L’evoluzione ha sbagliato tutto». Sicuro?
Il miglior amico dell’uomo è un cretino

“È molto interessante, lo ammetto, il modo in cui lei ha descritto come la ragione umana lavora
quando è in gruppo. Lei ha individuato (riassumo) due possibili dinamiche fondamentali, una positiva,
l’altra negativa.
E così facendo, lei stesso è stato costretto a riconoscere che la vita associativa può pure avere un
effetto vivificatore sulle nostre doti intellettuali. Anche se solo in pochi casi, ben determinati. Ma la
semplice ammissione di questa possibilità, significa che il ruolo della società non è sempre,
necessariamente, deleterio.
Esiste, infatti, una forma di comunicazione che, lungi dal deprimerla, esalta l’intelligenza; che non
mortifica la nostra ragione, ma ne favorisce lo sviluppo.
La circolazione di idee all’interno di un gruppo ristretto di persone, dotate di un buon cervello e
abituate a usarlo, può dare risultati eccellenti, sono d’accordo con lei; purtroppo, ne convengo, queste
condizioni si verificano molto di rado; ma si verificano.
Un esempio evidente è l’istruzione. Il più delle volte, a scuola e all’università, gli studenti non fanno
che assorbire, con mente stolida, un insieme di nozioni semplici, quasi banali. Non esercitano la loro
intelligenza, il loro spirito critico; né, del resto, sono stimolati a farlo. Ma in qualche caso l’istruzione riesce
davvero a dare ai giovani l’occasione di sviluppare i loro talenti e una capacità di giudizio indipendente.
Mi sembra un esempio eloquente; la società, che nella maggior parte dei casi ha un influsso negativo,
può in situazioni particolari, essere un moltiplicatore d’intelligenza e non d’imbecillità.”

La fiducia nella scuola che il professore dimostrava con la sua lettera, non
era facile da smontare: tutta la sua vita era stata dedicata allo studio. Ma non
sono molti a condividere la sua opinione. La scuola, infatti, è uno strumento
potentissimo per livellare le doti intellettuali verso il basso. Specie ora che tutti
gli istituti, università compresa, hanno raggiunto dimensioni smisurate.
L’istruzione di massa, che nei paesi più avanzati è una realtà da circa due secoli,
non ha fornito attive basi culturali; persino contro l’analfabetismo, hanno fatto di
più i fotoromanzi e i filmetti.
La scuola sforna persone che entrano nell’età adulta con un identico, scarso
bagaglio nozionistico; mentre le poche intelligenze notevoli, quei giovani curiosi
e ricchi di capacità, vengono mortificati fin dall’infanzia, costretti a procedere al
passo dei loro compagni più tardi.
Ashley Montagu ha esposto queste idee nel suo appassionato libro sulla
neotenia (l’insieme dei caratteri infantili che conserviamo anche da adulti). In
quelle pagine racconta che l’istruzione di massa rappresenta, di fatto, una delle
ultime forme di stragi rituali, perché indebolisce l’attitudine a pensare. La
genialità, egli sostiene, è soffocata progressivamente, dalle elementari
all’università, fino a che il bambino diventa un adulto capace solo di uniformarsi
a comportamenti «socialmente accettati». La scuola, così, anziché essere una
palestra dell’intelligenza, è una macelleria del genio.
Sono state finora individuate alcune caratteristiche delle associazioni umane,
volte a incrementare il tasso di imbecillità.
Non si tratta di qualità negative, di errori evolutivi che hanno deturpato
qualcosa che avrebbe potuto essere perfetto. La società non avrebbe potuto
diventare altro. Il nostro modo di organizzarci è stato ed è lo strumento più
efficace per quella selezione culturale che riduce l’intelligenza per salvare la
specie (in tale rincretinimento di massa, detto senza ironia, c’è del genio). E
questo è avvenuto in tempi molto più corti di quelli richiesti dalla selezione
naturale che, per giungere allo stesso risultato, avrebbe impiegato ben più che
pochi millenni.
È il momento, allora, di porci la domanda a lungo rinviata: se discendiamo
dalla scimmia, come mai nessuno degli altri primati (gorilla, orango, scimpanzé)
si è evoluto in ominide? Perché ci somigliano, ma non ci sono pari? Perché sono
rimasti sulla soglia del genio, senza varcarla, come noi?
«Una possibile risposta, mi pare», scriveva Carl Sagan in I draghi dell’Eden,
«è che gli uomini hanno sistematicamente sterminato tutti quei primati che
mostravano segni di intelligenza.» Una continua potatura del genio altrui. E,
taglia oggi, taglia domani, «abbiamo fatto indietreggiare le frontiere
dell’intelligenza e della capacità di linguaggio dei primati non umani, fino al
punto in cui l’intelligenza si è fatta appena riconoscibile». (Nulla di diverso da
quanto facciamo a noi stessi, con il potere genio-riducente delle strutture
sociali).
E perché lo avremmo fatto? «Noi uomini», ragionava Sagan, «siamo forse
stati gli agenti di una selezione naturale destinata a sopprimere la competizione
intellettuale.» Detto con altre parole: a eliminare il vantaggio dell’intelligenza
nella lotta per la vita, individuale e di specie.
È quanto continuiamo a fare. Basta vedere cosa accade non solo a noi stessi,
ma anche agli altri animali, i più vicini a noi: quelli addomesticati.
L’uomo sembra davvero dotato di un tocco che rincretinisce. Persino le
bestie più sveglie, se ci frequentano regolarmente, finiscono stupide. Sino a
quando se ne stanno fra i loro simili, non succede nulla del genere. Ma più ci
diventano amiche e devote, più le loro capacità cerebrali diminuiscono, al punto
che un animale allo stato brado e il suo parente domestico non sembrano più
esemplari della stessa specie. Tra il musetto del micio di casa e il ghigno di
quello selvatico c’è la differenza che passa tra un giocattolo e una belva.
E sono proprio gli animali più dotati di cervello ad amare (o sopportare)
maggiormente la nostra compagnia. L’ipotesi che l’uomo tenda ad aumentare il
vantaggio datogli dall’intelligenza, cercando di ridurre quella di specie prossime
alla sua, non regge: perché, allora, distruggerebbe anche la propria? Questo
modo di agire ha senso soltanto se si ammette che egli davvero opera quale
strumento di selezione naturale e culturale per ridimensionare la quantità e il
potere dell’intelligenza sul pianeta Terra.
E se gli animali che ci frequentano rimbecilliscono, è appunto perché questa
è la funzione che abbiamo. Quelli che si sottraggono alla nostra potatura
cerebrale, di norma sono considerati “cattivi” e sterminati. Come il lupo, che
oggi rischia l’estinzione. Quelli della sua specie che si sono assoggettati, hanno
pagato la loro sopravvivenza con una pesante contrazione delle capacità
intellettive, sono diventati cani e non corrono alcun pericolo di estinguersi.
Ogni animale ha necessità di provvedere a bisogni fondamentali: mangiare,
difendersi (anche riprodursi, ma per questo, normalmente, non può ricorrere a
contributi esterni). Ad alcuni è stata offerta la possibilità di cavarsela da soli o di
farsi aiutare dall’uomo: coabitare con lui, dipendere da lui, servirlo, e non
doversi più preoccupare per vitto e alloggio.
Ma se delega a noi queste funzioni, il lupo non ha più occasione e necessità
di affidarsi alla sua fiera natura e di svilupparla. Comincia così anche per lui una
lenta decadenza: avrà la pappa pronta e il cervello spento. Noi abbiamo svolto,
nei confronti del lupo, ormai mite cane domestico, una funzione simile a quella
esercitata dalla società sui singoli individui della specie umana.
Sono state, infatti, selezionate, nel corso del tempo, razze canine diverse,
ognuna delle quali con un compito limitato: cani da guardia e da difesa, da
caccia e da pastore. Ognuno è stato programmato per eseguire una serie definita
e specifica di azioni, e solo quella. E cane addestrato a stanare le lepri non
saprebbe riportarle al cacciatore, che poi le uccide. Per questi animali,
l’intelligenza ferina non è più necessaria, basta che si adattino alle mansioni per
le quali sono stati allevati.
È stato possibile calcolare di quanto la nostra azione addomesticatrice riduce
il potere cerebrale delle bestie.
In Spagna esiste una sottospecie di gatto selvatico che non ha mai accettato
contatti con gli esseri umani. Dei ricercatori, neurologi delle università di
Madrid e di Memphis (Tennessee, Stati Uniti) hanno messo a confronto le
capacità intellettuali di questo felino con quelle del comune micio domestico. Il
risultato è stato sorprendente. Nei millenni di convivenza con l’uomo, il gatto ha
perso non soltanto un terzo della sua capacità cranica, ma anche circa la stessa
percentuale di neuroni (le cellule cerebrali). Questo, a causa di un meccanismo
biologico, semplice e spietato, che ha indotto le bestiole a sopprimere le cellule
rivelatesi ormai superflue.
Il processo di domesticazione ha risolto alcuni dei problemi per i quali i gatti,
finché restano selvatici, devono impegnare tutte le loro risorse, non solo fisiche.
Ma al felino, diventato mite ospite delle nostre case, è stata tolta la necessità di
provvedere da solo a se stesso. E la selezione naturale ha, di conseguenza,
eliminato caratteristiche e doti divenute inutili.
Sullo stesso filone di ricerca, esperimenti condotti presso l’università di
Amburgo hanno dimostrato che anche altri animali, se addomesticati, perdono
parte della loro capacità mentale. Il lupo si riduce a cane, il muflone si trasforma
in pecora, lo stallone in bestia da soma. In tutti questi casi, gli studi hanno
rilevato che il dimagrimento del cervello è rapportabile a quello quantificato per
il gatto: un terzo del peso.
Non è tutto. La materia cerebrale che rimane dopo tale ridimensionamento,
ha circonvoluzioni meno profonde e incise. Questo confermerebbe che gli
animali addomesticati “pensano meno” dei loro simili selvatici.
C’è ancora da aggiungere un dato significativo. Il calo percentuale di
capacità cranica e di neuroni negli animali domestici, è proporzionale al tempo
trascorso dal momento in cui hanno accettato di convivere con l’uomo e di
subirne la tutela. In altre parole, i primi a divenire nostri amici e servi, sono più
imbecillì di quelli ammaestrati di recente.
Questi studi dimostrano, oltre ogni possibilità di dubbio, che l’uomo ha
svolto (e tuttora esercita) una potentissima azione di potatura dell’intelligenza,
non solo su di sé, quindi, ma anche attorno a sé.
E cervello esiste per risolvere problemi. È la sua ragion d’essere. Soltanto
l’esercizio mantiene vivaci le capacità mentali.
Quando gli ostacoli che le stimolerebbero vengono superati in altro modo
(per esempio grazie a interventi esterni o a risposte preconfezionate),
l’intelligenza non è più necessaria. E sfiorisce.
Dei brillanti neurologi hanno scoperto come avviene negli animali domestici
lo sfoltimento della materia grigia: per mezzo di una sorta di suicidio cellulare.
Quando il cervello non utilizza più i suoi neuroni, o parte di essi, viene secreta
una tossina che li distrugge, avvelenandoli.
Nell’uomo, non risulta siano state condotte ricerche di questo tipo. Ma anche
in noi sono all’opera meccanismi per la contrazione del potenziale intellettivo.
Questa potrebbe essere una spiegazione, dal punto di vista evolutivo, di una
malattia come il morbo di Alzheimer, che mortifica così ferocemente le capacità
mentali di soggetti in età adulta.
Il cervello dell’uomo non può essere poi molto diverso, nelle funzioni
fondamentali, da quello dei mammiferi superiori. Lo sosteneva anche Karl
Popper, il grande filosofo della scienza, in Verso una teoria evoluzionistica della
conoscenza. Pertanto, non è del tutto fuori luogo ipotizzare che, nella nostra
specie, possa verificarsi un’autodistruzione delle cellule cerebrali.
Alla nascita, il cervello degli animali addomesticati non è più piccolo di
quello dei loro simili allo stato selvaggio. Il suicidio dei neuroni si verifica solo
più tardi, nel corso dello sviluppo.
È quasi superfluo, a questo punto, notare che l’uomo è l’animale che ha in
assoluto il più lungo periodo di addestramento, cui corrisponde anche una
crescita piuttosto lenta della capacità cerebrale. Egli raggiunge la piena maturità
intellettuale quando è circa a un quarto della vita: un record. E al termine del suo
percorso formativo dispone di più cellule cerebrali di quante effettivamente ne
utilizzi. Il morbo di Alzheimer potrebbe costituire il tentativo, da parte
dell’individuo adulto o anziano, di liberarsi dei neuroni superflui?
Ebbi l’occasione di esporre le mie idee a un neurologo. Mi stette a sentire,
ogni tanto annuiva. Poi, quando stavo visibilmente per esaurire gli argomenti,
alzò una mano, come per interrompermi, e aprì un cassetto della scrivania, per
tirarne fuori una radiografia.
Me la porse, mi chiese se ero in grado di leggerla. Era un cranio umano, visto
dall’alto; e l’interno, salvo un’area ristretta attorno alle pareti, era
completamente nero. Alzai gli occhi verso il mio interlocutore con aria
interrogativa, perplessa. Con pazienza, lui mi spiegò che la zona nera all’interno
del cranio era acqua. Quell’uomo, tranne una fascia marginale, non aveva
cervello. Pure, si trattava di un adulto che aveva goduto di una vita normale,
raggiungendo persino posizioni di responsabilità. Vedendomi stupito e quasi
incredulo, il neurologo mi assicurò che buona parte del nostro cervello, in realtà,
è «ridondante», che le nostre facoltà intellettuali sono molto più vaste di quanto
ci serva. Il sovrappiù funziona da scorta, pronta all’uso, se qualcosa venisse
danneggiata.
Chiesi conferma a un mio amico, valente neurochirurgo. «Nei testi», mi
riferì, «è detto che, per una vita normale, potrebbe bastare una pellicola di
corteccia cerebrale di appena 0,5 millimetri». Pensai che esagerasse, mi
prendesse in giro. «E il resto acqua?», domandai. «Preferisci la segatura?»,
replicò.
Da qualsiasi lato girassi la questione, giungevo sempre allo stesso punto:
l’uomo, allo stadio attuale della sua evoluzione, ha bisogno di una quantità
limitata di materia cerebrale, e quindi di intelligenza.
Quello che è successo agli animali domestici si è verificato anche per noi.
Già Darwin aveva avuto questa intuizione, quando affermò che possiamo essere
paragonati alle bestie addomesticate da lunghissimo tempo. In questo senso,
anzi, nessuna lo è quanto noi.
Il confronto tra gli effetti dell’addomesticamento sui cani, e della società
sugli uomini, non è nuovo. Addestrare un animale vuol dire: educarlo a reagire,
in modo prestabilito, a determinati stimoli. Il cane allevato per fare la guardia è
condizionato ad azzannare qualsiasi sconosciuto che si avventuri nel territorio da
lui difeso.
Allo stesso modo, l’uomo inserito nella società è indotto a operare secondo
le norme della funzione assegnatagli. Mediante regole, precetti, istruzione,
abitudini, viene imposta tutta una serie di comportamenti cui attenersi {*}.
{*} Sull’azione di appiattimento cerebrale svolta dalla televisione si rimanda all’appendice a p. 163.
In entrambi i casi, l’intelligenza è superflua; cade in disuso o viene
soppressa. Per dire di come il genio diminuisca nel tempo, lo scrittore argentino
Jorge Luis Borges, uno dei più grandi del XX secolo, mi spiegò che gli uomini di
vero talento, in ogni epoca, sono contemporanei di altri vissuti nel passato, non
di quelli dei loro giorni. Più acuta è la loro mente, più essi dialogano con una
remota e «sparsa dinastia di solitari». Per trovare qualcuno al loro livello,
devono risalire nei secoli (il meglio è alle spalle). «Persino Omero», osservò
Borges, «fu costretto a raccontare di fatti accaduti quattrocento anni prima di
lui.»
Sintetizzando: il percorso evolutivo della nostra specie, quanto alle capacità
intellettuali, ha fatto segnare una crescente propensione all’aumento per milioni
di anni. Poi la corsa si è arrestata, e la tendenza si è invertita. Questo è
innegabile. La domanda, destinata a restare per noi senza risposta, è: questa
diminuzione è stata solo un assestamento, un recedere dal troppo, o è l’inizio di
un cammino in senso opposto a quello che ha guidato la nostra evoluzione? In
altre parole, il declino dell’intelligenza continuerà sino alla totale scomparsa?
Ma è la scimmia che discende dall’uomo

“Quando lei, come ha fatto nelle sue ultime lettere, rinuncia, almeno in parte, al rigore quasi
matematico delle dimostrazioni, riesce a risultare più convincente.
In questi giorni, ho dovuto ripercorrere il cammino della nostra piccola disputa epistolare. Ho
pertanto riletto con attenzione tutte le sue lettere, e ho riguardato anche le minute di quelle che io le ho
inviato. E riesaminando la nostra corrispondenza, mi si è formata nella mente come un’immagine, o una
visione, se si vuole essere più poetici. Quella di uno scoglio nell’oceano; e la marea sale, sale finché, dello
scoglio, solo la cima rimane al riparo dalle onde.
Le sue argomentazioni non hanno davvero intaccato nessuna delle mie certezze; i principi morali, le
concezioni dell’uomo, dell’etica, della società, che ho elaborato in lunghi anni di studio, le idee cui ho in
qualche modo votato la mia vita, non sono state certo scosse dalle sue parole.
Ma ho dovuto, quasi mio malgrado, almeno all’inizio, prendere atto di come si restringe sempre di
più lo spazio, l’ambito in cui queste mie teorie si rivelano vere. Da qui la metafora dello scoglio.
Io ero sinceramente convinto che le mie idee dovessero valere per tutti gli uomini, per tutte le società.
Nella mia opinione, l’intelligenza, la razionalità dovevano essere necessariamente il valore supremo nella
vita di tutti. Certo, sono consapevole che, nella realtà, le cose non stanno così. So fin troppo bene che tante
volt~ gli uomini si fanno guidare da passioni irrazionali, che ne offuscano il giudizio. Mi rendo conto,
inoltre, dell’effetto repressivo della società, di come spesso questa mortifichi le doti intellettuali dei singoli,
costringendoli a uniformarsi a soluzioni prestabilite.
Ma credevo che tutte queste fossero eccezioni. In un certo senso, persino necessarie.
Al contrario, lei mi ha mostrato che questa è la norma per la stragrande maggioranza delle persone; e
che intelligenza e razionalità caratterizzano solo una sparuta minoranza.
Ma almeno per questa, restano valori fondamentali. Non per tutti gli uomini, d’accordo; per pochi, ma
i migliori.
E saranno loro la salvezza della specie. Quanto lei stesso ha detto riguardo a quei gruppi formati da
persone di straordinaria intelligenza, mi ha confortato, mi ha dato speranza. Mi è parso di vedere, anche nel
mare delle sue convinzioni, uno scoglio su cui possano sussistere idee diverse da quelle che ha fin qui
esposto. I Socrate, i Leonardo: sono loro che danno senso all’umanità; non fa niente se sono rari.
Per questo io non posso seguirla; e all’interrogativo (in sé perfettamente legittimo) che lei si pone e
mi pone, devo rispondere che l’intelligenza non può essere destinata a finire. E se per assurdo lo fosse,
questo coinciderebbe con la fine del genere umano.”

Avevo saputo fin dall’inizio che non sarei mai riuscito davvero a convincere
il professore, a smuoverlo dalle sue certezze. Tutto sommato, non avevo
nemmeno desiderato di farlo. Non condividevo la sua visione dell’uomo e della
società: era certo seria e profonda, ma mi sembrava troppo ottimistica,
consolatoria, inclinata più verso i desideri che i dati di fatto. Nella forma in cui
l’aveva esposta, restava comunque una visione molto bella, nobile. Perché avrei
dovuto cercare di confutarla?
In realtà, nell’impegnarmi in quella disputa a distanza, non mi ero prefisso
nessuno scopo definito. Ero soddisfatto di poter dare espressione alle idee che
avevano assorbito molte mie energie e mi avevano dato tanto da riflettere. Mi
sentivo lusingato di poterne discorrere con un grande accademico, conosciuto e
rispettato. Ma, mentre la nostra discussione progrediva, era sorta in me
l’ambizione di scuotere, per quanto possibile, il convincimento profondo del
professore, di indurlo a dubitare, almeno in parte, delle sue opinioni.
Sapevo che avrebbe continuato a considerarle valide. Ma sarebbe stata per
me una conquista portarlo a riconoscere che le sue idee si applicavano a una
minoranza di persone così ristretta, da poterla considerare trascurabile.
E ormai ritenevo di esserci quasi riuscito. Nella sua ultima lettera, il
professore aveva ammesso che l’intelligenza caratterizza solo un piccolo numero
di esseri umani. Questa sua affermazione mi sembrò un successo personale. E
volli cercare di fare ancora un passo avanti, l’ultimo e definitivo. Riuscire a
fargli dire che l’intelligenza è destinata a finire, perché è una dote provvisoria,
del tutto strumentale nell’avventura della specie e, in quanto non più necessaria,
caduca.
In quegli anni si erano affermate nuove tecniche e metodologie scientifiche
per investigare sull’origine dell’uomo e che si rifacevano alla biologia. Cercai di
informarmi sui primi risultati cui erano giunte.
Lo studio della genetica aveva fatto compiere un balzo in avanti alle
conoscenze sulla nascita e l’evoluzione della specie umana, che fino ad allora si
erano alimentate solo delle ricostruzioni ottenute dall’analisi di resti ossei e
manufatti. Le scienze biologiche applicate all’archeologia e all’antropologia
permettevano, invece, nuove, rivoluzionarie scoperte.
Ogni essere vivente è distinto da un patrimonio genetico originale. Si tratta
di un insieme di dati e qualità ereditarie che racchiudono i caratteri fondamentali
della specie e di cui quelli particolari di ogni individuo costituiscono una
variante. Tutte queste informazioni sono contenute nel DNA, una grande
molecola formata da una catena di proteine, disposte a doppia elica.
L’evoluzione della vita e il formarsi di tantissime specie diverse (animali e
vegetali), si deve a una incessante serie di variazioni genetiche. Si è scoperto che
tali mutazioni avvengono a intervalli regolari di tempo. E, dal momento che
l’origine della vita è una, si può stabilire, contando le differenze, quanto tempo è
passato prima che da una specie ne sorgesse un’altra e quanto sono
biologicamente (oltre che cronologicamente) distanti le varie forme di vita. Si è
così accertato, per dire, quale grado di “parentela” ci sia fra l’uomo e la carota.
Queste metodologie vennero inizialmente applicate, in una sorta di
lunghissimo rodaggio, a 18 mila specie di uccelli. E i risultati furono notevoli.
Le sorprese vennero quando si misero a confronto l’uomo e le grandi
scimmie antropoidi, quelle più simili a noi. Furono paragonate alcune molecole
proteiche di sangue umano, con quelle del sangue di scimpanzé. Le differenze si
rivelarono minime. E patrimonio genetico dell’uomo è diverso da quello dello
scimpanzé per meno del 2 per cento. Il valore del dato si comprende meglio,
quando si aggiunge che tra alcune razze di cani ci sono difformità ben maggiori
(quasi il doppio). Noi e gli scimpanzé siamo molto più simili, “fratelli”, di
quanto lo siano il bassotto e il pastore tedesco. Addirittura, lo scimpanzé è
biologicamente più distante, più diverso dal gorilla che da noi.
Ma, per quanto stupefacenti fossero tali risultati, fu altro che lasciò gli
studiosi (e non solo loro) a bocca aperta. Questo metodo di ricerca, chiamato
“orologio biologico”, rivelò che le due specie, la nostra e gli scimpanzé, si erano
separate circa un milione e mezzo di anni fa. «Ma quando nasceva lo scimpanzé,
l’uomo esisteva ormai da molto tempo», mi spiegava anni fa, con infinita
pazienza, il professore Giuseppe Sermonti, nel suo studio di docente di genetica
all’Università di Perugia. «Soltanto se lo scimpanzé è il figlio e non il padre
dell’uomo, i dati si rivelano giusti», concluse. Ero così stupito che, nell’articolo
che poi ne scrissi, sbagliai tutti i nomi degli studiosi che Sermonti mi citò, tranne
il suo (e a mio, la firma).
Sarebbe quindi lo scimpanzé a discendere dall’uomo, e non viceversa. O
quantomeno, lo scimpanzé si è sicuramente evoluto dopo di noi. (E provate a
immaginare cosa avrebbe detto quella poverina della moglie del vescovo di
Worcester).
Questo apparirà meno strano, se si tiene conto che l’uomo è, tra gli animali,
il meno “specializzato”. Le altre specie hanno tutte caratteri definiti: sono
carnivore o erbivore, predatrici o no, diurne o notturne, tropicali o polari… Ogni
animale è costruito dall’evoluzione naturale per vivere in un determinato
ambiente. Le nostre caratteristiche, invece, non presuppongono alcuna
specializzazione: l’uomo non è fatto per mangiare carne o verdure, per vivere
all’equatore o al polo. Questo indica che siamo una specie arcaica, non molto
evoluta, in senso biologico, perché non abbiamo trovato ancora il nostro posto
nella natura. L’essere umano possiede anche altri caratteri che vengono
normalmente considerati propri delle specie primitive: nelle vene dell’adulto
scorre ancora, in minima parte, il sangue fetale; le femmine conservano l’imene;
le dimensioni del cranio non aumentano molto dal neonato all’adulto (crescono
molto di più nello scimpanzé).
Jared Diamond, docente di fisiologia all’University of California di Los
Angeles, ha studiato approfonditamente la genetica umana in parallelo a quella
delle grandi scimmie, fino a concludere che l’uomo potrebbe essere considerato
una sorta di terzo scimpanzé, assieme allo scimpanzé comune e a quello pigmeo
(il bonobo); tanto i rispettivi patrimoni genetici sono simili.
Le differenze, senza dubbio molto appariscenti, non sarebbero tanto di tipo
biologico, quanto culturali. Infatti, l’essere umano ha potuto sviluppare capacità
intellettuali maggiori di quelle del suo parente più stretto (lo scimpanzé), grazie
al linguaggio complesso. L’uso sempre più elaborato della parola ci avrebbe
consentito di potenziare le qualità cerebrali e di trasmettere ai nostri simili il
risultato di esplorazioni e scoperte. In questo modo, le società umane hanno
costruito culture sofisticate, diversificando la propria specie da quelle
biologicamente prossime.
Ma dopo la scoperta dell’“orologio biologico” (e del fatto che siamo più
anziani dello scimpanzé), l’uomo non può più essere ritenuto il punto
culminante, il fine dell’evoluzione, perché altre specie sono nate dopo di lui, da
lui.
Ma se le differenze da altri animali simili a noi sono soprattutto culturali e
non naturali, vuol dire che, più del sangue, ci fa diversi l’uso dell’intelligenza.
Se smettessimo di adoperarla, davvero poco ci distinguerebbe dagli scimpanzé.
Ma è proprio in quella direzione che ci muoviamo. (Ricordate lo zio Vania che
torna al ramo in Il più grande uomo scimmia del Pleistocene?).
Forse è tempo che la natura torni a prevalere sulla cultura e la nostra specie
rientri nell’equilibrio della vita, sul pianeta, senza più sconvolgerlo. Anche a
costo di subire una drastica riduzione del volume cerebrale e delle facoltà
intellettive; la diffusione di patologie che distruggono la materia grigia o causano
una contrazione delle capacità mentali; il dilagare di strutture e comportamenti
sociali che mortificano il genio individuale.
Tutte cose che possono dispiacere al mio amico professore e a pochi altri
affezionati a quel delizioso giocattolo chiamato intelligenza. Ma per Mamma
Evoluzione conta solo quello che è utile alla sopravvivenza della nostra e (visto
che siamo diventati un pericolo) delle altre specie. A tal fine la stupidità fornisce
garanzie maggiori dell’intelligenza. E vince nella lotta per la vita.
La risposta del professore questa volta fu molto breve.
Doveva venire a Roma, di lì a poche settimane, per un convegno. Una
circostanza particolarmente felice, diceva; perché la nostra discussione aveva
toccato temi tali, da non poter più proseguire soltanto in via epistolare. Era
necessario che ci incontrassimo.
Fissava già l’appuntamento, per le tre del pomeriggio di un giorno del mese
seguente, nella hall del suo hôtel. Avrei dovuto chiedere di lui al concierge,
aggiungeva. Un dettaglio rivelatore del puntiglioso rigore e dell’amore per la
chiarezza, che lo caratterizzavano non solo nel pensiero e nella attività di
studioso e di docente, ma nella vita.
Ero rimasto in contatto con l’assistente di Lorenz, ormai diventato lui stesso
professore di scienze naturali. Gli scrissi subito, per dirgli che finalmente avrei
conosciuto questo personaggio, per me ancora misterioso. L’antico allievo di
Lorenz aveva la passione molto austriaca della chiacchiera, se non del
pettegolezzo; e il fatto di doversi limitare a esercitarla per lettera, non lo aveva
trattenuto dal farmi qualche confidenza in modo, diceva lui, che sapessi con chi
mi sarei dovuto misurare.
Apprendevo, così, che il professore veniva considerato una leggenda vivente,
nella piccola comunità degli accademici austriaci. Non si era mai voluto sposare,
nonostante, fino a qualche anno prima, non fossero mancate le ragazze e poi le
signore ben disposte nei suoi confronti. Apprezzava talvolta la conversazione
delle donne, ma si diceva che i rapporti con l’altro sesso (e, se è per questo,
anche con il suo), non fossero mai andati oltre una frequentazione, diciamo,
formale. Come se rifuggisse da contatti umani troppo ravvicinati, che
rischiassero di scuotere la sua imperturbabilità. Era sempre cordiale con tutti,
colleghi e allievi; ma con nessuno davvero in amicizia o in confidenza.
Insomma, aveva costruito attorno a sé un muro, per impedirsi di provare
emozioni troppo forti, che avrebbero indebolito la solidità del suo giudizio.
Aveva vissuto a lungo assieme al fratello, anch’egli professore universitario,
ma di matematica; poi, dopo la sua morte, avvenuta pochi anni prima, era
rimasto solo, in una grande casa al centro della città. Nonostante fossero di
famiglia agiata, i due fratelli non si erano mai serviti di camerieri o governanti; e
anche ora, il professore badava da solo a se stesso e al grande appartamento.
La puntualità e la precisione delle sue abitudini, anche nelle piccole cose, era
proverbiale. Arrivava nel suo ampio studio all’università sempre alla stessa ora,
alle 9 precise. Teneva lezione, riceveva gli studenti, oppure studiava e scriveva,
secondo i giorni. Alle 12, immancabilmente, andava in un caffè vicino
all’università, dove si sedeva a un tavolino, sempre lo stesso, che il padrone gli
riservava. Consumava un pasto leggero, non fosse stato per l’enorme gelato al
caffè con cui lo concludeva. Non parlava con nessuno, durante quell’intervallo,
limitandosi a scambiare qualche battuta sul tempo o sull’attualità politica con il
padrone del caffè e con l’anziana cameriera che lo serviva. Mentre aspettava di
mangiare, sorseggiando una birra scura, leggeva «Die Presse», l’autorevole
quotidiano viennese di tendenze liberali. Alle 14 tornava all’università, dove
restava fino alle 17 in punto, e prima di tornare a casa faceva una lunga
passeggiata, sempre lungo lo stesso percorso.
Queste confidenze mi impensierirono.
E mi infastidì scoprirmi ansioso quando mi recai da lui.
Appena entrato nel grande albergo romano, dal gusto un po’ decadente, dove
alloggiava, mi diressi verso la reception. Il concierge mi fece segno di seguirlo e
mi guidò verso l’angolo più lontano del grande salone.
Sprofondato in una poltrona di cuoio, un uomo anziano, dai capelli bianchi,
lunghi e curati, leggeva attentamente «Die Presse». Il concierge dovette
richiamare la sua attenzione con un discreto colpo di tosse. Come ci vide,
congedò il mio accompagnatore con un sorriso, si alzò in piedi, e si inchinò
leggermente davanti a me, sbattendo appena i tacchi (davvero, o mi aspettavo
che lo facesse?) Mi accolse col classico, antico saluto austriaco: «Servus».
M invitò a sedere al suo fianco. Lo osservavo intensamente, cercando di
comprendere qualcosa di lui, prima ancora che cominciasse a parlare.
Dimostrava un’età indefinita: chiaramente al di sopra dei sessanta, non si
poteva dire con certezza di quanto li avesse superati. Non era alto, e il fisico
lasciava ancora trasparire una certa giovanile agilità. Ricordai che l’assistente di
Lorenz mi aveva spiegato come il professore fosse un appassionato delle
escursioni in montagna. Ma la cosa che colpiva di più erano gli occhi: chiari,
limpidi, volti a scrutare l’interlocutore fin nelle sue profondità, con innocente
insistenza.
Mi trasse dall’imbarazzo cominciando subito a parlare. Mi raccontò della sua
amicizia con Konrad Lorenz, dell’affetto che li aveva uniti. I suoi studi di etica,
di filosofia del diritto, di scienze sociali, affermò, dovevano molto al legame con
lui, alle lunghe discussioni insieme. Le indagini di Lorenz sugli animali avevano
influenzato le sue ricerche sull’uomo e sulla società umana.
Il professore parlava come scriveva; un tedesco preciso, con frasi elaborate,
senza risultare stucchevole. Discorreva velocemente, ma non c’era una parola di
troppo, una frase fuori posto. Aveva un accento molto marcato, che non riuscii a
individuare.
Durante una di quelle loro conversazioni, continuò, il suo amico Lorenz gli
aveva parlato di un giornalista italiano che, prima timidamente, poi prendendo
sempre più coraggio, gli aveva esposto certe sue idee sull’evoluzione e sul
destino della specie umana; in particolare di come, a suo parere, l’intelligenza
fosse ormai condannata all’estinzione. Secondo Lorenz, erano considerazioni
meno bizzarre di quanto potessero sembrare; c’era in esse qualcosa di sensato, e
forse meritava dedicare un po’ di attenzione a questo tema.
«È un argomento che riguarda i miei studi molto da vicino. Come forse
saprà», disse piegando leggermente il capo, «uno dei postulati su cui si basano le
mie concezioni dell’uomo e della morale, è che siamo esseri razionali e
dobbiamo sempre esercitare le nostre capacità critiche. Semplificando,
comportarsi bene vuol dire prima di tutto riuscire a comprendere cosa è bene e
cosa è male. Ora, se l’intelligenza, la razionalità, fossero solo una condizione
passeggera, lei capisce che questi presupposti andrebbero almeno rivisti.»
M guardò negli occhi, sorridendo. «Il mio amico Konrad era spiritoso, e si
divertiva a mettermi in difficoltà, fin da quando eravamo studenti. Voleva vedere
come me la sarei cavata con le sue teorie», disse, puntandomi contro l’indice,
«come sarei riuscito a trovare un’argomentazione che potesse confutare la sua
strana congettura sulla fine dell’intelligenza.»
Poi la salute di Lorenz iniziò a peggiorare. Il discorso sulla fine
dell’intelligenza cadde.
Ma, nonostante la scomparsa del suo grande amico, il professore non aveva
dimenticato. E quando ne ebbe l’occasione, cercò il modo di mettersi in contatto
con me.
Iniziò così la nostra corrispondenza.
«Io devo sinceramente ringraziarla», mi disse, «perché questa nostra disputa
mi ha indotto a prestare attenzione a dettagli che reputavo, a torto, marginali. Ho
così riflettuto su alcune cose che, lo confesso, mi erano sfuggite.» Ora il suo
sguardo sembrava cercare un orizzonte lontano da fissare.
«Temo di essere ormai troppo vecchio per dedicarmi a una materia tanto
vasta come le scienze biologiche. Ma ho sempre cercato di avere molti interessi,
al di là del mio ambito specifico. Per studiare l’uomo, la sua morale, la società
che ha costruito, le scienze naturali possono essere molto utili, perché ci
mostrano le cose da un’altra angolazione; rivelano aspetti fondamentali della
natura umana, che altrimenti resterebbero nascosti per noi filosofi.»
Continuava a parlare, e io lo ascoltavo affascinato. E suo eloquio metodico,
ma non privo di bellezza, mi aveva conquistato; e del resto, per seguire passo
dopo passo il filo dei suoi pensieri, in tedesco, dovevo proprio concentrarmi.
A un certo punto, fece una pausa più lunga. Si sistemò comodamente sulla
sedia e mi disse: «Ma io sono stato terribilmente scortese! Non le ho ancora
offerto nulla da bere; cosa gradisce?». Avrei preso un caffè; lui guardò
l’orologio, e annunciò che, secondo le sue abitudini, era troppo tardi per il caffè.
Mi avrebbe fatto compagnia con una birra leggera.
Mentre la sorseggiava con gusto, riprese a parlare: «Io sono certo che lei, con
l’incontro di oggi, si riprometteva di risolvere la nostra disputa sulla questione
che le sta a cuore: la fine dell’intelligenza! ».
Potevo negare? Confessai che il mio proposito era stato proprio quello; ma
ora mi sembrava che le mie idee perdessero importanza, tanto era piacevole
starlo ad ascoltare.
«Vede, caro amico», continuò (ed era la prima volta che mi chiamava così),
«le questioni, in particolare quelle così complesse, non si possono davvero mai
risolvere. Se ne parla, se ne discute, ed è tutto quello che possiamo fare. A chi
cerca la verità assoluta, questo può sembrare poco. Invece è tantissimo. È molto
giusto e ragionevole dire che fu il linguaggio a fare di noi esseri umani quello
che siamo adesso. La parola: il confronto, il dialogo. Qui sta l’essenza
dell’umanità.» Altra pausa, lunga sorsata di birra.
«E il nostro scambio epistolare mi ha rallegrato perché è stato un interessante
dibattito. Abbiamo confrontato le nostre idee; ci siamo comunicati, senza
nemmeno conoscerci personalmente, le nostre opinioni e non solo. Ciò prova
che eravamo tutti e due sicuri dell’importanza di questa disputa; sapevamo che
era in gioco qualcosa di vitale.»
Sentivo che stava arrivando al punto focale del nostro incontro.
«Ma le convinzioni più profonde non possono cambiare», continuò. «Io
posso metterle in discussione, solo nel senso che accetto di parlarne,
riesaminarle alla luce di un diverso punto di vista; non per rinunciarvi davvero.
Lei mi ha esposto la sua tesi in modo accattivante; ma mi dica: ne è proprio
convinto? Pensa sul serio che la nostra intelligenza sia condannata
all’estinzione?»
Non mi aspettavo una domanda così diretta. E professore mi aveva spiazzato.
Riuscii solo ad assentire, senza dire una parola. Poi, intercettai il suo sguardo
benevolo, ma curioso: lui aspettava una risposta vera. E mi feci coraggio.
«Sì, professore. Queste idee sono nate come un dubbio, un divertente
sospetto. Poi, riflettendoci, elaborandole, cercando le conferme nei libri di chi ne
sapeva più di me, mi sono convinto che a quella intuizione corrispondeva una
verità.» Scrutai l’effetto delle mie parole sul volto del professore. Sì, era davvero
interessato. Continuai:
«Vede, mi rendo conto che si tratta di una teoria paradossale, e forse troppo
perché possa essere accettata. E probabile che la sua base scientifica non sia poi
così sicura. Ma mi sembra la spiegazione migliore di una serie di fenomeni.
Prima di tutto della dilagante imbecillità, che ci rende la vita più misera. Poi
dell’indifferenza, della volgarità diffusa, che distruggono piccole cose di grande
civiltà che solo il genio poteva inventare: la gentilezza, l’attenzione per l’altro, la
cui vita riempie anche la nostra. Solo una specie stupida, autolesionista, può
impoverirsi così. E poi la ferocia, professore. Uno dei punti da cui sono partito è
stato l’Olocausto. NE chiedevo cosa potesse spingere l’uomo a pianificare lo
sterminio dei suoi simili, a coltivare il razzismo. Il giorno dopo il mio incontro
con Lorenz, ebbi una lunga conversazione (la prima di una piccola serie) con
Simon Wiesenthal, il cacciatore di criminali nazisti. E lui mi raccontò della sua
delusione quando, dopo essere riuscito a portare davanti a un tribunale di Israele
il regista della “soluzione finale”, Adolf Eichmann, ne scoprì la nullità: “Chi,
questo?”, continuava a domandarsi. Capì allora, io con lui, che solo la stupidità
può essere così feroce. E che l’intelligenza è pericolosa, se mette a disposizione
degl’imbecilli un potere immenso»,.
Il professore assentì, accarezzandosi le labbra E mi rispose:
«Io, in vagone letto, non sono mai riuscito a dormire bene. A dir la verità, per
riposare davvero ho bisogno della mia casa, del mio letto. E mentre viaggiavo
verso Roma, non potevo fare a meno di ripensare alle sue lettere, alla sua
originale teoria. All’improvviso, mi è sembrato che non fosse la prima volta che
ne sentivo parlare. Ho compreso che, quanto lei ha escogitato, era già stato detto
molto tempo fa».
A questo non ero preparato. Avrei accettato delle critiche che smontassero
“tecnicamente” la mia ipotesi. Ma mi seccava sentir dire che, nella sostanza,
potevo aver copiato.
E professore notò, naturalmente, il mio imbarazzo: «È sorpreso? Si chiede a
cosa sto pensando?». Annuii. E che altro? «Eppure è tanto semplice! Ma le
confesso che anche a me è venuto in mente, come ho detto, solo la scorsa notte.»
Mi ero spinto a sedere sul margine della poltrona, proteso verso di lui.
«Ricorda il mito di Dedalo?», chiese.
«Sì, certo.»
Gli angoli della sua bocca si sollevarono leggermente, mentre chinava il
capo, in cenno d’assenso.
«Naturalmente. Spero non le dispiacerà se glielo racconterò di nuovo, con
una chiave di lettura un po’ diversa, ma, a questo punto, più vera, ritengo. Vedrà,
quanto sto per dirle si accorda molto bene con le sue strane idee.»
Il professore si interruppe ancora, portando alla bocca il bicchiere di birra,
che vuotò con una lunga sorsata.
«I greci, nei loro miti, hanno dato espressione a un insieme ricchissimo e
complesso di concezioni sull’uomo, sulla vita, sulla società. Quei racconti non
sono creazione di un individuo; non hanno un singolo autore. Sono il costrutto di
un intero popolo, di una collettività, di cui ritroviamo, nelle vicende e nei
personaggi mitologici, la psicologia, i desideri e le paure ancestrali. Con i miti, i
greci esprimevano cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato. E
il bambino doveva impararli a memoria, perché avevano funzione educativa.
Penso che su questo lei sarà d’accordo con me.»
Non era una domanda, ma una constatazione. Non richiedeva una risposta.
Restai in silenzio, e lui continuò. Parlava, orinai, come se stesse facendo lezione;
il suo tono era accattivante, privo di esitazioni.
«Dedalo rappresenta l’intelligenza creativa, il genio sempre volto a nuovi
progetti. Per questo il re di Creta, Minosse, incarnazione mitologica della
giustizia, lo incarica di costruire il labirinto (nelle cui circonvoluzioni, lei può
vedere l’effigie del cervello, se vuole). A cosa serviva il labirinto?» Anche
questa volta, nonostante il tono interrogativo, la domanda era solo apparente;
prima che potessi aprire bocca, il professore aveva già ricominciato.
«Nel labirinto era prigioniero il Minotauro, mostro metà uomo e metà toro. Il
Minotauro partecipa della natura dell’animale e di quella umana. Ha una forza
smisurata; non frena i propri impulsi; non domina il suo potere e i suoi desideri.
Il Minotauro è l’essere umano non guidato dalla ragione; siamo noi sino a
quando la razionalità.non interviene a governare l’istinto, il sentimento.
L’intelligenza di Dedalo (e la sua, e la mia) serve a controllare la natura bestiale
dell’uomo. Questo è il significato della prima parte del mito.»
Fece una pausa, per accertarsi che stessi seguendo il ragionamento. Quando
un mio cenno lo rassicurò, proseguì.
«Ma Dedalo aiutò Arianna e Teseo a violare il labirinto; non ci interessa
soffermarci su questa parte del racconto, che invece ha sollecitato molto
l’immaginazione di poeti, musicisti e pittori. L’importante è che Dedalo viene
meno al compito, al dovere, della ragione umana: tenere a freno la nostra
componente bestiale. Per questo Minosse lo punisce, rinchiudendolo nel
labirinto assieme al figlio Icaro. Ma l’intelligenza, l’energia creativa può
affrontare ogni ostacolo; e Dedalo non si lascia sgomentare: trova il modo di
uscire dal labirinto. Con delle piume tenute insieme dalla cera, costruisce due
paia di ah (le ali del genio, se crede, con cui si può sfuggire al nostro bestiale
retaggio). E padre e figlio si salvano in volo.»
Forse cominciavo a capire dove portava il suo ragionamento.
«Dedalo ammonisce Icaro di non volare troppo in alto, altrimenti il calore
del sole avrebbe sciolto la cera, facendolo precipitare. La fine è nota. Icaro
ignorò l’ammonimento paterno, e cadde in mare. Secondo lei, qual è il
significato di tutto questo?»
«Professore,» esclamai, allargando le braccia, «credo di aver compreso; ma
vorrei sentirlo da lei! »
Sorrise. (In fondo gli sarebbe dispiaciuto se gli avessi sottratto proprio la
conclusione). «I greci hanno espresso così il tabù dell’intelligenza: non è vero
che non ha limiti; li ha e non deve superarli, pena l’autodistruzione. Insomma,»
concluse, «è la stessa cosa che sostiene lei: troppa intelligenza fa male; c’è un
confine oltre il quale la ragione umana non è più un vantaggio, ma un danno. E
guardi che non è solo il mito di Dedalo a dirci questo. Nella nostra cultura, la
condanna della pretesa umana di voler “sapere troppo” è espressa in molti modi.
È il peccato che sconta Prometeo. È per questo che Adamo ed Eva sono espulsi
dall’Eden.»
«Ma allora, professore, alla fine lei mi dà ragione?» Mi sembrava incredibile,
ero sbalordito.
«In un certo senso, sì.» Adesso aveva unito le punte delle dita, e le guardava
pensosamente. «Ma, mi capisca bene: solo in un certo senso. L’intelligenza,
ripeto, ha dei limiti, e occorre che ne sia perfettamente consapevole. L’uomo
deve guarire dal suo delirio di onnipotenza, dall’illusione di poter fare tutto ciò
che vuole, Se non capisce questo, prima o poi, si distruggerà. Non siamo
onnipotenti e non lo diventeremo mai, nonostante le conquiste della nostra
intelligenza. Sono, dunque, prontissimo a darle ragione su due punti. Primo:» e
alzò il pollice di fronte al viso, «una riduzione delle capacità intellettuali della
nostra specie c’è indubbiamente stata, ma ha avuto un valore positivo; forse,
dopo tutto, ci ha davvero salvati dall’estinzione. Secondo:» e sollevò pure
l’indice, «la natura, ma in modo particolare la cultura, la società umana, non
agiscono in modo da potenziare le nostre doti intellettuali; al contrario, le
mortificano sistematicamente. Come dice lei, ci rendono imbecilli.»
Non poteva essere vero. Ero riuscito a persuadere il professore?
No, non era come pensavo.
«Ma queste due idee, questi due assunti fondamentali, se vogliamo chiamarli
così, cosa dimostrano?», mi chiese.
«Io una conclusione l’ho già tratta, professore. È lei che deve dirmi cosa, a
suo parere, dimostrano o non dimostrano i due assunti.»
«Non dimostrano assolutamente nulla!», disse ridendo e agitando le braccia.
«Sono solo delle constatazioni, dei dati di fatto. A partire dai quali, lei ha
costruito una brillante teoria. E io la ringrazio di avermi dedicato tanto del suo
tempo, per espormi le sue idee. Ma resto della mia opinione. Forse troppa
intelligenza (specie se usata a sproposito) è un fatto negativo. Ma è tutto quello
che abbiamo: rimane e rimarrà la nostra ricchezza, quello che ci salva. Sì, io
sono convinto di questo.»
Lo confesso, per un attimo mi ero esaltato al pensiero di essere riuscito a
portare sulle mie posizioni uno stimato professore di filosofia. Adesso ero
infastidito dalla delusione.
Il professore dovette accorgersene, perché si sporse verso di me, facendomi
un gesto consolatorio.
«Non se la prenda. Le mie opinioni sono buone quanto le sue. Quando si
costruiscono delle teorie così generali, nessuno può essere sicuro di niente. Le
ripeto, le sue idee sono brillanti e ben congegnate. Saranno vere? Le cose
staranno davvero come lei crede? Nessuno può saperlo. E anch’io devo
riconoscere, pur pensandola diversamente, che quanto lei dice è molto probabile.
Forse l’intelligenza è davvero destinata a finire.»
Ci fu un lungo silenzio. Il professore si lasciò andare contro lo schienale
della poltrona. Respirò profondamente e lasciò cadere le mani sulle gambe.
Evidentemente considerava chiuso il discorso. E mi dispiacque doverlo
lasciare, quando, poco dopo, con estrema cortesia, mi fece capire che doveva
tornare al suo convegno.
Era uscito da pochi istanti, e già mi sembrava appartenesse a un tempo
remoto; ne avvertivo l’immagine e il ricordo come se non fosse mai esistito: così
vero, reale, dimostrabile era tutto quello che riguardava il mio incontro con
Lorenz, tanto evanescenti risultavano sia la lunga disputa epistolare con il
professore che la conversazione appena avvenuta. Egli avrebbe potuto essere
null’altro che la proiezione di una parte di me stesso: da un lato, io e quello che
so (l’evoluzione sopprime il genio umano, perché non più necessario); dall’altro,
il professore, incarnazione di quello che desidero (giocare senza fine con
l’intelligenza e le sue possibilità; anche se l’unico gioco che la vita ama è
continuare a tramandarsi, non a pensare).
«È vero, professore,» mormorai, come se lui ci fosse, potesse ascoltarmi,
«nessuno di noi vivrà abbastanza per vedere come finirà.»
Questo era stato il primo argomento sleale usato dal mio interlocutore in tutta
la nostra discussione. Ma non avevo replicato: non potevo chiedergli di buttare i
valori cui aveva dedicato una vita di studi; né aveva senso ricordargli quello che
lui sapeva meglio di me: il nostro compito non è aspettare gli eventi, ma
prevederli (raccogliere indizi, formulare ipotesi, giungere a conclusioni
attendibili). Null’altro si propone la scienza. Ogni formula, ogni legge
matematica, fisica, chimica, non è che lo strumento per anticipare un risultato, a
partire da alcuni dati.
E in me era nato il sospetto che non avesse più nulla a che fare con
l’intelligenza, un essere il cui percorso evolutivo elimina l’esemplare più
cervelluto, favorisce la diffusione del più scemo e di strutture organizzative
stupide, rette da dementi, distrugge (anche con lo sterminio intraspecifico e la
morbilità epidemica e no) tutto ciò che ostacola il dilagare dell’imbecillità.
Il dubbio era venuto anche agli scienziati della NASA, l’ente spaziale
statunitense. Ne avevo la prova in tasca (un flash d’agenzia), ma non l’avevo
mostrata al professore, perché non sarebbe servito a nulla, ormai. Al più
sofisticato satellite artificiale fino ad allora costruito, i cervelloni dell’Olimpo
della cosmonautica avevano affidato una missione all’apparenza incredibile, ma
che tale non doveva essere per i suoi promotori. E lo si vedeva dal malcelato
orgoglio con cui il direttore dell’ambizioso progetto, Torrence Johnson, ne
annunciava i risultati al mondo, in una conferenza stampa: «Possiamo esserne
certi: il robot cosmico ci ha fornito le prove che sulla Terra vivono esseri
intelligenti».
Suona strano che, su questo, abbia bisogno di essere rassicurata proprio la
NASA, che vanta una delle più alte concentrazioni di cervelli a metro quadro. E
mette i brividi il tono celebratorio della dichiarazione di Torrence Johnson: le
cose morte si celebrano.
Resta da aggiungere un’osservazione che ridimensiona la portata della
scoperta della NASA.
Il robot cosmico, dotato di (e in collegamento con) apparecchi elettronici in
grado di elaborare una mostruosa quantità di informazioni al secondo, per avere
la certezza che sul nostro pianeta ci fossero tracce di intelligenza, aveva
impiegato tre anni (avete letto bene: tre anni).
Accartocciai, in tasca, il flash d’agenzia e, mentre uscivo dall’albergo, lo
buttai nel cestino-della carta straccia. Non mi serviva più per dimostrare che solo
la cosmologia (e con quale fatica) era in grado di scovare qualche segno di
genialità sul pianeta. Sapevo quale nuova disciplina avrebbe tentato l’impresa:
l’archeologia.
Appendice
Perché la TV ci imbroglia

La televisione è deficiente, dice nonna Franca. E io vi scrivo dall’unico


Paese al mondo governato dalla televisione. Che è anche pericolosa. E una delle
più severe coscienze dell’ultimo secolo, il filosofo Karl Popper, chiedeva almeno
un riguardo per le nuove generazioni, forse ritenendo le vecchie già
compromesse.
Per questo, mamma Veronica manda i suoi figli alla scuola steineriana, i cui
canoni educativi condannano ed escludono la TV. Nelle famiglie, oggi, si parla
poco…
Il marito di nonna Franca è Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della
Repubblica italiana che ha nominato primo ministro Silvio Berlusconi, marito di
Veronica, padre dei pargoli TV-esenti, padrone di tutte le reti televisive private
del mio Paese e adesso pure controllore, quale capo del governo, di tutte quelle
pubbliche.
Il marito della signora Franca non aveva scelta: gli italiani hanno votato per
“il partito della televisione” e Berlusconi, entrato in politica per salvare le sue
TV, si è salvato con le TV. Non era mai successo che si votasse con il
telecomando.
Berlusconi non ammette che le sue televisioni gli hanno fatto conquistare
voti (però le vuole e le usa), e si lamenta, perché due soli programmi a lui ostili,
alla vigilia delle elezioni, gli avrebbero fatto perdere milioni di voti. Persino se
questa sciocchezza fosse vera (lo schermo non dà, può solo togliere), il potere
della televisione resterebbe enorme.
È una situazione unica al mondo. L’Italia è ora un laboratorio per gli studiosi
del rapporto fra informazione e politica. Negli altri Paesi democratici, il
legislatore pone limiti alla proprietà di strumenti informativi così potenti. In
Spagna, il Paese più generoso (esclusa l’Italia), nessuno può possedere più del
49 per cento di un solo canale televisivo; altrove le quote sono più basse, e si
ritiene sconveniente che chi ha mezzi di informazione, si candidi a cariche
pubbliche. L’esclusione potrebbe apparire ingiusta. Non lo è. Anzi, è figlia di
un’idea molto alta dell’informazione: chi ha il privilegio di gestirla, detiene già
un potere pubblico (cioè: di tutti) e non può pretendere di averne anche un altro.
La televisione non può essere né scema né intelligente: è un utensile (che,
per definizione scientifica, «può essere adoperato anche da un idiota»). Quelli
che fanno televisione non sono più stupidi o più geniali degli altri. La potenza
del mezzo può esaltare le loro azioni e farli sembrare più brillanti, ma è solo un
inganno della percezione.
A Piero Angela, il nostro migliore divulgatore scientifico televisivo, il figlio
di un collega chiese: «È vero che tu sei il più bravo a raccontare la scienza?».
«No», rispose lui, con onestà, «il migliore è un altro, ma io sono più visto, e
sembro più bravo.»
Per la stessa ragione (una sorta di elefantiasi percettiva), quando uno appare
cretino in televisione, lo sembra in modo irrecuperabile.
Questo inganno dei sensi facilita la comprensione: anche la lingua e, in certe
condizioni, la vista (e credo pure il tatto) trasmettono al nostro cervello una
percezione delle dimensioni maggiorata rispetto alla realtà. È come se il nostro
sistema ricettivo dovesse gridare, ingrandire le cose, per farcele capire (ci
conosce bene…).
La televisione lo fa con maggior potenza. E con un inganno, perché ci dà
parole e immagini. Nella nostra evoluzione da microbi a esseri umani, abbiamo
sviluppato prima la capacità di vedere, poi quella di parlare. Il nostro cervello
era già attrezzato a percepire le immagini, quando non era ancora in grado di
concepire la parola.
Così, le immagini viaggiano più rapide nella nostra testa (anche senza
considerare che la velocità della luce è un milione di volte maggiore di quella del
suono): esse arrivano, per una scorciatoia, in una zona più antica del nostro
cervello e generano reazioni, mentre la corteccia (più nuova e selettiva) deve
ancora elaborarle e selezionare una risposta.
È questo che ci fa uomini. Ma è per questo che mentre le parole ci pongono
domande (sono discutibili), le immagini sembrano darci risposte e sono ricevute
senza essere criticate.
Riassumo: la parte più recente del nostro cervello, quella umana, dà risposte
più lente, ma ragionate (l’ombra di un uomo alle tue spalle con un braccio
alzato: è tuo padre che sta per accarezzarti? No: un delinquente che ti pugnala,
ma ci hai pensato troppo e ormai è tardi…); la parte più vecchia del nostro
cervello, di quando eravamo rettili e poi mammiferi non pensanti, dà risposte più
veloci e meno analitiche (l’ombra di un uomo alle tue spalle, con un braccio
alzato: un delinquente vuole pugnalarti. Ti giri di scatto e lo accoltelli: sei stato
troppo precipitoso, era tuo padre che voleva accarezzarti).
La televisione, con le immagini, agisce sulla regione più istintiva, al punto da
generare effetti ipnotici che creano videodipendenza, secondo i meccanismi
dell’orienting response (risposta orientata, riflesso condizionato), descritti da
Ivan Pavlov. Lo sostengono, nel più recente studio sull’argomento, due
ricercatori americani, Robert Kubey e Mihaly Csikszentmihaly. Ora penserete:
questo cognome è troppo strano per essere vero; oltretutto, nella parte finale,
ricopia il nome… È un sospetto che ho avuto anch’io. Ma la rivista «Le
Scienze» è seria, non fa scherzi. Allora perché abbiamo dubitato dell’esistenza di
Csikszentmihaly? Perché abbiamo letto e visto scritto il suo nome. In
televisione, avremmo visto e ascoltato un uomo che ci veniva presentato come lo
scienziato Csikszentmihaly (ma se non lo conoscete già, come fate a dire che
non è un commercialista di Bilbao?). E non solo nessuno si sarebbe chiesto:
«Esiste Csikszentmihaly?», ma tutti avrebbero testimoniato: c’è, e io l’ho visto.
Questo è il potere della televisione, questo il potere di Berlusconi: un uomo
che dice e si contraddice senza problemi (nel senso che non se ne pone e non
gliene pongono), ma appare, con un look studiatissimo, maniacale e ormai
leggendario, rassicurante e credibile. Perché solo il sette per cento della
comunicazione passa attraverso le parole, il resto è trasmesso e recepito in modo
inconscio (e quindi non “criticabile”), con le immagini, i toni, la gestualità.
Questa è la ragione per cui le parole generano sospetti e le immagini
certezze. Ed è la ragione per cui, in TV, suona affidabile anche chi è stato
scoperto a testimoniare il falso sotto giuramento, in tribunale.
La televisione riduce il linguaggio a suono ed esalta le immagini a verità. Per
questo, quando il mio collega e maestro, Sergio Zavoli, mi chiese di aiutarlo in
una grande inchiesta televisiva a puntate sul Sud d’Italia, lavorammo un anno e
oltre a scrivere i testi per più di dieci ore di trasmissione. E altrettanto a
cancellarli e sostituirli con immagini. Alla fine, di scritto, rimase poco. E quando
la casa editrice collegata alla televisione pubblica ci chiese i testi, per farne un
libro, risposi: «Sì, ma di fotografie…». Ho la presunzione di aver dimostrato
(sulle spalle dei giganti, da Darwin a Konrad Lorenz), che l’intelligenza è una
dote temporanea e calante della nostra specie, che può salvarsi solo se
rincretinisce.
Ma la televisione è innocente: è solo lo strumento più potente finora
inventato, per aiutare Mamma Evoluzione nel lavoro di potatura cerebrale
dell’homo sapiens. Parlarne male è stupido e inutile. Il prodotto televisivo, poi, è
tanto più riuscito, quanto più alto è il numero di individui che lo vedono. Ma la
quantità di persone in grado di comprendere un messaggio è tanto maggiore,
quanto più elementare è il messaggio. Da qui la tendenza verso il basso dei
contenuti televisivi. Sono un giornalista di carta stampata (irrilevanti le mie
incursioni nell’etere). Questo mi rende sospetto, se parlo di televisione: chi
scrive per essere letto (e chi legge), si crede più colto di chi scrive per essere
ascoltato (o ascolta). Non è così: la complessità è della parola e l’immediatezza è
dell’immagine (la prima dubita, la seconda non pensa). Ma chi non si rassegna,
sostiene che si tende a somigliare ai materiali con cui si lavora…
La nostra specie ci ha messo milioni di anni a conquistare la stupidità, che è
comoda. La televisione è uno dei mezzi con cui ce la godiamo. Ma è altrettanto
potente quando la usiamo con intelligenza (qualcuno, ancora, si diverte…).
Finché ce n’è.

Pino Aprile
Indice

Presentazione di Sergio Zavoli 5



E Lorenz mi disse… 9
Guerra all’intelligenza 25
Sono sempre i migliori che se ne vanno 45
Vivere per rincretinire 55
Lo stupido copia e vince 67
Perché il capo è un imbecille 79
L’imbecillità può solo aumentare 95
La compagnia dei nostri simili ci fa scemi 111
Il miglior amico dell’uomo è un cretino 125
Ma è la scimmia che discende dall’uomo 137

Appendice: Perché la TV ci imbroglia 163
Table of Contents
Il Libro
Frontespizio
Presentazione
E Lorenz mi disse...
Guerra all'intelligenza
Sono sempre i migliori che se ne vanno
Vivere per rincretinire
Lo stupido copia e vince
Perché il capo è un imbecille
L'imbecillità può solo aumentare
La compagnia dei nostri simili ci fa scemi
Il miglior amico dell'uomo è un cretino
Ma è la scimmia che discende dall'uomo
Appendice Perché la TV ci imbroglia
Indice

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