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Saggi

La presente pubblicazione
è stata realizzata con il contributo
della Compagnia Assicuratrice
UNIPOL S.p.a.

© 2001, Éditions Labor, Bmxelles


fitolo originale: Principes élémentaires de propagandr de guerre
(utilisables en cas de guerre Jroide, chaude ou tiède... )

Traduzione di
Silvio Calzavarini

© 2005, Ediesse
Casa editrice Ediesse s.r.l.
Via dei Frentani 4/A - 00185 Roma
Tel. 06/44870325 Fax 06/44870335
In Internet:
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Progetto grafico: Antonella Lupi
Immagine di copertina: Carla Bernardi
Anne Morelli

Principi elementari della


propaganda di guerra
Utilizzabili in caso di guerra
fredda, calda o tiepida ...

Prefazione di
Giulietto Chiesa

EDIESSE
Indice

Prefazione
di Giulietto Chiesa 7

Grazie, Lord Ponsonby! 17

Capitolo primo
Noi non vogliamo la guerra 21

Capitolo secondo
Il campo avverso è il solo responsabile 27
della guerra

Capitolo terzo
Il nemico ha l'aspetto del diavolo o del «cattivo
di turno» 41

Capitolo quarto
È una causa nobile quella che difendiamo e non
degli interessi particolari 49

Capitolo quinto
Il nemico provoca intenzionalmente delle atrocità;
a noi possono sfuggire «sbavature» involontarie 63

Capitolo sesto
Il nemico usa armi illegali 79
Capitolo settimo
Le perdite del nemico sono imponenti,
le nostre assai ridotte 87

Capitolo ottavo
Gli artisti e gli intellettuali sostengono
la nostra causa 91

Capitolo nono
La nostra causa ha un carattere sacro 103

Capitolo decimo
Quelli che mettono in dubbio la propaganda
sono dei traditori 111

Da Lord Ponsonby a J amie Shea 121

L'applicazione dei principi elementari


della propaganda di guerra ai recenti conflitti
in Afghanistan e Iraq 127
Prefazione
di Giulietto Chiesa

Le guerre moderne (s'intende qui le guerre condotte


dalle nazioni civili e democratiche contro gli altri, automati­
camente qualificati come incivili e non democratici) sono
possibili solo con il consenso delle popolazioni. È un dato di
fatto al quale i governanti delle suddette nazioni civili non
possono sottrarsi.
Altrimenti come potremmo parlare di democrazia?
Di conseguenza, poiché le guerre delle nazioni civili e
democratiche (alle quali si addice anche la qualifica di cre­
denti, invariabilmente cristiano-giudaiche) sono, per defini­
zione, guerre buone e giuste (altrimenti come si potrebbe
mantenere intatto il giudizio di nazioni civili?), il consenso
delle popolazioni dovrebbe essere dato per scontato. Se, per
caso, dovesse non essere tale - sempre per confermare la
qualifica di democratiche alle nazioni civili - esso dovrà es­
sere costruito, organizzato, predisposto, preparato.
L'operazione è non solo buona, ma indispensabile. Essa
infatti costituisce la base su cui si può tenere alta la doppia
qualifica di civile e democratica ad una qualunque società
che entri in guerra.
Alla preparazione del consenso popolare viene dunque
dedicata la più grande attenzione. Coloro che vi si dedicano
sono tenuti nella massima stima, quali che siano i mezzi cui
fanno ricorso. Essendo buono il fine, i mezzi non possono
che essere ottimi.

7
Di converso, coloro che ostacolano la formazione del con­
senso attorno alle guerre debbono essere additati al ludibrio
e all'esecrazione sociale. Essi verranno variamente definiti
traditori, anti-patriottici, quinte colonne del nemico. Nel­
l'accezione più moderna: terroristi, o complici del terrori­
smo. Nei loro confronti potranno essere intraprese le più
svariate forme di rappresaglia, ed esse saranno tutte giustifi­
cate. Il grado di violenza della rappresaglia sarà in funzione
del danno che individualmente e collettivamente i disturba­
tori del consenso saranno in grado di infliggere.
Con il linguaggio moderno, l'operazione di costruzione
del consenso dev'essere preventiva. Obbligatoriamente. Poi­
ché le vere motivazioni con cui si fanno le guerre alla fine
del xx secolo e agl'inizi del XXI sono sempre più inconfessa­
bili e debbono essere tenute accuratamente nascoste, si ri­
chiede dunque una puntuale organizzazione preventiva e
complessa di motivazioni fittizie. Nulla dovrebbe essere la­
sciato al caso. Le notizie false e tendenziose atte a rendere
acquiescente il grande pubblico saranno predisposte con
tempismo e precisione. Il sistema dei media è l'incaricato
principale per questa bisogna. L'operazione prende il nome
di «conquista dei cuori e delle menti», intendendosi con ciò
che si <leve agire simultaneamente sulla ragione e sulle emo­
zioni. La ragione sarà opportunamente fuorviata, adducen­
do motivazioni fittizie, modulate però in termini apparen­
temente logici e razionali. L'emozione sarà affidata preva­
lentemente alle immagini televisive, la cui manipolabilità
crescente - in proporzione diretta con gli sviluppi della tec­
nologia - le rende particolarmente efficaci.
Nelle epoche precedenti, quando il villaggio globale non
era ancora in funzione, la «conquista dei cuori e delle menti»
era assai più agevole, in quanto la massa di persone che do­
vevano essere convinte era decisamente minore. Si trattava
inoltre di élites dominanti già in gran parte pronte a esporta­
re i propri alti interessi e valori con la forza. Del resto il di­
scorso sociale era essenzialmente confinato all'interno di ri­
strette élites, con le masse forzatamente escluse per ragioni
di censo o di assenza di alfabetizzazione.

8
Nell'epoca moderna larghe masse di popolazione ormai
relativamente alfabetizzate sono state proiettate nell'arena
politica e si sono convinte di avere diritto a qualche spiega­
zione. Il problema di conquistare i loro cuori e le loro menti
è divenuto quindi assai complesso. Contemporaneamente,
come s'è detto poc'anzi, le nuove conquiste della scienza e
della tecnica permettono oggi di collocare nelle mani delle
oligarchie dominanti mezzi di manipolazione di massa di
una potenza sconfinatamente superiore a quelli della prima
metà del secolo xx.
Nel presente volume sono indicate le metodologie, si po­
trebbe dire eterne, con cui i padroni del potere hanno giusti­
ficato - a se stessi non meno che agli altri - le guerre che an­
davano progettando e realizzando. Esse hanno valore ancora
oggi e una qualunque facoltà di scienza della comunicazione
dovrebbe assumerle come regole generali. Si tratta di una
specie di manuale di istruzioni che gl'intellettuali e, in parti­
colare, i giornalisti dovrebbero conoscere a memoria, per evi­
tarle. Sfortunatamente una anche approssimativa lettura dei
giornali nostri contemporanei ci convincerà che queste regole
non le conosce quasi nessuno e molti di quelli che potrebbero
conoscerle non hanno alcuna intenzione di disfarsene.
Informatori pubblici del calibro di J arnie Shea (portavoce
della NATO durante la guerra del Kosovo-Jugoslavia, ingiu­
stamente precipitato nell'oblio dopo la strepitosa vittoria
delle truppe alleate contro il demone Milosevic) potrebbero
così apprendere tutte le tecniche di conquista dei cuori e
delle menti elaborate nel corso degli ultimi secoli.
Più alcune, più moderne, anzi contemporanee, tipiche del
villaggio globale.
Una di esse consiste nell'usare l'immenso flusso di notizie
della società moderna per insinuarvi i preparativi di guerra
in modo graduale. Una specie di mitridatizzazione preventi­
va a livello di massa. Veleni graduali da somministrare poco
per volta, in modo che, quando la violenza deve infine co­
minciare, essa sia stata già introiettata come normale, inevi­
tabile, logica, senza alternative. Il sistema mediatico offre
una varietà infinita di strumenti per questi scopi. Mentre un

9
tempo nemmeno troppo lontano - diciamo cinquant'anni
orsono - raggiungere con questi veleni milioni, miliardi di
persone avrebbe comportato immensi dispendi di energie e
sarebbe stato comunque impossibile in tempi relativamente
brevi, adesso ciò può essere realizzato con una rapidità ecce­
zionale e a prezzi davvero convenienti.
Si pensi ali'«effetto mondo» ottenuto con la distruzione
delle torri gemelle del World Trade Center di New York.
Tutto il mondo civile, e perfino larghe aree del mondo inci­
vile (quelle dotate di corrente elettrica) poterono capire, in
un solo attimo, perché doveva cominciare la guerra planeta­
ria contro il terrorismo internazionale. Guerra che, una vol­
ta visto quello spettacolo, non poteva che essere considerata
inevitabile. E senza fine, dato il compito immane rappresen­
tato dalla ineluttabile necessità di combattere un nemico
diffuso su scala mondiale e proveniente dalle aree più po­
polate e più povere del pianeta.
Senza avere «visto» quello spettacolo l'effetto non sarebbe
stato possibile. Nemmeno i racconti, scritti e parlati, di mi­
gliaia di propagandisti, di artisti, di personaggi della cultura
e dello spettacolo di tutto il mondo civile sarebbero riusciti
nell'intento di rendere comprensibile la guerra nella quale
siamo oggi immersi e - stando alle parole dei nostri condot­
tieri americani - lo saremo per i prossimi cinquant'anni.
Nemmeno le decine di migliaia di giornalisti - che pure
hanno svolto instancabilmente il loro compito di magnifica­
re la guerra che stava per iniziare, addobbandola di valori
come un gigantesco albero di Natale - sarebbero riusciti
nell'intento di far metabolizzare la guerra senza quelle im­
magini di morte e di distruzione. E, senza quelle immagini,
non sarebbe stato possibile organizzare la guerra contro
l'Afghanistan e poi quella contro l'Iraq, e nemmeno quelle
successive che verranno: prima tra tutte quella che incombe,
contro l'Iran. Come si sarebbe potuti entrare in guerra senza
la possibilità di usare soltanto cinque piccole parole magi­
che: ((è-stato-Osama-bin-Laden»?
La seconda regola, che Lord Ponsonby non ha potuto elen­
care tra quelle eterne da lui catalogate con la massima preci-

10
sione (secondo cui tutti i bellicisti più accaniti riescono a far­
si passare per agnelli, addossando al nemico tutte le respon­
sabilità, demonizzandolo, assegnandogli una ferocia belluina,
privandolo di valori, definendolo semplicemente ed efficace­
mente come il Male, eccetera), riguarda quella che chi scrive,
modestamente, ha battezzato come «rumore di fondo».
È un principio nuovo, che ha anch'esso la sua matrice
nella tecnologia dell'immagine, e che consente di manipola­
re l'homo videns - recente mutazione antropologica così defi­
nita da Giovanni Sartori - con effetti duraturi e tali da af­
fondare in profondità nei meandri della psiche umana. Un
tempo infatti le motivazioni favorevoli alla guerra (nostra
contro gli altri), guerra di vincitori in linea di principio, tan­
to più che scatenata contro i più poveri e i più deboli, guerra
che in altre epoche sarebbe stata considerata eminentemen­
te vigliacca, erano tutte costruite sulla base di principi «ra­
zionali». Dovevano essere «propagandate», esaltate, spiega­
te. Si trattava in sostanza di «informazione». Bugiarda quan­
to si vuole, ma informazione.
Il «rumore di fondo» è qualcosa di immensamente più
pervasivo. Esso comprende, simultaneamente, tutto ciò che
si vede attraverso i mass media elettronici: informazione, in­
trattenimento, pubblicità. Tutto può - e deve - essere usato
ai fini di guerra. Anche ciò che, apparentemente, con la
guerra non c'entra, ma che rientra nella logica di guerra
appena uno scalino al di sotto della ragione cosciente. Me­
glio se diversi scalini al di sotto, così è più difficile farlo
emergere in superficie mediante un ragionamento qualsiasi,
o l'esercizio dell'analisi critica elementare. Basta per esem­
pio (ed è il più banale degli esempi possibili) che il nemico
venga equiparato a colui che mette a repentaglio il tuo teno­
re di vita, il prezzo della benzina che compri ogni mattina al
distributore. Osama bin Laden vuole portare via i tuoi valo­
ri, tutti. La tua quiete, i tuoi consumi, la tua libertà. Noi lo
combattiamo perché tu possa godere di un vasto parco erbo­
so, di un grande appartamento, di una macchina di lusso,
della casa in montagna e al mare, di un tenore di vita son­
tuoso, della più sconfinata libertà. Tu, naturalmente, non

11
possiedi nulla di tutto questo, ne sei anzi molto lontano, ma
ne senti il profumo, ogni giorno, da quando sei nato. E que­
sto profumo lo sentirai fino alla tomba. Solo quello. Ti par­
liamo della libertà e intendiamo la nostra, quella di mani­
polarti, la libertà d'impresa, cioè la libertà di tosarti. E tu in­
tenderai la tua piccola libertà personale, quella di comprarti
un biglietto per andare in vacanza alle Maldive. Un grande
qui pro quo.
Basta che questo rumore di fondo ti entri nella testa ed
ecco realizzato il miracolo: non sentirai altro. O, per meglio
dire, potrai sentire anche le urla di qualcuno che cercherà di
dirti qualche cosa di diverso, che cercherà di metterti in
guardia. E queste urla, picchi alti in un monotono scorrere
di suoni, e di immagini, saranno usate per dimostrarti che il
pluralismo è stato garantito: tutti possono parlare, ti diran­
no nei rari momenti in cui sarai sveglio.
Potrai vedere anche qualche immagine tremenda, di san­
gue, che preferiresti non vedere, di qualche bambino fatto a
pezzi, di qualche effetto collaterale, ma essa annegherà nel
grande rumore di fondo prodotto dalla Fabbrica dei Sogni
in cui sei stato immerso fino al tallone, Achille istupidito e
sordo.
Infine il «rumore di fondo» ha un'altra valenza insupera­
bile: che dal gran mare di suoni e d'immagini si potranno
togliere, senza che quasi nessuno se ne accorga, tutte le cose
che contraddicono l'agenda del giorno che noi abbiamo
compilato per te e che compiliamo ogni giorno, diligente­
mente. In ogni caso, siccome il fiume è immenso, le poche
cose che contano saranno comunque assai poco visibili, so­
verchiate dal frastuono delle chiacchiere, dei pettegolezzi,
delle banalità tristi e feroci della vita quotidiana che è a por­
tata di mano. E quando nemmeno la vita quotidiana sarà co­
sa che ti si potrà concedere di vedere (chissà mai che ciò
t'induca a riflettere sulla vita reale tua e dei tuoi figli), use­
remo per te ondate di donne semi denudate, il folklore, l'e­
sotico, perfino il dolore altrui, affinché tu ti distragga abba­
stanza per non arrivare a vedere nemmeno la punta delle
tue scarpe modeste e massificate.

12
S'è detto che il sistema mediatico - di cui Lord Ponsonby
non conosceva ancora la potenza - è decisivo e cruciale per
tutto questo. La televisione ne è la regina incontrastata. Chi
la possiede ha in mano l'agenda del giorno di milioni e mi­
lioni di persone. Chi la possiede può comprare coloro che la
faranno funzionare nel suo interesse. È per questo che da
decenni i potenti di ogni latitudine cercano di privatizzarla.
In ogni modo. La mantengono statale solo dove e quando
hanno in mano lo Stato. Dove sarebbero costretti a dividerla,
la privatizzano. Il caso italiano è la somma di entrambe le
soluzioni, in cui il privato per eccellenza è diventato padro­
ne della 1V privata e, in quanto padrone dello Stato, anche
di quella pubblica. E poiché esiste la lontana possibilità che
un giorno perda lo Stato (remota, in queste condizioni) me­
glio privatizzarla comunque, visto che l'unico acquirente
possibile è lui in persona.
Qui si dovrebbe aprire il discorso sugl'intellettuali. Perché
sono loro - non tutti, ma in parte decisiva - coloro che que­
sta televisione la fanno per conto dei proprietari. Ora noi
possiamo dire, con l'autrice di questo bel libro, che la guerra
appanna il senso critico degl'intellettuali. Ma non solo la
guerra. Il denaro è una nebbia altrettanto densa. Gli artisti e
gl'intellettuali, in Italia e altrove, sono nella loro grande
massa - massa relativa, di fronte alle grandi masse di un
paese moderno, ma massa cruciale, perché è la massa dei
propagandisti, cioè di coloro che hanno accesso ai media -
assai inclini a farsi obnubilare. Dei giornalisti è meglio non
parlare neppure. Nell'un caso e nell'altro coloro che si di­
stinguono sono eccezioni, ed esse, come s'è visto, affogano
nella corrente del rumore di fondo.
Si è visto qui che artisti, giornalisti, intellettuali sono sta­
ti inclini a sostenere la causa della guerra in tutte le guerre
del secolo xx. Forse non è la maggioranza (resta questa
speranza, ma è solo una speranza), ma è quello che si è vi­
sto e sentito, a conferma di ciò che andiamo dicendo, e
cioè che per gli altri non c'è spazio mediatico: per questo
non si vedono e non si sentono. Vengono occultati, quindi
non esistono.

13
Questo libro è stato scritto in Belgio e, assai lodevolmen­
te, ci elenca una (piccola) serie (esemplificativa) di canaglie
intellettuali belghe e francesi. Contemporanei che si sono
presi sulla coscienza la responsabilità di propagandare le ul­
time guerre, giornalisti che hanno messo la professione sot­
to i calcagni, assumendo le informazioni che venivano dal
potere senza neppure tentare di sottoporle a un vaglio ele­
mentare. Qualche volta inventando essi stessi, direttamente,
il falso senza aspettare l'imbeccata. Intellettuali embedded,
anche se se ne stavano quieti dietro le loro scrivanie e le loro
cattedre. Manca ancora un autore che abbia il coraggio di
farci il ritratto dei giornalisti italiani e dell'intelligencija ita­
liana: si può solo dire che hanno fatto di peggio.
Il problema però non sono loro.
Il Leviathano della guerra ha preso nelle sue mani il Mo­
loch dell'informazione. E le forze democratiche in Occiden­
te non si sono accorte che questo sposalizio è la fine della
democrazia liberale. E che, se c'è una via d'uscita ancora
democratica, essa non può essere ricercata nell'eroismo in­
dividuale di chi produce informazione e cultura, bensì nella
organizzazione della gente, dei manipolati, dei consumatori
del rumore di fondo. Solo così, se appoggiati dall'esterno, i
prigionieri, oggi vili e silenziosi, nella torre del sapere e
della comunicazione di massa, potranno essere liberati, in­
sieme ai milioni che non sanno leggere la televisione, perché
nessuno ha mai cercato di insegnarglielo.

14
Principi elementari della
propaganda di guerra
Grazie, Lord Ponsonby!

Quando l'Università Libera di Bruxelles mi affidò il corso


di Critica storica, il professor Stengers, che era stato il mio
insegnante, mi consigliò vivamente, come testi di riferimen­
to e pilastri del corso, due opere.
Il primo era il libro di Jean Norton Cru sulle testimonian­
ze, un testo che rimetteva in questione molte idee sulla veri­
dicità dei racconti di coloro che avevano direttamente vissu­
to o erano stati presenti ad eventi bellici 1•
La seconda era l'inquietante opera di Arthur Ponsonby pub­
blicata a Londra nel 1928 e intitolata Falsehood in Wartime '.!.

L'autore era un personaggio affascinante che merita tut­


tora la nostra attenzione e riflessione, tanto è vero che il

1 Il libro ha avuto due versioni. La prima, di 727 pagine (Témoins. Es­


sai d'analyse el de critique des souvenirs des combattants édités en français de
1915 à 1928, Paris 1929) ha scatenato, all'epoca della sua pubblicazione,
reazioni molto accese (sia negative che positive) ed è stata seguita da
un'edizione «tascabile» apparsa presso l'editore Gallimard nel 1930 col
titolo Du Témoignage. L'opera di Norton Cru è stata tema di un libro re­
cente, Sur les traces de Jean Norton Cru, Musée Royal de l'Armé, Bruxelles
2000.
2 Edita da Allen & Unwin, Londra 1928. L'opera è stata tradotta in
francese col titolo Les faussaires a l'oe1wre en lemps de guerre. Dato che l'au­
tore denunciava soprattutto i falsi commessi dagli Alleati, che erano
quelli che lui conosceva meglio, il libro non poteva dispiacere ai tedeschi
e difatti la traduzione francese apparve a Bruxelles nel 1941, fatto questo
che conferì per lungo tempo all'opera la reputazione, ingiusta, di opera
collaborazionista.

17
presente libretto nasce, quasi un secolo più tardi, dalla sua
stimolante riflessione sulla propaganda di guerra nel primo
conflitto mondiale.
Arthur Ponsonby (1871-1946) proveniva da una delle più
nobili famiglie britanniche. È infatti barone e nasce proprio
nel castello di Windsor, dato che suo padre era niente meno
che il segretario particolare della Regina Vittoria.
Dopo gli studi a Eton e a Oxford - consueti, nel suo am­
biente - entra nella diplomazia britannica e in seguito viene
eletto alla Camera dei Comuni come membro del partito li­
berale (cosa assai audace per quei tempi).
Ostile all'entrata in guerra della Gran Bretagna nel 1914,
abbandonò il partito liberale per iscriversi al partito laburi­
sta (atto ancora più inaudito per un aristocratico dell'epoca)
del quale divenne rappresentante alla Camera dei Comuni e
successivamente alla Camera dei Lord.
Collaborò ai governi laburisti e fu, in sequenza, sottose­
gretario di Stato agli Esteri, ministro dei Trasporti e capo
dell'opposizione laburista alla Camera dei Lord.
Quando, nel 1940, il partito laburista appoggiò la Sacra
Unione, Arthur Ponsonby, fedele alle sue convinzioni pacifi­
ste, ruppe anche con il partito laburista.
Nell'ottobre del 1914 aveva fondato, con tre liberali in­
glesi di chiara fama (Norman Angell, Edmund D. Morel e
Charles Trevelyan) e il leader del partito laburista Ramsay
McDonald, la Union of Dnnocratic Contro!. Questa asso­
ciazione aveva come scopo l'esercizio di un controllo pub­
blico e permanente sulla politica estera inglese. Malgrado
le azioni giudiziarie con le quali furono perseguiti i suoi
membri\ la Union of Democratic Contro! pubblicò, durante e
dopo la guerra, dei libelli polemici che contestavano la
propaganda ufficiale del governo britannico. L'Unione
estese la sua influenza all'estero, soprattutto attraverso la
rivista mensile Foreign Ajfairs, che aveva come sottotitolo A
Journal of International Understanding.
In Francia, la Union of Democratic Contro! (UDC), di cui

:i More!, ad esempio, fu detenuto e scontò sei mesi di lavoro duro.

18
Arthur Ponsonby era stato uno dei fondatori, aveva come
affiliata la Société d' études sur la guerre e l' Union popoulaire
pour la paix e aveva patrocinato la pubblicazione dell'opera
di Georges Demartial intitolata Comment on mobilisa les con­
sciences 1

Arthur Ponsonby" era un pacifista e sottolineava con for­


za che la guerra era occasione d'innumerevoli atrocità, atti
di violenza e barbarie. Nel suo libro si dedicava a smasche­
rare un certo numero di menzogne inventate e propagan­
date durante la prima guerra mondiale allo scopo di dif­
fondere tra le popolazioni interessate indignazione, orrore
e odio e per suscitare passioni popolari che - nel caso della
Gran Bretagna, ove il servizio militare non era obbligatorio
- assicurassero il reclutamento d'un numero sufficiente di
volontari.
Lord Ponsonby descriveva le menzogne divulgate in
Germania, Francia, Stati Uniti e Italia, ma soprattutto quelle
che era in grado di analizzare dettagliatamente dalla sua po­
sizione in Gran Bretagna, ove il sen,izio ufficiale di propa­
ganda era assicurato da Lord Northcliffe.
Arthur Ponsonby ha inoltre descritto alcuni meccanismi
elementari della propaganda di guerra che è possibile rias­
sumere in dieci «comandamenti». Ho sistematizzato tali
«comandamenti» in altrettanti capitoli che costituiscono l'os­
satura di questa piccola opera. Per ciascuno di questi prin­
cipi elementari della propaganda di guerra, mi sono sforzata
di dimostrare che non sono stati messi in atto solo nella
prima guerra mondiale, ma che sono stati regolarmente uti­
lizzati negli altri conflitti, fino ai più recenti.
In questo studio non cercherò di sondare la purezza d'in­
te1izioni dell'uno o dell'altro contendente, né di capire chi
mente e chi dice la verità, chi è in buona fede e chi no. Mio

1 George'ì Demartial, La guerre de 1914. Com meni on mobilisa !es con­


sciences, UDC, Éditions des Cahiers Internationaux, Rome-Paris-Genève
1922.
�, Su Arthur Ponsonby si può utihnellle consultare Harold J osephson,
Biographical Dictionmy of Modem Peace Leaden, Greenwood Press, Londou
1985, p. 760 e seguellli.

19
unico proposito è illustrare questi principi di propaganda,
universalmente applicati, e descriverne i meccanismi.
E se la dimostrazione è più facile per le guerre «calde»,
nelle guerre <<fredde» o «tiepide» non si manca d'usare tut­
tora i vecchi principi di Ponsonby, così comodi ed efficaci...

20
Capitolo primo
Noi non vogliamo la guerra

Arthur Ponsonby aveva già segnalato che gli uomini di


Stato di tutti i paesi, almeno nell'età moderna, prima di di­
chiarare guerra o all'atto stesso della sua dichiarazione, co­
me prima cosa, assicurano sempre solennemente di non vo­
lere la guerra.
La guerra e la sua compagnia d'orrori sono, in effetti,
raramente popolari a priori ed è per questo di buon gusto
presentarsi alla pubblica opinione come persone amanti
della pace.
Nel 1914 il governo francese ordinò di mobilitare pro­
clamando che la mobilitazione non era per la guerra ma, al
contrario, era il mezzo migliore per garantire la pace.
Il 19 agosto 19 1 5, il cancelliere tedesco assicurò al Reich­
stag: <<Noi non abbiamo mai desiderato la guerra. Dalla fon­
dazione dell'Impero ogni anno di pace ci porta un progres­
so: è nella pace che abbiamo prosperato».
Alla Conferenza di Washington del novembre 1921 sulla
riduzione degli armamenti, Aristide Briand, evidentemente
colpito da amnesia sia a proposito delle guerre coloniali sia
di quelle di Napoleone e di Luigi XIV o delle pretese fran­
cesi a Versailles, osò assicurare: «Nel corso della sua storia, il
popolo francese giammai fu imperialista o militarista e, inol­
tre, nessun popolo vittorioso ha mai mostrato la moderazio­
ne della Francia».
La seconda guerra mondiale non ha costituito un'ecce­
zione a questa regola e, se non ci desta meraviglia il fatto

21
che i nostri alleati si dichiaravano impegnati per la pace,
dobbiamo tuttavia constatare stupefatti che anche nelle di­
chiarazioni delle potenze dell'Asse si diceva esattamente la
stessa cosa.
È istruttivo, ad esempio, prendere visione, in parallelo,
dei cinegiornali d'attualità proiettati nelle sale cinematogra­
fiche degli Stati Uniti e del Giappone quando, nel dicembre
1 941 , i due paesi entrarono in guerra. L'ammiraglio Tojo e
il presidente Roosevelt, infatti, tennero in questa occasione
un discorso che era, quasi testualmente, uguale. Entrambi si
dissero pacifisti e contrari alla guerra.
Questo fu un tema frequente nei discorsi di Franklin D.
Roosevelt. Lo si ritrova nei messaggi del 1 6 maggio e del I O
luglio 1 940, in cui chiede al Congresso crediti ingenti per la
creazione di un esercito più grande e meglio organizzato,
ma dove assicura:
Non solo tutti i cittadini americani, ma tutti i governi del mondo,
sanno che noi ci opponiamo alla guerra. Non impiegheremo que­
ste armi in una guerra d'aggressione; non invieremo soldati a
combattere una guerra in Europa. Respingeremo, però, assalti agli
Stati Uniti e all'emisfero occidentale ' .

Però lo stesso avevano detto, nel 1 939, Hitler, il mare­


sciallo Goring e van Ribbentrop e anche il presidente del
Consiglio francese Edouard Daladier, che aveva tentato,
senza dubbio sinceramente, di rimandare gli ultimatum di
guerra.
Se si consultano i documenti diplomatici pubblicati dal
governo francese nel periodo immediatamente precedente
la seconda guerra mondiale '.! si vede che esempi, anche con­
traddittori, di queste «volontà di pace» abbondano.

1
In A merica Chooses! in the Words of Presidrnt Roosevelt (june 1 940 - fune
1 94 1 ) di Gordon Beckles (pseudonimo), Harrap, London 194 1 , p. 23.
'.! Le Livre ja une français. Documents diplomatiques 1 938- 1 939, pièces relatà,es
a u,. é11énements et O IL\ négociations qui 011! précedé /'01wertu re des hostilités entre
1:4/lemagne d'une pari, la Pologne, la Gra nde-Breta gne et la France d'autre pa ri,
pubblicato dal Ministero francese degli Affari esteri, Imprimerie Nationale,
Paris 1939.

22
Già nel 1936, all'interno dell'accordo germanico-austriaco
firmato dai governi del Reich e dello Stato Federale Austria­
co, si dichiarava che questi Stati avrebbero modificato le loro
((relazioni nella convinzione di fornire un prezioso contribu­
to all'evoluzione generale dell'Europa nella salvaguardia
della pace».
Quando la crisi sfociò nello smembramento della Ceco­
slovacchia, Hitler nel suo discorso al Palazzo dello Sport di
Berlino, il 26 settembre 1938, dichiarò a proposito del suo
incontro con Chamberlain: <(Gli ho assicurato che il popolo
tedesco non vuole nient'altro che la pace, ma ho altresì di­
chiarato che non posso neppure forzare indefinitamente i
limiti della nostra pazienza».
Nello stesso discorso - un anno prima dell'invasione della
Polonia - Hitler citò l'accordo tedesco-polacco come un mo­
dello:

Siamo assolutamente convinti che questo accordo porterà ad una


pace durevole. Ci rendiamo conto che ci sono due popoli che de­
vono vivere uno accanto all'altro. L'elemento decisivo è che i due
governi e tutte le persone ragionevoli e chiaroveggenti dei due
popoli e dei due paesi mantengano la ferma volontà di migliorare
senza posa le loro relazioni.

Questa <(volontà di pace» è senza dubbio uno dei leit-motiv


delle dichiarazioni del Ftihrer.
All'ambasciatore francese a Berlino, dichiarò, a proposito
delle relazioni franco-tedesche: ((Desidero che queste rela­
zioni siano buone e pacifiche e non c'è ragione perché non
lo siano. Non c'è alcun motivo di conflitto tra Germania e
Francia»:1 •
Il 15 marzo 1939, l'accordo firmato da Hitler e dal presi­
dente dello Stato cecoslovacco, dottor Hacha, che in pratica

:i Lettera di M. Coulondre, ambasciatore di Francia a Berlino, a Georges

Bonnet, ministro francese degli Affari Esteri, 23 novembre 1 938. In Livre


jaune, cit., p. 38. È evidente che si può ribattere che Hitler, in quel mo­
mento, cercava di rassicurare la Francia per avere le mani libere nell'Euro­
pa centrale.

23
metteva fine all'esistenza della stessa Cecoslovacchia, si apri­
va con l'espressione «della convinzione che lo scopo di tutti
gli sforzi deve essere d'assicurare la tranquillità, l'ordine e la
pace in questa parte dell'Europa centrale» 1.
Van Ribbentrop, alludendo alle relazioni tra Germania e
Polonia, dichiarò a Monsignor Tiso, capo del governo slo­
vacco: «Il Fiihrer non vuole la guerra. Non vi farà ricorso se
non a malincuore» :;.
Lo stesso Goring, rivolgendosi alle maestranze della «Rhein­
metal» all'inizio di agosto 1939, tenne ad affermare che

il Reich non voleva la guerra e sperava, calmo e fiducioso nel Fiirher,


nella pace che desiderava, ma si sarebbe difeso se qualcuno gli
avesse rifiu tato questa pace o avesse commesso la sciocchezza di far
precipitare l'Europa in una guerra <i .

Hitler, scrivendo al presidente del Consiglio dei 1mmstri


francesi Edouard Daladier in data 27 agosto 1939, l'assicura
della sua volontà di pace in termini che sembrano quasi toc­
canti, se non si conoscesse la brutalità dei suoi veri progetti,
da tempo preparati:

Come ex combattente, conosco come voi l'orrore della guerra. In


ragione di questa forma mentale e di questa esperienza, ho fatto
lealmente ogni sforzo per eliminare qualsiasi causa di conflitto tra i
nostri due popoli.

Assicurava di aver rinunciato all'Alsazia-Lorena:

Pensavo, con questa rinuncia e questo atteggiamento, di aver eli­


minato ogni elemento di conflitto concepibile tra i nostri due po­
poli, conflitto che potrebbe condurre ad una ripetizione della tra-

1
Corrispondenza dell'ambasciatore tedesco a Parigi indirizzata al mini­
stro francese degli Affari esteri, Georges Bonnet, in data 15 marzo 1 939
(Livre jaune, cit., p. 89).
" Lettera dell'incaricato d'affari francese a Berlino al ministro francese
de�li Affari esteri in data 6 aprile 1 939 (Livre jaune, cit., p. 126).
' .Lettera dell'incaricato d'affari francese a Berlino, de Saint Hardouin, a
Georges Bonnet in data 1 O agosto 1 939 (Livrejaune, cit., p. 264).

24
gedia del 1 9 1 4- 1 9 1 8 [ ... ] Abbiamo rinunciato all'Alsazia Lorena per
evitare un nuovo spargimento di sangue.

Contemporaneamente Hitler scriveva al governo britan­


nico per convincerlo delle sue intenzioni pacifiche. Sosten­
ne, ancora una volta, che «il Governo del Reich desiderava
sinceramente un'intesa, una cooperazione e un'amicizia an­
glo-tedesca».
Quando convocò il Reichstag, il primo settembre 1939,
per annunciare l'invasione della Polonia, Hitler dichiarò an­
cora i suoi sentimenti pacifici e i suoi sforzi per mantenere la
pace:

Ho sempre tentato d'ottenere la revisione di questo stato di cose


con mezzi pacifici. È una menzogna voler far credere che noi ab­
biamo sempre fatto ricorso alla violenza. In ogni caso, e non una
sola volta, ma molte, ho provato ad ottenere modifiche in­
dispensabili attraverso negoziati [ .. . ] è stato invano che ho tentato
di risolvere amichevolmente le questioni dell 'Austria, dei Sudeti,
della Boemia e Moravia [ . .. ] Voglio che, nelle relazioni tra Germa­
nia e Polonia, avvenga un cambiamento che renda possibile una
collaborazione pacifica tra i due popoli.

Anche se ciò ci sorprende meno, nel nostro campo si an­


dava componendo un quadro assolutamente parallelo.
In una conversazione del 15 agosto 1939, alla vigilia dello
scatenamento della guerra, l'ambasciatore di Francia a Ber­
lino descrisse al segretario di Stato tedesco agli Affari esteri
la Francia come dedita al «lavoro, tranquilla e pacifica, an­
che se risoluta ad ogni sacrificio per la difesa del suo onore e
della sua posizione nel mondo».
Il 2 settembre 1939, annunciando alla Camera dei depu­
tati lo scoppio delle ostilità, Edouard Daladier riprese que­
sto tema e - dimenticando il passato coloniale francese -
esclamò: «Non saranno mai i Francesi a progettare di inva­
dere il territorio di un paese straniero».
Il suo «Appello alla Nazione» del 3 settembre 1939 è
ugualmente centrato sull'assicurazione della sua volontà di
pace: «Ho la coscienza», disse in quest'occasione il presiden-

25
te del Consiglio, «d'aver lavorato senza posa e senza tregua
contro la guerra, fino all'ultimo minuto» 7 •

Se tutti i capi di Stato e di governo sono animati da simili


volontà di pace, ci si può chiedere, in modo del tutto inno­
cente, come mai qualche volta (o spesso) le guerre scoppino
comunque. Ecco allora il secondo principio della propagan­
da di guerra venirci immediatamente in soccorso per ri­
spondere a questo interrogativo: noi siamo stati costretti a fa­
re la guerra, è stato l 'avversario che ha cominciato, noi siamo
stati obbligati a reagire, in stato di legittima difesa o per onora­
re i nostri impegni internazionali ...

7 Livre jaune, cit., p. 4 1 6. Aveva fatto effettivamente tutto il possibile per


respingere l'eventualità di una guerra, soprattutto perché l'impreparazione
francese, dal punto di vista mili tare, era palese.

26
Capitolo secondo
Il campo avverso è il solo responsabile
della guerra

Arthur Ponsonby aveva già segnalato nella prima guerra


mondiale questo paradosso, che però si potrebbe sicuramen­
te rintracciare anche in guerre precedenti: ciascuna parte
assicurava d'essere stata costretta a dichiarare la guerra per
impedire all'altra di mettere il pianeta a ferro e fuoco.
Ciascun governo dichiarava alta e forte la massima, non
senza contraddizioni, secondo la quale si doveva fare la
guerra per mettere fine a tutte le guerre. Questa volta sa­
rebbe stata l'ultima guerra, «l'ultima delle ultime».
Ben sapendo che la simultanea mobilitazione di Russia e
Francia avrebbe spinto la Germania a dichiarare la guerra, il
governo francese mobilitò ed attese la dichiarazione di guer­
ra tedesca per giurare poi, attraverso un messaggio del capo
dello Stato e il discorso del capo del governo francese del 4
agosto 1914, che se la Francia era in guerra era con la più
grande sorpresa ed unicamente a causa dell'aggressione
«improvvisa, odiosa, traditrice ed incredibile» della Germa­
nia. Naturalmente non diceva una parola sui previi accordi
della Francia con la Russia. Per far credere alla sola e totale
responsabilità dei tedeschi nello scoppio della prima guerra
mondiale, il Livre jaune francese, selezione di documenti di­
plomatici, ometterà dei documenti e ne mutilerà altri, per­
ché nulla apparisse degli accordi franco-russi e della mobili­
tazione russa.
Lo storico francese Ernest Lavisse, nel suo discorso di
rientro alla facoltà di Lettere dell'Università di Parigi, il 5

27
novembre 1914, assicurava: «Se la Germania non l'avesse
voluto, non ci sarebbe stata la guerra; solo [corsivo dell'au­
trice] la Germania ha voluto la guerra».
Nello stesso senso, il quotidiano Le Matin del primo di
agosto del 1914 sosteneva: «Tutto quello che si doveva fare
per evitare la guerra, l'abbiamo fatto. Se, comunque, la
guerra scoppierà, noi la saluteremo con una grande speran­
za». E Le Temps del 2 agosto 1914 scriveva: «Dato che questa
guerra ci è imposta [corsivo dell'autrice] noi la combatteremo
con il cuore».

È sempre il vicino, naturalmente, che viene indicato come


l'aggressore (anche se è raro che si sappia chiaramente chi
è, nel momento in cui scoppia la guerra, il vero aggressore).
Secondo Luigi Sturzo, la guerra viene di fatto scatenata
dal contendente, tra i due, che ritiene di poterla vincere con
sicurezza e rapidità, contando sulla superiorità del suo ar­
mamento o sulla celerità della sua offensiva 1 •
Inoltre, il nemico, «l'altro», viene considerato quello che
non rispetta mai i trattati. Così, secondo la tesi francese, i
tedeschi hanno violato nel 19 1 4 l'accordo permanente che,
fin dal 1 839, riconosceva la neutralità del Belgio. Secondo i
francesi, i trattati non sarebbero mai stati per i tedeschi altro
che «pezzi di carta».
In realtà, i trattati sono sacri solo per coloro che hanno in­
teresse ad avvalersene, mentre sono «pezzi di carta» per chi
ha interesse a violarli.
La neutralità del Belgio è stata certamente infranta dai
tedeschi nel 1914, ma nel 1 911 il generale francese Michel,
in un rapporto al suo ministro della Guerra, gli consigliava
«di dedicare la maggior parte delle nostre forze ad una vigo­
rosa offensiva nel Belgio» 2 •
Lo stesso spirito animava gli inglesi quando nel 1911 con-
1
Luigi Sturzo, prete antifascista, fondatore del Partito Popolare italiano,
ha scritto in particolare un libro sulla comunità internazionale e il diritto di
guerra. L'edizione inglese è del 1929, la francese del 1 931, l'italiana (La
comunità internazionale e il diritto di guerra, Zanichelli, Bologna) è del 1 954.
2 G. Demartial, op. cit., p. 38.

28
vennero con lo stato maggiore belga che, in caso di guerra
con la Germania, sarebbero sbarcati preventivamente nelle
Fiandre\
Parigi e Londra si sentirono, piuttosto, assai sollevate
quando, nell'agosto 1914, la Germania costrinse il Belgio ad
aprirle il passo.
In questo gesto di forza infatti trovarono il pretesto per
giustificare, davanti alle loro pubbliche opinioni, la propria
entrata in guerra. Era «l'altro» che l'aveva voluto. Quando
gli Stati Uniti entrarono in guerra il 2 aprile 1917 fu pure
per «punire le aggressioni [corsivo dell'autrice] illegali della
Germania contro i cittadini ed i beni americani che la neu­
tralità del paese non proteggeva più adeguatamente» 1 •
In questo modo ciascun contendente presentava la sua en­
trata in guerra come la risposta ad un'aggressione.
Il Trattato di Versailles, imposto ai tedeschi nel 1919 do­
po la sconfitta, precisa all'articolo 231 che la Germania rico­
nosce la sua totale responsabilità della guerra. Assieme ai
suoi alleati, è

responsabile d'aver causato tutte le perdite e tutti i danni subiti dai


governi alleati e da quelli a loro associati e dai loro paesi in seguito
ad una guerra che è stata imposta [corsivo dell'autrice] per l'aggres­
sione [corsivo dell'autrice] della Germania e dei suoi alleati".

Dopo la guerra, tuttavia, gli alleati arrivarono a riconosce­


re che le responsabilità erano condivise.
Lo stesso Poincaré arrivò a dire nel 1925:

lvi, P· 39.
'. l
1 Pierre Moniot, Les Etats-Unis et /,a neutralité de 1 93 9 à 1 94 1 , Paris 1946,
pp. 6-7. Il presidente Wilson era stato eletto per il suo isolazionismo, ma i
siluramenti del Lusitania prima e poi dell'Arabic fornirono il pretesto per
l'ingresso degli USA nel conflitto, cosa, peraltro, che ci si augurava assai
remunerativa per l'economia e le imprese di quel paese.
5
Il testo del Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1 929, si trova in
Louis Le Fur e Georges Chklaver, Recueil de textes de droit international public,
Paris 1 934, p. 297 e seguenti.

29
Non pretendo che l'Austria e la Germania in primo luogo abbiano
avu to l'intenzione cosciente e fondata di provocare una guerra ge­
nerale. N on esistono documenti che ci diano il diritto di supporre
che in quel momento furono fatti progetti sistematici in questo
senso.

Quanto a Francesco Nitti, ex presidente del Consiglio ita­


liano, dopo la guerra confesserà che la colpa esclusiva del
nemico era un mito di guerra:

Non posso dire che la Germania ed i suoi alleati siano stati i soli
responsabili della guerra che ha devastato l'Europa [ . . . ] L'abbiamo
sostenuto Lutti durante la guerra ed è stata una delle armi utilizzate
in quei momenti; ora che la guerra è terminata non possiamo
prenderlo come un argomento serio [ . . . ] Quando sarà possibile
esaminare con cura i documenti diplomatici della guerra e quando
il passare del tempo ci permetterà di giudicare con calma, si vedrà
che l'atteggiamento della Russia [alleata della Francia, n.d.a. ] è sta­
to la causa reale e profonda del conflitto mondiale.

Si sarebbe potuto credere che, venticinque anni dopo,


questo tema non sarebbe stato più utilizzato da parte di una
generazione tanto scottata, ma non fu così e tornò invece ad
essere proposto, da entrambe le parti, alla vigilia della se­
conda guerra mondiale.
Conosciamo molto bene, per averla imparata a scuola, la
versione degli Alleati. Quello che accadde alla sventurata
Austria, annessa contro la sua volontà dalla Germania, alla
sventurata e pacifica Cecoslovacchia, fatta a pezzi, e così alla
sventurata e democratica Polonia cui volevano sottrarre il
suo corridoio sul mare, sono le provocazioni dell'Asse che co­
strinsero la Francia e l'Inghilterra a dichiarare guerra alla
Germania per non dover ripetere le vergognose abdicazioni
che prima avevano condotto, ad esempio, ad abbandonare i
Sudeti alla voracità tedesca.
Nulla, secondo il punto di vista anglo-francese, giustifica­
va la svendita di popolazioni e territori imposta ai cechi se
non il timore ispirato dal Reich e l'inescusabile debolezza
dei ministri che rappresentavano le democrazie. La Francia,

30
ad esempio, decise controvoglia di opporsi e solamente per­
ché era indissolubilmente legata alla Cecoslovacchia. Il go­
verno francese non poteva non onorare la sua parola, la fir­
ma della Francia e il suo impegno incrollabile e sacro.
Questo è il punto di vista della nostra parte, che è anche
quello dei vincitori.
Ora, tuttavia, per quanto riguarda quest'ultimo punto, si
sa che nessuna firma, nessun trattato obbligava la Francia, in
caso d'attacco tedesco alla Cecoslovacchia, a portare automa­
ticamente aiuto ai cecoslovacchi.
Poteva farlo, se era nel suo interesse, ma niente l'obbliga­
va, né il patto di mutua assistenza stipulato tra i due paesi
nel 1924, né quello firmato a Locarno nel 1925.
Nel patto del 1924, i due paesi s'impegnavano <<a con­
certarsi sulle questioni di politica estera» (articolo 1) e a
mettersi «d'accordo sulle misure appropriate a salvaguar­
dare i loro interessi comuni nel caso che questi fossero mi­
nacciati» (articolo 2), cosa che è evidentemente lontana dal
rappresentare «un obbligo della Francia nei confronti della
Cecoslovacchia».
Quanto agli accordi di Locarno, la Francia e la Cecoslo­
vacchia avevano altresì concluso un patto d'assistenza milita­
re reciproca, che valeva in caso d'aggressione tedesca, però
questo patto, al suo ultimo articolo, si dichiarava decaduto se
in quel momento non fosse stato più in vigore il patto gene­
rale di Locarno (,.
Ora è evidente che nel 1938 il patto di Locarno, denun­
ciato da molto tempo dai suoi diversi firmatari, non era altro
che un ricordo storico e che il patto franco-cecoslovacco era
ormai automaticamente decaduto. Le autorità francesi però
si guardarono bene dal farlo sapere alla pubblica opinione,

<i Per il testo degli accordi di Locarno, firmati il 1 6 ottobre 1 925, si \'eda
Louis Le Fur, Georges Chklaver, op. cii . alle pagine 879-880, O\'e si trove­
ranno pure gli accordi che vincolavano Francia e Polonia. All'anicolo 1 i
due paesi s'impegnavano a prestarsi aiulo ed assistenza nel caso si dovesse
far ricorso alle armi. All'articolo 4 (p . 880) si prevedeva che questo trattato
sarebbe rimasto in vigore alle stesse condizioni dell'Accordo di Locarno,
firmato nella medesima giornata.

31
in quanto, omettendo di precisarlo, accreditavano l'idea che
la Francia fosse obbligata a far la guerra, una guerra eviden­
temente presentata come difensiva.

Daladier, nella sua dichiarazione alla Camera dei deputati


il 2 settembre 1 939 - per quanto tuttora immemore del pas­
sato coloniale del suo paese - assicurò: «L'eroismo dei Fran­
cesi è quello della difesa e non quello della conquista. Quan­
do si vede la Francia in piedi è perché ha la consapevolezza
di essere minacciata» .
Nel suo «Appello alla Nazione» - omettendo di accennare
alle responsabilità francesi nella situazione succeduta al Trat­
tato di Versailles - affermerà il 3 settembre 1 939: «La Germa­
nia ha già rifiutato di rispondere a tutti gli uomini di cuore la
cui voce s'è levata in questi ultimi tempi a favore della pace
mondiale [ .. . ] Facciamo la guerra perché ci è stata imposta» .
È dunque l'altro campo che porta, sempre e tutta intera,
la responsabilità della guerra.
Basta immergersi di nuovo nei testi dell'epoca per com­
prendere come fosse possibile sostenere, allo stesso modo,
davanti all'opinione pubblica tedesca, e più tardi a quella
giapponese, che era il fronte avverso quello che voleva la
guerra.
Dal punto di vista tedesco, ad esempio, e non necessaria­
mente nazista, i trattati di Versailles, di Saint-Germain e di
Trianon erano diktat intollerabili, imposti a seguito di
un'incerta vittoria, per ridurre la potenza della Germania e
dell'Austria e dissolvere i loro imperi.
Questi trattati furono vissuti come umiliazioni che porta­
vano i vinti alla più profonda miseria materiale e separavano
dalla madrepatria importanti minoranze tedesche. La revi­
sione di questi trattati fu dunque presentata come la ripara­
zione di un'ingiustizia che gli anglo-francesi rifiutavano.
L 'A nschluss, che riunì l' 1 1 marzo 1 93 8 l'Austria e la Ger­
mania, non è pertanto, da questo punto di vista, un colpo di
forza e si può, peraltro, ricordare come una gran parte degli
austriaci vi fossero favorevoli. Inoltre, secondo l'ottica tede­
sca, la Cecoslovacchia non era che una creazione contro na-

32
tura degli anglo-francesi, in quanto metteva artificialmente
insieme i cattolici slovacchi con i laici cechi 7 e importanti
minoranze tedesche, ungheresi, rutene, rumene e polacche,
allo scopo principale d'indebolire la Germania.
La Cecoslovacchia del periodo tra le due guerre non può,
peraltro, essere vista - per quanto riguarda il trattamento
delle minoranze - come il modello di tolleranza e democra­
zia che si è voluto presentare, comunque non più della Po­
lonia, alleata certa di Francia e Gran Bretagna, ma preda
d'un regime autoritario (il maresciallo Pilsudski, il colon­
nello Beck... ) e inoltre - ma questo non fa evidentemente
parte della propaganda tedesca ostile alla Polonia - violen­
temente antisemita.
Nel momento in cui si producevano le crisi che precedet­
tero la seconda guerra mondiale, i tedeschi assicuravano di
stare solo reagendo alle violenze e alle minacce degli anglo­
francesi o dei loro protetti.
Così, circa la questione ceca, la propaganda tedesca non
esitava ad affermare che la Germania aveva solamente rea­
gito alla mobilitazione organizzata dal presidente Benes a
metà del mese di maggio del 1 938 e che, nel 1939, avevano
invaso la Polonia per rispondere alle provocazioni polacche.
Hitler, scrivendo al Foreign Office 8 alla vigilia dell'inva­
sione della Polonia, denunciò - cosa che risulta alquanto ci­
nica conoscendo il personaggio e i tristi destini riservati, nei
suoi progetti, ai popoli slavi - da parte della Polonia contro
le minoranze tedesche

degli atti di barbarie, degli efferati trattamenti che gridano vendet­


ta al cielo ed altre forme di persecuzione dell'importante gruppo
nazionale tedesco di Polonia, che è arrivato fino all'assassinio di
numerosi residenti tedeschi e alla loro deportazione forzata nelle
più crudeli condizioni. Questo stato di cose è intollerabile per una

7 La divisione dei cechi dagli slovacchi, negli anni '90, vista come una
fatalità, può essere presentata dai tedeschi come la vittoria «finale» di que­
sta tesi.
8
Testo trasmesso a Parigi dall'ambasciatore di Francia a Londra il 30
agosto 1 939, Livre jaune, cit., p . 355.

33
grande potenza. Ciò ha forzato la Germania - suo malgrado - dopo
essere rimasta per numerosi mesi spettatore passivo, a prendere a
sua volta le misure necessarie per la salvaguardia dei legittimi inte­
ressi tedeschi [corsivi dell'autrice] .

La «pazienza tedesca» nei confronti di queste provocazio­


ni sarebbe pertanto giunta al suo limite di tolleranza nel set­
tembre 1939!
Van Ribbentrop, ministro tedesco degli Affari esteri, ri­
prese questo tema nel corso d'una conversazione con l'am­
basciatore di Francia a Berlino il primo settembre 1 939:

Non c'è stata, da parte tedesca, nessuna aggressione alla Polonia. È


stata la Polonia che, in questi mesi, s'è dedicata a continue provo­
cazioni volte a danneggiare economicamente Danzica, a maltratta­
re le minoranze e a ripetu te violazioni di frontiera.
È con la più grande pazienza che il Fiihrer ha tollerato queste pro­
vocazioni, sperando che la Polonia sarebbe tornata alla ragione.
Ma è avvenuto il contrario. La Polonia, che da mesi stava mobili­
tando, ha decretato ieri sera la mobilitazione generale. La Polonia
ha effettuato tre attacchi al territorio tedesco. In queste condizioni,
la versione di un'aggressione tedesca deve essere scartata.

Nel suo discorso al Reichstag, Hitler giustificò l'invasione


della Polonia con il medesimo argomento, ossia quello della
risposta legittima:

Danzica è sempre stata una città tedesca; il Corridoio è sempre sta­


to tedesco. Sia l'una che l'altro devono il loro sviluppo culturale al
popolo tedesco. Danzica è stata separata dalla Germania e il Cor­
ridoio è stato annesso. Nelle altre regioni, i tedeschi sono stati sot­
toposti a trattamenti talmente spietati che più di un milione di loro
hanno dovuto abbandonare le loro case.

Assicura, una volta ancora, che «la Polonia ha decretato la


mobilitazione generale: si è constatata una recrudescenza
del terrorismo. Mi sono pertanto deciso a parlare alla Polo­
nia usando il suo linguaggio».
È dunque sulla Polonia, e sul suo presunto sostegno al
terrorismo, che ricade per intero la responsabilità della

34
guerra. Il primo settembre 1939, van Ribbentrop giustificò
l'ingresso delle truppe tedesche in Polonia assicurando che
truppe polacche avevano fatto delle incursioni in territorio
tedesco, che la Polonia aveva provocato la Germania e inva­
no si era atteso un negoziatore polacco.
Il Fiihrer non vuole la guerra. Non vi ricorrerà che di malavoglia.
Non è da lui, comunque, che dipende la decisione in favore della
pace o della guerra. Dipende dalla Polonia. Su certe questioni
d'inte-resse vitale per il Reich, la Polonia deve cedere e riconoscere
quelle rivendicazioni cui non possiamo rinunciare. Se rifiuterà, è
certo che è su di lei che ricadrà la responsabilità del conflitto e non
sulla Germania 9 •

Il 3 settembre 1939 Gran Bretagna e Francia dichiarano


guerra alla Germania. Dal punto di vista tedesco, ciò con­
ferma la tesi secondo la quale gli aggressori sono quelle po­
tenze... Per quanto riguarda loro, non potevano far altro che
rispondere, prima alle incursioni polacche e poi alla dichiara­
zione di guerra franco-britannica.
Un altro argomento, avanzato dalla Germania nel 1939 e
nel 1940 per giustificare la guerra, fu che gli anglo-francesi
e i loro alleati accerchiavano il Reich e lo costringevano a fa­
re la guerra per allentare questa morsa. La guerra sarà per­
tanto, dal punto di vista tedesco, una guerra preventiva e
difensiva. Questo tema venne messo in particolare evidenza
nei notiziari cinematografici del maggio 1940, con il soste­
gno di grafica e animazioni, gettando la responsabilità di
questo «accerchiamento» sulle potenze che, dopo il trattato
di Versailles, si erano opposte ad ogni revisione pacifica di
quell'accordo iniquo.

Anche gli Stati Uniti, quando entrarono nella seconda


guerra mondiale, argomentarono la loro partecipazione con
un accerchiamento del loro paese da parte delle potenze
dell'Asse, un accerchiamento che li avrebbe ridotti in uno
stato di permanente pericolo.
9
Dichiarazione di von Ribbentrop a Monsignor Tiso, capo del governo
slovacco, Livrejaune, cit., p. 126.

35
Quando vennero rotte le relazioni diplomatiche tra Ger­
mania e Stati Uniti, Hitler ne fece ricadere le responsabilità
su Roosevelt, dietro il quale vedeva i suggerimenti e gli inte­
ressi della finanza internazionale e degli ebrei.
Secondo lui, il presidente americano trascinava il suo pae­
se in guerra per sviare l'attenzione della pubblica opinione
dalla politica interna e dall'insuccesso del New Deal. Inoltre,

dall'inizio della guerra il presidente americano si era reso colpe­


vole di tutta la serie dei peggiori crimini contro il diritto in­
ternazionale [ ... ] Gli sforzi sinceri di Germania ed Italia per conte­
nere l'estensione del conflitto e mantenere buoni rapporti con gli
Stati Uniti, nonostante le insopportabili provocazioni portate avan­
ti per anni dal presidente Roosevelt, erano state vanificate. Per
questo e per lealtà nei confronti del patto tripartito, la Germania e
l'Italia furono alla fine costrette [corsivo dell'autrice] a sostenere la
lotta contro gli Stati Uniti 1 0 •

La nota, fatta pervenire dall'incaricato d'affari tedesco al


dipartimento di Stato americano, riconosceva lo stato di
guerra tra i due paesi, ma attribuiva agli Stati Uniti ogni re­
sponsabilità di questa situazione. Questi avevano violato in
molte occasioni la neutralità da quando, il 3 settembre 1 939,
Gran Bretagna e Francia avevano dichiarato guerra alla
Germania e inoltre avevano dato ordine di colpire i suoi sot­
tomarini e di sequestrarne la flotta mercantile.

Nonostante che la Germania, da parte sua, si sia sempre stretta­


mente attenuta, nelle sue relazioni con gli Stati Uniti e in ogni
momento dell'attuale conflitto, alle regole del diritto internazio­
nale, il governo degli Stati Uniti, partendo da iniziali violazioni
della neutralità è giunto a veri e propri atti di guerra contro la
Germania. Il governo degli Stati Uniti ha, in questo modo, creato
un virtuale stato di guerra [ . . . ] A causa di queste circostanze pro­
vocate [corsivo dell'autrice] dal presidente Roosevelt, la Germa­
nia, a partire da oggi, si considera in guerra con gli Stati Uniti
d'America.

10
Discorso di Hitler riprodotto in P. Monniot, op. cit., p. 355.

36
I bellicisti più accaniti si sforzano di farsi passare per
agnelli e di addossare al nemico tutta la responsabilità del
conflitto. Riusciranno in questo modo a persuadere le loro
pubbliche opinioni (e forse anche se stessi) di essere in stato
di legittima difesa.
Faccio presente che il mio proposito non è certo di mette­
re sullo stesso piano aggressore ed aggredito, ma piuttosto
di mostrare come, in entrambi i campi, venga utilizzato lo
stesso linguaggio. Al momento dello scoppio d'un conflitto,
e in assenza dell'insieme di fonti ed archivi che permettano
di dirimere la questione, è molto spesso assai arduo dire chi
è realmente l'aggressore.
Questo secondo principio di propaganda di guerra («Il
campo avverso è il solo responsabile della guerra») è stato
applicato molte volte anche dopo la seconda guerra mon­
diale. Qualche esempio basterà a mostrarlo.

La «piovra nemica che accerchia il nostro sventurato pae­


se» è un tema correntemente utilizzato dalla propaganda
americana all'epoca della guerra fredda. Carte geografiche
disegnate con una prospettiva particolare «dimostravano» ai
cittadini americani che gli Stati Uniti erano accerchiati dai
paesi comunisti e queste carte geografiche pertanto legitti­
mavano una messa sul piede di guerra, evidentemente «di­
fensiva». Inversamente, anche l'URSS poteva sentirsi e pre­
sentarsi come accerchiata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati
militari 1 1 •
Un deputato francese, membro della Commissione difesa
dell'Assemblea nazionale, ha proposto qualche anno fa che
la Francia

avvii ricerche per la produzione di armi chimiche e batteriologiche


per difendersi e rispondere al bioterrorismo che potrebbero scatenare
[corsivi dell'autrice] Saddam Hussein, la Corea del Nord, la Libia o
l'Iran, con la complicità della Russia...

1 1 Vedere ad esempio Gerard Chalian e Jean-Pierre Rageau, Alias stra­


tégique-géopolitique des rapports de force dans /,e monde, Ed. Complexe, 1988,
pp. 12 e 44.

37
Non fa evidentemente alcun cenno a ricerche simili fatte
dagli occidentali, i quali - a quel tempo - si erano impegnati
«a cessare ogni attività in questo campo, comprese le ricer­
che» 1 2 • La campagna americana per la costruzione dei «mis­
sili antimissile» viene presentata come una «difesa» necessa­
ria contro un'ipotetica aggressione degli Stati Uniti da parte
di missili nemici dalle ultra prestazioni, anche se, data la si­
tuazione geostrategica attuale, ci si potrebbe chiedere da
dove possano arrivare...
Nella guerra che nel 1 999 la NATO ha condotto contro la
Jugoslavia, i governi europei, un po' imbarazzati di fronte
alle loro pubbliche opinioni per essere stati trascinati in un
conflitto sul quale i loro parlamenti non erano stati consulta­
ti - nonostante l'obbligo costituzionale di farlo, presente in
molti paesi - utilizzarono largamente nella loro propaganda
l'argomento dell'obbligo di unirsi alla guerra nel quale si era­
no trovati i paesi europei. Così, Christian Lambert, capo di
gabinetto del ministro belga della Difesa, ad alcuni studenti
che gli chiedevano il perché della partecipazione belga ai
bombardamenti sulla Jugoslavia rispose che per il Belgio era
un obbligo legato alla sua adesione alla NATO':'.
Questa risposta è classica, tuttavia non corrisponde alla
realtà.
Ci sarebbe stato obbligo, per i paesi europei, di partecipa­
re alla guerra, se uno Stato della NATO fosse stato aggredi­
to, ma questo non era certo il caso per quanto rigu arda la
guerra alla Jugoslavia. Non c'era stata un'aggressione serba
contro uno Stato membro e se ci fu una qualche aggressione
fu quella commessa, al di fuori di ogni mandato ONU e sen­
za l'accordo dei parlamenti dei paesi europei che partecipa­
vano all'operazione 14, contro uno Stato sovrano.
1 2 Articolo di Pierre Lellouche intitolato «Al pericolo nucleare segue la
minaccia batteriologica e chimica, il flagello del XXI secolo . Inchiesta in
Russia. Gli scienziati pazzi della guerra biologica», in Paris-Match, 20 giu­
gno 2000, pp. 103-107.
1 3 Seminario di scienze politiche all'Università Libera di Bruxelles del 30
novembre 1999 ( «Questioni politiche e amministrative del Belgio»).
14 L'articolo 35 della Costituzione francese, ad esempio, è chiaro su que­
sto argomento: «La dichiarazione di guerra è autorizzata dal Parlamento ».

38
In questa stessa guerra, il princ1p10 «È stato lui che ha
cominciato» è stato largamente applicato dalla propaganda
occidentale e particolarmente in una forma che Arthur Pon­
sonby aveva ben segnalato: il nemico disprezza e sottostima
la nostra forza, non possiamo più attendere, siamo obbligati
a mostrarla.
Questo argomento è stato assai utilizzato contro Saddam
Hussein: nel 1990 aveva, «sfidato la comunità internazio­
nale [quest'ultima espressione merita certamente un'anali­
si] invadendo [o «recuperando», secondo il punto di vista! ]
il Kuwait».
Le Soir del 2 agosto 2000, commemorando il decimo an­
niversario dell'evento che aveva dato origine, agli inizi del
1 99 1 , alla guerra del Golfo, titolava in prima pagina: «2 ago­
sto 1990, Saddam sfida il mondo sul Kuwait».
La propaganda occidentale, nel 1 999, assicurava allo stes­
so modo che la Jugoslavia sfidava la NATO e la costringeva a
replicare con la violenza. Così Le Soir del 18 aprile 1999
scriveva: «La NATO viene sfidata con stupefacente cinismo:
la prima potenza armata del mondo potrà giustificare a lun­
go il suo attendismo?». E Le Monde del 6 e 7 agosto 2000 ti­
tolava: «Le nuove provocazioni» [corsivo dell'autrice].
La NATO assicurò, all'epoca, di reagire ad una campagna
di «pulizia etnica» dei serbi contro gli albanesi del Kosovo.
Con il passare del tempo, gli esperti internazionali della
OCSE confermarono documenti interni del governo tedesco
nei quali si indicava come Belgrado avesse reagito con una
campagna sistematica di violenza contro la maggioranza al­
banese del Kosovo, a partire dal 24 marzo, quando la NATO
iniziò a bombardare la Jugoslavia. Prima del 24 marzo le
violenze poliziesche contro gli albanesi del Kosovo non era­
no state che fatti isolati e certamente non una «pulizia etni­
ca» 1 5 • Però, per convincere l'opinione pubblica occidentale
che i bombardamenti sulla Jugoslavia erano ben giustificati,
fu necessario far credere che si trattava di una situazione di
rise osta ad operazioni di pulizia etnica in atto.
E il nemico che deve portare per intero la responsabilità
della guerra e, più personalmente, il suo capo.

39
La guerra è colpa di Saddam Hussein, «dittatore-preda­
tore [... ] avendo, lui solo, provocato il fallimento dei negoziati
tenuti a Gedda, [ ... ] avendo infranto e sfidato il diritto inter­
nazionale» 16 •
La guerra è colpa di Milosevic, che d'altronde, per la sua
intransigenza, aveva rifiutato le proposte occidentali di «pa­
ce» a Rambouillet 1 7 •
Il Vif- L'Express del 7 maggio 1 999 titolava: «Il dittatore di
Bel grado ha una responsabilità schiacciante nelle sventure
dei popoli serbo e albanese». L'insistenza sulla persona del
capo del campo nemico non è casuale. Il terzo principio di
Ponsonby insiste sulla necessità di personificare il nemico
nella persona del suo capo.

15 Ancora quindici giorni prima della guerra, un rapporto ufficiale del


Ministero tedesco degli Affari esteri, diretto dal Verde Joschka Fisher, assi­
curava: « Non c'è una persecuzione etnica contro gli albanesi come gruppo.
Solamente degli scontri tra due eserciti».
16 Le Soir, 2 agosto 2000, articolo di J ean-Paul Collette, «Sono dieci an­
ni, l'Iraq ha violato il Kuwait e il diritto».
1 7 Per coloro che hanno letto le condizioni di Rambouillet - anche se
queste furono rivelate al pubblico ben dopo lo scoppio della guerra - è evi­
dente che erano inaccettabili per la Jugoslavia, dato che prevedevano l'oc­
cupazione militare del paese da parte delle forze NATO.

40
Capitolo terzo
Il nemico ha l'aspetto del diavolo
o del «cattivo di turno»

Non si può odiare un gruppo umano nel suo insieme, an­


che se presentato come nemico.
È pertanto più efficace concentrare questo odio nei con­
fronti del nemico sul leader avversario. Il nemico avrà così
un volto e questo volto sarà, evidentemente, odioso.
Non si farà guerra solamente ai «crucchi», ai «giaps», ma
più precisamente a Napoleone, al Kaiser, a Mussolini, Hi­
tler, Nasser, Gheddafi, Khomeini, Saddam Hussein o Milo­
sev1c.
Questa personalizzazione in un odioso fantoccio nasconde
la diversità di persone presente tra la popolazione nemica e
vuole evitare che un qualche cittadino possa scoprire, in
qualche figura della popolazione avversa, un suo simile.
Per indebolire la causa dell'avversario si deve, come mi­
nimo, presentare il suo capo come un incapace e far dubita­
re della sua affidabilità ed integrità.
Un metodo semplice consiste nel mettere tra virgolette le
parole «presidente» o «generale», dato che, trattandosi di un
nemico, questo metterà direttamente in dubbio la loro legit­
timità: il «presidente» Karadzic, il «generale» Mladic. . .
Si deve sempre, nella misura del possibile, demonizzare
questo leader nemico, presentarlo come un essere immondo
da sbaragliare, come l'ultimo dei dinosauri, come un folle,
un barbaro, un criminale dell'inferno, un macellaio, un per­
turbatore della pace, un nemico dell'umanità, un mostro...
È da questo mostro che viene tutto il male. Lo scopo della

41
guerra sarà allora catturarlo e la sua defenestrazione signifi­
cherà il ritorno immediato alla morale e alla civiltà. In certi
casi, questo ritratto del nostro nemico può sembrare giusti­
ficato, tuttavia non si deve perdere di vista che questo mo­
stro, prima del conflitto, è stato, per la maggior parte del
tempo, assai frequentabile e tale, in certi casi, tornerà ad es­
sere dopo la vittoria o la sconfitta.
Così, fino alla prima guerra mondiale, la famiglia impe­
riale austriaca intratteneva i migliori rapporti con la famiglia
reale belga I e il Kaiser tedesco era un personaggio tra i più
apprezzati in Gran Bretagna.
Qualche mese prima della dichiarazione del conflitto,
viene presentato dall'Evening News (17 ottobre 19 1 3) come
un perfetto gentleman:

Tutti vediamo nel Kaiser un gentleman di nobile carattere, la cui


parola vale più dell'impegno formale di molti altri, un ospite cui ci
fa sempre piacere dare il benvenuto e che vediamo partire a ma­
lincuore, un sovrano le cui ambizioni per il suo popolo si basano
sullo stesso buon diritto che le nostre.

Quando, tuttavia, il conflitto scoppiò, le critiche più feroci


si concentrarono sul Kronprinz (di cui si scrive che è un la­
druncolo e che ha umiliato suo padre) e sul vecchio Kaiser.
Questi diventa rapidamente un folle, un assassino e un ma­
cellaio, come mostra la lettera di Sir W. B. Richmond, appar­
sa sul Daily Mail del 22 settembre 1914:

Guglielmo l'alienato [corsivo dell'autrice] non farà tremare né l'In­


ghilterra, né l'Europa civilizzata, né l'Asia, anche se la cattedrale di
Reims è stata distrutta per suo ordine.
Quest'ultimo atto di un capo barbaro [corsivo dell'autrice] non fa­
rà che serrare le nostre file, affinché ci sbarazziamo di un flagello
[corsivo dell'autrice] di cui il mondo civilizzato non ha mai visto
l'uguale.

1 Si può vedere nel memoriale al Principe Charles a Raversijde una foto


presa nel 1 9 13 dalla Regina Elisabetta e che mostra l'Imperatore France­
sco-Ferdinando, in amicale compagnia con re Alberto tra le dune belghe.

42
Il folle [corsivo dell'autrice] sta preparando la legna per la propria
pira. Il mostro non riuscirà a spaventarci; noi serreremo i denti
ben sapendo che quando noi stessi dovremo alla fine morire, il
Giuda moderno e la sua infernale genia saranno stati spazzati via.
Per giungere a questo giusto fine, dobbiamo armarci di pazienza,
assiduità al lavoro ed energia.
La nostra grande Inghilterra verserà volentieri il suo sangue per
liberare la civiltà da un monarca criminale e da una corte scellerata,
che sono riusciti a trasformare un popolo docile in un orda di sel­
vagg1.
Sir James Crichton ha detto a Dumfries: 'Per il Kaiser, la corda' ; la
fucilazione gli darebbe la morte onorevole del soldato. La sola as­
soluzione per questo criminale è la forca.

Nello stesso ordine d'idee, si poteva leggere su The Times


del 1 5 maggio 1 915 :

Lord Robert Cecil ha detto che i responsabili delle terribili atrocità


e delle continue violazioni di tutte le leggi e di tutte le consuetudi­
ni di guerra commesse dai tedeschi, sono stati gli stessi capi della
Germania, l'imperatore e i suoi più vicini consiglieri ed è sopra di
questi che deve cadere, se possibile, il castigo e la nostra collera'.!.

Un editoriale del Daily Express reclamava che il Kaiser fos­


se espulso dall'Ordine della Giarrettiera, assicurando:

Città sono state incendiate, vecchi e bambini sono stati assassinati,


donne e ragazze violentate, pescatori inoffe�sivi sono periti anne­
gati per ordine di questo criminale [corsivo dell'autrice] coronato.
Dovrà rispondere, 'in quel grande giorno in cui il mondo intero
sarà giudicato', delle vittime del Falab e del Lusitania 3 •

2 Citato da Arthur Ponsonby.


:{ Questi esempi del cambio d'opinione britannico sul Kaiser sono tratti
dal libro di Lord Ponsonby. Il piroscafo americano Lusitania fu colato a pic­
co dai tedeschi, causando un gran numero di vittime tra i suoi passeggeri.
Gli Alleati assicurarono che si trattava di una semplice imbarcazione civile,
ma in seguito si seppe che era stata registrata come incrociatore bellico au­
siliario e che trasportava, assieme ai passeggeri, 4.700 casse di munizioni.
Per i tedeschi, pertanto, non si trattava di un atto di pirateria, ma piuttosto
del fatto che gli Alleati avevano utilizzato passeggeri civili come «scudi
umani».

43
Alla fine della guerra, il presidente Wilson volle che il po­
polo tedesco cambiasse governo se voleva vedere conclusa la
guerra, per cui il Kaiser si rifugiò nei Paesi Bassi. Gli Alleati
chiesero ufficialmente la sua estradizione, ma gli olandesi
rifiutarono. Gli Alleati finsero d'inchinarsi di fronte al rifiuto
olandese, ma nascosero a stento la soddisfazione che quel
rifiuto provocava loro.
L'articolo 227 del Trattato di Versailles precisava che si
sarebbe aperto un processo contro l'ex imperatore «Gu­
glielmo per le supreme offese alla moralità internazionale e
alla sacralità dei trattati» 1 , ma gli Alleati ebbero l'accortezza
di non aprirlo mai, dato che ne sarebbe potuta facilmente ri­
sultare una dimostrazione dell'inconsistenza delle «prove»
della sua colpevolezza.
Una delle «prove» della responsabilità personale del Kai­
ser nei crimini commessi dall'esercito tedesco era una lettera
che Guglielmo II aveva indirizzato all'imperatore d'Austria
nei primi giorni di guerra e nella quale il sovrano scriveva:

Il mio cuore si spezza, ma si deve mettere tutto a ferro e fuoco,


sgozzare uomini e bambini, donne e vecchi, non lasciare in piedi
né un albero né una casa! Con questi mezzi terroristici, i soli in
grado di battere un popolo degenere come quello francese, la
guerra finirà entro due mesi mentre, usando riguardi umanitari,
potrebbe durare anni.

Il «documento», che avrebbe permesso di provare con


l'evidenza la responsabilità personale del Kaiser, fu presen­
tato dai professori Lama ude (Diritto pubblico generale) e de
Lapradelle (Diritto delle genti), della Facoltà di Diritto di
Parigi. I professori si limitarono a segnalare che questa let­
tera era stata pubblicata nel numero 13 8 del Bulletin de
l'oeuvre des écoles d'Orient diretta da Monsignor Charmetant.
Nessuno riuscì ad ottenere dettagli sulla fonte di questa
pubblicazione.

4
Per il testo del Trattato di Versailles, vedi Louis Le Fur e Georges
Chklaver, op. cit., p. 297 e seguenti .

44
Da chi, Monsignor Charmetant, aveva ottenuto questa let­
tera? Dove e quando era stata scritta? Dove si trovava l'ori­
ginale? Che prove c'erano della sua autenticità?
La lettera - la cui esistenza fu formalmente smentita dal
Berliner Tageblatt del 22 novembre 1921 e che è, molto pro­
babilmente, un apocrifo - fu, nonostante ciò, riprodotta
quasi all'infinito dalla stampa francese coma «la» prova della
responsabilità personale del Kaiser. Queste terribili accuse,
sul ruolo personalmente malvagio del Kaiser, furono rapi­
damente dimenticate dopo il conflitto e si può ricordare che
questo «criminale», che durante la guerra era stato sopran­
nominato Attila, ebbe dagli Alleati il permesso di vivere
tranquillamente in Olanda e qui terminò i suoi giorni. Il
mostro era ridiventato una persona della stessa condizione
degli altri capi di stato, un po' al modo di altri mostri ad inte­
rim come Saddam Hussein o Yasser Arafat, demonizzati a
lungo dai media occidentali (assassino, terrorista... ) prima di
ridiventare onorabili interlocutori che brindano con ogni
capo di stato, ricevuti amichevolmente dal presidente degli
Stati Uniti e dal Papa.

Il capo del campo avverso, quali che siano realmente le


sue perversioni, deve essere presentato con un aspetto di­
sumano, mostruoso, come mentalmente squilibrato.
Hitler presentava, senza dubbio, dei tratti psicologici in­
quietanti, però quando gli Alleati mostrarono il filmato truc­
cato della firma della resa francese a Compiègne del giugno
1940, diffusero l'immagine d'un pazzo agitato. In effetti, le
immagini in cui Hitler, sorridente e soddisfatto, batte i tal­
loni alzando il ginocchio, furono moltiplicate molte volte per
dare l'illusione che ballasse di gioia sul posto! Questo «ballo»
di Hitler confermerà, ai paesi alleati non occupati ove il film
fu presentato, che il dirigente tedesco era in effetti un burat­
tino pazzo da legare.
A partire dalla seconda guerra mondiale, Hitler divenne il
paradigma del male, tanto che ogni nemico verrà paragona­
to a lui e diventerà il suo erede diretto o il suo sosia.
Ciò al momento del conflitto... dato che la propaganda

45
crea degli Hitler a intermittenza, spesso rispettabili prima
della crisi e qualche volta riabilitati, a crisi superata.
È stato questo il caso di Stalin, Mao, Kim Il Sung o Ceau­
sescu - quest'ultimo fotografato molte volte in onorevole
compagnia come quella del re Baldovino del Belgio, di
Charles De Gaulle, del presidente americano Nixon... - ma,
anche più recentemente, tutti i «cattivi di turno» sono dovuti
passare per la stessa trafila.
Dal momento della guerra all'Iraq, Saddam Hussein,
prima presentato come il nostro migliore alleato «laico» con­
tro l'Iran degli ayatollah, venne paragonato al dittatore nazi­
sta, anche sotto l'aspetto fisico.
Con un leggero ritocco fotografico, per accorciargli i baffi,
il settimanale americano Newsweek arrivò a presentarlo in
copertina come un sosia di Hitler.
La copertina di Vif - L'Express del 14 febbraio 1991 mo­
strava il torvo iracheno su un inquietante fondo nero ed il
settimanale presentava il suo programma in questi termini:
«Quel che ancora prepara Saddam: nuclearizzare, desta­
bilizzare, sorprendere, terrorizzare, sacrificare, resistere ... ?».
Non andrà diversamente con Milosevic, che il settimanale
italiano L'Espresso del 7 aprile 1 999 presentò in copertina
sotto il titolo di Hitlerosevic, con metà faccia corrispondente
al viso di Hitler e l'altra metà a quella di Milosevic.
Sulla stessa linea, il Vif - L'Express della settimana 2-8
aprile 1999 presentava, all'inizio dei bombardamenti sulla
Jugoslavia, una prima pagina assai cupa nella quale a sini­
stra esponeva metà della faccia di Milosevic e a destra il ti­
tolo: «L'orribile Milosevic».
All'interno del settimanale, mediante un testo accostato a
foto truci e inquietanti del dirigente jugoslavo, si apprende­
va che la «capacità di nuocere» di Milosevic «era molto lon­
tana dall'essere esaurita».
Colui che, tre anni prima, aveva alzato il bicchiere con
Chirac e Clinton, al momento della firma, a Parigi, degli ac­
cordi di pace sulla Bosnia 5, divenne di colpo un pazzo ne-

" Accordi fim1ati a Parigi il 14 dicembre 1 995 con Tudjman e Itzebegovic.

46
vrotico, i cui genitori e uno zio materno si erano suicidati,
sintomi evidenti di uno squilibrio mentale ereditario ...
Il Vif - L'Express non cita alcun discorso, alcuno scritto del
«padrone di Belgrado» 6, ma segnala i suoi anormali cambi
d'umore, le sue esplosioni di collera, morbose e brutali:
«Quando andava in collera il suo viso si torceva. Dopodiché,
istantaneamente, ricuperava il suo sangue freddo».
Da Le Monde dell'8 aprile 1999 apprendiamo che suo fra­
tello è un trafficante di sigarette e la sua sposa un'arrivista,
un'ambiziosa e una squilibrata con problemi psicologici ri­
salenti al fatto che fu tardivamente riconosciuta da suo pa­
dre . . . 7. Il Vif - L'Express concludeva: «Slobo e Mira non sono
una coppia, sono un'associazione di malfattori».
Su Le Monde, Pierre Hassner 8 giustificava i bombarda­
menti sulla Jugoslavia perché «identificano il primo colpe­
vole dei mali dell'ex Jugoslavia - l'ultimo tiranno dei Bal­
cani - e lo indicano con le parole e con gli atti come
l'avversario».

La tecnica della demonizzazione del leader nemico è effi­


cace e continuerà senza dubbio ad essere applicata a lungo.
Il lettore e il cittadino hanno bisogno di «buoni» e «cattivi»
chiaramente identificati e il modo attualmente più semplice
è di presentare il cattivo di turno come un «nuovo Hitler».
Chiunque volesse, non dico prendere le sue difese, ma solo
dubitare che sia l'esatta incarnazione del male, sarebbe im­
mediatamente squalificato.
Senza spiegare mai chi glielo aveva attribuito, Libération
( 1 7 luglio 2000) utilizzò il soprannome di « Hitler» per indi-

G Per alcuni non c'è da sorprendersi perché, contrariamente a quanto si


afferma in Occidente, questi scritti e discorsi raccomandano il superamento
dei conflitti interetnici ed elogiano la Jugoslavia in quanto comunità pluri­
nazionale.
7
I suoi genitori avrebbero dovuto avere, di fatto, altre preoccupazioni
durante la sua prima infanzia, dato che sua madre, resistente comunista, fu
torturata e poi giustiziata dai filonazisti.
8 Le Monde, 27 marzo 1999, «Kosovo: in caso di insuccesso... ». Pierre Ha­
sner è direttore delle ricerche al Centro Studi e Ricerche Internazionali
(CERI).

47
care l'istigatore dei neri che procedevano all'occupazione
delle terre dello Zimbabwe e titolava «Nello Zimbabwe, gli
estremisti di Hitler». Lo stesso quotidiano francese scriveva
che «Chenjerai Hitler Huntzvi è stato dichiarato dal Tribu­
nale Supremo colpevole di aver incitato a queste occupazio­
ni illegali» ed aggiunge (26 aprile 2000): «Il 'nome di batta­
glia' di questo dirigente, come informa la BBC, la dice lunga
sulla sua sensibilità umanitaria».
Un articolo di Vif - L 'Express, favorevole ai proprietari
bianchi dello Zimbabwe 9 (che sono anche i grandi proprieta­
ri, ossia, e lo si dimentica spesso, dei coloni britannici che si
rifiutano di prendere la nazionalità del paese) ed ostile ai
partigiani del presidente Mugabe (che sono anche, e lo si
dimentica spesso, i contadini più poveri dello Zimbabwe),
presenta nella luce più negativa l'assalto condotto contro i
coloni bianchi. Per condannare completamente la solleva­
zione, il testo denuncia i capi locali, ma soprattutto una figu­
ra di punta tra i vecchi combattenti, Chenjerai Hunzvi. Que­
sti darebbe «i suoi ordini alla presidenza, ove si ha timore
della sua capacità di fare danno».
Con una parola, viene demonizzato: nel titolo come nella
didascalia della sua foto, viene designato come Chenjerai
«Hitler» Hunzvi.
Ogni simpatia del lettore per la causa dei neri dello Zim­
babwe viene, in questo stesso momento, resa impossibile.

9
Articolo di Vincent Hugeux, «Il terrore Mugabe», Le Vif - L'Express, 4
maggio 2000.

48
Capitolo quarto
È una causa nobile quella che difendiamo
e non degli interessi particolari

Generalmente la guerra ha come movente la volontà di


dominio geopolitico, abbinato a motivazioni economiche.
I moventi della guerra sono, tuttavia, inconfessabili alla
pubblica opinione.
Le guerre moderne, diversamente, ad esempio, da quelle
di Luigi XIV, sono possibili solo con il consenso della popo­
lazione, almeno fin quando i parlamenti, per principio, do­
vranno proclamare il loro accordo a dichiarare guerra 1 •
Questo consenso sarà facilmente accordato se la popolazione
pensa che da questa guerra dipendano la sua indipendenza,
il suo onore, la sua libertà o la sua vita, e che essa è portatri­
ce di valori morali indiscutibili.
La propaganda dovrà dunque sforzarsi di occultare certi
moventi e di far credere in altri.
Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, i moventi
delle potenze si possono riassumere in questi termini:

- da una guerra vittoriosa contro la Germania, la Francia


sperava di poter ritornare ai confini del Secondo Impero;
- la Russia sperava di ottenere l'egemonia sui Balcani e,
forse, su Costantinopoli;

1 Anche se, qualche volta, come nel caso della guerra della NATO contro
la Jugoslavia, si è passati oltre questa formalità prevista dalla Costituzione,
come nel caso della Francia.

49
l'Inghilterra voleva mantenere il suo status di prima po­
tenza coloniale e marittima e bloccare i progressi tedeschi
nel continente;
la Germania voleva ottenere materie prime dalle colonie,
esportare i suoi prodotti finiti, spezzare il monopolio ingle­
se sui mari (che ostacolava questi progetti), rompere l'ac­
cerchiamento franco-anglo-russo e rinforzare la sua unità;
gli Stati Uniti speravano di realizzare in Europa vendite e
prestiti remunerativi e di entrare politicamente nel con­
certo delle grandi potenze 2 (e ci riuscirono).

I testi ufficiali, tuttavia, non evocano mai queste ragioni.


Non si parla mai di lottare per impadronirsi di un territorio
o di un giacimento, per annettere una provincia (ad ecce­
zione di quelle che rivestivano un valore simbolico come
l'Alsazia-Lorena) o una colonia, né per la soddisfazione di
potersi proclamare il più forte.
Probabilmente perché si ritiene che la maggior parte dei
cittadini stimino che non vale la pena d'uccidere o di ri­
schiare di farsi uccidere per questi motivi, è preferibile pro­
clamare, in un campo come nell'altro, alcune idee morali di
grande levatura, capaci di imprimere alla guerra il carattere
di crociata.
Si deve persuadere la pubblica opinione che noi - diver­
samente dai nostri avversari - facciamo la guerra per dei
motivi infinitamente onorevoli. Arthur Ponsonby aveva già
rilevato, relativamente alla guerra del 1914-1918, che, nei
testi ufficiali dei belligeranti, non si parlava mai degli obiet­
tivi geopolitici o economici del conflitto.
Eppure, il 5 settembre 19 1 9, il presidente americano
Woodrow Wilson ammise, in un discorso, l'importanza di
queste spinte, ad esempio economiche, nella guerra appena
conclusa affermando:

2 Gli Alleati prenderanno a prestito dagli Stati Uniti, durante la prima


guerra mondiale, la somma complessiva di undici miliardi di dollari e gli
Stati Uniti, dopo la guerra, notificheranno loro di voler, assai logicamente,
essere rimborsati. Curiosamente, le riparazioni che gli Alleati esigevano
dalla Germania corrispondevano alla medesima somma !

50
C'è qualche uomo o qualche donna - che dico? qualche bambino -
che non sappia che il seme della guerra nel mondo moderno è la
rivalità industriale e commerciale? [ . . . ] Questa guerra è stata una
guerra industriale e commerciale.

Gli Stati Uniti, grazie alla loro partecipazione al conflitto,


avevano non solo fatto, da un punto di vista industriale, un
grande passo in avanti, ma s'erano anche affermati sulla
scena internazionale come una potenza politica di primo
piano.
Ufficialmente, da parte alleata, gli scopi della guerra si
riassumevano in tre punti:

sconfiggere il militarismo;
- difendere le piccole nazioni;
- preparare il mondo alla democrazia.

Questi obiettivi, assai onorevoli, si ripetono quasi testual­


mente, alla vigilia di ogni conflitto, anche se non coincidono
che molto marginalmente o assolutamente per nulla con gli
obiettivi reali. Già fin dalla prima guerra mondiale questi in­
tenti furono assai poco credibili per l'osservatore accorto.
In fatto di «militarismo», tutti i belligeranti rivaleggiavano
fattivamente tra loro prima della guerra e, se si doveva met­
tere fine al militarismo prussiano, è strano che dopo la guer­
ra, le spese militari degli Alleati non solo non siano diminui­
te, ma aumentate. La guerra che ha come obiettivo di ristabilire
la pace è un sofisma, anche se ha avuto una bella carriera.
Quanto alla guerra per la difesa delle piccole nazioni oppresse
è stuzzicante sapere che i trattati segreti franco-russi (succes­
sivamente rivelati dal governo sovietico) prevedevano la di­
visione tra le due potenze delle spoglie degli avversari, senza
alcun riguardo per i «diritti dei popoli». Il governo francese,
ad esempio, in caso di vittoria franco-russa contro la Ger­
mania, accettava di lasciare la Russia padrona della Polonia
allo stesso modo in cui la Russia acconsentiva a che la Fran­
cia prendesse quelle regioni della Germania che più le an­
dassero a genio.

51
Preparare il mondo alla democrazia è altrettanto indifendi­
bile come obiettivo reale degli Alleati nella prima guerra
mondiale.
La semplice presenza, nel campo alleato, della Russia, za­
rista e autocrate, rendeva assai poco credibile l'ipotesi delle
«democrazie» riunite in un unico schieramento contro le au­
tocrazie. Inoltre, non era chiaro perché la Germania e il suo
Reichstag, regolarmente eletto, fosse più «autocrate» dell'In­
ghilterra.
Si potrebbe, evidentemente, fare la stessa considerazione
per la prima guerra contro l'Iraq, ove siamo volati in aiuto al
Kuwait, ossia ad un paese in cui della nozione di democra­
zia, totalmente incompresa, ci si burla, ove la maggioranza
degli abitanti non raggiunge lo status di cittadino e dove i di­
ritti umani, specialmente quando si è di sesso femminile,
sono quotidianamente bistrattati.
Si trattava, all'epoca della prima guerra contro l'Iraq, di
salvare - causa nobile tra tutte - un piccolo paese invaso. La
stessa giustificazione fu usata nella prima guerra mondiale
dai governi britannico e americano per risvegliare l'ardore
combattivo dei cittadini dei loro paesi non direttamente at­
taccati. Si trattava di accorrere in soccorso del «coraggioso,
piccolo Belgio», le cui sofferenze, i cui martiri e rifugiati fu­
rono utilizzati al massimo dalla propaganda alleata.
Da parte tedesca, naturalmente, le motivazioni dichiarate
non erano e non potevano essere meno nobili. Così il 1 9
agosto 1915, il cancelliere affermava davanti al Reichstag:
«La Germania non ha mai mirato alla supremazia in Europa.
Tutta la sua ambizione è stata di essere tra i primi nella
competizione pacifica delle nazioni, grandi e piccole, per il
benessere generale e della civiltà».
Ufficialmente, gli Alleati della prima guerra mondiale
non cercavano più di ingrandire i rispettivi territori (salvo
forse la Francia, che non nascondeva di voler «recuperare»
l'Alsazia-Lorena).
Fu, pertanto, miracolosamente che, all'epoca degli accor­
di di pace, la Gran Bretagna, ad esempio, «ricevette» (sotto
forma di colonia, mandato, dominio, protettorato o altro):

52
- l'Egitto;
Cipro;
un mandato sul Sud-Ovest africano (tramite l'Unione Su­
dafricana);
un mandato sull'Africa Orientale tedesca;
la metà del Togo e del Camerun;
Samoa (attraverso la Nuova Zelanda);
la Nuova Guinea tedesca e le isole a sud dell'Equatore;
- un mandato sulla Palestina;
- un mandato sull'Iraq.

Questi «regali» non erano mai stati ufficialmente rivendi­


cati durante il conflitto, nel corso del quale ci si richiamava
solo al diritto delle genti e dei popoli, alla democrazia e alla
lotta contro l'imperialismo e il militarismo.
Questo processo - classico - era già stato notato da Emile
Zola ( 1 840-1902) che metteva in bocca ad uno dei perso­
naggi del suo romanzo Sidoine et Médéric, il seguente discor­
so-programma, nel quale faceva ironiche raccomandazioni
ai suoi «colleghi-sovrani»:

I motivi della guerra sono difficili da inventare [ ... ] Dopo lunghe


riflessioni, m'è venuta una sublime ispirazione. Ci batteremo sem­
pre per gli altri, mai per noi stessi [ . . . ] Tenete conto dell'onore che
ricaveremo da tali spedizioni. Avremo il titolo di benefattori dei
popoli, grideremo alto il nostro disinteresse, accorreremo mode­
stamente a sostegno delle buone cause, devoti servitori delle grandi
idee [ . . . ] La nostra passione di prestare le nostre armi a chi le chie­
da è un generoso desiderio di pacificare il mondo, di pacificarlo
presto e bene a colpi di picca. I nostri soldati andranno in giro in
qualità di civilizzatori, tagliando il collo a quelli che non si civiliz­
zeranno abbastanza in fretta (pp. 56-58, ed. Flammarion).

Sembra che questo consiglio di Zola sia stato da allora ac­


curatamente messo in pratica da molti nostri dirigenti e che,
nel 1938, la stessa Germania nazista abbia paradossalmente
giocato sul terreno «umanitario» per annettersi le minoranze
tedesche dei Sudeti, integrate nella Cecoslovacchia.
Da parte nostra, ci è stato fatto sapere che fu «l'arrogan-

53
za» tedesca, a Monaco, a pretendere la cessione dei Sudeti
alla Germania. Il tema della Boemia tedesca e dei Sudeti,
tuttavia, non è mai stato trattato da tedeschi o austriaci con
toni imperialistici, ma piuttosto come il giusto ritorno di un
gruppo germanofono in seno alla madrepatria cui era stato
ingiustamente strappato. Tra il 1 870 e il 1914 il «ritorno»
dell'Alsazia-Lorena è stato un tema popolare della propa­
ganda francese, il «ritorno» della Boemia tedesca e dei Sude­
ti fu il suo parallelo tedesco o austriaco del periodo tra le
due guerre.
Nel 1 919, questi territori erano stati sottratti all'Austria,
malgrado le solenni proteste dell'Assemblea nazionale costi­
tuente della Repubblica Austriaca. Le popolazioni tedesche
annesse alla Cecoslovacchia avevano protestato, nel 1 9 1 9, in
manifestazioni duramente represse dal governo cecoslovacco.
Il trattato di Saint-Germain, firmato il 1 O settembre 1 919,
alla sua sezione V, prevedeva diverse misure per proteggere
queste minoranze, in particolare per quanto riguarda l'uso
delle lingue, la scolarità e l'accesso alla giustizia 3 • La Cecoslo­
vacchia, tuttavia, optò rapidamente per un trattamento di­
scriminatorio delle minoranze e impose largamente il ceco1 .
La stampa delle minoranze fu strettamente sorvegliata, le
loro organizzazioni caritatevoli messe sotto pressione e le
terre dei tedeschi della Cecoslovacchia furono quelle più
toccate dalle riforme agrarie.
Se si aggiunge a questo elenco di imposizioni la sottorap­
presentanza dei tedeschi dei Sudeti nell'amministrazione
statale - benché Eduard Benes avesse promesso che ogni ca-

3
Si tratta degli articoli 7 (capoversi 1, 3 e 4) e 8 (capoverso 2). Per il
primo articolo, i paesi firmatari (e pertanto la Cecoslovacchia) s'impegna­
vano a che nessuna legge nazionale o regolamento contravvenisse a queste
garanzie. Per il testo del Trattato di Saint-Germain, trattato di pace firmato
con l'Austria il 1 0 settembre 1919, vedere Louis Le Fur e Georges Chkla­
ver, Recueil... , cit., p. 537 e seguenti. Si possono leggere anche gli articoli
dall'8 l all'86 del Trattato di Versailles, pp. 345-348, dedicati alla Cecoslo­
vacchia, in cui si proibisce ai tedeschi che vivevano in Cecoslovacchia di
conservare la nazionalità tedesca, pena l'espulsione dal paese.
4
In particolare le leggi del 20 febbraio 1 920 e del 23 marzo 1923 sul­
l'impiego delle lingue nell'amministrazione, i tribunali e il commercio.

54
rica sarebbe stata egualmente disponibile per tutti - l'esi­
stenza di questi cittadini di seconda classe offrì alla propa­
ganda tedesca e austriaca l'occasione agognata d'una nobile
causa da difendere: l'aiuto ad una minoranza oppressa, ad
un piccolo gruppo ingiustamente perseguitato.
La questione dei Sudeti fornirà il pretesto alla minaccia di
un intervento militare tedesco contro la Cecoslovacchia,
preludio ai criminali progetti di Hitler, allo stesso modo in
cui la questione alsaziana era stato un comodo obiettivo per
la Francia al tempo della prima guerra mondiale. Anche la
questione delle minoranze tedesche in Polonia sarebbe di­
ventata un buon pretesto all'epoca della campagna tedesca
contro la Polonia.
La consultazione dei documenti diplomatici degli anni
1938-1939 (ad esempio i rapporti dell'ambasciatore francese
a Berlino in data 17 e 18 agosto 1 939), dimostrano il posto
centrale che questo argomento occupava nei discorsi e sulla
stampa tedesca.
«Accorrere in aiuto delle minoranze tedesche in Polonia»
fu il tema prediletto dalla propaganda tedesca che riportava,
con grande quantità di dettagli, gli iniqui trattamenti, d'ogni
sorta, di cui erano vittime i tedeschi in terra polacca. Delle
«cacce ai tedeschi» erano state organizzate in Polonia, come
era in precedenza avvenuto in Cecoslovacchia. C'erano stati
arresti di massa e decine di migliaia di rifugiati erano stati
costretti a cercare scampo in Germania, in campi di acco­
glimento, organizzati con grande clamore nei dintorni di
Dresda o nella Slesia.
Non è neppure impossibile che alcune di queste «perse­
cuzioni» siano state in realtà provocate dagli stessi agenti
nazisti, con attentati ai beni di alcuni proprietari tedeschi,
per poter in seguito denunciare il terrorismo polacco di
cui sarebbero stati vittime. È in ogni caso l'opinione dei
diplomatici francesi, i quali considerano che il terrorismo
contro le minoranze tedesche non è che un elemento della
propaganda tedesca per giustificare, di fronte ai tedeschi e
all'opinione internazionale, un intervento militare contro
la Polonia.

55
L'ambasciatore francese a Berlino sottolineò davanti al
proprio ministro degli Esteri la necessità di combattere que­
sta propaganda con una contro-informazione:

Questa contro-azione avrebbe dovuto essere relativamente sempli­


ce se, come mi dice l'ambasciatore polacco, il 95 per cento dei fatti
citati dalla stampa tedesca in appoggio alla sua campagna, sono
esagerati, distorti o semplicemente inventati.

L'ambasciatore francese citava l'esempio della notma di


un assassinio riportato dalla stampa tedesca, il 1 5 agosto
1939, in prima pagina con il titolo di «Orribile omicidio po­
lacco, un ingegnere tedesco assassinato», quando in realtà si
trattava di un delitto passionale, che non aveva alcuna moti­
vazione politica e risaliva... al 15 giugno.
Poco importa, tuttavia, per lo svolgimento degli eventi,
che si trattasse di calunnie cui, da parte delle autorità polac­
che, venivano sistematicamente opposte formali smentite, la
questione delle minoranze tedesche «perseguitate» in Polo­
nia cui prestare aiuto diventò, poco prima dell'invasione
della Polonia, un tema centrale della propaganda nazista.
La stampa e la radio tedesche trattavano, ogni giorno,
questo argomento, ripreso da Hitler, van Ribbentrop e gli
ambasciatori tedeschi.
In un colloquio con l'ambasciatore francese a Berlino il 25
agosto 1939, Hitler assicurava:

Avevo innanzitutto ordinato alla stampa del Reich di non pubblica­


re informazioni sui maltrattamenti subiti dai tedeschi di Polonia.
Attualmente però la situazione diventa sempre meno tollerabile. Sa­
pete che abbiamo avuto dei casi di castrazione? Che, nei nostri campi
di raccolta, ci sono più di 70.000 rifugiati? Ancora ieri, sette tedeschi
sono stati uccisi dalla polizia polacca a Bielitz [... ] Non c'è un paese
degno di questo nome che possa sopportare simili affronti.

Come al solito in queste occasioni si svolge l'abituale val­


zer di cifre. L'ambasciatore francese parla di 74 1 .000 tede­
schi in Polonia. Rispondendo per iscritto a Chamberlain, il
24 agosto 1939, Hitler parla di «atrocità» inferte dai polacchi

56
alle «minoranze tedesche che ammontano ad un milione e
mezzo di persone» e, nella sua risposta del 27 agosto a Da­
ladier, il cancelliere tedesco evoca il terrore e gli orrori
commessi su circa «due milioni di esseri umani» che vivono
fuori delle loro frontiere.
La guerra, dal punto di vista tedesco, aveva pertanto dei
fini «umanitari», per quanto assai sorprendenti ai nostri oc­
chi: riparare un'ingiustizia che gli anglo-francesi volevano
mantenere, far cessare il terrore esercitato contro una mino­
ranza innocente e correre in aiuto di un piccolo gruppo op­
presso, mantenere la libertà dei tedeschi.
Queste nobili motivazioni nascondevano evidentemente
ben altro: degli interessi economici5 e geopolitici, ad
esempio, non si parlava mai ufficialmente, non diversa­
mente da quanto avvenne in altri conflitti rivestiti con le
più nobili cause.
Le cose di cui finisce per parlare la propaganda nazista
tra le due guerre (niente economia né geopolitica, richiama­
re le motivazioni umanitarie, correre in soccorso dei popoli
oppressi.. . ) sono le stesse di cui si parla negli Stati Uniti, per
giustificare, davanti ad un'altra opinione pubblica, l'inter�
vento di quel paese nelle due guerre mondiali.
Ufficialmente, negli Stati Uniti, non si parlerà che del pic­
colo Belgio, martirizzato (per quanto ri guarda la prima
guerra mondiale) e della difesa della libertà, dei diritti del­
l'uomo e della democrazia 6 • Gli interventi americani nelle
guerre europee veicolavano, invece, enormi interessi eco­
nomici, geostrategici e politici.
Il passaggio degli Stati Uniti dalla neutralità alla parteci­
pazione, nella seconda guerra mondiale, ha sicuramente
delle motivazioni politiche. Il presidente Roosevelt credeva

5 Per Danzica, ad esempio, solo assai raramente si parlava dell'impor­


tanza cruciale del suo porto per le esportazioni cerealicole della Polonia.
6 Sugli interessi economici in gioco (e passati sotto silenzio dalla propa­
ganda) per quanto ri gu arda la seconda gu erra mondiale si veda J acques
Pauwels, Der mythe van de «goede oorlog». Amerika en de Tweede Werel.doorlog,
EPO, Berchem, 2000 (trad. it Il mito della guerra buona. Gli USA e la Seconda
Guerra Mondia/,e, Datanews, Roma 2003).

57
seriamente che il sistema liberale fosse minacciato. Questo
timore, tuttavia, aveva anche un versante economico (la mes­
sa in discussione dell'assetto economico su cui si fondavano
gli Stati Uniti). Il processo d'abbandono della neutralità pre­
se l'avvio con la mozione Pepper che, dopo l'invasione del
maggio 1 940, propose di «vendere agli Alleati il materiale
bellico americano non utilizzato» ;_ La proposta, respinta due
volte dalla commissione Affari esteri del Senato americano,
fu raccolta dal presidente Roosevelt 8 • Gli Stati Uniti attiva­
rono allora la loro produzione di armi e misero a punto il
sistema prestito-affitto per venderle ai paesi europei che of­
frivano garanzie 9 • Ufficialmente, gli Stati Uniti rimanevano
neutrali perché vendevano a compagnie private («United
States Steel») che fungevano da intermediarie con Gran
Bretagna e Francia. La Gran Bretagna, che poteva contare
sul suo impero per rifornire di materie prime gli Stati Uni­
ti, come peraltro il Belgio e i Paesi Bassi, si ritenne che of­
frissero garanzie sufficienti per poter beneficiare degli aiuti
amencam.
Moventi di natura strettamente economica erano pertanto
presenti anche in questo caso, ma vi si alluse assai raramente
nei discorsi ufficiali.

Gli stessi procedimenti sono stati all'opera durante le re­


centi guerre contro l'Iraq e la Jugoslavia.
Per la prima guerra contro l'Iraq, è certo che la posta in
gioco era quella di mettere al passo il paese, da un punto di
vista politico, e controllare le sue risorse petrolifere, ma si
attaccò col pretesto di accorrere in aiuto di un piccolo paese,
il Kuwait, ingiustamente occupato.

i Vedi Pierre Monniot, op. cit., p. 116-121.


8
Messaggio scritto al Congresso, in data agosto 1940, ma reso pubblico
il 3 settembre, sul «trasferimenti» alla Gran Bretagna di cinquanta incro­
ciatori (cacciatorpediniere) americane, obsolete. Vedi A merica Chooses.', cit.,
p. 28-29.
9 Sul sistema del prestito-affitto vedi Edward Reilly Stettinius, Il prestito­
affitto, arma del/,a vittoria: origine e sviluppo della legge di prestito-affitto, Edizioni
Transatlantiche, New York 1944.

58
È sempre magnifico sentirsi vicini ad un piccolo popolo
che soffre. In questo modo l'ingerenza «umanitaria» permet­
te al forte di inserirsi nella politica dei deboli, con il migliore
degli alibi morali possibili.
Gli Stati Uniti hanno lanciato delle operazioni militari
contro piccoli Stati dell'America Latina con il pretesto che
davano appoggio a dei narcotrafficanti. Una di queste, con­
tro Panama nel 1989, di rara brutalità, provocò almeno
duemila morti e fu bellamente chiamata «Giusta Causa». Co­
sa di più bello, in effetti, che combattere per lo straziante
problema della droga, se i nostri nemici possono essere rap­
presentati come chi, in qualche modo, ne è all'origine? 1 0
Nella guerra della NATO contro fa Jugoslavia si trova lo
stesso sfasamento tra gli scopi ufficiali e quelli inconfessati
del conflitto. Ufficialmente la NATO interviene per preser­
vare il carattere multietnico del Kosovo, per impedire che le
minoranze siano maltrattate, per imporre la democrazia e
farla finita col dittatore. Si tratta di difendere la causa sacra
dei diritti dell'uomo.
Alla fine della guerra, non solo ciascuno può constatare
che nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto, che la so­
cietà multietnica è ancor più lontana e che le violenze contro
le minoranze - Serbi e Rom, questa volta - sono quotidiane,
ma anche che gli obiettivi economici e geopolitici della
guerra, di cui non si è mai parlato, sono stati - quelli sì -
raggiunti.
Così, senza che sia stato mai ufficialmente rivendicato, la
sfera d'influenza della NATO s'è notevolmente allargata nel­
l'Europa del Sud-Est. L'organizzazione atlantica s'è installata
in Albania, Macedonia e Kosovo, regioni che fino ad allora
s'erano mostrate recalcitranti a tale spiegamento.
Dal punto di vista economico, inoltre, la Jugoslavia (ove
funzionava ancora, per larga parte, un mercato pubblico),
10
Se, invece, i trafficanti d'eroina sono politicamente nostri alleati, come
fu nel caso di gruppi dell'UCK albanese, si perdona loro facilmente queste
mancanze veniali (leggere l'articolo di Erich Inciyan «Le réseaux albanaise
de l'héro1ne, la propagande de Belgrade contre l'UCK et la réalité», Le
Monde, 4 e 5 aprile 1 999.

59
«riluttante» all'istituzione di un'economia di mercato pura e
semplice 1 1 , si vide «proporre» a Rambouillet che l'economia
del Kosovo funzionasse «secondo i principi del libero merca­
to e fosse aperta alla libera circolazione dei [ . .. ] capitali,
compresi quelli di origine internazionale».
Innocentemente ci si potrebbe chiedere che rapporto ci
può essere tra la difesa delle minoranze oppresse e la libera
circolazione dei capitali, ma il primo tipo di discorso na­
sconde evidentemente fini economici meno confessabili.
Così dodici grandi società americane 1 2 , tra cui Ford, Ge­
nerai Motors e Honeywell, sponsorizzarono il summit del
cinquantesimo anniversario della NATO, tenuto a Washing­
ton nella primavera del 1999. In modo totalmente disinte­
ressato, pensano alcuni, mentre altri pensano che sia stato
un do ut des e che i bombardamenti contro la Jugoslavia per
distruggere l'economia socialista abbiano fatto piazza pulita
per le multinazionali che, da molto, sognavano di aprire in
quei luoghi un grande cantiere e di fare buoni affari.
Lo stesso portavoce della NATO, Jamie Shea, peraltro,
aveva annunciato che il costo dell'operazione militare contro
la Jugoslavia sarebbe stato largamente compensato dai be­
nefici che, a più lungo termine, i mercati avrebbero potuto
apportare 1 3 •
Dal 3 settembre 1 999 il marco tedesco è diventato uffi­
cialmente la moneta in circolazione in Kosovo e la fabbrica
d'automobili Zastava a Kragujevac, che avevo visto nel mag­
gio 1 999 distrutta dal bombardamento NATO del 9 aprile, è
dal mese di luglio richiesta dalla Daewoo 1 4 •
Come ha scritto con grazia Cavanna, la fine della guerra
arriva «quando i mercanti di munizioni hanno raggiunto la
1 1 La sua economia era largamente mista ed aperta ai privati da moltis­
simo tempo.
12
Washington Post, 1 3 aprile 1 999, citato da Michel Collon, Monopoly.
L'Otan à la conquéte du monde, EPO, 1 999, p. 92 .
13 Dichiarazione al tempo dell'emissione «Argent public», France 2, do­
menica 2 maggio 1 999, citato da Serge Halimi, L'Opinion ça se travaille, cit.,
p. 68.
14
Vedi Le Monde del 20 luglio 1 999, «L'usine d'automobiles Zastava in­
téresse Daewoo».

60
loro quota e i mercanti di cemento pensano sia venuto il
loro momento per entrare in scena» (Charlie-Hebdo, 2 giu­
gno 1999).
Gli scopi reali di questa guerra sono stati, certamente,
complessi. I motivi economici sono tuttora inconfessati, ma
non sono i soli. La volontà degli Stati Uniti di affermarsi
come superpotenza attraverso i loro alleati e di estendere il
loro impero geostrategico può ugualmente essere stata de­
terminante. Allo stato attuale delle nostre conoscenze è dif­
ficile dare una spiegazione razionale dell'intervento della
NATO contro la Jugoslavia e di dire qual è stato l'elemento
decisivo.
Un giorno, forse, gli archivi americani ci faranno vedere i
motivi reali della guerra della NATO contro la J ugoslavia,
tra i quali, secondo me, non è da escludere che ci sia stato il
timore di una «mela marcia», di un piccolo paese non domato
(la Jugoslavia, dopo il Nicaragua o il Vietnam) che avrebbe
potuto, col suo «cattivo esempio», ispirarne altri e provocare
insubordinazioni. In ogni caso le motivazioni non furono né
umanitarie né altruiste, ma l'essenziale è d'aver fatto credere
all'opinione pubblica, nel momento dello scoppio delle ope­
razioni, che si trattava di un attacco ben giustificato.

Sembra che la natura umana richieda che ciascun gruppo


presenti le sue azioni come quelle di chi persegue un bene
comune. Già Voltaire 1 5 (1694-1778) immaginò che, per or­
dine del genio Ituriel, lo scita Babouc si recasse nel campo
degli Indiani e successivamente in quello dei Persiani, che si
facevano guerra da anni per una causa ridicola, benché il
governo di ciascuno dei due contendenti affermasse di non
volere che la felicità del genere umano.

È una guerra in cui solo i nostri satrapi principali sanno bene per­
ché ci si sgozza [ ... ] I morti, gli incendi, le rovine, le devastazioni si
moltiplicano, l ' universo soffre, ma l ' accanimento continua. Il no­
stro Primo Ministro e quello delle Indie rivendicano spesso di non
15
In Le monde comme il va, vision de Babouc, in Oeuvres CompWes de Voltai­
re, tomo VIII, Paris 1 876, p. 3 1 7 .

61
agire che per il bene del genere umano, ma, ad ogni protesta, se­
gue qualche città distru tta o qualche provincia devastata.

Anche i più abietti degli uomini non confessano che assai


raramente di avere dei moventi egoistici o ignobili ed assi­
curano, al contrario, di nutrire buone intenzioni, scopi al­
truistici e se ne autopersuadono per mantenere un'immagi­
ne positiva di se stessi. I conquistatori tentavano di guada­
gnare anime al cristianesimo, i torturatori cileni lottavano
contro il marxismo... Dopo questo autoconvincimento, si de­
ve persuadere anche l'opinione pubblica che quel che si fa
non è che portare un contributo ad una nobile causa. Biso­
gna convincerla che si deve intervenire contro dei «banditi»,
dei «criminali», degli «assassini». È questo un altro dei prin­
cipi della propaganda di guerra: essa va presentata come un
conflitto tra la civiltà e la barbarie. Perciò bisogna indurre
l'opinione pubblica a pensare che il nemico commette si­
stematicamente e volontariamente delle atrocità, mentre nel
nostro campo non possono verificarsi che delle «sbavature».
Il quinto principio della propaganda di guerra, che an­
dremo a svolgere, è questo.

62
Capitolo quinto
Il nemico provoca intenzionalmente
delle atrocità; a noi possono sfuggire
«sbavature» involontarie

I racconti delle atrocità commesse dal nemico costituisco­


no un elemento essenziale della propaganda di guerra.
Questo, naturalmente, non significa che atrocità non ab­
biano luogo durante le guerre. Al contrario, assassinii, furti a
mano armata, incendi, saccheggi, stupri sono piuttosto la mo­
neta corrente di ogni guerra e pratica comune di ogni eser­
cito, dall'antichità fino ai conflitti del ventunesimo secolo.
Quel che è specifico della propaganda di guerra è di far
credere che solo il nemico è aduso a tali comportamenti,
mentre il nostro esercito è al servizio della popolazione, an­
che quella nemica, da cui è amato.
La devianza criminale diventa il simbolo stesso del solo
esercito nemico, formato essenzialmente da briganti senza
fede né legge.

Durante la prima guerra, mondiale questa immagine fu


sfruttata da entrambi i campi. Da parte tedesca si fece cir­
colare l'accusa secondo cui le popolazioni civili belga e fran­
cese conducevano una guerra sleale di «franchi tiratori» con­
tro l'esercito tedesco. Arthur Ponsonby aveva rilevato come
la propaganda tedesca diffondesse voci secondo cui, nell'o­
spedale di Aix, era stato riservato un reparto ai soldati tede­
schi cui erano stati cavati gli occhi... in Belgio! Giornali tede­
schi, d'altronde, avevano pubblicato la notizia di un medico
francese e due ufficiali che, a Metz, avevano contaminato un
pozzo con bacilli della peste e del colera.

63
Sulla stessa linea, l'Ufficio stampa (Pressekonferenz) tede­
sco, presieduto da un militare, lasciò correre la voce che dei
preti belgi avevano nascosto una mitragliatrice dietro l'alta­
re, avevano fucilato dei soldati tedeschi e amputato le dita di
quelli che portavano degli anelli per farsene una collana o
che avevano offerto loro un caffè alla stricnina...
Queste dicerie spaventose crearono nelle truppe tedesche
un considerevole panico: ogni civile belga o francese appari­
va come un sadico in potenza. Accuse alleate, in risposta,
relative ai comportamenti dell'armata tedesca non si fecero
attendere per molto. Secondo studiosi attuali ' queste accuse
sono nate dal complesso incontro tra la soggettività collettiva
e la realtà della guerra, ma vennero utilizzate, più che inven­
tate di sana pianta, dagli uffici di propaganda dei due cam­
pi. Sorte, come leggende, senza alcun rapporto, nemmeno
indiretto, con gli eventi, avrebbero trascritto nell'immagina­
rio collettivo la paura isterica che provavano i civili e i sol­
dati immersi nell'atmosfera angosciosa della guerra. In que­
sta situazione, la propaganda ufficiale non ebbe che da am­
plificare queste emozioni popolari collettive, invece di ridi­
mensionarle, se non cancellarle del tutto, con interventi che
smentissero energicamente queste leggende.
Da parte alleata, nella prima guerra mondiale, il maggio­
re successo e le maggiori ripercussioni politiche furono ot­
tenute dal soggetto dei «bambini belgi con le mani tagliate».
John Horn è giunto alla conclusione che questa voce era in­
fondata e ha studiato la formazione di questa leggenda, che
inizia con la pubblicazione, verso la fine del 19 14, di raccon­
ti di mutilazioni diverse, per sfociare nel 19 15 nel tema più
circoscritto delle «mani tagliate». Il soggetto delle «mani ta­
gliate» gioca, nell'opinione pubblica, un ruolo ricapitolativo
e simbolico e attribuisce un profondo carattere morale di
lotta manichea contro la barbarie a un conflitto percepito
1
Vedi John Horn, Les mains coupées: Atrocités aUemandes et opinion français
in 1914, in Guerres et culture, 1914-1918, Editions J .J .Becker et al ., Paris,
Armand Colin, 1 994, pp . 133-146 e, nella stessa opera collettiva, l'articolo
di Alan Kramer, Les atrocités aUemandes: mythologi,e populaire, propagande et
manipulations dans l'armée aUemande.

64
come lungo e crudele. Secondo questo autore, la prima fase
non fu il risultato di una campagna ufficialmente concertata,
ma furono questi racconti d'atrocità che indussero i rifugiati
a scappare per le strade. Se, da un punto di vista militare,
questo esodo creò un nefasto disordine, da un punto di vista
politico diede luogo ad un bilancio positivo in quanto il te­
ma dei rifugiati belgi (e delle atrocità tedesche) verrà larga­
mente sfruttato sul piano internazionale.
Dopo la Grande Guerra, Lord Esher scrisse:

L'episodio belga fu un colpo di fortuna, che arrivò al punto giusto


per dare alla nostra entrata in guerra il pretesto morale necessario
a preservare l'unità della nazione, se non quella del governo 2 •

I rifugiati belgi e la leggenda dei bambini dalle mani


mozzate servirono agli Stati Uniti per far pendere la bilancia
dalla parte dell'interventismo.
La storica belga Suzanne Tassier\ che aveva lavorato su
archivi americani, ha rivelato il ruolo essenziale dell'immagi­
ne del «povero piccolo Belgio», sull'opinione pubblica ame­
ricana, al fine di rendere moralmente insostenibile la neu­
tralità degli Stati Uniti e spingerli a intervenire a fianco de­
gli Alleati.
Le prime brecce nell'isolazionismo americano s'erano
prodotte, nel 19 1 5-16, con l'azione esercitata sull'opinione
pubblica americana dalla «Commission far relief in Bel­
gium» 4, con appelli in favore dei bimbi belgi e le campagne
per la raccolta di cibo e vestiario per i belgi vittime dell'ag­
gressione tedesca 5 •

2 Tragedy of Lord Kitchener (circa 1 920), citata da Georges Demartial, op.


cit., p. 58.
3 Suzanne Tassier, IA Belgi,que et l'entrée en guerre des Etats- Unis, 1 91 4-

1 91 7, La Renaissance du Livre, Bruxelles 1 95 1 .


4 Commissione per il soccorso al Belgio.
5 Si trattava di caricare di farina e latte condensato un bastimento che un
manifesto di propaganda mostrava, atteso al suo arrivo, da una folla di pic­
coli bambini belgi. In un altro manifesto si mostrava una bambina che veni­
, va condotta via da un soldato con l'elmetto a punta . .. lo slogan era: per il
quarto prestito di guerra americano !

65
I bambini belgi dalle mani mozzate furono anche, in mol­
teplici riprese, utilizzati in commoventi racconti da Emile
Vandervelde e Jules Destree nel loro viaggio in Italia, per per­
suadere gli italiani ad entrare in guerra a fianco degli Alleati.
Francesco Saverio Nitti, che era stato ministro durante la
guerra e in seguito presidente del Consiglio, testimonia,
nelle sue memorie, l'impatto di questi racconti:

Abbiamo sentito raccontare la storia dei piccoli infanti belgi ai


quali gli Unni avevano mozzato le mani. Dopo la guerra, un ricco
americano, scosso dalla propaganda francese, inviò in Belgio un
emissario per provvedere al mantenimento dei bambini cui erano
state tagliate le povere manine. Non riuscì ad incontrarne nemme­
no uno. Mister Lloyd George ed io stesso, quando ero capo del go­
verno italiano, abbiamo fatto eseguire delle minuziose ricerche per
verificare la veridicità di queste accuse, nelle quali, in certi casi, si
specificavano nomi e luoghi. Fu rilevato che tutti i casi, oggetto
delle nostre ricerche, erano stati inventati. 6

Si raccontava che i tedeschi mutilavano le infermiere,


squartavano i corpi dei prigionieri per farne lubrificanti, che
avevano tappato le miniere del Belgio per seppellirci vivi i
minatori, che tatuavano l'aquila tedesca in faccia ai loro pri­
gionieri o tagliavano loro la lingua. La stampa assicurava che
i tedeschi bombardavano premeditatamente gli ospedali e
miravano specificamente alle chiese.
Un ufficiale tedesco, ritenuto impermeabile alla cultura
come tutta la sua «razza» (che, peraltro, prima della guerra,
ogni anno si presentava al mondo con un gran numero di
scienziati, artisti e pensatori), aveva gettato nel fuoco dell'in­
cendio di Lovanio L'ultima cena di Dirk Bouts, peraltro ancor
oggi visibile nella chiesa Saint-Pierre di Lovanio.
Il mostro crucco brandiva la torcia per incendiare città
d'arte e monumenti, alzava il bicchiere per bere e sgozzava i
lattanti o alternativamente tagliava il seno alle donne e s1
gettava su di loro per violentarle, ridendo satanicamente 7.
6
Francesco Saverio Nitti, Scritti politici, vol. VI, Rivelazioni, Bari 1 963.
7 Vedere, ad esempio, il Journal del 1 O dicembre 1 9 1 4, che riunisce in un
unico racconto quasi tutti questi luoghi comuni. Il soldato tedesco alla fine

66
Benché le atrocità vere della guerra fossero assai crudeli
(ad esempio i 5.500 civili fucilati a Dinant, Tamines, Anden­
ne, Roussignol e altre città e villaggi belgi, passati per le ar­
mi col pretesto dei franchi tiratori), tuttavia si ricorreva ad
aggiungere dei particolari, i più truci, per far credere che la
guerra aveva messo di fronte ad un popolo di furfanti un
popolo di paladini ansioso di compiere azioni generose!
Così, secondo Ponsonby, si era raccontato

che trenta o trentacinque soldati tedeschi erano entrati in casa di


David Tordens, carrettiere a Sempst (oggi Zempst). Legarono l'uo­
mo e subito cinque o sei di loro si avventarono, sotto i suoi occhi,
su sua figlia di tredici anni e le fecero violenza. Dopo questa orri­
bile azione, crivellarono a colpi di baionetta suo figlio di nove anni
e fucilarono sua moglie. L'uomo ebbe salva la vita grazie all'arrivo
improvviso dei soldati belgi. Si affermava inoltre che a Sempst tut­
te le ragazze erano state prese e violentate.

Tuttavia il segretario comunale Paul Van Boekpoort, il


borgomastro Peter Van Asbroek e suo figlio Louis Van
Asbroek dichiararono, in una deposizione giurata rilasciata a
Sempst il 4 aprile 1915, che il nome di David Tordens attri­
buito al carrettiere era loro del tutto ignoto, che nessuna
persona con quel nome aveva dimorato a Sempst, prima
della guerra, e che nessuno nel villaggio conosceva David
Tordens. Dissero, inoltre, che durante la guerra, nessuna
ragazza di età inferiore ai quattordici anni né alcun bambino
era stato ucciso a Sempst e, se un tale fatto fosse accaduto,
ne sarebbero certamente venuti a conoscenza.
Fu pubblicato anche un altro racconto secondo il quale, a
Ternat, dei tedeschi avrebbero incontrato un ragazzetto e gli
avrebbero chiesto indicazioni sulla strada per Thurt (?). Sic­
come questi non li capiva, gli avrebbero tagliato le mani. La
dichiarazione fatta dal borgomastro di Ternat al dottor Poodt,
il 1 5 febbraio 19 1 5, affermava: «Dichiaro che in questo rac­
conto non c'è una sola parola che sia vera. Sono stato a Ternat

si allontana bevendo il latte dal biberon del neonato che aveva sgozzato, tra
gli scoppi di risa dei suoi compagni.

67
dall'inizio della guerra e non è possibile che un fatto simile sia
accaduto senza essermi stato riferito; è pura invenzione».
Il capitano F.W. Wilson, già redattore del Sunday Times,
raccontò come era stata elaborata una di queste storie. La
relazione fu pubblicata sul New York Times (e riprodotta dal
Crusader del 24 febbraio 1 922):

Il capitano Wilson, un corrispondente del Daily Mail di Londra, si


trovava a Bruxelles all'epoca della guerra. «Mi telegrafarono che ser­
vivano racconti di atrocità, però feci presente che, in quel momento,
non c'erano notizie di questo tipo e allora mi telegrafarono che
erano interessati a ricevere corrispondenze sul tema dei rifugiati.
Allora mi sono detto: 'Bene, non avrò bisogno di muovermi'. C'era
una cittadina vicina a Bruxelles, dove uno poteva farsi servire una
buona cena. Appresi che gli Unni erano stati là. Supposi che là ci
fosse stato un bambino e allora scrissi una storia strappalacrime su
un bambino di Korbeek-Loo strappato agli Unni, alla luce della ca­
sa in fiamme.
Il giorno seguente mi telegrafarono di inviare il bambino, perché
avevano ricevuto cinquemila lettere di persone che si offrivano di
adottare l'orfano. Il giorno successivo, la redazione del giornale fu
sommersa da vestiti da bambino. Perfino la regina Alessandra ave­
va inviato un telegramma di simpatia ed alcuni vestiti, ed io, a quel
punto, non potevo telegrafare che il bimbo non esisteva. Così finii
per mettermi d'accordo con il medico che si prendeva cura dei ri­
fugiati, per dire che questo bambino era morto a causa di una
qualche malattia contagiosa e per questo motivo non gli era stato
fatto un funerale pubblico.
Lady Northcliffe si incaricò di organizzare una festa di beneficenza
con tutti questi vestiti da bambino» 8 •

I tedeschi, peraltro, avevano crocifisso un soldato canade­


se. La storia fece il giro di tutta la stampa canadese e mem­
bri del parlamento la citarono, in Gran Bretagna, nei loro
discorsi pubblici. Il signor Tenant, alla Camera dei Comuni,
il 1 9 maggio 1 9 1 5, rispose:

Le autorità militari francesi hanno dato istruzioni permanenti in


modo che siano loro segnalati i dettagli di ogni caso finora consta-

8 Riferito da Arthur Ponsonby, op. cit.

68
tato di atrocità commessa dai tedeschi contro le nostre truppe.
Non si è tuttora ricevuta alcuna informazione del tenore citato nel­
l'interrogazione dell'onorevole membro, tuttavia, a seguito dell'in­
formazione contenuta nella stessa interrogazione, è stata aperta
un'inchiesta che è ancora in corso.

L'autenticità del fatto fu, tuttavia, occasionalmente conte­


stata dal generale March, a Washington. Nel maggio 19 1 9 il
caso risorse a seguito della pubblicazione su La N4tion ( 1 2
aprile) di una lettera di un certo signor E. Loader del Secondo
Reggimento Royal West Kent, il quale dichiarava di aver visto il
canadese crocifisso. In seguito, però, La Nation fu informata
dal capitano E. N. Benet che nessuna persona con il nome con
cui era firmata la lettera fi gurava nei ruoli degli effettivi del
Royal West Kent e che inoltre il Secondo Reggimento era ri­
masto in India durante tutto il corso della guerra...

Se possiamo facilmente immaginare le atrocità attribuite ai


nostri nemici nella prima guerra mondiale, è per contro più
difficile figurarci come anche i nostri avversari rappresentas­
sero i nostri soldati come bestie feroci assetate di sangue.
Anche gli Alleati della prima guerra mondiale erano stati
capaci di colpire un nemico disarmato. Le armate tedesche
della prima guerra mondiale si erano macchiate d'un buon
numero di atrocità, eppure i massacri di civili belgi da parte
dell'esercito tedesco ebbero degli eventi corrispondenti da
parte alleata. Diverse opere - di cui alcune molto attendibili
- furono pubblicate in Germania e in Austria per denunciare
i crimini di guerra degli Alleati 9 • Un volantino di propagan­
da, lanciato nei primi giorni dell'agosto 1 9 1 6 da aviatori te­
deschi sul quartier generale francese 1 0 , denunciava il bom­
bardamento da parte di aerei francesi di civili ben lontani
9
Georges Demartial cita una raccolta di testimonianze pubblicate nel
1 9 1 5 dal Ministero austriaco degli Affari esteri, un'opera del maggiore
Stupnagel, un Libro Nero pubblicato dall'Associazione Richard Wagner per
la Germania del Nord.
10
Il volantino è presente in fac-simile nell'opera di R. Boucard, Les se­
crets du G. Q. G. (Grand Quartier Generai), les Editions de France, Paris 1 936,
p . 1 72.

69
dal fronte, a Karlsruhe, Mullheim, Fribourg, Kandern, Hol­
zen e Mappach.
Il volantino condannava questi «barbari attacchi» che ave­
vano ammazzato donne e bambini, lontani da ogni obiettivo
militare. In effetti le bombe alleate non cadevano unicamen­
te sulle caserme e le stazioni come annunciavano quotidia­
namente i giornali francesi. Il bombardamento alleato di
Karlsruhe del 16 giugno 1916, ad esempio, aveva ucciso sul
colpo 26 donne e 154 bambini che seguivano la processione
della domenica del Corpus Domini.
Miss Cavell e Gabrielle Petit, eroine belghe fucilate dai
tedeschi, ebbero le loro omologhe, come una contadina dei
dintorni di Valmy, condannata a morte dal Consiglio di
guerra francese per aver dato rifugio a dei fuggiaschi tede­
schi ed averli fatti scappare 1 1 •
Soldati francesi assegnati di guardia ai prigionieri tede­
schi testimonieranno di percosse con bastoni e nervi di bue e
di privazioni di vitto inflitte «sotto l'occhio benevolo del co­
mandante del campo a delle truppe di tedeschi miserandi,
pieni di pidocchi e affamati» 1 2 •
Un ufficiale francese di cavalleria, di nome Gouttenoire
de Toury, accusò formalmente il generale francese Martin de
Bouillon, comandante della tredicesima divisione di fanteria,
d'aver dato ordine, alla vigilia degli attacchi del 25 settem­
bre 1915 in Artois, di uccidere i tedeschi fatti prigionieri.
L'ufficiale medico Koechlin rivelò che lo stesso ordine era
stato dato nel medesimo giorno nella zona della Champagne
e che il cinquantaduesimo reggimento coloniale aveva messo
uno zelo particolare nella sua esecuzione, arrivando a ster­
minare completamente un pronto soccorso tedesco con i
suoi feriti, infermiere e medici.
Come tutti gli eserciti del mondo, gli eserciti alleati della
prima guerra mondiale avevano alle spalle un pesante passa­
to. I britannici, in precedenza, s'erano spesso «fatti la mano»
in questo tipo di operazioni. Avevano incendiato Washing-

1 1 Una certa signora Weber segnalata su Le Matin del 1 5 ottobre 19 1 4.


1 2 La Vague, 18 novembre 1 920.

70
ton, senza motivo, nel 1 81 2, avevano commesso numerose
atrocità in Irlanda e in India. Certamente i tedeschi avevano
sterminato gli Erero in Namibia, tuttavia, all'epoca della
guerra nell'Africa del Sud, erano stati i britannici che aveva­
no distrutto sistematicamente le fattorie boere e avevano in­
ventato per loro i primi «campi di concentramento» 1 3 • I russi
s'erano scatenati nel 1 830 e nel 1 863 contro i polacchi e fa­
ranno ancora, durante la prima guerra mondiale, aspramen­
te soffrire i lituani, lettoni e polacchi che si trascinavano die­
tro durante la ritirata. In Prussia orientale, i russi distrugge­
ranno più di trentamila abitazioni in un mese d'invasione (a
titolo di confronto, durante i quattro anni di occupazione
tedesca del Belgio, ne vennero distrutte quindicimila). Gli
americani s'erano distinti nel genocidio degli indiani. I belgi
non erano stati teneri nel Congo. Quanto ai francesi, le guer­
re napoleoniche e la repressione della Comune di Parigi era­
no dei «modelli» d'atrocità difficilmente superabili all'epoca.
Credere, pertanto, che nella prima guerra mondiale s'af­
frontassero banditi da una parte e nobili cavalieri dall'altra è
una tesi di singolare ingenuità.
Le violenze, da una parte e dall'altra, avrebbero potuto
certamente essere più o meno crudeli ed ugualmente più o
meno proporzionate alle circostanze, ai mezzi, alla disciplina
o agli ordini impartiti, ma la propaganda di guerra doveva
far credere che erano causate esclusivamente dal nemico. Il
nostro comportamento avrebbe potuto avere solo delle «sba­
vature», prodotte per errore o inavvertenza.

Il principio venne fedelmente applicato ancora al tempo


delle guerre d'Algeria e del Vietnam o, più recentemente,
nelle guerre contro l'Iraq e la Jugoslavia. Nel caso della
prima guerra del Golfo, i nostri media fecero credere che i
piloti occidentali catturati dagli iracheni avevano il volto tu­
mefatto per le percosse... prima di smentirlo, più tardi, e
confessare che non si trattava dei postumi di maltrattamenti

13
Più di ventimila donne e bambini moriranno in questi campi, ove la
mortalità sarà maggiore del 50%.

71
inflitti dagli iracheni, ma di ecchimosi dovuti alla loro espul­
sione dall'aereo in pieno volo!
Si sa, peraltro, che per convincere l'opinione pubblica
americana della necessità di intervenire nel conflitto tra Iraq
e Kuwait, fu assunta la società di pubbliche relazioni Hill &
Knowlton, perché creasse una campagna di stampa favore­
vole all'intervento.
Il punto forte di questa campagna, alla quale allusero, in
diverse occasioni, il Congresso americano, l'ONU e il presi­
dente americano Bush nei suoi discorsi, era la straziante sto­
ria dei neonati kuwaitiani strappati dalle incubatrici e fatti
morire dai soldati iracheni.
Questa frottola ebbe un peso decisivo nell'improvviso mu­
tamento di parere dell'opinione pubblica americana. Natu­
ralmente, in seguito, si rivelò come un'invenzione pura e
semplice dell'agenzia, finanziata da ambienti kuwaitiani, ma
aveva già svolto con efficacia il suo ruolo.
I racconti di atrocità ebbero egualmente un ruolo decisivo
per far accettare ali'opinione pubblica europea e americana i
bombardamenti sulla Jugoslavia. Certamente, come in tutte le
guerre e soprattutto in quelle civili, le violenze furono nume­
rose in Kosovo, ma la propaganda delle due parti mise l'ac­
cento - molto classicamente - sulle sole atrocità del nemico.
I media occidentali applicarono con grande scrupolosità il
principio della propaganda di guerra di cui tratta questo ca­
pitolo: le democrazie non avrebbero potuto causare danni se
non innocentemente mentre i serbi, invece, commettevano
violenze deliberate.
Le sofferenze delle vittime serbe non avrebbero potuto,
pertanto, essere che delle «sbavature» e l'espressione «danni
collaterali» fu applicata a queste vittime per le quali non
c'era bisogno di pietà.
Da parte occidentale la propaganda si imperniò, ben pri­
ma dei bombardamenti, sul crimine serbo della «epurazione
etnica» del Kosovo, che fu attribuito a un piano premedita­
to 1 1 • Si raccontò che lo stadio di Pristina era stato trasforma-
1 1 Di questo piano, chiamato « Ferro di cavallo», oggi si sospetta forte­
mente che non sia mai esistito.

72
to in un campo di concentramento per centomila persone e
che Milosevic aveva fatto assassinare i leader moderati alba­
nesi del Kosovo 15 che - fortunatamente per loro - riappar­
vero qualche giorno più tardi.
I media occidentali riservarono una posizione di grande
rilievo a «notizie» come il massacro di pseudo-civili di Ra­
cak 1 6, la scoperta di «fosse comuni» 17 (termine sistematica­
mente utilizzato al posto di luogo d'inumazione per le vit­
time del nemico, mentre le nostre finiscono degnamente
nei cimiteri o in altri «luoghi di sepoltura» ...) e a fantasiosi
bilanci che fanno assommare a varie centinaia di migliaia le
vittime albanesi del terrore serbo. Se, dopo la guerra, il
numero delle vittime contate dal gruppo spagnolo di me­
dici legali si è ridotto a meno di 3.000, in Kosovo, delle di­
verse nazionalità, importa poco 1 8 • Le menzogne mediatiche
avevano svolto efficacemente il loro ruolo e preparato l'opi­
nione pubblica occidentale ad accettare l'idea dei bombar­
damenti.
Quanto all'esodo dei rifugiati albanesi del Kosovo, in par­
te provocato dal terrore serbo che s'era esacerbato a seguito

15
Le Soir, dal 28 marzo al 2 aprile 1 999. Il giornale belga annuncia che
l'abitazione di Ibrahim Rugova era stata incendiata e che egli s'era nasco­
sto. Il suo più importante consigliere, Fehmi Agani, e cinque altre persona­
lità albanesi erano stati assassinati dai serbi. La notizia fu smentita qualche
giorno più tardi .
16
Il rapporto dei medici legali concluse che tutti i cadaveri erano stati
colpiti da proiettili sparati a distanza e che le pretese «mutilazioni» erano
in realtà dei morsi che cani randagi avevano inflitto ai cadaveri prima
della loro inumazione. La relazione finale degli esperti finlandesi conte­
sta inoltre che si tratti di un massacro di civili, sfigurati volontariamente
dopo la morte. Le Vif - L 'Express, tuttavia, nel suo numero ricapitolativo
sulla guerra di Jugoslavia (Vincent Hugeux, 1 9-25 gennaio 200 1 ) finge
d'ignorare queste conclusioni e parla di una granata serba sul mercato di
Markale a Sarajevo .
17
Quattromila vittime, ripartite in più di ottocento fosse comuni, scrisse
Le Soir del 22 novembre 2000, il che fa meno di cinque morti per «fossa
comune»!
18
Si vedano le dichiarazioni rilasciate da Paul Risley, portavoce del Tri­
bunale Penale Internazionale dell'Aia, nell'agosto 2000, secondo cui la cifra
definitiva è tra i duemila e tremila morti (The Guardian, 1 8 agosto 200; Le
Monde, 1 9 agosto 2000).

73
dei bombardamenti NAT0 1 9 e in parte provocato dai bom­
bardamenti stessi, fu sfruttato al massimo dai media occi­
dentali.
Come già i rifugiati belgi, quelli albanesi sono serviti ma­
gnificamente alla politica. Per settimane, non un telegior­
nale si aprì senza queste immagini strazianti, senza queste
testimonianze commoventi: storie di bambini abbandonati,
di donne violentate, di famiglie massacrate, testimonianze
d'adolescenti...
Un ufficiale francese assicura che la testimonianza di un
piccolo rifugiato albanese, di dieci anni, con una palla in
mano, aveva ottenuto un risultato migliore dell'opera di 50
divisioni 20 •
Come ai buoni vecchi tempi della prima guerra mondiale,
se i racconti non sono abbastanza commoventi, li si inventa.
La propaganda esige, prima di tutto, delle «buone storie».
La giornalista Nancy Durham della CBC (Canadian Broadca­
sting Corporation) ha spiegato, a questo proposito, come sia
stata ingannata e abbia diffuso su decine di catene televisive
il racconto di un'albanese del Kosovo, Rajmonda, che assicu­
rava di aver visto, con i suoi occhi, l'assassinio della sorellina.
Dopo una ricerca seria si appurò che i componenti della fa­
miglia della testimone erano in perfetta salute, che Rajmon­
da era una militante dell'UCK e che la sua storia era comple­
tamente inventata. Nancy Durham, colpita dalla scoperta,
voleva che gli spettatori venissero informati che il racconto
che era stato messo in onda era falso, ma le società televisive

1 n Su questo tema si vedano i rapporti dell'OCSE. Diana Johnstone, ad­


detto stampa dei Verdi al Parlamento europeo dal 1990 al 1 996, ha realiz­
zato uno studio approfondito di questi rapporti che ha pubblicato in Bal­
kan-Infos, n. 42, marzo 2000. È utile anche la testimonianza dell'unico gior­
nalista occidentale presente in Kosovo, Paul Watson, corrispondente cana­
dese del Los Ange/,es Times (/nternational Herald Tribune del 23 giugno 1 999,
ripreso da Le Monde del 26 giugno 1 999). Questi concluse che la guerra ae­
rea della NATO inasprì la guerra civile e generò delle rappresaglie contro
l'obiettivo più vicino e meno protetto: i kosovari di origine albanese che la NATO era
venuta a salvare.
20 Nouvel Observateur, 1 ° giugno 1 999, citato da Serge Halimi, op. cit.,
pp. 20-2 1.

74
che l'avevano diffuso sconsigliarono formalmente questo
chiarimento! 2 1
Parlando dello sfruttamento politico della questione dei
rifugiati belgi durante la prima guerra mondiale, Georges
Demartial disse:

La Francia e l'Inghilterra hanno sfruttato l'infortunio del Belgio


come quelle donne che sfruttano la pubblica carità tenendo in
braccio un bambino che piange. Hanno continuato a far piangere
il bambino per aumentare l'introito ...

Da parte jugoslava, di contro, si è parlato soprattutto delle


vittime civili dei bombardamenti, stimate tra 1.200 e 5.000,
secondo le fonti, e della pulizia etnica del Kosovo, imposta
dai miliziani albanesi dell'UCK, e trionfante a partire dall'e­
state 1 999.
Secondo l'inchiesta di Human Rights Watch, organizzazione
peraltro molto schierata a favore degli americani, più della
metà dei morti civili nei bombardamenti NATO erano stati
vittime di attacchi che avevano avuto per obiettivo luoghi civili
senza alcuna funzione militare 22 • La NATO assicurava, tutta­
via, che le centrali elettriche, i ponti, le fabbriche, gli edifici
della televisione avevano una funzione militare. Pertanto, se
qualcuno veniva colpito, era perché Belgrado li usava come
«scudi umani». I media occidentali, quindi, rifiutarono di dare
importanza a questi «danni collaterali» della quale io stessa ho
potuto misurare l'ampiezza all'epoca di un viaggio in Jugosla­
via nel maggio 1999, durante i bombardamenti 2 \
Per coprire certi tragici errori, come il bombardamento di
un convoglio ferroviario nel momento in cui attraversava un
ponte, la NATO non esitò a truccare la pellicola che aveva

2 1 Il racconto di Nancy Durham è apparso nel numero di ottobre 1 999


del mensile Brill's Conteni.
22 Serge Halimi, Dominique Vidal, L'opinion ça se lravaille. Les médias,
l'OTAN et la guerre du Kosovo, Agone Editeur, Marsella, 2000, p. 72.
23
Mi ricordo in particolare, tra i tanti casi, quello di un'infermiera che
aveva subito un'amputazione a seguito del bombardamento del suo ospe­
dale a Nis e di un bambino serbo che con i suoi occhi aveva visto morire uc­
cisi da un missile NATO suo zio, suo nonno e il suo cane .

75
registrato l'operazione, accelerando le immagini, per far
credere, ingannevolmente, che s'era trattato di un errore24 •
La distruzione dei trattori di un convoglio di rifugiati, che
un cavaliere del cielo americano aveva scambiato per carri
armati, non meritò né spiegazioni né scuse.
Quanto alla «pulizia etnica» - ribattezzata ridislocazione
della popolazione - dei serbi, zingari, bosniaci ed altri non
albanesi del Kosovo dopo l'arrivo della NATO in Kosovo, è
stata valutata da Jiri Dienstbier5 a più di 250.000 espulsi e
causa di innumerevoli atrocità. Non ebbe, tuttavia, sui media
occidentali la stessa attenzione umanitaria che aveva rice­
vuto la precedente epurazione. Fu, di contro, largamente
presente sui media jugoslavi, come lo erano state anche le
vittime dei bombardamenti occidentali - ribattezzati «colpi»
nei nostri media, per usare un termine più moderno e aset­
tico che «bombardamenti», parola impopolare, sanguinosa,
che può evocare quello di cui i nostri parenti furono vittime
durante la seconda guerra mondiale.
Le parole hanno un peso: per l'azione dei nostri si parla
di «liberazione» del territorio, di «dislocazione di popolazio­
ni», di cimiteri, d'informazione. Se si tratta dell'altro campo,
si devono sistematicamente sostituire questi termini con «oc­
cupazione», «pulizia etnica» o «genocidio», «fosse comuni» e
propaganda.
Quando, nel maggio del 1999, l'ospedale di Bel grado fu
colpito da bombe della NATO, il giornale Notizie della Sera di
Belgrado 26 titolò in prima pagina, sopra alle commoventi fo­
to di partorienti ferite che stringevano i neonati tra le brac­
cia: «Bombe sulle culle».

'.!1 Le immagini sulle quali si basava il generale Wesley Clark, comandante


supremo delle forze NATO in Europa, per spiegare questa «sbavatura» alla
stampa nell'aprile 1 999, furono fatte scorrere a velocità tripla rispetto al
normale (Le Monde, 8 gennaio 2000). L'incidente fece quattordici morti .
'.!5 Jiri Dienstbier, informatore delle Nazioni Unite per i diritti umani in
Kosovo, è stato ministro ceco degli Affari esteri nel governo di Vaclav Ha­
vel . Il suo rapporto conclude che l'occupazione del Kosovo da parte della
NATO non ha risolto i problemi dei diritti umani che già esistevano, ma li
ha e_iuttosto moltiplicati.
_() Numero del 2 1 maggio 1 999.

76
Bel grado, sui crimini della NATO in Jugoslavia, ha pub­
blicato un Libro bianco in due volumi in cui sono raccolti
rapporti di autorità giudiziarie e numerose ed atroci foto­
grafie, ad esempio quelle del bombardamento di una colon­
na di rifugiati il 1 4 aprile 1999 a Djakoviza 27 •
Un'altra opera, pubblicata a Belgrado nel 2000 dal Center
far peace and tolerance, ha egualmente presentato numerose
foto di serbi costretti all'esilio, d'incendi criminali delle loro
case e chiese, dopo la vittoria dell'UCK che era stata appog­
giata dai bombardamenti NATO28 •
Il procuratore generale della Serbia ha accusato, nell'ago­
sto del 2000, per quelli che ha ritenuto atroci crimini di
guerra, quattordici presidenti e ministri delle potenze occi­
dentali, tra cui Bill Clinton, Madeleine Albright, Tony Blair,
Jacques Chirac, Gerard Schroder, Joschka Fisher e l'allora
segretario della NATO, Javier Solana 29 •
I media occidentali, logicamente, non diedero alcun rilie­
vo a quelle atrocità, politicamente imbarazzanti. Le uniche
atrocità «interessanti» per la propaganda sono quelle che
possono essere sfruttate politicamente.
Resta, tuttavia, il fatto che l'essenza stessa della guerra è la
violenza, per entrambi i contendenti. È utopistico volerla
umana e moderata. Non può essere resa umanitaria. Con­
trariamente a quel che pretende la propaganda di guerra,
non si tratta di condurla cavallerescamente o meno.
Voltaire nei suoi Racconti filosofici aveva già detto:

Non ci sono leggi per la guerra. L'unico male che non fa è quello
davanti al quale la paura o l'interesse la fermano.

Il sesto principio della propaganda di guerra, tuttavia, pre­


tende che sia il nemico - e solo lui - a non rispettare queste
«leggi di guerra» ed usi strategie ed armi «non autorizzate».

27 NA TO crimes in Yugoslavia. Documentary Evidence, vol. I, May 1 999 (sugli


avvenimenti dal 24 marzo al 24 aprile), vol. II, July 1 999 (sugli avvenimenti
dal 25 aprile al 1 0 giugno).
28 Days of Terror in Presence of the /nternational Forces.
29
Le Soir, 30 agosto 2000.

77
Capitolo sesto
Il nemico usa armi illegali

Questo principio è un corollario del precedente.


Noi, non solamente non commettiamo atrocità, ma fac­
ciamo la guerra in modo cavalleresco - come si trattasse
d'un gioco, certamente duro, ma virile - rispettando le re­
gole.
Non è questo certamente il caso dei nostri nemici che ri­
fiutano di accettarle ...
In realtà, l'esito dei conflitti può dipendere dall'eccellente
strategia dei generali o dalla motivazione e dal coraggio di
coloro che vi partecipano, ma anche - o soprattutto? - dalla
superiorità manifesta dell'armamento di uno dei due con­
tendenti.
I Galli, i popoli delle civiltà precolombiane o i Repubbli­
cani spagnoli potevano avere eccellenti comandanti ed esse­
re pronti ad ogni sacrificio, ma sono stati vinti dalle catapul­
te, dai cavalli e dagli aerei, mezzi contro i quali le loro tecni­
che di combattimento si dimostrarono inefficaci.
È, pertanto, frequente che la vittoria dipenda da questa
superiorità tecnologica.
Per chi si batte strenuamente, ma non vede profilarsi la
vittoria per la sua parte perché sfavorito non possedendo il
vantaggio delle nuove armi, è forte la tentazione di afferma­
re che l'uso di questi nuovi mezzi non è leale. Allo stesso
modo l'attacco di sorpresa, legittimo e sinonimo dell'eccel­
lenza della nostra strategia, quando siamo noi a metterlo in
atto, diventa una condotta vile se è il nemico a ricorrervi.

79
Così, sui banchi di scuola, i bambini belgi hanno appreso
che il 15 giugno 1940 l'Italia, attaccando la Francia dopo
che la Germania l'aveva già sostanzialmente sbaragliata, le
aveva inferto «una pugnalata alla schiena», confermando la
sua proverbiale tradizione di vigliaccheria. L'operazione
Barbarossa di Hitler contro l'Unione Sovietica, l'attacco dei
giapponesi a Pearl Harbour, la guerra dello Yom Kippur
contro Israele, l'offensiva turca a Cipro o l'invasione del Ku­
wait da parte di Saddam Hussein ci sono stati presentati co­
me altrettanti atti di tradimento, avendo sorpreso la nostra
buona fede. Anche quando ci si sia convinti d'aver fatto nu­
merose vittime civili tra i nemici, è ancora possibile attribui­
re la colpa dei fatti al nemico, sostenendo che sta praticando
la strategia degli «scudi umani», che consiste nel proteggere
i militari schierandoli dietro ai civili. È stata probabilmente
la tattica utilizzata dagli Stati Uniti, nel 1 983, quando cerca­
rono di proteggere un loro aereo-spia dietro un Boeing ci­
vile coreano, abbattuto dai sovietici. Questa tattica, tuttavia,
non è mai così odiosa come quando viene messa in pratica
dal nostro nemico...
Inoltre, non è solamente per la sua strategia, ma soprat­
tutto per le armi che usa che il nostro nemico mostra più
chiaramente la sua vigliaccheria. Dal bastone alla bomba
atomica, passando per il cannone e il fucile automatico, tutte
le armi sono state successivamente considerate dai perdenti
come indegne di una guerra veramente cavalleresca, dato
che il loro uso condannava automaticamente alla disfatta la
parte che non ne era dotata.

Durante la prima guerra mondiale, ci fu un'aspra polemi­


ca sull'uso dei gas asfissianti.
Ciascuna parte accusava l'altra d'aver iniziato a impie­
garli. Sembra provato che siano stati i tedeschi, per primi,
a padroneggiarne la fabbricazione e l'utilizzo. Gli Alleati,
tuttavia, manifestarono un'indignazione un po' ipocrita per
il loro uso, dato che loro stessi stavano conducendo ricer­
che in quella direzione. L'uso del gas asfissiante era davve­
ro particolarmente «barbaro» e inumano ? Il destino delle

80
v1tt1me delle altre armi non era, senza dubbio, molto più
invidiabile di quello dei soldati gasati, tuttavia i gas reste­
ranno, fino alla seconda guerra mondiale, il simbolo di una
guerra «disumana» .
I tedeschi, inoltre, erano divenuti maestri - al contrario
degli Alleati - nell'uso militare dei sottomarini, anche que­
sti considerati come il prototipo di un'arma «disonesta». Il
siluramento del Lusitania, in particolare, fu sfruttato e pre­
sentato dalla propaganda alleata come un barbaro atto di
pirateria.
Il 7 maggio 1915 un siluro lanciato da un sottomarino te­
desco aveva fatto colare a picco il piroscafo americano, cau­
sando la morte di 1 .200 passeggeri civili. Come ho già ac­
cennato, il Lusitania era in realtà un arsenale ambulante, le
sue stive traboccavano di munizioni e i suoi ignari passeggeri
erano serviti, senza saperlo, da alibi a questo trasporto, di
cui, per contro, la Germania era bene informata. Erano stati
usati, per impiegare un termine alla moda oggi, come «scudi
umani» per un trasporto di armi.
Questa tragedia, come i gas asfissianti, continuò a far
scorrere parecchio inchiostro, anche dopo la guerra e, nel
1 922, fu firmato a Washington un trattato che regolamenta­
va l'impiego di queste due armi nel cui uso l'esercito tedesco
si era distinto 1 •
Il trattato, firmato da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna,
Italia, Giappone e naturalmente Germania, «fissava le regole
adottate dalle nazioni civili [sic] per la protezione delle per­
sone neutrali e dei non-combattenti», e precisava che un sot­
tomarino non può distruggere un naviglio commerciale se
non dopo essersi assicurato che equipaggio e passeggeri sia­
no stati messi in salvo.
Nel 1 939, i governi della Francia e del Regno Unito fece­
ro pubblicare una dichiarazione comune sul · tema della
guerra umana condotta con armi classiche. In questa affer-

1
Trattato del 6 febbraio 1 922 relativo all'impiego di sottomarini e gas
asfissianti in tempo di guerra, il cui testo è riprodotto in Louis Le Fur e
Georges Chklaver, Recueil de textes. . . , cit., p. 7 1 1 e seguenti.

81
mavano in particolare la loro intenzione di sottostare al pro­
tocollo di Ginevra del 1 925 che vietava, in caso di guerra,
l'uso di gas asfissianti o tossici e di mezzi batteriologici. Assi­
curavano inoltre che non avrebbero utilizzato i loro sottoma­
rini se non in conformità al protocollo del 1 936 accettato da
pressoché tutte le nazioni civili 2 •

Fu lo stesso Hitler che, all'inizio della seconda guerra


mondiale, pretese di voler eliminare l'uso di armi e di me­
todi «disumani». Nel suo discorso al Reichstag del primo set­
tembre 1 939, assicurava che gli Alleati avevano respinto le
proposte, in questa direzione, ch'egli aveva avanzato:

Si è respinta la nostra proposta di limitazione dell'armamento, di


esclusione di certe armi e certi metodi di guerra che io considero
incompatibili con il diritto delle genti. [ . ..] Se cominceranno [corsivo
dell'autrice] la guerra dei gas, risponderemo coi gas. Chiunque
non si attenga ad una condotta umana in guerra non può attende­
re che un uguale comportamento da parte nostra.

Com'è noto, i segreti in materia d'armamento non hanno


vita lunga e le «nuove» armi non restano tali a lungo. Così i
gas, che erano il terrore delle popolazioni civili nel periodo
tra le due guerre, non furono utilizzati 3 sul fronte occiden­
tale, ma, assai probabilmente, il motivo va individuato nel
fatto che erano instabili e poco maneggevoli.
Il tema dei sottomarini come arma fuori legge fu presente
in diversi interventi del presidente Roosevelt. Il 20 giugno
1 94 1 (gli Stati Uniti non sono ancora ufficialmente entrati in
guerra), in un messaggio al Congresso, denunciava il silu­
ramento di un piroscafo americano, il Robin Moore, da parte
di un sottomarino tedesco. La nazionalità americana dell'im­
barcazione era ben visibile e conosciuta dal comandante del
sottomarino tedesco e, pertanto, il presidente americano

2 Vedi Livrejaune, cit., pp. 414-415.


:i Ma sull'isola di Okunoshima i giapponesi produssero, prima e durante
la seconda guerra mondiale, migliaia di tonnellate di gas tossici che furono
utilizzati contro i cinesi.

82
considerava il siluramento come un atto di pirateria, come
una violazione del diritto di guerra. Contrariamente ai det­
tami della convenzione internazionale (ma la Germania non
ne era stata firmataria), nulla era stato fatto per mettere in
salvo passeggeri ed equipaggio di questa nave mercantile e
quindi Franklin D. Roosevelt equiparava il siluramento ad
un atto di terrorismo 1 •
Di fatto, durante la seconda guerra mondiale si utilizze­
ranno armi denunciate come «illegali» e metodi di guerra
dichiarati «illegittimi», come i bombardamenti delle popola­
zioni civili, inaugurati all'epoca della prima guerra mondiale
e della guerra civile spagnola, l'uso dei proiettili «dum-dum»,
delle V l e V2 e, naturalmente, la sperimentazione del lancio
sulla popolazione civile delle prime bombe atomiche.
È noto che i laboratori tedeschi e quelli americani erano
impegnati in una gara di velocità per ottenere l'arma nuova
e assoluta che potesse decidere, in modo definitivo, l'esito
della guerra.
La vittoria alleata ebbe come effetto, per molto tempo,
che i paesi che non la possedevano chiedevano di farla in­
terdire. I paesi possessori dell'arma nucleare, per contro, ri­
spondevano sia con la volontà di mantenerla riservata al loro
«gruppo» sia con la moltiplicazione dei trattati di non proli­
ferazione.

Dopo la seconda guerra mondiale altre armi compaiono


che certamente si possono classificare come vietate. Durante
la guerra di Corea, i comunisti accuseranno gli americani di
utilizzare armi batteriologiche.
Questa accusa torna a riproporsi nel 2000 sulla rivista Vif­
L'Express (22-10-2000), che assicura che i russi ne fanno uso
contro i ceceni, e su Paris-Match (20 luglio), che accusa di fa­
re ricerche in proprio in questo settore: «17 paesi, dalla Ci­
na alla Libia passando per la Corea del Nord e l'Iran», il che
equivale a dire, guarda caso, una serie di paesi che, per mo­
tivi assai diversi, si oppongono all'ordine americano.

1
America Chooses!, cil., pp. 1 29- 1 32 .

83
Il deputato dell'RPR Pierre Lellouche, autore dell'artico­
lo, incaricato dalla Commissione difesa dell'Assemblea na­
zionale francese, va in Russia, assieme al deputato del PS
Guy-Michel Chauveau, per condurre un'inchiesta sulla guer­
ra batteriologica e chimica. Confessa _a Paris-Match d'essere
ritornato a mani vuote. Non ha visto nulla, ciò nondimeno
assicura che al terrorismo «classico»

seguirà forse il bio-terrorismo del 2000, i cui autori, agendo in nome


di credenze religiose a tendenza apocalittica 5 od obbedendo a fan­
tasmi paranoici, non esiteranno a far scoppiare la più spaventosa
delle apocalissi. Obiettivamente la Russia, principale luogo di pro­
duzione di armi biologiche del pianeta, è, finora, loro complice.

In questo stesso articolo il deputato RPR suggerisce che i


laboratori di Saddam Hussein hanno causato, durante l'esta­
te 1999, la febbre del Nilo che ha ucciso 4 persone e ne ha
infettate altre 33 a New York... L'accusa di utilizzare «armi
chimiche» è stata lanciata anche contro la Jugoslavia.
Nel giugno 1999 gli jugoslavi accusarono la NATO d'aver
fatto uso, durante la guerra contro di loro, di bombe all'u­
ranio impoverito, i cui danni umani ed ecologici non sono
chiari. Accusarono inoltre la NATO d'aver provocato la mor­
te di 140 civili utilizzando bombe a frammentazione, sulle
quali il Comitato internazionale della Croce Rossa aveva
chiesto di imporre una moratoria.
Nel 1999, durante la guerra, queste notizie, nonostante i
tentativi di farle passare sotto silenzio operati da numerosi
media occidentali, ebbero una qualche diffusione, anche se
furono seguite, qualche settimana più tardi, dall'accusa agli
jugoslavi di usare armi poco «oneste» e di aver messo all' o­
pera in Kosovo armi biologiche.
Human Rights Watch confermerà più tardi che la NATO ha
effettivamente utilizzato bombe a frammentazione6 • La NATO

5
L'ipotesi è attualmente più verosimile per la Cina e la Corea del
Nord...
lì L'organizzazione Human Rights Watch, al termine di un'inchiesta con­
dotta sul posto, valutò, all'inizio del 2000, ad un minimo di cinquecento le

84
stessa ammetterà, nel marzo 2000, d'aver utilizzato 3 1 .000
granate all'uranio impoverito all'epoca della guerra contro
la Jugoslavia, ma che quest'arma, che si suppone provochi
malformazioni nei feti, mortalità e problemi di sterilità, non
era vietata, al momento del suo utilizzo, da alcuna conven­
zione internazionale 7 •
Mi torna alla mente, comunque, che durante il mio sog­
giorno jugoslavo nel maggio 1 999, alcuni giovani serbi mo­
stravano i pugni agli aerei NATO che venivano a bombar­
darli. «Se sei un uomo, vieni qui da solo a batterti con me»,
gridava uno di questi giovani in direzione di un pilota. Rite­
neva, infatti, poco «virile» o «cavalleresco» battersi in tale di­
suguaglianza di mezzi. I «cavalieri del cielo», ai comandi dei
loro bombardieri quasi invulnerabili, gli apparivano come
dei codardi.
E, in effetti, come si fa a vedere in questi bombardamen­
ti un «bel» combattimento, una singolar tenzone, un duello
d'onore, quando le probabilità per uno dei contendenti di
colpire l'altro sono una a diecimila?
Si potrebbero anche ripensare alla luce di questa distin­
zione, sottile e spesso ipocrita, tra armi «autorizzate» e no, le
campagne contro le mine anti-uomo. Il 2 1 luglio 2000, gior­
no di festa nazionale in Belgio, la famiglia reale belga, che
appoggiava la campagna di Handicap International contro
le mine anti-uomo, si mostrò, durante la sfilata militare, con
dei nastrini blu appesi chi alla sciabola, chi ad un mazzetto
di fiori, chi alla giacca del tailleur. In appoggio a questa ini­
ziativa, anche il ministro della Difesa e i paracadutisti porta­
vano il nastrino azzurro.
È ancora necessario ricordare, a tal proposito, che i paesi
che fanno campagne contro l'uso delle mine anti-uomo e

vittime civili dei bombardamenti alleati sulla Jugoslavia e chiamò in causa


l'uso delle bombe a frammentazione, concludendo che l'Alleanza Atlantica
aveva contravvenuto al diritto internazionale sull'uso delle armi, cosa che
aveva accresciuto inutilmente la sofferenza della popolazione O acques
lsnard su Le Monde del 10 febbraio 2000).
7 Lettera indirizzata all'ONU da George Robertson, segretario generale
dell'Alleanza Atlantica, ripresa da Le Monde del 24 marzo 2000.

85
s'indignano sono quelli, come il Belgio, che hanno possibili­
tà d'usarle assai scarse?
I grandi produttori, per contro, non sono impegnati per
nulla in queste campagne. Le mine anti-uomo sono state re­
golarmente utilizzate nei recenti conflitti.
Sia gli Stati Uniti - che chiedono di usare liberamente le
mine anti-uomo, in particolare contro la guerriglia - sia la
Finlandia - che ne è un potenziale utilizzatore contro un'e­
ventuale invasione russa - rifiutano di impegnarsi a non
usarle. Come, peraltro, la Russia, l'India e la Cina.
Ancora una volta, l'arma dei «codardi» è quella che non
abbiamo o che non abbiamo bisogno di usare...

86
Capitolo settimo
Le perdite del nemico sono imponenti,
le nostre assai ridotte

Escluse rare eccezioni, gli esseri umani preferiscono in


genere parteggiare per cause vittoriose.
In caso di guerra, pertanto, l'adesione della pubblica opi­
nione dipende anche dai prevedibili risultati del conflitto.
Se questi risultati non sono buoni, la propaganda dovrà
ridurre le nostre perdite ed aumentare quelle del nemico.
Già la guerra del 19 1 4-1918 fu una guerra di comunicati
o, a volte, d'assenza di comunicati. Così, già un mese dopo
l'inizio delle operazioni, le perdite francesi assommavano a
circa 3 1 3.000 morti, ma lo Stato Maggiore francese non
ammise mai neppure la morte di un cavallo e non pubblicò
mai, al contrario degli inglesi e dei tedeschi, una lista nomi­
nativa dei morti. Indubbiamente, s'intendeva non indebolire
il morale delle truppe e del paese, dato che l'annuncio di
questa ecatombe avrebbe potuto indurre a chiedere una pa­
ce onorevole piuttosto che il proseguimento della guerra.
La stampa francese sfruttava le perdite tedesche, ma non
parlava mai de Ile proprie.
Il 22 aprile 19 1 7 (dopo un'operazione offensiva per sfon­
dare le linee tedesche, nella quale le perdite francesi erano
arrivate in poche ore a più di 100.000, tra morti e feriti),
allorché il deputato francese Raffin-Dugens volle chiedere al
governo l'entità delle perdite francesi, la Camera gli tolse la
parola ancor prima che avesse concluso la frase '.

1 Citato da Georges Demartial, op. cit., p. 300.

87
Anche l'esito delle battaglie sembra favorevole all'uno o
all'altro dei contendenti, secondo che si consultino fonti fran­
cesi o tedesche. In questo modo, Verdun viene presentata
come una grande vittoria da entrambi gli antagonisti. I tede­
schi considerano che fu un grande successo per il gran nume­
ro di soldati francesi fatti prigionieri e per le grandi quantità
di materiale bellico francese di cui s'erano impadroniti. Il
Kronprinz decorò i vincitori tedeschi di Verdun. Anche i fran­
cesi, tuttavia, rivendicano Verdun come una loro vittoria e il
Petit Larousse, tra le due guerre, diceva di questa battaglia:

Nel 1 9 1 6, per dieci mesi, i francesi respinsero tutti gli attacchi dei
tedeschi, decimandoli, e la loro resistenza nel corso della battaglia
difensiva e offensiva di Verdun meraviglierà l'universo [sic] .

Quanto alle sconfitte francesi, furono puramente e sem­


plicemente passate sotto silenzio. Così per la prima guerra
mondiale, non si parla mai della battaglia di Charleroi, della
presa di Maubège, della grande offensiva del 1917 e ancor
meno della battaglia di Tannenberg dell'agosto 1914. Se­
condo gli esperti, questa vittoria tedesca sui russi fu una
delle battaglie più straordinarie di tutti i tempi. Il successo
tedesco fu così completo che ricacciò i russi fuori dalla Ger­
mania per tutto il tempo della guerra. Nonostante ciò la
stampa francese ignorò l'esito della battaglia e finse di aspet­
tare, fino alla fine, l'arrivo dei cosacchi a Berlino! 2
Se l'ottimismo è di rigore per quanto concerne le perdite
umane, deve esserlo anche sul piano finanziario: la guerra
deve apparire come se non costasse né sangue né denaro.
Così non verrà mai sottolineata la voragine finanziaria che è
sempre indissolubilmente connessa ad un conflitto armato,
ma piuttosto i vantaggi economici che il conflitto prepara
per il paese: dopo la guerra le performance economiche
esploderanno, il paese ritroverà il dinamismo e la prosperità,
l'avversario dovrà pagare...
In conclusione, le spese militari, le paghe dei soldati, gli
2
Testo di Maurice Barrès in data 8 settembre 19 1 4, citato da Georges
Demartial, op. cit., p. 139.

88
interessi sui prestiti, la ricostruzione, le pensioni degli inva­
lidi, vedove e orfani... lungi dallo svuotare i portafogli dei
belligeranti, li riempiranno.

Questi principi furono, naturalmente, applicati anche nei


conflitti seguenti. La seconda guerra mondiale vide i nazisti
negare a lungo r enormità delle perdite e il loro arretramen­
to sul fronte orientale. All'epoca della guerra del Vietnam,
gli Stati Uniti mantenevano segrete il più a lungo possibile
le loro perdite.
Nel tempo della TV satellitare sembra difficile far passare
totalmente sotto silenzio una grande sconfitta, pur tuttavia si
può notevolmente minimizzarne l'importanza, se si dispone
di media quasi unanimi nel diffondere la versione ufficiale.
Più recentemente, all'atto della guerra contro la Jugoslavia,
per giustificare l'utilità dei bombardamenti del 1999, la
NATO annunciava regolarmente la distruzione di carri ar­
mati dell'esercito jugoslavo. Il totale dei carri distrutti, alla
fine delle ostilità, sarebbe dovuto essere 120.
Un rapporto del Pentagono, richiesto dallo stesso gene­
rale Clark nel giugno 1999 all'aviazione americana, valutava
a 14 e non 1 20 il numero dei tank effettivamente distrutti,
ossia meno del 6% delle armi pesanti jugoslave 3 • La Royal
Air Force, d'altra parte, confessò nel settembre 2000 che
solo il 40% delle bombe sganciate sulla Jugoslavia avevano
raggiunto i loro obiettivi. Nessuno dei missili antiradar
Alarm lanciati aveva dato un risultato soddisfacente e la RAF
giustificava, a posteriori, l'insuccesso con la mobilità e la di­
spersione degli obiettivi e l'efficacia dell'antiaerea, che non
permetteva agli aerei di scendere sufficientemente4 •
3 Rapporto pubblicato su Newsweek del 7 maggio 2000. Vedere anche
Newsweek del 15 maggio 2000 e Le Monde del 12 maggio 2000. Una secon­
da relazione, redatta dal generale Corley, aveva confermato le prime stime,
ma l'aggiunto di Clark, il britannico Rupert Smith e il suo capo di stato
maggiore Dieter Stockmann consigliarono al loro capo di non dare alcun
credito a questo rapporto di convenienza.
4
I dettagli sono stati pubblicati in un articolo apparso sulla rivista spe­
cializzata Flight International, di cui Le Monde del 17 e 18 settembre 2000 ha
ripreso la sostanza.

89
Per contro, la stampa jugoslava pubblicava regolarmente
durante la guerra la foto di tre soldati americani catturati
nei primi giorni del conflitto, lasciando intendere ai lettori
di averne catturati molti altri. Il comando generale jugoslavo
assicurò, alla fine del conflitto, che il bilancio totale delle
perdite della NATO ammontava a decine di aerei, elicotteri
e droni" e a centinaia di missili Cruise 6 •
Nei rispettivi campi queste informazioni risollevavano il
morale dei belligeranti e persuadevano l'opinione pubblica
dell'utilità del conflitto.
Perché la propaganda arrivi efficacemente alla pubblica
opinione, è conveniente circondarsi di «professionisti» che
sappiano farlo. È questo l'ottavo principio della propaganda
di guerra.

5 Aerei senza pilota comandati da terra (n.d.t.)


ti Le cifre furono rese note dal generale Dragoljub Ojdanic, capo di stato
maggiore dell'esercito della Repubblica federale di Jugoslavia il 15 giugno
1 999 e pubblicato da Balkan-Infos n. 4 1 , febbraio 2000, p. 4.

90
Capitolo ottavo
Gli artisti e gli intellettuali
sostengono la nostra causa

La propaganda, come tutte le forme di pubblicità, si basa


sull'emozione. È questa la leva utilizzata in permanenza per
mobilitare l'opinione pubblica e si può dire che propaganda
ed emozione sono, da sempre, inseparabili.
Per creare emozioni, però, non si può fare affidamento
sui funzionari. Bisogna rivolgersi a professionisti della pub­
blicità - quello che ha fatto la lobby kuwaitiana ricorrendo
all'agenzia Hill & Knowtown, che ha confezionato, per loro,
la toccante storia dei neonati strappati alle incubatrici dai
soldati iracheni -, ad artisti e intellettuali, abili profes­
sionalmente a manipolare suggestioni e sentimenti.
Durante la prima guerra mondiale, le agenzie di pubbli­
che relazioni erano ancora in embrione, ed era la seconda
soluzione quella cui si ricorse. Artisti e intellettuali dei due
campi furono largamente impiegati a contribuire allo sfor­
zo di mobilitazione delle coscienze. Il talento di poeti e
scrittori era necessario a diffondere, in modo emozionante
ed efficace, le frottole di guerra. Pierre Loti, ufficiale di ma­
rina, scrittore conosciuto e membro dell'Accademia france­
se, partecipò allo sforzo bellico descrivendo in maniera, a
dir poco, oltraggiosa i prigionieri tedeschi che avevano, se­
condo lui, «l'aria villana, una bruttezza pesante, stupida e ir­
recuperabile» '.

1
Vedi i suoi articoli su L'Illustration, in particolare quelli del 24 dicembre
1 9 1 5 e del 3 novembre 1 9 1 7, citati da G. Demartial, op. cit., pp. 16 1 - 162.

91
Le «perle» 2 di maggiore effetto della propaganda furono
redatte da uomini di lettere, talora celebri, talora anonimi,
come l'autore della «Preghiera di una bambina dalle mani
mozzate», che apparve sulla Semaine religieuse di l'Ille-et­
Vilaine nel febbraio del 1915. Una bimbetta di sei anni, in­
ginocchiata in preghiera in un ospedale del Nord, con le
braccine awolte nelle bende, dice a bassa voce:

Signore, non ho più le mani. Un crudele soldato tedesco me le ha


prese, dicendo che i bambini belgi e francesi non hanno diritto ad
avere le mani, che questo diritto lo hanno solo i bambini dei tede­
schi. E me le ha tagliate. E mi ha fatto molto male. Ma il soldato
rideva e diceva che i bambini che non sono tedeschi non sanno
soffrire. Da quel giorno, Signore, la mamma è diventata pazza ed
io sono sola. Il babbo è stato portato via dai soldati tedeschi, il
primo giorno. Non ha mai scritto. Lo avranno fucilato [ . . . ] 3 •

Una tristissima versione inglese della «Bambina dalle ma­


ni mozzate», che faceva a gara in scempiaggini con quella
appena citata, ma dimostrava un'evidente capacità letteraria,
apparve sul Sunday Chronicle:

Alcuni giorni fa una gran dama di carità si recò a visitare un appar­


tamento di Parigi ove erano stati accolti, da qualche mese, un certo
numero di rifugiati belgi. Durante la visita notò una bimbetta, una
fanciullina di dieci anni, che teneva sempre le mani infilate in un
logoro manicotto, benché l'ambiente fosse riscaldato e ci fosse un
buon tepore. Ad un tratto, la bambina disse a sua madre: - Mam­
ma, mi soffi il naso? - Vergogna, dice la dama di carità, un po' sor­
ridendo e un po' accigliata, una bambina grande che non sa ancora
usare il fazzoletto da sola! La bambina guarda in silenzio e la ma­
dre dice in tono neutro, come se fosse una cosa del tutto naturale:
- Non ha le mani, Signora. La gran dama guarda di nuovo, si sente
rabbrividire, capisce. - È possibile, dice, che i tedeschi .. . ? La madre
scoppia in singhiozzi. Questa fu la risposta 4 .

2
Vedi il Collier de Bellone messo insieme da Gustave Dupin e citato da
G. Demartial, op. cit., pp. 1 6 1 - 1 62.
3 Citato da john Horne, op. cit., p. 1 34.
4
Sunday Chronide, 2 maggio 1 9 1 5, citato da A. Ponsonby, op. cit.

92
Ci furono poeti che s1 ispirarono al tema della guerra.
L'illustre poeta belga Emile Verhaeren scrisse raccolte di
versi, in larga parte dedicate alla propaganda di guerra. Si
burlava dell'infermità del Kaiser 5 , presentandolo come un
essere subdolo, un puritano che brucia Reims mentre pian­
ge per Lovanio. Uno dei poemi di Emile Verhaeren s'intito­
la «La Germania sterminatrice delle razze» 6 ove, tra l'altro,
scnve:

E quando incontravano un qualche teutonico raggiunto da un abile


colpo, vicino al bordo di una strada gli trovarono spesso, in fondo
alle tasche assieme a collane d'oro e raso sgualcito due piccoli pie­
di di bambino atrocemente mozzati 7 •

La fandonia dei bambini belgi dalle mani mozze fece, pe­


raltro, tanta presa sull'immaginazione che un poeta di Li­
verpool, in una raccolta intitolata Mélange de Chansons, scri­
veva, ancora nel 1928, in un poema «patriottico» :

They stemmed in first mad on rush


Of the cultured German Hun,
Who'd outraged every female Belgian
And maimed every mother 's son.

Tradotto letteralmente:

Fermarono dapprima la folle corsa selvaggia


dell'unno tedesco «civilizzato ►>
che ogni donna belga aveva violentato
ed il bambino d'ogni mamma mutilato 8 •

5 Il suo braccio sinistro era ostinatamente deforme


era imperatore ma restava uno che
non arrivava ad alzare la spada
a due mani davanti a sé.
Emile Verhaeren, Les Ailes rouges de la Guerre, Merrure de France, Paris
1 9 16, p. 84.
6 Ivi, pp. 1 95-20 I .
7 In La Belgi,que sanglante.
8
Citato da A. Ponsonby, op. cit.

93
Artisti, pittori e caricaturisti misero la loro arte al servizio
della propaganda.
In Belgio, Alfred Ost, Ernest Wante, Louis Ramaekers,
Louis-Charles Crespin e Albert Besnard, tra gli altri, rappre­
sentarono in commoventi immagini rifugiati che sfuggivano
alle orde tedesche, preti davanti alle loro chiese distrutte
dagli Unni, i sovrani belgi che si presentavano a Cristo alla
testa dei re cattolici di tutte le epoche. . . 9
In Francia caricaturisti, talora celebri (Roubille, Willette,
Huard, Herman Paul) collaborarono nella propaganda.
Poulbot rappresentò una bimbetta inginocchiata davanti alla
tomba ... della sua mano! 10 Matisse e Monet firmarono il Ma­
nifesto dei Cento, patriottico e antitedesco.
Anche i musicisti si mobilitarono. Camille Saint-Saum­
lautens firmò lo stesso manifesto e Debussy compose una can­
zone dal titolo Natale dei bambini che non hanno più casa nel cui
testo si diceva: «Hanno bruciato la chiesa e il Signore Gesù
Cristo, e il povero vecchio che non è riuscito a scappare» 1 1 •
A questo «Manifesto dei 93» o «Appello al mondo civile» a
sostegno alla causa della Germania risposero numerose peti­
zioni di appoggio agli alleati,
Parallela fu, naturalmente, la mobilitazione di artisti e in­
tellettuali sul fronte tedesco.
All'inizio dell'ottobre 1914 apparve sul Berliner Tageblatt un
«Appello al mondo civile» firmato da 93 grandi dell'intel­
ligentzia tedesca, da cui il soprannome di «Manifesto dei 93».
Fu pubblicato in francese il 13 ottobre sul giornale Le Temps.
Questi saggi, in qualità di rappresentanti della scienza e
dell'arte tedesca, sostenevano di dover reagire alle menzo­
gne e alle calunnie degli alleati. Il manifesto si rivela piutto­
sto interessante perché costituisce un esempio di applicazio­
ne di quasi tutti i principi che abbiamo descritto in questo
lavoro. Guglielmo II aveva fatto l'impossibile, durante il suo

9 Vedi Anne Morelli, « La guerre de 1 9 1 4- 1 9 1 8 e l'art religieux en Belgi­


que», in Facettes du christianisme, études offertes au Professeur Jean Hadot,
s.l .n.d . (Bruxelles 1 985), pp. 10 1 - 120.
10
John Horn, op. cit., p. 135.
11
Citato da G. Demartial, op. cit., pp. 13 7- 138.

94
regno di venticinque anni, per evitare le guerre ed era anima­
to da «un amore incrollabile per la pace». La Germania s'era
vista imporre la guerra. Non aveva violato la neutralità belga,
ma risposto all'attacco condotto con «un'imboscata da tre
grandi potenze». Queste ultime erano, in realtà, risolute a
violare la neutralità belga, mentre la Germania non aveva fat­
to altro che «precederle». I soldati tedeschi non avevano
commesso alcuna atrocità. Non avevano mai «portato attacchi
alla vita o ai beni d'un solo cittadino belga, senza esserne stati
forzati dalla dura necessità della legittima difesa».
Per contro, secondo il manifesto, i civili belgi avevano
sparato «proditoriamente» sui soldati tedeschi e la «popola­
zione belga aveva mutilato dei feriti e sgozzato dei medici
che esercitavano la loro professione caritatevolmente» . Ben­
ché assaliti a Lovanio da franchi tiratori, i soldati tedeschi
avevano fatto di tutto perché la città rimanesse intatta.
Quanto all'edificio comunale, «i nostri soldati [tedeschi] l'a­
vevano protetto dall'incendio, a rischio della vita». Mentre
l'esercito tedesco rispetta le leggi di guerra e il diritto dei
popoli, gli alleati, in Occidente, usano proiettili dum-dum
che «dilaniano i corpi dei nostri coraggiosi soldati», in
Oriente, massacrano donne e bambini.
Infine, il manifesto assicura che la Germania è un paese
civile, il vero protettore della civiltà europea, al contrario di
quello che fanno gli «anglofrancesi» che si alleano a serbi e
russi e aizzano «mongoli e negri contro la razza bianca».
Discendenti di Goethe, Beethoven e Kant, i firmatari del
manifesto - tra i quali si può in particolare notare il Premio
Nobel e filologo Willamovitz, il fisico (e futuro Premio No­
bel) Max Planck, lo storico G. van Harnack e numerosi pro­
fessori di teologia cattolica - si dicono solidali col popolo te­
desco e l'esercito tedesco che protegge la cultura del loro
paese, «esposto come nessun altro ad invasioni che si ripe­
tono di secolo in secolo».

A questo « Manifesto dei 93» o «Appello al mondo civile» a


sostegno della causa della Germania risposero numerose pe­
tizioni di appoggio agli alleati, ugualmente sottoscritte dai

95
più grandi nomi della scienza, dell'università, della penna e
delle arti. La risposta inglese arrivò nell'ottobre del 19 14 1 2
contemporaneamente a quella degli intellettuali russi 1 3 • Nel
novembre del 19 14 fu l'Accademia delle Scienze del Porto­
gallo che a sua volta attaccò i 93 intellettuali tedeschi. Ci fu­
rono inoltre professioni di fede patriottica da parte di uo­
mini di cultura ed artisti spagnoli (Mi guel de Unamuno e
Manuel De Falla, tra gli altri), americani, argentini e soprat­
tutto francesi.
Gli intellettuali francesi, i quali, quindici anni prima con
l'affare Dreyfus, avevano, in qualche modo, creato il modello
dell'intellettuale impegnato a favore della giustizia e del di­
ritto, che deve lanciarsi, penna in resta, contro la minaccia a
questi valori, si impegnarono con lo stesso entusiasmo in
difesa della guerra 1 1.
Risposero, pertanto, al «Manifesto dei 93» con un «Manife­
sto dei Cento», patrocinato dall'Académie des inscriptions et belles­
lettres e intitolato «I tedeschi distruttori di cattedrali e di tesori
del passato» 1 5. Come firmatari vi possiamo trovare, fianco a
fianco, cattolici e repubblicani anticlericali, intellettuali d'e­
strema destra (come Maurice Barrés) e artisti vicini ai socialisti
- addirittura degli anarchici -, sostenitori di Dreyfus e detrat­
tori dello stesso. La guerra appannava uniformemente il senso
critico in molti ambienti... Tra coloro che avevano firmato, si
possono trovare Tristan Bernard, Paul Claudel, Georges
Courteline, Claude Debussy, Camille Flammarion, Anatole
France, André Gide, Lucien Guitry, Pierre Loti, Matisse, Oc­
tave Mirbeau, Monet, Camille Saint-Saens16 •

12 Christophe Prochasson, Les intellectuels, le socialisme et la guerre (1 900-


1938), Seuil, Paris 1 993, p. 1 1 4.
13 lvi.
1 1 lvi, pp. 1 1 5- 1 1 7 e Martha Hanna, The Mobilization of /nteUect. French
Scolars and Writers during the Great War, Harvard University Press, 1 996.
L'au trice analizza anche le fratture che coprono questa unanimità di fac­
ciata, soprattutto nella controversia a proposito di Kant, difeso dalla sinistra
e aborrito dalla destra.
15 Diffuso da Hachette nel 1 9 1 5 .
16 La lista completa dei firmatari si trova in Christophe Prochasson,
op. cit., p. 9.

96
Gli intellettuali pacifisti, d'altro canto, svantaggiati dal ri­
gore della censura e da diverse pressioni, sulle quali torne­
remo nel capitolo decimo, non poterono diffondere un loro
proprio manifesto, né in Francia, né in Germania.

La mobilitazione di artisti, saggi e intellettuali in favore


del loro paese pone evidentemente la complessa questione
di definire cos'è un intellettuale e perché questi accetta, ad
un certo punto, che la sua ispirazione e la sua penna venga­
no reclutate al servizio della guerra.
La Sacra Unione favorì la dimissione di ogni spirito critico
da parte di questi intellettuali francesi e ciò si manifestò,
nella descrizione di Madeleine Réberioux,

sotto forma di un raccogliersi attorno alla figura dell'universitario


(il professore alla Sorbona, alla Scuola di Paleografia, alla Scuola di
Alti Studi di via d'Ulm) o a quella dello scrittore (vedi Zola, vedi
Mirbeau) . . . 17

Storici francesi contribuirono attivamente alla propagan­


da in favore della guerra: ad esempio, Charles Seignobos,
professore alla Sorbona, ed Ernest Lavisse, membro dell'Ac­
cademia francese, il quale insegnava che la vendetta è un sa­
cro dovere, lanciando folli scomuniche alla Germania, giu­
stificando sempre, per principio, ogni impresa dei francesi 1 8 •
A questo nucleo universitario si uniscono uomini di lettere,
musicisti, pittori, disegnatori e più tardi anche artisti di mu­
sic-hall, registi di cinema e quindi persone dalle quali non ci
si attende un qualche contributo utile in materia militare o
politica, ma i cui nomi piuttosto richiamano l'unanimità
della nazione in appoggio alle operazioni armate.
A proposito di questi insegnanti universitari francesi im­
pegnati nella propaganda per la prima guerra mondiale,
Romain Rolland 19 disse:

17 Prefazione all'opera di Christophe Prochasson, op. cit., p. 9.


1 8 Vedi le citazioni di Georges Demartial, op. cit., pp. 1 1 , 85, 1 59 e 239.
19 In C/,erambaut, Histoire d'une conscience libre pendant la guerre, Albin Mi­
chel, 1 920, p. 87.

97
Tutto il mondo delle lettere era mobilitato. Non si distinguevano
più le personalità. Le università formavano un ministero dell'intel­
ligenza addomesticata.

Quanto ai filosofi che mettevano il loro ingegno a disposi­


zione dello sforzo bellico, li descriveva così:

Abili nella manipolazione di idee, le sanno tirare, stirare, rirorcere


ed annodare insieme come fossero di gomma [ . . . ] In questo modo
possono dimostrare sia il bianco che il nero e, se vogliono, riesco­
no a trovare in Immanuel Kant sia la libertà del mondo che il mili­
tarismo prussiano. Possiedono l'arte di spiegare il concreto con l'a­
stratto, il reale con la sua ombra e di sistematizzare improvvisate
osservazioni, oculatamente scelte 20 •

Tra le due guerre, la scelta politica creò una importante


divisione tra gli intellettuali che simpatizzavano per il fasci­
smo e quelli contrari. L'avvento del fascismo in Italia e Por­
togallo, del franchismo in Spagna e del nazismo in Germa­
nia, come l'invasione di molti paesi europei da parte dei na­
zisti, avrebbero ridotto all'esilio o al silenzio gli intellettuali
antifascisti, lasciando, in questi paesi, campo libero a studio­
si e artisti disposti a sostenere il fascismo. Di contro, in Gran
Bretagna, in Unione Sovietica e Stati Uniti gli artisti e gli in­
tellettuali verranno messi all'opera per appoggiare la causa
alleata.
Lo stesso Einstein - come è noto - scrisse una lettera al
presidente degli Stati Uniti chiedendo l'accelerazione delle
ricerche che potevano condurre allo sviluppo della bomba
atomica.

Durante la seconda guerra mondiale - più che durante la


prima, quando concerti e spettacoli d'intrattenimento non
avevano ancora assunto un carattere sistematico - si chiese
alle vedette del music-hall di risollevare il morale delle
truppe e dell'opinione pubblica, sia da un lato che dall'altro
del fronte. In Francia, André Clavaux, Tino Rossi, Charles

'.!O
fvi, pp. 87-88.

98
Trenet, André Dassary, Edith Piaf e Maurice Chevalier, tra
gli altri, furono i cantanti di sostegno del petainismo e del­
l'occupante, almeno all'inizio della guerra '.!I.
Durante la seconda guerra mondiale, la radio e i dischi
vennero utilizzati massivamente come mezzo di propaganda
e la BBC, come Radio Mosca, giocò un ruolo assai rilevante
sull'opinione pubblica del continente.
Negli Stati Uniti si potevano acquistare dischi con i di­
scorsi del presidente Roosevelt 22 o una marcia intitolata Re­
member Pearl Harbour.
La pittura fu molto utilizzata durante la seconda guerra
mondiale, come tecnica di base per produrre manifesti pro­
pagandistici che vantavano i motivi per il quale il paese s'era
impegnato in guerra.
Anche i fotografi contribuirono alla produzione di questi
manifesti: ricordiamo quelli di Norman Rockwell, che pre­
sentavano in modo romantico le quattro libertà per le quali
gli Stati Uniti combattevano.
Altri temi, presenti nei cartelloni murali di propaganda
durante la seconda guerra mondiale, erano le denunce delle
atrocità del nemico o l'esaltazione, senza ombre, del succes­
so dei combattenti alleati '.!:!_ La seconda guerra mondiale ve­
drà inoltre lo sviluppo del cinema di propaganda e cineasti
di talento, come Frank Capra e Joris lvens negli Stati Uniti,
parteciperanno allo sforzo bellico dirigendo dei film propa­
gandistici. Perché combattiamo, realizzato dai due cineasti,
rientra indiscutibilmente in questa categoria e presenta i
giapponesi con tratti negativi, prettamente caricaturali.
Altri registi americani scelsero, al momento in cui gli Stati
Uniti combattevano a fianco dell'URSS, di vantare i meriti
del loro nuovo alleato con film come Mission lo Moscow e
Northern Star.

'.!I Alcuni di loro, al momento della Liberazione, saranno sottoposti ad


inchiesta come collaborazionisti.
'.!'.! Ad esempio, il suo discorso al Congresso dell '8 dicembre 1941.
'.!:, Per la presentazione e l'analisi di questi documenti, opera di riferi­
mento può essere Guenes et propagande ou comment armer les esprits, Crédit
Communal, Bruxelles, 1983.

99
Una partecipazione nutrita di intellettuali ed artisti si può
incontrare anche nell'epoca della guerra fredda. In quel pe­
riodo, una nuova «arte» fu molto richiesta: il fumetto.
Sul settimanale belga per giovani Spirou, le avventure di
Buck Danny 24 facevano partecipare il lettore alla guerra di
Corea 25, mentre in Francia Bernard Chamblet en mission au
Pays jaune '2ti metteva di fronte, nel quadro della guerra d'In­
docina un legionario fedele alla Francia e dei ribelli sadici.
Le avventure di Blake e Mortimer, ad esempio, hanno per­
petuato il genere fino ai nostri giorni, con La macchinazione
Voronov, un racconto drammatico pubblicato nel 2000, in cui
si vede come degli scienziati sovietici del 1 957, in 48 ore,
identifichino un batterio sconosciuto venuto dallo spazio, ne
coltivino un ceppo e lo inviino ai quattro angoli della terra
per assassinare delle personalità occidentali! 27 Disegnatori e
sceneggiatori di fumetti si affiancano, in questo a caso, agli
scrittori e registi di cinema che hanno partecipato alla pro­
paganda durante la guerra fredda 28 •

Recentemente, al tempo della prima guerra contro l'Iraq


e la Jugoslavia, si è fatto appello, e non invano, ad artisti e
intellettuali perché appoggiassero la propaganda. Le emo­
zioni costituiscono la leva da usare in permanenza per mo­
bilitare l'opinione pubblica e ci sono quelli che, grazie al lo­
ro talento, spesso riescono a crearle. Si può, ad uso delle fu­
ture generazioni, stendere un elenco di tutti gli universitari
francesi, filosofi o «mediatici» che sono riusciti a commuove­
re l'opinione pubblica e a spingerla senza esitazioni ad ap-

24 Di cui erano autori Vietar Hubinon e Jean-Michel Charlier.


25 Cielo di Corea e Aerei senza pilota.
'2ti Di Le Rallic.
27 Di questo fumetto, uscito nel 2000, non è autore Edgard P. J acobs,
ma i suoi «continuatori» (Yves Sente e André Julliard). In Avancées del lu­
glio-agosto 2000, pp . 38-39, si può trovare un'analisi dell'ideologia di que­
sto album.
28 Sulla propaganda anti-comunista si può utilmente consultare Pascal
Delwit, José Gotovitch (a cura di), La peur du rouge, Editions de l'Université
de Bruxelles, 1 996.

100
poggiare la guerra 29 , inventando formule choc, raccontando
storie buone, appoggiando oggi, con il loro prestigio, infor­
mazioni che il giorno dopo sarebbero state smentite, offen­
dendo chi, poco o molto, le metteva in dubbio. Per far va­
cillare gli ultimi dubbiosi non hanno esitato a ricorrere ai
simboli e alle memorie dell'antifascismo e dell'antistalini­
smo, evocati generalmente in modo inappropriato: genoci­
di, gulag, Hitler, Monaco, Oradour...
Si ricorse perfino ai geografi per presentare i progetti po­
litici che avevano l'appoggio dei nostri governi come delle
realtà già inserite nella cartografia. Così la rivista mensile
National Geographic distribuì in tutto il mondo, in milioni di
copie, col suo numero di febbraio 2000, una grande carta
geografica dei Balcani che «anticipava» le prossime operazio­
ni militari progettate dalla NATO. In effetti, mostrava chia­
ramente con l'uso di colori come l'Albania comprendesse il
Kosovo e una parte del Montenegro:'0 • In questo stesso sen­
so, la radio-televisione belga francofona ha presentato, nella
sua carta geografica delle previsioni meteorologiche, il Ko­
sovo come uno Stato indipendente, anche se gli accordi suc­
cessivi al bombardamento della Jugoslavia hanno conferma­
to senza ambi gu ità e in maniera «definitiva», la sovranità ju­
goslava sul Kosovo 3 1 • La televisione s'è totalmente mobilitata
per suscitare il consenso alla guerra contro la Jugoslavia e
questo non solo nelle trasmissioni cosiddette d'informa­
zione, il più delle volte composte da una sequenza di servizi
emotivi senza un filo conduttore.

'.!9 Bernard-Henry Levy, Daniel Schneidermann, Patrice Canivez (confe­


renziere all'Università di Lilla III), Alain Joxe (direttore di studi alla Scuola
d'Alti Studi in scienze sociali), Pierre Bayard e Jean-Louis Fournel (profes­
sore all'università di Parigi VIII) ... assieme a tanti altri.
30 Un'altra carta, pubblicata nello stesso numero (p. 76 dell'edizione in­
glese) censiva le fosse comuni usate dai serbi nel Kosovo. Queste non corri­
spondono ad alcuna documentazione o censimento ufficiale. Nello stesso
numero si trovano le foto di serbi dall'aspetto di aguzzini (pp. 78-79), dei
rifugiati, dei morti, delle rovine... e delle timide ragazze albanesi del Koso­
vo che offrono fiori ai soldati della NATO.
31
Vedi Le Vif- L'Express del 7 luglio 2000.

101
Sono stati messi in piedi colossali show televisivi, ai quali si
sono invitati i cantanti e gli artisti più celebri, per sensibiliz­
zare un pubblico poco politicizzato e scarsamente incline a
sostenere lo sforzo bellico contro la Jugoslavia.
Con volti patetici e contratti e voci rauche per la grande
emozione, gli animatori delle catene televisive belghe, sia
pubbliche che private, per una volta riunite, hanno allestito
spettacoli Per il Kosovo diffusi simultaneamente sui diversi
canali e ai quali era difficile sfuggire. La partecipazione de­
gli artisti più quotati e l'interazione col pubblico, nella gara
di generosità cui si faceva appello, assieme alla competizione
tra fiamminghi e francofoni, assicuravano a questi show in­
dici di ascolto molto alti e suscitavano nel pubblico l'impres­
sione che una guerra intrapresa con l'appoggio di tante ce­
lebrità poggiasse su una causa giusta.
Anatole France - che peraltro firma Il Manifesto dei Cento -
ebbe a dire un giorno che «la guerra è meno condannabile
per tutte le macerie che fa, che per l'ignoranza e la stupidità
che l'accompagnano»:1'.!.
Perché l'opinione sia definitivamente acquisita alla causa
della guerra, non resta che far credere che la nostra causa
non ha nulla a che fare con le altre cause, perché la essa è
infinitamente morale. Ovvero, in modo del tutto equivalen­
te, che è sacra e fa della nostra lotta una vera crociata.

:i'..! Citato da Georges Demartial, op. cit., pp. 137- 138.

102
Capitolo nono
La nostra causa ha un carattere sacro

Se la nostra causa è sacra, noi dobbiamo difenderla, se ne­


cessario, armi alla mano.
Questo carattere sacro può avere sia un senso letterale
che un senso più ampio. Letteralmente questo vuol dire che,
se la causa è religiosa, la guerra è una crociata alla quale non
ci si può sottrarre.
Effettivamente, l'argomento religioso è stato spesso utiliz­
zato nella propaganda di guerra.
Tornano alla mente formule lapidarie come Gott mit Uns,
In God we trust o God save the Queen che sovente hanno ac­
compagnato e accompagnano ancora i belligeranti.
Aveva già detto San Bernardo:

Il cavaliere di Cristo ammazza con coscienza e muore tranquillo.


Morendo, si salva; ammazzando, lavora per Cristo. Quando toglie
la vita ad un pagano, non è omicidio, ma «malicidio». Soffrire o
dare la morte per Cristo non ha nulla di criminale, merita, invece,
grande gloria 1 •

Il buon Lutero non parlò diversamente, né i papi fino a


Benedetto XV e la prima guerra mondiale. Quanto al Cora­
no, vi si.raccomanda:

1 De laude novae militiae, III, 4, e, 924 B; vedi anche l'introduzione di


M . M . David al primo volume dell'opera di San Bernardo, Aubier-Montai­
gnen Paris 1 945, pp . 45-47.

103
Fate la guerra a quelli che non credono in Dio. Fate la guerra fino
a che non pagheranno il tributo e non si sottometteranno [ . ..]
Quando incontrerete gli infedeli, ammazzateli fino a farne un gran
massacro, uccideteli dovunque li trovate, combatteteli finché non ci
sarà più alcun disaccordo e che rimanga solo il culto di Allah ... '.!

Fin dal medioevo San Tommaso d'Aquino fissò i quattro


criteri secondo i quali è legittimo fare la guerra (una «giusta
causa» per cui la guerra, decisa dalla «legittima autorità», è
«l'ultima risorsa» con l'assicurazione che si colpirà in modo
«proporzionale al danno subito») e tutti i governi cristiani
che si sono lanciati in guerra hanno sempre assicurato di
trovarsi proprio in queste condizioni.

Nella prima guerra mondiale, i vescovi tedeschi avevano


appoggiato la Germania e i vescovi francesi la Francia.
I sermoni dell'abate Sertillanges, nella chiesa della Ma­
deleine a Parigi, erano altrettante frenetiche incitazioni al
massacro. In Belgio, il cardinal Mercier, fervente patriota in
conflitto con Benedetto XV, che lo considerava troppo vio­
lentemente anti-tedesco, scriveva che il bravo soldato belga

il quale dona coscientemente la vita per difendere l'onore della pa­


tria e vendicare la giustizia oltraggiata vedrà il suo valore militare
benedetto da Cristo e la morte, cristianamente accettata, gli assicu­
rerà la salvezza dell'anima 3.

Il cardinal Mercier apparve su numerosi manifesti di pro­


paganda per la guerra; in questo modo attestava il carattere
sacro della causa per i cattolici dei paesi alleati, i quali vole­
vano, in realtà, ignorare il fatto di essere pressoché egual­
mente distribuiti nei due campi avversi. Gli alleati, infatti,
riunivano paesi cattolici (Belgio, Francia, Italia), protestanti
(Gran Bretagna) e ortodossi, come i loro avversari.

'.! Sura 9, versetto 29.


3 Patriotisme et endurance, udtre pastorale de Noel 1 91 4, Ed. Bloud et Gay,
Paris.

1 04
Durante la seconda guerra mondiale gli italiani presenta­
rono i soldati (neri) americani come dei saccheggiatori di
chiese e dei distruttori d'immagini sacre. Nello stesso tem­
po, negli Stati Uniti, ove la politica è impregnata di religio­
ne, la causa alleata venne presentata come la causa di Dio e
del cristianesimo 4 . Il presidente americano Roosevelt ri­
chiamava spesso nei suoi discorsi argomenti religiosi e invo­
cava frequentemente Dio e la sua protezione.

Se la grazia di Dio non è al nostro fianco e se non siamo pronti a


dare tutto quel che siamo e possediamo per preservare la civiltà
cristiana, allora il nostro paese corre verso la perdizione 5 •

Il presidente termina il discorso inaugurale per il suo nuo­


vo mandato nel 1 941 dicendo: « In quanto americani, andre­
mo avanti a servire il nostro paese, per volontà di Dio» 6 •
Molti altri tribuni americani egualmente utilizzarono ar­
gomenti «sacri» per persuadere i loro ascoltatori a rompere
con l'isolazionismo. Così un certo padre Sheehy, d'origine
irlandese, proclamava:

Vorrei dire ai miei confratelli cattolici in Italia: gli italiani non


avranno amici migliori degli americani. L'America s'è messa gli
italiani nel cuore. Noi pensiamo che questa alleanza con Hitler è
tanto perfida quanto un'alleanza con Stalin. Rialzatevi, figli d'Ita­
lia, e seguite le pacifiche aspirazioni del Santo Padre e del vostro
re. L'Italia appartiene all'Asse di Cristo.

Aggiungeva:

Il mio sangue irlandese grida vendetta contro l'Inghilterra. Pur­


troppo però, sono costretto ad ammettere che la causa dell'Inghil­
terra è quella della libertà, degli Stati Uniti e del cristianesimo 7 •

1 Come è noto, la religione è molto presente nella vita pubblica ameri­


cana. Regis Debray disse - con cattiveria! - che «una testa è americana
quando ha sostituito la politica col vangelo» (le Monde, 1° aprile 1999).
5
Citato in America Chooses.', cit., p. 33.
(j lvi, p. 79.
7 Citato in America Chooses.', cit., pp. 86-87.

1 05
Il colonnello Knox, segretario della Marina americana, in
un discorso del primo luglio 1941 a favore dell'entrata in
guerra degli Stati Uniti contro l'Asse, dichiarò: «Possiamo
assicurarvi, senza ombra di dubbio, la sconfitta di questa for­
za pagana [corsivo dell'autrice] e garantirvi la vittoria della
civiltà cristiana». Lord Lithian, ambasciatore britannico negli
USA, in una lettera testamento scritta cinque ore prima di
morire, riprende questo argomento in uno slogan lapidario:
«Il sermone della montagna è, a lungo termine, assai più
forte di tutta la propaganda di Hitler e di tutti i fucili e le
bombe di Goering».

Questi esempi mostrano che la causa può essere sacra lette­


ralmente, nel senso che è quella che Dio appoggia e sostiene.
Spesso, però, ci sono altri valori, come la democrazia, la
«civiltà», la libertà o l'economia di mercato che vengono ele­
vati al rango di valori sacri. Già nei discorsi di Franklin D.
Roosevelt, questi due tipi di valori sacri si alternano. La «fe­
de» dell'America è la fede in Dio, ma anche in altri valori.
Così la fede nelle quattro libertà fondamentali (di pa!"'ola, di
religione, di libertà dal bisogno e di vivere in sicurezza) ri­
corre spesso nei discorsi di Roosevelt 8 ed è il tema di nume­
rosi manifesti della propaganda americana 9 .
Allo stesso modo, la democrazia viene elevata al rango di
valore sacro per il quale ogni sacrificio deve essere consentito.

La fiamma della democrazia deve continuare a splendere. Per con­


servare questa fiamma, ciascuno di noi deve portare il suo contri­
buto. Lo sforzo personale di ciascun individuo può sembrare mi­
nimo, ma ci sono 1 30.000.000 di individui e ancor di più che, in
Gran Bretagna ed altre parti, difenderanno coraggiosamente la
grande fiamma della democrazia e dell'annientamento della bar­
barie 1 0•

8
Ad esempio in A merica Clwoses/, cit., p. 72, discorso del 6 gennaio 1 94 1
sullo Stato dell' Unione, e p . 24, discorso del 2 7 maggio 1 94 1 .
\ l Vedi due esempi in jacques Pauwels, op. cit., p p . 1 13- 1 1 4.
1 ° Citato in America Choo:,'fs/, cit., p. 95, discorso di F.D. Roosevelt del 17
marzo 1941.

106
I recenti conflitti hanno visto risorgere questo argomento
della mitologia manichea: la santa democrazia del mercato è
in lotta contro gli «Stati canaglia» 1 1 e le Forze del Male. Il
ministro francese Hubert Védrine è rimasto assai isolato
quando, nel giugno 2000, dichiarò che la democrazia non è
una religione: «I paesi occidentali hanno un po' troppo la
tendenza a credere che la democrazia sia una religione e che
si tratti di convertire la gente» 1 2 •
Inoltre l'argomento religioso è stato usato, letteralmente,
dai belligeranti dovunque è stato possibile.
In Jugoslavia il conflitto tra albanesi e serbi è stato senti­
to e presentato da questi ultimi come una guerra a caratte­
re religioso. Si trattava della cristianità ortodossa, assalita,
ancora una volta, dall'Islam. Anche se erano atei, i serbi
mettevano in risalto questo aspetto della guerra tra «la
mezza luna e la croce» e insistevano sulla religione orto­
dossa come primario elemento costitutivo della loro identi­
tà. La religione ortodossa fu presentata, di fronte agli at­
tacchi della NATO, come il cemento che legava i serbi. I
tabelloni per la pubblicità di Belgrado, nella primavera
1999, durante i bombardamenti, erano tappezzati d'immen­
si manifesti, realizzati da un partito di destra, che assicura­
vano, su uno sfondo di slogan religiosi ( «Cristo è risuscita­
to», leit-rnotiv della Pasqua ortodossa): «Loro ( = la NATO)
credono alle bombe, noi crediamo in Dio». La foto metteva
di fronte una bomba e un uovo di Pasqua dipinto nel modo
tradizionale dell'Est europeo.
Nello stesso ordine di idee, Belgrado ha pubblicato nel
2000 un libro di foto che documentava le azioni commesse
contro i serbi dopo l'occupazione da parte delle forze arma­
te internazionali 1 :1 • Numerose foto di quest'opera mostrano

1 1 Il termine è stato impiegato, ad esempio, da André Glucksmann


contro la Russia su Paris-Match, 27 luglio 2000, p. 77.
12
Le Monde del 29 giugno 2000, riprendendo il suo discorso del 27 giu­
gno 2000 (vedi B11/letin d'actualité du Ministere des Ajfaires étrangères Jrançaises
del 27 giugno 2000, http://www . doc.diplomatie . fr/cgi).
i :, Days of Terror in Presence of the lnternational Forces, pubblicato da Cen­
ter for Peace and Tolerancc.

1 07
monasteri e chiese distrutti dagli albanesi nel Kosovo 1 1. I
serbi speravano in una solidarietà cristiana contro gli «ico­
noclasti» musulmani, ma il messaggio non è stato recepito
che nei paesi ortodossi, mentre i paesi cattolici e protestanti
hanno rifiutato di riconoscere, in questo caso, la dimensione
religiosa del conflitto, meno importante, secondo loro, della
dimensione politica.
Se l'arcivescovo di New York e il presidente della commis­
sione sociale della Chiesa di Francia, come pure la Chiesa
riformata, hanno manifestato seri dubbi oppure si sono di­
chiarati profondamente contrari ai bombardamenti NATO,
l'arcivescovo di Praga e il presidente della commissione Giu­
stizia e Pace dell'episcopato francese 1 5 , al contrario, hanno
totalmente appoggiato le azioni occidentali contro la Jugo­
slavia.
Di contro, la grande massa degli ortodossi (Russi, Rome­
ni, Greci, Bulgari... ) hanno avvertito il conflitto come una
nuova lotta contro i «Turchi», con l'umiliazione di vedere gli
occidentali sostenere la mezza luna contro la croce. I pope
russi hanno organizzato soccorsi umanitari di solidarietà per
i loro confratelli ortodossi serbi 16 e i Greci sono stati i più ri­
trosi, tra gli occidentali, nel seguire la politica della NATO.
Negli altri paesi cristiani della NATO, questo aspetto religio­
so della guerra, a cui i serbi davano risalto, fu messo il più
possibile sotto silenzio. Quasi sempre si «dimenticava» di di­
re che gli albanesi, di cui si correva in aiuto (come, peraltro,
i ceceni di Grozny), erano dei musulmani 1 7• Quando era ine­
vitabile fornire questa precisazione, si presentavano i mu­
sulmani d'Albania e Kosovo come popolazioni che pratica­
vano un islam particolarmente discreto, tollerante, modera-
11 Sembra accertato che, dal giugno 1999, parecchie decine di chiese
serbe ortodosse siano state distrutte.
15
Monsignor J acques Delaporte, arcivescovo di Cambrai . Su queste di­
verse posizioni vedi Xavier Ternisien, «Les églises face à la ' guerre juste'»,
in le Monde, 27 maggio 1 999.
H, Vedi l'articolo di François Bonnet su le Monde dell'8 aprile 1999.
17
André Glucksmann, nei suoi articoli di sostegno ai ceceni, è uno di
quelli che dimenticano di precisare ai suoi lettori questo dettaglio (Paris­
Match, 27 luglio 2000, p. 82) .

108
to e, per così dire, «europeo» 1 8• Si preferiva passare ad altre
cose, come il carattere sacro dell'intervento contro un paese
che rifiutava la democrazia di mercato. L'argomento del ca­
rattere religioso della guerra risulta, qualche volta, più facile
da difendere in un campo che nel campo avverso. Non è
evidentemente invocato che quando serve alla nostra causa...

18
Si veda ad esempio Xavier Ternisien, «L'Islam européen des AJba­
nais», in le Monde, 15 aprile 1999, p. 16.

109
Capitolo decimo
Quelli che mettono in dubbio la propaganda
sono dei traditori

Lord Ponsonby aveva già rilevato come ogni tentativo di


mettere in dubbio i racconti dei servizi di propaganda sarebbe
stato considerato una mancanza di patriottismo o, anzi, un
tradimento. La prima guerra mondiale fornisce molti esempi
a sostegno di questo principio della propaganda di guerra. In
Francia, il ministro delle Finanze Klotz, il quale all'inizio della
guerra aveva tra le sue competenze quella della censura sulla
stampa, si espose all'indignazione dell'editore del Figaro per
aver rifiutato di consentire la pubblicazione di un racconto sui
bambini che avevano avuto le mani mozzate dai tedeschi.
Nelle sue memorie il ministro racconta:
Una sera mi portarono una prova del Figaro in cui due scienziati di
fama affermavano, e awaloravano con le loro firme, d'aver visto con
i loro occhi un centinaio di bambini ai quali i tedeschi avevano taglia­
to le mani. Malgrado la testimonianza di questi uomini di scienza, io
dubitavo dell'esattezza del racconto che veniva riportato e proibii la
pubblicazione. Dato che l'editore del Figaro manifestava una grande
indignazione, mi dichiarai, in presenza dell'ambasciatore americano,
pronto a condurre un'inchiesta su questo argomento, che sembrava
commuovere il mondo. Chiesi, inoltre, che domandasse a questi due
scienziati il nome della località ove l'inchiesta avrebbe dovuto essere
condotta. Insistetti perché questi dettagli mi fossero comunicati im­
mediatamente. Sono ancora in attesa della loro risposta o della loro
visita.

Per aver contraddetto le accuse d'atrocità lanciate contro i


tedeschi o per aver lasciato intendere pubblicamente che i

111
francesi non erano necessariamente stati più teneri di loro,
un insegnante francese - Mayoux - fu destituito e condanna­
to a due anni di prigione '. Fu destituito dalla Missione laica
anche un professore dell'Istituto Francese del Cairo il quale,
in una conferenza sulla guerra, «aveva passato sotto silenzio
il modo atroce con cui il nemico conduceva le ostilità» '.!.
In Francia, la Société d'études documentaires et critiques sur la
guerre aveva come fine la ricerca delle responsabilità che cia­
scun paese aveva per lo scoppio del conflitto. Realizzava per­
tanto degli studi sulla base di documenti e teneva un profilo
assai moderato - mal grado la presenza di pacifisti nei suoi
ranghi. Nonostante ciò, la Société, per i temi che trattava, era
oggetto di un'attenzione continua da parte della polizia e
dei confidenti della polizia assistevano alle sue riunioni. Nel
1917, il prefetto di polizia chiese ed ottenne dal ministro
dell'Interno il divieto definitivo alle attività della Société, co­
stretta in tal modo a cessare i suoi lavori.
Georges Demartial, una delle anime della Société, a lungo
citato in questo libro, fu tradotto davanti al consiglio dell'or­
dine della Legion d'onore, per aver pubblicato un articolo in
cui rifiutava di considerare la Germania unica responsabile
delle ostilità\
In Gran Bretagna, la sorte di coloro che mettevano in
dubbio e contraddicevano la propaganda di guerra non fu
più invidiabile. L'Union of Democratic Contro!, che era nel
paese la principale voce d'opposizione alla guerra, si vide la
posta, il telefono e le riunioni sottoposti a controllo da parte
di Scotland Yard. I suoi incontri erano interrotti da provoca­
tori, che strappavano gli striscioni e picchiavano oratori e
pubblico. Nessuno voleva più prestarle i locali per le riunio­
ni e si creò il vuoto attorno a Morel, figura emblematica del­
l ' Union. Questi non era un pacifista e affermava che si sareb­
be battuto se l'Inghilterra fosse stata attaccata, ma che non si
era in questa situazione. La polizia perquisì la sede dell'UDC e
1
Georges Demartial, op. cit., p. 269 .
'.! Progrès civique del 24 settembre 192 1 , citato da Georges Demartial, op.
cit ., p. 271.
:i Christophe Prochasson, op. cit., pp. 162-1 67 e 212.

112
il domicilio personale di Morel. Il suo ufficio era costante­
mente sorvegliato. I suoi scritti furono sequestrati e la stam­
pa l'accusò di essere al servizio del nemico. Il Daily Sketch,
del primo dicembre 1915, propose «che ci si impadronisse
dell'arcicospiratore». Il Daily Express (4 aprile 1915) si chie­
deva chi finanziasse la sua Unione filo-tedesca, e l'Evening
Standard (7 luglio 1917) lo qualificò come «agente tedesco
nel nostro paese» 1. Alla fine fu incarcerato e condannato ai
lavori forzati.
Negli USA, ai tempi della prima guerra mondiale, l'ex
presidente Theodore Roosevelt avrebbe scritto:

Tutti gli uomini che negli Stati Uniti esprimono direttamente o


indirettamente la loro simpatia alla Germania devono essere arre­
stati, fucilati, impiccati o imprigionati per il resto dei loro giorni".

In realtà, i sospetti di resistenza ali'entrata in guerra degli


Stati Uniti furono sia imprigionati sia spalmati di catrame e
poi fatti rotolare nelle piume!

Allo stesso modo, al tempo della Seconda Guerra mon­


diale, gli oppositori alla partecipazione americana furono
considerati dei traditori. Franklin D. Roosevelt accusò Lind­
bergh e i suoi della peggiore duplicità n e assicurava che era­
no i Repubblicani isolazionisti «a gettare la bomba più di­
struttiva» sull'America 7 •

Ci sono all'interno della nostra comunità certe forze composte di


persone che si dicono americane, ma che vogliono distruggere l'A­
merica. Il loro fine costante, in questo come in altri paesi, è d'inde­
bolire la democrazia e di distruggere la fede dell'uomo libero nella
propria causa 8 •

1 Questi tre riferimenti sono ripresi da Adam Hochschild, les fantomes du


roi leopol,d. Un holocauste oublié, pp . 338-339 e 399.
5
Citato da Georges Demartial, op. cit., p. 298, da le Matin, 6 aprile
1 9 1 8, che riprendeva il Kansas City Star.
ti
A merica Chooses!, cit., pp. 5 1 -52, discorso del 25 aprile 1 94 1 .
7 lvi, pp. 40-4 1 , 24 ottobre 1 940.
8
lvi, p. 49, discorso del 4 novembre 1 940 a Cleveland, Ohio .

1 13
Quelli che mettono in dubbio il corretto fondamento del­
l'intervento americano nelle guerre europee non sono dei
patrioti:
Voi ed io, che abbiamo servito al tempo della Grande Guerra, dob­
biamo far fronte in questi ultimi anni ai tentativi antipatriot tici di
certi nostri concittadini che vogliono farci credere che i sacrifici
fatti dal nostro paese sono stati inutili 9 .

Anche durante la guerra fredda, quelli che non partecipa­


vano attivamente alla lotta anticomunista erano facilmente
accusati di tradimento 1 °. Ancor oggi, in Irlanda del Nord, in
Israele e Palestina o a Cipro I I quelli che propongono la ri­
conciliazione o partecipano a gruppi misti di frequente sono
accusati di tradimento.
_In ogni guerra, chi si mostra prudente, ascolta gli argo­
menti d'entrambi i contendenti prima di farsi un'opinione o
mette in dubbio l'informazione ufficiale è immediatamente
considerato complice del nemico.

La guerra alla Jugoslavia non è stata un'eccezione a que­


sta regola. La maggior parte dei giornalisti hanno docilmen­
te diffuso le informazioni distribuite ogni giorno da J arnie
Shea, portavoce della NATO, durante i suoi briefing. Se, tut­
tavia, qualche giornalista, qualche intellettuale o artista, co­
me Renaud, Georges Moustaki o il cantante fiammingo Ar­
no '\ rifiuta di partecipare all'entusiasmo generale o avanza
9 lvi, p. 5 1 , discorso sulla tomba del Milite ignoto al cimitero d'Arlington

l' 11 novembre 1 940.


10 Vedi Pascal Delwit, José Gotovitch (a cura di), La peur du rouge,
Bruxelles, 1 996.
1 1 Quattrocento greci e turchi dell 'isola si erano sottoposti ad esami del
sangue per trovare un possibile donatore di midollo spinale che avrebbe
potuto salvare la vita a due bambini malati di leucemia. L'iniziativa, portata
avanti da gruppi misti, non fu ben vista dalle autorità, sia greche che tur­
che. La stampa accusò di tradimento i partecipanti a questi gruppi inter­
comunitari (le Vif - l 'Express, 1 4 aprile 2000).
I'.! Questi ultimi rifiutarono di partecipare al grande show Per il Kosovo e
ricordarono che la somma massima che una tale serata avrebbe potuto rac­
cogliere sarebbe stata sicuramente inferiore al prezzo di due o tre bombe
lanciate dalla NATO in quella regione.

1 14
qualche riflessione critica si mette «controcorrente rispetto
agli intellettuali benpensanti, al sicuro sotto l'ala protettrice
dello zio Sam» 1 \
Per non essersi fatti reclutare e intruppare, furono imme­
diatamente accusati d'essere anti-occidentali, anti-demo­
cratici, in breve di «appoggiare Milosevic».
I media, nella grandissima maggioranza sottomessi alla
disciplina NATO, anche se vennero lasciate piccole tribune
libere come alibi e «prove» del pluralismo mediatico, si sca­
gliarono contro di loro.
Le Soir e la RTBF in Belgio, ma anche la BBC in Gran Bre­
tagna, rifiutarono ogni contributo proveniente da oppositori
che avrebbero potuto produrre imbarazzo.
Quest'ultima tagliò, da un videoclip del Socialist Labour
Party di Arthur Scargill, la sequenza che mostrava le deva­
stazioni causate dai bombardamenti NATO 1 1 •
Il portavoce del capo del governo Tony Blair, Alastair
Campbell, peraltro, accusava i media britannici e in parti­
colare la BBC-lV di simpatie filoserbe, per aver fatto vedere
le «sbavature» della NATO 1 ".

Su Le Monde, Daniel Schneidermann dedicava due articoli


pressoché uguali, nell'aprile e nel giugno del 1 999, a rim­
proverare i giornalisti francesi di non essere stati sufficien­
temente disciplinati. Alcuni di loro avevano manifestato una
«eccessiva prudenza», si erano mostrati «increduli», avevano
preso «le testimonianze dei rifugiati con le pinze» ; avevano,
in altri termini, peccato di «eccessiva diffidenza» 1
().

Il rapporto di J iri Dienstbier sul Kosovo, trasmesso come


informazione complementare dal segretario generale del­
l'ONU agli Stati membri, ha valso al suo autore un fiume di
attacchi, in quanto troppo equilibrato. Le sue conclusioni
furono:

i :i
Le parole sono di Georges Moustaki, nel suo articolo intitolato «A
Daniel Cohn Bendit» (Le Monde, 3 giugno 1 999).
11 Miche) Collon, Monopoly. L 'Otan à w conquéte du monde, cit., p. 48.
1
" Le Monde, 13 luglio 2000.
lti Le Monde-télévision, domenica 1 1 e lunedì 12 aprile 1999 e domeni­
ca 27 e lunedì 28 giugno 1 999.

115
La pulizia etnica, prodottasi in primavera a danno degli albanesi,
accompagnata da morti, torture, saccheggi ed incendi di case, è
stata seguita, in autunno, dalla pulizia etnica a danno dei serbi, dei
gitani, dei bosniaci e d'altre genti non albanesi su cui furono com­
messe le stesse atrocità 1 7 •

Questo rapporto costò a J iri Dienstbier un virulento attac­


co su Le Monde (14 dicembre 1999) di Ismail Kadarè, che gli
rimproverava di «mettere sullo stesso piano vittime e carne­
fici». Dienstbier gli risponderà (26 gennaio 2000) in questi
termini:

Non ci sono 'crimini serbi e albanesi'. I crimini sono commessi da


criminali assai concreti. A volte hanno un nome serbo, un'altra vol­
ta albanese, un'altra volta altri nomi. Non metto sullo stesso piano
i carnefici e le vittime. Metto sullo stesso piano i carnefici serbi e
albanesi e provo la stessa pena per le vittime albanesi e serbe.

Rifiutando di giustificare come una «comprensibile ven­


detta» la seconda serie di crimini commessi in presenza di
Minuk, Kfor e Ocse, spiegò che:

Il principale motivo delle espulsioni, delle morti, dei saccheggi,


della distruzione delle case e delle altre violenze è l'attività orga­
nizzata di coloro che, armi alla mano, si impadroniscono dei beni
degli espulsi e tentano d'impadronirsi del potere. I criminali ed i
mafiosi attraversano liberamente le frontiere aperte.

Per la maggior parte le personalità che hanno avanzato ri­


serve sulle tesi ufficiali relative alla guerra contro la J ugosla­
via sono state trascinate nel fango. Ogni richiesta d'informa­
zione sui fatti fu considerata una prova dell'alleanza col ne­
mico. Gli intellettuali albanesi Veton Surroi e Baton Haxhia
sono stati indicati come traditori dall'agenzia ufficiale, favo­
revole all'UCK, per aver criticato i crimini contro le popola­
zioni non-albanesi. I commenti dell'agenzia li qualificavano
come «degenerati, bastardi che puzzano di slavo», che «non
17
Citato da Serge Halimi e Dominique Vidal, l'opinion ça se travaille,
cit., p. 58.

1 16
avranno posto nel Kosovo libero e potranno essere oggetto
di eventuali e giustificabili rappresaglie» 1 8 •
Lo scrittore Peter Handke, che aveva realizzato nel giu­
gno 1999, per il Burgtheater di Vienna, un lavoro su questo
argomento, nel quale, in particolare, proclamava il suo di­
sprezzo per le «iene umanitarie», esperti e giornalisti al ser­
vizio della «centrale monopolistica di produzione della veri­
tà» 1 9 , fu immediatamente accusato di aver preso partito per
la causa serba e precisamente per un paese, la Serbia, «che
tutto il mondo odia». Il suo lavoro, che parlava delle soffe­
renze del popolo serbo, quando tutti i media non parlavano
che di quelle dei kosovari, fu fischiato. Il quotidiano vienne­
se Kurier e anche la Frankfurter Allgemeine Zeitung si accani­
rono contro l'autore «rabbioso», le sue prese di posizione
«aggressive e parziali» e il suo testo che non era che «una se­
rie di sciocchezze» 20 •

Allo stesso modo, in Francia coloro che osavano doman­


dare se era stato necessario bombardare le popolazioni civili
jugoslave, si sentivano trattare di rimando come «fascisti ros­
si» e complici di Milosevic. Il settimanale L'Evénement, del 29
aprile 1999, pubblicò il nome e la foto di quelli che, secondo
il sottotitolo, erano « I complici di Milosevic». Si possono tro­
vare così, alla rinfusa, i pochi intellettuali e scrittori critici o
scettici nei confronti della politica della NATO (Pierre
Bourdieu, Max Gallo, Serge Halimi... ) ma anche il cantante
Renaud, l'Abbé Pierre e monsignor Gaillot! L'Evénement de­
nuncia inoltre i loro organi di stampa (Le Monde Diplomati­
que, L 'Humanité, Politis) e organizzazioni (MRAP, CGT, PCF,
Mouvement de la paix) come· quelli che «hanno scelto di
brandire lo stendardo della Grande Serbia!».
Anche Le Monde diffama gli avversari della guerra della
NATO. Ad esempio, quando la petizione «Gli europei vo-

lvi, citato da Serge Halimi e Dominique Vidal, l'opinion ça se travaillP,


18

cit., 6 O .
1 rfl
· · l Iavoro s , mt1to
. . Iava e il.a
· in . piroga
. . .
o compostzwne . dt. un fit lm
a propostlo
suUa guerra.
20 Vedi Le Monde dell' 11 giugno 1999 e del 13 e 1 4 giugno 1999.

1 17
gliono la pace», del collettivo « No alla guerra», forte di cen­
tomila firme, venne resa pubblica «reclamando la cessazione
immediata dei bombardamenti aerei della NATO» e «l'aper­
tura di veri negoziati [ ... ] attorno ad un piano di pace dura­
turo», Le Monde del primo aprile 1999 non titolò con i nomi
prestigiosi che l'appoggiavano (l'Abbé Pierre, Gilles Per­
rault, Max Gallo, Alexandre Zinoviev, Peter Handke, Jean­
Francois Kahn) ma invece con «L'imbarazzante appello alla
pace della 'Nuova Destra'».
Il giornale parigino rileva in effetti che, tra i 100.000 fir­
matari, «si trovano soprattutto [sic] una quindicina di rap­
presentanti e simpatizzanti del movimento battezzato 'Nuo­
va Destra'» e suggerisce trattarsi di «un'alleanza 'rosso-nera',
un collegamento tra l'estrema destra e il movimento comu­
nista, o meglio, anarchico».
In Francia, l'oggetto della campagna di diffamazione più
violenta fu Regis Debray. Questo scrittore aveva avuto l'au­
dacia, in piena guerra contro la Jugoslavia, di «andare a ve­
dere quel che succedeva dall'altra parte». Il viaggio si era
concluso con un articolo pubblicato su Le Monde (13 maggio
1999) e un altro su Marianne (dal 17 al 23 maggio 1999). In
esso si sosteneva che i peggiori saccheggi commessi in Koso­
vo erano avvenuti sotto il diluvio dei bombardamenti e che
si trattava di «rappresaglie» condotte da elementi «fuori con­
trollo» con la probabile complicità della polizia locale. Se­
condo Regis Debray definire, per questo e a priori, il popolo
serbo «come collettivamente criminale» non era degno di un
democratico. La conclusione ultima delle impressioni koso­
vare di Regis Debray, pubblicate su Marianne, era un invito
categorico: «dubitate!».
All'indomani della comparsa del suo articolo su Le Monde
- cosa che prova che i suoi contraddittori avevano già prepa­
rato i loro interventi - Regis Debray dovette subire una serie
terrificante di colpi di sbarramento. Bernard Henry-Levy gli
disse: «Adieu, Regis Debray», che equivaleva ad una scomu­
nica. Dato che non era «in linea», la macchina mediatica si
mise in marcia. Fu accusato di revisionismo e negazionismo.
Patrick Canivez, maestro di conferenze all'Università Char-

1 18
les De Gaulle - Lille III, lo accusò di cinismo e ingenuità, «di
aver gettato il sospetto sui racconti di stupro, espulsioni, as­
sassinii, d'aver negato il crimine». Aveva trasmesso il mes­
saggio che i serbi volevano fosse trasmesso, era intervenuto
su un tema sul quale egli era manifestamente poco informa­
to ed aveva giocato un ruolo importante per i serbi «che
l'avevano ricevuto e protetto» (Le Monde, 1 6 e 1 7 maggio
1 999). Pierre Bayard e Jean-Louis Fournel, professori all'U­
niversità di Parigi VIII, nello stesso numero di Le Monde, ac­
cusarono Debray di malafede, di rifiuto di ammettere le
atrocità e di revisionismo causato da atteggiamento «iper­
critico». Se gli si desse ascolto, dovremmo «probabilmente
accogliere con grande sospetto i racconti di donne e uomini
cacciati e feriti nelle carni». Alain J oxe, direttore della
Scuola di Alti Studi in scienze sociali, scrisse su Le Monde ( 1 4
maggio 1 999): Regis «Debray ha scelto il suo campo, il cam­
po di Milosevic». Pierre Georges rimprovera Debray d'esse­
re un falso giornalista '.! i _ Daniel Schneidermann l'accusa di
schiaffeggiare a distanza i rifugiati '.! '.!. Il plotone d'esecuzione
al gran completo poteva fucilare il «traditore» ...

È pertanto provato che, nel corso di un conflitto, nessuno


ha diritto di chiedere ad alta voce perché la guerra o di pro­
nunciare, senza «tradire», la parola «pace». I media dipen­
dono così strettamente dalle autorità politiche che risulta lo­
ro impossibile assicurare, in un momento tanto delicato, un
vero pluralismo. Nelle costituzioni europee non si dice in
nessun luogo che la libertà d'opinione è soppressa in tempo
di guerra, ma di fatto così avviene. Un'opinione largamente
diffusa vuole che, in caso di guerra, ci si astenga da qualsiasi
opposizione al governo. L'Unione Sacra è di rigore.
Tuttavia è proprio in tempo di guerra, nel momento in
cui gli errori del governo possono costare più cari, che la li­
bertà d'opinione dovrebbe essere garantita, per impedire al
governo di produrre danni terribili e duraturi. Oppure, per

'.!I Le Monde, 1 8 maggio 1 999.


'.!'.! Le Monde-télévision , 16 e 1 7 maggio 1 999.

119
non passare per traditore, bisogna astenersi da ogni tipo di
opposizione? Non si può essere per il proprio paese, se ha
ragione, ma contro se ha torto? La giustizia e la verità non
esigono che si difenda anche il nostro nemico, se accusato di
crimini che non ha commesso? A rischio d'essere accusato di
alto tradimento...

120
Da Lord Ponsonby a J arnie Shea

Certi lettori possono pensare che i principi di propaganda


di guerra che abbiamo descritto, benché siano stati effetti­
vamente utilizzati in diverse occasioni, non abbiano più cor­
so oggigiorno, e che certamente non saranno utilizzati nei
prossimi conflitti. Si può pensare che noi siamo, ora, più av­
vertiti dei nostri predecessori e che ciò riduce il valore uni­
versale di questi principi. Invece, anche se ci sembra impos­
sibile, ci verrà ancora una volta indubbiamente raccontato
che abbiamo subito un' «aggressione» e che il Bene deve
combattere contro il Male impersonato dal demoniaco capo
dei nostri nemici. L'inchiostro dei sapienti sarà impiegato
per far scorrere il sangue dei martiri. E noi ci faremo abbin­
dolare.
La descrizione dei principi della propaganda di guerra ci
pone, per finire, alcune fondamentali questioni:

- Siamo oggi creduloni quanto ieri i nostri predecessori?


- L'applicazione di questi principi viene fatta intenzional-
mente, di proposito, con piena cognizione?
- La verità è importante?
- Il dubbio sistematico non comporta pure certi rischi?

Alla prima domanda, risponderei «sì, ma».


«Sì», noi oggi crediamo a moltissime frottole, come ieri i
nostri precursori. Le menzogne sui neonati kuwaitiani
strappati alle incubatrici dai soldati iracheni non hanno

121
nulla da invidiare a quelle sui bambini belgi dalle mani moz­
zate. Hanno richiamato la nostra compassione e sono state
«bevute» da un vasto pubblico con la stessa «avidità». Con
maggiore avidità, forse, perché la comunicazione è diventata
un'arte eseguita in modo provetto. Poiché il consenso della
popolazione è necessario per scatenare e portare avanti una
guerra, i metodi di persuasione per creare questo favore si
sono affinati. I media, contrariamente a quello che procla­
mano certuni non sono per nulla discordi in tempo di
1
,

guerra. Anche in «democrazia» c'è un monopolio di fatto


sulla produzione e diffusione di informazioni e immagini
che non lascia alcuno spazio di scelta per immagini contra­
stanti o discorsi contrari.
La creazione di uno stato d'ipnosi condiviso, ove noi ci ri­
troviamo nel campo virtuoso del Bene oltraggiato, corri­
sponde senza dubbio ad un bisogno patologico. Amiamo far
credere (a noi stessi e agli altri) di partecipare ad una opera­
zione cavalleresca, in nome del Bene, contro il Male. Ci si
convince d'essere onesti, ci si crea volentieri un'ideologia
giustificatoria.
Le tecnologie attuali del «far credere» ci portano oggi
molto più lontano, in questo sogno collettivo, di quanto non
potesse fare Goebbels. Un umorista disse: «Oggigiorno la
gente non crede più a tutte queste fesserie, ma solo a quelle
che vede alla televisione».
Alcuni sono semi-coscienti dell'abuso della loro credulità
fatta dai media, comprendono di essere stati ingannati, ma
non vogliono riconoscere d'esserlo stati!
« Ma» . . .
Nondimeno, la credulità non è più esattamente uguale a
prima. Anche lo scetticismo è importante nel mondo che ci

1 Leggo dalla penna di Laurence Van Ypersele (UCL) nella rivista Lou­
vain, 11 . 1 07 , aprile 2000, che «sono i regimi totalitari ad essere diventati
maestri nella falsificazione della storia [ . . . ] Il vantaggio delle democrazie è
che non hanno un centro che abbia il monopolio assoluto nella produzione
e diffusione di idee [ . . . ] Questa produzione [ . . . ] proviene da molteplici cen­
tri, spesso contrastanti tra loro e ciò dà spazio a possibili discorsi contrari.
Queste proposizioni sono, secondo me, false almeno in tempo di guerra».

122
circonda, ove spesso sfida autorità religiose, militari o politi­
che. E potrebbe anche, un giorno, affrontare la credulità
mediatica. Si può sperare che le menzogne di ieri costitui­
scano un'esperienza che generi maggior spirito critico. È là
che abita la nostra speranza, quella di coloro che tentano di
educare il pubblico al linguaggio dei media, e lo scopo di
questo libro.

Alla domanda se l'applicazione dei principi di Ponsonby


ai conflitti sia ragionata, intenzionale o frutto del caso non
ho molto da rispondere. È Berenice, mia figlia di dodici an­
ni, che, vedendomi preparare questo libro, mi pone questa
domanda, al1o stesso tempo ingenua e pertinente. S'imma­
gina forse i falsificatori all'opera, mentre battono sui loro
computer notizie direttamente ispirate ai dieci principi di
Ponsonby, che tengono ben visibili, appesi alla parete di
fronte a loro, oppure li vede sconsolati per non essere riusci­
ti ad applicarli, nelle loro menzogne di quel giorno? Questa
immagine limpida condurrebbe a ipotizzare un grande
complotto globale al quale non posso credere, tuttavia la
professionalizzazione della comunicazione è, attualmente,
tale che non è possibile, ad esempio, immaginare che il por­
tavoce della NATO, al tempo della guerra aerea contro la
Jugoslavia abbia ignorato questi principi.
In effetti, J arnie Shea non è il primo venuto. Questo spe­
cialista nella propaganda ha ottenuto un incarico di post­
dottorato al collegio Lincoln dell'Università di Oxford gra­
zie ad una tesi riguardante precisamente... gli intellettuali
francesi e la prima guerra mondiale '.!. Pertanto conosceva
bene le molle sulle quali poteva giocare, mentre i filtri me­
diatici operavano per selezionare i giornalisti che sarebbero
risultati più persuasivi nel trasmettere i messaggi voluti.

Molte volte, nel corso della storia, si sono viste le «informa­


zioni» che avevano supportato la scelta bellica smentite in se-

'.! J arnie Shea, French /ntellectuals and the Creai War I 9 I 4-1 920, tesi di
dottorato (Ph.D.). Considera ogni opposizione o critica della prima guerra
mondiale alla stregua di un pacifismo sentimentale.

123
guito senza che ciò creasse scandalo o disorientamento e che
ci si domandasse se la verità aveva una qualche importanza.
Non fidarsi non porta per forza alla verità. Ci sono, certo,
delle verità «inconoscibili» o per la natura dei fatti o a causa
degli attuali mezzi di indagine. Ma non è, evidentemente, il
fatto di non conoscere la verità che impedisce a questa di es­
serci. Ci sono stati 200.000 o 20.000 morti in Bosnia? 1 . 500
o 45.000 vittime algerine del massacro del Setif, messo in at­
to dall'esercito francese nel 1 945?
Se la stima del numero delle vittime dei serbi nel Kosovo
oscilla tra le 500.000 e le 2. 500, questo non vuol dire sicu­
ramente che il numero di questi morti non sia un dato reale
e obiettivo. Curiosamente, tuttavia, coloro che avevano
avanzato il numero delle vittime quando non si era in grado
di verificarlo e si temeva di doverle contare in centinaia di
migliaia, decidono, quando finalmente si dispone di dati seri
per una valutazione, che le cifre sono, a conti fatti, prive di
significato e di nessun interesse...
Sarebbe, d'altronde, particolarmente ingenuo immagina­
re che basta confrontare le due versioni per scoprire la veri­
tà nel mezzo. «In medio stat virtus» (la virtù è nel mezzo)
non è un adagio che si può applicare alla verità storica.
Si può arrivare, in effetti, al fatto che non si mente che in
uno dei due campi e che uno dei due è stato veramente aggre­
dito senza aver voluto la guerra, ma il giudizio che stabilisce
chi è l'aggressore e chi l'aggredito è particolarmente delicato.
Questo cambia veramente le cose? Le menzogne, anche se
virtuose, restano menzogne e questo evidentemente cambia
la conoscenza della verità. Se, poi, si crede che tutto questo
non abbia alcuna importanza, ci si deve anche chiedere per­
ché si siano studiate queste falsificazioni se non harino ve­
ramente alcuna importanza nella creazione del consenso in­
dispensabile per lanciare e poi proseguire la guerra.

La quarta domanda («Il dubbio sistematico non comporta


pure certi rischi?») ci riporta ai pericoli del relativismo. Dato
che loro dicono tutti la stessa cosa e utilizzano gli stessi ar­
gomenti, non si devono mettere tutti nello stesso sacco?

124
Abbiamo ben compreso come la maggior parte di coloro
che danno le informazioni mentono, nondimeno speriamo
che il nostro caso sia diverso. Noi che siamo dei democratici,
degli altruisti (al contrario degli altri che si dicono altruisti,
senza esserlo), dei difensori dei diritti dell'uomo, noi - in via
eccezionale, contro tutte le regole - saremo diversi e non ci
si mentirà, almeno per questa volta.
Noi non mentiremo, faremo la guerra, ma solo per buone
rag10m...
In realtà, se i mascalzoni utilizzano, per persuadere le
brave persone, il linguaggio che queste vogliono sentire, può
essere che questi argomenti altruistici corrispondano a prin­
cipi morali universali. Così anche le imprese più abiette
vengono rivestite con le nobili motivazioni d'idealismo mo­
rale che il pubblico si attende, autopersuadendosi del buon
fondamento di queste stesse imprese.
Le stesse frasi («Corriamo in aiuto di un popolo persegui­
tato») possono celare realtà molto diverse. Non è evidente­
mente la stessa cosa usare ai propri fini una persecuzione
reale o inventarla di sana pianta per servirsene come alibi.
La strumentalizzazione dei massacri è di un'altra natura ri­
spetto alla loro non esistenza, ma non è facile determinare la
realtà che sta sotto le parole.
Quanto a sapere quali sono i pericoli dell'ipercriticismo, si
può subito rilevare che la prudenza eccessiva può paralizza­
re qualsiasi iniziativa e che l'iniziativa ha talvolta un'urgenza
vitale. Joel Kotek ritiene che gli anglo-americani fossero,
durante la seconda guerra mondiale, tanto scettici in rela­
zione alle informazioni sui crimini nazisti nei campi, perché
scottati dalle menzogne della propaganda britannica sui
crimini tedeschi nella guerra del 1914-1918 3 •
In generale, troviamo bello che ci siano degli scettici nei
ranghi dei nostri nemici, non tra i nostri. L'ipercriticismo -
anche se può avere come esito desolanti scemenze come il
negazionismo - ha pochi morti sulla coscienza e l'eccesso di

3
Joel Kotek è l'autore di le siècle des camps: détention, concentration, exter­
mination, cent ans de mal radical, Ed. J .-C. Lattes, 2000.

1 25
scetticismo mi pare condurre a conseguenze meno tragiche
che la cieca credulità. Il dubbio sistematico mi sembra anco­
ra il migliore antidoto al veleno della persuasione a domici­
lio che i media ci distillano quotidianamente, siano guerre
internazionali, conflitti ideologici o scontri sociali.
Anche in quest'ultimo caso, si tenterà di persuaderci, e
con tutti i mezzi precisati nella descrizione del terzo princi­
pio di Ponsonby («Il capo avversario ha il volto del diavolo»),
che i leader sindacali, se sono alla testa di un di un movi­
mento in rotta con il sindacalismo accomodante, sono i peg­
giori mostri sanguinari. I media ce li descrivono come pro­
vocatori, sobillatori, manipolatori, demagoghi, avventurieri,
guru, mafiosi, criminali, cospiratori, terroristi... A loro ver­
ranno accostati i qualificativi meno invidiabili: zuccone, zotico,
despota, violento, tiranno, irresponsabile. . . 1 •
A noi resta di dubitare. Che si sia in situazione di guerra
calda, fredda o tiepida...

1 Vedi l'analisi che Geoffrey Geuens, ha dedicato alla costruzione di que­


ste immagini, « De l'archétype savant au stéréotype politique. Figures
médiatiques du leader ouvrier», in Quaderni, 11. 40, hiver 1999-2000.

1 26
L'applicazione dei principi elementari
della propaganda di guerra ai recenti conflitti
in Afghanistan e Iraq

È nella primavera 200 I che ho pubblicato il libro oggi


qui tradotto in italiano. A partire da esempi tratti dalla
prima guerra mondiale e descritti da Arthur Ponsonby
avevo proposto, come base della propaganda di guerra,
dieci principi che mi sembra siano stati applicati nel corso
dei conflitti del XX secolo e che poggiano su numerosi
esempi storici posteriori al 1918. Il libro stava per essere
inviato nelle librerie quando, a seguito degli attentati del-
1'11 settembre, si è dato il via a due nuove guerre, natu­
ralmente precedute, inquadrate e seguite da nuove cam­
pagne di propaganda.
Si tratta, pertanto, di verificare se, in queste attività di
«orientamento della pubblica opinione», si siano o meno
applicati i principi che ho elencato. Il lettore giudicherà se e
quanto la dimostrazione sia convincente.

I - II. Noi non vogliamo la guerra - Se la guerra


è scoppiata è colpa dell'altro
Questi due primi principi di propaganda sono logicamen­
te connessi. Come in ogni guerra, i belligeranti - sia l'ag­
gressore che l'aggredito - si diffondono in grandi assicura­
zioni riguardo al loro pacifismo pressoché perfetto. E così,
durante la guerra contro l'Iraq, Colin Powell non ha manca­
to di affermare: «Noi amencam non cerchiamo affatto la

127
guerra. L'affrontiamo con ripugnanza» 1 • Non diversamente
Tony Blair affermava: «Non siamo stati noi a volere questa
guerra. È stato il rifiuto da parte di Saddam di rinunciare
alle sue armi di distruzione di massa a non lasciarci altra
scelta che quella di agire» 2 •
Per «rispondere» ad un attacco, bisogna che il nemico ci
abbia «provocato». Un banale pretesto o un evento senza al­
cun rapporto con il conflitto può essere presentato come
una dichiarazione di guerra. La settimana precedente il
bombardamento dell'Afghanistan, Le Soir titolava « I talibani
e Bin Laden sfidano gli Stati Uniti» 3, preannunciando in
questo modo una risposta, che era presentata anche come
una reazione all'attacco del World Trade Center, senza che
si riuscisse a capire chiaramente come la liberazione di Ka­
bul (e più tardi di Bagdad) avrebbe impedito altri attentati
come quelli di New York, Bali o Monbasa. Per giustificare
una risposta militare, si è trasformato un atto di terrorismo
in un atto di guerra. L'attacco al World Trade Center è così
diventato una dichiarazione di guerra e, per legittimare la
seconda guerra contro l'Iraq, si è parlato di ordini iracheni
per l'acquisto di uranio arricchito dal Niger - ordini dimo­
stratisi poi falsi - come mezzo per provare la realtà della
minaccia nucleare da parte dell'Iraq 4. In questo modo l'ag­
gressore ha potuto presentare il suo attacco come un diritto
di legittima difesa.
Lo stesso attacco unilaterale a Bassora, nel sud dell'Iraq
nel marzo del 2003, diventa per la catena Sky News una ri­
sposta: «La nostra artiglieria ha risposto» [corsivo dell'autrice].
La rete televisiva britannica, citando fonti militari, aveva fat­
to precedere questo annuncio da informazioni, in seguito
smentite, secondo le quali «una sollevazione popolare era

1
Intervista pubblicata su La Libre Belgique, 4 aprile 2003.
2 Messaggio agli iracheni, dalla televisione di stato, pubblicato su Le Fi­
garo, 1 1 aprile 2003.
� Le Soir, 1 ° ottobre 200 1 .
4
Il direttore generale dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomi­
ca è giunto nel marzo 2003 alla conclusione che i documenti erano falsi (La
Libre Belgique, 1 1 marzo 2003).

128
scoppiata ed era stata repressa dall'artiglieria irachena»\ La
coalizione, pertanto, altro non faceva che appoggiare una ri­
volta ampiamente giustificata. Inoltre, passando all'attacco,
l'aggressore non aveva fatto altro che anticipare la violazione
del suo territorio.
In ogni modo, la guerra è scoppiata per colpa di Milose­
vic, di Bin Laden o di Saddam Hussein, diventato «Saddam»
per negligenza del patronimico e necessità di slogan brevi.

III. Demonizzare il capo del campo avverso


Non si può far odiare tutto un popolo; è più efficace con­
centrare l'attenzione della pubblica opinione su di «un mo­
stro» che di solito viene paragonato a Hitler.
Uno degli scopi ufficiali del conflitto è quello di catturare
questo pazzo criminale e di metterlo in condizioni di non
nuocere. La seconda guerra irachena ha giocato la sua pro­
paganda quasi interamente su Saddam Hussein. È lui la «ca­
rogna di turno» e non è raro vedere titoli di questo tipo (an­
che con qualche variante): «Gli USA contro Saddam» (i.
Parisoula Lampsos, che viene presentata come la «cocot­
te» in carica del presidente iracheno, testimonia su ABC il
sadismo e l'ipocrisia del suo amante che adora il whisky, ma
va a prosternarsi alla moschea 7 • Negli anni Ottanta, tuttavia,
le democrazie, compresi gli Stati Uniti, avevano aiutato Sad­
dam - che era lo stesso dittatore che sarebbe stato quindici
anni dopo - a dotarsi di «armi di distruzione di massa» e a
muovere guerra all'Iran.
Una foto del 20 dicembre 1989 mostra Saddam Hussein
che stringe calorosamente la mano a Donald Rumsfeld, in­
viato speciale del presidente Ronald Reagan a Bagdad 8 •
Bin Laden stesso, «canaglia di turno» per eccellenza al

5
Le Soir, 27 marzo 2003.
li Titolo di un articolo di USA Today, 2 ottobre 2002 .
7
Ho potuto commentare queste sequenze alla televisione francese nel
corso della trasmissione Arrét sur image.
8
La foto è disponibile su The National Security Archive.

1 29
tempo della guerra contro l'Afghanistan scatenata ufficial­
mente per catturarlo, era precedentemente stato nelle gra­
zie degli americani e la sua famiglia si era accompagnata alla
famiglia Bush in affari e comuni investimenti petroliferi. An­
che al tempo dei bombardamenti sull'Afghanistan comparve
un suo ritratto (in vestiti occidentali, cravatta, capelli corti,
rasato di fresco, per suggerire che aveva vigliaccamente ab­
bandonato la causa) che sarà ingrandito e stampato su mi­
gliaia di volantini distribuiti per raccomandare alla popola­
zione di non prestargli aiuto 9 •
Le «carogne ad interim» sono invece legione. Ci sono stati
uomini politici belgi che hanno incensato, nei loro giorni di
gloria, sia Todor Zhivkov (Guy Spitaels scrisse un'adulatoria
prefazione alle sue opere imperiture) che Nicolae Ceausescu
(vedi Willy De Clercq) salvo unirsi in seguito, al momento
della loro caduta, al gruppo maggioritario dei detrattori. La
stessa Madeleine Albright aveva salutato con favore l'entrata
dei talibani a Kabul, prima di darsi da fare per la loro liqui­
dazione.
Le «canaglie di turno» possono, dopo il conflitto, ridiven­
tare perfettamente frequentabili. Così il ministro dell'infor­
mazione di Saddam Hussein, Mohammad Said al Sahaf, ri­
dicolizzato in Occidente per le sue affermazioni che negava­
no, contro ogni evidenza, l'avanzata americana e considerato
il più grande bugiardo e manipolatore del regime, verrà ar­
restato nel giugno 2003 dagli americani. Interrogato e rila­
sciato dopo poche ore, troverà quasi immediatamente un
impiego alla televisione come commentatore e analista 10 •
I figli di Saddam, demonizzati almeno nella stessa misura
del padre, non avranno però le stesse possibilità del mini­
stro dell'Informazione 1 1 •

CJ le Monde, 14 gennaio 2002.


10 Per la ·1v al-Arabiya (le Figaro, 28/29 giugno 2003).
1 1 Sulla loro demonizzazione si veda un articolo di le Figaro (3 aprile
2003) intitolato « Les héritiers du mal» (Gli eredi del male) in cui si accusa
in particolare Oudai d'aver ammazzato a colpi di bastone la persona che
aveva presentato a Saddam Hussein quella che sarebbe diventata la sua
amante, «per vendicare l'onore di sua madre» . La foto che affianca il pezzo,

130
IV. Noi facciamo la guerra per fini nobili
La propaganda di guerra vuole che non si parli mai delle
cause vere dei conflitti, che sono sovente di ordine economi­
co o geostrategico, perché non adatte a sviare l'opinione
pubblica dagli stati d'animo inquietanti o negativi che il
conflitto militare induce.
Le guerre recenti non fanno eccezione a questa regola.
Invariabilmente, dalla prima guerra mondiale, gli obiettivi uf­
ficiali delle guerre sono tre: estendere la democrazia, lottare
contro le minacce rappresentate dal militarismo del nemico,
correre in soccorso di una piccola nazione minacciata.
Si ritrovano tutte e tre nella propaganda recente.

La guerra all'Afghanistan è stata ufficialmente scatenata


dal «mondo libero» per catturare Bin Laden, contrastare il
terrorismo e instaurare la democrazia e la liberazione delle
donne.
Il filosofo Guy Haarscher giustifica la guerra contro l'Af­
ghanistan e parla perfino del dovere di fare la guerra per
«proteggere gli innocenti che la rete terroristica di Al Qaida
mette potenzialmente in pericolo» 1 2 •
Le ragioni della guerra sarebbero pertanto umanitarie e
quanto di più nobile è possibile, anche se, a distanza di oltre
due anni, nessuno degli obiettivi proclamati è stato raggiunto.

L'attacco contro l'Iraq avrebbe avuto come scopo quello di


liberare gli iracheni dal loro tiranno. Tony Blair l'aveva an­
nunciato: «Le nostre forze sono forze amiche che libereran­
no il popolo iracheno» 1 3 • Tuttavia, nonostante la messa in
scena di questa «liberazione», gli iracheni, al cui soccorso
s'era mossa la coalizione, non si sono dimostrati molto con­
vinti di questa enunciazione dei motivi del conflitto, come
testimoniano gli atti d'ostilità contro i soldati anglo-america-

largamente diffusa nel momento in cui fu ucciso - cosa che non pare aver
nulla di casuale - lo mostra mentre fuma un lungo sigaro.
1 2 le Soir, 25 febbraio 2002.
1 3 Dichiarazione alla televisione irachena (le Figaro, 1 1 aprile 2003).

131
ni. Quanto all'instaurazione della democrazia in Iraq, non
sembra tanto imminente. È per questo che i nomi delle ope­
razioni NATO più recenti - che suonano come nomi di
profumi - hanno il compito di testimoniare la purezza delle
intenzioni di questi atti: «Giusta causa» fa a gara con «Tem­
pesta del deserto», «Raccolto indispensabile», «Giustizia in­
finita» o «Libertà immutabile» ...

V. Il nemico commette regolarmente delle atrocità, mentre


le nostre truppe sono formate da soldati umanitari che, solo
occasionalmente, possono compiere errori involontari
Questo principio è essenziale per ottenere l'appoggio del­
l'opinione pubblica. È stato usato in tutte le guerre del ven­
tesimo secolo per contrapporre i nemici-bestia, che stuprano
le donne e volontariamente s'accaniscono nel fare del male,
ai nostri buoni soldati attesi con gioia dai civili dello Stato
avversario perché si danno da fare per proteggere e portare
aiuto, oltre che soccorrere i nemici feriti.
Disgraziatamente questa immagine d'Epinal non si atta­
glia tanto bene né alle guerre recenti né a quelle del passato.
Tutti gli eserciti stuprano e molestano, quando ne hanno
l'occasione. In un'opera, da poco uscita, di un professore di
storia americano si valuta a 17.000 il numero di stupri
commessi dai GI su donne britanniche, francesi e tedesche
di tutte le età, al tempo della seconda guerra mondiale 1 1 •
Le parole, naturalmente, hanno un peso e quando ci si
riferisce ai nostri soldati si parla di «liberazione» di Bagdad
o di «messa in sicurezza» di Kaboul 15 e ciò è infinitamente
meno pesante che parlare di truppe d'occupazione. Le im­
magini di liberazione sono state accuratamente messe in
scena con l'aiuto di mezzi militari (per demolire la famosa
statua davanti all'hotel Palestina), di comparse (collegate ad

J. Robert Lilly, La Face cachée des G./. 's, Payot, 2003.


11

La Libre Belgique, 1 1 marzo 2003, parla di 5.000 soldati occidentali di­


15

slocati nella capitale afgana.

132
Ahmed Chalabi) e anche di gadget forniti dai liberatori (T­
shirt, bandiere, badge... ).
La mediatizzazione della distribuzione di aiuti da parte
dei soldati della NATO diffonde nel pubblico occidentale
l'idea che i nostri soldati si trovino là per la felicità di quelle
popolazioni.

Inversamente, la soldataglia irachena avrebbe tormentato


e straziato di botte una giovanetta americana di nome J essi­
ca Lynch, fino a quando non venne liberata da un drappello
di rangers. Questa liberazione, esposta in dosi massicce dai
media, se ha rafforzato il morale americano, non corrispon­
deva per nulla alla realtà dei fatti. La BBC ha rivelato che la
giovane soldato non solo non era stata molestata, ma aveva
avuto il miglior letto dell'ospedale di Nassirya e due trasfu­
sioni di sangue, mentre il raid per la sua liberazione era sta­
to pianificato come uno show ad uso dei media.

Quanto ai crimini di guerra perpetrati in Afghanistan da­


gli occidentali nel 200 I , o al momento della seconda guerra
irachena, vengono - assai classicamente - qualificati da parte
nostra come «effetti collaterali» I(,. Danni collaterali pertanto,
non atrocità, le esecuzioni dei prigionieri talibani a Kunduz,
i quarantotto civili uccisi in una festa di matrimonio il I lu­ O

glio 2002 a Kakarak, i prigionieri torturati a Guantanamo e


altrove, gli agricoltori irakeni massacrati, il bombardamento
di civili nei campi...
Se gli effetti collaterali si sono moltiplicati in Iraq, è per­
ché gli atti di provocazione fomentano il nervosismo dei sol­
dati della coalizione 'i. Se a Falloujah sedici abitanti sono sta­
ti abbattuti dai colpi di mitragliatrice dei militari americani,
è stato perché, nel corso d'una manifestazione, avevano sfi­
dato l'esercito americano lanciando, in particolare, sui solda­
ti delle scarpe che questi hanno scambiato per granate! 1 8
1 1'
La parola è ormai talmente abusata che La Libre Belgique l'utilizza nei
titoli tra virgolette (2 aprile 2003).
Ii La Libre Belgique, 2 aprile 2003.
18
La Libre Belgique, 2 maggio 2003.

133
La versione ufficiale dei soldati della coalizione umanita­
ria è stata, tuttavia, messa in serio dubbio dalla pubblicazio­
ne, da parte dell'Evening Standard 1 9 , delle confessioni di sol­
dati americani che hanno detto di aver sparato in modo in­
discriminato contro dei non-combattenti, d'aver lasciato mo­
rire dei combattenti nemici feriti o di averli finiti. I GI, in­
tervistati nell'articolo del giornale britannico, hanno detto
anche di non essere in grado di distinguere i civili dalle
truppe nemiche. Verità questa, evidente in moltissime guer­
re, ma assai lontana dalle immagini edificanti diffuse dalla
propaganda ufficiale.

VI. Il nemico usa armi che non sono permesse


Secondo questo sesto principio, noi combattiamo in ma­
niera cavalleresca, rispettando le regole del gioco. Al contra­
rio, i nostri nemici non rispettano le leggi di guerra e ci mi­
nacciano con armi non convenzionali. Nel corso del vente­
simo secolo, queste sono state, in successione, i gas asfissianti,
i sottomarini, i proiettili dum-dum, le armi batteriologiche o
le armi nucleari che sono considerate come fuori legge.
Al tempo della guerra in Afghanistan, l'arma non permessa
è quella del terrorismo. Si deve ricordare anche qui che la pa­
rola è priva di senso dal momento che è passata semplicemen­
te a indicare un tipo di violenza che noi disapproviamo?
Gli afghani vengono considerati collettivamente respon­
sabili dell'attentato, condotto in modo «disumano», contro il
World Trade Center. Ci sarebbero, secondo questo ragio­
namento, delle maniere appropriate o umane di uccidere il
prossimo che gli afghani non hanno applicato.
Il pretesto principale per la seconda guerra degli Stati
Uniti contro l'Iraq è stato che Bagdad avrebbe tentato segre­
tamente di ricostituire il suo potenziale nucleare. Dato che
gli ispettori inviati nel 2003 in Iraq non avevano trovato
niente di sospetto, Washington e Londra presentarono un

I !)
1 9 giugno 2003.

1 34
documento secondo il quale l'Iraq aveva tentato di comprare
uranio arricchito nel Niger. Se questo tentativo fosse stato
provato, sarebbe stato equivalente ad un'ammissione di col­
pevolezza, dato che l'unico scopo di questo acquisto non
avrebbe potuto essere che un programma nucleare. Quando
tuttavia l'AIEA (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomi­
ca) ebbe alla fine accesso alle «prove», dichiarò che si tratta­
va di falsi 20 •
All'inizio della seconda guerra del Golfo, tuttavia, l'Iraq fu
nuovamente accusato di detenere armi proibite e si annun­
ciò che un gruppo di funzionari americani aveva scoperto
una fabbrica di armi chimiche. Informazione, in seguito
smentita 2 1 •
Anche Bin Laden, nel 2003, era stato accusato d'avere ac­
quistato nell'ex Unione Sovietica una «valigia nucleare» con
l'intenzione di usarla contro obiettivi statunitensi 22 •
Il concetto di arma «di distruzione di massa» è, vale la pena
di precisarlo, una nozione estremamente fluida che sembra
voler insinuare che ci sono delle guerre in cui non si cerca di
ammazzare il nemico in massa, ma solo sporadicamente! L'o­
biettivo principale di questa categoria di armi sembra soprat­
tutto quello di confondere lo spirito critico, dato che non c'è
alcun legame obiettivo tra le anni biologiche, chimiche e nu­
cleari che si fanno rientrare in questa categoria.
I termini armi «chimiche» e «biologiche» non sono, d'altro
lato, più chiari. Sono destinati a creare un riflesso di paura e
20
Due documenti erano, in particolare, sospetti. U na lettera dell'attuale
presidente nigeriano che si riferiva ai suoi poteri secondo i termini della
Costituzione del 1 965, decaduta già da quattro anni. La firma del capo di
Stato, inoltre, appariva grossolanamente falsificata. Un'altra lettera che si
riferiva all'uranio, con data ottobre 2000, era stata emanata dal ministro
degli Esteri Alle Elhadj Habibou, che non occupava più questa carica dal . . .
1 989. Portava, per d i più, l'intestazione del Supremo consiglio militare che
era stato sciolto nel 1 999.
2 1 ABC e Fox avevano annunciato, la settimana del 20 marzo 2003, la
scoperta di armi di distruzione di massa negate dal regime iracheno e la
Fox aveva titolato «Importante fabbrica chimica scoperta in Iraq».
22 Si tratta di una mini bomba atomica contenuta in una valigia, in gra­
do di distruggere il centro di una grande città. L'accusa fu ripresa da Le Vif
- L'Express, 5-6 luglio 2003.

1 35
orrore, ma gli americani e i sovietici erano in possesso ( e
avevano sperimentato) da molto il completo assortimento
degli agenti letali adatti ad un uso militare: gas tossici,
defolianti (il famoso agente arancio), neurotossici, germi
traccianti, ceppi ultra virulenti resistenti agli antibiotici e ai
vaccini t3 •
Ci si ricordi che nell'ottobre 2002 gli Stati Uniti sono stati
preda di una psicosi per l'antrace, malattia che era stata
«proditoriamente» diffusa per posta e indirizzata a persona­
lità del mondo politico e dei media. L'infezione aveva causa­
to cinque decessi ed era stata attribuita alla rete terroristica
di Al Qaida. L'impronta genetica del bacillo, tuttavia, permi­
se di appurare in seguito che la sua provenienza era interna
e si poteva attribuire ad esperti americani in armi biologi­
che '.!"1, ma il fantasma dell'introduzione di queste armi da
parte del nemico rimase negli Stati Uniti e fu una fonte di
profitti per la vendita a privati di «kit di sopravvivenza» '.!5 •
Sono state comunque le eventuali «armi di distruzione di
massa» detenute dall'Iraq quelle che diventarono il più
importante alibi per la guerra della primavera 2003. Una
cronologia delle dichiarazioni relative alle armi di distru­
zione di massa sembra interessante. Nell'agosto 2002, Dick
Cheney, riferendosi a quanto appreso dai servizi d'informa­
zione, afferma che gli iracheni stanno per concludere il loro
programma atomico. Il 24 settembre 2002, Tony Blair assi­
cura i parlamentari britannici che gli iracheni sono in grado
di porre in esecuzione «in 45 minuti» le loro armi di distru­
zione di massa.
Nel novembre 2002, Donald Rumsfeld afferma di avere le
prove che l'Iraq protegge il terrorismo e che Bin Laden vi si
è rifugiato.

'.!:, Vedi l'articolo su questo argomento di Alain Larcan, ex presidente


dell'Accademia nazionale francese di Medicina, l'Arsenal oublié des Améri­
cains, in Le Figaro, 5-6 luglio 2003.
'.!-1 Vedere Le Monde, 4 luglio 2002 e Le Vif- l 'Express, 24 maggio 2002.
'.!!i La pubblicità di questi kit passava regolarmente su Fox News e CNN
nel marzo 2003. Vedere anche, per esempio, una di queste pubblicità sul
New York Times del 12 marzo 2003.

1 36
Il 28 gennaio 2003 George Bush, nel suo discorso all'U­
nione, afferma che l'Iraq ha cercato di procurarsi dell'uranio
in Africa per il suo programma nucleare. Affermazione che
si rivelerà, come abbiamo già detto, falsa e che il giornale
The New Yorker, dal 24 marzo 2003, ha valutato essere basata
su documenti fabbricati da esperti del controspionaggio bri­
tannico (MI6) e trasmessi dalla CIA con fini propagandistici
anti-iracheni.
Il 5 febbraio 2003, il segretario di Stato, Colin Powell, da­
vanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva pre­
sentato un'imponente documentazione sulle armi di distru­
zione di massa irachene: laboratori mobili, missili a ogive
chimiche, gas neurotossici... Si accertò però che il volumino­
so «dossier» sull'arsenale iracheno era interamente copiato,
compresi gli errori d'ortografia, dal lavoro di dieci anni
prima di uno studente!
Il 17 marzo, George W. Bush, nel suo discorso alla nazio­
ne, assicura che l'Iraq continua a «nascondere le armi più
micidiali che siano mai state inventate», cosa che dà il diritto
agli Stati Uniti di colpire prima che lo faccia il nemico.

Tutte queste «prove», tuttavia, a partire da fine marzo co­


minciarono a sgonfiarsi come palloncini. I documenti sull'ac­
quisto di uranio arricchito si rivelarono falsi, le armi di distru­
zione di massa introvabili. In aprile, degli ufficiali americani
annunciano di aver trovato 278 proiettili d'artiglieria con­
tenenti un agente chimico, ma qualche ora più tardi i proiet­
tili non sono che cinque fusti e gli ufficiali confessarono di es­
sersi sbagliati '.!<i. Gli inquietanti cilindri che il vicepresidente
Dick Cheney aveva brandito come prove delle minacce ira­
chene, analizzati da esperti del Ministero dell'Energia, si ri­
velano innocenti tubi d'alluminio privi di interesse strategico.
Le foto satellitari, che dovevano rappresentare una fab­
brica di armi irachena in piena attività, non risultano più si­
gnificative. Il generale James Conway, capo del contingente
dei marines, deve riconoscere di non aver localizzato che al-

'.!h La Libre Belgique, 1 9-20-2 1 aprile 2003.

137
cuni sacchi di concime e due semi-rimorchi al posto delle
«centinaia di tonnellate di agenti biochimici» e dei «labora­
tori mobili» evocati da Colin Powell.
Il 2 luglio, Alastair Campbell, portavoce del primo mini­
stro britannico Tony Blair, ammette di aver apportato dei ri­
tocchi al dossier relativo alle supposte armi di distruzione di
massa dell'Iraq '.!7 •
Sei mesi dopo le clamorose dichiarazioni sul pericolo im­
minente costituito dalle armi di distruzione di massa, tutte le
«prove» si sono rivelate fondate su documenti falsi, distorti,
ritoccati o inesatti. Non si è trovata in Iraq, nonostante i me­
si d'occupazione, alcuna traccia di armi chimiche o biologi­
che di qualsiasi natura. Mille e quattrocento esperti, tra
americani e britannici, hanno passato al setaccio ogni luogo
candidato ad aver ospitato armi di questo tipo, ma ogni an­
nuncio di scoperta si è rivelato una falsa pista. I tubi d'al­
luminio, acquistati dall'Iraq in Cina, e d'altra parte denun­
ciati, non erano prove di armi nucleari, ma un tentativo ira­
cheno di copiare dei razzi italiani.
Questo principio di propaganda di guerra è stato, pertan­
to, terribilmente presente ed efficace per mobilitare l'opi­
nione e ubblica in favore di una «difesa preventiva» contro
l'Iraq. E stato il maggior argomento portato a giustificazione
della guerra. E quando si rivelerà che le armi di distruzione
di massa non erano che apparenze, menzogne ed inganni, le
operazioni militari erano già terminate e l'opinione pubblica
veniva «sospinta» verso altri argomenti.

VII. Le perdite del nemico sono terribili,


le nostre trascurabili
Questo settimo principio della propaganda di guerra deve
motivare i combattenti e persuaderli che la nostra superiori­
tà tecnologica è tale che il conflitto si chiuderà - per la no­
stra parte, evidentemente - con zero morti.

'.!, Lettera pubblicata mercoledì 2 1 luglio 2003 dal Guardian .

138
Per la stessa ragione, è bene annunciare, fin dall'inizio
delle operazioni, che il nemico si sta arrendendo in massa.
Nei conflitti afghano ed iracheno, lo squilibrio delle armi
è inoppugnabile. Questi due piccoli paesi non possono, in
nessun modo, immaginare seriamente di sconfiggere in una
guerra classica la più grande potenza mondiale. Questo
principio, pertanto, venne applicato alle guerre contro l'Afg­
hanistan e l'Iraq, annunciando prematuramente delle rese
in massa '.!8 •
Il 22 marzo 2003, qualche decina di ore dopo l'avvio del­
l'invasione dell'Iraq, i responsabili del Pentagono, citati dal­
l'agenzia France Prees, annunciarono che un'intera divisione,
di circa 8.000 soldati, la 51a, s'era arresa ai marines americani
da qualche parte nel sud del paese. Questa informazione,
ripresa dalla stampa del mondo intero, non si è rivelata esat­
ta, tuttavia pochi mezzi d'informazione si sono presi il di­
sturbo di smentirla con lo stesso rilievo :19 •
Lo «scandalo» scoppiato in Occidente a seguito della pre­
sentazione, da parte dell'Iraq, dei morti e dei prigionieri
della «coalizione» rappresenta un corollario di questo prin­
cipio. Da parte irachena, mostrando i corpi degli americani
abbattuti, si tentava di far credere all'opinione pubblica che
le perdite del nemico erano terribili.
La liberazione di Jessica Lynch si può comprendere, dal
punto di vista degli USA, perché si trattava di mostrare al
pubblico americano che i loro soldati non sarebbero rimasti
a lungo in mano al nemico.
Fino alla caduta di Bagdad, da parte irachena si sono pa­
rallelamente negate fino all'assurdo le proprie perdite mili­
tari mentre si sopravvalutavano quelle americane.
Alla fine, dopo la conclusione ufficiale delle operazioni
militari, sono stati gli occidentali a tentare di minimizzare le
loro perdite e ad evitare di parlare della resistenza irachena

'.!H Per l'Afghanistan, furono annunciate dalla televisione belga RTBF il


25 ottobre 200 1.
'.!!I Le Soir corregge l'informazione del 27 marzo 2003 con un articolo di
Baudouin Loos intitolato «Avete verificato l'informazione ?».

139
o di oppositori dell'occupazione, per attribuire gli attentati,
che erano già costati la vita a molti militari tra le truppe
d'occupazione, a pochi nostalgici di Saddam Hussein che
stavano per essere «spazzati» via.

VIII. Gli artisti e gli intellettuali sostengono la nostra causa


Per dare all'opinione pubblica l'impressione che è la na­
zione intera che sostiene unanimemente la guerra, è neces­
sario che artisti e intellettuali in vista appoggino le iniziative
belliche e le presentino, ciascuno con i propri mezzi (la can­
zone, la morale, il cinema... ) in modo positivo.
Per quanto riguarda la guerra degli Stati Uniti contro l'Af­
ghanistan nel 2001 e soprattutto quella contro l'Iraq del
2003, si può avere l'impressione che non sia stato possibile
mettere artisti e intellettuali al servizio della propaganda,
data la quasi generale ostilità a queste imprese belliche.
Questa impressione deve tuttavia essere attenuata dalla con­
statazione della diversa rilevanza che i media hanno conferi­
to agli oppositori e ai simpatizzanti di questa guerra.
Nel febbraio 2002, l'iniziativa di sessanta intellettuali
americani che avevano firmato una lettera aperta di soste­
gno alla guerra in Afghanistan ebbe grande spazio non solo
sui media americani, ma anche su quelli europei. Questa let­
tera, ancora una settimana dopo la sua comparsa, fu oggetto
di echi sulla stampa europea ove un certo numero di intel­
lettuali si schierò in favore del «diritto e nello stesso tempo
dovere» di fare la guerra all'Afghanistan:10 • Altri intellettuali
americani avevano peraltro firmato una lettera di protesta
contro questa guerra, ma solo dopo pesanti insistenze essa
viene finalmente pubblicata da certi giornali europei, e sen­
za commenti o reazioni.

:io Ad esempio, in Belgio, Le Soir del 16 e 1 7 febbraio 2002, ma anche


del 25 febbraio 2002 ove il filosofo e moralista Guy Haarscher sostiene il
punto di vista dei firmatari.

1 40
Numerosi intellettuali e artisti americani hanno reagito
alla seconda guerra irachena, come al tempo della guerra
del Vietnan, con una mobilitazione pacifista. Le «canzoni di
protesta» si sono moltiplicate: We want peace fu registrata da
Lenny Kravitz con l'artista iracheno Kadim Al Sahir e il mu­
sicista palestinese Simon Shaheen. John Mellecamp ha inci­
so una canzone contro la guerra dal titolo From Washington.
Mia Doi Todd si è schierata dalla stessa parte, mentre Russe]
Simmons ha annunciato, all'inizio del 2003, la creazione del
gruppo « Musicians United to Win Without War» al quale ha
aderito pubblicamente anche Martin Sheen.
Quattordicimila universitari, scrittori e intellettuali ameri­
cani hanno firmato, nei primi giorni di marzo del 2003, una
petizione di opposizione alla guerra contro l'Iraq, mentre
quattromila personalità USA, tra cui i registi Oliver Stone,
Robert Altmann e l'attrice Susan Sarandon, avevano già ade­
rito all'appello «Not in Our Name» nell'autunno del 2002.
Ma la diffusione di queste prese di posizione fu, senza pa­
ragoni, assolutamente inferiore al rilievo riservato «natural­
mente» dai media al sostegno accordato al presidente ame­
ricano da Tom Cruise o Steven Spielberg o alle nuove in­
cisioni di God Bless America di Ray Charles e Celine Dion o,
ancora, alla presenza tra i GI in Iraq di Bruce Willis e del
suo gruppo «The Accelerators».
È stato a loro spese, infatti, che i firmatari dell'appello
«Not in Our Name» hanno potuto far comparire la loro re­
quisitoria contro la guerra sul New York Times, nel settembre
2002, e in seguito sul Los Angeles Times e USA Today dell'ot­
tobre 2002.
L'attore Sean Penn, per far conoscere le sue critiche alla
politica del presidente Bush, dovette acquistare, a 56.000
euro, una pagina del Washington Post che, solo a queste con­
dizioni, pubblicò la sua «Lettera aperta al Presidente degli
Stati Uniti». Allo stesso modo, fu in una pagina di pubblicità
a pagamento che il New York Times accolse la petizione dei
quattordicimila universitari americarfr".

:i i
The New York Times, 11 marzo 2003, sotto il titolo «Pubblicità».

141
Michael Moore e Sheryl Crowe dovettero approfittare
dell'occasione offerta loro dalla consegna degli Oscar e dei
Grammy Awards per far conoscere la loro opposizione alla
guerra. Nel febbraio 2003, Sheryl Crowe apparve, malgra­
do la proibizione imposta ai musicisti di esprimere le loro
proteste durante le cerimonie, con un simbolo pacifista per
collana e la cinghia della chitarra ornata da un visibile «No
War»3'.2.
I mezzi per far conoscere le proprie opinioni risultano,
pertanto, assai squilibrati tra chi sostiene o meno la guerra.
Il New York Times, d'altra parte, metteva in guardia gli attori
e i musicisti da queste prese di posizione anti-guerra perché
avrebbero potuto determinare un loro boicottaggio sia da
parte del pubblico sia da parte di certi produttori 33 • Avreb­
bero rischiato d'essere marginalizzati e demonizzati per
queste posizioni contro il conflitto in Iraq.
In effetti, c'erano poche possibilità di ascoltare Lenny
Kravitz o Mia Doi Todd su MìV. La catena aveva stilato al­
l'inizio del 2003 un elenco di canzoni tabù. Tutte quelle in
cui ricorrevano le parole bomba, missile, guerra...
La BBC, durante la seconda guerra irachena, aveva da
parte sua imposto ai suoi impiegati di trasmettere musica
leggera prima e dopo i notiziari. J ohn Mellecamp, tuttavia,
non si illudeva che avrebbero messo in onda la sua canzone
From Washington e dichiarava agli inizi di marzo 2003 : «Non
credo ci siano molte probabilità di sentire questa canzone
alla radio» 34 •
Nello stesso periodo, esperti di comunicazione metteva­
no in scena la «liberazione» di Bagdad, con i ragazzini che
ostentavano le T-shirt con la scritta « I love America» e la
distruzione della statua di Saddam davanti ad uno scarso
pubblico, ma proprio sotto le finestre dell'hotel Palestine
ove erano alloggiati i giornalisti stranieri... Le imprese di

:i'.2 The New York Times, 9 marzo 2003.


3 :1 lvi, 2 marzo 2003.
:i-1 lvi, 9 marzo 2003.

142
comunicazione s'erano apprestate a sostituire gli artisti e in­
tellettuali troppo silenziosi e reticenti nel sostenere lo sforzo
bellico e Hollywood si sarebbe preparato a realizzare un film
sulla «liberazione» di Jessica Lynch.

IX. La guerra deve essere presentata


come una crociata religiosa

L'applicazione di questo principio è tuttora in grado di


dare un «senso» al lavoro dei combattenti. Non difendono
una causa qualsiasi, ma la santa causa di Dio, cosa che rende
invulnerabili e soprattutto, in caso di morte, assicura un po­
sto in paradiso ai combattenti per la fede. Al tempo della
guerra USA contro l'Afghanistan, i talibani avevano invocato
la loro fede, ma anche il presidente americano George W.
Bush utilizzava frasi di carattere religioso. Bush si presenta­
va come un cristiano toccato dalla grazia che si proponeva
come strumento del Signore e indicava, nello stesso tempo,
come il suo paese fosse investito dalla Provvidenza del com­
pito di rimediare agli errori spirituali e morali (ma anche
politici ed economici!) delle altre nazioni.
L'idea di Asse del Male, ripresa al momento della guerra
all'Iraq, alludeva anche a uno scontro apocalittico contro
Babilonia. Ripristinare l'economia di mercato in Iraq e rove­
sciare Saddam Hussein erano, pertanto, «missioni» che face­
vano parte della vasta crociata contro gli anticristo (islamici,
comunisti o altri) che volevano turbare la pace di Dio: God
bless America.
Si deve sottolineare che anche nell'altro campo, mano a
mano che lo scontro del 2003 s'avvicinava, Saddam Hussein,
un tempo campione della laicità, ostentava una devozione
religiosa, leggeva versetti del Corano alla televisione e faceva
appello ai combattenti musulmani per respingere, in nome
di Allah, le truppe anglo-americane degli infedeli: Allah
Akhbar.
Evidentemente Dio sponsorizza, con grande imparzialità,
tutti i belligeranti!

1 43
X. Chi non appoggia la guerra è un agente del nemico
Chi dubita delle affermazioni della propaganda deve esse­
re stigmatizzato come sostenitore del gioco del nemico e
demonizzato come il capo di questi. Al tempo della guerra
contro la Jugoslavia, L'événement du feudi aveva titolato sui
«Complici francesi di Milosevic», tra i quali si potevano tro­
vare alla rinfusa Regis Debray, Pierre Bourdieu, Charles Pa­
squa, l' Abbé Pierre, Max Gallo e tutti coloro che si erano
dimostrati esitanti a comprendere l'utilità dei bombarda­
menti di Belgrado al fine di salvare gli albanesi del Kosovo:-15.
Anche nel 2001, nel momento in cui gli Stati Uniti aveva­
no deciso di bombardare l'Afghanistan, gli oppositori o an­
che solo i dubbiosi furono rapidamente ostracizzati. Così,
nella città universitaria di Berkeley in California, ove il con­
siglio municipale - su proposta di Dora Spring - s'era pro­
nunciato, nell'ottobre 2001, contro i bombardamenti, erano
immediatamente giunte intimidazioni, minacce di stupri e
boicottaggi da parte di imprese, privati e organizzazioni:l6.
La stessa Barbara Lee, donna, democratica, nera e califor­
niana, unico membro del Congresso americano che aveva
votato contro l'invasione dell'Afghanistan proposta dal pre­
sidente, dovette affrontare continue minacce di morte a se­
guito del suo voto.
In Australia, il pugile Anthony Mundine pagò a caro prez­
zo la sua opposizione alla guerra all'Afghanistan. Il campio­
ne aborigeno aveva partecipato in diretta alla trasmissione
televisiva Ray Martin Show su Canale 9, una rete televisiva
australiana di proprietà di Rupert Murdoch. In quell'occa­
sione stava dichiarando che la guerra contro l'Afghanistan
non era la soluzione al terrorismo e che era prevedibile che
gli Stati Uniti avrebbero subito delle reazioni per i continui
attacchi che portavano in varie parti del pianeta, quando la
trasmissione fu bruscamente interrotta per motivi «tecnici».
Mundine fu demonizzato dai media australiani e presentato

�5 Numeri dal 29 aprile al 5 maggio 1 999.


:ii; Vedi spring@ci.berkeley.co.us.

1 44
come un sostenitore di Bin Laden e dei talibani, mentre il
presidente della Federazione internazionale della boxe di­
chiarava che i commenti di Mundine avevano «messo fine
alla sua carriera». Alcuni giorni dopo, il Consiglio Mondiale
della boxe annunciava la sua eliminazione definitiva dalla
classifica pugilistica internazionale:i,.
Nel momento della seconda guerra contro l'Iraq, la stam­
pa europea, a seguito dell'atteggiamento dei maggiori go­
verni del continente, ha tenuto una linea di condotta molto
prudente, ma negli Stati Uniti quest'ultimo principio di
propaganda di guerra è stato certamente applicato con mol­
to scrupolo.
La derisione, l'ironia, le allusioni alla vita privata, le mi­
nacce non sono mancate per squalificare gli esitanti o quelli
che si opponevano alla politica bellica del momento.
Nel febbraio 2003, il viaggio in Iraq dell'attore Sean Penn
e le sue prese di posizione contro le minacce all'Iraq da parte
di G.W. Bush, gli è valso la pubblica ridicolizzazione da par­
te del giornalista-vedette Bill O'Reilly su Fox News. Nello
stesso momento, il Washington Post annunciava in prima pa­
gina che uno degli ispettori inviati in Iraq - uno che eviden­
temente rifiutava d'essere una semplice pedina nella prepa­
razione della guerra - era a capo di un club sado-maso, an­
che se, comunque, la cosa sembrava aver poche relazioni con
la sua integrità nella missione che gli era stata affidata.
Gli europei «dissidenti» vengono dipinti dalla stampa
americana come dei traditori e il Wall Street Journal qualifica
il presidente Chirac come un «topo» ( «rat») e come un
«abietto avvocato di Saddam» :18 ; quanto a David Kelly, che
aveva cercato di mettere le esigenze della verità davanti a
quelle della politica, si vide qualificare dal ministro dell'Am­
biente britannico, Bren Bradshaw, con l'epiteto di «talpa»
(16 luglio 2003).

:n Si può seguire l'affare Anthony Mundine sui giornali australiani di


ottobre 2001, in particolare sul Sidney Telegraph (articoli di Piers Akerman)
e sul Sidney Morning Heral.d (articoli di Miranda Devin).
:iH Articolo di Christopher Hitchens citato da Gary Younge, The Guar­

dian, 1 1 febbraio 2003.

1 45
I «traditori» americani che si opponevano alla guerra do­
vettero acquistare, per poter argomentare sulla stampa le lo­
ro posizioni, degli spazi commerciali, come fecero il senato­
re Robert Byrd:w o il dottor Matthias Rath 1 0. Per le sue criti­
che contro i preparativi alla guerra in Iraq, il delegato de­
mocratico al Congresso J ames Moran fu accusato di minare
il morale delle truppe americane e di attacchi insidiosi al pa­
triottismo 1 1 . Per le stesse ragioni, due artisti newyorkesi sono
stati arrestati il 16 febbraio 2003 per aver affisso sui muri
della città delle semplici foto degli abitanti di Bagdad! 12

In conclusione
I dieci principi della propaganda di guerra non sono ap­
plicati in maniera simmetrica in ogni conflitto.
Per quel che riguarda le recenti guerre all'Afghanistan e
all'Iraq, anche se si può affermare che tutti e dieci i principi
classici sono stati applicati, certamente non lo sono stati in
egual misura dato che, tra essi, uno è stato realmente il cuo­
re della propaganda.
L'attacco all'Iraq della primavera del 2003 è stato lunga­
mente preparato nell'opinione pubblica sviluppando il sesto
principio (quello che vuole che i nostri nemici utilizzino ar­
mi illecite). Nel caso specifico, l'Iraq non era accusato nean­
che di «usare» le armi di distruzione di massa, ma di «posse­
derle» e queste armi sono diventate la maggiore giustifica­
zione del conflitto. Gli altri principi sono stati utilizzati, ma
in funzione complementare e ancillare rispetto a questo, che
sarà il principale - e falso - pretesto per la guerra.

39 Vedi il New York Times, 9 marzo 2003, p. 25.


10
lvi, p. 1 9, apparso in traduzione su diversi giornali europei (ad esem­
pio le Soir, 24 marzo 2003).
11
The New York Times, 12 marzo 2003.
12 Emilie Clark e Lytle Shaw avevano affisso foto scattate da Paul Chan.
Il loro arresto faceva parte di una serie d'intimidazioni destinate ad impres­
sionare i protestatari.

146
Finito di stampare
nel mese di gennaio 2005
dalla Tipografia O.GRA.RO.
Vicolo dei Tabacchi, 1 - Roma

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