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E.

Cantarella, Passato prossimo e Dammi mille baci

Lucrezia: la moglie
Per indurre le donne a tenere i comportamenti che si pensava dovessero tenere, i romani erano soliti
prospettar loro degli esempi: veri o leggendari che fossero, di personaggi femminili dalle virtù
integerrime, riproposti all’ammirazione della cittadinanza da un’abilissima e continua propaganda, e
circondati da un rispetto che li poneva, con le loro virtù, al centro della storia della città. In non
pochi casi, infatti, la propaganda nazionale faceva ruotare attorno a questi personaggi femminili gli
avvenimenti fondamentali della storia patria. Come dimostra, per cominciare, la celeberrima storia
di Lucrezia.
Durante l’assedio posto dai romani alla città di Ardea, i giovani figli del re, insieme ai più nobili tra
gli assedianti, trascorrevano piacevolmente le serate banchettando nella tenda di Sesto Tarquinio,
uno dei figli del re Tarquinio il Superbo. E una sera il discorso cadde sulle virtù delle rispettive
mogli, diventando ben presto un’accesa discussione. Ciascuno dei presenti sosteneva che, senza
alcun dubbio, nessuna delle altre mogli meritava più lodi della propria. Come stabilire chi aveva
ragione? Il giovane Collatino, figlio di Egerio, fece una proposta: la sua città, Collazia, non era
lontana. Perché non recarvisi, e non constatare de visu che nessuna donna eguagliava in virtù la sua
Lucrezia?
Detto, fatto. Spronati i cavalli, il gruppo raggiunse Roma, dove sorprese le nuore del re che se la
spassavano banchettando; e quindi giunse a Collazia, dove tutti ebbero modo di ammirare Lucrezia,
che a notte fonda sedeva nel mezzo della sua casa tra le ancelle, intenta a filare la lana al lume di
una lucerna.
Collatino aveva vinto la scommessa, ma la sorte di Lucrezia era segnata.
Tarquinio, infatti, fu preso da incontrollabile brama di possedere quella donna, tanto virtuosa quanto
bella. E alcuni giorni dopo, all’insaputa di Collatino, tornò a Collazia, penetrò nella stanza di
Lucrezia e, impugnata la spada, con la mano sinistra “ferma sul petto della donna” le dichiarò il suo
amore, supplicandola di ascoltarlo, dapprima con le preghiere, poi con le minacce. E infine, di
fronte alla resistenza di Lucrezia, ricorrendo a un’arma invincibile: se avesse continuato a
negarglisi, disse alla donna, l’avrebbe uccisa, ponendo poi accanto al suo cadavere quello di uno
schiavo nudo, in modo che tutti pensassero che era stata uccisa “in vergognoso adulterio”.
Non fu il timore della morte, dunque, che indusse Lucrezia a cedere, ma la minaccia del disonore.
“Vinta con questa minaccia l’ostinata pudicizia – scrive Livio in Ab urbe condita – la libidine fu in
apparenza vincitrice”, e Tarquinio se ne andò, ignaro delle conseguenze che il suo comportamento
avrebbe avuto sulla storia della città. Appena rimasta sola, infatti, Lucrezia mandò un messo a
chiamare padre e marito. E questi accorsero: Lucrezio, il padre, accompagnato da Publio Valerio,
figlio di Volese; e Collatino, il marito, accompagnato da Lucio Giunio Bruto. Lucrezia, conscia del
rispetto che una donna come lei doveva alle apparenze, sedeva compostamente nel mezzo della sua
stanza, ma alla vista dei suoi cari non seppe resistere e scoppiò in un pianto disperato: “Nel tuo
letto, Collatino, sono le tracce di un altro uomo. Però solo il corpo è stato violato, l’animo è
innocente, e la morte lo proverà. Ma voi promettetemi che l’adulterio non resterà impunito”.
Tutti promisero, l’uno dopo l’altro, cercando al tempo stesso di consolare Lucrezia, e soprattutto
cercando di convincerla a desistere dal proposito suicida, subito fermamente manifestato. “Solo
l’anima può peccare, non il corpo, e la colpa manca dove sia mancata la volontà”. Così le dissero,
ma Lucrezia fu irremovibile. Estratto un coltello che teneva celato sotto la veste, se lo conficcò nel
cuore “perché in futuro, seguendo il mio esempio, nessuna donna viva disonorata (impudica)”.
Così finì i suoi giorni Lucrezia, e con lei finì il regime monarchico. Non sopportando l’offesa fatta a
una donna che rappresentava tutte le spose romane, il popolo, insorto, trovò finalmente la forza di
liberarsi dal giogo dei re etruschi. La morte di Lucrezia consentì la nascita della Repubblica, e con
essa della libertà.

Una ribelle: Clodia-Lesbia,


All’incirca negli anni in cui Marzia e Turia offrivano due luminosi esempi di osservanza, tra le
donne che invece rifiutavano di accettare le regole – di cui non sappiamo neppure il nome, ma che
certamente esistevano – sta una donna diventata celeberrima: Clodia, passata alla storia con il nome
di Lesbia, datole da Catullo, che disperatamente l’amò e con questo nome la cantò.
Clodia era sorella di Clodio, ex tribuno e capo di una banda che appoggiava violentemente la
politica dei popolari, e in particolare di Cesare. Di sicuro, della sua vita, conosciamo poco più di
qualche data. Il 94 a.C. , per cominciare, l’anno della sua nascita. E poi il 76 a.C., l’anno della
morte di suo padre: una data che ci interessa perché consente di sapere che Clodia si sposò
relativamente tardi per le abitudini dell’epoca. Alla morte del padre, infatti, era ancora nubile: non
perché le mancassero i pretendenti, c’è da presumere. Clodia infatti era bella, lo splendore dei suoi
occhi era tale che amici e nemici la chiamavano boopis, “grandi occhi” (il soprannome di Era, la
moglie di Zeus). Ma al di là di questo, cosa sappiamo di lei? Che nel 63 è la moglie di Quinto
Cecilio Metello Celere, uomo politico molto noto, che diverrà console nel 60 e morirà nel 59. Due
anni dopo, cioè, la data dell’incontro tra Clodia, allora trentatreenne, e Catullo, di circa dieci anni
più giovane. Ed è Catullo, appunto, una delle fonti sulla quale ci si è tradizionalmente basati per
tentare di capire qualcosa di lei, del suo modo di vivere. Ma Catullo, di Clodia, era follemente
innamorato, e altrettanto follemente geloso: ritenendosi tradito, come dice un suo celebre verso, al
tempo stesso la amava e la odiava (odi et amo). Non era e non è, insomma, una fonte oggettiva.
Questo è il problema, quando si tratta di Lesbia. Raramente, come nel suo caso, le fonti sono così
smaccatamente partigiane. Poco importa se per amore, come nel caso di Catullo, o per altre ragioni
(fondamentalmente per ragioni politiche), come nel caso di Cicerone, l’altro uomo che ci parla di
lei. Ma su Cicerone torneremo. Cominciamo da Catullo, ponendoci un problema preliminare:
possiamo credere al racconto del suo amore? In altre parole, quel che Catullo racconta è un amore
vero o, come alcuni ritengono, i suoi verso sono il frutto di un’immaginazione poetica, che descrive
l’oggetto d’amore ricalcando dei modelli letterari?
Chi propende per la seconda ipotesi ritiene, come logica conseguenza, che sia impossibile
ricostruire il carattere di Lesbia dalle sue poesie. Ma a me sembra che se di Catullo si deve diffidare
non sia perché egli non descrive un vero amore. Catullo è inattendibile perché è un innamorato che
non riesce a capire la donna che ama.
E in effetti Clodia doveva veramente essere una donna difficile da capire. Troppo difficile, forse,
non solo per Catullo e per qualunque altro uomo della sua epoca, ma anche per molti uomini assai
più vicini a noi nel tempo. Ed è per questo, perché non riesce a capirla, che Catullo insulta Clodia,
descrivendola, a volte, come una donna sfrenata, ai limiti della depravazione. Clodia, insomma, è
certamente un topos, ma non necessariamente letterario. È lo stereotipo, ben radicato nella mente
maschile, della donna che nella realtà di un rapporto respinge o delude ogni pretesa di esclusività.
La storia che emerge dalle poesie di Catullo è quella di un amore che è , al tempo stesso, continua
incomprensione. Ma che, ciononostante, e forse proprio per questo, fa vivere ai propri protagonisti
momenti di passione intensissima. Come, ad esempio, quella descritta nel celeberrimo carme dei
mille baci:

Viviamo, Lesbia mia, e amiamoci,


e tutte le chiacchiere dei vecchi più severi
stimiamole un solo asse!
I soli possono tramontare e ritornare:
ma noi, quand’è tramontata la nostra breve luce
dobbiamo dormire una sola eterna notte.
Dammi mille baci, poi cento,
poi altri mille, poi ancora cento.
poi ininterrottamente altri mille, poi cento.
Poi, quando ce ne saremo dati molte migliaia,
imbroglieremo la somma, per non saperne il numero,
che nessuno possa farci il malocchio,
sapendo che c’è un tale numero di baci.

A volte è Lesbia a chiedere questi baci, a voler sapere da Catullo quanti basteranno a saziarlo:
Mi chiedi Lesbia mia del tuo baciarmi
la misura io fissi che mi colmi.
I granelli di sabbia d’Africa

o le stelle che guardano infinite
nelle tacite notti i disperati
abbracci umani…

Ma alla passione si alternano freddezze, abbandoni, distacchi che a volte sembrano definitivi:

Povero Catullo, smettila di illuderti,


e ciò che vedi essere perduto consideralo perduto.
Splendettero un tempo per te radiosi giorni,
quando solevi andare là dove ti conduceva lei,
amata da noi quanto non sarà amata nessuna.
Là quando avvenivano quei molti giochi d’amore,
che tu volevi e la fanciulla non rifiutava,
davvero splendettero per te radiosi giorni.
Ora lei non vuole più: rifiutali anche tu,
sebbene incapace a frenarti, e non inseguire lei che fugge,
e non vivere infelice, ma resisti ostinatamente, tieni duro.
Ti saluto fanciulla. Ormai Catullo tiene duro
e non ti cercherà né t’implorerà contro il tuo volere.
Ma soffrirai quando nessuno più t’implorerà.
Sventurata, povera te, che vita t’attende?
Chi ora verrà da te? A chi sembrerai bella?
Chi ora amerai? Di chi dirai di essere?
Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, con ostinazione resisti.

I proponimenti, però, non durano a lungo. Pur consapevole di quelli che definisce i crimini di
Lesbia, Catullo continua ad amarla:

Per tua colpa mia Lesbia il mio cuore


per frenesia di te così abbrutito
così incupito si è che più non posso,
fossi tu la migliore delle donne,
perfettamente adorarti.
Ma qualunque tu crimine compiessi
seguiterei ad amarti.

Non sappiamo quante volte, non sappiamo in quale sequenza, si susseguono riconciliazioni,
giuramenti, speranze. Chissà in quale momento Catullo traduce, pensando a Lesbia, la poesia più di
ogni altra in grado di esprimere il potere invincibile dell’amore, l’ode forse più celebre di Saffo:

Lui mi sembra simile a un dio,


lui, se è lecito, mi sembra superare gli dei,
lui, che sedendo continuamente di fronte,
ti guarda e ti ascolta
mentre ridi dolcemente, e questo strappa
a me, misero, tutti i sensi: infatti appena ti
vedo, Lesbia, nulla mi resta
della voce in gola,
ma la lingua s’intorpidisce, scorre una fiamma
sottile nelle membra, le orecchie mi ronzano
di un suono interno, gli occhi sono avvolti
da una duplice notte...
Quel che è certo è che Lesbia, chissà quante volte, dopo aver abbandonato Catullo torna da lui. A
volte lo insulta, e Catullo legge negli insulti una prova d’amore. A volte scaglia violente invettive
contro di lui in presenza del marito: forse per rassicurarlo? Forse per ridere di lui? E Catullo
continua a lodare Lesbia, la sua bellezza. Ma il suo è un amore avvelenato:

Odio e amo.
Come sia non so dire,
ma tu mi vedi qui crocifisso
al mio odio ed amore.

Ed è in questi momenti, quando crede che l’amore sia davvero finito, quando è determinato a farlo
finire, anche in se stesso, che Catullo lancia le invettive più terribili:

Si goda a lungo i suoi trecento amanti…


E non creda che io come altre volte
a lei ritorni più che mai suo…
È morto in me l’amore.

Ma sono momenti in cui non è credibile. Come quando descrive una Lesbia disposta a qualunque
avventura, nel chiasso e nello squallore delle taverne. […]
Eppure vi è stato chi ha creduto che Lesbia fosse come la descrive Catullo: nella pubblicistica
dominante sino a non molti anni or sono (e ancor oggi a volte), Lesbia è una donna lussuriosa,
immorale, affamata di piacere e di potere. Qualcuno è arrivato a vederla come una “donna
vampiro”. Una donna che viveva di tradimenti come d’aria, ingannando per l’amante il marito… il
marito e l’amante per il vagheggino: angosciando tutti, alcuni col suo odio, più ancora col suo
amore, riservando a sé il privilegio di ogni infedeltà, perseguendo con acrimonia gli abbandoni, le
repulse, gli oblii.
Uno stereotipo, dicevamo. Ma se questo stereotipo va respinto, questo non significa che dalle poesie
di Catullo non sia possibile farsi un’idea di Lesbia. Depurati dal veleno della gelosia e delle
incomprensioni, da questi versi emerge una donna che, si direbbe, amò a sua volta Catullo. L’amò a
modo suo, però, e non come Catullo voleva essere amato. L’amò come ama una donna libera, e, si
direbbe, felice di vivere; forse crudele, ma nel modo in cui accade agli innamorati di esserlo,
volontariamente o involontariamente. Le infamie di cui Catullo accusa Lesbia, insomma, rientrano
nel quadro e nel gioco che spesso contrappone i due combattenti in una guerra d’amore. Uno chiede
amore eterno ed esclusivo, l’altro offre un amore, se non occasionale, meno impegnativo. Il
problema fra Catullo e Lesbia sembra essere questo.
E dietro allo stereotipo, quindi, sembra di scorgere una figura reale di donna forte, autonoma, in
amore certamente volubile. Volubile, sembra di poter dire, prima, durante e dopo il rapporto con
Catullo. Terminato il quale Clodia diventa l’amante di Celio Rufo: quantomeno – ma su questo
quantomeno si potrebbe dargli ragione – secondo la ricostruzione di Cicerone, che peraltro
prospetta per lei un’immagine a tinte così fosche da rendere inoffensive le peggiori invettive di
Catullo.
Di Clodia, infatti, Cicerone diceva tutto il male possibile: “Clitennestra”, la definiva tra l’altro. Un
nome che era sinonimo di assassina. E per di più quadrantaria. Una donna da quattro soldi. Per
non parlare della voce, da lui fatta circolare, secondo la quale Clodia sarebbe stata l’amante di suo
fratello Clodio, e a suo tempo avrebbe avvelenato il marito per ereditare i suoi beni e darsi alla bella
vita.
Ma, di nuovo, si tratta di accuse inattendibili. E anche questa volta la ragione non è difficile da
capire: di Clodia, Cicerone era acerrimo nemico per ragioni familiari. Clodio infatti, il fratello di lei,
era il suo più odiato rivale politico. Per di più l’occasione nella quale presentò di Clodia il ritratto a
fosche tinte di cui sopra fu un’orazione giudiziaria, da lui pronunziata nel 56 a.C. in difesa di Celio
Rufo, ex amante di Clodia. E in quel processo Clodia era stata indicata dagli accusatori di celio
come testimone in loro favore (e quindi contro Celio).
Ma cerchiamo di capire un po’ meglio questa storia, a partire da una considerazione fondamentale:
Celio, in forza della Lex Plautia de vi, era stato accusato di violenza politica (vis publica) dinnanzi
al tribunale incaricato di giudicare questo crimine (quaestio de vi). Il suo processo, insomma, era un
processo politico. E le accuse erano pesanti: Celio avrebbe partecipato alla congiura di Catilina,
durante le elezioni pontificali avrebbe percosso un senatore, e per finire avrebbe messo in atto un
piano per uccidere il nemico politico Dione di Alessandria. Ma cosa aveva a che fare Clodia con
queste accuse? Direttamente nulla. Senonchè l’accusa l’aveva indicata come testimone di alcuni
fatti che potevano avvalorare l’accusa di omicidio.
Celio, sosteneva l’accusa, essendo amico del fratello di Clodia, era andato a vivere in un
appartamento dell’insula che questi possedeva sul Palatino (dove, in un altro appartamento, era
vissuta anche Clodia, prima col marito e poi sola). Quando Celio le aveva chiesto un prestito per
poter organizzare i giochi pubblici, Clodia gli aveva dato dei gioielli. Ma poi aveva scoperto che il
denaro era servito per pagare dei sicari perché uccidessero Dione.
Poco importava all’accusa che questo tentativo fosse fallito (Dione era stato assassinato
successivamente). Provare questi fatti contribuiva a convincere i giurati della colpevolezza di Celio
per la morte del filosofo. E l’accusa sosteneva anche che Celio, visto che Clodia era diventata un
pericoloso testimone, aveva cercato di avvelenarla.
Questi i fatti, così come narrati nell’arringa di Erennio, che peraltro (e purtroppo) non ci è
pervenuta. Ma di essa ci parla, riferendone gli argomenti, l’arringa di Cicerone. La cui verità è
molto diversa.
Clodia, diceva Cicerone, era stata l’amante di Celio, e quando questi l’aveva lasciata, persa ogni
speranza di riconquistarlo, aveva giurato vendetta. Ecco perché, ribaltando i fatti, Clodia sosteneva
che Celio si era impossessato dei suoi gioielli e aveva tentato di ucciderla.
Affiancato nella difesa da Marco Crasso, Cicerone (l’unico tra gli avvocati in causa di cui ci è
giunta l’arringa) aveva capovolto la situazione. Da accusatrice, Clodia era diventata l’accusata:
Celio, è vero, aveva avuto una relazione con lei. E con questo? Si poteva fargliene una colpa? Celio
era giovane e Clodia era quel che era. Morto il marito, invece di attendere serenamente la vecchiaia
e la morte (un punto importante, questo, nella difesa di Cicerone, come vedremo più avanti), si era
data alla bella vita, frequentando le persone più indegne. La sua casa di Roma, i giardini lungo il
Tevere, le strade stesse erano state testimoni di una condotta svergognata. Clodia si comportava, si
vestiva, parlava come una prostituta. Per non parlare di quello che accadeva nella sua villa di Baia,
presso Napoli: festini sulle spiagge, banchetti, baldorie, amorazzi, canti, gite in barca, orge alle
quali partecipavano persino gli schiavi. Nessuno poteva giudicare Celio colpevole. Tutti, in
gioventù, avevano frequentato le prostitute. Non solo Celio, ma anche i nostri maiores, anche gli
antichi padri che hanno fatto grande Roma. Dice Cicerone: “chi ritenesse di vietare ai giovani
rapporti con le prostitute si metterebbe in urto persino con le abitudini e con quanto era concesso ai
nostri antenati. Quando mai infatti questa non fu un’abitudine? Quando mai bene biasimata?
Quando mai non fu permessa?
Quanto poi alle accuse specifiche mosse a Celio, erano tutte assolutamente false. A prestare denaro
non era stata Clodia, ma Celio. Che interesse avrebbe avuto questi a uccidere la sua debitrice?
Morta Clodia, non avrebbe più rivisto il suo denaro.
A completare il ritratto di Clodia mancavano solo due particolari, e Cicerone non li dimenticò: a suo
tempo, forse, la donna aveva avvelenato il marito, e per tutta la vita era stata l’amante del fratello.
Le testimonianze degli schiavi di Clodia, infine, non avevano alcun valore: dopo aver partecipato
agli stravizi della padrona, questi erano stati da lei liberati per comprarne la complicità.
A questo punto, sistemata Clodia, a Cicerone non restava che illustrare le virtù e i meriti di Celio:
retore eccellente, amministratore pubblico di grandi qualità, stimatissimo da Pompeo. I romani non
dovevano, non potevano permettere che uno dei loro migliori concittadini fosse vittima di una
vendetta ignobile, ordita da una donna inqualificabile.
Rufo venne assolto. Clodia, allora, aveva trentotto anni. E da quel momento di lei non si ha più
notizia.
Che dire di lei, alla luce di queste testimonianze?
Indiscutibilmente, che si era allontanata e di molto, dal modello femminile che gli esempi antichi
continuavano a propagandare. In particolare era molto diversa dal modello che i romani avevano
continuato e continuarono a proporre alle vedove: non solo fino all’età in cui visse Lesbia, ma
anche oltre. Da questo modello, Lesbia, che era una vedova appunto, si era discostata in modo
eccessivamente clamoroso.

Scandalosa Giulia
Il giorno stesso in cui Giulia nacque, Augusto ripudiò la moglie Scribonia. Si era follemente
innamorato della giovane Livia Drusilla, che di lì a poco avrebbe sposato. Giulia, dunque, passò
l’infanzia e l’adolescenza sotto il controllo dell’austera, severissima matrigna.
Livia, in effetti, era la moglie perfetta per Augusto, che dopo aver assunto il ruolo di moralizzatore
dei costumi voleva che la sua casa fosse il modello delle antiche, perdute virtù. E Livia lo
assecondava: le altre donne, in città, indossavano vesti sfarzose e costosi gioielli? Lei, come le sue
antenate, filava e tesseva la lana con cui venivano confezionate le vesti che Augusto si vantava di
indossare.
Volente o nolente, Giulia seguiva l’esempio, filando e tessendo. Ma era molto giovane, era bella,
vivace, curiosa del mondo e delle persone, e amava divertirsi. Il clima severo della casa augustea
non faceva per lei. La libertà arrivò, finalmente (dopo che il primo marito, debole e malaticcio, la
lasciò vedova a quindici anni), quando venne data in moglie a Marco Vipsanio Agrippa. Aveva
diciott’anni, e a partire da quel momento la sua vita cambiò. Non era più solo la figlia di Augusto,
era la moglie di colui al quale Augusto doveva le sue conquiste militari: dopo di lui, l’uomo più
importante di Roma. Ormai Giulia poteva rivaleggiare con Livia per il titolo di prima signora della
città. E lo fece: ovviamente a modo suo, e con uno stile assai poco “augusteo”.
Da un certo punto di vista, questo va detto, Agrippa non poteva lamentarsi di lei: in rapida
successione gli diede ben quattro figli, due maschi e due femmine. Ma a parte questo era una
moglie assai particolare.
Bella, colta, intelligente, brillante conversatrice, Giulia adorava la moda, le feste, i giochi nel circo,
i teatri, gli spettacoli di gladiatori, le gite nelle ville d’ozio (come i romani chiamavano le seconde
case) disseminate sulle coste del Lazio e della Campania.. rapidamente divenne il personaggio più
in vista del bel mondo romano. Le voci cominciarono presto a circolare: Giulia era licenziosa,
Giulia era dissoluta, Giulia aveva molti amanti…
Lei non faceva nulla per evitare i pettegolezzi. Al contrario, sembrava si divertisse ad alimentarli,
incoraggiando ammiratori e corteggiatori, e intrecciando apertamente avventure amorose delle
quali, naturalmente, tutta Roma era al corrente. Essendo molto spiritosa, inoltre, a volte se ne usciva
con battute che facevano immediatamente il giro della città. La più celebre – riportata da Macrobio
– era la risposta data a chi le chiedeva come mai, nonostante i molto amanti, tutti i suoi figli fossero
assolutamente identici ad Agrippa. Semplicemente, rispose serafica Giulia: “Non prendo mai un
passeggero, se la nave non è già carica”.
Di certo il suo comportamento era una voluta, provocatoria sfida all’ipocrisia del padre. Dietro al
monumento alla coppia perfetta che Augusto aveva innalzato sposando Livia, si nascondevano – da
parte di Augusto – piccole e grandi trasgressioni, sia etero sia omosessuali. Con la sua vita Giulia
faceva vacillare quel monumento.
Torniamo al suo matrimonio. Anche se chiacchierato, proseguiva tutto sommato senza scosse. Ma
nel 12 a.C. Agrippa morì. E Augusto diede Giulia in moglie a Tiberio, figlio di primo letto della
moglie Livia.
Si illudeva forse, così facendo, di controllarla? In questo caso si sbagliava di grosso. Tiberio,
costretto, per sposarla, a divorziare dalla moglie con la quale aveva una buona intesa, non aveva
alcuna intenzione di cimentarsi in un’impresa disperata come quella di addomesticare Giulia, che
ricambiò la sua comprensione esibendo ancor più provocatoriamente di prima le sue avventure.
Tiberio, che per rispettare la legge voluta dal suocero (la legge Giulia sugli adulteri) avrebbe dovuto
denunciarla come adultera, se ne andò in volontario esilio a Rodi e vi restò otto anni. Per Giulia, la
situazione ideale. Se non che, a un certo punto, accadde qualcosa di inaspettato, che determinò la
sua rovina. Augusto (per ragioni sulle quali si è discusso all’infinito e si continua a discutere) la
denunciò come adultera.
Incerte, allora come oggi, le vere ragioni: certamente ignorare il comportamento della figlia era
diventato impossibile e non accusarla significava esporsi a critiche troppo pesanti (o, in alternativa,
al ridicolo). Ma forse c’era qualcosa di più. Gli amanti di Giulia non erano uomini che potessero
essere ignorati. Erano di rango così elevato e politicamente così importanti da far pensare, più che a
semplici amanti, ai membri di una vera e propria congiura contro Augusto.
Si disse – e si dice ancora – che del gruppo dei “congiurati” facesse parte anche Ovidio. Brillante,
mondano, anticonformista, Ovidio in effetti frequentava gli stessi ambienti: e come sappiamo,
esattamente come Giulia, dopo tanti successi, cadde in disgrazia al punto da essere allontanato per
sempre da Roma. E da Tomi, dove era stato relegato, attribuì i suoi mali a “un carme e un errore”. Il
carme, ovviamente, era L’arte di amare. E l’errore? È possibile si trattasse della sua vicinanza – se
non di una vera e propria partecipazione – al gruppo dei presunti congiurati?
E Giulia? Che accadde di lei? Al termine del processo venne condannata a essere relegata nell’isola
di Pandataria (oggi Ventotene). Ad accompagnarla, una sola persona: la madre, alla quale era stata
tolta alla nascita.
Furono terribili gli ultimi anni di Giulia su quello scoglio assolato, abbandonato, dove non poteva
ricevere visite e dove, per impedirle un minimo di conforto, era stato persino proibito recapitarle del
vino. Crudeltà allo stato puro.
Dopo cinque lunghi anni, infine, venne trasferita a Reggio Calabria, dove morì. A Roma non tornò
mai più.
Ps Avvertimento per chi avesse visto il film su Augusto con Peeter O’Toole, dove Giulia accorre,
affranta, al letto di morte del padre. Non le fu permesso neppure quello, ma chissà, poi, se - qualora
le fosse stato concesso – avrebbe voluto farlo. Le fonti ripetono che Augusto amava teneramente
Giulia. Onestamente, in questo caso – pur tenendo sempre presente che l’amore cambia nel tempo –
riesce veramente difficile crederlo.

Catone e Marzia
Tutto avrebbe immaginato Marzia, quando conobbe Catone – l’uomo al quale il padre l’aveva
promessa in moglie – tranne che un giorno sarebbe diventata un “utero in affitto”. Un utero affittato
a un altro uomo dal suo amatissimo marito. Non per disamore, intendiamoci bene: Catone amava
teneramente Marzia. La loro era stata una di quelle rare unioni combinate dai genitori che si erano
trasformate in un matrimonio d’amore.
A dir la verità, quando aveva sentito per la prima volta il nome dell’uomo cui era stata destinata,
Marzia era stata presa da grande inquietudine. Catone, il suo Catone, detto il Giovane (poi
conosciuto come Catone Uticense), era nipote del celebre Catone il Censore, uomo insopportabile,
acido, noiosissimo, moralista, le cui idee sui rapporti con le donne erano a dir poco discutibili:
secondo lui, se non fossero state rigorosamente controllate, le donne avrebbero portato la repubblica
alla rovina… Ma poi Marzia conosce il nipote e si accorge che questi è molto diverso: le piace
subito quel fidanzato che si dimostra così palesemente innamorato di lei. La vita matrimoniale
dunque comincia sotto i migliori auspici. Marzia dà a Catone due figlie. È incinta per la terza volta
e attende con gioia la nuova nascita, quando accade l’imprevisto. Nella vita della coppia entra un
altro uomo, il retore Ortensio.
Personaggio stimatissimo a Roma, Ortensio ammira a tal punto Catone da non accontentarsi di
essere semplicemente uno dei suoi amici. Vuole avere figli comuni con lui, e a questo scopo gli
chiede di dargli in moglie Marzia: “Tua moglie ti ha già dato un numero sufficiente di eredi, ed è
abbastanza giovane da averne altri: lascia che li faccia, questa volta, per me”.
A Catone l’idea, evidentemente, non dispiace. Dopo aver consultato il padre di Marzia, che si
dichiara favorevole, accetta la richiesta dell’amico. Cosa pensi Marzia della situazione non viene
detto: nessuna delle fonti ne parla. Nessun riferimento in Plutarco, né in Arriano. Per quanto ne
sappiamo, l’opinione di Marzia non viene neppure richiesta. Sta di fatto che sposa Ortensio e gli dà
due figli, il primo dei quali è figlio naturale di Catone. Ecco cos’era la comunanza di figli che
Ortensio desiderava: un figlio partorito da Marzia per lui, ma concepito da Catone. Giuridicamente
suo, geneticamente dell’amico.
Ma la storia non finisce qui: quando Ortensio muore (all’epoca del matrimonio aveva quasi
sessant’anni, età per quei tempi più che ragguardevole), Catone risposa Marzia.
Tecnicamente, dunque, Marzia non era stata affittata: aveva sposato Ortensio, dopo che Catone
l’aveva ripudiata. Ma, considerando che questi poi la risposa, la sostanza non cambia: quando è suo
marito, Catone la cede temporaneamente, come “ventre” (venter è un termine usato dai romani per
indicare sia il ventre, sia la donna incinta) affinché soddisfi il desiderio di paternità di Ortensio.
Strana storia, in verità: ma solo ai nostri occhi. I romani, infatti, non risulta ne fossero
particolarmente colpiti: non era la prima volta che vedevano un marito cedere la moglie incinta, e
non sarebbe stata l’ultima. Come scrive Plutarco, “se un marito romano aveva un numero
sufficiente di figli, un altro, che non ne aveva, poteva convincerlo a lasciargli sua moglie, a tutti gli
effetti o solo per una stagione”. Cessione temporanea o definitiva, insomma, a seconda dei casi.
Cessione di una moglie fertile, a volte – per maggior sicurezza – addirittura già incinta.
Ma torniamo a Marzia: come visse il fatto che il marito decidesse di cederla (incinta) a Ortensio?
Ascoltiamo la fine della storia come la racconta Lucano nella Farsalia:
“Il sole scioglieva le gelide ombre quando alla porta di Catone venne a bussare piangendo la nobile
Marzia, che aveva appena lasciato il sepolcro di Ortensio… e così parlò mesta: ‘Finché vi era
ancora del sangue in me, fino a che avevo forza di generare, Catone, ho fatto quel che mi hai
ordinato. Ho avuto due mariti e ho dato a ciascuno di loro dei figli. Ora torno con il ventre esausto,
sfinita dai parti, in condizioni da non poter essere più ceduta a un altro uomo. Concedimi di
rinnovare i casti legami del primo matrimonio; dammi soltanto il nome di moglie, così che sulla mia
tomba si possa scrivere: Marzia, moglie di Catone”.
Evidentemente Marzia non aveva considerato il comportamento di Catone una mancanza di
riguardo. Era quello che Catone desiderava. Lei, da buona moglie, lo aveva accettato, e continuava
a considerare Catone il migliore dei mariti: dopo morta, voleva essere ricordata come sua moglie.
Al di là della drammatizzazione che Lucano fa degli eventi – Marzia che bussa alla porta di Catone
con ancora le ceneri di Ortensio tra i capelli – resta il fatto che ai romani che lo leggevano sembrava
evidentemente plausibile che Marzia non chiedesse di meglio che di risposare Catone. Anche per
loro era normale che una donna desiderasse tornare con il marito che l’aveva ceduta.
Come chiameremmo oggi pratiche di questo tipo? Affitto dell’utero? Cessione del ventre? Maternità
surrogata? Prima che la scienza ne fornisse gli strumenti, i romani avevano affrontato e risolto
alcuni problemi della fecondità. Naturalmente, a modo loro.
PS Dopo aver seguito la storia di Marzia e Catone, è difficile non pensare – con una certa sorpresa –
alla descrizione che ne fa Dante, quando colloca la coppia nel Purgatorio, come esempio di amore
coniugale. E fin qui – visto che i romani facevano le cose a modo loro – possiamo anche essere
d’accordo. Dove invece non siamo assolutamente in grado di capirlo è là dove leggiamo le parole
che mette in bocca a Catone, quando questi, per dare una misura del suo amore per Marzia, dichiara
che “quante grazie volse da me, fei”: che lui, dunque, Catone, cedette a ogni desiderio, a ogni
richiesta di Marzia.
Onestamente, questo è un po’ troppo. Anche per Dante.

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