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le alte torri

di emiliano bertocchi
1.
Le alte torri che si ergevano dalle mura della stazione sembravano minareti arabi
dimenticati nel tempo e all’ora del tramonto il sole li faceva brillare di una luce sacra
- Una volta, in un parco, ero seduto accanto a Lynn e avevamo preso un acido
insieme e ho visto un cane muoversi nell’erba e i suoi contorni risplendevano, il pelo
pareva essere formato da tanti lamenti incandescenti come il tungsteno in una
lampadina accesa - E gli ultimi bagliori del giorno s oravano le punte delle alte torri e
io camminavo verso il quartiere cinese perché avevo nito la sostanza e ne volevo
ancora e passate le torri si entrava in questo quartiere dove i palazzi erano vecchi di
un secolo e degli abitanti originari se ne erano quasi perse le tracce e i nuovi, la
maggior parte di provenienza asiatica, si erano impossessati delle strade e degli edi ci
e li avevano riempiti con  i loro colori, gli odori dei cibi che cucinavano, i suoni delle
lingue incomprensibili che parlavano e gli uomini passeggiavano sotto le decadenti
arcate che circondavano la piazza del mercato, concludendo i loro affari illeciti,
salutandosi, litigando e muovendosi nelle migliaia di direzioni possibili che ogni vita
conosce durante il suo lungo percorso e camminavo a passo lento fra queste persone,
senza preoccupazioni, il vecchio mi avrebbe dato la roba di cui avevo bisogno, il
vecchio si trovava in una camera in penombra nella parte posteriore di un negozio di
antichità. Mi aveva mostrato, una volta, la sua collezione di pipe da oppio, parlava la
mia lingua e mi aveva insegnato alcune parole della sua, le storie che raccontava
erano sempre molto interessanti, mi aveva confessato dell’esistenza di una porta
segreta e della possibilità di oltrepassarla e della conoscenza che si celava dietro di
essa - Caddero le lacrime dall’alto di una stanza, divennero oceani i tuoi occhi e lei
che si consumava le mani in osceni locali tra misteriose luci rossastre - Il vecchio
passava quasi tutta la sua giornata in quel retrobottega, in molti venivano a chiedergli
la sostanza, non a tutti la dava, sapeva quanto fosse potente il suo effetto, aveva la
migliore che avessi mai provato, passami la pipa, vecchio, gli dissi una notte, i suoi
occhi divennero fuoco, le mie palpebre cenere, vidi le mie mani disfarsi nell’aria
come fumo, ne sei sicuro ragazzo? Sussurrò lui.

2.
Mi fermo davanti alla vetrina di un negozio di gioielli orientali, osservo affascinato i
ri essi sprigionati da una collana di argento con delle pietre verdi incastonate, alzo lo
sguardo, apro la porta del negozio ed entro, su una delle pareti sono appesi dei quadri
con dei mandala, tra di essi si muove la mie mente in spirali colorate, serve aiuto?
Chiede l’uomo con il bastone, sto solo guardando, rispondo sottovoce, vuole
comprare qualcosa? Sto solo guardando, ripeto lentamente, i colpi del bastone sul
pavimento diventano ritmici, prima sporadici, poi sempre più veloci, le spirali
aumentano la loro intensità - Fuori dal negozio, con una collana in mano, cammino
sotto le arcate, i miserabili stesi sui loro cartoni, con le bottiglie di vino al loro anco,
il volto irriconoscibile di una vecchia barbona solcato da rughe profonde come
l’eternità, le risate senza denti degli alcolizzati, il mio corpo si muove in onde
concentriche, attraversando lo spazio come un sasso lanciato da una riva che penetra
la quieta super cie di un lago, l’odore delle spezie mi entra nelle narici e mi indica
nuove direzioni da seguire, un arabo con la lunga barba mi chiama, ci salutiamo, mi
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dice di entrare nel suo negozio per bere un tè e fumare il suo narghilè, sorrido, mi
passo una mano sul mento e lo seguo.

3.
Ci ritroviamo trasformati in esseri lucenti, mentre il fumo esce a strisce dalle mie
labbra socchiuse, c’è un momento prima del risveglio in cui dal buio circostante
nascono creature fatte di suoni e colori sconosciuti, ti muovi lento tra di loro, tutti i
tuoi gesti sembrano far parte di antichi rituali ma in realtà ti stai solo rigirando fra le
lenzuola, alcune volte sei sulla cima delle alte torri vicino alla stazione e guardi il
mondo e i palazzi e i loro tetti e le antenne che danzano nell’aria della sera, le scie
degli aerei nel cielo, connessioni invisibili che creano reti di comunicazione silenziosa
- Ghigni che esplodono dagli schermi - Camminavo con una bustina in tasca, dopo
essere stato dal vecchio, non sempre la condizione sica della sostanza era la stessa,
poteva essere liquida, in polvere, poteva essere un semplice gas da inalare, qualcosa
di solido e gelatinoso da ingerire, la sostanza assumeva forme differenti, la sostanza
diventava una presenza nella tua mente e sotto la pelle, una presenza che dovevi
conoscere, con cui dovevi confrontarti, la sostanza eri tu stesso in altri milioni di vite
possibili, era partire da quell’eventualità, da quell’apertura improvvisa nel reale,
dall’essere scaraventati in un altro corpo che era come il tuo ma anche diverso, perché
le strade della città erano sconosciute e allo stesso tempo familiari, differenti ed uguali
- Le persone che ti guardavano mentre camminavi, gli sguardi, fermavi i loro occhi in
attrazioni magnetiche, come calamite le pupille si attiravano, entravi dentro, vedevi
cosa c’era, gli occhi scintillavano, camminavi un altro po', bevevi acqua da una
fontana, lunghi respiri, ragazzo, come il vecchio ti aveva insegnato, impara a scorrere
in questa uida sorpresa fatta di aria e luce e a perderti in essa - So a sedeva a gambe
incrociate su un grande cuscino nero, le dita che le scivolavano fra i capelli, le giovani
prostitute sdraiate sui sofà di qualche bordello ad imparare l’amore, perché siamo tutti
degli sconosciuti e ci aggrappiamo alle carezze per non sprofondare ancora di più
nell’abisso, un sorriso, uno strillo e un cazzo che ti esplode nella gola in umi di calda
incoscienza, un momento di passaggio, una nuova soglia da superare, te la mostra lei
con i movimenti ritmici delle sue mani e la porta che si apre e ne scorgi la luce e le
risate e tutte le promesse che si trovano dall’altra parte e ci scivoli dentro e ti sciogli
in un liquido lattiginoso che inizia a colare tra le assi del pavimento, giù negli
interstizi tra la polvere e il buio - Gli occhi psichedelici di un ragno che dondola nel
nulla, il suono dei grilli nei caldi pomeriggi d’estate, mi mettevo una mano sulle
palpebre, il sole era una divinità senza scrupoli, il mio palmo era rosso, l’aria s orava
l’erba dei prati e la vedevo muoversi in onde azzurrine, vuoi un’altra tazza di tè?
Sussurra l’arabo dentro il suo negozio. 

4.
Agli angoli delle strade, sotto le prime luci arancioni dei lampioni, sotto il peso
violaceo delle nuvole nel cielo, i miserabili tiravano fuori i loro stracci dalle valigie
che si erano trascinati dietro, poi li disponevano su delle lenzuola strappate, distese
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sull’asfalto della strada. C’era di tutto. Scarpe spaiate, camicie luride, orologi rotti.
Anelli senza valore. Catenine di metallo, bicchieri sporchi. Radioline smembrate,
piccoli televisori crepati, videocassette impolverate. Tutti oggetti che non avrebbero
mai più funzionato. Eppure erano lì. Sistemati alla rinfusa. Testimonianze inutili di
qualcosa che era andato perduto.
E altri miserabili passavano tra i teli di questo grottesco mercato, passavano e
guardavano gli oggetti, come alla ricerca di qualcosa di prezioso, nascosto in un
cumulo di macerie, perché qualcosa era crollato, la vita di questa gente, le poche
certezze si erano sgretolate nel corso inesorabile degli anni e per terra qualcuno ne
raccoglieva ancora i resti. Poi se li rigirava tra le mani sporche e nodose, le unghie
ingiallite di tabacco, li guardava instupidito, i pensieri confusi dall’alcol, il baratro dei
ricordi, perché la notte ci si stendeva su forme di cartone, avvolti in coperte come
insetti dentro un bozzolo, ci si passava un boccione di vino scadente, perché la mente
si liberasse o divenisse ancora più schiava e i miserabili non avevano neanche il
diritto di vendere o barattare i loro stracci per strada, non avevano nessun diritto su
questa terra e dif cilmente ne avrebbero avuti su un’altra, perché sotto il cielo viola
non c’era posto per questi uomini e queste donne e i lampeggianti bluastri di un’auto
della polizia dipingevano i loro volti di paura e rassegnazione, facendoli sembrare
macabre maschere di un carnevale di idioti e ognuno che raccoglieva velocemente la
sua roba con le guardie appoggiate al anco della loro macchina che parlavano e
fumavano sigarette in attesa che gli straccioni se ne andassero e scomparissero dal
loro sguardo.

Un tavolo bianco in una grande stanza inondata di luce, gli echi dei passi nei corridoi
ormai vuoti, abbiamo attraversato gli anni, senza arrivare da nessuna parte.

5.
Ombre geometriche lungo la prospettiva, le fredde mattinate a camminare piegato
contro il vento, i primi occhi di neve, il cielo grigio come pietra - Le fanciulle
continuano a crescere, i loro seni a sbocciare, il pittore rimaneva seduto a guardarle, a
immaginarle in linee e colori, la carne viva e pulsante, i respiri nel petto, i tuoi
capezzoli rosa sulla punta della mia lingua ubriaca - A volte bisognava staccarsi dalle
donne, allontanarsi, passeggiare da soli sotto antichi alberi neri - Fantasticare tra le
ombre dei loro rami - Il minaccioso palazzo ricoperto di pece che si scioglieva, le
nestre accese come miriadi di occhi che non guarderanno mai più da nessuna parte,
le scie delle luci rosse, le macchine dirette verso destinazioni ignote, seguire la strada
senza domande, molti si smarrivano e i gesti iniziavano a conoscere la ripetizione e il
movimento della ruota e la mano meschina e truffatrice che la faceva girare - A testa
bassa rimango seduto accanto ad un muro, lontano da casa, in attesa, il ricordo dei
minareti, delle alte torri, invochiamo a gran voce la catastrofe nale, attendiamo in
ginocchio divinità già morte, una pallida aurora che scivola tra le dita, i tuoi capelli
sparsi sul cuscino, un lento respiro dopo l’altro, la pioggia di una città perduta nelle
mappe di un mondo che non è mai esistito.
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6.
Le luci arancioni oscillavano nell’aria, sopra le strade, tra i palazzi, le ombre degli
alberi erano minacciose, fra i rami neri e le nubi di foglie si aprivano squarci viola di
cielo, l’elettricità vibrava, i primi tuoni, i ash azzurrini dei fulmini. Ombre tra le
ombre, alcune gure sdraiate per terra, accanto ai muri dei palazzi, sotto sporgenze
che riparavano dalla pioggia. I più fortunati mettevano i loro cartoni su delle grate da
cui usciva dell’aria calda. Le coperte luride, il vino scadente, un’ultima sigaretta
prima di addormentarsi. Queste gure si scioglievano nell’asfalto, negli angoli
dimenticati delle strade, diventavano forme misteriose. Le voci di alcuni si levavano
alte verso gli dei o quello che ne rimaneva, le parole oscene, le risate indemoniate, la
follia che ti accoglieva nel suo abbraccio, il con ne era sempre più vicino, da giovani
era facile, c’era l’energia, la forza, da vecchi sarebbe stato più complicato, passare le
notti al freddo, stendersi sulla strada nuda, raccogliere il coraggio, sentire la amma
ardere ancora. Per alcuni era solo un incubo senza risveglio, per altri un modo di
allontanarsi da tutto, c’era chi si era ritrovato da solo, senza scegliere e non poteva
fare altro che andare avanti.

Passo sotto il tunnel e dal cielo iniziano a scendere le prime gocce di pioggia. Le vedo
cadere attraverso i fasci di luce arancione che irradiano i lampioni. Contrasti con il
cielo viola. I palazzi oscuri. Cammino sotto il tunnel, i rumori ovattati. Il rimbombo
dei motori delle macchine, suoni come sfere che rimbalzano da parete a parete, le mie
gambe si muovono arcuate, quasi di gomma, riesco ad uscire dall’altra parte, guardo i
palazzi e la pioggia, poi trovo riparo davanti ad un portone. Alzo gli occhi, gli edi ci
della stazione, ricoperti di marmo bianco annerito dai gas di scarico, lampi azzurrini,
enormi strutture cilindriche, transatlantici immobili nel buio e poi il mare e le onde e i
gabbiani impazziti e l’arrivo della tempesta e le urla dei marinai atterriti - Nella sua
cabina il capitano scriveva in maniera folle sul libro di bordo, un’ultima tirata dalla
pipa d’oppio, la nave era senza controllo, gli abissi marini, i vortici d’acqua, le visioni
di incomprensibile terrore, l’improvvisa calma e i mari del sud, l’aria immobile, il
capitano senza camicia seduto su una sedia di legno, le antiche mappe, il corpo di una
fanciulla seminuda sdraiata su una poltrona di piaceri proibiti.

7.
L’ombra di mio padre nascosta tra quelle ondeggianti degli alberi. Forme oscure.
Corpi scuri. Gli alti uomini neri mi guardavano seduti in cerchio intorno ad un fuoco.
Vestiti di piume. Antiche maschere da uccello sui loro volti. I lunghi becchi di legno.
Il suono dei tamburi. Le danze a piedi nudi delle donne. I canti e le melodie della
mente.

Seduto su una sedia mezza sfondata, su una terrazza, le luci del giorno dopo un
temporale, l’odore della pioggia, guardo le pozzanghere che sono rimaste sul cemento
crepato, il mondo ri esso, la possibilità di entrare in altre dimensioni, la loro
percezione in uno specchio d’acqua - Ci sono in nite realtà intorno a noi, la ricerca
dei varchi, delle porte, delle zone di con ne - Le gocce che cadono da una grondaia,
dai rami di un albero, niscono nelle pozzanghere e formano cerchi e il mondo
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ri esso è uno specchio ondulato e il tuo respiro segue il ritmo di quei cerchi, evapora
la tua pelle e il tuo corpo, sei aria che sale dalle super ci bagnate riscaldate dal sole.

Un palazzo decadente, posso vedere i mattoni sotto le crepe dell’intonaco, freddo


silenzio, conto le ale di mor na che gli uomini in bianco mi hanno dato.

8.
L’ago entrava nella vena e la sostanza si mischiava con il sangue e maree di tempo
iniziavano a trascinarmi oltre il presente, tornavo indietro, attraversavo oceani in cui
le onde erano minuti e ore e intere settimane e arrivavano lente e calde e mi
sommergevano e c’erano i tuoi occhi, in un momento imprecisato, che si accorgevano
di me, le palpebre che piano si alzavano mentre muovevi la testa verso il mio volto e
ti ho amata da subito, da questo primo istante, le tue labbra disegnavano parole che
non potevo capire mentre qualcuno raccontava un sogno che lo perseguitava -
All’interno di un aeroporto un bambino è in piedi nell’attesa di qualcosa, poi quello
stesso bambino è su una grande terrazza invasa dal sole, c’è una donna appoggiata ad
una ringhiera che si gira e gli sorride, un uomo che corre - Una notte il vecchio mi
disse che era possibile assistere al giorno della propria morte - Ancora i tuoi occhi che
mi cercano, sto correndo verso di te, la voglia di abbracciarti brucia, c’è un bambino
che ci sta guardando, non avrei mai pensato di crepare fra le tue braccia, davanti al
tuo sguardo e una volta sveglio sarò ancora lì.

9.
Più passavo del tempo nel quartiere e meglio ne capivo il funzionamento, era come se
dietro l’apparenza delle porte, delle nestre e delle serrande abbassate esistesse
un’altra dimensione, oscura e misteriosa, ricca di suggestioni narrative - Camminavo
per le strade del quartiere quando pioveva e l’asfalto era lucido e potevo sentire il
freddo dell’inverno e gli echi dei suoi lontani racconti, cadeva la pioggia e la
guardavo illuminarsi vicino ai lampioni dalle luci arancioni, sentivo il contatto della
sostanza nella mia mano chiusa, in una delle calde tasche del giaccone.
C’erano segnali che andavano imparati, i schi, le occhiate, la parole in codice,
c’erano stanze segrete, quelle dove compravo la sostanza, quelle dalle luci rossastre,
le stanze oscure, piene di antichi strumenti di tortura, le stanze in penombra con i
lettini per terra e le lunghe pipe cariche d’oppio - Qualcuno mi ha mostrato come
entrarci, dal vecchio ho imparato a guardare con occhi diversi, un giorno mi ha
accompagnato davanti ad una porta magica, in un angolo dimenticato tra le rovine di
alcuni antichi palazzi, eravamo davanti alla porta e il vecchio mi disse se fossi sicuro
di voler entrare, di voler vedere cosa ci fosse dall’altra parte, sei sicuro ragazzo? Mi
chiese lui e sorrise, io annuii senza rispondere, poi si avvicinò a entrambe le statute
che sedevano ai due lati della porta, prima da una e poi dall’altra, le statue del Dio
Bes, sussurrandogli qualcosa - Il tempo si fermò, completamente, intorno a me, come
in un fermoimmagine mentale, tutto immobile, immerso nel vuoto, la porta si aprì
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senza muoversi, una dissolvenza incrociata tra l’immagine della porta chiusa e quella
della porta aperta, adesso puoi entrare, disse il vecchio, che cosa troverò, gli chiesi?
Tutto quello che hai perduto, mormorò lui e si dissolse in una nuvola di fumo.

10.
Il mio corpo nudo era davanti ad uno specchio, le statue del Buddha nella posizione
del loto, gli uccelli che parlavano dagli alberi nei loro vestiti di piume sgargianti -
Scorreva un ume nella foresta, i suoi lenti respiri, c’erano lampade che scendevano
dal sof tto e dalle pareti arancioni di una stanza segreta, l’odore dell’incenso e le
candele accese, scivolavano le sue mani sul mio corpo, gli oli profumati, gli sguardi
delle bambine nei villaggi, la luna era enorme mentre saliva dall’orizzonte, il latrato
dei cani, la tua morbida pelle - Poco distante, mi ha detto il vecchio, quanto manca gli
avevo chiesto, è poco distante, dove, dimmi dove, segui il sentiero, arriva alla
capanna, suona la piccola campana d’argento appesa fuori dalla porta e attendi - I
miei occhi di giada, sono arrivato, i brividi lungo la spina dorsale, la voce sussurra di
entrare, melodiosa e rassicurante, una mano mi prende e mi accompagna tra corridoi
in penombra - Mi stendo per terra, su un futon, odore di pulito, in sogno una giovane
ragazza era venuta a trovarmi, mi aveva salutato fuori da un cancello e poi ci eravamo
abbracciati - Qualcuno mi passa una pipa carica, la accende e mi fa fumare, dolci
papaveri, crescete lontani dal fragore del mondo, crescete nell’aria delle pianure
silenziose, l’oro dell’estasi, è tutto così pieno di equilibrio e splendore - I tuoi occhi di
madreperla mentre mi guardano, le boccate di fumo si disperdono nell’oscurità della
stanza, è buono? Chiede la voce, sorrido, la porta si chiude - L’abisso respira di stelle
ri esse, un altro tiro, galleggia nel nulla la mia anima e tu, perduta nel tempo, che
ancora sorridi prima di voltarti e uscire per sempre dalla mia vita.

11.
Alcune volte non avevamo da mangiare e se qualcuno bussava, di giorno o di notte,
aprivamo la porta e vedevamo chi era e se aveva una busta con del cibo e qualcosa da
bere, allora lo invitavamo a entrare. C’era chi andava in giro per le strade a cercare
dentro i cassonetti, con un sudicio carrello della spesa appresso. Aveva una lampadina
in un mano e nell’altra un pezzo di lo di ferro che curvava alla ne, formando una
sorta di gancio, un uncino per arpionare tesori o mostri innominabili negli oscuri
abissi della spazzatura, storpio Achab metropolitano. Si squarciavano i ventri delle
buste per scoprire cosa contenessero, avanzi alimentari e parti elettroniche di circuiti
mentali in avaria. Ce ne erano così tanti di questi marinai perduti e li vedevi all’alba
o nel buio, muoversi lenti, sporchi, da un cassonetto all’altro, in un arcipelago di
luride piccole isole metalliche, poi uomini e donne seduti in ginocchio per le strade,
mute processioni davanti ad una chiesa, dove nessuno si immaginava più di entrare,
perché le divinità della terra erano crepate insieme agli stomaci di pietra di statue
senza più braccia e piedi da adorare.
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La cosa più intelligente da fare sembrava allora quella di buttare giù una rossa o una
gialla per non sentire i morsi della fame e lasciarsi esplodere il cervello in visioni di
bianca luce.

12.
Aveva passato gran parte della mattinata chiuso in una stanza, davanti al computer, a
fare una ricerca su un allucinogeno che veniva usato dagli indigeni che avevano
vissuto per centinaia di anni nel deserto di Atacama, lo yopo. Aveva visto le foto dei
resti dei loro attrezzi per polverizzare i semi, quelle delle cannucce per tirarli. Botte
forti e potenti che facevano arrivare la sostanza dritta al cervello, in modo che potesse
elaborare i dati sensibili in maniera differente. Ogni tanto usciva dalla stanza e fuori,
nella luce del sole, le cose apparivano brillanti e reali, come i ricordi di quelle
giornate quando era ancora un ragazzo e giocava all’amore con una giovane fanciulla,
sarebbero cambiati i volti, i pensieri, sarebbero cambiate così tante cose eppure la
luce, nei suoi momenti estatici, sarebbe rimasta sempre la stessa.

Gli avevano dato un nome, Pavel L. (P. L.), doveva chiamarlo in serata e conoscerlo.
C’erano informazioni e sostanze e nuove informazioni su nuove sostanze. Non sapeva
se Pavel fosse pericoloso, non si preoccupava, aveva ducia in chi gli aveva rimediato
il contatto. Si incontrarono in una piazza, piena di stranieri, nel quartiere cinese,
vicino alla stazione. Pavel aveva una valigetta e un aspetto anonimo. Lui era su una
panchina, con un libro in mano. Pavel gli si era seduto accanto e aveva parlato nella
sua mente. Lui si era girato e gli aveva sorriso. Si erano alzati in silenzio e si erano
mossi verso la stazione. Avevano cenato in un ristorante thailandese, parlando in
arabo, perché sembrava la lingua più adatta per discutere di quelle cose. Non bevvero
alcolici e le informazioni più importanti venivano trasmesse attraverso la mente. Serie
lampeggianti di numeri. Lui descrisse a Pavel le varie sostanze che erano in
circolazione in quel momento nelle diverse zone della città, gli raccontò della
sostanza che si poteva trovare nel quartiere cinese. Pavel gli disse che c’erano delle
novità e che ci sarebbero stati dei cambiamenti. Si salutarono fuori dal ristorante, lui
aveva in mano la valigetta di Pavel. Si diresse verso casa.

Posizionò la valigetta su un tavolinetto basso di legno rosso, poi si sedette a gambe


incrociate. Fece ruotare i numeri della combinazione. Qualcosa scattò. Dentro la
valigetta c’erano diverse scatole, di varie dimensioni, un puzzle misterioso che
riempiva tutto quello spazio interiore foderato di tessuto prezioso. Prese una piccola
scatola dal colore blu cobalto e la aprì. Dentro c’erano delle sottili radici che non
aveva mai visto. Ne prese due e se le mise in bocca, iniziando a masticarle
lentamente.
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13.
Scese per strada, la luce era forte, aveva la testa leggera e voglia di camminare. Passò
sotto il tunnel che divideva il suo quartiere da quello cinese. Alla ne del tunnel,
quando il buio lasciava di nuovo spazio allo sguardo accecante del giorno, sentì una
voce femminile chiamarlo. Si fermò e lei si avvicinò, spingendo una bicicletta. Gli
occhi della ragazza erano molti tristi e lui non aveva il desiderio di guardarli, la sua
mente era calma e senza peso e i pensieri si muovevano come lente onde, mentre
quegli occhi, anche se chiari, erano come pietre che cadevano in un abisso di
malinconia e dolorosi ricordi e allora lei gli prese le mani, perché capì che con lui le
parole non avrebbero funzionato e i loro palmi e le loro dita entrarono in contatto,
così le immagini iniziarono a uire nella sua mente - le stanze di tortura, gli aguzzini
con i cappucci, la morte della madre e quella del fratello, fotogrammi pieni di
sofferenza e lui cercò di staccare le mani da quelle di lei, perché non voleva vedere
quelle cose, non voleva sapere più nulla di quelle cose, con uno strattone si tolse dalla
presa delle sue dita e fu come un profondo respiro dopo che si è tenuto il naso chiuso
per parecchio tempo, ci fu una scossa elettrica nel suo cervello e lui guardò meglio la
ragazza, guardò il suo corpo e non solo i suoi occhi, era un bel corpo, un corpo capace
di eccitare e riemersero le immagini di quello stesso corpo torturato e stuprato e di
nuovo la guardò negli occhi e vide fotogrammi di se stesso mentre la torturava e
allora lui si girò e si allontanò senza dirle nulla, se ne andò verso il quartiere cinese,
aveva un appuntamento o forse erano solo echi di lontani discorsi ormai scomparsi,
doveva andare e continuare a camminare. Sentiva ancora in bocca il sapore amaro
delle radici che aveva masticato prima. Il cielo divenne rosso, per un momento, lui
rimase estasiato a guardarlo. Poi proseguì per la sua strada, uguale a tutte le strade,
continuò a camminare verso il nulla, un vuoto multicolore che lo aspettava nei portoni
aperti di mistici edi ci.

14.
Ti fermavi, non tanto perché andare avanti non avesse più senso, quanto perché il tuo
uomo non si trovava ed eri stanco di cercarlo, aveva lui quello che ti serviva, lo
sapeva, conosceva bene, il bastardo, il valore del tempo e dell’attesa e tutta quella
marijuana che arrivava dall’Albania, P.L. lo sapeva, ci aveva pensato lui ad
organizzare quel traf co, qualcosa non tornava, qualcosa mancava sempre, era il
pensiero del bisogno e della dipendenza, di qualsiasi dipendenza e vedere questo
mondo andare a puttane non aiutava di certo a migliorare la situazione, era tutto un
correre appresso ai soldi e se non erano i soldi era qualche altra merdata che ti
avevano venduto e di cui ne volevi ancora, non c’era più spazio neanche per il sesso o
i rapporti umani, loro continuavano a strisciare come vermi e le stelle scomparivano
nel cielo, inghiottite dai buchi neri delle multinazionali cosmiche che stavano
divorando l’intero universo, non sarebbero neanche rimasti più la notte e il giorno e
l’ordine naturale delle cose, il capitale aveva vinto e Marx si grattava via la cenere
dalla barba e dai suoi vestiti logori.
I ragazzi arabi si sedevano sulle panchine o stavano in piedi negli angoli delle strade,
bastava uno sguardo, non c’era bisogno di parlare, li seguivi un po’, perché non
avevano mai la sostanza addosso, poi aprivi la mano, un trucco di magia e sentivi la
sostanza tra le dita, le chiudevi a pugno, perché non cadesse, con l’altra mano
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allungavi i soldi al ragazzo arabo, uno sguardo di saluto e ognuno per la sua strada e
in effetti non c’era neanche troppo da aspettare, perché i ragazzi erano ovunque e le
sostanze erano di facile reperibilità, quelle scadenti per lo meno, quelle buone
bisognava sapere dove trovarle, conoscevo alcuni luoghi, alcune strade, alcuni portoni
dove potevo prendere quello che volevo, bastava pagare e tutto diventava possibile.
La frusta era arrotolata ed appesa ad un muro, non credevi più alle dolci parole,
l’amore era un colpo sordo e poi un luminoso silenzio.

15.
L’idea, disse P.L., è quella di entrare in contatto con questi piccoli gruppi di
spacciatori, africani e arabi, sfruttare i soldi ricavati dal traf co di sostanze per
aumentare il nostro controllo del territorio, bisogna creare spazi liberi dalla polizia,
dalla politica, dalle insidie religiose, le chiese devono rimanere vuote, così le cabine
elettorali, non ci devono essere più divise in giro a dire cosa si può e cosa non si può
fare, dobbiamo partire dallo spaccio di sostanze, che si è creato in maniera autonoma
e disomogenea e organizzarlo.
Dovevo trovare un modo per entrare in contatto con questi piccoli gruppi, parlavo con
qualche spacciatore, frasi semplici, quelle che lui conosceva della mia lingua, senza
comprare nulla, per vedere come me la cavavo, se riuscivo ad inserirmi, ad avere la
sua ducia. Conoscevo qualche parola di arabo e un buon esercizio era stare seduto
tra gli spacciatori nord africani e ascoltarli mentre discutevano, cercando di
riconoscere quante più parole possibili, era un lavoro lungo e bisognava avere
pazienza.
Mi spostavo dal quartiere vicino alla stazione, dove c’erano i ragazzi arabi a quello
nei pressi del ponte sulla ferrovia, dove si trovavano i ragazzi africani, questo
quartiere aveva una strada più grande che lo divideva in due parti, tutto intorno una
rami cazione di vicoli in cui i ragazzi sostavano nel buio, pronti a venderti, dopo il
contatto visivo, la loro merce.
Altre volte, invece, preferivo comprare e osservare le loro tecniche, provavo le
sostanze, quelle vendute per strada non erano quasi mai di prima qualità, altre volte
ancora osservavo e basta, seduto su un gradino di un negozio o su una panchina,
guardavo i ragazzi e tracciavo mappe mentali dei loro spostamenti, di dove tenevano
le sostanze, dovevo trovare un modo per unirli, fargli percepire la realtà del mondo in
cui si trovavano, insegnargli la possibilità di cambiare quel mondo, quella realtà, non
erano solo le sostanze a darci questo potere ma anche il desiderio del caos e di un
nuovo ordine, Pavel L. era un agente del caos, sempre pronto a fare crollare i muri
delle abitudini, delle convenzioni e del vivere sociale.

16.
Ero seduto sotto un albero, in un parco, in un pomeriggio silenzioso e dorato, bevvi
un sorso di una delle sostanze liquide che avevo trovato nella valigetta che mi aveva
lasciato P.L., quelle sostanze erano molto interessanti e ne stavo scoprendo effetti,
dosaggi, potenzialità e pericoli. Questa era di un colore azzurrino, bevvi un altro sorso
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e iniziai, dopo pochi minuti, a sentirmi sempre più leggero, perdendo peso, mentale e
corporeo, vidi la mia gura seduta sotto un albero e poi il parco e il quartiere e la città
dove ero, tutto si trasformò in una mappa dettagliata e tridimensionale, potevo
muovermi tra le linee, i colori brillanti, le scritte, i segnali, cercai di imprimere le
informazioni sulla macchina morbida rinchiusa nella scatola cranica, poi scivolai oltre
il limite del visibile, notte oscura ed occhi pesti, lo scintillio di uno sguardo carico di
odio poco prima dell’arrivo dell’aurora.

Ero seduto in una stanza e ne guardavo il pavimento, era composto da strani mosaici
che sembravano cambiare forma sotto il peso della luce, perché in questa stanza
c’erano lampade arabe ad olio che scendevano dal sof tto e la luce colava, densa,
quasi tangibile, no al pavimento, dando vita ai mosaici, ai piccoli tasselli di vetro,
alle diverse pietre che vi erano incastonate, adularie, opali, agate, ametiste, erano i
loro colori illuminati dalle lampade a creare immagini e misteriose gure che nell’aria
immobile della stanza si muovevano, lasciando scie di fumo, fragranze orientali, note
di sandalo, legno, oppio - fumai alcune boccate da una pipa d’avorio e mi stesi su un
divano basso e lungo, appoggiato ad uno dei muri, bevvi un sorso di tè alla menta e
attesi.

Pavel stava parlando, non lo avevo visto entrare nella stanza, era seduto in una
confortevole penombra, in modo che non potessi vedere il suo volto, non sapevo che
sembianze avesse, la sua voce era lontana, profonda, fece anche lui alcuni tiri dalla
pipa, le sue parole erano melodiche, creavano immagini nella mia mente, una
comunicazione psichica, un antico canto rituale, mi persi in quella visione.

Ritornammo alla lucidità, fuori da quella stanza, eravamo seduti su una panchina, in
un parco, in una zona poco frequentata della città e Pavel mi parlò, nella mia lingua,
dell’accoppiamento umano e della prostituzione, dell’energia sessuale e del suo
controllo. Le migliori vengono dalla Thailandia o dai paesi del SudEst asiatico, le
educano sin da bambine, disse P.L., sanno cosa devono fare e come, il passaggio
successivo è quello dal controllo del corpo al controllo della mente, imprimere nel
cervello un bisogno che solo loro, in futuro, sapranno soddisfare, la chiamano anche
Arte Della Manipolazione. Nelle società occidentali il sesso è sotto controllo: politico,
religioso, sociale. L’educazione pornogra ca eletta a sistema di formazione,
l’attenzione maniacale per i dettagli, la suddivisione del corpo nei suoi elementi
costitutivi esterni, la creazione di un’attenzione magnetica per quei dettagli, il
condizionamento pavloviano, i cani abbaiano, gli uomini hanno erezioni controllate,
quel bisogno sarà soddisfatto esclusivamente dalle nostre prostitute, distruggeremo il
concetto di famiglia, la sua unità, manderemo puttane e spacciatori fuori dalle scuole,
dalle chiese, bombarderemo la mente della popolazione con le nostre immagini, il
bisogno sarà perenne.

Chiusi per un attimo gli occhi, ascoltavo ancora le parole di P.L. nella mia testa, lui
non era più qui, era scomparso, nel cielo passò un aereo, mi accorsi che la mia mano
sinistra stava tremando.
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17.
Il cielo era di nuovo grigio e si sentivano dei tuoni in lontananza, il suono era attutito,
più acuto era quello di alcuni uccelli che costruivano i loro nidi fra alberi invisibili,
presi la valigetta nera e tirai fuori una piccola scatola quadrata di legno, sembrava
molto antica, ci dovevano essere state delle incisioni, un tempo, di cui adesso
rimaneva solo una pallida traccia, passai la punta delle mie dita sul legno, poi aprii la
scatola, dentro c’erano dei rametti di qualche pianta desertica da cui spuntavano delle
spine e dei minuscoli puntini verdi, avevano un odore di strade polverose e perdute,
presi un rametto e me lo misi nel palmo della mano chiedendomi come assumere
questa sostanza – Io e Pavel eravamo seduti dentro un locale, con pochissima luce,
l’arredamento era di legno, non c’erano molte persone e bevevamo birra scura, sul
tavolo davanti a noi, in alcuni momenti, si muovevano delle ombre, Pavel mi chiese,
che cosa fa una spina? Punge, risposi io, cercando di posare la mia mano su una di
quelle ombre che si muovevano sul tavolo, punge, ripetei a voce più bassa. Guardai il
volto di Pavel, aveva il sopracciglio sinistro alzato e gli occhi grigi, poi il suo viso fu
quello di un uomo qualunque, ordinario, nel suo vestito comune, devo andare, disse,
rimasi solo nel locale, non c’erano più ombre sul tavolo ma una luce oca, arcaica,
che scivolava sulle imperfezioni del legno, rivelando incisioni e scritte in linguaggi
morti e dimenticati – Avvicinai una delle spine del rametto che avevo preso alla punta
del pollice sinistro, feci pressione, una goccia rossa, un’improvvisa illuminazione di
dolore, ero in una stanza in penombra e vedevo una gura femminile danzare nel
vuoto dell’aria immobile, i suoi capelli si muovevano più lentamente rispetto alle scie
luminose delle sue mani, delle sue gambe e dei suoi piedi, mi avvicinai, lei si fermò,
non riuscivo a vedere il suo volto, le posai le dita sulle braccia, la sua pelle era come
marmo vivo, come roccia e sabbia calda al tramonto, continuai ad accarezzarla, ebbi
un’erezione, lei si scostò, dirigendosi verso uno degli angoli della stanza, accese una
candela e iniziò di nuovo a danzare, i suoi capelli cominciarono ad allungarsi,
scendendo no a terra, dirigendosi verso di me, risalirono sulle gambe, no al cazzo,
lo avvolsero e iniziarono a stringerlo, ritmicamente, quei capelli erano seta levigata, la
presa divenne sempre più stretta, venni in perle argentee che caddero sul pavimento,
un suono come di biglie lanciate per terra, con echi di caverne e rituali primitivi,
chiusi gli occhi – La valigetta era sempre sul tavolo, aperta, rimisi il rametto dentro la
scatola di legno, la spina con cui mi ero punto si era staccata, al suo posto c’era un
nuovo minuscolo puntino verde. Mi alzai e andai verso la nestra. Stava piovendo.

18.
A volte dietro la vita delle altre persone, persone che avevi anche conosciuto, non
c’era nulla, nulla di interessante, di veramente interessante, quando si iniziavano ad
aprire degli spiragli in quelle porte, ti stupivi di come non ltrasse nessuna luce, anzi,
ne usciva fuori un odore di cose stanche, ripetute e vecchie, era meglio starsene da
soli, in qualche luogo della mente, in silenzio, piuttosto che fare parte di un gruppo,
qualsiasi gruppo. C’erano le solite vite, le stesse storie di sempre ad aspettarti ed ero
così stanco di ascoltarle, vederle, le esperienze migliori erano quelle che andavano
immaginate giorno per giorno, scritte, espresse in note e colori, parole ed immagini,
azioni che non esistevano da nessuna parte se non nell’inconscio di chi le creava.
Dovevo spostarmi, sperimentare, esplorare altri universi umani, ascoltare lingue
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differenti, toccare pelli diverse, respirare nuovi odori. E loro, le persone di cui non
sapevo nulla, erano tutte intorno a me, nella zona dove vivevo, erano loro, quella
zona, ne avevano preso possesso e la stavano cambiando, dovevo trovare il modo di
catturare quella energia, quella forza e trasformarla. Camminavo e parlavo con questi
uomini, africani, arabi, mediorientali e asiatici, cercavo di imparare parole delle loro
lingue, qualcuno mi aiutava, altri no, c’era indifferenza e solidarietà come in tutti i
rapporti umani, alcune volte ne discutevo con Pavel, diceva che mi stavo muovendo
bene, che stavo creando contatti interessanti, mi fece una proposta, un giorno, se
volevo gestire un negozietto di libri, nel quartiere cinese, naturalmente era una
copertura, per cosa, Pavel, ancora non voleva dirmelo, bastava che ci passassi quattro
o cinque ore al giorno, mi avrebbe dato dei soldi, avrei potuto leggere quanto e cosa
volevo, mi sembrava un’idea molto saggia o per lo meno una proposta fatta da una
persona che per sensibilità o puro calcolo aveva capito qualcosa di me.
Mi fermai dietro una delle stradine della stazione a parlare con un ragazzo arabo. Mi
passò alcune bustine. C’era sempre una prima volta. Non avevo mai venduto sostanze.
Era giunto il momento di iniziare.

19.
Le coordinate di un viaggio di fantasia, seduti su una terrazza, di notte. La sostanza
aveva iniziato a fare effetto e rendeva più concrete le immagini che la mente dello
scrittore proiettava. Risalire no ad Amsterdam, a piedi o a cavallo, in un periodo che
si poteva collocare temporalmente verso la ne dell’ottocento. Un viaggio lungo,
forse di un paio di settimane. Attraversare la Francia, nel periodo della vendemmia,
fermarsi alcuni giorni, a ridere e scherzare con le fanciulle del luogo, succhiare mosto
dai loro piedi e cercare diamanti nei loro occhi, risate d’argento e abbracci clandestini
su letti di paglia, fumare tabacco nel sole e sentire gli odori della campagna, la notte
sarebbe stata una bottiglia di vino senza fondo, l’alba il tuo sorriso di ragazza.
Continuammo verso Amsterdam e vi restammo un mese, scegliendo una nave sulla
quale salpare, vivevamo in una pensione, proprio sul limite del De Wallen, bordelli e
prostitute, scintillanti risate, bicchieri d’assenzio, camminavamo ebbri tra luci
rossastre, i pensieri erano nuove terre all’orizzonte. Ci imbarcammo d’inverno, la città
era ricoperta di neve, chiusi nei nostri vestiti pesanti, incerati nel grasso per resistere
all’acqua e all’umidità, un viaggio di un paio di mesi verso le Indie, passando intorno
all’Africa, il suono dei tamburi nelle notti dense di buio, fuochi sulle rive, intagliavo
un bastone di legno, imparavo nuove lingue, scambiavo esperienze con gli altri
marinai, c’era dell’oppio a bordo, qualcuno lo aveva portato da Venezia, oppio turco,
ne avevamo una buona scorta, un marinaio ci parlò di quando aveva fumato alla
presenza di un cardinale, su tappeti orientali, la ricchezza delle sue vesti, poi entrambi
si erano ritrovati nudi, galleggiando nell’oblio, avremmo conosciuto donne
meravigliose, nelle Indie, lo sentivamo, i racconti erano pieni di misteri e sogni
proibiti - Mi addormento sul ponte, i pensieri che oscillano fra le stelle inquiete della
mia giovinezza.
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20.
Ho sempre avuto dei problemi con l’autorità, pensavo, e chi non ce li ha? Rispondeva
la mia mente, gli accessi febbrili si stavano riducendo e così le visioni e le storie
immaginarie, sballottolato da una parte all’altra della scatola cranica, oceani cerebrali
solcati da navi fantasma - Gli incontri con Pavel erano divenuti più radi, mi appariva
nei sogni o sotto forma di animale, riconoscevo il suo sguardo e non erano più
necessarie le parole per comunicare. Adesso avevo un nuovo contatto, Abdullah, lo
avevo già visto insieme ad altri ragazzi arabi, nella piazzetta, dove facevano i loro
traf ci. Dovevo inserirmi nel giro, imparare a parlare arabo, i meccanismi mi erano
chiari, i ragazzi in bicicletta controllavano l’eventuale arrivo della polizia, quelli a
piedi nascondevano la sostanza, quelli seduti aspettavano contatti visivi per venderla,
a volte c’erano delle risse e del sangue e io e Abdullah sapevamo che non era la
maniera giusta di fare gli affari, ma i ragazzi magrebini si divertivano così, i loro
globuli rossi impazzivano e perdevano il controllo. Spine con ccate nei capezzoli e
sapienti giochi di dolore, così le donne arabe sapevano farti confessare qualsiasi
verità. Abdullah era seduto su una delle panchine di pietra, da solo, mi avvicinai e
iniziammo un lungo discorso mentale, fatto di immagini, sapevo decifrare quelle
gure, le nostre menti erano nitide, in uno stato di lucidità indotto dalla sostanza
gialla, in polvere, che avevamo assunto precedentemente, ognuno per conto proprio,
sotto gli ordini psichici di Pavel, che si era manifestato in forma di corvo nero,
gracchiando davanti alle nostre rispettive nestre. Ero seduto sul mio tappeto
orientale, le gambe incrociate nella posizione del loto, controllavo cosa era rimasto
nella valigetta e prendevo appunti su un quaderno nero, usando un alfabeto
misterioso, che avevo imparato durante le lezioni del sogno, studiando le varie
sostanze, i loro effetti e i loro poteri. Si facevano sempre più soldi nella piazzetta e
bisognava creare alleanze, con i ragazzi africani, che stavano nell’altra zona. Ormai la
polizia neanche più controllava i luoghi della vendita, avevano paura, eravamo tanti,
troppi e vendevamo le nostre merci e più queste erano pericolose ed ef caci e
creavano dipendenza e più noi eravamo forti, sicuri che quelli che l’assumevano
sarebbero tornati a comprane ancora. Dipendenza. Assuefazione. L’Arte del Bisogno.
La strada verso la rivolta e il controllo, l’anarchia e il fascismo.
Io Abdullah rimanemmo in silenzio. Un cane ci passò accanto, pisciò e si fermò a
guardarci. Ci alzammo insieme e lo seguimmo.

21.
Avevo visto l’uomo con la barba sempre fermo, appoggiato ad un muro, in silenzio,
aveva delle buste accanto a sé. Alcune volte ci scambiavamo degli sguardi, i suoi
occhi erano chiari, andava e veniva, non avevo idea di dove vivesse. Non abbiamo
mai parlato per lungo tempo. Poi ho iniziato ad incontrarlo nei sogni. Era sempre
appoggiato ad un muro, la sua barba, lunga, durante quegli incontri, cambiava colore,
non in maniera improvvisa, ma sfumando lentamente da una tonalità all’altra, la sua
testa, in alcuni momenti, sembrava circondata da un’aurea lucente, i suoi occhi erano
azzurri e rimanevano identici, solo la pupilla si allargava e restringeva seguendo ritmi
che non riuscivo a capire, le fotogra e mentali passavano dal suo sguardo al mio,
potevo, dunque, vedermi dall’esterno. Negli incontri onirici non avevamo bisogno
delle parole, la comunicazione avveniva tramite messaggi psichici, iniziò ad istruirmi
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sui Veda, sulla terminologia sacra dell’induismo. I solchi mentali, karman, erano
paragonabili a quelli presenti su un disco di vinile, l’immagine era nitida, il disco che
girava era la nostra esistenza, i suoi solchi le nostre abitudini, la musica che ne usciva
fuori poteva essere la nostra gioia o la nostra infelicità.

L’uomo con la barba mi porta in una stanza con cuscini orientali e disegni delle
centinaia di forme con cui Brahman poteva manifestarsi, il diamante lucente della
coscienza e i suoi molteplici ri essi, la sua barba scintillava. Fumammo da un chilum
avvolto in un fazzoletto di stoffa. Sdraiati su tappeti, al ritmo dei nostri battiti
cardiaci, sempre più lenti, scivolammo nell’oceano interiore, un uccello colorato si
alzò in volo dalle acque, le onde sembravano provenire da qualche antica incisione
giapponese, l’uccello aveva lamenti di luce al posto delle piume e volava silenzioso
attraverso il tempo e lo spazio, ci guardammo negli occhi, iridi a forma di mandala.

22.
Il cielo è nero, la pioggia è nera e le parole uscivano fuori dalla bocca dell’uomo nero.
L’avevo incontrato in un sogno, all’interno di una capanna. Parlava una lingua simile
allo spagnolo e la nostra comunicazione oltre ad essere orale era anche visiva, i suoi
occhi discutevano con i miei. L’uomo nero si chiamava Papa.
Disegnò una stella sulla sabbia all’interno della capanna, una stella a cinque punte,
questo è un simbolo divino, disse, hai mai visto la mano di dio? Mi chiese, gli risposi
di no, che non l’avevo mai vista, la mano di dio, che ha creato tutte le cose,
donandogli forme e colori diversi ma un’unica essenza, nascosta e a volte visibile, a
chi sapeva guardare in profondità - Papa tirò fuori della marijuana e disse che quella
era la sua medicina, che l’effetto dell’erba dipendeva dallo spirito delle persone, in
uno malato quella sostanza avrebbe prodotto degli effetti negativi, yierba loca, Papa
mi fece fumare e poi rimanemmo in silenzio a parlare attraverso i nostri sguardi.
L’Apocalisse sarebbe arrivata presto. L’umanità stava vivendo uno dei suoi ultimi
periodi. Mi alzai in piedi, all’interno della capanna. C’era una piccola porta fatta di
canne intrecciate tra loro, l’ho aperta e sono uscito, era notte, doveva essere notte, il
cielo era nero, l’aria era carica di odori misteriosi, sembrava di essere nel deserto,
ancora sabbia, sabbia nera, Papa è uscito dalla capanna, aveva un bastone in mano, si
è avvicinato a me, ha sussurrato parole incomprensibili, ha tracciato una stella a
cinque punte sulla sabbia, linee di pura luce bianca splendevano adesso nell’oscurità.

23.
L’uomo con gli occhi viola era seduto su una sedia, vicino ad un tavolo, io ero su una
poltrona, comoda e confortevole, davanti a lui. Diversi quadri erano appesi alle pareti,
c’era una nestra aperta, l’aria era abbastanza calda, il cielo fuori stava diventando
più scuro, l’uomo con gli occhi viola si alzò, accese una lunga lampada, sembrava un
tronco di un giovane albero di metallo con i suoi rami spogli, dalla loro punta
uscivano fuori soffusi raggi di luce.
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L’uomo con gli occhi viola riempì una bombilla con del maté e me la passò, diedi il
primo sorso dalla cannuccia mentre con la schiena mi sistemavo meglio sulla
poltrona.
L’uomo con gli occhi viola parlò a lungo, mentre io rimanevo in silenzio ad
ascoltarlo, ci passavamo ogni tanto il maté, dando una sorsata. Mi raccontò del padre,
un pittore, di come vivessero, quando lui era ancora un bambino, dentro una grande
stanza, senza muri, con teli attaccati a dei li che potevano essere tirati e creare,
quando ce n’era bisogno, spazi diversi, che diventavano zone dove dormire, mangiare,
discutere o lavorare. Il padre dipingeva in silenzio, concentrato, in una dimensione
personale in cui gli altri non potevano entrare. La notte venivano nella casa alcuni
artisti, si beveva vino e si fumavano sigarette rollate a mano, si suonavano chitarre e
si ballava, c’erano donne, uomini e bambini, le sere erano momenti di festa e
condivisione, l’odore del tabacco invase la stanza in cui eravamo, potevo sentire gli
echi delle risate delle donne, il rumore dei loro tacchi mentre camminavano e
ballavano sul pavimento di legno, le parole degli uomini, i gridi estasiati dei bambini.
Ci fu un momento di rottura con il padre, mentre lui cresceva e diventava adolescente
e un anno di lontananza in cui insieme ad uomo della campagna visse tra gli alberi e
la terra, a cavallo, sempre in movimento, un anno in cui apprendere le cose in maniera
diversa, tramite l’esperienza diretta e il contatto delle mani con la realtà, il padre
continuava a dipingere, nella casa, le sue tele, il padre ricreava con i colori il mondo
in cui il glio viveva, lontano da lui. Rimanevo seduto ad ascoltare. La notte era
arrivata. La luce danzava nella stanza. Chiusi gli occhi, la memoria si scioglieva tra le
mie dita.

24.
Un fermoimmagine delle alte torri, in controluce, in un forte contrasto di bianchi e
neri, cammino sul mio sentiero dorato, seguendo le mappe mentali che mi ero
preparato in precedenza. Anelli fallici di costrizione ed energia sessuale trattenuta. Il
fermoimmagine dei lampadari appesi lungo le volte di una galleria, accanto alla
piazza del mercato, passeggiando sotto quegli archi, scivolando sul pavimento, gli
amici di Pavel che mi accompagnano in silenzio, i pensieri circolari della droga, le
occhiate di riconoscimento, i gesti stabiliti dal linguaggio dei tossici.

Nel quartiere cinese le cose funzionavano alla grande, la crisi economica sembrava
non esistere tra le strade e i negozi e quello che nascondevano - Dietro la facciata
apparente delle attività commerciali si celavano traf ci più interessanti, le sostanze
venivano smerciate e vendute nei retrobottega, da vecchi cinesi silenziosi, dagli occhi
neri come opali, nei saloni di massaggio in molti si andavano a far svuotare i coglioni,
accolti da piccole ragazze sorridenti e instancabili, le poche frasi di rito, quasi più
nessuno era a conoscenza del linguaggio del corpo e delle possibilità della pelle, uno
dei vecchi da cui mi recavo a comprare la sostanza mi aveva fatto provare un
massaggio particolare da una donna che conosceva, dopo l’assunzione di una quantità
di polvere rossa, il mio corpo era diventato un puro organismo di piacere, il vecchio
cinese mi aveva detto che dovevo imparare a controllarmi, se volevo evolvermi, se
volevo trovare una libertà dai bisogni costanti e ossessivi della carne, era una sorta di
disciplina, sica e spirituale. Il vecchio mi faceva entrare in porte segrete, io
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continuavo ad imparare. Ma in molti, quasi tutti, andavano nei saloni solo per una
sveltina a basso costo, la manodopera non mancava, gli affari giravano bene, dietro
l’apparenza delle cose ci attendevano mondi sconosciuti e misteriosi, un pizzico di
polvere azzurra e una nuova prospettiva avrebbe preso forma nella tua mente.

25.
Nella stanza buia e fredda, ad una parete di pietra, era stata legata una ragazza. Era
nuda, tranne che per un paio di mutandine. I suoi occhi erano semichiusi, il suo corpo
ondeggiava come in uno stato di trance. Quel dondolio faceva muovere anche i suoi
polsi all’interno del lo di ferro che li teneva attaccati al muro. Del sangue iniziava a
colarle lungo le braccia. Musica arcana e voci rituali, degli uomini con dei mantelli
neri che li ricoprivano osservavano la scena, portavano maschere di pelle dalle forme
inquietanti e arcaiche, becchi di uccelli, nasi fallici, corna da capra - Gli uomini erano
in silenzio, nella stanza entrò una seconda donna, sempre nuda, tranne che per un paio
di mutandine di pelle nera, si avvicinò ad un tavolo, accese delle candele, le posizionò
accanto ai piedi della ragazza legata al muro, poi bruciò dell’incenso, poi prese degli
aghi e iniziò a perforare il corpo della ragazza, lei continuava il suo dondolio senza
dire nessuna parola, una croce di amme bruciava sul pavimento, un’altra donna
vestita da suora entrò nella stanza, consegnando ostie insanguinate ai presenti, loro le
misero in bocca masticandole piano, la musica continuava come in una macabra
litania. La donna si buttò per terra, in ginocchio, c’erano dei vetri rotti, nessuna
parola, gli uomini mascherati si avvicinarono no alla croce di amme, tirarono fuori
i loro cazzi duri e pisciarono sul fuoco. Fu buio e odore di urina e incenso.

Mi ritrovai davanti ad uno specchio. Una donna vestita di pelle nera con una maschera
da uccello primitivo mi prese per mano, il suo palmo era caldo e rassicurante, sentivo
la sua energia uire dentro di me. Trovai i suoi occhi oltre quella maschera, erano neri
come opali, brillarono per un attimo di una luce sconosciuta. Hai mai visto cosa si
trova al di là dello specchio? Mi spogliai completamente nudo e la seguii.

26.
Eravamo in cima ad una delle alte torri, la giornata era lucente, Papa era vicino a me,
parlavamo attraverso le nostri menti, una lingua antica che mi stava insegnando, con
in uenze arabe, dalle sonorità meravigliose, vedemmo il quartiere e le sue strade e i
palazzi brillare e Papa mi fece fumare un po’ di polvere gialla e la luce del sole
divenne più violenta, tanto intensa che ho dovuto abbassare le palpebre e Papa ha
continuato a parlarmi e dal fondo dei miei occhi chiusi sono iniziate ad apparire delle
immagini, di torri e minareti, le loro punte che cercavano di toccare il cielo, le case
bianche nel mezzogiorno e i vicoli in ombra e i giochi delle porte e delle scale e
donne con veli che gli coprivano i capelli, lunghe vesti colorate, loro camminavano
vicino ai muri e io vedevo tutto questo dall’alto, per poi scendere in volo, rasente alla
terra battuta delle vie e ne sentivo l’odore, insieme a quello delle gure femminili che
vi posavano sopra i loro piedi, i corpi ingioiellati e profumati di essenze - Una volta
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entrato nella camera scura, la notte sarebbe stata una rivelazione - Aprii gli occhi e
vidi altre torri intorno a me, il quartiere era cambiato, le case adesso erano giallo ocra
e basse e il cielo brillava di una luce divina, rimanemmo in silenzio, in balia del
tempo e venne l’ora del tramonto e Papa iniziò a cantare, una preghiera sommessa e
carica di malinconia e dalle strade risposero centinaia di voci, unendosi a quella
musica, guardai Papa, i suoi occhi erano come opali in amme.

27.
Il dottor Ballard parlava sempre del tempo, della pioggia e del sole, del freddo e del
caldo, trovandosi ogni volta scontento, era una sua ossessione. Incontrai Lynn in un
sogno, era un gatto che mi si strusciava addosso. L’avevo riconosciuta dagli occhi.
Durante la cerimonia, lungo le strade, gli uomini incappucciati portavano croci
infuocate. Altri indossavano maschere bianche con baf neri, camminavano in la, tra
le urla delle persone che assistevano all’antica processione. Sarebbero arrivati in una
vallata, una volta lasciati i vicoli del paese e le case basse da cui si affacciavano
uomini e donne, completamente ubriachi e urlanti. Nella vallata avrebbero acceso un
immenso falò, per dare fuoco alla notte e ai suoi demoni. Nella mia stanza, nel
quartiere, era entrato qualcuno. Avevo trovato i cassetti aperti. Non era stato portato
via niente, non c’erano orme o tracce. La persona che era entrata o l’entità che vedevo
nella mia mente aveva fatto saltare la serratura con un tubo di acciaio o almeno questa
era l’ipotesi più probabile. Assunsi un po’ di polvere verde, sdraiato sul letto, mentre
qualcuno cercava di riparare la porta. Le entrate e le uscite andavano sempre
controllate, bisognava ripassare le parole e le frasi per poter passare, non tutte le porte
erano normali, alcune avevano strani poteri e potevano condurti, velocemente, in
luoghi misteriosi. Erano mesi che esploravo queste entrate e il modo di usarle. La
porta del mio appartamento era normale, l’uomo che la stava aggiustando, che vedevo
per la prima volta, mi chiese se volevo apportare qualche cambiamento, i suoi occhi
luccicavano, gli offrii della polvere verde e gli dissi che fare una modi ca era
un’ottima idea, lui si mise subito al lavoro. Fotogra e mentali in bianco e nero delle
luci e delle ombre, dei volumi dei palazzi e delle loro prospettive - Aveva piovuto
molto la notte passata e il giorno dopo, di mattina, mentre passeggiavo per le strade
ancora bagnate, osservavo il mondo attraverso i ri essi nelle pozzanghere, il mondo
capovolto, le radici come rami, guardai il cielo al contrario e camminai sulle nuvole,
la polvere verde stava funzionando, quando ero tornato a casa mi ero accorto che
qualcuno era entrato durante la mia assenza, nulla era stato portato via, quella persona
o quell’entità stava cercando qualcosa, avevo ridato la valigetta a Pavel da molto
tempo o almeno pensavo che fosse così, tenevo le sostanze in una scatola blu che
avevo nascosto in un luogo segreto, non rivelando neanche a me stesso quale fosse ed
era impossibile per chiunque trovarla, nel momento in cui avevo bisogno delle
sostanza, bastava che pensassi alla scatola blu per farla apparire nella mia mano. Il
lavoro è nito, disse l’uomo della porta, sorridendo, questa è la chiave. E me ne mise
in mano una esagonale, azzurra. La serratura era dello stesso colore. Grazie, gli dissi,
prima di ucciderlo.
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28.
La febbre rossa mi aveva debilitato, mentre camminavo per le strade, cercando di
tornare nel quartiere. Avevo fatto un giro largo, passando vicino ai negozi del piacere,
nei pressi della zona africana, avevo attraversato un mercato, guardando gli strani
ortaggi che vi erano esposti, dovevano provenire da paesi esotici che non conoscevo -
Provare la polvere, disse un uomo con un lungo copricapo che niva con due corna da
caprone in pelle nera, polvere buona, provare polvere, mi avvicinai, avevo caldo e
sudavo, sentivo la testa leggera, l’uomo mi passò un sacchetto porpora pieno di una
polvere grigiastra, la portai al naso, ricordava l’odore del pepe e dello zenzero, sei
sicuro che non ci sono problemi? Gli chiesi, nessuno problema, fece lui, sorridendo,
gli mancavano alcuni denti, ne tirai un po’ con la narice sinistra, i colori si
incendiarono, le chiome degli alberi divennero gialle, arancioni, viola, rosso scuro, il
vento era liquido e potevo passarci le mie mani nel mezzo, come fosse acqua, polvere
buona, disse ancora l’uomo, ora il suo sorriso si stava sciogliendo in labbra colorate,
distolsi lo sguardo, le mie gambe si arcuavano ad ogni passo, provai a dirigermi verso
il quartiere, sentivo caldo, molto caldo, volevo spogliarmi, passai davanti ad una
serranda un po’ abbassata, non si capiva se dentro ci fosse qualcuno o no, entra, sentii
una voce, mi girai, una donna orientale in stivali di pelle e gonna corta, con una
giacchetta scura, mi sorrise, entra, sembrava una calamita, la mia volontà venne
cancellata, oltrepassai la soglia, sentivo il mio corpo ardere, mi ritrovai su un lettino
nero, le caviglie e i polsi legati, un anello di costrizione alla base del cazzo, le palle
legate, la cappella era enorme e rossa e pulsante, lei mi chiuse gli occhi e iniziò a
s orarmi, la mia pelle sembrava brace.

Camminai ancora, una volta fuori, spingendomi oltre una piazza e poi sotto uno dei
ponti della ferrovia e l’ombra di Papa che mi seguiva, continuavo ad avere la fronte
calda e le ossa scosse dai brividi, l’ombra si trasformò nel pro lo di una torre, nera e
oscura, conoscevo quella forma, l’avevo vista in sogno e nelle notti di pioggia,
quando si ergeva avvolta dalla nebbia nella parte occidentale del quartiere.

Qualcuno mi stava spiando.

29.
Avevo attraversato una delle porte nel quartiere cinese, era di ferro blu, senza segni o
scritte, si trovava in un vicolo laterale della piazza del mercato, me ne aveva parlato,
una volta, uno dei vecchi mentre bevevamo tè verde con ori di gelsomino, seduti su
un tappeto di terre lontane, non ricordo quando ne discutemmo ma la porta era lì e io
ci sono entrato.
E camminavo di nuovo per le strade, in un tempo sospeso, non potevo dire con
precisione la mia età, avevo la barba e i capelli abbastanza lunghi e qualcosa nella mia
vita era in un momento di stasi, nessun lavoro e le giornate iniziavano con sedute di
autocontrollo davanti a schermi lampeggianti, le mattine erano caotiche e piene di
impulsi incontrollabili, a volte ero rinchiuso in una stanza e costruivo sceneggiature
mentali da consumarsi nel buio o nell’attesa della notte. C’erano ombre di persone
distanti e parole disperse come polvere sotto un tappeto, donne orientali dagli occhi
obliqui e dalle voci dolci, una stazione nell’oscurità e l’attesa di un treno, la nebbia
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che scendeva sopra i binari, le luci dei lampioni si trasformavano in aloni giallastri,
occhi alieni, enormi, fatti di fumo, che ti seguivano, ti scrutavano - Ci svegliammo
all’alba, protetti da coperte di sogni, era così tanto che non parlavo dell’amore, si
aprono ori di loto sull’acqua stantia di una pozza putrida, silenzio e ri essi di
macabre accole, il ghigno del teschio e il gracidare ipnotico di un rospo morente, le
lacrime lungo le guance di marmo e seta di una fanciulla immobile, la pressione delle
mie labbra sui tuoi capelli, ho sbagliato, ascoltando la pioggia cadere fuori dalla
stanza e immaginandomi abbracciato al tuo corpo, il calore della giovinezza, le rughe
intorno agli occhi, ardono i tramonti oltre le alte torri, i canti arabi, uscendo dalla
porta di metallo blu la strada del vicolo è lucida, passano persone con ombrelli aperti,
il cielo è viola, non pensare a nessuna direzione, gli occhi di un cieco sono calamite di
eventi impossibili.

30.
Le cose da fare e soprattutto quelle da evitare. Fogli gialli appesi ai muri di una
stanza, note di intenzioni, bisogni, appuntamenti. Il volto davanti allo specchio con la
barba lunga, la porta chiusa, una katana nascosta in un angolo. Sentivo il rumore della
pioggia, in lontananza, ovattato, le mattine sembravano essere diventate spazi
misteriosi, un momento in cui aprivi gli occhi e subito vedevi il tuo cazzo duro
pulsare negli anelli che lo ingabbiavano, l’energia che si gon ava e fremeva, rossa e
lucente, le piccole dita delle creature incappucciate dei sogni che ti tiravano i
capezzoli, le unghie di gatti primitivi, le punte arcuate dei loro artigli che stro navano
il culmine roseo del tuo piacere - Seduto su un tappeto, accendo un incenso e guardo
le foglie di tè all’interno di una tazza nera, i capelli di Lynn ancora bagnati, in un
giorno d’estate, lamenti di luce che oscillavano nella calda brezza metropolitana -
Legato ad un letto, ti strusciavi sopra di me, il tuo sorriso radioso, le strade di altre
città e i bianchi attimi che ri ettono i denti della tua bocca aperta, mentre gode e
sospira, foto appese alle pareti, in bianco e nero, maschere primitive, stivali, frustini,
lo sguardo immobile di uomo in vesti medievali, il cranio rasato e la barba folta, un
altro uomo, molto vecchio, con un enorme fascio di piccoli rami da ardere sulle spalle
- Squillavano le risate delle fanciulle mentre si spogliavano prima di immergersi nel
ume, il ri esso di perla della luna e quello delle tue braccia scoperte - Legato con
corde di canapa ad un albero, costretto a guardare il ume scorrere, l’erezione
rinchiusa in un anello di metallo alla base del cazzo e lei che si avvicina, lucente
d’acqua, ti ssa, le sue dita come aghi roventi sulla pelle, le sue dita come sof ci
piume su tutti i tuoi segreti, che si infrangono in migliaia di parti, che sgocciolano,
uno dopo l’altro, liquidi e opachi, dalla punta cobalto del tuo desiderio - Le canzoni
dell’infanzia e le margherite intrecciate, una bottiglia di vino rosso bevuta in un parco,
ti s lavi le scarpe e mi lasciavi guardare i tuoi piedi, i sospiri della notte - Mi alzai dal
letto, ancora nudo, andai davanti allo specchio, la barba lunga, le strade mi
attendevano, conti da pagare e persone da incontrare, i fogli gialli appesi sui muri di
una stanza, ricordi di carta, porte da ritrovare, qualcuno bussa, ancora in piedi nel
centro della stanza, un rumore di tacchi che si allontanano, il pene in erezione,
gocciolano le mie paure come inchiostro sul pavimento.
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31.
Le strade non arrivavano da nessuna parte. Le accole appese all’interno di una
caverna, gli altari di marmo e le vergini vestite di bianco. Non riuscivo a trovare le
porte giuste, sbagliavo in continuazione. C’erano sempre stanze buie e sconosciute ad
aspettarmi, tappeti folti, dai colori cupi, con donne sdraiate sopra, gli stivali di pelle e
un bicchiere di vino bianco al loro anco. Pendevano da sof tti invisibili lampadari
con centinaia di candele, poi un tavolo rosso su cui mi venne ordinato di sdraiarmi -
Lungo le strade, di fuori, camminando, le gambe stanche, ripercorrendo le mappe
mentali e gli appunti, scoprendo che le vie cambiavano, non portando da nessuna
parte, i volti delle persone che incrociavo e mi guardavano, la febbre era passata, ma
rimaneva, in alcuni momenti, la confusione e l’idea o forse il ricordo di qualcosa,
appartenente ad un'altra vita, che era andato perduto o usato nel modo sbagliato.
C’era chi non era mai stato in grado di indirizzarti nella maniera giusta, guardando
dentro di te, capendo con anticipo quali fossero le tue reali inclinazioni e possibilità,
qualcuno che vedesse le cose con il tuo stesso sguardo - Erano stati troppi, nel corso
degli anni, i consigli e le parole errate, i giorni e le settimane rinchiuso dentro gabbie
psichiche, fra compiti e obblighi, con la falsa certezza che le cose andassero bene, per
il verso giusto, quando tutto, in realtà, si stava sgretolando in polvere in nitesimale -
La febbre portava non solo brividi e sudore e coperte bagnate nella notte, possedeva
dentro se stessa qualcosa di primordiale e arcaico, una forma di insegnamento, un
modo di dirti di fare attenzione, di dare maggiore ascolto al tuo corpo, la febbre ti
portava con lei, dentro te stesso e ti parlava attraverso delle immagini mentali - In una
delle stanze del delirio controllato incontrai Lynn, comunicavamo senza l’uso del
linguaggio verbale, la sua gura sembrava splendere di luce interiore, ci saremmo
incontrati di nuovo, anni dopo, in altri luoghi, davanti ad un tavolo di legno, in una
casa di campagna, durante un bianco e silenzioso inverno, a bere tè disegnando ori
sotto l’effetto degli acidi - Nella piazza gli uccelli si alzarono tutti insieme in volo,
lasciando scie d’argento nell’aria, un uomo chiedeva l’elemosina, seduto per strada,
gli abiti sporchi, non riuscivo a capire la sua lingua - Le barche scorrevano lungo il
ume che portava al porto, faceva freddo e mi stringevo ancora di più nel mio
giaccone imbottito, una donna fumava poco distante, i guanti di pelle nera e gli stivali
con il tacco, la brace della sigaretta le illuminava gli occhi - Chiuso in una cabina, le
sue unghie sulla punta lucida del mio cazzo, i richiami dei gabbiani e la spuma di
perla sulle onde, i passi sul ponte, l’eco di una risata sparita nella notte, ombre e
fragori di vetri rotti, camminavo indeciso - Le strade non portavano da nessuna parte.

32.
Sulla terrazza di un palazzo, guardando verso la stazione. Treni in partenza e in arrivo,
le bianche torri, i canti degli imam, le bandiere verdi oltre gli edi ci arancioni e le
cupole di religioni dimenticate. La notte si arrampicava dietro di me, con movenze
sinuose e feline, ad ammantare con il suo mistero i palazzi e le strade, una notte di
velluto e guanti neri, con le dita delle ombre che si allungavano no a s orati e poi,
oltre i minareti della mia immaginazione, gli ultimi resti di luce, ad esplodere in colori
tossici tra le scie delle nuvole e quelle di aerei di guerre mai combattute.
Il barbiere aveva attraversato la strada, sua glia giocava ancora dentro il negozio, un
ubriaco veniva scortato da alcune guardie verso una macchina, i dettagli, le super ci
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troppo brillanti, cromate di bianco, ancora un passaggio, le ombre che ltravano da
una persiana come onde sul sof tto, una ragazza vomitava nel bagno, ero uscito nel
giardino, la luce del sole era sublime, era tutto rallentato, il mio corpo, i gesti, mi
sentivo pesante, attratto dalla gravità verso la terra, ho dovuto stendermi, sulla schiena
e le onde hanno iniziato ad arrivare, nella mia mente, in movimenti dorati, le mani di
mia madre sulla mia testa, mentre mi tagliava i capelli - Sulla terrazza, intorno a me,
nel cielo, la notte si era impossessata di tutto, era colata nelle vie e nei cuori delle
persone - Ci si incamminava verso la stazione, perché era il momento migliore per
comprare le sostanze, le puttane iniziavano a truccarsi, c’erano carrozze per strada e
uomini con cappelli a cilindro, i treni in partenza e i treni in arrivo, i schi dei
macchinisti - Si alzavano coni di vapore nel buio, una donna correva lungo i binari
inseguendo amori invisibili, un uomo arabo mi si avvicinò in un angolo, uno sguardo
di intesa e una scintilla negli occhi, l’ho seguito, nei cessi della stazione, una siringa e
la polvere nera - Voci si disperdono tra mattonelle sporche e odore di urina, la
macabra danza della vecchiaia, nello scompartimento di un treno, occhi leggermente
socchiusi, la quieta morte del ragno, sospeso nei ri essi delle stelle sui vagoni, in un
tunnel o dentro di me, non era importante, la marea saliva dalla punta dei piedi alla
testa, ho guardato fuori, sterminate distese di pece passavano in oceani di nulla
davanti al mio sguardo assente.

33.
Rivoluzionari sudamericani in esilio, seduti dentro stanze spoglie, parlando, in
spagnolo, davanti a videocamere che registravano e trasmettevano i loro messaggi,
l’utopia terzomondista infettava il mondo delle telecomunicazioni mediatiche, si
diffondevano comunicati e parole in codice - Bandiere che sventolavano nel cielo de
L’Avana, in un sogno di deserto e vento avevo incontrato Rafael, ero sdraiato vicino
ad un enorme cactus di San Pedro, gli occhi di un’ape gigante mi scrutavano nella
mente, dormivo ed ero sveglio, giorno e notte si alternavano con i respiri, lui era
arrivato su un pick-up, da lontano avevo visto la sabbia alzarsi in una scia danzante,
il motore che ronzava nelle mie orecchie, metallico rumore di insetto, i fari come
occhi caledoscopici, il pick-up si era fermato, lui era sceso, si era avvicinato e mi
aveva consegnato una penna di un uccello sconosciuto, l’avevo presa, poi Rafael
aveva lanciato dei sassi per terra, si era accovacciato sui talloni e li aveva guardati,
scrutandoli non so per quanto tempo, poi mi aveva detto di salire sul pick-up,
comunicavamo in spagnolo, poche parole, il discorso avrebbe potuto svolgersi
direttamente nelle nostre teste, però la sua voce, quando usciva dalle sue labbra e si
mischiava con il vento aveva un suono dolce e armonioso, simile ad un antico canto -
Ci dirigemmo verso un pueblo, case bianche e strade di terra rossa, entrammo in una
cantina, con tavoli di legno e alcune persone sedute a bere birra, ordinammo anche
noi, mezcal, poi discutemmo a lungo, delle tattiche di guerriglia, del commercio di
sostanze per procurarsi i soldi, delle istanze rivoluzionarie, non tutto mi interessava,
Rafael mi guardava negli occhi, i suoi erano di ossidiana, poi tirò fuori un sacchetto e
me lo diede, disse che era pieno di polvere di yopo, dovevo tirarla attraverso una
lunga cannuccia con il naso, chiesi se quello era il luogo giusto, mi disse di no,
salimmo di nuovo sul suo pick up e ci dirigemmo verso il deserto, all’interno di una
capanna, nel buio, fra miliardi di stelle, mi fece sedere e lo vidi preparare la sostanza,
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la rivoluzione stava arrivando, sussurrò, nessuno sapeva come e quando, dove sarebbe
esplosa, c’erano migliaia di nuclei sparsi per il mondo, pronti ad entrare in azione, a
connettersi tra di loro e poi a disperdersi, le metropoli sarebbero diventati territori di
anarchia ed esaltazione psichica - Gli chiesi, come ultima domanda, se conoscesse
Pavel L., lui sorrise e non disse nulla, mi passò la lunga cannuccia e io tirai, il mondo
si capovolse all’istante, l’interno della capanna girava su stesso, i miei occhi di ape
iniziarono a vibrare, mi allungai come un orizzonte senza con ne, linea dritta e
circonferenza improvvisa, ruotavo in ogni dimensione possibile, entrai all’interno
della scatola cranica, viaggiando in maniera fulminea tra i neuroni del cervello,
esplosioni e scariche elettriche come fulmini nel cielo, tuoni capovolti, ash di luce
azzurrina saettavano dagli occhi di Rafael, sdraiati, mi disse, sdraiati e ascoltami - Le
connessioni ottiche tra le varie cellule, pronte agli attacchi e alla distruzione
dell’ordine sociale costituito, vanno organizzate e dimenticate allo stesso tempo -
Imparai molto quella notte, tutte quelle informazioni sarebbero servite a qualcosa, non
in quel deserto di sogno, ma tra le strade del mio quartiere e poi della città, vidi la alte
torri bruciare, le vidi splendenti di luce propria, vidi le verdi bandiere e i canti arabi,
le danze sudamericane e le scariche dei mitra, le lacrime di gioia dei miserabili,
mentre ballavano tenendosi per mano, vidi tutto questo e me stesso su una delle torri,
sorridente e sereno, guardare la luce morire nel cielo dell’ovest, le mani dietro la
schiena a stringere un’arma di sabbia e vento.

34.
Il cemento lungo le strade stava diventando liquido, a piccole onde si muoveva verso
di me, ero immobile fra tappeti di foglie gialle su cui affondare, ai bordi dei
marciapiedi l’acqua che cadeva dal cielo rosso creava mulinelli e bolle che
gorgogliavano con odore di zolfo, Papa stava ridendo, lo vedevo, su una delle alte
torri bianche, lo osservavo a centinaia di metri di distanza, il mio sguardo poteva
arrivare ovunque, le sue parole magiche stavano trasformando il paesaggio, la realtà
sembrava obbedire ai suoi canti, l’asfalto era ondulato, scivoloso, ci misi un piede
sopra e venni trasportato lungo le vie del quartiere, le foglie morte, sospinte da un
vento purpureo, mi giravano intorno, in vortici onirici, il loro turbinare divenne
sempre più forte e mi ritrovai in aria, innalzato, sospinto, no ad arrivare su una della
alte torri, Papa mi stava aspettando, le foglie nirono di girare e io posai i piedi sulla
pietra e loro caddero verso il basso, come scintille di tramonti e si persero nell’acqua
e nel cemento e tra i ri uti e gli echi degli addii degli amanti - Un giorno, un giorno
molto lontano, io e Barbara ci siamo parlati all’interno di una tavola calda, era la
prima volta in quattro anni, nessuno dei due poteva sapere che sarebbe stata anche
l’ultima - L’apocalisse sta arrivando, disse Papa sottovoce, le cose, molte cose stanno
per cambiare. Lo guardai, i suoi occhi vorticavano.

Possano i tuoi canti salutare ogni nuovo giorno.


Possano le mie preghiere essere sabbia nel deserto.
Possa l’amore orire ancora.

L’orizzonte sbocciò in corolle d’incanto.


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35.
Entrammo in un teatro mentale, attraverso una porta dipinta di blu, le pareti erano
tappezzate di damasco rosso, ero a piedi nudi, il pavimento era di legno, caldo, lei mi
prese per mano, la vedevo da dietro, il corpo magico che mi ondeggiava davanti, il
contatto del suo palmo contro il mio, lei scostò una tenda e ci ritrovammo in una
piccola sala, con una decina di poltroncine, si girò, non c’era molta luce, delle candele
erano state accese, ci guardammo negli occhi, i suoi erano tagliati nel viso, come
fessure oblique, il suo volto era meraviglioso, antico, immobile, i suoi occhi
parlavano nella mia mente, il suo vestito di seta, lungo, risaltava le sue forme, le
percepivo attraverso la mia pelle, in brividi che risalivano lungo la colonna vertebrale.
Mi fece sedere su una poltroncina e si mise davanti ad alcune delle candele, iniziò a
muovere in maniera lenta le sue lunghe dita e sulla parete si formarono delle
immagini, i suoi movimenti erano uidi, vedevo uccelli, pesci, animali sconosciuti,
alberi misteriosi, poi iniziò a cantare e io chiusi gli occhi, quella voce, appena udibile,
dolce, avvolgente, mi trascinò attraverso le sale e le pareti, le tende di damasco, le
poltroncine di velluto nero, mi ritrovai sdraiato, su dei cuscini morbidi e profumati, lei
era vicino a me, adesso, senza il vestito lungo ma con abiti che non avevo mai visto
prima, ammiravo la sua pelle, in apparizioni fugaci, la luce delle candele, tenue,
delicata, creava giochi di ombre, qualcosa si mostrava, qualcosa si nascondeva,
fumammo oppio e galleggiamo in quella amniotica dimensione, lei mi accarezzava e
io la guardavo negli occhi, parlavamo così, attraverso le espressioni dei nostri volti,
non scambiammo una sola parola eppure eravamo presenti e coscienti l’uno dell’altra,
dei nostri desideri, delle nostre emozioni, sentivo le sue dita sul mio corpo, scendere e
salire, i coglioni si gon arono, il cazzo mi divenne duro, odoravo la sua pelle, il
desiderio cresceva, lo sapevamo tutti e due, nel buio profondo dell’estasi venni in
spruzzi di inchiostro, lei prese un pennello, lo passò su quella sostanza viscida e nera
e scrisse nella sua lingua delle parole su una delle pareti, non ne capivo il signi cato,
poi lei si mosse, come un burattino, con movimenti scattanti, come fosse legata a dei
li invisibili, sentii di nuovo il suo corpo contro il mio, gli applausi di maschere
sconosciute, il cazzo duro, le magni che gure in ceramica di uomini e donne in atti
sessuali, la danza dei corpi, il tuo respiro d’argento.

36.
Avevo incontrato Jafar sotto archi di luce, camminando piano, lungo il mio sentiero
dorato - In alcune stanze possiamo cercare il dolore e i suoi insegnamenti, i limiti
della pelle e superarli, chiudere il cerchio, sof are sulla candela, inginocchiarmi
davanti alle tue gambe di giada e poi uscire fuori, nelle strade, nei parchi e vagare per
le vie del quartiere - Ci siamo abbracciati io e Jafar, lui portava una giacca bianca,
coperta da lamenti luminosi, li vedevo muoversi nell’aria, come alghe di tungsteno
iridescenti nell’acqua, ci siamo guardati negli occhi, i suoi erano calmi, tranquilli, ho
capito subito che stava bene, non abbiamo parlato molto, gli ho sorriso, poi mi ha
detto che i miei capelli stavano diventando bianchi, è vero, sto invecchiando, l’avevo
detto anche a Lynn, in un altro tempo e in altri spazi mentali, poi ci siamo seduti su
una panchina a mangiare un gelato e riposare, poi ho salutato Jafar, non sapendo se
l’avrei rivisto ancora, c’erano così tante porte, mondi da esplorare, livelli di coscienza
e percezione da scoprire - A casa, sdraiato sul letto, ho tirato una striscia di polvere
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azzurra, poi mi sono seduto davanti ad uno specchio, sembrava di essere sul fondo
dell’oceano, sfumature di cristallo e lapislazzuli, guardavo i miei capelli,
splendevano, lamenti di bianco titanio e ri essi di corallo, si muovevano lentamente,
squame sulla pelle fredda – Poi raggiunsi l’abisso, gli archi marini e le sue brillanti
cattedrali di roccia.

37.
Le immagini erano dall’alto, due uomini incappucciati, con vestiti neri e kalashinkov
a tracolla, si muovevano in silenzio, sicuri, lungo le strade, i gesti ripetuti milioni di
volte, precisi e letali.
Un’altra immagine, in campo lungo, la stazione dei treni sullo sfondo, la macchina da
presa posizionata all’inizio del parcheggio degli autobus, uno spazio vuoto e nero, una
lunga schiera di uomini, immobili davanti alle entrate della stazione, arabi, africani,
cinesi, asiatici, gli uni accanto agli altri, uniti, invincibili.
Aprii gli occhi, ero nella mia stanza, sul comodino accanto al letto c’era una boccetta,
prescritta dal Dottor Ballard, piena a metà, le gocce arancioni, le avevo assunte non so
quanto tempo prima, nella mia mente arrivavano, durante la notte, strani messaggi
psichici, codici e segnali sconosciuti, se assumevo una certa dose di gocce nere,
sempre sotto i consigli del Dottor Ballard, il signi cato di quei codici e di
quell’alfabeto incomprensibile diveniva chiaro, erano istruzioni, su come costruire
ordigni esplosivi, sulle tecniche di guerriglia urbana - Il volto quasi irriconoscibile di
Pavel, le sue spiegazioni che rimanevano incastrate tra le connessioni neuronali -
Negli stati alterati, di dormiveglia o dopo l’assunzione di determinate gocce dovevo
ripetere le istruzioni no a che divenissero meccaniche, gesti automatici senza il
bisogno del pensiero - Un campo di addestramento nel deserto, la luce abbagliante,
Ahmed è vicino a me, parliamo in arabo, sono sdraiato sulla pancia, un fucile ad alta
precisione, guardo nel mirino, il caldo è quasi insopportabile, una testa che esplode, in
altri mondi, in altri sogni, all’interno di una stanza, di una macchina, nella redazione
di un giornale, su un treno, nelle fabbriche, fuori da una stazione, il dito che sente
ancora la pressione del grilletto metallico, guardo Ahmed, la sua barba sta brillando di
un bagliore divino.

38.
Le esercitazioni, le lunghe marce, i modi per mimetizzarsi, i metodi di tortura, sugli
altri e su se stessi, i volti dell’orrore, donne legate con le gambe divaricate, strani li
uscivano dalle loro vagine, il sorriso beffardo nei loro occhi, dolore/piacere, il cazzo
duro e pulsante, le loro voci armoniose, le grida improvvise, le braccia immobilizzate
dietro la schiena, la pelle profumata, i loro giochi ti potevano fare impazzire, la
volontà e la resistenza, le manette ai polsi, il cambio dei ruoli, le loro domande, le
loro carezze, i loro schiaf , le labbra rosse, carnose, che si schiudevano come ori
sulla punta del tuo cazzo, avresti parlato? Avresti detto tutto? Erezioni continue,
vibrazioni ininterrotte alla base dei coglioni, gli strumenti erano in funzione.
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Le lunghe chiacchierate notturne con Ahmed in una tenda nel deserto, fumando oppio,
le donne sedute in disparte, nascoste dai loro veli, in silenzio, in attesa, le parole del
profeta come scintille di fuoco sulla sabbia oscura, il vento millenario e la sua voce, le
dune in lontananza, l’odore della pelle, gli scorpioni immobili in posizione di attacco,
la sabbia che usciva impazzita da una clessidra distrutta - Ripetei alcune preghiere e
tagliai una lunga striscia di stoffa verde, me la legai intorno al cazzo e la strinsi alla
base dei coglioni, ero nudo, la tunica nera accanto ai piedi, le donne si avvicinarono,
spalmarono sul mio corpo dell’olio profumato, mi stesi sui cuscini, le loro mani erano
a conoscenza di tutti i miei segreti.

39.
La febbre rossa portava con sé alterazioni e nuove percezioni, un senso di pesantezza
del corpo, ero steso sul letto, sotto le lenzuola, un calore innaturale, fatto di luce
bianca, come se nel sangue scorresse metallo liquido, eiaculazioni notturne come
esplosioni termiche, il sudore bagnava il letto, sembrava di trovarsi in una foresta
tropicale, i passaggi erano pericolosi, i nemici erano la paranoia e l’ipnosi, nella
mente si ripetevano formule, nel teatro psichico arrivavano strani e ambigui
personaggi, volti grotteschi e voci irritanti, le battute dei dialoghi erano cariche di
odio e insoddisfazione, domande e risposte giravano nel cerchio infuocato di un
domatore di bestie, colpi di frusta sul pavimento, suono d’argento di una piccola
campana, il buio nella stanza e i cani che sbavavano, per strada, potevo guardare le
cose con occhi diversi, senza il bisogno di sostanze, la febbre rossa portava con sé una
nuova consapevolezza, camminavo più lentamente - Pensai di avere bisogno di un
bastone, su cui attaccare i miei amuleti, piume di uccello, conchiglie, foglie, avrei
dovuto imparare come usarlo, sbattendolo per terra si sarebbero aperti i varchi e sarei
potuto passare da una mondo ad un altro senza dif coltà, bisognava scon ggere i
propri demoni, i nemici interiori, era una battaglia continua, non sarebbe mai
terminata, la paura doveva scomparire ma il nemico poteva essere sempre in agguato,
negli angoli oscuri, negli impulsi sessuali, non volevo più sprecare tempo, energia,
uido vitale seguendo scie di odori femminili come facevano i cani, ne avevo
abbastanza, le voci continuavano i loro dialoghi, incomprensibili, deliranti, inutili, un
vortice di parole che arrivava confuso e inarrestabile, mi soffocava, mi portava in quel
luogo buio, fatto di pareti di metallo, i colpi sordi delle nocche, le risate stridule, il
pavimento di alabastro, i corpi candidi di donne sconosciute, l’immagine di un
palazzo nel calore bianco dell’estate, un giorno dell’infanzia, sdraiato sotto un albero
a guardare il cielo tra le foglie, è stata la prima volta che ho scritto un mio pensiero su
un foglio di carta, una porta si apriva, come per incanto, ero solo un bambino ed è
così che le parole mi hanno rapito, senza che nessuno sia mai più venuto a cercarmi.

40.
Il vinile girava, illuminato di lato, in modo che una parte del disco rimanesse sempre
in penombra, i solchi erano polverosi, rovinati, la puntina li graf ava con violenza,
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facendoli diventare sempre più profondi, era la mente con le sue cattive abitudini, lo
scorrere circolare della nostra vita, la sua costante ripetizione.
Gli occhi feroci di un uomo che ti guardano mentre vorrebbe aggredirti, i muscoli del
volto sono senza controllo, il nervosismo vibra in tutto il suo essere lasciandolo in
balia di impulsi pericolosi e brutali - Nel sogno avevo assistito a presagi di morte, la
febbre rossa era arrivata e passata, trascinandomi nel sudore e nel delirio, i messaggi
giungevano criptati e non riuscivo a decodi carli, rumore bianco nella scatola cranica
e interferenze, le immagini dei cecchini, un occhio intrappolato in un mirino
telescopico mentre cerca la sua preda, il Dottor Ballard mi aveva trovato una boccetta
di diidrocodeina che tenevo sul comodino, assumevo 50 gocce, poi altre 30 dopo venti
minuti, l’effetto durava per parecchie ore, il Dottore mi aveva consigliato di segnare
ogni cosa che ritenessi importante su un quaderno, gli spostamenti onirici, i passaggi
da una dimensione ad un altra, le alterazioni cromatiche - Era tanto tempo che non
camminavo per il quartiere cinese, i fuochi di arti cio che avevo visto esplodere
durante una gelida notte, dal terrazzo, erano un segnale, l’oppio era di nuovo arrivato,
le fumerie nascoste dietro i negozi di vestiti erano state rifornite, si poteva tornare a
fumare, sdraiati su un anco, con le lunghe pipe di porcellana, appoggiate sui
tavolinetti bassi di legno nero, la testa che scivolava indietro su un cuscino, poi
l’abisso e l’oblio.
Le dita scheletriche e le accuse, gli occhi iniettati di sangue, aspettavo che la codeina
iniziasse a fare effetto, la febbre rossa e i brividi, come fosse una crisi di astinenza, il
vinile girava, in penombra, in un’altra stanza mentale, un cambiamento troppo veloce
avrebbe portato atroci sofferenze, qualcuno strappò la puntina dal disco lanciando un
urlo, altro oppio, signore?

41.
Effetti indesiderati mentre cammino per strada, tte dolorose e acute, nel lobo destro,
nella cavità oculare, scendendo no alla mascella, non so quale sostanza li abbia
provocati, la luce arriva af lata, mi tra gge lo sguardo, le forme degli alberi si
muovono nell’aria, ondeggiando, sul punto di cadere, minacciose, raggi solari come
spilli - Le mani di qualche donna sconosciuta, nascosta da un velo nero, una piccola
bambola di pezza fra le dita, le parole misteriose, gli occhi semichiusi, un lo di
saliva le scende da un angolo della bocca, demenza o eccitazione, in la aghi roventi
nel corpo di pezza della bambola, una gura orribile, deturpata, sporca e folle, le tte
aumentano, non riesco quasi a camminare, sono in una parte sconosciuta di una città
mai vista e devo trovare una porta per tornare nel quartiere, per prendere delle gocce
che mi facciano passare il dolore, è il mio unico pensiero, che esso diminuisca,
l’immagine mentale è chiara e nitida, un luogo caldo, pieno di sole, il mare davanti, le
onde leggere che arrivano piano e cancellano la sofferenza, no a lasciare una calma
fatta di aria, dolci respiri e suoni delicati - La tintura d’oppio mi aspettava nella
stanza, il Dottor Ballard l’aveva preparata nel suo laboratorio segreto, ho trovato una
porta rossa, scrostata e sporca, in una via d’ombra, al riparo dalle lame di luce, sono
entrato, era aperta, mi è bastato solo spingerla, buio improvviso, respiro bloccato,
lampi azzurrini, la mia mano moltiplicata all’in nito, spingo un’altra porta, esco e mi
ritrovo in una delle vie del quartiere, dietro la stazione, cammino veloce verso la mia
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stanza, poi le gocce in bocca, steso sul letto, una candela accesa, il dolore tramonta
dietro i miei occhi ormai chiusi.

42.
Nuvole veloci nel cielo, striature rossastre nei lamenti di aria appesi agli alberi, le
foglie immobili, sospese nel vuoto azzurrino, colori d’acqua, immagini del porto, i
suoi vicoli, le stradine con i ciottoli di pietra irregolari, la merda ancora fumante dei
cavalli, i gabbiani che camminano lenti tra i ri uti e i ori, i lunghi capelli di una
ragazza ri essi in uno specchio, il percorso era sempre lo stesso e cambiava solo a
seconda delle mie intuizioni mentali e sensoriali, un odore, un ricordo, un
fermoimmagine, ogni stimolo, se elaborato, poteva mutare la realtà e renderla
possibile davanti ai miei occhi - Avevo trovato una chiave, era un cerchio di metallo,
forse di bronzo, antico e sporco, passato attraverso molte mani, il cerchio era saldato
ad una specie di vite, lunga un centimetro, bisognava trovare le porte giuste, inserire
la vite in un buco e girare, la porta si sarebbe aperta, erano passaggi speciali, ce ne era
uno nel palazzo dove vivevo, accanto alle scale, sembrava una porta normale, come
tante altre, ma non lo era. Tenevo la chiavecerchio in una scatola, sul mio comodino,
accanto alla statua in legno di una divinità indiana, me ne sono servito questa mattina,
per arrivare al porto, per assaporare l’aria del mare, per rimanere a guardare il cielo
d’inverno e le sue sfumature, sulla sabbia c’erano disegni primitivi e geometrici, linee
e curve che si sovrapponevano, forse un alfabeto dimenticato - Di nuovo in terrazzo,
lo stesso cielo, gli edi ci intorno oscillavano nel vento purpureo, come visti attraverso
una super cie di acqua, c’erano antenne sui palazzi che si piegavano, totem pagani
che riprendevano le stesse linee e curve che avevo visto sulla spiaggia, messaggi
psichici, rumore bianco, interferenze, le parole modulate in signi cati sconosciuti,
emittente/ricevente, bisognava inventare nuovi modi di comunicazione, volti deformi
strisciavano per strada, dall’alto le prospettive cambiavano in continuazione, i canti
mattutini risplendevano d’argento dalle alte torri, uomini inginocchiati toccavano con
la loro fronte super ci di marmo fredde e bianche.

43.
Uscito da una porta mi sono ritrovato in un vicolo, pochi passi, ho svoltato un angolo,
un’altra strada, l’asfalto era dissestato dalle radici di alcuni alberi, gli edi ci
correvano immobili in sequenza - Quattro piani, le nestre, le tettoie di plastica che
brillavano di luce propria, si sentivano i richiami acuti degli uccelli, macchine ferme
vicino alle entrate dei palazzi, parallele alla strada, poche persone, la sensazione
interiore di trovarmi in un luogo sconosciuto, senza punti di riferimento, senza
appigli/agganci mentali/onirici, ho continuato a camminare, strada dopo strada e sono
arrivato in una piazza, con al centro un giardino pubblico, tenuto male, alcuni ragazzi
stavano montando un palco, altri sistemavano delle sedie e dei tavoli, intorno c’erano
grigi palazzi, perpendicolari alla piazza, sulle facciate che mi guardavano erano stati
pitturati dei giganteschi e colorati murales, ho preso una pillola rossa, mi sono seduto
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su una panchina, il sole mi riscaldava il volto, ho atteso gli effetti, gli occhi chiusi,
disegni geometrici di colore magenta hanno cominciato a formarsi sotto le palpebre.
Ho aperto gli occhi, ho guardato di nuovo i murales, erano rappresentazioni di
animali, c’era un grande orso, le sue pupille si sono mosse, cercandomi e poi
ssandomi, l’animale cantava nella mia mente, in maniera sommessa, ripeteva un
mantra millenario, le nostre frequenze cerebrali erano entrate in sintonia, l’orso ha
iniziato a muovere le sue enormi zampe, in maniera concentrica, una sfera azzurra di
energia si è formata tra di esse, sembrava pura elettricità, poi lampi bianchi, uccelli in
volo sono scivolati fuori da quella sfera, schiando nell’aria e disperdendosi nel cielo.
Mi sono alzato dalla panchina e ho continuato a vagare, altre strade, angoli,
marciapiedi, una vecchia valigia piena di bottiglie vuote di birra, un secchio con
dell’acqua stagnante dove galleggiavano le siringhe usate dai tossici, la luce che
risplendeva sulle super ci mi guidava, seguivo un percorso di pure percezioni visive,
mi sono fermato davanti alla facciata di un altro palazzo, un nuovo mural, l’effetto
della pillola rossa proseguiva, ori sconosciuti ed enormi, dai colori brillanti, si
staccavano dalla parete e si allungavano nell’aria, gli odori che emanavano erano
inde nibili, sensazioni del passato, echi delle vite precedenti, fragranze dei misteri
che mi circondavano - Un insetto simile ad una libellula, mastodontico, si spostava
seguendo una traiettoria obliqua, dal bordo della parete destra di un palazzo, dove era
dipinto, verso quello della parete sinistra, appena la sua testa iniziava ad uscire da
questo lato riappariva su quello opposto, sempre la stessa velocità, sempre la stessa
direzione, sul dorso dell’insetto c’era un volto, le sue labbra si muovevano, cercando
di parlarmi, non riuscivo a capire cosa volessero dirmi, poi ho sentito un’altra voce,
sempre più vicina, mi sono girato, distogliendo lo sguardo da quel volto e la faccia di
un ragazzo era, adesso, davanti alla mia, gli occhi cattivi, il naso rotto. I lividi. Ho
sentito un brivido lungo la schiena e un altro alla base delle palle, sono rimasto calmo,
un nemico psichico che voleva attaccarmi, un avversario, ha parlato, ho risposto,
bisognava lottare? C’era quiete dentro di me, calma bianca e lucente, siamo rimasti in
silenzio, guardandoci, poi lui si è allontanato, mi sono rigirato vero il mural ma ora
era solo un affresco immobile, ho osservato con più attenzione i dettagli, note mentali
da scrivere da qualche parte, sono tornato indietro, altre strade, angoli, prospettive, la
pillola rossa aveva nito il suo effetto, ho ritrovato la porta, un ultimo sguardo al
cielo, una nuvola aveva la forma di un orso, nel vento e nell’aria echeggiava il suono
di un mantra, ho in lato e girato la chiavecerchio, poi un ash celeste e freddo nella
mente e nulla più.

44.
Ero in una piccola piazza, in un quartiere vicino alla stazione, stavo bevendo vino
rosso in un bicchiere di vetro insieme ad alcune ragazze. Lui si è avvicinato, i capelli
lunghi e sporchi, la barba incolta, un cappellino con la visiera in testa, ha iniziato a
parlarmi, non capivo alcune delle parole che diceva, erano troppo veloci e non tutte
nella mia lingua. Abbiamo continuato a discutere e piano piano ha catturato la mia
attenzione, mi sono girato verso di lui, dimenticandomi delle ragazze, sempre più
attratto dai suoi discorsi. Ogni tanto si alzava la visiera del cappellino e i nostri occhi
entravano in contatto, si creava così una nuova comunicazione psichica, immagini e
numeri apparivano nella mia mente, tramessi dal suo sguardo, le parole che ripeteva,
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in maniera apparentemente sconnessa, si trasformavano in mantra ipnotici, qualcosa
che riguardava una maniera veloce per guadagnare molti soldi, una serie di
informazioni, di combinazioni numeriche, era possibile un modo? Ci credevo? Era
possibile fare milioni in poche ore? Ripeteva queste e altre frasi in continuazione,
oltre alle cifre dei probabili guadagni, poi cambiava l’ordine, aumentava/diminuiva,
mi stava trasmettendo dei codici, un trasferimento criptato di informazioni importanti
– un agente di Pavel? Lo stesso Pavel travestito? Un’invenzione del Dottor Ballard?
– si chiamava Frank, età inde nibile tra i venticinque e i trentacinque anni, non
riuscivo a capire il paese di provenienza, era bianco, forse dell’Est Europa, Frank era
pieno di misteri, Frank si prendeva delle pause, scherzava con le ragazze che ogni
tanto gli si avvicinavano, Frank non aveva un buon odore, dopo un po’ ti ci abituavi
ma le ragazze non lo gradivano e si riallontanavano – dicevo a Frank che non ero
interessato ai soldi, che mi sarebbe piaciuto, invece, liberarmi di tutto, era notte e
lungo le pareti degli edi ci colavano le ombre, dissi a Frank che dovevo tornare a
casa, ero stanco, non riuscivo più ad ascoltarlo, i ussi di numeri si erano bloccati, i
codici erano rimasti da qualche parte, in una camera di sicurezza mentale, pareti
bianche, luci alogene e silenzio assoluto.
Facemmo un pezzo di strada insieme, Frank si fermò davanti ad una porta arrugginita,
in un vicolo oscuro, nei pressi della stazione, si tolse il cappellino, sorrise e tirò fuori
da una delle tasche logore della sua lurida giacca una chiavecerchio simile alla mia,
Frank aprì la porta, un ash di luce azzurrina, serie di 12 numeri nella mente, calcoli
impossibili, l’occhio aperto che irradia luce dalla punta di una piramide, il nuovo
ordine mondiale (la rivoluzione?), la tirannia, le unghie lunghe della sua mano, i
vestiti non lavati, i denti bianchissimi, lo seguii nella porta, un altro ash azzurrino,
nella stanza d’avorio eravamo io e lui, in altri corpi, altri vestiti e altri volti, gli stessi
occhi, nessuna parola, una trasmissione continua di informazioni codi cate in cifre
numeriche attraverso la mente, l’odore del mare, i ghiacciai eterni, una casa isolata e
in rovina sulle rive di un lago di montagna, le siringhe dei tossici in un secchio di
plastica pieno di acqua, altro oppio, signore? il sorriso senza denti di un vecchio
cinese, un nuovo ash azzurrino, intenso, elettrico, camminavo verso il tunnel, nella
mente, in una stanza bianca, serie di 12 numeri.

45.
Serie di 12 numeri. Coordinate bancarie. I numeri arrivavano in sogno. Li potevo
trovare scritti da qualsiasi parte, su un muro, un giornale, un libro. In un tatuaggio
sulla schiena di una donna asiatica, bisognava memorizzarli. Poi tornato nella
dimensione della veglia chiamavo Frank e glieli dettavo, non dicevo altro, solo una
serie di 12 numeri. Mi ritrovavo, il giorno dopo, discrete somme di denaro sul mio
conto corrente. Frank mi aveva suggerito, anche, di aprire diversi conti, in modo che
potessi aumentare più in fretta il mio capitale. L’occhio che irradia luce dalla punta di
una piramide. Quei soldi non erano per me, ero solo un tramite, un mezzo. Sapevo
come investirli. Armi, droga, incremento della prostituzione. Pavel iniziò di nuovo ad
apparirmi nei sogni, a darmi istruzioni, alcune volte mi dettava la serie di 12 numeri,
seduto al tavolino di un bar vuoto, un panama in testa che gli copriva gli occhi.
Dovevo stringere rapporti più stretti con alcune delle persone del quartiere. Passavo
intere giornate/intere notti per le strade. Non usavo le porte, non usavo sostanze.
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Andavo in giro lucido, cosciente, aggrappato ad ogni attimo. Alcune volte passavo del
tempo da un vecchio indiano, aveva un negozietto nel quartiere cinese, aveva una
stanza nel retro, una stanza segreta, ci sedevamo su un tappeto e lui mi mostrava degli
esercizi. Respirazioni, posizioni del corpo, meditazione. Un modo per controllare e
conoscere sé stessi. Nelle vie e nei vicoli incontravo persone, creavo nuovi contatti,
miglioravo quelli precedenti, distribuivo i soldi. L’obiettivo era uno. Inevitabile.
Condiviso. La distruzione dell’ordine presente. La creazione di un nuovo ordine.
Parlavo con Pavel in sogno, seduti nella navata di una chiesa deserta e mezza
distrutta, le candele accese, nessun rumore, il leggero sentore dell’incenso, i marmi
lucidi, le sue mani in tasca, i capelli raccolti in una coda. Ci scambiavamo
informazioni, idee, punti di vista. Tutti i disperati, i miserabili che di giorno vedevo
trascinarsi per le strade, erano una possibile risorsa, erano un potenziale esercito,
erano una forza che aspettava di diventare azione, di qualcuno che la risvegliasse e la
controllasse. Le immagini dei volti coperti dai passamontagna neri, i fucili stretti in
pugno, alzati verso l’alto, i canti che riempiono l’aria, il sole che tramonta dietro una
delle torri, gli occhi di una donna che guardano verso ovest, l’arrivo della notte e dei
suoi gli, i capelli coperti da un velo, la città in amme, serie ininterrotte di
esplosioni, le immagini tornano indietro, le scritte in arabo su un muro, la vernice che
cola verso il basso, 12 numeri, mi sveglio, poi prendo il telefono e li comunico a
Frank.

46.
L’ombra si staccava. Da sola. Prendeva vita. E vagava. Incollata ai muri. Colava nel
caldo e nel sole, si allungava, al tramonto, a toccare orizzonti di pietra, vetrine rosse,
oscuri desideri. Era identica alla notte, densa di buio, profonda e antica, la
disegnavano candele, luci nascoste, l’ombra scivolava, passava accanto alle persone,
rubava odori, frammenti di frasi, sguardi improvvisi, attirava con l’inganno uomini e
donne, li spiava, si allontanava, fuggiva, si appiattiva per terra, strisciava, tremava nei
riverberi di Agosto, l’ombra conosceva il quartiere e le sue entrate, conosceva le
stanze segrete, l’ombra conosceva So a e le sue pratiche, l’ombra conosceva il
dolore, gli schiaf , i colpi, la frusta e i lividi. L’ombra si staccava, la vedevo
allontanarsi silenziosa, inquieta, ltrare dalle fessure della porte, uiva nel tempo e
nello spazio, senza leggi e senza regole, non mi parlava, non mi diceva mai niente,
aspettava il suo momento. Alcune volte, quando ero sotto l’effetto delle sostanze, la
volontà dell’ombra diventava più forte, sapeva cosa fare, come soddisfare il suo
bisogno, la sua dipendenza. L’ombra e So a si conoscevano bene, non si parlavano,
agivano e tramite le azioni comunicavano. L’ombra era sé stessa e me, era il momento
del crepuscolo, la frattura dei mondi, l’ombra inghiottiva luce, la cancellava e se ne
nutriva.
Le strade sono pece e amme. Le bandiere verdi sventolano nell’aria. So a attende
nella sua stanza segreta. Accendendo candele.
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47.
Ombre nere. Uomini neri. Anche io uno di loro. Le strade di notte, gli oggetti in
mano, intorno al collo, in un grande zaino, dietro le spalle. I giri, da un locale ad un
altro, cercando di vendere, qualcuno ti scacciava, altri ti ignoravano. Travestimenti,
cambi di identità. Dormivo con loro, ammucchiati dentro una stanza, miscugli di
odori pungenti, le coperte logore, le lenzuola strappate, mangiavo i loro cibi,
respiravamo gli stessi odori. Imparavo. Avevamo la stessa pelle, gli stessi occhi.
Imparavo. I suoni della loro lingua, i signi cati delle loro parole. Pregavamo insieme.
Cadevamo. Ci rialzavamo. Nessuna porta, nessuna via di fuga. Era un addestramento,
giorno dopo giorno, non sapevo quando sarei tornato, dovevo stringere i rapporti,
conoscerli meglio, imparare a farli diventare un gruppo. Capire come usare la loro
forza.
Le marce nel deserto, le armi, i bersagli. Le preghiere, i canti, i colori della sera.
Seduti in cerchio, a parlare. Si decidevano gli obiettivi, si cercavano strategie, si
costruiva un piano di azione. Le tuniche, i volti coperti, il libro sacro in una mano, il
fucile nell’altra.
Entrambe alzate verso il cielo.

48.
Ancora immagini proiettate nella mente, le grida degli uomini e delle donne, il mare è
un vortice, l’occhio degli abissi si apre, cadono i corpi in acqua, si aggrappano tra
loro, sprofondano, risalgono, si perdono nell’oblio, le urla uccise in gola, inghiottite
come spade, le lunghe le di uomini e di donne, attraverso il deserto, le visioni che
tremano oltre l’orizzonte delle dune, le promesse sarebbero state mantenute? – Le
notizie mediatiche modi cavano le strutture cognitive del reale, le persone le
assimilavano, le mettevano in circolo a grandi dosi nei loro cervelli, rimanevano
intrappolate, i percorsi erano già stati segnati, le decisioni prese, le persone erano
spinte come animali da macello verso il luogo della propria morte, gli occhi placidi, le
teste abbassate, le loro menti oscillavano come pendoli funebri tra i due limiti di un
nulla vasto e polveroso, sof ava un vento gelido e di notte il cielo era oscurato, si
accendevano torce e le processioni proseguivano e scomparivano oltre la vista.
Sarebbero arrivati in molti, disperati, af itti, pieni di illusioni. Il Meccanismo, la
Macchina, la Ruota. Li avrebbe fatti salire per un giro gratuito, poi non ci sarebbe
stata pietà per nessuno. Un futuro da schiavi – Qualcuno continuava a parlarmi, di
notte, nei sogni, negli stati di alterazione, negli altri mondi che visitavo, c’erano volti
differenti, incontri inaspettati, aperture improvvise nello scorrere degli eventi, ma
quella voce ripeteva la sua rabbia, il suo odio, vedevo alternarsi sullo schermo
mentale le proiezioni di un mondo diverso, qualcosa doveva andare distrutto, prima,
tra le amme e le esplosioni, ci stavamo preparando a innalzare nuovi canti che
bruciassero le antiche preghiere.
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49.
Le tende si moltiplicavano nelle strade, passavano i giorni e le settimane, seguendo un
ordine casuale, lungo le mura della stazione, lungo i marciapiedi, gli uomini scuri si
accampavano, sof ava un vento carico di rabbia, la notte, visioni del deserto, i fuochi
accesi, i canti e le preghiere, dall’alto di una delle torri potevo vedere le loro amme
ardere, le tende si moltiplicavano, seguendo schemi geometrici, come le colonne che
sostenevano le arcate sotto le quali mi ritrovavo a passeggiare, si ripetevano
all’in nito, i mosaici dei pavimenti cambiavano forme e composizioni, a volte alcuni
tasselli sembravano alzarsi o abbassarsi, potevo saltare da uno all’altro, come in un
gioco di bambini - Il sole ltrava attraverso la schiuma della birra, la luce si
scomponeva in migliaia di scintille, in terrazza, nelle mattine primordiali del mondo,
il sole veniva adorato da uomini nudi, il mio corpo sudava, incandescente, energia
rossa e pulsante, i gabbiani volavano sempre più lenti, no a fermarsi nell’aria, la
notte, le stelle parlavano attraverso alfabeti dimenticati, la pioggia avrebbe portato via
tutto, gli uomini e le donne nelle loro tende, la sporcizia, le malattie, un ultimo bacio
prima di chiudere la bocca tra oscenità irripetibili, un esodo di migliaia di corpi che si
trascinavano sull’asfalto, una carovana invisibile di tutti i morti che erano affogati nel
mare e fra le urla delle onde, marciavano ancora lì sotto, uno dietro l’altro, sarebbero
riemersi nei nostri sogni, nelle immagini che la mente cercava di nascondere,
anestetici sempre più potenti, per non pensare, per non guardare, le lacrime che
scendono dagli occhi di una donna cieca, per capire il dolore del mondo basta solo
dare ascolto all’oscurità che avvolge il nostro cuore.

50.
Erano iniziati gli sgomberi, i poliziotti vestiti di nero prendevano uomini e donne per
le gambe e le braccia e li trascinavano via, corpi pesanti e inermi, li scaricavano da
qualche parte, perché venissero dimenticati, perché se ne perdessero le tracce. Alcuni
campi erano stati bruciati e nel cielo, al tramonto, in lontananza, oltre le torri e le
immagini impossibili di una città, si vedevano levarsi verso l’ultima luce del giorno
minareti di fumo denso e scuro, i bambini si prostituivano davanti alla stazione, altri
vendevano sostanze sconosciute, non doveva passare molto, altre tende sarebbero
state piantate in questa terra marcia, altri uomini e altre donne, vestiti di stracci,
denutriti, sarebbero arrivati, immagini al microscopio di un virus che si moltiplica,
lingue mai ascoltate prima riempivano le strade di suoni antichi e melodiosi - Ero
seduto con Papa, all’interno di una stanza mentale, fumavamo marijuana e bevevamo
tè alla menta, Papa disse che dio era energia, che bisognava imparare a sentire,
trattenere, usare quell’energia che dio continuamente riversava dentro di noi - Il mese
del digiuno era iniziato, la notte e la luna, si accendevano fuochi per le strade, i
poliziotti non avrebbero potuto mandarli via tutti, continuavano ad arrivare, si
moltiplicavano le bocche e gli occhi, la prospettiva che portava dal quartiere alla
stazione diventava in nita, punti di fuga verso realtà parallele, in ogni mondo
un’inferno, in ogni inferno la natura stessa di una possibilità.
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51.
Scendiamo in un tunnel, io e Gabriele, l’aria diventa più fresca, i richiami degli
uccelli tropicali riecheggiano tra le fredde pietre, in profondità, un lungo corridoio, ci
sono delle celle, una dopo l’altra, in ognuna di esse, appese alle pareti, fotogra e che
vanno a colpire gli occhi, liberandosi dai supporti in cui sono imprigionate, ogni cella
è una stanza mentale, in ogni stanza mentale è presente l’immaginario di una persona,
le sue visioni, la sua follia. In ogni cella è rinchiuso un uomo con le sue creazioni, con
le sostanze che lo seducono e stordiscono, bottiglie di alcol puro al novantacinque per
cento mischiato con succo d’arancia, sorsate di napalm, gli occhi liquidi, i manifesti
russi degli anni venti, le matrioske ke si inkulano in un karcere kazako, l’odore della
marijuana nel corridoio, scene di violenza sessuale, sadomasochismo, istruzioni per
un perfetto atto di sodomia maschile, le bambole del Giappone, gli antichi demoni
balinesi che danzano, le distorsioni visive, la psilocibina, le enormi deformazioni di
aborti mai nati, feti primordiali, sfere di suono elettroniche rimbalzano da una cella ad
un’altra, alcuni uomini sono intrappolati nelle loro stesse immagini, provano ad
evadere, condanne a morte ed ergastoli psichici, le atrocità del sesso, falli enormi si
intrecciano e si surriscaldano, violacei e pulsanti, no ad esplodere in sborrate
atomiche, il fungo nucleare, le cappelle al plutonio, i mostri con la testa a forma di
pene ghignano, tirano dalla bocca/uretra enormi strisce di cocaina – Si toccano, si
strusciano, producono calore bianco che cola come lava, organi genitali in primo
piano - Ogni stanza mentale è un passaggio in un antro di demenza e pazzia, sottoterra
i vermi in divisa hanno scavato i loro cunicoli, alcuni sono inaccessibili, portano
troppo lontano, oltre i limiti del subconscio, sarebbe impossibile uscirne, tornare
indietro – Chiedo a Gabriele di riportarmi verso la super cie, lui sorride, i suoi occhi
sono mandala concentrici, bagliori azzurri, vortici marini, mi sorride un’altra volta,
poi scrolla le spalle e mi fa segno di seguirlo.

L’immagine di un uomo sdraiato accanto ad una donna, l’uomo si alza, nudo, ha


un’erezione senza che il cazzo venga toccato, l’uomo si gira verso l’obiettivo, l’uomo
eiacula in lamenti d’argento.

52.
Tornai dal Dottor Ballard, perché dovevo liberarmi da una dipendenza, perché ne
avevamo parlato molte volte insieme, avevo bisogno di una cura, avevo bisogno che
lui mi aiutasse. La dipendenza era quella dalle immagini pornogra che ed era iniziata
durante l’adolescenza, sulle riviste. Ritagliavo gure di donne, le collezionavo e mi ci
masturbavo sopra. La cosa avrebbe potuto anche essere tenuta sotto controllo, l’unico
problema, all’epoca, era stata la mancanza di gure femminili reali, dei loro corpi e
dei loro universi, ero ancora inesperto, quei pezzi di carta erano le mie amanti, con
loro creavo storie nella mente e sborrate dentro le mutande. A venti anni ebbi il mio
primo rapporto sessuale. Continuai però con le fantasie e l’immaginazione, era un
mondo molto più stimolante. Questo si collegava a forme masturbatorie che, con il
tempo, divennero sempre più rituali. Con internet la situazione precipitò. Bastava
aprire il computer, collegarsi ad un sito pornogra co e masturbarsi. I legami tra
immagini, eccitazione, fantasia ed eiaculazione divennero sempre più stretti.
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Divennero un bisogno. Avevo conosciuto delle ragazze, non molte, con una
incominciai una relazione in cui potei sperimentare le svariate sfaccettature della mia
sessualità. Per un certo periodo andò bene, poi il bisogno della pornogra a tornò. Non
ne potevo fare a meno. Iniziai a esplorare anche quella dimensione in maniera più
approfondita. Iniziai a produrre pornogra a. Foto, video, composizioni artistiche.
Sperimentavo. La dipendenza sica arrivò nel momento in cui mi accorsi che ogni
volta che accendevo il computer, anche senza guardare immagini pornogra che, la
mia mano, dopo pochi minuti, si andava a posare sul cazzo, massaggiandolo
lentamente. Era un ri esso condizionato. Come i cani di Pavlov. La cosa continuò per
anni, tentai di disintossicarmi svariate volte, senza riuscirci. La situazione diventava
ancora più incontrollabile quando all’uso del computer e della pornogra a associavo
l’assunzione di hashish. Mi perdevo in fantasie e nuove dimensioni, create dalla mia
mente, un viaggio in territori inesplorati dove perfezionare i miei rituali onanistici.
Divennero una forma diversa di sessualità, di pratiche misteriose. Questo mi
allontanava dalle donne, dai loro corpi. Dal desiderio, dalla voglia di scoparle. I rari
incontri con alcune di loro erano il semplice tentativo di spostare quelle fantasie in un
terreno che si potrebbe de nire più concreto, quello della carne e degli odori,
connessioni che stavo perdendo, visto che trovavo più eccitante il contatto delle mie
dita sul mouse e sul cazzo, quando cliccavo da un’immagine pornogra ca all’altra.
Persi anche interesse negli orgasmi, l’importante era mantenere il piacere il più a
lungo possibile. Era un vizio. Una gabbia da cui non potevo più scappare.
Tornai dal Dottor Ballard e iniziammo una cura. Passai due settimane senza vedere
immagini pornogra che, ci riuscii, i primi giorni erano dif cili, la voglia di
masturbarsi era tanta come il desiderio di perdermi nei miei rituali e nelle fantasie ad
essi collegate. Potei di nuovo masturbarmi, dopo quelle due settimane, davanti ad un
sito pornogra co. La sensazione non fu molto piacevole, un senso di stupidità e di
vuoto, di qualcosa di inutile che avevo ripetuto per anni. Le due settimane divennero
un mese. Il desiderio di eiaculare arrivava, la cura consisteva nel non collegarlo più
alle immagini digitali, dovevo riprendermi quelle mentali, ero io e il mio cazzo e le
fantasie che potevo avere nella testa, niente tecnologia, niente internet. La mano e la
mente. Cominciavo di nuovo a guardare le donne e a desiderarle, ad eccitarmi per
loro, un piede, il profumo dei capelli, il contatto del corpo, un abbraccio. Riuscivo a
rimodellare queste sensazioni, ad incanalarne la spinta energetica, a domarla.
Qualcosa quei rituali masturbatori me l’avevano insegnata. Il controllo dell’energia
sessuale. Aumentava così anche la mia forza interiore, la mia capacità di attrazione.
Parlai con il Dottor Ballard, mi disse che la cura stava funzionando. Ci salutammo
con una stretta di mano. Lo invitai a passare una serata da me, sul mio terrazzo,
all’ora del tramonto. Per ascoltare i canti che provenivano dalle alte torri, per
assumere qualche sostanza. Per perdersi nella trascendenza della realtà e di noi stessi.
Per esseri uomini liberi, negli in niti mondi che avremmo creato.

53.
Le immagini delle siringhe, sui marciapiedi, tra le macchine, gli aghi rotti o piegati.
Era tornata l’eroina, i ragazzi arabi e africani la spacciavano nei loro quartieri, gli
occhi liquidi, di notte, ad un angolo, le loro voci ti sussurravano promesse, una dose,
due dosi, un assaggio, la scoperta di una divinità dorata, la sua esistenza in forma di
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polvere, le catene e la schiavitù, i volti folli dei miserabili storditi dalla luce bianca, il
caldo schiacciava ogni cosa, togliendole profondità, nessuna prospettiva, tutto alla
stessa distanza e per quanto gli idioti allungassero le loro mani sporche verso l’alto
non potevano toccare nulla, fuggivano lontane le speranze e le possibilità, trascinarsi
avanti, i vestiti stracciati, i cartoni su cui dormire, il riparo di una notte, sarebbe
arrivato qualcuno a cacciarli via, prima o poi, a calci nel culo, che neanche le
sentivano più le botte per quanto erano stanchi e deboli.
Mi sedevo spesso in piazzetta, i ragazzi arabi si avvicinavano, scherzavamo, alcuni
erano ancora dif denti, forse non mi riconoscevano, ero io, ero un altro, mi giravano
intorno come cani, utandomi, cercando di capire se si potevano dare (lo avevano
già fatto prima?), i movimenti della roba (passava tra le loro mani?), sostanze, nuove
sostanze, c’era il bisogno di inventare e far circolare nuove sostanze, creare nuove
dipendenze, ne dovevo parlare con qualcuno (ancora?), chiedere a Pavel (dove era
nito? Era mai esistito? Da quanto tempo non lo sentivo?), non importava, forse non
si sarebbe più messo in contatto con me, l’energia rossa pulsante nel cazzo, riuscivo a
controllarla, la mattina era il momento più dif cile, correvo sempre il rischio di
disperderla, lenzuola come amanti, inondate di sborra, energia bianca in lamenti
scivolosi – I volti scavati, distrutti dall’alcol, un uomo e una donna dell’Est, senza età,
maschere tragiche, rughe millenarie, parlavano una strana lingua e lui ogni tanto
cercava di abbracciarla, una pantomima d’amore etilico, l’alcol gli aveva distrutto il
senso dell’equilibrio, barcollava, un marinaio alla deriva, nessun porto sicuro, nessun
bordello con giovani puttane sorridenti ad attenderlo – Qualcuno mi passa una siringa,
l’ago entra nella vena, la luce bianca esplode ovunque, migliaia di soli illuminano
l’abisso, le porte si chiudono, qualcuno sussurra a bassa voce - Una dose, due dosi,
altro oppio, Signore?

54.
I rumori degli elicotteri nel cielo, vibrazioni invisibili, voli circolari, la polizia in
tenuta antisommossa, i manganelli neri, gli scudi di plastica, le autoblindo ferme,
feroce metallo, l’asfalto viene battuto da centinaia di piedi, ritmi dissonanti,
prospettive di guerriglia urbana attraverso il tunnel, mani nervose accendono
sigarette, sguardi cattivi, silenzi carichi di violenza – Un fumo denso si alzava dalle
lamiere in fiamme delle auto, la storia si ripeteva con la stessa inutile brutalità, c’era
bisogno di sangue e ferite, di urla e gambe in fuga, le variazioni erano minime, i volti
anonimi, le bandiere calpestate e strappate, qualcuno rimaneva sulla strada senza
muoversi più – Un attimo di immobile calma, mentre scivolo tra corpi e divise,
leggero come un’ombra, nemici psichici da cui difendersi, nemici travestiti da zingare
sedute sotto un arco e davanti una chiesa, le litanie come formule magiche per
sottometterti alla loro volontà, striscio sotto una macchina blu, protetto da forze
sconosciute, antichi rituali nella mente, le prime esplosioni, una volta lontano, come
boati di liberazione.
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55.
Cammino dal quartiere alla piazza, le strade sono piene di stranieri, arabi, africani,
asiatici, parlano le loro lingue che adesso capisco abbastanza bene, le parole non sono
più suoni indistinti, seguo direzioni di luce, ho la mente libera e questi ri essi, questi
bagliori mi portano verso una bancarella, dove i miei occhi cadono su una cassetta di
legno con dentro delle vecchie fotogra e di giochi sadomaso. Ne prendo una, c’è una
donna con la gonna e la sottana alzate sopra le ginocchia, sorride, i folti e lunghi
capelli neri raccolti sulla testa, lo zampillo di piscio che dalla sua ca arriva dentro la
bocca di un uomo sdraiato sulla schiena, sotto di lei. Giro la cartolina, c’è una lista di
nomi, li memorizzo, sono i contatti che devo trovare e con cui devo organizzare delle
cose. Ulteriori istruzioni arriveranno in seguito. Rimetto la cartolina tra le altre e
continuo a camminare. Seguiamo direzioni, nella maggior parte delle volte, segnate
da un luogo in cui dobbiamo arrivare, percorsi già decisi dalla mente, i pensieri
intrappolati in quei tragitti perché sanno che alla ne del percorso ci sarà quello per
cui ci siamo mossi. E se non fosse così? E se camminassimo senza direzione,
seguendo altri segnali, altre indicazioni? Sguardi improvvisi, spalle voltate, uomini
distesi su panchine, donne sedute per terra, i piedi nudi e sporchi. L’aria era più fresca
e gli odori più ricchi, dal mercato arrivavano voci multicolori. Giornate di digiuno e
astinenza, le percezioni si af nano, diventano più precise e intense. Gli echi delle
esplosioni, le porte chiuse che ancora mi attendevano, un ragazzo arabo mi ferma, ci
guardiamo, mi dice di seguirlo. Il primo nome della lista. Ahmed ha capelli scuri,
corti, incollati con la gelatina sulla testa. Occhi marroni, brillanti. E’ più basso di me,
magro, i muscoli scattanti, deve avere meno di venti anni. Ci dirigiamo di nuovo
verso il quartiere, ci sediamo su una delle panchine della piazzetta e attendiamo
insieme l’arrivo della sera.

56.
Ahmed mi presentò agli altri ragazzi, cominciai a conoscerli, a parlarci –
L’insegnamento delle lingue, di quelle che avevo imparato, era avvenuto in sogno, in
classi accoglienti e profumate d’incenso, Youssef era stato il mio maestro di arabo,
vestito con una tunica bianca, occhi attenti, pieni di interesse, marroni e lucenti - Gli
insegnamenti avvenivano attraverso discorsi mentali, poi le parole si formavano nella
mia gola e uscivano fuori, il pensiero diventava suono, la mia mano che scriveva, che
cercava di acquisire uidità nel mettere quei segni sulla carta, quelle linee, quei punti,
le pagine assomigliavano a spartiti, sinfonie ultraterrene - I mu’adhdhin sulle alte
torri, all’alba, mentre intonavano i loro canti – I ragazzi arabi non conoscevano
disciplina, erano irrequieti, facevano uso delle stesse sostanze che dovevano vendere e
questa non era una buona cosa, si ubriacavano, litigavano, diventavano violenti, erano
ingestibili, non era possibile organizzarli, erano una forza barbara e primordiale, la
loro intelligenza era pronta, acuta, ma non sapevano come usarla nel giusto modo, si
accontentavano di poco, richiamavano l’attenzione della polizia con i loro litigi, erano
grezzi e volgari, a volte - Si divertivano tra loro, ridevano, parlavano troppo,
sembravano dei bambini, erano dei bambini, tutto era un gioco, senza più nessuna
innocenza. Quando erano in gruppo le parole uscivano veloci dalle loro gole e
creavano confusione nel usso dei pensieri, quelle voci si mischiavano, ronzavano,
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diventavano fastidiose creando problemi inesistenti sui quali rimanevano ore a
discutere. Dissi ad Ahmed le mie considerazioni, una sera, seduti sulla terrazza, a bere
tè alla menta nell’ora del tramonto, le alte torri erano di nuovo minareti, le case basse,
bianche, dorate dall’ultima luce del sole, gli dissi che la cosa non si poteva fare, non
con loro, non avevo voglia di queste persone e loro non avevano nessuna intenzione
di cambiare, di evolversi, di entrare in un disegno più grande, non aveva senso
distruggere un ordine e sostituirlo con un altro uguale, se non peggiore. Ci salutammo
in silenzio, con uno sguardo, come avevamo sempre fatto.

57.
Nuove ricadute, antichi circoli viziosi, il bisogno tornava, l’energia bianca si
accumulava, il dottor Ballard non si faceva trovare, la sua cura aveva funzionato solo
in parte e mi aveva dato più consapevolezza del problema, dei modi per controllarlo,
delle tecniche per non cadere nella dipendenza. Era difficile, era una prova costante,
un esercizio quotidiano, una disciplina. I tossici in astinenza di energia bianca
avevano con loro gli smartphone, sempre pronti a collegarsi con qualche sito
pornografico, le immagini che apparivano ad alta definizione sul piccolo schermo, i
brividi alla base dei coglioni, lo schizzo imminente, i muscoli contratti, si chiudevano
nel cesso di un ufficio, di un bar, in un qualsiasi cesso di un qualsiasi luogo, quando la
scimmia chiamava bisognava rispondere dovunque uno si trovasse, lo smartphone
acceso, gli occhi famelici, il cazzo di fuori, in erezione, l’energia bianca pronta ad
esplodere, il flash di luce, le endorfine in circolo, i respiri affannati, una voce, fuori
dalla porta, che dice – ha finito, Signore?

A volte sentivo dei passi dietro di me, mi giravo ma non c’era nessuno oppure vedevo
dei movimenti improvvisi, come di figure oscure, al lato dello sguardo - Voci
inesistenti nelle strade, un cielo grigio pieno di ricordi, incontri che dovevo fare, volti
da dimenticare, rivoluzioni che non sarebbero mai accadute, file di uomini in marcia,
da un Paese ad un altro, frontiere e muri che venivano innalzati, bambini morti,
l’orrore camminava inarrestabile, un passo e quello successivo, il caos stava
arrivando, lo avremmo accolto a braccia aperte, fuochi nella notte, come un’ombra
sarei scomparso prima dell’arrivo dell’aurora.

58.
Reza abitava in una stanza, all’interno di un edificio abbandonato, dove vivevano altri
ragazzi e uomini afghani, una vecchia palazzina a due piani, con i muri che si stavano
lentamente sgretolando, eppure questa struttura rimaneva in piedi, ancora tenuta
insieme dalle esistenze di chi ci si era ritrovato dentro. Davanti alla palazzina c’era un
enorme spazio aperto, delimitato da altri muri, coperti dai resti di disegni che stavano
scomparendo, sulla destra c’era un passaggio, una grande crepa che portava ad un
mattatoio deserto, i ganci arrugginiti che ancora pendevano dai soffitti dei vari edifici,

ormai muti, solo l’eco di lontane uccisioni, nelle fredde notti, vagava solitario in quei
luoghi dimenticati.
Reza mi accolse indossando una kurta grigia e un pakol dello stesso colore,
leggermente più scuro, mi offrì una tazza di chai in un bicchierino di vetro, ci
sedemmo sul tappeto logoro che ricopriva il pavimento della stanza, le pareti erano di
un rosso sbiadito, c’erano un paio di lampadine che pendevano dal soffitto e solo una
funzionava.
Parlammo in dari, lui e gli altri uomini si facevano arrivare l’oppio direttamente
dall’Afghanistan, non gli chiesi in che modo e da quale zona, non mi interessava.
Reza aveva delle schegge di follia, in alcuni momenti, nei suoi occhi, sembrava
sempre pronto a fare qualsiasi cosa, a cambiare direzione, a prendere decisioni
improvvise. C’erano anche ombre di tristezza nel suo sguardo, qualcosa che aveva
perso e non aveva più ritrovato.
L’oppio era passato di moda, quasi nessuno ne faceva più uso, pochi lo cercavano,
sarebbe stato interessante mettere in contatto questi uomini con quelli del quartiere
cinese, si sarebbero potute riaprire delle fumerie clandestine, il loro fascino non era
mai finito, almeno per me, il luogo ideale sarebbe stato nelle stanze posteriori di
alcuni piccoli negozi di abbigliamento, tutti uguali, che erano stati aperti, dai cinesi,
nelle vicinanze della piazza del mercato.
Chiesi a Reza che cosa ne pensava, se sarebbe stato possibile ricreare nella città un
mercato dell’oppio, dare nuova luce a quelle stanze in penombra, con i lettini sul
pavimento sui quali stendersi, le lunghe pipe appoggiate vicino, dalle quali tirare
boccate di cieli notturni, profondità oceaniche e misteri d’oriente.
Mi disse che non era interessato, che nessuno in quel luogo era interessato a niente, le
giornate passavano in assenza di tempo, l’oppio era per loro, non volevano fare
nessun traffico, creare nessun mercato, non volevano guadagni, non volevano nulla.
La strada per l’oblio ci accoglierà tutti, disse, è meglio prepararsi.

59.
Asis aveva una mano con sei dita, la sinistra, la carnagione scura, non era molto alto e
parlava in maniera veloce una lingua che assomigliava a un ribollire di suoni marini –
Camminavamo intorno alla piazza del mercato, sembrava esercitare un certo potere
sulla sua gente, lo trattavano e lo salutavano con rispetto, qualcosa che vibrava in
scintille olivastre intorno alla sua figura.
Poteva controllare molti uomini con le sue parole ma la sua gente era remissiva,
pacata, docile, diventava invadente e aggressiva solo in rare occasioni, la sua lingua
risuonava come una litania ipnotica, non mi piaceva, trascinava i pensieri e le
immagini mentali in labirinti sbiaditi e la via d’uscita scompariva una volta che ci si
finiva dentro.
Pensavo che la vendita delle rose, di oggetti inutili, che i lavori più umili, che fare i
lavapiatti, che passare ore e ore dentro negozi riempiti in ogni spazio di verdure
putride e alcolici scadenti fossero solo delle coperture, un modo per nascondere altre
attività, altri commerci. Mi sbagliavo.

Asis non aveva visione, capacità di osservare le cose e il mondo in maniera più
complessa, attenta, non creava connessioni, non era in grado di farlo. I suoi simili
erano come formiche, criceti in gabbia, la loro passività non avrebbe portato nulla di
buono, erano adatti allo sfruttamento e in quella condizione avevano scelto di vivere.
Mangiammo riso con pesce in una stanza affollata, bevendo tè nero insieme ad altri
uomini. Parlavano tutti insieme e la mia mente sembrava sul punto di trasformarsi in
bolle di sapone, spinte dalle loro parole verso il soffitto, sarebbero esplose in aria, le
loro voci stavano disperdendo i miei pensieri, li sentivo formarsi, diventare sottili e
sferici, salire verso l’alto e scoppiare, uno dopo l’altro, senza rumore – Nessuna
sostanza, nessun desiderio di caos, le loro armi erano sonore, se avessero parlato in
centinaia e tutti nello stesso momento avrebbero disorientato e fatto impazzire
qualsiasi nemico, il linguaggio come arma, decisi di rimanere in contatto, migliaia di
bocche che blateravano ad alta velocità davanti alle barricate della polizia, nessuno si
sarebbe aspettato un attacco di questo tipo, nessuno tranne me.

60.
Panchine nella notte, riflessi di luci su bottiglie di birra buttate per terra, volti scuri,
fatti di ombra, voci nel buio, le solite voci, alcune conosciute, altre mai ascoltate. E’
Mamadou ad avvicinarsi, ci scambiamo un’occhiata, riconoscimento immediato, ci
andiamo a sedere su una panchina, gli altri ragazzi attendono, seduti anche loro, gli
occhi liquidi, l’eroina era tornata nel quartiere, le pasticche, l’erba chimica. Io e
Mamadou parliamo in bambara, suoni morbidi, sembra sempre che non ci siano
problemi, che le cose siano semplici, mai complicate, immagini di tramonti e terra
rossa, pochi alberi fermi nel vento, una solitudine che solo chi ha lasciato un luogo
amato può conoscere – La pelle di Mamadou è antica, legnosa, calda, un contatto
tattile mentre mi passa una bustina che mi metto velocemente in tasca, provala più
tardi, mi dice, cerco di parlargli di affari, lui non sembra interessato, i suoi occhi
guardano ben oltre i limiti di un cielo viola e stanchi lampioni, i suoi occhi sono al di
là del mare, hanno superato distanze per posarsi sulla sabbia del tempo, i ragazzi non
sono interessati, mi dice, già si sono fregati da soli, la roba gira da qualche mese, è lei
a decidere adesso, è impossibile organizzarsi, troppo difficile dare delle nuove
prospettive, le vene hanno il loro bisogno e quello dovrebbe bastare.
Mamadou inizia a cantare, piano, una melodia carica di malinconia dorata, mi lascio
trasportare, un improvviso odore di mare, le persone passeggiano davanti a noi,
lasciando orme di nulla su una spiaggia invisibile, tristi ragazzi seduti su una panchina
senza futuro, le dosi nelle mani, pronti a vendere, pronti a darti la droga che desideri,
contatto visivo, flash bianco negli occhi, di nuovo la panchina, a contare i minuti, a
sparire nella notte, misteriose figure schiacciate sui muri.
Nella stanza assumo la sostanza, di un marrone chiaro, polverosa. Una stilla di
sangue, una lacrima di vetro. Un calore. Un abbraccio. Migliaia di dita lungo la
schiena come esplosioni solari in un fremito di eternità.

61.
Si aprivano dei passaggi, la notte e ci scivolavo dentro, attraversavo pensieri e respiri,
arrivavo davanti a porte nere, le oltrepassavo – Una montagna e la sua immagine, una
fila di pellegrini camminava, perdendosi oltre i confini delle rocce, l’aria era fredda,
risuonavano dei canti, delle preghiere, come echi lontani – La figura di un quadrato,
nella mente, le linee erano fatte di sabbia, diversi colori, una mappa geometrica che
indicava un percorso da compiere, un modo per camminare nel labirinto psichico e
trovare delle vie d’uscita, erano segnati i passaggi, non era spiegato, però, dove
portassero - L’immagine diventava sempre più luminosa e si ingrandiva nella vista
interiore, arrivava da lontano e seguiva una linea prospettica che ne faceva aumentare
le proporzioni, i colori brillavano e la mappa era piena di dettagli, il disegno sembrava
a due dimensioni ma più si avvicinava e più la percezione di quelle linee cambiava, si
passava ad una terza dimensione e poi, una volta entrati dentro, si annullavano i
concetti di spazio e tempo, dovevo imparare a camminare in quei corridoi, entrare nei
palazzi, conoscere le misteriose figure umane e demoniache che vi avrei incontrato –
Nella stanza nera c’era un uomo, si chiamava Krishna, sedemmo su cuscini bianchi,
indossavamo tuniche arancioni e i nostri crani erano rasati, aveva una campana
tibetana in mezzo alle gambe incrociate nella posizione del loto, mi sedetti nello
stesso modo, la stanza era buia, c’erano alcune candele accese che mandavano una
luce debole e antica, Krishna iniziò a muovere un corto cilindro di legno intorno alla
campana, prese forma nell’oscurità un suono circolare, lo sentivo vibrare, chiusi gli
occhi, il suono divenne più intenso, il mandala si formò nella mente, lontano, quasi
impercettibile, si avvicinò, il suono continuava, ripetitivo, ipnotico, il mandala
divenne più grande, dettagliato, entrammo dentro, io e lui, Krishna ripeteva a bassa
voce dei mantra, quei suoni erano un modo per spiegarmi il funzionamento di quella
realtà, la comprensione avveniva in maniera intuitiva, non eravamo più su un piano
razionale, c’erano solo immagini, ritmi, aperture, chiusure e incontri.

Camminavo sotto gli archi, mi fermai davanti ad una bancarella che vendeva libri
usati, ne presi uno, lo aprii, dentro c’era il negativo di una pellicola fotografica, lo
guardai in controluce, c’erano impressi sopra i volti di tre persone, misi il negativo
nella tasca, sentii il suono circolare di una campana, mi girai e tornai nella mia stanza.

62.
C’era il rumore dell’acqua che usciva dalle fontane di pietra e cadeva in basse piscine
che la raccoglievano, misi la mano dentro una di esse e sentii il fresco invadermi la
pelle, alzai gli occhi e la luce donava grazia agli archi e alle colonne, riflessi dorati e
disegni, c’era l’odore degli aranci e dei loro fiori, colori che nascevano improvvisi,
giardini della mente in cui camminare in silenzio – Mansour si avvicinò nel suo abito
bianco, mi salutò a bassa voce, parlava sempre in un modo quasi impercettibile,
sapeva che le parole avevano ben poca importanza, non bisognava mai gridarle o
urlarle, il suo tono era pacato, calmo e aveva lo stesso suono liquido dell’acqua che
usciva dalle fontane. Passeggiammo dentro ampi saloni, osservando gli uomini in

preghiera, mi chiese se desideravo qualcosa, gli dissi che non volevo più nulla, era
tutto qui, in ogni momento, non c’era mai un altro luogo in cui volessi essere, mi
sorrise, capendo quello che stavo dicendo, lo seguii dentro una stanza in penombra, ci
sedemmo per terra, su dei tappeti, qualcuno portò del tè e qualcosa da mangiare, un
sapore dolce, di miele e spezie e frutta secca. Chiusi gli occhi e mi addormentai su dei
cuscini morbidi e delicati, il tempo sembrava essere scomparso, da fuori arrivavano
richiami di uccelli e il continuo e familiare suono dell’acqua.
E’ ora di andare, disse Mansour, quando mi fui di nuovo alzato, dove? Gli chiesi, lui
non rispose, hai trovato quello che cercavi? Continuò, si, risposi, bene, disse lui,
scostò una tenda azzurra e mi fece vedere una porta. La aprì, odore di arance e spezie,
sai dove trovarmi ogni volta che lo vorrai, ci stringemmo la mano, mi voltai e
attraversai quella soglia.

63.
Non avevo più contatti, avevo attraversato una porta e mi ero ritrovato in una città
sconosciuta, non capivo la lingua delle persone che la abitavano, portavo sempre gli
stessi vestiti, avevo pochi soldi, passavo le mattine al sole, su un panchina, nel parco
di una piazza, per mangiare andavo ad un mercato, cercavo tra gli avanzi qualcosa di
commestibile, qualcuno mi regalava un po’ di frutta, gli abiti iniziavano a diventare
sporchi e io non riconoscevo più il mio aspetto nelle superfici che lo riflettevano,
erano immagini distorte, quello non potevo essere io, non ricordavo i lineamenti di
quel volto che mi sembrava così terribilmente lurido e invecchiato – C’era una voce
profonda, pura e semplice, che parlava dentro di me e ogni tanto, quella voce, mi
diceva dove andare, i posti si assomigliavano, silenziosi, pieni di alberi, lucenti, mi
sedevo e ammiravo lo splendore che avevo intorno – Iniziai a pregare, affinché quella
voce diventasse sempre più forte, volevo seguirla e farla finita con tutto – Ero nudo
davanti ad una pianta dai fiori pendenti, si aprivano come una veste leggera o una
gonna per un ballo, infilai il cazzo dentro uno di essi, si chiuse, iniziando a contrarsi,
il pistillo entrò nell’uretra e rilasciò un liquido caldo e vibrante, sentivo il cazzo
indurirsi sempre di più, gli orgasmi salivano e scendevano senza che potessi
controllarli, quando mi sembrava di stare per venire il pistillo impediva
l’eiaculazione, le palle erano gonfie e violacee, continuavano le contrazioni, scintille
purpuree nello sguardo – Mi stesi per terra, c’era silenzio e molte ombre iniziarono a
muoversi, oggetti dalle forme sconosciute si materializzavano tra di esse, illuminati da
angolazioni impossibili, i muri della stanza si dilatarono, ebbi la sensazione di cadere,
ascoltai discorsi che nessuno aveva pronunciato, mi passai una mano sul volto,
attraversandolo, l’immagine di arbusti piumati che si muovevano lenti e delicati
nell’aria, una mattina di novembre, una luce divina, una panchina perduta nelle
memoria di un domani che non è mai esistito.

64.
Immagini di corpi morti nella mente, stesi per terra, ancora sanguinanti – I movimenti
al rallentatore di un uomo armato con il volto coperto, gesti precisi, automatici,
impressi nei nervi e nei muscoli – Addestramenti e ripetizioni, una seconda pelle,
letale e pericolosa, gli occhi da rettile, le pupille come fessure – Le scariche dei
kalashnikov, le figure che cadono, le urla, la paura. Gambe in fuga nella città, di notte,
le luci dei lampioni, coniche e arancioni, delimitano spazi di orrore, il coltello sulla
gola, il taglio, rossi arabeschi nell’aria fredda. Azioni e attacchi, l’idea di una mente,
l’idea di qualcuno che abbia organizzato, creato contatti, disegnato mappe, una mente
nascosta, in connessione psichica con altri cervelli, pronti ad attivarsi, a ricevere
ordini, ad eseguire. Sostanze per il controllo del panico, per le giuste scariche di
adrenalina, sostanze provate, sperimentate, sostanze misteriose, iniettate, nascoste,
ricercate.
Chiuso nella stanza, da diversi giorni, le siringhe vuote sparse sul pavimento, gli echi
che sbattono contro le pareti, avevo varcato un limite, attraversato un confine,
nessuno mi aveva più chiamato, nessuno mi aveva detto più niente, cosa fare, cosa
non fare, esistevo in una solitudine pura e glaciale, sprofondavo nelle ore, il calore
bianco nelle vene si diramava in ogni singolo atomo del mio corpo, spinte
trascendentali verso l’alto, ogni atomo un mondo, ogni mondo una manifestazione
ardente del caos, colori caldi, oscene geometrie falliche, poi cadute nell’astinenza,
caverne di ghiaccio e tremori di vetro – Al di là dalla finestra i riflessi e i bagliori di
una società che stava morendo, lanciando ultimi, disperati gridi per sopravvivere. Non
sarebbe rimasto nulla ad aspettarmi lì fuori. Iniziai a respirare in maniera ritmica, ero
una porta, solamente una porta, che si apriva e chiudeva. Ad ogni respiro. Ad ogni
respiro. Entrai dentro. Per le strade non era rimasto nessuno, le ultime voci dei fuochi,
a cullare i cadaveri e le loro ombre di morte.

65.
Faceva freddo e l’aria diventava vapore appena usciva fuori dalla bocca, meglio non
parlare, tanto non c’era più nulla da dire, la pillola blu ballava sulla punta della lingua,
feci scivolare la testa all’indietro e la pillola seguì quella traiettoria obliqua fino alla
gola, poi scese giù, perdendosi in un percorso invisibile – Fumai una sigaretta, le mani
mi si stavano gelando, luci viola e azzurre proiettate contro un muro, la polvere si
muoveva nel fascio di luce, ci misi una mano davanti, un’ombra gigante con cinque
dita apparve sul muro, contai all’indietro, lo zero era un pugno, lo rimisi in tasca, la
violenza era una rivoluzione per gente arrabbiata, avevo le mie pillole, le sostanze, le
porte, i passaggi, i mondi che si moltiplicavano oltre lo specchio, gli infiniti volti, un
susseguirsi di età, chiamai ad alta voce il mio nome, un uomo vestito di nero mi
indicò una direzione, senza parlare, solo il suo braccio destro alzato nel buio, tirai su
con il naso – Una luce blu arrivava, allargandosi in maniera prospettica, nasceva nel
suo punto di fuga, si alzava e si abbassava, un piano visuale che tagliava figure nere,
immobili e remote – Una superficie di visione che iniziò a diventare ondulata,
sembrava di essere sotto l’acqua, in un fondale marino, provai a camminare, a

dirigermi verso quella luce, origine e fine – Non riuscivo a muovermi in avanti, ogni
passo si posava sull’orma immaginaria di quello precedente, come se marciassi da
fermo, la pillola nera, che non avevo assunto, iniziava a fare effetto – Mi ritrovai in un
altro spazio, industriale, in rovina, sulle pareti c’erano disegni misteriosi dai colori
che diventavano sempre più brillanti, intensità cromatiche e pulsanti, vive, un teschio,
su uno dei muri, ghignante, sul pavimento splendevano circonferenze concentriche
rosse, blu e arancioni, mi ritrovai nel loro centro, cominciai a sprofondare, come
risucchiato, le circonferenze iniziarono a muoversi, spirali psichedeliche, la velocità
che aumentava, i colori si fecero confusi, lo spazio cambiò la sua forma, la sua
densità, altre dimensioni iniziarono a ruotare su qualsiasi asse possibile – Sentivo che
stavo perdendo le mie proporzioni, trattenni il respiro nel momento in cui passai
dall’altra parte – Un risveglio invernale, in un letto vuoto, in una stanza con linee in
movimento, guardavo con curiosità l’interno di quella sfera mentale, pensieri in
frantumi, schegge di memoria esplose, cercai di addormentarmi, un uomo venne a
chiudere una porta che nessuno aveva mai aperto, prima di entrarci dentro e non fare
più ritorno.

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